Nessuna Scelta 4n3l3s

Alessandro Cirillo

Nessuna scelta

EEE-book

Alessandro Cirillo, Nessuna scelta © Edizioni Esordienti E-book

Prima edizione e-book: aprile 2014

ISBN: 9788866901907

http://www.edizioniesordienti.com

Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi. Copertina: © Roberta Schiavo

PROLOGO

Montagne di Tora Bora (Afghanistan), 15 dicembre 2001

La caverna era fredda e umida. La temperatura si aggirava intorno ai quindici gradi centigradi. Di tanto in tanto, una folata di aria fredda come la mano di un morto schiaffeggiava il viso delle persone che vi erano riunite. Il silenzio in quella stanza di pietra millenaria era interrotto dal ronzio di un generatore elettrico alimentato a benzina. Il macchinario, sporco e arrugginito, forniva energia a una serie di lampade, garantendo così una fioca illuminazione. Pochi litri di benzina tenevano a bada le fredde tenebre della caverna, che faceva parte del complesso montagnoso di Tora Bora, nell’Afghanistan orientale. Appena dieci chilometri più a sud si trovava la frontiera con l’ATAF, le aree tribali ad amministrazione federale pakistana. Il territorio era formalmente amministrato dal governo del Pakistan, anche se di fatto era controllato autonomamente da tribù di etnia pashtun. Da alcuni mesi in Afghanistan era in atto una guerra in cui i talebani, che governavano il Paese da diversi anni, stavano avendo la peggio. Avevano dovuto abbandonare la capitale Kabul, martellati dalle bombe degli americani e inseguiti dalle milizie anti-talebane. Parecchi gruppi di militanti di Al Qaeda avevano trovato rifugio tra le montagne di Tora Bora, nascosti nel sistema di grotte dove, durante l’occupazione sovietica, i combattenti per la libertà avevano ricavato da quegli scomodi spazi dei locali adatti alla vita umana: dormitori, cucine, infermerie, armerie. A pochi chilometri di distanza si trovava il Pakistan, un luogo dove i nemici non avrebbero potuto seguirli senza rischiare di scatenare una nuova guerra. Tra quelle persone rifugiate nelle grotte c’era anche un bambino di nove anni, Latif. Se ne stava sdraiato su una logora branda di metallo, la testa affondata nel grembo della madre che gli accarezzava i ricci capelli neri con una mano.

Indossava un camicione bianco lungo fino alle ginocchia e dei pantaloni di lana. Sua madre, Tahira, lo aveva avvolto in una grezza coperta di lana per ripararlo dal freddo. Il bambino con una mano stringeva la lunga veste nera della donna che ricopriva tutto il corpo lasciando scoperti solo gli occhi. Il monotono rumore del generatore elettrico lo aveva fatto cadere in un sonno agitato, nel quale sognava le bombe che cadevano dal cielo distruggendo le case del quartiere dove abitava. Lui scappava con il papà e la mamma mentre il fuoco devastava ogni cosa. A un certo punto arrivavano loro, i demoni americani. Avevano lunghe corna appuntite e le loro bocche si aprivano in ghigni famelici da dove spuntavano denti aguzzi. Lui e i suoi genitori cercavano di scappare ma i demoni erano più veloci. Improvvisamente due grosse mani dotate di artigli affilati avevano arpionato il papà e la mamma. Latif si era voltato giusto in tempo per vederli divorare. Ora era il suo turno. Uno dei demoni avvicinava la mano al piccolo, sogghignando crudelmente. La mano stava stringendo la testolina di Latif quando improvvisamente il piccolo si svegliò di soprassalto. Sollevò di scatto la testa e scoprì con immensa gioia che la mano era quella di sua madre. “Piccolo mio, va tutto bene?” chiese la donna. “Ho fatto un brutto sogno” rispose il bambino, ancora scosso dall’incubo recente. “E che cosa hai sognato di tanto brutto?” “I demoni americani ci stavano inseguendo dopo avere distrutto la nostra casa. Poi avevano preso te e papà e dopo...” Latif non riuscì a finire la frase perché un groppo cominciò a salirgli in gola. Aveva voglia di piangere. “No, Latif. I demoni americani non possono trovarci qui” lo rassicurò la madre accarezzandogli la guancia che cominciava a bagnarsi di lacrime. Fu a quel punto che si avvicinò il padre del bambino con una tazza piena di tè caldo. “Ragazzo, smettila di piangere. Non si addice a un uomo” disse al piccolo. “Fahd, ha solo nove anni!” protestò timidamente la donna. “Non dire sciocchezze. Alla sua età ero già in grado di usare pistole e fucili come un adulto.”

“I tempi sono cambiati.” “Ah sì? Ti sembra davvero che i tempi siano cambiati? Guarda dove ci ritroviamo. La pace è durata solo per pochi anni. Sono secoli che qualcuno cerca di sottometterci. Gli americani sono solo gli ultimi della serie. Per noi non ci sarà mai pace. Questo è il motivo per cui dobbiamo sempre essere pronti a combattere. E per colpa tua, donna, nostro figlio non ha mai neanche partecipato a una zuffa per strada.” “Ho sempre cercato di proteggerlo!” “Taci! L’unico modo di proteggersi è essere più forte del proprio avversario.” La donna non replicò e abbassò lo sguardo a terra, consapevole di avere perso la discussione. Fahd porse la tazza di tè caldo al figlio senza dire un parola. Il bambino prese la tazza tra le mani e ne bevve un sorso. Il liquido caldo scese nella gola trasmettendogli un’immediata sensazione di calore. Lui voleva bene a suo padre anche se l’uomo non si era mai dimostrato particolarmente affettuoso nei suoi confronti. Era un ufficiale dell’esercito talebano e ava gran parte delle giornate fuori casa. Nel poco tempo che aveva trascorso con il figlio, lo aveva sempre trattato come un adulto e mai come un bambino. Era solito raccontargli la gloriosa storia del popolo afghano, che aveva combattuto Alessandro Magno, Gengis Khan, l’impero britannico e i sovietici. Latif ascoltava rapito le storie di epiche battaglie che il padre gli raccontava prima di andare a dormire. Il bambino continuò a bere il suo tè mentre il padre ritornava a sedersi a un vecchio tavolo di legno sul quale erano appoggiati due fucili AK-47. Attorno al tavolo c’erano altri due uomini, Issam e Akram, due subalterni dell’uomo che erano fuggiti con lui da Kabul. Nel complesso di caverne avevano trovato rifugio una ventina di uomini. Solo Fahd era riuscito a portare con sé la propria famiglia. Fu Issam a prendere la parola per primo. “Fahd, dobbiamo decidere cosa fare. Ormai sono giorni che siamo rintanati qua dentro. Prima o poi gli americani ci verranno a cercare.” “Che vengano pure!” urlò Akram. “Queste grotte saranno la loro tomba!”

“Se rimaniamo qua saranno la nostra, di tomba. Sono giunte notizie che gli americani sono penetrati in alcuni complessi di grotte. È meglio fuggire in Pakistan, finché siamo ancora in tempo.” “Preferisco morire combattendo piuttosto che scappare come un coniglio spaventato” disse Akram sbattendo un pugno sul tavolo. Il piccolo Latif sussultò mentre il padre Fahd ancora non prendeva parte alla discussione, rimanendo a lisciarsi la lunga barba nera. “E a cosa servirebbe farsi ammazzare? Faremmo solo un favore ai dannati americani” replicò Issam. “Non ti preoccupare che prima di raggiungere Allah ucciderò ancora parecchi infedeli.” Issam evitò di continuare la discussione limitandosi a scuotere il capo. Entrambi guardarono Fahd in cerca di una risposta. L’uomo smise di lisciarsi la barba e finalmente cominciò a dire la sua. “Caro Akram, sicuramente Allah non disprezza la tua voglia di resistere e uccidere più infedeli possibile. Tuttavia dopo aver riflettuto a lungo credo che la soluzione migliore sia tentare di raggiungere il Pakistan.” Issam si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. “Ora siamo allo sbando e le munizioni scarseggiano. In Pakistan troveremo altri fratelli e potremo riorganizzarci per poi ritornare a colpire gli americani. Non so dirvi quanto ci vorrà ma ci riprenderemo la nostra terra e la affideremo nuovamente nelle mani di Allah.” “Così sia” augurarono insieme Issam e Akram. “Partiremo tra due ore e marceremo tutta la notte. Date l’ordine agli uomini di prepararsi.” I due fecero un cenno con il capo e si voltarono avviandosi verso un sentiero di roccia che li avrebbe portati in un’altra sezione delle grotte. Congedati i suoi subalterni, Fahd si avvicinò alla sua famiglia.

“Cominciate a prepararvi anche voi, sarà una marcia difficile e pericolosa. Ma se tutto va bene alle prime luci dell’alba saremmo salvi in Pakistan.” “Padre, perché andiamo in Pakistan?” chiese il piccolo Latif che ancora non aveva chiara la situazione. “Per scappare dagli americani che vogliono ucciderci” rispose sintetico il padre. “Ma perché vogliono ucciderci?” insistette Latif. “Te l’ho già detto una volta. Perché sono delle bestie che hanno rifiutato la luce di Allah. Il loro unico scopo è sottomettere i fedeli dell’Altissimo per corromperli con i loro costumi depravati. Ti addestrerò come sono stato addestrato io alla tua età e farò di te un guerriero. Così potrai tornare con me per uccidere gli infedeli.” Latif annuì anche se continuava a non capire molto di quello che accadeva. Lui non voleva diventare un guerriero ma sapeva che non avrebbe potuto opporsi a una decisione del padre. Con una lunga sorsata svuotò la tazza, sperando che il genitore cambiasse idea riguardo al suo futuro.

Dalton Cox si ò la lingua sulle labbra mentre osservava ciò che aveva di fronte. Aveva appena trovato un accesso segreto che portava all’interno della montagna. Era stato abilmente nascosto da un telone mimetico ricoperto di vegetazione. Quasi impossibile notarlo dalla distanza senza un occhio esperto. L’apertura era alta appena un metro ed era larga settanta centimetri ma era sufficiente a far are lui e la sua squadra. Si accarezzò la barba ispida che non tagliava da più di una settimana, nera come i suoi capelli. Gocce di sudore imperlavano la sua fronte, scivolando su una profonda cicatrice che aveva sull’occhio destro, omaggio della guerra in Iraq del ’91. Bei ricordi quelli, quando faceva ancora parte dei Marine Force Recon. Poi c’era stata l’aggressione a quella carogna del suo superiore e il congedo con disonore. Per sua fortuna la CIA aveva saputo trovargli un nuovo impiego. Da quasi dieci anni ormai faceva parte della Special Activities Division (SAD) della CIA, che si occupava di operazioni clandestine. La paga era buona e il lavoro divertente, anche se di tanto in tanto c’era da sporcarsi le mani.

Comunque non era quello il momento di pensare ai ricordi perché aveva una missione da compiere. Lui e altri due colleghi avevano l’ordine di penetrare nella montagna e di bonificare il complesso. Ad aiutarli c’erano una dozzina di miliziani anti-talebani, il cui compito principale era trovare tracce di Osama Bin Laden, che secondo il servizio di informazioni si nascondeva da quelle parti. Altre squadre come la sua stavano svolgendo compiti analoghi in tutto il complesso di montagne. Cox si voltò a destra e incrociò gli occhi azzurri di Ethan Foster, un biondo e muscoloso ex marine come lui. La testa era rasata a zero e incrostata di fango. Alla sinistra di Cox se ne stava accovacciato Eduardo Rivera, di origine portoricana. Stringeva ancora in mano un lungo coltello da combattimento con la lama sporca di sangue. Un quindicina di metri più indietro, il talebano che era a guardia dell’ingresso segreto giaceva a terra con il cuore spappolato. Cox attese che il gruppo di miliziani della sua squadra si avvicinasse all’ingresso. Li contò rapidamente constatando che erano tutti presenti. Era il momento di scoprire dove conduceva l’accesso segreto. Infilò il visore notturno e tolse la sicura del suo fucile automatico M4 con silenziatore. “Entro io per primo. Attendete il mio via libera” disse ai suoi compagni. “Ok capo. Non metterci molto perché qui fuori siamo una bersaglio facile” rispose Foster. Cox si infilò nel aggio strisciando a terra, facendo leva sulle braccia muscolose. Davanti a lui si presentava uno stretto corridoio in discesa. Lo percorse per circa venti metri fino a quando si accorse che lo spazio intorno a lui aumentava. Ancora trenta metri e poté finalmente camminare in piedi. Cominciava a vedere delle fioche luci in lontananza e sentire dei rumori. Si accucciò dietro una sporgenza per poter osservare meglio la zona. Dopo pochi istanti scorse un gruppo di uomini armati che sembravano intenti a prepararsi in vista di un’imminente partenza. Forse tra loro c’era anche Bin Laden ed esisteva un solo modo per scoprirlo. “Via libera. Procedete con cautela fino alla mia posizione” disse attraverso il microfono della sua ricetrasmittente.

“Ricevuto. Stiamo arrivando” fu la risposta di Foster. Cox si concesse un sorriso. Ancora pochi minuti e ci sarebbe stato da divertirsi in quella caverna.

“È tutto pronto per la partenza” affermò Issam. “Molto bene. Tra dieci minuti ci muoviamo e preghiamo Allah che questa sera gli occhi degli americani guardino altrove” rispose Fahd. Sapeva che portare i suoi uomini in Pakistan non sarebbe stato facile. Gli americani pattugliavano la zona anche di notte e se scorgevano qualcosa di sospetto mandavano i loro aerei a sganciare le bombe. Quella notte sarebbe potuto succedere anche a loro. Comunque era sempre meglio tentare la sorte che morire come topi in quelle caverne. Si avvicinò al figlio che aveva riempito un borsone con delle provviste. “Sei pronto figliolo?” gli chiese guardandolo negli occhi. “Sì padre” rispose il bambino. “Questa notte sarà una marcia difficile e potremmo anche morire. Ti dovrai comportare da uomo e non dovrai lamentarti.” “Mi comporterò da uomo” replicò Latif. Fahd fece un cenno di assenso e si voltò dall’altra parte. Latif rimase a rimuginare sulle parole appena dette dal padre riguardo alla possibilità di morire. Lui non voleva morire! Aveva solo nove anni e tutta una vita davanti. Stava per cominciare a mettersi a piangere quando ricordò la seconda parte del discorso del padre. Doveva comportarsi da uomo e non aveva intenzione di deludere il suo genitore. Le detonazioni di diverse armi da fuoco riecheggiarono violentemente nella caverna.

“Gli americani! Ci attaccano!” urlò Issam. “Corri a organizzare la difesa” rispose Fahd. “Vado subito!” Latif si strinse terrorizzato alla mamma. Fahd si avvicinò a loro dopo aver raccolto un AK-47 dal tavolo. “Venite con me” ordinò con voce calma. Latif e sua madre lo seguirono docilmente fino a un’apertura nella roccia della larghezza di cinquanta centimetri. Fahd consegnò alla moglie una torcia elettrica e una vecchia pistola russa. “Infilatevi in questo aggio. Vi porterà in una zona della montagna che per ora dovrebbe essere sicura. Troverete un altro aggio che vi porterà fuori. A quel punto affidatevi alla misericordia di Allah e tentate di raggiungere il Pakistan...” “Ma tu non verrai con noi?” chiese Tahira con un tono allarmato. “No, mia cara moglie. Non posso abbandonare i miei uomini. Devo badare a loro.” “E a noi non ci pensi? Gli americani ci uccideranno!” “Non lo faranno. Loro le donne e i bambini li uccidono soltanto con le bombe. Se vi troveranno non vi faranno niente.” “Allora questo è un addio?” chiese Tahira con le lacrime agli occhi. Fahd abbracciò sua moglie e la strinse forte al suo petto. “Temo proprio di sì. Abbi cura di nostro figlio.” Anche Latif aveva cominciato a piangere. Lacrime salate scorrevano sul suo volto. Fahd se ne accorse e si inginocchiò davanti a suo figlio. Appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle.

“Non piangere, figlio mio. Gli uomini non piangono” gli disse addolcendo la voce. Il piccolo tirò su col naso nel tentativo di calmarsi. “So che non sono stato il più affettuoso dei padri ma sappi che ti ho sempre voluto bene e te ne vorrò in eterno.” “Anche io, padre.” “Ora diventi tu l’uomo di casa. Devi farmi una promessa.” Latif annuì vigorosamente con la testa. “Devi diventare un guerriero e devi tornare per riportare l’Afghanistan nelle mani di Allah. Me lo prometti?” “Te lo prometto, padre.” “Bene figliolo. Ora andate.” Entrambi si infilarono nella frattura all’interno della roccia. Latif si soffermò un attimo, giusto in tempo per vedere un uomo arrivare alle spalle del padre. “Attento” urlò il piccolo Latif.

Cox proseguì lungo un corridoio in salita seguito da Foster. Rivera e i miliziani stavano sciamando nella montagna per eliminare le ultime sacche di resistenza. L’attacco a sorpresa aveva avuto pieno successo. Ora bisognava solo sperare di trovare Bin Laden. Davanti al lui si apriva una specie di stanza di pietra illuminata da alcune lampade. Fece irruzione all’interno della stanza e a una decina di metri da lui vide un uomo che gli dava le spalle. Gli urlò in arabo di non muoversi ma quello si girò di scatto verso di lui puntandogli un fucile. Lo eliminò sparandogli tre proiettili al petto. L’uomo, che portava una lunga barba nera, si accasciò a terra. Cox si avvicinò con cautela seguito da Foster. Arrivato a pochi metri si accorse di una sagoma vicino a una spaccatura nella parete di roccia. Puntò il suo fucile

in quella direzione ma si ritrovò con stupore a fissare gli occhi di un bambino. Il piccolo lo fissava in silenzio mentre una donna cercava di tirarlo all’interno dell’apertura. Dopo un istante, che a Cox parve eterno, il piccolo sparì nello stretto aggio. “Capo, li seguiamo?” gli chiese Foster, che aveva notato anche lui il bambino e la donna. “No, lasciamoli stare. Bonifichiamo prima la zona qua intorno.” “Agli ordini.”

Tahira cercava di farsi strada nello stretto corridoio, reggendo con una mano la torcia e tenendo suo figlio con l’altra. Latif seguiva la madre quasi in uno stato di trance. Suo padre era stato ucciso davanti ai suoi occhi. Non avrebbe mai dimenticato il viso dell’assassino, soprattutto la lunga cicatrice che aveva sopra l’occhio destro. Mentre correva ricordò la promessa che aveva fatto a suo padre: avrebbe riportato l’Afghanistan nelle mani di Allah. Ancora non sapeva come fare ma era sicuro che avrebbe trovato il modo.

CAPITOLO 1

Regione del Waziristan (Pakistan Occidentale), 30 novembre 2015

Ormai non sapeva più da quanto tempo stava osservando quel braciere che scoppiettava ritmicamente, diffondendo un piacevole calore in tutta la stanza. Fuori la temperatura era di qualche grado sotto lo zero, ma all’interno dell’abitazione dove si trovava non si stava male. Le pareti costruite con mattoni di fango secco e legno fornivano un buon isolamento dal freddo. L’abitazione era di un solo piano, molto piccola e formata da un’unica stanza. Erano giorni che giaceva pigramente su un basso divanetto senza mai uscire di casa nemmeno una volta. Due volte al giorno il suo uomo più fedele gli portava un pasto caldo e gli veniva a svuotare il secchio che usava come latrina. Lui ringraziava sempre con un cenno della testa, senza mai aprire bocca. Sapeva che avrebbe dovuto reagire ma non riusciva a uscire dall’inerzia nella quale era caduto. Continuava a ripensare a tutti gli eventi che si erano succeduti negli ultimi mesi, fino a portarlo in quello sperduto villaggio sulle montagne del Pakistan. Lui, Omar Abdallah Hassan, fondatore e leader del movimento Justice of Allah (JOA), costretto a vivere come un eremita. Sapeva che per molti musulmani la sua organizzazione rappresentava una speranza. Per gli Stati Uniti e i suoi alleati era invece l’organizzazione terroristica più pericolosa al mondo, ed era proprio per quel motivo che il suo nome figurava nella famigerata lista degli uomini più ricercati stilata dall’FBI. Si trovava al primo posto, nella prestigiosa posizione che per anni aveva occupato lo sceicco Osama Bin Laden. Per un certo verso la cosa avrebbe dovuto essere gratificante, perché ora tutti i suoi sostenitori potevano finalmente vedere chi era il loro leader. Però non era così che sarebbe dovuta andare.

Da quando aveva creato il JOA, aveva sempre fatto il possibile per celare la sua identità, proprio per non fare la vita che aveva fatto Bin Laden. Solo in pochi sapevano chi era e si trattava di gente che avrebbe dato la vita per non tradirlo. Inoltre, l’aura di mistero che gravitava intorno a lui aveva contribuito renderlo una figura quasi divina. Poi, dopo tanti anni di prudenza, aveva corso un rischio che pensava di aver calcolato. Aveva svelato la sua identità al Presidente iraniano Kaebi, per convincerlo ad aiutarlo in un’importante operazione. Era riuscito a rubare alla Russia un sofisticato aereo stealth comandato a distanza con lo scopo di compiere un attentato durante la festa della Repubblica italiana. Era arrivato molto vicino a eliminare buona parte del governo italiano. Il piano, che avrebbe dovuto essere perfetto, era invece stato sventato all’ultimo istante. Il Presidente iraniano era stato arrestato dopo che era stato scoperto il suo coinvolgimento con il JOA. Come prevedibile, aveva cominciato a collaborare per identificare Hassan. E così in breve tempo gli Stati Uniti, con i loro potenti mezzi, erano riusciti a dare un nome e un volto al leader del JOA. Davvero non immaginava che ci sarebbe voluto così poco tempo. Aveva vagato da un rifugio all’altro, cercando contemporaneamente di pianificare nuove azioni contro gli infedeli. Per un po’ aveva creduto che facendo attenzione avrebbe potuto ancora essere al sicuro. Poi, per un soffio, gli israeliani non erano riusciti a catturarlo mentre si trovava in Libano. Qualcuno tra i suoi uomini lo aveva tradito. Solo la fortuna gli aveva permesso di spostarsi dalla casa dove si trovava appena mezz’ora prima del raid israeliano. Sentendosi braccato come un animale, aveva deciso di rifugiarsi in Pakistan, nella regione del Waziristan. Lì aveva trovato la protezione di alcune tribù di etnia pashtun, abituate a nascondere i guerriglieri talebani in fuga dall’Afghanistan. Sapeva che anche in quello sperduto villaggio di poche case non poteva essere totalmente al sicuro. Ormai aveva realizzato che qualcuno avrebbe potuto nuovamente tradirlo e, se fosse stato individuato, gli americani avrebbero potuto attaccarlo dal cielo con un aereo controllato a distanza. Per sua fortuna, in quel periodo gli americani avevano stipulato con il governo pakistano un trattato che prevedeva la sospensione di quegli attacchi e il divieto di ingresso di forze militari, nel rispetto della sovranità del Pakistan sui propri territori. Solo dieci giorni prima, un aereo comandato a distanza aveva colpito un’abitazione di un

piccolo villaggio. Gli americani credevano che all’interno si trovasse un importante capo talebano. Purtroppo le informazioni erano errate e quella casa era invece la scuola del villaggio. Dodici bambini erano morti. L’ennesima uccisione di civili aveva fatto scoppiare delle manifestazioni antiamericane in tutto il Paese, durate più di una settimana, fino a quando il governo pakistano aveva fatto la voce grossa con gli Stati Uniti obbligandoli a firmare il trattato. Il governo aveva inoltre rivendicato il diritto di occuparsi personalmente di eventuali terroristi presenti sul proprio territorio, senza ingerenze da parte degli americani. Hassan sperava che gli Stati Uniti mantenessero la parola data, anche se non si fidava troppo di loro. Qualcuno bussò alla porta distogliendolo dai suoi pensieri. Guardò da una finestrella, vedendo che fuori era già buio. Si era fatta ora di cenare, anche se non aveva per niente fame. Samir, il suo più prezioso collaboratore, entrò silenziosamente seguito da un uomo che portava un vassoio con del cibo. L’uomo posò il vassoio su un tavolino e Samir gli fece cenno di uscire. Voleva parlare con Hassan. Era davvero preoccupato per il suo capo, che da giorni era scivolato in una forte apatia. Una delle qualità che aveva sempre apprezzato in quell’uomo era il suo ottimismo e la sua fiducia nella loro missione, anche nei momenti difficili. L’uomo che aveva davanti in quel momento, invece, era solo l’ombra dell’Omar Abdallah Hassan che conosceva. Doveva dargli una scossa per cercare di farlo tornare quello che era prima. “Signore, è pronta la cena” disse al suo comandante. Hassan posò lo sguardo su Samir, l’uomo più degno della sua fiducia. Per lui era come un figlio e aveva già deciso che gli sarebbe succeduto alla guida del JOA. Aveva impiegato parecchio tempo ad abituare Samir a chiamarlo per nome, invece del più marziale “signore”. Questa volta, però, notò che non lo stava chiamando Omar, come di consueto. “Non ho fame, Samir, porta via il vassoio” gli rispose con fare astioso. Il numero due del JOA, per tutta risposta, avanzò deciso verso Hassan e si sedette su una sedia. “Omar” iniziò con tono più suadente “in questi giorni sono stato in rispettoso silenzio per non disturbare le tue riflessioni. Non sei uscito da questa casa e hai

mangiato poco o niente. Sono giorni che non ti lavi e la tua barba è incolta. Adesso basta. Non ho intenzione di stare a guardarti oltre mentre continui a piangerti addosso come una donnicciola.” “Ma come ti permetti! Ti farò pagare la tua insolenza” si infervorò Hassan. “Ormai sono anni che ti conosco. Ho imparato ad apprezzare la tua calma, la tua intelligenza e la tua fede nella missione che dobbiamo compiere. Ora non riconosco più l’uomo che ho davanti a me e se essere insolente può servire a darti una scossa, sono disposto a correre il rischio.” Hassan abbassò lo sguardo con vergogna senza riuscire a rispondere. Si accarezzò nervosamente la lunga barba grigia. “So bene che gli ultimi mesi sono stati duri” continuò Samir “ma non siamo stati ancora sconfitti. È vero che la nostra organizzazione ha subito un pesante colpo ed è vero anche che abbiamo perso la protezione che ci forniva il tuo anonimato. Nonostante tutto la missione non è finita, abbiamo le capacità per portarla ancora avanti.” “Prima o poi gli americani mi troveranno, come hanno fatto con Bin Laden. Mi uccideranno e poi tu prenderai il mio posto. Uccideranno anche te e chi verrà dopo di te” disse Hassan con tono neutro. “Sono pronto a morire per Allah. Se taglieranno la nostra testa, altre ne spunteranno come all’Idra. Non ci sconfiggeranno mai!” Hassan scosse la testa, sorridendo amaramente. “Mio caro Samir, non hai ancora chiara la visione globale di quello che stiamo facendo. Non possiamo continuare a compiere attentati sporadici contro gli infedeli. Se distruggiamo un palazzo ne costruiranno ancora uno più grande. Se uccidiamo un soldato ne arriverà un altro a prendere il suo posto.” “Alla fine si arrenderanno” lo interruppe Samir con fervore. “La guerra in Vietnam ha insegnato questo.” “Non ne sono più sicuro. Gli interessi degli infedeli nelle nostre terre sono troppi perché loro rinuncino ad opprimerci. E noi non siamo sufficienti per cacciarli via. Pensa ad Al Qaeda. Da quanti anni combattono gli infedeli? Venticinque,

trenta? Hanno ucciso tanti infedeli ma cosa hanno ottenuto in realtà? Gli Stati Uniti e i loro alleati sono più saldi che mai nelle loro posizioni.” “E che cosa dovremmo fare? Abbandonare la nostra gente e rinunciare ai nostri principi?” Hassan si alzò dal divano e si avvicinò al tavolino dove era appoggiato il vassoio. Prese una tazza che conteneva del tè e ne bevve un sorso. “Non possiamo più andare avanti così. Dobbiamo cambiare pagina e alzare il tiro.” “Come pensi di fare?” gli chiese Samir poco convinto. “Non so cosa dirti, mio caro. L’unica cosa di cui sono sicuro è che in queste condizioni non riusciremo mai a completare la nostra missione.”

“Ci mancava solo questa!” bisbigliò Ethan Foster lasciando trasparire la sua irritazione, mentre alcuni fiocchi di neve cominciarono a posarsi sul terreno. “Calmati Ethan, sapevamo che sarebbe arrivata la neve” rispose imperturbabile il compagno Dalton Cox. I due uomini erano su un crinale ricoperto di alberi. Sotto di loro, a cinquecento metri di distanza, si trovava un villaggio con una ventina di piccole case. Stavano sdraiati a terra in mezzo al sottobosco da un giorno e mezzo, coperti da un telo mimetico che richiamava il colore del paesaggio circostante. Erano vestiti con un completo mimetico, indossato sopra una speciale tuta che teneva il loro corpo isolato da umidità e freddo. Il loro volti erano protetti da amontagna. Era stato segnalato che Omar Abdallah Hassan si trovava da giorni in quel villaggio. La loro missione consisteva nell’accertarsi che l’informazione fosse vera e in quel caso avrebbero dovuto eliminare il leader del JOA. Un aereo pilotato a distanza volava sulle loro teste fornendo immagini dettagliate della zona. Il velivolo aveva capacità stealth, cosa che gli permetteva di non essere individuato dai radar pakistani.

“Già, ma così la visibilità si riduce e sarà più difficile centrare il bersaglio, sempre che esca da quella casa” continuò Foster. “Prima o poi uscirà.” “Non siamo nemmeno sicuri che sia veramente Hassan. Magari è solo un altro capetto talebano.” “Griffin ha detto che l’informazione era sicura al settanta per cento.” “E allora se erano così sicuri potevano mandare i ragazzi delle forze speciali, invece che noi.” “Ragiona, Ethan. In questo villaggio ci sono anche donne e bambini. Sai benissimo che dopo l’incidente della scuola il Presidente non vuole commettere più errori. I rapporti con il governo pakistano sono appesi a un filo e non possiamo comprometterli infischiandocene del trattato firmato poco fa. Una squadra di Navy Seal farebbe troppo rumore e ci sarebbe il rischio di perdite tra i civili.” “Ma che civili! Qua anche i bambini sono dei dannati terroristi” protestò Foster. “Forse hai ragione, ma per il governo pakistano sono civili innocenti ed è importante non ucciderne nessuno per sbaglio. Fidati di me, è molto meglio che il lavoro lo facciamo noi. Un solo colpo e ce ne filiamo via.” “Tanto una volta che l’avremo eliminato i pakistani capiranno subito che siamo stati noi.” “Hai ragione, ma non avranno niente per dimostrarlo. Noi ufficialmente non siamo sul libro paga di nessuno. Se venissimo catturati nessuno confermerà di conoscerci. Il Presidente otterrà quello che vuole senza sporcarsi le mani.” “La solita merda.” “È per questo che ci pagano molto profumatamente.” “Ah, io ho un brutto presentimento. Ho paura che questa volta non ne usciremo bene. Questa missione è un suicidio” sentenziò Foster sgranocchiando una barretta di cioccolato.

“Non fare l’uccello del malaugurio.” “C’è troppo movimento qua intorno.” “Su questo devo darti ragione” convenne Cox osservando lo schermo di un piccolo palmare che aveva con sé. Trasmetteva le riprese a infrarossi dell’intera zona, gentilmente fornite dalle telecamere del velivolo che volava sopra di loro. “Conto otto, anzi nove ostili che stanno pattugliando l’area intorno a noi. Più un numero imprecisato di altri ostili che si trova nelle case.” “Direi che in caso di scontro le probabilità non giocano a nostro favore” sentenziò Foster. “Penso che tutta questa gente presente in zona possa significare una sola una cosa: si tratta davvero di Hassan. E poi da quand’è che sei diventato così pessimista?” “Da quando mi sono accorto che sto diventando troppo vecchio per questo lavoro.” “Ma no, che sei ancora un giovanotto. Aspetta un momento. Sembra che un gruppo di ostili si stia avvicinando alla nostra area” disse osservando il monitor del palmare. “Occultiamoci completamente.” “Ho un brutto presentimento.” “L’hai già detto. Ora chiudi il becco.” I due uomini coprirono anche la testa con il telo mimetico. Cox avvicinò la mano alla caviglia e impugnò il suo coltello da combattimento. Foster impugnò la sua Sig Sauer calibro nove millimetri con silenziatore. arono cinque minuti e poterono sentire distintamente le voci di alcuni uomini che parlavano in lingua pasthu. La schiena di Cox venne percorsa da un brivido che sottolineava il possibile pericolo che stavano per correre. Da quando erano appostati su quell’altura erano ate già diverse pattuglie ma mai così vicine alla loro postazione. Forse sospettavano qualcosa? Gli ostili erano ad appena una trentina di metri e si stavano avvicinando ancora, aumentando le probabilità di individuare il loro nascondiglio, anche se ben camuffato. Sperò

con tutto il cuore che i presentimenti di Foster fossero infondati.

Latif camminava con attenzione illuminando il sottobosco con una torcia elettrica, seguito da due suoi compagni. Portava a tracolla un AK-47 pronto a fare fuoco. Fiocchi di neve avevano cominciato a posarsi sul terreno, costringendolo a fare ancora più attenzione a dove metteva i piedi per non cadere a terra. Periodicamente si fermava per illuminare la zona intorno a lui, alla ricerca di eventuali nemici. Erano ati quasi quattordici anni da quando gli americani avevano ucciso suo padre e lui aveva fatto il possibile per mantenere la promessa fatta poco prima che morisse. Quella notte era riuscito a fuggire dal complesso di grotte con sua madre e dopo quasi un giorno di cammino erano arrivati in Pakistan. Lì erano stati accolti in un villaggio di etnia pashtun e Latif aveva subito espresso il desiderio di diventare un guerriero. Aveva ato l’adolescenza in quel piccolo villaggio lavorando come pastore. Nel tempo libero si addestrava intensamente e studiava il Corano. Quando aveva raggiunto i sedici anni si era sentito pronto per combattere gli americani ed era tornato in Afghanistan per unirsi a una formazione di guerriglieri. Aveva partecipato a diversi attentati contro le forze governative e le forze di occupazione comandate dagli americani, accumulando una grande esperienza in battaglia. Poteva dire di essere diventato un guerriero come voleva suo padre, tuttavia non sentiva di avere ancora mantenuto pienamente la sua promessa. Il padre, prima di morire, gli aveva chiesto di riportare l’Afghanistan nelle mani di Allah. Latif si era reso conto che da quando aveva iniziato a combattere la situazione non era cambiata affatto. Anzi, in quel momento le cose si stavano mettendo male. Le forze governative avevano effettuato una serie di raid in tutto il Paese allo scopo di eliminare il maggior numero possibile di guerriglieri e il suo comandante aveva deciso di fare ripiegare il gruppo in Pakistan, in attesa che le acque si calmassero. Le cose andavano così ormai da diversi anni e Latif si era reso conto che non si poteva più continuare in quel modo. Forse l’uomo che doveva proteggere si trovava in Pakistan per aiutarli nella

lotta. Forse aveva un piano. Se così fosse stato, doveva impedire che gli fosse fatto anche un solo graffio. “Latif, fa troppo freddo. Torniamocene dentro casa” disse uno dei due uomini dietro di lui. “Piantala di piagnucolare. Dobbiamo proteggere quell’uomo.” “Ma se non sappiamo nemmeno chi è.” “Non importa. Mi è stato detto che è molto importante e che gli americani vogliono eliminarlo.” “E come pensano di farlo? Non possono più bombardarci a tradimento e non possono più mettere piede in Pakistan.” “Talal, tu sei ancora giovane ma dovresti aver capito che gli americani fanno tutto quello che gli a per la testa. Figurati se si fermano davanti a un accordo” spiegò Latif. “Ma chi vuoi che ci sia da queste parti? Secondo me non ha senso mandare fuori tre pattuglie per volta” insistette Talal, arrancando sul terreno che stava salendo. “Te lo ricordi ancora chi è che comanda qui?” chiese Latif spazientito voltandosi improvvisamente. “Tu, Latif” rispose il giovane guerrigliero, rendendosi conto di avere esagerato. “Molto bene. Cerca di non dimenticarlo. E ora continuiamo.” “Sì certo. Ti chiedo scusa” si affrettò a dire Talal. “Aspettate una momento che devo fare una pisciata” disse a un certo punto il terzo uomo, che fino a quel momento era stato in silenzio. “Va bene, ma fai in fretta” gli concesse Latif.

Cox e Foster, da sotto il telone mimetico, videro un paio di pesanti scarponi fermarsi a trenta centimetri dalle loro facce. Pochi istanti dopo poterono sentire

il familiare scroscio di urina. Cox strinse forte l’impugnatura del coltello da combattimento trattenendo il respiro. Il cuore batteva così forte da fargli temere che il guerrigliero potesse udirlo. Quando l’uomo ebbe finito, armeggiò per rimettere a posto l’attrezzo e riprese in mano la torcia elettrica che aveva infilato in una tasca. Purtroppo per lui gli scivolò dalle mani nel tentativo di accenderla. Dalton Cox sentì qualcosa cadergli sulla schiena. Merda! Avrebbe voluto dire. Forse ci aveva pensato il guerrigliero perché aveva sentito un’incomprensibile imprecazione. L’uomo si chinò tastando il terreno alla ricerca della torcia. “Hai finito?” gli chiese Latif. “Sì, mi è solo caduta la torcia a terra.” Continuò a tastare e un camlo d’allarme gli suonò nella testa. Quello che stava toccando non era vegetazione. Sembrava più qualcosa di sintetico. “Ma che…” non fece in tempo a finire la frase. La copertura dei due agenti della CIA era saltata. Cox si sollevò da terra con un balzo e conficcò il coltello nel collo dell’uomo. Nello stesso momento si alzò anche Foster mettendosi in ginocchio. Dopo qualche secondo distinse la sagoma di un altro uomo una decina di metri più in basso. Fece fuoco per cinque volte. Il giovane Talal venne raggiunto da tre pallottole mentre cercava di impugnare il suo fucile. Latif fu più svelto del compagno e, dopo essersi inginocchiato, fece fuoco in direzione dei lampi di luce. Anche Foster sparò in direzione dei lampi di luce davanti a lui e svuotò il caricatore. Latif venne scaraventato a terra da un proiettile alla spalla. “Ethan, dobbiamo scappare” urlò Cox alla fine della sparatoria.

“Dal, te lo dicevo che avevo un brutto presentimento” rispose ansimando. “Me lo ricordo, portasfiga che non sei altro. Dai, andiamo via di qua.” “Temo che per me non sia possibile” disse Foster con voce sofferente. “Che cazzo dici?” gli chiese Cox, prima che il suo sguardo si posasse sul ventre del collega. Una macchia rossa si stava allargando sulla mimetica. “Mi hanno beccato, Dal. Per me è finita. Lasciami qui.” “Non dire cazzate. Tu vieni via con me.” Raccolse il suo fucile automatico M4 e sistemò a tracolla il fucile di precisione che avrebbe dovuto usare per uccidere Hassan. Sollevò da terra Foster, che emise un gemito di dolore. “Tra poco ci saranno addosso e io ti rallenterò” disse Foster. “Ce la faremo. Tu tieni duro.” Cominciarono la loro fuga con Cox che sorreggeva Foster. Nel frattempo diverse urla risuonavano sotto di loro, allarmate dalla sparatoria appena terminata.

Base Militare Americana, Bagram (Afghanistan)

Chase Griffin osservava il grande monitor della sala operazioni con le braccia raccolte dietro la nuca, preso da un profondo sconforto. Le immagini che venivano trasmesse mostravano le riprese termiche provenienti dall’aereo di sorveglianza assegnato alla missione. Vedeva due sagome umane di colore bianco che correvano arrancando attraverso il bosco; dietro di loro un brulicare di altre sagome bianche si stava avvicinando rapidamente. Fino a pochi istanti prima tutto stava procedendo per il meglio: l’inserimento era avvenuto senza problemi e la sua squadra era riuscita a posizionarsi a cinquecento metri dall’abitazione dell’uomo che secondo le sue fonti era Omar Abdallah Hassan in persona. Sarebbe bastato solo che uscisse un momento da quella casa e una volta

avvenuta l’identificazione i suoi uomini l’avrebbero eliminato. Aveva rassicurato personalmente il Presidente Bailey sulla riuscita dell’operazione. L’uomo più potente degli Stati Uniti aveva una particolare ossessione per Hassan. Poco più di un anno prima il JOA aveva compiuto un attentato contro l’ambasciata statunitense a Tel Aviv, in Israele. Tra i diversi morti in quell’attacco c’era un funzionario che era il suo migliore amico fin dai tempi dell’infanzia. Da quel giorno Bailey aveva giurato a se stesso che avrebbe fatto il possibile per uccidere il responsabile, anche se a quel tempo non se ne conosceva l’identità. Da qualche mese, però, era stato associato un nome e un volto al misterioso leader del JOA, cosa che aveva aumentato le possibilità di eliminarlo. Griffin comandava le operazioni della CIA in Medio Oriente e a lui era spettato l’incarico di trovare un modo di uccidere Hassan, dopo che era pervenuta una segnalazione di dove potesse trovarsi. Considerando il trattato da poco firmato, la soluzione migliore poteva sembrare quella di rivolgersi al governo pakistano. Aveva scartato subito l’idea perché la CIA non si fidava completamente dei pakistani, temendo che una soffiata potesse fare sparire ancora una volta il leader del JOA. Anche Bailey si era trovato d’accordo con lui anche perché temeva che i pakistani avrebbero espresso la volontà di prendere Hassan vivo. Lui invece lo voleva morto. Sempre a causa del trattato, l’invio delle forze speciali come nel caso della morte di Bin Laden era da escludersi, così come il bombardamento con un aereo comandato a distanza. Griffin aveva constatato che l’unica soluzione praticabile era di inviare i suoi due uomini migliori nella regione del Waziristan, con il compito di identificare e asse Hassan. Il tutto senza fare rumore. Gli Stati Uniti non avrebbero mai ammesso l’operazione. Ora che le cose si erano messe male, bisognava ricorrere al piano B, anche se il Presidente non ne sarebbe stato felice. Prese un panno dal taschino della camicia e lo usò per pulire le lenti dei suoi occhiali. Era arrivato il momento di avvisare il Presidente sull’esito dell’operazione.

“Murray, tieni d’occhio la situazione perché io devo parlare con il Presidente” ordinò a uno dei suoi collaboratori. Senza attendere la risposta, entrò nel suo piccolo ufficio e si sedette alla scrivania. Si ò una mano sulla chioma grigia e impregnata di sudore. Prese la cornetta del telefono e compose il numero che l’avrebbe messo in contatto con il Presidente Bailey. Sospirò amaramente in attesa della risposta.

Casa Bianca, Washington D.C. (Stati Uniti)

Il Presidente degli Stati Uniti Larry Bailey era seduto alla scrivania nello Studio Ovale. Dopo aver appeso ordinatamente la giacca a un attaccapanni, si era allentato la cravatta e sbottonato i primi bottoni della camicia. Una martellante pioggia picchiettava ritmicamente sui vetri delle tre finestre alle sue spalle. Bailey si grattò la testa con la matita. Stava lavorando a un discorso che avrebbe dovuto tenere due giorni dopo in Texas. Naturalmente aveva gente pagata per quel lavoro, tuttavia preferiva stendere personalmente la prima bozza di ogni discorso. Sbuffò con insofferenza, tirando una riga sull’ennesima frase che non lo convinceva. Non riusciva proprio a concentrarsi perché il pensiero correva continuamente alla missione che aveva ordinato per asse Omar Abdallah Hassan. Dal giorno della scomparsa del suo più caro amico, non aveva ato giorno senza desiderare ardentemente la morte del terrorista. Non gli importava come sarebbe morto, solo che avvenisse. Per quello che lo riguardava poteva anche cadere dalle scale e rompersi l’osso del collo. Per sfortuna, però, il suo desiderio non si era ancora realizzato. Poco tempo prima gli israeliani non erano riusciti a beccarlo per un soffio. Ora invece l’occasione era arrivata a lui, ma non aveva potuto sfruttare il modo più rapido per eliminarlo, ovvero con un missile. Aveva dovuto affidarsi a una controversa missione, sulla cui riuscita nutriva grossi dubbi. Rinunciò a proseguire la stesura del discorso e si appoggiò allo schienale della poltrona, dopo aver posato la matita sulla scrivania. Sbuffò ancora chiedendosi

come mai non gli giungevano notizie da parecchie ore. Aveva saputo che la squadra era arrivata sul posto un giorno e mezzo prima, senza incidenti. Avevano individuato un’abitazione dove sospettavano si trovasse Hassan e avevano cominciato a sorvegliarla. Ora, era quasi un giorno che non riceveva notizie sulla missione. Uno dei due telefoni posati sulla scrivania cominciò a squillare. Bailey afferrò la cornetta come un rapace su una preda, senza permettere al telefono di fare un secondo squillo. “Sì” rispose secco. “Signor Presidente, c’è il signor Griffin sulla linea protetta” annunciò la sua segretaria. “amelo” ordinò brusco. Trascorsero tre secondi che Bailey impiegò sbuffando impazientemente. “Buongiorno, signor Presidente” esordì cordialmente Griffin. “Dai un taglio alle smancerie. Si tratta di lui?” chiese il Presidente non riuscendo a essere cordiale. “Non abbiamo ancora avuto la conferma visiva, signore. Il villaggio è molto sorvegliato, quindi i miei uomini non hanno potuto avvicinarsi molto. Sembra che ci sia qualcuno di importante in quella casa ma non abbiamo elementi sufficienti a stabilire se si tratta con certezza di Hassan. Non è mai uscito fuori da quella casa e il cibo gli viene sempre portato da un uomo.” “Capisco. Continuate la sorveglianza. Se necessario, ordini ai suoi uomini di trovare un modo di avvicinarsi ulteriormente.” “Temo che non sarà possibile.” “Che cosa?” “Beh, signore, purtroppo la missione ha preso una brutta piega.” “Mi definisca cosa intende per brutta piega.”

“I nostri agenti sono stati scoperti prima di poter identificare il bersaglio. In questo momento sono in fuga e uno dei due sembra ferito” sintetizzò Griffin senza tanti giri di parole. “Dannazione!” esclamò rabbioso. “Suggerisco di mettere in atto il piano di riserva, signore.” Bailey si adagiò contro lo schienale sospirando amaramente. La sua occasione per vendicarsi era sfumata. Dannati pakistani, pensò. Se solo non avessero fatto tutto quel chiasso, la questione sarebbe già stata risolta. Avevano sottolineato il fatto che in casa loro si sarebbero occupati da soli dei terroristi. Come se lui non sapesse quanta gente corrotta era presente nel governo pakistano. Se li avesse avvisati della probabile presenza di Hassan nel Waziristan, il leader del JOA sarebbe stato informato nel giro di un’ora, permettendogli di fuggire. Era davvero in una situazione spiacevole. Non poteva fidarsi di loro ma allo stesso tempo non poteva neanche indispettirli. Anche se mettere in atto il piano di riserva non li avrebbe resi di certo contenti. “Signore, è ancora in linea?” la voce di Griffin lo riscosse dai pensieri. “Ci sono. Dovrei chiamare il Presidente pakistano per richiedere un intervento delle sue forze per catturare Hassan. Il problema è che non siamo ancora sicuri che sia davvero lui. Io dovrò ammettere che abbiamo infranto il trattato infiltrando due uomini in territorio pakistano. Posso sempre dire che erano lì per sorvegliare invece che per compiere un assassinio, ma non credo che la prenderanno comunque bene. Se devo inimicarmi il Pakistan, devo sapere che lo faccio per catturare Hassan, quindi devo farle una domanda precisa: crede davvero che sia lui?” “Secondo me sì. L’informazione che abbiamo ricevuto sembrava piuttosto attendibile e il livello di guardia nel villaggio è degno di un personaggio importante” rispose Griffin. “È abbastanza sicuro da giocarsi la carriera?” chiese Bailey a quel punto. Griffin emise un respiro profondo, consapevole dell’importanza di quello che stava per dire. “Ne sono sicuro, signor Presidente.”

“Allora provvederò a fare questa chiamata.” Detto questo, Bailey riappese la cornetta. Si morse nervosamente il labbro inferiore, pensando che gli sembrava di stare a un tavolo da gioco di Las Vegas. Aveva azzardato mandando due uomini per uccidere Hassan senza coinvolgere il governo pakistano e aveva perso la mano. Ora stava per chiedere aiuto ai pakistani senza fidarsi completamente di loro e senza essere sicuro che si trattasse proprio di Hassan. Se fosse andato tutto bene, il leader del JOA sarebbe stato catturato. Bailey l’avrebbe preferito morto, ma catturarlo era meglio che niente. Però poteva sempre succedere che i pakistani favorissero la fuga di Hassan o che una volta intervenuti scoprissero che non si trattava di lui. E Bailey avrebbe scoperto le sue carte per nulla. Era un altro azzardo, ma questa volta sperava che la sua fosse una mano vincente. Alzò nuovamente la cornetta per chiedere aiuto al Presidente del Pakistan.

CAPITOLO 2

Regione del Waziristan (Pakistan Occidentale)

Latif si alzò da terra con un forte dolore alla spalla. Alcune gocce di sangue, schizzate dalla ferita, si erano depositate sulla sua barba nera e ben curata. Si alzò da terra e si avvicinò al giovane Talal, accorgendosi subito che era già morto. “Che Allah ti accolga tra le sue braccia” mormorò. Fremente di rabbia, raccolse il suo fucile, determinato a dare la caccia a coloro che avevano assassinato i suoi uomini. Intanto un gruppo di guerriglieri stava convergendo sulla sua posizione. Mentre constatava la morte dell’altro compagno, venne illuminato da un fascio di luce proveniente da una torcia elettrica. “Latif, sei tu?” chiese uno dei guerriglieri. “Sì, sono io.” “Che cosa è successo?” “Siamo stati aggrediti, penso siano in due. Sono rimasto vivo solo io. Credo che anche uno di loro sia rimasto ferito. Dobbiamo catturarli.” “Ma anche tu sei ferito” affermò il guerrigliero avvicinandosi a Latif. “È una sciocchezza. Sono andati da quella parte, non facciamoli scappare. Noi inseguiamoli attraverso il bosco mentre mandiamo un’altra squadra a tagliargli la strada dalla parte opposta del crinale. ”

“Certo, li prenderemo.” Detto questo, Latif cominciò l’inseguimento dei due agenti della CIA, accompagnato da sette uomini armati. Nel frattempo un’altra squadra era salita su un vecchio fuoristrada per spostarsi verso la parte opposta del crinale. Per Latif, la risalita del pendio fu piuttosto difficoltosa, a causa della ferita alla spalla che l’aveva indebolito. Vide che alcuni dei guerriglieri più giovani lo stavano superando. “Fate attenzione. Possono aver piazzato delle trappole nella fuga” li avvisò. “Va bene, Latif.” “Facciamo il possibile per catturarli vivi. Dobbiamo cercare di spingerli verso la seconda squadra in modo da metterli in trappola” ordinò ansimando. Era sicuro che si trattasse di americani. Come immaginava, quella non era gente che manteneva le promesse. Ma a loro ci avrebbe pensato lui, sempre che non avessero già chiamato la cavalleria a soccorrerli. In quel caso la situazione si sarebbe fatta davvero complicata.

Cox e Foster stavano scendendo sul versante opposto del crinale. Avevano rallentato l’andatura perché Foster faceva sempre più fatica a muoversi. Il loro piano di fuga si basava sul fatto che i guerrieri, dopo la morte di Hassan, sarebbero stati troppo confusi per capire dove cercare gli assassini. Nel frattempo loro avrebbero potuto raggiungere il confine con l’Afghanistan seguendo un percorso ben studiato. Ora però i nemici sapevano esattamente dove si trovavano e, a causa del ferimento di Foster, stavano guadagnando rapidamente terreno. Cox decise che la loro unica speranza di salvezza era richiedere un elicottero di soccorso, anche se riteneva poco probabile che la sua richiesta venisse accettata. Prese il telefono satellitare, cercando di non rallentare ulteriormente l’andatura. “Hunter uno chiama base” disse nell’apparecchio. “Qui base, avanti” fu la risposta dall’altro capo.

“Siamo stati scoperti e siamo in fuga. Hunter due è ferito. Richiediamo immediato recupero.” arono dieci secondi prima che Cox riconoscesse la voce di Griffin. “Negativo Hunter uno, sai benissimo come funziona. Avete sollevato un dannato vespaio. Cercate di raggiungere una zona tranquilla vicino al confine e vi manderò un elicottero per il recupero.” “Capisco.” “Mi dispiace che le cose siano andate così.” “Anche a me” rispose amaramente Cox. Spense l’apparecchio e lo ripose in una tasca. “Almeno ci abbiamo provato” disse a Foster. “Sapevamo fin dall’inizio cosa ci aspettava in caso di fallimento. Lasciami qui, Dal. Io li distrarrò per un po’ così tu potrai scappare. Puoi ancora farcela” propose Foster, sempre più con il fiatone. “Non se ne parla” rispose Cox. “E allora che si fa?” “Dobbiamo trovare un nascondiglio sicuro per poterti curare la ferita.” Cox stava cercando di trovare un posto adatto a nascondersi quando scorse i fari di un fuoristrada poco più in basso. “Stanno cercando di aggirarci” affermò. A quel punto cominciarono a fischiare delle pallottole alle loro spalle. “Merda, sono già arrivati” disse Foster. “Ci penso io” rispose Cox. Appoggiò a terra il compagno e impugnò il suo M4. Lo puntò verso la fiammata

di un AK-47 che rompeva bruscamente il buio e fece fuoco. Uno dei guerriglieri venne abbattuto ma c’erano altri cinque fucili che sparavano nella sua direzione. Dovette sdraiarsi a terra per evitare le pallottole che piovevano sulla sua testa. Rispose ancora al fuoco, colpendo un altro guerrigliero. “Dal, stanno arrivando anche dal basso” lo informò Foster. Diede un rapido sguardo in basso. Un altro gruppo di uomini stava risalendo il pendio. “È finita” sentenziò sconsolato Foster. “Già, è proprio finita.” Cox smise di sparare e allontanò il fucile. Entrambi gli agenti della CIA alzarono le mani in alto. Nel frattempo i guerriglieri, accortisi che non c’era più risposta al loro fuoco, cominciarono ad avvicinarsi con cautela. “Fatti forza. Dobbiamo solo cercare di sopravvivere e tentare la fuga il prima possibile” bisbigliò Cox. “Ti pare facile” rispose Foster. Poco dopo i guerriglieri raggiunsero i due agenti della CIA, Latif in testa al gruppo. “Gettate vostre armi e inginocchiatevi con mani dietro testa” ordinò Latif in un inglese stentato. I due uomini obbedirono effettuando movimenti molto lenti, consci del fatto di avere una dozzina di fucili puntati addosso. Due guerriglieri si avvicinarono a Cox e lo immobilizzarono, mentre un terzo gli dava il benvenuto colpendolo allo stomaco con il calcio del fucile. Anche Foster, nonostante la ferita all’addome, ricevette lo stesso trattamento. Vennero fatti alzare e portati al cospetto di Latif. I amontagna vennero sfilati e gettati a terra. L’afghano puntò loro in faccia la torcia elettrica e per un attimo rimase pietrificato nel vedere l’uomo che aveva di fronte a lui. Fissò la cicatrice che

solcava il suo volto. Un volto che non avrebbe mai dimenticato. Il volto dell’assassino di suo padre. Ringraziò mentalmente Allah per il regalo che gli aveva fatto. Poteva solo significare di averlo compiaciuto in tutti questi anni. Un ghigno si dipinse sulla sua faccia. “Ehi, che hai da ridere, amico?” chiese Cox con voce calma e sguardo fiero. “Tu davvero non ricordi me? Ma io ricordo bene te” disse Latif senza smettere di sorridere. “Non ci siamo incontrati l’anno scorso allo stadio durante il Superball?” chiese ironico Cox. Per tutta risposta Latif lo colpì sul naso con un pugno. “No americano. Ci siamo incontrati molti anni fa, in grotta di Afghanistan. Hai ucciso mio padre davanti a miei occhi” disse a denti stretti Latif, con lo sguardo carico d’odio. Cox ricordò immediatamente l’episodio e realizzò che non avrebbe potuto finire in mani peggiori. Un uomo armato di fucile assetato di vendetta, che dopo anni aveva trovato l’assassino di suo padre. A conferma dei suoi pensieri Latif gli puntò il fucile alla testa. “Finalmente lo spirito del mio povero padre potrà trovare vendetta” esclamò Latif nella sua lingua. “Aspetta, Latif!” lo bloccò uno dei guerriglieri. “Che vuoi?” chiese rabbioso. “Non pensi che l’uomo che proteggiamo voglia interrogare gli americani? Hai detto tu stesso che li volevi vivi.” “Non mi importa.” “Ma ragiona! Il nostro comandante non te la farà are liscia.” Latif rimase in silenzio mantenendo il fucile puntato alla testa dell’assassino di

suo padre. Cox nel frattempo sperava che quello scambio di battute in lingua pashtu fosse servito a fare cambiare idea a quell’uomo. Dopo qualche secondo Latif abbassò l’arma con un gesto di stizza. Si voltò di scatto e si allontanò dai due prigionieri. Cox tirò un impercettibile sospiro di sollievo. Era ancora vivo e avrebbe potuto tentare la fuga non appena se ne fosse presentata l’occasione. Stava per rassicurare il suo compagno dicendogli di resistere quando, improvvisamente, Latif si voltò di scatto imbracciando il fucile. Una prima raffica da tre colpi penetrò nel petto di Foster. Cox fece appena in tempo a incrociare lo sguardo con il suo assassino, prima di venire anch’egli raggiunto dai proiettili. Si accasciò a terra e morì dopo che il suo corpo fu percorso da una serie di tremiti. Tutti i guerriglieri rimasero muti. Latif abbassò il fucile puntando la canna ancora fumante verso terra. Non aveva resistito alla tentazione vendicare suo padre perché sapeva che non avrebbe avuto un’altra occasione. “Sia ben chiaro che gli americani sono morti durante lo scontro a fuoco. Taglierò personalmente la gola a chi dirà il contrario. Mi avete capito tutti?” Tutti i guerriglieri risposero di sì all’unisono. “Molto bene. Raccogliete tutta la loro attrezzatura. E qualcuno si occupi dei nostri caduti.” Hassan sentì bussare alla porta. La sparatoria scoppiata poco distante dal villaggio era finita da circa un quarto d’ora. Lui era rimasto in casa mentre Samir si era disposto intorno alla casa con tre uomini, in attesa di capire cosa stava succedendo. Hassan si era messo a giocherellare con la sua pistola in attesa che una squadra d’assalto sfondasse la porta per catturarlo. Aveva giurato a se stesso che non l’avrebbero mai preso vivo. Piuttosto si sarebbe sparato alla testa. Con il are dei minuti era giunta la notizia che la squadra d’assalto sembrava essere composta solo da due persone. I guerriglieri che gli avevano assegnato per la sua protezione erano partiti all’inseguimento. Forse gli americani avevano mandato solo due uomini a causa delle restrizioni imposte dal governo pakistano. Sperava che li catturassero vivi per poterli interrogare. In ogni caso

entro breve avrebbe dovuto fuggire dal villaggio e trovare un nuovo nascondiglio, anche se oramai era sicuro che i suoi nemici l’avrebbero scovato ovunque. “Omar, sono Samir.” Hassan andò ad aprire la porta. “Che novità ci sono?” chiese impaziente. “I guerriglieri hanno ucciso due intrusi. Ora però dobbiamo andare via, potrebbero essercene degli altri.” “Sì, anche se dubito che abbiano mandato altri uomini. Se così fosse, ci sarebbero già addosso. Probabilmente non hanno neanche coinvolto i pakistani perché non si fidano di loro. Ma di questo non possiamo essere sicuri. È necessario partire prima possibile. Sicuramente ci sarà un aereo spia sulle nostre teste. Occorre depistarli per riuscire a fuggire e mi è venuto in mente un modo. Chiamami il capo dei guerriglieri.” “Agli ordini” disse con enfasi Samir, compiaciuto dal fatto che il suo comandante sembrava aver ritrovato improvvisamente la sua calma riflessiva. Forse questo attacco era proprio quello di cui aveva bisogno per ritrovare lo spirito combattivo.

Base militare americana, Bagram (Afghanistan)

Le immagini fornite dall’aereo di sorveglianza mostravano tre fuoristrada mentre percorrevano una strada di montagna che scendeva a valle. Su ogni mezzo viaggiavano quattro uomini; uno di questi era uscito dalla casa che era sotto osservazione scortato e con il volto coperto da una sciarpa, quindi non era stato possibile identificarlo. Griffin era comunque sicuro che si trattasse di Hassan. Cox e Foster, invece, erano stati giustiziati. “Signore, due elicotteri militari in avvicinamento. Deve essere la cavalleria pakistana” lo informò Lopez, uno dei suoi sottoposti.

“Bene, stiamo a vedere che succede” gli rispose Griffin. Osservarono gli elicotteri effettuare un paio di aggi a bassa quota sui tre fuoristrada e poi videro i mezzi fermarsi senza opporre resistenza. Gli elicotteri atterrarono e ne discesero dei soldati che circondarono i tre veicoli. Gli occupanti cominciarono a uscire con le mani alzate. Tutti gli uomini nella sala operazioni esultarono, tranne Griffin. “Signore, lo hanno preso. Non è felice?” chiese Lopez. “È stato tutto troppo facile. Non hanno neanche opposto resistenza.” “Avevano contro due elicotteri pieni di soldati armati fino ai denti. Non c’era partita e l’hanno capito subito.” “Quelli sono dei fanatici. Preferirebbero morire piuttosto di essere catturati.” Le affermazioni di Griffin spensero l’entusiasmo e tutti rimasero in silenzio continuando a osservare lo schermo. Una volta che i tre fuoristrada vennero svuotati, tutti si accorsero che le persone catturate erano nove anziché dodici. “Ma dove diavolo sono gli altri tre?” chiese sconcertato Lopez. Griffin rimase in silenzio, ma aveva capito tutto. Sapeva che in mezzo a quegli uomini non ci sarebbe stato Hassan. Dopo qualche minuto arrivò la conferma da parte delle forze pakistane che avevano attuato il raid contro i fuoristrada. Tra le persone catturate non c’era traccia di Hassan. Lopez sferrò un pugno sulla scrivania. “Ma cosa cazzo è successo? Qualcuno me lo spieghi per favore” chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare. “È successo che siamo stati fregati” rispose Griffin. “Che significa?” “Ricordi quando i tre fuoristrada sono entrati in quella galleria?”

“Sì, me lo ricordo.” “È lì che Hassan è riuscito a fuggire. I veicoli devono aver rallentato abbastanza per permettere ad Hassan di lanciarsi in corsa.” “Che il diavolo se li porti! Spostiamo l’aereo di sorveglianza in prossimità della galleria e cerchiamoli.” “Sarà difficile trovarli. A quest’ora chissà dove possono essere nascosti.” Griffin si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi, sentendo che una pesante stanchezza si era impossessata di lui. Aveva capito esattamente come erano andate le cose, anche se troppo tardi. Hassan e Samir avevano approfittato della galleria per saltare dal fuoristrada. Latif era sceso dal secondo veicolo per fare da guida attraverso le insidiose montagne, conducendoli infine in un rifugio sicuro. Nel frattempo i fuoristrada avevano continuato a procedere senza che nessuno si accorgesse di niente. Griffin avrebbe voluto stendersi su un letto e farsi una dormita, ma prima doveva informare il Presidente Bailey del fallimento totale dell’operazione. Si avviò verso il suo ufficio consapevole che la sua carriera avrebbe subito un brusco arresto.

Islamabad (Pakistan) 7 dicembre 2015

Non era mai stato nella moschea di Shah Faisal e ne rimase molto colpito. Si era lasciato affascinare dalla sua particolare forma che ricordava una tenda beduina, circondata ai quattro angoli da altrettanti minareti alti ottantacinque metri che terminavano a punta, come lance rivolte verso il cielo. La sua costruzione era stata sovvenzionata da re Faisal, regnante dell’Arabia Saudita, negli anni ottanta. I lavori erano terminati nel 1986, facendone una delle moschee più grandi al mondo. Omar Abdallah Hassan stava percorrendo l’interno della moschea accompagnato dal fedele Samir, anche lui molto colpito dalla bellezza dell’edificio di culto. La

prossima preghiera sarebbe cominciata tra due ore, quindi la moschea era vuota. Hassan aveva un appuntamento con il comandante delle forze armate pakistane, il generale Zeshan Aslam. Il leader del JOA si trovava da pochi giorni nella capitale del Pakistan, la tappa finale della fuga iniziata una settimana prima dalle montagne del Waziristan. Lui e Samir si erano spostati sempre di notte, rimanendo nascosti di giorno. Erano stati accompagnati da alcuni guerriglieri che avevano svolto le funzioni di guida e di scorta sostituendo Latif. Dopo qualche giorno, uno dei guerriglieri lo aveva informato che ci sarebbe stato un avvicendamento nella squadra di scorta. Il nuovo gruppo, composto da tre uomini, era capeggiato da un certo Reis. Aveva detto di essere stato mandato da un importante generale pakistano con l’ordine di fargli raggiungere Islamabad sano e salvo. Aveva continuato promettendo che, una volta arrivati nella capitale, avrebbe ricevuto protezione dai suoi nemici. Hassan non si era fidato completamente di quell’uomo. Era alto e piuttosto magro, con una carnagione scura quasi priva di peli. Quello che aveva colpito Hassan erano i grandi occhi neri che sembravano privi di espressione. Una volta arrivati nella capitale pakistana, Reis aveva sistemato Hassan e Samir in un luogo sicuro perché potessero riprendersi dal lungo viaggio. Dopo due giorni era tornato per informarli che Aslam desiderava incontrarlo. Ed eccolo lì, Zeshan Aslam, fermo al centro della struttura, con le mani intrecciate dietro la schiena. Hassan continuò a camminare verso l’uomo, sentendo con i piedi nudi il contatto con il morbido tappeto che ricopriva il pavimento. Aslam era un uomo di cinquant’anni in evidente sovrappeso, con la pelle olivastra e le labbra carnose. Gli unici capelli rimasti si trovavano intorno alle orecchie e dietro la nuca. Indossava un largo camicione bianco e dei pantaloni dello stesso colore. Doveva pesare almeno centoventi chili, stimò Hassan. Si voltò verso Samir e ne osservò per un attimo il fisico snello e muscoloso. Per poco non gli venne da ridere quando tornò a posare il suo sguardo sul generale, ma rammentò che sotto quel corpo sformato c’era un uomo che gli aveva dato un rifugio sicuro lontano dai suoi nemici. Era curioso di conoscere il motivo per cui l’aveva fatto convocare. Arrivato a una ventina di metri dal pakistano, fece cenno a Samir di fermarsi; voleva avvicinarsi da solo. “Che la pace del Signore sia con te” salutò per primo Aslam con un ampio sorriso.

“Che la misericordia di Allah e le sue benedizioni siano su di te” rispose Hassan abbracciando il pakistano e baciandolo tre volte sulle guance. “Sono contento che tu sia sfuggito agli americani.” “Mi fa piacere che tu pensi questo, ma senza il tuo aiuto non sono sicuro che avrei potuto farcela.” “Con le tue capacità te la saresti cavata comunque” rispose Aslam con fare mellifluo. “Forse, ma voglio ringraziarti ugualmente.” “Non hai bisogno di ringraziarmi. Non potevo permettere che gli americani ti catturassero. Io ammiro molto quello che hai fatto fino a ora, anche se, come sicuramente capirai, non posso ammetterlo pubblicamente.” “Certo che capisco. La tua stima è per me una fonte di gioia” affermò Hassan con tono adulatorio. Aslam annuì con la testa facendosi serio. Sulla sua fronte erano già comparse delle gocce di sudore. Cominciarono a eggiare lentamente all’interno della moschea. “Immagino che ti sia chiesto perché ti ho convocato questa mattina” esordì il pakistano tirando fuori un fazzoletto dalla tasca del pantalone. Ottimo, pensò Hassan. La fase dei convenevoli era finita. “Ovviamente sì, caro Zeshan.” “Ormai sono più di trent’anni che sono nell’esercito e si può dire che ho visto di tutto. La storia recente del mio Paese è stato un alternarsi di dittature militari e tentativi di ritorno alla democrazia. In tutto questo io sono sempre stato al mio posto, confidando che la situazione migliorasse. Essendo un militare, ho riposto molte speranze in Musharraf quando ha preso il potere, ma sono stato deluso anche da lui. Poi siamo tornati alla democrazia e guardandomi intorno vedo che nulla è cambiato. La corruzione dilaga e la popolazione sta sempre male.” Hassan annuì silenziosamente invitandolo a proseguire, mentre Aslam si

asciugava la fronte con il fazzoletto. “Oltre a tutto questo, c’è il fatto che da molti anni siamo diventati il fedele cagnolino degli Stati Uniti. Il Paese è dipendente dagli aiuti economici che ci forniscono ogni anno e per questo siamo diventati la prostituta che gli permette di fare i loro comodi.” “Però siete riusciti a firmare il trattato che gli impedisce di mettere piede nel vostro territorio se non invitati.” “Già, ma come hai sperimentato di persona gli Stati Uniti fanno quello che gli pare. Dopo l’assassinio di quei poveri bambini, ho faticato parecchio convincere il Presidente Rehman a prendere una posizione netta. Anche se il suo incarico è puramente rappresentativo, è molto amato dalla popolazione. Dopo le parole di Rehman, il governo ha deciso di obbligare gli Stati Uniti a firmare il trattato. Ovviamente gli americani davanti al mondo non potevano rifiutare, ma dietro le quinte gli aiuti economici che ci forniscono sono già calati drasticamente. Rehman si è pentito di essersi schierato contro i suoi padroni e vorrebbe tornare a farsi bello davanti a loro.” “E immagino che la mia cattura possa aiutare il Presidente nell’intento.” “Immagini bene. Ha sguinzagliato le forze armate in tutto il Paese per catturarti e consegnarti agli americani. Fortunatamente ho dei contatti nel Waziristan che mi hanno permesso di trovarti prima di lui. Quando ho saputo che eri riuscito a sfuggire alla cattura da parte delle nostre forze, mi sono subito attivato per soccorrerti.” “Non posso fare a meno di ringraziarti ancora una volta” affermò Hassan chinando il capo in segno di rispetto. “Qui a Islamabad ti farò proteggere. Rehman non immagina che tu sia a due i da lui.” “Se permetti mi pare una scelta un po’ rischiosa. Prima o poi riuscirà a trovarmi.” “Questo è vero. Ecco perché ora ti svelerò il motivo per cui ti ho chiesto di incontrarci.”

Aslam prese una breve pausa per rifiatare. “Se continua così le cose non potranno che peggiorare. Dopo Rehman ne arriverà un altro come lui e il Pakistan continuerà a essere lo schiavo degli americani mentre la sua gente morirà di fame. Ho deciso di prendere in mano la situazione prima che sia troppo tardi e tu puoi aiutarmi in tutto questo.” “Sono curioso di sapere in che modo.” “Ho intenzione di creare un grande Pakistan che segua fedelmente la parola di Allah e che sia in grado di allontanare gli infedeli dal Medio Oriente. Voglio un Pakistan che sia di esempio agli altri Stati musulmani e che gli dia la forza di ribellarsi.” “Queste parole sono musica per le mie orecchie. Vedo con piacere che abbiamo degli obiettivi comuni.” “Esattamente. Per fare questo ho bisogno di governare il Paese e il primo o per farlo è eliminare il Presidente Rehman.” Hassan sospirò deluso. Non era quello che si aspettava. “Quindi, caro Zeshan, tu mi hai convocato per aiutarti a uccidere Rehman e farti conquistare il potere?” “Oh no, non si tratta di questo” si affrettò a chiarire il pakistano intuendo la delusione di Hassan. “Sono in grado di eliminarlo in qualsiasi momento. Dalla mia parte ho forze sufficienti che mi permetterebbero di prendere il controllo del Pakistan anche domani. Non è così però che deve succedere. Ho bisogno che il popolo sia dalla mia parte e perché ciò avvenga tutto deve succedere secondo uno schema preciso. È per questo che ho bisogno della collaborazione tua e dei tuoi uomini.” “E quale sarebbe il compito del JOA in tutto questo?” Aslam sorrise ampiamente al suo interlocutore prima di rispondere. “Semplicemente quello in cui siete bravi. Uccidere gli infedeli.”

CAPITOLO 3

Regione Provence – Alpes – Côte d’Azur (Francia), 14 maggio 2016

Mandhur guidava la sua auto tenendo il braccio sinistro fuori dal finestrino mentre l’aria che proveniva dall’esterno scompigliava i suoi riccioli. Con la mano destra reggeva il volante, rimanendo attento a non superare i limiti di velocità. Non voleva correre il rischio di farsi fermare dalla polizia, cosa che avrebbe rischiato di rovinare i suoi programmi. La strada scorreva sotto i suoi occhi seguendo i lineamenti della costa. Il mare risplendeva sotto il sole in una splendida giornata di maggio, con una temperatura di appena qualche grado sopra la media stagionale. L’auto di Mandhur venne sorata da un veicolo che stava dietro di lui da un po’ di tempo. L’autista lo fissò con uno sguardo cupo, lasciando chiaramente trasparire il fastidio dovuto al fatto che la strada stretta non aveva permesso prima il soro. Per tutta risposta, Mandhur sfoderò un caloroso sorriso. Quel tizio poteva anche andare a schiantarsi da qualche parte, per quello che lo riguardava. Frugò nella tasca della camicia alla ricerca di una caramella. Ne trovò una al limone e dopo averla scartata rapidamente la infilò in bocca. Dopo qualche minuto, mentre il gusto di limone era ancora forte sulla lingua, individuò il punto in cui doveva svoltare. Azionò la freccia a destra e svoltò tranquillamente immettendosi in un’altra strada. Controllò l’orologio che aveva al polso e constatò che era in anticipo rispetto alla tabella di marcia. Mancava circa un quarto d’ora alla sua destinazione, un piccolo aeroporto privato dove lo attendeva un aereo.

In navigazione al largo delle coste si

Il sole riscaldava la sua pelle mentre una leggera brezza marina gli soffiava sul viso. Il profumo di mare inebriava le sue narici. Raccolse le mani dietro la nuca e il movimento fece scricchiolare leggermente il lettino su cui era sdraiato. Osservò il cielo azzurro senza riuscire a scorgere neanche una nuvola. Raffaele Aiello trasse un lungo sospiro di compiacimento. Quella sì che era una vacanza, dopo quasi un anno ininterrotto di lavoro, escludendo tre giorni di ferie a Natale. Lavorava negli uffici amministrativi di un’importante banca e di tempo per rilassarsi riusciva a trovarne davvero poco. Si trovava sul decimo ponte di una nave da crociera che lo avrebbe portato a so nel Mediterraneo occidentale per una settimana. La nave, varata nel 2014, apparteneva a una compagnia statunitense che stava cercando di acquisire una fetta di mercato in Europa. Circa centotrentamila tonnellate di stazza e un sacco di divertimenti, come un parco acquatico dotato di scivoli e un campo da minigolf. Aiello aveva scovato la crociera su internet, per puro caso, appena una settimana prima. Il prezzo era decisamente allettante. Aveva deciso senza pensarci troppo di concedersi una settimana di ferie extra oltre alle classiche tre settimane ad agosto, quando ogni anno andava a far visita agli anziani genitori che vivevano in un paesino vicino a Salerno. Fortunatamente il suo capo ufficio non aveva fatto tante storie, considerando il breve preavviso che gli aveva dato. Per quanto riguardava sua moglie, invece, non c’erano stati problemi: lavorava in un ufficio postale e aveva settimane di ferie arretrate da fruire. Aiello osservò il proprio ventre, che negli ultimi cinque anni si era gonfiato costantemente. Da quando aveva ato i cinquant’anni aveva smesso di fare qualsiasi tipo di sport, arrivando a condurre una vita piuttosto sedentaria. Pensò con una punta di preoccupazione a quello che aveva sentito riguardo al mangiare durante una crociera. Un suo collega gli aveva detto che sulla nave si mangiava talmente tanto da ritrovarsi ingrassati di qualche chilo una volta terminata la vacanza. Tastandosi con una mano la carne flaccida sui fianchi, decise di non esagerare con il cibo, per non peggiorare ulteriormente la situazione. Posò lo sguardo su sua moglie Sara, che si trovava sul lettino alla sua sinistra. Al contrario di lui, la donna aveva un fisico ancora perfetto, a dispetto dei suoi quarantotto anni. Merito dell’attività in palestra, che frequentava due volte alla settimana e della sana alimentazione. La osservò mentre era concentrata nella lettura di un libro. Indossava il nuovo costume rosso a due pezzi, acquistato proprio in occasione della crociera. Il bancario pensò che sua moglie faceva

parecchi sforzi per mantenersi in forma, mentre lui si era lasciato andare. “Mamma, devo andare in bagno.” La voce di sua figlia interruppe i suoi pensieri. Cristina, di sei anni, aveva i capelli ricci color castano chiaro. Indossava un costumino rosa e un cappellino bianco in testa per ripararla dal sole. Sedeva sul lettino alla destra del padre, intenta a giocare con un videogioco portatile. “Ma non ci sei stata appena mezz’ora fa?” chiese la madre. “Sì, ma ci devo andare di nuovo” rispose candida la bambina senza staccare lo sguardo dal videogioco. “Questo è perché da stamattina ti sei già scolata almeno due litri di tè freddo.” “Avevo sete” si difese Cristina. “Tu non avevi sete. Sei solo una gran golosa. Se hai sete puoi bere acqua.” “Ma a me piace il tè.” “E invece per oggi berrai solo più acqua. Discussione chiusa. Dai andiamo” disse Sara alzandosi dal lettino. Cristina si alzò a sua volta e posò il videogioco sul suo lettino. “Ho messo in pausa. Non ci giocare tu, ok?” avvisò il padre. “No, tesoro. Prometto che non ci giocherò” rispose con un sorriso. Sara prese la figlia per mano e insieme si incamminarono verso il bagno più vicino. Appena le due si furono allontanate, una bellissima donna sui trent’anni sfilò davanti al lettino. Aiello si appoggiò allo schienale godendosi il bel fondoschiena della donna, fino a che non fu lontana. “Questa sì che è una vacanza” mormorò con un sorriso.

Regione Provence – Alpes – Côte d’Azur (Francia)

L’aereo era quello che aveva noleggiato una volta a settimana negli ultimi tre mesi. Era un piccolo monomotore da quattro posti di colore bianco. Come sempre, aveva firmato tutti i documenti necessari per il noleggio e aveva pagato una somma a titolo di cauzione. Mandhur terminò i controlli pre-volo e soprattutto si accertò che i serbatoi del velivolo fossero pieni. Quando fu pronto a partire chiese a Pierre, addetto alla torre di controllo, l’autorizzazione al decollo. Pierre autorizzò la partenza facendo a Mandhur gli auguri per un buon volo. L’aereo cominciò a muoversi sull’unica pista del piccolo aeroporto. Acquisì velocità fino a quando il muso si sollevò verso il cielo. Quando l’aereo fu alla quota giusta, Mandhur virò verso il mare aperto canticchiando allegramente una canzone se.

In navigazione al largo delle coste si

La folla che si era creata intorno al piccolo palco accolse con un applauso la fine della lezione di samba tenuta da uno degli animatori. I partecipanti erano stati una ventina, tra maschi e femmine, con un’età che variava tra i sei e i settant’anni. Anche la piccola Cristina aveva partecipato al ballo insieme alla madre, tentando di imitare goffamente i movimenti degli adulti intorno a lei. Il padre aveva ammirato con divertimento i suoi tentativi di compiere i i giusti, riprendendo tutto con una videocamera digitale. Si era anche procurato due bicchieri di acqua fresca che porse subito a sua figlia e sua moglie. “Grazie tesoro” rispose quest’ultima baciandolo sulle labbra. Cristina invece prese il bicchiere senza dire niente e lo svuotò immediatamente.

“E tu non lo dai un bacio a papà?” chiese Aiello abbassandosi. La bambina si asciugò la bocca con il dorso della mano e, dopo aver gettato le braccia intorno al collo del padre, gli diede un bacio sulla guancia. Aiello la prese in braccio e si sollevò in piedi. “Allora, ti sei divertita?” “Sì, papà. Secondo te ballo bene?” “Certo. Eri la più brava di tutte. Ho filmato tutto così più tardi ti puoi rivedere.” “Bene. Penso che da grande farò la ballerina.” “C’è ancora tempo per pensare cosa farai da grande. Adesso che ne dici se ci andiamo a fare ancora un giro sugli scivoli?” “Mi spiace ma ho altro da fare” rispose la bambina facendo capire di volere essere messa a terra. “E che cos’è che dovresti fare?” chiese il padre facendola scendere. “Devo andare con la mamma a farmi bella per stasera.” “Cominciamo a scendere in cabina, così ci prepariamo per la cena” aggiunse Sara. “Se sono appena le sei e mezza!” protestò Aiello. “Ma stasera c’è la cena elegante. C’è anche il capo della nave” disse la bambina come se il padre non sapesse una cosa ovvia. “Si dice comandante, non capo della nave. Tu che fai, Raf? Vieni giù con noi?” “No, non ho voglia di scendere già in cabina. Voglio fare ancora qualche ripresa con la videocamera.” “Ok, ma non fare tardi. La cena inizia alle 19.45.” “Stai tranquilla. A me basta un quarto d’ora per preparami.”

“Ciao papà” salutò Cristina tenendo la mano della madre. “Ciao piccola. A dopo” rispose Aiello guardando le due donne della sua vita che si allontanavano.

In quota sopra il mare aperto

Attraverso le lenti degli occhiali da sole, Mandhur individuò la nave che stava cercando. Prima di partire aveva visitato il sito internet della compagnia di crociere utilizzando il suo tablet. Sul sito era possibile conoscere la posizione esatta di tutta la flotta della compagnia in tempo reale. Negli ultimi due mesi aveva tenuto d’occhio gli spostamenti di una nave in particolare e ci aveva perfino viaggiato sopra per poterla studiare. Doveva ammettere che si era pure divertito, a parte il fatto di dover condividere lo stesso spazio con centinaia di flaccidi eggeri americani. Essendo la nave partita da Genova, a bordo c’erano anche numerosi italiani, molto chiassosi e festaioli. A dire la verità, non aveva sopportato neanche loro. Aveva apprezzato decisamente di più i sobri eggeri tedeschi. La distanza tra l’aereo e la nave si stava riducendo rapidamente. Era il momento di scendere di quota. Mandhur agì sulla cloche e l’aereo cominciò a scendere verso il mare. A poco più di un miglio dalla nave il muso del monomotore era allineato con la fiancata destra dell’imbarcazione. Mandhur spense il trasponder e la radio di bordo. Cominciò a recitare una breve preghiera sperando di uccidere il maggior numero di infedeli possibile e raccomandando la sua anima ad Allah.

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In plancia, il comandante della nave Carlos Perez aveva dato le ultime raccomandazioni al secondo ufficiale, prima di andare a prepararsi per la cena di

gala. Per la verità, are le consegne era stato semplice, in quanto il mare era calmo, il tempo ottimo ed erano in perfetto orario. Stava per uscire dalla plancia quando la voce del timoniere lo fece arrestare. “Ma che diavolo sta facendo quell’aereo?” Il comandante e il secondo ufficiale si avvicinarono al timoniere per osservare meglio la scena. “Forse ha problemi con l’altimetro” azzardò il timoniere. “Anche se fosse, sarebbe impossibile non vederci” rispose il secondo ufficiale. “Per me vuole farci prendere uno spavento” ipotizzò un altro degli ufficiali. “No, signori. Quello ci sta venendo addosso!” esclamò il comandante. Tutti in plancia rimasero senza parole, troppo increduli per riuscire a muoversi. “Trovatevi un riparo, cazzo!” urlò il comandante al suo equipaggio, tuffandosi a terra.

Aiello, appoggiato alla balaustra, stava riprendendo la costa se con la sua videocamera quando, all’improvviso, vide un aereo abbassarsi bruscamente. Diverse altre persone si fermarono accanto a lui per osservare la manovra del velivolo. Nel resto della nave, i eggeri continuavano le loro attività, ignari ancora di quello che stava per succedere. Con il are dei secondi, l’aereo si avvicinò sempre di più all’imbarcazione. “Quell’aereo è troppo basso” osservò un eggero. “Forse sta cercando di ammarare” ipotizzò un altro. “Non lo farebbe mai sulla rotta della nave.” “E se avesse perso il controllo?” Aiello continuò a riprendere l’insolita scena con la videocamera, sicuro di aver

trovato dell’ottimo materiale da fare vedere agli amici una volta tornato a casa. Nel frattempo, sempre più persone si stavano affacciando alle balaustre della nave, affollando tutti i ponti della fiancata destra. Dopo qualche istante, i primi eggeri cominciarono a capire che l’aereo era diretto verso la nave e fu quello il momento in cui si scatenò il panico. “Oddio, sta venendo verso di noi!” “Scappiamo!” Una massa di gente cominciò a spostarsi verso la fiancata sinistra dell’imbarcazione. Molti tentarono di rientrare all’interno. Urla isteriche si levarono tra la folla, dove qualcuno cadde a terra venendo calpestato. Aiello non riusciva a muoversi, pietrificato dalla paura. L’unica cosa che riusciva a fare era continuare a riprendere la scena con la videocamera. In breve l’aereo fu a pochi metri dalla nave, pronto a scatenare l’inferno.

Mandhur era arrivato alla fine della sua missione. Ancora pochi istanti e avrebbe raggiunto il paradiso. L’aereo era a una decina di metri dalla nave. Si compiacque nel constatare il panico che stava dilagando a bordo. Vedeva i eggeri che fuggivano da tutte le parti. Chiuse gli occhi un attimo prima dell’impatto. “Allah è grande” furono le sue ultime parole.

L’aereo si schiantò contrò alcune cabine del ponte otto, a circa trenta metri di distanza dalla plancia di comando. L’esplosione creò una palla di fuoco che distrusse interamente quattro cabine del ponte otto e danneggiò altre cabine dei ponti sette e nove. Una coppia di sposini in viaggio di nozze in quel momento si trovava in una di quelle cabine distrutte. I loro corpi vennero disintegrati all’istante. Una cameriera, che in quel momento stava camminando nel corridoio, venne colpita da un pezzo di elica che le tranciò la testa di netto. Due anziane signore americane vennero bruciate vive dalla fiammata sviluppata

nell’esplosione. Agonizzarono per una ventina di secondi prima di smettere di soffrire. Al momento dell’impatto morirono sul colpo otto persone, senza contare i feriti. Immediatamente, il cherosene presente nel serbatoio del velivolo prese fuoco, provocando incendi ai ponti sette, otto e nove. Dal grande squarcio creatosi dopo l’impatto, fuoriuscirono lingue di fuoco e una colonna di fumo grigio si levò in cielo, mentre nel frattempo la nave continuava a scivolare sull’acqua alla velocità di tredici nodi.

Raffaele Aiello si ritrovò sdraiato su un fianco sopra i lucidi listelli in legno del ponte dieci, a un paio di metri di distanza dalla balaustra dalla quale pochi istanti prima aveva osservato l’impatto dell’aereo. Si rialzò a fatica, accorgendosi che la testa gli faceva male. Toccò la fronte e sentì immediatamente le dita appiccicose. Osservandole si accorse che c’era del sangue, cosa che gli fece realizzare di essersi ferito quando era stato proiettato a terra dall’onda d’urto dell’esplosione. Intorno a lui era il caos. Ovunque c’erano persone che si aggiravano per il ponte senza sapere cosa fare. A terra giacevano alcuni eggeri con piccole ferite come lui. Spostò lo sguardo verso il punto di impatto e vide la colonna di fumo proveniente dal basso che si arrampicava verso il cielo. Si avvicinò alla balaustra ando davanti a una donna che stava cercando di consolare un bambino in lacrime. Quando vi arrivò, lo spettacolo che si ritrovò davanti lo lasciò sgomento. Da qualche parte in mezzo a quelle fiamme c’era la cabina dove si trovavano sua moglie e sua figlia. Si voltò di scatto e con lo sguardo individuò le scale più vicine. Doveva scendere fino al ponte otto per raggiungere la sua cabina. Cominciò a correre facendosi largo tra la gente fino a quando raggiunse la rampa di scale. Sotto i suoi piedi sentiva lo scricchiolio dei vetri di una porta scorrevole andata in frantumi. Mentre stava per imboccare la rampa si sentì afferrare per un braccio. Si voltò e vide un anziano signore in preda al panico e con il volto ricoperto di sangue. “Mi aiuti! Mi aiuti!” piagnucolò. Aiello avrebbe voluto dargli una mano ma non poteva farlo. Doveva prima trovare la sua famiglia. A malincuore si divincolò dalla stretta dell’anziano. “Mi spiace, non posso aiutarla.”

Scese dalle scale continuando a sgomitare tra la gente impaurita. Riuscì a fatica a raggiungere il ponte otto e la prima cosa che notò furono le ventate di calore che provenivano dal corridoio. Una cinquantina di metri sulla sua destra vide le fiamme. Era quella la direzione che portava alla sua cabina. Mentre si avvicinava, notò che due camerieri stavano tentando di spegnere l’incendio utilizzando un paio di estintori. I loro sforzi erano sostenuti da una serie di spruzzatori posizionati sul soffitto che irroravano l’area con getti di acqua nebulizzata, ma il fuoco era troppo forte. Cercò di orientarsi controllando i numeri impressi sulle porte delle cabine. Si accorse che per trovare la sua famiglia era necessario addentrarsi nella zona invasa dalle fiamme. Mentre si stava avvicinando all’incendio, uno dei due camerieri posò l’estintore a terra e gli piazzò una mano sulla spalla. “Ma che fa? Non vede il fuoco?” “Laggiù c’è la mia famiglia!” rispose Aiello. Il cameriere tolse la mano dalla spalla, capendo all’istante che non avrebbe potuto impedire a quell’uomo di rischiare la propria vita. “D’accordo. Ma prenda questo” disse porgendogli l’estintore. Deve solo indirizzare la manichetta e premere la leva. “Grazie.” Prese l’estintore e si addentrò tra le fiamme. Subito venne colpito da un attacco di tosse a causa del fumo. Proseguì controllando i numeri impressi sulle porte alla ricerca di quella giusta. Dopo pochi i un pezzo di soffitto crollò sopra di lui, ma fu svelto a scansarlo scartando di lato. Spaventato, riprese a camminare e, superate altre tre porte, trovò quella che cercava. Le fiamme avevano già aggredito l’architrave, ma il numero era ancora riconoscibile. Puntò l’estintore e tirò la leva. Una nuvola di polvere bianca uscì dalla manichetta e attaccò le fiamme. Aiello non rilasciò la leva fino a quando non sentì tossire gli ultimi residui di polvere. Le fiamme si erano estinte. Provò ad azionare la maniglia ma si accorse che la porta era chiusa. Sollevò l’estintore e con esso colpì la porta all’altezza della serratura. Il colpo fu violento ma ce ne volle un altro per sfondarla completamente. Entrò in cabina pregando Dio di ritrovare la sua famiglia sana e salva.

Il comandante Perez si rialzò da terra ancora in stato confusionale. Il rumore dell’esplosione era stato piuttosto forte e l’onda d’urto aveva fatto esplodere diverse vetrate della plancia, spargendo centinaia di schegge a terra. Si guardò intorno per cercare di capire se ci fosse qualche ferito. “State tutti bene?” chiese. Arrivò un coro di sì che gli confermò l’incolumità dei suoi uomini. Perez scosse la testa per un attimo, ancora incredulo di quello che era appena successo. Un attimo prima il suo unico pensiero era godersi una cena in santa pace e bere qualche bicchiere di buon vino. Ora doveva gestire la complicata emergenza di un incendio a bordo con la possibilità che fosse già morta della gente. Solo un rapido intervento poteva scongiurare altre vittime. Inoltre, in base all’estensione dell’incendio si prospettava l’ipotesi di abbandonare la nave. Non c’era un secondo da perdere. “Garrison, manda immediatamente la squadra antincendio sul luogo dell’impatto. Nel frattempo qualcuno contatti le autorità si per informarle dell’accaduto. Preparateli a un possibile abbandono della nave” ordinò il comandante. “Agli ordini” gli venne risposto. “Mike, io e te andiamo a constatare il danno che ha subito la nave” disse rivolto al secondo ufficiale. “D’accordo.” Prima di uscire dalla plancia Perez fece un’ultima raccomandazione. “Mandate tutto il personale disponibile a radunare e rassicurare i eggeri. L’eventuale abbandono della nave deve avvenire in perfetto ordine. Non voglio scene di panico.”

“Sara! Cristina! Dove siete?” chiamò Aiello appena entrato nella cabina.

“Siamo qui, Raf” rispose la moglie. Era nascosta dentro l’armadio insieme a Cristina. Uscirono circospette dal loro nascondiglio, entrambe erano terrorizzate e con il volto rigato dalle lacrime. Aiello appoggiò a terra l’estintore e si avvicinò alla sua famiglia. “Papà!” lo chiamò disperata la bambina. “Sono qui, tesoro” la rassicurò chinandosi a terra. Avvolse sua moglie e sua figlia in un unico grande abbraccio. “State bene?” “Abbiamo sentito una botta tremenda e sono scoppiati i vetri della finestra” raccontò Sara. Aiello lanciò un rapido sguardo a quello che rimaneva della porta in vetro che conduceva sul balcone. I frammenti ricoprivano il pavimento e il letto. “Abbiamo provato a uscire dalla camera, ma quando ho aperto la porta abbiamo visto le fiamme nel corridoio. Siamo tornate dentro e ci siamo nascoste nell’armadio. Avevo paura, non sapevo cosa fare. Forse avrei potuto scappare lo stesso attraverso le fiamme ma ero terrorizzata. Scusa io...” La voce le si ruppe in gola e cominciò a piangere, subito imitata dalla bambina. “Ehi, non preoccuparti. Ora ci sono io. Vi porterò in salvo. Ok?” Sara annuì con le lacrime al volto, incapace di pronunciare anche solo una sillaba. “Aspettate un momento qui.” “Dove vai?” chiese preoccupata Cristina. “Prendo solo una cosa. Stai tranquilla.” Si alzò ed entrò velocemente nel bagno. Aprì il rubinetto del lavandino e prese tre asciugamani bianchi con il logo della compagnia ricamato sopra. Li mise sotto l’acqua bagnandoli completamente. Dopo averli strizzati uscì dal bagno.

“Ora dobbiamo uscire nel corridoio e attraversare la parte in fiamme. Siccome c’è molto fumo, dobbiamo coprirci il naso e la bocca con questi asciugamani bagnati.” Ne diede uno a Cristina e uno a Sara. “Bene. Ora usciamo da questa cabina.” Aprì la porta e sbirciò nel corridoio. Nel poco tempo che era stato dentro la cabina, le fiamme si erano sviluppate prepotentemente, nonostante gli sforzi dei due camerieri per tentare di spegnerle. Comunque la via era abbastanza sgombra da potergli permettere di raggiungere la zona non ancora attaccata dalle fiamme, si trattava di percorrere solo qualche decina di metri come aveva fatto poco prima. “Dai, uscite fuori.” Sara uscì dalla camera tenendo la mano di Cristina. Con la mano libera reggevano l’asciugamano bagnato sul volto. Quando videro il corridoio in fiamme, si arrestarono immediatamente. “Non abbiate paura. Io sono ato poco fa proprio da lì.” La voce giungeva ovattata a causa dell’asciugamano che aveva sulla bocca. I tre si incamminarono lentamente attraverso il corridoio. Dopo una decina di i, Aiello sentì uno scricchiolio provenire dall’alto e capì giusto in tempo cosa stava per accadere. “Attente” urlò lasciando cadere l’asciugamano. Spinse indietro la moglie e la figlia poco prima che una considerevole porzione di soffitto crollasse a terra, producendo una fiammata. Cristina e sua madre lanciarono un grido soffocato dall’asciugamano. Aiello si voltò e constatò immediatamente che da lì non si poteva più are senza diventare una torcia umana. Il corridoio era ostruito da un muro di fiamme. Dall’altro lato l’incendio era già troppo sviluppato. “Torniamo in cabina.”

Rientrarono velocemente e richio la porta. “E adesso che facciamo?” chiese disperata Sara. Il marito rimase un attimo a riflettere prima che lo sguardo cadesse sull’estintore che aveva lasciato a terra. “C’è un altro modo. iamo dai balconi.”

Il comandante Perez procedeva verso il luogo d’impatto dell’aereo, seguito dal secondo ufficiale. Avrebbe voluto correre più veloce che poteva ma sapeva benissimo che sarebbe stata una cosa sbagliata da fare. La vista del comandante che correva per la nave avrebbe rischiato di gettare nel panico i eggeri, già piuttosto scossi. Decise di proseguire camminando normalmente. Con la mente che viaggiava alla velocità della luce, vagliando tutte le procedure d’emergenza, si ritrovò davanti a una rampa di scale al ponte sei. Un gruppo di eggeri stava assediando due membri dell’equipaggio, nel tentativo di ottenere delle risposte su quello che era accaduto. Uno dei viaggiatori si accorse dell’arrivo dei due ufficiali in divisa bianca. “C’è il comandante” disse indicando Perez con un dito. Subito il gruppo di persone focalizzò l’attenzione sul comandante Perez, tempestandolo di domande. “Cosa è successo?” “Cosa dobbiamo fare?” “La nave sta affondando?” Perez non aveva tempo per fermarsi a lungo e dare risposte. Fece un profondo respiro, nel tentativo di sembrare tranquillo. “Per favore, un attimo di calma” disse ad alta voce, tenendo entrambe le mani aperte e protese in avanti.

La folla si zittì in attesa di risposte dal comandante. “A quanto pare un piccolo aereo si è schiantato sulla nostra nave. Io e il secondo ufficiale stiamo andando a verificare i danni subiti. La nave non rischia di affondare quindi per il momento tornate nelle vostre cabine. Se ci fosse la necessità di abbandonare la nave vi informeremo in modo da iniziare ordinatamente la procedura.” Senza aggiungere altro fece cenno al collega di proseguire. Si fecero largo tra il gruppo di eggeri ammutoliti. Imboccarono la rampa di scale cominciando a salire i gradini che portavano ai piani superiori.

Erano tutti e tre sul balcone della loro cabina, dove potevano finalmente respirare più liberamente. All’interno il fumo si era già insinuato prepotentemente, rendendo la respirazione quasi impossibile. La piccola Cristina continuava a tossire a causa della grande quantità di fumo inalato. Raffaele Aiello doveva uscire da quella situazione prima possibile. Si avvicinò alla paratia in plexiglass che separava il balcone da quello della cabina a fianco. Prima di uscire aveva raccolto l’estintore vuoto. “Allontanatevi” ordinò a Sara e Cristina. La moglie fece come gli era stato detto e, intuendo cosa voleva fare il marito, si accucciò a terra proteggendo la figlia con il proprio corpo. Aiello sollevò l’estintore e con esso colpì con forza la paratia. Dopo una serie di colpi violenti riuscì ad abbatterla e liberare il aggio. Guardò davanti a sé. Cercò di calcolare mentalmente quanti balconi avrebbe dovuto superare per trovarsi fuori dal raggio d’azione delle fiamme. Dopo qualche istante stimò che quattro potevano essere sufficienti. “Ragazze, rimanete qua ancora per un po’. Io devo spaccare ancora qualche paratia, così potremo entrare in una stanza dove non è ancora arrivato il fuoco.” “Va bene. Attento a non farti male.”

“Stai tranquilla.” Superò la paratia appena distrutta calpestando pezzi di plexiglass sparsi sul pavimento in legno. Riuscì a distruggere tre paratie prima di arrivare ansimando sul balcone che aveva individuato. La porta finestra della cabina era chiusa dall’interno. Cercò di capire se fossero presenti delle persone che avrebbero potuto aprirgli, evitandogli di sfondare il vetro. Non fu fortunato, quindi si preparò per l’ennesimo sfondamento. Sollevò l’estintore e colpì violentemente il vetro, accorgendosi subito che era più resistente di quello delle paratie. Si formarono delle crepe ma non cedette. Dovette colpire ancora due volte prima che andasse in frantumi. Posò a terra l’estintore e infilò la mano all’interno per cercare la maniglia della porta. I muscoli delle braccia gli facevano male a causa dello sforzo di reggere l’estintore. Azionò il chiavistello e tirò la maniglia aprendo la porta. Posizionò davanti il fedele estintore per evitare che si richiudesse, subito dopo tornò indietro per recuperare la sua famiglia. “Andiamo ragazze, ho aperto la strada. Fate attenzione ai frammenti per terra.” “Stai sanguinando” osservò Sara accorgendosi solo in quel momento del taglio sulla fronte. “Non è niente. Facciamo in fretta” replicò sbrigativo. Prese in braccio Cristina, che a causa della paura non aveva più detto una parola, mentre Sara si incamminò dietro il marito. Entrarono nella cabina deserta e si avvicinarono subito alla porta. Aiello posò a terra Cristina e la affidò alla madre. Aprì con cautela la porta e sbirciò fuori. Con immenso piacere costatò che i suoi calcoli erano giusti, in quella zona l’incendio non era ancora troppo sviluppato. Chiamò la famiglia e insieme uscirono nel corridoio. Mentre si allontanavano dalle fiamme arrivò la squadra antincendio. Erano quattro uomini che indossavano delle tute protettive fatte di materiale ignifugo. Uno di loro stringeva in mano un idrante. Gli altri tre si precipitarono a soccorrere i sopravvissuti. “Come state?” chiese uno di loro. “Stiamo bene” rispose Aiello con la faccia nera di fumo e rossa di sangue.

“Ora vi faccio accompagnare in infermeria.” L’uomo con l’idrante cominciò a sparare un potente getto d’acqua sulle fiamme. Aiello e la sua famiglia vennero affidati a un membro dell’equipaggio che aveva l’ordine di scortarli in infermeria. Guardò sua moglie e sua figlia, con i volti spaventati e sporchi di fuliggine. Non riuscì a trattenere le lacrime quando lo invase il pensiero che avrebbe potuto non rivederle mai più.

CAPITOLO 4

Porto di Marsiglia (Francia), 15 maggio 2016

Il comandante Perez, in plancia di comando, osservò malinconico la piccola imbarcazione che si avvicinava alla nave. Trasportava il pilota che li avrebbe condotti all’ormeggio nel porto. Con le mani raccolte dietro la schiena pensò a tutte le vittime che c’erano state. Fortunatamente il pronto intervento della squadra antincendio aveva permesso di ridurre il numero delle potenziali altre vittime. Grazie alla chiusura di una serie di porte stagne, l’incendio era stato isolato dal resto della nave. La squadra, lavorando duramente per diverse ore, era riuscita lentamente a domare l’incendio, fino a quando non aveva spento gli ultimi focolai. Perez era stato vicino a iniziare la procedura di abbandono della nave, ma quando si era accorto che l’incendio poteva essere spento aveva lasciato in sospeso l’ordine. Quando tutto era finito si era accordato con le autorità si per dirigere la nave verso il porto di Marsiglia. Una volta arrivati, avrebbero sbarcato tutti i eggeri. La loro crociera da sogno si era trasformata in un incubo. Mentre i primi raggi di sole filtravano attraverso i vetri della plancia, non riusciva a smettere di pensare a come potesse essere accaduta una cosa simile. Un errore umano gli sembrava poco probabile, quindi la cosa non poteva che essere stata fatta apposta. E allora perché? Si trattava di uno squilibrato o di terroristi organizzati? E se si trattava di terroristi, significava forse che avrebbero potuto ancora prendere di mira le navi da crociera? Una cosa del genere avrebbe costretto tutte le navi a dotarsi di armi antiaeree. Scosse la testa, ritenendo lo scenario inimmaginabile. “Pilota in plancia” lo riscosse la voce di uno dei suoi uomini. Non si era accorto

che aveva ato una decina di minuti come in uno stato di trance. “Buongiorno, capitano. Sono profondamente addolorato per quello che è successo” esordì il pilota. Perez si limitò a uno stanco accenno del capo e strinse la mano del pilota. “Le affido il comando della nave per la procedura di ormeggio” disse. Il pilota capì che non c’era nient’altro da dire. Doveva solo iniziare il suo lavoro.

Roma, abitazione di Nicholas Caruso

“Dai tesoro di papà, ancora una.” Nicholas Caruso allungò ancora una volta il piccolo cucchiaio verso sua figlia Silvia, che si muoveva ritmicamente sul seggiolone. La bocca era impiastricciata di pappa così come il bavaglino che portava legato al collo. La bimba prese in bocca il cucchiaio e deglutì metà del contenuto, facendo scivolare sul mento la rimanente metà. Caruso scosse la testa sconsolato, c’era più pappa sul bavaglino che nello stomaco di sua figlia. “Non scoraggiarti, è una cosa normale. Lo fanno tutti i bambini” lo consolò la moglie Sonia entrando in cucina. “Con te non si sbrodola così tanto.” “Forse devi solo affinare un po’ la tecnica.” “Sarà come dici tu” replicò poco convinto, pulendo la bocca di Silvia con un tovagliolo. Quando il faccino della bambina fu completamente ripulito, slegò il bavaglino che aveva bisogno di un urgente viaggio in lavatrice. Silvia continuava a muoversi allegramente sul seggiolone mentre sua madre si avvicinava allo scomparto delle pentole.

“Che ne dici se mangiamo qualcosa anche noi?” chiese al marito. “Sì, tutta questa fatica mi ha fatto venire un certo appetito.” “Povero il mio maritino. Carbonara o amatriciana?” “Carbonara.” “E carbonara sia.” Cominciando a pregustare il pranzo, Caruso prese il telecomando e accese la televisione. Non guardava il telegiornale dalla sera prima, quindi decise di sintonizzarsi su un canale che ne trasmetteva uno ventiquattro ore su ventiquattro. Si parlava della notizia del giorno, ovvero un piccolo aereo che si era schiantato su una nave da crociera al largo delle coste si. Alzò il volume della televisione per sentire meglio di cosa si trattava. Il bilancio finale era di quindici morti e cinquanta feriti, alcuni con gravi ustioni in tutto il corpo. Il conduttore affermava che non si era trattato di un incidente, ma di un atto di terrorismo. Il JOA aveva da poco rivendicato l’attacco, minacciando di colpire ancora. “Bastardi!” tuonò Caruso. “Ehi, Nick! Non davanti alla bambina” lo rimproverò immediatamente Sonia. “Hai ragione tesoro. Scusami.” La piccola Silvia aveva smesso improvvisamente di dimenarsi e si era messa a fissare il padre, percependo il cambiamento di umore. Sonia si avvicinò e le diede un bacio. “Credi che possano colpire un’altra nave?” chiese al marito. “Potrebbero. Ora bisognerà varare in fretta delle misure per difendere tutte le navi.” “Ci sarà sicuramente un’ondata di disdette nelle prenotazioni dei viaggi da parte della gente.”

“È proprio quello il loro obiettivo. Creare il panico tra la popolazione. Fargli credere di non poter essere al sicuro da nessuna parte.” “Pensa a quella povera gente. Era convinti di godersi una vacanza da sogno e invece sono morti in modo orribile.” Caruso sospirò amaramente. Si avvicinò a sua figlia e la prese in braccio. La piccola emise un gridolino di apprezzamento nei confronti dell’iniziativa del padre, che cominciò a cullarla dolcemente. “Beata te che non ti rendi conto di quanto fa schifo questo mondo” mormorò rivolto alla bambina.

Roma, 16 maggio 2016

Lo stupendo paesaggio di Roma scorreva attraverso il finestrino del pullman, partito dall’aeroporto di Fiumicino quasi un’ora prima. Purtroppo non ci sarebbe stato il tempo di visitare la città eterna, quindi dovette accontentarsi del poco che offriva il finestrino del mezzo. Almeno era riuscito a vedere il famoso Colosseo, anche se di sfuggita. “Ok ragazzi, siamo quasi arrivati.” Era la voce dell’allenatore che attraverso il microfono avvisava dell’imminente arrivo presso l’albergo prenotato per tutta la squadra. Adam Miller premette un tasto del suo smartphone di ultima generazione e terminò la registrazione che stava facendo del suo mini tour di Roma. A diciotto anni compiuti da pochi mesi, Miller era l’astro nascente del calcio statunitense. Era un attaccante e giocava nei Los Angeles Galaxy, la stessa squadra nella quale aveva militato David Beckham anni addietro. Era nel mirino di diverse squadre europee che avevano fatto offerte milionarie per il possesso del suo cartellino e c’era anche stato chi l’aveva paragonato al più volte vincitore del pallone d’oro Messi. Il giovane calciatore era in Italia insieme alla nazionale di calcio statunitense per

giocare una partita amichevole contro la nazionale italiana, ultimo test per gli azzurri prima di partecipare ai campionati europei, in programma tra giugno e luglio. Per Miller l’incontro, che si sarebbe giocato allo stadio Olimpico, era di cruciale importanza perché gli avrebbe dato l’opportunità di mettersi in mostra davanti alle maggiori squadre di calcio italiane. Fin da bambino aveva sperato di venire a giocare in Italia, in particolare nel Milan, la sua squadra preferita. Il pullman si arrestò davanti al lussuoso albergo a cinque stelle che aveva prenotato la federazione calcistica. Era un edificio ottocentesco a sei piani, situato all’angolo tra due strade. La facciata era color crema e abbellita da diversi fregi e decorazioni. Ogni camera aveva un piccolo balcone con la ringhiera in ferro battuto. Quattro poliziotti in borghese avevano scortato il pullman fin dall’aeroporto, precedendolo a bordo di una Alfa Romeo 156 grigia. Una volta arrivati all’albergo, i poliziotti erano scesi dall’auto e si erano messi a controllarne l’ingresso. Altre due pattuglie erano parcheggiate dall’altro lato della strada. La porta anteriore del pullman si aprì e una guardia del corpo in completo scuro scese a terra. Jack Walker era un agente dei servizi segreti statunitensi, incaricato, insieme ad altri cinque suoi colleghi, di proteggere la nazionale di calcio durante la trasferta in Italia. Una volta messo piede sul suolo italiano, gli altri membri del suo team si erano subito diretti in albergo per organizzare l’arrivo della squadra. Lui invece era salito sul pullman. Il direttore dell’hotel andò incontro alla guardia del corpo e quando lo raggiunse si presentò in inglese. “Buongiorno. Mi chiamo Ettore Proietti e sono il direttore.” “Piacere, Jack Walker” rispose stringendo la mano a Proietti. “È tutto pronto per ricevere la squadra?” “Sì, è tutto pronto.” “Molto bene.” Subito dopo Walker si rivolse a uno dei suoi agenti all’interno dell’edificio attraverso il microfono di cui era dotato.

“Lewis, se voi siete pronti, procedo a fare entrare la squadra. “La situazione è sotto controllo. Procedi pure.” “Ricevuto.” Walker ritornò al pullman dove ad attenderlo sulla soglia c’era l’allenatore Robert Hill. “Signor Hill, potete scendere.” “Grazie, signor Walker.” L’allenatore si rivolse alla sua squadra. “Ragazzi, è il momento di scendere.” L’autista del pullman cominciò ad aprire gli sportelli delle bagagliere. Miller fu tra i primi a scendere e dopo aver recuperato la sua valigia si avviò verso l'ingresso dell’albergo.

“La cena è stata di suo gradimento?” chiese il cameriere in inglese alla donna di colore che conosceva come dottoressa Sally Stone, proveniente da Manchester, Inghilterra. “Era tutto squisito” rispose la donna sollevando la testa da un blocco di appunti scritti a mano e scostando dalla fronte una ciocca di capelli neri. “Ne sono felice. Posso portare via i piatti?” “Certamente” acconsentì con un ampio sorriso. Il cameriere, con fare esperto, raccolse i piatti e in pochi attimi sgomberò il tavolo. “Desidera altro?” “No, grazie. Sono sazia.”

Il cameriere si congedò con un sorriso. La donna ritornò apparentemente a concentrarsi sui suoi appunti. In realtà la dottoressa Sally Stone si chiamava Rasha e non proveniva dall’Inghilterra come c’era scritto sul suo aporto falso, bensì dalla Nigeria. Non era neppure una dottoressa e non era a Roma per un seminario tenuto da un’importante casa farmaceutica. Lei era un membro del JOA e il motivo per cui si trovava nella capitale d’Italia era eliminare il maggior numero possibile di calciatori della nazionale statunitense. Appena due settimane prima il JOA era riuscito a sapere dove avrebbe alloggiato la squadra statunitense durante la trasferta in Italia. La ghiotta occasione andava presa al volo, così Rasha era stata convocata per svolgere la delicata missione. L’idea di base era che una donna avrebbe suscitato sicuramente meno sospetti. Era arrivata in albergo da tre giorni e aveva fatto il possibile per farsi conoscere dal personale, stabilendo una certa confidenza che l’avrebbe aiutata al momento di entrare in azione. Finalmente era arrivato il suo turno di servire umilmente Allah, che avrebbe sicuramente raggiunto fra breve. Con tutta la sicurezza che ci sarebbe stata intorno alla squadra, Rasha non si illudeva di riuscire a rimanere in vita. Ma questo a lei non importava, perché avrebbe raggiunto il paradiso. Una leggera vibrazione del cellulare appoggiato sul tavolo la riscosse dai suoi pensieri. Prese in mano l’apparecchio e notò che era arrivato un messaggio. Quando lo aprì notò che era vuoto, si trattava del segnale che stava aspettando. Si alzò con calma e sistemò la gonna del costoso tailleur bianco. Raccolse gli appunti e la borsetta intonata al vestito che conteneva una pistola Heckler & Koch VP70. L’arma, della lunghezza di una ventina di centimetri, dava la possibilità di sparare raffiche da tre colpi e aveva una capacità di diciotto proiettili nel caricatore. Si diresse verso la hall, dove c’erano le scale che conducevano alle camere. Notò subito cinque uomini in completo scuro che controllavano la hall. Tutti avevano un auricolare appeso all’orecchio. Tentò di are ma un addetto dell’albergo, che il cartellino sulla sua giacca identificava come Luigi, la bloccò subito, come d’altronde si era aspettata. “Mi spiace dottoressa Stone, ma per il momento non si può are da questa parte.” “Per quale motivo?” chiese fingendosi indignata.

“Sta per arrivare la nazionale di calcio statunitense. Le guardie del corpo hanno chiesto di non fare are nessuno per motivi di sicurezza.” “Ma non sono mica una terrorista, io!” “Ne sono sicuro. Devo però chiederle di avere pazienza solo per alcuni minuti.” “E va bene. Vorrà dire che darò uno sguardo a qualche bel ragazzo.” “La ringrazio, dottoressa” rispose con un sorriso Luigi. Rasha si voltò verso un bodyguard a non più di cinque metri da lei che la stava osservando discretamente per stabilire se poteva rappresentare una minaccia. Dopo qualche secondo, l’uomo distolse lo sguardo, non ritenendo la donna un potenziale pericolo. Rasha si concentrò sull’ingresso imminente dei calciatori.

L’albergo era davvero lussuoso, constatò Miller. La federazione non aveva certo badato a spese. I calciatori varcarono la soglia dell’edificio sfilando davanti al direttore Proietti che li accoglieva salutandoli educatamente. Miller rimase colpito dalla bellezza della hall, riccamente arredata con mobiletti dorati e morbidi divani di stoffa. Il pavimento a scacchi bianchi e neri era lucido come uno specchio. Un paio di colonne di marmo si ergevano fino al soffitto decorato con pregevoli stucchi e dal quale pendeva un grande lampadario ottocentesco. Una decina di metri davanti all’ingresso un’ampia scala in marmo conduceva al piano superiore. Un compagno dietro di lui gli diede una piccola spinta e Miller si accorse di essersi involontariamente fermato. Se l’Italia era tutta così bella, pur di viverci avrebbe accettato di giocare anche in una squadra meno importante del Milan. “Vai avanti, Adam. Non vedo l’ora di entrare in camera perché mi sto pisciando addosso” gli disse il compagno che l’aveva spintonato. “Fine come sempre, vero Tyler?” gli rispose il giovane attaccante. Raggiunse il gruppo davanti a lui che si era fermato davanti a due ascensori con le porte a specchio. Un addetto dell’albergo si trovava vicino ai pulsanti di chiamata. Nel

frattempo la carovana di atleti continuava a entrare per poi ammassarsi davanti agli ascensori, mentre le cinque guardie del corpo tenevano d’occhio la situazione.

Rasha riconobbe immediatamente il suo bersaglio principale, Adam Miller. Sapeva che colpendo il giovane calciatore la missione avrebbe avuto maggiore successo. Una dozzina di giocatori stavano iniziando a entrare nell’ascensore. Doveva solo estrarre la pistola dalla borsetta e colpire nel mucchio. Aveva intenzione di svuotare l’intero caricatore da diciotto colpi ma sapeva che con le guardie del corpo non sarebbe stato facile. Tuttavia c’era una cosa che poteva fare per guadagnare tempo. Con un movimento fulmineo tirò fuori dalla borsetta la pistola già impostata sulla raffica da tre colpi. Nello stesso istante afferrò con la mano sinistra la gola di uno stupito Luigi. Riparandosi dietro il corpo dell’uomo, Rasha puntò la pistola verso Adam Miller ed esplose la prima raffica che penetrò nelle carni del giovane. Come aveva immaginato, facendosi scudo dietro Luigi, le guardie del corpo erano rimaste disorientate. Avevano già estratto le pistole e le avevano puntate verso la donna, ma esitavano a sparare per non colpire l’ostaggio. Rasha ebbe secondi preziosi per continuare a sparare verso il gruppo di atleti fino a quando il caricatore non fu vuoto. A quel punto lasciò andare la gola di Luigi e infilò la mano nella borsetta per estrarre un secondo caricatore. Sapeva che non sarebbe riuscita a utilizzarlo ma non le importava. Vedeva a terra diversi giocatori, tra cui Adam Miller. La missione aveva avuto successo, Allah sarebbe stato fiero di lei. Afferrò il secondo caricatore e, dopo aver rilasciato quello vuoto, fece per inserirlo nella pistola. Non fece in tempo a completare l’operazione. Jack Walker, appena ebbe la visuale di tiro libera, fece fuoco contro la donna, che venne colpita due volte al petto e una al collo. Rasha sentì tre forti fitte di dolore attraversarle il corpo come lame infuocate. Lasciò cadere a terra la pistola sentendola troppo pesante per poterla reggere ancora in mano. Barcollò per alcuni secondi e cadde a faccia in giù. Chiuse gli occhi per l’ultima volta consapevole di aver svolto al meglio il suo compito, mentre una macchia di sangue si allargava sul lucido pavimento a scacchi.

“Lewis, controlla se è morta. Voialtri venite a darmi una mano con i feriti” ordinò secco Walker. Davanti all’ascensore c’era un groviglio di carne e sangue. Le porte a specchio erano schizzate di rosso. Alcuni calciatori colpiti si contorcevano a terra dal dolore. “Chiama il 118. Chiama il 118!” ordinò il direttore Proietti alla ragazza che stava alla reception mentre correva ad assistere i feriti. Con la coda dell’occhio vide una cameriera che si accasciava lentamente a terra a causa dello choc. Walker arrivò davanti all’ascensore e il primo corpo senza vita che notò fu quello di Miller. Era stato raggiunto da un proiettile alla spalla e uno, quello fatale, sopra lo zigomo sinistro. Tra le vittime c’era anche l’allenatore Robert Hill, colpito da due proiettili al cuore. I quattro poliziotti italiani che avevano scortato il pullman entrarono nella hall con le pistole spianate, ma ormai non poterono fare più nulla, se non assistere i feriti in attesa dell’arrivo dell’ambulanza. Walker si rialzò da terra sconsolato dopo aver constatato che un altro uomo era stato ucciso, se non ricordava male doveva chiamarsi Samuel Woods ed era il capitano della squadra. Per la prima volta nella sua vita aveva fallito nel suo lavoro, non era riuscito a proteggere le persone che gli avevano affidato. Era una cosa che non si sarebbe mai perdonato.

CAPITOLO 5

Sud-ovest del Pakistan, 17 maggio 2016

Era il lavoro più facile che gli fosse mai stato assegnato, ma nella sua semplicità sarebbe stato determinante per il futuro del suo Paese. Doveva semplicemente scattare alcune foto a due uomini seduti su una panchina che, come se non bastasse, erano a conoscenza di quello che stava facendo. Reis fece ancora un paio di scatti e controllò la qualità delle immagini sul piccolo display della costosa macchina fotografica. Soddisfatto del risultato, prese dalla tasca un telefono cellulare. Mandò un messaggio che arrivò immediatamente a una delle due persone che aveva fotografato. Si chiamava Safwan ed era un sessantacinquenne ex membro dei servizi segreti pakistani, in pensione da alcuni mesi. Safwan controllò il proprio telefono cellulare constatando che era il momento di mettere fine a quella messinscena. Si congedò educatamente dall’uomo che aveva a fianco. L’altro rimase seduto sulla panchina, osservando Safwan allontanarsi da lui. Dopo qualche instante, Omar Abdallah Hassan si alzò e si diresse verso un fuoristrada che lo avrebbe riportato nel suo nascondiglio sicuro.

Alcune ore più tardi Reis era all’opera per l’ultima parte della missione. Stava tenendo sotto sorveglianza l’abitazione dove viveva Safwan, che si trovava nello stesso piccolo paese dove era avvenuto il servizio fotografico. L’ex spia aveva accettato di prestarsi allo scatto delle fotografie con Hassan, pur sapendo che sarebbe diventato presto oggetto di interesse da parte degli Stati Uniti. Proprio per questo gli era stata promessa una nuova casa sicura e protezione, oltre ovviamente a un lauto compenso per il disturbo. Il trasferimento era stato previsto per l’indomani. Purtroppo per lui, il generale Aslam non aveva

intenzione di lasciare uno scomodo testimone in vita e Reis si trovava proprio lì per soddisfare il suo desiderio. Prima di entrare in azione, aveva aspettato che Safwan andasse a dormire. Controllò l’orologio, constatando che era ata un’ora da quando aveva visto spegnersi l’ultima luce. Anche nelle altre case intorno a quella di Safwan non c’erano segni di attività. L’agente in pensione aveva scelto di ritirarsi in quel paesino proprio per la sua tranquillità. Reis si avvicinò all’abitazione che aveva un solo piano e un cortile interno. Con un kit da scasso aprì agevolmente la porta in legno. Entrò silenziosamente in casa e accostò la porta senza chiuderla. Indossò un paio di occhiali per la visione notturna e osservò l’ambiente nel quale si trovava. Era un piccolo soggiorno dotato di un tavolo per due persone e un divano vicino a un mobiletto su cui poggiava un televisore. Era sicuro che non avrebbe trovato nessuno in casa perché Safwan viveva da solo. Superò il soggiorno e si lasciò guidare dal respiro pesante del suo bersaglio, profondamente addormentato. L'uomo era disteso sul letto, girato su un fianco, e indossava soltanto un paio di mutande. Reis si avvicinò silenziosamente, stringendo in mano una resistente corda di nylon. Ancora pochi i e Reis ò rapidamente la corda intorno alla gola di Safwan, che svegliato di soprassalto cercò di dimenarsi. L’assassino non mollò la presa fino a quando i tentativi dell’anziano per liberarsi non cominciarono ad affievolirsi fino a cessare del tutto. Continuò a stringere ancora per quasi un minuto dopo l'ultimo sussulto di Safwan. Quando fu sicuro che il bersaglio fosse morto, caricò il cadavere sulle spalle e lo portò fino all’ingresso. Prese il telefono e mandò un breve messaggio. Trenta secondi dopo, un vecchio pickup si materializzò fuori dall’abitazione. Reis sollevò il cadavere e lo appoggiò sul pianale nel retro, coprendolo subito con dei teloni. Richiuse la porta dell’abitazione alle sue spalle e salì sul mezzo, che ripartì immediatamente. Si appoggiò al sedile togliendosi gli occhiali per la visione notturna. Si stropicciò i grandi occhi neri con due dita. Doveva ancora disfarsi del cadavere, poi avrebbe potuto riposare un po’.

Località imprecisata, Pakistan 20 maggio 2016

Sedeva a gambe incrociate su un piccolo tappeto dai molteplici colori; alle sue spalle era appeso un anonimo telone bianco. La videocamera che gli stava di fronte non avrebbe ripreso nient’altro, allo scopo di non dare nemmeno il più piccolo indizio di dove si trovasse. Omar Abdallah Hassan era pronto per il suo primo proclama al mondo intero. Era una cosa che non aveva mai fatto per non svelare la sua identità, ma ora che i suoi nemici conoscevano il suo volto poteva permettersi di comparire in televisione. Pinzò tra le dita un microscopico frammento di qualcosa e lo rimosse dal camicione color bianco latte che indossava. La sua barba, anch’essa bianca, era folta e ben curata. Voleva dare un’immagine di purezza ai musulmani che l’avrebbero visto. Allo stesso tempo, il fucile che aveva tra le ginocchia doveva trasmettere l’immagine di pericolosità ai suoi nemici occidentali. Chiuse per un attimo gli occhi pensando ai numerosi proclami che aveva fatto il grande Osama Bin Laden, immaginando la calma con la quale parlava. Quello era lo stile che avrebbe adottato anche lui. Una voce da dietro la videocamera lo costrinse ad aprire gli occhi. “Fratello Omar, sei pronto per iniziare?” “Certamente, quando vuoi tu.” “Bene. Cinque, quattro, tre, due, uno, in onda.” Hassan guardò la videocamera con occhi penetranti. “Salve a tutti. Probabilmente molti di voi riconosceranno il mio volto, visto che da qualche tempo si può trovare sui notiziari di tutto il mondo. In ogni caso, mi presento ugualmente. Il mio nome è Omar Abdallah Hassan e sono il leader dell’organizzazione che gli occidentali chiamano JOA.”

Roma, Palazzo Chigi

“Gloria ad Allah in eterno.”

Dopo quelle parole il filmato si interruppe. Il Presidente del Consiglio Giovanni Parodi si grattò il mento, seduto sulla comoda poltrona della scrivania. Quello che aveva visto poteva essere definito “la prima volta sugli schermi di Hassan”. Era stato il classico proclama terroristico come ne aveva già visti in ato. C’erano state le solite denigrazioni della corrotta società capitalistica, le solite minacce contro l’occidente e la rivendicazione degli attentati contro la nave da crociera americana e contro l’albergo a Roma. Parodi aveva trovato tutto molto inquietante, tuttavia la cosa che lo aveva colpito di più era stato lo sguardo di Hassan, intelligente e spietato allo stesso tempo. Guardandolo per la prima volta negli occhi, aveva davvero compreso la necessità che quell’uomo fosse eliminato, come auspicava il Presidente degli Stati Uniti. Già, chissà come l’avrebbe presa il caro Larry Bailey. Gli attacchi sembravano in modo particolare rivolti contro gli Stati Uniti. La nave da crociera, tanto per cominciare, era americana, così come quasi la metà dei eggeri che trasportava in quel momento. A Roma era stata presa di mira proprio la nazionale di calcio statunitense, nel caso non fosse stato chiaro il concetto. Parodi si appoggiò allo schienale della poltrona sospirando. Temeva che si sarebbe aperta una nuova stagione del terrore, come era successo proprio in Italia, quasi un anno prima. In quell’occasione aveva rischiato di lasciarci la pelle, se non fosse stato per Nicholas Caruso e Ruben Monteleone. Tornò a fissare lo schermo del computer incrociando lo sguardo con il fermo immagine del volto di Hassan. “Non vedo l’ora che finisca il mio mandato” disse a se stesso.

Washington, Casa Bianca

La Situation Room della Casa Bianca era piena di gente. La sala era la stessa diventata famosa per alcune fotografie che ritraevano Barack Obama e i suoi collaboratori mentre si stava svolgendo la missione per catturare Bin Laden. C’era un lungo e massiccio tavolo in legno affiancato da una dozzina di comode sedie da ufficio nere. Altri posti a sedere venivano offerti da un paio di bassi

divanetti in pelle. Alle pareti erano appesi diversi televisori a schermo piatto e in fondo alla sala c’era un maxischermo che in quel momento mostrava il logo presidenziale. Il gruppo di persone presenti in quella stanza era abbastanza eterogeneo. C’erano alcuni componenti della CIA, compreso il Direttore Austin Harris, un paio di membri dell’NSA, elementi dello staff della Casa Bianca, il Segretario di Stato Amanda Bell e ovviamente il Presidente Larry Bailey. La riunione in corso aveva lo scopo di fare il punto della situazione riguardo agli ultimi attacchi del JOA nei confronti degli Stati Uniti. “Allora signori, mi pare che ci siamo tutti” esordì Bailey. “Chi vuole iniziare per primo?” “Comincio io, signor Presidente” si propose il direttore della CIA Harris alzandosi in piedi. Era un sessantenne con il viso butterato e un paio di occhi azzurro cielo. “Sono state svolte delle indagini riguardo agli attentati che abbiamo subito. Cominciando dalla nave da crociera, abbiamo scoperto che l’attentatore era di nazionalità algerina e viveva in Francia da circa otto mesi. Ha noleggiato lo stesso aereo che ha usato per l’attentato una decina di volte negli ultimi mesi, utilizzando un documento falso. Dopo accurate ricerche, le autorità si hanno scoperto la sua identità e hanno individuato il luogo dove riceveva gli ordini dai superiori. Si tratta di un piccolo internet point frequentato da immigrati africani. I si hanno stabilito che gli ordini arrivavano via mail dal Pakistan.” “Uhm, Pakistan” fece eco Bailey. “Per quanto riguarda l’attentato alla nazionale di calcio, è stato molto più rapido. Gli italiani hanno recuperato il computer portatile della donna. Aveva tentato di distruggerlo ma i tecnici dei Carabinieri hanno estrapolato alcune informazioni. Tra queste è stato scoperto da dove riceveva ordini.” “Pago da bere a tutti se non si tratta del Pakistan” disse Bailey. “Questa volta non deve pagare da bere a nessuno, signore. Si tratta proprio del Pakistan.”

“Sembrerebbe che il JOA abbia trasferito lì la sua sede principale” aggiunse Amanda Bell, un’affascinante bionda cinquantenne, moglie di un senatore della Florida. “Già, e nonostante gli accordi che ho preso con il governo pakistano, non fanno nulla per impedirlo.” “Potrebbe essere arrivato il momento di diventare un po’ più determinati nei confronti dei pakistani” propose cauto Harris. “Mi pare una buona idea. Potrei richiamarli all’ordine minacciando di sospendere ogni aiuto economico se non cominciano a fare qualcosa.” “Certo signore, tuttavia, se posso permettermi, dovrebbe rimettere in gioco anche l’accordo riguardo al divieto di condurre operazioni contro il terrorismo nel loro territorio.” A quel punto Luke Morgan, il consigliere personale di Bailey, si sentì in dovere di intervenire. “Signor Presidente, non mi pare una cosa prudente. I rapporti con il Pakistan sono ai minimi storici. Non è una grande idea minacciare di farci giustizia da soli sul loro territorio.” “Ma che dice, Morgan! Quelli sono un branco di selvaggi corrotti, le buone maniere non servono a nulla. Hanno bisogno solo di bastonate” commentò stizzita Amanda Bell. “Sarà come dice lei, ma il Pakistan rimane vitale per la stabilità della regione.” “Ed è proprio per quello che bisogna rimetterli in riga. Presidente, io propongo un’altra soluzione. Avvisiamoli pubblicamente in una conferenza stampa che o si danno una mossa o sarà peggio per loro. Quelli ci sono dentro fino al collo. Harris, gli faccia vedere la foto.” “Di quale foto state parlando?” chiese Bailey. “In effetti c’è ancora una cosa che devo farle vedere” riprese la parola Harris armeggiando con un computer portatile che aveva di fronte a sé. “È una foto che ci è stata recapitata proprio oggi dalla nostra sede in Pakistan. Non si sa chi

l’abbia scattata ma è arrivata da un canale di informazione consolidato.” Un ultimo click e la foto si materializzò sul maxischermo. Bailey inforcò gli occhiali perché aveva problemi a vedere da lontano. Riconobbe immediatamente Hassan mentre conversava con un altro uomo su una panchina. “Dove è stata scattata?” “In uno sperduto paesino nel sud del Pakistan.” “Allora è ufficiale. Si trova ancora là.” “Così pare.” “Chi è l’altro uomo?” “È proprio questa la cosa che ci preoccupa. Si tratta di un ex membro dei servizi segreti andato in pensione da alcuni mesi.” “Vuole per caso farmi credere che il governo pakistano è immischiato con il JOA?” “È prematuro dirlo, ma è una possibilità da non escludere. Se non il governo, almeno i servizi segreti.” “Santo cielo! Ci mancava solo questa” disse Bailey stropicciandosi gli occhi. Seguirono alcuni istanti di silenzio nella sala. “Allora signori, ecco quello che faremo” riprese il Presidente dopo aver riflettuto. “Farò un comunicato dove richiamerò pubblicamente il Pakistan all’ordine. Nel frattempo, voglio che diamo la caccia ad Hassan per conto nostro. Non sappiamo se possiamo fidarci del governo pakistano. Dobbiamo mandare tutti gli uomini possibili a cercarlo.” “Penso che sia meglio servirci anche dei nostri alleati. Se andassimo da soli, credo che un aumento di americani che scorrazzano per il Paese potrebbe non are inosservato.”

“Giusto. Chiederemo aiuto agli alleati. Una sola cosa deve essere chiara: voglio Hassan morto.”

Rawalpindi, Pakistan, 21 maggio 2016

“Ottimo lavoro, Presidente Bailey, davvero ottimo lavoro” esclamò il generale Aslam senza riuscire a trattenere una sonora risata. Era seduto alla scrivania del suo ufficio. L’ambiente era piuttosto spartano, Aslam non aveva mai badato molto all’estetica. Dietro le sue spalle si trovava una massiccia libreria piena di saggi e manuali militari. L’unico elemento che abbelliva la stanza era una vetrina nella quale erano esposti decine di modellini militari che costruiva lui stesso. Aslam spense il monitor del computer davanti a sé. Aveva appena assistito al discorso del Presidente Bailey riguardo agli attentati subiti negli ultimi due giorni. Quello che aveva detto l’uomo più potente del mondo era andato oltre le sue più rosee aspettative. Si era certamente aspettato che gli Stati Uniti prendessero una dura posizione nei confronti del Pakistan, ma non avrebbe mai immaginato che lo fero davanti a tutto il mondo. Bailey aveva perfino minacciato il Presidente Rehman intimandogli che o cominciava a collaborare seriamente a catturare Hassan o ci avrebbe pensato lui. Traduzione: scordati gli accordi che abbiamo fatto pochi mesi fa. Si alzò dalla sedia e si diresse verso la vetrina calpestando un morbido tappeto persiano. Cominciò a contemplare i suoi modellini, soffermando lo sguardo su un carro armato sovietico T-72 in scala 1:35. Ora non doveva fare altro che convincere Rehman a rispondere duramente alle provocazioni degli Stati Uniti. Non sarebbe stato troppo difficile, pensò tirando fuori un fazzoletto dal pantalone della divisa militare. Il Presidente non poteva permettersi di fare la figura della donnicciola spaventata. Spostò lo sguardo su un altro carro armato, un Panzer V della seconda guerra mondiale, mentre si tamponò la fronte con il fazzoletto, asciugando alcune gocce di sudore. Dopo la risposta di Rehman, la crisi tra il suo Paese e gli Stati Uniti avrebbe raggiunto un nuovo stadio e da quel momento avrebbe potuto cominciare la seconda fase del suo piano.

CAPITOLO 6

Roma, abitazione di Caruso, 25 maggio 2016

Nicholas Caruso infilò la chiave nella toppa e le fece fare mezzo giro, poi aprì la porta, sospirando amaramente per quello che doveva dire a sua moglie. Era appena tornato dal colloquio con il suo capo, Paolo Sartori, il direttore dei servizi segreti italiani, denominati Dipartimento Informazioni della Sicurezza (DIS). Caruso in particolare faceva parte della task force JOA, un’unità appositamente creata da Sartori alcuni anni prima proprio per far fronte alla crescente minaccia rappresentata dalla temibile organizzazione terroristica. Era stato scelto perché era considerato uno degli uomini migliori dei servizi segreti e l’aveva dimostrato poco meno di un anno prima sventando il piano del JOA di asse le alte cariche dello Stato italiano¹. In quella occasione era stato aiutato dal suo amico Ruben Monteleone. I due amici fino a pochi anni prima avevano militato insieme nel GIS, le forze speciali dei Carabinieri, prima che Caruso scegliesse la strada dei servizi segreti. Monteleone continuava a far parte del GIS con l’incarico di istruttore. Caruso amava il suo lavoro ma da qualche anno aveva dovuto fare i conti con il fatto che gli sottraeva troppo tempo da destinare alla famiglia. Conosceva Sonia da sedici anni e l’aveva sposata da sette. Per troppo tempo lei l’aveva seguito in tutti gli spostamenti che la sua carriera aveva richiesto, sopportando tutti i cambiamenti alla loro vita che questo aveva comportato. Proprio per questo motivo, Caruso le aveva promesso un anno prima che avrebbe rinunciato gradualmente all’aspetto operativo del suo lavoro, per ricoprire un incarico d’ufficio. Purtroppo non era ancora riuscito a mantenere la promessa e non sapeva dire se un giorno ci sarebbe riuscito. Negli ultimi tempi la promessa era stata fonte di accese discussioni tra lui e Sonia. A tutto questo si

aggiungevano gli ordini che aveva appena ricevuto da Sartori. “Tesoro, sono a casa” si annunciò posando le chiavi in un vassoio appoggiato su un mobiletto bianco. “Ciao! Sto facendo il bagnetto a Silvia.” La voce di Sonia proveniva dal bagno. “Ok, arrivo tra un attimo.” Si tolse la giacchetta leggera che indossava, ripensando all’incontro avvenuto poco prima con Sartori. “Allora Caruso” aveva esordito il direttore “come ti sarai sicuramente accorto, pare che il JOA abbia inaugurato una nuova stagione di terrore. In base agli obiettivi che hanno colpito, sembrerebbe proprio che se la siano presa in particolare con gli Stati Uniti.” “Così pare” aveva risposto Caruso. “Il problema è che Hassan potrebbe aver stabilito la base operativa del JOA in Pakistan e lui stesso potrebbe trovarsi nel Paese.” “Pakistan? Potrebbe essere una bella gatta da pelare.” “Già, è proprio così. I rapporti tra Stati Uniti e Pakistan non sono proprio idilliaci in questo momento e la conferenza stampa di Bailey non li ha sicuramente migliorati.” “Sono d’accordo, Direttore, ma dove è che entro in gioco io?” Sartori si era sistemato gli occhiali dalla sottile montatura che gli stavano leggermente scivolando sulla punta del naso. “Dritto al punto come sempre, vero Caruso? Ebbene, il Presidente Bailey ha chiesto aiuto ai propri alleati per indagare sul JOA e su Hassan in Pakistan. Parodi ha accettato di inviare degli uomini e mi ha chiesto i migliori.” “Quando devo partire?” “Tra pochi giorni.”

“Per quanto dovrò stare via?” “Non so dirtelo, dipende dagli sviluppi della situazione.” Caruso era uscito dall’ufficio di Sartori con un misto di gioia e dolore. Gioia perché si prospettava un’interessante missione e dolore perché avrebbe dovuto lasciare la sua famiglia per chissà quanto tempo. Si tolse le scarpe e infilò le ciabatte che si trovavano vicine alla porta. Entrò nel bagno e vide subito sua moglie china sul fasciatoio dove era seduta sua figlia. Le stava lavando la schiena con una morbida spugna. “È arrivato papà!” esordì entrando nella stanza. La piccola Silvia si girò sentendo la voce familiare del padre e sorrise farfugliando qualcosa di incomprensibile. “Eccola qua la mia bimba” le disse dandole un bacio. Subito dopo baciò anche la moglie. “Ciao Nick, come è andata la giornata?” Caruso sospirò cercando di trovare le parole giuste. Era inutile stare a girarci tanto intorno. “Nick, va tutto bene?” “C’è una missione che devo compiere” disse infine. “C’è sempre una missione che devi compiere” rispose amaramente Sonia. “Sì, lo so, ma questa volta starò via per un po’ di tempo.” “Quanto tempo?” “Non lo so. Settimane, forse mesi. Davvero non lo so, ma è una cosa importante.” “Ma sì, certo. C’è sempre qualcosa di più importante di tua moglie e tua figlia.” Sonia prese in braccio la piccola Silvia e la avvolse in un asciugamano offrendo

le spalle al marito. Caruso le toccò un braccio dolcemente. “Sonia…” “Dove andrai questa volta?” “Lo sai che non posso dirtelo.” “È vero, lo so” rispose liberandosi del contatto con il marito e avanzando di un o. Seguirono alcuni secondi di silenzio in cui Sonia prese ad asciugare delicatamente Silvia. “L’avevi promesso. L’anno scorso l’avevi promesso” riprese mentre alcune lacrime cominciavano a scenderle sul volto. “Hai ragione, ma cerca di capire. Io amo il mio lavoro.” “Certo che lo ami e a quanto pare più della tua famiglia.” “Perché ogni volta mi dici questo? Come puoi pensare una cosa del genere?” “Come posso?” chiese voltandosi di scatto. “Prova a farti un esame di coscienza e magari capirai come posso.” “Senti, io...” “Non so mai dove ti trovi e vivo con la paura costante che qualcuno mi suoni il camlo per dirmi che ti hanno ucciso. Sono troppi anni che sopporto tutto questo e non sono più sicura di riuscire ad andare avanti.” Caruso non seppe rispondere. Si voltò deciso a uscire dal bagno. Prima di proseguire si fermò per un instante. “Pakistan.” “Che cosa hai detto?”

“Andrò in Pakistan” disse infine Caruso prima di lasciare la stanza. Sonia rimase a versare lacrime disperate. Suo marito sarebbe andato in uno dei posti più pericolosi del momento e chissà quando sarebbe tornato. Se sarebbe tornato. Guardò sua figlia, che percependo la tensione stava cominciando a imbronciarsi. Le diede un bacio. “Va tutto bene, piccola mia. Va tutto bene” le disse, poco convinta delle sue stesse parole.

Roma, aeroporto di Ciampino, 26 maggio 2016

Consegnò il suo borsone a un agente del servizio segreto, il quale l’avrebbe fatto ispezionare prima di farlo imbarcare sull’aereo. Un altro agente, alto almeno un metro e novanta, gli fece cenno di avanzare verso di lui, ando attraverso un metal detector. Precedentemente aveva depositato i suoi effetti personali in un vassoio. Avanzò senza che scattasse nessun allarme. Lo spilungone procedette a perquisirlo minuziosamente, facendogli togliere anche le scarpe. Quando fu soddisfatto, fece cenno a Caruso di procedere. L’altro agente gli restituì i suoi effetti personali con uno sguardo imibile. Un uomo che indossava una divisa dell’Aeronautica Militare gli aprì una porta in vetro. Uscendo ringraziò il militare con un cenno del capo. Si ritrovò all’esterno dove un fuoristrada Land Rover Defender con le insegne dell’Aeronautica era in attesa con il motore . Si sarebbe servito del mezzo per raggiungere l’aereo che l’avrebbe portato all’aeroporto di Herat, in Afghanistan. Da lì avrebbe successivamente proseguito il suo viaggio per il Pakistan. Tutti quei controlli che aveva subito erano stati necessari perché non avrebbe viaggiato su un aereo comune. Quel giorno avrebbe avuto il piacere di viaggiare sull’aereo presidenziale in compagnia di Giovanni Parodi. Caruso inizialmente avrebbe dovuto spostarsi insieme alla sua squadra su un

aereo militare C-130, in partenza quella mattina, ma il premier italiano aveva insistito per averlo a bordo del suo aereo. La destinazione di Parodi era la Cina, dove aveva in programma un incontro con il Primo Ministro. L’autista del Defender, un giovane caporale dell’Aeronautica, aprì cortesemente lo sportello del mezzo e si irrigidì sull’attenti facendo il saluto militare. “Riposo soldato, non sono un militare, io” lo informò Caruso, inforcando un paio di occhiali da sole. “Come desidera, signore” affermò il caporale abbassando la mano. L’agente del DIS si accomodò sul sedile mentre il caporale richiuse lo sportello. Fece il giro del mezzo ed entrò dalla parte del guidatore. Immediatamente partì in direzione dell’aereo. Caruso, con il braccio destro fuori dal finestrino aperto, accolse piacevolmente il soffio d’aria prodotto dal movimento del fuoristrada. A qualche centinaio di metri da lui poteva scorgere la sagoma dell’aereo presidenziale. Si trattava di un Airbus 319 CJ. L’aereo era entrato in servizio nel 2000 per sostituire il vecchio DC- 9. Ci volle meno di un minuto per raggiungere il velivolo. Il caporale, dopo aver parcheggiato il Defender davanti alla scaletta, si affrettò a scendere per aprire lo sportello al suo eggero. “Non è necessario” lo fermò Caruso tirando la maniglia dello sportello. Non era avvezzò a quei formalismi. Scese dal fuoristrada e si tolse gli occhiali per osservare meglio l’aereo. Il colore dominante era il bianco, con una linea blu che scorreva orizzontale per tutta la lunghezza della fusoliera. Nella parte anteriore, sopra la linea blu, compariva la scritta REPUBBLICA ITALIANA. Sull’alettone bianco spiccava l’immagine del tricolore. Due agenti in completo scuro erano di fronte alla scaletta. Caruso si presentò educatamente esibendo il suo tesserino e i due lo fecero are. Iniziò la salita della scaletta, ogni o era accompagnato da un leggero clangore metallico. In cima trovò ad accoglierlo una graziosa hostess bionda che stazionava davanti all’ingresso. Caruso sapeva che non doveva farsi ingannare dal suo aspetto, poiché la donna aveva sicuramente ricevuto un addestramento militare.

“Buongiorno, signor Caruso, e benvenuto a bordo dell’aereo presidenziale” lo salutò. “Buongiorno anche a lei.” “Il Presidente Parodi la sta attendendo nel salottino. Prego, le faccio strada.” La hostess si incamminò in un breve corridoio seguita da Caruso, che non riuscì a evitare di osservarle il delizioso fondoschiena. Superarono una porta chiusa che dava accesso allo studio privato del Presidente, che si sarebbe potuto all’occorrenza trasformare in una comoda camera da letto. Arrivarono davanti a un’altra porta chiusa. La donna bussò con la mano guantata. “Avanti.” Aprì la porta ed entrò. La stanza era un vero e proprio salottino. Caruso notò un divano angolare in pelle, un tavolo circolare con alcune sedie intorno, un mobile in legno pregiato e un tavolo più piccolo destinato ai pasti. “Ecco dove finiscono i soldi delle mie tasse” pensò l’agente segreto. Giovanni Parodi si alzò dal divano in pelle e si avvicinò al nuovo arrivato. Indossava un elegante completo color antracite che calzava a pennello sul suo corpo da ex nuotatore. “Buongiorno Caruso” lo salutò stringendogli calorosamente la mano. “È un piacere averla a bordo.” “Il piacere è tutto mio, signor Presidente.” “Signorina Monica, potrebbe lasciarmi solo con il signor Caruso?” “Come desidera.” La hostess uscì dalla stanza lanciando una fugace occhiata maliziosa a Caruso, prima di richiudere la porta. “Una splendida ragazza, simpatica e intelligente, ma non si lasci ingannare. È

addestrata a uccidere anche a mani nude.” “Una donna da sposare.” “Già!” ridacchiò Parodi. “Prego, si accomodi sul divano. Gradisce un po’ di whisky?” “Volentieri.” “Molto bene.” Parodi si avvicinò al mobiletto in legno e ne tirò fuori un bottiglia di whisky Lagavulin del 1976 e due bicchieri. Li riempì entrambi e ne porse uno al suo ospite. “Non male questo aereo, vero?” chiese mentre si accomodava sul divano. “Sicuramente meglio di un C-130 militare.” “Scommetto che per un momento ha pensato alla parte delle sue tasse finita qua dentro.” “Lei è in grado di leggere anche il pensiero, signore?” “Certamente no” disse Parodi ridendo di gusto alla battuta. “Anche io ho pensato la stessa cosa quando ho messo piede su questo aereo per la prima volta. Quando il vecchio DC-9 presidenziale fu danneggiato all’aeroporto di Mosca venne deciso di sostituirlo con un aereo più moderno. Furono acquistati due esemplari di Airbus 319 CJ e visto che tanto i soldi andavano spesi, hanno deciso di fare le cose per bene.” Caruso annuì anche se conosceva già la storia dell’aereo presidenziale. Si era informato la sera prima su internet, mentre Sonia era stata tutta la sera in un’altra stanza con la bambina. Non si erano parlati fino a quando erano andati a letto. Dopo un’iniziale diffidenza si erano lasciati andare e avevano fatto l’amore con ione fino a quando lei si era addormentata sul suo petto senza dire una parola. Caruso aveva sentito scorrere sulla sua pelle alcune lacrime. La mattina si erano svegliati e avevano fatto colazione insieme. Aveva lasciato casa promettendole di fare attenzione e di cercare di tornare il più presto possibile.

“Comunque non l’ho certo convocata per parlarle dell’aereo presidenziale” riprese Parodi accavallando una gamba. Caruso bevve un sorso di liquore. “Lo immaginavo.” “Mi sto recando in Cina per incontrare il Primo Ministro e discutere di alcuni aspetti economici. Faremo scalo a Herat in modo da farla ricongiungere con la sua squadra. Ho richiesto la sua presenza qui perché volevo discutere di persona alcuni dettagli riguardo alla missione che deve compiere.” Caruso sentì puzza di ordini non ufficiali. “Come avrà sicuramente appreso, i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan sono ai minimi storici. Alle minacce di Bailey è seguita una dura risposta di Rehman nella quale ha detto che considererà atto di guerra qualsiasi intrusione degli Stati Uniti.” “Sì, ho sentito tutti e due i discorsi.” “Perfetto. In questo clima rovente Bailey ha deciso comunque di volersi occupare di Hassan. I dati forniti dall’intelligence indicano chiaramente che si trova in Pakistan. Si sospetta addirittura che qualche personaggio influente lo stia proteggendo.” “Non mi stupirebbe se fosse davvero così.” “Francamente neanche a me. Comunque il punto è questo: Bailey ha deciso di sguinzagliare quante più risorse possibili in Pakistan per occuparsi di Hassan. Il problema è che non può permettersi un aumento esponenziale di americani che vanno in giro per il Pakistan. I loro servizi segreti se ne accorgerebbero subito e chissà come andrebbe a finire. Immagini degli americani arrestati per spionaggio. Le relazioni tra i due Paesi scenderebbero sotto lo zero.” “Ed è a questo punto che entriamo in gioco noi” osservò Caruso accarezzandosi il mento perfettamente rasato. “Esattamente. Bailey ha chiesto ai suoi alleati più degni di fiducia di mandare delle squadre altamente specializzate in Pakistan per aiutare i suoi uomini a occuparsi di Hassan. Mi ha chiesto solo i migliori e io l’ho accontentato.”

“Questo mi lusinga.” “Beh, l’anno scorso ha salvato la vita all’intero Governo italiano. Penso che lei si trovi di diritto in cima alla classifica.” “Una cosa non mi è chiara. Gli ordini che ho ricevuto dal direttore Sartori parlano di catturare Hassan. Lei ha curiosamente utilizzato il termine ‘occuparsi’ per ben tre volte. Significa qualcosa?” “È molto arguto, signor Caruso. Questo è proprio il motivo per cui l’ho convocata. Bailey non ha nessuna intenzione di catturare Hassan. Lui vuole eliminarlo. Si immagini Bin Laden che invece di essere ucciso, fosse stato catturato e processato. Avrebbe acquistato ancora più importanza di quella che già aveva, sarebbe diventato una figura mitica. Lo immagini rilasciare dichiarazioni davanti ai maggiori network mondiali. Molto meglio eliminarlo e fare sparire il cadavere.” “Questo è quello che dovrei fare in caso trovassi Hassan?” “E ciò che in via del tutto informale mi ha chiesto Bailey e che desidero anche io. Ovviamente non posso permettermi di metterlo per iscritto, così come non può farlo Bailey. Confido sul fatto che, se le dovesse capitare l’occasione, saprà agire nel modo giusto. Sono stato chiaro, Caruso?” “Chiaro come il sole.” “Non avevo dubbi” concluse Parodi prima di sorseggiare il suo whisky. Qualcuno bussò alla porta. “Avanti.” Fece capolino il capitano dell’aereo, un esperto pilota di una cinquantina d’anni con capelli grigi tagliati a spazzola e la mascella squadrata. “Signor Presidente, volevo informarla che siamo pronti a partire, invito lei e il suo ospite ad accomodarsi sulle poltrone e allacciare le cinture.” “Grazie, comandante.”

L’uomo richiuse la porta e tornò in cabina di pilotaggio. “Bene, Caruso. Dopo il decollo, Monica servirà il pranzo e, se vuole, al termine potrà riposare nella parte posteriore dell’aereo.” “La ringrazio.” “Non deve ringraziarmi di nulla. Sono io che sono in debito. Non scorderò mai che senza di lei sarei già morto da un pezzo.” Pochi minuti dopo l’aereo presidenziale cominciò a rullare lentamente sulla pista di decollo. Ottenuta l’autorizzazione dalla torre di controllo, l’Airbus accelerò bruscamente fino a quando si staccò da terra, in direzione di Herat.

Base aerea di Herat (Afghanistan), 27 maggio 2016

Appena varcò il portellone dell’aereo presidenziale fu subito investito da una folata di aria calda. Lo sbalzo di temperatura dal velivolo dotato di aria condizionata al torrido aeroporto per un attimo lo disorientò. Indossò gli occhiali da sole e cominciò a scendere la scaletta. Il viaggio era stato lungo ma decisamente confortevole rispetto agli aerei da trasporto militari. Il Presidente del Consiglio Parodi aveva già lasciato l’aereo da quasi mezz’ora. Caruso era rimasto in attesa a bordo dell’aereo aspettando che la cerimonia di benvenuto terminasse. Aveva osservato da uno dei finestrini l’accoglienza che era stata destinata al capo del Governo italiano. Un reparto interforze di militari era schierato sull’attenti mentre la banda musicale suonava l’inno di Mameli. Il comandante della base aveva salutato Parodi e l’aveva personalmente accompagnato a visitare la struttura. Quando Caruso toccò l’asfalto della pista, il comitato di benvenuto si era già sciolto. Davanti all’aereo c’era un blindato leggero Lince in attesa, che avrebbe dovuto portarlo all’alloggio predisposto per lui e la sua squadra. In lontananza si vedeva un grosso C-130J che in quel momento veniva rifornito di carburante. Scorse anche un paio di elicotteri da trasporto AB 412.

Un giovane carabiniere con i capelli rossicci era appoggiato al cofano del Lince con le braccia conserte. Indossava una polo blu scuro con la fiamma dei Carabinieri ricamata e un paio di pantaloni dello stesso colore. Macchie scure in più punti della polo indicavano che il giovane stava sudando copiosamente. Indossava un paio di occhiali con le lenti affumicate e alla cintura teneva appesa una fondina con la pistola. Si scostò dal mezzo e fece due i avanti. “Il signor Caruso?” chiese sinteticamente. “Sono io.” “Molto piacere. Sono l’appuntato Masino” si presentò il giovane allungando una mano. “Il piacere è mio.” Strinse la mano sudata del carabiniere. “Mi hanno ordinato di scarrozzarla fino al suo alloggio, quindi salga a bordo.” Detto questo montò sul mezzo senza aprire la porta all’uomo che doveva trasportare. Caruso ne fu sollevato. Si aprì da solo la portiera e di sedette di fianco al guidatore, che mise immediatamente in moto. Il Lince partì sgommando leggermente sull’asfalto rovente. Caruso osservò il giovane carabiniere e dedusse subito che faceva parte del GIS. “Sei del GIS, vero?” chiese anche se conosceva già la risposta. “Sì, signore.” “Da quanto tempo?” “Tra una settimana saranno tre mesi.” “Allora auguri per una lunga carriera.” “Grazie. Se posso permettermi, è un onore conoscerla.” “Addirittura?” chiese Caruso inarcando un sopracciglio. “Certamente. Anche se ha lasciato da diversi anni, la sua reputazione è ancora viva. Lei è stato uno dei migliori membri che abbiamo mai avuto.”

“Ehi, non vorrai mica farmi arrossire?” Masino si concesse una risata. “Alloggerà nella sezione della base occupata dalla Task Force 45.” La Task Forse 45 era un distaccamento misto di forze speciali italiane appartenenti a vari corpi. C’erano elementi di Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri. Caruso ne aveva fatto parte durante i due turni che aveva svolto in Afghanistan anni addietro. “Va bene. Conosco la zona.” Seguirono alcuni minuti di silenzio fino a quando il mezzo si fermò vicino a una serie di prefabbricati in legno. “Eccoci arrivati. Non è il Grand Hotel ma questo è quello che a in convento.” “Tranquillo, Masino, che starò benissimo” rispose Caruso scendendo dal mezzo. “Ok, allora buona permanenza a Herat.” Il Lince ripartì alzando una nuvola di polvere. Caruso si incamminò per andare alla ricerca del suo alloggio, dove avrebbe trovato anche il suo borsone da viaggio, scaricato precedentemente. Una decina di soldati in pantaloncini e maglietta lo superò di corsa senza neanche degnarlo di uno sguardo. In fondo al gruppo vide una persona che proprio non si aspettava di vedere. Si tolse gli occhiali per mettere a meglio a fuoco l’uomo, anch’egli in maglietta e pantaloncini. Aveva un fisico snello ma muscoloso e i capelli tagliati in stile “ultimo dei Mohicani”. L’altro si fermò e si mise a osservarlo appoggiando le braccia ai fianchi e mostrando un sogghigno divertito. “E tu che ci fai qui?” chiese Caruso. “Sai che potrei farti la stessa domanda?” rispose l’altro senza smettere di

sogghignare. Caruso scoppiò in una risata seguito a ruota da Ruben Monteleone, il suo migliore amico e membro attivo del GIS. I due si strinsero la mano calorosamente. “Quant’è che non ci sentiamo? Una settimana? Mi pare che ne siano cambiate di cose in così poco tempo” affermò Caruso. “Giusto qualche cosetta. Andiamo nel mio alloggio a farci una birra.” “Ottima idea.” I due si incamminarono nella giungla di prefabbricati adibiti ad alloggi per le truppe fino a quando arrivarono a quello di Monteleone. Il carabiniere aprì la porta. “Accomodati, fa come se fossi a casa tua.” L’ambiente era spartano, con tre letti ai piedi dei quali giacevano altrettante cassapanche per riporre gli oggetti personali. Monteleone estrasse due birre da un piccolo frigorifero elettrico. “Meglio per te che non vai a raccontare in giro del frigorifero. I miei due coinquilini potrebbero staccarti la testa a mani nude se lo fi” raccomandò all’amico stappando le due bottiglie di birra bionda. “Ricorda che sono uno ‘spione’, come mi chiami tu. So mantenere i segreti.” “Buon per te, amico mio.” Entrambi brindarono facendo tintinnare le due bottiglie e si sedettero su un letto. Caruso bevve una lunga sorsata e il liquido fresco gli provocò un intenso piacere giù per la gola. “Allora Ruben, che ci fai qui a Herat, invece di addestrare reclute a Livorno?” “È semplice. Qualche giorno fa era previsto il cambio di personale alla Task Force 45. Due giorni prima della partenza da Livorno uno degli uomini della

nuova squadra si è rotto una gamba in addestramento e io mi sono offerto di sostituirlo.” “E tua moglie come l’ha presa?” Il carabiniere indicò un piccolo bernoccolo che aveva sulla fronte. “Vedi questo bozzo? Quando le ho dato la notizia mi ha lanciato un cucchiaio di legno sulla fronte. Da questo deduco che non l’abbia presa tanto male perché altrimenti mi avrebbe trafitto con un coltello da cucina.” Caruso si concesse una risata. Adorava il sarcastico modo di scherzare dell’amico. “Ho provato a spiegarle che si trattava di pochi mesi ma non ha voluto sentire ragioni. Ha detto che mi perderò alcuni dei momenti più importanti della vita di mio figlio.” “Tu che le hai risposto?” “Che per ora quel demonio non sa fare altro che piangere, mangiare e cagare dalla mattina alla sera e che per qualche mese non mi perderò niente.” “Immagino che quello sia stato il momento della cucchiaiata.” “In effetti è andata proprio così.” “Sai sempre trovare le parole giuste al momento giusto.” “Mi conosci. Ma sta tranquillo che le erà. E tu invece? Come al solito da bravo spione non puoi dirmi niente?” “Posso solo dirti che mi tratterrò per poco tempo.” “Come pensavo. Comunque ti confesso che sento puzza di Pakistan.” “Io l’unica puzza che sento è quella delle tue ascelle.” “Si sente cosi tanto?” chiese Monteleone annusandosi le ascelle. “Eppure la pubblicità del deodorante prometteva freschezza delicata per ventiquattr’ore. Mi sa che non prevedeva l’utilizzo in una ridente località come questa.”

“Non bisogna fidarsi sempre della pubblicità.” I due risero di nuovo allegramente. “E Sonia che dice?” chiese Monteleone facendosi serio. “Sonia...” sospirò Caruso pinzandosi le narici con indice e pollice. “Neanche lei l’ha presa bene, vero?” “Per niente. Stiamo attraversando un periodo un po’ difficile perché non ho ancora mantenuto la mia promessa di are dietro una scrivania.” “È proprio questo il problema. Noi siamo uomini d’azione, non possiamo farne a meno. Prendi me. Ho ottenuto un comodo incarico di istruttore e invece alla prima occasione ho sgomitato per finire in questo schifo. Questa è la nostra vita e le nostre donne lo sanno da tempo.” “Hai ragione, ma ora siamo padri. Abbiamo un’altra responsabilità. Non possiamo andare ancora per molto tempo a sparare ai cattivi in giro per il mondo. Lasciamo spazio ai ragazzi. Fermiamoci prima di perdere la famiglia. Potremmo svegliarci un giorno e scoprire che le persone che amiamo non ci ricambiano più.” “Hai cominciato a leggere romanzi d’amore?” “Piantala! Non sto scherzando.” “E va bene. Hai ragione. Solo che è un o difficile da compiere.” “Lo so. Tremendamente difficile.” Ci fu mezzo minuto di silenzio tra i due amici. “Ok, basta con il momento tristezza” disse Monteleone alzandosi di scatto dal letto. “Io vado a farmi una doccia. Tu puoi andare a cercare il tuo alloggio. Più tardi ceniamo insieme.” “D’accordo.” Caruso si alzò e uscì dal prefabbricato. Doveva trovare il suo alloggio e la sua

squadra.

CAPITOLO 7

Karachi, (Pakistan) 31 maggio 2016

Caruso, indossando un paio di occhiali da sole a goccia, era seduto a un tavolino nel dehors di un bar del centro città, posizionato praticamente in mezzo al marciapiede. Osservando l’intenso viavai di persone, rifletteva che il posto in cui l’uomo gli aveva dato appuntamento era perfetto per mimetizzarsi. Mentre sorseggiava il suo tè alla menta, vide avvicinarsi un uomo che gli parve essere il contatto che aspettava. Sembrava avere una cinquantina d’anni, capelli brizzolati portati lunghi fino al collo e pettinati all’indietro. Indossava un completo di lino color crema e una camicia bianca col collo sbottonato. Il fisico era massiccio e leggermente in sovrappeso. L'uomo si avvicinò deciso. “Mister Giorgio Bianchi, immagino” affermò l’uomo con un forte accento americano. “Sono io” rispose Caruso sentendosi chiamare con il suo nome di copertura. “Sono Joe Mitchel” si presentò l’altro, allungando una grande mano sudata ed esibendo un ampio sorriso. “Piacere di conoscerla.” Caruso si alzò in piedi e afferrò la mano al nuovo arrivato. La stretta dell’uomo era molto forte tanto da fargli provare una fitta di dolore. Terminate le presentazioni i due uomini si sedettero al tavolino. Joe Mitchel era un professore americano che insegnava all’università di Karachi, nella facoltà di ingegneria, ma era anche un agente della CIA. Si sarebbe occupato di coordinare Caruso e la sua squadra per tutta la durata della missione. “Spero non le dispiaccia se ho già ordinato da bere” esordì l’agente italiano.

“Non è un problema. Anche io adesso ordina da bere.” “Noto con piacere che parla un discreto italiano.” “Sì, anche se commetto errori.” “L’importante è che riesce a farsi capire bene. Dove l’ha imparato?” “Miei nonni materni erano italiani, venivano da un paese in Calabria. Da piccolo mi hanno insegnato un poco di italiano.” “Molto bene, i nostri rapporti saranno più facili” sentenziò Caruso portandosi nuovamente il bicchiere alle labbra. Mitchel attirò l’attenzione di un giovane cameriere magro come un chiodo e in perfetta lingua urdu ordinò un bicchiere di whiskey. “Lei e sua squadra avete occupato il rifugio sicuro?” Si riferiva a un edificio che la CIA aveva messo a disposizione per tutta la durata della missione. “Ci siamo installati ieri. Due dei miei in questo momento sono sul posto, mentre altri due stanno sorvegliando questo incontro.” Mitchel annuì, approvando la precauzione presa dall’agente italiano. “Bene. Come le avranno già detto, i rapporti tra Pakistan e mio Paese non sono buoni. Abbiamo prove che stanno proteggendo Hassan e JOA ma loro negano tutto. Ok?” “Sono a conoscenza della situazione.” “CIA cerca di indagare ma servizi segreti pakistani ci ostacolano. Loro sono molto… Come si dice? Sospettosi. Giusto?” “Si dice così.” “Non tollerano più presenza di agenti segreti in loro Paese, ok? Quindi bisogna fare molta attenzione.” Mitchel si interruppe per estrarre dal taschino della giacca un sigaro già iniziato e un accendino.

“Dispiace se fumo?” “No.” “Grazie. È cubano, lì fanno i migliori.” “Ne sono sicuro.” L’americano scaldò la punta del sigaro fino a quando riuscì ad aspirare le prime boccate di fumo. Caruso era infastidito sia dal fumo che dall’odore ma non disse niente, aveva sopportato di peggio in ato. “Dobbiamo fare attenzione. Non possiamo fare errori perché la tensione è già troppo alta” riprese Mitchel. “Capisco. Tra l’altro sta per iniziare anche il Ramadan, un periodo piuttosto delicato.” “Proprio così. Il giorno di inizio di Ramadan arriverà il Presidente Rehman per pregare nella sua città d’origine.” “Immagino che ci sarà un po’ di trambusto.” “Trambusto? Cosa vuole dire?” “Significa confusione, caos.” “Ah certo, confusione. Sì, ci sarà confusione.” Si avvicinò lo smilzo cameriere portando un vassoio sul quale era posato un bicchiere di whiskey. Lo porse con un sorriso sdentato all’americano che lo ringraziò. L’agente della CIA prese il bicchiere e lo portò al naso, apprezzandone l’aroma. Subito dopo diede una generosa sorsata, annuendo soddisfatto. “Ottimo” sentenziò. Caruso decise di proseguire con la discussione entrando nel vivo. “Allora signor Mitchel, ha qualche dritta da darci per iniziare il nostro lavoro?” “C’è un uomo. Una fonte affidabile ci ha indicato un importante membro di JOA

che vive qui a Karachi. Sospettiamo che governo pakistano protegga lui. Vogliamo che indagate su possibili collegamenti con Hassan e con Pakistan.” “Se c’è qualcosa sotto lo scopriremo.” “Io spero. Posso dare un consiglio: fate attenzione a ISI, servizi segreti militari. Io vivo in Pakistan da dieci anni e posso assicurare che sono preparati e spietati.” “Grazie, lo terremo a mente. Davvero lei vive qui da dieci anni?” “Purtroppo sì. Anzi tra qualche mese saranno undici.” “Perché non chiede di essere assegnato da qualche altra parte?” “Sono un esperto di Medio Oriente, trasferirmi da altra parte vorrebbe dire finire in qualche altro posto buco di culo di mondo. Si dice così vero?” “È corretto.” Mitchel bevve un altro sorso di liquore prima di riprendere a parlare. “Invece tornare in patria vorrebbe dire finire in merdoso ufficio e io non voglio.” “Potrebbe sempre insegnare in qualche università.” “Se volevo fare solo insegnante sarei rimasto in Stati Uniti.” “Giusto, quindi rimanere qui è la cosa meno peggiore.” “Temo che sia così. Almeno lo stipendio di agente segreto è buono.” Si intrattennero ancora alcuni minuti perché un incontro troppo breve avrebbe potuto destare sospetti a eventuali osservatori nascosti. Quando Mitchel ritenne che la messa in scena fosse durata abbastanza, vuotò il bicchiere di liquore. “Beh, per me è arrivata ora di andare. Mi permetta di pagare il conto.” Estrasse il portafoglio dalla tasca della giacca e tirò fuori una banconota da cinquemila rupie, sufficiente per pagare una cena in un ristorante. La lasciò sul

tavolino e si alzò dalla sedia. “Arrivederci e buon lavoro” si congedò allungando nuovamente la mano destra verso Caruso. La stretta fu meno forte della prima ma leggermente più lunga. Mitchel si voltò con un sorriso e si avviò sul marciapiede affollato. Caruso rimase per alcuni secondi a osservarlo. Nella mano destra stringeva una microscheda per computer sulla quale erano contenute tutte le informazioni riguardanti l’uomo che doveva sorvegliare. L’americano l’aveva ata durante la stretta di mano finale. Caruso raccolse la banconota lasciata sul tavolo e la inserì nel suo portafoglio lasciando cadere anche la microscheda. Tirò fuori una banconota di taglio più piccolo per pagare il conto pensando alla missione che stava per iniziare. Aveva ragione Mitchel a dire che dovevano muoversi con cautela. Per il momento non esistevano prove certe per stimare fino a che punto il JOA fosse colluso con i pakistani e una mossa sbagliata avrebbe potuto significare l’apertura di una crisi con gli Stati Uniti e i loro alleati. Bevve l’ultimo sorso di tè che nel frattempo si era riscaldato a causa della calura della giornata. Si alzò dalla sedia e si diresse all’interno del locale per pagare.

Reis osservò l’agente segreto straniero mentre si allontanava dal locale dopo aver pagato il conto. Si trovava in una camera d’albergo di fronte al locale stesso. Scattò un’ultima fotografia prima che l’uomo di allontanasse. Ricontrollò sullo schermo tutte le fotografie che aveva scattato, complimentandosi mentalmente per il lavoro. Pensò che se non avesse lavorato nei servizi segreti avrebbe sicuramente avuto una rosea carriera come fotografo. Ripose la macchina fotografica nella sua custodia e decise di concedersi una doccia.

Periferia di Karachi (Pakistan), 3 giugno 2016

La donna si muoveva tranquillamente in mezzo al fiume di gente che riempiva le due ampie strade incrocianti. Il sole di mezzogiorno dispensava a chiunque la sua dose di calore a quaranta gradi con un’umidità che si avvicinava al cento per cento. Un coro di clacson si levò a pochi metri da lei.

All’incrocio delle due strade, che non era regolato da semafori, il traffico di veicoli era insostenibile. C’era un pullman dai colori variopinti che stava tentando di attraversare l’incrocio. Sembrava una versione grande del furgoncino della Volkswagen usato dagli hippy negli anni sessanta. Il mezzo si portò nel centro dell’incrocio ma subito un motociclo a tre ruote gli tagliò la strada, costringendolo a inchiodare. L’autista si profuse in una serie di insulti agitando il pugno dal finestrino, ripartendo immediatamente per non farsi tagliare la strada da altri veicoli. Elisa Borello continuò a camminare arrivando a un piccolo mercato composto da una ventina di bancarelle. Un paio di bambine, che non potevano avere più di dieci anni, le tirarono la lunga veste nera chiedendole dei soldi. In città alcune organizzazioni criminali senza scrupoli facevano affari d’oro facendo mendicare i bambini, arrivando anche a rapirne per aumentare il business. Lei mise una mano in tasca e porse alle piccole alcune monete, stando attenta a non perdere di vista l’uomo che stava osservando. Le due bambine intascarono il denaro e si allontanarono senza neanche ringraziare, alla ricerca di un nuovo obiettivo. La Borello notò che il suo bersaglio, un tale di nome Jawad, si era fermato a una bancarella, a circa trenta metri da lei; fece altrettanto, fermandosi a un banco che vendeva tessuti. Prese in mano una tenda azzurra e cominciò a saggiarne il tessuto con indice e pollice. Domandò al commerciante il prezzo parlando in lingua urdu. Con la coda dell’occhio si accorse che il bersaglio era di nuovo in movimento, quindi posò la tenda ringraziando il commerciante, che rimase deluso dalla vendita andata in fumo. Un minuto dopo il bersaglio salì a bordo della sua auto, parcheggiata in una stradina secondaria. Alcuni giorni prima lei stessa aveva piazzato un trasmettitore a bordo del mezzo. Giusto il tempo di accendere il motore e l’auto ripartì immettendosi nel traffico con una manovra spericolata. La Borello con fare indifferente parlò attraverso il microauricolare che aveva appeso all’orecchio, nascosto sotto il velo nero che ricopriva tutta la testa. “Qui Due, il bersaglio si è allontanato in auto” annunciò. “Molto bene Due, questa è la nostra occasione. Tre, rapporto situazione.” A duecento metri di distanza dalla Borello un uomo che indossava dei vestiti logori era seduto per terra su un lurido marciapiede. Non era molto alto ma il fisico era massiccio e muscoloso. La sua barba era lunga e sporca, così come i

suoi capelli. A terra c’era un vecchio cappello dentro il quale si trovavano alcune monete, frutto della generosità dei anti. “Qui Tre, la situazione è sotto controllo” brontolò a bassa voce con un accento siciliano l’uomo che si chiamava Carmelo Barraco. “Che cos’è questa voce triste?” “La prossima volta lo fai tu il barbone.” “Non lamentarti che stai anche arrotondando lo stipendio grazie a me.” Elisa Borello, in mezzo al mercato soffocò una risata coprendosi la bocca con una mano. “Quattro, segui il bersaglio mantenendoti a distanza.” “Ricevuto.” Cesare Boccia, un uomo segaligno e dai capelli ricci, guardò il navigatore satellitare che aveva installato sul cruscotto della sua automobile, una Nissan grigia. Un puntino rosso, che rappresentava l’auto di Jawad, si muoveva lentamente. Boccia mise in moto il veicolo e si immise tranquillo nel traffico. “Cinque, rapporto situazione.” All’interno di un furgoncino Hyundai H100 parcheggiato poco distante dal mercato, si trovava Dario Furlan, un trentenne con i capelli a spazzola e un paio di occhiali dalla montatura fine. “Qui Cinque, tutto ok” rispose dopo aver osservato due monitor che trasmettevano le immagini riprese da altrettante videocamere montate all’esterno del furgone. “Allora direi che è arrivato il nostro momento. Uno procede verso l’edificio. Unità Due, Tre e Cinque rimanete in attesa.” “Due, ricevuto.” “Tre, ricevuto.” “Cinque, ricevuto.”

Numero Uno, meglio conosciuto come Nicholas Caruso, attraversò la strada con fare tranquillo facendo fermare alcune automobili. Indossava un camicione di cotone bianco e un paio di jeans. In testa portava un cappello cilindrico anch’esso di cotone bianco. Aveva scurito la pelle con una speciale crema e successivamente indossato una barba nera ben curata. Il travestimento a un primo sguardo poteva farlo are per uno del luogo. Dopo aver attraversato la strada si ritrovò davanti all’edificio nel quale doveva penetrare. Si trattava di un vecchio condominio di tre piani la cui facciata color crema era scrostata in più punti. Gli alloggi dei primi due piani potevano disporre di un piccolo balcone mentre al terzo piano erano presenti solo delle finestre decorate con una cornice in pietra. Caruso superò un portoncino di legno tenuto aperto da un cuneo in ferro e imboccò la rampa di scale in pietra che conduceva ai piani superiori. Al primo piano incontrò una ragazzina che poteva avere sedici anni. Indossava un kurta che copriva in parte un paio di jeans attillati e portava un velo rosa sui capelli, raccolti in una treccia. Scendeva le scale e contemporaneamente mandava un sms con il suo cellulare. Caruso salutò educatamente e lei rispose distrattamente mentre si incrociavano, senza staccare gli occhi dal telefono. L’agente segreto proseguì fino al terzo piano e individuò l’alloggio che doveva violare. Lì ci viveva il sospetto militante del JOA che era stato segnalato da Mitchel. Il suo nome era Jawad e secondo le informazioni doveva essere abbastanza importante. Caruso e la sua squadra lo stavano sorvegliando da diversi giorni, aspettando il momento giusto per poter perquisire la sua abitazione. Da una tasca del camicione tirò fuori un kit da scasso e in pochi istanti riuscì ad avere la meglio sulla serratura. Entrò velocemente e richiuse la porta. “Sono dentro” annunciò attraverso un piccolo microfono che portava agganciato al bavero del camicione. “Ricevuto, procedi con la perquisizione” gli rispose Furlan. Caruso si ritrovò in una stanza di circa trenta metri quadri, dove al centro spiccava un variopinto divano da due posti. A sinistra si trovava una piccola cucina con un tavolo quadrato e due sedie. Sulla destra c’era un mobile basso sul quale era appoggiato un televisore da trentadue pollici, al suo fianco c’era una libreria.

Constatò che l’occupante dell’alloggio era una persona decisamente disordinata. Sul divano erano ammucchiati diversi indumenti, alcuni dei quali necessitavano di un giro in lavatrice. La cucina non era messa meglio. I due fornelli del gas erano incrostati di sugo, mentre nel lavello erano presenti diversi piatti e bicchieri sporchi. “Mi sa che questa casa necessita di un tocco femminile” commentò a beneficio della sua squadra in attesa all’esterno. “Magari salgo su a dare un’occhiata” rispose ironica la Borello. “Facciamo un’altra volta” rispose Caruso. Si avvicinò alla cucina e decise subito da dove iniziare le sue ricerche. Sul tavolo quadrato era appoggiato un computer portatile. Sollevò il camicione bianco e scoprì un marsupio che aveva agganciato alla vita. Lo aprì e ne tirò fuori il palmare speciale che faceva parte del suo equipaggiamento. L’apparecchio, tra le altre funzioni, era in grado di scaricare l’intero hard disk di un computer e violare eventuali file protetti da . Tramite un cavo collegò il palmare al portatile. Il processo avrebbe richiesto alcuni minuti, nel frattempo lui si sarebbe dedicato alla ricerca di altri indizi. Aprì tutti gli stipi della cucina, compreso il frigorifero. Diede un’occhiata dentro i cassetti del mobile della televisione e sfogliò tutti i libri della libreria alla ricerca di eventuali appunti. Non trovò nulla di importante, così si diresse verso il fondo della stanza. C’erano due porte, la prima faceva accedere a un piccolo bagno con un gabinetto, un lavandino e un piatto doccia. Anche in quella stanza ordine e pulizia lasciavano a desiderare. La seconda porta conduceva a una piccola camera da letto. C’erano un letto a due piazze e un armadio. Perquisì velocemente entrambe le stanze senza trovare nulla di interessante. Tornò in cucina dove il palmare aveva finito il suo lavoro. Era il momento di piazzare alcune microcamere per tenere sotto sorveglianza il sospettato. Tirò fuori dal marsupio un paio di oggetti della dimensione di una moneta da due centesimi che sul retro erano dotati di una piccola calamita. Si guardò intorno per trovare il punto migliore dove piazzare la microcamera. Individuò un termosifone arrugginito che si trovava sotto una finestra. Si avvicinò e piazzò la microcamera tra due elementi del termosifone aiutandosi con un pinzetta. Quando ebbe terminato si rialzò, soddisfatto del lavoro.

“Microcamera piazzata. Come sono le immagini?” Furlan controllò uno dei monitor di fronte a lui che mostravano le immagini di buona parte della stanza. “Le immagini sono soddisfacenti. Procediamo con la prova audio” rispose infilandosi un paio di cuffie. Caruso si portò al centro della stanza e cominciò a schioccare le dita ripetutamente. Dopo alcuni secondi Furlan annuì constatando che la microcamera funzionava perfettamente. “L’audio va bene.” “Ottimo. Provo a vedere se riesco a piazzarne una in camera da letto e vengo via da qua.” “Ricevuto.” Caruso si spostò in camera da letto e individuò un altro termosifone. Installò una nuova microcamera e insieme a Furlan si sincerò che tutto funzionasse a dovere. Non gli restava che recuperare il palmare e lasciare l’alloggio. Quando uscì sul marciapiede, fu investito da una folata di aria calda. “Ok squadra. Missione compiuta. Appuntamento al rifugio. Quattro, continua a seguire il bersaglio” ordinò brevemente attraverso il microfono. I membri della sua squadra confermarono il ricevimento dell’ordine. Caruso si incamminò tranquillamente alla volta del rifugio fornito dalla CIA. La missione si era svolta senza intoppi. Ora non restava che continuare a tenere d’occhio Jawad in attesa che compisse qualche errore.

Herat (Afghanistan), 4 giugno 2016

Latif si rialzò da terra dopo aver terminato la preghiera, subito imitato dagli altri

quattro compagni che stavano alla sua destra. Si trovavano nello scantinato di una vecchia abitazione al centro della città. Il viaggio di Latif dal Waziristan era stato lungo e faticoso, ma fortunatamente era avvenuto senza problemi. Arrotolando il tappetino sul quale aveva pregato, ripensò agli eventi che l’avevano portato fino a Herat. L’uccisione delle due spie americane avvenuta sette mesi prima aveva fatto decisamente salire le sue quotazioni all’interno della resistenza talebana. Aveva ricevuto quella che in un esercito regolare sarebbe stata una promozione al rango di ufficiale. Dopo aver condotto alcune operazioni nel nord ovest dell’Afghanistan, era stato selezionato per un’importante missione. Gli avevano spiegato che tra breve avrebbero ricevuto un aiuto importante da un potente alleato. I capi talebani avevano promesso che sarebbe stato l’inizio della riconquista dell’Afghanistan. Per Latif era l’occasione che tanto aveva aspettato per mantenere la promessa che aveva fatto a suo padre poco prima che morisse. “Riportare l’Afghanistan nelle mani di Allah”. Questa era la promessa solenne che aveva fatto a suo padre. Tra pochi giorni avrebbe preso parte attiva alla restituzione della sua patria all’Altissimo. Il suo pensiero tornò a quando era poco più che un bambino, nel villaggio pakistano che l’aveva accolto dopo la morte del genitore. C’era un episodio in particolare che rimaneva indelebile nella sua mente. Immaginò il volto barbuto e severo di Zemar, uno dei talebani che erano riusciti a riparare in Pakistan dopo la vittoria degli americani. Si trovavano in uno spiazzo polveroso appena fuori dal piccolo paese di montagna. La giornata era calda e secca. Latif, con indosso solo un paio di calzoncini corti sdruciti, studiava l’avversario che si trovava di fronte. Era Idres, un robusto ragazzo di tredici anni, tre più di lui. Il vecchio Zemar attendeva impaziente che lo scontro avesse inizio. Latif era terrorizzato all’idea di battersi con Idres, il giovane più aggressivo del villaggio. Aveva all’attivo già diverse risse con ossa rotte, per i suoi avversari, naturalmente. Lui, al contrario, fino a quel momento non si era dimostrato molto adatto a combattere. Nella lotta le prendeva da chiunque e anche con le armi da fuoco era molto scarso. Non riusciva proprio a capire perché Zemar avesse

insistito per farlo scontrare proprio con Idres. Tuttavia, non poteva certamente opporsi alla decisione del vecchio, la punizione sarebbe stata sicuramente peggiore. Decise di attaccare per primo. Tentò di sferrare un pugno al volto ma Idres schivò facilmente e rispose colpendolo al collo con il taglio della mano. Latif urlò di dolore prima di portarsi nuovamente in guardia. Il suo avversario sogghignava divertito sotto lo sguardo imibile di Zemar. Latif decise di provare con un calcio. Caricò con il destro e mirò alla coscia di Idres. Ancora una volta il tredicenne fu più veloce e riuscì a parare il colpo afferrandogli la caviglia e sferrandogli contemporaneamente un calcio al piede sinistro, facendolo finire a terra. Il piccolo urtò pesantemente la schiena nuda contro il terreno. Un altro urlo di dolore uscì dalla sua bocca. “Latif, mia nipote di sei anni combatte meglio di te. Mettici più rabbia!” urlò a quel punto Zemar. Ferito nell’orgoglio, si rialzò da terra pieno di polvere. Fissò l’avversario che non si era ancora tolto dalla faccia quel sorrisetto impertinente. Decise di cambiare strategia. Caricò a testa bassa, come un toro, nel tentativo di fare cadere a terra Idres. Il tredicenne rispose colpendolo con una potente ginocchiata in faccia. Latif finì ancora in posizione orizzontale, con la mente annebbiata dal dolore. Iniziò a rotolarsi sul terreno gemendo e coprendosi il naso da cui stava uscendo un rivolo di sangue. “Latif, devi comportarti da uomo! Rialzati da terra e combatti. È così che vuoi liberare la nostra patria dagli invasori americani?” Latif continuò a piagnucolare senza rispondere. “Ti ho fatto una domanda. È così che vuoi combattere gli americani?” “No” rispose con un filo di voce. “Non ti ho sentito.” “No!” “Allora combatti!”

Cercò di rialzarsi da terra ma Idres lo ributtò giù con una pedata allo sterno. Infierì colpendolo con un altro calcio allo stomaco. “Che stai facendo, Latif? Mentre sei a terra gli americani stuprano le nostre donne e profanano le nostre moschee. È questo che vuoi?” “No.” “Parla più forte!” “No!” Provò ancora a rialzarsi ma un’altra pedata lo costrinse a terra. “Ringrazia Allah che abbia richiamato tuo padre al suo cospetto. Se potesse vederti si vergognerebbe di te.” Latif strinse una manciata di sabbia in una mano. Sentire Zemar parlare di suo padre in quel modo gli aveva fatto percorrere il corpo da una scarica di rabbia. “Hai sentito? Fahd si vergognerebbe di te.” Latif aveva sentito troppo. Con uno movimento fulmineo gettò la sabbia in faccia a Idres. Il ragazzo venne temporaneamente accecato dai granelli che gli si erano infilati negli occhi. Il figlio di Fahd si rialzò da terra non sentendo più il dolore. Sferrò un calcio nei genitali del suo avversario e, quando egli si chinò istintivamente in avanti, gli restituì la ginocchiata al volto. Non ancora soddisfatto, gli afferrò la testa e continuo a colpirlo con il ginocchio. Una, due, tre. Lo spinse a terra posseduto da una rabbia incontrollabile e gli montò sopra a cavalcioni. Iniziò a sferrargli pugni al volto, uno dietro l’altro. Le nocche si arrossarono del sangue di Idres. Continuò fino a quando quattro robuste braccia lo trascinarono via. Lui, ubriaco di violenza, tentò di opporsi ma i due guerriglieri impedirono ogni suo movimento. Cercò con lo sguardo Zemar e per la prima volta gli parve di vedere sul suo volto un sorriso. Latif ripose il tappetino in una cassapanca con in mente l’immagine di Zemar che si allontanava verso il villaggio. Si avvicinò a un vecchio tavolo di legno sul quale era appoggiato il materiale che gli sarebbe servito nei giorni successivi. C’erano cinque divise antisommossa della polizia nazionale afghana. Ne toccò una leggermente, quasi accarezzandola. Chiuse gli occhi per un istante rivivendo

per l’ennesima volta la morte del padre. “Ancora un po’ di pazienza, padre” mormorò impercettibilmente.

CAPITOLO 8

Karachi (Pakistan), 5 giugno 2016

Dalla finestra aperta arrivava il profumo del mare, nonostante la stessa fosse sbarrata da assi di legno e da una grata in titanio. Anche le altre due finestre dell’edificio, un ex magazzino, avevano ricevuto lo stesso trattamento. La struttura si trovava vicino al porto di Karachi ed era stata abbandonata cinque anni prima. La CIA l’aveva acquistata un anno dopo e l’aveva trasformata in una base operativa per agenti segreti. L’agenzia di intelligence americana possedeva decine di rifugi simili in tutto il Pakistan. Caruso e la sua squadra vi si erano stabiliti da quando erano arrivati in Pakistan. La fortuna aveva voluto che si trovasse a poca distanza dall’abitazione di Jawad, poco più di cinque minuti a piedi. L’edificio era di pianta quadrata e non aveva stanze ad eccezione di un piccolo bagno con doccia. Erano presenti sei brande militari per dormire e un angolo cottura dotato di un fornello elettrico e di un frigorifero. Un lungo tavolo in legno ospitava i pasti degli occupanti. In un altro settore dell’ex magazzino erano presenti alcune postazioni di computer. Dario Furlan in quel momento si trovava proprio davanti a uno di essi. Carmelo Barraco, seduto al tavolo, era impegnato a pulire una pistola. Cesare Boccia era steso su una delle brande, intento a leggere una rivista di modellismo ferroviario. Nicholas Caruso si avvicinò a Furlan sorseggiando una tazza di caffè americano che aveva trovato in dispensa. Erano le dieci di mattina. “Allora Dario, il nostro principino si è svegliato?” chiese riferendosi a Jawad che si trovava ancora nel letto di casa sua.

“Niente da fare Nick, è ancora nel mondo dei sogni.” “E allora lasciamolo dormire ancora un po’.” Si avvicinò a Barraco e bevve un sorso di caffè. “Melo, vuoi un po’ di caffè?” “Io non la bevo quella merda americana” rispose lui infilando uno scovolino metallico all’interno della canna della pistola smontata. “Non è poi così male.” “Allora è megghiu che te lo bevi tu” sentenziò con il suo forte accento siciliano. Caruso scrollò le spalle e continuò a sorseggiare la bevanda. In quel momento Elisa Borello uscì dal bagno reggendo un corto asciugamano bianco che le copriva a malapena il seno ed i genitali. I capelli neri, lunghi fino al mento, gocciolavano sul pavimento. Si diresse verso la sua branda, che aveva spostato lontano da quella dei colleghi maschi, camminando a piedi nudi. Tutti gli sguardi si posarono immediatamente su di lei e sulle sue gambe affusolate. Lei era consapevole di ciò ma non se ne curava assolutamente. Si considerava al pari degli altri e non voleva un trattamento diverso perché era una donna. Solo Barraco sembrava immune al suo fascino, infatti continuò a pulire la sua pistola. “Giratevi dall’altra parte perché devo vestirmi” disse la Borello quando arrivò alla branda. Tutti quanti si voltarono imbarazzati un attimo prima che la donna lasciasse cadere a terra l’asciugamano lasciando scoperto il grazioso fondoschiena. “Minchia ma è possibile che tutti i giorni è la stessa storia? Non puoi vestirti nel bagno?” “È troppo stretto e poi che c’è, non hai mai visto una donna nuda?” rispose indifferente infilandosi un paio di mutandine bianche. “Si dà il caso che l’unica donna nuda che dovrei vedere è mia moglie.”

“Come sei antico. Non vorrai mica dirmi che non sei mai andato su internet per vedere dei filmati pornografici?” Caruso cercò di soffocare una risata pregustando la reazione di Barraco. “Io non ho bisogno di quelle zozzerie” rispose indignato Barraco alzando la voce. “La mia donna è capace di soddisfarmi senza che debba ricorrere ad aiuti esterni.” “E va bene Brontolo, non ti scaldare” affermò la Borello infilando il reggiseno. “E non chiamarmi Brontolo.” Si riferiva al soprannome che gli era stato dato dai suoi colleghi perché secondo loro era un tipo che si lamentava di tutto. Come odiava quel soprannome. “Ma è solo un innocente soprannome.” “Non mi piace e tu lo sai.” “Ok, ok. Basta così tutti e due. In effetti, Carmelo ha ragione. Ovviamente tutti abbiamo già visto altre donne nude ma che tu ti svesta vicino a noi ci provoca un po’ di imbarazzo.” “Parla per te” intervenne Furlan. “Taci tu!” lo zittì Caruso. “Per questo ti chiedo la cortesia di vestirti in bagno dalla prossima volta. Intesi?” “Agli ordini, capo” rispose ironica la Borello allacciandosi il reggiseno. Caruso si lasciò scappare un sospiro. A volte gli sembrava di dover badare a dei ragazzini, ma d’altro canto doveva ammettere che il lavoro si stava rivelando piuttosto frustrante. Sorvegliare una persona era una cosa piuttosto noiosa. Si avano ore e ore fermi senza fare niente per poi uscire all’improvviso con il compito di pedinare il sospettato. Alla noia si aggiungeva il fatto che costui sembrava essere totalmente estraneo al JOA. In quasi una settimana di sorveglianza non avevano ancora trovato nulla di interessante. Neanche l’irruzione in casa di Jawad aveva portato novità. Cominciava a pensare seriamente che la CIA avesse fatto un grosso buco nell’acqua.

“Ok, ragazzi. Penso che tra poco il nostro amico si sveglierà. Cesare, raggiungi casa sua e preparati a pedinarlo nel caso metta il naso fuori. Carmelo ti darà il cambio tra due ore.” “Va bene capo” rispose Boccia abbassando per un attimo la rivista che stava leggendo. Barraco si limitò ad annuire con il capo. Caruso si sedette su una sedia continuando a sorseggiare il suo caffè. Si preannunciava un’altra noiosa giornata di sorveglianza.

Rawalpindi (Pakistan)

Il telefono emise un sonoro squillo interrompendo il silenzio che regnava nella stanza. Il generale Aslam afferrò immediatamente la cornetta senza permettere all’apparecchio di suonare un seconda volta. Sapeva chi era dall’altra parte del telefono criptato. “Tutto è pronto per l’operazione” esordì la voce dall’altro capo. “Molto bene, domani è il grande giorno. Allah ti ricompenserà per i servigi che hai reso fino ad ora. Anche io farò la mia parte per premiarti.” “Sono solo un umile servitore.” “Molto bene, ci risentiremo a lavoro ultimato.” Aslam chiuse la comunicazione posando delicatamente la cornetta. Il suo grande piano stava arrivando verso gli ultimi atti prima del gran finale. Al termine di tutto, il Pakistan sarebbe stato suo e avrebbe costituito la base di partenza per una grande nazione islamica che lui avrebbe governato nel nome di Allah.

Karachi (Pakistan)

Caruso si trovava sdraiato sulla sua brandina quando suonò il telefono criptato del rifugio. Erano ormai le undici di sera e la giornata si era nuovamente conclusa senza che nulla accadesse. Furlan e la Borello stavano giocando a carte tenendo d’occhio i monitor di sorveglianza. Boccia si stava tagliando le unghie delle mani con una forbicina, mentre Barraco si trovava sotto la casa del sospettato, pronto a pedinarlo nell’eventualità che uscisse. Caruso si alzò dal letto e andò a rispondere. Doveva sicuramente trattarsi di Mitchel. Prese il ricevitore e premette il tasto di risposta. “Qui parla Bianchi.” “Signor Bianchi, potremmo essere a una svolta” affermò subito Mitchel. “Di cosa si tratta?” “C’è un membro di staff presidenziale che ha informazioni su JOA. È un po’ che io sto lavorando lui. Ok? È convinto a parlare di coinvolgimento di governo e dare noi prove in cambio di protezione e nuova vita in Stati Uniti.” “È un’ottima notizia. Dove vi incontrerete?” “È proprio questo il problema. Vuole avere incontro domani mattina o accordo sfuma ma io sono a Islamabad. Non arriverò mai in tempo.” “Non è un problema, ci vado io.” “Esatto. Ho già detto a lui che manderò mio uomo di fiducia. L’incontro avverrà in nuovo Karachi International Hotel. Ha prenotato stanza sotto falso nome.” Seguirono ulteriori informazioni sull’incontro e la comunicazione terminò. “Ce stanno novità?” chiese Boccia continuando a tagliarsi le unghie. “Sì. A quanto pare, un membro dello staff presidenziale è disposto a darci le prove che stanno aiutando il JOA. Vuole incontrare Mitchel domani mattina approfittando del fatto che si trova a Karachi a seguito del Presidente Rehman. Purtroppo Mitchel si trova a Islamabad e non riuscirà ad arrivare, quindi ci

andremo noi.” “Questa sì che è una notizia. Potremmo finire tutto prima del previsto. Che ne pensi, Nick?” chiese la Borello. “Non lo so. Mi pare tutto molto strano. Per esempio con questo Jawad, il mio istinto mi dice che non c’entra nulla con il JOA.” “Beh, potrebbe essere piuttosto bravo a nascondere i suoi affari” ipotizzò Furlan. “Sì, potrebbe ma non sono convinto, come non mi fido del tutto di Mitchel.” “Perché non ti fidi? Secondo le informazioni è un agente eccellente che ha sempre svolto il suo compito egregiamente.” “Anche io ho letto la scheda ma... Non so. Forse a volte sono troppo paranoico.” Caruso tornò sulla branda pensieroso. Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato.

CAPITOLO 9

Camp Arena, Herat (Afghanistan), 6 giugno 2016

Ruben Monteleone inquadrò il bersaglio ancora una volta e fece fuoco fino a svuotare il caricatore del suo fucile M4. Abbassando l’arma controllò il risultato della raffica di proiettili, dimostrando soddisfazione con un breve cenno del capo. Attese che tutti i suoi uomini finissero i loro caricatori. “Ok, cessate il fuoco” ordinò ad alta voce. Il riscaldamento mattutino poteva considerarsi concluso. Dopo una corsa di cinque chilometri avevano fatto un’ora di esercizi fisici. Subito dopo si erano esercitati per mezz’ora al poligono di tiro. Adesso avrebbe concesso un po’ di riposo prima di impegnarli in un’esercitazione in tecniche di irruzione presso un edificio allestito all’interno del campo. “Quarantacinque minuti di pausa e poi ci troviamo tutti in armeria. Muovete le chiappe” informò gli uomini. I quindici carabinieri del GIS che aveva ai suoi ordini si avviarono verso gli alloggi chiacchierando rumorosamente. Il giovane e rossiccio Masino si avvicinò a Monteleone. “Marescià, posso farle una domanda?” chiese Masino. “Se non hai intenzione di chiedermi soldi va bene.” “No, non voglio chiederle soldi” ridacchiò il rosso.

“Buon per te, perché il mio stipendio se ne va quasi tutto per pagare il mutuo della casa.” “Volevo farle una domanda riguardo a Nicholas Caruso.” “Cosa vorresti sapere?” chiese il maresciallo inarcando un sopracciglio. “Beh, voi vi conoscete da anni...” “E quindi?” lo incalzò Monteleone. “Mi chiedevo... Beh, prima è arrivato un gruppo di persone che non ha dato confidenza a nessuno. Poi è arrivato Caruso a bordo dell’aereo presidenziale. Sono subito ripartiti senza fare rumore. Mi piacerebbe sapere se c’è qualcosa in ballo.” “Per caso ti stai chiedendo se c’è la possibilità di un po’ di azione per noi?” “Sì, proprio così.” “Capisco. Prima di rispondere ti faccio io una domanda. Tu sai che io e Caruso siamo amici da anni e avrai sicuramente capito che non è venuto qui per una vacanza. Quindi la domanda è questa: ammesso che lui sia stato autorizzato a dirmi qualcosa, tu, se fossi in me, lo andresti a dire al primo carabiniere ficcanaso dai capelli rossi che te lo chiede?” Masino rimase un attimo in silenzio avendo capito cosa intendeva dire il suo superiore. “Immagino di no” rispose infine. “Molto bene, allora arriverai sicuramente da solo alla risposta alla tua domanda.” Masino abbassò lo sguardo a terra imbarazzato. “So che stai sperando in un po’ di azione” si rabbonì Monteleone “e sicuramente non sei l’unico, ma non pensare solo a questo. Piuttosto, come stanno andando i preparativi per il matrimonio?” A Masino gli si illuminarono gli occhi pensando alla futura moglie.

“Ieri Luisa e i suoi genitori hanno trovato un posto stupendo per fare il ricevimento vicino a Livorno. Mi hanno mandato le foto e gli ho detto di confermare.” “Molto bene, una cosa in meno da fare.” “Mi dispiace solo di non poter dare una mano per l’organizzazione.” “Di questo non devi preoccuparti. Le donne amano organizzarsi da sole il matrimonio, perché deve essere esattamente come vogliono loro. Quando mi stavo per sposare inizialmente esprimevo dei pareri, ma quando ho capito che nulla di quello che dicevo piaceva a mia moglie, mi sono limitato ad assecondarla. Fidati di me, quel giorno non sarai che uno degli accessori della sposa.” “Mi pare una visione un po’ cinica.” “Forse, ma te ne accorgerai quando arriverà il momento. Ora vai riposarti un po’.” “Agli ordini, marescià.” Masino allungò il o per raggiungere i compagni. Monteleone rimase a guardare il rosso carabiniere che si allontanava. Non pensava veramente le cose che aveva detto ma a lui piaceva che gli altri lo vedessero un po’ burbero, anche quando parlava della moglie. In realtà, Miriam e suo figlio gli mancavano moltissimo. Decise che sarebbe ato dall’alloggio per mandarle un messaggio.

Karachi (Pakistan)

L’edificio era proprio quello che cercava Caruso. Si trattava di un hotel a quattro stelle appartenente a una nota catena alberghiera. Era stato inaugurato da neanche sei mesi e si affacciava sulla trafficata Korangi Road. La moderna struttura contava dieci piani e offriva una bella vista della Masjid e Tooba, una moschea che aveva il primato di possedere il tetto a cupola singola più grande al

mondo. In quel momento il Presidente del Pakistan Rehman stava assistendo alla funzione religiosa durante il primo giorno del Ramadan, come ogni anno da quando era stato eletto. Dopo avrebbe pronunciato un discorso alla nazione. Caruso si presentò all’ingresso dell’hotel e fu immediatamente fermato da un paio di poliziotti baffuti che controllavano l’accesso. Venne salutato cortesemente da uno dei due e informato che avrebbe subito una perquisizione. L’agente italiano acconsentì abbozzando un sorriso, era disarmato. Il poliziotto lo sondò utilizzando un metal detector portatile e subito dopo ò alla perquisizione manuale, tastando i pantaloni eleganti neri e la camicia bianca di lino a maniche corte. L’agente si ritenne soddisfatto, trovando solo portafoglio e cellulare, quindi gli fece cenno di proseguire. Attraversò l’ampio atrio dell’edificio arredato con mobili moderni. Il colore dominante era il bianco. Raggiunse la reception dove una graziosa ragazza gli diede il benvenuto. “Buongiorno, sono Giorgio Bianchi. Ho un appuntamento con un mio caro amico che alloggia qui” la informò sfoggiando un largo sorriso. “Mi dice come si chiama il suo amico?” chiese cortesemente la ragazza. “Bruce Forrest.” La receptionist digitò qualche tasto sul computer. “Ecco, Bruce Forrest. Stanza numero 510. L’ascensore e le scale si trovano alla sua sinistra” informò gentilmente. “Grazie.” Entrò nell’ascensore, anch’esso bianco e con un ampio specchio. Premette il tasto cinque sulla pulsantiera. La salita fu rapida e l’arrivo al piano selezionato fu segnalato dal suono di un camlo. Una strana sensazione di pericolo si stava impossessando di lui. Sentiva come se ci fosse qualcosa che non tornava. Uscì dall’ascensore e si fermò un attimo per orientarsi guardando un cartello che indicava l’ubicazione delle stanze. La 510 era a destra. Percorse una ventina di metri calpestando una morbida moquette rossa e svoltò a un angolo incrociando un uomo vestito con un completo elegante nero. Notò un auricolare appeso all’orecchio, doveva trattarsi di un agente dei servizi segreti. Lo salutò

distrattamente e l’uomo ricambiò con un cenno del capo. Trovò la stanza 510 e bussò alla porta. Nessuna risposta. Bussò ancora ma niente. Provò a girare la maniglia e la porta si aprì. Si ritrovò in un grazioso salottino con mobili in legno color rovere chiaro e un paio di divanetti in pelle bianchi. Un’ampia portafinestra conduceva a un balconcino che mostrava una splendida vista della Masjid e Tooba. Le tende color crema erano chiuse, cosi come quelle di un’altra finestra che si trovava poco distante dal balcone, vicino a una porta scorrevole che molto probabilmente conduceva alla camera da letto. Doveva trattarsi di una suite. “Ehi, c’è nessuno?” provò a chiamare. Nessuna risposta. Non era un buon segno. Prese il cellulare e compose il numero di chiamata rapida. “Dario, avvicinati con l’automobile all’edificio.” “Ci sono problemi?” “Ancora non lo so. Esegui e rimani in attesa.” “Ricevuto.” Caruso ripose il cellulare nella tasca del pantalone e avanzò verso il centro della stanza.

Appena conclusa la cerimonia religiosa, tutti gli occupanti della moschea erano usciti fuori, radunandosi intorno al luogo di culto in attesa che comparisse il Presidente Rehman. Appena davanti all’ingresso era stato allestito un palco che in quel momento era circondato da alcune dozzine di poliziotti. Squadre di cecchini erano posizionati sui tetti degli edifici che si trovavano nei pressi. Il piazzale esterno della moschea era abbellito da una lunga vasca d’acqua dove, posizionate al centro, si trovavano tre fontane di forma circolare. Il sole si rifletteva sull’acqua tentando più di una persona ad immergersi dentro per trovare refrigerio, anche se ovviamente nessuno si permise di farlo. Ai due lati della fontana, c’erano due porticati gemelli, dove molti fedeli si stavano

proteggendo dai cocenti raggi solari. Un elicottero della polizia sorvolò discretamente la zona, per sincerarsi che tutto fosse in ordine. Tutto era pronto per il consueto discorso del Presidente. Nelle prime file, una dozzina di telecamere erano disposte per immortalare l’evento. Per prime uscirono due delle guardie del corpo di Rehman, che si avvicinarono al palco osservando tutto quello che era intorno a loro. Pochi istanti dopo uscì il Presidente, che indossava un tradizionale camicione bianco e un copricapo dello stesso colore. La sua fine barba chiazzata di grigio era ben curata. Proseguì deciso verso il palco acclamato dalla folla e salì i tre gradini. Al centro della struttura era posizionato un leggio, sul quale erano appoggiati i fogli del discorso che stava per pronunciare. Rehman si concesse ancora alcuni istanti per osservare i festanti cittadini di Karachi. Pensò per un attimo ai suoi consensi, che nel Pakistan erano molto alti, soprattutto da quando aveva preso una dura posizione nei confronti degli Stati Uniti. Si poteva dire senza sbagliarsi che il popolo pakistano amava il proprio Presidente. Tirò fuori da una tasca del camicione un paio di occhiali da lettura dalla montatura fine. Li inforcò con un movimento tranquillo ed alzò una mano per chiedere il silenzio. I rumori cominciarono immediatamente a diminuire fino a quando, pochi istanti dopo, il silenzio calò sul piazzale della moschea Masjid e Tooba. “Cari fratelli e sorelle di Karachi, anche quest’anno per me è stato un onore e un piacere cominciare il Ramadan della mia amata città.”

La detonazione rimbombò nel salottino della suite. Un colpo singolo che a Caruso era sembrato provenire dalla stanza a fianco, sicuramente un fucile di precisione. Un coro di urla terrorizzate si levò dal piazzale antistante la moschea. Il suo primo pensiero fu di irrompere nella stanza a fianco ma il suo secondo pensiero gli fece capire una cosa più importante: era stato incastrato! La strana chiamata di Mitchel, la stanza vuota, il colpo di fucile, il boato della folla. Avevano sparato a qualcuno, forse al Presidente, e volevano incastrare lui. Si abbassò dietro a un divanetto senza sapere neanche il perché, appena un istante

prima di sentire una seconda detonazione, questa volta molto più lontana dalla sua posizione. Sentì il rumore di un vetro rotto e subito dopo un sibilo sulla sua testa, pochi millesimi di secondo prima che un proiettile si conficcasse in una parete. Un dannato cecchino lo stava prendendo di mira, doveva uscire subito da lì. Si spostò un po’ più a destra, sempre rimanendo basso. Pochi istanti dopo un altro proiettile si conficcò nel divanetto di pelle proprio nel punto in cui poco prima si trovava lui. Forse il cecchino pensava di averlo colpito, era l’occasione per Caruso di tentare la fuga. Scattò in avanti, diretto verso la porta di ingresso, e si buttò a terra facendo una capriola. Un’altra detonazione, ma anche stavolta il proiettile andò a vuoto. Si trovò davanti alla porta che aprì più velocemente possibile, pregando mentalmente che il cecchino fallisse ancora. La sua preghiera fu esaudita perché un quarto colpo ò a pochi centimetri dalla sua testa, mancando ancora il bersaglio. Si ritrovò nel corridoio del piano e per un attimo si appoggiò al muro perché aveva bisogno di riprendersi dallo shock. Il cuore gli batteva nel petto così forte da fargli temere che potesse uscire fuori da un momento all’altro. Si voltò alla sua sinistra e vide l’uomo in completo elegante che aveva incontrato poco prima. Nella mano destra stringeva una pistola dotata di silenziatore che teneva puntata verso di lui. “Mi sa che questa volta sono fottuto” sentenziò ad alta voce.

“Qui Falco, bersaglio mancato. Il soggetto è in fuga” annunciò con amarezza l’uomo che aveva sparato a Caruso. Si trattava di un cecchino appartenente ai servizi segreti militari pakistani (ISI), posizionato sul tetto di un edificio davanti all’hotel dove si trovava l’agente italiano. “Ricevuto, ci penserà l’agente nel corridoio.” Il cecchino imprecò furente allontanando l’occhio dal mirino a rilevazione termica. Eppure doveva trattarsi di un lavoro semplice. Era stato posizionato lì perché era il migliore cecchino. Sapeva dove e quando si sarebbe trovato il suo bersaglio, come in una sessione di allenamento. Anche se le tende erano chiuse, grazie al mirino termico aveva visto chiaramente la traccia di calore lasciata dall’uomo. Con un solo colpo avrebbe dovuto abbatterlo. Invece, lo sconosciuto era riuscito a sottrarsi alla morte mostrando dei riflessi eccezionali. Per ben

quattro volte l'aveva mancato di un soffio. Ricaricò il fucile di precisione L96A1 nella speranza di avere ancora un’occasione per colpirlo, magari fuori dall’hotel.

La folla cominciò a disperdersi in tutte le direzioni, appena sentite le detonazioni di arma da fuoco. Le urla si propagarono in tutto il piazzale. Una donna stava tenendo per mano il suo bambino di sei anni, ma i due vennero separati dalla forza d’urto della massa di gente in fuga. Sul palco, a terra, giaceva il corpo senza vita del Presidente Rehman. Il camicione bianco presentava un foro rosso all’altezza del cuore. Il copricapo era scivolato via dalla testa, scoprendo i ricci capelli ingrigiti. I poliziotti e le guardie del corpo estrassero tutti le armi d’ordinanza. Due agenti di sicurezza sollevarono il corpo di Rehman con l’intento di portarlo al sicuro all’interno della moschea. Non sapevano che era già morto.

L’agente dei servizi segreti pakistani faceva parte del complotto e quel giorno aveva un compito ben preciso. Una volta che il cecchino avesse ucciso la spia straniera, sarebbe stato il primo a entrare nella stanza. Non avrebbe fatto entrare nessuno fino all’arrivo di una squadra, anch’essa implicata nella vicenda, che avrebbe raccolto le false prove. Aveva sentito le quattro detonazioni di fucile e quando si era ritrovato davanti la spia era rimasto stupito di vederla ancora in vita. Non sapeva se doveva catturarlo o eliminarlo. “Fermo o sparo” intimò in inglese allo sconosciuto. Caruso si trovava a un metro dalla canna della pistola. Si voltò lentamente verso di lui, sollevando le braccia sopra la testa mentre l’agente pakistano chiedeva istruzioni attraverso l’auricolare. In quel momento squillò un cellulare. La suoneria era uno stupido motivo dance che stava spopolando in tutto il mondo. Il pakistano rimase per un attimo disorientato e Caruso capì che era la sua unica occasione per uscire da quella situazione. Fece un balzo in avanti e con la mano sinistra afferrò la canna della pistola tirandola verso il basso, mentre nello stesso istante colpì la gola del pakistano

con un pugno. Un proiettile venne accidentalmente sparato e si conficcò nella moquette. Caruso aveva dosato la potenza del colpo per non uccidere l’agente, cosa che avrebbe compromesso ancora di più la sua posizione. Il pakistano lasciò la presa della pistola, che ò nella mano sinistra dell’attaccante. Si piegò in due portandosi entrambe le mani alla gola. Caruso ne approfittò per sferrare una ginocchiata sul volto del pakistano che cadde a terra svenendo dal dolore. Si chinò sull’uomo inerme e gli prese l’auricolare. Gli sfilò anche la giacca e cravatta che indossò immediatamente. Perquisì la giacca trovando un pacchetto di sigarette e un accendino. Mentre infilava la pistola in una tasca gli venne in mente un piano per fuggire dall’edificio. Afferrò il pakistano sotto le ascelle e lo trascinò fino all’ascensore. La cabina era rimasta al piano. Premette il pulsante di apertura delle porte e depositò l’uomo svenuto all’interno. Premette il tasto contrassegnato dal numero dieci e uscì dalla cabina. Non aveva tempo per trovare un altro nascondiglio. Sperava che per qualche minuto il corpo non venisse trovato. Mentre le porte si stavano richiudendo prese l’auricolare e parlò in urdu sfruttando quel poco che conosceva della lingua. “Uomo armato in fuga. Lo seguo attraverso le scale.” “Ricevuto, mandiamo rinforzi” fu la risposta che arrivò attraverso l’apparecchio. Si diresse verso la vicina rampa di scale che l’avrebbe portato ai piani inferiori. Accanto alla porta si trovava uno specchio. Ne approfittò per sistemarsi meglio la cravatta e abbottonare la giacca. Discese rapidamente le scale fino a quando, arrivato in prossimità del secondo piano, sentì dei i provenire dal basso. Entrò velocemente nel corridoio del piano, poco prima che due uomini in completo scuro assero di corsa in direzione dei piani superiori. Nel corridoio del secondo piano non c’era nessuno. Individuò una porta con una targhetta che consentiva l’accesso alla stanza solo al personale dell’albergo. Tirò fuori la pistola e sparò un paio di colpi ravvicinati alla serratura. Gli unici rumori che si sentirono furono un paio di sibili e il clangore delle pallottole che sbattevano contro il metallo. Caruso ripose la pistola nella giacca e forzò la porta fino a quando si aprì. Come immaginava, si trattava di un deposito per biancheria e prodotti per la pulizia delle camere. Trovò una bottiglia di alcol che faceva al caso suo. Tolse il tappo e sparse il contenuto sulla moquette che ricopriva il pavimento del corridoio. Prese una delle sigarette e l’accendino che appartenevano all’agente pakistano. Accese la sigaretta e la lanciò sulla moquette imbevuta d’alcol, dopo essersi allontanato di qualche o. Le fiamme si svilupparono subito producendo una vampata di calore. L’efficiente

impianto all’incendio ci mise pochi istanti per dare l’allarme e cominciare a tentare di domare le fiamme facendo uscire acqua dagli spruzzatori posizionati sul soffitto.

Reis si allontanò con calma dalla finestra ornata da un tendaggio rosa, soddisfatto del lavoro appena svolto. Appoggiò su un ampio letto matrimoniale un fucile di precisione M24. L’arma proveniva da un soldato statunitense ucciso in Afghanistan anni prima. Sentì una detonazione partire dal palazzo di fronte all’albergo. Non se ne preoccupò perché sapeva che nessun cecchino l’avrebbe colpito. Tutti i tiratori scelti che avrebbero potuto abbatterlo facevano parte del complotto. Un seconda detonazione. Strano che il cecchino avesse dovuto sparare due colpi. Terza detonazione. E pensare che quel cecchino doveva essere il migliore. Ancora qualche istante e ci fu una quarta detonazione. Reis era inorridito. Quattro colpi per abbattere un bersaglio del quale si conosceva l’esatta posizione. Quel cecchino era un dilettante in confronto a lui. Comunque gli spari erano cessati e il bersaglio doveva essere stato eliminato. Raccolse da terra il bossolo espulso dal fucile e lo strinse tra indice e pollice coperti da un leggero guanto in pelle. Dopo averlo osservato per qualche istante lo infilò nel taschino della camicia. Ora non rimaneva che posizionare il fucile di precisione accanto al corpo della spia. Raccolse la sua pistola che aveva appoggiato sul davanzale, sollevò la camicia e la infilò nella fondina attaccata alla cintura. Sul letto aveva lasciato un borsello che conteneva un tesserino che lo identificava come agente dell’ISI e un silenziatore da montare sulla canna della sua pistola in caso di bisogno. Indossò il borsello a tracolla ed estrasse il tesserino, mettendolo nel taschino della camicia. L’avrebbe mostrato ai poliziotti per uscire dall’albergo. L’ultima cosa da recuperare era il fucile M24 e dopo averlo fatto si avvicinò alla porta che comunicava con il salottino. La aprì e una volta dentro si aspettò di trovare il cadavere della spia straniera. Non lo trovò, la porta d’ingresso era spalancata. La cosa non gli piaceva per niente. Appoggiò il fucile a terra ed estrasse la pistola dalla fondina. Tolse la sicura e avanzò lentamente puntando la canna davanti a sé. Raggiunse l’ingresso e si sporse con cautela nel corridoio. Non vide nessuno ma sentì il rumore dell’ascensore che si muoveva. Avanzò ancora, sempre con la pistola in pugno. Arrivato all’ascensore non vide ancora nessuno. Avrebbe dovuto esserci un agente là fuori, dove si era cacciato? Forse era all’inseguimento della spia? Non ne aveva idea, l’unico dato certo era che il cecchino aveva fallito il bersaglio per

ben quattro volte. Rientrò in camera perché doveva finire il suo lavoro. Recuperò il fucile e lo posizionò nei pressi della finestra, come se fosse stato lasciato cadere nella fuga. Sul pavimento c’erano frammenti del vetro, andato in frantumi a causa dei proiettili del cecchino. La tenda color crema era forata in quattro punti. Tirò fuori dal taschino della camicia il bossolo che aveva conservato. Fece cadere a terra anche quest’ultimo dopo aver imprecato mentalmente nei confronti dell’inetto tiratore scelto che aveva fallito miseramente. Il suo lavoro era finito, tra breve sarebbe arrivata una squadra che faceva parte del complotto per raccogliere le prove da lui lasciate. Uscì dalla stanza reprimendo il desiderio unirsi alla caccia alla spia straniera. Non poteva farlo perché i suoi ordini erano di non esporsi. Si consolò pensando che ormai il complotto era in piena evoluzione e nulla poteva essere fatto per fermarlo.

Mentre Caruso scendeva le scale diretto al piano terra, uno dei camerieri dell’albergo aveva recuperato un estintore per tentare di spegnere le fiamme prima che si svilupero ulteriormente. L’incendio creato da Caruso doveva solo servire da diversivo e chiunque avrebbe potuto spegnerlo senza troppe difficoltà. Intanto sempre più clienti preoccupati si precipitavano fuori dalle stanze per cercare di capire cosa era successo. Quando Caruso raggiunse il piano terra cominciò a urlare in inglese. “C’è un incendio al secondo piano. Sta bruciando tutto!” La graziosa receptionist contattò rapidamente i suoi superiori. I poliziotti che controllavano l’ingresso avvertirono i vigili del fuoco e uno di loro si precipitò sulle scale. Mentre la sirena dell’allarme continuava a trillare con insistenza, una decina di persone si diresse spaventata verso l’uscita dell’albergo. Caruso ne approfittò unendosi al gruppo per are davanti ai poliziotti che l’avevano perquisito. Gli agenti erano disorientati perché si trovavano a dover gestire un incendio e una caccia all’uomo nello stesso momento. Essi avevano appena ricevuto la notizia dell’assassinio del Presidente, ma non facendo parte del complotto non conoscevano il volto di Caruso. L’agente italiano guadagnò l’uscita senza essere fermato da nessuno. Una volta arrivato fuori si allontanò dall’edificio e raggiunse una Nissan grigia che lo attendeva con il motore . Alla guida c’era Boccia, mentre di fianco c’era Furlan. Caruso aprì la portiera posteriore ed entrò nell’abitacolo.

“Bella giacca” commento Furlan. “Grazie, mi sono fermato a fare shopping.” “Che cazzo è successo?” chiese Boccia senza badare alle buone maniere. “Un gran casino. Partiamo che vi racconto tutto.” La Nissan ripartì alla volta del rifugio.

Dopo aver mostrato le sue credenziali di agente dell’ISI a uno dei poliziotti, Reis era uscito dall’hotel. Si era incamminato in una stradina secondaria che correva parallela a Korangi Road. Da alcuni minuti si era accorto di essere seguito a distanza da un uomo. L’inseguitore era bravo, dovette riconoscere Reis, ma la sua grande esperienza gli aveva permesso di individuarlo. Si chiese chi mai potesse spiarlo. Gli americani? Oppure i suoi stessi compatrioti? Possibile che all’interno dei servizi segreti pakistani qualcuno avesse dei sospetti su di lui? In quel caso il complotto poteva essere stato scoperto. Doveva liberarsi dell’inseguitore e far perdere le sue tracce. Continuò a camminare tranquillamente fino a quando non svoltò in una piccola via dove sorgeva un condominio fatiscente. Proseguì verso l’edificio e puntò verso il retro. Si nascose sotto un balcone ed estrasse la pistola dalla fondina in attesa dell’inseguitore. Tirò fuori dal borsello il silenziatore e lo avvitò velocemente alla canna dell’arma. Lo sconosciuto arrivò dopo appena un minuto guardandosi intorno alla ricerca del suo bersaglio. Si fermò proprio davanti al nascondiglio di Reis, forse perché aveva fiutato la trappola. In ogni caso era troppo tardi, perché venne raggiunto da un solo proiettile alla testa. Il corpo cadde a terra pesantemente e Reis si affrettò a trascinarlo sotto il balcone. Lo osservò per un istante e gli parve di conoscerlo. Uscì dal nascondiglio e proseguì scavalcando una recinzione che portava nel cortile di un altro condominio, sperando di non trovare altri inseguitori.

CAPITOLO 10

Karachi (Pakistan)

La Nissan arrivò al rifugio un quarto d’ora dopo il recupero di Caruso fuori dall’hotel. I tre occupanti uscirono dalla vettura ed entrarono immediatamente nell’ex magazzino. All’interno trovarono la Borello e Barraco che indossavano già dei giubbotti antiproiettile e imbracciavano una mitraglietta FN P90. Sul tavolo giacevano altri tre giubbotti e altrettante mitragliette pronte all’uso, oltre a un paio di zainetti che contenevano altre armi, provviste e attrezzature, tra cui un telefono satellitare criptato. Durante il tragitto, Caruso aveva dato ordine di prepararsi a lasciare l’edificio. “Allora Nick, ci vuoi spiegare cosa diavolo sta succedendo?” esordì la Borello non appena i tre furono entrati. “È successo che sono stato incastrato.” “Che cosa vuoi dire?” Caruso spiegò tutta la storia, come aveva già fatto a Furlan e Boccia. “Quindi ora sarai un super ricercato” sentenziò la Borello alla fine della storia. “Sì, ma dubito che mi vogliano vivo. Anche se venissi catturato troverebbero il modo di farmi fuori, magari suicidato in carcere.” “Ma perché tutto questo?” chiese Furlan. “Non lo so” ammise Caruso.

“E mo’ che famo?” domandò Boccia. “Dobbiamo andare via da qui al più presto. Mitchel sa dove ci nascondiamo, potrebbero mandare qualcuno a prenderci.” “Sei sicuro che ci abbia davvero tradito? Non potrebbe essere stato catturato?” “È possibile, ma anche in quel caso potrebbe rivelare dove siamo sotto tortura. Per ora dobbiamo comportarci come se fosse un traditore. Non possiamo fidarci di nessuno. Ci sposteremo in quel rifugio d’emergenza che abbiamo individuato quando siamo arrivati. Poi stabiliamo un contatto con Roma.” “Va bene” disse la Borello. Gli altri si limitarono a un cenno di assenso. “Dobbiamo distruggere questo posto. Melo, hai predisposto gli esplosivi?” “Tutto fatto.” “Molto bene. Dario, hai recuperato tutti i dati che abbiamo raccolto?” “Dati recuperati.” “Ok Melo, attiva il timer e usciamo da qui.” Due fuoristrada neri si stavano avvicinando rapidamente all’ex magazzino adibito a rifugio dalla CIA. Ogni veicolo trasportava cinque uomini armati di pistole mitragliatrici Heckler & Koch MP5. Tutti indossavano una tuta tattica di colore nero e un giubbotto antiproiettile. I loro volti erano coperti da amontagna scuri. Nel fuoristrada che si trovava in testa Dawoud, il comandante dell’operazione, aveva fretta di arrivare. Avevano ordinato a lui e la sua squadra di prepararsi per un’azione. La missione consisteva nell’eliminare una squadra di spie straniere irrompendo in un ex magazzino adibito a rifugio segreto. Secondo le informazioni, i bersagli dovevano essere cinque. Un gioco da ragazzi per lui e i suoi uomini. L’unico problema era che doveva fare in fretta perché potevano fuggire da un momento all’altro. Dawoud guardò il Gps agganciato al cruscotto del fuoristrada. Ormai dovevano essere arrivati. Scorse a qualche centinaio di metri di distanza delle sagome che si avvicinavano

a un’auto grigia. Sembravano armati, quindi dedusse che si trattava sicuramente dei suoi bersagli. Erano arrivati giusto in tempo. Ancora qualche minuto e non avrebbero trovato nessuno. “Li vedo. Sono davanti a noi. A tutte le unità: non lasciamoceli scappare.” I mezzi si fermarono uno a fianco all’altro a circa un centinaio di metri dalla Nissan.

Caruso notò due fuoristrada neri che si erano fermati poco distanti da lui e la sua squadra. Dannazione, erano già arrivati! “In auto, presto!” ordinò. Furlan si mise alla guida, la Borello di fianco a lui. Nel frattempo doveva tenere impegnati i nemici, che stavano per uscire dal mezzo. “Melo, diamo il benvenuto a quegli stronzi!” Si inginocchiò a terra, subito imitato da Barraco. Entrambi appoggiarono il calcio dell’arma sulla spalla prendendo di mira i due veicoli. Il caricatore da cinquanta colpi avrebbe garantito un discreto volume di fuoco. Nel frattempo Furlan infilò la chiave nel quadro e tentò l’accensione. Niente da fare, il motore non si accese.

Dawoud vide che due dei fuggitivi si erano posizionati per fare fuoco. Sfortunatamente i due fuoristrada non erano a prova di proiettile. Dovevano prepararsi a sostenere l’impatto della prima raffica. “Giù la testa!” ordinò attraverso il radiomicrofono. Una pioggia di proiettili cominciò a martellare i parabrezza dei due veicoli, producendo un foro dietro l’altro. Dawoud rimase con la testa abbassata sotto il

cruscotto in attesa che il volume di fuoco si attenuasse.

I due agenti italiani spararono meticolosamente con raffiche da tre colpi fino a quando entrambi i parabrezza si ritrovarono decine di fori rotondi. Dopo neanche venti secondi i caricatori dei due P90 si svuotarono. Nel frattempo Furlan continuava a cercare di accendere il motore, che proprio non ne voleva sapere di collaborare. “Dario, che cazzo stai combinando?” urlò Caruso ricaricando la mitraglietta. “Non lo so. Non parte!” “Ma dai! Non me ne ero accorto!” “Ahò Nick! Quelli mi sa che tra ’n po’ s’incazzano” osservò Boccia. “Eli e Cesare, continuate a sparare” ordinò Caruso mentre ricaricava l’arma. Doveva prendere una decisione. Di lì a poco gli avversari si sarebbero accorti che l’auto non funzionava.

Dawoud continuò a rimanere basso mentre un’altra sventagliata investiva i due mezzi. Un proiettile raggiunse un pneumatico e lo forò. Non potevano reggere ancora per molto inchiodati sotto fuoco nemico senza fare niente. “Qualcuno risponda al fuoco” ordinò ai suoi uomini. Due agenti riuscirono a sparare in direzione dei nemici, riparati dietro le portiere del mezzo. Una raffica fece esplodere il lunotto posteriore della Nissan. La Borello e Boccia cercarono riparo dietro la vettura continuando a sparare, mentre Furlan cercava ancora di accendere il motore. In breve, il fuoco sarebbe aumentato inchiodandoli dietro l’automobile. Bisognava agire in fretta. Caruso decise che l’unico modo di fuggire dai suoi assalitori era attraversare a

piedi la fitta rete di edifici, molti dei quali abbandonati, che si trovavano nella zona. Avrebbero potuto costringere i nemici a un inseguimento a piedi. Una volta arrivati nella zona abitata c’era la possibilità di requisire un veicolo e fuggire. “Ok ragazzi, arretriamo verso gli quegli edifici. Melo, diamo copertura!” Entrambi ripresero a sparare mirando sui nemici che erano scesi dai fuoristrada, mentre i compagni arretravano. Quando finirono i caricatori, arretrarono a loro volta mentre Furlan li copriva con un’altra sventagliata di P90. Arrivarono tutti sani e salvi a un altro ex magazzino mentre il volume di fuoco proveniente dai fuoristrada cominciava ad aumentare. Pezzi di intonaco si staccarono da uno dei muri dell’edificio. Raggiunsero il retro del magazzino, dove trovarono una strada secondaria che attraversava altri edifici simili.

Dawoud era furioso perché le sue prede gli stavano sfuggendo. Doveva fermarli a ogni costo. Come se non bastasse, la seconda squadra aveva perso un uomo, colpito alla testa mentre tentava di rispondere al fuoco. “Risalite tutti a bordo. Lasciate a terra il compagno colpito” sbraitò. “Ma signore...” si levò una protesta. “Non abbiamo tempo” tagliò corto il comandante. I due fuoristrada avanzarono di un centinaio di metri e si fermarono proprio davanti al rifugio della CIA. Dal mezzo di Dawoud uscirono quattro persone. Dawoud spiegò brevemente il suo piano. Il secondo fuoristrada avrebbe proseguito per qualche centinaio di metri e gli occupanti sarebbero scesi per tagliare la strada ai fuggitivi. Dawoud e altri tre compagni si sarebbero gettati all’inseguimento per cercare di spingere le prede contro la seconda squadra. Una classica manovra a tenaglia. Il fuoristrada di Dawoud era quello con il pneumatico forato. Il comandante ordinò all’autista di cambiare la gomma per poter rendere nuovamente operativo il mezzo. “Ok ragazzi, andiamo a prendere quei bastardi!”

Il secondo fuoristrada partì sgommando mentre Dawoud e tre uomini raggiunsero di corsa l’angolo dove avevano svoltato Caruso e i suoi. Sul volto coperto dal amontagna si dipinse un leggero sorriso. L’inseguimento era iniziato.

Caruso e Barraco si trovavano in testa al gruppo di fuggitivi. Furlan era al centro, mentre la Borello e Boccia fornivano copertura in retroguardia. L’obiettivo era lasciare la zona dei magazzini e inoltrarsi in quella residenziale, composta prevalentemente da povere casette di un piano. La speranza era che le mosse degli aggressori fossero limitate dalla necessità di non colpire i civili. Dopodiché avrebbero dovuto impadronirsi di un veicolo per completare la fuga. Improvvisamente echeggiarono degli spari alle loro spalle. Una serie di proiettili ò sopra le loro teste, non troppo distanti dal bersaglio. “Quei bastardi sono già arrivati!” esclamò la Borello. “Rispondete al fuoco!” ordinò Caruso. La Borello e Boccia, con una rapidità sorprendente, si voltarono di scatto verso gli assalitori e si tuffarono a terra. In un secondo presero la mira e fecero fuoco. I quattro aggressori si dispersero cercando un riparo ma uno di loro fu troppo lento e venne colpito al fianco destro.” “Uno a zero per me” sentenziò la Borello. “Ottima mira” si complimentò Boccia. “Svoltiamo l’angolo e proseguiamo a sinistra” urlò Caruso.

Quei maledetti gli stavano dando parecchio filo da torcere. Dawoud osservò uno dei suoi uomini mentre si contorceva a terra tenendosi la ferita con una mano.

“Comando, uomo a terra. Mandate soccorsi” chiese attraverso il microfono. Posò lo sguardo sugli altri due uomini che gli erano rimasti. “Continuiamo l’inseguimento.” “Signore ma abbiamo un uomo ferito” obiettò uno dei due. “Non abbiamo tempo per accudirlo. Dobbiamo uccidere i fuggitivi” gli rispose secco. Non ci furono altre repliche. “Premi forte la ferita, ragazzo, i soccorsi stanno arrivando. Noi dobbiamo andare” disse al ferito prima di continuare l’inseguimento. A quel punto ci fu una grossa esplosione. Dawoud e i suoi si abbassarono istintivamente. Pochi istanti dopo, una colonna di fumo nero si levò dall’ormai ex rifugio segreto della CIA. Dawoud realizzò immediatamente cosa era successo. Tentò di contattare l’autista del fuoristrada sul quale aveva viaggiato. “Veicolo uno, rispondi.” Nessuna risposta. “Veicolo uno, rispondi.” Non avrebbe mai ricevuto una risposta perché l‘onda d’urto dell’esplosione aveva investito l’uomo con una pioggia di detriti. Una scheggia di metallo incandescente aveva colpito l’autista penetrandogli nella gola. “Siano dannati in eterno da Allah” imprecò Dawoud. “Non fermiamoci.”

Il gruppo di Caruso continuava a correre anche se l’andatura si era fatta più lenta. Caruso temeva che i nemici stessero tentando di aggirarli per poi chiuderli in trappola. L’esplosione li colse per un attimo alla sprovvista, facendoli fermare per alcuni istanti.

“Tanti saluti alla nostra casetta” esclamò la Borello. Caruso esortò il gruppo a proseguire. “Forza ragazzi, non c’è tempo da perdere.” Altri proiettili sibilarono sopra le loro teste. Tre ulteriori nemici erano sbucati a un centinaio di metri dalla loro posizione, proprio davanti a loro. “Tutti giù!” urlò Caruso. Si gettarono tutti a terra, davanti a un piccolo edificio. Si ripararono dietro un muretto di pietra alto circa mezzo metro mentre una sventagliata di proiettili sibilò sopra di loro. Caruso gettò un’occhiata dietro di sé. In lontananza poteva scorgere altre tre figure che si avvicinavano velocemente. Guardò il magazzino che si trovava di fronte. C’era un portone in legno a due battenti chiuso con un catena di metallo e una porta più piccola anch’essa in legno. La osservò per un lungo instante cercando di saggiarne mentalmente la resistenza. Poi lo sguardo si posò sul fisico massiccio di Barraco, mentre Boccia e Furlan stavano rispondendo al fuoco. Realizzò che la loro unica possibilità di salvezza consisteva nell’entrare in quel magazzino e organizzare una difesa. “Melo, sfonda quella porta. Voialtri, fuoco di copertura al mio tre” ordinò mentre una pioggia di proiettili si abbatteva sul muretto, scheggiandone la pietra. “Uno, due, tre!” Quattro bocche da fuoco cominciarono a sparare sui tre aggressori, costringendoli a ripararsi, mentre Barraco si alzò in piedi di scatto. Prese un breve rincorsa e si gettò sulla porta. L’impatto fu violento e la porta cedette parzialmente. “Ancora!” urlò la Borello. Barraco prese nuovamente la rincorsa mentre alcuni proiettili stavano cominciando ad arrivare dal gruppo che si stava avvicinando dietro di loro. Al secondo tentativo, la porta cedette alla forza del siciliano, che cadde a terra insieme al battente, incapace di fermare il suo impeto.

“Tutti dentro” urlò Caruso. Il gruppo entrò rapidamente all’interno dell’edificio senza subire danni. Il magazzino aveva una superficie di una centinaio di metri quadri. “Eli e Cesare, rimanete alla porta. Io controllo se c’è un’altra uscita” ordinò aiutando Barraco a rialzarsi. All’interno si trovavano attrezzi per la pesca, come reti e arpioni. Una piccola barca di legno era posizionata su due cavalletti. Non erano presenti finestre, quindi l’aria all’interno era viziata da un forte odore misto tra pesce e muffa. Davanti al portone si trovava qualcosa coperto da un telone grigio. Sotto la copertura faceva capolino una ruota gommata. “Questa sì che è una botta di culo” esclamò Furlan. Caruso si avvicinò all’oggetto, accorgendosi che la sparatoria era momentaneamente cessata. Evidentemente anche i nemici si stavano riorganizzando. Afferrò il telone e lo tirò con forza. Scoprì un vecchio pickup di colore rosso e gli si illuminarono gli occhi. “Dario, cerca di fare partire questo affare.” “Questa volta mettici più impegno” lo punzecchiò la Borello. “Tu pensa a tenermi lontani quelli là.” “Melo, trova qualcosa per rompere il catenaccio del portone” ordinò Caruso. “Va bene.” Dopo aver dato le disposizioni, ricaricò la sua arma sperando che il pickup fosse in condizioni di partire.

Dawoud vide le sue prede rifugiarsi in un edificio, mentre i suoi uomini stavano raggiungendo una barchetta ribaltata per trovare riparo. Un minuto dopo tutta la sua squadra era riunita davanti al magazzino. Erano rimasti in sette, compreso l’autista del secondo fuoristrada che attendeva un suo ordine per venirli a

prendere. Il comandante mandò subito uno degli uomini sul retro del magazzino per assicurarsi che le prede non sfuggissero da qualche uscita secondaria. Gli altri continuavano a scambiare raffiche di mitraglietta con gli occupanti dell’edificio. Ordinò a tre uomini di continuare a tenere impegnati gli avversari mentre lui cercava di avvicinarsi con un altro compagno. Proprio in quel momento, uno dei suoi venne colpito alla testa e si accasciò a terra senza vita. “Maledizione!” imprecò Dawoud. “Lanciate una granata!”

“Uno a uno, palla al centro” esultò Boccia dopo aver colpito un avversario alla testa. “Complimenti, ma non è ancora finita” rispose la Borello riparandosi da una rabbiosa raffica avversaria. Barraco aveva trovato una sbarra di metallo con la quale avrebbe potuto scardinare il lucchetto del catenaccio che bloccava il portone di legno. “Questo dovrebbe andare bene” disse ando davanti a Caruso. “Granata” urlò improvvisamente la Borello. Pochi secondi dopo ci fu uno scoppio all’esterno dell’edificio. La granata era rimbalzata contro il muro ed era tornata indietro di qualche metro senza provocare danni. “La prossima volta potremmo non essere così fortunati” osservò la Borello sporgendosi per dare un’altra sventagliata di mitra. “Già” rispose Boccia. “Caricamento.” La Borello aveva informato che necessitava di ricaricare la sua arma. Caruso la sostituì immediatamente davanti alla porta. Nel frattempo Barraco cominciò ad armeggiare con il lucchetto cercando di romperlo facendo leva con la sbarra di ferro.

“Ho finito le munizioni” urlò Boccia. Caruso gli ò un caricatore facendolo scivolare sul pavimento sporco di polvere. Un’altra granata scoppiò all’esterno dell’edificio, questa volta molto più vicino all’uscio. “Dario che te stai a fà, ’na pippa?” chiese Boccia facendo uscire il romanaccio che era in lui. “Ancora un momento.” “Non abbiamo più tempo” sentenziò Caruso. “La catena è spezzata” esultò Barraco. Pochi istanti dopo il motore del pickup cominciò a tossire per alcuni secondi fino alla completa accensione. “È partito!” annunciò Furlan. “Bravo ragazzo, ti meriti un biscottino” commentò sarcastica la Borello. “Tutti a bordo” ordinò Caruso. Furlan si mise alla guida e Barraco si sedette di fianco a lui. La Borello, Boccia e Caruso si sistemarono dietro, sul pianale. “Tutti pronti a fare fuoco.” Prese un lungo sospiro prima di ordinare la partenza. “Vai Dario!” Furlan schiacciò il pedale dell’acceleratore.

Dawoud sollevò il pugno per ordinare al suo compagno di fermarsi. Nel caos della sparatoria gli era parso di udire il rumore di un motore. Si trovava davanti al portone di legno. Mentre era fermo, si accorse che dall’edificio gli occupanti avevano smesso di sparare. Il suo sguardo si posò sul portone, poco prima gli era parso che fosse chiuso da una catena di metallo che ora non c’era più.

Sentì il rombo del motore giusto in tempo. “A terra!” riuscì a urlare.

Il pickup uscì dal magazzino spalancando i due battenti in legno. Furlan vide davanti a sé due uomini armati che cercarono di scansarsi dalla sua strada gettandosi di lato. Sterzò subito a sinistra puntando verso la zona abitata. I due uomini dietro la barca in legno furono per un attimo sorpresi dalla vista del pickup ma si ripresero abbastanza in fretta. Aprirono il fuoco contro il mezzo ma la stessa cosa fecero Barraco, affacciato al finestrino, e gli altri tre sul pianale. Ci fu un breve ma violento scambio di colpi da distanza ravvicinata. La Borello venne colpita al braccio sinistro ma entrambi i nemici caddero sotto la superiorità di fuoco della squadra di Caruso. Il pickup riuscì ad allontanarsi dal magazzino. “Eli, tutto a posto?” chiese Caruso guardando il braccio della Borello. “Sì, mi ha solo colpito di striscio” rispose con una smorfia. “Appena possibile cerchiamo di medicarla. Speriamo che non ci seguano.” “Ne dubito” affermo scettico Boccia. Intanto il pickup raggiunse la zona abitata dove alcune persone erano uscite da casa per capire quale fosse la provenienza degli spari.

Dawoud e il compagno si rialzarono da terra mentre il pickup rosso si allontanava a tutta velocità. “Tutto bene?” chiese il comandante al compagno. L’uomo si toccò la fronte e sulla sua mano comparvero tracce di sangue. “Sì, sto bene. Ho solo battuto la testa per terra.” In quel momento l’altro uomo, che stava tenendo d’occhio il retro dell’edificio,

arrivò correndo. “Cosa è successo?” “Hanno trovato un mezzo e sono scappati” rispose Dawoud. Ancora leggermente intontito, parlò attraverso il microfono per contattare l’autista del fuoristrada. “Veicolo due, raggiungi immediatamente la nostra posizione. Dobbiamo inseguire i fuggitivi.” “Ricevuto.” Si avvicinò alla barchetta rovesciata e osservò i cadaveri dei suoi tre uomini. “Che Allah li abbia in gloria” mormorò. Aveva già perso sei uomini. Quella che gli avevano descritto come una operazione facile si stava rivelando una catastrofe. Il suo corpo fu scosso da tremiti di rabbia. Doveva assolutamente eliminare quei maledetti infedeli. Uno stridere di pneumatici annunciò l’arrivo del fuoristrada. L’autista aveva abbattuto a calci il parabrezza crivellato di proiettili. I tre uomini salirono a bordo, Dawoud si sistemò accanto al posto di guida. “Vai in quella direzione, dobbiamo raggiungerli” ordinò all’autista.

Il pickup procedette attraversando un agglomerato di povere casette fino a quando non svoltò in una strada a due corsie per senso di marcia. In quella zona, le abitazioni erano più grandi. Il traffico era scarso perché essendo iniziato il Ramadan molte persone si trovavano a casa propria. Dovevano seminare i due fuoristrada e abbandonare il mezzo prima che fossero individuati dalla polizia. Erano ati quasi cinque minuti dalla fuga con il pickup e Caruso stava cominciando a sperare di aver seminato i nemici. Nel frattempo aveva medicato il braccio di Elisa Borello con una benda trovata in uno degli zaini. Le sue speranze di aver seminato gli inseguitori si spensero quando vide uno dei fuoristrada avvicinarsi velocemente alla loro posizione.

“Merda, quelli non mollano!” osservò la Borello. “Prepariamoci all’assalto” avvisò Caruso.

Aveva ritrovato le sue prede e questa volta non se le sarebbe fatte scappare. Dawoud ordinò all’autista di accelerare per raggiungere il pickup. “Signore, non sarebbe meglio chiamare rinforzi?” chiese uno degli uomini da dietro. “No!” ringhiò Dawoud voltandosi di scatto e fulminandolo con lo sguardo. Doveva calmarsi. “In ogni caso” riprese moderando il tono della voce “con tutto questo casino qualcuno avrà sicuramente chiamato la polizia. Voglio prenderli prima che arrivino loro.” Aveva già perso sei uomini in quell’operazione, non sarebbe tornato alla base a mani vuote. “Accelera” ordinò ancora all’autista. “E voi, pronti al fuoco” aggiunse imbracciando il suo MP5.

Furlan superò un furgoncino bianco con una manovra azzardata. Sperava che gli inseguitori non aprissero il fuoco per non rischiare di colpire innocenti. Anche questa speranza si infranse presto. Dal fuoristrada cominciarono a provenire diverse raffiche di proiettili. Furlan cercò procedere a zig zag per offrire un bersaglio meno stabile. Se avessero colpito un pneumatico sarebbe finita. Quelli che si trovavano nel retro cercarono di appiattirsi sul pavimento del pianale. Furlan svoltò bruscamente a destra tagliando la strada a un’utilitaria rossa. L’autista inchiodò bruscamente per lo spavento. “Svolta a destra!” ordinò Dawoud. L’autista svoltò urtando l’utilitaria rossa senza fare troppi complimenti. Il comandante sparò un’altra raffica sporgendosi dal cruscotto privo di parabrezza.

Vide il pickup svoltare nuovamente, questa volta a sinistra. L’autista era bravo, doveva cercare di colpire le gomme.

Si cominciavano a sentire alcune sirene in lontananza. Caruso doveva sbarazzarsi degli inseguitori o presto se ne sarebbero aggiunti degli altri. “Cesare, abbiamo qualche granata?” Boccia senza rispondere rovistò in uno degli zaini e tirò fuori un paio di granate a frammentazione. Le porse a Caruso. “Dario, fai avvicinare quei bastardi.” “Ricevuto.” Il pickup rallentò. Le raffiche provenienti da dietro si fecero più insistenti. Caruso attese ancora un attimo sbirciando per essere sicuro che non ci fosse qualche ante. Tolse la sicura alle due granate e sporse il braccio facendole cadere in strada. Gli ordigni rimbalzarono sull’asfalto tintinnando.

“Granate” urlò Dawoud. L’autista sterzò bruscamente a destra per evitare gli ordigni. Perse per un attimo il controllo del fuoristrada che urtò un’auto parcheggiata. L’impatto e l’ampia sterzata fecero il resto. Il fuoristrada si ribaltò facendo un giro completo e un altro mezzo giro fino a quando il tettuccio si appoggiò sull’asfalto, strisciando per ancora qualche metro. Nel frattempo le granate erano esplose alle spalle del mezzo mandando in frantumi i vetri di alcune auto parcheggiate. Solo l’autista del fuoristrada si salvò perché era l’unico che indossava la cintura. L’airbag contribuì a salvargli la vita. Il comandante Dawoud venne sbalzato fuori dall’abitacolo e andò a sbattere pesantemente la testa sull’asfalto, morendo sul colpo.

Caruso sollevò la testa e vide il fuoristrada ribaltarsi. Il secondo mezzo non si

era visto per tutto l’inseguimento, quindi poteva presumere che non vi partecie. Ora dovevano abbandonare il pickup prima che arrivasse la polizia. Fece fare ancora quasi un chilometro a Furlan prima di ordinargli di fermarsi sotto un cavalcavia. “Ragazzi, dobbiamo dividerci. Ci ritroviamo tutti al rifugio d’emergenza che abbiamo individuato. Lasciamo qui tutto l’equipaggiamento, tranne le pistole.” Tutti scesero dal pickup abbandonando nell’abitacolo i giubbotti antiproiettile e le mitragliette P90. Portarono con loro solo gli zaini. Si incamminarono in direzioni diverse mentre le sirene della polizia cominciavano a ululare sempre più rabbiose.

CAPITOLO 11

Fuori da Karachi (Pakistan)

Gli pneumatici scricchiolarono sulla stradina sterrata mentre il veicolo procedeva a o d’uomo. A un certo punto la stradina si interruppe e terminò in un campo. Joe Mitchel parcheggiò accanto a una berlina nera con i vetri oscurati. In piedi accanto all’auto si trovava l’uomo con il quale aveva organizzato il tradimento della squadra di italiani. Di lui non conosceva neanche il nome. Sapeva solo che gli aveva offerto una via d’uscita per lasciare la schifosa CIA e l’odiato Pakistan. Aveva già ricevuto un milione di dollari depositati su un conto delle isole Cayman ed ora ne avrebbe ricevuti altri nove insieme a una nuova identità. I suoi nuovi amici avrebbero anche simulato la sua morte, liberandolo per sempre e permettendogli di godere la sua nuova vita da milionario. Mitchel uscì dalla sua auto fischiettando allegramente, senza provare alcun rimorso per aver tradito il suo Paese. Nella fondina ascellare, bene in vista, portava il suo fedele revolver calibro 45. Se lo sconosciuto avesse fatto il furbo, gli avrebbe spappolato la testa con un sol colpo. Si chinò nell’abitacolo e recuperò un computer portatile. La schermata mostrava in tempo reale la situazione del suo conto segreto. Al momento, il saldo era di un milione di dollari. “Buonasera, mio buon amico” esordì con un ampio sorriso l’americano allungando una mano. Reis strinse la mano ricambiando il sorriso. “Buonasera anche a te.” “Allora, l’operazione è andata a buon fine?”

“C’è stata qualche complicazione ma il tuo aiuto si è rivelato prezioso.” “Ne sono felice. Vogliamo concludere il nostro affare?” “Certamente.” Sul tettuccio della berlina si trovava un altro computer portatile. Reis cominciò a schiacciare alcuni tasti. “Tra poco avrai i tuoi soldi. Te li sei meritati.” “Non vedo l’ora.” Reis toccò ancora qualche tasto prima di terminare. “Fatto, tra pochi istanti sul tuo portatile dovrebbe comparire il nuovo saldo.” Mitchel, tenendo il portatile con entrambe le mani attese trepidante che il numero uno diventasse dieci. “E per quanto riguarda la simulazione della mia morte?” chiese senza togliere lo sguardo dal computer. “Oh, farò di meglio che simularla.” Michel alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere una lama comparsa tra le mani dell’uomo misterioso. Con una mossa fulminea Reis si avventò alla gola dell’americano. La lama affondò nella carne aprendo un taglio di cinque centimetri e recidendo la vena giugulare. Mitchel lasciò cadere a terra il portatile portandosi le mani alla gola. Un fiotto di sangue aveva cominciato a uscire dalla ferita. L’americano si accasciò a terra e Reis si avvicinò per dagli il colpo di grazia piantandogli il coltello nel cuore. La sua vittima si contorse ancora per qualche istante prima che la vita lo abbandonasse. Reis ripulì la lama del coltello sul pantalone di Mitchel. Quando ebbe terminato fece un fischio e dalla berlina nera uscirono un paio di uomini. “Mettete il corpo nella sua macchina e fatela sparire.” Entrambi annuirono e si avvicinarono al cadavere.

Reis raccolse il computer lasciato cadere a terra e si diresse alla berlina nera, soddisfatto per aver svolto egregiamente un altro compito.

Islamabad (Pakistan)

Erano le otto di sera e il direttore dei servizi segreti militari pakistani, Azhar Malik, stava per tenere una conferenza stampa per informare la nazione riguardo all’assassinio del Presidente Rehman. La sala era gremita di giornalisti, molti appartenenti a televisioni straniere, impazienti di apprendere notizie fresche. Un paio di loro erano statunitensi. Dal momento dell’attentato, avvenuto la mattina, non erano ancora state date notizie ufficiali. Circolava però la voce che una spia straniera avesse compiuto l’assassinio riuscendo a fuggire. Il direttore entrò nella sala indossando un completo nero, come a sottolineare il lutto che era in corso. Avrebbe letto un comunicato ma non avrebbe risposto a nessuna domanda. Si avvicinò al leggio sulla cui base troneggiava il simbolo dell’ISI. Attese che in sala calasse il silenzio e cominciò a leggere. “Questa mattina, nel sacro giorno in cui inizia il Ramadan, il nostro amato Presidente Rehman è stato vilmente assassinato. Le nostre indagini ci hanno portato immediatamente all’assassino. Si tratta di una spia di sospetta nazionalità italiana, entrata in Pakistan probabilmente sotto falso nome e sostenuta dagli Stati Uniti.” La frase per poco non fece venire giù il tetto dell’edificio. Ogni giornalista presente in sala cominciò a rivolgere la propria domanda al direttore, urlando e cercando di sovrastare le voci di tutti gli altri. Un paio di agenti cercò di riportare l’ordine mentre il direttore rimaneva imibile davanti al leggio. Ci vollero oltre due minuti prima di zittire nuovamente la sala. Malik proseguì esponendo la versione ufficiale dei fatti e presentando le prove raccolte aiutandosi con delle diapositive. Mostrò delle foto di Nicholas Caruso in compagnia di Joe Mitchel, seduti a un tavolino di un bar. Raccontò che Mitchel era da tempo sorvegliato perché si sospettava appartenesse alla CIA. Mostrò

ancora le immagini delle videocamere posizionate nella hall dell’albergo, che documentavano l’ingresso di Caruso e la sua fuga pochi minuti dopo. Seguirono le foto della stanza d’albergo, del fucile di precisione, del bossolo ritrovato, dell’agente ferito. Parlò del tentativo di arrestare il gruppo di spie straniere, individuate poco dopo l’attentato. Le immagini mostrarono il rifugio della CIA esploso, i due fuoristrada neri disintegrati, il pickup abbandonato con le armi dentro e i cadaveri del comandante Dawoud e della sua squadra. Tutto il materiale era stato preparato a puntino per incolpare Caruso e i suoi. Ovviamente di riflesso sarebbero state incolpate anche Italia e Stati Uniti. Si stava per aprire una seria crisi diplomatica. Il direttore si scusò perché i servizi segreti non erano riusciti a impedire la tragedia, giustificandosi con il fatto che non c’era modo di immaginare il vile tradimento da parte di nazioni alleate. Concluse mostrando le foto di tutti i membri della squadra di Caruso, provenienti da alcune videocamere di sorveglianza di una banca, che avevano ripreso il pickup mentre transitava. Non erano di ottima qualità ma i volti erano facilmente riconoscibili. Lasciò la stanza senza dire altro mentre i giornalisti avevano ripreso a urlare domande. Era come se avesse lanciato una bomba in un mercato. Poco dopo che ebbe lasciato la stanza suonò il suo cellulare. Rispose dopo qualche squillo. “Ben fatto, Direttore” si complimentò il generale Aslam dall’altro capo del telefono. “Era quello che occorreva fare” rispose Malik con modestia. “Sì, hai ragione. Comunque grazie a te possiamo are al gran finale. Che Allah ti benedica.” “Così sia anche per te.” Il direttore dell’ISI, uno principali attori del grande complotto, ripose il telefono nella tasca della giacca.

Roma, Palazzo Chigi

“Ma che cazzo gli è preso a quelli? Sono tutti impazziti?” chiese il Presidente del Consiglio italiano Giovanni Parodi. Si trovava nel suo ufficio in compagnia del ministro degli Esteri Leonardo Conti, amico di vecchia data e consigliere politico. Aveva da poco portato la notizia che l’ISI accusava gli italiani dell’assassinio del Presidente pakistano. Parodi si trovava ancora nel suo ufficio quando il biondo e grassoccio ministro era entrato tutto sudato senza neanche dare il tempo alla segretaria di annunciarlo. “Che succede Leo?” aveva chiesto incuriosito il premier. “Un disastro” era riuscito a dire Conti, con la fronte che grondava di sudore. Aveva armeggiato con il computer di Parodi fino a trovare la conferenza stampa del direttore dell’ISI. Il discorso era in lingua urdu ma sottotitolato in inglese. Il premier aveva ascoltato il discorso, leggendo i sottotitoli, con preoccupazione sempre crescente. “Forse sono davvero tutti impazziti” rispose Conti, che aveva riacquistato un po’ di self control. “L’unica cosa certa è che si scatenerà un putiferio. Le relazioni tra Pakistan e Stati Uniti erano già ai minimi storici, ora non oso immaginare cosa accadrà. E in tutto questo ci finiamo in mezzo pure noi.” “E tutte quelle prove che hanno trovato?” “Penso che abbiano fatto un bel montaggio.” “Certo che hanno fatto un montaggio. Se l’avessimo voluto, non saremmo mai stati così stupidi da mandare un cecchino per far fuori il loro Presidente. Immagino che esistano molti altri modi per non lasciare tracce.” “Sono d’accordo con te.” “Che fine hanno fatto Caruso e la sua squadra?” “Sono spariti. Non riusciamo più a rintracciarli.” “Maledizione! Fate di tutto per trovarli.”

“Certamente. Comunque bisognerà smentire subito tutte le accuse.” “Sì, anche se servirà a poco. È di dominio pubblico che gli Stati Uniti erano in rotta di collisione con Rehman. Ci sarà molta gente che crederà in questa storia.” “Lo so ma in ogni caso dobbiamo respingere fermamente ogni addebito che ci è stato fatto. Dovremmo disconoscere Caruso e la sua squadra.” “Che cosa? No, non possiamo farlo.” “Ragiona, Giovanni. Non possiamo certo ammettere di aver mandato una squadra di nostri agenti per dare la caccia a Hassan in un paese alleato.” “D’accordo, ma non possiamo neanche abbandonare Caruso. È pur sempre un eroe.” “Giovanni...” “Ha salvato la mia vita e anche la tua, cazzo.” Parodi si alzò dalla sedia alzando il tono della voce. “Lo so e Dio solo sa quanto gliene sono grato, ma in questo momento non possiamo ammettere che è un agente segreto alle nostre dipendenze.” “Allora dichiariamo che sono cittadini italiani e chiediamo che vengano giudicati in Italia.” “Abbiamo già avuto un’esperienza simile in ato e tu sai bene come è andata. È poi non sono neanche dei militari, non concederanno mai l’estradizione. “E allora lasciamo semplicemente che se la cavino da soli fino a quando li cattureranno?” “Non ho detto questo. Lasciamo che si calmino le acque per qualche giorno e poi tenteremo di recuperarli per conto nostro.” Parodi si appoggiò alla scrivania coprendosi il volto con le mani, accusando il colpo della grossa tegola caduta sulla sua testa. Non vedeva l’ora che finisse il suo mandato. Giurò a se stesso che avrebbe strangolato la prossima persona che gli avesse proposto di ricandidarsi.

“Leo, voglio che dei nostri esperti accedano a tutte le prove che hanno recuperato i pakistani a carico di Caruso” si rivolse stancamente all’amico. “Ho già inoltrato la richiesta.” “Molto bene. Voglio i migliori avvocati, smonteranno ogni prova pezzo per pezzo fino a che i pakistani si rimangeranno tutto quello che hanno detto.” “Me ne occuperò io, nel frattempo organizza una conferenza stampa per domani mattina e fatti preparare un discorso.” “Va bene, deve essere un discorso duro.” Il telefono sulla scrivania cominciò a squillare. Parodi alzò la cornetta. “Sì?” Era la sua segretaria. “Signor Presidente, c’è una telefonata in attesa. Si tratta del Presidente degli Stati Uniti.” “Va bene, mi i la chiamata.” “Chi è?” chiese Conti. “Bailey” disse a bassa voce coprendo la cornetta. Conti fece segno che sarebbe uscito dalla stanza mentre Parodi salutò in inglese il Presidente degli Stati Uniti.

Roma, abitazione di Nicholas Caruso

Sonia Caruso si trovava nella cucina di casa sua. Stava affettando delle carote su un tagliere di legno, mentre la piccola Silvia si trovava nel seggiolone, intenta a succhiare un giocattolo. La televisione era sintonizzata su un telegiornale; il volume era basso e Sonia non vi stava prestando molta attenzione. Istintivamente

lo sguardo le cadde sul televisore e per poco non si ferì un dito con il coltello. Lo schermo mostrava la foto di suo marito. Afferrò il telecomando che si trovava sul tavolo, rischiando di farlo cadere a causa del tremore che si era impadronito della sua mano. Il suo primo pensiero fu che il suo Nicholas fosse stato ucciso. Alzò il volume per sentire meglio la notizia. Ascoltando il servizio si portò una mano alla bocca: la buona notizia era che suo marito era ancora vivo, però... Possibile che il suo Nick avesse assassinato il Presidente del Pakistan? Doveva esserci sicuramente un errore. Silvia aveva smesso di succhiare il giocattolo e si era messa a fissare in silenzio la propria mamma, intuendone la preoccupazione. Sonia si diresse barcollando verso il telefono di casa. Caruso le aveva lasciato un numero di telefono da contattare in caso di emergenza. No, non poteva credere che il suo Nick fosse un assassino. Sapeva che non era la prima volta che uccideva qualcuno, questa volta però si trattava di un capo di stato. Ma in fondo, cosa conosceva lei del suo lavoro? Molto poco. E se fosse stato proprio quello l’incarico che gli era stato affidato? Forse il Presidente pakistano era alleato con i terroristi. Era meglio che smettesse per un momento di porsi delle domande. Cercando l’agendina con i numeri di telefono decise che la cosa importante era che Nicholas fosse vivo. Al resto ci avrebbe pensato dopo.

Herat (Afghanistan), 7 giugno 2016

Una folla inferocita si era radunata sotto la sede del consolato italiano, nonostante fosse ata da poco la mezzanotte. Il gruppo, che al momento contava quasi mille persone, si stava ingrossando ogni minuto che ava. La manifestazione era partita grazie ad alcuni membri del movimento talebano che avevano portato in strada il primo gruppo di persone, scandendo slogan contro Italia e Stati Uniti. La rabbia per l’assassinio di un devoto musulmano, per di più il primo giorno del Ramadan e di fronte a una moschea, aveva urtato parecchio il mondo islamico. Infatti altre persone si erano unite al primo nucleo. Analoghe manifestazioni erano sorte in molte parti del mondo, prendendo di mira ambasciate e consolati italiani e statunitensi. L’obiettivo della folla a Herat era irrompere nel consolato italiano ma per il momento quasi duecento poliziotti in tenuta antisommossa sbarravano loro la

strada. In mezzo alla folla alcune bandiere italiane venivano bruciate e slogan contro Giovanni Parodi venivano urlati con rabbia. La tensione era alle stelle. In una via secondaria, Latif era pronto ad agire. Lui e quattro suoi compagni indossavano divise della polizia in tenuta antisommossa e imbracciavano fucili AK-47. Si dispiacque per quello che stava per fare ma si costrinse a pensare che era necessario per mantenere la promessa fatta a suo padre. Il suo pensiero tornò per un attimo alla prima volta che aveva ucciso un uomo. Aveva diciassette anni e si trovava in un piccolo villaggio nel nord est dell’Afghanistan. Una ventina di case d’argilla e appena un centinaio di abitanti. Si trovava al margine dell’unica strada che attraversava il villaggio. Sotto la lunga tunica nascondeva il suo AK-47. Accanto a lui si trovava Asa, dieci anni più di lui. Poco distante si trovavano altri cinque fratelli che facevano parte del gruppo di fuoco. Per Latif si trattava della prima missione dopo aver superato il duro addestramento di Zemar. Erano in attesa di una pattuglia di soldati americani che dovevano attaccare. Il giovane guerrigliero talebano se la stava quasi facendo sotto dalla paura. Sapeva benissimo che poteva non tornare a casa da sua madre. Sperava solo di riuscire ad uccidere almeno un americano prima di raggiungere Allah. Rumore di veicoli in rapido avvicinamento. Latif strinse il calcio del fucile sotto la tunica. Poco dopo vide il veicolo di testa del convoglio, che era composto da due fuoristrada Humvee M998. Su entrambi i veicoli altrettanti soldati scrutavano l’ambiente circostante, impugnando la mitragliatrice pesante Browing M2HB montata sul mezzo. Latif recitò una breve preghiera per darsi coraggio; il veicolo di testa era quasi arrivato nel punto in cui era posizionato un ordigno. L’aveva piazzato Kamyar, uno degli uomini del gruppo di fuoco. Dopo pochi secondi, una palla di fuoco investì l’Humvee di testa. L’autista e il soldato accanto a lui morirono all’istante, mentre il mitragliere venne ferito al volto da alcune schegge. L’altro fuoristrada inchiodò e subito tre degli occupanti uscirono fuori alla ricerca di bersagli. “Ammazziamoli tutti per la gloria di Allah!” urlò Asa. Tutti e cinque i talebani iniziarono a fare fuoco contro il secondo Humvee. Latif iniziò a sparare cercando di colpire il mitragliere, che rappresentava la minaccia

più grossa. Asa riuscì subito a colpire un americano alla spalla. Nel frattempo la Browning iniziò a tuonare sgranando proiettili da 12.7 mm. Due dei cinque talebani vennero fatti a pezzi. Kamyar riuscì a ferire il mitragliere al collo, allontanandolo dalla sua potente arma. Dal primo Humvee in fiamme saltò fuori uno dei soldati seduti nel retro. Sparò una lunga raffica verso Kamyar riuscendo a ucciderlo. Dal lato opposto uscì fuori un altro americano. Latif se ne accorse e lo inquadrò con il suo fucile. Riuscì a scorgere il viso liscio e lentigginoso del militare. Quel ragazzo aveva sicuramente meno di vent’anni, era praticamente un suo coetaneo. Latif non esitò e sparò una raffica che sfigurò il volto del giovane soldato. Il suo corpo cadde pesantemente a terra. Nel secondo Humvee un altro americano aveva preso il controllo della mitragliatrice e stava sputando piombo verso di loro. Latif si sentì afferrare per una spalla. “Dobbiamo andare, Latif” gli urlò Asa. Riuscirono a dileguarsi attraversando il villaggio. Gli americani avevano perso due soldati e quattro erano rimasti feriti. L’attacco per i talebani era stato un successo anche se avevano perso tre fratelli. A Latif era stato insegnato che era solo una questione di pazienza e perseveranza. Prima o poi gli americani si sarebbero stufati di versare il loro sangue. Continuando ad avanzare verso il gruppo di manifestanti, rifletté sul fatto che ormai non era solo più il sangue americano a essere versato, ma anche quello di civili innocenti. Fratelli afghani che non avevano nessuna colpa. Purtroppo, quello era parte del prezzo per la libertà. Caricò il colpo in canna e tolse la sicura al fucile. “Fratelli, è arrivato il momento. Che Allah guidi le nostre azioni!”

Camp Arena, Herat (Afghanistan)

La base militare di Camp Arena era in allarme. Era giunta la notizia che il consolato italiano era sotto assedio e a quanto pareva un centinaio di persone si erano staccate dal gruppo in direzione della base.

Ruben Monteleone si trovava con i suoi uomini, che per precauzione avevano indossato la tenuta antisommossa. C’erano anche una cinquantina di poliziotti afghani che erano appena arrivati e che stavano scaricando ancora l’attrezzatura dai furgoni. La preoccupazione tra gli occupanti della base era tanta perché nessuno aveva intenzione di fare del male ai civili. Tra i soldati regnava l’amarezza perché tutto il lavoro svolto nel corso degli anni per ottenere la fiducia della popolazione stava per essere vanificato. Anche Monteleone aveva indossato la tenuta antisommossa e come gli altri sperava di non arrivare allo scontro. Aveva visto le foto segnaletiche di Caruso e della sua squadra, che avevano fatto il giro del mondo. Non poteva credere che il Governo Italiano avesse ordinato l’assassinio di un leader straniero, per di più alleato, nonostante i rapporti al momento non fossero idilliaci. Doveva esserci un’altra spiegazione. Era davvero preoccupato per la sorte del suo più caro amico. “Marescià, ha notato che i poliziotti afghani ci guardano con sospetto?” chiese Masino interrompendo i suoi pensieri. “L’ho notato, Masino.” “Quelli non si fidano più di noi” continuò Masino. “Che dici! Dopo tutto ’sto casino è normale che siano circospetti. Comunque stai tranquillo, sono sicuro che domani il nostro Governo chiarirà tutto.” “Non lo so. In caso di attacco mi sa che quelli ci pugnaleranno alle spalle.” “E noi li faremo pentire di averlo fatto” intervenne un altro carabiniere. “Basta con le stronzate” tagliò corto Monteleone. “Quei poliziotti sono nostri alleati e nessuno ci pugnalerà alle spalle. Fine della storia e ora chiudete quei cessi che avete al posto della bocca.” Tutti gli uomini di Monteleone rimasero in silenzio. Il maresciallo riprese a pensare al suo amico. Chissà dove si trovava in quel momento.

Periferia di Karachi (Pakistan)

In quel momento Nicholas Caruso si trovava in una zona periferica di Karachi. Era riuscito a riunirsi con il resto della sua squadra nel rifugio d’emergenza che avevano individuato in un gruppo di capannoni industriali abbandonati da diversi anni. Ne avevano scelto uno per nascondersi e riorganizzarsi. Caruso era stato l’ultimo ad arrivare, poiché aveva contattato un numero d’emergenza da un telefono pubblico. Purtroppo nella sparatoria a bordo del pickup la trasmittente satellitare era stata danneggiata da un proiettile. La breve conversazione non aveva fornito nessuna rassicurazione sul fatto di essere recuperati: l’unico ordine era stato di attendere nuovi sviluppi e ricontattarli dopo ventiquattr’ore. Dirigendosi verso il rifugio, aveva notato il televisore di un ristorante che trasmetteva un notiziario nazionale e, a un certo punto, aveva visto una sua immagine a schermo pieno. Si era allontanato immediatamente dal locale, realizzando in quel momento che era ufficialmente un ricercato. Il morale del gruppo era piuttosto basso a causa del guaio in cui si trovavano. Anche il luogo dove si stavano nascondendo non aiutava di certo gli italiani. Il sotterraneo era umido, sporco e infestato dai topi. L’illuminazione era fornita da alcune torce elettriche, che lottavano disperatamente per combattere l’oscurità spruzzando timidi aloni di luce. “Insomma Nick, che ce famo in ’sto posto de merda?” chiese Boccia rompendo l’umido silenzio. “Te l’ho già spiegato” rispose paziente Caruso “gli ordini sono di rimanere nascosti fino a domani. Poi li ricontatterò per ricevere nuove istruzioni.” “Preferisco continuare a muovermi, potremmo puntare verso le montagne.” “Meglio aspettare, sicuramente staranno studiando una soluzione diplomatica.” “Che soluzione diplomatica! Qua se ce pijano c’appiccicano a ’n muro e ce sparano!” “Calmati Cesare, andrà tutto bene. Non ci prenderanno. Aspettiamo ventiquattr’ore. Se non ci forniscono una via d’uscita, domani sera cercheremo

di metterci in salvo da soli. Sei d’accordo?” Boccia rimase qualche istante a rimuginare sulla proposta di Caruso prima di rispondere. “Va bene, famo come dici te.” “Voialtri siete d’accordo?” chiese Caruso alla Borello e Furlan. “Io mi fido di te” affermò la Borello. “Io pure” confermò Furlan. Barraco si limitò a stringere le spalle. “Bene” si rilassò Caruso. Uno squittio si levò improvvisamente nel buio. “Dannati topi” esclamò con rabbia Boccia lanciando una pietra alla cieca. Il rumore dell’oggetto che rimbalzava da qualche parte fu amplificato dall’eco. “Ancora un po’ di pazienza, ragazzi. Un po’ di pazienza” disse Caruso cercando di convincere anche se stesso.

Herat (Afghanistan)

Latif e i suoi compagni avanzarono verso il fianco destro della folla urlante. Sotto il casco con la visiera abbassata indossavano un amontagna nero. Qualcuno notò i cinque uomini con la divisa della polizia che si stavano avvicinando minacciosamente e cominciò a urlare. Senza indugiare oltre, i cinque falsi poliziotti cominciarono ad aprire il fuoco sulla gente. Fu un massacro. I proiettili calibro 7,62 falciarono le persone senza pietà. Immediatamente scoppiò il panico, con uomini e donne che fuggivano in tutte le direzioni per cercare la salvezza.

Molti dei poliziotti a protezione dell’ambasciata si abbassarono istintivamente e puntarono i fucili verso la folla. Nessuno riusciva a capire da dove proveniva la minaccia. Latif e i suoi compagni spararono fino a che i caricatori si furono svuotati. Subito dopo si voltarono e sparirono nella stradina laterale. Si tolsero le divise da poliziotti e le caricarono nel portabagagli di un’automobile che sarebbe servita alla fuga. Salirono a bordo e si allontanarono velocemente dal luogo del massacro mentre la polizia non sapeva ancora che pesci pigliare. Latif, guardando dal finestrino la gente che scappava in tutte le direzioni, si sentì sporco per quello che aveva fatto. Non aveva mai sparato a degli innocenti. Fino a quel momento aveva sempre combattuto contro i militari che occupavano il suo Paese. Chiuse gli occhi e pensò a suo padre, come a cercare la sua approvazione per il suo gesto. Nel frattempo un uomo, appartenente anch’esso al movimento talebano, ricontrollò il filmato che aveva girato con la propria videocamera. Riprendeva dei poliziotti che sparavano su una folla inerme allo scopo di proteggere gli invasori italiani. Il filmato avrebbe fatto il giro del mondo, gettando benzina sul fuoco d’odio che si era creato.

Camp Arena, Herat (Afghanistan)

Monteleone rimase a osservare i cinquanta poliziotti che caricavano l’attrezzatura sui furgoni. A quanto sembrava, non c’era più nessun gruppo di manifestanti diretto verso la base. Si avvicinò a un baffuto ufficiale che aveva di poco superato i cinquant’anni. “Che cosa è successo esattamente?” chiese in inglese. “Qualcuno ha sparato alla folla che manifestava sotto il consolato e c’è stato un massacro.” “Chi diavolo è stato?”

“Non ne siamo ancora sicuri ma circola la voce che siano stati dei poliziotti.” “Ma come è possibile?” “Nessuno lo sa. Ci saranno delle indagini.” “Voglio venire a vedere cosa è successo. Masino, vai a prendere il fuoristrada.” “Agli ordini, marescià!” “È meglio di no” lo interruppe il poliziotto. “Cosa significa?” “Per stasera è meglio che non si vedano italiani in giro. C’è già troppa tensione.” Il graduato se ne andò via senza aggiungere altro, lasciando Monteleone basito. Gli sembrava tutto così irreale. Fino poco prima gli italiani erano ben visti da tutti e ora era meglio non farsi vedere in giro. Ma che stava succedendo? “Marescià, devo andare a prenderlo il fuoristrada?” “Lascia stare, Masino. Forza, rientriamo tutti negli alloggi, la serata è finita.”

CAPITOLO 12

Nei pressi di Islamabad (Pakistan)

Il generale Zeshan Aslam aveva bisogno del caos per mettere in pratica la fase finale del suo piano e fu quello che ottenne. Le immagini dei falsi poliziotti che sparavano sulla folla era state abilmente sfruttate dalla propaganda talebana. Avevano accusato la polizia del corrotto governo afghano di aver ucciso innocenti civili pur di proteggere gli invasori stranieri. Il capo della polizia aveva categoricamente negato che quegli assassini fossero poliziotti, ma in pochi gli avevano creduto. In tutta la nazione erano scoppiate manifestazioni contro il governo, nelle quali era stato chiesto che tutte le truppe straniere uscissero immediatamente dal Paese. Per alimentare la tensione, alcune cellule talebane avevano compiuto attentati contro diverse stazioni di polizia. Sul fronte interno, Aslam non poteva che essere felice. I sentimenti antiamericani che covavano in una parte della popolazione erano riesplosi con violenza. In tutte le città più importanti, specialmente a Karachi, erano in corso manifestazioni che in alcuni casi erano sfociate in atti di vandalismo contro i simboli degli Stati Uniti. Già una decina di fast food americani erano stati attaccati e dati alle fiamme. Anche diverse pizzerie gestite da italiani non erano state risparmiate. Il parlamento e il governo pakistano erano stati travolti dagli eventi. Anche il JOA, l’organizzazione del suo nuovo amico Omar Abdallah Hassan, stava dando il suo contributo per alimentare i disordini. In diverse nazioni africane e medio orientali erano avvenuti simultaneamente degli attentati contro interessi americani. Diverse ambasciate statunitensi erano state attaccate da commando armati di mitragliatrici pesanti e lanciarazzi. Tutti gli attacchi erano stati respinti ma c’erano state diverse vittime, senza contare il livello di allarme che si era creato.

Il generale Aslam sorrise a se stesso mentre davanti allo specchio si abbottonava la giacca della divisa militare. Il viso era perfettamente rasato mentre i pochi capelli che ancora aveva erano ben sistemati. Fece un po’di fatica a chiudere l’ultimo bottone, segno che il suo ventre già ampiamente rotondo era cresciuto ancora. Prese nota mentalmente di ordinare al sarto una nuova divisa di una taglia più grande. Non gli venne minimamente il pensiero di mettersi invece un po’ a dieta. Prese il berretto e uscì dalla stanza da letto, che in realtà non era sua. Da diversi giorni alloggiava in una sontuosa villa appena fuori dalla città, appartenente a un importante trafficante di droga. Il proprietario era stato ucciso pochi mesi prima su ordine del direttore dell’ISI Malik e la villa era stata sequestrata. L’edificio si trovava in cima a una collinetta e aveva una superficie di trecento metri quadri, contando una quindicina di stanze. Tutto intorno si trovava un parco di quattromila metri quadrati con molte specie di alberi. Il corpo della villa era di due piani e ad ogni angolo erano presenti delle torri rotonde. L’arredamento interno era costoso e in stile classico. L’ex proprietario non aveva badato a spese. Aslam scese le scale di marmo lucido e raggiunse l’ingresso, anch’esso riccamente decorato con marmi, stucchi e colonne romane. Sotto braccio teneva il suo berretto. Il generale, dalle abitudini molto spartane, si sentiva a disagio in tutto quel lusso, ma la posizione era ottima e la villa offriva riservatezza e tranquillità. Inoltre, venti metri sottoterra, era presente un solido bunker dotato di un paio di gallerie di fuga. Era sicuro di aver scelto una buona base operativa, almeno per il momento. Ad attenderlo, in piedi davanti all’ingresso, c’erano i suoi ospiti d’onore, appena arrivati: Omar Abdallah Hassan e il suo braccio destro Samir. Il generale accolse calorosamente gli uomini più importanti del JOA abbracciandoli e baciandoli tre volte sulle guance. I due ospiti parvero contenti di vederlo. “Miei cari fratelli! Sono così felice di vedervi in questo grande giorno” esordì affabile il generale. “La felicità è da noi ricambiata” rispose Hassan mellifluo. “Siete arrivati giusto in tempo. Tra poco uscirò da questa casa e prenderò in mano questa nazione, servendo umilmente Allah.”

“Che l’Onnipotente guidi le tue azioni.” Aslam tirò fuori dalla tasca del pantalone un fazzoletto bianco e si deterse la fronte. Il caldo e la divisa stavano cominciando a farlo sudare. “Prima di partire voglio ancora ringraziarti per l’apporto che ha dato la tua organizzazione alla nostra causa.” “Non mi devi ringraziare, caro Zeshan. Abbiamo l’obiettivo comune di servire l’Onnipotente. Ho fatto solo tutto quello che era in mio potere.” Il generale sorrise. “Non sminuire il tuo importante contributo. Per me è giunto il momento di andare. Abbiate pazienza ancora per un po’ di tempo. Quando avrò finito non dovrete più temere di essere trovati dagli americani. Nel frattempo, godetevi questa magnifica villa.” Il generale Aslam si calò il berretto sulla testa e uscì dall’edificio. Ad attenderlo c’era un corteo formato da tre fuoristrada militari, cinque autocarri carichi di soldati e due mezzi blindati che aprivano e chiudevano la fila. Aslam entrò in uno dei fuoristrada sedendosi nel sedile anteriore. “Vai ragazzo” ordinò all’autista. Il corteo si mosse lungo il viale alberato che portava fuori dalla proprietà. La direzione era il palazzo del parlamento pakistano dove a breve sarebbe iniziata una seduta d’emergenza.

Roma, abitazione di Nicholas Caruso

Sonia Caruso era seduta sul divano del salotto e teneva tra le braccia la piccola Silvia. La bambina si era addormentata grazie alle coccole della madre, che continuava a cullarla dolcemente.

La televisione era accesa e sintonizzata dalla sera prima su un notiziario che trasmetteva tutto il giorno. Sapeva che avrebbe dovuto spegnerla e portare sua figlia a fare una eggiata ma non ci riusciva. Restava davanti all’apparecchio come a esorcizzare la paura che fosse successo qualcosa al suo Nick. Era come se rimanendo al suo posto impedisse al televisore di darle brutte notizie. Sapeva che si trattava di un’assurdità ma non riusciva a farne a meno. Continuava a fissare l’apparecchio come per intimorirlo, non avrebbe dovuto permettersi a dare la notizia che suo marito era stato ucciso. La sera prima aveva contattato il numero d’emergenza che le aveva lasciato Caruso ma chi aveva risposto era stato molto evasivo nel ragguagliarla sulla situazione. Almeno aveva saputo che Nicholas era vivo. Un suono la distrasse dal televisore. Era il suo telefonino che si era messo a vibrare. Lo recuperò dal tavolino cercando di muovere il meno possibile Silvia. Guardò il display per capire chi la stava chiamando. Si trattava della sua amica Miriam, la moglie di Ruben Monteleone. “Pronto?” “Ehi, ciao Sonia.” “Ciao Miriam.” “Ho visto adesso il telegiornale. Che cosa sta succedendo?” “Non lo so. È tutto confuso.” “Ma qualcuno ti ha fatto sapere qualcosa?” “No, non dicono niente.” “Almeno sai se è vivo?” “Sì, fino a ieri sera era vivo.” “Non parlare così. È ancora vivo adesso.” “Lo spero.” Sonia non riuscì a trattenere le lacrime.

“Tesoro, stai tranquilla. Nick sa che deve tornare a casa. Non vi lascerà soli.” Ormai i condotti lacrimali si erano aperti definitivamente. Miriam cercò di calmare l’amica fino a quando ci riuscì poco dopo. “Ok, stammi ad ascoltare. Adesso carico in macchina mio figlio e vengo a stare da te qualche giorno.” “No, davvero. Non disturbarti, io...” “Ho già deciso. Comincia a preparare la camera degli ospiti” la interruppe Miriam. “Va bene” si arrese Sonia tirando su con il naso. La piccola Silvia si svegliò improvvisamente. “Miriam, devo mettere giù perché Silvia si sta svegliando.” “Ok stai tranquilla, ci vediamo più tardi. Per qualsiasi cosa chiamami.” “D’accordo, grazie.” “Non devi ringraziarmi. Ciao.” “Ciao.” Sonia ripose il telefono sul tavolino e riprese a cullare sua figlia. Si sentì sollevata dal fatto che Miriam venisse a darle conforto. Aveva proprio bisogno di una cara amica per affrontare il brutto momento che stava ando.

Islamabad (Pakistan)

Il corteo del generale Aslam si fermò davanti al palazzo del Parlamento. Poco prima del suo arrivo, un battaglione di soldati a lui fedeli aveva circondato l’area intorno all’edificio. Una decina di auto della polizia si trovava a poca distanza dai soldati, ma nessuno si era azzardato a intervenire. Sapevano benissimo cosa

stava succedendo perché era accaduto neanche vent’anni prima. I militari stavano prendendo il controllo della nazione. Il corpulento generale uscì dal fuoristrada militare, dopo che un attendente gli ebbe aperto lo sportello. Sulla sua sinistra si trovava il palazzo del governo pakistano; poco oltre, come a formare la punta di un ipotetico triangolo, si ergeva il palazzo presidenziale chiamato Aiwan e Sadr. Un enorme drappo nero era stato steso sulla facciata principale, ricordando che era stato proclamato il lutto nazionale. Dodici soldati appartenenti alle forze speciali si schierarono intorno ad Aslam per dargli protezione, imbracciando fucili automatici M4 di produzione americana. Il generale si sistemò la giacca della divisa e procedette verso l’ingresso del Parlamento dove le due camere, Senato e Assemblea Nazionale, erano riunite per affrontare la situazione d’emergenza creatasi con l’assassinio del Presidente Rehman. Insieme ai membri del Parlamento si trovavano anche il Primo Ministro Hanif e altri sei ministri. L’edificio era stato già occupato dai soldati del generale e ai politici era stato proibito di lasciare l’aula. Durante l’occupazione alcune guardie del palazzo avevano tentato di opporsi e c’era stato un breve scontro a fuoco. Due guardie erano morte e cinque erano rimaste ferite. Aslam avanzò a o sicuro fino a quando fece il suo ingresso nel Parlamento della Repubblica islamica pakistana, accompagnato da un coro di proteste e fischi. Il generale, imibile si sistemò nella postazione dello speaker, da dove poteva vedere tutti i parlamentari che gli inveivano contro. Le sue dodici guardie del corpo si sistemarono in riga di fianco a lui, sei a sinistra e sei a destra. Il generale fissò ancora per un attimo i focosi parlamentari prima di decidere di farli tacere. Incrociò lo sguardo carico d’odio del Primo Ministro Hanif. Un paio di battiti delle sue mani e all’unisono le sue guardie del corpo avanzarono di due i caricando il colpo in canna. In pochi istanti le urla si placarono e calò il silenzio. Aslam, compiaciuto, si avvicinò al microfono per informare la nazione che ora era lui a comandare. Aveva fatto in modo che il suo discorso finisse su tutti i notiziari nazionali e internazionali. “Rispettabili parlamentari e ministri, innanzitutto mi voglio scusare per il brusco modo in cui ho fatto ingresso nel Parlamento. Vorrei che mi crediate tutti quando dico che se avessi potuto avrei evitato di fare tutto questo. Ho saputo che tra le

guardie del palazzo ci sono stati morti e feriti. Ne sono sinceramente dispiaciuto. Mi occuperò di far risarcire adeguatamente le loro famiglie.” Aslam fece una breve pausa facendo una panoramica dell’aula. Tutti lo stavano ascoltando con attenzione. “Il fatto è che io amo questa nazione e amo il popolo che la compone. Quando sono diventato un soldato, ho giurato di proteggerla da tutti i nemici, sia in periodo di pace che in periodo di guerra. Ed è proprio in uno stato di guerra che ci troviamo in questo momento. Non dichiarata da noi, ovviamente, ma da nazioni che fino a ieri si sono spacciate per nostre amiche.” Un’altra breve pausa a effetto. “Signori e signore, l’assassinio del Presidente Rehman è inequivocabilmente un atto di guerra dichiarato nei nostri confronti dagli Stati Uniti e dall’Italia, sua alleata. Si tratta di un atto al quale va data una risposta immediata per la sicurezza della nostra amata nazione. Ecco perché ho preso in mano le redini del Paese, per fare quello che voi non sareste mai riusciti a fare. Ci sono situazioni che solo i militari di professione possono risolvere.” Un coro di proteste tornò a levarsi tra i parlamentari ma Aslam non aveva ancora finito di parlare. Le dodici guardie del corpo sollevarono i fucili e contemporaneamente sbatterono il calcio per terra. Il forte schiocco risuonò in tutta l’aula riportando immediatamente il silenzio. Il generale poteva finalmente riprendere il suo discorso. “Sappiate che questa notte ho preso la decisione più difficile della mia vita e vorrei tanto non aver dovuto per forza prenderla.” Un ulteriore momento di pausa. “Da questo momento sciolgo il Parlamento e il Governo pakistano e affido i poteri legislativi ed esecutivi a una giunta militare da me presieduta. Qualsiasi persona straniera o no, sospettata di essere una spia al soldo dei nostri nemici, verrà immediatamente arrestata e processata. Ci tengo a precisare che

farò di tutto per catturare o uccidere le spie ancora latitanti che hanno assassinato il nostro amato Presidente. Per ora non ho più nient’altro da dire. Che Allah il Misericordioso abbia pietà del Pakistan.” Detto questo Aslam si allontanò dal microfono e si diresse verso l’uscita scortato dalle sue guardie, lasciando parlamentari e ministri allibiti. Il generale non riusciva a stare nella pelle dall’emozione. Finalmente aveva ottenuto quello che voleva ed era sicuro che avrebbe avuto una parte della popolazione schierata con lui. Certo non tutta, ma per il momento poteva bastare. Molti l'avrebbero visto come il salvatore del Pakistan, quello che aveva avuto il coraggio di sfidare gli Stati Uniti e ribellarsi alle loro prepotenze. Sicuramente ci sarebbero state delle proteste ma avrebbe provveduto a isolare i suoi oppositori, servendosi anche degli spietati servizi segreti di Malik. Aslam arrivò al suo fuoristrada; fuori dal Parlamento alcune centinaia di persone si erano radunate per capire cosa stesse succedendo, tenute a distanza dai militari. Entrò nel mezzo e si asciugò il sudore con il fazzoletto, prima di ordinare all’autista di ripartire in direzione del suo quartier generale nella lussuosa villa in collina. Nella sua scacchiera tutti i pezzi erano ai posti giusti, mancava soltanto la mossa finale.

Roma, Palazzo Chigi

Si trattava di un incontro a quattro che stava avvenendo nella galleria Deti, una delle stanze più preziose di Palazzo Chigi che lui aveva adibito a sala riunioni. Intorno a un pesante tavolo in mogano si trovavano Leonardo Conti, il ministro della Difesa Matteo Blanc e il direttore del DIS Paolo Sartori. In mattinata Parodi, davanti alle telecamere, aveva smentito il coinvolgimento italiano nell’assassinio di Rehman e la stessa cosa aveva fatto il Presidente degli Stati Uniti Bailey. La mossa sembrava aver avuto poco effetto perché proprio sotto le finestre di Palazzo Chigi, in piazza Colonna, era in corso una manifestazione di persone musulmane contro l’Italia. Per fortuna, almeno per il momento non c’erano stati disordini. Poi come un fulmine a ciel sereno era arrivato il golpe del generale Aslam.

“Allora signori” esordì Parodi “qualcuno mi faccia il punto della situazione.” “La situazione in Pakistan è piuttosto calda” parlò per primo Conti. “Diverse attività ed esercizi gestiti da italiani sono stati presi di mira da folle inferocite. Solo all’ambasciata di Islamabad abbiamo decine di connazionali che hanno chiesto rifugio per paura di ritorsioni. Dobbiamo cercare di gestire al meglio quest’emergenza.” “E per quanto riguarda la richiesta di analizzare le prove a carico di Caruso?” chiese Parodi. “Dopo il colpo di stato si sono interrotti i rapporti con le istituzioni pakistane. Immagino che ci vorranno alcuni giorni per ristabilire i contatti.” “E nel frattempo i nostri agenti rischiano di venire ammazzati” si alterò Parodi, tirando un pugno sul massiccio tavolo in legno. “Calmati Giovanni, io so quanto tieni a Caruso...” “Non sono solo io a dover tenere a Caruso. Ricordo a tutti che non ha salvato la vita soltanto a me l’anno scorso.” “L’abbiamo ricompensato con un cospicuo premio in denaro” intervenne Matteo Blanc. “Spiccioli in confronto al servizio che ha reso all’Italia. È un eroe nazionale e non abbiamo neanche potuto gridarlo al mondo intero.” “Ok Giovanni, hai ragione. Però cerchiamo di riflettere sulla situazione.” “Bene, riflettiamo. Che cosa stiamo facendo per tirarlo fuori da lì?” Conti si voltò verso il direttore dei servizi segreti Paolo Sartori gli lanciò un’occhiata invitandolo a intervenire. Sartori, vestito come sempre con un elegante completo scuro, terminò di pulire i suoi occhiali dalla montatura fine. “Il recupero di Caruso e la sua squadra è più complicato del previsto” affermò inforcando gli occhiali.

“Che cosa intende, direttore?” “Intendo dire che abbiamo già poche risorse all’interno del Pakistan e inviarle per recuperare Caruso potrebbe comportare ulteriori perdite.” “Il generale Aslam ha detto che farà di tutto per catturarlo e non possiamo permettere di perdere altri agenti inimicandoci ancora di più i pakistani” incalzò Conti. “Non possiamo chiedere aiuto agli americani? Loro hanno sicuramente più risorse di noi sul posto.” Il premier pose un accento particolare sulla parola “risorse”. Sartori non parve far caso alla provocazione. “Gli americani hanno già le loro gatte da pelare. Possiamo fare un tentativo ma non credo che ci aiuteranno” rispose Conti. “E quindi che si fa? Li abbandoniamo semplicemente al loro destino?” chiese stancamente Parodi. “Non si tratta di abbandonarli. Dovranno solo cercare di cavarsela da soli fino a che non troveremo uno spiraglio per aiutarli” puntualizzò Sartori. Parodi rise amaramente. “Uno spiraglio per aiutarli” ripeté continuando a sorridere “e nel frattempo Caruso ha tutto il dannato Pakistan che cerca di fargli la pelle.” “Fidati di me, Giovanni, questo è il miglior modo di gestire la vicenda.” Parodi si accasciò sulla sedia, combattuto sulla decisione da prendere. La parte razionale di lui sapeva che Conti aveva ragione ma il cuore gli diceva che doveva riportare a casa Caruso. Dopo alcuni minuti di silenzio decise di essere razionale. “E va bene, Leonardo, si fa come proponi tu. Ma appena c’è la minima possibilità di recuperare Caruso e i suoi, lo voglio sapere immediatamente.” “Certamente” rispose sollevato Conti.

“Sarà fatto” confermò Sartori. Il Presidente avvertì una fitta allo stomaco perché sentiva di aver condannato a morte una persona a cui doveva la vita.

CAPITOLO 13

Periferia di Karachi (Pakistan)

Il sole era ormai calato da quasi due ore quando Caruso rientrò al capannone abbandonato dove la sua squadra attendeva notizie. Era uscito dal suo nascondiglio quando stava per fare buio e aveva percorso quasi tre chilometri a piedi fino a quando non aveva trovato una cabina telefonica. Per fortuna c’era poca gente in giro e nessuno aveva fatto caso a lui, o almeno così sperava. Aveva deciso di andare da solo per non mettere in pericolo i suoi compagni. Da una cabina telefonica aveva contattato il numero d’emergenza. La chiamata era stata breve come il giorno prima. Questa volta però c’era un piano per salvarli ma non sarebbe stato facile metterlo in pratica. Per la prima volta nella sua vita aveva avuto paura di non farcela. Il forte carattere che gli aveva fatto superare tante prove, in quel momento sembrava scomparso. Da dietro una colonna spuntò fuori Barraco, che si trovava di guardia. “Ti hanno seguito?” chiese brusco. “Se mi hanno seguito, lo scopriremo presto” rispose Caruso, stanco e demoralizzato. “Allora, che t’hanno detto?” chiese Boccia. “Ci vengono a tirare fuori?” incalzò la Borello. Caruso si sedete su una vecchia latta di colla prima di rispondere. “Hanno messo in atto un piano per tirarci fuori, ma i rischi sono molti.” “Di che si tratta?”

“In pratica, se riusciamo a raggiungere le acque internazionali manderanno un sottomarino americano a recuperarci.” “Una eggiata!” sentenziò sarcastica la Borello. "È sicuramente quello che si aspettano, avranno pattuglie ovunque a sorvegliare la costa” osservò Boccia. “Sono d’accordo con te, Cesare. È la soluzione più ovvia. Dovremmo individuare un luogo che rappresenti un buco all’interno della maglia di sorveglianza. Da lì dovremmo dirigerci verso il mare aperto, sperando di non imbatterci in unità navali.” “È rischioso.” “Già.” “A mio modo di vedere” intervenne Furlan “abbiamo a disposizione due ulteriori possibilità che sono ancora più rischiose. La prima è tentare di raggiungere il confine con l’India. Dovrebbero essere duecento chilometri o giù di lì. Viaggiando di notte e per strade secondarie dovremmo riuscire a percorrerli senza grosse difficoltà. Il problema vero arriva al confine, perché è strettamente pattugliato. Le probabilità di are senza essere individuati sono scarse.” “Sì, hai ragione.” “La seconda possibilità è ancora più rischiosa. Raggiungere il confine con l’Afghanistan. È sicuramente meno pattugliato ma sono circa cinque o seicento chilometri da percorrere. Ci occorrerà più tempo per raggiungerlo e più stiamo all’interno del Pakistan, più aumentano le probabilità di essere individuati.” “Vada per il mare, allora” propose la Borello. “Se po’ fa’” concordò Boccia. “È l’idea migliore” affermò Furlan. Caruso guardò Barraco, che non si era ancora pronunciato. “Melo?”

“A mia me basta che non rimaniamo qua dentro a farci ammazzare come topi.” “Ok Melo, lo prendo come un voto a favore. Bene ragazzi, è deciso: tentiamo la fortuna via mare. Dobbiamo farlo stanotte. Appena...” “Ehi, sta succedendo qualcosa là fuori” lo interruppe Furlan. Tutti e cinque sbirciarono da una finestrella. Un fuoristrada aveva parcheggiato poco distante dal capannone nel quale si trovavano. Tirarono fuori le loro pistole aspettandosi di vedere sbucare fuori un gruppo di uomini armati. Invece uscì fuori un solo uomo, che iniziò ad avvicinarsi tranquillamente al capannone. “Lo faccio fuori?” chiese Barraco avvitando il silenziatore sulla canna della pistola. “No, aspetta” ordinò Caruso. Quando l’uomo fu a una quindicina di metri dall’edificio si fermò e alzò le mani in alto. I cinque italiani poterono vedere meglio chi si trovava davanti a loro. Era un bell’uomo di circa cinquant’anni in ottima forma, sembrava uscito da quei film indiani in cui gli attori cantano e ballano per tutto il tempo. I suoi capelli erano neri e ben pettinati all’indietro. Indossava una camicia a maniche corte color cachi e pantaloni di cotone leggermente più scuri. “Non sono qui per farvi del male” disse l’uomo in inglese scandendo bene le parole. Dal capannone non arrivò nessuna risposta. “So che siete lì dentro e ora entrerò anche io. Continuerò a tenere le mani alzate. Vi prego di non spararmi” affermò l’uomo. Cominciò a spostarsi muovendosi lentamente fino a che entrò nell’edificio. Dopo pochi i le luci di due potenti torce elettriche lo accecarono temporaneamente. “Non muoverti” gli disse una voce in inglese. Caruso si avvicinò allo sconosciuto e lo perquisì, senza però trovargli armi addosso.

“Chi sei?” gli chiese. “Mi chiamo Adnan Singh e sono un funzionario dell’ ISI.” “Come hai fatto a trovarci?” Singh scrutò il volto della persona che gli stava davanti riconoscendo l’uomo che era stato additato come assassino del Presidente Rehman. “Uno dei miei informatori ti ha riconosciuto qualche ora fa e mi ha avvisato. Ho mandato uno dei miei uomini a pedinarti e poi sono arrivato anche io.” “Perché non è ancora arrivata una squadra a eliminarci?” “Diciamo che siete stati fortunati perché era uno dei miei informatori, altrimenti a quest’ora vi trovereste nei guai. Il fatto è che io so che non sei stato tu a uccidere il nostro Presidente. Uno dei miei uomini stava sorvegliando l’albergo e ha visto chiaramente l’assassino.” “E di chi si tratta?” “Si chiama Reis ed è un ex agente dell’ISI.” “ISI?” ripeté sbalordito Caruso. “Proprio così” confermò Singh. “C’è stato un grande complotto che ha portato a un colpo di stato proprio oggi. I militari capeggiati dal generale Aslam hanno sciolto il Parlamento e il Governo, prendendo il controllo del Paese.” Furlan si lasciò scappare un fischio sottolineando l’importanza dell’evento. “Quindi sono stato incastrato per aprire una crisi diplomatica tra Pakistan e Stati Uniti” ragionò Caruso. “Proprio così” confermò Singh. “Ma se lo sapevate, perché non avete fatto nulla?” “Noi non sapevamo niente. Tutto è stato condotto nella massima segretezza e sospetto che siano implicati i vertici dell’ISI, a cominciare dal direttore Malik. Io e i miei uomini ci trovavamo a Karachi perché erano mesi che stavamo dietro a

Reis.” “Per quale motivo?” “Sospettavamo che avesse collegamenti con il JOA, e più direttamente con il suo leader Hassan. Siamo sicuri che si trovi in Pakistan, protetto da qualche personaggio importante. All’interno dell’ISI ci sono parecchie talpe, quindi stavo conducendo delle indagini con un pugno di uomini di cui mi fido ciecamente. Dopo l’attentato ho messo uno dei miei dietro Reis ma lui è stato più furbo e l’ha eliminato.” “Quindi ora non sapete dove si trova.” “No” confermò Singh. “A questo punto torniamo alla domanda di prima: perché non è ancora arrivata una squadra a eliminarci?” “Posso abbassare le mani?” chiese il funzionario d’intelligence prima di rispondere. “Sì, ma guai a te se fai una mossa falsa.” Singh abbassò lentamente le mani, che raccolse in grembo tenendole in vista. “Diciamo che sono venuto qui a chiedere il vostro aiuto. Come dicevo prima, ho pochi uomini di cui mi fido e il vostro aiuto mi potrebbe servire per trovare le prove del complotto. Mi sembra chiaro che il generale Aslam è quello che è stato favorito in questa vicenda. Se troveremo solide prove potremmo screditarlo e fargli perdere consensi anche tra i militari.” “E immagino che noi verremmo riabilitati agli occhi del mondo” osservò Caruso. “Proprio così.” Caruso si voltò verso i compagni che avevano seguito il discorso cercando un parere. Fu Boccia a parlare. “Nick, chi ce dice che se potemo fida’?”

“Nessuno.” “Andiamocene via stanotte. Possiamo farcela” propose la Borello. “Ma se voleva ucciderci l’avrebbe già fatto. Perché venirci a fare tutto questo discorsetto?” chiese Furlan sistemandosi gli occhiali che stavano scivolando sulla punta del naso. “Dario non ha tutti i torti” lo appoggiò Caruso. Nel frattempo Singh, pur non capendo una parola di italiano, intuì di cosa stessero parlando le spie straniere. Attese ancora qualche scambio di battute prima di intervenire per far pendere l’ago della bilancia a suo favore. “Fate parlare un attimo me, per favore. Non capisco la vostra lingua ma immagino che qualcuno di voi stia proponendo di rispettare l’eventuale piano di fuga che avete in programma. E immagino che questo piano preveda di raggiungere il mare aperto dove ci sarà un sottomarino ad attendervi.” Gli italiani rimasero in silenzio confermando a Singh che aveva fatto centro. “Sì, è la soluzione più ovvia. Sappiate che non ce la farete mai. La costa è pesantemente pattugliata per non farvi fuggire. Inoltre, se non accettate la mia proposta, comunicherò al direttore Malik la vostra posizione e in poco tempo verrete eliminati.” “Questo è un ricatto!” protestò Caruso. “Chiamatelo come volete” affermò Singh con una scrollata di spalle. “E se ti sparassi in testa?” chiese Barraco in un inglese con accento siciliano. Per sprecare delle parole doveva proprio essere arrabbiato. Singh si voltò verso il siciliano. “Potresti farlo senza difficoltà. Il problema è che i miei uomini sono qua fuori. Se non mi vedranno uscire entro” guardò l’orologio che aveva al polso “due minuti, comunicheranno la vostra posizione e in breve sarete fregati.” Nessuno fiatò per mezzo minuto. Avevano capito di non avere scelta. Dovevano

cedere al ricatto di quell’uomo. Forse ne avrebbero addirittura ricavato qualcosa di buono. “E va bene, hai vinto tu. Ti aiuteremo” disse in fine Caruso. “Ne sono felice” affermò Singh con un largo sorriso. “Raccogliete le vostre cose, si parte per Islamabad.”

Base aerea di Herat (Afghanistan), 8 giugno 2016 Il movimento del rotore principale sollevava un turbine di polvere, il rumore sovrastava tutti gli altri suoni. L’AB 412 era pronto al decollo. Ruben Monteleone, in completo assetto da combattimento, attendeva che i suoi uomini prendessero posto a bordo dell’elicottero. Tutti indossavano una divisa blu scuro, in vista di un combattimento notturno. Quando l’ultimo dei carabinieri si accomodò su uno dei seggiolini, Monteleone salì a sua volta e ordinò al pilota di decollare. Pochi istanti dopo i pattini dell’AB 412 si sollevarono da terra e l’elicottero da trasporto raggiunse la sua quota di crociera. Osservando la base aerea che diventava sempre più piccola, Monteleone si chiese ancora una volta che cosa stava succedendo. In due giorni si era ati da una tranquillità assoluta al caos totale. Dal giorno precedente formazioni di talebani erano sbucate fuori in tutto il Paese attaccando poliziotti e militari afghani. C’erano già state decine e decine di morti e a quanto pareva gli sforzi fatti per addestrare le forze armate afghane negli anni ati avevano dato pochi frutti. Certamente non bisognava fare di ogni erba un fascio. Molti reparti di militari afghani avevano combattuto con coraggio e professionalità, respingendo gli attaccanti. Era preoccupante, però, il numero di militari che si erano arresi o che erano stati sopraffatti dai talebani. Numerose erano state le richieste d’aiuto ad americani e italiani per uscire da situazioni complicate. Ed era proprio quello che lui e i suoi uomini stavano andando a fare. Una cinquantina di militari dell’esercito afghano erano arroccati in un piccolo paese, assediati da una formazione talebana. L’ipotesi di bombardamento era stata scartata data la vicinanza del nemico ai militari e un numero imprecisato di civili. Monteleone e i suoi avrebbero dovuto aiutare gli alleati a uscire dall’assedio. Anche una squadra di incursori del Reggimento Col Moschin si

sarebbe unita all’azione. Il maresciallo posò per un attimo lo sguardo sul giovane Masino. Notò che sembrava particolarmente di buon umore. Aveva un mezzo sorriso da ebete stampato in faccia, gli dava l’impressione che stesse andando a pesca invece che in guerra. Per un attimo invidiò la sua spensieratezza. Lui invece di pensieri ne aveva fin troppi e uno di questi pensieri era il suo amico Nicholas. Chissà che fine aveva fatto. Era ancora vivo? Era stato catturato? Qualcuno aveva pensato a come salvarlo? Aveva provato cercare di ottenere informazioni interrogando alcuni funzionari dell’intelligence presenti a Camp Arena ma non aveva avuto successo. Gli altri suoi pensieri erano ovviamente rivolti a Miriam e a suo figlio Fabio. L’aveva sentita poche ore prima, scoprendo che si trovava a casa di Sonia. Aveva approvato la sua decisione, era giusto che stesse vicina all’amica in difficoltà. Aveva un gran voglia di abbracciare lei e Fabio. Ma chi glielo aveva fatto fare di ficcarsi in quel guaio? “Venti minuti” gracchiò la voce del pilota attraverso la cuffia. “Ricevuto” gli rispose. Mancava poco all’inizio della missione e non sarebbe stata una eggiata. Era arrivato il momento di liberare la sua mente dai pensieri. Se voleva riportare a casa lui e i suoi uomini doveva essere concentrato al massimo. Incrociò ancora lo sguardo con Masino che gli sorrise e strizzò l’occhio. Monteleone gli fece un cenno con il capo mentre l’elicottero sfrecciava per i cieli dell’Afghanistan.

CAPITOLO 14

Islamabad (Pakistan) 9 giugno 2016

Un elegante quartiere residenziale di nuova costruzione dove vivevano molte facoltose famiglie della città e qualche imprenditore straniero. Un viale rettilineo costeggiato su entrambi i lati da graziose villette di due piani tutte simili tra loro, con un prato curato alla perfezione. Gli sembrava di stare in uno di quei telefilm americani che vedeva da ragazzino. Davvero un bel posto dove vivere, pensò Nicholas Caruso. Peccato che non si trovasse lì per un tour guidato anche se, a dirla tutta, in una di quelle villette ci sarebbe presto entrato. Lui e la sua squadra avevano raggiunto Islamabad grazie a una copertura organizzata da Singh. Avevano viaggiato a bordo di un autocarro da trasporto militare, travestiti da soldati dell’esercito pakistano. In quelle ore non era infrequente trovarne per strada e con dei falsi ordini, abilmente contraffatti, avevano superato tutti i posti di blocco che avevano trovato. Caruso guardò l’orologio che aveva al polso, constatando che mancavano cinque minuti all’una di notte. Era quasi arrivato il momento di entrare in azione. Indossava una tuta aderente nera in nomex e un leggero gilet tattico. Era armato con la sua pistola ma per la missione che stava per compiere non era previsto che la utilizzasse. Si trovava nel giardino della villetta accanto a quella in cui doveva penetrare. Vicino a lui c’erano Barraco, Singh e due dei suoi uomini. La notte era serena, una leggera brezza smuoveva appena le fronde degli alberi. Secondo le informazioni fornite da Singh, nella casa di fronte a lui viveva il direttore dell’ISI Azhar Malik. La villetta, oltre a essere dotata di videocamere e sistema d’antifurto, era sorvegliata da tre agenti dei servizi segreti che si trovavano in un furgoncino nero parcheggiato all’esterno dell’edificio. Dall’interno del mezzo gli agenti potevano controllare le videocamere di sorveglianza, situate in punti strategici per poter individuare eventuali intrusi. Il primo o da compiere

quella notte era neutralizzare i tre agenti. Un fuoristrada percorse il viale a velocità moderata fino a quando non fu in vista del furgoncino di sorveglianza. Rallentò fino quasi a fermarsi. Al posto di guida del furgoncino si trovava un agente che era intento a leggere una rivista. Si voltò a sinistra e vide la sagoma del fuoristrada, il cui finestrino anteriore destro era abbassato. Vide spuntare fuori la canna di un’arma e con movimento istintivo mise mano alla fondina dove teneva la propria pistola. Era però troppo tardi per qualsiasi reazione. Un oggetto metallico sfondò il finestrino del suo mezzo, si trattava di una granata a gas. Dal piccolo oggetto cominciò immediatamente a fuoriuscire un potente gas soporifero che in breve raggiunse anche il retro del furgone, dove si trovavano gli altri due agenti. Ai tre uomini bastò inalare il gas una sola volta per perdere lucidità e in pochi istanti si ritrovarono tutti a dormire profondamente. Dai sedili posteriori del fuoristrada saltarono fuori Furlan, Boccia e la Borello che indossavano maschere antigas. Il romano si precipitò immediatamente al posto di guida del furgoncino. Provò a tirare la maniglia esterna ma, come si aspettava, la porta era chiusa dall’interno. Sicuramente anche il portellone sul retro era chiuso allo stesso modo. Tirò fuori la pistola e con il calcio rimosse una porzione di vetro rimasta in piedi. I frammenti caddero sul corpo dell’agente addormentato. Boccia infilò la mano all’interno dell’abitacolo cercando la maniglia e la tirò sbloccando la chiusura dello sportello. Afferrò il corpo dell’addormentato e lo tirò fuori dal veicolo. Nel frattempo la Borello salì a bordo. Facendo attenzione a non ferirsi con frammenti di vetro, raggiunse il retro del furgoncino, dotato di una serie di monitor e apparecchiature informatiche. Facendo lo slalom tra i corpi degli altri due agenti, accasciati sul pianale, arrivò al portellone. Lo aprì velocemente trovando ad attenderla Furlan e Boccia. Insieme issarono il corpo dell’autista a bordo. Furlan prese subito possesso della postazione di sorveglianza, cominciando a picchiettare sulla tastiera di un computer. Nel frattempo gli altri due colleghi si stavano occupando di immobilizzare le braccia degli agenti dell’ISI con delle fascette di plastica. In teoria non avrebbero dovuto svegliarsi per almeno tre ore, ma era meglio essere prudenti. Mentre succedeva tutto questo, i due uomini di Singh avevano parcheggiato il fuoristrada poco distante dal furgone. Caruso controllò nuovamente l’orologio; a quel punto Furlan avrebbe dovuto essere in procinto di terminare il suo lavoro. Infatti, riconobbe la voce del suo collega attraverso la radiotrasmittente di Singh. “Sistema di sorveglianza disattivato” disse Furlan in inglese. Tutte le

videocamere erano state disattivate. “Ricevuto, ottimo lavoro” rispose Singh. Ripose in una tasca la ricetrasmittente e tirò fuori un amontagna nero, subito imitato da Caruso e gli altri. “Molto bene signori, è il nostro momento” annunciò prima di infilare il amontagna. Pochi istanti dopo, i cinque uomini scavalcarono un muro, alto appena un paio di metri, che delimitava la proprietà del direttore Malik. Atterrarono nel giardino della villetta senza fare rumore e si diressero velocemente verso la porta di ingresso, illuminata da un potente faretto. Arrivato a una quindicina di metri dal portone Singh si fermò e tirò fuori la sua pistola dotata di silenziatore. Prese la mira e con un solo colpo spense il faretto. Il gruppo si avvicinò al portone; sulla sua destra si trovava l’alloggiamento della chiave dell’antifurto. Uno degli uomini di Singh tirò fuori un dispositivo delle dimensioni di uno smartphone, al quale era collegata una chiavetta che inserì nell’alloggiamento e, dopo una trentina di secondi, annunciò che l’antifurto era stato disinserito. Subito dopo l’altro collega, che aveva in dotazione un kit da scasso, forzò la serratura del portone. Un click metallico segnalò a tutti che da quel momento era possibile accedere alla villa. “Non se la cavano male” sussurrò Caruso a Barraco riferendosi ai colleghi pakistani. “Lavorano bene” confermò Barraco. Si ritrovarono nell’atrio della villetta che era al tempo stesso un grande salotto arredato con mobili vintage. Caruso non apprezzava lo stile, ma fu colpito da un tavolino basso il cui piano era in realtà un enorme orologio che tra l’altro segnava anche l’ora giusta. Sulla destra si trovava una rampa di scale che conduceva alle camere da letto. Salirono silenziosamente con Singh in testa. In casa al momento vivevano solo il direttore Malik e sua moglie, perché il loro figlio, di ventidue anni, alloggiava con degli amici vicino all’università che frequentava. Singh raggiunse la camera del suo direttore. Fece cenno ai suoi uomini di seguirlo mentre intimò a Caruso e Barraco di fermarsi. I due italiani erano a disagio per quello che stava per succedere ma sapevano che era l’unica possibilità che avevano al momento.

Singh attese ancora un istante prima di irrompere nella stanza. Puntò il fascio di una torcia elettrica verso il letto. Malik e sua moglie vennero svegliati di soprassalto. La donna si lasciò sfuggire un grido terrorizzato. Il direttore cercò di afferrare la pistola che aveva all’interno del comodino ma Singh se ne accorse. “Non ci provare o sei un uomo morto!” gli urlò. Malik ritrasse a malincuore la mano. Le luci nella camera si accesero improvvisamente. Il direttore dell’ISI si ritrovò di fronte tre uomini a volto coperto che gli puntavano contro delle pistole. Sua moglie a fianco a lui stava singhiozzando terrorizzata. “Alzatevi dal letto. Ci spostiamo di sotto per fare una chiacchierata” ordinò Singh con voce calma. Malik sapeva che doveva obbedire. Cercò di calmare la moglie e la fece alzare. Era una donna di cinquant’anni ancora molto attraente, con capelli lunghi nerissimi e un fisico ben curato. Era alta un metro e ottantacinque, cinque centimetri in più di suo marito. Indossava una sottoveste leggera che faceva intravedere un paio di seni prosperosi. Singh individuò una vestaglia di seta appesa a un attaccapanni e la lanciò alla donna. Attese che si coprisse e fece cenno di proseguire. Una volta usciti dalla stanza, i coniugi Malik si trovarono di fronte ad altri due uomini con il volto coperto che fecero strada verso il piano inferiore. Cinque contro uno. Le probabilità che una sua reazione avesse effetti positivi si abbassavano notevolmente, pensò il direttore. Realizzò che gli agenti all’esterno non sarebbero intervenuti. Se c’erano degli intrusi in casa, i suoi uomini dovevano essere già stati messi fuori combattimento. Ma di chi poteva trattarsi? E che cosa volevano da lui? Ipotizzò che se avessero voluto ucciderlo l’avrebbero già fatto. Qualcuno accese un lampadario formato da otto faretti. Lui e sua moglie vennero fatti accomodare sul divano in pelle marrone e i cinque uomini si sistemarono in piedi davanti a loro. L’unico che fino a quel momento aveva aperto bocca si tolse il amontagna e a Malik per poco non venne un colpo. “Tu!” urlò con rabbia. Anche gli altri uomini tolsero il amontagna e Malik riconobbe subito l’uomo che aveva fatto accusare dell’omicidio di Rehman. Lo stava fissando con occhi gelidi senza dire una parola.

Il direttore dell’ISI si rese conto che sarebbe stata una lunga notte.

Nei pressi di Islamabad (Pakistan)

Nonostante fosse notte inoltrata, il generale Aslam era sveglio. Si trovava al secondo piano in una delle torri della villa appartenuta al defunto trafficante d’armi. La stanza era stata trasformata in un centro di comando, da dove il generale stava dirigendo l’inizio della sua guerra. Due grandi schermi erano appesi alle pareti. Uno di questi mostrava una cartina dell’Afghanistan e il dislocamento delle truppe pakistane. Alcuni pesanti tavoli in legno erano posizionati al centro della stanza. Sopra di essi erano appoggiati una serie di computer e telefoni. In quel momento la torre era piuttosto affollata perché oltre ad Aslam si trovavano un altro paio di generali, quattro attendenti e Omar Abdallah Hassan. L’ingresso era sorvegliato da un paio di uomini delle forze speciali pakistane. Aslam si sarebbe trattenuto all’interno della villa solo per altri due giorni. Aveva scelto quella sistemazione perché nella capitale aveva ancora alcune faccende da sbrigare, al termine delle quali si sarebbe trasferito nella più sicura città di Rawalpindi, sede dello stato maggiore. Almeno per il momento nella villa si sentiva piuttosto al sicuro, non credeva che gli americani sapessero dove si trovava. E anche se l’avessero saputo, dubitava che si sarebbero permessi di compiere un attacco aereo o missilistico sulla villa. Erano appena stati accusati davanti al mondo dell’assassinio del leader di un Paese alleato, sarebbe stato rischioso compierne un altro pochi giorni dopo. Sicuramente, se avessero saputo che nella villa si trovava anche il loro nemico numero uno, ci avrebbero fatto un pensiero in più. “Allora, cosa pensi del piano di battaglia?” chiese il generale proprio a Hassan. Il comandante del JOA si trovava di fianco a lui, davanti a una cartina dell’Afghanistan, le mani raccolte dietro la schiena. “Mi sembra un ottimo piano, studiato nei minimi dettagli. Tuttavia mi rimane un dubbio riguardo alle forze in campo. Mi sembrano un po’ esigue rispetto agli obiettivi da raggiungere.”

“Oh, non preoccuparti, caro Omar. Siamo sicuri che il numero sia giusto. Negli ultimi anni abbiamo puntato molto sulla qualità dei nostri uomini e degli armamenti. È vero che le loro forze sono superiori ma c’è da dire che nonostante i milioni di dollari spesi dagli occidentali per rafforzare le forze armate afghane, non sono stati ottenuti molti risultati positivi. Buona parte dell’esercito afghano non è in grado di condurre una battaglia senza l’apporto degli alleati. Poche unità sono in grado di combattere autonomamente.” “In effetti non hai tutti i torti. Molti uomini che si sono arruolati nelle forze armate lo hanno fatto soltanto per lo stipendio offerto dal governo afghano.” “Proprio così. Comunque abbiamo altre tre divisioni di riserva pronte a intervenire in caso di necessità. Vedrai che una volta neutralizzati i loro alleati, gli afghani si arrenderanno in massa. La vittoria sarà nostra” disse Aslam dando un’amichevole pacca sulla spalla di Hassan. “Pregherò Allah perché sia così.”

Islamabad (Pakistan)

“Come osi entrare in casa mia e puntarmi una pistola contro?” chiese rabbioso Malik rivolto a Singh. Aveva deciso di giocarsela assumendo un atteggiamento aggressivo. “Non sono venuto qui per rispondere a delle domande ma per porle” rispose tranquillo il funzionario d’intelligence. “Non la farai mai franca e lo sai benissimo. Sei un uomo morto.” Singh fece spallucce. “Ti farò scuoiare vivo e la stessa sorte toccherà a tutti questi animali che ti sei portato dietro.” Singh continuò a fissare indifferente il suo direttore e improvvisamente lo colpì al volto con un violento manrovescio, aprendogli un taglio sul labbro inferiore.

La moglie sussultò terrorizzata. “Ora basta. Chiudi quella bocca e finiscila di sprecare il fiato con le minacce. Io e miei uomini sappiamo a cosa andiamo incontro e non abbiamo paura di morire.” “Che ne hai fatto degli agenti di sorveglianza?” “Sono morti” mentì Singh “ e comunque ti ho già detto che le domande le faccio io.” “Sei uno sporco traditore.” “Tu sei un traditore di tutto il popolo pakistano!” urlò Singh cominciando a perdere la pazienza. “Con i tuoi sotterfugi hai contribuito a dare il potere in mano a un dittatore da quattro soldi, calpestando le istituzioni democraticamente elette dal popolo.” “Non so di cosa stai parlando” si difese Malik. “Non insultare la mia intelligenza. So che Omar Abdallah Hassan si trova in Pakistan e so che lo proteggi.” “Non è vero.” “So anche che quest’uomo” proseguì Singh indicando Caruso “non ha sparato al Presidente Rehman perché io ero là. L’assassino è uno dei tuoi uomini più fidati.” “Credimi, ero all’oscuro di questi fatti” protestò Malik cercando di apparire credibile. “Non credo a una sola parola di quello che dici. Ti conosco e so che razza di serpe che sei. Quali sono i programmi di Aslam?” “Davvero io non so come aiutarti. Mi sono limitato a pubblicare le indagini preliminari svolte dai miei uomini. Non ho nessun rapporto con Aslam.” “Ah, sicché tu saresti un innocente agnellino.” Singh schioccò le dita e immediatamente uno dei suoi uomini afferrò per i capelli la moglie del direttore.

La donna gemette per il dolore e per lo spavento. L’altro compare le afferrò il polso sinistro sbattendolo con violenza sul tavolino-orologio. Tirò fuori un coltello da caccia con una lama a uncino e lo appoggiò sull’anulare della mano dove era infilato un costoso anello. I due agenti italiani sussultarono, non approvando quei metodi. Barraco fece un o per avvicinarsi alla donna ma Singh gli puntò addosso la pistola. “Vi prego di non interferire” disse con tono gentile rivolto ai due italiani. Caruso e Barraco si scambiarono uno sguardo increduli. “Io a chistu gli scasso la testa” affermò con rabbia quest’ultimo. “Stai calmo, Melo” lo tranquillizzò Caruso. Singh non comprese lo scambio di battute in italiano ma quando Barraco tornò al suo posto intese che i due non avrebbero interferito con la sua strategia. Abbassò l’arma e rivolse nuovamente lo sguardo verso Malik. “Cerchiamo di chiarire una cosa: se non mi dici tutto quello che sai ucciderò tua moglie e lo farò molto lentamente. Andrò avanti tutta la notte staccandole un pezzo per volta e tu sarai lì a guardarla.” “Non puoi farlo” protestò Malik. L’aria da duro che aveva cercato di assumere era già svanita. “Ah, non posso? Dovresti sapere meglio di tutti quale è il nostro modo di ottenere informazioni velocemente. Alcuni lavoretti che ho fatto in ato me li hai ordinati proprio tu.” Il direttore cercò di reggere lo sguardo di Singh ma non ci riuscì. Guardò sua moglie che aveva quasi smesso di respirare a causa della paura. Gli occhi erano rossi e gonfi di lacrime. Aveva pochi secondi per decidere se Singh stava bluffando. La lama del coltello, appoggiata sul fine dito di sua moglie, rifletteva la luce dei faretti. Malik tornò a fissare Singh, che con un leggero sorriso sembrava invitarlo a vuotare il sacco. Sapeva di cosa era capace e ricordava perfettamente alcuni dei lavoretti che aveva menzionato poco prima. L’uomo che aveva davanti amava follemente il suo Paese ed era disposto a qualsiasi azione per difenderlo. Decise che era meglio assecondarlo.

“Hai vinto tu, ti dirò tutto quello che so. Prima però devi darmi la tua parola d’onore che non farai del male a me e a mia moglie” propose con determinazione. Singh aggrottò le sopracciglia come se non avesse capito quello che aveva udito. Si abbassò verso il direttore fino ad avvicinare le labbra al suo orecchio. “Posso darti la mia parola d’onore sul fatto che non torcerò un capello a tua moglie. Riguardo a te non ho ancora preso la mia decisione” sussurrò in tono gelido. Malik fissò a bocca aperta il suo sottoposto mentre si risollevava, non riuscendo formulare un risposta. Davvero aveva intenzione di ucciderlo? Non riusciva a crederci. Era meglio essere il più collaborativo possibile. “È vero, c’è stato un complotto per asse il Presidente Rehman e io ne ho fatto parte. L’obiettivo era quello di portare al potere il generale Aslam” cominciò a raccontare. “Perché l’hai fatto?” chiese Singh. “Per liberarci dell’egemonia degli americani e dei loro alleati. La loro cultura è un cancro per la nostra patria.” “Menzogne! Il cancro per la nostra patria sono le persone come te e Aslam, che farebbero qualsiasi cosa per ottenere il potere. Con le vostre azioni state uccidendo la democrazia che ha cominciato a fiorire lentamente e con fatica.” “E a te pare una bella cosa? Politici corrotti che pensano solo al proprio benessere senza pensare alla gente che li ha eletti?” “La democrazia ha dei difetti ma è sempre meglio di una dittatura militare farcita di fanatismo religioso. Perché è questo che avete in mente, vero?” “Abbiamo intenzione di seguire semplicemente il volere di Allah.” “Voi interpretate a vostro piacimento il volere di Allah” urlò Singh. Malik rimase in silenzio.

“Parlami dei vostri rapporti con il JOA e con Omar Abdallah Hassan.” Caruso, nonostante avesse qualche infarinatura di urdu, non era riuscito a seguire tutta la conversazione. Barraco ancora meno ma al nome di Hassan i due agenti italiani drizzarono ancora di più le orecchie. “Hassan ha collaborato con noi organizzando degli attentati contro interessi americani, producendo false prove che portavano al Pakistan. Tutto questo ha fatto aumentare la tensione tra i due Paesi fino a culminare con l’assassinio del Presidente.” “In questo modo il colpo di mano di Aslam è stato visto da molti come un tentativo di salvare il Pakistan dagli americani. Molto astuto. Dove si trova ora Hassan?” “È qui a Islamabad, sotto la protezione del generale Aslam.” “Proprio come immaginavo. Come con Bin Laden, la storia si ripete. Devo trovare il modo di fermare Aslam prima che sia troppo tardi e tu mi aiuterai.” “È già troppo tardi. Ormai il processo è in moto.” “Che cosa intendi?” Malik sospirò e accavallò una gamba sull’altra, facendo frusciare i pantaloni di seta del pigiama. “Tra poche ore tutto il mondo saprà cosa sta accadendo ma ti anticiperò io la notizia. In questo momento truppe pakistane stanno entrando nel territorio afghano con la missione di eliminare la presenza occidentale dal Paese.” “Che cosa? Ma siete impazziti? Stiamo davvero invadendo l’Afghanistan?” Caruso e Barraco si guardarono increduli. “Che minchia stanno dicendo questi qua? Parlano di invadere l’Afghanistan?” chiese Barraco. “Il mio urdu non è il massimo ma mi pare di aver capito la stessa cosa” rispose Caruso.

Singh afferrò Malik per il colletto del pigiama. “Che cosa vi è saltato in mente? Gli Stati Uniti risponderanno all’aggressione e ci annienteranno!” gli urlò in faccia con rabbia. “Abbiamo preso le nostre precauzioni.” “Precauzioni? Contro gli americani non basteranno le vostre precauzioni.” Sing lasciò andare il colletto del pigiama e si massaggiò le tempie per cercare di calmarsi. Caruso e Barraco osservavano in silenzio cercando di capirci qualcosa. “Voglio le prove della colpevolezza di Aslam” chiese dopo quasi un minuto di riflessione. “Non capisco cosa vuoi dire.” “Non ricominciamo da capo. Sei troppo furbo per non aver preparato un dossier che incastri Aslam in caso le cose vadano male.” Malik e Singh si fissarono per alcuni istanti fino a quando il secondo si voltò verso la donna, tenuta ancora per i capelli e con il coltello appoggiato sul dito. Il direttore alzò le mani capendo il messaggio. “D’accordo. Le prove sono nel mio studio.” “Andiamo a prenderle e non fare scherzi.” Gli fece segno di alzarsi puntandogli contro la pistola. Malik si alzò dal divano e si diresse verso il suo studio. “Vengo anche io” disse Caruso. “Certamente” rispose Singh ritornando ad assumere il suo atteggiamento cortese dopo la sfuriata di poco prima. Lo studio di Malik si trovava al piano terra, poco distante dal salotto. Il direttore entrò per primo e accese la luce, seguito subito dopo da Singh e Caruso. L’arredamento vintage aveva lasciato spazio a dei mobili molto più classici. Una scrivania in mogano ingombra di carte dominava la stanza. Malik si diresse

verso un mobiletto, anch’esso in mogano, finemente lavorato. Mise una mano sotto la maglia del pigiama. “Fai molta attenzione a quello che fai” lo ammonì Singh. Senza rispondere Malik tirò fuori una chiave che teneva appesa a una catenina d’oro. Aprì lo sportellino del mobiletto e rimosse un pannello, dietro si trovava la sua cassaforte. Digitò la combinazione numerica e subito si sentì il suono di una serratura che scattava. A quel punto inserì la chiave nella toppa e dopo quattro giri anche una seconda serratura scattò. Caruso puntò la pistola in direzione del direttore temendo che estraesse un’ arma dalla cassaforte. “Ti consiglio di non premere il pulsante di allarme che si trova all’interno” avvisò Singh cordialmente. Malik, con il dito proprio su quel pulsante, maledisse mentalmente il suo sottoposto. Lasciò scivolare via il dito lentamente ed estrasse una cartelletta. La posò sulla scrivania e la aprì con calma. All’interno si trovavano alcune fotografie, un foglio di carta e una scheda di memoria. Prese per prime le fotografie, erano di ottima qualità. La prima raffigurava Omar Abdallah Hassan e un uomo sconosciuto mentre entravano nella moschea di Shah Faisal. Altre tre mostravano chiaramente il generale Aslam e Hassan intenti a conversare all’interno della moschea. L’ultima foto mostrava un uomo affacciato a una finestra intento a puntare un fucile di precisione. Si riconosceva chiaramente l’albergo dal quale era partito il colpo destinato al Presidente Rehman e si capiva che l’uomo con il mano il fucile non era Nicholas Caruso. Malik consegnò le fotografie a Singh il quale le osservò attentamente. “Molto bene” commentò. Consegnò l’ultima foto a Caruso che la osservò a sua volta. “Questa potrebbe aiutare a scagionarti, non credi?” gli chiese. Caruso osservò la foto alcuni istanti. “Sì e se non ti dispiace la tengo io.” “Non c’è alcun problema. In fondo siamo colleghi” rispose Singh con il suo

sorriso falsamente cortese. Caruso ripose la fotografia in una delle tasche del gilet tattico. “Chi è l’uomo che ha sparato?” chiese in inglese. “Avanti direttore, digli chi è l’assassino” incalzò Singh. “Si chiama Reis” rispose il direttore cominciando a parlare in inglese. “Questo lo so già. Dove si trova adesso?” “E chi lo sa? Reis non è alle dipendenze dell’ISI da almeno due anni. È sparito dalla circolazione subito dopo aver lasciato l’agenzia. Mi sono servito di lui per alcuni lavori senza mai incontrarlo.” Prese il foglio all’interno della cartelletta e lo consegnò a Singh. Si trattava del foglio di congedo di Reis e risaliva al gennaio del 2014. “Come lo contatti per assegnargli le missioni?” “Solo tramite e-mail cifrate che distruggo appena le invio. È il modo più sicuro.” “Così non rimane nessuna traccia che conduce a te” sentenziò Singh. “Che cosa c’è in quella scheda di memoria?” Malik prese un tablet che era appoggiato sulla scrivania e lo accese. Dopo che il sistema operativo fu caricato inserì la scheda di memoria. Dopo alcuni click cominciò a sentirsi la conversazione di due persone. Si trattava del dialogo che era avvenuto tra Aslam e Hassan nella moschea di Shah Faisal. Quella era una prova di notevole importanza. Alla fine della registrazione Singh batté le mani alcune volte fissando il direttore Malik. “Complimenti, davvero molto astuto. In questa vicenda sei uno di quelli con le mani più sporche ma in caso di problemi ne uscirai pulito come il bucato appena uscito dalla lavatrice. Non c’è nessuna prova che riconduca direttamente a te. Alla peggio, te la caverai con l’accusa di incompetenza e verrai mandato in pensione anticipatamente. Ottimo lavoro.”

Malik non rispose. “Bene, credo che qua abbiamo finito” disse Singh rivolto a Caruso. Diede ordine ai suoi uomini di avvicinare il fuoristrada all’abitazione. Sia a Malik che a sua moglie vennero legati i polsi con delle fascette di plastica. “Andiamo” ordinò Singh. Tutti indossarono nuovamente i amontagna. “Che succede, Azhar? Dove ci portano” chiese disperata la moglie di Malik. “Stai tranquilla cara, andrà tutto bene” tentò di rassicurarla il marito. “Ma cosa vogliono farci?” “È tutto sotto controllo, fidati di me.” Malik fece uno sforzo enorme per cercare di apparire sicuro anche se non lo era per niente. Entrambi vennero caricati nel bagagliaio del fuoristrada. Singh e i suoi uomini si sedettero nel retro. Caruso e Barraco raggiunsero il furgoncino di sorveglianza. I due mezzi ripartirono poco dopo percorrendo l’elegante viale residenziale in direzione di un luogo segreto.

CAPITOLO 15

Afghanistan Orientale

Nel momento in cui Malik veniva portato via da casa sua, il piano del generale Aslam era entrato nel suo atto finale. Era in corso l’invasione dell’Afghanistan da parte delle forze armate pakistane. Quattro divisioni meccanizzate e due corazzate si trovavano già all’interno del Paese, per un totale di circa settantacinquemila uomini perfettamente addestrati. Oltre a centinaia di pezzi d’artiglieria e mezzi da trasporto, l’esercito pakistano disponeva di quasi settecento carri armati pesanti. Si trattava in gran parte di moderni Al Khalid 1 armati con un potente cannone da 125 mm. Una delle brigate di carri era dotata anche di nuovissimi Al Khalid 2 appena usciti dalla fabbrica. Non andavano dimenticati anche una ventina di elicotteri d’attacco AH-1F di produzione statunitense, ideali per la caccia ai carri armati nemici. Nel corso degli ultimi cinque anni le forze armate pakistane si erano altamente professionalizzate e dotate di moderni armamenti. Tutto questo era avvenuto soprattutto sotto la spinta del generale Aslam. L’esercito afghano contava circa duecentocinquantamila uomini, oltre tre volte superiore a quello pakistano, ma meno della metà degli effettivi aveva raggiunto un livello di addestramento paragonabile alle forze di Aslam. Anche riguardo agli armamenti l’inferiorità era assoluta perché, a parte alcune forniture americane, la maggior parte erano formati da residuati sovietici. Oltre agli afghani, la coalizione guidata dagli Stati Uniti poteva mettere in campo circa undicimila uomini, di cui mille italiani. Inoltre, il gruppo da battaglia della portaerei americana CVN 76 USS Ronald Reagan incrociava al largo coste dell’Oman, pronta a fornire o con i propri aerei imbarcati. Le forze di Aslam erano penetrate per circa venti chilometri all’interno del

Paese. Le unità afghane che presidiavano il confine erano state facilmente sopraffatte e per il momento non c’erano stati ancora scontri di importanza rilevante. L’aviazione pakistana si era occupata di distruggere preventivamente a terra la maggior parte delle forze aeree nemiche. Molte basi aeree afghane e soprattutto americane erano state attaccate da squadroni di cacciabombardieri JF 17. Basi come Bagram erano state gravemente danneggiate, anche grazie all’utilizzo di missili da crociera. Erano stati utilizzati i nuovissimi missili Afrit 1, derivati dal DH-10 cinese, che il Pakistan aveva segretamente accumulato nel corso degli ultimi due anni. Le perdite di velivoli afghani e alleati erano state ingenti mentre i pakistani avevano registrato pochi abbattimenti. L’effetto sorpresa aveva avuto pieno successo e l’avanzata dei pakistani verso Kabul procedeva al momento incontrastata.

Mar Arabico al largo dell’Oman, acque internazionali - Sottomarino S200 PNS AMIR

Il comandante Alì Nawaz si tolse il berretto dalla testa e si ò una mano sui capelli intrisi di sudore. Era arrivato il momento più importante della sua carriera, per il quale lui e il suo equipaggio si erano addestrati duramente negli ultimi sei mesi. Si trovava a bordo di un sottomarino diesel classe Song, che la Marina militare pakistana aveva acquistato due anni prima dalla Cina. Per il momento si trattava dell’unico esemplare acquistato dal Pakistan ma verso l’inizio dell’autunno era prevista la consegna alla Marina di altri due esemplari. Nawaz si trovava in mare da dieci giorni, apparentemente impiegato in una esercitazione. Il vero scopo della sua missione era però quello di affondare o danneggiare la portaerei americana Ronald Reagan. Mettere fuori gioco la nave avrebbe favorito notevolmente l’avanzata delle forze di terra pakistane. Senza i suoi aerei sarebbe mancato un importante o per le truppe afghane e alleate. E ora eccola, l’immensa portaerei, a distanza di tiro dei suoi siluri. Diverse ore prima il sottomarino aveva iniziato un lento avvicinamento per evitare di essere

individuato dai radar delle navi di scorta e dei due sottomarini classe Los Angeles che si trovavano da qualche parte in mezzo al mare. Nei mesi precedenti il comandante e il suo equipaggio avevano provato la missione fino a riuscire quasi a compierla ad occhi chiusi. Tutti i suoi uomini, come lui del resto, erano stati scelti personalmente dal generale Aslam. Oltre alla loro competenza e professionalità, tra le caratteristiche che li accomunavano c’erano una provata fede musulmana e un forte odio per gli americani. Negli ultimi mesi erano stati talmente indottrinati sull’importanza della missione che la maggior parte di loro non avrebbe esitato a morire per essa, cosa che molto probabilmente sarebbe accaduta. Nawaz sapeva che dopo aver sparato le sue salve di siluri i sottomarini americani l’avrebbero individuato immediatamente. Si sarebbero messi subito in caccia, imitati dalle navi di scorta. Le probabilità di sfuggirgli erano piuttosto basse. “Signore, la soluzione di tiro è stata impostata, i siluri sono pronti a partire. Aspettiamo solo il suo ordine” affermò con un tono ansioso il secondo ufficiale. Il comandante Nawaz si riscosse immediatamente dal pensiero della sua imminente morte. Prima doveva fare quello per cui era stato scelto. Calcò nuovamente il berretto sulla testa. “Tubo uno fuori!” Da uno dei sei tubi dell’Amir uscì fuori il primo siluro diretto verso la portaerei americana. In sequenza ne uscirono altri cinque. Il suo sottomarino fu immediatamente rilevato dai due classe Los Angeles americani. Il più vicino, il Columbia, impostò rapidamente una soluzione di tiro. Nawaz fece ricaricare i tubi di lancio e fece sparare un’altra salva di sei siluri. A quel punto l’unica cosa rimasta da fare era cercare di fuggire. “Comandante, siluri in avvicinamento” avvisò l’operatore sonar. Il Columbia aveva lanciato tre siluri Mark 48 in direzione dell’Amir. Nawaz tentò una manovra evasiva e lanciò delle contromisure per ingannare i siluri nemici. I dispositivi, una volta lanciati in acqua, simulavano il rumore delle eliche del sottomarino in modo da ingannare i sistemi di ricerca dei siluri. Le contromisure fecero un buon lavoro ingannandone due ma non bastò. L’ultimo Mark 48 colpì l’Amir sotto lo scafo aprendo un grosso squarcio. Il sottomarino cominciò a imbarcare una notevole quantità d’acqua e fu spacciato. Il

comandante Nawaz morì sul colpo e il suo corpo affondò insieme ai sessantotto uomini del suo equipaggio. Fece appena in tempo a sapere che la sua missione aveva avuto successo. Dei dodici siluri lanciati tre erano riusciti a fare centro distruggendo le eliche della nave e aprendo una falla sotto la linea di galleggiamento. Sei siluri vennero ingannati dalle contromisure ma tre colpirono alcune navi di scorta che si erano messe sulla traiettoria per salvare la portaerei. Un incrociatore e un cacciatorpediniere vennero affondati. La Reagan rimase a galla ma con il sistema di propulsione fuori gioco dovette abbandonare il teatro delle operazioni. Venne rimorchiata per essere scortata in un porto sicuro, in attesa di riparazioni. La potente Marina degli Stati Uniti era stata colta di sorpresa e aveva subito una pesante sconfitta.

Camp Arena, Herat (Afghanistan)

La notte era stata fino a quel momento tranquilla nella base militare gestita dagli italiani. Le misure di sicurezza erano state rafforzate a causa degli attacchi sferrati in tutto l’Afghanistan da parte di formazioni talebane. La tensione era alta ma tutto sommato quasi nessuno credeva davvero che i talebani fossero intenzionati ad attaccare la base, piuttosto ben difesa. I talebani sapevano che in un attacco frontale avrebbero avuto la peggio. Il massimo che avrebbero potuto tentare era di colpire la base con qualche colpo di mortaio prima di essere schiacciati dalla potenza militare degli italiani. La maggior parte dei soldati si trovava nei propri alloggi a riposare dopo una faticosa giornata di lavoro. Il caporale degli alpini Riccardo Lucci era uno dei militari che per quella notte era stato comandato a fare la guardia. Stava pattugliando la zona dove erano situati gli alloggi per la truppa. eggiava pigramente in tenuta da combattimento, portando a tracolla il suo fucile d’ordinanza Beretta SC 70/90. Aveva sonno, come dimostravano i ripetuti sbadigli che aveva fatto da quando aveva iniziato il servizio di guardia. Lucci, ventidue anni da poco compiuti, era negli alpini da appena un paio d’anni. Quella in Afghanistan era la sua prima missione all’estero e francamente sperava di non farne più. Lui non era una di

quelle persone che sentivano una vera e propria vocazione per servire sotto le armi. Era entrato nell’Esercito allettato dall’idea di uno stipendio fisso e svolgeva i suoi incarichi come se fosse un lavoro qualsiasi. Il fatto era che questo lavoro non gli piaceva proprio, anche se lo sapeva fare molto bene. Più di uno dei suoi superiori aveva dimostrato apprezzamento nei confronti del suo operato. Lucci però non era più sicuro di voler continuare a stare nell’Esercito. D’altra parte, però, si chiedeva che cosa avrebbe potuto fare dopo il congedo. Per un giovane come lui le prospettive di lavoro non erano delle più rosee e il diploma di maturità classica non gli avrebbe aperto molte porte nel mondo lavorativo. Volgendo lo sguardo al cielo nero, una serie di bagliori lontani lo riscosse dai suoi pensieri. Inizialmente rimase interdetto, non capendo cosa stava succedendo. Istintivamente il suo indice si spostò sul grilletto del fucile, anche se era conscio che non sarebbe servito a nulla. Dopo un po’ di tempo realizzò di cosa si trattava. Era sicuro che quei bagliori fossero dei missili. Possibile che i talebani ne fossero entrati in possesso? Si mise a correre verso il comando della base urlando con tutta la voce che aveva in corpo. “Siamo sotto attacco! Siamo sotto attacco!” Decine di missili da crociera pakistani Afrit 1 si stavano avvicinando a Camp Arena, provenendo da direzioni diverse. Alcune batterie di Patriot a difesa della base lanciarono i loro missili per tentare di intercettare gli Afrit. Alcuni vennero abbattuti ma la maggior parte riuscì a raggiungere la base e l’aeroporto. Una pioggia di fuoco si abbatté su Camp Arena e sulle piste dell’aeroporto. Vennero colpiti il centro di comando, il centro di comunicazione, i radar e la zona dove erano sistemati gli alloggi della truppa e degli ufficiali. Una serie di esplosioni si levarono in tutta la base. Gli hangar dell’aeroporto vennero distrutti o seriamente danneggiati insieme ai velivoli che si trovavano all’interno. Anche le piste di decollo vennero colpite e danneggiate in diversi punti. I missili da crociera Afrit 1 non lasciarono scampo ai militari italiani. Anche il terminal dell’aeroporto civile venne danneggiato. Il caporale Lucci stava correndo attraverso gli alloggi della truppa quando un missile esplose a pochi metri da lui. La forza d’urto dell’esplosione dilaniò le sue

carni facendolo morire in un istante, ponendo fine alla sua carriera militare, anche se sicuramente non come avrebbe voluto. L’inferno durò poco meno di un minuto. Quando le esplosioni tacquero, buona parte di Camp Arena era in fiamme. I feriti si trascinavano in cerca di aiuto mentre i soldati rimasti illesi cercavano di organizzare i soccorsi. Sui loro volti l’orrore e la sorpresa per un attacco a tradimento senza che si sapesse neanche chi l’avesse condotto.

Roma, abitazione di Giovanni Parodi

Il Presidente del Consiglio Parodi si trovava a letto con sua moglie Angela. Era andato a dormire da poco più di un’ora crollando esausto dopo pochi istanti. Stava sognando di essere di nuovo ragazzo, quando era una futura promessa del nuoto. Partecipava a una gara di stile libero ed era all’ultima vasca prima del traguardo. Sapeva di essere in prima posizione e non doveva mollare proprio ora che si avvicinava la vittoria. Continuava a muovere braccia e gambe più velocemente che poteva controllando la respirazione. Mancava davvero poco. Ancora qualche sforzo ed ecco il traguardo. Aveva vinto! Uscì dalla vasca trionfante e salutò il pubblico rimanendo in piedi a bordo vasca. Si stava godendo il suo momento quando improvvisamente udì il suono di un telefono. Si guardò intorno per capire da proveniva il suono accorgendosi che veniva proprio da lui. Nella mano destra stringeva proprio un telefono. Ma da dove spuntava fuori? Possibile che avesse nuotato tutto il tempo con il telefono in mano senza accorgersene? Il giudice di gara si avvicinò a lui. “Squalificato!” gli urlò. “Perché mi ha squalificato?” chiese Parodi. Il telefono continuava a squillare. “Giovanni, svegliati” rispose imibile il giudice. “Come?”

“Giovanni, svegliati!” mugugnò sua moglie scuotendogli una spalla. Parodi si svegliò di soprassalto. “Che succede?” chiese intontito. “Il telefono sta suonando da un po’. Rispondi, per favore.” Parodi si accorse del telefono sul suo comodino che stava squillando. Scacciò via il sogno e accese l’abat-jour. Afferrò l’apparecchio e premette il tasto di risposta. “Parodi” rispose cercando di dare autorevolezza alla sua voce. “Signor Presidente, sono Rizzo.” Era uno degli dei suoi collaboratori a Palazzo Chigi. “Qual è il problema?” chiese subito Parodi. “Signore, deve venire subito a Palazzo Chigi. Un’auto verrà a prenderla tra quindici minuti.” “Rizzo, dimmi che diavolo è successo.” “Si tratta di Camp Arena a Herat. Ha subito un attacco missilistico.” “Buon Dio!” esclamò Parodi portandosi una mano alla bocca. Non riuscì a pronunciare altro. “Signor Presidente, è ancora lì?” “Ci sono ancora, Rizzo. Si sa chi è stato?” “Sembrerebbe che il Pakistan abbia invaso l’Afghanistan.” “Porca puttana!” esclamò Parodi non riuscendo a trattenere il linguaggio scurrile. “Scusami, Rizzo. Mi farò trovare pronto.” “Molto bene, ci vediamo tra poco.” Parodi chiuse la chiamata e posò il telefono sul comodino.

“Che è successo?” chiese preoccupata Angela. “Devo andare a Palazzo Chigi.” “A quest’ora?” “Hanno attaccato la base di Herat con dei missili. Sembra che il Pakistan abbia invaso l’Afghanistan.” “Oh mio Dio!” “Già. Torna a dormire. Io devo prepararmi.” Si alzò da letto e si vestì in fretta. Diede un bacio alla moglie e uscì dalla stanza giusto nel momento in cui suonò il camlo di casa. Sbirciò fuori da una finestra e vide fuori casa una Lancia Thesis blindata con il lampeggiante . Due uomini della scorta lo attendevano al cancello del cortile. Si stropicciò gli occhi assonnati e guardò l'ora all’orologio appeso alla parete del salotto. Mancavano venti minuti all’una di notte. Uscì di casa dopo aver preso chiavi, cellulare e portafoglio. Una nuova giornata era iniziata e come inizio si sarebbe potuto sperare sicuramente in qualcosa di meglio.

Islamabad (Pakistan)

Dopo il rapimento del direttore Malik, Caruso e Singh, insieme ai loro uomini, avevano trovato rifugio in un’abitazione di proprietà dell’ISI. Si trattava di un’isolata casa a un piano situata nella periferia di Islamabad, utilizzata prevalentemente per interrogare i prigionieri. In una delle stanze, infatti, si trovava un macabro campionario di strumenti di tortura che, se utilizzati da mani esperte, erano in grado di far parlare anche il più duro dei prigionieri. I tre agenti di sorveglianza narcotizzati erano stati legati e sistemati in una piccola stanza priva di finestre, sorvegliati a vista da un uomo armato. Anche Malik e sua moglie erano stati sistemati in una stanza priva di finestre ma avevano subito un trattamento migliore. Avevano ricevuto due materassini per riposare e non erano stati legati. Malik non era riuscito a prendere sonno mentre

sua moglie si era addormentata subito, stremata dallo stress del rapimento. Caruso si trovava in una piccola stanza insieme a Singh. Sedevano intorno a un tavolo di metallo sul quale erano appoggiate delle planimetrie raffiguranti la villa in cui il generale Aslam aveva stabilito il suo quartier generale provvisorio. Singh aveva interrogato in privato il suo direttore proprio nella stanza delle torture, acquisendo importanti informazioni che gli avevano permesso di elaborare un piano per contrastare Aslam. Non aveva dovuto prendere in mano nessuno dei ferri del mestiere perché Malik aveva risposto a tutte le domande senza esitazione. Mentre i primi raggi di sole penetravano timidamente attraverso le imposte chiuse di una finestra, Singh si accingeva a spiegare il suo piano al nuovo alleato, Nicholas Caruso. “Queste sono le planimetrie di una enorme villa che si trova alla periferia della città” esordì il pakistano. “Le ho scaricate dal server dell’ISI con la di Malik. Il suo ex proprietario era un potente trafficante di droga che importava la sua merce dall’Afghanistan per poi smistarla in Pakistan e in altre decine di Stati. Si chiamava Shah. Era in ottimi rapporti con Malik, che chiudeva tutti e due gli occhi in cambio di una percentuale sui guadagni. Quell’infame ha accumulato una fortuna che ha nascosto in qualche banca all’estero. Ovviamente anche il trafficante si è arricchito parecchio, arrivando a costruirsi una casetta di tutto rispetto. Sotto terra ha perfino fatto costruire un bunker con delle uscite segrete.” “Cosa c’entra la villa con Aslam?” chiese Caruso impaziente, anche perché desiderava andare a riposare qualche ora. “Ho detto che il trafficante è l’ex proprietario della villa, questo perché alcuni mesi fa Malik l’ha fatto eliminare. Il povero imbecille, avido di denaro, si era messo in testa che non aveva più bisogno della protezione di Malik per condurre i suoi sporchi affari. Aveva smesso di pagare la tangente e il caro direttore l’ha fatto uccidere facendogli tendere un agguato dalla sua squadra di sicari. Tutto è ato come una brillante operazione antidroga.” “Stiamo parlando degli stessi sicari che hanno tentato di fare la pelle a me e la mia squadra?” “Proprio loro. A proposito, complimenti per come gli siete sfuggiti.”

“Grazie.” “Tornando alla villa, dopo l’eliminazione di Shah è stata sequestrata ed è diventata una proprietà dell’ISI. Ed ecco che arriviamo ad Aslam. In questi giorni il generale aveva bisogno di una base operativa provvisoria prima di andarsi a nascondere nella città militare di Rawalpindi. Indovina che cosa gli ha messo a disposizione il caro Malik.” “Immagino che sia la villa del defunto Shah.” “Hai fatto centro. Non ci rimarrà ancora per molto, però. La sua partenza per Rawalpindi è prevista domani mattina. Questa è l’ultima notte che alloggerà a Islamabad.” “Che cosa stai cercando di dirmi?” Singh si avvicinò a Caruso assumendo un’aria da cospiratore. “Quello che voglio dire è che abbiamo una possibilità unica per eliminare Aslam.” Caruso si ò una mano sulla barba ispida che ormai non faceva da tre giorni. Quell’uomo, dopo averlo arruolato forzatamente nella sua squadra, lo aveva prima coinvolto nel rapimento del potente direttore dell’ISI e ora gli stava proponendo di compiere un omicidio. “Perché mai io e i miei uomini dovremmo rischiare la vita per asse Aslam? Abbiamo tutte le prove del suo coinvolgimento e di quello di Malik nel complotto. Rendiamole pubbliche e Aslam sarà finito. Non è forse questo che mi hai detto a Karachi?” Singh scosse la testa vigorosamente. “No, tu non capisci. Le cose sono cambiate. Aslam non si farà semplicemente da parte. Io lo conosco da quando abbiamo frequentato l’accademia militare insieme. So che non rinuncerà al potere che ha conquistato con fatica. Anche se pubblicassimo le accuse, lui continuerebbe a governare e buona parte delle forze armate sarebbe con lui perché è molto benvoluto. Scoppierebbe una guerra civile e ci andrebbero di mezzo migliaia di innocenti.”

Il pensiero di una guerra civile scosse la coscienza di Caruso. Le immagini di donne e bambini con i corpi martoriati dalle bombe attraversarono la sua mente come un lampo. “Sei sicuro al cento per cento di quello che stai dicendo?” chiese a Singh. Il pakistano annuì lentamente. “Sì, ne sono assolutamente sicuro, lo conosco troppo bene. Senza considerare che ha messo in moto una guerra. Non vorrà rinunciare al suo progetto di un grande stato musulmano. Me ne parlava spesso ai tempi dell’accademia.” “Come hai intenzione di penetrare nella villa? Penso che sarà superprotetta.” “Questo è sicuro. Ci sarà una guarnigione che può variare da cinquanta a cento uomini per proteggere la zona. Molto probabilmente ci saranno anche dei mezzi corazzati. Penetrare dalla superficie è impossibile.” “Beh, allora contattiamo gli americani e facciamo bombardare tutta la zona” propose Caruso. “Non mi pare una buona idea. Innanzi tutto perché potrebbe volerci troppo tempo per organizzare la cosa. Gli Stati Uniti vorranno essere sicuri che Aslam si trovi proprio lì. E anche se saranno sicuri della sua presenza, non è detto che attacchino. Ricorda che agli occhi del mondo hanno assassinato un leader alleato pochi giorni fa. Ci penseranno un attimo prima di eliminare un altro leader, seppur illegittimo e che gli sta facendo guerra.” “Hai ragione. La cosa potrebbe richiedere tempo e noi non ne abbiamo. Senza contare che se Aslam fosse nel bunker potrebbe salvarsi dal bombardamento. Quindi mi pare che ci sia rimasta una sola opzione” disse Caruso cercando la planimetria che raffigurava il bunker della villa. “Già, c’è una sola opzione” confermò sorridendo Singh. Sistemò la planimetria davanti a loro. “Il bunker è dotato di due tunnel che fungono da uscite di sicurezza. Entrambi portano fuori dal perimetro della villa. Quando la villa fu sequestrata venne ovviamente perquisita integralmente. Uno degli uomini che partecipò alla

perquisizione è un mio amico. Mi raccontò che avevano individuato un terzo tunnel che nella planimetria non appare. Per qualche strana ragione era stato abbandonato e sigillato da un portone di metallo. L’uscita esterna era stata interrata e dovrebbe essere indicativamente qui.” Singh indicò un punto sulla mappa. “Nessuno degli uomini di Aslam ne è a conoscenza, quindi questo tunnel sarà la nostra via di accesso.” Caruso si accarezzò nuovamente la barba ispida, riflettendo sulla proposta di Singh. “Ok, da qua si può entrare. Una volta dentro, però, come procediamo?” “Se Aslam si trova nel bunker il lavoro sarà facile. Lo eliminiamo e usciamo in silenzio come siamo entrati.” “E se si trova all’interno della villa?” “In quel caso il compito diventerà più difficile ma non impossibile. Il fattore sorpresa sarà un elemento importante.” Caruso rimase in silenzio, non ancora del tutto convinto. Singh attese un minuto prima di assestare il colpo di grazia all’alleato. “Senti, io non ho intenzione di obbligarti ma c’è un’altra cosa che devi sapere prima di prendere la tua decisione.” “E sarebbe?” “Omar Abdallah Hassan si trova ospite della villa.” “Ne sei sicuro?” scattò Caruso. “L’ha confermato Malik. Potrebbe essere l’occasione per eliminarli tutti e due nello stesso istante. Caruso ripensò alle parole di Parodi a bordo dell’aereo presidenziale. Hassan doveva essere eliminato. Si pinzò le narici con due dita riflettendo sul da farsi. Intanto Singh, sornione, attendeva la risposta del suo alleato.

“Ne devo parlare con la mia squadra” disse infine Caruso alzandosi dalla sedia. “Capisco” rispose Singh con un sorriso. “Senza di te e i tuoi uomini non potrò portare a termine questa missione. Mi auguro che rifletterai su una cosa: quello che faremo o non faremo stanotte inciderà sul destino dei popoli di almeno due nazioni, forse anche di più.” “Lo farò, Singh” disse Caruso aprendo la porta della stanza. “Lo farò.”

CAPITOLO 16

Roma, Palazzo Chigi

La Lancia Thesis di Parodi sfrecciava per le tranquille strade di una Roma addormentata, accompagnata da due auto di scorta. Abituato al caos del giorno, provava sempre uno strano effetto a vedere la città di notte. Guardando il paesaggio che scorreva attraverso il finestrino, pensò che il Pakistan aveva appena dichiarato guerra all’Italia senza preavviso. Lui non avrebbe lasciato impunita la vile aggressione. Sicuramente ci sarebbero stati molti oppositori alla sua linea politica. Gli avrebbero chiesto una soluzione diplomatica senza impegnarsi in un’azione militare ma non li avrebbe ascoltati. Avrebbe risposto all’aggressione con fermezza. Il corteo arrivò in piazza Colonna quando mancavano due minuti all’una di notte. L’auto blindata entrò dal portone principale e Parodi fu accolto da un carabiniere che gli aprì la porta. Il Presidente del Consiglio lo salutò distrattamente uscendo dall’automobile ed entrò a palazzo. “Buongiorno, Presidente” lo accolse Rizzo. “Non credo che lo sarà” rispose Parodi. Rizzo ignorò il commento, comprendendo lo stato d’animo del premier. “Nella galleria Deti la stanno aspettando il ministro Conti, il ministro Blanc e l’ammiraglio Lombardi.” “Bene.” Raggiunsero a o svelto la galleria Deti senza dire più una parola. Parodi entrò spalancando la porta e i tre occupanti si alzarono in piedi.

“Allora, ditemi per filo e per segno che cosa sta succedendo” esordì Parodi senza neanche salutare. Come al solito fu il ministro degli Esteri Conti a prendere la parola per primo. “Un disastro, Giovanni, un disastro. Poco più di un’ora fa la base Camp Arena è stata fatta oggetto di un attacco missilistico. Ci sono ingenti danni e molte perdite umane.” “Quante perdite?” “Per ora c’è molta confusione ma potremmo essere nell’ordine delle decine se non centinaia. Nella base si trovava la quasi totalità dei nostri militari in Afghanistan.” “Maledizione! Al telefono Rizzo mi ha detto che è stato il Pakistan. Ne siete assolutamente sicuri?” chiese Parodi accomodandosi attorno al massiccio tavolo in mogano. “Purtroppo sì. Altre basi militari statunitensi e afghane sono state colpite, sia con attacchi missilistici che con attacchi aerei. Anche lì ci sono stati molti danni e vittime. Bagram, per esempio, sembra che sia stata quasi distrutta.” Parodi si morse il labbro inferiore, come faceva sempre quando era preoccupato. “Non è tutto, Giovanni” intervenne il ministro della Difesa Blanc. L’uomo era un segaligno valdostano magro come un chiodo, con le punte dei folti baffi ingialliti a causa dei sigari che fumava. Anche in quel momento ne teneva uno spento in mano. “Truppe di terra pakistane hanno attraversato il confine e sono penetrate in territorio afghano. Secondo le stime stiamo parlando di circa settantamila uomini. Per il momento gli unici scontri sono avvenuti al confine ma gli afghani stanno preparando una difesa. Ho convocato il capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Lombardi, per fare un quadro più preciso della situazione militare. Prego, ammiraglio.” “Grazie, signore.” L’ammiraglio Lombardi si alzò dal tavolo e si diresse verso un televisore da

quaranta pollici che mostrava una cartina dell’Afghanistan. Lombardi poteva essere lo stereotipo del militare ideale. I capelli biondi tendenti al grigio erano tagliati corti a spazzola e la divisa bianca della Marina era stirata perfettamente. Parodi notò che nonostante l’ora e il breve preavviso era perfettamente rasato. “Le forze pakistane hanno attaccato lungo tutta la zona di confine e cercheranno di prendere il controllo del Paese il più rapidamente possibile. La direttrice principale dell’attacco sembra essere questa.” L’ammiraglio indicò un punto sulla mappa. “Molto probabilmente il loro obiettivo primario è conquistare la capitale Kabul. Secondo i primi rapporti, per il momento le nostre capacità di reagire, come anche quelle degli americani, sono seriamente compromesse. Abbiamo subito molti danni, soprattutto ai mezzi aerei. La maggior parte dell’aviazione, compresa quella afghana, è stata distrutta a terra. In questo momento il Pakistan è in grande vantaggio sul controllo del cielo e come lei sicuramente saprà si tratta di una condizione essenziale quando si combatte una guerra.” “Ma gli americani non dovrebbero avere una portaerei da quelle parti?” chiese Parodi. “Giusta affermazione, signore. Il problema è che un sottomarino pakistano ha attaccato il gruppo da battaglia della portaerei Ronald Reagan. Due navi di scorta sono state affondate mentre la portaerei ha subito danni che non le permetteranno di prendere parte alla battaglia. Il sottomarino pakistano è stato successivamente affondato.” “Beh, ma con tutta la potenza militare che hanno, non possono mandarne un’altra?” “È quello che stanno facendo, ma ci vorrà del tempo durante il quale i pakistani si rafforzeranno.” “Ammiraglio, lei pensa che gli afghani abbiano qualche possibilità di resistere?” chiese Conti. “No, signor ministro. Personalmente non lo credo. Nonostante siano stati spesi molti soldi per l’addestramento, l’esercito afghano non è pronto per uno scontro campale. Può cavarsela bene contro i talebani, ma contro i pakistani in uno scontro campale no. Sono più addestrati e hanno dotazioni militari migliori.”

Il labbro di Parodi cominciò a sanguinare dopo l’ansioso mordicchiare. “Che cosa suggerisce di fare, ammiraglio?” “Innanzi tutto inviare il gruppo da battaglia della portaerei Cavour nel teatro delle operazioni. In questo momento si trova a circa due giorni di navigazione. Poi bisognerà allestire un esercito di soccorso per i nostri militari. Penso che l’Oman darà autorizzazione a fare atterrare i nostri aerei. La stessa cosa faranno gli americani.” “Mi sembra la cosa giusta” concordò il premier. “Solo una domanda: secondo lei, come è stato possibile farsi cogliere di sorpresa in questo modo?” L’ammiraglio non fece trasparire nessun segno di imbarazzo in quello che sembrava una velata accusa nei suoi confronti. “Il Pakistan ha iniziato la corsa agli armamenti ormai da quasi dieci anni. In questo tempo ha modernizzato notevolmente le proprie forze armate, sempre in funzione difensiva, per contrastare un eventuale attacco indiano. È questo è quello a cui abbiamo creduto fino a oggi.” “E riguardo alle truppe che hanno invaso l’Afghanistan, come si fa a non accorgersi di settantamila soldati ammassati alle frontiere?” “In realtà l’esercito pakistano negli ultimi anni ha compiuto regolarmente delle grandi esercitazioni lungo il confine con l’Afghanistan. Due anni fa abbiamo partecipato anche noi con un nostro contingente. L’ultima esercitazione in programma era terminata proprio il giorno prima dell’inizio del Ramadan. Nessuno avrebbe mai immaginato un attacco a sorpresa.” “Un vile attacco a sorpresa. Non si vedeva qualcosa del genere dai tempi di Pearl Harbour” affermò Parodi stropicciandosi gli occhi. Ora la situazione gli era più chiara. A breve avrebbe dovuto chiamare il Presidente degli Stati Uniti per concordare una linea d’azione. Qualcuno bussò alla porta. “Avanti” disse Parodi. Era Rizzo.

“Signor Presidente, c’è il Direttore Sartori che chiede di essere ricevuto.” “Lo faccia entrare.” Il direttore del DIS entrò a o veloce nella stanza. Indossava un pantalone di cotone color cachi e una camicia bianca. Anche lui era stato svegliato nel cuore della notte. “Buongiorno, signor Presidente” salutò stringendo la mano a Parodi. “Buongiorno a lei, Direttore. Prego, si accomodi” lo invitò il premier indicando una sedia. Prima di accomodarsi, Sartori salutò l’ammiraglio Lombardi e i due ministri. “Allora Direttore, presumo che sia venuto fino qui per darci qualche informazione fresca dal Pakistan.” Sartori si sistemò gli occhiali sul naso prima di rispondere. “Effettivamente sì. Circa venti minuti fa abbiamo ricevuto un messaggio cifrato proveniente dal Pakistan. Sembrerebbe che a inviarlo sia stato Nicholas Caruso.” “Quindi è ancora vivo!” esclamò Parodi. “Penso di sì.” “Cosa dice il messaggio?” “È una comunicazione molto breve. Nella prima parte dice che il piano di estrazione non è stato attuabile. Caruso e la sua squadra si trovano ancora in Pakistan, stanno tutti bene. La seconda parte ci dà una notizia che se fosse vera sarebbe di importanza vitale. A quanto dice Caruso, il complotto per asse il Presidente pakistano è stato eseguito da un componente dei servizi segreti pakistani. Sostiene anche di avere le prove del complotto.” “Perché non ci ha fornito queste prove?” chiese Conti. “Questo ci rimanda all’ultima parte del messaggio. Dice che presto le prove saranno rese pubbliche e chiede di evitare rappresaglie militari nei confronti del

Pakistan per almeno trentasei ore.” “È una richiesta strana. Siamo sicuri che si tratti davvero di Caruso?” “C’è sempre la possibilità che sia stato catturato e costretto a mandare questo messaggio. Lo scopo potrebbe essere di prendere tempo ma personalmente lo ritengo poco verosimile. Inoltre l’ultima frase è rivolta direttamente a lei, Presidente.” “A me?” chiese stupito il premier. “E che cosa dice?” “Dice che la missione assegnata durante il volo sull’aereo presidenziale potrebbe essere compiuta entro breve.” “Di cosa si tratta, Giovanni?” Parodi si accarezzò il labbro inferiore con due dita. “Quando ho accompagnato Caruso a Herat con l’aereo presidenziale gli ho ordinato che, nel caso avesse trovato Hassan, avrebbe dovuto ucciderlo.” “Ma Giovanni! Hai ordinato un omicidio!” esclamò indignato Conti. “Ha sulla coscienza centinaia di morti e merita di essere ucciso.” “Per queste cose c’è la giustizia internazionale.” “Giustizia internazionale un cazzo! Tu sei troppo purista, il mondo non va come pensi tu. Anche Bailey è d’accordo sul fatto che deve morire e spero proprio che Caruso riesca nella sua missione.” Nessuno replicò alle parole di Parodi. Conti rimase immobile con un’aria visibilmente sconcertata. Blanc cominciò ad accarezzarsi i baffi mentre sull’ammiraglio Lombardi comparve un leggero ghigno di approvazione per le parole del premier. Sartori rimase imibile anche perché era a conoscenza dell’ordine di eliminare Hassan. Dopo un interminabile silenzio, Parodi prese nuovamente la parola. “Va bene signori, la riunione è aggiornata tra un’ora. Nel frattempo vado nel mio

ufficio perché devo telefonare a Bailey. Detto questo si alzò dalla sedia e uscì dalla stanza. Era irritato dalla visione del mondo di Conti ma era anche felice che Caruso fosse ancora vivo. Pregò intensamente che compisse la sua missione e riuscisse a tornare a casa.

In volo verso Camp Arena (Afghanistan)

Il sole, già alto in cielo, scaldava la cittadina di Zendeh Jan, nella provincia di Herat. Il risveglio dei suoi diecimila abitanti non era stato però dei migliori. Dopo l’attacco notturno all’aeroporto e alla base di Camp Arena, formazioni di talebani avevano assaltato la cittadina. Approfittando della confusione creata dall’attacco aereo, erano riusciti a occupare l’intera Zendeh Jan, arroccandosi in posizione difensiva. In tutto l’Afghanistan, i talebani erano riusciti a conquistare vaste aree cogliendo di sorpresa l’esercito afghano e i suoi alleati. L’elicottero che trasportava Ruben Monteleone e i suoi sette carabinieri si stava avvicinando proprio a Zendeh Jan. Volava basso ed entrambi i portelloni erano aperti. Il soccorso ai militari afghani era andato a buon fine, anche se avevano dovuto combattere tutta la notte. Alla fine erano riusciti a far sloggiare i combattenti talebani dal villaggio rompendo l’assedio. Ora, sulla via di ritorno verso Camp Arena, avevano ricevuto l’incarico di sorvolare la cittadina afghana per cercare di capire cosa fosse successo durante la notte. Il maresciallo, seduto sul seggiolino dell’AB 412 era esausto, sporco di fango e puzzolente di sudore. Sentiva un pessimo sapore in bocca e non vedeva l’ora di potersi lavare i denti. Più di ogni altra cosa, però, desiderava constatare i danni che aveva subito Camp Arena. Era stato avvisato dell’attacco notturno ma non conosceva ancora il numero delle vittime. I suoi uomini erano stanchi quanto lui e nessuno aveva più detto una parola da quando erano ripartiti dal villaggio. Alcuni si erano addormentati immediatamente, appoggiandosi alla paratia dell’abitacolo. Altri si erano messi a smanettare pigramente con il proprio smartphone. Solo Masino sembrava ancora

eccitato dall’azione. Muoveva ritmicamente mani e piedi come se stesse suonando una batteria immaginaria, canticchiando sottovoce misteriose melodie. “Maresciallo, venga un po’ a vedere” lo chiamò il pilota attraverso le cuffie. Monteleone si slacciò la cintura di sicurezza e si avvicinò barcollando alla cabina di pilotaggio. “Che succede?” chiese ad alta voce cercando di sovrastare il rumore del rotore. “Guardi laggiù.” Si notavano delle colonne di fumo provenire dalla cittadina. “Sembrerebbe che ci sia stata una battaglia” ipotizzò Monteleone. “È probabile.” “Dovremmo fare un paio di aggi per ottenere qualche informazione in più. Chiama la base e chiedi istruzioni.” Il pilota armeggiò con la radio per contattare la base. “Base, qui Jolly Uno.” Nessuna risposta. “Base, qui Jolly Uno” insistette il pilota. “Jolly Uno, qui base. Dove vi trovate?” “Siamo in prossimità di Zendeh Jan. Si vedono colonne di fumo provenienti dalla cittadina. Richiedo istruzioni per procedere nel pattugliamento.” “Affermativo. Rimanete in attesa.” arono una decina di secondi prima che la situazione si fe improvvisamente molto calda. “Missile davanti a noi!” urlò il secondo pilota.

“Merda!” Il pilota tentò una manovra evasiva ma il missile antiaereo, uno Strela di produzione russa, si avvicinò velocemente al bersaglio lasciando una scia di fumo. Nonostante lo Strela si trovasse nell’arsenale talebano da ormai dieci anni, riuscì a svolgere il suo compito colpendo il rotore di coda dell’elicottero. L’esplosione provocò il distacco della parte terminale della trave di coda. Senza più il rotore di coda, l’AB 412 divenne incontrollabile. Un allarme sonoro cominciò a risuonare con insistenza all’interno dell’elicottero, che prese a ruotare su se stesso. Monteleone riuscì faticosamente a ritornare al suo posto. Armeggiò terrorizzato con la cintura cercando di riagganciarla. Le mani tremavano dalla paura ma dopo alcuni tentativi riuscì nel suo intento. L’elicottero continuava a ruotare su se stesso, con il pilota che faceva il possibile per cercare di dargli un minimo di assetto. “Jolly Uno è stato colpito, ripeto Jolly Uno è stato colpito” urlò alla radio. L’AB 412 continuò ad avvicinarsi velocemente al terreno. “È finita!” urlò un carabiniere. “State calmi, ne usciremo” cercò di rassicurare Monteleone anche se non era convinto di quello che diceva. L’allarme continuava a martellare le tempie di tutti quanti, alimentando ancora di più il terrore. Masino si fece rapidamente il segno della croce per raccomandare la sua anima a Dio. Pochi istanti dopo l’elicottero impattò in una zona rocciosa alcuni chilometri fuori da Zendeh Jan, in una depressione del terreno. La cabina, la prima parte a toccare il terreno, subì tutta la durezza dell’impatto. Il velivolo si rovesciò su un fianco e fece una rotazione di centottanta gradi prima di fermarsi con le pale spezzate. Un nube si polvere si alzò da terra coprendo l’elicottero abbattuto per qualche istante. Quando la nube cominciò a diradarsi l’elicottero da trasporto giaceva silenzioso e immobile.

Roma, abitazione di Nicholas Caruso

Un’altra notte insonne era ata a casa di Nicholas Caruso e un’altra giornata piena di preoccupazione stava iniziando. Sonia Caruso era intenta a preparare del caffè per lei e per Miriam Monteleone. Il giorno precedente aveva contattato nuovamente il DIS ma nessuno era riuscito a darle delle notizie positive. Erano quasi sicuri che Nicholas fosse vivo ma non sapevano dove si trovasse. L’avevano invitata ad attendere fiduciosa nuove notizie. Come poteva essere fiduciosa con un “siamo quasi sicuri”? E anche se fosse stato vivo, a quest’ora poteva essere stato catturato e imprigionato. Magari proprio in quel momento qualcuno lo stava torturando, strappandogli le unghie o i denti o qualcos’altro di terribile. Un attacco di nausea colpì Sonia per un momento, al pensiero di suo marito torturato e ucciso. No, non doveva cedere a quei pensieri. In quel modo si faceva solo del male inutilmente. Inserì una cialda nella macchinetta del caffè e premette il pulsante di attivazione. Il motore della macchinetta iniziò a ronzare e pochi istanti dopo il cremoso liquido scuro riempì la tazzina. Sonia chiuse gli occhi cercando di concentrarsi sul piacevole aroma di caffè. “Oh, mio Dio!” La voce era di Miriam che si trovava in salotto insieme ai due bambini. Sonia aprì immediatamente gli occhi e si precipitò nel salotto, pensando che fosse successo qualcosa a sua figlia. “Che succede?” chiese preoccupata. “Ruben” riuscì a dire sotto shock. “Ruben cosa?” Sonia si avvicinò al televisore che continuava a trasmettere il notiziario in onda tutto il giorno. Una scritta rosso fuoco troneggiava nello schermo. Diceva: “BASE DI HERAT SOTTO ATTACCO. MOLTE VITTIME.” Sonia individuò il telecomando e alzò il volume per sentire cosa diceva la giornalista.

“... non si sa quale sia esattamente il numero dei morti ma sembra essere piuttosto alto, come anche il numero di feriti. I danni sono ingenti sia nella base che nell’aeroporto. Riguardo la provenienza dell’attacco, c’è chi punta il dito contro il Pakistan, le cui forze armate hanno invaso l’Afghanistan questa notte.” “Hanno ucciso Ruben” esclamò Miriam con le lacrime agli occhi. Stringeva al petto il piccolo Fabio. “Non ne siamo sicuri. È troppo presto per dirlo” tentò di confortarla Sonia, prendendo in braccio sua figlia e sedendosi sul divano. “Ho paura.” “Anche io, ma dobbiamo essere forti.” Miriam non rispose, continuando a versare lacrime silenziose. Anche Sonia rimase in silenzio capendo che la sua amica aveva bisogno di un momento per sfogarsi. Non poté fare a meno di pensare all’ironia del destino. Miriam era venuta a Roma per consolare un’amica e dopo poco tempo si era trovata lei stessa nella medesima situazione. Tutte e due rischiavano di aver perso il marito. Si ritrovò a pensare al funerale dei loro uomini. Immaginò le due bare scure una accanto all’altra, due bandiere italiane stese sopra. Vicini anche nel momento dell’addio, a testimonianza dell’amicizia che li aveva legati in vita. La banda che suonava il silenzio, i commilitoni che rendevano omaggio. Lei e Miriam vestite di nero che tenevano in braccio i figlioletti ignari che i loro papà non c’erano più. Doveva scacciare via quei pensieri ma non ci riuscì. Sentiva che il mondo le stava crollando addosso. Mentre la piccola Silvia le pizzicava un braccio con le sue manine, Sonia Caruso iniziò anche lei a piangere silenziosamente.

Alcuni chilometri fuori da Zendeh Jan (Afghanistan)

Aprì improvvisamente gli occhi non riuscendo a capire dove si trovava. Si accorse di essere sdraiato su qualcosa di morbido. Sopra la sua testa vedeva il cielo azzurro attraverso un’apertura. Sbatté le palpebre realizzando che l’apertura era l’ingresso dal lato sinistro dell’AB 412. Spostò lo sguardo a destra e scorse quello che rimaneva della cabina di pilotaggio. Era tutto sottosopra, quindi dedusse che l’elicottero doveva essersi ribaltato. Un rumore lo costrinse a spostare lo sguardo a sinistra dove si trovavano alcuni corpi. Uno di essi stava cercando di alzarsi. L’uomo aveva i capelli rossicci. Masino! Era ancora vivo. Monteleone cercò di alzarsi da terra accorgendosi che si trovava sdraiato sul corpo di uno dei due mitraglieri. “Marescià, tutto a posto?” gli chiese Masino quando lo vide muoversi. “’Nu babà, Masino” rispose Monteleone abbandonandosi al dialetto napoletano. Cercò di capire se il mitragliere fosse ancora vivo ma si accorse subito che non lo era. “È ancora vivo?” chiese il rossiccio carabiniere. “No, pace all’anima sua.” Vicino al mitragliere giaceva un altro corpo. Era D’Ambrosio, uno dei suoi uomini. Aveva un pezzo di metallo piantato in fronte. Gli tastò il collo per capire se fosse ancora vivo, anche se sapeva già che era una cosa inutile. Spostò il corpo scoprendo che sotto di esso si trovava la loro radiotrasmittente. Era rotta in più parti. “Merda, D’Ambrosio è morto e la radio è andata.” “Anche Marra è morto. Ha il collo spezzato” informò Masino. Monteleone si avvicinò a un altro dei suoi uomini. Si chiamava Gianni Valente. Sul volto erano presenti alcuni lividi ma respirava ancora. Lo schiaffeggiò leggermente per farlo rinvenire. Valente si svegliò di colpo.

“Maresciallo!” “Come stai, Valente?” Il carabiniere si mise a sedere tastandosi il corpo. Era un segaligno trentenne con la pelle molto chiara. “Mi sembra che non ci sia niente di rotto.” Un altro carabiniere rinvenne in quel momento. Si chiamava Enrico Sanna, di Sassari. Aveva venticinque anni ed era la copia di Frank Poncharello, uno dei poliziotti della serie televisiva “Chips”. I commilitoni infatti lo chiamavano Ponch. “Ehi Ponch, stai bene?” chiese Masino. “Sono ancora intero. Ma la mia faccia come sta? Ho qualche taglio?” Ponch teneva molto al suo aspetto fisico. “Stai tranquillo che le ragazze continueranno a mollartela senza problemi come fanno di solito” intervenne Monteleone. “Voglio ben vedere, con un bocconcino così.” Monteleone scosse la testa. “Valente, vai a vedere come stanno i piloti e cerca di capire se la radio funziona” ordinò chinandosi sul corpo del secondo mitragliere, anche lui stava rinvenendo. “Comandi!” “Caporale, come si sente?” chiese al mitragliere. “Ahi, mi fa male il braccio.” Il maresciallo osservò il braccio destro del soldato. “Penso che sia rotto, ragazzo, dobbiamo cercare di steccarlo.” “Mi sa che per un po’ dovrò smettere di giocare a basket.”

“Temo di sì e per un po’ le seghe dovrai fartele con la sinistra.” In quel momento si sentì un lamento provenire dal fondo dell’abitacolo. Masino si precipitò a vedere chi fosse accorgendosi che si trattava di Paolo Pugliese, un muscoloso biondo di ventitré anni. Aveva una grave ferita all’addome, da cui sgorgava un fiotto abbondante di sangue. “Pugliese è ferito” urlò Masino. “Ponch, vai a vedere cosa si può fare” ordinò Monteleone. Il maresciallo si guardò intorno alla ricerca dell’ultimo dei suoi uomini, che sembrava non essere presente all’interno del rottame dell’elicottero. Al momento dell’impatto si trovava vicino al portellone. “Ehi, ma dove cazzo è finito Colucci?” chiese a tutti. “Forse è stato sbalzato fuori. Ricordo che non aveva messo le cinture di sicurezza” rispose Ponch. “Stupido bastardo” sibilò Monteleone. “Maresciallo, i piloti sono entrambi andati e anche la radio” esclamò Valente dai resti della cabina di pilotaggio. “Merda!” sussurrò. Per il momento c’erano già cinque morti e un disperso. E sicuramente non avevano molto tempo da perdere. Si sarebbe giocato lo stipendio che chi aveva abbattuto l’elicottero stava venendo a controllare il risultato del lavoro. Si avvicinò a Pugliese e gettò un’occhiata alla ferita. La cosa sembrava grave ma non avevano tempo per stabilizzare il ferito sul posto. “Ok ragazzi, non abbiamo tempo per cazzeggiare. Dobbiamo uscire da qui e in fretta. Se ci trovano i talebani siamo spacciati.”

CAPITOLO 17

Islamabad (Pakistan), Palazzo Presidenziale

Un palco era stato allestito proprio davanti al palazzo presidenziale, occupato fino a pochi giorni prima dal defunto Presidente Rehman. Un battaglione di fanteria era stato schierato in uniforme intorno al palco. Gli stivali neri lucidissimi e i fucili con la baionetta inastata. La giornata era calda, come del resto lo erano state quelle precedenti. Il generale Aslam, per l’ennesima volta nell’ultima ora, si deterse il sudore dalla fronte nonostante l’interno del palazzo fosse ben climatizzato. Per un attimo si pentì della decisione di tenere il suo discorso all’esterno dell’edificio e non in una delle sue fresche sale. L’idea era stata di uno dei suoi attendenti e riflettendoci bene non era poi così cattiva. Lo sfondo era comunque quello del palazzo presidenziale, simbolo di democrazia. Avrebbe aiutato la popolazione a non vederlo come un dittatore. Al tempo stesso il battaglione di fanteria dava la sensazione di potere. Il messaggio al popolo gli sembrava chiaro: avrò cura di voi ma guai a mettermi i bastoni tra le ruote. Per il suo discorso, previsto a mezzogiorno, aveva convocato tutte le emittenti pakistane. Una selva di telecamere era puntata verso il palco. La notizia del discorso si era sparsa per il Paese, così come quella dell’attacco all’Afghanistan. Migliaia di persone si erano radunate davanti al palazzo volendo sapere la ragione per la quale il Pakistan si trovava improvvisamente in guerra. Aslam guardò l’orologio che portava al polso: segnava mezzogiorno preciso. Tutto era pronto. “È ora, signore” lo avvisò l’attendente che aveva organizzato il discorso. “Molto bene. Procediamo.”

Il generale uscì dal palazzo e avanzò a o deciso verso il palco, scortato dalle sue guardie del corpo. Salì tre gradini e si piazzò davanti al microfono. La folla ammutolì immediatamente. La figura del generale era imponente sia per la sua stazza sia perché indossava la divisa dell’esercito. Avrebbe voluto indossare anche il berretto ma temeva di sudare troppo. Non iniziò subito a parlare ma rimase un buon minuto a osservare la folla che si era radunata intorno a lui. Nessuno fiatò in quel lasso di tempo, tutti pendevano dalle sue labbra. Decise che era arrivato il momento di iniziare. “Popolo del Pakistan, il nostro Paese attraversa un periodo infelice. La brava gente vive in povertà mentre i politici se ne stanno a guardare. La corruzione dilaga divorando il denaro pubblico, i vostri soldi. Come se non bastasse, siamo diventati schiavi degli infedeli americani. Da anni si servono di noi a loro piacimento, uccidono la nostra gente con le bombe, scorrazzano armati nelle nostre terre. E ora hanno osato addirittura asse il nostro amato Presidente. Perché i politici hanno permesso tutto questo? E cosa succederà quando gli americani non avranno più bisogno di noi? Forse stringeranno un’alleanza con l’India per toglierci di mezzo?” Aslam fece una pausa per dare più enfasi alle sue parole. Dei fischi si erano levati quando aveva nominato l’India. “Sono ormai anni che sostengo a viva voce la necessità di liberarci degli oppressori occidentali, che ci hanno soggiogato e corrotto con i loro decadenti costumi. Ma non sono mai stato ascoltato in tutto questo tempo. Fratelli e sorelle, io sono ormai stufo di questa situazione, sono stufo di vedere soffrire la mia gente. È per questo motivo che ho dovuto prendere delle decisioni drastiche per tentare di salvare questa grande nazione. Allah mi è testimone, avrei preferito continuare a svolgere il mio lavoro come ho sempre fatto, rimanendo fuori dalle questioni politiche. Purtroppo non è stato possibile. Capisco le vostre paure. Molti di voi pensano che abbia instaurato una dittatura militare per controllare il Pakistan. Vi garantisco che non è e non sarà mai così. Guiderò il Paese per un tempo limitato, fino a quando non avrò migliorato la situazione.

E ora vi parlerò di uno dei provvedimenti che ho adottato per aiutare il Pakistan. So che alcune notizie stanno già circolando da questa mattina. Ebbene, io confermo queste notizie.” Un brusio si levò tra la folla ma si arrestò quando Aslam alzò una mano per chiedere di continuare a parlare. “Questa notte reparti delle forze armate pakistane hanno superato il confine con l’Afghanistan. Abbiamo messo in pratica un piano che avevamo studiato anni fa proprio per affrontare una situazione del genere. Basi aeree dell’aviazione afghana e alleata sono state attaccate dalla nostra aviazione. Lo scopo di questi attacchi è eliminare le forze militari degli occupanti stranieri nel territorio dell’Afghanistan. Il recente assassinio del Presidente Rehman ci ha fatto capire che la presenza di basi militari americane alla porta di casa nostra costituisce una minaccia al Pakistan. Abbiamo quindi deciso di eliminare questa minaccia prima che sia troppo tardi per affrontarla. Estirperemo il cancro prima che si sviluppi senza più dare via di scampo. Ulteriore obiettivo sarà far cadere il governo fantoccio messo in piedi dagli Stati Uniti per opprimere la popolazione afghana. Per raggiungere lo scopo, forniremo assistenza militare al movimento talebano che ha recentemente scatenato un’offensiva contro gli oppressori. Rivolgo un appello alla popolazione e ai militari afghani. Non abbiamo niente contro di voi, quindi evitate di contrastarci. Non voglio che venga sparso inutilmente il sangue di fratelli musulmani. Al popolo pakistano chiedo invece di avere pazienza e di darmi fiducia. So che una guerra non è mai una cosa bella, ma vi prego di credermi quando vi dico che non avevamo altre alternative. In ogni caso vi do la mia parola d’onore che farò tutto quanto in mio potere per farla durare il meno possibile. Per ora è tutto, vi ringrazio per l’attenzione. Che Allah benedica il Pakistan.” Il generale Aslam si voltò e scese dal palco. Ci furono degli applausi ma tutto sommato la reazione del pubblico fu piuttosto fredda. Non che fosse sorpreso da tutto ciò. Una volta rientrato nel palazzo prese nuovamente il fazzoletto dalla tasca.

“Capiranno” mormorò detergendosi il sudore dalla fronte. O con le buone o con le cattive alla fine i pakistani si sarebbero resi conto che lui era l’unica persona in grado di portare il Pakistan sulla strada della grandezza.

Alcuni chilometri fuori da Zendeh Jan (Afghanistan)

Erano riusciti a spostare il carabiniere ferito fuori dall’elicottero, insieme ai cinque cadaveri. Il corpo del sesto carabiniere, quello sbalzato fuori dall’abitacolo durante la caduta, era stato ritrovato poco distante dal rottame. Monteleone sapeva benissimo di non avere il tempo di seppellire i corpi, ma non aveva nessuna intenzione di lasciarli dentro il rottame dell’AB 412. Aveva estratto i cadaveri e li aveva allineati coprendo i loro volti con le giacche delle divise. Sperava vivamente che una volta arrivati, i nemici avrebbero avuto rispetto dei morti. Non voleva che fero la fine dei corpi dei soldati statunitensi trascinati per le vie di Mogadiscio durante la missione Restore Hope. Pugliese era stato medicato utilizzando una cassetta del pronto soccorso. La ferita era stata tamponata e fasciata. Masino, che era molto religioso, si offrì di recitare una breve preghiera per i caduti. Nessuno si oppose. “Signore, accogli le anime di questi uomini caduti servendo la loro patria. Aiuta le loro famiglie a superare il dolore della perdita. Nel nome del Padre, del Figlio...” “A terra!” gridò Monteleone vedendo spuntare alcuni uomini armati sul crinale. Un secondo dopo sette canne di AK-47 cominciarono a sparare contro il gruppo, da posizione sopraelevata. I superstiti dell’AB 412 abbattuto cercarono riparo dietro la carcassa dell’elicottero. Purtroppo il mitragliere fu troppo lento ad abbassarsi. Venne raggiunto al petto da tre proiettili e cadde pesantemente a terra. Masino e Monteleone trascinarono Pugliese, che a causa della grave ferita non era in grado

di muoversi da solo. Tutti e cinque riuscirono a ripararsi dietro all’elicottero. I sette talebani, incoraggiati dal fatto di aver abbattuto un nemico, cominciarono a scendere dal crinale continuando a sparare. Credevano di avere di fronte un gruppo di soldati spauriti e confusi. Avrebbero presto scoperto a loro spese che si sbagliavano di grosso. Monteleone sbirciò velocemente i movimenti degli avversari, accorgendosi che stavano avanzando dritti verso di loro senza copertura. Sarebbe stato fin troppo facile abbatterli. “Al mio tre spariamo su quei coglioni” ordinò a denti stretti. I suoi uomini annuirono. “Uno, due, tre, fuoco a volontà!” I carabinieri del GIS uscirono dai loro ripari e aprirono il fuoco con i loro M4 dotati di ottica red dot. Bastarono pochi istanti per eliminare gli sprovveduti avversari, che caddero a terra uno dopo l’altro. Dopo la raffica di M4 seguirono alcuni momenti di silenzio, in cui si sentiva solo il sibilo di un leggero vento che proveniva dalle montagne. Dopo aver constatato che non c’erano più nemici in zona, Monteleone decise di uscire dal riparo. Raggiunse il corpo del mitragliere, constatando che era morto. “Vaffanculo!” urlò rabbioso dando un calcio a un sasso. Si grattò la testa sudata e sporca di polvere. “Valente, tu rimani con Pugliese. Gli altri con me.” I tre carabinieri avanzarono lentamente verso i nemici abbattuti con le armi puntate davanti, pronte a sparare alla prima minaccia. Quando raggiunsero il primo corpo notarono che era stato raggiunto da almeno cinque proiettili al petto. Un altro, con una folta barba grigia, al posto di un occhio aveva un foro

rosso. Risalirono con cautela il crinale per capire se ci fossero altri nemici in zona. A una cinquantina di metri da loro si trovava un vecchio pickup grigio. Al volante scorsero un uomo barbuto. “Maresciallo, ce n’è ancora uno!” Il barbuto autista si spaventò vedendo arrivare i tre sconosciuti armati e mise in moto il mezzo. “Non facciamolo scappare!” ordinò Monteleone. Tutti e tre spararono contro il veicolo che riuscì a fare appena qualche metro. L’uomo venne colpito alla testa e si accasciò appoggiando la testa sul volante. Il clacson iniziò a suonare con insistenza. Gli operatori del GIS si avvicinarono velocemente al pickup. Monteleone tirò indietro il corpo dell’autista facendo cessare il suono del clacson. “Possiamo usare il mezzo per raggiungere la base” propose raggiante Ponch. “Non credo. Guarda là” affermò Monteleone indicando in basso. Uno degli pneumatici era forato. “Chi ha sparato alle ruote?” “Io, marescià” ammise Masino. “Mi scusi, non avevo pensato che potesse servirci per scappare.” Monteleone non rispose. Si avvicinò nel retro del mezzo sperando di trovare una ruota di scorta ma la sua ricerca non ebbe un buon esito. “Niente ruota di scorta. Dobbiamo farcela a piedi.” Masino abbassò la testa sconsolato. Ponch gli diede una pacca sulla spalla per tirargli su il morale. “Torniamo all’elicottero. Mentre scendiamo cerchiamo di recuperare delle armi dai nostri amici talebani. Le munizioni dei nostri M4 sono quasi finite. Camp Arena dovrebbe distare una quarantina di chilometri. Dovremmo camminare lontano dalla strada statale che si trova in quella direzione. Il territorio potrebbe

essere sotto il controllo dei talebani. eremo attraverso la zona montagnosa quindi la marcia sarà faticosa. Senza contare che dobbiamo trasportare Pugliese.” “E se qualcuno dei nostri venisse a prenderci?” “Potrebbe essere, ma non ci conterei molto. Sia la nostra radio che quella dell’elicottero sono guaste, quindi non possiamo contattare la base. Non sono sicuro che manderanno qualcuno in territorio nemico perché potrebbero darci per morti. E poi non dimenticate che la base è stata attaccata, avranno i loro problemi a cui pensare. In ogni caso non possiamo permetterci di stare ad aspettare. Potrebbero arrivare altri talebani.” Tornarono indietro e ridiscesero il crinale fermandosi dove c’erano i corpi dei talebani. Dopo averli spogliati di armi e munizioni, ritornarono all’elicottero. L’ultima cosa da fare prima di andare via era costruire una barella di fortuna per rendere più agevole il trasporto di Pugliese. Utilizzarono uno dei seggiolini dell’AB 412 riuscendo a costruire una rozza ma efficace barella. Un quarto d’ora dopo lo scontro a fuoco, i cinque carabinieri del GIS erano pronti a partire. Ponch e Masino si offrirono di trasportare Pugliese nel primo tratto. “Ok ragazzi, andiamo. Ci sarà da camminare” esclamò Monteleone. Il gruppo partì sotto il sole cocente alla volta di Camp Arena.

Zendeh Jan (Afghanistan)

Latif entrò deciso nella stanza dove si era stabilito il suo comandante, Muslim. L’uomo indossava una consunta tenuta mimetica e un paio di anfibi sporchi. Una folta barba incolta copriva il suo volto scuro e solcato dalle rughe. Sedeva su una poltrona girevole, gli scarponi appoggiati sulla scrivania che meno di ventiquattr’ore prima era appartenuta al defunto capo della polizia di Zendeh Jan.

La notte precedente Muslim e quattrocento altri talebani avevano attaccato la cittadina, assaltando due caserme della polizia e trucidandone gli occupanti, considerati mercenari al soldo degli invasori stranieri. Avevano consolidato le loro posizioni occupando l’intera Zendeh Jan. Muslim aveva posizionato la maggior parte dei suoi uomini in abitazioni private, impedendo agli inquilini di fuggire. In quel modo aveva evitato che l’esercito usasse l’artiglieria contro le loro posizioni. Il comandante era soddisfatto del lavoro svolto. Aveva creato un’importante testa di ponte in vista del prossimo assalto a Herat. Ora non restava che sperare nei pakistani, augurandosi che mantenessero la promessa di inviare rinforzi. Secondo quanto gli era stato detto, durante la notte un battaglione di paracadutisti pakistani si sarebbe lanciato nei dintorni di Herat. L’obiettivo era la conquista dell’aeroporto e della base di Camp Arena, già gravemente danneggiati dall’attacco missilistico. In contemporanea, Muslim avrebbe condotto un attacco notturno a Herat avanzando da Zendeh Jan. Pregustava già la vittoria imminente. L’entrata di Latif, uno dei suoi uomini più fidati, interruppe i suoi pensieri. “Muslim, ti devo parlare.” “Ma certo, mio caro Latif. Che cosa ti preoccupa?” chiese tirando giù i piedi dalla scrivania. “Riguarda l’elicottero che i miei uomini hanno abbattuto poco più di un’ora fa.” “È stato un ottimo lavoro. La maggior parte di quei vecchi missili è solita fare cilecca ma questa volta è stata la mano di Allah a fare da guida.” “Sono d’accordo, gloria ad Allah. Il problema è un altro. Subito dopo l’abbattimento ho inviato una squadra per catturare eventuali superstiti.” “Ne hanno trovati?” “Nessuno dei miei uomini è tornato. Ho inviato un’altra squadra e hanno scoperto che sono stati tutti uccisi.” “Quindi c’erano dei superstiti.” “Proprio così e penso che si tratti di soldati molto addestrati. Potrebbe trattarsi di forze speciali.”

“Quante perdite ci sono state?” “Otto valorosi fratelli.” “Pregherò affinché le loro anime vengano accolte in paradiso.” “Anche io ma non è questo il punto. Io non posso permettere che qualcuno uccida i miei uomini e la i liscia. Voglio trovare quei maledetti ed eliminarli.” Muslim si grattò il mento coperto dalla folta barba. “Uhm, non so se sia una buona idea. Se sono veramente forze speciali, la loro caccia potrebbe comportare la perdita di altri nostri fratelli. Ricorda che questa notte sferreremo un altro attacco e avremo bisogno di ogni uomo a disposizione.” “Muslim, non possiamo fare finta di niente. La voce si è già sparsa e gli uomini vogliono vendetta.” “Potrebbe essere un bene. Questa notte combatteranno con ancora più vigore.” “Ma comandante...” “Basta così, Latif. Ti ho detto di lasciare perdere. Questo è un ordine. La conversazione è finita” esclamò Muslim agitando un mano e facendo intendere a Latif che doveva lasciare la stanza. Il giovane guerriero strinse rabbiosamente i pugni ma riuscì a controllarsi. “Come desideri, comandante.” Si voltò e uscì dall’ufficio seriamente intenzionato a non obbedire a un ordine che riteneva ingiusto.

Terreno roccioso provincia di Herat (Afghanistan)

I cinque carabinieri del GIS continuavano a procedere o dopo o, sotto i raggi di un sole beffardo che non concedeva un attimo di tregua. La divisa scura non faceva che attirare calore, quindi tutti l’avevano tolta rimanendo in canottiera. Erano arrivati a una cinquantina di metri da una collinetta rocciosa. Nonostante il duro addestramento a cui si sottoponevano quotidianamente, la stanchezza cominciava a farsi sentire. Avevano combattuto per tutta la notte senza dormire un solo minuto, erano sopravvissuti all’abbattimento dell’AB 412 e ora marciavano sotto il sole trasportando un ferito grave. Anche il più forte degli uomini avrebbe mostrato segni di cedimento. “Ok ragazzi, fermiamoci un attimo” ordinò ansimante Monteleone, la fronte imperlata di sudore. Lui e Valente depositarono a terra la barella di fortuna sulla quale giaceva Pugliese, sempre più pallido. Monteleone prese una borraccia d’acqua e ne diede un sorso al moribondo. Subito dopo ne bevve un sorso anche lui. Il liquido, anche se ormai caldo, scivolò piacevolmente giù per la gola riarsa. Avrebbe voluto svuotare l’intera borraccia ma dovette controllarsi, le razioni d’acqua erano limitate. Contava di raggiungere Camp Arena in tre o quattro ore, quindi era meglio razionare il prezioso liquido. Tutti e quattro i carabinieri si sedettero a terra per riposare qualche minuto. Non c’era un filo d’ombra che potesse dare un po’ di riparo dal sole spietato e ci sarebbero volute ancora diverse ore prima che cominciasse a tramontare. Il maresciallo guardò i suoi uomini e sui loro volti vide tanta stanchezza. Doveva tirargli su il morale. “Ehi Ponch, se avessi uno specchio te lo darei. Così potresti vedere quanto fai schifo in questo momento.” Valente e Masino scoppiarono a ridere. “Sarà, ma anche in queste condizioni rimorchierei più di lei, maresciallo” rispose ghignando il sardo. “Uuuh” fecero in coro Valente e Masino.

“Guarda che io alla tua età mi davo da fare parecchio. E adesso ho lasciato perdere perché sono sposato, altrimenti avrei la fila di donne dietro per venire a letto con me.” “Cazzate, maresciallo.” “Come ti permetti di mettere in dubbio la mia parola? Stupido ingroppapecore che non sei altro. Quando torneremo alla base ti metterò di corvée a pulire il mio cesso con la lingua.” Un’altra grassa risata. Questa volta anche Ponch non si trattenne. “Che cazzo vi ridete?” chiese Monteleone fingendosi indignato. “Vi metterò a pulire il mio cesso a tutti e tre e non immaginate neanche la quantità di roba che produco ogni giorno.” I carabinieri continuarono a ridere. Monteleone si concesse un sorriso soddisfatto. Era riuscito a fare rilassare per un attimo i ragazzi. Ancora qualche minuto e si sarebbero rimessi in marcia.

Tre vecchi fuoristrada e un pickup avanzavano sul terreno polveroso e secco, procedendo in fila indiana. A un certo punto il veicolo di testa si fermò, arrestando la colonna in marcia. Dal fuoristrada di testa uscì Latif con in mano un binocolo. Quando aveva lasciato l’ufficio del suo comandante aveva radunato venti uomini, tutti furenti per la perdita degli otto compagni. Si erano divisi in quattro mezzi, dirigendosi verso il luogo d’impatto dell’elicottero, ma ovviamente non avevano trovato nessuno. Riflettendo su quale direzione avrebbero potuto prendere i superstiti dell’abbattimento, Latif era convinto che avessero deciso di compiere un giro più lungo per raggiungere la loro base, evitando le strade principali. Aveva ripreso la marcia fermandosi di tanto in tanto per controllare con il binocolo la zona rocciosa che lo circondava. Proprio come stava facendo in quel momento. Si ritrovò a pensare alla sua partenza dal villaggio pakistano prima della missione che aveva segnato il suo battesimo del fuoco. Era entrato nella casupola di argilla nella quale viveva con la madre Tahira. La donna era impegnata a rammendare una tunica sgualcita.

“Madre, io sono pronto a partire” esordì Latif. “Vedo. Sei proprio sicuro di quello che fai?” “Ne abbiamo già parlato molte volte. Sono sicuro di quello che faccio.” “Fai ancora in tempo a rinunciare. Vattene da qui, in una grande città del Pakistan, e rifatti una vita.” “Che vita dovrei mai rifarmi? Sono solo un umile pastore che ha imparato a combattere. Che futuro potrei mai avere?” “Sicuramente meglio che morire a causa di un proiettile americano o dilaniato da una bomba.” “Sono pronto a raggiungere Allah, se questo sarà il suo volere.” “Perché sei così testardo?” “Ho fatto una promessa a mio padre.” “Quella promessa non conta. Eri solo un bambino che stava assecondando le ultime parole del padre morente. Tu non devi niente a nessuno.” “E invece sì!” sbottò Latif. “L’Afghanistan è da sempre terra di conquista da parte delle potenze straniere, ma noi ci siamo opposti a ogni invasione. Adesso è il mio turno, come lo è stato quello di mio padre, di mio nonno e di tutti i miei avi. Non posso sottrarmi.” Tahira iniziò a versare lacrime silenziose. Dopo aver perso il marito non voleva perdere anche il suo unico figlio per colpa della guerra. Latif si avvicinò e le posò le mani sulle spalle. “Tornerò da te, madre, e ti farò essere fiera di tuo figlio.” Subito dopo si era voltato ed era uscito di casa per andare incontro al suo destino.

Portò il binocolo agli occhi e cominciò a scrutare l’orizzonte. Dopo alcuni secondi un sorriso si dipinse sul suo volto. In lontananza, poco distante da una

collinetta rocciosa, vedeva alcuni uomini seduti a terra. Finalmente aveva trovato i suoi nemici e tra poco li avrebbe puniti per aver ucciso i suoi compagni. Forse sarebbe addirittura riuscito a nascondere la sua sortita al comandante Muslim. Anche se non gli importava molto. Nonostante fosse un suo superiore, Muslim non aveva alcun potere contro di lui. Sapeva che Latif era molto benvoluto da alcuni capi della resistenza. “Li abbiamo trovati. Andiamo a prenderli” ruggì Latif. Risalì sul fuoristrada che ripartì a tutta velocità.

Le risate si stavano lentamente placando. Il morale si era di nuovo risollevato. “In marcia, femminucce” ordinò Monteleone alzandosi da terra. “Pugliese lo portiamo io e Ponch” informò Masino. “Va bene.” “Ehi maresciallo, guardi laggiù” esclamò Valente. Monteleone si girò portando la mano destra alla fronte per ripararsi dal sole. In lontananza c’erano quattro veicoli in rapido avvicinamento. “Cazzo! Ci hanno trovati!” “Rifugiamoci su quella collinetta” propose Ponch. “Buona idea. Andiamo.” Si diressero verso la collinetta che avrebbe potuto offrire due vantaggi. Il primo era la posizione sopraelevata rispetto ai nemici, mentre la seconda era un gruppo di grossi massi che potevano fornire un riparo. Corsero tutti a perdifiato. Masino e Ponch erano ovviamente rallentati dal trasporto di Pugliese, che gemeva sulla barella di fortuna a causa dei sobbalzi. Monteleone e Valente furono i primi a raggiungere la collinetta e si inerpicarono velocemente verso i grossi massi. Impugnarono i rispettivi M4 per fornire copertura ai compagni in avvicinamento. Mentre Masino e Ponch erano ancora ai piedi della collinetta, cominciarono a

piovere le prime pallottole. Monteleone e Valente presero la mira e risposero al fuoco.

Latif vedeva i nemici correre nel tentativo di raggiungere la collina. Due di loro stavano trasportando un uomo tramite una barella di fortuna. Probabilmente doveva trattarsi di un ferito. Se fosse stato morto l’avrebbero lasciato insieme agli altri sette che aveva trovato allineati vicino al rottame dell’elicottero. Aveva ordinato ad alcuni suoi uomini rimasti a Zendeh Jan di seppellire quei corpi. Nonostante provasse odio nei confronti degli invasori, suo padre gli aveva insegnato il rispetto per i morti, tutti quanti. “Più veloce, più veloce” ordinò all’autista. Voleva cercare di colpire i due che trasportavano il ferito. Tutti e quattro i veicoli cambiarono formazione ando da una colonna a una linea. Quando ritenne di essere a distanza di tiro, Latif aprì il fuoco, subito imitato da altri compagni. Sapeva che sparando da un veicolo in movimento la precisione era minima, tuttavia voleva mettere sotto pressione gli avversari. Magari qualche colpo sarebbe potuto anche andare a segno. Alcune pallottole arrivarono dalla collina, in risposta al suo attacco. Due di esse colpirono il parabrezza del suo fuoristrada, senza però ferire nessuno. “Niente paura, compagni. Allah è con noi” gridò.

Masino e Ponch raggiunsero a fatica i massi che avrebbero fatto da riparo. Adagiarono a terra Pugliese e si posizionarono per rispondere al fuoco. “Datemi un fucile” gemette Pugliese. “Cosa?” chiese Masino. “Datemi un fottuto fucile” ripeté a voce più alta aggiungendo il convincente epiteto.

Masino gli diede uno degli AK-47 sottratti ai talebani. Pugliese tolse la sicura e lo tenne stretto al petto. Nel frattempo i veicoli si erano divisi circondando la collinetta. “Vogliono aggirarci. Ognuno di noi deve coprire un lato della collina” ordinò Monteleone. I quattro carabinieri si disposero in modo da formare un quadrato.

Latif aveva diviso i mezzi che avrebbero fornito una copertura. Il suo piano era semplice: attaccare la collina da quattro direzioni con un gruppo, mentre i rimanenti dovevano fornire fuoco di copertura da dietro i veicoli. Sentiva la vittoria a portata di mano. “Vendicate i vostri compagni caduti. All’attacco” urlò ai suoi uomini.

Il fuoco proveniente dai veicoli alla base della collina costrinse tutti ad abbassare la testa. Quando Monteleone riuscì a tirarsi su, tre talebani stavano risalendo il pendio. Con un movimento rapido puntò la canna verso quello più vicino e fece fuoco. Il talebano cadde all’indietro rotolando verso il fondo. Monteleone cercò spostare la canna verso un altro avversario ma un’altra raffica lo costrinse a tornare al riparo. Dietro di lui Ponch e Masino riuscirono ad abbattere altri due avversari. Poco dopo Valente riuscì a colpirne un quarto al ventre. Il fuoco di sbarramento dei talebani era intenso, rendendo difficile sporgersi dal proprio riparo. Una granata atterrò in mezzo alle gambe di Ponch. Il carabiniere istintivamente raccolse l’ordigno e lo scagliò lontano da lui. La granata esplose due secondi dopo senza procurare danni. “Ah è così? Anche io ho qualche regalino per voi” affermò rabbioso Ponch. Prese una granata che aveva sottratto dai nemici abbattuti e tolse la sicura. Attese qualche istante e la lanciò alla cieca in direzione degli aggressori. Fu fortunato perché esplose a un metro da uno dei talebani. Le schegge dell’ordigno lo uccisero all’istante. Valente si sporse dal riparo e vide un nemico a due metri da lui. Lo eliminò con una raffica di cinque colpi al petto prima di ritornare al suo

riparo. Monteleone prese due granate e le lanciò entrambe dopo aver tolto la sicura. Altri due uomini vennero colpiti dalle schegge. Uno morì sul colpo mentre un altro fu gravemente ferito alla testa. Masino riuscì ad abbattere gli ultimi due uomini che stavano tentando la salita. Pochi istanti dopo il fuoco di sbarramento talebano cominciò ad affievolirsi fino a cessare definitivamente. I quattro carabinieri ne approfittarono per cambiare caricatore ai loro fucili. Il primo round era vinto ma non se la sentivano di cantare vittoria. Erano riusciti a respingere il nemico ma erano anche bloccati su quella collina. Avrebbero dovuto aspettare la notte per tentare di sgattaiolare fuori dall’accerchiamento.

L’attacco si era rivelato un vero disastro, rifletté Latif. Aveva accerchiato la collina e attaccato con dodici uomini, tre per lato. Si era ritrovato con nove morti e un ferito grave che sarebbe sicuramente morto tra breve. I nemici dovevano appartenere sicuramente alle forze speciali. Provò rabbia al pensiero che Mulslim aveva ragione. Aveva perso altri dieci uomini senza concludere nulla. Ma non si sarebbe arreso. Decise che avrebbe atteso la notte per condurre un altro attacco e questa volta avrebbe chiuso definitivamente la faccenda.

CAPITOLO 18

Nei pressi di Islamabad (Pakistan), 10 giugno

Una notte senza luna, l’ideale per un’incursione notturna. Da qualche parte, un rapace notturno emise un breve verso. Circa cinquecento metri davanti a loro si trovava la base operativa del generale Aslam. Una cinta di alte mura in pietra impediva di vedere cosa ci fosse all’interno del perimetro. Fortunatamente tutti avevano potuto visionare le planimetrie fornite dal direttore Malik. Fuori dal perimetro della villa tutto sembrava tranquillo. Alcune guardie avano regolarmente con dei cani al guinzaglio, ma non parevano intenzionate a spingersi oltre. Le due uscite segrete del bunker erano sorvegliate da videocamere e soldati. La terza, essendo stata chiusa e interrata, non destava preoccupazioni tra i difensori. Caruso sorrise al pensiero che era proprio da lì che sarebbero penetrati. Era sdraiato su un terreno erboso con indosso una tuta da combattimento nera e un leggero giubbotto antiproiettile. Accanto a lui c’erano la sua squadra, Singh e gli altri quattro agenti che avevano partecipato al rapimento di Malik. I volti erano dipinti di nero. Dieci uomini in totale, anzi nove uomini e una donna, per essere più precisi. Tutti erano armati di mitraglietta H&K MP5SD con silenziatore integrato sulla canna e mirino red dot, tranne Singh che aveva optato per una Ingram Mac 10, anch’essa silenziata. Ognuno era anche dotato di una piccola videocamera montata sul giubbotto antiproiettile, allo scopo di riprendere l’azione. Dieci combattenti che, seppur addestrati, si trovavano a dover svolgere una missione disperata. Penetrare in una villa difesa da una quantità indefinita di soldati armati fino ai denti e, una volta dentro, eliminare un dittatore e un pericoloso terrorista. Caruso ancora non riusciva a credere di aver accettato di partecipare a una missione che sembrava essere a dir poco suicida. Certo, il

piano di Singh era buono e se fosse andato tutto come stabilito sarebbe stato un successo. Il problema era che i piani non andavano mai come stabilito. Sperò con tutto il cuore che Aslam e Hassan si trovassero nel bunker. “Da questa parte” disse Fazal, uno degli uomini di Sing. Aveva parlato in inglese, lingua che si era deciso di adottare per tutto lo svolgimento della missione. Fazal era dotato di un metal detector che aveva rilevato una consistente componente metallica sotto il terreno. Ora dovevano scoprire se si trattava dell’uscita d’emergenza del bunker che era stata interrata anni prima. “Karem e Kattak, cominciate a scavare” ordinò Singh ai suoi uomini con un bisbiglio. I due agenti si avvicinarono strisciando al punto indicato dal collega e cominciarono a scavare utilizzando delle pale da campo in dotazione all’esercito. “Melo e Cesare, dategli una mano” ordinò Caruso. In quattro si misero a scavare il morbido terreno erboso, non sapendo neanche che profondità avrebbero dovuto raggiungere. Inoltre l’operazione doveva essere svolta stando sdraiati, cosa che la rendeva ancora più faticosa. Chi non era addetto a scavare si occupava di ridistribuire la terra in modo da non creare cumuli che avrebbero potuto essere notati a distanza. “Tutti fermi” ordinò Singh dopo appena cinque minuti di scavo. Con in mano un binocolo a infrarossi si accorse del aggio di una pattuglia di guardie a circa centocinquanta metri da loro. Rimasero tutti immobili in attesa che scomparissero. “Ok, via libera.” Le operazioni di scavo ripresero poco dopo. Dovettero are ancora quarantacinque minuti prima che una delle pale toccasse una superficie metallica. La buca era diventata profonda poco più di due metri. “Qui c’è qualcosa” informò Furlan che nel frattempo, insieme a Caruso, aveva dato il cambio a Boccia e Barraco.

Rimossero le ultime porzioni di terra e individuarono un portellone di metallo chiuso e saldato. “Portate la fiamma ossidrica” ordinò Caruso. Fazal risalì per mezzo di una scaletta di corda che avevano montato poco prima e si fece are la fiamma ossidrica. Era un modello compatto e potente che non si trovava in commercio. La consegnò a Barraco che fu l’unico a rimanere vicino al portello. Tutti gli altri risalirono e coprirono la buca con un telo scuro. Facendo in quel modo, nessuno dalla villa avrebbe potuto individuare le scintille prodotte dall’attrezzo. Barraco azionò la fiamma ossidrica e lavorò per una trentina di secondi. Posizionò a terra l’attrezzo e provò ad aprire il portello. Riuscì nell’intento e fu investito da una folata d’aria che odorava di chiuso. Spalancò il portello lasciandolo aperto. Accese una torcia e scoprì che una scaletta di metallo scendeva per circa una decina di metri nel sottosuolo. Barraco si arrampicò sulla scaletta di corde e spostò il telone. “Il varco è aperto” annunciò. “Ottimo, Melo.” Era arrivato il momento di penetrare nel bunker. Dopo aver indossato un visore notturno, tutti gli incursori scesero la scaletta di metallo. Nicholas Caruso era il primo della fila. Terreno roccioso provincia di Herat (Afghanistan)

Monteleone e i suoi erano stremati. Non avevano più cibo perché avevano finito alcune ore prima le ultime razioni. Di acqua ne era rimasto solo qualche sorso. Con le munizioni dei fucili non erano messi meglio. L’unico M4 che poteva essere utilizzato era quello di Masino e non gli erano rimasti che due caricatori, di cui uno neanche pieno. Gli altri carabinieri avrebbero dovuto utilizzare gli AK-47 sottratti ai talebani, ma anche in questo caso non avevano che un paio di caricatori a testa. L’unica nota positiva era che la notte era calata e il caldo del giorno era scomparso. Anzi, cominciava addirittura a fare fresco, tant’è che tutti

avevano indossato nuovamente le divise al completo. Monteleone era ancora dietro la roccia che l’aveva riparato nel pomeriggio. In lontananza poteva scorgere una massa di luci tremolanti. Quello era l’aeroporto di Herat. Aveva stimato di essere arrivato a una ventina di chilometri dal traguardo quando avevano subito l’attacco dei talebani. Mancava davvero poco alla salvezza e ora si trovavano intrappolati su quella collina ad attendere l’attacco del nemico. Era sicuro che sarebbe avvenuto tra breve, quindi aveva ordinato di stare all’erta. Ognuno stava coprendo il suo settore di competenza, sforzandosi di tenere gli occhi aperti. Aveva fatto indossare i visori notturni che avevano utilizzato la notte prima durante la loro missione. “Marescià, sembra che ci troviamo nella situazione del generale Custer con il suo settimo cavalleggeri” sussurrò Masino. “Non dire sciocchezze. Noi non faremo la fine di Custer.” “Speriamo.” “Chiudi quel cesso di bocca e controlla come sta Pugliese.” Masino si spostò camminando basso fino a raggiungere Pugliese. L’ultima volta che aveva controllato stava dormendo profondamente, non più di mezz’ora prima. Gli tastò il collo con due dita cercando di essere il più delicato possibile per non svegliarlo. Rimase una decina di secondi ma non sentì niente. Premette con più forza ma ancora niente. Si abbassò a pochi centimetri dal suo volto per vedere se respirava. “Che succede?” chiese Ponch. “Merda! Non respira più” esclamò a voce alta. “Shh! Abbassa la voce” lo rimproverò Monteleone. Si avvicinò anche lui al corpo e l’unica cosa che poté fare fu constatare il decesso di Pugliese. “Vaffanculo! Maledetti bastardi!” “È morto, Maresciallo?”chiese Valente.

“Sì, è morto.” Sui quattro superstiti calò il silenzio per alcuni minuti. Monteleone rifletté sulla possibilità di superare l’accerchiamento. Potevano scendere dalla collinetta ed eliminare in silenzio i talebani rimasti. Avevano il vantaggio di possedere dei visori notturni e dubitava che i talebani ne avessero a disposizione. Poteva funzionare. Il silenzio fu improvvisamente interrotto dal rumore di motori in avvicinamento. “Sento dei rumori. Sembrano aerei” ipotizzò Ponch. “Sì, mi pare che siano dei quadrimotori. Aerei da trasporto.” Monteleone sollevò il visore sulla fronte e prese il suo binocolo a infrarossi. Vide diversi aerei da trasporto, gli parvero C 130. Volavano in direzione dell’aeroporto. Dopo qualche istante vide i portelloni aprirsi e poco dopo i primi paracadutisti cominciarono a lanciarsi. “Che mi prenda un colpo! Sono paracadutisti!” “È la Folgore?” chiese Masino. “Uhm, potrebbe essere. Alcuni reparti dell’8° reggimento di genieri paracadutisti è schierato in Iran per aiutare la ricostruzione dopo la guerra civile. Però dovrebbero essere al massimo una cinquantina. Questi secondo me sono molti di più.” “Riesce a vedere le insegne sull’aereo?” “No, è troppo lontano.” “Beh, chi altri potrebbe essere?” “Gli stessi che hanno attaccato Camp Arena. E qualcosa mi dice che c’è di mezzo il Pakistan.” “Se sono pakistani sarà una bella gatta da pelare” affermò Ponch. “Hai ragione.”

Improvvisamente tutti e quattro i mezzi ai piedi della collinetta vennero messi in moto. “Forse hanno deciso di levare le tende” osservò Ponch. “Speriamo.” Invece tutti i mezzi si voltarono verso la collinetta, con gli abbaglianti accesi. I carabinieri dovettero togliere i loro visori notturni perché resi inservibili dalla troppa luce che si stava sviluppando. Temporaneamente accecati dalle luci abbaglianti, la reazione tardò ad arrivare. Fu Masino il primo a reagire cercando di sparare verso il mezzo in avvicinamento davanti a lui. Dal basso cominciarono a piovere pallottole sulle loro posizioni, costringendoli ad abbassare la testa. Nel frattempo i mezzi arrivarono alla base della collina. “Sparate su quei fari” ordinò Monteleone. Chi comandava il manipolo di talebani aveva escogitato un piano semplice ma efficace. Utilizzando le luci abbaglianti aveva reso inutilizzabili i visori notturni dei suoi avversari e nel frattempo li aveva temporaneamente accecati. In quel modo qualcuno dei suoi uomini sarebbe stato in grado di risalire la collinetta, portandosi a distanza ravvicinata di tiro. Monteleone si complimentò mentalmente con lui mentre iniziava a sparare verso i fari. Prendere la mira non fu facile ma uno dopo l’altro tutti i fari dei quattro veicoli vennero distrutti. Il fuoco di sbarramento proveniente dal basso era cessato. Il campo di battaglia era tornato oscuro e silenzioso. Monteleone sapeva che il nemico si era avvicinato alla loro posizione. Sarebbe stata una battaglia sanguinosa. “Indossate i visori notturni, ragazzi, è arrivato il momento decisivo. O noi o loro. Facciamo vedere a quei bastardi come combatte il Gruppo di Intervento Speciale.”

Nei pressi di Islamabad (Pakistan)

Dopo appena dieci metri il tunnel era interrotto da una parete metallica piuttosto spessa. L’unico modo di superarla era tramite un pesante portone che era stato

saldato con la parete. C’era ancora bisogno della fiamma ossidrica. Barraco lavorò per un buon quarto d’ora rimuovendo la saldatura e praticando un foro dove si trovava la serratura, mentre gli altri rimanevano in attesa con le armi in pugno. L’unico che era ritornato in superficie era Boccia, incaricato di sorvegliare l’imbocco del tunnel fino a quando la via non fosse stata aperta. A lavoro terminato, Barraco spense la fiamma ossidrica e la appoggiò a terra. “atemi la flexicam” chiese. Furlan si avvicinò e gli ò l’attrezzo richiesto, composto da un sottile tubo snodato su cui era montata una piccola microcamera in punta. La parte terminale era collegata a un monitor che permetteva di visualizzare le immagini catturate dalla microcamera. Una manopola permetteva ruotare il tubo in ogni direzione. Infilò il tubo nel foro che aveva praticato e cominciò a studiare le immagini selezionando la modalità di visione notturna. Individuò un cassone di metallo, contenente varie cianfrusaglie, che ostruiva il aggio impedendo l’apertura della porta. Controllò l’eventuale presenza di sensori di allarme o videocamere di sorveglianza. Non vide nulla che potesse preoccuparlo. “Qua è pulito ma ho bisogno di una mano per spingere la porta. Davanti c’è un cassone di metallo” “Va bene” disse Caruso. Si guardò intorno e scelse Kattak, che pareva il più robusto degli incursori, dopo Barraco. Gli fece un cenno per chiamarlo all’opera. Tutti e tre cominciarono a spingere il portone cercando di fare meno rumore possibile. Il cassone di metallo cominciò a strisciare sul pavimento in pietra. Il rumore non era eccessivo ma tutti rimasero con il cuore in gola per paura che qualche sentinella potesse sentirlo. Dopo mezzo minuto che parve interminabile, riuscirono a ricavare uno spazio sufficiente a poter fare are una persona alla volta. Uno dietro l’altro Caruso, Barraco e Kattak superarono il portone e si sistemarono in posizione di tiro in attesa di un’eventuale sentinella attirata dal rumore. Una ventina di metri più avanti il tunnel curvava dolcemente verso destra. Uno alla volta tutti gli incursori superarono il varco. Nessuno in vista. “Spostate quel cassone senza fare rumore” ordinò Singh. La via di fuga avrebbe dovuto essere libera. Sollevarono in quattro il cassone spostandolo di lato. Barraco aprì completamente il portone che protestò emettendo un cigolio prolungato. Tutti si immobilizzarono con le armi in pugno. Anche se il rumore

non era stato particolarmente forte, a Caruso parve che fosse stata sparata una cannonata. Attesero ancora qualche minuto senza che accadesse nulla. Singh si mise in testa al gruppo facendo capire di voler procedere. Cominciò a camminare a piccoli i con la canna della Mac 10 davanti ai suoi occhi. Attraverso il visore notturno tutto aveva un colore verdognolo. Mentre proseguiva con cautela, il tunnel ritornò nuovamente rettilineo. Singh avanzò fino al punto in cui la parete formava un angolo svoltando a destra. Alzò il pugno sinistro per ordinare a tutti di arrestarsi. Il corridoio proseguiva ancora per circa cinquanta metri prima di svoltare ancora, questa volta a sinistra. Ai lati del corridoio erano state ricavate due stanze. A sinistra una cucina completamente attrezzata, a destra dei bagni. Una fioca illuminazione era garantita da alcune luci al neon. Singh si fece are la flexicam per controllare il corridoio senza doversi esporre direttamente. Piegò il tubo e lo fece sporgere di qualche centimetro. Come si aspettava in fondo, dove il corridoio svoltava a sinistra, si trovava una videocamera di sorveglianza. Il macchinario ruotava pigramente di centottanta gradi fornendo le immagini del corridoio. Per superarla senza essere visti occorreva disabilitarla per alcuni istanti e Singh aveva l’attrezzo giusto per farlo. Fece un gesto rivolto a Fazal. L’uomo si avvicinò al suo comandante e gli porse un disturbatore di videocamere. Il curioso oggetto assomigliava a un lettore di codici a barre, con l’impugnatura simile a quella di una pistola. Sarebbe bastato puntarlo verso la videocamera e premere un pulsante. Lo strumento di sorveglianza sarebbe stato fuori uso per un minuto, sufficiente al gruppo per are oltre. Singh diede un’ultima occhiata con la flexicam, accorgendosi che un soldato si stava avvicinando alla sua posizione. Non doveva avere più di venticinque anni. A tracolla portava un AK-47. Lo vide avvicinarsi sempre di più fino a quando svoltò nel bagno. Quel soldato andava eliminato in fretta. “Aspettate qui” sussurrò alla squadra. Controllò ancora la flexicam fino a quando notò che la videocamera di sorveglianza non era voltata nella sua direzione. A quel punto avanzò a o svelto impugnando una pistola caricata a dardi soporiferi. Ne aveva portate alcune perché voleva meno vittime possibili in quella missione. Entrò nel bagno alcuni secondi prima che la videocamera ruotasse nuovamente verso di lui. La stanza era simile a quella di un qualsiasi locale pubblico. C’era un piccolo spazio dove era posizionato un lavandino. Due porte conducevano ad altrettanti gabinetti. Una delle due porte era aperta quindi anche un lombrico avrebbe

capito dove si trovava il soldato. Singh attese paziente che l’uomo terminasse le sue necessità. L’unico suono udibile era quello dell’urina che cadeva nel gabinetto. Dopo alcuni istanti quel suono diventò sempre più flebile fino a quando cessò e fu sostituito da quello dello sciacquone. La porta si aprì e il soldato fece appena in tempo a focalizzare una figura scura piazzata davanti a lui. Singh gli sparò un dardo che si piantò nel collo. Il soldato, sorpreso e terrorizzato al tempo stesso, si portò la mano al collo prima di iniziare a barcollare. Singh lo afferrò prima che cadesse all’indietro svenuto. Lo adagiò sulla tazza del water e richiuse delicatamente la porta. Il ragazzo avrebbe dormito per qualche ora. Ritornò sui suoi i e sporse nuovamente la flexicam. Tutto pareva tranquillo, era il momento di disattivare la videocamera. Tirò fuori il disturbatore e lo sporse nel corridoio puntandolo in direzione della videocamera. “Bagni liberi. Tenetevi pronti a muovere tra un instante” avvisò attraverso il microfono. Premette il pulsante e dopo alcuni secondi una spia verde confermò la temporanea disattivazione della videocamera. “Ora!” ordinò mentre usciva dal bagno. Si diresse dove il corridoio svoltava a sinistra e oltreò la postazione della videocamera. Dopo alcuni metri il corridoio voltava ancora, questa volta a destra. Singh sapeva che dietro l’angolo avrebbe trovato una specie di atrio dalla forma rettangolare. Tre dei quattro lati del rettangolo conducevano a tre stanze diverse. La prima stanza era una specie di magazzino mentre le altre due erano camere da letto. Una delle due stanze era destinata all’ex proprietario della villa. Il quarto lato del rettangolo conduceva a una scala che permetteva di raggiungere il piano terra della villa. In mezzo ai due alloggi iniziava un altro tunnel che portava alla prima delle due uscite segrete. L’intero atrio era controllato da un’altra videocamera. Singh doveva disattivare anche quella. Sapeva che un operatore situato in una postazione al piano di sopra controllava le riprese. Era molto probabile che vedendo due schermi disattivati avrebbe deciso di mandare qualcuno a controllare. A quello avrebbe pensato al momento opportuno. Prese nuovamente il disturbatore e ripeté ancora l’operazione effettuata pochi secondi prima. Nel frattempo la squadra di incursori si era mossa dietro di lui. Khattak e Karem

erano entrati nella cucina trovandola vuota. “Cucina libera” annunciò Karem attraverso il suo microfono. Furlan e Barraco irruppero nel magazzino. C’erano varie scaffalature colme di scatoloni impolverati. “Magazzino libero” informò Barraco. A Boccia, che era in coppia con la Borello, toccò entrare nel primo alloggio. C’erano quattro letti e un grande armadio. Anche quella stanza era vuota. “Alloggio uno libero” informò Boccia. Caruso entrò nell’alloggio principale insieme a Fazal. Anche solo al vederla attraverso il visore notturno, la camera pareva arredata in modo lussuoso. C’era un letto a due piazze e dal soffitto pendeva un elaborato lampadario di cristallo. Caruso non individuò alcun bersaglio. C’era ancora una porta chiusa da controllare, probabilmente un piccolo bagno. Caruso e Fazal si avvicinarono con cautela. Fazal contò fino a tre mostrando le dita della mano destra e aprì la porta improvvisamente. Il bagno era piccolo e funzionale ma purtroppo anche vuoto. “Alloggio due libero” annunciò Caruso deluso. Erano ati appena quarantacinque secondi dal momento in cui la prima videocamera era stata disattivata. La seconda sarebbe stata fuori servizio per ancora un una trentina di secondi. Tutti quanti si radunarono vicino a una scala a chiocciola che portava al piano superiore della villa, in un angolo cieco che la videocamera non avrebbe potuto raggiungere una volta ritornata in funzione. Lì si erano già posizionati Singh e Sajid, il quinto uomo della sua squadra. Vicino alla scala si trovava una stanzetta che conteneva il quadro elettrico di tutta la villa. Accanto alla stanzetta un terzo tunnel portava alla seconda uscita segreta del bunker. “Piano B?” chiese semplicemente Singh a Caruso. “Piano B” confermò con una smorfia. Aveva sperato vivamente che Hassan e Aslam si trovassero nel bunker: se così fosse stato, in quel momento sarebbero già stati fuori senza aver subito neanche

un graffio; purtroppo, le sue aspettative erano state deluse. Ora invece dovevano attuare il piano B, e poteva scommettere che non tutti sarebbero tornati a casa. Forse nessuno sarebbe uscito vivo da quella villa.

Due piani di sopra, all’interno di una delle quattro torri, il generale Aslam portava avanti la sua guerra nonostante fossero quasi le tre del mattino. Continuava a esaminare ogni singola informazione che arrivava dai campi di battaglia, emettendo ordini quando riteneva necessario effettuare degli aggiustamenti. Si trovava in compagnia del suo secondo in comando, il generale Khan, dell’Aeronautica militare. Oltre a un attendente che si occupava di fare funzionare il centro di comando, erano presenti anche Hassan e Samir. Avendo apprezzato la competenza del comandante del JOA, Aslam l’aveva invitato ad assisterlo nella conduzione della campagna militare. Hassan era stato ben felice di potere dare dei consigli. Per quel motivo, a quell’ora della notte, anche lui si trovava ancora sveglio. Il generale Aslam era soddisfatto per lo svolgimento delle operazioni militari. Il corpo principale d’attacco si trovava ormai a meno di cinquanta chilometri da Kabul. L’avanzata era stata travolgente e inaspettata. L’esercito afghano, colpito di sorpresa, non era stato in grado di opporsi efficacemente alle forze d’attacco pakistane. Durante l’avanzata i soldati di Aslam avevano sconfitto ogni opposizione, annientando interi reggimenti. I superstiti stavano cercando di radunarsi intorno a Kabul per tentare una disperata difesa della capitale, ma Aslam era convinto di poter entrare nella città nelle prossime trentasei ore. A quel punto il Paese avrebbe già dovuto essere sotto il suo controllo perché sarebbe arrivato il contrattacco degli Stati Uniti. Il danneggiamento della portaerei Ronald Reagan e il bombardamento delle basi avevano sferrato un duro colpo alla capacità di reazione degli americani. Dei diecimila soldati a stelle e strisce stanziati nel Paese, almeno la metà era morta o era rimasta ferita durante gli attacchi aerei. Chi era sopravvissuto si era ritirato in fretta verso Kabul. Gli italiani, secondi per numero di truppe in Afghanistan, erano stati anch’essi colpiti duramente. L’attacco aereo alla base di Herat li aveva gravemente danneggiati. In quel momento, una divisione di paracadutisti pakistani si stava lanciando nei pressi della città con la missione di annientare gli italiani e conquistare l’aeroporto. Il generale sapeva che il mondo si sarebbe messo contro di lui. Sarebbe stata creata una coalizione guidata dagli Stati Uniti, feriti

nell’orgoglio. Lui però non aveva paura perché Allah era dalla sua parte. Aveva anche un temibile esercito ben addestrato ed equipaggiato. Senza dimenticare un arsenale nucleare. Si chinò su un computer e aprì un messaggio che era appena arrivato. Il generale si accigliò: portava la notizia di movimenti di truppe indiane lungo il confine. “Ci sono dei problemi?” chiese Hassan, seduto su una poltrona accanto a un finestrone alto circa tre metri. “No, non credo. Gli indiani si sono messi a giocare con le truppe vicino al confine.” “Vogliono solo farci innervosire” sentenziò Khan sbuffando una nuvola di fumo proveniente dal suo sigaro cubano. “Sono d’accordo. Anche se siamo impegnati in una guerra, sanno benissimo che non abbiamo lasciato sguarnito il confine. Sarebbero dei pazzi a tentare di attaccarci” concordò Aslam. “Io invierei qualche reggimento al confine, giusto per ricordargli di stare tranquilli” propose Hassan. “Buona idea, trasmetto subito l’ordine.” Samir, affacciato alla finestra, sorrise al suo comandante. In quel momento qualcuno bussò alla porta. “Avanti” esclamò il generale. Entrò una delle due guardie del corpo che sorvegliavano l’accesso alla stanza. Accompagnava un giovane tenente, con la divisa impeccabilmente in ordine. “Buongiorno, generale” esordì irrigidito sull’attenti. “Buongiorno a lei, tenente” lo salutò il generale. All’interno della torre faceva caldo. Maledisse l’ex proprietario della villa per non aver installato un climatizzatore nella stanza. “Volevo solo informarla che tutto è pronto per la partenza verso Rawalpindi

prevista per le zero sei zero zero, come indicato nei suoi ordini.” Aslam guardò un grosso orologio appeso a una parete asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto. Non si era assolutamente reso conto dell’ora che si era fatta, preso dalla conduzione della guerra. “Bel lavoro tenente, può andare.” Il tenente fece un saluto militare e girò sui tacchi accompagnato dalla guardia del corpo che richiuse la porta alle sue spalle. Aslam si voltò verso Hassan. “Beh, mi pare che sia conveniente andare a dormire per qualche ora” disse ridacchiando. “Mi trovi d’accordo, caro Zeshan” rispose Hassan. Effettivamente, dal momento che gli era stato fatto notare che ore fossero, aveva iniziato a sentire un po’ di stanchezza. Aveva proprio bisogno di qualche ora di sonno.

CAPITOLO 19

Terreno roccioso, provincia di Herat (Afghanistan)

Anche se aveva indossato il visore notturno, la vista stava ancora cercando di riadattarsi dopo che era stata disturbata dall’accensione dei fari abbaglianti. Monteleone sentì un rumore provenire a pochi metri da lui. Si voltò e distinse una sagoma dai contorni sfuocati. Non perse tempo e sparò una raffica con l’AK-47 sottratto ai talebani. La sagoma cadde all’indietro. A quel punto si scatenò l’inferno. Latif aveva ordinato ai suoi uomini di avvicinarsi il più possibile alla posizione dei nemici. Dopo che Monteleone aveva sparato il primo colpo, tutti i talebani cominciarono ad aprire il fuoco contemporaneamente. Valente venne colpito da una raffica di proiettili in pieno petto, sparata da un talebano che era riuscito ad avvicinarsi ad appena cinque metri da lui senza essere notato. “Bastardo” urlò Masino sparando sul nemico gli ultimi proiettili del suo M4. Per continuare a combattere raccolse l’AK-47 di Valente, constatando che era morto. “Valente è morto.” “Merda! Stringiamoci” ordinò Monteleone. I tre carabinieri superstiti si avvicinarono schiena contro schiena continuando a sparare. Ponch riuscì a colpire al collo un altro talebano mentre Monteleone riuscì a colpirne uno all’inguine. Il talebano rotolò giù dalla collina urlando di dolore. “Figli di puttana! Vi rompiamo il culo” urlò indemoniato Ponch. “Ben detto, Ponch!” gli rispose Masino abbattendo un altro talebano.

Non sapevano quanti nemici ci fossero contro di loro ma Monteleone ne aveva stimati dai dieci a quindici. Di più non potevano essere. Dovevano cercare di non farli avvicinare o non avrebbero avuto più scampo. “Granata!” avvisò Ponch. L’ordigno atterrò vicino alla roccia che faceva da riparo ai tre carabinieri ed esplose. Un cumulo di terra si alzò insieme a schegge di roccia. Monteleone individuò il talebano che aveva lanciato la bomba mentre si era sollevato da terra per lanciarne un’altra. Non poteva permetterlo perché questa volta avrebbe potuto atterrare proprio in mezzo a loro. Prese la mira e gli sparò una lunga raffica in pieno petto. “Caricamento” avvisò i compagni. Con un punta di panico si rese conto che gli era rimasto un solo caricatore. Dopo di che si sarebbe dovuto affidare ai quindici proiettili della sua Beretta 92 FS. Ponch aveva individuato due bersagli a una decina di metri da lui. Doveva abbatterli in sequenza. Sparò sul primo colpendolo allo stomaco, subito dopo puntò la canna dell’AK-47 verso il secondo. Premette il grilletto ma non partì nessun colpo, l’arma si era inceppata. Nel gergo quella situazione era chiamata “il click dell’uomo morto.” “Inceppamento” fece in tempo a dire. Subito dopo un proiettile gli penetrò nel cervello, non lasciandogli il tempo di tornare al riparo dietro la roccia. Morì prima ancora che il suo corpo toccasse terra. Masino aveva appena eliminato un altro talebano quando vide il corpo di Ponch cadere di fianco a lui. Il suo bel viso del quale si vantava sempre era deturpato da un foro rosso un piena fronte. “Hanno beccato Ponch” urlò con un misto di rabbia e preoccupazione. Erano rimasti solo in due ed era diventato più difficile coprire tutti e quattro i lati. Monteleone individuò il talebano che aveva sparato a Ponch e lo eliminò.

Contando i proiettili sapeva che ne erano rimasti due o tre nel caricatore. Si abbassò a terra e sganciò il caricatore dal fucile inceppato di Ponch, sostituendolo al suo. Mentre arretrava l’otturatore sentì un grido provenire da Masino. “Mi hanno preso!” Monteleone individuò la minaccia, due talebani che erano riusciti ad avanzare uno vicino all’altro fino a cinque o sei metri da Masino. Fece fuoco su tutti e due fino a quando l’otturatore scattò a vuoto a causa dello svuotamento del caricatore. I due talebani crollarono a terra senza vita. Subito dopo gli spari cessarono. Le orecchie gli fischiavano a causa della prolungata esposizione al rumore dei fucili. Si sentivano solo i lamenti di Masino. Estrasse la sua pistola e si avvicinò al compagno, stando il più basso possibile. Sperava intensamente che i nemici fossero finiti. Con un occhio controllava la zona intorno a lui e con l’altro cercava di capire quanto gravi fossero le ferite di Masino. Constatò che era stato colpito alla gamba sinistra. Con una mano raccolse lo zaino dove si trovava la cassetta del pronto soccorso. “Marescià, li abbiamo ammazzati tutti, quei bastardi?” chiese a denti stretti Masino. “Spero di sì, Masino. Ora stai zitto che cerco di medicarti. Tieni gli occhi aperti ed evita di farmi sparare alle spalle.” “Comandi.” I minuti arono senza che succedesse nulla. Monteleone medicò Masino cercando di fermare la perdita di sangue. Controllò le armi rimaste riuscendo a trovare altri due caricatori per la sua pistola. Doveva riprendere immediatamente la marcia per Camp Arena. C’era la possibilità che ci fosse ancora qualche talebano nei paraggi ma non poteva permettersi di aspettare oltre. Il proiettile che aveva colpito Masino era rimasto incastrato nella coscia e più tempo ava, più la ferita si infettava. C’erano quattro veicoli a disposizione, sperava che almeno uno fosse utilizzabile dopo che erano stati crivellati di colpi. “Masino, dobbiamo raggiungere uno di quei veicoli.”

“Va bene, Marescià.” Lo aiutò a rialzarsi da terra e lo sorresse mentre era in piedi. “Andiamo.” I due carabinieri cominciarono a scendere con cautela la collina sperando che il pericolo fosse ato. Purtroppo per loro, uno dei nemici era rimasto nell’ombra ad attenderli.

Nei pressi di Islamabad (Pakistan)

Il piano B era in atto. Singh e i suoi quattro uomini iniziarono a salire la scala a chiocciola che portava al piano di sopra. Caruso, Barraco, Boccia e la Borello li seguivano a ruota. Furlan era rimasto nella stanzetta del generatore per due motivi: il primo era per staccare la corrente alla villa in caso di necessità. Il secondo era per intercettare eventuali guardie mandate a controllare l’efficienza delle telecamere, in seguito al loro momentaneo malfunzionamento. Al termine della scala a chiocciola gli incursori si trovarono in una delle quattro torri della villa. Le pareti in pietra erano intonacate di bianco. Un paio di ribaltine in legno, riproduzioni di modelli del Settecento, erano appoggiate alle pareti. Attraverso una porta aperta si poteva uscire dalla torre e accedere al corpo principale della villa. Singh, che apriva sempre la fila, si sporse per controllare che non ci fossero soldati in vista. Un corridoio si divideva a sinistra e a destra. L’agente pakistano fece mente locale della planimetria che aveva studiato fino alla nausea. Il corridoio a sinistra portava alla seconda torre dove era stato ricavato un elegante salotto. Davanti alla seconda torre si trovava una stanza adibita a cucina. Il corridoio a destra ava davanti alla sala da pranzo fino ad arrivare al centro del piano terra, dove si trovavano l’ingresso e la rampa di scale che portava al piano di sopra. Oltre la rampa di scale c’era l’ala ovest della villa. Nelle due torri si trovavano altre due sale dove era custodita una collezione di armi dal medioevo in avanti. Un’ampia libreria fornita di libri rari occupava la maggior parte della seconda metà del piano terra. Un piccolo bagno era stato ricavato di fianco alla libreria. Tutto era arredato in stile classico con costosa mobilia in legno pregiato.

Singh svoltò a destra seguito dai suoi uomini. Il loro obiettivo sarebbe stato quello di eliminare Aslam e Hassan. Aveva deciso di dirigersi direttamente al piano di sopra, dove si trovavano le camere da letto. Dubitava che a tarda notte potessero trovarsi in sala da pranzo o in biblioteca. Caruso e la sua squadra si diressero invece a sinistra. Il loro compito consisteva nell’uscire all’esterno della villa e piazzare dell’esplosivo sulle due batterie antiaeree che erano state istallate per proteggere il generale Aslam. Il recupero della squadra di incursori, una volta terminato il lavoro, era previsto tramite un elicottero. Ovviamente elicotteri e missili antiaerei non andavano molto d’accordo. Ironia della sorte, le due batterie erano di produzione italiana, le precisissime Spada 2000 plus, dotate di missili Aspide 2000. Una delle due batterie si trovava vicino al deposito mezzi, davanti alla torre dalla quale erano appena usciti. L’altra era posizionata dalla parte opposta, vicino alla piscina. Caruso avanzava con cautela puntando l’arma davanti a sé. Alle pareti del corridoio erano appesi specchi dorati e dipinti. Gli pareva di stare in uno di quei castelli che aveva visitato quando aveva svolto il servizio militare in provincia di Torino. Davanti a sé vedeva la torre nella quale era stato ricavato un salottino. La porta era chiusa. Si sporse all’angolo del corridoio per verificare la presenza di ostili. Nessuno in vista. Ipotizzò che, essendoci numerosi soldati all’esterno della villa, Aslam avesse deciso di limitarne la presenza all’interno. Prima di uscire all’esterno avrebbe verificato se dentro il salottino si trovava qualcuno. “Eli e Cesare, coprite il corridoio. Melo, tu aprimi la porta e io entro” ordinò Caruso con un sussurro. La Borello e Boccia coprirono le due estremità del corridoio mentre Barraco si avvicinò alla porta. Saggiò delicatamente la maniglia constatando che la porta non era chiusa a chiave. “Al mio tre” disse a Caruso che annuì. “Uno, due, tre!” Barraco spalancò la porta e Caruso entrò come un fulmine cercando eventuali bersagli e sperando di trovare gli obiettivi della missione. Il salottino era arredato con divani e poltrone rivestiti in velluto rosso. Un enorme lampadario in vetro di Murano pendeva dal soffitto. Nella stanza però non c’era nessuno. “Proseguiamo” esclamò Caruso con una punta di delusione. I quattro agenti del

DIS si diressero verso la porta che conduceva all’esterno. Come prima, Barraco aprì la porta e Caruso fu il primo ad uscire fuori. Gli altri lo seguirono subito dopo. Un ampio prato ben curato si estendeva davanti a loro. Qua e là si trovavano cespugli fioriti. Oltre il prato, iniziava un grazioso parco alberato. Caruso scorse un soldato che stava eggiando pigramente con il fucile a tracolla. Tra le labbra stringeva una sigaretta quasi terminata. Si trovava a circa venti metri di distanza da loro e non si era accorto degli intrusi. Caruso puntò il suo MP5 e lo eliminò con una breve raffica. Il silenziatore montato sulla canna fece il suo dovere attutendo il rumore prodotto dall’arma. Scrutarono il prato in tutte le direzioni in attesa che si presentassero altri soldati, ma nessuno si fece vedere. Barraco corse velocemente verso il soldato morto e lo trascinò dietro un cespuglio allo scopo di nasconderne il corpo. Era di vitale importanza evitare di fare scattare allarmi o si sarebbero trovati addosso decine e decine di soldati. Dopo aver occultato il cadavere, i quattro agenti si divisero in due gruppi. Boccia e la Borello si diressero verso il sistema missilistico vicino alla piscina, Caruso e Barraco puntarono verso il secondo. Nel frattempo Singh e suoi uomini avevano proseguito nel corridoio fino a quando si erano ritrovati nel lussuoso ingresso della villa, con le sue colonne di marmo e i costosi lampadari. Davanti a loro c’era la scalinata che portava al piano di sopra. Si trovarono davanti un soldato che stava scendendo gli ultimi gradini. Era il giovane tenente che poco prima aveva informato il generale Aslam di aver concluso i preparativi per la partenza in direzione di Rawalpindi. Sgranò gli occhi, non riuscendo a credere di trovarsi davanti un gruppo di incursori armati fino ai denti. Singh gli sparò senza troppe cerimonie. Tre fori rossi comparvero sulla sua divisa perfetta. Khattak si precipitò per afferrarlo prima che cadesse a terra facendo rumore. Trascinò il corpo a fianco della scalinata, sperando che nessuno lo notasse per i prossimi cinque minuti. Non avevano tempo da perdere per trovare un nascondiglio al corpo senza vita del giovane tenente. Il gruppo proseguì salendo la scalinata. Singh e Fazal furono i primi a ritrovarsi al piano superiore, quello destinato alle camere da letto. C’erano sei stanze di cui una, la più grande, era appartenuta al defunto Shah. In due delle torri erano stati ricavati degli ampi bagni. Nella terza torre c’era lo studio privato di Shah, mentre nella quarta torre, secondo le informazioni di Singh, si trovava un altro salottino. Ovviamente non poteva sapere che ora era il centro di comando di Aslam. Decise di svoltare a sinistra, dove sapeva trovarsi la camera padronale. Dopo pochi metri vide che alla fine del corridoio c’erano due uomini armati impegnati

a sorvegliare l’ingresso di una delle torri. Singh capì immediatamente dove si trovasse il suo bersaglio. Aprì il fuoco verso i due uomini, subito imitato da Fazal. Le due guardie vennero colpite nel momento in cui stavano puntando le loro armi verso gli intrusi. Vedendo cadere i due uomini a terra, Singh non poté fare a meno di pensare che se avesse tardato qualche istante a sparare molto probabilmente si sarebbe trovato lui steso sul pavimento. Proseguì insieme ai suoi uomini per il corridoio fino a quando arrivò fuori dalla porta. Sentiva che Aslam si trovava lì dietro. Era arrivato il momento di mettere la parola fine al delirio di onnipotenza del generale.

“Che cosa è stato?” chiese il generale Aslam. “Io non ho sentito niente” rispose l’attendente. “Ho sentito un rumore fuori dalla stanza, come qualcosa fosse caduto a terra.” “O qualcuno” aggiunse Hassan. Ad Aslam corse un brivido lungo la schiena. Improvvisamente ebbe una strana sensazione di pericolo. Possibile che fossero entrati degli intrusi nella villa, con tutti i soldati che la difendevano? Istintivamente aprì il cassetto di uno dei tavoli che allestivano la sua sala comando. Ne tirò fuori una pistola Desert Eagle, caricata con i potenti proiettili calibro cinquanta. Fece appena in tempo a togliere la sicura che la porta venne spalancata. Un uomo irruppe prepotentemente nella stanza armato di mitraglietta silenziata. Vide il suo attendente venire colpito all’occhio, che si trasformò in una poltiglia sanguinolenta. Subito dopo anche il generale Khan venne colpito al petto. Aslam alzò la sua Desert Eagle, mirò contro il petto e fece fuoco. Due proiettili calibro cinquanta raggiunsero l’uomo squarciandogli la morbida carne della gola e sbalzandolo all’indietro. Singh vide Fazal cadere a terra con la gola ormai ridotta a un ammasso di carne lorda di sangue. Entrò a sua volta nella torre e lo vide. Il generale Aslam era davanti a lui con un pistola in mano. Fece fuoco con la sua Mac 10 sparando una lunga raffica. Il petto di Aslam fu traato ripetutamente da una serie di proiettili. Il generale cadde all’indietro e durante la caduta il suo grasso dito premette involontariamente il grilletto della pistola facendo esplodere un altro

colpo che penetrò nel tavolo. Subito dopo il massiccio corpo toccò pesantemente terra, la pistola scivolò sul pavimento. Il generale Aslam ò i suoi ultimi secondi di vita a rammaricarsi perché era stato a un o dalla realizzazione del suo sogno.

Un paio di scarponi militari ticchettavano per la scala a chiocciola. Furlan si accucciò nella stanzetta del generatore. Impugnava la sua MP5SD portandola a tracolla. Molto probabilmente un soldato era stato mandato a controllare quale fosse il motivo del momentaneo malfunzionamento delle telecamere di sorveglianza. Pochi istanti dopo, infatti, un massiccio soldato si materializzò davanti a lui mostrandogli le spalle. Imbracciava il suo fucile di ordinanza. “Jabran, dove sei finito?” chiamò ad alta voce, ignorando che in quel momento il compagno si trovava narcotizzato all’interno del bagno. Fece due i in avanti verso il raggio d’azione della videocamera. “Guarda che se ti sei di nuovo addormentato questa volta ti faccio rapporto.” Furlan doveva impedirgli di raggiungere la zona in cui poteva essere ripreso dalla videocamera. Aveva due opzioni. Sparargli alle spalle o intimargli di fermarsi e narcotizzarlo con una siringa che aveva con sé. In mezzo secondo decise che poteva evitare di uccidere un uomo. “Non muoverti o sei morto” intimò in urdu al soldato. L’uomo si fermò incredulo. Voltò leggermente la testa e vide una sagoma nera che gli puntava contro una mitraglietta. “Ho detto non muoverti” lo rimproverò Furlan. L’uomo voltò nuovamente la testa in avanti, scosso da un brivido di paura. Furlan tirò fuori un siringa da una tasca della sua uniforme e con i denti tolse il cappuccio. Avanzando lentamente verso il soldato, premette delicatamente lo stantuffo per fare uscire l’aria dalla siringa. Alcune piccole gocce della sostanza fuoriuscirono dall’ago. Una volta arrivatogli alle spalle, lasciò la presa della mitraglietta e gli cinse la gola con il braccio. Con la mano sinistra infilzò l’ago

nel collo e premette lo stantuffo fino in fondo. Il soldato cercò di dimenarsi ma Furlan resistette. Pochi secondi e le forze dell’uomo vennero a mancare fino a quando si afflosciò tra le braccia dell’aggressore. Furlan attese ancora qualche istante e trascinò il soldato narcotizzato nella stanzetta del generatore. Sperava che non si presentasse nessun altro perché non aveva più siringhe a disposizione. Al prossimo avrebbe dovuto sparare.

Caruso e Barraco si mossero nell’ombra fino a quando arrivarono in vista della batteria missilistica. Era appoggiata su un piedistallo con i sei tubi lanciamissili pronti a sparare altrettanti missili Aspide 2000. Un soldato stava dormendo seduto su una sedia pieghevole proprio accanto al pezzo antiaereo. Si avvicinarono con cautela. Una cinquantina di metri più avanti si trovava un’enorme tettoia dove erano parcheggiati diversi camion da trasporto e fuoristrada militari. Caruso notò anche un paio di blindati. Tre guardie si trovavano di fronte alla tettoia, sembravano impegnate in una conversazione. I due agenti italiani erano arrivati ormai a una decina di metri dal soldato addormentato. Barraco estrasse il coltello da combattimento dalla fondina attaccata alla coscia, lasciando intendere di voler occuparsi del soldato. Consegnò il proprio fucile a Caruso e continuò ad avvicinarsi con o leggero. Arrivato dietro all’uomo gli coprì la bocca con una mano e affondò la lama nella gola. Dallo squarcio nella carne cominciò a uscire un fiotto di sangue scuro. Il soldato, svegliato di soprassalto, non fece neanche in tempo a capire cosa stesse succedendo. Provò a dimenarsi e a urlare ma il massiccio Barraco lo tenne ben fermo. In pochi secondi tutto finì e l’uomo si accasciò senza vita con la testa appoggiata allo schienale della sedia pieghevole. Barraco si tolse lo zainetto dalle spalle e tirò fuori un panetto di esplosivo al plastico C4 al quale era applicato un detonatore. Lo piazzò con cura sul sistema missilistico. Prese l’esploditore e lo infilò in una tasca della divisa, in modo da estrarlo prontamente quando fosse arrivato il momento dei fuochi d’artificio. Nel frattempo la Borello e Boccia avevano raggiunto la seconda batteria Spada 2000 plus, poco distante dalla piscina. Due soldati erano incaricati di fare la guardia. Si trovavano in piedi davanti al pezzo e conversavano a bassa voce fumando una sigaretta. Oltre la piscina, si poteva scorgere un piccolo edificio in mattoni che originariamente era destinato ai domestici della villa. In quel momento ospitava decine di soldati che stavano dormendo. Chi non aveva trovato spazio all’interno si era sistemato in una serie di tende militari piantate

poco distante. Accanto alle tende si trovava il centro rilevamento bersagli delle batterie Spada. La Borello e Boccia avanzarono lentamente tenendosi bassi. “Tu prendi quello a destra, io quello a sinistra” sussurrò Boccia quando furono a una buona distanza di tiro dai due soldati. “Ok.” Le due canne silenziate delle mitragliette MP5SD detonarono con un leggero suono strozzato. I due soldati caddero a terra pochi attimi dopo. Gli agenti italiani dovevano fare in fretta perché erano allo scoperto e per di più la piscina era illuminata da diversi faretti. Qualcuno poteva accorgersi della loro presenza. Boccia si tolse lo zainetto per estrarre l’esplosivo necessario. La Borello rimase in copertura. Vide quattro soldati comparire dal retro dell’edificio in mattoni e il cuore le si fermò. Non guardavano nella loro direzione ma se anche solo uno di loro l’avesse fatto, sarebbero stati guai.

Terreno roccioso, provincia di Herat (Afghanistan)

Con il braccio sinistro Monteleone sorreggeva Masino, aiutandolo a ridiscendere la collinetta rocciosa. La mano destra impugnava la sua Beretta. Attraverso le lenti del visore notturno scrutava il terreno sotto i suoi piedi per evitare di cadere. Nel frattempo lanciava rapide occhiate intorno a sé per cercare di intercettare eventuali nemici sopravvissuti. Erano a metà della collina quando sentirono un rumore di sassi che rotolavano alle loro spalle. Fecero appena in tempo a voltare la testa e vedere una sagoma che puntava verso di loro un fucile. Masino, agendo istintivamente, diede una potente spallata al suo superiore facendolo cadere a terra. Poco dopo venne raggiunto da una raffica di AK-47 alla schiena. Monteleone rotolò dalla collina per una decina di metri perdendo la pistola e il

visore notturno. Mentre scivolava in basso, udì il familiare crepitio del fucile di produzione sovietica e realizzò che aveva perso anche Masino. Il giovane carabiniere aveva sacrificato la sua vita per salvarlo. Purtroppo però non era finita. L’assalitore, dopo aver abbattuto il primo bersaglio, aveva cominciato a sparare nella sua direzione, poteva vedere i lampi di luce prodotti dalla canna dell’arma. Udì distintamente il ticchettio dei proiettili che colpivano la roccia poco distante da lui. Fortunatamente, essendo buio, la mira del talebano non era buona. Tuttavia doveva muoversi e spostarsi dalla traiettoria. Si rialzò da terra e corse a zig zag per gli ultimi metri che lo separavano dalla base della collinetta rocciosa. Latif continuò a sparare scendendo dalla collina fino a quando non finì il caricatore. Gli parve di scorgere la sua preda nascondersi dietro uno dei pickup fermi alla base della collina. Avrebbe voluto avere un altro caricatore ma quello appena terminato era l’ultimo a disposizione. L’unica arma di cui era in possesso era un coltello da caccia con la lama curva. Forse perquisendo l’uomo che aveva appena ucciso sarebbe riuscito a trovare un’altra arma da fuoco, ma nel frattempo il fuggitivo avrebbe potuto approfittarne per allontanarsi. No, non poteva permetterlo. L’avrebbe affrontato in uno scontro uno contro uno. Bisognava considerare che l’avversario poteva ancora essere in possesso di un’arma da fuoco, magari una pistola. Un coltello contro una pistola non avrebbe avuto scampo. Il suo istinto però gli diceva che lo scontro si sarebbe giocato alla pari. Estrasse il coltello che teneva appeso alla cintura e continuò ad avanzare verso il pickup.

Nei pressi di Islamabad (Pakistan)

Samir e Hassan si erano gettati a terra non appena era iniziata la sparatoria. Il numero due del JOA si allungò verso il corpo dell’attendente che in quel momento era in preda agli ultimi sussulti prima che sopraggiungesse la morte. Raccolse la Glock 41 che l'uomo non aveva neppure estratto dalla fondina, e sporgendo la canna oltre il tavolo sparò alcuni colpi in direzione dell’ingresso della torre. Singh, che aveva appena eliminato il generale Aslam, dovette ripararsi dietro il muro per non essere colpito. Nel frattempo Samir recuperò un caricatore dalla cintura del soldato morto. Altri tredici colpi calibro 45 a

avrebbero potuto fare la differenza. Ora doveva togliersi da quella situazione. Tentare di uscire dalla porta principale equivaleva a un suicidio. Poteva aspettare l’intervento delle guardie del corpo di Aslam ma sarebbe bastato che gli aggressori lanciassero una granata nella torre e tutto sarebbe finito in un attimo. L’unica opzione praticabile era saltare dalla finestra. Aveva stimato non più di cinque o sei metri da saltare, sufficienti a procurare delle ferite ma non mortali. Decise per il salto, era meglio rischiare di ferirsi che morire. Un rabbiosa raffica esplose sulle loro teste. Doveva fare in fretta. “Omar, dobbiamo saltare dalla finestra” propose al suo comandante. “Sono d’accordo.” “Vai prima tu, io ti copro.” Si alzò in piedi e cominciò a sparare verso l’ingresso. Hassan si sollevò da terra e raggiunse la finestra. Guardò per un istante di sotto prima di gettarsi. La caduta fu breve ma atterrò male. Un sonoro rumore di ossa spezzate e una fitta di dolore lo avvisarono che si era rotto una gamba. “Khattak, tira una granata dentro quella stanza” ordinò Singh dopo aver sparato una breve raffica in direzione dell’uomo armato. Con la coda dell’occhio era riuscito a scorgere un altro uomo intento a gettarsi dalla finestra della torre. Nonostante l’avesse visto per appena un paio di secondi, era sicuro che si trattasse di Hassan. Doveva eliminare chi copriva la fuga del terrorista ed entrare nella torre. Da un momento all’altro sarebbero arrivati i rinforzi e lui non voleva trovarsi in mezzo a due fuochi. Si trovavano in una posizione estremamente svantaggiata. Dietro di loro la torre con all’interno almeno un uomo armato. Davanti a loro un corridoio che si divideva sinistra e a destra, formando un angolo retto. A sinistra si tornava verso la scalinata, mentre a destra si proseguiva verso una seconda torre. Loro si trovavano proprio al vertice dell’angolo senza copertura. Due guardie delle corpo di Aslam, attirate dagli spari, si precipitarono fuori dalle camere dove stavano riposando. Sajid e Karem furono veloci ad abbatterle. Khattak, obbedendo all’ordine, prese una granata. Tolse la sicura e la lanciò all’interno della torre. Samir fece appena in tempo a raggiungere la finestra e gettarsi di sotto. La granata scoppiò in quel momento. I monitor esplosero in

mille pezzi, così come i vetri della finestra. Samir cadde a terra cercando di applicare le tecniche che aveva appreso al corso di paracadutismo, quando faceva parte delle forze speciali irachene. L’impatto fu brusco ma riuscì a non ferirsi. Una pioggia di vetri toccò il suolo poco dopo di lui. Si riprese abbastanza in fretta e si precipitò verso il suo comandante che si stava dimenando a causa del dolore alla gamba. L’osso della tibia destra usciva fuori dalla carne. Doveva portare Hassan al sicuro prima di medicarlo. Il parco dietro la villa poteva fare al caso loro. “Omar, dobbiamo arrivare a quegli alberi. Te la senti?” chiese aiutandolo ad alzarsi. “Non abbiamo alternative” rispose a denti stretti il comandante del JOA. Nel frattempo, al primo piano della villa, altre guardie del corpo si erano unite alla caccia agli intrusi. Quattro provenivano da destra e quattro da sinistra. “Nella torre!” urlò Singh. Sei bocche da fuoco spararono contemporaneamente verso il gruppo di incursori. Un uragano di proiettili si abbatté sui cinque membri dell’ISI. L’unico che riuscì a entrare nella torre fu Singh, seppur ferito a una coscia. Tutti i suoi uomini morirono crivellati dai proiettili sparati dalle addestrate guardie del corpo di Aslam. Singh si appoggiò alla parete e cambiò caricatore alla sua Mac 10.

Boccia era appena riuscito a piazzare l’esplosivo sotto il sistema missilistico quando si scatenò l’inferno. I quattro soldati che erano poco distanti da loro erano stati allarmati dal rumore di spari provenienti dalla villa. Si erano voltati istintivamente verso l’edificio e avevano notato le due sagome nere nei pressi della piscina. “Allarme!” aveva fatto in tempo a urlare uno di loro prima di essere colpito dai proiettili della Borello. Un secondo soldato venne abbattuto mentre gli altri due furono lesti a gettarsi a terra e aprire il fuoco verso la piscina. Ovviamente le raffiche di fucile riecheggiarono ovunque. Dalle tende militari uscì un gruppo di

soldati in mutande, ma che imbracciava la propria arma. Vedendo movimento verso la piscina cominciarono anche loro a sparare in direzione di due lontane sagome nere che correvano verso la villa. La Borello e Boccia corsero verso l’edificio cercando di sfuggire ai proiettili dei pakistani. Avevano quasi raggiunto la villa, dove avrebbero trovato riparo, quando Boccia fu colpito alle spalle e cadde a terra. “Cesare!” lo chiamò la Borello vedendolo cadere. Si voltò e prese la mira colpendo i due soldati più vicini. “Eli, damme ’na mano.” Caruso e Barraco si trovavano nascosti dietro lo Spada 2000 plus. I tre soldati, che poco prima stavano chiacchierando, presero a correre in direzione della villa attirati dagli spari. Mentre avano davanti al sistema missilistico, i due italiani li eliminarono con i loro MP5 silenziati. “Singh, abbiamo sistemato la prima batteria, qual è la tua situazione?” chiese Caruso attraverso il radiomicrofono. “Aslam è morto ma abbiamo subito un rapido contrattacco delle guardie.” “Hai qualche perdita?” “I miei uomini sono tutti morti.” “Merda!” imprecò Caruso. “Hai trovato Hassan?” “Credo di sì, ma è fuggito gettandosi dalla finestra.” “Nick, ho bisogno di una mano. Cesare è stato colpito” si intromise la Borello con urgenza. Aveva aiutato Boccia ad alzarsi e l’aveva trasportato al riparo dietro il muro della villa. “Dove vi trovate?” chiese Caruso. “Vicino all’ingresso posteriore ma ci sono dei nemici che ci inseguono.” “Avete sistemato la batteria?”

“Affermativo.” “Ok. Entrate nella villa e indossate i visori notturni, stiamo venendo a prendervi.” “Ricevuto.” “Singh, iamo al piano C. Devi scendere al piano terra e andare incontro ai miei uomini. Abbiamo un ferito.” “Sono pronto.” “Dario piano C. Stacca la corrente.” “Agli ordini.” Singh abbassò il visore notturno sul volto in attesa che la villa si fe buia. Dopo pochi secondi tutte le luci dell’edificio si spensero improvvisamente. Era la sua unica occasione per fuggire. Uscì dalla torre scavalcando il corpo di Fazal e si diresse a o veloce verso la scalinata, ignorando il dolore alla coscia. Le guardie del corpo erano rimaste disorientate dallo spegnimento di tutte le luci. Attraverso il visore notturno, Singh poteva vedere tre guardie vicino alla scalinata che cercavano riparo. Una era stata ferita da Khattah prima che fosse traato dai proiettili. Quando fu vicino alla scalinata, le ebbe tutte e tre sotto tiro. Aprì il fuoco e le eliminò una dietro l’altra. Solo l’ultima tentò di reagire sparando in direzione della fiammata del Mac 10 ma mancò il bersaglio di pochi centimetri. Singh scese zoppicando le scale e in fondo alla rampa si trovò di fronte due soldati che non sapevano cosa fare. Sollevò nuovamente la Mac 10 e gli sparò senza smettere di camminare. Doveva assistere il ferito e schizzare il più velocemente possibile verso il rendez-vous con l’elicottero. Caruso e Barraco stavano correndo verso la villa, non avevano tempo di tornare alla porta sul retro, quindi sarebbero entrati dall’ingresso principale. Nella testa di Caruso continuava a ronzare il pensiero che Hassan fosse poco distante da lui. Era saltato dalla finestra e l’unico posto in cui poteva nascondersi era il parco della villa. Non poteva permettere che riuscisse a fuggire. Quando raggiunsero una delle torri diverse raffiche di fucile lo fecero voltare indietro. In prossimità dello Spada si stava avvicinando un gruppo di cinque soldati. “Melo, mi pare che sia arrivato il momento dei botti.”

“Non vedevo l’ora” rispose Barraco. Estrasse rapidamente l’esploditore e premette il pulsante. I due sistemi missilistici si trasformarono in palle di fuoco incandescenti. Pezzi di metallo di tutte le dimensioni vennero proiettate in aria. I cinque soldati che si stavano avvicinando al primo Spada vennero scaraventati a terra dall’esplosione e alcuni di loro vennero feriti dalle schegge. Analoga sorte subì il gruppetto di soldati che stavano inseguendo la Borello e Boccia. Al momento dell’esplosione si trovavano a pochi metri dallo Spada. Sei soldati vennero coinvolti nella palla di fuoco e furono disintegrati. I corpi smembrati di alcuni di loro ricaddero nella piscina con un sonoro tonfo. “Minchia che botto!” esclamò Barraco. “Proprio come piace a te” rispose Caruso. Sul volto di Barraco si disegnò un ghigno. Avevano guadagnato tempo prezioso per la fuga ma Caruso continuava a pensare a Hassan. Forse faceva ancora in tempo a completare la sua missione. “Melo, raggiungi il resto della squadra. È arrivato il momento del piano D.” “E mo’ che minchia è ’stu piano D?” chiese Barraco perplesso. “Significa che io vado a dare la caccia a Hassan. Voi andate all’appuntamento con l’elicottero. Mi verrete a recuperare dove finisce il parco. A quel punto spero di avere finito.” “Tu sei pazzo.” “Forse hai ragione. Adesso vai che non c’è tempo da perdere.” Barraco scosse la testa e si avviò verso l’ingresso della villa. Caruso invece procedette verso il boschetto deciso a completare la missione che gli era stata affidata.

CAPITOLO 20

Terreno roccioso, provincia di Herat (Afghanistan)

“Sembra che siamo solo io e te” esclamò Latif in un inglese stentato. Monteleone, riparato dietro uno dei pickup, sbirciò per capire cosa stava succedendo. L’uomo che aveva sparato a Masino stava avanzando tranquillamente verso di lui. “Esci fuori, io non sparo. Finito i proiettili” incalzò Latif fermandosi a pochi i dal veicolo. Il carabiniere osservò la sagoma dell’uomo. Effettivamente gli pareva di non vedere alcun fucile. Nella mano destra però stringeva qualcosa. Cerco di mettere meglio a fuoco nonostante il buio. Gli parve di riconoscere un coltello. Se era così che voleva giocarsela, l’avrebbe accontentato. Estrasse il suo coltello da combattimento dalla fondina che era fissata alla caviglia. Uscì dal suo riparo stringendo il coltello nella mano destra. Si ritrovò a un paio di metri dal suo avversario. A causa del buio non riusciva a inquadrare bene il suo volto. “Molto bene. Tu uscito.” “Già, che ne dici di un po’ di luce prima di iniziare?” “Luce? Ottima idea.” Monteleone tirò fuori una barra luminosa. Piegò in due l’oggetto che iniziò subito dopo a sprigionare una luce verdognola che illuminò i volti dei due avversari. Si scambiarono un lungo sguardo senza dire una parola, cercando di

trovare una traccia di paura negli occhi. Il carabiniere gettò a terra la barra luminosa, garantendo un minimo di illuminazione al combattimento che stava per iniziare. “Iniziamo” disse Latif puntando il coltello verso il carabiniere. “Ok” rispose sintetico Monteleone. I due uomini cominciarono a girarsi intorno, cercando di individuare un punto debole nella difesa dell’avversario. Latif teneva il coltello puntato in avanti con la lama rivolta verso l’alto. Monteleone lo impugnava tenendo invece la lama verso il basso. Le due tecniche erano differenti. Dopo una decina di secondi che parvero interminabili, fu Latif a compiere la prima mossa. Tentò un fendente allo stomaco con un movimento da sinistra verso destra. Monteleone tirò indietro l’addome schivando il colpo. Latif, veloce come un fulmine, si riportò in posizione difensiva impedendo la reazione del nemico. Monteleone fu sorpreso dalla rapidità del talebano, constatando che sarebbe stato un avversario temibile. Fu tentato di attaccare a sua volta ma si trattenne. Aveva capito di essere più lento. Se avesse sbagliato il colpo, l’altro avrebbe potuto colpirlo. In quel gioco mortale bastava un solo errore per rimetterci la pelle. Decise di rimanere in posizione difensiva. Latif sorrise, intuendo l’indecisione dell’italiano. Sentiva di avere la vittoria a portata di mano. Sferrò un altro fendente, questa volta rivolto al viso. Ancora una volta, Monteleone schivò facendo un o all’indietro e sferrando un calcio che colpì Latif alla gamba destra, facendolo allontanare. Aveva mirato al ginocchio ma era riuscito a colpire solo la coscia. Entrambi ritornarono in guardia. Latif indietreggiò leggermente e si ò la lingua sul labbro inferiore. Tentò un affondo diretto verso lo stomaco ma questa volta Monteleone fu più rapido. Spostandosi lateralmente verso sinistra, riuscì a deviare il colpo con il braccio destro. Una frazione di secondo dopo lo afferrò con la mano sinistra mentre con la destra conficcava il coltello nella coscia dell'avversario. Latif lasciò cadere la presa del suo coltello ma riuscì istintivamente a colpire l’italiano alla gola con una gomitata. Monteleone indietreggiò portandosi le mani alla gola e lasciando la presa del suo coltello, che rimase conficcato nella coscia di Latif. Il colpo era stato forte e inaspettato. La reazione del talebano era stata davvero rapida, pensò mentre era scosso da violenti colpi di tosse. Latif impugnò il coltello da combattimento che era infilato nella sua gamba. Tirò con forza urlando di dolore fino a quando la lama, lorda del suo sangue, fu completamente

estratta dalla carne. Fece un o malfermo in avanti e sollevò in aria il coltello con l’intenzione di conficcarlo nel petto dell’avversario. Monteleone riuscì a reagire in tempo, sollevando il braccio sinistro in alto e bloccando il braccio armato, prima che calasse su di lui. Allo stesso tempo colpì il mento di Latif con una palmata, il coltello cadde a terra. Mentre Latif era stordito dal colpo, Monteleone gli ò alle spalle e gli cinse il collo con forza, bloccandogli la trachea. Latif tentò di liberarsi ma la presa era troppo forte. L’aria cominciava a mancargli e i polmoni gli parvero essere prossimi a esplodere. Sentì un liquido caldo che scorreva sulla sua fronte. Era la saliva di Monteleone che scivolava fuori dalla sua bocca, spalancata dallo sforzo. Latif sentiva le forze che gli venivano a mancare. Gli parve di vedere suo padre venirgli incontro scuotendo la testa per la delusione. Non era riuscito a mantenere la sua promessa. “Mi dispiace, padre” gli disse Latif. Gli parve di dirlo ma in realtà dalla sua bocca uscì solo un rantolo sofferente. Chiuse gli occhi e il suo corpo si rilassò per sempre. Monteleone, folle di adrenalina, continuò a stringere ancora per quasi un minuto fino a quando cominciò a calmarsi e a mollare gradualmente la presa al collo. Vide il corpo di Latif scivolare lentamente a terra. Appoggiò le mani sulle ginocchia piegandosi in avanti. Il respiro era affannoso. Nella sua vita aveva ucciso diversi uomini ma era la prima volta che ne uccideva uno a mani nude. La cosa gli provocò un moto d’orgoglio e un forte disgusto allo stesso tempo. Vomitò a terra quel poco che aveva mangiato nelle ultime trentasei ore. Si rialzò pulendosi la bocca con il dorso della mano, in attesa di recuperare il controllo del suo corpo. Raccolse la barra luminosa da terra e si incamminò alla ricerca di Masino. Quando lo trovò non poté far altro che constatarne la morte. Si sedette a terra e si nascose la testa tra le mani. Aveva perso tutti i suoi uomini. Tirò fuori dalla tasca della divisa una fotografia. Miriam gli sorrideva con il loro figlio in braccio. Lo stavano aspettando. Nonostante la grande stanchezza che si era impossessata di lui, si rialzò da terra per compiere un ultimo sforzo prima di tornare alla base.

Nei pressi di Islamabad (Pakistan)

Aveva raggiunto il punto in cui iniziava il parco. Contrariamente alla villa che

era senza elettricità, i lampioni che illuminavano il parco erano ancora in funzione. Questo perché il generatore che li alimentava era indipendente e situato in un’altra zona. Il visore notturno non sarebbe servito a nulla. Si infilò tra gli alberi tenendosi lontano dal sentiero illuminato. Fece alcuni i e a una trentina di metri da lui vide l’uomo più ricercato del mondo, l’uomo che aveva ordinato decine e decine di attentati, l’uomo che era responsabile della morte di migliaia di innocenti. Omar Abdallah Hassan camminava a fatica, sorretto da un altro individuo. Entrambi gli voltavano le spalle e non si erano accorti di lui. Caruso puntò la canna della sua mitraglietta verso la schiena del comandante del JOA. Per un attimo lo osservò arrancare con il dito appoggiato sul grilletto. Si soffermò a pensare che il temuto Hassan sarebbe morto senza neanche sapere chi l’aveva colpito. Non c’era niente di eroico a colpire un uomo alle spalle ma non aveva scelta. In quel momento si trovava in guerra e non c’era spazio per la cavalleria. Premette il grilletto con una raffica breve e controllata. Samir sentì il sibilo dei proiettili e il rumore degli stessi che penetravano nella carne del suo comandante. Il suo istinto di militare gli permise di abbassarsi giusto in tempo per evitare di essere colpito a sua volta. Riuscì a nascondersi dietro un albero poco prima che un’altra raffica crepitasse sulla corteccia. Con la Glock 41 sparò tre colpi in direzione della minaccia. Caruso si riparò a sua volta dietro un albero, non aspettandosi una reazione così rapida. Samir cercò di trascinare al riparo Hassan stringendolo tra le braccia. Un grumo di sangue gli macchiava la barba grigia. Un’altra raffica di proiettili scheggiò l’albero. Lui si sporse dal riparo e sparò altri due colpi, riuscendo a individuare una sagoma scura seminascosta. “Omar, tieni duro. Ce la farai.” “No, mio caro Samir. Per me è giunta la fine. Spetta a te continuare la mia opera.” “Omar, non dire così” balbettò Samir con un nodo alla gola. Gli occhi erano gonfi di lacrime. “Samir, per me sei stato come un figlio. È stato un onore combattere con te.” “Omar, tu per me sei stato come un padre. Omar... Omar...”

Omar Abdallah Hassan aveva reclinato il capo e aveva chiuso gli occhi per l’ultima volta. Il più pericoloso terrorista dalla morte di Bin Laden se ne era andato. Samir si sporse dal riparo giusto in tempo per vedere la sagoma nera che aveva cambiato posizione per tentare di aggirarlo. Sparò una serie di colpi nella sua direzione. Caruso riuscì a ripararsi appena in tempo dietro un altro albero. Avrebbe potuto allontanarsi e dirigersi verso la fine del boschetto ma il suo istinto gli diceva che quell’uomo doveva essere una pedina importante del JOA. Samir si riparò a sua volta. Poteva tentare di fuggire ma non aveva intenzione di lasciare impunita la morte di Hassan. Si era venuta a creare una situazione di stallo. Il numero due del JOA cambiò caricatore alla Glock, inserendone uno pieno. Guardò il corpo senza vita di Hassan e una furia cieca cominciò a impossessarsi rapidamente di lui. Il respiro si fece affannoso, la mente cominciò a offuscarsi con un unico pensiero. Vendetta. Uscì dal riparo e cominciò a correre in direzione del suo avversario. Sollevò la pistola e cominciò a sparare. Un urlò rabbioso e prolungato uscì liberatorio dai suoi polmoni. Caruso fu spaventato dall’improvvisa reazione. Aveva capito che l’uomo gli stava venendo incontro sparando come un folle ma per un attimo non riuscì a reagire. Si riscosse realizzando che se l’avesse fatto avvicinare sarebbe finita. Uscì all’improvviso dal suo riparo e puntò la mitraglietta verso la sagoma umana urlante in rapido avvicinamento. Premette il grilletto. Samir lo vide uscire allo scoperto. Gli puntava contro una mitraglietta ma non gli importava. Non aveva paura di morire, sapeva che il paradiso lo attendeva. L’unica cosa che gli importava era portare con lui quell’assassino. Premette ancora il grilletto. I proiettili delle due armi si incrociarono a metà strada. I tre proiettili dell’MP5 di Caruso raggiunsero il petto e il collo di Samir. Uno dei proiettili della Glock 41 penetrò il fianco destro di Caruso traando il giubbotto antiproiettile, fortunatamente senza toccare nessun organo vitale. L’agente italiano urlò di dolore lasciando la presa dell’arma mentre il corpo di Samir cadeva

pesantemente a terra. Appoggiò la mano destra sulla ferita, sopraffatto dal dolore. Ecco cosa si prova a riceve un proiettile, pensò in quel momento. Si appoggiò all’albero sentendo che le forze gli venivano a mancare.

Terreno roccioso, provincia di Herat (Afghanistan)

Tre dei quattro veicoli appartenuti ai talebani erano ancora funzionanti, tranne ovviamente per i fari anteriori che erano stati distrutti dai carabinieri in cima alla collina. Monteleone aveva scelto il pickup, che aveva più benzina nel serbatoio. Era risalito in cima alla collina e aveva trasportato in basso i corpi dei suoi uomini, Valente, Pugliese e Ponch. Aveva adagiato delicatamente i corpi sul pianale, infine era ritornato a prendere Masino. Con un ultimo sforzo lo sistemò sul veicolo accanto agli altri. Monteleone si era affezionato a quel ragazzo dai capelli rossi. Giurò a se stesso che appena possibile sarebbe tornato alla ricerca degli altri corpi che aveva dovuto abbandonare. Quando fu pronto si sedette alla guida e accese il motore. Aveva deciso di tenersi lontano dalle strade principali perché non sapeva chi fossero i paracadutisti che aveva visto dalla cima della collina. Partì lentamente, non sapendo cosa avrebbe trovato una volta raggiunto Camp Arena.

Nei pressi di Islamabad (Pakistan)

Singh aveva raggiunto la Borello e Boccia. Si era offerto di sorreggere il ferito. Dopo avergli dato una rapida occhiata aveva dubitato che sopravvivesse. Era sicuro che la pallottola avesse raggiunto un organo vitale. Arrivarono alla torre dove si trovava la scala a chiocciola senza incontrare ulteriore resistenza. In quel momento sopraggiunse Barraco. “Dove è Nick?” chiese la Borello.

“Piano D” rispose. “E che diavolo è il piano D?” “Scendiamo che te lo spiego strada facendo.” Ai piedi della scala a chiocciola trovarono Furlan che li attendeva. “Dove è Nick?” chiese a Barraco. “Minchia, tutti la stessa domanda mi fate. Piano D” rispose con i suoi soliti modi bruschi il siciliano. ò oltre aprendo la strada al gruppo. “Che cazzo è il piano D?” chiese Furlan alla Borello. “Non ne so niente.” arono davanti alla prima videocamera di sorveglianza. Anche se il bunker era completamente al buio, la videocamera era in grado di registrare immagini a infrarossi. Un soldato che controllava le immagini in una postazione di controllo li individuò e avvisò la guarnigione che difendeva la villa. Le guardie del corpo di Aslam che erano sopravvissute vennero subito indirizzate verso i sotterranei all’inseguimento degli intrusi. Barraco arrivò alla scaletta di metallo insieme al resto del gruppo. Nel frattempo aveva spiegato il piano D di Caruso. Risalirono tutti in superficie e si incamminarono verso uno spiazzo erboso che sarebbe servito a fare atterrare l’elicottero. In lontananza si sentiva già il rumore dei motori. “Eagle One a Eagle Two, tempo stimato di arrivo un minuto. Segnalate la vostra posizione” avvisò il pilota dell’elicottero. “Ricevuto, Eagle One” rispose Singh. Tirò fuori da una tasca della divisa un razzo segnalatore. Lo accese e una fiammata rossa fu visibile dall’elicottero. “Eagle Two, vedo fumo rosso. Confermate?”

“Confermo fumo rosso, Eagle One.” “Ricevuto. Stiamo arrivando.” L’elicottero, un Sa 365 Dauphin di colore nero, arrivò poco dopo e si fermò in volo stazionario sopra le loro teste. Dopo essersi stabilizzato iniziò la sua discesa fino a quando i pattini non toccarono il morbido prato. Per primo venne caricato a bordo Boccia. Durante l’attesa dell’elicottero era svenuto. Le sue condizioni erano gravissime. Dovevano fare in fretta perché i soldati di guarnigione della villa avevano notato la presenza del velivolo e stavano cominciando a muovere verso la sua posizione. Appena salita a bordo, la Borello si avvicinò al pilota, che era un vecchio amico di Singh. “Cambio di programma. Dirigiti verso il retro della villa perché dobbiamo recuperare un compagno” gli ordinò in inglese. “Te lo puoi scordare. Io non vado là in mezzo.” “Allora non hai capito un cazzo” esclamò la donna in tono duro. Estrasse la pistola dalla fondina e la puntò alla testa del pilota. “La mia non è una richiesta. Se non hai le palle levati di mezzo che questo affare lo piloto io.” Il pilota deglutì prima di rispondere. “Va bene, ci andremo.” “Bravo ragazzo.” Barraco fu l’ultimo a salire a bordo. “Fate alzare questo coso” urlò. L’elicottero cominciò a prendere quota ma dopo una decina di metri una raffica di fucile colpì il portellone. Una delle guardie del corpo era risalita dalla buca ed era riuscita a fare fuoco contro il velivolo. Barraco prese la mira e sparò una lunga raffica; l’uomo, colpito, ricadde all’indietro all’interno della buca. “Nick, stiamo arrivando. Dove sei?” chiese la Borello attraverso l’auricolare.

Caruso, appoggiato all’albero, si riscosse. “Hassan è morto. Mi dirigo verso il punto di recupero.” “Ricevuto, fai in fretta perché la situazione si riscalderà parecchio.” Caruso si rialzò da terra e prima di iniziare a correre si ricordò di una cosa da fare. Sicuramente Parodi avrebbe voluto vedere un’immagine del corpo di Hassan. Si avvicinò al cadavere e fece una ripresa da vicino con la mini videocamera fissata al giubbotto antiproiettile. Alcune raffiche di colpi provenienti dalla villa sibilarono intorno alla sua posizione. Un gruppo di soldati, attirati dalla sparatoria nel parco, si stava dirigendo verso di lui. Doveva scappare via, non c’era tempo per raccogliere la mitraglietta. Il Dauphin stava sorvolando la villa e dall’alto si poteva notare che un altro elicottero, parcheggiato sopra il tetto, stava azionando il rotore. Era un leggero Alouette III color verde militare dotato di pod lanciamissili. Permettergli di decollare avrebbe potuto costituire un grosso problema. “atemi la mitragliatrice” chiese Barraco. Furlan gli ò una potente mitragliatrice M60 di produzione americana, portata per proteggere l’elicottero che non era dotato di armamento. Barraco imbracciò la pesante arma aiutato da Furlan e iniziò a fare fuoco prima contro l’abitacolo dell’elicottero e poi sul gruppo motore. Il rumore all’interno del Dauphin era assordante. I bossoli delle cartucce da 7.62 mm piovevano dall’elicottero cadendo a terra. Il piloti dell’elicottero militare vennero entrambi uccisi. Caruso si voltò sentendo il baccano dell’M60 e vide il Dauphin che volava sopra la villa. Una fiammata usciva costante da uno dei portelloni. Doveva sbrigarsi a raggiungere la fine del parco. Corse a perdifiato reggendosi il fianco ferito, fino a quando raggiunse uno spiazzo dove gli alberi erano più radi. L’elicottero si fermò sulla sua testa e gli venne gettata una fune. Non c’era tempo perché posasse i pattini a terra. Gruppi di soldati si dirigevano verso la loro posizione, compresi due fuoristrada e un blindato, tutti armati di mitragliatrici montate sulla ralla. Caruso non era sicuramente in grado di risalire la fune ma avrebbe cercato di aggrapparsi dando fondo alle sue ultime forze rimaste. Pochi metri lo dividevano dalla salvezza. L’M60 di Barraco tuonò ancora dall’alto falciando il gruppo di soldati che lo

stavano inseguendo. Non se ne curò, ormai era arrivato. Afferrò la corda e si aggrappò più forte che poteva, avvinghiandosi anche con le gambe. L’elicottero si alzò in cielo e ripartì per togliersi dalla brutta situazione. Le mitragliatrici dei fuoristrada e del blindato cominciarono a crepitare senza però colpire il Dauphin. Caruso, con enorme sforzò, cercò di non mollare la presa mentre il verricello recuperava la corda metro dopo metro. Quando arrivò in cima, le quattro braccia di Barraco e Singh lo afferrarono e lo tirarono all’interno, mentre l’elicottero si allontanava velocemente dal pericolo. Le due colonne di fumo che si levavano dai rottami degli Spada erano ancora visibili in lontananza. La Borello e Furlan iniziarono a medicare le ferite di Caruso e Singh. “Come sta Cesare?” chiese Caruso. “È morto” disse la Borello con le lacrime agli occhi. “È morto.” Caruso chiuse gli occhi senza dire niente. Non era riuscito a riportare a casa tutti i suoi uomini e si sentì in colpa per aver accettato di compiere quella missione. Inoltre sapeva che c’era del tenero tra Elisa e Cesare, anche se non era ancora successo niente tra i due. Riaprì gli occhi e osservò Singh, con lo sguardo perso nel vuoto mentre Furlan gli medicava la gamba. In quel momento capì che anche lui stava soffrendo per la perdita dei suoi uomini. “Ne varrà la pena” gli disse. Singh si riscosse come da un sogno. “Come?” “Ne varrà la pena” ripeté Caruso. Singh lo guardò con gli occhi velati dalle lacrime. “Lo spero con tutto me stesso.”

CAPITOLO 21

Camp Arena, Herat (Afghanistan)

Monteleone raggiunse uno degli ingressi di Camp Arena quando il sole era già sorto. Avanzò guidando a o d’uomo fino a quando quattro alpini gli intimarono l’alt puntandogli i loro Beretta SC 70/90. Uscì dal pickup con movimenti lenti e alzò le mani in alto. Dopo che era partito dalla collinetta rocciosa era riuscito ad arrivare a pochi chilometri dalla base quando era ancora buio. Si era subito accorto che Camp Arena era sotto attacco da ogni lato. Era rimasto in attesa, non potendo avvicinarsi. Con il binocolo aveva osservato i paracadutisti pakistani che tentavano di sopraffare le difese italiane. Aveva visto i propri commilitoni difendersi ferocemente non cedendo un solo metro, nonostante la base avesse subito molti danni durante l’attacco missilistico della notte prima. I pakistani non avevano immaginato che il loro compito sarebbe stato così difficile. Poi all’improvviso, quando il sole cominciava a donare alla terra i suoi primi raggi, l’attacco era cessato. Dopo dieci minuti le forze assalitrici si erano ritirate con ordine e si erano accampate a circa dieci chilometri da Herat. Monteleone aveva atteso ancora un’ora prima di avvicinarsi con cautela a Camp Arena. I quattro alpini, con le divise sporche e impolverate, si avvicinarono circospetti senza abbassare le canne dei fucili. “Chi sei?” chiese un caporale. “Sono il maresciallo Ruben Monteleone. Faccio parte della Task Force 45.” “Cristo santo!” esclamò uno degli alpini. “Per caso si trovava sull’elicottero abbattuto ieri?” chiese il caporale.

“Esatto e sono l’unico superstite.” Gli alpini abbassarono le armi e si avvicinarono al carabiniere. “Qua ci sono i corpi di alcuni dei miei uomini. Ma ce ne sono altri da recuperare.” “Per ora deve rifocillarsi maresciallo, poi la farò parlare con il capitano Boschi.” “Vorrei parlare direttamente con il generale Guadagni.” “È morto, così come molti altri ufficiali superiori. Durante l’attacco dell’altra notte alcuni missili hanno colpito il centro di comando e la zona dove alloggiavano gli alti ufficiali. Il capitano Boschi al momento è l’ufficiale più alto in grado.” “Bastardi! Ci sono state molte perdite?” “Sì, e l’attacco di questa notte non ha migliorato la situazione. Come se non bastasse, così come sono arrivati, sono andati via. Non ci capiamo più niente. Comunque ora cerchi di stare tranquillo, ai suoi uomini ci pensiamo noi.” Monteleone si lasciò accompagnare in infermeria, dove gli venne curata una lieve ferita alla testa che si era procurato quando Masino l’aveva spinto già dalla collina. Gli portarono qualcosa da mangiare. Dopo essersi fatto una doccia e dopo aver indossato una divisa pulita incontrò il capitano Boschi, che in quel momento comandava la base. Fece un rapporto completo della sua sfortunata missione e apprese i dettagli di tutto quello che era successo da quando aveva lasciato la base. Stremato, riuscì a raggiungere finalmente il suo alloggio che sorgeva in una zona della base rimasta intatta dopo gli attacchi pakistani. Quando fu dentro, la prima cosa che fece fu prendere una lattina di birra dal suo frigorifero personale. Tirò la linguetta e ne bevve una lunga sorsata, lasciando che il liquido fresco scorresse giù per la gola. In mano reggeva un telefono satellitare che gli aveva lasciato il capitano Boschi. Si sedette sul letto e compose il numero del telefono cellulare di sua moglie. “Pronto?” chiese Miriam dopo aver preso la chiamata.

“Amore sono io.” “Ruben! Grazie a Dio sei vivo. Dove sei?” “Sono alla base.” “Ho sentito le notizie al telegiornale. Dicono che la base è stata attaccata dal Pakistan, che ci sono molti morti. Tu come stai?” chiese Miriam parlando alla velocità della luce. “Stai calma, io sto bene. Ora la situazione è sotto controllo. Fabio sta bene?” “Sì sta bene, non vede l’ora di abbracciarti.” Dopo l’ultima parola scoppiò a piangere dalla felicità. Il marito la fece sfogare per alcuni istanti. “Ok, ok. Basta piangere perché sennò inizio anche io e se qualcuno mi vede divento lo zimbello di tutta la base.” “Sei sempre il solito scemo!” “Ci sono notizie di Nick?” “Ha fatto una breve chiamata questa mattina. Sta bene e ha detto che tornerà presto a casa.” “Questa è una grande notizia.” “Tu quando torni?” “Presto amore mio. Ho ancora una cosa da fare e poi tornerò a casa. E non me ne andrò mai più.” “Era questo che volevo sentirti dire.” “Ti amo.” “Ti amo anche io.” Monteleone chiuse la chiamata e si sdraiò sul letto. Tirò fuori la foto della sua famiglia e sorrise.

Islamabad (Pakistan)

“Il mio nome è Adnan Singh e sono un funzionario dell’ISI, i servizi segreti militari pakistani. Informo la nazione e il mondo intero che io e una squadra di agenti scelti questa notte abbiamo ucciso il generale Zeshan Aslam. Il generale si è reso colpevole di una serie di delitti nei confronti del Pakistan e dei suoi alleati. In associazione con il gruppo terroristico JOA ha creato un complotto volto a prendere il potere in Pakistan, calpestando le istituzioni democraticamente elette e scatenando una guerra che ha già portato migliaia di morti. Con la complicità del direttore dell’ISI Azhar Malik ha organizzato l’omicidio del nostro amato Presidente, creando false prove allo scopo di accusare gli Stati Uniti e l’Italia. Avrei potuto voltarmi dall’altra parte e continuare la mia vita ma non ce l’ho fatta. Ho preso una decisione e mi prendo le mie responsabilità nel caso vogliate giudicarmi. A seguito di questo messaggio fornirò tutte le prove del complotto in mio possesso, compresa la confessione del direttore Malik che svelerà i retroscena di questa inquietante vicenda. Fornirò anche le prove della morte del generale Aslam e del suo alleato Omar Abdallah Hassan, leader del JOA, entrambe avvenute nello stesso luogo. Concludo invitando i signori membri del governo e del parlamento eletti dal popolo a riprendere in mano il Paese e far concludere al più presto l’infame guerra scatenata contro i fratelli afghani. Che Allah benedica il Pakistan.” Questo fu il messaggio che Singh aveva registrato prima dell’incursione alla villa e che aveva cominciato a diffondere su tutte le piattaforme possibili al termine dell’operazione. Al filmato erano state aggiunte le immagini delle morti di Aslam e Hassan, oltre alla confessione di Malik e le prove del complotto. In breve tempo il filmato aveva fatto il giro del mondo. Ogni notiziario aveva cominciato a parlarne. Singh aveva personalmente contattato il Primo Ministro Hanif esortandolo a riprendere velocemente il controllo della situazione.

Hanif, nonostante il sole non fosse ancora sorto, aveva convocato tutti i membri del governo e diversi parlamentari che a loro volta avevano contattato altri loro colleghi. All’alba i membri del governo legittimo e la quasi totalità del parlamentari si erano presentati davanti al palazzo presidenziale. Un cordone di militari armati fino ai denti aveva sbarrato la loro strada. Dopo il colpo di stato, il generale Aslam aveva dato ordine di arrestare qualunque membro dell’ultima legislatura che si fosse avvicinato al palazzo o al parlamento. Hanif si era fatto avanti individuando colui che gli sembrava al comando. “Sono il Primo Ministro della Repubblica Islamica del Pakistan. Vi ordino di lasciare are me e i miei colleghi per riprendere il nostro lavoro” aveva detto al soldato. L’uomo l’aveva fissato per alcuni secondi, che ad Hanif erano parsi interminabili, prima di ordinare di rompere le righe. Il premier aveva preso posto nel suo ufficio e la prima cosa che aveva fatto era stata contattare il centro militare di Rawalpindi. Gli aveva risposto il generale più alto in grado dopo Aslam, anche lui aveva visto il filmato messo in rete da Singh. Non ci aveva messo molto a ordinare l’immediata cessazione di ogni attività bellica in suolo afghano e il ritiro immediato di tutte le truppe. Solo alcuni alti ufficiali, fedelissimi di Aslam, si erano inizialmente rifiutati di arrendersi, ma dopo alcune ore si erano resi conto che non l’avrebbero mai spuntata e avevano fatto deporre le armi ai propri uomini. Alcune manifestazioni pro Aslam erano state inscenate in Pakistan, ma la maggior parte della popolazione era felice della sua caduta. Per paura dei militari in pochi si erano permessi di protestare per il colpo di stato. Le forze armate afghane avevano potuto concentrarsi sui talebani, attaccandoli su tutti i fronti e respingendoli. La dittatura del generale Aslam era finita dopo pochi giorni e il suo sogno di un grande stato islamico era svanito. Era quasi l’ora di cena e il premier Hanif si trovava nel suo ufficio. Si accorse che non mangiava nulla dalla sera prima, cosa di cui non si era reso conto durante l’adrenalinica giornata che aveva ato. Prima però doveva ricevere una persona, anzi desiderava ricevere una persona. Qualcuno bussò alla porta.

“Avanti” esclamò Hanif guardando un orologio a pendolo appeso alla parete. Il suo ospite era in perfetto orario. Adnan Singh fece il suo ingresso nell’ufficio del premier, vestito con un impeccabile completo grigio. Hanif si alzò dalla scrivania e gli andò incontro. “Benvenuto, caro Adnan. La pace del signore sia con te” lo accolse abbracciandolo e baciandolo sulle guance. “Le benedizioni di Allah possano posarsi su di lei, signor Primo Ministro” rispose Singh. “Prego accomodati” lo invitò Hanif indicando un divanetto. Entrambi si sedettero accavallando le gambe. “Posso farti portare qualcosa da bere?” “No, la ringrazio.” “Sono io che devo ringraziare te. Hai reso un grande servizio a tutto il Pakistan e al mondo intero. Hai salvato centinaia di migliaia di vite.” “Ho fatto solo quello per cui sono pagato” rispose Singh abbassando il capo umilmente. “Non dire sciocchezze, sei andato ben oltre i tuoi doveri ma apprezzo la tua modestia. Proporrò te e i tuoi uomini per la massima onorificenza. A proposito, mi dispiace per loro.” “Anche a me, erano molto coraggiosi.” Hanif annuì lentamente. “Per quanto riguarda gli italiani, che fine hanno fatto?” “Mi hanno chiesto un aereo militare per partire immediatamente in direzione dell’Italia. Hanno caricato anche la bara del loro compagno caduto.” “Ah, peccato. Avrei voluto conoscerli e ringraziarli di persona. Organizzerò un viaggio in Italia per incontrarli. Cambiando argomento, avrò bisogno di fare

pulizia all’interno dell’ISI e serviranno uomini fidati. Accetteresti l’incarico di nuovo direttore?” Singh si concesse un attimo prima di rispondere. “Sarà un grande onore.” “Ne sono felice. Tra l’altro è ancora aperta la questione dell’assassino del Presidente Rehman. Non ricordo come si chiama.” “Reis. Quel verme si chiama Reis.” “Oh giusto, Reis. Deve essere punito. Hai carta bianca su come farlo.” “Sarà uno dei miei primi pensieri.” “Eccellente” gli disse dandogli una pacca sulla spalla “ora però andiamo a mangiare qualcosa o rischi di dovermi portare all’ospedale.” “È un ordine a cui obbedisco volentieri” rispose Singh. I due uomini si alzarono ridendo dal divano e uscirono dall’ufficio.

Roma, aeroporto di Ciampino, 11 giugno 2016

Il quadrimotore C 130E dell’Aviazione militare pakistana atterrò in perfetto orario rispetto alla tabella di marcia. Il grosso aereo rullò fino all’aerea di sosta assegnata. Un piccolo gruppo di persone era in attesa che scendessero i quattro eggeri. La rampa di carico si abbassò lentamente fino a toccare l’asfalto della pista. Quattro figure erano in piedi di fronte all’uscita. Tutti reggevano una maniglia della bara che accoglieva il corpo di Cesare Boccia. Una bandiera italiana era stata stesa sopra la cassa in legno scuro. Nicholas Caruso diede l’ordine di scendere la rampa. Gli uomini sollevarono la bara e, nel silenzio, i loro i risuonarono sulla superficie in metallo. Camminarono sulla pista fino a quando incontrarono un drappello di militari

dell’Aeronautica. La bara venne depositata a terra e lasciata in consegna ai soldati, che fecero il saluto militare. Elisa Borello, dietro a un paio di occhiali da sole scuri, non riuscì a trattenere le lacrime. Il Presidente del Consiglio Giovanni Parodi si avvicinò agli agenti del DIS e li salutò stringendo la mano a ognuno di loro. “Grazie” disse semplicemente a Caruso. Caruso non seppe cosa rispondere. “Mi dispiace per la perdita del vostro compagno. Il suo sacrificio ha però salvato migliaia di vite.” “Sì è vero, anche se non riesco ancora a trovare consolazione in questo.” “Immagino che non sia facile. Ma ora raggiunga la sua famiglia. Spero che nel pomeriggio voglia are a Palazzo Chigi. Avrei bisogno di parlarle in privato.” “Ci sarò, signor Presidente.” Si lasciò Parodi alle spalle. Nel frattempo la sua squadra aveva già abbracciato i propri cari che si trovavano poco più avanti. Sua moglie lo stava aspettando con la piccola Silvia tra le braccia. Il viso era rigato dalle lacrime. Si avvicinò e le abbracciò con calore sentendosi rinascere, nonostante la pressione dei corpi gli fe dolere la ferita. Baciò Sonia sulla bocca, che aveva il sapore salato delle lacrime. “Ho creduto che questa volta non saresti più tornato” gli disse con la voce rotta dall’emozione. “In certi momenti anche io, ma l’importante è che ora sono qui.” Le schioccò un altro bacio sulle labbra e ne diede uno sulla fronte anche a sua figlia. La bambina sorrise al suo papà. “Dio come mi siete mancate.” Sonia si appoggiò al suo petto e restarono così per diverso tempo. Fu la piccola Silvia a interrompere l’atmosfera che si era creata con un verso.

“Ho deciso di lasciare l’attività operativa. Farò domanda per essere trasferito in ufficio” annunciò alla moglie. “Sei sicuro?” chiese lei cercando di non lasciare trasparire il sollievo che provava ad aver sentito quella frase. “Sono sicuro. Non voglio più rischiare di perdervi.” “Oh, ti amo Nick.” “Anche io ti amo. Andiamo a casa.”

Zendeh Jan (Afghanistan), 12 giugno 2016

Erano bastate alcune domande a qualche abitante della cittadina per scoprire il luogo dove erano stati seppelliti gli uomini morti durante l’abbattimento dell’AB 412. Latif aveva dato ordine di scavare una fossa comune poco distante dalla stazione di polizia occupata dai talebani. Monteleone osservava in silenzio mentre l’ultimo corpo veniva recuperato e infilato in un sacco nero per cadaveri. Due alpini lo caricarono su un autocarro militare insieme agli altri. Dal pomeriggio prima, la cittadina di Zendeh Jan era stata liberata dall’occupazione dei talebani. La notte in cui Monteleone aveva combattuto per la sopravvivenza, le truppe comandate da Muslim avevano assaltato la periferia di Herat ed erano riuscite a conquistare una porzione di città. Tuttavia, già il pomeriggio successivo, le forze governative aiutate dai militari italiani avevano sferrato un contrattacco riuscendo a far sloggiare gli aggressori. Era stata necessaria una notte di duri combattimenti. I superstiti si erano ritirati verso Zendeh Jan, inseguiti dalle forze governative. Dopo un altro combattimento avevano dovuto ritirarsi nuovamente. Poche decine di talebani erano riusciti a sfuggire all’annientamento, rifugiandosi sulle montagne. Analogamente, in tutto l’Afghanistan i talebani erano stati attaccati e respinti dalle forze governative, non più impegnate contro gli invasori pakistani. Solo alcune piccole sacche di resistenza continuavano a combattere, preferendo la morte alla resa.

Quando tutti i corpi furono caricati, Monteleone salì su un blindato Lince, la cui lamiera era resa rovente dai raggi del sole. Chiuse lo sportello e ordinò all’autista di partire. Finalmente poteva tornare a casa.

EPILOGO

New Delhi (India), 20 giugno 2016

Nel mese di giugno, in India, le temperature possono arrivare anche a quarantacinque gradi centigradi. A questo bisogna aggiungere l’elevato tasso di umidità che aumenta la temperatura percepita. Reis appoggiò le labbra su un bicchiere ghiacciato e sorseggiò avidamente il suo lassi, una bevanda fresca a base di yogurt, succo di limone e semi di cumino tostati. Una minuscola goccia d’acqua colò dal bicchiere e cadde sulla sua camicia bianca di cotone, già intrisa di sudore, soprattutto nella zona sotto le ascelle. Dopo aver svuotato mezzo bicchiere, lo appoggiò sul tavolino e si ripulì la barba da alcuni residui di yogurt. Da quando era stato spiccato un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti, aveva fatto crescere la barba in modo da risultare meno riconoscibile. Si trovava in India da un paio di giorni perché doveva incontrare una sua vecchia conoscenza che l’avrebbe aiutato a sparire dalla circolazione. Ormai erano pochi al mondo i posti in cui poteva sentirsi al sicuro. Rimase a fissare per diversi minuti il panorama che lo circondava. Si trovava in una via stretta e molto trafficata da centinaia di pedoni, i quali dovevano contendersi la strada con vecchie automobili e motocarrozzette. Davanti a lui si stagliavano vecchi condomini popolati perlopiù da povera gente. Era proprio in uno di quegli edifici che doveva incontrare l’unico uomo di cui riteneva di potersi fidare, o almeno lo sperava. Guardò l’orologio da polso constatando che era arrivato il momento di andare. Diede un ultimo sguardo per identificare eventuali elementi che avrebbero potuto fargli sospettare un pericolo. Gli sembrava tutto a posto anche se con la folla che circolava non era facile cogliere

tutti i particolari. Scolò tutto il suo lassi fino all’ultima goccia e si ripulì nuovamente con il tovagliolo. Si alzò dal tavolo andosi le mani sui pantaloni di lino. La sua attenzione venne attirata da un luccichio proveniente da una finestra al quinto piano di un condominio di fronte a lui. La mente fece appena in tempo a registrare la possibile minaccia. Un attimo dopo il suo cervello registrò una dolorosa fitta al cuore. Un piccolo foro rosso comparve sulla sua camicia bianca, nella parte inferiore del taschino. Le forze gli vennero a mancare costringendolo a tornare a sedersi sulla sedia. Intorno a lui nessuno parve essersi accorto di nulla. La vita continuava a scorrere normalmente mentre la macchia rossa si allargava. Provò a chiamare aiuto ma dalla sua bocca uscì solo un flebile suono. Reis iniziò a provare terrore e allo stesso tempo rabbia perché aveva capito che era stato fregato dall’unica persona di cui si fidava. Il dolore si stava attenuando ma significava solo che la sua vita stava scivolando via. Appoggiò la testa sul tavolino e chiuse gli occhi per sempre. Cinque piani più in alto, il suo giustiziere stava già svitando il silenziatore dalla canna del suo fucile di precisione. In poche mosse anche il fucile venne smontato e sistemato in una valigetta insieme al silenziatore. Dalla finestra poteva notare che alcune persone si erano accorte della morte di Reis. Adnan Singh raccolse la valigia e raggiunse zoppicando la porta di ingresso dell’appartamento. Tirò la maniglia e uscì con un sorriso sul volto. Giustizia era stata fatta.

Note dell’Autore

Gli scenari politici e militari descritti in questo romanzo sono di mia invenzione. Nel romanzo vengono citate diverse armi e mezzi militari. Alcuni armamenti sono stati inventati da me traendo ispirazione da modelli già esistenti. Ne sono esempio i missili da crociera Amir che ho utilizzato durante l’attacco a sorpresa architettato dal generale Aslam. Gli apionati di armi si saranno sicuramente accorti di queste mie invenzioni. Riguardo agli interni dell’aereo presidenziale italiano, non sono riuscito a trovare delle immagini adeguate. Per la descrizione mi sono affidato ad alcuni articoli di giornale che risalgono al periodo di quando è stato messo in servizio e a fotografie di aerei privati dello stesso modello.

L’Autore

Alessandro Cirillo è nato nel 1983 in provincia di Torino. Nel 2003 ha conseguito il diploma di ragioneria presso ITCG Galileo Galilei di Avigliana. Subito dopo la fine della scuola ha conosciuto una splendida ragazza che nel 2012 è diventata sua moglie. Nel tempo libero nuota, gioca a calcio, pratica il Krav Maga, è apionato di modellismo militare; dal 2006 fa il Capotreno a Torino, e si reca al lavoro in treno, ovviamente, così trova anche il tempo per leggere. Dal 2013 collabora con la rivista militare Combat Arms Magazine, scrivendo articoli sulle forze armate italiane. Attacco allo Stivale è stato il suo primo romanzo: dopo aver letto tanti libri, ha deciso di mettersi alla prova e di scrivere un romanzo d’azione ambientato in Italia e con protagonisti italiani. Nessuna scelta è la nuova storia dell’agente dei servizi segreti italiani Nicholas Caruso, già protagonista in Attacco allo Stivale.

1) Questi episodi sono narrati nel volume Attacco allo Stivale, dello stesso Autore.

Index

Nessuna scelta

PROLOGO

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

CAPITOLO 8

CAPITOLO 9

CAPITOLO 10

CAPITOLO 11

CAPITOLO 12

CAPITOLO 13

CAPITOLO 14

CAPITOLO 15

CAPITOLO 16

CAPITOLO 17

CAPITOLO 18

CAPITOLO 19

CAPITOLO 20

CAPITOLO 21

EPILOGO

Note dell’Autore

L’Autore

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