La Scelta Di Lorenza 5o532t

La scelta di Lorenza

Giulia Volpi Nannipieri

Titolo originale dell’opera: Lorenza d’oltremare

Editor: Gemma Pandini Direttore editoriale: Cosimo De Leo Copertina: Michelangelo Allegri Immagine di copertina: AnneKarin Glass (www.annekaringlass.com)

©2013 SEM - Servizi Editoriali & Multimediali Redazione, Via Volta 18 - 20094 Corsico [email protected] www.servizieditorialiemultimediali.it

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e successive modificazioni.

Il libro

Una donna affamata d’amore. E uomini insinceri, soprattutto con se stessi. È il filo conduttore che lega i protagonisti di “La scelta di Lorenza” in un reticolo inestricabile. Lorenza è la donna affamata d’amore. Amore fatto di sentimenti forti, di ione, di forza, capace di coinvolgere tutti i sensi. Un amore istintivo che nasce dal cuore e non si lascia influenzare dalla ragione. Un amore che diventa sofferenza, pena, tormento. Paolo, García, Martin, Marco e Dick sono gli uomini. Per loro Lorenza è qualcosa da conquistare, qualcosa da possedere, un trofeo da esibire. In società o a bordo di una nave. La lotta per averla avviene sulla rotta Milano - Genova - Rio de Janeiro, con scaramucce a Roma, Napoli e San Paolo del Brasile. I contendenti si servono di ogni arma. Saloni delle feste di transatlantici, “restaurant” d’alta classe, alberghi affacciati sulla spiaggia di Copacabana, notti folli del carnevale di Rio, cabine di prima classe. Hanno un fascino irresistibile. Notevoli capacità di seduzione, charme, carisma. Parlano di sentimenti che non provano o che non corrispondono alle loro scelte.

A prima vista, Lorenza sembra una vittima sacrificale. Forse lo è, ma solo quando decide di accettare quel ruolo. Prima quello di sposa, poi quello di fidanzata “non ufficiale” in una realtà, quella dell’aristocrazia brasiliana, che non vede di buon occhio gli stranieri. Certo, lei ha la capacità innata di legarsi solo a uomini sbagliati, dal marito all’uomo che l’ha stregata. Però è quello il senso della sua ricerca, della sua fuga dall’Italia. Quello che la rende unica è il rifiuto di aggrapparsi a una ciambella di salvataggio, una ciambella che la protegga dal mare in tempesta a cui assomiglia la sua vita. Spesso il suo istinto gioca a suo sfavore. Lei cerca di costruire situazioni emotive che facciano palpitare il suo cuore. Non le basta la routine, la serena e tranquilla consapevolezza di un rapporto che si consolida con il tempo. Vuole che ci sia amore, che il primo tassello su cui costruire qualcosa in comune pulsi di vita propria. Vuole che l’uomo a cui decide di affidare se stessa la faccia fremere, la faccia vibrare. La turbi e la ecciti. E soprattutto che la emozioni.

Quando sembra che l’abbia trovato deve combattere contro le convenzioni di una società e di un paese che l’hanno accolta, ma che non vogliono integrarla. Allora decide di vendicarsi. Non amerà più, ma farà innamorare. Senza concedersi. Per il puro gusto della sfida. Allora la vittima sacrificale diventa carnefice. Scatta la rappresaglia. Gli uomini, nelle sue mani, diventano delle marionette. Lei muove i fili e li governa. Li provoca. Li prende e li lascia. Li avvicina e li allontana. Poi si stanca e tronca di netto. Diventa una di quelle donne che spezzano il cuore degli uomini.Quando trova qualcuno che si innamora perdutamente di lei, si lascia coinvolgere fino alla certezza di essere amata. A quel punto lo lascia all’improvviso, facendolo soffrire senza alcun rimorso e senza alcuna ragione apparente. Il gioco dura fino a quando, una notte, riceve una telefonata e una voce le ricorda una vecchia promessa.

Gemma Pandini

Indice

Cover

Colophon

Il libro

Cap I

Cap II

Cap III

Cap IV

Cap V

Cap VI

Cap VII

Cap VIII

Cap IX

Cap X

Cap XI

Cap XII

Cap XIII

Cap XIV

Cap XV

Prologo

L’autrice

Prologo

Paolo pronunciò ‘sì’ ad alta voce. In quello stesso momento gli sembrò che la chiesa si fosse svuotata di tutti i fedeli, si fosse spogliata di tutti i suoi ornamenti. Esisteva soltanto, inginocchiata alla sua destra, una figura vestita di bianco, verso la quale il sacerdote si era rivolto. Perché quella figura taceva? Pensò terrorizzato: ‘Che cosa succede? Perché non risponde?’ Ma ecco che sentì una voce lontana, esile, quasi irreale. Lorenza aveva detto ‘sì’. Il cuore gli rimbalzò, improvvisamente leggero, nel petto.

Da un quarto d’ora rispondeva alle domande che gli venivano rivolte, senza rendersi ben conto di quello che diceva e di quello che faceva. Gli pareva di vivere fuori dal mondo. Aveva infilato l’anello nuziale nell’anulare della mano di Lorenza, e lei aveva fatto altrettanto. Il sacerdote li aveva benedetti, pronunciando parole in latino che Paolo non comprendeva. Sapeva solo che per tutta la vita sarebbero stati marito e moglie.

Per tutta la vita?

‘Forse non mi ama’ pensò, facendosi il segno della croce al momento della benedizione. Poi implorò ‘Signore, fa’ che mi ami… che mi ami per sempre. Non mi basta che mi voglia bene, fa’ che mi ami.’

Si girò verso la moglie. Trattenne un gesto di tenerezza, intrecciando le dita con forza. Le mormorò semplicemente: “Ti adoro.”

Lei sorrise tra le pieghe del velo bianco che l’avvolgeva come in una nube.

‘Perché non dovrebbe amarmi?’ pensò ancora Paolo, porgendo la mano a Lorenza. ‘Perché?’

Firmò il registro dei matrimoni con bella grafia falsando completamente la sua firma abituale, quasi illeggibile. Quella di Lorenza, sottile e leggera, pareva una linea retta. Anche quella non gli piacque: ‘Troppo modesta.’ Era così inquieto che quasi si sentiva male.

“Per fortuna siamo alla fine…” disse sottovoce alla suocera che lo guardò come si guarda uno che sragiona.

“Perché?” gli chiese.

“Non lo so, mamma. Ho bisogno di star solo con Lorenza, la gente mi disturba.”

Arrossì perché temette un’errata interpretazione delle sue parole.

In carrozza, seduto accanto a Lorenza, la sua ansia si acquietò.

“Sei contenta?” le domandò, prendendole una mano. Sentì fra le dita l’anello matrimoniale, e sorrise, rassicurato.

“Certo…”

“M’è piaciuto molto il discorso di don Piero” la interruppe lui, ripensando alle esortazioni alla fedeltà e all’amore che il sacerdote aveva rivolto a entrambi.

“Anche a me” disse Lorenza. “Verso la fine avevo la gola chiusa per l’emozione.”

“Vorrei sapere se mi ami…” La sua ansia aveva avuto il sopravvento.

“Sono tua moglie e mi sono sposata… per amore” rispose lei, dopo una lievissima esitazione. Aveva avuto paura, per un momento, d’essere contagiata dalla stessa agitazione che sembrava avesse catturato il marito.

“Grazie.”

Quando arrivarono a casa, la mamma di Lorenza avvertì che s’era fatto tardi, che dovevano cambiarsi in fretta e partire subito per arrivare a Ginevra prima che fe buio.

“Ma il rinfresco, i parenti… gli invitati…” protestò Lorenza che ci teneva a fare la sposina, specialmente davanti alle cugine.

“Lascia stare invitati e parenti. Ti scanno. Preferisco sapervi arrivati che è ancora giorno, piuttosto che immaginarvi in viaggio sulle Alpi di notte. Che ne

pensi, Paolo?”

“Sarò pronto in dieci minuti” rispose lui allegramente, e abbracciò la suocera, sua complice in quella fuga.

“Lo so” ribatté la signora. Se affrettava la partenza della figlia, lo faceva unicamente per rasserenare l’umore inquieto di Paolo. Voleva che Lorenza vivesse un sereno inizio di vita matrimoniale. Mise un braccio attorno alle spalle della sposa e la sottrasse all’assalto dei parenti.

“Sorveglia Paolo che non corra troppo” raccomandò aiutandola a togliersi l’abito bianco. “Oggi per lui è una giornata eccezionale, ma è nervoso…”

Si abbracciarono senza dire più nulla. E quando scesero nel salone dov’erano radunati gli invitati, tutte e due avevano le lacrime agli occhi.

“Che cosa c’è?” chiese il papà andando incontro alla figlia “Non sono più di moda le lacrime il giorno del matrimonio.”

“Hai ragione… Ma è più forte di me.”

“Un brindisi, almeno…” pregò sua zia, che senza chiedere il permesso a nessuno aveva preparato un aperitivo.

“Grazie, no” rifiutò Paolo. “Devo guidare e voglio avere le idee chiare.”

Lorenza uscì in giardino. Indossava un abito a giacca blu che destò l’invidia delle cugine più dell’abito bianco da sposa.

Lorenza prese un fazzoletto e lo agitò nell’aria. Voleva salutare i suoi genitori sino all’ultimo momento. Uscirono dal cancello della casa dove lei abitava da nubile. Prima di arrivare all’incrocio successivo, disse al marito: “Salutali… salutali anche tu.”

Paolo si girò e sollevò la mano. Sorrideva.

L’urto fu improvviso. Lorenza credette, in un primo tempo, che qualche cosa le fosse piombato addosso dal cielo. Poi le giunse un’eco confusa di grida e di pianti. ‘È finita!’ si disse. Poi chiamò il marito, ma non sentì la propria voce. Precipitò quindi in una voragine senza fine, con l’idea che quella fosse la via scelta per lei perché salisse al cielo.

Cap I

Quando si riebbe, era nella sua camera, distesa nel suo letto, immobilizzata. Era sola. Le persiane chiuse lasciavano entrare una vaga luce crepuscolare. La madre entrò nella stanza, si avvicinò al letto e si piegò su di lei. Lorenza finse di dormire. Voleva rendersi conto di quello che era accaduto, senza pietose menzogne.

“È tutto finito” disse una voce che Lorenza riconobbe subito. Era entrato il padre. In punta di piedi si era avvicinato alla mamma. Entrambi piangevano. “Ci sono i fratelli che vorrebbero salutarti.”

‘Fratelli di chi?' pensò Lorenza, rialzando leggermente le palpebre. Il padre era vestito di scuro, e la madre indossava il vestito di maglia nera che andava bene per i funerali.

“Vengo subito…” disse la mamma asciugandosi gli occhi. E uscì col papà.

Lorenza girò il capo verso la finestra. ‘I fratelli?’ I fratelli di Paolo, certamente… ‘Ora capisco, mio Dio…’ Voleva piangere, ma non ci riuscì. ‘È colpa mia. Sono stata io a dirgli di salutare e lui s’è voltato senza più guardare la strada.’

“Come si fa a dirglielo?” sentì la voce della madre che stava rientrando seguita da qualcuno.

“Se non chiede nulla, è meglio tacere per ora.”

Lorenza si voltò verso la porta e sorrise. La madre accorse al suo capezzale.

“Come ti senti… come ti senti?”

“Non lo so… Bene… credo. Le gambe non vanno benissimo…” Guardò lo sconosciuto e chiese: “Chi è?”

“Il dottore… il dottore.”

“Che cos’è che non sapete come fare a dirmelo?” domandò.

“Nulla d’importante, lei deve pensare solo a guarire.”

La ragazza tacque per un momento, poi disse ad alta voce, lentamente, come se qualcuno parlasse al suo posto e lei ascoltasse: “Lo so che cosa volete dirmi. Si tratta di Paolo… quanto tempo è ato dall’incidente?”

“Tre giorni.”

“Paolo ha detto qualche cosa… qualche cosa per me…?”

“Non ha potuto dir nulla…” la madre cominciò a singhiozzare.

Lorenza si sentì soffocare. Era disperata. Cominciò a sudare. Svenne.

“Troppo scossa e ancora troppo debole per sopportare un dolore così grande” disse il medico. “Conviene lasciarla sola a riposare.”

Lorenza riaprì gli occhi.

“Scusatemi” disse “sono ridotta male…”

“Zitta…” ordinò il medico. “Nemmeno una parola finché non lo permetterò io. Mi ascolti solo. Deve nutrirsi, anche se non ne ha voglia, deve dormire, deve dormire per forza… magari con un sonnifero… e non deve pensare. A nulla e a nessuno. A qualunque cosa pensi, i suoi pensieri non possono rimediare nulla. Ritornerò domani… Ha capito quello che le ho detto?”

“Sì.”

“Ubbidirà?”

“Tenterò.”

“Così va bene.”

L’accarezzò sui capelli e uscì seguito dalla madre.

Lorenza tentò di muovere le gambe. L’immobilità la terrorizzava. Le gambe si rifiutarono di ubbidirle. Fu colta dalla disperazione e si morse le labbra per non gridare. ‘Non potrò più camminare…’ pensò. ‘erò tutta la vita a letto o su una poltrona. Meglio morire, mio Dio, meglio morire… voglio morire.’

Due grosse lacrime si formarono agli angoli degli occhi e ricaddero sul guanciale. Erano lacrime di pietà, per se tessa. Soffocò i singhiozzi. Ancora non si rendeva conto con precisione del suo stato. Fu assalita dal pensiero di Paolo, di Paolo che non c’era più. Allora pianse in silenzio.

Sentì dei rumori attraverso la porta rimasta aperta. Gente che mormorava, gente che salutava, gente che se ne andava.

‘I fratelli se ne vanno e non chiedono nemmeno di vedermi… Non volevano che sposassi Paolo… Se Paolo avesse sposato un’altra, forse non sarebbe accaduto quel che è accaduto.’ Scosse il capo per liberarsi del peso di quella responsabilità che a tratti la faceva impazzire e che la schiacciava.

Entrò la madre. “Va meglio…?” le domandò. “Se ne sono andati tutti, finalmente.” Distese il risvolto del lenzuolo con un gesto leggero. “Hai sonno?”

“No… Ti dispiace portar via quel mazzo di rose?”

“Credevo che le rose ti piero.”

“Non è per le rose… ne avevo un mazzo in macchina. Quando ho perduto i sensi, nel momento dell’urto, m’è rimasto in gola il sapore delle rose schiacciate.”

“Oh, scusami, non potevo immaginare…”

“Sono ati tre giorni soltanto” disse “e il mio matrimonio mi pare così lontano… l’abito bianco e Paolo… Dove l’hanno portato?”

“Il dottore ha detto che non devi pensare, che devi soltanto dormire” fu la risposta. “I suoi parenti lo hanno voluto portare al loro paese…”

“Perché non hanno chiesto il mio permesso? Non conto proprio nulla io?”

“Che cosa vuoi contare… di fronte a gente che s’è occupata subito di tutto meno che di piangere? L’importante sei tu… tu devi a poco a poco ritornare a vivere.”

“È difficile.”

“Ma è possibile.”

A un tratto Lorenza sollevò il capo e guardò per qualche momento la madre senza dir nulla.

“Che cosa c’è?” le chiese lei.

“Le mie gambe… non sento le mie gambe” sottolineò Lorenza, temendo che la madre confermasse tutte le sue sensazioni negative.

“Il dottore ha detto che per il tuo compleanno potrai alzarti.”

“Ne sei sicura?” domandò dubitando della sincerità della risposta.

“Ti reggeranno benissimo e potrai saltare e correre come prima.”

Lorenza sospirò, l’incubo forse si sarebbe dissolto.

“Ora voglio dormire, mamma…”

Ma non dormì, né durante il giorno, né durante la notte. S’addormentò dopo ventiquattro ore di vaneggiamenti. A quelle prime ore di semi incoscienza seguirono giornate di incubi, di visioni di Paolo morto, di lei bloccata su una

sedia a rotelle. Sentiva l’odore del sangue, il profumo delle rose schiacciate. Le facevano venire la nausea. Un pensiero la tormentava: ‘Paolo è morto per causa mia.’ Delirava.

Il tempo è il miglior medico, anche delle peggiori malattie. Anche dei peggiori tormenti.

Dopo due mesi di sofferenze indicibili, come promesso, il giorno del suo compleanno Lorenza si alzò dal letto. Non si reggeva bene in piedi, ma poteva muovere qualche o, appoggiandosi ai mobili. L’estate stava finendo. Un acquazzone caduto il giorno prima aveva portato via il caldo afoso di agosto. Il giardino di casa ne aveva beneficiato. Scese la scala afferrandosi alla ringhiera e s’affacciò all’aperto. C’era il sole! Barcollando, giunse fino alla poltrona di vimini che la madre le aveva preparato sotto il pergolato. Si sedette e chiuse gli occhi. Aveva portato con sé un libro, ma non aveva alcuna voglia di leggerlo. Desiderava soltanto rimanere sola. Guardò la strada oltre il pergolato verso l’incrocio maledetto e si disse: ‘Siamo partiti per un viaggio di nozze che è durato due minuti.’

Durante le ultime giornate trascorse a letto, era riuscita a soffocare dentro di sé la disperazione. S’era rassegnata al suo destino e al tormento indistruttibile d’un rimorso che era impossibile cancellare. Un rimorso cupo, segreto, sordo che la rodeva alle radici.

“Ti sei affaticata? Sei scesa da sola? Chi ti ha aiutata a venire fin qui?”

“Nessuno, mamma. Sono scesa da sola.”

“Dopo qualche settimana di sole al Lido di Venezia, sarai perfettamente guarita, ha detto il dottore. Sabbia e sole. Ti sentirai rinascere.”

“Non ho nessuna voglia di lasciare Milano per andare a Venezia, mamma. A Venezia dovevo andarci con Paolo…”

“Non importa che tu non abbia voglia di muoverti da Milano, proprio non importa. Tu e anch’io abbiamo un solo dovere, ubbidire al dottore. E ubbidiremo.”

Le sistemò i cuscini dietro le spalle.

“Hanno telefonato le tue amiche” le svelò Gianna. “Vorrebbero venire a trovarti.”

“Preferisco non vedere nessuno. Non voglio che mi guardino con finta comione. Mi faccio abbastanza comione da sola…”

“Ti vogliono bene fin da quando eri bambina” insistette la mamma. “Forse, una loro visita potrebbe distrarti un poco.”

“Non ho bisogno di distrazione, e non desidero vedere persone che mi vogliono bene. Paolo mi adorava, e Paolo non c’è più. Meglio non volermi bene…”

“Ma tu che c’entri?”

La domanda rimase senza alcuna risposta.

“Vorrei andarmene…” disse Lorenza, scrutandosi le mani con attenzione, come se non le conoscesse. “…Vorrei vivere lontano, molto lontano da tutto e da tutti… per qualche tempo. Se resterò qui non potrò mai dimenticare… mai…”

“Capisco…” mormorò la madre. Ma non capiva. E lo dimostrò. “Dopo due settimane di pace al Lido, a Venezia, lontana da tutto, ti sembrerà di rivivere.”

“No. Non si tratta di una sosta a Venezia dove tu possa o debba accompagnarmi. Voglio andare lontano…” fece un ampio gesto con il braccio “lontano… oltre il mare.”

“Che idea! E se non t’accompagno io, chi può accompagnarti?”

“Nessuno, voglio partire sola.”

‘È impazzita’ pensò Gianna già in preda all’ansia. ‘Sola, lontano, addirittura oltremare, lei che non s’è mai mossa da casa…’ ma non disse nulla per non provocare la reazione della figlia.

“Questo non lo capisco” sottolineò dopo qualche minuto di silenzio, stringendosi nelle spalle e abbracciandosi come se volesse difendersi da un pericolo.

“Eppure non è difficile.”

“Ma non lo capisco ugualmente. Adesso non dobbiamo parlare di progetti futuri. Abbiamo tanto tempo per riprendere questa conversazione…”

“D’accordo” approvò Lorenza.

Inattesa, entrò nel giardino una giovane ragazza. In mano aveva una valigia. Si fermò in mezzo del viale, senza avere il coraggio di proseguire. Lorenza non la riconobbe, poi le fece cenno di avvicinarsi. Solo quando le fu accanto, capì chi era.

“Sei Nina, vero? Ti avevo dimenticata. Di chi è quella valigia?”

“È mia, signora.”

Lorenza sentì un colpo sordo. Il cuore le prese a martellare il petto. ‘Signora!’ Per quindici giorni prima del matrimonio, la madre aveva voluto che Nina, la cameriera di Lorenza, la chiamasse ‘signora’ per evitare che, dopo sposata, la chiamasse ancora ‘signorina’.

“Cosa stai facendo?”

Nina porse a Lorenza un mazzo di chiavi.

“Sua madre mi ha licenziata… me ne torno al mio paese. Lei non ha più bisogno di me… e non ho trovato un altro lavoro, e poi… dopo quello che è accaduto, preferisco tornare a casa.”

Intervenne la mamma, rossa in volto per la confusione.

“Mi sono permessa” si difese, incerta “senza chiedere la tua autorizzazione… Mi sembrava una spesa inutile. L’appartamento è chiuso, tu abiti con noi… Allora…”

“Capisco…” Il viso di Lorenza si rabbuiò.

“Secondo le decisioni che prenderai… Nina potrebbe tornare, chiamandola… vero?” la madre cercò l’approvazione della domestica, che non arrivò.

“Non lo so” rispose brevemente la ragazza che non perdonava ancora il licenziamento ricevuto per interposta persona.

Lorenza rifletté per qualche secondo. Poi si rivolse alla madre: “Ti dispiace se Nina rimane al mio servizio ancora per un mese? Ho bisogno d’una cameriera.”

“Se acconsente a rimanere, per me… non ci sono problemi, ma non capisco che cosa intendi fare.”

“Certamente, signora, rimango” si affrettò a dire Nina. E aggiunse guardando negli occhi Lorenza: “Lo faccio solo per lei.”

“Riprendi le chiavi, allora. E prepara la mia camera. Da domani, verrò ad abitare nel mio appartamento.”

Quando madre e figlia rimasero sole, tra di loro calò il silenzio. Tutte e due sapevano che quello strappo era irrimediabile. Entrambe avevano voglia di piangere. Ma riuscirono a ricacciare indietro le lacrime.

“Vuoi andare ad abitare in quell’appartamento?”

“È la mia casa, mamma, la casa che tu e papà mi avete regalato per il mio matrimonio. Voglio provare a diventarne la padrona, voglio provare a vivere in una casa mia.”

“Sola? Non potrai resistere.”

“Chi lo sa? Può darsi che mi abitui alla solitudine.”

“Ma non rinunceremo a Venezia…” aggiunse la madre. Era convinta che quel breve soggiorno al mare fosse la sola ancora di salvezza alla quale era possibile aggrapparsi. Avrebbe portato entrambe in salvo?

Lorenza si alzò. La madre si mosse per aiutarla.

“Grazie, non occorre. Posso camminare da sola. Voglio camminare da sola.”

Arrivò fino al cancello, senza barcollare e senza appoggiarsi alle piante. Le gambe si comportavano bene, nonostante l’indolenzimento dei muscoli. Gocce di sudore le imperlavano la fronte e le inumidivano le mani. ‘Ora cado, ora cado…’ pensò, ma non cadde. Non volle cadere. Si afferrò alle sbarre del cancello con tutte e due le mani e guardò fuori.

La madre gioiva e si disperava. La figlia ricominciava a camminare, a camminare da sola, ma era pronta ad andarsene, chissà dove e chissà per quanto tempo.

“È vero che vai ad abitare nell’appartamento?” le domandò la vecchia cameriera quando Lorenza rientrò in casa.

“È vero, Lisa. Faccio male?”

Lisa guardò verso la porta per assicurarsi che nessuno la potesse sentire, poi si avvicinò a Lorenza: “Fai benissimo” le disse. “È la tua casa. Sei sposata. Prova a essere la signora Lelli per qualche tempo.”

“Grazie, Lisa.”

“Non dire alla mamma che ti approvo. Ho sentito quello che avete detto, e immagino quello che tua madre pensa. In fondo la capisco. Credi che mi faccia

piacere saperti sola in un appartamento dove dovevi essere felice con tuo marito e dove vivrai con una cameriera che ancora non ti conosce? Non mi fa piacere. Ma è bene che tu provi.”

“Qualunque sia il risultato della prova, non tornerò mai più qui.”

“Ci sei stata tanto male?”

“Sono stata felice, ma devo camminare da sola. Ho il dovere di pensare col mio cervello e di vivere secondo la mia volontà. Sarà difficile, ma proverò.”

Possedeva abbastanza denaro per vivere senza chiedere aiuto a nessuno, abbastanza per realizzare il progetto del suo viaggio. Certamente non la sgomentava l’idea di lavorare, se fosse stato necessario.

A tavola Gianna cercò di evitare l’argomento ‘voglio andar via, sola, al di là del mare’ per non turbare la quiete del marito, già scosso dagli avvenimenti. Lorenza l’assecondò. All’inizio la conversazione verté tutta sulla sua salute e sulla necessità di partire la settimana successiva verso il Lido. Ma non era possibile tacere la decisione presa da Lorenza di trasferirsi nel nuovo appartamento.

“Non pensate…” spiegò Lorenza “non pensate ch’io desideri lasciarvi per un capriccio, ma ho bisogno di provare… di misurare le mie forze e le mie capacità, di dimostrare a me stessa che cosa so e posso fare.”

“Capisco…” disse il padre.

“Ci vedremo ugualmente tutti i giorni, ci telefoneremo. Ma voglio dormire nel mio letto di sposa, mangiare alla mia tavola di sposa, svegliarmi la mattina e pensare all’impiego del mio tempo, alle mie responsabilità.”

“Sarà così triste vivere in quella casa…” mormorò la madre.

“Vado via domani.” Pronunciò quelle parole in modo così deciso che troncò ogni ulteriore tentativo di dialogo. E quando si ritirò nella sua camera cominciò a preparare le valigie.

Il giorno dopo, accompagnata dalla madre, entrò nella sua casa. Portò con sé i bagagli che aveva preparato per il viaggio di nozze e le scatole con gli indumenti da sposa. Nel varcare la soglia dell’appartamento fu colta da un capogiro.

“Vuoi che ti aiuti a disfare le valigie?” propose la madre.

“No, grazie, contavo di farlo domani.”

“Non so perché, ma sono disperata all’idea di lasciarti qui, sola. Promettimi che…”

“…se non resisto a me stessa, alla casa, alla solitudine, ti prometto che ritorno.”

Si abbracciarono. La madre scoppiò a piangere. I nervi che fino a quel momento l’avevano sostenuta cedettero di colpo.

“Scusami, ma non posso…” i singhiozzi le impedivano di parlare.

“Non piangere, soffro di più…”

“Piango per la paura di perderti… Si comincia così, ci si allontana, poi a poco a poco…”

Lorenza le asciugò le lacrime, con dolcezza. La tenerezza del suo gesto riuscì quasi a consolare la madre.

“Lorenza?” domandò più tardi il padre, entrando nella sala da pranzo.

La tavola era apparecchiata per due. Sua moglie stava scodellando la minestra. Lei gli fece un cenno di rassegnazione. Per qualche tempo tutti e due non parlarono, per non tradire le loro emozioni. Poi lui riprese l’argomento, con calma.

“Ti è parsa contenta? Serena?”

“Sì, questo sì. S’è messa subito a letto. Non credo che si sentirà troppo sola” rispose in fretta. “Si occuperà della sua casa nuova, uscirà, farà delle visite, verrà a trovarci. Nina è una brava ragazza, premurosa. Siamo rimaste d’accordo che

mi telefonerà se giudicherà necessaria la mia presenza. Lorenza è una ragazza di carattere e sono sicura che saprà vivere anche senza di noi. È il destino dei genitori quello di rimanere soli quando i figli diventano grandi. Bisogna rassegnarsi.”

“Sì” disse lui “bisogna rassegnarsi, ma mi piacerebbe sapere che cosa intende fare, quali sono i suoi progetti.”

“Se ho ben capito vorrebbe andar via lontano, oltre il mare, per mettere fra lei e il suo dolore una zona di silenzio… Così ha detto.”

“Così ha detto?” domandò lui guardando la moglie. Stentava a crederlo. “Quando l’ha detto?”

“Ieri. Non te ne ho parlato perché pensavo che si trattasse soltanto di parole. In un primo momento non credevo nemmeno alla sua decisione di andare ad abitare nell’appartamento che le abbiamo regalato. Ora mi rendo conto che realizzerà tutto quello che ha in testa di fare, metodicamente, senza riguardi per nessuno. Bisogna quindi prepararci a tutto.”

“Oltre il mare… A far che cosa?”

“Nulla. A dimenticare. Pensa di poterlo fare solo allontanandosi dalle cose e dai luoghi delle sue pene. Inutile tentare di persuaderla dell’errore.”

“Forse non ha torto” disse lui, che nutriva per la figliola un’adorazione cieca,

“povera piccola… Non ha accennato a dove vuole andare?”

“No. E non lo immagino nemmeno.”

Il padre di Lorenza era comprensivo e generoso. S’era tanto battuto, nella vita, che non gli dispiaceva vedere sua figlia prepararsi alla lotta. Lui a quattordici anni lavorava in un’officina, studiava la sera e si era fatto da sé. Si era sposato ancora povero. Poi a poco a poco, con un po’ di fortuna, aveva conquistato una posizione. Dal matrimonio gli erano nati due figli. Il primogenito si chiamava Roberto. Era morto in guerra da eroe, il suo aereo era stato colpito da cannoni antiaerei nei cieli d’Africa. In cambio di un figlio, lo stato gli aveva dato due medaglie d’argento, una di bronzo e un encomio solenne. Quando lo leggeva il cuore gli si riempiva d’orgoglio e piangeva. Lorenza era diventata, dopo la morte del fratello, la sua ragione di vita. Ora anche lei se ne andava, e non poteva far nulla per trattenerla, e non voleva far nulla per trattenerla.

“Forse è un bene che vada lontano… per qualche tempo.”

“Nostra figlia sola per il mondo…” lo guardò inorridita la moglie.

“È una ragazza intelligente, coraggiosa, riflessiva, e saprà vivere anche lontana da noi. È bene che ritrovi, da sola, l’equilibrio che ha perduto.”

“Tu l’approvi?”

“Non la disapprovo… e so io quello che mi costa. Cercheremo di aiutarla come

potremo perché non le manchi nulla.”

“Ora sono io che non ti capisco…”

Quando il marito uscì, Gianna si sentì perduta. Le sembrava che nessuno la comprendesse. Anche il padre dei suoi figli le pareva un nemico. Lei non ammetteva che una ragazza, anche nelle condizioni particolari di Lorenza, fe di testa sua, fino a quando c’erano un padre e una madre per guidarla. ‘Che cosa vuol fare, lontana da tutti? L’equilibrio lo si ritrova dove c’è qualche sostegno al quale potersi appoggiare… Che cos’hanno le ragazze d’oggi?’

Uscì nel giardino, che appariva desolato sotto il cielo coperto di nubi. L’aria era umida. Immaginò la figlia, sola, in un appartamento troppo silenzioso, con il fantasma del marito che le teneva compagnia. ‘Se si mette a piovere, Lorenza non resisterà più di un giorno.’ E decise, di colpo, di tornare da lei.

“Che cosa fa qui?” le chiese Nina, mettendosi un dito di traverso sulle labbra. “La signora sta dormendo.”

“Che cosa? Dorme di giorno? A quest’ora?” Tutto le appariva capovolto. “Ha preso un sonnifero?”

“No. Ha mangiato, poi ha detto che aveva voglia di dormire, che era stanca. Allora ho chiuso le finestre, ho abbassato le tendine e l’ho lasciata tranquilla. Sono andata da lei due volte… dorme come una bambina.”

“Voglio vederla.”

Le due donne entrarono senza far rumore nella camera. Lorenza dormiva, con le braccia abbandonate sulle coperte. Era vero. Dormiva come quando era bambina. Aveva il volto sereno. Allora la madre richiuse la porta e se ne andò trattenendo le lacrime.

Cap II

“Vengo da voi a colazione” disse Lorenza sorridendo al suo telefono. “Oggi è domenica e mi sono ripromessa di are la giornata con te e con papà, se non avete altri programmi.”

“Non dire sciocchezze. Come stai?”

“Sto bene, cammino senza sforzo, e siccome Nina mi accompagnerà faremo la strada a piedi. Da quando sono guarita, non farei che camminare…”

Mamma e figlia non si vedevano da cinque o sei giorni. Gianna s’era imposta di non prendere iniziative e di stare ivamente a vedere come la figlia avrebbe organizzato la sua vita. Evitava perfino di telefonarle. Ma non ignorava che Lorenza usciva tutti i giorni accompagnata da Nina. Non sapeva dove si recasse e per quale motivo, qualche volta, uscisse due volte in un giorno.

Lorenza non s’era vestita a lutto, provocando scandalo fra i parenti e gli amici. ‘Vestire di nero il dolore è come seppellirlo’ diceva. ‘È come sottrarsi alla sofferenza affidando il dolore alla manifestazione esteriore d’un abito nero. Mi vesto di nero e pago così il mio tributo verso chi se n’è andato. Troppo comodo. Io amo il mio dolore. Io voglio soffrirlo senza render conto a nessuno della mia pena.’ Era certa che Paolo avrebbe approvato la sua condotta. Anche lui aveva fatto la stessa cosa. Quando aveva perduto la madre non aveva portato nemmeno il nastro di lutto alla giacca.

Intanto s’era interessata alle procedure per ottenere un aporto. Aveva chiesto l’elenco dei documenti necessari per poter sbarcare in alcuni paesi del Sud America e ottenervi un permesso di soggiorno. Le pratiche da svolgere erano lunghe e noiose, ma s’era già fatta vaccinare. Non era sicura di poter realizzare il suo progetto, ma si stava preparando.

“Andiamo dai miei, Nina” disse quando fu pronta. Indossava un abito a giacca bianca, con scarpe bianche e camicetta bianca. Una gardenia di seta era appuntata nei capelli. Si guardò nello specchio, prima d’uscire, e per un momento pensò che così, tutta vestita di bianco, col fiore candido nei capelli, sarebbe piaciuta molto a Paolo.

‘Mi avrebbe tenuta sottobraccio con orgoglio’ disse a se stessa, infilandosi i guanti.

Quando era fuori di casa, da sola, immaginava sempre di avere Paolo al suo fianco, e qualche volta s’era sorpresa a parlare ad alta voce con lui, come se veramente l’ascoltasse. Quando uscì, insieme con la cameriera, e s’avviò verso la casa della madre, s’imbatté in un amico d’infanzia. Erano stati a scuola insieme. Prima che conoscesse Paolo, le aveva fatto una timida corte. Una sera, l’aveva baciata sui capelli mentre ballavano insieme. Lei s’era sentita quasi venir meno dall’emozione. Lui non aveva osato dire più nulla. Avevano finito di ballare e s’erano separati, vergognandosi uno dell’altro, come se fossero stati colpevoli. Da allora, non s’erano più rivisti. Lorenza aveva conosciuto Paolo, gli aveva voluto bene, lo aveva sposato. Aveva completamente dimenticato quel compagno di scuola.

“Non mi sbaglio? Lorenza Glori?”

“Non ti sbagli.”

Si strinsero la mano, sorridendosi, contenti di rivedersi, imbarazzati dai ricordi che di colpo erano affiorati.

“Non ho saputo più nulla di te… Che cosa hai fatto? Sei più bella di allora! Dove vai? Posso accompagnarti?”

Parlava in fretta, guardando Lorenza negli occhi, un po’ rosso in volto per l’agitazione provocata da quell’incontro improvviso, e così felice che non sapeva contenere la sua gioia.

“Sì… Vado da mia madre.”

“Vai da tua madre… Che cosa vuol dire? Che non abiti più con lei?”

“Non abito più con lei.”

S’incamminarono, ma l’altro si fermò, come inchiodato, sul marciapiedi.

“Non capisco. Hai abbandonato i tuoi genitori? Che cosa fai, allora?”

“Non sai nulla di quello che è accaduto? In che mondo vivi?”

“Non so nulla. Sono stato tre anni in Brasile. Laggiù non arrivano le notizie degli amici che si sono persi di vista.”

“Mi sono sposata, un paio di mesi fa…”

Il giovane riprese a camminare. Non disse nulla, ma piegò il capo, quasi che il matrimonio di Lorenza gli fosse caduto sul collo come una mazzata.

“…e sono rimasta vedova, un paio di mesi fa” aggiunse la ragazza piano. C’era tanto dolore nella sua voce che il giovane le prese una mano e la tenne un momento nelle sue senza dir nulla.

Lorenza spiegò: “Siamo partiti per il viaggio di nozze… un incidente automobilistico ci ha fermati per sempre all’angolo della strada… lì ho perduto mio marito.”

Camminarono per qualche minuto in silenzio. Poi l’altro prese una sigaretta.

“Che cosa posso fare per te?”

“Nulla.”

Lui si fermò e disse: “Fra quattro giorni devo ripartire. Posso telefonarti?”

“Sì… certamente.”

“Ho incontrato Marco Ansperti. Lo ricordi?” disse Lorenza al padre, abbracciandolo. “Quel ragazzo biondo col quale facevamo le corse in bicicletta, la sera, sui bastioni. Allora, stava per iscriversi all’Università, io invece ero in seconda liceo. Voleva studiare medicina.”

“Quello che chiamavate ‘Pillola’.”

“È vero, lo chiamavamo ‘Pillola’. Me n’ero dimenticata. È stato in Brasile tre anni…” S’interruppe perché un pensiero nuovo era sorto improvviso nella sua mente. Un pensiero vago che la portava lontano.

“Che cosa fa, ora?”

“Credo che abbia già la sua laurea.”

Lorenza parlava con vivacità, e sorrideva. Il padre ne era stupito e contento. Dal giorno della disgrazia non aveva più visto sua figlia sorridere. Trascorsero una buona giornata, insieme. Anche la madre ne fu contenta. Aveva idee e progetti nuovi per la loro sistemazione futura: “Inutile rimanere, noi vecchi, soli, in questa villetta alla periferia. Cercheremo un appartamento in città, non troppo distante dal tuo, così potremo vederci più spesso…”

Fecero una lunga eggiata.

“Vorrei affittare il mio appartamento” annunciò Lorenza. “È troppo grande per me. Mi bastano tre stanze e la cucina.”

Discussero a lungo su questo argomento. I genitori erano incerti se approvare o disapprovare. Ancora non sapevano che cosa la figlia avesse deciso di fare. La sera, dopo la cena, la riaccompagnarono fino alla porta di casa.

“Non entriamo, no, grazie. Torniamo subito indietro. Buona notte.”

Non volevano darle la sensazione di volerla controllare e insieme desideravano evitarsi la pena di entrare in quell’appartamento silenzioso e triste.

Il giorno seguente, verso le dieci del mattino, Marco Ansperti telefonò.

“Ti disturbo?” chiese. “Perdonami, ma avevo proprio bisogno di sentire la tua voce. Ti ho trovata così diversa da come ti ricordavo… Credi che sia possibile rivederci?”

“Perché no? È possibile. Soltanto non ne vedo la necessità.”

“Non può essere una giustificazione la nostra amicizia?”

“Forse. Ma io vivo lontana da tutti, anche dalle mie amiche, anche dai miei genitori. Ho bisogno del vuoto attorno a me.”

“Che cosa speri di ottenere dalla solitudine?”

“Non lo so, la pace forse.”

“La solitudine non vuol dire pace, vuol dire tormento. Che cosa hai fatto in queste ultime settimane per conquistare la pace?”

“Mi sono occupata d’un progetto che vorrei realizzare.”

“Posso conoscerlo?”

“Mi sto preparando per un viaggio all’estero. Voglio allontanarmi da Milano per qualche tempo. Ho bisogno di respirare atmosfere che non siano impregnate di ricordi… ho bisogno di sentir parlare una lingua che non conosco e che non ripete le parole che ho sentito finora… Ho bisogno di credere in me stessa… Non so se puoi capire questo mio stato d’animo…”

“Lo capisco, invece. E dove vorresti andare?”

“In Argentina, in Brasile. Non so. Nell’America del Sud, in ogni modo.”

“A Rio de Janeiro? Vuoi andare a San Paolo? Potresti stare da mia zia. Ha una floridissima sartoria per signora. Acquista a Parigi, rivende a San Paolo.

Potrebbe ospitarti come ha ospitato me. Così non saresti troppo sola, senza contare che io, qui, sarei più tranquillo, e i tuoi genitori anche.”

“Grazie. È un’ottima idea. Ne riparleremo” non gli rivelò che aveva pensato proprio a questo.

“Scriverò alla zia per avvertirla. Quando avremo la sua risposta deciderai.”

“Ti risponderà che non ha alcuna voglia di avere in casa una donna piagnucolosa che viaggia per dimenticare un grande dolore.”

“Tu non sei affatto una donna piagnucolosa.”

“D’accordo. Ma lei ha tutte le ragioni di questo mondo per supporlo.”

“Le scriverò descrivendoti nella maniera più lusinghiera possibile.”

“Se ti dice di no, non dirmi nulla.”

“La risposta te la invierò da lontano. Parto fra tre giorni. Non insisto a chiederti di rivederti…”

“Meglio di no, Marco. Non ho ancora ritrovato me stessa. Rivedere gli amici è

ancora una pena.”

“Scusami.”

“Grazie, Marco. Perdonami.”

Marco partì senza più telefonare. Lorenza pensò di averlo offeso e si pentì di non essere stata un po’ disponibile. ‘Tutti uguali gli uomini, suscettibili e orgogliosi’ si disse. Ma non riusciva a persuadersi che Marco fosse suscettibile e orgoglioso come gli altri. Sapeva che era generoso e comprensivo, e tale del resto si era dimostrato offrendole subito ospitalità in casa della zia. Come medico, poi, doveva comprendere anche meglio lo stato d’animo d’una donna nelle sue condizioni. ‘E poi, e poi… voglio vivere come mi piace. Non voglio obblighi con nessuno. Nemmeno con Marco Ansperti. Ci siamo conosciuti da ragazzi, mi ha baciata… e allora? Se un bacio dovesse impegnare per tutta la vita, che avverrebbe degli uomini e delle donne?’

Parlava sottovoce, ascoltandosi. Era irritata con se stessa. Se Marco era partito senza salutarla, tanto meglio. I legami che s’erano ristabiliti col loro incontro e con la telefonata erano di nuovo spezzati e ciascuno aveva ripreso la propria strada.

Qualche giorno dopo, ebbe una discussione vivace con la madre a proposito del soggiorno al Lido di Venezia. Lorenza rifiutò categoricamente di lasciare Milano. Del resto era ormai metà settembre e non era la stagione più indicata per una vacanza al mare.

Alla fine di quello stesso mese Marco Ansperti le scrisse.

‘Cara Lorenza,

non so che cosa avrai pensato di me, e ti prego di non dirmelo. Mi sono attenuto ai tuoi ordini e non ho cercato di rivederti. Ho preferito partire senza telefonarti. La zia, alla quale avevo scritto, ha risposto da San Paolo. Non ha alcuna difficoltà a ospitarti. Ti prepara la mia camera. È una stanza grande con due finestre d’angolo aperte su un giardino tropicale. Non aver soggezione della zia, che possiede il senso della doppia ospitalità, brasiliana e italiana. Non controllerà i tuoi movimenti, non leggerà la tua posta. Se mancherai a colazione o a pranzo, non ti chiederà dove sei stata. Ti trascrivo parte della lettera che ho ricevuto e alla quale ho già risposto accettando per te. Dimmi se la tua amica d’infanzia è giovane e bella. Non le avevo accennato alla tua età e non le avevo detto che sei bella. Dimmi a che famiglia appartiene. La zia, nel suo genere, è un’artista, e non vuol vedere gente brutta attorno a sé. Simpatica no? Ti unisco una lettera di presentazione. Scrivile con un certo anticipo perché venga a prenderti a Rio de Janeiro o a Santos. Ti consiglio Rio, così puoi rimanerci un paio di giorni e visitare la città, che è magnifica. Dimmi quando decidi di partire e quando sarai laggiù non lasciarmi del tutto senza notizie. Puoi rimanere dalla zia almeno sei mesi. Basteranno per farti un’anima nuova e per avere una nostalgia irresistibile e insopportabile per il tuo paese. Tornerai guarita spiritualmente e così assetata d’Italia che non potrai più allontanartene. Abbraccia la zia per me e dille che non appena sarà possibile tornerò da lei. Tu non sai ancora che mi sono laureato in medicina in Italia e che devo tornare in Brasile per laurearmi anche laggiù, dove mi sono dedicato specialmente alle malattie tropicali. Ma di questo parleremo un giorno, quando potremo incontrarci ancora e quando vorrai concedermi un po’ del tuo tempo. Se hai bisogno di altre indicazioni, scrivimi. Sono a tua disposizione per tutto quello che possa occorrerti e sarei felicissimo di fare qualcosa per te. Tuo Marco’.

‘Lo avevo giudicato male’ pensò Lorenza rimettendo la lettera nella busta.

Affrettò i preparativi della partenza, e ne parlò finalmente con la famiglia.

“Andrò in Brasile. A San Paolo. Sarò ospite della zia di Ansperti. Non avete quindi ragione di preoccuparvi.”

“Quanto durerà il viaggio?”

“La crociera dura tredici o quattordici giorni.”

Era inutile tentare di trattenerla. Era decisa e non rimaneva che rassegnarsi. Era così ansiosa di partire, che in certi momenti dimenticava perfino il proprio dolore. E mentre ripeteva a se stessa di essere morta, in realtà viveva intensamente e febbrilmente.

“Ci permetterai di accompagnarti all’imbarco?”

“No, mamma. Non avrei il coraggio di partire se vi lasciassi, soli, sulla banchina, mentre la nave si allontana. Vado da sola. Voglio essere sola fin dal principio.”

Non fu possibile insistere. Partì due giorni prima della data annunciata, senza avvertire nessuno. Mandò Nina dai genitori con una lettera nella quale chiedeva loro perdono e giustificò la sua fuga col bisogno di evitare a tutti i costi una scena di pianti e di addii. Prometteva di telefonare prima che la nave uscisse dal porto.

La madre scoppiò a piangere. Era profondamente offesa oltre che addolorata. Non riusciva ad ammettere che Lorenza, la sua Lorenza, l’aveva esclusa

definitivamente dalla propria vita.

Quattro giorni dopo arrivò la prima lettera. Non raccontava nulla del suo imbarco, del fatto che fosse sola in un ambiente sconosciuto. Si occupava piuttosto delle faccende milanesi, del suo appartamento rimasto vuoto e suggeriva ai genitori di abitarlo. ‘Mettete i mobili in un magazzino. Al ritorno deciderò quello che dovrò fare. Mi farà bene pensare che voi, le sole persone care della mia vita, abitiate nella mia casa’. Poi seguì un lungo silenzio.

Cap III

“Perché ogni sera, dopo la cena, rientra subito in cabina?” le chiese Martin Aranga, un argentino che tornava in patria dopo una lunga permanenza in Italia. Parlava l’italiano con accento romano, compiacendosene.

“Perché? …Perché preferisco la mia cabina al salone da ballo” rispose Lorenza. Non aveva voglia di giustificarsi con la prima persona conosciuta a bordo e voleva evitare con tutti i mezzi relazioni amichevoli in realtà inevitabili in crociera.

“Non è una risposta soddisfacente, ma è chiara e definitiva, non insisto.”

Lorenza e Martin Aranga erano seduti vicini, sul piccolo divano della cabinasalotto del comandante, che aveva invitato cinque eggeri a prendere il tè. Le presentazioni erano state laboriose, perché il comandante amava illustrare il profilo di chi presentava per togliere ai propri ospiti ogni motivo d’imbarazzo o di soggezione. Ora ciascuno conosceva dell’altro quanto era indispensabile per iniziare una conversazione, eliminando l’argomento del buono o del cattivo tempo, della buona o cattiva traversata.

“Posso chiederle perché ancora non la si è vista fare il bagno in piscina? Non mi dica che non sa nuotare o che non ha voglia di mettersi in costume perché non le crederei.”

“Perché fino a ieri avevo freddo. Ho dovuto chiedere un’altra coperta di lana, la

notte.”

“Adesso ci stiamo avvicinando all’Equatore e fa caldo. Domani farà anche troppo caldo. Spero di vederla… Io faccio il bagno ogni mattina dalle dieci alle dodici… Verrà?”

“Non so, forse.”

“Dopo cena scenderà nel salone? C’è il ‘Gran Ballo’, stasera.”

“No.”

“Se non le piace o se non vuole ballare nel salone potremmo eggiare sul ponte. C’è la luna.”

“Grazie.”

“Sì o no? Non mi piace rimanere nell’incertezza.”

“Non prendo impegni. Dipende dalla luna, dal mio umore, da… imponderabili motivi che non so e che non posso dirle.”

Il comandante si rivolse a Lorenza: “Signora Lelli, rimarrà per molte tempo in

Brasile? È il suo primo viaggio in America latina?”

“Il mio primo viaggio, comandante. Non so dirle quanto si prolungherà la mia permanenza in Brasile, ma credo che non ritornerò in patria prima di sei mesi.”

“Così bionda, bianca e fragile, farà perdere la testa a tutti i brasiliani” disse il signor Fernandez, un industriale uruguaiano, che viaggiava con la moglie e con quattro figli così vivaci e irrequieti che erano il terrore dei eggeri.

“I brasiliani avranno altro da fare che occuparsi di me” rispose Lorenza sorridendo al signor Fernandez e a sua moglie che si erano accaparrati la simpatia di tutti.

“Se ne accorgerà. I brasiliani prima si occupano d’una bella donna, poi di tutto il resto. Comunque, le auguro buona fortuna.”

“La ringrazio” ribatté gentilmente Lorenza. “Ma non cerco fortuna. Non chiedo nulla al Brasile e nulla ai brasiliani. Viaggio per piacere, e a Rio mi aspetta…” mentì di proposito “una parente… una zia.”

La moglie del signor Fernandez si alzò e si scusò: “Devo andare, i miei bambini devono cenare e io assisto sempre alla loro cena perché la governante, da sola, non riesce a tenerli tutti a freno… Perdonatemi se sono costretta a lasciarvi…”

Anche gli altri si alzarono. Inutile rimanere. Il comandante salutò Lorenza per ultima e la trattenne un momento sulla soglia.

“Se qualcuno diventasse troppo audace o troppo petulante, mi avverta. E non rimanga troppo chiusa nella sua cabina, troppo sola. È giovane e deve trovare il coraggio di riamare la vita. Aggiungo che vivendo così assolutamente separata dagli altri eggeri attira maggiormente l’attenzione e le sarà quindi meno facile sottrarsi alla curiosità altrui.”

“Grazie, comandante” disse Lorenza, allontanandosi “ha certamente ragione. Cercherò di cambiare sistema.”

Sul ponte, Martin Aranga l’aspettava. Le andò incontro.

“eggia un poco con me? Il tramonto è magnifico. Poi, andremo a prendere un aperitivo e la lascerò libera perché si possa cambiare d’abito per la cena.”

Lorenza non ebbe il coraggio di rifiutare per la secondo volta.

Il mare, gradatamente, cominciava ad agitarsi. Creste bianche si alzavano lontane correndo incontro alla nave.

“Le fa la corte, il comandante?” domandò Martin, improvvisamente.

“Perché?” la domanda era stata così inattesa che Lorenza non ebbe la possibilità di offendersene.

“Per nulla.” Lui comprese di aver commesso un errore. Non sapeva come rimediare. Abbozzò: “Un’impressione mia. Mi scusi.”

“Un’impressione sbagliata.”

Camminarono ancora, in silenzio. Aranga fumava nervosamente.

“Vorrei rivolgerle un’altra domanda indiscreta.”

“Chieda pure” disse.

“È vero che è vedova e che viaggia per rifarsi una nuova vita?”

“Le domande sono due, non una” ribatté Lorenza con una voce fredda e senza espressione. “Rispondo di sì alla prima, no alla seconda.”

“Senza altre spiegazioni?”

“Non credo di dovergliene.”

“Mi scusi.”

“Si è già scusato due volte in pochi minuti. Cattiva serata. Ritorno nella mia cabina per vestirmi. Non sono abituata agli aperitivi, la ringrazio.”

Lui non la trattenne, ma rimase sul ponte a guardarla finché non scomparve inghiottita dalla porta aperta che conduceva ai ponti superiori. Allora gettò la sigaretta al di sopra della murata e rimase a fissare il mare sempre più agitato. Doveva inventarsi qualcosa che gli consentisse di conquistare Lorenza in dieci giorni. Non gli interessava l’amore. Soltanto la conquista.

“C’è Marco che sta male” disse il signor Fernandez, l’uruguaiano che viaggiava con tutta la famiglia. “Si è seduto a tavola e al primo cucchiaio di minestra s’è ripiegato su se stesso, gridando. Dolori viscerali. Figuratevi sua madre… Marco è il suo preferito. Non sapevamo come calmarlo. Il dottore lo ha esaminato. La sua diagnosi è appendicite. Ap-pen-di-ci-te. Non capisco. Ci si ammala di appendicite così improvvisamente?”

“Non saprei” gli rispose Martin Aranga “non saprei dirvi nulla di sicuro. Ma credo che il piccolo fosse già ammalato di appendicite senza che nessuno lo sapesse, e che si tratti ora d’una semplice crisi. Un po’ di digiuno, una borsa di ghiaccio e tutto erà.”

“Crede?” chiese l’altro con un sospiro pieno di speranza. “Lo hanno portato in infermeria. Hanno accennato alla necessità d’un intervento chirurgico. Ha la febbre. Quasi quaranta. Troppo alta per un’operazione. Lei che ne dice? Io non so più che cosa pensare. Ero assolutamente impreparato. Mi hanno mandato via dall’infermeria perché piangevo. Non mi vergogno di dirlo, piangevo, perché non potevo far nulla. Marco è forte, è sano, non è mai stato ammalato. Crede che corra pericolo di vita?”

“No…” disse Martin Aranga accendendo un’altra sigaretta. “…credo di no.” Poi

accennò al mare e aggiunse: “eremo una brutta notte, peggiora di momento in momento.”

Allora l’uruguaiano divenne pallido, si portò una mano alla fronte, poi allo stomaco e se ne andò correndo. “Mi scusi, ma non sopporto il mare agitato.”

‘Se non gli avessi fatto notare le onde che quasi arrivano sul ponte, non si sarebbe accorto di nulla, preoccupato com’era del suo bambino. E io che avevo pensato di distrarlo… Mi convinco che, in molti casi, il mal di mare è una suggestione’ rifletté Martin, e per la seconda volta gettò la sigaretta nelle onde. Non aveva più voglia di fumare.

Scese in cabina a cambiarsi, pensando a Lorenza. ‘Le dirò che il piccolo Fernandez è ammalato. È il solo personaggio del quale si è interessata in questi primi giorni di navigazione. Ecco un ottimo argomento di conversazione perché non mi eviti ancora.’

A tavola, le sorrise due volte. Lorenza gli rispose. Tutti ormai erano informati dell’attacco di appendicite del piccolo Marco Fernandez. Il padre del ragazzino, seduto da solo (la moglie era rimasta in infermeria), ricevette numerose visite di incoraggiamento.

Quando Martin cercò Lorenza nel salone per prendere il caffè insieme a lei, non la trovò. “Desidera sapere dov’è la signora Lelli?” gli chiese Dick Fryer, un americano che aveva bevuto il tè con lui dal comandante e che somigliava a Paolo. Lo prese sottobraccio e lo trascinò verso il bar: “Prendiamo il caffè, noi due, insieme.”

“Come ha capito che cercavo la signora Lelli? Che notizie ha di lei?”

“Nessuna notizia particolare. Non era difficile indovinare. È la più giovane, la più bella, la più solitaria e inesplicabile delle eggere. Non è il solo a cercarla. Tutti desideriamo frequentarla. Ma in questo momento la signora Lelli è tabù. È scesa in infermeria per fare una visita al piccolo Marco.”

“Vado giù anch’io.”

“Non la lasceranno are. La signora Lelli è stata la sola ammessa, perché anche lei ha sofferto di appendicite ed è stata operata. Appartiene quindi al clan di quelli che hanno sofferto, soffrono e soffriranno di appendicite. Ha ottenuto un permesso speciale dal comandante. Se vuole entrare nell’infermeria deve farsi visitare. Se accusa dolore o soltanto una certa sensibilità all’addome, a destra, precisamente a metà del raggio tracciato dall’ombelico al…”

“Non dica sciocchezze, e non faccia insinuazioni. Che cos’ha voluto dire con ‘permesso speciale dal comandante?’”

“Nulla che offendesse qualcuno. E non sia suscettibile. I miei pensieri sono puri e innocenti come quelli d’un bambino. Venga a prendere il caffè.”

“Non prendo caffè.” Si avviò verso l’infermeria, Dick Fryer verso il bar.

Martin incontrò Lorenza sulla soglia dell’infermeria. Indossava un abito nero, chiuso fino al collo, con le maniche lunghe. Una spilla di strass appuntata sotto il

mento le illuminava il volto. I capelli biondi pettinati alti le davano un aspetto da quadro antico.

“La cercavo…” mormorò lui.

Lorenza gli porse una mano. Tremava.

“È grave” disse. “Il medico assicura che tentare un’operazione è lo stesso che affidarsi alla misericordia di Dio, e che rinunciare all’operazione è lo stesso che tentare la morte. Intanto il ragazzo soffre.”

“Non deve agitarsi così” le disse Martin con dolcezza. “Noi non possiamo far nulla, non siamo né Dio né la Morte, e non siamo nemmeno medici. Guarirà, tutti i bambini guariscono.”

“Vado in cappella un momento. Voglio pregare.”

“Mi scusi se non l’accompagno, da anni non so più pregare.”

S’inginocchiò accanto a una vecchia donna. In quel momento riaffiorò dalla memoria il ricordo di Paolo. Il dolore le gonfiò il petto. La gola scoppiò in singhiozzi che non riuscì a trattenere.

Non tornò nel salone. Salì su un ponte a respirare il vento della sera.

“È qui? Che cosa fa? Perché si nasconde?”

Lorenza sollevò il viso. Non conosceva quella voce. Era dell’americano col quale non aveva ancora scambiato nemmeno una parola. Era dritto in piedi, con le mani nelle tasche della giacca, le gambe divaricate per meglio tener l’equilibrio e il volto beato di chi dimentica le noie della vita seduto su uno sgabello in un bar. Aveva una faccia da schiaffi e lo spirito di un avventuriero. La incuriosiva, non sapeva perché, ma la incuriosiva.

“Non mi nascondo, respiro.”

“Non è precisamente l’ora per fare esercizi di respirazione, questa.”

“Che gliene importa?”

“Personalmente, nulla. Ma c’è Martin Aranga che la cerca come un pazzo da mezz’ora. Le pare onesto e umano fare impazzire Martin Aranga e tutti gli altri uomini che viaggiano su questa nave, compreso me?”

Lei lo guardò senza dir nulla.

“Non le importa di nemmeno del povero Martin Aranga?” chiese Dick con accento supplichevole, canzonandola.

“No.”

“E di me che viaggio ‘tutto solo’ verso un paese che non conosco, non gliene importa?”

Sembrava così mite, con il ciuffo di capelli biondi scomposti, che Lorenza non poté fare a meno di sorridere.

“Sinceramente, no” gli disse.

“Ha torto. Mi chiamo Dick Fryer, lo sa, ma lo ripeto per via della pronuncia. Mi secca quando mi sento chiamare ‘Frier’, invece di ‘Fryer’.”

“Inutile che si presenti, conosco il suo nome e lo ricordo.”

Lui si inchinò con esagerazione: “Posso avere l’onore di questo valzer, come dicevano i damerini d’altri tempi?”

“Oh, no, mi dispiace” rispose Lorenza che lo avrebbe preso volentieri a schiaffi. “Non voglio ballare.”

“Ha torto. Perché, no? Perché è addolorata e perché c’è un bambino ammalato? La vita non deve arrestarsi né di fronte al suo dolore, né di fronte alla malattia del bambino. Lei dimenticherà le sue pene e il bambino guarirà…”

“Dio l’ascolti!”

“Mi ascolterà, ne sono sicuro, perché io lo prego sorridendo, mentre lei lo prega con le lacrime. Offra a Dio il suo dolore e le sofferenze del bambino insieme. Dio la libererà di ogni pena, e guarirà lui dal suo male. Poi, venga a ballare con me.”

“Lei è cattolico?” domandò Lorenza.

“No. Non sono cattolico. Protestante, credo. Ma non ne sono sicuro. Non rammento più con precisione che cosa io sia. Amo un Dio al quale mi rivolgo quando sono triste per offrirgli la mia tristezza e così sbarazzarmene, e amo tutte le chiese. Mi piacciono i bei quadri mistici e mi piace l’odore dell’incenso. E con questo può vantarsi di conoscermi più di quanto io stesso mi conosca. Ora andiamo a ballare…”

Lei non osò rifiutare.

“Ballano tutte come lei in Italia? In che città abita?”

‘Hanno tutti la mania di rivolgere due o tre domande per volta’ osservò Lorenza fra sé e sé ‘come se avessero fretta.’

“Ballano anche meglio di me” rispose. “Abito a Milano.”

“Chiederò al mio governo di trasferirmi in Italia e a Milano” annunciò Dick Fryer, seriamente.

“Che lavoro fa?”

“Affari… affari di stato.”

Seguì un attimo di silenzio. Lei non capiva che professione fosse.

“Nello specifico?” domandò Lorenza.

“Nello specifico la mia è un’attività riservata, che non posso rivelare a una signora che ho appena conosciuto, ma se insiste potrei rivelarle qualche particolare…” rispose lui sorridendo.

‘Mi sta prendendo in giro’ pensò Lorenza ‘come si permette? È… è solo un presuntuoso antipatico.’

Dick Fryer la strinse un po’ di più a sé. Lorenza tentò di ribellarsi a quell’abbraccio, mentre una parte di lei, le suggeriva di abbandonarsi. Quell’uomo aveva molte caratteristiche fisiche di Paolo, senza averne la timidezza. Anzi, aveva una sfrontatezza che l’altro non avrebbe mai posseduto. Dick Fryer la strinse ancora di più. La stava mettendo in imbarazzo.

La musica tacque. E si trovarono tutti e due di fronte a Martin che chiese all’americano di cedergli la sua dama.

“Le raccomando la signora, mister Aranga” disse Dick, facendo schioccare il pollice e l’indice. In cuor suo avrebbe voluto mandare al diavolo quell’argentino importuno, ma resistette alla tentazione. “Una piuma. E non abbiamo sbagliato un o.”

“Grazie” fece Martin seccamente.

“Se è in collera con me perché ho ballato con la signora, ha torto” osservò Dick asciugandosi la fronte sudata. “Se è in collera con la signora perché ha ballato con me, è un… non glielo posso dire perché sarebbe capace di offendersi invece di ridere e io sarei costretto ad ucciderla. Non mi pare il caso. Venga a bere un liquore italiano che ho scoperto ieri. Sta fra il gin e il whisky. Magnifico e forte. Si chiama ‘grappa’. Lo conosce? È il liquore dell’amicizia e dell’oblio.”

Martin fu costretto a sorridere. Impossibile portare rancore ed era inutile adombrarsi per le attenzioni che Dick aveva per Lorenza. ‘È affascinante,’ pensò ‘ma ha dei limiti. Probabilmente non s’è nemmeno accorto di avere una donna fra le braccia. Ha già bevuto la terza o la quarta razione di grappa.’

Quello, probabilmente fu il suo più grosso errore di valutazione.

“Balla ancora?” chiese Martin a Lorenza.

“Grazie, no. Vorrei tornare in infermeria.”

“Gli hanno dato un calmante e i dolori sono quasi ati. Non si lamenta più. Ho avuto questa notizia dall’infermiera cinque minuti fa, quando sono andato a cercarla. Se non si fida, la lascio andare, ma si ricordi che è impegnata… Ho diritto anch’io a un ballo.”

“Promesso.”

Lorenza uscì sul ponte, ma non andò in infermeria. Rimase lì a riflettere. ‘Di tutti i viaggiatori e di tutte le viaggiatrici, soltanto Martin Aranga e Dick Fryer mi hanno avvicinata. Qualche altro mi saluta. C’è il comandante e ci sono gli ufficiali che sono molto gentili con me, ma come altrettanti padroni di casa con le loro ospiti. Le donne non mi accettano e non mi accolgono. Fra loro, invece, si conoscono già quasi tutte, si capiscono, si fanno compagnia e hanno sempre tante cose da dirsi. Io sono esclusa dal loro clan. Perché?’

“È il nostro ballo” annunciò Martin, dopo qualche minuto, sbucando alle sue spalle.

Era un tango. Lo ballarono in silenzio, come soltanto gli argentini sanno fare.

“Grazie” disse Martin alla fine, baciandole la mano.

“Sa dirmi perché le donne mi evitano o per lo meno non sono molto cortesi con me? È un miracolo se qualcuna mi saluta.”

“Perché è bella, perché è giovane, perché è sola.”

“Non tutte le donne hanno la fortuna di viaggiare accompagnate. Non è colpa mia se sono sola.”

“Ma quelle accompagnate temono quelle sole. E la tengono lontana più per paura che per antipatia, più per senso di difesa che per diffidenza.”

“Non capisco. Sono innocua…”

“Che cosa ne sa lei!”

Più tardi Lorenza scese ancora all’infermeria. Rimase seduta fino all’alba vicino al letto del piccolo. Ogni tanto gli bagnava le labbra. Per l’intera notte le sembrò di essere una mamma. Quando arrivò la vera madre, uscì sul ponte. Non aveva alcuna voglia di andare a dormire.

Camminò su e giù lentamente poi si fermò alla murata di prua. Faceva fresco e il clima era umido. Aspettò il sorgere del sole. I eggeri dormivano ancora. I marinai lavavano il ponte a poppa. Su, sulla terrazza di comando, l’ufficiale di turno sorvegliava la rotta. Di tanto in tanto s’affacciava per guardarla.

Quando i primi raggi comparvero tra il cielo e il mare, disegnarono sull’orizzonte una tavolozza di colori caldi, equatoriali. Fu allora che sentì, violento e disperato, il senso della sua solitudine. Ne ebbe paura. Urlò, nel vento,

come urla qualcuno quando precipita e muore. Era lo stesso urlo che aveva sentito levarsi dalla bocca di Paolo, nel momento dell’incidente.

Fuggì di corsa, incespicando. Le lacrime le velavano gli occhi e le impedivano di vedere.

Si scontrò quasi con Dick Fryer. L’americano la sostenne e le impedì di cadere.

“Che cosa ha?” le chiese preoccupato.

“Non è nulla… non è nulla.”

“Se non fosse nulla, non piangerebbe…”

“Non sto piangendo…”

“Lei ha bisogno di avere qualcuno, vicino.”

“Non ho bisogno di niente…”

“Lo sa che ho ragione, e non le serve raccontarsi delle bugie…”

“Io non racconto bugie…”

“A me sembra invece una gran bugiarda… nasconde dietro il suo faccino addolorato il bisogno di amore, il bisogno di non affrontare la vita da sola. Combatte una battaglia persa in partenza. I propri sentimenti vanno vissuti… se continua a reprimerli prima o poi esploderanno e la lasceranno priva di qualsiasi difesa…”

“Come si permette, lei non sa niente di me, di chi sono, di che cosa sono, di cosa voglio fare e dove voglio andare…” l’interruppe lei irritata.

“Io la conosco benissimo, lei è una donna che sta scappando da se stessa…”

“Io non scappo…”

“Certo che sta scappando, e gliene do la dimostrazione.”

Dick Fryer le prese il volto tra le mani e la baciò sulla bocca. Lorenza ebbe un attimo di smarrimento. Quelle labbra sulle sue le stavano regalando un po’ di calore. Reagì spingendo Fryer con entrambe le mani.

“Cosa fa… è impazzito?” gridò, guardandosi intorno, nel timore che qualcuno l’avesse vista.

“Vede che scappa? L’ho sentita fremere mentre la baciavo… perché non si

abbandona e non dimentica?”

Quell’atteggiamento prepotente la faceva imbestialire. Non poteva sopportarlo. Eppure non si decideva a troncare quell’incontro-scontro. Avrebbe potuto benissimo lasciare Freyer lì sul ponte a fantasticare sulle sue conquiste. Invece continuò a balbettare giustificazioni sul suo modo di essere. Almeno aveva qualcuno con cui sfogarsi.

Dick Fryer la guardava sorridendo. Aveva il classico atteggiamento dell’uomo di mondo che conosce le debolezze del genere femminile e le prende per quel che sono: debolezze, appunto. Lorenza gli faceva tenerezza. Anzi gli piaceva, e molto. Se avesse potuto avrebbe dedicato alla sua conquista tutto il tempo necessario. Ma era in missione per il suo governo e non poteva avere distrazioni. Gli scocciava lasciare campo libero a Martin o a chiunque altro avesse tentato la sortita. Poteva però vigilare e fare in modo che non cadesse nelle sue grinfie.

“Vuole che l’accompagni… ovunque voglia andare?” le domandò, protettivo.

“Non ho bisogno di lei, so camminare da sola…”

“Io ho qualche dubbio, però se lo dice lei… arrivederci.”

“Il piccolo Fernandez sta meglio” disse la cameriera. “La febbre è diminuita e il medico spera di poter evitare un’operazione, almeno fino all’arrivo della nave in Argentina. Operare col mare così agitato non è né semplice né prudente. Oggi, quasi la metà dei eggeri è rimasta in cabina.”

“Che ore sono?” le domandò Lorenza.

“Mezzogiorno, signora.”

Rimase a letto fino a tardi nel pomeriggio. Non aveva alcuna voglia di incontrarsi con gli altri eggeri, di prender parte alla vita di bordo. Desiderava soltanto rimanere sola, tranquilla, con i suoi pensieri e la sua malinconia. Dormì alcune ore, finalmente un po’ più quieta.

Si svegliò. Il mare era ancora agitato, ma la violenza delle onde era diminuita. Si vesti e uscì dalla sua cabina. Nell’atrio in cui scendevano le due scale che conducevano alle cabine superiori, incontrò Martin Aranga.

“Non era ammalata?” le chiese “Sono stato preoccupato per lei tutto il giorno.”

“La ringrazio per la sua premura, ma non ero ammalata.” L’irritazione provocata da Dick Fryer non le era ancora ata. Aveva rimuginato a lungo su quell’americano prepotente, senza però riuscire a cancellarlo dalla sua mente.

“Sta andando al cinema?” la domanda di Martin interruppe il girovagare dei suoi pensieri.

“Sì.”

Camminarono tutti e due su e giù lungo il ponte della eggiata in mezzo al

vento.

“Domani c’è il battesimo dei eggeri che attraversano per la prima volta l’Equatore.”

“Non voglio essere battezzata.”

“La troveranno anche se si nasconderà e la battezzeranno con acqua e sale. È meglio che sia preparata, in costume da bagno, così non correrà il rischio di sciupare un vestito.”

Il ragazzo di bordo ò suonando il gong. Era il segnale che la proiezione del film stava per incominciare. Lorenza e Dick si sedettero uno vicino all’altra nella sala da pranzo trasformata in cinematografo. La pellicola, recitata in italiano, era interessante. Era una storia d’amore. Di tanto in tanto, nel buio, Dick si girava verso Lorenza per studiare sul suo volto le sue reazioni alla vicenda narrata sullo schermo. Per due volte la scoprì commossa. Avrebbe voluto prenderle una mano, ma si trattenne.

“Le è piaciuto?” le chiese a spettacolo finito mentre uscivano con gli altri eggeri. Fuori era già buio.

“Molto. Soprattutto m’è piaciuto il carattere della protagonista.”

“Mi pare che assomigli un poco al suo.”

“Vagamente. Un tempo ero anch’io, come la protagonista, coraggiosa, audace e apionata. Ora non lo sono più.”

“Si sbaglia…”

“Sono come sono, e peggio per me… Ora vado a vestirmi per la cena…” troncò lei la discussione.

“Ci rivedremo dopo?”

“Anche se volessi, mi sarà difficile sfuggirvi… a lei e al suo amico Dick.”

Dopo la cena, prima che Martin e il signor Fernandez la invitassero per una partita a carte, scese in infermeria per visitare il piccolo Marco che l’accolse con un sorriso.

“Sono contento che sei venuta” le disse, agitando una manina pallida. “Stai qui con me?”

“Ritornerò più tardi. Quando mi sarò tolta il vestito da sera. Ti fa piacere che rimanga a farti compagnia?”

“Sì…” e aggiunse dopo un momento di riflessione “Anche se dormo.”

“Allora ritornerò, e rimarrò anche se dormirai.”

“Io ti sento, se vieni…”

La signora Fernandez le strinse le mani.

“È la sola che si occupi di me e del bimbo… Tutti chiedono, ma nessuno si offre di sostituirmi… Pensano che l’infermiera basti, ma non immaginano che anche lei ha diritto di riposare. Le sono molto grata di tutto… grazie… grazie.”

Il dottore visitò il piccolo. Nessuna complicazione s’era più manifestata. La febbre era quasi scomparsa.

“Credo” disse “che questa notte si possa dormire tutti senza preoccupazioni. Il bambino non ha bisogno di nulla e basta quindi l’infermiera per sorvegliarlo. Il pericolo è completamente scomparso. Più rimane tranquillo, più la sua guarigione sarà rapida. Così la signora Fernandez può trascorrere la notte nella sua cabina.”

Mentre tutti stavano uscendo dall’infermeria, Lorenza si piegò a baciare il piccolo sui capelli. Gli disse sottovoce: “Quando tutti saranno a letto, verrò a farti una visita. Ora dormi.”

Lorenza e il medico si fermarono sul balcone dell’atrio. Il mare, placato, accompagnava il beccheggio della nave.

“Posso farle una domanda indiscreta?” domandò lui.

“Sì.”

“Mi vuole dire perché ha intrapreso questo viaggio?”

“Non lo so. Vado in Brasile come sarei andata a Capri. Ma ho preferito la strada più lunga per essere certa di rimanere per molto tempo lontana da casa.”

“È troppo giovane per viaggiare su una nave da sola.”

“Sono sposata…”

“È ancora una bambina…”

I loro occhi s’incontrarono. Si fissarono per un momento, poi Lorenza abbassò i suoi.

“Forse. Ma avevo bisogno di conoscere il mondo…”

Il giovane medico l’ascoltò senza dir nulla. Le spiegazioni di Lorenza si rivelarono infantili e inconsistenti. Del resto, come poteva giustificarsi diversamente? Non aveva altri argomenti all’infuori della sua voglia di evasione.

Lorenza gli aveva ispirato una simpatia fraterna, e gli dispiaceva che si lasciasse sedurre dalle attenzioni di gente che non avrebbe rispettato né la sua giovinezza, né il suo dolore.

“Crede che ci sia veramente molto da vedere, nel mondo?” le chiese lui, che qualche ora prima aveva fatto una lunga chiacchierata con Dick Fryer.

“Purché si sappia guardare, sì.”

Ci fu un momento di silenzio. La notte adesso s’era fatta limpida. Sembrava che le stelle cadessero a grappoli dal cielo, tanto erano fitte e lucenti.

“Forse…” riprese il medico “ma non ha ancora gli occhi abbastanza addestrati per poter guardare. Impari a difendersi, signora Lelli. Dovunque gli uomini hanno un solo scopo quando avvicinano una donna, conquistarla… E uso una parola galante.”

“Non avrò bisogno di difendermi. A Rio de Janeiro c’è una zia che si occuperà di me.”

“Prima di arrivare a Rio devono are ancora sei giorni. Un’eternità sul mare.”

“Non temo nulla e nessuno. Non ho curiosità da soddisfare e nessuno m’interessa particolarmente. Non chiedo nulla alla vita, non chiedo nulla alle persone.”

“Non c’è bisogno di chiedere, la vita offre.”

Rimasero appoggiati alla ringhiera del balcone in silenzio. Lei gli era grata perché la sua vicinanza la difendeva da Martin e anche, così pensava, da Fryer.

“Si fermerà a Rio de Janeiro? Potrò salutarla ritornando dall’Argentina?”

“Credo di no. Quando la nave farà di nuovo scalo a Rio, io sarò già a San Paolo.”

“Mi dispiace.”

Il tono della voce del medico era talmente dolce che a Lorenza sembrò di essere avvolta in un’atmosfera improvvisamente tenera, quasi sentimentale. Ebbe la sensazione, intensa, che trovarsi sola in un punto isolato del mondo fosse pericoloso come trovarsi sull’orlo d’un baratro nel quale si sta per cadere. Aveva bisogno di aiuto per non cedere. Allora evocò la figura di Paolo perché la salvasse da quel precipizio.

“Vado nel salone” disse a un tratto per sfuggire a quella malia.

L’altro non la trattenne. Ma la guardò a lungo mentre si allontanava.

“Dov’è stata finora?” le domandò Martin andandole incontro per impedirle di fermarsi a qualche altro tavolo. “L’aspettavamo. Abbiamo deciso di ballare, non

può dirci di no.”

Era circondata. Martin, Dick e Fernandez la stringevano d’assedio.

“Ballerò anch’io” annunciò Fernandez. “Voglio festeggiare il ato pericolo del bimbo. Faremo portare una bottiglia di spumante.”

“Vogliamo accertarci se è capace di ridere” disse Dick. “Non si può avere sempre, in tutte le circostanze, un volto di bambina e uno sguardo di donna.”

Sedette alla loro tavola, bevve lo spumante, ballò con tutti e tre i suoi cavalieri. Era allegra e spontanea, contenta e gentile. Tutto il dolore della sua vita pareva annullato. L’ufficiale medico che la sorvegliava di lontano si avvicinò a un tratto alla tavola e la invitò a ballare.

“Perché non va a letto?” le chiese mentre ballavano. “È tardi.”

“Perché non ho sonno.”

“È troppo allegra.”

“Non mi annoio… il primo miracolo del viaggio è questo. Ho dimenticato la noia e mi piace ballare.”

“È abituata a bere?”

“Sono astemia. Ma trovo che lo spumante sia ottimo. Fa dimenticare…”

“Vuole darmi retta? Vada a dormire…”

Lei non rispose. Era risoluta a non ubbidire. Non era ubriaca. Aveva solo bisogno di sentirsi circondata da persone che l’ammiravano e che glielo dicevano. Aveva bisogno di sentirsi dire che era bella, bisogno di sentirsi amata. D’un tratto s’era accorta che la sua solitudine aveva bisogno d’un punto d’appoggio. Non c’era nulla di male. Se non fosse andata oltre.

“Sono stanca e ho le vertigini” disse lei per liberarsi di quell’incomodo.

L’ufficiale la ricondusse al suo posto, rifiutò la coppa di spumante che Martin gli offrì, salutò militarmente e si allontanò. Ma rimase nel salone, nell’ombra, così da poter sorvegliare i tre uomini e Lorenza.

“Lo ha offeso?” le domandò Martin. “Perché non ha accettato di bere con noi?”

“Perché non ne aveva voglia” rispose lei con tono acido. Ora era irritata contro se stessa, contro il medico, contro tutti. “Si può non aver voglia di bere come si può non aver voglia di ballare. Io non ballo più, stasera.”

“Vuole andare a letto così presto?”

“Non ho sonno.”

“Vuole giocare a dadi?” le chiese Martin Aranga.

Lorenza guardò l’ufficiale medico. I suoi occhi s’incrociarono con quelli di lui che disapprovavano la sua maniera di comportarsi. Per reazione disse di sì. Anzi fu la prima ad alzarsi e a incamminarsi verso il bar. Gli ò davanti fingendo di non vederlo.

Fernandez fu trattenuto da un’amica della moglie. Dick Fryer detestava i dadi e, nonostante temesse di lasciar via libera ad Aranga, continuò a ballare. Anche per lui conquistare Lorenza non era una questione d’amore, ma solo d’orgoglio maschile, di competizione con gli altri maschi del branco. L’unico pericoloso era Martin, ma lui contava sul suo fascino nordamericano. E sul mistero con cui amava circondare la sua professione. Era quasi tranquillo. Aveva incaricato una sentinella di fare buona guardia. A meno che non fosse quest’ultima ad approfittarne. Soltanto la ragazza e Aranga entrarono nel bar che, a quell’ora, era quasi deserto. Si sedettero a uno dei tavoli centrali, e si fecero portare i dadi. Giocarono per qualche tempo senza mettere nulla in palio, finché lei non ebbe imparato le combinazioni del poker.

“Ora che conosco il gioco, che cosa ci giochiamo? Una bibita? Un libro?” domandò Lorenza che provava la sensazione di vivere fuori del mondo.

“La bibita gliela offro io” disse Martin. “E non ho voglia di giocare un libro…”

“Che cosa, allora?”

Lui finse di riflettere. Era diventato pallido e le labbra gli tremavano. Lorenza lo guardava senza capire.

“Ecco” propose “se vinco mi darà una delle tre rose che adornano il suo vestito. Se perdo le darò un bacio.”

Lorenza non rispose subito. Dovette compiere uno sforzo per non arrossire e per non lasciar trasparire il suo imbarazzo. ‘Se perde mi darà un bacio’ pensò ‘come se fosse un sacrificio, per lui… Non è possibile che perda… Non rischio nulla. Rischio soltanto le mie rose.’ “Giochiamo” disse.

“Come vede, pago immediatamente” disse quasi compiaciuta.

“Farò altrettanto anch’io” promise lui, chiedendo la rivincita.

“Mi restituisca la rosa, ora” chiese Lorenza che, finché c’era una rosa come rivincita, credeva di sottrarsi all’altra posta.

“Mi dispiace” ribatté Martin “ma la rosa è mia e me la tengo. Mi ricorderà questa serata. Ora sono io che devo pagare. Il patto era chiaro e preciso. Lei ha giocato una rosa, io un bacio. Sono pronto a pagare immediatamente.”

“La rivincita era con in palio la rosa…”

“No, la rivincita si dà sulla posta iniziale… ora paghi.”

“Non qui” pregò Lorenza imbarazzatissima, guardandosi attorno. “E se la pregassi di rinunciare al suo pegno? Da parte mia rinuncio alla vittoria.” Sapeva che quel che diceva era frutto di una sciocca paura, una paura che dava maggior valore a un bacio innocente e stupido. “Non badi a quello che dico” aggiunse infine. “Mi darà un bacio, è un suo diritto. La colpa è mia per avere accettato questa partita.”

Martin si alzò e le porse il braccio.

“Mi riterrà interessato e poco generoso. Ma non ho alcuna intenzione di rinunciare al suo debito. Usciamo a prendere un po’ d’aria?”

Lei lo seguì docilmente. Sapeva che era inutile insistere. Evitò di are davanti al medico girando per la veranda coperta. Sapeva che era meglio mostrarsi il più possibile indifferente. Ricevere un bacio doveva essere, per lei, lo stesso che regalare una rosa. Era inutile attribuire importanza a un gesto che doveva rimanere nei limiti della sua banalità. Camminarono in silenzio. Non avevano nulla da dirsi. Era come se le loro labbra fossero chiuse da quel bacio non ancora dato e non ancora ricevuto. Si appoggiarono alla murata, e guardarono il cielo notturno. Non era sereno. Le stelle apparivano e scomparivano dietro cortine di nubi. La luna era chiara e bassa all’orizzonte.

Martin le prese una mano e la tenne fra le sue.

“Non ha freddo?” le domandò. La sua voce era bassa e un po’ roca.

“No” rispose.

“Perché trema, allora?”

“Nervi, forse, non so.”

Lui intuiva lo stato d’animo di Lorenza e ne provava una gioia segreta: cogliere quel tremore, assaporare quello sgomento raddoppiavano il valore del bacio. Le ò un braccio attorno alle spalle come se fosse già un poco il padrone. Lei lo seguì senza dir nulla. Si sarebbe lasciata baciare senza desiderio e senza amore, soltanto perché non trovava la forza di ribellarsi, perché era troppo sola, perché il mare era calmo, il cielo costellato di stelle con la luna che rimpiccioliva all’orizzonte. Salirono sui ponti superiori, dove, a quell’ora, si rifugiavano soltanto quelli che volevano star soli.

“Sono tanti giorni che aspetto questo momento…” mormorò Martin prendendole il volto fra le mani. “Tanti giorni… Quanto tempo prezioso perduto…”

Lorenza chiuse gli occhi. Non poteva e non voleva vedere il suo viso su di lei. Pregava soltanto che tutto finisse presto, che lui non indugiasse ancora. Voleva liberarsi da quel senso di oppressione che le toglieva le forze. Lui accostò leggermente le labbra a quelle di lei. Lei si lasciò baciare ivamente, senza ricambiare. Le sembrava di avere le labbra morte. Lui la lasciò per un momento e respirò profondamente.

“Que lindo…” sospirò riaccostandosi a Lorenza.

Lei lo respinse con la mano tesa.

“Ora, mi lasci sola, la prego…” disse, coprendosi il volto con le mani. “Voglio rimanere sola.”

Era così sconvolta e disperata che Martin Aranga non si mosse. Era sconcertato. Non capiva come un bacio potesse avere quell’effetto. Non sapeva se esserne orgoglioso oppure offeso.

“Lorenza, mi ascolti” disse. “Lei mi piace. Mi piace come nessun’altra donna mi è piaciuta mai. Non le dico una frase banale, le dico la verità. Non so se la amo, ma è certo che provo per lei un confuso e profondo sentimento di affetto, di simpatia e di desiderio nel quale non manca il rispetto…”

“Se avesse del rispetto, avrebbe rinunciato” lo interruppe lei.

Aranga fece finta di non aver capito, non voleva che le sfuggisse: “Lei scenderà a Rio de Janeiro, io a Buenos Aires dove non mi aspettano nulla e nessuno al di fuori della mia famiglia. Perché non dovremmo rivederci dopo? Da Rio a Buenos Aires, o viceversa, non è difficile raggiungersi.”

“Vorrei rimaner sola…” supplicò Lorenza.

Ci fu un silenzio penoso.

“Il mio bacio le è dispiaciuto fino a questo punto?” le domandò Martin con gli occhi dilatati dalla sorpresa.

“Non è per questo, non è per il bacio” balbettò Lorenza.

“E allora?”

“Non posso… non posso… la prego, mi lasci da sola.”

“Si metta a sedere qui, dove non c’è vento” replicò Martin. “Potremo parlare con calma… nessuno ci disturberà.”

“Io non ho nulla da dirle. Soltanto vorrei pregarla di non cercarmi più, di non occuparsi di me, di non parlarmi né di lei, né dei suoi progetti futuri. Io non ho progetti. Io non voglio aver progetti.”

“La vita avrà progetti per lei, suo malgrado.”

“Mi sottoporrò ai progetti della vita quando ne avrò voglia… adesso no. Adesso voglio comandare io, a me stessa e alla vita.”

Nonostante le parole che stava pronunciando, non respinse definitivamente Martin che la teneva abbracciata. Lui sperava ancora in un abbandono improvviso come ne hanno a volte le donne. Era pronto a cogliere il momento di crisi che non poteva e non doveva mancare. Ne era certo. ‘Cederà’ si disse convinto ‘è troppo giovane perché mi sfugga.’

“Vuole che scenda con lei a Rio de Janeiro?”

“Non credo che sarebbe ben accolto dalla zia.”

“È sorella di suo padre?”

Disse di no, col tono di chi non voleva dare spiegazioni.

“Non ho paura delle zie quando… quando voglio bene.”

“Non si lasci suggestionare dalle parole. Inutile anche parlare. Non le chiedo nulla, non voglio nulla…”

“Non credo alle sue di parole…”

Tacquero improvvisamente. Un uomo in uniforme era sbucato dal buio e ora ava davanti a loro, fingendo di non vederli. Fumava. Lo riconobbero al chiarore della brace.

‘È l’ufficiale medico’ si disse Martin. ‘Ecco un altro che la sorveglia e che vorrebbe essere al mio posto.’ Rifletté un momento: ‘Forse sarebbe più fortunato di me. È italiano come lei, è giovane, e di lui non diffida…’

Le nubi erano scomparse. Ora le stelle illuminavano a migliaia la volta celeste.

“Ecco la ‘Croce del Sud’” continuò Aranga, indicando un punto lontano del cielo. “Quando vedo questa costellazione, mi sento a casa.”

“Lei si avvicina e io mi allontano” disse Lorenza.

In quel momento si sentì smarrita ed ebbe paura.

“Ora sono calma, ora tutto è ato. Vuole lasciarmi sola?”

Lui sciolse l’abbraccio, ma prima di alzarsi si piegò a baciarla ancora, proprio nel momento in cui Lorenza non pensava a difendersi. Questa volta il bacio fu più profondo e più lungo. Lei rimase immobile, terrorizzata al pensiero che l’ufficiale medico ritornasse e la scorgesse. Si lasciò baciare per la seconda volta senza ribellarsi.

“A più tardi, querida” le promise Martin, allontanandosi.

Rimasta sola, alzò gli occhi e si guardò attorno. L’ufficiale medico dal ponte di comando la stava osservando. Lei si vergognava come non mai. Non si mosse. Il tempo parve fermarsi. Il mondo non esisteva più. Quando riaprì gli occhi, vide accanto a lei un paio di scarpe bianche.

“C’è troppa umidità…” disse il medico, porgendole le mani per aiutarla ad alzarsi. “È imprudente rimanere a lungo, di notte, sedute sui ponti.”

“Ora vado a dormire” bofonchiò Lorenza. La sua voce era dura. Non voleva essere né sorvegliata né consigliata.

“Vuole un suggerimento? Torni nell’infermeria… se non vuole ricevere visite inopportune.”

“Non ho paura. E non è facile aprire una porta che vuole rimanere chiusa.”

“Ma qualcuno potrebbe vedere chi tenta di aprire la sua porta chiusa.”

“A chi devo render conto di quello che faccio?” domandò. Era esasperata e irritata, addolorata e offesa.

“Faccia come crede. Non avevo intenzione di dispiacerle e nemmeno di consigliarla. Soltanto di metterla in guardia.”

Lei si raddrizzò di colpo.

“Mi scusi” disse. “Sono stanchissima…”

“Allora venga a dormire all’infermeria. Le farò preparare un letto. Potrà sorvegliare il piccolo Marco e riposerà senza essere disturbata.”

Sorrise nel buio, soddisfatto della beffa che, anche su consiglio di Fryer, stava preparando a Martin Aranga. S’erano prefissati di difendere Lorenza fino al termine del viaggio, e volevano riuscirci. Lei lo seguì senza dir nulla attraverso i corridoi che conducevano all’infermeria. Ogni tanto si guardava nello specchio della borsetta per vedere in che stato era il suo viso. I capelli erano arruffati dal vento, mentre le labbra erano rosse e vive. Avevano riacquistato una misteriosa vitalità.

“Ha ragione” gli disse “è meglio che rimanga nell’infermeria.” Si vergognava un po’ di quel che aveva letto su quel suo volto rivelatore, sulla bocca, in quei suoi occhi troppo accesi. Se quella sera qualcuno avesse insistito, forse la sua porta si sarebbe aperta.

Il piccolo Marco, che s’era appena svegliato, l’accolse con un debole sorriso. Lorenza si piegò su di lui.

“Rimango con te” sussurrò. “Sei contento?”

Il piccolo fece di sì col capo. Poi bevve un sorso d’acqua e si abbandonò sul guanciale. Il medico gli pose una mano sulla fronte.

“Niente febbre” annunciò “fra tre o quattro giorni potrà alzarsi. Rimarrà quasi a digiuno ancora per due giorni, dopo basterà una dieta prudente.” Poi si rivolse all’infermiera: “Prepari un letto per la signora, così, se è stanca, può sdraiarsi.”

Baciò la mano di Lorenza: “Buona notte.” Lei lo ringraziò con un sorriso. Lui uscì.

Il bambino s’era addormentato. Lorenza si tolse l’abito da sera, indossò un camice e si sedette accanto all’infermiera. Più tardi entrambe si assopirono sulla loro sedia, con la testa ripiegata sul petto.

Quella notte, Martin ispezionò i ponti superiori e i corridoi delle cabine. Voleva cogliere il momento più opportuno per entrare in quella di Lorenza. Bussò una prima volta e non ottenne risposta. Ribussò dopo qualche minuto e ancora gli rispose il silenzio. Ritornò una terza volta e fu notato da altri eggeri che rientravano. Non voleva compromettere Lorenza, ma doveva approfittare della situazione favorevole. La ragazza era rimasta turbata, lo aveva compreso. E non voleva perdere quella posizione di vantaggio, per farla sua. Tentò allora una quarta volta. Nulla, dalla cabina non ottenne nessun cenno. Possibile che si fosse sbagliato così clamorosamente? Ricominciò a eggiare su e giù sul ponte coperto. Le stelle cominciavano a impallidire. Era meglio decidersi e andare a dormire. Del resto, il viaggio non era ancora finito. Nel bar i camerieri stavano riordinando, dopo che l’ultimo eggero se n’era andato. Uno di loro portava su un vassoio un bicchiere di latte.

“È caldo?” gli chiese Martin, gettando la sigaretta in mare.

“No, è freddo. È per la signora Lelli che si trova nell’infermeria col piccolo

argentino.”

“Può portarne un bicchiere anche a me, nella mia cabina?”

“Subito signore.”

Martin Aranga decise di andare a dormire. Aveva capito. Era stato battuto. ‘Si sono messi tutti d’accordo per isolarla e difenderla’ pensò e cominciò a rimuginare un piano offensivo per il giorno dopo. ‘Sono ancora qui e non rinuncio a Lorenza. Non rinuncio’ giurò a se stesso.

Bevve il latte freddo. E fino all’alba non riuscì a prender sonno. Era furioso. Il pensiero di Lorenza, sottrattagli proprio quando credeva di averla conquistata, lo tormentò a lungo. Poi s’addormentò sfinito.

Quando Lorenza si svegliò non trovò accanto a sé l’infermiera. Il suo posto era occupato da Dick Fryer. L’americano teneva le mani della ragazza nelle sue. Nel dormiveglia, Lorenza lo aveva scambiato per Paolo e le aveva strette. Fryer, poi, le aveva accarezzate e baciate. Mentre lei non si rendeva ancora conto di dove fosse, le aveva giurato: “In qualunque posto metterai radici, io ti raggiungerò e ti farò felice.”

Senza che lei se ne accorgesse, quella promessa le entrò nel cuore e lì si nascose.

Cap IV

Quel giorno Lorenza e la mamma di Marco divennero amiche. La signora Fernandez, al mattino, scese all’infermeria per aver notizie del piccolo. Trovò Lorenza e Dick Fryer vicino al lettino. Il figlio, seduto e appoggiato ai guanciali, stava raccontando loro un’avventura di bambini. Era commossa dall’attenzione di Lorenza e dalla pazienza con la quale sapeva intrattenere il piccolo. Da allora, e per tutto il resto del viaggio, Lorenza trascorse le sue giornate in compagnia della signora Fernandez e dei suoi bambini. Fu quindi difficile per Martin e Fryer poterle parlare.

“Mi ha tradito” le disse Martin una sera trattenendola mentre stava per andare a cambiarsi d’abito. “Non si è comportata lealmente con me.”

“Perché?”

“Mi ha escluso dalla sua vista, mi ha evitato anche quando era sola. Che cosa le ho fatto? Se mi piace più delle altre, mi merito una così terribile punizione?”

“Ho preferito la compagnia d’una donna, d’una mamma, che non gioca a dadi le rose del mio vestito, che non mi promette quello che non può mantenere, che non mi chiede quello che io non voglio e non posso dare.”

“Non la perdonerò mai.”

“Non chiedo di essere perdonata. Io non ho commesso nessuna colpa. Se mai, l’ho evitata.”

“Ha troppi protettori a bordo.”

“Si rassegni.”

Lorenza salì rapidamente le scale che conducevano nella sua cabina e vi si chiuse dentro. Si sentiva più tranquilla ora. Anche le altre donne si erano ormai avvicinate a lei e non la evitavano più. Avevano finalmente capito di avere a che fare con una brava ragazza un po’ triste, ma gentile, educata, generosa e affettuosa. All’arrivo a Rio de Janeiro, proprio le signore che in un primo tempo l’avevano tenuta lontana erano quelle che più si rammaricavano di separarsi da lei.

“Se verrà un giorno a Buenos Aires, non dimentichi di venire a trovarci.”

Quasi tutte le avevano detto: “L’entrata nella baia di Rio de Janeiro è un miracolo di bellezza, di grandezza e di dolcezza.” Così, fin dalle prime ore del mattino, era salita sul ponte e si era protesa verso quella distesa di colline degradanti dalle curiose curve del Pan di Zucchero dalle cime smussate e arrotondate. Sul Corcovado, in alto, il Cristo Redentore spalancava le braccia come se volesse accogliere nel suo petto la nave che s’avvicinava. Dal Pan di Zucchero stava partendo la prima navicella della funivia. In basso, la città moderna apriva le sue piccole baie: Bottafogo, Leblon, Ipanema, Copacabana con i grandi alberghi, i grattacieli e la spiaggia candida di sabbia finissima, tutta punteggiata di figure brune.

“Sono bagnanti…” disse il medico di bordo che, terminato il lavoro di controllo per lo sbarco, s’era avvicinato a Lorenza. “In questo paese benedetto da Dio si fa il bagno tutto l’anno. In novembre comincia la vera e propria stagione balneare. E ci sono migliaia di stranieri che vengono a are l’inverno a Rio. Vedrà che meravigliosa sabbia è questa delle spiagge oceaniche. Sembra sale finissimo.”

Lorenza era turbata. Il cuore, dentro, le batteva così forte che sembrava soffocarla. In certi momenti si sentiva morire. Il sangue le ava, bruciando, nelle vene. Per la prima volta da quando era partita, sentiva che qualche cosa di eccezionale stava per accaderle.

“Sua zia viene a prenderla qui a Rio o scende a Santos?”

“Qui a Rio.”

La nave attraccò a un molo verde di alberi e ingombro di merce da caricare. Sulla banchina centinaia di persone gridavano parole incomprensibili. Non appena le erelle furono abbassate, una folla di visitatori fece irruzione sulla nave. Lorenza si mise in disparte. Guardava la calca con la speranza di intravedere un volto da zia. Improvvisamente si sentì chiamare dal ragazzo di bordo.

Si girò. Una signora d’una cinquantina d’anni, molto elegante, seguiva il ragazzo.

“C’è questa signora che la cerca…”

La nuova arrivata si avvicinò a Lorenza, la esaminò in un momento da capo a piedi, poi le aprì le braccia e la strinse al suo petto con uno slancio di sincera simpatia.

“Tu sei Lorenza Lelli? Io sono zia Elena. Elena Grossi. Chiamami zia Elena e dammi del tu. Sono molto contenta di conoscerti e di averti con me per qualche mese. Ora, prima che gli altri scendano, indicami chi ti ha fatto la corte durante il viaggio.”

Lorenza si sentì per un momento a disagio. Zia Elena le chiedeva troppe cose tutte insieme. Disse guardandosi attorno: “Martin Aranga, quel giovanotto bruno, alto, che finge di non guardare dalla nostra parte ma che ci osserva ugualmente. È un argentino. Posso presentar…telo… Lo chiamo?”

“Non occorre. E poi?”

“E poi un americano, Dick Fryer, un giovane che fa del mistero la sua principale arma di seduzione… Non lo vedo. Deve essere al bar a bere o dev’essere già sceso con la comitiva che fa l’escursione. E poi… ma molto discretamente, il dottore di bordo.”

“E poi?”

“E poi basta…” arrossì. “Basta, basta…”

“Tutto qui? Quando avevo la tua età e ho cominciato a viaggiare, ritornavo da

Parigi a Rio con una decina di corteggiatori… Per questo non mi sono sposata. Non ho mai saputo decidermi fra tanta scelta… Quale preferivi dei tre corteggiatori?”

“Sinceramente nessuno… forse l’americano, mi ricorda una persona cara…”

“E come sta quel brigante di mio nipote? Bel ragazzo vero? E intelligente…”

“Credo che stia bene. Non l’ho più visto dal giorno che mi promise di scriver… ti, e poi non ci siamo più incontrati. Per colpa mia, credo. Non ti dico come gli sono grata di avermi regalata una zia come… te.”

Una signora grassa e sorridente si avvicinò. Parlava castigliano. Prese Lorenza fra le braccia senza darle il tempo di difendersi.

“Lei è la zia di quest’angelo? È stata la nostra luce… Il nostro sole… Mio e di mio marito. Ha curato il nostro bambino anche di notte, come se fosse un suo fratellino. Non lo dimenticheremo mai. Ecco qui l’ammalato che ora sta quasi bene. Lo abbiamo fatto alzare perché assista allo sbarco. Tutto questo movimento lo distrae e lo diverte. Tenerlo in cabina con la nave ferma e con questa temperatura è una crudeltà. Abbraccia la signora, Marco…”

Il ragazzino alzò le piccole braccia smagrite verso il collo di Lorenza che lo sollevò e lo baciò sulle guance.

“Perché non vieni a Buenos Aires?” le chiese.

“Perché devo andare a San Paolo. Molto lontano.”

“E perché non vieni molto lontano anche a Buenos Aires?”

“Perché verrò un altro giorno… Non ora. Un giorno verrò ad accertarmi che ti sia lasciato operare senza capricci e a vedere la pagella con i progressi che farai a scuola.”

Si avvicinò anche il signor Fernandez. La zia Elena ebbe la sensazione di doversi dare delle arie con una nipote così preziosa.

“Finirò col credere che sei un portento di ragazza” disse.

Andarono insieme a salutare il dottore, poi scesero per sbrigare le operazioni di dogana. I bagagli erano già allineati sul banco.

“Mi piace quel dottore” disse la zia mentre aspettavano il loro turno.

Lorenza non rispose e lei non insistette. Allora andò a sequestrare un doganiere d’autorità, lo trascinò fino al loro banco e in un momento, con una rapida visita superficiale, i bagagli furono forniti di bollo d’uscita.

“Non avrei saputo come cavarmela” osservò Lorenza. “Non capisco una parola

di quello che dicono.”

“Dopo una settimana comincerai a distinguere una parola dall’altra, e dopo un mese riuscirai già a formare le frasi più comuni e darai direttamente gli ordini in casa. Da domani comincerai a studiare cinque o sei parole al giorno.”

Salirono su un’automobile e si diressero verso Copacabana.

“Ripartiremo fra due o tre giorni per San Paolo, con l’aereo. Intanto daremo un’occhiata alla città, andremo a vedere i casinò Urca e Atlantico, vedrai ballare la samba e la marcia brasiliana, sentirai cantare Carmen Miranda che è una cantante indigena, originale, intelligente, conoscerai le spiagge brasiliane e una maniera di vivere particolare che sta fra il primitivo e il raffinato.”

L’automobile percorse tutta l’avenida Rio Branco e svoltò nell’avenida Beira Mar. I giardini tutti verdi, gli stabili bianchi e rosa, le ville lussuose, il mare immenso incantarono Lorenza.

“Qui la grande maggioranza vive in costume da bagno dalla mattina alla sera. Conduce l’esistenza più libera che si possa immaginare.”

“E pensare che in Italia e in Europa fa freddo e nevica…”

“Qui il freddo non esiste. D’inverno, la temperatura si aggira sui quindicidiciotto gradi come minimo, con un massimo di ventotto-trenta.”

“E d’estate?”

“D’estate arriviamo verso i quaranta e anche di più, specialmente in febbraio e marzo. Oggi abbiamo superato i trentacinque. Per carnevale torneremo a Rio per tre o quattro giorni e ti renderai conto del caldo tropicale.”

“Non potrò resistere.”

“Diciamo tutti così, invece si sta benissimo. Tutt’al più si suda.”

“E a San Paolo?”

“A San Paolo abbiamo le stagioni normali, quasi come in Europa. Inverno, una brevissima primavera, estate, l’autunno non troppo rigido.”

Tacquero per un momento. L’automobile transitò per una strada alberata delimitata da ville sontuose con parchi immensi dietro i muri di cinta.

“Penso sia inutile che tu continui a portare il nome di Lelli, ed è inutile che tu dica a tutti che sei vedova. Di fatto sei signorina, e ti presenterò come signorina. Signorina Lorenza Glori. La parte della vedova, bambina come sei, non ti si addice proprio. E poi ti mette in una situazione poco simpatica. Una vedova è quasi sempre una donna indifesa, mentre una signorina è una donna che, salvo casi particolari, si difende da sola. Mi spiego?”

“Credo di sì, zia Elena. Ma non sono sicura di capire alla perfezione.”

“Non importa.”

“È così distante l’albergo? Mi pare di non arrivar mai…”

“Ancora pochi minuti… Dal porto al Copacabana ci sono una quindicina di chilometri. Rio de Janeiro è costruita su un’area vastissima, sulla quale la città si distende a forma d’una immensa esse, girando attorno alle montagne, ai ‘morri’ come li chiamano qui. Ecco il sottoaggio che attraversa un morro ed ecco Copacabana. L’albergo è sull’avenida Atlantica che costeggia l’oceano per chilometri e chilometri. Siamo arrivati.”

Lorenza non riuscì a trattenere il suo entusiasmo: “Che paradiso!”

Le due camere comunicanti aprivano i loro balconi sull’avenida e sull’oceano.

“Ti piace?” le chiese zia Elena.

“San Paolo è altrettanto bella?”

“Non farti illusioni. San Paolo è una grande città industriale, e non ha nulla in comune con Rio. Piuttosto assomiglia a Milano… senza il Duomo. Quanto agli abitanti, si può dire che è quasi italiana. L’aristocrazia, la borghesia, la ricchezza sono italiane. Non ti sentirai troppo isolata.”

Per loro era diventato naturale darsi del tu come vecchie amiche. Lorenza provava la sensazione di rinascere, zia Elena le piaceva. Aveva bisogno di vivere accanto a una donna risoluta, coraggiosa. Zia Elena aveva cominciato con l’ordinarle di rinunciare al suo nome di donna sposata per riassumere quello da ragazza. La questione sentimentale, che in altri tempi l’avrebbe tormentata a lungo, qui non s’era nemmeno presentata. Aveva ubbidito senza protestare.

Restarono a Rio de Janeiro tre giorni. Visitarono il Corcovado e s’inginocchiarono dinanzi al Cristo Redentore. Salirono con la funivia sul Pan di Zucchero, arono le serate ai casinò Urca, Atlantico e Copacabana. Visitarono le chiese e la città anche nei quartieri popolari, con una barca a motore andarono a cena sull’isola di Paquetá, di sera ammirarono il Redentore illuminato in mezzo alle nubi. Fecero tutto ciò che i turisti fanno di solito quando arrivano a Rio de Janeiro. Zia Elena invitò al casinò Urca un amico carioca perché insegnasse la samba alla nipotina venuta dall’Italia.

Lorenza imparò i nuovi balli. Si divertì, rise, dimenticò se stessa e si sentì leggera come se le avessero tolto il peso enorme che aveva sul cuore. A volte entrava in crisi. Allora gli occhi le si riempivano di lacrime senza che se ne accorgesse. Era il suo dolore che riaffiorava da dove lei lo aveva sepolto. Allora, lei inghiottiva le lacrime e ricominciava a ballare. La crisi ava. Zia Elena la sorvegliava e non le lasciava il tempo di riflettere. La sera, quando rientravano, Lorenza era così stanca che s’addormentava appena sdraiata. Zia Elena la presentava a tutti come la signorina Glori.

Dopo il terzo giorno partirono per San Paolo, in aereo.

“Non mi piace volare, zia Elena, e ti giuro che tremo soltanto a guardare l’apparecchio…”

“Non ti accorgerai nemmeno che si stacca da terra… sarà come se tu fossi seduta su una poltrona in un salotto al quarto o quinto piano d’uno stabile.”

Un rifiuto a salire a bordo non sarebbe stato tollerato. L’aeroplano partì con qualche minuto di ritardo perché le condizioni atmosferiche erano avverse. Il vento soffiava forte e basso. Poi tutto ò.

“Come va?” le chiese zia Elena, dopo qualche minuto di volo. “Guarda giù e potrai così avere un’idea della topografia di Rio.”

“Sto benissimo” rispose Lorenza che ancora non si sentiva del tutto sicura “ho però la sensazione di essere tutta vuota, dentro. Non mi azzardo a guardar giù perché temo le vertigini.”

Poco dopo trovò il coraggio necessario per guardare fuori dall’oblò. Stavano sorvolando una giungla così fitta, così verde, così interminabile. Per quasi due ore l’aereo proseguì a media altezza, fra cime di montagne coperte di vegetazione, sopra distese interminabili di foreste che parevano inaccessibili e sopra corsi d’acqua che rigavano la terra con una linea ondulata, trasparente, sulla quale il sole affondava per riaffiorare in tanti raggi luminosi.

Verso la metà del viaggio Lorenza cominciò a sentirsi male e a lamentarsi. Il mal d’aria l’aveva colta all’improvviso. Allora appoggiò la testa sul guancialino dello schienale e chiuse gli occhi. Divenne pallidissima. Stille di sudore le coprirono la fronte, il volto e le mani.

“Lorenza…” la chiamò zia Elena.

Lorenza le fece cenno di lasciarla tranquilla. Stava male, è vero, ma non c’era rimedio. Era meglio risparmiarle la fatica di muoversi e di parlare. Zia Elena le si avvicinò e cercò di rinfrescarle il volto col soffio d’aria del ventilatore, ma Lorenza fece di no col capo. I rimedi peggioravano il suo malessere. Pensò che non le importava nulla di morire purché cessasse quello spasimo insopportabile. Quando all’orizzonte comparve San Paolo, si sentì quasi bene. Lo stordimento era ato. L’aeroplano virò attorno alla città e atterrò dolcemente.

Scesero in fretta come se non ne potessero più di star chiuse in quella scatola volante.

“Mi hai talmente spaventata…” disse zia Elena.

“Scusami, mi sono lasciata suggestionare…”

Salirono sull’automobile di zia Elena. L’autista le aspettava appena fuori dell’aeroporto.

La città aveva uno stile europeo. A Lorenza piacque subito. ‘È diversa da Rio, è vero, ma è altrettanto bella.’

La casa della zia Elena era immersa in un giardino che pareva non avere fine, con una piscina naturale alimentata da una cascata perenne e freschissima. Il prato era dominato da sei grandi palme imperiali. La costruzione di stile

coloniale aveva qualche reminiscenza portoghese.

“Che tu sia la benvenuta” disse la zia Elena entrando “e che tu possa trovar qui la gioia che ti faccia dimenticare ogni dolore ato. Considera questa casa come se fosse la tua. Questo è l’atrio, questa è la biblioteca, questo è il mio studio, questo è un salotto di aggio, questo è il salone, e questo è il mio appartamento.” Attraversarono le stanze, leggere e allegre. “Questo boudoir (qui usiamo ancora il termine se) divide il mio appartamento dal tuo. Ora bisogna tornare indietro, ecco la sala da pranzo, ed ecco la taverna. Di là ci sono i servizi. Li vedrai quando sarai ambientata. Tutte le porte sono aperte. Puoi impadronirti della casa da sola a poco a poco. Le librerie non sono chiuse a chiave. Non chiedermi mai il permesso di prendere un libro o di staccare un frutto da un albero. Fai quello che vuoi, la casa, il giardino sono tuoi finché sei mia ospite. Se qualche soprammobile ti piace per la tua camera, prendilo, senza chiedermelo.”

“Grazie zia Elena.”

“Aspetta, tu conosci Aristide, l’autista. Ora ti presento il resto del personale. Non meravigliarti se non hai visto nessuno venirmi incontro. Non voglio ricevimenti. Io vado, torno, senza che i miei domestici si mettano in fila a riverirmi. Ho semplificata la vita il più che mi è stato possibile.” Bussarono alla porta. “Avanti.”

La prima a entrare fu una grassa nera sorridente. Vestita di cotone a righe, bianco e blu, con un largo grembiule candido e la cuffia in testa, sembrava un personaggio cinematografico.

“Questa è la cuoca, si chiama Mami ed è con me da quindici anni. È un po’ scura fuori ma è candida dentro. Cucina all’italiana secondo gli insegnamenti della mia

nonna materna ed è fedelissima. L’altra bella ragazza è Maria, la cameriera, e poi c’è Rodolfo, il cameriere. Rodolfo e Maria sono marito e moglie, e hanno la loro casa nello chalet che è dall’altra parte dello spiazzo in mattoni rossi che scoprirai uscendo in giardino.”

Poi presentò Lorenza al personale. “Questa è la signorina Lorenza Glori, mia nipote.”

“Buon giorno” disse Lorenza “sono molto contenta di fare la vostra conoscenza…” e strinse la mano a tutti, guadagnandosi immediatamente la loro simpatia.

Zia Elena la osservò con un sorriso di compiacenza. ‘Conquisterà tutti i miei amici’ pensò. Si rivolse quindi ai suoi dipendenti: “Tu, Maria, vieni con me. Rodolfo si occuperà dei bagagli.”

La cuoca se ne andò con l’autista. Maria seguì la signora nel suo appartamento e Rodolfo andò nello studio a prendere la posta e il grosso libro sul quale scriveva giornalmente tutto quanto accadeva in casa durante l’assenza della signora.

Lorenza si chiuse nella sua camera. Riconobbe il piccolo spogliatoio trasformabile in salottino-studio e le grandi finestre aperte sul giardino tropicale. I suoi bagagli erano già lì. Cominciò a svuotarli. Aveva portato con sé tutto il suo guardaroba. Distribuì i vestiti nei grandi armadi a muro, riempì i cassetti dei mobili. Poi indossò un leggero abito di seta per la cena. Era quasi sera. La giornata era fuggita senza che se ne fosse accorta. Qualcuno bussò alla porta.

“Sono io, Maria” disse la cameriera. “Posso entrare? Ha bisogno di me? Donna

Elena dice di avvertirla che la cena è pronta.”

Lorenza si fermò un secondo a guardare un’istantanea di Paolo, scattata pochi giorni prima del matrimonio. Un’ondata di dolore l’assalì. Uscì dalla sua camera barcollando, cercando di orientarsi nella grande casa.

“La sala da pranzo è da questa parte” gridò la voce di zia Elena, e Lorenza, che si dirigeva dal lato opposto, si girò.

“Capire la dislocazione della tua casa è meno semplice di quanto tu pensi, zia Elena.”

Sedettero una di fronte all’altra. Vicino a una finestra era stata apparecchiata una piccola tavola, con una ricca tovaglia di pizzo, cristallerie e argenteria.

“Usiamo la tavola grande soltanto quando abbiamo ospiti. Per me sola e anche per noi due sole, basta questa.”

Pranzarono con appetito, servite da Rodolfo. Più tardi arrivò l’amministratore di zia Elena per parlare d’affari. Lorenza si alzò per ritirarsi.

“Rimani con noi” la pregò la zia. “Andiamo nel mio studio e prendiamo insieme il caffè. Ti annoierai, forse, ma avrai così un’idea del mio lavoro, senza che io debba illustrartelo. Domani, poi, se non hai altri programmi, verrai a vedere la sartoria. Può star vicino senza sfigurare a quelle italiane e si.”

Lorenza assistette. Durante quell’incontro furono indicate cifre iperboliche. Si parlò di milioni e milioni come se si trattasse di centesimi. Ma riuscì a farsi un’idea dell’organizzazione del lavoro di zia Elena. Acquistava a Parigi e a Londra abiti per signora, già ‘confezionati’, in grandissima quantità, e nelle diverse misure, scegliendo quelli più adatti all’ambiente, alla clientela, alle possibilità economiche della ricca popolazione di San Paolo, e li rivendeva con un largo margine di guadagno. Due volte all’anno compiva il viaggio BrasileFrancia-Inghilterra, e due volte all’anno ritornava con un grande carico di bauli. Qualche modello lo faceva rielaborare nel suo laboratorio, qualche altro lo ricostruiva sui disegni che portava con sé. Realizzava guadagni che le permettevano di vivere da milionaria.

“Come t’è venuto in mente questo lavoro?” chiese Lorenza, ingenuamente.

“La necessità… m’ha spinto a lavorare quando sono rimasta con la nonna e la mamma da mantenere. Ora sono piuttosto stanca di tutto.”

“Non sei mai tornata in Italia?”

“No. Da quando ero bambina. Io sono nata qui. Una parte dei miei parenti è brasiliana. Marco è un mio nipote di terzo o quarto grado. Qualche volta ho desiderato di andare a riposarmi al sole italiano, ma non ho mai potuto concedermi un solo giorno di vacanza.”

“Ci andremo insieme, zia Elena. Ora c’è la mia famiglia che ti accoglierà come fossi dei nostri.”

Zia Elena l’abbracciò.

“Vai a dormire. Io devo ancora lavorare con l’amministratore. Buona notte…”

La prima notte paulista fu benedetta da un sonno ininterrotto, tranquillo, difeso e protetto dal silenzio. L’indomani Lorenza si svegliò prestissimo. Dalla finestra aperta entrava il canto di numerosi uccellini che avevano i loro nidi sugli alberi del giardino. Balzò dal letto e spalancò la persiane. La vista del giardino le rinfrescò l’anima. Pensò alla madre e a Marco Ansperti. Decise di non uscire dalla camera senza prima avere scritto a tutti e due. Indossò la vestaglia e cominciò la lettera per la madre. Le raccontò gli avvenimenti più importanti del suo viaggio, il suo entusiasmo per Rio, e la sua gioia di trovarsi in una casa ospitale, bellissima, con una zia simpatica, cordiale, affettuosa. ‘Credo che rimarrò qui a lungo, perché mi piace tutto del Brasile, e anche perché sto elaborando un progetto del quale ti parlerò nelle mie prossime lettere’.

A Marco Ansperti scrisse un’affettuosa lettera di ringraziamento. ‘Per tutta la vita ti sarò grata di questa zia che mi hai regalato. Ora che sono qui penso all’Italia con nostalgia, e ti scrivo col cuore pieno di emozione. Se ricomincerò una nuova vita, se ritroverò la pace, se penserò che è ancora possibile guardare dinanzi a me senza vedere il vuoto, questo lo dovrò a te’.

“La colazione è pronta, sotto la manghera” disse Maria ando davanti alla finestra aperta della camera. “Donna Elena ha già cominciato. Non ha appetito, signorina?”

“Credo di sì… Ma non so proprio da che parte sia la manghera.”

“Mi segua.”

Lorenza girò con Maria attorno alla casa, e si trovò in un grande spiazzo limitato da terrazze fiorite. All’ombra di un immenso albero capace di coprire quasi tutto lo spazio con i suoi rami sempre verdi, era apparecchiata una piccola tavola da giardino. Caffè, latte appena munto, frutta.

“Dormito bene?” chiese zia Elena.

“Magnificamente. Ho anche scritto a mia madre e a Marco. Ho lasciato le lettere aperte, vuoi aggiungere due righe?”

“Volentieri. Che ne pensi di Marco?”

“Che dev’essere un gran bravo ragazzo.”

“Non hai immaginato che potrebbe volerti bene?”

“Un tempo sì, prima ancora che mi fidanzassi, quando andavamo a scuola insieme. Oggi non lo penso più.”

La zia non insistette.

“E dove hai sepolto il ricordo di quei poveri cavalieri che hai tormentato durante il viaggio?”

“Martin Aranga e Dick Fryer? Non lo so. Non esiste più.”

Lorenza si adattò subito alle usanze del nuovo paese anche in tema di colazioni. Spolverò di zucchero una fetta di papaia e fece onore ai crostini caldi, profumatissimi, che stimolavano il suo appetito.

Più tardi uscì con la zia in automobile. La sartoria nel centro della città era installata in un grande appartamento d’una costruzione moderna. Quando Lorenza vi entrò, ebbe la sensazione di entrarvi da padrona, e anche in seguito questa sensazione non l’abbandonò mai.

Cap V

Da quel giorno prese l’abitudine di recarsi ogni giorno in sartoria. Non appena ebbe imparato qualche parola di portoghese s’occupò della clientela. Dopo un mese di lezioni e di esercizi con una brava maestra, era già in grado di sostenere una conversazione anche se limitata al solo argomento di abiti, stoffe, cappelli. Con la clientela italiana, che era la più selezionata e larga nello spendere, parlava la sua lingua madre, con coloro che facevano parte dell’aristocrazia brasiliana parlava se, con gli altri usava il portoghese. Era tanto graziosa, gentile, sorridente e docile quanto zia Elena era autoritaria, decisa, seria e dura. Le clienti le si affezionarono facilmente. Era spesso invitata in casa delle migliori famiglie, e dopo qualche tempo non c’era più una cliente che non la preferisse a donna Elena. Tutte volevano trattare con donna Lorenza, anche perché era ambasciatrice dello spirito e del gusto europei che avevano molto successo in Brasile.

Lorenza intuiva quello che i sarti europei avrebbero creato e suggeriva modifiche e guarnizioni che poi ritrovava negli arrivi successivi. Donna Elena era felice dell’andamento degli affari e s’era persuasa che Lorenza, ormai, non avrebbe più pensato al suo ritorno in Italia. Cercava di renderle la vita facile, di evitarle tutte le preoccupazioni. In casa era servita come una regina, e ogni suo desiderio era soddisfatto. Tutti i divertimenti che la città offriva erano per lei. Così Lorenza a poco a poco s’era rasserenata e non aveva più momenti di disperazione. Qualche volta il suo dolore riaffiorava, ma non aveva tempo di soffrire. La sera era stanca, di giorno era occupatissima. Era felice di essere utile.

“Ti faccio una proposta” le disse un giorno zia Elena. “Quella di entrare a far parte della mia sartoria come socia. Io non posso più abusare del tuo tempo come faccio e nemmeno approfittare della tua abilità senza ringraziarti in qualche modo…”

Lorenza protestò.

“Lasciami dire… La mia clientela ti è affezionata, tu sai trattarla meglio di me, e sei così abile che gli affari sono quasi raddoppiati. Sei una ragazza di fantasia e di buon gusto… Rimani in Brasile, con me. Non ho nessuno, ti considero già come una figlia. Ti riservo la tua parte di utili. Il trenta per cento sulla cifra lorda degli affari. Il cinquanta per cento sul netto delle ordinazioni che verranno da clientela nuova, portata da te.”

“Zia Elena, io non… io sono contenta di poterti aiutare… Ma diventare tua socia… veramente… E poi… tu non puoi sapere che cosa rappresenta per me trovarmi qui, occupata in un lavoro che mi piace, che mi distrae, che mi apiona e che m’impedisce di pensare… Dovrei io ricompensare te del bene che mi fai…”

“Lo comprendo, lo comprendo… Ma nessuno deve lavorare per nulla. È una questione di principi. La vita è organizzata come una partita. Il dare e l’avere devono essere sempre bilanciati perché l’equilibrio non manchi. E poi, nella mia offerta c’è una buona dose di egoismo. Se tu entri a far parte della mia azienda, non te ne ritornerai in Italia tanto presto. So che cosa vuol dire ingranare negli affari, non se ne esce più. Te lo dico, perché tu lo sappia.”

“E mia madre che m’aspetta… e mio padre…?” si domandò la ragazza perplessa. “Fra tre o quattro mesi, vorrei tornare a casa…”

“Potresti tornare in Italia due volte all’anno e rivedere i tuoi genitori. Potresti andare per me a Londra e a Parigi per acquistare i modelli delle nuove stagioni. Così durante l’assenza dell’una o dell’altra, la sartoria non rimarrebbe

incustodita. Due volte tu e due volte io in Europa. Porteremo a San Paolo il meglio delle collezioni. Che ne pensi?”

Donna d’affari, la zia era convinta del successo di quella combinazione, ed era disposta anche a qualche sacrificio pur di realizzarla.

“Ho bisogno di riflettere” disse Lorenza. “Ti sono molto grata, di tutto… di tutto…”

Zia Elena l’abbracciò.

“Non voglio forzarti… voglio che tu sia sicura, dentro di te, di poter rinunciare, almeno per parecchi anni, alla tua casa. A meno che tu non desideri, in seguito, farti raggiungere in Brasile dai tuoi genitori, magari quando tuo padre smetterà di lavorare.”

Lorenza fece di no col capo.

“Non che io non voglia averli vicini… Ma sono certa che non vorranno mai staccarsi dalla loro terra e dalla loro casa. Hanno messo radici profonde, laggiù…”

“Ma tu sei la loro unica figlia…”

“In ogni modo, zia Elena, una sola decisione va presa adesso ed è quella di

lavorare. E sono felice di poter lavorare con te…”

Zia Elena versò il tè gelato in due grandi bicchieri. Erano sedute tutte e due sotto la manghera, ed era pomeriggio inoltrato. Faceva molto caldo, ma l’ombra dell’albero rendeva l’afa sopportabile.

“Ora ho un’altra proposta da farti” riprese zia Elena. “Ma questa non riguarda il lavoro. Piuttosto il divertimento, meritatissimo dopo una stagione faticosa come quella che abbiamo appena terminato. Che ne diresti di tre giorni a Rio de Janeiro per la fine del carnevale? Ti prometto uno spettacolo unico al mondo. Non ti anticipo alcuna descrizione. Dovrai viverlo, in prima persona… Non lo dimenticherai mai più.”

“Dico che è un’ottima proposta. Potremo lasciare il laboratorio per tre giorni?”

“Non solo potremo, ma dovremo. Gli ultimi giorni di carnevale, in Brasile, sono tabù. Non si lavora. Sono sacri. Per tre giorni non si pensa che a cantare, suonare, ballare, mangiare… e anche a bere. A null’altro.”

“Non potremo allora sottrarci. D’accordo. Quand’è la fine del carnevale?”

“Fra una ventina di giorni. Verso la fine di febbraio. Dopo il carnevale, tu ritornerai a San Paolo, e io proseguirò per l’Europa.”

“Non so come potrò resistere da sola e senza i tuoi consigli durante la tua assenza…”

“Sarà come se ci fossi e forse meglio. Avrai maggiore iniziativa e sarai padrona di prendere qualsiasi decisione senza dipendere da me.”

Nonostante la bassa stagione, il lavoro continuò come nei mesi di piena. Mai, da quando zia Elena aveva aperto la sartoria, c’erano state tante ordinazioni. L’imprenditrice ne attribuiva tutto il merito a Lorenza che non soltanto sapeva consigliare le clienti, ma le persuadeva anche della necessità di avere un maggior numero di abiti. Le convinceva anche a non portar più un modello non appena, sia pure per un particolare, era ato di moda.

‘Ho una sola paura’ pensava zia Elena, quando considerava Lorenza come il suo portafortuna ‘che qualcuno se ne innamori e me la porti via.’

Ma era una paura infondata, per il momento. Lorenza viveva tranquilla, un po’ chiusa in se stessa. Non s’accorgeva degli uomini che, incuriositi da questa europea piovuta per caso in Brasile, accompagnavano le mogli e le sorelle in sartoria e non lesinavano sulla cifra da spendere per riuscire a farle la corte, per ottenere un suo sorriso di ringraziamento.

“Non ti piacerebbe risposarti, un giorno?” le chiese zia Elena.

“No. Non ho alcuna voglia di sposarmi, perché non concepisco il matrimonio senza l’amore, e l’amore, per ora…”

Dopo un momento di silenzio, zia Elena le chiese: “Eri molto innamorata di tuo marito?”

Lorenza non rispose subito.

“Ecco” disse poi, riflettendo bene sulle parole che pronunciava, “gli volevo bene. Tanto da pensare di poter vivere insieme a lui tutta la vita. Ma l’amore, l’amore come lo avevo immaginato a sedici anni, non lo conosco ancora. Non conosco la ione. Dell’amore ho conosciuto soltanto il dolore. E, d’altra parte, spero di non conoscere mai il vero grande amore, sono sicura che mi farebbe soffrire. Per il mio cuore basta il ricordo di Paolo. Voglio vivere sola come tu sei vissuta sola…” sorrise “Chissà che cosa direbbe Paolo se sapesse che lavoro così lontana da casa…”

“Ti approverebbe.”

“Non so… ripeteva sempre che le donne sono state create per stare a casa con i figli… Ma quando la casa è vuota e i figli non ci sono, che cosa deve fare una donna?”

“Lavorare.”

Zia Elena le versò un altro bicchiere di tè gelato. Poi le confessò: “Soffrirei molto se tu dovessi andartene. Mi sono ormai abituata e affezionata a te. Hai riempito di calore e di affetto questa casa che era vuota e triste. Da quando tu sei qui, mi pare che sia cominciata una nuova vita anche per me.”

Rimanevano spesso alzate fino a tardi, la sera, a conversare in giardino. La loro amicizia si faceva di giorno in giorno più profonda e più solida. Ormai, quando

arrivavano lettere dall’Italia le leggevano insieme. Non avevano più segreti l’una per l’altra. Si volevano veramente e profondamente bene. Si stimavano reciprocamente.

Lavorarono ancora per una ventina di giorni, poi zia Elena organizzò il suo viaggio e partirono in aereo per Rio de Janeiro. Nelle valigie portarono due magnifici vestiti per mascherarsi. Il tema del veglione era ‘Alla corte di Napoleone’. Lorenza aveva preparato un costume da imperatrice Giuseppina per sé, e uno da madama Tallien per zia Elena. I costumi erano riproduzioni a colori di stampe dell’epoca, eseguiti alla perfezione. Quando scesero all’albergo Copacabana dove avevano prenotato, lo trovarono pieno zeppo di turisti venuti da ogni parte del mondo per il carnevale. Faceva caldo, un caldo umido, pesante, soffocante. Vero caldo equatoriale. Il termometro segnava quaranta gradi all’ombra. Nell’albergo sul mare, l’aria era respirabile e in certi momenti quasi fresca.

“È un’estate infernale” disse Lorenza. “Adesso capisco perché la popolazione, qui, viva quasi allo stato primitivo. Non si può resistere che in costume da bagno… Come potremo indossare e sopportare i nostri costumi? Sembreranno corazze…”

“Il carnevale brasiliano fa dimenticare e rende insensibili. Ci scorderemo di tutto, non sapremo più come ci chiamiamo, non ci accorgeremo che farà caldo. Diventeremo due creature che hanno un solo bisogno, cantare e ballare.”

Lorenza guardò l’amica, sorpresa. Non riusciva a immaginare zia Elena come una donna che dimentica tutto per cantare e ballare.

“Non mi fissare così… non sarò affatto un fenomeno. Te ne accorgerai.”

Verso sera uscirono per andare in centro città. L’avenida Rio Branco brulicava d’una folla in prevalenza nera, già eccitata dall’idea che il giorno seguente sarebbe cominciata la festa. Per tre giorni e tre notti non sarebbe esistito più nulla. Né casa, né famiglia, né lavoro, né doveri. Sarebbe esistito soltanto il carnevale, anzi soltanto il Carnevale.

“Domattina andremo in piazza Quinze a vedere la sfilata dei gruppi mascherati. È uno spettacolo impressionante. Ti farai davvero l’idea di cosa significhi ‘divertimento’ inteso nel senso animale.”

Dall’albergo telefonarono a un amico della zia, un italiano che viveva a Rio.

“Dovrebbe permettermi di venire con mia nipote da lei, domenica nel pomeriggio. Dalle sue finestre potremo assistere al aggio delle maschere e dei carri.”

“Con molto piacere” disse l’amico di zia Elena. “Vi riservo una finestra. Ci saranno anche altri amici che saranno lieti di rivederla, e di fare la conoscenza della sua famosa nipote.”

“Famosa, perché?”

“L’eco del suo successo paulista è arrivato sin qui. Pare che abbia conquistato tutta la città.”

Lorenza si divertiva.

“Mi sembrano tutti pazzi, zia Elena…”

“Evidentemente, sì. In nessun’altra parte del mondo puoi assistere a uno spettacolo di suggestione collettiva come questo. Qui la gioia è tangibile, si sente nell’aria che si respira, riempie le stanze nelle quali si abita, ci insegue per la strada…”

“Vorrei fare un bagno nell’oceano” disse Lorenza. “Vieni anche tu?”

“No. Io ho rinunciato da tempo ai bagni in mare. Ti aspetto qui, e ti sorveglio dal terrazzo. Non ti allontanare troppo, l’oceano è traditore.”

Lorenza si tolse gli abiti da eggio e indossò il costume da bagno. Poi si gettò sulle spalle un accappatoio rosso e bianco, calzò la cuffia di gomma e attraversò il sottoaggio dell’albergo che conduceva alla spiaggia. La sabbia era finissima, scottava di sole. Il colorito della sua pelle era così bianco al confronto con gli altri bagnanti, già con la pelle brunita, che si vergognava.

Salutò la zia che le sorrise.

Si tuffò nelle onde che facevano risacca sulla riva. Nuotò verso il largo, poi ritornò sospinta dalla forza del mare che spingeva verso la costa. Mentre era seduta sulla riva, un giovane le si avvicinò.

“Parla inglese?” le domandò.

“Soltanto qualche parola.”

“Mi dispiace” rispose il giovane. “Sono venuto da New York, solo, per assistere al carnevale, non conosco nessuno… La credevo americana.”

“Perché?”

“Perché nuota molto bene.”

“Sono italiana.”

“Abita in Brasile?”

“Non ho capito… Non sono molto forte in inglese.”

“Oh, mi dispiace…” si scusò il giovane. “La sua casa, la sua famiglia è in Brasile?”

“No, in Italia.”

“Turista?”

“Quasi.”

L’altro le rimase vicino ancora per qualche momento, poi si allontanò. La salutò con un ‘sorry’ davvero dispiaciuto. Lorenza si rialzò, si avvolse nell’accappatoio e risalì.

“Chi era quel giovanotto?”

“Un americano di New York.”

“E che cosa cercava?”

“Una compagna per divertirsi a carnevale, se non ho capito male. Non l’ha proprio detto, ma non era difficile intuire… non ero in grado di sostenere una conversazione in inglese e non ha insistito…”

“Troverà quel che cerca, non temere.”

Quella sera si coricarono presto. Bisognava essere riposate l’indomani, per resistere alla fatica d’una giornata carnevalesca sotto un sole tropicale, con una temperatura di almeno 42 gradi. Il termometro era in ascesa.

La mattina dopo si svegliarono alle cinque. Alle sei, in automobile, si fecero condurre in piazza Quinze. La città era già in festa. Dovunque, risuonavano marce e sambe, ‘Jardinieria marcha de rancho’ era la canzone di moda. Tutti la suonavano e cantavano. Il ritmo delle sambe, accompagnato dal tam tam dei tamburi, di minuto in minuto, diventava ossessionante.

Dalle colline che incoronano la città, scendevano i gruppi mascherati, preceduti dalle loro orchestrine. Lorenza e zia Elena si trovarono circondate da schiere di ballerini che cantavano e danzavano. La confusione era totale.

“Non c’è pericolo, qui, sole, in mezzo a questa folla che sembra impazzita?”

“Non c’è pericolo” disse zia Elena tranquillamente. “E non siamo così sole come credi. Quasi tutti gli ospiti dell’albergo sono venuti o vengono a godersi questo spettacolo unico al mondo.”

Ma non era facile individuare qualche volto bianco in quell’onda multicolore che si moltiplicava all’infinito.

“Non pensare che il carnevale brasiliano sia come il nostro” disse zia Elena. Qui è qualche cosa di religioso, di mistico, e le danze, anche se sfrenate, sono quasi sempre un rito. Osserva l’espressione severa e dolce insieme delle donne che ballano e il volto ispirato dei musicisti. Sono parte integrante di una vera e propria cerimonia.”

Lorenza si guardò attorno. Una sottile angoscia la stava assalendo. All’improvviso si sentì sola in mezzo a quella paurosa folla che gridava ‘orgia e nada mas’ (orgia e niente più).

“Ho paura” disse quasi senza accorgersene.

Sussultò. Qualcuno le aveva preso una mano e tentava di trascinarla via. Fece un gesto brusco per liberarsi, ma s’accorse che si trattava di zia Elena che tentava di sottrarla alla folla che aumentava sempre di più. “Seguimi” le disse, avviandosi.

Diceva di tanto in tanto: ‘Permesso?’, o ripeteva la parola di scusa brasiliana: ‘Disculpe.’ La muraglia umana si spaccava via via che le due donne avanzavano. Alle loro spalle la folla richiudeva il aggio, le musiche si riaccendevano, le danze ricominciavano. Lorenza procedeva ora senza più paura. Non un gesto, non una parola, non una risata, non un’allusione era stata rivolta loro, che stavano violando il rito tribale del carnevale. Il rispetto della folla mascherata era istintivo. Lorenza, ando, mise qualche moneta nel tamburello d’una danzatrice, poi nelle mani protese di un nero solitario, e in quelle di un bambino quasi nudo. La folla, a piedi scalzi, danzava attorno alle due donne, in un clamore confuso di musiche e di canti. Lorenza provava la sensazione di vivere in uno strano mondo colorato di nero, di giallo di blu e di rosso, un mondo nel quale ciascuno viveva a suo modo, senza ubbidire a nessuna regola e a nessuna legge, a nessun ordine sociale e a nessuna moda. Ciascuno dirigeva la propria esistenza secondo il proprio capriccio, indossava il costume che rispondeva al proprio gusto estetico, sceglieva i colori che preferiva, gioiva senza finzione, gridava secondo i propri istinti animali. Quella umanità ingenua e bambinesca convinta del proprio divertimento, quelle espressioni ieratiche, quasi ultraterrene, le destavano dentro curiosi sentimenti d’invidia. Quella folla scatenata conosceva istanti di felicità primitiva, senza legge e senza vincoli, una felicità pura essenza della gioia.

“Noi non avremo mai tanta leggerezza spirituale, né una così completa libertà animale” disse Lorenza. “Siamo troppo gelosi di noi stessi per mostrarci come veramente siamo e troppo complicati. Viviamo con un codice penale in tasca, e in ogni pagina abbiamo scritto la parola ‘proibito’.”

“E così è giusto” disse zia Elena. “La civiltà è la regola di ciò che non si deve fare.”

“Credi che siano profondamente sinceri nelle loro manifestazioni? In certi momenti mi pare impossibile, guardandoli, che la luce dei loro occhi salga direttamente dal loro spirito.”

Erano ormai uscite dal pigia pigia della folla, e s’erano trovate sole, ora veramente sperdute, sul marciapiede d’una via secondaria.

“Non c’è creatura che non senta…” continuò la zia “…l’intima necessità di questi tre giorni di completo oblio di sé e delle cose. E non esagero se affermo che il carnevale è una ragione di vita spirituale e sociale per l’intera popolazione del Brasile.”

“Io li invidio… hanno sgombrato la propria vita di tutti i problemi e hanno il coraggio di esprimere se stessi senza finzioni.”

Riuscirono a fermare un taxi che ava.

“Si può ancora percorrere l’avenida Rio Branco?” chiesero all’autista.

“Sì, se non avete fretta. La folla aumenta e il traffico è lento.”

“Non invidiare nessuno… Tre giorni di libertà limitata comunque dalle leggi costano il sacrificio d’un anno intero. La vita non è generosissima con nessuno” la consolò zia Elena mentre l’automobile, percorrendo strade traverse, era giunta davanti alla redazione del giornale ‘A Noite’.

Centinaia di maschere entravano e uscivano dal grande atrio dell’edificio. Diecine di fotografi riprendevano i gruppi. Le immagini sarebbero state pubblicate nelle successive edizioni del giornale.

Qualcuno s’avvicinò alla porta aperta del taxi, togliendosi il cappello.

“Anche lei a Rio, donna Elena” disse il signore, baciando la mano che la zia gli porgeva. “Come sta?”

“Come vorrei stare sempre, benissimo, dottore.” Fece le presentazioni. “Questa è Lorenza, una mia nipote italiana.”

“La famosa Lorenza” osservò il dottore, sorridendo. “Ho sentito parlare di lei a San Paolo. Le clienti di donna Elena sono anche clienti mie. Donna Elena le veste, io le svesto… Scusatemi, scherzo. Mi chiamo García De Souza e sono medico a San Paolo. Sua zia è una pessima cliente perché ha una salute perfetta.”

“Mi auguro di essere per lei una cliente altrettanto pessima” scherzò Lorenza ridendo. “Rimane a Rio per la fine del carnevale?”

“Riparto martedì mattina.” Poi si rivolse a zia Elena: “Sono solo, qui, posso

invitarvi stasera al casinò Urca? C’è un concerto di Carmen Miranda. Se accettate, ditemelo subito, occorre prenotare un tavolo.”

“Non saremo troppo stanche?” domandò zia Elena a Lorenza. “Nel pomeriggio abbiamo la sfilata del corteo e dei carri…”

“Non saremo troppo stanche” rispose subito Lorenza. “Mi piace molto Carmen Miranda e trovo che la musica brasiliana sia divertentissima.” Poi chiese al loro cavaliere: “Posso farle una domanda indiscreta?”

“Le risponderò sinceramente, anche se dovessi farle una confessione” affermò convinto De Souza, portandosi una mano al petto.

“Ha nome e cognome brasiliani e parla italiano come zia Elena e come me. È brasiliano o italiano?”

“Sono brasiliano, ma ho sangue italiano nelle vene. Mia nonna era italiana, da lei ho imparato la vostra lingua, da lei ho imparato ad amare l’Italia… Deciso per l’Urca?” chiese ancora De Souza. “Vengo a prendervi verso le dieci. D’accordo?”

“D’accordo” fece zia Elena. “Siamo al Copacabana.”

L’automobile si mosse. De Souza rimase immobile in mezzo alle maschere. Seguì la macchina finché gli fu possibile scorgere il cappello bianco di Lorenza. Poi sospirò profondamente. Allora s’avviò, facendosi largo coi gomiti, senza

sapere con precisione dove andasse. Camminò a lungo, fantasticando avvenimenti impossibili, fino a quando fu così stanco da non trovar la forza di arrivare fino al suo albergo. Allora salì su un’automobile pubblica e vi si fece condurre.

Più tardi uscì di nuovo. Voleva rivedere Lorenza. Pensò di andare a trovarla al Copacabana, ma rinunciò perché non voleva sembrare importuno. Si mise sulla soglia d’un caffè dell’avenida Rio Branco e lì rimase a lungo a guardare le maschere che incessantemente gli avano dinanzi. Verso sera, quando la tenda che proteggeva l’ingresso del caffè dal sole fu sollevata, guardò la facciata dello stabile dall’altro lato della strada. In alto, da una finestra del terzo piano, Elena e Lorenza assistevano alla sfilata carnevalesca.

Tentò di attrarre l’attenzione delle due donne, ma non ci riuscì. Ogni tanto, Lorenza conversava con qualcuno invisibile che si trovava all’interno della casa oppure con ospiti affacciati ad altre finestre. Rimase a guardarla, perdendo la nozione del tempo. Due o tre volte gli occhi di Lorenza arono su di lui, e una volta si soffermarono incerti. Poi arrivò il crepuscolo. La finestra alla quale Lorenza era affacciata s’illuminò e s’illuminarono anche le altre dello stesso appartamento. De Souza non si mosse. Quando le finestre vennero chiuse, la luce nell’interno rimase accesa. Aspettò ancora. Alla fine decise di attraversare la strada. Sperava in un secondo incontro casuale. Fece appena in tempo a veder Lorenza e donna Elena insieme con un gruppo di signore e di signori salire su alcune automobili che li aspettavano. Allora si avviò lentamente verso il suo albergo.

Nell’atrio si guardò in un grande specchio. Provava la sensazione di non essere più lo stesso che viveva da trentacinque anni a San Paolo né lo stesso che ogni anno scendeva a Rio de Janeiro per trascorrervi gli ultimi giorni di carnevale. Salì nella sua camera e indossò l’abito da sera con la giacca bianca e si pettinò con quella cura che solo i brasiliani hanno per le loro chiome nere. Anzi, di più.

Si fece condurre a Copacabana con un taxi. Rio de Janeiro, illuminata, non era mai stata tanto bella e seducente. Ondate di maschere percorrevano i viali e il lungomare, cantando. Prima del tunnel che divide Rio da Copacabana, a un incrocio, una ragazza di colore in maschera, giovane e sorridente, gli si avvicinò.

“Vuole darmi la sua mano?” gli chiese.

De Souza, meccanicamente, le porse la mano sinistra aperta. La mascherina ne osservò le linee attentamente, poi coprì il palmo con la sua piccola mano nera e sottile, con le unghie verniciate di rosa, con un gesto affettuoso e protettivo.

“Avrà quel che vuole” fu la sua profezia. “Non so se saprà conservare quello che conquisterà, ma so che lo avrà.”

Lui le diede una moneta d’argento.

“Fa’ una macumba augurale per me, allora. Perché io sappia conservare quello che potrò possedere.”

L’automobile si mosse. De Souza sentì a lungo la risata squillante, chiara, soddisfatta della ragazza. Si era subito pentito di averle chiesto la macumba. Quando la macchina svoltò sulla strada in riva al mare, dimenticò la predizione e la ragazza e quando scese davanti all’albergo illuminato, gli tremavano le ginocchia. Mentre attraversava il salone, fu fatto prigioniero da una vecchia signora, sua paziente paulista. Era vestita di laminato d’argento – certamente un modello vendutole da donna Elena – e accompagnava la figlia trentenne, troppo bruna e troppo grassa, a divertirsi.

“La devo sequestrare, dottore” disse la vecchia signora con entusiasmo. “Siamo sole, stasera… mia figlia e io, e abbiamo una tavola al Golf Club della Gavea. Non abbiamo un cavaliere e lei è un inviato della provvidenza… Si metta a sedere con noi. Tutti ci invidieranno stasera, se accetterà il nostro invito…”

“Sono spiacentissimo, donna Laura” si scusò lui, resistendo anche alla preghiera di mettersi a sedere. “Stasera sono impegnato. Ho anch’io una tavola all’Urca.”

“E domani sera per il ballo al Municipale, che cosa ha deciso?”

“Anche per domani sera sono impegnato.”

“Un impegno in gonnella, caro dottore?”

“Con due gonnelle” rispose García sottovoce.

“Attento dottore, il carnevale è pericoloso.”

“Non ho paura, sono un uomo di coraggio.”

Baciò la mano a donna Laura e le disse piano: “Le consiglierei una scollatura più breve. Altrimenti quel vostro dolore intercostale ritornerà più noioso e insistente di prima.”

Strinse la mano della ragazza, mentre donna Laura borbottava: “Che ritorni pure il dolore intercostale… ma che non mi si privi di indossare un bel vestito molto scollato e nemmeno di ballare tutta una notte.”

La figlia trattenne nelle sue, per un momento, la mano del dottore.

“Mi tolga una curiosità, De Souza. Le conosco io, queste due gonnelle?”

“Probabilmente” rispose lui, sorridendo. Si allontanò lasciandole con la loro curiosità insoddisfatta.

Si diresse alla reception e fece chiamare l’appartamento di donna Elena.

“Sono qui… Volevo aspettarvi nel salone ma mi sono accorto che è più prudente incontrarci giù, nell’atrio. Ci sono in giro troppe donne sole… e questa sera ne desidero due sole, lei e Lorenza.”

“La ringrazio… Scendiamo subito.”

De Souza andò incontro a donna Elena e a Lorenza con le mani protese.

“Non vi so dire quanto vi sia grato di avermi offerto questa serata” esclamò riconoscente. La presenza di Lorenza lo esaltava. Lo rendeva timido e audace

insieme. Sentiva il bisogno incontenibile di parlare di sé, di giustificare quella su esuberanza irrequieta, di spiegare il suo stato d’animo, di farsi comprendere. Riuscì a trasmettere a Lorenza il suo entusiasmo. Lei cominciò ad abbandonarsi a quella sua leggerezza senza controllarsi, certa che zia Elena l’avrebbe protetta e trattenuta se avesse oltreato il limite.

Lorenza e García ballarono quasi tutti i balli. Dalle marce alle sambe. Cantarono anche i ritornelli più facili, uno di fronte all’altra, con le mani protese le une verso quelle dell’altro. Lei cantava e rideva.

“Ci rivedremo, domani, al ballo del Municipale?” chiese García durante una pausa.

“Certamente” promise zia Elena. “Se riuscirà a scoprirci nella folla. Saremo tutte e due mascherate.”

“Vi scoprirò sotto qualsiasi travestimento” scommise García con sicurezza, e fissando Lorenza aggiunse: “Mi pare di conoscerla bene, ormai. Basterà un suo gesto, un suo movimento, un suo sorriso per distinguerla fra le migliaia di maschere che gremiranno il teatro.”

“La metteremo alla prova.”

Carmen Miranda comparve sul palcoscenico con la sua orchestra, mentre un sipario di specchi si rialzava richiudendosi a ventaglio ai lati. Non era altissima. Non era bella. Aveva un volto da nera con la pelle bianca, caratterizzato da due occhi vivacissimi e una grande bocca. Donna energica, dominava la folla con la sua sola presenza. L’orchestra attaccò le prime battute di ‘Boneca de Peixe’

(Bambola di pece). Lei cominciò a cantare. Il viso assunse un’espressione violenta che incuteva timore. Battendo la punta del piede senza far rumore, riusciva a imprimere al suo corpo un movimento continuo e ritmato che nessun altro sapeva imitare.

“Meravigliosa!” esclamò Lorenza.

“È una donna che mi mette sempre addosso una certa apprensione” accennò García. “La sua vitalità supera la sua stessa persona, accumula energie per distribuirle poi agli altri non appena comincia a cantare.”

“Si” approvò zia Elena. “L’ho sempre considerata una donna pericolosa… Intende quello che voglio dire…”

“Ho capito.”

Quando rientrarono in albergo, accompagnate da García, era quasi l’alba. Erano stanche. Specialmente Lorenza che aveva ballato tutta la notte. Lungo la eggiata sul mare, una lieve brezza mattutina sgombrò i loro polmoni. Le colline ondulate, il grande Redentore, la distesa inquieta dell’oceano apparvero, nella bruma ancor vaga dell’aurora, come fantasmi creati per uno scenario irreale. Tacevano tutti e tre e non avevano voglia di rientrare. Non c’era nulla di più bello e più purificatore di quello spettacolo purissimo.

“Ho una proposta da farvi” annunciò García. “Non andiamo subito a dormire. Ci mettiamo tutti e tre in costume, e aspettiamo il sole facendo il bagno nell’oceano. L’acqua non è fredda, e il bagno ci ritemprerà. Dopo potremo dormire fino a tardi.”

“Per quanto mi riguarda” disse zia Elena “niente bagno. Ma Lorenza può farle compagnia, se vuole.”

“La ringrazio, ma non me la sento di entrare nell’acqua così presto… Ho voglia d’una doccia caldissima e d’un sonno interminabile. Non sono allenata al carnevale brasiliano e sono stordita come se mi fossi ubriacata…”

García non insistette. Erano arrivati davanti all’ingresso dell’albergo. Lui baciò la mano a tutte e due.

“Buon riposo” sussurrò. “Vi riservo due posti al mio tavolo, stasera. Ho il numero 190, che è situato proprio di fronte al palcoscenico sulla balconata che divide il secondo ordine di palchi. Sono completamente solo.”

“Grazie. Ma è lei che dovrà scoprirci.”

Donna Elena e Lorenza si rividero soltanto verso sera. Erano pronte ad affrontare un’altra notte di follia. Si ritrovarono nel salone del parrucchiere. Fuori, intanto, Rio era stata, ancora una volta, presa d’assalto dal carnevale. Non era più possibile circolare per le strade principali. Dovunque, gruppi di maschere cantavano, ballavano, suonavano. Dormivano sui marciapiedi, sulla spiaggia, sulle gradinate, pronte a riprendere a cantare, danzare e suonare.

Quando donna Elena e Lorenza uscirono dall’albergo, furono accompagnate da un mormorio di ammirazione per la perfezione dei loro costumi, la ricchezza delle stoffe e la magnificenza dei gioielli.

“Credi che saremo premiate?” domandò Lorenza.

“Non posso giurarlo, ma credo di sì. Non saranno molti i costumi così perfetti come i nostri.”

La piazza dinanzi al teatro Municipale era invasa da una folla curiosa che assisteva al aggio delle maschere. Le due ali tendevano a chiudersi sempre di più, nonostante il servizio d’ordine. Non era quindi possibile avvicinarsi alla scalinata del teatro con l’automobile. Occorreva scendere all’inizio del tunnel formato dai curiosi e camminare per quasi duecento metri prima di arrivare davanti alla scalinata dov’erano schierati i valletti del teatro. Una fila interminabile di automobili si sgranava a perdita d’occhio.

“Non sembra vero” disse Lorenza, scendendo e porgendo la mano alla zia. Camminava diritta, senza guardarsi attorno. Zia Elena era fierissima di lei.

Sulla soglia del teatro, dopo aver salito la scalinata, Lorenza si girò a guardare l’immensa folla che gremiva la piazza e la processione delle maschere che procedeva lentamente. Entrarono. La maggior parte degli uomini era in abito da sera. Le donne nella grandissima maggioranza, in costume.

“Non ti diverti?” le domandò zia Elena dopo qualche minuto.

“Non lo so ancora.”

“Che cosa ti stupisce tanto?”

“Non capisco, zia Elena, perché persone serie e composte fino al momento di entrare nell’atrio, si trasformano appena vi hanno messo piede e di colpo si mettono a cantare e a ballare anche in maniera oscena.”

“Non ti stupire. Questo è il carnevale brasiliano. La danza e il canto sono nel sangue di ognuno…”

“Io non avrei mai il coraggio di ballare così in pubblico…”

Zia Elena la guardò come si guardano i bambini che affermano cose che non potranno mantenere, e le batté una mano sulla spalla.

“Ne riparleremo domani mattina” le disse. “In ogni modo, per il momento, metti da parte la timidezza, qui non esiste.”

Non si erano accorte che molti si fermavano a guardarle. In certi momenti la folla si apriva per lasciarle are mentre mormorii di approvazione si levavano qua e là. Nessuno indossava costumi altrettanto ricchi e altrettanto precisi.

“Andiamo a iscriverci per il concorso” disse zia Elena.

Lorenza si lasciò trascinare ivamente. Davanti al notaio che scriveva i nomi dei concorrenti, ebbe voglia di fuggire. Ma zia Elena, che le stava accanto, glielo

impedì con un gesto affettuoso.

“Scrivi tu il tuo nome, è più semplice” le suggerì, e Lorenza scrisse il suo nome sulla lista, come se sottoscrivesse una sentenza a morte.

“Ora andiamo nel nostro palco” disse zia Elena. “Così i nostri amici potranno vederci. Voglio che tu ti diverta. Non pensare a nulla che sia triste… è carnevale.”

Si sedettero. Un pescatore napoletano, pantaloni neri, camicia a quadretti con le maniche rimboccate, scarpe scollate di vernice, fusciacca rossa alla vita, fazzoletto rosso legato attorno al collo e con una piccola maschera di raso sul volto, si fermò a pochi metri da loro. Aveva gli occhi neri, accesi di allegria, fissi in quelli di Lorenza. Per qualche istante né l’uno né l’altra poterono distogliere i loro sguardi. Zia Elena rimase turbata, come se qualche cosa d’inevitabile stesse per accadere.

“Posso invitarla a ballare?” domandò il pescatore a Lorenza.

La giovane chiese il permesso alla zia.

Lei fece di sì col capo, ridendo, mentre Lorenza, piegandosi, diceva alla maschera di venire a prenderla nel corridoio. Ma il marinaio napoletano le afferrò le mani e la invitò a sedersi sul parapetto del palco.

“Mi sarà più facile prenderla fra le braccia e aiutarla a scendere.”

‘Giuseppina Bonaparte’ e il ‘Pescatore napoletano’ ballarono come se fossero stati soli nel teatro.

“Non v’è creatura più bella di lei…” canticchiò il pescatore.

“Stanotte tutto è permesso” scherzò Lorenza lasciandosi trasportare dalla musica “anche le bugie.”

“Questa è falsa modestia. Sa benissimo quanto vale.”

“Appunto per questo so ciò che devo pensare di me. E nessuno può conoscermi e giudicarmi meglio di come posso fare io stessa.”

Ballarono ancora, in silenzio, immersi nei propri pensieri. Era per loro impossibile rompere il contatto che si era creato.

“Perché non si toglie la maschera?” domandò Lorenza.

“Non ancora, se me lo permette.”

ò qualcuno che riconobbe il pescatore napoletano. Gli batté una mano sulla spalla tentando di farsi cedere la ballerina, ma il pescatore rifiutò.

“Per ballare con Giuseppina Bonaparte” disse, stringendo maggiormente a sé Lorenza, “occorre il permesso di Madame Mère. Quarto palco di prim’ordine a destra.”

La musica a un tratto cessò. Dall’alto, un megafono annunciò la sfilata delle maschere concorrenti ai premi.

“Mi riaccompagni al mio palco” pregò Lorenza. “Devo mettermi un po’ di cipria, rifarmi le labbra, constatare che la toilette non s’è sciupata. Concorriamo… io e la signora che è nel mio palco.”

“Vi accompagnerò fino alla giuria.”

Riuscirono a fuggire la folla da una porta laterale, e raggiunsero il palco abbastanza rapidamente. Zia Elena non era sola. Molti suoi amici erano andati a salutarla. L’ingresso di Lorenza fu accolto da un’ovazione. Il pescatore dovette togliersi la maschera.

“È lei…” mormorò Lorenza. “Non l’avrei mai riconosciuta… dottor De Souza.”

Zia Elena e Lorenza si rinfrescarono, e accompagnate da García si diressero sul palcoscenico. La sfilata era già cominciata. Bahiane, Colombine, Madame di Pompadour, parecchie Giuseppina Bonaparte, qualche Carlotta Corday, qualche araba, qualche ufficiale di Marina con rotondità troppo accentuate sfilarono davanti al Comitato. Lorenza e zia Elena erano quasi le ultime. Zia Elena sicura di sé, Lorenza un po’ impacciata. Ma quando si trovò di fronte agli uomini che

dovevano giudicarla un lieve sorriso le illuminò il volto cancellando ogni traccia di timore.

Lorenza e zia Elena vinsero il concorso. Il primo premio fu assegnato a Lorenza, il secondo a zia Elena, ‘per l’eleganza del costume, per la sua precisione storica, per la disinvoltura con la quale i costumi erano indossati, per l’assoluta aderenza al tema del veglione.’ Questa la motivazione. Lorenza fu premiata con uno stendardo con i colori del Brasile, e una utilitaria. Zia Elena con uno stendardo uguale a quello di Lorenza e una giacca di pelliccia di volpi argentate.

Lorenza era raggiante. Strinse una dopo l’altra la mano dei giurati. Subito dopo si trovò fra le braccia di García. Sapeva che non si sarebbe sottratta. Lui la strinse a sé e la baciò sulle guance, battendole una mano sulla spalla all’uso brasiliano.

“Sono felice per lei… le faccio subito una proposta, se non sa guidare…”

“Non benissimo.”

“Glielo posso insegnare io… In una settimana le farò fare gli esami e prenderà la patente. Dopo di che, a San Paolo, faremo molte gite, guidando un po’ per ciascuno.”

“Non ipotechiamo il domani…” disse Lorenza. “In Italia si dice che ‘a carnevale ogni scherzo vale’.”

“Ma io non scherzo” ribatté García serio. “Venga a cena. Ho già dato disposizioni perché comincino a servire al nostro tavolo… Che ne dice, donna Elena?”

“Che lei è un uomo prezioso.”

Salirono nel ridotto. Il loro palco era pieno di maschere. Nella sala non era quasi più possibile ballare. La folla si muoveva a ritmo, senza che per questo fosse necessario essere in due. Una vera bolgia.

“Non mi par vero” sospirò Lorenza, sedendosi a tavola. Dal suo posto, aperto su una balaustra, poteva guardare dall’alto l’impressionante spettacolo che vi si svolgeva. La ragazza, coi gomiti sul tavolo e le mani giunte, si chiedeva se tutto quello che le accadeva attorno fosse vero o fosse un sogno.

Zia Elena mangiò con appetito sorvolando sull’inappetenza di Lorenza e sulle attenzioni di García nei suoi confronti. Conversò tutta la sera. Il suo brio finì per trascinare nella discussione anche i due giovani.

Più tardi, quando la musica da ballo riprese, sembrò che si fosse scatenato l’inferno. Uomini e donne abbandonarono le loro tavole, interruppero le conversazioni e si lanciarono giù dalle gallerie, dai palchi, dai corridoi, dagli atrii verso la platea cantando. Il caldo nel teatro aveva ormai reso l’aria quasi irrespirabile. Le giacche bianche da sera erano così inzuppate di sudore che pareva fossero state immerse nell’acqua e poi indossate. I costumi delle donne cominciavano a perdere la loro forma, i capelli erano incollati, le mani umide. Nonostante tutto sembrava che la voglia di ballare e di cantare si moltiplicasse. Nessuno pensava ad andarsene.

García De Souza, come gli altri, ai primi accordi della musica era balzato in piedi, aveva bevuto l’ultima coppa di spumante in onore di Lorenza, e s’era inchinato davanti a zia Elena.

“Permette, donna Elena?”

Zia Elena era scattata dalla sedia come se avesse avuto vent’anni, leggera e graziosa nonostante la sua età e nonostante il costume di altri tempi, e aveva cominciato a ballare con uno slancio e una vivacità sorprendenti. Lorenza, che li seguiva attentamente, aveva la sensazione di assistere a un numero di varietà eseguito da due artisti. Quando le arono vicino, li applaudì.

Ormai si cominciavano a notare gli effetti del vino. Tuttavia non v’era una sola persona che avesse perduto il controllo di se stessa, e nemmeno qualcuno che si fosse permesso un gesto o una parola meno che corretta.

Lorenza aveva voglia di chiudere gli occhi. E non s’accorse che era stata colta dal sonno improvvisamente, e aveva sognato. Si ridestò quando zia Elena, finito di ballare, si sedette di fronte a lei.

“Sei stanca?” le chiese. “Vuoi che andiamo a casa?”

“Non sono stanca, zia Elena… sono piuttosto stordita…”

Ma García non le diede il tempo di proseguire, le porse le mani e l’attirò a sé e la fece ballare.

Erano le quattro del mattino.

Lorenza non aveva più un’idea del tempo. Le pareva che tutta la vita dovesse trascorrere così, tra una samba e una marcia, tra un canto e una risata. Ogni tanto si rivedeva com’era un tempo, com’era al suo sbarco in Brasile, com’era nella sua casa milanese. Aveva la netta sensazione che quella Lorenza fosse un’altra della quale aveva sentito vagamente parlare, che forse aveva anche conosciuto, ma che era ormai lontana, cancellata dal tempo.

“Ora dobbiamo andare a casa” disse García, guardando negli occhi Lorenza. “Inutile nasconderlo, ha sonno. Le bambine bisogna metterle a letto se cominciano ad avere pensieri che le fanno stare zitte, quando tutti gli altri parlano.”

“Non ho sonno, dottore, glielo giuro. Non dobbiamo andar via per causa mia. Posso permettermi il lusso di stare alzata un’intera notte senza sentirmi stanca.”

“Qui non si tratta di ‘stare alzata’ un’intera notte. Qui si tratta di ballare un’intera notte e con questa temperatura. Usciamo. Domani, prima di partire, mi occuperò io del ritiro dei vostri premi e della spedizione dell’automobile a San Paolo… andremo insieme a ritirarla. D’accordo?”

Rispose zia Elena: “D’accordo, andremo tutti insieme. Anzi verrà nella nostra automobile, e al ritorno guiderà lei la macchina di Lorenza.”

“È inteso.”

Quando uscirono dal teatro era quasi giorno. L’orizzonte, sull’oceano tranquillo e grigio, s’era di una tenue luce, chiara e rosata.

La città sembrava abbandonata. Qualche maschera dormiva profondamente, lungo le strade, su selciati coperti di coriandoli, di carte colorate, di serpentine. Rio, la ‘cidade maravilhosa’ era stata devastata. Figure barcollanti ritornavano a casa a piedi, ballando e cantando. Davano, però, la sensazione di essere qualche cosa di sorato e insieme di sopravvissuto, di grottesco e di triste che faceva rabbrividire.

“Si è divertita?” chiese García a Lorenza che taceva. “Le è piaciuto il nostro carnevale? Che impressione le ha fatto?”

“Formidabile” rispose Lorenza. “E non mi chieda ora impressioni precise. Sono troppo confusa io, e troppo confuse le mie impressioni. Occorreranno alcuni giorni perché possa veder chiaro e capire cosa ho vissuto.”

Lui le prese una mano, e chiese, rivolgendosi a zia Elena: “Mi permetterà di venire qualche volta a salutarla, la sera, dopo che il vostro lavoro e il mio ci lasceranno un po’ di quiete?”

“Naturalmente, dottore” rispose zia Elena. “Ci telefoni non appena desidera venire a trovarci.”

Lorenza non disse nulla. Guardò l’oceano, senza ritirare la mano che era rimasta prigioniera in quella di García.

“Ora dovete fare una doccia fredda” consigliò il dottore, rivolgendosi a entrambe ma stringendo la mano di Lorenza per attirare la sua attenzione, “e farvi servire subito dopo una tazza di latte appena tiepido. Bevete del latte solo, senza caffè, e andate subito a letto. Quando tornate a San Paolo?”

“Domattina, con l’aereo. E lei?”

“Io parto questa mattina, con l’aereo delle dieci.”

“E non si riposa?”

“Non posso. Ho appena il tempo di cambiarmi e di occuparmi dei vostri premi… Nel pomeriggio ho l’ambulanza dalle tre alle sei, e non posso abbandonare i miei malati… Ci rivedremo a San Paolo.”

“D’accordo.”

Davanti all’albergo García baciò la mano alle signore e attese che scomparissero nell’ascensore prima di allontanarsi. Fermò l’automobile sulla strada per salutarle quando si affacciarono sul balcone per chiudere le persiane. Lorenza e zia Elena rimasero a guardare l’oceano.

“Non sei stanca, zia Elena?”

“Mi pare di no, ma sentiremo la stanchezza poi. Ora andiamo subito a dormire.”

“La doccia prima, e il latte tiepido che ha consigliato il dottore, poi” disse Lorenza.

“Tu prenderai il latte, io un buon caffè. Senza caffè non prendo sonno. A me la caffeina fa l’effetto contrario, mi fa dormire.”

Entrambe si ritirarono nella propria camera, si spogliarono del costume, nascosero i capelli nella cuffia di gomma e si misero sotto la doccia quasi fredda. Fu un refrigerio immediato e delizioso. Poi indossarono la vestaglia e si ritrovarono ancora insieme nella camera di Lorenza, per far colazione. Avevano bisogno di parlare. Lorenza bevve il suo latte tiepido, zia Elena il suo caffè. Poi si abbracciarono.

“Grazie…” esordì la ragazza. “Non avrei mai immaginato di poter vivere tre giorni come questi ultimi. Non li dimenticherò mai.”

Zia Elena le dette uno scapaccione affettuoso.

“Vai a dormire, e non mi ringraziare. Tu non sai e non immagini che cosa sei per me. Mi hai ringiovanita, mi hai… Non so come dirti…” Guardò lontano, oltre l’orizzonte, oltre il tempo, cercando le parole che esprimessero con precisione i suoi sentimenti, poi abbracciò Lorenza e la tenne stretta a sé. “Ecco… non mi ricordo se ho desiderato, un giorno, di avere un figlio. Ci avevo rinunciato senza accorgermi che soffrivo della rinuncia…” Fece una pausa. Si strinse nelle braccia e continuò: “Poi sei venuta tu… e ti ho accolta come un figlio. Ora sei qui con me, mi sono abituata a te. Sono io che ti ringrazio d’essere venuta a San

Paolo, che ti ringrazio d’essere rimasta con me, che ti ringrazio di aver dato una ragione alla mia esistenza assurda… E ti ringrazio anche di questo carnevale così dolce… Quando ballavi, pensavo che ‘mia figlia’ ballava… E tu non immagini come questo pensiero abbia riempito e appagato il mio cuore…”

Baciò Lorenza sui capelli, la mise a letto, chiuse le imposte, abbassò la tenda. “Dormi” le disse e se ne andò in punta di piedi. Quando rientrò nella sua camera, si buttò sul letto e pianse. Non seppe mai spiegare a se stessa il perché di quelle lacrime. S’addormentò singhiozzando, disperata.

Fuori il sole inondava la riva, saliva ad accendere bagliori sulle vetrate dell’albergo. Ma quella mattina la spiaggia rimase deserta. Rio de Janeiro, la maravilhosa, la lussuriosa, dormiva.

Cap VI

Quindici giorni dopo Lorenza s’ammalò. Tremava di febbre e si sentiva assolutamente senza forze. Zia Elena era partita per l’Europa. Lei si trovava sola con i domestici. Chiamò Maria, la cameriera.

“Non sto bene, Maria… Credo di avere un febbrone da cavallo. Telefona alla sartoria… non posso andare, e prega donna Clotilde di venire a prendere gli ordini qui da me… Poi chiama il dottor De Souza.”

Maria corse ad avvertire Mami, la cuoca nera, che con un decotto di erbe, che lei sola conosceva, aveva guarito Aristide, l’autista, da un attacco di febbri equatoriali. Mami si precipitò al capezzale di Lorenza.

“Non si spaventi” la rassicurò con una voce sottile, così buffa “non si spaventi… Non è nulla. Ora le preparo una medicina e guarirà subito. Mi dia una mano.”

Lorenza porse la mano sudata e fiacca alla cuoca. Questa ne tastò le giunture, piegò e ripiegò le dita, la tenne fra le sue per misurarne la temperatura. Poi, si piegò su Lorenza e ne esaminò attentamente il volto, rialzandole le palpebre per studiare il colore della cornea.

“Il mio decotto andrà benissimo!” annunciò.

“Bisognerà chiedere il consiglio del dottore, Mami. Non voglio prender nulla, senza il suo permesso.”

“Il dottore approverà, il dottore conosce il mio decotto…”

E senza attendere risposta se ne andò. Poco dopo Lorenza la sentì gridare nel giardino contro Rodolfo che s’era messo a sistemare una catasta di legna facendo un chiasso indiavolato.

“Smettila, che donna Lorenza sta male…” e s’allontanò brontolando.

Prima che tornasse con le erbe indispensabili per preparare il decotto, García De Souza era già arrivato a visitare Lorenza. Da quando si erano lasciati a Rio de Janeiro davanti all’albergo non s’erano più visti. L’automobile vinta al ballo del teatro Municipale era andata a prenderla Aristide, perché De Souza era occupatissimo con i suoi ammalati e perché era usanza che quelle incombenze fossero assolte dai domestici.

Quando si piegò su Lorenza e le pose una mano sulla fronte era emozionato o almeno così diede a vedere. La guardò a lungo, attentamente, scoprendole le tempie, esaminandole le orecchie, le gengive, il bianco degli occhi. Poi le mise il termometro nel cavo dell’ascella e le incrociò le braccia sul petto.

“Ieri, come si sentiva?” le domandò.

“Bene. Mi sono svegliata stamani così… Sono tutta indolenzita, come se mi

avessero bastonata.”

“Paga il suo tributo al Brasile. Non si spaventi. Non è nulla. Fra due o tre giorni potrà alzarsi.”

“Mami vuole che prenda un suo decotto… Non so di che si tratti, ma è uscita apposta per acquistare le erbe.”

“E lei lo berrà” disse il dottore, ridendo. “Non è veleno. Le farà benissimo, meglio di qualsiasi medicina. Se ne renderà conto dopo qualche ora che l’avrà preso. Non è ammalata, si tratta semplicemente d’una disfunzione intestinale dovuta all’eccessivo caldo di questi giorni. Aggiunga lo strapazzo del lavoro…”

“E che, nonostante siamo ormai alla fine della stagione lavoriamo come se l’estate cominciasse ora…” aggiunse Lorenza.

“Dirà a Mami che le dia il suo decotto in tre riprese, non tutto insieme. Una tazza da tè subito, una dopo quattro ore, una dopo cinque ore. Beva soltanto acqua minerale, finché la febbre non se ne sarà andata.”

Tolse il termometro. Il mercurio segnava trentanove gradi.

“Non è poi il febbrone che si riscontra in questi casi… Guarirà rapidamente, e ogni mattina, almeno per tutto il periodo del gran caldo, dovrà prendere un cucchiaino di sali effervescenti. Null’altro.” Le prese ancora una mano, e sedendosi accanto al letto, aggiunse: “Basta il riposo. Tornerò a visitarla stasera,

per constatare l’effetto del decotto di Mami… È così bella col volto e gli occhi lucidi che nessuno le direbbe che è ammalata…”

“Invece, io mi sento davvero tutta scombussolata…”

“Desideravo rivederla” De Souza cambiò discorso “ma dopo il carnevale non è stato possibile. Di solito dopo quei tre giorni scatenati il numero degli ammalati raddoppia. Indisposizioni eggere, ma che esigono la presenza del dottore. Aggiunga i piccoli incidenti… In quei giorni nessuno si controlla più…”

“Ci rivedremo… quando tornerà zia Elena…”

“Ci rivedremo prima. Perché non appena si sarà rimessa verrà da me per una visita accurata, misureremo la pressione del sangue e sceglieremo una cura ricostituente indispensabile in questo clima quando si lavora come lei.”

“Sì, dottore. Grazie.”

De souza si alzò. “A questa sera. Stia tranquilla.”

“Non ho paura.”

Lui le baciò le mani teneramente e se ne andò a malincuore.

Lorenza rimase in uno stato di quiete. Non le dispiacque essere ammalata. In questo modo aveva l’opportunità di vedere García, anche se non sapeva bene a cosa attribuire quel piacere.

Mami le fece bere il decotto in tre riprese secondo il consiglio del dottore. Verso sera la febbre era già diminuita. Quando il dottore tornò erano quasi le dieci.

“Mi scusi” le disse, prendendole il polso. “Non ho avuto un momento di tregua in tutto il giorno, ma lei è ormai guarita. In ogni modo la febbre non c’è più…”

“Mi sento senza forze…”

“Torneranno domani, dopo un buon sonno. Ora la portiamo nella camera di zia Elena, perché il suo letto si possa asciugare.”

“Non credevo che si potesse sudare tanto…”

“Non è stato solo merito del decotto di Mami, oggi abbiamo toccato i quarantadue gradi e stare a letto con questa temperatura dev’essere infernale… Ora può bere una tazza di caffelatte, e poi si addormenterà. Domattina, tutto sarà finito. Ma rimarrà a letto ancora un giorno e non ritornerà al lavoro finché non l’avrò visitata nel mio studio.”

“Sì… la ringrazio” disse Lorenza. “È stato per me il medico e l’infermiere.”

“Sono stato solo un amico… Domattina telefonerò per avere notizie; se non avrà più febbre, non verrò. L’aspetterò dopodomani, da me. Si faccia accompagnare da Aristide, con la macchina. Non cammini troppo, con questo caldo.”

“Sì.”

Pochi minuti dopo Lorenza dormiva profondamente.

Quando si svegliò era mattina. Si sentiva riposata e leggera come se si fosse liberata di ogni malanno.

“Credo che potrei alzarmi senza fatica” confessò a Mami che le aveva portato una tazza di caffè “mi sento veramente bene.”

“È un’illusione. Non immagina la fiacca che lasciano certe febbri. Se vuole provare, l’aiuto a mettersi in piedi, ma le consiglio di non farlo. Rimarrebbe troppo avvilita. E poi deve ubbidire al dottore. Un giorno di letto basterà per farla ritornare com’era, sana e forte… Dopodomani potrà riprendere il suo lavoro.”

“Che notizie, dalla sartoria?”

“Nessuna. Il dottore ha proibito di disturbarla. Deve soltanto riposare.”

La giornata ò lenta e quieta. Lorenza sonnecchiò quasi continuamente.

García non diede notizie di sé. Lei che lo aspettava rimase delusa. In tarda serata, lui telefonò e avute notizie da Rodolfo diede ordine che Lorenza si alzasse l’indomani.

Il giorno dopo, nonostante la sua buona volontà, Lorenza non fu in grado di tornare alla sartoria. Si sentiva ancora troppo stanca. Trascorse il pomeriggio in giardino all’ombra della grande manghera, a leggere i giornali italiani. E studiò la possibilità di realizzare un’idea che le era venuta. Fece togliere dagli armadi e dai bauli gli abiti che aveva portato dall’Italia e che non aveva ancora indossato, compresa la biancheria del suo corredo, e fece portare tutto in sartoria. Era un peccato che tanti elegantissimi indumenti rimanessero negli armadi e nei cassetti a invecchiare e are di moda. Era meglio sbarazzarsi subito di tutto, vendere quello che era possibile, e poi, se fosse stato necessario, rifare tutto nuovo.

Ritornò in sartoria col suo corredo. Fece esporre tutta la nuova merce di marca italiana, così che le clienti potessero esaminarla. Poi telefonò a De Souza.

“Posso venire per la visita della quale abbiamo parlato?” gli chiese. “Mi sento benissimo e mi pare di non aver alcun bisogno di ricostituenti.”

“L’aspetto…”

“Sarò da lei fra poco…”

Si guardò nello specchio. L’idea di non avere zia Elena vicino, di non sentirsi protetta da lei, da un lato la sgomentava, dall’altro le permetteva di godere di una libertà mai avuta.

‘Non appena mi avrà visitata, me ne andrò subito. Del resto è sciocco aver paura… Come se fossi una bambina e non avessi mai conosciuto un uomo… Io che sono stata sposata…’ aggiunse dopo un momento di esitazione: ‘Sia pure per un’ora…’

De Souza l’aspettava sul pianerottolo al cancelletto dell’ascensore. Indossava il camice bianco abbottonato dietro. La precedette nell’anticamera. Lorenza entrò nel suo studio. Due porte erano aperte. Una metteva in un salotto nel quale alcuni pazienti aspettavano, un’altra nella sala visita.

“Si accomodi” l’invitò García con voce professionale.

“C’è altra gente che aspetta di essere visitata?”

“Può aspettare. Non pensi ai miei pazienti, pensi a… a lei, anzi… a noi. Mi dica come sta.”

“Mi pare di star benissimo.”

“Si avvicini alla finestra, la voglio esaminare bene.”

La guardò attentamente in piena luce, e la pregò di togliersi il leggero abito bianco che indossava. La pregò di stendersi sul lettino e le fece un’accuratissima visita senza dire una parola, prendendo appunti, e indugiando sopratutto nell’esame del fegato, sempre in pericolo nei paesi sudamericani. Quando ebbe

terminato, l’aiutò a scendere, la pregò di rivestirsi, poi l’invitò a sedersi sul divano che occupava un angolo della stanza.

“È più che sana… la febbre che ha superato non è che un lievissimo disturbo che non ha lasciato nessuna traccia. Deve essere soddisfatta…”

“Nessun ricostituente, allora?”

“Anzi… Cominceremo subito.”

“Grazie.”

“L’aspetto venerdì, ancora. Per questi primi giorni si corichi un po’ più presto del solito, e non lavori troppo.”

Voleva dirle anche altre cose, ma non trovò la maniera di esprimersi. Voleva conquistare quella ragazza, ma essendo straniera non sapeva come comportarsi. Soltanto quando furono davanti alla porta, al momento di salutarsi, ruppe ogni indugio. Le baciò le mani sulle palme tiepide, e mormorò tremando, come un ragazzo alla sua prima dichiarazione: “Lorenza, ti amo…”

Lei ritirò le sue mani. Lui non le trattenne. Un momento dopo la giovane era scomparsa. De Souza si ritrovò solo e smarrito. Era mortificato. ‘Perché non ha detto nulla?’ pensò. ‘Perché se n’è andata come se qualcuno l’avesse offesa? Quando ballavamo insieme, durante il carnevale, l’ho sentita tremare fra le mie braccia… L’ho vista emozionarsi per un mio sguardo, per una parola… Allora

perché è fuggita?’

Non riusciva a staccare il pensiero da Lorenza che era salita in automobile, senza voltarsi a guardare le sue finestre, e si era allontanata per una direzione diversa da quella che conduceva alla sartoria. ‘Dov’è andata? Perché mi ha lasciato senza dirmi nemmeno una parola?’

Prima di ricevere un altro paziente telefonò al laboratorio di zia Elena.

“È rientrata donna Lorenza?” chiese.

La telefonista gli rispose che da qualche minuto era nel salotto di prova.

“Desidera parlare con lei?”

“No, non importa. Non è necessario dirle che ho telefonato.”

Lorenza era rientrata agitatissima. S’era comportata come una ragazza senza un briciolo d’intelligenza, come una di quelle timide e irragionevoli civette che fanno di tutto per provocare una dichiarazione d’amore e poi si divertono a dire di no. Ma quando García le aveva detto: ‘Lorenza, ti amo’, lei non era preparata. Sentiva che prima aveva bisogno di fare uno scrupoloso esame di coscienza. Aveva bisogno di parlarne con zia Elena. Era convinta che la sagacia d’una donna che aveva già vissuto e che sapeva in che maniera amavano gli uomini del suo paese l’avrebbe aiutata a decidere.

Rimase comunque una paziente del dottor De Souza. Un giorno sì e uno no, si recò da lui per la sua cura ricostituente. Il medico non le disse più nulla, non fece alcun accenno alla sua dichiarazione. Preparò le pozioni, scrupolosamente, più come medico che come amico.

In quei giorni ricevette una lettera di Marco Ansperti.

‘Carissima Lorenza,

zia Elena è venuta a trovarmi. È arrivata la sera a Milano ed è ripartita la mattina dopo. Le ho fatto incontrare i tuoi genitori. Non ti descrivo la scena alla quale ho assistito, per non farti piangere. Per poco tua madre e tuo padre non hanno preparato i bagagli e non sono partiti con lei. Se avessero avuto pronto un aporto in tasca, con tanto di visto brasiliano, credo che a quest’ora sarebbero diretti tutti e due alla volta di Rio de Janeiro. Zia Elena mi ha molto parlato di te, ed è così soddisfatta di averti con lei che ha dichiarato ai tuoi genitori di non attenderti più in Italia perché non ti avrebbe lasciata ritornare a casa. E tu sai come zia Elena sia categorica quando si lascia sfuggire certe affermazioni. Come puoi immaginare, non l’ho lasciata in pace finché non m’ha raccontato tutto della vostra vita brasiliana, finché non mi ha detto che cosa fai, chi frequenti, chi preferisci. E m’ha convinto che non sarebbe male se mi decidessi a fare una scappata in Sud America. Ma non posso. I miei impegni in Europa finiranno soltanto fra dieci mesi. Non posso quindi partire. Ti invidio. Vorrei raggiungerti per non farti dimenticare quelli che ti vogliono bene, quelli che aspettano il tuo ritorno… Perché io credo che un giorno ritornerai… Ritornerai sola come sei partita, con una grande esperienza e una grande saggezza. Ritornerai giovane come quando t’ho salutata, e ti verrò incontro quando sbarcherai in Italia. Verrò io solo a riceverti, per godermi, prima degli altri, la gioia di rivederti. Ti bacio le mani. Marco’.

Lorenza lesse la lettera tutta d’un fiato e la gettò in un cassetto. Invece di consolarla, l’aveva irritata. Da tempo, ormai, non pensava più a Marco Ansperti

e non avrebbe mai immaginato che zia Elena tornasse in Brasile ando per l’Italia.

‘Vorrei sapere che cosa gli ha detto di me per provocare questa lettera… Non ho alcuna voglia di rivederlo… Tutta la mia vita è cambiata oramai, staccata dal mio ato… È come se avessi un’altra anima. Ora sono una donna che lavora, una donna che basta a se stessa… e non ha bisogno di nessuno.’

Provava un senso di orgoglio profondissimo, come se davvero dovesse soltanto a se stessa quello che era diventata in pochi mesi di vita brasiliana. ‘Capisco che sono un’ingrata, ma non posso ritornare indietro… Non ho ancora deciso della mia vita, ma so con certezza che non sarà mai unita a quella di Marco. Gli sono amica, gli posso essere soltanto amica…”

Quando andò da De Souza per la solita iniezione era così nervosa che il medico si preoccupò.

“Che cosa ha? Che cosa le è accaduto?”

“Ho ricevuto una lettera dall’Italia… Una lettera molto cara e gentile che ha avuto il dono di esasperarmi. Riconosco di essere ingiusta, ma non posso fare a meno di ribellarmi…”

De Souza sorrise soddisfatto. A poco a poco lei diventava più docile. Già nelle due visite precedenti s’era trattenuta qualche momento a chiacchierare con lui. Adesso si stava confidando. Gli parlava di cose che l’avevano ferita profondamente.

“Vale proprio la pena di ribellarsi e soprattutto subire un simile stato di nervosismo?” le domandò lui sorridendo.

“Forse no…” e anche Lorenza sorrise “Forse no… Ma non sempre riesco a dominarmi e a ragionare.”

“Chi le ha scritto?”

“Un nipote di zia Elena. Lo stesso che m’ha aiutata a venire in Brasile. Spera che ritorni a casa. Dice che m’aspetta… E io non voglio…”

“Gli risponda che preferisce rimanere in Brasile… che… Veramente, Lorenza, non so che dirle, perché ignoro completamente quali siano i suoi desideri e le sue decisioni.”

“Caro dottore, non ne so nulla nemmeno io. Preferisco non saperne nulla.”

“Se fosse meno… meno ribelle, potrei tentare di darle un consiglio.”

“So essere anche docile e so accettare i consigli quando voglio.”

“E ora che cosa vuole?”

“Un suo consiglio.”

“Grazie. Allora, rimanga in Brasile. Anche se desidererà un giorno andare in Italia, prenda un biglietto di andata e ritorno. I suoi nuovi amici le vogliono davvero bene… Mi crede?”

“Le credo.”

Lui si sedette di nuovo di fronte a lei e posò la sua mano su quella di Lorenza. Lei arrossì.

“Se le ripeto che sono innamorato di lei, mi crede?”

Lorenza non rispose. Impallidì. Alzò gli occhi su García e rispose: “Le credo.”

De Souza si piegò e accostò le labbra nel cavo della mano di lei. Mormorò: “Grazie, grazie”, poi si alzò, girò attorno al lettino sul quale erano appoggiati e l’aiutò a rialzarsi.

“Posso anche credere che mi vuole un poco di bene?”

“Sì… sì, se le fa piacere…”

Lui avrebbe voluto abbracciarla, stringerla tra le sue braccia, baciarla, ma non lo fece. Si dominò. Le posò soltanto una mano sulla spalla, con un gesto tenerissimo di protezione.

“Ora non deve aver più paura di nulla, Lorenza. Io sono pronto a fare di tutto per lei…”

Lei mormorò ancora “Sì…”

Era sopratutto felice di non doversi difendere dall’irruenza di quell’uomo che diceva di amarla. Aveva bisogno di aver fiducia, di sentirsi al sicuro. Erano così vicini, che le labbra di lui le sfioravano i capelli.

“Ti ho amata prima ancora di conoscerti, per quello che di te sentivo raccontare… Poi quando ti ho vista, quando ti ho conosciuta, ti ho amata per quel che sei…”

Lei si comportava con innata timidezza. La sua innocenza genuina e un po’ scontrosa incantava De Souza abituato alle donne brasiliane, capaci in amore di saltare le barriere a piè pari.

“Naturalmente ne parleremo a zia Elena, quando tornerà…”

García si piegò su di lei, e la baciò sulle labbra. Temeva che Lorenza fuggisse ancora una volta. Invece, con sua sorpresa, lei acconsentì a quel bacio. Lui ne fu

così felice, provò una sensazione così intensa che gli parve d’aver conquistato l’intero mondo. Certo, non la capiva perfettamente. C’era in lei qualche cosa che gli sfuggiva, come un segreto nascosto e difficile da confessare. Ma nonostante questo, tutto di lei gli appariva adorabile.

“Credo che ti amerò troppo e che mi farai soffrire. È un presentimento che non mi abbandona da quando ho incominciato a pensare a te e ancora non sapevo quasi chi tu fossi.”

“Se m’accorgessi di farti soffrire, non me lo perdonerei mai…” disse Lorenza.

“Ora non ho il coraggio di lasciarti andar via. Vorrei che rimanessi qui con me” la interrupe De Souza.

“Devi invece ricevere i tuoi pazienti che aspettano…” lo rimproverò lei.

“Allora sarò proprio costretto a mandarti via” esclamò il dottore “troppi ammalati oggi in ambulatorio… Se sapessero come li detesto…”

“Se fossi un’infermiera, ti aiuterei” disse Lorenza, precedendolo nell’anticamera. “Potrei avere lo stesso successo che ho da zia Elena.”

“Non ne dubito… anche se io preferisco che tu abbia a che fare con le signore. Sono meno pericolose…”

Cap VII

Lorenza partì da San Paolo in aereo. Sbarcò a Rio de Janeiro mentre la nave sulla quale aveva viaggiato zia Elena arrivava in porto. L’aspettò sulla banchina sino alla fine delle operazioni di attracco. Quando zia Elena riuscì a scendere, l’assalì con un fiume di parole.

“Lorenza mia… che paura… Non so perché, m’ero messa in testa che non ti avrei trovata, che era accaduto qualche cosa di spiacevole… che… Lasciati guardare. Sei sempre bella…”

Non permise che Lorenza parlasse, la prese sottobraccio e si recarono insieme alla biglietteria della compagnia di navigazione. Prenotarono una cabina di prima classe per Santos e ritornarono a bordo. Non avevano alcuna voglia di camminare per Rio in quel giorno torrido. E avevano tante cose da confidarsi.

“Mi ha scritto Marco” disse Lorenza quando furono tutte e due sedute in veranda “mi ha detto che sei stata in Italia, che hai visto mia madre e mio padre…” Inaspettatamente le lacrime le riempirono gli occhi e le incrinarono la voce. “Dimmi… Come li hai trovati? Vecchi? Che cosa ti hanno detto, che cosa pensano di una figlia che non è ancora tornata a casa…?”

“Credo che abbiano più pianto che parlato, specialmente tua madre… Ma entrambi sono contenti di saperti serena e tranquilla. E questo è tutto… Aggiungerò che tua madre non sarebbe affatto contraria a raggiungerti in Brasile. Tua padre m’è parso invece più restio. Il suo lavoro, la sua casa… Preferirebbe che tu tornassi… Non subito, ma… ma un giorno…”

“Mi par di vederlo, povero papà… In questo momento vorrei averli qui… o essere là, con loro…”

“Mi hanno pregato di portarti una scatola che deve contenere un loro regalo. Quando tua madre me l’ha consegnata, con tutte le raccomandazioni che immagini, pareva mi affidasse una cosa preziosa.”

“Non sai di cosa si tratta?”

“No. E poi ti porto i saluti di Marco. Quando ha saputo che per ora non hai alcuna intenzione di tornare, mi ha assalita, incolpandomi di obbligarti a rimanere in Brasile… Non è stato facile persuaderlo che viviamo benissimo qui, che tu lavori, che… Insomma, gli ho proposto di venire in Brasile. Aggiungi che ha già studiato qui per tre anni, che conosce benissimo il portoghese, e che non gli rimane che presentare la tesi di laurea per poter poi esercitare anche qui la sua professione…”

“Lo so…”

“Ti ricorda con un entusiasmo…”

Lorenza chiamò con un cenno un cameriere e girò le spalle alla zia.

“Non hai voglia d’un aperitivo ghiacciato?”

“Grazie, no. Con questo caldo non ho alcuna voglia di gelarmi lo stomaco. Prenderò un aperitivo senza ghiaccio. Ti confesso che non vedevo l’ora di tornare a casa. In Europa fa ancora molto freddo. Ho trovato la neve a Parigi, la nebbia a Londra, la pioggia a Milano… Per fortuna c’era il sole a San Remo e a Nizza. Benedetto il caldo, anche quando toglie il respiro come oggi.”

Lorenza, occupata a infilare gli stecchini nelle olive verdi di cui era ghiotta, e a scegliere le patatine fritte più abbrustolite, rimase in silenzio. Zia Elena la guardò di sottecchi, cercando d’indovinare quello che ancora non capiva. ‘C’è qualche cosa che non va, qualche cosa che non ha il coraggio di dirmi’ pensò. ‘Che cos’ha! Preoccupazioni di lavoro, no… M’ha assicurato che tutto è andato bene e che ha concluso affari incredibili… Vediamo un po’… S’è commossa quando le ho parlato dei genitori, è rimasta indifferente quando le ho parlato dell’Europa… ma sì, s’è irritata, quasi, quando le ho parlato di Marco. Il problema da risolvere dunque è questo: Marco, non è gradito a Lorenza…’ Sospirò, alzando leggermente le spalle. ‘Tanto peggio per lui… Se Lorenza non lo apprezza vuol dire che non ha saputo farsi apprezzare… Del resto, la colpa è sua. Non si aiuta una ragazza come lei a organizzare un viaggio in Brasile, e tanto meno la si manda da una zia capace di accaparrarsi il mondo intero… Stupido…’

E da quel momento non pensò più a Marco. Non ammetteva che un uomo non fosse sempre e in tutte le occasioni tanto forte da dominare il mondo e tanto più da dominare una donna come Lorenza.

‘Però, però…’ rifletté zia Elena ‘però… c’è qualche cosa… qualche cosa che è accaduto durante la mia assenza… Qualche cosa che Lorenza non mi dirà tanto facilmente. Visto che non ha parlato subito di ciò che più le sta a cuore… lo scoprirò da sola.’

Più tardi, dopo colazione, il piroscafo che le avrebbe portate a Santos ripartì. Le due donne parlarono a lungo di affari. Lorenza raccontò come avesse avuto l’idea di vendere tutto il suo corredo e quale successo avessero ottenuto i suoi modelli italiani.

“Questo mi persuade” concluse “che si potrebbe benissimo fare i nostri acquisti in Italia, invece che a Parigi e a Londra.”

Zia Elena obiettò. Le sue clienti erano abituate ai modelli di marca inglese e se… che in Brasile non si giurava se non sulla moda se… che perfino nelle relazioni sociali si usava spesso la lingua di Molière invece della portoghese. Imporre la moda italiana, sostituendola di colpo a quella a cui erano abituate le loro clienti, poteva trasformarsi in un errore commerciale del quale era impossibile prevedere le conseguenze.

Lorenza non ebbe il coraggio d’insistere. Non avrebbe mai voluto danneggiarla, e nello stesso tempo non poteva rinunciare alla sua idea, della quale, dopo il risultato della prima prova, era più che convinta.

“Non prendiamo ancora alcuna decisione, zia Elena. Ritorneremo su questo argomento quando avrai visto il lavoro che ho fatto e le ordinazioni che sono in corso di realizzazione… Devi essere tu, in ogni modo, a prendere una decisione. Io ti ubbidirò sempre.”

“Va bene” accettò il compromesso zia Elena. “Ne riparleremo. E non domando che di essere persuasa dai fatti.”

La notte dormirono serene e tranquille tutte e due. Si erano ritrovate. Sentivano

ora quanto fossero necessarie l’una all’altra, e come la temporanea separazione avesse rafforzato il loro affetto reciproco. Sapevano con sicurezza che potevano contare l’una sull’altra.

Quando l’indomani mattina si svegliarono, Lorenza infilò una vestaglia e andò a prendere il caffè nella cabina di zia Elena. Poi indossò il costume, corse in piscina e si buttò giù a capofitto. Quando ritornò a galla aveva gli occhi di tutti i eggeri presenti a bordo vasca puntati su di lei.

“Da dove sbuca?” le chiese l’addetto alla piscina, parlandole in se.

“Da Rio de Janeiro.”

“Va a Buenos Aires?”

“A Santos.”

La risposta non piacque. I eggeri che viaggiavano per sole ventiquattro ore su una nave non erano presi in considerazione dal personale. Erano spesso visite scomode che raddoppiavano il lavoro senza garantire un reddito. Lorenza nuotò finché non fu stanca. Poi si sdraiò al sole col volto coperto da un asciugamano. Mezz’ora dopo ritornò in cabina a vestirsi. Zia Elena, che l’aveva vista attraversare correndo il ponte, la raggiunse pochi momenti dopo.

“Buon bagno?”

“Perfetto. Devi scusarmi… ieri sera non ti ho nemmeno chiesto come è stato il viaggio e se qualcuno t’ha fatto la corte… Non mi dire di no, per due motivi. Uno, perché ti conosco, due, perché mi offenderei se nessuno si fosse particolarmente occupato di te.”

“Non ti preoccupare… Ho una fiamma stabile a bordo. Il commissario. Ho fatto con lui almeno venti viaggi… da venti viaggi mi fa la corte, da venti viaggi mi lascio corteggiare… Fra altri venti viaggi, chissà che coroni il suo sogno d’amore…” Rise forte. “Un sogno d’amore che durerà esattamente tredici giorni e qualche ora secondo i calcoli di lui… Come vedi, si tratta d’una ione rapida e senza strascichi sentimentali… E sarà prudente, perché fra venti viaggi saranno ati altri dieci anni per lo meno, visto che ho intenzione di mandarti in Europa a luglio.”

“Davvero?”

“Davvero, Lorenza. Ho già parlato di te ai miei fornitori e ti aspettano.”

“Grazie, zia Elena!”

“Sarai meno felice quando dovrai stare in piedi delle giornate intere per provare i modelli… Perché dammi retta, visti sulle indossatrici fanno un effetto, visti su di noi ne fanno un altro. Io provo tutti i modelli che acquisto eccettuati certi abiti da sera che stanno bene a tutti. E come me dovrai comportarti quando partirai per gli acquisti della prossima stagione… Intanto ho portato tanta merce che non so come riusciremo a venderla.”

“Lascia fare a me, zia Elena. Vedrai come ho educato i tuoi clienti. Durante la

tua assenza ho dovuto spesso rifiutare inviti a pranzo e a trattenimenti serali. Molti mi considerano più come amica che come fornitrice…”

“Gia” fece zia Elena. “Ora vestiti, stiamo per arrivare.”

Accese una sigaretta e si mise a sedere sulla cuccetta di Lorenza, in silenzio. ‘Tutto bene’ pensò ‘ma ancora non m’ha detto quello che ha, ancora non m’ha detto perché ogni tanto sospira come se dovesse…’ D’un tratto le venne in mente De Souza. ‘De Souza… È inconcepibile che lo abbia dimenticato. Scommetto che si sono rivisti… Ora comincio forse a capire…’

“Hai visto il dottor De Souza?” le chiese con noncuranza mentre si occupava di una sigaretta che non voleva entrare nel bocchino. Brontolò: “Queste sigarette sono odiose… O cascano perché sono troppo sottili o non entrano…”

“Sì… l’ho rivisto spesso…” rispose Lorenza dalla doccia. “Sono stata ammalata e m’ha curata…”

“Ammalata?”

“Una stupida febbre che m’ha tenuta a letto due giorni. Mami m’ha fatto bere il suo decotto, credo che tu lo conosca, e De Souza m’ha persuasa che non dovevo preoccuparmi d’un così piccolo malanno. Il terzo giorno sono tornata in sartoria. Ora faccio una cura che pare sia indispensabile per chi, come me, è venuto in Brasile dall’Europa. E sto benissimo.”

“Sempre gentile De Souza?”

“Gentilissimo.”

‘Non è lui’ pensò zia Elena. ‘Ne parla con troppa tranquillità. Allora chi?’ Ma nella stanza da bagno, chiusa la doccia, Lorenza rimase in silenzio, come se sull’argomento non vi fosse altro da dire. ‘Sta troppo zitta, ora. Che cosa fa?’ Un momento dopo Lorenza ricomparve. Aveva sul volto un’espressione di imbarazzo. Tentò di sorridere. “Avevo proprio bisogno d’una giornata di movimento, di sole e di mare.”

“Bisognerà che mi faccia visitare anch’io da De Souza… Non ti spaventare. Non sono ammalata, ma ingrasso, e alla mia età e col mio mestiere ingrassare è un inconveniente doppio. Mi farò indicare un regime dietetico adatto che non mi indebolisca troppo.”

“È più prudente… così” mormorò Lorenza. E, dopo un momento, si avvicinò a zia Elena. Le annunciò in fretta: “García ha detto che mi vuole bene.”

“Finalmente!” esclamò zia Elena. “È da ieri sera che aspetto questa confessione… Per poco non mi obbligavi a inventare il bisogno di un intervento chirurgico per obbligarti a parlare…”

“Avevi indovinato, zia Elena?”

“Quasi.”

“E che cosa ne pensi?”

“Nulla, cara. Non posso pensare ancora nulla perché la rivelazione è per lo meno molto concisa. Che ti ha detto García? Che ti vuole bene? E poi?”

“E poi basta. Che cosa doveva dirmi di più?”

“Quali progetti ha, o avete per l’avvenire?”

“Non ne so nulla, zia. Per ora ha detto di volermi bene… tu non c’eri… io non ho voluto dir nulla e non ho chiesto nulla… perché non volevo prendere decisioni durante la tua assenza…”

“Hai conosciuto la mamma di García? Hai conosciuto la sorella?”

“No.”

“Ti ha parlato della sua famiglia?”

“No, mai.”

“A che punto siete, fra voi?”

“Come dirti? …Come due che non sono ancora fidanzati.”

“Aspetteremo che De Souza venga a parlarmi, tocca a lui prendere una decisione.”

“Sai, zia… non bisogna aver fretta. Sono sicura che verrà…”

“Lo spero…”

Non parlarono più di García De Souza.

‘Povero Marco…’ sospirò zia Elena. ‘È stato proprio uno sciocco!’

Più tardi diede ordini per il ritiro dei bagagli dalle due cabine.

Cap VIII

La settimana che seguì il ritorno di zia Elena fu così piena di lavoro che Lorenza dovette rinunciare alla sua cura. D’altra parte non fece nulla per trovare un po’ di libertà, un po’ di tempo da dedicare a De Souza. Era come se, quasi suo malgrado, volesse dargli la possibilità di riflettere.

Le sembrava di vivere in una vera e propria baraonda. Gli abiti importati dall’Europa se ne andavano uno dopo l’altro, acquistati con la stessa avidità con la quale si scelgono gli articoli d’una liquidazione. Rimaneva appena la possibilità di ricopiare, modificandoli nei particolari, i modelli preferiti dalla maggioranza.

Zia Elena non parlò più del dottor De Souza. Forse perché distratta dalle sue molte occupazioni, forse perché riteneva inutile intervenire in una vicenda che chissà come si sarebbe conclusa. Lorenza, dal canto suo, non osò più accennare a lui. Lavorò ancor più intensamente per impedirsi di pensare. Nemmeno García fece poi molto per rivederla. Così lei si cullò in una specie di rassegnazione che le permise di vivere senza angoscia. Un giorno si propose di affrontare l’argomento con zia Elena. Ma quando furono tutte e due a tavola, si rese conto che non avrebbe mai avuto il coraggio di riparlarne. Si sentiva disapprovata e forse non compresa. C’era anche in lei del sentimento per García. Non sapeva ancora quanto fosse intenso, ma sapeva che c’era. Voleva che ci fosse. Zia Elena le lasciava completa libertà, non controllava l’impiego del suo tempo, non le chiedeva nulla che non riguardasse il lavoro. Spesso, occupata com’era nel laboratorio, lasciava che Lorenza tornasse sola a casa, né le chiedeva dove avesse trascorso le prime ore del pomeriggio quando tardava a riprendere il suo posto. Di tanto in tanto la sera, dopo cena, uscivano. Andavano al cinema o a ballare. In ogni caso e in ogni luogo evitavano conversazioni che le avrebbero messe in imbarazzo. Non appena tutte le consegne furono effettuate, Lorenza decise di riprendere la sua cura.

Quando García De Souza la vide seduta in ambulatorio con le altre clienti le corse incontro.

“Non speravo più di rivederti…” le disse porgendole una mano perché si alzasse, e la seguisse nello studio.

“Finirai per perdere i tuoi pazienti per colpa mia” disse Lorenza protestando. “Sono disposta ad attendere il mio turno.”

Lui non riusciva a parlare. Pensava a un’unica cosa: Lorenza era tornata, tornata senza che lui l’avesse sollecitata. Per il suo orgoglio di brasiliano questo ritorno era una vittoria incalcolabile dopo giorni e giorni di inutile attesa.

“Non me ne importa dei pazienti… M’importa che tu sia qui… Non sapevo più che pensare per giustificare la tua assenza. Ho aspettato che mi telefonassi, che mi scrivessi… che… Che cos’è successo… perché sei scomparsa… perché…?”

“Non sono scomparsa, anche se non ho telefonato, anche se non ho scritto, anche se non sono più tornata qui. Non so dirti perché. Giustificazioni vere e proprie non ne ho. Oppure ne ho tante… Il lavoro, il bisogno di riflettere… una certa diffidenza verso di te… la necessità di avere l’approvazione di zia Elena…”

“Non capisco. Ti ho dato motivo di diffidare?”

“No, nessun motivo, almeno per ora. C’è, però, qualche cosa che non so e che mi

trattiene. Non di amarti, ma di fidarmi completamente e ciecamente di te… Sono certa che faccio male a parlarti con sincerità, ma non posso farne a meno…”

“Che cosa t’ha detto zia Elena?”

“Questo è il punto inspiegabile, non m’ha detto nulla. M’ha soltanto chiesto se mi hai presentata tua sorella e se mi hai parlato di tua madre. Non ero certa che tua madre fosse ancora viva e ignoravo l’esistenza d’una sorella. Perché non mi hai detto nulla?”

“Perché non ne abbiamo avuto il tempo. Sei scomparsa il giorno che cominciavamo a parlare di noi.”

“E di me hai parlato a tua madre?”

Lui arrossì imbarazzato.

“Non ancora. Non ne parlerò finché non sarò sicuro di te. Voglio essere certo che non scomparirai dalla mia vita.”

“Non scomparirò” promise Lorenza. Il pensiero di Paolo non la tormentava quasi più. Con lui aveva perso il suo cuore. Adesso aveva ancora bisogno di sentirsi protetta e da quando García l’aveva baciata era stata la prima volta che le insicurezze del ato non l’avevano fatta naufragare.

“Ho bisogno di vederti con più calma… dobbiamo parlare… non fra una consultazione e l’altra… Ho bisogno di stare con te…”

“Ritornerò.”

“Di sera. Potremo fare qualche eggiata, andare a teatro, are qualche ora vicini…”

“Non so come comportarmi con zia Elena… ma riuscirò a persuaderla che non c’è nulla di male… In fondo sono libera di fare quello che voglio… me lo ha ripetuto mille volte…”

Lui la baciò. Questa volta Lorenza ricambiò il bacio con un trasporto nuovo.

“Devo tornare al lavoro” gli disse separandosi da lui. “Non so quando e se potrò venire da te, di sera… Ti telefonerò.”

Si baciarono ancora, quasi sulla soglia dello studio, mentre García teneva una mano sulla maniglia per impedire che l’infermiera entrasse. Non l’accompagnò fino all’uscita solo per prudenza. Ora che il loro amore si era manifestato, sentiva il bisogno di difenderlo da ogni curiosità. Era, però, trionfante. Il suo fascino brasiliano aveva colpito ancora.

Lorenza s’avviò a piedi verso la sartoria. Voleva respirare un po’ d’aria serale. Il caldo era già più sopportabile. L’inverno s’avvicinava.

Si sentiva leggera e trasparente come i colori del tramonto che tingevano di rosa il cielo sulle colline. Camminava rapidamente, quasi volesse affrontare l’avvenire… Pensava a se stessa, partita dall’Italia per un capriccio e per un dolore, e alla donna che stava diventando, nonostante i momenti di smarrimento e di abbandono. Era pronta a lottare per far valere la sua volontà, pronta a ribellarsi per raggiungere uno scopo. ‘Non so chi potrebbe consigliarmi in questa situazione’ pensò ‘e non so chi sarei disposta ad ascoltare…’

Prima di aprire la porta del laboratorio si guardò nello specchio della borsetta. Zia Elena uscì in quel momento. Non voleva parlarle di De Souza. Voleva però capire come funzionavano nel loro ambiente le questioni sentimentali.

“Che cosa fai?” le chiese. “Che cosa osservi con tanta attenzione?”

“Volevo accertarmi di non avere i capelli bianchi.”

“E perché dovresti avere i capelli bianchi?”

“Non so. Ma mi sento sempre più vecchia dei giovani che mi stanno d’attorno.”

“E questi giovani sarebbero?”

“José Cruz, il figlio di donna Cruz. Nei giorni scorsi mi ha fatto una dichiarazione d’amore.”

“Non è possibile” mormorò zia Elena. “È fidanzato con Carmela Negrito, si devono sposare fra un mese. Proprio oggi la mamma di Carmela è venuta a scegliere gli abiti per il corredo.”

Lorenza alzò le spalle rassegnata.

“Non so che cosa dirti… mi ha incontrata mentre uscivo dal laboratorio, mi ha invitata a inaugurare la sua automobile nuova, mi ha portata fino all’aeroporto e m’ha riaccompagnata qui con tanto di dichiarazione.”

“E tu che cosa gli hai detto?”

“Non avevo proprio nulla da dirgli. E ha capito che non valeva la pena di insistere.”

“Andiamo a casa” disse zia Elena, mentre Aristide si avvicinava con l’automobile. “Non mi piace che tu accetti gite di inaugurazione con giovanotti fidanzati.”

“Non ne sapevo nulla… e non pensavo di commettere un’imprudenza. Conosciamo José da tempo, frequentiamo la sua casa, è un ragazzo… A questo proposito… mi sono sentita così vecchia accanto a lui, che mi pareva di avere i capelli bianchi.”

“Ma siccome non sei vecchia, è meglio che tu non dia motivo a errati giudizi nella cerchia delle nostre conoscenze. Tutto ciò che è permesso a una paulista,

non è permesso a una milanese.”

Lorenza salì nell’automobile senza dir nulla. Era così mortificata che aveva voglia di piangere. Zia Elena se ne accorse.

“Non devi abbatterti così, non è successa alcuna disgrazia…”

“Chi lo sa… Io non so più a cosa credere, se anche la mia buona fede può essere messa in dubbio…”

“Come sei permalosa… Non farti troppe illusioni… La vita è difficile, gli uomini sono spesso crudeli. Qui, una donna è prima di tutto un trofeo da esibire tra i propri pari, in pochi casi diventa una compagna per la vita… Se è straniera, poi, fanno a gara a chi la conquista per primo…”

Zia Elena si interruppe. Sentiva che Lorenza era indispettita e cercò di placarla prendendole una mano, e tenendola fra le sue.

“Nonostante tutto” le disse sospirando “vorrei essere come te… Intollerante e ribelle, indipendente e giovane. È soltanto dopo vent’anni di capelli tinti che si comincia a ragionare come io ragiono. Fai quello che vuoi, vivi come vuoi. Se avrai tanta forza da resistere alla vita e agli altri, vincerai su tutti i fronti.”

Più tardi, quando Lorenza rimase sola nella sua camera, ripensò a García. Le aveva detto: ‘Ho bisogno di stare con te, bisogno di essere certo che nella vita non sono più sentimentalmente solo.’ Bisognava che fosse più coraggiosa. Non

era facile. Durante la notte, non riuscì a dormire. Allora, come altre volte aveva già fatto, scavalcò il parapetto della finestra e scese nel giardino. Indossava una vestaglia leggera e chiara sulla lunga camicia da notte. Sola fra gli alberi, sotto le stelle, sembrava un fantasma. Rodolfo il cameriere che era rimasto alzato fino a tardi, la scoprì mentre camminava lentamente sulla terrazza, sotto la manghera, e non smise di sorvegliarla fino a quando non la vide risalire dalla finestra e accostare le persiane.

Quando Rodolfo rientrò disse a sua moglie Maria: “Non capisco perché la signorina Lorenza eggi la notte, sola, sulla terrazza.”

“Avrà caldo…” gli rispose la moglie nel dormiveglia.

Il cameriere si strinse nelle spalle: “Forse…” mormorò, ma non era convinto che fosse il caldo a obbligare Lorenza a quelle eggiate notturne.

Cap IX

Per molto tempo, Lorenza e zia Elena evitarono di parlare di loro stesse, dei loro sentimenti. Quell’atteggiamento contribuì, non poco, al loro distacco emotivo. Zia Elena taceva per un esagerato amore di libertà individuale, Lorenza per timore. La casa, che dall’arrivo della giovane era diventata attiva, ora si stava riaddormentando. L’atmosfera generale era diventata opaca e triste.

Conclusa la terapia, Lorenza conservò l’abitudine d’una visita quotidiana a García. Andava all’ora del tè, quando zia Elena, approfittando del periodo più tranquillo sul fronte del lavoro, si permetteva il lusso di tornare a casa prima. Non aveva mai chiesto a Lorenza perché non le fe compagnia, e la ragazza non le aveva mai dato alcuna spiegazione. Di questo stato di cose erano scontente tutte e due, ma né l’una né l’altra sapeva come reagire.

Lorenza sentiva che zia Elena aveva ragione. García non si comportava con lei come avrebbe dovuto comportarsi un uomo che avesse avuto nei suoi confronti intenzioni e progetti seri. Non riusciva però a rinunciare a lui, non riusciva a rientrare in casa, una sera, senza averlo visto, senza essersi rifugiata fra le sue braccia. In realtà si sentiva sola. Sola come quando Paolo, nell’automobile del viaggio di nozze, non le aveva più risposto.

Si ritrovava, in terra straniera, senza tenerezza, senza amore. Era ancora tanto giovane che qualche volta aveva perfino paura della sua giovinezza, e della vita. Non sapeva più distinguere ciò che era bene e ciò che era male. Per inesperienza. E anche perché la concezione della vita in García era completamente diversa dalla sua. García aveva un carattere molto accomodante verso il quotidiano. A volte emergevano punte di egoismo che ribaltavano i normali principi di rettitudine che ci si aspetta da una persona matura. Era portato al compromesso,

anche quando questo significava rinunciare a posizioni difese sino a qualche giorno prima. Lui pensava che bisognava vivere le proprie emozioni con impeto animale e sentimentale, tutto il resto non esisteva o quasi. Per García, il corpo esisteva perché l’intelligenza se ne servisse al solo scopo di trarne sensazioni di piacere. Se Lorenza gli parlava dell’anima, del cuore, otteneva solo risposte negative. A poco a poco si lasciò persuadere, convincere, trascinare verso una concezione materialistica dell’esistenza. Lui voleva distruggere la bellezza spirituale che lei aveva nei suoi occhi e che le donava una così speciale luce di seduzione. La giovane non riusciva a reagire, non riusciva più a sottrarsi alla suggestione che lui esercitava su di lei. Perché la dominava psicologicamente e perché zia Elena non era più la fortezza all’interno della quale poteva chiudersi per difendersi dagli assalti del destino.

Un giorno le propose una gita a Rio de Janeiro.

“Andiamo a riposarci tutti e due. Abbiamo lavorato abbastanza per poterci concedere un breve periodo di vacanza” le propose.

“Viene con noi anche zia Elena?”

Lui la prese fra le braccia, ridendo della sua ingenuità.

“No, zia Elena rimarrà a San Paolo. Andremo noi due soli. Due giorni di sogno, a Rio. Tu non sai che cosa vuol dire…”

“Forse è lo stesso come essere a… a Venezia. Tu non conosci Venezia e il suo cielo a primavera.”

Lorenza non disse né sì né no, ma da quel momento non ebbe più pace. Sapeva che sarebbe partita con García, che non avrebbe avuto la forza di dirgli di no, sapeva che partire con lui voleva dire portare la loro relazione sentimentale verso un’intimità dalla quale s’era difesa fino ad allora. Ma sapeva di non essere la più forte. Sapeva che poteva cedere.

L’ambiente, i costumi locali, il clima, tutto contribuiva a corromperla. ‘Qui è tutto troppo facile’ pensò Lorenza, tornando a casa. ‘Qui tutto è troppo semplice. García non dà alcuna importanza al nostro viaggio a Rio. Probabilmente crede che io abbia già fatto l’amore e che finora gli abbia resistito per civetteria o per freddezza. Se mi rifiuto di partire, non ne vorrà più sapere di me. In questo benedetto paese la poesia dell’amore è scomparsa. L’amore è solo sesso. Non esiste il sogno.’

A casa l’aspettavano notizie di sua madre e di Marco Ansperti. S’irritò per tutte e due le lettere che erano arrivate nel momento più delicato della sua relazione con García. Zia Elena notò la sua inquietudine e gliene chiese la ragione.

“Non esiste una ragione vera e propria, mi sono cari. Ma non comprendo più le persone che vivono così lontane da me. Ormai io mi sento diversa da loro.”

“Credi di essere migliore o peggiore?”

Lorenza alzò le spalle.

“Non lo so, non posso più giudicare.”

E parlarono di affari. Zia Elena le stava organizzando il viaggio in Europa. Le aveva concesso di approdare in Italia invece che in Francia. Le aveva lasciato carta bianca sugli acquisti, sulla scelta dei modelli, sui prezzi. Voleva mettere alla prova la sua abilità, la sua capacità, il suo spirito di organizzazione, il suo buon senso.

“Vorrei andare a Rio, a riposarmi, per due o tre giorni” disse a un tratto Lorenza, mentre tutte e due prendevano il caffè sotto la manghera. Con loro c’era anche l’amministratore.

“Bene” rispose zia Elena, accendendo una sigaretta e respingendo con un largo gesto il pappagallo che voleva appollaiarsi sul braccio della sua poltrona. “Un’idea eccellente. Parti sola?”

Lorenza non rispose subito. Poi mentì, arrossendo.

“Sì” disse. “Ho proprio bisogno di veder chiaro in me stessa… E non posso fare questa specie di esame di coscienza che da sola.”

“Quando hai deciso di partire?”

“Presto. Una decisione vera e propria non l’ho ancora presa…” Si alzò: “Scusatemi. Voglio scrivere a mia madre e a Marco. Devo dire qualche cosa da parte tua a tuo nipote?”

“No, grazie” rispose zia Elena. “Non ho notizie da dargli.”

Quando Lorenza se ne fu andata, l’amministratore accese una sigaretta, grattò la testa dell’arara, che gli s’era avvicinato, poi disse, vincendo l’imbarazzo creato dalla conversazione con Lorenza: “Crede che partirà con De Souza?”

“Ne sono sicura” ribatté subito zia Elena.

“Perché non glielo impedisce?

“Troppo tardi. Lorenza ha deciso di partire. Se mi mettessi contro di lei, partirebbe ugualmente, e diverremmo nemiche. Le voglio bene, forse avrà bisogno di me, più tardi… Non voglio lasciarla sola.” Rifletté un momento e aggiunse: “Crede che sia facile mettersi contro una ragazza che crede di essere innamorata? Crede che sia facile indurla a ragionare? Ma se lei è cieca, noi vediamo. Lei sogna e noi abbiamo gli occhi aperti…”

“E allora?”

“Allora spero nel suo viaggio in Italia, e in Europa. Cambiare clima, rientrare nelle vecchie abitudini, ritornare nella vecchia casa paterna… può rappresentare la salvezza. Per questo rischio l’insuccesso di tutta una stagione pur di salvarla da un’atmosfera che non fa per lei.”

Si alzò e cominciò a eggiare nervosamente su e giù. La punta accesa della sigaretta descriveva semicerchi nell’oscurità appena diradata dal riflesso delle

luci accese nell’interno della casa. Una striscia di fuoco splendeva nel cielo all’orizzonte, il tramonto non voleva morire. L’amministratore finì di sorbire il suo caffè, poi si alzò per congedarsi. Si sentiva importuno, e zia Elena continuava a camminare senza più occuparsi di lui.

“Ci rivedremo domani, donna Elena…” disse timidamente.

“Mi scusi, ero distratta… Distratta da un’idea che può essere ottima. E può anche essere disastrosa. Comunque, anche se esiste una sola probabilità favorevole, io la metterò in pratica. Che ore sono?”

“Le nove…”

“Mi segua…”

Gettò il mozzicone della sigaretta, nell’anticamera si ravviò i capelli. Poi avvertì Rodolfo che sarebbe rientrata più tardi e che era inutile disturbare Lorenza che stava scrivendo in Italia. Aristide accese il motore della macchina.

“Devo accompagnarla?” chiese l’amministratore. “Posso almeno chiederle dove ha intenzione di andare e che cosa intende fare? Va da De Souza?”

“No, vado da sua madre. Fra donne ci s’intende meglio. Spero mi ascolterà e mi aiuterà. Non ho bisogno di lei e la ringrazio. Dove posso accompagnarla?”

“A teatro. C’è uno spettacolo che m’interessa.”

Più tardi donna Elena si fece annunciare alla madre di De Souza. Sapeva che a quell’ora il dottore non era in casa. Terminata la cena, usciva con gli amici e con loro andava a teatro, al cinema, nei bar o al club, da dove, spesso, telefonava a Lorenza.

Donna Dolores De Souza le andò incontro come se avesse da tempo aspettato la sua visita e fosse soddisfatta di vedere esaudito un suo desiderio. L’abbracciò alla brasiliana, come si usa fra persone che si conoscono bene, e la fece accomodare nel piccolo salotto dove viveva abitualmente quando era sola in casa. Il domestico di colore preparò gli sgabelli sui quali posare i piedi, le sigarette, le tazzine del caffè.

“Spero non sia sorpresa della mia visita, donna Dolores” disse zia Elena, accendendo una sigaretta, “e spero che indovini il motivo che m’ha condotta a disturbarla a quest’ora.”

“Lo immagino, infatti.”

“Sa che suo figlio sta per recarsi a Rio con mia nipote?”

“Non avrei potuto giurarlo, ma ero preparata a questa eventualità.”

“Non ha intenzione di impedire questo viaggio?”

Donna Dolores spalancò i suoi vecchi occhi azzurri e stanchi.

“Perché dovrei impedirlo? Mio figlio si diverte come vuole e come può. Non ho mai chiesto conto a García dell’impiego del suo tempo…”

“Io invece sorveglio l’impiego del tempo di mia nipote che è giovane e inesperta, specialmente in questo paese a lei estraneo. E mi sono accorta che ne perde molto con suo figlio… per divertire suo figlio…”

“Bontà sua… Ma non si faccia illusioni, donna Elena… né mio figlio né sua nipote perdono il tempo quando sono insieme… La gioventù innamorata non perde tempo. Siamo state giovani anche noi e siamo cresciute in questo Brasile infuocato…”

Zia Elena provò la sensazione di ricevere uno schiaffo. La velata volgarità della madre di García svegliò in lei istinti di rivolta. ‘Se non fosse tanto vecchia’ pensò ’credo che la picchierei.’ Strinse le labbra e inghiottì la saliva amara che le aveva riempito la bocca.

“Ai miei tempi” ribatté pacatamente, stringendo i pugni e conficcando le unghie nelle palme, “ai miei tempi, anche in questo Brasile infuocato la gioventù innamorata ‘perdeva’ il suo tempo nell’attesa della realizzazione dei suoi sogni d’amore… Lorenza appartiene a quella gioventù…”

“Lorenza è una donna sposata… Ho chiesto informazioni.”

“Se le ha avute complete e precise saprà che s’è sposata alle dieci del mattino e che prima delle undici era già vedova. È come se non avesse avuto marito.”

“Allora è senza dubbio destinata a non sposarsi mai più… Certo è che perderà il suo tempo e deluderà i suoi sogni finché frequenterà mio figlio con intenzioni matrimoniali. La ragazza che mio figlio sposerà è già nata, e vive sotto la mia protezione. Il giorno che mio figlio deciderà di crearsi una famiglia, avrà pronta la sua compagna. E le giuro che lui non sposerà nessun’altra donna finché io vivo, che quella da me scelta.”

Donna Elena si alzò. Era così pallida che si sentiva la pelle trasparente. La collera le fece sgorgare dalla bocca parole di fuoco. Le respinse a fatica.

“Si auguri di vivere ancora per molti anni, allora, se vuole veder realizzati i suoi progetti. Lorenza non è una ragazza che si può prendere e lasciare. Ha una tale ricchezza spirituale, è una creatura così adorabile che García non rinuncerà a lei, mai…” Non attese che donna Dolores riprendesse la parola. Si avviò verso la porta e rifiutò con un gesto la piccola tazzina di caffè che donna Dolores le porgeva. “Grazie. Mi avveleno a casa mia…”

E si richiuse la porta alle spalle. Sentiva di essersi lasciata sopraffare dall’ira, ma non se ne rimproverava. Era talmente tanta la tensione che provava che, invece di risalire in macchina, disse ad Aristide che sarebbe tornata a casa a piedi. Bisognava che scaricasse in qualche modo il furore che la stava dominando, e non voleva incontrarsi con Lorenza in quello stato di eccitazione. Ora che rifletteva, riconosceva che aveva detto troppo poco di quello che pensava, che non aveva difeso abbastanza e con sufficiente eloquenza Lorenza. Aveva voglia di correre nella sua camera e abbracciarla stretta stretta e dirle tutto quello che pensava di García, di sua madre, della sua famiglia. ‘Delizioso e simpatico compagno d’una sera, ma non compagno di tutta la vita, specialmente per una creatura sensibile e giovane come Lorenza.’

Era anche pentita di non aver detto a donna Dolores di tacere col figlio il loro incontro. Per tutto l’oro del mondo non voleva che Lorenza sapesse da altri di una iniziativa che non avrebbe approvato.

‘Se sarà necessario, gliene parlerò io. Ma donna Dolores è troppo furba per correre il rischio di dispiacere al figliolo. E poi non credo che voglia gettar ombre sugli obiettivi che García pensa di raggiungere dalla sua gita a Rio. Tuttavia, un colloquio con Lorenza è indispensabile… Bisogna che le impedisca di partire… La obbligherò a confessare che per veder chiaro in se stessa non c’è alcun bisogno che García la disonori.’

Si sentì placata. Giunse a casa tardi. Per la strada aveva allungato il tragitto per stancarsi. ò dal giardino per accertarsi che Lorenza fosse ancora alzata e sveglia. Ma le persiane della sua camera erano chiuse, e la luce nell’interno era spenta. ‘Dorme’ pensò ‘rimandiamo allora a domattina. Peccato… Stasera mi sentivo disposta a sostenere le mie buone ragioni contro qualunque argomentazione di Lorenza… Domani dovrò persuaderla d’una terribile verità, che l’amore fuori del matrimonio lascia la donna sola, abbandonata a se stessa, indifesa, trascurata.’

Si sedette sulla sua poltrona, sotto la manghera. Rodolfo le chiese se desiderava qualche cosa. Era già tardi e la casa era tutta in ordine e chiusa.

“Maria è già andata a dormire, e Mami anche. Non ha voglia d’una tazza di camomilla, donna Elena?”

Lo guardò con due occhi sospettosi.

“Perché proprio di camomilla? Ho qualche cosa da rimettere in ordine?”

“Qualche cosa da acquietare, piuttosto… Non vi ho mai vista così irritata…”

“Prepara la camomilla, sarò certa di prender sonno.”

Quando Rodolfo le portò la tazza fumante, gli chiese fingendo un’indifferenza che non sentiva: “Donna Lorenza è andata subito a dormire?”

“Non subito. M’ha dato le lettere da spedire, poi è uscita in giardino. Non l’ho vista rientrare. Credo che sia andata alla piscina. L’ho vista dirigersi verso la grotta con la lampada elettrica.”

“Grazie, Rodolfo, vai pure a dormire. Buona notte.”

La camomilla era sgradevole. Zia Elena la inghiottì controvoglia, facendo boccacce che nessuno fortunatamente vide, poi si alzò e risoluta si diresse verso la grotta e la piscina, senza lampada elettrica. Conosceva bene la strada, ciottolo per ciottolo. Non temeva certamente di cadere o smarrirsi. Amava la sua casa, il suo giardino e quel breve tratto di bosco selvaggio così folto di alberi altissimi e cespugli, di verde e di rocce, che le facevano pensare di vivere in piena foresta vergine. Camminava con prudenza per il sentiero accidentato che conduceva alla piscina naturale e alla grotta, cercando le pietre col piede per non urtarvi, protendendo le mani per sollevare i rami più bassi che la frustavano. Il silenzio era assoluto.

Sentiva il palpitare sordo del proprio cuore. ‘Perché poi questa palpitazione… è come se stessi per commettere una cattiva azione e me ne rendessi conto… Oppure è il presentimento d’una disgrazia…’ S’affrettò. Ora le giungeva il rumore della cascata d’acqua che dalla roccia alta cadeva nella piscina naturale scavata fra enormi lastre di pietra. Rallentò il o. L’umidità aveva reso sdrucciolevole il sentiero lastricato, a tratti, con pietre lisce ed erbose. ‘Devo essere quasi giunta alla caverna’ pensò, cercando di tastare la parete sinistra della collina per riconoscerne la particolare vegetazione, ‘potrei anche gridare. Se Lorenza non è vicino alla cascata può sentirmi.’

Improvvisamente fu investita da un raggio di luce. Poi sentì la voce di Lorenza.

“Zia Elena… Che cosa succede?”

“Nulla… Avevo caldo. Sono venuta a prendere un po’ di fresco…”

“Credevo che tu dormissi. Quando ho finito di scrivere era tutto buio in casa.”

“Sono uscita… Avevo da fare una visita che da molto tempo rimandavo. Poi Rodolfo m’ha detto di averti vista venire da queste parti e sono venuta a cercarti.”

Ora erano tutte e due vicine. Il raggio di luce della lampada illuminava il sentiero annerito dall’umidità.

“Non ti fa bene rimaner qui, ferma, di notte, anche se qui fa meno caldo. Le notti brasiliane sono pericolose specialmente per una europea non ancora acclimatata.”

“M’ero rifugiata nella grotta…”

“Peggio, là dentro fa quasi freddo. E perché poi questo gusto di rimaner sola, al buio, nella notte?”

“Non lo so, zia Elena… Stasera, dopo che ho scritto a casa, ho sentito il bisogno di seppellirmi in questo rifugio lontano da tutto e da tutti. Credo che potrei viverci per sempre, da sola.”

“Non dire sciocchezze…” La prese sotto braccio e l’accompagnò più avanti verso la cascata. “Nella vita bisogna essere com’è quest’acqua: sempre nuovi e sempre chiari e sereni.”

“Ma la cascata non trova ostacoli, e quando li trova li salta cantando… Noi dobbiamo spostarli o scavalcarli…”

“Che ostacoli intralciano la tua strada? Non posso aiutarti?”

Zia Elena fissò Lorenza, cercando di indovinare l’espressione del suo viso. Ma la notte era buia e la lampada elettrica rivolta in giù aveva accorciato il suo raggio. Di Lorenza rimaneva illuminata soltanto la punta d’un sandalo in pelle rossa.

“Ostacoli imprecisabili…” rispose la ragazza. “Forse ostacoli che sono in me stessa e devo superarli.”

“Ne vale la pena?” le domandò la zia mettendole un braccio attorno alle spalle e sospingendola verso la casa. “Abbassa la lampada, qui è facile scivolare…” E ripeté: “Ne vale la pena?”

Lorenza non rispose subito. Portò una mano al cuore e la lampada descrisse nello spazio un arabesco che sferzò il bosco e le rocce e poi tentò di raggiungere il cielo. Disse sottovoce, più a se stessa che a zia Elena: “Ne vale la pena.”

Zia Elena ripeté l’offerta: “Non posso aiutarti?”

“Credo di no, zia” e aggiunse: “Non mi approveresti… perché non mi comprenderesti.”

“Perché non dovrei comprenderti? Sono stata giovane come te. Tu stai seguendo una strada per la quale io sono già ata…”

Lorenza scosse la testa e spense la lampada. Anche dentro di lei qualche cosa si spense.

“Le ragazze d’oggi sono diverse da quelle dei tuoi tempi…”

“Mi consideri davvero tanto vecchia? Davvero incapace di stare vicina a una

donna giovane comprendendone la vita, l’atteggiamento, le decisioni?”

“Se a me manca la fiducia nella tua possibilità di comprendermi, manca certamente in te l’indulgenza per assolvermi.”

“Che parola difficile e pericolosa…” mormorò zia Elena aggrappandosi a quel primo errore di tattica. “Assolverti da quale peccato? Di essere giovane?”

“Forse… Ora andiamo a letto, zia Elena. Sono così stanca che mi pare di aver percorso mille miglia.”

‘Non riuscirò a indurla a parlare!’ pensò zia Elena, irritatissima di non trovare il coraggio per affrontare chiaramente l’argomento del viaggio a due. Ma non era mancanza di coraggio. Era delicatezza. Il bisogno di non chiedere alle persone più di quanto possano dare. Era orgoglio di creatura ferita da una mancanza di confidenza che sentiva di non meritare.

Erano arrivate davanti all’ingresso della casa. Sulla terrazza, la luna aveva steso un tappeto giallastro. Stavano per entrare e augurarsi la buona notte.

“Vedi, zia” disse a un tratto Lorenza “non posso parlare… Devi perdonarmi. Forse tu hai già indovinato di che si tratta. Ma di questo, non posso parlare nemmeno con me stessa. Quando cerco di star sola, non riesco mai a formulare le domande che vorrei rivolgermi… Non so perché. Forse perché ho paura delle risposte… Non bisogna parlare. Se nella vita si parla sempre di ciò che si deve fare, si finisce col rinunciarvi. Sono i ragionamenti che guastano l’essenza dei propositi, la bellezza dei progetti. Ora andiamo proprio a dormire, ho sonno.”

Zia Elena abbracciò la ragazza e la baciò fra i capelli.

“Buona notte” le disse. “Che Dio ti protegga! Capisco che non posso far nulla per te, e me ne dispiace.”

“Perché? Io ho fiducia. Anzi, ho fede. Credo nell’avvenire.”

“Non in quello che t’aspetti. Io credo in un altro avvenire, per te.”

Lorenza si richiuse di nuovo in se stessa.

“Vedi che non ci comprendiamo? Io parlo di fede. Io parlo dell’avvenire che attendo. Tu parli d’un altro avvenire. Non camminiamo sulla stessa strada ma su due sentieri paralleli… o divergenti.”

“Perché tu hai sbagliato sentiero.”

“Chi lo sa, zia? Chi lo sa?”

“Io lo so.”

“Non è presunzione?”

“No, Lorenza, è certezza.”

Ora erano distanti l’una dall’altra e non solo fisicamente. Zia Elena sulla soglia della propria camera, Lorenza sulla soglia della sua. Lo spazio s’era fatto abissale.

“Buona notte, zia” disse Lorenza.

“Buona notte.”

Cap X

Partirono insieme, all’insaputa di zia Elena che non prevedeva una decisione così immediata. Una sera, dopo che per tutto il pomeriggio Lorenza non s’era fatta vedere in sartoria, tornando a casa trovò un biglietto sul suo tovagliolo. La giovane le scriveva per avvertirla che sarebbe stata assente due o tre giorni. Per qualunque evenienza poteva telefonarle al Copacabana a Rio de Janeiro. Era andata in macchina fino a Santos, dove s’era imbarcata su un piroscafo che faceva rotta a Rio.

Zia Elena non riuscì a inghiottire nemmeno una cucchiaiata di brodo. Aveva la gola chiusa. Telefonò in casa di De Souza e chiese del dottor García. Le fu risposto che il dottore era partito per Rio. Pensò d’imbarcarsi su un aereo l’indomani mattina, per precedere Lorenza al Copacabana, ma non lo fece. Con quale autorità avrebbe potuto intralciare i progetti di Lorenza? Non era più una bambina, era assolutamente indipendente. Era inutile lottare. Non rimaneva che rassegnarsi ed essere pronta a intervenire il giorno in cui Lorenza fosse ricorsa a lei. L’aspettava.

Per tre giorni fece soltanto una breve apparizione in sartoria. Visse quasi continuamente in casa, sola nel suo grande giardino, discutendo col giardiniere per la distribuzione lungo i viali e nelle aiuole di nuove piante e altri fiori. Con grande stupore del personale, seguì l’andamento della casa, cucinò qualche piatto speciale perché Mami imparasse, ispezionò il guardaroba, contò le lenzuola, acquistò nuovi asciugamani.

Quando Lorenza tornò, erano trascorsi quattro giorni e mezzo. Zia Elena l’accolse con slancio, non le chiese alcun resoconto del viaggio, non le rivolse alcuna domanda che potesse metterla in imbarazzo. Si accorse che portava al

dito medio una specie di anello matrimoniale. Un cerchietto di platino nel quale erano incastonati tanti piccoli brillanti, e che attorno al polso destro aveva un braccialetto d’oro e di acquemarine azzurro-verde, bellissime. Il suo viso era radioso.

“Molto lavoro?” chiese, sedendo a tavola. Non attese la risposta. Continuò: “Sono affamata… Stamani sono partita senza far colazione. Mi sono svegliata tardi e sono corsa all’aeroporto. Non mi sentivo di rifare il viaggio per mare o in treno… Ancora commissioni?”

“Non so. Non sono andata in sartoria… Dopo tanto tempo mi sono occupata della casa. Sei sempre decisa a recarti in Italia per gli acquisti di questa stagione?”

“Naturalmente, zia” ribatté subito Lorenza, ma nel tono della voce non c’era entusiasmo. “Perché non dovrei essere decisa, se eravamo d’accordo già da tanto tempo?”

“Così… Qualche volta, improvvisamente, si può preferire di rimanere…”

“Partirò.”

La vita riprese quasi come prima. Lorenza usciva tutte le sere, dopo cena. Qualche volta tornava a casa a mezzanotte, qualche altra volta molto più tardi. García l’accompagnava con l’automobile. Rincasava in silenzio camminando in punta di piedi. Zia Elena non dormiva. Soltanto dopo che l’aveva sentita chiudere la porta della propria camera, tentava di prender sonno e di dimenticare.

Dieci giorni dopo Lorenza partì. García andò a Santos per salutarla. Si trovò faccia a faccia con zia Elena. Non s’erano più visti da parecchie settimane. Lorenza temeva che zia Elena trattasse male García, invece fece tutto il contrario. Fu gentile, cordiale, quasi espansiva. Fecero tutti e tre colazione insieme a bordo, poi quando il transatlantico si staccò da riva, zia Elena e García rimasero vicini, sulla banchina, a salutare Lorenza.

“Telefonami…” le gridò García.

Lei rispose di sì senza capire. Le lacrime ora le rigavano il viso. Non si vergognava. Pensò: ‘Non mi farò accompagnare mai più a bordo, è troppo triste vedere le persone care che rimangono sole a terra.’ La nave stava per scomparire e zia Elena e García non s’erano ancora mossi dal loro posto.

“Torniamo a casa” disse zia Elena sospirando. “Sarà molto triste, per me… M’ero abituata alla presenza di Lorenza, al punto che mi mancava anche se rimaneva assente per qualche ora.”

L’allusione era diretta, ma García non la raccolse. S’era prefisso, e lo aveva anche promesso a Lorenza, di lasciar cadere ogni riferimento alla loro relazione da parte di zia Elena. Il loro amore apparteneva a loro e nessuno doveva intromettersi.

“Vuole tornare a San Paolo con la mia macchina?” le chiese García.

“Volentieri. La strada mi sembrerà più breve. Rimando indietro Aristide.”

Era contenta che le offrisse l’occasione di un colloquio che altrimenti sarebbe stato impossibile ottenere. Il suo stato d’animo era aggressivo, pronto a dare e ricevere duri colpi.

Rimasero per qualche tempo zitti, come se fosse difficile per loro iniziare una conversazione che non li mettesse uno contro l’altro. E d’altra parte non era possibile non parlare di Lorenza.

“Quanto tempo pensa che rimarrà in Italia?” chiese García quando, superata la città, la strada cominciò a salire.

“Non più di due mesi, viaggio compreso. A meno che non voglia fermarsi qualche giorno di più dalla famiglia. Può farlo… Può anche rimanere per sempre in Italia, se vuole…” Pronunciò queste ultime parole con un tono indifferente, come se per lei non avessero alcun significato.

“Certamente” disse subito De Souza “se vuole… ma non vorrà. Sa che l’aspetto. E mi ha promesso che ritornerà al più presto.”

“Bisogna imparare a non essere impazienti. La saggezza della vita sta nel saper aspettare.”

“Vorrei che la nave fosse già di ritorno.”

“Grande amore?”

“Con la lettera maiuscola. Lorenza vale tutte le lettere maiuscole del mondo.”

“Lo so… Vorrei anche sapere qualche cosa, dottore, qualche cosa che deve permettermi di chiederle, senza considerarmi indiscreta.”

“L’ascolto…”

Ci fu una pausa. Lei tentò di scegliere le parole più semplici e meno aggressive prima di parlare.

“Che cosa intende fare di Lorenza?”

“Niente di più di quello che è, la donna che amo.”

“E poi?”

“E poi ancora la donna che amo.”

“Che cosa direbbe se le suggerissi di sposarla?”

“Le direi che finché vive la mamma non mi è possibile sposare Lorenza. Lei

conosce mia madre e in parte conosce anche le sue idee. Non accetterà mai che un’altra donna, e per di più una straniera, prenda il posto della ragazza che ha scelto per me. Lorenza è giovane. Io lo sono meno, ma posso aspettare. Un giorno saremo marito e moglie e non avremo avvelenato gli ultimi attimi di vita a mia madre.”

“Associazione a delinquere” mormorò zia Elena, abbassando il vetro del finestrino. Aveva bisogno d’aria. “Associazione a delinquere” ripeté. “Unione di egoismi feroci e soddisfatti per lo sfruttamento d’una creatura innamorata e giovane, buona e generosa.”

“Non sia ingiusta, donna Elena, e sia invece comprensiva. Lorenza e io ci amiamo al di sopra di tutti gli egoismi e di tutte le associazioni a delinquere.”

“Ma Lorenza le dà la sua giovinezza, la sua libertà, il suo amore, la sua tenerezza, la sua reputazione, e lei in cambio le dà, sì, il suo amore, ma null’altro in più del suo egoismo sommato a quello di sua madre.”

“Vorrei che non parlasse di mia madre…”

“E io vorrei che lasciasse in pace Lorenza. Non si preoccupi del suo dolore. Penserò io a consolarla.”

“Non capisce nulla della vita, donna Elena, e nulla dell’amore.”

“È probabile, ma giudico dal mio punto di vista.”

“Comunque, Lorenza e io non ci lasceremo. A questa certezza dovrà rassegnarsi.”

“Sono rassegnata al peggio, De Souza… Perché non vedo felicità per Lorenza. E se le ho chiesto di lasciarla, non l’ho fatto per egoismo, ma perché vorrei che non soffrisse per un uomo come lei e per una donna come sua madre.”

“Le proibisco di parlare con questo tono di mia madre” ripeté De Souza, e questa volta nella sua voce c’era una venatura di collera.

Donna Elena rialzò il vetro e disse con voce tranquilla: “Fermi l’auto un momento, la prego.”

L’altro le ubbidì, un po’ stupito che lei volesse fermarsi in un punto assolutamente deserto fra le paludi e i boschi. Donna Elena scese e richiuse di colpo lo sportello.

“Prosegua da solo, e non si occupi più di me… Via…”

García non attese l’ordine due volte. Ingranò la marcia e s’allontanò per la via che saliva sempre sulla costa. Donna Elena si mise sul ciglio della strada ad aspettare. avano poche automobili a quell’ora, ma aveva la sensazione che Aristide non li avesse preceduti. Doveva quindi comparire da un momento all’altro. Se non fosse comparso, sarebbe ritornata a piedi fino a Santos. Alcuni chilometri in discesa non la spaventavano. Era furente con se stessa. Il colloquio con García non avrebbe potuto avere esito peggiore. Non era stata pronunciata

una sola parola capace di condurli a un’intesa. ‘La colpa è della madre, d’accordo, ma un figlio di trentacinque anni può anche avere una sua volontà, quando si tratta di risolvere i propri problemi sentimentali e familiari di tutta la vita… e si tratta d’un uomo che ha già una sua carriera avviata e che ha una donna giovane, bella, intelligente…’

Cominciò a camminare. Non le era possibile rimaner ferma sull’orlo d’una strada dalla quale non ava nessuno. Dalle paludi si alzò la solita nebbia fresca e umida della sera. Rabbrividì. La irritava e la preoccupava anche l’atteggiamento di García, così sicuro di sé, così sicuro di Lorenza. Aveva parlato d’amore, di grande amore, ma se donna Elena riteneva Lorenza capace di un grande e profondo sentimento, escludeva che un uomo come García, incapace di affrontare la madre e di imporle la sua volontà, potesse amare Lorenza come dichiarava di amarla.

“Non sapevo che fosse rimasta a piedi, signora…”

“Andiamo a casa, Aristide…”

Per due giorni non volle vedere nessuno, né volle andare in sartoria. Poi Lorenza le telefonò da Bahia. Allora provò la sensazione che la vita riprendesse.

La sua protetta era serena. Le piaceva la vita di bordo. Scriveva ogni giorno alcune pagine di diario, da spedire a García ogni volta che la nave toccava qualche porto. Disegnava accessori adatti a modificare i modelli che non si confacevano al clima brasiliano. S’apionava al suo lavoro, sentiva la propria responsabilità. Pensava a García. Dopo i tre giorni trascorsi a Rio, si era convinta che qualunque avvenimento avesse turbato la loro vita, lei avrebbe amato sempre García e García l’avrebbe sempre amata.

A bordo viveva isolata, sicura di sé, indifferente a tutti. Nessuno tentò di turbare il suo isolamento. Soltanto un giovane italiano che tornava in patria dopo qualche anno di residenza in Argentina la invitò a ballare alla prima festa di gala. Divennero quasi amici. Semplicemente amici.

A Napoli una sorpresa l’aspettava. Marco Ansperti salì a bordo non appena la nave attraccò. Lei era nella sua cabina, e stava vestendosi per scendere a terra. Voleva cominciare a lavorare. Voleva telefonare a sua madre. Voleva vedere alcune grandi sartorie napoletane tanto per cominciare a orientarsi. Una mano impaziente bussò alla porta chiusa.

Non aspettava nessuno. Pensò: ‘Papà? Mamma?’ e chiese: “Chi è? Avanti…”

Vide la figura bruna e snella di Marco riflessa nello specchio. Gli sorrise, e gli si avvicinò, porgendogli la mano.

“Bentornata…” disse Marco baciandole la mano. “Come sono felice di rivederti… E come sei cambiata… Non so se ti avrei riconosciuta, per la strada… Come sta zia Elena?”

“Zia Elena è una donna meravigliosa. L’adoro. E non ti dico che cos’è stata per me… più che una mamma e più che una sorella.”

“Lo so.”

“Ora lavoriamo tutte e due. Questo è per me un viaggio d’affari e insieme un esame.”

“Sono sicuro della promozione. Scendi a terra?”

“Sì. Ho diverse commissioni da sbrigare… E sono ansiosa di rivedere Napoli e Milano e la mia casa e i miei vecchi…”

“Posso accompagnarti?”

“Sì, non c’è alcun problema.”

Lui non osava toccare argomenti pericolosi e la conversazione si aggirò su un anno di notizie arretrate. Ma sentivano che c’era in loro, latente, un bisogno represso di ritornare su un argomento che il tempo aveva mantenuto vivo.

Fecero colazione a Santa Lucia, visitarono alcune sartorie e telefonarono a Milano. La madre rispose piangendo di emozione.

“Vengo con papà a prenderti” disse. “Partiamo stasera.”

“No, mamma, ti prego…” ribatté subito Lorenza. “Ti prego, mamma… Non venite. Aspettatemi a casa. Non venite nemmeno alla stazione. Non so ancora quale treno potrò prendere. È venuto Marco Ansperti a ricevermi a Napoli… Basta lui ad aiutarmi in dogana e ho bisogno di molta tranquillità. Sto bene, sto

benissimo, ma sono molto cambiata… Preparati a una vera e propria trasformazione.”

“Sono molto cambiata anch’io… sono molto invecchiata.”

Ritornarono a bordo un’ora prima che la nave sale. Lorenza era felice. L’aria di Napoli era dolce di primavera. Era persino espansiva e affettuosa con Marco. Gli dimostrava che aveva bisogno di lui, che lo comprendeva, gli prometteva che durante la sua permanenza a Milano si sarebbero visti spesso.

La sera, dopo la cena, ballarono nel salone delle feste della nave, e eggiarono a lungo sui ponti. Il mare era calmo e di luci. Nel cielo una grande luna stendeva sulla nave un velo di tenerezza.

“Se tutto andrà bene, quest’anno, riprenderò il mio servizio all’ospedale. E dopo un altro anno ritornerò in Brasile. Tu, allora, dove sarai?”

“Chi lo sa? A San Paolo, forse… o altrove. Non so nulla del futuro e lascio che la vita faccia progetti per me.”

“Io credo che sceglierò lo stesso posto dove andrai tu… se non ti darò troppa noia.”

“C’è posto per tutti, nel mondo.”

Rimasero in silenzio, nella quieta e dolce notte.

“Lorenza… posso rivolgerti una domanda indiscreta?” le chiese lui dopo qualche minuto.

Lei si strinse nelle spalle. ‘Non è possibile’ pensò ‘che esista l’amicizia, la sola, pura, grande e buona amicizia fra un uomo e una donna? Ora mi parlerà di sé, del bene che mi voleva quando lo chiamavamo ‘Pillola’, del bene che mi vuole ora che è medico, mi chiederà lo stato del mio cuore eccetera eccetera…’

“Non esistono domande indiscrete fra noi” rispose.

“Zia Elena mi ha accennato, soltanto, a un medico che ti fa la corte, a San Paolo…”

“Non mi fa la corte… Mi ama, e io lo amo.”

Marco scosse nervosamente la sigaretta e un po’ di cenere si disperse, portata via dal vento.

“Da molto tempo?”

“Da carnevale. Precisamente dall’ultima notte di carnevale.”

“Vi sposerete?”

Non rispose subito. Non avevano mai parlato di matrimonio con García. Non ne avevano sentito il bisogno. Ma era sottinteso che un giorno si sarebbero sposati. Disse con accento convinto: “Certamente. Non so quando, ma ci sposeremo.”

“Credevo che tu volessi sposare un uomo della tua terra.”

“La bisavola di García era italiana. Sono moltissimi i brasiliani che hanno un po’ di sangue italiano nelle vene.”

Ci fu ancora un silenzio penosissimo. Questa volta più lungo del precedente. Lorenza era serena. Non le importava nulla che Marco soffrisse. Non aveva fatto nulla per illuderlo. E per avere accettato l’invito di zia Elena, non gli doveva proprio nulla.

“Volevo dirti che… che… anch’io ti amo…” mormorò lui, lasciando cadere la sigaretta accesa in mare.

“Mi dispiace, Marco… Ma credo che se anche García mi lasciasse, non potrei amare altri che lui.”

Marco non insistette. Soffriva troppo, specialmente per la durezza con la quale Lorenza gli aveva parlato.

Il viaggio si svolse senza altri incidenti. Marco cercò di nascondere la sua pena, Lorenza parlò quasi sempre di San Paolo e dei nuovi progetti studiati con zia Elena. La sua vita, ormai, si svolgeva in Brasile, e ogni legame con la famiglia o con l’Italia era soltanto sentimentale. Giunsero nel capoluogo ligure la mattina presto in una trionfante giornata di sole. La sera stessa ripartirono per la loro città. A Milano faceva ancora freddo e c’era la nebbia. Lorenza fu contenta di ritrovare quella atmosfera, tipica della città. Quando arrivò davanti al cancello della sua vecchia casa, però, il gesto che fece per suonare il camlo rimase sospeso.

All’improvviso tutto il suo ato, tutta la sua giovinezza le balzarono contro con violenza. Da quel piccolo giardino era partita felice con Paolo, da quella strada Paolo s’era voltato a salutare, a quell’angolo era avvenuto l’incidente che aveva spezzato la sua vita. Le sembrò ancora di sentire il suo grido… poi il silenzio che era seguito. Dovette fare uno sforzo su se stessa per far tacere il battito del suo cuore.

“Che cosa terribile, Marco, rivivere il ato…”

“Se si potesse dimenticare…” osservò Marco. “Ma anch’io ho una memoria che non cancella nulla di ciò che sa. Se potessi dimenticare… e persuadermi che ti ho incontrata per la prima volta a Napoli tre giorni fa… credo che vivrei di nuovo tranquillo.”

Lorenza non rispose, e suonò il camlo.

“Non mi aspettano così presto” disse.

La madre si affacciò alla porta e le corse incontro. Si abbracciarono prima ancora di aprire il cancello, attraverso le sbarre.

Per qualche giorno ridiventò ‘la signorina Lorenza Glori’. Il padre e la madre la guardavano meravigliati, quasi fosse per loro soltanto un’apparizione. La loro domestica non faceva altro che coccolarla. A volte, la madre si alzava da tavola e le faceva una carezza, quasi volesse accertarsi che non era solo un fantasma.

Lavorò con ione e con intelligenza. Studiò la nuova moda italiana. Scoprì che i sarti italiani realizzavano modelli che attenuavano le eccentricità straniere. Era moda, sì, ma anche buon senso. Scelse i modelli migliori di tutte le collezioni che le vennero presentate. Aumentò il numero dei modelli sportivi e degli abiti da mattino e completò i suoi acquisti con abiti da sera in stile, semplici a eseguirsi e facili a portarsi, nonostante lo straordinario effetto dell’insieme. Da Firenze prese il meglio in tema di biancheria da signora. Da Torino i taffetà ricamati per le coperte da letto. Spostò il limite dei suoi affari e dei suoi acquisti, si rifece un intero corredo di abiti personali e di biancheria. Infine lasciò alla madre una parte del denaro che aveva guadagnato. Della sua permanenza italiana era soddisfatta, ma non vedeva l’ora di partire.

Dopo un mese di lavoro, di viaggi, di scelte, di prove, di attività frenetica, Lorenza era pronta. Poteva andare via. Era però così stanca da aver bisogno d’un po’ di riposo. Accettò l’invito dei suoi genitori a fermarsi ancora per qualche giorno.

Scelsero un piccolo albergo di montagna, con la stufa a legna in un angolo della camera e la tovaglia a quadretti sulla tavola. Lì trascorsero una breve vacanza. Lorenza era serena, così vicina alle stelle, la sera, da aver voglia di alzare le mani per raccoglierle. Le stelle di montagna erano vicine come quelle del cielo di San Paolo quando cominciava l’autunno.

Marco andò a trovarla due volte. L’accompagnò durante una breve escursione, al tramonto, quando le campane della valle risuonavano dei loro straordinari rintocchi. A poco a poco si accorse con sorpresa che Marco le stava diventando caro, quasi indispensabile. Non gli voleva bene d’amore, ma provava per lui una tenerezza affettuosa. Trascorse con lui gli ultimi due giorni di vacanza.

“Se davvero decidi di rimanere in Brasile, credo che non avrò mai il coraggio di ritornare a San Paolo” le disse mentre camminavano vicini lungo uno stretto sentiero che saliva dolcemente il fianco della montagna. “Non potrei vivere nella tua stessa città… sapendoti sposata a un altro. Penso che se sposerai quel medico del quale mi hai parlato, cadrà ogni speranza d’un tuo ritorno in patria.”

“Non lo so… Non posso ipotecare il mio avvenire. Nessuno può dire, prima di farlo, mi stabilirò qui piuttosto che là… Mi fido soltanto di ciò che è già deciso, stavo per dire di ciò che è già stato vissuto… D’altra parte agisco senza premeditazione, come se dovessi tornare a casa mia da un momento all’altro. Tutto quello che guadagno, lo mando a casa, a mia madre. E questo è un segno sicuro. La mia casa è qui… anche se il mio cuore e il mio lavoro sono là.”

Lui sospirò: “Non m’illudere.”

“Non t’illudo. Dico quello che è vero, quello che penso, soprattutto quello che faccio. Ma la vita dispone di me a mia insaputa e io sono costretta a ubbidire.”

“Potrei raggiungerti a San Paolo… Sono sicuro che potrei compiere miracoli. E io sono sicuro che saprei compierli… per te.”

“Ti ringrazio… ma non è proprio colpa mia.”

Ritornarono tutti insieme a Milano. Ogni volta che la madre vedeva Lorenza insieme a Marco, sospirava. Non sapeva nulla di preciso della relazione della figlia con García De Souza. Quando era arrivata la prima lettera, Lorenza aveva detto: “È d’un amico brasiliano. Mi fa la corte…”

“Non avresti intenzione di sposarti laggiù?” aveva chiesto la madre con la voce che le tremava.

“Sposarmi, mamma? E chi ne ha il coraggio?” ma aveva accarezzato la lettera chiudendola fra le palme delle mani.

La madre non aveva insistito. Non osava confessarlo a se stessa, ma Lorenza, da quando era tornata, le metteva soggezione. La sentiva indipendente, padrona di sé, capace di dare qualche consiglio piuttosto che di riceverne. Lei era rimasta una donna di casa e non conosceva del mondo che gli avvenimenti della propria vita e teoricamente quelli che leggeva nei giornali. Sua figlia, invece, aveva vissuto, aveva attraversato l’oceano, era ritornata dal Brasile, e ripartiva… così, semplicemente, come se si trattasse d’andare a Monza. Non capiva come si potesse nutrire tanta indifferenza per le distanze. Lei non si era mai del tutto familiarizzata con la velocità sempre crescente dei moderni mezzi di trasporto. Dalla morte di Paolo evitava di salire su un’automobile, fosse anche un taxi.

“Torniamo a Milano domani” disse Lorenza alla madre, la sera, sedendosi a tavola accanto a Marco. Di fronte ai due giovani, i vecchi sognavano una impossibile unione.

“Sì… ti sei almeno riposata? Ti senti bene?”

“Benissimo. Sono pronta a partire. Ho ricevuto notizie esatte sulla data di partenza della nave. Fra dieci giorni. Ho solo delle commissioni da ultimare. Certe guarnizioni ancora non mi persuadono. E voglio portare merce di primissimo ordine.” Sorrise a Marco. “Zia Elena non deve trovar nulla che non sia di suo gusto o per lo meno del gusto delle sue clienti.”

Poi il giovane fu inviato, per lavoro, a Torino. Ritornò appena in tempo per salutare Lorenza, il giorno prima dell’imbarco.

“Volevo esserti utile… volevo fare qualche cosa per te… volevo…”

Era commosso, turbato, sgomento.

“Ti ringrazio. Ora è tutto già spedito. È andato tutto bene… Non mi sono stancata troppo.”

“Dirai a zia Elena…”

“Sì… So che cosa devo dire.”

“Promettimi una cosa… se quel dottor García… se ti lasciasse o se tu lo lasciassi…”

“Non è possibile che ci lasciamo ormai. C’è qualche cosa più dell’amore che ci lega…”

Fu come se Marco avesse ricevuto un colpo in pieno petto. Lorenza se ne accorse. Davvero non aveva immaginato? Davvero credeva che nulla fosse cambiato in lei da quando era partita? Lo guardò e gli pose affettuosamente una mano sui capelli.

“Non credevo di farti tanto male” gli disse.

“Scusami, non sono io che devo giudicare. E, del resto, non c’è nulla da giudicare. Qualche volta noi uomini abbiamo assurde pretese… Ripetiamo tutti i momenti che la donna, la vera donna, è tramontata, che le donne d’oggi mancano di femminilità e trattano l’amore come un affare di ordinaria amministrazione… Perché avresti dovuto aspettare proprio me? Ho torto io che ti amo, ho torto io a volere da te quello che non puoi darmi…”

Aveva parlato velocemente, come se si stesse sfogando.

Lorenza gli mise una mano sulla spalla.

“Non è tutto esatto Marco… Esistono ancora uomini che sanno ‘aspettare’, ed esistono ancora donne che sanno ‘resistere’. Non è detto che proprio tutto, oggi, sia così affrettato e disordinato. In qualunque epoca, l’amore ha fatto commettere gli stessi errori di oggi. Bisogna perdonare, ma soprattutto comprendere.”

Comprendere, certo. Ma era duro lasciarsi, pensare che Lorenza se ne andava, che era perduta. Marco provava la sensazione che non gli rimanesse più nulla che lo attaccasse alla vita, nemmeno la speranza che lei tornasse, un giorno, libera. Lui sapeva che si sarebbe adattato ad accoglierla così com’era, dopo l’eventuale naufragio della sua relazione, disposto a curarla, a guarirla, ad amarla. Allora desiderò che lei soffrisse, si disperasse, fosse abbandonata. Non era bello, ma non riusciva a pensare ad altro. Avrebbe voluto essere dolce, ma non ci riuscì.

“Che cosa pensi?” gli chiese Lorenza. Non le piaceva quello sguardo fisso su di lei.

“Cose cattive.”

“Lo vedo. Perché?”

“Perché ti amo.”

Non si dissero addio. Si strinsero la mano come se dovessero vedersi l’indomani, ma sapevano tutti e due che non si sarebbero più rivisti. Sulla soglia della casa le disse, baciandole la mano: “Buona notte.” E Lorenza rispose, come le altre sere: “Buona notte.”

Partì sola come la prima volta. Non aveva voluto essere accompagnata alla stazione, s’era opposta all’idea della madre di seguirla fino all’imbarco. Telefonò a zia Elena, telefonò a García: ‘Ritorno.’ A bordo si trovò come se fosse a casa sua. La nave era la stessa che l’aveva riportata in Europa. Ormai conosceva tutti gli ufficiali, e qualcuno dei eggeri.

Furono tredici giorni di pessima navigazione. L’Atlantico si rifece d’un lungo periodo di bonaccia e s’avventò contro il transatlantico come se volesse inghiottirlo. Pensieri tristi, resi ancora più insopportabili dalla pioggia, l’afflissero per tutta la traversata. L’umore era come il cielo: plumbeo e basso, dall’orizzonte limitato. Il cuore, oppresso. Quando la nave s’avvicinò a Bahia e Lorenza vide la città dai templi d’oro, trattenne a fatica il bisogno di gridare di gioia. Ancora due giorni e due notti di navigazione, poi Rio.

Non appena il bastimento s’avvicinò alla terra, Lorenza s’affacciò da un ponte. D’un tratto sobbalzò e si protese in avanti, reggendosi alla murata, gli occhi dilatati dalla sorpresa. ‘È un’allucinazione’ pensò. Un braccio teso agitava una mano bruna che la salutava, che salutava proprio lei. Era García. Lei gridò: “García!”, lui le sorrise. La nave attraccò. Non si persero di vista, nemmeno per un attimo, nonostante la folla aumentasse e il movimento di facchini e eggeri provocasse spostamenti a ondate. ‘Che caro…’ pensò Lorenza ‘non l’aspettavo… Non dimenticherò mai questo gesto gentile.’

Calarono la erella.

Si corsero incontro e si abbracciarono. García le chiese: “Tutto bene?”

“Bene.”

Quella parola bastò per dirgli che, nonostante il mare pessimo, la traversata era andata bene, che in Italia era stata benissimo, che gli affari erano andati… bene, che gli voleva ancora… bene, come prima, più di prima, meglio di prima.

Lui era diverso da come lo ricordava, da come lo aveva pensato. Era più alto, più magro, più bruno. ‘Non lo ricordavo così bruno di pelle, così bruciato dal sole, così arso… che avesse i denti così bianchi e le labbra così ben disegnate. Quando ride i denti brillano al sole. È mio’ pensava ‘quest’uomo tutto vestito di bianco che mi fissa e che sorride è mio. Non vede che me, è venuto apposta da San Paolo e… mi ama.’ Si guardò attorno con soddisfazione. Avrebbe voluto che tutti sapessero.

“Non sono più sola…” mormorò.

Si riabbracciarono stretti stretti, senza dir nulla, il cuore in gola, gli occhi pieni di lacrime.

“Querida… querida… querida…”

S’appartarono nel salone, seduti sullo stesso divano, le mani nelle mani, gli occhi negli occhi.

“Temevo di non riconoscerti… Sei smagrita anche tu… Se non fossi ritornata, che cosa avrei fatto io, solo? Credo che sarei venuto in Italia a cercarti.”

Esprimeva ogni pensiero, disordinatamente. Lorenza taceva e rifletteva. Non immaginava che avrebbe provato quel tipo di sentimenti per quell’uomo. Avrebbe voluto appoggiare la testa sul petto di García, chiudere gli occhi e rimanere così immobile, a lungo. Non desiderava nemmeno baciarlo, né di essere baciata. Sentiva soltanto il bisogno fisico di stargli vicino, di riconoscerlo, di riabituarsi a lui, al suo odore. Si sentiva come un cagnolino che prima di far la festa al padrone rimasto a lungo lontano lo annusa per accertarsi che sia proprio

lui e non un altro.

García disse: “Querida, non potevo aspettare più… Ho affidato l’ambulatorio a un supplente e mi sono concesso dieci giorni di riposo. Abbiamo ancora una giornata intera a Rio. Proseguiremo poi in aereo. I bagagli li faremo sbarcare a Santos. Andremo con la macchina, ti accompagnerò. Verrà anche zia Elena.”

“L’hai vista qualche volta?”

“No.”

Non le raccontò di averla lasciata sola sulla strada tra Santos e San Paolo. Era inutile. Zia Elena era una donna che non poteva capire una relazione come quella che lo univa a Lorenza. Lei non chiese nulla di più. Era appagata dalla presenza di García. Ora si stava persuadendo che era tornata in Brasile soltanto per García, non per gli affari, non per zia Elena. Non gliene importava nulla dei vestiti che aveva acquistato, nulla del giudizio di zia Elena su di lei come donna d’affari. Ma non era vero, e in mente sua lo sapeva.

“Zia Elena sa che ti sono venuto incontro, gliel’ho fatto dire” spiegò García. S’era accorto che quel ‘no’, così asciutto, poteva offendere la giovane.

De Souza aveva preteso la cabina attigua a quella di Lorenza. Aperta la porta di comunicazione non esistevano più ostacoli e potevano muoversi come in un appartamento, isolati dagli altri eggeri. Per quasi tre giorni vissero il sogno di tutta la vita in un’atmosfera suggestiva come è quella di bordo. Quel trovarsi fra cielo e mare, lontani dal mondo, entro limiti angusti che pur consentono un’assoluta libertà, dava sapore ai sentimenti e ne moltiplicava potenza ed

espressione.

Lorenza provò una nuova sensazione. Era come se solo in quel frangente cominciasse a comprendere cosa fosse l’amore. Sino a quel momento la relazione con García l’aveva travolta. Aveva subito l’amore, più che amare. Ora, più cosciente, più padrona di sé, non si sentiva più un oggetto. Adesso sapeva. Adesso era consapevole. Aveva una maniera d’amare tutta sua e se ne rese conto. A quella obbligò García a ubbidire.

Il viaggio in Italia le aveva fatto bene. Le aveva fatto bene quel tentativo di lavoro indipendente. Le aveva dato coscienza di sé, la prova di poter contare qualche cosa nella vita. Persuase García a partir solo in aereo per San Paolo.

“Perché non insieme? Ti porto a Santos in macchina…”

Pranzarono al Copacabana, nella grande sala bianca e oro dell’albergo, con le finestre spalancate, le tende piene di vento. Con l’oceano che lambiva la spiaggia.

“Credevo che fra te e zia Elena fosse tornata l’amicizia d’un tempo. Invece no. Dal poco che mi hai detto, ho capito che molte nubi corrono ancora nel vostro cielo. Meglio evitare il temporale. Ho tanto lavorato, in Italia, che sarebbe irragionevole scontentare zia Elena per un errore commesso all’ultimo momento. Proseguo sola per Santos… zia Elena mi aiuterà a sdoganare tutto quello che porto. Lei sa meglio di me come sbrigare certe faccende, e osservando imparo. Non voglio che zia Elena si possa irritare con me. Devo farmi perdonare qualche innovazione, qualche modello che forse non è di suo gusto, qualche idea che non va d’accordo con le sue. Preferisco che, arrivando, mi trovi sola.”

“Si direbbe che hai paura di lei.”

“Non è paura, è rispetto. È una donna che ha lavorato tutta la vita e che associandomi alla sua attività ha firmato il suo testamento. Non lo posso e non lo devo dimenticare.”

García non osò ribattere. Certe forme di onestà spirituale lo stupivano. Lui era un uomo onesto, codice alla mano. Ma ignorava certe forme di etica, e gli istinti rapaci del suo temperamento soverchiavano spesso la sua ragione. Era un uomo egoista, che sorvolava sopra a tutte o quasi le sottigliezze morali. Si rendeva conto che Lorenza non era più una bambina, per lo meno non era più la bambina che aveva conosciuto qualche mese prima. La nuova Lorenza sapeva trovare parole contro le quali non c’era nulla da obiettare. Bisognava riconoscere che aveva ragione e che non condividere le sue posizioni voleva dire ‘ostinazione o mancanza di intelligenza’. E lui era troppo opportunista per commettere errori di tattica.

“Partirò solo, mi dispiace pernottare qui, senza di te.”

“Bisogna essere ragionevoli.”

“Lo so, ma non è piacevole.”

eggiarono lungo la spiaggia, presero il tè insieme a bordo, rimasero vicini, sdraiati nelle loro poltrone sul ponte, fra eggeri che scendevano e salivano.

García abbandonò il transatlantico per ultimo, quando stavano mollando le corde della erella.

“Corro subito in albergo” le gridò “ti vedrò are nella baia di Copacabana. Tu non mi vedrai perché è già buio, ma io saluterò la nave che a, e ti sarò vicino.”

Poi andò via di corsa, con un taxi, verso l’albergo. Percorse quasi quindici chilometri nel traffico infernale a quell’ora. Non sentiva più il caldo. Aveva fretta di arrivare. Ma non per salutare Lorenza. Al Copacabana l’aspettava una sua vecchia amica.

Quasi mezz’ora dopo la nave comparve fra le colline e gli isolotti. Lorenza vide la lunga eggiata a mare illuminata, l’albergo, il Cristo Redentore sul Corcovado. ‘García è là e mi saluta.’ Rimase sul ponte finché la spiaggia scomparve, poi l’albergo s’inabissò nel buio, seguito dalla città. Ultima, viva fra le stelle, rimase a lungo, per miglia e miglia, la sagoma luminosa del Redentore. Poi più nulla. Mare e cielo. Allora andò in cabina, fece una rapida toeletta e scese per la cena.

Andò a dormire presto. Aveva sonno. S’addormentò di colpo, e si svegliò soltanto quando la nave fu in vista di Santos. Durante la notte era piovuto ancora. Il ponte grondava acqua. L’aria era meno afosa. Si commosse. La nave stava entrando nel porto. Laggiù, nel fondo, in mezzo alla folla che pareva immobile, zia Elena l’aspettava. La chiamarono: “Il aporto alla polizia, signora.” Dovette lasciare la murata e salire nel bar, mettersi in fila, mostrare il aporto a un ufficiale di polizia arcigno e diffidente. “È già venuta in Brasile?”

“Sì.” Un timbro, un altro timbro. Via di nuovo attraverso il grande salone.

Improvvisamente, qualcuno la trattenne. Era zia Elena. Se la trovò davanti come un’apparizione. Si fissarono e compresero subito che si volevano bene, che si perdonavano, che avevano bisogno dell’affetto che reciprocamente si offrivano. Non riuscirono a trattenere le lacrime e si abbracciarono.

Non era facile che zia Elena piangesse. Lorenza lo sapeva. E sentirla singhiozzare sulla sua spalla le faceva bene al cuore. Era come se con quelle lacrime zia Elena le perdonasse García e lo accettasse.

“Dubitavo del tuo ritorno” confessò zia Elena. “Si lascia facilmente la casa la prima volta, è difficile rilasciarla poi…”

“Non è stato difficile, ora so che si può sempre ritornare.”

“Hai visto Marco? Che fa? Non m’ha più scritto.”

“L’ho visto spesso. Sta bene, studia. Non so se ritornerà in Brasile.”

“Capisco.” Il tono era triste.

“Non è colpa mia, zia Elena.”

“Lo so.”

Sorvegliarono lo scarico dei bauli. Il comandante salutò zia Elena.

“Non mi par vero che rimanga a casa, signora. Non la vedremo più sulle nostre navi?”

“Credo di no, comandante. S’invecchia. Ora viaggiano i giovani… Io che ho tanto amato il mare, comincio ad affezionarmi alla terra.”

Lorenza osservò l’espressione che era apparsa sul volto di zia Elena, e ne provò un senso di pena. Era di rinuncia. ‘S’invecchia’ aveva detto la zia ‘ora viaggiano i giovani… comincio ad affezionarmi alla terra.’ Non era vero, zia Elena non era vecchia, non s’affezionava alla terra. Zia Elena le cedeva il suo posto, generosamente, e non glielo faceva pesare. Fingeva di ritirarsi per anzianità e le faceva invece dono della sua ultima giovinezza. Le pose una mano sul braccio con un gesto di tenerezza devota, e zia Elena capì che quello era un gesto di ringraziamento.

Scesero insieme giù per la erella. Appena toccata la banchina, Lorenza, istintivamente, riprese a parlare portoghese con i facchini, come se non si fosse mai allontanata dal Brasile. Disse a zia Elena: “García m’è venuto incontro a Bahia…”

“Lo so. A San Paolo si sa tutto quello che si vuole… qualche volta anche quello che non si vuole.”

“È tanto caro… Non m’aspettavo quest’attenzione da parte sua.”

“Nemmeno io” confessò zia Elena. Aveva spesso il coraggio di riconoscere ciò che di buono c’era nelle persone che non amava. “Di che cosa avete parlato? Intendo, che cosa ti ha detto di ciò che può riguardare la vostra vita… la vostra vita futura?”

“Nulla, zia. Che mi ama.”

“Questo lo sappiamo tu e io. E poi?”

“E poi basta, zia.”

Attesero tre ore in dogana l’esame dei bagagli, e ne controllarono il carico sul camion per San Paolo. Erano estenuate. Zia Elena era anche spaventata. Troppo, quella figliola aveva comperato troppo. Avrebbe visto più tardi ‘come’ aveva comperato. Farlo in un settore che ancora non conosceva bene… non era facile. Per quasi tutto il tragitto in automobile, mentre Aristide guidava, ascoltò la descrizione dei modelli che Lorenza le faceva, minuziosamente. Approvava con leggeri movimenti della testa per mostrarle che seguiva il discorso ma con il pensiero disapprovava quasi tutto. I modelli, la stoffa, le guarnizioni. Abituata a Parigi e a Londra le pareva che i modelli italiani non fossero all’altezza del nome della sua casa di confezioni.

“Metteremo le etichette si ai migliori modelli” disse zia Elena.

“No, zia” ribatté Lorenza. “Non dimenticare che ho venduto tutto il mio corredo italiano, e l’ho venduto come merce italiana. Sono sicura delle mie etichette.”

A casa, Rodolfo, Maria e Mami l’accolsero con entusiasmo. Il pappagallo la chiamò per nome.

“È stato Rodolfo a insegnarglielo” spiegò Mami.

La sua camera era fresca e linda, la casa di zia Elena più bella di come la ricordava.

La sera stessa si recarono nel laboratorio. Per quasi tutta la notte Lorenza provò, davanti a zia Elena, alla prima lavorante e a un grande specchio a tre luci, i modelli che aveva portato. Zia Elena la seguiva zitta e attenta. Quasi con rammarico, approvava. Quando anche l’ultimo modello fu indossato, abbracciò Lorenza senza dir nulla. Forse non tutto le piaceva, ma nell’insieme poteva andare.

“Col tempo riuscirai a essere meno entusiasta e più equilibrata… Ma non m’aspettavo tanto da te, per la prima volta. Brava…”

E mentre le esprimeva la sua ammirazione, ebbe d’un tratto pietà per quella giovane che si stava preparando con le sue mani un’esistenza uguale a quella che lei aveva già vissuta. Un’esistenza di attesa, di solitudine, di amarezza, di lotta, di soddisfazioni, di successo, di sfiducia. Sapeva che, a poco a poco, anche per lei l’amore sarebbe diventato una parola vuota di senso, che sarebbe giunta al punto di preferire un’ora di lavoro a un’ora d’amore, che avrebbe avuto anche lei una bella e ricca casa, un conto in banca, dei domestici, ma anche solitudine, aridità, tristezza. Non era forse meglio rimandarla a casa sua, a riprendere il suo posto in famiglia? Ma era troppo tardi. Lorenza era innamorata di García e García non le avrebbe mai dato quello che a Lorenza occorreva: un tetto da

condividere.

“Credi che García ti sposerà, un giorno?”

Lorenza si girò verso zia Elena, stupita. Perché le parlava di García in quel momento, invece che degli abiti? Erano le cinque del mattino, avevano lavorato tutta la notte. Lorenza era stanchissima. Quella domanda circa un probabile matrimonio con García, a quell’ora e in quelle condizioni, era proprio stonata.

“Non lo so, zia Elena, e non so nemmeno se io lo sposerei…”

“Perché?” fece zia Elena con un moto di gioia.

“Non lo so proprio, zia. Se me lo chiedesse non gli direi di no, perché lo amo, ma io non farò mai nulla per indurlo a sposarmi.”

A zia Elena sembrò di riascoltare se stessa.

“Andiamo a dormire. Ti si chiudono gli occhi.”

Tornarono a casa in macchina. Aristide era rimasto tutta la notte ad aspettarle, dormendo appoggiato al volante. Mami era già alzata e aveva preparato la colazione.

“Non bisogna andare a dormire così stanche e senza nutrimento…”

Quando García arrivò, con l’aereo, Lorenza dormiva e lui non la trovò, come sperava, ad aspettarlo in aeroporto. Ne fu sorpreso e irritato. Un vero colpo al suo orgoglio latino. Per la prima volta, nel suo cervello si insinuò la sensazione che Lorenza poteva diventare, nella sua vita, una necessità ed ebbe paura di quella sensazione. Possibile che fosse diventata tanto forte da non venire a riceverlo? ‘Mamma non permetterà mai un matrimonio con Lorenza… E Lorenza se ne sta a casa mentre io arrivo solo da un viaggio che ho compiuto per lei…’

Quando entrò in casa, sua madre si accorse immediatamente che qualche cosa era accaduto. Si rese conto che ‘quella ragazza’ cominciava a essere pericolosa.

“Ora basta” disse al figlio. “Ti sei divertito abbastanza. È il momento di mettere giudizio e di prender moglie.”

“Potrei sposare Lorenza” disse timidamente García. “È giovane, bella, intelligente, e ha una posizione.”

“Non si sposa la donna che si ama, si sposa la donna che conviene sposare. E non mi piace la reputazione di quella ragazza che va e viene dall’Italia come se andasse e tornasse dal mercato.”

“Mamma io non permetto…”

“Non importa che tu non permetta. Io non permetto il matrimonio che vorresti fare con quella ragazza. La donna che verrà a vivere nella mia casa, sotto il mio tetto, non è certamente quella Lorenza che viene d’oltremare e della quale non si sa nulla, e della quale non voglio saper nulla. Nella mia casa…”

“Lorenza e io potremmo abitare soli in un appartamento…”

Non poté proseguire. La madre, dritta dinanzi a lui, lo colpì con un manrovescio secco e violento sul volto. García si morse le labbra e sentì in bocca il sapore del sangue. Piegò il capo e uscì dalla stanza. Donna Dolores rimase immobile, in piedi con la mano indolenzita penzoloni lungo il fianco. Da dieci anni non aveva più schiaffeggiato suo figlio. Credeva che non sarebbe mai più accaduto. Ecco che invece lo aveva picchiato, come quando adolescente s’era incapricciato d’una compagna di studi. Per la seconda volta, era stata costretta a picchiarlo per una donna. ‘Così imparerà… così sentirà che sono ancora al mondo e che comando io. Ah, un appartamento… soli… E io? Sola, qui, in questa casa?’ S’accorse che aveva paura di restar sola. Paura di morire senza veder prima ‘sistemato’ il figlio come desiderava lei. ‘Sposerà chi voglio… chi voglio io…’ Inghiottì insieme la sua collera e la sua paura. Scese in sala da pranzo. La colazione del mezzogiorno era servita.

“Dov’è il dottore?”

“Nella sua camera, signora.”

“Digli che è pronto.”

“Il dottore ha mal di testa, dice che non vuole scendere.”

Donna Dolores batté il bastone sul pavimento, con un moto d’impazienza. Non ammetteva che si avesse mal di testa per farle dispetto. Ma García comparve sulla soglia della sala. Aveva una guancia arrossata e gli occhi pieni di collera. Aspettò che la madre si sedesse al suo posto e le si mise di fronte senza dir nulla. Donna Dolores fece cenno di servire. Si sentì di nuovo forte, di nuovo la padrona. Sapeva già che suo figlio non avrebbe sposato Lorenza. Probabilmente non avrebbe sposato nemmeno la ragazza che gli aveva scelto, ma Lorenza, no.

“Non hai nulla da dire?” gli domandò.

“No, mamma” fu la laconica risposta.

Cap XI

Per la prima volta García provò sentimenti di collera e di gelosia verso Lorenza. Di collera perché sua madre lo aveva picchiato come un ragazzo di dieci anni, di gelosia perché Lorenza non era andata a riceverlo all’aeroporto. Chi l’aveva trattenuta? Che cosa aveva preparato zia Elena? Che cosa aveva ordito contro di lui per impedire a Lorenza di andare a prenderlo? Che c’era di nuovo? Che cosa intendevano fare quelle due donne contro di lui? Era irritato con entrambe.

Stava indossando il camice bianco per ricevere il primo dei suoi pazienti quando Lorenza gli telefonò. Le rispose con un tono di voce freddo, che l’altra non gli conosceva.

“Che cos’hai, García? Non capisco… perché mi rispondi così… C’è qualcuno con te?”

“No.”

“Volevo chiederti scusa per non essere venuta all’aeroporto. Mi sono svegliata da pochi minuti e ti ho subito telefonato. Ho lavorato con zia Elena tutta la notte e siamo tornate a casa che era giorno, così stanche tutte e due da non reggerci in piedi. M’ero proposta di dormire soltanto qualche ora… Ma nessuno m’ha svegliata e ho continuato a dormire. Chissà che cosa hai pensato di me… È per questo che sei in collera?”

“Forse.”

“E poi? Che c’è di più? Che t’ho fatto?”

“Tu… nulla. Ci vedremo stasera. Dopo cena.”

“Sì…”

La sera, García era ancora irritato. Donna Dolores durante il pasto non aveva detto una parola, e lui s’era alzato da tavola prima della frutta, guardando l’orologio.

“Ho un appuntamento” aveva detto senza rivolgesi direttamente a sua madre “devo andare.”

“Se si tratta di quella donna… può aspettare.”

“No, mamma, non la posso fare aspettare… Scusami.”

Era uscito senza ascoltare le sue proteste.

Lorenza non era ancora arrivata. Ne fu quasi contento. Aveva bisogno di star solo prima d’incontrarsi con lei. Aveva bisogno d’un momento di silenzio, di quiete, di pace. Non voleva e non poteva continuare a vivere in conflitto con sua madre, per due ragioni. La prima, perché le voleva troppo bene. Doveva tutto a

quella donna che aveva salvato il patrimonio lasciato dal padre, che lo aveva obbligato a studiare, che lo aveva sempre sostenuto, aiutato, guidato e alla quale s’era sottomesso senza ribellarsi. La seconda, perché non c’era donna al mondo che rispettasse come rispettava sua madre e della quale avesse bisogno per sentirsi sostenuto, per credere in sé stesso, per vivere. Nonostante l’età, nonostante l’amore per Lorenza, nella vita posponeva tutto alla madre, all’ubbidienza verso di lei. La ribellione non faceva parte del suo essere. Lo rendeva impotente. Qualche volta aveva pensieri cattivi. ‘Mamma è vecchia e un giorno rimarrò solo, finalmente farò quello che vorrò, non dovrò più ubbidire a nessuno’, ma in fondo sapeva che anche dopo, che anche solo, avrebbe continuato a ubbidire ai consigli della madre, alle sue volontà.

Lorenza arrivò in ritardo. Aveva avuto un pomeriggio faticoso. Gli si gettò fra le braccia come se non si vedessero da anni. Si strinse a lui con una dolcezza mai espressa prima. García rimase turbato da quello slancio e dall’emozione che gli procurò. La sua riaffermazione di fedeltà e di devozione alla madre si affievolì. Ma c’era dell’altro.

“Che cosa c’è, Lori? Che cos’hai?” le domandò più curioso che preoccupato.

Lei alzò verso di lui il viso. Era pallido e sconvolto dal pianto.

“Nulla… Non so perché ma ho paura.”

“Paura di che cosa?”

“Di te… Sono una sciocca, d’accordo, ma ho paura lo stesso. Come se tu volessi allontanarmi o allontanarti… Ho ato un pomeriggio infernale. Se n’è accorta

perfino zia Elena… García, che cosa pensi di te, di noi? Che cosa stai facendo contro il nostro amore?”

“Penso che tu sia davvero una sciocca… Ti amo più e meglio di prima…” rispose, sapendo di mentire.

La fece sedere accanto a sé sul divano e la tenne stretta. Il suo primo pensiero fu: ‘Ora lascerà traccia del suo trucco sul risvolto della giacca e mamma se ne accorgerà…’ ma non ebbe il coraggio di allontanarla. Le piaceva il caldo profumo di quella ragazza giovane, sana, fresca.

“Posso chiederti qualche cosa che non t’ho mai chiesto?” disse Lorenza sottovoce.

“Puoi chiedere tutto quello che vuoi.”

Ci fu un momento di silenzio. Lui aspettò la domanda con un principio di ansia. Era la prima volta che Lorenza gli si rivolgeva con quel tono.

“C’è questo…” riprese lei, senza rialzare il capo “…noi ci amiamo, non possiamo vivere uno senza l’altra…”

Lui le ò una mano lieve sui capelli, mormorando: “Impossibile la vita senza di te.”

“E poi, García? E poi?”

Lui non rispose subito. Questa domanda, in fondo, l’aspettava da tanto tempo, e Lorenza aveva il diritto di rivolgergliela.

“E poi, non lo so… Ho avuto proprio stamattina una dura discussione con mia madre. Tu sai che le devo tutto, dalla vita alla professione. Lei dispone di tutto… e anche di me. Devo darle, finché vive, la sensazione di essere la padrona… È difficile spiegarti il carattere di mia madre, così com’è difficile spiegarti il carattere dei nostri rapporti. Io posso solo ubbidirle. Ti dirò di più, io voglio ubbidire, non voglio contrariarla…”

“Tua madre è contro di me.”

“Il suo atteggiamento è giustificabilissimo… Fin da quando studiavo, ha, si può dire, allevato per me una ragazza che nei suoi disegni doveva diventare mia moglie. Ora, nel momento e nell’età in cui avrei potuto sposare la sua protetta, io m’innamoro di una ragazza che viene da lontano, della quale non si sa nulla, che ho incontrato con una zia che non è sua zia in una festa carnevalesca. Mamma appartiene alla vecchia razza che non ammette il modernismo, che perdona per egoismo, che è capace di sacrificare al figlio una donna ma non il figlio a una donna. Non ti conosce, non ti vuol conoscere, non ha stima di zia Elena, come non ha grande stima delle donne che lavorano, che guadagnano e che vivono senza il controllo di nessuno. Ora tu sei proprio una di queste donne…”

“Il che vuol dire che tua madre non mi stima…”

“Forse non arriva a questo, ma…”

“Le hai parlato di me?”

“Sì.”

“Come? Che cosa le hai detto?”

“Che ti volevo sposare.”

Sentì che Lorenza tremava. La tenne stretta stretta. Avrebbe voluto che piangesse per avere un motivo di consolarla.

“E che cosa ti ha risposto?”

“Mi ha schiaffeggiato.”

Lorenza balzò in piedi, in preda a un attacco di collera. Non poteva ammettere che qualcuno avesse alzato le mani sull’uomo che amava.

“Ti ha… oh, ma ti ha… E perché? T’ha picchiato perché volevi sposarmi? Chi sono io, per tua madre? Chi? T’ha picchiato per me…”

Singhiozzava ora, con i pugni chiusi per trattenersi dal bisogno che aveva di gridare. Lui le afferrò le mani e la tirò a sé: “Non piangere… Non piangere… Ascolta… bisogna capire e anche compatire mia madre. Non è facile spiegarti la sua avversione nei tuoi confronti. In fondo sa benissimo che sei una brava ragazza, forse pensa anche che saresti l’unica donna capace di farmi felice. Ma non vuole. Ha il suo progetto, accarezzato da anni, al quale non vuole, al quale non può rinunciare. Se non potrà realizzarlo, impedirà con tutte le sue forze che io realizzi il mio. E non voglio provocarle il dolore che l’affliggerebbe nel caso io vincessi…”

“Ma io… io, fra voi due, che cosa faccio?”

“Tu sei il mio amore… Bisogna sapere aspettare. In questi casi è il tempo che dà ragione a chi può aspettare, e noi siamo giovani…”

Lorenza gli mise una mano sulla bocca perché te.

“Preferirei disubbidire a mia madre in vita che troppo tardi. Una persona che vive può perdonare, se vuole…”

Lui non commentò. Cominciò a eggiare su e giù per l’ambulatorio, le mani nelle tasche della giacca, il volto corrucciato. Si sentiva offeso nel profondo del suo cuore e riconosceva che si meritava l’offesa. Gli tornarono in mente i cattivi pensieri. Era la vita, la sua vita, che lo aveva obbligato ad averli. I pensieri cattivi non hanno valore finché restano sottintesi, diventano orribili quando d’un tratto prendono corpo con le parole. Allora diventano vivi e precisi.

“Avrei dovuto stare zitto” disse García. “A volte ho desiderato confusamente che

mia madre morisse. Ma è un pensiero mai definito…” invece sapeva benissimo che non era affatto indefinito.

“Non mi piacciono i pensieri che non possono esprimersi chiaramente. Mi pare che tradiscano noi stessi…” Lorenza non sembrò cogliere in pieno il terribile significato di quelle parole. Era concentrata sul suo amore. Non avrebbe mai immaginato che fosse così contrastato. Mai si era sentita così stanca. A un tratto si sdraiò sul divano, la testa affondata in un cuscino. Un braccio le riparava gli occhi. García spense la luce del lampadario e lasciò accesa soltanto quella della scrivania e le si riavvicinò.

“Perdonami” mormorò. “A volte si dicono e si fanno cose che sono considerate dieci volte più importanti da chi le vede e le ascolta che a chi le pensa e le fa. E spesso le parole sovrastano le intenzioni… E poi, che importa? Ti amo. E tu mi ami. Questo conta. E il mondo è nostro…”

“Il mondo non è nostro” disse Lorenza. “E non lo conquisteremo mai ‘insieme’. Potremo prendere la nostra parte, ma separatamente. Forse hai ragione tu, che importa? Ma non importa soltanto perché ti amo e perché tu mi ami. Un po’ meno di me… un uomo non può dare più di quello che ha. Soltanto noi donne siamo capaci di andare oltre… Ma adesso… adesso perdoniamoci…” aggiunse, sorridendo. “Non dobbiamo soffrire perché la vita non ci è favorevole.”

Lui le si distese accanto e l’abbracciò. Dalla finestra aperta entrava la fresca aria notturna. Una farfalla, attratta dalla lampada, entrò e si mise a volteggiare attorno al lume, fino a quando non la bruciò.

“Non devo aver paura…” disse piano Lorenza, come se parlasse a se stessa. “Da quando ero bambina non ho mai avuto paura perché sapevo, perché so, che riuscirò a ottenere quello che voglio, così come ho sempre ottenuto tutto. Ho

dovuto quasi sempre aspettare molto… ma ho vinto. Anche adesso aspetterò…”

“Sei un angelo…” la interruppe lui.

“Questa volta, forse, non vincerò” riprese la ragazza “perché la lotta è difficile e l’attesa è lunga. Ma per lo meno impedirò che a vincere siano altri. Non è con cattiveria che ti dico queste cose, García… questa è già quasi una dichiarazione di sconfitta. Ma sapere che in questa lotta non ci saranno né vinti né vincitori… come dire… mi conforta. Mi vuoi dire…”

“Sì… tutto quello che vuoi sapere.”

“È bella, l’altra? Quella scelta da tua madre?”

“È una brasiliana, piccola, bruna, abbastanza graziosa…”

“Ti piace?”

“Mi piacciono le donne come te, le donne del tuo tipo. E poi, l’altra, non mi porta nulla che io ancora non conosco… Siamo quasi cresciuti insieme. Tu, invece, per me sei tutta nuova, spesso inaspettata, sempre sorprendente… Tu reagisci in modo diverso da quello delle nostre donne, agli avvenimenti della vita… E questo ha un grande valore, per me…”

“Ma non basta…”

“Qui, noi uomini, specialmente se apparteniamo a una certa classe sociale, diventiamo responsabili tardi, quando in Europa un uomo dispone già di sé e della sua vita…”

Lorenza si era calmata. L’amarezza era scomparsa. Ora si sentiva bene, quasi serena. Sapeva che possedere un uomo per amore è facile quando una donna è giovane e bella, ma possederlo per intelligenza, per simpatia, per tutte le altre doti astratte, spesso inafferrabili e fuggevoli, voleva dire non temere di perderlo per nessuna ragione al mondo. E lei era intelligente e aveva doti che nessun’altra aveva.

Le pareva di non temere nemmeno donna Dolores.

“Forse non ci sposeremo mai!” rifletté ad alta voce Lorenza, a un tratto, come se questo pensiero preciso le si fosse dentro, inaspettatamente. Ed era invece il risultato d’una riflessione profonda.

Lui la baciò sulle labbra perché te.

“Non si sa nulla di quello che accadrà…” disse, dopo qualche momento di silenzio “è meglio non saper nulla, per non distruggere i nostri sogni, per non deludere le nostre speranze. Adesso conta soltanto volersi bene…”

Sorrisero tutti e due, stringendosi l’uno all’altra, come se avessero pronunciato senza parole una reciproca promessa di non lasciarsi mai. Si sentivano di nuovo determinati, sentivano che avrebbero sopportato, senza piegarsi, qualsiasi

contrarietà. Rimasero insieme fino a tardi.

García la riaccompagnò a casa con la sua macchina e la lasciò sulla soglia con un ultimo bacio, incurante dei anti. Qualcuno li vide abbracciati… Quel bacio scoperto in piena notte fu la conferma di tutte le supposizioni sulla loro relazione sino ad allora soltanto ipotizzate.

II giorno seguente, nel laboratorio, le ragazze bisbigliavano raccontandosi l’evento notturno. “Donna Lorenza qui, donna Lorenza là…”

Zia Elena chiese loro due o tre volte: “Che cosa c’è’? Che cos’avete da chiacchierare? Perché non volete dirlo anche a me?”

“Perché non c’è n’è bisogno… lo sa meglio di noi” rispose la più pettegola delle lavoranti.

“Ma che cosa, santo cielo, so meglio di voi?”

“Che donna Lorenza, stanotte, si baciava col dottor De Souza, davanti al cancello della sua villa.”

Zia Elena si morse le labbra per dominarsi, poi le domandò sorridendo: “Nessuno ti ha mai baciata per i campi o dietro un portone?”

“Donna Elena, io…”

“Smettila. Ciascuno guardi a se stesso e lasci vivere gli altri. Lorenza può fare quello che vuole, è libera, è giovane, è fidanzata del dottore.”

Ci fu un’ondata di risatine sommesse. Zia Elena rimase immobile a guardar le ragazze, le braccia incrociate sul petto, gli occhi severi. Il silenzio cadde sulle teste curve. Allora uscì dal laboratorio per recarsi nella sala prove. Lorenza, con la prima lavorante, stava mostrando un abito da sera a una cliente. Aspettò che finisse, che la cliente andasse via, poi, uscita la sarta, chiuse a chiave la porta del salotto.

“Mi dispiace ritornare su un argomento che ci mette una contro l’altra, ma questa mattina si sussurra dovunque, perfino nel laboratorio, che stanotte sei stata vista mentre García ti baciava sulla soglia della mia casa. È vero?”

“È vero” disse Lorenza, sinceramente.

“È fatale commettere degli errori” disse zia Elena, camminando su e giù per la stanza, “è stupido essere imprudenti. Ti sei più compromessa con quello stupido bacio che con la tua gita a Rio. Peccare è sempre grave e condannabile, ma lo scandalo del peccato è imperdonabile, soprattutto in un ambiente come il nostro…”

“Eravamo così felici, ieri sera, che non abbiamo potuto farne a meno… Non sapevo che qualcuno ci vedesse. La strada era deserta…”

“Ma la città ha mille occhi che non dormono… e tutti sanno che García è

promesso a un’altra. Io non voglio dirti più nulla, ormai. Ma per te… Le conseguenze di questa leggerezza saranno più gravi di quanto tu possa immaginare.”

“Per esempio?”chiese Lorenza che non riuscì a reprimere un certo atteggiamento di sfida.

“Quello che può accadere è ancora imprevedibile, ma lo sapremo presto.”

Lorenza non rispose. Era stupidamente fiera che tutti conoscessero il suo segreto. Amava García e García l’amava. Ebbene? Che avevano da dire contro di lei? Che venissero a dirglielo direttamente. Si diresse nel laboratorio con un’espressione dura e aggressiva, pronta a rintuzzare qualsiasi allusione. Ma le ragazze non alzarono il capo dal loro lavoro. Il silenzio era così profondo che Lorenza chiese con voce sferzante: “Tutte morte, stamattina? Nemmeno il coraggio di respirare?”

“Stanno finendo un lavoro urgente…” disse la prima lavorante.

“D’accordo per il lavoro urgente… Ma poco fa c’era qualche cos’altro di urgente da… dire, a quanto io sappia. Sarebbe bene che ci fosse sempre molto da fare e niente da dire.”

Ritornò nella sala prove. Zia Elena la guardò senza parlare, ma Lorenza sentì nel suo sguardo il rimprovero per aver commesso un’altra imprudenza rivolgendosi con quel tono alle ragazze.

“Insomma” gridò Lorenza “che cosa devo fare? Come devo comportarmi? Tutto quello che dico e che faccio è sbagliato… Mi sembra di essere diventata stupida…”

“Taci, e vivi come se nulla fosse accaduto e se qualche allusione ti arriva fingi di non capire.”

“Ma non posso, il cuore mi scoppia.”

“Imparerai a trattenere il tuo cuore e a far lavorare di più la mente. La vita t’insegnerà. Io ho imparato, faticosamente, ma ho imparato.”

Più tardi Lorenza telefonò a García. Non era in casa. Aspettò l’ora delle visite in ambulatorio. L’infermiera rispose che il dottore non c’era. Non riuscì a parlargli al telefono nemmeno la sera all’ora di cena. Donna Dolores fece sempre rispondere che il dottore era assente. Lorenza non dormì. Zia Elena si trattenne con lei fino a tardi.

“Cosa credi che possa accadere? Perché García è scomparso?” le chiese Lorenza.

“È accaduto semplicemente che donna Dolores è stata subito informata, che ha ripreso sotto tutela il figlio, e lui, come sempre, non osa ribellarsi.”

“Che cosa devo fare? Come devo comportarmi?”

“Devi soltanto tacere e aspettare. Una delle armi di maggior successo nella vita è saper aspettare. È a doppio taglio e bisogna manovrarla cautamente per non ferirsi, ma si è quasi certi di vincere.”

“Io sono impaziente, zia Elena.”

“Sei troppo giovane ancora per adattarti… non hai i capelli bianchi… come me.”

Rimasero a lungo sotto la grande manghera, fumando e tacendo. I pensieri volavano verso le stelle in cerca di conforto. Poi nel mezzo della notte, quando già tutti dormivano, squillò il telefono. Lorenza balzò in piedi, e nel corridoio si trovò faccia a faccia con Rodolfo che s’era alzato. Rispose Lorenza.

“Scusami, Lori” disse la voce di García “non posso dirti molto. Non far nulla, non dir nulla. Aspetta. Non spaventarti se per qualche giorno non ci possiamo vedere. Dopo ti spiegherò.”

“Vorrei sapere di che cosa hai paura…”

“Di nulla, Lori, ma bisogna essere prudenti…”

“Questa è una vigliaccheria che non posso ammettere in un uomo…”

“Devi capirmi… ci sono… ci sono interessi di fronte ai quali, qualche volta, bisogna chinare il capo.”

“Non riesco ancora a capire… ma aspetterò…”

García riattaccò il telefono, senza salutare.

Lori ebbe un gesto di sconforto: “Vigliacco…”

Quando ritornò indietro, si accorse che la luce era accesa nella camera della zia Elena. Bussò alla porta socchiusa e la spinse. La zia era in piedi, i capelli bianchi scomposti, gli occhiali a stanghetta sul naso. Lorenza provò una stretta al cuore, non l’aveva mai vista così vecchia e stanca.

“Lavori?” le domandò.

“No. Faccio i conti con me stessa e con la mia coscienza, è una specie di bilancio spirituale. Che cosa ha detto García?”

“Quello che mi hai detto tu. Soltanto che le tue parole erano dettate dal buon senso, le sue dalla paura.”

“Dalla prudenza…”

“Non vedo una grande differenza… l’unica è che tu sei una donna e lui è un uomo.”

“Ora vai a dormire … È la sola decisione veramente saggia che si possa prendere questa notte.”

Lorenza le si avvicinò.

“Stasera mi sembri diversa da come ti ho sempre conosciuta. Che cos’hai?”

“Stasera sono triste. Forse non sto benissimo… Una specie di oppressione… Forse s’avvicina un temporale. Non ti preoccupare per me. Tutto a… erà anche quest’angoscia che mi chiude la gola. E se ti saprò addormentata mi sentirò più tranquilla… Voglio dirti anche un’altra cosa… Sono molto contenta del tuo lavoro. Molto. E un’altra cosa ancora. Sono contenta che tu abbia portato quaggiù, e imposto, degli abiti italiani… Il tuo successo è anche il successo d’un mio vecchio sogno nel quale, però, non ho creduto abbastanza.”

“Grazie, zia Elena.”

“Credi di potermi fare una promessa?”

“Quale promessa?”

“Credi di potermi promettere di prendere definitivamente il mio posto, se… se io mi ritirassi… se rinunciassi al lavoro? Prendere il mio posto vuol dire stare lontana dall’Italia per molti anni finché un’altra Lorenza non venga ad aiutarti, a sostituirti…”

“Non capisco… Stasera… accadono fatti incomprensibili. García che telefona alle due di notte, tu che fai il bilancio spirituale e parli di rinunciare al lavoro, tu… Tu che sei attaccata al tuo laboratorio come io all’amore di García… Perché rinunciare al lavoro? Sei giovane ancora, e forte…”

“Sono stanca… puoi promettere?”

“Ti prometto di continuare il tuo lavoro, così come lo hai iniziato e condotto al successo… ti prometto di rimanere ancora per molti anni in Brasile… finché mi sarà possibile, finché non mi sentirò stanca come te.”

“Grazie… Ora vai a dormire. Buona notte.”

Quando l’indomani mattina Mami bussò alla porta della camera di zia Elena, per gli ordini della giornata, nessuno rispose. Allora la cuoca entrò in punta di piedi nella stanza. La lampada elettrica era ancora accesa sulla scrivania. Sulla cartella di cuoio, bene in vista, c’era una busta chiusa e sigillata con la ceralacca azzurra. Per terra, tra la sedia e la scrivania, il corpo inanimato della padrona.

Mami scappò urlando. Accorse Rodolfo, accorse Maria, accorsero i giardinieri. Lorenza, in vestaglia, s’affacciò sulla soglia della camera.

“Che cos’è successo?”domandò ai domestici.

“La signora… donna Elena…” disse Rodolfo, pallidissimo, con la voce

incrinata. “Donna Elena è caduta, è svenuta… non so…”

Zia Elena non era svenuta. Concluso il suo bilancio spirituale, il senso di soffocamento che per tutta la giornata l’aveva oppressa era aumentato lasciandola senza forze. Aveva sentito arrivare la morte e l’aveva aspettata senza temerla. Ora che non aveva più speranze ora che non aspettava più nulla dalla vita, si era piegata su se stessa e s’era lasciata scivolare lentamente sul tappeto della sua camera. Prima si era ravvivata, con le mani divenute pesanti, i capelli sulla fronte. Voleva morire senza essere in disordine. L’ultima cosa che vide fu il riflesso di una stella brillare fra le stecche della persiana. Aveva chiuso gli occhi perché sapeva che nulla è più terribile d’un cadavere con le pupille vitree e fisse.

Lorenza e Rodolfo la sollevarono. Il suo corpo era già freddo e rigido. Lo avvolsero nella vestaglia di seta rosa, e lo distesero sul letto. Pareva che dormisse. Poi Rodolfo telefonò a un medico.

“Al dottor De Souza?” chiese, rivolgendosi a Lorenza.

“No. E telefoni subito anche all’amministratore.”

Dopo pochi minuti arrivò un dottore che qualche tempo prima aveva avuto in cura zia Elena. Arrivò anche l’amministratore. La lettera scritta e sigillata nella notte, il bilancio spirituale di zia Elena, era il suo testamento. Fu chiamato il notaio. Zia Elena aveva nominato suoi eredi Lorenza e Marco Ansperti in parti uguali. Avrebbero dovuto però lasciare intatto il patrimonio, di cui potevano godere soltanto l’usufrutto, sino al momento del loro matrimonio. Allora ciascuno sarebbe entrato in possesso della propria parte. Questo vincolo sarebbe durato per venticinque anni. Dopo potevano entrare in possesso della loro eredità anche senza l’obbligo di sposarsi. Il laboratorio sarebbe rimasto a Lorenza.

“Era il suo ultimo sogno, il suo matrimonio con Marco” disse l’amministratore a Lorenza. “E forse negli ultimi istanti di vita, ha visto giusto…”

“Ha dimenticato il mio cuore…” mormorò Lorenza singhiozzando.

“Chi lo sa?”

García De Souza apprese dai giornali la morte di donna Elena. La sera stessa si fece annunciare a Lorenza, ma lei non volle riceverlo. Nella casa di zia Elena, García non poteva e non doveva entrare, almeno finché zia Elena era ancora nella sua camera, vestita di bianco, chiusa in una cornice di candidi fiori.

Cap XII

Per quasi un mese, dopo la morte di zia Elena, Lorenza visse in solitudine, senza notizie di García. Si aspettava da lui una parola di conforto, ogni giorno, ma il tempo era ato e non le era giunto nulla. ‘È offeso perché non l’ho ricevuto quando s’è presentato qui… Ma doveva capire che non potevo riceverlo, come non mi avrebbe ricevuta, lui, in casa di sua madre.’ Lo aveva visto una volta, mentre si trovava in giardino, are in automobile e guardare attraverso il cancello mentre la macchina procedeva ad andatura ridottissima. Lei era rimasta nascosta dietro le piante, senza trovare il coraggio di chiamarlo.

Una sera, mentre rientrava dal laboratorio, la sua macchina si scontrò quasi con quella di García. Lui scese dall’automobile e si avvicinò a quella di Lorenza. Rimase a lungo appoggiato alla portiera aperta della macchina di lei. Pronunciò una sola parola: “Finalmente…”

“Credevo che mi avessi dimenticata…” disse Lorenza.

“Ti riaccompagno io” disse García, porgendole la mano per aiutarla a scendere. “Rimanda l’autista a casa.”

Lorenza disse ad Aristide: “Dì a Mami che prepari per le nove invece che per le otto.”

Si allontanarono dalla città. Prima si diressero verso l’aeroporto, e poi verso il giardino botanico. Cercavano di star lontani da luoghi molto frequentati per

evitare che riesplodessero i pettegolezzi su di loro che la morte di zia Elena pareva avesse soffocato. Tacquero a lungo. Lei provava verso di lui un rancore che non sapeva del tutto spiegarsi. Probabilmente lo riteneva colpevole di quanto era accaduto. Ma forse il rancore era originato dal silenzio delle ultime settimane, proprio nel periodo in cui aveva avuto maggiore bisogno di essere confortata e sostenuta. Invece era stato l’amministratore a starle vicino, affettuosamente e fraternamente, sbrigando per lei tutto il lavoro del quale abitualmente si occupava zia Elena. Il commercialista le aveva spiegato tutti gli ingranaggi amministrativi dell’azienda, l’aveva messa al corrente dei conti da incassare ancora e di quelli da pagare, avevano chiuso insieme un bilancio alla data della morte di zia Elena e iniziata una nuova contabilità col aggio dell’azienda a Lorenza. Gli impegni sempre più gravosi avevano permesso a Lorenza di resistere al dolore e alla delusione. Aveva vissuto vicino a quel giovane molti giorni, spesso fino a tardi, e molte notti. Lei si era fidata ciecamente di lui, lui aveva ricambiato la sua fiducia con altrettanta fedeltà e devozione. Era alto come Lorenza, nero di capelli come tutti i brasiliani e con certi occhi neri, profondi e lucidi che qualche volta, quando la guardavano, mettevano Lorenza in imbarazzo. Si chiamava Osvaldo Cruz ed era di Rio de Janeiro, carioca puro sangue.

Quando si ritrovarono in un luogo isolato, García fermò la macchina, si girò verso Lorenza e la osservò a lungo senza dir nulla, come se si trovasse di fronte a lei per la prima volta.

“Ci siamo comportati tutti e due come ragazzi” esordì, prendendo nelle sue le mani di Lorenza. “Siamo imperdonabili… Perché tormentarci?”

“Oh… io proprio non lo so” rispose Lorenza, ritirando le mani. Ancora non si sentiva disposta al perdono. Le era sempre riuscito difficile cancellare il rancore verso le persone che l’avevano fatta soffrire. “Ma so con certezza che zia Elena aveva ragione… Che mi farai soffrire sempre e che un giorno mi ritroverò sola dopo averti donato inutilmente tutta la mia giovinezza.”

“Zia Elena aveva torto… sapeva quanto ti amo. Vuoi che ce ne andiamo Lorenza? Liquida tutto e andiamo via. Qui non posso disporre della mia volontà. Non mi chiedere il perché, non saprei spiegartelo. Non posso andare contro mia madre, né posso ribellarmi. Ma se fuggiamo, tutto è risolto. Io dispongo ormai del mio patrimonio e mia madre non può impedirmi di spendere il mio denaro. Tu sei libera. Possiamo lavorare tutti e due altrove. Andiamo a New York, ci sposiamo. E tutti i problemi saranno risolti.”

Lei rimase senza parole, atterrita dal quel progetto che, però, arrivava troppo tardi. Ora non poteva allontanarsi, ora non poteva abbandonare la ‘sua’ azienda, il ‘suo’ lavoro. Il senso della proprietà, il senso della responsabilità avevano messo in lei profonde radici. Se García le avesse proposto la fuga quando zia Elena era ancora in vita, forse non avrebbe esitato.

Ma la sua mentore non c’era più. Lei ne aveva preso il posto. Non era facile, ora, strappare i fili che la legavano al suo lavoro, non era facile chiudere il laboratorio. Non poteva distruggere quello che zia Elena aveva creato in tanti anni di sacrifici.

“Non è possibile” disse piano “realizzare questo progetto che prima avrei accettato a occhi chiusi… Come posso lasciare il mio lavoro? Mi sto preparando per il nuovo viaggio in Italia… È tardi, troppo tardi. Occorreva proprio che zia Elena morisse per indurti a prendere una decisione? Quello che zia Elena non è riuscita a ottenere in vita, l’ha ottenuto con la morte. Mi ha legata per sempre a lei, e forse mi ha staccata per sempre da te.”

Lui protestò: “Staccata da me, no. Non so come, ma ci sposeremo. Preparerò tutto quello che occorre, e ci sposeremo qui, a San Paolo, all’insaputa di tutti. Poi, a matrimonio avvenuto, parlerò con mia madre… e accada quello che Dio vuole che avvenga… non voglio perderti.”

“Come vuoi García” acconsentì lei “purché sia presto. Io non posso più aspettare. Io non posso più disporre di me.”

Non avevano ancora ritrovata la tenerezza di prima, ma sentivano che a poco a poco risalivano la china sulla quale erano discesi. García riprese il volante e ricondusse la macchina verso San Paolo. Lasciò Lorenza davanti al cancello della villa. Le baciò tutte e due le mani.

“Ti telefonerò domani…” promise prima di andarsene. “Quando ritornerai a trovarmi nello studio? Ho bisogno di te, di sentirti vicina, di volerti bene…”

“Presto… credo.”

Rientrò in casa. Sulla soglia rimase un momento in ascolto. L’amministratore parlava con qualcuno. Qualcuno che si esprimeva in portoghese ma con accento straniero. Attraversò l’atrio, si fermò sulla soglia del salotto.

“Chiedo scusa…” disse. “Buona sera.”

I due uomini, che le volgevano le spalle, erano seduti vicino alla finestra. Si alzarono in piedi.

“C’è il dottor Marco Ansperti” le annunciò Osvaldo Cruz. “È arrivato stasera in automobile, da Rio.”

“Senza avvertire” disse Lorenza porgendo tutte e due le mani a Marco. “Senza avvertire… Si arriva dall’Italia senza dire: ‘Stai attento sono qui!’ Non posso perdonarti…”

“Sono partito in fretta, senza dir nulla a nessuno. Volevo assolutamente esserti vicino, se non altro per aiutarti a sistemare tutte le faccende ancora sospese. Cruz m’ha messo al corrente di tutto, e trovo che tutto va benissimo.”

“Ma senza avvertirmi… Sono quasi offesa. Come se tu volessi farmi una sorpresa.”

“Sai che non è vero, che non mi sono nemmeno sognato di arrivare di sorpresa, nel senso che intendi tu… Volevo, sì, sorprenderti, ma soltanto per distrarti un po’… Pensavo che eri sola, oppressa dal dolore e dal lavoro, e che mi avresti accolto almeno con un abbraccio…”

“Posso… dubitarne?”

“Ascoltami, non vorrei credessi che mi abbia spinto qui quella imprudente clausola del testamento di zia Elena. Quella del nostro matrimonio e dei venticinque anni di usufrutto. No. Né io né te abbiamo bisogno d’un capitale del quale finora abbiamo sempre fatto a meno. Tu lavori, io anche. Quel lascito è un lusso che può benissimo capitalizzarsi per venticinque anni senza che nessuno di noi due ne soffra. Stabilito questo, vorrei che accettassi il mio arrivo qui… con spirito più… più conciliante.”

Aveva parlato con una tale tristezza nella voce che Lorenza gli sorrise senza più ostilità.

“Scusami” disse. “Forse ho torto. Voglio anche ammettere di avere torto, ma non si parte dall’Italia senza avvertire che si arriva… Mi porti notizie di mia madre e di mio padre?”

“Ti porto le loro lettere. Ti aspettano… sanno che tornerai in Italia presto.”

“Fra un mese, per la nuova collezione. Ora scusami, torno subito. Do disposizioni perché Mami prepari il pranzo per tre. Rimane con noi, Cruz?”

“Se lo desidera, donna Lorenza.”

“D’accordo, allora.”

Lorenza si diresse verso la cucina, mentre Rodolfo disponeva i coperti. I due uomini la sentirono dare ordini a Maria: “Prepara l’appartamento di donna Elena per il dottor Marco.”

Osvaldo Cruz disse a Marco Ansperti: “In questi ultimi giorni non era nervosa, ma stasera ha rivisto il dottor De Souza, me l’ha detto Aristide, ed è quasi intrattabile. Probabilmente hanno preso qualche nuova decisione… era un mese che non si vedevano, forse hanno litigato… Comunque, donna Lorenza non è tranquilla… La conosco abbastanza bene per capire quando è irritata o inquieta.”

Marco guardò attentamente Cruz mentre parlava. Un’idea gli era balenata per un momento e s’era poi spenta. Ma aveva lasciato un dubbio che non era facile

cancellare. Quell’uomo poteva essere un valido rivale, suo e di García. Osvaldo Cruz continuò: “Donna Elena riusciva qualche volta, non sempre, a farla ragionare quando si trattava di De Souza. Ora è abbandonata a se stessa e non sempre sa trattenere i suoi slanci e riflettere sulle sue decisioni. È troppo giovane e troppo entusiasta. È ancora nell’età nella quale non si vogliono accettare i consigli, con l’illusione di saper fare da sé. Non capisco perché m’ha trattenuto a pranzo. Avrete certamente da parlare dei vostri affari, e la mia presenza è di troppo.”

“Caro Cruz, se si tratterà di affari nessuno meglio di lei potrà moderare la conversazione, e per il resto… abbiamo tanto tempo davanti a noi per parlarne! Io non so ancora quello che farò perché le mie decisioni dipendono dall’atteggiamento di Lorenza. Vorrei rimanere qui per qualche tempo, lavorare qui. Non mi dispiacerebbe dar del filo da torcere al dottor De Souza. Aprire un grande studio medico modernissimo, attrezzato come ho sempre sognato, per esempio. Si potrebbero trasformare le stanze dell’ala destra, i saloni e i salotti nei quali nessuno entra mai. Pulizia, igiene, eleganza e… intelligenza. Tre medici per tre diverse specializzazioni. Malattie interne, ginecologia, naso bocca orecchie. E alle nostre dirette dipendenze, un bravissimo dentista. Potremmo costruire da quella parte le diverse sale d’aspetto…”

Lorenza rientrò. Si era cambiata di abito, riato sulle labbra un rossetto rosso vivo. Era meno nervosa. Ora non le dispiaceva di aver qualcuno in casa dopo un mese di solitudine.

“Ho letto le lettere che mi hai portato. Ti ringrazio. Ho voglia di rivedere i miei genitori.”

Rodolfo avvertì che il pranzo era servito.

“Non sei più in collera con me…?” le domandò Marco.

“Non essere sciocco.”

“Allora dammi il braccio. Ti prometto che non mi metterò mai di traverso sulla tua strada, che non dovrai render conto a me, come non rendevi conto a zia Elena, di quello che fai.”

“Su questo non avevo dubbi” confermò lei sorridendo.

Cenarono con appetito, senza irritarsi, conversando quasi sempre di affari, terreno sul quale le cifre eliminavano i malintesi. Fumarono una sigaretta e presero il caffè sotto la manghera. Lo spirito di zia Elena aleggiava tra di loro. Marco trovava Lorenza incomparabilmente più bella di quando era partita la seconda volta dall’Italia. In pochi mesi s’era trasformata, non aveva più l’espressione di bambina d’un tempo, e pur non dimostrando ancora la sua età, si vedeva che stava maturando come un fiore in quel clima quasi temperato.

“Hai intenzione di trattenerti per molto tempo in Brasile, o riparti con me quando vado in Italia per le collezioni?” gli domandò Lorenza, accendendo una sigaretta.

“Non ho ancora preso alcuna decisione. Ma non mi dispiacerebbe stabilirmi qui e fare il viaggio in Italia una volta all’anno, magari con te.”

“Eserciteresti la professione?”

“Naturalmente.”

Il discorso cadde. Non piaceva a Lorenza. Osvaldo Cruz, sempre molto discreto, si alzò e si congedò. Preferiva non essere presente a discussioni che non rientravano nel suo ambito, anche se gli dispiaceva. Lorenza e Marco rimasero soli, sotto la manghera, come un tempo zia Elena e Lorenza.

“Penso che non intralcerei in nessun modo la tua vita” riprese Marco “anche mettendomi a lavorare. Potremmo vivere completamente separati, la casa si presta.”

“Non è per questo che te l’ho chiesto, per quanto sia comunque un problema da risolvere.”

‘In fondo’ rifletté Lorenza ‘siamo due estranei che per circostanze impreviste abitano sotto lo stesso tetto. Se mi avessero detto di andare ad abitare in casa di Marco Ansperti, solo e scapolo, mi sarei offesa… Invece siamo qui tutti e due, come se fosse la cosa più naturale del mondo, non troviamo affatto eccezionale che si viva nella stessa casa come se fossimo parenti, in nome di quell’inesistente parentela che avevamo stabilita fra me e zia Elena.’

“Non credo che ti dispiaccia se abito qui” disse Marco. “Non mi occuperò di te, e rispetterò la casa. Due ‘cugini’” e sorrise “possono anche abitare insieme senza destare meraviglia, tanto più che per tre anni questa è stata la mia casa.”

“Ed è ancora tua…”

Marco corresse: “Nostra.”

Lorenza si alzò e camminò su e giù sulla terrazza. La luna era così luminosa che riusciva a penetrare anche attraverso i rami della manghera.

“Proprio stasera” confessò “ho presa una grave risoluzione che riguarda soltanto la mia vita privata.”

“Posso conoscerla?”

“A te non voglio nasconderla. Mi sposerò con García De Souza, al più presto. Scriverò per fare arrivare i documenti necessari. Ancora non so con precisione quali, ma se le usanze somigliano a quelle italiane, credo di possedere già quelli indispensabili.”

“Ti sposerai prima del tuo viaggio?”

“Certamente. E García partirà con me… sarà, oltre che un viaggio di affari, un viaggio di nozze.”

“Donna Dolores acconsente al vostro matrimonio?” chiese Marco, fissando Lorenza. “Chi l’ha persuasa?”

“Ci sposiamo a sua insaputa. García dice che sua madre non acconsentirà mai. Inutile insistere con lei. Siccome lui non è più un ragazzo e io posso disporre

incondizionatamente di me stessa, ci sposiamo.”

“Bene” disse Marco, incredulo.

“Che cosa vuol dire questo ‘bene’ con quel tono?”

“Vuol dire ‘Va bene, accetto la nuova soluzione, sono sicuro che dopo aver realizzato il tuo sogno sarai felice, e io te lo auguro fraternamente’. Vuol dire questo e non altro.”

“Grazie” disse Lorenza. “E ora sarebbe bene andare a letto. Sono molto stanca. Parleremo di noi in seguito. Abbiamo tempo. Dovrai dirmi, anche tu, quali sono i tuoi progetti, e come potremo in seguito conciliare la mia situazione di donna che ha marito con la tua di scapolo.”

“Non sarà difficile… Buona notte.”

Le baciò la mano e gliela tenne un momento fra le sue, con un gesto fraterno di affetto. Cercava di reprimere i suoi sentimenti, di mostrarsi affettuosamente indifferente per lasciarla completamente libera di disporre di sé, ma vigilava, era pronto a intervenire per salvarla da un o pericoloso, che avrebbe potuto condurla troppo lontano o troppo in basso.

Poi ciascuno andò a dormire. Lorenza nel suo piccolo appartamento, Marco in quello grande di zia Elena. Nel suo studio, Lorenza trovò un pacchetto che prima non aveva notato. Lo aprì. Era un regalo che Marco le aveva portato dall’Italia,

una lunga collana di coralli rossi, con gli orecchini uguali, due anelli uguali e due alti braccialetti, il tutto legato in oro giallo. Provò subito gli orecchini, gli anelli, i braccialetti, la collana sul vestito rosa che indossava. Coralli e seta opaca si abbinavano con tale perfezione che rimase a lungo a guardarsi. All’improvviso ebbe un’idea: portare dall’Italia in Brasile, per ognuno dei modelli più eleganti, anche il suo gioiello. Poteva così diffondere in Brasile l’opera di grandi artigiani delle diverse province italiane. Quell’idea le fece are la stanchezza, dissolse il sonno. Era grata a Marco che inconsapevolmente l’aveva suscitata. Uscì dalla sua camera, si diresse verso la terrazza. Marco, seduto, fumava una sigaretta.

“Chi è?” chiese, alzandosi di scatto, sentendo un rumore. In quel momento non pensava a Lorenza. Pensava a sé, alla sua vita da organizzare, alla complicazione d’un matrimonio che rendeva difficile un’esistenza in comune che non avrebbe tollerato.

“Sono io, Marco.” E mostrò le mani inanellate, i polsi ornati, gli orecchini e la collana. “Non ti dico grazie, perché è troppo poco. Il tuo regalo mi è talmente piaciuto che mi pare di uscire, finalmente, dal circuito di dolore nel quale stavo soffocando… Guarda qui… guarda come il corallo si fonde col rosa, e come questo vestito modesto diventa elegante, e quasi lussuoso.”

“È vero” fece Marco. “Non l’avrei mai immaginato.”

“Mi hai suggerito l’idea di completare i miei migliori modelli con dei gioielli. È una innovazione che studierò e credo che introdurrò presto. Ora ti auguro davvero la buona notte. Ma voglio abbracciarti perché hai avuto per me un pensiero più che gentile… affettuoso.”

Lo baciò fraternamente sulle guance e ritornò nella sua camera. Ma non aveva sonno. Si spogliò, indossò la camicia da notte e la vestaglia. Poi si mise alla

scrivania e cominciò a scrivere a García, per avvertirlo di Marco.

‘Non so ancora con precisione che cosa voglia fare qui, ma credo che abbia in mente di stabilirsi in Brasile. Questo complicherebbe la nostra situazione e dovremo prendere decisioni diverse da quelle che avremmo preso prima per il nostro matrimonio. Comunque, domani sera verrò da te, in studio, aspettami verso le dieci. Se tu non potessi, avvertimi con una telefonata. È notte alta e avrei tanto bisogno di sentire la tua voce… Ma come telefonarti? Sei più sorvegliato d’una ragazzina. Spero che donna Dolores non sappia nulla dei tuoi progetti, spero che sarai abbastanza forte da ‘lavorare’ di nascosto senza che ne venga informata, come viene sempre informata, chissà da chi, di tutto quello che fai. Se fossi in te, diffiderei di una delle tue infermiere, e starei attenta al telefono. Per questo ti scrivo invece di chiamarti. Sono così ansiosa… Ho assoluto bisogno di tranquillità, bisogno di sapere con precisione che cosa accadrà di me. Non posso più vivere in questa incertezza. Ti amo’.

L’indomani, inviò la lettera a mano, tramite Aristide, in studio. E aspettò la risposta. Tutto il giorno. Né un biglietto, né una telefonata. Telefonò lei, la sera alle dieci. Nessuno rispose. Fece controllare il numero. Le risposero che l’apparecchio doveva essere guasto. Allora indossò il vestito rosa della sera prima, si ornò dei coralli, salì in macchina e guidò da sola fino allo studio di García. Le finestre erano illuminate. ‘Mi aspetta’ pensò. ‘Il telefono è guasto.’ Salì di corsa, suonò il camlo. La porta si aprì immediatamente, come se García fosse stato lì ad attenderla.

“Entri” disse una voce di donna.

Nell’anticamera Lorenza si trovò di fronte a donna Dolores. Fece per riaprire la porta e fuggire, ma la vecchia le afferrò una mano, e la trattenne.

“Non abbia paura” le disse. “Siamo sole e non ho mai fatto del male a nessuno.”

“Questo non può affermarlo… signora.”

“Ne ho la coscienza e mi basta.” Aprì la porta d’un salottino d’attesa, ed entrò. Lorenza la seguì senza ribellarsi. Donna Dolores sedette in una poltrona e ne indicò un’altra alla giovane. “Si accomodi. Dobbiamo parlare un po’ noi due. Credo che avremo molto da dirci.”

“Chi le ha detto che sarei venuta?”

“La sua lettera, García non l’ha ricevuta. L’ho ricevuta io.”

“Ha letto una lettera diretta a suo figlio?” disse Lorenza con una voce dura, offensiva.

“Non creda di ferirmi col suo atteggiamento. Non mi disprezzo per la lettera intercettata, come non mi disprezzo per averla fatta cadere in questo tranello. Sono disposta a tutte le vigliaccherie, a tutte le scorrettezze, a tutti gli spionaggi, pur di salvare mio figlio.”

“Salvare da quale pericolo?” le domandò Lorenza. “Non le sembra una parola troppo grossa ‘salvare’ se la usa nei miei riguardi? Sono proprio qualcuno da cui si debba ‘salvare’ un uomo che ha più di trent’anni?”

“Credo di sì. Non mi affannerei tanto se fossi convinta del contrario.”

“In che cosa sono pericolosa? Come? Perché?”

“Perché distrugge tutti i miei progetti, perché si è messa di traverso sulla mia strada. Perché sono convinta che lei non è la donna della quale García ha bisogno.”

“Come può affermarlo?”

“García è mio figlio.”

“Le mamme sbagliano quasi sempre quando si tratta dei loro figli. Spesso li rendono infelici per soddisfare il proprio egoismo. Tra le mamme e i figli c’è sempre tutta una vita che le mamme non hanno vissuto e che non possono capire.”

“García è mio figlio” ripeté donna Dolores battendo sul pavimento il bastone al quale s’appoggiava.

“García è l’uomo che io amo e che mi ama, questo non può cambiarlo.”

Ci fu un momento di silenzio. Una pausa di riposo. Avevano parlato tutte e due gettandosi in faccia le parole come pietre, esaurendo in poche battute tutto quello che avevano da dirsi. Sentivano che su quel terreno nessuna delle due avrebbe

ceduto. Bisognava trovare un’altra strada, meno aspra, per intendersi.

Donna Dolores depose il bastone sulla tavola e intrecciò le mani sulle ginocchia. Il suo volto non era più quello di un nemico, e lo sguardo si era addolcito.

“Figliola” disse piano “cerchiamo di capirci. Siamo due donne e tutte e due vogliamo bene a García. In maniera diversa, ma un bene altrettanto grande. Forse vogliamo tutte e due la sua felicità, la sua pace, e per lui siamo forse disposte entrambe a sacrificare il nostro bene e la nostra felicità… così concepisco io l’amore.”

“Io voglio essere felice con lui, senza sacrificare nessuno dei due.”

“D’accordo. Lei vuole essere felice, ma desiderando un altro matrimonio per García, vorrei indirettamente essere felice anch’io.”

“Sacrificando suo figlio.”

Donna Dolores ebbe un gesto di pace.

“Disarmi, figliola, disarmi… mi ascolti. Sono vecchia, ho vissuto soltanto per mio figlio, ho lottato coi denti e con la vita perché diventasse quello che è. Non le dico i miei sacrifici, le mie rinunce. Ero povera, sono ricca. García è nato povero ora è ricco. Ho creato tutto io con le mie mani, col mio lavoro, con la mia volontà. Tutta la vita per costruire quello che oggi esiste, solidamente esiste.”

“Non le chiedo nulla di quello che ha costruito…” disse Lorenza.

“Ecco l’errore. Ho costruito per lui, non per me. Rifiutando il risultato di ogni mia lotta e d’ogni mia fatica, distrugge me stessa, annulla tutto il mio ato di cui sono molto fiera. Lo so, lei non ha bisogno di ricchezze. Lavora, non è povera. So tutto di lei. Ma io ho lavorato perché ero povera, ho lavorato per García, ho il diritto di ottenere da lui almeno la sua ubbidienza.”

“Non la rinuncia alla felicità…”

“Quale felicità?” riprese donna Dolores. Sentiva di poter combattere ad armi pari su un terreno più facile e quasi favorevole. “Quale felicità? Quella che vorrebbe dargli lei? È proprio sicura di poter rendere felice García per tutta la vita? Per tutta la vita? Non conosce ancora García come lo conosco io. Io che l’ho fatto col mio sangue e con la mia carne. Io che non riesco più a renderlo felice, da quando l’ha conosciuta. Perché prima era felice. Perché prima di lei mi amava, eravamo uniti, ci comprendevamo. Poi è arrivata lei e tutto è finito. Ma tutto può ricominciare se lei se ne andrà. Come può garantirmi che renderà felice, per tutta la vita, mio figlio? Lei è di un’altra nazione, di un’altra razza. Lei affronta la vita e la vive diversamente da come l’affrontiamo noi. Non abbiamo sangue europeo nelle vene. Siamo brasiliani. Forse scorre nelle nostre vene sangue indio. Non possiamo comprenderci. Se ne accorgerebbe dopo qualche mese di matrimonio. Amarsi non vuol dire sposarsi. L’amore come quello che lei ha vissuto con mio figlio non ha nulla a che fare con l’amore del matrimonio, con l’amore quotidiano: è l’amore dei giorni festivi, è l’abito domenicale. Il matrimonio è l’abito di tutti i giorni e di tutte le notti, un abito che si consuma se non se ne sa avere cura e non lo si sa difendere dal tempo. Non le dico di fidarsi della mia esperienza, le dico difenda se stessa dall’errore che sta per commettere. Le dico, non sacrifichi mio figlio, non gli renda la vita infelice per sempre. Sono una mamma e posso pregarla a mani giunte senza umiliarmi, perché una mamma può anche inginocchiarsi davanti a un’altra donna quando si tratta del proprio figlio. Non riuscirà a rendere felice García. Lo so. Se lo sposasse, un giorno lui s’accorgerebbe di aver commesso un errore e allora sarebbe lei a soffrire per

entrambi. Ci sono troppe differenze. Tradizioni, cultura, spirito, abitudini. Un brasiliano deve sposare una brasiliana, e i brasiliani lo sanno. Anche García lo sa. La ama, d’accordo. Ma non è l’amore del matrimonio che nutre per lei, è l’altro amore. Quello che un giorno finisce.”

“Ecco il suo errore, donna Dolores. L’amore come il nostro non finisce, finisce invece l’amore nel matrimonio.”

“Ma rimane il bene, lo sappiamo tutti questo, a qualunque razza si appartenga. Quando invece l’altro amore finisce non rimane più nulla che sia buono e bello. Rimangono quasi sempre risentimento, amarezza, spesso odio.”

“García che mi odia… non potrei crederlo nemmeno se fosse vero.”

Donna Dolores guardò fisso Lorenza negli occhi. La giovane, che aveva voglia di ridere, si sentì d’un tratto trafiggere il cuore.

“Stia attenta…” disse donna Dolores con una voce che saliva dalla sua anima “stia attenta. Un brasiliano che odia la donna che ha sciupato la sua vita… non le auguro di conoscerlo mai, per la pietà che ho di tutte le creature umane che soffrono… non potrei far nulla per salvarla. Lei potrebbe morirne.”

“Non ho paura di nulla.”

“Il coraggio, come sfida al destino, è poca cosa, figliola. Mi ascolti. Dice di amare García.”

“Sì, lo amo.”

“Lo ama per essere felice o per renderlo felice?”

“Prima per rendergli la vita felice, poi per essere felice con lui.”

“Stabiliamo questo… García non sarebbe felice con lei e le conseguenze saranno…”

“Donna Dolores, lei non può stabilire a priori che io non saprò render felice García…” l’interruppe Lorenza esasperata da quel colloquio.

“Non ho altro da dirle, non vuole capire. Di solito due donne arrivano in qualche modo a comprendersi quando vogliono, ma lei non vuole. Però sono sicura che ripenserà a questo nostro colloquio. La ragazza che García sposerà è la sola donna che possa vivere accanto a lui in serenità, e García lo sa. Le dirò di più. García vuol bene alla mia protetta. La conosce da molti anni, la stima, e forse anche gli piace. Non vuole confessarlo, ma io lo so. Ci sono certi stati d’animo che le mamme sentono maturare e sbocciare nei loro figli, quasi all’insaputa di loro stessi. Le dico che García sposerà la fidanzata che gli ho preparato perché un giorno si accorgerà di amarla e di non amare più lei. Io non difendo più me stessa e non difendo più mio figlio, difendo lei.”

“Ha capovolto la situazione” protestò Lorenza.

“Ha tempo per riflettere. García non si sposerà domani, né con voi né con l’altra.”

Ci fu silenzio. L’orologio del salotto suonò le undici. Lorenza si alzò. Poi si rimise a sedere. Le sembrava di avere ancora qualche cosa da dire, ma non sapeva più che cosa. Non voleva comunque andarsene: ‘Se vado via’ pensava ‘non ritornerò più qui. Lo sento.’ Donna Dolores taceva. Davvero non c’era più nulla da aggiungere a quanto era stato detto e riflettere non portava ad alcuna soluzione.

D’un tratto la ragazza scoppiò in un pianto dirotto. Donna Dolores si piegò su di lei con comprensione.

“Non mi tocchi” gridò Lorenza, scattando in piedi e appoggiandosi a un mobile. “Non mi tocchi… Era questo che voleva. Ridurmi a non saper più che cosa pensare, che cosa credere, in chi credere. Ora non credo più nemmeno in me stessa.”

“Vede figliola…”

“Non mi chiami ‘figliola’, c’è mia madre per questo.”

Non riusciva a calmarsi. Per parlare doveva urlare. Donna Dolores riprese il bastone per alzarsi in piedi. S’appoggiò con una mano alla tavola. Qualcuno l’aiutò a sollevarsi con un gesto abituale. Allora si lasciò ricadere nella poltrona, abbandonando il bastone che rotolò sul pavimento. Aveva riconosciuto García. Non lo aveva sentito entrare.

Lorenza aveva smesso di piangere, ma singhiozzava a tratti, premendosi il fazzoletto sulle labbra. Non s’era mossa dal suo posto. Aveva seguito i gesti premurosi di García verso la madre. ‘Non s’è avvicinato a me, ha pensato subito alla mamma.’ Ne era gelosa. Cercò di calmarsi. Nessuno osava parlare per primo. Donna Dolores rialzò la testa e guardava i due giovani con un volto imibile senza espressione. García, con una mano sullo schienale della poltrona materna, guardava Lorenza.

“Eravate d’accordo?” domandò la ragazza che ora diffidava di tutti, anche di García. “Dopo il colloquio con tua madre doveva seguire un colloquio con te?”

“Non so perché siete qui tutte e due” disse García con una voce che pareva sincera. “avo con la macchina per tornare a casa, e ho visto ferma giù la tua automobile. Ho guardato le finestre, c’era la luce accesa. Allora sono salito… Come e perché siete qui tutte e due?”

“Qualche volta anche due donne hanno bisogno di parlarsi” disse Lorenza. “Donna Dolores aveva qualche cosa da dirmi e me l’ha detta. Ora abbiamo finito. M’ero alzata per tornare a casa.”

“Piangevi. Che cosa è successo?”

“Quando due donne parlano d’amore, quasi sempre una piange. Questa volta è toccato a me” rispose Lorenza, meravigliata della sua calma. Anche i singhiozzi erano cessati.

“Posso sapere perché hai pianto?”

“Te lo dirà donna Dolores un giorno.”

Lui non si era ancora avvicinato a lei. Il timore della madre gli impediva ogni slancio verso Lorenza.

‘Di noi due’ rifletté Lorenza ‘è donna Dolores la più forte. Riuscirà a farsi ubbidire. García ubbidirà. Perché donna Dolores lo vuole, perché l’altra è brasiliana, perché sono sola, perché…’

“È arrivato tuo cugino?” le domandò García, inaspettatamente.

“È arrivato il nipote della povera donna Elena” lo corresse donna Dolores.

Domanda e risposta acquistarono in quella stanza e in quel silenzio un significato orribile che ferì Lorenza in mezzo al cuore. Spiegò, rivolgendosi a García: “È arrivato ieri sera. Ti ho scritto subito per avvertirti, ma la lettera è stata intercettata da tua madre. Questo però non conta più, ormai…”

Si avviò verso l’uscita.

“Ti accompagno” disse García prima di ricordare che la madre era sola e che non poteva lasciarla così, nello studio, senza ricondurla a casa per prima.

Lorenza notò subito la sua esitazione. Sorrise con una tristezza che fece male a García.

“Non è necessario, García. Torno a casa da sola. Gli sconfitti hanno il diritto di essere lasciati soli.”

“Ho bisogno di parlarti…” insistette lui. “Accompagno la mamma a casa e ritorno. Puoi aspettarmi qui?”

“Non posso aspettarti… e credo che tu non ritorneresti anche se rimanessi qui…”

Donna Dolores intervenne. Ora era sicura di sé e non temeva più nulla.

“Ritornerà” disse. “Può aspettarlo, se vuole.”

Le porse la mano e Lorenza offrì la sua. Donna Dolores le disse piano: “La ringrazio.”

García non capiva bene quello che stava accadeva, ma non osò chiedere più nulla. “Fra cinque minuti sarò di ritorno” e uscì con la madre che lo aveva preceduto.

Lorenza seguì l’allontanarsi dei colpi di bastone sul pavimento. Sempre più lontani e più fiochi. Poi lo scatto dell’ascensore, e il brontolio del motore. ‘Sono andati’ pensò. ‘Mi hanno lasciata sola, qui, a riflettere.’ Si guardò attorno. Quella stanza che odorava di disinfettanti era stata per tanti mesi il suo rifugio d’amore. Ora, di colpo, le era diventata estranea. E in quel silenzio e in quella solitudine, le metteva quasi paura. C’era qualche cosa che le apparteneva, in un cassetto. Il suo rossetto, la sua spazzola. Radunò tutto e ne fece un pacco con un vecchio giornale. Si guardò nello specchio e vide un volto duro, freddo, determinato. Uscì sul pianerottolo, riaccostò la porta, lasciando la luce accesa in tutte le stanze.

‘Mi cercherà e non mi troverà… forse non ci incontreremo mai più…’

Scese le scale piangendo, senza più singhiozzi ora. Si sentiva desolata, senza più forze, senza più speranze. Era come se qualche cosa di pesante fosse caduto sulla sua anima e l’avesse schiacciata. Una specie di morte spirituale. ‘Forse, Paolo ha provato questo stesso senso della fine, quando è morto. Un rullo enorme che a e livella tutto. Anche il dolore. Non posso ribellarmi. Ribellarmi a chi? A che cosa? A donna Dolores che è padrona di argomenti quasi indiscutibili? A García che non ha la forza di sottrarsi all’influenza materna? Lottare per chi? Per García e poi correre davvero il rischio di renderlo infelice?’ Sbatté lo sportello dell’automobile. ‘Oh, insomma… Basta! L’ha trovato l’argomento base: tu sposi García per renderlo infelice. Puoi, in coscienza, compiere questo o con la certezza dell’infelicità dell’uomo che ami? Puoi provocare le cause sapendo in anticipo quali sono gli effetti? …Ma naturalmente non voglio che García sia infelice. Non voglio che sia infelice perché è diventato mio marito…’

Mise in moto e avviò la macchina. In un primo momento non sapeva che direzione prendere. Non aveva alcuna voglia di tornare a casa, nessuna di girare per le strade di San Paolo. Se si fosse trovata a Rio, si sarebbe imbarcata sulla prima nave in partenza per qualsiasi parte del mondo, pur di uscire dal labirinto nel quale si era persa. Ma dal labirinto, a San Paolo, non si usciva. Tornò a casa, mise la macchina nella rimessa e chiamò Rodolfo.

“Mi lasci dormire fino a tardi, domani mattina.”

“Anche fino a mezzogiorno?”

“Anche fino a mezzogiorno. E se qualcuno telefona per me, risponda che non voglio essere disturbata, chiunque sia. Anche dal laboratorio.”

Entrò in casa. Tutto era silenzioso. Nelle stanze di aggio erano accese le piccole lampade a muro.

“Il dottor Marco è uscito” disse Maria che stava preparando la camera di Lorenza. “Ha detto che andava al cinema. Ha bisogno di me?”

“Grazie, no, Maria… vai a letto che è tardi. Buona notte.”

Uscì in giardino e sedette sotto la manghera. L’aria era umida ma fresca. Invece che a García pensò a zia Elena. Era seduta al suo posto e fumava, come un tempo faceva lei, una sigaretta. Nella grande casa costruita col suo lavoro, la storia della vita d’una donna si ripeteva. Lorenza pensava che rinunciare a García volesse dire per lei rinunciare all’amore, dimenticando che aveva poco più di vent’anni e che all’amore, forse, non era ancora nata. Ma si sentiva stanca e vecchia, come se avesse già vissuto. “Sono invecchiata troppo presto” disse, facendo una carezza all’arara che era venuto a posarsi sulla sua spalla. “Capito, arara? Sono invecchiata troppo presto.”

“Arara?” chiese il pappagallo. “Povero arara?”

“Sì, povero arara e povera Lorenza.”

Il pappagallo risalì sulla manghera scuotendo la catena che lo teneva legato a un ramo. Lorenza continuò a fumare la sigaretta, al buio. Quella notte le stelle erano scomparse dietro una cortina di nubi e la luna non c’era. Non aveva nemmeno la forza di piangere. Si sentiva sfinita, con una sorda voglia di morire.

“Sei ancora alzata?” chiese la voce di Marco. Era comparso sulla soglia del giardino. Era vestito di grigio chiaro e sembrava più giovane della sua età. “Ho visto un bel film, se vuoi possiamo tornare a vederlo insieme.”

“Non ho voglia di cinema.”

“Si tratta d’un film veramente eccezionale, Lori, un film che ti vendica del dolore.”

“Non ho più voglia di vendicarmi, sono stanca di tutto.”

“Sai che cosa devi fare? Andare a letto. Ti faccio preparare una camomilla nella quale metterò una goccia di sonnifero, e dormirai fino a tardi domattina. Quando ti sveglierai, non sarai più stanca di tutto, avrai di nuovo voglia di vivere e anche di andare al cinema. Proposta accettata?”

“Finché si tratta di dormire, accetto tutte le proposte.” Si alzò. “Ho la sensazione di non stare in piedi.”

“Febbre?” chiese Marco, prendendole il polso. “No, febbre no, ma nemmeno uno stato normale. Che cosa è accaduto? Stasera hai distrutto il tuo sistema nervoso. Per fortuna che c’è un medico in famiglia. Basta la camomilla, niente sonnifero. A letto. Non devi lasciarti andare in questo modo… Nulla al mondo vale la propria salute. Impara a essere più forte. Non so che cosa è accaduto, ma alla tua età certi colpi vengono soltanto dal cuore.”

Lorenza non parlò. Si avviò verso la sua camera, lasciandolo in giardino. Si mise a letto. Era così stanca che qualsiasi movimento costituiva per lei una fatica insopportabile. Poco dopo comparve Marco con la camomilla.

“Posso entrare? Non fare smorfie, è squisita. L’ho preparata con le mie mani, e vi ho aggiunto due cucchiaini di cognac per renderla più gradita. Questo è l’elisir della pace e dell’oblio. Bevi subito perché non è più bollente.”

Lorenza si appoggiò ai guanciali e bevve senza fare smorfie, tutto d’un fiato. Marco applaudì.

“Se tutti i miei futuri pazienti saranno ubbidienti come te, io diventerò il primo medico di San Paolo. Ora non dirmi nulla, nemmeno grazie. Lo so che mi sei grata di questo piccolo favore. Ora chiudi gli occhi e cerca di non pensare… nemmeno a me.”

Le rimboccò le coperte, le tolse un guanciale, la baciò sulla fronte. Se ne andò in punta di piedi, portando con sé la tazza vuota. Lei provò verso di lui una

tenerezza così dolce che si sentì quasi consolata. ‘Perché non lo amo?’ si chiese. ‘Perché non posso accettare di essere sua moglie?’ Prima di addormentarsi si persuase che la maggior parte delle donne sbaglia perché non sa riconoscere o ritrovare dentro di sé il sentimento vero, essenziale della loro vita. Per Lorenza, forse, Marco poteva rappresentare la felicità. Ma lei respingeva quella felicità che aveva a portata di mano e si perdeva dietro a un uomo che il destino le voleva negare.

Cap XIII

Per più di due settimane visse quasi appartata dal mondo. Trascorse le intere giornate nel laboratorio per la liquidazione degli ultimi ordini e per l’organizzazione del suo viaggio in Italia. Concluse il lavoro d’un mese, senza concedersi riposo, senza prendersi un’ora di distrazione. Tornava a casa così stanca che spesso rinunciava a cenare. Si chiudeva nella sua camera e andava a letto col sole ancora alto. Non aveva saputo più nulla di García, non aveva fatto sapere più nulla di lei a García. Donna Dolores aveva vinto.

A volte si rimproverava di non aver lottato con maggior costanza, di non aver difeso il suo amore con qualsiasi mezzo, con tutta se stessa, e allora trascorreva notti insonni e giornate con i nervi tesi e l’anima angosciata. Non sorrideva alle clienti, non parlava con le lavoranti. Si accusava di vigliaccheria, di disamore, di apatia.

‘Non si vince se non si lotta e io ho abbandonato il campo senza combattere, impaurita dagli argomenti elementari d’una donna vecchia. Che cosa m’ha detto donna Dolores?’ rifletteva. ‘Nulla di veramente persuasivo. M’ha soltanto insinuato il dubbio di non saper rendere felice suo figlio. Unico argomento, valido fino a un certo punto. E subito mi sono spaventata, subito ho fatto marcia indietro, invece di andare avanti a qualunque costo. Anzi, ho fatto di peggio, ho abbandonato il campo. Che cosa deve aver pensato García? Che non lo amo, che ho avuto paura, che ho riconosciuto la validità degli argomenti materni, che sono convinta di non rendergli la vita felice e di non essere felice con lui… Non m’ha più trovata, non m’ha più chiamata.’ Soffriva. Spesso piangeva e soffriva, poi, d’aver pianto.

Qualche volta, invece, era convinta di aver peccato d’orgoglio anziché di paura.

‘García non è degno di me. Non crede nella felicità che posso dargli. Per questo mi sono allontanata, per questo non ho voluto più vederlo.’

E si convinceva delle sue buone ragioni, confermate dal fatto, inoppugnabile, che García non aveva fatto nulla per riavvicinarsi a lei.

Il giorno della sua partenza per l’Italia, i giornali di San Paolo annunciarono ‘l’avvenuto matrimonio del dottor García De Souza, distinto professionista della città, con la signorina Laura Alvarez, figlia del prof. Alvarez, docente universitario’. Seguivano parole di augurio per la coppia felice partita in aereo per il viaggio di nozze in Argentina.

“Ti accompagno sino a Bahia” le propose Marco Ansperti. “Per me è una gita di piacere che mi consente di esserti vicino in questi primi giorni di navigazione. Non voglio che tu sia sola. Forse può farti bene l’idea che hai una persona sicura e fidata.”

Lorenza ormai viveva come estraniata dalla vita. Tutto quello che faceva era un’abitudine o l’adempimento d’un dovere. Il suo spirito e il suo cuore erano assenti, incapaci di qualsiasi partecipazione. Marco si assunse l’incarico di tutte le noie inerenti alla partenza. Salirono a bordo come se fossero in gita, con la sola differenza che rimandarono indietro l’automobile invece di farla aspettare. Quel giorno a Santos pioveva, il cielo era grigio e basso, il mare imbronciato.

Lorenza fu accolta con affetto dal comandante e dagli ufficiali. Era la terza volta che attraversava l’oceano con la stessa nave e ormai la consideravano della famiglia. Si chiuse subito in cabina. Non aveva che un pensiero, fisso come un chiodo nel suo cervello. ‘García s’è sposato. García ha sposato la ragazza protetta da sua madre… Non mi amava.’ Si sentiva il cuore ferito. Il pensiero del trionfo di donna Dolores la disgustava. ‘Come deve essere felice, ora. Ha

ottenuto tutto quello che voleva, e sono stata io a permetterle di vincere. Se fossi rimasta, se mi fossi ostinata, se avessi creduto più in me, se soprattutto avessi sentito incrollabile accanto a me García, non avrebbe vinto…’ I pensieri si sovrapponevano mentre era seduta sulla cuccetta, con le mani abbandonate sulle ginocchia, senza trovare alcun conforto.

“Lori” le domandò Marco, bussando alla porta della cabina, “scendi per la cena?”

“Sì.”

“È già tardi.”

“Puoi entrare.”

Marco entrò. Lei rimase seduta sulla cuccetta.

“Non sei vestita?”

“No. Non ho fatto nulla. Non ho nemmeno aperto una valigia. Sono così stanca… e poi avevo bisogno di pensare. Devo pur arrivare, un giorno, a persuadermi di quanto è successo…”

“Capiterà prima di quanto tu creda. Questi sono i dolori dei quali ci si vuole liberare…” Le prese le mani e l’aiutò ad alzarsi. “Brava, così. Ora truccati un

po’, mettiti un po’ di rossetto e scendi. Ti aspetto giù. Ho già scelto il nostro tavolo. Ha una tovaglia decorata con fiori freschi, è bellissima.”

“Sarò pronta fra dieci minuti.”

Un quarto d’ora dopo entrò in sala da pranzo insieme a Marco. S’era cambiata di vestito, e aveva appuntato un fiore nei capelli. Sorrideva quando strinse la mano del direttore, ricambiò il saluto del comandante e degli ufficiali. Anche durante il pranzo si mostrò abbastanza serena. Riuscì perfino a ridere per una sciocchezza ripresa da un giornale umoristico che Marco le aveva riferito. Lui la guardò con uno sguardo interrogativo sul suo stato. Lei gli rispose con la voce dura e tagliente che trovava quasi sempre quando voleva imporre a se stessa la propria volontà: “Voglio finirla con le lacrime e con la sofferenza. Bisogna ricominciare… Ricomincerò.”

“Sii prudente.”

“Non voglio più essere prudente. Voglio soltanto riuscire a non amare più. Ho la sensazione precisa che il mio destino non sia quello di amare. Pensa alla mia vita. Ho sposato un uomo al quale volevo bene, ma che non amavo. Ero contenta lo stesso, rassegnata al bene, disposta a rinunciare all’amore. E pensavo che, chissà… col tempo anche l’amore sarebbe arrivato perché Paolo era buono, perché mi amava, perché mi piaceva. Paolo non c’è più. Ho perso in un sol colpo tutto quello che avevo costruito per vivere con lui. Poi ho incontrato te… Ma mi sono allontanata subito. Non avevo più la forza di voler bene. Avevo bisogno d’amore… Non si tenta due volte nella vita l’esperimento del bene… si vuole tentare, una volta almeno, l’esperimento dell’amore. Fallito anche questo. Come posso avere ancora fede? Credere ancora nel mio destino?”

“Eppure… se esiste una creatura al mondo che ha diritto di credere in se stessa e

di aver fede nel proprio destino, sei tu. Sei giovane, sei intelligente, possiedi una volontà più forte del tuo cuore, e sei quasi bella. Hai in mano tutte le carte favorevoli per qualsiasi grosso gioco che abbia per posta l’amore.”

“Non credi nel destino?”

“Credo a quello che ciascuno sa costruirsi. Non sono fatalista. Per tutti viene il momento in cui bisogna scegliere la strada da seguire. Nulla e nessuno spinge a prendere una strada piuttosto che un’altra. Soltanto la nostra volontà, soltanto il nostro cuore, il nostro discernimento devono guidarci. Le opportunità favorevoli sono spesso uguali tanto su una via che sull’altra. Qualche volta la strada giusta è indicata da indizi che non rispondono al proprio desiderio e alla propria volontà, ma che tuttavia sono promettenti. E non si sa perché si sceglie l’altra strada più oscura, meno sicura, che non si sa dove conduca.”

“Forse la ione per l’ignoto, il desiderio di voler sapere che cosa c’è di sorprendente alla fine” osservò Lorenza riconoscendosi in quella descrizione.

“Ma la vita non è una sorpresa, la vita è una realtà positiva.”

“Chi te l’ha detto? Come puoi affermarlo?”

“Non si cammina sulle nubi, ma su terra ferma. Gli uomini non sono esseri invisibili, sono di carne e d’ossa. Ciascuno porta con sé un cartello luminoso ‘Attenzione pericolo’. Se tu non leggi, se tu procedi avanti a occhi chiusi, finisci con lo sbattere la testa e farti male.”

“E la gioia di aver camminato dritto dinanzi a te senza guardare il cartello che ti avverte del pericolo non vale la pena di averla vissuta?”

“Forse, per una volta, a titolo di esperimento. Ma non è concesso che una creatura ricominci a chiudere di nuovo gli occhi e non legga i cartelli che indicano il pericolo. Ora devi camminare guardando davanti a te… devi essere responsabile di quello che fai e di quello che pensi.”

“Lo sono sempre stata.”

“Adesso devi esserlo con saggezza. Ora devi ragionare col tuo cervello, e non ascoltare troppo il tuo cuore.”

Si alzarono. Erano tutti e due presi dalla discussione. Uscirono sulla eggiata. Non pioveva più e il caldo era opprimente. La Croce del Sud disegnava il suo sbilenco quadrilatero su un cielo d’inchiostro.

“Mi ami ancora?” chiese Lorenza, appoggiandosi alla murata.

Marco non rispose subito. Aveva sentito il cuore battergli in gola. Che cosa voleva dire quella domanda? Qual era la risposta che Lori si aspettava? Essere ancora amata? Non essere più amata? S’appoggiò alla murata, accanto a lei, guardò le poche stelle che avevano aperto un varco nelle nubi.

Fu sincero: “Sei la sola donna ch’io possa amare, Lorenza. Per sempre. Rinuncerò a te soltanto quando ogni speranza sarà perduta.”

“Mi ami nonostante García? Perché, prima…” arrossì. “Prima sì, potevo capirti, ma ora…”

“Non m’importa di García… C’è qualche cosa di più del tuo corpo che io amo in te.”

“Ma io amo García, lo amo ancora nonostante tutto. Come puoi amarmi, sapendo questo?”

“Come, non lo so. Non me lo chiedo perché non saprei rispondermi. Ma so che ti amo.”

“Non aspettarmi, Marco. Purtroppo io sarò sempre la donna che giunta al bivio prenderà imprudentemente l’altra strada, la strada sbagliata.”

“Perché sei giovane. Poi verrà il giorno che istintivamente ti avvierai per la strada giusta, guidata dal desiderio di pace che nasce finalmente in ognuno di noi.”

Lorenza guardò le stelle che riapparivano via via che la nave procedeva verso Rio de Janeiro. E pareva che a loro chiedesse ispirazione.

“Non posso garantire… non posso promettere nulla.”

“Non ti chiedo nulla.”

“Se fossi superstiziosa, se credessi nell’influsso astrale, ti direi che sentimentalmente sono nata sotto una cattiva stella.”

“Bestemmieresti… Nel gioco della vita hai in mano due carte sicure e preziose, la salute e il lavoro. Non si possono avere in mano i tre sette augurali sempre. Qualche volta dal mazzo esce anche il sette di picche. Qualche volta l’amore non è desiderio o bisogno di possesso, è qualche cosa di più alto e di più nobile, è soltanto amore, tenerezza, protezione, difesa, affetto. Non so dirti con esattezza come io ti ami, certo come non avrei potuto amare nessun’altra donna che pur avessi desiderato più di te.”

Ci fu un lungo silenzio. Lorenza accese una sigaretta, ne fumò due o tre boccate, poi la gettò in mare. Marco ebbe paura d’aver troppo parlato di se stesso.

“Scusami” mormorò. “Non è tutta colpa mia se abbiamo trascinato questa conversazione sino a una dichiarazione… sentimentale… Mi hai chiesto se ti amavo ancora e te l’ho detto. Io ti amo ancora. Non ho mai cessato di amarti.”

“Grazie… Camminiamo un poco, vuoi?”

Le offrì il braccio. eggiarono su e giù lungo il ponte. L’orchestra eseguiva il suo programma serale. L’ascoltarono, senza parlare.

“Al tuo ritorno, verrò a incontrarti a Bahia. Non abbiamo presa alcuna decisione

per la casa. È un argomento che bisognerà trattare prima di lasciarci, così che durante la tua assenza possa iniziare i lavori per la costruzione del mio studio medico.”

“Accetterò tutto quello che deciderai. Occorre soltanto che i nostri appartamenti siano separati, e che sia possibile, all’occorrenza, interrompere ogni comunicazione fra di essi.”

“Ho pensato di lasciare a te tutta l’ala di zia Elena. Fino alla saletta che separa l’appartamento della zia da quello che tu abiti. La saletta potrebbe diventare l’ingresso sul quale due appartamenti si aprono. Io rientro nella mia camera d’un tempo e costruisco attigui il gabinetto medico, l’ambulatorio, la sala d’aspetto, i servizi. Che ne pensi?”

“Approvato.”

“Permetti che Maria traslochi tutte le tue cose da un appartamento all’altro?”

“Permetto… Ti darò le chiavi dei cassetti che sono chiusi. Non c’è nulla di segreto… Ora andiamo a dormire.”

Si lasciarono sulla soglia della cabina di Lorenza. ‘Se gli uomini sapessero essere soltanto amici, nella vita, come sarebbero preziosi e cari… Ma l’amicizia, attraverso la loro interpretazione, si trasforma sempre in un sentimento o in desiderio.’

Sul ripiano della toeletta c’era una lettera. Era appoggiata, bene in vista, a una spazzola per capelli. Si avvicinò diffidente. Chi poteva scriverle? Non aveva visto nessuno che conoscesse e in alto mare le lettere non arrivano miracolosamente. A meno che García… che García le avesse fatto recapitare questa lettera, con l’ordine di consegnarla soltanto durante la navigazione. Non aveva il coraggio di prenderla. Si piegò a leggere l’indirizzo. Non era di García. La calligrafia le era sconosciuta ed era indirizzata a Lorenza Lelli, e non a Lorenza Glori.

Chi conosceva il suo cognome da sposata? Qualcuno degli ufficiali con i quali aveva fatto il primo viaggio? No. Aveva viaggiato su un’altra nave. Su questa, nessuno conosceva il cognome di Paolo. ‘Lorenza Lelli.’ Le faceva male il cuore. Per un’ora soltanto aveva avuto il diritto di chiamarsi Lelli, poi era tornata Lorenza Glori. Paolo… Perché il destino glielo aveva portato via? Forse con lui la vita sarebbe stata più semplice, senza complicazioni e senza eccessive aspirazioni. Avrebbero avuto un bambino, due bambini… L’appartamento, la domestica, la Messa la domenica, il dolce a pranzo, qualche volta l’opera alla Scala, il cinema… Una specie di felicità a buon mercato, felicità uguale a quella di migliaia e migliaia di famiglie. Ma sarebbe esistita la famiglia, e questa l’avrebbe salvata da se stessa, dal Brasile, dalla sartoria, dai viaggi attraverso l’oceano, da García e da donna Dolores.

Non osava aprirla, la lettera. La prese in mano, tentando d’indovinare. Nulla. Allora l’aprì con il piglio di chi va incontro al pericolo deliberatamente.

‘Signora, forse non si ricorda più di Martin Aranga, il suo compagno di viaggio dall’Italia al Brasile. Una sera abbiamo scommesso ai dadi tre rose rosse che ornavano il suo vestito contro un bacio che bruciava le mie labbra. Lei vinse. E io perdetti, dovetti pagare la posta. E persi allora molto di più di quanto credessi. Persi al gioco anche la pace. Si ricorda di me? La cercavo e mi fuggiva. Volevo dirle che l’amavo e non me lo permise. Ma non l’ho dimenticata, e questo mio ritorno in Italia dopo tanto tempo è stato suggerito anche dalla speranza di incontrarla ancora. Non credevo che il destino fosse così generoso con me. Le

vie del mare sono limitate, per fortuna, ed è più facile incontrarsi in pieno oceano che sul corso d’una città di provincia. Ho chiesto sue informazioni al direttore di crociera, so che l’uomo che l’accompagna non è suo marito, bensì un suo parente e so che da Bahia in avanti rimarrà sola. Benedico il destino. Mi permetterà di salutarla quando il suo parente sarà sceso a Bahia? Torno in Italia per un breve periodo, e l’idea di scendere nella sua terra in sua compagnia mi pare di buon augurio. Non la disturberò, non mi avvicinerò finché non mi farà un cenno d’invito. Le bacio le mani, suo Martin Aranga’.

‘Martin Aranga…’ pensò Lorenza. ‘Martin Aranga… Il primo uomo che m’ha baciata, che m’ha quasi spaventata, dopo… dopo la disgrazia. Il mondo è davvero una piccola strada nella quale si finisce sempre col rincontrarci. Mi chiama ancora ‘signora Lelli’. Lelli, un nome che ho quasi dimenticato, un nome che doveva accompagnarmi per tutta la vita.’

Stava per strappare la lettera, poi si trattenne. Forse era meglio conservarla. Ormai nella sua vita di donna non doveva più distruggere i ricordi che un giorno avrebbero potuto consolarla della sua solitudine. Un giorno, riandando col pensiero, avrebbe ritrovato la figura di Martin Aranga e sarebbe andata a cercare tra i vecchi documenti questa lettera. In quel momento avrebbe rivisto con gli occhi della fantasia se stessa, le rose del suo vestito da sera e Martin un po’ curvo su di lei, con le labbra sulle sue, quasi inesperte. Lo avrebbe riudito mormorare: ‘Que lindo’. Mise la lettera in un cassetto, e cominciò a spogliarsi. Non aveva sonno.

Nel silenzio udiva soltanto un o regolare che andava su e giù sul ponte oltre la finestra della sua cabina. Spense la luce, s’inginocchiò sulla cuccetta e guardò fuori. Non vide nessuno. L’eco del o s’era spento. Forse la persona che eggiava era andata a letto. Richiuse, ma prima ancora che si fosse distesa di nuovo sul letto dovette riaprire. Il o s’avvicinava. Il cuore cominciò a batterle forte.

Martin Aranga, in abito da sera, con i capelli neri ben pettinati, gli occhi puntati sulle finestre delle cabine, le mani in tasca, eggiava fumando. La sigaretta gli pendeva dalle labbra. Davanti alla finestra della cabina di Lorenza rallentò il o, fissandola attentamente, come se avesse sentito lo sguardo di lei su di lui. Non era cambiato. Le appariva più alto e più bruno, ma lo riconosceva, lo risentiva accanto a sé, risentiva il calore delle sue labbra. Ora Martin s’era allontanato. Fra poco sarebbe ritornato, e avrebbe riascoltato il suo o, senza più affacciarsi, senza più rivederlo. Riaccese la lampada.

Indossò la camicia da notte, si sdraiò sul lettino, prese un libro e cominciò a leggere, ma non riusciva a seguire mentalmente ciò che leggeva. Il o si riavvicinava. Eccolo. Ora Martin s’era fermato davanti alla finestra dalla quale doveva trapelare qualche filo di luce. Sapeva che era rientrata, che forse aveva letto la sua lettera, che era sveglia. ‘Non si muove’ pensò Lorenza. ‘Perché non continua la sua eggiata? Se qualcuno lo vede fermo proprio sotto la mia finestra… Oh, ma perché…’ Non poteva guardare fuori senza spostare la persiana e con la luce accesa in cabina guardare voleva dire rivelare la propria presenza. Spense. Si inginocchiò di nuovo sul letto. La persiana non era del tutto riaccostata. Bastava alzare un poco la tendina. Martin era appoggiato con le spalle alla murata, e accendeva un’altra sigaretta. Il fiammifero lo illuminò.

Aveva il volto dell’uomo che aspetta una risposta. Una ruga s’era formata tra le due sopracciglia. Gli occhi neri, grandi, fissavano la finestra e in certi momenti indugiavano su quelli di Lorenza che lo guardava. ‘Ora s’accorge di me, ora sente che sono qui e che i nostri sguardi s’incontrano.’ Forse, Martin sentiva la presenza di Lorenza. Non si decideva ad allontanarsi, e non staccava lo sguardo dalla fessura attraverso la quale Lorenza osservava i suoi movimenti.

‘Perché non va a dormire?’ si chiese Lorenza che non trovava il coraggio di ridistendersi e di rinunciare a quella specie di gioco. Perché non mi lascia in pace? Un uomo deve sentire che una donna non è tranquilla quando è sorvegliata…’ Un’ombra si disegnò sul pavimento del ponte, e qualcuno

s’avvicinò silenziosamente a Martin.

“Non va a letto?” disse l’ufficiale commissario, guardando le stelle. “Andiamo incontro a una specie di temporale.”

Era tutto vestito di bianco, e teneva il berretto in mano. Faceva caldo, e l’approssimarsi del maltempo rendeva l’aria afosa e densa.

“Non ho sonno. C’è ancora qualcuno in salone?”

“Quasi nessuno.”

“Forse ha ragione, andiamo a dormire.”

S’allontanarono insieme. E Lorenza senti su di sé l’ultimo sguardo, lieve come un saluto. Spostò allora la persiana per vedere i due uomini che entravano nella terrazza vetrata, discutendo. Allora richiuse e alzò anche il vetro del finestrino. I temporali tropicali sono pericolosi. S’addormentò senza rendersene conto. Sognò García, sognò Martin, sognò Marco, sognò Paolo. Sognò anche Dick Fryer che un giorno le aveva giurato: “In qualunque posto metterà radici, io la raggiungerò e la farò felice.”

L’immagine di García si sovrapponeva a quella di Martin Aranga, e viceversa. Quella di Dick Fryer a quella di Paolo. Fra le quattro rimaneva in disparte quella dolce e sgomenta di Marco Ansperti.

Cap XIV

Fino a Bahia, finse di non riconoscere Martin Aranga, di non accorgersi della sua presenza, di non aver ricevuto la sua lettera. Lui la fissava con discrezione, la seguiva dovunque andasse con Marco Ansperti, la fotografava quando, distratta, non s’accorgeva di lui.

“Stai attenta…” le disse Marco “c’è un tale, un argentino credo, che ti osserva troppo. E questo non mi piace.”

“Che cosa temi?”

“Tutto… quando si tratta di te. Non so decidermi a lasciarti partire sola…”

“Siamo in tanti a bordo, senza l’equipaggio.”

“Non scherzare, sai che cosa voglio dire.”

“Non è la prima volta che attraverso l’oceano, è la quarta. Conosco tutti i pericoli sentimentali e so come difendermi.”

Marco non insistette, ma non era tranquillo. Prima di sbarcare trovò modo di

farsi presentare a Martin Aranga e di parlare con lui. Nell’insieme gli piacque, gli lasciò l’impressione d’un uomo onesto anche se un po’ vanaglorioso. Ma qual è quell’argentino che non si dà le arie dell’americano, un po’ don Chisciotte e un po’ Cavaliere senza macchia e senza paura?

Martin non gli disse che conosceva già Lorenza e non gli chiese di presentargliela, così che, sbarcando, Marco fu sicuro che per tutta la traversata Martin e Lorenza sarebbero rimasti estranei. Quando la nave ripartì da Bahia, Lorenza era appoggiata alla murata di prua, Martin a quella di poppa. Come se non avessero dovuto incontrarsi mai.

In serata, Lorenza, ricevette un messaggio che Marco aveva affidato alla sua cameriera.

‘Il mio cuore’ c’era scritto ‘ti accompagna e comincia ad attendere il tuo ritorno. Abituato alla tua presenza, mi sento disperatamente solo. Marco’.

‘Nemmeno García mi ha mai detto parole così dolci’ pensò Lorenza. E le parve che, difesa dal pensiero costante di Marco, avrebbe potuto affrontare qualsiasi avversità della vita. ‘Mai più amore. C’è un limite anche alle sofferenze e io non voglio più soffrire. Voglio dimenticare García senza che per dimenticarlo debba nuovamente amare.’ Rilesse il telegramma. Dall’altro lato della sala Martin Aranga la osservava.

Più tardi, durante la festa, la invitò a ballare. Lorenza accettò.

“Finalmente…” sospirò Martin. “Credevo davvero si fosse dimenticata di me e che non avesse ricevuto la mia lettera. Mi ha trattato come qualcuno che non s’è

mai incontrato. Ho pensato che lo fe per non insospettire quel suo parente… che dev’essere innamorato di lei.”

“Non faccia ipotesi assurde.”

“Dico quello che penso. Rimarrà definitivamente in Italia?”

“Non più di quaranta o cinquanta giorni.”

“Può darsi che ritorneremo insieme, allora. Non perdiamoci di vista… sarei felice di ritornare con lei. L’ho sempre pensata…”

“Io, lo confesso, l’avevo dimenticata. Mi è venuto in mente quando ho letto la sua lettera. È stato come se fossi tornata indietro nel tempo d’un anno e forse più.”

“Quasi due.”

“È trascorsa tutta una vita da allora…”

“La preferisco come è adesso. Padrona di lei, senza più paura di tutto e di tutti… Allora aveva l’aria di chiedere continuamente protezione… Era terrorizzata.”

“E avevo ragione di esserlo.”

La riaccompagnò al suo posto.

“Posso sedermi al suo tavolo?”

“Se vuole…”

Trascorsero la serata insieme. Ballarono ancora, giocarono a dadi, bevvero whisky seduti sugli alti sgabelli del bar, eggiarono sul ponte, senza che Martin Aranga alludesse più al ato, e a quello che era accaduto durante la prima traversata. Ma era evidente che l’attrazione verso Lorenza non si era esaurita, anzi. Non era più curiosità o capriccio. Era suggestione e sentimento. Lorenza se ne accorse e lasciò fare. Aveva bisogno di riconquistare il senso della vita, aveva bisogno di vendicarsi di García e di se stessa. Con Martin Aranga fece un po’ la civetta.

‘Voglio che si innamori di me’ decise ‘voglio che si tormenti un po’ per me. È ingiusto che soltanto le donne debbano soffrire per amore.’ Si sentiva cattiva, e aveva insieme paura della sua cattiveria. Ma non voleva rinunciare a vivere. Sarebbe stato così poco intelligente porre delle limitazioni alla sua giovinezza… ‘I vent’anni non ritornano’ diceva zia Elena ‘e non si dimenticano. Procuriamo che lascino buoni ricordi.’

La vita di bordo si svolgeva normalmente e Lorenza s’era subito adattata al ritmo, dedicando qualche ora al giorno allo studio dei nuovi modelli. Martin non si separava da lei per quanto era possibile. Aveva anche ottenuto dal direttore di sala un tavolo vicino a quello di Lorenza. Così a pranzo e cena potevano

conversare. Anche al cinema erano sempre vicini. I eggeri osservavano e commentavano, gli ufficiali che conoscevano Lorenza compiangevano Aranga.

“Arriverà in Italia innamorato come un ragazzo e la signorina non si occuperà più di lui…” disse un giorno il commissario a una signora che non approvava l’amicizia di Martin e di Lorenza. “Non è la prima volta che la signora si lascia corteggiare… Ma è una delle eggere più serie e più incorruttibili.”

E fu seria e incorruttibile. Le cortesie, le premure di Martin non ottennero in cambio che cortesia e cordialità. Non valsero preghiere, non valsero dichiarazioni, non si lasciò suggestionare né dalle notti stellate, né dalla Casba algerina, né dal chiaro di luna. Ogni volta che si sentiva presa da una qualche emozione, pensava a García e il cuore le si faceva di pietra. Martin Aranga le piaceva. Aveva le caratteristiche fisiche di García. I grandi occhi neri, i capelli ricciuti e lucidi più neri degli occhi, la carnagione bruna, la statura slanciata di uomo che pratica gli sport. Il suo modo di parlare era gentile e suggestivo. Quando diceva: “Un argentino è sempre un gentiluomo” aveva voglia di abbracciarlo per ricompensarlo di essere stato tale con lei.

Si separarono quando sbarcarono a Genova. Lorenza proseguì immediatamente per Milano, Martin era atteso a Roma.

“Mi prometta che ripartiremo insieme.”

“Il mio soggiorno in Italia dipende unicamente dal mio lavoro: non posso prometterle nulla.”

“Mi prometta allora di avvertirmi quando avrà deciso la data del ritorno in

Brasile. Le manderò il mio indirizzo da Roma, e mi prometta che se verrà a Roma mi telefonerà.”

“Prometto.”

Si strinsero la mano. Martin Aranga era turbato. Lorenza, commossa. Sentiva alla gola un nodo che non riusciva a inghiottire. In fondo, Martin era un bravo ragazzo ancora ingenuo e capace di apionarsi.

“Potrò scriverle? Mi risponderà?”

“Le risponderò.”

Si separarono. E per qualche tempo sembrò che si fossero dimenticati l’una dell’altro. Lorenza aveva ritrovato la sua famiglia. La madre e il padre non la lasciavano mai sola, speravano che non ripartisse più, tentavano di trattenerla con gli argomenti più persuasivi.

“Vendi tutto quello che è tuo, cedi l’azienda a qualcuno che possa rilevarla. Non importa anche se ti viene pagata meno di quello che vale. Non siamo ricchi, ma qualche cosa abbiamo. Riuniamoci. Qui potrai ricominciare la vita, sei ancora giovane. Potrai anche riprendere marito… Non vorrai per sempre rimanere sola, senza qualcuno che ti voglia bene…”

“Non posso distruggere l’eredità di zia Elena” rispondeva Lorenza. “E quanto a riprendere marito… davvero non ne ho il coraggio. Non posso più pensare al

matrimonio come un tempo. Io ho bisogno di amore, il matrimonio sarà poi una conseguenza dell’amore… Ma per ora voglio rimaner sola.”

“E Marco Ansperti, quello che chiamavi ‘Pillola’ quando andavi a scuola, dov’è?” le chiese sua madre.

“A San Paolo. Sta costruendo il suo studio medico e dividendo gli appartamenti della villa. Uno per lui e uno per me. Così da non disturbarci.”

“Una volta era innamorato di te…”

“Lo è ancora, è un ragazzo fedelissimo e costante.”

“E tu?”

“Io, mamma? Io mi domando se riuscirò mai più ad amare…”

La madre non aveva più accennato a García, soltanto aveva notato che non arrivavano più sue lettere come durante il precedente viaggio in Italia della figlia. Arrivavano, ora, quelle di Marco. Le aveva lette di nascosto da sua figlia e aveva avuto la conferma: Marco era ancora innamorato, ma Lorenza lo considerava un semplice amico. Le dispiaceva. Marco sarebbe stato per Lorenza il marito ideale, e loro due vecchi sarebbero andati a stabilirsi a San Paolo se Lorenza lo avesse sposato. Ormai il padre non lavorava più. Era in pensione. Vivere a Milano o a San Paolo per loro era la stessa cosa.

Assieme a quelle di Marco, però, cominciarono ad arrivare anche le lettere di Martin Aranga. Erano infuocate. La lingua castigliana era abbastanza comprensibile anche per mamma Glori. Solo Lorenza taceva. Si occupava del suo lavoro. Viaggiava, Milano, Torino, Firenze, poi giù fino a Roma dove incontrò Martin, poi a Napoli per i coralli, poi di nuovo a Roma.

eggiava, la sera, con Martin Aranga al Pincio, pranzava con lui nelle osterie romane, si chiamavano la mattina appena svegli per comunicarsi gli impegni della giornata e approfittavano di tutte le occasioni per incontrarsi.

Lorenza era contenta di trascorrere le sere con lui, ma rimaneva inattaccabile. Ogni volta che Martin le parlava del suo amore, lei rispondeva con dichiarazioni di amicizia.

“Eppure verrà un giorno che mi amerà.”

“Forse. Ma anche quel giorno le dirò che non l’amo. Agli uomini dell’altra sponda dell’Atlantico la famiglia non consente che amino una straniera. Non dica di no. Lo so per esperienza. Nella mia sartoria ano tutte o quasi le signore di San Paolo, conosco delle loro famiglie i segreti più nascosti. So quello che devo pensare e so come devo comportarmi.”

“Ma io l’amo ugualmente. Sono libero. Lavoro. Non sono ricco e nemmeno la mia famiglia è ricca. Lavoriamo tutti.”

“Ma non mi sposerebbe mai. Non si sposerebbe mai con una donna come me. Io sono stata sposata. Io, italiana, ho amato un brasiliano, e da lui sono stata amata. È intervenuta la famiglia. Ho dovuto cedere. Inutile insistere, inutile combattere,

inutile spaccarsi il cuore. Non potremo essere che buoni amici. Non sciupiamo la nostra amicizia.”

Ma, una sera, Lorenza si lasciò baciare da Martin. Non si vive accanto all’amore senza rimanerne un po’ bruciati. ‘Un momento di debolezza, di stanchezza, di solitudine’ pensò Lorenza ‘sono un essere umano anch’io. García è lontano con sua moglie, forse è felice, forse non pensa più a me, forse la donna che ha sposato gli ha dato la serenità e la gioia di cui aveva bisogno. Un amore senza febbre, un amore senza novità, ma un amore sicuro. Martin mi ama, ma non potrà mai essere mio marito. È la seconda volta che mi bacia. Che importa? Tutto è già finito.’

“Sono un uomo libero, Lorenza…”

“Non vuol dir nulla, la libertà. E poi, la libertà non esiste, nel senso morale.”

“Che cosa posso fare per farla ragionare con la mia stessa logica?”

“Nulla, Martin. Dobbiamo soltanto separarci. Io domani sera ritorno a Milano e fra cinque giorni m’imbarco per il Brasile.”

“Io non posso partire ancora. La mia missione non è terminata. Forse fra quindici giorni.”

“Quando sarò già a San Paolo…”

“Mi aspetti, Lorenza… Non sa che cosa distruggiamo separandoci…”

“Non posso. Non voglio.”

“Verrò a trovarla a San Paolo, da Santos, quando ritornerò a casa.”

“L’aspetterò a colazione. Manderò la macchina a prenderla.”

“Non parta, Lorenza…”

“Non posso rimandare il mio ritorno laggiù. Sa che non voglio rimanere. Non insista.”

Si baciarono ancora. Lorenza per farsi perdonare il suo rifiuto, l’altro per lasciare di sé un più profondo ricordo. Quando la riaccompagnò all’albergo erano quasi le due di notte.

“Sembra uno scherzo, dire: ‘Arrivederci a San Paolo’, ed è vero.”

“Mi scriva.”

L’indomani Lorenza partì per Milano. E da Milano andò a Genova, cinque giorni dopo. Telefonò a Marco per dirgli di essersi imbarcata. Lo pregò di non andarle

incontro a Bahia. Lo avrebbe visto a Santos. Poi telefonò ancora da Algeri. Era contenta di rivederlo, di ritrovarlo. Forse, se si fosse allontanato da lei, se avesse amato un’altra donna, gli sarebbe mancato. S’era abituata a lui, alla sua devozione, e ne aveva bisogno.

La giovinezza non può essere vissuta in totale solitudine, ha per lo meno bisogno dell’amicizia.

Lo ritrovò a Santos. I suoi occhi cominciarono a brillare, non appena la vide appoggiata alla murata… Fu il primo a salire a bordo non appena il piroscafo attraccò. Caddero uno nelle braccia dell’altro, con un’emozione improvvisa e irresistibile.

“Avevo tanta paura che tu non tornassi…”

“Non so perché, ma avevo tante assurde paure anch’io.”

“Ti voglio dire subito una cosa… Ti amo sempre, come prima, forse più di prima. Forse non te ne importa, ma preferisco che tu lo sappia prima ancora di sbarcare… così se non sei d’accordo puoi proseguire il tuo viaggio.”

“Lo so, Marco. Me lo hai detto in tutte le tue lettere.”

“Ma l’ultima è della scorsa settimana. E in questi ultimi otto giorni il mio amore per te s’è moltiplicato. Non mi trattare troppo male. Non ti parlerò più del mio amore, perché non voglio annoiarti. Ma di tanto in tanto ti dirò che ti amo

ancora, soltanto perché tu lo sappia.”

Lorenza sorrise commossa. Poco dopo salutò gli ufficiali e sbarcò dalla nave. Le venne in mente donna Elena.

“A che punto è la casa?”

“Quasi in ordine. Per lo meno è in perfetto ordine l’ala che tu abiterai. Ho apportato qualche modifica. Stanno ancora lavorando dalla mia parte, ma fra un mese tutto sarà in perfetto stato. Ho già qualche paziente. Credo che potrò farmi un’ottima posizione…”

“Sono felice per te.”

“Durante la tua assenza mi sono comportato molto male verso di te. Ho tentato di portarti via Rodolfo e Maria. Ti avrei lasciato Mami e Aristide. Impossibile. Rodolfo ha dichiarato che lascerà la casa soltanto se donna Lorenza lo licenzierà insieme con sua moglie, s’intende. Per ora sbrigano anche il mio servizio, ma in seguito bisognerà che io provveda.”

“Potranno continuare con lo stesso sistema” suggerì Lorenza. “E penso che se anche i nostri appartamenti sono separati potremo sempre ritrovarci insieme a tavola. Sarebbe assurdo che organizzassimo due cucine per due sole persone.”

“Grazie…”

Nella voce di Marco c’era un profondo senso di riconoscenza. Lorenza lo guardò con stupore. Erano tutti e due seduti accanto ai bagagli di Lorenza, in attesa di are la dogana.

“Che cosa avevi pensato?”

“Nulla, forse, non so… Temevo che tu volessi del tutto allontanarmi dalla tua vita qui.”

“Per quale scopo?”

“Per essere più libera…”

“Stupido.”

Fu così felice dell’insulto che le strinse un braccio con forza. “Qualche volta fa piacere sentirsi trattar male…”

Risero tutti e due.

Partirono per San Paolo più tardi del previsto. Mami aveva preparato una cena squisita. La casa era linda, le modifiche apportate da Marco erano di buon gusto e dettate da un eccellente senso pratico. Le sei palme imperiali parvero a Lorenza più alte e più solenni, la manghera della terrazza più ospitale e più ombrosa.

Provava un curioso sentimento: ‘Ecco’ pensava ‘questa è la mia casa. Non quella di Milano. Quella è la casa dei miei genitori. Questa l’ho guadagnata io, col mio lavoro. Porta tracce della mia esistenza, del mio gusto. Qui mi sento in casa mia, questo è il mio focolare.’

“Sei contenta di essere tornata?”

“Si… Ma sento più di prima che zia Elena non c’è più. Mi manca la sua amicizia.”

“Ti capisco…” ma non volle dire che anche nel suo cuore c’erano comprensione e amicizia, sentimenti che non le avrebbe mai fatto mancare.

Prese una mano di Lorenza e la tenne con dolcezza fra le sue. In silenzio. Preferì non cancellare il ricordo di zia Elena. Era merito suo se lui e Lorenza avrebbero camminato insieme.

“A zia Elena devo tutto, Marco. Anche il male che l’amore mi ha fatto.”

Lui la guardò senza capire e la interrogò con lo sguardo.

“Sì, mi ha lasciata vivere come ho voluto e mi ha lasciato la responsabilità di scegliere la strada che preferivo.”

“Probabilmente sapeva che saresti tornata indietro.”

“Oh, di questo era sicura.”

Il giorno dopo Lorenza scappò in sartoria. Aveva bisogno di ritrovarsi nel suo piccolo regno. Quando ritornò lo sera, eggiò con Marco in giardino. Volle rivedere gli angoli che più amava. In silenzio cercò anche di svelare ciò che aveva nel suo cuore, di denudare i suoi sentimenti. Non le riuscì. C’era un muro che non riusciva a sgretolare. Aveva le lacrime in gola.

A tavola si trovarono vicini. Si sorrisero con gli occhi. Erano ormai sicuri di rivedersi ogni giorno. Erano certi che non avrebbero più sofferto la solitudine. Uno poteva contare sull’altra.

Lorenza pensava che le sarebbe stato difficile tornare a casa dopo il lavoro e trovare la villa silenziosa, la tavola deserta. Marco rappresentava il compagno ideale, l’amicizia sicura, la tenerezza vicina.

“Perché sorridi?” le domandò lui.

“Pensavo a te…” e gli strinse la mano sulla tovaglia. “Mi fa piacere sapere che quando tornerò dalla sartoria, tu sarai qui ad aspettarmi…”

“Anch’io. Non ho fatto altro dal giorno che sei partita.”

“Io no.”

“Perché andavi in Italia… perché avevi il cuore pesante… perché sentivi il bisogno di riabbracciare i tuoi genitori. Invece io sono rimasto solo… E intanto pregavo Rodolfo di mettere sempre un coperto di più a tavola.”

“Per chi?”

“Per te. Ti ho parlato per tante e tante sere, a bassa voce, teneramente.”

Lei lo guardò incredula. Si sentì mancare davanti a tanta dolcezza.

“Ti ho sempre detto delle cose molte buone… non ti ho mai sgridata. E quando proprio non ne potevo più e sentivo il cuore struggersi di nostalgia, allungavo una mano e cercavo la tua che non c’era, ma che io credevo di trovare… così…”

Posò la sua mano forte su quella minuscola e fragile di lei. Lorenza non ritirò la sua. Cominciava a sentire un tepore che le riscaldava il cuore.

“Grazie… Sei troppo buono.”

“Ti amo.”

Un’ondata di emozione vibrò nell’aria. Fu portata via da un improvviso colpo di vento. Le sei palme del giardino si piegarono al soffio impetuoso. Per un attimo sembrò dovesse scoppiare un temporale. Poi anche il vento si calmò. Lorenza si alzò e raggiunse la veranda che dava sul giardino. Marco la seguì e si sedette vicino a lei. Aspettò tranquillo che Lorenza rompesse il silenzio nel quale pareva essersi rifugiata.

“Non mi domandi niente di Milano?” gli chiese dopo qualche minuto.

“No. Dal momento che sei qui con me, più niente mi interessa. Tu rappresenti l’Italia, Milano, la mia famiglia e tutte quelle nostalgie per le quali, spesso, iamo ore infernali.”

Lorenza sorrise. Raccontò dei suoi acquisti, dei nuovi modelli, del bisogno che aveva di lavorare per realizzare le idee che le erano nate durante il viaggio. Gli tacque solo delle giornate trascorse con Aranga.

“Ma perché vuoi lavorare tanto?”

“Perché è necessario. Soltanto lavorando ci si supera e si vince.”

“Che cosa?”

“Tutto. Anche noi stessi. Si rimane forse più soli, ma si va avanti più sicuri.”

“Ma tu non sei sola. Ricordatene bene.”

Parlarono ancora d’amicizie comuni, di affari lasciati in sospeso con la morte di zia Elena, della casa di Marco che era quasi finita.

“Che cosa hanno detto le tue ragazze in sartoria?”

“Niente d’importante. Gli affari sono andati abbastanza bene, ma non splendidamente. Guai quando manca l’occhio del padrone, come diceva saggiamente zia Elena. Sono state molto gentili e affettuose, anche quelle che un giorno, forse involontariamente, mi hanno fatto del male.”

“Piccolezze di magazzino… perdonabili.”

“Oh, sì! Perché mi hanno portata a questo bel risultato.”

“Quale?”

“Sentirmi come nuova. Tornare in Brasile e ritrovarmi è stato tutt’uno. Ho l’impressione d’essere pronta a plasmare il mio destino. Sono ancora una materia grezza di ottima qualità. Ho il cuore libero…”

“Lorenza!” esclamò lui, come se avesse assistito a un miracolo.

“Sì… García appartiene al ato… La mia ferita s’è chiusa per sempre.”

“Oh, ma allora…”

“Non esistono ‘allora’ condizionati. Esiste l’oggi. Io e il mio lavoro, e un poco anche te, che mi sei veramente caro.”

Quando si strinsero la mano per darsi la buona notte, Marco non voleva andarsene.

“A domani…” lo salutò lei.

“Sì, a domani… a sempre” sperò lui.

Lorenza fuggì nella sua camera senza voltarsi indietro. Ancora non voleva confessare a se stessa che Marco, probabilmente, era l’uomo che poteva regalarle la serenità che da sempre aveva cercato.

‘No, non è amore, ma è tenerezza. Tenerezza…’ continuava a ripetersi.

A letto tentò di dormire. Inutilmente. La vita trascorsa le ritornò in mente a ondate. Percorse a ritroso gli anni. Tutto le sembrava appena vissuto e già trascorso. Soltanto García era un punto nero nel quale non riusciva più a vedere. Non riusciva nemmeno a raffigurarsi il suo viso. ‘Possibile? Fino a ieri credevo che non lo avrei mai dimenticato! E invece.’ Cercò di spiegarsi il mistero senza

riuscirci. Marco si sovrapponeva su tutto e su tutti. Aveva dimostrato di tenere a lei in tutte le occasioni, con pazienza e con dolcezza. Lo rivide agitare le braccia sulla banchina del porto. Risentì la forza protettrice del suo abbraccio affettuoso.

Il sonno finalmente cancellò ogni pensiero dalla sua mente. Aleggiarono, nel buio, solo alcune sue fantasie segrete.

Cap XV

Lorenza riprese la sua vita. La sartoria l’assorbì completamente. La collezione ebbe un successo insperato. Ormai aveva preso il posto di zia Elena e si era radicata saldamente nel cuore delle clienti.

A casa c’era Marco, in sartoria il lavoro. Sapeva però che Marco si meritava l’amore, quello vero, definitivo. Non bisognava né ingannarlo né ingannarsi. Ogni qualvolta ritornava dalla sartoria sembrava ringiovanisse e quando Marco da lontano la salutava, le trasmetteva una sensazione assoluta di serenità.

“Cinema o teatro, Lorenza?” le chiese una sera Marco.

“Sono stanca…”

“Impossibile rinunciare… Al cinema c’è un film di grande classe. A teatro debutta una compagnia italiana.”

“Portami a teatro allora.”

“Ho già prenotato un palco.”

Si gustò lo spettacolo con una gioia inusuale, alimentata dall’orgoglio di essere italiana, come gli straordinari attori che aveva ammirato recitare. Era stata bene. In pace con se stessa e con l’intero mondo. Così quando si trovò in automobile con Marco per ritornare a casa, gli si appoggiò sicura di essere accolta con tenerezza.

Lui l’abbracciò e la baciò delicatamente sugli occhi.

Lorenza fece finta di dormire. Rimasero entrambi in silenzio fino a casa, fino al momento di salutarsi.

“Mi hai fatto are una bella serata… Grazie.”

“Vai subito a letto? È una notte così stellata…”

“È tardi, domattina devo essere presto in sartoria” e lo salutò con la mano, arrossendo.

Lui la trattenne.

“Scusami” disse abbracciandola “ma voglio ricordarti che stasera ti amo ancora di più. E tu sei nelle mie braccia come poco fa… però io ho bisogno… ho bisogno di tenerezza, Lorenza!”

“Anch’io…”

“Vorrei chiederti… una cosa.”

“Che cosa?” Lorenza aveva capito che quella serata avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

“Vuoi essere… vuoi essere mia moglie? …Se tu mi rispondessi eviterei di torturarmi tutta la notte davanti al telefono, col timore di chiamarti, e soffrendo per non sapere osare.”

Lorenza rimase in silenzio. A Marco sembrò lungo come l’eternità.

“Lorenza…!”

Lei gli posò le dita della mano sulle labbra. “Oh… Marco! Oh Marco, non dire altro… Mi hai già detto tanto stanotte…” e lo baciò sulle labbra.

Quando fu di nuovo nella sua camera, sola, spalancò la finestra e sognò a occhi chiusi. Era serena, contenta. Avrebbe sposato Marco. D’altronde era il desiderio di zia Elena e dei suoi genitori. Lui le avrebbe assicurato un futuro, una famiglia alla quale ancorarsi, forse l’avrebbe resa felice.

Si spogliò in fretta e prima di spegnere la luce guardò il telefono sul comodino. Avrebbe voluto adoperarlo e cercare attraverso lo spazio una voce. Di chi? Di un uomo. E quell’uomo non poteva ormai essere che Marco. L’accarezzò, col pensiero, sorridendo. L’indomani ne avrebbero parlato in modo più

approfondito, magari avviato i preparativi.

Il telefono trillò e spezzò il silenzio della notte. L’afferrò tremando e aspettò un istante prima di chiedere chi fosse. Era convinta si trattasse di Marco. A quell’ora, chi altri? Probabilmente la chiamava per dirle ancora una volta che l’amava, che la voleva sposare. Lei gli avrebbe detto di sì. Era stanca di rincorrere un amore ideale che forse non esisteva. Si sarebbe accontentata di una vita tranquilla e serena, senza incognite, senza scossoni, senza avventure…

“Pronto…”

“Sono io, Lorenza…”

All’inizio non riconobbe la voce, anche se le pareva di ricordarla vagamente.

“…sono Dick Fryer.”

Quella voce un giorno le aveva giurato: “In qualunque posto metterai radici, io ti raggiungerò e ti farò felice.”

Capì d’essere giunta al bivio, capì che, ancora una volta, avrebbe preso la strada sbagliata.

L’autrice

Giulia Volpi Nannipieri contro Amalia Liana Negretti, alias Liala. Amalia Liana Negretti contro Giulia Volpi Nannipieri. Le due principali autrici italiane di romanzi d’amore schierate l’una contro l’altra. Ferocemente. Al primo incontro, le due si sorrisero, ma non si piacquero. E nemmeno si piacquero in seguito. Anzi, la loro rivalità divenne leggendaria. Da una parte c’era una ragazza di umili origini, abile con la penna, ma priva di mezzi per potersi imporre nei salotti che contavano (anche se non disdegnava di usare gli uomini che, uno dopo l’altro, le cadevano tra le braccia), dall’altra una bellissima e ricchissima marchesa, abituata ad aprire ogni porta appena lo volesse. Giulia Volpi aveva un pregio: sapeva raccontare storie che a inizio Novecento toglievano il sonno alle lettrici. Firmava i suoi libri con uno pseudonimo, Mura, il soprannome di Maria Nicolaieva Tarnowska, fascinosa contessa russa vissuta negli anni Dieci, processata anche per omicidio, che aveva provocato una serie di duelli mortali e suicidi tra nobili e borghesi.

Giulia Volpi cominciò a scrivere testi per bambini quando era legata ad Alessandro Chiavolini, redattore del «Popolo d’Italia», ma ebbe successo, grazie all’appoggio di un suo amante, Alberto Matarelli, responsabile della Sonzogno editore. Nel 1934, Benito Mussolini censurò personalmente “Sambadù, amore negro”, che narrava la relazione tra un donna bianca e un nero. Era l’epoca dell’invasione dell’Etiopia. Le truppe coloniali cantavano ‘Faccetta nera’. Si poteva scrivere di tutto, anche di amore lesbico, non di rapporti con uomini di colore.

Morì nel 1940, a Lipari, in un incidente aereo.

Fine