La Collana Le Voci dei Classici è una collaborazione il Narratore audiolibri e Smuuks.
Henry James, Il diario di un uomo di cinquant’anni
Versione integrale.
Traduzione a cura della Redazione de il Narratore audiolibri.
Lettura di Mario Massari.
Grafica, copertina e foto ritocco di Clara Esposito.
L’Audio-eBook contiene 5 tracce in formato MP3, 128 Kbps, 44 KHz, Mono, una playlist in formato M3U e il testo integrale in formato EPUB 3. La durata totale è di 1h 13'.
Prima edizione di questo Audio-eBook: Novembre 2014.
Audio-eBook (EPUB 3, 2014) ISBN: 978-88-6816-159-0
eBook (EPUB 3, 2014) ISBN: 978-88-6816-160-6 eBook (MOBI/KF8, 2014) ISBN: 978-88-6816-161-3
Copyright audio © il Narratore S.r.l., Zovencedo (VI), Italia, 2014
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Presentazione
il Narratore audiolibri — casa editrice indipendente che dal 1999 opera per la promozione della lettura e dell’ascolto della lingua e letteratura italiana, all’avanguardia nella proposta di audiolibri digitali di qualità — propone la nuova Collana Le Voci dei Classici in formato Audio-eBook (EPUB 3).
Con questo prodotto digitale avanzato intendiamo avvalorare la tesi del miglioramento dell’apprendimento linguistico, emotivo ed empatico attraverso la lettura+ascolto di libri e audiolibri. Il metodo della lettura+ascolto è facilmente impiegabile su larga scala nelle scuole di ogni ordine e grado per ottenere un significativo incremento della Literacy di un’intera popolazione, in tempi brevi e a costi contenuti.
Questo accade perché con la doppia esposizione (lettura e ascolto in sincronia) si attivano contemporaneamente più processi cerebrali in varie aree del cervello deputate a funzioni diverse di codifica e ricodifica visiva e fonologica, compresi il sistema limbico (centro delle emozioni) e i neuroni specchio.
La doppia esposizione permette l’emergenza di stati di coscienza e di comprensione dei testi letterari molto più raffinati e profondi rispetto alla sola lettura o al solo ascolto.
Questa tesi è ata dalle ricerche sul cervello effettuate negli ultimi anni, e dalle sperimentazioni condotte in classi scolastiche con metodi basati su gruppi sperimentali e gruppi di controllo.
Da queste ricerche scientifiche prendono le mosse anche i nuovi dispositivi di lettura di testi elettronici tecnologicamente avanzati che utilizzano eBooks e audiolibri contemporaneamente (eReader, tablet, smartphone). Questi device ano anche il formato aperto EPUB 3 con nuove funzioni molto importanti per la didattica, soprattutto l’evidenziazione del testo scritto che viene contemporaneamente ascoltato in quel momento.
In un contesto che vede cambiare rapidamente i modi di funzionamento del cervello a causa della profonda immersione nel mondo digitale e telematico (si parla sempre di più, infatti, di generazioni digital native) la lettura diventa un’esperienza multipla e complessa e la lettura+ascolto può essere uno strumento importante per sviluppare l’Information Literacy.
Questa tesi è spiegata, valutata e approfondita dal nostro editore Maurizio Falghera nel suo libro: LETTURA+ASCOLTO. Come migliorare l’apprendimento linguistico, emotivo ed empatico con gli audiolibri, Edizioni Enea, Milano, 2013. Il libro è disponibile anche nelle versioni Audio-eBook (EPUB3), eBook (EPUB3), eBook (MOBI/KF8) e in audiolibro (con PDF allegato): http://www.ilnarratore.com/.
Zovencedo, Italia, Dicembre 2012
Guida all’Audio-eBook
Questo Audio-eBook è proposto in formato EPUB 3, standard aperto per eBook che consente l’inclusione di elementi multimediali come le tracce audio e di funzioni avanzate come l’evidenziazione del frammento di testo correntemente letto dalla voce narrante.
Se ci si vuole immergere solamente nell’ascolto di questo Audio-eBook, è consigliabile toccare il pulsante “Solo ascolto” alla fine di questa Guida, che porterà direttamente all'Indice delle tracce. Ciascuna traccia audio ha un proprio controllo di riproduzione, che consente di avviare, mettere in pausa e scorrere la riproduzione audio. L'Indice delle tracce si presenta come nella seguente figura:
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In questo Audio-eBook è inclusa anche una playlist in formato M3U che consente di ascoltare le tracce audio incluse, con la corretta sequenza dei files audio. Per estrarre le tracce audio e la playlist, è sufficiente eseguire i seguenti i:
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Una guida completa e aggiornata per la fruizione di questo Audio-eBook è consultabile online all'indirizzo: http://www.ilnarratore.com/guida_AudioeBook.html
Buona lettura e buon ascolto!
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il Narratore audiolibri
presenta
Il diario di un uomo di cinquant’anni
di
Henry James
Lettura di
Mario Massari
Una produzione il Narratore audiolibri Zovencedo, Italia, 2012
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Prima Parte
Firenze, 5 aprile 1874
Mi avevano detto che avrei trovato molto cambiata l’Italia: c’è spazio per i mutamenti in ventisette anni. Ma per me ogni cosa è così invariata che mi sembra di rivivere la giovinezza; mi ritornano tutte le impressioni dimenticate di quel tempo incantato. Allora furono piuttosto forti, ma in seguito si sono sbiadite.
Che cosa ne è mai stato? Che succede alle impressioni nei lunghi intervalli della coscienza? Dove vanno a nascondersi? In quali armadi, in quali anfratti inesplorati del nostro essere si annidano? Assomigliano alle righe di una lettera vergata con l’inchiostro simpatico: tenete la lettera al fuoco per un po’ e il grato tepore farà trapelare le parole invisibili. È il tepore di questo sole dorato di Firenze che ricompone il testo della storia d’amore della mia giovinezza, oggi spiegata davanti a me come una nitida pagina bianca e nuova. Ci sono stati momenti in questi ultimi dieci anni nei quali mi sono sentito così sinistramente vecchio, così estenuato ed esaurito che avrei considerato uno scherzo di pessimo gusto un accenno qualsiasi al fatto che fosse ancora in serbo per me questa sensazione di giovinezza. Non durerà comunque; per questo è bene che ne faccia l’uso migliore. Ma confesso di esserne stupito. Ho condotto una vita troppo seria, ma è forse proprio questo che conserva la giovinezza. In ogni caso i miei viaggi mi hanno portato troppo lontano, ho lavorato troppo duramente, ho vissuto in climi brutali e a contatto con persone noiose. Quando un uomo, ormai al suo cinquantaduesimo anno, non si è logorato materialmente – quando è in buona salute, possiede un discreto patrimonio, una coscienza pulita e non un solo parente imbarazzante – suppongo che, per delicatezza, sia da considerarsi come un uomo felice.
Ma io – lo confesso – rifuggo da quest’obbligo. Non sono infelice: non arriverò a dire questo, o almeno a scriverlo. Ma la felicità – una felicità positiva – dovrebbe essere diversa. Chissà se, misurata in qualsiasi modo, sarebbe stata
migliore, nel senso che oggi mi troverei in una situazione migliore. Ma certamente avrebbe portato questa differenza: non mi sarei ridotto, nell’inseguire immagini piacevoli, a dissotterrare un episodio sepolto da più di un quarto di secolo. Avrei trovato gioie – come dire? – più vicine nel tempo. Avrei avuto moglie e figli, non sarei lì lì per commettere – come dicono i si – un atto di infedeltà al presente. Naturalmente è stata una grande fortuna che io abbia avuto una via di fuga, che non abbia compiuto un gesto di clamorosa follia. A prescindere dal o importante che si può fare a venticinque anni dopo una lotta e uno sforzo violenti a prescindere da come la propria condotta possa apparire giustificata dagli eventi, suppongo che rimangano sempre una punta di rimpianto, la percezione di una perdita, latente nella sensazione di essere stati fortunati, la tendenza a chiedersi con struggimento come sarebbe potuto essere.
Triste, in questo caso, tristissimo, senza dubbio, il “come sarebbe potuto essere”; lieto e gradevole, invece, il “come è stato”.
Eppure ci sono una o due domande che potrei chiedermi. Perché, ad esempio, non mi sono mai sposato? Perché non ho mai provato per nessuna donna quello che provai per lei? Ah, perché i monti sono azzurri e il sole è tiepido? Una felicità insidiata da congetture impertinenti – ecco lo scotto.
6 aprile
Sapevo che non sarebbe durato; sta già dileguandosi. Ma ho trascorso una giornata deliziosa; ho gironzolato dappertutto. Ogni cosa richiama alla memoria un’altra e nello stesso tempo perdura nel ricordo; la mia immaginazione ritorna al punto di partenza dopo aver compiuto un ampio cerchio. C’è nell’aria quella fragranza che ricordo bene; i fiori, come un tempo, sono raccolti in grandi fasci e mazzi lungo tutta la base scabra di Palazzo Strozzi.
Per un’ora ho vagato nel Giardino dei Boboli; ci eravamo andati insieme numerose volte. Rammentavo quelle giornate a una a una; mi sembravano ieri. Ho ritrovato l’angolo dove sempre sceglieva di sedersi – la panchina di marmo, tiepida sotto il sole, davanti alla cortina del leccio, accanto all’esuberante statua di Pomona. Il luogo è rimasto intatto, tranne la povera Pomona che ha perduto una delle sue dita affusolate. Sono rimasto seduto là per mezz’ora; strano quanto mi sembrasse vicina. Il luogo era deserto, cioè era pregno di lei. Ascoltavo a occhi chiusi; riuscivo quasi a cogliere il fruscio della sua veste sulla ghiaia. Perché facciamo tante storie sulla morte? Che cos’è in fondo se non una sorta di perfezionamento della vita? Morì dieci anni fa, eppure, mentre sedevo nella quiete assolata, era una presenza palpabile, percettibile. Da lì mi sono recato nella galleria del palazzo e per un’ora mi sono aggirato di stanza in stanza. Gli stessi grandi dipinti pendevano negli stessi punti; sopra si inarcavano gli stessi cupi affreschi. Due volte, un tempo, mi ero recato lì con lei; aveva una grande sensibilità artistica. Ho indugiato a lungo davanti alla Madonna della Seggiola. Il volto della Vergine non somiglia affatto al suo, eppure me la ricordava. Ma tutto me la richiama alla memoria. Una volta rimanemmo a osservare il dipinto per mezz’ora; rammento ogni sua parola.
8 aprile
Ieri ero di umore nero – nero e stufo, e questa mattina, levandomi, avevo una mezza intenzione di andarmene da Firenze. Ma, risalendo la strada lungo l’Arno, guardando in su e in giù – il fiume giallo e le colline viola -, ho deciso di rimanere, anzi non ho deciso nulla. Mi sono limitato a osservare la bellezza di Firenze e, prima di esserne sazio, ormai di nuovo di buon umore, era troppo tardi per partire per Roma. Ho gironzolato sul lungofiume, e poco dopo è accaduto qualcosa che mi ha ricompensato per essere rimasto.
Mi sono fermato davanti a una gioielleria che in vetrina esponeva molti oggetti di mosaico; sono rimasto lì per qualche minuto – chissà perché, visto che non so apprezzare il mosaico. A un tratto mi è venuta accanto una ragazzina – una ragazzina dalle fattezze italiane, arruffata, che reggeva un cesto. Mi sono voltato per allontanarmi, ma, nel girarmi, i miei occhi sono caduti sul cesto. Era coperto da un tovagliolo e sul tovagliolo era appuntato un pezzo di carta con sopra scritto un indirizzo. L’indirizzo ha trattenuto il mio sguardo – era un nome che conoscevo. Era scritto con una calligrafia molto chiara – evidentemente da uno scrivano che compensava con lo zelo la mancanza di bravura. Contessa SalviScarabelli, Via Ghibellina – diceva l’intestazione. L’ho guardata per un attimo in preda a un’improvvisa emozione. Subito dopo la ragazzina, percependo il mio interesse, ha levato verso di me con aria interrogativa due timidi occhi castani.
«Porti il cesto alla contessa Salvi?» ho chiesto.
La ragazzina mi ha fissato. «Alla contessa Scarabelli».
«Conosci la contessa?».
«Conoscerla?» ha mormorato la ragazzina con lieve sgomento.
«La vedi, voglio dire?».
«Sì, la vedo». E poi, dopo un istante, con un subitaneo lieve sorriso: «È bella!», disse. Era bella anche lei mentre lo diceva. «Proprio così; ed è bionda o bruna?».
La bimba ha continuato a fissarmi. «Bionda, bionda», ha risposto guardando intorno a sé il sole dorato a mo’ di paragone.
«Ed è giovane?».
«Non è giovane… come me, ma non è vecchia… come…».
«Come me, eh? È sposata?».
La ragazzina cominciava a farsi prudente. «Non ho mai visto il signor conte».
«Abita in via Ghibellina?».
«Sicuro. In un palazzo bellissimo».
Avevo ancora una domanda da farle e l’ho messa in rilievo con certe monete di rame: «Dimmi… è buona?».
La ragazzina ha osservato per un istante quanto teneva nel piccolo pugno scuro. «Siete voi a essere buono».
«Ah, ma la contessa?», ho insistito.
La mia informatrice ha abbassato gli occhioni castani con un’aria di riflessione coscienziosa, impalpabilmente strana. «A me sembra di sì», ha risposto alla fine levando lo sguardo.
«Allora lo sarà di sicuro perché sei molto intelligente per la tua età». E, dopo aver espresso questo complimento, mi sono allontanato lasciando la ragazzina a contare i soldi.
Sono ritornato in albergo stupito per come avevo appreso alcune cose sulla contessa Salvi-Scarabelli.
Sulla soglia ho trovato l’albergatore e, accanto a lui, intento a parlargli, un giovane che ho subito intuito essere un mio compatriota.
«Chissà se potete darmi un’informazione», ho detto all’albergatore. «Sapete
nulla del conte Salvi-Scarabelli?».
Con gli occhi bassi, guardandosi gli stivali, lentamente ha levato le spalle con un sorriso malinconico:
«Mi rammarico, gentile signore, …».
«Il nome non vi dice niente?».
«Il nome lo conosco, certamente. Ma non conosco il signore».
Mi sono accorto che la domanda aveva attirato l’attenzione del giovane inglese, il quale ha volto su di me uno sguardo di vivo interesse. Evidentemente quello che ha visto lo ha soddisfatto perché subito ha deciso di parlare.
«Il conte Scarabelli è morto», ha detto con voce grave.
L’ho fissato per un attimo; era un giovane simpatico. «La vedova vive in via Ghibellina?», ho osservato.
«Ritengo che si chiami così la via». Era un bel giovane inglese, ma anche un tipo curioso. Si chiedeva chi fossi e che cosa volessi, e mi concesse l’onore di farmi capire che, su questi due punti, avevo un aspetto rassicurante.
Ma, come si addiceva, esitava a parlare di una signora di sua conoscenza con un perfetto sconosciuto e non aveva l’arte di nascondere tale esitazione. Mi è parso subito singolare che, sebbene egli mi considerasse un perfetto sconosciuto, io non contraccambiassi quel sentimento. Forse lo avevo già visto prima, o forse ero rimasto colpito dalla sua faccia giovane e gradevole – ad ogni modo mi sono sentito, come dicono qui, in sintonia con lui. Se l’ho già incontrato, non ricordo l’occasione, e neppure, a quanto pare, se la ricorda lui. Ne concludo che si tratti soltanto di quelle emozioni che provo da tre giorni a questa parte. È stata quell’emozione a farmi comportare come se lo conoscessi da tempo.
«Conoscete la contessa Salvi?» ho chiesto.
Mi ha guardato per un po’, quindi, senza risentirsi della libertà della mia domanda, ha detto: «La contessa Scarabelli, volete dire?».
«Sì, è la figlia».
«La figlia è una bambina».
«Sarà grande ormai. Deve avere – lasciatemi pensare circa trent’anni».
«Di chi state parlando?». Il mio giovane inglese cominciava a sorridere.
«Mi riferivo alla figlia», ho detto consapevole del suo sorriso. «Ma pensavo alla madre».
«Alla madre?».
«A una persona che conoscevo ventisette anni fa – la donna più affascinante che abbia mai incontrato.
Era la contessa Salvi – abitava in una bellissima casa antica in via Ghibellina».
«Una bellissima casa antica!», ha ripetuto il mio giovane inglese.
«Aveva una bambina, e la bimba era biondissima come la madre, e madre e figlia avevano lo stesso nome: Bianca». Mi sono fermato per guardare il mio compagno che è arrossito lievemente. «Bianca Salvi era la donna più affascinante del mondo». È arrossito un po’ di più, e io gli ho posto una mano sulla spalla. «Lo sapete perché vi racconto tutto questo? Perché mi ricordate quello che ero io quando la conobbi – quando l’amavo». Il mio povero giovanotto inglese mi ha fissato con una specie di sguardo imbarazzato e affascinato, ed io ho proseguito: «Ecco perché vi racconto tutto questo, ma voi la riterrete una strana ragione. Mi rammentate un me stesso più giovane. Non risentitevi – ero un giovanotto affascinante. Così pensava la contessa Salvi. La figlia pensa le stesse cose di voi».
Immediatamente, con gesto istintivo, ha levato la mano sul mio braccio. «Davvero?».
«Ah, mi assomigliate in modo sorprendente!», ho detto ridendo. «Era proprio il mio stato d’animo di allora. Con tutte le forze volevo riuscirle gradito». Ha lasciato cadere la mano, volgendo lo sguardo lontano e sorridendo, ma con un’aria di confusione ingenua che ha stuzzicato la mia curiosità su di lui. «Non
sapete che cosa pensare di me», ho aggiunto. «Non capite perché uno sconosciuto debba all’improvviso rivolgervi la parola in questo modo con la pretesa di leggervi nei pensieri. Senza dubbio mi considererete un po’ matto. Forse sono eccentrico, ma non fino a questo punto. Sono vissuto in giro per il mondo seguendo la mia professione che è quella del soldato. Sono stato in India, in Africa, in Canada e ho vissuto molto da solo. Questo induce le persone, credo, a improvvisi sfoghi confidenziali. Una settimana fa sono arrivato in Italia, dove avevo trascorso sei mesi, quando avevo la vostra età. Sono venuto subito a Firenze – impaziente di rivedere la città in nome dei ricordi. Mi sono sciamati addosso fittissimi. Mi sono preso la libertà di accennarvene». Il giovanotto ha fatto un lieve inchino, in silenzio, quasi spinto da un improvviso rispetto. Raddrizzandosi, ha guardato per un attimo in lontananza il fiume e i monti. «È molto bello», ho detto.
«Oh, è incantevole», ha mormorato.
«Così ero solito parlare. Ma per voi non significa nulla».
Mi ha lanciato un’altra occhiata. «Al contrario, mi piace ascoltarvi».
«Facciamo una eggiata allora. Se state anche voi in questa locanda, siamo compagni di viaggio. Cammineremo lungo l’Arno fino alle Cascine. Ci sono molte cose di lei che mi piacerebbe chiedervi». Il mio giovanotto ha assentito con un’aria di fiducia quasi filiale, e per un’ora abbiamo gironzolato lungo il fiume e gli ombrosi vialetti di quella campagna incolta.
Abbiamo parlato a lungo: non soltanto sono ritornato qui, è l’intera situazione che si ripete.
«Vi piace molto l’Italia?» ho chiesto.
Ha avuto un attimo di esitazione. «Indicibilmente».
«Proprio così; non riuscivo a esprimerlo neppure io. Mi adoperavo per farlo, ero solito scrivere versi.
Quando parlavo dell’Italia, diventavo ridicolo».
«Anch’io sono ridicolo», ha detto il mio compagno.
«Mio caro ragazzo, voi non siete ridicolo; noi siamo due persone ragionevoli, superiori».
«Per chi viene la prima volta – come è per me – è una rivelazione».
«Oh, ricordo bene; non si dimentica mai. È un’introduzione alla bellezza».
«Deve essere un grande piacere ritornarvi», ha detto il mio giovane amico.
«Sì, per fortuna la bellezza è sempre qui. In quale forma la preferite?».
Il mio compagno è parso un po’ confuso e alla fine ha detto: «Mi piacciono molto i dipinti».
«Anch’io. E fra questi quali preferite?».
«Oh, moltissimi».
«Anche per me era così, ma alcuni erano prediletti».
Il giovane ancora una volta ha avuto una breve esitazione, quindi ha ammesso che i pittori da lui amati più di tutti gli altri erano i primitivi fiorentini.
Ne sono stato così colpito che mi sono fermato bruscamente.
«Esattamente il mio gusto!». E, ando la mano sotto il suo braccio, ho ripreso a camminare con lui.
Ci siamo seduti su una vecchia panchina di pietra alle Cascine; sopra di noi, ascoltando le nostre parole, si ergeva un solenne Ermes, dallo sguardo vuoto e le rughe accentuate dalla polvere del tempo.
«La contessa Salvi morì dieci anni fa», ho detto.
Il mio compagno ha ammesso di averlo sentito dire dalla figlia.
«Si risposò dopo che l’ebbi conosciuta», ho aggiunto. «Il conte Salvi era morto prima che la conoscessi – un paio d’anni dopo il matrimonio».
«Sì, l’ho sentito dire».
«Che altro avete sentito?».
Il mio compagno mi ha fissato; era evidente che non sapeva altro.
«Era una donna molto interessante; ci sono moltissime cose da dire su di lei. Un giorno, forse, ve le racconterò. Anche la figlia è così affascinante?».
«Dimenticate che non ho conosciuto la madre», ha detto il giovane sorridendo.
«Vero. Continuo a fare confusione. La figlia… da quanto tempo la conoscete?».
«Soltanto da quando sono qui. Pochissimo tempo».
«Una settimana?».
Per un attimo non ha detto nulla. «Un mese».
«Proprio la risposta che avrei dato io. Una settimana, un mese – è lo stesso per me».
«Penso che sia più di un mese», ha detto il giovane.
«Sono probabilmente sei mesi. Come l’avete conosciuta?».
«Per mezzo di una lettera, una presentazione che mi diede un amico in Inghilterra».
«L’analogia è perfetta. Ma l’amico che mi aveva dato la lettera per Madame de Salvi è morto da molti anni. Anche lui l’ammirava moltissimo. Non so come non mi sia mai venuto in mente che forse sua figlia abitava a Firenze. In qualche modo davo per scontato che fosse tutto finito. Non pensavo alla bambina; non sapevo quello che ne era stato di lei. Ieri, ando davanti al palazzo, ho visto che era abitato, ma davo per scontato che fosse ato di mano».
«La contessa Scarabelli lo portò al marito quale suo contributo al matrimonio», ha detto il mio amico.
«Mi auguro che lo abbia apprezzato. C’è una fontana nel cortile e più in là un incantevole vecchio giardino. Il salottino della contessa si affaccia su quel giardino. La scalinata è di marmo bianco; là, dove curva, nella parete, è infisso un medaglione d i Luca della Robbia. Prima di entrare nel salotto, si rimane per
un momento in un vasto spazio con un soffitto a volta; il pavimento è di piastrelle nude; i mobili sono soltanto tre sedie e sulle pareti intorno pendono arazzi sbiaditi. Nel salotto, sopra il caminetto, c’è un superbo Andrea del Sarto. I mobili sono tappezzati di un colore verde mare pallido».
Il mio compagno ascoltava.
«L’Andrea del Sarto è sempre lì, magnifico. Ma i mobili sono in rosso pallido».
«Ah, hanno cambiato allora… in ventisette anni».
«E c’è un ritratto di Madame de Salvi», ha proseguito il mio amico.
Sono rimasto in silenzio per un attimo. «Mi piacerebbe vederlo».
Ha taciuto anche lui; quindi ha chiesto: «Perché non andate a vederlo? Se conoscevate sua madre così bene, perché non fate visita alla figlia?».
«Quello che mi avete detto mi spaventa».
«Che cosa vi ho detto da spaventarvi?».
Ho guardato per un po’ il suo volto ingenuo. «La madre era una donna molto
pericolosa».
Il giovane inglese ha ripreso ad arrossire. «Non così la figlia».
«Ne siete sicuro?».
Non ha detto di esserne sicuro, ma subito ha chiesto in che modo fosse stata pericolosa la contessa Salvi.
«Non chiedetemelo perché, dopo tutto, desidero ricordare soltanto il buono che era in lei». Nel rientrare l’ho pregato di rendermi il servizio di accennare il mio nome alla sua amica, di dirle che avevo conosciuto sua madre e che le chiedevo il permesso di andarla a trovare.
Ho rivisto quel povero ragazzo una mezza dozzina di volte, un giovanotto davvero amabile. Ai miei occhi continua a rappresentare, in modo straordinario, il me stesso giovane; la corrispondenza è perfetta sotto tutti i punti di vista, tranne che è un ragazzo migliore di quanto non sia stato io.
È evidente che nutre un acuto interesse per la contessa, e con lei conduce la stessa identica vita che conducevo io con Madame de Salvi. Va a farle visita ogni sera trattenendosi fino a notte inoltrata; questi fiorentini fanno ore incredibili. Ricordo che, verso le tre del mattino, Madame de Salvi era solita mettermi alla porta. «Su, su», diceva, «è ora di andare. Se vi fermaste ancora, la gente potrebbe fare chiacchiere». Non so a che ora rientri, ma immagino che le serate gli sembrino brevi così come apparivano a me. Oggi mi ha portato un messaggio della contessa: un discorsetto pieno di grazia. Ricordava di aver sentito spesso sua madre parlare di me – l’amico inglese, così mi chiamava. Le erano cari tutti
gli amici di sua madre e pregava di avere l’onore di una mia visita. Era sempre a casa di sera. Il povero giovane Stanmer – è degli Stanmer del Devonshire, un’ottima famiglia – ripeté il discorso parola per parola, e naturalmente per lui non ha nessuna importanza che un povero soldato provato, con i capelli bianchi e abbastanza anni da essere suo padre, faccia visita alla sua innamorata. Ma ricordo quello che voleva dire per me quando andavano a trovarla altri uomini: su questo punto siamo diversi. Ma è soltanto perché sono così vecchio. A venticinque anni non avrei avuto paura di un me stesso di cinquantadue. Camerino aveva trentaquattro anni… e poi gli altri! Era sempre a casa alla sera, e arrivavano. C’erano antichi nomi di antiche casate fiorentine. Ma mi permetteva di trattenermi dopo che se ne erano andati tutti; giudicava altrettanto degna una vecchia casata inglese. Che straordinaria civetta!… Ma basta così, come era solita dire. Volevo andare stasera a Casa Salvi, ma non me la sono sentita. Non so che cosa mi spaventi. Un tempo mi affrettavo ad andare. Ho paura, credo, dell’aspetto del luogo, delle vecchie stanze, delle vecchie pareti. Andrò domani sera. Ho perfino paura degli echi.
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Seconda Parte
10 aprile
Assomiglia alla madre in modo straordinario. Entrando, sono rimasto a fissarla, attonito. Sono appena ritornato; è mezzanotte ata; ho trascorso tutta la serata in Casa Salvi. Fa caldo, la finestra è aperta; posso guardare il fiume che scivola sotto la luce delle stelle. Tanto tempo fa, quando rientravo, ero solito guardare fuori. Sulla collina di fronte ci sono gli stessi cipressi.
Il povero giovane Stanmer era lì, e c’erano anche tre o quattro altri ammiratori; si sono levati, tutti in piedi, vedendomi entrare. Avevano parlato di me, immagino, e si percepiva la curiosità. Ma perché parlare di me?
C’erano alcuni giovani; nessuno di loro era della mia generazione. Ma la somiglianza con sua madre è sorprendente; non riuscivo a darmene pace. Bella come sua madre, eppure con gli stessi difetti nel viso; la stessa testa perfetta, la stessa fronte, gli stessi occhi partecipi, quasi pietosi.
Il volto ha la stessa caratteristica del volto di sua madre; fra tutti i visi che ho conosciuto era quello che più rapidamente di ogni altro ava da un’espressione di estrema gaiezza a una di estrema quiete.
Sui suoi lineamenti la quiete suggeriva la tristezza e, mentre si osservava quell’espressione con una specie di sgomento, chiedendosi quale tragico segreto simboleggiasse, improvviso si illuminava di un radioso sorriso italiano. Stasera, tuttavia, i sorrisi della contessa Scarabelli erano quasi ininterrotti. Mi ha accolto con grazia squisita, come era solita fare sua madre; il giovane Stanmer sedeva nell’angolo del sofà, come era stata mia abitudine, osservandola mentre lei
parlava. Sottile, con i capelli biondissimi, indossava un abito nero lieve e vaporoso: un particolare che completava la somiglianza. La casa, le stanze sono quasi esattamente le stesse; forse sono mutati alcuni particolari, ma non incidono sull’impressione generale. Gli stessi preziosi dipinti pendono alle pareti del salone; lo stesso grande affresco scuro sulla volta del soffitto. La figlia non è più ricca, credo, di quanto fosse sua madre. I mobili sono logori e sbiaditi sono stato ammesso da un solitario domestico che davanti a me, su per la solenne scalinata di marmo, reggeva un fioco lume.
«Ho sentito spesso parlare di voi», ha detto la contessa, mentre le stavo seduto accanto. «Mia madre vi nominava spesso».
«Spesso? Ne sono sorpreso».
«Perché vi sorprende? Non eravate buoni amici?».
«Sì, per qualche tempo… ottimi amici. Ma ero certo che mi avesse dimenticato».
«Non dimenticò mai», ha detto la contessa guardandomi intenta e sorridendo. «Non era quel tipo di donna».
«Da nessun punto di vista assomigliava alla maggior parte delle donne», ho dichiarato.
«Era incantevole», ha esclamato la contessa facendo frusciare il ventaglio nell’aprirlo. «Ho sempre avuto una grande curiosità di conoscervi. Mi ero fatta
un’idea di voi».
«Buona, mi auguro».
Mi ha guardato ridendo, senza rispondere: lo stesso trucco di sua madre.
«“Il mio inglese” era solita chiamarvi, “il mio inglese”».
«Mi auguro che abbia parlato di me con bontà», ho insistito.
Continuando a ridere, la contessa si è stretta leggermente nelle spalle, bilanciando la mano avanti e indietro. «Così, così; ho sempre pensato che ci fosse stato un litigio fra voi. Non vi spiace se sono tanto schietta, no?».
«Ne sono deliziato; mi ricorda vostra madre».
«Me lo dicono tutti. Ma non sono brillante come lei. Ve ne accorgerete da voi».
«Queste parole completano la somiglianza. Fingeva sempre di non essere brillante, in realtà…».
«In realtà era un angelo, eh? Per sfuggire a pericolosi confronti ammetterò allora di essere brillante.
Così ci sarà una differenza. Ma parliamo di voi. Voi siete molto – come dire? – molto eccentrico».
«È quello che vi ha detto vostra madre?».
«Parlava in verità di voi come di un grande originale. Ma non sono tutti eccentrici gli inglesi? Tutti tranne uno!». E la contessa indicò il povero Stanmer nel suo angolino sul divano.
«Oh, lo so bene quello che è».
«Docile come un agnello… come tutti gli altri», esclamò la contessa.
«Come tutti gli altri… sì. È innamorato di voi».
Mi ha guardato con improvvisa gravità. «Non ho obiezioni se parlate così degli altri, ma ne ho se vi riferite a lui».
«In questo si distingue», ho proseguito. «Ha paura di voi».
Con un subitaneo sorriso ha volto il viso verso Stanmer. Si era accorto che parlavamo di lui e, arrossendo, si è alzato per avvicinarsi a noi.
«Mi piacciono gli uomini che non temono nulla», ha detto la nostra padrona di casa.
«Lo so quello che volete», ho aggiunto rivolto a Stanmer. «Volete sapere quello che dice di voi la signora contessa».
Stanmer l’ha guardata negli occhi con aria grave. «Non me ne importa nulla di quello che dice».
«Fatti l’uno per l’altra. La signora contessa dice che non gliene importa nulla di quello che pensate voi», ho risposto.
«Riconosco lo stile della contessa!», ha esclamato Stanmer allontanandosi.
«Si sarebbe portati a credere che vogliate fare scoppiare una lite fra noi».
L’ho guardato mentre si allontanava verso un’altra parte del salone; fermo davanti all’Andrea del Sarto, è rimasto a guardarlo con gli occhi levati. Ma non lo vedeva; ascoltava quello che avremmo potuto dire. Spesso avevo assunto anch’io quello stesso atteggiamento. «Non riesce a litigare con voi, proprio come io non riuscivo a litigare con vostra madre».
«Ma voi litigaste. Fra voi accadde qualcosa di doloroso».
«Sì, fu doloroso, ma non fu una lite. Un giorno me ne andai e non la vidi più. Ecco tutto».
La contessa mi ha scrutato con aria grave. «Come lo chiama quando un uomo si comporta così?».
«Dipende dalla situazione».
«A volte si tratta di lacheté», ha detto in se.
«Sì, e a volte di un atto di saggezza».
«E a volte di un errore».
«Non fu un errore nel mio caso». Ho scosso la testa.
Ha ripreso a ridere. «Caro signore, voi siete un grande originale. Che cosa vi aveva fatto la mia povera mamma?».
Ho guardato il nostro giovanotto inglese che, volgendoci le spalle, fissava ancora il dipinto. «Ve lo dirò un’altra volta».
«Non mancherò di ricordarvelo; sono curiosissima di sapere». Ha aperto e
chiuso il ventaglio un paio di volte, sempre con lo sguardo su di me.
Che occhi hanno! «Ditemi», ha proseguito, «se mi consentite di farvi una domanda indiscreta: siete sposato?».
«No, signora contessa».
«Non è almeno questo un errore?».
«Ho un’aria molto infelice?».
Ha chinato un pochino la testa di lato. «Per essere un inglese… no!».
«Ah, siete perspicace come vostra madre», ho commentato ridendo.
«Mi dicono che siete un grande soldato», ha proseguito. «Siete vissuto in India. È stato molto generoso da parte vostra, venendo da tanto lontano, ricordarvi della nostra piccola, cara Italia».
«Si ricorda sempre l’Italia. La distanza non conta. Ma ne ricordai con vivezza il giorno in cui appresi la notizia della morte di vostra madre».
«Un grande dolore! Non a giorno che non la pianga. Ma che vuole? È una
santa in paradiso».
«Sicuro », ho risposto e per un po’ sono rimasto con gli occhi bassi. «Ma raccontatemi di voi, cara signora», ho chiesto alla fine levando lo sguardo. «Anche voi avete avuto il dolore di perdere il marito».
«Sono una povera vedova, come vedete. Che vuole? Mio marito morì dopo tre anni di matrimonio».
Sono rimasto in attesa di sentirla dire che anche il defunto conte Scarabelli era un santo in paradiso, ma ho atteso invano.
«Lo stesso destino del vostro illustre padre».
«Sì, morì giovane anche lui. Non posso dire di averlo conosciuto; avevo l’età che ha oggi mia figlia.
Lo piango ancora di più per questo».
Sono rimasto di nuovo in silenzio per un attimo.
«Fu in India», ho aggiunto poco dopo, «che venni a sapere del secondo matrimonio di vostra madre».
La contessa ha alzato le sopracciglia.
«In India allora si viene a sapere tutto! La notizia vi rallegrò?».
«Poiché me lo chiedete… no».
«Lo capisco», ha osservato la contessa guardando il ventaglio aperto. «Non mi risposerò in quel modo».
«È quello che diceva vostra madre», mi sono azzardato a osservare.
Non era offesa, ma, levandosi, è rimasta a fissarmi per un istante.
«Non ve ne sareste dovuto andare!», ha esclamato.
Sono rimasto per un’altra ora; è una casa molto piacevole. Due o tre degli uomini lì convenuti avevano un’aria di grande urbanità e intelligenza; uno di loro, un maggiore del genio, mi ha fornito in profusione informazioni sulla nuova organizzazione dell’esercito italiano.
Mentre parlava, io, tuttavia, osservavo la padrona di casa, intenta a discorrere con gli altri e assai poco – ho notato – con il suo giovane inglese.
È affascinante, piena di franchezza e libertà, con quella inimitabile disinvoltura che sarebbe volgare in una donna inglese e che in lei è soltanto la perfezione di un’apparente spontaneità. Ma, pur con tutta la sua spontaneità, è pungente come la punta di uno spillo e sa benissimo quello che vuole. Se non è addirittura una consumata civetta… Che cosa aveva in mente dicendo che non me ne sarei dovuto andare? Il povero piccolo Stanmer non se n’è andato. L’ho lasciato lì a mezzanotte.
12 aprile
Lo trovai seduto nella chiesa di Santa Croce dove ero finito per sfuggire al sole cocente.
Nella navata indugiava una fresca penombra; se ne stava con lo sguardo fisso sul fulgore delle candele dell’altare maggiore, intento a pensare – ne sono certo – alla sua incomparabile contessa. Mi sedetti accanto a lui e, dopo un certo tempo, quasi a evitare l’impressione di essere impaziente, mi chiese se avessi gradito la visita a Casa Salvi e che cosa ne pensassi della padrona.
«Penso moltissime cose, ma ve ne dirò una sola. È una sirena tentatrice. Sentirete il resto quando usciremo dalla chiesa».
«Tentatrice?», ripeté Stanmer guardandomi in tralìce.
È un giovanotto molto ingenuo, ma chi sono io per biasimarlo?
«Un’incantatrice», dissi, «una maliarda!».
Si volse fissando le candele dell’altare.
«Un’artista… un’attrice», proseguii piuttosto brutalmente.
Mi scoccò un’altra occhiata.
«Penso che mi stiate già dicendo tutto».
«No, no, c’è dell’altro». E per un lungo intervallo rimanemmo in silenzio.
Quando alla fine propose di andarcene, uscimmo nella strada dove le ombre avevano cominciato ad allungarsi.
«Non capisco quello che intendete dire definendola un’attrice», disse sulla strada del ritorno.
«Immagino di no. Neppure io l’avrei capito, se qualcuno me l’avesse detto».
«State pensando alla madre. Perché la riportate sempre nella conversazione?».
«Mio caro ragazzo, l’analogia è grandissima; mi si impone di prepotenza alla mente».
Fermandosi, rimase a guardarmi con il suo volto giovane, perplesso. Pensai che avrebbe esclamato:
“Al diavolo l’analogia!”, ma dopo un attimo disse invece:
«Che cosa prova?».
«Forse nulla, ma suggerisce molte cose».
«Siate così buono da indicarne qualcuna», disse mentre riprendevamo a camminare.
«Voi stesso non vi fidate di lei», cominciai.
«Non c’entra… continuate con l’analogia».
«C’entra. Siete molto innamorato di lei».
«Anche questo c’entra?».
«Sì, come vi ho detto prima. Siete innamorato di lei e non riuscite a capirla. Proprio come accadeva a me con Madame Salvi».
«Anche lei era una tentatrice, un’attrice, un’artista e tutto il resto?».
«Era la donna più leggera che abbia mai conosciuto, la più pericolosa perché la più squisita».
«Intendete allora dire che la figlia è una squisita donna leggera?».
«Sì, ne sono convinto».
Per qualche attimo Stanmer proseguì in silenzio.
«Visto che mi considerate un… grande ammiratore della contessa», disse alla fine, «mi sorprende che ne parliate con tanta libertà».
Ammisi di esserne sorpreso io stesso. «Per l’interesse che ho per voi, amico mio».
«Ve ne sono immensamente obbligato!», disse il povero ragazzo.
«Naturalmente non siete contento. Ovvero, vi piace il mio interesse – non so come potrebbe non esservi gradito ma non vi piace la mia libertà. È logico, ma, caro giovane amico, io voglio soltanto aiutarvi. Se – ormai tanti anni fa qualcuno mi avesse parlato come io parlo a voi, certamente lo avrei considerato, di primo acchito, un gran bruto. Ma, dopo qualche tempo, gliene sarei stato grato… avrei capito che desiderava aiutarmi».
«Mi sembra che siate stato molto bravo ad aiutare voi stesso. Mi state dicendo di essere fuggito».
«Sì, ma a prezzo di infinita perplessità… di acuta sofferenza, potrei chiamarla. Sarei lieto di risparmiarvi tutto questo».
«Posso soltanto ripetere… che è un gesto molto generoso da parte vostra».
«Non ripetetelo troppo spesso, altrimenti comincerò a credere che non lo pensiate».
«Penso, a ogni modo, che vi stiate assumendo una grandissima responsabilità cercando di distogliere un uomo da una donna che – egli ne è convinto – può farlo molto felice».
Lo afferrai per il braccio e ci fermammo, continuando a parlare come due fiorentini.
«Desiderate sposarla?».
Distolse lo sguardo senza incontrare il mio. «È una grande responsabilità», ripeté.
«Santo cielo! Io desideravo sposare la madre! Siete nella mia identica situazione».
«Non vi sembra di forzare un bel po’ l’analogia?», chiese il povero Stanmer.
«Un po’ più, un po’ meno, non fa differenza. Secondo me, voi siete nei miei stessi panni. Ma, naturalmente, vi lascerò così acconciato, se è questo il vostro desiderio e vi porgerò mille scuse, se volete».
Da qualche tempo guardava altrove, ma ora lentamente volse il viso a incontrare i miei occhi. «Siete andato troppo in là per ritornare sui vostri i: che cosa sapete della contessa?».
«Su questa… nulla. Ma sull’altra…».
«Non m’importa dell’altra!».
«Mio caro amico, sono madre e figlia… sembrano due madonne di Andrea».
«Se si assomigliano, allora vi siete sbagliato sul conto della madre, ecco tutto».
Lo presi per il braccio e proseguimmo; non sembrava che ci fosse una risposta adeguata a quell’accusa. «Il vostro stato d’animo mi riporta alla memoria il mio in tutto e per tutto», dissi poco dopo. «L’ammirate… l’adorate, eppure segretamente ne diffidate. Siete incantato dal fascino della sua persona, dalla sua grazia, dal suo spirito, da tutto, eppure nel vostro cuore alberga la paura».
«Paura?».
«Affiora sempre la diffidenza che nutrite; non potete liberarvi dal sospetto che, in fondo, sia una donna dura e crudele, e provereste un immenso sollievo se qualcuno vi convincesse che i vostri sospetti sono giusti».
Stanmer non diede una risposta diretta, ma prima che raggiungessimo l’albergo, disse: «Che cosa avete saputo su sua madre?».
«È una storia terribile».
Mi guardò di traverso. «Che cosa fece?».
«Venite stasera nella mia stanza e ve lo dirò».
Sarebbe venuto, disse, ma non venne. Proprio il comportamento che avrei tenuto io!
14 aprile
Ritornato, ieri sera, a Casa Salvi, vi ritrovai la stessa piccola cerchia di persone con qualche signora in più. C’era Stanmer che si accaniva a parlare con una di loro, ma riuscendovi assai male, ne sono certo. La contessa… beh, la contessa era meravigliosa. Mi accolse quasi fossi suo amico da dieci anni, un amico con il quale il tono familiare non avrebbe peccato di scarsa cerimoniosità. Mi fece sedere accanto a sé e mi pose una dozzina di domande sulla salute e il lavoro.
«Vivo nel ato», dissi. «Visito le gallerie, mi reco nei vecchi luoghi, nelle chiese. Oggi ho trascorso un’ora nella cappella di Michelangelo a San Lorenzo».
«Sì, è il ato. Sono cose molto vecchie».
«Risalgono a ventisette anni fa».
«Ventisette? Altro!».
«Mi riferisco al mio ato. Visitai con vostra madre molti di quei posti».
«I quadri sono bellissimi», mormorò la contessa lanciando un’occhiata a Stanmer.
«Siete andata a vederli di recente? Avete visitato le gallerie con lui?».
Esitò un attimo sorridendo. «Mi sembra una domanda un pochino impertinente. Ma voi siete fatto così, credo».
«Un pochino impertinente? No, mai. Come ho detto, vostra madre mi fece più di una volta l’onore di accompagnarmi agli Uffizi».
«Mia madre deve essere stata molto buona con voi».
«Così mi pareva a quel tempo».
«Soltanto a quel tempo?».
«Anche ora, se preferite».
«Fece dei sacrifici».
«Sacrifici, cara signora? Era liberissima. Il vostro compianto padre era morto… e vostra madre non aveva ancora contratto il secondo matrimonio».
«Se intendeva risposarsi, aveva ancora più motivi per essere cauta».
La guardai per un istante; i suoi occhi incontrarono i miei al di sopra del ventaglio. «Voi siete molto cauta?», chiesi.
Lasciò cadere il ventaglio con una certa violenza. «Sì, siete proprio impertinente!».
«No. Ricordate che ho abbastanza anni per essere vostro padre, che vi conobbi quando avevate appena tre anni. Mi è lecito rivolgervi queste domande. Ma avete ragione: si deve rendere giustizia a vostra madre. Pensava certamente di risposarsi».
«Non l’avete perdonata!», disse la contessa con gravità.
«E voi?», chiesi in tono più leggero.
«Non giudico mia madre: è peccato mortale. Il mio patrigno fu molto buono con me».
«Lo ricordo. Lo vidi molte volte… vostra madre già lo riceveva». Rimase seduta con gli occhi abbassati senza dire nulla, ma poco dopo levò lo sguardo.
«Era stata molto infelice con mio padre».
«Non ho difficoltà a crederlo. E il vostro patrigno… è ancora vivo?».
«Morì… prima di mia madre».
«Si batté in altri duelli?».
«Fu ucciso in duello», disse la contessa con discrezione.
Pare quasi mostruoso, soprattutto perché non posso offrire alcuna spiegazione, ma quell’annuncio, invece di turbarmi, mi provocò una strana esaltazione. Dopo tanti anni non nutro per il pover’uomo nessun risentimento, questo è certo. Naturalmente mi sono controllato, limitandomi a far notare alla contessa che il colpevole aveva avuto la sua punizione. Penso tuttavia che da questo sentimento scaturissero le parole che le rivolsi: speravo, cioè, che, a differenza del matrimonio di sua madre, la sua breve vita nuziale fosse stata felice.
«Se non lo fu, l’ho ormai dimenticato». Chissà se il defunto conte Scarabelli fu ucciso anche lui in un duello e se il suo avversario… È scritto da qualche parte che anche il suo avversario debba perire di pistola? Chi è di quei signori, mi chiedo.
Spetta al povero piccolo Stanmer mettergli una pallottola addosso? No, il povero piccolo Stanmer, confido, farà quello che feci io. Eppure, sfortunatamente per lui, quella donna ha una consumata abilità a mostrarsi degna di fiducia. Ieri sera fu piacevolissima; davvero irresistibile. Così franca e libera, eppure così femminile e tenera: una gaiezza piena di grazia, con tutto il fascino di una squisita educazione, ma priva di rigidezza e, soffuso in tutte le sue maniere, un non so che di pittorescamente semplice e meridionale. È un’italiana perfetta. Ma
lo è in modo genuino. Dopo la conversazione che ho buttato giù, cambiò di posto, e per circa mezz’ora i discorsi furono generali.
Stanmer, a dire la verità, parlò assai poco; in parte, credo, per la sua timidezza a usare una lingua straniera. Ero anch’io così? Stavo sempre zitto? Sospetto di sì, quando ero perplesso; il cielo sa come molto spesso la mia perplessità fosse acutissima. Prima di congedarmi, scambiai ancora qualche parola tête-à-tête con la contessa.
«Non ve ne andrete già da Firenze, spero. Vi fermerete ancora un po’?».
Risposi di essere venuto soltanto per starvi una settimana e che la mia settimana era finita.
«Prolungo di giorno in giorno; mi interessa molto».
«È un momento bellissimo; sono felice che la nostra città vi piaccia».
«Firenze mi piace… e ho un interesse paterno per il nostro giovane amico», aggiunsi lanciando un’occhiata a Stanmer. «Ho molto affetto per lui».
«Bel tipo inglese», disse la contessa. «Ed è intelligentissimo, un ottimo cervello».
Era lì in piedi sorridendomi e guardandomi con i suoi occhi chiari ed espressivi.
«Non voglio lodarlo troppo per non dare l’impressione di lodare me stesso; mi ricorda moltissimo quello che ero io alla sua età. Se la vostra bellissima madre dovesse tornare in vita per un’ora, vedrebbe la somiglianza».
Mi rivolse un breve sguardo divertito.
«Eppure non vi assomiglia affatto!».
«Non mi conoscevate quando avevo venticinque anni. Ero molto bello! Ma non si tratta di questo, si tratta della somiglianza spirituale. Ero ingenuo, sincero, fiducioso come lui».
«Fiducioso? Una volta, ricordo, mia madre mi disse che eravate un uomo molto sospettoso e geloso!».
«L’umore sospettoso subentrò dopo, ma fondamentalmente non ero affatto portato a diffidare. Mi era difficile immaginare che qualcuno mi volesse del male».
«Volete dire che Mr. Stanmer è nella fase dell’umore sospettoso?».
«Voglio dire che la sua situazione è identica alla mia di un tempo».
La contessa mi diede una delle sue occhiate gravi.
«Avanti! Com’era… questa famosa situazione? Vi ho già sentito accennarne».
«Forse ve lo disse vostra madre, dato che di tanto in tanto mi fece l’onore di parlarvi di me».
«Tutto quello che mia madre mi disse di voi è che eravate un triste enigma per lei».
A queste parole naturalmente scoppiai a ridere – e rido ancora mentre scrivo.
«Ecco allora la mia situazione: un triste enigma per una donna molto brillante».
«Intendete quindi dire che io sono un enigma per il povero Mr. Stanmer?».
«Si sta scervellando per capirvi. Siete stata voi a dire che è intelligente, ricordatelo».
Volse lo sguardo su di lui e, fortuna volle, il suo aspetto in quel momento confermava la mia asserzione. Era abbandonato sulla sedia con un’aria indolente un po’ troppo accentuata per un salotto e gli occhi fissi sul soffitto con l’espressione di chi si sia appena sentito porre un indovinello. Madame Scarabelli parve colpita da quell’atteggiamento.
«Non vedete? Non riesce a decifra re l’enigma».
«Voi stesso avete detto che è incapace di pensare male. Sarei addolorata se lo inducessi a pensare male di me».
Mi guardò negli occhi – grave, supplice – la bella fronte candida.
Feci un inchino, sorridendo, con un’aria che avrebbe potuto significare: “Come sarebbe possibile?”.
«Ho grande stima per lui», proseguì. «Voglio che pensi bene di me. Se mi ritiene un enigma, fatemi un favore, vi prego. Spiegategli me stessa».
«Spiegare voi, gentile signora?».
«Siete più vecchio e saggio di me. Fategli capire quello che sono».
Mi guardò intensamente negli occhi per un attimo, quindi si volse allontanandosi.
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Terza Parte
26 aprile
Non scrivo nulla da molti giorni, ma in questo frattempo sono stato una mezza dozzina di volte a Casa Salvi. Ho visto spesso anche il mio giovane amico; con lui ho eggiato e chiacchierato molto. Gli ho proposto di venire con me a Venezia per due settimane, ma non porge orecchio all’idea di lasciare Firenze. Malgrado tutti i suoi dubbi è molto felice; nella percezione della sua felicità, confesso di aver rivissuto la mia. Al punto che, l’altro giorno, quando mi chiese di raccontargli il torto fattomi da Madame Salvi, tenni a freno la sua curiosità. Lo avrei accontentato, gli dissi, se fosse stato propenso ad ascoltare, ma sembrava un peccato, in quel momento, indulgere in immagini dolorose.
«Pensavo che voleste a tutti i costi non farmi pensare alla nostra amica».
«Ammetto di essere incoerente, ma ci sono varie ragioni per esserlo. In primo luogo – è ovvio – sono esposto all’accusa di fare il doppio gioco. Professo ammirazione per la contessa Scarabelli accettandone l’ospitalità; nello stesso tempo mi adopero per avvelenarvi l’animo: non è questa l’espressione corretta? Non riesco a prendere una decisione netta, sebbene siano altrettanto sinceri la mia ammirazione per la contessa e il mio desiderio di impedirvi di commettere una sciocchezza.
In secondo luogo, poi, mi sembrate nel complesso molto felice! Si esita a distruggere un’illusione che, finché dura, è così incantevole, non importa quanto sia perniciosa. Sono momenti rari nella vita. Essere giovani e ardenti nel cuore di una primavera italiana e credere alla perfezione morale di una donna bellissima: che meravigliosa situazione! Abbandonatevi alla corrente; rimarrò sulla sponda a tenervi d’occhio».
«Il vero motivo è che non avete prove contro la povera signora. L’ammirate tanto quanto me».
«Ho appena ammesso di ammirarla. Non ho mai detto che sia stato un volgare incontro romantico. Lo sa il cielo quanto l’abbia ammirata! È, tuttavia, un bel dilemma stabilire fino a che punto si sia tenuti per onore ad ammonire un giovane amico contro una donna pericolosa, visto che con tale signora si intrattengono rapporti di cortesia».
«In tale caso romperei i miei rapporti».
Lo guardai e penso di aver riso.
«Siete per caso geloso di me?».
Scosse il capo con enfasi.
«Assolutamente no; mi piace vedervi lì perché il vostro comportamento contraddice le vostre parole».
«Ho sempre detto che la contessa è affascinante».
«Altrimenti, nel caso di cui parlate, metterei la signora sull’avviso».
«Metterla sull’avviso?».
«Le accennerei che la considerate con sospetto e che vi proponete di adoperarvi per salvare dai suoi inganni un giovane sempliciotto. Sarebbe più leale». E riprese a ridere.
Non è la prima volta che ride di me, ma non ci ho mai badato, perché ho sempre capito.
«È quanto mi raccomandate di dire alla contessa?».
«Raccomandarvi!», esclamò ridendo di nuovo. «Io non raccomando nulla. Forse sono la vittima da salvare, ma almeno non sono un complice del complotto. Per di più», aggiunse dopo un attimo, «la contessa conosce il vostro stato d’animo».
«Ve l’ha detto lei?».
Stanmer esitò.
«Mi ha supplicato di ascoltare tutto quello che potreste dire su di lei. Ha dichiarato di avere una coscienza pulita».
«Che donna squisita!».
È davvero una mossa astuta da parte sua assumere quel tono. Stanmer, in seguito, mi assicurò in modo esplicito di non avere mai fatto il minimo cenno alle libertà nei confronti – come chiamarla? – della natura morale della contessa. È stata lei a intuirle per conto suo. Con ogni probabilità mi odia intensamente, eppure i suoi modi verso di me sono sempre incantevoli! È davvero una donna squisita!
4 maggio
Per una settimana non mi sono fatto vedere in Casa Salvi, ma mi sono trattenuto a Firenze combattuto fra vari impulsi. Ce l’ho sulla coscienza di non essermi avvicinato di nuovo alla contessa, eppure dal momento che sa quello che provo per lei, è guerra aperta. Senza scrupoli da parte di nessuno dei due. È libera di usare tutte le sue arti per impigliare più strettamente il povero Stanmer, come lo sono io di tagliare la fitta trama della sua rete.
In tali circostanze è naturale che non ci si debba incontrare con molta cordialità. Quanto alla fitta trama della sua rete, perché, dopo tutto, dovrei tagliarla? Sarebbe invero assai interessante vedere Stanmer ingoiato. Mi piacerebbe proprio sapere come, una volta divorato, se la erebbe con lei (a proposito, che immagini volgari ci suggerisce la curiosità!).
Che ponga termine alla storia come gli pare, così come io ho posto termine alla mia. La storia è la stessa, ma perché, a un quarto di secolo di distanza, dovrebbe avere lo stesso dénoument ? Che abbia il suo dénoument.
5 maggio
Dannazione! Non voglio che quel povero ragazzo sia infelice.
6 maggio
Ma il mio dénoument si è rivelato una soluzione felice?
7 maggio
Ieri notte, sul tardi, venne nella mia stanza; era eccitatissimo.
«Che cos’è che vi ha fatto?», chiese.
Gli risposi innanzi tutto con un’altra domanda. «Avete litigato con la contessa?».
Ma si limitò a ripetere: «Che cosa vi fece?».
«Sedetevi e ve lo dirò». E lui si sedette accanto alla candela fissandomi. «C’era sempre un uomo lì… il conte Camerino».
«L’uomo che sposò?».
«L’uomo che sposò. Ero molto innamorato di lei, eppure ne diffidavo. Ero sicuro che mentisse; ero convinto che potesse essere crudele. Nondimeno, in certi momenti, il suo fascino faceva sembrare soltanto pedantesca la consapevolezza dei suoi difetti e, finché duravano quei momenti, avrei fatto qualunque cosa per lei. Purtroppo non duravano a lungo. Ma voi sapete quello che voglio dire; non descrivo, forse la signora Scarabelli?».
«La contessa Scarabelli non ha mai mentito», esclamò Stanmer.
«Proprio quello che avrei detto a chiunque avesse fatto tale insinuazione! Ma non credo che mi abbiate posto quella domanda spinto da una curiosità sionata».
«Forse è soltanto curiosità di sapere!», disse quell’innocente.
Non riuscii a trattenermi dallo scoppiare in una sonora risata. «Ecco, in ogni caso, la mia storia: Camerino era sempre lì; sembrava un infisso della casa. Se in certi momenti non sopportavo la divina Bianca, in nessun momento sopportavo lui. Eppure era un uomo molto gradevole, cortese, intelligente, per nulla disposto a litigare con me. Il guaio naturalmente era la mia gelosia.
Non so, tuttavia, con quale fondamento avrei potuto litigare con lui, perché non avevo diritti precisi. Non so che cosa mi aspettassi, non so che cosa fossi disposto a fare, così come stavano le cose.
Con il mio nome e le mie prospettive avrei potuto benissimo offrirle la mia mano. Non sono sicuro che l’avrebbe accettata, non sono affatto certo che lo volesse. Ma voleva – lo voleva con intensità – che mi attaccassi a lei. Sarei stato capace di rinunciare a ogni cosa – all’Inghilterra, alla carriera, alla famiglia – soltanto per dedicarmi a lei, viverle vicino, vederla ogni giorno».
«Perché non l’avete fatto allora?», chiese Stanmer.
«Perché non lo fate voi?».
«Per essere una replica idonea alla mia la vostra domanda sarebbe dovuta essermi rivolta venticinque anni fa».
«È vero e indubbio che, a un certo momento, avrei potuto fare quello che ho detto. Ecco quello che voleva: avere accanto en permanence un giovanotto inglese ricco, sensibile, credulo, rispettabile. Eppure, devo renderle piena giustizia: credo onestamente che avesse dell’affetto per me». A queste parole Stanmer si levò per avvicinarsi alla finestra; rimase per un attimo a guardare fuori, quindi si volse. «Lo sapete che aveva più anni di me?», continuai.
«Madame Scarabelli ha più anni di voi? Un giorno, in giardino, sua madre mi chiese in tono arrabbiato perché detestassi Camerino. Non mi ero infatti dato la pena di nascondere i miei sentimenti ed era appena accaduto qualcosa che lo aveva messo in evidenza. “Non mi piace”, le dissi, “perché piace tanto a voi”. “Vi assicuro che non mi piace”, rispose. “Ha tutta l’aria di essere il vostro amante”, rimbeccai. Erano parole brutali certamente, ma le avrebbe dette chiunque altro al mio posto. Le accolse con un’aria molto strana; impallidì ma non ne fu indignata. “Come può essere il mio amante dopo quello che ha fatto?”, chiese. “Che cosa ha fatto?” Esitò a lungo prima di dire: “Ha ucciso mio marito”. “Santo cielo!”, esclamai. “E lo ricevete?” Lo sa che cosa disse? Disse: “Che vuole?”».
«È tutto?», chiese Stanmer.
«No. Aggiunse che Camerino aveva ucciso in duello il conte Salvi e ammise che a provocarlo era stata la gelosia di suo marito, Il conte, a quanto pareva, era stato un mostro di gelosia; le aveva reso la vita orribile.
Dal canto suo egli non era stato affatto irreprensibile; aveva ferito mortalmente un uomo di cui si dichiarava amico e la faccenda era diventata di pubblico dominio. Il gentiluomo in questione aveva voluto soddisfazione per l’onore oltraggiato, ma per questa o quella ragione (per farle giustizia la contessa non mi disse che suo marito era un codardo) non l’aveva ottenuta Era arrivato prima il duello con Camerino; in un furioso accesso di gelosia il conte aveva schiaffeggiato Camerino, e si ritenne che a questo oltraggio – non so con quale fondamento – si dovesse dare riparazione prima che all’altro. Con un incredibile accordo – gli italiani non hanno di sicuro il senso delle regole del gioco – all’altro uomo fu concesso di fare da secondo a Camerino.
Fu un duello alla spada e il conte, ferito in modo che in un primo tempo non parve fatale, morì il giorno successivo. Per il buon nome della contessa la storia venne messa a tacere così bene che poco dopo correva voce fra la gente che fosse stato l’altro gentiluomo ad avere il merito di aver infilzato con la sua lama il signor de Salvi.
Questo gentiluomo si compiacque di non contraddire quella versione che continuò a resistere. Finché andava bene a lui, era tutto interesse di Camerino non smentire quella versione che lo rendeva assai più libero di continuare la sua intimità con la contessa».
Stanmer aveva ascoltato con grande attenzione. «Perché non la smentì lei?».
Mi strinsi nelle spalle. «Sono costretto a credere che fosse per la stessa ragione. Ero, comunque, inorridito dall’intera storia, profondamente turbato dalla mancanza di dignità mostrata dalla contessa continuando a incontrare l’uomo per mano del quale era caduto suo marito».
«Il marito era stato un vero bruto e nessuno lo sapeva», disse Stanmer.
«Il fatto che non lo si sapesse non faceva nessuna differenza. Che poi Salvi fosse stato un bruto, questo è soltanto un modo per dire che sua moglie e l’uomo da lei in seguito sposato lo detestavano».
Stanmer sembrava assai perplesso; i suoi occhi fissavano i miei. «Sì, non è facile scusare quel matrimonio. Fu disdicevole».
«Che sospirone trassi quando mi giunse la notizia! Ricordo il luogo e l’ora. Lo seppi in India, in una base in collina, sette anni dopo che me ne ero andato da Firenze. La posta mi portò alcuni giornali inglesi e in uno di questi c’era una corrispondenza dall’Italia con molte “informazioni sul bel mondo”, come si suol dire. Lì, in mezzo ai vari scandali degli ambienti elevati e altre notizie gustose, lessi che la contessa Bianca Salvi, celebre da alcuni anni per essere il genio ispiratore del salotto più gradevole di Firenze, stava per concedere la mano al conte Camerino, un illustre bolognese. Ah, mio caro ragazzo, che fuga fortunosa! Ero stato sul punto di sposare una donna capace di tanto! Ma l’istinto mi aveva messo in guardia e mi ero affidato al mio istinto!».
«“L’istinto è tutto”, come dice Falstaff!». E Stanmer prese a ridere. «Avete mai detto a Madame de Salvi che il vostro istinto le era ostile?».
«No, le dissi che mi incuteva terrore, turbamento, orrore».
«È quasi la stessa cosa. Che cosa vi rispose?».
«Mi chiese che cosa avessi. Definii scandalosa la sua amicizia con Camerino; mi rispose che il marito era stato un bruto. Inoltre nessuno ne sapeva nulla, quindi non era uno scandalo. Proprio la vostra argomentazione!
Rimbeccai osservando che era un ragionamento detestabile e che le mancava ogni senso morale. Ci fu una lite accesissima, e io dichiarai che non l’avrei vista mai più. Nella foga del mio dolore me ne andai da Firenze e mantenni la promessa. Non la rividi mai più».
«Non è possibile che ne siate stato molto innamorato».
«Non lo ero più… tre mesi dopo».
«Se lo foste stato, sareste ritornato… tre giorni dopo».
«Così, senza dubbio, sembra a voi. Quello che posso dire è che fu la grande prova della mia vita. Da militare quale sono, ho avuto molte occasioni per guardare in faccia il nemico. Ma non fu in quei momenti che mi servì la risolutezza; fu quando lasciai Firenze in diligenza».
Stanmer fece il giro della stanza per due o tre volte, quindi disse: «Non capisco! Non capisco perché vi abbia detto che Camerino aveva ucciso suo marito. Poteva soltanto danneggiarla».
«Temeva che sarebbe stata danneggiata di più, se lo avessi creduto il suo amante. Desiderava dirmi la cosa che più di ogni altra sarebbe servita a persuadermi che
non fosse il suo amante, che non avrebbe mai potuto esserlo. Desiderava inoltre che le si riconoscesse la virtù di una grande franchezza».
«Santo cielo, dovete averla ben analizzata!», esclamò il mio compagno sgranando gli occhi.
«Non c’è nulla di tanto analitico quanto una delusione. Ed ecco! Sposò Camerino».
«Sì, non mi piace», disse Stanmer. Rimase in silenzio per un po’, quindi aggiunse: «Forse non l’avrebbe fatto, se foste rimasto».
Che modi innocenti! «Molto probabilmente avrebbe rinunciato alla cerimonia», risposi in tono caustico.
«Parola mia, l’avete analizzata!».
«Dovreste essermene grato. Ho fatto per voi quello che sembrate incapace di fare voi stesso».
«Non vedo, nel mio caso, nessun Camerino».
«Forse fra tutti quei gentiluomini posso trovarne io uno per voi».
«Grazie!», esclamò. «Me ne occuperò di persona». E se ne andò… contento, spero.
10 maggio
È un piccolo incosciente ostinato; mi irrita vederlo che rimane appiccicato. Forse cerca il suo Camerino; lo lascerò comunque al suo destino. Il caldo diventa insopportabile.
11 maggio
Mi sono recato, questa sera, a salutare la signora Scarabelli. Non c’era nessuno; era sola nel grande salotto ombroso, illuminato soltanto da un paio di candele, con le immense finestre aperte sul giardino. Vestita di bianco, era incantevole. Mi ha chiesto naturalmente perché non mi fossi fatto vedere per tanto tempo.
«Ritengo che lo diciate soltanto per forma. Immagino che lo sappiate».
«Che! Che cosa ho fatto?».
«Nulla; siete troppo avveduta».
Mi ha guardato per qualche tempo. «Penso che siate un po’ matto».
«Ah, no, sono fin troppo sano. Ho troppa ragione, non troppo poca».
«Avete in ogni caso quella che si dice un’idea fissa».
«Niente di male finché è buona».
«Ma la vostra è abominevole!», ha esclamato ridendo.
«È naturale che non abbiate simpatia per me o per le mie idee. Tutto considerato, mi avete trattato con sublime gentilezza; vi ringrazio e vi bacio la mano. Parto da Firenze domani».
«Non vi dirò che mi dispiace!», ha detto ridendo di nuovo. «Ma sono felicissima di avervi conosciuto.
Mi sono sempre chiesta che tipo foste. Siete una curiosità».
«Sì, dovete considerarmi tale. Un uomo che riesce a resistere al vostro fascino! Il fatto è che non ci riesco; questa sera siete incantevole. Ed è la prima volta che sono da solo con Voi».
«Come avete potuto trattare mia madre in quel modo?».
«Trattarla in quel modo?».
«Come avete potuto abbandonare la donna più affascinante del mondo?».
«Non fu un caso di abbandono; e, se anche lo fu, mi sembra che si sia consolata».
In quel momento sono risuonati dei i nell’anticamera; mi sono accorto che la contessa aveva riconosciuto quelli di Stanmer.
«Non sarebbe accaduto», ha mormorato. «La mia povera mamma aveva bisogno di qualcuno che vegliasse su di lei».
È entrato Stanmer interrompendo la nostra conversazione e guardandomi con aria quasi impertinente, mi è parso. Mi considera, credo, un noiosone ficcanaso e uggioso, e, parola mia!, rimuginandoci sopra, mi sorprendo della sua docilità. Dopo tutto ha venticinque anni – ma, devo aggiungere, mi irrita sul serio – per come rimane appiccicato! Subito dopo giunsero due o tre italiani, frequentatori abituali; la mia visita fu breve.
«Addio, contessa», ho detto. Mi ha teso la mano in silenzio. «Avete bisogno di qualcuno che vegli su di voi?», ho aggiunto con voce sommessa.
Mi ha squadrato dalla testa ai piedi, quindi, quasi con rabbia: «Sì, signore».
Per scongiurare la sua rabbia, le ho trattenuto la mano per un istante, quindi chinando la testa venerabile, vi ho posato un bacio. Credo di averla placata.
Bologna, 14 maggio
Lasciai Firenze l’11 e da tre giorni sono qui. Una deliziosa vecchia città italiana, ma senza il fascino del mio segreto fiorentino.
Scrissi le mie ultime annotazioni cinque giorni fa, tardi nella notte, dopo essere rientrato da Casa Salvi. Mi addormentai quindi sulla sedia; quando mi svegliai, era già trascorsa metà della notte. Invece di coricarmi, rimasi a lungo a guardare il fiume. Era una notte tiepida, quieta; nel cielo si vedevano le prime fioche striature dell’alba.
Poco dopo percepii, sotto la mia finestra, un o lento e, guardando in basso, riconobbi alla luce di un lampione Stanmer che stava rientrando. Lo invitai a venire nelle mie stanze e, dopo un intervallo, comparve.
«Voglio dirvi addio. Partirò in mattinata. Non datevi la pena di dirvi dispiaciuto. Non lo siete, è ovvio; devo avervi angariato a dismisura».
Non fece il tentativo di dirsi dispiaciuto; disse invece di essere felicissimo di avermi conosciuto.
«La vostra conversazione», disse con i suoi piccoli modi innocenti, «è stata molto suggestiva».
«Avete individuato Camerino?», chiesi sorridendo.
«Ho rinunciato alla ricerca».
«Un giorno, quando scoprirete di aver commesso un grande errore, ricordatevi che vi avevo avvertito».
Rimase a guardarmi per un minuto quasi cercasse di anticipare quel giorno sforzando la ragione.
«Vi è mai capitato di pensare che forse siete stato voi a commettere un grosso errore?».
«Oh, sì! Capita di pensare a tutto, prima o poi».
Così gli dissi; non gli dissi invece che quella domanda, sottolineata dal suo volto giovane e ingenuo, ebbe, in quel momento, più forza di quanta non ne avesse mai avuta prima.
Mi chiese quindi se, visto come erano andate le cose, fossi stato particolarmente felice.
Parigi, 17 dicembre
Una nota mandatami dal giovane Stanmer, visto a Firenze; un breve appunto assai significativo, datato Roma, che merita trascrivere.
«Mio caro generale, mi sta a cuore dirvi che, una settimana fa, ho sposato la contessa Salvi-Scarabelli.
Le vostre parole mi avevano sconcertato molto ma, un mese più tardi, tutto fu chiarissimo. Le cose che comportano rischi assomigliano alla fede cristiana: vanno viste da dentro.
Vostro, E.S.
«P.S. – Al diavolo le analogie, a meno che non riusciate a trovare un’analogia per la mia felicità!».
La felicità lo rende perspicace. Spero che duri a lungo. La perspicacia, intendo, non la felicità.
Londra, 19 aprile 1877
Ieri sera, a casa di Lady H., ho incontrato Edmund Stanmer, il marito della figlia di Bianca Salvi. Sapevo dall’altro giorno che erano arrivati in Inghilterra. Un bel giovanotto con un viso contento e fresco. Mi ha rammentato Firenze che non ho finto di aver dimenticato, ma è stato piuttosto imbarazzante perché ricordavo come avessi più volte denigrato quella donna. Ma non mi è parso affatto scostante; sembrava al contrario che si rallegrasse dell’incontro. Gli chiesi se sua moglie fosse lì. Dovevo farlo.
«Oh, sì, è in un’altra stanza. Venite a incontrarla; desidero che la conosciate».
«Dimenticate che la conosco».
«Oh, no, non l’avete mai conosciuta». E ha dato in una risatina significativa.
Non me la sentivo in quel momento di trovarmi la ci-devant signora Scarabelli; ho detto perciò che stavo per andarmene, ma che mi sarei concesso l’onore di fare visita a sua moglie. Per un minuto abbiamo parlato d’altro, quindi, all’improvviso, interrompendosi e guardandomi, mi ha posato la mano sul braccio. Devo fargli giustizia ammettendo che ha un’aria beata.
«Avevate torto, parola mia!», ha detto.
«Mio giovane amico, figuratevi con quanta alacrità ve lo concedo».
Si è accennato a un altro argomento, ma dopo un attimo ha ripetuto il gesto.
«Avevate torto, parola mia».
«Sono certo che la contessa mi ha perdonato e in tal caso non dovreste portarmi rancore. Come ho avuto l’onore di dirvi, andrò a farle visita immediatamente».
«Non alludevo a mia moglie; pensavo alla vostra storia».
«La mia storia?».
«Di tanti anni fa. Non fu un errore?».
L’ho guardato per un momento; è raggiante, senza dubbio.
«Non è un dilemma da risolvere in un’affollata riunione londinese».
E mi sono allontanato.
22 aprile
Non sono ancora andato a fare visita alla ci-devant signora; ho paura di trovarla in casa. Le parole di quel ragazzo mi rimbombano nelle orecchie. «Avevate torto, parola mia. Non fu un errore?».
Avevo torto? Fu un errore? Mi sono comportato con troppa cautela, troppa diffidenza, troppa logica? Aveva davvero bisogno che qualcuno la proteggesse, di un uomo che l’aiutasse? Sarebbe stato un bene per lui crederle? La sua colpa fu soltanto quella di essere abbandonata da me? La poveretta fu molto infelice?
Che Dio mi perdoni, come mi si affollano le domande! Se ho rovinato la sua felicità di certo non ho fatto la mia. Forse avrei potuto farla… eh? Bella scoperta per un uomo della mia età!
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il Narratore audiolibri
Vi ha presentato
Il diario di un uomo di cinquant’anni
di
Henry James
Lettura di
Mario Massari
Copyright audio il Narratore audiolibri, Zovencedo, Italia, 2012
Registrazione effettuata nel Tum Tum Studio di Ruggero Bosso, Bergamo
Salvo autorizzazione, sono vietati la duplicazione e l’utilizzo di quest’opera per la pubblica esecuzione, la radiodiffusione e Web radio. Ogni trasgressione sarà perseguita ai termini di legge.
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01 Titoli di testa (00' 56") 02 Prima Parte (22' 48") 03 Seconda Parte (24' 41") 04 Terza Parte (24' 08") 05 Titoli di coda (00' 54") Durata totale: 1h 13'