Arianna schi Quante cose so di te
In collaborazione con Studio Garamond
Isbn: 978-88-6882-457-0
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Buona Lettura!
A Sergio e Martina
Prologo
Ho trovato quattro valigie sul pianerottolo. Buttate di fretta, in modo disordinato, tra il vecchio muro beige e lo zerbino. Poi ho provato a inserire le chiavi e a girarle in una serratura mai vista prima, nuova e scintillante. Mentre provavo, disperato, a incastrarle e a muoverle si faceva largo nelle vene il freddo fluido dell’ansia e dell’angoscia, delle mille domande che non riuscivano a oltreare quella soglia chiusa. È bastato un solo attimo. Ho suonato il camlo. Una, due, tre volte. Ho dato pugni e calci al legno scuro della porta, vibrava con violenza. Ho gridato, sempre più disperato, mi sono sgolato e poi mi ha aperto un uomo. Lei era accanto a Lui.
Vuoto. Mi sento vuoto. Da quella domenica sono ati quattro lunghissimi giorni. Oggi Lei mi ha chiamato, vuole sapere come sto. Non le interessa realmente sapere cosa faccio, come me la o, se mi tormento. Ha solo bisogno di sentirsi meglio con se stessa e lo fa in questo modo. «Bene» le ho risposto. Non una parola di più. Me la vedo, dall’altra parte del telefono, in un morbido vestito rosso su tacchi alti, mentre chiude la chiamata e sospira pensando che non sarò mai in grado di capire il suo gesto. Me la vedo, ancora, appoggiare il telefono sul tavolino accanto alla porta d’ingresso e dirigersi in cucina dove Lui l’aspetta: sono le loro prime cene insieme. Seduto su quella che per tre anni è stata la mia sedia, Lui mangerà con quelle posate che mi è toccato lavare centinaia di volte e sporcherà senza rispetto quei piatti a cui manca un pezzo del servizio. Era caduto a Lei mentre li riponeva e una scheggia le aveva ferito la caviglia sottile. Quella ferita gliel’avevo medicata io, cambiandole la garza ogni giorno mentre, ammonendola, la prendevo in giro per l’accaduto. Quando ogni giorno aveva un significato: “io, per Lei”. Non so perché m’è venuto in mente di mangiare una mozzarella stasera, la confezione viscida è scomoda da aprire e il siero sgocciola sul tappetino dell’auto e sul sedile. La afferro titubante con due dita e, mentre la addento, l’odore delle salviette umidificate con cui ho lavato le mani mi si infila nelle
narici: mi sembra di masticare della gomma insapore profumata di Aloe sintetica. Il parcheggio del supermercato è come un gran bel ristorante, non devo prenotare e c’è sempre posto nell’angolo più appartato, quello vicino al marciapiede e alla vecchia cabina telefonica. Forse il servizio lascia un po’ a desiderare e l’aria sa di scarico di automobile, ma almeno mangio fuori tutte le sere. È successo che “io non sono più per Lei”, che tutto quello che mi resta è in quelle valigie che non ho avuto ancora il coraggio di scaricare dall’auto: le porto sempre con me da allora. Succede che ogni sera, dopo il lavoro, mi fermo allo stesso supermercato per comprare una birra e dei tramezzini, di quelli sigillati nelle confezioni di plastica rigida. Succede che consumo quel pasto dentro la macchina mentre, parcheggiato sempre accanto al marciapiede, lascio la portiera aperta e una gamba ciondolante fuori. Anche se fa freddo. Lei diceva di non amarmi più come prima, forse di non avermi amato affatto e lo diceva da qualche tempo. Come potevo avere il coraggio di crederci? Aspettavo il momento giusto per parlarle. Ho aspettato troppo. Succede così che non esiste più la nostra casa. Cosa esiste adesso? Esiste l’animo generoso di Carlo, il mio collega di lavoro. Senza lui non avrei saputo dove andare. Mi ha lasciato a disposizione il vecchio locale che molti anni fa ospitava l’officina meccanica di suo padre. Di quelle officine piccole e odorose dove si facevano le cose per bene. «Non è molto» mi ha detto lasciandomi le chiavi «ma almeno potrai sistemarti per un po’». Mentre mi accompagnava alla mia nuova sistemazione, domenica scorsa, pioveva, di quell’acqua fitta e fredda come stiletti di ghiaccio. Seguivo la sua macchina lungo la statale, in direzione della periferia Nord di Milano, in una di quelle zone che mi sono completamente sconosciute. Un quartiere che funziona come un paese, slegato e apparentemente autonomo rispetto alla grande città che lo ingloba, città che invece sa, ne segue e controlla in ogni istante i movimenti. Trattenevo lacrime di rabbia quella domenica pomeriggio ma il dolore in fondo mi anestetizzava. Però la tentazione di abbandonarmi alla tristezza era forte e
solo l'orgoglio mi aiutava a gestire sensazioni che non avrei mai voluto provare. Che mi pugnalano ancora e costantemente. Mastico l’ultimo boccone di mozzarella e svuoto la mente con un sorso di birra.
Carlo rallenta e accosta, io dietro di lui. Scendendo mi sorride e indica una vecchia serranda con un portoncino al suo interno. «Qui ci ho ato pomeriggi interi dopo la scuola» mi racconta mentre apre ed entriamo. «Non è un granché…». In effetti è un garage abbandonato che può ospitare due piccole macchine, polveroso e tetro quanto basta, con in alto ampie e fragili vetrate. I muri sono ancora bucati dai chiodi che tenevano appese le rastrelliere degli attrezzi, pareti e pavimenti sono di cemento sporco e mai dipinto, si sbriciolano al tocco. «Vieni Alex» mi invita ancora Carlo, con un ampio cenno mi indica una piccola porta in legno scolorito. «Qui c’era un piccolo ufficio e laggiù un bagno con una piccola doccia a pavimento, c’è ancora l’acqua corrente. Quella calda però va sistemata». Annuisco, grato e allo stesso tempo preoccupato e infastidito. «Questo posto è tuo, per il tempo che ti occorrerà. Non voglio nulla, sistemati e tienilo pulito.» Mi assesta una forte pacca sulla spalla, alto e forte com’è. «Tolgo il disturbo, ci vediamo domani al lavoro». La porta si chiude con una forte eco.
Io e Carlo lavoriamo per una piccola ditta di manutenzione del verde: tagliamo siepi e prati, potiamo alberi alti anche trenta metri, progettiamo e impiantiamo giardini insieme ad altri cinque colleghi. Il lavoro in questi mesi scarseggia, così, a turno, stiamo a casa due giorni alla settimana. Già ...a casa… Ma sono ancora nel parcheggio del supermercato a ripensare a quella maledetta domenica. S’è fatto tardi, il guardiano mi fa insistentemente cenno di uscire. Lancio sul tappetino gli incarti umidicci della mia cena e mi dirigo verso la mia nuova casa-garage. Il vecchio locale del papà di Carlo misura dieci i in lunghezza per otto in larghezza. Li misuro percorrendone il perimetro mentre con lo sguardo esamino il soffitto grezzo, valutandone l’altezza: sarà di circa quattro metri. Qualunque
sia, per me, è troppo alto. La sensazione è di essere stati inghiottiti e di trovarsi sul fondo di un portaombrelli. Sulla parte destra, guardando dall’ingresso, ho sistemato una brandina. Una scatola recuperata in ditta mi fa da comodino: ci ho posato sopra una piccola torcia tascabile che per ora uso come abat-jour. Spengo i grossi e tristi neon e accendo la torcia: la sua luce calda illumina in pieno il soffitto e con delicatezza riscalda le pareti grigie. Accendo anche una piccola candela. Il tentativo di rendere più accogliente quella vecchia officina dismessa non è del tutto vano. Distraggo la mente dal pensiero di Lei, dal suo vestito rosso e da quell’uomo: ora le dorme accanto, in quel letto che porta ancora la mia impronta. Ho bisogno di reagire, e al tempo stesso di abbandonarmi e stagnare in un dolore terapeutico. Domani, domani. Domani ricomincerò, non adesso. Ora lasciatemi qui, lasciate che versi lacrime di rabbia e dolore in segreto. Lasciatemi dormire.
Capitolo I
Carlo è puntuale stamattina. Bussa forte sul portoncino alle 8:30, come concordato, dopo aver cercato invano di chiamarmi sul cellulare spento. La vecchia officina è illuminata da un timido sole, ma lo ignoro, mentre scomposto e quasi stordito mi siedo sulla branda. Indosso ancora la divisa da lavoro del giorno prima e se fumassi mi accenderei una sigaretta per colazione. Carlo continua a bussare, mi chiama a gran voce, è preoccupato. Spengo la torcia dimenticata accesa e barcollando mi dirigo verso la porta. La candela si è consumata completamente e dev’essersi spenta da poco, il suo cuore è ancora liquido di cera trasparente. Apro. Gli dico un ciao svogliato, mentre strofino gli occhi con la manica sporca, sbadigliando. «Alex cazzo, mi fai preoccupare!» sbotta lui. «Non posso crederci, hai ancora sulle scarpe gli aghi del pino di ieri! Guarda come sei ridotto, datti una sistemata. Ti porto a bere un caffè e iniziamo a dare forma a questa merda di garage… Una larva ha più dignità di te». Carlo cerca solo di scuotermi, devo essere apatico più di quel che credo. È una fortuna che lui sia il mio più caro amico e che, essendo in squadra di lavoro insieme, rimanga a casa nei miei stessi giorni. L’ha capito che da solo non ce la posso fare e anche sua moglie lo esorta a starmi vicino. Mentre mi lavo mi ubriaca di parole. L’acqua è gelida. «Dai Alex, oggi ripristiniamo l’acqua calda e sistemiamo al più presto la doccia. Devi levarti di dosso quella crosta di puzza e tristezza». Lo ascolto. «Prendiamo anche una cucinetta elettrica, devi smettere di mangiare in macchina quello schifo di tramezzini. Poi pennelli e vernice, stucco e tende. Una cassettiera te la procuro io invece», continua a parlarmi con quella sua voce calda e profonda. Quando esco dal bagno mi porge la grossa scatola che portava con sé: «Qui ci sono lenzuola e asciugamani puliti, te li regala mia moglie. «Grazie» gli dico, ma senza entusiasmo. «Smetti di pensare a quell’ ingrata, ora devi pensare a te». Non gli rispondo, deglutisco un boccone amaro di ricordi.
Appena fuori scopro una giornata inaspettatamente tiepida. Carlo cammina accanto a me, con la mano che stringe forte la mia spalla, quasi dovesse guidarmi e non farmi sbandare. «Amico mio, sei ridotto male», lo sussurra con un sorriso amaro mentre entriamo al bar. Ordiniamo caffè e brioches, io faccio il bis. Non ho pensieri particolari, non ne ho proprio, muoiono e si spengono prima di riuscire a formularsi. Mi sento solo svuotato, deluso, senza scopo alcuno. Mi faccio trascinare da Carlo, ma lo faccio soltanto per lui, per non deluderlo, per mostrargli di essere all’altezza dei miei 34 anni appena compiuti. Fingo interesse per la cucina elettrica, per il colore da dare alle pareti e per il piatto doccia. Sono sempre d’accordo, lascio che scelga tutto lui. Io una casa l’avevo, e non solo. Cazzo, cazzo … non riesco a togliermela dalla testa, sta vincendo Lei e ha vinto su tutto per ora. Più a il tempo più aumentano rabbia e sofferenza e questo non lo sopporto. Io e Carlo lavoreremo tutto il giorno al vecchio garage. Nella parete opposta al mio letto abbiamo accumulato un mucchio di oggetti, quello che occorre per ricominciare una vita decente: qualcosa per lavarmi, per cucinare e togliere la polvere da pareti e pavimenti. È solo l’inizio. Un inizio non programmato né tantomeno desiderato, ma non posso tirarmi indietro. Mangiamo un panino, immancabile la birra. Che sapore ha l’acqua? Non lo ricordo più molto bene. «Questo soffitto è la cosa che odio di più. Sa proprio di vecchia fabbrica, di officina cadente e abbandonata» dico. «Mica era un salone di bellezza» replica asciutto Carlo, vagando con lo sguardo. «Tra qualche settimana non lo riconoscerai nemmeno questo posto, te lo garantisco». Iniziamo a guardarci intorno, nessuno dei due sa veramente da dove cominciare, ma nessuno lo ammetterà mai all’altro. «Ok, allora cominciamo a vedere che si può fare per queste pareti e questo soffitto». Salgo su un’alta scala in metallo, ho in mano una spatolina e la rigiro, cercando di capire quale sia il lato più affilato per cominciare a raschiare la parte più rovinata del muro che fa angolo tra soffitto e parete d’ingresso: una grossa macchia d’umidità mai sanata nel corso di chissà quanto tempo. Intanto Carlo ha spostato e coperto la mia branda e, dalla sua scala, raschia come un matto
l’intonaco attorno a uno strano condotto d’aerazione rettangolare, o almeno è ciò che sembra. È completamente ricoperto dalla carta di un vecchio quotidiano ormai rigida e ingiallita. «Non posso credere sia così vecchio>>, Carlo si ferma e pare quasi sbalordito, << Alex, questo è un giornale del marzo 1993 e la notizia del giorno è di un avviso di garanzia a Giulio Andreotti», dice in un misto di stupore e perplessità. Non fa altro che parlarmi, si impegna maledettamente per distrarmi. «Ora lo tolgo e poi nel caso su questa presa d’aria ci metto qualcosa di più decente» continua. Ok, gli dico. Tanto per accontentarlo. La carta viene via a briciole e brandelli, il vecchio nastro adesivo si porta via anche un pezzetto di intonaco. «Alex vieni, avvicinati con la scala», Carlo fissa con interesse aldilà della griglia. «Che c’è?» chiedo, senza voltarmi. «Guarda tu stesso», mi risponde lui. Siamo due uomini grandi e grossi e in un attimo ci ritroviamo a sbirciare come dei bimbi alle prese col buco di una serratura, dandoci il cambio viso contro viso, traballando sui gradini in metallo delle nostre scale. «Sembra una piccola officina meccanica, fammi spazio!», lo spintono. La piccola presa d’aria comunica direttamente col locale accanto e la griglia montata sottosopra permette una visuale ampia e molto profonda: nella penombra scorgo scaffali metallici e un bancone da lavoro col pannello per gli attrezzi, più al centro un alto cavalletto fissato al pavimento e in basso, ai lati della parete, scatole e scatoline di diverse forme e colori. Sulla sinistra c’è una ruota di bicicletta che pare aver avuto tempi migliori, sformata, quasi ellittica, posata sul pavimento in gomma rossa, accanto al robusto bancone di legno. Sul lato destro c’è invece una porta protetta da due rigide tende rosse attraverso cui filtra la luce del giorno, creando una piacevole atmosfera. A ridosso del muro alla destra della porta, infine, una scrivania scura con due alte pile di scartoffie su entrambi i lati, una calcolatrice a rotolo, un computer e un telefono-fax. Sulla parete campeggia un adesivo bianco e nero con scritte rosse e bianche in contrasto. Ritorno a osservare il banco degli attrezzi mentre Carlo, come un ragazzetto pestifero, mi spinge e mi scansa. Desideroso di una sbirciata appoggia il naso alla vecchia presa d’aria, una grata di metallo opaco.
«Incredibile, è l’officina del negozio di bici accanto» conclude stupito. In un istante mi rendo conto di quanto l’apatia abbia annullato la mia attenzione. Scendo velocemente dalla scala e mi dirigo verso l’uscita per poi affacciarmi all’esterno e rendermi conto di cosa ci sia accanto alla mia nuova casa-vecchia officina. Ha cominciato a piovere, contro ogni aspettativa. Avanzo sul marciapiede e mi fermo dopo pochi i. Con leggerezza le piccole gocce sospinte da una lieve brezza si posano e scivolano lentamente sull’ampia superficie della vetrina: «Qui Bici» leggo a bassa voce l’insegna «vendita e assistenza per ogni tipo di bici». Bene, vivo accanto a un negozio di biciclette. Ne prendo atto. Ho smesso di pedalare quando avevo dodici anni e mi sono fatto abbastanza cicatrici. Sulla vetrina vedo nuovamente quell’adesivo rettangolare rosso, bianco e nero. La pioggia resta sottile, quasi piacevole, mentre mi avvicino al portoncino d’ingresso del negozio, protetto da eleganti grate di ferro battuto. Mi avvicino ancora fino a vederne l’interno: distolgo lo sguardo dalla mia immagine riflessa e, curioso, lo rivolgo oltre, subito verso sinistra, dove scorgo le tende che proteggono il magazzino-officina. Per il resto ci sono solo biciclette di diverse misure e forme, poi abbigliamento dai colori vivaci, che non mi piace per nulla. Sicuramente un locale accogliente ma, da maschio, avrei preferito scoprire piuttosto un negozio di intimo con i camerini prova al posto della loro officina. «Vivo accanto a un negozio di bici e ancora non me n’ero accorto!» dico a Carlo, mentre rientro umido e infreddolito. Chiudo il portoncino e pulisco le suole su un pezzo di cartone strappato, a mo' di zerbino. «Già, quel negozio ha aperto poco prima che mio padre chiudesse l’officina, ora ricordo». «Questa scoperta non mi cambierà di certo la giornata», mormoro cupo. Forse però, mi avrebbe cambiato la vita. Dopo aver finito di grattare l’intonaco cadente dai muri abbiamo cominciato a tinteggiare pigramente col rullo la parete vicina al letto, per cominciare, poi tutte le restanti in un bianco latte che sarà di base per il colore arancio mattone che ho scelto per questa nuova casa. Si è creata una bella atmosfera tra me e il mio amico, mi sento leggero e quasi sereno, ringrazio anche quelle birre in più. Ridiamo di gusto e scompostamente mentre riemergono ricordi di situazioni
tragicomiche e delle prime impacciate esperienze sessuali. Nelle vene sento una sorta di adrenalina che dona pace, una pace momentanea lo so, ma scaccia l’apatia e rende tutto semplice. Tra chiacchiere e vernici, veloci, sono già le sedici. Il negozio delle bici accanto è aperto da circa mezz’ora. È il mio primo pomeriggio nella nuova casa, (anche se non lo è realmente è pur sempre il mio nuovo rifugio). Finora ci avevo ato solo interminabili serate solitarie e notti difficili. Prestando attenzione si percepisce distintamente l’attività del negozio: ogni volta che la porta si apre suona un cicalino elettronico, si sente un qualche genere di vociare, quindi qualcuno entra nel magazzino officina, esce, e poi ecco l’immancabile suono della cassa che emette uno scontrino. Tutto regolare direi, una normale routine di vendita. Poi la sequenza si ripete, ancora e ancora. Rieccolo di nuovo: cicalino e vociare. Stavolta però segue, insolito, un vociare più intenso. Quindi ancora il cicalino e la porta d’ingresso che sbatte con violenza e si chiude con due mandate di chiave. Non riesco più a definire la situazione. Sia Carlo che io rallentiamo lo scorrere dei rulli sul muro e ci guardiamo. Lui si precipita giù dalla scala e, velocemente, s’ affaccia dal nostro ingresso buttando lo sguardo verso sinistra. Mentre rientra per comunicarmi che la porta del negozio è stata chiusa anche con le inferriate io, con gli occhi incollati alla grata, gli faccio già segno di abbassare la voce perché oltre quel muro qualcosa non sembra più tanto regolare…
Capitolo II
Una donna ha fatto un ingresso frettoloso nel magazzino, capelli corti e trucco deciso su occhi e labbra. Le tremano nervosamente la mani mentre rovista in un cassetto ed estrae un sottile blocchetto sgualcito, mi sembra un libretto degli assegni. Carlo in silenzio avvicina la scala accanto alla mia, risale sul gradino più alto e si fa spazio davanti alla grata facendomi perdere la visuale. Avverto distintamente voci sconnesse che diventano sempre più chiare: appartengono a tre uomini, tutti con accento milanese, marcato e pulito. C’è anche un quarto uomo, la cui voce lamentosa è decisamente sulla difensiva. Una sola voce è minacciosa e forte, con essa sembra spingere materialmente dentro al magazzino un altro uomo, la cui voce lamentosa è distintamente sulla difensiva. Carlo lo conosce. «È il proprietario del negozio», mi dice sottovoce «si chiama Fabio, girano voci un po’ particolari su di lui». Intanto uno degli altri tre parla a voce più bassa, con un tono che pare più garbato, anzi no…sembra quasi sfottere. Tratteniamo il fiato, ci facciamo piccoli e ascoltiamo. Fuori la pioggia leggera ha lasciato spazio a una vera e propria tempesta d’acqua. «Allora stronzetto, questi cazzo di soldi me li dai o devo farti del male?» Fabio, il proprietario, mugugna qualcosa di incomprensibile e poi scandisce «Non l’ho ancora venduta tutta la roba, non te la posso pagare». «Ecco la stronzata» dice a gran voce il terzo uomo marcandolo sempre di più. Gli afferra con forza il polso sinistro, torcendogli il braccio. «Credo che in quel Rolex ci siano i soldi che ci devi… e anche in quel bel Suv nuovo parcheggiato fuori». Il volto di Fabio s’imbruttisce in una smorfia di dolore e insofferenza. Il nostro cuore accelera i battiti, ci stacchiamo dalla grata per un istante. «L’ho sempre detto che quello lì non la raccontava giusta!». Carlo non riesce a trattenersi, sussurra con voce bassissima, ma eccitata per la scoperta. Nel frattempo allungo nuovamente il collo verso la grata, la curiosità diventa incontrollabile. La scena che mi si presenta adesso l’avevo vista solo nei film, di quelli con i
gangster ambientati negli anni Cinquanta: sempre il terzo uomo, basso e tarchiato, blocca Fabio con le braccia dietro la schiena e il più alto e ben vestito dei restanti due lo minaccia con un coltello. La lunga lama affonda nella pelle sotto il suo mento: basterebbe solo poco più di pressione e un movimento calibrato per lacerare la carne o recidere direttamente la giugulare. «Lo sai quanto mi devi. Sto aspettando da troppo tempo» ruggisce, «il patto tra noi non esiste più…o paghi o muori». Fabio in realtà pare già morto, bianco come un cencio, le sue gambe tremano visibilmente mentre il coltello serra la sua gola. La donna piange in silenzio, il trucco disfatto la fa sembrare ancora più disperata: «Ti faccio un assegno, a 30 giorni» dice rapida. «Giò» continua lei «tienilo come garanzia, finiamo di vendere la roba e vi paghiamo». Silenzio. Risuona solo il respiro pesante di Fabio, che sembra quasi svenire sotto la minaccia della lama. «Prendilo» ordina Giò al terzo uomo, che intanto libera Fabio dalla presa e poi mette in tasca l’assegno sgualcito. Il coltello a ora vicino al mento della donna: «Solo perché sei tu Anna, in ricordo dei vecchi tempi…» sussurra quello che sembra essere il capo, accostando il viso al suo orecchio. D’improvviso la bacia con violenza e disprezzo, per lunghi secondi, «ma se questo assegno risulterà scoperto non ci sarà più pietà né tempo, in qualche modo il vostro conto andrà saldato…». Sogghigna, con la voce rotta e scolpita dalla rabbia. Carlo intanto, rosso in volto, sembra impazzire. «Non posso crederci» esclama trattenendo la voce. Appoggio la schiena al muro nauseato, barcollo sulla scala e lo zittisco. Dal negozio ora più nessuna parola…solo i confusi, il cicalino che suona e la porta che sbatte. L’entusiasmo di prima mi ha abbandonato completamente. «E ora che succede?» chiedo a Carlo. Stavolta è lui a zittirmi. La porta del negozio è stata chiusa con due mandate di chiave e la donna, singhiozzando, si asciuga il viso con le mani già sporche di rimmel e rossetto. Si è lasciata cadere per terra, le gambe distese ancora demolite dalla paura. Fabio invece è di ritorno dall’ingresso, fortemente scosso. Si massaggia il collo, controllando poi nervosamente il palmo della mano. Forse
cerca tracce di sangue. Mette in tasca il mazzo di chiavi e si lascia andare esanime sulla sedia dietro la scrivania. Per un paio di minuti il pianto di Anna era l'unico suono che echeggiava nel silenzio. «Quell’assegno è scoperto», annuncia lei «di coca da vendere ne è rimasta poca, per novemila euro, non di più. L’assegno è di settantotto mila euro». Io e Carlo continuiamo ad ascoltare, ammutoliti, sempre più increduli e consapevoli di essere testimoni di qualcosa che finora credevamo appartenere solo alla finzione dei libri, dei film o alle notizie di cronaca. Ora i due parlano fitto, cercando una soluzione. Scopriamo che quel fantomatico Giò ha una ditta di rappresentanza con cui rifornisce il negozio di Fabio, ma entrambe le attività nascono come copertura per un traffico di cocaina e, su richiesta, anabolizzanti e altre sostante dopanti. Nel mentre la vernice sui nostri rulli comincia a seccare. «Ma quel tuo cliente, quello con la Specialized S-Works da corsa nera, Rudy, giusto? Non ti raccontava che doveva mettersi in società con un suo amico che ha appena preso in affitto un locale per aprirsi un negozio di bici?». La voce di Anna si è fatta improvvisamente più sicura, decisa. «Sì, allora?» replica, distratto, Fabio. «Come allora?» Anna si infuria. «Fai andare quel cervello cotto dalla bamba! Quello là, Rudy, viene qui quasi tutti i giorni! Raccontagli che sei stufo, che vuoi goderti la vita con i soldi che hai fatto in questi anni e che hai deciso di vendere il negozio! Quello è uno scemo, imbastisci un teatrino! Digli che è il tuo miglior cliente e che se ti aiuta a vendere l’attività entro quindici giorni gli darai il 20% del ricavato! Convincilo a parlare col suo amico, digli che qui troverà già tutte le attrezzature che gli servono, i contatti giusti, un bel pacchetto clienti e un negozio già fornito. E poi raccontagli ancora che stai facendo un prezzo stracciato, mentre loro faranno soldi a palate. A quello basterà annusare il guadagno facile e sarà fatta! Quando gli mostriamo il registro cassa ci cascano subito, abbiamo segnato cifre a molti zeri! Che poi quegli incassi non siano veritieri lo sappiamo solo io e te. Allora, che ne pensi?». L’atmosfera si è fatta elettrica. Io e Carlo restiamo appollaiati sulle scale e ci parliamo col silenzio di mille espressioni del volto, senza riuscire a farci una ragione di tutto ciò che stiamo ascoltando.
«Penso che quando arriverà per chiederci il 20% del ricavato gli darò un bel calcio in culo!» replica Fabio con una risata sguaiata. «Andiamocene a casa, chiamo subito “il nero” per ritirare le dosi di stasera». Ora la sua espressione è indecifrabile, quasi sprezzante. Si massaggia ancora il collo, ma sul suo volto è scomparsa ogni traccia di paura. E così sentiamo ancora rumore di i, ancora un cicalino che suona, una porta che sbatte e il rumore delle chiavi nella toppa. Una sgommata sulla strada bagnata e un Suv che si allontana dal marciapiede. Sbotto. «Carlo, ma in che cazzo di situazione mi hai messo? Ho già la testa per aria e ora devo vivere pure accanto a un negozio gestito da spacciatori dove possono accoltellare chiunque in qualsiasi momento? Io me ne vado! Troverò altro». Ho una crisi di nervi, lo ammetto, sono debole e provato dagli avvenimenti degli ultimi giorni, giro per la stanza prendendo a calci scatole e barattoli di vernice. «Alex calmati! Nessuno sa che abbiamo sentito. Se proprio vuoi, rimetti la carta sulla grata e dimentica tutto. Anche se io una storia così non me la perderei, è meglio che stare al cinema! Magari un giorno ci scrivi un libro e di questo dovrai ringraziare solo Lei che ti ha mollato». Ah già, Lei. Per qualche minuto l’avevo dimenticata. Un libro, che stupidaggine. Riprendiamo in mano i rulli e stappiamo un’altra birra, sciogliamo così la tensione nelle vene, abbiamo ancora un garage da trasformare in casa.
Capitolo III
È sera quando Carlo prende la sua giacca, le sue cose e ci salutiamo. L’appuntamento è rinnovato per il mattino seguente, stessa ora, stesso caffè insieme. Appena il portoncino si chiude e Carlo scompare sento insinuarsi di nuovo quella sensazione subdola e amara, così familiare ultimamente. La solitudine è dannazione e porta con sé pensieri ed emozioni spiacevoli, rabbia, disagio e inadeguatezza. Cammino. Come la sera prima studio nuovamente il perimetro della stanza, lo misuro con i i e con il respiro, ma stavolta ho pareti bianche da guardare e tapparelle color arancio che nascondono le alte, vecchie e malconce vetrate. Ho anche un piccolo tavolo a quattro posti, di quelli in legno che si acquistano in scatole piatte e si montano a casa in venti minuti. Ho anche due sedie, sempre in legno, con lo schienale alto, come quelle che avevo quando abitavo con Lei. In un angolo opposto alla porticina del bagno c’è il kit doccia posato a terra, da montare entro domenica. Poi due rulli nuovi e un grosso barattolo di vernice arancio mattone. In scatola c’è un armadio di quelli da cantina, in plastica, provvisorio e una serie di altre scatole il cui contenuto conoscono solo Carlo e sua moglie. Non trovo un senso per tutto ciò. Spengo i neon e accendo la mia torcia, la luce soffusa stasera rende il mio piccolo cantiere più accogliente. Il bagno è ancora un disastro, «ma Domenica non più!» ha detto il mio amico, con un ottimismo incontenibile. Voglio credergli. Continuo a pensare all’apparente quiete del negozio di biciclette, ad Anna e a Fabio, ai loro progetti per cacciarsi fuori da quel pasticcio. Mi chiedo se andranno a buon fine, se riusciranno davvero a vendere. «Andiamocene a casa, chiamo subito “il nero” per ritirare le dosi di stasera…». Questa frase mi tormenta, loro sono il penultimo gradino di un’organizzazione che distribuisce a tappeto quella polvere bianca che di questi tempi sembra indispensabile quanto e più del pane. Io di cocaina non ne so molto, non l’ho mai provata. Una volta vidi un amico col viso chino sullo specchietto del motorino, con una banconota arrotolata aspirava da strisce ordinate. Non me ne offrì, mi
indicò direttamente un ragazzo da cui avrei potuto procurarmela. Io salii in macchina e tornai a casa. Avevo Lei che mi aspettava. Mi stendo sul letto, stasera ho l’accortezza di togliere le scarpe e cambiare i vestiti. Sono le 21:00 e, in mezzo al frastuono dei pensieri, la mente non so come si placa e lascia spazio a un timido dormiveglia. La calma viene interrotta bruscamente dal telefono che vibra impazzito sulla solita scatola che mi fa da comodino. Funziona da cassa acustica, rendendo la vibrazione violenta e sonora. Sobbalzo. È Lei. Lotto con quel poco di amor proprio che mi è rimasto, che cerca di farmi desistere dal rispondere. Invano. Ormai ho premuto il tasto aprendo la chiamata. Dall’altra parte, eccola, la voce angelica e insolente di Lei: «Alex, perché non ti fai più sentire? Mi fai preoccupare!». Ingenuamente penso voglia fare un o indietro e le dico «Mi fa piacere che ti preoccupi per me…» Mi risponde acida «Voi uomini quando rimanete da soli fate solo pazzie…! Allora, stai bene?». Mi sento preso per il culo… Le rispondo «Sì». Metto giù e m’incazzo. M’incazzo con tutto me stesso e contro me stesso per quella debolezza. Mi rendo conto di quale donna meschina sia: mi ha preso tutto, mi ha sostituito con un altro senza ma e senza se, e continua a tormentarmi facendo la parte dell’infermierina preoccupata. Comincio a odiarla e ne traggo un certo sollievo. Ma l’indifferenza, quella è la meta che voglio raggiungere. Mi alzo dalla branda e ricomincio a vagare. Una bestia in gabbia. Allora apro la scala e la porto sotto alla grata. Tapperò quel maledetto buco, così non avrò altri pensieri, sarà come se nulla fosse accaduto. Non risponderò nemmeno più alle sue chiamate, tapperò anche il suo ricordo… nulla sarà accaduto. In cima alla scala, appoggio sui gradini un rotolo di carta adesiva e un foglio di giornale piegato in due. Guardo per l’ultima volta attraverso la grata: il magazzino del negozio di bici ora è silenzioso, buio e pacifico, sul lato sinistro la ruota è ancora posata sul pavimento rosso, ne riconosco la sagoma sbilenca. Sulla scrivania a destra invece regna un nuovo caos. Attraverso le tende filtra una debole luce: è l’illuminazione della vetrina. Fuori la temperatura è di cinque gradi, ma scendo dalla scala, metto il giaccone ed esco. Esco per scrutare ancora quella vetrina e quel negozio. La strada è trafficata e il
pub poco distante è un via vai di giovani che si consumano come le loro sigarette. Ridono. Come se il mondo non gli appartenesse, col piglio dell’adolescente che sente scorrere nelle sue vene un’energia talmente forte che è paragonabile a un fluido di immortalità. I faretti della vetrina illuminano di luce soffusa anche il marciapiede dove mi sono fermato, con le mani in tasca e il berretto calato sulla fronte. Vedo ancora quell’adesivo rosso bianco e nero sulla porta, mentre l’insegna è scritta in rosso e giallo, la luce di un neon trema un po’ mentre il faretto che dovrebbe illuminare una scatolina è miseramente spento. Dalla scatola in penombra spunta un sellino aerodinamico, riconosco i materiali, alcune parti sono in carbonio e altre in titanio. Impolverato come il cartellino che riporta il suo prezzo, di centoquarantanove euro. Sono ridotti così anche la maggior parte degli oggetti esposti. Improvvisamente ricordo che a Fabio e Anna quel negozio non interessa per ione, ma soltanto per coprire i loro traffici. Mi sento ancora vuoto mentre realizzo che ben poco è davvero ciò che sembra. Rientro nel mio rifugio, infreddolito. Scarto dall’imballo una stufetta elettrica, lancio il berretto sul letto e lascio il giaccone sulla sedia. La luce della stufa mi scalda, più che il suo stesso calore. Ritorno vicino alla scala e, dopo aver ripreso il nastro adesivo e il foglio di giornale, decido di chiudere quella grata. Non voglio aver niente a che fare con quello che succederà ancora al di là del muro. Guardo quel magazzino un’ultima volta, l’ultima davvero, mentre piomba nel buio totale quando scatta il timer luci della vetrina. Ripenso alle voci concitate, alle minacce concrete, ai discorsi di Fabio e Anna e provo un forte desiderio di sapere come andrà a finire. Ripenso alle parole di Carlo «io una storia così non me la farei scappare». Che ho da perdere in fin dei conti? Mentre stringo il foglio di giornale e il rotolo di nastro nella mano destra, scendo dalla scala, la chiudo e la ripongo nell’angolo opposto alla mia branda. Prendo la penna dalla tasca del giaccone e mi metto a sedere sulla sedia libera. Distendo la carta e scrivo nel bordino non stampato, in alto e a destra del foglio di giornale:
“Venerdì 11 Novembre Lei mi ha chiamato e io ho ancora risposto. Mi tiene in pugno. C’è mancato poco che oggi vedessi accoltellare un uomo.”
Poche righe. Ripongo qui il mio carico di emozioni. Una penna mi libera. Leggero ma non vuoto, riesco infine a dormire.
Capitolo IV
L’acqua è più gelida di ogni altra mattina, arriva sul viso come uno schiaffo, il modo più veloce per strapparmi dagli strascichi dei sogni notturni. Sogni in cui mi risveglio con Lei, sogni che fanno male, come la realtà di quelle quattro valigie sette giorni prima, come la voce estranea di quell’uomo accanto a Lei. Sono le 8:10, oggi voglio che Carlo mi trovi già fuori ad aspettarlo e per lui cercherò di sfoggiare i miei migliori sorrisi. Sistemo la branda, assente, come un automa. La luce del mattino dona al mio nuovo alloggio un aspetto più rigoroso e ne evidenzia ogni suo difetto. Mi ritornano in mente, confusi, gli avvenimenti di ieri, pesanti da metabolizzare. Osservo la grata ancora scoperta, finestra invisibile su un mondo inaspettato. Mi percorre un brivido intenso. A mente lucida mi ripropongo ancora di sigillare quel aggio, veicolo di voci e fatti troppo difficili da accettare, oscuri ma proprio per questo pericolosamente attraenti. Sul tavolo il foglio di giornale, con quelle due frasi scritte la sera prima: la scrittura è nervosa, mi rendo conto, e al contempo irregolare. Due frasi e una data: come e meglio di una fotografia. Le 8:26, esco per aspettare Carlo. Il negozio di biciclette è chiuso, il cartellino degli orari è molto chiaro: apertura al mattino dalle ore 9:00 alle 12.30, e al pomeriggio dalle 15.30 alle 19.30. Mi chiedo se oggi Fabio e Anna apriranno, puntuali o no, oppure se non verranno addirittura. «Non dirmi che vuoi ricominciare a cadere dalla bici!». Ecco la voce di Carlo. Il calore e l’amicizia della sua voce arrivano diretti e concreti insieme con la sua solita, forte pacca sulla spalla. Ricambio con il sorriso che avevo deciso di riservargli e ci avviamo verso il bar, o rilassato e pioggia di parole. Parliamo anche di Fabio e Anna: la nostra conversazione così di tinge di toni seri e quasi preoccupati, ma animata allo stesso tempo da un entusiasmo serpeggiante, palpabile, che nessuno dei due vuole ammettere. Brioche alla crema e caffè
dolce, chiacchiere col barista, uno sguardo al giornale di oggi e sono già le 9.10 quando siamo di ritorno e stiamo per attraversare la strada, all’altezza dei aggi pedonali che finiscono proprio davanti all’ingresso di «Qui Bici». Anna e Fabio sono stati puntuali: il negozio è aperto, come fosse una giornata qualsiasi. Riconosco la sagoma della donna, piccola e magra con i capelli corti e nerissimi, che esce dalla porta: è proprio Anna. Ieri non mi ero reso conto di quanto fosse realmente minuta. Con un secchio e un bastone lavavetri, sparge acqua saponata sulla vetrina inzaccherata. Entrambi la guardiamo: lo spirito è lo stesso con cui si scruta, rallentando con l’auto, la scena di un incidente stradale: attirati dalla tragedia ma mostrando comunque rispetto e solidarietà. Attraversiamo distratti parlando di Anna. Siamo ormai vicini al marciapiede opposto quando blocco Carlo con un forte strattone: un ciclista ci taglia la strada, una saetta nera, nera come la sua bici lucente, il suo abbigliamento elegante e curato, il suo casco e gli occhiali. Facendo leva sui freni anteriori e sollevando completamente da terra il retrotreno della sua bici, si esibisce in un'impennata al contrario e si ferma proprio davanti alla vetrina che Anna sta lucidando. Con un suono secco sgancia le scarpe argentate dai pedali e scende dalla sella, sottile come un foglio, rigida come alluminio. «Ciao Anna! C’è Fabio?» chiede. «Ciao Rudy! Tutto bene? Il volto di Anna è radioso. «Fabio è in officina, vai pure!». A quel punto leggo sulla bici la scritta «Specialized S-works». È nera con particolari cromati e manubrio bianco. Rudy si avvia verso il portoncino, lasciando la bici alla custodia di Anna. Cammina a piccoli i, le scarpe scintillanti hanno una suola liscia e rigidissima che a ogni o risuona di uno schiocco secco. Nonostante sia Novembre indossa una divisa con i pantaloncini corti e attillatissimi, che mettono in vista gambe dalla pelle liscia e finemente disegnate da muscoli che mostrano con orgoglio il risultato di migliaia di chilometri in sella. Scambio con Carlo uno sguardo complice e ci affrettiamo a entrare a casa. A casa… Uno da destra e l’altro dalla parte opposta prendiamo in spalla le nostre scale schizzate di vernice bianca ormai asciutta. Le apriamo, rapidi e silenziosi, mentre ci avviciniamo all’angolo della stanza per raggiungere la grata. Senza
esitazioni, senza parole, arrampicati come i bimbi di paese di quaranta anni fa, per guardare di nascosto attraverso le finestre la tv nelle case delle famiglie benestanti. Nel magazzino illuminato Fabio armeggia con la ruota sul bancone dell’officina: la fa girare, infilata su una forcella, mostrandone le irregolarità mentre ondeggia e sbanda. Con una piccola chiave gira rumorosamente la base di ogni raggio, a gruppi piccoli e opposti, con movimenti sicuri e calibrati. A ogni giro corrisponde un suono simile a uno scricchiolio metallico, piuttosto stridente. Dopo ogni serie di queste operazioni guarda il filo della ruota, la fa girare nuovamente scoprendola sempre meno ondeggiante, sempre più dritta e in asse. Appoggiati sul bancone accanto, una camera d’aria per metà ancora nella scatola e un copertone altrettanto liscio e sottile. Intanto lo schiocco regolare dei i di Rudy si fa sempre più vicino, giungendo anche a noi. «Ehi Fabio, ciao! mi offri un caffè?». Rudy si affaccia dalla tenda con una certa confidenza. Senza casco e occhiali si distinguono nitidamente i suoi lineamenti irregolari e i capelli ricci. Ha l'aria di essere molto giovane, forse sui venticinque anni. «Buongiorno Rudy!» Il volto di Fabio si illumina, attendeva proprio questa visita per dare il via al suo audace progetto. Io lo so. «Vieni e siediti, certo che te lo offro il caffè!». Rudy ringrazia e si siede sul bancone, accanto alla forcella che ospita ancora la ruota un po’ sbilenca. Fabio è scomparso dalla nostra vista, evidentemente la macchinetta del caffè è proprio sotto la grata, oltre la nostra portata. Mi sposto e sgranchisco la schiena, lasciando finalmente a Carlo piena visuale. Ascolto. Fabio tocca e prende qualcosa che sa di plastica, sicuramente cialde, bicchierini e bustine dello zucchero mentre Rudy chiede cosa sia successo alla ruota: «Il solito problema del cambio regolato male, tipico del fai da te improvvisato» racconta Fabio mentre dalla macchinetta esce il profumo del primo caffè. «Il braccetto del cambio che s’è infilato tra i raggi eh?» lo anticipa Rudy.
«Esatto, e se devo essere sincero mi sto davvero stancando di star dietro a questo tipo di riparazioni». Stiracchio ancora le braccia e riprendo il mio posto di vedetta, Carlo intanto scende dalla scala per andare al bagno. «Veramente mi sto stancando un po’ di tutto, sai» prosegue Fabio mentre gli porge il bicchierino di plastica e Rudy si appoggia pigramente allo scaffale metallico davanti al banco, girando il suo caffè. Mi nascondo il più possibile e dalla porta socchiusa faccio cenno a Carlo di non tirare l’acqua del water, dall’altra parte potrebbero accorgersi della nostra presenza, con non so quali conseguenze. Rudy sorseggia il caffè bollente e assiste alla commedia ben recitata che è stata preparata solo e soltanto per lui: «Sono stanco di lavorare e di stare a Milano, quasi quasi con Anna facciamo la pazzia, vendiamo tutto e ce ne andiamo in Florida a goderci un po’ i soldi». Più osservo il viso di Rudy, più mi rendo conto che si tratta di un ragazzo poco sveglio e molto viziato. Lo guardo ascoltare Fabio quasi a bocca aperta e l’unica cosa che riesce a dire è: «Figo…». Fabio a questo punto agita il polso e strizza l’occhio in segno d’intesa mostrandogli il Rolex: «Te lo dico perché ti reputo un amico ormai, non più solo un cliente (ammicca ancora). Ti garantisco che soldi ne ho fatti e parecchi, non hai idea di quanto renda un’attività simile…». Rudy è completamente nella rete, crede a ogni sua parola e, rendendo a Fabio le cose ancora più facili, apre lui stesso il discorso: «C’è quel mio amico che ti dicevo, Marco. È poco che ha preso in affitto un locale per aprirsi il negozio di bici, vuole andare avanti col progetto, però sono due grosse stanze che vanno ristrutturate e arredate. Poi è in zona est, lì ci sono già dei negozi che possono fargli concorrenza. Mi ha chiesto di entrare in società con lui ma non sono del tutto convinto, è rischioso…». «Però scommetto che se cambiasse idea e volesse prendere questo negozio tu non avresti più dubbi e in società ci entreresti!» lo interrompe Fabio, incalzandolo. «Io non voglio molto, te l’ho detto, di soldi ne ho già. Però vendo un negozio avviato, con un notevole pacchetto clienti, attrezzature e merce! Ci sarebbe solo da mettersi dietro al bancone e cominciare a incassare».
Fabio ha dalla sua una grande capacità di persuasione, che ne ha fatto un ottimo venditore. Durante questa convincente messinscena suona il cicalino della porta, seguito dal ticchettio tipico di una bicicletta sospinta: è Anna. Dopo aver pulito la vetrina ha fatto il suo ingresso portando con se la bici di Rudy. «Un gioiello così va messo al sicuro», dice suadente mentre entra in officina. Questa donna così piccola e decisa mi dà l’impressione di essere più determinante nell’organizzazione di quanto non si direbbe. Adesso, marcato da Fabio e Anna, Rudy non ha di certo scampo. Carlo nel frattempo è uscito a dare un’occhiata all’esterno: il cartello “Torno Subito” fa bella mostra di sé sulla porta del negozio. «Hanno pensato a tutto» mi dice alla fine. Eccolo Rudy, nel pieno di un inconsapevole lavaggio del cervello, in cui le parole soldi e affare risuonano con impressionante frequenza e grande forza di persuasione. Le chiacchiere proseguono poi ancora per un buon quarto d’ora, in cui io e il mio amico abbandoniamo le nostre scale per preparare la tinta arancio mattone da stendere sul bianco. In silenzio e con movimenti misurati, per cercare di cogliere ancora il senso di ogni parola che riusciamo a percepire. Rudy è quasi cotto, le voci si fanno sempre più alte e decise, in preda all’entusiasmo e intercalate da risate. Salgo ancora sulla scala, il tanto sufficiente per riuscire a sentire qualche parola di più ed ecco la sciabolata finale di Anna: «Sei proprio un ragazzo in gamba, sai! Ti ci vedrei davvero bene a gestire il nostro negozio: sei esperto di bici e meccanica e hai il senso degli affari! Ti faccio una proposta a cui non potrai dire di no! Io vorrei are il Natale al caldo, in una bella spiaggia di Miami. Convinci il tuo amico a prendere il nostro negozio. Se entro quindici giorni siamo dal notaio per firmare il contratto ti diamo il… dieci percento del ricavato! Per noi è nulla, ma sono certa che a te farebbero comodo!». «Fabio, ma tua moglie dice sul serio?» domanda Rudy, con un’espressione ebete. «Il dieci percento hai detto? Confermi?» «Certo» lo rassicura Fabio. Appare sicuro e amichevole. Le mani si stringono, il pesce ha abboccato e i giochi sono aperti. Rudy si allontana assicurando che più tardi si farà vivo, che contatterà subito Marco.
Il cicalino della porta suona nuovamente, uno schiocco secco e i pedali sono agganciati, gambe che cominciano a spingere, il seme sta per spargersi. Carlo è incredulo. Sembra che gli ultimi eventi diano ragione a chi sostiene che i furbi vanno avanti e gli onesti soccombono. Due esempi lampanti, Lei e la vicenda di cui siamo ora spettatori. Decidiamo comunque che rimanere appollaiati su quelle scale è controproducente, bisogna darsi da fare. Quello che Anna e Fabio si dicono lo lasciamo alla nostra immaginazione, anche se alcune forti risate lasciano intendere più delle parole. Il cicalino della porta suona ancora e l’officina si svuota dei suoi diabolici occupanti, la cassa ricomincia a suonare e a emettere scontrini fiscali. Sono le 13:00 quando buona parte della mia stanza risplende di un arancione caldo ed elegante che rinfranca il cuore, la osservo mentre mangio il mio primo pasto caldo dopo giorni di tramezzini e mozzarelle sgocciolanti. I rulli, col manico appoggiato al muro bianco, attendono di terminare l’opera intanto che i nostri piatti si svuotano da una semplice pasta al pomodoro: «È scotta e un po’ indietro di sale», sento una voce che borbotta, ma è il mio pasto della rinascita. Carlo sfotte pesantemente le mie doti di cuoco, mentre sommerge i suoi fusilli di formaggio grattugiato. Benissimo, anche la cucinetta elettrica è stata installata e collaudata, posata su un tavolo di legno abbastanza ampio da lasciare un piccolo spazio come piano di lavoro. La vecchia scrivania dell’officina ha ora nuova funzione e dignità, dopo aver conosciuto solo anni di polvere. Un’ora per terminare la tinteggiatura e, con quasi mezza giornata di anticipo inizieremo il risanamento del bagno. Mi sento ottimista: è una sensazione che mi piace davvero molto, mi spinge nelle vene energia limpida, una forza sincera che non percepivo da anni… sì, anni. Quando stavo con Lei non mi sentivo vivo quanto adesso. Sorrido, e mentre lo faccio mi rendo conto di quanto quella sincronia muscolare del viso, a suo modo una danza, mi sia mancata. Non credo durerà fino a stasera, ma ora voglio godermi tutto quanto. Sono le 15:40 quando dai rubinetti del bagno esce di nuovo l’acqua calda. Scorre nel lavandino ancora incrostato e porta via con sé i miasmi dell’acqua stagnante, della ruggine e dello sporco. Il nuovo scaldaacqua fa bene il suo dovere. «Carlo, che dici, caffè?». Soddisfatti ci prendiamo una pausa, godendo del profumo aromatico che si spande per la casa. Sì, ho detto casa.… sempre più familiare e accogliente. Un
cucchiaino di zucchero a me, uno e mezzo per Carlo. Il tintinnio tra metallo e ceramica sa di buono, di amicizia e momenti da vivere. Sa di casa. I bicchierini in plastica con le palettine sanno invece di caffè per lavoro, di caffè distante e frettoloso, di un qualcosa di formale che può consumarsi ovunque, ma non in una casa.
Capitolo V
Lo squillo del telefono in una stanza vuota, richiamo che non avrà risposta, mi ha sempre colpito e turbato allo stesso tempo. Qualcuno cerca qualcun altro e non lo troverà. È una speranza che viene delusa. È ciò accade in questo istante, nel negozio di bici ancora chiuso, ancora per poco. Una telefonata a vuoto, poi due, infine tre, in nemmeno cinque minuti. Alla seconda chiamata sono stato attento, ho contato quindici squilli. Dall’altra parte del telefono sicuramente c’è impazienza e delusione. Sono le sedici e tre minuti quando il telefono ricomincia la sua nenia. Sento il cicalino del negozio, un o e poi una corsa sui tacchi. Dev’essere Anna, per forza. È lei. Entra nell’officina, e con il fiato corto risponde alla chiamata: «Qui Bici, buonasera». Ansima. È la prima volta che la sento rispondere al telefono. Nonostante lo spessore della parete e la piccola grata posizionata a circa 3 metri di altezza la sua voce arriva piuttosto nitida. «Ciao Rudy, sì stiamo aprendo adesso. Mi spiace che non ci hai trovato prima. Il sabato però apriamo sempre un po’ più tardi». Pausa. «Tre telefonate? Caspita! Cerchi Fabio? Si è fermato a prendere le sigarette al bar, in cinque minuti sarà qui. Va bene a dopo, ciao» segue ancora una sfilza di innumerevoli «ciao» incollati l’uno all’altro, detti in modo automatico, sempre meno scanditi. Non riesco a sentire se mormora qualcosa a voce bassa, ma di certo ha capito che ci saranno delle importanti novità. Guardo l’orologio, sono le sedici e cinque minuti. Sono curioso di scoprire il livello di impazienza di Rudy, se conterà o meno i minuti. Il cicalino del negozio suona ancora e, dato che la curiosità non è solo femmina, salgo qualche gradino della scala, fino ad avvicinare occhio e orecchio alla grata: è già arrivato Fabio, che posa giubbotto e borsa sulla scrivania, quindi vi lancia anche sigarette e accendino. Perplesso guarda Anna, che lentamente si avvicina e gli posa una mano sulla spalla: «Sai chi ha chiamato…? Già quattro volte?». «Rudy?» chiede lui, ammiccante, mentre si infila una sigaretta spenta in bocca. Accende la radio e comincia a frugare tra gli scaffali, spostando e riordinando
alcune scatolette. «Allora, ho indovinato?» chiede ancora, con il sorriso spezzato dalle labbra serrate che tengono la sigaretta. Lei non parla neppure… lo guarda e annuisce con enfasi. Fabio continua ad armeggiare con le scatolette: ne apre una e tira fuori quella che mi sembra essere una camera d’aria, la scorre nervosamente tra le dita finché non si blocca leggendone una scritta. Parla a voce troppo bassa per poterlo capire, la radio confonde i suoni. Intenso, il trillo del telefono sovrasta ogni altro rumore. Anna guarda il display: «È lui». Controllo l’orologio: sono ati solo quattro minuti. Rudy è molto impaziente, deve aver concluso qualcosa e sente già tra le mani quel dieci percento. Carlo intanto mi ha raggiunto con o felpato. Me lo sono trovato spalla contro spalla quasi senza accorgermene, orecchio teso e sguardo discreto. Ancora a turno, come i bimbi d’altri tempi che ritornano mille volte di nascosto a guardare la tv dalla finestra delle famiglie benestanti. Fabio ha davvero il fare sgamato di uno che ne ha viste e fatte di ogni tipo. Ha doti per diventare un ottimo attore. Ma quello che mi colpisce sopra ogni cosa è l’ostentata sicurezza di sé, sempre al limite della sfrontatezza, almeno con chi reputa meno scaltro di lui… quasi tutto il mondo, credo. «Qui bici, buonasera», Fabio inizia nuovamente a recitare la sua parte, impeccabilmente. «Ah Rudy, sei tu! Sì, sì, Anna mi ha detto della tua chiamata. Cosa posso fare per te?». Durante l’ascolto lancia segni d’intesa alla sua compagna che, coprendo la bocca col dorso della mano, ride a bassa voce. Bisogna ammettere che sono una coppia solida e affiatata. «Ah sì, hai già parlato col tuo amico allora! Come si chiama? Marco, benissimo. Vuole vedere il negozio e parlare con me? Mi sembra il minimo!» pausa «Domani è libero? Ok, vi aspetto qui per le quindici, così vediamo tutto con calma a negozio chiuso. Ciao ciao, a domani, ciao» Così potrai mostrargli i tuoi registri contraffatti, farabutto… Abbiamo visto e sentito abbastanza, e, un po’ schifati ci rimettiamo al lavoro. «Che culo che hanno…» commenta Carlo a bassa voce.
«Ma secondo te riusciranno davvero a vendere?» gli chiedo. «Sanno giocare bene le loro carte quei due. In più Rudy sembra un elemento determinante, può spostare l’ago delle scelte del suo amico, inoltre Fabio e Anna lo tengono in pugno. È tanto importante nel loro gioco proprio perché sta seguendo l’esca! È giovane e sempliciotto, viziato e sprovveduto. Se il suo amico Marco non sarà così sveglio da accorgersene, i giochi saranno presto fatti». Annuisco in silenzio, intanto penso alla complicità di Anna e Fabio. Sì, li invidio. Con Lei non è mai stato così. Amare rende ciechi e sordi, generosi e indifesi. Amare significa abbassare la guardia. Lei ha sempre visto e sentito bene le sue esigenze, ha sempre preso a piene mani e comandato. Ecco l’errore: ho amato senza riserve qualcuno che di amore non ne ha mai provato. È arrivata la sera, lenta di buio e malinconia. Mi riporta nei pensieri l’amarezza, come l’alta marea si riappropria della spiaggia e bagna rocce, avvolge le chiglie e si allunga pigra sulla sabbia. Carlo mi ha salutato pochi minuti fa, e con lui è sparito il mio ottimismo. Non sarebbe durato più di quel momento, lo sapevo già. Anna e Fabio sono andati via insieme, puntuali alla chiusura, con la solita sgommata del Suv. Di sicuro ora saranno impegnati «col nero» per gli affari del sabato sera. Ho mangiato e spento le luci, poi ho la stufa elettrica per crearmi il tepore e l’atmosfera a cui ormai sono affezionato, in cui mi rifugio. Sono seduto al tavolo e mi guardo intorno, tutto diventa sempre più amichevole e familiare, quasi avessi sempre vissuto lì. Recupero il cellulare poco distante: nessuna chiamata, nessun messaggio. Oggi Lei si sarà fatta portare in qualche locale a ballare, con l’immancabile gonna svolazzante, i tacchi alti e i capelli sciolti. Magnetica, convincente, bellissima… non sono mai riuscito a dirle di no. Mi ritrovo solo sulla mia sedia e con il solito pezzo di giornale sul tavolo. Quasi una sfida. Ho bisogno di raccontare, di condividere queste sere, ma stavolta non con Carlo, con nessun altro se non me stesso, ho bisogno di confortarmi e di sfogarmi. La penna scorre, scrive schematicamente gli avvenimenti di questo sabato dapprima sul bordo bianco, poi le parole aumentano e invadono gli spazi più sotto e le fotografie. È un grido interiore, senza pudori, senza paure di giudizio, un grido che consuma l’amarezza, restituendo alla sera un sapore più
delicato e gentile. Sul muro danza lenta la fiamma della candela, infine mi addormento.
Capitolo VI
Quando mi sveglio sono le otto. Mi rigiro assonnato e stretto nel piumino mentre strofino il viso sulla federa. La barba di tre giorni raschia sulla stoffa, i capelli invece bussano sulle palpebre. Socchiudo gli occhi. Il colore caldo e accogliente delle pareti, nella tenue atmosfera mattutina, mi sorprende: come ogni novità dona sensazioni piacevoli e fresche. Carlo oggi non arriverà prima delle nove e mezza. Il letto è caldo e il solo pensiero che sia domenica mi fa scivolare in un pigro torpore, in un dormiveglia avvolgente di sogni leggeri e quasi coscienti. C’è silenzio. Pace interiore che non voglio venga scalfita da alcun tipo di pensiero…almeno per un’altra mezz’ora, almeno… Il negozio di bici è tranquillo, abbandonato anch’esso al silenzio della domenica mattina. Lo immagino nella penombra delle sue luci spente e del cielo nuvoloso, con i colori sgargianti smorzati, in un respiro sospeso. La strada è bagnata dalla pioggia notturna, qualche auto solleva ventagli d’acqua lurida dalle pozzanghere: dentro gli abitacoli immagino famiglie dirette alla chiesa del quartiere, ma anche giovani assonnati di ritorno verso i propri letti, qualcuno con un gran vuoto nella testa, altri con mille pensieri da nascondere o conquiste da raccontare. Forse qualcun altro si dirige al lavoro, mentre baristi e pasticceri sono già da ore dietro i loro banconi. Mi stringo ancora tra piumino e lenzuola, mi rannicchio sul lato destro, avvolto da sogni leggeri e sussurranti. Gli occhi sono chiusi, il cuore è leggero. Mi lavo con l’acqua calda stamattina. È un ritrovato piacere. Oggi offrirò io la colazione a Carlo, voglio stare un po’ con lui, sedermi al tavolino e convincerlo a mangiare quella fetta di torta con crema e lamponi che corteggia ogni mattina, senza mai permettersela. Sto mettendo le scarpe quando mi arriva un sms. Seduto ai piedi della branda, in bilico, mi allungo per raggiungere il telefono per metà sotto il cuscino, il display illuminato mostra l’ora sovraimpressa alla foto di un giardino giapponese che ho realizzato qualche mese fa per conto della ditta, su commissione di un’agiata ereditiera che sfoggiava il titolo di contessa, sposata con un ricco industriale brianzolo.
Sono le 9:23, mi stendo sul materasso per aprire e leggere il messaggio, una scarpa slegata e l’altro piede ancora libero. «Spero tu non stia soffrendo troppo, buona domenica». Solo Lei è capace di scrivere qualcosa di tanto cinico e insensato. Riesco finalmente a percepire queste parole con distacco. Penso solo al genere di persona con cui ho vissuto per tre anni, inizio a pensare che forse ho solo perso tempo. L’orgoglio brucia, quello sì, e non poco, infiamma l’animo e acceca la ragione, ma tra quelle fiamme, probabilmente da oggi inizierò a intravedere una via d’uscita. 9:26, chiudo il giaccone e la porta di casa. Ecco Carlo parcheggiare attorno alla piazzetta poco lontana: scende dall’auto, mi vede e mi saluta agitando le braccia, il suo sorriso è più luminoso che mai mentre mi corre incontro: «Alex, Alex… Diventerò papà!» con le lacrime agli occhi mi stringe in un abbraccio fraterno. «Diventerò papà…» sussurra. Questa novità è inaspettata, non posso fare a meno di gioire con lui, di cominciare questa domenica con un pieno di fiducia. Attraversiamo i aggi pedonali proprio dove ieri abbiamo evitato lo scontro con Rudy, ignorando completamente il negozio di bici che ancora sonnecchia immobile nella penombra del suo ampio locale. Carlo è un fiume di parole, incontenibile. Entriamo al solito Bar: ordino subito i caffè, due brioches e la fetta di torta di lamponi. «Offro io» dico al mio amico «non poteva esserci occasione migliore!». La vita è un costante moto, una costante evoluzione: toglie, restituisce, inganna, dona… Stamane mi sento leggero, sento la gioia di Carlo divenire anche la mia. Riesco anche a convincerlo a tornare a casa prima, almeno per l’ora di pranzo: ha una moglie con cui dividere almeno metà di questo giorno importante. Finirò io i lavori che resteranno incompiuti, che sia oggi o nei prossimi giorni. Non m’importa. Ci siamo seduti a un tavolino rotondo coperto con una tovaglia gialla, all’angolo tra il muro e la vetrina. Ho una perfetta visuale del marciapiede e della strada bagnata, ma anche del bancone del bar piuttosto gremito. Vedo bene anche quello destinato ai tabacchi e alle scommesse che si trova alla parte opposta, in un angolo più appartato e luminoso. In fila alla cassa riconosco un volto dai lineamenti familiari: ha appena pagato due pacchetti di Marlboro rosse. Si avvia
all’uscita fermandosi però prima al cestino non lontano da noi: scarta i pacchetti dall’involucro esterno trasparente, prima uno poi l’altro. Tra me e Carlo uno sguardo è più che sufficiente: si gira anche lui guardando l’uomo con cautela e discrezione. Capisce subito di chi si tratta, al contrario di me. «È Fabio», me lo dice sottovoce. È inspiegabile la sensazione che provo nel poterlo osservare in modo così diretto e ravvicinato: la sua immagine non filtrata dalla grata e dalla prospettiva mette a nudo lineamenti ed espressioni che rivelano molto di lui. Non avrà più di 38 o 40 anni, divorati e portati con stanchezza: i lineamenti sono marcati, ha delle rughe d’espressione così nette e definite che somigliano quasi a cicatrici mentre gli occhi, verdi e arrossati, sono contornati da profonde occhiaie e sembrano affondare in quel viso provato, sommersi da quei solchi disseminati con poco ordine. I capelli sono ancora scuri, ma piuttosto radi sulla sommità. Non è molto alto, forse un metro e settanta, forse poco più. Di corporatura esile ma con un ventre abbastanza pieno, i vestiti trasandati dai colori tristi stridono nel contrasto con il Rolex e le Paciotti. L’idea è quella di una persona trascurata, piuttosto sotto tensione e ricca di contraddizioni. Forse tempo fa correva in bicicletta e aveva dei sogni sinceri, forse aveva aperto il negozio spinto dalla ione. Ma ora di quel giovane rimane solo un’immagine deforme, manipolata da desideri distorti. Fabio mette una sigaretta spenta tra le labbra, sistema i pacchetti nella tasca interna della giacca e si incammina sul marciapiede, nervoso quanto basta. Io mi rilasso, per lui non sono altro che uno sconosciuto seduto al tavolino del bar. Non può lontanamente immaginare quante cose io sappia di lui… Tre ore di lavoro e il mio bagno è a ottimo punto. Carlo è tornato a casa e non sono per nulla dispiaciuto di starmene da solo questa domenica pomeriggio. L’incontro di poche ore fa con Fabio mi ha lasciato addosso uno strano turbamento. Facendo un esame di coscienza salta fuori qualcosa di scomodo: sto cercando di riempire la mia vita spiando attraverso una grata, come una casalinga frustrata che segue i movimenti degli amanti nel condominio. Me ne rendo conto quando, guardando l’orologio, penso che tra poco meno di un’ora il negozio delle bici si animerà di nuovi inconsapevoli attori, mentre Fabio mostrerà tutto il suo talento nella scena madre. In fondo cosa mi rimane da fare? Mi giustifico, vigliaccamente. Sono le 14:50, sorseggio il caffè mentre sfoglio una rivista di giardinaggio da cui voglio trarre spunti per prossimi lavori e progetti. Per Marzo abbiamo in
programma la trasformazione di un fazzoletto di terra incolto di circa 300 mq nell’alta Brianza: esposto a nord est diventerà un paradiso per rododendri e azalee, bulbose da sottobosco, gardenie e vinche. Un prato di loietto sarà tagliato da un sentiero roccioso che porterà a un laghetto con ninfee e carpe. Trovo soluzioni stimolanti che renderanno il progetto davvero delicato e interessante. Però in realtà faccio altro. M’inganno. Aspetto. 14:55. Chiudo la rivista e metto tazza e cucchiaino in una bacinella di acqua e detersivo. Indosso la giacca, calo il berretto sulla fronte ed esco. L’avevo già deciso. È pazzesco, lo so, ma voglio vedere le vittime entrare nella gabbia del carnefice. Farò la mia parte, quella del pedone di aggio, testimone casuale che poi diverrà cronista del massacro. Sono avvolto dal cinismo, è vero. Forse perché è terapeutico e catartico: vedere in difficoltà qualcun altro mi aiuta a non sentirmi solo in questo periodo così scardinato della mia vita. Forse è naturale che io mi comporti così, per non affogare nel mio dolore. Sì, per non sentirmi solo. Attraverso la strada senza seguire le strisce pedonali, guardo verso il basso pensieroso, a dire il vero mi vergogno un po’ di ciò che faccio. Tengo la rivista stretta nella mano destra. o tra le auto parcheggiate e raggiungo la prima panchina della piazzetta, quella vicina al pub. È appena inumidita dalla pioggia, ma siedo ugualmente. Non avevo mai osservato da questa prospettiva la strada e gli edifici accanto alla mia nuova casa. Si tratta di una serie di costruzioni piuttosto basse, tre piani al massimo: da sinistra riesco a vedere tre condomini di colori quasi identici tra loro ma di fatture diverse, c’è poi la vecchia officina del papà di Carlo, da qui si nota davvero quanto sia cadente e trascurata. «Qui bici» è al piano terra di un condominio la cui facciata è stata ristrutturata da poco, lo si capisce dalle rifiniture e dalle grondaie ancora scintillanti che corrono sul colore amaranto dei muri, ancora risparmiati dai Writers. Seguono altri edifici che sembrano più recenti: ospitano panetterie, altri piccoli negozi e residenze con ampi ingressi. Poco lontano dalle strisce pedonali ecco il Suv di Fabio e Anna rallentare e fermarsi. È bianco, lindo e lucidato a specchio. I due scendono e mentre Fabio accende l’immancabile sigaretta, Anna apre il portoncino con inferriata e poi la porta a vetri dell’ingresso. Entrano velocemente e senza accendere alcuna luce spariscono, inghiottiti dalla penombra, chiudendosi il portoncino alle spalle, lasciando una visibile scia di fumo. Dopo pochi istanti dalla mia sinistra sento arrivare un’auto che parcheggia e inserisce il freno a mano. Decido di non voltarmi e apro la rivista che ho portato con me. Quale sia
la pagina non ha importanza: è semplicemente il mio espediente per non apparire troppo sfacciato. Abbasso la testa verso le immagini e un ciuffo di capelli mi scivola sugli occhi, ne approfitto per volgere un fugace sguardo verso la macchina. I eggeri sono tre. Sento subito la voce di una ragazza: mi rilasso, non sono loro. La macchina viene chiusa e i tre ano davanti a me. Quasi allineati. Alzo gli occhi e vedo bene la ragazza, con un braccio circonda i fianchi di un ragazzo piuttosto alto. Lei sorride, parla e ride nervosamente. Sembra quasi volere sdrammatizzare una tensione interiore che si mescola a un forte entusiasmo, quasi saltella anziché camminare. Giovane, giovanissima, vent’anni forse. I capelli lisci sono di un nero corvino, tenuti sciolti, con un orecchio che spunta dalle ciocche ondeggianti. Ha un profilo delicato e le guance piene. Indossa un cappotto rosso lungo fino al ginocchio e stretto in vita da una cintura. La borsa è rigorosamente abbinata agli stivali neri col tacco sottile e ai pantaloni in velluto, sempre nero. Il sorriso le illumina il viso e il corpo: non è esile ma risulta proporzionata ed elegante. È così diversa da Lei, che del corpo ha fatto un culto: magra con gambe perfette e glutei rotondi e sodi. Non ha mai ceduto ad alcuna tentazione alimentare, sempre rigorosa e inflessibile. Questa ragazza, invece, ha dentro di sé la gioia avvolta da una morbidezza dolce e gentile. La gioia di abbracciare il ragazzo che ama, che le cammina accanto ma che non parla con lei e quasi la ignora. Rivolge tutte le sue attenzioni al terzo ragazzo: lo noto mentre sfilano davanti a me, rallentando in prossimità delle strisce pedonali. Riesco a inquadrare il ragazzo circondato dal braccio vestito di rosso: ha il fisico asciutto, per quello che riesco a intuire attraverso il giaccone, e capelli cortissimi. Si gira e sussurra qualcosa all’orecchio della sua ragazza. Ha lineamenti regolari e occhi profondi, sembra un po’ più grande di lei ma sicuramente è ancora ben lontano dai trenta. Il terzo invece fatico a vederlo: indossa un giubbotto e un cappuccio piuttosto ampio. Mentre l’osservo fa però una mossa che appaga la mia curiosità e ne rivela il viso: abbassa il cappuccio e si gira verso l’auto premendo il telecomando per verificare che si sia chiusa. Lo vedo chiaramente in faccia e non ho dubbi: è Rudy. Eccoli puntuali, non due bensì tre, i pesci che si avvicinano alla rete. Incrocio lo sguardo di Rudy senza preavviso, abbasso veloce la testa e mi tuffo nuovamente tra pagine della rivista. Vederlo in borghese mi dà l’idea di una persona insignificante e di scarsa intelligenza, di quelle che fa dell’immagine e dell’apparire il suo unico punto forte. Esattamente come Anna e Fabio lo descrivevano. Indossa vestiti che stimo di poter acquistare solo con almeno due dei miei stipendi e guida un’auto decisamente fuori dalla portata di un qualsiasi ventenne comune. Non so se mi rivolge nuovamente lo sguardo. Io con occhi
assenti e orecchie tese fingo interesse per una lettura inesistente. Ma il cappotto rosso non a inosservato, con la coda dell’occhio lo seguo con attenzione mentre si allontana. Attraversano la strada, si fermano sul marciapiede. Rudy allunga il o e li precede, aprendo per primo la porta del negozio. Alzo gli occhi e li vedo bene: entrano uno dietro l’altro e, per ultima, la ragazza. La vedo distintamente nella penombra del locale, probabilmente attendono che Anna e Fabio gli vadano incontro. Mi alzo, stiracchiandomi, con i pantaloni inumiditi che mi fanno maledire la panchina bagnata. Vedo Anna aprire la porta e infine tirarsi dietro le inferriate accostandole appena, per poi chiudere il portoncino. Incolla qualcosa sul vetro. “Chiuso”. Un cartellino scritto a mano. Una parola semplice dal suono così perentorio. Raggiungo il marciapiede antistante a «Qui bici», fingendo interesse per la vetrina. Cerco nella penombra il cappotto rosso della ragazza. Eccolo. Rudy sembra gestire con disinvoltura le varie presentazioni. Poi vengono accese le luci del negozio e, o dopo o, comincia ciò che appare essere un piccolo tour. Non posso sapere cosa si dicono ma Fabio, in veste di Cicerone, se la cava molto bene: gli sta mostrando il suo regno, che «potrebbe diventare il vostro», capisco dal labiale. Un negozio che potrebbe essere la loro fortuna, come lo è stata per lui… Sicuramente gli sta raccontando tutto questo, mentre camminano tra le file ordinate di biciclette raggiungendo il settore dell’abbigliamento. Decido di non farmi notare più di quanto non abbia già fatto e rientro in casa. Silenzioso, più che posso, apro e chiudo la porta del mio rifugio. Questa giornata sembra lunghissima, mi sento vagamente ignobile e la sensazione di vuoto tenta di prendere il sopravvento. «Come mi sono ridotto». Ma ho ugualmente riportato la scala sotto la grata e mi ci sto appollaiando: cerco di combattere così i miei vuoti, riempiendoli con una delle loro stesse cause. Penso che domani racconterò tutto questo a Carlo e non so se gli importerà, ma non riesco a vedere altra soluzione per me in questo momento. Voglio sapere. Devo sapere fin dove Fabio e Anna possono arrivare. Ho visto i volti di quei ragazzi già traditi da un amico, a sua volta ingenuamente caduto in un tranello. Forse sto solo vaneggiando: il negozio sarà venduto, Anna
e Fabio sistemeranno i loro casini mentre Rudy e Marco avranno il futuro assicurato col lavoro che sognano. La ragazza sicuramente è qui solo per far compagnia al suo fidanzato. Eppure, intimamente, tremo all’idea che quei ragazzi possano anche solo pensare di accettare. Lo temo profondamente, per loro. Il mio sguardo comincia a esaminare al di là della grata: l’officina del negozio è vuota, nulla in riparazione. La ruota è scomparsa. Per il resto tutto è identico a ieri. Solo la scrivania è stata messa in perfetto ordine. Sento distintamente la voce di Fabio intrecciarsi con quella di Anna mentre tessono le lodi del loro lavoro, dell’ottima resa del negozio, addossando la responsabilità di una conferma a Rudy, che ovviamente non li contraddice mai. Lui non sa nulla del negozio, se non che tutto quello che Fabio gli ha venduto era molto costoso e che, in virtù della loro amicizia, non era mai stato scontrinato. Rudy conferma un importante giro di clienti, vendite da capogiro in biciclette e ricambi di gamma altissima. Fabio conduce il gioco in modo eccellente e adesso comincia con la subdola fase che prevede la cattura e la conquista della fiducia dei potenziali acquirenti: lo fa aprendo loro le porte ai «segreti del negoziante». «Ragazzi, la cosa su cui si guadagna meglio è l’abbigliamento: il ricarico è molto alto. Rudy, hai presente il giubbino nuovo che hai preso la settimana scorsa? L’ultimo arrivato per intenderci: tu l’hai pagato centonovanta euro ma io l’ho comprato a molto meno della metà. Fate un po’ i conti! E di capi così ne vediamo tantissimi». Parole appiccicose che sento più nitide, penso siano fermi al bancone appena fuori dall’officina: una voce maschile inizia a parlare, mi è sconosciuta, perciò intuisco essere di Marco. Comincia a fare domande su contratti e concessioni di marchi, e altre ancora per me indecifrabili con sfumature molto tecniche. Sicuramente lui è un esperto e sa di cosa parla, non sembra uno sprovveduto, almeno a me. Mi chiedo però che differenza i tra il saper parlare di bici e il saper gestire un negozio di bici. «Ma adesso iamo alle cose concrete, parliamo di cifre ragazzi». Anna, con
tono mieloso e voce suadente invita e conduce tutti all’interno dell’officina. Li vedo entrare: prima lei, poi Rudy e Marco. Fabio, mostrando galanteria, cede il o alla ragazza col cappotto rosso. «Come volete il caffè? Rudy, tu il solito?». Anna scompare dalla mia visuale e Fabio si accomoda mollemente dietro la scrivania. Gli altri si guardano intorno, rigidi e attenti, quasi a voler imparare le posizioni di ogni scaffale e memorizzando quanti e quali oggetti contengano. «Marco?» chiede Anna. «Come Rudy, grazie» «E tu, Claudia, lo prendi il caffè?» Claudia, si chiama Claudia. La ragazza col cappotto rosso ora ha un nome. Mentre risponde ad Anna sorride candidamente. «Marco, tu sei ciclista ma non ti ho mai visto da queste parti. Abiti lontano?» chiede Fabio con voce roca, interrotta da leggeri colpi di tosse raschiata. «Abbastanza, abito a Rho. Ho scelto la zona est per aprire il negozio perché lì ho trovato un locale adatto a un prezzo piuttosto buono. Ma c’è ancora tanto da investire per ristrutturarlo e non credo verrà bello come questo in effetti.». Marco parla senza filtri, confidando i suoi dubbi, senza sapere di farlo con una iena. «E tu Claudia? Anche tu vuoi lavorare con le biciclette?» chiede Anna amichevolmente, mentre le porge il caffè. «Grazie… oh no, la bici la uso solo qualche volta, al massimo vado dal panettiere del paese! Studio Giurisprudenza, ho iniziato il secondo anno, sono puntuale con gli esami e vorrei laurearmi al più presto. Poi penso a una specializzazione, in cosa deciderò più avanti». Anna ascolta e annuisce in modo ostentato. «Ma c’è un progetto che curo maggiormente» continua Claudia «io e Marco vogliamo sposarci presto, diciamo appena il negozio sarà avviato. Per questo io e la mia famiglia vorremo usare risparmi e risorse per contribuire economicamente al negozio».
È dolce Claudia, dolce e ingenua. In lei trabocca un animo da sognatrice che le illumina un sorriso disarmante. «Prendete questo e vi sposerete tra pochi mesi!», la voce di Fabio squarcia il dialogo tra le donne. Lui mira dritto all’obiettivo. «Questo negozio è già avviato e Rudy sa bene che giro di clienti abbiamo». Gli occhi di Claudia si illuminano, Rudy si rivolge a Marco con gestualità ed espressione di conferma. «E ora vi faccio vedere la cosa più interessante», Fabio in un istante estrae dal cassetto uno strano quadernone sottile con una copertina nera. «Questo è il registro corrispettivi, è tutto alla luce del sole». Lo sfoglia, tenendo lo sguardo fisso sui volti delle sue vittime. «Guardate qui, avvicinatevi. Il mese di Ottobre è stato chiuso con quasi cinquantamila euro di fatturato ed è uno dei mesi in cui si lavora davvero poco: nessuno compra le bici perché si attende che le ditte abbiano disponibili tutte le novità mostrate alla fiera. Siete mai stati a visitare l’EICMA? Rudy e Marco, voi sicuramente sì». I ragazzi annuiscono con sicurezza mentre il registro inizia a are di mano in mano e le cifre vengono esaminate e confrontate con gli scontrini di chiusura cassa. Fabio incalza, non lascia tempi morti. «Come spiegavo al nostro amico Rudy l’altra mattina, sinceramente mi sono stancato della vita di negozio. Ho il mio bel conticino in banca, mi tolgo molti sfizi (mostra quell'orologio che sono ormai stufo di veder esibire a chiunque come segno di realizzazione) e non sopporto più il freddo di Milano. Vorremmo mollare tutto e andarcene in Florida, a Miami. Avete presente, a fare la vita da vacanzieri. Se proprio comincerò ad annoiarmi investirò su un noleggio di bici». Sorride mentre Anna gli va incontro. È convincente Fabio, sa raccontare storie e sa incantare. Davanti a sé ha ragazzi giovani e inesperti con cui la vita è stata gentile e di cui nessuno ha ancora tradito la fiducia. Non può fallire. «Se vi interessa, per centomila euro è vostro! Così come lo vedete! Soltanto nel valore della merce presente c’è ben più di quello che vi chiedo, vi lascio anche le attrezzature dell’officina e dell’ufficio, oltre a un gran bel giro di clienti! Mi sembra che voi siate davvero fortunati». Fabio li scruta attentamente, cerca di cogliere gli effetti di questa scena a effetto.
Vedo Claudia fare velocemente dei conti con le dita. Ha delle mani molto belle, delicate e armoniose nei movimenti. Infine sorride. Credo che la cifra rientri in quello che lei e i ragazzi pensavano di spendere. Fabio nota la reazione di Claudia nota e sogghigna. Lui sa che quella è la salvezza. Marco ascolta con attenzione, ma non dimostra reazioni particolari. Credo che la parte dei conteggi non sia il suo forte e si affidi alla sua ragazza. Rudy ovviamente esulta, caldeggia l’acquisto come un affare irripetibile. Claudia… non accettare… Invece ora è proprio lei che parla, la voce piena di ingenuo entusiasmo: «L’offerta è fantastica…ne parliamo in famiglia?» dice rivolgendosi a Marco. «Facciamo un po’ di conti e credo che già domani o al massimo mercoledì le sapremo dare una risposta» dice ora rivolgendosi a Fabio. Claudia gli dà del Lei. Porta rispetto incondizionato verso tutte le persone. I suoi desideri sono la sua stessa trappola, ma lei si vede già in abito bianco mentre sposa il suo Marco… A costo di privarsi di tutto vorrà contribuire all’acquisto di questo maledetto negozio. Mi sento sopraffatto, scendo le scale in metallo silenziosamente, con un nodo alla gola. Perché dovrei preoccuparmi? I tre ragazzi stanno per raggiungere il loro sogno lavorativo evitando ostacoli importanti e Fabio lascerà loro l’attività avviata e scomparirà. La sua Florida sarà in realtà uno squallido appartamento nella periferia nord di Milano, non di certo Miami, ma questo in cosa potrebbe nuocere? Rudy non è perfettamente sincero con i suoi amici, agisce in modo ambiguo e sotto interesse, ma in fondo sta solo cogliendo un’occasione. Eppure quel nodo alla gola persiste, accompagnato da una sensazione di impotenza, per qualcuno che nemmeno conosco. Non è da me tutto questo. Mi butto sulla sedia, premo le mani contro le tempie e chiudendo gli occhi provo a resettarmi, a fare chiarezza. Il sorriso di Claudia sommerge i miei pensieri, con il suo entusiasmo così pulito e ingenuo. I suoi sogni tanto semplici e grandi, altrettanto in bilico: è come un germoglio di ciliegio che si apre alla vita, attendendo piogge tiepide e sole di primavera. Ma se le piogge non sono fatte altro che di amaro diserbante, Claudia come potrà saperlo e mettersi in salvo? Tutta questa storia mi sta destabilizzando, più di quanto non vorrei. Veloce esco
e raggiungo il marciapiede, chiudo la porta e mi stringo nel giaccone, affondando il mento nell’alto colletto. Procedo a occhi bassi e mi dirigo verso i aggi pedonali. Forse è un caso o forse è scritto che io non possa sfuggire agli eventi: pochi secondi e i tre ragazzi escono dal negozio. Anna e Fabio chiudono porta a inferriate scambiando con Rudy e Claudia le ultime promesse e commenti. A parole l’affare sembra già concluso. I due si dirigono verso il loro Suv, lo superano e proseguono ancora a i lenti, forse verso il bar per l’ennesimo pacchetto di Marlboro rosse di Fabio. Accanto a me, in attesa di un varco tra le macchine in movimento, ci sono gli altri tre inconsapevoli attori. Claudia stringe il braccio del suo Marco, lo sommerge di parole dolci e speranzose. Lui però sembra di ghiaccio, incapace di esprimere emozioni, se non verso l’alluminio e il carbonio delle biciclette. Rudy, più distanziato dal gruppo, avanza cercando di far rallentare qualche auto. Claudia è accanto a me, alla mia sinistra. Attraversiamo la strada fianco a fianco, io poco più avanti e distante circa un metro dal suo cappottino rosso.
Faccio un sogno ricorrente in cui sono fermo in piedi, sulla riva di una spiaggia dorata e immensa. So che dietro di me c’è un ombrellone, ne vedo la sagoma proiettata sulla sabbia. Con occhi socchiusi punto l’orizzonte davanti a me, né a destra né a sinistra, solo di fronte a me. Percepisco il sole alle spalle, di un calore sempre più intenso nell’avanzare del suo percorso. Dall’orizzonte più profondo inizia a montare un’onda così gigantesca che ingoia anche il cielo. Bellissima, schiumosa, di un blu inteso. Io sono immobile, senza paura né alcuna intenzione di muovermi … eppure so bene che quell’onda mi ucciderà, sarà la mia fine. L’aspetto, finché oscura persino il sole e sommerge ogni cosa. Risucchiato e inerme sbatto contro il fondale, la paura prova ad affacciarsi ma è tale la meraviglia che mi avvolge da lasciare solo il desiderio di farsi trascinare e cullare da quella forza inarrestabile. Trattengo il fiato in un istinto di sopravvivenza, non potrò farcela a lungo. Ma ecco che i polmoni accolgono aria, sotto l’acqua. Respiro e dal fondo vedo la schiuma sulla superficie e il sole che mi illumina completamente. Non sono morto, devo dirlo a tutti che dopo che si viene travolti non si muore. Ci si sente più vivi.
Nella realtà sarei scappato, avrei gridato disperandomi alla vista di quella montagna blu. Ma eccola quell’onda: è accanto a me, vestita di rosso. Mi trasmette un’energia e un’elettricità che mi trafiggono, prima la pelle, poi il cuore, travolgendomi. Il battito accelera mentre ne scorgo il sorriso e gli occhi verdi, in quell’istante esatto in cui si rivolge verso di me, mentre sospira placando un po’ il suo animo. Claudia… scappa… fallo ora Distolgo subito lo sguardo dal suo viso, accelero il o sorando il gruppo. Senza meta, l’importante è staccarmi da loro: siamo nella realtà e io scappo dall’onda. L’onda non l’avevo mai affrontata dal vivo. Lei che m’ha lasciato, Lei che non m’ama più, Lei a confronto era uno spruzzo su una roccia: solo un grande effetto scenico che attrae folle di curiosi e fotografi. Ma non travolge, non spezza il fiato. Bagna senza preavviso e senza controllo, ma non abbraccia. Sento delle portiere chiudersi e una macchina innestare la retromarcia e uscire dal parcheggio, per poi armi accanto. Un lampo rosso dall’abitacolo scuro e poi più nulla, se non il via vai di una domenica pomeriggio di Novembre. Fabio e Anna mi precedono di poco, avanzano sul marciapiede parallelo a quello che percorro io. Camminano lentamente mentre lui fuma e ride, lei gli stringe la mano mentre parla e respira il fumo di lui. Non riesco a sfuggire a questa storia assurda. Sono in gabbia. Con un guizzo il sangue inizia a scorrere più forte, sento le vene pulsare di energia sconosciuta e comincio a correre. Negli occhi ancora quell’onda rossa dal sorriso dolce. La mia corsa è breve e intensa attorno all’isolato, avvisto ancora la piazzetta e rallento, cammino poi a i lunghi, prima scomposti poi via via sempre più regolari, come il mio battito e il mio respiro. L’adrenalina sospinge ogni movimento, lo rende fluido e facile. Respiro ancora, come nel mio sogno quando sotto la schiuma capisco che non morirò, un respiro profondo di cui i polmoni gioiscono fino all’ultima cellula. Mi sento vivo. Confuso, disperato ma vivo. Sono le 21:30. Steso sulla branda esamino il soffitto: è rimasto bianco e pulito. Qualche irregolarità che non si è riuscita a mascherare mi ricorderà sempre che questo è un vecchio garage. Ho il mio tavolo, una cassettiera in cui ho svuotato due delle valigie. L’armadietto in plastica è ancora vuoto. Un’ora fa sono stato
alla pizzeria dell’angolo, mi sono seduto in un tavolo per due. Il posto di fronte è rimasto vuoto. C’è stato Carlo per qualche minuto: ho parlato con lui al telefono e lo immaginavo con me a stappare una birra. Al centro del tavolino la candela è rimasta spenta. Inutile fare atmosfera se non si è in coppia, avrà pensato il cameriere. Ho mangiato la mia pizza e un gelato. Mi sono sentito ancora solo. Mi sollevo dal torpore e vado a lavare il viso. Voglio ancora sentire l’onda, voglio stare lì e non scappare. Asciugo le mani velocemente e anche se un po’ umide, afferro la sedia, la sposto con forza e così riprendo possesso della mia penna e di quel pezzo di giornale scritto in ogni direzione. Rileggo le frasi, le parole. Sempre più numerose e meno ingenue. Racchiudono sentimenti, sono deposito di emozioni forti da ruminare e metabolizzare pian piano.
“Domenica 13 novembre 2011 Ora nella mia vita è rimasta una valigia da disfare. C’è la gioia di Carlo per il bimbo che arriverà. C’è Lei e i suoi tormenti a cui sfuggire. C’è una dolce onda rossa… Claudia scappa, fallo ora…”
Mi risveglio che l’una è già ata da un pezzo. Il mio viso sul pezzo di giornale e la penna ancora tra le dita, posate morbide sul tavolo. Infreddolito e spaesato cedo all’abbraccio del piumino. Lo desidero. Chissà se stanotte l’onda mi travolgerà ancora
Capitolo VII
Lunedì mattina il quartiere è animato da schegge impazzite. La tranquillità del fine settimana è completamente ribaltata, dimenticata. Sono le sette quando lascio la mia casa e mi dirigo verso l’auto, ferma dal venerdì sera, nel parcheggio della piazzetta. Ho appuntamento con Carlo alle sette e mezza, ci incontreremo appena fuori dal bar vicino al caseggiato della ditta. Entro in macchina, metto in moto e mentre sbrino i lunotti faccio scaldare il motore. È buio. Attraverso i vetri appannati vedo la luce dei miei fari riflettere contro l’alto muretto di un’aiuola. È una luce intensa, tanto da abbagliarmi e illuminare perfettamente l’abitacolo. L’orologio digitale segna le 18:58, accendo la radio ma il volume mi sembra troppo alto per i cluster pubblicitari che vanno a raffica. Spengo, almeno per il momento. Il suono del motore è più che sufficiente. Allaccio la cintura, regolo lo specchietto retrovisore interno: lo devo fare, la sera la stanchezza mi impone una postura gobba per cui abbasso lo specchietto di conseguenza. In base alla regolazione che faccio ogni mattina capisco il grado di fatica della sera precedente. Schiaccio la schiena contro il sedile stiracchiandomi ancora un po’. Inserisco la retromarcia: con un’ampia torsione del busto controllo il traffico, che intasando la strada scorre lento dietro di me. Centimetro dopo centimetro conquisto il mio posto nel flusso incessante delle auto e finalmente parto. Sulla sinistra la mia nuova casa e, poco più avanti, il negozio di biciclette. Rallento in prossimità dei pedonali cedendo il o a una ragazza in bici e a un anziano che porta il suo cagnolino alla prima eggiata del giorno. Fa parecchio freddo stamattina. Ho davanti a me un fiume di luci rosse che a intermittenza divengono più intense, viaggiamo di un’andatura stentata in attesa dello svincolo che finalmente dividerà questo flusso troppo denso e assonnato. Accendo nuovamente la radio, il volume subito basso. Non ho voglia di ascoltare, ma semplicemente di non sentirmi solo, di avere una compagnia che riempia la mia auto. La mia notte è stata piuttosto tormentata, alla stregua delle mie giornate. Una confusione di immagini, sentimenti e situazioni impastate in un sonno pesante e disturbato, eccoli: i miei sogni e la mia notte. Nessuna onda. Nessuna sensazione di rivalsa, solo angoscia e paura. Ho paura di non farcela, di impazzire prima.
L’essere digiuno di caffè amplifica la percezione dei miei problemi, rendendoli più imponenti di quanto non siano realmente. «Tutto si risolve, tutto a». Cerco di autoconvincermi, quasi di ipnotizzarmi con queste parole che sollevano, almeno per un istante, il carico di emozioni dalle mie spalle. Il traffico si fa finalmente scorrevole mentre raggiungo la Brianza. o davanti a un grosso cartello stradale sospeso, un’uscita, spingo sull’acceleratore. Sono ati dieci giorni da quando anziché accelerare impostavo la freccia rallentando. Da lì, pochi minuti ancora ed ero a casa, da Lei. Adesso tiro dritto, altri dieci minuti e arriverò all’appuntamento con Carlo, parcheggerò nel cortile della ditta e poi mi infilerò in quel bar pieno dei soliti volti e soliti discorsi. Carlo è già arrivato, mi attende sui gradini esterni. «Ciao papà» gli dico mentre ci scambiamo le solite, forti pacche sulle spalle. «Come sta tua moglie?» poche chiacchiere mentre entriamo al bar, ordiniamo i soliti caffè, le solite brioches, poi insieme ad altri quattro colleghi ci dirigiamo verso gli uffici della ditta. Devo mettere la testa nel lavoro, di nuovo. Appena la mattina inizierà ad avanzare ci dirigeremo in una zona residenziale di quei paesi che confinano con la provincia di Lecco per un sopralluogo ai giardini di due ville e in un complesso di casette a schiera. Intanto, progetto alla mano, iniziamo a buttare giù proposte e idee per il giardino con laghetto. Carlo lavora con un’energia che non gli avevo mai visto addosso. Cerco di andargli dietro, concentrandomi solo sul lavoro trovando pian piano un equilibrio e una lucidità terapeutici per la mia anima. Srotoliamo sul piano di lavoro la tavola di progetto piuttosto ingrandita. I neon sul soffitto della stanza bianca illuminano perfettamente la mappa. Lo spazio da sistemare si trova in corrispondenza di cucina e soggiorno: si accede all’esterno da una larga porta finestra scorrevole e si può godere del giardino da lunghe e basse finestre. Controlliamo l’orientamento del nord e cominciamo a consultarci. Sarà un giardino rivolto a nord est, fresco e accogliente per l’estate. Inizio col disegnare i contorni del laghetto, posizionato in maniera strategica al centro, lo immaginiamo circondato da un percorso di piccoli sassi bianchi che va a tagliare in due il prato, proseguendo poi con grosse pietre di fiume, sempre bianche, posate sul manto erboso. Carlo stila una lista di piante, tra cui i fiori di loto e l’immancabile acero rosso che regalerà il suo inchino alle acque limpide del laghetto. Ho sempre amato questo lavoro. Nella mia casa, quando abitavo con Lei, quando vivevo per Lei, avevo trasformato una piccola terrazza di sei metri quadrati in una stanza verde di foglie e colorata di fiori: una pergola di glicine e clematidi, di caprifoglio e
gelsomino che ospitava un piccolo salotto che ha raccolto i nostri momenti più belli, d’amore e di ione. C’era sempre un bocciolo di fiore che si apriva, per donarglielo in qualsiasi giorno dell’anno. E adesso quella pergola è semispoglia e soffre in un autunno freddo e insistente, esattamente come la mia anima. Quelle piante moriranno, se non sarà Lui a bagnarle, a curarle. Ora dormono, senza nutrimento andrà perso tutto, per sempre. E lei, quelle piante non le ha mai curate, un po' come il nostro amore. Avevo venduto la mia casa per raggiungerla nel suo nuovo appartamento, come lei aveva chiesto. Così l’avevo arredato per noi, secondo i suoi desideri, secondo le sue manie. Ma di quei doni che ho voluto farle non mi è rimasto più nulla e quel che è regalato non lo rivoglio indietro. Carlo mi chiama «coglione», ma il mio cuore vuole così. Questo lavoro mi salverà, lo penso in silenzio, mentre seduto accanto a Carlo ci dirigiamo verso Lecco per cominciare i sopralluoghi. La giornata scorre veloce, tra piccoli terreni incolti da plasmare, nuvole, piogge leggere e un raggio di sole. Tra progetti di vita e di giardini, degli altri. Sono le 18:00 quando o il badge ed esco. Altre due parole, altri due i insieme a Carlo e sembra una sera come tante: una qualsiasi come negli ultimi tre anni, è un inganno piacevole finché lo faccio durare. Quando apro la portiera dell’auto ritorna di nuovo, spietato, il peso di questi giorni. Quello è reale, e un inganno non basterà. Sarà inutile dirigersi verso casa di Lei, tutto è cambiato. Per me quella porta rimane chiusa. Forse è meglio così. o di nuovo quell’uscita della statale, deglutisco, accelero, e mi infilo in quella dopo che porta al mio solito supermercato. Parcheggio con uno spirito diverso: devo riempire una dispensa stasera, fare una spesa di mole settimanale. Dirigo l’auto verso il solito posto, il mio parcheggio è così fuori mano che non risulta desiderabile per nessuno. Infatti era lì, vuoto come sempre, ad attendermi. Cerco una monetina, stasera staccherò un carrello. Non mani in tasca e sguardo perso, stasera no. Supero le porte scorrevoli e guardo con disprezzo il banco dei tramezzini preconfezionati, posizionato proprio all’ingresso. Per chi non ha tempo, per chi deve solo riempire un buco nello stomaco. E fino a pochi giorni prima quella era la mia unica meta: leggevo gli ingredienti della farcitura, la data di produzione e quella di scadenza. A volte rabbrividivo. Nella prima fila c’erano sempre i prodotti meno freschi. Giro alla larga da quello strano e triste frigo e comincio a girare per gli scaffali, sicuro di quello che voglio prendere: un fornetto elettrico, qualche pentola e cucchiai di legno. Proseguo con dell’acqua e
una bottiglia di vino. Faccio scorta di pasta e riso, tonno e salsa di pomodoro, poi ancora biscotti e latte. Le corsie sono ben illuminate e piuttosto affollate, carrelli e cestini si scontrano ando uno accanto all’altro. A volte ci si chiede scusa, più spesso ci si ignora. Mi dirigo verso il banco di frutta e verdura attraversando la corsia destinata agli articoli per la scuola e, intimamente, so che quel percorso non lo sto facendo per caso. Penne, matite, gomme, colla… album da disegno, quaderni e quadernoni. o oltre. Raccoglitori ad anelli, fogli bucati, quaderni con raccoglitore a spirale. Mi fermo. Scelgo quello più grosso, con più fogli: nella copertina c’è un acero rosso giapponese. È mio. Lo metto nel carrello con cura, in modo che non si sgualcisca e o a scegliere mele, carote e sedano. Il supermercato non è gigantesco, ha poche casse, di cui solo tre attive. Tra il frastuono della musica di sottofondo, gli annunci al microfono e il chiacchiericcio diffuso mi incolonno alla cassa di Gisela. Ho sempre pagato da lei e ha sempre la fila più lunga. Non è particolarmente bella. Credo sia Sudamericana, ha un sorriso magnetico e un’allegria trascinante: sembra quasi che tutti vogliano avere a che fare con lei per poter tornare a casa col cuore più leggero. Il nastro di gomma nera scorre sibilando e vi poso la mia spesa, Gisela mi riconosce e mi saluta mentre strappa lo scontrino del cliente che mi precede: «Ciao! Come mai oggi niente tramezzini, nemmeno una mozzarella?». Scherza e mi fa l’occhiolino. Lei non sa nulla di me, nemmeno come mi chiamo. Ma ha saputo leggermi nell’animo e adesso sa che pian piano inizio a riemergere da una pozza buia e melmosa. Fatta da quale problema lei non lo sa esattamente ma, sono sicuro, ha capito tutto. Io di lei ho saputo invece solo leggerne il nome dal cartellino appuntato sulla camicia. «Casa nuova!» le rispondo con un largo sorriso. «Mi sono appena trasferito e mancano parecchie cose» dissimulo. «Capisco» mi dice lei, ammiccando. Carico nuovamente il carrello, la saluto ed esco. Leggero, m’incammino verso l’auto. L’altalena dell’umore mi porta anche a gustare i particolari di un nuovo inizio, non tutto è amaro come pensavo. Trasferisco la spesa nel baule posteriore, tranne il quaderno, che poso con attenzione sul sedile accanto a me: adoro l’immagine di quell’acero che si specchia sull’acqua. Metto in moto e mi dirigo verso casa. Saluto il guardiano del parcheggio che, credo anche oggi, s’aspettava di dovermi cacciare alla chiusura scuotendomi dal mio stato catatonico. Invece no, sono quasi le 19:00 e mi sento di nuovo padrone del mio tempo. Lavorare in Brianza e vivere a Milano ha i suoi vantaggi: si viaggia controcorrente, il traffico è meno denso e in poco più di dieci minuti esco dallo svincolo e vedo l’insegna «Qui bici», scintillante e
confusa, col suo neon che ancora traballa. Mi dirigo proprio da quella parte, fermerò l’auto accanto al marciapiede, davanti al mio ingresso. Il movimento e il traffico sono meno intensi che al mattino, quindi accosto senza problemi, lanciando un’occhiata al negozio nei suoi ultimi quindici minuti di apertura. Scorgo Fabio dietro al bancone: parla con due uomini che vi stanno appoggiati pesantemente, si tengono la testa con la mano, con gomito e braccio distesi sul banco. Inserisco le quattro frecce ed entro a casa: senza accendere le luci scarico la mia spesa alla sinistra della porta, richiudo e monto velocemente in macchina. Vedo un parcheggio liberarsi, uno di quelli della piazzetta, ma non uno qualunque: è quello che aveva occupato Rudy il giorno prima. Quel posto adesso è mio. Scendo e ripenso a Claudia, ricalco i suoi i e arrivo ai aggi pedonali, attraverso con facilità e mi dirigo verso la vetrina del negozio di bici. Fingo interesse per i prodotti, ancora una volta giro lo sguardo verso quella sella mal illuminata e la sua polvere, poi in un attimo sono dentro col pensiero: mi immagino invisibile accanto a Fabio e ai suoi clienti che parlano del più e del meno, tirano l’orario per rientrare a casa il più tardi possibile dalle loro mogli. Sfogliano un catalogo e Fabio fa loro i prezzi «da amico» calcolati solo per loro. «… certo, come no…» penso. Da qua fuori non vedo Anna, forse è già andata via o magari è in ufficio. È una sera qualsiasi, in un normale e sereno negozio qualsiasi, almeno all’apparenza. Tutti e tre gli uomini poi si dirigono verso la porta che ora si apre, e mentre si salutano Fabio si affaccia per tre quarti, rivolgendosi a me: rimango impietrito, con lo sguardo fisso sulla vetrina, non posso far altro. «Vuole entrare?» mi domanda. «Glielo chiedo perché sono in chiusura» continua. «No, grazie, curiosavo solamente. Rierò più avanti, devo prendere una bici per mia moglie» invento, abbastanza imbarazzato, ma me la cavo bene a ogni modo. «Bene, buonasera allora» mi dice Fabio mettendo la solita e immancabile sigaretta spenta tra le labbra, mentre abbozza un sorriso storto. Chiude a chiave la porta a vetri e spegne qualche luce, veloce si dirige nel settore abbigliamento e comincia a piegare grossolanamente alcune giacche buttate sul tavolino di vetro a due ripiani, con i montanti laccati in rosso. Decido di rientrare a casa in fretta e accendo solo la torcia per far in modo che, entrando in magazzino, Fabio non
noti una luce troppo intensa provenire dalla grata. Cinque minuti, forse nemmeno, ed ecco l’assordante frastuono a cascata della serranda che si chiude e poi il rombo del suo Suv che abbandona il marciapiede vicino al negozio. Mi rilasso e finalmente accendo le luci. Ho sistemato alcune cose intanto, posizionato e pulito il fornetto, ma stasera mi preparo una tazza di latte da accompagnare con qualche biscotto. Ogni tanto anche con Lei si cenava così… io i biscotti al cacao, lei quelli integrali… io il latte, lei un tè. Stasera replico e senza rimpianti. Sul tavolo, con sguardo assente, porto alla bocca un biscotto zuppo di latte caldo che pare quasi esplodere appena i denti vi affondano. Ne mangio cinque, forse sei. Mi perdo, intanto, nella foto dell’acero sulla copertina. Raccolgo le briciole, ritiro la tazza e sigillo il pacco dei biscotti, solo dopo averne messo un ultimo, asciutto, tra i denti. Strofino le mani tra di loro, poi a lungo sui pantaloni: voglio siano pulite per non sporcare nemmeno una pagina di questo quaderno. Tra le mani ho un blocco di carta quadrettata, rilegata ad anelli, con la foto in copertina che mi ha richiamato a sé, fortemente. Lo ribalto e lo rimiro, luccicante nella sua carta patinata. Ne sento lo spessore, la consistenza leggera e robusta dei fogli. Una griglia da riempire con lettere e numeri, un custode di pensieri. Forse proprio dei miei. Delicatamente afferro il foglio del giornale, sta sul mio tavolo da ormai troppi giorni. Tra le righe stampate cerco le scritte di mio pugno e le rileggo col timore di ritrovarmi troppo ingenuo. Ma trovo un Alex sincero, timoroso ma forte, desideroso di riscatto ma soprattutto di una nuova vita da costruire giorno per giorno. Non esistono progetti a lungo termine nella proiezione attuale del mio tempo. Claudia… lei sa bene ciò che vuole, porta con sé un programma dettagliato della sua vita, sa cosa fare e quando lo vuole fare. Sono certo di una cosa: cosa siano i colpi di coda che riserva la vita, Claudia ancora non lo sa. Apro il mio quaderno e accarezzo con la mano destra la prima pagina, ne liscio la carta, la scaldo… che accolga così in ogni fibra e in ogni spazio della sua struttura l’inchiostro dei miei pensieri. «Potresti farne un libro», ricordo le parole di Carlo. Forse un libro no, ma un diario perché no? Il mio diario Ricopio pensieri, senza sosta. Parole che si trasferiscono veloci, bramose di lasciare quella vecchia pagina di giornale ingiallita, di trovare una forma e una
dignità. Sentimenti vivi che diventano linee e curve, che assicurano immortalità a ciò che sfugge senza controllo. Poi con due mani accartoccio quel foglio di giornale, lo comprimo con forza e lo lancio lontano. Ha perso il suo valore. I miei pensieri hanno ora una nuova dimensione, ne sono felice. Poi il volume alto della suoneria di una chiamata mi fa sobbalzare, mi sorprende così tanto che la mano scatta improvvisamente: la penna traccia un lungo e profondo segno in diagonale vicino all’angolo inferiore del primo foglio. È Lei, ancora lei, maledetta… ha saputo comunque entrare nel mio diario. Prendo il cellulare in mano e guardo il display: le 21:30, il suo solito orario. Zittisco il telefono e lo lancio sul letto. Questa sera non ho bisogno di Lei e di certo non voglio riaprire una ferita ancora così fresca. Voglio stare con me, pensare ancora all’onda e sperare di sognarla. Voglio chiudere gli occhi e rivedere quel cappotto rosso e il sorriso ingenuo. Voglio deviare tutto verso ciò che mi fa stare bene. Avrò molto tempo davanti per ripensare a tutti i miei errori, alle mie mancanze di coraggio. Chiudo il quaderno, lo allontano di poco da me e, incrociate le braccia sul tavolo vi poso la testa. Con gli occhi chiusi rivivo ancora quei i fianco a fianco con Claudia. Quell’elettricità che trasmetteva. Immagino di sfiorarle la mano e di vederla sorridere… travolto dalle sensazioni, mi abbandono alla notte.
Capitolo VIII
Giovedì 17 Novembre La mia settimana accelera il ritmo, riprende quasi quello di sempre. Per dieci giorni il tempo per me è stato un compagno sgradito, pesante, ingombrante. Invece questa settimana è stato sfuggente, veloce e ritmato dal lavoro e da pensieri labili. Il progetto per il giardino giapponese è quasi terminato, con Carlo abbiamo apportato alcune modifiche, come una parete d’edera che sostituirà il canneto. Lasciamo decantare ogni idea per questo fine settimana, se poi saremo ancora soddisfatti, lunedì il progetto erà in approvazione. Sono le 21:00, la mia settimana corta è terminata. Non mi dispiace riprendermi un po’ di tempo, nonostante non abbia le idee molto chiare su come riempirlo: settimana terminata, come i lavori in questa casa provvisoria che sento sempre più accogliente. Forse grazie anche alle candele che accendo ogni sera, cilindriche e bianche, ne sto collezionando una serie di residui che, penso, presto rifonderò. Voglio regalarmi la mia candela. Troverò un qualche genere di stampo in cui colarla, ne nascerà forse un nuovo atempo. Ogni sera ho spiato dalla vetrina il negozio di bici, fingendomi un ante: tutto pare fermo, sospeso, in una normalità sconcertante. Il fuoco che aveva lasciato in me la scoperta di venerdì scorso e gli avvenimenti dei giorni immediatamente successivi s’è quasi spento… forse ne ho elaborato da solo tutti gli avvenimenti, con la mente febbricitante dalla disperazione? Oppure è proprio accaduto quello che ho visto venerdì scorso? Quel coltello puntato alla gola, le minacce e i ragazzi vittime sacrificali designate? Inizia a sembrarmi tutto così distante, da non appartenermi quasi più. Qualche dubbio, sinceramente, ce l’ho. Non mi affaccio alla grata da martedì. Mentre rientro a casa vedo sempre Fabio, qualche volta anche Anna, mentre riordina il negozio prima di chiudere e poi, poco dopo, il frastuono della serranda che è sempre l’inequivocabile segno di
chiusura. E vanno via. Magari Rudy e Marco si sono tirati indietro e Claudia se n’è fatta una ragione e penserà a percorrere un’altra possibilità. Nel frattempo tutto tace. O così almeno sembra. Venerdì però, ormai ho imparato, è sempre giorno di rivoluzioni e colpi di scena. «Chissà se ti rivedrò, Claudia. Spero proprio di no…».
Capitolo IX
Venerdì 18 novembre Stamattina mi sono alzato a fatica, rigido come un legno, anchilosato. L’umidità della Brianza sgomita parecchio nelle mie ossa. Per tutta risposta non avevo puntato la sveglia. Ho voluto regalarmi del tempo: tempo per riposare, tempo per fare null’altro che dormire. Il aggio veloce delle macchine sulla strada e la serranda di «Qui bici» sembrano ormai voler scandire tutte le mie giornate casalinghe. Riconosco persino il motore del SUV di Fabio. Tutto questo costituisce pezzetti più o meno trascurabili della mia nuova vita. Nonostante tutto, io lo sapevo già, il venerdì non si smentisce mai. Anche stasera sono seduto al tavolo, candela e torcia già accese. Se ho deciso di scrivere è perché qualcosa da raccontare in effetti ce l’ho. Non pensavo che avrei potuto continuare da subito il mio abbozzo di diario, né tantomeno che avrei avuto un desiderio così spontaneo di farlo. La pioggia incessante di queste ore produce sul vecchio tetto un suono quasi di cascata, mentre sulle finestre fa il tipico rumore che si può ascoltare dentro i capannoni. A tratti le gocce sono così grosse e pesanti da sembrare semi di ciliegia sputati su un piatto. Tutto questo mi ricorda l’origine del mio rifugio. Ho recuperato il vecchio pezzo di giornale che avevo accartocciato e lanciato in un angolo, l’ho disteso un po’, in particolare nel punto in cui avevo scritto i miei primi pensieri: ne ho ritagliato un rettangolo che ho deciso di usare come segnalibro per questo quaderno. È il momento di are al racconto dei fatti, ce ne sono, eccome. Stamattina ho deciso per la solita colazione al bar. Le dieci erano ate da almeno un quarto d’ora quando ho iniziato ad avviarmi per il solito caffè e brioche. Una mattina serena e soleggiata di quelle che invitano a eggiare o a pedalare. Di quelle rare per Milano. Credo fosse proprio per questo che il negozio di bici era animato come non mai da un bel via vai di ciclisti con divise dai colori vivaci e sponsorizzatissime. Alcune bici erano appoggiate, pedale e manubrio, alla vetrina, forse erano tre. La porta d’ingresso era aperta e ho sentito
distintamente l’odore di gomma, denso e dominante, del negozio: l’ho sempre percepito dalla grata, ma stavolta è stato come ritrovare una rassicurante e inattesa nube dell’odore di cui da bambino mi riempivo le narici. Quando con carta vetrata, mastice e pezzette cercavo di riparare i buchi delle camere d’aria della mia bici. Vivendo in cascina i sentieri attorno erano ricchi di piccole pietre pungenti e spesso le potature di rosa e rovo non lasciavano scampo. Mi sono sentito trascinare di peso in un ato sbiadito, con forza e per istanti interminabili. Un collegamento diretto tra il me adulto e il me bambino era lì, nell’odore di quel negozio. Mi sono scostato dalla porta aperta: due persone uscivano conducendo a mano una bici. Uno dei loro volti mi era familiare, come gli inconfondibili capelli ricci: Rudy, non avevo dubbi. Accompagnava la bici e ci camminava accanto, senza la sua divisa nera scintillante, vestito come in un giorno qualunque. Dietro di lui giungeva il ticchettio delle scarpette lisce degli stradisti, prodotto dal o lento e impacciato di un alto e robusto signore ben oltre la sessantina. Indossava ancora casco e occhiali con lente gialla, ben ancorati su testa e naso. Basta un istante e Rudy monta in sella alla bici: «Verifico subito che problema abbia il cambio». Inizialmente non capivo. Ho chiesto permesso al ciclista attempato decidendo di mettere piede in negozio. Sì, oggi ci sono entrato. Prima o poi sarebbe successo. Ho fatto un o, due e poi tre nell’incertezza più totale. L’odore di gomma diventava sempre più pieno e intenso, quasi denso, arricchendosi di infinite sfumature. La luce del sole filtrava dalla vetrina, facendo scintillare le vernici glitterate di alcune bici, riflettendosi intensamente su quelle col telaio polish. Ho subito scorto Fabio dietro al bancone, sulla sinistra, mentre con due clienti armeggiava con cataloghi e alcuni pezzi meccanici che non so identificare. Anna in quel momento attraversava le tende rosse del magazzino con una pila di quattro scatole di scarpe: verde, grigio, ocra e nero. La specchiera vicino all’ingresso rifletteva i colori delle scatole ondeggianti al suo incedere mentre, veloce, si dirigeva nel reparto abbigliamento dove l’attendevano una mamma col suo bimbo. Piccola, energica e scattante, come sempre. In sottofondo una radio a volume sostenuto. Mi sono sentito quasi sopraffatto: una tale quantità di biciclette l’avevo vista, forse, solo nei parcheggi bici di qualche stazione. Non così belle, né così scintillanti. Sapevano di nuovo, di voglia di libertà.
Una voce profonda mi ha risvegliato, improvvisa, una voce malferma e insicura. Una voce che già avevo sentito… «Posso essere d’aiuto?» Mi sono voltato velocemente, Marco mi guardava quasi intimidito, con un sorriso abbozzato a fatica. Sul momento ho ricordato la scusa raccontata qualche sera prima a Fabio: la bicicletta per mia moglie. Dovevo stare al gioco e volevo sapere. «Vorrei vedere una bici per mia moglie. Avevo già parlato col proprietario, quel signore dietro al bancone» gliel’ho sparata lì, diretta. Volevo capire cosa stesse succedendo. Marco e Rudy erano lì. Perché? «Posso aiutarla io, Fabio è molto impegnato ora». La risposta di Marco è stata gentile, ma asciutta e insufficiente. L’ho così assecondato, cercando di avviare una qualche genere di conversazione. «Va bene, grazie! È che non t’avevo visto la volta scorsa, da quanto lavori qui?». L’ho detto con fare quasi disinteressato, mentre con o spedito lo seguivo verso la zona più a destra del negozio. Si camminava tra bici dai prezzi esorbitanti, esposte strategicamente su cavalletti e piattaforme rialzate. «Forse per mia moglie una bici da cinquemila euro è un po’ troppo». Ho ridacchiato, rendendo questa battuta ancora più ridicola. Cercavo disperatamente un modo per farlo parlare un po’ di più. Volevo capire cosa ci fe lì: avevano già acquistato il negozio? Erano entrati in società con Fabio? O Forse volevano solo verificare l’andamento dell’attività lavorandoci dentro per qualche giorno? Marco sa essere di poche parole: «Quelle sono tutte da competizione». Mi sono bruciato la risposta. Mi trovavo davanti a una serie di bici mai viste, affascinanti e dalle linee inconsuete, ma ancora non sapevo precisamente perché lì ci fosse Marco. Il ritorno di Rudy è stato provvidenziale per farmi buttare nuovamente l’esca: «Anche quel ragazzo non l’ho mai visto».
Domanda giusta e risposta giusta: «Lui è un mio amico, vogliamo rilevare l’attività e staremo qui qualche giorno per capire come funziona il negozio». Riaffiora l’ingenuità di Marco, in quella frase durata poco più di un’istante. Adesso so tutto quello di cui ho bisogno. A quel punto avevo ripreso in mano la situazione. Dopo poco ho cercato di divincolarmi. Sono andato via dicendo che sarei riato con mia moglie, che il colore che desiderava non c’era, non ero sicuro. Così, con una scusa a caso. Ho pensato a Claudia in quel momento. Uscendo ho dribblato il ciclista sessantenne che seguiva Rudy verso l’officina mentre, spavaldo, salutavo Fabio dicendo: «Hai visto che sono venuto per la bici di mia moglie? Ritorno nei prossimi giorni!». Ne ho ricevuto un distratto gesto di saluto seguito da un mormorato «a presto». Vado via che mi sento un detective idiota. Claudia non c’era, forse ha deciso di starne fuori. Tutte queste ipotesi, tutte queste domande, avrebbero poi avuto una secca risposta poco prima dell’orario di chiusura. Uscendo dal negozio ho raggiunto il bar, ho fatto la mia colazione e ho deciso poi di proseguire verso il parco distante pochi chilometri. Il sole è stato invitante e piacevole fino al primo pomeriggio, poi d’improvviso è stato oscurato da nuvole pesanti che ora sfogano il loro carico. Ho camminato sotto al sole con lo sguardo rivolto al cielo, oltre le fronde dei pioppi ormai spogli. Verso mezzogiorno ero di ritorno, sulla via di casa. Duecento metri di distanza non mi hanno impedito di riconoscere Claudia col suo cappottino rosso: usciva dal negozio abbracciando Marco, Rudy invece sgusciava subito dietro di loro in sella a una bici bianca, sorandoli e salutando «a dopo!». In negozio Fabio e Anna servivano gli ultimi clienti. Erano le 15:00 quando la serranda si è aperta di nuovo, come ogni pomeriggio. Un vociare più intenso del solito mi ha spinto a sospendere qualsiasi attività per salire nuovamente alla mia postazione di guardia: quella grata. Ogni volta che mi ci avvicino, quando la vedo lì, mi domando chi l’abbia posizionata su quel muro. A cosa servisse. Non al papà di Carlo, che addirittura l’aveva nascosta e coperta con della carta. Forse è stata montata lì per sbaglio, forse era un collegamento di areazione con la stanza attigua che ora ospita l’officina del negozio delle bici.
Sicuramente però non è stata messa lì pensando che uno strano giorno qualcuno (io) l’avrebbe usata per essere ignoto testimone della vita complicata di persone sconosciute. Nonostante tutte le riflessioni possibili è andata a finire così, che vi ho guardato attraverso anche oggi pomeriggio. Ho imparato che l’officina magazzino è il punto di incontro e di partenza per tutte le attività del negozio: vi si depositano borse, bagagli e giacche. Si beve il caffè, si fanno i conti, si accolgono i clienti per acquisti importanti, ci si ferma per chiacchierare. Fabio faceva strada e dietro di lui le voci sempre più intense divenivano volti, man mano che avano oltre la tenda. Uno a uno si sono accatastati giacconi e cappotti: prima Fabio, poi Marco e quindi Rudy hanno ricoperto una sedia posta accanto agli scaffali in ferro. Sembrava messa lì apposta. I ragazzi fremevano, percepivo la tensione di chi affronta un nuovo lavoro, di chi deve impararlo in fretta perché presto si troverà da solo. Fabio ha subito preso da parte Rudy: gli mostrava un’agenda, (ho poi capito), con le scadenze e gli appuntamenti per le varie manutenzioni delle bici: erano appoggiati al grosso bancone in legno unto da vecchie macchie di grasso scuro, e analizzavano gli appunti riga per riga discutendo sul da farsi. Marco invece è uscito dopo poco, lui le bici le vende, il suo posto non è lì. Mentre ava per la tenda ho intravisto un’ombra rossa avanzare verso l’officina finché, preceduta da Anna, anche Claudia ha fatto il suo ingresso, diretta alla sedia davanti alla scrivania. Ha tolto il suo cappottino rosso, rivelando un abbigliamento più semplice di quanto non credessi, comunque elegante e di buon gusto. Era piuttosto tesa: nonostante la sua caparbietà era palese che si sentisse fuori posto, forse aveva serie difficoltà a entrare in piena sintonia con Anna che intanto, sparita dalla mia vista, preparava l’immancabile caffè. L’ho osservata, Claudia. Attentamente. Si guardava intorno nervosa, soffermando lo sguardo prima su due concentrati Fabio e Rudy, poi su scaffali e scrivania. Strofinava tra loro le mani parzialmente coperte dalle maniche un po’ lunghe e, in una sequenza quasi incontrollata, toccava i capelli, tirava il collo del maglioncino bianco, andosi poi la mano sulle clavicole intanto che incrociava le gambe e respirava profondamente. Sembrava quasi assorta nel preparativo di una fuga, in preda a una scossa adrenalinica. Ma credo fosse conseguenza inevitabile della sua timidezza ed emotività. Anna le ha ato il caffè, offrendole anche dei biscotti al cioccolato e delle praline. Mi ha colpito il modo in cui Claudia ha rifiutato i dolci, in un crescente imbarazzo spiegava, anzi
si giustificava, di essere costantemente a dieta, dando l’impressione che le sue forme generose e gentili non fossero altro che un enorme ostacolo nella sua vita. Ho capito che se fosse magra da lei non trapelerebbe insicurezza, forse. Ma non trasparirebbe nemmeno quel candore così dolce che la rende “Claudia”. Penso che sia una di quelle ragazze in conflitto con la vita solo perché non “perfette” come stupidi canoni pretendono. Come è Lei: magra e tonica, una scarsa taglia 42. Lei, che della bellezza interiore di Claudia non ne ha che un fioco barlume, in fondo a quello che si chiama, forse anche per Lei, cuore. Anna aveva conquistato la seduta dietro la scrivania, invitando Claudia a mettersi a proprio agio. «Oggi per te è un giorno di vacanza» recitava «mentre i ragazzi lavorano noi ci facciamo una bella chiacchierata e ci rilassiamo un po’. Allora, da quel che mi dicevi tu verresti qui ogni fine settimana per riordinare la contabilità. Ti faccio vedere io come fare». Anna e Fabio, hanno la forza di uno schiacciasassi in coppia. Ci sanno fare, suadenti e inarrestabili. Intanto Marco aveva nuovamente fatto il suo ingresso in officina, allertando Rudy dell’arrivo di una riparazione urgente, di quelle di cui occuparsi subito e consegnare in poco tempo, col cliente accaldato dai chilometri che, forse, a malapena sfilerà casco e occhiali. Anche stavolta Marco tradiva emozione dai gesti e dalla voce. Lo sguardo di Claudia invece si era illuminato, come ogni volta: in lui vede il suo futuro sposo. Era come volesse abbracciarlo con quegli occhi verdi, sussurrargli sempre parole d’amore e non fermarsi mai nel nutrire i progetti della loro vita. Marco però mi è sempre sembrato sfuggente: vedo che ogni sua mancanza pugnala Claudia la quale, lo si leggeva anche stavolta nei suoi occhi, l’aveva già perdonato e pietosamente giustificato. Anna sgranocchiava un grosso biscotto, forte del suo fisico asciutto e nervoso: apriva i cassetti alla sua destra, estraendone fascicoli ordinati per gruppi di lettere e anno e mettendoli sulla scrivania davanti a Claudia che, buttato il bicchierino del caffè, li osservava sfogliandoli con interesse. Non sono riuscito a capire quanto il suo sguardo fosse davvero attento ma quelle pagine giravano con un ritmo troppo rapido perché potesse esaminarle con coscienza, capendo fino in fondo ogni documento. «Ogni volta che fate un acquisto vi arriverà una fattura: le dovrai sistemare per data e numero, allegandola poi all’ordine con cui l’avrai confrontata prima ed eventualmente con il documento di trasporto. Semplicissimo. Mentre poi ti farai un tuo registro personale, da tener nascosto, oltre a quello ufficiale dei
corrispettivi, dove segnerai le scadenze dei pagamenti alle ditte, gli incassi giornalieri ufficiali e non ufficiali. Qui puoi fare parecchio “nero”. I clienti non vogliono quasi mai la ricevuta e potrete fare lo scontrino solo a chi non conoscete bene» la voce di Anna è complice. «Così tu e Marco riuscirete a metter da parte velocemente i soldi per sposarvi…». Ed eccola, la diabolica Anna. Vedevo Claudia dubbiosa, mentre ascoltava attentamente. Non ha dato alcuna risposta, si è limitata a ricevere quelle parole. Anna incalzava, cercando con insistenza di creare un clima di confidenza e fiducia. «Da quanto state insieme tu e Marco? Bel ragazzo, davvero.» A Claudia era bastato un istante per sfoderare il più dolce dei suoi sorrisi prima di rispondere: «Sono ormai sei anni, a Dicembre. È il fratello maggiore di una mia ex compagna di scuola. Lui ha quattro anni più di me. Credo sia stato un colpo di fulmine per entrambi. Al colpo di fulmine ci ho sempre creduto! Io ero un po’ più magra all’epoca mentre lui era più rotondo. Si è apionato quasi subito al ciclismo, sempre più seriamente finché si è trasformato col fisico asciutto e scattante che vedi: mangia solo alcuni cibi e ama così tanto la bici da volerne fare il suo lavoro, come ormai sai». Claudia continua, parla senza sosta: «Lo voglio aiutare, tutta la mia famiglia vuole contribuire. Non navighiamo nell’oro ma abbiamo già chiesto il prestito alla banca e verrà liquidato a giorni». Anna intanto annuisce, con un sorriso tirato e finto, vedo la sua capigliatura lucente e ferma incorniciarne il profilo, gli occhi sembrano socchiusi. Quello che le a per la mente non voglio nemmeno immaginarlo. «Ti dirò…» prosegue ancora Claudia, più rilassata «lo sto convincendo ad accorciare i tempi per questo negozio, a lasciar stare le insicurezze, proprio perché ormai per il prestito non ci sono più problemi. Ti dico, in confidenza, che Rudy è dalla mia parte e mi spalleggia. Domani sarà il giorno delle decisioni. Credo proprio che cercheremo di concludere il tutto con una scrittura privata questa domenica. Ieri abbiamo formato la società. Insomma, per me è fatta». Anna aveva davanti a sé un fiume di latte e miele che le forniva preziosi e indispensabili dettagli. Erano a un o dalla realizzazione del loro piano.
«Ma per favore» ha ripreso Claudia, improvvisamente trafelata «tieni per te queste cose e non anticipare nulla a Fabio, né ai ragazzi, mi raccomando». Anna l’ha rassicurata con la forza di una vecchia amica, quindi ha cominciato a esibirsi nel ruolo di sincera consigliera: un grande spettacolo di prostituzione intellettuale. Quando il discorso ha cominciato a toccare i modelli di abiti da sposa, scarpe e bouquet mi sono eclissato. Ho sceso quei gradini con le ginocchia brucianti e il disgusto nello stomaco. Sono uscito ancora a far due i, alla larga da «Qui bici», col cuore calpestato. Sono quasi incredulo nel continuare a vedere così tanto candore, non credevo ci stesse tutto insieme nella stessa persona. Invece Claudia lo contiene, insieme a un’altra mezza dozzina di sentimenti perduti dall’animo di mezzo mondo e di certo dagli animi di Fabio e Anna. Vorrei proteggerla, vorrei salvarla dalla rete ma me ne devo fare una ragione: la vita presenta vassoi di piatti deliziosi e altri amari e pesanti. E lei non può sfuggire alla sua dose di fiele, per lei stessa, per la sua vita. Sento aria di forti cambiamenti, delusioni e pericoli. Elementi nuovi che, violentemente, sfonderanno le delicate pareti in carta di riso dentro cui vive la dolce Claudia.
Sabato 19 Novembre Carlo dice «Facci un libro». Se gli eventi continueranno a evolversi in questo modo forse accadrà veramente. Non mi ero reso conto di aver scritto così tanto ieri sera. Ho riempito quelle pagine di una scrittura veloce che ha inciso profondamente la carta lasciando, riga dopo riga, i solchi sulle pagine nuove. Mi stupisco di me stesso. Con i polpastrelli esploro ancora quei segni, come non facevo dalle scuole elementari. Stamattina mi ha svegliato un sms di Lei, solito, falso e sdolcinato, poche parole senza senso. Ho avuto la forza di dare una risposta coraggiosa: «Non mi cercare più». Quattro parole contenenti la mia fuga da quella situazione assurda. Ho eliminato la sofferenza di sentirmi violentato da ogni sua telefonata. Mi resta
comunque una montagna di dolore da spalare via, almeno così il primo carico è stato fatto. Sabato di nebbia, sabato di freddo. Sabato di qualche lavoro in casa al mattino e poi di pranzo da Carlo e sua moglie. Sono le 19:00. Poco prima di sedermi qui per scrivere ho dato sfogo al mio solito vizio di curiosare al di là della grata: ho trovato Fabio e Rudy ancora al lavoro su alcune bici da riparare. In quei pochi minuti ho visto Marco entrare una volta, portando con sé una piccola bici appena venduta da sistemare. Rosa, con un piccolo cestino bianco e decorata con adesivi a forma di piccoli fiori e stelle. Il regalo di un papà per la sua bimba, ho pensato. E ho pensato a Claudia. Stasera non c’è, forse sarà rimasta a casa per studiare. La mia giornata è stata lunga. Per oggi basta così, non ho più voglia di raccontare.
Ore 20:45 E invece devo, devo scrivere. Perché questo mio essere testimone da quella grata prima o poi mi porterà a impazzire. Perché sono spettatore di qualcosa che ogni giorno pare non trovare limiti nel complicarsi, mette su tentacoli minuto per minuto e stritola. Diventa un film a episodi, intrigante, lo ammetto. Ma non c’è finzione, non c’è regista e la mia posizione è doppiamente scomoda: sono un guardone seduto su un alto e stretto gradino in acciaio e, mentre celo la mia presenza, il film prosegue, rivelandomi scene e verità che mi piacerebbe non ci fossero, se solo non andassero a travolgere la pelle di Claudia. Mi rendo conto che vorrei davvero proteggerla, e per questo non riesco a sopportare l’evoluzione di ciò che accade senza preavviso. La serranda era chiusa e le luci quasi del tutto abbassate. Erano le 19:30, solito, preciso orario di sempre, quando il Suv è partito. Ma l’officina era ancora viva e animata: Marco e Rudy avevano tra le mani una riparazione importante, da concludere tassativamente in serata e da consegnare all’apertura mattutina del lunedì. Fabio li ha voluti mettere alla prova, ha voluto fero il loro primo lavoro in autonomia. Un telaio era appeso in alto sul cavalletto bloccato al pavimento. Una ruota giaceva sul bancone: ci armeggiava Rudy. Un’altra invece era per terra: Marco la spogliava da copertone e camera d’aria. Manubrio e forcella invece erano adagiati accanto al bancone sul pavimento in gomma rossa.
Concentrati, farfugliavano qualcosa, ognuno per sé. La stanza si è improvvisamente animata con la suoneria di un’aria classica dal volume piuttosto alto: il telefono di Marco squillava. L’ha sfilato dalla tasca destra dei pantaloni e dopo un’occhiata al display, ha accelerato ogni movimento, impaziente e agitato. Si è velocemente scusato con Rudy, congedandosi di corsa, attraversando la tenda dell’officina con una lunga e rapida falcata. Rudy l’ha osservato uscire, perplesso, mentre continuava a impilare gli ingranaggi della ruota posteriore sui cui denti scorre la catena. Li sgrassava e puliva con cura, alternando a ogni pezzo uno spessore ad anello, mettendoli in ordine crescente. Percepivo in lontananza un vociare basso: probabilmente Marco s’era rifugiato nel reparto abbigliamento. Me lo sono immaginato seduto sul divanetto bianco della zona calzature, in chissà quali discorsi con la sua Claudia. Finalmente senza imbarazzi avrebbe esternato dolcezza e affetto. Poteva avere tutta la riservatezza, di cui palesemente aveva bisogno, solo lì, scappando dall’officina. Continuavo a osservare il lavoro meticoloso e patetico di Rudy. Le sue mani tradivano inesperienza del mestiere e il timore di commettere qualche errore. Mi incuriosiva vederlo lavorare con le dita tremanti mentre, impilando gli ingranaggi, ne buttava giù la formazione, impotente. Stavano lavorando su una MTB, non era come quelle che usavo io da ragazzino. Mi rendo conto che esiste un gran numero di persone, di cui ignoravo l’esistenza, che coltivano con grossi investimenti la ione della bicicletta. Forse investimenti maggiori anche di quelli che nostri clienti dispongono per i loro giardini. Solo pochi minuti perché Marco tornasse in officina. Sorridente. È stata la prima volta in cui l’ho visto davvero sorridere. Gli occhi risplendevano di nuova energia e di una luce intensa e particolare. Quasi indefinibile. Si è rimesso subito al lavoro sulla ruota, srotolando la nuova camera d’aria e dandogli una parvenza di forma soffiandoci dentro poca aria. Canticchiava a voce bassa, senza nemmeno rendersi conto di quanto fosse palese il suo improvviso buonumore. Vedevo Rudy morire dalla curiosità, l’ha guardato fisso per almeno dieci secondi prima di esplodere in un divertito: «Ehi tu, allora?». «Allora cosa?» ha replicato Marco, senza muovere lo sguardo né modificare di un millimetro il sorriso che aveva stampato sulla faccia. «Allora, che ti prende? Voglio sapere che notizie hai! Devono essere incredibili
per come stai messo! Era Claudia vero? Hanno liquidato il finanziamento?». Rudy era in attesa di una risposta che tardava ad arrivare, mentre Marco, chinando ancor di più la testa, si era ributtato sul suo lavoro. Lunghi, lunghissimi secondi di silenzio. «Dai, che ti ha detto? Non fare il coglione, dimmelo! Che notizie ha Claudia?». Rudy era in bilico tra il seccato e il divertito. Marco ha taciuto ancora un po’. Poi s’è messo dritto, in piedi. Il suo volto era trasformato, improvvisamente rigido e serio mentre guardava in faccia l’amico. Un sospiro profondo ha preceduto una risposta molto sofferta: «Al telefono non era Claudia». «Allora che è successo? Se non era Claudia, perché sei scappato così?». Si, chi era a questo punto, me lo sono chiesto anche io. «Senti, questa cosa prima o poi te la dovevo dire», Marco si faceva sempre più serio, nervoso e teso. Il mio cuore intanto accelerava i battiti, avevo già capito che genere di risposta aspettarmi, ma speravo davvero di sbagliarmi. «Ti ricordi del quartiere dove ho affittato il locale per il negozio? Ricordi il bar che sta nella traversa vicino? Diciamo che ultimamente lo sto frequentando più spesso…». Rudy, inespressivo, fissava l’amico. «Al telefono era Lorena». «Lorena? Ma chi, la barista? Non pensavo avesse il tuo numero! Perché ti chiamava? Va in bici anche lei?». Rudy è davvero poco sveglio. Lorena è quel velo che ha offuscato lo sguardo di Marco per Claudia, l’avevo già capito, senza essere un mentalista. «Mi chiamava perché… stasera ha la casa libera e vado da lei. Rudy senti, quella ragazza è sensuale da impazzire, sicura di sé, bella e selvaggia! Ci vado a letto più o meno da una settimana, anche nelle sere in cui vedo Claudia: appena sono libero ci sentiamo e che sia in macchina, a casa sua, da me o nel magazzino del bar facciamo sesso. Sempre. Non mi sono mai sentito così vivo»
Rudy si era irrigidito. Con un’espressione interrogativa e distorta stampata in faccia, ha saputo chiedere solo: «E Claudia?». «Claudia non deve sapere niente. Devi tacere!», Marco parlava con un tono deciso e vagamente minaccioso. «Le voglio bene, ma ho bisogno d’altro. Per ora comunque con Lorena è solo un’avventura, magari finirà tra poco, all’improvviso com’è cominciata. Non voglio pregiudicare il lavoro per questa mia sbandata. Ma finché dura, me la voglio godere. Poi si vedrà». Mi è bastato questo. Sono sceso dalla scala e così, vestito come mi trovavo, sono uscito e ho corso per dieci minuti. Mi sentivo tradito. Tradito nella fiducia per le persone. Mi ritrovo davanti a un manipolo di individui avvezzi a fottere gli altri. Rudy mente ai suoi due amici: appena sentirà l’odore dei soldi promessi da Fabio mollerà il negozio, che poi si ritroverà col culo per terra ancora non lo sa. Marco invece sta attuando un doppio tradimento verso la sua ragazza: nell’amore e nelle intenzioni. Se la storia di Lorena salterà fuori non oso pensare alle conseguenze sulla fragile Claudia. Le cose si complicano e non di poco. Solo con la carta e la penna riesco a sopportare questo peso.
Domenica 20 novembre È fatta. Fabio e Anna si sono idealmente sfregati le mani, prendendo l’assegno col primo acconto di ventimila euro. La serranda si è sollevata alle 14:30. C’erano Anna e Fabio, c’erano Rudy e Marco, c’era Claudia con i suoi genitori. Il finanziamento richiesto verrà liquidato domani, lunedì. Al momento della compravendita dal notaio, fissata per il giovedì seguente, verrà saldato tutto. È un accordo assurdo: Rudy si è pagato solo l’ingresso nella società. Marco, con la scusa di avere già speso tanto per il locale in affitto non vuole investire granché, si scalerà ogni mese un po’ di soldi dallo stipendio fino ad arrivare a un contributo di diecimila euro. Il resto è tutto a carico della famiglia di Claudia: l’aiuto per la loro figlia, per realizzare un sogno d’amore e un progetto di vita. Mentre ascoltavo tutti questi particolari ero basito, tanto quanto Fabio e Anna. Anche loro non riuscivano a capire come, in una situazione tanto squilibrata,
dovesse poi apparire ufficialmente una società, in cui il capitale sarebbe comunque risultato equamente diviso tra i soci. A loro però questo poco importava. Quell’assegno avrebbe cominciato da subito ad allontanare un nuovo coltello dalla loro gola. Ciò che accadrà agli altri non è problema loro. I genitori di Claudia sembrano abitanti di un altro pianeta, di un mondo parallelo fatto di onestà, fiducia e rispetto. Valori che in questa terra il vento disperde facilmente e ne preme i resti contro gli angoli, come la sporcizia nelle intercapedini di vecchie case, in modo che siano irraggiungibili, se non da chi li vuole inseguire davvero. Capisco la matrice di Claudia, comprendo fino in fondo da dove derivi la sua dolcezza e ingenuità. Dal sorriso di sua madre e dall’integrità di suo padre, gente che, nonostante tutto, nella vita e nelle persone vogliono ancora crederci. Sono umili, con lavori altrettanto umili e vivono il sacrificio giorno per giorno. Claudia sembra la copia fresca di sua madre, tranne che per il colore dei capelli, sicuramente ereditato dal padre. Ma quegli occhi verdi sono gli stessi, come il sorriso largo e felice che non era capace di trattenere mentre suo papà firmava la scrittura privata, ponendo la sua firma sotto quella di Fabio. Marco e Rudy parevano invece distratti, attratti da tutt’altro: non condividevano quei sentimenti e glielo si leggeva in faccia. Le coscienze sporche non provano gioie sincere. Claudia però stringeva felice il braccio di Marco: lui l’ha guardata sfuggente, incrociando quegli occhi pieni di gioia e speranza, sforzandosi di regalarle un sorriso abbozzato e pieno di imbarazzo. Una stretta di mano e tutto era compiuto. La mamma e il papà di Claudia si sono subito congedati, con la stessa discrezione che aveva accompagnato il loro arrivo. I cinque, una volta rimasti soli, si sono invece accomodati disordinatamente in officina. Regnava il silenzio di uno strano e rilassato imbarazzo. Rudy e Marco erano seduti sul bancone in legno, Claudia accanto al suo Marco appoggiava l’ampio bacino sullo spigolo. Anna e Fabio preparavano i loro ultimi caffè da proprietari. Tutti hanno poi buttato i bicchierini uno dopo l’altro e quindi, spezzando il silenzio, è cominciato il teatrino dei saluti, prima del congedo. Ho messo la giacca e sono uscito. Ancora. Inventando una telefonata camminavo avanti e indietro lungo il marciapiede per i circa venti metri che comprendono la mia casa e il negozio di bici. Fingevo la telefonata ionale e romantica di un innamorato, con tanto di sospiri e vocine ridicole. Tutto questo perché volevo
rivedere Claudia, volevo sentire di nuovo l’elettricità della sua presenza. I ragazzi sono usciti, e con loro gli ormai ex proprietari: Rudy finiva di rendicontare a Fabio i lavori eseguiti la sera prima sulla MTB, Claudia s’era invece fermata davanti alla vetrina con Marco: riflessi, due cuori divisi. «Che c’è amore mio? Non sei felice? È nostro adesso! Quello che avete sempre sognato!». Ha sempre questo modo di fare, Claudia: rassicurante ma in cerca lei stessa di rassicurazioni, un’entusiasta che soffre per la risposta stentata che le giunge. Marco stavolta l’ha rincuorata: «Certo che sono contento, è un nuovo inizio» le ha detto, stampandole un bacio sulle labbra. Continuavo il mio andirivieni, lento, posato e falsamente sognante. Quel bacio tra i due, un bacio dettato dall’abitudine, mi ha trafitto. «Andiamo a fare una eggiata al parco, ti va?» ha chiesto ancora lei, con voce dolce, guardandolo negli occhi. «No», Marco guardava nervosamente l’orologio: «Sono già le 15:10 e devo andare ad allenarmi con Rudy. Se non sono troppo stanco ci sentiamo stasera. Vieni, adesso ti accompagno a casa. Rudy andiamo, è tardi!». Parlava tutto d’un fiato. Si è rivolto con voce alta e nervosa al suo amico che senza rispondere ha semplicemente obbedito, stando al gioco malato delle menzogne. Rudy si allenerà da solo, Marco andrà da Lorena e stasera Claudia non riceverà nessuna telefonata. Perché Marco non penserà a lei mentre, sfinito, si abbandonerà alle braccia di un’altra. Ho visto di nuovo quel velo offuscare lo sguardo di Claudia e poi, subito dopo l’ho percepita nel suo essere accondiscendente: perdonare, o meglio, cercare di capire. Sempre. o dopo o ho preso coraggio e mi sono avvicinato ai ragazzi, solo per potermi avvicinare a lei. Ho voluto arle accanto, sfiorandole la spalla avvolta dal cappottino rosso. «Oh, mi scusi…» le ho detto, regalandole un sorriso e uno sguardo dritto nel verde dei suoi occhi. Ed eccola di nuovo l’elettricità, profonda e intensa. Me la porto ancora addosso, che vibra forte dalle spalle al basso ventre fino alle caviglie. Non so ancora come fare, ma la proteggerò. Anche se per ora io, impotente, non ho fatto altro che guardare e, tristemente, constatare il compimento dell’inevitabile.
Lunedì 21 novembre Il ritorno alla settimana lavorativa mi strappa dal film a cui assisto e mi fa bene. Mi solleva dalla cappa di emozioni contrastanti e sentimenti trattenuti, riporta il vento della normalità che, leggero, solletica e penetra le narici. Di contro la mia realtà è comunque amara, l’orgoglio è ferito e sanguina copiosamente quando ripenso a Lei, come, ancora, quando tiro dritto all’uscita della provinciale che mi portava alla sua casa. Tradito, ferito, ingannato. Come Claudia, sì, come lei. Se è vero che nel male comune c’è il mezzo gaudio, ancora non l’ho trovato. Nemmeno Claudia lo troverebbe, perlomeno fino a che non avremo modo di condividere le nostre esperienze. Ma è davvero frustrante sapere cosa le accadrà, mentre è ancora felice nella sua vita sicura, per poi vederla, e sarà presto, distrutta e ferita con certezze e sogni in frantumi. Ha vent’anni Claudia, venti, fragilissimi, anni. Il progetto del giardino giapponese è stato rivisto, rivalutato e approvato, dopo un fine settimana di stacco e riflessione. Per lui cercheremo l’acero rosso, il più simile possibile a questo della foto nel mio diario. Carlo mi sta guardando in questo momento. Seduti in ufficio, mangiamo un panino e lui, osservandomi, sorride. Mi vede scrivere, assorto, e non sa che dire se non che qualcosa, degli ultimi avvenimenti, mi ha dato alla testa. Ho portato il quaderno per mostrargli la posizione e la forma di quell’acero rosso, solo per questo. Poi, invece ecco che gli ho chiesto qualche minuto, per estrarre la penna e scrivere, mentre sposto le briciole che dalle labbra cadono sui fogli. È dal momento della colazione di stamattina che io e Carlo parliamo di Claudia, Lorena, Rudy, e tutti gli altri: ragguagli, domande, riflessioni… Si parla anche di Lei, poco e malvolentieri. Ci concentriamo su Claudia, racconto dei suoi occhi e del suo sorriso. Scorre velocemente la matita sul foglio del progetto, scegliamo gli arbusti e i fiori: un melo giapponese non lontano dall’acero, e penso a Claudia. In quei fiori c’è lei. Farò velocemente la spesa, e poi voglio scoprire cosa accadrà oggi nel negozio delle bici.
Ore 20:15 Rudy e Marco alzano la voce, litigano. Lo fanno proprio in questo momento. Si insultano, il loro legame trema, barcolla, rischia uno schianto. Ormai è quotidianità per loro continuare a lavorare ben oltre l'orario di negozio. Sono lenti e incerti sulle riparazioni, hanno bisogno di tempo. Studiano schede tecniche, immensi fogli ripiegati in otto o dieci parti in cui sono riportati i particolari dei pezzi di ricambio, forcelle e freni a disco. Cercano di interpretarli. Sbagliano. Riprovano. Si consultano, uno capisce, l’altro no. Forse non capisce nessuno dei due. Litigano ancora. Rudy, teso, armeggia su un telaio appeso al cavalletto: con due chiavi, una da un lato e la seconda dall’altro cerca di rimuoverne il movimento centrale, quella parte che unisce e trasmette il moto alle pedivelle. Non riesce. È nervoso, sbuffa. Marco gli dà dell’incapace, si sente tradito. «Per fortuna tu eri quello che di meccanica di bici sapeva tutto! Cosa me ne faccio di uno così? Sei solo un coglione!». E Rudy esplode. Eppure solo mezz’ora fa erano ancora amici e complici, è solo il loro primo giorno in negozio. Da soli. Pare che Fabio sia ato velocemente a metà mattina e nel primo pomeriggio. Per qualche consiglio, per non scomparire subito, per recitare al meglio la sua farsa. Sono arrivato a casa, ho preso la mia scala. Mi sono appostato. Come sempre. Forse sono malato… Organizzavano i lavori, sistemavano lo scaffale dei cavi per freno e cambio, pulendoli e riordinandoli per tipo, e parlavano di Lorena. Rudy è bramoso di quella storia, vuole sapere. Vuole godere anche lui con quella ragazza, almeno attraverso i racconti di Marco. Lorena è disinibita e vogliosa, Lorena vuole Marco. Sta facendo di tutto per prenderselo e lui si lascia trascinare. Claudia non viene nemmeno nominata, è un oggetto da usare ormai, finché servirà. Poi si è accesa la lite e allora il nome di Lorena è saltato ancora fuori, schioccante come una freccia avvelenata dalla bocca di Rudy. Scagliata contro Marco, accusato di essere lui il vero inaffidabile. Ecco come esplode Rudy, come un copertone tubeless, violento e fragoroso: «Coglione sei tu, non fai altro che pensare a scoparti quella troietta».
Ma fa tutto parte del piano. Rudy deve farsi cacciare. Non gl’importa di quel negozio, deve iniziare a creare destabilizzazione, deve uscire dalla società e prima lo farà prima metterà mano a quei soldi promessi da Fabio. Marco sbotta, butta a terra mezzo scaffale pieno di catene e copertoni e se va. I suoi i seguono a quel rumore fragoroso. L’ho sentito poi sbattere la porta, andarsene. Ho quindi visto Rudy restare solo in officina, condizione perfetta per finire di attuare la prima parte del suo piano. Da qui riesco a vedere ciò che ognuno nasconde all’altro, sono testimone onnisciente, purtroppo. Rudy fa cadere le chiavi inglesi per terra, con disprezzo. Intreccia le sue mani tra i capelli ricci e sbuffa. Si guarda intorno e mormora qualcosa mentre scalcia uno dei copertoni caduti dallo scaffale: di quei copertoni sottili, ripiegati su se stessi, col battistrada stretto e nero, la spalla colorata di giallo. Scatta e si avvicina al banco, non esita un istante mentre prende un seghetto: lo vedo chiaramente avventarsi sul centro della bici, si muove veloce, mosso dalla rabbia. Ora è di spalle, ora si gira in una danza frenetica. Ora invece lo vedo chiaramente fare segatura d’alluminio del movimento centrale. Poi si inginocchia e strofina i denti di quella sega su una saldatura nascosta. È impazzito, sicuramente sì. Sono incredulo. Monta velocemente le pedivelle e con un pennello toglie ogni traccia di polvere metallica. Ma ancora non è contento… prende una chiave e smonta un pedale, lo blocca in morsa e ricomincia, forsennato, a segarne il perno. Sì, è impazzito, non ho dubbi. Rimonta il pedale e comincia a regolare il cambio con movimenti scanditi dal suono della catena che scende e sale, ballando sugli ingranaggi. La ruota posteriore si blocca all’improvviso, una brusca frenata. Sì, adesso tocca ai freni: ne regola la posizione dei pattini e stringe col cacciavite le piccole viti presenti sulle leve montate al manubrio. Completa il tutto con un calcio ben assestato alla ruota anteriore, la gomma sbatte sul telaio verde: il cavalletto vibra violentemente in un moto che pare non volersi mai arrestare, e la bici con lui. Senza rispetto sgancia il tubo sella dalla morsa che lo tiene al cavalletto, rigandolo, e la bici prima sospesa cade per terra. Lui la scalcia ancora, poi la rialza in malo modo e cerca di lucidare il metallo sfregiato. Il gruppo delle bici da consegnare si trova sull’estrema sinistra dell’officina. Prima di condurla in quella direzione, col nastro adesivo blocca un foglio col resoconto dei lavori fatti e un grosso “OK” scritto con un pennarello rosso. È il piano, rovinoso, di Rudy. Ecco come vuole andar via. Come vuole farsi cacciare. Vuole creare danni e farsi nemici. Non ha le palle per lasciare. Come in quelle coppie, quando si è troppo codardi per raccontarsi le verità e si preferisce trasformarsi, dare il peggio di sé per farsi odiare e dimenticare. Per cancellare
anche l’ultimo segno di ciò che di buono e bello era esistito. Ecco il piano di Rudy, continuo a pensare. Intanto dall’officina suona in loop assordante, “Space Cowboy” di Jamiroquai. Mando un sms a Carlo. «Ci sono novità» gli scrivo. L’appuntamento è sempre per domani mattina, fuori dal bar vicino al lavoro.
Venerdì 25 Novembre Come niente fosse, Marco e Rudy lavorano ancora insieme. Martedì, mercoledì e giovedì il negozio ha chiuso puntuale. Arrivavo a casa poco prima delle 19:30, i movimenti al suo interno erano calmi, ripetitivi, apparentemente normali. Avranno fatto pace? Potrei scommettere di sì. Li ho visti dalla mia grata poco fa, anche stamattina. Li osservo in questo istante dalla vetrina, ci cammino davanti lentamente, dirigendomi al solito bar per la colazione. Venerdì nuvoloso e gelido, ma senz’acqua. Il cielo è uniforme e denso di aria pesante e fredda. i veloci e testa bassa: non sono io, ma una figura lontana che arriva dalla direzione opposta alla mia. Il cappottino rosso non lascia dubbi, è Claudia. Mi sento trasalire, una mano che stringe la gola e la strattona. Vedo solo la sua fronte ornata dai capelli lisci, svolazzanti. Stringe al petto uno, no, due libri. Cammina troppo veloce, non s’accorgerà mai di me. Non si ricorderà mai dello sguardo che le ho regalato. Il suo cuore è di Marco e devo ricordarlo. Lo ricordo in un mare tempestoso di rabbia. I miei i, sommati ai suoi, mangiano velocemente le distanze e sento l’onda che sta per travolgermi ancora una volta. Mi è davanti, poi mi sfila accanto. Vibro, ogni mia cellula lo fa. Il fiato si smorza mentre mi attraversa la solita profonda scossa nel momento in cui le distanze tra noi si fanno minime. La seguo con lo sguardo finché la porta del negozio non la inghiotte. È la prima volta che arriva così presto, poco dopo l’orario di apertura mattutino. Vuole di sicuro mostrare il suo appoggio, non solo economico ma anche pratico. Nelle pause studierà, lo dicono i suoi libri. Ma proverà a imparare a usare la cassa, a compilare i registri, a distinguere le misure delle camere d’aria. Forse oggi farà tutto questo. Proseguo, continuo verso il bar. I i sono frenati, il cuore rema nella direzione opposta. Voglio ancora e ancora quel brivido, quella elettricità.
Bevo il caffè e mangio la brioche mentre osservo l’umanità dentro al bar: solite file alle slot machine, solite speranze tradite. C’è chi la vita invece se la fuma di gusto, chi come me l’annega in un caffè. Sono le 10:00 quando ne ho abbastanza: chiudo il quotidiano che sfogliavo, pago e mi dirigo verso casa. Non saprò frenarmi, so già che entrerò nel negozio di bici. Forse vedrò Claudia, forse no. Chiederò di potermi guardare in giro, oppure fingerò ancora di cercare la bici per una moglie che non esiste. Qualcosa la inventerò. Il cicalino suona. Sono dentro. Le luci quasi si fondono col grigiore della giornata, non sconfiggono l’oscurità ma si mescolano alla luce fioca che penetra dalla vetrina. I colori delle bici e delle magliette appaiono spenti, la musica riesce a smorzare di poco l’atmosfera un po’ cupa di questa mattina. Di Claudia non c’è traccia. Penso addirittura che non si sia fermata lì, che sia ata solo per salutare. Nonostante questo avanzo deciso dentro al negozio, mi scanso da Marco che lo percorre velocemente, dirigendosi alla cassa. Mi scanso anche dalla famigliola che osserva le biciclette da bambino e proseguo verso il solito reparto di bici da donna. Marco mi vede, ma faccio finta di essere completamente assorto, mi mostro interessato, impegnato nel valutare le differenze tra due bici. Mi sento anche fuori posto, idiota persino, ancora una volta. Vedo muoversi la tenda dell’officina e un manubrio precede la figura riccia e ambigua di Rudy. Per un istante ho desiderato fosse Claudia. Non lo è. Ne sto facendo un’ossessione. Ma Claudia è quel varco che mi fa ancora procedere nella vita. Una strada che, seppure stretta e incerta, mi avvolge con nuova luce e profumo. Riesce a ripulirmi la testa dai rimpianti di una vita che ormai comincio a sentire vecchia. Lei non mi ha più cercato, e a me, Lei, non manca più. È una congettura, un’invenzione, forse solo illusione… ma quella scarica elettrica, quegli occhi verdi e quel sorriso che appartengono a Claudia sono per me nuova energia e spinta al rinnovamento. Io e Claudia non potremo stare lontani ancora per molto. Io non posso più starle lontano. La mia mente insegue già nuovi pensieri e desideri. Non faccio nulla per impedirglielo, non temo delusioni, non più forti di ciò che ho già provato. Affido alla carta ciò che poi è accaduto da quell’istante in poi. Pensavo, senza vedere. Guardavo nel vuoto con la vista offuscata, guardavo sagome muoversi, figure confuse. In negozio ci saranno stati forse sette, otto clienti, me escluso. Marco parlava con tre persone, l’incertezza della sua voce è
quasi scomparsa. Lo vedevo chiaramente più sicuro, quasi padrone della situazione. Rudy dopo aver consegnato la bici si è avvicinato alla famigliola. Quando poi ho riacquistato lucidità, le figure hanno ritrovato immediatamente i loro contorni. Dietro al bancone c’era Claudia. Stava davanti alla cassa e si guardava spesso intorno, impegnata con i tasti, leggendo un libretto di istruzioni. Tesa, non c’era bisogno di chiederglielo per averne conferma. Dal viso traspariva una supplica, che nessuno si avvicinasse, che nessuno le chiedesse qualcosa. Nessuno infatti avrebbe potuto comprendere il tumulto del suo animo: inadeguata e insicura, timorosa, quasi paralizzata dalla paura. Eppure sembra così facile stare dietro a un bancone. Sembra. Nervosa, raggruppava le penne con la calcolatrice, mettendo ordine in modo non chiaro nemmeno a lei. E io ero tentato di avvicinarmi: «Lo faccio o no…? Voglio parlarle ma nemmeno metterla i difficoltà…». I miei pensieri sono stati schiacciati e spazzati via in un attimo. All’improvviso quel problema ha smesso di esistere. «Voi siete dei pazzi! Pazzi e incompetenti! Ho pagato ottanta euro per rischiare di ammazzarmi! Chi… chi è che ha riparato la mia bici? Voglio vederlo in faccia quel pezzo di merda!». Claudia era sbiancata, si faceva sempre più piccola. Rudy era lontano, fingeva di non sentire. Parole a valanga che hanno poi travolto Marco, imbarazzando la famigliola, irrigidendo i presenti. Un uomo entrava infuriato, scaraventando la bicicletta oltre la porta d’ingresso. Il viso sfigurato, una garza sul sopracciglio e un’ustione da asfalto sulla guancia ancora macchiata di tintura di iodio. «Lo devono sapere tutti che siete degli incompetenti! Ma a chi ha lasciato il negozio Fabio, a due ragazzini ignoranti? Vi prenderete una bella denuncia!». Accecato di rabbia, l’uomo aveva afferrato con forza il manubrio della bici, strattonandola e sbattendola sul pavimento. Era verde, una bici verde. Le mancava un pedale, sembrava quasi disarticolata. Averla vista così maltrattata mi ha riportato a Rudy, a quando lunedì sera calciava e bistrattava una bici verde dopo averla violata col seghetto. È uno spettacolo pietoso. È la bici che ha maneggiato Rudy, ecco a cosa voleva arrivare. Marco ha cercato di prendere in mano la situazione, camminava incontro
all’uomo tentando di calmarlo con un approccio pacato. Ma la furia è ripresa, intensa come prima «La vedete la mia faccia? Sono finito al pronto soccorso». Rudy intanto osservava la scena da spettatore clandestino. Codardo, cercava di entrare in officina. «Ma cos’è successo?» incalzava Marco, «Si calmi». Parole, tentativi inutili. Il viso di Claudia era diventato rigido, bianco come non mai, sembrava morta. Ha buttato un’occhiata interrogativa e confusa verso Rudy, che silenzioso scivolava oltre la tenda. «Sono caduto, alla prima salita mi sono alzato sui pedali e sono caduto. La bici mi si è smontata sotto i piedi! Sono stato da un altro meccanico perché di voi ragazzini non mi fido più, e cos’ha trovato? Il movimento centrale segato in due e rimontato neanche lui ha capito come! Voi siete dei pazzi… una saldatura del telaio segata, se si fosse rotto anche il telaio ora sarei al cimitero! Per fortuna sono qui e ve la farò pagare tutta!». Marco non aveva più parole, sembrava una marionetta appesa al chiodo, sotto lo sfogo di quell’uomo che pareva volergli mettere le mani addosso. Nel negozio l’atmosfera si era fatta più che mai buia e fredda. La famigliola era uscita velocemente, andomi accanto per aggirare il luogo dello scontro. Confusi, avevano preferito mettersi a distanza. I clienti di Marco facevano altrettanto: la situazione era diventata troppo scomoda. Sono sgomento, ancora adesso. Rudy era sparito, Marco non aveva più alcun genere di reazione, era tutto fuori controllo. Invece era arrivata Claudia. Bianca, bianca più del latte, stringeva le mani una con l’altra, gelide e giallognole, cercava di stare calma e tentava un approccio risolutivo. «Non so come possa esser stato possibile, ma è sicuro che questa bici sia stata riparata qui?» ha chiesto, certa di un errore. Marco questo punto si era ripreso ed era stato direttamente lui a risponderle con furia «Sì, l’ha fatta Rudy. Dov’è quel bastardo?». Sentivo, violentissima, l’elettricità di Claudia e tremavo con lei, confusa, incredula, il battito impazzito. Mi sono avvicinato di qualche o, a distanza di due metri, tentando di aiutare, di mediare. «Mi sembra strano» ho detto «questi ragazzi sono in gamba».
Marco intanto era sparito, volato in officina. L’uomo sembrava confuso, mentre Claudia si scusava in tutti i modi: «Il meccanico non è esperto, sicuramente è stato fatto tutto in buona fede». Gli ha proposto un nuovo telaio in cambio o addirittura una nuova bici. Doveva tamponare la situazione in qualche modo. «Non finisce qui, vi manderò in rovina» e così l’uomo era uscito, ancora confuso e rabbioso, calciando tutto quello che trovava: i vetri della porta vibravano, mentre faceva cadere tre bici da bimbo sputando sullo zerbino. In negozio eravamo rimasti io e Claudia, mentre in officina era già scoppiato l’inferno. Claudia non parlava più, non riusciva. Mi ha fatto un cenno con la testa e con le mani. Forse avrebbe voluto ringraziarmi, forse non sapeva nemmeno lei cosa le sue movenze volessero significare. Sono uscito da quella pena, ho fatto un o all’esterno e la porta a vetro s’è chiusa dietro di me, sbattendo. L’ombra di lei s’allontanava incerta. “Chiuso” riecco quella parola, quel cartellino che copre ogni problema. Ancora ansimo al ricordo, scrivo e rivivo tutto il terrore di Claudia. L’ho vista vacillare, ubriaca di domande, spinta da fortissime incertezze. «Forse era un pazzo, non può essere vero». Claudia, è tutto vero. Ho sentito le sue gambe tremare, venire a mancare travolte da fiumi di adrenalina, l’ho vista morire dentro pur cercando di reagire. Appena uscito mi sono spinto verso casa e una volta dentro ho faticato a trovare stabilità sui gradini della mia scala in metallo. Mentre li salivo, salivano anche le grida dall’officina. E i singhiozzi… era Claudia. «Fermi, basta!» gridava, disperata. Cercava di dividerli mentre Marco lo sbatteva con violenza sugli scaffali e lui, Rudy, vigliacco e senza midollo, si lasciava maltrattare. Assomigliava a un pupazzo di stoffa, con muscoli di bambagia e nessun’anima. «Che cazzo hai fatto, perché l’hai fatto bastardo! Sei un figlio di puttana!». Marco era una furia, vomitava rabbia da un viso trasfigurato. Faticavo a credere che fosse la persona che ho sempre visto. Faceva paura, fa paura. Anche Claudia era terrorizzata, ma continuava a mettersi in mezzo e a prendere botte e schiaffi
di striscio. Poi è riuscita a dividerli. Ce l’ha fatta. Un silenzio irreale, scandito da respiri pesanti. Rudy si toccava il labbro sanguinante, tamponandolo con la maglia. Sogghignava. «Mi sono rotto il cazzo di questo posto, di questo lavoro. Me ne tiro fuori». Guardava Marco dritto negli occhi, parole insanguinate come la sua bocca. Lo sfidava, Marco era andato troppo oltre «Se non vuoi una denuncia per lesioni pagami l’uscita dalla società». Poi è andato in bagno, sentivo l’acqua scorrere nel lavandino. Un silenzio pesante e carico trafiggeva ogni cosa. In un attimo Rudy ha raccolto tutte le sue cose ed è sparito. Non lo vedrò mai più, ne sono sicuro. Claudia teneva Marco per le spalle, il debole freno di un toro infuriato. Confusa: ha conosciuto un Marco furioso, che non credeva nemmeno esistesse. È successo ciò che non era previsto nei suoi sogni. Si è spezzato qualcosa, frantumato in pezzi piccoli, difficili da ricomporre. La vedevo immobile, assente. Lui si è presto divincolato dalla sua stretta scomoda mentre la porta del negozio sputava fuori «il traditore», «il figlio di puttana». Marco non ne aveva avuto abbastanza, sembrava ancora impazzito: tirava pugni al bancone, scaraventava ferri e attrezzi per terra davanti a una Claudia impotente, terrorizzata, dolorante nel corpo e nell’animo. L’ha lasciato fare, era l’unica soluzione per non rischiare. Aspettava, Claudia aspetta sempre. Vorrei bussare ed entrare da quella porta. Vorrei che il suo mondo non iniziasse a cadere a pezzi. Ma io resto sempre qui accovacciato, impotente, arrampicato a questi maledetti gradini in metallo, con gli occhi incollati alle immagini oltre la grata. Non so fare altro. Claudia ha fatto un o, poi due, tre. Si è riavvicinata a Marco, fermo e ansimante. Lo abbracciava, cingendogli le braccia attorno al petto, posando il viso sulla sua schiena. «Ce la faremo anche senza di lui». Marco restava muto, nessuna risposta. «Verrò quattro volte alla settimana, salterò qualche lezione, forse anche qualche esame, non importa. Ti aiuterò». Lei cercava disperata un dialogo, un conforto. «Cosa cazzo ha fatto, perché lo ha fatto? Ora quello ci denuncia e siamo finiti,
finiti ancora prima di cominciare». Queste le uniche parole di Marco. Poi si è chinato, divincolandosi senza cura dall’abbraccio di lei, cominciando a mettere in ordine, raccogliendo attrezzi e ricambi. Su alcuni c’erano tracce di sangue, le ripuliva. Claudia l’ha imitato subito, raccoglieva e posizionava sul bancone, ritmica e costante. In un silenzio troppo denso, così carico che temevo di esser scoperto per il rumore dei miei battiti accelerati e potenti. È tutto surreale, così difficile anche per me che in fondo ero preparato, che sapevo che qualcosa prima o poi sarebbe scoppiato. Ma non credevo così in fretta e con tale violenza.
Domenica 27 Novembre La domenica è ormai di rito pranzare a casa di Carlo. Mi sento quasi adottato. Riesce a lasciare sopita la nostalgia di quei genitori che ho perso, uno dietro l’altro, quasi cinque anni fa. Il sabato invece è giorno di transizione e il sabato appena ato è stato giorno di attesa. Ho girovagato per casa, rassettato, sistemato e concluso lavori sospesi da troppo tempo. E ho teso l’orecchio verso il negozio: troppo silenzioso. La pioggia invece era assordante, quella sì. Ho camminato in fretta senza ombrello, con la giacca sollevata sulla testa. Sono ato davanti alla vetrina senza vedervi praticamente nulla attraverso, solo la mia immagine riflessa. Pensavo a Claudia, ci ho pensato tutto il giorno. Ieri e ancora adesso. E di nuovo l’ho vista, attraverso quella maledetta grata. Hanno aperto anche oggi, che è domenica. C’era un grande silenzio generale, la radio è rimasta spenta e le poche parole scambiate tra lei e Marco erano essenziali. Lavoravano, ognuno cercava di impegnarsi in qualcosa. Claudia è stata al telefono per tutta la mattina: chiamava dei numeri da un elenco che le aveva consegnato Marco. Non hanno perso tempo: cercano già un nuovo meccanico. I lineamenti di entrambi sono duri e tesi, quelli di Claudia semplicemente scavati in un viso ancora bianco, terrorizzato. Non l’ho vista abbracciare il suo Marco, gli stava quasi a distanza parlandogli con voce insicura e mite. Come si fa verso un estraneo di cui non ci si fida, per cui proviamo soggezione. Qualcosa si è spezzato… lo sento. I sogni sono fragili, quelli di Claudia hanno già perso una gamba e zoppicano. Ma lei li accompagna ancora. Telefonava, entrava e usciva dall’officina: l’ho sentita
parlare con i clienti, ha già imparato le misure delle camere d’aria, la differenza tra i vari cavi per freno e cambio. Usa la cassa. Non è molto sicura di sé, oggi chiedeva conferme a Marco, spesso senza ricevere risposta. Lei va avanti lo stesso, ce la deve fare. È disperata, ma il dolore e l’insicurezza ha voglia di calpestarli. I suoi libri sono sulla scrivania, chiusi. Scrivo e sono quasi le 22:00. C’è stato Marco in officina, fino a qualche minuto fa. Claudia l’ha salutato alle 20:30. È stata costretta a salutarlo. Lui non la voleva più lì. L’ha cacciata. È rimasto solo, sbrigava delle riparazioni in silenzio totale, senza musica, senza fiatare. Scambiava sms costanti, l’unica cosa che lo distraeva e l’unico suono presente oltre ai rumori metallici. Forse con Claudia, più probabilmente con Lorena, magari con entrambe. Rudy, non credo. Il mio cellulare è sul letto invece, l’ho lanciato lì poco fa. Dopo che Lei mi ha scritto di nuovo. Non ha rispetto. Che io le abbia chiesto di non farsi più viva a Lei non interessa. Quel suo sms mi è scivolato addosso, l’ho visto vuoto e insensato più che mai: ne ho paragonato l’essenza scarna a quella dello spirito di Claudia, ne ho contrapposto le immagini e gli sguardi, le movenze e il sorriso. Lei è uscita distrutta… Claudia si sta accoccolando nel mio cuore, spingendo contro i miei polmoni, accompagnando il mio respiro, e io la voglio lì. La sua salita è appena… appena cominciata.
Mercoledì 30 Novembre L’umidità mi è entrata nelle ossa ormai. Sono giorni di pioggia senza tregua e tutta quell’acqua ha il potere di dilatare il tempo: le strade intrappolano più macchine, le rilasciano con lentezza sotto il muro offuscato delle gocce. Anche arrivare al lavoro è diventato un lavoro. La strada appena fuori, al mattino è un fiume senza fine. Metallo illuminato dai fari, riflessi e rumori, puzza di smog. Buio. Nonostante il clima sia avverso io e Carlo dobbiamo portare avanti il nostro lavoro nei tempi stabiliti e iamo ore sotto l’acqua, in quel giardino che attende solo noi per ricevere la sua trasformazione definitiva. Tracciamo misure per impostare percorsi e irrigazione, lottando con la fragilità del prato già esistente, che calpestiamo e rimuoviamo in punti ben definiti. Ieri mattina presso il vivaio abbiamo trovato lui, il protagonista del nostro giardino, l’acero rosso. Il
portamento a ombrello e la torsione del tronco lo rendono la trasposizione reale della foto di questo quaderno. Resterà lì, nel vivaio, ad aspettare che si svegli e che il clima si faccia più dolce e sia il momento più giusto per il suo trapianto. Ieri sera, infreddolito più che mai, ho fatto la mia spesa acquistando anche uno scaldaletto e lasciando che Gisela, la cassiera, mi prendesse un po’ in giro. Voglio cogliere ogni sorriso che mi viene donato, non ne devo perdere nemmeno uno, ora che da troppi giorni quello di Claudia è sparito. Annientato, sostituito da una posa fredda, contornato da una fronte accigliata. La vedo, ogni sera. Si trattiene fino alle 20:30, negli ultimi quarantacinque minuti sfoglia i suoi libri di diritto, con pochi risultati. Va poi a casa per studiare davvero, finché su quei libri si addormenterà. Glielo sento raccontare a Marco, col suo solito candore. Gli dice che riesce a studiare ugualmente, va a letto alle 3:00 del mattino ma sente che ce la può fare. Verrà sei volte alla settimana in negozio, così potrà essere d’aiuto ancora di più. Quando va via, poi, mette il cappottino rosso e cerca l’abbraccio del suo Marco. Qualche volta lo ottiene, altre volte no: o lui è troppo nervoso, o troppo stanco o troppo impegnato, così si tira indietro. Tira un sospiro ed esce, Claudia. Non prima di dire: «È solo un momento difficile, vedrai che tra qualche mese ne rideremo», mentre gli accarezza la spalla. Claudia cammina ed esce attraversando la penombra del negozio, la cui unica luce proviene da quella vetrina col faretto che non è ancora stato sostituito. Si tira dietro la porta e le inferriate alla cui serratura dà un giro di chiave, l’ho spiata anche stasera mentre usciva, aprendo di pochissimo la porta del mio rifugio, udendo più che vedere. Ecco, Marco così rimane dentro, protetto, in un negozio apparentemente chiuso, al cui interno invece il lavoro pare non finire mai. Dopo Claudia ho spiato ancora una volta Marco, come ieri, come lunedì, come sempre ormai. La grata sembra essere in una posizione quasi invisibile dal negozio, perfetta per me. Lui continua il suo lavoro, ma lo rallenta immensamente in uno scambio fitto di sms. Stasera però quel telefono ha anche suonato. Prima di rispondere, Marco, è scattato in piedi, si è affacciato dalla tenda dell’officina: forse controllava che Claudia non fosse ancora nei paraggi, credo. Parlava con Lorena. Una telefonata di almeno cinquanta minuti, un tempo lunghissimo in cui il lavoro è rimasto fermo, ma sono certo che Marco domani millanterà di essere rimasto fino a tardi per il bene del negozio. Ascolto, non tutto, non bene. Ma ascolto. Mi sono reso conto che il rapporto tra i due culla qualcosa di profondo che va oltre il sesso.
Parlano di progetti, Marco parla di un lavoro all’estero: «Credi mi assumerebbero? Allora domani mando il curriculum. Ma dov’è di preciso? Sì, dieci chilometri da Londra andrebbe benissimo. Hai già trovato la casa per noi? Brava…sì… qui la situazione è insostenibile». Secondi di silenzio «Sì, hai ragione. Glielo dirò. Dammi una settimana, dieci giorni al massimo e la lascio. Te lo prometto amore mio». Anche Marco è pronto. Sto facendo l’abitudine ai colpi di scena, ormai non mi stupisce più di tanto sentirmi gelare il sangue, sentirmi mancare. Mi sento più forte, mi sento più vivo. Claudia, devo proteggerla. Penso a lei, al baratro che le si sta per aprire sotto ai piedi. Una settimana, dieci giorni e tutti i suoi sogni andranno in frantumi definitivamente. La vita le si presenterà in tutta la sua crudeltà, denudata dalla pelle, sanguinante, senza vesti né parole gentili. La sua fiducia verrà fatta a brandelli. Benvenuta nella vita reale, Claudia. Ti porgerò le bende, ti medicherò. Te lo prometto. Venerdì 2 Dicembre Giornata terribile, giornata che vorrei cancellare. Ho una forte nausea mentre scrivo, una mano che stringe la gola e un gigante sopra il petto. E stavolta mi sento impotente, come non mai. Preparo chilometri di bende, di cerotti per un cuore dilaniato, che lascia scie di sangue fresco a ogni battito e a ogni o. Per il cuore di Claudia. Ho sempre sperimentato quanto la vita possa essere fantasiosa nei suoi accadimenti, ben più che nei film o nei libri, quanto sia più complessa e cruda. Se esisteva un modo per distruggere Claudia, oggi l’ho visto. A volte ano anni in cui i giorni si susseguono monotoni, uguali e incolori, altre volte bastano poche ore, pochi giorni per ribaltare e sconvolgere qualsiasi certezza, per fare in
modo che nulla sia più come prima. Stavolta sono bastati due minuti o forse un solo istante. E io sono qui, che non riesco più a prendere sonno. Le pareti riflettono ancora echi assordanti di grida e pianti, di silenzi imbarazzati, di cose che non sarebbero dovute accadere, non in quel modo, non nel negozio di bici. Erano le 20:30 circa quando Claudia ha chiuso un registro. La vedevo fare conti su conti, assorta e concentrata. I suoi libri, poco distanti, erano rimasti chiusi tutto il giorno. Ancora una volta. L’ho spiata non so quante volte oggi, ma i suoi libri non hanno mai cambiato posizione. Solo verso sera si era seduta alla scrivania: una giornata dietro al bancone, con i clienti del reparto abbigliamento, tra decine di giubbini e salopette da ripiegare. Con Marco poche le parole che non riguardassero il lavoro. Fanno fatica e stentano a riappropriarsi di un qualcosa che somigli a serenità e complicità. L’abbandono improvviso di Rudy ha lasciato un forte squilibrio e qualche nuovo problema da risolvere. Solite cose di ogni sera: «Amore, vado a casa. Oggi abbiamo lavorato bene, stai sostituendo benissimo Rudy. Non abbiamo più avuto problemi e domani andrà ancora meglio». Sorride Claudia, quasi recuperando la sua solita allegria. Marco nel frattempo non s’era allontanato dalla bici che riparava, né aveva cambiato posizione o espressione del viso. Aveva solo provato ad allungarsi distrattamente, verso di lei, lasciandole infine un bacio sfuggente e sforzato sulle labbra. E poi queste parole «A domani mattina, ricorda di arrivare un po’ prima». Accendeva intanto lo stereo, inserendo una chiavetta mp3. Il volume subito altissimo, con la musica che attraversava le pareti, fluendo limpida dalla grata. Un ostacolo ulteriore tra i due, un modo per allontanare Claudia più facilmente. «Va bene, amore», Claudia provava a farsi sentire, alzando il tono della voce, «Allora vado… mi dispiace lasciarti sempre qui solo a lavorare…». «Non preoccuparti, finirò presto» aveva replicato lui asciutto, mentre di spalle armeggiava sullo stereo. Claudia è andata via così. Ha chiuso la serratura con una mandata di chiave, come sempre. Solo pochi minuti e Marco aveva abbandonato di fretta la bici per scrivere un sms, anche lui come sempre. Dopo poco uno squillo al suo cellulare, due, tre … il volume della musica che si abbassava velocemente fino a diventare
un debole suono fatto solo di un ritmo lontano. La bici che, infine, perdeva ogni importanza, ora c’era quella telefonata. «Lorena, amore… Come? E che sorpresa mi hai fatto?». Si sentiva un bussare frenetico sulla porta a vetro del negozio, la vibrazione si trasmetteva a tutta la vetrina. Marco, col telefono incollato all’orecchio, s’era timidamente affacciato dalla tenda rossa, solo mezza testa, non di più. Sperava non fosse qualche cliente ritardatario, non gli avrebbe di certo aperto. O peggio ancora sperava che non fosse Claudia. «Amore, ma sei pazza! Sei là fuori!». Marco è sparito in un istante, lo sentivo correre per il negozio. Poi la porta che si apriva: voci felici e risate, come lì dentro non avevo mai sentito. Mezzo minuto dopo, forse meno Marco rientrava in officina, abbracciato a una ragazza bionda dal fisico snello e provocante, come i suoi vestiti che fasciavano il corpo scolpito. E poi, parole interrotte da baci apionati, da mani che viaggiavano e braccia che stringevano. «Era da tanto tempo che volevo farti questa sorpresa. Aspettavo nella piazzetta, poi la tua ragazza è uscita e allora ho chiamato. Non te l’aspettavi?». «Sei pazza, pazza» sussurrava Marco, ricoprendola di baci, quasi stritolandola. In lui ho visto un uomo diverso. Un uomo che vuole e desidera una donna, come in tutti gli amori appena sbocciati. Lorena mi sembra più grande di Marco, oppure sarà per il trucco deciso e i lineamenti incisi. È intrigante Lorena, affascinante. Forse avrà trent’anni. Un preciso opposto di Claudia. Somiglia invece un po’ a Lei: capricciosa, voluttuosa, decisa. Sarò malato, sarò un voyeur, ma non fino a questo punto. Non ho voluto assistere anche al tradimento fisico di Claudia, a una performance sessuale che sicuramente sarebbe stata eccitante e libidinosa. Ma non sono così meschino. Li ho lasciati alle loro mani e alle loro lingue, alla musica spinta di nuovo a volume altissimo, al petto nudo di Marco e ai vestiti di lei ormai sparsi per terra. A quella ione sconvolgente che li sbatteva contro gli scaffali. Ho così indossato la mia solita giacca, calato il berretto sulla testa e complice la sera non piovosa ho raggiunto una panchina della piazzetta. Rivangavo pian piano, inevitabilmente, tutti i miei ricordi erotici: le prime volte e poi le avventure libere e spensierate dei vent’anni. Le prime intense volte con Lei. Ho fantasticato con immagini
nitide di possedere Claudia… Credevo che sarei rimasto fuori casa per un’ora, forse più. Lo sono stato molto, molto meno. Stravaccato sulla panchina pensavo a Claudia, sì. Pensavo di baciarla, di scoprirne la pelle liscia stringendola forte per farla mia. Ma eccola. Claudia, materializzata senza preavviso. Camminava velocemente sul marciapiede opposto. Ho riconosciuto l’andatura prima ancora che il suo cappottino rosso, portava la solita borsa nera a tracolla e un pacco basso e largo tra le mani: due cartoni di pizza. Stava tornando dal suo Marco, per non lasciarlo solo, per mangiare qualcosa insieme. Si dirigeva rapida verso il negozio. Ho fatto uno scatto dalla panchina mentre ogni pensiero erotico crollava miseramente e il cuore impazziva ancora una volta. Volevo fare qualcosa senza nemmeno aver avuto il tempo di realizzare completamente ciò che stava accadendo. Ma lei aveva già infilato la chiave nella toppa, girandola silenziosamente. Pensava che avrebbe fatto al suo Marco una bella sorpresa, che così gli avrebbe strappato un sorriso. Aprendo la porta la musica altissima l’ha come investita: arrivava chiara fino a me, a quasi trenta metri di distanza. Una musica lounge, perfetta per ciò che si stava consumando in officina. Perfetta solamente per due persone. Impietrito e confuso ho fatto qualche o, incerto e legnoso, verso i aggi pedonali. Ho visto la sagoma di Claudia entrare nella penombra e accendere una luce, fermarsi un istante come smarrita e poi guardarsi intorno. Aveva appoggiato le pizze sul bancone, si dirigeva verso l’officina. «No Claudia non entrare!», ma il mio grido interiore assordava solo me. Lei non poteva udirlo. E poi la tenda rossa si è mossa violentemente mentre Claudia entrava e subito usciva con un grido in gola. L’ho vista urlare, sconvolta. Il volto trasformato davanti al suo fidanzato nudo, penosamente rosso in volto e ancora ansimante mentre, ando anche lui oltre la tenda, cercava di dire qualcosa, gesticolando con una mano mentre con l’altra provava a infilarsi le mutande. Una scena pietosa, tra la tenda dell’officina e il bancone vendita. Claudia gridava più forte, piangendo con rabbia. A me, la scena del piccolo terribile teatro giungeva ovattata. Di Claudia conoscevo solo la voce dolce e serena, ma la sofferenza e la
delusione feroce ne hanno fatto un essere in balia di una forza quasi misteriosa che scaraventava addosso a Marco prima le pizze, una dopo l’altra e poi tutto ciò che le stava attorno. Lui cercava di bloccarle le mani, afferrandola per i polsi. Lei si dimenava, esplodendo ancora di più quando Lorena, sfrontata, si era presentata oltre la tenda rossa praticamente nuda, agganciandosi il reggiseno. Il suo un sorriso diceva: «Ho vinto io». Claudia avrebbe voluto spaccargli la faccia, a tutti e due. Ma era bloccata, totalmente. E avrebbe voluto vedergli il naso sanguinare, gli occhi pesti, invece lanciando un ultimo grido, si liberava e scappava. La porta aprendosi con violenza lasciava uscire ancora voci e musica assordante. Ne usciva anche una Claudia irriconoscibile, sconvolta da un pianto irrefrenabile che vomitava rabbia, ansimando dolore. So cosa significa essere traditi. Io posso capirti. Claudia è scomparsa così, correva rimangiandosi il marciapiede da cui era arrivata. Inghiottita dal primo vicolo, quello prima del bar. Pochi minuti. Si riapriva la porta, senza più musica, né luci o voci. Usciva solo buio, e poi Marco, bastonato e imbarazzato. Poi Lorena, sicura di sé. La primadonna col suo gran finale…
Sabato 3 Dicembre Ho cucinato. Ho mandato giù i bocconi a forza. Il mio stomaco è stretto, stretto come il cuore di Claudia. I negozi del quartiere si addobbano a festa: luci a intermittenza, barbe bianche ed è Natale. Il negozio di bici invece è asettico, nella vetrina solo la stessa polvere di quasi un mese fa, sempre più visibile. Triste. Mi chiedo come sarà il Natale per me, quest’anno. Cosa significherà per Claudia e per la sua famiglia. Mi chiedo se con quello che è successo ieri e con l’epilogo di stamattina si sia finalmente toccato il fondo. Se si potrà avere l’illusione di cominciare una risalita, sofferta e opprimente forse, ma sempre una strada che riporti alla luce, a una specie di equilibrio.
Erano circa le 8:10 quando ho aperto gli occhi, avvolto dal tepore del piumino. Avevo lo sguardo offuscato dal sonno, prestavo attenzione solo all’insolito vento che faceva vibrare le alte, fragili vetrate coperte dalle tende. La serranda del negozio si è sollevata con un fragore altrettanto insolito, la porta a vetri è stata poi chiusa e sbattuta. «Vieni presto domani» mi ricordo che Marco aveva congedato così Claudia, la sera prima. Prima che lei tornasse. Prima della disperazione. «Ma non può essere lei» pensavo «non avrebbe mai questa forza». Era Marco, infatti. Sentivo la sua voce concitata parlare al telefono. Rannicchiato nel mio letto, ascoltavo: «Sì, ieri sera ha scoperto tutto. Non doveva saperlo così! Ora non mi risponde al telefono, cazzo. Non vorrei avesse fatto qualche sciocchezza. No, no, di chiamare i genitori non ho le palle. Dovrebbe arrivare alle 8:30… sì, poi ti farò sapere». Penso parlasse con Rudy, ho avuto questa impressione. Ma le mie sono solo ipotesi. Ok, venti minuti all’arrivo di Claudia. Assonnato, dopo una veloce rinfrescata al viso, mi sono vestito e diretto al bar: niente giornale oggi, solo cappuccino e due brioches, ingollate in fretta. Volevo sapere. Dovevo rivederla. Puntuale sulla mia scala, un po’ ansimante per i i veloci del rientro, erano le 8:30. L’occhio incollato alla grata, la vista disturbata dalle alette, dalla griglia. Mi sforzavo, volevo riuscire a vederla in viso e capire quanto avesse sofferto, se fosse rimasta la stessa Claudia di sempre o se non lo sarebbe stata mai più. Infine lei, silenziosa e puntuale, è arrivata. Sul viso i segni di una notte insonne, di una nausea profonda. Di chi non riesce a credere che qualcosa di così terribile sia accaduta proprio a lei. No, dev’essere stato un sogno, solo un brutto e angosciante sogno. Ora cammina rumorosamente sui cocci frantumati dei suoi progetti, delle sue certezze più forti. A ogni o li sbriciola, quasi li polverizza, senza rendersi conto che più è forte e inatteso lo schianto più i pezzi diventano impossibili da rimettere insieme. Marco la guardava avanzare, guardava camminare un blocco di ghiaccio coperto da un cappottino rosso intenso. «Ciao» l’unica parola di lui, distratta, sottovoce. Lei si era seduta, e mettendo le mani davanti agli occhi massaggiava con forza fronte e sopracciglia. Muoveva a scatti le labbra senza produrre alcun suono, ricacciava le lacrime. Ingoiava la rabbia dell’umiliazione, sospesa nella confusione che solo un forte dolore sa dare. Io la capivo in quel momento, rivivevo ogni sofferenza, ogni delusione. Sentivo di nuovo il rumore dei miei i, stavolta, sulle mie certezze frantumate e polverizzate, appesantiti dalle valigie.
Silenzio. Lunghissimo, imbarazzante silenzio. «Cos’hai da dirmi?» La voce di Claudia tremava, irriconoscibile tra i singhiozzi. Parole che uscivano da una bocca quasi paralizzata, su un viso rivolto solo verso terra. Sillabe spezzate, suonate basse. Pescate da pozze di sangue. «Perché non hai risposto alle mie chiamate?» Marco attaccava per difendersi. «Lorena… ho sempre pensato fosse una puttana» Claudia ha cambiato tono, col viso sollevato e le parole spinte dalla rabbia. Lo so, non ha più forza, non ha più voglia di perdonare. È svuotata, ha sopportato, giustificato e sperato. Non si modera, è tagliente e vuole ferire. «Da quanto te la scopi? Questo me lo devi dire! Magari da prima di comprare questo cazzo di negozio, vero?» Claudia si era alzata, le gambe e le braccia tremavano in una piena di adrenalina, i pugni chiusi, di fronte a Marco. Lui imibile, quasi non la guardava continuando a regolare cambio e freni. E ancora una volta lui l’ha spenta, da vigliacco. Senza regalarle alcuna possibilità di sfogo, solo frustrazione e dolore da ricacciare. «Claudia, sei ridicola. Io ti lascio». Lui asciutto, netto, deciso. Lei bianca, fredda e stordita da quell’adrenalina troppo invadente, che non aveva mai conosciuto prima. Si era appoggiata allo scaffale con la morte sul viso. Sconfitta, senza possibilità di battaglia e di riscatto. Usata, stracciata e buttata. «Lascio anche il negozio». «Marco, ma…». Le parole non le arrivavano alla bocca. Si fermavano nello stomaco, arenate per poi affondare. «Tu facevi i progetti, Claudia. Tu. Il negozio, sì lo volevo. Ma non ti ho chiesto nulla. Hai voluto metterti in mezzo, ok. Te l’ho lasciato fare. Forse t’avrei sposata davvero, ma ora più di prima so che sarebbe stato uno sbaglio». Marco l’ha pugnalata, senza pietà. Non voleva sentire scuse, piagnistei. Non voleva aprire ad alcuna trattativa. Doveva finirla e così ha fatto.
«Lorena? Sì me la scopo da prima di firmare il contratto, contenta? È cominciato solo per sesso, per noia, ora invece è qualcosa di più. Qualcosa che per te non provo più. Ho bisogno di una donna, non di una bambina. Me ne vado con lei, partiamo». Una pallottola dietro l’altra. Un mitra. «Gestisciti il negozio, trovati il meccanico e per il resto te la saprai cavare. Altrimenti chiudi. Non mi interessa… Ti finisco tutti i lavori in programma, poi da mercoledì non ci sarò più». Vigliacco, più vile e spregevole di Rudy. Forse per questo erano amici. Claudia gli ha lanciato la sua rabbia, il suo orgoglio calpestato, trasformato in quel che trovava sugli scaffali, come una grandinata di forme e colori diversi. Ultime grida roche, ultime parole taglienti e pesanti. Bocconi troppo grossi da mandare giù. Pareti che assistevano all’ennesimo sfascio, all’ennesimo odio umano. Si può amare e poi odiare? Due sentimenti ugualmente forti e drasticamente opposti che possono riversarsi l’uno nell’altro. Mescolarsi, dar vita alle peggiori sofferenze e vendette. Claudia ha raccolto le sue cose con un solo movimento, me la rivedo mentre scappa, corre, sbatte la porta a vetri una, due, tre volte, tra pugni e calci che la fanno vibrare, insistentemente. L’ho spiata dalla porta: piangeva, gridava, dava spettacolo sulla via, vicino a quei aggi pedonali che più volte aveva attraversato sottobraccio alla persona per cui avrebbe fatto ogni rinuncia, ogni pazzia. E oggi sembrava davvero una pazza. Ma non d’amore.
Giovedì 8 Dicembre Stasera le luci della vetrina illuminano un nuovo cartellino giallo, tagliato senza precisione e scritto con un pennarello rosso da mano incerta. “Chiuso per ferie”. Claudia è sparita. Sono ati cinque giorni da quel sabato di follia. Mi manca. La mia preoccupazione per lei è quasi un lavoro a tempo pieno, come per Carlo ormai lo è ascoltarmi.
Ieri sera Marco ha ritirato le sue ultime cose dal suo armadietto. Durante il pomeriggio il negozio è sicuramente rimasto chiuso, con solo lui dentro: regnava la penombra e un insolito ordine sul banco dell’officina. Poco prima di andar via si era seduto alla scrivania, pensieroso e immobile, il suo sguardo si perdeva verso la parete più buia, in fondo. Per interi minuti aveva tenuto in mano un foglio e una penna: sembrava quasi volesse lasciare un messaggio a Claudia, semmai fosse più tornata. Ma quel foglio che rigirava tra le mani è rimasto bianco, poi è stato accartocciato e buttato via. Erano le 19:20 quando ha dato l’ultimo giro di chiave al portoncino in ferro battuto, lo spiavo per l’ultima volta dalla mia porta aperta a fessura. Ha chiuso quel negozio senza alcun apparente segno di rimorso o dispiacere, come se fosse un noioso gesto di routine. Non come quando si dà l’addio a qualcosa. O meglio, l’addio si dà a qualcosa che si è amato, oppure odiato. Indifferenza: questo è ciò che Marco ha sempre mostrato, in troppe situazioni dentro le mura del negozio. E in risposta a ogni richiamo di Claudia, indifferenza. Cosa significa “Chiuso per ferie”? Che tornerà mai qualcuno? Forse quel cartellino sarà destinato a scolorirsi tra le ragnatele e la polvere? È così allora che finiscono i sogni… dimenticati nella sporcizia, feriti e trascurati. Infelici e sconfitti. Mi sento vuoto. Di nuovo. Ho perso un pezzetto di vita nel silenzio di questa sera, nella penombra del negozio di bici. Ho eggiato ancora davanti alla vetrina, mi ci sono piazzato di fronte incollando naso e occhi a quel vetro, accostando le mani agli occhi per scacciarne i riflessi. Desideravo vedere la sagoma di Claudia dietro al banco: avrei aspettato che uscisse, mi sarei offerto di aiutarla a chiudere quella serranda pesante. Poi l’avrei presa sottobraccio e l’avrei fatta sorridere, accompagnandola ovunque lei avesse desiderato. Invece le uniche certezze rimaste sono il neon traballante dell’insegna, il faretto fulminato della vetrina e la polvere sulla scatola di quella sella: lei è lì, sempre nella stessa posizione, solo più triste ancora. Ha superato complotti e tradimenti, ha ignorato urla e pianti, speranze e ingenuità. Troppa ingenuità. Mi sembra di essere tornato al principio di tutto. Sfoglio il mio diario, eccolo lì, un pezzo di vita. Testimoniato. Eppure ogni cosa mi sembra sfuggita di mano. Ripenso a Claudia, mi arrabbio e soffro, perché il ricordo del suo viso è sfuocato
e io ho bisogno di rivederla, nitida. Ho addosso mille sensazioni, quelle sì. E da lì che ricostruirò i suoi lineamenti, con i ricordi più belli rivedrò il suo sorriso. Sentirò così ancora l’elettricità che provavo in sua presenza, nel arle accanto, nell’incrociare il suo sguardo cercandone il sorriso. Non so nemmeno dove andare a cercarla, maledizione, non so nulla di lei. Proverò però a sognarla, l’unico modo per farla tornare da me. Almeno stanotte.
Venerdì 16 Dicembre Uno, due, cinque e otto. La lenta conta di un'attesa estenuante. Otto giorni. Otto giorni di buio, silenzio e polvere. Di sere vuote in cui ho riconcentrato l’attenzione sulla mia miseria. La mia casa è tornata ad apparirmi solo per quella vecchia officina meccanica che è realmente, adattata e trasformata in un grosso monolocale. Troppo grande e troppo alto per me. Troppo freddo. In questi otto giorni la solitudine è stata più viva che mai e la solitudine porta freddo e rabbia. Ti apre gli occhi e ti spoglia dei sogni. Mi ero illuso di avercelo qualche sogno, impossibile e forse strampalato, ma c'era. Ero fiero di essermi rialzato così in fretta da una situazione tanto improbabile. Per quanto mi sia sforzato i ricordi del viso di Claudia non sono mai tornati nitidi, forse perché li pretendo, senza farli fluire spontaneamente. Anche la sua voce si è già confusa e mischiata con altre, ho un gran pasticcio nella testa. Un grande vuoto. Cerco di ricostruire quel sorriso così dolce e sincero, ma è un artificio della mia mente, mi sto ingannando da solo. Ho ricominciato anche a pensare a Lei, a sentire quasi la sua mancanza. Forse mi manca solo la certezza della vita di coppia. Ma che rimpiango? Quella con Lei era un’esistenza finta, con un solo sbocco e un’unica uscita che, fortunatamente, ho ato oltre un mese fa. Eppure ci penso ancora a Lei, spero e aspetto quasi che le sue dita compongano un sms insulso e senza senso. Lo stesso sms che fino a pochi giorni fa avrei ignorato e trascurato. O magari una telefonata, sì, mi andrebbe bene anche una telefonata. È terribile rendersi conto di non essere padroni della propria felicità, io l’ho delegata a Lei e poi a Claudia, e poi ancora al pensiero che qualcosa di nuovo stesse accadendo e che qualcos’altro non fosse mai realmente finito. Vivevo della speranza di poter davvero ricominciare. E da oggi sono in ferie, due maledette settimane di ferie. Non sarà Carlo né
qualche altro amico a risollevarmi. Ci proveranno, certo che lo faranno. E io starò anche al gioco, farò creder loro che sì, ce la stanno facendo. Che insieme a loro tutto è leggero e facile anche se starò morendo dentro, se poi la sera berrò una birra dietro l’altra prima di addormentarmi, sperando in un sms o in una serranda che si solleva. Sperando in qualcosa di inaspettato che mi venga a trovare, senza che io faccia alcuno sforzo. Eccomi, stappo la prima birra di questa sera. Accendo due candele e la stufa. Indosso una felpa sopra l’altra. Stasera si gela maledettamente.
Lunedì 19 Dicembre Undici giorni ati con la stessa serenità di un carcerato che conta le ore che lo separano dalla sua condanna a morte, con la differenza che io non ho né una scadenza né un traguardo. Solo qualcosa di incerto e nebuloso, senza né spazio né tempo preciso. Che io sia l’unico che può modellare un qualche genere di futuro per me stesso l’ho capito poco fa, di ritorno da un’insolita spesa mattutina. Alle casse non c’era Gisela, l’unica che lì non conosce sorrisi di circostanza. Tra le corsie cercavo donne dal cappotto rosso e dai lunghi capelli corvini, consapevole che non avrei trovato altro che casalinghe vestite di scuro intente nella loro spesa quotidiana o ancora pensionati in cerca di dolci per i loro nipotini. Speravo, di una speranza già disillusa, ma volevo crederci ugualmente, che forse Claudia l’avrei trovata. All’uscita del supermercato ho preso qualcuno di quei giornalini stampati dalle agenzie immobiliari, di quelli che stanno negli espositori di ferro, alla mercé di pioggia e sole. L’istinto mi chiede di fare un cambio ancora più radicale, di riappropriarmi della mia indipendenza. Di non dover più aspettare niente e di non dovermi sentire in debito con nessuno. Voglio ricostruire una vita regolare, magari vivere in una villetta a schiera con un fazzoletto di giardino dove piantare un acero rosso, senza grate da cui carpire le vite di sconosciuti e da cui farmi rapire il cuore. Una casa mia, con le finestre alla giusta altezza, da poter aprire per farci entrare l’aria fresca. Una casa da non dover lasciare più, una vita senza capricci da assecondare. Una casa dove vivere anche una triste solitudine ma senza rimpianti, senza sentirmi dentro a una vita in prestito. Ho bisogno di slegarmi dalla dipendenza dell’attesa e della speranza. Claudia non tornerà, non la rivedrò o forse la rincontrerò per caso, tra qualche anno, e le
erò accanto nell’indifferenza più totale. Perché la vita ti porta a queste cose, ti porta ciò che non sai. Appena troverò un appartamento avviserò Carlo e lascerò il garage. Cercherò qualcosa di più vicino al lavoro e anche alla sua casa. Carlo è un amico fraterno, l’unico vero legame che mi rimane. Quei giornalini sono impilati qui sul tavolo e non lontani da me. Intimamente nutro ancora i sogni: ho l’immagine di me, sdraiato su di un letto accanto a Claudia, mentre sfogliamo e leggiamo insieme quegli annunci. Dalla finestra entra una brezza leggera che muove le tende azzurre. Lei sorride di nuovo. Appoggiata sui gomiti al copriletto segna con una piccola “V” tutte le offerte che rappresentano la casa dei nostri sogni, mentre sistema i lunghi capelli dietro l’orecchio. E io la guarderò, estasiato, perché io e lei saremo completi, ci chiederemo dove siamo stati tutti questi anni, lontani l’uno dall’altra, mentre correvamo affannandoci in strade sbagliate accanto a estranei che pensavamo di conoscere. Perché io e Claudia saremo la rinascita di noi stessi. Oggi quei giornali, quelle riviste le guarderò da solo, con la dura consapevolezza della solitudine, della realtà. Solo per ricominciare a respirare autonomamente, solo con i miei polmoni.
Martedì 20 Dicembre È bastato un solo istante e un solo unico rumore secco per riaccendere in me uno strano meccanismo e accantonare ogni nuovo e ragionevole proposito. La pioggia batteva forte sui miei vetri troppo fragili, la sentivo a intervalli regolari tra un dormiveglia e l’altro in una notte fatta di immagini confuse, di sonno angosciante che più che riposare sfianca, tra il rumore di un traffico che non ha mai tregua, più intenso che mai dalle sette del mattino. Iniziavo a capire che forse avrei potuto cominciare a riposare da quel momento, che avrei ato la mattina a letto. Di queste cose sono fatte le mie stupide ferie. Mi rincuoravo intanto pensando a una nuova casa, mia. Ho usato per tutta la notte questo stratagemma, per scacciare quelle immagini distorte dei miei sogni, senza senso alcuno, capaci di creare solo prospettive vuote e buie. Pensavo ancora a questo, mentre mi rigiravo nel letto col viso congelato e il naso quasi insensibile.
Arriverà anche la neve, arriverà a giorni, a rendere magico questo Natale. Magico, ma non per tutti. Ho sentito un rumore secco e sgarbato, stridente. Breve. Poi silenzio. Mi sono svegliato del tutto e messo in allerta: «No, non può essere, avrò sognato anche questo», il cuore accelera i battiti e la mente si libera. Controllo l’orario dal cellulare, le sette e un quarto del mattino. «Ho sognato di certo». Me lo ripeto ed ecco un altro rumore strattonato, più deciso, sempre più stridente e sonoro. Un rumore che mi è familiare, che per molti, anzi, troppi giorni non ho più sentito. Qualcuno stava aprendo la serranda del negozio di bici. Il freddo era scomparso mentre il cuore pompava sangue all’impazzata, all’improvviso il volto era caldo e i movimenti fulminei: il tempo di infilare i pantaloni ed ero all’altro lato della stanza, dove la scala ormai giaceva inutilizzata. Ma l’ho aperta ancora una volta, proprio sotto la grata. Ho salito i gradini con foga silenziosa e con la mente avida e sgombra da tutto: vedevo solo un’immagine. Speravo di rivedere quel cappottino rosso apparire prima o poi dalla tenda che divide l’area vendita dall’area di servizio. Qualcuno aveva un debole neon vicino al bancone e poi il neon intenso dell’officina. La tenda si spostava leggermente, si muoveva qualcosa, finalmente. I segni che il dolore può lasciare nell’animo di una persona spesso vengono riprodotti fedelmente sul suo corpo, ma nulla li esprime meglio dello sguardo. Una Claudia irriconoscibile avanzava per poi sedersi su una delle sedie davanti alla scrivania. Un grosso giaccone nero la copriva fino alle ginocchia, lasciando chiaramente vedere dei pantaloni di tuta neri e delle scarpe da ginnastica grigie. Aveva appena tolto un berretto di lana che portava calato fino alle orecchie, lasciando liberi i capelli che contornavano il viso scavato di chi per giorni si è nutrita solo ed esclusivamente di domande e preoccupazioni, di chi alla fine ha vomitato una decisione. Per ora non sapevo quale fosse. La guardavo, senza perdermi neanche un istante di quella figura così mutata, di una fragilità estrema, almeno all’apparenza. Osservavo occhi rossi, lucidi di lacrime e vacui, che riflettevano le lotte più intense che quel cuore stava affrontando. Da un forte sospiro e da una mano che asciuga le lacrime: ecco da cosa è ripartita Claudia. Dopo essersi spogliata da quel giaccone esageratamente grande ho rivisto le sue forme, ora più esili e camuffate da un abbigliamento ampio e goffo. La borsa sull’altra sedia e le mani per un attimo sulla testa e poi ancora
sugli occhi, ad asciugare o trattenere lacrime incontrollabili. Ha ricominciato dai registri, Claudia. Li ha controllati per bene e li ha aggiornati. Nell’officina non c’era nessuna bici in riparazione e il banco era stato lasciato in ordine. Un ultimo minimo segno di rispetto da parte di Marco. Ma lei cercava altro. Credo sperasse di trovare quel biglietto che Marco non era stato capace di scrivere. Per lei solo l’ennesima speranza delusa. Poco dopo, alzandosi mollemente, ha preso scopa e paletta ed è scomparsa inghiottita dalla tenda, verso il negozio ancora in penombra. È tornata dopo dieci minuti, senza che io mi allontanassi dalla mia posizione. Non volevo. Sentivo solo il battito del mio cuore che salutava una speranza. Sentivo anche il cuore di Claudia, in un tumulto di battiti irregolari che producevano frequenti respiri, intensi, profondi, a volte spezzati. Aveva deciso di continuare e oggi era il giorno giusto per staccare quel cartellino giallo dalla porta. Alle 8:00 quel cartellino già non c’era più. C’era la mia immagine riflessa sulla vetrina: quella di un ragazzo con un viso quasi troppo bello per la sua età, con un ombrello aperto di colore azzurro intenso, a proteggerlo. Ho rallentato per leggere un nuovo, bianco, cartello: “Riapertura mercoledì 21 Dicembre con nuovo qualificato servizio officina”. Intanto Claudia era di spalle e smantellava la vecchia vetrina: l’aveva quasi svuotata completamente e riponeva tutta la merce, ormai stantia, in una scatola. La sella impolverata era già sparita, comparivano solo delle ditate sul vetro, di lei che vi si appoggiava cercando il modo più comodo ed efficace di togliere dal cavalletto la ruota incastrata e ormai sgonfia della bici esposta. Ho proseguito verso il bar con una strana calma, sotto il mio ombrello color cielo, con un sorriso ebete sul volto. Claudia era tornata, aveva preso la decisione più rischiosa e coraggiosa. Quella che le avrebbe sconvolto ancora di più la vita, perché ormai quello era l’unico tassello che le mancava da posizionare. Aveva deciso per il cambiamento, per il salto nel buio. Lei, stretta in quella vetrina, era la prova che il dolore non porta a temerne altro ma spesso alimenta il coraggio. In una mano tenevo l’ombrello e nell’altra un sacchetto con un vassoio di pasticcini e una piccola piantina confezionata con una carta rossa. Ero di ritorno.
Ogni o verso il negozio aumentava la forza con cui il mio cuore spingeva il sangue. Mi sentivo ridicolo, ma ho sempre detto che avrei voluto far qualcosa per Claudia, che l’avrei protetta, ora era arrivato il momento. L’avrei fatta sorridere di nuovo. Carponi, strofinava il pavimento in placche metalliche della vetrina: al suo aggio acquistava una lucentezza che era rimasta per troppo tempo nascosta dalla polvere e dalla noncuranza. Ho preso fiato una, due volte. Poi ho bussato. Dall’altra parte del vetro la reazione è stata uno scatto, dei bei capelli danzanti e un volto esibito in un’espressione interrogativa, quasi crucciata. Forse paura… Mi ha fatto segno con la mano di attendere un attimo, si è alzata da quella posizione scomoda ed è uscita da uno stretto aggio formato dal muro e dai pannelli usati come sfondo per la vetrina. Attendevo che arrivasse alla porta e in me cresceva l’idea, sempre più forte, di aver fatto una cazzata. Ormai c’ero: «Sia quel che sia». Il suono delle chiavi non era mai stato così vicino, poi la porta si era aperta, leggermente. «Buongiorno» mi guardava negli occhi, cercando di reggere il mio sguardo. In lei leggevo un profondo smarrimento. Claudia era un mare in tempesta, comunque bellissima. «Se ha bisogno di qualcosa dovrebbe ritornare domani» s’è affrettata a dirmi «oggi sono qua solo per i preparativi e la cassa non è attiva, mi dispiace». Faticavo a prender parola, inghiottendo a vuoto. Lei non si ricorda di me, ne sono sicuro, penso. La sua elettricità mi stordiva, arrivava ancora forte. Stentavo ancora a parlare, finché non ho letteralmente ripreso coscienza: «B- bbuongiorno». Ma da quando balbetto? «Ero cliente del vecchio gestore e ho pensato di farti un piccolo omaggio come augurio per la nuova avventura». Sorridendo, modulavo la voce nel modo più gentile che conosco, rasentando forse il ridicolo con quella frase detta tutta d’un fiato. Le porgevo la piantina e il vassoio ben incartato. Ero un’idiota totale mentre la guardavo desideroso di un suo sorriso. Eccone solo un lieve, imbarazzato accenno. Mi ringraziava, dicendo le solite frasi di circostanza che si rivolgono a un estraneo sospettosamente gentile. Eppure cercava di sorridere. Penso abbia quasi dimenticato come si fa, che i muscoli non le obbediscano più. Un congedo veloce, mentre lei mi invitava a ritornare dal giorno dopo, ringraziandomi comunque con intensità, come difficilmente qualcuno aveva fatto con me prima. «Tornerò. Sono Alex, piacere» le ho teso la mano, sorridendo. Lei, imbarazzatissima, strofinava il palmo sui
pantaloni: «Scusi ho le mani sporche, stavo pulendo il pavimento. Claudia, piacere. L’aspetto allora». Mi da del lei… Sono seduto al tavolo, stringo la penna tra le dita fredde. Claudia ha lasciato il negozio mezz’ora fa, dopo aver trasformato la vetrina in una raffinata festa di colori e decori natalizi. Ha esposto la bici più pregiata del negozio e accanto una bici dello stesso colore, però piccola e senza pedali, di quelle prime bici che usano i bimbi per imparare l’equilibrio. Ha fatto finti pacchetti regalo da cui escono giubbini, scarpe, caschetti. Ha cambiato il faretto fulminato: adesso illumina una serie completa di cardiofrequenzimetri. È stata brava. Io scrivo e mi sento ancora un’idiota, come solo l’insicurezza e l’inesperienza adolescenziale sanno far sentire. Ma ho 34 anni. Lascio andare la penna sul foglio e mi stringo una mano con l’altra, cercando di ricalcare la stretta di Claudia, sperando di sentire ancora quella sensazione che la sua mano mi ha regalato. L’ho fatto più volte, lo ammetto. La sua pelle era fredda ma in quelle dita c’era una forza equilibrata e spontanea che sapeva di buono. C’erano energia e intensità rare. Sono convinto rispecchino le risorse che Claudia ha nell’animo, ma di cui non è pienamente consapevole. Sono certo che si stupirà di se stessa. Dentro sé culla un universo in continua espansione e poi ancora la profondità dei suoi occhi, quel sorriso che non riusciva a emergere, inghiottito dal dolore. Quell’energia. Ecco che tutti i miei piani sono sconvolti. Non ho più voglia di ricevere sms insulsi, no, né ho voglia di lasciare questa casa, almeno fino a che Claudia starà per otto ore al giorno appena oltre questo muro.
Mercoledì 21 Dicembre Col frastuono di sempre arrivano le 9:00 del mattino. La serranda è stata sollevata, pesante e poco scorrevole, con qualche intoppo, poi la porta è stata aperta. Sulla vetrina è comparso un cartello che ha l’aria di dover rimanere lì per molto tempo. “Nuovo servizio officina qualificato. Servizio per riparazioni immediate solo al pomeriggio”. Claudia riorganizza così il suo lavoro, la sua vita in fondo. Ricomincia con un cartello bianco, scritto di suo pugno. Una scrittura armoniosa, un po’ come lei. A tratti incerta, come ora il suo percorso. Dev’essere in un tumulto costante la
mente di Claudia, non posso pensare che sia fredda e calcolatrice, che tutto le sia già scivolato addosso. I suoi occhi non possono mentire. Intorno alle 9:30 ho fatto il mio ingresso in negozio, timidamente. Con fare distaccato e aria quasi disinteressata ho percorso i dieci metri scarsi che separano l’ingresso dal bancone. Claudia era lì, annegava nel sudore freddo mentre emetteva forse il primo scontrino della giornata. Ha consegnato a un anziano zoppicante un sacchetto che pareva contenere delle scatolette, dentro forse c’erano camere d’aria. Ha contato con cura il resto ando monete e biglietti dalla sua mano liscia e bianca all’altra dalle profonde rughe macchiate di nero. Con un largo sorriso l’ha salutato, e quindi, quando pensava di esser invisibile ha tirato un forte e sonoro sospiro. Invece io l’ho vista, e l’ho sentita bene. Mi nascondevo dietro un espositore di magliette: la osservavo attraverso gli spazi fra stoffe tecniche leggerissime e colorate, appese al pannello divisorio sospeso tra due aree del negozio. «Buongiorno Claudia». Agitato, fingendo disinvoltura, l’ho salutata mentre comparivo sbucando dall’area abbigliamento. Mi sono infilato le mani nelle tasche e con mimica credo ridicola ho aperto il discorso con una frase banale: «Fa freschino oggi!». Non sapevo davvero che dirle, perché succede sempre così. Nella mente s’ammucchiano troppe parole, nessuna va d’accordo con l’altra e dal caos esce vincitore solo l’ovvio, almeno nella mia testa. Ero avvolto da uno spesso e gelido strato di imbarazzo. Lo stesso che si percepisce quando ci si avvicina a qualcuno per cui proviamo più di quello che possiamo mostrare o quando di quel qualcuno conosciamo l’intimità violata, senza averne conquistato la confidenza. Era felice di vedermi e questo mi ha spiazzato completamente. Il mio gesto di ieri non è ato inosservato, non è stato inteso come il tentativo di un maniaco per corrompere la sua prossima vittima. Claudia si ricordava di me, aveva percepito qualcosa di buono e non mi temeva. Forse era solo la sua ingenuità a guidarla? Ma stavolta non si sarebbe sbagliata. «Grazie per i regali di ieri. Li ho apprezzati molto. Ero molto impegnata, preoccupata… sa, l’apertura», si giustificava abbozzando un sorriso, guardando in basso e tormentandosi le mani. «Immagino» le ho risposto conciliante. «Ti prego, dammi del tu». Il cicalino della porta ci ha interrotto, suonando il benvenuto per due clienti.
«Sono sicura di averti già visto, più di una volta. Mi ricordo di te». Continuava a parlarmi, partecipe. Dandomi del tu stavolta. Poi mi ha fatto cenno di aspettare. Ho cominciato così a girovagare nelle vicinanze del bancone, prendendo una pizzetta in pasta sfoglia dal piccolo buffet allestito per la riapertura, dopo essermi versato un aperitivo dolce. Iniziavo a osservare quel luogo come non avevo mai pensato di fare prima. Aspettavo, dovevo fare solamente quello. E stavolta aspettavo Claudia. Ho notato per la prima volta il colore giallo delle pareti: una, la più grande a sinistra dell’ingresso, è decorata con un murale di cui non mi ero mai accorto. Un ciclista stilizzato che pedalando lascia dietro sé una lunga e tortuosa scia di colori. Le mensole rosse s’intonano perfettamente con il bancone, la tenda dell’officina e il pavimento. L’altra metà delle pareti invece è rivestita da un dogato bianco e rosso, su cui viaggia perpendicolare il controsoffitto bianco interrotto da numerosi punti luce. Il resto è colori di bici e maglie, di scarpe e selle, forcelle e manopole. È colori delle divise dei ciclisti che vanno e vengono, delle loro biciclette da corsa con nastrature marmorizzate, a righe o tinta unita. Poi ho ricominciato a concentrarmi su di lei, su Claudia, sentendomi già parte di un rapporto privilegiato. L’aspettavo, perché voleva ancora parlarmi, perché i suoi gesti erano inequivocabili. «Mi ricordo di te» queste parole hanno dato un nuovo ritmo al mio cuore. La osservavo intanto, parlava con i due clienti: un uomo sui cinquant’anni e un ragazzino. «Ciao Fabio!» qualcuno dalla strada, su una bici lanciata a folle velocità, lasciava il suo abitudinario saluto. Una voce allegra e sicura. Claudia si era girata di scatto, un ciuffo corvino le accarezzava la guancia sinistra mentre allungando il collo verso la porta il suo sguardo vagava interrogativo. Il viso si era mutato in una leggera smorfia. Ingoiava una piccola, inevitabile pugnalata. Non tutti sanno ciò che è accaduto in questo breve e intenso periodo. Il ciclista era un vecchio cliente o forse addirittura un amico, ma non sapeva certo che lì dentro, di Fabio, non c’era più traccia. È stato tutto così improvviso. Così tanto che qualcuno, ando ancora di lì, salutava chi nel negozio c’era da sempre, in qualsiasi giorno dell’anno, nelle medesime modalità. Che poteva saperne di Claudia? Come poteva sapere di quella ragazza, del perché fosse lì. Per sbaglio o per destino. Ancora non so dirlo.
Claudia ascoltava i suoi clienti, la vedevo mentre tentava faticosamente di sembrare sicura di sé, celando le fragilità e i tarli che le divoravano costantemente l’anima. Ascoltava ancora, attentamente, richieste che non era in grado di decifrare, quasi le giungessero in una lingua sconosciuta. Osservavo i suoi occhi concentrati e il viso contratto, ornato dai capelli raccolti in una lunga coda. Per il secondo giorno di seguito indossava una tuta da ginnastica nera, forse un inconscio tentativo di rendersi anonima e quasi voler scomparire. Il viso bellissimo emergeva comunque da tutto il buio di cui si era circondata, pallido e libero da qualsiasi traccia di trucco: si difende dal mondo con la sua semplicità, Claudia. Mangiavo la seconda tartina di sfoglia, incrociando di tanto in tanto il suo sguardo: lei sa parlare con gli occhi, e parlava anche a me. Vedevo in quel verde il tentativo di scusarsi per l’attesa. Le sorridevo, speravo di riuscire a trasmetterle rassicurazione. L’avrei aspettata, lei non può immaginare per quanto tempo. «Pignoni Marchisio. Bene signore, vado a vedere cosa è rimasto», simulava una sicurezza ammirevole. Ho visto di nuovo la tenda rossa spostarsi, inghiottire Claudia. Un minuto, poi due, poi tre. Dal magazzino sentivo rumore di ferraglia spostata e di scatoline che cadevano. Mi sono avvicinato al bancone affiancandomi ai due in attesa. L’uomo accompagnava un ragazzino con i suoi stessi lineamenti. Suo figlio. La spavalderia che il padre dimostrava strideva incredibilmente con l’immagine minuta e timida del ragazzino che sembrava soffocare mentre parlava quasi con difficoltà: si esprimeva emettendo suoni disarticolati qualcosa di simile al balbettio, ma più spesso le labbra si muovevano emettendo unicamente aria. Teneva lo sguardo sempre basso. Dimostrava dodici anni, ma non sono certo che fosse la sua vera età. Qualunque fosse, di certo suo padre aveva sempre deciso per lui e forse avrebbe voluto poterlo fare per sempre: imporgli lo sport da praticare, le gare a cui partecipare, i risultati da ottenere. Gli stava preparando la bicicletta per la gara di categoria. Vedevo un bambino morto dentro, un piccolo schiavo intimidito, mero esecutore dei desideri frustrati di un genitore. Col ritorno di Claudia il ragazzino aveva sospeso immediatamente il suo tentativo di comunicazione, bloccandosi all’improvviso, dopo aver abbandonato una parola a metà, dispersa per sempre. Se solo ci fosse riuscito chissà cosa avrebbe gridato. Ma il suo sguardo ritornava sempre e inesorabilmente basso. Ho
provato pena per lui, intanto che sorridevo nell’animo, convinto di vivere in una strana, inaspettata favola. «Li ho finiti… mi dispiace», Claudia, di ritorno dal magazzino, sembrava diretta al patibolo, mortificata, mentre comunicava la notizia. «Non mi piace il suo inizio, signorina», l’uomo la squadrava quasi con disprezzo. «Me li faccia arrivare entro la prima settimana di Gennaio, altrimenti mi troverò costretto a cambiare negozio. Questo è il mio numero, mi aspetto di ricevere una sua telefonata. Saluti». Improvvisa e veloce era già arrivata anche una prima onda a mettere alla prova questo viaggio in zattera in pieno oceano. Un’onda infranta sull’obiettivo, con forza decisa. In mia presenza tra l’altro. Claudia si era affrettata a rassicurare il cliente facendo promesse e garantendo su qualcosa di cui, sono certo, non aveva certezza alcuna. Il cicalino ha suonato poco dopo, sancendo infine l’uscita dei due. Il ragazzino stava di due i dietro a suo padre, un automa opaco e spento. La porta ha poi sbattuto. Mi sono ritrovato in silenzio, davanti a lei. Solo una leggera musica di sottofondo e il battito profondo del cuore che mi rimbombava nelle orecchie. Claudia, abbassandosi, è poi sparita dietro al bancone, tornando su velocemente con tre grossi cataloghi. Sorridevo ancora mentre la guardavo, l’incrocio dei nostri sguardi ha strappato anche a lei un timido sorriso, illuminandola. Cercava disperatamente l’indice di quei libri ricolmi di nomi e codici sconosciuti. «Sì, io mi ricordo di te» seppur indaffarata aveva ripreso a parlarmi e io, l’ascoltavo. Incantato. «Ti ho visto almeno due volte qua fuori… e se ti sei accorto ti sto dando del tu!». «Devi» sorridevo ancora. Mi piaceva moltissimo quello che stava succedendo, mi piace ancora adesso che ci ripenso, che lo scrivo. Sento nuovi brividi, sensazioni piacevoli che scorrono ovunque disordinate e allegre. E ogni ricordo è una nuova valanga di sensazioni. Il viso di Claudia ora è nitido nella mia mente. Più che mai, arricchito da infiniti particolari. «Mi ricordo di te un pomeriggio» ha proseguito Claudia «mi avevi incuriosito mentre parlavi al telefono. Eri così coinvolto e distratto che per un soffio non mi finivi addosso! Mi avevi chiesto scusa però, una cortesia che non è da tutti».
Improvvisi e intensissimi, eccoli i ricordi di quel pomeriggio. Mi sconvolgeva il solo fatto che lei, sì, mi avesse notato. Avevo inscenato quella commedia per poterla sfiorare un solo istante e lei mi aveva portato con sé, nella mente. Nonostante tutto. «Scusami un istante...». Sfogliava gli indici dei cataloghi, lasciandomi così, in sospeso. Io so che è in difficoltà. Non ha mai venduto biciclette in vita sua, sta compiendo un’impresa disperata. Per orgoglio, per la sua famiglia o per se stessa. Ancora non mi è dato saperlo. Ho immaginato cosa stesse cercando e ho provato a prenderla in contropiede: «Senti, ma cosa sono i pignoni Marchisio?» le ho chiesto semplicemente. L’ho rivista sorridere mentre, prendendo colore sulle guance, mi fissava divertita e disperata: «Sto cercando di capire quello, non ne ho idea! Devo essere attenta, non voglio far capire al cliente che non conosco quello che mi sta chiedendo. Così entro in magazzino, fingo di cercare e infine dico che ho terminato il prodotto. Facendo così prendo tempo e appena capisco di cosa si tratta rintraccio la ditta che può fornirmelo e faccio l’ordine». Il suo viso riacquistava una luce che non vedevo da tempo. Contrastava col nero della sua felpa ampia. «Sei giovanissima, come mai hai scelto questo lavoro?» l’ho fatto apposta, sono sincero. Non ho voluto porre freno alla mia cinica curiosità. So esattamente come sono andate le cose, ma volevo sentirlo raccontare da lei, scoprire cosa sarebbe stata capace di inventarsi. Non avrebbe mai detto la verità a un perfetto sconosciuto. «Diciamo che è stato un caso. Di quelle cose della vita che non è possibile gestire né prevedere». Sospirava nel tentativo di trattenere un grosso peso, la sua voce iniziava a rompersi e gli occhi a luccicare. «Capisco» Dico, pentito della mia domanda «ma ora sei qui, ce la farai». Una risposta qualsiasi, la mia, che ha avuto come risposta un sorriso unico, sottile e delicato, imbarazzato e pieno di gratitudine. Il sorriso di Claudia era lì, davanti a me. Senza elettricità né desiderio, godevo solo della purezza di quel gesto. Ho deciso che era il momento di congedarmi e l’ho lasciata con la promessa di
un piccolo acquisto «Domani ritornerò, vorrei la bici da bimbo che hai in vetrina». Un ultimo saluto mentre sfilo davanti al ciclista dipinto sulla parete gialla, sotto di lui uno specchio lungo e stretto rifletteva i miei i. Uscendo divido lo stretto aggio della porta con un ragazzo: dopo essersi guardato intorno si è diretto deciso verso il bancone e verso Claudia: una stretta di mano siglava un altro inizio. Era il nuovo meccanico. Il prescelto dal famoso elenco di Marco, dopo l’abbandono repentino e burrascoso di Rudy. Sento uno strano fermento nell’aria. Adesso si può veramente cercare di ripartire.
Giovedì 22 Dicembre Capitano quei risvegli intrisi di piacere, in cui il primo istante di consapevolezza corrisponde alla presa di coscienza che qualcosa di nuovo e bello ci è capitato e ci avvolge. Una sensazione capace di influenzare l’intero corso della giornata, ci fa superare qualsiasi difficoltà, perché lì abbiamo riposto nuove certezze e un focolaio di felicità. Mi sono risvegliato arrotolato nelle emozioni, quasi un adolescente reduce dal suo primo bacio. Sento fluire in me l'ottimismo e il senso di appagamento che può darti solo un nuovo inizio Se ho esagerato però lei non lo ha dato a vedere: dal viso di Claudia non trapelava né imbarazzo né dispiacere quando stamattina, con gratitudine e semplicità, ha accettato il sacchetto con le brioche tiepide del bar. In negozio l’atmosfera era tranquilla: Claudia spolverava alcuni ripiani, arrampicata su una piccola scaletta di legno pieghevole. Non era sola. Rumori precisi attraversavano la tenda rossa, suoni stridenti che risuonavano familiari. Non riuscivo però a identificarne l’esatta origine. Andare al negozio comincia a divertirmi, e più di tutto scoprire quali persone lo possono frequentare. Perché nella vita si incontrano individui sempre nuovi e con diverse sfumature di originalità. Quel genere di persone frequentano anche i negozi di bici. Oggi mi è capitato un personaggio davvero particolare, di quelle
persone ingombranti nel corpo e nel carattere. Mi ha sorato nello stretto corridoio d’ingresso, formato dalle bici parcheggiate a spina di pesce: ando ne ha urtate due che hanno finito per andare a sbattere violentemente sulle altre, per poi perdere l’equilibro a causa del manubrio in forte sottosterzo. Un effetto domino imbarazzante. Sollevando quel groviglio di bici osservavo quell’uomo decisamente ingombrante. Superava la mia considerevole altezza di un metro e ottanta con almeno dieci centimetri di cranio, portandosi appresso una stazza eccessiva. Si è diretto deciso verso Claudia, guardandola con i suoi occhi così piccoli da risultare insignificanti tra una fronte spaziosa, rossa e sudata e due guance poderose. Sudate anch’esse, nonostante il freddo di fine dicembre. Il suo fare arrogante e borioso era detestabile. Infine ha fatto la sua richiesta: «Vorrei un body per lo spinning misura Large». Dalla sua bocca uscì un’insospettabile voce sottile e impastata, rendendo quell’uomo così pieno di se in un certo senso più vulnerabile. «È per un regalo?» ha chiesto, Claudia, senza scomporsi minimamente. «È per me» ha detto più sorpreso che indignato. Il suo volto sudava copiosamente, sempre più paonazzo, mentre si sfilava la sciarpa e la giacca con fare insofferente. Claudia gli mostrava i capi cercando di far notare quanto la misura che desiderava non lo avrebbero potuto contenere. Lui la ignorava completamente, accatastava ogni capo esaminato sul tavolino in vetro, lasciando Claudia impotente. «Prendo questo signorina, prendo questo in misura L» Parlava in fretta, quasi impaziente di andarsene, come divorato dal caldo. Claudia aveva annuito, sconfitta. Lui la squadrava fino a che le si è avvicinato, quasi a confidarle un segreto. «Signorina, devo rifare la liposuzione. Mi tolgono almeno otto chili di dosso per volta, sa. Il Body mi serve per fare l’esame come istruttore di spinning e lo voglio molto attillato e adatto al mio nuovo fisico». Conclude con un occhiolino e un sorriso. «Perché non la fa anche lei? Tra noi rotondetti ci si comprende…». Claudia abbozza una risatina imbarazzata e si ricompone in fretta. Non risponde, incassa l’indelicatezza di quell’uomo in modo professionale, più di quanto avrei mai saputo fare io in una simile situazione. Poi, davanti alla cassa, quel cliente paonazzo e sudaticcio si è trasformato in un bulldozer: «Senza uno sconto non me ne vado», Claudia non ha opposto molta resistenza, lo ha accontentato. Il saper dire di no, quello le manca. Non potevo credere di aver assistito a una scena quasi surreale, eppure succede
anche questo in un negozio di bici. Cose che si possono scoprire solo frequentandolo dal suo interno, non solo spiandolo da una grata... Mi sono fatto un po’ da parte agevolando la turbolenta uscita del cliente e, finalmente, ho incrociato ancora quel sorriso che mi fa stare bene. Claudia, stamattina, mi ha accolto con la stessa energia con cui mi aveva salutato ieri. Una notte di rabbia, pianti e paura era riuscita a non scalfire nulla. Allo stesso modo il nuovo giorno in corso, denso di interrogativi e insicurezze, non aveva offuscato quella parvenza di complicità che assaporavo. Continuo ad assaporarla anche adesso. Nonostante tutto s’era divertita con l’insolito episodio, pur essendo ancora allo sbaraglio nel suo terzo giorno di gestione autonoma di un negozio di biciclette. Respiravo una bella atmosfera. Rara. La vetrina di «Qui bici» è rimasta orfana della piccola bici senza pedali che poco fa ho appoggiato vicino al mio letto. Un grosso fiocco bianco pende dal manubrio. Sono felice di averla acquistata. Insieme a Carlo ci faremo delle belle risate quando gliela porterò. Perché quella piccola bici è legata a questo momento che per noi rappresenterà sempre amicizia, complicità, gioia e speranze. È simbolo di un cambiamento radicale, perché là sopra siederà un bimbo la cui risata, per il mio amico, significherà per sempre una nuova vita. Quando vedrò quel bimbo spingere i piedini, alternati sul pavimento per muoversi su quella bici, anche se io ora non so che ne sarà della mia vita, so per certo che ricorderò ogni singolo istante di questi giorni surreali. Sento ancora quei rumori striduli provenire dall’officina. Il negozio è chiuso da qualche minuto. Mi arrampico sulla scala. C’è Claudia seduta dietro la scrivania. Oggi indossa una felpa blu, su jeans blu notte. Conserva comunque quell’aria un po’ dismessa. Nascosta in quel luogo ha ripreso il volto quasi rassegnato di chi ha scelto qualcosa senza desiderarlo. Ha un piccolo elenco scritto a mano dinanzi a sé: la osservo mentre sottolinea parole e contemporaneamente sfoglia quei grossi cataloghi che aveva tirato fuori già ieri sera. Quante volte, anche oggi, avrà detto quella bugia che l’avrebbe salvata? Quella del prodotto esaurito? La vedo poi chiudere ogni catalogo e guardarne il retro copertina: telefona a ogni azienda. Sono tutte chiuse, è quasi Natale. Ma lei non se ne accorge, per lei ora questa festa è solo un ostacolo: ha bisogno di lanciarsi e imparare. Ha bisogno di dimenticare in fretta. Non ha già più voglia
di giustificarsi con i clienti. Le è bastata quella volta in cui prese le difese di Rudy. Non si arrende: la vedo mandare fax e e-mail, le ditte troveranno i sui ordini alla riapertura. Su ogni fax scrive a grandi lettere “URGENTE”. Il rumore stridulo è un sottofondo sempre presente, costante e quasi ritmico. «Claudia, la ruota è quasi sistemata. Le altre bici sono già pronte per il pomeriggio». Lei lo chiama per nome «Grazie Walter, alla riapertura poi finisci di firmare il contratto». Walter lavora velocemente e con sicurezza: non si può paragonare alle movenze impacciate e alle mani insicure di Rudy né, lontanamente, all’indolenza di Marco. Lo vedo muoversi e si muove bene. Ha rispetto per Claudia, nonostante sia giovanissima e inesperta. Lei deve pur fidarsi di qualcuno. Mi sento tranquillo, ora mi piace anche quello che vedo dalla grata: sembra onesto e pulito. Ma mi rimane un pensiero. Claudia non dovrà sapere che abito qui. Almeno per ora.
Venerdì 23 Dicembre Ho ato quindici bei minuti al telefono con Carlo. Mi ha chiesto di unirmi a loro per il Natale. Ho accettato volentieri, non sopporterei un 25 Dicembre di solitudine, a rivangare ricordi d’infanzia e di momenti felici in una famiglia che non esiste più da molto tempo. Per quanto mi sforzi non riesco a far finta che sia un giorno qualsiasi, di quelli adatti a esser ati soli con se stessi. «Ma Lei ti ha più chiamato?» mi ha poi chiesto. «Lei, Lei… ma chi, Claudia…? Non le ho mai dato il mio numero…». «Ma no, Lei!». È stata una forte sorpresa. Da almeno due giorni avevo completamente rimosso dai pensieri tutto ciò che riguardava Lei e la nostra vita insieme. Solo ora ne
prendo coscienza. Comincio a guardare verso nuove direzioni, assaporando davvero nuove possibilità. Ma oggi è stato anche giorno di lacrime. Persino l’animo più tenace può smarrirsi, e oggi è toccato a Claudia sentirsi perduta. Ancora. Un alito ha fatto crollare la piccola torre di carte, fiera di esser rimasta in piedi così a lungo, anche dopo il terremoto. Lei purtroppo può guardare solo verso direzioni obbligate adesso, deve ancora scoprire esattamente cosa la circonda. Dentro a cos’è finita. L’avevo già deciso, oggi non sarei ato in negozio. Sono pur sempre uno sconosciuto e l’ultima cosa che desidero è essere io stesso causa di destabilizzazione. Ma non per questo avrei rinunciato a vederla. Mi piace scoprire le sue risorse e la sua inventiva, le sue strategie per sopravvivere in quel negozio che per forza o per destino s’è ritrovata tra le mani. È arrivata una telefonata. Due, tre squilli dal vecchio telefono bianco sulla scrivania. «Qui bici, buongiorno». Poi il silenzio. Claudia taceva, ascoltando il suo interlocutore con espressione sempre più rabbuiata. «Ma io sono la nuova proprietaria, non può rifarsi su di me per un assegno scoperto che non ho mai emesso. Non c’è la mia firma là sopra! Quei soldi non sono io a doverglieli dare. Cerchi Fabio, parli con lui, per favore …». avano i minuti, silenzio, troppo silenzio e poi parole e frasi in una conversazione sempre più tesa, il tono, quello di Claudia, ormai esasperato. Quando ha messo giù il telefono la cornetta non s’incastrava, faceva più tentativi con la mano rigida cucita a un braccio non più capace di controllare bene i movimenti. Poi è crollata insieme ai suoi nervi, esplodendo in un pianto sonoro e sofferto. Pronunciava, tra le lacrime, parole confuse, liberandosi dal controllo di cui si era fatta scudo. Inizia ad aprire gli occhi, a intravedere ciò che purtroppo sarà. Una vita che non somiglia in nulla a ciò che aveva immaginato, che non le piace. Io sapevo dei debiti di Fabio e dei suoi traffici non trasparenti. L’ho sempre saputo da che sono arrivato qui. Da quella sera in cui l’ho visto tremare sotto una minaccia mortale. Ha buttato il suo fardello in mano ai primi ingenui ed è sparito in fretta, forse troppo, senza regolare i suoi conti. Al telefono era uno dei due uomini che oltre un mese fa gli puntavano il coltello alla gola. Ne sono certo. Il cerchio tenta già di chiudersi e lo fa con l’anello più
vulnerabile. Il pianto di Claudia attraversa ancora la grata e mi perfora cuore e cervello. Tenta di esaurirsi, sfinito e ormai senza forze. Sa di disperazione e di stanchezza. Ogni singhiozzo racconta un dolore: in uno c’è Marco, in un altro Lorena e poi Rudy. Piange insicurezza e delusione, piange la brusca scomparsa di ogni sogno. Sputa il vuoto che ha dentro e sembra infinito. La forza per ricacciare quelle lacrime la può trovare solo in sé. Io sarò presenza discreta e opportuna. Sarò, chissà, il primo pezzo che riempirà ciò che resisterà di quel vuoto.
Sabato 24 Dicembre Ho sempre evitato di frequentare i supermercati alla vigilia di qualsivoglia festività. La confusione è qualcosa che rifuggo, non è nelle mie corde. Oggi mi sono fatto un dispetto: un pomeriggio nel centro commerciale. Claudia aveva da poco aperto il negozio e Walter, puntualissimo, lavorava di buona lena sulle bici da bambino che i clienti avevano prenotato al mattino. Su tutti i manubri montava un camlo colorato che tintinnava timido mentre veniva avvitato. Poi veniva regolato in modo da produrre un suono più limpido e acuto possibile. Walter sa che spesso per i bambini la bici è un grosso accessorio su cui suona un coloratissimo, squillante e vibrante camlo. Oggi è questo: ultimi preparativi, ultimi regali. La solitudine per me ricomincia a diventare un nemico da combattere, soprattutto dopo i troppi giorni di vita casalinga forzata. Purtroppo non sono quei minuti con Claudia a cambiare le cose. Mentre procedevo verso il supermercato facevo la lista degli acquisti. Avevo ben poco da comprare: un vino dolce e frizzante, dei cioccolatini e qualche candela, di quelle bianche che brucio quasi ogni sera. Giusto quello che domani porterò a Carlo. Ho voluto scegliere l’orario peggiore per il supermercato, il più affollato: volevo perdermi tra i volti e le voci concitate e nervose, volevo assaporare la frenesia dell’ultimo minuto che sarebbe poi diventato silenzio totale in quei corridoi, di lì a poche ore. Il mio desiderio di sentirmi parte di un mondo chiassoso e ordinario si è fatto più intenso, desiderio mai palesato prima. Bene, sono quasi le 19:00. È ora di andare da Claudia. Poso la penna e respiro a fondo.
Walter usciva dal negozio, indossava già la sciarpa e il giubbino, tenendo il casco integrale con la mano destra. Uscendo ho rischiato per un attimo di incrociarlo e farmi riconoscere. Ho richiuso velocemente la porta, attendendo che si allontanasse. Pochi minuti soltanto. La mia casa non è qui, non per loro. Almeno per il momento. Sono entrato in un negozio deserto, solo la radio in lieve sottofondo. Di primo impatto somigliava a un piccolo campo di battaglia: il tavolino del reparto abbigliamento era sovrastato da una montagna nera, gialla e di altri colori fusi e confusi di giubbini e non so cos’altro, mentre nelle esposizioni di biciclette c’erano parecchie postazioni vuote. Il negozio era stato preso d’assalto, buon segno. Al mio ingresso una voce lontana e ovattata faceva eco al cicalino che avvisava della mia presenza. «Arrivo subito». «Claudia, sono Alex.» avanzavo lentamente, senza fretta. «Ho preso ieri la piccola bici senza pedali, ricordi?» Mentre parlavo mi guardavo intorno: le bici esposte in alto, il controsoffitto, le immagini sui muri. Tutto cominciava a essere familiare… «Certo! Sono in officina, avvicinati pure». Nella tasca del mio solito giaccone nascondevo un piccolo pacchetto di plastica trasparente color glicine chiuso a ventaglio, decorato con dei lunghi nastri bianchi. A ogni o controllavo con le dita che la confezione non si fosse sciupata troppo. «Sono qui» ho sussurrato in prossimità della tenda, al limite di quella linea immaginaria che divide quella che è la competenza esclusiva del negoziante dallo spazio concesso al cliente. Su quella linea avevano transitato fin troppe persone, lasciando di sé fin troppe scie buie. «Entra». Era arrivato anche il mio momento. Chissà come sarebbe stata invece la mia scia…
Mi immaginavo spiarmi, mentre aprivo quella tenda rossa. L’officina, la scrivania e gli scaffali mi apparivano stranamente alla giusta altezza. Ecco la macchinetta del caffè, mi assale un brivido, ecco la grata, quasi invisibile: tinteggiata con la stessa vernice delle pareti, quasi all’angolo e posizionata in alto. Non salta all’occhio e si confonde, ben mimetizzata, nel muro. Mi sento rassicurato. Un istante per realizzare tutto questo per poi abbassare gli occhi scoprendo Claudia accovacciata sulle ginocchia: «Ciao, scusami un minuto e finisco». È pallida, stanca, ma mi sorride. Di un sorriso che tende a spegnersi, che accende gli occhi di una debole luce. Ha in mano una ruota. La gira e la controlla: quelle mani eleganti e delicate contrastano con i suoi gesti, sui palmi e sul dorso ha visibili tracce di sporcizia e di grasso nero. Solleva il viso e mi guarda: «Mi sono fatta spiegare da Walter come funzionano un po’ di cose e sto facendo pratica sia nello smontare e rimontare una ruota posteriore, sia nel cambiare una camera d’aria». Sorride ancora, stavolta nel viso ha una nuova espressione: determinata, soddisfatta. «Così potrò fare anche io questi piccoli interventi, lasciando a Walter più tempo per riparazioni o regolazioni più importanti». Nel frattempo si era alzata e, diretta al cavalletto, cercava di riposizionare la ruota nella sua sede. Qualche tentativo maldestro le aveva procurato una leggera abrasione su dorso della mano destra, sanguinava timidamente sulla pelle sporca. Non se n’è curata, tamponandola con un po’ di ruvida carta da officina. Dopo aver bloccato lo sgancio, la ruota girava precisa, senza interferire con i pattini dei freni. «Brava» le ho sorriso. Mi sentivo orgoglioso di lei, di vederle addosso quella forza. Mi è ata accanto, Claudia: dirigendosi verso la tenda mi faceva cenno di seguirla per raggiungere di nuovo il bancone. Odorava di gomma ed era un po’ spettinata: i capelli scappati via dalla coda formavano come piccoli ponti disordinati e i ciuffi più corti le andavano sul viso, tra le labbra: era meravigliosa. L’atmosfera non è più quella di qualche settimana fa, per me lei è lì da sempre. Fabio, Marco, Rudy e Anna chi sono? No, non sono mai stati qui. Nemmeno Lorena, per quanto me la ricordassi nello stesso identico punto in cui ora guardavo Claudia.
«Dimmi tutto». Era sicuramente sfinita da un’altra notte insonne, lo vedevo dai lineamenti tirati e dagli occhi scavati di chi ha pianto per troppo tempo. Ma ora, parlandomi, non mi negava un sorriso limpido. Solo per me. «Volevo augurarti buon Natale. Lo i con la famiglia, giusto?». «Sì, ci riuniamo, come ogni anno. Quest’anno non sarà proprio uguale agli altri…», si è interrotta qui. Sospirando, con lo sguardo evasivo studiava la gomma rossa del bancone. Quante cose so di te Claudia. «Buon Natale» la candela si vedeva nella trasparenza di quel sacchetto rumoroso «accendila quando ti sentirai sola». Sento ancora la sua guancia sfiorare la mia, la sua pelle liscia e i capelli profumati di vaniglia e di copertone di bicicletta: uno slancio di gratitudine, il suo viso illuminato. Mi ha stretto la mano, mi ha dato due baci: di quelli che non sono proprio baci, dove la dolcezza del bacio è donata all’aria e le guance si appoggiano veloci e timide l’una sull’altra. E l’onda mi travolge ancora e ancora, l’elettricità mi stordisce. «Grazie, non… non ho parole. Forse questo Natale non sarà poi così male».
Domenica 25 Dicembre È sera. Stento a riconoscere la strada di casa, così silenziosa e orfana delle automobili. Ne a giusto qualcuna, timidamente, con lo stesso piglio rallentato di chi la conduce, satollo dai banchetti Natalizi. Mi sono sentito solo, un po’ troppo solo. La sicurezza di esorcizzare il ato era solo una bolla di sapone. L’amicizia e l’accoglienza della famiglia di Carlo ha scaldato solo la mia superficie, l’interno è rimasto gelido, in balìa della forza dei pensieri, del vuoto che solo delusioni e solitudine sanno dare. La vetrina del negozio di Claudia era bella anche stasera, illuminata e contornata dallo sfondo buio del resto del locale. Tutto riposava, tranne la mia testa: frustrazione e pensieri confusi, sentimenti e sensazioni contrastanti. La mia autostima, in tutta
risposta, è finita sotto le suole di tutti i commensali, dei genitori e degli zii di Carlo, anche sotto le zampe del suo cane, poi sotto le ruote della mia auto. Mi mancava e mi manca tutt’ora qualcosa di indefinibile, nel desiderio che il tempo scorra, acceleri e non rimanga seduto a osservarmi. Cosa vuole da me il tempo? Cosa vuole proprio adesso. Ora deve correre, guizzare veloce come una lepre. Non nei momenti felici, strappati sempre via in un rapido battito d’ali. Eppure è così, sempre così. A casa di Carlo ho fatto del mio meglio per ambientarmi tra facce nuove o poco conosciute. Nel frattempo ho pensato anche alla mia vecchia casa e ho pensato a Lei: durante i preparativi con la sua nuova famiglia ha trovato la pietà di scrivermi «buon natale» senza sforzarsi di usare nemmeno le maiuscole. E io che potevo fare con me stesso? Sono andato contro l’istinto, non le ho risposto. Avrei voluto scriverlo a Claudia un messaggio, avrei voluto scriverle «Buon Natale, o prenderti» Mi è mancata terribilmente, Claudia. Mi sento in bilico, finito, al pensiero di un altro maledetto giorno in cui tutti saranno riuniti. Tutti tranne me. Un altro maledettissimo giorno senza Claudia. Vorrei poterne scorgere il profilo da quella grata, sentirne la voce. Almeno quello, almeno questo.
Martedì 27 Dicembre Questo Natale è ato, sono felice sia finalmente scivolato via. L’ho esorcizzato tra libri, sonno sregolato e una camminata sotto la prima timida neve in centro a Milano. Circondato da tanta gente eppure profondamente solo tra visi sfuggenti. Ma è andato, è ato tutto. Ho di nuovo Claudia negli occhi. È respiro per me. S’è insinuata in fondo alle pieghe della mia mente, mi si è tuffata nel cuore e da lì ha viaggiato esplodendomi nelle vene. È nucleo di ogni mia cellula. Ho amato nella mia vita, amato follemente e vissuto ogni sentimento fino all’ultima goccia. Ma Claudia…lei è qualcosa di mai percepito prima: dolcezza allo stato puro, ingenuità d’amore, l’inaspettato. E con Claudia è ricominciata, lenta, anche la quotidiana vita del negozio. L’ho vissuta da carcerato, dietro le sbarre immaginarie della grata, confortato dal pensiero di essere praticamente invisibile. Pochi, pochissimi i clienti del mattino. Mi sono trattenuto, ho lottato contro una forza irrazionale che mi spingeva
dentro al negozio, a mescolarmi tra quei clienti. Ho resistito, almeno per il mattino, mentre la mente elaborava le scuse più credibili e fantasiose da esibire davanti a lei. Come se dovessi giustificare la mia presenza. Alle 16:00 ho chiuso uno dei libri di architettura di giardini su cui ultimamente studio, mi facevano da sottofondo le attività pomeridiane del negozio, appena cominciate. Ho posizionato la stufetta nel bagno e ho annegato dubbi e pensieri sotto una doccia calda, fatta con la consapevolezza di chi si prepara per un appuntamento importante. Ma volevo solo andare al negozio. Per me è sempre un appuntamento importante. Ho asciugato i capelli, lasciato incolta la barba di due giorni e ho cambiato il mio solito giaccone. Per la prima volta in questo periodo volevo sembrare migliore, almeno nell’aspetto. Volevo cercare di camuffare la viltà dei miei giorni da spia, l’umiliazione nell’ essere la maschera di me stesso. No, il profumo non l’ho messo, sarebbe stato troppo. Un profondo respiro ed eccomi fuori, nel pomeriggio freddo, con la neve accumulata e già annerita ai bordi della strada, violata nella sua purezza. Pomeriggio con un cielo che di neve ne promette ancora. Entrando nel negozio di bici la temperatura cambia: pur mancando aria condizionata e riscaldamento, si penetra un cuscino di tepore. Il controsoffitto trattiene il calore delle luci e dei corpi, lo restituisce all’aria che si rimescola al aggio di persone e di biciclette. Ho attraversato il corridoio di bici luccicanti, un percorso obbligatorio. Non vedevo Claudia ma ne percepivo la voce dal reparto dell’abbigliamento. Suoni ormai familiari invece provenivano dall’officina. Sul bancone rosso erano appoggiate due scatole di scarpe, una scatoletta piatta contenente una catena e tre paia di calzini con un decoro identico per disegno ma differente per colore. Dietro al bancone ho scoperto diverse mensole usate per l’esposizione di copertoni pieghevoli dal battistrada largo e robusto e alcune selle ricamate con simboli o scritte varie. Più in basso invece sono allineati diversi ganci che sostengono blister contenenti freni a disco e chissà quali altre diavolerie. Ho sentito dell’aria muoversi, lieve, alla mia sinistra: Claudia mi ava accanto, dirigendosi ora verso il bancone, portando in equilibrio altre quattro scatole di scarpe. La loro forma diversa la rendeva una torre instabile. La sua scia profumava ancora di vaniglia e di gomma di copertoni, mentre i capelli tenuti sciolti ballavano sul maglione rosso che vestiva la sua schiena. Per me, ormai, rosso significa Claudia.
«Buonasera Alex», il suo saluto era arrivato veloce. Sorrideva mentre lo diceva, lo percepivo. La seguiva un cliente. Le ho risposto, raggiungendo il reparto dell’abbigliamento, allontanandomi dal bancone simulando quasi indifferenza. Contenevo nei polmoni solo una grande gioia liberatoria. Avevo lasciato Claudia ai suoi conti, alle sue spiegazioni ancora a rischio di incertezze e alle sue strategie di sopravvivenza. Il mio orecchio era attento al suono della sua voce, i miei occhi invece avevano obbligo e permesso di vagare e perdersi ovunque, tranne che negli occhi di lei. Non mi ero mai chiesto cosa avesse bisogno di indossare un ciclista. Nel mio immaginario esiste un corridore da Giro d’Italia, un ciclista per eccellenza con pantaloncini corti aderenti e una colorata maglietta piena di tasche posteriori. Occhiali inforcati e mani protette da guantini a mezzo dito. Mi ritrovavo circondato da giubbini a manica lunga, su cui in bella vista era appesa un’etichetta rossa e bianca scritta in inglese: ne ho tradotto il senso, indicava un tessuto capace di bloccare il freddo intenso che si percepisce a causa del vento. Spostandomi poco più avanti incontravo una vasta collezione di maglie invernali, calde e poco ingombranti, in un ventaglio di disegni e colori dalla variante glamour fino alla più grossolana delle pacchianerie. Un altro o ancora e ho ritrovato la mia immagine riflessa sullo specchio ovale dalla cornice bianca. Di quegli specchi che sono appoggiati a terra, malfermi, in grado di riflettere la persona quasi per intero. Ed eccomi, e illuminato dagli spietati neon. La mia immagine mi piace, mi è sempre piaciuta, non lo nego. Nonostante l’impietosa luce bianca uscivo vincente da quell’esame visivo: i capelli lisci e folti che ancora accarezzano le guance, senza segni di calvizie, senza alcun capello bianco. Un eterno ragazzo. Illumino i miei lineamenti regolari con un sorriso sicuro e finto, da copertina. Ma un sorriso sincero, di cuore, mi manca da troppo tempo: il sorriso di felicità profonda. Con Lei eravamo una coppia di quelle belle, ricche di fascino, almeno nell’aspetto. Ma a che serve un bel corpo, uno sguardo profondo e delle mani attraenti se poi la bellezza dell’animo è piccola, trascurata e atrofizzata? Avrei potuto avere molte più donne di quelle che hanno poi diviso con me un letto: ho sempre avuto un carattere responsabile e fin troppo serio, mi sono sempre frenato, prendendo tempo per ragionare sul valore dei sentimenti. E di questo ora sono felice. Continuavo a osservarmi compiaciuto, riflesso in quello specchio ovale, mentre pensieri diversi correvano in parallelo tra di loro, alternandosi, emergendo a
turno nella coscienza. Un vociare insistente ha frantumato tutto: cominciava un’altra piccola grande prova per Claudia. «Fabio lo faceva sempre». Cosa faceva sempre, mi domando… «Come faccio a regalarle tutto, non è possibile» replicava Claudia. Scorgevo le sue mani tremare, con le dita pallide appoggiate sul banco, mentre il suo tono di voce era alterato da stizza e timore. «È una sponsorizzazione: tu mi dai i premi, io ti faccio pubblicità. È così che funziona, non sai come vanno queste cose, e di bici, che potrai mai saperne tu». L’uomo, più o meno della mia età, insisteva con arroganza tagliente, sicuro di sé e del suo obiettivo. Claudia teneva le spalle alzate e contratte, il suo sguardo vagava sempre più stizzito e umiliato, quasi a catalogare velocemente la merce. «E va bene…» la sua resa. L’uomo ha capito che Claudia è facilmente ricattabile, spargerà la voce e chissà in quanti proveranno a ottenere favori o merce a prezzi ridicoli. Faranno leva sull’inesperienza, sul suo timore di scontentare chi potrà darle lavoro. La mortificheranno, chissà quanti bastardi. Poi mi avvicino «Ma perché non le paga almeno il prezzo di costo?». «Non funziona così, che vuoi?» mi guarda squadrandomi «La signorina sa cosa deve fare». «Claudia, sei sicura?» Le ho chiesto mentre, incerta e con un enorme peso sul petto sospirava, «S-sì… credo di sì» mi ha risposto a occhi bassi, umiliata, nervosa e distratta, mentre compilava un modulo di documento di trasporto: un timbro in alto per l’intestazione, l’elenco della merce e alla destra di ogni voce la parola «omaggio». Sciacalli su una preda. Ecco cosa ho visto. Errori da correggere e piccole guerre da combattere quotidianamente, con la sola forza di se stessi. E io non posso far nulla… almeno adesso.
La merce è stata infilata in grossi bustoni bianchi con un disegno stampato in rosso: riconosco lo stesso ciclista stilizzato della parete d’ingresso. E con il rumore dei sacchetti che si toccano tra loro l’uomo è uscito di scena, in ultimo l’eco del cicalino e una porta che sbatte, facendo vibrare ancora la vetrina e i piccoli faretti sospesi. E siamo rimasti così, io e una Claudia scossa. Si sta domandando, si sta tormentando: ciò che ha fatto è stato giusto? Ha forse invece agevolato una rapina, legalizzandola? Chi era davvero quell’uomo, perché aveva accettato di fidarsi? «Ciao» mi ha salutato ancora, a voce bassa, dopo qualche secondo. Non aveva più il sorriso di prima, solo un viso pallido e l’espressione preoccupata. Ha cercato di ricomporsi, di evitare nuove brutte figure. «Grazie» mi dice «ma dovevo fare così». Si tormenta ancora le mani e poi se le strofina sul viso, come a modellare una nuova espressione. Gli occhi poi lucidi, un po’ rossi. E un sorriso sofferto, ma nato per me. «È il presidente di una squadra della zona, mi ha detto. Organizzerà tra qualche tempo una gara e sta cercando una sponsorizzazione. L’ha trovata, suppongo» si giustifica, quasi ironica. «All’inizio credevo fosse un cliente, che volesse acquistare tutta quella roba… vabbè, basta così, scusami». Parlava a raffica, come a rassicurarsi da sola, a giustificarsi per ciò a cui avevo assistito. Forse per la sua debolezza di cui si vergognava. «Tutto bene il Natale, sì?» parlava distrattamente, cercando una rapida svolta al discorso. Dopo aver incrociato il mio sguardo per l’ennesima volta mi ha traato una scossa, forte. No, intensa è più giusto. Poi si è soffermata un istante in più sui miei occhi: la scossa diventava allora onda che s’infrange. Mi è scappato un sorriso, sincero e divertito che lei ha ricambiato con un lieve imbarazzo. Galleggiavo. Galleggio tutt’ora nel ricordarmelo. In questi casi, come ho visto fare in molti film, si attua una manovra evasiva e fulminea. Un istante solo per comunicare e per capire tante cose, impalpabili, che solo il cuore sa leggere. Quell’istante va subito sommerso, sostituito, proprio perché possa rimanere così labile, perché diventi ricordo di una sensazione. Ho girato la faccia, muovendo la testa da destra a sinistra, come per cercar qualcosa.
«Sto cercando un camlo da mettere sulla biciclettina che ho preso prima di Natale». Ero diventato serio, sparando quella frase a freddo, per stemperare l’imbarazzo e l’emozione che provavo. «Ti mostro qualcosa… è piaciuta al bimbo?» mi ha chiesto, tornando seria anche lei. Quasi delusa, forse. È solo quel che spero… «Te lo dirò tra circa due anni» ho sorriso «quando nascerà e si farà grande». Mi guardava interrogativa. Credo m’avesse sbattuto subito nell’elenco delle persone da cui stare alla larga. Il solito pazzo, il mitomane di turno. Solo per poco. Mi sono sciolto così, per la prima volta avevo un’occasione per parlarle di me, per raccontarle di Carlo e del mio lavoro. Mi ascoltava non so se per vero interesse o per cortesia, ma è nata una piccola, amabile conversazione. Una bolla di pace ed emozioni che fluivano a doppio senso, di occhi rilucenti che si incrociavano ancora e ancora, soffermandosi quella frazione di secondo in più, quella che vale più di mille parole. Stasera cullo una piccola, dolcissima illusione.
Mercoledì 17 Gennaio Ventuno i giorni di pagine mai scritte. Cosa mi è accaduto? Ho vissuto, meravigliosamente e semplicemente vissuto. Ho goduto delle ore finalmente leggere e veloci. Ho quasi dimenticato l’esistenza della grata, una trappola per la mente, per la sincerità. Non ho più avuto bisogno di spiare il negozio di bici, l’ho vissuto. L’ho vissuto tutte le sere: ho bevuto un caffè appoggiato al bancone dell’officina e chiacchierando con Walter. Ne ho bevuti altri seduto alla scrivania davanti a Claudia. Ho riso insieme a loro, bevendo ogni goccia di caffè come fosse un prezioso elisir. Non dovevo più guardare quell’ambiente dall’alto, da oltre un muro. Potevo viverlo, esserne finalmente attore e presenza viva. Tutto ha cambiato prospettiva: il bancone e il soffitto, gli scaffali e il pavimento rosso, il cavalletto per le bici e i libri sempre chiusi di Claudia. La mia vita stessa. Mi sono trattenuto in negozio la sera anche fuori orario, ogni volta che Walter accumulava qualche lavoro in più. E tutte quelle
sere la mia mente non aveva pace al ricordo di quando quel pavimento in gomma era calpestato da Marco e da Rudy, e prima ancora da Fabio e Anna. Quel giorno in cui i tacchi di Lorena lasciarono profondi segni su quella gomma e sul cuore di Claudia. Forse ho sognato tutto, perché i ricordi appaiono così concitati e complessi da farmi pensare solo alle trame fitte dei sogni durante le notti difficili. Claudia ride e sorride. Soffre ancora ma cerca il riscatto, posizionando al meglio i pezzi della sua nuova condizione. Non sono ati molti giorni da quando ho ascoltato per la prima volta la sua risata: è arrivata inaspettata, come il vento che sorprende con le raffiche, sul finire di una serata. Riecheggiava per le pareti del negozio quasi a volerne lavare via tutte le parole, i pianti e le sofferenze di cui erano state testimoni. Una risata che rimbalzava sul cuore, che mostrava denti bianchi e dritti, socchiudendo dolcemente gli occhi e regalando al suo volto una nuova espressione. L’acero intanto è ancora al vivaio. Io e Carlo ci siamo ati proprio oggi, per fotografare l’albero e misurarlo con esattezza. Sono anche diventato un cultore della spesa della domenica, l’unico modo per non privarmi di istanti preziosi da are al negozio di bici. Claudia sogna, mi ha confidato che appena sarà più assestata cambierà il nome del negozio e anche l’insegna: la farà bianca, con una scritta color glicine «Le biciclette di Claudia». Sarà la sua rivincita. Guardiamo sempre a un futuro nelle nostre serate in negozio. Qualche volta mi è capitato di stare lì fino a chiudere la serranda insieme a lei e Walter. Quelle volte ho ancora raccontato la mia bugia: «No, non abito lontano. Vado a prendermi una pizza e poi vado a casa». È vero, non abito lontano. Sto bene, Carlo se ne accorge. Io me ne accorgo, ogni mattina e ogni notte. Accendo la mia piccola candela e mi addormento riando le sensazioni provate a ogni sguardo di Claudia, a ogni suo sorriso. Non è più un senso unico, l’elettricità che mi arriva è più intensa, voluta e mirata: riesco a farla mia e a esserne travolto, ma anche a rielaborarla e rimandarla indietro. Io so che anche Claudia riceve energia, elettricità. La riceve da me che, insieme a lei, risalgo la china. Percepisco la sua forza, gliela vedo are negli occhi per poi espandersi in tutto il corpo. Claudia mi piace e io piaccio a lei. È fuori discussione. La desidero, lei lo sa e mi lascia fare. È un gioco bellissimo.
Ho ato tante sere nel negozio, proprio in quel momento in cui i soliti clienti di sempre si attardavano appoggiati al bancone. Non è importante per loro chi ci sta dietro, ma poter scambiare due chiacchiere e guardare i cataloghi, sempre gli stessi. Guardano l’ora, come a sincronizzarsi col momento in cui le loro mogli cominceranno ad apparecchiare la tavola. Ecco, in quel momento loro ci saluteranno e scompariranno. Ho visto le persone più diverse mettere piede in quel piccolo rifugio delle biciclette, in un susseguirsi di scene bizzarre, condite da ogni genere di sentimento e intelligenza. Talvolta compaiono fantasmi del ato, come in una delle scorse sere: Rudy ha invaso il negozio, sfacciato e imibile, con la scusa di comprare una camera d’aria. Era scomparso da tempo, dal giorno di quel violento litigio con Marco. Claudia l’ha accolto con distanza, freddamente. Quasi fosse uno sconosciuto. Ciò che prova si legge sul suo volto e nei suoi gesti. Non è capace di finzione. Lui s’è guardato intorno a lungo e in silenzio, soffermandosi sulle etichette dell’abbigliamento e su tutti i nuovi arrivi, che fossero biciclette, gomme, ruote e accessori. Possibilmente tutto ciò che fosse novità dell’anno in corso. Claudia lo guardava irrigidita, confessandomi poi che il suo atteggiamento non la convinceva neanche un po’. «Si, mi ricordo di quel ragazzo» le ho detto. Che poi, nel negozio di bici, ci a davvero chiunque: il bambino alla ricerca di adesivi, di pezzette e mastice, soprattutto ogni sabato pomeriggio. Donne che arrivano completamente smarrite, quasi come monache entrate per sbaglio in un sexy shop: spesso sono le mogli dei tanti ciclisti, pensionati, che frequentano il negozio. Sanno che qui possono acquistare un regalo per l’anniversario o per il compleanno dei loro mariti che ormai, vivono solo per la bicicletta. Si rifugiano in Claudia, implorando un suo consiglio. Una donna che gestisce quel genere di negozio conoscerà sicuramente i desideri di un anziano ciclista. Pensano sia così… Non sono mancate le sere in cui l’allegria ha fatto il suo ingresso sotto forma di gruppo di amiche di palestra alla ricerca di un abbigliamento identico per tutte. Dalla ragazza di quaranta chili a quella che ne pesa più del doppio. Spensierate, felici. L’importante è pedalare insieme, senza differenza alcuna, macinando chilometri al ritmo di musica. E poi ancora il ciclista impeccabile nel fisico e nella bici e quelli della domenica, spesso paragonabili a un’armata Brancaleone. Una umanità su due ruote
variopinta e profondamente differente. Potrei continuare l’elenco ancora per molto… ma non voglio rubarmi altro tempo. Ho ben altri ricordi di cui godere anche stasera e tante sensazioni da gustare ancora e con cui voglio addormentarmi.
Sabato 20 Gennaio Oggi è il giorno. Il giorno in cui chiederò a Claudia di poterla incontrare fuori dalla gabbia del negozio. Voglio che nessuno la interrompa mentre mi racconta della sua quotidianità, di come affronta ogni giorno le nuove incognite. Di questa realtà che per lei è stata tanto inaspettata quanto non desiderata. Non voglio nessuno più che rubi il suo sguardo e le sue parole mentre mi ringrazia per la mia presenza amica. Vorrei una, due, tre ore… il tempo che ci sarà concesso per poterci scoprire sotto un’altra luce, per slegare quello strano nodo negoziantecliente che nonostante tutto non riesce a sciogliersi. Vorrei capire cosa c’è oltre, se le sensazioni e le situazioni che si creano ogni volta hanno motivo di esistere anche fuori. Stasera vorrei prenderla per mano e sentire il suo cuore sussultare, perché so che lo farà. Solo qualche ora, qualche ora ancora e andrò da lei, come sempre. Come ormai mi è indispensabile. Devo aspettare soltanto che cali il buio, come un riccio che esce dalla sua tana.
Ore 18:10 Il telefono del negozio di Claudia suona raramente il sabato pomeriggio. Quando accade lei si allarma. Ogni volta si tratta per lo più di qualche cliente oppure di quelle telefonate standard, dei call center. Ma Claudia si irrigidisce sempre ormai, quando suona quel telefono. Durante la settimana è un continuo rispondere agli uffici commerciali delle ditte che sollecitano pagamenti trascurati da parte dei vecchi proprietari. Ormai recita anche lei un copione freddo e quasi cantilenato, a memoria, proprio come fosse in un call center. Sono ati dieci minuti da quando ho sospeso ogni preparativo e messo un freno a ogni fantasia. Stasera non vedrò Claudia. Una telefonata ha distrutto ogni mio castello in aria e cancellato la sua ipotetica serenità delle ultime ore di
lavoro per questa settimana. «Vi ho già spiegato che con l’assegno non centro nulla!». Battagliava con quelle che non erano sicuramente parole di un cliente qualunque, né di una nuova proposta di telefonia per aziende. La sua sembrava una difesa strenua ed esausta. La voce di chi è stanco e sfibrato, consumato dalla ruvidità di un mondo di cui ignorava l’esistenza. L’ovatta protegge ma indebolisce. Claudia lo stava capendo adesso. Ha buttato giù il telefono, cominciando a singhiozzare. Si è alzata poi velocemente, asciugandosi gli occhi col dorso delle mani. Ha aggirato la scrivania, con un’andatura nervosa e a scatti, quasi vicina alla corsa. Mormorava qualcosa, rabbiosa buttava fuori il suo malessere ripetendo un mantra di rifiuto, come fosse una via per la liberazione. Pochi istanti per abbassare le luci e chiudere la porta di ingresso. I tasti del registratore di cassa hanno suonato veloci e il cassetto dei soldi si è aperto, facendo sbattere e tintinnare le monete. La chiusura fiscale usciva rumorosamente, mescolandosi alle sue parole, sempre le stesse, che cambiavano solo tono e volume. In pochi istanti la serranda s’è chiusa e Claudia è sparita. Stanca e demoralizzata, accompagnata solo da una grande rabbia. Piangeva ancora… Mi sento un coglione. Ho abbassato la guardia in fretta, illudendomi che nulla avrebbe più potuto interferire. Tutto ora torna in gioco. Ho timore che alcuni equilibri si siano spezzati. No… temo solamente di ritrovare una Claudia più impaurita e se mai potrà cadere più in basso, più disillusa. Avrei potuto fare qualcosa? Ancora cerco di capirlo…
Domenica 21 Gennaio Sono stanco. Stanco e assonnato. Confuso… quello sopra ogni altra cosa. Siamo fatti per guardare avanti, non per essere sbattuti violentemente nel ato. Almeno credo. Forse ho vissuto un inganno, sognando ancora nell’ennesima notte di deliri, dopo aver creduto che tutto avesse ritrovato un equilibrio. Invece è bastata una telefonata, un’altra maledetta telefonata: arrivata improvvisa, alle due del mattino, per intorbidire piccole certezze e mettere scompiglio. Confuso e incazzato, solo con me stesso però, non so definirmi in
altro modo che questo. Dopo oltre due mesi ho rivisto la mia casa, quella in cui vivevo con Lei. Era sinistra e silenziosa, era cambiata la posizione di qualche mobile e, come immaginavo, le piante erano tristi e trascurate. Ho rivisto Lei. Ma così, nonostante tutto, non avrei mai voluto. Gli occhi pesti, il viso gonfio e sconvolto dalle lacrime. Una ferita sullo zigomo traboccava di sangue rappreso. Sangue che prima era gocciolato sul suo maglione strappato in più punti. L’ho trovata in queste condizioni, mentre raccoglieva da terra i pezzi della sua nuova vita. «Alex ti prego vieni, vieni…!», mi implorava al telefono. Avevo ignorato la prima chiamata per quanto il rumore del telefono, sulla solita scatola di cartone, fosse intenso e fastidioso. Ho lasciato che finisse i suoi squilli. Ha ricominciato a suonare subito dopo, erano le due. «Ma che succede…». «Vieni ti prego, mi ha picchiata, ha sfasciato tutto… ti prego, non lasciarmi sola…». Percorrevo le strade semideserte con la sua voce, assordante e invadente, nei pensieri. Mi ripetevo ogni sua parola, cercando di immaginare cosa fosse accaduto. Ho preso di nuovo quell’uscita della statale e in poco tempo ero da Lei. Avevano avuto un litigio devastante, si erano lanciati insulti e oggetti. Lui aveva perso la testa e l’aveva massacrata con schiaffi e pugni. Poi era scappato. Sul tavolo rimanevano i resti ormai freddi e induriti di una cena giunta nemmeno a metà... «Alex, io lo tradivo e lui l’aveva scoperto pochi giorni fa. Non mi preoccupavo più di tanto di nasconderlo, avevo sottovalutato le conseguenze. Durante la cena ho ricevuto e inviato qualche sms e in poco tempo lui è esploso. Gli ho detto qualcosa di pesante, l’ho offeso, lo ammetto. Poi tutto è degenerato». Parlava sofferente e piena di risentimento, fumando avidamente una sigaretta, di quelle sottili e lunghe, avvolte in carta bianca. Non era cambiata per nulla. Vedevo per la prima volta con freddezza il reale contenuto della sua anima e il colore scuro del suo cuore. Non mi piaceva.
L’ho poi accompagnata al pronto soccorso. Medicata e ripulita è uscita con una prognosi per fortuna di pochi giorni. Erano le 3:40 quando l’ho riportata a casa. Mi sentivo bruscamente risvegliato da uno strano sogno, in bilico tra incubo e piacere. Come se non fossi mai andato via da lì. Confuso, nostalgico di quella che era stata la mia casa, che conoscevo e riconoscevo centimetro per centimetro. Aveva lo stesso profumo di sempre e la stessa luce soffusa. Mi sono accomodato sul divano, disteso completamente vestito, mentre osservavo il soffitto nella penombra. Ormai avrei dovuto fermarmi lì per la notte. «Alex, almeno per stanotte, rimani…». Avevo accettato. Lei, ha tanti difetti Lei. Ma aveva bisogno di un aiuto che in quel momento solo io potevo darle. Penso soffrisse più nell’orgoglio che nel corpo. I pensieri faticavano ad abbandonarmi, miei occhi si socchiudevano e trovavo pace solo quando l’orologio digitale proiettava sul soffitto “4:24”. Quando ho riaperto gli occhi erano le 5:15. Le sue labbra mi baciavano i capelli, mentre con la mano mi accarezzava il viso. «Sei sempre più bello…» mi sussurrava. Un bacio sulla fronte, sul naso e sulle labbra. Ero suo, di nuovo suo. L’ho stretta a me e l’ho baciata: nessun brivido, nessuna scossa… solo comione per ciò che è. Mi voleva, siamo tornati sul nostro letto e abbiamo fatto l’amore. Solo piacere fisico, ma la mente era buttata in un angolo, inerme, in cerca di qualcos’altro. In cerca di Claudia, lo sapevo. Mi muovevo al ritmo dei miei pensieri, Lei era con me: solo un bellissimo corpo. Io cercavo un’anima con cui fare l’amore e non la trovavo… Ho immaginato che fosse Claudia a stringermi e a desiderarmi, ed ecco la sensazione di sentire quell’anima che aspettavo, congiungersi alla mia. Anche solo con l’immaginazione. È Claudia che voglio. «Dormi ora. Torno sul divano». L’ho ferita profondamente nell’orgoglio, lo so. Non più di quanto lei abbia però
fatto con me. I conti, nonostante tutto, prima o poi si devono pareggiare. Camminavo nel corridoio buio, con i vestiti sottobraccio, avvolto da una coperta. «Alex, torna qui…» mi chiamava. Mi sono steso ancora sul divano, sordo alla sua voce. Ho isolato la mente, permettendo a un dormiveglia disturbato di assorbirmi per due ore. Dopo essermi rivestito ho atteso che Lei si risvegliasse. Ho preparato la colazione. Quelle stesse cose che le ho sempre preparato. Lo zucchero, il caffè, il latte. Ho ritrovato tutto nello stesso identico posto di allora. Mi muovevo di nuovo sicuro in quella cucina. «Stanotte è stato uno sbaglio…» le ho detto con freddezza mentre sorseggiavamo il caffè. «Io non voglio più stare con te. La mia vita ha un nuovo corso, tu non sei prevista…». Le sue lacrime erano le stesse di una bimba capricciosa a cui hanno tolto uno dei tanti giocattoli. Le conoscevo bene. «Sarò tuo amico, per te ci sarò solo così, se mi vorrai lo stesso». Ho parcheggiato attorno alla piazza. Oggi il negozio di bici resta chiuso. Sono tornato da meno di un’ora nel mio rifugio e il mio telefono squilla ancora, è Lei. Mi cerca di nuovo.
Giovedì 25 Gennaio Oggi ho superato velocemente l’uscita che mi portava a casa di Lei. Ho premuto forte sull’acceleratore, incollando l’auto all’asfalto della curva subito dopo. È stato difficile fare qualsiasi cosa oggi, stretto in una morsa di insistenza: telefonate, sms e ancora telefonate. Alla fine ho silenziato il telefono per poi spegnerlo del tutto. Non l’accetta, la mia decisione. La mia scelta. È consumata dalla paura di restare da sola, non è capace di vivere dialogando con se stessa: deve avere qualcuno accanto, sempre un’alternativa pronta, su cui esercitare potere e fascino. Ho atteso che arrivasse la pausa pranzo per chiamarla, appartandomi in un angolo del piazzale antistante la ditta. Carlo mangiava da solo, mentre dalla
finestra seguiva i miei i con sguardo dubbioso. Faceva freddo tanto quanto adesso, che è notte. La neve ha ghiacciato, quasi a voler bloccare l’evolversi del tempo, a monopolizzare ogni singolo essere nella sua morsa gelida. L’ho chiamata per darle un limite, per permettermi di ritrovare la mia strada. Mentre Lei tentava di rendermi di nuovo suo suddito. Di vita ne ho sprecata e buttata fin troppa … Non sarei più andato da Lei, semplicemente. Mi sarei proprio dimenticato della sua esistenza, liberandomi da una persona accentratrice ed egoista. Da tutto ciò che non volevo nella mia vita. Non vedevo Claudia da quattro giorni ormai… troppi, davvero troppi. L’avevo sentita piangere e scappare tra le lacrime. Oggi ne ho ritrovato il sorriso. Non posso perdonarmi di non averne goduto per troppe sere. Dopotutto Claudia è molto più della sua apparenza, dietro la fragilità nasconde una straordinaria decisione e volontà. Doti acerbe, è vero, ma altrettanto rare. Ho ato le sere scorse ripercorrendo l’uscita della statale, impostando la freccia ben prima del supermercato, parcheggiando poi sotto casa di Lei. Mi sembrava di recitare la parodia di ciò che erano stati i miei ultimi anni di vita. Di nuovo nella mia vecchia casa, che non mi sarebbe mai più appartenuta. Accolto da una donna bellissima ma glaciale e calcolatrice, in parte vittima di se stessa. Ho ato queste sere sul suo divano, ascoltando lamentele e giustificazioni, quasi studiate e preparate. Il viso ormai sgonfio, le tumefazioni sempre meno evidenti, coperte con arte da un trucco raffinato. Ogni sera, ancora le sue mani sul mio corpo in strette improvvise, baci non richiesti che ho ricambiato ancora come un atto di comione più che come espressione di un sentimento. Quasi fastidioso, lo ammetto. Eppure due giorni fa sono scivolato ancora nel suo letto, debole verso le sue lusinghe. Ma non è stato che una danza ritmica e meccanica. Nulla più. Ieri ho rifiutato baci e mani bramose. Non le volevo, nella mia mente c’era Claudia e quei gesti inquinavano i miei nuovi sentimenti. Ho cercato il dialogo, senza trovarlo. Me ne sono andato per poi are l’ennesima notte agitata di nuovo nel mio letto, desiderando di chiudere definitivamente la porta sul ato, desiderando vedere di che colore sarà la luce oltre al nuovo splendente portone, di cui solo Claudia ha la chiave. Ma Lei è combattiva. Il mio telefono appena riattivato continua a segnalare l’arrivo di sms, e chissà quanti saranno stati i tentativi di chiamata. Ho già
cancellato il suo nome dalla rubrica, ora è diventata solo una sequenza di numeri. Quando ieri sera sono arrivato da Lei, dalla porta usciva il suo amante. Non cambia mai. Certo, tenere in pugno due uomini è ancora più appagante, ma uno di quelli non sarò più io. In quella telefonata fatta a pranzo le ho mostrato e posto ogni limite e confine, un esilio senza scadenza. Non ho avuto pietà nel buttarle in faccia tutto ciò che penso di lei. «Amo un’altra». Ho chiuso così. Amo davvero un’altra? Mi chiedo se sia vero o se mi sto semplicemente ingannando. L’unica certezza è stato quel battito mancato quando stasera, intorno alle 19:00, ho rivisto Claudia. Una frazione di secondo perché quell’immagine vestita di coraggio e tenacia mi travolgesse di nuovo, completamente. Sì. Amo un’altra.
Sabato 27 Gennaio La mia vita nuova la sto gustando, assaporando. Ora ho la certezza che del ato non ho nulla da rimpiangere. E non l’avrei mai creduto. Eppure, le prove sono schiaccianti. Ho voglia delle mie giornate di attesa, di osservazione e, alla fine, di incontro. Il terremoto dei giorni ati non ha lasciato danni né destabilizzazione. Le macerie smosse hanno fatto emergere solo le mie nuove certezze, in Claudia nuova determinazione. Lo leggo nei suoi gesti, sul suo viso, ogni sera. Dalla sicurezza con cui fa di quel negozio un posto, per lei, sempre meno scomodo. Afferma il suo giro di nuovi clienti, con cui può essere se stessa senza timori di confronti con le competenze della vecchia gestione. Trova lentamente il modo di farsi accettare anche dai clienti storici. Walter è garanzia della professionalità che il negozio dovrebbe mantenere. Claudia è il sorriso, la disponibilità e la cortesia. È un viso che mi turba l’anima, una voce fatta di parole sussurrate e risate sonore che rendono le sue espressioni forti e divertenti. Claudia è anche una ragazza che ama la vita. Ama l’amore. Le sue guance sono tornate più piene e vivaci, l’animo forse più in pace. Claudia adora una famigliola di ciclisti che arriva sempre unita per fare acquisti, in particolare per i bambini. Camlini e
guantini coloratissimi, pantaloncini così piccoli che sembrano dover vestire una bambola e poi le girandole colorate da mettere sulle bici nelle scampagnate della domenica. Attira gli ultra sessantenni Claudia, esercita su di loro un fascino inconsapevole e irresistibile. Da quando s’è sparsa la voce della sua presenza dietro al bancone, sono aumentati esponenzialmente i ciclisti appesantiti e dalle tempie bianche. Forse perché li sa ascoltare e non lesina mai sorrisi. Non capisco se esista ancora qualcosa che possa ferirla: sembra sempre più forte, sempre più felice. Le girandole. Ne volevo comprare due. Le avrei montate sul balconcino dell’ufficio, accanto alle fioriere sospese. Ma erano appena terminate, ornavano le bici dei due bambini. «Alex, le devo ordinare. Se mi dai il tuo numero di telefono ti avviso appena mi arrivano». Glielo dettavo, cercando di camuffare l’ennesima emozione che mi sgorgava dalla voce. Era un o, piccolo o grande, comunque un laccio in più tra noi. Claudia mi avrebbe telefonato. Prima o poi l’avrebbe fatto. «Grazie Claudia». La guardo negli occhi e lei guarda nei miei. Trasparente, senza inganni. C’è qualcosa che ci lega, è palpabile, i suoi occhi lo dicono. Io ne sono convinto da tempo. Quel qualcosa lo sento muoversi nello stomaco e lungo le vene.
Martedì 30 Gennaio Mi ha sorpreso un numero sconosciuto, un fisso non registrato in rubrica. Ho risposto senza remore, non era Lei, ne ero sicuro. Poco prima della pausa pranzo ecco la voce di Claudia dritta nel mio orecchio destro, filtrata dal telefono. Soffio sulle girandole colorate: ne ho presa una gialla e una arancione, variegate a spicchi sulle pale. Soffio ancora, le faccio girare. Domani le porterò in ufficio. «Chiamami ancora…» le ho sussurrato stasera prima di andar via, mentre ritiravo quello che era il suo ventinovesimo scontrino, alle 19:23.
«Alex, questo è il mio numero, segnalo. Così potrai chiamarmi anche tu… Buonanotte». È successo poco fa. Non so quante volte ho letto e riletto quel messaggio, saltando a rileggere poi quella che era stata la mia risposta. Costruisco nella mente il dialogo di quegli sms, come fosse fatto di parole sonore. Ho risposto felice, forse troppo. Mi sono sicuramente esposto protetto dal filtro dello schermo di un cellulare. Ma amo dimostrare ciò che provo facendone da sempre la mia condanna. So che non è stato sbagliato mandarle «Ti abbraccio e ti bacio, buonanotte». Vorrei aprirle la portiera della macchina e, galante ancora, la porta di un ristorante. Vorrei, con lei, trasformarmi in un uomo di altri tempi. Magari in una serata inattesa, senza quei vestiti che tanto la mortificano. Vorrei che mentre il suo cucchiaino tintinna nella tazza del caffè, lei capisca che la vita può diventare ancora più bella, che quell’odore di copertoni e bici che le macchia le mani e le unghie indelebilmente non è poi così male. Questo vorrei: essere uomo uscito da una delle piccole favole che ascoltava da bambina, dai suoi amati romanzi inglesi dell’800, stavolta scritta solo da noi due. Aspetterò un poco, annò il momento più giusto e lo farò diventare realtà.
Venerdì 9 Febbraio Ancora un mese e poi per me il venerdì significherà di nuovo ufficio e giardini, sarà lavoro, prati e piante. La neve continua a essere ancora cumuli sporchi e immutati ai lati delle strade, il cielo non lo lascia intendere ma la primavera tornerà. E tra non molto. Per me la primavera è già nell’animo, da una settimana almeno. Attendo ancora, lascio che il germoglio cresca nei suoi tempi. La mia primavera è una nuova felice abitudine, forse un gioco, forse il germoglio che cresce. Anche stamattina poco dopo le sette ho sospeso ogni attività e pensiero per scrivere a Claudia, un sms per augurarle buon risveglio. Circa otto ore prima era stata lei a scrivermi, come ogni sera. Una buonanotte, unica ogni volta: ieri un po’ sottotono per la stanchezza, qualche giorno fa allegra e frizzante, altre volte carica di bisogno di affetto e comprensione. Esprimiamo poco e lasciamo intendere molto, lo
facciamo con parole calibrate e puntini di sospensione. Non si manca mai un appuntamento: mattino, mezzogiorno, sera. Qualche volta salto la visita al negozio prima della chiusura, voglio sperare di mancarle mentre scruto i suoi movimenti dal muretto della piazzetta o dalla grata. Rimango a luci spente e in silenzio completo mentre la osservo indossare il giaccone o cambiare l’ultima camera d’aria. Ci sono giorni in cui mi tormento al pensiero che possa scoprire che abito qui e che i miei occhi la guardano clandestini, che scopra che l’ho sempre fatto, che non sono stato del tutto sincero e che ho costruito una mia realtà parzialmente finta, fatta apposta per lei. Mi tormento perché non vorrei mai essere la sua ennesima delusione, l’ennesima sofferenza immeritata. E allora vivo di tattiche che guidano però un cuore limpido e con sentimenti puliti, da sempre. Claudia, in quel cuore, è entrata molto presto. È bastato un semplice sguardo. Più o meno quattro mesi fa camminava stringendo il braccio di Marco, senza sapere che faceva già il primo o sulla mia pelle. È stato un’ora fa, intorno alle 10:00. Walter era appena uscito dall’officina, accompagnando una vecchia bicicletta. Claudia archiviava le scartoffie della settimana mentre il vecchio fax stampava rumorosamente parole poco nitide. Al negozio di bici era piuttosto raro riceverne, le comunicazioni tra le ditte per gli ordini avvenivano quasi totalmente via e-mail. “Impossibile evadere l’ordine da lei richiesto in quanto ...” Claudia recitava il contenuto del fax dapprima a voce alta, poi parola dopo parola la sua voce subiva un declino, diventando impercettibile. Ne ho percepito solo il finale: “Per maggiori informazioni contatti il rappresentante di zona” Rileggeva ancora una volta, a voce bassa e incredula, col tono che diventava sempre più labile e stizzito. Piccole pause, come a voler prender fiato, in cui restava con la bocca aperta strizzando gli occhi. Uno scatto. Poi le mani che tramavano mentre componeva freneticamente un numero che conosceva a memoria. Attacca subito, senza saluti e convenevoli. «Ma cosa significa il fax? L’ho ricevuto adesso…». Pause infinite, in cui lei ascoltava, cercando di balbettare qualcosa mentre il viso perdeva ancora una
volta ogni colore. «Cosa significa che l’hai detto tu all’azienda? Ma… nemmeno un preavviso. Ma perché?». Una pausa di un’eternità in cui per Claudia parlano le sue espressioni. «Non posso crederci… tu hai sempre saputo tutto…siete dei bastardi!». Cinque minuti al telefono, devastanti, per quel che ho visto. Senza capire cosa fosse successo. La vedo di nuovo con la testa tra le mani e lo sguardo basso. Quando alza il viso gli occhi sono rossi e lucidi, le guance rigate dalle lacrime, la bocca deformata da una smorfia di dolore. «Claudia cosa succede?» Walter era rientrato e si era fermato un o dopo aver varcato la tenda, strofinando le mani sporche sul lungo grembiule nero che indossa abitualmente in officina. «C’è un nuovo problema… forse il più grosso che mi sia capitato da quando ho questo maledetto negozio». Parlava con la voce rotta da un pianto trattenuto, asciugandosi gli occhi sempre più rossi. Il cicalino dell’ingresso ha poi suonato, prima che Claudia potesse dire altre parole. «Ti racconterò dopo, lavoriamo adesso». Lavorano ancora. Da più di un’ora ormai nessuno dei due mette più piede in officina, se non fugaci apparizioni per prendere qualche pezzo di ricambio. Provo a immaginare, intuisco un problema importante ma non so dargli reale dimensione né peso. Ma una cosa è certa: Claudia è sconvolta. Ancora un volta.
Venerdì 9 Febbraio, sera Scambio sms con Claudia. Come ogni sera. Non è la solita buonanotte, so che dormirà sonni agitati. Se dormirà.
Subito dopo pranzo ho ricevuto da lei questo messaggio: «Alex, mi vieni a trovare stasera? Ho bisogno di parlare con qualcuno. È per qualcosa che riguarda il negozio, so che di te posso fidarmi». Alle 19:20 ero lì, poco prima della chiusura, come concordato. Ho salutato Walter che andava via col solito casco in mano. Un po’ abbattuto, mi ha fermato: «Poveretta, non ha un attimo di pace…vedi se riesci a tirarle un po’ su il morale». Claudia batteva l’ultimo scontrino della giornata, il suo colorito era più grigiastro che mai. Riaffioravano, profondamente segnate, quelle occhiaie che ormai non vedevo da tempo. Aveva pianto ancora. Il cliente che usciva non se n’era nemmeno accorto. Lei chiudeva la cassa mentre io pensavo a spegnere le luci, a metter giù la serranda e a chiudere il portoncino in ferro battuto. Mi muovevo bene lì… «Grazie Alex, vieni in ufficio, dai», mi faceva strada. Ci salutiamo con un abbraccio veloce e i soliti due baci che si perdono nell’aria… Mi sono accomodato sulla sedia davanti alla scrivania, di fronte a lei. Vedevo il suo viso al centro perfetto di due pile di documenti da archiviare definitivamente. Mi ha ato un foglio, era un fax. Quel fax che le era arrivato al mattino. «Leggilo». Tirava su col naso lacrime che non versava, il residuo che le era rimasto in circolo. Tirava su demoralizzazione, credo. “Impossibile evadere l’ordine da lei richiesto in quanto le comunichiamo che a partire dalla data odierna le è stata revocata l’esclusività dei nostri marchi. Per maggiori informazioni contatti il rappresentante di zona”. Eccolo, il fax completo. «Cosa significa Claudia?». «Significa, Alex, che quella ditta da cui acquistavo oltre un terzo dei miei migliori prodotti, nonostante i pagamenti regolari, non vuole più fornirmi. Ho parlato col rappresentante stamattina, l’esclusiva dei marchi è stata girata a un negozio che aprirà presto e non molto distante da qui. Ma la cosa più incredibile
è un’altra… Mi sentivo morire per lei. Ogni progetto, ogni giornata già difficile andava a prendere la piega di un mare in burrasca. «Il nuovo negozio è di Fabio. Proprio della persona che mi ha venduto questo. Un vero bastardo. Tra l’altro con lui ci lavorerà Rudy, ti ricordi di lui vero? Non posso crederci, è tutta una pazzia». «Rudy è il ragazzo che è stato qui non molto tempo fa e che controllava tutti i prezzi se non sbaglio». Mi odio. «Si Alex. Quello che non sai è che io qui non dovrei nemmeno esserci. Dovevo are ogni tanto a sistemare le fatture, quelle cose lì. Rudy era, ma non mi stupirei se lo fosse ancora, il migliore amico del mio ex fidanzato. Dovevano esserci loro due qui, non io. È una storia un po’ articolata…un giorno te la racconterò. Promesso». Abbozza un sorriso, in un contrasto incredibile con gli occhi rossi devastati di lacrime e lo sguardo assente. La guardavo annuendo. Fingendo che ogni sua parola fosse novità, fingendo di non conoscere niente, nessun particolare della sua sofferenza ata. Io invece so tutto, mi sentivo un verme. «Ho già contattato un avvocato. Questa volta darò battaglia. Ho sopportato troppo finora e voglio un briciolo di giustizia, almeno adesso. Farò causa a Fabio per concorrenza sleale, perché per la sua posizione nei miei confronti, non può aprire un negozio di questo genere, né così in fretta né così vicino». Aveva il piglio di una guerriera, come mai l’avevo vista prima. Era sicura e risoluta. Un contrattacco fulmineo e immediato. «Apriranno già questo lunedì, in fondo alla strada. Uscendo di qui sulla destra, poi a metà della terza traversa». Cosa posso fare se non darle in mio sostegno? Anche ora che le scrivo via sms. Temo in una battaglia persa. Sottovaluta i pochi scrupoli di Fabio, non ha realmente idea delle fattezze dell’animo di quel personaggio a cui sta dichiarando guerra.
Sono bugiardo. Ho inventato di dover andare a trovare mia madre quando ci siamo salutati. Ma mia madre non è più su questa terra da tempo. Ho atteso che si allontanasse con la sua piccola monovolume rossa parcheggiata in una traversa vicina. Come un ladro mi sono poi chiuso in casa. «Come sta tua mamma?» mi ha chiesto lei in un sms. Le ho ancora detto bugie. I sentimenti sono sinceri ma la storia non è lineare, come meriterebbe Claudia.
Sabato 17 Febbraio Oggi Claudia compie 21 anni. È giovane, giovanissima. Sottraggo quegli anni ai miei e mi rendo conto che lei nasceva più o meno nel periodo in cui davo il primo bacio a Ornella, la mia compagna di scuola. Lo ricordo ancora bene quel giorno: ci scambiavamo bigliettini sotto i banchi da ormai dieci giorni, durante le lezioni ci cercavamo con gli occhi, nei momenti di pausa camminavamo vicini sfiorandoci di nascosto le mani. Quel giorno tornava a casa sotto la pioggia, aveva dimenticato l’ombrello. L’avevo dimenticato anche io. Correvamo con gli zaini tenuti sopra la testa. Si andava veloci, infilandoci nei giardini pubblici davanti alla scuola, per ripararci dentro a un chioschetto abbandonato, di quelli pieni di scritte e graffiti, che la sera avevamo paura anche solo ad avvicinarci perché «lì si drogano i ragazzi», dicevano i genitori. Ma a noi non importava, ci eravamo riparati lì comunque. Rimessi gli zaini in spalla scoprivamo quel posto piccolo e deserto che per noi ormai non era più tabù. Le avevo sfiorato di nuovo la mano, ricevendo un suo sorriso. Allora gliel’avevo stretta nella mia e le avevo accarezzato il viso umido di pioggia. Ci siamo baciati, prima timidamente poi con ione, come si fa nei film. Siamo stati insieme fino alla fine del primo anno di Liceo io e Ornella. Poi s’è allontanata, ha cominciato a studiare in un’altra città e, dopo qualche scambio di lettere e telefonate, di lei non ho più saputo nulla. Ornella. Non ci pensavo da non so quanti anni. Forse senza Claudia l’avrei dimenticata per sempre. Ho ato una settimana senza mancare mai un appuntamento serale al negozio di Claudia. Ora che ci penso, questa settimana è stata densa di quelle emozioni che ricalcavano il corteggiamento dolce e pulito con Ornella. Ogni giorno messaggi sempre più frequenti intercalati da telefonate anche di pochi minuti, senza motivi particolari, solo per ascoltare il suono delle nostre voci. I nostri sguardi hanno raccontato cose che non avremo mai il coraggio di confessarci.
Abbiamo cercato l’occasione per sfiorarci le mani, trovando il contatto nei momenti di spensieratezza, quel contatto fatto anche di pacche sulle spalle o buffetti sulla testa, quasi di cameratismo. Sono tornato ragazzino, grazie a questo amore limpido in cui ogni giorno il desiderio cresce camuffato da amicizia profonda e aspetta il momento più opportuno per manifestare la sua ione. Claudia sorrideva con me, nonostante abbia ato sette giorni di tensione e pesanti novità che non avrebbe voluto sostenere. Ha ricevuto altri due fax sullo stesso tenore del primo. Ha telefonato ai rappresentanti e la risposta è sempre stata la stessa. Recitata allo stesso modo. Tutte le esclusive dei marchi vanno a Fabio che ormai è al quinto giorno della sua attività. Sono ato davanti al suo nuovo negozio, mi sono fermato a osservarlo. Al di là delle due ampie vetrine ho visto are la sagoma scattante di Anna, sullo sfondo di un locale elegante e minimale fatto con arredi bianchi e neri. Sulla porta ecco un adesivo che conosco, un adesivo che ho visto sia nell’officina sia nella porta del negozio di Claudia: bianco e nero, con la scritta bianca, nera e rossa. L’insegna bianca e nera, porta scritto: «An.Fa Bike» L’ho raccontato a Claudia che, ironica, ha commentato: «Che originalità…» Lei, quell’adesivo, ha dovuto strapparlo via. Non avevo invece visto Rudy, probabilmente rinchiuso in officina. Fabio non avrebbe potuto poi davvero mollare tutto. Avrebbe significato lasciare la sua vera fonte di guadagno, lo spaccio. Come avrebbe potuto pulire i soldi? Che altro mestiere poteva inventarsi se sapeva soltanto vendere biciclette? «Auguri» le ho detto, seduto in ufficio davanti a lei, mentre dal giaccone tiravo fuori un piccolo bouquet di 3 rose rosse ornato di felci e gysophila. Il volto le si è illuminato, nonostante la solita tristezza. «Grazie, non avevo mai ricevuto delle rose per il mio compleanno». Le ho poi chiesto come stesse, come procedessero le cose… volevo darle modo di sfogarsi. «Sai.» continuava Claudia «ho trovato qualche ditta da cui posso acquistare alcuni dei marchi tra quelli che ho perso, a prezzo più alto ovviamente e con scelta ridotta. Sto valutando poi tre nuove marche di bici, più o meno del livello di quello che mi è stato tolto. Su quel fronte diciamo che me la sto cavando. Ma
c’è anche dell’altro». Ha fatto una pausa, respirando a fondo per poi sbuffare sonoramente mentre, chiudendo gli occhi, lasciava cadere indietro la testa. «Oggi avevo appuntamento con l’ennesimo rappresentante per ordinare gli ultimi capi della collezione estiva. Quel marchio che non mi hanno ancora portato via. Beh, non potevo crederci ma lui è al corrente della mia azione legale contro Fabio». «In questo ambiente le voci corrono veloci, tutto ha orecchie. Io sono un vecchio amico di Fabio, posso solo consigliarti di stare attenta. Del fatto che gli stai facendo causa ne sta parlando con tutti i miei colleghi, ti ha dichiarato guerra aperta e ti deride. Non so se hai fatto bene… lui ha molti agganci». «Questo è quello che mi ha detto» proseguiva Claudia nel suo monologo ansioso «ma non voglio dargliela vinta, non voglio farmi intimorire. Andrò avanti per la mia strada». Io le parole di quel rappresentante le avevo capite benissimo. Molto meglio di lei. Nonostante tutto non me la sentivo di smorzare la sua determinazione, è giusto che porti avanti questa battaglia. Sarà sanguinosa e lunga ma oramai credo che per lei sia necessaria. «In bocca al lupo. Sono certo che ce la farai. Non ho mai conosciuto ragazze come te sai…». Le dicevo questo mentre annusava le rose accarezzandone i petali. «Come festeggerai il compleanno? Esci con le tue amiche?». Mi ha risposto con un sorriso amaro mentre lo sguardo si piegava verso il basso. «Questo negozio mi sta portando via tutto, anche le amicizie. Domani studierò o almeno cercherò di farlo. Non è un buon periodo…no…». Il suo sguardo era perso, ancora una volta. «Sabato prossimo ti porto io a cena, questi ventuno anni vanno festeggiati!». Poco fa il suo ultimo sms. «Tengo le rose vicino a me. Conterò i giorni fino a sabato».
Venerdì 23 Febbraio È ora di pranzo. Tutto tace nel negozio di Claudia. Lei tornerà tra poco meno di due ore. Sento il fermento dell’appuntamento di domani, dopo una settimana in cui gli avvenimenti ci hanno avvicinato ancora di più. La guerra di Fabio è già cominciata, Claudia inizia a portarne il peso sulle spalle. I primi giorni è stata battaglia di diffamazione, psicologica. I vecchi clienti, quelli storici e abitudinari della vecchia gestione si sono dileguati, spariti. Qualcuno è tornato, velocemente, nelle sere scorse anche in mia presenza. Complici di Fabio: chiedevano i prezzi dei prodotti per poi lamentarsi oltremodo. «Mi sembra che questo sia il negozio degli imbroglioni. È vera la voce che gira allora, che avete aumentato tutti i prezzi e poi fate finta di applicare uno sconto per prenderci in giro e tenerci buoni. Guardi questo ricambio! Da Fabio lo pago ben quaranta euro in meno!». Bersaglio colpito. Per Claudia ogni scena simile era la mortificazione. Non era capace di una risposta pronta, incapace di giustificazioni valide. E i miei tentativi di mediazione sono sempre risultati inutili, anzi, finivano sempre per innescare reazioni ancora più amare. Visite simili sono state all’ordine del giorno e più volte al giorno. Fino a mercoledì. Le telefonate con Claudia diventano sempre più fitte, confidenziali e affettuose. Ieri mi ha chiamato al pomeriggio, scoppiando in un pianto nervoso. Mi raccontava di uno scherzo di cattivo gusto: la vetrina del negozio era stata completamente oscurata da scatole di cartone aperte e fissate alla serranda. Stessa cosa era stata fatta al portoncino d’ingresso. La serratura era stata perfettamente sigillata con molti strati di nastro adesivo. Piangeva di umiliazione mentre Walter finiva di liberare i decori in ferro battuto e la vetrina dal largo nastro marrone. Molti avevano visto, nessuno si era curato di capire cosa stesse accadendo. Attendo stasera per riaverla accanto.
Ore 22:00 Il sapore delle sue labbra non avrei mai potuto immaginarlo realmente. Così il suo calore e la sua dolcezza. Galleggio. Dentro me non più elettricità ma qualcosa di indefinito, potente e devastante che mi lascia sospeso dalla realtà. Il pomeriggio l’ho ato insieme a Carlo. L’ho accompagnato ad acquistare un regalo per sua moglie: il suo pancione inizia a essere ben visibile e così la gioia del mio amico. Claudia mi ha telefonato poco prima dell’apertura del negozio: non piangeva ma il tono della voce era basso e serio. Aveva bisogno di parlarmi e si accertava che andassi a trovarla anche stasera. Era accaduto qualcosa di abbastanza grave e lei lo attribuiva alla guerra promessa, e mantenuta, da Fabio. «Certo che verrò…». Sono arrivato alle 19:00 e il negozio era deserto. Lei mi aspettava vicino alla vetrina, in una danza d’attesa tra il dentro e il fuori. Si stringeva le spalle per proteggersi dal freddo. L’ho aiutata a chiudere come sempre ma stavolta con mezz’ora di anticipo. Aveva dato un’ora libera a Walter e lei stessa, per oggi, ne aveva avuto abbastanza. «Vieni Alex e scusami per la telefonata. Non ho altri che te in fin dei conti». Sorridendo, le ho cinto le spalle col braccio mentre ci dirigevamo verso la tenda rossa, per poi proseguire in officina. Appoggiandosi coi fianchi al bancone degli attrezzi ha cominciato un piccolo monologo: «Oggi qualcuno ha messo fuoco alla macchina di mio padre. Qualcosa mi convince che anche questa è opera di Fabio, in qualche modo. Io so che è lui. Ma sono stanca…se anche potessi dimostrarlo non so più se lo denuncerei. In una settimana non ho avuto tregua, mi ha colpito in qualsiasi modo. Inizio ad avere paura. Oggi mi ha chiamato l’avvocato, l’udienza è fissata tra un mese esatto. Io non so più se ce la posso fare, insomma…forse ho sbagliato tutto…». La sua voce ormai era rotta dai singhiozzi, soffocata dalle lacrime. Ancora una maledetta volta. Ne ha piante troppe, in quel momento non sapevo quante ancora ne avrebbe potute sopportare. La vedevo in tutta la sua fragilità, mentre il pianto diventava sempre più sonoro, quasi urlato.
L’ho stretta a me, assorbendo i suoi sussulti. All’altezza del mio mento il suoi capelli rilucevano cangianti al movimento dei singhiozzi. Ancora il profumo di vaniglia e di gomma, di camera d’aria e copertoni. Quei capelli scorrevano lisci e morbidi tra le mie dita mentre le accarezzavo con dolcezza la testa. Piangeva ancora più forte, forse sentiva in me un rifugio dove lasciarsi andare. Un bacio sui capelli, uno sulla fronte e poi gli sguardi vicini. I suoi occhi pieni di lacrime non potevo più sopportarli. Non voglio vederli mai più. Mi ha stretto ancora più forte, mentre respirava profondamente. Mi ha raggiunto, o forse sono stato io a raggiungerla ma quel bacio è stato una lunga, deliziosa liberazione. Ho sentito prima tutto il suo dolore e poi solo amore, che fluiva veloce e con la forza di un’onda. Quell’onda che mi ha sempre travolto nei sogni, sotto cui temevo di soffocare ma dentro cui trovavo vera vita, autentica pace. «Non avere paura, io sono con te». Gliel’ho detto in quel momento, gliel’ho ripromesso nell’ultimo sms a cui ho risposto. Stanotte voglio chiamarla, voglio addormentarmi col suono della sua voce.
Ore 24:00 Claudia, buonanotte. Ce lo siamo appena detti. Sono la persona che la rende felice, quella che la fa guardare avanti e sentire forte. Vorrebbe ancora sfiorare le mie labbra. Mi hai detto anche questo. Tu sei per me tutto questo e molto altro. Te l’ho confessato pochi minuti fa. Starai riposando, sarà la tua prima notte in cui il sonno ti sorprenderà con un sorriso, dopo troppo tempo. Mi sognerai, ne sono sicuro. Io sognerò te, è scontato. Se piangerai, per una volta sarà perché sei travolta dai sentimenti, da quello che noi due abbiamo già definito amore. Un amore che serpeggiava e cresceva già da tempo. Amore autentico, quello che ti meriti. Dovrai essere tu a decidere se io merito la tua essenza, le tue energie e il tuo sentimento.
Mi metto a nudo, mi metto in gioco. Stasera ho la possibilità di recuperare, di chiudere per sempre questa farsa. Di smettere il gioco della doppia vita. Posso finalmente condurne solo una. Quale sarà lo deciderai solo tu. Se io merito di entrare davvero nella tua vita, lo saprò. In qualche modo tu me lo dirai. Stasera chiuderò quella grata. Ormai non posso più rimandare.
Giro le pagine del quaderno, ne strappo due, tre, quattro. Recupero il nastro adesivo da uno scatolone e salgo su quella scala, per l’ultima volta all’altezza della grata. Dall’altra parte l’officina è buia, completamente. Mi immagino come mi sarei visto da qui, stasera, mentre tenevo Claudia stretta a me. Come avrei ascoltato le nostre parole e i suoi singhiozzi. Che suono avrebbero avuto i nostri baci, le nostre risate e le parole di queste ultime settimane. Strappo sei pezzi di nastro adesivo e li incollo per un angolo al gradino più alto della scala. Sistemo i fogli e pian piano li fisso al muro, chiudendo per sempre quella finestra di cui ero ormai succube. Tiro un sospiro. È fatta. È fatta davvero questa volta. Devo liberarmi di questa doppia vita, Claudia dovrà sapere quante cose di lei conosco, quante cose le ho nascosto o le ho fatto intendere a metà. Potrei perderla, o forse no, ma non posso tenerla legata a me con l'inganno. Dovrà essere lei a scegliere. Perché non merita più di soffrire.
L’appuntamento con Claudia è fuori dal negozio, alle 20:00. Sono nervoso, eggio nella piazzetta. Mancano pochi minuti. La gola è stretta, il cuore si muove veloce. Le mani sono gelide. Io non ho mai le mani gelide. Tranne stasera. È l’emozione di vederla, la tensione dell’attesa che solo la possibilità di un cambiamento sa dare. Vedo le luci del negozio abbassarsi e spegnersi a partire dall’officina. Bene. Stringo i pugni nelle tasche e vado. Arrivo al marciapiede e poi attraverso i
aggi pedonali. La testa è completamente nel pallone, accecata e ingolfata da troppi ricordi, timore ed emozioni contrastanti. La vedo percorrere il corridoio di bici e avvicinarsi alla porta. Cammino in modo speculare a lei, stessi i, stesse distanze. Apre la porta e io mi ritrovo a due metri da lei. Ha indossato il suo cappottino rosso e gli stivaletti col tacco sottile. Ci guardiamo e io mimo quella ridicola farsa di camminare, parlando al telefono. Ridacchio e le sfuggo, finché il suo abbraccio mi raggiunge e mi scioglie. La stringo, la mia Claudia. La mia elettricità, la mia onda. Le prendo le mani, la ammiro quasi in un o di danza: «Sei bellissima» L’accompagno alla macchina, e le apro la portiera. È tutto perfetto. Tutto come avevo desiderato per lei, fin dal principio. Andiamo in un ristorante, le apro la porta, le sfilo il cappottino e accompagno la sua sedia, mentre si accomoda al tavolo. La nostra piccola favola esiste, infine. Indossa un maglioncino bianco, me lo ricordo da quel giorno che parlando con Anna, ne tormentava collo e maniche. Ha messo un po’ di trucco sugli occhi e un poco di lucidalabbra che le ho già portato via. Si è cambiata in officina, ne sono sicuro. Non l’ho spiata, non più. Ho ricominciato tutto daccapo, niente inganni. L’inganno in realtà è stato più verso me stesso, ne sono convinto. Ordiniamo, le verso del vino bianco frizzante. Mi guarda con gli occhi sinceri, brillanti di quella luce speciale che custodisce nell’animo. Stasera non esiste nessun negozio e nessuna preoccupazione o tristezza. Le accarezzo la mano: le dita affusolate a tratti macchiate indelebilmente dal grasso nero di bicicletta contrastano con un delicato smalto color glicine. «Il colore della scritta della tua futura insegna» le dico, accarezzandole l’unghia. Claudia è felice, e la sua felicità alimenta la mia. Il cucchiaino tintinna, girando lo zucchero nel caffè… il mio tempo è sempre meno. Pago il conto, l’aiuto a indossare il suo cappotto rosso, la prendo per mano e l’accompagno fuori.
Camminiamo, abbracciati. Il suo viso appoggiato al mio petto e dai suoi capelli solo profumo di vaniglia. Ancora nella nostra piccola favola. Tutte le favole però non durano per sempre. Possono interrompersi e ricominciare. Possono finire. Io non so quale sarà il destino della nostra. Parcheggio la macchina nella piazzetta e accompagno Claudia alla sua auto, due traverse prima del negozio. L’ha parcheggiata vicino al bar. Se si ama si deve rischiare. Essere sinceri spesso è il rischio maggiore.
«Claudia, devo darti una cosa importante». Da una tasca interna del giaccone estraggo un quaderno un po’ sgualcito. Sulla copertina c’è la foto di uno splendido acero rosso, alcuni fogli sembrano parzialmente staccati dagli anelli mentre altri sono logori e spessi di scrittura. È lui, è il mio diario. «Qui c’è una verità che forse non immagini, ed è importante. La regalo a te. Qui dentro ci sono io, qui dentro ci sei tu. Non pensavo che qualcuno l’avrebbe mai potuto leggere, tranne me». Claudia non parla, sul viso un’espressione contratta. «Leggilo, ti prego. Le conseguenze le ho pensate tutte. Ma tu meriti di sapere, di sapere chi sono, cosa ho fatto, cosa conosco». Non parla, non risponde. Mi abbraccia soltanto. Mi bacia tra le lacrime. Prende il mio quaderno e lo stringe al petto. Mette in moto e si allontana veloce, sulla strada principale. Col mio diario si aprirà un bivio. Rimango sospeso. Non sarò io, poi, a scrivere cosa accadrà. Lei è andata, con in mano la mia vita dentro la sua.