Nostro Figlio 734m6v

Alon Altaras

Nostro figlio

ISBN: 9788865641163

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Indice dei contenuti

Nostro figlio

Nostro figlio

Nostro figlio Alon Altaras traduzione dall’ebraico di Aline Cendon e Alon Altaras copyright 2014 Atmosphere libri 1 L’ho conosciuto nell’esercito, nei lontani giorni dell’inverno 1980. A quei tempi prestavo servizio come impiegato all’ufficio riservisti, ero un soldato semplice nella base dell’aviazione Hatzor. Smarrito. Di quei viaggi per raggiungere la base ho un ricordo vago. Agrumeti rischiarati dall’intensa luce del mattino. Ora, a più di vent’anni di distanza, non mi è ancora chiaro come mai anche lei sia invischiata nella storia di Avi Razi, che all’epoca era ufficiale amministrativo dell’aviazione e poi è sparito dalla mia vita fino al nostro incontro di stasera, in un caffè in centro a Tel Aviv. È stato lui a riportarmi, per un istante, a quelle strade del sud, ed eccomi all’improvviso fare l’autostop lungo via Gea. Tengo in mano un libro per non prendere sonno e, in un inutile sonnecchiare, perdermi il viaggio di un’ora verso il malconcio ufficio riservisti, davanti all’infermeria della base numero quattro. È strano scoprire come nel lampo d’un vago ricordo tutti quei posti diventino isole di giochi amorosi e gli edifici intonacati a calce si intreccino con gli amori della giovinezza, che sospirano e fanno sospirare – non è detto per allegria. Avi Razi dovrà scusarmi tutto questo poetare, perché dopo le cose che mi ha raccontato, di certo, non c’è più tempo per la poesia. Comunque, prima di accettare la sua proposta, o quantomeno di prenderla in considerazione, dovrò cercare di ricordarmi come sia nato questo mio debito, di cui mi ha parlato poco fa, e quale faccenda sia rimasta aperta tra me e questo energico ufficiale, che nel frattempo è diventato calvo e grassoccio; con foga commovente mi ha appena

raccontato d’essere stato lui, e non altri, a salvarmi dal carcere militare. Io, devo confessare, ho altri ricordi. Razi mi ha telefonato al lavoro, al Centro Programmi Scolastici di Carattere Scientifico, e mi ha detto d’avermi intravisto per caso sotto l’edificio del Comune, vicino al monumento dedicato a Rabin, in compagnia di una giovane donna con i capelli corti che teneva in braccio un bambino. Dopo avermi cercato sull’elenco, mi ha chiamato a casa e così ha avuto il numero del mio ufficio, perché lui è una persona che non si intromette nella vita privata. Io sono l’unica persona che lo può aiutare. Dobbiamo incontrarci, ha detto, è questione vitale. Sin dalla prima telefonata ha fatto leva sulla nostra amicizia ai tempi dell’esercito – un’amicizia che per quanto mi riguarda non è mai esistita. Ho accettato distratto l’ora e il luogo che mi ha proposto, cinque giorni dopo in un caffè di Tel Aviv e adesso, dopo aver sentito quello che aveva da dirmi, è arrivato il tempo di ricostruire, dal mio punto di vista, i fatti accaduti in quel posto. Dopo esserci congedati ho camminato lentamente, non avevo fretta di tornare a casa, cercando di far luce tra me e me su cosa l’immaginazione disperata di Razi avesse aggiunto alla storia, e cosa trattenessero i miei ricordi. A casa mi aspettavano Yael e la bambina, e non erano la compagnia adatta per rivangare i ricordi che Razi mi aveva risvegliato. La stradacontortache alla fine mi portò alla base, circondata da agrumeti, si pronunciava già ai primi richiami al servizio militare. Stavo seduto di fronte alla soldatessa che mi stava valutando in una stanza dipinta di verde, un tavolo di formica sbiadita ci separava e lei, dopo aver trascritto i miei dati personali, mi chiese con voce stanca: «Hobby?» «Pallacanestro e cinema. Ho fatto anche un cortometraggio durante il corso Cinema per la Gioventù, su due lesbiche che vivono in Galilea e un poeta che si innamora di loro ma loro non lo vogliono e lui tenta di suici…» «Senti, l’esercito non è interessato alla trama dei tuoi cortometraggi. Usi droghe?» «No». «Che scuola frequenti?»

«Quella serale, vicino a Kikar HaMedinà», risposi prontamente, con voce sicura, cercando di migliorare l’immagine della scuola serale con una reazione decisa. Ma l’esaminatrice, con l’aria di chi sa come rimettere ognuno al proprio posto, dichiarò: «Conosco perfettamente la differenza fra una scuola serale e Kikar HaMedinà. Io scrivo qui che hai fatto dodici anni di studi, senza la maturità, solo dodici anni di studi. Mi auguro che per l’arruolamento tu abbia finito tutti gli esami e allora aggiungerò anche la maturità, inteso?». Tipo strano questa soldatessa, pensai, ha la faccia angelica ma il modo di parlare è più simile a quello d’un ufficiale dei vecchi film di guerra che mio padre ama vedere alla televisione. A quel punto decisi di rispondere con franchezza alle sue domande dirette. «Dove vorresti prestare servizio?» chiese, e un sorriso strano e irritante le sbocciò sul viso. Non riuscii a decifrarlo, forse sdegnoso forse stanco. «Vorrei prestare servizio al settimanale dell’esercito, oppure alla radio militare, o in un reparto che realizza dei film, se c’è qualcosa del genere da voi, qui nell’esercito». Lei rimase interdetta e dopo un breve silenzio disse piano, scandendo le parole, per essere certa che ne comprendessi bene tutto il significato: «Ragazzi come te, che ci arrivano dalle scuole serali, non vengono indirizzati a reparti del genere». Mi fissò con due occhi azzurri e inquieti: «L’esercito non ama le scuole serali». «E tu?», la interruppi, la stanza verdognola e il tono altezzoso della sua voce mi stavano opprimendo, «tu dove hai studiato?» «Nel famoso liceo Ben Zvi», disse con orgoglio, come bastasse questo nome per fugare ogni dubbio. «E questo, come tu sai bene, è un liceo tutt’altro che serale, si trova nella città di Givatayim, se non hai niente in contrario». Tornò a guardare le carte. «Vedo che sei della città di Ramat Gan, di una zona non lontana dal liceo. Se così stanno le cose, non devo spiegarti la differenza fra la

tua scuola serale e il mio liceo». A quel punto avevo perso ogni interesse a polemizzare con lei e decisi di rivelarle un dato che avrebbe quasi certamente incrinato la sua arroganza. Volevo proprio vedere come sarebbe cambiata la sua espressione quando questa informazione l’avrebbe colpita, e come qualcuno che stesse estraendo un gioiello antico e raro da uno scrigno, con voce limpida e decisa, annunciai: «Sono epilettico o, per meglio dire, lo ero fino a poco tempo fa. Lo sono stato dai dodici ai sedici anni, ma forse lo sono ancora, chi lo sa? Se mi spavento o mi emoziono, tutto può succedere al mio cervello, scrivi esattamente ciò che ti sto dicendo, scrivi tutto, ti posso fare lo spelling della parola, se vuoi». «Epilessia?» lei quasi gridò per lo spavento e la sua voce urtò le pareti verdi della stanza. «Proprio epilessia? Con tutti gli spasmi, gli svenimenti, la schiuma alla bocca?» «Sì sì con tutte quelle cose che si vedono nei film. Due attacchi già li ho avuti, e tanti incontri con i neurologi. Fa impressione, no?». Lei non sapeva che atteggiamento assumere davanti a quella improvvisa confessione sull’epilessia, tentò di recuperare un tono formale così che ognuno tornasse nei ranghi. «Hai la documentazione di tutto questo casino medico?» «Non giro con un certificato da epilettico in tasca», le chiarii, ma la mia battuta non la divertì. Si riprese: «Per il secondo richiamo devi portare tutta la documentazione, i medici e lo psichiatra dell’esercito ti faranno dei controlli e vedranno cosa può fare l’esercito con la tua malattia». Insistetti, assumendo un’aria fintamente seria: «Dimmi, cosa ne facciamo della radio militare, del settimanale dell’esercito o il mensile dell’aviazione, o quantomeno di un reparto che fa film per l’esercito? Ho qualche speranza di arrivarci? Potrei essere il primo studente serale epilettico che presta servizio in uno di questi posti, no?».

Lei mi guardò, come avrebbe guardato chi farfuglia parole senza senso, e suggerì sbrigativa: «Non essere ridicolo, e non dimenticarti i certificati medici quando verrai la prossima volta. A noi qui non piace essere presi in giro». Il suo avvertimento fu chiaro, non me ne sarei dimenticato e in quel momento non sorrisi. In seguito portai i certificati richiesti e in quella stanza fu stabilito che andassi a fare il primo addestramento con altre persone di salute precaria – un mese a Sebastia, in Samaria, nell’aria fredda dicembrina, in compagnia di autisti principianti e altri ai quali il futuro nell’esercito riservava ruoli di cuoco o magazziniere. Non sapevo che una parte di tutta quella meraviglia sarebbe stata riservata a me e aspettavo con nervosismo la fine del primo addestramento, per avere notizia di dove avrei ato quell’irrilevante lasso temporale di 18-21 anni. Il trattino che separava dei numeri scelti a caso – proprio quel trattino era diventato la preoccupazione maggiore della mia vita militare. Alla fine i notabili della diagnostica militare mi spedirono alla scuola tecnica dell’aviazione, corso per magazzinieri. Il sottoscritto, Itai Zer, che non è in grado di trovare le chiavi di casa, cui talvolta capita di dimenticare gli occhiali in frigorifero, sarà responsabile di un intero magazzino di pezzi di ricambio per cacciabombardiere. Impensabile. Il tragitto che porta dal magazzino all’errore e al carcere militare è corto e doloroso. Vagavo in mezzo alle tende da campo portando sottobraccio, ben in vista ad ogni ufficiale, il romanzo Tmol shilshom di Agnon, con una copertina rossa che attirava l’attenzione, e sotto l’altro il volume di poesie di Yona Volah, in copertina il dettaglio di un quadro di Klimt: una donna circondata tutt’intorno da fiori. Camminavo lentamente. Dalle tende si levava la voce del cantante Boaz Sharabi, “Amerò solo te stanotte, io non ho niente, solo parole”. Seguivo un percorso fisso, con la speranza che uno dei responsabili del corso si sarebbe accorto dell’insolito comportamento del candidato al ruolo di magazziniere tecnico. Soltanto l’indomani una di loro notò questo soldato malinconico che vagava fra i sentieri della base. Stavolta non avevo usato soltanto libri. Con le cuffie del walk man sulla testa non avevo più bisogno delle radioline transistor che si sentivano nelle grigie tende piene di soldati in attesa dei corsi. Boaz Sharabi mi arrivò dritto alle orecchie e mi fece tremare il cuore, speravo sarebbero arrivate

finalmente anche le lacrime che mi avrebbero portato dritto dallo psicologo militare per liberarmi da una quotidianità minacciosa – piccoli pezzi di ricambio, bulloni, ganci, cacciaviti di varia misura che avrei dovuto conoscere per nome e per uso. Dovevo andarmene. A questo servivano le lacrime versate e la mano che tiene stretti i libri come fossero l’unica salvezza. Ma anche musica nelle orecchie, che fa nascere la volontà di camminare fino al cancello, uscire dalla base e aspettare in camera mia, a casa dei miei genitori, l’arrivo della polizia militare. Grazie alla sollecitazione della responsabile, mia salvatrice, lo psicologo mi ricevette per un colloquio e mi mandò direttamente dallo psichiatra dell’ aviazione. Mi chiese come mi chiamavo, come stavo, e fissando l’espressione del mio volto lesse a voce alta il resoconto dello psicologo, secondo il quale io, soldato semplice Itai Zer, gironzolavo per ore nella base tecnica dell’aviazione, piangendo e talvolta mormorando frasi insensate, tipo ‘luce rossa segnala allerta grossa, la mia libertà rubata cammina fino al cancello e torna al macello’. Feci cenno con la testa che sì, la descrizione corrispondeva, così il militare esperto dei meandri dell’anima decretò che il soldato Itai, matricola 3311243, soffriva di seri problemi di adattamento al sistema militare, e pertanto doveva essere collocato in un posto dove poter svolgere mansioni tranquille, da impiegato, che non lo mettessero in ansia e non risvegliassero dal letargo l’epilessia. Venni perciò mandato alla base militare numero quattro dell’aviazione. Arrivato a casa, non raccontai a Yael dell’incontro con Avi Razi. Sprofondai nella vecchia poltrona che stava davanti alla televisione, e mentre Tami piagnucolava nella stanza accanto, chiusi gli occhi e feci finta di appisolarmi. Sapevo che Yael mi stava guardando, ma sentivo che era meglio non raccontarle del risveglio dei miei ricordi. Avi Razi mi parlava di Neta, del responsabile della disciplina, dei suoi aiutanti georgiani e dell’infermeria vicino all’ufficio riservisti. Devo ammettere che rammentava con chiarezza dettagli che nella mia memoria erano già svaporati – quantomeno fino all’incontro di oggi. Ho aperto gli occhi per un secondo, ho intravisto Yael e li ho richiusi. Sapevo che non sarei riuscito a nasconderle a lungo l’emozione che il nome di Neta ancora suscitava in me.

Ventun anni erano ati da quando, per la prima volta, l’avevo vista all’infermeria della base. Rasar mi aveva ordinato di presentarmi dal responsabile della salute mentale. Arrivato dall’impiegata militare le avevo consegnato la busta con il mio referto medico, sulla quale io stesso avevo scritto, in brutta calligrafia, Itai Zer/problemi psicologici. L’avevo fatto per evitare che sbagliassero di nuovo la mia collocazione militare. “Itai Zer”, aveva detto pronunciando il mio nome, e la sua voce era bassa e un po’ roca, e i suoi occhi erano occhi di gazzella marroni e grandi, in quel momento mi stregò il contrasto netto fra la sua altezza, la sua lunga treccia, i suoi movimenti eleganti e tutto il fracasso dell’infermeria che vorticava intorno a lei. Mi aveva guardato, e dando un’occhiata al mio nome e alla diagnosi che avevo fatto a me stesso, in bella evidenza sulla busta, mi aveva chiesto: «Soldato semplice Itai, vuoi incontrare subito la psicologa tenente, oppure questa cosa può aspettare fino a quando il responsabile avrà deciso dove metterti?». L’avevo fissata e lei mi aveva sorriso dall’altra parte del tavolo. «Soldato semplice», aveva ripetuto, ed era chiaro che qualcosa la stesse divertendo, «è strano che tu da solo, con la calligrafia di un bambino problematico, faccia sapere a tutti qual è il tuo stato psicologico». Non le avevo risposto. Soldatesse dall’aria malinconica erano in attesa di un’impegnativa medica, una fra loro si teneva la pancia e si lamentava. Le sedeva accanto un soldato con la mano ingessata e il gesso era coperto da scarabocchi e dai nomi degli amici commilitoni. Due addetti alla disciplina avevano condotto un fermo a un controllo medico. Neta trattava tutti come la receptionist di un albergo di lusso, mentre noi ospiti casuali ci trovavamo lì per errore e dai nostri vestiti si capiva che non eravamo all’altezza di stare fra quelle mura. Una strana sensazione mi travolse, come una bufera che fe tremare le pareti dell’infermeria. Chiusi gli occhi e li riaprii, e lei era ancora lì, si alzava, sorrideva e indicava una sedia libera. Era tornata a sedersi alla scrivania e mi fu chiaro che stava sfogliando i documenti che avevo raccolto nei primi due mesi del mio servizio militare. Si era alzata di nuovo, mi aveva guardato, poi sorriso un’altra volta. Non la ricambiai. I dettagli del mio dossier medico mi mettevano in imbarazzo. «Torna qui domani. Jafa, la psicologa, ti riceverà», aveva ordinato la sua voce, e forse disse qualcos’altro, ma io non la stavo più ascoltando. Rapimento del cuore, così chiamai fra me e me quello che avevo provato in quel momento all’infermeria. Lei indubbiamente non era consapevole del suo potere, ma io soldato semplice Itai, dalla divisa ben stirata e la piastrina metallica, lustra

e visibile, la garza nel taschino sinistro chiuso per bene da un bottone, ho impresso nella mia memoria che Neta è stata la prima ad aver avuto tale potere. Yael, la madre di Tami, nostra figlia, è un altro tipo di rapimento del cuore, forse quello che manca ad Avi Razi – considerato quello che mi ha appena raccontato. Gli occhi sono chiusi e i piani maldestri. Andrò ad Ashdod, in via Rogozin 56, una fermata prima della stazione centrale, salirò al terzo piano, all’ appartamento dei suoi genitori, e chiederò dove abita oggi la loro figlia – se mai accetteranno di aprire ad uno straniero che bussa all’improvviso alla loro porta. È importante per me sapere dove la posso trovare, cosa le è accaduto dal giorno che ho lasciato la base di Hazor e non le ho più parlato, nel bene e nel male. Con chi si è sposata, e come si chiamano i suoi figli, ma forse non si è mai sposata, o forse addirittura è già divorziata, e adesso è sola – perché le voglio chiedere se sono vere le cose che mi ha raccontato l’ufficiale Avi Razi. Mi sono alzato dalla poltrona all’improvviso e sono andato in cucina, sperando che mia moglie non indagasse la ragione di quei movimenti bruschi. Che cosa è stata Neta per me, in quei mesi? Avevo scritto per lei delle poesie commosse, e quando Yael ed io abbiamo cambiato appartamento, le ho nascoste a casa dei miei. Poesie scritte da un cuore di vent’anni, innamorato, che quando il fervore poetico si è andato affievolendo ho ricacciato nel cassetto. Non ricordavo bene i versi e il contenuto continuava a sembrarmi nebuloso. Niente di più che moti del cuore di chi teme che le sue poesie ne rivelino i segreti. Le ho scritte due settimane dopo tutto quel casino, che pare Avi Razi ricordi in ogni dettaglio. Stavo in cucina appoggiato al frigorifero sul quale erano appiccicati i magneti con le foto della bambina. «Yael, ti ho mai raccontato di Avi Razi?» «No, non ho mai sentito questo nome. È un tuo amico d’infanzia?» «No, è qualcuno che ho conosciuto nell’esercito, nella base di Hazor, e oggi l’ho visto al centro commerciale Gan Hair» «E allora, cos’è successo? Gli hai parlato?» «Non penso mi abbia riconosciuto, forse mi sono persino sbagliato. Quel tizio si è affrettato ad entrare in un negozio di fiori e per un attimo ho pensato d’essere già arrivato all’età in cui uno si ricorda con nostalgia che una volta aveva

vent’anni e gli sembra di incontrare per la strada i visi conosciuti nei tempi andati». Mi chiedevo se Yael avesse notato che le stavo nascondendo qualcosa. «Vedo che anche gli impiegati dell’ufficio riservisti provano nostalgia per la divisa e la loro penna Parker» mi stuzzicò, «e io che pensavo che la nostalgia per la puzza dell’esercito fosse solo roba per combattenti». Mi sentii sollevato. Prima di addormentarmi decisi che il venerdì avrei cercato le vecchie poesie scritte a Hazor, e avrei cercato di calmare l’agitazione che mi aveva preso. Ho aspettato che Yael si addormentasse, al buio ascoltavo il suo respiro. Ero vicino al suo corpo caldo e desideravo un sogno che mi riportasse a quegli anni, ma non arrivò. 2 La mattina dopo, appena sveglio, presi una decisione: andare ad Ashdod, all’indirizzo di quando era giovane, che ancora ricordavo. Uscii come di consueto, come chi va al lavoro. Il nome della via, il piano e addirittura il numero dell’appartamento erano impressi nella memoria di una tiepida giornata davanti all’ufficio riservisti. Neta era sdraiata sullo spiazzo di cemento, davanti alla mia finestra, quella sopra il tavolo delle mansioni di impiegato; aggiornavo i dati personali dei riservisti che avano per il nostro ufficio prima di prestare servizio: meccanici, autisti, cuochi, controllori di volo. Con la mia non bella calligrafia seguivo i cambiamenti, piccoli e grandi, delle loro vite. Cambiavano indirizzo, posto di lavoro, si sposavano, diventavano padri, si separavano. Questo era il ruolo affidatomi dopo l’incontro con la psicologa della base, la tenente Jafa. Lì, all’ufficio riservisti, al comando dell’ufficiale Beni Dremer, dovevo are il servizio militare. Vicino all’infermeria, non lontano da colei che senza saperlo aveva suscitato in me il rapimento del cuore. Ero uscito dall’ufficio andandole più vicino, lei mi aveva detto, ad occhi chiusi, «Soldato Itai, dove vai? i di qua e nemmeno saluti?». «Sei sdraiata qui come una lucertola al sole, non volevo disturbarti», avevo risposto. «Ti vedo anche con gli occhi chiusi», mi aveva assicurato Neta, togliendosi le cuffie del walkman, «avvicinati a me, Itai, e sentirai una bella canzone».

Anch’io avevo chiuso gli occhi e ascoltavo con attenzione ogni parola. Alla fine l’hanno trovato sdraiato sotto un albero di pompelmi, pensavano fosse la fine, perché tutto può succedere, poi si rivelò che per ora lui sta bene, due schiaffi e si è svegliato, ma portato in camera sua… L’avevo riconosciuta subito, era la voce di Meir Ariel. Canzone di festa, ricorrenze e fallimenti. Due schiaffi e non si è svegliato, nemmeno portato in camera sua, lei comunque aveva capito, anche senza gli sguardi di quei due… Catturato dalla voce del cantante avevo osservato le sue labbra che a bassa voce ripetevano quello che sentivo, «ho pianto anch’io con lei, io che la amavo, Erroll Erroll». E adesso stavo andando verso la sua città, binomio strano “sua città”, specialmente se non ci abita più – città che non era nulla più d’un ricordo sfumato. Mi augurai di arrivare ad Ashdod in un lampo. Ricordavo con chiarezza la sua figura, in quella limpida mattina di sole. Eccomi a rimetterle le cuffie alle orecchie, a chiederle con ingenua emozione, «Perché mi hai fatto sentire questa canzone?». E lei non aveva risposto, ma sul palmo della mia mano aveva messo un bigliettino stropicciato, e rimanendo sdraiata mi aveva ordinato: «Itai, vai allo spaccio, comprati della cioccolata fredda e un panino e nascondi il rossore che ti

accende le guance». Allora avevo aperto il bigliettino stropicciato sul quale era riportato l’ indirizzo dove stavo andando in quel momento, senza che Yael sapesse nulla. Non sto mica andando dalla mia amante, cercai di calmarmi, per negare l’entusiasmo che mi aveva preso, soltanto a casa di chi mi ha dato il suo indirizzo più di vent’anni fa, via Rogozin 56. Uno strano mantra. Lo ripetei lungo la strada che collega Tel Aviv ad Ashdod. Una volta, durante un viaggio di notte, mentre tornavamo da una festa di matrimonio celebrata in un agrumeto, uno dei pochi rimasti, e attraversavamo strade deserte, Yael mi disse: «Strano, iamo per le città di Rishon Le Zion, Hulon, ma non c’è nessuna differenza, nella notte tutto sembra una città continua, che ogni tanto cambia nome». Ora, all’entrata di Ashdod, sentivo che via Rogozin era una storia diversa, e se volete chiedetelo a Erroll, che altri non è che me stesso in quei giorni lontani, perso nella luce intensa degli agrumeti intorno alla base di Hatzor, proprio lì dove avevo raccontato alla soldatessa dell’infermeria e alla psicologa i dettagli di una epilessia già ata, e mi ero comportato come chi, in ogni instante, può perdere coscienza e non sapere più dove si trovi. Una base vicino a casa, questo è ciò di cui ho bisogno, magari vicino alla casa di Neta, che sembrava più una ragazza di kibbutz che non una giovane donna del centro di Ashdod. Mi avvicinai all’edificio, meglio parcheggiare la macchina, pensai. La via aveva cambiato aspetto, mi accorsi, questo viaggio che all’inizio aveva una qualche ragione di entusiasmo ora stava diventando scialbo, ancor prima di arrivare alla stazione centrale, prima di salire le scale dell’appartamento dei suoi, al numero 10, fino in camera sua. La famiglia Barkai non abita più qui, disse la vicina del terzo piano, e poi Neta si è sposata tanto tempo fa e ha lasciato Ashdod. «Tu chi sei? Un parente, un caro amico?», chiese, e io mi ritrovai a rispondere stizzito: «No, non caro, e certamente non un parente». Scesi le scale farfugliando l’indirizzo non più valido. Quale stupido entusiasmo mi ha portato a queste vecchie case? Cosa speravo di trovarci? L’infermeria, dipinta tutta di bianco? O lei in persona, appoggiata al battiscopa di pietra, con le cuffie del walkman sulla testa, in attesa per tutto questo tempo di un Itai quarantenne, che a di qua per sentirla raccontare come sono ati per lei

tutti questi anni. La via era punteggiata di scritte in cirillico, che avevano occupato le insegne dei negozi di salumi, di pesce affumicato, di cancelleria e giornali russi. I musicisti di un quartetto d’archi, vestiti con dei completi sbiaditi, suonavano sul marciapiede una melodia malinconica. «Cosa state suonando?», chiesi con discrezione alla violoncellista e lei, fiera, rispose, «Mendelsson, grazie che signore interessa». Il signore non si interessa, pensai, il signore è un emerito idiota, ed è meglio che si sbrighi a tornare da sua moglie e sua figlia e mandare al diavolo il piano di Avi Razi. La macchina invece non mi portò verso Tel Aviv, all’uscita di Ashdod scelsi la strada verso sud, in direzione dell’incrocio Masmia, fino alla base numero quattro. Di quegli agrumeti che una volta si perdevano a vista d’occhio non era rimasto molto, e tuttavia speravo di trovare, lungo la strada serpeggiante che costeggiava il kibbutz Hazor, qualcosa che mi ricordasse quella che una volta chiamavo “la luce dei frutteti del sud”. Le nuove abitazioni, prive di luce, mi accompagnarono fin quasi al cancello della base. Non mi lasciarono entrare – già sapevo che, anche se gli avessi raccontato del mio inutile viaggio, non avrebbero cambiato idea e non avrebbero detto, entri signore entri pure, vada a vedere l’infermeria, lo spiazzo grigio di cemento davanti all’ufficio riservisti, entri lì, cerchi la soldatessa dell’infermeria e le chieda scusa. Ma scusa di cosa, scusa di che cosa, mi domandavo mentre sentivo salirmi un senso di angoscia, e alla sentinella il cui labbro superiore faceva trapelare una leggera irritazione dissi: «Ho prestato servizio qui non tanto tempo fa, diciamo dieci anni, e adesso vorrei entrare, vedere se conosco ancora qualche comandante». Gli parlavo come un anziano ormai, io stesso non riuscivo a credere alle mie orecchie. «Ha un documento da riservista?» ha chiesto con indifferenza la sentinella. «No», mi sono giustificato, «ho solo la carta di identità». «Una carta così non basta» ha sentenziato il soldato con il tono di chi è pratico di seccatori come me. «La carta di identità ce l’hanno tutti». Mi sentii sollevato di non poter entrare. E quando sono riato per l’incrocio di Ashdod, ero contento che a quell’indirizzo non mi aspettasse nessuna donna. 3 Arrivai al lavoro verso mezzogiorno. Sul mio tavolo mi aspettavano le prime bozze delle dispense didattiche sui vasi comunicanti che avevamo preparato

negli ultimi due mesi. Nella segreteria telefonica c’erano due messaggi, uno di Avi Razi e l’altro di Yael. Razi, con quel suo tono divertito, mi comunicava d’avermi cercato al Centro Programmi Pedagogici, dove gli avevano riferito che di mattina non ero arrivato, così aveva telefonato a casa e parlato con la mia simpatica moglie, che non sapeva dov’ero, e che gli aveva suggerito di riprovare al lavoro. Ed ecco che ha ritelefonato e ha lasciato un messaggio, questa volta. Il suo irrompere nella mia vita mi dava sui nervi, prima mi chiedeva di incontrarlo a Gan Hair e lì mi spiegava un piano assai ambiguo che ancora non avevo raccontato a nessuno, e adesso telefonava a casa mia e parlava con Yael come fosse un amico di famiglia. Ascoltai teso il secondo messaggio di Yael. «Ti ha cercato un amico dell’esercito che si chiama Avi Razi, probabilmente è quello di cui mi hai raccontato ieri. Gli ho detto che sei al lavoro, ma mi ha risposto che non ci sei. Spero non sia successo niente, solo che ti trovi fuori stanza». Riascoltai la sua voce per sentire se sospettasse qualcosa, ma nemmeno la terza volta riuscii a cogliere un segno del suo stato d’animo. Cos’è successo?, mi chiederà stasera, e ovviamente non potrò risponderle «Nulla, Neta ha cambiato casa», prima di rientrare devo trovare una spiegazione per la telefonata di Razi e il mio arrivo in ritardo al lavoro. Il telefono sul mio tavolo mi fece sobbalzare. Avi riconobbe subito la mia voce e senza perdere un secondo partii all’attacco. Con che diritto mi telefoni a casa e cerchi di spaventarmi, ah? Dimmi, vuoi che riveli a tutto il mondo il tuo folle piano? Non azzardarti più a rifarlo. Dall’altra parte arrivò solamente il suo respiro nervoso, non sapeva cosa rispondere. Poi si riprese giustificandosi con un tono più mesto: «Ho solo voluto verificare se veramente vuoi aiutarmi, il tempo a, sai, e la data del Bar Mitzvah si avvicina. Devo sapere se in questa vicenda sono solo. Scusami se ti ho complicato la vita». Non mi hai complicato niente, ebete, dissi fra me e me, non sei mica la mia amante che telefona e confessa tutto a mia moglie. All’improvviso sentii il bisogno d’essere ricambiato per la mia disponibilità a partecipare al suo piano, e anche di rifarmi della sua conversazione con Yael. «Avi, sai» gli dissi «sono andato stamattina ad Ashdod a cercare Neta Barkai,

non l’ho trovata». Si riprese subito. «Perché ci sei andato? Volevi incontrarla così, all’ improvviso?». Nella sua voce si era insinuato un tono di disprezzo che mi aveva innervosito già ai tempi della base numero quattro, perciò esclamai: «Io voglio qualcosa in cambio della mia collaborazione». «Qualcosa in cambio?» chiese intimorito, «non ho molti soldi Itai, sono un semplice direttore di supermercato a Yavne». «Voglio che mi aiuti a trovarla» azzardai a dire, «che verifichi per me se è ancora viva, dove abita e con chi, qual è il suo nuovo cognome, se è divorziata. Per te non è complicato, un generale di riserva ha amici in tanti posti, loro possono con facilità arrivare ai computer del Ministero degli Interni o a quelli delle Entrate». «Va bene, va bene, ci proverò a farlo per te» disse Avi Razi con sollievo, «verificherò dove vive, la tua principessa dell’infermeria, se questo è ciò che chiedi». Aspettai con impazienza che finisse la frase e fui categorico, «quando avrai questi dettagli mi chiamerai al lavoro, soltanto al lavoro, non a casa». Non aspettai la sua risposta e riagganciai. Feci un respiro profondo. Ora è meglio pensare bene cosa dire a Yael, dato che Avi Razi non sarebbe sparito dalla nostra vita nei prossimi mesi, inutile complicare la situazione sin d’ora. Come immaginavo lei sedeva in salotto, la bambina dormiva fra le sue braccia. Sembrava stesse aspettando una spiegazione per la telefonata dell’ amico dell’esercito, sbucato all’improvviso nella nostra vita. Decisi di essere franco e, prima ancora che mi chiedesse qualcosa, evitai scuse che non stavano in piedi. «Sai, per la verità ho incontrato Avi Razi a Gan Hair pochi giorni fa. Non è che l’ho visto per caso, come ti ho raccontato. Lui mi ha chiesto d’ incontrarlo perché è nei guai. Dice che ha bisogno di…» Yael mi troncò la parola. «Non capisco perché ti complichi la vita con una bugia inutile. È un peccato sprecare bugie del genere per un uomo», sorrideva come chi mi avesse colto in flagrante, e nonostante ciò mi sentii sollevato. Conosco Yael quasi quanto mia sorella Deganit, sapevo che nelle ore ate da quando lui aveva telefonato a casa e lei mi aveva cercato al lavoro, i suoi pensieri si erano rincorsi l’un l’altro. Non nominare Neta, mi suggeriva la mia mente confusa, mantieni la calma. Lei parlava a bassa voce, cullava Tami con movimenti blandi e ritmici.

«Itai, ti conosco da quasi sette anni e non ho mai sentito il nome di questo amico. Non l’hai invitato al nostro matrimonio, non sei mai andato a trovarlo, non ci ha chiamato neanche una volta, non in questa casa e non in quella precedente di via Rashi, e all’improvviso è nei guai e fra tutte le persone al mondo chiama proprio te? Veramente lo conosci dall’esercito? Che cos’è la fraternità del battaglione degli impiegati Parker? Dimmi, che cosa sta succedendo veramente?» Magari lo sapessi cosa sta succedendo, pensai nascondendo il mio pensiero in un mezzo sorriso. «È una storia semplice, Yael», dissi, «mi ha chiesto di parlare con la sua ex moglie. Il loro figlio festeggerà il Bar Mitzvah il prossimo ottobre, e lei non vuole che Razi venga in sinagoga. La sua nuova famiglia non lo sopporta. E vuole che lei gli permetta di trascorrere un giorno intero con il figlio prima del Bar Mitzvah». «Non gli permette di vedere il figlio? E tu come sei coinvolto in questa faccenda?» «Io la conosco. Era nell’esercito con noi». Era evidente che Yael cominciava a perdere la pazienza, ma io mi sforzavo di mantenere la calma e continuai a improvvisare la risposta. «Lei era assistente sociale e lui ufficiale amministrativo. Si sono sposati nell’83. Io allora non ero alla base, per questo non mi hanno invitato al matrimonio…» «Come l’hai conosciuta?», s’impuntò Yael, continuando subito, senza fingere di rispettare le buone maniere: «Quanto l’hai conosciuta?». Il cullare era diventato un po’ più nervoso. «Non sono andato a letto con la ex moglie di Avi Razi, se è questo che vuole sapere la mia cara mogliettina. Gli devo un favore, e mi ha chiesto di convincerla. La separazione è stata molto problematica, e tra loro non c’è più alcun rapporto. Lei lo ha lasciato quando Noam, il figlio, aveva due anni. Abitavano a Yavne, in una zona residenziale per militari. Si è innamorata di un altro uomo, uno che è venuto a fare un corso di aggiornamento nella scuola dove lei lavorava. È ato quasi un anno prima che decidesse di andare a vivere con il suo nuovo uomo e il bambino. Era il 1989, se ricordo bene tutta la storia di Avi Razi…»

«Come si chiama lei?» Il nervosismo di Yael ora era diventato curiosità. Questo aggio mi tranquillizzò. «Ayalà. E l’uomo di cui si era innamorata ha cresciuto il figlio di Avi Razi. All’inizio non era contraria che Avi Razi vedesse il figlio, ma loro abitavano in Galilea, Avi prestava servizio al sud e così, piano piano, si sono persi di vista». «E oggi sei andato in Galilea a incontrarla?». In cuor mio la ringraziai del salvagente che mi aveva lanciato, perché la mia versione inverosimile cominciava a traballare. «Le ho chiesto di incontrarci alla fermata del treno di Hof HaCarmel, così avremmo potuto parlare con tranquillità, senza che nessuno di noi guidasse per ore e io potessi prendere il treno senza spendere in benzina». «E ha accettato?» si interessò Yael, i movimenti nervosi del cullare erano cessati del tutto. Tami dormiva un sonno profondo. «Sì. Adesso lei e suo marito abitano a Yokneam, è abbastanza vicino alla fermata di Hof HaCarmel» inventai una inesattezza e feci una pausa. «Ma per ora non ha ancora accettato la sua richiesta» – dissi preparando così il terreno a future assenze – «ha detto che deve pensarci, che ne riparleremo, e ha aggiunto che io non so tante cose sul loro rapporto, e che lei al mio posto non…» «Ha ragione», tagliò corto mia moglie sui dettagli, e si alzò con attenzione dal divano con la bambina in braccio. Prima di uscire dalla stanza mi fece un’altra domanda: «Ma che favore ti ha mai fatto che vai per lui fino a Haifa, come fossi una giornalista di rubriche femminili su problemi di divorzio?» «Mi ha aiutato con lo psicologo quando ero in servizio di leva, e mi ha sistemato in un lavoro da impiegato. Senza il suo intervento sicuramente avrei ato almeno sei mesi in un carcere militare». Feci un grande sforzo per non imbrogliarmi e aggiungere anche il mio viaggio ad Ashdod. Continuai a parlare come un fiume in piena tentando di nascondere la mia tensione crescente. «Era impaziente e voleva sapere cos’era successo

durante il nostro incontro, e quindi mi ha cercato a casa, al lavoro, ovunque». «Itai, è giunto il momento di comprarti un cellulare, così i tuoi fantomatici amici dell’esercito non disturberanno più tua moglie. Buonanotte». Che misera storia avevo inventato per Yael a sua insaputa. Un soldato semplice di riserva e un ufficiale sentimentale che pregano una donna divorziata di concedere al padre di vedere il suo bambino prima della festa di Bar Mitzvah. Se ne andò in camera da letto, io rimasi in salotto da solo a riflettere sul mio frustrante viaggio e sul compito che avevo dato ad Avi Razi. Quando anche io arrivai in camera da letto notai nel buio Yael e Tami sdraiate sul letto matrimoniale. Nei primi mesi dopo la nascita, quando Yael non mi voleva, trovavo sempre a dormire con lei la piccola Tami. Mi infilai piano sotto le lenzuola, muovendomi appena per non svegliarle e sperando che stavolta sarebbe arrivato il sogno a portar consiglio. 4 E arrivò. Era un ricordo nascosto all’ombra di un sogno che allunga una mano consolatoria nella notte dopo una giornata confusa. Ero rimasto alla base per un fine settimana a fare il turno di sentinella. Noi, i soldati impiegati, eravamo esentati dal fare la guardia nell’area dei cacciabombardieri. Un soldato semplice, spiegava l’addetto alla disciplina, deve fare la guardia all’ufficio riservisti, all’infermeria, ai dormitori, cioè alle cose che gli stanno a cuore. I cacciabombardieri non fanno per il soldato semplice. Pioveva in quella notte di inizio febbraio, gli agrumeti attorno alla base sprigionavano freddo. Le mie calze erano bagnate e ai le ore che rimanevano alla fine del primo turno, le due di notte, percorrendo fino alla noia lo stesso tragitto, girando intorno all’infermeria, ando accanto al mio ufficio, al dormitorio dei soldati e a quello delle soldatesse, al cancello e infine tutto daccapo. Parlai poco con il soldato che era di sentinella con me, nella mia testa mi chiedevo dove fosse Neta in quelle ore e se, rimasta sveglia, fosse venuta nella mia stanza nel dormitorio dei soldati. Nessuno dei miei compagni di stanza era rimasto per il turno di sabato, la supplicavo da tempo di fissare il suo turno proprio per quel giorno e lei, con una esitazione divertita, non mi aveva detto subito sì e anche nei giorni successivi evitò di dirmi se fosse rimasta per il turno di sabato. Durante l’alzabandiera mi ò davanti e, rivolta all’addetto alla

disciplina e all’ufficiale di turno, esclamò: «Se qualcuno ha davvero bisogno di me, mi trova all’infermeria», e io, innamorato, sapevo a chi si stesse rivolgendo. Questo era il suo modo di rispondere al mio corteggiamento, con una pacatezza provocante, mai con entusiasmo – perlomeno esplicito. Una canzone che mi aveva fatto ascoltare, parole dette quasi casualmente, erano i gesti con cui alimentava il suo amore. C’era un contrasto bruciante quella sera tra la figura aristocratica che ci stava ando davanti e il nostro gruppo messo insieme a caso sotto un cielo basso, di fronte alla bandiera che sventolava, con la noia dipinta in faccia, abbracciando la vecchia mitragliatrice Uzi, con la divisa da lavoro trasandata appesa ai nostri corpi, con la speranza nel cuore di tutti noi che dopo il turno di guardia, dopo aver girovagato per quattro ore all’aperto, in preda ai morsi del freddo notturno, dopo essere tornati stanchi al dormitorio delle guardie per cercare di prendere sonno, sui materassi ricoperti dalle date di arruolamento e di congedo dei soldati, macchie di inchiostro e di sperma, sotto grezze coperte impregnate di polvere – anche a noi ci stesse aspettando, in qualche stanza, in qualche sogno, una ragazza come Neta. A fine turno anch’io mi ribellai a questa routine e me la svignai a dormire da solo senza essere circondato da sconosciuti, che con il loro respiro pesante tenevano lontano il sonno. Sin dai primi giorni nell’esercito, mi aveva stupito la facilità con cui i miei compagni di tenda si addormentavano in quei letti anonimi, senza nemmeno togliersi la divisa che non avevano scelto, e tutto ciò in compagnia di persone che non avevano mai visto prima. Pensavo che era molto simile ad addormentarsi in compagnia delle facce casuali che incrociamo per le strade di una grande città. E arrivò. Forse è meglio dire che nel dormiveglia del sogno Neta mi aveva preceduto, perché la porta della mia stanza era socchiusa e quando la sospinsi leggermente vidi l’immagine più bella mai capitata prima di allora. Stava davanti a me, nuda, accesa dalla luce rossa delle spirali incandescenti della stufetta elettrica. I suoi lunghi capelli bruni erano sciolti e le ricadevano davanti, coprendole il seno. Un profumo di pane abbrustolito mi avvolgeva. «Il soldato Itai è tornato dal campo di battaglia degli impiegati delle amministrazioni», sentii dire la sua voce. «Prenditi una fetta abbrustolita sulla spirale dell’esercito e spalmati del burro. C’è una lattina di birra sul pavimento, vicino alla coperta».

Sedetti confuso sulla branda di ferro, cominciando a spogliarmi. Anche nel sogno sentivo che la mia nudità era impacciata mentre lei, nella sua, stava con naturalezza al centro della stanza. Mi avvicinai, ma lei si allontanò verso la coperta che aveva disteso prima del mio arrivo. «Ho portato anche il mio sacco a pelo, così avremo qualcosa con cui coprirci dopo», disse Neta con dolcezza, e io la seguii, stordito e incantato. «Il nostro è un picnic di sfigati rimasti a trascorrere il sabato alla base», mi sussurrò all’orecchio, accarezzandomi la schiena, mentre le mie mani cercavano di avvolgerla tutta. Non mi aveva preparato a quella grazia. I suoi capelli ramati si sparpagliavano, le sue labbra carnose e pronunciate si schiudevano, e io ho chiesto, ho pregato, che la lontana Neta avesse, anche per un solo secondo di sogno, il volto di mia moglie, ma la memoria lo dominò e gli occhi marroni erano gli occhi di Neta e la mia bocca baciava con devozione la sua. La sua testa quasi sbatté contro l’armadietto di ferro che centinaia di inquilini di aggio, anno dopo anno, avevano sfregiato sulle ante. La mia mano cercava a tentoni la lattina di birra. Feci un lungo sorso e le ai l’ altra metà. Mi prese per le spalle e mi scosse. «Ti muovi in continuazione e svegli me e la bambina», mi disse Yael interrompendo il mio sogno. «Scusami» dissi confuso, «forse è meglio che stanotte dorma in salotto». Sul divano speravo che la visita notturna di Neta continuasse là dov’era stata interrotta, ma solo un sonno tranquillo e sorprendente mi accompagnò fino al mattino. 5 Quando cercherò a casa dei miei genitori le mie poesie acerbe, forse troverò anche delle foto. Un soldato e una soldatessa abbracciati davanti all’infermeria, i loro visi in ombra per la scarsa bravura del fotografo. E se la fortuna mi sorriderà, troverò anche una foto dove i tratti somatici di Neta si distinguono con chiarezza – e questo potrà aiutarmi quando arriverà il momento di incontrarla. Non riuscivo a immaginare cosa avessero fatto gli anni al suo bel viso, a quegli zigomi pronunciati che avevano catturato il mio sguardo appena entrato, la prima volta, all’infermeria. Più pensavo a lei e più tanti piccoli dettagli si ricomponevano, la forma della bocca, la linea del naso. «Siamo vecchi, guarda la foto» canta Shalom Hanoch nel concerto che non abbiamo visto insieme all’Auditorium di Tel Aviv, pochi giorni dopo che il

nostro legame s’era spezzato. Comprai il disco “Matrimonio bianco” tre anni dopo quel concerto, la data mi è rimasta indelebile. «Maschere sorridenti, matrimonio bianco, e tu prigioniera nelle mani di sconosciuti, e io corro verso di te lungo le pareti». Non sono queste le parole che le canterò quando la rivedrò, se mai ci incontreremo. Non sapevo cosa le avrei detto in quell’incontro che tanto desideravo. Forse niente, me ne starò muto e ascolterò. L’attesa snervante delle risposte di Avi Razi influenzava anche la mia vita con Yael. Evitavo la sua vicinanza. Covava in me la paura di quello che lei avrebbe potuto dire all’uomo che quel giorno, nella base dell’aviazione, non ebbe il coraggio di battere coi pugni sulla porta chiusa e minacciare gli addetti alla disciplina di rivolgersi al comandante della base, alla polizia militare, a chiunque li potesse fermare. Forse è arrivato il momento di raccontare a Yael del mio viaggio ad Ashdod, spiegarle perché mi sto invischiando con la vita di Razi, così mi risparmierò dei finti resoconti sugli incontri che non ci sono mai stati alla stazione ferroviaria di Hof HaCarmel. Yael, speravo, capirà che quella notte continua a inseguirmi e non avrà timore che un incontro con Neta possa portare ombra sul nostro matrimonio. Certamente Neta preferirà incontrarmi fuori di casa, in un caffè di periferia. Un quieto incontro in un posto affollato. Dagli altri tavoli si sentirà chiacchierare ad alta voce, e lei con il tono pacato che gli anni hanno cambiato soltanto un po’, mi racconterà la sua versione di quella notte e pretenderà una spiegazione al brutto e vigliacco comportamento di un uomo che la amava, ma che alla fine è sparito dalla sua vita come uno che non è mai esistito. Perché questa è l’esatta descrizione di quello che ho fatto: non esserci. Il giorno dopo ero già in congedo, e Neta rifiutò ogni mio tentativo di chiederle scusa per telefono. «Presentati qui, soldato semplice Itai» aveva mormorato con disprezzo, e aveva messo giù. Presentati qui che così potrò raccontarti, faccia a faccia, che cosa ti sei risparmiato. Presentati qui per vedere la mia bocca, che sicuramente ricordi, per vedere come è la mia bocca mentre racconta i fatti. E se non ne sei in grado, allora non chiamarmi più. Non trovai il coraggio di andare alla base di Hatzor o in via Rogozin. Preferii

lasciare che gli anni si sommassero ai ricordi fastidiosi, evitando tutto ciò che potesse ravvivare la bruciatura. Bastava una frase a ricordarmi qualcosa – e io distoglievo lo sguardo dalla televisione, spegnevo la radio o cambiavo pagina del giornale. Guardavo Yael e Tami che gattonavano insieme sul pavimento e compresi perché solo adesso speravo di rivederla e perché ero contento di scoprire che non abitava più nella città della sua adolescenza. Pieghe leggere sul labbro superiore, rughe d’espressione agli angoli degli occhi saranno gli unici cambiamenti che scoprirò sul viso di Neta. Ma cosa scoprirà lei sul mio?, mi domandavo. È più rotondo di come era ai tempi di Hatzor, il doppio mento lo posso nascondere solo quando lo tiro verso l’alto. «È meglio fare così quando ti fanno una foto», mi disse il grafico del centro per Programmi scolastici. «Yael non ha fatto nessuna osservazione al riguardo» gli risposi, e lui sorridendomi, «è una donna di buon cuore, tua moglie». «Mi ci vorrà un altro po’ di tempo», mi disse Avi Razi dopo una settimana, «intanto sono riuscito a scoprire che si è sposata con un pilota di Ercules. Questo ragazzo era arrivato alla base dopo che avevo fatto sparire te». Era chiaro che gli faceva piacere ricordare il potere che aveva su di me. Non è stupido, questo Avi, pensavo, ma anche se mi a le informazioni una alla volta, non devo per forza pensare che sia un complotto. Per ora sono io che lo ricatto, non lui. I nostri guai cominciarono quando Neta mi propose una scommessa, un gioco provocatorio che due giovani innamorati alimentano nella squallida stanza di una base militare. Eravamo soli in infermeria, almeno così credevamo. «Io uscirò dalla base indossando solamente la giacca militare e gli slip neri. Se riuscirò a are il cancello senza che il guardiano di turno noti che sotto la giacca non indosso nulla, tu mi porterai al concerto di Shalom Hanoch. E se all’ultimo momento avrò paura e non avrò il coraggio di farlo, pagherò io i biglietti, d’accordo?» «D’accordo, certo che sono d’accordo, ma non possiamo andare al concerto senza questa stupidaggine? Non devi arrivare al cancello nuda, mica Shalom Hanoch canta alle Bermuda». La mia rima non la divertì. «Non hai senso dell’umorismo, caro Itai, e nemmeno coraggio, sei un secchione, questo sei». Parlava del suo piano ad alta voce, con aria di sfida, e mi spaventai. «Non alzare la voce, non devi far sapere a tutta la

base che vuoi uscire dal cancello solo con gli slip indosso», suggerii timoroso. «Non aver paura, Itai, qui non c’è nessuno». Forse ricordare tutto ciò mi aiuterà a raccontare a Yael la mia versione dei fatti. Dopotutto non ho commesso alcun crimine, e tuttavia mi pesa averle nascosto quelle ore. Quando ti sposi, quando fai un figlio con lei – queste sarebbero proprio le cose che dovrebbe sapere di te e degli anni nei quali le vostre vite non si erano ancora intrecciate. È meglio raccontare subito, sin dall’inizio, pensai. Allora prima di tutto incontrerò Neta, poi Ayalà, la moglie che ha abbandonato Razi, e solo dopo deciderò in quale punto di tutta questa storia sto io. Da dieci anni scrivo fascicoli divulgativi di scienze, e mi diverto. ‘L’invenzione della scrittura: le tavolette d’argilla, i papiri e la carta’, ‘Galileo e la Chiesa: verità scientifica e verità teologica’, ‘Newton e la mela: la storia della forza di gravità’. Ci so fare, mi hanno elogiato sia gli insegnanti che i presidi, e i docenti dei dipartimenti di pedagogia di tutte le università si sono congratulati con me quando sono venuti ai nostri aggiornamenti, al Centro Sviluppo Materiali Pedagogici. Ma nelle ultime settimane ho perso l’interesse a correggere le bozze del fascicolo sui vasi comunicanti, perché un po’ prima del mio quarantesimo compleanno mi sto occupando di ripulire il mio ato da questa piccola macchia. Abita a Kfar Saba, mi disse Avi Razi dopo due settimane, ed ero sicuro che sapesse più di quanto raccontava. Fissammo un altro appuntamento nello stesso caffè. Mi invitò a prendere una decisione già prima, se fossi entrato a far parte del suo piano o no, perché in caso contrario era meglio per lui smettere di cercare informazioni su Neta e il marito. Già dall’inizio del nostro secondo incontro era evidente che questo ex ufficiale panciuto volesse farmi perdere la pazienza. «Devi solo portare il bambino in un albergo il giorno del Bar Mitzvah, questa è la mia unica richiesta. Tutti gli invitati lo aspetteranno nella sala della cerimonia in Galilea, tu lo terrai d’occhio in albergo soltanto per dodici ore. O meglio, anche solo per cinque o sei», Ravi cercò di minimizzare il pericolo, poi sarebbe arrivato lui a prendere il mio posto e a restituire il festeggiato alla sua famiglia, ma intanto la festa di Ayalà sarebbe stata rovinata. «Anche a Noam, tuo figlio, rovinerai la festa del Bar Mitzvah», tentai di moderare il suo entusiasmo, «e mi puoi dire cento volte che io dovrò solo tenerlo d’occhio, ma noi due sappiamo benissimo come si chiama in realtà quello che mi proponi. Noi sequestreremo Noam, questo è in verità quello che

faremo. E se veramente mi hai salvato quella notte dal carcere militare, come mi ripeti da quasi un mese, come non fossero ati vent’anni dai tempi di Haztor – adesso vorresti chiudere il cerchio e portarci tutti e due dritti al carcere di Haifa». Abbassò la testa, non capii bene il significato di quel gesto – se per soggezione o attenzione. Poi alzò lo sguardo e mi chiese: «Dimmi Itai, quanto prendi di stipendio?» «Seimila shekel netti». «Inclusi gli straordinari?» Questa svolta economica nella nostra conversazione cominciò a imbarazzarmi. Non comprendevo perché Avi Razi si interessasse al mio stipendio. «Scrivo materiale didattico per le scuole. In questo tipo di lavoro non ci sono straordinari». «Potrei darti un bonus», mi sorprese. «Per cosa vorresti darmi un bonus?» Curiosità e timore presero il posto dell’imbarazzo. «Per le ore che erai con il bambino all’hotel Marriott. Dodici ore, la notte prima e nel giorno stesso del Bar Mitzvah. Seimila shekel per ogni ora, in totale settantaduemila, lo stipendio di un anno intero». Smise di parlare e mi guardò dritto in faccia per capire come reagivo a quella sconvolgente proposta. La sua intenzione era chiara, l’immediatezza quasi dolorosa. «Dov’è esattamente questo albergo?» chiesi come chi non avesse capito del tutto l’offerta. «A Nazareth». Gli sorrisi amaramente, ma lui non ricambiò.

«Alta?» tentai di guadagnare un altro secondo. «Bassa, bassa». Il mio dubbio svanì. Sapevo esattamente cosa dovevo fare, quale il rischio e quale il beneficio, ma continuai a sedergli accanto solo in virtù del tempo di un altro tempo, il tempo di Hatzor. Nonostante ciò feci di tutto per rendergli la vita difficile e mascherare il desiderio di sapere qualcosa di più su Neta. «Ma perché non tu, che sei suo padre, erai con Noam la notte prima del Bar Mitzvah? È una cosa naturale e normale che un padre stia con suo figlio in momenti del genere». «In tutta questa faccenda non c’è niente di normale e naturale, ricordatelo bene. Ogni uomo mi capirebbe». Fissai il suo viso e compresi che, determinato com’era a continuare il suo racconto, non avrebbe sopportato un ulteriore rimando. «Se sarà con me, la polizia verrà subito. Ayalà la manderebbe senza alcuna esitazione. Posso naturalmente nascondermi con lui, ma io non voglio far impazzire il bambino. Tu capisci che non voglio colpire lui, ma solo lei. Se lui sarà con te, perderanno del tempo prima di arrivare a voi. Ayalà non ti conosce…» La disinvoltura che dimostrava per le cose che mi venivano richieste mi irritò. «Se la polizia arriva all’hotel Marriott, mi ritroverò in galera per due anni». «Perché?» «Per sequestro. Se-que-stro» «No-no, non ci sarà nessun rapimento. Mi prenderò io tutta la responsabilità, mi taglierò un dito, berrò ammoniaca, dirò che sono stato in albergo e all’improvviso ho dovuto lasciare con te Noam per arrivare al pronto soccorso di Tiberiade. Chiameremo l’ambulanza, darò una tangente a un medico, e tu potrai dire che ti sei preso cura di lui quando mi hanno portato all’ospedale». Fece un respiro profondo, si asciugò il sudore e riprese come un fiume in piena:

«La stanza all’albergo sarà a mio nome, il tuo non comparirà e prenderò io accordi con Ayalà. Il bambino sarà con me il giorno prima della festa. Tu avrai gioco facile, senza alcun pericolo». «Perché per te è così importante fare tutto questo casino? Sei disposto a investire soldi in questa faccenda, coinvolgere me, che non sono nemmeno un tuo amico, mi sono solo cacciato nei guai vent’anni fa per colpa tua, lo ricordo tuttora, e non con gioia». Avi Razi notò che il nostro incontro stava sfuggendo al suo controllo. Mi rispose con un urlo, proprio un urlo, e tutte le persone sedute ai tavoli vicini si girarono verso di noi: «Vuoi veramente sentire perché sono disposto a tutto ciò?» E a questo punto abbassò il tono della voce: «Ti dirò tutto senza vergognarmene, ma tu devi promettermi che non lo racconterai nemmeno a tua moglie». «Prometto di ascoltarti e di tenere per me tutto quello che mi dirai». «Ayalà mi ha lasciato quando nostro figlio aveva un anno, te ne rendi conto? Un bimbo che nemmeno parla, che a malapena sa dire “papà”. Un giorno si alza, lo prende e se lo porta via». «Così, senza preavviso?» azzardai a domandare. «Per me, sì. Io, come sempre, tornavo a casa la sera alle otto, come sempre dal giorno in cui sono diventato ufficiale amministrativo della base, e quando sono arrivato era già tutto finito. Valigie fatte, con i vestiti del bimbo e i suoi. Grandi borse di plastica con tutti i giocattoli che gli avevamo comprato insieme. Ad oggi, non sono sicuro che non intendesse sparire ancor prima del mio ritorno a casa. La nostra conversazione fu breve, mi comunicò la sua decisione un minuto prima di metterla in atto. All’epoca non sapevo, e nemmeno ora ne ho la più pallida idea, per quanto tempo mi avesse tradito prima di lasciarmi. Una macchina la aspettava sotto casa, e io ero talmente sconvolto che non sono nemmeno uscito a vedere la faccia dell’uomo che mi aveva rovinato la vita. In quel momento non mi ero ancora reso conto di quello che mi avevano scaricato addosso, e di come tutto questo mi avrebbe accompagnato per il resto della vita».

«E ora, lo sai?» tentai di fargli capire che lo stavo ascoltando parola per parola e che sarei riuscito, forse, a capire la sua rabbia e a collaborare al suo piano. «Non ero preparato a tutto questo, lo capisci?» Avi Razi eluse la mia domanda. «Non c’era stato nessun segnale che mi potesse preparare a questo. Mi ero innamorato di lei alla base di Chafez Haim. Ero un giovane ufficiale e lei era arrivata lì come soldatessa insegnante. L’ho voluta dal primo giorno che l’ho vista – riccioli neri, occhi marroni e gambe lunghe che la gonna della divisa metteva in mostra. Ho cominciato a far visita alla stanza dell’ufficiale addetta alla cultura e all’educazione ogni giorno, usando ogni pretesto, anche sciocco, così che capisse che erano le visite di un corteggiatore, non di un ufficiale. Chiedevo alla responsabile perché non fe arrivare alla base la commedia ‘La collina Halfon non risponde più’, e quando avesse in mente di organizzare una rassegna di tutti i film di Zeev Revach, e quanto alla nostra base potesse costare uno spettacolo del cantante yemenita Avner Gadassi. Ayalà mi sembrava fragile e ingenua, e nel mio innamoramento e nel suo accondiscendere non c’era alcuna traccia di quello che mi avrebbe aspettato in futuro. Negli incubi peggiori non potevo sognare che avrebbe avuto la forza di staccarsi da me in un colpo solo, senza sofferenza e senza pentimento, lasciandomi con una ferita impossibile da rimarginare». Le sue ultime parole mi sorpresero. Mi parlava di fatti accaduti dodici anni prima con tale intensità, come se quell’abbandono fosse avvenuto appena ieri. Tacqui. Non volevo incalzarlo con un’altra domanda, aspettai che continuasse a raccontare, ma si rivolse a me con delle parole che mi sorpresero. «Sai quanta forza ha tua moglie? Tu non sai niente, te l’assicuro» faceva fatica a parlare piano e la sua voce, di nuovo tonante, richiamò l’attenzione delle persone sedute accanto. Invece lo so, pensai. «Ho scoperto quanto Ayalà fosse forte soltanto quella sera», Avi Razi mi riportò di nuovo alla sua vita. «Fino a quel giorno ero certo che tra di noi tutto fosse chiaro. Io nell’esercito dalla mattina alla sera, lei agli studi magistrali – non mi infastidiva che andasse quattro volte la settimana da Yavne a Tel Aviv – poi nella scuola dove insegnava o a casa durante la maternità. Pranzavo alla mensa ufficiali e delle volte rinunciavo anche a questo e la mia segretaria mi portava un vassoio in ufficio così che potessi lavorare senza fare pausa. “Ayalà”, le avevo detto tante volte, “adesso lavoro molte ore al giorno,

ma lo faccio per potermi congedare dall’esercito a quarant’anni, così potremo vivere in tranquillità con i bambini che avremo”. Ti giuro che subito dopo che mi ha lasciato ho iniziato ad aver paura della forza delle donne. Di colpo la vedevo dappertutto. In autobus, in treno, sul giovane viso della mia segretaria…» C’era qualcosa nella sua versione che non mi convinceva, avevo l’impressione di non essere la prima persona cui faceva la cronaca di questo abbandono. Cercai di assumere un’aria dubbiosa, e allo stesso tempo solidale. «Avi, ho ascoltato ogni parola e tuttavia non capisco come tu non ti sia accorto di niente, come non abbia pensato di trovare una spiegazione, anche dopo un po’ di tempo, al fatto che un giorno abbia fatto le valigie e sia sparita dalla tua vita». «Non dovevo trovare spiegazioni, te l’ho già detto, me l’ha spiegato di persona, chiaro e tondo. Mi ha lanciato le sue parole come un pugno in faccia. “Mi sono innamorata di un altro”, fu la sua prima frase nel salotto del nostro appartamento, e quando stava per continuare a raccontarmi com’era arrivata a prendere questa decisione, l’ho interrotta e volevo solo sapere quando tutto questo fosse successo, “quando è successo?” ho alzato la voce, e lei ha risposto senza nessun pudore, “nove mesi fa”, e si è messa pallida dietro le valigie e i sacchetti come per proteggersi dalla mia rabbia. “Nove mesi fa”, ha detto, come si trattasse di un qualsiasi lasso di tempo, non troppo corto né troppo lungo, un periodo consueto nella vita di donne come lei. “Il bambino all’epoca aveva tre mesi, brutta puttana”, l’ho insultata gridando, e lei aveva paura, forse pensava che la stessi per picchiare, ma non l’ho fatto, non ho alzato le mani, nemmeno un graffio, e credimi che quel giorno, a casa nostra, avrei potuto ucciderla». La rabbia crescente aveva incrinato la sua voce. Lo osservai e pensai a me e a Yael, a cosa avrei fatto se un giorno così si fosse presentato anche a noi. Nemmeno i bambini di un anno sono uno scudo che ti protegge dalla forza dell’innamoramento, c’era qualcosa di spaventoso in questa intuizione che mi era arrivata proprio da Avi Razi. «Il bambino gattonava sul pavimento, ho visto come le sue piccole dita stringevano i lacci delle sue scarpe e ho perso il controllo, “nove mesi? Il bambino ha solo un anno, tu lo allatti e trovi il tempo di innamorarti! Che razza di persona sei?” così le ho chiesto. “Non hai cuore”, l’ho accusata, “cosa dirò ai miei familiari? Che Ayalà, la mia pudica moglie, che si vergogna di allattare Noam al centro commerciale, e addirittura a casa di sua suocera, si è innamorata

di un altro uomo subito dopo che le è nato il primogenito? Chi mi crederà, di sicuro non mia madre e non i miei fratelli”». Ricordava ogni parola che le aveva detto, non c’era dubbio che da quel giorno aveva trascorso gli anni ripensando tante e tante volte a quei momenti. «Mi ascolti?», mi chiese all’improvviso, era chiaro che aveva avvertito la mia attenzione attenuarsi. «Sì sì continua a raccontare», lo rassicurai, «se devo stare con tuo figlio all’hotel Mariott, è importante che sappia cosa ti ha fatto esattamente Ayalà». La mia esortazione non era necessaria, avrebbe continuato a raccontarmi ogni dettaglio in ogni caso. «E allora le ho detto, “non puoi prenderlo e portarlo via. Questo bambino non è solo tuo, è figlio nostro, non può all’improvviso sparire da casa”. Era chiaro che non gliene importava niente, bastava darle un’occhiata. Il suo viso era ancora pallido, ma i suoi riccioli neri… sembravano delle molle, e i suoi occhi erano infuocati. “Se il bambino rimanesse qua con te, chi se ne prenderà cura?”, così mi ha risposto, “esci di casa alle sette del mattino e torni alle otto di sera. Lasciaci andare tranquilli”, disse come se stessero per andare in gita. “Io non impedisco a nessuno di andare tranquillo, non faccio del male a nessuno”, ho risposto e mi sono avvicinato a lei, la mia voce faceva paura anche a me stesso, “sei tu che in un momento rovini tutto, senza preavviso. Cosa ti ho fatto per meritarmi questo? Io non ti ho tradito nemmeno una volta e nel mio ufficio girano tante ventenni” così le ho detto, stando a mezzo metro dalla sua faccia, e non sono uno che solitamente parla in questo modo a sua moglie, riempirle la faccia di botte, ecco cosa avrei dovuto fare, allora non sarei arrivato al Bar Mitzvah in queste condizioni, ma io invece di fare così ho cominciato a supplicarla, “perché mi fai vergognare così? Mi rovini la carriera nell’esercito, chi promuoverà di grado uno la cui moglie è scappata via con il suo amante? È una vergogna per tutti gli uomini”. Sapevo che le mie parole non l’avrebbero bloccata, ma nonostante ciò ho tentato tutto, dalle implorazioni alle minacce. Ha sollevato il bambino e lo ha abbracciato stretto. Sapevo che le botte non avrebbero risolto niente, perché Noam mi separava dai miei pugni. Cerca di capirmi, Itai, anche oggi tremo dalla vergogna perché mi è chiaro che era un ricatto».

«Ricatto?» mi meravigliai. «Esattamente quello che hai sentito. Ayalà sapeva che sarei stato promosso, glielo avevo detto sei mesi prima che mi buttasse via, sapeva bene che nel nuovo ruolo non sarei riuscito a prendermi cura di un bambino di un anno». Lo guardai, mi sembrava davvero infelice, molto lontano da quel furbo ufficiale della base numero quattro, e avvertivo una saturazione quasi fisica, non volevo ascoltare più nient’altro sul giorno in cui Ayalà aveva abbandonato Avi Razi. Non sono un giudice né un comandante, lei chiaramente avrà una sua versione sulla sera nella quale ha deciso di uscire dalla sua vita, tenendo il bambino in braccio. Chissà quali incontri mi aspettano nei prossimi mesi. Forse rivedrò Neta e anche Ayalà, Avi Razi rende la mia vita interessante, ma per adesso mi basta quello che ho sentito. Aveva indovinato dove stavano andando i miei pensieri e si ricordò che aveva un piccolo debito da pagarmi. «Abita a Kfar Saba, come ti ho già detto, in via Toafot 36. Ho con me i suoi numeri di telefono, del cellulare e del lavoro, penso che con il numero di casa non devi rischiare. È ancora sposata con quel pilota di Hercules che aveva conosciuto nella base di Hatzor. Dei loro figli non so nulla, e non sono certo che ne abbia». Avi Razi bevve in due sorsate il caffè che si era raffreddato da tempo e ordinò delle omelettes con formaggio e uva a. Si limitò a questa informazione come primo pagamento. Era chiaro che se avessi preso da lui questi numeri e incontrato Neta, accettavo il suo piano. Sapevo che una persona come Avi Razi non avrebbe esitato a parlare con Yael nel caso l’avessi deluso. Infatti non so molto di lui, nemmeno il suo indirizzo di casa. Mi ha raccontato che dirige un supermercato a Yavne, ma non ho mai controllato se questa sia veramente la sua occupazione. Era logico sospettare di Avi Razi, aveva qualcosa di subdolo. «Tu di me sai molte cose: dove abito, dove lavoro, il nome di mia moglie, e anche cosa ho fatto quel giorno». «Hai fatto quello che volevi fare, io ti ho solo aperto la porta, e tu sei fuggito via».

«E adesso, adesso che fai?» gli rinfacciai con rabbia. Lui non perse la calma e rispose come chi si era preparato alla domanda: adesso vuoi incontrare Neta e ti ho aperto la porta a Neta. A me serve un aiuto, a te serve un altro aiuto. Sei libero di scegliere, Itai, non sei costretto ad accettare quello che ti propongo. Hai due possibilità: entrare oppure rimanere fuori. Mi chiese una decisione rapida. Accettai la sfida. «Se devo incontrare Ayalà, forse è meglio che prima veda una sua foto, ce l’hai?» «No, non ho una sua foto», rispose nervoso, «dopo che se ne è andata ho ritagliato tutte le sue foto dal nostro album, le foto dove è da sola le ho tagliate in mille pezzi e le ho buttate nelle immondizie. E in quelle dove siamo insieme, per esempio al matrimonio», la sua rabbia stava crescendo e sembrava stesse per scoppiare, «ho tagliato via solo la sua parte». «Come faccio a riconoscerla se non so com’è fatta? Cerca di trovare qualcosa, meglio ancora del periodo in cui ancora non la conoscevi, per esempio una foto di fine anno al liceo, o una foto tessera. Anche se è cambiata, ingrassata o dimagrita, una foto così potrà aiutarmi». Sembrava teso, mi resi conto che almeno in quell’incontro sarebbe stato meglio controllare la mia curiosità e non chiedere di vedere una foto anche del bambino. E comunque la foto di un bambino di un anno non mi avrebbe aiutato a fare la guardia in un albergo a un tredicenne. E tuttavia, pensavo, se voglio convincerlo che faccio parte del suo piano, deve vedere che ho cura di ogni dettaglio. «Avi, credo che sia meglio per me incontrare Ayalà prima del Bar Mitzvah. Non voglio che proprio nel giorno in cui porterò Noam in albergo a Nazareth mi veda per la prima volta. Una donna si accorge del comportamento sospettoso di un uomo che non conosce, sente che i suoi occhi scrutano il suo volto», ho ripetuto alle sue orecchie delle frasi sentite una volta in un giallo, «ma è meno allarmata con un uomo che già conosce». Razi pensava sicuramente che stessi complicando le cose senza alcun bisogno, ma ero la sua unica speranza. Mi sentivo spinto dal desiderio di tormentarlo un po’, così si sarebbe ricordato dei nostri incontri recenti allo stesso modo in cui io ricordavo le ore pomeridiane in cui vidi Neta l’ultima volta, prima che l’addetto alla disciplina mi chiudesse la porta in faccia, mentre lui e i suoi collaboratori

rimanevano con lei dentro. Questi momenti irrompevano proprio nei luoghi dove sembrava ci fosse una quiete reale. Ricordo come sull’isola di Patmos fosse sufficiente lo sbattere di una vecchia porta per far riaffiorare i ricordi di Hatzor e rovinare la mia pace. Yael notò la malinconia che mi aveva pervaso. È successo dopo che eravamo distesi nell’acqua bassa vicino alla riva, incuranti degli sguardi inquisitori dei turisti che stavano nelle barche a poca distanza da noi e tentavano di seguire i movimenti agitati della coppia indifferente alla loro presenza. Anche ciò che Razi aveva fatto alla base di Hatzor cominciava a depositarsi dentro di me. Se incontrerò Neta potrò aprire la porta, ma questa volta sarà Razi a rimanere fuori, non io. Sì, ufficiale Avi, io collaborerò con te in questa faccenda, ma prima farò un breve giro nella tua vita. Arriverò all’edificio dove abiti, parlerò con i vicini, mi recherò in visita a sorpresa nel tuo supermercato, scoprirò con esattezza perché Ayalà è scappata da te e che cosa veramente accende in te questa strana voglia di vendetta. Se devo invischiarmi con la legge, meglio farlo ad occhi aperti e mente lucida. Non dissi nulla di tutto ciò. «Faremo un o alla volta», promisi in tono tranquillo, «la festa di Bar Mitzvah è ancora abbastanza lontana, no?» 6 Alcuni giorni dopo Neta apportò una piccola variante al suo piano. Sarebbe arrivata con la macchina al cancello, indossando solamente la camicia della divisa e il costume da bagno. Sulla testa, ovviamente, il basco come il regolamento richiedeva. Fu deciso che avrei guidato io la macchina. Volle fare a tutti i costi “le prove della grande fuga”. Il mio ruolo era guidare la macchina dell’ufficiale Benny Dremer, comandante dell’ufficio riservisti, e prenderla alla piscina, nella zona residenziale della base. Era l‘inizio dell’estate, lei uscì e guardò velocemente a destra e a sinistra per essere sicura che nessuno avesse notato che le sue gambe erano nude. Attraversò i pochi metri che la separavano dalla macchina ferma ad aspettarla, ci entrò e disse di avviarci verso il cancello della base, dove c’era un gran via vai di soldati e di macchine, civili e militari. Erano quasi le diciassette, fece un cenno di saluto con la mano all’addetta della disciplina e ai sottoposti, vestita solo con il costume da bagno e

la camicia della divisa, chiusa fino all’ultimo bottone, i capelli raccolti con cura sotto un basco impeccabile. I miei giorni all’ufficio furono di una noia sfiancante e mi costava grande sforzo svolgere la mia mansione, apportare con diligenza e in calligrafia leggibile ogni singola generalità dei riservisti. Le due capoufficio mi trattavano con comprensione e anche un po’ di comione, come se avessero avuto a che fare con un handicappato affidato alle loro cure. Neta dalla lunga treccia era la mia occasione per dare una svolta a quella ottusa quotidianità. Venne scelto il giovedì come giorno della “grande fuga”. Sabato sarei dovuto rimanere alla base, mentre Neta aveva il permesso di uscire e tornarsene a casa. Benny, il comandante dell’ufficio, seguiva con un mezzo sorriso il fiorire dell’amore fra l’impiegata dell’infermeria e quello dell’ufficio riservisti. «Siete due giovani particolari», mi disse con una sincerità e una simpatia che mi sorpresero. «Nell’esercito state come due turisti in un paese straniero. Lei in infermeria sembra un’orchidea in un campo di cipolle» disse, «quando ti avvicini noti la differenza». Benny era magro, baffi sottili e occhiali da ingegnere nucleare sovietico. Sapeva cogliere i dettagli. «E io, come ti sembro?» gli chiesi. Lui mi guardò e senza molto esitare rispose: «Quando sei arrivato, ho promesso a Jafa, la psicologa della base, che per il periodo che avresti prestato servizio da me non ti avrei fatto arrivare al carcere». Per un attimo si fermò, forse pentito della sua franchezza, poi riprese. «Puoi prendere la mia macchina e portare la tua orchidea ad Ashdod, ma non cercare guai, soldato Itai, e non rovinarmi la macchina». Speravo che nel momento in cui avessi riportato Neta a casa dei suoi, avremmo potuto rubare un’ora o due nella sua stanza da adolescente. Poi avrei restituito la macchina a Benny e trascorso il mio turno di sabato disteso sulla branda di ferro negli alloggi dei soldati semplici. Neta fece segno di avvicinarmi proprio all’entrata dell’infermeria ed entrò nella macchina ancora più velocemente che durante le prove. Quando si sedette accanto a me e alzò l’orlo della camicia per farmi vedere il suo microscopico costume da bagno, lo sguardo mi cadde su alcuni peli che ne uscivano e mi sentii in imbarazzo. Neta aveva notato il mio sguardo indiscreto e mi diede un colpetto sulla mano che impugnava la leva del cambio. «Vai, vai, Steve McQueen dei miei stivali, preparati a comprare i biglietti, perché la prossima settimana, quando sarai in libera uscita, mi dovrai portare al concerto a Ehal HaTarbut». Guidai quasi a o d’uomo verso il

cancello e la mia ansia la innervosì. «Dai gas, Itai, perché così ci fermeranno molto prima dell’uscita, tu guidi come uno a cui hanno appena assassinato la nonna». Non mi piaceva la tensione che all’improvviso si era creata in macchina. «Neta, forse è meglio lasciar perdere», dissi, pentendomene ancor prima di finire la frase. «Se hai paura», ribatté, «puoi tornare all’ufficio di Benny, il tuo amico, non mancano alla base tecnici o anche ufficiali che lo faranno per me, devo solo chiederglielo. Ti posso assicurare che lo faranno senza prove, senza dover essere tranquillizzati e con tante promesse». Sapevo che era troppo tardi per abbandonarla, per lasciarla vittima del suo piano. Ci avvicinammo al cancello, accanto stavano due soldati che ci conoscevano. Uno di loro cominciò ad aprire il cancello con una lentezza esagerata, almeno così pareva a me, e io avanzavo con finta tranquillità, un po’ accelerando un po’ rallentando, cercando di comportarmi come un soldato qualsiasi che va a casa per il fine settimana. Neta mi sorrideva e mi sussurrava allegra, “puoi preparare i biglietti, Steve McQueen, e avvisare i tuoi genitori che la tua ragazza verrà a dormire da te”. Non sorrisi affatto, con la coda dell’occhio vedevo che due degli addetti alla disciplina stavano segnalando di non aprirci il cancello. «Non sei di turno, tu?» chiesero le due sentinelle del cancello. «Sono di turno», risposi, «sto solo accompagnando ad Ashdod l’impiegata dell’infermeria. L‘ufficiale Benny mi ha dato il permesso, e anche la macchina». Ho visto l’addetto alla disciplina Arie Rachamim, era uscito dal suo ufficio e ci stava guardando, con un cenno della testa ordinò agli addetti della disciplina di avvicinarsi alla nostra macchina, e diede un preciso ordine: «Controllate se va tutto bene con quei due, il basco, la divisa, la piastrina e i permessi». Troppo zelo, pensai spaventato. Neta era pallidissima, avvicinò la sua gamba alla mia e i suoi occhi sembravano quelli di una gazzella spaventata. «Forse possiamo scappare verso gli agrumeti del kibbutz», disse inventando una disperata via di fuga, ma senza scampo. Quelli aprirono la sua portiera e la tirarono fuori come una latitante nella kasbah di Nablus. La sollevarono uno per parte, le sue gambe scalciavano nell’aria. Rimasi paralizzato nella macchina e prima di poter riuscire a tirarmene fuori, Neta era già dietro la porta chiusa dell’ufficio di Arie Rachamim. I soldati che stavano al cancello guardavano verso i lontani agrumeti. Corsi verso l’ufficio e udii delle risate beffarde da dietro la porta.

Neta, Neta! esclamai, e lei rispose gridando, vai subito a chiamare chi puoi, la psicologa, l’ufficialessa delle donne, il medico dell’infermeria, mi fanno paura. Cercò di aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Cominciai a battere con i pugni e la porta si aprì, il responsabile mi stava davanti, vai via o ti metto subito in cella. Lo spinsi e lui rispose urlando: «Soldato semplice Itai, osi spingere l’addetto alla disciplina della base? Ti sbatterò nel carcere militare dove non spingerai proprio nessuno e ti inculeranno loro come si deve». Vidi il ciccio scagnozzo del responsabile della disciplina tenere in mano una lunga antenna, di quelle estraibili con cui si indicano i target sulle mappe, e con quella le toccava le tette. Lei cercava di evitare l’antenna, di farla cadere dalle mani. La voce del responsabile mi costringeva a una decisione veloce. «Allontanati da qua, chiuditi nella tua stanza e non sognarti di fare nessuna denuncia, né ora né mai. Nessuna carta scritta da te uscirà da questa base. Tutto a dalle mie mani o dalle mani di Avi Razi. Ricordati, è la tua parola contro la mia, e noi abbiamo il costume da bagno che le sentinelle del cancello hanno visto, e se a loro serviranno degli occhiali, io glieli procurerò, non importa di quante diottrie avranno bisogno». Si girò e sbarrò l’entrata con le braccia. Così non si comporta una soldatessa, così si comporta una mignotta, le urlò perché io sentissi ogni parola, poi si girò e mi sbatté la porta in faccia, chiudendola a chiave. Ammetto che non avevo il coraggio di lanciarmi di nuovo contro la porta chiusa. Ero disperato. Sapevo che nel caso fossi stato rinviato a giudizio i due soldati del cancello avrebbero detto tutto quello che lui ordinava di dire, conoscono bene le regole non scritte in alcun codice militare, l’edificio del responsabile disciplinare è troppo vicino all’uscita, lì un minuto prima di andare a casa possono accadere tante brutte cose, un esposto disciplinare seguirà un altro, uno per un bottone mancante nella divisa, un altro per i gradi mal cuciti, il basco calcato sulla testa senza la dovuta cura, la piastrina non in vista come si deve. Erano le 17.20, mi ricordai che la macchina di Benny era ancora di intralcio vicino al cancello, tutto era successo così in fretta. Se il responsabile alla disciplina uscirà e troverà la macchina con le chiavi dentro, rischio di essere accusato per abbandono di proprietà dell’esercito. Tornai verso la macchina. Feci un respiro profondo cercando di calmarmi. Non sentii nessun grido provenire dalla stanza chiusa. Non la sua e non le loro voci. Misi in moto avanzando lentamente verso l’ufficio riservisti. L’ufficiale Benny non c’era. Mi sedetti al mio tavolo coprendomi il viso con le mani, piansi di rabbia e impotenza. Lei è intrappolata lì dentro e l’unica cosa che riesco a fare è versare lacrime pensando alla sua sofferenza e alla mia vigliaccheria. ò mezz’ora, sentii che qualcuno aveva aperto la porta. L’ufficiale Avi Razi stava

sulla soglia, teneva in mano dei documenti. Mi chiese: «Sei deluso che sono venuto io a trovarti? Pensavi fosse la tua principessa, senza mutande e reggiseno, venuta a baciarti?». Non risposi. Non avevo la forza di parlare. In realtà mi sentivo sollevato di vedere Avi Razi, temevo che chi avesse aperto la porta fosse Arie Rachamim, che sicuramente aspettava di fuori, pensavo quasi con terrore, fino a quando l’ ufficiale Avi Razi non avrà sistemato le cose con me. «Sai cosa tengo nelle mie mani?» chiese Razi. «Cosa?» domandai in tono servile. «Ti posso leggere tutti i dettagli, se ti interessano», rispose. «Una denuncia contro Neta? Sai, se la rinviate a giudizio io posso testimoniare in suo favore». Ero confuso. La mia volontà sembrava stupida anche a me stesso. Non avevo bisogno del suo largo sorriso. «No, no, la denuncia è contro di te, sei tu che rinvieremo a giudizio, della soldatessa Neta se ne stanno prendendo cura altri, proprio in questo momento, il responsabile e i suoi aiutanti la conoscono dai tempi in cui lei frequentava gli Scout». «Soldato semplice Itai» cominciò a leggermi con una voce seria e canzonatoria allo stesso tempo, «matricola numero 3311243». Non voglio sentire queste parole, pensai. Meglio chiamare l’ufficiale Benny o la psicologa della base e chiederle di mandarmi dallo psichiatra dell’aviazione, così metterò fine a questo incubo. Ricordo ogni parola del testo assurdo che mi declamava. «Il soldato Itai Zer ha istigato una soldatessa a un comportamento osceno. Egli ha incoraggiato la soldatessa Neta Barkai a recarsi al cancello della base vestita solo in costume da bagno e camicia della divisa. La soldatessa ha testimoniato che il soldato Zer l’ha convinta a commettere questo oltraggio per cercare di umiliare il responsabile alla disciplina e i suoi sottoposti. Dopo essere stato scoperto, il soldato semplice Zer ha battuto i pugni sulla porta dell’ufficio e ha aggredito il responsabile Rachamin, tentando di forzare la porta e invadere la stanza per sabotare la prima verifica a cui è stata sottoposta la soldatessa, come di dovere». Avi Razi finì la lettura e accese la luce dell’ufficio riservisti. «Ascolta bene ciò che ti offro», mi guardò e non riuscivo a capire il senso di quello sguardo. «Prima di tutto, stai in piedi quando ti parlo. Tu starai in piedi quando io starò in piedi e anche quando starò seduto, mi hai capito?» «Sì, ho capito perfettamente». Mi sono alzato in piedi e mi sono messo di fronte a lui. «Una denuncia del genere ti può far marcire in carcere per almeno tre mesi, e la tua principessa dell’infermeria non se la caverà con meno di sei. Capisci

quello che ti dico?» Capisco, certo che capisco, pensai. Tre mesi e sei mesi, ma non ho niente da dire, solo l’urgenza di scappare da questa squallida stanza, da questa base desolata, e cancellare dal cervello l’immagine di Neta nelle mani del responsabile della disciplina. Razi aveva un piano preciso che mi espose in dettaglio, senza tregua. Questo pomeriggio può accompagnarmi per tanti anni, complicarmi molto la vita anche dopo l’esercito, disse il tenente Razi come se leggesse i miei pensieri. Ma lui può strappare questa denuncia se io accetterò questo accordo: andare adesso, immediatamente, in “ferie”, sparire per una settimana e lasciare lui a sistemare le cose come si deve. Parlerà con Benny, il mio comandante, spiegherà cos’è successo. Parlerà anche con Jafa, la psicologa della base, e tra una settimana io sarò alla base di Sde-Dov per una nuova collocazione. «E lei?» chiesi, e nella mia voce si mischiarono amore e preoccupazione. «Tu con lei non parlerai e non collaborerai. Io conosco bene Neta, non è debole come pare. Lei ci pianterà un gran casino qui, ma avrà la nostra versione contro». “Nostra”, con una sola parola ha reso anche me complice di questo abuso dal quale sono appena scappato. «Nostra, cioè mia e dell’addetto alla disciplina. Non ti preoccupare, non abbiamo bisogno di te per rendere più forte la nostra versione, tu devi solo tacere e lasciarla da sola con la sua versione. Sai, Itai, lei ha chiamato gli addetti alla disciplina “gran puttane”, e l’ha fatto più di una volta. Neta si è permessa di dire al medico della nostra base che loro dovevano andare dal veterinario, e non venire in infermeria». Mi sforzai di non ridere e questo fece arrabbiare Avi Razi ancora di più. Lui voleva mettere ben in evidenza quanto grande fosse stata l’offesa. «Chi parla in questo modo, caro soldato semplice», disse con espressione greve, «deve contare fino a dieci prima di spogliarsi e galoppare con il fidanzato verso il cancello della base. Questo è un posto di tutto rispetto, non un circo, qui ci sono cacciabombardieri, persone che rischiano la vita, non si può far vedere le tette e dare a qualcuno dell’orangotango!»

Ero esausto, ma volevo assicurarmi la sua comione. «Ma che fine farà lei? È solo una ragazza, perché non farla uscire da quella stanza? La convincerò a non fare nessun casino, le spiegherò che è stato solo un equivoco». «Itai, ma ti metti a discutere con me? Nei guai in cui ti trovi, non puoi permetterti tante discussioni. Non devi dimenticarti che pure tu, per colpa sua, ti sei inguaiato, e non poco. Non se ne parla nemmeno. Lei rimarrà lì tutta la notte, loro non le faranno niente di tremendo, ma certamente la spaventeranno come si deve, questo sì, ti posso assicurare che Neta tremerà di paura ogni volta che si avvicinerà al cancello della base. E dal momento stesso in cui uscirà da questo interrogatorio si vestirà sempre per bene, fino al giorno del suo congedo. Nemmeno un bottone aperto della camicetta si vedrà più». La rabbia per l’impotenza alla quale mi aveva costretto, aumentava. Minacciarlo, questa era l’unica cosa che mi era rimasta da fare. «Io starò in carcere al massimo sei mesi, ma dopo andrò dallo psichiatra militare, responsabile per l’aviazione, e mi farò dare un certificato di incompatibilità con il servizio militare. A quel punto, da cittadino, non da soldato, tu, caro comandante, non potrai fermare la mia denuncia alla polizia». «Mi stai minacciando? Ma sei completamente impazzito? Tu minacci un ufficiale?» Mi sembrava preoccupato. «No, sto solo pensando ad alta voce. Se per esempio loro la stanno violentando, proprio adesso mentre noi parliamo, o se solo le mettono le mani addosso, le pizzicano i capezzoli, basta solo questo perché ognuno di loro i in carcere non tre mesi, ma tre anni. Lei comandante ha capito il mio ragionamento?» «Non esagerare, ti posso promettere che non la tratteranno tanto male, la toccheranno appena un po’, nemmeno con le mani ma con la bacchetta dei briefing, e guardare le gambe di una che gira in una base militare in costume da bagno, non è certo un reato. Quello a cui la sottopongono è un progetto educativo, non uno stupro. Non devi dimenticare che si tratta della vostra parola contro quella di tutti quanti noi, pronti a dire che lei è arrivata praticamente nuda al cancello della base, e questo per tua iniziativa, non certo nostra. Ogni giudice

lo capirà, non credi?». Non sapevo se la mia minaccia avesse funzionato, ma il volto di Avi Razi non era più così minaccioso come quando era entrato nell’ufficio. «Per favore dammi mezz’ora, un’ora per decidere», volli guadagnare tempo. «Prenditi un’ora e mezzo», sentii rispondere, e ne fui sorpreso, «ma mi raccomando, Itai» disse sventolandomi i fogli dell’esposto, «fino a quando non ti deciderai, non parlare con nessuno di quello che è successo oggi. Nemmeno con Benny, il tuo comandante. Lascia a me il compito di aggiornarlo e non disertare. Sarà una mossa stupida da parte tua. Nella cella della base abbiamo dei soldati che aspettano di essere trasferiti al carcere militare e per non arrivarci sarebbero disposti a testimoniare ogni cosa che gli diremo, vedere quello che noi gli chiediamo di vedere. Se tu ti preoccupi anche della tua sorte, e non solo della tua principessa di Ashdod, è meglio che tu ci rifletta ben bene sulla mia proposta. Nel frattempo ti lascio qui sul tavolo un permesso di uscita». Rimasi da solo, il mio cervello era vuoto come una pellicola in una macchina fotografica rotta. Guardavo il permesso come fosse una macchia sul tavolo, poi andavo su e giù per la stanza. Una profonda stanchezza appesantiva il mio corpo. Quanto ero meschino in quel momento. Lasciai una nota sul tavolo. “Ho preso il permesso, fra una settimana mi presenterò alla base di Sde Dov”, senza una firma, senza nome né grado. La nota remissiva di un complice. Non volevo nemmeno aspettare il suo ritorno, temevo mi avrebbe proposto un aggio fino all’incrocio di Hatzor, e solo il pensiero che Neta avrebbe potuto vedermi in macchina con lui, mi sconvolgeva. Ti ho abbandonata, ti ho abbandonata, così mi ripetevo lungo tutta la camminata fino all’incrocio, una lunga camminata di due ore, intorno solo buio pesto, interrotto ogni tanto da qualche macchina. Ed ecco che adesso, a distanza di vent’anni, mi si presentava la possibilità di emendare l’errore commesso da un cuore vigliacco e di ascoltare la versione di Neta. Non l’ho vista più da quel giorno, nonostante la settimana dopo la mia fuga feci alcuni tentativi incerti per parlarle al telefono, proprio negli stessi giorni in cui aspettavo la mia nuova collocazione, come prevedeva il piano di Avi Razi. Era un piano vero e proprio, organizzato alla perfezione. L’impiegata della base di Sde Dov mi fece subito incontrare l’ufficiale responsabile per le risorse

umane. Aveva in mano la mia cartellina, quando disse: «Abbiamo deciso di mandarla alla rivista mensile dell’aviazione, sono certo che non sarà contrario», nelle sue parole un tono di finta attenzione. Era chiaro che aveva letto bene la mia cartellina. La mia ingenua richiesta, quella espressa ancor prima di arruolarmi, aveva trovato la sua tardiva risposta. «Cosa farò nel mensile dell’aviazione, se anche come magazziniere tecnico non mi hanno voluto?» Volevo mostrarmi sprovveduto e preoccupato. «Fotocopierai documenti» fu la sua risposta, «tu sei un soldato tuttofare, così hanno deciso alla base di Hatzor, e nella nostra rivista c’è bisogno di chi sa fare un po’ tutto. Fotocopiare può essere per te un ottimo inizio, come ti sembra questa nuova collocazione?» «Mi sembra molto buona» risposi, e mi tornò in mente quella soldatessa arrogante a cui avevo confessato la mia epilessia. Arrivai agli uffici della rivista come una persona spedita in Siberia a scontare la sua pena. Ero allo stesso tempo accusatore e accusato, e sebbene non sapessi nulla di quello che era accaduto in quella stanza chiusa, ero convinto di dover espiare il mio peccato fotocopiando decine di migliaia di pagine in una stanza angusta, coperta da un tettuccio di amianto, nel caldo torrido dell’estate e nel freddo pungente dell’inverno, con l’aria tipica di un ambiente chiuso, aria impregnata di odore di toner, tutti i giorni così, stavo con la divisa e il basco a fotocopiare per ore, sessanta minuti per ogni secondo che l’avevo abbandonata. Decisi tra me e me, questo avrei fatto nei sedici mesi che rimanevano alla fine della leva, e se un giorno l’avessi incontrata, o l’avessi vista sulle scale mobili di un centro commerciale o all’aeroporto, le avrei raccontato tutte le ore ate in una piccola stanza, lei avrebbe capito che avevo espiato il mio peccato e mi avrebbe perdonato. Pensieri futili riempivano la mia testa facendomi dimenticare che un semplice tentativo per conoscere la sorte di Neta mi avrebbe portato all’entrata di casa sua, se la porta fosse stata chiusa avrei dovuto aspettarla fuori fino al suo ritorno, chiederle scusa, supplicarla di parlarmi e chiudere una faccenda squallida senza farmi ossessionare per così tanti anni. Giorno dopo giorno mi presentavo calmo e indifferente davanti ai giornalisti del

mensile, prendevo le pagine da fotocopiare, svolgevo con aria seria il mio lavoro. Non ho mai sorriso a nessuno di loro, intuivo che si chiedevano il motivo di quel comportamento remissivo e distaccato – non potevo certo raccontare del castigo che mi ero imposto, sapevo bene che un impiegato semplice, forse un po’ romantico, non avrebbe intenerito il loro cuore. Aharon, il comandante del mensile, si rivolse a me dopo due mesi dal mio arrivo in redazione. «Soldato semplice Itai», mi disse, «non vuoi essere promosso? Avanzare di grado? Non vorresti scrivere un breve contributo, di carattere tecnico, che completeremo con dettagli, tipo: informazione sull’autonomia di volo, velocità, potenza di fuoco, paese produttore, costi. Non è proprio un servizio, e non potremo mettere il tuo nome, ma può essere comunque un inizio, e sarebbe sempre meglio che continuare a fotocopiare pagine tutto il giorno, no?». Ero incerto se rispondere subito, ma poi mi ripresi, lo fissai, la mia divisa era stirata alla perfezione, il basco fissato sulla testa. «Amo fotocopiare documenti». Mi guardò sorpreso, e dal quel giorno, fino al mio ultimo, non mi propose più nulla. Ma adesso, ati quasi vent’anni, sono curioso di sapere che cosa spinga Avi Razi a tornare sulla faccenda mia e di Neta. Non è certo per puro caso che abbia scelto proprio me per il suo piano contorto. Che cosa, nella nostra semplice storia d’amore, l’ha attirato così tanto? Lui ha bisogno del mio aiuto, io supplico il perdono di Neta, e aspetto un suo appuntamento in qualunque posto, che sia Kfar Saba, Ramat HaSharon o Rosh Hanicrà. Collaborerò per il suo piano. Lui ha già i numeri di telefono, ma io ho bisogno di qualche cosa in più. Avi Razi non ha ancora finito di dare il suo contributo per l’incontro con Neta. Non confessai a Yael questa piccola macchia del mio ato e non dissi la verità nemmeno a Deganit, che la mattina del matrimonio mi chiese se avessi “sgombrato il campo”. All’inizio non sapevo di quale campo parlasse, ma lo ripeté, chiedendo senza mezzi termini se Yael sapeva dell’esistenza di Neta nella mia vita. «Non c’è bisogno di entrare nei dettagli», mi aveva assicurato Deganit, «basta che sgombri il vostro rapporto da questa storia. Alla fine cose del genere si scoprono», profetizzò sorprendendomi, «la loro forza cresce negli anni». La guardai come chi parla con la voce di un’altra persona, ciò nonostante non trovai il coraggio di parlarne con Yael. Forse adesso che Tami ha quasi un anno, cerco di convincermi, le sarà più facile accettare quell’abbandono. 7

Arrivai al supermercato, che si trovava in centro città a Yavne, senza alcun preavviso. All’inizio rimasi a osservarlo, evitando che se ne accorgesse. Stava seduto nell’ufficio del direttore, ogni tanto si alzava, usciva a parlare con qualche cliente, o aiutava una cassiera che si era bloccata con un codice a barre. Sembrava calmo e bendisposto, molto diverso da com’era nei nostri incontri. Dopo dieci minuti che vagavo con un carrello vuoto, decisi di sorprenderlo nel suo ufficio. E ne fu veramente sorpreso. «Così non si comporta un soldato con il comandante», cercò di scherzare, «irrompere nel suo territorio senza avvertire». «Io non sono più un soldato e tu non sei mai stato veramente il mio comandante» gli risposi. Mi innervosiva quell’ossessivo bisogno di riportarci a quei giorni lontani, come se inchiodarci ad Hatzor gli rendesse più facile ottenere la mia complicità. «Volevo approfondire la nostra conoscenza», chiarii, «vedere con i miei occhi dove e come procede la tua vita. Se vuoi, dopo la chiusura possiamo andare a casa tua, ci beviamo un caffè, mi fai vedere il tuo appartamento e pianifichiamo le nostre mosse future». Sottolineai volutamente la parola “nostre”, volevo che suonasse come una promessa. «Posso uscire da qui fra un quarto d’ora, non devo fare la chiusura. Ho una vice, ci sarà lei al mio posto». Era entusiasta, sapevo di aver scelto le parole giuste per mascherare il vero scopo della mia visita improvvisa. Lo seguii in macchina fino alla sua abitazione, un normale appartamento di tre stanze. Il salotto era in ordine, le porte delle altre stanze chiuse. Non mi offrì del tè o del caffè, ma subito fece cenno di avvicinarmi alla porta di una delle stanze. Tirò fuori un mazzo di chiavi, cercò e trovò quella giusta e con movimenti agitati aprì la porta. Era tutto buio, anche le imposte erano chiuse. Non vedevo nulla. Razi accese la luce e potei distinguere delle pile alte e polverose di settimanali femminili. Guardai lui, poi le pile, e sorrisi con imbarazzo. Dopo una breve pausa disse: «Non è quello che pensi, non aspettarti di trovare parrucche bionde o gonne qui dentro, se questa è la ragione del tuo sorriso». «Non penso niente», lo rassicurai. «Ti ho visto a Hatzor, quando eravamo nell’esercito, ti ho visto un’ora fa al supermercato, e se qualcuno mi avesse mai

chiesto se è plausibile che tu sia un lettore di settimanali femminili, avrei risposto con sicurezza che non c’era alcuna possibilità che li leggessi, nemmeno aspettando dal dentista». Mi avvicinai e ne presi in mano uno. Sulla copertina era scritto a caratteri cubitali: “La giovane modella rivela in esclusiva: senza la mia estetista sembro proprio Saddam Hussein”. Lessi queste parole ad alta voce, pensando che lo avrebbero fatto ridere, ma lui mi guardò con una malinconia che in quel momento mi intenerì, sembrava stesse per piangere. «Avi, se per te è difficile, usciamo subito dalla stanza», proposi, e feci per andare verso la porta, ma lui ignorò la mia premura e senza preamboli cominciò a parlare, come se tutti i pensieri mirassero in un’unica direzione: «Quando Ayalà mi ha lasciato ero davvero disperato. Anche se è un fatto che accade spesso, che una donna sposata tradisca il marito con un altro uomo, ho proprio sofferto di non riuscire a trovare una spiegazione a quello che lei aveva fatto al bambino e a me. Mi sfinivo di lavoro, dodici ore al giorno, nel mio ufficio alla base di Hatzor, ma era inutile. Arrivavo a casa, mi sedevo da solo in salotto, avevo sempre davanti agli occhi il viso di Noam un istante prima che lei lo sollevasse dal pavimento, lo abbracciasse ed uscisse verso la macchina che l’aspettava fuori. Respiravo affannosamente, volevo capire perché proprio a me, fra tutte le persone al mondo, fosse capitata una disgrazia del genere, essere padre di un figlio che cresce in un altro posto, con una persona che non conosco. Un uomo sconosciuto, mi ripetevo, come per tormentarmi, un uomo sconosciuto si impadronisce senza remore della vita del mio bambino. Questa cosa mi faceva impazzire. Sicuramente Noam già pensa che quello là, non io, sia suo padre. Vai tu a sapere cosa questi due vanno a raccontare al bambino, mi sono detto, che mostro mi fanno diventare sera dopo sera, dopo il latte caldo e prima della nanna. Ogni giorno una storiella su Avi il cattivo, e piano piano il rancore si accumula. a un anno, ne a un altro, e per Noam io sarò l’uomo malvagio delle storielle di Ayalà e di quello che la scopa, l’uomo che la mamma ha abbandonato come si abbandona un lebbroso. Me ne stavo da solo in casa per ore, qualche volta andavo da Yavne a Tel Aviv e tornavo, e i pensieri fluivano liberi su questo torto. Sai quante ore questo uomo a con Noam? È lui che si sveglia ogni mattina nella casa dove vive il mio unico figlio, e gli può riempire la testa di tutto quello che vuole. Non ha alcun bisogno del permesso di Ayalà. Il cervello di un bambino di uno, due, tre anni è come la plastilina, puoi plasmarlo con facilità, addirittura educarlo a odiare suo padre. E contro non c’è nessuna legge, né giudice che condanni chi si comporta così. Perché, in fin dei conti, che cosa vede

chi guarda la scena da fuori? Vede un uomo seduto su un tappeto, davanti a lui un bambino piccolo, attorno a loro giocattoli rossi, arancioni, verdi, uno che gli racconta delle storie su un altro uomo in divisa, che non viene mai a trovarlo, nemmeno per le feste, e il bambino ascolta, beve ogni parola. Sai quante volte me lo sono immaginato?» C’era qualcosa di fastidioso nel tono della sua voce, un qualcosa che non riuscivo a definire. «Ma tutto quello che mi stai raccontando, come si collega alle centinaia di settimanali e mensili che vedo?» – volevo riportare il discorso su una strada più ragionevole. «Ecco, ecco, ci stavo proprio arrivando», mi rassicurò, «si collega eccome! In tutte queste riviste, puoi controllarle tu stesso, pagina dopo pagina, e qui ce ne sono almeno duecentocinquanta, non troverai niente che racconti di un’altra donna che ha fatto a suo marito quello che lei ha fatto a me. Ti stupirai, forse, ma io ho controllato tutte le lettere al direttore, tutte le domande allo psicologo, o al sessuologo, tutti i servizi, e non ho trovato una storia simile alla mia. Ero sicuro di trovare decine di casi come questi, e poter così comprendere come lei pensava, come agiva, quali piani avesse per quando Noam sarebbe diventato grande. Non ho trovato niente, e qui non mancano anche le storie più strane», disse Razi, indicando le pile di riviste. «Non ho fatto vedere a molti questa stanza. Tu sei il secondo. Una volta ci ho fatto entrare mio fratello più grande, così che prima che cominciasse a criticare tutto quello che faccio con il bambino e con Ayalà, potesse vedere come sono caduto in basso. Non ho buttato via nessun settimanale, nemmeno uno, conservo queste pagine come testimoni muti dell’indifferenza del mondo per casi come il mio». «Ma dimmi, come li ricevi? Ti sei abbonato a nome suo?» La mia battuta voleva alleggerire il disagio che provavo stando in sua compagnia. Non riuscivo a trovare una reazione migliore, ma Razi non aveva nessuna voglia di scherzarci su, e rispose tutto serio: «Non è per niente facile. Un ufficiale dell’aviazione può comprare un settimanale femminile una volta o due, e la gente pensa che sia per sua moglie, la suocera o la sorella. Ma qui, a Yavne, tutti sapevano che Ayalà era sparita dalla mia vita, c’erano addirittura persone che la conoscevano da quando era soldatessa alla base. E io, per evitare pettegolezzi e malelingue, avevo deciso di non comprare i giornali in zona, mi sono guardato bene dall’andare due volte

dallo stesso edicolante. Sai com’è nei piccoli centri, tutti ricordano tutto. E poi, un ufficiale che compra sistematicamente roba da donne, non è una cosa che si dimentichi. Vai tu a sapere se l’edicolante, con la sua faccia ingenua, non ha un cugino, uno zio che fa il militare nella base qui vicina, e dopo due, tre volte che compri da lui queste riviste, tutto il mondo parla già di te. Perciò andavo volutamente ad Ashkelon, ad Ashdod, delle volte mi allontanavo fino a Netivot, non lontano dalla Striscia di Gaza». Quello che lei aveva fatto, pensavo, non giustificava così tanta follia. Decisi di essere franco e di renderlo partecipe dei miei pensieri: «Avi, in tutta franchezza ti devo dire che non capisco il tuo stupore. Se vuoi leggere degli articoli su donne che fanno cose simili, basta che tu apra un qualsiasi supplemento di fine settimana e lì troverai decine di storie matrimoniali che finiscono proprio dopo la nascita del primo figlio, non importa se si tratti di un bimbo o una bimba. Ti posso parlare della mia esperienza. Il primo anno dopo la nascita, succede spesso che i rapporti di coppia si incrinino e che tante notti il marito trovi il bambino che dorme nel letto matrimoniale. È successo anche a me, con mia moglie, nelle ultime settimane. Tami, nostra figlia, dorme fra di noi nelle notti in cui mia moglie mi vuole far capire che non è disposta a fare l’amore. Lo fa per stanchezza, sai, la voglia diminuisce e...» «Ma con Ayalà non è diminuita affatto», obiettò, «anzi, proprio nelle settimane prima che se ne andasse, facevamo l’amore anche quando ero stanco di lei». Non gli credetti, ma volli rassicurarlo comunque. «Forse lei ha un po’ esagerato, ma con tutta la solidarietà che provo per il tuo dolore, e la volontà di aiutarti il giorno del Bar Mitzvah, Ayalà non è la prima donna che va via e porta il figlio con sé». A questo punto continuai con un tono da fratello maggiore, che abbina affetto e qualche saggio ammonimento: «Se veramente vuoi sapere cosa non va nella tua vita, sarebbe meglio rivolgerti a uno psicologo, diciamo per dieci sedute, ti alleggerisci quello che ti pesa sul cuore, chiarisci la tua incapacità ad accettare certe cose e il tuo astio verso di lei». «Itai, che ti devo dire... fai bene a scrivere manuali scientifici per la scuola, e non consigli di vita per ufficiali in carriera. Io, comandante di una base

dell’aviazione, che vado dallo psicologo! Sai quanto poco tempo a prima che il fatto arrivi ai miei superiori? Una persona che copre il ruolo che avevo io, non quello di adesso al supermercato, una persona così deve fare scelte nette: o essere colonnello, oppure andare dallo psicologo perché sua moglie l’ha abbandonato. Comunque lo ammetto, ho cercato aiuto per tirarmi su, proprio un aiuto spirituale. È stato dopo la prima volta che sono andato all’incontro dell’Apud». «Cos’è l’Apud?» mi affrettai a chiedere. Qualcosa nella figura di questo panciuto ufficiale in pensione non combaciava con questa sigla, mi sembrava piuttosto il nome di una truppa scelta. «Associazione per uomini divorziati», rispose in tono serissimo, e si meravigliò che non fossi a conoscenza dell’esistenza dell’associazione. «Cosa si fa negli incontri dell’Apud?» mi sforzai di non sorridere. Prima la stanza con le riviste, poi l’associazione. Quante facce ha il mio noioso ufficiale, pensai. «Ci raduniamo come gruppo di sostegno in un seminterrato vicino alla Borsa di Ramat Gan, discutiamo su vari problemi legati al divorzio, gli alimenti, le nuove compagne, i figli, degli uomini che si innamorano delle nostre ex mogli, delle sedute in tribunale, della lentezza dei processi. È stata una dura esperienza già al primo incontro, stavamo in cerchio e ognuno doveva dire nome e professione. Io non ho detto la verità, cioè non ho detto il grado e il mio ruolo nella base. Uno si è alzato, penso si chiamasse Nadav – ma credo che anche gli altri non dicessero il loro vero nome – un avvocato importante, un grande esperto di questioni ereditarie, che è diventato religioso dopo il trauma che ha subito. Aveva la barba e il Taled sbucava fuori dalla camicia bianca. Lui stesso diceva che aveva subito una grande botta, una botta come non trovi nemmeno nella Bibbia, così aveva detto. Io ascoltavo, ero teso perché proprio in questi termini pensavo alla mia situazione, ed era proprio quello che avrei detto quando fosse arrivato il mio turno per parlare. È accaduto di giovedì. Le confessioni, le “storie orrende” come le chiamavano i divorziati del gruppo, si raccontavano quel giorno, perché l’indomani la maggior parte di noi non lavorava e potevamo rimanere fino a tardi, per cercare di capire dai traumi degli altri cosa succede nella propria vita». Razi catturò la mia curiosità, non riuscivo a trattenermi e domandai: «Qual era la botta tremenda che aveva subito?»

Mi guardò, contento del mio interesse. Per un attimo fra noi ci fu complicità. «Quando ancora era studente di diritto, questo avvocato si era innamorato di una ragazza, Dina si chiamava, faceva la quinta liceo, non più minorenne ma ancora non soldatessa. Dina si era impadronita della sua anima, e forse proprio perché lui la amava così tanto lei non ne voleva sapere. Per anni si è negata, anche da soldatessa, poi quando è diventata studentessa. “Non sei il mio tipo”, gli diceva, “ma sarò contenta se rimaniamo amici”. Lo diceva lentamente, così che lui soffrisse di più, lasciandogli comunque una piccola porta aperta. E lui – anche quando si è sposata – non le dava tregua». Sul volto di Avi Razi si vedeva che anche in quel momento, mentre lo stava raccontando, non era del tutto svanita l’impressione che l’avvocato innamorato gli aveva fatto. «Quando si è sposata, ci confidò, lui pianse per un mese, non sapeva cosa fare, andò dallo psicologo. “Dovete capire”, si rivolse a noi, guardandoci uno per uno. “Io l’amavo senza averla mai accarezzata, anche prima di vedere il suo corpo nudo, e che Dio nei cieli mi perdoni per queste parole, che possono portare me e anche voi verso il peccato”. Parlava proprio così. «Per farla breve, non ha smesso di corteggiarla nemmeno dopo il matrimonio. Lei si era sposata con uno che lavorava al Ministero degli affari esteri, e che mandarono a Cipro. A quel punto anche lui è andato a Limassol, facendo finta fosse per caso, per lo studio. Con il marito di lei si comportava con rispetto, gli sorrideva, gli chiedeva “come stai?” Tutti nel gruppo sapevano che era sincero, nessuno viene all’Apud a raccontare bugie, quelle le lasciamo al tribunale rabbinico o all’ufficio per le entrate». «Andava anche in visita a casa loro e il marito non sospettava nulla?» chiesi per avvisarlo che il mio ascolto non era calato. «Il marito lavorava tutto il giorno all’ambasciata, mentre l’avvocato Nadav stava in albergo, al telefono con lei. Le parlava per ore, voleva convincerla che era ancora giovane, che non avevano figli, che non era una tragedia se divorziava. Eh sì, non aveva ancora un figlio con il diplomatico». Per un po’ Razi smise di raccontare, io annuivo come chi leggesse il suo pensiero.

«Le diceva che era lui l’uomo della sua vita, la supplicava di tornare in Israele insieme. Aveva una casa spaziosa e quando sarebbero arrivati i figli, ognuno avrebbe avuto la sua stanzetta, senza vagare da un paese all’altro come succede con un marito diplomatico. Vivere un anno a Cipro, uno a Bucarest, uno ad Atene o in Nigeria, per non capire più a quale posto si appartiene. Questa non era la vita per una donna come lei, le diceva, una che ama i bambini e non vuole sballottarli da un posto all’altro, come fossero pacchi. Il clima che c’è in Israele non c’è da nessun’altra parte. Lei lo ascoltava, senza promettere niente, ma lui avvertiva che era lusingata di quel suo amore incondizionato, che continuava anche dopo che lei si era sposata. Aveva la sensazione che i suoi tentativi cominciassero ad intenerire il cuore di Dina. A quel punto è arrivato il viaggio a Praga. Erano sposati ormai da due anni e volevano festeggiare – o per meglio dire, lo voleva il marito. Lui le propose di volare a Vienna, incontrarsi con alcuni amici all’ambasciata, mangiare schnitzele strudel e continuare in treno fino a Praga. In treno, così gli aveva raccontato, lei aveva pianto senza tregua. A Praga, come per caso, aveva incontrato la sorella di Nadav, con la quale aveva trascorso alcune ore in un caffè. Sembrava che tutta la famiglia dell’avvocato collaborasse per convincerla. In breve, la ragazza ha ceduto. Tornata da Praga, ha lasciato il marito ed è andata a vivere con l’avvocato, che la trattava come una regina». «Ma dov’è la botta?» chiesi, meravigliandomi di sentire dalla mia voce un che di delusione. «Aspetta, aspetta, questo è solo l’inizio», mi tranquillizzò Avi Razi. «Per cinque, sei anni, il loro matrimonio fu come un grande sorriso. Ti giuro che proprio così ha detto. Stava in piedi con la barba, il Tallit, pallido in volto, i capelli radi, e ha detto “un grande sorriso”. Ma un giorno, dopo la nascita del secondo figlio, lei ha cominciato a spiegargli che aveva bisogno di una pausa di riflessione per ritrovare se stessa. Che forse era meglio se lei e i bambini andavano ad abitare per conto loro un po’ di tempo, solo per un periodo di prova. L’avvocato Nadav era sotto shock e nel suo studio le cose cominciarono ad andare male. Clienti che hanno bisogno di un grande esperto di diritto ereditario non amano certo trovarsi di fronte un avvocato depresso. Sono nervosi, combattono per i soldi, per le case che mamma e papà hanno lasciato, cercano una persona autorevole, che sappia minacciare, prendere decisioni, chiudere trattative. Ma lui era debole e ne perse tanti. A lei non importava nulla, e la sua

volontà di separarsi aumentava. «A quel punto le chiese – l’avvocato ce lo raccontava quasi urlando, dondolandosi come nella preghiera di Kippur in sinagoga, e non in un seminterrato davanti a un gruppo di sostegno – “c’è un altro uomo nella tua vita?” gridava, e lei rispondeva: “un uomo, ma figurati!”, “e allora perché ti vuoi separare?” le aveva chiesto, e lei aveva risposto in modo sibillino che non voleva vivere con lui nella bugia. Le ha comprato dei gioielli costosi, voleva intestare a suo nome metà dello studio, ma non è servito a niente. È andata a vivere con i bambini in un piccolo appartamento in affitto, non lontano, e lui ancora non capiva come e perché la sua vita stava andando a rotoli. Dopo due mesi durante i quali vedeva i bambini due volte a settimana, ha mandato sua sorella a supplicarla di dire la verità, se ci fosse un’altra persona nella sua vita. “Non c’è nessun uomo”, si ostinava a ripetere. Era disperato. Voleva assoldare un detective per seguirla e fotografarla con il suo amante. All’improvviso, dieci giorni dopo l’incontro con la sorella, Dina gli ha telefonato per dargli appuntamento sulla riva dello Yarkon, al parco giochi». Avi Razi fece un respiro profondo, ma riprese subito a raccontare: «A quel punto l’avvocato ha cominciato a parlare velocemente, sembrava che le parole gli bruciassero in bocca. I bambini giocavano nel parco e lui non aveva un minuto di tregua, aveva paura si fero male. Lei, dopo un lungo silenzio, un silenzio di quasi cinque minuti, ha alzato la testa e gli ha detto “non c’è nessun uomo nella mia vita, c’è una donna”. Fu come se un ferro rovente gli si fosse conficcato nell’occhio, così si sentiva. “E tu fai questo davanti ai nostri figli?” ha urlato, e poi se n’è andato via. Per due mesi ha continuato ad avere incubi, non riusciva a dormire per più di un’ ora, fino a quando è arrivato il sogno che lo ha piegato, che lo ha convinto ad abbracciare la fede, un sogno che aveva letto come un segno divino», mi spiegò Avi Razi con voce seria, quasi solenne. «Nel sogno si trovava con Dina sotto il baldacchino nuziale e tutto era come nel loro lussuoso matrimonio, ma al posto delle sette benedizioni tradizionali, il rabbino si era rivolto a lui e gli aveva sussurrato, senza che nessuno potesse sentire: “Non desiderare moglie altrui, non desiderare donna a te non data”. E cominciò a cantare: “Lasciala andare con chi veramente la può amare”. Dopo questo incontro nel seminterrato dell’associazione, ho valutato anch’io se

prendere un detective per pedinare Ayalà e il suo uomo, ma non escludevo di rivolgermi anche a un rabbino. L’avvocato mi ha dato il nome del rabbino che l’ aveva avvicinato alla fede, si chiamava rabbino Fargiun – sui quotidiani lo soprannominano il rabbino “laser”, sono certo che hai già sentito il suo nome – e ho pensato che avevo un grande vantaggio su Nadav, non avevo portato via Ayalà a nessun uomo sposato, il contrario semmai, ed ero certo che questo avrebbe giocato in mio favore presso il rabbino. Ho cominciato ad andare ai suoi raduni, andavo nei posti sacri in Galilea, ho incontrato qualche conoscente dei miei fratelli, senza raccontare perché veramente mi trovassi là. Dicevo che stavo cercando la donna giusta, o che soffrivo di una grave malattia, che Dio ci salvi. Mi era più facile essere là di notte, nel bosco, vicino Sefad, piuttosto che chiedere alla luce del giorno, a un edicolante, se era già uscito il nuovo numero della rivista “Mondo della donna”». «Ti ha aiutato?» «Fra poco sentirai. Non mi bastavano questi raduni, volevo un incontro personale con il rabbino. Ma ci voleva del tempo, quasi sei mesi». Sorrise per la prima volta da quando il nostro incontro era cominciato. Forse c’erano dei momenti in cui anche a lui l’ossessione per Ayalà, che durava da così tanti anni, sembrava infantile, o esagerata, o comunque inutile. «Il rabbino ha accettato di ricevermi per un appuntamento breve, ma dopo pochi minuti si è arrabbiato molto, perché non gli stavo chiedendo una benedizione, quanto piuttosto volevo che maledicesse Ayalà. Ero lì da meno di dieci minuti quando d’un tratto mi ha sussurrato: “Malvagio figlio di malvagi!” Mi sono vergognato molto d’essermi così esposto davanti a lui. Ho smesso di andare ai suoi incontri anche perché non sono una persona veramente religiosa, sì, in parte sono credente, mangio kasher, digiuno di Kippur, ma questo non basta per ricevere aiuto da un rabbino del suo rango. Ero scioccato, non riuscivo a togliermelo dalla testa che una persona come lui, non a caso lo chiamano “laser”, avesse visto dentro di me che sono malvagio, e io non sono riuscito a dirgli niente di convincente né su di lei, né sul torto che mi ha fatto. Sono sicuro che se avessi potuto stare un altro po’ di tempo con lui, e se avesse sentito tutta la verità su Ayalà, una piccola maledizione l’avrebbe trovata per me».

«Ti aiuterò io, Avi» sentii che gli promettevo, «Noam avrà il Bar Mitzvah che vuoi tu». Aspetterò un giorno, pensai, poi gli chiederò i numeri di telefono di Neta. «Grazie, grazie» disse Avi, e per un attimo sembrò felice, quasi il contrario della persona che avevo visto quando ero entrato nella stanza delle riviste femminili. Mi accompagnò alla porta e strinse la mano calorosamente. Il caffè, non l’abbiamo bevuto. Guidai verso casa, la testa piena di pensieri. Lo aiuterò, mi dissi mentre stavo per salire sul cavalcavia accanto al grattacielo Azrieli. Ma lo farò a modo mio. 8 Telefonai ad Avi Razi, mi aveva procurato il numero di telefono di Neta come promesso. Ricordo che si trattava del suo posto di lavoro, a Ramat Hasharon, in uno studio di design per siti internet. «Le hai parlato?» chiesi preoccupato. Sapevo che nonostante i molti anni trascorsi, bastava che lei sentisse la voce dell’ufficiale Razi ed ecco che per me sfumava l’occasione di esprimerle il mio pentimento. Sì, era quello che stavo per offrirle, anche se in ritardo e goffamente. «No, non posso dire di averlo proprio usato», mi tranquillizzò Razi, «ho solo telefonato per verificare che fosse veramente lei». Mi innervosii, se Avi verifica, tutto si vanifica. «Volevo essere sicuro che non ci fossero errori di identificazione», aggiunse, «ma quando ho sentito la sua voce, ho chiuso subito». «Vedo che conosci bene la sua voce», gli dissi, le mie parole presero senza volerlo un tono minaccioso. Avi non si era spaventato, cercò anzi di fare una battuta spiritosa, ma io mi affrettai a chiudere la conversazione e la chiamai subito. La voce era la sua. Non era cambiata per niente. «Ciao, sono Itai», dissi titubante. «Itai chi? Non conosco nessun Itai». Sembrava sincera, era chiaro che il mio nome in quel momento non le tornava in mente.

«Soldato semplice Itai» sperai di risvegliarle i ricordi, nonostante sapessi che così facendo mettevo a rischio la nostra conversazione appena iniziata. Speravo con tutto il cuore che non mettesse giù. «Da Hatzor?» tremò la sua voce. «Da Hatzor», ammisi con finta disinvoltura, cercando di nascondere la tensione. Sudavo. «Io non conosco nessun Itai» ripeté, «e quello che conoscevo una volta non esiste più, almeno per me». Nonostante la dichiarazione risoluta, c’era qualcosa nelle sue parole che mi scaldava il cuore. Testimoniavano una vicinanza che si era sì incrinata, ma che tuttavia esisteva. Una donna non si sforza così tanto di dimenticare qualcuno che non ha più alcuna importanza per lei. Decisi di essere diretto. Per la verità non avevo scelta, non sapevo come rispondere a quella rimozione. Volevo nascondere la strana allegria che mi aveva suscitato. «Voglio incontrarti, ovunque vorrai». Calò un lungo silenzio. Le lancette dei secondi del mio orologio completarono un giro intero, dopo chiusi gli occhi sperando di non sentire il suono della telefonata interrotta. Mi sentii rincuorato quando disse: «È un po’ tardi, no?» «Non è un buon momento? Devi andare via?» Feci finta di non capire quale ritardo intendesse. Stranamente non riuscii a pronunciare il suo nome, che fra me e me avevo ripetuto decine di volte negli ultimi mesi. «Questa conversazione arriva troppo tardi. A questo mi riferisco». Anche lei evitava di pronunciare il mio nome, era come dopo la prima

identificazione, non c’era bisogno del mio o del suo nome. «Devo rifletterci, capire quanto sono arrabbiata per questa tua irruzione nella mia vita». «Per ora si tratta solo di una breve telefonata» mi giustificai. «Una telefonata del genere, che arriva dopo vent’anni, può essere considerata una molestia, capisci?» Certo che lo capisco, cara Neta, pensai. «Dimmi, per caso sei diventato credente, da quando non ti vedo?» Chiedeva sul serio. «No, perché me lo chiedi? Parlo come uno che ha ritrovato la fede?» «Credi in Dio, Itai?» Queste domande mi angosciavano. Mi sentivo come se una mano pesante mi premesse sul petto. «Io non credo» risposi. «Allora di cosa mi parlerai? Di quello che non hai fatto? Tu non hai fatto nulla, almeno su questo siamo d’accordo, no?, soldato semplice Itai». All’improvviso mi resi conto che stava urlando, che tutto quello che avevo appena detto non aveva fatto altro che alimentare la sua rabbia. «Ho fatto, certo che ho fatto, ti ho abbandonata», tentai di placarla. «Vedo che nemmeno vent’anni ti sono bastati per capire. Perciò ascolta bene quello che ho da dirti, poi deciderai se vorrai ancora incontrarmi. Loro hanno fatto, tu non hai fatto niente, proprio questo è il problema. E adesso dimmi, pensi ancora valga la pena incontrarci?» Non sapevo che risposta si aspettasse. «Noi dobbiamo incontrarci», mormorai come un corteggiatore ostinato.

«Io non ti devo nulla, Itai. Ma tu dammi il tuo numero di telefono, quello di casa, non del lavoro. Sei sposato?» «Sì», dissi, subito aggiungendo «e abbiamo una figlia di un anno e qualcosa». Neta non replicò, ma volle chiarire ancora una volta che non sarei stato io a decidere come sarebbero andate le cose. «Questa volta sarò io a contattare te. Tieniti pronto, Itai, meglio se non sarà tua moglie a rispondere, altrimenti dovrò rivelarle cose che è meglio sia tu a spiegarle». «Zero-tre-sei-sette-due-nove-due-due-quattro», dettai frettolosamente, sapevo che dalla mia voce trapelava una leggera ansia. «Ripeto il numero». Lo ripeté, scandendo bene cifra per cifra. «Esatto». La conversazione stava per terminare, ma non me ne preoccupavo. Cos’hai intenzione di fare con il nostro numero, mio e di Yael? «Quando telefonerai? Di sera, di pomeriggio?» Non accennai alla mattina, come se, semplicemente ignorandole, Neta non avrebbe chiamato proprio in quelle ore. Ma lei non rispose. La cornetta era già stata riagganciata da tempo. L’attesa della sua telefonata rendeva insopportabile la mia permanenza a casa. Mi affrettavo a rispondere ad ogni squillo per non insospettire Yael. Portavo con me il telefono senza filo dovunque andassi, ma Neta non chiamò. Le poche volte che Yael era arrivata prima a rispondere, e mi aveva detto “è per te” – mi prendeva un colpo. Chiedevo “chi è?” con finta tranquillità, cercando di nascondere la mia attesa. Non sempre ci riuscivo. Una volta mi tradii, Yael mi aveva porto il telefono dicendo “è tua madre”, e io avevo risposto “grazie a Dio!” Mia madre aveva trovato le poesie che avevo nascosto a casa dei miei e che

avevo cercato invano. Si ricordava di averle avute in mano anni prima e di averle messe insieme alle pagelle del liceo. Sentivo dalla sua voce che sorrideva, poi chiese esitante: «Dimmi Itai, posso parlarti con franchezza? Non sono riuscita a trattenermi e le ho lette, spero non ti arrabbierai. Poesie ingenue di un cuore innamorato. Veramente non so cosa possa farci con queste poesie un uomo della tua età, padre di una bambina». «Mamma, non mi servono per la poesia», risposi, «ma solo come ricordo». Tenni la cornetta sull’orecchio e mi allontanai da Yael. “Poesia”, “ricordo”, sono senza dubbio parole che richiedevano un chiarimento, e se lei aveva sentito “cuore innamorato”, allora il quadro si complicava ulteriormente. «Mamma, ti chiedo per favore», abbassai la voce, «di non mostrarle a Deganit». Yael stava in piedi in salotto, e da come stava si capiva che non era tranquilla, e prima ancora di potermene fare un’idea, riprese. «Ti dico che è tua madre al telefono e tu mi rispondi “grazie a Dio?” Cosa ti succede? Pensavi che fosse chi, il capo della polizia, l’ufficio delle entrate?» «No», mi affrettai a rassicurarla, «pensavo a qualcuno dell’esercito. Una settimana fa mi hanno chiamato al lavoro per avvisarmi che l’esercitazione di richiamo per i riservisti si stava avvicinando, e quando ho capito che non era la soldatessa dell’ufficio riservisti, ho detto “grazie a Dio”». Neta è certamente una dell’esercito che mi telefona. Il filo sottile che lega la bugia alla verità mi aiuterà a nascondere il tic nervoso della bocca, il battito veloce delle ciglia, i movimenti nervosi della gamba. Yael conosce tutti questi piccoli segni e sa quando dico una bugia. Ma in fin dei conti, cosa chiedevo? Di ascoltare un’altra donna, che mi raccontasse di altri tempi, dei quali tra l’altro non mi è affatto chiaro se abbia o meno nostalgia. E nonostante ciò, sapevo che non avrei potuto dire a mia moglie, “vorrei ascoltare Neta”. Ma la sua verità che mi mancava. Mi affrettai verso la nostra bambina che mi stava gattonando incontro e dissi a Yael: «Porto Tami a fare una eggiata. Vieni tesoro, andiamo a fare un giretto», dissi alla piccola, e lei fece una risatina porgendomi le sue braccine. La sollevai dal tappeto, la portai in braccio giù per le scale e la sistemai in carrozzina. Con o veloce mi allontanai dal nostro edificio. Superai Gan Hair deciso a risalire viale Chen. Solo in mezzo al viale mi fermai per telefonare da una cabina. Decisi di essere convincente ed essenziale. La chiamai per nome,

senza timore. «Neta, sono Itai, devo assolutamente sapere se il nostro appuntamento ci sarà». Sentivo la sua presenza dall’altro capo del filo, ma non disse una parola. Forse si divertiva a tenermi in sospeso. Era chiaro che ero io ad aspettare la sua decisione. «Ci sarà, ma senza fretta. Fra una settimana. Non ho chiamato a casa tua, ma ho ancora una possibilità, no?». Non capivo che intenzioni avesse, ed ero troppo teso per pensare all’eventualità che una storia fra noi potesse riprendere dopo vent’anni. «Arriva a Kfar Saba, c’ è un caffè lungo la via del centro. Caffè Saba, si chiama, presentati di pomeriggio, diciamo alle cinque». «Martedì prossimo alle cinque?» chiesi per fugare ogni dubbio. «Sì», Neta confermò giorno e ora dell’ appuntamento, «volevo chiederti un’altra cosa: vieni a parlare o ad ascoltare? È importante per me sapere chi avrò davanti». Cercai di indovinare quale fosse la risposta giusta per lei. «Ascoltare». «Molto bene, Itai» disse, «perché ho molto da raccontarti». «Ci sarò», chiusi la conversazione e tornai alla carrozzina dalla bimba, che già pronunciava suoni di rimprovero per il mancato inizio della eggiata. Yael ha ragione. È ora di comprarmi il cellulare. 9 L’indomani inaugurai il mio nuovo cellulare con una chiamata ad Avi Razi, e gli raccontai dell’appuntamento fissato fra me e Neta. Lo sorpresi con una richiesta, o meglio, una pretesa che certo non si aspettava. Per la verità, nemmeno io l’avevo pianificata, l’idea m’era venuta appena avevo sentito la sua voce indifferente. Razi, perlomeno così interpretavo il suo distacco, vedeva questo

appuntamento come una tappa verso la mia collaborazione il giorno del Bar Mitzvah. Se ho avuto tutto quello che chiedevo, penserà Razi tutto contento nel suo supermercato ben climatizzato, è ovvio che anche lui, quando arriverà il momento giusto, avrà il mio aiuto. E io, proprio questa reciprocità volevo guastare. «Vorrei che tu venissi con me». «Dove?» rispose Razi sorpreso. «All’incontro con lei. Martedì prossimo, alle cinque...» «All’appuntamento con lei? Alle cinque non posso. Sono al supermercato. È il giorno in cui vengono i fornitori e siamo prima delle feste». «Potrai, potrai. Se vuoi che avremo successo nella faccenda con Noam». «Cosa c’entra mio figlio con il tuo incontro con Neta?» «Ti ricordi quando mi hai raccontato che andavi in terapia da quel rabbino?» «Non era una terapia, Itai. Sono andato ad un raduno, per recuperare le forze...» «Appunto» lo pressai, «lui non ti ha mai parlato del miglioramento delle virtù?» «Certo che ne ha parlato, ma con il mio problema ero in minoranza lì. Da lui vanno persone che vogliono trovare un marito o una moglie, coppie che desiderano un bambino, o che soffrono di malattie gravi, mentre io non volevo nulla del genere. Volevo solo una maledizione piccola piccola, ma nemmeno questo sono riuscito ad ottenere. Senti Itai, io proprio non capisco dove vuoi andare a parare». Mi sembrava il momento giusto per chiarire, a lui e forse anche a me, dove volevo andare a parare. «Avi, vado ad incontrarla per chiederle perdono di aver accettato quel giorno la tua proposta. Io l’ho abbandonata e sono scappato, e di lei non me ne sono più interessato, né durante il servizio militare, né dopo. Vorrei che questo fosse chiaro anche a te».

«Io non c’entro niente con tutto questo», obiettò Razi, «all’appuntamento con lei puoi fare quello che ti pare. Puoi darle un bacio e chiederle perdono dopo vent’anni per una cosa che ha fatto il responsabile della disciplina Arie Rachamim e i suoi assistenti. Ma non mischiarmi in tutto questo, io non faccio parte di questa faccenda». «Certo che ne fai parte», precisai, «è vero che non c’eri in quella stanza, ma hai dato a loro una mano. E adesso anche tu puoi chiederle perdono. Questa sarà la tua redenzione, come dicono le sacre scritture. Sono sicuro che al rabbino non hai parlato di quel maltrattamento». Mi sembrava che Avi Razi iniziasse a comprendere, perché la sua convinzione si incrinò. «Vorresti dirmi che quello che è successo con Neta può essere legato a quello che mi ha fatto Ayalà? Ma se nemmeno si conoscono!» «Si conoscono, non si conoscono, cosa cambia? In fin dei conti, una abitava ad Ashdod, l’altra ha fatto il militare alla base di Hafez Haim, che come ben sai non sono posti lontani, appena una quindicina di minuti in macchina» risposi, aggiungendo come un teologo esperto, «forse una di loro è un mezzo nelle mani del Signore per vendicare un torto fatto all’altra. Non devi rispondermi subito. Tu, come mi hai detto, sei un po’ credente, perciò è meglio se rifletti su quello che ti ho appena detto. Vieni con me e vedrai che dopo ti sentirai meglio. Ti posso assicurare che se per te è difficile, non dovrai stare con noi per tutta la durata dell’incontro. Potrai aspettare fuori, nei paraggi, e se lei accetterà le mie scuse, allora chiamerò anche te e potrai fargliele pure tu, così il cuore di entrambi sarà di nuovo pulito e leggero». «Itai, sei proprio impazzito. Vuoi che io stia due ore in macchina ad aspettare, oltretutto nel giorno dei fornitori, una ragazza che non vedo da vent’anni, a cui non ho torto nemmeno un capello, perché mi conceda il suo perdono? Comincio a pensare di non aver scelto la persona giusta per il mio piano, forse dovevo pagare un estraneo, non un amico, che mi fe questo lavoro senza tutte le stranezze che vuoi mettermi in testa. Neta Barkai, o come diavolo si chiama oggi, da lei dipenderebbe la mia redenzione! Ma fammi il piacere! Il rabbino ha detto che devo fare carità, e sono stato di manica larga, addirittura il venerdì donavo ai poveri i prodotti in scadenza, ma chiedere perdono ad una sconosciuta perché è legata a un’altra donna che non conosce, questo è superiore alla mia intelligenza, come si suol dire». Si chiuse di nuovo in se stesso.

«Pensaci, Avi». Chiusi gli occhi, la mia voce prese un tono che risuonava estraneo alle mie stesse orecchie. Gli parlai come chi apre il suo cuore a un amico. «Anch’io ho riflettuto a lungo, prima di farti questa proposta. Il Signore ha tanti emissari». «Bene» sentii la sua voce farsi ancor più incerta, «adesso ho parecchio da fare. Ti darò una risposta all’uscita del sabato». «Meglio domenica mattina, al lavoro». E veramente domenica mattina, già alle 9.30, mi chiamò al lavoro per avvisarmi che sarebbe venuto a Kfar Saba con me. «Questa cosa ancora non mi convince, ma la possibilità, una su un milione, che quello che mi hai detto sia vero, mi ha rovinato il sabato. Se vuoi che il tuo incontro con lei avvenga senza casini, ti suggerirei di rivelarle solo alla fine che fuori ci sono pure io». Non risposi. Avi Razi continuò a parlare come chi sapesse il fatto suo: «Lei non lo sa, ma io l’ho protetta fino al giorno del suo congedo. Ovviamente ho fermato le sue denunce, ma alla base c’era chi voleva fargliela pagare per le cose che aveva osato scrivere, ma io ho detto ad Arie Rachamim, “fermati, caro responsabile della disciplina, Neta Barkai ha già pagato per la sua arroganza”». Ci siamo dati appuntamento, io e lui, alla stazione centrale dei treni di Tel Aviv, siamo partiti, ognuno con la propria macchina, seguendo le istruzioni di Neta, e con facilità abbiamo trovato il caffè a Kfar Saba. Arrivai in anticipo di un quarto d’ora, ma lei era già lì, seduta a un tavolo per due, in fondo alla sala. Indossava un vestito blu, semplice, e il suo viso era senza trucco, teneva una borsetta sulle ginocchia. Di quella treccia non era rimasto nulla. I capelli erano corti e i suoi grandi occhi marroni ancora mi conquistavano. Notai solo qualche ruga d’espressione agli angoli degli occhi. E se mai l’avessi vista su qualche scala mobile, certamente mi sarebbe sfuggito un grido, Neta, Neta! Ma questo non era accaduto, ora che mi trovavo al suo cospetto. «Ti ricordavo più magro».

«Io invece ti ricordavo proprio così» risposi, e subito mi pentii di queste parole. «Proprio così, senza la treccia? L’ho tagliata da poco». Mi accomodai. Non avevo preparato nessuna frase per esordire, mi sembrava ridicolo cominciare il nostro incontro subito con una richiesta di perdono. «Sei sposata?» mi sfuggì la domanda, cose fossi un apionato pretendente al primo appuntamento con una conosciuta in chat. Non avevo nemmeno dimostrato buona educazione, chiedendole almeno come stava. «Sì, con un pilota della compagnia Arkia. E suppongo che tu stia per chiedermi se abbiamo figli. Sì, ne abbiamo due, una bambina di dieci e uno di quattro. E so che tu ne hai una piccola, me l’hai detto al telefono. Quarantun anni, padre di una bambina di uno. Non sei proprio una bomba demografica, mio soldato semplice Itai». «Abbiamo avuto qualche problema» risposi seriamente. «Chi? Io e te?» Il suo sorriso era amaro. Capii che non aveva alcun interesse per una risposta vera, ma comunque lo rimarcai: «No, io e Yael». «Ah, si chiama Yael, buono a sapersi». Frugò nella sua borsetta. «Fumi? Non mi dà fastidio se lo fai, sei nevoso, Itai? Ricordo anche il tuo cognome. Zer. Sono belli i vostri nomi messi insieme, Yael e Itai Zer. Nel nostro caso suona meno bello, Hezi e Neta Fisher». Non reagii. «Non ti farò vedere le foto dei miei figli, e non ha senso che tu mi faccia vedere una foto della tua. Tra l’altro, come si chiama?» «Tami» risposi. «Non avevo alcuna intenzione di farti vedere una sua foto. So

che non siamo a un incontro nostalgico». «Ma non sono contraria a vedere delle foto». Nonostante questa disponibilità, decisi di non tirar fuori la foto della piccola. Proprio in quel momento volevo dirle che non ero venuto da solo, che fuori stava aspettando Avi Razi, ma non lo feci. «Neta, voglio sapere cos’è successo in quella stanza dopo che io sono andato via». «Che sei sparito. Meglio dire scappato. Io per questa conversazione mi sono preparata bene, Itai, meglio di quanto tu possa immaginare, e non ho alcuna intenzione di addolcire nessun dettaglio, nemmeno se questo mi procura del dolore, perciò ti chiedo di essere preciso quando parli». Sapevo che non avrebbe sopportato nessun giro di parole. Feci un respiro profondo e le dissi: «Ho visto l’aiutante del responsabile della disciplina nella base con una lunga asticella volteggiare sul tuo seno. Indossavi una camicia, non eri nuda. E poi il responsabile Arie Rachamim ha sbattuto la porta e io sono scappato via all’ufficio riservisti e ti ho lasciata lì con loro». «Mi hai consegnata a loro» mi corresse. «Ti ho consegnata a loro» ripetei come chi aveva già capito la regola. «E perché vuoi sapere cos’è successo quella lunga notte? È stata la notte più lunga della mia vita. Persino i miei due parti, che non sono stati una eggiata, sono ati più velocemente». «Perché potevo accorciarla e non l’ho fatto, perciò oggi sono venuto qui a chiederti...» «Perdono» Neta completò la frase. «Forse ti sorprenderà, ma io non sono interessata alla tua richiesta di perdono, è fuori tempo, non mi basta. Adesso io racconterò e tu ascolterai, e dopo troveremo il modo per risarcirmi di tutto il tempo ato da Hatzor ad oggi. Ti va bene? O pensavi di chiedermi perdono, are un’ora di inutile conversazione e tornare da Yael e la bambina?».

Le sue dita frugavano nella borsetta. Guardavo quelle mani che una volta mi accarezzavano e mi sentii assalito da una profonda tristezza. Neta tirò fuori un pacchetto di gomme, ne estrasse una senza offrirmene e le rimise nella borsetta. «Posso cominciare?» domandò. «Ti ascolto» risposi fissandola. «Dopo che la porta venne sbattuta, uno degli assistenti che conoscevo già da Ashdod, non solo dalla base, mi ha detto: “Abbiamo promesso all’ufficiale Avi Razi di non toccarti con le nostre mani, per non rischiare guai inutili. Perciò farai da sola”». Cercai il mio cellulare in tasca. Forse facevo bene a convocare subito Avi Razi, così avrebbe sentito anche lui quello che Neta ricordava, quello che non ha mai potuto dimenticare. «Ci sei?» chiese. «Ci sono, certo che ci sono» risposi veloce. «Ho urlato contro il responsabile Rachamim “fare tutto da sola? E cosa dovrei fare? Uscire da qui, questo devo fare”. “Toglierti da sola la camicia”, mi risposero insieme i tre idioti, “ma senza strappare i bottoni”, sottolineava Arie Rachamim, “che è quello che faremmo noi se fossimo costretti. È quello che volevi, no? Uscire dalla base con le tette al vento, così dicono le informazioni che ci arrivano da fonti molto attendibili, proprio dalla tua infermeria, signora principessa. Ti facciamo pure uno sconto, rimani qua senza camicia, in questa stanza chiusa, sola con noi, e non al cancello davanti a tutti come volevi. È molto più decente, io e i miei assistenti”, così mi ha detto lui, l’addetto alla disciplina, sorridendo come un gatto che avesse appena inghiottito un topo, “siamo gente osservante, sappiamo che una figlia di Israele ha più onore dentro il nostro ufficio che fuori”. Non sapevo cosa avessero in mente di fare se avessi disubbidito, ma non mi lasciarono molto tempo per pensarci. Uno di loro, di cui ricordo a malapena il viso, mentre la sua pancia m’è rimasta impressa, si è avvicinato a me con un taglierino. “Quanti anni hai, soldatessa Neta?” mi ha chiesto quel maiale, ricordo ogni sua parola». Notai che le labbra di lei si erano contratte, per rabbia o repulsione.

«“Diciannove”, ho risposto. Sopra di me stava il bersaglio con alcune freccette di diverso colore, sai quelle con le alette di plastica, e lui ha indicato con l’asticella il bersaglio. “Noi ci alleniamo a freccette ogni giorno”, mi ha spiegato tutto serio in un modo che era esagerato e ridicolo, “ma non sempre riusciamo a centrare il bersaglio. Qualche volta una freccetta può scappare fuori controllo, e immagina che per caso vada a finire proprio sotto il tuo occhio, per sbaglio ovviamente. E chissà se dopo il tuo fidanzato ti vorrà ancora. Una ragazza con una cicatrice sotto l’occhio, beh, non è più la stessa cosa di prima” mi ha minacciato, e poi tutti e tre sono scoppiati a ridere. Con la mano che mi tremava mi sono sbottonata la camicia e me la sono levata. E non ti ho sentito urlare da fuori, non ti ho sentito calciare alla porta. Fuori c’era solo silenzio. Mi hanno ordinato di sedermi dietro il tavolo di Rachamim e mi hanno legato le mani dietro la schiena. Ho guardato l’orologio sulla parete. Erano le sei. E tu dov’eri a quell’ora, Itai? Te ne stavi andando a casa, con il permesso che ti ha procurato lui?». Il caffè non era pieno di clienti e dai tavolini intorno non provenivano conversazioni rumorose. Quelle poche persone a me sconosciute, che stavano ai tavoli lontano da noi, non potevano sentire le sue parole tormentate, anche se erano incuriositi. Lei parlava a bassa voce, rivolgeva le sue parole solo alle mie orecchie ma mi parlava come fossi, anche io, uno di quegli sconosciuti. Questo, in fin dei conti, ero io per lei in quel momento. Il numero di anni trascorsi da quando l’ho conosciuta e amata superava metà della mia età. Non avevo nessuna ragione di renderla partecipe di questo pensiero. «Alle sei ero all’ufficio riservisti», risposi alla sua domanda, «non ricordo bene se ero ancora da solo o se Avi Razi era già con me. Ma so che alle sei ero seduto al mio tavolo, con la testa fra le mani, senza parlare». «E cosa ti ha offerto Razi per non parlare? Sono certa che sai che ho tentato di sporgere denuncia, di parlare con la polizia militare, ma lui bloccava tutto. Se c’erano persone interessate alle mie denunce lui interveniva fermamente parlando di una tua versione che smentiva la mia. Dimmi, aveva veramente una tua testimonianza, una cosa firmata da te?» «Non mi ha fatto firmare niente, mi ha solo letto un esposto in cui venivo accusato di aver istigato una soldatessa a un comportamento osceno, aveva dei testimoni, quei due soldati che sorvegliavano il cancello della base, ed io dovevo decidere in un’ora cosa fare. Per quell’esposto sarei stato sbattuto in carcere

militare, così mi ha detto, e ha aggiunto che se me ne fossi stato zitto, e avessi subito preso un permesso speciale, accettando una nuova collocazione, tutto sarebbe finito bene, per me e anche per te. Ho accettato, ho camminato dalla base fino all’incrocio di Hatzor. Ero disperato». Perse la pazienza, si alzò e andò verso il bagno. «Torno subito» promise. Le parlai quando ormai era di schiena. «Ho saputo delle tue denunce solo ultimamente». Non si voltò. Preferivo pensare che non avesse sentito quella mia inutile frase. Vedendola allontanarsi mi sembrava più bassa di quanto ricordavo. Cosa dovrò ancora sentire, siamo arrivati appena alle sei! Progetto educativo, così Avi Razi aveva chiamato quell’abuso. Neta tornò e si sedette al tavolo. «Sai qual è la cosa che ricordo meglio delle prime ore ate all’ufficio di Rachamin? Il caldo tremendo, anche se era calata la sera. I suoi due scagnozzi sono rimasti con me tutto il tempo. Arie Rachamim invece entrava e usciva senza degnarmi nemmeno di uno sguardo, sembrava che fossi una nuova sedia nella stanza, mentre gli altri due non mi toglievano gli occhi di dosso, sudavo e mi dicevano “ti porteremo noi l’acqua, dolcezza, fuori ne abbiamo di ghiacciata. Uno di loro è uscito ed è tornato con un bicchiere bianco di plastica. Ho registrato nella mia memoria ogni dettaglio, perché speravo che quando l’incubo sarebbe finito, avrei potuto riportare particolare per particolare nella mia denuncia. Non credevo che questo ufficiale di m...» «Avi Razi», mi sono affrettato a ricordarle il nome. «...sarebbe riuscito a bloccare ogni tentativo di sporgere denuncia o chiedere il trasferimento. Mi ha costretto a rimanere alla base fino al congedo del servizio militare. Faceva parte del mio castigo, ma non mi è chiaro per quale ragione». «Tu hai detto che lui e i suoi assistenti non dovevano andare dal medico, ma dal veterinario – così mi ha raccontato». Era la prima volta che cercavo di sorriderle da quando era iniziata la nostra conversazione, ma lei non aveva ricambiato, era completamente concentrata a

ricordare ogni fatto di quella sera. Non capivo che importanza avesse il bicchiere di plastica e non di vetro. «Mi ha ordinato di alzare la testa e di aprire la bocca e mi ha versato l’ acqua direttamente in gola, all’improvviso mi ha schizzato quell’acqua gelata sul seno nudo, i miei capezzoli si sono induriti. L’altro mi ha toccato i capezzoli con l’asticella, poi me l’ha ata fra le gambe. Era chiaro che avevano pianificato tutto prima. Quello con l’asticella ha detto: “la nostra esperta di strip-tease si eccita, le sue tette si induriscono, e anche a noi, babbuini orangutan, chiamaci come ti pare, anche il nostro cazzo diventa duro quando vediamo come ti eccita l’acqua gelata. Ti chiameremo ‘hot Neta’, da oggi in poi”. Gli ho sputato addosso e lui anche, il suo amico mi ha ripulito la saliva dalla pancia con un tovagliolo. Ho cercato di trattenere le lacrime, non ho più chiesto da bere. Quando era già calata la notte, sentivo freddo. Arie Rachamim non è più tornato, e loro non hanno la luce. Stavano al buio e fumavano. Confabulavano. Le finestre erano chiuse. Il mio tormento era anche semplicemente sentire che loro erano lì, in silenzio, quasi senza parlare, e non è che mi hanno fatto del male, ma io non sapevo cosa sarebbe potuto capitarmi. Mi sembrava che fossero ate ore. Poi, quasi alle dieci – dov’eri tu alle dieci, soldato semplice Itai?». La sua voce risuonava vacua, priva di quell’intimità che sempre echeggiava nel suo “soldato semplice Itai”. Era chiaro che voleva rimarcare quanto diversa era stata quella notte per me e per lei. «In camera, a casa dei miei». Neta scuoteva la testa e le sue mani di nuovo si misero a frugare nella borsetta, ma questa volta non estrassero nulla. «Io, alle dieci, li ho sentiti sospirare nel buio, e ho sentito di nuovo quella maledetta asticella sfiorarmi tutto il corpo, anche il viso. Quando quel freddo metallo mi toccò l’interno delle cosce, ho temuto che in un attimo mi sarebbe arrivata una frustata. Ma all’improvviso ho capito che loro si stavano masturbando al buio. “Ci senti, mignotta?” ha detto uno di loro, “noi ci prendiamo cura di te e vogliamo che ti diverti un po’ con noi. Prima ti abbiamo dato da bere dell’acqua fresca, adesso possiamo darti anche del sachleb caldo, te lo porteremo direttamente in bocca”». Non riuscivo più a sopportare questi dettagli.

«Perché devi ricordarti ancora di tutto questo, proprio adesso, che sono ati più di vent’anni, e soffrire così? Sono venuto qua per chiederti perdono, te lo chiedo in questo preciso momento, non abbiamo bisogno di ogni dettaglio. Se vuoi te lo chiederò ad alta voce davanti a tutti quelli che sono seduti qui al caffè, e se non ti basta pubblicherò una richiesta di perdono su un tabloid di tua scelta, così mia moglie e i miei genitori sapranno chi sono! Ma adesso non sono più in grado di sentire tutto questo». «E cosa farai se continuerò, Itai?» chiese divertita, indifferente alla mia foga, «ti alzerai e te ne andrai? Scapperai? Perché questo l’hai già fatto». «Neta, non sono venuto solo a questo incontro» le risposi. Era arrivato il momento che anche Avi Razi dividesse con me l’angoscia di questo incontro. «Avevi così tanta paura di me che ti sei portato un soccorso?» questa volta Neta fece un ampio sorriso, non amaro, che mi confuse ulteriormente. «No, anzi. Avi Razi, quello della base, aspetta fuori. È venuto con me a chiedere scusa da parte sua». «Al telefono non mi hai detto una parola su Avi Razi. Sei in contatto con lui? È tuo amico? Sei una persona schifosa, Itai Zer, lo sai?» «In un certo tipo di contatto», ammisi ignorando l’offesa diretta che mi aveva lanciato, «per la verità sono in contatto con lui solo per te». Pure a me le mie frasi cominciavano a sembrare poco logiche. C’era bisogno di seguire il loro itinerario nel mio cervello per capire quanto fossero contorte. «Per me? E io cosa c’entro? Vi ho tagliato fuori dalla mia vita già nel secolo scorso! Sentimi bene, se lui entra, io me ne vado, e anche con te rimango solo un altro minuto per darti una cosa che ho preparato...» «Per me?» completai la sua frase. «Per tua moglie», mormorò lei. La sua mano aprì la borsetta e ne tirò fuori un mini registratore. Ne estrasse una cassetta, «Tutto è stato registrato qui e ora, signor Zer, tutto quello che io ho

detto, e che tu hai detto. Voglio che la dia a tua moglie, che l’ascoltiate insieme. Hai tre giorni per farlo, fra quattro la chiamerò e le chiederò se ha ricevuto il regalo che le ho mandato, e cosa ne pensa». Fece una pausa, poi aggiunse: «E anche cosa pensa di te». A quel punto vidi nascere in lei una nuova idea. «Lui aspetta veramente fuori, quell’ufficiale di merda?» chiese. Le feci vedere il suo nome e il numero sul display. «Se vuoi», le proposi, «in cinque minuti è qui davanti a te». «Non mi interessa quello che ha da dire. Ha una moglie questa carogna? Mi piacerebbe che anche lei ascoltasse la cassetta che ho preparato per tua moglie». «No, non ce l’ha, e non penso che in questo momento sia interessato alle donne. È divorziato. Così è nato il nostro contatto». «Itai», ed è scoppiata a ridere, «non dirmi che tu e Razi siete una coppia, c’è un limite a quello che posso sopportare in un giorno...» Anch’io risi, in fondo in quale altro modo poteva interpretare la mia frase? Poggiò la cassetta sul palmo della mia mano. La richiusi. «Falla ascoltare a Yael, te lo chiedo. Non costringermi a farlo al posto tuo. Sarebbe molto imbarazzante... e dannoso». E poi disse, sorprendendomi: «Se dopo vorrai incontrarmi di nuovo, ti incontrerò. Una volta ti ho amato, soldato semplice Itai». Uscii in fretta dal caffè. Avrei voluto rincontrarla un’altra volta, ma non ero sicuro che sarei riuscito a pagare il prezzo che aveva fissato. Quanto ero ingenuo a pensare che avrei potuto trascorrere una vita intera senza che Yael l’avesse mai saputo. Ho messo la cassetta nella tasca sinistra della camicia. Il mio cuore

batteva forte. Negli ultimi tre giorni non mi ero fatto la barba. Meglio così, pensai, non sono giorni di festa. Non raccontai a Razi della cassetta, solo lo tranquillizzai che lei non aveva alcun interesse a vederlo o ad ascoltarlo. Siamo tornati come siamo arrivati, ognuno con la propria macchina, con i propri pensieri. Riflettevo sul vantaggio che Razi era convinto di avere sull’avvocato, quello che si era ostinato a sposare una donna sposata e poi è diventato credente. Dopo le ultime ore non ero sicuro avesse ancora il vantaggio che si era attribuito. Anche sul prezzo che io e Yael paghiamo per la mia vigliaccheria non ho un’opinione precisa, chi potrà mai saperlo? Forse fra qualche giorno scoprirò cosa pensa mia moglie. Temevo la sua reazione, ma ero anche grato per il sollievo che poteva portarmi il piccolo regalo che avevo in tasca. 10 Una strana tranquillità mi avvolse nei due giorni in cui evitai di far ascoltare la cassetta a Yael. Al terzo ero sicuro che, l’indomani, Neta avrebbe veramente telefonato proprio per verificare se mi fossi comportato come richiesto e, tuttavia, non volevo farle sentire il nastro in presenza della piccola Tami. In fondo si tratta soltanto di una bambina, cercavo di rassicurarmi, mi sembrava più adatto scegliere un orario in cui già dormiva. Le dieci di sera potevano andare bene. Tra un pensiero e l’altro non avevo ancora deciso come avrei esordito, cosa avrei rivelato e cosa nascosto. Mi era chiaro che da quel momento in poi non avrei più potuto incontrare Neta, nemmeno per una semplice conversazione, senza che Yael se ne accorgesse. “Quel piccolo regalo che Neta ha appoggiato sulla mia mano farà nascere tra loro una complicità. All’improvviso saremo in tre”. Ed ero convinto anche di un’altra cosa: “non avrò nessuno con cui condividere la trepidazione che mi agiterà nel momento in cui siederò davanti a Yael e ascolterò le parole solo pochi giorni prima. Deganit, mia sorella, non è la persona giusta per una confidenza del genere, dato che, tra l’altro, è sicura che io abbia già sgombrato il tavolo dalla faccenda prima del matrimonio, e ora non posso tediarla con le mie titubanze”. Cercai di dare un senso alle emozioni confuse, mi sentivo come chi avesse commesso un crimine e fosse sfuggito alla punizione nei giorni di Hatzor. Mi ero

comportato da fuorilegge, di questo ne ero certo, ma sapevo che qualora Neta mi avesse citato in tribunale sarei stato assolto, perché io, come aveva detto lei stessa, non ero presente. D’altronde, nascondendo il mio turbamento, celando la mia tensione, e poi gli incontri con Avi Razi e Neta Barkai, e anche il viaggio ad Ashdod, avevo tradito Yael. In realtà non ero andato a letto con nessun’altra donna, avevo anzi sopportato le reticenze di mia moglie nei primi mesi dopo il parto, ma adesso che lei stava per tornare al lavoro e preparava con diligenza le sue lezioni di storia dell’arte, ecco che io le piombavo addosso con la cassetta, rivelandole cose che, se avesse saputo prima del matrimonio, l’avrebbero portata a pentirsi di avermi scelto come marito. Non un crimine, non un peccato né una colpa, ripetevo, e ciò nonostante più rimandavo la conversazione, più la piccola cassetta si ingigantiva. Avrebbe sentito i fatti non attraverso la mia voce, bensì attraverso quella di Neta. Sarò lì, nel nastro che gira, solo per confermare le cose dette, ammetterò dove ero alle sei del pomeriggio e in quale letto avevo dormito un sonno confuso, in quella notte di dormiveglia. Starò seduto nel salotto di casa per cercare di scoprire che significato avrà nella vita di Yael questa rivelazione tardiva, e dovrò spiegare perché veramente Avi Razi sia tornato nella mia vita, che cosa pianifichi di fare all’hotel Marriott e per quale ragione abbia scelto proprio me. E stasera dovrò nasconderle il mio desiderio di incontrare Ayalà, di sentire la sua versione sulla storia dell’abbandono. Desideravo, lo ammetto, per una curiosità da voyeur, vedere Avi Razi attraverso gli occhi di Ayalà, che l’aveva abbandonato per un altro uomo quando loro figlio Noam aveva solo un anno. Ma come posso confessare a mia moglie questa mia volontà, quando le ho già raccontato di un incontro che non è mai avvenuto alla fermata ferroviaria di Hof HaCarmel? Volevo sentire da Ayalà stessa come aveva avuto la forza di dare un taglio così netto e, forse, conoscere l’uomo per cui aveva commesso un atto d’amore così deciso. Io, Itai Zer, negli ultimi mesi sono diventato un uomo che ascolta le donne. Un consulente matrimoniale potrà definirlo un tradimento leggero. Non una carezza, non un bacio, non il pompino veloce di una sconosciuta nei bagni di un pub – solo parole su fatti commessi da altri. Forse non temevo le cose che avrebbe detto Yael, chissà se le avrei affrontate con distacco. Quello che temevo era di non avere più il coraggio di rivedere Neta o incontrare Ayalà.

Anche il piano di Avi Razi mi pesava. Ottobre 2000 si stava avvicinando e io, ancora, non sapevo come affrontare una simile avventura. Mi sono stufato di scrivere guide scientifiche per le scuole, mi annoiano i corsi di aggiornamento per professori, le presunte domande intelligenti dei presidi. Voglio una scossa. Neta me ne ha procurata una. Avi Razi me ne propone un’altra. Ho comprato ieri un mini registratore e ho inserito la cassetta. Ho aspettato che la piccola Tami si addormentasse e sono andato in salotto. Yael stava lì e guardava con attenzione un catalogo di Marlene Dumas, tutta intenta su quei quadri ad olio molto espressivi, sulle figure nere dei bambini. «Ti devo parlare», iniziai diretto, «devo farti sentire una cassetta. Per me è importante che tu l’ascolti». Cercavo di sembrare formale, quasi solenne. «Una cassetta che scotta?» sorrise tranquillamente, senza poter prevedere che le sue parole rappresentassero veramente il contenuto. Non ricambiai il sorriso. La mia serietà incrinò la sua calma. «Avrei dovuto fartela sentire da tempo, ma l’ho ricevuta solo pochi giorni fa». Lei si fece attenta. Il modo confuso in cui mi esprimevo le chiarì che starmi a sentire era la cosa giusta da fare. «Itai, non farmi preoccupare. Se l’hai ricevuta due, tre giorni fa, come mai avresti dovuto farmela sentire tanto tempo fa?» Quella domanda logica non mi lasciava scampo. «Avrei potuto raccontartelo io stesso prima della nascita di Tami, ma ora è tardi. Dovrai sentirlo per bocca di un altro...» Feci un respiro profondo e poi dissi con precisione: «Per bocca di un’altra». «Per bocca di un’altra? È una cassetta che si vede o che si sente?»

Questa volta sorrisi io. «Non sto per farti vedere la mia amante. Al contrario». Mi sorpresi di come il caso guidasse le mie parole e come le frasi che pronunciavo fossero tanto diverse da quelle che negli ultimi due giorni avevo preparato. «Il contrario di un’amante?» chiese, «che potrà mai essere, una nemica?» «Ascolta e poi deciderai», interruppi l’assurdo rebus in cui eravamo caduti. Spensi la luce e avviai il registratore. «Mi chiamo Neta Fisher, già Barkai. Ho quarant’anni e abito a Kfar Saba. Ho conosciuto Itai vent’anni fa. Una frequentazione breve, alcuni bei mesi alla base di Hatzor. Ciò che ascolterai è accaduto allora, non adesso. Non sono l’amante di Itai». Yael si alzò e accese la luce. «Preferisco ascoltare con la luce, se non ti dispiace. E anche se ti dispiace, solo così l’ascolterò. Torna all’inizio per favore». Feci come aveva ordinato. «Ciò che ascolterai è accaduto allora, non adesso. Non sono l’amante di Itai. Sentirai la conversazione fra di noi su quello che è accaduto tanto tempo fa, a Hatzor. Peccato che tu lo senta così tardi. È una delle cose che Itai avrebbe dovuto dirti prima di sposarti, ma non sono sicura che l’abbia fatto, e adesso non gli lascio scelta: o te la fa ascoltare lui, o te la racconto io. Fra qualche giorno ti telefonerò per accertarmi che tu l’abbia veramente sentita, altrimenti verrò e te la racconterò di persona». Il piano di Neta era meticoloso. Ero arrivato all’appuntamento affranto dal rimorso, mentre lei, subito dopo la nostra prima breve conversazione al telefono, aveva preparato questo prologo, che mi addolorava molto. Mi fissò con uno sguardo il cui significato non mi era del tutto chiaro, ma sull’intensità dei suoi occhi c’erano pochi dubbi. Abbassai lo sguardo. Neta mi aveva sconfitto nel salotto di casa mia. Mi ero incasinato, e questo era solo l’inizio dei guai in cui mi ero cacciato da solo.

«Fermalo» esclamò Yael, «chi è questa Neta? Che storia è mai questa? Ti ricattano, caro marito. Possono pensare che sei ricco sfondato, cosa vuole questa donna?» «Vuole raccontarti la verità, ne ha il diritto», difesi Neta aggravando ancora di più la mia situazione. «Chiudi la bocca e non parlarmi di diritti» gridò allora Yael, «non sei tu quello che li dà o li toglie. Ti caccerei da casa in questo stesso istante». La sua rabbia stava montando mentre io ero là, esausto, senza potermi muovere. «Ma voglio sentire la cassetta con te davanti. Forse è proprio quello che vuole questa Neta, che io mi sieda davanti a te e che noi due ascoltiamo la sua storia. A proposito, ha una voce piacevole» concluse Yael con ironia. «Tutto quello che dirà è la verità» ammisi in anticipo, sapendo che la nostra conversazione al caffè era stata registrata parola per parola. Un momento ero alleato di Neta, un altro lo ero di Yael, le mie stesse parole mi avevano isolato, e in un certo qual modo le avevo di fronte tutte e due, nonostante fino a quella sera nemmeno si conoscessero. «Preferirei fossi tu a raccontarmi la verità, con la tua voce, senza cassette e drammi inutili». Dopo un breve intervallo, aggiunse: «E senza la bambina che dorme nella stanza accanto». Capii perfettamente a cosa alludeva. Nella sua voce regnava una calma ostentata, come se si sforzasse di soffocare un attacco di collera, o quantomeno di ritardarlo. Speravo con tutto il cuore che prevalesse la seconda possibilità. «Te lo posso raccontare anche subito». «È tardi». Yael fu lapidaria. «Posso raccontarti come è iniziato tutto, tutto quello che è successo prima che questa cassetta piombasse a casa nostra». «Non ci è piombata, ce l’hai portata, e mi pare che pure tu ci sia registrato».

«Ci sono registrato anch’io, sì» ammisi, «ma non sentirai sospiri o spasimi». «Itai, non essere volgare. Potrei anche ascoltarla da sola, ma non ho la più pallida idea di come reagirò, preferisco averti davanti a me. Qualcosa in contrario?» «Non ho nessuna intenzione di scappare» le assicurai – aggiungendo in cuor mio “sono già scappato una volta, ed eccomi qui, adesso, a casa mia a cercare di liberarmi dai lacci di quella fuga”. Decisi di cominciare senza aspettare il suo consenso, sperando che la mia franchezza avrebbe calmato la sua rabbia. «Tutto è cominciato alcuni mesi fa, ricordi che ti ho raccontato di un mio comandante del servizio di leva, che mi ha chiesto di mediare fra lui e la sua ex moglie?» «La sua ex moglie è questa Neta?» «No, ma pare che la sua ex moglie la conosca». «Itai, non ho tutta questa pazienza», disse, «prima incontri questo uomo che non vedi da vent’anni; poi vai ad incontrare sua moglie, dopo di che come parte del tuo progetto filantropico cominci ad incontrare anche i loro conoscenti? Dammi il registratore, sentiamo lei. Così forse scoprirò la verità che cerchi di ritardare. Lo fai in un modo molto goffo, sai?» «Avi Razi, questo ufficiale in pensione, è legato alla cassetta. In un certo senso l’ha causata lui. Vent’anni fa ero... avevo una storia con Neta». «Cosa dovrei capire da questa frase, “avevo una storia”? Vi facevate le coccole? Vi baciavate accanto ai kalashnikov?» «Mi ero innamorato di lei» ammisi. «Continua, continua» mi incoraggiò, e non mi era chiaro quanto fosse davvero ironica. Continuai. «Lei era di servizio all’infermeria, io all’ufficio riservisti. Avi Razi era l’ufficiale amministrativo della base. Era a Hatzor, a Sud, vicino Ashdod. Neta è di Ashdod».

Ero teso mentre parlavo, ma riuscii a non interrompermi. «Ci siamo sostenuti a vicenda, due persone sperdute nella base. Avi, l’ufficiale, aveva percepito la nostra debolezza. Io soffrivo di problemi di adattamento, come li chiamavano loro, e Neta appariva altezzosa e allo stesso tempo vulnerabile. È una combinazione pericolosa, quando l’addetto alla disciplina e i suoi assistenti ti detestano. Lei li chiamava “babbuini” ogni volta che mettevano piede nell’infermeria. Lo diceva ad alta voce, sfidandoli. Un giorno mi ha proposto una scommessa, sarebbe uscita dal cancello principale della base solo con la camicia della divisa indosso, sotto niente, nemmeno il reggiseno. Niente pantaloni, solo un costume da bagno, e il basco della divisa in testa. Se ci fosse riuscita, avrei dovuto portarla al concerto di Arik Einstein. Ho cercato di convincerla a rinunciare alla bravata. “Ti porterò al concerto comunque, andremo sul Mar Rosso appena ci daranno il permesso per la vacanza”. Niente da fare, era ostinata. Così l’ho portata fino al cancello della base. Era giovedì pomeriggio. Tutto sembrava facile, Neta sorrise alle sentinelle e loro ricambiarono. Ma in quel momento sono sbucati gli uomini dell’addetto alla disciplina. Il loro ufficio stava proprio accanto al cancello. Qualcuno forse ci aveva sentito parlare del nostro piano all’infermeria e lo ha comunicato all’addetto alla disciplina. L’hanno tirata fuori dalla macchina e trascinata dentro la stanza sbattendosi dietro la porta». Tacqui. Non avevo più niente da aggiungere. A questo punto la cassetta completava il quadro. «E poi?» la voce di Yael esigeva di sapere il seguito. «Poi è arrivato Avi Razi e si è offerto di tirarmi fuori da tutto il casino, se non avessi fatto scandalo per quello che era stato fatto a Neta dietro quella porta...» «E tu hai accettato?» «Sì, ho accettato, ho avuto il permesso per una settimana di vacanza, poi mi hanno collocato alla base nel centro di Tel Aviv, facevo lavori da impiegato, e con Neta non ho mai più parlato prima della registrazione di questa cassetta». «Non ti sei scusato con lei in tutti questi lunghi anni? Non sei mai andato a trovarla? Non ti sei preoccupato, non hai voluto sapere cosa le era successo dopo?» Yael esauriva, una dopo l’altra, tutte le possibilità per rimediare dopo quella notte.

«No, non ho fatto niente». Stavo seduto sulla poltrona, contratto, le mie mani stringevano le ginocchia. Ero tutto teso. «Dato che ho collaborato con lui vent’anni fa, ha ritenuto che io sia la persona adatta ad aiutarlo prima del Bar Mitzvah di suo figlio», offrii l’unica spiegazione al fatto che Avi Razi si era rivolto proprio a me. Yael fece una risata nervosa. Sorrisi con amarezza. In quel momento la mia vita mi sembrò completamente ridicola. Mi sforzai di far vedere che avevo il controllo della situazione, ma ciò che veramente volevo era piangere o correre fuori, scappare dal nostro salotto che mi stava accerchiando. «Sua moglie lo ha lasciato quando il figlio aveva un anno. Ti ho già raccontato che non lo vede quasi mai. Adesso chiede che glielo faccia incontrare il giorno prima del Bar Mitzvah, prima che legga la Torah in sinagoga, vuole portarlo dalla sua famiglia, mettere i tefillin insieme al suo unico figlio. Mi ha convinto che almeno questo aiuto glielo devo per avermi salvato dal carcere militare». Dissi quelle bugie senza nessun motivo, non avevo la pazienza di raccontare a Yael della visita a casa sua, della raccolta di settimanali femminili che avevo visto, delle sue vere intenzioni il giorno del Bar Mitzvah – e anche dei miei piani. Yael mi sembrava triste e pensierosa. Riavviò il registratore. «Preferisco non esserci quando sentirai questa cassetta», trovai il coraggio di pronunciare le parole che speravo mi avrebbero tirato fuori dalla mia angoscia. Spense il registratore bruscamente. «Se esci di casa adesso, cambierò la serratura e questo ci renderà la vita assai più complicata di un fottuto nastro». La sua rabbia non si era placata affatto, le mie parole confuse e la disperazione del mio viso l’avevano solo alimentata.

«Starò nella stanza accanto» proposi in un patetico compromesso, «anche di là si sente ogni parola». Yael non rispose. Con grande calma, frutto di un livore quasi dichiarato, e con abilità esemplare, collegò il piccolo aggeggio all’amplificatore. Uscii dal salotto e la lasciai sola. La voce di Neta si diffondeva anche nella stanza accanto, proprio perché mia moglie alzava il volume ogni volta che le cose le sembravano importanti. Non potevo sfuggire alle parole. Mi avvolgevano. «Ho visto l’aiutante del responsabile della disciplina nella base con una lunga asticella volteggiare sul tuo seno», sentii la mia voce registrata e chiusi gli occhi, «indossavi una camicia, non eri nuda. E poi il responsabile Arie Rachamim ha sbattuto la porta e io sono scappato via dall’ufficio riservisti e ti ho lasciata lì con loro». «Mi hai consegnata a loro» precisò la sua voce registrata. «Ti ho consegnata a loro» mi sentii ammettere. «E perché vuoi sapere cos’è successo quella lunga notte? È stata la notte più lunga della mia vita». Mi tappai le orecchie con le mani, e nonostante ciò sentii: «Persino i miei due parti, che non sono stati una eggiata, sono ati più velocemente». «Sei un vigliacco e una carogna!» urlò Yael dal salotto e alzò il volume proprio quando dissi:«Sono venuto qua oggi a chiederti...» «Perdono» la voce di Neta completò la frase, poi ad un volume tale che rese la permanenza in casa un tormento, la sentii dire, esattamente come tre giorni prima: «Forse ti sorprenderà, ma io non sono interessata alla tua richiesta di perdono, è fuori tempo, non mi basta. Adesso io racconterò e tu ascolterai, e dopo troveremo il modo per risarcirmi di tutto il tempo ato da Hatzor ad oggi. Ti va bene? O pensavi di chiedermi perdono, are un’ora di inutile conversazione e tornare da Yael e dalla bambina?»

La voce si spense all’improvviso. Yael mi apparve davanti. «Sei ancora qua?» si meravigliò, e senza aspettare risposta tornò in salotto. Per uno, due minuti il volume fu quasi insopportabile, tanto da non riuscire a seguire le parole, poi tornò la voce limpida di Neta: « “Togliti da sola la camicia”, mi risposero insieme i due idioti, “ma senza strappare i bottoni”, sottolineava Arie Rachamim, “che è quello che faremo noi se costretti. È quello che volevi, no? Uscire dalla base con le tette al vento, così dicono le informazioni che arrivano da fonti molto attendibili, proprio dalla tua infermeria, signora principessa”». A quel punto la voce di Neta divenne quasi un sussurro, dopo un attimo capii che Yael aveva fatto tornare indietro il nastro. Aspettai l’arrivo delle parole che avrei potuto ripetere alla lettera: « “Io e i miei assistenti”, così mi ha detto lui, l’addetto alla disciplina, sorridendo come un gatto che avesse inghiottito un topo, “siamo gente osservante, sappiamo che una figlia di Israele ha più onore dentro il nostro ufficio che fuori”». Mi allontanai dall’entrata della stanza. Volevo vomitare, volevo pisciare. Andai in bagno e tirai l’acqua con grande fragore, mi asciugai il sudore della fronte cercando di calmarmi. Quando uscii, sentii solo silenzio. Mi accorsi che Yael aveva spento il registratore e che aspettava il mio ritorno con un che di fanatico. «Non voglio che perdi nemmeno una parola, sentire questa cassetta solo una volta non basta». La bambina cominciò a piangere, il suo pianto quasi mi perforava i timpani. Ecco che stava accadendo proprio quello che avevo sperato di evitare. Anche la piccola Tami, in braccio a Yael, avrebbe sentito la voce di Neta. La mia soglia di sopportazione in quei pochi minuti era arrivata al limite. Come nel caffè, anche ora a casa, in compagnia di Yael e della bambina, ero arrivato al punto di non sopportare più tutti quegli inutili dettagli. «Basta, basta con questa follia!» urlai e supplicai.La bambina attaccò un pianto da spezzare il cuore, e in sottofondo si sentiva la voce di Neta, «“ci senti, mignotta?” ha detto uno di loro, “noi ci prendiamo cura di te e vogliamo che ti diverti un po’ con noi. Prima ti abbiamo dato da bere dell’acqua fresca, adesso

possiamo darti anche del sachleb caldo, te lo porteremo direttamente in bocca”». Corsi fuori. Tastai le tasche dei pantaloni per accertarmi di aver preso le chiavi della macchina e il portafoglio. Non sapevo dove andare e dove dormire in quella notte orrenda. Guidai come un lunatico lungo strade vuote e considerai diverse possibilità. Forse potrei andare ad Ashdod, forse a Yavne, chissà se ci sono degli alberghi in quella città. La mia scelta fu casuale, hotel Tal a Tel Aviv, vicino al mare. 11 La mattina, appena sveglio, sapevo già dove andare. “È arrivato il momento di incontrare la moglie di Avi Razi, l’ex moglie”, mi dissi. La madre del suo unico figlio. Questo era il nostro piano e dovevamo cominciare a realizzarlo. Eccoci al primo o, l’incontro con Ayalà. Avevo paura di riaccendere il cellulare. Mi sconvolgeva l’idea che la voce di Yael mi seguisse anche qua, in albergo, nella mia camera singola. Se lo vorrà, le racconterò del mio incontro con Ayalà, ma solo fra due, tre giorni. La faccia che vidi riflessa nello specchio del bagno non prometteva bene. Capelli arruffati, barba di tre giorni, abiti spiegazzati dopo aver dormito vestito sul copriletto. Scesi a comprare un rasoio usa e getta al supermercato vicino. Mi lavai, feci la barba e soltanto allora riaccesi il telefonino. Trovai tre messaggi di Yael, avevo timore a sentirli. Era meglio telefonare subito ad Avi Razi e chiedergli il numero di Ayalà. Certamente avrebbe capito il mio bisogno di avere un incontro preliminare con lei. E proprio quando stavo per digitare il suo numero arrivò una chiamata di Yael. Stavolta non potevo sottrarmi. «Itai» sentii la sua voce. «Sì» risposi. «Ho ascoltato il nastro tre volte stanotte e stamattina Neta ha chiamato». Tacqui. «Non hai niente da dire?» «In mia difesa?» «No, sul fatto che ho parlato con Neta. Non vuoi sapere cosa ci siamo dette per quaranta minuti?»

«Posso immaginarmi com’è andata la vostra conversazione, ma stamattina preferirei non occuparmene» risposi quasi subito. Sentivo come se loro due stessero vincendo ogni mia resistenza. «Sai, Itai» adesso il tono della sua voce era diventato triste, «ho riflettuto a lungo su tutto, e non sono riuscita a dormire più di venti minuti stanotte...» All’improvviso ha interrotto la sua frase come se si fosse appena ricordata di una cosa importante. «Ma dove sei? Da tua madre? Da tua sorella? O a casa del tuo amico deficiente?» «Non è un mio amico» risposi sforzandomi di essere convincente. «Hai collaborato con lui» Yael precisò. «È successo vent’anni fa» cercai di alleggerire la mia colpa. «E adesso, cosa stai facendo? Neta mi ha detto che lo incontri spesso, che sei andato con lui a Kfar Saba. Dimmi la verità, avete un altro sporco piano». «No» le assicurai, «non ho nessuno sporco piano». Ma lei insisteva. Chiese: «Dove sei adesso?» «In albergo». «Quale albergo?» «Tal, a Tel Aviv, vicino al mare». «Ti chiamo subito là». Pensa che non le stia dicendo la verità, mi resi conto. Il telefono della stanza squillò. «Itai Zer» chiese il signore della reception, «sua moglie al telefono». «Sei da solo in camera?» sentii la sua domanda diretta.

«Solo come mai prima» risposi in assoluta franchezza. «Penso sia meglio non vederci per qualche giorno. Così avremo il tempo di riflettere su ciò che è accaduto fra noi». «Va bene» accettai senza replicare. «Hai un lato, forse più di uno, che non conosco per niente, o meglio, che non conoscevo fino a ieri sera, fino a questa mattina. Non mi è facile dirti quello che ti sto per dire, ma te lo dirò comunque: sono certa che se mi fosse accaduta una cosa del genere, mi avresti abbandonata nello stesso modo». Le sue parole mi colpirono, ma non mi affrettai a calmare la sua ansia. Tra me e me ammisi che forse non aveva tutti i torti. «Ne riparleremo fra tre, quattro giorni, forse nel frattempo le cose saranno più chiare». La tregua che le offrivo risultava nebulosa, ma nonostante la mia sensazione mi sembrava che il tono della sua voce fosse cambiato. «Lo spero, per me, per te e per la piccola» concluse Yael. Subito dopo telefonai ad Avi Razi. La sua disponibilità a darmi il numero di Ayalà, senza reticenze, mi stupì. «Pensavo che dopo aver incontrato Neta mi avresti lasciato solo» disse, sollevato. «Non mi è nemmeno venuto in mente» risposi, e per fugare ogni dubbio aggiunsi: «Ti ricordi che mi avevi parlato di seimila shekel allora? Prepara i soldi, perché sono pronto ad entrare in azione. Domani o dopodomani andrò a trovare Ayalà, guadagnerò la sua fiducia, forse incontrerò anche suo marito. Non sospetteranno nulla, credimi». Mi venne un’idea che mi affrettai a esporgli. «Perché non mi dai un anticipo di trentaseimila shekel prima di portare Noam a

Nazareth? Facciamo così: diciottomila in onore del festeggiato del Bar Mitzvah, e diciottomila per il successo di suo padre, e tanti auguri a voi due». Notai con sollievo che alla mia proposta Avi non si tirò indietro. «Se può aiutarti nel nostro piano, farò uno sforzo». Fece una risata nervosa e ripeté due volte il numero di casa di Ayalà, a Yoqneam. Poi mi congedò. Adesso dovevo convincere Ayalà a incontrarmi al più presto. 12 Preferii non pianificare in anticipo la nostra conversazione. Una piccola eggiata lungo viale Nordau mi avrebbe aiutato a riprendermi dalle scosse dell’ultima notte. Camminai tranquillo verso via Ibn Gvirol e di là continuai verso la riva del fiume Yarkon. C’era qualcosa nell’acqua verdognola che mi richiamava. Mi tornarono in mente le lunghe camminate con mio nonno fino alla foce. Precedendomi a i piccoli e pazienti, ogni tanto tirava fuori una mela o una banana dalla sua borsa, per darmi forza nella lunga camminata. In quella mattina di ottobre si vedevano poche persone vicine al fiume; alcuni correvano, altri andavano in bici. La moglie dell’avvocato si era scelta un posto troppo pastorale per raccontare a suo marito la verità sulla sua vita complicata e informarlo della rovina del loro matrimonio. Tornai all’hotel a i veloci, pronto a telefonare ad Ayalà. Ero contento che fosse lei stessa a rispondermi, risparmiandomi la conversazione con il marito. Mi presentai subito, senza preamboli, proprio come avevo programmato durante la mia eggiata. «Sono Itai Zer, un conoscente del tuo ex marito» dissi, e aspettai la sua reazione. Lei non reagì. «Vorrei incontrarti a nome suo» continuai. «A proposito di cosa?» la sua voce si fece più tesa.

«A proposito della festa di Bar Mitzvah di vostro figlio». «Sei un semplice conoscente, o un amico?» cercò di capire la sfumatura. «Conoscente, ma di tanto tempo fa, già dall’esercito». La sua voce era diffidente. Ignorai questo sospetto e scelsi con cura le mie parole. «Vorrebbe vedere Noam prima del sabato del Bar Mitzvah, è diventato più religioso negli ultimi tempi, è molto importante per lui portarlo dalla sua famiglia prima di una giornata così significativa. Mi ha supplicato di convincerti a lasciarglielo fare». «Come hai detto di chiamarti?» chiese Ayalà, forse cercando di ricordare se avesse mai sentito la mia voce prima. «Itai Zer, ho fatto il servizio di leva a Hatzor. Ero impiegato all’ufficio riservisti». Volevo rimarcare il mio ruolo marginale, farle capire che non ero il solito ufficiale che aiuta un vecchio amico a sistemare le cose. «Non ricordo nessun amico di Avi che si chiamasse Itai». «Non sono un amico» dissi sulla difensiva. «È un buon segno che non mi ricordi il tuo nome», mi tranquillizzò, «quando vorresti incontrarmi? Non vengo spesso a Tel Aviv. Dovresti venire da noi». Scelse di usare il plurale per farmi capire come stavano le cose. Ne ero certo. «Verrò io da voi, sarò lieto di conoscere te e tuo marito» l’assecondai, e mi sentivo come un astuto commesso viaggiatore. «Avi ti ha detto che non ci vediamo da parecchi anni? Non vede nemmeno Noam, e non da un anno o due». «Il Bar Mitzvah è una data importante nella vita di un figlio» dissi, così, in modo generico. «Certo», replicò, e avvertii che era meno tesa.

«Sarò felice di incontrarti già domani» dissi con un tono di voce che cercava di coprire quanto fossi interessato a quell’appuntamento. Dopo l’ultima notte, Avi non era più la sola ragione del mio ruolo di intermediario. Mi sembrava giusto tornare a casa solo dopo aver sentito la versione di Ayalà. Speravo con tutto il cuore che lei accettasse. Nei pensieri degli ultimi giorni c’erano tutte e tre: Neta, Yael e Ayalà. «Parlerò con mio marito e ti farò sapere. Mi puoi dare il tuo numero di telefono?» quella richiesta semplice complicava le cose. Vai tu a spiegarle che non puoi dare il numero di casa, perché sei in albergo; che non sai se dormirai qui anche domani; che Avi, in un modo o nell’altro, è responsabile di tutto questo casino; che io, in fin dei conti, sto solo collaborando con lui e che la parte pericolosa di tutta la faccenda si sta avvicinando. Potevo solo azzardare. «Questo è il numero di casa» dichiarai, cominciando a dettarglielo proprio come avevo fatto con Neta, «e questo è il mio cellulare. Vuoi anche il numero del lavoro?» esagerai volutamente per allontanare ogni sospetto. «Dove lavori, nel supermercato di Avi?» ridacchiò. «No, scrivo libri di testo per le scuole». «Sai cosa? Ci vediamo domani» concluse Ayalà. Mi sentii sollevato. «Incontriamoci nel centro di Tivon, al caffè biologico». «A che ora?» scelsi una risposta breve e decisa per non deludere la sua disponibilità con parole di troppo. «Alle cinque del pomeriggio». 13 Fui sollevato quando vidi che era arrivata da sola. Notai i suoi folti riccioli quando uscì dalla macchina che l’aveva accompagnata, che si riavviò. La descrizione di Avi era esatta. Labbra carnose, seno prosperoso. La osservai mentre veniva verso il tavolo.

«Sono Itai» dissi porgendole la mano. La sua stretta fu sbrigativa. «Ayalà» rispose, come se ciò non fosse ovvio. Ripetei la richiesta che le avevo fatto al telefono. Mi sforzai di sembrare il mediatore fra due divorziati, o chi compie un’opera di bene. «Ho riflettuto, ne ho discusso con Leo e ho deciso che vorrei parlarti in tutta confidenza. Non so cosa tu sappia di Leo e di Noam, nostro figlio, e ho l’ impressione che anche su Avi non sai tante cose. Non lo odio affatto e non ho educato Noam a odiarlo, ma sono certa che il loro rapporto non sia più risanabile. Non è che a un certo punto si sia guastato, semplicemente non è mai nato». «Ti ascolto» dissi con tutta la franchezza di cui ero capace, nonostante fosse stata una bugia a portarmi lì. Le cose che Ayalà aveva detto fino a quel momento non presentavano grandi sorprese. «Vorrei che prima sentissi un po’ di cose su di me e su Leo. La prima volta che l’ho visto. Era arrivato a Yavne per farci vedere, a noi maestre di educazione artistica, i suoi giocattoli. Aveva un accento straniero, un buffo modo di esprimersi, nonostante fosse arrivato in Israele a dieci anni. È di Buenos Aires. La famiglia viveva nel kibbutz Sasa, parlava poco, affidava la comunicazione ai suoi giocattoli di legno. Che erano davvero stupefacenti. Aveva capelli lunghi e mani molto belle, specialmente le dita. Le guardavo mentre maneggiava le sue creazioni. Mostrava i giocattoli e li spiegava agli alunni. Leggi della fisica o fenomeni, un uccello bianco con ali spiegate, il bambino poteva appoggiarlo su un dito e l’uccello si manteneva in perfetto equilibrio, muovendosi da ogni lato, il nome Daniele fatto di lettere di legno che messe insieme creavano un quadro di Daniele nella tana dei leoni. Una caraffa di legno collegata a una ruota, se ci mettevi dentro l’acqua e giravi velocemente, l’acqua non debordava. Un’altra scatola per migliorare la coordinazione, che il bambino doveva maneggiare con cura e far entrare le biglie nei buchi che Leo aveva scavato su una tavoletta di legno. “Pazienza, precisione e tanto amore, questi doni i giocattoli danno ai bambini”, così ha detto con poche parole, io ero stregata dalle sue dita e dal suo

meraviglioso sorriso, nonostante il dente davanti fosse leggermente scheggiato e addirittura ricordo che temevo che le altre insegnanti, quelle ancora non sposate, si accorgessero che lo stavo fissando. Alla fine del breve corso ci ha consegnato i biglietti da visita colorati dicendo che sarebbe venuto volentieri anche nelle nostre classi a fare una dimostrazione dei suoi giocattoli davanti agli alunni. Mi sono messa il suo biglietto in tasca e nelle settimane successive ho cominciato a notare che lo spostavo da un vestito all’altro, probabilmente non volevo che si trovasse in casa. Allo stesso tempo mi sembrava stupido nascondere ad Avi questo bigliettino, dopotutto un ufficiale dell’aviazione non aveva da temere da un giovane che costruisce giocattoli di legno. Non c’era stato niente di particolare nel modo in cui mi aveva porto il biglietto. I suoi occhi non incontrarono i miei, le sue dita non toccarono le mie. Racconto questi particolari per farti capire come sono andate veramente le cose. Senza, non potresti entrare nella mia storia, da fuori le cose possono sembrare strane». «Quando l’hai visto la prima volta?» il mio silenzio cominciava a pesarmi, avevo sentito il bisogno di dire qualcosa e non semplicemente starle davanti, in questo piccolo caffè di Tivon, annuendo senza dire niente. «Intendo un vero incontro, non a scuola». «Non è successo subito. Ci ho messo due settimane. All’inizio ero spaventata e confusa. Mi sono chiesta come fosse possibile che una ragazza come me, in più sposata, tremasse come una foglia per il ragazzo di un kibbutz in Galilea, venuto a mostrare, a lei e ad altre venti maestre, dei semplici giocattoli. Non sapevo nemmeno cosa dire al telefono, non ero affatto sicura che lui si sarebbe ricordato di me, fra tutte quante. Peggio ancora, mi sono detta, forse mi scambierà per un’altra e sarà deluso quando mi vedrà». «Non penso che dovevi tradire Avi con il primo giocattolaio che hai incontrato. Ma una telefonata a un altro uomo non è un delitto» cercai un tono leggero per inserirmi in questa conversazione franca e aperta. «Ed ero al secondo». «Secondo di che?» domandai scioccamente. «Al secondo mese di gravidanza».

Ripetei stupidamente le sue parole. Ero sorpreso, di più, sconvolto, forse arrossii, anche, ma credo che Ayalà non l’abbia notato. O magari era anche fiera di avermi rivelato questo dato già all’inizio della conversazione. «Ho pensato che almeno una parte della mia agitazione fosse dovuta agli ormoni che si scatenavano nel mio corpo. Devi lottare contro i tuoi ormoni, mi sono detta, e cacciare subito dalla testa questi pensieri. Non ci sono riuscita, mi ero addirittura pentita di aver raccontato ad Avi che ero incinta. Volevo incontrare Leo, volevo telefonargli. Secondo mese, pensavo – e il solo fatto di averlo pensato mi stupì – è una cosa che ancora non si vede. Ma se avremo una storia, anche di pochi mesi, come potrò spiegargli che la mia pancia cresce di mese in mese? La pancia verrà fuori e tutto finirà lì, e io rimarrò con Avi e una stretta al cuore. Dentro di me parlavano diverse Ayalà. Mi sono sforzata di essere razionale. Le belle mani di questo giocattolaio non devono cacciare dalla mia vita il padre del mio primo figlio. Il cervello andava in direzioni diverse. Pensavo come moglie e un minuto dopo come donna innamorata e poi come madre». Mi vennero i brividi, non ne capivo la ragione. Non era timore, e non pudore di aver sentito tutta questa intimità, ma era, era un brivido di invidia. «Dopo due settimane ho preso coraggio e l’ho chiamato. Gli ho detto che ero Ayalà, che l’avevo visto quando era venuto alla scuola di Yavne e che volevo incontrarlo. “Per cosa?” mi ha chiesto, e io non ero preparata a questa semplice domanda. Avevo una risposta diretta ma era azzardata ed ero certa che, anche per telefono, mi avrebbe fatto arrossire. “Per niente”, ho mormorato, “così, un incontro privato, senza le altre maestre. Verrai a Tel Aviv prossimamente?” gli ho chiesto, sperando che la mia voce non tradisse il desiderio. “Forse”, ha risposto, ed ero sicura che dall’altra parte stesse sorridendo. Ho fatto un respiro profondo e con finta disinvoltura ho aggiunto, “la prossima settimana sarò alla scuola Levinsky, se verrai a Tel Aviv e avrai un po’ di tempo possiamo andare a mangiare una zuppa nel quartiere yemenita». A questo punto Ayalà è scoppiata in una fragorosa risata, e anch’io sorrisi. «Non so da dove mi sia venuta questa proposta, forse perché fuori pioveva, ero in salotto, a Yavne, una tazza di caffè caldo in mano, forse per questo mi è venuta in mente l’idea di una zuppa yemenita con un uomo che non conoscevo.

Ha riso. “Ti incontrerò volentieri nel quartiere yemenita”, ha detto, “ma come ti riconoscerò?” All’improvviso mi sono vergognata, e molto, pensavo che se mi fossi descritta al telefono – riccioli neri, occhi grandi marroni, seno grosso, labbra carnose, gambe lunghe anche se sono alta un metro e sessantatré – sarebbe stato chiaro che lo corteggiavo e quale fosse il mio vero desiderio. Alla fine mi ha proposto di vederci in un caffè, di lasciare la zuppa per un’altra volta. Caffè Leon in via Bograshov. “Con Leo da Leon” ha detto “è facile da ricordare”. Certo che ricordavo il nome, arrivai addirittura con un’ora di anticipo. Ero vestita con una gonna jeans, calze nere di lana, golf rosso e maglietta. All’inizio abbiamo parlato dei suoi giocattoli. Gli ho fatto molte domande serie, mi ero addirittura preparata un foglio scritto. Ma non riuscivo a controllare lo sguardo mentre fissavo le sue labbra, e dal ventre ho sentito una scossa attraversarmi fino alla gola. Non sono una donna che ha avuto tanti uomini, ma così seduta davanti a lui in quel caffè ho sentito che lo volevo. Tornai a proporre una zuppa calda, ma nel mio cuore avevo un altro piano». Smise di parlare e sembrò aspettare una mia reazione. Da parte mia non sapevo come affrontare il suo sguardo. Forse se ne accorse e tornò a raccontare. «“Nel quartiere yemenita, non lontano da via Allemby, c’è un hotel dove ho dormito una notte con altre soldatesse, ti assicuro che non è un albergo per soldatesse sole, e mi sono ripromessa di tornarci da sola”. Così gli ho detto, mentre stavamo nella piccola osteria di Shimon, il re delle zuppe, ho detto a Leo, prima ancora che iniziassimo a mangiare, che se lui voleva fermarsi a dormire a Tel Aviv allora conoscevo un piccolo hotel non lontano, che si chiamava Galileo. Mi ha sorriso, era chiaro che aveva capito perfettamente, non sorrideva solo per il Leo Galileo e Galilea. Sai, ero e sono rimasta una persona trasparente». «Ma che vuol dire?» le chiesi, domandando anche a me stesso come sarebbe andata la mia vita se anch’io fossi stato un persona trasparente. «Porto con me i miei sentimenti come un bambino in un marsupio. Stanno dentro di me, ma si vedono anche da fuori. Sono certa che anche Avi ha avvertito qualcosa quando sono tornata a casa, dopo esser stata a letto con Leo la prima volta; ostentavo la pancia per giustificare la felicità che emanava il mio volto». «Ma tutte le volte che sei stata con Leo, non hai pensato ad Avi?» chiesi, subito mi sentii come il giudice del tribunale rabbinico.

Ignorò la mia domanda puntigliosa. «E fu proprio in quella stanza dell’hotel Galileo che gli ho rivelato, dopo due mesi di incontri e di tensione insopportabile, almeno da parte mia, che ero incinta e non di lui, ma di mio marito. Lo ricordo molto bene, ero seduta sulle sue ginocchia, gli davo le spalle, preferivo non vedere il suo viso durante quella confessione – lui mi ha abbracciato da dietro e ha detto che quel fatto non significava per forza che non dovessimo più vederci. Pensavo scherzasse. “Senti”, gli ho chiesto, “vuoi che io salga in questa camera col pancione al settimo mese? Non sono il tipo di donna capace di fare una cosa del genere, in questi mesi ne ho già fatte tante che un tempo sarei svenuta al solo pensarci. Questa camera e le cose che facciamo qui dentro sono per me una novità, non le ho mai fatte prima”. Leo ha capito che i nostri incontri stavano per interrompersi e mi ha sorpreso un’altra volta chiedendomi di dargli un po’ di tempo per riflettere su cosa ci sarebbe accaduto dopo questa sorpresa. “Cosa ci hai combinato?” disse proprio così, facendomi il solletico sulla pancia, con affetto e senza rabbia alcuna. Ricordo quanto mi commosse questa differenza fra lui e Avi. “Ayalà”, disse, e non vedevo la sua faccia, “anche per me questo albergo e il bambino che hai dentro sono una novità. Non sono la persona che adotta con facilità un bambino che non ha mai visto”, rideva, “devo vedere tra me e me se sono in grado di cominciare questa relazione proprio dalla fine”. “Perché dalla fine?” gli ho chiesto, ci ero rimasta male per la definizione che aveva dato a un amore ai suoi inizi, ma ha subito continuato: “Ayalà, di solito le persone si incontrano, si conoscono, vanno a letto insieme, si innamorano, si sposano, nascono i figli, e dopo tutto questo, se il loro amore dura, non si separano. Nel nostro caso l’ordine è diverso. Ci conosciamo da settanta giorni, ne abbiamo ati sei insieme, senza le notti, e già dobbiamo decidere se vivremo insieme, e dove, e se tuo figlio, vostro figlio, vivrà con noi, se lo cresceremo insieme, non è una questione semplice. Adesso hai un amante, Ayalà Razi, ma ciò non vuol dire che per causa sua devi lasciare un’altra cosa che ti sei creata nella vita. E se lo farai, veramente comincerai dalla fine, e io con te”». La guardavo e pensavo che queste parole io non avrei avuto il coraggio e la forza di dirle. Mi era chiaro che lei stava studiando l’espressione del mio viso. Continuò: «Mi ricordo che la cosa che mi risuonava in testa, in modo particolare – sia nella stanza d’albergo, sia nel pulmino tornando a Yavne – erano le parole ‘tuo figlio, vostro figlio’. Nel viaggio mi sono ricordata di un’intervista che avevo letto in

una rivista di poesia, trovata aperta su un tavolo nella biblioteca del College Magistrale. Là avevo visto la foto di una poetessa con un grande cappello, capelli neri e lunghi e stivali dalle zeppe vertiginose. Rispondendo a una domanda sulla diversità fra uomini e donne, all’intervistatrice aveva detto: “l’uomo fa sesso, la donna genera vita”. Ho pensato che con me e con Avi fosse il contrario, mi sono chiesta quale diritto avevo di abbandonare Avi proprio nel momento in cui aspettavamo nostro figlio. E ho pensato anche a Leo. Come posso pretendere da lui che si prenda questo carico? Non merito un regalo così grande, mi sono detta, seduta nel pulmino, chiusa con la mia pancia fra due uomini. Ricordo molto bene questo pensiero. Fra alcuni mesi, continuavo a pensare, diciamo tre, quattro mesi, sarò al settimo mese e mi troverò a letto con lui nella sua stanza del kibbutz, una stanza che conosco appena, le sue mani accarezzeranno il mio pancione, e saprò che dentro la mia pancia vive il ato, quello che ero solo pochi mesi prima. E poi cosa mi aspetta? Un parto, le udienze del tribunale rabbinico, alla fine il divorzio, un bambino che ha un padre biologico e un altro che vedrà ogni giorno, sapendo che non è veramente suo padre. Non ce la facevo ad affrontare tutto questo». Tacque. Lo sguardo ricercava sul mio viso una traccia di quale fosse la mia reazione. Sembrò aver trovato quello che cercava. «Io non ti conosco, forse mi è facile parlarti di tutto questo proprio perché sei un estraneo. È vero che è Avi che ti ha mandato, ma non ascolti come una persona legata a lui». Fece un sorriso molto luminoso, verso di lei sentivo una vicinanza assai più grande della pietà che avevo avuto verso Avi Razi quando eravamo a casa sua, nella stanza delle riviste femminili. Continuò, la sua tranquillità mi conquistò. «Oggi sono diversa, ma a quel tempo ero la Ayalà che aveva sposato Avi Razi solo perché pensavo che così deve fare una ragazza di ventiquattro anni, fidanzata con un bravo ragazzo, un ufficiale di carriera, che ha tutte le chance di ottenere una buona sistemazione, e perché deve una ragazza così sognare e aspettare altri ragazzi, che forse non arriveranno mai? Ed ecco che il sogno mi è capitato, in ritardo, dovevo prendere una decisione che avrebbe cambiato la vita mia e di mio marito, e anche del bambino, o bambina – non sapevo ancora chi

aspettavo, ma il nome era già pronto. Noam. È un bel nome sia per un maschio che per una femmina. In quel periodo non ero sicura di niente, solo di questo nome. Buffo, no? La disponibilità di Leo mi aveva paralizzato. Tremavo al solo pensiero di dire ad Avi che proprio ora, a metà gravidanza, mi ero innamorata di un altro uomo e che andavo a vivere con lui». La sua franchezza mi stregava. Non volevo interromperla dicendo che Avi mi aveva raccontato cose diverse, e date diverse. Tuttavia il bisogno di dirlo era più forte di me. Non è onesto, pensai, continuare ad ascoltarla nascondendole la versione di Avi. «Mi ha raccontato una versione piuttosto diversa del tuo abban... della tua partenza». «Cosa ti ha raccontato?» era curiosa, non tesa, sicura della sua versione. «Che ti sei trovata un amante quando il bambino aveva tre mesi. Che hai allattato il bambino mentre andavi a letto con un altro, e un giorno, quando il bambino aveva un anno e ancora non diceva “papà”, all’improvviso te ne sei andata». Sembrava che le stessi lanciando un’accusa, mentre le stavo solo ripetendo le parole dell’ex marito. La sua risposta mi sconvolse. Negli ultimi mesi le donne mi sorprendono, ciascuna a suo modo. «Non ti ha detto la verità» disse, rimanendosene in silenzio. Aspettavo impaziente il seguito. «Me ne sono andata al quarto mese, due mesi dopo che mi ero innamorata di Leo, due mesi dopo aver saputo che ero incinta. Ero contenta di aspettare un bambino. Avevo ventisette anni, non ero rimasta incinta subito dopo il matrimonio. Era un matrimonio normale, il nostro, come tante coppie nel nostro quartiere di Yavne. Non mi sentivo diversa, suppongo che lo fossi, forse lo sono anche oggi. So che non avrei avuto la forza di lasciarlo se il bambino fosse nato quando stavo ancora con lui. Il fatto che il bambino fosse ancora dentro di me mi ha aiutato a staccarmi».

Mi fissò chiedendomi: «Lo capisci?» «No» risposi subito. E aggiunsi: «Non avevi dei sentimenti verso Avi prima che cominciasse tutto... questo casino?» La domanda mi venne naturale, perché quando parlava dell’uomo che per tre anni era stato suo marito, non aveva mai pronunciato la parola ‘amore’. «Sentivo verso di lui gratitudine, grazie al nostro rapporto era dovuta tornare a casa dai miei, in Galilea, una volta finito l’esercito. Così avevo potuto rimanere in centro, per me Yavne era davvero un centro. Ma quando ho incontrato Leo e l’ho conosciuto veramente, ho capito che per me questa gratitudine era del tutto inutile. Dimmi, ti ha raccontato cosa gli ho detto il giorno che ho lasciato la nostra casa?» «Ha raccontato, certo che ha raccontato», risposi, «ma non ha senso che ripeta le sue parole. Nella sua versione, vostro figlio ha un anno, piange e si attacca disperato alla tua gamba. Tu tieni in mano dei sacchi pieni di giocattoli. Per farla breve, nella versione di Avi eravate in tre, ora ho capito che eravate solo due». «È stato un momento di grande crudeltà» Ayalà sospirò. «Da parte sua?» Già sapevo cosa avrei detto ad Avi del suo piano. Volevo chiamarlo appena finito l’appuntamento. «No, da parte mia», la risposta inattesa mi piombò addosso. «Ho scelto parole tremende». Rimasi in silenzio. Non ero affatto sicuro di voler sapere altri dettagli. Mi bastavano i dialoghi fra me e Yael, il giorno prima. La mia vita si era intrecciata con la loro per ragioni completamente casuali. Tutto è cominciato nell’ufficio di Arie Rachamim della base di Hatzor, mi sono ricordato, e finirà, speravo, nel nostro salotto, dopo aver sentito la cassetta che Neta ha scagliato contro le nostre vite. Me ne tiro fuori. Eppure sarebbe affrettato andare via proprio adesso. Meglio sapere su Avi Razi il

più possibile, senza legame con il mio coinvolgimento nel piano del Bar Mitzvah. Avi Razi sa molte cose sul mio conto. Mi ha visto nella miseria, e adesso è arrivata l’ora che anche io lo veda sconfitto, vittima della crudeltà di una donna che a quest’ora del pomeriggio mi appare incapace di fare del male. «Vuoi sentire della mia crudeltà?» chiese con comprensione, «vedo che non sei a tuo agio». Compresi dal suo tono che non voleva costringermi ad ascoltare questo frammento. Annuii e mi affrettai a chiarirle: «Non è che non sono a mio agio, cerco di ricostruire come sono capitato dentro questo groviglio, che bisogno ho di avere la vostra vita dentro la mia e quella di mia moglie». Vedendo il suo stupore mi fermai per qualche secondo. Continuai sperando di ricambiare la sua confidenza con la mia. «Non ho molto da raccontarti in cambio delle cose che mi hai rivelato oggi. Te lo dico proprio ora, prima che tu mi renda partecipe di quello che è veramente successo quel giorno. Ho conosciuto Yael, mia moglie, mentre preparavamo, al Centro Programmi Scolastici, la cartella su Leonardo Da Vinci. Artista e scienziato, l’abbiamo chiamata. Ci hanno mandato Yael dal dipartimento di storia dell’arte. Ha scelto i disegni e scritto un testo scorrevole e preciso, ho aggiunto le macchine volanti e i disegni anatomici. Esprimeva una tale tranquillità che subito mi affascinò. Abbiamo cominciato a convivere dopo sei mesi di fidanzamento. È avvenuto con naturalezza, un semplice atto di due persone che rafforzano il loro amore, lo mettono alla prova del risveglio la mattina insieme, il nervosismo che talvolta accompagna le prime ore del giorno. Abbiamo superato l’esame». Le sorrisi, e notai che stava ascoltando con interesse. «Ci siamo sforzati, così almeno mi sentivo io, per rinforzarci l’un l’altro. Non ho mai nominato le donne che l’avevano preceduta e lei non mi ha mai detto nemmeno una parola sugli uomini che aveva avuto prima di me. In quel periodo questo ci ha aiutato, ma negli ultimi mesi ho capito che era impossibile mettere a tacere i rumori del nostro ato. Talvolta vogliono far sentire la loro voce e ti costringono ad ascoltarli. L’ho imparato proprio da Avi. Sarà complicato spiegarti proprio ora come tutto questo sia legato al tuo ex marito, ma credimi, è difficile difendersi dalle irruzioni nel ...»

«Itai, stai cercando di dirmi che avresti preferito rimanere con la versione di Avi?» «Certamente no», mi affrettai a negare, «scusami per averti confuso con le mie storie sulle irruzioni degli amori ati. Meglio che continui con il tuo racconto». Era contenta delle mie scuse e subito accettò il mio consiglio. «Quella sera decisi di non tornare a casa prima delle otto. Non volevo essere sola in casa. Ero innamorata di Leo, lo sentivo in tutto il mio corpo, solo vedere le stanze vuote del nostro appartamento mi metteva inquietudine. Non ero andata a letto con Avi da quando avevo avuto la risposta positiva del test. Mi sono inventata perdite, infiammazioni, candida, funghi, mi sono comportata abbastanza male. Ma con Leo sentivo che niente poteva separare i nostri corpi. Quando Avi è tornato a casa gli ho semplicemente detto che non volevo più vivere con lui, che amavo un altro uomo e che pertanto non c’era nessuna ragione per continuare a vivere in quella casa, io in una camera e lui in un’altra. “Me ne vado di qua adesso”». «Non è un gesto di grande crudeltà» osservai. Ero colpito dalle sue parole. Sembrava rivivere con grande potenza quel momento. «Avi mi ha detto “non puoi andare da nessuna parte”, e indicava la pancia, “è nostro figlio, non puoi farlo, non ne hai il diritto”. Era pallido di rabbia, mi faceva paura, sentivo che stava per perdere il controllo. Ero contrita, ho messo le mani davanti alla pancia per fermare il calcio se fosse arrivato, avevo paura che uccidesse il bambino. Ho urlato come un animale e con due mani ho indicato la pancia, con le dita protese in avanti. “Non è nostro figlio, si trova solo dentro uno di noi, solo dentro di me, non si tratta di una casa o di una macchina che può essere di noi due, è mio figlio!” E sono corsa fuori come se la casa avesse preso fuoco». «In tanti anni trascorsi da quella sera, sono tredici, gli ho chiesto scusa, in cuor mio, decine di volte. Ammetto che nelle mie parole non c’era nessuna sensibilità. Tu sai, ne sono certa, che dopo quel giorno non ha mai più voluto parlarmi, e prima della tua telefonata non pensavo che la nostra vita gli interessasse minimamente...» «Sai che io e mia moglie abbiamo una bambina di un anno?» interruppi il suo

monologo, «abbiamo aspettato quattro anni il suo arrivo». Ayalà sembrò sorpresa di quella confidenza improvvisa, probabilmente non riusciva a collegare la nascita di mia figlia al suo addio ad Avi Razi. «Il tuo grido “è mio figlio” mi ha sconvolto» spiegai quella rivelazione esagerata, «se Yael mi avesse rivolto parole simili non sarei stato in grado di parlare per un bel po’. Sai, proprio negli ultimi giorni avrebbe potuto dirmi cose orrende». «L’hai tradita?» Ayalà chiese con leggero distacco, la prima volta da quando era cominciato il nostro incontro, in quel caffè. Non sapevo come risponderle, cercavo una spiegazione esatta. «Non sono andato a letto con un’altra donna, se a questo ti riferisci, ma l’ ho tradita ugualmente». «Vedo che anche tu hai cose da raccontare» Ayalà sorrise, e sorseggiò il suo tè. «Non sei andato a letto con un’altra donna ma l’hai tradita. Dimmi, avevi un uomo?» La sua risata salì libera, era chiaro che giudicava la sua ipotesi priva di fondamento. «No, non avevo amanti di nessun genere». La mia espressione seria aveva stroncato la sua risata. «Tanti anni fa, prima di conoscere mia moglie, ho abbandonato una ragazza, e per tutti questi anni non l’ho mai confessato a Yael» dissi pacatamente. «Hai abbandonato qualcuno che lei conosce, una sua amica?» «No, non l’ha mai conosciuta, ma l’ha saputo tre giorni fa. Neta, la ragazza che ho abbandonato, mi ha costretto a raccontare tutto a Yael – farle sapere tutto, con la sua voce. L’ha fatto». Ho notato che nonostante mi accingessi a raccontare i fatti con precisione, le mie parole ponderate avevano l’unico effetto di confondere Ayalà. Faceva fatica a seguire tutti i meandri che dispiegavo. Come è possibile che tradisco mia moglie ancor prima di conoscerla? Come può accadere che le racconti questo fatto tre

giorni fa con la voce della ragazza abbandonata? Potevo verificare tutto questo quando lei tentò di ripetere il senso delle mie parole e il suo tono di voce rivelò quanto assurdo risuonasse alle sue orecchie. «Con la sua voce? Questa ragazza, Neta, un giorno è semplicemente venuta a casa vostra e si è lamentata da Yael che tu l’avevi lasciata...» Mi lanciò uno sguardo interrogativo. «Vent’anni fa» completai la frase. «Ma non è così semplice, non è che l’ ho lasciata, l’ho abbandonata», continuai ostinandomi a raccontare con precisione ogni fatto avvenuto. Per me era importante che Ayalà sapesse. Avevo un debito di precisione con Neta, mentre in Ayalà c’era qualcosa che esigeva una totale franchezza. «Tutto è cominciato quando ho avvertito ultimamente il bisogno di rincontrare Neta, e saldare il debito che sentivo di avere con lei, chiederle...» «Perdono?» aggiunse Ayalà. Era chiaro che anche per lei era un gesto tardivo. Poi lei, come se le fosse venuto in mente un dettaglio importante, deviò il discorso e mi chiese incerta: «Dicevi che avete una bambina?» «Sì» confermai, e mi chiesi come si fosse inserita nella nostra conversazione la piccola Tami. «Subito dopo aver lasciato Avi, nei mesi di gravidanza che seguirono» Ayalà tornò a raccontare, «mi preoccupava il pensiero... in realtà speravo tutto il tempo di avere una figlia, che non mi sarebbe nato un figlio». «La nascita di Noam, vostro figlio, ti ha deluso?» chiesi quasi senza pensare, contento che Yael e Neta non fossero più al centro della conversazione. «No, per niente, sono molto contenta di avere Noam, e mi vergogno un po’ di quel pensiero». Yael fece un sorriso stanco, e all’improvviso mi sembrò provata. Sembrava che la conversazione le pesasse più di quanto avesse immaginato. Siamo estranei, mi sono detto, guardando il suo viso e aspettando la sua spiegazione. Temevo che il nostro dialogo aperto si interrompesse d’un tratto.

«Non capisco cosa ci sia da vergognarsi in un pensiero simile» volevo rassicurarla. «Pensavo» sospirò, «che se mi fosse nata una figlia, più probabilmente non avrebbe assomigliato ad Avi, perché avrebbe avuto dei tratti femminili, e non avrei dovuto vivere con Leo nella stessa casa e vedere tutto il giorno un bambino che corre di qua e di là con una faccia che ricorda suo padre, una faccia che non volevo più vedere, al posto della faccia dell’uomo che amavo. Fino al parto abbiamo vissuto nel suo kibbutz, mi chiudevo in camera e sbirciavo dalla finestra, vedevo sempre dei piloti di cacciabombardieri che abitavano là, ed ero convinta che tutti mi conoscessero. Ero così spaventata che Avi scoprisse dov’ero e venisse a prendermi che tutta Sasa mi sembrava una base dell’aviazione e supplicavo Leo di andare ad abitare in un altro posto. Così è stato. Dopo il parto siamo andati a vivere nella cittadina di Yokneam». «Hai detto a Leo che speravi di avere una figlia?» «No, no, avevo sensi di colpa poco razionali. Ammetto che mi sentivo in colpa non perché avevo abbandonato Avi, quanto perché avevo coinvolto Leo in tutto questo. Che fretta avevo di fare un figlio? Mi chiedevo spesso. E nel momento in cui Leo mi ha portata a casa sua, per lui i casini erano solo cominciati. Nel corso pre parto ero tesissima e speravo che non mi chiedessero se anche il padre avrebbe partecipato ad alcune sedute. Le ragazze che tenevano il corso dicevano che anche il compagno poteva venire, ringraziavo il cielo che non dicevano “il padre”...» «Leo è mai venuto?» ero geloso del modo in cui Leo era entrato nella vita della sua amata e si era sobbarcato le difficoltà come fosse una cosa naturale. «Sì, inoltre scherzava con me e diceva di essere il sostituto di Avi per quando sarebbe arrivato il momento, lui avrebbe ceduto il posto e avrebbe detto: “saluto il colonnello Avi Razi, sua moglie è pronta per il parto”. Non è possibile, rideva, che lui e Avi avrebbero aspettato in sala d’attesa per vedere il neonato». «Avi è venuto al parto?» feci una domanda superflua. «Non avevo nessun timore che arrivasse, conoscevo lui e la sua famiglia e potevo contare sul senso di vergogna...» «Vergogna di chi?» cercavo di chiarire ogni sfumatura della situazione. «Di Avi. Non è il tipo di uomo che ha piacere che gli altri scoprano che sua

moglie lo ha abbandonato al quarto mese di gravidanza. Che suo figlio crescerà nella casa di un altro uomo. Ha preferito tagliare i ponti. Non ho la più pallida idea di cosa abbia raccontato alla sua famiglia». «Che sei pazza» le proposi prontamente questa versione. «Che hai abortito e sei caduta in depressione e ti hanno internato, i rabbini gli hanno procurato il documento del divorzio e grazie a Dio è riuscito a liberarsi di te». «Per quanto riguarda la follia, ha raccontato la sua verità» disse Ayalà, annuendo come chi capiva la versione altrui, «dal suo punto di vista quel giorno mi sono veramente comportata da pazza, sono uscita dalla sua vita in una sera». «Scusami, ma Avi non è venuto al parto, mentre Leo sì?» chiesi con pudore. «No, non c’era nemmeno Leo durante il parto. Tutto è legato a una mia speranza di quei mesi che per fortuna si è avverata: non volevo un parto naturale, mi auguravo un cesareo, perché ero certa che così non avrebbero fatto entrare Leo. Ricordavo bene le sue parole all’hotel, che cominciavamo dalla fine, e non volevo che anche questo parto diventasse un’altra dimostrazione di sensibilità da parte sua. Amo Leo, ci può essere una donna che non ami un uomo così?». Per un attimo smise di parlare. Non sapevo se stava aspettando una mia risposta. «Speravo che solo io, i medici e gli infermieri ci saremmo trovati in sala operatoria, e che il bambino l’avrebbero fatto vedere solo a me. Nemmeno i miei genitori sapevano la data precisa del parto. Avevo problemi con la placenta e Noam è nato due mesi prima del tempo – tutto è avvenuto come mi auguravo, così non fui preda degli sguardi di tutti quelli che c’erano e anche di quello di Avi, che mancava. Nessun padre aspettava fuori, e le parole “il padre felice”, che lo staff della sala operatoria ripeteva, non c’entravano con la realtà del mio parto. Il mio amore verso Leo lo aveva tenuto fuori da quella sala – lo capisci? o ti sto solo rovesciando addosso le mie complesse faccende?» Non sapevo come rispondere e non ero nemmeno in grado di capire la devozione con cui Leo e Ayalà erano andati uno verso l’altra. Invece cominciai a capire cosa avesse portato Avi a comprare quella montagna di riviste femminili, settimana dopo settimana. Centinaia di tentativi per capire la forza custodita in sua moglie, senza riuscirci. Nemmeno io potevo far fronte a un amore del genere. Noam, il figlio di Avi, era

carne sua, tolta dalla sua vita con la prepotenza di due innamorati. «Ma» cercai comunque di capire, di cacciare dalla testa quei pensieri, «qualcuno certamente ti aspettava dopo che ti sei ripresa dall’anestesia». «Leo mi aspettava, ma già nella stanza, e solo dopo che ho ato un po’ di tempo col bambino. E dopo Leo ha trovato modi meravigliosi per far diventare Noam quasi suo figlio. Si svegliava per lui di notte, giocava con lui per ore, gli ha costruito giocattoli particolarissimi. Nei mesi agitati che seguirono il parto, non ha mai menzionato, in nessuna nostra litigata – e ci sono litigi anche fra due strani innamorati come eravamo noi – come è arrivato a noi questo figlio. Noam è molto legato a lui. Si può notare questa cosa, senza bisogno di parole, ha lo stesso sorriso di Leo, hanno la stessa camminata. Alcuni giorni fa li ho visti giocare insieme a pallacanestro, tirano esattamente nello stesso modo». «Sarò lieto di conoscere Leo alla prima occasione», dissi una frase stupida dovuta alla mia gelosia per quanto fosse capace di amarla. «Vi incontrerete quando ti porterò Noam. Preferisco farlo fuori della nostra cittadella, diciamo a Zichron Yaakov. Va bene venerdì prossimo alle nove?» «Lo dirò ad Avi. Gli darai una grande gioia». Non capivo perché parlavo così a nome suo, mentre sapevo benissimo da quale parte stavo. «Grazie anche a te, che ti sei mischiato in tutto ciò». Leo è venuto con la macchina a prenderla dal caffè. Non sono riuscito a vedere la sua faccia. Rimasi lì seduto da solo, cercavo di capire dove mi stava portando quella conversazione. Quando mi alzai per pagare, sapevo dove dovevo andare. 14 Andai da Avi direttamente da Tivon. Volevo verificare insieme a lui perché non mi aveva raccontato come veramente Ayalà era andata via da casa, o meglio, quando era andata via. La scena che mi aveva descritto era assai più drammatica. Il bambino che si aggrappava alla gamba della mamma, i giocattoli dentro sacchi

di plastica con cui si difendeva da lui e l’altro uomo che l’ aspettava fuori. Tutta la potenza dell’abbandono di Ayalà stava nelle parole che non mi aveva rivelato, nella sua risposta tagliente, “è mio figlio”. Non c’era nessun pianto di bambino, i giocattoli non erano stati raccolti dal pavimento, nemmeno il ricordo di un bambino che gattona hanno popolato il cervello di Avi. Solo “è mio figlio”. Compresi che si era inventato una sua versione per conquistare la mia simpatia – così almeno aveva sperato il direttore del supermercato di Yavne, questo ex ufficiale. Si sarà augurato che anche lei mi avrebbe nascosto quel momento, che si sarebbe vergognata, che mi vedeva solo per un breve incontro, per stabilire se Noam poteva andare da lui. La disponibilità di lei aveva sconfitto il suo piano. I miei pensieri correvano e il mio cellulare era spento. Non volevo che Avi, curioso com’era, mi infastidisse con le sue domande mentre guidavo verso casa sua a tutta velocità. Meglio che fossi io a fare le domande, quando lo avrebbe affrontato. In questi giorni ho già ascoltato abbastanza. Mi preoccupava la possibilità che Yael, verso sera, avrebbe tentato di verificare se fossi tornato a casa o se fossi rimasto ancora fuori, per meglio capire quanto grande fosse la rottura che la cassetta aveva provocato nelle nostre vite. Non volevo raccontarle le ore ate a Tivon e portare a casa nostra l’intimità di vite altrui. Per la seconda volta negli ultimi giorni, un’intimità di vite altrui. Sono mesi che mi comporto come se non mi bastasse la vicinanza tra noi tre, Yael, la bambina ed io, sembra che il mio unico desiderio sia ascoltare le vite ingarbugliate di estranei. Non sempre possiamo riparare ciò che si è guastato quand’eravamo giovani. Avi Razi cercava di farlo e io non dovevo lasciarmi incastrare nel suo tentativo. Volevo liberarmi da questa tenaglia. Da quando avevo incontrato Avi in centro a Tel Aviv, avevo cominciato a vagare tra parole e luoghi che non avevano alcun legame vero. Yavne, Kfar Saba, Tivon – cosa c’entro con questi posti? Come ho permesso loro di impossessarsi delle mie giornate? Mi fermai da un benzinaio per calmare la mia agitazione, controllare il grado di violenza che mi assaliva. Arrivare a casa di Avi e riempirlo di botte non aveva alcun senso; rinunciare al piano del Bar Mitzvah significava tirarsi indietro. E questo è un atteggiamento che ti segue senza tregua, subito dopo averti concesso un breve intervallo. Tornai alla macchina. Adesso guidavo piano. Decisi di raggiungere Razi non seguendo la strada diretta ma facendone una tutta a serpentina. Entrai ad Asdod, feci tutta via Rogozin, di là continuai fino al cancello della base di Hazor e chiesi

scusa alle sentinelle perché tenevo gli abbaglianti accesi. Risposero puntando delle potentissime torce contro la mia faccia e chiesero, signore, va tutto bene? Non va bene niente, bisbigliai, ma risposi sorridendo e con tono rassicurante, sì, è tutto sotto controllo, non preoccupatevi. Vado a Yavne a sistemare alcune cose. Avi si meravigliò di vedermi sull’uscio. «Ti ho chiamato tante volte, ma non eri raggiungibile», si lamentò subito. «Ayalà ti permetterà di are con Noam il venerdì prima del Bar Mitzvah», lo informai ignorando la sua lamentela. «Loro, lei e suo marito», sottolineai volutamente per vedere come reagiva, il suo viso si incupì subito, «lo porteranno a Zichron, di là lo porterò da te. Preferisce non vederti. Le ho detto che lo vuoi portare alla cena di sabato dalla tua famiglia». «Itai, ti ricordi che non ci sarà nessuna cena e nessuna famiglia?» mi disse quando ci accomodammo in salotto. La sua ottusità mi faceva arrabbiare. «Peccato che non mi hai detto la verità». «A proposito di che?» «A proposito di Ayalà e tuo figlio. Noam non ha vissuto con te nemmeno un minuto!» «Non ero in grado di dirtela, la verità» si giustificò senza stupirsi che l’avessi scoperto. «Non saresti entrato in tutta questa storia se avessi saputo quanto misero ero stato quella sera. Adesso forse capisci perché leggevo Mondo Donna come un forsennato. Ti devo dire, mi sono sentito come uno a cui hanno rubato il seme e rapito un feto!» Cominciò a piangere. Lo fissai. Erano lacrime vere. «Lei mi ha paralizzato, mi ha tolto la capacità e la possibilità di incontrare mio figlio. Sai quale era il mio incubo? Che lo porto dalla mia famiglia, alla cena di Pesach, ad esempio, o a Capodanno, e lui se ne sta lì, senza dire una parola, e tutti ci osservano e i loro sguardi chiedono cosa c’entrate voi con la tavolata

della nostra famiglia? Adesso lo incontrerò per la prima volta». «Allora non sai nemmeno che aspetto ha?» «Lo so, l’ho visto con un binocolo». Lo guardai incredulo. «Con un binocolo?» «Non mi vergogno ad ammettere che li ho pedinati, Ayalà e il suo Leone». Non era in grado di pronunciare il nome di Leo. Decisi di insistere sul nome dell’uomo che ancora non avevo conosciuto, ma che dopo l’incontro con lei godeva della mia simpatia. «Leo, si chiama Leo» ripetei quel nome così poco israeliano. «Sapevo dov’erano ogni momento. Quando stavano ancora a Sasa, avevo chi mi informava. Delle volte per caso, altre indagavo. Sai, questi kibbutz sono pieni di piloti della nostra aviazione e alcuni la vedevano nella sala da pranzo. Andarono abbastanza presto a vivere a Yokneam. L’ho pedinata anche là. Ho visto le loro eggiate nel centro di Tivon. Sorridevano, sembravano felici, Noam era in carrozzina. Tutto sembrava così naturale, solo io sapevo che se avessi avuto in mano un fucile e non un semplice binocolo, avrei sparato a loro due e lasciato in vita mio figlio». Era completamente serio. «Nonostante la mia rabbia, non le ho fatto problemi quando mi ha chiesto il divorzio. Nella mia famiglia, anche nella sua...» «La sua famiglia?» ero stupito, «che ne sai della sua famiglia, da quando se n’è andata?» «Telefonai a loro un mese dopo che mi aveva lasciato. Non sapevano più niente di me. Andai a trovarli. Non mi ero fatto la barba, ero pallido e smagrito. Erano sconvolti nel vedere come mi ero ridotto. Suo padre le telefonò in mia presenza, la supplicò di parlarmi. Anche lui mi disse che non capiva il suo comportamento folle».

«E cosa hai raccontato ai tuoi? Ayalà mi ha detto che sapevano che aveva abortito, poi che le era venuto un esaurimento nervoso ed era rinchiusa in un manicomio ad Emek-Israel, non lontano da Nazareth». Volevo fargli capire che sapevo più di quanto avesse scelto di raccontarmi, e che restavo con lui solo per avere i soldi che mi aveva promesso. «Questo è veramente ciò che gli ho detto, ma non mi è chiaro come anche lei l’ha saputo», disse. Continuava ad essere agitato, ma la sua tristezza sparì. C’era qualcosa di poco affidabile nella sua improvvisa intraprendenza. Cominciò a elencare i dettagli della versione aggiornata e migliorata del suo “semplice piano”, e io ascoltavo con attenzione per sapere quale sarebbe stato il mio ruolo in questa faccenda. Mi daranno Noam venerdì mattina, glielo consegnerò a Paradis, lui lo porterà nella direzione di Nazareth. Se lo chiameranno, dirà che Noam è con lui, e sono in viaggio verso Tel Aviv e tutto sta andando bene. A Nazareth, nella camera d’albergo, arriveranno di sera, e darà a Noam tutti i regali che ha preparato per lui. La stanza, come concordato, non sarà a mio nome. E comunque, anche se la polizia cercherà negli alberghi, si concentrerà nelle grandi città, e certo non verrà loro in mente di cercare a Nazareth. Ad ogni modo, fino a sabato mattina, il giorno in cui il ragazzo dovrà leggere la Torah in sinagoga, nessuno si aspetterà che c’è qualcosa che non va. Potrò sempre negare che ero al corrente del suo piano. Sabato, di prima mattina presto, nell’ora in cui dovrò restituire Noam ad Ayalà, il mio cellulare sarà staccato. A casa mia nessuno saprà dove mi trovo. Non dormirò nel mio letto, né dai miei genitori né da mia sorella. Non mi avvicinerò ai Territori occupati o all’aeroporto. Mi allontanerò da ogni posto in cui ci sia presenza massiccia di poliziotti. Non sarà raggiungibile nemmeno lui. Nessuno saprà dove siamo noi tre in quella mattina solenne. Le ore eranno, gli invitati al Bar Mitzvah perderanno la pazienza, Ayalà piangerà e Leo si sentirà impotente. Alle cinque del pomeriggio, quando tutta la polizia della Galilea sarà già allertata, Avi lo lascerà all’ingresso del ristorante Mizra, vicino a Emek Israel. Le persone al ristorante chiameranno la polizia quando vedranno un ragazzo di tredici anni, vestito a festa, che sta all’entrata e piange. Ignorava completamente il fatto che Noam non fosse più un bambino, non c’era dubbio che appena avesse capito che Avi voleva ostacolare la sua presenza in sinagoga, avrebbe cominciato a far casini. Non lo preoccupava nemmeno il

rischio che Noam potesse testimoniare contro di lui. Le crepe del piano erano evidenti, i calcoli non erano di una persona ragionevole. «Il tuo piano non prende in considerazione diverse componenti, è pieno di buchi», gli dissi. «Si tratta semplicemente di sequestro di persona, breve, ma comunque un sequestro». «Mi sono consultato con un bravo penalista, qui non si tratta di sequestro ma di un reato lieve. Al massimo mi affideranno ai servizi sociali, ricordati che sono un ex ufficiale, e qualche attenuante me la daranno». «E io?» «Tu avrai da me settantaduemila shekel, senza dover stare con lui dodici ore come nell’accordo precedente, e come bonus prometto che ti tirerò fuori da ogni guaio con la polizia. Agli inquirenti dirò che ti ho ingannato, che hai incontrato Ayalà in buona fede, che non sapevi nulla di quello che avevo preparato per lei». «Lavoro con il Ministero della Pubblica Istruzione», gli ricordai, «con una fedina penale non limpida perdo il lavoro, e in questo caso i tuoi settantaduemila basteranno a me e alla mia famiglia per meno di un anno». Pensò che volessi alzare il prezzo e si innervosì. «Questo è quello che posso pagare. Questa cifra e la promessa che la polizia non arriverà a te. Ripeto, nel nuovo piano ho minimizzato la tua parte. Non sei arrivato nel carcere militare con la faccenda di Neta, non arriverai al carcere nemmeno adesso per colpa di Ayalà. Puoi starne certo». Sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma solo quando ero ormai già sul pianerottolo, disse: «Ho venduto la casa. Quando tutto sarà finito, vorrei voltare pagina in un’altra città. Avrò i soldi per aiutarti, se tua moglie ti farà casini per questo piccolo aiuto che mi dai». Me ne andai, preso da altri pensieri. Dovevo decidere se dormire anche quella notte in albergo, o cercare di tornare a casa. Non che lì mi aspettasse una festa di benvenuto.

15 Mancava meno di una settimana al giorno del Bar Mitzvah. Non ero pronto a tornare a casa. Proposi a Yael di dire a mia madre che la bambina aveva la rosolia e che era pericoloso per me, alla mia età, dato che non avevo mai avuto questa malattia infantile. Accettò questa pausa di riflessione. Il nastro le aveva fatto nascere non pochi dubbi. «Il nostro rapporto», mi disse, «ha bisogno di tempo. Se torni a casa subito e faremo come non fosse successo niente, sarà soltanto triste – e se anche dormirai in salotto, non vuol dire che abbiamo trovato rimedio». Tutti e due volevamo evitare tristezze inutili. La casa dei miei era un giusto compromesso. Non abitavo da loro da quando avevo finito i tre anni di militare. La mia stanza era rimasta com’era. Non avevano spostato niente. Mi sembrava che fosse arrivato il momento di rileggere le poesie che mia madre aveva definito ingenue, di un cuore innamorato. Ero stupito di trovarle sulla vecchia scrivania della mia stanza. Mi venne in mente come le avevo battute con la macchina da scrivere dell’ufficio riservisti. Le rilessi parecchie volte. Loro non hanno illuminato in nessun modo il mio primo incontro con Neta, i giorni di Hatzor si erano sbiaditi anche nei versi, il loro tempo era ato. Tornai al mio solito lavoro. Mandai in stampa il libretto sulla legge dei vasi comunicanti. Mi abituai in fretta a tornare dal lavoro alla casa di miei, e non a casa mia. Ogni giorno inventavo degli aggiornamenti sullo stato di guarigione della piccola Tami. Mia madre sospettava che la rosolia fosse solo una nostra invenzione per coprire una crisi matrimoniale, ma non ebbe il coraggio di indagare. Venerdì, come d’accordo, partii per la cittadina di Zichron Yaakov. Prima di lasciare casa dei miei telefonai ad Avi, come d’accordo, ricordandogli di aggiornarci al cellulare ad ogni aggio compiuto. Alle nove di mattina già ero nella via principale della cittadina. I caffè erano ancora chiusi e aspettai vicino alla vecchia sinagoga che aveva fatto costruire il barone De Rotchild. Il mio nervosismo si attenuò solo quando vidi Leo e Ayalà avvicinarsi. Noam stava in mezzo a loro. La sua camminata era veramente simile a quella di Leo. Mi fece piacere vedere che non aveva imbellito le cose, che non

mi aveva raccontato un’intimità che non esisteva tra Noam e Leo. Feci un sorriso leggermente forzato e dissi buongiorno. Speravo che non si accorgessero della mia tensione. «Buongiorno», mi risposero tutti e tre, quasi insieme. «Avi aspetta a Tel Aviv, al minigolf del grande parco». Inventai il minigolf per tranquillizzare loro e anche me stesso. A questo punto mi presentai a Leo. «Itai Zer, piacere», dissi, e gli strinsi la mano. Ayalà sussurrò qualcosa a Noam. Il ragazzo non assomigliava né ad Avi né a sua madre. I suoi occhi erano marroni come quelli di lei, ma il viso non era rotondo. I tratti somatici erano arrivati da un altro parente, forse un nonno o una nonna. Annuì. Aveva un’espressione seria. «Non ha mai visto suo padre, e adesso è un po’ emozionato», Ayalà mi spiegò cosa quello che poco prima aveva sussurrato a suo figlio. «Domani mattina alle sette aspetteremo Noam proprio qua», disse Leo e Ayalà mi diede uno zainetto con vestiti stirati con cura. «Sono i vestiti nuovi per la festa di domani. Chiedi ad Avi di ricordargli di indossarli e così domattina sarà già pronto». Questo era un bel gesto, dare ad Avi l’occasione di partecipare in qualche modo alla mattina del Bar Mitzvah, ma sapevo che bastava poco a far cambiare idea ad Avi Razi, portarlo a rinunciare al tormento di Noam nell’albergo di Nazareth. Non c’era la minima possibilità, così pensavo mentre guardavo il ragazzo entrare nella mia macchina, che una persona come Razi si potesse accontentare di una giornata con il figlio a Tel Aviv e restituirlo alla madre sabato mattina. Avevo paura. Ancora non ci credevo che sarebbe arrivato il momento in cui avrei consegnato Noam nelle mani del padre, avrei preso i soldi e sarei andato via. Aspettai fino a quando la loro macchina si allontanò. Da qua, da Zichron Yaakov, fino a Paradis, ci metterò meno di un quarto d’ora, mi rassicurai, e Noam chiese, «andiamo subito al minigolf di Tel Aviv?» e risposi, «no, non subito, ma dopo sì». Mi fermai davanti al caffè Paradis. Avi doveva aspettarci dentro, fuori vendevano narghilè e mobili in vimini. Entrammo . Avi era seduto a un tavolo molto lontano dell’entrata. Poca luce arrivava fin lì. «Ecco tuo padre», dissi al ragazzo. Non riuscivo ad immaginarmi cosa pensasse di quest’uomo che avevo chiamato “tuo padre”. Avi si è alzato in piedi. Sorrise molto imbarazzato. Era vestito con una camicia bianca, scarpe nuove, nere e

lucide. Si era tagliato i capelli. «Non sapevo cosa ti pie, così ho portato con me tante cose, sono nel bagagliaio. Vieni. Andiamo a Tel Aviv». Consegnai ad Avi Razi lo zaino con i vestiti della festa di Bar Mitzvah che Ayalà aveva preparato e ho ripetuto la sua richiesta. Avi mi sembrava felice. Lui mi consegnò una scatola da scarpe e mi fece cenno che era ora che me ne andassi. Lo feci con grande sollievo, ma nonostante questa sensazione aspettai fuori, in macchina, fino a quando padre e figlio partirono. Uscirono quasi subito, ma non si diressero verso l’auto di Razi ma verso una Mazda noleggiata. Decisi di seguirli per un po’, era chiaro che Avi andasse a Tel Aviv e non a Nazareth. Continuai a pedinarlo con fatica, non volevo scoprisse che ero dietro di lui. Ogni tanto lanciavo uno sguardo furtivo verso la scatola da scarpe accanto a me. Non aveva senso chiamarlo al cellulare. Non aveva sbagliato strada. Nella penombra del caffè era tranquillo. Il mio sospetto diventò certezza quando saltò tutte le uscite per Tel Aviv. In quel momento capii la sua meta. «Ho venduto la casa», furono le sue parole, «vorrei voltare pagina in un’altra città». Non andai oltre. Mi fermai da un benzinaio, chiedendomi a chi fosse meglio telefonare. Era plausibile che mi sbagliassi. Forse lo porta al Muro del Pianto, tanti lo fanno per il Bar Mitzvah, e domani mattina mi supplicherà di portare Noam da sua madre. Pensai a Neta, pensai ad Ayalà. No, non sta andando a Gerusalemme. Telefonai al 112, mi diedero il numero della polizia di confine. Quando rispose la voce di una poliziotta mi concentrai e cominciai a parlare come stessi dettando un verbale: «Vorrei segnalare un tentativo di sequestro di persona per portarla all’estero. Si tratta di un uomo di quarantaquattro anni, si chiama Avi Razi, è un ex ufficiale, attualmente dirige un supermercato ad Yavne. Guida una Mazda presa a noleggio. Non mi ricordo con quale compagnia». «Signore, lei chi è?» mi interruppe la poliziotta. «Un collaboratore pentito» risposi subito, «mi chiamo Itai Zer, abito a Tel Aviv. Se le serve un indirizzo preciso glielo darò senza esitare». «Mi può descrivere il presunto sequestratore?» mi trattava con cautela. Completai la descrizione di Avi. Camicia bianca, capelli corti, scarpe lucide.

«E chi è stato rapito?» La poliziotta continuava la sua verifica, a questo punto supposi che tutta la conversazione fosse registrata. Provai a descrivere Noam, ma non ci riuscii con precisione. In quel momento non mi ricordavo se il suo viso fosse rotondo o allungato. «Capelli marroni e lisci» dissi, «non assomiglia alla madre». «E qual è il loro legame?» «Il sequestratore è suo padre» risposi, pentendomene quasi subito. «I genitori divorziati da tanto tempo» aggiunsi disperato. «Signore, la sua storia è piuttosto confusa, è meglio che venga qua», suggerì la poliziotta, «spero non sia lontano dall’aeroporto». Mi affrettai verso l’aeroporto, augurandomi che lei non pensasse a uno scherzo di cattivo gusto, e che intanto si trovasse qualcuno che impedisse l’uscita di Avi. In tutto quel tempo sprecato fra dubbi, telefonate, descrizione di loro due a una poliziotta che faceva fatica a capire, lui avrebbe fatto in tempo a restituire la Mazda e are i controlli di sicurezza. All’entrata dell’aeroporto i guardiani armati m’indicarono dove trovare l’ufficio della polizia di frontiera. Parcheggiai davanti all’entrata della sala partenze, dove era vietato, e corsi allarmato. «Sono quello che ha telefonato poco fa, sono sicuro che si tratti di rapimento. Il bambino festeggerà domani il Bar Mitzvah, il padre vuole rovinare tutto» esclamai. «Il nome del bambino?» chiese uno dei due poliziotti invitandomi ad accomodarmi. L’altro annuì. «Si chiama Noam, non so bene se il cognome sia lo stesso del padre. È una lunga storia». «Un padre può portare suo figlio all’estero come regalo di Bar Mizvah» disse il secondo poliziotto, «anch’io l’ho fatto con il mio. Serve solo un aporto per minorenne, e per averlo la madre deve dare il proprio consenso». «Sono divorziati» gridai, «il figlio non ha vissuto con questo padre, ma con un

altro». La mia agitazione li convinse a reagire. «Se è disponibile ad identificarlo, venga con noi. Lo fermeremo al controllo di sicurezza o a quello aporti». I due si mossero e misero alla prova la mia collaborazione con loro. Li seguii. riconobbi Noam ed Avi da dietro, stavano ando il controllo aporti. «Gli lasceremo are anche questo, poi verranno con noi per un chiarimento. Ha con lei la sua carta di identità?» «Certo». «Ce la lasci e vada ad attenderci nel nostro ufficio». Eseguii l’ordine. Dopo un’ora arrivarono anche Noam e Avi, accompagnati dai due poliziotti. Noam era pallido e imbarazzato. Non trovai il coraggio di guardare Avi. «Chiami sua madre, se la conosce le dica di venire a prenderlo», mi disse il primo poliziotto. «Certo che la conosco», risposi con grande sollievo. Dopo una breve riflessione aggiunsi che preferivo non esserci quando sarebbe arrivata. Quella guerra non faceva più per me. «Aveva con sé centocinquantamila shekel in contanti!» ammise subito tutto. «Negli ultimi mesi ha venduto tutto ciò che possedeva, la casa, la macchina, i mobili. Ha prelevato i soldi dalla banca. Preparava questa fuga da tempo. Ci ha detto che anche a lei ha fatto un regalo non da poco. Andiamo alla macchina». Il carroattrezzi si era già attaccato alla mia macchina e stava per portarla via. Il poliziotto lo fermò. Sul sedile si trovava ancora la scatola da scarpe. «Non l’ho nemmeno aperta» cercai di giustificarmi. «Lo faccia adesso» disse il poliziotto mettendosi i guanti bianchi.

La aprii, Avi era stato generoso. Settantaduemila shekel solo per portare il ragazzo a Paradis. «Vi ha detto qualcosa dell’hotel Mariot a Nazareth?» «Cosa c’entra un albergo a Nazareth? Si trattava di un viaggio in Sud America. Ha scelto uno stato che non ha con Israele un accordo di estradizione. Ha abusato della sua ingenuità e amicizia». Non sapevo che dire. Ero poco interessato a sapere come aveva fatto Avi a procurarsi un aporto per suo figlio, dove avesse trovato una foto aggiornata, che razza di storia avesse raccontato a Noam per portarlo all’aeroporto prima del Bar Mitzvah. «Posso andarmene?» «Potrà andare dopo aver firmato da noi il verbale. Si ricordi di prendere la sua carta di identità». La voce della poliziotta che mi aiutava a compilare il verbale mi ricordava la voce di quella che aveva risposto alla mia telefonata allarmata. Quando mi restituì il documento mi avvisò: «Può essere quasi certo che dovrà testimoniare anche in tribunale». «Il soldato semplice Itai è pronto anche a questo» risposi. Quando uscii era quasi mezzogiorno, ed ero stanco come un soldato che non dormiva da due notti. Un sole violento mi bruciava gli occhi. Guidavo lentamente. Tornavo a casa, da Yael. Alon Altaras è nato a Tel Aviv nel 1960. È scrittore, poeta e traduttore. Ha pubblicato in Israele quattro romanzi e quattro libri di poesia. Ha tradotto in ebraico, tra gli altri, Tabucchi, Ginzburg, Landolfi, Leopardi, Pasolini, Gramsci, De Luca, Sanguineti, Merini. Ha insegnato letteratura e lingua ebraica nelle università di Trieste, Siena, Gerusalemme; attualmente è a Pisa. In Israele ha ricevuto il prestigioso Premio del Primo Ministro per la

Letteratura (2001) e, in Italia, il Premio Nazionale per la Traduzione del Ministero per i Beni e le Attività culturali (2003) per il contributo alla diffusione della letteratura italiana in Israele. In Italia, ha pubblicato Il vestito nero di Odelia (Voland, 2005) e La vendetta di Maricika (Voland, 2006). Nostro figlio è il suo terzo romanzo.