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Prima edizione ebook: settembre 2013 © 2013 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5895-5
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Alberto Pattacini
Misteri, crimini e storie insolite di Venezia
Dalla massoneria alle case maledette del Canal Grande, i tanti misteri della città sull'acqua
Newton Compton editori
Alla famiglia, dove nascono e vengono raccontate le storie più belle.
Premessa
Tra il 1836 e il 1837, anni in cui ancora non si pensava alla psicoanalisi, lo scrittore Georg Büchner dava un’interpretazione alle malattie mentali e alla devianza criminale con un’opera che non arrivò a completare a causa della morte improvvisa. Nel Woyzeck, Büchner si interroga sulla società, sul potere che ha sugli individui, sulle cause e sugli effetti che possono portare una persona a compiere gesti violenti. La domanda che trasuda, attraverso i simbolismi e il duro linguaggio parlato dai personaggi, è semplice: cos’è in noi che mente, uccide, ruba? Cosa costringe l’uomo a esecrare la propria natura e allontanarsi da una vita relazionale ed empatica? Fuor di metafora, accade spesso che gli elementi più discordi concorrano contemporaneamente a cambiare il corso regolare della storia. E allora la mente impazzisce e insudicia l’aria, rendendo putrido tutto l’ambiente circostante. Questo è il filo conduttore di una ricerca nel cuore della doppia Venezia: città d’arte, splendente e ricca, ma anche oscura, ribelle e indolente. L’indolenza è appunto il male di questa città che vive sull’acqua, che trascorre placida le giornate e pensa al suo grande ato, come un’antica matrona su un letto sfatto che ogni giorno accoglie e poi saluta i suoi mille amanti. E quindi, cosa macchia l’anima di una città? Cosa la rende nera? Esiste una maledizione che pende sopra la Serenissima? Il livello delle acque che minacciano di inghiottirla è una punizione per l’empietà dei mercanti o per aver dato rifugio a templari e massoni? Capita a volte che la morte si impossessi di una città, semini la putrefazione agli angoli delle strade e cancelli il volto di persone dimenticate da tempo. Perché le città sono un brulichio di vita, di lavoro, ma spesso si macchiano di sangue. Ci sono luoghi infatti in cui, più di altri, la morte si manifesta, agisce e domina; dove nebbie sottili, come un fiore di loto, inghiottono nel mistero e allontanano i pensieri. A Venezia ci si perde nelle calli, come in un labirinto soporifero da cui l’attenzione al tempo che a si smarrisce. Venezia non cambia faccia. È ferma in un ato lontano, ma che è ancora presente nelle sue leggende e nelle sue morti. Pare quasi che ogni giorno si compia una favola in cui gli eroi indossano
maschere diverse per poi riporle e fermarsi. In attesa. Peste e carnevale, morte e vita si inseguono e si intrecciano in un circolo vizioso senza scopo, senza fine. Questa è Venezia: una vecchia innamorata che ha l’anima graffiata da amanti ingrati; dall’anima doppia, sporca e macchiata di sangue e d’oro. E questa è la Venezia che si tenterà di decifrare, attraverso le mille piume delle ali della Fenice, che sorvolano le acque dense e oscure e uniscono realtà e leggenda. Attraverso le storie di cavalieri e mercanti, assassini e dottori, sapienti e maghi, eretici e persecutori.
Misteri
I misteri storici
Le origini leggendarie di Venezia
Un treno che percorre un ponte strettissimo e lungo pochi chilometri. Ai lati, una distesa interminabile di acqua. È poco profonda, ma imperturbabile e placida: sembra un messaggio, forse una minaccia. A Venezia si arriva così, lasciandosi alle spalle la terraferma ed entrando in un’altra dimensione. L’immagine emblematica del ponte rappresenta perfettamente il mistero sulle origini della città. Come ha fatto un luogo così inospitale a dare i natali a una delle città più belle, ricche e potenti nella storia europea? Cos’aveva, e cos’ha, di speciale questo posto? Per rispondere bisogna tornare indietro nel tempo, all’epoca dello sfaldamento dell’Impero Romano. Primo secolo dopo Cristo: gli eserciti romani erano ormai ribelli e non assicuravano più la sicurezza dei confini. L’Italia si trovò così a dover affrontare le scorrerie dei popoli barbari: i Goti di Alarico, gli Unni di Attila, gli Ostrogoti e i Longobardi sconvolsero le popolazioni italiche e depredarono i loro villaggi. Per questo, gli abitanti di centri come Aquileia, Concordia, Altino e Padova furono costretti ad abbandonare le case e a rifugiarsi su un terreno inospitale: gli isolotti della laguna. Nelle notti in cui la nebbia copre densa le acque nere, sembra ancora di assistere al viaggio di migliaia di piccole imbarcazioni illuminate da rade torce, cariche di persone e di oggetti utili per la nuova vita. Al riparo dagli occhi dei barbari, gli abitanti dell’entroterra sapevano che dovevano affrettarsi; sapevano che avrebbero dovuto abbandonare la propria casa per chissà quanto tempo; sapevano che si stavano dirigendo verso luoghi infestati, putridi, dove l’acqua stagnante rappresentava un pericolo per la salute. Ma avrebbe significato anche libertà e rifugio: i barbari del Nord infatti, non conoscendo la laguna, non
sapevano come affrontare un combattimento navale su una distesa d’acqua così diversa da quella del mare. Lo spirito dei veneziani si fonda sulla consapevolezza di abitare in un luogo inospitale, dove nessun altro al mondo potrebbe vivere, e li rende unici e forti. Le popolazioni dell’entroterra si fermarono così su queste isole, costruendo povere abitazioni e mantenendosi con la pesca e i piccoli traffici mercantili che realizzavano lungo le coste dell’Adriatico e risalendo il Po. Gli anni trascorsero e inevitabilmente divenne chiaro a tutti che la tempesta non sarebbe ata molto presto. Quindi le popolazioni migrate nella laguna presero la decisione di trasferire tutta la loro vita in quel luogo: famiglia, animali, persino statue e monumenti. Erano mosse dall’intenzione di perpetuare la storia della propria città e ricominciare tutto da capo. Nel x secolo si cominciò a diffondere una leggenda secondo la quale Venezia sarebbe stata fondata in un luogo disabitato e paludoso al tempo dell’invasione di Attila, nel v secolo. In realtà il racconto era stato creato e diffuso per nobilitare l’origine di Venezia, ritenendola la conseguenza di un avvenimento drammatico in grado di colpire fortemente l’immaginario collettivo. Ad alimentare il mito, si aggiunse poi la descrizione delle condizioni di vita nella proto Venezia fatta da Flavio Aurelio Cassiodoro, senatore romano e ministro dei re ostrogoti. In una lettera del 537, Cassiodoro scrisse che gli abitanti della laguna costruivano case alla maniera degli uccelli acquatici, con le barche legate fuori come se si trattasse di animali, e che vivevano grazie alla pesca e alla produzione e vendita del sale. Le origini di Venezia rimangono tuttora un mistero. Quel che è certo è che la nascita della città è stata invece un processo lento e oscuro, iniziato nella seconda metà del vi secolo e protrattosi per una settantina d’anni. La Venezia che conosciamo oggi è frutto di migrazioni di popoli diversi, ognuno con la propria storia e cultura, che seppero incontrarsi e lavorare insieme per la libertà e la sopravvivenza. Il segreto della modernità di Venezia sta proprio in questa mescolanza di tradizioni che si è originata al momento della sua fondazione. Ma al tempo stesso, la profonda riluttanza al nuovo, che contraddistingue la città in tutti i suoi luoghi, dipende proprio dall’attaccamento che queste antiche popolazioni hanno mostrato sempre alla propria diversità.
Altino, la Venezia originaria
Secondo la leggenda, Venezia sarebbe stata letteralmente “trasportata” sulle isole della laguna da un altro luogo. Sembra infatti che gli abitanti avessero deciso di sollevare la città e adagiarla altrove e il racconto diventa epico quando si aggiungono i particolari dello spostamento. Case sradicate, statue caricate sulle barche...: una città fu spostata e, così com’era prima, messa in un altro posto. Evidentemente si tratta di una leggenda che però, nelle sue tinte parossistiche, cela un barlume di realtà storica. Venezia sarebbe sorta da una città precedente che fu spostata dai suoi abitanti. Ma in che modo? E in quale misura? Oggi le ricerche archeologiche potrebbero aver trovato una risposta a queste domande. Sembrerebbe che la nuova Venezia si chiamasse un tempo, quando ancora si espandeva sulla terraferma, Altino e si trovasse a una decina di chilometri a nord dell’attuale ubicazione. Oggi il luogo in cui sorgeva Altino è ricoperto da campagne, eppure grazie a tecnologie di telerilevamento ed elaborazione, strade, palazzi ed edifici pubblici hanno ripreso corpo e sono stati identificati. Accadde nel vii secolo d.C.: per sfuggire alle scorrerie degli Unni, Altino venne abbandonata, spogliata e “smontata” per rinascere sulle isole della laguna, protetta dalle acque. Il primo insediamento di Altino risale al vi secolo a.C., quando sorgeva lungo una grande strada, l’Annia, e possedeva uno dei maggiori porti di epoca romana. I suoi abitanti infatti erano grandi navigatori. Proprio come i veneziani... La ricerca su Altino è stata condotta dal dipartimento di Geografia dell’Università di Padova che ha utilizzato sistemi di ricognizione aerea nella lunghezza d’onda e dell’infrarosso. Cos’è emerso? La fotografia di una cittadina che presto tornerà alla luce. E chissà quante risposte potrà fornire alle mille domande che riguardano la nascita di Venezia. Forse i legami tra Altino e Venezia non esistono, forse si tratta solo di leggenda. Ma come spiegare allora l’incisione romana sul campanile di San Vidal, nel sestiere San Marco, che cita Altino quale luogo d’origine del materiale usato per costruire la chiesa? Le leggende raccontano proprio che l’intera Venezia sia stata costruita, anzi ricostruita, portando pietre e mattoni dall’entroterra. Inoltre, un altro indizio dei natali veneziani potrebbe venire dalla toponomastica. I nomi
delle isole Torcello, Murano e Burano deriverebbero proprio dai nomi dei quartieri di Altino: Torricellum, Ammurianum e Porta Boreana. Se due indizi fanno una prova, Venezia sarebbe il primo caso di città moderna trasportata in toto da un luogo a un altro.
Tracce di Atlantide a Venezia
Isola di Torcello: fu la prima a essere abitata dalle popolazioni in fuga dai barbari. A Torcello venivano costruite le navi veneziane prima dell’edificazione dell’Arsenale; qui si trova la cattedrale più antica d’Europa; e soprattutto, sull’ingresso al museo archeologico, è esposta una pietra rotonda che potrebbe custodire un mistero antichissimo. Su questa pietra è scolpita infatti la planimetria di una delle città più note dell’antichità: Atlantide. Ma che legami potrebbe avere Venezia con il mito raccontato da Platone? E quali sono le prove a suffragio di tale ipotesi? Forse l’origine di Venezia è molto diversa da quella storicamente e ormai largamente accettata. La studiosa di storia veneziana Daniela Bortoluzzi ha elaborato un’affascinante teoria, che parte proprio dall’incisione su questa pietra. Per la Bortoluzzi, esisterebbero due distinte Venezie: una arcaica e l’altra cristiana, ristrutturata e battezzata secondo la nuova fede nei primi secoli dopo Cristo. Parrebbe che popoli provenienti dalle isole dell’Egeo, in particolare da Creta, siano arrivati nella laguna veneta già nel 1400 a.C. Questo sarebbe il primo elemento rilevante: il popolo cretese era esperto di mare e le sue conoscenze avrebbero potuto essere d’aiuto ai nuovi abitatori della laguna per affrontare le difficoltà di un terreno così inospitale. Gli Egei erano maestri della tecnica delle “barene”, la costruzione fissa su palafitte che utilizzava milioni di tronchi conficcati uno vicino all’altro e capaci di reggere per millenni anche grandi palazzi. Queste genti avrebbero mantenuto con la madre patria rapporti prima di tutto commerciali. E avrebbero edificato in alcune isole della laguna edifici che richiamavano le architetture Cretesi. Ma in una data imprecisata, secondo alcune testimonianze, un’alluvione – preludio dell’acqua alta odierna – avrebbe messo in crisi questo insediamento e nascosto il patrimonio artistico costituito da fregi e ornamenti con un forte richiamo alla tradizione minoica.
Cosa nasconde quella pietra esposta a Torcello? Platone racconta della distruzione di una civiltà e dell’inabissamento di un’isola. Un episodio che avrebbe segnato la storia di tutte le popolazioni del Mediterraneo. Gli studiosi oggi sono concordi nel ritenere che l’isola scomparsa fosse Thera, di cui oggi resta solo una piccola parte: Santorini. Nell’antica Grecia, Santorini veniva chiamata “la bellissima”, “la circolare”. Oggi appare divisa in tre parti. Al centro c’è un buco, riempito dall’acqua del mare. Qui sorgeva la cima vulcanica che nel 1400 a.C. esplose con violenza inaudita scagliando un’enorme quantità di detriti e ceneri a incredibile distanza e provocando uno tsunami che colpì la vicina Creta. La grande cultura cretese non tornò più agli antichi splendori e venne sostituita dalla città-Stato di Micene. Cosa accadde però del popolo di Creta? Durante la fuga, alcuni Cretesi potrebbero essere approdati in laguna e qui aver lasciato le inconfondibili impronte delle loro origini nelle colonne con capitelli ionici e corinzi e nello stile di alcuni edifici. Ma le inondazioni avrebbero nascosto questi elementi e poi la ricostruzione di Venezia da parte della Chiesa avrebbe dato il colpo di grazia, cancellando le tracce del ato mitico. Eccetto la pietra di Torcello. Quell’incisione potrebbe essere il ricordo della catastrofe che colpì i fuggitivi Cretesi. E lascerebbe ipotizzare un ato ben più antico di quello fissato dagli storici. Mito o realtà? Nei secoli successivi, le storie di Venezia e della nuova Creta si sono incrociate nuovamente, ribaltando gli equilibri quando, dopo la quarta crociata, l’isola venne occupata militarmente dai veneziani. Venezia e Creta sono due realtà geograficamente lontane, ma forse unite da un antico amore e allo stesso tempo da una “scottante” paura delle acque. Il desiderio di dominarle deriverebbe proprio dal pericolo che Creta conobbe dopo l’esplosione di Santorini e che per Venezia è una realtà attuale e mai completamente superata.
I misteri della navigazione lagunare
«Onde fu interpretato da alcuni che Venezia voglia dire veni etiam, cioè vieni ancora et ancora, percioché quante volte verrai, sempre vedrai nuove cose e nuove bellezze»[1]. Questa suggestiva interpretazione etimologica del toponimo Venezia è stata formulata da sco Sansovino, un letterato romano del
Cinquecento, autore della prima vera guida turistica della città. Il testo Venetia città nobilissima et singolare, stampato nel 1581, è una sorta di enciclopedia nella quale sono descritti chiese, palazzi, opere d’arte, ma anche costumi, personaggi simbolo e accadimenti storici. “Torna di nuovo”: questa sarebbe la prova che Venezia è una città magica che lascia, a chi la visita, il desiderio di tornare ad ammirarne gli angoli e gli scorci, di respirare la sua aria umida e salmastra e di rivivere per un attimo le avventure di Casanova o del conte di Cagliostro. Altri studiosi di storia veneziana, come la già citata Daniela Bortoluzzi, interpretano invece il tempo verbale “veni” in maniera diversa: non si tratterebbe di un imperativo, ma di un ato remoto. Quindi non andrebbe tradotto con “torna”, ma con “tornai”. Secondo la Bortoluzzi[2], nel ii millennio a.C., alcune popolazioni egee scampate a un evento catastrofico, si sarebbero rifugiate sulle isolette della laguna veneziana, ma poco dopo avrebbero cominciato a progettare un viaggio per tornare alla patria perduta. Iniziarono così a costruire zattere e navi per affrontare il lungo viaggio, mentre alcuni partirono in avanscoperta. Quando tornarono i primi esploratori, le notizie non erano confortanti. Della madre patria ormai non restavano che scogli appuntiti o macerie. Per questo le popolazioni decisero di restare in quelle terre inospitali, che ormai avevano cominciato ad amare, e in quella laguna difesa dalla posizione geografica, dalle nebbie e dalle maree così incontrollabili. Questi popoli costruirono dapprima palafitte e poi edifici sempre più elaborati, in grado di sfidare i movimenti delle acque. Dall’unione con le genti indigene dell’entroterra, nacque infine una grande tradizione di navigatori, mercanti, ingegneri e architetti. Grandi menti e grandi capacità. Amore per l’avventura, ma grande attaccamento alle proprie origini. Questo sono i veneziani. Secondo la storia ufficiale invece, il toponimo Venezia (o Venetia) deriverebbe dal nome dato ai popoli che si erano stanziati in laguna. I Greci li chiamavano “Evetoi”, i Latini invece “Heneti”: entrambe le parole significano “degni di lode”, “lodevoli”. Ma perché queste popolazioni erano tanto degne di ammirazione? Cosa le rendeva così diverse dalle altre? Soprattutto da quei popoli barbari che non erano stati in grado di conquistarle? Il loro segreto risiedeva nella capacità di dominare fondali insidiosi, poco profondi e sempre mutevoli, ora dopo ora, a causa delle maree. Nonostante i progressi dell’ingegneria, ancora oggi la navigazione in laguna nasconde aspetti misteriosi, e i suoi segreti sono noti soltanto ai suoi abitanti. Nel suo scritto, il
Sansovino descrive Venezia come «meraviglia delle meraviglie, posta nel mezzo dell’acque con canali che scorrono in quella maniera che fanno le vene per lo corpo umano...». Sembra proprio che nelle vene dei veneziani scorra quell’acqua e che solo loro siano in grado di dominarne le onde, le secche stagnanti o i movimenti improvvisi. Forse per questo, solo a Venezia esiste la figura del gondoliere: più che un marinaio, si tratta di una figura mitica e leggendaria che sa nascondere e fingere, ma anche stupire e affascinare. Collerici e violenti, astuti e gentili, instancabili lavoratori e irrimediabili chiacchieroni, i gondolieri non riescono a staccarsi dalla loro barca e remano per le strade d’acqua di Venezia con ogni condizione atmosferica. Su di essi vengono narrate molte leggende. Ad esempio si dice che siano soliti far procedere la barca in modo inclinato e instabile per spaventare il cliente, ma anche per rassicurarlo del fatto che con loro non gli capiterà nulla e ottenere così una buona mancia. I gondolieri oggi fanno a gara per avere l’imbarcazione più lussuosa e bella, ma questa è una tradizione giunta dal ato. Del resto Venezia era una città di mercanti, e ognuno di loro voleva mettersi in mostra agli occhi dei concittadini. Nel 1334 addirittura, si pensò di istituire un consiglio cittadino, i Provveditori sopra le Pompe, per cercare di limitare questa corsa sfrenata al lusso. I provvedimenti non ebbero molta fortuna se si pensa che nel 1580 nei canali di Venezia circolavano oltre diecimila gondole, tutte votate all’eccesso. Dal 1094, cioè dalle prime notizie certe che le riguardano, la forma delle gondole ha subito molte trasformazioni, adattandosi alle diverse esigenze dei naviganti e alle mutate caratteristiche delle acque. Guidare la gondola era, ed è, una vera arte, un sapere che si apprende attraverso un percorso scandito da un iter preciso. L’apprendistato del gondoliere assomiglia ai riti iniziatici dei misteri pagani: un uomo non impara solo a manovrare la sua imbarcazione, ma anche e soprattutto a essere riconosciuto come membro di una società segreta. E a custodire i misteri della navigazione, tramandati da secoli. Del resto, i veneziani conoscevano bene le peculiarità lagunari: già nell’810 d.C., bloccarono gli sbocchi verso l’Adriatico della città di Aquileia, conquistata dai Franchi, e poi sconfissero re Pipino, figlio di Carlo Magno. Con uno stratagemma infatti riuscirono ad attirare in acque molto basse la flotta nemica e, al calare della marea, assaltarono le navi arenate nelle secche. Fu questa vittoria, d’ingegno e abilità, a segnare l’inizio del ruolo predominante nella politica internazionale della futura Repubblica di Venezia.
I templari a Venezia
La prima attestazione della presenza templare a Venezia è una donazione, firmata il 9 novembre 1187 dall’arcivescovo di Ravenna, di alcuni terreni ubicati in una località denominata Fossaputrida[3] perché vi fossero costruiti un ospedale e una chiesa. La presenza dei cavalieri del Tempio a Venezia è testimoniata però anche da una moltitudine di simboli disseminati in città. Per esempio alla Giudecca, dove la chiesa di San Biagio conserva ancora la lapide della consacrazione, datata 1188, e sulla quale è incisa la Tau dei templari. In breve l’Ordine templare divenne molto potente in città, in particolare per via del controllo diretto esercitato sui pellegrini che si imbarcavano da Venezia per raggiungere la Terra Santa. Nati poverissimi, in pochi anni si arricchirono al punto da essere invidiati da papi e re, tra cui il re di Francia Filippo il Bello, anche perché, si racconta, con loro aveva un grosso debito. Fu per questo motivo che in tutta Europa i templari divennero oggetto di una caccia spietata. Ma non a Venezia. Qui infatti il potere inquisitoriale era esercitato direttamente dalla Repubblica e non dagli ordini domenicano e scano. I templari trovarono anzi nei veneziani protezione e appoggio. Forse la similitudine di intenti e il comune interesse per il denaro alimentarono questa complicità, che si tradusse poi nella quarta crociata. Salito al soglio pontificio nel 1198, Innocenzo iii si affrettò a indire una crociata contro i musulmani infedeli in Terra Santa. Il motivo addotto dal papa era la liberazione di Gerusalemme, quello reale la conquista delle ricchezze di Costantinopoli. I crociati, memori delle disfatte delle spedizioni precedenti, decisero di raggiungere la Terra Santa via mare. Per questo il papa si rivolse a Venezia, l’unica potenza marittima in grado di poter provvedere in poco tempo all’organizzazione della flotta. Le trattative furono condotte in prima persona dal doge Enrico Dandolo e finalmente nell’aprile 1201 venne stipulato il contratto per il trasporto e il rifornimento dei crociati. Venezia mise a disposizione le sue navi, ma dietro un compenso incredibile: la metà di quello che sarebbe stato saccheggiato in Oriente più ottantacinquemila marche imperiali d’argento per l’utilizzo di cinquanta navi che avrebbero dovuto trasportare quattromilacinquecento cavalieri e i loro cavalli, novemila scudieri e ventimila fanti.
Era l’autunno del 1202: le navi salparono da Venezia dirette in Terra Santa. Ma i crociati non arrivarono mai a destinazione: al comando dei veneziani, i militi si impadronirono prima di Zara e poi attaccarono e conquistarono Costantinopoli. Le navi ritornarono a Venezia solo due anni dopo, ma erano cariche di ricchezze. Una leggenda tramanda che i templari si impadronirono di un grande tesoro che sotterrarono sull’isola di San Giorgio in Alga. Ma quando l’Ordine venne ufficialmente sciolto, nel 1312, del tesoro non si seppe più nulla e la leggenda si infittì e si sparse in tutta Europa. Chissà, forse giace ancora sotto qualche metro di terra nel suo antico nascondiglio.
Le Triplici Cinte a Venezia
Memoria. Traccia. Segnale. Il mistero che avvolge la Triplice Cinta è ancora fitto e la vede collegata ai templari, ma anche all’antica civiltà di Atlantide. La Triplice Cinta è un segno grafico composto da tre quadrati concentrici, che ricorda lo schema per il gioco del filetto. Proprio per quest’affinità, le Triplici Cinte sono sempre state interpretate secondo il loro ipotetico spirito ludico, ma la loro diffusione, soprattutto in territori percorsi dai templari, ha risvegliato l’interesse di archeologi ed esoteristi. René Guénon, scrittore occultista noto per il testo Il re del mondo, la decodificò come rappresentazione dei tre grandi stadi delle scuole esoteriche; Cherbonneau-Lassay invece interpretò il quadrato interno come simbolo del mondo abitato dall’uomo, quello intermedio come il firmamento che avvolge la Terra e identificò infine il quadrato esterno come il regno dei Cieli, sede di Dio e degli spiriti. Ma c’è chi associa la Triplice Cinta ad Atlantide. Secondo la descrizione della città realizzata da Platone, infatti, Atlantide sarebbe stata costruita seguendo un rigido schema urbanistico fatto di anelli concentrici. Un’altra teoria invece accosta la Triplice Cinta alla presenza di linee del campo magnetico terrestre. Lì dove appare una Triplice Cinta esisterebbe addirittura un varco dimensionale. Si tratta davvero solo di leggende? Esemplari di Triplici Cinte sono stati trovati in India, Egitto, nei territori dell’Impero Romano e addirittura in alcune incisioni rupestri. Nessuno ha mai dato loro un significato universale, ma la teoria oggi più diffusa collega le Triplici Cinte ai templari. Sulle pareti delle celle della
fortezza del castello di Chinon, in Francia, sono presenti alcune Triplici Cinte lasciate da cavalieri templari lì detenuti e in attesa di sentenza. Che cosa rappresentano? Solo un atempo per i prigionieri oppure un messaggio in codice? E perché le Triplici Cinte si trovano sempre in luoghi legati alla storia dell’Ordine? Forse i Cavalieri lasciavano dei messaggi nascosti per chi fosse ato nei medesimi posti? A Venezia ci sono tre Triplici Cinte, nascoste nelle architetture preziose di cui è abbellita la città. Una è incisa su una panca accanto alla facciata della Scuola Grande di San Rocco; la seconda sul parapetto della balaustra che si sporge al secondo piano delle attuali Poste Centrali di Rialto; l’ultima, e quella più inaspettata, si trova nella basilica di San Marco, esattamente sul lato sud, sotto le famose statue dei Tetrarchi. Questa Triplice Cinta è composta da quadrati concentrici, il più grande dei quali misura circa venti centimetri per lato. Perché è stata incisa? Si tratta solo di uno schema di gioco? Se fosse così, perché è stata fatta su una parete verticale? Volendo escludere l’aspetto ludico, sono state avanzate molte ipotesi sulla simbologia reale di questo segno grafico. Forse la sua presenza indica che in quel luogo si trova uno dei più grandi tesori della cristianità, il tesoro di San Marco? I crociati impegnati nella lotta contro i turchi avevano infatti trasportato da Costantinopoli molti oggetti di inestimabile valore oltre che reliquie importanti. Tra queste, c’è chi afferma addirittura che si trovasse il Sacro Graal e che per un breve tempo esso sia stato custodito proprio all’interno della basilica. Forse questa Triplice Cinta è stata lasciata come segno, testimonianza del pellegrinaggio verso Gerusalemme. Un simbolo simile, per funzione, alla conchiglia del Cammino di Santiago di Compostela che indica le tappe del viaggio ai fedeli che si mettono in marcia. C’è un’altra ipotesi: la Triplice Cinta contraddistinguerebbe un punto particolare di energia e la basilica di San Marco si trova su uno di essi, la testa di quel serpente di acqua costituito dal Canal Grande. Forse allora questo antico simbolo, minuscola presenza in un’immensa piazza, potrebbe essere stato inciso come talismano per scongiurare flussi energetici negativi e pericolosi.
Tracce esoteriche: il pellicano dei Rosacroce
Venezia è città magica ed esoterica, frequentata da stregoni e cabalisti, sede di templari e ricca di reliquie provenienti dalla Terra Santa, ma soprattutto disseminata di simboli lasciati nei secoli da gruppi segreti, confraternite maledette o società mistiche famose come quella dei Rosacroce. Per gli esperti di esoterismo, l’Ordine dei Rosacroce fu fondato nel 1407 dal pellegrino tedesco Christian Rosenkreuz, occultista e mistico, e ospitò tra i suoi adepti figure come Leonardo da Vinci, Nostradamus, Giordano Bruno, Galileo Galilei, Goethe, Mozart e addirittura papa Giovanni xxiii. Sembra però che l’Ordine fosse stato fondato addirittura nel 45 d.C., a opera del filosofo gnostico alessandrino Ormus, convertito al cristianesimo grazie alle predicazioni di san Marco, che secoli più tardi diventerà proprio il patrono di Venezia. Può essere stato questo il motivo per cui la tradizione rosacrociana fu così forte nella città lagunare. I Rosacroce erano esperti in alchimia e misticismo e avevano creato la prima società segreta della storia che poi si istituzionalizzerà più decisamente con i massoni. Il loro simbolo era la croce con, al centro, una sola rosa rossa, e da esso presero il nome. Sono state fatte diverse interpretazioni riguardo alla scelta di questi due elementi. Le più fondate si riferiscono all’evoluzione spirituale dell’uomo: la croce rappresenta la fisicità e la rosa invece la psiche e l’emotività. Certo è che l’Ordine si poneva come erede ufficiale dei templari, con uno spiccato interesse per la filosofia e l’alchimia, necessari per una forma di conoscenza più intima e completa. Oltre alla croce e alla rosa, il più diffuso simbolo rosacrociano era il pellicano. Ed è proprio un pellicano a essere scolpito su un capitello che sovrasta una colonna del loggiato di Palazzo Ducale a Venezia. Questo simbolo non solo è una testimonianza della presenza rosacrociana in città, e nelle più alte sfere del potere, ma anche e soprattutto della propensione della laguna alla libertà di pensiero e all’apertura mentale. Il pellicano della colonna è rappresentato infatti nell’atto di squarciarsi il petto per dar da mangiare ai suoi piccoli, cioè i cittadini di Venezia assetati di sapere, ma anche i pochi iniziati in grado di percepire e intendere il messaggio. Nella simbologia rosacrociana, il pellicano genera i figli, ma poi li uccide e li piange. Dopo tre giorni di pianto, si apre il petto con il becco e il sangue che ne scaturisce ridona vita ai piccoli morti.
Nel mondo cristiano, il pellicano si presta dunque a una duplice simbologia: è Cristo che dona il sangue per salvare l’umanità, ma anche Dio Padre che sacrifica il Figlio, facendolo poi resuscitare. I rosacrociani reinterpretarono queste simbologie: il sangue del pellicano è la forza spirituale che guida la mano dell’alchimista alla ricerca della perfezione. I Rosacroce hanno lasciato queste testimonianze della loro presenza a Venezia proprio per sottolineare la sua essenza alchemica: Venezia è ponte tra culture diverse, unisce Oriente e Occidente, è rispettosa delle tradizioni diverse ed è la città dell’acqua e del fuoco, destinata per questo a vivere in eterno.
Le maschere di Venezia tra simbologia e spersonalizzazione
Il carnevale di Venezia ha le sue maschere tipiche, connotate storicamente dalla funzione di esorcizzare il dolore e la paura della morte. Quella del dottore è forse la più nota, ma accanto a essa esistono altre due maschere che sono in forte antitesi l’una con l’altra: Pantalon de’ Bisognosi e la bauta. Berretto di lana, giubba e calze rosse, una cintura nera da cui pende una spada o più frequentemente una borsa con monete e una maschera con il naso adunco e barba a pizzo: questo è Pantalone. Pantalone rappresenta il tipico vecchio brontolone, il mercante ricco e avaro, testardo, geloso e misogino, che finisce sempre per innamorarsi di qualche fanciulla che lo raggira e tenta di derubarlo. La tradizione vuole che questa maschera sia nata a Venezia nella seconda metà del Cinquecento. In molti comunque la accostano agli ebrei veneziani finanziatori di armatori e navigatori, che erano soliti farsi riconoscere in città girando con un bastone su cui svettava l’immagine di un leone e che conficcavano a terra vicino al luogo di lavoro. Gli ebrei infatti esponevano dei banchi per la strada che funzionavano a mo’ di banca, pronti a esaudire le necessità di chi avesse avuto bisogno di un prestito o di un finanziamento. Dall’usanza di piantare il bastone con il leone sarebbe derivato quindi il nome della maschera: da “pianta il leone” a Pantalone. Proprio per i suoi eccessi e le sue contraddizioni, la maschera divenne una delle protagoniste della Commedia dell’arte. Ma con Goldoni si umanizzò: gli eccessi furono mitigati, a tinte caricaturali, e il denaro cui Pantalone era tanto attaccato poteva infine essere usato per aiutare i giovani intemperanti. Nelle commedie di Goldoni la
timidezza, l’amore mai ricambiato e la sconsolata solitudine rendono Pantalone un personaggio malinconico e complesso. Sicuramente simbolo di Venezia, di cui esprime tutte le emozioni. Come Pantalone rappresenta una personalità forte, così al contrario la bauta è spersonalizzata e anonima. Il costume è costituito da una mantellina nera e un tricorno dello stesso colore, il viso invece viene coperto da una maschera bianca liscia e senza connotati. La bauta, nata nel Settecento, è una maschera ambigua, quasi asessuata perché rappresenta una sorta di contaminazione tra femminile e maschile. Ciò che permette di distinguere uomo e donna è solo l’abbigliamento, anche se in molti casi nemmeno i vestiti marcano la differenza: il mantello infatti è composto di merletti neri, tipico ornamento dei vestiti femminili. La maschera è un unicum nel panorama carnevalesco, tenta di rendere invisibile la persona, eppure, tra il colore delle altre maschere, la figura di chi indossa il mantello nero e la maschera senza volto spicca immediatamente. Questo travestimento trascende l’idea stessa di maschera. Non è nulla, non significa nulla e non rappresenta nulla. Anzi si può dire che sia nata come ricerca di un vuoto di identità e che abbia come unico fine il nascondere e il celare. Per questo motivo, nell’immaginario collettivo, la bauta ha sempre avuto caratteristiche negative, ambigue e oscure e in effetti, soprattutto nel Settecento, è stata utilizzata dai nobili veneziani per nascondere comportamenti non etici e con finalità trasgressive: sesso, riti di magia nera, sedute spiritiche, gioco d’azzardo, violenze... Forse però è proprio per questo che rappresenta, più di ogni altra maschera, Venezia. Se Pantalone è associato a un comportamento ben definito e la maschera del dottore è contestualizzata alla peste, la bauta è per sempre, popola i sogni della gente ed esercita il potere suggestivo di cui è pregna la città lagunare. La bauta è ambigua e può essere maschio o femmina, nobile o povero, buona o malvagia, ed è ferma, immobile nel tempo e nello spazio. Esattamente come Venezia.
Spionaggio a Venezia
Per proteggere i propri interessi e difendere i suoi segreti, Venezia non arretrò mai davanti a nulla: corruzione, ricatto, sabotaggio, assassini e avvelenamenti. La Repubblica Serenissima è stata la culla di una pratica che da secoli, e ancora oggi, ha un ruolo fondamentale nei rapporti di potere e nei processi diplomatici, e che ha ispirato leggende e storie fantastiche: lo spionaggio. Il primo agente segreto della storia veneziana fu proprio Giacomo Casanova, il quale, entrando e uscendo dai letti delle mogli dei diplomatici stranieri, era in grado di fornire informazioni vitali per il mantenimento della libertà di Venezia. Nel Seicento, in Europa, i due Stati che più di tutti utilizzavano lo spionaggio erano Venezia e la Spagna; quest’ultima, nel tentativo di espandere il suo controllo su tutta la penisola italiana, aveva stretto in una vera morsa la Repubblica. La quale a sua volta aveva creato una rete di informatori e spie che svelavano al governo tutte le mosse dei nemici, attraverso codici segreti e scrittura cifrata che gettarono le basi della crittografia moderna. La Spagna cercò in tutti i modi di abbattere le difese veneziane e in alcuni casi riuscì a corrompere le spie della Repubblica per farle are dalla sua parte. È emblematico il caso del nobile Girolamo Lippomano che alla fine del Cinquecento tradì Venezia e ne pagò le conseguenze. Lippomano si distinse fin dalla giovane età per le sue qualità diplomatiche e dopo aver compiuto studi umanistici entrò a far parte del Senato della Repubblica a soli ventiquattro anni. Diventò in breve la punta di diamante degli ambasciatori veneziani, lavorando presso l’arciduca d’Austria e stringendo amicizia con le più alte cariche dell’Impero Ottomano. Per questo gli venne affidato il delicato ruolo di ambasciatore presso Emanuele Filiberto di Savoia, re di Cipro. A quei tempi, i turchi avevano intimato a Venezia la cessione dell’isola di Cipro. La Repubblica però, per evitare di affrontare in guerra la terribile flotta ottomana, cominciò a pensare di stringere un accordo con il papa e la Spagna. Lippomano ricevette dunque l’incarico di sondare il terreno e far giungere le superpotenze di allora a un accordo. Il diplomatico riuscì nell’intento, la guerra fu scampata e per questo fu premiato con l’illustre incarico di ambasciatore di Venezia presso la corte di Spagna. Lippomano giunse a Madrid l’11 giugno 1586 e qui collaborò attivamente alla costruzione della Invencible armada. Fu questo suo interesse verso il gioiello della Marina spagnola a insinuare i primi dubbi su di lui nel governo veneziano. Fino a quel momento, Venezia era considerata la più grande potenza marittima del mondo, possedeva capacità e segreti che le permettevano di navigare in tutti i
tipi di acque e di far fronte a tutte le necessità. Ora correva il rischio di essere soppiantata dalla flotta del re di Spagna e questo la metteva in allarme. Lippomano fu pertanto richiamato in patria e inviato a Costantinopoli, dove trascorse appena un anno. Fu infatti richiamato senza che gli si adducessero reali motivazioni. Era il 25 giugno 1591 quando un sospettoso Girolamo Lippomano salpava da Costantinopoli per recarsi a Venezia e difendersi dall’infamante accusa di aver condiviso i segreti della navigazione e della costruzione di navi con gli spagnoli. Il 30 agosto 1591, la nave su cui viaggiava Lippomano fu avvistata all’orizzonte dalle spiagge del Lido. L’ambasciatore però non fu in grado di reggere la tensione e si gettò in mare. O almeno così tramandano le fonti ufficiali. Alcune voci messe prontamente a tacere insinuavano che fosse stato ucciso durante la traversata oppure addirittura imprigionato di nascosto nei Piombi, torturato e strangolato, simulandone poi il suicidio. Non si saprà mai la verità sulla sua morte e nemmeno se le accuse di tradimento fossero davvero fondate. Il suo corpo fu sepolto in una tomba senza lapide, come onta finale, nella chiesa di Santa Maria dei Servi.
La massoneria a Venezia
Nella storia si assiste spesso a veri e propri aggi di consegna tra gruppi di persone che hanno lo scopo, seppur con nomi e modalità differenti, di tramandare saperi, segreti ed esperienze. All’interno della società occidentale l’esempio più importante è rappresentato da quel percorso storico scandito dai templari, illuministi e massoni. Gli appartenenti a queste società segrete avevano uno scopo principale: divulgare la Verità e la Luce, gli ideali di fraternità e la pace. Poco importa se, per ottenere i loro desideri, conducevano paradossalmente una vita nascosta. I templari erano i cavalieri del Tempio di Salomone e durante le crociate avevano acquisito un potere e una ricchezza tali da suscitare una violenta reazione di papi e sovrani europei, che si concluse solo con la loro eliminazione fisica. I templari custodivano segreti forse talmente grandi da poter scardinare tutto il sistema cristiano su cui si fonda anche la nostra società attuale. Per questo erano considerati nemici. Così come furono considerati avversari della vita civile i massoni. Obiettivo della massoneria era la riedificazione del Tempio
di Salomone, opera che va intesa in senso metaforico. I massoni infatti volevano costruire una nuova epoca d’oro di libertà e conoscenza per tutti gli uomini. Non è un caso che la massoneria è stata il motore propulsore delle guerre d’indipendenza della storia moderna. La prima loggia massonica in Italia fu fondata a Firenze nel 1731, poi ne venne creata una a Roma nel 1735 e infine nel 1765 ne sorse una a Torino. La nascita della massoneria veneziana invece avviene nel 1746, all’epoca di Casanova e Goldoni. La loggia rimase in attività fino al 1755, quando Casanova fu arrestato; una nuova loggia sorse nel 1772 e fu chiusa nel 1777. Questa tradizione settecentesca, con forti richiami agli ideali dell’Illuminismo, deriva dalle confraternite dei Tajapietra, i Liberi Muratori, e dei Maestri Vetrai, le cui conoscenze e i cui valori confluirono appunto nella nascente massoneria. La confraternita dei Tajapietra era una delle più antiche Scuole Veneziane delle Arti e aveva acquisito grande potere e prestigio dopo aver ricevuto il compito di ricoprire tutta Venezia con la pietra. L’atto costitutivo della confraternita è datato 1307 e la sua sede era l’ospedale di San Giovanni Evangelista. Tra gli strumenti tipici della corporazione c’erano lo scalpello, le punte di ferro, i martelli e i comi: simboli poi ripresi dai massoni e che indicavano proprio il desiderio di costruire un nuovo futuro. Questo desiderio di partecipare attivamente alla vita civile e politica di Venezia portò i Tajapietra a costituire, assieme alla ben più antica confraternita dei Maestri Vetrai, un’associazione segreta in cui si univano alchimia, politica e filosofia. La corporazione dei Vetrai si era costituita nel 1255 e dopo alcuni anni di attività a Venezia si era trasferita a Murano. I Maestri Vetrai erano conoscitori di segreti alchemici ed erano noti per la loro capacità di creare e plasmare la materia. La stessa capacità dimostrata dai Tajapietra. Le due confraternite così si unirono in una società segreta alchemica, chiamata Voarchadumia, attiva tra il 1450 e il 1490. Forse la loro era solo l’unione di due tecniche, forse questi artigiani volevano semplicemente sostenersi a vicenda e difendere la categoria artigianale, forse invece erano davvero a conoscenza di segreti che, a chi non era un confratello, facevano paura. Templari, massoni e Voarchadumia. Venezia, più di ogni altra città al mondo, permetteva il nascere di storie nuove e la contaminazione tra saperi. C’è da notare che quando il 21 agosto 1755 Casanova venne condannato, l’accusa a suo carico non riguardava la presunta affiliazione alla massoneria, ma la condotta
oltraggiosa e libertina, a dimostrazione del fatto che, a differenza di quanto accadeva in altri Stati italiani, le riunioni segrete a Venezia non erano fuorilegge. È proprio Casanova, in un suo testo, a lasciarci una descrizione della massoneria che racchiude in sé anche tutte le esperienze precedenti: Il mistero della massoneria, di fatto, è per sua natura inviolabile. Il massone lo conosce solo per intuizione, non per averlo appreso, in quanto lo scopre a forza di frequentare la loggia, di osservare, di ragionare e dedurre. Quando lo ha appreso, si guarda bene dal far parte della sua scoperta a chicchessia, fosse pure il suo miglior amico massone, perché se costui non è stato capace di penetrare da solo il segreto, non sarà nemmeno capace di profittarne se lo apprenderà da altri. Il segreto rimarrà dunque sempre tale. Ciò che avviene nella loggia deve rimaner segreto, ma chi è così indiscreto e poco scrupoloso da rivelarlo non rivela l’essenziale. Del resto, come potrebbe farlo se non lo conosce? Se poi lo conoscesse, non lo rivelerebbe.
Il tesoro nascosto della Serenissima
12 maggio 1797: il Maggior Consiglio, ovvero l’organo di governo più importante della Repubblica di Venezia vota la deposizione del doge e la consegna della città alle truppe si, che il 15 maggio invadono la laguna. Cinquecentonovantotto voti favorevoli, sette contrari e quattordici astenuti cancellano in un colpo solo circa undici secoli di storia della Serenissima e Napoleone diverrà il primo conquistatore in grado di entrare nelle terre paludose della laguna e di assoggettarne le popolazioni. Come questo sia potuto accadere non è chiaro. Napoleone, che affermò «Sarò un Attila per lo Stato veneto», forse approfittò dei rovesci economici dei mercanti di Venezia: molti di loro sedevano anche nel Consiglio e fu facile corromperli; creò un organo governativo filose, azzerando di fatto l’indipendenza della Repubblica veneziana, e poi mise in atto i suoi propositi: saccheggiare, depredare e mettere Venezia in ginocchio. Napoleone ordinò la requisizione di tutti i beni contenuti nella cappella del tesoro della basilica di San Marco e il loro trasporto in Zecca perché l’oro fosse fuso; i cavalli bronzei di San Marco furono presi e inviati a Parigi, così come
circa venticinquemila quadri di pittori come Tintoretto, Carpaccio, Tiepolo e Veronese; furono demoliti edifici e chiese; venne depredato l’Arsenale e lo storico Bucintoro, capolavoro artistico dell’arte marinara veneziana, fu privato dei suoi ornamenti, demolito e bruciato. Le ceneri dell’imbarcazione, contenute in quattro casse, furono inviate a Milano dove Napoleone stanziava. Si calcola che il se rubò oltre l’ottanta per cento delle ricchezze veneziane. Ma alcune di esse non furono mai trovate dai soldati di Napoleone: si tratta di patere, pissidi d’oro e gemme preziose che costituivano il bottino di guerra portato a Venezia da Costantinopoli durante la quarta crociata del 1204 e formavano parte del tesoro di San Marco. È proprio attorno a questa parte del tesoro della Serenissima che si racconta una leggenda. Si narra che i tre senatori della Repubblica che avevano il compito di sovrintendere agli scambi commerciali e mercantili dello Stato riuscirono a penetrare con alcuni servi all’interno della basilica di San Marco e, senza essere visti dai soldati si di guardia, prelevarono parte del tesoro della città e lo caricarono su alcune barche, pronte a salpare verso il luogo scelto come nascondiglio, l’isola della Certosa. L’isola si trova a circa cinquecento metri dal Lido di Venezia e quindi occupa la parte nord-orientale nella laguna. Fu abitata fin dal xii secolo da una comunità di agostiniani che rimase sull’isola fino alla prima metà del Quattrocento, quando venne sostituita da quella dei certosini che edificarono la certosa che diede poi il nome all’isolotto. I senatori nascosero il tesoro seppellendolo in diverse buche nel terreno, molto profonde, e disseminate per tutti i ventidue ettari di estensione del lembo di terra, poi diedero incarico ai monaci di custodirne il segreto e proteggerlo fino a quando Venezia non fosse stata ancora libera. I monaci promisero di salvaguardare il tesoro della Serenissima e i tre senatori tornarono in città. Purtroppo però vennero sorpresi dai soldati napoleonici e, accusati di tradimento verso il neonato governo filose, furono incarcerati nei Piombi. Morirono pochi anni più tardi, qualcuno dice per avvelenamento, altri parlano di suicidio. I loro corpi furono reclamati dai monaci certosini, che li seppellirono in un chiostro della certosa sull’isola. Purtroppo però l’editto napoleonico del 1810, in cui si ordinava la soppressione degli ordini religiosi, si abbatté anche sull’Isola della Certosa: i monaci furono costretti ad abbandonare il monastero e con la loro fuga si perse anche il segreto che avevano promesso di custodire. Da quel momento infatti l’isola rimase disabitata e del tesoro non si tornò più a parlare. Molti dicono che i monaci, la notte prima di lasciare per sempre il monastero, disseppellirono il tesoro e lo
nascosero nelle tombe dei tre senatori, all’interno di uno dei chiostri. Non si hanno dati storici sulla veridicità di questa leggenda, anche se da sempre si è parlato del tesoro della Serenissima. Di certo, sono documentate le violenze perpetrate dai soldati di Napoleone ai danni dei veneziani, abbandonati dal resto d’Italia e, per la prima volta nella loro storia, completamente succubi di una potenza estera. Succubi, ma mai servi. E allora, forse, il vero mistero del tesoro della Serenissima sta proprio nella forza di un popolo che ha sempre lottato e combattuto per la sua libertà e che, anche in condizioni di miseria e disperazione, non ha mai smesso di credere che tutto sarebbe finito e che Venezia sarebbe tornata a splendere e dominare i mari. La storia purtroppo andò diversamente: Venezia ò dalla dominazione se a quella austriaca e infine entrò a far parte del Regno d’Italia. La Serenissima Repubblica finì per sempre in quel mite giorno di maggio del 1797.
Le leggende
La leggenda della città sommersa
Esiste una leggenda che in pochissimi, a Venezia, conoscono. È la storia della città sommersa e di un marinaio di nome Febo. Nato ad Atene, Febo era rimasto orfano ancora in fasce e per questo fu allevato dal nonno materno, che gli trasmise l’amore per la letteratura e una grande curiosità. Il nonno gli raccontava storie che avevano per protagonisti gli eroi greci e gli dèi dell’Olimpo e Febo crebbe con il desiderio di emulare le gesta di Achille e Ulisse, di amare ninfe come Zeus o di abbandonarsi al piacere come Dioniso. A volte il nonno, di sera, portava il nipote su un’altura e gli indicava le stelle, raccontando le storie che si celavano dietro ogni costellazione e sognando insieme al nipote di popoli e terre lontani. «Febo, ricordati che non sei mai solo. Anche quando pensi che tutto vada male e che nessuno ti possa capire, ci sarà sempre qualcuno che, in un angolo sperduto della Terra, sta pensando e provando le stesse tue emozioni», gli diceva spesso il nonno. Accadde però che il nonno si ammalò e morì. E Febo si ritrovò senza più nessuno al mondo. Così, decise di imbarcarsi su una nave di mercanti che stavano reclutando marinai. Il ragazzo salpò un freddo mattino invernale, diretto a ovest. Non sapeva che non sarebbe più tornato. Sulla nave, Febo conobbe un marinaio più anziano che gli insegnò il mestiere e gli raccontò storie fantastiche di luoghi lontani. Febo rimase soprattutto affascinato dalla leggenda di una città che durante il giorno era una grande metropoli e che di notte scompariva. Dopo un mese di navigazione, la galena su cui viaggiava Febo fu sorpresa da una fortissima bufera. Colpita dai marosi che si alzavano per metri, l’imbarcazione oscillava da una parte all’altra; fulmini e saette rischiaravano il cielo e d’un tratto le ingenti raffiche di vento squarciarono
le vele e divelsero gli alberi. Alcuni compagni di Febo furono risucchiati nelle acque in burrasca, altri invece restarono schiacciati dalle grosse funi. All’improvviso, lo scafo si spezzò in due e la nave cominciò ad affondare. Febo finì in mare, ma riuscì ad aggrapparsi a un’asse di legno. Il ragazzo galleggiò per alcuni giorni, lottando contro le correnti e la stanchezza, che però alla fine ebbe il sopravvento. Ma proprio nel momento in cui stava per lasciarsi andare, sentì una voce gridare e dopo pochi istanti udì il rumore di una fune cadere vicino a lui. Con le ultime forze che gli rimanevano, Febo vi si aggrappò e si salvò. Dormì due giorni interi. Quando si risvegliò, si ritrovò tra le lenzuola pulite e preziose di un letto. Si alzò e uscì dalla stanza. Davanti ai suoi occhi si apriva un corridoio che terminava con una porta chiusa. Febo si avvicinò, aprì la porta ed entrò in un salone dove un uomo con lunghi baffi e riccamente vestito stava scrivendo seduto a una scrivania. «Finalmente ti sei svegliato!», disse l’uomo, parlando in un greco perfetto. «Dove mi trovo? Chi è lei?», rispose Febo. «Ragazzo mio, tu ti trovi a Venezia. Te la sei vista brutta! Ma per fortuna siamo arrivati in tempo!». E scoppiò in una fragorosa risata. Febo cominciò allora a fare domande su dove fosse Venezia e su cosa gli fosse accaduto. L’uomo non rispose, gli disse solo di essere un marinaio come lui e di ritornare a letto. Il giorno dopo, Filippo, questo era il nome del marinaio, accompagnò Febo alla scoperta della città. Il ragazzo pensò di essere entrato in un altro mondo: le strade erano fiumi, le case sorgevano direttamente sull’acqua, non c’erano carri ma barche, e poi tutto era sfarzoso. Sembrava che la città fosse fatta d’oro massiccio. Il marinaio rideva alle reazioni del giovane e gli raccontò che Venezia era una città di commercianti e navigatori, sempre pronti all’avventura. Febo disse che si sarebbe fermato per sempre in città e che suo nonno non avrebbe mai potuto immaginare che cosa si nascondesse al di là del mare. Il marinaio allora lo interruppe e si fece scuro in volto. «Vedi, ragazzo mio, non è tutto bello, qui. La notte ci è proibito uscire di casa, dove dobbiamo restare fino alle prime luci del giorno. Su Venezia è stata lanciata una maledizione e appena cala il sole l’acqua comincia a salire e tutto viene sommerso».
«Ma com’è possibile che un’intera città venga sommersa!?» «È successo tanto tempo fa... in queste terre lagunari... si combatté una guerra tra Dio e Satana. Alla fine vinse Dio, ma Satana disse che non avrebbe mai lasciato Venezia e lanciò la sua maledizione: di giorno Venezia sarebbe stata la città più fiorente del mondo, ma al calare della notte l’acqua sarebbe salita e la città sarebbe scomparsa». Improvvisamente, Febo ricordò la storia della città sommersa che gli aveva raccontato il vecchio marinaio. «Ma non c’è modo di rompere la maledizione?», chiese. Il marinaio tacque qualche istante, poi ammise: «Un modo ci sarebbe. Il diavolo disse che quando Occidente e Oriente si fossero uniti, la dannazione di Venezia sarebbe cessata. Ma fino ad ora non è mai capitato e, a dir la verità, nessun veneziano ha mai capito davvero cosa significhino queste parole... Forza, il sole sta tramontando. Andiamo a casa!». Febo e il marinaio rincasarono proprio mentre gli ultimi raggi di sole rischiaravano il cielo. Il ragazzo corse alla finestra per assistere allo spettacolo. Ci fu un bagliore verde e poi un silenzio tombale. Improvvisamente l’acqua dei canali salì in modo vertiginoso e sommerse le case e i palazzi. Le gondole, i remi e ogni oggetto galleggiavano magicamente davanti agli occhi di un Febo incredulo che pensò di essere il protagonista di una favola. Rimase ore a fissare davanti a sé, poi andò a letto, con mille domande e poco sonno. Da quel giorno, Febo cominciò a lavorare con Filippo, che lo aveva accolto in casa come un figlio. Partivano in mare insieme, curavano gli affari di famiglia e trascorrevano le sere a parlare della Grecia e del mondo. Un mattino, Febo stava ando vicino al mercato di Rialto quando si trovò ad assistere a uno spettacolo che lo lasciò stupefatto. Un uomo stava urlando in mezzo alla folla, offrendo al miglior compratore... una ragazza! “Com’è possibile che nella civile Venezia accada qualcosa di simile?”, pensò il giovane. Febo si avvicinò all’uomo: era un mercante di carnagione molto scura, che parlava un italiano stentato. La ragazza al suo fianco era olivastra, aveva i capelli neri e due occhi penetranti e tristi. Era indiana. Febo non resistette, assalì il mercante e lo minacciò di buttarlo in mare per quello che stava facendo, poi prese per mano la ragazza e la portò via con sé.
Non si lasciarono più. Rascida, così si chiamava, veniva da un piccolo paese dell’India che si affacciava sul mare. La sua famiglia era povera e quando arrivò il mercante per trattare affari, il padre gliela vendette. Rascida non parlava greco, ma Filippo riuscì a fare da interprete tra i due giovani che in poco tempo si innamorarono perdutamente e si sposarono. Un anno dopo nacque la prima figlia. E decisero di chiamarla Venezia, in onore della città in cui si erano conosciuti e dove entrambi avevano iniziato una nuova vita. Quella notte l’acqua non invase le stradine e la città non fu sommersa. Allora i veneziani uscirono di casa, alcuni ridevano, altri urlavano: la maledizione era terminata! Quella bambina rappresentò l’unione tra Oriente e Occidente, il frutto di un amore in grado di superare difficoltà e differenze, il simbolo dell’uguaglianza e della tolleranza. Proprio come Venezia, ponte tra est e ovest, fiera e orgogliosa della propria libertà, patria per liberi pensatori e per giovani innamorati.
Il Canal Grande: drago di energia
Perché proprio Venezia? Perché, nonostante l’inospitalità e le difficoltà logistiche, le genti che in seguito diedero vita alla Serenissima decisero di fermarsi proprio in terreni lagunosi e impraticabili? La scelta fu dettata solo da esigenze di difesa e protezione dalle scorribande dei popoli barbarici? Secondo una leggenda, Venezia non sarebbe mai stata costruita. Sarebbe cioè sorta così com’è, emergendo dalle acque. Perché quel luogo era quello giusto, punto di incontro di energie telluriche che scaturivano dal centro della Terra. È risaputo che sotto la crosta terrestre scorrono energie particolari, forze magnetiche che rendono la Terra un autentico organismo vivente. Queste energie sono più intense in certi ambienti che in altri e molti antichi luoghi sacri sono stati costruiti lungo tali canali energetici. Proprio come Venezia. Per molti esoteristi infatti l’intera città è attraversata da una rete di correnti telluriche, che possono essere tanto positive quanto negative. Addirittura, il Canal Grande (Canalasso per i veneziani) sarebbe la rappresentazione di quello che il feng shui, antica dottrina cinese, chiama “Grande Drago”.
Feng shui significa letteralmente “vento e acqua” (gli elementi in grado di plasmare la terra) ed è un’antica arte taoista spesso utilizzata come ausilio per l’architettura, in quanto prende in considerazione aspetti psichici per la costruzione di abitazioni o per la ricerca di un equilibrio fisico o mentale. Le origini di questa disciplina sono antichissime, ma esiste una sorta di trattato fondamentale delle pratiche feng shui redatto da Guo Pu, vissuto tra il 276 e il 324, in cui l’energia terrestre viene descritta come un drago che scende dalle montagne, si disperde attraverso il vento e si arresta davanti a uno specchio d’acqua. Allo stesso modo il Canal Grande percorre e squarcia la terra come un flusso di energia e sbocca nel mare, liberando tutte le sue forze. Per questo Venezia è stata sede di molti esoteristi e alchimisti, da Giordano Bruno a Cagliostro e Casanova: in città si respira un’aria particolare, densa di emotività ed energia. Alcuni hanno addirittura ipotizzato che Venezia sorga su una fitta rete di correnti telluriche che avrebbero caratterizzato la sua urbanizzazione. Il Canal Grande è il grande serpente, simbolo di forze enigmatiche che in alcuni punti diventerebbero molto palesi. Se si guarda una mappa di Venezia, il percorso del Canal Grande rappresenta effettivamente le spire di un serpente. Un serpente che ha una testa e una coda, caput e cauda draconis. Il caput draconis ha valenza positiva, la cauda draconis invece ha caratteristiche negative. Lungo il serpente di energia si troverebbero dunque alcuni poli magnetici in cui convergerebbero le forze telluriche, e che si trovano in corrispondenza di alcuni luoghi memori di una storia spesso nefasta. Come Ca’ Dario o Ca’ Moncenigo, poste proprio sulla cauda draconis... Si tratterà solo di un caso, ma proprio sulla coda del serpente si erge l’isola di San Giorgio, il santo che, secondo la tradizione cristiana, sarebbe l’uccisore del drago. Dalla parte opposta invece domina il campanile di San Marco, costruito forse nel tentativo di esorcizzare le energie negative che si agiterebbero nel sottosuolo di Venezia.
La leggenda del bòcolo
Il 25 aprile è una data speciale per gli italiani, a Venezia lo è ancor di più. In questo giorno si festeggiano infatti l’anniversario della morte di san Marco, il patrono della città, e la festa del bòcolo, parola veneziana che significa
“bocciolo”, e proprio un bocciolo di rosa rossa è il regalo che ogni innamorato fa alla sua compagna e che ricorda la storia di un amore tenero e sfortunato che ha avuto per protagonisti due giovani veneziani vissuti molti secoli fa. Maria Partecipazio era la figlia del doge Orso i ed era follemente innamorata del trovatore Tancredi, un giovane bello ma povero. Per questo il doge non voleva acconsentire alle loro nozze e anzi aveva impedito alla figlia di rivedere l’amato. Tancredi era un ragazzo forte e coraggioso e decise di unirsi alla campagna militare contro i Mori per ottenere la fama che lo avrebbe reso degno della mano di Maria. Lasciò Maria con questa promessa e andò in guerra in Spagna, sotto la guida di Carlo Magno. Qui si distinse e acquistò grande onore e rispetto. Durante una battaglia però cadde ferito a morte, proprio sopra un roseto di rose bianche che il suo sangue tinse di rosso. Con l’ultimo soffio di vita, Tancredi strappò un bocciolo di rosa e chiese al compagno Orlando di portarlo a Maria, dicendole che il suo amore sarebbe durato per sempre e che le sarebbe sempre stato vicino. Orlando galoppò per tutta Europa per soddisfare l’ultimo desiderio dell’amico fraterno e finalmente giunse a Venezia. Era il 24 aprile. Orlando chiese udienza a Maria, le consegnò il fiore, dandole la triste notizia e il messaggio di Tancredi. Maria fu forte, non versò lacrima, ringraziò Orlando e si congedò. La mattina del giorno seguente, la ragazza venne trovata morta nel suo letto: stringeva al petto il bocciolo di rosa. Si era avvelenata. Il doge, distrutto dal dolore e pentito per non aver capito quanto grande fosse l’amore che univa la figlia al giovane trovatore, ordinò che da quel giorno, ogni 25 aprile, si sarebbe festeggiato non solo san Marco, ma anche l’amore, e che ogni cavaliere avrebbe dovuto regalare alla sua amata un bocciolo di rosa rossa. Esiste un’altra leggenda che spiega l’origine della festa del bòcolo. Si narra di un roseto rigoglioso che cresceva proprio accanto alla tomba dell’evangelista Marco ad Alessandria. All’arrivo a Venezia, Bono da Malamocco e Rustico da Torcello regalarono la pianta a un marinaio della Giudecca, di nome Basilio, che li aveva aiutati a trafugare il corpo di san Marco. Basilio la piantò nel giardino di casa e da lì a poco un grande roseto crebbe e si espanse per tutta la sua proprietà. Alla morte di Basilio, il roseto venne utilizzato come confine tra le parti del terreno ereditato dai due figli del marinaio. I due figli però litigarono, la grande famiglia si divise e il roseto smise di fiorire. Molti anni dopo, il discendente di uno dei due figli di Basilio vide, attraverso i rami secchi del roseto, una ragazza, a sua volta discendente dell’altro ramo della famiglia. I due si innamorarono a prima vista e il giovane in segno d’amore le donò un bocciolo di rosa che magicamente era fiorito tra i rovi. Era il 25 aprile.
La leggenda dell’origine dei merletti veneziani
La grandezza dei miti greci è nella semplicità con la quale raccontano la nascita di tutto il creato, sorto dalla volontà di un dio o da una sua manifestazione. Il fulmine, l’arcobaleno, la pioggia, il vento: dietro ogni evento naturale si nasconde un dio diverso e la vita allora si trasforma in un carro allegorico su cui divinità gioiose scorrazzano e fanno festa. La stessa fantasia si trova a Venezia, dove esistono ben due leggende per spiegare la nascita di un oggetto delicato, fine e romantico: il merletto. La prima leggenda narra dell’amore tra un pescatore e la sua fidanzata. I due si sarebbero dovuti sposare, ma in Oriente scoppiò una guerra e l’uomo fu costretto a partire, lasciando l’amata in lacrime e con la promessa che se fosse tornato sarebbero stati insieme per sempre. Il pescatore fu imbarcato su una grande nave come vogatore e partì. La traversata fu lunga e difficoltosa, poi una notte il vento cessò e la nave si incagliò in fondali molto bassi e inaspettati. I marinai erano tutti in coperta per cercare di risolvere il problema quando dagli scogli vicini si levò un canto celestiale. Tutti gli uomini furono ipnotizzati da quel canto: erano sirene che vivevano in quella zona di mare e li chiamavano a sé. Cantavano l’amore e promettevano vita eterna al loro fianco. Molti compagni del pescatore si gettarono in mare per raggiungere quelle creature di cui parlavano le favole che avevano ascoltato da bambini. Ma il pescatore resistette: tre volte le sirene chiamarono il suo nome e tre volte il pescatore, nonostante il forte impulso di seguire i suoi compagni, non cedette. Fu così che davanti ai suoi occhi, emerse dalle acque una sirena: era la regina del mare, una creatura meravigliosa che parlava con la voce più melodiosa che il pescatore avesse mai udito. La regina delle sirene disse all’uomo di essere rimasta molto colpita dalla sua resistenza e gli chiese come mai rifiutasse amore, felicità e vita eterna. Il pescatore rispose che a Venezia lo aspettava la sua fidanzata, alla quale aveva promesso di tornare per sposarla. La Regina allora, con un sorriso meraviglioso, volle fare un regalo a quell’uomo così fedele: con un colpo della sua coda sfiorò la chiglia della nave e la schiuma che si formò si mutò in un velo nuziale. Poi scomparve, il vento ricominciò a soffiare e la nave riprese il suo cammino. I veneziani vinsero la guerra e il pescatore poté riabbracciare la sua amata. Il giorno del loro matrimonio la fidanzata portava in testa il velo bianco e decorato donato al
pescatore dalla regina delle sirene. Tutte le ragazze che parteciparono alla cerimonia rimasero affascinate da quel velo che sembrava fatto della schiuma delle onde e decisero così di riprodurlo con le loro mani. La seconda leggenda ha sempre come protagonisti un vogatore e la sua amata. L’uomo partì per la guerra ma prima, come ricordo e promessa di matrimonio, donò alla ragazza uno strano fiore che aveva colto in mare: sembrava un’alga, sfrangiata, traforata e incrostata di sali marini che la rendevano rigida. Quando la nave salpò, la ragazza rimase per ore a fissare l’orizzonte. Tornando a casa, la giovane si preoccupò per il fiore: era molto fragile e si sarebbe potuto rompere con facilità. Così pensò di farne una copia: prese ago e una matassa bianca e lo copiò esattamente, intrecciando il filo e seguendo l’ordine dei pieni e dei vuoti. Il risultato finale fu così bello che decise di creare il suo abito nuziale nello stesso modo. Quando il suo pescatore tornò, i due si sposarono e tutta Venezia ammirò la bellezza del vestito. Da quel momento l’arte del merletto diventò una delle industrie più fiorenti di Venezia, tanto che monarchi, nobili e prelati facevano a gara per ornare e impreziosire i loro abiti con quei ricami. La Repubblica allora decise di tutelare la sua arte con leggi severissime: chiunque avesse portato i segreti del merletto fuori dai confini sarebbe stato considerato un traditore e ne avrebbe avuto il destino.
Metamauco: l’isola sommersa
Nel 1110 un cataclisma si abbatté sulle isole dell’arcipelago veneziano. Una di esse, Metamauco, scomparve inghiottita dal mare in tempesta. Metamauco era una delle isole su cui era cominciata la vita delle genti che poi, trasferendosi a Rialto, avrebbero dato origine a Venezia. Metamauco fu infatti fondata da gruppi padovani in fuga dalle invasioni barbariche nel vi secolo e divenne sede del primissimo governo veneziano negli anni compresi tra il 742 e l’811, anno in cui, a causa dell’assalto dei Franchi di Pipino, figlio di Carlo Magno, il governo decise di spostare la sua sede in zone più riparate e all’interno della laguna. Da quel momento Metamauco divenne un
piccolo sobborgo, quasi disabitato, dove i pescatori veneziani andavano a caccia di cefali e calamari. Poi, una notte, si sentì un forte boato, la terra tremò e un maremoto di proporzioni inaudite seppellì l’isola, i suoi edifici e i suoi pochi abitanti. Ma esiste davvero una città sommersa nella laguna veneziana o si tratta solo di leggenda? Alcuni abitanti del borgo di Malamocco, situata nella parte meridionale del Lido ed erede dell’antica Metamauco che sorgeva a pochissimi chilometri, affermano che in alcune giornate di mare calmo è possibile scorgere ancora le rovine della città. Ma studi approfonditi dei fondali non hanno rilevato alcun edificio sommerso. Fino a pochi anni fa. I pescatori di Chioggia e Pellestrina raccontavano leggende su rintocchi di campana che provenivano dal mare o su macchie di luce che illuminavano i fondali nelle notti di luna piena, e che per molti erano le anime degli abitanti di Metamauco che vagavano e testimoniavano la loro tragedia. Negli anni Sessanta queste storie erano talmente diffuse che il parroco di Malamocco, per calmare i timori dei fedeli, celebrava periodicamente messe liberatorie in onore dei defunti. Alcuni pescatori poi raccontavano che spesso le reti lanciate in acqua tornavano a bordo lacerate, come se case diroccate o resti di edifici impedissero loro di aderire al terreno sabbioso dei fondali. Alcuni testimoni inoltre hanno affermato di aver visto in alcuni punti degli strani ammassi di pietre disposte a formare dei muri. Si tratta solo di leggende e storie raccontate da persone umili che forse si sono lasciate suggestionare dai racconti che da secoli gli abitanti di Venezia si tramandano nelle notti invernali. Eppure forse il fondale marino nasconde qualcosa di più.
Il Santo Graal a Venezia?
Ponte tra la Terra Santa e l’Occidente cristiano, Venezia è diventata ricettacolo di un numero esorbitante di sante reliquie. La lista dei santi di cui sono conservati i corpi interi o alcune parti è lunghissima: san Marco, san Isidoro, san Rocco, santa Fosca, santo Stefano protomartire, san Zaccaria, san Tarasio, san Giovanni Battista, santa Barbara, santa Lucia... Addirittura nella chiesa dei Frari sarebbe conservata un’ampolla contenente alcune gocce del sangue di Gesù. Ma di certo
la reliquia più famosa della storia del cristianesimo è il Santo Graal. Si racconta che per un certo tempo la coppa nella quale Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo dalla croce fu addirittura conservata a Venezia. Durante la quarta crociata indetta nel 1198 da papa Innocenzo iii, cavalieri e mercanti portarono a Venezia moltissimi tesori, provenienti in particolare dal saccheggio di Costantinopoli, come i quattro cavalli in rame presenti sulla basilica di San Marco e che, secondo alcune leggende, avevano splendidi rubini al posto degli occhi. Da Costantinopoli sarebbe arrivata anche la corona di spine di Gesù, che re Luigi ix di Francia riuscì a sottrarre e portare a Parigi per custodirla all’interno della Sainte Chapelle. Dall’odierna Istanbul dunque partirono e arrivarono a Venezia moltissime sante reliquie. E forse lo stesso Graal. Secondo la tradizione, il Santo Graal era nascosto nel trono di San Pietro, la cattedra usata dall’apostolo negli anni di magistero ad Antiochia e composta da una stele funeraria musulmana decorata con i versetti del Corano, oggi conservato nella basilica di San Pietro in Castello, non lontana dall’Arsenale. Il Santo Graal rimane uno dei misteri più affascinanti della cristianità, eppure, se esiste, è davvero probabile che sia ato da Venezia. Proprio in una chiesa della città infatti sarebbe stato seppellito il corpo mummificato di un cavaliere crociato se, tal Nicodème de Besant-Mesurier. Il nome non dice molto, ma, secondo la tradizione, questo cavaliere sarebbe stato uno dei custodi del Graal e soprattutto l’incaricato di traslare la Santa Coppa in Occidente per proteggerla e nasconderla. Il corpo di Nicodeme fu seppellito a San Barnaba perché la chiesa era legata ai templari. La costruzione dell’edificio iniziò nel 936, ma nel 1105 fu distrutta da un incendio e ricostruita. La prima consacrazione risale al 1230 e fu celebrata da alcuni monaci appartenenti all’Ordine dei Predicatori, che veneravano come patrona Maria Maddalena. La chiesa quindi era tenuta in grande considerazione dai templari e forse furono proprio loro a voler assicurare al suo interno il riposo eterno al corpo di Nicodème de Besant-Mesurier. È probabile che i templari desiderassero che colui che era diventato il custode del Sacro Graal avesse gli onori che meritava. Del resto, se loro erano i protettori di Maria Maddalena, ovvero del Graal fatto carne, allo stesso modo Nicodeme era colui che aveva ricevuto la missione di difendere il più importante simbolo cristiano. E forse non è un caso che quando nel 1810 la chiesa di San Barnaba venne sconsacrata, fu adibita ad abitazione per i cosiddetti “barnabotti”, nobili veneziani decaduti che sopravvivevano grazie ad aiuti del governo della città o
lavorando presso il casinò, quel palazzo Vendramin Calergi già Casa dei templari a Venezia, sulla cui facciata è inciso proprio il motto dell’Ordine.
I luoghi del mistero
La chiesa di Santa Maria Maddalena
Peccatrice, ma santa. Così la chiesa ha tramandato per secoli la figura di Maria Maddalena: una donna che vendeva il proprio corpo e che fu salvata da Gesù. La storia e la letteratura contemporanea hanno riscoperto il personaggio della Maddalena, rendendola protagonista di vicende ai limiti della realtà: per alcuni scrittori, Maria Maddalena sarebbe stata addirittura la sposa di Cristo e la madre della sua progenie. Si tratta di mera fantasia... secondo la Chiesa. Ma se ci fosse qualcosa di vero? Forse era proprio questo il segreto custodito dai cavalieri templari. E la protezione offerta alla stirpe reale, il Sang Real, avrebbe potuto conferire all’Ordine tanto potere, ma essere anche la causa del suo sterminio. I templari avevano accumulato un immenso tesoro e ogni città poteva vantare un avamposto dell’Ordine. Anche Venezia. La città lagunare del resto giocava un ruolo chiave: era il ponte che collegava Oriente e Occidente, la Terra Santa e i grandi regni degli uomini. La chiesa templare di Venezia è dedicata, ironia della sorte, proprio a Maria Maddalena. La storia dell’edificio è legata a una nobile famiglia veneziana, i Balbo, denominati in altri testi anche Baffo. Quest’antica famiglia era originaria di Parma, ma nell’827 si trasferì a Venezia, dove avrebbe poi fatto fortuna. Per alcuni storici, il nome Balbo era in realtà un soprannome dato al capostipite della casata per indicarne un difetto di pronuncia. Per altri invece la variante Baffo indicherebbe Baphomet, l’idolo pagano della Conoscenza della cui venerazione blasfema furono poi accusati i templari. Ezzelino i è colui che diede per primo splendore alla dinastia: nel 1148 partecipò alla seconda crociata indetta contro i turchi e si narra che partì tra le fila dei cavalieri templari. Tornato dalla crociata, Ezzelino i aveva accumulato molte ricchezze e forse custodiva un segreto, che trasmise al figlio. Ezzelino ii seguì le orme militari del padre e segnò molti successi in battaglia
fino a che, nel 1222, decise di ritirarsi in convento per farsi monaco. Il potere e il segreto della famiglia arono quindi nelle mani del suo primogenito, il quale decise, solo pochi mesi dopo la clausura del padre, di edificare in segno di rispetto verso il genitore, e forse verso quell’Ordine cui la sua famiglia apparteneva, un tempio, proprio nel sestiere di Cannaregio dove i templari avevano la loro Casa, palazzo Loredan. E questo tempio fu dedicato a Maria Maddalena, la “dea” dei templari. La chiesa presenta caratteristiche che la rendono un unicum nel panorama veneziano. La sua forma circolare rimanda ai templi pre-cristiani (è la stessa che caratterizza anche il Pantheon romano, sorto appunto come luogo di culto per venerare tutte le divinità pagane), ma soprattutto è la pianta del Tempio di Salomone a Gerusalemme. Le testimonianze dell’Ordine templare non si limitano però solo alla planimetria. Nel bassorilievo della lunetta che sovrasta il portone di ingresso è incisa la frase Sapientia aedificavit sibi domum (“La sapienza si è costruita una casa”). I Cavalieri veneravano la Sapienza più di ogni altra qualità, perché era l’unico mezzo attraverso cui giungere alla Verità, una verità che troppo spesso la Chiesa aveva tentato di far tacere, e nel sangue. Per i templari, Maria Maddalena simboleggiava la Sapienza e la Virtù più completa. La Maddalena infatti era una prostituta, quindi la Carne, ma era amata da Gesù, lo Spirito, più di tutti gli altri discepoli. In lei quindi si univano materia e spirito, amor sacro e amor profano, e più di tutte le altre figure poteva rappresentare la connessione tra terra e cielo. Ma soprattutto i Cavalieri l’amavano come un’eroina che era riuscita a sopravvivere in un mondo di oppressione e che aveva combattuto contro la gelosia degli apostoli. Perché Maddalena fu la prima testimone della resurrezione, fu la donna che insegnava e predicava le parole di Cristo e fu soprattutto la donna che sconfisse il giogo maschile. Contro di lei, così come successivamente contro i templari, la Chiesa scatenò una vera e propria caccia che aveva come unico scopo l’annientamento. Le chiese in suo onore dovevano ricordarlo e dovevano tramandare la sua purezza. Non è un caso che, secoli dopo la distruzione dell’Ordine templare, il culto per la Maddalena, sotto forma di divinità della Saggezza, diventi cruciale per i massoni. E fu proprio un presunto massone a ricevere l’incarico della ristrutturazione della chiesa nel 1780: l’architetto Tommaso Temanza abbracciava i nuovi ideali dell’Illuminismo e forse appunto quelli massonici. Purtroppo non vide terminata la sua opera perché morì nel 1789. Le sue spoglie riposano ancora all’interno della chiesa e sulla sua lapide sono incisi strumenti simbolici: squadra, como e livella. Una simbologia simile si ha anche
all’esterno. Nel bassorilievo del timpano dell’ingresso compare un cerchio intersecato a un triangolo e con un occhio nel mezzo. L’ispirazione massonica è evidente, com’è evidente il legame con i templari in alcune incisioni che si trovano sulle pareti esterne e che rappresentano triplici cinte. Le leggende veneziane raccontano che la chiesa della Maddalena era l’ultima visitata dal popolo durante le cerimonie del Venerdì Santo. Non si sa bene perché occue questo posto, ma sembra che l’edificio fosse inviso alla Curia: durante la sua costruzione infatti la chiesa è stata oggetto di manomissioni che avevano lo scopo di cancellare i simboli non graditi. Forse anche per questo rimane chiusa dal 1820.
La Madonna dell’Orto: un luogo dedicato a Satana
La chiesa della Madonna dell’Orto si trova nel sestiere Cannaregio e ha assunto questo nome in seguito al verificarsi di un evento che i contemporanei definirono miracoloso. La chiesa fu costruita nella metà del xiv secolo e dedicata alla Beata Vergine e a san Cristoforo. Cristoforo era il patrono dei viaggiatori e dei traghettatori, per cui la sua protezione era fondamentale per il popolo veneziano. La chiesa portò il nome del santo fino al 1400 circa, quando avvenne un evento che scosse nel profondo l’animo dei cittadini. A pochi metri dalla chiesa, lo scultore Giovanni De Santi aveva un piccolo orto in cui aveva collocato la statua della Vergine con il bambino che gli era stata commissionata dal parroco di Santa Maria Formosa. De Santi lavorò alacremente alla scultura, quasi fosse ispirato e guidato da mano divina, ma quando il parroco gli fece visita per controllare lo svolgimento dei lavori, fu contrariato dalla poca dignità dei visi della Vergine e del Figlio: erano troppo sorridenti, troppo familiari, in una parola troppo normali, non certo divinità. Così il parroco la rifiutò. A nulla valsero le giustificazioni dello scultore che difese la sua opera dicendo che non era ancora terminata. Per questo decise di tenere la statua e collocarla nel suo orto. Dopo qualche giorno però iniziarono a verificarsi strani fenomeni: la moglie di De Santi infatti si accorse che la statua emanava strani bagliori durante la notte, come dei lampi di luce intensa che duravano pochi secondi. La notizia si sparse per tutta Venezia e l’orto si trasformò in meta
di pellegrinaggi, malgrado lo scultore avesse cercato di arginare il fenomeno. Si racconta addirittura che la statua della “Vergine dell’Orto”, così era stata ribattezzata, compisse dei miracoli e potesse guarire i malati. Davanti a una venerazione popolare così intensa, le autorità religiose della città decisero di spostare la statua in un luogo sacro e fu scelta per questo scopo l’adiacente chiesa che dal 1414 prese il nome di chiesa della Madonna dell’Orto. Ciò che però costituisce il vero mistero è una delle statue dei dodici apostoli che si trovano nella facciata esterna. Si dice che rappresenti Giuda, l’apostolo traditore. Per una convenzione artistico-religiosa, quando i dodici apostoli sono rappresentati in contesti diversi dall’Ultima Cena, Giuda è sostituito da san Mattia, cioè l’apostolo che prese il suo posto tra i dodici dopo il suicidio dell’Iscariota. Nella seconda metà del Trecento però, quando il tempio venne costruito, la Chiesa aveva subito vari scismi e in essa si agitavano molte dottrine ed eresie. Alcune di esse non solo professavano principi opposti a quelli del Vangelo, ma addirittura inneggiavano all’adorazione del diavolo. L’incarico per la costruzione e la decorazione della chiesa fu affidato alla famiglia Masegne, composta da architetti e scultori di grande fama. La leggenda narra che uno di loro, Pierpaolo, faceva parte di una setta di adoratori del demonio. Anzi si racconta che Satana in persona gli fosse apparso e gli avesse dato l’incarico di edificare un luogo che sarebbe diventato il centro del suo regno terreno contro il potere della Chiesa di Roma. Pierpaolo accettò l’incarico e Satana allora gli consegnò uno dei trenta denari che avevano convinto Giuda a tradire Gesù. Pierpaolo nascose la moneta in una delle dodici statue che avrebbero ornato la sommità della facciata. A questa statua diede poi le sembianze di Giuda. Nel corso della Settimana Santa del 1366, la chiesa fu consacrata. Era tradizione che durante la settimana pasquale, il popolo realizzasse grandi rappresentazioni sacre lungo le calli della città. I temi più diffusi erano quelli che riguardavano le Sacre Scritture e la vita di Gesù. La sera del Venerdì Santo fu messa in scena la ione di Cristo. La famiglia Masegne partecipava allo spettacolo nel quale recitava anche, nel ruolo di “pia donna”, una giovane e nobile veneziana, Isabella Contarin, nota perché non solo era guarita miracolosamente dal tifo, ma perché aveva acquisito un potere molto singolare: la capacità di parlare con i defunti e leggere il futuro. Durante la rappresentazione, la giovane Contarin avvertì la presenza del diavolo e iniziò a urlare. Pierpaolo delle Masegne sentì divampare un fuoco dentro di sé che prendeva il controllo del suo corpo: si
avventò contro la fanciulla per ucciderla, ma un diacono intervenne e gli spruzzò addosso dell’acqua santa. Lo scultore cadde a terra gridando: dal suo corpo usciva fumo, era come se l’acqua lo avesse bruciato. Tutti capirono che il giovane era stato vittima del demonio, che si era impossessato di lui e della sua mente. Mentre Masegne si contorceva a terra, il cielo divenne buio e si alzò un vento fortissimo. Poi attorno allo scultore si accese un fuoco e nelle fiamme si intravide il viso di Satana. Improvvisamente il fuoco si spense e il cielo tornò sereno. Satana se n’era andato. I parenti di Masegne corsero a soccorrere Pierpaolo che giaceva a terra in stato di semicoscienza. Non ricordava nulla di quello che era successo. La statua di Giuda fa ancora parte delle decorazioni della facciata, ma dopo questo evento, al di sopra di quelle degli apostoli, furono collocate due nuove statue con lo scopo di tenere a bada il demonio e lo spirito di Giuda: Giustizia e Fede.
Ca’ Vendramin Calergi
Due iscrizioni sulla pietra. Una targa marmorea e un’incisione, entrambe scolpite sulla facciata del palazzo che rimandano a due protagonisti fondamentali, e tra loro intimamente legati, della storia veneziana: i templari e i massoni. Ca’ Vendramin Calergi è uno dei palazzetti più belli di Venezia, si trova nel sestiere di Cannaregio e si affaccia direttamente sul Canal Grande. Il palazzo fu costruito nel 1481 per volere della nobile famiglia Loredan, la quale, per la decorazione di alcune sale interne, ingaggiò il Giorgione. Nei secoli successivi il palazzo cambiò diversi proprietari, fino a essere ereditato nel 1739 dalla famiglia Vendramin. Dal 1946 appartiene al Comune di Venezia che vi ha installato una sede del casinò, la più antica casa di gioco del mondo, essendo stata fondata nel 1638. Ca’ Vendramin Calergi rappresenta il segno più inconfutabile della presenza templare a Venezia: sulla facciata del palazzo è stata posta infatti l’iscrizione “non nobis, domine, non nobis”. Queste sono le prime parole del motto templare: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo dat gloriam (“Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria”). Pura coincidenza? La storia
dei templari terminò ufficialmente il 18 marzo 1314, all’ora del Vespro, quando Jacques de Molay e Goffredo di Charny, rispettivamente il Gran Maestro dell’Ordine e il custode della Sacra Sindone, salirono sul rogo approntato su un’isoletta della Senna. Secondo una leggenda, prima di morire arso vivo, de Molay avrebbe chiamato i suoi accusatori, papa Clemente v e Filippo il Bello di Francia, di fronte al Tribunale di Dio. Così accadde: pochi mesi dopo, entrambi morirono e in tutta Europa cominciò a prendere piede la leggenda della Maledizione dei templari. Si diffuse addirittura la voce che, la notte successiva la morte di de Molay, un gruppo di sette Liberi Muratori si radunò nel luogo della condanna per dare vita a un rito, parlando in una lingua sconosciuta. Secondo molti storici, i templari non si sarebbero quindi dispersi, ma avrebbero proseguito le loro attività esoteriche ed economiche nel più assoluto segreto. Alcuni di essi sarebbero infatti confluiti in società iniziatiche, come la massoneria (qui ritorna il forte legame tra i cavalieri dell’Ordine e i Liberi Muratori), costituendo un nuovo ordine, da molti oggi denominato “Governo Occulto”. Palazzo Vendramin Calergi è stato costruito solo nel 1481, più di cento anni dopo l’estinzione ufficiale dell’Ordine, ma forse tra i suoi proprietari si nascondevano affiliati ai Nuovi templari e sicuramente alla massoneria. Nel 1844, il palazzo fu acquistato da Maria Carolina duchessa di Berry, figlia del principe ereditario del Regno delle Due Sicilie, nipote dell’imperatore asburgico Leopoldo ii e madre del conte di Chambord. Il conte di Chambord, anche noto col nome di Enrico v, era il pretendente al trono di Francia e fu legato, tra gli altri, all’abate Bérenger Saunière di Rennes-le-Château che aveva finanziato più volte e con il quale forse condivideva alcuni segreti. Secondo alcuni infatti, nelle vene del conte di Chambord fluiva quel Sang Real che lo collegava direttamente ai re merovingi e quindi a Gesù Cristo. Ma perché la madre Carolina avrebbe comprato proprio il palazzo appartenuto alla famiglia Vendramin? Forse perché i Vendramin appartenevano all’Ordine dei Nuovi templari. Esiste un dipinto di Tiziano, conservato alla National Gallery di Londra, che raffigura i maschi della famiglia Vendramin inginocchiati di fronte alla reliquia della Santa Croce. Il più anziano di loro, Gabriele, osserva direttamente lo spettatore e si tocca con la mano il ginocchio destro. In latino, “ginocchio destro” si traduce con dextrum genu, che a sua volta potrebbe lasciar intendere “giusta stirpe”. Se tutto questo fosse vero, allora i Vendramin appartenevano ai Nuovi templari e la duchessa di Berry e il figlio che li soppiantarono nella proprietà del palazzo erano i loro eredi.
Tra i loro ospiti si contano molte personalità dell’epoca, e non poche erano alla massoneria, la società segreta sorta forse dalle ceneri del rogo su cui arse l’ultimo Gran Maestro templare. Al piano terreno di Ca’ Vendramin Calergi, fu spesso ospite il compositore tedesco e noto massone Richard Wagner. Proprio qui Wagner compose il secondo atto di Tristano e Isotta e spirò il 13 febbraio 1883. La targa di marmo posta sulla parete posteriore del palazzo ricorda questo evento. Negli anni successivi, il palazzo fu ancora sede di incontri tra massoni o Nuovi templari. Nel 2012, al primo piano di Ca’ Vendramin Calergi si è svolto il xix Raduno nazionale dei cavalieri templari del Gran Priorato d’Italia, istituzione nata nel 1980 e riconosciuta anche dalle Nazioni Unite.
Il segreto della basilica della Salute
La basilica dedicata alla Madonna della Salute, costruita per celebrare la fine delle pestilenze che decimarono la popolazione veneziana, nasconde un segreto legato all’architetto che elaborò il progetto e la edificò: Baldassarre Longhena. Longhena era figlio di un ebreo e, dal padre, apprese molti segreti della Kabbalah e della numerologia. Sembra che l’architetto trasse ispirazione per il progetto della chiesa dalla descrizione del tempio di Venere presente nel romanzo allegorico pubblicato nel 1499 e scritto da sco Colonna, anche se molti studiosi lo attribuiscono invece a Lorenzo de’ Medici o al grande architetto Leon Battista Alberti. Hypnerotomachia Poliphili racconta di un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata. Il testo è scritto in una lingua volutamente difficile, un misto tra italiano e latino, ricco di parole coniate dal greco o dall’ebraico e dall’arabo, ed è zeppo di simbolismi e significati nascosti ed ermetici. È così che va letta anche la basilica della Madonna della Salute di Venezia. Per prima cosa, nella basilica ricorrono costanti due numeri in antitesi che hanno un significato ben particolare: l’8, che simboleggia la rinascita, quella di Venezia dopo la peste, e l’11, che invece ha valore negativo e indica appunto il morbo. L’8 infatti nella simbologia cristiana rappresenta la corona della Vergine, le resurrezione e la vita eterna; l’11 invece ha valenza opposta, richiamando il peccato capitale. Discorso inverso per quanto riguarda la tradizione cabalistica dove il numero 11 rappresenta Dio e l’albero della vita. Inoltre l’11 è un numero
magico, che rappresenta la metà delle lettere dell’alfabeto ebraico e degli arcani dei tarocchi. Ma la numerologia non è l’unico segreto celato dalla basilica. All’esterno infatti la decorazione del fregio è costituita da svastiche (la svastica in Oriente era un simbolo positivo, legato a salute e rigenerazione); inoltre la pianta della chiesa si rifà chiaramente al Grande Pentacolo di Salomone, contenuto nel più grande libro esoterico della storia, La clavicola di re Salomone. La tradizione medievale attribuì a re Salomone una serie di testi magici che contenevano incantesimi e formule per evocare spiriti, demoni o angeli. La clavicula Salomonis è infatti chiamato anche Libro del diavolo ed è tuttora il maggiore e il più temuto manoscritto di magia rituale. La chiave alla quale si riferisce il titolo sarebbe proprio quella per sottomettere gli spiriti demoniaci, in particolare il Grande Pentacolo, sul cui modello sarebbe stata costruita appunto la basilica della Salute, che aveva il potere di imprigionare gli spiriti infernali, forse proprio quelli che avevano provocato la peste e quindi la morte di molti veneziani.
La chiesa della Madonna della Salute: il simbolo del dualismo di Venezia
Per capire i veneziani, bisogna comprendere il loro spirito contraddittorio. Sono uomini d’affari, ma fini intellettuali; grandi esploratori, ma gelosi della propria intimità; sono uno dei popoli più tolleranti, ma tengono ben sicuri i propri confini. Se si pensa ai veneziani, viene in mente il carnevale, la battuta sempre pronta dei gondolieri, le donne vispe e astute, i dongiovanni incalliti, un’atmosfera colma d’oro e di sfarzo. Tutta questa gioia di vivere è mitigata dalla nebbia pesante, dalle acque scure dei canali, dal pantano della laguna e dal nero delle gondole. E proprio la storia della gondola simboleggia tutta la contraddizione dello spirito veneziano. Il suo tradizionale colore nero deriva dall’abitudine di spalmare la pece sullo scafo per renderlo impermeabile. Dal 1609 però la colorazione fu estesa al resto dell’imbarcazione, come effetto dei decreti del Senato che voleva limitare l’eccessivo sfarzo della loro decorazione. Anticamente infatti queste barche erano ricoperte di stoffe colorate ed erano ornate con elementi dorati. Tra le
nobili casate veneziane, era iniziata una gara per abbellire i propri mezzi e poter navigare, durante le processioni sul Canal Grande, su quello più bello. In breve, si giunse a un livello di decoro talmente invasivo e a una competizione così aspra che il governo decise di intervenire: le decorazioni andavano limitate perché a Venezia lo sfarzo era accettato, ma l’eccesso no, come in tutti gli aspetti della vita. Per capire davvero i veneziani bisognerebbe trovarsi in laguna il 21 novembre, quando migliaia di cittadini sfilano su ponti fatti di barche e rendono omaggio alla chiesa della Salute. La Festa della Salute non è solo una ricorrenza religiosa: è piuttosto la festa di tutti i cittadini veneziani che celebrano la vita ricordando la morte. In questo giorno, l’aria si carica di emozione e spiritualità, di storia e memoria, di simbologia e mistero. Un mistero cominciato nel 1600 e che ancora oggi rimane tale. Al principio del xvii secolo, Venezia era impegnata in un difficile conflitto contro la Spagna che, nel 1623, sfociò nella guerra dei trent’anni. Le truppe inviate dalla Repubblica viaggiavano per mare e per terra in Europa e furono proprio i soldati che tornavano dal Nord a portare con loro in città un piccolo roditore, causa della morte di migliaia di veneziani: il rattus norvegicus. Già in diverse occasioni Venezia aveva conosciuto la peste, ma l’epidemia che scoppiò nel giugno del 1630 fu in assoluto la più potente, tanto da are alla storia come “Morte Nera”. Se la peste del 1348 spazzò via i due terzi della popolazione e quella del 1575 fu meno violenta, ma più duratura, l’epidemia del 1630 fu quella più catastrofica: solo nel mese di novembre le vittime furono undicimilanovecentosessantasei. I diversi lazzaretti sparsi per le isole erano inadatti a contenere gli appestati, che pertanto dovevano restare chiusi nelle case, senza l’aiuto dei medici o il o morale dei preti. Col are dei giorni, le medicine cominciarono a scarseggiare, al pari delle riserve di acqua e cibo, e le strade divennero colme di cadaveri lasciati insepolti, aumentando così la possibilità di contagio. Venezia, “Leonessa d’Italia”, per la prima volta nella sua storia si ritrovò incerta, disorientata e impotente a lottare contro il Male. Dato che la medicina tradizionale non sortiva effetti, il patriarca della città, Giovanni Tiepolo, ordinò a tutti i veneziani di compiere preghiere pubbliche e processioni per implorare la clemenza divina. Il 26 ottobre 1630, durante la prima delle processioni che si sarebbero dovute svolgere per quindici sabati consecutivi davanti alla basilica di San Marco, il doge Nicolò Contarini pronunciò il voto ufficiale di erigere una chiesa e dedicarla alla Vergine
Santissima e che ogni anno i veneziani avrebbero reso solennemente grazie a Santa Maria della Salute nel giorno in cui la Morte Nera fosse cessata. La peste terminò pochi mesi più tardi, lasciandosi alle spalle quasi cinquantamila vittime. Il voto ora andava compiuto. L’area scelta per edificare la chiesa fu quella della Trinità, dove sorgeva, un tempo, la dogana marittima. La prima pietra della basilica fu benedetta il primo aprile 1631, e per la sua costruzione fu scelto il progetto dell’architetto Baldassarre Longhena, studiato su simboli e geometrie esoterici. L’edificazione fu però iniziata solo nel 1633 e si protrasse fino al 1687, anno della sua consacrazione. Da quell’anno, ogni 21 novembre[4], viene creato un ponte di barche sul Canal Grande per congiungere San Marco alla Salute e tutti i veneziani, anche quelli che non vivono più in città, lo percorrono e partecipano alla celebrazione solenne per accendere un lume e ricordare la grazia concessa dalla Madonna. Da oltre quattrocento anni, la chiesa della Salute richiama in pellegrinaggio centinaia di fedeli, che sentono dentro di sé un senso di appartenenza alla città che non si potrebbe spiegare in altro modo: la gioia di vivere e la paura della morte convivono nel cuore di ogni veneziano e danno vita a uno dei misteri più intimi di Venezia. Il carnevale avrebbe la stessa valenza esorcizzante, ma oggi si è contaminato ed è diventato un appuntamento per milioni di turisti che inondano la città mascherati. La celebrazione della Salute invece è un momento intimo che, nello sfarzo dei marmi e nella bellezza delle forme, ricorda il momento più triste e difficile di Venezia.
Torcello: l’isola dell’Anticristo
Torcello è l’isola della laguna che ospitò il primo insediamento delle popolazioni dell’entroterra veneto in fuga dalle scorribande dei barbari. Il suo nome deriverebbe da Torcellum, una delle porte più antiche di Altino, la città romana da cui provennero i futuri veneziani. Tra il v e il vii secolo, l’isola aveva una popolazione tra le più numerose; oggi conta solo ventiquattro abitanti. Torcello infatti appare povera, disabitata e abbandonata, ma nasconde dei segreti che l’hanno resa tristemente nota come l’“Isola del Diavolo”.
Proprio lungo la strada che dal porticciolo conduce fino al centro, si innalza un piccolo ponte chiamato appunto il ponte del Diavolo. Si racconta che durante l’occupazione austriaca una ragazza veneziana si era innamorata di un ufficiale nemico. La famiglia della giovane ovviamente si oppose all’unione e le proibì di vederlo, chiudendola in casa. Una notte però l’ufficiale austriaco, durante una ronda, venne attaccato e ucciso. Appresa la notizia, la fanciulla rimase imibile, ma dentro cominciò a meditare vendetta per chi aveva infranto il suo sogno d’amore. Così si rivolse a una maga veneziana per riportare in vita l’amato. La maga evocò il demonio e stipulò con lui un patto: l’ufficiale sarebbe tornato in vita solo se le due donne gli avessero offerto in dono l’anima di sette bambini. La maga accettò e il diavolo le diede appuntamento quella stessa notte, sul ponte di Torcello, perché potesse avvenire lo scambio. All’ora stabilita, la maga e la fanciulla si presentarono sull’isoletta. Era mezzanotte. Improvvisamente dall’altra parte del ponte si accese un fuoco e dalle fiamme uscì il diavolo, accompagnato dal giovane. I due innamorati si poterono così riabbracciare e scapparono insieme. La famiglia della ragazza non ebbe più sue notizie. Dopo la restituzione dell’uomo, la maga avrebbe dovuto saldare il conto, ma non era riuscita a trovare in così poco tempo sette bambini da sacrificare. Il diavolo allora le concesse altri sette giorni, ma la strega morì il giorno dopo. Da allora, ogni notte, si dice che il diavolo appaia sul ponte ad aspettare le anime promesse dalla maga. Certo si tratta solo di una leggenda, ma ad aumentare il mistero di Torcello e i suoi legami con energie negative ci sarebbe anche un mosaico molto particolare conservato all’interno dell’antichissima basilica di Santa Maria Assunta e che potrebbe rappresentare una funesta profezia. I mosaici infatti, che rappresentano il momento del Giudizio Universale, avrebbero dovuto essere solo un monito per i fedeli che uscivano dalla chiesa a messa terminata. Invece un particolare dà all’opera un significato oscuro. La scena è divisa in più parti: nelle fasce più alte, sono raffigurate la morte e la resurrezione di Cristo, mentre nella terza fascia sono raccontati i vari momenti del Giudizio. In particolare, ha un posto di primo piano la lotta tra Gesù vittorioso e Satana. Tutto appartiene alle normali iconografie cristiane, se non fosse per la presenza di un dettaglio: Satana non è solo nella lotta. Il diavolo siede su un trono attorniato dai suoi demoni e regge sulle gambe un bambino: l’Anticristo, raffigurato appunto come un fanciullo che inganna gli uomini con la sua falsa innocenza.
Forse si tratta solo di un monito, un avvertimento. Ma di certo il contesto culturale in cui questa immagine è stata creata lascia poco spazio alla serenità.
Il campanile di San Marco
La storia del campanile di San Marco è costellata di eventi che, non di rado, sono stati associati al paranormale. In origine, il campanile venne costruito come torre di avvistamento e faro. I lavori cominciarono nel ix secolo, durante il dogado di Pietro Tribuno e, tra varie rimesse in opera, furono ultimati soltanto nel xiv secolo. A tutti i veneziani sembrava che quella torre fosse solida e indistruttibile: dava un senso di protezione e quiete, tanto che da subito iniziarono a chiamarla el paròn de caxa (“il padrone di casa”). Ma la storia del campanile fu invece molto travagliata. Nel 1489, un fulmine potentissimo colpì la cuspide di legno, dandole fuoco; nel marzo 1511 fu invece un tremendo terremoto a danneggiarne gravemente la struttura rendendone necessario il consolidamento. È da questi lavori che il campanile assunse l’aspetto attuale: venne riedificata la cella campanaria e al di sopra, per dare maggiore slancio al complesso, fu realizzato un attico sormontato da una nuova cuspide, questa volta in bronzo. La ristrutturazione venne completata il 6 luglio 1513, quando sulla cima del campanile fu collocata una statua dorata dell’arcangelo Gabriele, perché proteggesse la torre e la città. Purtroppo per i veneziani, questo non accadde. Il 13 aprile 1745, ad esempio, durante una tempesta, di nuovo un fulmine colpì la torre, provocando uno squarcio nella muratura e la morte di alcune persone in seguito alla caduta dei detriti. Ma l’evento più tragico si verificò la mattina del 14 luglio 1902, quando l’intero campanile crollò su se stesso. Il campanile di San Marco, simbolo di Venezia, alto quasi novantanove metri, più volte colpito da terremoti e fulmini nel corso dei secoli, improvvisamente collassò lasciando nel cuore dei veneziani un vuoto, e dando inizio a una serie di leggende che ancora oggi sono vive nella mente di ognuno di loro. La causa reale del crollo fu una crepa che si era aperta lungo il fianco della torre e che si era rapidamente ingrandita fino ad aprire in due la struttura. Ma molti in città cominciarono a parlare di segno divino. Forse il campanile era rimasto schiacciato dalla pesante memoria degli orribili patimenti dei prigionieri condannati a morte e costretti a subire la tortura della
cheba di cui era stato lo scenario. Con questo termine, in dialetto veneziano, si indicava la gabbia di legno in cui venivano rinchiusi i colpevoli di sodomia, omicidio, falsa testimonianza e bestemmia. La gabbia veniva appesa all’apice del campanile perché i condannati fossero esposti al pubblico ludibrio. La durata della punizione variava a seconda della colpa, ma in molti casi chi veniva rinchiuso nella cheba non ne usciva vivo. Il giorno seguente al crollo, i quotidiani parlarono però di miracolo: la caduta improvvisa non aveva provocato vittime (i giornalisti ci tennero a precisare che neanche il gatto del custode morì nell’impatto), ma aveva devastato invece la Pietra del Bando, che serviva da piedistallo dal quale venivano lette pubblicamente le sentenze di morte ed era ubicata davanti alla facciata sud della basilica di San Marco. Fu un miracolo che i detriti del campanile abbiano divelto solo la pietra e non abbiamo causato alcun danno a San Marco. Alcuni veneziani raccontano inoltre che l’angelo d’oro della cuspide del campanile, dopo il crollo, si sia adagiato, «come portato da una forza superiore»[5], sui gradini del portone centrale della basilica. Nei giorni successivi, per esorcizzare gli eventi nefasti, i veneziani decisero di celebrare quello che è ato alla storia come “funerale delle pietre”: tutti i calcinacci e i resti della torre vennero recuperati e trasportati con delle chiatte fuori dalla bocca di Punta Sabbioni e lì venne celebrato il rito di seppellimento delle spoglie. Fu un giorno triste per ogni veneziano, ma nessuno si perse d’animo e già dal giorno seguente si cominciò la ricostruzione della torre, secondo i diktat della volontà popolare: dov’era e com’era. Perché comunque a Venezia la storia prosegue, anche se indolente e molto, molto lenta. Come le acque stagnanti dei suoi canali.
I personaggi del mistero
Marco Polo è mai stato in Cina?
Era il 1271, quando tre veneziani, il diciassettenne Marco Polo, suo padre Niccolò e lo zio Matteo si lasciarono alle spalle la laguna e partirono per intraprendere uno dei viaggi più straordinari della storia. La loro spedizione aveva come meta finale Pechino, l’allora capitale dell’Impero Mongolo che si estendeva dalla Cina all’Iraq fino alla Russia. Il viaggio si protrasse per ventiquattro anni, lungo le piste indicate delle carovane che attraversavano deserti, foreste, ghiacciai e valichi inaccessibili. Finalmente, nel maggio 1275, i tre veneziani fecero il loro ingresso alla corte del Gran Khan con il quale Marco Polo strinse un’amicizia profonda e presso cui si fermò. Su incarico dell’imperatore, Marco ispezionò le regioni al confine col Tibet e divenne ben presto ambasciatore imperiale. Nel 1292, a ventun anni dalla partenza da Venezia, Marco Polo cominciò il viaggio di ritorno verso la madre patria, dove giunse nel 1295. Era tornato ricco, famoso, importante e divenne uno dei personaggi più in vista della Serenissima, tanto che ne conduceva gli eserciti in battaglia. Fu durante uno degli scontri con i nemici della Repubblica, i genovesi, che Marco cadde prigioniero e venne rinchiuso in una fredda cella. Durante la permanenza nelle prigioni liguri, Marco Polo dettò le sue mirabolanti avventure a un compagno di cella, Rustichello da Pisa, che le trascrisse in se con mescolanza di termini veneti e italiani. Il titolo originario dell’opera era Le divisament du monde, ma diventerà un best seller ante litteram con il titolo più familiare Il libro delle meraviglie o Il Milione, dal nome di un antenato di Marco, Emilione. Quando finalmente Marco Polo fu rilasciato, poté tornare a Venezia, dove, tra il 1324 e il 1325, morì, lasciando i suoi ricordi in un racconto che rappresenta il primo esempio di prosa moderna, nonché una vera e propria enciclopedia su usi, costumi, geografia e vita quotidiana di popoli sconosciuti. Ma... Marco Polo è arrivato davvero in Cina? Secondo alcuni studiosi contemporanei, il suo viaggio si concluse nei pressi del Mar Nero e tutti i
dettagli del suo racconto li acquisì dai carovanieri che viaggiarono con lui. Marco avrebbe riportato tutto in modo fiorito a Rustichello che a sua volta lo adornò ancor di più. Nei suoi racconti ci sono infatti delle lacune o delle imprecisioni che una persona che avesse vissuto davvero nelle zone in cui la storia è ambientata non avrebbe potuto commettere. Marco Polo ad esempio non fa alcuna menzione della Grande Muraglia e nemmeno della lingua cinese che avrebbe dovuto imparare per comunicare con Kublai Khan. Non fa accenno neppure al sistema di scrittura cinese, ai libri, alla stampa, al tè, alla porcellana o all’uso delle bacchette. In più il suo nome non appare negli annali dell’Impero di Yuan Shih, dove venivano registrati tutti i nomi degli ospiti stranieri che soggiornavano nell’antica Pechino. Dei dubbi sorgerebbero inoltre in relazione a uno dei principali eventi storici descritti nel testo, ovvero il tentativo di Kublai Khan di invadere il Giappone. Nella storia attestata e documentata, i tentativi dell’imperatore furono due, ma Marco li confonde e mischia eventi delle due spedizioni come se fossero accaduti nello stesso momento. Marco Polo descrive inoltre la flotta mongola in modo sintetico, anche se doveva essere molto più imponente di quanto riporta, o comunque abbastanza per colpire qualsiasi osservatore dell’epoca. Il veneziano si limita a descrivere le navi, dicendo che gli alberi di ognuna erano cinque. Studi effettuati sulle imbarcazioni mongole del tempo invece hanno rivelato che gli alberi erano solo tre. Questi dubbi sono stati comunque ampiamente criticati e confutati da molti storici, sia europei che cinesi. Costoro obiettano che Marco Polo non era uno scrittore professionista, ma un mercante, quindi le sue doti letterarie erano limitate: Marco era un osservatore attento, ma non ci ha lasciato considerazioni personali e il suo coinvolgimento nelle vicende che racconta è sempre marginale e accidentale. Per cui gli eventi e i nomi che compaiono sono corretti, non lo sono invece i dettagli. Inoltre Il Milione non è un diario di viaggio, ma un racconto scritto anni dopo i fatti, quando Marco era anziano: si sarebbe potuto dunque confondere facilmente e le omissioni sarebbero dovute a deficit culturali di Polo piuttosto che a invenzioni. Se non accenna alla Muraglia Cinese non significa che non la vide; del resto all’epoca del suo viaggio, l’opera non era ancora conclusa e non aveva l’aspetto odierno: era piuttosto un insieme non uniforme di tratti di mura edificati in periodi differenti. Quanto al nome dei Polo che non compare nelle cronache ufficiali, forse questo dipende dal fatto che gli ospiti spesso ricevevano epiteti dall’imperatore con i quali erano conosciuti tra la popolazione. Qualunque sia la realtà, bisogna dare atto a Marco Polo di aver risvegliato negli
animi dei suoi contemporanei la curiosità e la sete di conoscenza, di aver aperto la mente verso mondi diversi e stimolato l’immaginazione. Solo due secoli dopo, Cristoforo Colombo attraversò l’oceano Atlantico e scoprì l’America. Con sé, portava un esemplare de Il Milione. Qualunque sia la realtà, le parole di Marco Polo danno al lettore di oggi tutti gli strumenti per capire che viaggiare è un trampolino verso l’ignoto, che dovrebbe arricchire il nostro vissuto: «Io credo che era volontà di Dio che dovessimo tornare indietro dal nostro viaggio, in modo che gli uomini potessero conoscere le cose che sono nel mondo...»[6].
La vampira di Venezia
Era una donna. Forse maledetta. Forse un vampiro. E per questo il suo corpo fu sottoposto a un’ultima umiliazione, prima di essere sepolto. Dopo quasi quattro anni di scavi archeologici, condotti tra il 2006 e il 2008, nella zona che corrispondeva al cimitero, sull’Isola del Lazzaretto Nuovo, l’antropologo forense Matteo Borrini ha riportato alla luce una macabra storia che ha per protagonista una donna, deceduta di peste nel Medioevo e accusata di essere una non morta. In Europa, negli anni neri delle pestilenze, si era diffusa la credenza che esistesse una stretta relazione tra il morbo e i vampiri, chiamati Nachzehrer, “masticatori di sudario”, “divoratori della notte”. Questa isteria di massa è tipica dei momenti storici in cui si verificano eventi che hanno una portata talmente distruttiva da rendere insicuro ogni aspetto della vita. Se da un lato si temevano gli untori, dall’altro si pensava anche che il pericolo potesse provenire dai morti. O presunti tali. Ma è comprensibile che questo sia accaduto: la prima ondata di peste che imperversò in Europa, tra il 1347 e il 1353, uccise circa cento milioni di persone, cioè un terzo della popolazione del continente. Nella sola Venezia, l’epidemia fece circa cinquantamila vittime su un totale di centocinquantamila abitanti. Se neppure i medici o i preti riuscivano a fermare il diffondersi del contagio, per i veneziani la colpa era allora da attribuire al demonio e ai suoi strumenti. Secondo la leggenda, i non morti, i vampiri, erano sepolti a fianco dei morti per peste e si nutrivano del loro sangue per poi uscire dalla tomba e contagiare altre persone. L’appellativo di “masticatori di sudario” deriverebbe dalla pratica dei non morti di masticare il sudario nel quale erano avvolti per la necessità di
addentare qualcosa... Per impedire ai non morti di tornare a seminare il terrore, i corpi di coloro che avevano manifestato in vita segni di squilibrio (per un donna anche solo il non essersi sposata o essersi comportata con “leggerezza” era considerato segno di squilibrio...) venivano disseppelliti e nella loro bocca venivano inseriti un palo o un mattone. È proprio così che è stato ritrovato il corpo di quella che è stata ribattezzata la “vampira di Venezia”. Durante le pestilenze, alcune isole della laguna veneziana erano usate come lazzaretti: lì erano portati gli appestati e lasciati morire, poi i cadaveri venivano sotterrati in fosse comuni o, per chi avesse avuto più fortuna, in casse di legno. Quando il numero dei cadaveri diventava ingestibile, alcune di queste bare venivano riaperte per gettare altri corpi insieme a quelli che già contenevano. Poteva capitare che alcuni di questi cadaveri fossero rinvenuti non decomposti, con un rivolo di sangue al lato della bocca o dal naso, facendo galoppare l’immaginazione. La vampira in realtà era una semplice donna, morta per l’epidemia di peste, che essendo stata ritrovata intatta si pensò fosse una non morta e che uscisse dalla bara per tormentare i vivi. Per questo motivo, diciamo per neutralizzarla, le era stato infilato un mattone nella bocca, consacrandola alla storia come mostro.
La Tempesta: esiste un Codice Giorgione?
Giorgio Gasparini, detto il “Giorgione” per via della sua imponente corporatura, è una delle figure più misteriose della storia dell’arte. Di lui si sa poco: nacque a Castelfranco Veneto nel 1478 e morì a Venezia nel 1510; forse apparteneva alla società segreta dei Rosacroce, nata da una costola dei templari e dalle cui ceneri si sarebbe formata la massoneria moderna; sicuramente conobbe Leonardo da Vinci nel 1500, durante il soggiorno del maestro fiorentino a Venezia. Giorgione non ha lasciato opere firmate e questo ha ostacolato l’attribuzione di molti dipinti e soprattutto ha impedito di decifrare il reale significato della sua iconografia, che ancora oggi è oggetto di diatribe tra gli storici dell’arte. Uno dei dipinti più famosi di Giorgione, e sicuramente realizzato dall’artista, è la Tempesta. Il senso del quadro, dipinto tra il 1505 e il 1508, è sfuggente e per questo sono molte le interpretazioni possibili. Una in particolare collega
Giorgione a Leonardo, al Priorato di Sion, a Rennes-le-Château e a un segreto tramandato da secoli: quello del Santo Graal. Sulla destra del dipinto compare una donna seminuda che allatta un bambino; sulla sinistra invece c’è un uomo appoggiato a un bastone che guarda la coppia; i due personaggi sono divisi da un ruscello e alle loro spalle compaiono rovine e una città sulla quale si sta per abbattere una tempesta. Ma chi è davvero quella donna il cui sguardo esce dalla superficie della tela e si ferma sullo spettatore? E che significato può avere la strana posizione in cui è seduta? Secondo alcuni storici dell’arte, la Tempesta non rappresenta solo un semplice paesaggio, ma potrebbe celare un mistero “eretico”, legato alla discendenza terrena di Cristo. Quella donna in poche parole potrebbe essere Maria Maddalena. Qui entra in scena Leonardo da Vinci, e il codice che porta il suo nome e che sarebbe costituito da simbolismi che proverebbero appunto il matrimonio tra Gesù e la Maddalena. Nel 1499, a Venezia, fu pubblicata l’opera allegorica Hypnerotomachia Poliphili, un testo esoterico e onirico denso di rebus ed enigmi che invitavano l’uomo a mettersi alla ricerca del vero Dio. Il libretto ebbe una notevole diffusione a Venezia, dove però la Chiesa cercò di combatterlo e neutralizzarlo. Questo è il contesto nel quale giunse solo un anno dopo Leonardo, presunto Gran Maestro del Priorato di Sion, che si era recato a Venezia per parlare con strani personaggi della letteratura e dell’arte. Giorgione lo conobbe in quest’occasione e probabilmente, da rosacrociano, decise di essere iniziato e diventare adepto del Priorato. Forse alla fine dell’iniziazione, Giorgione era venuto a conoscenza del grande segreto che il Priorato custodiva e aveva dipinto il suo capolavoro, la Tempesta appunto, per diffonderlo. Molti sono gli elementi iconografici che collegano la donna dipinta alla Maddalena: i capelli rossi, gli abiti succinti e la torre che si erge sullo sfondo. Il pastore invece potrebbe essere un autoritratto dell’artista, vestito con i colori templari e adornato con le croci patenti dell’Ordine. Molti detrattori di questa ipotesi hanno riconosciuto nella città alle spalle dei due personaggi Treviso: il fiume sarebbe il Cagnan e sull’antico palazzo che si specchia nelle sue acque campeggia lo stemma dei Da Carrara, la famiglia che aveva conquistato la città. Eppure proprio queste corrispondenze porterebbero a suffragare la tesi secondo la quale Giorgione voleva rappresentare qualcos’altro: proseguendo per quella via infatti si arriverebbe, secondo la distribuzione degli edifici di Treviso, alla chiesa dedicata a Maria Maddalena, che si troverebbe tra l’altro esattamente sotto la folgore che saetta nel cielo nero.
Ma il vero mistero è costituito dalla postura assunta dalla figura femminile. La donna infatti si tocca il ginocchio destro con la mano sinistra ed evidenzia il gesto piegando l’indice della mano. Secondo un’iconografia esoterica, questo gesto nasconderebbe un segreto e sarebbe nato al tempo dei Romani, quando la locuzione dextrum genu significava non solo “ginocchio destro” ma anche “giusta stirpe”, “vera discendenza”. Il bambino che la donna sorregge in grembo è il figlio segreto nato dall’unione carnale di Gesù e Maria Maddalena? In una piccola chiesa se, una statua posta all’ingresso dell’edificio assume la stessa postura. Si tratta del diavolo Asmodeo che campeggia sulla facciata di Rennes-le-Château, la chiesa di Bérenger Saunière, il parroco di campagna che avrebbe scoperto il più grande mistero della storia. Forse Saunière aveva in mente la figura della donna protagonista della Tempesta di Giorgione quando commissionò la scultura, ma rafforzò l’immagine e il segreto che si celava dietro di essa scegliendo come protagonista un demone. Asmodeo è il nome di un potente demone biblico che simboleggia la distruzione. Cosa avrebbe potuto provocare il crollo della Chiesa se non un mistero così minaccioso come la progenie di Cristo? Forse Giorgione era entrato a far parte del Priorato di Sion dopo l’incontro folgorante con Leonardo da Vinci e aveva lasciato questo messaggio cifrato nel suo dipinto più famoso. Forse si tratta solo di fantascienza, ma se invece Giorgione avesse voluto dare un messaggio all’umanità? Questo mistero è destinato a rimanere tale, almeno fino a quando il coraggio e la libertà di pensiero non condurranno a ricercare una verità diversa da quella che alcuni, per secoli, ci hanno fatto credere.
Streghe a Venezia
Il piccolo Giacomo Casanova, a soli otto anni, fu portato dalla zia a casa di una “guaritrice” perché fosse curato per mezzo di arti magiche per perdite di sangue dal naso che lo stremavano e lo avevano ridotto quasi in fin di vita. La guaritrice riuscì a curarlo e farlo tornare in forze. Da quel momento Giacomo si interessò alla magia e si dimostrò per sempre grato verso quella donna, che lui chiamava “strega”. A Venezia, da quanto scritto negli archivi della Serenissima, furono celebrati
circa duecento processi per sospetta stregoneria, ma gli interrogatori violenti, fatti cioè torturando le malcapitate, furono solo tre. Non si arrivò mai a bruciare viva nessuna donna; al massimo, alcune di loro furono messe alla berlina per poche ore tra le colonne di San Marco e San Todaro, ma nulla di più. Si trattava comunque di processi di poco rilievo, in cui le cosiddette “streghe” erano accusate di usare rimedi naturali, come erbe con cui facevano pozioni per curare disturbi fisici o stanchezza cronica. Tra le streghe che ebbero problemi con la legge a Venezia ci furono Dina arina, che in un bicchiere di cristallo teneva prigioniero uno spirito che le dava potere; Giovanna, indovina e guaritrice più volte processata e messa al bando; Lucia, sfregiata in viso, e Giovanna Semolina, esperta in rimedi contro l’impotenza. La loro fu stregoneria “domestica”, tipica dei ceti più poveri della società, fatta di formule magiche i cui segreti venivano tramandati di generazione in generazione in notti particolari, come il Natale e la vigilia di San Giovanni, o in punto di morte. Erano più che altro sistemi antichi, ma validi, che venivano spacciati come magia e venduti per ricavare qualche soldo e tirare a campare. Le streghe a Venezia sarebbero rimaste anonime se l’Inquisizione e i suoi rappresentanti in città non si fossero accaniti periodicamente nella meschina “caccia alle streghe”, così in voga in Europa a partire dal xv secolo, da quando cioè preti e monaci avevano trovato uno sfogo alle proprie frustrazioni sessuali nella violenza contro le donne, che dopo processi farsa, erano liberi di torturare e ammazzare. Per fortuna però Venezia non andò mai molto d’accordo con la Chiesa di Roma e fu sempre restia a eseguire ordini impartiti dall’esterno. Con la caccia alle streghe quindi non fu diverso. A Venezia poi, le streghe non professavano culti malefici, non adoravano il demonio e non partecipavano a sabba orgiastici, ma si limitavano per lo più a riti scaramantici che avevano come motore principale i tormenti e le scaramucce amorose. Dai documenti dell’Archivio storico della Repubblica Serenissima, emerge la storia di un povero tintore innamorato della moglie del padrone che si rivolse a una strega per conquistarla. La strega gli suggerì di offrire la sua anima al diavolo e chiedere in cambio l’amore della donna: in una notte di luna piena, gli sarebbe bastato prendere una pergamena, scrivere il suo nome e quello dell’amata con la proposta di contratto e poi bruciarla con la fiamma di una candela sul davanzale della finestra. Il fumo sparso nell’aria avrebbe portato il suo messaggio a Satana in persona. Il giovane eseguì tutte le procedure con attenzione, ma, in ultimo, non ebbe il coraggio di bruciare la pergamena, perché fu colto dalla paura delle fiamme dell’Inferno. Così spense la candela, gettò il
foglio nel canale e chiuse la finestra. Il mattino seguente, un ortolano trovò la pergamena e non sapendo che fare la portò al prete. Il sacerdote capì subito di cosa si trattasse e denunciò il giovane tintore agli inquisitori, i quali fecero subito arrestare il ragazzo. Durante il processo, il nome della strega non fu mai pronunciato, perché il tintore non lo rivelò nemmeno sotto tortura, ma il povero ragazzo fu condannato all’esilio, dove visse per diversi anni prima di essere graziato.
Carlo Goldoni: vero massone o re della farsa?
Carlo Goldoni abitava in una casa in sestiere San Polo. Fu uno dei maggiori commediografi del Settecento. E fu anche un massone. O forse no? Questo dubbio avvolge ancora la vita di colui che rivoluzionò il Teatro dell’Arte in Italia e fu in grado di rappresentare Venezia e i veneziani, il loro gusto per la vita e la loro battuta sempre pronta. Soprattutto però Goldoni fu un maestro nel descrivere la donna veneziana, della quale amava la vivacità, il suo sapersi destreggiare tra le avances degli uomini e la sua allegria nel fingere di esserne conquistata. Per molti anni Goldoni è stato ritenuto massone perché della società segreta condivideva gli ideali, ricerca di libertà e rinnovamento in primis. Non ci sono però dati certi circa la sua appartenenza effettiva alla loggia. Tutti i fautori di questa tesi si avvalgono di un’interpretazione di un’opera teatrale, Le donne curiose, che dovrebbe rappresentare quasi la confessione del commediografo. La scena si apre a Bologna, dove quattro donne, non essendo ammesse ai “lavori” degli uomini, attraverso una serie di stratagemmi, si riescono a introdurre all’interno di una “loggia” dove però sono costrette a constatare che i loro mariti, padri o fratelli si riuniscono in essa solo per il piacere di stare insieme. Le battute pronunciate dai personaggi mettono in ridicolo tutti coloro che avevano dei dubbi sulla massoneria e la consideravano in senso negativo: le donne, confabulando tra loro, si fanno infatti le stesse domande che si ponevano tutti i contemporanei di Goldoni.
«Ma che diavolo fanno mattina e sera là dentro?»
[...] «Giocheranno a rotta di collo». [...] «No, vi ingannate. Io ho saputo ogni cosa. Sentite, ma in segretezza. Fanno il lapis philosophorum[7]». «Sapete che si può fare? Mio marito sa di filosofia: sarà egli il capomastro». [...] «Vogliono cavar un tesoro». [...] «E fanno un mondo di stregonerie». [...] «Ho sentito dire ancor io che fanno l’oro disputabile»[8].
In realtà, l’operazione messa in scena da Goldoni è geniale. Se davvero apparteneva alla massoneria, all’interno della sua opera il commediografo dava ai suoi personaggi la possibilità di spiegare che i valori massonici erano positivi e che nulla di negativo veniva ordito per tentare di rovesciare lo status quo. Se invece Goldoni non era un massone, attraverso la curiosità delle donne dichiarava che in realtà non aveva la minima idea di cosa accadesse in una loggia. Ciò che però sembra chiaro è che, come sempre, le persone sono sospettose verso quello che non conoscono e per questo hanno atteggiamenti duri, da vera caccia alle streghe. Attraverso i suoi personaggi Goldoni vuole rassicurare tutti gli spettatori della commedia, che poi sono anche quelli della vita: «Tutto il mondo è persuaso che la nostra unione abbia qualche mistero. Questo è l’effetto della superbia degli uomini, i quali, vergognandosi di non sapere, danno ad intendere tutto quello che suggerisce loro la fantasia stravolta, sconsigliata e maligna». Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza.
Ida Dalser, l’amante del Duce
Venezia potrebbe nascondere un segreto in grado di riscrivere un brandello della storia italiana e la vita di uno dei suoi protagonisti: Benito Mussolini. Tutti sanno che Mussolini aveva sposato con rito civile Rachele Guidi; c’è però chi sostiene che il futuro Duce avesse già fatto promesse nuziali a una donna austriaca, e davanti a un altare. Questa donna, Ida Dalser, non solo gli avrebbe dato un figlio, ma anche i soldi per cominciare la sua scalata politica, e poi sarebbe stata abbandonata nella povertà e nell’oblio. Al tempo del primo incontro, avvenuto a Milano nel 1913, Mussolini era il direttore dell’«Avanti!», il quotidiano del partito socialista; poi scoppiò la Grande Guerra e Mussolini da antibellico diventò un interventista convinto, scrivendo articoli sulla necessità dell’Italia di partecipare al conflitto. Per questo fu rimosso dalla direzione del giornale e allontanato dal partito. Dopo l’epurazione, decise di fondare il suo giornale, «Il Popolo d’Italia». E qui entrò in scena Ida Dalser. La donna, che aveva sposato Mussolini in chiesa, vendette tutte le sue proprietà e i suoi averi per finanziare il progetto che contribuì definitivamente all’ascesa di Mussolini. Quando l’Italia entrò in guerra, il futuro Duce partì come bersagliere, lasciando la moglie e il figlio, Benito Albino, nato il 16 novembre 1915. Dal fronte, Mussolini scrisse molte lettere alla famiglia; al suo ritorno però tutto cambiò. Si dedicò solo alla carriera politica, abbandonò la famiglia e si risposò con rito civile con Rachele. L’abbandono e la condotta di Mussolini nei suoi confronti gettarono Ida nel panico per il suo futuro, ma soprattutto la delusione per essere stata messa da parte e ripudiata da un uomo che sembrava volesse cancellare il loro ato la spinse a comportarsi in modi folli, assillando l’ormai Duce con numerose lettere in cui lo implorava di tornare, almeno per il figlio, e arrivò anche a minacciarlo. Ida non voleva rassegnarsi al ruolo di ex amante e pretendeva di essere riconosciuta come moglie ufficiale di Mussolini. Ma il fatto di non essere italiana non giocava a suo favore; inoltre stava cominciando a mostrare alcuni segni di squilibrio che il Duce utilizzò per liberarsi definitivamente della donna. Mussolini la fece internare in una clinica di Trento, dove venne sottoposta a trattamenti duri, disumani, che ne distrussero lentamente fisico e mente. Il figlio
Benito Albino invece fu inviato in un collegio prestigioso di Moncalieri: non vide mai più la madre e gli fu cambiato cognome in Bernardi, dopo essere stato adottato da un uomo che forse il Duce aveva pagato perché lo accogliesse nella sua famiglia. Benito Albino crebbe e si arruolò in Marina, ma poi, per non chiare ragioni, venne internato nel manicomio di Mombello, dove morì il 26 agosto 1942. La Dalser invece uscì per un breve periodo dal manicomio in cui era stata rinchiusa, ma rimase sotto stretto controllo della polizia politica. Per alcuni mesi la donna visse come una vagabonda, si disse che esercitasse la prostituzione e che fosse preda di manie di persecuzione. Per questo, una sera, fu arrestata, processata e condannata alla reclusione in un manicomio. La donna fu condotta in camicia di forza nell’ospedale psichiatrico di San Clemente, a Venezia. Qui Ida Dalser morì, il 3 dicembre 1937, a causa di un’emorragia cerebrale, portando con sé un segreto che Mussolini aveva tentato di nascondere e cancellare dalla storia. Un segreto che condivideva con un figlio per il quale sperava un futuro migliore. Madre e figlio morirono in maniera anonima, soli, non vegliati da colui che avevano amato e cercato di riconquistare. Morirono prima di assistere alla tragedia personale di un uomo che voleva portare l’Italia in cima al mondo e che invece la condusse nell’abisso. Oggi il luogo in cui Ida Dalser riposa è ancora sconosciuto, forse il suo corpo fu gettato in una fossa comune; tutti invece conoscono la sorte che ebbe, qualche anno più tardi, l’ex marito Benito Mussolini.
Chi è davvero sepolto in San Marco?
È il 1962 quando, durante gli scavi archeologici condotti all’interno dell’abside maggiore della basilica di San Marco, viene trovata una lastra di pietra scolpita che potrebbe riscrivere la storia. Oggi la lastra è conservata nel Museo diocesano di Sant’Apollonia ed è diventata il perno sui cui poggia un’ardita teoria secondo la quale nella basilica di Venezia non sarebbero conservati i resti di san Marco, ma quelli di Alessandro il Macedone.
Nel 2004 è stato pubblicato un libro nel quale l’autore, il ricercatore inglese Andrew Michael Chugg, sostiene che Alessandro Magno e san Marco sarebbero i protagonisti di uno scambio di ossa avvenuto circa milleduecento anni fa a causa di necessità politiche e religiose. Chugg partirebbe da due dati certi per avvalorare la sua tesi: Alessandro Magno morì a Babilonia, ma qui fu imbalsamato e dopo qualche tempo il suo corpo sarebbe stato portato nella città egizia che prese il suo nome, Alessandria. Nella stessa città, si trovava anche la tomba con i resti dell’evangelista Marco, molto probabilmente anch’egli imbalsamato. L’ipotetico scambio di mummie avvenne nell’828, quando i mercanti Buono di Malamocco e Rustico di Torcello giunsero ad Alessandria d’Egitto e vollero visitare la tomba del santo, già molto venerato dai veneziani. I due commercianti cristiani temevano per la sorte delle reliquie di Marco, a causa dell’ostilità del governatore arabo della città, il quale a sua volta aveva timore che i cristiani potessero vendicarsi sulle reliquie di Alessandro, che nella tradizione islamica rappresentava il simbolo della saggezza, della giustizia e del desiderio di conoscenza. Per questo, forse, all’insaputa dei mercanti veneziani, il corpo di Marco fu sostituito con quello di Alessandro. Purtroppo però nessuno avrebbe potuto immaginare che i due mercanti avrebbero rubato la cassa con le reliquie di san Marco per ritornare come eroi a Venezia. Secondo Chugg, nell’828 ad Alessandria non solo fu trafugato il corpo di Marco, ma scomparve anche quello di Alessandro Magno. L’elemento che, nella tesi di Chugg, potrebbe stabilire una connessione tra la basilica di San Marco e Alessandro Magno è rappresentato proprio dalla lastra di pietra rinvenuta nel 1962. Sul blocco di pietra è scolpito il sole macedone con otto raggi, simbolo della casata di Filippo ii, padre di Alessandro. Sotto lo scudo è visibile una coppia di schinieri, sul lato sinistro invece è scolpita la sagoma di una fascia che sostiene una spada. Questo motivo è simile a quello disegnato su una tomba del ii secolo a.C. ritrovata a Edessa, la città natale di Alessandro. Le tesi di Chugg sono state accolte con scetticismo: le prove addotte sono circostanziali e non storicamente verificabili, ma basterebbero poche analisi per avvalorarle o confutarle. Finora l’unico test sul corpo di san Marco è stato eseguito nel 1811, ma si trattò di un’analisi poco accurata. Chugg invece chiede da anni che sui resti vengano condotte analisi diverse, anche una semplice tac potrebbe fornire informazioni utili per chiarire il mistero. Alessandro infatti aveva riportato diverse ferite e le ossa ne porterebbero ancora i segni. Se lo stato delle ossa non permettesse di effettuare una tac, si potrebbe invece ricorrere all’analisi del carbonio-14 o anche a quella sul dna. Fino a quando queste verifiche non saranno condotte, il mistero sulla vera identità di chi sia seppellito
in San Marco rimarrà tale. Ma questo è solo uno dei tanti che non verranno mai svelati a Venezia.
Crimini
Il “Mostro di Venezia”
Una storia macabra e terribile ha macchiato di rosso sangue i canali della laguna: si tratta della vicenda del “Mostro di Venezia”. In campo San Zan Degolà era aperta da alcuni anni una taverna, detta “Taverna da Biagio”, dal nome del suo proprietario, Biagio Cargnio. In tutta Venezia si diceva che in nessun altro luogo si potevano mangiare delle salsicce così prelibate. Ma a richiamare clienti da ogni parte della città era soprattutto lo sguazeto di Biagio, una specie di spezzatino fatto con un ingrediente segreto. La Taverna di Biagio era sempre piena, a volte erano così tante le persone che il taverniere doveva approntare tavoli esterni per soddisfare la richiesta. Un giorno giunse alla taverna un carpentiere amico di Biagio, Toni. Naturalmente la sua scelta ricadde sullo sguazeto, di cui andava pazzo. Mentre lo mangiava però sentì tra i denti un pezzettino di carne più dura. Forse era un ossicino. Toni sputò il boccone per capire cosa fosse e, con orrore e raccapriccio, notò che non si trattava di un solo osso, ma di una piccola falange, simile al dito di un bambino. Toni si paralizzò, cominciò a sudare freddo, ma non si scompose. Si alzò, pagò e uscì dalla taverna, portando con sé la prova per denunciare Biagio alla Quarantia Criminal. Ovviamente la risposta delle guardie non si fece attendere: i soldati si precipitarono alla taverna, cacciarono i clienti ed entrarono a forza nelle cucine. Davanti a loro si aprì uno scenario raccapricciante: sui tavoli e appesi al soffitto c’erano parti di corpicini tagliati a pezzi e pronti per essere tritati e diventare salsicce. Era questo l’ingrediente segreto che Biagio non aveva mai rivelato a nessuno. La Quarantia Criminal cominciò le indagini e venne a scoprire che molti bambini poveri del quartiere erano spariti da giorni. Biagio venne condotto ai Piombi, dove venne torturato fino a che non confessò tutti i suoi crimini efferati. Per questo, senza esitazione, venne condannato a morte, la morte più atroce che si potesse conferire a un uomo. Biagio infatti venne legato con una corda e trascinato da un cavallo per tutta la città; poi fu portato alle prigioni, dove gli furono mozzate le mani e fu torturato; infine venne trasportato sul patibolo, tra le colonne di San Marco e San Todaro e qui venne decapitato e squartato in quattro pezzi.
La sua testa fu esposta in campo San Zan Degolà; la sua casa e la taverna vennero rase al suolo, per dissolvere la malvagità di cui erano state teatro. Ma sull’esterno del vicino ponte fu affissa una lastra di marmo scolpita: raffigurava la testa di Biagio, il Mostro di Venezia. Da quel momento la riva viene tristemente chiamata dai veneziani “Riva di Biasio”.
Il fantasma della monaca
Non tutti i fantasmi incutono terrore; ve ne sono alcuni che al contrario suscitano pietà e commozione per il loro triste destino. Una delle più tragiche e drammatiche storie avvenute a Venezia ha per protagonista Chiaretta Loredan. Chiaretta apparteneva a una famiglia aristocratica che aveva dato alcuni dogi alla Repubblica. Un giorno conobbe Sauro, un povero falegname che lavorava come carpentiere all’Arsenale e se ne innamorò. La fanciulla voleva sposarlo, ma il padre si oppose al desiderio della figlia dicendo che una ragazza del suo rango non poteva unirsi in matrimonio con un povero e che l’aveva già promessa in moglie a un nobile, più grande di lei di vent’anni. Chiaretta allora si ribellò al volere paterno, minacciando la fuga e addirittura che si sarebbe tolta la vita se l’avessero costretta a sposare un uomo che non amava. Fu così che il padre, davanti alle intemperanze della figlia, decise di chiuderla all’interno del convento di Sant’Anna, nel sestiere Castello, dove risiedevano. Le ultime parole che le disse furono: «Se proprio vuoi sposarti con un falegname, sposati con Gesù Cristo!». Chiaretta cominciò la nuova vita da novizia, ma dentro di sé non aveva perso la speranza di coronare il suo sogno d’amore. Attraverso delle donne che entravano in convento per portare alimenti di prima necessità, Chiaretta si mise in contatto con Sauro e cominciarono a progettare la fuga, dal convento e da Venezia. Nel frattempo però le consorelle, impietosite dalla sofferenza della giovane innamorata, si erano recate in ambasciata presso il padre e dopo una lunga battaglia riuscirono a convincerlo ad accettare le nozze della figlia con il falegname. Ma proprio la sera in cui il padre decise di andare al convento per portar via la figlia e darle la buona notizia, Chiaretta e Sauro misero in atto la fuga. Il padre giunse proprio nel momento in cui Chiaretta stava scavalcando il muro laterale del convento per calarsi nella gondola in cui l’aspettava il falegname. Il padre fu colto da un raptus violento, corse verso la gondola su cui Chiaretta era appena salita, sguainò la spada dal fodero e traò il cuore della figlia, poi inseguì Sauro che stava tentando la fuga, lo raggiunse e lo colpì. Accecato dall’ira, quasi in trance, il padre si alzò e tornò nel luogo dove giaceva la figlia, ormai moribonda, e senza alcuna pietà pronunciò delle parole che
risuonarono nell’aria come una maledizione: «Vagherai in questo convento finché di esso sarà rimasta solo polvere». Poi se ne andò, gettando la spada nel rio. La mattina seguente, le monache trovarono una scala appoggiata al muro interno e uscirono dal convento per capire cosa fosse potuto accadere. Rabbrividirono quando trovarono a terra il corpo di Chiaretta, morta dissanguata, e di Sauro, fortunatamente ancora vivo. Le monache portarono all’interno del convento il giovane, lo curarono e si fecero spiegare tutti gli eventi. Sauro era distrutto, ma tentò di tornare a una vita normale. Dopo alcune settimane però si ritirò nel monastero dell’isola di San sco, dove morì pochi anni più tardi. Chiaretta invece fu sepolta all’interno del monastero e da quel momento la maledizione del padre si avverò. Si racconta infatti che ogni notte il fantasma di Chiaretta vagasse per i chiostri e i bui corridoi del convento. Ma le sue apparizioni non incutevano paura, bensì comione, perché tutti conoscevano la sua triste vicenda. arono molti anni, il fantasma continuava a vagare, piangendo e cercando una pace che nessuno era in grado di restituirgli. Poi un giorno accadde un episodio simile a quello che aveva portato alla morte di Chiaretta. Una ragazza del sestiere, bella ma povera, si era innamorata del figlio di un ricco mercante. Il padre del giovane osteggiò le nozze, tanto che la fanciulla decise di togliersi la vita per la disperazione. Una notte si recò nei pressi del convento di Sant’Anna, estrasse una fiala contenente del veleno e fece per berlo tutto, quando improvvisamente sentì una mano fredda e invisibile strapparle la fialetta dalla bocca. La giovane si voltò e nell’oscurità intravide una figura eterea, con due occhi grandi e tristi che la fissavano. Poi lo spettro scomparve e al suo posto vide una borsa. La ragazza raccolse la borsa e si sorprese nel constatare che al suo interno c’era una grande quantità di monete d’oro. Grazie a quell’oro, la giovane poté finalmente sposare il suo amato. Quel sogno d’amore realizzato diede pace a Chiaretta, e da quel giorno il suo fantasma non è mai più apparso a nessuno.
Le fondamenta della Donna Onesta
C’è un luogo a Venezia legato inscindibilmente a una figura tanto mitizzata che ognuno ne racconta a modo suo. Proprio dove si incontrano i sestieri di Dorsoduro e San Polo, un ponticello si specchia nelle acque nere della città e congiunge le fondamenta dove molti secoli fa viveva una donna ata alla storia per una sua qualità: l’onestà. Le fondamenta della Donna Onesta, ovvero il ponte della Donna Onesta, appartengono all’immaginario di ogni veneziano. È una di quelle storie che si raccontano ai piccoli e che rimangono per sempre. Proprio per questo, ne esistono tante versioni, e tutte degne di essere riportate. Si narra che in una delle porte che si affacciano sulle fondamenta, ci fosse l’officina di uno spadaio chiamato Battista e che questi fosse sposato con una donna bellissima e molto timida, Santina. Santina era una popolana timorata di Dio e rispettosa dei suoi comandamenti: ogni mattina si recava in chiesa per partecipare alla funzione, poi tornava a casa e preparava il pranzo per il marito. La coppia non aveva figli, non che non li desiderasse, ma Santina non riusciva a rimanere incinta, tanto che le vicine cominciavano a sospettare che in lei qualcosa non andasse. Quando la donna ava per strada, tutte le altre tacevano e la fissavano come fosse un’appestata. Santina soffriva per questo, ma serbava il dolore in silenzio, continuando ad aiutare il marito nell’officina e a governare la casa. Tra i migliori clienti di Battista c’era un nobile che spesso commissionava spade al fabbro. Un giorno, si presentò nel laboratorio con il figlio, Marchetto. Appena il giovane vide Santina, s’invaghì di lei e da quel momento tornò al negozio quasi quotidianamente quando Battista era fuori per sbrigare le sue faccende, e ne approfittava per tentare di sedurre la moglie. Ma Santina non cedette mai alle lusinghe del patrizio, ai soldi e al titolo nobiliare che le prometteva, anteponendo sempre a tutto l’amore per il marito. Una sera però Marchetto, forse ubriaco, giunse a casa del fabbro e cominciò a bussare. Santina era sola, scese ad aprire la porta e fu assalita dal giovane che la trascinò in cucina e la violentò. Il dolore provato dalla donna fu tale che appena Marchetto uscì di casa, la sventurata, che era sul pavimento della cucina con i vestiti laceri e il viso bagnato di lacrime, si alzò, prese uno dei coltelli forgiati dal marito e si tolse la vita.
Una seconda variante della leggenda racconta invece che proprio mentre Marchetto stava per assalire Santina, Battista rientrò in casa, capì quello che stava accadendo e si lanciò sul nobile, sgozzandolo. I due coniugi poi avvolsero il corpo di Marchetto con una spessa coperta e lo gettarono in mare. Anni dopo la morte di Santina, a ricordo della sua onestà, alcuni vicini di casa vollero omaggiarla attaccando sulla pietra rossa della casa in cui aveva vissuto una maschera di pietra bianca, raffigurante proprio il volto della donna. Ancora oggi quel viso campeggia sul ponte, forse a guardia di tutte le fanciulle che eggiano da sole lungo il rio. Ma ci sono altre due spiegazioni sul particolare toponimo del ponte, entrambe molto meno romantiche. Secondo la prima, il nome deriverebbe da una meretrice che viveva nella contrada ed era conosciuta in tutta Venezia per i suoi modi eleganti e i prezzi onesti. In effetti, i registri catastali hanno provato che nel Cinquecento, in una casa presso il ponte, abitasse una donna di facili costumi, e che si chiamasse proprio Onesta. La seconda versione racconta che due amici stavano eggiando lungo le attuali fondamenta della Donna Onesta, filosofeggiando sulle qualità delle donne e in particolare sulla loro onestà. Uno dei due, misogino incallito, per prendere in giro l’altro, indicò il viso di marmo e affermò che quella era la sola donna onesta che conoscesse. Da quel momento tutti i veneziani cominciarono a chiamare così quel posto. I tempi di Goldoni e del suo rispetto verso il gentil sesso erano già tramontati, a quanto pare...
San Zaccaria: la chiesa degli omicidi
C’è un luogo a Venezia che si potrebbe considerare come una scena del crimine, perché la sua storia è macchiata di sangue: si tratta della chiesa di San Zaccaria, situata nel sestiere Castello. Il primo nucleo della chiesa risale al ix secolo e fu costruito per accogliere le reliquie di Zaccaria, il padre di san Giovanni Battista, donate alla città dall’imperatore bizantino. Accanto alla chiesa fu poi edificato un monastero benedettino nel quale papa Alessandro iii trovò ospitalità durante la fuga dall’antipapa Vittore iv. In questo monastero vivevano le “figlie di Venezia”, ovvero le fanciulle appartenenti alle famiglie aristocratiche e costrette alla monacazione per evitare la dispersione del patrimonio della casata, destinato all’erede maschio. Le monache erano tutte giovani e obbligate a condurre una vita ritirata all’interno delle mura del convento. Questo non sempre avvenne: ci sono molte storie che parlano della vita libertina condotta dalle monache, delle feste organizzate nel convento e dei divertimenti delle giovani suore che avevano trasformato il parlatorio in un vero e proprio salottino dove si intrattenevano la notte in compagnia di cavalieri e nobili seduttori e non certo per dissertare di letteratura, arte o teologia. Il monastero anzi era meta di un pellegrinaggio di giovani uomini mascherati, i quali erano soliti fermarsi anche nell’orto che si estendeva tra la basilica di San Marco e il convento per parlare tra loro e stringere alcuni affari. In veneziano, il campo di San Zaccaria è detto brolo (dal latino brolus, “orto”) perché faceva parte di un terreno agricolo. Nell’orto i membri della nobiltà, in particolare i barnabotti, cioè i patrizi impoveriti, si riunivano e mettevano in vendita il proprio voto nel Maggior Consiglio, che reggeva la città e nel quale sedevano per diritto ereditario, con lo scopo di guadagnare qualche soldo e mantenere alto il loro stile di vita. Questa compravendita di voti fece degenerare la politica veneziana verso la slealtà e l’opportunismo. La parola “broglio” deriverebbe proprio dal termine dialettale di Venezia. La leggenda racconta che le monache vennero però punite per la loro lascivia: nel 1105 divampò un terribile incendio che distrusse il monastero e parte della chiesa, dove trovarono la morte più di cento suore che si erano rifugiate nella cripta sotto l’altare maggiore. C’è chi dice che le anime di quelle suore si
aggirino ancora lungo le navate della nuova chiesa, tormentando i malcapitati che hanno la sfortuna di vederle. Forse sono ancora alla ricerca di un amante... La fama di chiesa degli omicidi ha comunque radici ancora più antiche. San Zaccaria fu consacrata il 13 settembre 864, alla presenza del doge Pietro Tradonico. Durante la cerimonia, Tradonico fu assalito da un uomo mascherato che lo pugnalò ripetutamente fino a ucciderlo: fu il primo doge della storia a essere assassinato. Dopo l’attentato, l’omicida si dileguò tra la folla, forse protetto da qualcuno, ma fu poi catturato dalle guardie della Repubblica. Venne imprigionato nei Piombi e qui, sotto tortura, fece i nomi dei congiurati che furono poi processati e condannati alla pena capitale. Il corpo del doge invece fu sepolto all’interno di San Zaccaria. La morte di Tradonico fu solo la prima di una serie di omicidi avvenuti all’interno della chiesa. Il 28 maggio 1172 cadde morto il doge Vitale ii Michiel, ucciso da un facinoroso di nome Marco Casulo per protesta contro la sua politica. La guerra con Bisanzio infatti si era rivelata un disastro e aveva costretto i veneziani alla ritirata. Il doge era travolto dal malcontento ed era stato abbandonato dai suoi stessi consiglieri: è facile ipotizzare che i suoi nemici avessero armato un uomo per eliminarlo. Michiel fu l’ultimo doge eletto per designazione popolare e lasciò una situazione molto critica in politica estera, in particolare per i rapporti tesi non solo con l’Oriente, ma con il Sacro Romano Impero. Come Tradonico, anche il doge Michiel venne sepolto nella chiesa di San Zaccaria la quale, per alcuni anni, si trasformò nel Pantheon dei dogi, ma solo di quelli caduti per morte violenta. Nella cripta dove trovarono la morte più di cento suore, ora riposano le spoglie di otto dogi, alcuni dei quali uccisi all’uscita della chiesa, altri mentre tentavano di salvarsi da congiurati o di scampare a facinorosi e rivoltosi.
Il doge traditore
È la sera del 17 aprile 1355. Il doge Marin Faliero sale sulla grande scalinata di Palazzo Ducale. Attorno a lui c’è grande silenzio e attenzione da parte di tutto il popolo, accorso per assistere a quell’evento. Il doge si volta, saluta i veneziani con un gesto del capo, poi si mette in ginocchio. Istanti lunghi come ore. In aria vibra un suono metallico. Il boia alza al cielo la spada insanguinata e urla: «Vardè tuti! L’è stà fata giustisia del traditor!». Marin Faliero, il cinquantacinquesimo doge della Repubblica veneziana, fu il primo e unico ad essere giustiziato con l’accusa di alto tradimento. Di lui si sa che nacque nel 1285, ma fino al 1315 le cronache di Venezia non lo nominano mai. Entrò a far parte del Consiglio dei Dieci, l’organo politico più importante, dopodiché si dedicò ad attività mercantili e fu ambasciatore per Venezia a Bologna. Nel 1333 fu eletto capitano delle galee di Costantinopoli e si fermò per qualche anno in quella città. L’11 settembre 1354 fu proclamato doge, ma non si trovava a Venezia, per cui fu organizzato un sontuoso viaggio in bucintoro per riportarlo in città. La tradizione vuole che la barca, a causa del maltempo, fosse stata costretta ad attraccare al centro del molo e che il corteo dogale avesse dovuto are tra le colonne dei Santi Marco e Todaro, dove venivano eseguite le esecuzioni. In molti interpretarono questo evento come cattivo auspicio. Nel 1355, il doge fu il promotore di un colpo di Stato ai danni della Repubblica. Venezia era appena uscita dalla lunga e disastrosa guerra contro Genova, i commerci erano calati e la popolazione aveva fame. La classe aristocratica che governava la città era messa in discussione; si verificavano spesso incidenti e tumulti. Faliero pensò che fosse venuto il momento di un cambiamento radicale: la Repubblica avrebbe dovuto lasciare posto a una signoria assoluta, nello stile di quella milanese dei Visconti. Si dice anche che il vero motivo fu di carattere personale, per vendicarsi di un’onta ricevuta da un altro nobile veneziano, ma questo forse fu solo il pretesto che gli fece prendere la decisione di agire. La data per il colpo di Stato fu fissata nel 15 aprile 1355: i congiurati si sarebbero impadroniti del Palazzo Ducale con le armi, avrebbero ucciso i membri del Consiglio, compresi i loro figli, per azzerare completamente
l’aristocrazia veneziana e poi avrebbero proclamato il doge signore di Venezia. Il complotto, al quale avevano aderito molti mercanti e borghesi, venne però sventato: tutti i cospiratori furono arrestati, interrogati e condannati a morte. Marin Faliero insieme a loro. Il corpo decapitato del doge fu esposto per un giorno, poi il 18 aprile venne caricato su una gondola e sepolto in una bara di pietra senza nome. La pena più dura che dovette subire infatti non fu la morte, ma la damnatio memoriae, la cancellazione totale di ogni traccia della sua esistenza. Nella Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale sono ritratti tutti i dogi veneziani, ma il ritratto di Marin Faliero fu coperto dal Tintoretto, che dipinse sul suo volto un drappo nero su cui è scritto: hic fuit locus marini faletri decapitati pro crimine proditionis, ovvero “Questo era il posto di Marin Faliero, decapitato per i suoi crimini”. Inoltre il Consiglio ordinò che la campana che rintoccò al momento dell’esecuzione non venisse mai più suonata, pena la morte, e fu issata senza battacchio in San Marco. Le monete con l’effige del doge traditore infine furono intercettate e rifuse. Ciò nonostante, il doge Marin Faliero è forse il più famoso della storia ed è protagonista di leggende che sopravvivono ancora oggi. Si dice infatti che il corpo acefalo di Faliero vaghi ancora, nella notte del 17 aprile, alla ricerca della sua testa.
Il fantasma di Tosca, strappata all’altare
A nessuno dovrebbe essere negata la felicità. Nessuno dovrebbe essere picchiato o essere chiuso a chiave in una stanza come si fa con gli animali più pericolosi; nessuno merita bugie e di essere messo in secondo piano. A tutti deve essere data la possibilità di amare. Sembrano concetti chiari, condivisibili da tutti, eppure molto spesso ci sono vittime di maltrattamenti, storie d’amore che finiscono, abbandoni improvvisi e silenzi incolmabili. Molte leggende veneziane sono legate alle pene d’amore, e questo potrebbe rappresentare un paradosso se si pensa che la città lagunare è considerata la culla per eccellenza del romanticismo. Il 22 settembre 1379 moriva Tosca, una bellissima donna trevigiana che aveva abbandonato tutto per amore: gli amici, la famiglia, le radici e la sua realtà. Tosca era nata in un’antica famiglia aristocratica di Treviso, ma il padre era mancato e la madre non riusciva più a soddisfare le necessità che il rango e il loro stile di vita imponevano. Per questo motivo la giovane fu promessa sposa a un signorotto della zona, un vecchio conte rimasto da poco vedovo e con un’immensa fortuna. La madre non avrebbe mai voluto arrivare a tanto, ma le condizioni economiche in cui versava la famiglia la obbligarono a condannare all’infelicità la figlia. Tosca accettò la decisione della madre, sacrificandosi per salvare i suoi cari; dentro di sé però si sentiva morta, senza più sogni e aspettative per un futuro che vedeva misero e triste. Il primo incontro con il futuro marito avvenne nel suo palazzo: il modo in cui le baciò la mano e la toccò le fece venire i brividi, ma la ragazza fu forte e trattenne le lacrime. Il matrimonio venne fissato per il 21 settembre 1379, il giorno del sedicesimo compleanno di Tosca. I preparativi erano a buon punto, l’abito bianco, i fiori, il corredo... non mancava nulla, tranne l’amore. Qualche giorno prima delle nozze però accadde che Tosca stesse eggiando nel bosco di proprietà della sua famiglia quando improvvisamente i suoi occhi incrociarono quelli di un cacciatore. Era un ragazzo biondo, alto, robusto, con occhi azzurri e sguardo seducente: Tosca se ne innamorò perdutamente. Nei giorni successivi, i due giovani continuarono a vedersi, sognavano un futuro insieme, pieno di felicità e spensieratezza... poi tornavano alla realtà: Tosca si sarebbe sposata a breve e non
si sarebbero più visti. Il cacciatore allora le propose di fuggire insieme, lontano, a Venezia, dove un suo parente prete avrebbe potuto sposarli. Tosca rifiutò, benché fosse il suo sogno, ma il rispetto verso la madre e i suoi doveri di figlia la fecero desistere. Arrivò il giorno delle nozze. Tosca si vestì, prese coraggio e con la madre si diresse verso il suo destino. Ma quando giunse di fronte alla chiesa, vide il cacciatore che l’aspettava. Tosca si paralizzò. La madre guardò la figlia, poi il giovane e capì tutto. Fu lei a parlare per prima: «Scappate! Andatevene via insieme! Non preoccuparti per noi, ce la faremo!». La figlia non credette alle sue orecchie. Baciò la madre, la ringraziò e corse verso il cacciatore. I due fuggirono a cavallo verso Venezia. La furia dell’uomo rifiutato non si fece attendere. Il vecchio conte si lanciò all’inseguimento della coppia e raggiunse Venezia alle prime luci dell’alba del 22 settembre. L’uomo aveva alcuni scagnozzi sul posto che riuscirono a scoprire dove i due innamorati si erano rifugiati. Il conte piombò a casa del prete parente del cacciatore, sorprese i due giovani svegli e in procinto di recarsi nella chiesetta del sacerdote, e infuriato uccise il cacciatore e poi afferrò Tosca, vestita da sposa, le prese la mano sinistra e le tagliò il dito anulare urlando: «Se non posso sposarti io, non lo farà nessun altro!». Poi se ne andò, lasciando Tosca a terra in lacrime. Dopo qualche ora la ragazza si alzò, con gli occhi vitrei prese un pugnale dalla credenza del prete e si tolse la vita. Ancora oggi si dice che nella notte del 22 settembre uno spirito, vestito in abito da sposa, vaghi per le calli veneziane, alla ricerca del dito che gli fu strappato: solo ritrovandolo potrà finalmente celebrare le nozze con il suo amato cacciatore.
La decapitazione del conte di Carmagnola
La tolleranza della Repubblica veneziana nei confronti delle differenze culturali o religiose fu sempre grande, ma le punizioni per i traditori al contrario furono esemplari. La sorte del conte di Carmagnola ne è testimonianza. sco da Bussone nacque intorno al 1382 a Carmagnola, in provincia di Torino. Era figlio di umili contadini, ma aveva da subito dimostrato un animo caparbio e altero, un ardore spesso violento e una buona capacità per gli affari. Fu così che si arruolò e divenne capitano di ventura al servizio del miglior offerente. Il suo primo maestro fu un altro grande condottiero, Bonifacio, detto Facino Cane, il quale gli spiegò che per aver successo avrebbe dovuto scegliere un nome altisonante e uno stemma facile da ricordare. sco, che non aveva dimenticato da dove proveniva, scelse come nome di battaglia Carmagnola e come insegna l’immagine di tre capretti. Bonifacio però gli insegnò anche a fiutare il miglior offerente e fu così che Carmagnola lo lasciò di punto in bianco per arruolarsi tra le truppe mercenarie di Gian Galeazzo Visconti. Carmagnola rimase agli ordini della famiglia lombarda anche dopo la morte di Gian Galeazzo, tanto che per premiare la sua fedeltà, il successore Filippo Maria gli donò il feudo di Castelnuovo Scrivia e gli diede in moglie la figlia illegittima Antonia, la quale gli portò in dote anche il titolo di conte. Per il duca Filippo, il Carmagnola, tra il 1415 e il 1424, guiderà le truppe alla riconquista di Alessandria, Lecco, Como, Trezzo sull’Adda, Bergamo e Piacenza. Le sue grandi capacità di condottiero e le sue astuzie da abile stratega gli portarono fama e gloria, tanto che Filippo Maria Visconti cominciò a vederlo come avversario in grado di offuscare il suo potere. Fu così che, per liberarsene, lo elesse governatore dell’appena riconquistata Genova. Il conte di Carmagnola, che aveva intuito quali fossero i piani del Visconti, lo abbandonò e offrì i suoi servigi ad Amedeo viii, duca di Savoia. Costui però, per evitare uno scontro con il confinante Ducato di Milano, rifiutò la proposta di Carmagnola, il quale, per tutelarsi e non rimanere solo contro tutti, decise di recarsi a Venezia. Il 24 febbraio 1425, il Carmagnola, al quale Filippo Visconti aveva requisito il titolo e il feudo, divenne capitano di ventura per la Serenissima Repubblica di Venezia. Nello stesso momento, Firenze, impegnata da tempo in una guerra contro lo
Stato di Milano, propose a Venezia di costituire una lega, insieme a Ferrara, Mantova e Monferrato, per combattere il Visconti. Venezia accettò e pose il Carmagnola a capo delle sue truppe, dandogli così la possibilità di vendicarsi nei confronti del suo vecchio mecenate. Le vittorie riportate dal Carmagnola costrinsero i milanesi a iniziare delle trattative di pace con Venezia, ma la Serenissima, che vedeva ora la possibilità di ampliare i suoi domini, ordinò al Carmagnola di proseguire le ostilità. Le truppe ducali furono sbaragliate e i pochi superstiti fuggirono. Inspiegabilmente però il Carmagnola decise di non inseguirli, e questa decisione fece insospettire Venezia. I dubbi di un tradimento del condottiero aumentarono quando il Visconti gli restituì tutti i feudi e il titolo di conte e soprattutto quando, nel 1429, Carmagnola chiese alla Serenissima di essere svincolato per un anno dal contratto che lo legava alla Repubblica. Il Consiglio dei Dieci, il più alto organo di governo dopo il doge, respinse la richiesta e Carmagnola dovette continuare la campagna militare contro Milano. Il conte però non sapeva di essere tenuto sotto stretta sorveglianza dalle spie del doge. Le successive operazioni militari condotte dal Carmagnola furono disastrose: il capitano di ventura agiva in modo lento e non dimostrava più il vigore che lo aveva guidato in precedenza. Per la Serenissima fu la confessione del tradimento. Inaspettatamente, Carmagnola fu richiamato a Venezia, dove giunse l’8 aprile 1432. Appena varcata la soglia del Palazzo Ducale, alla presenza del doge, Carmagnola fu arrestato e sottoposto a un processo lampo che si concluse con la condanna a morte. Il 5 maggio 1432 il conte di Carmagnola fu così decapitato in piazza San Marco. Fu vero tradimento? Gli storici si stanno ancora interrogando sulle sue azioni. Alcuni affermano che il Carmagnola avesse ceduto alle pressioni di Visconti perché la sua famiglia viveva nel ducato e quindi temeva ritorsioni e vendette; altri invece asseriscono che il capitano di ventura fu vittima del tradimento di Ferrara e Mantova, che volevano evitare che l’indebolimento di Milano provocasse il rafforzamento di Venezia. Forse più semplicemente il Carmagnola si trovò a doversi destreggiare, inconsapevole, tra intrighi di corte e giochi di potere, che un uomo umile come lui non seppe affrontare. Ma è paradossale che un eroe così grande in battaglia non sia stato in grado di combattere contro una politica viscida e meschina. A ricordo della sua triste storia, sull’ingresso della chiesa di San Polo sono stati
scolpiti due leoni che si fronteggiano minacciosi: uno reca tra gli artigli una testa umana, l’altro combatte con un serpente. La testa è proprio quella di Carmagnola, il serpente invece rappresenta il biscione, simbolo dei Visconti, ma anche animale subdolo e infido per antonomasia.
Ca’ Dario, la casa che uccide
Proprio sulla cauda, la coda, del dragone energetico rappresentato dal Canal Grande, si erge minacciosa Ca’ Dario, temuta da tutti i veneziani che l’hanno soprannominata la “casa che uccide”. Su questo edificio infatti graverebbe, da secoli, una maledizione: tutti i suoi proprietari sarebbero destinati a morire di morte violenta oppure per “strane” cause accidentali. Ca’ Dario fu costruita per volere del segretario della Repubblica di Venezia, Giovanni Dario, nel 1479. Il palazzo voleva essere in realtà un dono a tutta la città: per questo Giovanni, sulla facciata, fece scolpire in lettere dorate la dedica “urbis genio joannes darius”, ovvero “all’ingegno della città da parte di Giovanni Dario”. Tuttavia l’epigrafe nasconderebbe un terribile segreto. L’anagramma della frase infatti è “sub ruina insidiosa genero”, cioè “genero sotto una insidiosa rovina”: chi avrebbe abitato quella casa sarebbe caduto in disgrazia. Solo un gioco di enigmistica e una macabra coincidenza? Sembrerebbe di no. Le morti delle persone legate a Ca’ Dario sono iniziate da subito. E così la sua leggenda. Quando Giovanni Dario morì, nel 1494, la casa fu ereditata dalla figlia Marietta, moglie di un ricco mercante, Giacomo Barbaro. Pochi mesi dopo essersi sistemati nella nuova casa, l’uomo subì un tracollo finanziario, si indebitò e venne assassinato dai suoi creditori. La moglie, non riuscendo a riprendersi dal tragico evento si lasciò morire tra le mura domestiche. La maledizione ormai si era messa in moto. Vincenzo, figlio di Giacomo e Marietta, era provveditore della Repubblica a Candia. Qui subì un agguato mortale, senza che i suoi assassini fossero mai scoperti. La casa rimase inabitata per molti anni: i discendenti di Barbaro infatti erano terrorizzati da quel palazzetto che D’Annunzio descriverà come «una vecchia cortigiana decrepita piegata sotto la pompa dei suoi monili». Finalmente, agli inizi del xix secolo, Alessandro, l’ultimo Barbaro, decise di metter in vendita la casa e trovò un acquirente nel commerciante armeno Arbit Abdoll. L’uomo però non ebbe il tempo di godersi la nuova casa perché in poco tempo la sua attività fallì e lui si suicidò. Ca’ Dario fu allora messa in vendita ancora una volta e fu comprata da uno studioso
inglese, Radon Brown. Anche lui morì, insieme al suo compagno. Il palazzetto degli orrori continuò a mietere vittime anche e soprattutto nel Novecento. L’americano Charles Briggs, che era fuggito in Italia con il suo amante perché negli Sati Uniti l’omosessualità era ancora fuorilegge, appena giunto a Venezia e acquistata Ca’ Dario impazzì, uccise il compagno e poi si tolse la vita. Tra il 1899 e il 1901, soggiornò in Ca’ Dario anche il poeta se Henri de Régnier. Ma dopo due anni, una grave malattia pose fine al suo viaggio italiano. La casa rimase ancora senza proprietario. Nel 1964, tra i possibili compratori si fece avanti il tenore Mario Del Monaco, il quale ruppe le trattative dopo un incidente automobilistico che subì mentre si stava recando a Venezia proprio per ultimare i dettagli dell’acquisto. Del Monaco sopravvisse allo schianto, ma fu costretto ad abbandonare le scene: a morire era stata la sua carriera. Si racconta anzi che in ospedale, con voce strozzata, il tenore abbia urlato al suo segretario: «Sbrega quele carte», ovvero “Distruggi il contratto”. Agli inizi degli anni Settanta, l’edificio venne acquistato da Filippo Giordano delle Lanze. Anche a Filippo toccò la triste sorte dei precedenti proprietari: fu ucciso dall’amante diciottenne che gli spaccò la testa con una statuetta. Subito dopo, il manager del gruppo metal The Who acquistò la casa, ma morì poco dopo, cadendo “accidentalmente” dalle scale. Negli anni Ottanta, fu il manager veneziano Fabrizio Ferrari a comprare casa, dove si trasferì con la famiglia. Ben presto, ebbe un tracollo finanziario che lo portò al suicidio e anche la sorella, che viveva con lui, morì pochi giorni dopo, vittima di un incidente d’auto. L’ultimo proprietario di Ca’ Dario fu Raul Gardini, noto imprenditore che agli inizi degli anni Novanta acquistò il palazzo con l’intenzione di farne dono alla figlia. Pochi anni dopo scoppiò lo scandalo Tangentopoli, in cui rimase coinvolto anche Gardini. Come molti prima di lui, pure Gardini sceglierà la morte e si sparerà un colpo in testa. Era il 23 luglio 1993. Pochi sanno che, nel 2000, anche Woody Allen si era interessato alla casa, ma, per fortuna per lui, l’affare non si concretizzò. Attualmente, il palazzo è nelle mani di una multinazionale americana. Ed è ancora in vendita. Tutte queste morti sono davvero il frutto di una maledizione? Sono state avanzate ipotesi secondo le quali Ca’ Dario sorgerebbe su un antico cimitero templare. Che sia davvero un luogo maledetto? Secondo il feng shui, il Canal Grande sarebbe da intendere come un dragone di energia lungo il quale si troverebbero nodi energetici che polarizzerebbero forze negative. Ca’ Dario
sarebbe stata costruita su uno di essi. Benché non ci sia alcun fondamento scientifico per spiegare queste morti, oggi Ca’ Dario è un simbolo della Venezia insanguinata. Forse credere alla superstizione e alle energie telluriche non è razionale, ma allora perché sulla facciata della casa vicina è scolpito un talismano usato per esorcizzare le forze del male?
Sangue in piazza San Marco
Piazza San Marco è sempre stato il cuore vibrante della vita veneziana, il fulcro di ogni attività mercantile, il centro della gestione politica e del culto religioso. Ma è stato anche il luogo in cui si amministrava la giustizia, dove si leggevano le sentenze e si eseguivano le condanne a morte. Dove molti turisti oggi eggiano, dando da mangiare ai piccioni o scattando fotografie alle bellezze artistiche, in ato hanno camminato i condannati a morte ed è stato versato sangue. Le esecuzioni avvenivano nella “zona franca”, dove per altro era legale il gioco d’azzardo: tra le colonne di San Marco e San Todaro. Le due colonne costituivano l’accesso alla piazza dal mare fin dal 1172, anno in cui vennero erette. Sulla loro sommità svettano il leone, simbolo di san Marco e di Venezia, e san Teodoro, santo bizantino, primo patrono della città, raffigurato nell’atto di uccidere il drago. In questo punto erano condotti i condannati a morte e ancora oggi, tra i veneziani, persiste la superstizione che fa loro evitare di are attraverso i fusti delle colonne. Il doge in persona assisteva alle condanne, che venivano effettuate per decapitazione o strangolamento. A volte, per i reati di peculato o tradimento, al condannato veniva prima amputata una mano e poi il cadavere poteva essere squartato e lasciato per giorni a terra come monito per tutti i cittadini. Ma c’è un altro luogo in cui venivano lette le sentenze di morte. Nel primo loggiato del Palazzo Ducale, ci sono due colonne che spiccano fra le altre: sono di marmo rosso, proprio per indicare il colore del sangue. Davanti a queste colonne, venne letta ad esempio la sentenza di morte per don sco, il prete di San Zan Degolà, parrocchia del sestiere di Santa Croce. Il 21 novembre 1500 alcune urla richiamarono l’attenzione dei vicini del quartiere. Le urla provenivano dalla casa di Beneto Morosini. La porta d’ingresso era chiusa e si dovette chiamare un fabbro per scardinarla. Quando i vicini e le guardie entrarono, si trovarono di fronte a una scena raccapricciante: il figlio di Morosini, un ragazzino di soli nove anni, giaceva a terra in una pozza di sangue; la casa era sottosopra e c’erano i segni di una colluttazione; poco
distante fu rinvenuto Beneto, per fortuna ancora vivo. Gli inquisitori dello Stato cominciarono le indagini sul caso e gli interrogatori condotti portarono a un solo nome, quello del parroco della chiesa. Don sco infatti fu visto uscire dalla casa proprio la mattina dell’omicidio e quindi presumibilmente era stato anche l’ultimo a vedere il bambino in vita. Beneto intanto si era ripreso e aveva accusato il prete, che fu nel frattempo incastrato anche da altre prove: sul suo abito talare furono trovate macchie di sangue. Don sco fu quindi arrestato e interrogato: i gendarmi lo picchiarono e alla fine lo costrinsero a confessare un omicidio che fino a pochi attimi prima aveva negato. La sentenza di morte non tardò ad arrivare. Il 19 dicembre 1500, davanti a una folla immensa, don sco venne condotto tra le due colonne di piazza San Marco e decapitato. Nonostante la celerità del processo e dell’esecuzione, rimasero molti dubbi sul caso. Perché il prete avrebbe dovuto volere la morte del figlio di Morosini? Si era trattato solo di un raptus omicida o esisteva una giustificazione per un simile atto? In molti avevano chiamato in causa la madre del bambino, che sarebbe stata la vera autrice del misfatto. Purtroppo però ormai don sco era morto, anche se gli era stata offerta la possibilità di salvarsi. Tra le colonne di Palazzo Ducale infatti ne esisteva una che si ergeva direttamente sul mare. Era usata per dare una chance di salvezza ai condannati: se fossero riusciti a girare intorno ad essa senza cadere dallo strettissimo basamento, avrebbero avuto la grazia. Don sco non ce la fece. E per questo fu ucciso. Oggi la base della colonna è ancora al suo posto, ma è consumata dai piedi dei condannati a morte che tentarono, invano, di salvare la propria vita.
Il Casin degli Spiriti
In un’ampia insenatura delle Fondamenta Nuove, nel sestiere di Cannaregio, svetta un malinconico ed elegante edificio, palazzo Contarini dal Zaffo, costruito nel xvi secolo. Nelle calme acque in cui si specchia il palazzo, i veneziani erano soliti fare il bagno durante le afose giornate estive, proprio davanti a una dépendance chiamata Casin degli Spiriti. Attorno a questo piccolo edificio, ultima costruzione di Venezia prima di Murano, aleggiano strane storie di fantasmi e riti esoterici. Si narra che nei secoli ati il casino fosse la sede di una setta che organizzava misteriose cerimonie in cui venivano evocati demoni e spiriti, che poi infestavano tutta la città. Molti testimoni hanno raccontato di aver visto, tra le nebbie della laguna, di notte, fiaccole portate da persone incappucciate e nascoste da pesanti mantelli di velluto blu scuro. Le processioni si dirigevano verso il Casin degli Spiriti, poi le vetrate del palazzo si illuminavano, e strani rumori, come canti gregoriani, si udivano risuonare sulle nere acque circostanti. Le dicerie sul palazzo e i riti compiuti al suo interno probabilmente avevano un fondo di verità. In quel periodo, non era raro che i nobili annoiati si riunissero in bische per giocare a carte o fare sedute spiritiche; il rumore della risacca e del vento che si infrangeva sulle vetrate del casino poi poteva alimentare voci su presenze paranormali. Inoltre la costruzione si trovava proprio di fronte all’isola di San Michele, il cimitero di Venezia, che durante le pestilenze era stato utilizzato come Ospedale della Misericordia: qui morirono molti veneziani e su molti corpi dei deceduti furono effettuate clandestine analisi autoptiche. Di certo era un luogo che avrebbe messo i brividi anche ai meno impressionabili. Il fantasma più presente nelle storie dell’orrore riguardanti il Casin degli Spiriti è quello di Luzzo, un pittore del Cinquecento che in quelle stanze si incontrava con colleghi come Tiziano, Giorgione o Sansovino. Il Casin degli Spiriti era infatti un luogo di ritrovo per nobili, ma anche per artisti e letterati che tra loro condividevano esperienze e il tempo libero. Durante gli incontri al palazzetto, i pittori si accompagnavano con donne, prostitute e libertine. Una di queste, Cecilia, era solita giungere al braccio di Giorgione. Luzzo si innamorò perdutamente della sua pelle bianca, dei suoi occhi timidi ma rapidi, delle sue
gote rosee e della sua voce melodiosa. Purtroppo però il suo fu un amore non corrisposto. E lo portò alla rovina. Una notte, durante un temporale, Luzzo, forse dopo qualche bicchierino di troppo, prese un fucile, lasciò la stanza dove gli altri giocavano a carte, salì all’ultimo piano e si sparò. Da quel giorno si dice che la sua anima tormentata vaghi ancora per le stanze del palazzo in cerca di amore. Non solo storie di fantasmi. Il nome del Casin degli Spiriti infatti è legato anche a fatti di sangue. Nel 1929, al suo interno, furono trovati quattro corpi, tutti decapitati. Forse si trattava di persone coinvolte in messe nere o sedute spiritiche finite in tragedia. Ma la fama di luogo maledetto acquisita dal casino è stata rinvigorita da un fatto di cronaca avvenuto nelle acque delle fondamenta Contarini, nel secondo dopoguerra. Venezia, alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, era entrata, come tutta l’Italia, in un periodo di crisi: i commerci stagnavano e le merci marcivano all’interno dei grandi magazzini. La popolazione cominciava a spostarsi dalle isole della laguna all’entroterra, soprattutto verso Mestre; alcuni addirittura emigravano all’estero, per tentare la fortuna in Jugoslavia. In questa situazione di povertà, molti cittadini avevano trovato la possibilità di guadagnare qualche soldo in più con il contrabbando. Piaga che la Guardia di finanza cercava di combattere con retate e rincorse alle barche. Contrariamente a quanto si può pensare, il contrabbando non era un’attività svolta da soli uomini. Linda Cimetta era una donna di Belluno che spesso si aggirava clandestinamente nelle calli veneziane per comprare sigarette di contrabbando e rivenderle poi al mercato nero. Di lei si diceva che fe anche la prostituta, ma erano voci messe in giro da donne gelose della sua bellezza. Una sera, improvvisamente, Linda scomparve. La polizia cominciò le ricerche e, dopo giorni di indagini, giunse alla conclusione che fosse stata vittima di un omicidio. Forse dei concorrenti avevano voluto eliminare una concorrente troppo brava o forse dei clienti non avevano voluto pagare tutto il bottino. Il caso venne archiviato come un regolamento di conti, nonostante il corpo della donna non fosse stato trovato. Qualche mese dopo, alcuni ragazzini stavano facendo il bagno nelle acque di fronte al Casin degli Spiriti. Improvvisamente a fior d’acqua apparve in lontananza un baule di legno ricoperto di conchiglie e alghe. I ragazzi lo portarono a riva, entusiasti e felici: forse conteneva gioielli o chissà quale tesoro... Immaginate invece l’orrore che provarono quando, una volta aperta la cassa, si trovarono davanti agli occhi il corpo fatto a pezzi di una donna.
Era proprio Linda Cimetta, o ciò che ne restava. Da quel giorno nessun veneziano si è più tuffato nelle acque nere del Casin degli Spiriti.
Il mendicante e il levantino
I canali veneziani sono i testimoni silenti di storie dai mille colori: ora avventurose, come le rocambolesche fughe di Casanova dai balconi di giovani donne; ora mitiche, come il trasporto del Santo Graal in laguna; ora drammatiche, come la vicenda che ha per protagonisti un mendicante e un levantino. Nel Cinquecento, a Venezia, la Scuola Grande di San Marco, sul campo dei Santi Giovanni e Paolo, era una delle maggiori accademie per artigiani e artisti del tempo. Cesco Pizzigani, noto e apprezzato scalpellino della città, aveva partecipato alla realizzazione scultorea dei decori della facciata della scuola, nella quale si era formato. Cesco era un uomo umile, ma devoto, ed era sposato con una donna, Florinda, che venerava e che costituiva tutto il suo mondo. La vita di Cesco non fu facile: era diventato orfano molto giovane e, per dargli gli strumenti per sopravvivere, le suore di carità del sestiere in cui viveva lo avevano iscritto alla Scuola di San Marco perché apprendesse l’arte della scultura. Cesco si era da subito distinto per l’abilità con cui maneggiava lo scalpello e divenne in breve famoso e ricercato dalle famiglie più illustri di Venezia. Nel 1501, però una malattia incurabile gli strappò Florinda e di nuovo lo scalpellino si trovò solo al mondo. In più, per far fronte alle cure mediche, Cesco si era indebitato e aveva dovuto vendere la sua bottega per pagare i creditori. Accadde così che, dopo la morte della moglie, annientato e annichilito dal dolore, Cesco si lasciò andare, abbandonò la sua identità e cominciò a mendicare, vivendo all’addiaccio proprio di fronte all’ingresso della Scuola di San Marco. La notte si sedeva triste e disilluso di fronte all’opera che lui stesso aveva contribuito a innalzare, chiedendosi che senso avesse avuto faticare, sacrificarsi, se poi non poteva condividere quella splendida vista con la persona che amava. Nonostante Cesco avesse abbandonato la bottega, i pochi amici, il suo lavoro e la sua vita, rimaneva comunque uno scalpellino. A volte infatti senza pensare, raccoglieva un pezzo di metallo e una pietra dal terreno e cominciava a incidere sulle pareti della scuola i profili delle navi mercantili che vedeva scaricare le
merci e poi ripartire. Chissà dove andavano, si chiedeva Cesco, e intanto sognava di salpare e fuggire, per lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare una nuova vita. Proprio da una di quelle navi, qualche anno prima, scese un levantino, un uomo d’Oriente, un ebreo che era diventato cittadino turco e aveva fatto fortuna grazie agli scambi commerciali con la Repubblica veneziana e che ora risiedeva sull’isola della Giudecca. Qui aveva conosciuto una donna e l’aveva sposata. I due ebbero un figlio, ma quando questo non era ancora in grado di parlare, il levantino lasciò la moglie, portando con sé il bambino. Il figlio crebbe e il padre lo educò secondo i suoi principi, vestendolo proprio come lui, con un turbante e vestiti sgargianti. Il ragazzo crebbe orgoglioso e arrogante, astuto e bravo negli affari, ma, proprio come il padre, anche molto aggressivo. Spesso infatti si recava a trovare la povera madre e la picchiava: su di lei scaricava l’odio verso tutti i concittadini, colpevoli di guardarlo male quando ava perché vestito in modo diverso, e tutto il rancore e l’insoddisfazione che derivavano da un conflitto interiore lacerante. Nel suo sangue si mischiavano Oriente e Occidente, ma entrambi i mondi lo avevano ripudiato. Una sera uno scatto d’ira troppo veemente terminò in tragedia: il ragazzo impugnò un coltello e accoltellò la madre, strappandole il cuore dal petto. Come fosse stato rapito da un demone, il giovane tornò alla realtà e, vedendo davanti a sé il cadavere, uscì di casa terrorizzato. Scappando, gettò a terra il coltello, ma non abbandonò il cuore della madre, che continuava a stringere accanto al suo. Durante la fuga, ò davanti all’ingresso della Scuola di San Marco, di fronte a dove Cesco trascorreva le notti, e qui inciampò. Il cuore della madre gli sfuggì di mano e ruzzolò a terra. Improvvisamente, nel silenzio notturno, si udì una flebile vocina provenire dal cuore che disse: «Figlio mio, ti sei fatto male?». Il giovane credette di essere impazzito: con il terrore negli occhi, si rialzò e si gettò nelle nere acque di Venezia, preferendo la morte a una vita fatta di rimorsi. Cesco assistette a tutta la scena, immobile, in silenzio, senza poter fare nulla per salvare il ragazzo. Poi raccolse da terra un chiodo arrugginito e decise di immortalare quel momento sulla pietra della scuola. Ancora oggi sul portale d’ingresso, in mezzo ai graffiti delle navi, si può scorgere il profilo di una strana figura umana che indossa un grande turbante e regge in mano un cuore.
La verità storica di Otello e Desdemona
Secondo alcuni studiosi, William Shakespeare si sarebbe ispirato a un fatto di cronaca per scrivere la storia che ha per protagonisti Otello e Desdemona. Le ipotesi sull’identità storica dei personaggi sono molte, a cominciare da Lucrezia Cappello uccisa per gelosia dal marito Giovanni Sanudo nel 1602, ma sono due quelle più fondate e confermate. Sono due storie simili: entrambe parlano di gelosia; in entrambe muore un componente della coppia; entrambe possono essere localizzate dove sorgono due palazzi che per tutti i veneziani sono la Casa di Otello e la Casa di Desdemona. La Casa di Otello è ciò che rimane di un antichissimo palazzo che si trova in campo dei Carmini nei pressi dell’odierno Istituto d’Arte di Venezia e che un tempo apparteneva alla famiglia Moro. Non serve certo un grande sforzo di fantasia per associare la figura di Otello, il Moro di Venezia, con quella di un appartenente alla nobile famiglia. Si tratta di Cristoforo Moro, un patrizio che aveva acquisito un grande onore in città per le sue vittorie in battaglia e che per questo fu scelto dal governo della Serenissima per ricoprire il ruolo di luogotenente a Cipro, dove venne inviato nel 1505. Tornò a Venezia tre anni dopo, alla guida di quattordici galee, ma solo. Si racconta infatti che Cristoforo Moro fosse giunto a Cipro con la moglie, una nobildonna veneziana della quale era follemente innamorato. Nei tre anni che la coppia visse a Cipro, viaggiando di città in città, avevano avuto figli e non era mai successo nulla che potesse giustificare il terribile atto con cui Moro si vendicò della moglie. Era il principio del 1508, Cristoforo Moro e la famiglia erano giunti a Famagosta dove soggiornavano in un antico castelletto nel centro della città. La moglie, nonostante avesse partorito più volte, era molto bella, nel fiore degli anni e suscitava in chi la guardava grande ammirazione. Cristoforo Moro sopportava sempre meno le lusinghe che molti ambasciatori e alcuni soldati facevano alla consorte e lo spettro della gelosia cominciò a rodere l’equilibrio tra i coniugi, fino allo scatto aggressivo e violento. Una notte, Cristoforo Moro rincasò molto tardi, sotto un forte temporale. Erano stati giorni duri perché l’isola era costantemente preda di tentativi di riconquista da parte dei turchi e l’uomo era sotto pressione. Entrato in casa notò che all’ingresso era appeso un mantello da
uomo fradicio. Non era suo e immediatamente scoppiò in lui un’ira spaventosa: corse allora nelle stanze della moglie, convinto di coglierla in compagnia di un altro uomo, e spalancò la porta. La donna stava già dormendo, ma fu svegliata dalle mani del marito che le afferrarono i capelli e la gettarono a terra, offendendola e accusandola di averlo tradito. A nulla valsero le parole della moglie: era uscita quel pomeriggio per accompagnare i figli al mercato, ma essendo scoppiato il temporale e non avendo con che ripararsi un uomo le aveva offerto il suo mantello. Cristoforo Moro non le credette, la trascinò sul balcone della torre e la gettò nel vuoto. Qualche giorno più tardi, Cristoforo Moro tornò in patria, con i figli, acclamato dai veneziani che non seppero mai che fine avesse fatto la donna. Anni dopo, nel 1515, Moro sposò in seconde nozze la figlia di Donato da Lezze, soprannominata “Demonio bianco” per il suo temperamento focoso. A questa vicenda storica si ispirò un bardo di Ferrara, Giambattista Giraldi Cinzio, il quale nel 1565 scrisse una novella intitolata Il Moro di Venezia che aveva come tema proprio la gelosia di un marito nei confronti della moglie innocente. Forse, quando nel 1604 scrisse il suo Otello, William Shakespeare prese spunto da quest’opera. Entrambi i drammaturghi fecero una scelta molto precisa però: per un riguardo all’aristocrazia veneziana, si tralasciava ogni relazione con la famiglia Moro, ma il protagonista venne descritto di carnagione scura. Invece il nome Desdemona potrebbe essere derivato dall’appellativo dato alla seconda moglie di Cristoforo. La Casa di Desdemona invece si trova lungo il Canal Grande, nella riva di fronte alla basilica di Santa Maria della Salute. La tradizione associa il palazzo alla nobile famiglia Contarini Fasan (dei Fagiani), chiamata così per indicare la ione del capostipite del casato per la caccia al fagiano. In questa casa, nel 1535, vivevano Nicola Contarini e la moglie Palma Querini. A Venezia, Contarini si era distinto per la freddezza con cui trattava i nemici della città, in particolare i turchi, nonostante, come riportato dalle cronache del tempo, nelle sue vene scorresse sangue orientale e la sua pelle avesse un colorito scuro. Si dice infatti che fosse figlio illegittimo, nato dall’amore clandestino tra il padre e una serva fatta schiava a Cipro durante le sue campagne militari. Tra Contarini e la moglie Palma c’erano ben tredici anni di differenza, la stessa che intercorre tra Otello e Desdemona nella tragedia di Shakespeare, e come i protagonisti del dramma anche Contarini era vittima di una gelosia folle che fu causa della sua fine. È questo infatti il dato che discorda dal racconto tanto di Cinzio quanto di Shakespeare: nella vicenda di Contarini e Palma è il marito a morire, assassinato durante una lite che vide coinvolti anche dei parenti della moglie, scappata giorni prima e tornata alla casa dei genitori, perché esasperata dalle continue
scenate di gelosia del marito. Sono due storie vere di gelosia, entrambe macchiate di sangue e che potrebbero aver ispirato William Shakespeare. C’è un dato sociale che però emerge dai racconti: Venezia nel xvi secolo era una città multietnica, dove i matrimoni misti erano frequenti in tutte le classi, anche in quella nobile. I “mori” a Venezia erano dunque una realtà ormai accettata: erano mercanti, armatori, uomini d’affari, soldati e non solo schiavi provenienti dalle terre conquistate e controllate dalla Serenissima. Questo prova ancora una volta come Venezia fosse una città moderna, aperta a tradizioni e culture diverse, pragmatica e tollerante. Una città in cui la differenza non era rappresentata dal colore della pelle o dalle idee, ma da ciò che un uomo voleva o non voleva fare.
La triste storia del poaro fornareto
La giustizia non è sempre infallibile. La storia è piena di esempi in cui giudici e tribunali hanno fatto valutazioni sbagliate, condannando o lasciando in libertà chi non lo avrebbe meritato. Del resto, la giustizia, essendo un’emanazione umana, partecipa di questa natura incompiuta. Ma saper riconoscere gli sbagli è proprio dei grandi. E anche in questo la Repubblica veneziana ha saputo ergersi al di sopra di tanti altri Stati. Piero lavorava come garzone nella bottega del padre, un forno per il pane ubicato in calle de la Mandola. Un mattino di un freddo giorno degli inizi di marzo, nel 1507, il giovane si stava dirigendo al lavoro quando si accorse di un oggetto luccicante che giaceva a terra. Piero si avvicinò e si spaventò nello scoprire che si trattava del fodero in argento di un pugnale. Il ragazzo lo raccolse, pensando che avrebbe potuto rivenderlo e usare il ricavato per chiedere in sposa la sua innamorata Annetta, figlia di un nobile veneziano che aveva sempre osteggiato il loro amore a causa delle condizioni economiche di Piero. Il fornareto fantasticava, fissando il pugnale, quando si accorse che a pochi metri da lui giaceva, coperto da un mucchio di stracci, un uomo in fin di vita. Piero tentò di soccorrerlo, ma l’uomo spirò tra le sue braccia. Il ragazzo rimase pietrificato dal terrore: si alzò, era tutto sporco di sangue e aveva ancora in mano il fodero dell’arma. Casualmente due gendarmi arono per quella calle e vista la scena, non ebbero alcun dubbio: fermarono un incredulo Piero, che non riuscì a proferir parola per difendersi. I gendarmi controllarono la scena del crimine: l’uomo morto era Alvise Guoro, noto a Venezia per essere l’amante della nobildonna Clemenza Barbo. Per le guardie la situazione era chiara, così arrestarono il giovane e lo condussero alle terribili prigioni. Piero fu incarcerato nei Piombi con l’accusa di omicidio. A quei tempi, un reato del genere era punito con la massima delle pene, la morte, e a poco valsero i tentativi di Piero di spiegare la dinamica dei fatti. Il giovane fu condotto nella “camera dei tormenti” dove fu torturato, percosso e umiliato tanto da riconoscere colpe che non aveva e un delitto che non aveva commesso, pur di far cessare i supplizi. Piero era piegato nell’animo, avvilito e senza più speranza: voleva solo che tutto quel tormento cessasse. E questo accadde il 22 marzo. In piazza San Marco il sole
cominciava a far capolino prepotente sul pubblico assiepato per assistere all’esecuzione. Il patibolo era pronto tra le due colonne della piazza; Piero aveva le mani legate e il viso scuro; il boia aspettava solo un cenno per far calare la mannaia. Nello stesso momento, dall’altra parte della città un servo dei Barbo uscì di casa correndo: il marito di Clemenza aveva confessato alla moglie l’omicidio del suo amante, perpetrato per gelosia. Il servo però arrivò tardi: la scure del boia aveva colpito e con essa era calato il silenzio in tutta piazza San Marco. Un innocente era stato ucciso, punito per un crimine che non aveva commesso. Il giorno dopo il doge chiamò tutti i giudici del Consiglio e diede loro un ordine: da quel momento, alla fine di ogni udienza processuale, si sarebbe dovuta dire la frase: «Ricordeve del poaro fornareto» come monito per evitare ancora di sentenziare condanne ingiuste. Da quel giorno inoltre, sul lato della basilica di San Marco che guarda verso il luogo in cui fu commessa l’esecuzione di Piero, sono state poste due fiaccole, accese durante la notte e spente all’alba. Questo accade dal 1507, come a chiedere scusa per l’incapacità dimostrata dagli inquisitori e per non dimenticare il grave errore commesso.
Bernardina, l’uxoricida di Venezia
Quanto è arbitraria la giustizia? Le pene equivalgono sempre alla colpa commessa? La giustizia è sempre retta e soprattutto uguale per tutti? Una storia accaduta a Venezia nel xvi secolo potrebbe fornire lo spunto per una riflessione sulla giustizia e i rapporti di potere, soprattutto quelli tra uomini e donne. Il primo maggio 1521, presso il campiello della Fraterna, nel sestiere Castello, ebbe luogo un terribile omicidio, compiuto a mano fredda da una donna ata alla storia come l’“uxoricida di Venezia”. Bernardina era sposata da anni con Luca da Montenegro, ma il loro rapporto era oramai teso e i litigi all’ordine del giorno. I vicini e la figlia della coppia, Diana, assistevano muti e attoniti alle escandescenze di Luca e Bernardina. Diana in particolare doveva sopportare il desolante spettacolo del padre che alzava le mani contro la madre e la insultava e della madre che reagiva con violenza per difendersi. Una notte, l’esasperazione condusse Bernardina a compiere un atto estremo: la donna prese un martello, si avventò sul marito e cominciò a colpirlo ripetutamente in testa mentre dormiva. Alzando lo sguardo, Bernardina guardò verso la porta e vide Diana che fissava immobile il corpo del padre. All’improvviso, la figlia ruppe il silenzio e cominciò a urlare; Bernardina allora le si avvicinò, minacciandola con il martello insanguinato per farla tacere. Quando finalmente Diana si tranquillizzò, Bernardina pensò a come disfarsi del corpo del marito. Decise di chiedere aiuto a un cugino, Tommaso: insieme, trasportarono il corpo in un magazzino abbandonato e lì lo sotterrarono. Dal giorno dopo, cominciarono a spargere la voce che l’uomo era partito per un viaggio, e per corroborare la menzogna mostravano a parenti e amici una falsa lettera di Luca, in realtà scritta da Tommaso, in cui l’uomo annunciava la decisione di recarsi in pellegrinaggio a Loreto e di voler are da Roma per far visita a un parente, prima di far ritorno a Venezia. La menzogna venne scoperta quando uno zio di Luca, che ben conosceva quale tipo di tensioni ci fossero tra lui e la moglie, inviò una lettera al parente a Roma. L’uomo rispose di non vedere Luca da mesi. Lo zio quindi, temendo il peggio, denunciò Bernardina. A causa della totale mancanza di prove, la donna non poté essere arrestata. Ma un giorno, peccando di sicurezza, Bernardina si tradì,
confidando a un amante di aver spostato in un altro luogo il corpo del marito. L’amante, temendo forse di poter fare la stessa fine, la denunciò ai magistrati, i quali non tardarono a inviare delle guardie nel sito in cui si sarebbe dovuto trovare il corpo di Luca. E lo trovarono. Bernardina fu così arrestata e accusata ufficialmente di aver ucciso il marito. In breve, nei suoi confronti si scatenò tutta l’opinione pubblica veneziana e, durante il processo, nessuno si presentò in sua difesa; anche la figlia Diana testimoniò contro di lei. Per tutti, l’omicidio era molto più grave dei molti anni di percosse e insulti ricevuti dalla donna da parte del marito. Bernardina da Montenegro fu pertanto condannata a morte, e l’esecuzione compiuta il 3 agosto 1521, nel modo più crudo che le leggi della Repubblica potessero elaborare. Bernardina, legata con robuste funi, fu trasportata su una grande imbarcazione lungo i canali, perché tutti i veneziani potessero vedere e offendere l’assassina. Poi fu condotta in piazza San Marco e qui il boia, strattonandola, la slegò, le fece mettere la mano che aveva inflitto i colpi mortali sul ceppo e la tagliò con un colpo di scure. Dopodiché la donna, con la mano mozzata appesa al collo, fu trascinata nel centro della piazza, dove venne finita dalla folla inferocita a colpi di mazza e pietre. Il cadavere, già straziato dalla furia giustizialista del popolo, fu squartato e i resti furono appesi in vari luoghi della città, come monito per altre potenziali assassine. L’omicida era stata punita. L’esecuzione fu giustificata dalla legge e dalla morale del tempo, che in nessun momento presero in considerazione il ato di Bernardina: una donna maltrattata, che aveva cercato giustizia, e che la giustizia non protesse, ma che anzi piombò su di lei senza alcuna pietà. È triste pensare che purtroppo, ancora oggi, come Bernardina, molte donne vengano lapidate, uccise e massacrate solo perché chiedono di essere considerate persone.
Damnatio memoriae per Giovan sco Valier
La damnatio memoriae è una pena che consiste nella cancellazione delle memorie legate a una persona: come se non fosse mai esistita. È una punizione che supera la stessa condanna a morte perché di un individuo veniva cancellata ogni prova della sua esistenza. Fu una pena applicata a Roma e largamente diffusa durante l’età imperiale; ne furono vittime tra gli altri Caligola, Nerone, Commodo, Geta ed Eliogabalo. Si applicava nei confronti di coloro che avevano infangato l’onore di Roma e che si erano macchiati di crimini terribili. Anche Venezia, in alcuni rari casi, la adottò. Giovan sco Valier fu una vittima illustre di tale punizione; per fortuna però la sua figura è giunta fino a noi grazie alle citazioni dei suoi scritti da parte di altri autori come Ludovico Ariosto. Valier infatti era un letterato e poeta raffinato ed elegante, tanto che Pietro Bembo si fidava solo del suo giudizio per le sue opere e si narra che Baldassarre Castiglione gli chiese di correggere la prima stesura del proprio capolavoro, il Cortegiano. Per queste sue capacità letterarie e la fama acquistata, il governo della Serenissima lo nominò ambasciatore della Repubblica e lo inviò presso la corte dei Gonzaga a Mantova. Fu in quel luogo che iniziò il suo declino. Un declino che si concluse il 22 settembre 1542, quando fu giustiziato sul patibolo collocato tra le colonne di San Marco e San Todaro in piazza San Marco. A Mantova, Valier venne a contatto con grandi personaggi dell’arte italiana, ma cominciò anche ad avvicinarsi a un’attività tipica delle corti principesche: lo spionaggio. Valier divenne amico dell’ambasciatore del re di Francia sco i, rivale dell’imperatore Carlo v per quel che riguardava la “Questione turca”. Nel Cinquecento infatti le due superpotenze europee, Francia e Sacro Romano Impero, stringevano in una morsa tutti gli altri Stati, che, per sopravvivere, erano costretti ad allearsi con l’uno o con l’altro. Tutto questo con all’orizzonte la minaccia turca che premeva costantemente. A causa della sua posizione strategica, Venezia si trovava così tra i tre fuochi. La Repubblica era stata per anni alleata della Francia, ma nel 1523 stipulò un patto con Carlo v nel quale l’imperatore si impegnava a rinunciare a tutti i diritti della Casa d’Austria sui territori del Veneto, mentre Venezia offriva appoggio militare nel caso di una
guerra. Parallelamente la Serenissima aveva stretto un trattato con l’Impero Ottomano per mantenere l’egemonia sui mercati e i trasporti commerciali nel Mediterraneo. Valier era a conoscenza dei segreti più intimi della Repubblica, ma non esitò a confidarli all’ambasciatore se, il quale a sua volta li riferì al suo re che da tempo mirava a tessere rapporti politici con i turchi, gli unici in grado di ostacolare lo strapotere di Carlo v. Quando a Venezia fu scoperta questa rete di spionaggio e il aggio di informazioni, Giovan sco Valier fu richiamato in patria, processato e giustiziato. Pochi giorni prima di morire, Valier affidò le sue ultime volontà a un notaio, chiedendo al cognato di distruggere il manoscritto che conteneva le sue poesie e i suoi racconti inediti. La damnatio memoriae decisa dal governo veneziano poi fece il resto, cancellando dalla storia ogni traccia della sua esistenza.
Andriana Baoder
La storia di Andriana Baoder dimostra quanto i giudici veneziani fossero più tolleranti di quelli del resto d’Europa, ma soprattutto come spesso le malelingue siano purtroppo più potenti della giustizia stessa. Calunnie e chiacchiere infatti puniscono più di un tribunale e accusano una persona prima ancora che abbia commesso un reato. Andriana Baoder era una celebre cortigiana veneziana, l’unica ad essere scampata alla peste del 1575 ed era diventata per questo ricca e potente. Era la figlia di un servitore della nobile famiglia Baoder, alla quale la ragazza, per pavoneggiarsi e darsi un tono, rubò il cognome. Tanto il cognome, quanto soprattutto il mestiere, le permisero di entrare nei salotti più elitari della Repubblica e conoscere personaggi illustri e di spicco della società veneziana. Proprio in una delle sue partecipazioni mondane, Andriana conobbe Marco Dandolo, appartenente a una delle famiglie più antiche della città. Uno dei suoi avi, il doge Enrico, aveva guidato i veneziani alla riconquista di Zara e al saccheggio di Costantinopoli durante la quarta crociata e aveva gettato le basi dell’impero coloniale veneziano. Andriana era una bellissima donna, bionda e delicata, più grande di qualche anno rispetto a Marco, ragazzo focoso, combattivo, ionale, ma ancora inesperto dell’amore. I due si innamorarono perdutamente e decisero di sposarsi. La famiglia Dandolo si oppose con tutte le forze perché conoscevano la fama di Andriana e non potevano permettere che Marco si unisse a lei, ma il giovane fu irremovibile e riuscì a condurre all’altare la donna che amava, seppure cedendo ai compromessi di un matrimonio morganatico. Andriana non avrebbe perciò acquisito il cognome né tanto meno il rango dei Dandolo. Nonostante una parziale vittoria raggiunta con il contratto matrimoniale, la famiglia di Marco non quietò mai i malumori e l’odio nei confronti della giovane, e i suoi membri cominciarono a infamarla pubblicamente e a corrompere altre persone perché parlassero male di lei. Il parroco dei Frari ad esempio andava per le calli di Venezia raccontando di aver dovuto esorcizzare Andriana quando era piccola perché posseduta dal demonio. La gelosia e l’invidia dei veneziani terminarono invece l’opera diffamatoria che la cattiveria dei parenti acquisiti aveva iniziato. Si sparse la voce che Andriana avesse
corrotto alcuni preti per farsi vendere delle ostie consacrate. Alcune serve al suo servizio nella casa in cui si era trasferita con il marito Marco riuscirono a penetrare nelle sue stanze e a sottrarre le ostie che effettivamente Andriana conservava in un mobile. Le serve portarono le ostie al prete dei Frari, lo stesso che aveva inventato la vicenda dell’esorcismo. Esaminandole, trovarono piccole incisioni sulla loro superficie: le lettere ihs. Queste lettere identificavano Cristo, il prete le conosceva bene, ma finse di non averle mai vedute su altre ostie per sobillare l’opinione pubblica. Appena le serve uscirono dalla chiesa, in tutta Venezia si sparse la voce che Andriana aveva comprato ostie sacre, sulle quali aveva inciso delle invocazioni al diavolo. L’accusa era chiara: quella donna malvagia aveva profanato il corpo di Cristo. In molti cominciarono a dire che era una strega. Alcuni gondolieri giurarono di averla vista recarsi nei cimiteri di notte per dissotterrare i cadaveri e decapitarli; altri affermavano che con le teste dei morti Andriana faceva dei riti malefici. Le stesse serve che le rubarono le ostie sostenevano che la donna faceva bollire le teste per creare pozioni magiche. Le voci si moltiplicarono improvvisamente: si diceva che faceva sortilegi, che raccoglieva il sangue dei decapitati dopo le esecuzioni e che con esso realizzava filtri d’amore con cui aveva stregato il marito. Le istituzioni e gli inquisitori, forse per scrupolo nei confronti della famiglia Dandolo, non ascoltarono mai davvero queste accuse, fino a quando il conte di Avogadro denunciò Andriana, accusandola di aver provocato la morte della moglie che aveva avuto un forte litigio con la “strega”. A questo punto, approfittando del clamore, i Dandolo denunciarono ufficialmente Andriana al patriarca di Venezia che fu costretto quindi ad aprire un procedimento, presieduto dagli inquisitori del Santo Uffizio, contro la donna accusata di compiere atti di natura demoniaca. Il processo cominciò, ma da subito le testimonianze apparirono contraddittorie, le serve raccontavano versioni con particolari troppo diversi e si capì che stavano mentendo. Inoltre i medici che fecero l’autopsia sul corpo della moglie del conte di Avogadro determinarono che la causa del decesso era stata una malattia. Anche le accuse dei gondolieri furono confutate perché le denunce delle serve le davano, paradossalmente, un alibi: non poteva trovarsi in due posti contemporaneamente. Alla fine della fase istruttoria, Andriana si presentò di fronte ai giudici e ai suoi accusatori. Rigettò tutte le accuse anche se ammise di aver effettivamente comprato ostie consacrate: lo aveva fatto per celebrare riti intimi e ringraziare Dio per la nuova vita che le aveva concesso. Gli inquisitori deliberarono che le accuse erano infondate e assolsero Andriana che poté così tornare a casa con il marito Marco e vivere con lui fino alla fine dei suoi giorni.
I fantasmi del campiello Remer
Nelle vicinanze del ponte di Rialto, può capitare di are per campiello Remer, chiamato così perché sullo spiazzo si aprivano le botteghe dei fabbricatori dei remi per le gondole. Il campiello è una perla dell’architettura lagunare: si tratta di un cortile rettangolare che si allunga fino all’acqua. Dalla riva del campiello si possono ammirare il Canal Grande, Rialto e tanti edifici meravigliosi sospesi sui canali; su un lato lungo, scorre invece una scalinata che conduce a una loggia gotica; al centro spicca un delicato pozzo in stile veneziano. Tutta questa leggerezza di forme avrebbe fatto da sfondo a un evento tragico che ha generato una delle più macabre leggende della laguna: nelle notti di luna piena, gli sventurati che assero per il campiello potrebbero veder affiorare dalle acque il corpo ormai marcio di un uomo che regge in una mano la testa di una donna. L’omicidio ebbe luogo la notte del 22 settembre 1598. Si racconta che il doge Marino Grimani stesse eggiando per la città con le sue guardie quando udì le grida di una donna che implorava aiuto. Le urla provenivano dal campiello Remer e il doge decise di accorrere in soccorso della sventurata, perché era ovvio che stesse accadendo qualcosa di terribile. Grimani affrettò il o e appena giunse al campiello vide una donna vestita di bianco, scalza e con i capelli sciolti che correva e cercava di fuggire dalla furia di un individuo che la inseguiva. Il doge allora ordinò ai suoi di intervenire e bloccare l’uomo. Quando le guardie riuscirono a catturarlo, lo portarono davanti al doge che, guardandolo in volto, riconobbe il marito di sua nipote Elena. Marino Grimani rimase per qualche istante in silenzio, fissando l’uomo, poi chiamò a sé la ragazza per tranquillizzarla e iniziò a interrogare il marito. Fosco, questo era il nome, spiegò che la moglie lo aveva tradito: quella sera era rientrato prima dal lavoro e l’aveva colta nelle braccia di un altro. Si era infuriato e aveva malmenato l’amante della moglie, il quale però era riuscito a scappare, e poi si era avventato sulla donna. Elena replicò senza nemmeno far terminare il marito di parlare e dichiarò che le accuse di Fosco erano del tutto infondate, perché l’uomo con cui era stata sorpresa ad abbracciarsi era in realtà il cugino, tra l’altro un nipote del doge. Detto questo, si avventò contro Fosco e gli sferrò pugni e calci: il marito tentò di
rispondere e la colpì al volto. Il doge cercò di farli ragionare, chiese l’intervento delle sue guardie per placare il furore della coppia, ma appena una di loro si avvicinò, Fosco le rubò la spada, si scagliò contro la moglie, la prese per i capelli e la decapitò. Dalla folla che si era radunata attorno al gruppetto di persone composto dal doge, le guardie e la coppia si alzarono urla di orrore per la scena, alcuni uomini tentarono di acciuffare l’uomo, mentre le donne cominciarono a lanciargli sassi. Per questo il doge ordinò alle guardie di trascinarlo a Palazzo Ducale, dove avrebbe pensato alla sua punizione. Una volta tornato a palazzo, il doge si sedette sul suo trono e comandò che gli fosse portato l’assassino. Così avvenne. Nella sala piombò il silenzio, che fu proprio Fosco a rompere, chiedendo quale sarebbe stata la sua punizione. Grimani era letteralmente scioccato da tutta la vicenda e decise che sarebbe stato il papa in persona a prendere una decisione: Fosco sarebbe dovuto scendere a Roma e presentarsi davanti al pontefice con la testa di Elena tra le mani. Qualunque fosse stata la decisione del papa, lui non avrebbe più voluto vederlo a Venezia, pena la morte. Fosco partì per Roma, scortato da alcune guardie ducali che portavano anche la testa della moglie, chiusa in una cesta nella quale dovevano continuamente rabboccare il ghiaccio perché non si decomponesse troppo velocemente. L’omicida giunse nello Stato Pontificio e chiese udienza al papa, che gliela accordò. Quando il pontefice vide la testa mozzata di Elena pensò a uno scherzo del doge, e sentenziò che il castigo non fosse di sua competenza, ma che avrebbe dovuto essere giudicato dall’autorità veneziana. Fosco fu quindi riportato a Venezia, dove il doge intanto era stato avvisato della decisione del papa. Grimani si rifiutò di vedere l’uomo e decise che Fosco sarebbe rimasto rinchiuso nei Piombi per alcuni mesi prima di prendere una decisione. Ma ormai il senso di colpa per quello che aveva fatto lo aveva divorato e durante il trasporto ai Piombi l’uomo riuscì a divincolarsi dalla presa delle guardie e scappò. Non si sa come, riuscì a penetrare nel luogo in cui era conservata la testa mozzata della moglie, che attendeva di essere sepolta insieme al resto del corpo. Fosco, con sguardo supplichevole, si fermò a fissarla per qualche istante; poi la prese, corse fuori dal palazzo e con tutta la sua disperazione si gettò nel Canal Grande. Il suo corpo non emerse mai più e si racconta che a volte, quando sulla laguna soffia il vento di tramontana, il corpo di Fosco riemerga dalle acque nere di Venezia e tenga tra le mani la testa della povera e innocente Elena.
Il fantasma che odiava gli uomini
C’è un altro fatto di cronaca nera avvenuto a Venezia nel 1602, che potrebbe aver ispirato William Shakespeare a scrivere una delle sue tragedie più famose, l’Otello. Ma come spesso accade, la realtà supera la fantasia e nemmeno il drammaturgo inglese avrebbe potuto immaginare una vicenda così drammatica. Come in Otello, la protagonista della storia venne assassinata dal marito, pazzo di gelosia. Si tratta di Lucrezia Cappello, uccisa l’11 luglio 1602 dal marito Giovanni Sanudo, nel loro palazzo sull’isola della Giudecca. Aveva solo trentasei anni e il marito l’aveva accusata di infedeltà senza alcuna prova concreta. Il giorno in cui fu uccisa, Lucrezia era stata costretta dal marito a confessarsi per un reato che non aveva commesso, ma poi lui, durante la notte, la lasciò morire dissanguata per un taglio netto alla gola. Dopo l’omicidio, Giovanni fuggì da Venezia. Una volta scoperto il fatto, le autorità veneziane condannarono Sanudo alla decapitazione, con un premio in denaro promesso a chi l’avesse catturato. arono molti anni e l’uomo, pentito, non smise mai di chiedere la grazia e il permesso di tornare a Venezia, per pregare sulla tomba della moglie e prendersi cura dei figli. Soltanto nel 1621 gli fu concessa l’autorizzazione a rimpatriare. La storia di Lucrezia Cappello è diventata una ghost story raccontata ancora oggi. Negli anni Quaranta del secolo scorso, la casa in cui Lucrezia aveva vissuto con il marito era abitata da una ricca famiglia di commercianti che ignorava la storia di sangue avvenuta nelle stanze del palazzo. Una notte, il più giovane dei figli, un ragazzo di circa vent’anni, stava ascoltando musica sdraiato a letto quando all’improvviso gli apparve di fronte un globo luminoso che si muoveva lentamente. Il ragazzo si alzò di scatto, stropicciandosi gli occhi: il globo luminoso si fermò e davanti a lui apparve una donna che sembrava arrabbiata, minacciosa, e vestita con abiti rinascimentali. Il giovane si spaventò e scappò al piano inferiore dove si trovavano i genitori e le sorelle, ma nessuno si era accorto di nulla. Per fortuna, quella fu l’unica volta che vide
quella donna dall’apparenza malvagia e il ragazzo col tempo smise di pensare alla sua disavventura. Quindici anni dopo, tutta la famiglia stava celebrando insieme il Natale; non vivevano più nella casa di Venezia, ma si erano trasferiti nell’entroterra. Durante la cena, i vari membri della famiglia cominciarono a raccontarsi storie ate. Il figlio allora, ormai uomo, narrò la sua strana esperienza. Improvvisamente, vide il viso delle due sorelle pietrificarsi: la stessa donna era apparsa a entrambe, e in diverse occasioni. Nel loro caso però sembrava triste e malinconica, a volte perfino sorridente e benevola, mai minacciosa. Lo stupore di tutti crebbe quando anche il padre ammise di aver visto quella donna vestita con abiti del Cinquecento. Come era capitato al figlio, lo spettro si era dimostrato molto minaccioso e feroce. Questi racconti incuriosirono il figlio, il quale decise di scoprire chi potesse essere quella figura, che tutti avevano descritto fisicamente nello stesso modo. Le sue ricerche negli archivi storici e catastali della città di Venezia lo condussero allora alla vicenda di Lucrezia Cappello. Scorrendo la sua storia, capì che quella donna, o meglio ciò che ne restava sulla terra, era tremendamente infuriata con gli uomini, anzi li odiava, per la loro arroganza e violenza, immutate nei secoli.
Giallo a Venezia
Nella chiesa della Scuola di Santa Maria delle Grazie era in uso una pratica decisamente macabra, monito e minaccia per tutti coloro che avessero voluto compiere azioni violente contro i veneziani: all’interno di una teca di vetro venivano esposti i resti dei cadaveri degli assassini. Nel 1710, nella teca furono deposte parti del corpo di Giovan Battista Piantella, condannato per duplice omicidio. Giovan Battista Piantella era uno spiantato, senza grande talento e voglia di lavorare. Era stato arrestato per qualche furto e altri reati di piccola entità, ma era riuscito a trovare un lavoro che gli piaceva e gli dava soddisfazione presso la savoneria di Antonio Biondini, noto fabbricante di sapone della città. Purtroppo Piantella non era un buon amministratore di denaro e, per sfamare i tre figli e la madre che viveva con lui da quando sua moglie l’aveva lasciato, cominciò a rubare qualche soldo dalla cassa del laboratorio di Biondini. Una notte di dicembre del 1708, proprio mentre Piantella stava aprendo la cassa di legno, Biondini entrò e lo colse sul fatto. Per questo il capo aveva denunciato il suo lavorante alla Quarantia, l’organo della giustizia di Venezia. Piantella fu così arrestato e condannato. Con la sentenza del 19 dicembre 1708, la Quarantia Criminal gli diede la possibilità di scelta: un bando da Venezia della durata di vent’anni oppure cinque anni di galera nei Piombi. Piantella scelse l’esilio. Un anno più tardi però, sobillato dalla madre, cattiva e vendicativa, Piantella tornò clandestinamente a Venezia con l’intenzione di vendicarsi dell’uomo che gli aveva rovinato la vita. Era la sera del 28 dicembre 1709, Piantella era appostato nell’oscurità nei pressi della bottega in cui lavorava, aspettando che il suo ex datore di lavoro uscisse. Appena vide Biondini, Piantella lo assalì con una mazza ferrata e lo colpì ripetutamente fino a ucciderlo. Dopo averlo denudato e aver indossato i suoi vestiti, gli strinse una corda al collo e lo seppellì. Dopo essere stato arrestato spiegò di aver legato una corda al collo del cadavere per evitare che tornasse in vita, per cui lo uccise due volte. L’omicida nascose il corpo e si diresse verso casa di Biondini. Era vestito come lui, per cui la serva che gli aprì non si accorse che sotto la parrucca e il cappello si nascondeva un’altra persona. Appena la giovane serva richiuse la porta, il
Piantella le saltò addosso e la uccise a sprangate. Subito dopo si recò nella camera da letto di Biondini e rubò tutto quello che trovò: argento, monete e gioielli. Poi tornò a casa per cenare con i figli e la madre, che era al corrente di tutto perché era stata proprio lei a istigare il figlio alla vendetta più atroce. Finito di cenare, con fredda lucidità, Piantella disse ai suoi tre figli di coprirsi e di seguirlo. Li condusse nel luogo in cui aveva sepolto la vittima. Insieme a loro, disseppellì il cadavere, lo ripulì, e lo seppellì nuovamente dopo aver dato fuoco alla corda e ai vestiti. L’orologio del campanile di San Marco suonava le dieci di sera, Piantella salutò i figli con un bacio e fuggì da Venezia. Qualche giorno dopo, la scomparsa di Biondini venne denunciata alla Quarantia che cominciò subito le ricerche dell’assassino. La prima casa visitata dalle guardie fu proprio quella di Piantella. La madre aprì sdegnata alle guardie e chiese con rabbia come il figlio avrebbe potuto essere l’omicida, dato che era in esilio da un anno. Ma le guardie interrogarono anche i tre nipoti, i quali però, sotto lo sguardo maligno della nonna, crollarono e raccontarono tutto. Piantella fu formalmente condannato a “bando perpetuo” dalla città, con una taglia di mille ducati per chi lo avesse fermato all’interno dello Stato di Venezia e di duemila per chi l’avesse bloccato all’estero. Se fosse stato catturato, la pena sarebbe stata tremenda: decapitazione e squartamento. Nel febbraio del 1710, Giovan Battista Piantella venne riconosciuto in un’osteria di Susegana nel Trevigiano e fu catturato. Il primo febbraio 1710, subì la tremenda esecuzione promessa: dopo essere stato trascinato lungo le calli veneziane, attaccato con una fune a dei cavalli, salì sul patibolo per essere decapitato. Il suo cadavere fu poi squartato e i suoi resti vennero deposti nella teca della Scuola di Santa Maria delle Grazie. La punizione non era finita: il tribunale infatti constatò che Piantella aveva avuto dei complici ed emise un ordine di cattura anche per la madre. Maddalena Piantella fu condannata a prigione a vita, ma dopo soli tre mesi di reclusione morì a causa di una febbre molto alta.
Piombi e sospiri
Venezia è diventata nota nei secoli ati come città del libertinaggio, dell’allegria e della spensieratezza. Lo stesso Casanova fu perdonato dopo la fuga dalle prigioni e i suoi continui guai con la giustizia. Ma non è sempre stato così. Venezia aveva il triste primato di città con il maggior numero di condanne a morte, e per i crimini più disparati. Scolpita nella parete di Palazzo Ducale, esisteva addirittura una fessura, il cosiddetto “mascherone”, nella quale chiunque poteva imbucare una lettera di denuncia anonima e riservata. Però, prima che la denuncia si trasformasse in arresto e processo, c’era un iter ben serrato da affrontare. Nonostante questo, le prigioni veneziane erano sovraffollate e si trasformarono in una triste realtà che ha regalato alla città lagunare leggende e storie macabre e terribili. I famosi Piombi erano le più antiche prigioni usate nello Stato veneziano. Ubicati nel sottotetto del Palazzo Ducale, erano stati definiti in questo modo per la copertura in piombo del soffitto, che soprattutto in estate rendeva l’aria bollente e facilitava il propagarsi di malattie negli ambienti sporchi e angusti. Le prigioni erano suddivise in due tipi: i pozzi, ovvero le celle del pianterreno, umide e malsane, destinate ai prigionieri comuni, e i ben più noti piombi, in cui venivano segregati i nobili o i clerici. Umidità, topi, regime alimentare ridotto allo stretto necessario per sopravvivere, mancanza di luce: questa era la situazione che attendeva i condannati. Qui furono rinchiusi Giordano Bruno, Silvio Pellico, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, ma forse il prigioniero più famoso fu Giacomo Casanova, che dai Piombi riuscì a fuggire nel 1756. È grazie ai suoi racconti che sappiamo con esattezza quali fossero le condizioni di vita all’interno delle carceri. I detenuti potevano ricevere cibo dall’esterno, avevano garantita l’assistenza medica, potevano farsi portare mobili, fare piccole eggiate negli stretti corridoi del sottotetto e avevano anche un piccolo assegno per le spese di prima necessità. Quotidianamente poi, all’interno delle celle, venivano anche eseguite le pulizie: sembra infatti che fosse interesse del Consiglio della città verificare la tenuta igienica della struttura. I Piombi erano collegati con l’adiacente palazzo dei Dogi, che dal 1797 diventò sede delle Prigioni Nuove, attraverso uno dei più famosi ponti del mondo, il
ponte dei Sospiri. Il ponte è un aggio coperto all’interno del quale ano due stretti corridoi, uno per entrare e uno per uscire. Faceva da collegamento tra le sale dell’Inquisizione, il tribunale e il palazzo in cui si trovavano gli uffici, ma soprattutto le sale delle torture. Il ponte dei Sospiri è diventato noto nel mondo grazie a una leggenda: i prigionieri, uscendo dal tribunale dopo la sentenza di morte, lo attraversavano per tornare alle prigioni, si fermavano, gettando un ultimo sguardo alla città e alla laguna, e sospiravano, rimpiangendo la libertà perduta e la vita a cui li avrebbero presto strappati. Forse le loro anime, nelle notti di nebbia alta, vagano ancora alla ricerca di giustizia.
Seduzione e morte: Veneranda Porta
Il ponte della Paglia era il luogo in cui venivano esposti i cadaveri dei morti annegati che nessuno aveva reclamato perché se ne potesse permettere il riconoscimento. Il 14 giugno 1779 sul quel ponte furono esibiti i resti di un cadavere, il cui macabro ritrovamento aveva scosso tutta la città. In pochi giorni, in un paio di pozzi infatti furono trovati i primi resti; presso la chiesa dei Santi Gervaso e Protasio si rinvenne il busto; da una fonte vicino alla chiesa di Santa Margherita spuntavano le due gambe; nel canale di Santa Chiara infine si trovò la testa. Dopo alcuni giorni di esposizione sul ponte, nessuno si fece avanti per dare un’identità al morto, e per questo il corpo fu sepolto, mentre la testa fu imbalsamata e lasciata in un luogo di aggio affinché si potesse risolvere il mistero. Alcuni esperti mortuari studiarono la testa, nella speranza di scoprire qualche informazione che potesse servire alla ricerca. Il morto portava la capigliatura tipica del tempo: i capelli terminavano in due grandi riccioli ottenuti arrotolando le ciocche attorno al cosiddetto rolò, un rotolino di carta, e lasciati in posa tutta la notte. Questo indicava che l’uomo era stato ucciso di notte, forse nel sonno. Ma srotolando la carta venne fatta una scoperta ben più importante e in grado forse di smuovere le indagini dal pantano nel quale si trovavano. Sul rotolo infatti si distinguevano le iniziali v.f.g.c. I nuovi sviluppi furono pubblicati sui gazzettini locali del Veneto e di altri Stati italiani. Fu a Este, poco distante da Padova, che queste lettere indecifrabili attirarono l’attenzione di un uomo. Si chiamava Giovanni Cestonaro e riconobbe quelle carte perché erano le lettere che aveva inviato pochi mesi prima al fratello che viveva a Venezia. L’acronimo v.f.g.c. stava infatti per «Vostro Fratello Giovanni Cestonaro». L’assassino non poteva sapere che la vittima, non avendo molto denaro, era costretta a riciclare le lettere che riceveva e usarle come rolò. Giovanni si recò quindi a Venezia per il riconoscimento e per testimoniare, nella speranza di poter aiutare le indagini. L’uomo raccontò che sco Cestonaro aveva viaggiato per tutta Europa, facendo una miriade di lavori per poter sopravvivere. Poi era giunto a Catania, dove aveva sposato Veneranda Porta, una donna di trent’anni, vedova e madre di due bambini. Poco tempo dopo il matrimonio, la coppia si trasferì a Venezia.
Le guardie veneziane ottennero dai magistrati il permesso per entrare in casa di Veneranda e cercare prove contro di lei: furono alcune lettere, scritte da sco, in cui l’uomo accennava a tal Stefano Santini, l’amante della donna, a metterla in una condizione pericolosa. Il 26 giugno 1779, Veneranda fu prelevata da casa e interrogata per ore. Ovviamente, la donna negò ogni accusa e riuscì a confutarle una a una, ma quando le venne mostrata la testa del marito cedette e confessò il delitto. Una leggenda dice che, nell’istante in cui la testa fu presentata alla donna, gli occhi di sco, che erano chiusi, si aprirono. La donna, formalmente accusata di omicidio, tentò di difendersi adducendo come scusa che il marito più volte l’aveva aggredita e minacciata di morte, se non avesse interrotto la relazione con Santini. Veneranda anzi addossò tutte le responsabilità proprio all’amante, che avrebbe agito di sua iniziativa, dopo l’ennesimo litigio con sco. Stefano Santini fu più tardi scovato nel suo nascondiglio fuori città e arrestato. L’uomo però non permise all’ex amante di accusarlo impunemente e giurò alla corte che Veneranda l’aveva sedotto e poi costretto a uccidere. Anzi, era stata proprio lei a sferrare al marito il colpo mortale alla gola. I due arono giorni ad accusarsi reciprocamente, poi Vittoria, la figlia maggiore di Veneranda, testimoniò di aver assistito di nascosto all’omicidio e che entrambi ne erano responsabili. Il 12 gennaio 1780, Veneranda e Stefano vennero condannati alla decapitazione. Dopo l’esecuzione, i loro corpi furono squartati, esattamente come loro avevano fatto con quello di sco.
Gli incendi di Venezia
Sembra paradossale che una città costruita sull’acqua come Venezia sia stata vittima del fuoco in migliaia di occasioni. Il primo incendio di cui abbiamo notizia risale al 412 d.C., l’ultimo appartiene alla cronaca più attuale. Il simbolo di Venezia, accanto al leone di San Marco, è la fenice, il mitico uccello che risorge dalle sue ceneri, prendendo vigore dalle fiamme del suo stesso rogo. Questa è Venezia e questa la sua storia: ripetutamente piegata dal nemico, si è sempre rialzata e ha ricominciato a combattere. Gli incendi più famosi nella storia veneziana riguardano proprio un teatro che prende il nome dal mitico animale, la Fenice. Il primo di cui fu vittima divampò il 13 dicembre 1836, probabilmente causato dal cattivo funzionamento di una stufa. Il teatro, inaugurato la prima volta nel 1792, crollò e si dovette ricostruire completamente per tornare in attività solo il 26 dicembre dell’anno successivo. Ma sicuramente l’incendio più grave, e che lo distrusse quasi del tutto, fu quello del 29 gennaio 1996: il rogo impegnò i Vigili del fuoco per tutta la notte. Alle prime luci dell’alba lo scenario era apocalittico. Dell’antico teatro non rimanevano che cenere e fumo, la facciata e i muri perimetrali. Sullo sfondo si svegliava una Venezia stordita e incapace di reagire. Un simbolo della laguna era perso per sempre, ancora una volta. Si cominciò così a parlare di maledizione: il teatro era forse stato costruito sotto una stella nefasta? C’entravano in qualche modo quelle energie infernali che, secondo alcuni, si congiungevano in alcuni punti della città, portando sventura? Gli inquirenti che si occuparono della vicenda inizialmente ritennero che la causa dell’incendio, come già era capitato in ato, fosse stata il malfunzionamento del sistema elettrico. Ma ben presto sorsero i primi dubbi sulle dinamiche dell’incidente. Nella prima relazione scritta sull’incendio, le cause vennero attribuite a eventuali responsabilità di natura colposa: «Non si può escludere la causa dolosa», si legge, ma questa nota rimase ancora per qualche tempo a margine e non venne approfondita. Gli accertamenti furono lunghi e complessi, e il teatro poi, completamente distrutto, non forniva prove valide e certe. Mentre le indagini proseguivano, in città sempre più insistentemente si parlava di origine dolosa. Queste voci trovarono conferma dalle perizie tecniche
svolte per settimane tra i resti. Le analisi svolte parlarono di «gravissime manchevolezze» che avevano «colposamente contribuito alla distruzione del teatro». Secondo i pm, il fuoco si era propagato da diversi punti della struttura, da piccoli roghi volontariamente appiccati. Ma perché? E da chi? La risposta non tardò ad arrivare. Controlli a tappeto fatti sull’attività di tutto il personale portarono a identificare un movente. E quindi un ipotetico colpevole. Anzi, due. Il cerchio infatti si strinse attorno ai due elettricisti che avevano vinto l’appalto per la manutenzione della Fenice. A incastrarli erano stati i conti e una serie di frasi compromettenti fatte a parenti e alla fidanzata di uno di loro. I due uomini vennero fermati e dopo ore di interrogatori confessarono: avevano appiccato il fuoco onde evitare il pagamento di una penale per il ritardo di alcuni lavori. I due elettricisti furono condannati a sette anni di reclusione, ma uno di loro riuscì a fuggire e a espatriare in Messico, dove però nel 2007 fu catturato. Città di acqua e di fuoco, per questo meta obbligata per alchimisti ed esoteristi. Venezia, leonessa d’Italia, ma anche mitica fenice in grado di rialzarsi e rinascere ogni volta più bella. I lavori per la ricostruzione del teatro cominciarono l’indomani del rogo. Terminarono nel 2003. C’è un’ultima leggenda metropolitana che circonda l’incendio del 1996 della Fenice. Solo due anni prima, esattamente il 31 gennaio 1994, ardeva il Gran Teatro del Liceu di Barcellona. C’è chi ha addirittura ipotizzato, ma si parla di fantascienza, che l’incendio del Liceu sia stato in qualche modo orchestrato da mafia e politica italiane come “prova generale” dell’incendio della Fenice. Con quale scopo? Diffondere uno stato di tensione e paura che avrebbe favorito, alle elezioni, un noto imprenditore. Ma, ripeto, è solo fantascienza...
Faccia d’angelo: il controllo di Felice Maniero su Venezia
La storia nera di Venezia è ricca di personaggi che popolano un mondo fatto di omicidi, morti e sangue. A volte questi casi di cronaca e i loro protagonisti rimangono anonimi; altre, capita invece che ci siano assassini in grado di emergere dalle nebbie e diventare leggende. Felice Maniero rappresenta perfettamente la doppia anima di Venezia: criminale temibile, a capo di una banda che terrorizzava il Nordest, era anche un signore, elegante e raffinato, quasi insospettabile, tanto da meritarsi l’appellativo di “Faccia d’angelo”. Felice Maniero nasce nel 1954 a Campolongo Maggiore, un paesino dell’entroterra sconosciuto agli stessi veneziani, ma che ha dato i natali a molti boia della Serenissima. Comincia la sua carriera delinquenziale molto giovane, rubando animali e formaggi. La vita di campagna però non fa per lui: Felice ama il lusso e la bella vita, le auto di grossa cilindrata e le donne. Per questo raccoglie in una banda alcuni compari con lo scopo di creare una rete criminale che agisca in vari campi. Inizia così lo spaccio di droga, il controllo di bische clandestine, addirittura il traffico d’armi internazionale con l’ex Jugoslavia. In pochi anni, il gruppo di Maniero si trasforma in una vera e propria holding criminale potente, ricca e temuta: la famigerata “Mala del Brenta”. Felice Maniero era il boss, crudele e spietato ma razionale. Tra il 1978 e il 1994, la Mala del Brenta fu la massima organizzazione criminale del Nord Italia e controllava tutte le città più importanti. E Venezia, la sua città, non poteva scappare alla morsa di Faccia d’angelo. Si racconta anche che Felice fosse massone e che frequentasse il casinò di Ca’ Vendramin Calergi proprio per questo. La realtà è un po’ diversa. Il casinò di Venezia era territorio di Maniero e di tutti i suoi cambisti. Lo aveva conquistato il 10 ottobre 1980, in quella che è ata alla storia della cronaca nera come la “notte dei cambisti”. Il casinò era controllato da un gruppo di persone, i cambisti appunto, che si potrebbero definire usurai: prestavano soldi ai giocatori in perdita a tassi del dieci per cento, ricavando dalle vincite un altissimo guadagno. Felice, da tempo,
desiderava poter entrare in questo “giro”, ma i cambisti erano uniti in una sorta di casta chiusa e non gliel’avevano mai permesso. Così la banda del Brenta ò al contrattacco. La notte del 10 ottobre, Felice e i suoi giunsero al casinò armati fino ai denti e cominciarono a minacciare i cambisti, a picchiarli e terrorizzarli. Pochi minuti dopo, il gruppo armato scomparve a bordo di una Lancia, portando con sé l’incasso della serata, circa due miliardi di lire. In questo modo Felice aveva conquistato il palazzo e ne era diventato il re. All’interno del casinò, Felice aveva un vero e proprio ufficio in cui trattava gli affari e si riposava tra una sessione di gioco e l’altra. Ma se il controllo sul casinò era tanto radicato, perché organizzare, nel 1984, una rapina contro se stesso? La Mala del Brenta fu infatti la protagonista della più grande rapina subita dalla casa da giochi veneziana in tutta la sua secolare storia. La risposta giunse qualche anno più tardi, quando, dopo una retata della Guardia di finanza in una sala giochi dell’entroterra, fu arrestato un giocatore d’azzardo vicentino che aveva fatto da palo in quella rapina. L’uomo rivelò che i motivi del gesto di Maniero erano molto semplici. Il casinò pagava una percentuale molto forte a Maniero ma, quando cambiò il direttore, gli accordi non furono più rispettati. Questa cosa non piacque a Felice che si vendicò derubando completamente il “suo” casinò e dando così una dimostrazione di forza a tutti. Solo per la cronaca: dopo vari arresti e altrettante evasioni, nel novembre del 1994 Felice Maniero venne arrestato e condannato a trentatré anni di reclusione. Dal 1995 è diventato un collaboratore di giustizia, contribuendo a smantellare la banda che lui stesso aveva creato. Il 23 agosto 2010 è tornato in libertà.
La pista veneta della strage di piazza Fontana
In punta di piedi e senza speculare, voglio parlare di uno dei capitoli più neri della storia italiana. Era il 12 dicembre 1969 quando una bomba esplose nel centro di Milano. L’orologio segnava le 16:37. Diciassette persone persero la vita, ottantotto risultarono ferite. Sebbene ancora oggi la vicenda sia oggetto di controversie, la versione ufficiale degli inquirenti attribuisce l’attentato a gruppi eversivi di estrema destra, che miravano a un inasprimento delle politiche repressive da parte del governo nazionale tramite l’instaurazione di un clima di tensione nel Paese. Le prime indagini furono condotte negli ambienti anarchici, poi si pensò ai comunisti. Ma le prove erano poche e alcune furono contaminate da agenti dei servizi segreti che, in seguito, furono incriminati. Anche le Brigate Rosse condussero delle indagini per provare la loro estraneità e dimostrare che l’attentato era stato opera di gruppi di destra vicini a Ordine Nuovo. Gli inquirenti lentamente si accorsero che in effetti la dinamica e gli strumenti utilizzati per costruire l’ordigno erano molto simili a quelli riscontrati in altri attentati causati da movimenti di estrema destra. Alcuni esponenti di questi movimenti furono arrestati, tra loro c’era anche Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo. Rauti fu in seguito scagionato e liberato per mancanza di prove. Come spesso accade in Italia, gli anni sono ati velocemente, le udienze in tribunale si sono succedute e solo nel 2005, a trentasei anni dalla tragedia, è giunta una conclusione, che lascia però ancora degli scenari aperti. La sentenza della Corte di Cassazione del 3 maggio 2005 infatti ha stabilito che la strage di piazza Fontana fu organizzata da un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo e capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura. Ma i due imputati, già arrestati e processati, erano però anche già stati assolti e quindi, secondo la legge italiana, non potevano essere sottoposti a un nuovo processo. Paradossi italiani: fu ufficialmente dichiarato che la strage era effettivamente un attentato di matrice neofascista, organizzato dalla destra “nera” veneta. Ma nessuno è stato punito. Addirittura si racconta che a Venezia, civili e militari stessero preparando, da mesi, un’azione militare che aveva tutte le sembianze di un golpe. Avevano nascosto le armi nei pressi dell’Arsenale,
proprio di fronte al Comando della Marina Militare, e aspettavano solo un segnale per scatenare l’inferno. A oltre quaranta anni di distanza dalla strage, Franco Freda continua a negare che la bomba esplosa all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana sia partita da uno scantinato di Venezia o da qualsiasi altro luogo del Veneto. Purtroppo, senza una verità certa, si moltiplicano quelle parziali. L’unica cosa sicura è che uccidere per difendere le proprie ideologie ha la stessa insensatezza di espressioni come “guerra di religione” o “pace armata”. Ed è per questo che credo che la cosa migliore da fare sia continuare a indagare, ma soprattutto ricordare i nomi degli innocenti ammazzati: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Vittorio Mocchi, Luigi Meloni, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silvia, Attilio Valè, Gerolamo Papetti.
I delitti di Ludwig
«La nostra fede è nazismo. La nostra giustizia è morte. La nostra democrazia è sterminio». Queste terribili affermazioni sono il manifesto di un gruppo criminale sorto in Veneto, tra Venezia e Verona, negli anni Settanta e che in quindici anni uccise ventotto persone. Wolfgang Abel, di venticinque anni, e Marco Furlan, di venti, uno tedesco, l’altro italiano, si unirono nel gruppo criminale denominato Ludwig per uccidere in nome della razza e dell’ideologia nazista. Sceglievano le loro vittime tra gli emarginati: omosessuali, tossicodipendenti e prostitute, ma anche normali cittadini che frequentavano cinema a luci rosse. La prima rivendicazione dei crimini di Ludwig arrivò nel 1980, quando alla redazione del «Gazzettino di Venezia» pervenne una lettera in cui si attribuiva la paternità di una catena di omicidi iniziata nel 1977. L’input che muoveva la mano dei due ragazzi era una anacronistica volontà moralizzatrice che aveva come scopo principale l’eliminazione dei diversi o di chi si era incamminato su una strada “deviata”. Le aggressioni di Ludwig per questo colpirono anche sacerdoti e uomini di chiesa, colpevoli di divulgare una fede ormai distorta e ingannevole. Probabilmente i due ragazzi si richiamavano a una tragedia ottocentesca del drammaturgo tedesco Otto Ludwig, nella quale il protagonista teorizzava la figura del sacerdote perfetto e puniva con la morte i servi di falsi dèi. A Venezia, Ludwig colpì a mezzanotte e mezza del 12 dicembre 1979. Claudio Costa, un ragazzo ventiduenne, fu assalito e accoltellato. Era un tossicodipendente. Il suo cadavere fu ritrovato riverso a terra, in corte Canal, nel sestiere di Santa Croce. Quello stesso quartiere dove si trova San Zan Degolà e dove era ubicata la Taverna del Biasio, il Mostro di Venezia. Solo una triste coincidenza? Se è vero che esistono energie telluriche che in alcuni punti si manifestano in maniera più evidente, probabilmente il sestiere di Santa Croce è uno di questi. Quella notte non tutto andò liscio. Una donna infatti assistette alla fase finale
dell’aggressione di Claudio Costa. La signora Gemma Schiocchet Lis si era affacciata alla finestra di casa sua, dopo essere stata svegliata da atroci urla che provenivano dalla corte prospiciente. Nella fioca luce dei lampioni, intravide due persone rincorrere un giovane, raggiungerlo e vibrargli numerosi colpi di coltello fino a quando la vittima cadde a terra in un lago di sangue. Poi i due aggressori si diedero alla fuga. La donna chiamò subito aiuto, ma ormai per Claudio era troppo tardi. Su descrizione della testimone, la polizia tracciò un identikit dei killer e ricostruì la dinamica dell’omicidio. L’aggressione era iniziata in campo dei Tedeschi ed era proseguita vicino a rio Marin. A circa trenta metri dal cadavere, la polizia trovò un paio di occhiali da sole, tipo Ray-Ban: non appartenevano alla vittima, ma erano sporchi del suo sangue. Furono il primo degli indizi che permisero di porre fine ai delitti dei due giovani criminali. Gli omicidi di Ludwig continuarono fino al 1984, quando i due killer, seguiti ormai da tempo, vennero colti sul fatto mentre stavano per appiccare fuoco a una discoteca in provincia di Mantova. Il 10 febbraio 1987 vennero condannati ognuno a trent’anni di carcere, nonostante entrambi si dichiarassero innocenti e fossero accusati solo di quindici dei diciotto omicidi. Oggi Marco Furlan è un cittadino libero, Abel è in semilibertà.
Il “Mostro di Mestre”
“Cherubino nero”, “Killer dagli occhi di ghiaccio”, “Assassino della luna piena”, “Mostro di Mestre”: pochi conoscono la storia di Roberto Succo, anche se si tratta di una delle pagine più macabre e sconvolgenti di Venezia. In effetti Succo è noto soprattutto in Francia, dove per alcuni mesi è stato il ricercato numero uno dalla polizia. Roberto nacque a Mestre il 3 aprile 1962. Sembrava un ragazzo tranquillo, forse un po’ più timido dei suoi compagni di scuola, ma comunque socievole. Eppure, a soli diciannove anni, Roberto compì una carneficina. Il 12 aprile 1981 aggredì la madre Maria, accoltellandola ben trentadue volte, poi aspettò che il padre Nazario, poliziotto, rincasasse e lo attaccò con un’accetta per poi finirlo strangolandolo. Dopodiché depose i corpi nella vasca da bagno, uscì di casa e fuggì da Mestre. Le indagini della polizia portarono subito a incolpare il giovane, che venne rintracciato sul confine con la Jugoslavia e arrestato. Roberto non aveva l’aspetto di un assassino, si comportò come se non fosse successo nulla, cadde dalle nuvole. Poi durante l’interrogatorio, con una schiettezza fredda e distaccata ammise: «La mamma mi aveva escluso, a scuola andavo male, mio padre non voleva prestarmi l’auto». Il ragazzo fu sottoposto a diverse perizie volte a determinare il suo stato mentale: Roberto fu dichiarato schizofrenico e totalmente infermo di mente. L’8 ottobre 1981, il Tribunale di Venezia decise che fosse internato nel manicomio criminale di Reggio Emilia, dove sarebbe dovuto restare in osservazione per dieci anni. Ma il 17 maggio 1986, approfittando di un permesso di uscita per frequentare una lezione universitaria, Roberto riuscì a fuggire dall’ospedale e far perdere le sue tracce. Fino al momento della fuga, Succo si era comportato in maniera irreprensibile, sembrava addirittura completamente rinsavito, si era anche quasi laureato e molti medici avevano espresso pareri positivi per premi e permessi. Aveva preso in giro tutti. Scappò in Francia, dove assunse un’altra delle tante identità, diventando André. Anche in Francia, Roberto diede sfogo ai suoi demoni interiori, uccidendo
cinque persone e allacciando una relazione morbosa con una sedicenne. La ragazza, dopo alcuni anni, ammise che André aveva un temperamento molto strano, per molti aspetti violento ed aggressivo, anche dal punto di vista sessuale. Due delle sue vittime si del resto prima di essere ammazzate a colpi di pistola erano state violentate. Grazie alla testimonianza di una ragazza se che riconobbe nelle foto segnaletiche mostrate in televisione il suo ex fidanzato, Kurt, altra identità con cui Roberto Succo aveva iniziato una nuova vita in Francia, la polizia riuscì a risalire a lui. Braccato, Roberto decise di rientrare in Italia, sentendo l’impulso irrefrenabile di ritornare nei luoghi della sua infanzia. Ma i carabinieri lo stavano ancora cercando e il 28 febbraio 1988 fu arrestato. La sua deposizione, che fu anche l’ultima, lasciò gli inquirenti agghiacciati: Roberto infatti dichiarò: «Io sono un killer... per mestiere ammazzo la gente». Roberto tornò così in carcere, prima a Treviso, da dove cercò di scappare attraverso il tetto, ma senza fortuna, e poi a Vicenza. Qui, nella notte tra il 22 e il 23 maggio 1988, si suicidò, soffocandosi con un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas. Aveva solo ventisei anni.
Storie insolite
Il miracoloso viaggio della Beata Maria Vergine delle Grazie
All’interno dell’antica chiesa di San Marziale, nel sestiere di Cannaregio, una statua nasconde una storia straordinaria. Si tratta della statua votiva della Beata Maria Vergine delle Grazie e la sua vicenda è legata a un viaggio che iniziò a Rimini. Si racconta che un pastorello riminese di nome Rustico trovò in un faggeto un tronco d’albero che aveva le sembianze di un corpo femminile. Non era scolpito o lavorato, ma sembrava essere nato così. Rustico, che era molto devoto alla Madonna, pensò che si trattasse di un segno divino e decise di modellare il tronco fino a farlo diventare una vera e propria effige di Maria. Il lavoro del giovane pastore proseguiva celermente, ma la mattina seguente trovava sfregiato il viso che stava plasmando con tanto ardore. Dopo qualche giorno, Rustico si trovava sul ciglio della strada davanti alla sua misera casa, tentando di ridare al viso di Maria un aspetto degno, nonostante di notte qualcosa, forse il demonio, intervenisse a sfigurarlo. arono allora due ragazzi biondi e si fermarono a contemplare l’opera. Fecero i complementi a Rustico per la capacità artigianale dimostrata nel plasmare il corpo della Madonna e si offrirono di aiutarlo nel terminare il volto. Rustico, che non sapeva più che fare, accettò, porse il pezzo di legno ai due ragazzi e li invitò a sedersi accanto a lui. Fu così che i due fanciulli riuscirono a fare ciò che Rustico tentava da parecchi giorni. Poi improvvisamente i due si alzarono in piedi e si rivelarono a Rustico: erano due angeli inviati proprio dalla Madonna, e portavano con loro un messaggio per lui. Rustico sarebbe dovuto andare dal vescovo di Rimini, offrire la statua in dono e far sì che fosse adagiata su una barca senza nessuno al timone. Rustico riferì il volere della Madonna al vescovo e, dopo una breve processione, la statua fu messa su una piccola imbarcazione e lasciata in balia della corrente. Dopo qualche giorno di navigazione, la barca raggiunse le coste veneziane e lì fu avvistata da un vecchio cieco e dal figlio muto che si trovavano sulla riva a chiedere l’elemosina. Si narra che non appena la barca si avvicinò loro, il bambino parlò e il padre recuperò la vista. I due cominciarono a gridare al miracolo, presero la statua e la portarono adoranti dal doge Giovanni Dandolo, il
quale decise di riporla all’interno della chiesa di San Marziale, proprio in prossimità della riva dove avvenne il miracolo. Ora la statua della Beata Maria delle Grazie è venerata col nome di Madonna del Battello ed è conservata in una teca di cristallo sovrastata dalla rappresentazione di due angeli che reggono un cartiglio nel quale si leggono le parole “rustico incepta, a nobis perfecta”, ovvero “Iniziata da Rustico, da noi portata al compimento”.
La sirena Melusina, Orio e il cuore incastonato nella pietra
C’è una leggenda veneziana che ricorda il mito greco di Orfeo ed Euridice: un uomo si innamora di una creatura divina, la perde, la riottiene, ma poi per una svista, un piccolo momento di disattenzione, diventa lui stesso causa della propria sventura. Si narra che una notte, Orio, un pescatore di campo Bragora, nel sestiere Castello, stava gettando le reti nelle acque di Malamocco quando improvvisamente udì la voce di una donna chiedere aiuto dal mare. In un primo momento, Orio si spaventò perché i racconti popolari dicevano che quelle acque erano infestate da mostri e streghe; poi però si fece coraggio e lentamente si sporse dalla barca. Tra le onde scure intravide il viso di una fanciulla: era rimasta impigliata nelle reti e non riusciva a liberarsi. Orio allora cominciò a tirare le reti per avvicinarla e aiutarla. Quando finalmente fu libera, la fanciulla guizzò di colpo all’indietro rivelando una lunga coda: era una sirena! Orio rimase stupefatto, ma subito cominciò a chiamarla a gran voce perché tornasse indietro. Per qualche momento, sentì solo il rumore delle onde che si infrangevano contro lo scafo, poi la fanciulla riemerse lentamente dal mare e si appoggiò sul bordo dell’imbarcazione, fissandolo in silenzio. Orio le chiese come si chiamasse e la sirena rispose: «Melusina». Parlarono per ore; Orio era curioso di come fe a vivere sott’acqua e la ragazza, divertita, gli chiedeva di spiegarle cosa fossero i buffi strumenti che utilizzava per pescare. Poi si salutarono. Ma prima, Orio le strappò una promessa: ogni notte, alla stessa ora, lui si sarebbe recato in quel braccio di mare per rivederla, se lei avesse voluto. Da quel giorno, al calar del sole, Orio tirava la barca in mare e salpava in direzione dell’amata. Tutti i giorni, tranne il sabato, su richiesta di Melusina. Trascorsero così due settimane e i due si innamorarono. Poi un sabato Orio, preso da un desiderio folle di rivedere Melusina, ruppe la promessa e si recò nel luogo dei loro incontri. Appena giunse, cominciò a chiamare la sirena, ma non ottenne nessuna risposta, poi d’improvviso vide le acque agitarsi e ribollire. Orio pensava si trattasse di Melusina, però al posto della sirena apparve un’orrenda
serpe marina. Il pescatore terrorizzato cominciò a remare per tornare sulla terraferma, ma alle spalle sentì la dolce voce di Melusina. Allora tornò indietro, non credendo ai suoi occhi: la sirena gli raccontò che una strega invidiosa le aveva lanciato un maleficio che l’aveva condannata a trasformarsi in un serpente ogni vigilia di domenica. Orio le disse che non gli importava, che avrebbe continuato ad amarla e la baciò. Improvvisamente un forte bagliore avvolse il serpente e al suo posto riapparve Melusina, solo che non aveva più la coda da sirena, ma due gambe. L’incantesimo si era rotto per il bacio d’amore e ora i due avrebbero potuto vivere insieme, sulla terraferma. I due si sposarono e dalla loro unione nacquero tre figli. Vissero per molti anni felici e contenti, poi un giorno Melusina si ammalò e morì, gettando Orio nella disperazione. Per qualche giorno, il pescatore non volle più uscire di casa, poi però per amore dei figli e per rispetto nei confronti della moglie morta, decise di continuare la sua attività e tornare a pescare. Ogni notte, Orio usciva in barca e quando rincasava, con suo grande stupore, trovava tutto in ordine e pulito. Nel profondo del suo cuore, aveva intuito che si trattava di Melusina. Il suo spirito non aveva abbandonato la casa e gli stava accanto. Tutte le mattine, sperava di tornare a casa e rivedere la donna, ma questo non capitò mai finché un sabato, all’alba, fece ritorno prima del solito e aperta la porta inorridì nel vedere davanti a sé una serpe enorme. Non ci pensò due volte: prese un’ascia e uccise l’animale. Il mattino seguente, al rientrare, non trovò più la casa rassettata e pulita e capì che la serpe che lo aveva spaventato era proprio la sua amata Melusina, tornata alla sua forma animale. Orio allora prese la barca, andò nel luogo in cui aveva conosciuto la sirena, si tuffò in acqua e raccolse dal fondo una pietra rossa. Tornato a casa, la lavorò per darle forma di cuore, poi uscì di casa e la incastonò sulla sommità dell’arco d’ingresso del sotoportego de la Bragora, dove avevano vissuto felici. Il cuore è ancora lì, a ricordo del loro grande amore.
L’empietà dei mercanti e le reliquie dei santi
Ai miti e alle leggende crede soprattutto chi ha qualcosa da perdere. Forse è per questo che Venezia, nel mondo, è la città con il maggior numero di reliquie conservate all’interno delle sue chiese. Del resto, la fortuna della Serenissima si è basata essenzialmente sui commerci, per definizione effimeri e aleatori. Ed è per questo che nei secoli i commercianti veneziani, approfittando della vicinanza con l’Oriente e con la Terra Santa, hanno portato nella loro città un numero altissimo di reliquie. Furono proprio due mercanti, Rustico da Torcello e Buono da Malamocco, a trafugare il corpo di san Marco ad Alessandria d’Egitto e a trasportarlo segretamente a Venezia nell’828 d.C. Le reliquie erano custodite in una chiesa di Alessandria incendiata nel 644 dagli Arabi e in seguito ricostruita dai patriarchi della città egiziana. Buono e Rustico approdarono per i loro affari nel porto di Alessandria, vennero a conoscenza della presenza delle reliquie del santo tanto caro ai veneziani e decisero di portarle nella loro città per salvarle dagli infedeli. La leggenda narra che i due mercanti, una notte, entrarono nella chiesa, trafugarono le reliquie e le nascosero all’interno di una cesta contenente carne di maiale. Alla dogana, i militari musulmani preposti non controllarono la cesta perché conteneva questo tipo di carne. I mercanti riuscirono a salpare, ma dovettero affrontare una tempesta e le secche dell’Adriatico. Superate le difficoltà, le reliquie giunsero finalmente a Venezia, accolte con grande emozione da tutti i suoi abitanti. Era il 31 gennaio dell’828 e per san Marco fu come un ritorno a casa, dal momento che, secondo la tradizione, era stato proprio lui a evangelizzare le popolazioni lagunari. Una volta a Venezia, le reliquie vennero chiuse in una teca conservata in una piccola cappella attorno alla quale venne poi innalzata la grande basilica che conosciamo e della quale Dante disse che «cielo e mare vi posero mano». La basilica fu compiuta nell’832, ma la sua storia è travagliata e con essa quella delle reliquie, che misteriosamente scomparvero nel nulla pochi anni dopo. Nel 976 un incendio provocato dal popolo in rivolta distrusse gran parte della chiesa
che venne poi ricostruita a partire dal 978. Ma l’attuale aspetto risale a un progetto del 1063, realizzato nel 1094, quando la basilica fu consacrata al santo patrono. Fu proprio durante la messa solenne che le reliquie, ormai date per perse, ricomparvero. Il miracolo avvenne il 25 giugno 1094: nel momento culminante della celebrazione, su una delle colonne centrali comparve un braccio, immerso nella luce, a indicare il luogo in cui si trovava la teca con le reliquie. Altre fonti raccontano che a manifestarsi fu lo stesso san Marco; secondo la versione narrata da Giacomo Casanova nelle sue memorie, invece, sulla colonna apparve l’immagine del leone alato, simbolo di san Marco e della città. Le versioni sono tante, ma il ritrovamento delle reliquie fu considerato dai cittadini un vero miracolo. Per questo, da quel giorno, san Marco fu eletto patrono della città.
La guardiana dell’isola di San Secondo
L’isola di San Secondo è il primo isolotto che si incontra avvicinandosi a Venezia in automobile o in treno. È un lembo di terra minuscolo, eroso dalle acque a tal punto che le sue dimensioni diminuiscono anno dopo anno. Ma la storia di quest’isola è antichissima e comincia nell’xi secolo, quando la famiglia Baffo, di cui molti esponenti erano templari, sovvenzionò la costruzione di un monastero benedettino femminile nel 1034. Il monastero era situato al centro dell’isola e un muro di cinta percorreva tutto il perimetro per proteggerlo da mareggiate o incursioni esterne. Nel 1534, il monastero delle benedettine fu soppresso e l’edificio fu occupato dall’Ordine dei domenicani osservanti che lo mantenne fino all’occupazione napoleonica del 1797. Già da quell’anno, il monastero diventò una base militare per sfruttare la sua posizione strategica, ma la fine di ottocento anni di storia mistica ed ecclesiale arrivò il 28 luglio 1806, quando tutte le costruzioni sacre vennero rase al suolo e l’isola venne fortificata e trasformata in un vero e proprio accampamento militare. La funzione militare dell’isola di San Secondo durò fino agli inizi del Novecento: dal 1904 al 1936 fu data in subaffitto ad alcune famiglie perché si occuero della sua tutela. Dal 1950 infine tornò ad appartenere al Demanio dello Stato e ancora oggi è disabitata. Anche se leggende e testimonianze affermerebbero il contrario. Si racconta infatti che l’isola abbia un guardiano, ovvero lo spirito di una giovane monaca che abitò il monastero benedettino fin dal 1034 e che per i suoi comportamenti lascivi fu punita con una pena severissima: sarebbe stata murata viva dalle sue stesse consorelle in una cella sotterranea. Urla e grida per giorni risuonarono nei corridoi del monastero, infine la monaca morì, ma prima di spirare lanciò una terribile maledizione: il suo fantasma non avrebbe mai abbandonato quei luoghi, ne sarebbe stato il guardiano e avrebbe tormentato tutti coloro che avessero calpestato le sabbie dell’isola. Leggenda o realtà? Sia i soldati che vissero nell’accampamento, sia le famiglie che ebbero in custodia l’isola negli anni più recenti, affermarono di aver assistito a fenomeni paranormali come oggetti che si spostavano o globi luminosi che fluttuavano a mezz’aria.
Un soldato lasciò scritto che una notte sentì urla provenire dal folto della vegetazione, là dove un tempo era sorto il monastero delle monache e vi si era quindi avventurato per scoprire cosa stesse accadendo. Improvvisamente davanti ai suoi occhi divampò un fuoco talmente potente che non si riuscì a spegnere se non dopo ore. Forse era dovuto alla suggestione, forse all’isolamento coatto cui erano costretti i soldati, o forse era un avvertimento della guardiana dell’isola di San Secondo.
Palazzo Mastelli
Attorno a Ca’ Mastelli si raccontano molte storie. Ma il palazzo è noto ai veneziani soprattutto per una leggenda che ha per protagonisti tre fratelli originari della Grecia e che sarebbero stati trasformati in statue, incastonate poi sulla facciata. Il palazzo si trova nel sestiere Cannaregio, nel pittoresco campo dei Mori. Prese il soprannome di “Mastelli” perché i tre proprietari, i fratelli Rioba, Afani e Sandi, erano commercianti avari e disonesti e possedevano molti mastelli, cioè catini, pieni di soldi. I fratelli giunsero dalla regione greca della Morea nel 1100 circa e decisero di costruire la loro abitazione, chiamata familiarmente “del Cammello” per via di un bassorilievo sulla facciata che rappresenta appunto un uomo che trascina un cammello. I tre fratelli erano invisi al popolo veneziano perché non perdevano occasione per raggirare e truffare con l’unico scopo di arricchirsi. Erano pessimi vicini di casa e cattivi cittadini, poco interessati a partecipare alla vita della Repubblica e aiutare il prossimo. La leggenda racconta che i veneziani si rivolsero a Dio per punirli. Dio ascoltò queste preghiere e decise di mettere alla prova i fratelli. Un giorno, bussò alla loro porta una donna in lacrime. I tre uomini la fecero entrare in casa e tentarono di rincuorarla. La donna disse di essere la povera vedova di un mercante di stoffe, il marito le aveva lasciato molti debiti che ora non poteva saldare. Sapendo che i tre uomini erano commercianti, la vedova chiese di poter comprare delle stoffe da rivendere nel suo negozio. I tre fratelli, senza scrupoli, le proposero un affare: le avrebbero venduto a un prezzo basso delle stoffe di buona qualità. La donna era tanto disperata che i tre fratelli, tentando di approfittare della sua inesperienza, spacciarono della merce scadente come pregiata seta cinese. La vedova accettò e porse ai fratelli le uniche monete che le rimanevano. Appena i tre toccarono il denaro accadde un evento sconvolgente. I piedi dei fratelli divennero pesanti e lentamente si cominciarono a pietrificare. Gli uomini urlarono e tentarono di scappare ma ormai erano bloccati. La donna allora si rivelò: era Maria Maddalena, inviata da Dio per metterli alla prova. Una prova che non avevano superato e per questo erano stati puniti. Maria Maddalena, peccatrice pentita, ordinò poi ai veneziani di posizionare il gruppo
scultoreo sulla parete esterna del palazzo, come monito per tutti gli usurai e i delinquenti che volessero ingannare il prossimo.
La fuga di papa Alessandro III e lo Sposalizio del mare
Camminando lungo le calli veneziane, può capitare di are attraverso il sotoportego de la Madona, un luogo leggendario, sotto il quale si racconta che dormì un papa, Alessandro iii. All’ingresso del vicolo, sulla sinistra, dentro un’edicola mariana, è conservata una scultura del pontefice che dorme, proprio a ricordo di questo evento. Ma perché un papa dovrebbe aver dormito sulla nuda pietra durante una visita alla Serenissima? Si racconta che nel 1177 un viandante, impaurito e coperto da pesanti vesti, si aggirava nei pressi di campo Sant’Aponal, nel sestiere di San Polo, e che trovò riparo per la notte sotto le arcate del sotoportego di calle de la Madona. Il giorno seguente, lo strano viandante chiese asilo al convento di Santa Maria della Carità, qui fu accolto e destinato alle cucine come sguattero. ati sei mesi, un frate se ospitato nel convento vide lo sguattero e rimase incredulo nel riconoscere papa Alessandro iii. In breve, in tutta Venezia si sparse la voce della presenza del papa in città. Alessandro iii si era rifugiato nella Repubblica per sfuggire alla persecuzione dell’imperatore Federico Barbarossa. Di animo combattivo e iroso, Alessandro iii venne eletto papa nel 1159 grazie ai voti della maggioranza dei cardinali, ma si scontrò subito con i porporati seguaci del Barbarossa. I cardinali dissidenti nominarono allora un antipapa, Vittore iv. In breve, la situazione a Roma degenerò e il papa fu quindi costretto a fuggire dalla Città Eterna. Dopo aver girovagato per i regni italiani, giunse in Francia dove, nel 1163, convocò un concilio che gli riconobbe la sovranità. Forte dell’appoggio di Inghilterra, Spagna e Italia, Alessandro iii tornò a Roma per scacciare l’usurpatore. Vittore iv riparò allora in Germania, alla corte dell’imperatore Federico Barbarossa che decise di organizzare una spedizione in Italia con lo scopo di far sedere sul trono pontificio il suo protetto e aver così pieno controllo della penisola italiana. Durante la discesa del Barbarossa in Italia, Vittore morì e venne sostituito dall’antipapa Pasquale iii. L’arrivo di Federico costrinse Alessandro a fuggire a Benevento e questo spinse le città venete a lui fedeli a stringersi in una lega, nata a Verona, che sconfisse
Barbarossa e lo obbligò a tornare in Germania. Ma Federico non si arrese e in breve tempo riorganizzò l’esercito per riprendersi l’Italia. Tutto il Nord allora si unì nella Lega Lombardo-Veneta, sorta dopo il giuramento di Pontida del 7 aprile 1167, che acclamò come suo protettore proprio papa Alessandro iii. Quando Federico scese nuovamente in Italia, le carte in tavola furono rimescolate. Alessandro iii fuggì, questa volta in incognito, e giunse a Venezia, presentandosi come umile viandante. Nel frattempo però il Barbarossa fu sconfitto dalla Lega Lombarda nella battaglia di Legnano: la sconfitta fu pesante e portò l’imperatore a considerare seriamente di iniziare delle trattative di pace con il papa e i suoi alleati. Venezia giocò un ruolo chiave in questi negoziati: il doge Sebastiano Ziani si espose in prima persona per organizzare l’incontro tra il papa e Federico. Era il 24 luglio 1177 quando fu siglata quella che è ata alla storia come “pace di Venezia”. Federico tolse l’appoggio all’antipapa e il papa annullò la scomunica che aveva lanciato contro l’imperatore. Una leggenda racconta che nell’atto di baciare il piede al pontefice, il Barbarossa abbia detto: «Non innanzi a te mi inchino, ma a Pietro» e che il papa gli abbia risposto semplicemente «Ti inchini innanzi a me e a Pietro», prima di farlo alzare e concedergli il bacio della pace. Così si conclo i lunghi anni di guerra che insanguinarono l’Italia e Venezia fu consacrata fra le maggiori potenze europee. Per questo, il papa volle premiare la città lagunare, concedendo alla Serenissima, in quanto “Paladina della Chiesa”, l’uso della spada, del cero e degli stendardi. Alessandro iii donò infine un anello al doge perché lo usasse per la cerimonia dello Sposalizio del mare nel giorno della Sensa, ovvero dell’Ascensione. Nata nell’anno Mille, la cerimonia dello Sposalizio del mare simboleggiava il dominio marittimo di Venezia. La cerimonia aveva carattere propiziatorio, ma dopo il gesto del papa assunse anche dei risvolti politici: Venezia fu ufficialmente considerata la dominatrice di tutti i mari. Da quel giorno, le celebrazioni infatti diventarono ancora più fastose: il doge gettava in mare l’anello consacrato dal pontefice e, attraverso la formula «Ti sposiamo, mare. In segno di vero e perpetuo dominio», dichiarava Venezia e il mare indissolubilmente uniti, ribadendo così il possesso dell’Adriatico. A perpetuo ricordo di questi fatti, ormai entrati nella leggenda, la calle de la Madona oggi è chiamata familiarmente calle del Perdon e all’interno dell’edicola è scolpita la figura del papa che dorme a terra, accompagnata dall’iscrizione:
«Alessandro iii, Sommo Pontefice, fugiendo le armi di Federico imperatore, venendo a Venezia qui riparò la prima notte, et poi concesse indulgentia perpetua in questo locchio dicendo un Pater Noster et una Ave Marias ubi non sit grave dicere Mater Ave, l’ano mclxxvii et con la carità di devoto silumina giorno e note come si vede».
Satanismo a Venezia
Venezia è una città dalla doppia anima, in cui vita e morte convivono. Tra le due però il rapporto non è paritetico. La morte ha il sopravvento e domina l’atmosfera. Le acque stagnanti dei canali sono putride e nere, i palazzi dello sfarzo sono stati teatri di omicidi e tragedie, lo stesso carnevale che celebra la vita è “officiato” da maschere che sono una rivisitazione di demoni. Per questo nei secoli Venezia è stata meta di stregoni, eretici, alchimisti e anche di satanisti. Nella laguna, la “tradizione satanista”, se così si può definire, è anzi radicata e continua ad avere strascichi nel quotidiano. Un noto giornale del Nord ha portato in prima pagina la notizia della costituzione di un gruppo satanista, i Figli del Demonio, attivo nella zona di Venezia da qualche anno. Altri reporter si sono introdotti all’interno di sette che praticano messe nere e hanno raccolto informazioni su strani riti compiuti su un’isola della laguna. Si tratta di San Giorgio in Alga, l’isola su cui, secondo la leggenda, i templari hanno nascosto un grande tesoro... Ancora una volta quindi esistono delle connessioni tra i templari, da molti accusati di adorare un idolo demoniaco chiamato Baphomet, e il satanismo. L’usanza di sputare sulla croce del resto è un gesto rituale templare compiuto anche durante le messe sataniche di oggi. Probabilmente però questo interesse di alcuni veneziani per il satanismo deriva dall’esperienza di una protosetta a tinte nere creata a Venezia nel xii secolo. Si tratta del culto satanico veneziano, fondato dall’antipapa Innocenzo iii nel 1198. Innocenzo iii era uno degli antipapa sostenuti dall’imperatore Federico Barbarossa nel suo conflitto con papa Alessandro iii. Ma a differenza degli altri che lo avevano preceduto, Innocenzo iii aveva avuto più carisma e si era rivelato meno succube del controllo imperiale. Innocenzo iii diede vita a una religione nuova, fondata su antiche conoscenze esoteriche e sull’adorazione di Moloch e degli altri demoni del mondo sotterraneo. I riti derivavano da dottrine religiose che provenivano dalla Palestina e dalle altre terre sante. Ma i suoi seguaci furono accusati di eresia e
costretti alla fuga in una terra che, seppur inospitale, aveva concesso loro la libertà di professare il proprio culto. Il quale, pur non presentando connotazioni negative, dava uguale importanza tanto agli dèi celesti quanto a quelli terrestri. Si può dire che i culti esoterici, ancora oggi forti e diffusi, siano nati a Venezia grazie a Innocenzo iii e soprattutto al papa Onorio iii. Fu costui infatti a redigere un testo, il Grande Grimorio, che da molti è considerato il primo vero e proprio libro di stregoneria della storia occidentale.
I ladroni di San Marco
La basilica di San Marco è il cuore pulsante di Venezia. Attorno ad essa si svolgono le attività quotidiane dei veneziani che amano la loro chiesa e la considerano familiare, di tutti loro. Ma la basilica nasconde mille segreti, alcuni legati ai templari, altri ai massoni ma anche ad alchimisti ed esoteristi. Uno dei misteri più antichi è legato a un gruppo scultoreo che si trova nell’angolo esterno dell’edificio in corrispondenza del quale, internamente, è custodito il tesoro di San Marco. Il rilievo, realizzato in porfido rosso, rappresenta quattro personaggi, due su un angolo e due sul lato adiacente. Chi sono? E cosa potrebbero significare? I quattro personaggi sono divisi in due coppie. In ognuna, uno posa la mano sulla spalla destra dell’altro, quasi in gesto di protezione. Le figure indossano copricapi simili a corone, lunghi mantelli, corazze e spade decorate. Tutti questi elementi del vestiario, il prezioso materiale utilizzato per scolpirli e il fatto che due di loro abbiano la barba, hanno da sempre fatto pensare ad archeologi e storici che si tratti dei tetrarchi. La tetrarchia è una forma di governo che risale all’antica Grecia e che consiste nella divisione di un territorio in quattro parti, ognuna delle quali governata da un potere autonomo. L’esempio storicamente più importante fu la tetrarchia voluta dall’imperatore romano Diocleziano, che durò dal 284 al 305. Nel sistema tetrarchico, l’impero era diviso in due parti, a loro volta suddivise in due regioni. Ognuna era retta da un augusto, coadiuvato dal suo cesare. I protagonisti del blocco di porfido incastonato all’esterno della basilica di San Marco quindi sono Diocleziano, che abbraccia Galerio, e Massimiano, che invece pone la mano sulla spalla del suo cesare, Costanzo Cloro. La conservazione delle statue è buona, eccezion fatta per il piede sinistro della figura posta all’estrema destra. Intorno a questi personaggi sono sorte, nel tempo, numerose leggende, che raramente avevano un riscontro prettamente storico. Il primo tentativo di dar loro una collocazione cronologica precisa venne avanzato nella prima metà dell’Ottocento. Tutti furono subito d’accordo sulla loro identità, ma non si capiva perché le statue fossero state incastonate sulla parete esterna di San Marco. Una risposta giunse nel 1965, quando, a seguito degli scavi condotti da
archeologi tedeschi e turchi in una piazza di Istanbul, venne ritrovata sotto terra una serie di gruppi scolpiti in porfido rosso rappresentanti personaggi in abiti militari e sfarzosi. Insieme alle statue fu trovato un piede sinistro. Subito, alcuni studiosi pensarono ai dignitari della basilica di San Marco e fu deciso di effettuare una prova di verifica per scoprire se si trattasse proprio del piede mancante a uno dei personaggi. Il piede combaciò perfettamente e questo diede agli storici la certezza che il gruppo di porfido fe parte del bottino di guerra portato a Venezia dopo il saccheggio di Costantinopoli del 1204. Un’antica leggenda veneziana racconta che il gruppo scultoreo dei tetrarchi in realtà rappresenti quattro ladri che tentarono di trafugare il tesoro di San Marco. Per tutti i veneziani infatti le quattro figure sono meglio note come i “quattro ladroni”, quattro uomini che nel tentativo di rubare il tesoro al santo furono da questo fulminati all’istante, proprio nel posto esatto dove avevano cercato di penetrare nella basilica. Naturalmente si tratta solo di una leggenda, ma un piccolo fondamento forse c’è. I quattro ladroni in realtà sarebbero stati quattro mercanti di Padova giunti a Venezia per cercare di fare un patto con i pescatori della laguna e spartirsi i ricavi della pesca. Nella città lagunare, i mercanti sentirono parlare del tesoro di San Marco e di quali ricchezze fosse composto. Così decisero di tentare il colpo: non c’erano guardie a protezione della cappella e avrebbero potuto penetrare in essa abbastanza facilmente e senza farsi scoprire, attraverso una finestra raggiunta con una scala. Quello stesso giorno del 1204, il doge Enrico Dandolo era ritornato da Costantinopoli con le navi colme di gioielli e ori saccheggiati. Tra queste ricchezze si trovava anche la statua dei tetrarchi, ma era stata abbandonata nei vicini giardinetti perché troppo pesante per essere trasportata fino a Palazzo Ducale. Proprio mentre i ladri stavano cercando di attuare il colpo, su Venezia si abbatté un fortunale con fulmini e pioggia. Il mercante in cima alla scala si spaventò per un tuono e cadde sugli altri, con un fracasso tale che alcune donne accorsero per vedere cosa fosse accaduto. Quando giunsero sul luogo del misfatto e videro gli uomini che avevano tentato di rubare il tesoro di San Marco cominciarono a urlare. Gli uomini scapparono proprio verso i giardinetti e fecero perdere le loro tracce. Ma le donne li inseguirono fin dentro i giardinetti e qui al loro posto trovarono la statua di porfido rosso dei quattro tetrarchi. Allora pensarono di trovarsi di fronte a un maleficio, e che San Marco avesse trasformato in pietra i ladri che avevano tentato di rubare il suo tesoro. Da quel momento i quattro tetrarchi sono conosciuti dai veneziani come i “Mori
ladroni”, perché solo gli Arabi avrebbero potuto profanare la chiesa di San Marco, e in un cartiglio scolpito sul fregio posto in basso si legge, in veneziano arcaico: “Un uomo faccia e dica pure ciò che gli a per la testa e veda ciò che può capitargli”.
Un’invenzione tutta veneziana: gli occhiali
Gli occhiali sono una protesi di uso comune costituita da due lenti che aiutano chi ha carenze o problemi legati alla vista a correggerli. Sono molto diffusi in tutte le parti del mondo, oggetto di culto, a volte veri e propri status symbol. Ma in pochi ne conoscono le origini, che risalgono alla Venezia del xiii secolo. La prima rappresentazione degli occhiali risale al 1352, quando appaiono nel ritratto del cardinale Ugone di Provenza dipinto da Tommaso da Modena. Ma la nascita degli occhiali è stata, fino al 1920, terreno di scontro tra nazioni e culture diverse che se ne attribuivano la paternità. Nel Seicento per esempio era quasi certo che anche gli occhiali, come molte altre invenzioni diffuse in Occidente, avessero visto i loro natali in Oriente, in particolare in Cina; successivamente, altri studiosi individuarono invece come loro patria la Toscana. Nel 1920 il medico e scienziato Giuseppe Albertotti, che per tutta la vita si era interessato alla cura degli occhi, attribuì l’invenzione ai veneziani, riconoscendo altresì che la loro scoperta fu occasionale piuttosto che frutto di una ricerca programmata. Albertotti infatti era convinto che gli occhiali fossero un’invenzione non dei vetrai veneziani, ma dei cristallieri, che rappresentavano un ramo molto fiorente dell’oreficeria veneziana e che si dedicavano alla lavorazione del quarzo e del cristallo di rocca. Non sono poche le fonti storiche che associano i cristallieri agli alchimisti, per la ricerca comune di tecniche per la trasformazione della materia. Già dal 1100 comunque, la Repubblica di Venezia aveva una forte tradizione di artigiani del cristallo, i Maestri, che vivevano nell’isola di Murano e qui lavoravano in segreto nelle loro fornaci. Prima ancora di trasferirsi a Murano, i Maestri avevano scoperto che il cristallo, se leggermente arcuato, poteva ingrandire gli oggetti osservati. Le lenti d’ingrandimento del resto funzionavano secondo questa logica, ma gli artigiani andarono oltre, pensando di creare due lenti più piccole e di collegarle come se fossero una protesi degli occhi. Così nacquero gli occhiali. Nei Capitolari delle Arti Veneziane, che contenevano anche il primo statuto degli artigiani cristallieri, datati 1284, si parlò per la prima volta di occhiali, definendoli oglarios de vitro, e se ne descrivevano la realizzazione e le
caratteristiche. Nello stesso statuto, si fissarono anche pene per chi avesse fabbricato occhiali in vetro e non in cristallo e si evidenziava la differenza tra roidi da ogli, gli occhiali, e lapides ad legendum, ovvero le lenti d’ingrandimento usate fino a quel momento per leggere. In un documento dell’anno successivo, si leggeva la prova certa dell’esistenza a Venezia di una vetreria che produceva e vendeva vitreos ab oculis ad legendum, ovvero vetro per occhiali da lettura. Nel 1301, gli artigiani continuavano a dare indicazioni sulla nuova invenzione, sottolineando l’importanza della cura delle lenti e l’attenzione con cui dovevano essere controllate e approvate in base alla qualità. Inoltre si cominciò a parlare anche dei i sui quali le lenti andavano inserite. Il primo uso del temine moderno “occhiali” però risale al 1317, sempre a Venezia, quando fece la sua comparsa in un documento ufficiale; successivamente il commercio degli occhiali si diffuse in tutta la regione grazie ai mercanti, anche se solo verso la fine del xix secolo in Italia cominciò una vera e propria produzione industriale di questi oggetti. È quasi paradossale se si pensa che l’ultima fabbrica di occhiali fu chiusa a Venezia nel 1788. La strada nella quale essa sorgeva ne porta il nome ancora oggi: calle delle Occhialerie. Arte, letteratura, società multietnica, invenzioni per il miglioramento delle condizioni di vita... In tutti i campi, Venezia ha sempre dimostrato di essere un esempio per la sua capacità di precorrere le mode e lottare per raggiungere conquiste civili e sociali.
Il dottore della peste
Il carnevale a Venezia non è una festa, ma l’amaro esorcismo delle paure di un popolo che in più occasioni ha rischiato di essere cancellato dalla storia. 13471349, 1575-1577, 1630-1631: sono le tre ondate di pestilenze che si sono abbattute sulla Serenissima, privandola di forze ed energia. In realtà le epidemie di peste negli archivi cittadini furono ben sessantanove, ripetendosi dal 954 al 1793, ma in nessun caso la Morte Nera fu tanto devastante quanto durante le tre maggiori pestilenze. Venezia infatti poteva difendersi dai nemici via terra, per la particolarità del territorio, e via mare, dato che le secche costituivano la più forte barriera naturale, ma la peste era riuscita a far breccia e attecchire in città in maniera subdola e incontrollata: viaggiava lungo le vie commerciali, sulle navi o a bordo delle carovane dei commercianti che facevano la spola tra Oriente e Occidente. La peste colpiva all’improvviso, con forme sempre più acute e imprevedibili, e la popolazione fu soggetta a un calo talmente drastico da gettare il panico tra le calli della città. I cadaveri si ammucchiavano per strada, sulle fondamenta, e si mischiavano con i moribondi e i malati: ammassi di corpi, senza volto, sporchi, coperti di stracci, urlanti per il dolore fisico e spirituale. Si sentivano abbandonati. Figurarsi poi la paura di vedere camminare tra i fumi delle strade uomini vestiti con lunghi mantelli, neri come la morte, e con il viso coperto da maschere terrificanti e deformi. Il Medico della peste era l’unica persona che osava avvicinarsi agli ammalati. La sua sola apparizione sembrava il sinistro presagio dei demoni che avrebbero accolto gli uomini negli Inferi una volta morti. Il Medico era avvolto da una pesante cappa nera che lo copriva fino ai piedi, indossava un cappello rotondo, anch’esso nero, e si proteggeva il volto con una maschera caratterizzata da una sorta di becco, un naso allungato e cavo all’interno, dove erano poste delle erbe aromatiche che avevano la funzione di purificare l’aria. La sua era una maschera fredda, distaccata, asettica e terrificante, che divenne una sorta di prigione per uomini che non sapevano in realtà cosa fare davanti a quella catastrofe. Esiste una lettera, un unicum nella letteratura medica occidentale, scritta dal
dottor Alvise Zen nel xvii secolo e indirizzata a un amico se, che rappresenta la testimonianza di chi quella maschera l’ha indossata, e con essa tutta la pesantezza del suo significato, tutto quel senso di impotenza che il medico provava verso qualcosa di inspiegabile e inarrestabile.
Eccellentissimo Monsieur d’Audreville, vi racconterò quei terribili giorni solo perché sono convinto che senza memoria non c’è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune. E poiché, dopo l’orrore, quella vicenda si trasformò in una festa, anzi in una delle feste più amate dai veneziani, mi è meno gravoso ricordarla. [...] Per secoli non ci fu calamità più spaventosa della peste. [...] Era il 1630. Assieme alle spezie e alle stoffe preziose, le navi della Serenissima trasportarono anche la morte nera. Ah! Mio caro amico, nemmeno le guerre e le carestie offrivano uno spettacolo così desolato. Potevamo circolare liberamente solo noi medici. Indossavamo una lunga veste chiusa, guanti, stivaloni e ci coprivamo il volto con una maschera dal naso lungo e adunco e occhialoni che ci conferivano un aspetto spaventevole. Alzavamo le vesti dei malati con un lungo bastone e operavamo i bubboni con bisturi lunghi come pertiche. I ricchi morivano come i poveri. Volete sapere quanti veneziani se ne andarono al Padreterno? Ottantamila, pensate, in diciassette mesi; dodicimila nel novembre del 1630; in un solo giorno furono cinquecento novantacinque[9].
A partire dal Settecento, da quando cioè il morbo fu completamente debellato e prevenuto grazie alle innovazioni della medicina, la maschera del Dottore è diventata uno dei simboli di Venezia, soprattutto in un particolare periodo dell’anno. Durante il carnevale, Venezia è meta di migliaia di persone che si divertono a indossare maschere di cui ignorano il significato. Il Dottore, Arlecchino, Pantalone...: dietro colori vivaci e vesti riccamente ornate, si nascondono demoni e fantasmi degli appestati, testimoni di un ato in cui morte e vita si confondevano e convivevano. Solo con la Commedia dell’arte infatti sono diventati protagonisti di storie allegre e surreali, anche se sempre accompagnate da un retrogusto amaro: un’operazione comprensibile, per spazzare dalla mente quegli anni terribili in cui ci si sentiva deboli, in balìa di forze aliene, come «d’autunno sugli alberi le foglie». Ecco il significato del carnevale: festeggiare perché si esiste ancora, nonostante attorno a noi ombra e morte ballino e si divertano a nostre spese.
Il gatto di Chioggia
Chioggia non è una piccola Venezia. Chioggia è un’altra Venezia. E anche se si tratta solo di un comune, la sua superficie supera quella di alcuni capoluoghi di provincia del Veneto. Le leggende sulle origini della città di Chioggia sono molto antiche e si collegano al mito di Enea, il grande eroe troiano scampato alla distruzione della sua città e che attraversò il Mediterraneo per stanziarsi infine nell’odierno Lazio. Enea partì con alcuni compagni tra cui Antenore, Aquilo e Clodio, i quali, a metà viaggiò, decisero di separarsi dal principe troiano per cercare altri luoghi in cui fondare le loro città. Giunsero così in laguna e qui edificarono Padova, Aquileia e Clodia. I ritrovamenti archeologici di epoca recente hanno fatto ipotizzare che la nascita di Chioggia sia avvenuta intorno al 2000 a.C. per opera di una popolazione di navigatori originari della Tessaglia, i Pelasgi. Il nome della città quindi deriverebbe tanto dall’eroe troiano Clodio, quanto dal termine “cluza”, cioè “costruita artificialmente”, per indicare che senza modificazioni del territorio attuate dall’uomo la città non sarebbe mai potuta sorgere. Per questa sua autonomia storica, Chioggia è considerata da sempre la rivale di Venezia, e tra le due città, in effetti, gli scontri furono molti. La guerra di Chioggia fu il conflitto che vide contrapposte Chioggia e Venezia tra il 1379 e il 1381. Nel 1380, i genovesi approfittarono della confusione e occuparono Chioggia: restarono fino all’8 agosto 1381, quando, grazie a un trattato di pace tra Genova e Venezia, terminò anche la libertà di Chioggia, che cadde definitivamente in mano ai veneziani. Da quel momento, la cittadina non riuscì più a riprendersi e tornare al vecchio splendore, ma vivrà politicamente ed economicamente in posizione subalterna a Venezia. Una situazione mal accettata dai chioggiotti e perfettamente rappresentata da Carlo Goldoni in una commedia del 1762: Le baruffe chiozzotte. La commedia è un’opera corale che vede contrapposti i veneziani, con la puzza sotto il naso, e i pescatori di Chioggia. In effetti, la borghesia e la nobiltà di Venezia hanno sempre avuto la tendenza a trattare dall’alto in basso i cugini chioggiotti, ai quali riservarono prese in giro e sfottò, che sono poi i comportamenti tipici del campanilismo italiano. Ma di certo i chioggiotti non sono mai stati disposti ad accettarli in modo remissivo. La
rivalità tra Venezia e Chioggia si incarna perfettamente in una scultura posta vicino all’imbarcadero dei vaporetti della cittadina: si tratta di un leone marciano che svetta su una colonna che avrebbe dovuto rappresentare Venezia e quindi, metaforicamente, la sudditanza di Chioggia alla Repubblica. Alcuni veneziani negli anni ati erano soliti, per dileggio, lasciare delle lische di pesce davanti al leone per poi scappare, inseguiti spesso da chioggiotti infuriati. Da parte loro però gli abitanti di Chioggia, per rispondere per le rime ai cugini veneziani e mostrando granda autoironia, fecero scolpire un leone dalle fattezze più minute del tipico leone di San Marco, con grandi artigli e ali spiegate, e per disprezzo lo collocarono vicino a quello di San Marco. Per tutti quello è il gato de Ciosa, ovvero il gatto di Chioggia. La storia del gato de Ciosa è ovviamente terreno di aspre contese tra veneziani e chioggiotti e sulla sua origine esistono due versioni contrapposte. Secondo la versione chioggiotta, la cittadina del Sud della laguna, da sempre rivale di Venezia, era però anche costretta a ubbidire ai suoi voleri. Come in tutte le città venete sottoposte al dominio della Serenissima dunque, nemmeno a Chioggia poteva mancare l’emblema della Repubblica, ovvero il leone di San Marco. Ma i veneziani, incautamente, diedero il compito di scolpire la statua del leone rampante a un artigiano di Chioggia, il quale, per scherno, realizzò un leone con le sembianze di un gatto. In realtà ancora oggi i chioggiotti sono molto gelosi del loro “gatto”, perché si tratta pur sempre di un simbolo che rappresenta la loro fierezza. La versione dei veneziani è ovviamente diversa. Gli abitanti di Venezia infatti raccontano che un giorno un gatto, stanco di subire le angherie e la prepotenza degli altezzosi leoni di San Marco, fuggì in direzione di Chioggia. I quattro leoni però si indispettirono e si lanciarono all’inseguimento. Appena giunse a Chioggia il gatto si arrampicò sulla colonna di piazza Vigo, l’unico luogo dove sarebbe stato in salvo. La colonna infatti era molto alta e il capitello sulla sua sommità molto stretto: i leoni non sarebbero riusciti a raggiungerlo perché il loro peso non permetteva né di arrivare a quote troppo elevate né di volare per molto tempo senza trovare degli appigli per una sosta. I leoni allora dopo qualche ora, esausti per i salti fatti per acchiappare il gatto, si sedettero e decisero di attendere che fosse quello a scendere. Ma il gatto non scese mai e i leoni tornarono a Venezia, tutti tranne uno, ormai pietrificato dal tanto aspettare.
I fratelli Zeno e il tesoro dei templari
Esiste una leggenda che parla di un grande tesoro templare e che ha per protagonisti i fratelli Zeno, navigatori ed esploratori veneziani. Si narra che ancora prima di Cristoforo Colombo, furono loro a raggiungere le coste americane. La famiglia Zeno era originaria di Padova, ma verso la fine del xiv secolo si era trasferita a Venezia, dove aveva trovato fortuna e ricchezza. Carlo Zeno, il maggiore dei fratelli, aveva combattuto nella guerra contro Genova e si era addirittura guadagnato il soprannome di “Leone di Venezia”. Il fratello Nicolò invece aveva uno spirito più curioso e nel 1390 si era lanciato nell’esplorazione di terre lontane, raggiungendo addirittura la Groenlandia. In una delle sue avventure, Nicolò, a causa di una tempesta, approdò su un’isola dell’arcipelago delle Orcadi, nel Mare del Nord. Qui, aggredito dalla popolazione, fu salvato dal signore dell’isola, Lord Henry Sinclair, noto per essere un cavaliere del tempio. I due uomini divennero amici e Sinclair decise di partecipare alle spedizioni di Nicolò. Entrambi erano convinti infatti che verso Occidente si estendessero altre terre, inesplorate, che rappresentavano avventura e possibilità di guadagno. Dopo aver preparato una flotta, Nicolò e Sinclair partirono verso ovest. Alla compagnia si aggiunse anche Antonio, il più giovane dei fratelli Zeno. Nel 1394 però, proprio durante la spedizione, Nicolò morì e Antonio assunse il comando della flotta. Secondo gli appunti di viaggio di Antonio e Sinclair, le navi raggiunsero le coste americane. Addirittura, Antonio disegnò e inviò una mappa del Nuovo Mondo a Venezia. Su questa mappa, stampata nel 1561, è indicato con esattezza un punto, l’isola di Oak, vicino alle coste canadesi della Nuova Scozia. Non a caso questa terra fu ribattezzata Nuova Scozia. Quando i templari divennero il nemico numero uno della cristianità, cercarono rifugio proprio in Scozia, dove trovarono accoglienza e protezione. I cavalieri portarono con sé un ingente tesoro, costituito da oro e gioielli, insieme a documenti particolarmente importanti. Ma la Scozia non era un posto sicuro e non di rado le truppe del papa e di Filippo il Bello facevano incursioni per cacciarli. Per questo, narra la leggenda, alcuni di loro salparono insieme ad Antonio Zeno e al confratello
Sinclair, approdati per qualche tempo nel Nord della Gran Bretagna, per cercare nuove terre in cui poter vivere serenamente e al riparo dai pericoli. La flotta si fermò nelle terre scoperte fino al 1400: tutto il tempo per insediarsi e nascondere nel territorio segnali e tracce del loro aggio. Nel 1900, sotto la sabbia dell’isola di Oak, fu scoperta una strana costruzione costituita da stanze e tunnel sotterranei. Forse parte del tesoro dei templari giace ancora a pochi metri di profondità. Quel che è certo è che alcuni templari tornarono in Europa insieme a Zeno, ma ormai l’Ordine era sciolto e ogni possibilità di riunirsi era andata perduta. Così come si era conclusa l’avventura di Antonio, il quale decise di rimpatriare a Venezia. Durante il ritorno però la sua nave fu sorpresa da una burrasca e naufragò. Lo stesso destino di morte toccò a Lord Sinclair, ucciso pochi mesi dopo il suo ritorno a casa. Perché? E da chi? Lord Sinclair, cavaliere templare, aveva caldeggiato e finanziato la spedizione di Zeno proprio perché voleva proteggere i segreti dell’Ordine e per questo era stato punito. Forse non è un caso che, qualche anno dopo, proprio un suo discendente, il nipote William, sovvenzionò la costruzione della cappella di Rosslyn, in Scozia, che secondo la tradizione divenne la chiesa segreta dei cavalieri templari...
Il potere delle acque del pozzo di San Sebastiano
Nel 1464, una nuova ondata di pestilenza si abbatté su Venezia, uccidendo centinaia di persone. Ogni giorno morivano nobili, poveri ed ecclesiastici: sembrava che non esistesse nulla in grado di fermare la Morte Nera. Nemmeno l’antico monastero della Santa Croce, sull’isola della Giudecca, venne risparmiato. Solo in quell’anno infatti, nell’arco di pochi mesi morirono quattro monache e per questo le consorelle si erano chiuse all’interno dell’edificio e non avevano più relazioni con l’esterno. Una di loro, suor Scolastica, aveva il delicato compito di controllare, attraverso una grata, l’accesso al monastero e impedire l’ingresso a quanti chiedessero di entrare. Un giorno di agosto, alle prime luci del mattino, bussò alla porta del convento un giovane uomo. Dietro la grata, la monaca vide che il giovane portava un mantello rosso che gli copriva completamente il viso. La monaca gli chiese chi fosse. L’uomo parlò lentamente, scandendo le parole e trasmettendole un senso di serenità e pacatezza. Disse che era un cavaliere proveniente da Roma e che era in viaggio ormai da alcune settimane. Era appena giunto a Venezia e non riposava da due lunghi giorni. Non chiedeva ospitalità, ma solo un bicchiere di acqua per proseguire il viaggio. Poi si tolse il cappuccio e alla suora parve di riconoscere il suo volto. Con un sorriso, suor Scolastica chiese al cavaliere misterioso di attenderla; poi richiuse la grata del portone e si recò al pozzo del chiostro maggiore per prendere l’acqua. Tornò dal cavaliere portando un bicchiere che porse all’uomo. Il giovane bevve l’acqua fresca in silenzio. I due parlarono ancora qualche minuto della peste, della situazione a Venezia e del monastero, poi il cavaliere si fece serio e, guardando la suora negli occhi, predisse che nessun’altra monaca sarebbe morta per la peste. Detto questo, ringraziò suor Scolastica, lodò il Signore e il monastero e se ne andò. Proprio mentre il cavaliere si allontanava, sparendo tra la nebbiolina del mattino, la suora capì perché il viso del cavaliere le fosse tanto familiare: proprio nel monastero, nel refettorio, era stato dipinto un affresco che raffigurava il martirio di san Sebastiano. Quel cavaliere misterioso aveva le sue stesse fattezze.
Da quel giorno non morì più nessuna suora e tutte quelle che erano state contagiate e avevano bevuto l’acqua del pozzo con cui si era dissetato il santo guarirono. Così il pozzo fu dichiarato miracoloso e venne chiamato Pozzo di San Sebastiano. Si racconta a Venezia che i miracoli avvennero anche nei secoli successivi: le cronache parlano di misteriose guarigioni dovute all’acqua del Pozzo di San Sebastiano e di eventi paranormali avvenuti accanto alla fonte. Oggi purtroppo il monastero non esiste più. A seguito dell’invasione della città da parte di Napoleone, nel 1797, tutti gli ordini religiosi furono soppressi e i luoghi di culto chiusi o riutilizzati per scopo civile. Il monastero della Giudecca venne trasformato in una casa di correzione; dagli anni Sessanta del Novecento, l’edificio è divenuto sede sussidiaria dell’Archivio di Stato della città. Il Pozzo di San Sebastiano fu demolito, ma la sua leggenda è rimasta un vivo ricordo nella mente di tutti i veneziani.
Le profezie di suor Chiara Bugni
Il monastero del Santo Sepolcro fu fondato da monache scane nel 1482 e fu un’istituzione molto importante a Venezia fino alla sua demolizione, avvenuta nei primi anni dell’Ottocento in seguito alle leggi anticlericali promulgate da Napoleone. Oggi il complesso monastico è occupato da una caserma, ma le sue pareti sono state testimoni di una storia triste che ha per protagonista suor Chiara Bugni, mistica e stigmatizzata. Chiara Bugni apparteneva a una nobile famiglia veneziana che, come purtroppo era abitudine, fece prendere i voti alla ragazza nel 1489, chiudendola in un convento di monache clarisse. Nel 1504 Chiara diventò badessa e vestì questa carica fino al 1511, anno in cui inspiegabilmente fu deposta e chiusa in una cella del monastero in cui pochi anni più tardi morì. Ma perché questa sorte? Suor Chiara si era trasformata in un personaggio scomodo per Venezia per una serie di visioni e profezie avute in momenti di estasi che potevano durare giorni interi. La sua fama crebbe a dismisura, poi, improvvisamente, di lei non si seppe più nulla. Le uniche informazioni che abbiamo provengono da sco Zorzi, studioso di scienze e filosofo scano che aveva avuto la possibilità di conoscere direttamente la mistica. Secondo quanto riportato da Zorzi, le prime visioni della clarissa risalivano al 1503 e si fecero più frequenti tra il 1506 e il 1507. Da subito Chiara fu considerata “santa”: si diceva che la donna avesse ricevuto dal Cielo il sangue di Cristo e che lo custodisse in un’ampolla; inoltre le consorelle raccontavano di una ferita sul costato che non si cicatrizzava mai e che sanguinava continuamente. La monaca venne eletta priora del convento nel 1504 e per mesi in tutta Venezia non si fece che parlare dei suoi miracoli: Chiara infatti compì alcune guarigioni servendosi di un fazzoletto bagnato di un liquido misterioso e che aveva ricevuto dal Cielo. Ma furono soprattutto le estasi a conferire alla sua persona un’aura di santità: Chiara sarebbe stata in contatto diretto con Cristo, il quale le avrebbe lasciato messaggi profetici con cui l’aveva investita di una grande responsabilità. Chiara avrebbe infatti patito lo stesso dolore e le stesse sofferenze di Gesù, e tutto per salvare gli uomini ed evitare loro l’inferno. Si racconta proprio che, durante alcune di queste estasi, avesse ricevuto il dono delle stigmate, che però
si erano rimarginate dopo pochi giorni, e la ferita al costato, che al contrario non sarebbe mai sparita dal suo corpo. Nel corso degli anni, Chiara ricevette numerose visite da parte di ispettori della Chiesa, i quali ogni volta tornavano con la medesima conclusione: il sangue della monaca era profumato, non si coagulava e sembrava avere un potere terapeutico, in grado di guarire dalle malattie. Quanto alle sue profezie, esse riguardavano soprattutto la salvezza dell’anima: se gli uomini si fossero affidati alla misericordia, non avrebbero dovuto temere il male e, attraverso il sangue di Chiara e grazie al suo patimento, il mondo si sarebbe salvato. sco Zorzi visse nel monastero di San Sepolcro per testimoniare gli eventi e partecipò a molte delle estasi di suor Chiara, anzi era l’unico al quale la monaca raccontasse le sue visioni. Da parte sua Zorzi vedeva in Chiara Bugni lo strumento divino per la rigenerazione del mondo che si era ormai corrotto dopo anni di guerre e divisioni politiche e culturali. sco Zorzi raccolse i testi dettati da suor Chiara in un libercolo che consegnò al Consiglio dei Dieci per chiedere poi di poterlo divulgare. Ma letto il contenuto di alcune profezie, il Consiglio decise che non fosse il caso di comunicarlo al popolo. Anzi, Chiara Bugni fu deposta dal suo ruolo di badessa del monastero e venne segregata in una cella, chiusa a chiave, senza la possibilità di comunicare con le consorelle o chiunque altro. Non si sa quale fosse quel contenuto tanto minaccioso che il Consiglio decise di mantenere nascosto: forse suor Chiara previde la fine della Repubblica, il mutamento dell’ordine politico o più semplicemente invitava alla fratellanza e all’uguaglianza. Di lei non si seppe più nulla e padre Zorzi fu allontanato e invitato a non divulgare i messaggi delle profezie di suor Chiara, che il 7 settembre 1514, il giorno esatto in cui sco d’Assisi aveva ricevuto le stigmate, morì, sola e nel silenzio assordante della sua prigione.
La sposa cadavere
La chiesa di Santa Maria della Fava è così affettuosamente chiamata dai veneziani per via di un piccolo ponte che si trova di fronte, il ponte della Fava, e che a sua volta assunse questo nome per la presenza di un negozio di fave. Della chiesa, terminata nel 1500, si racconta un aneddoto di cui fu protagonista Sandro Botticelli. Secondo una leggenda, il pittore si trovava a Venezia e stava camminando sul ponte quando uscì dalla chiesa una ragazza di una bellezza sconvolgente. Quella visione paradisiaca fu l’ispirazione per il suo capolavoro, La nascita di Venere: la conchiglia dalla quale la dea viene portata a riva sarebbe la stessa che si staglia sul portale della chiesa veneziana. Originariamente però la chiesa era dedicata a Santa Maria della Consolazione e fu eretta per ricordare la storia d’amore tra due giovani, una storia che seppe vincere anche la morte. La vicenda si svolse quando ancora la chiesa non era stata costruita e al suo posto si estendeva un camposanto. Era la fine del xv secolo: Maria era la figlia di un ricco commerciante innamorata follemente di un pittore di immagini sacre, Gregorio. I due giovani amanti vissero clandestinamente il loro sentimento per ben tre anni, alla fine dei quali Gregorio le chiese di sposarlo. La ragazza ovviamente accettò, ma suo padre ostacolò le nozze e anzi la chiuse in casa per impedirle di vedere il pittore squattrinato. A nulla valsero i tentativi di Gregorio: il padre fu irremovibile e alle richieste del giovane rispose di aver già trovato il marito giusto per la figlia, ricco e di buona famiglia. Maria fu costretta ad accettare l’uomo scelto dal padre e lo sposò. Durante la cerimonia, Gregorio restò nascosto in fondo alla chiesa, fissando la donna che amava più della sua stessa vita e che stava perdendo per sempre. Il triste matrimonio di Maria durò solo tre anni: la ragazza infatti morì a causa di una malattia e venne sepolta nel cimitero accanto alla piccola cappella che sorgeva davanti al ponticello. Durante il funerale, Gregorio avrebbe voluto accompagnare il corpo di Maria fino all’ultimo istante, ma il marito e il padre della ragazza glielo impedirono, facendolo trascinare fuori dal camposanto. Gregorio tornò a casa, triste, distrutto; pensò anche di farla finita per riabbracciare, almeno da morto, la donna amata. Infine, vinto dalla stanchezza si addormentò. Durante il sonno, gli apparve in sogno la Vergine Maria: era una
signora vestita di bianco, avvolta dalla luce e parlava con una voce melodiosa. La Madonna chiese al giovane che cosa fosse disposto a fare per riavere Maria e Gregorio rispose che non c’era nulla che lo spaventasse. La Vergine allora gli disse di dipingere una sua effige e di far esporre quell’immagine in una chiesa costruita al posto della piccola cappella. In questo modo avrebbe potuto riabbracciare Maria. Poi la Madonna sparì e Gregorio si svegliò di soprassalto. Era ancora stupito dalla veridicità del sogno quando, accanto a lui, vide un tronco che prima che si addormentasse non c’era. Lo prese in mano e ricordò le parole della Vergine: forse era quello il legno sul quale avrebbe dovuto dipingere il ritratto della Madonna. E così fece: in preda a un furor visionario, Gregorio lavorò giorno e notte, senza sosta neppure per mangiare, fino a quando, due giorni dopo, il dipinto non fu terminato. Gregorio lo donò al parroco, il quale promise che avrebbe edificato una chiesetta e che tutti avrebbero adorato l’icona della Vergine. Il pittore tornò a casa, e si lasciò andare alla stanchezza. Ma quella stessa notte, nel cimitero vicino, accadde qualcosa di veramente eccezionale: dalla terra uscì una mano, poi un viso e infine un corpo che si alzò e cominciò a camminare. Il “morto vivente” si diresse verso casa del pittore. La porta si spalancò per un colpo di vento e Gregorio si svegliò improvvisamente. Il pittore cadde a terra dallo spavento quando vide davanti a sé Maria. La giovane gli si avvicinò e lo rincuorò, dicendogli di non avere paura, che non gli avrebbe fatto nulla di male: era tornata per intercessione della Vergine e per stare con lui. A sentire queste parole, la paura di Gregorio si dileguò: il ragazzo si alzò e abbracciò l’amata. Finalmente i due innamorati avrebbero potuto stare insieme e sposarsi: Maria in fondo era morta e i suoi voti matrimoniali ormai non avevano più valore. Il giorno del matrimonio, la chiesetta pullulava di invitati; tra di essi c’erano anche il vedovo di Maria e i genitori della ragazza. Cominciò la musica e, in fondo alla chiesa, apparve una donna vestita di bianco e con il volto celato da un velo. La donna cominciò a muoversi per raggiungere l’altare dove la attendeva Gregorio. Quando la ragazza lo raggiunse, il pittore le tolse il velo che la copriva e tutti i presenti poterono riconoscere Maria. Di fronte al miracolo, il vedovo svenne, così come la madre della giovane; il padre invece rimase pietrificato, mentre attorno a lui la folla già gridava al prodigio. Gregorio allora spiegò tutta la storia e in molti pensarono che l’immagine sacra che aveva dipinto fosse miracolosa. Da quel giorno la chiesetta fu meta di pellegrinaggi di fedeli, e ben presto l’edificio non fu più in grado di contenere tutti i veneziani che volevano chiedere un intervento alla Vergine. Per questo si decise di edificare un tempio
più grande e di dedicarlo alla Madonna della Consolazione. La donazione dei genitori di Maria fu ingente: si erano pentiti e avevano ormai accettato il pittore in famiglia, essendo evidentemente stato scelto dalla volontà divina. I due sposi vissero così una vita lunga e felice e si spensero molto vecchi, insieme. Per celebrare il loro amore, un amore in grado di sconfiggere la morte, nella facciata della chiesa furono inserite due statue che rappresentavano proprio Gregorio e Maria. Un giorno però le due statue e l’immagine della Madonna dipinta da Gregorio scomparvero nel nulla. Forse Maria e Gregorio sono scappati in cielo o forse la Vergine li ha chiamati perché il loro amore diventasse paradigmatico per tutti gli altri innamorati.
La dama bianca di corte Locatelo
L’uomo ha un’altissima capacità di adattamento e riesce sempre a trovare dentro di sé la forza per andare avanti, superando ostacoli e avversità. Questo fino a quando non è affamato. Gli uomini possono essere privati della casa, anche dei beni di prima necessità, ma se inizia a mancare il cibo, tutto vacilla e anche l’uomo più pacifico si può trasformare in un mostro e ribellarsi. La Rivoluzione se, le rivolte popolari dell’Impero Romano, le guerre dell’antichità: tutte sono nate nel momento in cui gli uomini non avevano più di che cibarsi. La storia che si è svolta in corte Locatelo ne è un esempio... leggendario. Corte Locatelo si trova nella zona delle Mercerie, le strade dei commercianti che conducono a Rialto, è una corte riparata, di piccole dimensioni, arricchita da uno splendido pozzo che ne occupa il centro. Questo pozzo rappresenta un unicum nel panorama urbanistico veneziano, dove i pozzi si differenziano dagli altri tipi sparsi nelle diverse città italiane per le loro caratteristiche specifiche, legate alla conformazione idro-geologica della laguna. A Venezia, l’acqua non viene ricavata accedendo a una fonte sotterranea, ma tramite la raccolta dell’acqua piovana e il filtraggio permesso dalla natura argillosa e impermeabile del sottosuolo. Per avere un pozzo pertanto era necessario disporre di una superficie di raccolta sufficientemente ampia attorno a esso. Corte Locatelo non sarebbe abbastanza grande per giustificare la presenza di un pozzo, eppure è proprio questa fonte d’acqua la protagonista di una leggenda che si è diffusa nel xvi secolo. Venezia stava uscendo dall’ultima pestilenza e i superstiti tra gli abitanti erano ormai larve, spettri senza forza e purtroppo senza nemmeno più acqua da bere. La siccità infatti aveva dato il colpo di grazia alle riserve acquifere della città e i veneziani erano in ginocchio. Una notte, un barcaiolo di nome Marco si recò al pozzo di corte Locatelo, proprio vicino a casa, per tentare di raccogliere qualche goccia di acqua per dissetarsi. Lì giunto, vide che una signora vestita di bianco era seduta sull’orlo del pozzo e guardava il cielo. Marco si spaventò perché pensò che si trattasse di una strega: i racconti popolari infatti parlavano spesso di streghe belle e vestite di colori chiari che si aggiravano per la città durante la notte alla ricerca di cibo e acqua. La donna si accorse immediatamente
dell’arrivo del barcaiolo e con un sorriso lo invitò ad avvicinarsi. Marco ubbidì, muovendosi molto lentamente e con circospezione. La signora continuava a sorridergli, poi cominciò a parlare: la sua voce era melodiosa e angelica e non aveva nulla di inquietante. Gli disse di non avere paura, ma lo avvertì che se non fosse tornato a casa prima dell’alba quella notte gli sarebbe accaduto qualcosa di strano. L’uomo rimase in silenzio per qualche istante, poi ringraziò per il consiglio e se ne andò. Tornò qualche ora dopo, all’alba. Era estate e già alle prime luci del giorno l’afa faceva sentire la sua oppressione. Per cui il barcaiolo si recò al pozzo per dissetarsi. Stava bevendo le poche gocce d’acque raccolte col secchio quando si sentì strattonare e allontanare in modo violento. Si voltò e davanti ai suoi occhi vide un lungo coltello: lo brandiva un uomo vestito di rosso. L’aggressore tornò alla carica e ferì gravemente Marco a un fianco. La ferita non era profonda, ma iniziò a uscire molto sangue. «Che cosa vuoi?», gli gridò Marco, cercando di fermare l’emorragia con la mano. «Ho sete! E tu stavi bevendo tutta l’acqua!», rispose l’altro uomo. Marco cadde sulle ginocchia, mentre la sua vista si appannava e disse: «Non vedi che non ce n’è per nessuno? Siamo tutti senza...». Gli occhi dell’aggressore si velarono improvvisamente di tristezza e comione, sentì il rimorso per quello che aveva fatto e lasciò cadere il coltello a terra. Improvvisamente dietro di lui comparve la donna vestita di bianco. La signora non parlò, ma si avvicinò e raccolse il coltello ancora grondante di sangue. Poi si sporse sul pozzo e lasciò cadere alcune gocce di sangue al suo interno. Le gocce, cadendo, risuonarono in tutta la corte, poi si sentì un forte rumore: dal pozzo traboccò una grande quantità di acqua che coprì i ciottoli della pavimentazione. La signora prese un fazzoletto, lo imbevve di acqua e pulì la ferita del barcaiolo. Magicamente la lesione cominciò a rimarginarsi davanti agli sguardi attoniti dei due uomini. Quando la ferita fu completamente chiusa, Marco si rialzò, si sentiva bene, come se non fosse accaduto nulla. La signora sorrise e disse che da quel momento non ci sarebbe più stata carenza di acqua in quel pozzo. Poi scomparve. I due uomini rimasero senza parole, poi l’aggressore ruppe il silenzio: «Era la dama del pozzo!», urlò. «Chi?», chiese Marco.
«Si dice che in questo pozzo sia stato murato il corpo di una donna dopo che il suo amante l’aveva ammazzata... me l’ha raccontato mia nonna... si dice che il suo spirito appaia nelle notti di luna piena e che salvi la vita alle persone...». Poi ripiombò il silenzio. La signora vestita di bianco non aveva solo salvato la vita a Marco, ma aveva anche ridato la speranza a tutti gli abitanti del quartiere.
Il palazzo degli Eretici
Quando Giordano Bruno viveva a Venezia, frequentava una casa molto particolare che si specchiava sul Canal Grande e si trovava in contrada di San Luca, in sestiere San Marco. E anche Galileo Galilei, prima di presentare al mondo dalla cima del campanile di San Marco la sua nuova invenzione, il cannocchiale, ne parlò con un piccolo gruppo di eletti, al riparo dagli sguardi inquisitori della Chiesa, proprio in quella casa. Stiamo parlando di quello che tutti i veneziani del Seicento chiamavano, con senso di mistero e timore, “palazzo degli Eretici”. Ma di che tipo di eresia si erano macchiati i suoi frequentatori? Dell’unica di cui la Chiesa, nonostante i suoi sforzi secolari, non era riuscita a disfarsi: il raziocinio. Il palazzo era infatti meta dei grandi intellettuali dell’epoca; nelle sue stanze discorrevano di scienze, arte e filosofia persone del calibro di Giordano Bruno, Galileo, Paolo Sarpi e il futuro doge Leonardo Donà. A Venezia, al principio del xvii secolo, il luogo migliore dove poter incontrare persone colte e importanti era proprio il ridotto, cioè il salotto del noto uomo politico Andrea Morosini, il quale ospitava ogni sera amici e uomini d’intelletto, facendo infuriare per questo la Chiesa di Roma. Morosini si era formato sotto l’egida culturale di un grande personaggio storico veneziano, Gaspare Contarini, l’uomo che più di tutti tentò di combattere la crisi della Chiesa, ma dal suo interno e non seguendo la strada della scissione come aveva fatto negli stessi anni Lutero. Nel 1537 Contarini fu uno dei firmatari di un testo in cui chiedeva a papa Paolo iii di non abusare del suo potere e di vigilare per la disciplina e il rigore morale. Purtroppo i suggerimenti rimasero inascoltati e anzi Contarini venne accusato di prossimità con il luteranesimo. Ma le sue parole accesero la scintilla della libertà intellettuale nel giovane Morosini, che qualche anno più tardi fondò un luogo di incontro fondamentale per politici, religiosi, scienziati e letterati. Per questo il palazzo ò alla storia come luogo in cui venivano svolte attività contrarie alle leggi ecclesiastiche e fu additato come ritrovo di peccatori ed eretici. Tanto che la Chiesa più volte tentò di smantellarlo e perseguitò i suoi frequentatori: basti pensare a Giordano Bruno,
che il 17 febbraio 1600 fu arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma, accusato di eresia. Nelle sale del palazzo degli Eretici in realtà non avveniva nulla di misterioso o negativo, ma la Chiesa di Roma non poteva permettere che il libero pensiero si propagasse. Questa fu una delle cause della “guerra dell’interdetto” che ebbe come protagonisti due assidui frequentatori del palazzo degli Eretici: Paolo Sarpi e il doge Leonardo Donà. Nel 1606, anno di elezione di Donà, il Consiglio dei Dieci ordinò l’arresto di due preti corrotti. La reazione di Roma fu repentina: papa Paolo v chiese il rilascio dei detenuti, adducendo come scusa il fatto che prima che cittadini veneziani, i due sacerdoti lo fossero dello Stato Pontificio e che quindi non potevano essere soggetti alle leggi della città. Ma il governo negò il loro rilascio e il papa minacciò allora di porre l’interdetto, ovvero la scomunica a tutta la città e i suoi cittadini. Nessuno a Venezia sembrò mostrare grande preoccupazione per l’ultimatum papale che, senza farsi attendere, si materializzò. Il doge, ato dall’amico Sarpi, si dimostrò irremovibile e pronto anzi a scendere in guerra contro Roma pur di difendere la libertà veneziana e l’autonomia del potere temporale rispetto a quello pontificio. La situazione si risolse solo grazie alla mediazione se: il papa ritirò la scomunica e i due frati arrestati furono consegnati a Roma. C’è un curioso aneddoto sul primo incontro tra Paolo v e Leonardo Donà, avvenuto a Roma molti anni prima della guerra dell’interdetto, quando erano solo un cardinale e un ambasciatore. I due stavano disquisendo con altri sull’arroganza dei veneziani verso il papato, quando il futuro Paolo v avrebbe detto: «Se fossi papa, scomunicherei tutti i veneziani!». Pronta fu la risposta di Donà: «Se fossi doge, riderei della scomunica!».
Bianca Cappello, da cortigiana a granduchessa
Tra le storie di donne veneziane, una in particolare ha avuto in ato grande risonanza, sia per il prestigioso ruolo che questa donna ricoprì, sia per la sua morte, ancora avvolta nel mistero. Si tratta di Bianca Cappello, che da cortigiana di Venezia divenne la granduchessa di Toscana. Bianca nacque a Venezia nel 1548, ma fin dall’infanzia la sua vita fu difficile: il padre infatti la detestava, preferendole il figlio maschio, e appena la madre morì tentò di rinchiuderla in convento. Per fortuna però una sorella della madre si offrì di prendersi cura di lei. La casa della zia era aperta a incontri culturali di alto livello: ai suoi salotti partecipavano ogni sera quattro esuli fiorentini scappati dalla patria perché contestatori di Cosimo de’ Medici. Crescendo, Bianca divenne una bellissima donna, elegante e amante dell’arte e della letteratura. Poi un giorno scoprì la verità sulla zia: era una cortigiana e i salotti che organizzava erano l’occasione per molti intellettuali di are piacevoli serate in sua compagnia. Bianca divenne così una cortigiana, ma “onesta”, così la chiamavano gli amici della zia. Alla morte della parente, uno dei quattro fiorentini, che era ormai diventato il suo amante, Pietro Bonaventura, la convinse a lasciare Venezia e a recarsi con lui, che intanto aveva ottenuto il perdono dai Medici, a Firenze. I due fuggirono e Bianca si lasciò per sempre alle spalle la città natale e il demone del padre. Durante la fuga, i due giovani si sposarono e Bianca rimase incinta. Dopo un viaggio lungo ed estenuante, i coniugi arrivarono a Firenze. Ma subito Bianca si rese conto che molte delle cose dette dal marito per convincerla a lasciare Venezia erano false: Pietro non era ricco e non aveva conoscenze nelle alte sfere. Bianca fu alloggiata nella casa dei suoceri, dove diede alla luce la figlia Pellegrina. Un giorno si presentò a casa il famoso pittore Giorgio Vasari, amico del marito, che la invitò alla corte dei Medici. Bianca, intimorita e sorpresa, fu incitata dal marito ad accettare e accolse l’invito. Il 6 gennaio 1564, Bianca Cappello entrava per la prima volta nella corte dei Medici. Era bella, riccamente adornata, ma appariva timida e quasi fuori luogo in mezzo a donne e uomini ben più esperti di intrighi e seduzione. Appena sco de’ Medici, il figlio ed erede di Cosimo, la vide si innamorò perdutamente di lei. Bianca
restituì lo sguardo e sorrise. Così iniziò una struggente storia d’amore, che lo stesso Bonaventura appoggiava, dimostrandosi interessato più al proprio tornaconto che alla moglie. Da parte sua, sco era sposato e aveva avuto sei figlie, nessun maschio, e questo fatto non era ben visto dal padre Cosimo, che al contrario era soddisfatto dell’interesse del figlio verso Bianca. Dopo pochi mesi dall’arrivo di Bianca a Firenze, il granduca Cosimo, stanco per le tante battaglie e addolorato per la perdita della moglie e di due figli, decise di abdicare a favore di sco. Così Bianca diventò l’amante ufficiale del nuovo signore della città. Tutti i cortigiani ora la blandivano e la veneravano, mentre Bianca intanto si adattava perfettamente alla nuova vita e affinava la capacità di sedurre e ordire intrighi per ottenere favori e raggiungere i suoi scopi. Quando nacque finalmente l’erede maschio di sco, Bianca vide vacillare la sua posizione di amante ufficiale. Così ordì un inganno: pagò una popolana perché le consegnasse il figlio appena partorito e lo spacciò come suo. Nella notte del 29 agosto 1576, la donna simulò di aver partorito un figlio maschio e dichiarò che il padre fosse proprio il granduca sco. Subito dopo si liberò della popolana, inviandola a Bologna. Pochi giorni dopo il marito di Bianca, Pietro, venne assalito e ucciso; forse l’attentatore era stato inviato da sco che voleva liberarsi di un avversario ed essere libero di sposare Bianca. A questo punto, rimaneva solo il problema rappresentato dalla granduchessa. Ma la sorte fu favorevole agli amanti. Giovanna d’Austria morì in circostanze mai chiarite, forse per avvelenamento, forse per crepacuore nel vedere il marito sempre più lontano. Finalmente sco e Bianca furono liberi di amarsi alla luce del giorno e si sposarono. Era il 1578. La storia d’amore fu felice, ma breve. Il 19 ottobre 1587, il granduca morì per i postumi di una febbre molto alta. Solo undici giorni più tardi, Bianca lo seguì nella tomba. Le voci su quelle morti improvvise parlarono sempre più insistentemente di avvelenamento, ma non furono mai svolte delle analisi. Inoltre intrighi, attentati e colpi di Stato erano una realtà quotidiana per quei tempi, per cui la vicenda fu archiviata celermente. Nel 2006 il caso però è stato riaperto. Alcuni studiosi fiorentini, in base a un documento sulla sepoltura di sco i de’ Medici, sono risaliti alla cripta della chiesa di Santa Maria di Bonistallo, in provincia di Prato. Qui sono state trovate delle teche contenenti i resti di due corpi: un fegato femminile e uno maschile, con tracce di arsenico. Gli studiosi hanno ipotizzato che si potesse trattare degli
organi di sco e Bianca e hanno chiesto il permesso di riesumare il corpo del granduca, sepolto nelle Cappelle Medicee di Firenze, per effettuare il test del dna e individuare almeno il proprietario del fegato maschile. Come da tradizione, sco fu sepolto vicino alla prima moglie, mentre non si conoscono le sorti del corpo di Bianca. È però probabile che dai due corpi, quello di sco e di Bianca, siano stati prelevati gli organi interni, per unire i due amanti almeno nella morte. Il test genetico condotto ha determinato che il fegato apparteneva proprio a sco. È molto probabile che quello femminile sia proprio della sua amata Bianca.
L’angelo di Ca’ Soranzo
Non solo demoni. A Venezia esiste un palazzo molto antico, dalla facciata del quale si sporge il bassorilievo di un angelo. Si tratta di Ca’ Soranzo, nel sestiere Cannaregio, chiamata così dal nome della nobile famiglia che ne era proprietaria. La famiglia Soranzo aveva origini antichissime e apparteneva alle “casade longhe”, ovvero a quelle stirpi che non avevano partecipato alla fondazione di Venezia, ma erano giunte pochi anni più tardi. Questo aveva conferito ai Soranzo una grande importanza civica, tra l’altro furono proprio loro a ospitare Dante Alighieri quando era ambasciatore in città per conto dei signori di Ravenna. Il palazzo oggi è noto a tutti i veneziani come Casa dell’Angelo, proprio per la presenza della statua di un angelo, in atto di benedire un globo. Sopra la scultura, incorniciata da un’edicola di marmo, c’è un piccolo foro nel muro, attorno al quale la fantasia veneziana ha costruito una leggenda che ha per protagonisti un uomo disonesto e il diavolo. Nel 1552 viveva nel palazzo un avvocato che, nonostante ostentasse devozione alla preghiera, si era arricchito in maniera iniqua e truffando molte persone. La casa era frequentata da illustri personaggi della città, e una sera l’avvocato invitò a cena anche il primo generale dei cappuccini, padre Matteo da Bascio. Prima di sedersi a tavola, l’anfitrione volle mostrare al frate una scimmietta che teneva in casa come mascotte: era talmente intelligente, sosteneva, da obbedire agli ordini e servirlo nelle faccende domestiche. Appena l’animale vide padre Matteo si spaventò, i peli gli si rizzarono e scappò a nascondersi sotto un mobile. Il frate allora, scuro in viso, si avvicinò all’animale, si chinò per fissarlo e disse: «Perché ti trovi in questo luogo?». Il padrone di casa rimase attonito nel vedere il prete parlare a un animale, ma restò ancora più stupefatto quando la scimmia rispose: «Io sono il diavolo, son qui per impossessarmi dell’anima di quest’uomo, che mi appartiene per il suo modo di vivere». Il cappuccino allora afferrò la scimmia, si raddrizzò e tuonò forte: «Vattene! Te lo ordino nel nome di Dio!». Ma il demonio si mise a ridere, dicendo che era stato proprio Dio a dargli il permesso di penetrare in casa e di non uscirne prima di aver provocato danni. Non aveva ancora trascinato l’avvocato all’inferno, perché l’uomo ogni sera recitava le sue preghiere e si affidava alla Madonna. Padre Matteo, dopo qualche
istante di silenzio, replicò con tono grave: «Allora farai quello che ti dirò. Tu ora uscirai da questa casa, ma attraverso un buco nel muro che scaverai tu da solo!». Le parole del frate furono accompagnate da un tuono del cielo. Il diavolo si spaventò e, davanti alle minacce dello stesso Dio, fu costretto ad acconsentire: scavò nel muro e uscì dalla casa. Davanti a quella scena, l’avvocato restò totalmente paralizzato. Poi, tremando, disse che avrebbe restituito tutto il maltolto alle persone che aveva ingannato negli anni, chiedendo a padre Matteo di proteggerlo dal demonio. Aveva paura che sarebbe potuto rientrare in casa sfruttando il buco nella parete. Il cappuccino allora lo tranquillizzò e gli indicò la soluzione: l’avvocato doveva porre sulla facciata, proprio sotto il foro, la statua di un angelo che avrebbe difeso la casa e i suoi abitanti e messo in fuga tutti gli spiriti malvagi che avessero tentato di penetrarvi. Da allora l’angelo campeggia su Ca’ Soranzo e protegge non solo il palazzo, ma anche tutti coloro che, andoci davanti, gli affidano la propria anima.
La figlia segreta del Tintoretto
Il Tintoretto è stato una delle più grandi glorie veneziane e ha lasciato opere meravigliose, caratterizzate da un uso leggiadro del colore e delle forme. Tale leggerezza non rispecchiava però la sua anima, appesantita da un segreto che portò nella tomba, un segreto che è rimasto impresso su una tela del grande artista contenuta nella chiesa della Madonna dell’Orto. Nella Presentazione della Vergine al Tempio è raffigurata una bambina di spalle, ai piedi della scala sulla cui sommità si trova Maria. Quella bambina, quasi impaurita, è il segreto del Tintoretto: Marietta, sua figlia illegittima. Marietta, nata a Venezia tra il 1554 e il 1560, era la primogenita del pittore e anche sua figlia prediletta. Frutto della ione con una giovane tedesca morta di parto, Tintoretto l’aveva presa con sé, nonostante il disaccordo iniziale della moglie Faustina, con la quale poi ebbe altri sette figli. Gli altri ragazzi, spinti dalla madre, isolavano Marietta e così il padre le si affezionò particolarmente. Fanciulla indomabile e caparbia, Marietta ascoltava solo il padre, sembrava quasi che lei dipendesse da Tintoretto e in lui si annullasse, e viceversa. Ancora piccolissima, ogni giorno il padre la portava con sé in studio, vestendola con abiti maschili per evitare che la gente si fe strane idee e guardasse in malo modo una donna il cui unico peccato era la curiosità. Marietta cominciò a dipingere quando era molto giovane: da subito dimostrò una propensione spiccata per l’arte, assorbendo tutti gli insegnamenti del padre, arrivando anzi quasi a rivaleggiare con lui per la freschezza del gesto e la scelta dei colori. Per questo, tra la cerchia degli artisti veneziani, Marietta iniziò a essere chiamata “la Tintoretta”, sotto lo sguardo compiaciuto e ammirato del genitore. In breve la sua arte e la sua fama furono conosciute anche fuori Venezia, fino alle corti straniere come quelle spagnola e asburgica. Addirittura Filippo ii di Spagna e Massimiliano ii d’Austria la invitarono più volte a lavorare sotto la loro protezione, ma Marietta rifiutò sempre: l’attaccamento quasi morboso al padre la convinse a non lasciare mai la sua città natale. Il Tintoretto infatti amava e desiderava proteggere a tal punto la figlia da disporre della sua esistenza di donna e della sua libertà: sarà lui infatti a scegliere per lei il marito, la casa in cui sarebbe andata a vivere e il luogo in cui sarebbe morta. Tra padre e figlia non
esisteva un rapporto di predominanza del primo in base agli antichi usi patriarcali: la loro era una reciproca e spontanea affinità elettiva. Tintoretto diede Marietta in sposa a un gioielliere, Marco d’Agusta. La coppia ebbe presto un figlio che morì a soli undici mesi. Questo distrusse Marietta e le tolse ogni desiderio di continuare a dipingere. Così morì, ad appena trent’anni, nel 1590, e fu sepolta nella chiesa della Madonna dell’Orto dove, qualche anno più tardi, la raggiunse anche il padre. Un padre che visse gli ultimi anni della sua vita triste e solo, con il rimorso di aver voluto la figlia solo per sé, impedendole di diventare grande come lui.
La peste dei bambini
Giunse inaspettata, e per questo colpì con una furia devastante. La peste del 1575 decimò la popolazione veneziana; le isole della laguna venivano usate come lazzaretti; da lontano spire di fumo segnalavano che corpi orrendamente devastati dalla malattia venivano bruciati nella speranza che anche il morbo finisse in cenere con loro; per strada si vedevano mostri vestiti di nero con maschere bianche e con il naso lungo e deformato. Nel Ghetto di Venezia invece a morire erano solo i bambini. I genitori erano disperati, sembrava che Dio, in collera, si vendicasse contro i suoi eletti, uccidendone i figli. Così tutti i rabbini imposero il digiuno all’intera comunità e si unirono in preghiera, chiedendo a Dio di fermare la peste e di riconciliarsi con gli abitanti del Ghetto. Ma preghiere e offerte non sortirono effetti: i bambini continuavano a morire e le famiglie si stavano decimando. Una notte, il rabbino più anziano della comunità, Sterchel, sognò il profeta Elia, in piedi accanto al suo letto, che lo invitava a seguirlo. Nel sogno, il rabbino si alzò dal letto e improvvisamente cominciò a fluttuare in aria: insieme a Elia, volò sulle acque dei canali, raggiungendo infine il Lido, dove si trovava il cimitero ebraico. Lì, il rabbino Sterchel e il profeta rimisero piede a terra. Davanti a sé, Sterchel vide tante anime: erano gli spiriti dei bambini morti che giocavano e si divertivano tra le tombe. Poi un pallone lo colpì... e il rabbino si svegliò. L’indomani, alle prime luci dell’alba, Sterchel chiamò il suo discepolo più fidato e gli raccontò il sogno. Poi gli ordinò di recarsi al cimitero del Lido allo scoccare della mezzanotte; lì avrebbe visto le anime dei bambini morti, a uno di loro avrebbe dovuto strappare il telo mortuario con cui era stato sepolto e glielo avrebbe dovuto portare. Il discepolo, anche se a malincuore, acconsentì e presa una barca si diresse verso il Lido, entrò nel cimitero e si nascose per aspettare la mezzanotte. Quando l’ultimo rintocco delle campane vicine risuonò nell’aria, davanti ai suoi occhi increduli apparvero le anime dei bambini, velati con i loro teli mortuari. Non appena uno gli fu abbastanza vicino, gli strappò il telo e fuggi il più velocemente possibile, fino alla casa del rabbino. I colpi del pugno sulla
porta di casa risuonarono sordi nel silenzio delle calli. Quando Sterchel aprì, il discepolo gli consegnò il telo. La sensazione fu tremenda: il telo bruciava, era pesante, metteva i brividi ed emanava un odore acre e pungente. Salutato il discepolo, il rabbino chiuse la porta e adagiò il telo su un tavolo; poi cominciò a pregare. Dopo qualche ora, sentì un leggero picchiettio alla porta. Il rabbino aprì e vide davanti a sé un bambino: era triste e lo implorò di restituirgli il suo telo mortuario. Il rabbino Sterchel gli rispose in modo secco: «Non te lo ridarò finché non mi spiegherai perché nel nostro Ghetto la peste colpisce solo voi bambini!». Il bambino lo fissò per qualche istante, poi si decise a rispondere: l’epidemia era scoppiata per colpa di una madre che aveva ucciso il proprio figlio, subito dopo averlo dato alla luce. A questo punto, Sterchel restituì il telo al bimbo, poi aspettò la mattina e organizzò una riunione molto particolare alla quale parteciparono tutti gli altri rabbini del Ghetto. Sterchel ordinò che gli fosse portata la donna che si era macchiata di tale delitto. La giovane giunse in lacrime, assieme al marito; dato che non volevano confessare, i due furono messi sotto torchio e alla fine crollarono. Da quel giorno la morìa dei figli cessò e nel Ghetto tornò la serenità.
Ca’ Mocenigo e il fantasma di Giordano Bruno
Proseguendo il percorso immaginario lungo le acque del Canal Grande, il “drago di energia”, dopo Ca’ Dario ci si imbatte in un altro edificio dalla storia secolare e dall’anima nera come la morte. Palazzo Mocenigo fu costruito nel 1500 e secondo una leggenda popolare sarebbe infestato da un fantasma in eterna ricerca di giustizia: stiamo parlando dell’anima “dannata” dell’eretico Giordano Bruno. Giordano Bruno giunse a Venezia nel marzo del 1592, e si stabilì nel palazzo di un patrizio desideroso di imparare da lui le arti magiche. Bruno infatti era un domenicano, ma oltre alla teologia e alla filosofia era particolarmente interessato alle dottrine ermetiche e neoplatoniche, all’occultismo e alla magia. Tuttavia il rapporto tra il Mocenigo e Giordano Bruno degenerò quando il patrizio, che si aspettava forse di diventare un vero mago, si accorse che in realtà Giordano Bruno era più avvezzo alle teorie che alle pratiche magiche[10]. Così, il 23 maggio 1592 il nobile presentò all’allora inquisitore di Venezia, Giovan Gabriele di Saluzzo, una denuncia scritta contro il maestro. Mocenigo accusò Giordano Bruno di blasfemia, di eresia, di non credere alla Divina Trinità, di praticare arti magiche e di negare la verginità di Maria. Quella sera stessa, le guardie della Serenissima giunsero a palazzo Mocenigo per prelevare con la forza Giordano Bruno, lo arrestarono e lo rinchio nelle celle dell’Inquisizione di Venezia. Portato in catene, come un terribile criminale, davanti agli inquisitori, Giordano Bruno negò con veemenza ogni accusa. Tutto fu inutile: l’Inquisizione centrale di Roma chiese la sua estradizione che, nel febbraio 1593, fu accordata. Giordano Bruno fu condotto nella capitale dello Stato Vaticano e rinchiuso nelle carceri del Santo Uffizio, accusato formalmente di eresia e stregoneria. Il processo a suo carico si protrasse per sette anni: Bruno continuò a dichiararsi innocente, ma l’8 febbraio 1600, in ginocchio di fronte ai cardinali inquisitori, fu costretto ad ascoltare la sua condanna a morte. La sentenza fu eseguita il 17 febbraio: Giordano Bruno fu condotto in Campo de’ Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri furono gettate nel Tevere, ma sembra che la sua anima aleggi ancora nei luoghi dove fu tradito.
Si racconta infatti che ogni anno, nella notte in cui ricorre il suo martirio, il fantasma di un frate nero si aggiri nelle stanze del palazzo dove visse i suoi ultimi giorni di libertà. Accompagnano la manifestazione strani fenomeni legati all’acqua: guasti improvvisi al sistema idraulico, rubinetti che si aprono da soli, viti che si allentano, allagamenti di interi piani. Il fatto curioso è che il fantasma apparirebbe principalmente a donne. Forse perché Giordano Bruno fu arso vivo, sorte che toccava anche alle donne accusate di stregoneria dall’Inquisizione. Il fantasma del frate si manifesta a volte come un’ombra che cammina lenta lungo i corridoi e poi scompare, ma ci sono gondolieri che giurano di aver assistito dall’esterno ad apparizioni molto più terrificanti: una figura nera affacciata alla finestra con il volto incendiato dalle fiamme del rogo che lo uccise.
Un luogo miracoloso: calle di San Zorzi
A Venezia le correnti telluriche sotterranee si incontrano in certi punti energetici sui quali spesso sono stati costruiti edifici maledetti. Ma ci sono luoghi che, al contrario, possono essere considerati liberi da ogni maleficio e anzi miracolosi. Nel 1630, quando la peste si era ormai portata via più di cinquantamila veneziani, c’era un luogo in città che sembrava protetto e che veniva misteriosamente risparmiato dall’epidemia. Questo non accadde solo durante la pestilenza: perfino nel corso della prima guerra mondiale nessuna bomba sganciata su Venezia raggiunse calle di San Zorzi. In una lunetta posta all’ingresso di uno dei sotoporteghi di accesso alla calle, nel sestiere Castello, un’iscrizione ricorda che in precisi momenti storici, durante epidemie di peste, colera o la guerra, questa zona della città fu sempre risparmiata. Ma da cosa deriva questo potere miracoloso? Una leggenda veneziana narra che nel 1630, durante la peste, una donna di nome Giovanna aveva dipinto una tela in cui era raffigurata la Madonna con san Rocco, san Sebastiano e santa Giustina e aveva esortato i suoi vicini a pregare per l’intercessione divina. Tutti i disperati abitanti del quartiere seguirono l’incitamento di Giovanna e miracolosamente nessuno di loro venne contagiato dalla peste. La stessa cosa accadde a coloro che nei secoli successivi abitarono quella zona e che avevano ripetuto le preghiere: nessuna bomba distrusse le loro case. Finalmente la peste del 1630 cessò e gli abitanti di calle di San Zorzi, a ricordo degli eventi, decisero di appendere a due capitelli sui muri immagini votive della Vergine. Nel corso dei secoli, ogni volta che il miracolo si ripeteva, gli abitanti appendevano alle pareti esterne delle case ex voto o quadretti e ancora oggi molte persone si recano nella calle e pregano la “Vergine dei Capitelli”, affidandole la loro vita e quella dei familiari. Attualmente, restano solo i due capitelli: il dipinto realizzato da Giovanna una notte scomparve misteriosamente. Proprio la notte in cui, sul ciottolato della calle, di fronte al luogo in cui era esposto il dipinto, comparve una piccola pietra di marmo rosa corallo. Si racconta che su quella pietra si appoggiò la Vergine
nell’uscire dal quadro e innalzarsi verso il cielo. I veneziani, popolo superstizioso più di ogni altro, oggi temono e rispettano quella pietra e nessuno di loro, ando per calle di San Zorzi, si azzarda a calpestarla. Tutti sono molto attenti a non recare un’onta a quel piccolo quadrato rosa: si pensa che pestarla potrebbe provocare eventi nefasti, sciagure o rovesci economici.
Monache cretesi a Venezia: uno scandalo sociale
L’isola di San Servolo è associata da tutti i veneziani al manicomio che vi ebbe sede tra il 1715 e il 1978, anno della legge Basaglia, così chiamata dal medico veneziano che la elaborò, che portò alla chiusura indiscriminata di tutti gli ospedali psichiatrici. Quello che in pochi sanno però è che, nei decenni precedenti all’istituzione del manicomio, l’isola ospitò un gruppo di monache provenienti da Creta, che vissero in quel lembo di terra dimenticate dal resto della popolazione di Venezia. La loro stessa esistenza infatti comportava un disagio per la morale di molte famiglie che si erano sbarazzate di figlie e nipoti, rinchiudendole in conventi, solo per proteggere i propri interessi economici. Nel 1645, barconi pieni di monache accompagnate da serve e inservienti lasciavano la città cretese di Canea in direzione di Venezia. Scappavano dalla furia dell’esercito ottomano che aveva appena riconquistato Creta dopo aver battuto la flotta veneziana. Le monache di quelle imbarcazioni erano tutte di origine veneziana ed erano state costrette ad abbandonare la patria per obbedire a una pratica diffusa tra le aristocrazie europee del xvii secolo: la monacazione forzata. La cosiddetta “legge del Maggiorasco” stabiliva che, alla morte del padre, il patrimonio non si dovesse dividere tra tutti i figli, ma che dovesse are tutto al solo primogenito. Gli altri eredi avrebbero dovuto mantenersi con le proprie forze. Per i figli maschi le possibilità erano diverse: intraprendere una carriera militare o ecclesiastica. Le donne invece non avevano opportunità di scelta: per loro l’unica strada erano i voti. Il matrimonio infatti prevedeva una dote troppo alta e non tutti i padri erano disposti a volerla affrontare; la somma da versare al convento per la monacazione invece era molto inferiore. Nella sola città di Canea sorgevano diversi monasteri in cui vivevano nobili veneziane costrette a prendere i voti. La loro condizione era ben nota, tanto che un magistrato addetto ai conventi scrisse in un documento dell’epoca: «Quelle che vivono in monastero, come in un deposito, son in numero tale che, se fossero libere, sarebbe sovvertito l’ordine di tutta la città». Per questo, quando la città cretese cadde e tutte queste monache furono costrette a fuggire a Venezia, vennero collocate nell’isola di San Servolo, disabitata dal 1615. Il governo veneziano considerava il loro soggiorno pericoloso per l’ordine sociale, per cui
furono sistemate in un luogo lontano e fuori dalle relazioni interlagunari. Le fonti discordano sul numero delle monache sbarcate a San Servolo: secondo alcune erano duecento, per altre poco più di un centinaio. Ciò che colpisce di più, e in negativo, è l’imbarazzante distacco con cui queste donne vennero trattate dal governo veneziano e dalle loro stesse famiglie. Nei documenti erano infatti definite “monache greche”, nonostante quasi tutte provenissero dalle famiglie patrizie della città: alcune di loro erano state monacate ad appena due anni, quelle più fortunate a sei. Ma soprattutto è tremendo pensare che furono lasciate sole, diminuendo di numero fino ad estinguersi completamente nel 1716. Furono vittime dell’ipocrisia della società veneziana, la quale, pur sentendosi in obbligo di offrire loro asilo, le mantenne comunque sempre distanti ed estranee all’ambiente sociale della città in cui erano nate. Il monastero per loro era, citando un brano scritto di suo pugno da una monaca, un «luogo che i parenti presentano alle fanciulle come un paradiso terrestre e che a poco a poco si rivela loro un inferno, perché privo di speranze di uscire».
Elena Lucrezia Cornaro: la prima donna laureata della storia
Assassine e fantasmi, libertine e granduchesse, vittime degli uomini e fredde vendicatrici, furbe complici e amanti tradite: sono le donne di Venezia. Ma tra esse, una è ata alla storia per le sue capacità intellettuali e il coraggio dimostrato nello sfidare i pregiudizi e le imposizioni sociali. Si tratta di Elena Lucrezia Cornaro, la prima donna nella storia a laurearsi. Elena nacque nella città lagunare il 5 giugno 1646 in una delle più importanti famiglie veneziane. Molti dei suoi avi erano stati uomini d’intelletto: il nonno fu uno scienziato amico e collaboratore di Galileo, il padre era invece studioso di fisica e aveva creato in casa una grande biblioteca, arricchita da una vasta collezione di dipinti e strumenti scientifici. Proprio per il suo spiccato amore per la cultura, il padre, non appena intuì le grandi capacità della figlia, cercò di farle maturare e sviluppare, ma da subito si scontrò con i preconcetti dei maestri clericali che non accettavano che una donna potesse emergere nel campo degli studi e dell’apprendimento. Elena si dimostrò una “spugna”, in grado di assorbire le nozioni più complicate e ripetere le lezioni senza alcuno sforzo. Imparò greco e latino, scienze e filosofia, si dice che addirittura parlasse perfettamente lingue come l’ebraico e lo spagnolo. Ma per tutta la vita, Elena fu costretta a lottare contro l’indifferenza del mondo accademico, così rigidamente maschilista. Combatteva per il diritto delle donne, e in particolare per sua madre, una serva che per vent’anni era stata l’amante del padre, tenuta nell’ombra, ma che alla fine era riuscita a coronare il suo sogno d’amore, quando l’uomo si separò dalla prima moglie e la sposò. In pochi anni, Elena divenne nota in tutta la penisola per la sua elevata erudizione, e nel 1669 fu accolta nell’Accademia dei Ricoverati di Padova, in quella degli Infecondi di Roma, dopodiché nell’Accademia degli Intronati di Siena e degli Erranti di Brescia. Gli ultimi a riconoscerne i grandi meriti furono invece gli accademici della sua città natale, i Dodonei e i Pacifici. La sua fama oltreò anche i confini degli Stati italiani e nel 1670 il cardinale Federico d’Assia-Darmstadt la chiamò a corte per consultarla su alcuni problemi di geometria solida che nessuno dei suoi intellettuali era riuscito a risolvere. Molto scalpore, o per
meglio dire disagio, tra i grandi uomini di lettere italiani, suscitò poi la decisione di inserire la sua biografia tra quelle dei personaggi celebri della penisola contenute nel testo L’Italia regnante del 1675. A Venezia, Elena entrò in conflitto con alcuni intellettuali che, per tentare di metterla in ridicolo, la sfidarono a tenere una discussione in lingua greca e latina. Tema: filosofia. Elena entrò nell’aula magna nel silenzio generale. Centinaia di occhi la fissavano, sogghignando e pregustandosi la sua disfatta. Poi, come se nulla fosse, Elena iniziò a disputare di filosofia parlando un perfetto greco e ando poi al latino, con un’enorme disinvoltura che lasciò ammutoliti tutti i presenti. La ragazza uscì dall’aula a testa alta, promettendosi che nessun uomo l’avrebbe mai fatta arrossire. Fu dopo questo episodio che giunse il suo trionfo. Il padre infatti chiese ufficialmente che lo Studio di Padova assegnasse alla figlia la laurea in teologia. Il cardinale Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova e cancelliere dell’università, si oppose con tutte le sue forze, sostenendo che fosse «uno sproposito dottorare una donna», un’offesa a Dio e che questo avrebbe reso tutti i dottori in teologia d’Italia ridicoli agli occhi del mondo. Purtroppo l’autorizzazione del cancelliere dell’università era fondamentale per ottenere la laurea. Il padre però lottò strenuamente per difendere le capacità della figlia e con lui si alzò la voce di protesta di tutto il mondo accademico veneziano il quale, seppure inizialmente freddo e sospettoso nei confronti di una donna erudita, si era lasciato infine conquistare dal suo straordinario intelletto. Il cardinale e Cornaro riuscirono infine a trovare un accordo, un compromesso per cui Elena avrebbe ottenuto la laurea, ma in filosofia. Era il 25 giugno 1678 quando Elena Lucrezia Cornaro discusse la sua tesi di laurea su Aristotele e fu accolta nel Collegio dei medici e dei filosofi di Padova che la proclamarono per acclamazione magistra et doctrix in philosophia. Le furono consegnate le insegne del suo grado, esattamente le stesse degli uomini: il libro, simbolo della dottrina; l’anello, a indicare le nozze con la scienza; il manto di ermellino, come segno della dignità dottorale; la corona d’alloro, la corona del trionfo. Purtroppo però, poiché donna, non le fu mai concesso il privilegio di esercitare l’insegnamento. Elena era una donna minuta, con una carnagione pallida, capelli rossi e lentiggini che le coprivano le gote. Ma conquistò il mondo degli uomini con una forza inaspettata e con quella caparbietà che solo le donne sanno dimostrare. Il suo fu un grande o in direzione della parità dei sessi, una battaglia femminista ante litteram, che venne interrotta prematuramente dalla morte. Aveva solo trentotto
anni quando morì, il 26 luglio 1684. Delle sue opere non resta quasi nulla, se non il ricordo di una donna eccezionale che non volle mai accettare di essere considerata dagli uomini un essere inferiore.
L’anima nera di Antonio Vivaldi
Il “Prete rosso”, così veniva chiamato dai veneziani uno dei loro più illustri concittadini. Antonio Vivaldi nacque nel sestiere Castello il 4 marzo 1678, e da sempre fu costretto a combattere contro i pregiudizi popolari legati al colore dei suoi capelli. Come direbbe Verga: era cattivo perché era rosso, era rosso perché era cattivo. Non si può certo dire che la sua nascita fu accompagnata dalla buona stella, proprio in quel giorno infatti il Veneto fu scosso da un forte terremoto che sembrava presagio di sventura. Il bimbo nacque poi in gravi condizioni di salute che costrinsero i genitori a farlo battezzare subito in casa della levatrice per timore che potesse morire da un momento all’altro. Per fortuna, il piccolo Antonio sopravvisse e il 6 maggio fu battezzato ufficialmente nella chiesa di San Giovanni in Bragora. Ma il bambino sembrava nato per essere cattivo, così dicevano le vecchie popolane, e allora i genitori acconsentirono che gli venissero impartiti “esorcismi et olii”. In casa Vivaldi, l’esorcista di San Giovanni entrava e usciva molto spesso, cercando di salvare l’anima di una creaturina che ancora non sapeva nemmeno cosa fosse un’anima. Crescendo, Antonio dimostrò però effettivamente una propensione a una natura duplice: una buona e tranquilla, che assecondò facendosi prete, e una malvagia, che trasmetteva nella sua musica vigorosa e apionata. Vivaldi stesso era consapevole della doppiezza della sua anima e viveva in continua ricerca di un equilibrio che però non riusciva a trovare. Lui stesso scrisse una lettera disperata all’amico marchese Guido Bentivoglio di Ferrara, datata 16 novembre 1737 in cui si sfogava per l’incapacità di dominare i suoi impulsi più perversi: «Sono venticinque anni ch’io non dico messa, né mai più la dirò, non per divieto o comando, ma per mia elezione, e ciò stante un male che patisco a nativitate pel il quale sto oppresso». Si racconta infatti che nei primi mesi di vita il diavolo abbia tentato di mettere le mani sul piccolo Antonio, del quale conosceva il grande futuro, proprio per utilizzare la sua musica per scopi malvagi: propagare cioè la lascivia e la sfrenatezza dei costumi. Per fortuna però il battesimo, gli esorcismi e gli olii sacri sortirono qualche effetto e le influenze del diavolo su Vivaldi furono attutite. La sua volontà era buona e nonostante lo spirito nascondesse ombre maligne
sempre pronte a sopraffarlo, Vivaldi compose oltre quattrocento opere musicali, sublimi e potenti. Di fronte a tale grandezza morale, il diavolo, che per tutta la vita del compositore tentò di impadronirsi della sua anima, infine riuscì a maledirlo: gli impedì di scrivere l’opera più grande, quella che Vivaldi portava chiusa nel cuore e che avrebbe strabiliato il mondo se fosse riuscita a uscirne. Vivaldi ammise più volte di aver dentro la mente una musica, ma di non riuscire a trascriverla. Un paradosso se si pensa alla quantità di pagine che scrisse in tutta la sua vita. Forse si trattò davvero di una maledizione che Vivaldi visse fino alla fine dei suoi giorni con tormento. Ancora oggi, lungo i rii del suo sestiere, c’è chi giura di sentire provenire dalle acque le note di una sinfonia celestiale. Forse è lo spirito di Vivaldi che, sospeso sui flutti, si consola scrivendo su uno spartito fatto di onde.
I fantasmi della basilica della Salute
La basilica della Salute fu edificata su un cimitero, dove erano stati sepolti i veneziani morti di peste. E gli spiriti dei morti, forse per evitare la costruzione della chiesa, quasi si trattasse di una profanazione del luogo in cui riposavano, sono i protagonisti di una vera e propria storia dell’orrore. Durante i lavori per la costruzione della basilica gli operai furono le vittime inconsapevoli della furia degli spiriti che si manifestavano nei modi più diversi: bambini che si avvicinavano per giocare e poi svanivano nel nulla, urla e boati notturni, cani neri che ringhiavano e poi scomparivano, suoni metallici come di catene, porte che sbattevano, colpi sordi che provenivano dal sottosuolo... Alcuni operai addirittura scapparono dal cantiere dopo aver sentito mani invisibili che li tiravano e tentavano di farli cadere dalle impalcature. Poi improvvisamente i rumori e le apparizioni terminarono. Sembrava che finalmente il cantiere fosse tornato alla normalità e i lavori ripresero a pieno ritmo. Ma quattro giorni dopo gli operai cominciarono a sentire uno strano ronzio che divenne sempre più forte col are del tempo. E poi il ronzio si mutò in voce, anzi in due voci ben distinte, di uomo e di donna. A questo punto intervenne il doge, il quale inviò dei soldati per ispezionare il cantiere. I militari entrarono nella chiesa in costruzione e dopo qualche minuto uno di loro prese coraggio e chiese: «C’è qualcuno?». Gli rispose una voce maschile: «Sono uno spirito venuto dal cielo, dall’inferno, dalla terra». Il soldato allora controbatté: «Cosa vuoi?». Per qualche istante la chiesa rimase in silenzio, poi si alzò un urlo terrificante e dalle mura e dal pavimento cominciò a sgorgare sangue a fiotti che si raggrumò, formando alcune parole: pace, luce, aiuto. Poi tutto si quietò e in chiesa ripiombò il silenzio. I soldati lanciarono a terra le armi e cominciarono a scavare: trovarono le centinaia di corpi degli appestati che erano stati frettolosamente sepolti nel vecchio cimitero. Insieme agli operai, raccolsero allora i poveri resti e li ricollocarono al centro della basilica, in teche o casse. I lavori ripresero per avviarsi finalmente alla conclusione: il 9 novembre 1687 la
chiesa poté essere consacrata e le anime degli appestati riposare in pace.
La maledizione dei pescatori
Tutti i giorni e tutte le notti dell’anno i coraggiosi pescatori veneziani solcano le acque della laguna per sfamare le loro famiglie o per vendere il pescato al mercato. Sempre, tranne una notte, festeggiata in tutto il mondo, ma che a Venezia incute terrore. In tutta la città infatti non si troverà alcun pescatore disposto a uscire in mare dopo il tramonto del 31 ottobre. Anzi, tutte le case sulla riva del mare rimangono ben chiuse alla vigilia di Ognissanti, per evitare che avvenga qualcosa di terribile. Una leggenda veneziana narra che durante la notte tra il 31 ottobre e il primo novembre, le nere acque della laguna diventano territorio di mostri, streghe, spiriti e fantasmi: ombre misteriose, rumori strani, urla e sinistri sussurri popolano le calli e i rii. Qualcuno afferma di aver visto nell’oscurità luci in processione a pelo d’acqua, forse per guidare gli spiriti dei morti verso il paradiso. La maledizione dei pescatori ha origini molto antiche, e nel 1700 fece due vittime: due giovani pescatori veneziani non abbastanza superstiziosi da credere alle storie che si tramandavano i loro padri. Era la notte di Ognissanti e la laguna era coperta da una fitta coltre di nebbia che appesantiva l’aria e impediva di vedere al di là del proprio naso. I due pescatori, che erano anche fratelli, non avevano mai creduto alle storie di fantasmi, forse perché la fame patita fin da piccoli faceva paura più di mostri e demoni invisibili. Così decisero di uscire in laguna per calare i cogoi, le reti tipiche dei pescatori veneziani. Presero la barca, sfidando l’oscurità e i racconti dell’orrore, e si diressero in mare aperto, dove gettarono le reti e le fissarono con casse di legno e ancore. Fatto questo, tornarono a riva e, dato che aveva cominciato a piovere, si ripararono sotto la tettoia della casupola di un pescatore amico e si accesero le pipe che portavano sempre con loro. La pioggia cadeva incessante e lentamente squarciò il muro di nebbia che impediva di vedere il mare. Attesero che la pioggia finisse e intanto parlavano tra loro, ottimisti del fatto che il temporale avrebbe fatto muovere i branchi di pesce che sarebbero finiti dritti dritti nelle loro reti. Al termine del temporale, spensero le pipe e saltarono soddisfatti sulla barca per andare a controllare il frutto della pesca. Ma quando arrivarono in alto mare, si accorsero con meraviglia e delusione che i cogoi erano completamente
vuoti. Decisero allora di lasciarli posati ancora qualche ora e di tornare alla casupola ad aspettare. Raggiunsero il riparo e improvvisamente furono sorpresi da un nuovo scroscio di pioggia accompagnato da fulmini e tuoni. Anche se nessuno dei due voleva ammetterlo, entrambi stavano cominciando a sospettare che qualcosa volesse impedir loro di pescare. arono altre ore e i due giovani si addormentarono. Vennero svegliati da un tuono così forte da far tremare tutte le assi del pavimento. Si alzarono e si rivestirono per tornare in mare. Era notte inoltrata e intorno a loro non si sentivano voci o rumori. Arrivarono dove avevano gettato le reti, le tirarono in barca e di nuovo scoprirono che nessun pesce o crostaceo vi si era impigliato. Uno dei due allora ruppe il silenzio e ammise che forse era stato un errore essere usciti a pescare nella notte maledetta... Ma il fratello lo interruppe prendendolo in giro: quelle erano solo storielle per bambini paurosi, non per uomini coraggiosi come loro! Detto questo, i fratelli decisero di fare un ultimo tentativo e aspettare l’alba, fermandosi a dormire nella casupola. Un paio d’ore dopo, uno dei due fu svegliato da un leggero bagliore che si intravedeva dalla porta del casotto. La luce diventava sempre più intensa tanto da illuminare a giorno l’ingresso della costruzione. Il giovane sorpreso svegliò il fratello con un colpo alla spalla. Il ragazzo trasalì nel vedere quello strano chiarore e si alzò di scatto, poi indietreggiò qualche o quando di là della porta si udirono rumori che sembravano provenire dall’oltretomba. Il fratello prese coraggio e aprì la porta che si spalancò con violenza, mentre per qualche secondo un chiarore intenso li avvolse. Poi davanti a loro apparve un’ombra enorme, una sagoma nera che aveva due grandi fuochi al posto degli occhi. La leggenda narra che i due fratelli tentarono la fuga, ma inutilmente: il giorno dopo il pescatore proprietario del casotto li trovò morti, rigidi come due statue di marmo. Avevano la bocca spalancata per chiedere aiuto e gli occhi sbarrati e terrorizzati. A Venezia, quando si racconta la loro storia, si dice che quella è stata la tremenda punizione per essere usciti a pescare la notte di Ognissanti e aver così peccato di empietà.
I leoni di Venezia
Il leone è il simbolo di Venezia, almeno fin da quando san Marco divenne il patrono della città, ed è presente ovunque. Ma il leone ha una simbologia molto antica, che risale addirittura agli Assiro-Babilonesi, per i quali rappresentava la forza del bene contro le energie malefiche. Anche a Venezia il leone, in molte sculture, ricopre questa funzione apotropaica: il leone più famoso, quello che si trova sulla colonna di San Marco, nell’omonima piazza, ricorda quello assiro ed era posto all’ingresso della città dal mare per incutere timore a chi tentasse di assalire Venezia. Per un certo periodo della sua storia, nella Repubblica, che commerciava quotidianamente con mercanti orientali, si diffuse tra i nobili la moda di tenere in casa, come animali domestici, dei leoni vivi. Le cronache cittadine tramandano che il 12 settembre 1316 una leonessa, ricoverata in una gabbia nel cortile di Palazzo Ducale, partorì due cuccioli, e questo fatto portò gioia ai veneziani che interpretarono la duplice nascita come un presagio di fortuna per le sorti della Repubblica. Il leone è un’immagine che ricorre in molti luoghi della città, soprattutto sotto forma scultorea, in pose e atteggiamenti molto significativi. Il leone che prima svettava sul campanile di San Aponal e ora è conservato a Palazzo Ducale, ad esempio, è rappresentato nell’atto di sorgere dalle acque per indicare la supremazia della Serenissima sul mare. L’effige del leone alato che regge con la zampa il libro con la scritta PAX TIBI MARCE, EVANGELISTA MEUS posto su Palazzo Ducale o sulla Torre dell’orologio invece indicava che la città era devota al santo e che a lui si affidava per essere protetta dalle forze del male. Il leone alato, tra l’altro, è un simbolo esoterico-alchemico, poiché un animale terrestre, ma munito di ali, richiamava l’unione tra gli elementi. Molto diffuse sono poi le raffigurazioni dei leoni che lottano e sconfiggono serpenti e draghi: Venezia avrebbe sempre lottato per la libertà e contro chi avesse tentato di sottrargliela. Una leggenda molto particolare è legata invece a uno dei quattro possenti leoni posti a guardia del portale dell’Arsenale di Venezia. I due leoni più grandi
conservano ancora intatte alcune iscrizioni runiche e provengono da Atene, mentre, degli altri due più piccoli, uno fu portato da Delos, come bottino di guerra della battaglia di Corfù del 1718. Proprio attorno a questo leone sopravvive una strana storia. Nel novembre del 1719 davanti all’Arsenale furono ritrovati i corpi dilaniati di due marinai, uno greco e l’altro maltese: sembrava che fossero stati sbranati da una fiera. Tra i veneziani si cominciò a insinuare allora la paura e in molti pensarono addirittura che la statua del leone appena giunta fosse maledetta. Dopo una settimana, periodo in cui i soldati della Marina controllarono a tappeto la zona, fu ritrovato un terzo corpo a brandelli. Si trattava di Jacopo Zanchi, un noto fannullone sposato con una prostituta. Il giorno dopo, il capitano della Marina Enrico Giustiniani, uscito di ronda, assistette a una lite tra la moglie di Zanchi e un usuraio, tal Foscaro: il motivo della lite erano dei soldi che il marito della prostituta doveva a Foscaro e che la donna non voleva restituire. La discussione fu sedata dallo stesso Giustiniani non prima che Foscaro lanciasse una maledizione alla vedova. Qualche notte più tardi scoppiò una fortissima tempesta. Giustiniani si trovava ancora di guardia davanti ai leoni dell’Arsenale. Improvvisamente vide un uomo vestito di nero avvicinarsi: era il vecchio usuraio. Giustiniani si nascose e vide il vecchio sfiorare con le dita l’iscrizione runica posta sul dorso di uno dei leoni e contemporaneamente recitarne il testo. In quello stesso momento un fulmine colpì il leone che, davanti agli occhi increduli di Giustiniani, prese vita. Foscaro aveva dato appuntamento alla vedova di Zanchi, che si era presentata insieme a un’amica. Appena il leone vide le donne, tentò di assalire la Zanchi che però ebbe la prontezza di spostarsi. La fiera così azzannò la donna che l’accompagnava e l’uccise. Giustiniani intervenne e con un colpo di spada trafisse Foscaro e decapitò il leone. Del vecchio non rimase che un cuore di pietra, mentre la testa del leone esplose in aria. Il giorno dopo Enrico Giustiniani scoprì che Foscaro in realtà era uno stregone, molto temuto dalla gente del luogo, che voleva vendicarsi della donna. La sventurata Zanchi invece impazzì per lo spavento e fu rinchiusa in manicomio, dove morì qualche giorno più tardi.
Giacomo Casanova e la leggendaria fuga dai Piombi
Tra i personaggi più enigmatici nella storia veneziana spicca sicuramente Giacomo Casanova. Mago? Scrittore? Amante incallito? Imbroglione? Forse tutto questo. Ma anche e soprattutto un temerario che votò la sua esistenza al piacere e alla ricerca dell’assoluta libertà dagli schemi imposti e dall’oscurantismo ecclesiale. Casanova nacque a Venezia il 2 aprile 1725 da un’attrice che non gli disse mai chi fosse il suo vero padre, e fu sepolto nella stessa città all’interno della chiesa di San Barnaba, ma della tomba sono state perse le tracce. I suoi legami con il mistero cominciano all’età di otto anni, quando, colpito da un male misterioso, la zia lo portò da una strega che lo guarì. Da quel momento Casanova iniziò a interessarsi alle arti magiche, ai misteri e all’esoterismo. Si dice che fosse un affiliato di primo piano della loggia massonica veneziana. Queste sue ioni però, insieme alla fama di seduttore e sciupafemmine, lo portarono a essere inviso alle autorità civili ed ecclesiali, tanto da causarne l’arresto per eresia e la carcerazione all’interno dei temibili Piombi, le carceri della Serenissima. La fuga di Casanova dal carcere più inviolabile e inespugnabile dell’epoca è diventata leggendaria, un’autocelebrazione della propria scaltrezza e dell’ingegno. È lui stesso infatti che la descrive nei minimi dettagli nella Storia della mia fuga dai Piombi, testo autobiografico scritto nel 1787. Perché Casanova fu il più prolifico scrittore del tempo, preso com’era dal desiderio di far conoscere a tutti chi fosse davvero. Giacomo del resto era, intimamente, un uomo scontento e insoddisfatto, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo: seduceva donne e le abbandonava senza soluzione di continuità, correva mille rischi durante le sue avventure, sempre sul filo del rasoio, e si sentiva vivo solo se poteva ingannare e imbrogliare i nobili che avevano la sventura di incappare in lui. Nel luglio del 1755, quando venne arrestato, Casanova aveva trent’anni, era bello, aitante e di grande cultura. Ma soprattutto era ateo, massone e anticonformista e fu per questo che venne accusato di eresia e rinchiuso nei Piombi, all’interno di una piccola cella foderata di legno che si trovava nel sottotetto di Palazzo Ducale. Per paura che il rivestimento in legno prendesse
fuoco, non si potevano appendere lampade e per questo il carcerato era costretto a vivere nell’oscurità, una volta che la fioca luce che proveniva dall’esterno scemava. Ma Giacomo non cadde in depressione, si fece portare dei libri e ava tutto il giorno a leggere. Fin dai primi istanti di prigionia però, Casanova cominciò a pensare alla fuga. Nelle sue memorie scrisse a riguardo: «il colpevole [...] ha l’obbligo di tentare ogni via per riguadagnare la libertà». Ed è quello che fece. Grazie a favori fatti ai secondini, Casanova riuscì a procurarsi un ferro acuminato con il quale praticò un buco nel pavimento di legno. L’idea era quella di calarsi nella sala inferiore e scappare. Ma la sorte non era dalla sua parte: proprio quando il lavoro notturno era arrivato quasi a conclusione, fu spostato in un’altra cella e dovette ricominciare a elaborare il piano d’azione. Nella nuova cella, Casanova entrò in contatto con un altro detenuto, padre Balbi, accusato di aver ingravidato tre donne. Insieme a Balbi, Casanova mise in atto un nuovo piano d’evasione che prevedeva la fuga attraverso i tetti. Con lo stesso ferro, Casanova ricavò un’apertura nel soffitto abbastanza ampia per are. Lo stesso fece Balbi. Era la notte del 31 ottobre 1756. I due detenuti lasciarono le loro celle e si ritrovarono in un sottotetto che fungeva da archivio. L’unica via d’accesso era un portone di ferro. Ma era chiuso. Per questo Casanova, da buon figlio di attrice, si sporse dalla finestra, richiamò l’attenzione di un guardiano e finse di essere un magistrato rimasto chiuso inavvertitamente nell’archivio. La guardia salì e gli aprì la porta, dando a lui e al compagno di prigionia la libertà. Una volta usciti dal Palazzo Ducale i due salirono su una gondola e sparirono nell’oscurità. Dopo la fuga, Casanova girovagò per le corti di tutta Europa, continuando a lasciare donne innamorate, a imbrogliare ricchi mariti e ad affinare le sue doti magiche e le conoscenze esoteriche. Ma chi fu veramente Giacomo Casanova? Un seduttore o un imbroglione? Tutto quello che c’è da sapere sulla sua vita ci viene detto direttamente dall’interessato nelle sue Memorie. Casanova fu un uomo che non si risparmiò, visse sempre al limite delle possibilità umane, e per quanto ne sappiamo riuscì sempre a cavarsela. Poi un giorno lasciò per sempre Venezia. Era il gennaio 1783. Soggiornò prima a Vienna e poi accettò un onesto e semplice lavoro di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Qui trascorse gli ultimi giorni di vita, tristi, anonimi, addirittura sbeffeggiato dalla servitù, come un rottame di un’epoca che stava finendo con lui. Si dice che morì il 4 giugno 1798. Ma si racconta anche che anni prima incontrò il conte di Cagliostro, e che da lui ottenne la formula per l’elisir di lunga vita.
Ma questa è un’altra storia.
Fenomeni poltergeist a palazzo del Cammello
Che palazzo Mastelli, in campo dei Mori, sia un luogo che sprigiona un’energia particolare è testimoniato anche da alcuni eventi molto strani avvenuti nel 1757 e che oggi sarebbero definiti “manifestazioni poltergeist”. Il termine poltergeist significa letteralmente “spirito rumoroso” e fu proprio questo aspetto a terrorizzare gli abitanti dell’edificio nel xviii secolo. Le cronache cittadine narrano episodi terrificanti che accadevano all’interno delle antiche mura del palazzo. Per circa due mesi, sempre alla stessa ora, tutti i cinque camli delle stanze cominciavano a risuonare simultaneamente e in modo fragoroso, poi, improvvisamente, tornavano a tacere. Lungo le scale inoltre si udivano i e voci, a tutte le ore del giorno, anche quando palazzo Mastelli era semivuoto; strane immagini si materializzavano poi all’interno degli specchi, come se questi fossero varchi verso altre dimensioni; finestre e porte infine si aprivano e sbattevano da sole, senza che corresse un solo spiffero di vento a giustificarne il brusco movimento. Col are delle settimane, questi fenomeni si intensificarono e diventarono sempre più spaventosi e macabri: una serva addirittura scappò terrorizzata dal palazzo quando, aprendo una porta, fu investita da un’onda di liquido rosso che sembrava sangue. L’edificio restò per diverso tempo disabitato e anzi in tutta la città si diffuse la voce che era maledetto... Nel giugno del 1757, i nuovi proprietari, davanti a una situazione ormai insostenibile, decisero di ricorrere all’aiuto di un noto esorcista, il cappellano di San Fantin, per scacciare gli spiriti che non davano loro pace. Il cappellano giunse una sera piovosa, armato di crocefisso e testi sacri. La sua sola apparizione diede i brividi alla moglie del proprietario di palazzo Mastelli che preferì non partecipare al rito, ma si chiuse nelle sue stanze e aspettò gli esiti. Il cappellano entrò in casa e cominciò a recitare sottovoce formule in latino. Subito, lungo i saloni del palazzo si udirono rumori strani, voci e risate. Poi il prete si fermò al centro del salone e vibrando in aria il crocefisso iniziò il vero e proprio esorcismo. Si racconta che tutti i mobili della casa cominciarono a muoversi, alcune sedie caddero a terra, le finestre si aprirono sbattendo e un forte vento inondò la sala. Poi tutto tacque. Il cappellano allora benedisse la casa
con l’acqua santa e chiese a Dio pace per quegli spiriti. Dopodiché salutò il padrone e se ne andò. Da quel momento non si verificò più alcun fenomeno paranormale. Ma chi potevano essere gli spiriti che infestavano palazzo Mastelli? In molti a Venezia ne associavano la presenza al bassorilievo della facciata esterna che raffigura un cammello e il suo conducente. Si dice che un ricco mercante orientale avesse comprato la casa. Viveva solo e il suo volto era sempre cupo. Era dovuto partire per Venezia abbandonando la patria per questioni economiche, lasciando dietro le spalle l’amore infelice per una donna che non aveva accettato di seguirlo e aveva rifiutato la sua proposta di matrimonio. Giunto a Venezia, il mercante aveva allora fatto scolpire l’immagine dell’uomo col cammello con le sue sembianze e l’aveva fatta collocare nella facciata, affinché la donna amata, se un giorno avesse cambiato idea, avrebbe potuto subito capire dove lui vivesse. Dopo pochi anni, l’uomo morì, solo e disilluso: forse i fenomeni poltergeist erano la manifestazione del suo dolore, il suo modo per far capire di esserci ancora, nella speranza di poter coronare, prima o poi, il sogno d’amore.
Gli incontri segreti tra Casanova e Cagliostro
Era il 1769, quando Giacomo Casanova, colui che era riuscito a sfuggire dal carcere di massima sicurezza dei Piombi veneziani, incontrò per la prima volta ad Aix-en-Provence il conte di Cagliostro e sua moglie Lorenza. La coppia stava rientrando da un faticoso pellegrinaggio a Santiago di Compostela, dove erano giunti viaggiando sempre a piedi. I coniugi si presentarono con il cognome di Balsamo e raccontarono a Casanova che si erano fermati in Provenza per rifocillarsi e che avrebbero poi continuato il loro cammino fino a Torino. Ma chi erano davvero Cagliostro e Lorenza? Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, è ato alla storia come un avventuriero, un esoterista, un alchimista, un imbroglione. Frequentò tutte le corti europee, cercò di guadagnare potere e soldi sfruttando la credulità dei nobili, e fu invischiato anche nello scandalo della collana che segnò l’inizio del declino di Maria Antonietta. Cagliostro nacque a Palermo il 2 giugno 1743. Ma poi le sue tracce si persero, appariva e riappariva in vari punti dell’Europa, arrivando anche a San Pietroburgo. Si sa invece con certezza che conobbe Lorenza Serafina Feliciani a Roma e che qui la sposò il 21 aprile 1768. Da quel momento i due continuarono a viaggiare, spacciandosi per nobili e truffando inesorabilmente tutti coloro che avevano la sventura di incappare nella coppia. Il 12 aprile 1777, Cagliostro e la moglie si iniziarono alla massoneria. Da questo momento la lunga lista di epiteti con i quali Balsamo era noto si allungò ancor più: Cagliostro era ora circondato da un alone di mistero, veniva considerato un mago, un alchimista e un guaritore. Cagliostro spaccerà come sua invenzione il “Rito Egizio”, una specie di ordine massonico-religioso che dirà di aver fondato nel 1784. L’incontro con Cagliostro e Lorenza segnerà in modo indelebile Casanova. E la descrizione che ci ha lasciato della coppia è rimasta leggendaria. Nel capitolo cxxx della Storia della mia vita, Casanova racconta:
Dovevano essere persone di alto rango perché arrivando in città avevano
distribuito abbondanti elemosine. [...] Ella era singolarmente interessante per la giovane età che dimostrava, per la rara bellezza velata da una espressione di strana malinconia [...] [Il pellegrino] dimostrava ventiquattro o venticinque anni. Era basso, ma ben fatto: sulla faccia, quasi spettrale, aveva i tratti dell’arditezza, della sfrontatezza, del sarcasmo e della bricconeria. [...] La pellegrina, quantunque non ce ne fosse bisogno perché la sua bella parlata lo rivelava a sufficienza, mi disse che era romana. Il suo compagno mi parve napoletano o siciliano. [...] Egli mi faceva l’impressione di uno di quegli uomini di talento poltroni che preferiscono il vagabondaggio alla vita laboriosa.
Nonostante i dubbi, Casanova rimase piacevolmente colpito dalla coppia di sposi con la quale instaurò un rapporto di amicizia che li portò a mantenersi in contatto e a incontrarsi in altre occasioni. Nel giugno del 1778, Cagliostro e Lorenza giunsero a Venezia e Casanova li accolse come si conviene a illustri personalità. In effetti, Cagliostro aveva già abbracciato la massoneria e si spacciava come Gran Maestro del Rito Egizio. La sua fama lo precedeva e i veneziani erano ardenti di curiosità nei confronti dell’uomo che più di ogni altro era riuscito a conciliare medicina e princìpi alchemici, cabala e antichi cerimoniali egiziani. Lo stesso Cagliostro aveva fomentato l’alone di mistero che lo circondava facendo abilmente credere di provenire da Paesi lontani e narrando di viaggi avventurosi dall’Aia a Berlino, dalla Curlandia, una terra desolata confinante con la Bielorussia, alla Siberia. Casanova, ammaliato dalla moglie di Cagliostro, con la quale si racconta avesse avuto una relazione, tra l’altro non osteggiata dal marito, si offrì di fare da Cicerone ai due amici. I tre condividevano in fondo un modus vivendi considerato negativo: erano accusati di libertinaggio, di praticare arti magiche e di essere legati alla massoneria e ai Rosacroce. Durante il tour di Venezia, l’amicizia tra Casanova e Cagliostro si era solidificata. In più occasioni, Cagliostro aveva espresso pareri eretici e contrari ai princìpi religiosi; ma Casanova, in cui era ancora vivido il ricordo dei Piombi, tentò di metter in guardia il suo ospite dal pericolo dell’Inquisizione. Gli consigliò di non divulgare certe teorie e di non recarsi mai a Roma. Cagliostro non diede peso ai suoi consigli e fu così che venne accusato di eresia, di praticare magia nera, di condurre una vita contraria alla dottrina cristiana e fu arrestato. Il 13 aprile 1791 fu rinchiuso in una cella nella fortezza di San Leo, nei pressi di Rimini, dove rimarrà recluso fino alla morte, avvenuta alle dieci e mezza di sera del 26 agosto 1795.
Casanova perdeva così un amico e un maestro. Da alcuni anni si era ritirato a vita modesta, svolgendo la carica di bibliotecario in Boemia e morì solo e depresso tre anni dopo Cagliostro, nel 1798. Almeno così si racconta. Il corpo di Casanova fu portato a Venezia e sepolto in una tomba nella chiesa di San Barnaba. Ma non ci sono prove o atti che confermino questa notizia. Soprattutto perché la tomba di Casanova non fu mai ritrovata. Una leggenda vuole che Cagliostro, negli ultimi anni di vita, stesse lavorando a una pozione alchemica, un elisir di lunga vita. Si dice che, come ultimo atto di amicizia, l’abbia donata a Casanova. Forse Casanova abbandonò Venezia dopo aver bevuto la pozione, per evitare sguardi indiscreti e che cominciassero a circolare strane voci. Forse aveva il terrore di perdere il suo fascino. Forse non voleva cedere al are del tempo. Forse, vive ancora. Magari a Venezia. Un uomo di trecento anni che ne dimostra quaranta. Forse è solo una storia, ma è una bella storia.
L’isolamento di Venezia
Una distesa d’acqua costantemente in balia delle maree che spesso nascondono insidiose secche; un gruppo di isole piccole e inospitali; nessun collegamento con la terraferma oltre la via acquea. I lunghi ponti che collegano Venezia, Chioggia o Jesolo alla terraferma sono stati costruiti solo recentemente: il grande ponte lagunare infatti è un’opera voluta dal Duce e realizzata nel 1933. Che cosa ha spinto i veneziani a scegliere, per secoli, l’isolamento? Per capirlo, bisogna cercare di entrare nella strana psicologia di un popolo abituato a soddisfare i propri bisogni senza rivolgersi all’esterno. I veneziani sono sempre stati grandi marinai, esperti commercianti e navigatori provetti, gelosi della propria intimità e aperti all’esterno solo quando si poteva ricavare un beneficio economico. Per il resto, si sono sempre mantenuti ai margini della storia, almeno fino a quando la storia non ha cercato di intaccare l’autonomia della Serenissima. Perché Venezia si è sempre dibattuta tra l’ardore per l’espansione territoriale, da interpretare in senso mercantile, e il desiderio di non permettere agli stranieri di entrare in casa propria. Inizialmente, questa “politica continentale” veneziana era protesa verso un interessato equilibrio con le ambizioni dei diversi comuni e delle signorie del Centro e del Nord Italia. La Serenissima aveva acquistato, attraverso diplomazia e guerra, il dominio di quei pochi territori dell’entroterra veneto necessari ai traffici e utili per l’incremento delle proprie entrate. I suoi interessi dunque riguardavano soprattutto un ampliamento degli orizzonti marittimi e quindi commerciali. Grazie a capaci comandanti militari e abili diplomatici, la Serenissima divenne una delle più grandi potenze europee. Ma quando Spagna e Portogallo e le scoperte geografiche nel Nuovo Mondo spostarono il baricentro economico europeo, Venezia entrò in crisi. E le potenze che fino ad allora erano state tenute lontane ne approfittarono. Fu così che Venezia divenne suddita. Era il 12 maggio 1797 quando la città si arrese a Napoleone Bonaparte. Dopo 1070 anni di libertà e indipendenza, la Serenissima perse il diritto di scegliere per se stessa. Il controllo se durò solo pochi mesi. Con il trattato di Campoformio, i territori veneti arono all’Austria e il 9 giugno 1815 furono annessi infine al Regno Lombardo-Veneto, dipendente da Vienna. La
sfrontatezza di Venezia non poteva però essere imbrigliata. C’è chi ha definito Venezia il “leone d’Italia”. E i suoi abitanti ne portano la fierezza e la consapevolezza. Per questo nei loro cuori hanno sempre riposto il sogno di essere liberi e indipendenti. Le ribellioni cominciarono da subito, ma erano fenomeni isolati. Solo nel 1848 assunsero una portata più importante e pericolosa e si tradussero nella richiesta violenta dei veneziani di liberare due protagonisti della ribellione: Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. In particolare, riguardo a Manin, si raccontano leggende che ne esaltano il sacrificio e l’amor patrio. Manin diventò il simbolo e il motore della lotta per l’indipendenza e la cacciata dello straniero. Il Piemonte di Carlo Alberto di Savoia aveva approfittato delle agitazioni di milanesi e veneziani ed era intervenuto nella loro lotta agli austriaci per imporre il predominio di Torino sull’Italia settentrionale. Ma la sua campagna militare non ebbe successo: uno dopo l’altro, Carlo Alberto perse tutti i territori che era riuscito ad annettere allo Stato Sabaudo. Addirittura rischiò di perdere lo stesso Piemonte. Fu per questo che abdicò, lasciando il resto dell’Italia al suo triste destino. Venezia non cedette e lottò contro l’occupazione austriaca per quasi diciotto mesi. Finalmente, il 22 marzo 1848, dopo cinquant’anni di “schiavitù”, sul campanile di San Marco tornarono a sventolare le bandiere e gli stendardi della Serenissima. Il popolo in festa assalì le prigioni e liberò i patrioti arrestati. Tra loro si trovava Manin, considerato dagli austriaci una “testa calda”, arrestato perché aveva combattuto per la libertà di stampa e per altri diritti negati. Quello stesso 22 marzo, il popolo proclamò la Nuova Repubblica Veneta di San Marco e Daniele Manin ne fu eletto presidente. La gioia dei veneziani però durò poco. Gli austriaci avevano iniziato una massiccia operazione militare di riconquista dei territori persi. Udine, Padova, Belluno e Vicenza capitolarono una dopo l’altra, e gli austriaci cominciarono ad avvicinarsi a Venezia. Manin divenne così per i veneziani “l’uomo del destino”, e tutti si strinsero attorno a lui. Si racconta che la notte prima dell’inizio dell’assedio austriaco, Manin convocò un’assemblea cui parteciparono i rappresentanti del popolo veneziano. Le ore avano, ma nella sala regnava un silenzio di attesa. In lontananza già si udivano gli spari dei cannoni. Improvvisamente Manin si alzò in piedi e con voce commossa, ma sonante, gridò: «Volete resistere al nemico?». Gli uomini risposero: «Vogliamo resistere!». «Ad ogni costo?», proseguì Manin. «Ad ogni costo!».
Per oltre un anno, Venezia resistette all’assedio asburgico. Tra sconfitte e vittorie, l’esercito veneziano era riuscito ad arginare l’avanzata degli austriaci, ma ora la battaglia era giunta alle porte della città. Le prime cannonate contro Venezia sferzarono l’aria frizzante del Lunedì Santo, il 2 aprile 1849. I mesi arono e presto, bloccati dagli austriaci tutti i ponti e le vie di comunicazione, i veneziani si ritrovarono prigionieri in casa propria. Lo stesso Manin capì che la resa era l’unica via di salvezza. La nuova Repubblica era durata poco più di un anno ma, dopo cinque mesi di duro assedio, terminavano le speranze e i sogni di libertà. Era il 31 agosto 1849.
Viva Venezia! Feroce, altiera difese intrepida la sua bandiera: ma il morbo infuria il pan le manca... sul ponte sventola bandiera bianca![11]
La Madonna nera di Murano
L’isola di Murano è nota in tutto il mondo per i laboratori dei maestri vetrai che danno vita a oggetti preziosi e di ogni tipo. In pochi però conoscono la leggenda della Madonna nera venuta dalle acque. In un’edicola quasi nascosta all’interno di un sotoportego, fino a qualche anno fa si poteva ammirare e pregare davanti a una statua della Vergine poi sparita misteriosamente. La storia narra che, un mattino del maggio 1810, alcuni bambini muranesi stavano giocando sulle rive delle fondamenta Daniele Manin quando scoprirono nella sabbia una piccola statua di legno che raffigurava la Madonna con il bambino. I ragazzini la raccolsero curiosi e la portarono al prete di Murano, il quale, studiandola accuratamente, notò un’incisione alla base che recava la data del 1612. Decise quindi di riporre la statuetta in un’urna e di chiudere quest’ultima con un grosso lucchetto. Dal momento che il legno in cui era stata intagliata la figura era molto scuro, il prete la ribattezzò “Madonna nera”. Il mattino successivo, all’alba, il prete entrò in chiesa e con grande stupore vide che l’urna era stata manomessa, il lucchetto aperto e la statua era sparita. Il sacerdote allora uscì di corsa dalla chiesa per dare l’allarme, ma vide, a pochi metri da lui, un gruppo di persone ferme sulle fondamenta Manin. Il vecchio si avvicinò e con grande sorpresa vide che la statua della Madonna si trovava lì, a terra, nello stesso luogo in cui era stata ritrovata il giorno prima. Pensando a uno scherzo di cattivo gusto, il prete raccolse la statua e la ripose in un tabernacolo della sagrestia, che sigillò con un lucchetto più robusto del precedente. Nel frattempo però i bambini che avevano trovato per primi la statua accorsero e cominciarono a raccontare l’incredibile storia a tutti. In breve, in tutta Murano non si parlava d’altro che del miracolo della Madonna nera. Il giorno dopo, il miracolo si ripeté. Ancora una volta il prete trovò il lucchetto aperto; ancora una volta la Madonna era sparita; ancora una volta fu ritrovata alle fondamenta. Così, per mettere a tacere le voci sul miracolo che ormai erano incontrollabili, il prete richiuse la statua in una teca con un altro grosso lucchetto e decise di vegliarla tutta la notte. L’indomani il prete finalmente si rasserenò: la
teca era intatta e nessuno era penetrato in chiesa per rubare la statua. Improvvisamente però sentì delle grida provenire dall’esterno. Corse fuori e sudò freddo quando vide la statuetta nello stesso luogo di sempre. A questo punto anche lui, seppur uomo timorato di Dio, dovette ricredersi e cominciò a pensare si trattasse di un miracolo. I parrocchiani così costruirono un’edicola nella quale posero la statua della Madonna nera. La statua rimase nell’edicola per molti anni. I muranesi ando si fermavano a pregare e chiedere qualche grazia, che a volte veniva esaudita. Poi però, la notte del 19 dicembre 1974, la statua della Madonna nera scomparve, come dissolta nel nulla, e da allora non è stata mai più ritrovata.
Giuseppina Gabriel Carmelo
Il cimitero di Venezia si trova sull’isola di San Michele, un piccolo lembo di terra situato tra Venezia e Murano. Le acque antistanti al cimitero furono lo scenario di una tragedia avvenuta all’inizio del Novecento. Tutto accadde la notte del 29 novembre 1904. Il comandante del vaporetto Pellestrina, sco Quintavalle, nonostante la fitta nebbia che avvolgeva la laguna e impediva una visuale sufficiente per navigare, decise di salpare dal molo di Venezia per raggiungere Murano e poi Burano, spinto anche dalle pressioni dei pendolari che abitavano nelle isole vicine. Dietro il vaporetto, approfittando della scia luminosa della nave, partirono anche due gondole condotte da Antonio Rosso e Andeto Camozzo. Quando però il vaporetto ò di fronte al cimitero, la nebbia era raggrumata a formare un muro quasi insormontabile, e il capitano decise allora di invertire la rotta. La nave fece così inversione di marcia, investendo però le due gondole che la seguivano. La gondola di Antonio Rosso fu letteralmente spezzata in due e affondò rapidamente nel mare gelido con tutto il suo carico umano. L’impatto fu molto violento e il capitano ordinò che il vaporetto interrompesse la sua corsa per soccorrere i naufraghi. Purtroppo cinque persone, tutte donne, sparirono tra le onde nere senza lasciare traccia. Dopo alcune ore dall’incidente, una delle disperse, Maria Toso Bullo, fu avvistata mentre lottava con il mare increspato, aggrappata a un palo di legno. Venne recuperata, ma morì dopo qualche minuto a causa delle ferite provocate dall’impatto. Vicino al luogo del ritrovamento, altri uomini che stavano conducendo le ricerche videro galleggiare altri due corpi. Più tardi furono riconosciute le vittime: Lia Salvan Borrella e Amalia Padovan Borrella, due sorelle buranesi, entrambe morte per annegamento. Mancavano ancora due corpi, quelli di Teresa Sandon e della piccola Giuseppina Gabriel Carmelo. I soccorritori setacciarono per giorni e giorni i canali che separavano le isole, spingendosi al largo, pensando che la corrente avesse potuto trascinare le due donne lontano. Poi un giorno le ricerche furono interrotte, privando le famiglie delle due vittime della speranza di dar loro sepoltura. Quasi un anno più tardi, in una notte di settembre del 1905, la sorella di Teresa Sandon fece un sogno terrificante. Teresa le apparve vestita com’era il giorno della
morte, ma pallida e con gli occhi vitrei. Le disse che il suo corpo era imprigionato nei fondali marini e le chiese di pregare per lei, perché solo così si sarebbe potuta liberare. La sorella rimase molto impressionata: non aveva mai smesso di pregare per Teresa, ma questa manifestazione diede nuovo vigore alle sue invocazioni. Dieci giorni più tardi, la famiglia Sandon ricevette la notizia che si aspettava da dieci mesi: due uomini stavano pescando nella zona est della laguna quando scorsero a fior d’acqua quello che sembrò un corpo. Era proprio il cadavere gonfio e ormai putrefatto di Teresa Sandon. Il cadavere della vittima più giovane, Giuseppina, invece non fu mai trovato. E i gondolieri di Venezia raccontano la sua triste storia ai turisti che chiedono di fare un giro lungo i canali. Si dice che nelle notti di nebbia possa capitare di vedere galleggiare sull’acqua una piccola bara illuminata da quattro ceri che guidano il corpo di Giuseppina verso la vita eterna.
La misteriosa identità del campanaro degli Armeni
L’isola di San Lazzaro degli Armeni è una delle poche risparmiate dalla laicizzazione ordinata da Napoleone Bonaparte con l’editto di soppressione degli ordini religiosi del 1807, in quanto sede di una stamperia per testi in lingue orientali e quindi sede culturale. La storia di San Lazzaro degli Armeni è molto antica, ma dopo essere stata per molti anni disabitata, l’isola oggi è occupata dal monastero dei monaci cristiani ortodossi mekhitaristi, originari dell’Armenia, i quali la ebbero in dono dalla Repubblica di Venezia nel 1717. Questo fazzoletto di terra è pervaso da un’aura evocativa, che ha ispirato e richiamato illustri letterati come Lord Byron, ma anche un uomo che cercava un luogo di pace dove poter vivere e magari guadagnare qualche soldo. Era il 1907. In Russia, un bolscevico rivoluzionario come lui era considerato pericoloso dal governo dello zar e per questo fu costretto a fuggire. Scelse l’Italia, un po’ per caso, approfittando della partenza da Odessa di una nave da carico mercantile. Iosif Vissarionovič Džugašvili raggiunse Ancona alla fine di febbraio. Qui fece qualche lavoro umile poi, ancora clandestinamente, si spostò via mare e arrivò a Venezia. Aveva ventott’anni, era originario della Georgia, e... non diceva a nessuno il suo nome. La sua identità è il mistero che ancora ne segue il ricordo. Chi era davvero quell’uomo? A Venezia fu accolto dagli anarchici della zona, i quali non capendo la sua lingua e non conoscendone il vero nome, lo ribattezzarono “Bepi del giasso”, ovvero “Giuseppe del ghiaccio”, per il suo carattere freddo e perché veniva da terre lontane e gelide. Bepi era un uomo di cultura, aveva studiato teologia alla scuola ecclesiastica di Gori e sapeva servire messa sia che fosse recitata con rito latino quanto ortodosso. Sapeva inoltre suonare le campane con i rintocchi richiesti dalle due confessioni. Un compagno veneziano allora gli suggerì di bussare la porta del monastero di San Lazzaro degli Armeni: un suo conoscente era stato di recente sull’isola e il padre superiore gli aveva detto che stavano cercando qualcuno che si occue delle campane. Bepi tentò la sorte e, grazie al fatto che parlava l’armeno, fu scelto. Nel primo periodo, la convivenza con i monaci del convento trascorse serena, poi purtroppo la sua caparbia testardaggine russa ebbe la meglio. Il priore del monastero infatti gli chiese di suonare le campane
del convento secondo il rito latino, ma Bepi non era dello stesso avviso: le campane avrebbero suonato scandendo i rintocchi alla maniera ortodossa. Il rifiuto di Bepi generò clamore tra gli altri monaci e questo portò, suo malincuore, il priore a mettere Bepi davanti a una scelta: se avesse voluto continuare a vivere insieme alla comunità avrebbe dovuto seguire le sue regole. Bepi però non era mai stato un uomo obbediente verso norme alle quali non credeva, pertanto decise di lasciare l’isola per sempre. Così Iosif tornò in Russia, proprio quando il Paese si stava preparando alla rivoluzione. È paradossale che un uomo che aveva cercato di rimanere nascosto e defilato si trovò gettato in prima linea nella lotta di classe del suo popolo. Allo scoppiare della rivoluzione, fu eletto segretario del partito comunista e poi assunse la guida nell’Unione Sovietica con il soprannome di “Piccolo padre” e lo pseudonimo di Iosif Stalin.
Rodolfo Valentino a Venezia: così è cominciato il suo mito
Venezia città dell’amore. Tutti, quando pensiamo a Venezia, la associamo alle lente traversate nei canali delle gondole cariche di coppie che si tengono strette e si scambiano tenerezze. Il potere romantico di questa città trasforma e contagia anche i più irriducibili, come accadde agli inizi del secolo scorso a Rodolfo Valentino, permettendogli di diventare il più grande rubacuori del suo tempo. Quando giunse a Venezia per tentare di entrare nell’Accademia di Marina della città, Rodolfo era un ragazzo schivo, irrequieto, disobbediente, non di certo quell’uomo romantico che, nella cultura popolare, si è trasformato in un simbolo. Purtroppo l’accademia lo scartò, perché il giovane Rodolfo aveva un’insufficienza toracica e problemi alla vista. Per lui fu un trauma: il sogno della sua giovinezza si infrangeva, così come si arenava la possibilità di guadagnare denaro per aiutare la famiglia, in difficoltà economica dopo la scomparsa del padre. Non si sa cosa avvenne esattamente nei giorni successivi, ma Venezia lo cambiò radicalmente: cominciò a credere in se stesso, era meno sognatore ma più concreto, e lentamente si trasformò nel grande amatore idolatrato da milioni di donne in tutto il mondo. Forse vivere nella città di Casanova lo pervase di furor sensuale, o forse invece a farlo credere nell’amore e decidere di basare tutta la sua vita su questo sentimento fu un incontro, il cui ricordo non lo abbandonò mai. Una relazione brevissima, ma intensa, che trasformò un ragazzino sognatore in un amante apionato e che per tutta la vita visse alla ricerca di quella ione, incostante e turbolenta. Rodolfo era nato a Castellaneta, in provincia di Taranto, il 6 maggio 1895 da padre italiano e madre se. Dopo la morte prematura del padre, il piccolo Rodolfo fu dapprima iscritto in un collegio per orfani, dal quale venne presto espulso per indisciplina, poi decise di tentare la strada militare per poter provvedere al sostentamento della famiglia. Per questo nel 1909 viaggiò verso Venezia, ma i problemi fisici che aveva gli impedirono di realizzare il suo
progetto. Aveva solo quattordici anni. E di colpo si trovò solo, in balìa di una città sconosciuta che lo aveva rifiutato e che si era dimostrata ostile. Rodolfo si fermò a Venezia per un anno, lavoricchiando saltuariamente e cambiando casa molto spesso, ovvero ogni volta che i soldi finivano e doveva far perdere le sue tracce. Una notte d’estate del 1910, il giovane, approfittando della confusione di una Venezia che si stava preparando a celebrare la festa del Redentore, rubò un piccolo peschereccio. Forse voleva solamente scappare, forse viverci e spostarsi di porto in porto, in totale libertà. Purtroppo però Rodolfo era troppo piccolo per guidare un mezzo di tale portata e nonostante la pratica che pensava di avere, era ancora molto inesperto. Proprio durante la fuga, effettuò una manovra troppo veloce, perse il controllo e finì contro una gondola che stava placidamente dondolando davanti al panorama del ponte di barche creato per unire le isole della laguna a Venezia. Rodolfo si spaventò e pensò alla fuga, poi però sentì le urla di una donna che chiedeva aiuto, allora si sporse e vide che nell’acqua, tra i resti della gondola, si agitava una donna. Questa gridava, ma il giovane non capiva nulla, forse era straniera. Senza pensare, Rodolfo si tuffò in mare e la salvò, portandola sul peschereccio. La coprì come meglio poteva, con alcune coperte che aveva trovato a bordo, le parlava e le chiedeva scusa, ma non capiva nulla di quello che la donna, ancora visibilmente terrorizzata, rispondeva. Dopo qualche minuto, la donna si tranquillizzò e gli chiese di riportarla al suo hotel, l’Excelsior, aperto pochi anni prima sulle rive del Lido. Rodolfo la condusse lì e la lasciò, continuando a scusarsi. La donna lo mandò via malamente, ma nei giorni successivi Rodolfo continuò a bussare alla sua porta e lasciarle messaggi perché si sentiva mortificato per quello che aveva provocato. Un giorno finalmente la donna, stremata, lo accolse nella sua stanza. Il ragazzino riuscì a conquistarne la simpatia e da quel momento trascorsero molto tempo insieme. In un italiano stentato, la donna gli disse che era inglese, vedova da pochissimi mesi, e che era venuta a Venezia per cercare di dimenticare la sua triste vicenda. Era più grande di lui di qualche anno, ma tra Lady B., così voleva essere chiamata, e Rodolfo scattò un’alchimia strana. Forse il destino li aveva fatti incontrare e la disperazione in cui vivevano li unì a tal punto da far loro superare impedimenti insormontabili come la differenza di età e di ceto sociale. Senza nemmeno accorgersene, i due furono travolti da una ione sfrenata: la donna insegnò i piaceri dell’amore a Rodolfo, che da ragazzotto sprovveduto era diventato un uomo. Trascorsero una settimana d’amore, sotto gli sguardi maligni degli inservienti dell’hotel. La voce di quella relazione clandestina si sparse in tutta Venezia e la donna, per salvaguardare un poco d’onore, fu costretta a partire e
tornare in Inghilterra. Rodolfo, tre anni più tardi, si imbarcò sul mercantile Cleveland e il 23 dicembre raggiunse New York. Fece molti lavori, ma la sua avvenenza fisica gli aprì molte porte e lo trasformò in un divo, dotato di un fascino magnetico che lo consacrò in tutto il mondo come latin lover e sex symbol, oggetto di desiderio per moltissime donne, proprio come lo era stato per Lady B.
Poveglia, l’isola maledetta
Tra il xiv e il xvii secolo, la peste aveva decimato la popolazione veneziana e aveva riempito le strade di cadaveri putrefatti riversi tra le calli della città. Per risolvere il problema, le isole della laguna cominciarono a essere utilizzate come lazzaretti in cui venivano portati i corpi dei defunti e tutti coloro che sembravano aver contratto il morbo. Uomini e donne malati erano trasferiti a forza sull’isola del Lazzaretto vecchio; chi aveva avuto contatti con gli appestati invece era trasferito in quella del Lazzaretto nuovo. “A scopo cautelativo”, genitori, figli, mogli, fratelli erano strappati alle loro case e condotti su isole dove, a centinaia, venivano fatti vivere in abitazioni precarie, a volte abbandonati e dimenticati. Grazie al loro sacrificio, Venezia si salvò. Nei giorni della peste, sulle isole dell’arcipelago veneziano il cielo era nero per le pire su cui si bruciavano i morti; altri cadaveri erano invece sepolti sotto la sabbia in enormi fosse comuni; su alcune navi ancorate al largo invece venivano impiccati i trasgressori delle ordinanze igieniche e alimentari imposte dal governo della Serenissima. Ma tra le isole della laguna, una in particolare ha una storia così macabra da essersi meritata l’attributo di “isola maledetta”. Si tratta di Poveglia. Al pari delle isole del Lazzaretto nuovo e vecchio, anche Poveglia fu utilizzata durante le pestilenze come luogo per la quarantena degli appestati. Quando però la paura per la malattia degenerò in panico, dato che le altre isole erano ormai stracolme, Poveglia diventò il luogo in cui venivano abbandonate non solo le persone che mostravano i primi sintomi della peste, ma anche chiunque accusasse un semplice disturbo. L’isola in pochi mesi si trasformò in uno dei cimiteri a cielo aperto più grandi della storia umana; si è calcolato che più di centosessantamila persone persero la vita sulle sue spiagge. Le loro ossa giacciono ancora sotto la sabbia, tanto che oggi i pescatori evitano la zona per non trovare brutte sorprese nelle loro reti. Alcuni veneziani giurano che nelle notti di mare calmo si sentono grida e urla provenire dalle spiagge di Poveglia e alcuni temerari che vi si sono avventurati di notte raccontano di aver visto nel buio le sagome di spettri in cerca di pace e giustizia. Proprio nelle acque del canale antistante l’isola inoltre, venivano giustiziati per annegamento eretici e streghe. Tra loro, la notte dell’8 febbraio
1565, fu ucciso l’eretico vicentino Antonio Rizzetto. Ci sono luoghi in cui il dolore e la sofferenza permeano l’aria che si respira, dove la terra ha assorbito l’energia negativa e dove si sentono i brividi di un ato spaventoso. Poveglia è uno di questi: isola maledetta, isola infestata dai fantasmi e, nel 1922, anche isola della pazzia. Negli anni Venti del Novecento infatti si installò sull’isola un ospedale psichiatrico in cui si racconta si utilizzassero terapie di dubbia moralità. Il direttore dell’istituto era noto per la crudeltà dei suoi trattamenti alternativi, come l’elettroshock e la tortura, che praticava in segreto all’interno di una piccola stanza della torretta situata a ridosso del lato sud della struttura, per curare i pazienti dalle loro visioni. Gli internati nel manicomio erano spaventati da Poveglia e dalla sua storia; molti infatti riferivano di apparizioni raccapriccianti delle anime dei morti, di voci e lamenti che udivano nel cuore della notte, ma nessuno all’interno dell’edificio li prendeva in considerazione. Anzi, proprio per questo il direttore cominciò a usare tecniche alternative per curarli e farli tacere. Poi un giorno anche lui iniziò a vedere gli spiriti degli appestati. Un’infermiera che gli fu vicina fino alla fine affermò che l’uomo sentiva e parlava con delle presenze invisibili. Un giorno, una di queste voci lo condusse sopra la torre campanaria e lo spinse a gettarsi nel vuoto. La donna testimoniò che il direttore non morì sul colpo, ma che dopo la caduta si rialzò e venne avvolto da una nebbiolina che gli penetrò nelle narici e lo soffocò. La stessa donna giurò che in quel preciso momento la campana della torre cominciò a suonare. In seguito a quell’episodio il manicomio fu chiuso e l’isola restò disabitata alimentando le leggende e le storie sulle sue presenze maligne. Si racconta che una famiglia di russi in vacanza chiese il permesso di visitare Poveglia, per acquistarla. Avevano l’intenzione di trascorrervi la notte, ma qualcosa, o qualcuno, non era d’accordo e assalì la figlia più piccola che cadde in acqua e fu miracolosamente salvata dal padre prima che affogasse. Pare che la famiglia non abbia più fatto ritorno a Venezia...
Il fantasma del garibaldino
A Venezia capita anche che un fantasma possa diventare un simbolo e un portafortuna. Nei Giardini di Sant’Elena, nel sestiere Castello, una statua ricorda Giuseppe Garibaldi e la sua impresa, ma dietro di lui si nasconde un’altra statua legata a una storia molto curiosa, avvenuta nel 1921. Si racconta che una notte un vecchietto, Vinicio Salvi, come d’abitudine si trovava nei giardini in cerca di lumache proprio nei pressi della statua di Garibaldi. Improvvisamente il vecchio sentì dietro di sé una presenza, si girò ma non vide nessuno. Poco dopo, al braccio che sosteneva la lampada a olio avvertì un forte colpo e uno strattone così forte da farlo cadere a terra. Il Salvi perse per qualche istante conoscenza, poi si alzò e con la coda dell’occhio intravide una strana ombra rossa che si dileguava e spariva nell’oscurità. Un po’ impaurito raccolse la lampada e la cesta con le poche lumache che aveva raccolto e corse a casa. Il giorno dopo raccontò la sua disavventura agli amici che però lo cominciarono a prendere in giro. A Venezia infatti con il termine “ombre rosse” si indicano i bicchieri di vino, e gli amici insinuarono che il Salvi avesse alzato un po’ troppo il gomito per riscaldarsi nella fredda notte autunnale. L’accaduto comunque fu presto dimenticato. Una settimana più tardi però una coppietta di innamorati che si era appartata nei giardini, proprio dietro Garibaldi, venne disturbata da un’ombra rossa. I due ragazzi fuggirono urlando, e poi raccontarono tutto ad amici e parenti. Gli abitanti del sestiere cominciarono a intimorirsi per via di quei racconti, in più la Grande Guerra li aveva decisamente provati ed erano particolarmente suscettibili. Specie quando si trattava di storie di fantasmi. La sera dopo, lo stesso strano incontro toccò a un pescatore che cadde a terra e si ruppe addirittura un braccio. L’inquietudine nel sestiere crebbe a tal punto che l’amministrazione decise di istituire una ronda di vigilanza per scoprire cosa stesse accadendo all’interno dei Giardini di Sant’Elena. I racconti popolari riferiscono che l’ombra rossa si manifestò alle guardie che stavano ando vicino alla statua di Garibaldi, durante il loro giro di ispezione, lasciandole pietrificate dal terrore. L’ombra rossa però davanti ai soldati non scomparve né li aggredì, anzi si fece avanti e lentamente, di fronte agli occhi degli uomini, si materializzò una sagoma di un
uomo in divisa. Indossava una casacca rossa. L’uomo si presentò: si chiamava Giuseppe Zolli, era nato nel 1838 ed era stato un garibaldino. Aveva partecipato alla spedizione dei Mille, e come tutti i compagni aveva fatto la promessa di proteggere il suo generale anche dopo la morte. Da quel momento, il fantasma per tutti i veneziani divenne simbolo di coraggio e lealtà, valori che a causa della guerra si stavano ormai perdendo. Per questo si decise di aggiungere una statua bronzea alle spalle di quella di Garibaldi e di dedicarla a Zolli: la statua raffigurava l’eroico garibaldino con le braccia incrociate, nell’atto di vigilare il suo generale. E da allora non vi furono più apparizioni.
Elisa Zurlin e il diavolo
Streghe e demoni rappresentano le paure più inconsce di ogni uomo e al tempo stesso le sue debolezze: ha paura del buio, ma ne è attratto; teme la morte, ma continua a pensare alla propria. 1921. Elisa Zurlin era una giovane sartina veneziana e viveva nel sestiere Dorsoduro. Finito il lavoro, la sera Elisa amava fermarsi con le amiche fino a tardi, per non dover rincasare e stare sola dopo che la Grande Guerra le aveva strappato l’amato marito. Era estate e già da qualche notte, attraversando il campo per tornare a casa, nel buio sentiva sopra la testa un rumore molto strano che la seguiva. Come un frusciare di ali. Il giorno dopo, lo raccontava alle amiche, ma nessuna voleva crederle, anzi la prendevano in giro, dicendo che era molto suggestionabile e credulona. Ma dopo una settimana, questi eventi l’avevano terrorizzata a tal punto che non aveva più il coraggio di tornare a casa sola e le amiche, o i loro mariti, dovevano accompagnarla. Un giorno, una di loro, Susi, che si considerava un po’ strega e un po’ sensitiva, le consigliò di fermarsi quando avesse sentito quel fruscio sopra la testa, guardare in alto e dire con voce forte: «Cacciatori! Date anche a me della vostra caccia!». Era una frase che le aveva insegnato la nonna per proteggersi dagli spiriti malvagi. Elisa non capì a cosa si potesse riferire l’amica Susi, ma la ringraziò e s’incamminò verso casa. Erano le undici e mezza di notte, la via era buia e una nebbiolina ricopriva tutto. Improvvisamente udì il suono che la terrorizzava e senza pensarci due volte si fermò e disse la frase suggerita dall’amica. Una voce cavernosa le rispose: «Tendi il tuo grembiule, che te la butto giù». Elisa si paralizzò, pensò qualche secondo e poi aprì il suo grembiule: dopo pochi istanti, sentì che qualcosa vi era caduto dentro. Elisa cominciò a correre terrorizzata, stringendo a sé il grembiule, e giunse a casa. Qui accese la fioca luce e fece una macabra scoperta: il grembiule era pieno di ossa umane! Quella notte Elisa non chiuse occhio e alle prime luci dell’alba corse a casa di Susi per farle vedere cos’era accaduto. Susi non seppe darle una spiegazione, ma le propose di andare da sua nonna per chiedere se ne sapesse qualcosa di più. La nonna di Susi viveva nel campo di Ognissanti e
aveva fama di essere una strega. Elisa raccontò la sua triste storia e la vecchia signora le disse che lo spirito che la inseguiva era il diavolo. Per liberarsene, avrebbe dovuto trovare un gatto nero da mettere nel grembiule insieme alle ossa e sarebbe dovuta andare così nel luogo dove il demonio si manifestava. Nel momento in cui avesse sentito lo sbattere di ali, Elisa avrebbe dovuto urlare: «Cacciatori, venite a prendervi la vostra caccia!». Elisa seguì le indicazioni della strega e quella stessa notte si preparò per recarsi nel luogo degli strani incontri. Aspettò qualche minuto al buio, tremando per la paura. Improvvisamente sentì lo sbattere di ali e facendosi forza urlò la frase suggerita dall’anziana donna. Poi strinse gli occhi. Allora sentì un forte strattone, il gatto miagolare e il grembiule più leggero. Lentamente schiuse gli occhi e udì la stessa voce della sera precedente dirle: «Se non avessi portato questo, a quest’ora saresti mia». Era il diavolo, che per un soffio non si era impossessato dell’anima di Elisa.
La fossa numero 6
Tra le isole dell’arcipelago, quella di San Michele ha una precisa funzione civile: è il cimitero di Venezia. Il fatto che un’intera isola ospiti i morti veneziani non è una novità nella storia della Serenissima: in ato, molte isole dell’arcipelago infatti furono utilizzate come lazzaretti dove i cadaveri degli appestati venivano accatastati e sepolti. I cancelli del cimitero di San Michele si aprirono nel 1837; nel tempo ha ospitato i corpi di semplici cittadini e di personaggi illustri: tra i più noti, si annoverano il medico Franco Basaglia, il calciatore Helenio Herrera, il premio Nobel per la letteratura Ezra Pound e il compositore Igor Stravinskij. In vita, queste personalità hanno donato al mondo opere meravigliose e visionarie, momenti di riflessione o spunti per la crescita personale e di un’intera nazione e sono divenute immortali, ma dentro le tombe, il loro corpo si è decomposto. Nella mentalità popolare il concetto di morte, seppur temuto, è ormai completamente accettato, così come viene accettato che un corpo senza vita si deteriori. Se questo non avviene, è inevitabile cercare una spiegazione. Che sia razionale o irrazionale. Ma se poi un corpo scompare del tutto, allora lo spazio per la razionalità diminuisce drasticamente. Un caso come questo avvenne nel 1947, quando il corpo di una suora sepolta nel cimitero di San Michele scomparve nel nulla, dando origine a una vera e propria storia dell’orrore. Vittoria Gisella Gregoris nacque il 15 ottobre 1873 e a soli ventun anni entrò nel convento di San sco della Vigna e qui prese i voti con il nome di Serafina. Tre anni dopo si ammalò di una malattia misteriosa e rara che, il 30 gennaio 1935, dopo ben trentotto anni di patimento e sofferenza, la portò alla morte. Ma suor Serafina sopportò sempre la malattia con pazienza e buonumore. Si racconta ad esempio che a chi le diceva che per la forza di spirito dimostrata sarebbe morta in odor di santità, la monaca rispondesse che semmai sarebbe morta in odor di muffa. La suora aveva un vigore d’animo unico, era lei che dava forza e sosteneva gli ammalati, nonostante la malattia la rendesse ogni giorno più debole e la vita la stesse lentamente abbandonando. Quando, a sessantun anni, suor Serafina infine morì, lasciò alle consorelle che la vegliarono fino all’ultimo sospiro una strana profezia sul destino del suo cadavere. Le sue esatte parole furono: «Al momento della riesumazione, la mia salma non si troverà...».
La suora fu poi sepolta nel cimitero dell’isola di San Michele. Gli anni arono e la profezia di suor Serafina venne dimenticata e si perse nell’oscurità dei chiostri del convento. Dodici anni dopo la morte, esattamente il 5 agosto 1947, si procedette, come d’abitudine, all’estumulazione della salma, alla quale parteciparono alcune consorelle. Appena la bara fu aperta, il ricordo delle ultime parole della monaca tornò con forza alla loro mente: il corpo di Vittoria non si trovava effettivamente nel feretro. Improvvisamente, un grande stupore e un forte senso di inquietudine pervase tutti i presenti. La notizia non tardò a diffondersi in città e a balzare agli onori della cronaca locale. Un cronista del «Gazzettino della Sera» corse sul posto per documentare l’accaduto e nell’edizione del giorno dopo scrisse: «La cassa non serbava nessuno resto umano della defunta religiosa: né una tibia, né le vertebre, nemmeno il cranio. C’erano soltanto, sparsi qui e là, dei minutissimi frammenti ossei polverizzati, in quantità così trascurabile quale mai si è vista nel corso di una riesumazione». L’ispettore sco Matteotti, il rappresentante civile presente all’estumulazione, affermò con sgomento che un evento del genere non si era mai verificato nel cimitero. Tutto quello che rimaneva della suora, all’interno della bara sepolta nella fossa numero 6 del camposanto, erano poca stoffa del velo mortuario, qualche frammento osseo e un crocefisso. Di suor Serafina non era rimasta alcuna traccia. Cosa era potuto succedere? Il tempo trascorso dalla morte non giustificava un simile grado di decomposizione: era come se, all’interno della bara, fosse ato al triplo della velocità rispetto agli anni solari. Sembrava anzi che il corpo di Vittoria Gisella Gregoris fosse letteralmente scomparso nel nulla. In tutta Venezia non si parlava d’altro: c’era chi gridava al miracolo, chi pregava davanti a dipinti raffiguranti la suora, chi le chiedeva una grazia, alcuni addirittura insinuavano che la donna si fosse risvegliata dal sonno eterno e fosse uscita dalla fossa numero 6. Zombie? Miracolo? La verità resta ancora oggi un mistero perché il corpo non venne mai più ritrovato. Di certo nell’aria cristallizzata di Venezia ancora oggi risuonano le parole pronunciate da suor Serafina in punto di morte: «...la mia salma non si troverà». Parole che hanno acquistato un significato tutto nuovo.
Padre Pellegrino Ernetti e la cronovisione
Una macchina per viaggiare nel tempo e in grado di captare e riprodurre immagini e suoni provenienti dal ato. Pura fantascienza? Nel 1972, il settimanale festivo del «Corriere della Sera», «La Domenica del Corriere», riportò il testo di un’intervista a padre Pellegrino Ernetti. Fulcro dell’esclusiva della testata erano degli esperimenti che avrebbero condotto l’allora sconosciuto monaco benedettino a ideare e costruire un apparecchio capace di far viaggiare nel tempo. Padre Ernetti era un esperto di musica prepolifonica, ma anche uno scienziato, laureato in fisica quantistica e subatomica, apionato di elettronica. Per molti anni, fu anche l’esorcista ufficiale della diocesi di Venezia. Proprio per la sua stretta dimestichezza con il mondo paranormale, padre Ernetti aveva cominciato già negli anni Quaranta a studiare la possibilità di comunicare con i defunti. Il monaco era convinto che ogni essere vivente lasci dietro di sé una traccia, rappresentata da energia, che si manifesterebbe sia in forma visiva che sonora. Queste tracce persisterebbero anche dopo la morte e anzi rimarrebbero impresse nell’ambiente nel quale la persona ha vissuto. Per questo, sempre secondo Ernetti, sarebbe possibile recuperarle e farle rivivere attraverso la tecnologia. Nell’intervista del 1972, Ernetti affermava con sicurezza che, grazie alla macchina che aveva inventato, era stato in grado di rivedere fatti del ato, «non come un film, ma come un ologramma, a tre dimensioni, in rilievo». Bastava regolare l’apparecchio e sullo schermo apparivano personaggi della storia. Grazie al cronovisore, padre Ernetti disse di aver rivisto eventi ati con grande chiarezza. Ad esempio, assistette alla prima orazione di Cicerone contro Catilina; captò Napoleone che dichiarava finita la Serenissima Repubblica di Venezia e proclamava la Repubblica italiana; assistette alla presentazione di Tieste, opera del poeta latino Ennio che si riteneva perduta e che il monaco trascrisse proprio in quell’occasione. Ma, ancor più clamorosamente, padre Ernetti dichiarò di aver assistito alla crocefissione di Gesù: «Vidi tutto. L’agonia nel giardino, il tradimento di Giuda, il processo... il calvario». Di quegli eventi riuscì a realizzare filmati, dai quali trasse una foto ata alla storia: l’eccezionale istantanea del volto di Gesù Cristo! Ma qualche tempo dopo, lo
stesso giornalista che aveva condotto le indagini sul cronovisore, scoprì che l’immagine di Cristo in realtà era una fotografia del volto di una scultura che si trova presso il santuario dell’Amore Misericordioso di Collevalenza, vicino a Todi. Oggi non siamo in grado di affermare con sicurezza se l’invenzione di padre Ernetti sia reale o no: la storia è ricca di esempi di scoperte poi occultate o definite eretiche, basti pensare a Giordano Bruno o Galileo. Ma dopo che padre Ernetti rilasciò l’intervista, la reazione della Chiesa non tardò ad arrivare. La Curia di Roma impose al benedettino di tacere e consegnare al Vaticano il cronovisore, la “macchina infernale”, come venne definita. Fu così che padre Pellegrino Ernetti e la sua invenzione diventarono, negli anni, i protagonisti di una leggenda metropolitana che si riallaccia anche alle tesi del complotto. Secondo molti infatti l’unico esemplare di cronovisore, quello usato da Ernetti per i suoi viaggi nel tempo, sarebbe conservato ancora oggi nei sotterranei della Città del Vaticano. Questo però è un segreto che forse non verrà mai svelato.
Inondazioni: Venezia sarà la nuova Atlantide?
venezia. anno domini 2399. I telegiornali psichici proiettano nella mente dell’uomo le immagini della catastrofe. La diga costruita a nord non ha resistito allo tsunami che ha devastato e travolto tutto, distruggendo una delle piazze più famose del mondo. L’acqua ha inondato la basilica dedicata al patrono. La domanda che tutti i superstiti si fanno è: «Come è potuto succedere?».
venezia. anno domini 2013. La città sta sprofondando. È ormai un dato di fatto che le acque che nei secoli l’hanno protetta dai nemici, saranno la causa della sua fine. Ricerche effettuate da università di tutto il mondo, basate su rilevamenti satellitari, hanno stabilito che Venezia si sta inabissando, e molto più velocemente di quanto si pensi. L’Istituto di Oceanografia dello Stato della California ha determinato che il capoluogo veneto si sta abbassando di circa due millimetri l’anno. Se a questo si aggiunge il dato dell’innalzamento del mare, si prospettano futuri scenari tanto catastrofici da aver fatto accostare il destino di Venezia al mito di Atlantide. Non tutti sanno che nella sua storia, l’Italia è stata colpita da diversi tsunami, di varia intensità. Il 26 marzo 1511, alle ore 14:40 il Friuli fu colpito da un terremoto talmente forte da provocare uno tsunami che si abbatté sulle coste venete. A Venezia, le cronache raccontano che improvvisamente i canali si svuotarono e poi salirono vertiginosamente... Secondo un gruppo di scienziati dell’Istituto di Scienze marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche, entro il 2100 il fenomeno delle maree eccezionali a Venezia potrebbe verificarsi fino a duecentocinquanta volte l’anno, con conseguenze disastrose per la popolazione e l’ecosistema. Se questo processo continuerà, nei prossimi cento anni Venezia, la cui pavimentazione poggia su pali di legno datati tra i quattro e i cinque secoli fa, si abbasserà di circa cinque centimetri; nel frattempo i livelli del mare aumenteranno. Sono state formulate diverse ipotesi a riguardo. La più drastica prevede un innalzamento del mare, a livello globale, di oltre quarantotto centimetri in un secolo.
È uno scenario inquietante, tanto per i veneziani quanto per tutti quelli che amano la città, davanti al quale ricercatori e scienziati stanno lavorando ormai da anni per trovare una soluzione. Soluzione che potrebbe essere rappresentata dal mose, un complesso sistema di chiuse e dighe che dovrebbe proteggere Venezia dalle inondazioni e dalla scomparsa. mose è l’acronimo di MOdulo Sperimentale Elettromeccanico. E richiama anche il Mosè dell’Antico Testamento, che riuscì a dividere il mare. Il sistema dovrebbe isolare Venezia dal mare Adriatico, grazie a un insieme di paratoie mobili posizionate sul fondale marino. Come il biblico Mosè, il mose potrà separare momentaneamente Venezia dal mare, rendere la laguna un lago e fermare l’avanzata delle acque. Il governo nazionale ha stanziato milioni di euro per il rinnovamento della pavimentazione di Venezia. Ma queste misure basteranno a fermare la furia del mare? Quale sarà il destino della città? Venezia sarà inghiottita dall’acqua o si trasformerà invece in una città-macchina, fredda, ma in grado di difendere la propria incolumità? La città romantica per antonomasia perderà il cuore, pur di salvare il suo corpo?
Bibliografia essenziale
Aa. Vv., Venezia dalle origini alla Quarta Crociata, Istituto veneto di scienze ed arti, Venezia 2006. Patrizia Carrano, Illuminata. La storia di Elena Lucrezia Cornaro, prima donna laureata nel mondo, Mondadori, Milano 2001. Andrew Michael Chugg, The lost tomb of Alexander the Great, Periplus, Bristol 2004. Carlo Goldoni, Le donne curiose, Marsilio Editori, Venezia 1995. Antonio Lombatti, I Templari e le reliquie, Accademia Vis Vitalis Editore, Torino 2010. Thomas Mann, La morte a Venezia, Giulio Einaudi Editore, Torino 1971. sco Ludovico Maschietto, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684), prima donna laureata nel mondo, Antenore, Padova 1978. Melania G. Mazzucco, La lunga attesa dell’angelo, Rizzoli, Milano 2010. Giorgio Pastore, La ricerca della Pietra Filosofale, Eremon Edizioni, Aprilia (lt) 2009. Clelia Pighetti, Il vuoto e la quiete. Scienza e mistica nel ’600. Elena Cornaro e Carlo Rinaldini, Franco Angeli, Milano 2004. Marco Polo, Il Milione, tea Editore, Milano 2006. Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia. Spionaggio e controspionaggio ai tempi della Serenissima, Il Saggiatore Tascabili, Milano 2010. sco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare. Descritta in xiii libri, 1581.
Biagio Soria, La cosmografia istorica, astronomica e fisica: Parte fisica, Nabu Press, Charleston 2012. Marisa Uberti e Giulio Coluzzi, I luoghi delle Triplici Cinte in Italia, Eremon Edizioni, Aprilia (lt) 2008. Roberto Volterri, Archeologia dell’impossibile. Tecnologie degli dei, Eremon Edizioni, Aprilia (lt) 2010. Gabriella Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’500, Rosenberg & Sellier, Torino 1990. Alvise Zorzi, La Repubblica del Leone. Storia di Venezia, Euroclub, Milano 1991. id., Venezia scomparsa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001.
[1] sco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare. Descritta in xiii libri, 1581. [2] Articolo di Daniela Bortoluzzi, Misteri sull’origine di Venezia su http://www.misteria.org [3] La località di Fossaputrida corrisponde alla zona in cui oggi sorge la chiesa di San Giovanni in Bragora, nel sestiere di Castello. [4] Inizialmente il giorno ufficiale per la celebrazione della fine della peste era il 28 novembre, ma fu cambiato qualche anno dopo. [5] Marisa Uberti e Giulio Coluzzi, I luoghi delle Triplici Cinte in Italia, Eremon Edizioni, Aprilia 2008, p. 105. [6] Marco Polo, Il Milione, t.e.a. Editore, Milano 2006. [7] La pietra filosofale. [8] Carlo Goldoni, Le donne curiose, atto primo, scena terza, Marsilio Editori, Venezia 1995. [9] Lettera originale scritta da Alvise Zen, “medico della peste”. [10] Si mormora anche che Giordano Bruno avesse una relazione con la moglie di Mocenigo e che fu questo il motivo della denuncia. [11] Da L’ultima ora di Venezia di Arnaldo Fusinato.
Indice
Copertina Collana Colophon Frontespizio Premessa Misteri I misteri storici Le leggende I luoghi del mistero I personaggi del mistero Crimini Il mostro di Venezia Il fantasma della monaca Le fondamenta della Donna Onesta San Zaccaria: la chiesa degli omicidi Il doge traditore Il fantasma di Tosca: strappato all'altare
La decapitazione del conte di Carmagnola Ca' dario, la casa che uccide Sangue in piazza San Marco Il Casin degli Spiriti Il mendicante e il levantino La verità storica di Otello e Desdemona La triste storia del poaro fornareto Bernardina, l’uxoricida di Venezia Damnatio memoriae per Giovan sco Valier Andriana Baoder I fantasmi del campiello Remer Il fantasma che odiava gli uomini Giallo a Venezia Piombi e sospiri Seduzione e morte: Veneranda Porta Gli incendi di Venezia Faccia d’angelo: il controllo di Felice Maniero su Venezia La pista veneta della strage di piazza Fontana I delitti di Ludwig Il “Mostro di Mestre” Storie insolite
Il miracoloso viaggio della Beata Maria Vergine delle Grazie La sirena Melusina, Orio e il cuore incastonato nella pietra L’empietà dei mercanti e le reliquie dei santi La guardiana dell’isola di San Secondo Palazzo Mastelli La fuga di papa Alessandro III e lo Sposalizio del mare Satanismo a Venezia I ladroni di San Marco Un’invenzione tutta veneziana: gli occhiali Il dottore della peste Il gatto di Chioggia I fratelli Zeno e il tesoro dei templari Il potere delle acque del pozzo di San Sebastiano Le profezie di suor Chiara Bugni La sposa cadavere La dama bianca di corte Locatelo Il palazzo degli Eretici Bianca Cappello, da cortigiana a granduchessa L’angelo di Ca’ Soranzo La figlia segreta del Tintorett La peste dei bambini
Ca’ Mocenigo e il fantasma di Giordano Bruno Un luogo miracoloso: calle di San Zorzi Monache cretesi a Venezia: uno scandalo sociale Elena Lucrezia Cornaro: la prima donna laureata della storia L’anima nera di Antonio Vivaldi I fantasmi della basilica della Salute La maledizione dei pescatori I leoni di Venezia Giacomo Casanova e la leggendaria fuga dai Piombi Fenomeni poltergeist a palazzo del Cammello Gli incontri segreti tra Casanova e Cagliostro L’isolamento di Venezia La Madonna nera di Murano Giuseppina Gabriel Carmelo La misteriosa identità del campanaro degli Armeni Rodolfo Valentino a Venezia: così è cominciato il suo mito Poveglia, l’isola maledetta Il fantasma del garibaldino Elisa Zurlin e il diavolo La fossa numero 6 Padre Pellegrino Ernetti e la cronovisione
Inondazioni: Venezia sarà la nuova Atlantide? Bibliografia essenziale