Storie D'amore, Di Morte E Di Follia 4n4g2y

Alessandro Berselli

Storie d’amore, di morte e di follia Copyright © 2013 Società Editoriale ARPANet Srl, Milano Edizione: aprile 2013 ISBN 978 88 7426 192 5 via Stampa, 8 20123 Milano tel. +39.02.670.06.34 [email protected] I libri e gli eBook della Società Editoriale ARPANet sono disponibili qui: www.ARPANet.org www.ARPABook.com Art director: sca Fasoli In copertina, “La stanza” olio su tela.

Le due sorelle (Diario di Gabriella Arnaboldi, estate 1971) Prequel. I. Quattro del mattino. Fuori piove a dirotto, il giorno è ancora così lontano. “Mamma”, ho chiamato. Nessuna risposta. “Mamma”, più forte. Ancora silenzio. Rebecca ha continuato a dormire. È così bella con gli occhi chiusi, i capelli biondi spettinati sul cuscino e la camicia da notte aperta sulla sua pelle bianca. Mi sono avvicinata al suo letto e l’ho baciata sulla bocca. Ho continuato a farlo fino a quando non ha lasciato entrare la mia lingua tra le sue labbra, assecondando così il mio desiderio. “Mamma dorme, non preoccuparti.” Mi piace sentire il suo corpo scorrere tra le mie dita. Saperla disponibile ad accogliermi. Godere del suo respiro. Approfittare di quanto, in lei, è ancora inviolato. E se in tutto ciò non ci vedete davvero nulla di strano, è giusto però che

perlomeno sappiate una cosa. Rebecca è mia sorella. E non ha ancora compiuto sedici anni. II. Non sono quella che comunemente si definisce una persona fedele. Se cercate fedeltà compratevi un cane, un labrador, magari, ma lasciatemi perdere, non faccio per voi. Non so che farmene della fedeltà. La trovo un sentimento sterile, incapace di destare emozioni. Non so che farmene di un uomo con cui svernare mestamente per tutta la vita, in attesa che arrivi la morte. Non provo nessun fascino nei vestiti buttati sopra una sedia e in un corpo nudo addormentato tra le lenzuola, quella fastidiosa violazione di intimità, come se qualcuno avesse il diritto di accedere alla tua vita per il semplice fatto di essersi fatta scopare. Quello che desidero è restare da sola, per poter guardare quello che voglio alla televisione e decidere la sera da che parte del letto dormire. In definitiva se ci penso non è mica male. No, in effetti non è male davvero. III. Da alcuni mesi frequento un tipo. All’inizio non credevo nemmeno che sarebbe stato così facile portarmelo a letto. Sembrava inarrivabile, là, in mezzo ai suoi amici, e invece cercava solo qualcuna da cui farsi sbattere, qualcuna che sapesse farselo per benino. La prima volta è successo nella sua macchina. Un pompino da manuale, giusto per chiarire subito le intenzioni. Prima di andarsene ha chiesto di rivedermi, ma

non credevo proprio che dicesse sul serio. E invece adesso non riesco quasi più a liberamene, continua a cercarmi, questo stronzo. Che noia. La gente che non capisce che l’unica cosa che voglio è essere lasciata in pace, respirare. Volere o non volere, bianco o nero, sì o no. La realtà è che non ho ancora deciso che diavolo farne di queste cazzo di relazioni. Sto ancora cercando di capire. IV. Rebecca prende un sacco di roba strana, con tutti quei suoi amici che le girano intorno, poi. A me le droghe non interessano nemmeno più di tanto. Ho smesso di farmi da quasi due anni, anche se con tutte queste stronzate salutiste, il reiki, la respirazione, e Dio solo sa a quante altre maledette puttanate, mi sono da allora convertita. Non sono affatto diventata una persona migliore. D’altronde è anche difficile diventare migliori con questi guru del cazzo che ti ripetono in continuazione che tu sei OK e gli altri no. Poi si incomincia davvero a credere che la gente sia solo merda, e tu l’unico l’illuminato. Quello a posto, quello che non può sbagliare. Quello che ha sempre la risposta a tutto. E allora perdi il senso del dubbio. Il senso dell’errore.

È che alla fine siamo tutti corpi in avanzato stato di decomposizione, carne che marcisce, roba putrefatta. Nient’altro che questo. V. Un’altra storia di una sera, di quelle che non hanno importanza. Consumata in un parcheggio, all’uscita di un locale, con uno di cui, ad essere onesti, non ricordo nemmeno il nome. Mi piace tornarmene a casa da sola, dopo aver fatto sesso. Le luci dell’alba, il finestrino aperto anche se fa un freddo cane, quella sensazione di onnipotenza che hai ogni volta che lo fai con qualcuno per la prima volta. Mi sento invincibile. Non ho più paura di invecchiare, di morire, non esiste più niente e nessuno se non me stessa, sto strepitosamente bene. Sesso occasionale, lo chiamano. Scopata, chiavata, congiunzione carnale o quel diavolo che è. Piacere che una volta consumato ha già esaurito in modo perfetto ed assoluto la sua funzione naturale, quella di procurare piacere ad adulti consenzienti che sanno benissimo che non è affatto vero che dietro ad ogni orgasmo debba esserci l’amore. Se non avessi questo copione da recitare sarei morta già da tempo. Oppure sarei adulta. Ma, a mio modo di vedere, tra le due cose non c’è davvero molta differenza. VI. La prima volta con Rebecca è successo in un bagno pubblico.

C’era odore di piscio e improvvisamente mi ritrovai la sua lingua che si muoveva nella mia bocca. Un amplesso rabbioso, violento, autocompiaciuto nel suo essere dannatamente deprimente. Io non avevo mai voluto parlare di quella prima volta, mi ero sempre comportata come se non fosse successo niente. E così era stato anche per le volte successive. Chissà. Magari alla fine il sesso è proprio questo. Attimi di piacere bruciati senza alcuna consapevolezza, desideri consumati perché è giusto così. Probabile che Rebecca volesse solo sapere cosa avevo provato. O che cos’era cambiato nei miei sentimenti per lei. Tutto qua. VII. Ogni tanto ho come la sensazione di non sopportarla nemmeno più. La sua faccia, la sua voce, questo morboso attaccamento che ha nei miei confronti, quasi che dietro a questa storia del sesso tra sorelle potesse esserci sul serio un qualcosa di diverso, di più profondo. A volte penso quasi di essere solo una mediocre, di quelle dannatamente abili a vendere se stesse. È che alla fine ci sto bene nel mio piccolo cortile, non ho ambizioni a crescere. Faccio bene quello che devo fare ma tenendo un profilo basso, senza fare la differenza. La ragazza è intelligente, ma non si applica, se mi ate il luogo comune. Ed è per questo che mi tocca sopportare le stronzate della gente. Per questo che non posso prenderli e mandarli a cagare, questa manica di

coglioni. VIII. Mi piacerebbe poter riavvolgere il nastro della mia vita e poter ricominciare tutto da capo, anche solo per ripetere le cose nello stesso modo, senza cambiare in nessuna maniera le scelte già fatte. Più che altro per cercare di capire tutto quello che nel frattempo deve essere successo, per avere delle chiavi di lettura e tirare le fila di tutti i ricordi che fatico a riordinare. Guardo Rebecca che legge Salinger e Musil sdraiata per terra, sul pavimento della mia camera. Quel pavimento dove restiamo ore e ore ad ascoltare i trentatré giri comprati con i soldi della sua droga, roba psichedelica soprattutto, Pink Floyd, Jefferson Airplane e Greateful Dead, e a sognare tutte e due di Woodstock e dell’isola di Wight. Rebecca mi dice che a volte fatica a trovare il coraggio di alzarsi, attraversare la stanza e baciarmi, probabilmente per la paura di perdere tutto quello che anche senza il sesso io per lei già rappresento. E questo mentre i Deep Purple continuano a suonare CHILD IN TIME e la porta della mia camera si chiude a tutto il resto. Perché quello che c’è in questi dodici metri quadri è il mondo più grande che in questo momento lei possa immaginarsi. IX. Vera Solari è la mia migliore amica. Ci conosciamo dai tempi del liceo, e ancora adesso siamo entrambe iscritte allo stesso corso di laurea. Vera viene spesso da me, soprattutto per studiare. È successo anche oggi. Ci siamo chiuse nella mia camera e non ne siamo uscite fino a sera.

Abbiamo bevuto. Abbiamo fumato. Abbiamo parlato. Abbiamo trascorso l’intero pomeriggio a inventare vite che nessuna delle due avrà mai il coraggio di vivere per davvero. Abbiamo provato a immaginare l’età adulta, questa cosa per la quale continuo a non provare nessun fascino, fatta di casa e di famiglia, e di quel lento scivolare verso la vecchiaia che i più si ostinano a chiamare vita. Gli adulti. Chiusi nei loro appartamenti con uomini grassi e bambini merdosi, perché alla fine è questo che è la famiglia, la negazione di tutto quello che fino a qualche anno prima è stato gioia, piacere, divertimento. Mi è sembrato tutto così perfetto, una complicità così assoluta, così totale. E questo nonostante la nostra amicizia sia sempre stata immune da pulsioni sessuali. Fino ad ora, perlomeno. X. Da un po’ di tempo a questa parte mi piace molto correre. Andare al parco e continuare a farlo fino a quando i polmoni non mi fanno male, e mi si azzera la salivazione, tanto che non riesco più nemmeno a sputare per terra. Stare sdraiata sull’erba, e guardare la vita. Due ragazzi che si baciano, una donna che sorride al suo bambino, una partita di calcio. Mi sento dannatamente ai margini di tutto questo, inutile spettatrice di qualcosa che, so già, non mi apparterrà mai.

Non me ne frega un cazzo di niente, è questo il punto. Se penso alla morte, vorrei che fosse una specie di esplosione, improvvisa, spaventosa, deflagrante. Meglio distruggersi che scomparire lentamente, e forse è proprio così che vorrei andarmene, di colpo, tutta in una volta. Senza lasciare altro che un po’ di cenere sull’asfalto. XI. Rebecca a un sacco di tempo a masturbarsi. A sentire lei, è il modo più semplice per scopare tutti quelli che incontra, quelli a cui non ha nemmeno il coraggio di parlare. Ieri sera le ho permesso di toccarmi, di lasciare entrare le sue dita poco alla volta dentro di me. È stata come una specie di vertigine, lenta ed avvolgente, ma talmente inaspettata, talmente stupefacente, che penso davvero sia stato il momento più perfetto di tutta la mia vita. XII. Un’altra schifosa giornata di pioggia. Una di quelle giornate del cazzo nelle quali di uscire proprio non ne hai voglia, e resti in casa a buttare via il tuo tempo, irrisolto tra bicchieri di vino aperto da una settimana e le sigarette che ancora restano nell’ultimo pacchetto, nella speranza che finiscano in fretta, così almeno sarai costretta a metterti qualcosa addosso per andarle a comperare al bar dell’angolo. E così mi accendo ancora una Marlboro, anche se al terzo tiro vorrei già vomitare. A volte, vomitare mi sembra il paradigma stesso della vita. Sei OK, ti diverti, mangi e bevi quello che vuoi, ma poi la mattina dopo ti svegli e ti senti di merda, uno schifo.

Come dire, puoi stare bene, ma puoi farlo solo fino a un certo punto, questa è la regola. Senza eccezioni. XIII. Lunedì mattina io e Rebecca abbiamo litigato. Per certi versi era inevitabile che succedesse, dovevo intuire che prima o poi l’amicizia con Vera avrebbe finito con il diventare un problema. E questo nonostante tra di noi non sia mai successo niente, se non quei lunghi pomeriggi chiusi in camera, a ridere e a studiare. Rebecca ci ascolta, chiusa nella sua stanza. a il tempo avvolta nel suo accappatoio, a fumare sigarette e ascoltare musica jazz. Un concetto di solitudine così perfetto che anche solo rivestirsi sarebbe una sacrilega violazione di questo nuovo raggiunto stato delle cose. Probabile che io sia per lei l’unico contatto con la vita reale. Responsabilità che, mi dispiace, non ho per niente voglia di assumermi. E questo perché allo stato attuale non mi manca assolutamente nulla. Non mi mancano gli obblighi che una relazione comporta, con tutte le loro claustrofobiche prevedibilità, quell’angosciosa sensazione di una vita già scritta, pianificata, dove nulla che non sia stato previsto potrà mai più accadere. Litigare con lei non è stato nemmeno troppo difficile. È bastato restare in silenzio e farmi dare della stronza. Se ci penso bene, alla fine ha fatto tutto lei. Io ho continuato solo a guardarla, anche quando piangendo è uscita dalla mia stanza.

In effetti sono stata una merda. Avrei dovuto fermarla, spiegarmi. Ma non l’ho fatto. Vederla andarsene mi ha fatto sentire bene. Stronza, forse. Ma libera. XIV. Oggi io e Vera siamo andate in centro. Il solito giro, a guardare le vetrine e a godere del nostro presente, di questa splendida complicità che così tanto ci unisce. Osservare il mondo senza interagire, una specie di guardare e non toccare. Soffermarsi sulla gente che a, fumando sigarette e bevendo caffè, o anche solo respirando. Provando entusiasmo di niente, del fatto di esserci, forse, o di non avere nessuno a casa che ci aspetta. Perché è questo che voglio, alla fine. Non avere nessuno a casa che mi aspetta. Mi sto liberando da quel senso di angoscia che mi opprimeva, obbligata come mi sentivo a costruire, a essere valutata, a mettermi in discussione, e tutte queste cose. Non c’è traccia di questa angoscia adesso. Sono sola con la mia vita, e questo mi basta. XV.

Oggi ho detto a Rebecca che tutto, qua a Milano, lei compresa, mi sta soffocando. Che sono stanca della stessa gente, delle stesse situazioni, che sento l’urgenza di scappare, di andarmene via. “Come se andartene da qualche altra parte potesse davvero placare la tua ansia di vivere”, mi ha detto. “Come se fosse davvero così facile fuggire dalla tua noia.” Rebecca ha ragione. Incapace di emozionarmi, e di divertirmi, oramai condannata a quell’assurda convinzione che basti cambiare i luoghi e le persone per vincere la malinconia della propria quotidianità. Che senso avrebbe un’altra città? Un altro posto dove tutto mi diventerebbe presto altrettanto familiare, e con la familiarità tornerebbe anche la stessa angoscia, la stessa insoddisfazione, la stessa voglia di fare e di non fare, di non sprecare tempo e di sprecarlo, non rientrando a casa per giorni o trascorrendo settimane intere sdraiata sul divano, e tutto quell’insieme di contraddizioni che sempre avrebbe accompagnato la mia esistenza. A ubriacarmi nei bar e a pensare alla mia vita. Inutile. Bruciata. Sprecata. XVI. Al funerale della sorella di Vera non ho provato assolutamente nulla. Per certi versi c’era anche da aspettarselo. Ho continuato a restare sospesa in quel limbo assente di emozioni nel quale mi

ritrovo da un mese a questa parte, e nulla, neanche le parole del prete o la gente che piangeva, è riuscita a smuovermi da questo vuoto. Durante la funzione non credo davvero di aver avuto un pensiero coerente che sia uno. Ho guardato a lungo i genitori di Vera e, soprattutto, ho guardato a lungo lei. Ho pensato a che cosa può aver provato trovando la sorella sdraiata per terra, morta per overdose, a quanto si dice in giro. È l’unica persona di cui abbia un ricordo preciso, nitido, in questo assurdo lunedì di agosto. “Mi dispiace”, le ho detto, e mentre la abbracciavo ho sentito il profumo dei suoi capelli che si confondeva con quello più forte dell’incenso. E in quello stesso istante ho visto Rebecca andarsene verso l’uscita, e tutta la gente che usciva dalla chiesa, come in una triste e lenta processione. XVII. La vita certe volte mi sembra davvero una di quelle cazzo di feste dove non conosci nessuno. Te ne stai lì, con il tuo bicchiere in mano, e guardi gli altri. E ti sembrano tutti al loro posto, quegli stronzi, sei solo tu quella sbagliata. E vorresti uscire. Andartene fuori. Prendere la porta ed essere da un’altra parte. E invece te ne resti lì, continui a guardare, incapace di partecipare. Ed è per questo, o almeno credo, che in questo momento sto piangendo. XVIII.

Tutti mi chiamano, in questo periodo, come sempre fa la gente quando uno ha voglia di rimanere spento; chissà perché poi. Non rompetemi i coglioni, signori, è così difficile da capire? Le domande: COME STAI, POSSO FARE QUALCOSA?, serbatele per altri momenti del cazzo, continuando a vivere le occasioni non mancheranno di certo. Con me è tutto sprecato. Non c’è niente da consolare, ho solo bisogno di essere lasciata sola, a decantare al buio, fino a quando una mattina non mi alzerò più tranquilla e capirò per conto mio che è arrivato il tempo di riaccendere la luce. XIX. Sono entrata nella camera di Rebecca, stanotte. Era seduta sul letto, il libro di filosofia aperto davanti a lei. Ancora una volta nessuna parola, solo la sua mano che entrava nei miei pantaloni, mentre lo stesso faceva la mia. Abbiamo continuato a baciarci, e a toccarci, per un tempo che mi è sembrato lunghissimo. Le ho lasciato accarezzare le mie tette sotto la maglietta, e questo mentre le mie dita entravano poco a poco nella sua fica. Siamo venute così, senza nemmeno svestirci. Ed è lì mi sono accorta che quando stai bene, anche solo per il tempo di un piccolo orgasmo, smetti di farti tutte quelle domande del cazzo sul resto. XX. Continuo a pensare a Vera. Più che altro per cercare di capire che cosa c’è dietro questo nostro rapporto, così forte ma, nello stesso tempo, così irrisolto.

Devo fare chiarezza, comprendere di quali sentimenti sono capace. Sapere se sono in grado di affrontare qualcosa di diverso da questo lasciarmi andare. Il sesso. In fin dei conti è l’unica cosa che mi fa sentire ancora viva, l’unica che riesce a far diventare relativo tutto il resto. Il sesso o anche solo quello che il sesso rappresenta, il senso di conquista, o di possesso, collezionismo o quel che è, chiamatelo un po’ come vi pare. Scopare come sfida a me stessa, alle umiliazioni, alle sconfitte. Scopare come rivalsa, per tutte le volte che mi è stato detto di no, per tutte le volte che non sono stata corrisposta, per tutti i sogni che non sono riuscita a realizzare. Per un compagno di classe che non sono riuscita a baciare, per un amico che è rimasto tale, per qualcuno che ho amato perdutamente senza riuscire a rivolgergli mai la parola, per tutto questo e quant’altro mi ricordi un’occasione perduta. XXI. Rebecca ha sempre odiato Vera, è questo il punto. Non sopporta la nostra amicizia, o il fatto che qualcuno si sia frapposto tra me e lei. “Sono gelosa, porca puttana, lo vuoi capire?” Mentre fumo l’ennesima sigaretta, i miei pensieri fanno talmente tanto rumore che mi sembra che Rebecca, il traffico, la televisione e tutto il resto siano finiti in una specie di stanza insonorizzata. “Fai quel cazzo che ti pare, Gabriella, ma non venire qua a parlarmi delle tue amiche. Non me ne frega un cazzo, Cristo!”

La guardo e scopro che mi piace il suo corpo magro, le sue tette piccole, i suoi capelli bagnati. “Dài, Rebecca, vieni qui.” Fuori è già buio da un pezzo; la nebbia si è abbassata tra le case, e fatico a vedere la gente che cammina per la strada. Lei mi abbraccia, chiudendo il libro; sono così malinconiche le serate di settembre. XXII. Mi ha telefonato Vera, stamattina. È bello ascoltarla, e sentirla di nuovo ridere. Quel suo modo infantile di raccontare le cose. L’entusiasmo con il quale, nonostante tutto, affronta la vita. Sembra tutto così facile, per lei. La morte, il dolore, la disperazione di sua madre. Non so davvero come faccia. “Ho voglia di vederti.” E subito mi è sembrata una frase così fuori luogo, così inopportuna. Quasi uno svelare un sentimento inconfessabile. “Lo voglio anch’io, Gabriella.” XXIII. Questa incapacità di fare il primo o mi sgomenta. Non sarà sul serio che la vita è solo gente che cerca di recuperare ciò che si è lasciato alle spalle, errori, scelte, occasioni perdute, un dannatissimo rincorrere cose che sono già successe, nel bene e nel male, ma comunque finite, concluse,

archiviate? XXIV. Io e Vera siamo rimaste sole, ieri sera. Abbiamo bevuto qualcosa, guardando la televisione. Era evidente che nessuna delle due sapeva esattamente come comportarsi. Lei è stata una conversatrice noiosa, un sacco di luoghi comuni, ogni cosa che ha detto sono sicuro di averla già sentita da qualche altra parte. A un certo punto ho anche pensato: “deve andarsene, cazzo, che accidenti ci sta a fare qui?” Ho guardato le sue dita che scivolavano lentamente sul bicchiere vuoto. Probabilmente a quel punto avrei potuto fare qualsiasi cosa e avrei trovato il suo consenso. Ma non l’ho fatto. Sono restata lì, con la consapevolezza che lo volevamo entrambi, ma spaventata da quello che sarebbe potuto succedere se quello che pensavo si fosse rivelato sbagliato. Alla fine siamo rimaste così, con lo stesso imbarazzo e con la stessa voglia di essere da tutt’altra parte. XXV. Ho noleggiato un film porno e sono seduta sul mio divano. Ho voglia di masturbarmi. Di restare in silenzio di fronte allo schermo e di guardare. Al buio. Non ho voglia di parlare. Né di uscire. E né di incontrare gente. Solo restare qua, in questo cazzo di salotto, con la mano tra le gambe, e

continuare a toccarmi fino a che non mi verrà da vomitare, o fino a quando non avrò finito la bottiglia di whisky. Dipende da quale delle due cose succederà per prima. XXVI. Forse devo smettere di fare sesso con Rebecca. E questo non perché abbia dei sensi di colpa. Anzi, in tutto questo i sensi di colpa non c’entrano proprio per niente. È proprio perché non capisco per quale motivo dovremmo continuare a farlo, che senso abbia tutto questo schifo di relazione. Questo perdere tempo, questo scoparci e basta, e poi che cazzo ho da condividere io con una di sedici anni, non ridiamo nemmeno delle stesse cose. Si, devo chiudere con Rebecca. Dire basta. È di questo che ho bisogno adesso. Di non avere nessun tipo di pensiero. Accontentarmi di quello che sto facendo. E questo perché alla fine tutto quello che voglio è solo poter continuare a vivere e bermi un altro bicchiere di Ballantine’s. Poi magari addormentarmi. E decidere al risveglio. Se uscire o restare, e continuare a bere. Da sola. XXVII. Non riesco a pensare alla mia vita da vecchia. Malata, magari, incapace di pisciare o di cagare da sola, mentre parlo di cose a

cui nessuno frega un cazzo. Stare lì, a guardare tutto il resto e aspettare di morire, o che un qualche medico ti trovi un bel tumore con cui are le serate. Penso spesso al suicidio, non come a una sorta di congedo vigliacco ma come un modo naturale per togliere il disturbo. Dio o chi per lui avrebbe dovuto darci gli strumenti per capire, sono stanca di giocare senza conoscere le regole. Senza sapere cosa si vince. E soprattutto: se si vince. “Cenere alla cenere, polvere alla polvere.” Ci crediamo così importanti, e invece non siamo niente. Non siamo proprio assolutamente niente. XXVIII. Rebecca non accetta il fatto che me ne stia per conto mio. Che non la vada più a trovare. Crede di aver sbagliato in qualcosa, e per questo continua a chiedermi scusa. E invece deve capire che non c’è nulla di sbagliato e che, quindi, non c’è nulla da perdonare. Solo vite che devono continuare ad andare avanti senza cercare di ricostruire un qualcosa che oramai non esiste più, com’è giusto che sia, poi. E se ci saranno ferite da leccare, e state pur certe che ce ne saranno, non sarò certo io che potrò darle conforto. È la vita, sorella. A te, come a noi tutti, non resta altro che prenderne atto, e continuare per la tua

strada. Io, stanne certa, farò lo stesso. XXIX. Oggi Rebecca ha dato di matta. Lo ha fatto di nuovo, intendo, non è certo la prima volta. Una stronzata, durata venti minuti o poco più, ma il segno inequivocabile di una tensione troppo a lungo trattenuta, e che prima o poi doveva pur esplodere. Era inevitabile, in fin dei conti. Però devo ammettere che, mentre la sentivo urlare, ho avuto seriamente paura di perderla per sempre, e che in quel momento mi sono vista vecchia e sola, senza nessuno che mi leccasse quelle stramaledettissime ferite di cui vi dicevo. E allora, solo allora, ho capito che dovevo fermarla. Umiliandomi, se fosse stato il caso: l’unica cosa importante era che non uscisse per nessun motivo dalla mia stanza. È così che alla fine sono riuscita a calmarla. È tornata nel letto e abbiamo ricominciato lentamente a scoparci, perdute nel nostro consueto silenzio. Siamo rimaste abbracciate per un tempo imprecisato, fino a quando non ha preso la sua solita sigaretta e la televisione. Non mi sono mai sentita così triste in tutta la mia vita. XXX. Oggi pomeriggio Rebecca è uscita dalla sua camera alle sette e venti. Non c’era nulla di strano in questo, se non l’orario e il fatto che avesse una Smith & Wesson carica nella tasca dei pantaloni.

Probabile che fosse eccitata dall’idea di avere un qualcosa che potesse fare seriamente del male a tutti quegli stronzi che le stavano intorno, un qualcosa che le permettesse di esprimere un parere personale su tutta la faccenda. Anche solo per mandare affanculo tutto, affanculo la Rebecca che subisce le decisioni degli altri, affanculo la Rebecca umiliata e affanculo la Rebecca indifesa, affanculo chi l’aveva presa in giro e affanculo chi le aveva fatto perdere tempo. Affanculo. Affanculo. Affanculo. Che vita del cazzo. Perché quando ti senti come se non fossi mai stata importante per nessuno non ti sembra nemmeno vero di avere l’opportunità di diventare fondamentale. Fondamentale per Vera. Fondamentale per me. E soprattutto, fondamentale per se stessa. E fondamentale anche per tutti quelli che dicevano: “Rebecca, brava, sì, però, Rebecca, bella, sì, però, Rebecca, tutto il resto, sì, però.” Adesso basta, sì, però. Adesso era probabilmente arrivato il momento di dimostrare, di fare capire, e se per farlo fosse servita una pistola, tanto peggio. Vorrà dire che avrebbe fatto solo più rumore, tutto qua. Si sarà infilata una mano in tasca, più che altro per sincerarsi che fosse ancora lì. E il fatto di sentirla le avrà dato di certo un senso di grande tranquillità. E di gioia. XXXI. Rebecca uccide nostra madre alle sette e trentacinque.

Entra nella sua camera, la fa inginocchiare di fronte a lei, le mette la pistola in bocca e, senza dire una parola, spara. A quel punto della sua testa rimane ben poco. Un po’ di sangue contro al muro. E pezzi di cervello sparsi sul lenzuolo. Vera è fuori, in giardino. È seduta su una sedia di vimini e, stando a quanto avrebbe raccontato poi, sta fumandosi una canna. «You need coolin’, baby, I’m not foolin’, I’m gonna send you back to schoolin’, Way down inside honey, you need it, I’m gonna give you my love, I’m gonna give you my love. Wanna Whole Lotta Love.» (Led Zeppelin-Whole lotta love) Rebecca le si avvicina lentamente. Vera non la sente nemmeno, se non quando se la trova di fronte. “Cos’ è, uno scherzo?” Rebecca la guarda. Le sue braccia sono tese, le mani impugnano fermamente la pistola. “Sì, è uno scherzo!” Il primo colpo le entra nella spalla.

Cade per terra, il dolore è fortissimo. L’unica cosa che le viene in mente è quando da piccola si è spaccata un braccio, cadendo sulla neve. Io sono in camera. Mi sveglio di colpo. Cos’è stato questo rumore? Guardo l’orologio. È sera, sono quasi le otto. Vera se ne dev’essere andata già da un pezzo. Eppure il suo cappotto è ancora sulla sedia. La chiamo. “Vera.” Silenzio. “Vera.” Ancora silenzio. Ho come l’impressione di sentire delle voci. Forse è il televisore. Chissà. “Vera.” (dove cazzo sei?) “Mamma.”

È impossibile che non mi sentano, non con tutte le porte aperte, almeno. Perché non mi rispondete? XXXII. Vera e Rebecca sono entrambe nella mia stanza, adesso. Vera è ferita. Non so nemmeno se sia grave, ma in effetti perde davvero molto sangue. “Mi fa male.” Non me ne frega niente. Anzi, vorrei che Rebecca se la prendesse solo con lei, che abbassasse la pistola e che mi lasciasse andare. “Statevene sedute.” Vera scuote la testa, continuando a tremare. “Ho detto sedute, Cristo!” “Rebecca, ti prego.” “Rebecca ti prego un cazzo!” Rebecca prende Vera per i capelli, sbattendole la testa in mezzo alle mie gambe. Sento il suo sangue, e la sua bocca che respira. Sto male. XXXIII. Da quando tutto è iniziato sono ate circa due ore. Il telefono suona ininterrottamente da quasi venti minuti, è chiaro che qualcuno ci sta cercando, sarebbe anche strano che così non fosse.

Rebecca ci guarda, seduta sulla sedia. Ha di nuovo la pistola in mano, puntata verso di me. “Tu non mi hai mai amato, vero?” Amare. Sapessi almeno che cazzo significa amare. Condividere lo stesso spazio. O lo stesso tempo. Fare sesso. In effetti, se riduciamo l’amore soltanto a questo, probabile che qualcosa del genere tra me e Rebecca ci sia anche stato. Eppure non credo affatto che sia semplicemente così. Pensare ciò è anche un modo facile per definire quest’ansia continua, il mio volere cercare, l’angosciosa sensazione di non appagamento, la rassegnazione, la paura di morire, il desiderio di bruciare la mia gioventù prima che questa si spenga definitivamente, ammesso che questo non sia oramai già successo, e tutto ciò non sia solo una specie di veglia funebre, o qualcosa del genere, non so se mi spiego. Dieci e trenta. Le macchine della polizia stanno parcheggiando di fronte a casa mia. Chiaro che qualcuno deve averli avvertiti. XXXIV. “Stiamo radunando un bel po’ di gente, qua davanti.” La guardo. È così bella che a volte mi sorprendo del fatto di non essere stata capace di

volerle bene. O perlomeno di non avergliene mai voluto come lei ne ha voluto a me. Di questo mio stancarmi così presto delle persone. Di come sia stato possibile che la mia capacità di amare sia diventata nel tempo così banale. La ricordo da piccola, quando avo le giornate a guardarla. Aveva un profumo buono, ed era sempre felice. Credevo che la mia vita con lei sarebbe potuta essere fantastica. Poi al liceo ho conosciuto Vera, e ho iniziato a pensare che in quello che succedeva tra me e Rebecca dovesse esserci un qualcosa di sbagliato. I sogni che facevamo chiusi nelle nostre camere hanno cominciato a non avverarsi più, e da un momento all’altro mi sono ritrovata in un posto che non sono più riuscita a riconoscere. L’età adulta, forse. Sento più forte le sirene della polizia, e rumori sulle scale. Non so cosa stiano facendo, spero solo che sappiano come farla, e che la facciano anche dannatamente bene. Nel frattempo vorrei solo dormire. XXXV. “Andatevene.” La guardo, incredula, mentre Vera resta immobile, sdraiata sul divano. “Ho detto di andarvene.” Non ne capisco il motivo.

Perché lasciarci uscire? “Non ho un posto dove andare.” “Nemmeno io.” Rebecca è immobile, seduta sulla sedia. Sola con i suoi pensieri, sconfitta, inutile, lo sguardo perduto sul pavimento, come se da quel vuoto fissato potesse uscire una possibile soluzione, un nuovo punto di partenza, un motivo per alzarsi e andarsene con me, rassicurando tutti. È STATO SOLO UN ERRORE, TUTTO ATO, UNA DISCUSSIONE, UN MOMENTO DI CRISI, UNO SPIACEVOLE CONTRATTEMPO NELLE NOSTRE VITE DI MERDA. Ma abbiamo già risolto tutto, potete tornare alle vostre case, qui non c’è più niente da vedere, solo due persone molte stanche che vogliono essere lasciate in pace. Andatevene, ve ne prego, via. “Vieni con me, Rebecca. Usciamo.” “Vattene.” Scendo le scale, seguita da Vera. Mentre lo faccio, spero di essere raggiunta, chissà perché. O di essere fermata, forse per non dovere vedere tutte quelle facce che mi osservano e che mi chiedono: “Che cos’è successo?” Penso a Rebecca. Seduta su quella sedia del cazzo, a fissare il pavimento, e lasciando tutto il resto fuori, perché nulla debba più essere guardato se non quel vuoto. Non so nemmeno come mi sento. Probabilmente come mi sono sempre sentita, perché so che è tutta merda, ma che è di questa dannata merda che so di avere fottutamente bisogno.

Di buttarmi via, e di farlo lo stesso anche se so che dopo mi sentirò peggio, perché non so vivere diversamente e oramai mi sembra così tardi per cambiare tutto, ammesso che ci sia davvero qualcosa che io voglia cambiare, e che la mia vita non sia invece proprio questa, esattamente così. È l’abitudine che ci libera dai sensi di colpa. Come uccidere. Sto uscendo. C’è molta gente fuori che aspetta. Apro la porta, e aspetto ancora di sentire uno sparo. So che ci sarà. Forse contro di lei, o forse contro di me, o forse contro tutte e due. Ma non ha importanza. Perché non sarà certo lo smettere di respirare che mi aiuterà a distinguere, in questa fottuta storia che vi sto raccontando, chi sono i vivi da chi sono i morti.

Il funerale Interquel. I. La camera ardente. Ho deciso di non entrare. Mi basta guardare la gente che esce, tutte quelle lacrime, tutto quel dolore, Dio mio, ma si può morire così? Nicola Rovati. Sembravi invincibile, cazzo. E invece adesso te ne stai lì, sdraiato in quella maledetta cassa, aspettando che i tuoi amici ino a salutarti per l’ultima volta. Che tristezza. Ci siamo proprio tutti, del vecchio gruppo non manca davvero nessuno. Facce invecchiate, persone irriconoscibili. Gabriella è ancora la più bella di tutte. Per lei il tempo non a mai, rimane sempre la stessa che era a vent’anni. “Era un sacco di tempo che non ti vedevo, Gabriella.” La migliore amica di Vera. Ha la faccia di una che ha ato i suoi ultimi giorni a piangere. “Enzo, Dio mio, ci sei anche tu.” Fumiamo una sigaretta. La guardo, e per un istante mi rendo conto che non me ne frega niente.

Non me ne frega niente che Vera e Nicola siano morti, mi importa solo che lei sia qui, vicino a me. Cinico egoismo, umana consapevolezza che ognuno di noi è sempre e comunque più importante di tutto il resto. “Non ho visto tuo marito.” Sorride, chiudendosi il cappotto. “No, non ama molto i funerali.” Ci allontaniamo in silenzio, in direzione delle macchine. Non so nemmeno di che cosa parlare, non posso certo dire di essere a mio agio in queste situazioni. Magari qualcuno penserà pure che stiamo insieme. In effetti sarebbe bello salire sulla sua Classe A e are con lei il resto della mia vita. E invece so già che non sarà così. Lei tornerà nella sua bella casa in centro, con un uomo che sopporta a malapena, e io nel mio odioso monolocale, ognuno perso nelle proprie malinconie. “Ti va un caffè?” Aspetto la sua risposta. Uno-due-tre-quattro secondi. “Ti ringrazio, ma non credo davvero che sia il caso.” Apre lo sportello, ormai lontana anni luce. “Non fa niente. Probabilmente è anche meglio così.” II. Il corteo. Vera e Nicola. E così alla fine è riuscita davvero ad averlo tutto per sé.

Se lo è preso nel modo che le è più congeniale, appropriandosene in modo indebito ed esclusivo, mettendo da parte tutti gli altri. Un colpo a lui e uno a te, e poi dritti verso chissà dove. La morte che unisce quello che la vita doveva dividere. Ma cosa c’entravi tu, Nicola, in tutta questa pazzia? Perché hai voluto farne parte, perché non sei riuscito a liberartene prima di questo tragico epilogo? “Tutto bene, Enzo?” Cecilia. Non l’avevo nemmeno vista. “Certo, tutto bene. Vorrei solo che fosse già tutto finito.” Le macchine procedono piano, risalendo verso la collina. Come sarà la mia vita, d’ora in poi? Sarà solo un doloroso pensare, in compagnia di lontani ricordi? Come potrò continuare a guardare tutte quelle cose che mi ricordano di noi? I nostri dischi. I nostri libri. Tutte le foto che tengo nei cassetti. “Hai visto quanta gente?” Sì, quanta gente. Riempiranno la chiesa, e chissà quanti che resteranno fuori. Amici. Colleghi.

Poliziotti. Giornalisti. Curiosi. Tutta la Milano che deve apparire, tanto stasera si sa che siamo su tutti i telegiornali. “Mi sento male.” Non riesco a respirare. Non c’è aria a sufficienza in questa macchina. “Fermati un attimo. Sei pallido da morire.” No, va tutto bene. è solo panico, paura di entrare in quella chiesa, sentire l’odore di morte e quella bara con Nicola dentro. Come potrò sopportarlo? III. La chiesa. Maligno. Così mi aveva detto la dottoressa. M-A-L-I-G-N-O. Ho guardato attentamente le sue labbra mentre pronunciava quelle parole, quasi a volerne leggere un diverso significato rispetto a quello che le mie orecchie stavano sentendo. Nicola era stato il primo a cui l’avevo raccontato. “Enzo, coglione, oramai si cura tutto.” E mi aveva abbracciato.

E in quell’abbraccio avevo inteso tutto il suo conforto, tutto il suo calore. Eppure, Nicola, avevi torto. Non è vero che si cura tutto. Non si curano le pallottole. Non si cura la pazzia. Non si curano le cose per le quali sei stato ucciso. Non si cura l’amore. Non si cura il dolore. Non si curano la morte, la rassegnazione di chi ti sopravvive, la struggente malinconia. La paura. La vecchiaia. La solitudine. Accendo una candela. Forse lo faccio per te, Nicola, o forse no. Forse lo faccio per me. Forse lo faccio per non esserci io dentro quella bara, per il sollievo di esserti sopravvissuto. “Dove ci mettiamo, papà?” Invidio mio figlio. La sua gioventù, la sua indifferenza, e tutta quella vita che ancora gli sta davanti. Non so neanche come abbia reagito a quella storia del tumore, alla fine sembrava

quasi che nemmeno lo riguardasse. In effetti, da quando ho lasciato sua madre, anche quel poco che prima condividevamo è andato definitivamente a farsi benedire. “Non lo so, Davide. Vai davanti, mettiti dove c’è posto.” Si siede nell’ultima fila, lontano da me e lontano dagli amici. è chiaro che vorrebbe essere da tutt’altra parte, alla sua età non hai poi tutta questa voglia di occuparti della morte. IV. Il prete. “Dio ci dà e Dio ci toglie, è questo il mistero che dobbiamo accettare.” I preti. Si presentano alla gente senza essere nessuno e ci raccontano le loro belle stronzate, quasi come se alla gente non servisse altro che questo. Non sai neanche di chi stai parlando, prete. Non conosci un cazzo di niente. Eppure te ne stai lì, dall’alto del tuo altare, a propinarci questa merda. Nicola è morto, prete, e in tutto questo Dio non c’entra proprio niente. “Non siamo fatti per capire il disegno di Dio, ma per abbracciare con fede la sua volontà.” Capire. Abbracciare con fede. Ma ti ascolti quando parli, prete? Credi davvero che qui possa esserci qualcuno disposto a capire, ad abbracciare con fede la volontà di un Dio cinico e assassino, in nome di che cosa, poi? Non esiste nessun Dio, prete.

E se esiste vaffanculo, allora, vaffanculo tu e vaffanculo lui. “Piantala, prete, Dio Cristo, smettila!” La gente mi guarda, adesso. Davide scuote la testa, di sicuro penserà che sono uno stupido. Al dolore si unisce pure l’imbarazzo. Qualcuno mi dice di stare calmo, altri di andarmene fuori. “Vacci tu, fuori, maledizione!” Manica di ipocriti. Vi basta sentirvi dire che non è stata colpa vostra per fare andare tutto a posto. Comodo giustificare il tutto con la volontà di Dio. E toglietemi le mani di dosso. Non ho bisogno di qualcuno che mi spinga per uscire da questo schifo. Stronzi. V. Il cimitero. Non sopporto più quell’idiota di Roberto. Non sopporto la sua faccia, non sopporto la sua voce, non sopporto i suoi modi di dirti le cose e soprattutto non sopporto il fatto che sembra sempre essere a suo agio in qualsiasi situazione. Eccolo là, abbracciato alla madre di Nicola e vicino a Gabriella, protagonista indiscusso anche a un funerale. La sera che abbiamo saputo quel che era successo siamo andati a bere qualcosa insieme. Ad essere onesti, era l’ultima cosa di cui sentivo la necessità, sopportare la sua calma e la sua retorica da quattro soldi, sempre pronto a giustificare tutto e tutti

con la sua intollerabile “analisi dei fatti”. Quando sono uscito da quel locale è stato come aver ato tutto il tempo in apnea, trattenendo aria. Non ricordavo davvero che fosse così bello respirare. VI. Colour suicide. Il funerale è finito da un pezzo e ora sono di nuovo qui. Nel mio monolocale. Solo. C’è la musica, adesso, quella che tanto abbiamo ascoltato, venti e a anni fa. «I woke up this morning and the sun was gone, Turned on some music to start my day. I lost myself in a familiar song, I closed my eyes and I slipped away. It’s more than a feeling When I hear that old song they used to play I begin dreaming Till I see Marianne walk away. I see my Marianne walking away. So many people have come and gone, Their faces fade as the years go by; Yet I still recall as I wander on, As clear as the sun in the summer sky.

It’s more than a feeling When I hear that old song they used to play I begin dreaming Till I see Marianne walk away. I see my Marianne walking away When I’m tired and thinking cold I hide in my music, forget the day, And dream of a girl I used to know. I closed my eyes and she slipped away. She slipped away.» (Boston – More than a feeling) Pensare a Vera che uccide Nicola e poi si spara, Dio mio, che inferno che dev’essere stato. Chissà quanto tempo ha ato con il cadavere dell’uomo che ha amato più di qualsiasi altro prima di decidere che era arrivato il tempo di raggiungerlo. Chissà che cos’ha pensato, o se ha avuto sensi di colpa. Se ha avuto rimpianti. Se ha provato dolore. Che strazio vederci tutti così, ognuno perso tra il dolore della perdita e i bilanci sconfortanti delle nostre esistenze. Pensieri che si sovrappongono, paure che non sappiamo dominare. Angosce così spaventose da chiederci sul serio che senso ancora può avere tutto questo strazio che ci troviamo ad affrontare.

Bevo un altro bicchiere ed inizio la discesa. La cosa che mi consola è che tra quindici secondi la mia vita sarà terminata. Quando l’azzurro di questo cielo finirà, e il suo posto sarà preso dal grigio asfalto del marciapiede, la mia breve, pietosa, inutile esistenza tornerà ad essere quella che è stata prima che qualcuno decidesse di farla iniziare, polvere nell’universo, o quel che è, non ha importanza. Ti vengono un sacco di pensieri mentre precipiti nel vuoto, proprio vero che tutto diventa più limpido. Penso al verde dei giardini dietro casa, quelli in cui giocavo da bambino, con l’erba incolta che cresceva dappertutto, persino dietro le porte. Al giallo dei campi di grano, dove mi nascondevo nei caldi pomeriggi di luglio, quando sdraiato sulle rive di un macero aspettavo all’ombra l’arrivo della sera. Al primo bacio con Daniela, al rosso del suo viso quando le ho infilato la mano sotto la maglietta, peraltro senza nemmeno sapere esattamente che cosa farne. Che stupido che dovevo essere, quando avevo quindici anni. Al bianco di un vestito da sposa, semplice eppure così luminoso, difficile davvero pensare a qualcosa di altrettanto abbagliante. Ai tanti colori che hanno segnato tutta la mia vita, che detta così sembra un sacco di tempo, non questi inutili quarantacinque anni con cui mi trovo ad avere a che fare. È per questo, Nicola, che dieci secondi prima di morire vedo solo il rosa scolorito dei muri della tua casa, e gente dappertutto, che si allontana in fretta da quell’orrore inspiegabile, da quella follia troppo assurda per essere compresa. Ancora cinque secondi, per pensare al nero del tuo funerale, e tutta quella pioggia che cadeva sul cimitero, come se non fosse stato già abbastanza malinconico doverti seppellire, talmente sfigurato da sembrare decomposto prima ancora che siano i vermi a doverlo fare. E comunque oramai l’azzurro del cielo è definitivamente sparito, rimane solo un

enorme orizzonte grigio, l’ultimo colore che mi è stato concesso di vedere. Quattro, tre, due, uno. Poi, finalmente, tornerà l’arcobaleno.

La cantina dell’architetto Sequel. 1 luglio 2004 Carissima Paola, non so nemmeno per quale motivo ho deciso, dopo così tanto tempo, di scrivere questo diario. Sarà che, nonostante tutto, non riesco a rassegnarmi alla morte di Nicola, continuo a non darmi pace, per il fatto di non essere riuscito a capire, probabilmente. Come posso essere rimasto indifferente a tutto quanto, consentendo loro di andare alla deriva, non comprendendo la follia, se follia c’è stata, o il dolore, se è di questo che stiamo parlando? Sono ati due anni, Paola, due anni in cui il pensiero di Nicola non mi ha abbandonato per un solo secondo, due anni in cui la mia vita si è rivelata per quella merda arida di sentimenti che l’amicizia con suo figlio aveva così abilmente occultato, ma che ora ritrovo qua, cinica esattrice di un balzello che sapevo avrei dovuto pagare, solo non così presto, non in questo modo. Agli occhi degli altri, poco o nulla è cambiato: continuo ad essere un architetto prestato alla pubblicità, gioco a tennis due volte alla settimana e mi balocco con i sentimenti delle persone riscuotendo affetti che non sono in grado di ricambiare. La sera rientro tardi, forse per non essere costretto a pensare, e i fine settimana sono sempre in compagnia di gente senza importanza, con la quale spreco il mio tempo nell’illusione che la vita sia per davvero una cosa meravigliosa, e non questo triste peregrinare di letto in letto nell’attesa di qualcosa che, so già, non arriverà mai. Ho venduto il trilocale a Kensington Court, non credo davvero che sarei riuscito a ritornarci dopo quello che è successo. Anzi.

Devo confessarLe che ho smesso pure di frequentare Londra, e la Provenza, e tutti quei posti che in qualche modo potevano ricordarmi Vera e Nicola. Bar, teatri, ristoranti, i luoghi familiari che diventavano ostili, alla fine ho deciso di abbandonare anche Milano e ricominciare da un’altra parte, dove mi sarebbe stato più facile, se non dimenticare, perlomeno trovare una parvenza di sollievo a questo dolore sordo, lancinante, continuo. Ho pensato spesso a Lei, sola nella Sua casa di Camogli. A come sia possibile per una madre accettare la morte di un figlio che ti viene ucciso dalla donna che ama, soprattutto quando questa donna decide poi di suicidarsi senza dare spiegazioni, quasi a negarci il diritto di capire o di comprendere i motivi. Il dramma è che ho amato perdutamente Nicola e, a differenza di Lei, sono riuscito ad amare anche Vera. E questo nonostante il fatto che lei fosse, in fin dei conti, la rivale in amore di questa patetica checca che Le sta scrivendo. Il mio dolore è devastante, Paola. E lo è perché io, come amico di entrambi, avevo il dovere di vedere quello che Lei, nel suo ineffabile pregiudizio, aveva già mirabilmente profetizzato. Non la follia di Vera; quella, se c’era, è stata troppo scaltra per manifestarsi al sottoscritto: ma la fine di un amore così disperatamente romantico - e uso romantico nel senso letterario del termine - fino al suo tragico epilogo, quella sì, non potevo non rilevarla. Per questo spero che non Le dispiaccia se ho deciso di scriverle queste pagine. È che così mi sembra quasi di illudermi che tutto sia ancora come prima, come quando venivo a casa sua e Lei ci preparava i biscotti, o ci ascoltava studiare correggendo il nostro pessimo inglese. Mi manca Nicola, è questo il punto. A lei no?

Suo, sco. 5 luglio 2004 Sto guardando una vecchia foto di Nicola e Vera. Ci sono anch’io, in questa foto, è quella che mi ha dato il vicequestore Perilli, quella che stava sulla mensola della loro libreria. Sembrano felici, eppure di lì a poco lei lo avrebbe ucciso. Probabile che lo avesse già persino premeditato. Com’è difficile capire le cose. Lei non si chiede mai se quello che è successo sia stata un’esplosione oppure un’implosione, un momento di imprevedibile violenza o un gesto a lungo soffocato? Che cosa ha fatto scattare la sua “follia”, per esempio. O che cosa può averla alimentata. Io me lo chiedo spesso, Paola. E non avrò pace fino a quando non avrò trovato la risposta. Quella giusta. 9 luglio 2004 Non ci crederà, ma ho pure iniziato a detestare il mare. L’acqua, la sabbia, tutta questa gente, sto diventando persino insofferente al caldo. Chi l’avrebbe mai detto? E dire che ho ricordi bellissimi legati all’estate.

La vostra bella casa. Le domeniche in spiaggia. Suo marito che ci portava in giro con il pedalò. I panini mangiati sotto l’ombrellone. Le partite a carte in veranda. Che dolore ricordare tutto quanto. 12 luglio 2004 Oggi ho incontrato Gabriella. La migliore amica di lei e il miglior amico di lui, che malinconico quadretto. Distrutti dalla nostra incapacità di comprendere le persone che abbiamo amato di più, e per questo condannati a convivere con domande che non avranno risposte e con il terribile rimorso che inevitabilmente ne consegue. Vera e Nicola. E così ancora una volta non siamo riusciti a parlare di nient’altro. Abbiamo ordinato una bottiglia di vino e ci siamo abbandonati alle nostre patetiche malinconie, come se ricordare potesse servire a renderci di nuovo felici. È bello riuscire ad illudersi, anche solo per un istante. Dimenticare la morte, cullarsi nella finzione. Credere per davvero di poter continuare a vivere senza essere le parodie di quello che siamo stati, perché è così che mi sento adesso. Una parodia di quello che sono stato, la brutta copia del mio ato. Sono così stanco, Paola. Perché è successo? Perché? Perché? 14 luglio 2004 Ho ato questi due anni cercando di fare chiarezza.

Rovistando tra gli oggetti, rileggendo vecchie lettere, in un’ostinata ricerca di qualcosa che mi permettesse di capire. Interpretare. Decodificare. Sono persino tornato nella loro casa, a Milano. Ho girato tra le stanze, e aperto vecchi libri, ormai coperti di polvere. Ho toccato le cose che sapevo a loro care. Ho pianto. Sono restato per ore sdraiato nel punto esatto dove i loro corpi sono stati ritrovati. Ho chiuso gli occhi e li ho visti prima baciarsi, e poi scoparsi, e poi uccidersi. Ho pensato di impazzire. 16 luglio 2004 Sono seduto sul loro divano. Continuo a rileggere questo foglio di quaderno, uno stupido foglio di quaderno, tenuto piegato tra le pagine di “Addio alle armi”. «Caro Nicola, quando e se troverai questa lettera io molto probabilmente me ne sarò già andata. Non cercarmi, non telefonarmi, non fare nulla che possa mettermi in condizione di tornare sui miei i. Qualcuno ha voluto osteggiare il nostro amore, e tu sai bene chi. Qualcuno che ha scoperto una parte inconfessabile del mio ato, e sta usando tutto questo per ricattarmi, per allontanarmi da te.

Qualsiasi cosa ti verrà detta, ragiona sempre con la tua testa, non usare quella degli altri. Mai.» 17 luglio 2004 John Steinbeck. “Furore”. Un altro di quei fogli a quadretti, stesso quaderno, probabilmente. «Caro Nicola, a volte penso sul serio che Montelupo Fiorentino sarà la mia prigione per il resto della mia vita. Che senso ha avuto uscire da quel posto quando le sue mura continuano a condizionare ogni momento della mia esistenza? Avevo davvero creduto di poterti tenere fuori da tutto questo?» Thomas Mann. “I Buddenbrook”. «Caro Nicola, credo che ognuno di noi dovrebbe avere il diritto, espiata la propria colpa, di considerare saldato il proprio debito con la società. Una giustizia che azzera anche il ricordo e le tracce di quello che è stato, e che ci fa rinascere puri e vergini, mondati dei nostri peccati Ciò nonostante, non credo davvero che potrai mai accettare il mio ato. O anche solo il fatto di non avertene mai parlato prima. Inevitabilmente, tutto questo ci porterà a una dolorosa e drammatica separazione non consensuale.» James Joyce. “Gente di Dublino”. «Caro Nicola,

non ho ceduto al suo ricatto e sono pronta pertanto ad affrontarne le conseguenze. So che non desisterà dai suoi propositi, per questo mi preparo al peggio. Compra l’amore con l’odio. E ti tiene stretto a sé allontanando tutto ciò che per lei costituisce minaccia.» 19 luglio 2004 L’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino è una struttura davvero inquietante. Non so come abbia fatto a scoprire che Vera ha ato un po’ di tempo lì dentro e, onestamente, mi interessa anche poco saperlo. Probabile che abbia pagato qualcuno per rivoltare la sua vita come un calzino, con i mezzi che si ritrova non dev’essere stato nemmeno troppo difficile. E chissà come deve avere goduto a quell’attesa rivelazione, chissà di quanto superiore alle sue più rosee aspettative. Non un banale trascorso di irrilevante entità, ma un vero e proprio caso di pazzia taciuta, un’assassina, probabilmente: non si finisce in un carcere giudiziario se non hai commesso almeno un omicidio. Che occasione deve esserLe sembrata, vero, Paola? Il ricatto, lo strumento più abietto con il quale persone della sua risma cercano di ottenere qualcosa quando tutti gli altri tentativi sono caduti miseramente nel vuoto. È Lei il mandante morale di quello che è successo, Paola. Solo che, uccidendo Vera, ha portato alla morte anche Nicola. Perché Vera qualunque cosa avrebbe potuto ancora sopportare, ma non di perdere per una seconda volta l’uomo più importante della sua vita. 22 luglio 2004 La sto seguendo da alcuni giorni.

Curioso che non si sia ancora accorta di nulla. La mattina quando esce per andare in spiaggia, la spesa dall’ortofrutta, le lunghe ore che trascorre in giardino a leggere i suoi libri. Sembra sempre così serena, quasi che Nicola dovesse davvero tornare a casa da un momento all’altro. Mi aiuti a capire a che cosa pensa mentre cammina sul bagnasciuga, quando si ferma a guardare il mare e lo sguardo sembra perdersi verso l’orizzonte. Ieri mattina L’ho guardata parlare con un pescatore, ma ero troppo lontano per capire le vostre parole. Vi ho visti ridere, probabile che Le abbia raccontato qualcosa di divertente, qualcosa che per un momento sia riuscito ad alleviare la sua pena, il suo triste fardello, i suoi sensi di colpa. Ridere. Sa da quant’è che non rido, Paola? 24 luglio 2004 Lei l’ha sempre odiata, Vera. Non che ne conosca gli esatti motivi, non ho di certo questa presunzione. Probabile che fosse sufficiente il fatto che Nicola l’amasse, per giustificare tanto livore. Qualcuno che si era frapposto tra Lei e suo figlio, usurpandone il posto che il Suo morboso concetto d’amore riteneva che Le spettasse. E quindi si è messa ad aspettare, è restata in attesa. Ha continuato a sperare, si è illusa che prima o poi sarebbe finita. E quando ha capito che non sarebbe successo, ha deciso di agire. Di accelerare gli eventi.

27 luglio 2004 È curioso come la Sua casa sia rimasta esattamente uguale a come la ricordavo. Nulla è stato spostato, tutto è come allora: la sala, le camere, la stanza di Nicola, ancora con gli stessi poster e qualche vecchio vinile degli anni Settanta. È stato un po’ come violare qualcosa di inviolabile. Devo ammettere che il cuore mi batteva forte, e non certo per la paura che Lei potesse rientrare da un momento dall’altro. Non ho toccato niente, se è questo che La preoccupa. Sono solo restato a guardare, respirando lentamente. Eppure sono certo che, se anche si fosse accorta di qualcosa, difficilmente avrebbe chiamato la polizia. Ci sarebbero state troppe cose da spiegare; alla fine, molto meglio cercare di risolvere questa cosa tra di noi, affrontare i nostri fantasmi e sperare che il saldo a consuntivo non sia davvero troppo oneroso. I libri, le vecchie porcellane, l’antica collezione di bambole. Le mensole, le foto, i ricordi di viaggio. A un certo punto ho creduto sul serio di poter soffocare, e sono dovuto correre fuori. A respirare. 29 luglio 2004 Vera era ossessionata dall’idea dell’abbandono. Suo padre se n’era andato che lei era ancora piccola, e da allora in poi tutte le sue relazioni affettive erano state condizionate dal timore di essere lasciata. Forse era per questo che si era sempre ritrovata a vivere di ioni provvisorie e di amori labili, di rapporti effimeri che per la loro stessa natura erano già destinati, fin dal loro nascere, a concludersi irrisolti, non compiuti, sterili. Nicola per lei era diverso.

Nicola era un amore maturo, totale, una sorta di esorcismo per liberarsi del suo ato. E in questo io e Vera siamo stati davvero uguali. Abbiamo continuato ad amare lo stesso uomo, per quello che era e, soprattutto, per quello che per noi rappresentava. L’illusione di riscatto, o l’estrema possibilità di dare un senso a tutto quanto. 2 agosto 2004 Devo confessarLe che entrare nella Sua casa quando Lei non c’è sta diventando un’esperienza davvero elettrizzante. Da alcuni giorni a questa parte ho anche preso l’abitudine a muovermi con un grosso coltello da cucina, nel caso dovessi fare brutti incontri. Vera diceva spesso che quello che porta la gente alla pazzia è la “consapevolezza della perdita”. Che frase illuminante, non trova anche Lei? È così che Lei, Paola, ha scatenato la Sua “follia”. Lo ha fatto inducendole la paura di rimanere di nuovo sola, privata di tutto quello che ancora una volta, faticosamente, era riuscita a costruire. L’illusione di essere amata. Quella stessa paura che avrebbe evocato prima fantasmi del ato, poi gelosie, e infine l’assoluta certezza che se Nicola non poteva essere suo, allora non doveva più essere di nessun’altra. La morte come sublimazione tragica ed estrema dell’amore. Quanta letteratura è stata scritta a riguardo, Paola? Guardando la cosa da questo punto di vista, quello che è successo a Vera e Nicola è davvero la trama più banale che si potesse scrivere a riguardo. Ci rifletta.

9 agosto 2004 È così sorprendente, la vita. Alla fine siamo tutti uguali. Io. Lei. Vera. Tutti miseri istrioni pronti a vendere il nostro personaggio al più bieco egoismo, virtuosi fino a quando il copione ce lo consente, poi molto meglio assecondare la nostra vera natura, che è crudele, perfida, selvaggia. Tutti sconfitti, ognuno con le sue ferite da leccare e le proprie miserie da compiangere. Triste, non è d’accordo anche Lei? Adesso si è fatto tardi. Meglio che spenga la luce e dorma per un poco. Nei prossimi giorni avrò davvero molto da fare. 11 agosto 2004 C’è un piacere particolare nel rompere gli oggetti. Il vaso indiano, la collezione di ventagli, i quadri di Suo marito. Chissà che cosa avrà pensato, rientrando in casa. Può darsi che si sia anche stupita del fatto che non mancasse assolutamente nulla, non i trecento euro sotto la foto di Nicola e nemmeno i gioielli lasciati in bella vista vicino allo specchio dell’ingresso piccolo. Avrà avuto paura, di questo ne sono certo. Avrà anche temuto che il responsabile potesse essere ancora nei paraggi, se non addirittura all’interno della casa.

Si sarà chiesta il perché di tutto questo, anche se, onestamente, non credo davvero che abbia pensato neppure per un momento a me. Mi eccita l’idea del suo terrore, Paola. È l’unica cosa che, in questo momento, mi eccita sul serio. 13 agosto 2004 Non capisco. È da almeno due giorni che non esce dalla villa. Perché? Non era quello che desideravo, non so davvero che farmene di una paura paralizzante che mi impedisce di sfidarLa, di entrare nel Suo territorio e di marcarlo con il mio odio. Ad essere onesti, non so nemmeno se sarò capace di aspettare. La prego, La scongiuro, La supplico. Mi lasci compiere la mia vendetta. 15 agosto 2004 E così se ne è andata. Ha preso la Sua roba, fatto le valigie e, chiamata una macchina, è partita, destinazione chissà dove. Milano, Parigi, Normandia. La ritengo una donna prevedibile, incapace di rifugiarsi in posti che Le sono sconosciuti. Per questo sono certo che non mi sarà affatto difficile ritrovarLa. Ci vorrà solo un po’ di tempo, tutto qui.

29 agosto 2004 Deauville è un’incantevole località sulla Manica. “Centro balneare, sportivo ed ippico”, dicono le guide. Dovevo immaginare che sarebbe stato il primo posto a cui avrebbe pensato. è qui che portava Nicola, quando era piccolo, qui che ha iniziato ad amare il mare. Aveva bisogno di ricordi, di struggersi un po’ in quel dolore da cui sembrava essersi affrancata, nella Sua sicura fortezza ligure. A dire il vero non ho dovuto nemmeno faticare molto. L’Hotel L’Augeval. Sapesse quante volte Nicola me ne aveva parlato. è un posto incantevole. Se non fossi qui per portare a termine un lavoro, mi piacerebbe arci un po’ di tempo. Venirci ad abitare, magari, e ricominciare sul serio a pensare alla mia nuova vita. Ma non è questo il mio compito, adesso. Il mio compito, se ancora non Le è chiaro, è ucciderla. 31 agosto 2004 Onestamente trovo che sia così malinconico questo posto, quando l’estate finisce. C’è ancora un sacco di gente, a dire il vero, ma il colore del cielo e il colore del mare sembrano già annunciare l’autunno imminente, i giorni di vento e i giorni di pioggia, con tutta la malinconia che inevitabilmente ne consegue. E così che trascorro le giornate. OsservandoLa. SpiandoLa da Chez Marthe mentre mangia il Suo poulet. O ancora mentre eggia al mattino, sulla Promenade des planches, persa nei suoi pensieri, quali che siano, in questo momento.

Dolce Paola. Ho un moto di nostalgia nel pensare a quanto Le ho voluto bene, un moto di nostalgia e uno di orrore. Dio dovrebbe impedirci di essere felici, se poi tutta questa felicità serve solo ad essere così tristemente rimpianta. Odio questo posto. Qualcuno mi dia la forza per compiere il mio dovere. 3 settembre 2004 Le ho lasciato una copia delle lettere di Vera alla reception dell’albergo. A quest’ora il concierge dovrebbe già avergliele consegnate. Le auguro pertanto una buona serata. Di cuore. 5 settembre 2004 È divertente osservarLa. Godo della Sua paura. Magari sta meditando di andarsene; come se bastasse spostarsi, per fuggire dal proprio destino. Si rilassi, dunque. Faccia la Sua solita eggiata sulla spiaggia, e prenda la Sua solita colazione al Cafè de Paris. Non si faccia mancare nulla delle Sue abitudini, non rinunci a ciò che Le procura piacere. Rimanga ferma ad aspettarmi. Sto venendo a prenderLa. 8 settembre 2004 Dovevo intuirlo, dovevo immaginarlo.

Se ne è andata, non so come, ma è riuscita a farlo. Quei tre giorni senza uscire dalla Sua stanza, come ho potuto non insospettirmi? “Madame Rovati? Mais monsieur, elle est partie deux jours avant!” Partita. Porca puttana. Partita verso dove? Tornata in Italia, forse? Cazzo! Cazzo! Cazzo! 16 settembre 2004 La sto ancora cercando, ma non si disperi. Prima o poi vedrà che riuscirò a trovarLa, di questo può starne più che certa. Come Le ho scritto pochi giorni fa, non è certo spostandosi che si riesce a fuggire dal proprio destino. 18 settembre 2004 “sco, scusami l’ora. Guido se ne è andato.” Mi dispiace, Gabriella, mi dispiace davvero. So che non eravate felici, e che quello che ti ostinavi a chiamare “il nostro matrimonio” si era oramai ridotto a una grottesca rappresentazione di vita coniugale. Nonostante ciò, capisco il tuo dolore. “E tuo figlio?” Marco non ne sa ancora nulla, è in ritiro con la squadra fino alla prossima settimana, ma oramai è grande, possibile che abbia già capito tutto. “Non so cosa fare, sco.”

Devi lasciare decantare le cose, Gabriella, aspettare che tutto, poco alla volta, ti diventi più chiaro. Non reagire d’istinto. Non fare nulla di cui ti potresti pentire in seguito. Prendere tempo. Pensare. 19 settembre 2004 “sco, La prego, mi raggiunga a Milano. Ho bisogno del suo aiuto.” E quindi alla fine mi ha cercato Lei. Braccata e spaventata, ha deciso di riporre la Sua fiducia in me. Dio, che finale melodrammatico. La vittima che si consegna inconsapevolmente al proprio carnefice, sembra quasi l’epilogo di un romanzo d’appendice. La vita e la morte. Tutto deciso da piccole cose casuali. Un gesto. Una parola. Una telefonata. È che alla fine non esiste il libero arbitrio. Sono gli imprevedibili dettagli a disporre di noi, imponendoci il loro spietato quanto inesorabile verdetto. 22 settembre 2004 Milano, zona Brera. Un piccolo appartamento ereditato da Suo marito, lo stesso in cui mi ha ricevuto.

Ho riconosciuto, appena entrato, il Suo impeccabile gusto per un arredamento un po’ datato, lo stesso che caratterizza la Sua casa di Camogli. Ho ascoltato il Suo racconto, condiviso le Sue paure. Nessun accenno alle lettere, solo “un pazzo che mi perseguita, sco!” Mi sono accertato che non sospettasse nulla, naturalmente, o che di tutto questo non ne avesse già parlato con qualcuno. E poi, senza enfasi alcuna, ho impugnato un paio di forbici e L’ho uccisa. Sono restato fermo, al centro della sala. L’ho guardata morire. Le mani intorno al collo, nel patetico tentativo di trattenere un po’ di vita. Tutto inutile. Alle 17.24, Lei, Paola Rovatelli Rovati, ha finalmente smesso di vivere. 24 settembre 2004 Oggi non mi sento affatto bene. Non c’è traccia di quella serenità che mi sarei aspettato, solo la paura di aver lasciato delle tracce, di non essere stato sufficientemente prudente. Impronte digitali. DNA. E quel concierge a Deauville, figurarsi se non controlleranno anche i suoi ultimi spostamenti. Dio mio. Sono stato il solito coglione. 25 settembre 2004

“Che ci fai qui a Milano?” Sono venuto a trovarti, Gabriella. Più che altro per essere sicuro che fosse tutto a posto. O che non fi una delle tue solite stronzate. “Sei stato gentile, sco, ma non era davvero il caso, credimi.” Sarà. Però vederti mi fa stare meglio, mi fa sentire più tranquillo. A cosa servono gli amici, sennò? 27 settembre 2004 Bara in noce. Piuttosto semplice. Non c’era nemmeno molta gente nella camera mortuaria. Era vestita di nero, il colore che, da sempre, meglio le si addice. Devo ammettere che hanno fatto un buon lavoro quelli delle pompe funebri, considerando lo scempio che avevo combinato. 1 ottobre 2004 “sco, avrei bisogno di incontrarLa.” È il vicequestore Perilli, l’uomo che ha seguito il caso di Vera e di Nicola. Eravamo diventati amici, ai tempi dell’omicidio. Lo ritrovo due anni dopo, qualche capello bianco e un’espressione un pochino più triste. “Mi dispiace disturbarLa ancora, ma come avrà saputo la signora Rovati è stata trovata uccisa nella sua casa di Milano.”

Purtroppo ho saputo. è stato doloroso per me, dottore, ero molto legato alla signora Rovati. E, mentre lo dicevo, ho cercato di interpretare l’espressione del suo viso. Imperturbabile. Nulla che lasciasse trasparire il benché minimo sospetto. “Siete rimasti in contatto dopo la morte di Nicola?” No, affatto. Ci siamo sentiti solo un paio di volte, in occasione del funerale. Poi più nulla, abbiamo preferito tenerci entrambi il più lontano possibile dai ricordi. Perilli ha annuito, come a dire: “La capisco.” “Be’, non che abbia altro da chiederLe, almeno non per il momento. Può andare, architetto. Nel caso ci fosse bisogno, La farò richiamare.” Arrivederci, dottore. Sempre a Sua disposizione. 5 ottobre 2004 Carissima Paola, sto perdendo la concentrazione. Rivedo ancora il suo stupore, chissà come si sarà sorpresa nel vedere che ero io quello che La stava uccidendo. Avrà pensato alla Normandia, alla casa sul mare, a Suo marito da giovane. Chissà se è vero quello che si dice, che uno prima di morire vede arsi davanti tutta la propria vita.

E comunque, a parte questo, è da qualche giorno che faccio fatica a dormire. Provo a leggere, mi rigiro nel letto, e alla fine mi decido per un sonnifero. Ho brevi sonni, pesanti e senza sogni, dai quali mi risveglio ogni mattina alle sette in punto, sempre con la stessa identica sensazione di angoscia. L’orribile sospetto di essermi sbagliato. 7 ottobre 2004 Sto rileggendo le lettere. Dio mio, ho sempre dato per scontato che ogni cosa in esso contenuta corrispondesse a verità. Non ho mai dubitato di niente. Mai una domanda, mai una verifica, come ho potuto essere così superficiale? Ho creduto a tutto senza compiere il benché minimo controllo. Cristo! Cristo! Cristo! 9 ottobre 2004 Devo andarmene da Milano. Scappare, tornarmene a Bologna, fare in modo che tutte le cose mi scivolino addosso in modo indolore. Lasciarmi questo schifo alle spalle. Prima di farlo sono ato da Gabriella. “Hai sentito della madre di Nicola, sco?” Certo, come no. Uccisa con ventisette colpi di forbice, l’ha massacrata, povera donna.

“Ma perché, sco? Perché l’ha fatto?” Non lo so. Vorrei saperlo, Gabriella, ma proprio non lo so. Davvero. 15 ottobre 2004 La stanza della questura nella quale mi ritrovo è sporca e male illuminata. “Architetto, a questo punto delle indagini possiamo ritenere con un margine minimo di errore che l’omicidio della signora Rovati sia legato in qualche modo alla morte di Vera e Nicola.” Complimenti, dottor Perilli, un’analisi del caso veramente lungimirante. 19 ottobre 2004 Quattro del mattino. Che razza di sogno, Dio Cristo. Ero in prigione, e tutta quella gente che mi veniva a trovare. Vera. Nicola. Paola. E Perilli, in fondo al corridoio, che scuoteva la testa. “Ho sempre saputo che è stato Lei, architetto!” ripeteva quello stronzo. Ho il terrore ad addormentarmi, o anche solo a restare da solo. Le luci sono accese, così come la televisione. Il buio, il silenzio, non posso davvero permettere ai miei pensieri di avere il sopravvento. è così la pazzia? 22 ottobre 2004

Il telefono suona. Due squilli e poi il silenzio, neanche il tempo di rispondere. è Lei, Paola? 25 ottobre 2004 Era da un sacco di tempo che non scendevo in cantina. La scala buia, e tutte quelle cose piene di polvere, credo di averne sempre avuto paura. Ho cercato ricordi del mio ato, qualcosa che mi consentisse di abbandonarmi al rimpianto. Qualcosa che mi aiutasse a ripensare alla mia esistenza. A quella di Nicola. A Vera. A Gabriella. A tutti noi sconfitti, in qualche modo, dalla vita. Sono restato lì, con gli occhi chiusi. Ho lasciato che il buio mi invadesse in modo totale. Tic-toc. Tic-toc. Solo il rumore di un vecchio orologio, quasi a scandire il ritmo dei miei pensieri. Tic-toc. Tic-toc. Alla fine ho la luce, non trovando nient’altro che vecchia mobilia da buttare e un insopportabile odore di chiuso.

28 ottobre 2004 o un sacco di tempo in ufficio, ora, anche se ho come l’impressione che mi trattino tutti con una buona dose di accondiscendenza, gli stessi stronzetti che fino a ieri erano pronti a leccarmi il culo per avere cinque minuti della mia attenzione. Il problema è che a nessuno frega un cazzo di nessuno. Manica di ipocriti. Servi obbedienti, quando opportuno, eppure pronti a voltarti le spalle appena che le tue quotazioni scendono un po’. “Se non ha più bisogno, io me ne andrei, architetto.” Sì, vattene pure, io resto ancora qui. E, mi raccomando. Chiudi bene la porta. 29 ottobre 2004 Si dice che fu il demonio stesso a suggerire in sogno a Giuseppe Tartini, allora avviato alla carriera ecclesiastica, la celebre sonata “Il trillo del diavolo”, che lui poi pentagrammò al suo risveglio, tentando, invano, di riprodurre quella “musica di sovrumana bellezza” che nel sonno aveva udito. Lascio andare la sonata nel lettore. La luce è spenta, il volume sufficientemente alto per impedirmi di sentire altri rumori. Il violino sembra librarsi nel centro esatto della cantina. All’estasi sostituisco una claustrofobica sensazione di soffocamento. Ho perso ogni punto di riferimento. Vorrei soltanto arrivare all’interruttore, ma non so davvero da che parte andare. Ho paura.

2 novembre 2004 Giorno dei morti. Non c’è davvero nulla di strano nel fatto che sia voluto venire a trovarLa. è un cimitero piccolo e raccolto quello in cui è stata tumulata. Paola Rovatelli Rovati, nata il 5 aprile 1929 e morta il 22 settembre 2004. I fiori freschi vicino alla Sua lapide non lasciano nessun dubbio sul fatto che qualcuno deve avermi preceduto. Leggo il biglietto: «Ti sento ancora vicina. Claudia.» Una Sua amica, probabilmente. Tocco il marmo, quasi a volere percepire una qualsiasi minima vibrazione. è lì sotto, Paola? Può ancora sentirmi? 10 novembre 2004 Un messaggio di Perilli. Vuole che lo richiami, ma non credo che lo farò. Ho bisogno solo di dormire, adesso. 11 novembre 2004 Ho ato un altro giorno in cantina, senza pensare a niente. Mi serve per spegnere il cervello, per addormentarmi e per risvegliarmi ancora vestito il mattino dopo, in tempo per fare colazione e per ricominciare tutto da capo, perché forse è proprio questa la vita, ripetere giorno dopo giorno le stesse cose e gli stessi gesti, fino a quando non sarò così stanco da non avere più la

forza per compiere nemmeno quelli. E allora non ci sarà più nessun risveglio su quel divano, e nemmeno persone che mi verranno a cercare, solo io e la mia morte, nient’altro che questo. 12 novembre 2004 “Abbiamo trovato delle lettere in casa della signora Rovati, architetto.” Le lettere. Cristo. E così le aveva conservate. “Lettere? Di quali lettere sta parlando, Perilli?” Lo sguardo fisso su quei fogli fotocopiati, la sigaretta tra le dita leggermente tremanti, gli occhiali appoggiati sulla scrivania. “Be’, devo confessarLe, sco, che ne vengono fuori dei nuovi elementi di un certo interesse.” Per esempio? “Per esempio, pare che ci fosse in essere una situazione di, come dire, ricatto psicologico.” Ricatto psicologico. Che delicato eufemismo. “Mi sta forse dicendo che qualcuno ricattava la signora Rovati?” Perilli si è alzato, è andato alla finestra, e ha guardato attraverso il vetro la strada sotto la questura. “Non credo di poterLe comunicare alcune informazioni che, oltre ad essere di natura personale e pertanto riservata, sono anche coperte da segreto istruttorio.” Ha tirato leggermente le tende, per evitare al sole di entrare nell’ufficio.

Poi ha spento la sigaretta e si è girato nella mia direzione. “Mi stia bene, architetto. E dorma qualche ora in più. La trovo davvero stanco.” 15 novembre 2004 Oggi sono sceso nuovamente in cantina. Immobile nel buio per un’ora e forse più, ho lasciato che gli occhi si abituassero all’oscurità per poter intuire al meglio le forme che in essa si muovono. E mi sono messo, in silenzio, a pensare. 16 novembre 2004 Non finiscono mai queste notti del cazzo, non so nemmeno per quale accidenti di motivo mi ostino ancora a cercare di dormire. Meglio sarebbe tenere le luci accese, e leggermi un buon libro. Oppure andare in qualche posto, e bere fino a stare male. Uno di quei locali dove qualcuno da scopare lo trovi sempre, giusto per illudersi di non essere così soli come mi sento adesso. Ho paura a lasciare entrare un po’ di aria. Preferisco respirare questa polvere, e questa umidità, mentre la musica delle “Variazioni Goldberg” scende dal piano di sopra. 17 novembre 2004 Onestamente non trovo davvero nulla di strano nel mio comportamento. Nel fatto che non esca più di casa, ad esempio, o nel tempo che trascorro in attesa, nel buio della mia cantina. È tutto così calmo, adesso. Non sento più il rumore dei miei pensieri.

E nemmeno la sua presenza. Solo la pioggia, incessante, che batte contro i vetri delle finestre. 20 novembre 2004 “Non è una prassi consueta il fatto che io sia venuto qui, architetto.” Seduto sul divano, il cappotto piegato sulle braccia, Perilli ha continuato a guardarsi intorno per tutto il tempo che è restato in casa mia. “No, non credo che lo sia, in effetti. Qual è lo scopo della sua visita, dottore?” Non ero preoccupato dalla sua presenza, stavo solo cercando di capire, di intuire dove voleva andare a parare. “Diciamo allora che sono qui perché volevo metterLa a parte di un qualcosa che abbiamo scoperto. Una cosa che, non lo nascondo, ritengo alquanto interessante.” Ha infilato una mano nella tasca della giacca e ha tirato fuori un pacchetto di sigarette. “Le dà fastidio se fumo?” Ho fatto segno di no con la testa. Non me ne fregava un cazzo che fumasse o meno. “Si riferisce sempre a quelle famose lettere? Quelle del ricatto?” Ha annuito, dirigendosi verso la libreria. Ha sfogliato la mia collezione di LP, prendendo in mano un vecchio vinile degli Emerson, Lake and Palmer. Tarkus. “Posso?” “La prego.”

«Has the dawn ever seen your eyes? Have the days made you so unwise? Realize, you are. Have you talked to the winds of time, Then you’d know how the waters rhyme. Taste of wine, How can you know where you’ve been? In time you’ll see the sign, And realize your sin. Will you know how the seed is sown? All your time have been overgrown, Never known. Have you walked on the stones of years? When you speak, is it you that hears? Are your ears full? You can’t hear anything at all.» “Stones of years. Era una vita che non l’ascoltavo.” “È venuto fin qui per parlare di musica, Perilli?” “No, in effetti no.” Ha rimesso il disco nella sua busta ed è tornato a sedersi di fronte a me. “Allora? Mi diceva di quelle lettere.”

Ho freddo. Vorrei essere in cantina, da solo, in compagnia del buio. Perilli sta sorridendo. “Che cosa sa di Gabriella Arnaboldi, architetto?” Che era la miglior amica di Vera. Che ha qualche problema con suo marito. Che suo figlio gioca a calcio da qualche parte, onestamente non ricordo nemmeno dove. “è lei l’autrice delle lettere, sco.” Lei ad essere stata rinchiusa a Montelupo Fiorentino. Lei ad essere stata, per questo, ricattata. “Ricattata? Ma ricattata da chi? E per che cosa?” Ricattata da Vera. Perché era l’amante di Nicola. Perché la Solari li aveva scoperti. L’amante di Nicola? Ma cosa sta dicendo? Se Nicola avesse avuto un’amante di certo me lo avrebbe detto, io ero il suo miglior amico, Perilli. “sco, non pecchi in ingenuità. Non crederà davvero che un uomo non sia capace di tenere un segreto anche di fronte al suo miglior amico.” Impossibile.

Se ne vada. Lei è un pazzo, dottore. 21 novembre 2004 Ho riletto tutto attentamente. Non c’è nulla, in quelle maledette lettere, che mi induca a pensare che le abbia scritte Vera. Non un nome, non un riferimento. In effetti avrebbe potuto scriverle chiunque. E poi figurarsi. Se Vera fosse stata sul serio rinchiusa in un ospedale giudiziario lo si sarebbe già scoperto durante le indagini per l’omicidio di Nicola. Come ho potuto essere così stupido? 22 novembre 2004 Me lo doveva dire, che non era stata Lei. Non doveva permettermi di crederLa responsabile di tutto questo. 23 novembre 2004 Ho confessato a Dio i miei peccati. E se mi ha perdonato Lui, Paola, di certo potrà farlo anche Lei. Il prete è stato molto comprensivo. Mi ha detto “non preoccuparti, figliolo, grande è la potenza del perdono di Dio.” Ho ucciso e ho sbagliato. Ma adesso, finalmente, sono stato redento.

24 novembre 2004 “è un caso complesso, caro architetto.” Complesso. Complesso in che senso, dottore? “Ci sono diversi punti oscuri. Primo tra tutti, la totale estraneità della signora Arnaboldi, e questo nonostante il fatto che una copia delle lettere si trovasse nell’appartamento della signora Rovati.” Collegamenti. Si chiamano collegamenti. Stanno facendo due più due, e il quattro sono io. “Stando alla deposizione rilasciata dall’Arnaboldi, quelle lettere sono state lasciate volontariamente in casa di Nicola Rovati, e quindi mai spedite. Per quanto ne sappiamo, potrebbero non essere state nemmeno mai lette.” Mi lasci uscire, Perilli, ho bisogno di tornare al buio. “E poi c’è la storia dell’uomo, quello che d’ora in poi chiameremo il persecutore.” Di che uomo sta parlando? Cosa c’entra adesso l’uomo? “Ho interrogato un’amica della Rovati, una certa Claudia Marcheselli, non so se la conosce. Sembra che negli ultimi tempi ci fosse qualcuno che la infastidiva, con effrazioni, pedinamenti... Una specie di maniaco, a quanto dice la testimone.” Cristo, che insopportabile cerchio alla testa. Fatemi uscire, ve ne prego.

Non lasciatemi con questo stronzo, è evidente che ha già capito tutto e si diverte a giocare con me al gatto e il topo. “Quell’uomo ha le ore contate, architetto. Per questo L’ho chiamata. Perché ho creduto che saperlo potesse farLe piacere.” Piacere? Cosa intende? Per quale motivo dovrebbe farmi piacere? “Be’, mi ha detto Lei di essere stato molto legato alla signora Rovati. Dovrebbe essere contento se arrestiamo il suo assassino.” Mi ha accompagnato alla porta. “Non è così, sco?” 7 dicembre 2004 Carissima Paola, alla fine sono tornato qui, in Normandia. Mi manca la pace della mia cantina, il senso di abbandono che il suo buio mi dava. o il mio tempo camminando sulle planches, adesso, guardando le nuvole che, dall’Atlantico, lentamente si avvicinano. Oggi sono rimasto tutto il giorno seduto su una panchina. Proprio di fronte al mare È che ultimamente preferisco restare all’aria aperta, forse perché è l’unico modo per non sentire la Sua voce. “Monsieur l’architecte!” ha gridato qualcuno, alle mie spalle. Mi sono girato. Era Perilli.

Si è seduto e mi ha cinto le spalle. “Ma sco, che ci fa Lei qui, in Normandia?” Non ho risposto, sono rimasto in silenzio, a fissare le onde. “Sono in compagnia di un mio collega se. Abbiamo saputo dalla Marcheselli che la Rovati era venuta a Deauville, e che è rimasta qui fino a pochi giorni prima di essere uccisa. Stiamo andando ad interrogare il personale dell’albergo.” Il mare in inverno induce le persone a strani bilanci. Guardare la gente che cammina sul lungomare, Dio mio, sembra tutto così triste. Eppure nello stesso tempo mi sento anche un po’ sollevato. Mi vedo con Nicola, a correre sulla spiaggia, quando ancora i miei turbamenti erano ben lontani da quel sentimento dilaniante che in seguito avrei provato. E sento la Sua voce, Paola, che ci chiama sotto l’ombrellone. Nicola. sco. E continuo a correre, verso quell’ombrellone che sembra sempre così lontano, con Nicola ancora davanti a me, perché era lui quello più veloce. Mi manca il fiato, i polmoni mi fanno male. Eppure spero di continuare a vederLa così, distante, irraggiungibile. È l’unico modo che mi è rimasto per non far sparire anche tutto il resto. Per diventare un Autore ARPANet: www.ARPANet.org Stampato da Società Editoriale ARPANet nel mese di aprile 2013