L'odore Di Incenso: Il Diario Di Daria v213x

© 2013 Società Editoriale ARPANet Srl, Milano Edizione: aprile 2013 978-88-7426-161-1 Via Stampa, 8 - 20123 Milano Tel. 02.670.06.34 [email protected] I libri di ARPANet sono disponibili qui: www.ARPANet.org www.ARPABook.com www.edizioniARPANet.it In copertina: Roberto Pati, Ipotesi per domani, 1992 collana diretta da: Paco Simone art director: sca Fasoli

Roberto Pati Fiori nel fango NARRATIVA – Romanzo Società Editoriale ARPANet

“Un atomo divino è conficcato in ogni cuore umano”. G.L. Ferretti a Rebecca e Stefania

I Entrai quasi in punta di piedi, senza tempo né spazio. Lo specchio copiosamente intriso di polvere, inequivocabile segno di mesi d’assenza, non rimandò la mia immagine. Segnai una traccia verticale col mio indice destro e una mezza luna di polvere segnò il polpastrello accondiscendente. Rimbecillito, cercai d’infilare il mio naso balenante nella striscia tracciata. L’equilibrio cercato non fu realizzato. Ponderatamente con lo stesso polpastrello, come per incanto, tracciai una linea orizzontale che squarciò lo specchio quasi perfettamente in una scontata geometria. Iniziai a radermi, con inaspettata minuzia, lento e attento. Solchi netti tra la preponderante schiuma segnavano la faccia in un approssimativo equilibrio verticale. La mano stringeva piano il bisunto bilama, pregno di stantio profumo consolidato e nauseanti aromi. Tutto contribuiva ad amplificare la mia tristezza. Quando entrai per la prima volta in quella casa decisi di rimettere tutto a nuovo, tranne il bagno. Non aveva senso allora, ha ancora meno senso oggi, che sta cadendo a pezzi. Il mobiletto bianco sopra il lavandino, perde croste di vernice per l’umidità, lo specchio sta invecchiando e i cardini arrugginiti emettono dei suoni sinistri ad ogni apertura. Lo sportello verticale non si chiude più, lasciando uscire un aroma fuso di dopobarba ad alta gradazione alcolica, il mentolo di un tubo di dentifricio lasciato aperto e bustine aperte di campioncini d’ogni genere. Quando l’ho aperto per cercare la schiuma da barba, mi ha investito un tanfo oscuro, talmente denso da farmi vacillare. Ho respirato forte per superare gli attimi di sbandamento. Un odore di sconfitta troppo simile a quello perennemente presente in galera per poter are inosservato. Lo odiavo quel bagno, più di quanto avessi mai fatto; senza un perché: odiavo le sue piastrelle nocciola e pistacchio, tra l’altro i gusti di gelato che odio di più. Odiavo i sanitari verde pastello e la doccia incrostata e disusa, odio la vasca ampia addossata al muro di fronte alla porta, come una bara che aspetta il suo inquilino con pazienza. E quello specchio che rideva dei miei guai. Non furono sufficienti sessanta candele di luce a rendere perfetto il mio lavoro, ma feci del mio meglio, decisamente. Il lampadario, una semisfera in vetro

satinato bianco attaccata al soffitto, pieno d’insetti morti d’ogni tipo non concedeva altro, e solo alla fine mi accorsi che sopra allo specchio due altre lampadine nude aspettavano d’essere accese. Troppo tardi. Col palmo della mano destra liberai dalla polvere un’abbondante porzione di specchio che mi svelò una faccia quasi sgombra di peli ma piena di rossastre macchioline e chiazze di schiuma sopravvissuta all’alacre lavorio. Un’imprecazione, tipo “vaffanculo!”, apostrofò il rivelarsi del volto segnato da strisce scarlatte del sangue che colava stento. Cercai di tamponare con un asciugamano lercio di ato, ma non ebbi molto successo. Presi allora un rotolo di carta igienica e, dopo averlo spezzettato minuziosamente, applicai i frammenti ricavati sulle ferite. Un sorriso quasi innaturale inarcò le mie labbra quando mi presentai dallo specchio per dar conto del risultato ottenuto. Poca, ma proprio poca parte di volto era rimasta sgombra. “...E che cazzo!” dissi allo specchio, “…cosa avrei potuto fare di più?”, mentre un leggero bruciore si espandeva dalle ferite su tutta la faccia. Accomodato l’asciugamano ferito intorno al collo, mi diressi claudicante verso la camera da letto. ai la cucina guardando appena il lavandino di acciaio vinto dalle incrostazioni e i pensili in rovere di Slavonia, a sormontarlo. Sul tavolino contro il muro, una tovaglia amaranto e marrone, al centro un porta frutta, vuoto, in terracotta decorata finemente. Malgrado mi sforzassi, non riuscivo a ricordarmelo. Eppure tutto era catalogato nella mia testa sbandata. Per forza, non per abitudine. Catalogare tutto quello che avevo visto, vissuto e conosciuto, mi aiutava a are i lunghi tempi morti in cella. Quello non lo ricordavo. Ricordai il negozio di elettrodomestici dove, qualche mese prima di sposarci andammo a comprare il piano cottura, che reggeva meglio del resto, il lavandino con il rubinetto dal gambo lungo e arcuato e le manopole a rosetta; il frigorifero bianco che stoicamente reggeva il tempo - oltre quindici anni - affannandosi ad una efficacia non più richiestagli. Ricordai l’ultima imbiancata, riuscendo a individuare con una fugace occhiata i difetti riscontrati a fine lavoro e gli schizzi di vernice sul pavimento in graniglia grigio scura. Il mio naso era pregno di odori da dimenticare e la mia bocca impastata di sapori ormai inefficaci. Aprii la porta del tinello, lasciandomi avvolgere da una luce esagerata e da una frescura cupa, che quasi sapeva di pioggia. Girai senza senso intorno al tavolo dello stesso legno dei pensili in cucina. Poderoso campeggiava tra una vetrina e una credenza fatti dallo stesso artigiano, in stile rustico, color noce. Da un lato, tre mensole ad angolo, sempre in legno; sulla centrale il televisore nero da trentadue

pollici. Lo stesso da sempre, sotto un videoregistratore grigio. Tuffatomi nel quasi buio, sedetti stancamente sul letto, avvolto da un caldo salmastro, aspettando che qualche neurone mi ordinasse di stendermi. Non avevo la più pallida idea di che ora fosse, giorno certo, la luce impavida filtrava dalle fessure della tapparella, ma l’ora, quella no. Guardai il telefono, gli occhiali sul comodino, i jeans buttati sulla sedia, mentre accompagnavo il corpo in una posizione supina. Quanto lontana mi appariva quella casa vuota. Dieci anni… piatti di noia soffocante che duplica e triplica il tempo, tanto è lento nello scorrere. Questa è la galera, una volta confinata irreversibilmente nel ricordo. Questa è la galera che soffoca perfino la sbavante rabbia dell’ingiustizia. Tanto, prima o poi tutti mi diranno: “... un motivo ci sarà!” Dopo un po’ ti abitui e non ci fai più caso. Cazzo! Il peggio è questo. Almeno io un motivo per uscire lo avevo, anche se il suo nome era vendetta dai tratti truci e sanguinolenti. Ma non avevo fatto i conti col rimorso di sapere compiuto dal destino, quello che per anni avevo tanto bramato. Adesso, disfatto come il letto su cui giacevo inerme, perpetuavo la mia assurda parodia.

II Una porta inutile in un condominio stupido di naftalina e marcio. Mi riconobbe Marilena, mi riconobbe subito. La sua faccia muta lasciò il mio sguardo senza parole. In un istante mi si sgretolò addosso l’impianto vendicativo partorito in dieci anni di rancore. Ordine irreversibile delle cose. Mentre stringevo idiotamente la pistola nella tasca dei jeans, pensai a quanto tutto fosse così patetico. Sicuro! Neanche se avessi trovato una diversa realtà, sarei stato capace di sparare, pensai, mentre Marilena mi diceva inascoltata. “Sorpreso?... Il destino ha già ampiamente fatto il suo corso. Spero che la tua sete di vendetta sia stata saziata”. “No!” pronunciai vitreo. “Ho capito che non sarebbe servito” mentre estraevo mestamente la pistola dalla tasca. Non ebbe alcun moto emotivo alla vista dell’arma. Aspettava forse che sparassi, per mettere fine al suo dolore, oppure era sicura che non l’avrei usata? Mi posi questa domanda, forse lei no. Continuava a guardare la mia faccia segnata dal tempo e da una barba incolta. “Dieci anni!” accennai con rabbia. “Sì, dieci anni” lei, fievolmente. “Solo perché una puttana voleva nascondere se stessa”.

“Sì! Ma non è servito. Come vedi, la puttana ha fatto strada e non ha più voglia di nascondersi”. Lento, alzai il braccio che impugnava l’arma, puntandogliela al centro della fronte. “Spara! Saremo pari” con voce appena accennata. “No! Avanzerebbe in ogni caso qualcosa, che non saprei dove andare a cercare”. In quel preciso istante inestricabile, dall’interno della casa, udii il pianto di un bambino. “Resta sempre qualcosa” disse lapidaria, voltandosi ed entrando in casa richiamata dal larvale lamento. Riposi la pistola nella tasca e chiusi la porta mezza scardinata. Ripresi uno sgangherato ascensore completamente graffitato. Uscii dal portone, e guardandomi intorno vidi il vero volto di quel posto, lo guardai in faccia mentre sovrastandomi mi cacciava via impietoso, vidi il volto della miseria. ò lento il tempo, lento non so quanto. Alzai l’involucro contenente i liquami del mio corpo. D’improvviso desiderai la luce. Strascicante, claudico, cercai la corda della tapparella. La luce ferì le mie pupille e il rumore causticò le mie orecchie. Un dolore sordo s’impossessò della mia pancia, il dolore di un ricordo breve che continuava a schiaffeggiarmi la faccia. Tutto chiaramente galleggiava nel mio encefalo, schiacciante. Aprii la finestra che dava su uno squallido cortile, circondato da inumani condomini. Era rimasto il solito posto di merda, anzi peggio: di qua, il tempo non era ato. Andai in cucina con il preciso intento di preparare un caffè, lo sguardo tornò ad imbattersi in quel foglio che aveva accolto il mio ritorno a casa, lo ripresi in mano. Quella lapidaria frase era l’ennesima sentenza di condanna, ampiamente prevista; ma nonostante ciò, mi procurava ancora un profondo dolore che partiva

dalle ossa, attanagliandomi completamente. “Non volermene, doveva andare così. Mi dispiace, non ce l’ho fatta. Buona fortuna. Grazia”. Sì, certo! “Doveva andare così”. Leggevo e rileggevo quel pezzo di carta, scritto in maniera elegante e curata, lo fissavo con lo sguardo vuoto: era la mente a leggerlo e rileggerlo, malgrado gli occhi continuassero a fissare inebetiti, quella firma fin troppo nota: “Grazia!”. Lo accartocciai rabbiosamente, gettandolo in una busta di plastica che fungeva da pattumiera, appesa alla porta del cucinino, nella quale si scorgevano i resti di una pulizia domestica recente. Niente caffè, realizzai: “Esco a respirare un po’ di vita che mi manca”. Cinquecento euro insieme a quel biglietto. Una forma insulsa di sopravvivenza terminante. Li avevo provocatoriamente trovati accartocciati, insieme al biglietto d’addio, il senso in fondo era quello… pagarsi il viaggio verso la fermata di un delirio presupposto. Un elemento concreto per allungare un’agonia ineludibile, vera e scorticante. Mi gonfiavano la tasca, inespressivi. Il caffè lo avrei preso al bar, il mio di dieci anni fa, dei miei amici, di Arco, perennemente dietro il bancone, tanto da sembrare parte di sé, lui del bancone e il bancone di lui. Non era cambiato molto, tranne l’insegna a neon. Entrando, fremetti come un bambino che aspetta compiacenza doverosa. “Un caffè!” sorridendo ad Arco, con fare interrogativo. Mi guardò di sbieco, continuando a badare al caffè che usciva. Mi fissai sulla sua elefantiaca mole, sui suoi pochi capelli brizzolati. Me lo ricordo vecchio da sempre, forse per la sua precoce calvizie, forse per il suo perenne essere stravolto di fatica. A casa pensava a tutto lui. Due figli parassiti, diplomatisi per scommessa; uno era partito dopo la scuola per non mi ricordo dove, l’altro si

affacciava ogni tanto al bar fingendo di lavorare, solo per giustificare i soldi che il povero Arco doveva dargli per mantenere i suoi vizi, tanti! La moglie viveva nel lusso di vizi acquisiti per la benevolenza del marito, e ora dopo aver ato la parte della sua vita antecedente al matrimonio, in pratica da pezzente, faceva la signora, cornificando ripetutamente il povero che s’ammazzava di fatica per lei. Pensavo se qualcosa nella sua vita fosse cambiato, lo pensavo mentre si girò, inondandomi col suo enorme collo e la sua faccia flaccida. Piattino sul banco, cucchiaino sul piattino, tazzina fumante, zucchero self service... e nel frattempo solo un “Prego!”. Non perdurai il mio sguardo di domanda, appoggiai cento euro sul banco... “Non ho resto! Offro io” disse meccanicamente. “Grazie, Arco!” risposi senza espressione, mentre si asciugava le mani a un grembiule bianco ipotetico. Rimisi i soldi nella tasca dei jeans e uscii, cercando di raccattare tutto il coraggio rimasto. “Cosa manca per poter ricominciare?” Cominciai a contare i i, senza dar peso al mondo che scorreva ai lati, parallelo al mio dolore antropico. Terminai il mio peregrinante delirio motorio, ancora una volta nel bar di Arco. Mi accoccolai in un tavolino nel cantuccio, sotto il televisore. Alcune ore mi penetrarono, mentre insensatamente restavo a fissare la mia faccia immaginata. Mi alzai lento… percepivo domande! La porta mezza scardinata mi accolse impietosa, ruvida e crudele. Tentennai. Busso...? Non busso...? Mi aprirà un viso sfatto di ragazza madre, alla quale la vita ha sfigurato prima l’anima e poi il corpo...? Mi aprirà la sola e unica colpa del male? Mi aprirà un corpo prezzolato, che nell’inganno aveva partorito un disegno, nel quale era rimasta compromessa? Mi aprirà un’entità che mi chiederà “Perché?”

E io voglio saperlo il perché. Devo saperlo, senza che ci sia il bisogno di capire”. Ogni morte mentale porta in sé una ragione. Conficcato nel cervello, il dubbio risuonava come un’ingiustificata condanna. Non riuscivo a formulare ipotesi che potessero, anche marginalmente, dare spiegazioni non necessariamente razionali. Navigavo ancora inconsistente tra domande vecchie di anni quando, una figura prese forma alle mie spalle. Un uomo brizzolato, dall’aspetto trasandato ma decentemente vestito. Cinquanta anni o giù di lì. Operaio? Probabilmente si! Scarpino démodé, pantalone grigio con le pences e maglione finto Missoni sulle spalle, a soverchiare una squallida camicia rosa. Dei baffi ben curati troneggiavano su una faccia rossa d’alcool. Mi stava scrutando con curiosa impazienza. “Allora?” sbottò, “...Entri o non entri?” “Ho bussato!” dissi mentendo, per cercare di giustificare il mio stare ivo. “Sei nuovo? Dalla Lena non si bussa”. “Sì! Sono nuovo”. Stavolta la menzogna era parziale. Aprii deciso. L’uomo mi seguì incalzante. Fuori degrado, dentro, degrado e oltre. Due divanetti vinti dall’usura, una poltroncina lacera e sporca, e un televisore non certo di recente fabbricazione. Non c’era altro, fatta eccezione per un altarino pullulante d’immaginette sacre di varie misure, illuminate da una lucetta rossa. Sui muri barba di muffa e macchie scure di umido che si percepiva anche nell’aria. “Ciao, Checco” disse amichevolmente l’uomo entrato alle mie spalle, sedendosi pesantemente sopra uno dei divanetti. L’altro era occupato da un ragazzino biondo, intento a leggere famelicamente una delle tante porno riviste sparse per la stanza. “Ciao, Boia” rispose fraternamente, l’uomo seduto di spalle, assorto a guardare la tv, in compagnia di una bottiglia di vino mezza vuota.

Sedetti sulla poltroncina, irritato dallo sguardo insistente del mio occasionale compagno. “Gente nuova, Checco”. A quell’affermazione l’uomo che guardava la tv, torse il collo, iniziando un accurato sondaggio. Non tralasciò nemmeno un centimetro della mia sagoma irrigiditasi. Il suo era un freddo interesse professionale. La faccia piccola e il naso aquilino erano nascosti da una folta barba disordinata, e anche i capelli neri. Gli occhi rossi di alcool si dimenavano a scandire i tempi di uno sguardo forzato. “Basta che paghi!” scandì una volta terminata l’analisi, rigirandosi a guardare il televisore. Lentissimi avano i minuti. Una porta alla mia destra si aprì, facendomi visibilmente sobbalzare, ne uscì un ragazzo sì e no diciottenne che, turbato, si diresse con la testa china verso quel certo Checco. L’altro ragazzo che leggeva sul divano sembrò come ridestarsi da una catalessi, posò la rivista, ponendosi in attesa. “Lena! Normale?” urlò l’uomo al televisore. “Normale!” affermò una voce leggera, proveniente dalla stanza socchiusa. “Settanta!” il ragazzo pose sul tavolo sette banconote da dieci euro, defilandosi frettolosamente. Checco si voltò in direzione del ragazzo sul divano in spasmodica attesa, facendogli cenno con la testa di entrare. Il ragazzo scattò in piedi come una recluta e si diresse celermente verso la stanza di Lena, chiudendo la porta che emise un sinistro cigolio, alle sue spalle. Restammo soli, io e il mio compagno d’ingresso. Mi chinai a raccattare la rivista a me più vicina, non tanto per leggere, ma più che altro per cercare di celare il mio presunto quanto evidente imbarazzo, tanto che il tizio baffuto disse. “Non mi sembri molto pratico di puttane”. “Non tanto” esclamai, facendo finta di continuare a guardare le foto sul giornale

che sfogliavo velocemente. “Tranquillo, la Lena è la più in gamba di tutte. Ci sa fare, vedrai che ti metterà subito a tuo agio... Non sei del posto?” continuò. “No!” feci stizzito. “Ho capito, ho capito. Mi farò i cazzi miei, ma sai, era tanto per parlare, non che me ne freghi un cazzo di chi sei e da dove vieni”. “Ecco, bravo! Fatteli questi cazzi tuoi, sarà meglio”. “Boia” intervenne il tipo davanti la tv. “Non rompere i coglioni ai clienti, altrimenti non tornano più”. Risero fragorosamente. Stavo per alzarmi e andare via. Sì, stavo per andare via. Tutto si commisturò staticamente, lungo una parabola decennale che mi apparve lucida e con un reale equilibrio non corrispondente a quella stanza. Squallore e miseria, corpi incastonati, correlati di punti assurdamente logici. Puttana! Nella testa risuonò inutile, come una forma nel buio della notte. Puttana! Per anni aggettivo ricorrente, ora obliante sostantivo senza spazio di rivalsa. Il Boia, così chiamato, fumava, fumava continuamente, mentre famelico, osservava patinati grovigli di corpi nudi amplessanti, di delirio mordace. Domande? Nessuna! Finite, dimenticate, annullate, inghiottite da una realtà immonda, truce. Tutto ciò mi riportò a stramaledire rancori, covati nel perpetuo silenzio di una cella, prodiga di tempi morti e riviste come quelle sparse in quella stanza. Ora, il sentiero era inesplicabilmente diventato un vicolo cieco di natura amorfa. Il mio sentiero immaginario. Immaginato al buio, al sole e nel dolore di un perché inascoltato, il mio sentiero tracciato con piglio lucido d’attore consumato.

Nello scorrere, tutto era mutato, il tempo aveva disegnato tragedie crude e ignobili. Quando pensavo di essere aria, che oltreava le sbarre inosservata, non credevo d’arrivare, dove l’anima era deserto. Quando la pioggia perdurante, col suo incessante tamburrio, catturava il mio illusorio stadio, per traghettarlo oltre il plumbeo del presente. Non avevo nella testa una meta così squallida. “Oh, boss?” la voce di Boia mi riportò alla realtà. “Allora? La Lena ti aspetta. Oppure pensi di continuare nella tua masturbazione mentale... vai a svuotarli, questi testicoli. Starai meglio dopo, sicuramente”. Avrei voluto spaccargliela quella faccia da coglione alcolizzato, giuro, gliela avrei spaccata... invece freddamente mi alzai fiondandogli un ultimo sguardo di minaccia, che come previsto lo lasciò del tutto indifferente. Chiusi la porta alle mie spalle, forse anche per lasciare fuori un presente scorticato e sanguinante. “Sapevo che saresti tornato” esordì. Era seduta su un enorme lettone con la spalliera in velluto bordò, come le lenzuola. Truccatissima, con indosso una mini vestaglia in falsa seta; calzava un paio di ciabatte da coniglietta e calze porcamente a rete. Il seno malcelato le conturbava la figura, a svettare dal lembo scostato dell’abbiglio, un enorme capezzolo roseo. La composta e flessuosa forma mi si stagliò contro nella sua interezza quando in piedi m’invitò a spogliarmi, mente sfilava la vestaglia. Giarrettiere già ampiamente previste e un minislip in pizzo nero, che per niente nascondeva peluria e grandi labbra. “No!” accompagnando la parola con il gesto della testa. “Rivestiti!” perentorio. “Vedi che sto lavorando” disse, quasi stizzita. “Ti pagherò! Non preoccuparti, ti pagherò!” replicai tentennante. Contrariata, infilò la vestaglietta legandola con la cintola in vita. Si risedette sul

letto, accavallando accuratamente le gambe. “Allora? Cosa ti serve ancora?” Continuai a fissarla senza fiatare dallo specchio che, posto sul soffitto a sovrastare il letto, riangolava la sua immagine. Perquisii attentamente quella squallida stanzetta, terminando sulle sue gambe inguainate il mio perlustrativo moto. Era proprio ben fatta. Sì, pensai, proprio concepita per il sesso, forse non questo, ma per il sesso. Sesso ch’era sesso senza equivoci palesi, di peccato e in questo caso di mercato. “Qualunque cosa tu abbia da dire, non urlare. sco non gradisce che perda tempo a parlare con i clienti. E poi, è un violento, violento così!”, mostrandomi una sequela impressionate di lividi sulle braccia. “Se non sei venuto per scoparmi come fanno tutti, non sarai certo venuto per guardare la mia faccia?” Guardavo, fissavo, mentre scorrevano domande nella mia testa, una sull’altra, tutte incompiute. Domande! Il fiato mi si accumulò dentro la cavità orale e, per evitare di farlo esplodere schiumante, socchiusi le labbra, abbandonando al silenzio un sospiro che per dieci lunghi anni aveva dimorato nella pancia. “Perché?” “Non lo so!” Quella stupida risposta accecò la mia ragione. Un respiro profondo, che sembrò non finire, mi accompagnò nei i che ci separavano. Avrò avuto negli occhi tanta rabbia da eruttarla. Le sue labbra disegnarono una palese smorfia di paura. Per la prima volta nella mia vita divenni preda di una scura violenza. Le afferrai tenagliante i capelli, tirandoli per farle ruotare il viso verso la mia faccia, una smorfia afona di dolore spalancò la sua bocca, mentre gli occhi arrossati s’arrendevano alle lacrime. Avvicinai il mio viso, fin quasi a sfiorarle la faccia

tirata di fisica sofferenza. Il suo pesante alitare d’animale ferito inumidì il mio naso, fino a penetrarmi nel cranio. “Perché?” le ripetei più scandito e lento. Domanda senza appello. Le sue mani strette in pugni, nel segno di resistere, s’aprirono arrendevoli all’ultimo strattone che fece urtare le nostre fronti bagnate. Mollai la presa, ritirai lentamente la mano che osservavo spaventato. Riordinò i capelli, asciugò le guance con cura, soffiando decisa il naso. Indietreggiai due i, ancora imprigionato dalla sorpresa del gesto compiuto. “Scusami” dissi con un filo di voce. “No! È giusto che tu sappia” rispose, con la voce ancora rotta da un pianto inesploso. “Devi sapere... e io sola conosco la ragione” continuò, inascoltata. Mi voltai per uscire, soffermando gli occhi nello specchio che mi si parò davanti, incrociai la sua faccia ancora dolente come in cerca di aiuto, mentre continuava a massaggiarsi la testa. “Tornerai?” disse incerta. Risposi con uno sguardo che diceva tutto ciò che si può immaginare. Le volsi un’ultima occhiata attraverso lo specchio, prima di uscire. Vidi un’impudica vulvetta sovrapporsi alla reale forma sfatta da lunghe notti di sesso, una ninfetta bruna dalla rada peluria, che immani grazie aveva dispensato alle avide pupille e altro dei suoi piccoli amanti. La immaginai spogliarsi lenta e provocante, soffermando sguardi e mani su seni appena sbocciati, in un lento girare su se stessa, quando anche l’intimo più intimo s’arrendeva alla sua presunta, innocente nudità, fra bambole, poche, e tanti poster che nuda contemplava.

Soffiai nella testa, iniettando scorci di situazioni lontane dal sesso, cercando di rendere quell’atrocità meno densa, in modo che il mio encefalo, ricompattandosi, virasse oltre quelle complicate trame di affluenti sconci e deliberati. Ma non c’era posto per altro nel mio inconscio perverso. Ristagnava la sua peccante nudità nell’alveo statico dell’immaginario. Sbavanti figure a dimenarsi sul suo ivo corpo in amplessi selvaggi e lubrici, figli di trivie oltre ogni lecita voglia, falsamente schiava accondiscendente di repressi istinti. Il crescente pulsare delle vene a battere la pelle, accompagnò un fin troppo fisico ridestio dell’insigne dono di natura atavica. Quell’imbarazzante erezione, forse neanche tanto inosservata, mi scaraventò con maggiore celerità via da quella stanza. “Normale?” urlò il tizio al televisore. “Normale!” rispose Lena dall’interno della camera, mestamente. “Settanta euro!” Presi con cura cento euro dalla tasca e li conficcai nelle mani di quel Checco. Contemporaneamente sentii alle mie spalle. “Veloce, il damerino!” Mi voltai di scatto, come di scatto partì la mia mano che si abbatté dannosamente sulla guancia destra di Boia che alzatosi per rispondere al mio pugno fu investito da un montante sulla faccia che lo rifece accomodare pesantemente sul divano. “Te la sei cercata! Tieni il resto” che lasciai sul tavolo, uscendo mestamente. Con lentezza scendevo quelle squallide e puzzolenti scale. A ogni pianerottolo ero avvolto da acri odori di cucina. Si può perdere anche la speranza di una vendetta meritata? Due bambini mi travolsero nel loro rincorrersi su per la scala, mi voltai a guardarli nell’infantile gioia dei gesti istintivi, mentre la condizione ultima mi partorii un pensiero reticente. Dov’era il bambino di Marilena ora che lei era intenta a soddisfare quei maiali? Come aveva potuto sostenere una gravidanza e

continuare nell’arte del meretricio. Finite le scale e varcata la soglia di una a dir poco deprimente portineria, mi trovai scagliato nell’aria spugnosa e umida di un popolare quartiere in degrado. Allungai il o nell’intento di frapporre la maggior quantità di spazio, fra il mio corpo snervato e la sua bocca da fellatio, perennemente violata da eiaculanti membri; bocca procace, che lasciva s’offriva a piaceri scontati. I miei occhi, intrecciandola, avevano taciuto domande brandite, parole frammiste a silenzi che nel gioco del tempo, avevano perso la forza sperata.

III Nei miei i violenti fra lampioni appannati, rileggevo il suo sguardo dimesso, inventando il suono della sua voce, sempre la stessa dopo dieci anni che spremeva promesse e che ora probabilmente spreme solo colpe. Mi abbandonai alla notte ferito, risalii faticosamente i miei recenti pensieri che traarono un gruppuscolo di corpi apparentemente amorfi, perfettamente incastrati nel semi buio. Guardavo puerile i miei i, mentre attentamente scrutato, entravo nel raggio visivo di quella massa umana che andava compattandosi. La luce annacquata da presagi e da una densa nebbia ad ammortizzare i contorni, pareva nascondere le sfacciate forme della miseria, una cruda luce rifletteva sull’asfalto umido. Appena il senso fu distratto, non lo sguardo, qualcuno percepì il mio moto celebrale. Netto s’avvertì il profumo della marijuana fumata tristemente, troppo noto mi era ormai quel nettare di galeotti abusi. Affondai profondamente le mani nelle tasche, abbassando eccessivo lo sguardo. Osai oltreare una linea indemarcabile. Scattò l’allerta. Brusio, voci, una sull’altra. Pericolo! Alt! Percepito il pericolo, la mia sagoma dissolse la sua massa e un decorticato corpo s’arrestò come richiesto dall’umanoide sciame. Una costola si staccò dal branco, parando carabinieramente il suo plasmato corpo di fronte al mio. Simmetrici scrutammo facce di cristallo, vidi la mia impolverata e stanca. “Chi sei?” scandì una senile voce priva di sfumature.

Sentii salire la tensione nel cumulo di corpi rimasti a osservare. Tic d’assestamento attraversavano quella mandria di persi. Ancora due i, trenta secondi e uno sfumo di vapore dalle labbra. “Chi sei?” scandì una senile voce di ragazza priva di sfumature. “Perché dovrei dirtelo?” Il branco si scompose accerchiando la preda, che braccata si richiuse su sé stessa. L’obliqua luce allungando le forme, moltiplicava le figure. Un perfetto cerchio fu formato, dentro il quale stava per consumarsi un duello dallo scontato esito. “Da dove cazzo vieni?” ringhiò una voce alle mie spalle, troppo vicina alla mia testa. Quell’esplosione gutturale mi fece vacillare. “Non sei del posto? Allora o sei uno sbirro o sei un coglione!” continuò minaccioso. “No! Non sono del posto. Stavo solo cercando di andarmene”. Sentii il freddo di una lama accarezzarmi accuratamente il collo. “Che cazzo ci fai. Ma sul serio?” “Cerco della marijuana, mi hanno detto di cercarla da queste parti e poi sono nuovo, perché appena uscito di prigione”. Cercando di assumere un tono un po’ più aggressivo, nella speranza di dissuadere i miei assalitori. “Ci prende per il culo!” disse una terza voce. “Va bene, va bene. Oltretutto non c’è niente di male. Sono venuto per farmi una scopata con la Lena. Okay?” Mi fecero appena finire la frase, assolutamente indigesta. La muliebre forma che mi sbarrava la strada, scaraventò con indemoniata rabbia il suo ginocchio contro la sacca testicolare, facendo schizzare i miei poveri coglioni oltre le orecchie. Pesantemente mi accasciai al suolo in fetale posizione,

l’anfibio di colei che mi aveva colpito premeva la mia faccia contro il ruvido asfalto, mentre un’altra enorme calzatura colpì violentemente la mia schiena; rantolai schiumando. Aprì la mano colei che mi ebbe per trofeo e tutto tacque. Liberò la mia faccia dalla militaresca calzatura. Mi accucciai supino cercando i suoi occhi. Li trovai taglienti e gelidi, profondi e umidi. “Non sei delle Caserme?” accennò. “Abito a Stalingrado!” risposi. “Bel posto di merda anche quello” replicò. “Anche quello, ma sempre meglio che la galera” concludendo il breve dialogo. La parola galera questa volta destabilizzò gli umori, evidentemente. Il jeans da uomo, un giubbotto di pelle nera e il cappellino di lana che probabilmente contenevano un grazioso corpo di donna si chinarono come a scrutarmi più da vicino, cercando di capire cosa fosse sfuggito a una prima analisi. “Dieci anni di merda, in un assurdo posto di merda” continuai, mentre il cerchio si stringeva intorno all’inutile preda, conficcata nell’asfalto lucido di riflessi scomposti. Tornò a parlare colei che gestiva il gioco, pur senza aprire bocca. Piuttosto io intuii la sua domanda rimasta in gola. Pensai non fosse salutare, dire la verità. Inventai, tanto gli argomenti non mancavano. “Rapina!” dissi perentorio, con tono di vanto. “Troppi, dieci anni”. “Aggravata. Con scontro a fuoco e tentato omicidio!” aggiunsi.

“Pochi!” “Incensurato”. Dopo una breve pausa, il capo del branco riprese il terzo grado. “Beccato subito, scommetto?” “Sì!” risposi con una punta di timore. “Questo stronzo, sta raccontando un mucchio di cazzate” risuonò truce una voce nel buio che andava infittendosi. Come per incanto, la salvezza, insperata, senza fisica certezza. Il cerchio umano esplose schizzando in tutte le direzioni. Restai per terra, masticando il sangue sgorgato dalla bocca, causa dolorosa di un ultimo calcio sferratomi da uno degli aggressori, prima che la fuga lo dissolvesse. Una luce bluastra che feriva il buio fu la salvezza, malgrado non venisse nella mia direzione bastò a mettere in fuga gli aggressori. L’infernale frastuono del camion addetto al lavaggio della strada lacerò definitivamente la quiete di quella notte, abbandonatasi ad un’alba cupa di cattivi presagi. Il metallico riflesso della strada bagnata s’attenuò irretito dall’auroreo grigiore, scolpito da pesanti nuvole di pioggia. Per tutta la notte avevo accompagnato il mio corpo deforme nelle pieghe più profonde della città prigioniera di una quiete immateriale e di una luce complicata. La faccia dolente e l’amaro del sangue nella bocca mi riportarono a un concreto presente. Consegnai il mio perpetuo moto notturno, con tutti gli sguardi del mondo addosso, al lampione ormai vanamente di fronte al bar di Arco. Attesi attimi composti che divennero minuti e che forse divennero ore.

Fumai ripetutamente e silente. Sobbalzai, quando la rumorosa saracinesca, spinta dalle possenti braccia di un banale sessantenne, stanco di speranze e vuoto di pensieri che ormai arresosi alla vita perpetuava meccanici gesti quasi inconsapevolmente, vittima di se stesso e di un’esistenza che gli aveva dato solo lavoro, una moglie rompicoglioni e un nugolo di figli, avvezzi a uno strisciante lecchinaggio, mirato all’elemosina, ruppe il silenzio, riconsegnando al marciapiede la vita. Lo fissai con attenta comione, si voltò a guardarmi mentre ruotava lentamente la chiave nella serratura della porta, s’impose indifferenza palesata dagli occhi, ma una lieve smorfia della bocca tradì un qualche input emotivo, chissà quanto recondito. Sfuggì subito al mio sguardo. Non entrai, per evitargli la mia imbarazzante presenza. Ripresi a vagare contando i, rincorrendo voci, cercando faticosamente di definire un ipotetico futuro prossimo. Dissolte le notturne presenze, il quartiere andava assumendo il suo vero volto, acido e sanguinante. Orientai il mio corpo verso casa, che mi accolse in tutto il suo banale squallore. Ridiscesi immediatamente, fuggendo dal fisico ricordo. Conquistai l’unica panchina di uno spazio verde di non più di cento metri quadrati, che più fuori luogo non potevano essere, unico fazzoletto verde nel raggio di qualche chilometro. Guardavo, masticando il rumore del camion della spazzatura che svuotava una pattumiera; quel rumore profondo non mi permise di percepire una presenza al fianco. Avvertii il caldo fisico di quel corpo oscillando all’esterno, prima di voltarmi e focalizzare. “Non è da te!” “Cosa?” risposi. Mi sfiorava il mento, dove sicuramente si mostrava chiaro un ematoma, considerato anche il dolore. “Le persone cambiano!” aggiunsi lapidario. “Sì, è vero. Il tempo cambia e le persone cambiano”.

“Non è il tempo a cambiare le persone, piuttosto sono le situazioni... il coraggio di provare a capire! Tu hai provato a capire?” dissi con tono quasi di sfida. “Ho cercato di capire... Perché adesso non provi tu a capire me?” “Non è stato facile... Tu lo sapevi che ero innocente, non c’era neanche bisogno di cercarla la verità! Sbaglio?” “Mi ha atterrito il pensiero di are tanti anni da sola”. “Diciamo piuttosto che eri certa di non farcela. Poi, una donna bella e attraente come te, non fa certo fatica a trovare valide alternative a un galeotto”. “Non giudicarmi male”. “L’ho già fatto, ma non pensavo t’interessasse ancora il mio pensiero”. Per tutto il tempo sfiorai appena una volta il suo sguardo. Mi alzai senza voltarmi. “Aspetta!” “Vaffanculo!” Rimase seduta, sperando mi voltassi, tornassi a sedere. Non accadde. “Avevo bisogno di parlarti” si definì una voce quasi pietosa che lo spazio disperse lentamente. “Anch’io avevo bisogno di parlarti!” urlai. Un urlo che seccò la gola arrossandomi gli occhi disorbitati. Prevaricai ogni lungaggine, barricandomi oltre un muro insormontabile. Ora sì, mi voltai, eruttando su quella banale, stilizzata figura di donna lontana tutte le cicatrici che la storia mi aveva donato, tutti i sogni putrefatti e le sconfitte che nude mi accompagnavano e schermivano. Percepii un violento silenzio intorno al mio corpo, entrai col pensiero nella mano, che nella tasca continuava a stringere quella dannata pistola carica. Non

ero più certo del bersaglio da colpire, avrei voluto sparare contro il mondo intero, non per uccidere, ma per far sentire il mio dolore, la mia solitudine. “Me la pagherai!” quel velenoso proclama strappò alle mie labbra un inatteso sorriso, mentre con divertito sarcasmo, prevaricai quella stupida frase. “Ho pagato fino in fondo... anche troppo. Forse ho pagato anche per te!”

IV Moribonda, trascinò nel bagno il suo corpo sfibrato dall’ennesima notte di lavoro. Quell’angusto bagnetto era l’ultimo rifugio dove ancora riusciva a sentirsi donna. Ritualizzava ogni minimo movimento, dopo aver trafitto il proprio sguardo di rabbia allo specchio. Arrendevole silenzio di uno sguardo votato al sesso, che fin da bambina era stato l’unico scopo della sua vita circoscritta, prima per piacere poi per forza. Si tratteneva più del dovuto in quelle asfissianti pareti, nauseanti di odori sovrapposti, guardava compiaciuta lo scroscio dell’acqua che insieme alla vaporosa schiuma avrebbe di lì a poco portato via dalla sua pelle le reminiscenze notturne. Come ogni mattina, avvolse il suo corpo in un candido telo, pregno d’essenze. Iniziò a lavare i denti energicamente: era l’operazione che faceva meno volentieri mentre attendeva palpitante il solito pianto sguaiato che come ogni mattina avrebbe interrotto il rito della ricostruzione. Continuava a massaggiare i molari con la testa bassa, quasi inconsapevolmente sbirciò lo specchio offrirle uno spaccato di routine, mai considerato prima. La bocca colante di bianca crema mentolata la riportò a ben più perverse scene. Bloccò la mano, tenendo lo spazzolino nella cavità orale, alzò lentamente la testa, vide riflessa la sua bocca deturpata da colanti semi figli d’amplessi. Sputò il residuo del dentifricio che ancora sostava nella bocca contro lo specchio, ripulì la faccia col telo che la avvolgeva e uscì precipitosamente da quella trappola mentale che gli stava rievocando tutto il male della sua ancora giovane vita. Entrò con irruenza in stanza da letto, osservò suo marito in posizione larvale, fra le lenzuola arrotolare, evidentemente prigioniero di un sonno maturo, scrutando cinicamente quel corpo e quella bocca sbavante; il sudore impregnava nauseante la piccola stanza. Con molta cura prese la bambina che dormiva beata al fianco del padre e uscì risoluta dalla stanza. Stringendo la piccola a sé, forse per la prima volta pensò sul serio: “Basta! Sono stanca”. Si vestì con noncuranza, ripose la piccola nel letto e uscì di casa, forse a cercare la soluzione, ammesso ce ne fosse una.

S’immerse nel marasma del mercato rionale, già affollatissimo nonostante l’ora, strofinò il suo corpo contro la gente, sperando di carpirne la normalità. Guardava con insolita attenzione le bancarelle piene di vita, i vecchi, i bambini, il mondo tutto, che pensò appartenesse anche un po’ a lei. Appena fuori da quel caos, attratta dal niente, aumentò l’andatura, fino quasi a correre. Una musica aliena emanata dal vento le avvolse la mente, svuotandole il cranio da piani incrinati e luci sfiorite. La inebriava quel vento sulla faccia, ricco ricordo di libertà lontane. Fottuta vita, che cercava di divincolarsi a fatica dal suo corpo. Le figure scomposte nell’acquoso lacrimare sfiocavano distorte, colando l’orizzonte. Il liquefarsi delle mani nelle tasche la riportarono a un presente d’assordante paura di procedere oltre una cortina confinaria presupposta. Barlumi di ato a inficiare il suo percorso verso un dolente martirio purificante. Barlumi da lontano, odoranti d’ingenua ragazzina, di già scafato uso, prigioniera di una ninfomania precoce. Ultimogenita, con tutto ciò che tal condizione comporta, vezzi, vizi e responsabilità da ultima spiaggia senz’appello. Lei doveva tutto ciò che i suoi fratelli non erano. Il liceo, la danza, il pianoforte... invece lei, soltanto sesso, ingenuo e disperato. La rallegrò che quei ricordi si accompagnavano ancora a sensazioni di puro orgasmo, non pensava di aver conservato quei piaceri intatti, dopo così tanto tempo e così tante situazioni, li credeva sepolti insieme alla sua gioia. Arrancando risalì il suo avello. Sentì improvviso un incontrollato bisogno di parole. Non poteva essere venuta al mondo solo per quello, pensò.

V Una strana quiete aleggiava quella mattina nel circondario, rumori metallici strascicati e voci annoiate scolpivano il giorno. Un grigio possente aleggiava a incupire i pochi i che calpestavano il marciapiede, noncuranti del lavorio intorno. I rumori andavano facendosi serrati e sempre più fastidiosi. Mi alzai, emanando invettive contro chi, nonostante l’ora ancora acerba, s’impadroniva del silenzio mattutino. Quando, ancora flaccido dal precoce risveglio, riuscii a vincere la resistenza della corda della tapparella, mi affacciai su un insolito spettacolo. La strada innaturalmente sgombra d’auto era stata accuratamente cinturata nei due lati da transenne e nastro rosso e bianco. Diversi mezzi di carabinieri, vigili urbani, polizia e quanto altro sostavano in diversi punti. “Che cazzo succede adesso?” esclamai. Sciamanti, s’imposero alla vista come eruttati dal nulla, silenziosa lava avanzante in traccia di letto già solcato. L’ape regina, protetta da uno stuolo di zotici, s’impossessava altera del terreno intorno. Giullaresco, sostanzialmente un pezzo di stronzo, tenuto a galla da chissà quale forza arcana. Quasi nessuno a dare un significato a tanta pomposità. Calpestìo rabbioso, secchi segnali vocali. Mordeva satanico le labbra sue stesse per tale indifferenza inaspettata. Un’attenzione immotivata confinò il mio sguardo oltre il sordido amalgama di scatoloni con finestre che in quel momento mi apparvero ancor più schifosi, per il genere umano tutto. Presentimento! Premonizione! “Ecco la storia che torna a inabissarsi verso un nuovo baratro buio. Le luci si vanno spegnendo e l’assurdo nero di corpi inespressivi sta per ammantare la civiltà da noi stessi creata” pensai.

Quale slancio d’ottimismo potrà azzardarsi ad attribuire il nome di ‘case’ a quegli obitori quale il segno di progresso? E negli occhi di chi abita tali topaie, cosa si potrà leggere se non la morte che scava lenta, fino a logorare ogni speranza? Dove i fabbricati lasciavano il posto a una scorticata campagna, scorsi un palco ricolmo di bandiere e stendardi, intorno al quale un’esigua compagnia di persone s’attardava in silenziosa attesa. Lì il corteo era diretto. Richiusi rabbioso la tapparella, rituffandomi nel letto ancora tiepido, le cui forme del mio corpo sagomavano ancora il materasso, raggrinzendo ulteriormente le lenzuola che mi si arrotolarono addosso. Abbrancai il cuscino che occultò ai miei occhi la residua luce rimasta. ‘Fecciume!’ pensai, mentre cercavo di riprendere da dove avevo lasciato. Proscenio quasi deserto, sotto il pomposo palco, isolati applausi accompagnarono il Presidente nel suo preludio muto. La cerimonia nonostante tutto, era da farsi. I pochi astanti seguirono con religioso silenzio il comporsi della compagnia d’individui presenzianti. “Peccato!” esordì comiziante il Presidente, naturalmente al centro della scena. “Peccato che ai vostri concittadini sia sfuggito! Si tratta di una storica occasione, unica per tutti”. Prese un sasso, sistemato sopra un baldacchino al centro del palco, religiosamente avvolto come una reliquia sacra in un panno azzurro e seguito dal resto della ciurma scese la scaletta posta da un lato del palco. “Ecco!” commentò, gettando quasi rabbiosamente il sasso per terra. “La prima pietra è stata posta. Da questo cumulo di macerie fiorirà un modernissimo e attrezzato Centro di virologia che darà sviluppo e lavoro a tutti, oltre a essere un eccezionale volano per il resto del sistema economico del territorio tutto!” aggiunse sarcastico. “Voi che c’eravate, portate i miei saluti a tutti quelli che hanno boicottato quest’appuntamento tanto importante. Ora, con piacere, o la parola al dottor Neri, ideatore e responsabile di tutto il progetto, oltre che mio candidato di questo collegio per le prossime elezioni”.

Si ripeté l’applauso dei pochi presenti, facendo sembrare il tutto ancora più desolante. Il Presidente si defilò in tutta fretta, lasciando volentieri la scena a Filippo Neri, la cui oratoria continuò per circa un’ora. Alle spalle del palco, a fare da intercapedine con i grigi palazzoni anonimi, una struttura cadente, intrappolata in montagne di macerie, troneggia torva. È una costruzione della prima metà del secolo scorso in mattoncini rossi e tegole, collassata in diversi punti, col tetto quasi del tutto sfondato che mette a nudo le travi in legno marcio a formare un lugubre reticolo simile a una ragnatela. Aveva sfornato mattoni fino ai primi anni settanta, dall’alto comignolo una continua scia biancastra aveva segnato il paesaggio per decenni. Un giorno si spense per riaccendersi mai più, per buona pace degli abitanti del quartiere, ai quali non parve vero di poter avere un paesaggio senza fumo. Con lei si spense l’unica aspettativa di lavoro presente sul territorio. Oggi come un monito quell’alto comignolo faceva una guardia torva a ciò che stava nascendo, come a controllare che tutto fosse fatto nella maniera giusta e quella nuova realtà lavorativa proseguisse il compito da lei iniziato. Mentre Filippo Neri cercava di elencare i vantaggi del Centro ricerche che stava per sorgere, sudava copiosamente prestando sempre meno attenzione a ciò che diceva. Aveva inciso perentoriamente nella testa le ire del Presidente che da lì a poco gli si sarebbero abbattute addosso. Sudava impregnando il colletto della camicia, ormai troppo piccola perché potesse contenere tanta rabbia repressa. ‘Qualcuno avrebbe pagato per tutto questo!’ pensava rabbioso. Sì. Avrebbe pagato! Li avrebbe scovati uno ad uno, i sabotatori, gli avrebbe cavato gli occhi con le sue stesse mani. Questo pensava, mentre cercava di terminare prima possibile quell’atroce monologo. Mai avrebbe immaginato una tal figura di merda, al cospetto del Presidente che aveva riposto in lui tutte le speranze di vittoria in quella provincia. Lo avevano tradito! Perché? E chi? Lo avevano tradito e umiliato. Chi aveva osato sfidarlo così sfacciatamente? Tante e tali domande furono la causa di ripetuti svarioni durante l’oratoria.

Smise di parlare tirando un sospiro di sollievo. Senza farci caso il discorso lo aveva terminato senza interlocutori. Scese precipitosamente dal palco seguito dai suoi fidati collaboratori, schiumante di rabbia; salì sulla sua macchina che precipitosamente lo allontanò dal luogo della disfatta. Si attaccò morbosamente al cellulare che, muto, fu investito da invettive e insulti. Finalmente fra una bestemmia e un’altra, una voce interruppe in tut... tut. “Che cosa sei riuscito a sapere?” chiese Neri ansimando come un mantice. “L’ordine pare sia stato dato dal Toscano, ma la notizia è iniziata a circolare nel bar di Arco” stava dicendo una voce oltre il telefono. Una smorfia rese il volto di Neri disumano, vampate di calore si successero vertiginosamente, arrossandogli il volto che pareva sul punto di esplodere. Ebbe quasi voglia di piangere, ma l’unica azione conscia partorita dal suo cranio fu scagliare contro il cruscotto il cellulare che continuava a rongolare. Tacque dopo pochi secondi. “Ferma!” intimò all’autista; l’auto inchiodò accostando. Il dottor Neri aprì lo sportello e senza scendere, dopo alcuni conati premonitori, cominciò a vomitare copiosamente, emettendo sordidi rantoli e secche bestemmie. Appena finito, si ripulì le labbra e il mento con un fazzoletto estratto dalla tasca sinistra della giacca, lasciandosi cadere esanime sulla spalliera del sedile con la testa rivolta verso l’alto. “Andiamo!” ordinò con un filo di voce. L’autista, non poco sconvolto, ripartì quasi sgommando. “Vai piano! Porca puttana” mentre faticosamente cercava di tenere al suo posto lo stomaco stravolto. Volgendo la testa verso il finestrino, vide un lamento sommesso sfilare davanti ai suoi occhi arrossati.

Percepì un dolore lancinante, un quasi senso di vuoto. L’acido gli risalì l’esofago, fino quasi a strozzarlo. Perduto! Si sentì perduto e sconfitto. Tutto iniziò a vacillare. Nelle mani stringeva un fazzoletto di carta. Guardava sfilare i palazzi, le case, le vetrine... L’auto si arrestò di fronte all’albergo, quartier generale del Presidente. Paralizzato, lo sguardo vitreo, fissava il portone che lo attendeva famelico e inquisitore. Nello stomaco si ripresentarono netti conati, ma tenne duro, asciugò la fronte grondante di sudore con la manica della giacca e volse attorno lo sguardo ferito cercando il niente. “Dottore, si sente bene?” l’autista s’intromise nel suo travaglio. “Sì, sì! Va meglio... adesso va meglio! Puoi andare. Ho l’impressione che la cosa andrà per le lunghe. Ti chiamo appena ho finito”. Scese dalla macchina quasi traballando. Mario, il suo braccio destro, lo guardò titubante, attendeva fuori dell’albergo, come previsto. “Perché?” proferì, quasi nell’orecchio di Mario. “Neri, è tutto così strano e complicato. Io onestamente, alla storia dell’ordine partito dal Toscano ci credo poco, invece, della notizia venuta fuori in quel maledetto bar mi sembra più possibile”. “Ma da chi?” “Non lo so, Neri. Ma lo scopriremo. I ragazzi in questi ultimi giorni hanno visto gironzolare il quel bar l’ex di Grazia”. “Ma è in galera!” “Ha finito, Neri, ha finito!” “Dieci anni?”

“a il tempo, eh?” “Cosa... non mi sembrava un tipo... ” “È vero. Ma è l’unico movimento strano di questi ultimi giorni”. “Mario, fai qualcosa”. Neri era in preda al panico. Le scale, salite con estenuante lentezza, stavano inesorabilmente per finire, s’intravedeva già la porta della camera del Presidente. Si fermò guardandosi indietro come a voler fuggire. “E se veramente ci fosse Luciani dietro tutto questo?” “Mi viene difficile trovare una giusta motivazione a quello che dici”. “Anche a me. Ma non lo escluderei a priori... potrebbe aver cambiato sponda politica”. “Mmm” Mario terminò il discorso, anche perché ormai erano in prossimità dell’ingresso. Neri, fermo a scrutare la porta, cercava disperatamente di ricapitolare situazioni, alla ricerca di risposte da dare al suo giudice che lo attendeva avidamente. La faccia famelica del Presidente si sovrapponeva a quella scaltra e aquilina di Luciani. Il Presidente sarebbe andato via un giorno, Luciani no, ma non bastava il suo appoggio, aveva dannatamente bisogno della politica per il suo ambizioso progetto.

VI Il sonno si era riappropriato completamente del mio corpo, quando un ininterrotto bussare alla porta lo ricacciò via. “Arrivo!” cercando di essere il più corposo possibile, tenuto conto dello stadio dovuto all’improvviso risveglio. Il ticchettio persisteva, snervante. Feci appena in tempo a girare la maniglia, che il tipo oltre la porta me la sbatté in faccia senza troppi complimenti. “E che cazz…” Non ebbi il tempo di terminare la frase, un pugno mi colpì in pieno volto facendomi stramazzare sul pavimento. Faticosamente m’aggrappai alla vicina sedia, il sangue rimpastò la bocca di sapore acre. Sputai, mentre uno dei graditi ospiti mi afferrò per i capelli, facendomi alzare la testa. “Allora? Figlio di puttana…” esordì una specie di bronzo di Riace, davanti alla mia faccia. “Di mia madre non mi ricordo... ma se lo dici tu!”; la risposta non fu di suo gradimento. Sferrò contro il mio mento un colpo con la punta di un manganello. Dopodiché il buio. Sincopato risveglio e un’ondulante voragine. “Riprendiamo?” aggiunse un’altro degli aggressori. “Potrei almeno capire cosa sta succedendo?” dissi col filo di fiato rimastomi. “In quel cazzo di bar si parla troppo... e vorremmo tanto sapere cosa si dice. Vedi, non ci piace non essere informati di quello che accade in giro, soprattutto se poi ne va di mezzo qualcuno al quale teniamo, molto!” disse uno dei tre, presumibilmente il capo del manipolo, dalla faccia da pugile suonato e un

impressionante numero di tatuaggi di ogni genere. “Ma cosa vi a per la testa? Cosa dovrei sapere io? Sono uscito di prigione da una settimana, cerco faticosamente di ritagliarmi un piccolo spazio vitale, ma l’unica cosa che riesco a ottenere sono calci e pugni... inizio ad averne le palle piene! Stanotte quel branco di rincoglioniti, adesso voi. Se non mi volete fra le scatole, basta dirlo”. I tre aggressori si guardarono interrogativi, forse ero riuscito a convincerli della mia estraneità ai fatti, uno dei tre mi si avvicinò come per scrutarmi meglio. Intuii il loro imbarazzo e forte di ciò, dissi mentre mi apprestavo ad uscire: “Ora per favore lasciatemi are, ho voglia di prendere una boccata d’aria. Voi potete anche rimanere, tanto da prendere c’è ben poco”. Continuarono a guardarmi in silenzio, mentre gli sfilavo davanti. Raccattate a fatica le mie ossa, m’incamminai mezzo rincoglionito verso il bar di Arco, chissà forse lui poteva anche spiegarmi qualcosa di più in merito. Inservienti con i giubbotti arancioni erano intenti a rimuovere le ormai inutili transenne. Sedevo inutilmente al solito tavolino sotto il televisore. Vagavo tra pensieri recenti e remoti, senza limiti di tempo. Non osavo guardarmi intorno per paura di sentirmi osservato, non ordinai nulla per non imbarazzare ulteriormente Arco che già lo era a sufficienza per via, dedussi, della mia sgradita presenza. Tutto scivolava sul mio apparentemente impermeabile involucro; malgrado immani sforzi non riuscivo a trovare il coraggio di parlare con Arco di quello successomi poco prima. “Vieni con me!” sussurrò al mio orecchio una voce da ragazzo. Restai abulico, senza volgere lo sguardo verso lo sconosciuto. Il silenzio regnò per qualche minuto. “Perché dovrei venire con te?” “Non è il momento di fare domande!” rispose. “Per me lo è!”

ò appena qualche istante e sentii il freddo di una lama accarezzarmi il collo. Senza moti inconsulti, lentamente, sfilai la pistola dalla tasca, appoggiandola sul tavolo, col dito sul grilletto. La puntai in direzione dello sconosciuto, che disse tranquillo. “Non la ai!” “Neanche tu lo ai!” risposi sarcastico. “Allora vieni con me!” “Dove?” “Non preoccuparti, seguimi”. Riposi la pistola nella tasca e aspettai che il mio interlocutore fosse uscito dal bar per fare altrettanto. Mi attendeva su uno scooter in moto già col casco in testa, lo indossai anch’io e partimmo. Temerario sfrecciava serpeggiando tra il traffico intenso, mentre si faceva sempre più concreta in me la convinzione che il mio autista doveva essere uno degli assalitori di due notti prima. Presentimento... Una volta divincolatosi dal traffico, riposizionai nelle mie orecchie il silenzio. Periferia, brulla campagna e tortuoso tragitto, verso qualche informe paesaggio, luogo o memoria che fosse. Il rurale campeggio fu interrotto improvvisamente da un cancello arrugginito e cadente, aperto. Volsi uno sguardo lunare, mi scoprii attorniato da strutture metalliche e nastri trasportatori, disusi e scheletrici. Una cava! Un’enorme cava abbandonata, da chissà quanto tempo. Superammo una costruzione: probabilmente, quando tutto era efficiente, doveva fungere da ufficio, tracciammo un percorso tra montagne di pietrisco e altri materiali inerti. Frenò bruscamente.

Uno stentoreo abbaio ci accolse, incupendo ulteriormente quel paesaggio postnucleare. Nudo lamento in scorticati oggetti. Aprì una squassata porta d’assi di legno. Entrammo dentro un buio tunnel precedente il covo, la tana. Un’aria fetida ronzava all’interno di quello stanzone, ricavato sotto le rocce e una fioca luce riempiva d’ombre ambigue quel silenzio d’attesa. Ero evidentemente atteso. Facevo fatica e focalizzare oggetti e volti, ma mi risentii come in galera. Tutto era troppo simile: la poca luce, il fetore, il silenzio sul punto di esplodere e non ultimo gli sguardi di un’inconsistente attenzione. “Siediti!” scandì una voce eruttata dalla penombra. Tre individui, compreso il mio autista, occupavano quella specie di caverna da anonima sequestri. Oltre un tavolo al centro dell’androne mi si ripresentò una figura nota, molto nota. “Chi sei?” la domanda cadde esplosiva a scheggiare il silenzio. Con notevole irritazione, risposi immediato “Non sai proprio dire altro? E poi, tu, chi cazzo sei? Perché dovrei dirtelo? Pensavo mi avessi invitato nel tuo lussuoso attico per chiedermi scusa!” “Lo avrei fatto!” “Bene! Allora fallo, così la facciamo finita con questa storia e magari la smettete di rompermi le scatole”. “No! Tu adesso aspetti e stai a sentire, altrimenti continuerai a pensare di avere avuto a che fare con un branco di teppisti esaltati. Per cominciare, cerchiamo di dimenticare tutto quello ch’è successo, ci dispiace. Ci siamo sbagliati, ti pensavamo al servizio di qualcuno che conosciamo, che è poi in pratica il motivo per cui siamo qui”.

“Giovanna D’Arco?” “Mi chiamo Sky!” “Che bel nome” ribattei sarcastico. “Non è il mio vero nome”. “Chissà perché, lo avevo immaginato!” conclusi. Dopo un ininterrotto monologo, durante il quale avevo cercato di dare una logica a tutto quello che mi era successo in quei due giorni dopo la scarcerazione, aggiunse. “Ecco il motivo per cui un anno fa ho finito di esistere”. “Non è facile credere a tutto questo”. “Volendo potrei dimostrartelo. Volendo…” ripeté meccanicamente, mentre lenta mi voltò le spalle dirigendosi verso un mucchio di scatoloni ammassati per terra. Ne aprì uno, estraendone una pila di quotidiani che sbatté sul tavolo testimone del nostro incontro, proprio davanti al mio scettico muso. Con la mano mi fece cenno di prenderli, lo feci con molta cura. Ebbi subito la sensazione di essere al cospetto di qualcosa di molto importante per lei. Con doverosa attenzione cominciai a scorrere i titoli di quei giornali ingialliti dal tempo, che oltretutto emanavano un impregnante odore di umido. Dopo averli sbirciati, li impilavo al fianco di quelli da leggere, con riverenza. I titoli parlavano tutti della storia che aveva appena finito di raccontarmi. “Asfalto killer distrugge un’intera famiglia!”; “Auto vola dalla scarpata. Tutti morti!”; “Auto si inabissa dopo quaranta metri di volo, nessun superstite” e via discorrendo… Non terminai di leggerli tutti. “Tutti morti!” ribadì secca.

“Allora non eri in macchina?” “Fui sbalzata fuori durante il volo, la mia portiera fu l’unica ad aprirsi. Cercai di trascinarmi dietro mio fratello... ma fu inutile!” “Terribile!” esclamai, mentre seduto continuavo a fissare i giornali. “Perché?” conclusi. Dai quotidiani rimasti nella scatola ne scelse alcuni. ‘L’ombra della mafia sulla morte di Parenti’; ‘Parenti indagava sulla mafia, ombre sulla dinamica dall’incidente’; ‘Tracce di manomissione sull’auto precipitata dalla scarpata’; ‘Non ancora ritrovato il quarto corpo, manca all’appello la figlia Marta! Nessuna speranza di trovarla viva!’. Non lessi oltre, ormai tutti diventava chiaro. “Marta Parenti?” “No! Marta Parenti è morta da un anno! Sky! Sky e basta!” “È vera la storia della mafia?” “Più o meno... se si può, il motivo è ancora più schifoso di quello ipotizzato dai giornali”. “Allora Luciani non c’entra con questa storia?” “No! Apparenza, solo per l’opinione pubblica. Organizzato, forse eseguito, ma i mandanti sono altri. Mio padre non stava indagando su Luciani e il suo entourage. È stato tutto montato per coprire il vero motivo e movente di quell’assassinio”. “Se ti sforzi a essere più chiara, forse ci arrivo” continuai, “Tonio Parenti, in altre parole tuo padre, non stava indagando su Luciani, che in realtà poteva benissimo essere un elemento su cui concentrare le attenzioni di un giornalista, ma stava raccogliendo indizi su qualcosa o qualcuno di talmente compromettente

da spingere questo qualcuno a compiere o far compiere un delitto così efferato e far ricadere le colpe sul signor Luciani. Motivo molto scabroso, presumo”. “Non mi sbagliavo, mi piaci sempre di più”. “Sì? Vedi, ancora non sono al meglio, sai dieci anni di prigione e per giunta da innocente, lasciano il segno... appena appena, ma lasciano il segno”. Dopo una pausa vuota “Allora, me lo vuoi spiegare, perché questi cazzo di soggetti vi hanno fatto volare da una scarpata, distruggendo una famiglia e dando la colpa a un malavitoso? Non facevano prima a piantare una pallottola in fronte a tuo padre, risparmiando così altre anime innocenti?” “Incidente. Doveva sembrare un incidente, ma qualcosa andò storto. Insospettabile, è un insospettabile ma papà ci stava arrivando, anzi c’era arrivato”. “Ma chi? Cosa? Dove era arrivato? E poi lo vieni a raccontare a me, uno sconosciuto, ex galeotto. Potrei essere poco affidabile, raccontare tutto all’insospettabile e farti finire in un mare di guai”. “Chi non è con loro, è contro di loro, e visto che ti hanno riempito di botte non puoi certo essere con loro, chiaro, no? E poi non me ne importerebbe poi tanto” disse, quasi sussurrando. “Mi è rimasta la vendetta. Solo lei. Possiamo chiamarla giustizia se ti va, ritorsione ma resta comunque sempre e solo vendetta. Non ho altro scopo. Sarà questo che ha allontanato la morte dal mio cuore. Vendetta... e non solo per la mia famiglia. Quando tutto sarà finito, anch’io finirò! Morta! Sky volerà in cielo, affinché il rimorso non la renda ancora più schiava e prigioniera”. “No, no, aspetta! Anch’io ho vissuto dieci anni col solo rancore nel cuore e la vendetta nella testa. Ti giuro, nel momento in cui ho scoperto che ciò che mi spingeva a vivere era stato già compiuto dal destino, ho avuto un infinito senso di vuoto dentro, ho anche pensato che niente potesse avere più senso. Però la realtà mi ha preso, sbatacchiato e lasciato in un angolo di mondo da ricostruire”. “Perché?” disse interrompendomi con un filo di tenera voce, spingendomi a continuare.

Quasi inconsapevolmente, sviscerai tutto ciò che avevo dentro, le mie prigioni antecedenti alla condanna, la mia vita spenta in un intercalare di tempi retrocessi. Raggiunsi la mia prima infanzia, quella precedente alla scuola, rividi il mio misero letto, il mio niente, le mie gioie esigue intorno a una tangibile povertà. Rividi mia madre, la sua dignità, la sua moralità quasi fanatica che mi aveva intriso fin nel midollo, la sua disperata lotta per tenerci fuori da una realtà fatiscente e precaria. Le sue mani scorticate da sassi bruniti dal sole e ferite da una rabbia debordante, il suo sorriso spento, quasi rassegnato a un perpetuo schifo. Troppe galere avevo vissuto e quella notte le rivangai tutte. Tutto il nero di una vita di penombra e paura, d’insulsa banalità. In quelle mura, a dir poco scalcinate che davano un senso di opprimente degrado all’ambiente, si poteva leggere nitida la sconfitta dell’uomo. Non avevo mai conosciuto persone del genere, sentivo dentro i loro sguardi un freddo che non poteva essere figlio di un cuore pulsante. Lame uscivano dai loro occhi in fila sui miei. Compiacenza non se ne aspettava nessuno di tutti noi, forse comprensione, rispetto. Null’altro, ma nel sangue scorrono sensazioni vive. Io avevo rimosso croste vecchie di decenni, e sotto di esse la carne putrefatta bramava vendetta, non ci poteva essere niente oltre, il primo niente frutto del fango buttato su fiori appena sbocciati. Tutti noi aspettiamo un riscatto che tarderà ad arrivare per alcuni, arriverà per niente per molti. Non ci sarà un mondo migliore per chi ha sofferto inconsciamente i mali dell’esistenza terrena. Ci sarà da dire… e parlare, parlare. Ma ora nel silenzio di una grotta fatta di pietrisco e massi irregolari di tufo non c’è posto per una speranza, che se c’è aspetta fuori dalla porta d’assi scantonate, tutt’al più per prenderci in giro. Lo sguardo di Sky s’accese di risposte cospicue a perché impellenti; capì fino in fondo tutto il mio tormento e io capii che nella mia atavica angoscia, rispecchiava il suo dolore sanguinante. Ma avevo capito in poche ore che vivendo di vendetta ci si secca la gola fino a rimanere strozzati. Avrei potuto dirglielo, ma ero sicuro che non sarebbe servito. Nei suoi occhi di ragazza ferita da una paura prematura non c’era più posto per altro. Allora restai in silenzio sperando di essere compreso. Nei suoi occhi vidi il mare, inghiottiva lentamente lo sguardo di suo fratello implorante, in un ultimo disperato tentativo di aggrapparsi a lei. Sicuramente riecheggiava nella sua mente il lento inabissarsi di tutto ciò che aveva, perfino le paure; quelle paure invece in me continuavano a scavare profondi solchi.

Senza mutare lo sguardo, mi girò attorno posandomi la mano sulla spalla. “Fuma!” porgendomi una sigaretta. Scossi la testa, “No!” “Fuma!” ripeté, stavolta porgendomi uno spinello fatto a regola d’arte. Scossi la testa, “Sì!” “Sentirai il mare… quello buono”. “Mi basterà non sentire urlare l’anima”. Mentre accendevo lo spino, mi guardai intorno, cercando un punto fisso nel niente che mi desse conforto e parole per domani. I due ragazzi che gremivano la stanza insieme a Sky mi guardavano con calma compiacente. “Lui è Ufo!” disse Sky, cominciando le presentazioni, quasi leggendomi nel pensiero. Mi salutò strizzandomi l’occhio destro mentre con alacrità e precisione stava accomodando dell’altra ‘marija’ nella cartina. Aveva la faccia intelligente e gli occhi grandi oltremisura. Sulla testa un cappellino da baseball azzurro con un logo a me sconosciuto: avrà avuto, tra i venticinque e i trent’anni. La sua aria sommessa lo rendeva poco decifrabile. Non so perché ma qualcosa mi diceva che potevo fidarmi di quel ragazzo, veloce a fare spinelli come pochi. “Lui invece è Ago, ti ha quasi spaccato la schiena l’altra sera” mi salutò con un sorriso idiota che sapeva di scuse. “Ago, da Agostino?” “No! Ago da ex tossico” rispose con voce da ragazzino. Magro e poco significativo, a ogni movimento era sul punto di cadere. L’eccessiva magrezza lo aveva portato a incurvarsi sulle spalle, aveva un codino ordinato di capelli color castano chiaro come gli occhi piccoli e svelti. Si muoveva quasi all’unisono con Sky, tanto da sembrare la sua ombra. Sedette sul tavolone nudo quando sedette la ragazza, ripetendo gli stessi movimenti con gli stessi tempi comati. Sky mi guardava e Ago fumava. Malgrado fosse veramente bella, non aveva niente di attraente: ingolfava le curve in vestiti maschili, nascondeva il viso tondo con bavero del giubbotto di pelle e un cappellino, simile a quello di Ufo, le

nascondeva i capelli presumibilmente chiari e mossi. Non un filo di sensualità traspariva dal quello sguardo tagliente come lame di rasoi, uno sguardo che guardava troppo oltre per essere rinchiuso in una palpebrata. Rimasi fermo a pochi a da Ufo. Fumai forse troppo, lo stomaco fu il primo ad avvisarmi, dopo la testa a girare o gli occhi pesanti. Appoggiai le mani al tavolo per non cadere sulle ginocchia, la penombra dello stanzone non svelò la mia difficoltà. “Secondo me ha ragione Arco” disse Ago, tra un cannone e l’altro interrompendo un terapeutico silenzio. “Sì, può essere” aggiunse Sky sorridendo, mentre Ufo, quasi avulso dal contesto, continuava ad affumicare ulteriormente l’aria già satura. “Ha ragione Arco?” “Lui dice che sei uno buono”. “Buono per cosa?” “Buono! E basta! Già prima del fattaccio ti considerava uno dei pochi diversi, capace di tirarsi fuori da questa merda e lui raramente sbaglia” continuò Sky. “Sapevi già tutto?” “No, no! Oddio, più o meno, solo che ora è un po’ più chiaro”. “Arco?” dissi, mentre iniziavo a dare una logica al suo apparentemente strano comportamento nei miei confronti. “È l’unico al corrente. Anche lui ha pagato, anche se indirettamente per questa storia. Fu suo figlio Barba, che faceva il custode della discarica, a parlare di strani via vai. L’indiscrezione arrivò all’orecchio di mio padre, quando già il povero Barba era rimasto schiacciato, casualmente è naturale, da un camion in manovra”. “Era anche informato che qualcuno veniva a spaccarmi la faccia, allora?” “Diciamo di sì!” Scossi la testa divertito.

“Potresti essere più chiara per favore, ci sto capendo sempre meno”. “Materiale tossico radioattivo” disse distrattamente Ufo, esordendo nella conversazione. “Indagava su questi traffici illeciti?” “Già!” “Indizi o prove?” “Bella domanda! Ma in fondo cosa cambia, quando c’è dentro di tutto, autorità comprese?” “No, niente. Cambia un bel niente, hai ragione”. “Sky, io vado!” disse Ago, infilando un giaccone di pelle. “Occhio Ago. Ora si balla forte”. “Sì, mamma, ho messo anche la maglia di lana” prima di uscire mi pose la mano e con un sorriso che iniziavo a sentire familiare, disse. “Senza rancore?” “Senza rancore!” risposi fissando i suoi occhi puri. Restammo in tre, mentre Ufo continuava a rollare e fumare. “Ci darai una mano?” mi chiese Sky. “Non vedo in cosa potrei esservi utile”. “Non preoccuparti!” Stavo per aggiungere che non valeva la pena fidarsi di me, che ero un codardo, ma Ufo m’interruppe. “L’omertà la conosci? Conosci le sue controindicazioni? Noi non le temiamo, forse perché abbiamo niente da perdere. Tu?”

Forse era veramente l’ultima occasione per vivere. “La conosco e la odio!”

VII “Onestamente, ti facevo più intelligente. Come pensavi di tenere fuori da questo affare gente come Luciani?” esordì sarcastico il Presidente, rivolgendosi a Neri. “Cosa ne sa lei di Luciani?” “Neri! Io ho fatto te, non il contrario”. “In ogni caso è stato lui a volersi tenere fuori dell’affare, io gliel’ho proposto ripetutamente, come per tutto il resto... mi ha detto che non voleva entrarci in questa storia, che era troppo rischioso e poteva morire troppa gente. È stato lui, va bene?” “Allora che cazzo è successo stamattina?” urlò il Presidente con gli occhi fuori dalle orbite,“Perché mi ha tirato questo scherzo?” “Come fa ha sapere con sicurezza che è stata opera sua?” “Neri, cristo! Non rompere il cazzo, fino a prova contraria sono il Presidente, va bene? E posso farvi sparire quando e come voglio, te e il tuo Luciani”. In quell’istante, le parole abbandonarono la gola di Neri e un rossore lo pervase. Un buio assoluto lo inghiottì. “Allora?” riprese il Presidente. “Ho mandato già chi di dovere per cercare di capire cos’è successo, Le garantisco che quanto prima sarà tutto chiarito”. “Anche se la figuraccia resta” aggiunse il Presidente. “Mi dispiace”. “Mi dispiace non basta, Neri”. “Lo so! Ho già iniziato con alcune azioni di ritorsione”. “Occhio Neri, se dovessi essere nuovamente tirato in ballo, per te sarà la fine”.

“Non si preoccupi, Presidente”. “No, no! Mi preoccupo invece, altro se mi preoccupo, pezzo d’imbecille. Inizio a pensare che tu non sia tagliato per la politica, ma ormai è fatta… troppo tardi”. “Vi farò cambiare idea”. “Lo spero per te” concluse, mentre con la mano lo invitò ad uscire. Chiuse la porta ancora in evidente confusione e quasi balbettando disse a Mario: “Chiamami Andrea, prima che sia troppo tardi”. Andrea rispose dopo ripetuti ed estenuanti squilli. “Andrea…” “Mario…?” “Ferma tutto!” “Che cazzo dici?” rispose in maniera concitata Andrea dall’altra parte della cornetta, che Mario porse teatralmente a Neri. “Andrea!” “Papà?” “Ferma tutto!” “Ma...?” “Ti ho detto, ferma tutto!” “Sono appena arrivato da Arco!” “Andrea, per l’amor del cielo, solo minacce… non torcere un capello a nessuno”. “Va bene!” rispose contrariato Andrea, chiudendo il telefono. Raggiunto il suo eremo, Neri si trincerò in un colpevole silenzio lungo millenni.

Chiuse gli occhi con forza, cercando di alienare la tragica giornata, forse la peggiore. Sudava, sudava copiosamente, gli capitava quando era nervoso. E oggi lo era, dannatamente. Percorse tragitti sconnessi, nel limbo occulto dei ricordi; una lucida paranoia gli riempì il cervello d’insicurezze, presenti e ate. Si sentì povero, senza sostanza. Tutto ciò che aveva realizzato e che brandiva con orgoglio, era solo il risultato di una lunga trama torbida. “Ma in fondo” concluse “coscienza e potere, non sono compatibili”. Una sordida cavalleria rusticana gli ripropose la presenza del telefonino sul tavolo al suo fianco. Il panico lo assalì, una voce dentro lo implorava di non rispondere. Con occhi falsamente furtivi, cercò di scorgere il numero sul display lampeggiante. Per fortuna era un numero noto. “Dottore” accennò una voce di là dell’apparecchio. “È fuori città! Da più di una settimana”. “Va bene!” Neri liquidò lapidariamente l’interlocutore, chiudendo lo sportellino con rabbia. Luciani non era in città, quindi non poteva dare al Presidente le risposte cercate. Ma perché Luciani non era in città? Proprio adesso poi, che aveva uno stramaledetto bisogno di parlargli, di chiedergli spiegazioni. Sentì dentro che qualcosa iniziava a girare nel verso sbagliato. In casa aleggiava un’angoscia palpabile, quando Mario e Andrea lo raggiunsero. Bisognava fare qualcosa e immediatamente, il progetto doveva andare avanti. Il Centro Ricerche non poteva, né doveva entrare in altri affari, doveva rimanere ‘pulito!’, a tutti i costi. Mario, già inserito nell’ambiente farmaceutico svizzero, era in pratica l’anello di congiunzione che fino allora era mancato a Neri per fare il salto di qualità. Faccendiere sopraffino e stratega scafato, aveva sempre una soluzione a tutti i problemi, secondo Andrea era anche fin troppo efficiente. Lui aveva pianificato tutto: aveva organizzato la candidatura di Neri a onorevole per avere le giuste coperture politiche ritenute indispensabili; aveva mediato con Luciani, affogandolo di soldi, in modo da tenerlo fuori dell’affare ritenuto troppo raffinato per un ‘mafioso’, e infine nonostante la netta contrarietà di Andrea, aveva ato a Luciani la gestione del riciclo, che tanti soldi aveva fruttato alla

famiglia Neri. Aveva pianificato al meglio perfino come liquidare quel giornalista rompicoglioni senza che la cosa fe troppo clamore, facendo ricadere in maniera vaga, sul consenziente Luciani, la presunta colpa del presunto omicidio. Tanto si sa, poi il tempo aggiusta tutto. Sprofondato in una poltrona di pelle, beveva con apparente tranquillità una grappa scura, seguendo con lo sguardo il nervoso andirivieni silenzioso di Neri, che sbuffava come un mantice e tra uno sbuffo e l’altro, una bestemmia, sempre diversa, con la sua voce rotta dall’isteria e il sudore che lo inondava a vampate. Mario era come al solito inguainato dal suo abbigliamento casual pregiato: una camicia a scacchi, con su una giacca di velluto a coste color cammello e un paio di pantaloni marroni. Fra le dita della mano sinistra, un sigaro terminante rilasciava una scia di fumo oltre a un profumo intenso che impregnava la stanza. La sua faccia perennemente abbronzata era più tirata del solito, ma non tesa; non era sua abitudine perdere il self control, dai suoi occhi neri come la notte, usciva un riflesso che lasciava presagire tempeste. Unico nitido segno d’inquietudine l’accavallare continuamente le gambe abbondanti. Era basso e tarchiato, poco bello ma abilissimo a far valere il fascino del potere che gli usciva da tutti i pori, anche quelli nascosti. La sua carriera di dirigente medico in Svizzera, era finita bruscamente; qualcuno lo aveva tradito, la notizia di un suo coinvolgimento in una poco chiara fuga di virus creati nel laboratorio di cui era responsabile, non era ata inosservata alle autorità svizzere. Lui senza più terreno sotto i piedi era tornato in Italia pochi giorni prima che lo scandalo scoppiasse. Non solo i virus non erano fuoriusciti accidentalmente, ma fu provato che gli stessi, responsabili poi di una pesante pandemia, erano stati fatti crescere in uova, metodo usato per permettere ai microrganismi un più rapido aggio all’uomo. Nei laboratori furono trovati già diversi milioni di vaccini efficaci sul virus modificato per attaccare l’uomo, pronti ad essere immessi sul mercato. Ma non fu la sola scoperta che la polizia cantonale fece nel Centro ricerche. In un reparto molto riservato, un gruppo di lavoro stava studiando la resistenza di batteri modificati agli antibiotici noti; lo scopo era di venderli come armi non convenzionali ad eserciti ancora meno convenzionale e gruppi paramilitari o servizi segreti. Non riuscirono ad incastrarlo, ma da quel momento in Svizzera fu persona poco gradita. Ostentava la solita sicurezza, che tanto lo rendeva odioso agli occhi di Andrea, figlio unico del Neri, esuberante rampollo, che per nulla aveva la stoffa del padre, ammazzatosi per forgiarlo agli affari, possibilmente

leciti. Sforzi vani, riusciva ripetutamente a mettersi e metterlo in ogni genere di guai. Andrea era rimasto in piedi a guardare fuori della finestra la pioggia, che lattiginosa impastava quel mattino di marzo, apparentemente come tanti. Fu lui a rompere il graffiante silenzio. “Sono stato da Arco”. “Lo sappiamo” rispose stizzito Neri. “Il Toscano… ha dato l’ordine”. “Si è messo in proprio?” chiese Mario, sfiatando una massiccia quantità di fumo, che fece tossire Andrea, il quale continuò irritato. “Il Toscano per conto di Luciani, coglione... e smettila con quel cazzo di sigaro, hai impestato tutta la stanza”. “Per quel che mi riguarda, è impossibile che le cose siano andate così!” replicò Mario, continuando dispettosamente a fumare con grandi boccate. “Un giorno o l’altro ti spacco la faccia”. “Basta!” urlò Neri, battendo i pugni sulla scrivania. “Vi sembra il momento…?” “Luciani è sempre stato al gioco, ci deve essere qualcos’altro. Sono certo!” “Anche a me, sembra molto strano, anche se non escluderei niente”. “Vaffanculo tutti e due! La prossima volta non chiedetemi di immischiarmi, visto che sembrano solo cazzi vostri” concluse Andrea, puntando minacciosamente il dito verso Mario che non lo degnò di uno sguardo. “Evita di fare il bambino proprio adesso, piuttosto, visto che vai da Checco, cerca di sapere qualcosa da lui. Laggiù alle Caserme è come in galera, le notizie volano” disse Neri, cercando di mantenere un tono gioviale per stemperare la tensione ormai alle stelle. “Senza invadenza, mi raccomando. Per il momento dobbiamo solo cercare di

capire e al diavolo il Presidente, se ci sta, bene, altrimenti amen”. Mentre Neri stava finendo la frase, Andrea lasciò la stanza sbattendo la porta. “Neri, la cosa non può andare avanti in questo modo, mi sembra di avere a che fare con un bambino viziato”. “Anche tu però, cazzo!” “Neri, non stiamo giocando!” “Maledizione! Lo so, ma cosa ci posso fare? È in apprensione per Filippo, la sua salute peggiora e il cuore ancora non si trova. Ultimamente è così anche con Grazia”. “Per me il motivo è un’altro”. Neri lo guardò con preoccupata curiosità. “Hanno scarcerato il marito di Grazia e lui si sente minacciato da questo”. “Può darsi, sì... Può darsi”. “È così, Neri, altrimenti perché stamattina avrebbe mandato Giorgione con altri due, a suonarlo come un tamburo?” “Mario... vediamo di stare calmi... ho strani presentimenti ultimamente”. “In qualsiasi caso bisogna parlare con Luciani e al più presto”. “Occupatene, per favore. Mi raccomando con Andrea, non vorrei si cacciasse in qualche guaio proprio adesso. Oltretutto l’inizio dei cantieri è imminente. Vado a dormire qualche oretta, se ci riesco. Domani ho l’aereo alle sette”. “Stai tranquillo, Neri, penso a tutto io”. Mario s’apprestava ad uscire dallo studio, quando Neri sbottò commiserevole. “Pensi veramente che Luciani sia estraneo a questa faccenda?” “Certo, Neri! Per quale motivo il Toscano sarebbe andato proprio da Arco a

scopo intimidatorio? Ricordati che hanno ammazzato suo figlio. È la persona meno adatta da intimidire”. “Allora?” “Possono anche essere solo fantasie, ma…” “Ma?” “Può darsi che sospetti qualcosa, lui o qualcun altro!” “Che abbia fatto questo per vendicarsi?” “Magari è solo l’inizio... Solo supposizioni, Neri”. Una stretta di mano li divise, lasciando in entrambi un intangibile turbamento. La nottata fu atroce, condita dei peggiori incubi. La mattina accolse Neri sfatto e senza nerbo, doveva partire, anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno. Si era da poco seduto a cenare pensieroso nell’asettica sala da pranzo dell’albergo ginevrino, appena giunto in taxi dall’aeroporto, quando una specie di portinaio vestito napoleonicamente gli pose un cordless, spiegandogli in un italiano stentato che era desiderato al telefono. Ringraziò imbarazzato, prendendo il telefono quasi con timore. La sala illuminata a giorno da un lampadario in Swarovski esagerato, era quasi deserta: il numero dei camerieri superava di gran lunga quello dei clienti. Si era seduto nel tavolino più appartato, tra una colonna in finto barocco e uno dei tre banani che troneggiavano nella sala, con un pavimento lucido all’inverosimile. Ora che si apprestava a rispondere, tutto gli sembrò più grande e vuoto, il niente intorno a lui lo stava per strozzare. Disse “Pronto?” per non restare senza fiato, dopo bevve un lungo sorso d’acqua. “Neri!” disse la voce di Mario oltre la cornetta. “Cos’è successo?” “Ha chiamato il Presidente. Ti vuole a Roma al più presto”. “Ancora? Che cavolo sarà successo ora?”

“Ha bisogno di te, per preparare la strategia per l’ultima parte della campagna elettorale”. “Ci credo poco”. “Anch’io”. “In ogni caso avvisalo, appena fatto qui a Ginevra, lo raggiungo”. “Già fatto!” “Ci vediamo a Roma?” “Ti aspetto a Fiumicino!” Chiuse; quella scarna conversazione gli aveva fatto are il poco appetito rimasto. Prese un thè e risalito in camera per le scale ampie e pompose, si riappropriò mal volentieri degli incubi che in quei giorni lo perseguitavano. Dormì, si fa per dire, vestito; guardando il soffitto illuminato dalla luce del televisore lasciato casualmente su un programma in lingua tedesca, ripercorse a ritroso fino a quando fu ato dalla memoria, cercò inutilmente di glissare i momenti bui, per evitare che accavallandosi al presente ne acuissero il dolore. Era rimasto orfano di padre a tredici anni, e in un quartiere di degrado era una condanna quasi senza appello; sua madre, alle prese con gli altri suoi quattro fratelli, fece quello che poteva, molto poco. Tutti e cinque maschi, man mano che crescevano venivano in maniera subdola assorbiti dalla criminalità diffusa in quel quartiere di case popolari, senza quasi che sua madre, alle prese con la pulizia delle scale di diversi condomini del circondario, se ne accorgesse. In uno scatto d’orgoglio e dopo che il suo fratello maggiore finì dentro per pochi grammi d’eroina, lui riuscì a divincolarsi dalla morsa che cercava di strangolarlo, decise con poco successo di studiare. Non fu un buon studente, ma in compenso riuscì a cambiare aria e amicizie, mantenendo intatto il desiderio di arrivare, a qualsiasi costo. Sua moglie era la figlia di uno degli avvocati più in vista della città, volente o nolente entro a far parte della borghesia cittadina, ritagliandosi uno spazio sempre più ampio. Si mise a fare le cose più strane: commerciare in rifiuti quando occuparsi di spazzatura era solo un affare camorristico, vendere display pubblicitari in tangenziale. Intermediava in edilizia vendendo terreni, materiali da costruzione, case e capannoni industriali, insomma si era dimostrato un vincente. Quando il suocero decise di entrare in politica non gli sembrò vero, era un’occasione più unica che rara, non che la

politica lo interessasse nel senso specifico della cosa, tant’è che seppe da che parte si era schierato il suocero solo quando mise piede in Parlamento. La riteneva la parte sbagliata, ma non gli importava più di tanto, l’importante era capitalizzare quella posizione privilegiata per le sue attività al limite del lecito. Poi quando si sentì pronto per il salto di qualità, si lasciò convincere facilmente a seguire le orme del suocero anche se dall’altra sponda politica, e non certo per ideologia, ma solo perché si sentiva più garantito e le possibilità di non buttare al vento i centomila euro pagati per la candidatura erano maggiori. Conobbe Mario, in un posto qualsiasi dell’ex Jugoslavia, era Bosnia, sul mare, era guerra, e guerra è morte per molti, guadagno per altri, pochi. Mario era uno di quelli, Neri anche; entrambi non capivano con cosa l’altro si arricchiva ma si piacquero e tornati in Italia pianificarono il salto di qualità. Roma lo accolse la sera dopo, con una pioggerellina appena significativa; Mario lo aspettava in taxi. Fecero il tragitto fino all’ufficio elettorale in silenzio, fissando entrambi il finestrino ferito dalla pioggia. Era evidente in entrambi il desiderio di essere altrove. Furono fatti accomodare immediatamente nell’ufficio del Presidente che li attendeva con i nervi a fior di pelle. Era solo, e ciò preoccupò visibilmente Neri. Preamboli zero, subito al dunque. “Neri, mi sembri un po’ spento, ultimamente”. “Presidente, ho una montagna d’impegni, lo sa!” “Quindi, non hai il fisico?” aggiunse sarcasticamente. “Comunque, sappiate che ho già sistemato con Luciani”. “Come ha fatto?” irruppe Mario. “Sorpreso? Certo, se aspettavo voi…” “Ci stavamo muovendo” disse debolmente Neri.

“In ogni caso ho fatto io come al solito. Oltretutto, Neri, ho dovuto anche convincerlo a sostenerti, visto che tu non ci avevi pensato. Tanto è che aveva intenzione di dirottare i suoi voti, tanti voti lo sai? A Pozzacco ho dovuto offrigli l’appalto dei lavori per avere questo”. “Ma” balbettò Neri. “Ma niente, imbecille. Sarà più gestibile dall’interno”. “Sono appena stato a Ginevra per chiudere il contratto con la GFI, se quelli sentono la minima puzza di bruciato, mi piantano in un mare di guai”. “E tu stai pronto con gli estintori” concluse il Presidente. Mario, urtando Neri con la gamba, concluse: “Tanto alla fine ci saremo dovuti arrivare anche noi a compromessi con Luciani, comunque non penso avrebbe votato qualcun altro”. “Come si vede che non conosci abbastanza bene certa gente”. “Be’, forse ha ragione, Presidente” disse Mario. “Neri, non farmi perdere altro tempo. Questo è il programma degli impegni da qui alle elezioni e buon lavoro”. “Sì, sì, va bene... buon lavoro anche a Lei”. Rifecero la strada verso l’aeroporto, sempre in taxi, stavolta si parlarono. “Adesso come facciamo?” disse Neri. “Se gli svizzeri fiutano qualcosa, siamo nella merda fino al collo” continuò. “Non ci faremo beccare e poi, possiamo girare la cosa a nostro favore. Adesso che Luciani c’è dentro, siamo al sicuro da eventuali cattive sorprese e oltretutto, il referente non siamo noi” rispose Mario. “A meno che qualcuno non stia facendo il doppio gioco”. “Pensi al Presidente?”

“Già!”

VIII La porta di casa aperta mi procurò un brivido leggero, comunque entrai senza tentennare. “Ho tenuto una chiave”. “Ummm”. “Ho fatto un caffè... non ti dispiace, vero?” “No!” “Da dove vieni? Non mi sembri in ottima forma”. “Sono stato in giro a farmi vedere dal mondo. Ho l’impressione che tutti stiano aspettando il mio aggio per commiserarmi”. “Bevi” disse Grazia, ponendo sul tavolo una tazzina fumante. “Mi spoglio”. “Si fredda!” “Fa niente”. “E quella?” esclamò Grazia meravigliata, alla vista della pistola che avevo appoggiato sul tavolo con noncuranza. “Non si sa mai”. “Non saresti capace di usarla”. “Sicura?” “Sicura!” “Fossi in te non ne sarei tanto convinta. Ti ho già detto che le persone cambiano”.

“Tu no, non sei cambiato. Hai solo dieci anni in più”. “ati da innocente, in una merda di posto, senza che nessuno fuori…” “Ce l’hai con me?” “Anche!” “Fai bene! Sono stata debole, non ho resistito al richiamo dei soldi”. “Brava”. “Grazie!” “Perché sei qui?” “Per vederti... Ti dispiace?” “No!” “Affetto, forse?” “O commiserazione come gli altri?” “No! Adesso cosa pensi di fare?” “T’interessa proprio?” “Più o meno”. “Appena avrò capito che non tutto il mondo ce l’ha con me, forse mi metterò a cercare un lavoro”. “Posso darti una mano... in quel senso”. “Se ne avrò bisogno, terrò conto. E tu?” “Io? Vivo con Andrea Neri, ho un bambino di due anni e non me la o per niente male... tranne qualche scrupolo di coscienza”. “Te lo sei cercato”.

“Vale la pena averlo”. “Andrea chi?” “Andrea Neri! È famoso!” “Non per me”. “È il figlio di Filippo Neri. Non conosci il candidato più accreditato per le prossime politiche? La città è tappezzata del suo volto”. “Mi dispiace deluderti, ma non bado ai muri... In ogni caso complimenti, ottima scelta... e auguri” dissi cercando di troncare quell’asettica conversazione che mi stava provando. “Grazie del caffè, come al solito ottimo!” conclusi. “Grazie”. Bevemmo in silenzio, posai la tazzina, quando lei aveva già smesso di bere da un pezzo. “Adesso?” disse, alzandosi sinuosa e parandomi contro tutta la suo imponenza. Appoggiò le mani sul tavolo avvicinando la faccia alla mia, soverchiandomi. “Vuoi che vada?” sospirò con una sensualità eccessiva. “L’alternativa?” risposi quasi goffamente. Mi accarezzò lentamente la guancia, le afferrai la mano ritirandogliela. Con fare comato diresse la mia mano verso il suo seno, premendola contro. Sotto il mio palmo un’inaspettata consistenza e a svettare un turgido capezzolo. Continuando a tenermi la mano, iniziò un lento massaggio che mi procurò un sensibile turbamento, oltre un’imponente erezione. Senza smettere col movimento, aggirò il tavolo ponendosi al mio fianco, e chinatasi a lambire con le labbra il mio orecchio sinistro, sussurrò: “Scopami!” Strinsi con forza la mano sul suo seno, sentì di poter mollare la presa. Lenta mi sfilò la maglietta, iniziando a strofinarmi il petto, quasi con rabbia. Ero ancora

seduto, mentre lei in piedi davanti a me cercava di fare aderire il più possibile il suo corpo ancora vestito al mio, ormai coperto dalle sole mutande. Bloccandole le mani, la costrinsi a indietreggiare di un o. Restò immobile, beai il mio sguardo della sua figura e il suo volto stravolto di lussuria. Con fare chirurgico le sfilai la camicia bianca, slacciandole il prezioso reggiseno, liberai un seno da fare invidia a una ventenne, i capezzoli pulsanti e gonfi tradivano un’eccitazione dirompente. Ancora più lentamente le sfilai un jeans griffato. La feci ruotare su sé stessa, pregustando a fondo il momento in cui, dopo dieci anni, l’avrei posseduta. Uno striminzito perizoma di pizzo in seta bianco, poco o niente riusciva a celare, ammesso che ce ne fosse stata l’intenzione: la mia carne pulsava ormai incontrollabile. Le presi entrambe le mani, conducendola nella stanza da letto. Docile come un agnellino si sdraiò su quello che era stato il nostro letto. Dopo averle percorso il corpo in lungo e in largo, iniziai a sfilarle il triangolo di tessuto che cercava senza troppe pretese di coprirle il pube, che scoprii quasi del tutto sgombro di peluria. Inarcò il corpo per favorire la totale svestizione. Dopo di ciò una confusione totale mi assalì la mente, il sangue fluiva copioso nelle vene, annebbiando la ragione. Squittii, urla e sospiri, penetravano la mia testa, mentre avvinghiata come una conchiglia godeva del selvaggio amplesso, con la testa riversa. Intuì l’imminenza del mio orgasmo, forse per il pesante e affrettato ansimare. “No!” intimò, stringendomi ancora più forte le mani alla schiena. “Aspetta!” continuò confusamente, disorientando il mio inconscio. La fissai sudato e probabilmente rosso in volto. La sua faccia grondava degli orgasmi succedutisi. Con una mossa felina si voltò, porgendomi il meglio di sé. “Dai!” mi ordinò sconvolta. Il tempo si fermò, le pareti della stanza si strinsero asfissianti intorno al mio desiderio, mentre gli occhi, quasi increduli, fissavano l’eternità di un piacere inaspettato. Un rantolo frammisto a gridolii, accompagnò il preludio di un’apoteosi senza precedenti. I vellutati glutei brillavano di luce propria,

flessuosi e nitidi... tutto il resto non ebbe più senso, tanto fu estaticamente paradisiaco. Si rivestì in fretta. “Lo hai rifatto?” “Perché, non ti piace così?” “Onestamente lo preferivo prima”. “Sì, ma mi facevano sentire vecchia”. “Ora, ti senti più giovane?” “No! Ma almeno non mi sento vecchia”. “Tornerai?” “Se ti va?” “Non sono stato certo io a cacciarti via”. “Sei sempre in gamba”. “Anche tu”. “Non te l’aspettavi?” “No!” “Contento?” “Sì!” “Anch’io!” Senza voltarsi uscì, lasciando la sua chiave sul tavolo. “La chiave”.

“Sento che non mi servirà”. Aveva lasciato sul tavolo insieme alla chiave anche un consistente mucchio di euro e un pregnante profumo di sesso. Infilai i vestiti restando intriso dei suoi odori. Vuoto e sfinito, cercai di scappare il prima possibile dalle mura domestiche. Il cielo si andava tingendo di rosso scarlatto e i palazzi perdevano peso sotto un tramonto di sangue. Serbavo ancora amore per quella donna che non sentivo più mia moglie, dando per scontato che quelle atroci fitte alla pancia, oltre a una solida voglia di rivederla, fossero amore. Non avevo perso tutto, dentro quella dannata cella. Era tutto celato e lentamente veniva fuori a complicarmi l’esistenza ancora di più, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Realizzai un programma sommario per la mia serata come al solito abulica. Prima da Arco poi da Marilena. E stavolta avrei preteso la verità, senza trincerarmi dietro a futilità o paure. Il bar era deserto, Arco stava predisponendosi per un’anticipata chiusura. Mi appoggiai al bancone, aspettando che fe finta di essersi accorto della mia presenza. Svogliatamente avvicinò la sua flaccida facciona. “Un caffè!” dissi con le mani appoggiate sul viso e i gomiti a occupare il bancone di finto marmo verde. “Sto per chiudere!” “Solo un caffè”. “Va bene! Dopo sparisci”. “È un po’ presto per chiudere”. Tacque, continuando a badare al caffè che cadeva con estenuante lentezza nella tazzina marrone. Me la pose e allontanandosi celermente riprese a pulire le

tazzine nel lavandino con maniacale cura, fin troppa, tanto da sembrare ridicolo. Le bottiglie sulle mensole dietro al bancone erano impolverate e quasi tutte vuote, come se non ci fosse volontà di rimpiazzarle. Era tangibile una sensazione di abbandono, non certo comune per uno come Arco, ordinato fino al fanatismo. Si asciugò le mani al grembiule, abbassandosi sotto il bancone sentii sbattere delle bottiglie, ma era un rumore posticcio, come se lo avesse fatto di proposito. Quando si rialzò con non poca fatica, era di spalle e a mala pena respirava. Voleva evitarmi. Certo! Bevvi sorseggiando in religioso silenzio, posai cinque euro sul bancone ed evitandoli ulteriori imbarazzi, lasciai il locale. “Ci vediamo, Arco”. Tacque! Sbagliavo! Non ci saremo più rivisti. Un paio d’ore dopo, infatti, tornando da Marilena, diverse auto della polizia e un’ambulanza ostruivano l’entrata del bar. Con circospezione mi avvicinai alla folla di curiosi che capannellavano intorno al nastro bicolore posto dalle forze dell’ordine per cingere il luogo del delitto. La saracinesca era abbassata, trasversalmente ad essa un corpo rannicchiato, coperto da un telo bianco imbrattato di sangue all’altezza del capo, imperava sulla scena. “Certo, mettersi contro Luciani…” disse una voce alle mie spalle, anteponendosi al silenzio rotto solo dai flash dei fotografi. “Arco!” dissi, forse ad alta voce, allontanandomi dal luogo dell’omicidio. Avevo percorso i due chilometri di strada che dividevano la casa di Marilena dal bar di Arco quasi senza accorgermene, ripetendo estenuantemente tutto quanto confessato dalla mia carnefice. Adesso, un’altra domanda mi si conficcò nella scatola cranica. Ha pagato troppo presto. Ha pagato, senza assaporare il gusto della vendetta, non avrà pace. Speriamo solo che sia servito a qualcosa. Rileggendo quest’ultimo

pensiero rabbrividì, sentendomi improvvisamente tirato in ballo. Sono arrivati ad Arco, allora potrebbero arrivare anche agli altri, e a me... in fondo è stato lui a tirarmi dentro questa storia. Perché poi, ancora non l’ho capito. Maledizione! Ma che cazzo avrò fatto di male, per essere continuamente nei guai fino al collo?

IX Aspettai quasi un’ora prima di poter entrare. Nella stanza non ero il solo ad aspettare. Entrai mentre stava finendo di sistemare una minigonna in pelle nera, l’unico indumento che l’abbigliava, a meno che non si voglia considerare indumento i mezzi balconcini che si sforzavano di tenere su gli abbondanti seni, tralasciando di coprire i capezzoli, e un paio di ciabatte anch’esse in pelle nera. “Mi fa piacere che tu sia tornato”. “Perché?” Ci sedemmo entrambi sul letto. “Ho bisogno di cancellare tutto ciò che intasa la mia coscienza. Da domani si cambia, ma per poterlo fare ho bisogno di ripulirmi”. Mentre parlava, si sdraiò sul letto posando la testa sull’enorme spalliera in velluto, stravaccando le gambe. La striscia di pelle che fungeva da mini gonna si arrotolò alla vita, offrendo ai miei occhi il suo sesso, a malapena contenuto nello slip, in tutto il suo splendore. Lo fissavo mentre ascoltavo la sua voce roca, alterata dal rimorso. Appoggiai la mano sul suo polpaccio, salendo fino al ginocchio sul quale mi soffermai. “Non chiedo il tuo perdono” continuò, “ascoltami, giudicami e se puoi cerca di capire. Mia madre aveva riposto tutta la sua fiducia in me, visto che i miei fratelli l’avevano delusa lasciando prestissimo la scuola. Ero terrorizzata da tutto quello che cercava di farmi fare. Prima il liceo, poi l’equitazione, il pianoforte, la danza! Avevo quattordici anni e tanta voglia di giocare, magari con le bambole, ma non ne avevo il tempo. Studio, studio e ancora studio, e tutti i tabù di questo mondo. A quindici anni mi feci sverginare quasi per dispetto. A differenza di quanto raccontato dalle mie amiche, che lo avevano già fatto, non fu per niente doloroso, anzi provai un piacere intenso e inaspettato, capii dopo che il mio imene non aveva retto a due anni di equitazione. Così il mio primo maschietto trovò la strada aperta”. Mi sembrò fuori luogo quel vezzeggiativo sulle sue

labbra carnose e unte di rossetto spocchioso. “Allora il sesso ce l’hai proprio nel sangue” interrompendola, mentre con la mano giocavo col bordo inguinale del suo slip. “Oltre che nel sangue, nel destino”. “Perché proprio io?” “Mia madre iniziò a sospettare qualcosa, ormai mi facevo scopare anche più volte al giorno, solo dopo qualche anno mi resi conti di essermi ammalata di ninfomania. Una malattia che non si può raccontare. Iniziò a minacciarmi mia madre, promettendo tremende ritorsioni se avesse scoperto qualcosa, accompagnò la minaccia con due sonori quanto dolorosi schiaffi che mi fecero inorridire, e non tanto per il fisico dolore procuratomi. Mi sentii persa. Non trovai altra soluzione se non fingere una violenza”. “Ma perché proprio io?” “Perché ero invidiosa di Grazia... ero sicura che tu potevi farmi godere come nessuno di quegli stronzetti incapaci che mi scopavano come i conigli”. “No!” dissi, appena capace di fiatare, atrofizzato com’ero dall’istante supremo che schianta la forza, ti annulla e ti scaglia come un getto di schiuma nel niente, scomponendoti in milioni di atomi futili, schiavi di una realtà che non può essere vera, tanto è crudele. La fissai confuso, ritirai la mano che lei si affrettò a riposizionarsi tra le gambe, a contatto col suo sesso; un calore umido investì il mio palmo, la sentì fremere. Forse non fingeva. “Non è possibile”. “Oggi, lo penso anch’io”. “Eri innamorata di me a tal punto da mandarmi in galera per dieci fottuti anni!” “Sì!” Scostai con cura il lembo dello slip, beandomi della sua rosea introspezione, fra

un rigoglio di bruna peluria, posta come ad esaltare l’anello di congiunzione tra il senno e il piacere. “Tanto vale…” sfilando il jeans con la mano libera, senza scostare lo sguardo dal suo ventre accomodante. La scopai senza spogliarmi completamente. Mi stravolse travolgendomi. Mai avrei pensato di raggiungere vette così alte di piacere puro. Esanime, mi accasciai sul suo corpo sussultante, intriso dei miei umori. Dopo lo shock, tra un ansito e l’altro, le chiesi: “È stato come te l’aspettavi?” “Forse anche meglio” disse lieve. “Spendono bene i soldi i tuoi clienti”. “Smetto! Ho deciso, se ne cercheranno un’altra”. “Come farai?” “Ancora non lo so... ma in qualche modo farò. Aiutami!” “Come potrei aiutarti?” “Sì o no?” “Se posso!” “La pistola”. “No! Fuggirai per il resto della tua vita. Anche se riuscirai a eludere la giustizia, non sfuggirai alla tua coscienza”. “Tienimi a casa tua! Solo per qualche giorno... ti prego!” “No! Sono già pieno di casini di mio, non aggiungermene altri, per favore”. “Lo capisci che voglio smetterla con questa vita schifosa?” “Sbaglio, o l’hai voluta tu?”

“Non è andata proprio così! E poi ora... non voglio che mia figlia si debba vergognare di sua madre. Aiutami!” Scossi la testa. “Solo per qualche giorno. Ma poi, chi vuoi che sospetti una cosa del genere?” “Ma poi, cosa farai?” insistetti cercando di dissuaderla, ma con sempre minore convinzione. “Non preoccuparti, qualcosa m’inventerò”. Oltre la porta chiusa, una voce impaziente. “Lena?” “Ho fatto, ho fatto!” Poi: “Stanotte, quando finisco, aspetterò che s’addormenti, prenderò la bambina e ti raggiungerò a casa”. “Come? Mi raggiungerai?” dissi, mentre velocemente scrivevo il mio indirizzo su un foglio trovato sul suo comodino. Lesse, mentre lo riponeva sotto il cuscino. “Non preoccuparti, solo qualche giorno”.

X Arrivai sul pianerottolo di casa stravolto, mi sfiorò l’idea di tornare indietro e fuggire lontanissimo. La porta era chiusa, ma la casa non era vuota. Nella penombra, una sagoma comodamente seduta sul divano. Feci il cenno di estrarre la pistola dai pantaloni. Simultaneamente sentii: “Non fare scherzi del cazzo, sono l’amico di Sky”. Mi sentii ancora più irritato. “Devi sparire di qua! Al più presto... non ti sei accorto dei due tipi sulla moto, fuori?” “No c’ho fatto caso... Ma chi vorrebbe farmi fuori?” era il ragazzo che la sera prima era venuto a prendermi da Arco. “Per quale motivo poi?” aggiunsi. “Questo per il momento ha poca importanza. Certo è che Arco è partito e quei due là fuori non sono certo venuti per perdere tempo a chiacchierare. Li conosco, sono del posto, come me”. “Non sei stato proprio chiarissimo”. “Ascoltami invece di pensare. Metti i miei vestiti ed esci da qua, alla svelta. Prendi il mio scooter e raggiungi Sky, poi vedremo. Loro mi conoscono. Io sono Ufo, se dovessero rivolgerti la parola, saluta evasivo e se magari ti chiedono dove vai, rispondigli solo: «Stasera al Beat!» e vai”. “Non posso, sto aspettando una persona!” “Anche loro stanno aspettando una persona!” ribatté stizzito e senza fermarsi continuò: “Prendi a destra la strada del mare, prosegui fino all’incrocio canalizzato, poi tieni a destra, prosegui per altri cinquecento metri circa, troverai una traversa sulla destra, prendila. Costeggia il muro di cinta, quando finisce, prendi la prima a sinistra, prosegui finché la strada non diventa sterrata. Noterai delle costruzioni vecchie sulla sinistra, infilatici dentro, dopo la prima casa gira a destra. A quel punto, la strada e poco più di una mulattiera, fai attenzione. Dopo

circa duecento metri, troverai una discesa alla fine della quale incontrerai il recinto di una cava. Costeggia il recinto verso sinistra, dopo pochi metri vedrai una falla nel muro, infilatici dentro con lo scooter. Addossato al muretto c’è un tunnel sotterraneo, infilaci lo scooter. Fai molta attenzione quando attraversi il piazzale della cava a piedi: potrebbe non essere deserta. Sotto il primo nastro trasportatore c’è una porta d’assi precarie. Bussa e aspetta”. Intuendo imminenti domande, continuò lapidario: “Niente domande! Vai! Io abito in questo palazzo. Vi raggiungerò appena posso! Quando lasci la via del mare, mi raccomando, tutto a luci spente”. Mentre completavo a fatica la vestizione, a causa della sua corporatura più minuta della mia, pensavo a Marilena, alla sua bambina e alla fiducia ripostami. Nonostante tutto non mi sentivo di abbandonarla, poteva anche sembrare stupido dopo quello che mi aveva fatto! Uscito di casa, appena in strada notai due tipi su una moto che tenevano palesemente d’occhio il portone d’ingresso. “Ciao, Ufo!” avevo già il casco in testa. Risposi con un cenno della mano. “Stasera?” continuò il tipo. “Al Beat!” risposi partendo a razzo. Non percorsi la strada indicatami, ma mi recai sotto casa di Marilena, da Sky ci sarei andato dopo. Aspettai un paio d’ore, man mano che la notte affondava il via vai andava scemando e un terrore mi avvolse inesorabile. Quando tutto tacque e la strada fu deserta, per sfuggire a eventuali sguardi indiscreti mi accostai sotto un portone dal quale potevo tenere d’occhio l’ingresso da dove sarebbe dovuta uscire Marilena. Arrivò. Aveva un borsone a tracolla e la bambina stretta al petto. Misi in moto lo scooter e la affiancai facendole prendere un bello spavento. Messa a fuoco la situazione, salì senza fiatare. Ora potevo finire il tragitto indicatomi con molta precisione, riscontrata durante il percorso, da Ufo. Lasciata la strada principale e spente le luci, mi concentrai sul percorso a tal

punto che anche i pensieri che in precedenza avevano vorticato incontrollati, tacquero. Riposi lo scooter dove indicatomi, facendo aspettare Marilena nella penombra, mi affacciai per accertarmi che non ci fosse nessuno in giro. Le presi il borsone, attraversammo quasi di corsa il piazzale per quanto il peso del borsone potesse permettermelo. Appena al sicuro sotto il nastro trasportatore, ci fermammo a riprendere fiato. Ansimando pesantemente mi guardò con languidi occhi di ringraziamento. “Sicura di non avere dimenticato niente?” chiesi con ironia. “Pesa?” “Per niente!” Bussai piano. Aprirono la porta quasi di scatto: era Sky, con sguardo incazzatissimo. “Da dove diavolo vieni?” ignorando un’ulteriore presenza inaspettata. “Due ore che ti aspettiamo, stavamo per venirti a cercare”. “Sono ato a prendere un’amica” dissi tranquillo. “Vedo! Sarebbe?” “Lena!” rispose una voce nella penombra. “La più brava delle Caserme”. “La più brava?” “Puttana!” concluse la voce, che adesso riconobbi essere quella di Ufo. “E cosa ci fa qui con te?” chiese con interrogativa calma Sky. “È lunga la storia per essere raccontata adesso. Comunque ha bisogno di aiuto!” conclusi sorridendo a Ufo. “Allora?” continuai. “Al momento c’è poco da spiegare. Arco morto lo hai visto tu stesso”.

Interrompendola dissi irritato: “E lo sapeva anche!” “Perché?” “Sono ato di là, stasera. Erano appena le sette e stava già chiudendo... nei suoi occhi ho notato come della rassegnazione! In ogni caso lo sapeva, ve lo garantisco”. “Non doveva succedere” fece Sky, mentre due lacrime le inumidivano le guance mettendo a nudo qualcosa che aveva dentro ma cercava di non far trapelare. “No!” rimarcò. Restammo in silenzio, Ufo si allontanò accendendo nervosamente una sigaretta. Mi presi la briga di rompere quell’opprimente silenzio. “Hanno scoperto il gioco” dissi perentorio. “Ora siamo tutti nel mirino; Ago più di tutti” sussurrò dal fondo dello stanzone Ufo. “Pagherà! Pagherà anche questo” disse quasi cantilenante Sky. “Ma chi?” feci stizzito. “Neri!” “Neri? Filippo?” chiesi. “Lui!” “Cosa c’entra lui con questa storia? Sarà stato Luciani?” “Pagherà!” continuò, ignorando quanto detto da me. Chissà perché, a quel nome associai subito Grazia, intrigante nella testa si fece largo l’idea che potesse essere anche lei coinvolta in quest’assurda storia che ancora non riuscivo a far quadrare, poiché Sky non si decideva a sviscerare tutto. Era sempre stata una donna esibizionista, ma a tanto, dubito sarebbe stata capace di arrivare, anche se le persone cambiano. Di una cosa ero certo: non poteva essere del tutto ignara, la sua raffinata

intelligenza di sicuro le avrebbe fatto intuire qualcosa. “Era lui il gestore del traffico di rifiuti tossici prima di are la palla a Luciani per fare il salto di qualità e occuparsi di scorie radioattive. Le aveva stivate massicciamente dentro la fornace delle Caserme. Quando la discarica abusiva fu stracolma di veleni, comprò nel porto di Genova una carcassa galleggiante destinata alla demolizione. Non era di grossa stazza, per non dare troppo all’occhio. Per due giorni rimase ancorata in una piccola insenatura e per due giorni ci fu un via vai di camion di ogni genere che dalla fornace portavano ad imbarcare i rifiuti tossici”. Sky continuò a parlare: “Quando il mercantile fu pieno come un uovo salpò, andando a finire la sua storia al largo delle coste calabresi al confine con la Basilicata, diverse miglia a sud, dove naturalmente il mare sprofonda fin dentro le viscere della terra. Per le autorità il mercantile viaggiava con a bordo rifiuti speciali generici destinati a una ditta di smaltimento se…” La interruppi: “Mai recuperato, naturalmente”. “Bravo. Secondo gli esperti per il momento è troppo rischioso”. “Allora il carico mortale giace sul fondo. Invece i rifiuti tossici?” “Li stanno spalmando come fondo sulle strade dell’ex Jugoslavia, prima di arci il bitume e coprire tutto”. “Come ci arriva fin laggiù?” “Insieme ai materiali da costruzione. Le ditte che si occupano dei lavori stradali laggiù sono tutte controllate da Luciani”. “Da dove arrivavano queste scorie tossiche?” “Anche dall’estero!” “Tuo padre aveva scoperto tutto?” “Più o meno”. “E adesso?”

“Neri ha affittato un grosso scafo d’altura in un cantiere nel Ravennate, ma non essendo un amante del mare, ci pare chiaro che stia per organizzare qualche viaggio simile al precedente, anche se niente di radioattivo giace nella discarica della fornace”. “Ago è andato là, vero?” chiesi intuendo. “Sì! A cercare le prove per incastrare definitivamente Neri. Dopo quello ch’è successo ad Arco, sono preoccupatissima per lui”. “Ti credo, cazzo! Qui s’inizia a morire. Eppure è strano! Neri? Non credo! Si vota tra una settimana, avrebbe aspettato... Luciani? Forse, se ne valeva veramente la pena!” Trapelava evidente la mia preoccupazione. Incontrando la prevista contrarietà di Sky, continuai: “Secondo me, è giunto in momento di tirare in ballo le autorità, prima che qualcun altro ci lasci la pelle”. “No! Non abbiamo sufficienti prove per incastrarlo... è potente, rischieremmo di essere presi per dei mitomani, esponendoci irreversibilmente”. “Su di me non contate più. Ho perso già troppi anni della mia vita per rischiare di finirla così presto”. “Ti capisco” concluse Sky con un pizzico di delusione. “Non volermene”. “Non preoccuparti, ci pensiamo noi” disse Ufo, anticipando la mia preoccupazione per Marilena. Salutai entrambi con un profondo sguardo e m’immersi lento nella notte. Dopo pochi secondi di silenzio assoluto, udii dei i alle mie spalle. Ufo mi seguiva. “Non vorrai tornare in città a piedi?” “Perché no?” “Dai! T’accompagno”.

“Grazie”. Rifacemmo al buio la strada. Giunti a pochi isolati da casa, con una brusca manovra, tornammo indietro, perdendoci nella città attraverso stretti vicoli. Arrivammo in prossimità del centro storico, ci infilammo in una stretta viuzza stracolma di gente e piena di locali. Scendemmo e appoggiato distrattamente lo scooter a un muro, iniziammo a percorrerla con fare distratto. Era molto noto da quelle parti, vista la quantità di gente che lo salutava. Entrammo in una birreria immersa nella penombra, scendemmo delle scale poste in fondo al locale, sbucando in una cantina sgombra di gente, con quattro tavolini in legno e corrispondenti sedie. Ci sedemmo ordinando due Guinness in boccale insieme a delle tartine. “Ti aspettavano ancora”. “Chi sono?” “Poco di buono, ma la cosa strana è che non si tratta dei ragazzi di Luciani. Hai pestato i piedi a qualcuno, ultimamente?” “Veramente, da quando sono uscito dalla galera sono gli altri che mi pestano continuamente... e non solo i piedi”. Scoppiammo entrambi a ridere. Iniziava a piacermi, con lui mi sentivo a mio agio e non mi capitava spesso. “Cosa fai nella vita?” buttai lì, nell’attesa che arrivassero le birre. “Vendo la marijuana per Luciani”. “Ecco perché sei così famoso da queste parti”. “E già, ho una buona clientela” ridendo. “Ti rende bene?” “Abbastanza”. “Non è troppo rischioso quello che stai facendo? Se fiuta qualcosa?”

“Se fiuta qualcosa, amen” disse con le mani giunte in segno di preghiera. “È troppo impegnato con affari grossi per preoccuparsi di un piccolo spacciatore da tre-quattrocento euro al giorno... comunque il rischio c’è, e anche grosso”. “Allora chi te lo fa fare?” “Neri! E lui il problema, non Luciani. Se uno come lui si caccia in politica, qualcosa di grosso, ma molto grosso sta bollendo in pentola”. “Tipo?” “Uranio!” “Uranio?” “Già”. “Da dove lo andrebbe a prendere l’uranio uno come Neri?” “Primo: è più intrallazzato di quanto creda. Secondo: nell’ex URSS, comprare l’uranio è come andare a prendere il pane al forno e oltretutto a prezzi irrisori... se ne trovano quantità infinite!” “A chi lo andrebbe a vendere quest’uranio?” “È quello che stiamo cercando di capire”. Fece una pausa durante la quale bevve un sorso dal boccale; feci altrettanto. Buttò lì quasi per caso: “Pakistan? Iran?” “Possibile; sì, è possibile”. “Poi c’è il Centro a ingarbugliare ulteriormente le cose”. “Quale Centro?” “Quello che dovrà sorgere nell’area dell’ex fornace”. “Dove Neri stoccava le scorie radioattive?” “Quello, sì!”

“La settimana scorsa è venuto il Presidente in persona a posare la prima pietra. Dando ufficialmente inizio ai lavori”. Ora iniziavo a dare una logica alla pomposa sfilata alla quale avevo assistito scocciato da dietro la mia finestra. “Quella alla quale non ha partecipato nessuno?” “Quella! Doveva essere la prima mossa di una strategia finalizzata a sgretolare sia l’immagine sia gli affari di Neri”. “Per poter fare questo vi siete serviti di Arco, che poi ci ha lasciato le penne, giusto?” “Non è andata proprio così, anzi è stato Arco stesso a suggerircelo”. “Ora capisco perché quelle teste di cazzo sono venute a casa mia riempiendomi di botte dopo il comizio: mi credevano complice”. “Probabilmente”. “Ah però! Voi eravate nervosi perché il giorno dopo sarebbe partito il vostro disegno ritorsivo e mi credevate una spia! Loro pensavano fossi un complice dei boicottatori… intanto giù botte da tutti”. Ridemmo entrambi, convinti. “Dicevi della clinica?” continuai dopo che ci fummo ricomposti dalla risata. “Ho una mia teoria, ma per il momento è pura fantasia”. “Vale a dire?” “Virus! Batteri! Gas tossici!” Posai il pezzo di pane che avevo intenzione di mordere, guardandolo profondamente mentre avvicinai la mia faccia alla sua. “Batteri?” chiesi, rimarcando la parola sottovoce. “Ipotesi!” continuando a bere con indifferenza. “E cosa ne farebbe?”

“La stessa cosa che fa con l’uranio”. “Non è possibile?” “Sì! Magari mi sbaglio, ma forse no”. Mi guardai attorno quasi disperato. Tornai a fissarlo spaurito. “Potresti anche avere ragione”. “Potrei?” “Bisogna fermarli!” “È quello che stiamo cercando di fare. Rischiando la vita”. “Pensi che la polizia crederebbe a una storia simile?” “No!” rispose categorico. “Barba aveva visto?” “Sì, aveva visto!” “E Arco?” “Arco ancora non lo so, ma non penso sia stato Luciani, come vogliono far credere”. “Neri, allora?” “L’hai detto tu... comunque è molto probabile”. “Ed io?” “Qua il mistero s’infittisce. Dovresti saperlo tu il perché”. “Ti giuro che la cosa mi lascia senza parole. Pensi ci sia un nesso fra l’uccisione di Arco e quelli che mi aspettano fuori di casa?” “Tutto è possibile”.

Intanto un tavolino era stato occupato da quattro ragazzi che giocavano a carte rumorosamente. Una ragazza di circa venticinque anni, esile e dai capelli castano chiari, con indosso un grembiulino nero Guinness scese disinvolta la scala con in mano un vassoio, anch’esso Guinness, con quattro birre scure medie; andò a posarle sul tavolo dei quattro ragazzi alle nostre spalle. Giratasi per risalire intersecò lo sguardo di Ufo che con un gesto della mano richiamò la sua attenzione. Senza avvicinarsi, la ragazza intuì di cosa avevamo bisogno, notando oltretutto i nostri bicchieri vuoti. “Ancora due?” chiese. Ufo aspettò tacitamente il mio consenso. Gli feci un affermativo cenno della testa. “Ancora due!” confermò. “Okay, Ufo!” disse la ragazza inghiottita dal soffitto. “Famosissimo anche qui?” “È il mio pub, se non sono in giro a lavorare, è qui che mi trovi”. “Non è male!” “E soprattutto ognuno si fa i cazzi suoi! E con i tempi che corrono, non è un dettaglio da tralasciare”. “Già! Vivi solo di quello?” “Non ho molti vizi”. “Da quanto tempo lo fai?” “Da due anni, circa”. “Lo immaginavo”. “Guarda che ormai in giro facce da galeotti a vendere la droga ce n’é sempre di meno”.

“Be’, insomma... Mi hai capito? Prima cosa facevi?” “Studiavo biologia a Milano”. “E poi?” “E poi il destino ci ha messo la coda e tutto è finito in merda”. La ragazza ricomparve con le due birre che posò sul tavolo, portando via i bicchieri vuoti. “Ero al terzo anno, quando fra i compagni di corso iniziò a diffondersi la notizia di un Centro ricerche mediche ticinese che cercava ragazzi sui quali testare farmaci. Di domanda in domanda, riuscii a mettermi in contatto con questo Centro. Mi proposero un ciclo di sperimentazione della durata di una settimana offrendomi l’equivalente di circa ottomila euro. Accettai, anche se con qualche titubanza. Ripetei più volte i test, ma sempre con farmaci diversi. I soldi erano tanti e la vita a Milano costava!” Si fermò per qualche minuto. Attesi in religioso silenzio che riprendesse il discorso che gli stava procurando un certo turbamento: “Ho un tumore al fegato” buttò lì brutalmente. “Per colpa dei test?” “Quasi sicuramente. Anche se le prove certe non le ho, ma non sono l’unico tra chi si sottopose a quei test ad averlo”. “Quando l’hai scoperto?” “Un paio d’anni fa, per caso. Adesso attendo la morte cercando di vivere il meglio possibile”. “Ora capisco la tua teoria sul Centro”. “Mi piacerebbe prima di morire vedere quel Morganti rovinato”. “Chi sarebbe questo Morganti?” “È il braccio destro di Neri e mente del progetto. C’era lui dietro il Centro ticinese”.

“Cazzo!” “Mi piacerebbe proprio fargliela pagare, e non solo per vendetta: quel Centro è una minaccia per il mondo intero. Se riescono veramente a produrre virus in grosse quantità, non oso pensare a cosa potrà accadere se quei virus finiscono nelle mani sbagliate”. “Terroristi, per esempio?” “Non solo”. “E già, vai a capire chi sono veramente i terroristi!” “Vedo che mi capisci al volo”. “Da quanto li conosci?” “Ho conosciuto Sky, nel Centro ricerche a Ticino. È stata lei a farmi conoscere Ago. Sono molto in gamba, anche se un po’ troppo esuberanti”. “Oddio! Ragazzi!” dissi platealmente con ironia. “Sono dalla parte giusta. Questo è certo!” “Pensi veramente sia possibile bloccarli?” “Solo provando lo si può sapere”. “Mi piaci, Ufo!” dissi dopo due bevute. “Anche tu! Così, vieni da dieci anni di galera?” “Già. Da innocente, credimi” appoggiando i gomiti sul tavolo, presi fiato e cominciai a illuminarlo sui motivi che mi erano costati una condanna così severa. Quando capì che avevo finito, si aprì a un sorriso e posandomi la mano sulla spalla: “Non mi è proprio nuova la storia; ricordo che vedemmo come un’onta il fatto che uno di Stalingrado venisse a fottere una ragazza delle Caserme. Sai, con la rivalità che c’era”. “C’è ancora?”

“No! Luciani ha sistemato anche questo”. “Però! Che sant’uomo”. “In ogni caso, hai un bel record”. “Quale?” “Sei l’unico, dico l’unico, che si è fatto inculare dalla Lena. Tutti gli altri hanno fatto il contrario”. Lo guardai con finta severità: “Te compreso?” “Me compreso!” Scoppiammo a ridere fragorosamente, tanto da far voltare i quattro ragazzi che giocavano a carte. La risata si prolungò sonoramente per diversi minuti. Parlammo per il resto della nottata, continuando a bere. Parlammo di musica, sesso, politica, libri e tanto ancora. “Fumi?” gli chiesi mentre ci alzavamo per andare via. “No”. “Una tromba?” scoppiamo di nuovo a ridere. “Okay, okay, fumiamo”. “È meglio di no! Andiamo a dormire”. “L’erba ti fa male se la fumi senza stile, ricordalo”. “ E poi dove andiamo a dormire?” “Se quei due coglioni sono andati via, saliamo da te, altrimenti torniamo da Sky”. La strada era un via vai di lavoranti e di sparuti gruppi di avventori ritardatari che sostavano sugli usci dei locali. Un tenue pallore cercava di forzare la notte.

Forti di una leggera sbornia, abbracciati raggiungemmo lo scooter. Sotto casa non si vedeva anima viva; Ufo fece per precauzione un paio di volte il giro dell’isolato. Nessuno! Prima di spegnere lo scooter, puntò il faro contro il portone, notammo due sagome sedute sui gradini, rannicchiati e appoggiati tra loro. Girò il manubrio dello scooter, spegnendolo. “Entro. Tu vai a fare un giro e torna non prima di una mezz’oretta” disse. “Non è rischioso?” “Forse per te. Vai, non preoccuparti”. Misi in moto partendo a tutto gas. Iniziai la mia missione a so per la città che andava svegliandosi lentamente. Ufo aprì il portone facendo sobbalzare i due. Si fermò di fronte a loro interrogativamente; uno dei due estrasse una pistola puntandogliela stupidamente. “Che cazzo fai?” quasi urlò l’altro. “Scusami, Ufo: ero mezzo addormentato, non ti riconoscevo”. “Diciamo che dormivi profondamente! Cosa ci fate qua? È pericoloso!” “Il Toscano lo sa, è tutto a posto” disse quello dei due appena più sveglio. “Sì, ma che cazzo ci fate?” “Stiamo aspettando quello del secondo”. “Quello appena uscito di galera?” domandò Ufo. “Lui!” “Perché?”

“Ah... questo non lo so!” rispose colui che aveva estratto la pistola, ormai riposta nella tasca. “Noi abbiamo l’ordine di portarlo in macchina e lasciarlo legato lì. Dopo qualcuno verrà a prenderselo” aveva aggiunto il secondo. “Cose grosse?” disse ancora Ufo. “Sembra di sì! Proprio non vorrei essere nei suoi panni”. “Cazzi suoi!” concluse Ufo. “Già!” “Ci vediamo… ma non è in casa?” domandò Ufo mentre cominciava a salire le scale. “Pare di no. Noi abbiamo l’ordine di aspettarlo; senza prove”. “Ah, capisco! Buon lavoro”. Puntualissimo aspettava davanti al portone. Salì con una certa fretta alle mie spalle, alzando la voce per essere sicuro di essere sentito. “Ignoro il motivo, ma è meglio che per un po’ tu non ti faccia vedere in giro”. Partii sparato, incitato da una sua pacca sulla coscia.

XI Appoggiò stancamente il capo sul poggiatesta del sedile di pelle beige, frastornata dall’ancora vivo piacere. Stava infilando le chiavi nel cruscotto quando un acuto turbamento la pervase. Turbamento che già aveva iniziato ad assalirla appena fuori della porta di quella che ancora non sapeva se considerare casa sua. Meditando sul lusso dell’abitacolo, sentì nella testa pulsioni assomiglianti tanto al rimorso. Turbamenti lontani, recenti e futuri, ma dannatamente certi. Lo amava, sicuro! E questo le faceva ancora più male. Dopo dieci anni non se lo sarebbe aspettato di reagire in quel modo. Spesso aveva pensato a quel momento, ma lo aveva immaginato carico di freddo distacco, al massimo di lieve piacere provato nel vedere una persona dopo anni. Ma una reazione del genere, no. Il tutto le stava procurando una totale confusione. Mentre si avviava pensò che sarebbe stato meglio non rivederlo più. Per dare un significato a quella sommaria decisione si disse che in fondo anche lui stava soffrendo e non le sembrava giusto dopo quanto aveva ato. Poi, come spiegargli... come fargli capire? Una volta conosciuto, il lusso è come l’eroina: non se ne può più fare a meno, e poi, ormai sempre e più scioccamente convinta, lei aveva la sua vita, Andrea che le voleva bene, Filippo e tutto il resto. Gli stenti dei primi due anni di matrimonio con lui erano ormai solo un ricordo sbiadito e inconsistente. Continuando a mentire a se stessa si ripeté che in fondo aveva ragione Andrea quando asseriva con veemenza che della separazione doveva occuparsene lui. La menzogna fu completa. Il profumo di lui, del suo sesso, dei suoi baci le impregnava le narici, spandendosi solido nell’abitacolo. Ora nella testa aveva solo quegli istanti di profondo piacere, senza che altro riuscisse a estirparli dal suo inconscio. Due stupide lacrime le segnarono il volto, annacquando la vista. Accostò l’auto e scoppiò a piangere disperata, prigioniera di una colpa non più presunta. Ripreso il controllo pensò ferrea, ‘Il sesso mi ha sconvolta, succede sempre così. Appena a casa con Filippo tra le braccia anche questo sarà un giorno senza significato’. Andrea sulla poltrona in salotto, attaccato al telefono, alzò lo sguardo nel vederla

entrare. Le intimò in maniera drastica col movimento del braccio, di sedersi sul divano al suo fianco. Grazia fece finta di niente, ma la reazione fu inaspettata. Le afferrò il braccio scaraventandola sul divano. Sgomenta e senza parole iniziò a massaggiarsi l’avambraccio segnato dalla brutale presa. Andrea intanto continuava ad urlare al telefono frasi tipo: “Deve essere fatto entro stasera, in ospedale è già tutto pronto” e “...non m’interessa, il modo lo trovate voi. Vi pago e voglio il lavoro fatto!” Chiuse bruscamente il telefono, spostando l’attenzione su Grazia che lo osservava sconcertata. “Cos’è successo?” con l’unico filo di voce disponibile, sforzandosi di essere il più naturale possibile. “Ti hanno vista”. “Dove?” “Non fare finta di niente! A casa tua. Cosa cazzo ci facevi a casa tua? Ti avevo avvisata di non andarci, non dovevi più vederlo quel…” “Lo sai perché ci sono andata?” disse stavolta con sincera convinzione. “Non me ne frega un cazzo!” sempre più irritato. “Va bene, va bene... come vuoi. Da oggi lascio fare a te”. Grazia sedette cercando un equilibrio più che altro da dimostrare. Impostò la voce con attenzione per dire: “E Filippo?” “Non mi sembra che qualche ora fa t’interessasse poi tanto, visto che eri a sartela col tuo ex marito, anzi con tuo marito”. “Lo sai che non è così”. Pochi istanti di silenzio, poi Andrea disse: “Stanotte arriva il cuore, quindi vediamo di sbrigarci. Dorme!” Il convinto sguardo commosso di Grazia funse da calmante per Andrea che

sembrò placare tutta la tensione accumulata da giorni ati in attesa che arrivasse un cuore per Filippo e da tanto altro. Si abbracciarono iniziando a baciarsi, ma appena Andrea appoggiò le labbra sul suo collo, s’irrigidì di scatto, lasciò la presa alzandosi. Nel suo sguardo, tutto il furore possibile, in quello di Grazia, tutto il terrore possibile. Studiò attento il suo corpo maniacalmente, mentre gli occhi iniettavano veleno nello sguardo. Si rannicchiò a protezione non sapeva neanche lei di cosa. Puntandole minacciosamente l’indice, disse scandito: “Te lo sei scopato!” “No” sussurrò quasi impercettibilmente. “Sei una puttana!” “Non è vero! Te lo giuro” in un ultimo, patetico tentativo di difesa. Le afferrò il lembo della camicia tirando con forza; alcuni bottoni saltarono, perdendosi nella stanza. “Fermo! Ti prego, non ho fatto niente” continuava a implorare. “Sei una puttana!” ripeté nella maniera più volgare possibile. “Puzzi di sesso! Hai ancora il suo profumo addosso”. La mano di Andrea si abbatté pesantemente sul viso di Grazia provocando un sottile rigagnolo scarlatto sul lembo labiale, oltre ad un improvviso e intenso rossore sulla guancia colpita. “No! Fermo” singhiozzando. Brutalmente le strappò la camicia di dosso, gettò via anche il reggiseno. Un nuovo ceffone le investì il volto, stavolta anche le narici si tinsero di rosso. Le afferrò con forza un seno, iniziando a spogliarsi anche lui. “Basta! Ti prego basta!” “Io non ti basto più? Adesso vai anche con gli ex galeotti maniaci?” restando nudo. La faccia di Grazia era ormai un impasto confuso di cosmetici, in precedenza

accuratamente distribuiti. Continuò a spogliarla con sprezzo, sbottonandogli i jeans con violenza, abbassandoglieli fino alle ginocchia. Ormai vinta e rassegnata, con i capelli sparsi sulla faccia, non opponeva più resistenza. Capì di non poter più mentire, anche perché il sesso non mente: gode di piacere puro, piacere ancora visibile agli occhi assatanati di Andrea, al quale il dettaglio non sfuggì. Le afferrò i capelli premendo col ginocchio contro il suo collo. ‘Mi ammazza!’ pensò, mentre lui con l’altra mano la colpiva con furia tra le gambe. Disperata rantolò: “Mi ha costretta!” “Non ci credo!” “Ti giuro, mi ha costretta!” Smise di colpirla, tenendo i capelli ben saldi nella mano. “Mi ha minacciata con una pistola”. Dopo una pausa che gli permise di prendere fiato, continuò: “È vero! Te lo giuro su quanto ho di più caro”. Spingendole la testa indietro, abbandonò la presa girandosi su se stesso; come in trance afferrò un pacchetto di sigarette. “Scusa!” disse senza voltarsi, con assoluta indifferenza come se nulla fosse accaduto. Fumava avidamente mentre diceva: “Scusa, ma è un momentaccio”. Abbandonò la stanza. Goffamente, Grazia cercò di ricomporre il verso delle mutandine arrotolate sulle cosce. Con fin troppa oculatezza, pose il triangolo di pizzo a coprire la scarsa peluria pubica. La testa bassa le faceva scivolare le acide lacrime intrise di paura, fino a macchiare di scuro il tessuto dei jeans abbandonati sulle caviglie. Si sentì volgarmente indifesa, umiliata e sconfitta. Sollevò la camicia ridotta e uno straccio e chinatasi afferrò i lembi dei jeans. Mentre cercava di tirarli su, sentì una voce possente: “È vero?” Senza alzarla, mosse la testa in modo affermativo. Una mano veemente le afferrò il mento, obbligandola a girarsi a guardare.

“E guardami in faccia, quando ti parlo. È vero?” ripeté Andrea. “Sì!” confermò con voce alterata dal pianto, che da poco placato le ritornò invadente. “Lo ammazzo! Con le mie stesse mani, dopo averlo torturato”. Le si strozzò in gola un “No!” che l’avrebbe compromessa definitivamente. Andrea percepì uno strano moto sul suo viso, come una smorfia appena percettibile. “Attenta, Grazia!” disse minacciosamente mollando la presa, “Attenta. Posso averne migliaia come te... Lo sai vero?” “Sì, lo so!” rispose mentre finiva di abbottonarsi i jeans, alzando la testa come lui esigeva. Dalla vita in su rimase nuda come in segno di sfida, Andrea le appoggiò il palmo della mano sotto una mammella alzandogliela in alto esageratamente. Le fece male, ma non fiatò. Con disprezzo inaspettato accompagnò un ghigno col movimento della testa. Quasi beffardamente la baciò sulla fronte e uscì di casa. Afferrando con rabbia il reggiseno e la camicia, in quell’istante Grazia sentì di aver raggiunto l’ultimo stadio possibile d’umiliazione. L’ampio specchio del bagno mise a nudo senza appello i danni provocati dall’aggressione, anche se ampiamente previsti, considerato il dolore. Pettinò i capelli dopo aver sciacquato la faccia con molta attenzione per evitare di acuire il dolore già presente. Spalmò sul viso della crema rinfrescante, usata quando Filippo aveva la pelle irritata, per placare un po’ il bruciore che le avvampava le guance rosse sulle quali si notava ancora la forma delle dita che l’avevano colpita così crudamente. Faticosamente e con mille precauzioni a causa del dolore spesso lancinante, sgombrò il volto dall’ammasso di cosmetici che ormai formavano un’informe poltiglia. Si dedicò, munita di cotone idrofilo e acqua ossigenata, a tergere il sangue raggrumato fuoriuscitole dalla bocca e dal naso. Terminata l’operazione notò le labbra spaccate in più punti ancora sanguinanti, anche se lievemente. Ripulì con la lingua il succo amarognolo, segno di una cocente sconfitta. Osservò indignata i segni rossastri lasciatigli sul braccio e sul seno, oltre al copioso rossore presente nella zona inguinale. Aveva male ovunque, ma appena fu certa che a fargli più male non erano i residui delle

percosse ma la rabbia nella testa, scoppiò in un pianto conclamato che pareva irrefrenabile. Si sentì schiava, incatenata con enormi anelli. In un secondo stava pagando quello che per sette anni, col suo corpo disponibile, aveva avuto gratis. Aprì l’armadio colmo di costosi abiti che improvvisamente le parvero degli insulsi stracci. La riprese il rimorso, stavolta in maniera dirompente; rimorso tramutatosi in panico quando pensò alle conseguenze che avrebbe causato l’aver mentito ad Andrea. Quel pensiero non l’abbandonò per tutta la notte lenta e angosciante. Il sonno le girò alla larga, molto alla larga. Cercò inutilmente rifugio in Filippo, in un libro e infine in una doccia ristoratrice. Nella sua mente, all’amplesso s’accavallò l’idea di un’esecuzione probabilmente già avvenuta. Non fu capace di immaginare altro: l’inconscio traspose il corpo di suo marito esanime al suo ripetutamente ferito e umiliato da Andrea. Erano da poco ate le quattro quando abbandonò il letto e vestitasi accuratamente si diresse verso l’uscita; stava per girare la maniglia, quando un lampo d’insulso orgoglio le suggerì: ‘Se varchi quella soglia, è tutto finito, per sempre!’ Non ebbe il coraggio; rabbiosa andò in cucina a prepararsi un caffè. Lo aveva appena versato quando senti la chiave dentro la serratura. Andrea gli si parò davanti visibilmente provato. “È per me?” “Anche”. “Non dormi?” “Non riuscivo a prendere sonno”. “Per Filippo?” “Già!” mentendo “Preparati. Partiamo subito”. “Dove andiamo?”

“A Nizza. Lo portiamo lì. Stamattina arriva il cuore e lo operano subito”. Noncurante del dolore provocatole, le pose una mano sulla guancia. “Mi dispiace”. “No, è colpa mia”. “Scusami” chinandosi a baciarla. “Lo hanno trovato?” “No! Ma lo stanno cercando”. “Lascia perdere”. “No!” disse stizzito, “Deve pagare!” Bevvero il caffè in silenzio, guardando entrambi la tazzina con sottile imbarazzo.

XII Tutto è incerto: nella capacità formale che l’uomo dispone s’incunea spesso un inarrestabile processo doloroso di un susseguirsi di tragedie. Lo pensava Neri mentre, davanti allo specchio, col complice aiuto della discreta moglie, cercava d’infilarsi la giacca del vestito gessato. Un’operazione che considerata la mole, gli costava enorme fatica. Lo guardava stanca, quella donna ingrigitasi alla sua ombra. Non conservava nemmeno il ricordo della sua indole esuberante, si era apita in casa, nell’inefficace esercizio di moglie e casalinga al quale non era per niente avvezza. Aveva dimenticato di essere colta, ricca e bella. Lo aveva dimenticato perché nessuno glielo ricordava; una laurea in chimica appesa nella sala da pranzo, un’eredità opulenta e niente che la fe sentire donna. Negli anni aveva imparto a vivere di televisione, subendo in maniera subdola le conseguenze che quella vita comporta. Era l’ombra di un energumeno camuffato da intellettuale. Si era arresa agli eventi, incastrata in una storia a lei estranea. Ancora oggi, malgrado avesse superato di slancio i sessant’anni, conservava nei lineamenti una grazia e un’eleganza che l’aveva contraddistinta da sempre. Era forse questo il motivo per il quale Neri detestava i vestiti. Terminata la vestizione, si dedicò al nodo della cravatta col simbolo del partito, accessorio ritenuto inutile oltre che insignificante. Smise come ipnotizzato dal suo stesso sguardo, varcando una soglia d’inconscio mai sondato prima. S’irrigidì e cominciò a sudare, rastrellò tutti gli eventi succedutisi da quando aveva deciso di candidarsi, un’assurda sommatoria di accadimenti improvvisamente presero una forma logica. Due giorni ancora, due maledetti giorni. Un comizio e una cena, poi tutto sarebbe finito. Dentro o fuori, non sembrò fare più differenza. Nella testa, per un istante gli frullò il motivo per cui aveva scelto di intraprendere quell’avventura tediosa e complicante. Allungò i tempi della vestizione nella speranza di stemperare la tensione, la testa traboccava di dolori e il silenzio della stanza da letto lo esponeva ulteriormente a pensieri e presagi. Si sentì vecchio, forse più del dovuto, e stanco. Stanco!

Nel suo sguardo cercò di percepire il modo in cui gli altri lo captavano. Il suo modo di vedere e di vedersi era mutato quasi impercettibilmente. Lui era mutato e soltanto la diametralità costante del suo punto di vista non gli aveva fatto percepire prima questo cambiamento, era solo l’inconscio che teneva a galla certe convinzioni lontane dalla realtà e tragicamente si rese conto dell’assenza di progressività nel suo pensiero. Per gli altri era un vecchio! Sicuro, era un vecchio e questo improvvisamente lo turbò. Forse era quello il motivo che lo aveva portato a sguazzare per decenni in affari sporchi, non voleva rassegnarsi all’idea che un giorno sarebbe stato un vecchio inutile! Continuò a scrutarsi allo specchio: la flaccida pelle, le rughe profonde lo impressionarono come mai prima, anche dalle narici spuntavano peli bianchi. Guardò l’orologio forse per distogliere l’attenzione da quel viso sofferente. Con un’imprecazione apostrofò il suo consueto ritardo. L’ultimo maledetto comizio era sempre più imminente, non era il primo, ma lo stesso gli procurava ancora terribili fitte allo stomaco. Mario irruppe col suo fragoroso buon umore, ostentato solitamente nelle situazioni delicate per stemperare la tensione, anche se caratterialmente era comunque molto brillante. Entrò fino in camera da letto. “Onorevole, stasera farai un figurone!” disse teatralmente. “Vaffanculo!” “Dopo... dopo... Adesso tocca andare, la platea ti aspetta acclamante”. “Vaffanculo!” “Dopo... dopo…” “Il popolo ti adora, Neri!” concluse, mentre con uno strattone schiodò la sua figura dallo specchio spingendola verso l’uscita. “Guida tu!” disse Neri. “Bene, così per strada avrò modo di ragguagliarti sugli ultimi avvenimenti”.

Partirono lentamente, la città sfilava solita dai finestrini. Neri sentiva tutti gli sguardi puntati addosso, una spigolante insicurezza lo pungolava ripetutamente. I primi chilometri sfilarono silenziosi, poi Mario irruppe, scaraventando il silenzio fuori dai finestrini socchiusi: “sco Luciani! Lo hanno trovato morto in casa sua! La polizia ha rinvenuto anche mezzo chilo di coca e quarantamila euro in contanti, non ti sembra strano?” “Molto! Che abbia deciso di fare il salto di qualità?” “Chi? Lui? Ma lascia andare…” “E già, se non fosse per quella povera donna”. “È sparita col bambino”. “Come è sparita col bambino?” “Sparita! Che l’abbia ammazzato lei?” “Non credo”. “Ad ogni modo la polizia non lo esclude”. “Non può essersi messo contro suo zio”. “È quello che pensano gli inquirenti”. “Certo, mezzo chilo di droga non può certo considerarsi uso personale”. “Per il momento il mistero e il riserbo sono totali... però…” “Però cosa?” “Il suo ruolo nello staff dello zio lo aveva già, perché la droga? Per chi serviva?” “Tu come lo spiegheresti?” “Porca puttana, proprio adesso doveva succedere tutta questa storia? Prima Arco, poi sco Luciani, come se qualcuno stesse tramando alle mie spalle. Sembra fatto apposta

per screditarmi”. “Bravo!” lo interruppe Mario. “A mio avviso non è un’ipotesi da trascurare”. “Ma chi?”. “È lì il punto! Chi? A proposito, Neri, Andrea?” “È a Nizza con Grazia. Oggi dovrebbero trapiantare un cuore nuovo a Filippo”. “Lo spero!” Finita la frase, Mario si voltò verso Neri, accorgendosi senza stupore del suo sguardo interrogativo. “Lo hanno visto spesso in casa di sco, ultimamente”. “Allora sono amici e magari sarà andato dalla Lena come altre centinaia di uomini”. “Lo stanno cercando! Come le altre centinaia di uomini”. “Ti pareva! Anche questo adesso. Ma dico io, quell’altro deficiente, con quella bella figliola che si ritrova, doveva andare proprio dalla Lena?” “Ad ogni modo, chiamalo e digli di non tornare prima di lunedì, a scanso di equivoci”. “Lunedì?” “Sì! Almeno si sarà votato e la cosa non potrà influire sul tuo risultato”. “Inizio ad averne le scatole piene di queste elezioni” disse alzando la voce. “Il carico piuttosto?” aggiunse. “Tutto sotto controllo. L’uranio arriva domani mattina”. “Vediamo di fare in fretta. Non vorrei che qualcosa andasse storto anche lì. È l’ultimo, vero?” “No! Ancora un paio e con l’uranio abbiamo finito”.

“Come ancora un paio? Non possiamo arli a Luciani?” “Meglio di no. Meglio gestirli direttamente, non si tratta di scorte tossiche di magazzino”. “Uff. L’ultimo, Mario!” “L’ultimo! Certo, Neri. Lo sai, non dipende solo da me! Gli accordi vanno rispettati, è gente suscettibile quella, bisogna tenerseli buoni”. “Porca puttana! Speriamo”. “Ma sì! E dopo andiamo a regime con la sperimentazione”. “Non sarà troppo rischioso partire dall’ospedale? Non sarebbe meglio aspettare che il Centro sia ultimato?” “Gli svizzeri vogliono subito il vaccino per chiudere il contratto, poi questo è un virus riconosciuto, si tratta solo di ricerche su basi già esistenti. Per il resto, faremo solo ricerche su elementi noti, niente di compromettente, anzi sarà utile per la reputazione futura”. “Speriamo! Inizio a non essere più sicuro di niente, ormai succede di tutto”.

XIII Entrò nell’asettica cameretta tetro e tirato, Grazia scattò in piedi dalla sedia di fianco al letto dove da poco aveva preso sonno il piccolo Filippo. “Allora?” quasi aggredendolo verbalmente. Il suo sguardo ricolmo di speranza mutò radicalmente nel vedere l’espressione dipinta sul viso di Andrea. “Niente trapianto!” disse lapidario, “Il cuore non arriva” aggiunse. “Lo sapevo!” mentre esausta si lasciò cadere sulla sedia. Andrea iniziò un nervoso e silenzioso su e giù per la stanza; ogni qual volta ava davanti al letto gettava furtivi sguardi verso quella tenera creatura avvolta nel sonno. Terminò il suo moto a ridosso della finestra, scrutò fuori. Pioveva, il porto di Nizza era appoggiato languidamente su di un grigiore ovattato, i suoi pensieri parevano perdersi lontano. Al suo fianco Grazia, col volto tra le mani e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, piangeva silenziosa; le accarezzò i capelli senza volgerle lo sguardo. Distoltosi dalla finestra si appoggiò al muro, continuando a are molto lentamente le mani tra i capelli di Grazia. Con apparente noncuranza iniziò a sollevare delle ciocche tenute tra il pollice e l’indice, le strofinava come per tastarne la consistenza. Lo sguardo si protraeva immobile sul volto di Filippo dormiente. Si mosse verso il capezzale del letto dalla parte opposta in cui era seduta Grazia che singhiozzava in maniera sempre più copiosa. Era secco lo sguardo di Andrea, mentre con attenzione accarezzava le guance paffute e rosate del suo bambino. “Smettila! Finirai per svegliarlo!” quasi rabbiosamente; mentre lo sguardo si attardò sulle sue cosce casualmente scoperte più del dovuto. S’alzò lenta, come priva di forze, chiudendosi nel bagnetto per sfogare il suo dolore. Quando Andrea aprì la porta del bagno, piangeva ancora con le mani appoggiate sul lavandino; accostò il capo al suo, iniziando ad accarezzarle lentamente il collo e la schiena; si sentì lievemente rinfrancata da quelle carezze d’apparente conforto, ma non appena lui premette il ventre contro le sue natiche, una consistente erezione tradì le vere intenzioni di tale attenzione. Alzò lo sguardo e dallo specchio posto di fronte, Grazia cercò il viso di Andrea; lo trovò

intento a scrutare morbosamente il suo corpo. Continuando a premere contro i glutei, iniziò a carezzargli le gambe, salendo sempre più in alto, alzando la gonna fino a scoprire lo scultoreo sedere. Fulmineo e crudele la prese, mentre lei continuava a piangere. Grazia con le braccia ancora appoggiate sul lavandino, cercava di attutire i colpi sempre più violenti e dolorosi nell’approssimarsi del piacere. Terminato il cruento amplesso, Andrea abbottonandosi uscì dal bagno andando a prendere posto sull’unica sedia presente, in precedenza occupata da Grazia, che dopo qualche minuto uscì dal bagno con lo sguardo cadaverico, bagnato di lacrime ora silenziose. Per un istante guardò il bambino beatamente immerso in un sonno profondo, poi voltatasi diresse il suo corpo amorfo verso la porta d’uscita. “Dove pensi di andare?” Grazia non rispose afferrando la maniglia della porta. “Fermati!” disse quasi urlando Andrea, Grazia abulicamente girò la maniglia iniziando ad aprire la porta. “Potrei anche usarla”. Stavolta si voltò, trovandosi sotto il tiro di una pistola. Un profondo calore le investì il corpo atrofizzandolo, mentre il cuore iniziò a correre come mai prima. Paralizzata dalla paura, riuscì appena a chiudere la porta. “Potrei farlo” continuò Andrea, rimettendo la pistola in tasca. “Perché? Cosa ti ho fatto di male?” disse Grazia cercando di riprendere il controllo di sé. “Sai, Grazia, ho scoperto di godere nel vederti soffrire... la cosa mi eccita maledettamente, cosa posso farci? Guarda!” indicandole il sesso evidentemente gonfio sotto i pantaloni. “Ma…” sussurrò Grazia spaesata, mentre Andrea alzatosi gli si parò di fronte. “Sì, cara Grazia…” disse con voce rilassata, prendendole la mano e premendogliela contro il suo sesso pulsante, mentre con l’altra mano le torturava un capezzolo fino a farla ricominciare a piangere per l’intenso dolore.

“Baciami!” le ordinò, appoggiando le labbra contro le sue; Grazia cercò di opporre resistenza, ma quel comportamento non fece altro che aumentare il vigore col quale Andrea martoriava il suo capezzolo; quindi s’arrese alla sua lingua aprendo le labbra. Staccatosi da lei disse con strana normalità: “Preparati. Domani partiamo”. “Perché?” “Se non c’è il cuore, che cazzo stiamo a fare qua?” Il tono della voce esasperato fece sobbalzare il bambino e il suo pianto sguaiato impregnò il silenzio della stanza. Il perentorio ordine di non tornare a casa prima di lunedì, giunto dal padre senza ulteriori spiegazioni, acuì ancora di più il turbamento di Andrea. Dovette modificare radicalmente i piani, inventandosi un paio di giorni di relax accolti con sollievo da Grazia che per i primi chilometri rimase a fissare il parabrezza silenziosa, cullando il bambino che continuava a dormire. Erano ancora in territorio se quando una seconda telefonata del padre interruppe il tombale silenzio regnante nell’abitacolo. Le disposizioni furono di fermarsi in Romagna, in qualsiasi posto, tranne Bellaria, meglio se appartato! Al “Ma?” di spiegazione, seguì un perentorio ‘tut tut’, del telefono riattaccato. “Chi era?” chiese Grazia. “Mio padre!” “Cosa voleva?” “Dobbiamo fermarci a Rimini!” “Perché?” “Cazzi miei!” rispose irritato. “Scusa!” “Prego!”

“È finita, Andrea?” “No!” “Sicuro?” “Ti dico di no!” stizzito. “Tu non mi ami più, ammesso che mi abbia mai amata!” “Non dire stronzate”, spingendo sull’acceleratore. “Vai piano. Ti prego” posandogli dolcemente la mano sul braccio. “Non toccarmi!” “Scusa”. Dopo interminabili chilometri di silenzio. “Appena tornati, vado via”. “No! Quello che devi o non devi fare, sarò io a deciderlo. Chiaro?” “Va bene!” rispose tremando Grazia, tornando a concentrare la propria attenzione sul piccolo che dormiva beato sulle sue gambe, si chinò a baciargli la fronte sulla quale si posarono salate gocce di lacrime. Voleva fargliela pagare, ormai n’era certa. Tanto era fin troppo chiaro: non aveva bevuto la storia delle minacce fatte da suo marito per portarsela a letto. Ebbe una tremenda paura immaginando fin dove sarebbe potuta arrivare la vendetta, poiché da quel giorno aveva di fronte un nuovo Andrea, precedentemente ritenuto incapace di tanto rancore. Certo, lei l’aveva fatta grossa. “Filippo?” “Ci penseremo, non ora però” era repentinamente tornato tranquillo, anche l’andatura era più bassa. “Pensavo fosse la volta buona, invece”. “Anch’io pensavo fosse la volta buona, cazzo... Cosa posso farci?”

“Niente... Tu niente. È solo colpa del destino”. “Già, il destino maledetto e crudele”. Lasciarono l’autostrada al casello di Cesena Nord imboccando la statale E45 in direzione Orte. Uscirono dalla statale allo svincolo per San Piero in Bagno. Percorsero per qualche chilometro la strada principale di San Piero prima di girare a sinistra, are sopra un pittoresco ponte di legno sul fiume Savio e inerpicarsi sulla strada che porta al monte Fumaiolo. Più s’incuneavano nell’entroterra, più il paesaggio urbano lasciava il posto a una natura straripante. Dopo qualche minuto di strada relativamente tortuosa arrivarono alla frazione di Acquapartita. Una manciata di case e qualche albergo di fronte a un lago artificiale che dava il nome al luogo. Quasi appena usciti dal centro abitato che si dipanava tutto sull’unica strada, svoltarono a destra inerpicandosi per una stradina asfaltata presto inghiottita da una maestosa e fitta boscaglia. Attraverso il fitto strato di foglie, il sole filtrava di rado scagliandosi accecante sui loro occhi. “Siamo arrivati!” disse Andrea mentre imboccava una stradina sterrata a sinistra leggermente in salita terminante in un verde pianoro che precedeva un piccolo laghetto probabilmente artificiale, incastrato fra alte colline piene di caldi colori. Sulla sinistra del lago, una piccola baita. Sistemarono in fretta i bagagli in camera e tornarono giù a pranzare in una molto informale sala di tavolini e tovaglie di carta: semi deserta. La mattina dopo, Grazia si svegliò molto presto; Andrea era già andato via. Scostò la tendina della finestra senza imposte. Il sole, ancora celato dalle alte cime, innaffiava di luce le placide acque. Prese un caffè al banco del bar e uscì; un vigoroso profumo di natura la stordì. L’erba di un verde splendente che recingeva il lago era fradicia e profumata, il cielo andava tingendosi di un azzurro leggero che riflettendo nell’acqua esagerava la bellezza del posto; tutto era avvolto da un’innaturale silenzio. Sulla riva del lago, una panchina di legno la accolse, ancora bagnata dalla brina notturna; si sedette malgrado ciò. Chinandosi di lato strappò un ciuffo d’erba ricolma di rugiada, il profumo le invase il cervello e un invadente riaffiorare di remoti ricordi le intasò la testa. Stringendo quasi disperatamente quel ciuffo d’erba nel palmo della mano,

s’abbandonò ad un pianto discreto. Rivisse lancinanti ricordi sepolti dal tempo, una lieta infanzia devastata dalla prematura morte del padre dopo una lunga agonia. Aveva sei anni, ma ricordava scanditi i momenti peggiori di quel martirio lento e costante. Provò disprezzo per sé stessa quando la trama del ricordo s’imbatté nel disappunto provato quando sua madre in lacrime le proibiva di giocare; forse a pensarci adesso, era per dar conto all’arcaico perbenismo dei vicini di casa che avrebbero ritenuto l’innocente gioco di una bambina, mancanza di rispetto nei confronti del padre sul punto di morte. Fu il disappunto più remoto verso sua madre, il primo di una lunga serie. Disappunto spesso sfociato in odio nei momenti in cui la sua povera madre cercava di farle capire perché lei non poteva avere tutto quello che le sue coetanee le brandivano quasi dispettosamente sotto il naso. Oggi la torceva il rimorso per non aver capito, per non averle chiesto scusa per tutto ciò, nemmeno quando prima di morire con l’ultimo filo di voce le disse: “Sei stata tutta la mia vita, ora non permettere al tempo di cancellare tutto”. Nemmeno allora capì quanta sofferenza era costata a sua madre negarle un’infanzia normale. eggiava lenta, calpestando quasi con dispetto quel prato umido. ‘Perché’ pensò, mentre con la mano asciugava le lacrime: ‘...di fronte a tanta bellezza, la mia testa è ricolma di ricordi?’ Aveva vissuto la sua vita aspettando il momento per divincolarsi da quei ricordi pregnanti, aveva provato a sposarsi per amore, ma non aveva funzionato poi tanto, anche perché il destino ci aveva messo del suo. Quando incontrò Andrea da un’amica comune, aveva pensato di aver trovato la strada giusta. Benestante e bello, poteva bastare per farle dimenticare i dolori che aveva nella testa; poteva! Ma non bastò! Nemmeno Filippo, nato dopo qualche anno di convivenza, bastò. Allora si rassegnò a portare addosso quelle ferite indelebili, certa che di tanto in tanto si sarebbero aperte facendole un male atroce. Provò a risalire in camera, magari giocare un po’ con Filippo le avrebbe fatto tornare il buon umore, ma la trama dei ricordi concluse la sua corsa nel giorno in cui si spezzò il suo matrimonio. Per oltre due ore tenne tre carabinieri seduti in salotto. Le dissero di aspettare suo marito per comunicargli delle cose.

La sua insistenza non fu sufficiente per strappargli il vero motivo della visita, ma dannatamente presentiva. Suo marito guardò con sgomento quell’inaspettata presenza, sgomento davvero. Restò inerte quando le lucide manette serrarono i polsi senza altre spiegazioni. Lui non capiva, lei non capiva. Intanto fu sbattuto in galera e ci rimase con una secca condanna resa definitiva dalla Cassazione: Stupro nei confronti di una minorenne! Quel giorno qualcosa si ruppe dentro il suo cuore: forse ripensando agli altri eventi, il suo orgoglio così marcato si dissipò. Non credette a quella condanna, nemmeno per un istante immaginò suo marito capace di tale crimine, ma nel silenzio della sua stanza, l’orgoglio affondò dentro le lacrime, mentre un urlo definitivo le traò la gola. Quell’urlo le portò via il pudore, l’orgoglio, la vergogna e pensò anche il coraggio e l’amore. Prese un altro caffè e ritornò in camera appena in tempo per assistere al risveglio di Filippo che la riaccese di vita e colori. Andrea tornò tardissimo, visibilmente di buon umore. Grazia e Filippo avevano già cenato ma aspettava al tavolo guardando la tv lei, scorrazzando rumorosamente per la sala il piccolo. Cenò in silenzio frettolosamente, mentre prendeva il caffè le strinse la mano posta sulla sua coscia sussurrandole: “Andiamo su!”; quella notte si amarono come due ragazzini. Il giorno dopo il buon umore era tangibile e scesero a far colazione insieme. Più tardi Andrea si alzò di scatto e dopo averla baciata le disse di non aspettarlo in piedi perché probabilmente avrebbe fatto molto tardi. Grazia non rispose, lo seguì con lo sguardo finché non entrò nella macchina parcheggiata di fronte all’ingresso. Appena partito, si alzò tornando in camera. Prese Filippo ancora perso nel sonno, s’infilò nel letto e col piccolo stretto al petto si riaddormentò, cullata dal silenzio e dal respiro del bambino. Disattese il consiglio di Andrea restando in piedi fino a tardi, molto tardi. Poi s’infilò nel letto accoccolandosi al corpo di Filippo, mentre la notte procedeva lenta e il silenzio traspariva languido oltre il buio. Piano, una sensazione di disagio cominciò a farsi strada nello stato di quiete datogli dal fisico contatto col bambino. Devianti rumori iniziarono a prendere corpo nella testa ad esasperare il senso d’angoscia.

S’alzò lenta, solcando il buio per non svegliare il piccolo e con fare circospetto spiò fuori della finestra. Un’acerba aurora tracciava sagome appena distinguibili che un vento corposo faceva balenare scomposte. Un brivido scosse il suo corpo, una pioggia sempre più fitta cominciò a rigare il vetro della finestra, smembrando le forme del mondo. Quando non fu più in grado di distinguere nemmeno il perimetro del lago, accostò la tendina rituffandosi nel buio della stanza. Tentoni cercò di raggiungere il letto per rituffarvisi dentro. Le maledette elezioni erano ate e il Presidente era stato rieletto, anche se da più parti arrivavano denunce di brogli elettorali e collusioni con personaggi poco puliti; ma si sa che la sconfitta annebbia la ragione dei vinti. Anche Neri era stato eletto in Parlamento e neanche per lui i guai erano finiti, anzi, la situazione era precipitata in maniera inesorabile. L’uranio! Andrea! Il Centro! Tutto a scatafascio! Non riusciva a capire cosa le fe più male, o rabbia. Come se tutto fosse parte di un piano ampiamente stabilito. La darsena era una delle tante sparse sulla riviera romagnola. Mario era pazientemente in attesa dal pomeriggio. Andrea arrivò verso le ventitré, scese dalla macchina dirigendosi con o deciso verso i tre uomini intorno allo scafo già con i motori accesi e si accostò a Mario senza salutare i restanti presenti, chiedendogli nell’orecchio: “Dov’é?” “Calma!” rispose Mario, “Aspettano il mio segnale per uscire dal capannone”. Quasi eruttati dal nulla, alla loro sinistra una coppia di fari avanzò lentamente tra la pioggia battente, fermandosi a circa tre metri dai quattro uomini; dal lato del eggero scese un uomo brizzolato dai marcati lineamenti arabi, aveva in mano due valigette con delle scritte in cirillico che pose a Mario, il quale senza parlare fece un cenno d’assenso con la testa. L’uomo con o risoluto si diresse verso il retro del mezzo dal quale era sceso, seguito dai due uomini in compagnia di Mario e aprì il portellone posteriore. Salì nel furgone in fondo al quale erano stivate cinque cassette di legno. I due uomini caricarono precipitosamente le casse sullo scafo, mentre l’arabo rimaneva defilato sul

furgone nella semi oscurità. Appena l’ultima cassa fu caricata, Mario aprì il cofano della sua auto e ne estrasse una scatola di cartone che caricò sul furgone. L’arabo si affrettò ad aprire la scatola dopo una veloce ispezione; senza rivolgergli lo sguardo o la parola, chiuse dall’interno la portiera del furgone. Un colpo sulla lamiera precedette la celere partenza del mezzo. “M’imbarco con loro. Saremo ad Otranto fra due giorni, avvisa tuo padre!” disse Mario senza guardare Andrea in faccia, il quale rispose: “Vengo anch’io. Non mi fido”. “Non fare il coglione!” terminò Mario, mentre lo scafo prendeva il largo fragorosamente. Andrea era convinto che Mario stesse giocando sporco, il perché gli sfuggiva, ma lo pensava con ferma convinzione mentre seguiva la spuma lasciata dalla brusca virata dello scafo. Le onde spezzandosi sul frangiflutti di sinistra, si libravano in aria finendosi sulla sua faccia scura come quella notte senza luna, senza senso e senza ritorno. Restò da solo a guardare l’Adriatico cupo, si fece aggrovigliare dal soffio del vento e da una cieca rabbia figlia di una sensazione di impotenza. Non tornò subito da Grazia ma si mise a girare i bar della zona facendo incetta di alcol. Il cielo iniziava a schiarirsi quando infilò la stradina del lago. Scese dalla macchina visibilmente claudicante, aprì rumorosamente la porta della baita accasciandosi sul bancone del bar ancora deserto. Il rumore attirò l’attenzione di Pino intento a pulire la cucina, Andrea cominciò a sproloquiare in evidente stato d’ubriachezza. Inveiva contro suo padre, Mario, Grazia e il bambino. Continuava a ripetere sbiascicando che tutti ce l’avevano con lui. Resosi conto dello stato in cui si trovava, Pino si offrì di accompagnarlo in camera, assicurandogli che una doccia e una bella dormita avrebbero sistemato tutto. “No!” rispose secco Andrea. “Dammi un brandy”. “Meglio di no. Ti porto in camera, sarà meglio”. “No! Anzi... portami in camera” disse Andrea in un barlume di lucidità.

Neri aveva vanamente aspettato notizie, ma nessuno si era fatto vivo. La tensione lo avvolse. Mentre il tempo ava e i presagi s’incupivano, provò a chiamare prima Andrea e poi Mario, ma inutilmente. Stramaledettamente tutto taceva. Erano le nove quando decise di mettersi in macchina e partire senza sapere precisamente dove andare. Uscì di casa con la testa tra le nuvole, bestemmiando sonoramente contro la maledetta pioggia che, nonostante una primavera consolidata, continuava a infangare le strade. Guidava abulicamente quando si rese conto di essere diretto presso il Centro in costruzione: forse pensava di trovare risposte in quelle mura in costruzione o era semplicemente per controllare che almeno quello andasse per il verso giusto. Cresceva alla velocità della luce, ormai la muratura era stata portata a termine e le prime squadre di intonacatori si davano da fare tra le impalcature. Si muovevano alacremente come api in un alveare. Lo circumnavigò due volte prima di indirizzarsi verso la città. Fece mentalmente due conti veloci e tirando un sospiro di sollievo si convinse che i tempi sarebbero stati rispettati. I vaccini per la prossima influenza invernale sarebbero stati prodotti nel nuovo Centro. L’esplosione fece tremare l’auto. Intuì la provenienza di tanto fragore senza fatica, tanto ormai tutto andava storto. Non tornò indietro, anzi diede una decisa accelerata che lo allontanò definitivamente da un’ulteriore sconfitta. Una potente carica di esplosivo era stata collocata e fatta brillare tra le mura in costruzione del Centro ricerche. La matematica certezza che la sua intuizione fosse giusta, giunse dopo mezz’ora per mezzo di una telefonata dei carabinieri che lo pregarono di raggiunge l’area in questione. Una voragine di oltre venti metri di diametro campeggiava tra i resti dell’edificio in costruzione. Un operaio aveva perso la vita e un secondo era stato portato via in elicottero, quasi a brandelli. Un’ufficiale dei carabinieri gli si fece incontro, le luci blu, malgrado fossero attutite dal chiarore del giorno, lo penetrarono come lame taglienti. Come da prassi, il sudore lo aveva impregnato fin nei calzini, l’ufficiale lo invitò a seguirlo presso la caserma. Un estenuante interrogatorio lo attendeva. Fece immane fatica a stare dietro alla marea di domande. Dopo circa due ore di terzo grado che lo avevano letteralmente sfinito, gli fu concesso di tornare a casa, ma di restare a disposizione degli inquirenti senza

lasciare la città fino a nuovo ordine. Fu al suo arrivo in casa che l’opera si completò. Mario lo attendeva seduto comodamente sul divano, sorseggiando della grappa. “Cosa cazzo vi siete messi in testa?” aizzandosi contro. “Calma Neri!” replicò assente Mario. “Calma? Sono ore che aspetto notizie!” “Doveva chiamarti Andrea!” “Non mi ha chiamato nessuno, invece, caro Mario. E se ti può interessare, stamattina hanno fatto saltare il Centro e ci sono rimasti pure due operai”. “Siamo nella merda, Neri!” “Ah, me ne sono accorto, sai!” “Ci hanno intercettato con l’uranio”. La bocca di Neri si spalancò senza emettere alcun suono, restò immobile con lo sguardo fisso nel niente di un’atroce verità senza rimedio. “Qualcuno alla C.I.A. era informato di questo traffico”. “Mario, dimmi che sto sognando”. “...anche Amir era d’accordo”. “Amir...? Allora l’attentato lo hanno preparato loro?” “È possibile!” “Adesso?” “Negli States se la sono presa col Presidente, minacciando serie ritorsioni economiche oltre a un isolamento diplomatico. Domani ci sarà una riunione, diciamo molto intima, a Montecarlo alla quale dovremmo essere presenti e spiegare tutto, cercando di tenere fuori il Presidente da questa storia”.

“Lui ne è fuori”. “Certe volte mi sembri veramente rincoglionito, secondo la tua testa di cazzo pensi di avere fatto tutto questo a sua insaputa?” “Forse no!” “Scoppierà un putiferio diplomatico inimmaginabile. Avrei una voglia matta di sapere chi ha giocato sporco... ci tagliano la testa, quelli”. “Luciani?” “Vai a cagare, Neri. Avrà il cervello come una gallina e vuoi che s’infili dentro ad un traffico internazionale di uranio...? Ma per favore!” “Il Presidente è al corrente?” “Sì, è al corrente!” “Non posso lasciare la città, me lo hanno proibito per via dell’indagine”. “Non preoccuparti. Non ti cercherà nessuno”. Infatti, non lo cercò nessuno. Non arrivarono a Montecarlo: la loro auto si schiantò contro il guard-rail all’altezza di Alassio. Mario fu sbalzato miracolosamente fuori dalla vettura che, pochi secondi dopo l’urto, prese fuoco insieme al corpo intrappolato dentro le lamiere del dottor Neri. Il mistero sull’incidente rimase, ma… Appena poche ore divisero le due tragedie che sventrarono definitivamente la famiglia Neri.

XIV Seduta, ancora in preda ad una paura crudele, guardava la mano macchiata di sangue; di fronte a sé, per terra, il corpo senza vita di Andrea. Ancora una tragedia a chiudere bruscamente un ciclo, ma forse stavolta per sempre. Andrea era entrato in camera seguito da un intenso odore di alcol, si era infilato nel letto cercando di sodomizzarla con violenza. Lei si era opposta con tutte le sue forze e ne era nata una colluttazione dall’epilogo imprevisto e drammatico. Aveva cominciato a picchiarla ciecamente, le urla avevano svegliato Filippo che piangeva ancora di un pianto sguaiato. Grazia non si era precipitata a prenderlo in braccio come faceva di solito, ma era rimasta a fissare quella mano incolpevole come in catalessi. Il corpo seminudo di Andrea non presentava segni di ferite, soltanto una macchia di sangue che andava espandendosi tra i biondi capelli. I poliziotti da lei stessa chiamati, trovarono Grazia in preda a una crisi isterica, col volto tumefatto, abbondanti e vistosi lividi sulle gambe e sulle braccia, mentre urlando tra le lacrime, picchiava forsennatamente i pugni contro il muro ora sporco del sangue che fuoriusciva dalle ferite procuratesi. La avvolsero in una coperta portandola via insieme al bambino. Quando spossata s’abbandono sul sedile dell’auto che la stava portando via, disse sottilmente: “È morto?” Il poliziotto al suo fianco fece cenno di sì con la testa. Scoppiò a piangere continuando a ripetere: “Non sono stata io… non sono stata io”. Era sicuramente molto tardi, quando Ufo entrò nel covo, carico di viveri e di buon umore. Avevamo ato la notte là come previsto. Appoggiò le buste della spesa sul tavolo intorno al quale eravamo seduti io e Sky intenti a formulare possibili ipotesi sul motivo per cui Ago tardava a farsi vivo. “Notizie fresche!” disse Ufo, mimando col dito una pistola puntata contro la mia fronte. Stetti al gioco alzando le mani in segno di resa. “Non ti salverai, bastardo! Bang! Bang!” fece mirando meglio. “Ah!” feci, accasciandomi sul tavolo. “Basta stronzi!” disse Sky, seccata.

Mi rialzai ridendo, battei la mano con Ufo in segno di saluto. Si sedette al mio fianco e mentre rullava un cannone con la solita rapidità attaccò: “Hanno ammazzato tuo marito” rivolgendo lo sguardo verso Marilena che giocava in disparte con la piccola Silvia. Attendemmo una qualche reazione che non ci fu, restò imibile continuando a giocare come se stessimo parlando dell’ultimo degli estranei. Dopo pochi attimi di silenzio, figli del nostro palese sgomento, disse: “Non mi dispiace, se state aspettando un mio commento sul fatto. No! Non mi dispiace”. Noi invece fummo molto turbati dalla notizia e un po’ anche dall’inaspettata reazione. “Andrea ti vuole morto!” disse Ufo porgendomi lo spinello appena . “Chi?” feci. “Andrea Neri, dai che lo sai chi è!” “Perché?” interruppe Sky. “Si dice, si dice sia chiaro, io proprio non ci credo!” scoppiando a ridere, “che ti sei scopato la sua donna”. “Chi?” feci mentendo. “Ma si dai, Grazia, la tua ex moglie. Vive con lui ora” aggiunse Ufo. “Tua moglie vive con Andrea Neri?” domandò Sky. “Che cazzo ne so!” continuando a mentire. “Sì sì, vive con lui... ma te la sei scopata, si o no?” L’argomento iniziava a turbarmi, anche Lena se ne accorse. “Scusami, non credevo che la cosa potesse farti male” continuò Ufo. “No, non preoccuparti”. “Ad ogni modo, lo sta cercando anche la polizia!” continuò Ufo.

“Chi?” s’intromise Sky, che seguiva con molta attenzione il discorso. “Andrea Neri”. “Perché?” “È possibile che in qualche modo sia implicato anche lui nell’omicidio di sco Luciani”. “Come mai?” domandai. “Si tratta ancora di semplici indizi: brancolando ancora nel buio, la polizia è partita sentendo tutti i suoi clienti” facendo cenno verso Lena, “... per cercare di tirare fuori qualcosa di concreto sul quale lavorare, e pare che anche Andrea Neri fosse un assiduo”. “Mai visto!” disse perentoria Marilena, ancora presa a giocare con Silvia in un angolo lontano dal tavolo, di fronte al televisore. “Come mai visto?” ribatté Ufo. “Ti dico, mai visto! Conoscerò pure chi viene a scoparmi assiduamente!” “Certo, certo, però è strano: più di qualcuno lo ha visto uscire ripetutamente da casa tua, ultimamente” insistette Ufo. “Forse veniva a trovare sco, non me”. “Sicura?” chiese Sky. “Sicura!” “Dov’è adesso?” chiese Sky. “È partito qualche giorno fa per Nizza insieme alla sua donna. Pare per fare il trapianto di cuore a suo figlio, e non è ancora tornato”. “È in Romagna e non per prendere il sole!” esordì una voce alle nostre spalle. “Ago!” disse Sky, precipitandosi ad abbracciarlo.

Anche Ufo lo salutò con enfasi, porgendogli un cannone appena preparato. “Grazie! Mi aspettavi?” “Oh, da quando manchi ne avrò rullati cinquecento, ma ho dovuto fumarli tutti da solo o con lui”. “Allora?” accennai. “Ben trovato!” ci abbracciammo con vigore, ero veramente contento di rivederlo. “Come è andata?” chiese con impazienza Sky. “Come previsto!” disse Ago, estraendo dallo zaino un mazzetto di foto e gettandole sul tavolo. Con un cenno della mano c’invitò a guardarle. Eloquentemente le foto mostravano una realtà diversa da quella ipotizzata. Buttai lì un: “Ora è tutto dannatamente più complicato. Dove pensi sia destinato?” Ago scrollò le spalle, come per dire non lo so, aggiungendo “Arabi comunque!” “C’era da immaginarselo” replicai. “Le scritte in cirillico sulle scatole non lasciano dubbi, se mai ce ne fossero stati, sulla provenienza. È Morganti il coordinatore delle operazioni. Finito di caricare si è imbarcato anche lui con l’uranio. Andrea è arrivato in seguito” spiegò con molta calma Ago. “Siamo sicuri che si tratti veramente di uranio?” dissi candidamente. “Secondo te, quale materiale, arrivato clandestinamente in Italia e scambiato altrettanto clandestinamente, potrebbe fruttare uno scatolone probabilmente pieno di euro?” chiese Ufo prendendomi un po’ per il culo. “Be’, in effetti! Ammesso che là dentro ci fossero euro”. “E cosa? Caramelle? Il nostro Neri ha fatto il salto di qualità”.

“E se consegnassimo le foto, anche in maniera anonima, alla polizia?” aggiunsi. “Non credo servirebbe” disse Ufo. “Per fare ciò, deve godere di grosse coperture politiche... molto grosse!” aggiunse. “Stando così le cose, l’unico modo per neutralizzarlo è farlo fuori” disse Sky cinicamente. “No! Se le cose stanno come penso, molto presto lo farà qualcun altro”. “Noooo!” urlò Sky sbattendo le foto per terra. “Non può e non deve finire così. Devo guardarlo in faccia”. “È solo un’ipotesi”. “Sì, lo so, ma non possiamo correre il rischio che accada”. “Sky, è troppo pericoloso”. Tutto tacque inequivocabilmente. Steso precariamente sul divano, non riuscivo a prendere sonno. Volsi lo sguardo verso Ufo che sembrava dormisse rannicchiato di lato sulla poltrona. “Ufo” feci, appena sussurrando. “Andiamo?” rispose intuendo. “Sì!” feci, sistemando la cintura dei jeans. Saltammo sullo scooter, sparandoci verso la città. Il tavolino della nostra prima bevuta era libero, ci facemmo servire subito due pinte di birra fresca e schiumosa. “Ufo, cosa ne pensi?” “Niente di buono, è accecata dalla vendetta, la sente vicina e questo la fa

sbavare, annebbiandole la ragione: dentro di sé ha tutto distorto ormai”. “Ho paura che faccia qualche cazzata, bisogna fermarla finché si può”. “Non la conosci bene! È uno schiacciasassi, mi ha un po’ deluso, la pensavo più interessata al destino del mondo”. “Ha deluso un po’ anche me”. “Non ti nascondo che anche il mio atteggiamento è di rivalsa, però...” “Ma?” “Domani vado via”. “Dove?” “Per qualche giorno me ne starò in casa, poi ci penserò, il tempo stringe! E tu?” continuando laconicamente. “Non lo so, Ufo”. “Te lo dico io. Porta via Marilena da questo postaccio, avete bisogno l’uno dell’altro, siete due braccati, anche se in maniera diversa”. “Come?” “Il modo lo troverete, vedrai”. “Peccato, Ufo, mi mancherai”. “Anche tu! Chissà se un giorno…” “No! Niente giorno, nella nostra esistenza, non c’è posto per il piacere”. “Forse hai ragione, però…” “Niente però! Vivi finché puoi, tanto la morte alla fine ti becca”. “Sei un grande Ufo!”

Brindammo ripetutamente. “Vorrei che questo momento non finisse mai” dissi quasi stupidamente. “Dipende da te, conservalo gelosamente e vedrai che al momento giusto verrà fuori”. Tornavamo indietro allegri d’alcol. Più ci avvicinavamo alla cava, più mi entrava nel sangue una strana sensazione d’angoscia e paura. Il cielo schiarito c’esponeva a sguardi indiscreti, ma andammo comunque avanti, anche se cautamente. Entrammo nel recinto circospetti, dirigendoci verso la porta stranamente aperta. “No!” imprecò silenzioso Ufo, premonendo tutto il terribile che da lì a poco ci attendeva. Una feroce esplosione s’intromise nella nostra tensione estrema; il cuore compresse la gabbia toracica come se stesse per esplodere. Ci guardammo un attimo, cercando di capire: una detonazione neanche tanto lontana aveva squarciato il silenzio di un’alba come tante… forse! Ci precipitammo nel covo con l’inconscia quanto stupida convinzione che dentro saremmo stati più al sicuro. Certo, al sicuro in compagnia della morte! Si è sempre al sicuro in compagnia della morte. La violenza della scena mi atrofizzò le mascelle, tutto il veleno contenuto in un urlo di paura si strozzò nella gola. Inaudito! Raccapricciante era l’unico aggettivo accostabile alla scena paratasi davanti ai nostri occhi. Il corpo di Sky giaceva senza vita sul divano sul quale poche ore prima non riuscivo a prendere sonno. Adagiata su un fianco, il volto rivolto verso la spalliera; completamente nudo, il corpo martoriato da ecchimosi e ferite non sanguinava più, ma era comunque impregnato da copiosi rivoli bruniti che andavano coagulandosi, il tessuto del divano era intriso del suo ormai inutile

sangue il cui odore impregnava l’ambiente già di per sé non certo salubre. Sulla poltrona in precedenza occupata da Ufo, l’inerme corpo di Ago, legato alla stessa con del nastro adesivo da imballo marrone. Aveva la testa reclina sul lato sinistro: una raffica di mitra gli aveva perforato il corpo diagonalmente, i fori sulla maglietta non lasciavano adito a equivoci. Intorno, tutto a soqquadro. Timidamente mossi dei i verso il corpo di Sky e più mi avvicinavo, più l’efferatezza della scena rullava nella mia testa; tesi la mano per voltarla e poterla guardare in faccia. “Meglio di no!” sussurrò Ufo con voce tremante, “Andiamo via” continuò voltandosi. “È tutto finito?” accennai. “Sì! È tutto finito... e forse me l’aspettavo”. Ci lasciammo davanti a casa senza nemmeno salutarci; anzi senza scambiarci neppure uno sguardo!

XV Inghiottito dal traffico cittadino e dai continui trilli del telefonino - le due cose che odiava di più - Mario Morganti cercava di focalizzare la situazione. Neri non era più tra le scatole, Luciani ormai da mesi sepolto sotto metri di terra in un posto qualsiasi del Kosovo. Il Presidente lo avrebbe sistemato con tutta la calma del caso, tanto ormai era caduto nella rete. Rimanevano solo quei quattro pidocchiosi che giocavano a fare gli eroi. Si compiaceva della sua genialità e di quanto poveri e sciocchi fossero coloro che pensavano di comandare il mondo. Si compiaceva di quanto facilmente riusciva ad entrare nelle maglie delle intelligence di mezzo mondo per poi beffarsi di loro. Aveva gestito quell’ultimo affare alla perfezione, svuotando le centrali nucleari italiane ferme da sempre e facendo credere al Presidente che invece si trattava d’uranio da smaltire per una manciata di euro. L’arte del doppio gioco rendeva a meraviglia, poi, quando riusciva a impelagare innominabili, il successo era completo. Adesso però bisognava concentrarsi sulla produzione di virus e batteri, per far fronte alla sempre maggiore richiesta proveniente da diverse direzioni. “Meglio averli amici, anche se spesso sono pretenziosi, piuttosto che averli contro” si disse pilatescamente ad alta voce, “...e sì, tutto ha un prezzo!” concluse. Fece un’ultima telefonata con la quale ordinava di sopprimere i ‘pidocchiosi lattanti’, come amava chiamarli, nella maniera più cruenta possibile in modo che tale esecuzione fungesse anche da monito, non si sa mai. Chiuse con delicatezza lo sportellino del cellulare, lo pose sul sedile spegnendolo e si apprestò ad accendere un terapeutico sigaro. Non tutto andò come previsto: il lavoro fu fatto alla perfezione, ma troppo tardi. Sky e Ago, poche ore prima di essere trucidati, avevano collocato un potente ordigno ad orologeria all’interno del Centro in costruzione. L’esplosione devastante avvenne dopo la loro morte. Quello, Morganti non lo aveva previsto. E non gli piacque. Un tocchettio sulla porta ruppe il mio torpore. Da ore vegetavo nel nulla, assalito da tormenti e rimorsi. Stanco e avulso non feci caso a quel rumore che si ripropose ossessivo. Raccattai tutta la lucidità di cui mi sentivo capace e dedussi che, nel caso si trattasse dei miei carnefici, sarebbe stato meglio farla finita subito. Aprii restando celato dietro la porta. Non erano i miei carnefici, a meno

che non si fossero rivolti a qualche killer, ma onestamente non mi sembrava il caso. Entrò quasi prima il suo profumo, non si voltò a guardarmi, io invece sì, eccome! “Devi avere sbagliato casa!” esordii cercando di vincere un evidente imbarazzo. “Non credo proprio. È stata tua moglie a indicarmela”. “Grazia?” “Sì, Grazia!” “Cosa cerca ancora da me?” “Aiuto! Cerca aiuto!” “Da me? Ma non mi faccia ridere. Lei piuttosto, chi è?” “Il suo avvocato!” Non disse altro, ma d’improvviso un brivido mi percorse la schiena, facendomi fremere visibilmente. Si sedette sul divano, mentre restavo idiotamente a guardare la sua straripante femminilità, quasi posticcia. Evitai i suoi occhi una volta accortomi che mi fissava con insistenza, e per evitare imbarazzanti commenti distolsi lo sguardo anche dal resto del suo corpo che mi attirava come una calamita; immaginai che provocasse lo stesso effetto in qualsiasi uomo. “E cosa dovrei fare per aiutarla?” “Intanto accetti, in caso contrario uscirò da quella porta e tutto finirà!” Accettai e forse non solamente per aiutare Grazia. “È in prigione!” “In prigione?”

“Già! L’accusano di aver ammazzato il convivente. Sono il suo avvocato d’ufficio, mi ha detto di non avere più nessuno tranne te”. “Sì, tranne me”. “Devo tirarla fuori e per farlo ho bisogno del tuo aiuto”. “Per quello che posso”. “Basterà!” Restammo muti, lasciandoci avvolgere dal silenzio. Scrutava intorno come fiutando la preda. Lo squallore imperante mi sembrò ancora più deprimente al cospetto del suo sguardo. Nessuno dei due fiatava, mentre nella mia mente confusa si accalcavano ricordi funesti. Rividi nitida la mia prigionia cercando d’immaginare la sua, rividi i miei pianti silenziosi a solcare le infinite notti dei gelidi inverni, il dolore dell’innocenza che scavava nell’infinito mare della speranza e la sua assenza pesante come macigni. La sua assenza a colpirmi ripetutamente. ‘Oggi’ pensavo, ‘il destino ha crudelmente invertito le parti’. Per un attimo un desiderio di rivalsa mi pervase. ‘No!’ pensai forte, ‘Io ci sarò!’ La bell’avvocatessa capì, intuì, o semplicemente fu tempestiva interrompendo il mio pensiero: “Prendi su qualcosa, staremo via per qualche tempo”. “Ah, non preoccuparti, farò in fretta, non ho molto da portarmi dietro, tranne una montagna d’incertezze”. Mi seguì nella stanza da letto, osservandomi mentre preparavo un misero borsone con le mie poche cose. “Il vostro nido d’amore?” “Per un po’ lo è stato... un paio d’anni! Belli e intensi”. “Un paio d’anni?”

“Sì! Faccio una doccia e sono pronto”. Senza rispondere, riadagiò il suo corpo d’intensa muliebrità sull’insulso divano. Partimmo per chissà dove. Guardavo le sue mani sottili sul volante mentre mi chiedeva di parlarmi un po’ di Grazia, di me, del nostro matrimonio e altro che mi potesse sembrare rilevante. Non fui prodigo di dettagli. Conservavo ancora una certa diffidenza nei suoi confronti: ‘Troppo bella per essere vera’ pensavo. Ci muovemmo in direzione sud, in un’autostrada semideserta. La sua voce a scandire domande risuonava quasi metallica nell’abitacolo plumbeo, ricolmo di pensieri. “Da quanto non la vedi?” “Una settimana, circa”. “Dove?” “A casa mia!” “Continuavate a frequentarvi? Si è trattato di un caso sporadico?” “Può darsi!” “Ascolta…” disse voltandosi e puntandomi addosso due fari bollenti che sciolsero tutte le mie inibizioni e le mie difese, “...se mi dai una mano forse riusciamo a cavare fuori qualcosa, altrimenti, dimmelo subito ed evitiamo di perdere tempo. Okay?” “Facemmo sesso!” “L’hai più rivista?” “No!” Dopo qualche minuto di silenzio, ricominciai a parlare. Stavolta fui un po’ più preciso e cercando d’evitare dettagli ritenuti compromettenti, le sviscerai addosso molto di quanto accadutomi negli ultimi tempi, tacendo del mio ato da galeotto e quello precedente ad esso. Non sembrava sorpresa di niente, nessun

moto attraversò il suo corpo durante il racconto, il suo sguardo rimase attaccato al parabrezza. Chiarore infante di stantia aurora a penetrare l’iride stanco da notturne ore insonni. Aurora di respiro infetto, bocca salmastra e rimestio di succhi gastrici. La testa era appesantita dai liquami di un metabolismo inconsistente che piano e irreversibilmente rode lo stato d’animo, facendo marcire illusorie forme e desideri. Avevo dormito. Il segnale inequivocabile era la presenza di un sordo mal di testa che mi faceva pulsare la vena frontale ossessivamente. “Sveglio?” La luce riprendeva lentamente possesso delle forme intorno a noi. “Sì, sveglio e stanco morto”. Non durò. Lentamente mi riaddormentai cullato dal rollio costante delle ruote. Lasciammo un’anonima provinciale; svoltando a sinistra imboccammo una strada brecciata ma ben tenuta. C’inoltrammo nel cuore della campagna salentina, tra uliveti e cespugli di rovi. Ulivi possenti, muscolosi e contorti all’inverosimile: ognuno di loro un’opera d’arte conficcata nel terreno rosso da non sembrare vero. Imponenti guerrieri vichinghi, dai pettorali eccesivi e i bicipiti dirompenti, guerrieri dagli enormi stivali affondati nel sangue dei vinti; ricciolute chiome protese verso il cielo, inneggianti a condottieri invincibili. Sinuosi e ispidi muretti a secco correvano ai bordi della strada, poi due filari di pini alti e corposi ci introdussero in un aggio asfaltato ma più angusto. Era tortuoso e sempre più stretto, fino a quando sfociò quasi all’improvviso in un comodo stradone che abbandonammo dopo esserci inerpicati per una breve salita, proseguendo per una specie di mulattiera nervosa e polverosa, a tratti interrotta da rocce affioranti sulle quali più evidenti erano i solchi tracciati dalle ruote dei ‘traìni’, per secoli gli unici mezzi a percorrere quella strada. La mulattiera correva lungo il pendio digradante verso destra da dove scorgevo la strada da poco percorsa. Il declivio era una macchia uniforme di campi incolti, tempestati da bianche rocce calcaree e chiazzati dal giallo delle margherite e il

rosso scarlatto dei papaveri. Lo scheletro di una casa di sassi e un mucchio di pietre, due fichi esagerati; poi nient’altro sul piano scosceso. Dall’altra parte un pagliaio ancora fieramente in piedi prima di una pineta che inglobava dentro di sé un edificio. Tra noi e il pagliaio, una macchia che emanava un profumo inebriante. Ne fui invaso appena aprii il finestrino: era origano selvatico, lo seppi dopo, ma me ne innamorai subito. Anna taceva, io pure e ben volentieri. Procedevamo a rilento per via della strada sconnessa. Il fuoristrada mordeva le rocce e i sassi ondeggiando. “Ti piace qui?” mi chiese. Annuii affermativo, senza staccare lo sguardo dalla campagna. Si faceva strada nella mia mente una sensazione curiosa di già visto, ma avevo appena cinque anni quando lasciai questa terra, orfano. L’inconscio si era messo in moto tirando fuori situazioni che pensavo sepolte o ignare del tutto. Due enormi pini seguiti da due colonne di tufo grezzo precedevano la masseria: un’imponente costruzione dalle mura alte senza intonaco. Il portone d’ingresso era enorme, in legno massiccio e vecchio ma accuratamente rimesso a nuovo. Parcheggiò l’auto a circa due metri da esso, una piastra in pietra antica portava inciso ‘Masseria Morello’. Aveva la chiave e aprì la porta intagliata nel portone vero e proprio, sentii due colpi secchi e un cigolio che accompagnò l’apertura del portone grande. Risalì in macchina e ci introducemmo nell’enorme cortile, sulla destra del quale c’era l’abitazione. Scese, allargò le braccia e alzò la testa pomposamente, proclamando: “Masseria Morello, classico esempio di struttura rurale salentina risalente al diciannovesimo secolo… Benvenuto!” Chinando la testa in riverente ossequio dissi: “Merci, Madame!” La direttrice del reparto femminile ci condusse in un asettico stanzone bianco, dentro stazionava in piedi un secondino dall’aria annoiata, che per nulla si preoccupò del nostro ingresso. Dentro, solo tre sedie verdi, un tavolo di plastica e un attaccapanni da muro. La porta verde militare era molto simile a quella di una cella frigorifera, tranne che per lo spioncino retinato posto al centro. Attendemmo diversi minuti in silenzio prima di vedere entrare Grazia insieme alla direttrice, che prima di allontanarsi seguita dal secondino, accennò: “Avete

pochi minuti!” “Grazie!” rispose l’avvocato prima di sedersi. La porta si chiuse possentemente. Grazia restò immobile, con lo sguardo abbassato a fissare le mattonelle grigie. Aveva i cappelli legati in una coda approssimativa, ad ogni modo ben vestita. Le andai incontro e presale la mano, la condussi verso le sedie. Si muoveva stancamente. Sedette senza alzare la testa. Rimasi in piedi di fronte alla sua figura arresasi agli eventi. “Non ti aspettavo!” sussurrò iniziando a piangere. Senza rispondere, le appoggiai la mano sotto il mento, alzandole dolcemente il capo. Ferita e scoperta mi fissò con due occhiaie inequivocabili, stracolme di ringraziamento. “Ieri non conta più Grazia, oggi è il presente, e il presente è questo: non sei sola, un modo lo troveremo, piuttosto, come stai?” “Meno peggio di quanto pensassi, lo sai che anche in galera esiste un tribunale. Loro mi hanno assolta e accolta” rispose asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. “Filippo dov’è?” continuò tremante. “Dalla nonna, per il momento” s’intromise l’avvocato. “Era ubriaco... ha cercato di violentarmi... prima di riempirmi di botte… ma non sono stata io, è caduto da solo, non l’ho neanche toccato, giuro! Credetemi, almeno voi, vi prego credetemi”. Ricominciò a piangere con maggiore violenza. Mi chinai a sfiorarle i capelli con le labbra nel momento in cui rientrarono la direttrice e il secondino. S’alzò silenziosa indirizzandoci un ultimo sguardo implorante. Si diresse verso l’uscita senza più voltarsi. “Ho sperato milioni di volte che questo, un giorno, potesse accadere; adesso ho le ossa a pezzi per il rimorso”. “Il destino a volte è crudele”.

“Il destino, già, il destino”. “Già!” “Come mai è finita quaggiù?” “Tutto calcolato. Il giudice mi ha promesso i domiciliari, ma lontano dai familiari e dal bambino. Meglio di niente, no?” “Sì, sì! A casa tua?” “Sì, a casa mia!” “Che sarebbe quella specie di castello?” “Non esageriamo. Diciamo che è spaziosa”. “Va bene, diciamo che è spaziosa”. Non prolungammo oltre il nostro discorso. Restammo in silenzio per tutto il resto del tragitto che ci ricondusse alla masseria. In un rigurgito di forme senza nitidezza, iniziai a sentire familiari quei profumi, un incastro d’essenze e colori riconducibili a un tempo ormai spento e troppo lontano. La mente, offuscando e scomponendo le forme, mi avvinghiò a ricordi turbanti ma pur sempre miei, che mi impregnarono le narici e mi offuscarono il cervello. La mia acerba transumanza poteva essere partita da questi luoghi, cercai faticosamente di ricomporre i frammenti di storie con le quali mia madre era solita intrattenerci intorno al braciere durante le fredde sere invernali. Questa marginale sensazione poteva avere un senso, anche s’è difficile ricostruire luoghi attraverso racconti. Il cielo andava tingendosi d’incredibili colori rossastri. Mandorli sfrondi appena vestiti si stagliavano alteri in quel fluttuante tramonto di colori di fuoco. Mentre la sfera possente del sole, sfilacciata da nubi sottili, si eclissava in mestizia lasciando che un crepuscolo di toni violacei sfumasse indolore verso un grigiore serale; una nebbia sottile riempiva lo spazio. Mi ero appena svegliato da un profondo quanto corroborante sonno pomeridiano.

Ero completamente imbevuto da quel tramonto incredibile quando la voce di Anna mi prese alle spalle, improvvisa. “Ben svegliato!” disse tra un ansito e l’altro. Girai la testa di scatto, trovandomela di fronte curva in avanti, con le mani appoggiate sulle ginocchia e la testa alta verso di me. Sudava, rossa in volto, ansimava pesantemente; degli enormi occhiali da sole lasciavano intravedere veramente poco del suo volto brunito, i capelli di un castano indefinito erano raccolti in maniera arruffata. Era appena tornata da una corsa. Mi girai del tutto mentre cercava a fatica di riassumere una posizione eretta, togliendo gli occhiali. “Dormito bene?” continuò ansimando, stavolta più lievemente. Feci cenno di sì con la testa, mentre mi attardavo a studiare il suo sguardo leggero. Esile, i capelli ora liberi e spettinati, le guance rosse, tutto contribuiva a renderla attraente. Indossava una maglia bianca e rosa che a malapena riusciva a contenere i prorompenti seni e un paio di pantaloncini aderentissimi ad evidenziare gambe perfette. Iniziò ad avvicinarsi. Col pensiero scoprii quei seni divini; non osavo guardare in giù oltre la maglietta per paura di essere scorto a carpire un qualche segreto, ma non potei fare a meno di immaginare cosa, quel così evidente monte di venere, inguainato quasi provocatoriamente, potesse suscitare e quanto piacere potesse dare. “Footing?” chiesi stupidamente. “Sì! Faccio la doccia e preparo qualcosa da mangiare”. “Io aspetto ancora un po’ fuori... e così bello qui. Arrivo tra poco!” “Okay!” Mi riposizionai verso ponente a guardare la luce sfumare, ma non potei fare a meno di girare la testa verso di lei. I glutei, di una rotondità quasi innaturale, si tendevano ad ogni o come a voler esplodere; continuai a guardare in quella direzione anche dopo che la porta si chiuse alle sue spalle.

Come ipnotizzato, sentivo ancora nell’aria il suo odore, nella mia testa aveva preso il posto del profumo fresco di primavera. I colori del cielo svanirono lentamente, anche i più cupi s’arresero alla sera e le nuvole, prima esplosive, scomparvero. Scomparvero anche le sagome degli alberi e lontane luci iniziarono a mostrarsi tremolanti. Volsi un ultimo sguardo verso la sera e mi diressi verso casa mentre nel cortile si accendevano i lampioncini, regalando al posto un’atmosfera sognante. Intorno, la natura si stava impossessando del mio corpo; in quella sera ancora acerba m’abbandonai ai sospiri della quiete, cullato da grilli, cicale e un indefinito brusio ancestrale. L’ombra del silenzio si accovacciò discreta; accompagnai con lo sguardo l’accendersi di stelle, mentre nella mia testa si faceva largo sempre più concreta una sensazione di già visto. Chiusi la porta, dentro era tutto volutamente ovattato, le luci minime sui muri, il tepore dell’aria, una musica etnica percepibile appena. Al centro della stanza un tavolo possente in stile rurale come il resto dell’arredamento, tutto d’ottima fattura. Sulla parete di fronte, oltre ad un’enorme finestrone, le sagome ammassate di un rigoglioso agrumeto; sulla sinistra, sormontato da un architrave di legno antico, un delizioso caminetto rustico dentro cui ardeva un fuoco ornamentale. I muri intonacati in modo grossolano, bianchi, erano intervallati da chiazze di parete grezza che davano alla stanza un’aria ancora più rustica e calda. Per terra un enorme tappeto di juta su un pavimento in cotto strausurato. Unici segni di modernità, un televisore di almeno quarantadue pollici e uno stereo ben celato sotto una mensola il cui profilo non aveva subito lavorazione alcuna: era ancora presente la corteccia dell’albero al quale era appartenuta. In alto, sul soffitto a volta, i resti di un affresco monocromatico. Sullo sfondo celeste si stagliavano figure umane stilizzate, motivi floreali e greche, in più punti devastate da macchie salmastre di azzurro intenso; anche il soffitto era chiazzato da squarci di muro grezzo. Due enormi anfore facevano bella vista in due angoli. Un sottile filo di fumo d’incenso s’alzava ad espandere nell’aria una essenza dolciastra. Riempii il mio bicchiere di un corposo Negramaro e alzatomi da tavola andai a sprofondare in una poltrona in pelle bordò di fronte al caminetto che languido,

emetteva delle fiamme sporadiche a sforbiciare l’aria. Appoggiata al muro, anche lei col bicchiere in mano, mi osservava compiaciuta. “Cosa ci faccio qui? Quale casualità ha potuto azzardare tanto e tutto insieme?” chiesi con tono severo. “Diciamo che ho una missione da portare a termine” parlando si avvicinò al caminetto sedendosi sulla poltrona rimasta libera al mio fianco. “È tutto molto strano, troppe cose sono successe da quando sono uscito di prigione, per pensare che si tratti solo di casualità... non posso crederci!” La presenza di una quantità di alcol maggiore del previsto, mi rese come al solito molto loquace. Stetti a parlare per circa due ore, ininterrotto. Mi ascoltò pazientemente e con molta attenzione. “Ne hai abbastanza da scrivere un libro!” disse, appena sicura che avessi terminato. Tirato il fiato e guardatasi intorno come in cerca d’ispirazioni, iniziò a parlarmi di lei. “La mia famiglia è d’origine ebrea, il mio vero cognome è Kysheò; Genovese è un cognome fittizio inventato da mio nonno nell’intento di sfuggire ai fascisti. Era un avvocato molto famoso a Roma, ma nel 1934 scappò dall’Italia fiutando il pericolo. Fece per vent’anni il missionario laico in vari Paesi dell’Africa centrale, seminando diversi figli, uno dei quali tornò vent’anni dopo in Francia laureandosi a Parigi in Scienze Politiche, sposò un’italiana conosciuta durante un viaggio diplomatico negli Stati Uniti, dalla loro unione nacque Anna, qui presente!” “Tuo padre è di colore?” “Sì! Non sarai razzista?” per la prima volta da quando ci frequentavamo, scoppiammo a ridere dopo esserci scambiato un intenso sguardo di sfida. “E questa casa?” “Venni in queste zone nella prima volta con la protezione civile, nei primi anni novanta, durante gli sbarchi in massa degli albanesi; ero ancora studentessa.

Rimasi talmente affascinata dalla bellezza di questa terra… ed eccomi qua”. “Ti posso fare una confidenza?” Annuì consenziente. “Non mi sembri un avvocato d’ufficio!” continuai. “È un complimento?” “Boh! Mi sembri troppo in gamba per essere un semplice e banale avvocato d’ufficio”. “Troppo buono!” troncando il discorso. “Vado a letto, domani dovrò star su molto presto” continuò, bevendo l’ultimo sorso di vino. Prima di alzarsi risoluta e lasciare la stanza, si voltò e con fare distratto: “Dimmi; cosa ci facevi con quei...?” “Cercavamo di salvare il mondo!” “Nobile scopo” concluse chiudendosi la porta alle spalle. “Buonanotte” dissi, mentre quel dubbio appena esternato si faceva largo in maniera sempre più concreta. No! Non aveva l’aria dell’avvocato d’ufficio, qualcosa di strano si nascondeva in quella donna così brillante e bella. Non andai a dormire. Chiuso in camera, restai a guardare fuori della porta. Non avevo la minima traccia di sonno; una striscia di luna accolse il mio sguardo, districandosi tra gli alberi. ‘Sarà stupido cercare risposte nel buio!’ pensai. Per un po’ una civetta mi tenne compagnia col suo stridulo urlo e poi le stelle, mai tante tutte insieme; quante ne tiene nascoste la città? Un abbaiare monotono, quasi meccanico di un cane lontano, ruppe d’incanto il silenzio. Anzi, fu la maniglia della porta che s’apriva a farmi trasalire; infatti realizzai che il cane abbaiava non ascoltato ormai da un bel po’. Era Anna, la

riconobbi dal profumo. “Non dormi?” chiese dopo essere rimasta a osservarmi per qualche minuto in silenzio. “Neanche tu!” risposi. Era appoggiata alla porta, indossava la tuta di prima, i capelli pettinati e gli occhi provati dal sonno. Fissavo le sue labbra carnose muoversi sensuali; la mente elucubrava altrove, vinta da voglie deformi simili alla perdizione. Con la mano la invitai a sedersi sul letto: lo fece. Le ero di fronte quando iniziai a parlare: “Avrà un senso tutto questo? Ho ato dieci anni a bramare vendette, ho covato tanto odio da seccare la mia stessa coscienza e adesso, mi si ritorce tutto contro, non riesco nemmeno a capire se quello che provo è pietà, comprensione o chissà che altro. Dieci anni d’inferno, tu non puoi immaginare che traccia segnano nell’animo di un’innocente, tu non conosci la giustizia del carcere; per anni mi hanno trattato come un maniaco sessuale, e forse non lo sai cosa tocca a un maniaco sessuale, in galera? Molte notti insonni, mi sono pericolosamente avvicinato al suicidio, c’ho anche provato, vedi?”, mostrandole l’avambraccio destro con ancora visibili i segni delle cicatrici. “Ho provato a farla finita, ma non è stata sufficiente una lametta a schiodarmi da questa sudicia esistenza. I primi mesi ho ricevuto un trattamento sessuale di tutto rispetto, degno di un re; dopo è subentrata anche la tortura psicologica. Adesso penso che la vendetta fosse solo un pretesto per sopravvivere a quell’inferno. Non sono più lo stesso e questa cosa mi fa un male atroce, ma non posso farci niente. Avevo impiegato degli anni per costruirmi poche certezze, poi una troia ha pensato bene di sbattermi in galera per coprire la sua ninfomania e distruggere tutto in un istante; anche in carcere mi ero faticosamente costruito una posizione, ma anche lì per un diverso motivo è finito tutto… e adesso? Adesso sono qui a commiserarmi, per non essere capace nemmeno di accettare la realtà, di non riuscire ad odiare perfino chi mi ha distrutto. Oltretutto vengo a dirlo a te che avrai le palle piene di queste patetiche storie del cazzo”. “Perdonare è un atto di forza, non di debolezza. Anche amare è un atto di forza”. “Forse è vero!” feci con un filo di voce abbassando il capo e muovendo nervosamente le mani. “Sì! Forse è vero!” ripetei scuotendo la testa rassegnato.

Lo spazio s’accavallò ad un reticolo di punti neri, traversando la coscienza. Un oblio assoluto s’impossessò delle mie membra disfatte, arse da un rimorso intransigente. Disperato, il silenzio cercò di divincolarsi dal mio corpo fossile. Ripetuti ululati di cani senza volto sferzavano la notte e le mie ossa, alla ricerca di ulteriori parti scoperte da colpire. Parole impronunciate a seccare la gola, rotta da un pianto inesploso! Imponderabile era fluita la notte fuori da schemi temporali, un grigio corposo aveva infilato il buio; le sagome oltre le imposte aperte, riprendevano senso discrete, anche fuori il silenzio si toccava quasi. “Tutto si sta dissolvendo, tra le mani ho solo rimpianti”. Come se il sopraggiungere del giorno avesse riattivato le mie corde vocali. Era rimasta in silenzio tutto il tempo, si alzò stringendomi il braccio, e regalatomi un ultimo silenzioso sguardo, si voltò e uscì.

XVI Contemplavo il caminetto, che ardeva appena di riflessi rosati; ero solo da due giorni e la noia cominciava a minarmi. Sentii un’auto entrare nel cortile e dopo qualche secondo la porta aprirsi. Grazia mi si parò davanti, armata di uno spento sorriso e una sofferenza palese; mi alzai per andarle incontro, mi fermò col braccio schermendosi il viso tirato, muto; ma in quel silenzio, tutto quello che non avrei mai voluto ascoltare. Entrò anche Anna con una valigia, probabilmente di Grazia. “Eccoci qua!” irruppe Anna tonante. Aveva ottenuto i domiciliari in attesa del processo. La presenza inaspettata di Grazia, mi procurò un certo turbamento: ero ormai troppo abituato a stare per conto mio, per assimilare velocemente la presenza di una persona al fianco. Mi accorsi da subito che Grazia non era più la stessa, come se qualcosa in lei si fosse rotto, qualcosa dentro che le impediva perfino di cucire trame leggere. Non riuscimmo, nonostante gli sforzi, a instaurare nessun tipo di rapporto, anche se i primi giorni dormimmo nello stesso letto, facendo anche l’amore un paio di volte, ma senza enfasi né desiderio, forse con Anna la cosa andò diversamente, ‘complicità femminile’, pensai per evitare pensieri più intriganti e insospettabili. Camminavo alieno tra le brulle zolle secche, cercando impressioni che mi riportassero all’origine di quella sensazione di già visto sempre più concreta. Lo sguardo vuoto a scandagliare arcaici rovi di more, ripercorreva tracce ormai distinguibili. Perfino il gusto di quei frutti selvatici si fece largo tra le pieghe del ricordo; e poi crude pietre affioranti, erose come rocce marine, calcarei smeraldi coperti di muschio e un etereo odore di origano selvatico. Ormai era più che una sensazione l’aver calpestato da bambino tutto questo. Annusavo quei profumi per saziarmene, per catturare tutto il selvaggio di quel posto al mattino. M’immersi nel risveglio del mondo cullato dal cinguettio di erotti, unico invadente suono vivo di quel mattino avulso e inesplicabile. Iniziavo ad amare quel posto malgrado tutto, quell’erba fradicia al mattino. Lo amavo per quello che era non per quello che significava. Gli odori non erano quelli del destino, ma di un ricordo da tenersi stretto, uno spiraglio da cui ripartire, magari con Grazia.

Con le mani raccolsi una zolla di terra, la strinsi tra le dita, si sbriciolò come sabbia e la mano se ne intrise; dalle dita e dal palmo umido cadde distratta sulle mie gambe e sulle scarpe. La guardai cadere ossequioso. L’ombra dell’enorme gelso cominciò a compattarsi imponente e i due mastodontici pini iniziarono a frusciare con folate di profumo di resina che, al sole ormai alto, si scaldava. Senza tempo, nel silenzio che mi montava addosso. Raccolsi tutte le mie forze e piansi piano, cullato da una soffice nenia rammagliante intonata dal vento. Piansi tutte le lacrime di cui ero capace, in quel deserto di grazia e colori spremuti. “Perché?” chiesi a quella luce esagerata, in un’inutile preghiera disperata. Il tramonto mi trovò ancora lì, a guardare il profondo del silenzio, aggrovigliato a un significato lieve che spesso faceva fatica a emergere, con le facce della mia infanzia intagliate in quella realtà di un ato che per la prima volta non sentivo ostile e lacerante. L’opacità umorale di Grazia, che si andava acuendo di giorno in giorno in maniera lenta ma costante, cozzava violentemente con la magnificente inflorescenza che in quei giorni si manifestava in un’orgia di colori. Non era difficile imputare tale torpore all’impossibilità di poter riabbracciare il suo bambino, conseguenza di una riottosità da parte della nonna paterna cui erano state affidate le cure del piccolo dopo la tragedia, in attesa di successivi sviluppi. Avulsa dalla realtà, ormai viveva una sua dimensione parallela, incurante di tutto ciò che la circondava, anche delle premure riservategli sia da me, sia da Anna. ava gran parte della giornata eggiando abulicamente per il cortile, soffermandosi per lungo tempo a contemplare ora uno, ora un altro particolare, come se non li avesse mai visti prima. Smettemmo di dormire insieme, smise di truccarsi e soprattutto smise definitivamente di parlare. Spesso mi celavo dietro le tendine della porta e seguivo, facendo attenzione a non essere scorto, il suo errare vuoto, con un grande senso di angoscia e impotenza; nelle mattine in cui

la nebbia perdurava più del solito, la sua sagoma dava veramente l’idea di un’anima vagante come sospesa nel dolore. Anna riuscì a ottenere il bambino per un fine settimana. Tutto prese una piega diversa dal momento in cui la piccola creatura mise piede in quella casa. Un’eruzione di vita scaturì dal corpo ormai atrofizzato di Grazia, purtroppo destinato a durare il tempo della permanenza di Filippo. Dopo, tutto tornò come prima. Durante le nostre cene fugaci e silenziose, Anna di tanto in tanto mi faceva delle domande, apparentemente senza senso o comunque fuori contesto, su Ufo, i Neri, Luciani, Marilena e altro ancora del mio recente ato. In nessuna occasione mi addentrai più di tanto nei particolari. Il grigiore possente della prima sera aveva appena preso possesso delle forme. Grazia iniziò a spiegare il perché erano in quel posto il giorno della morte di Andrea, della misteriosa chiamata del padre, della vita di agi trascorsa con lui, del suo radicale cambiamento da quando aveva saputo che si era rivista con me e ancora di tutto ciò che riteneva utile per chiarire la situazione a suo favore. Anna annuiva soddisfatta, sia per l’esaustività delle risposte, sia perché a Grazia era tornato un qualche interesse. “Filippo?” concluse Grazia. “Sto pensando anche a quello! È fondamentale che voi due torniate a essere una coppia normale e lui ha bisogno di un lavoro che gli renda possibile un agio economico tale da convincere il giudice a riaffidarvi il bambino. Questa soluzione è possibile solo nel caso in cui non sussistano problemi economici o sociali; al primo ci penso io: assumerò lui presso il mio studio, per il secondo vedete di fare del vostro meglio, almeno in apparenza”. Il salmastro sudore di un’alba di tarda primavera interruppe il mio misero sonno prezioso. Un’insolita pioggia cadeva indolente a rinfrescare aride zolle e spossati giardini da una prematura estate. Come un segugio, cercai le orme di Grazia fin fuori il cortile; la sua forma sinuosa s’impose ai miei occhi, rarefatta e solenne tra la nebbia sottile. Fra una miriade di suoni occulti, lo sciaquettio dei miei i nelle fangose pozzanghere dovette avere l’effetto di una deflagrazione. I suoi capelli intrisi di

pioggia erano mesti e bruniti, anche il chiaro cotone che avvolgeva distratto il suo corpo, s’arrese al perpetuo gocciare mostrandola nuda oltre la carne. Mistica! La sua sagoma s’incastrava in perfetta simbiosi con la natura circostante, come priva di peso. Un forte odore di pioggia si espandeva palpabile, nessun contorno era netto; il giorno si faceva largo drastico tra le mura di un silenzio disperato. Restai immobile a guardarla trattenendo il respiro, aspettando. Senza voltarsi, allargò il braccio aprendo la mano facendo finta di afferrare qualcosa nell’aria, strinse forte il pugno per non fare uscire ciò che aveva catturato, poi girò la mano verso il basso aprendo lentamente le dita. “Non ho più niente!” sussurrò appena. Rimase a guardare, a fissare un punto, mentre ebbi l’impressione che tutto intorno a noi stesse perdendo fisicità; le forme si scomponevano fondendosi, i colori scivolavano via interponendosi striscianti, anche dal mio corpo sentii scivolare via la sostanza, restando come in balia di un’eterea dimensione sconfinata. “Dentro non ho più niente!” continuò. “No!” Affermai con decisione, “Non si perde mai tutto, fidati, ci sono ato più volte, pensavo di aver perso tutto quel poco che avevo, invece c’è sempre una flebile fiamma, un sottile filo da cui ricominciare. Non buttarti via, c’è tanto da vivere e poi c’è chi ha bisogno di te!” Mi guardò con aria triste, fissandomi con attenzione. Mi sentii stupido e goffo: bagnato com’ero non dovevo fare un gran figurone. Mi distrasse il suo seno che la maglietta ormai fradicia non riusciva più a tenere nascosto, conturbante perfino in quegli istanti drammatici; facevo attenzione a tenere gli occhi bassi per sfuggire al suo sguardo rovente e per la vergogna di vederle il resto del corpo ormai malcelato dal tessuto inzuppato. Continuò a fissarmi, mentre col dorso della mano si asciugava la fronte

scostando i capelli impastati di pioggia. Rialzai lo sguardo, scoprendola ancora più tenera e dolce... e indifesa. S’alzò, e come temevo m’inondò del suo corpo svelato dall’acqua. “Vedremo?” sussurrò andomi accanto e sfiorando con la mano la mia spalla. Rimasi nel vuoto mentre lei rientrava. Non mi voltai a guardarle i marmorei glutei e il naturale ancheggio, malgrado un terribile desiderio di farlo pervase le mie carni. Restai attanagliato dalla paura di essere sorpreso a impossessarmi di qualcosa non mia. Era mia moglie, ma la sentivo troppo distante. Restai come chi resta perché non ha più nulla da dire, scostai anch’io la pioggia dal volto; pioggia che aveva segnato il o. Rimasi a guardare le gocce scivolare sulle foglie. Le nuvole mollarono la presa e tra spiragli sempre più ampi, il sole ripropose la sua forza accendendo di riflessi la campagna che ricostruiva piano il suo concreto. Come previsto da Anna, Grazia fu assolta. L’accusa non presentò ricorso e la madre di Andrea le fece riavere il bambino spontaneamente, senza bisogno di ricorrere a ulteriori trafile legali. Da quel momento il mio compito era finito, la mia presenza era superflua. L’illusione che per qualche attimo avevo cullato di poter ricominciare con Grazia, svanì definitivamente, senza appello. Potevano sbarazzarsi di me prima del previsto, considerato che la mia presenza in quella casa serviva a dare una parvenza di famiglia ‘normale’, finalizzata solo a poter riavere Filippo. Ne ebbi conferma definitivamente qualche notte prima che Filippo ritornasse dalla madre. Ero nel tinello a bere un bicchiere di vino di fronte al caminetto nel quale ardeva stentato un fuoco terminante ma pur sempre rilassante, nella speranza di alienare quel turbamento che m’impediva di prendere sonno. ‘Un po’ d’alcol avrebbe fatto la sua parte’ pensai.

Un mugolio stridulo, sovrapposto, evidente frutto di un devastante orgasmo, filtrò dalla porta socchiusa. Un dirompente rossore s’impadronì della mia faccia, stetti in silenzio ad aspettare nuovi segni mentre le immaginavo fuse nei loro corpi scultorei traboccanti di sesso. Rimasi goffamente ad ascoltare per qualche istante prima di farmi vincere dalla curiosità. Mi spinsi verso la porta dalla quale continuavano ad uscire mugoli di piacere. I miei occhi focalizzarono i corpi avvinghiati di Grazia e Anna che, delle due, in quel momento menava le danze, muovendosi con lenti movimenti felini. Grazia giaceva supina sussultando di piacere. Le mani di Anna sembravano spugne di mare che lente tergevano le tossine del mondo dalla pelle di Grazia. La sua calda lingua tracciava sottili origami, senza tralasciare nemmeno i più remoti angoli del corpo di mia moglie che continuava a fremere. Diverse volte si scambiarono i ruoli, la maestria dei loro movimenti presupponeva un’esperienza provata. Non resistetti a lungo, anche per via di una turbante erezione sovrapposta a una sorda rabbia di sentirmi escluso e usato. La porta dei pensieri si spalanca incondizionata, quando la parola assolve il suo compito tutto poi viene elaborato mentalmente e siccome il cervello non sempre ha un ordine coincidente con quello temporale, è facile perdersi in meandri di ricordi misti ad aspettative più o meno concrete. Negando ogni evidenza, aspettai che il sonno s’intrufolasse, lasciandomi esanime in modo da partorire sogni che mi traghettassero verso una dimensione ancora più surreale e inconsapevole, malgrado tal vaporeo istinto fosse destinato a lasciare il fiele del rimpianto. Sproloquiavo forse, ma a me la pancia faceva male, eccome se faceva male. Quasi stordito, transumai verso un sonno silenzioso che accorciò la notte già sfatta al mio graduale ridestarmi. Era tutto stramaledettamente strano e sempre più complicato. Non riuscivo a capire Anna. Era piombata apparentemente in maniera casuale, ma da un’analisi più accurata era chiaro che di casuale ci fosse ben poco. Il perché continuavo a ignorarlo, ma la curiosità iniziava a far breccia nella mia voglia di sparire per sempre da quel mondo che di mio aveva meno di niente. Volevo cercare di capire, almeno cercare di capire. Poi se proprio volevano sbarazzarsi di me, non gli restava che dirmelo.

Da quella mattina il mio approccio verso tutto ciò che mi circondava risultò radicalmente mutato, iniziai a prestare attenzione alle telefonate, agli oggetti che arredavano la casa, agli atteggiamenti... qualcosa sarebbe saltato fuori. Poteva anche essere un preconcetto, ma ebbi l’impressione di scorgere una sottile ambiguità nello sguardo di Anna. Un’eccessiva attenzione gremiva le sue pupille, sempre attenta a tutto, vigile e discreta, come se avesse l’impressione di essere osservata. Avevo messo in piedi uno strano gioco di specchi, di relativi punti di vista in assenza di certezze. Più il tempo ava più la speranza che fe un qualche o falso scemava, ma proprio questa sua accuratezza consolidava la mia tesi. “Domani partiamo per Milano. Hanno trovato il cuore! Ci accompagneresti in aeroporto?” Era una cena abbondantemente condita dal piacevole baccano di Filippo, quella in cui Grazia mi annunciò la novità da qualche tempo attesa. Sorrisi, porgendo lo sguardo verso Filippo e annuendo con un cenno del capo. Non mi sembrò vera tanta grazia. Avrei avuto tutto il tempo per scandagliare la masseria fin nelle sue pieghe più intime alla ricerca di qualche dettaglio che avallasse la mia ipotesi. Tornando a casa dopo averle accompagnate in aeroporto, un improvviso lampo d’istinto mi procurò un dolore profondo, la necessità di risposte m’incalzò impellente. Stavo quasi per imboccare la strada brecciata che conduceva alla masseria, quando il mio sguardo s’incagliò al mazzo di chiavi sul cruscotto, usate da Anna quando, prima di recarci in aeroporto, eravamo ati dal suo ufficio nel centro storico di Lecce. Fissai quelle chiavi per qualche istante, improvvisamente mi sembrarono la risposta a tutte le domande che stavano intasando la mia mente. Una frenata improvvisa, la cintura tesa, una brusca quanto temeraria inversione, mi riportò verso la città. Arrivai in prossimità dell’ufficio di Anna intorno alle ventidue; non feci fatica a trovare la strada, malgrado fosse solo la seconda volta che mi recassi in quel posto.

Guardai la targhetta e dopo vari tentativi infilai la chiave giusta che mi permise di aprire un portone. Mi ritrovai in un ampio cortile pieno di enormi piante ornamentali, illuminato in maniera discreta, non persi molto tempo per contemplare ciò, anche se ne valeva la pena: ero stranamente turbato e avevo fretta di andare via da quel posto pregno di cattivi presagi. Ai lati del portone si dipanavano due monumentali scalinate; guardai le targhette d’ottone poste al loro inizio e scorsi il nome cercato, seguito da un ‘secondo piano’. Iniziai a salire con circospezione senza accendere le luci; più salivo e più il buio s’infittiva consegnandomi a una realtà di disagio e quasi paura. Dopo un’ampia curva la scala mi consegnò al pianerottolo del primo piano lievemente illuminato da alcune lampadine poste ai lati delle porte; di fronte ad esse una balaustra in pietra leccese di barocca origine, apriva allo sguardo una gradevole veduta dall’alto del cortile. Stazionai brevemente, assorto in quella gradevole visione notturna: alcune finestre proiettavano distrattamente della luce che si perdeva tra il fogliame di edere e piante grasse sovrastate da una palma che nella sua imponenza raggiungeva il primo piano. Temendo di essere scorto nonostante la luce fioca, mi affrettai a salire al piano superiore, lo raggiunsi nell’oscurità, sbirciai i camli delle due porte del tutto anonimi che per niente lasciavano presagire la presenza di uno studio legale. Fortunatamente la dicitura era presente sul camlo scarsamente illuminato all’ingresso della seconda porta: ‘Studio Legale Genovese’. Al primo tentativo imbroccai la chiave giusta ed entrai con circospezione cercando d’intuire la posizione dell’interruttore della luce che avrei appena chiusa la porta. Il mio sguardo abituatosi al buio, non fece fatica a scorgere la placca dell’interruttore; ci appoggiai la mano sinistra in modo da non perderne le tracce una volta chiusa la porta. L’accendersi della lampadina, procurò una fitta agli occhi che ristabilirono la loro focalizzazione dopo un paio di palpebrate. La stanza in cui mi trovavo, probabilmente solo l’ingresso dell’ufficio vero e proprio, era piccolissima. Erano presenti: un divanetto in stile ottocentesco, una scrivania di legno massiccio con preziosi intarsi e una cornice imponente alla quale un misero dipinto cercava faticosamente di rendere onore, un monitor a cristalli liquidi, una tastiera, una fila di cartelline gonfie di fogli accuratamente impilate e una kenzia di notevoli dimensioni. Mi affrettai ad aprire la porta per entrare nell’altra stanza similmente arredata, con due poltrone poste di fronte alla scrivania di legno con la base di pelle nera. Mi accomodai dopo essere tornato a spegnere la luce nell’ingresso e aver chiuso a chiave la porta.

Non ero particolarmente esperto di computer: mentre aspettavo di entrare nel programma, cercai vanamente di aprire i cassetti della scrivania; ad un distratto secondo tentativo, il secondo cassetto cedette. Dentro, una cartellina verde con una scritta a pennarello blu: ‘Pablo Hurtado e altri’. Pabro Hurtado, mio compagno di cella per quasi un anno. Anarchico fino al midollo, tutto un programma. Insieme a lui ai il periodo - se si può usare questo termine per una detenzione - più divertente. Era un vulcano d’idee e informazioni. Familiarizzammo quasi subito. Leggendo il suo nome su quella cartellina, cominciai a pensare che forse neanche io ero finito per caso in quella storia! Lessi con attenzione i fogli contenuti nel fascicolo: tutto molto interessante. Pablo Hurtado, un salvadoregno arrestato in Italia col sospetto di appartenere a qualche cellula anarchica attiva sul territorio, presunto autore d’atti intimidatori nei confronti d’autorità e attentati contro il patrimonio. Il classico personaggio da avvocato d’ufficio. Dopo aver letto alcune pagine con alterno interesse, m’imbattei nel secondo capo d’imputazione che pendeva sul suo capo: favoreggiamento dell’immigrazione e sfruttamento di minori per fini bellici. Secondo il giudice, Hurtado era in realtà un combattente prezzolato in varie guerriglie filo marxiste sparse per il mondo, soprattutto Terzo Mondo, che aveva solo finto di essere interessato alla lotta anarchica in Italia; il suo vero intento era invece ramificare ulteriormente la sua organizzazione. Una specie di legione straniera di mercenari, nel fascicolo erano presenti alcuni nomi coperti da omissis. Il loro compito era di approcciare i clandestini espulsi dall’Italia per poi reclutarli in Albania, Tunisia e altri Paesi del Mediterraneo col pretesto di lavori di sorveglianza; in realtà erano spediti in zone dove a morire ci mettevano meno di un battito di ali. ‘Kamikaze’? Mi ò per la testa quasi inconsciamente questo termine. Non lessi oltre. No, non era una pratica da avvocato d’ufficio. Chissà quanti potenti governi erano coinvolti nell’affare e chissà quanti avevano pagato per questo, pensai mentre andavo via da quell’ufficio che iniziava a procurarmi un’ansia sempre meno gestibile.

XVII Mario Morganti non era certo il tipo da accettare volentieri che il suo operato venisse messo in discussione, maggiormente quando lo riteneva ben fatto. Non gli era per niente piaciuta la notizia che negli ultimi giorni iniziava a girare sui giornali, di un’eventuale ipotesi proposta dal Governo di ripristinare il programma di sviluppo nucleare per la produzione d’energia, ormai fermo da decenni. Aspettava con impazienza nell’ufficio presidenziale. La conferenza stampa si stava protraendo più del dovuto e questo lo indisponeva ulteriormente. Senza preamboli, aggredì verbalmente il Presidente. “Chi sarebbe quest’apostata che vuole giocare con gli isotopi?” “Non c’è nessun apostata, è soltanto la necessità di creare un diversivo per questi ambientalisti che continuano ad incalzarmi con la storia dei rifiuti tossici. Non vorrei che alla fine riuscissero ad arrivare anche a me, vista l’opinione diffusa di un quasi certo coinvolgimento di Neri”. “Che non c’è più!” “Morganti! Cazzo! Non era il solo a conoscenza del lavoro. Dobbiamo aspettare un altro Parenti e saltare tutti per aria?” “Non ci sarà un altro Parenti! Ma lo sai cosa significherebbe se solo venisse presa in considerazione l’ipotesi? Una caterva di controlli dagli enti più disparati, nazionali e internazionali; sarà una bella e inaspettata sorpresa per loro trovare le celle vuote, senza documenti di smaltimento”. “Come vuote?” “Non è questo il momento per le spiegazioni, cazzo!” “Ma…” Quando il suo ma non ricevette alcuna risposta, il Presidente si rese conto che non era il caso di insistere.

“Non sarebbe stato più intelligente distogliere l’attenzione dal problema rifiuti con un omicidio celebre o un attentato eversivo?” “Morganti, non è il momento! Già l’hai fatta grossa con quei ragazzi, il Centro è saltato, Luciani è sparito e altre morti sospette da imputare. Alle Caserme è una polveriera, era proprio necessario fare quella carneficina? Ti sembra così semplice riuscire a tenere fuori gli inquirenti da questo casino?” “Calma, ti fornisco l’elenco delle persone che in qualche modo hanno avuto a che fare col traffico. Falli sbattere dentro e inseriscili in un programma di protezione spacciandoli per collaboratori di giustizia, in questo modo faremo pulizia d’ambigui facendola are per una retata anti criminalità organizzata, occupata in una sanguinosa faida apertasi per il controllo del territorio dopo la misteriosa scomparsa di Luciani. Ci farai un figurone”. “Sì, ma gli ambientalisti e i partiti a loro legati vorranno in ogni caso vederci chiaro sulla storia del riciclaggio, senza contare che non gli sembra vero di poter provare a gettare fango sulla mia figura”. “Faglielo fare, ne uscirai santificato”. “Se ne uscirò!” “Tu tieni sotto controllo il programma nucleare e vedrai che ne uscirai pulito!” “È una minaccia?” “È una promessa!” concluse Morganti uscendo dall’ufficio. Avvenne tutto quanto previsto con chirurgica precisione. Decine di pregiudicati e non, tutti più o meno riconducibili a Giuseppe Luciani le cui tracce si erano perse da mesi, furono arrestati durante un’imponente operazione condotta in grande stile, nel corso della quale furono setacciati palmo per palmo il quartiere delle Caserme - da sempre roccaforte di Luciani - e i quartieri limitrofi. Nella rete rimasero impigliati anche nomi celebri, come il Toscano, braccio destro di Luciani ora presumibilmente a capo del gruppo. L’evento ebbe una risonanza nazionale per diversi giorni. I giornali continuavano a proporre continuamente nuovi dettagli sull’operazione, decantando le Forze dell’Ordine che dopo anni di duro lavoro erano riuscite a mettere le mani su efferati delinquenti macchiatisi di atroci delitti oltre che di criminosi traffici, non ultimo quello dei rifiuti tossici

per il quale tempo prima era stato sospettato un coinvolgimento, anche se marginale, del Presidente per via di un suo parlamentare, Filippo Neri, deceduto in un incidente stradale in circostanze ancora non del tutto chiarite, per il quale erano state avanzate ipotesi di collusioni mafiose finalizzate appunto al traffico di rifiuti tossici verso i Balcani. Il guaio di tutta la storia, come temeva Morganti e come invece sottovalutato dal Presidente, fu che la proposta del nucleare ebbe più favori del previsto: il Governo dovette prendere in seria considerazione l’ipotesi tanto da avviare un dibattito parlamentare, ma come previsto fu massicciamente rigettato dalla maggior parte dei parlamentari d’opposizione e da una buona parte di quelli della maggioranza che ritenevano più vantaggioso acquisire delle centrali atomiche già in uso in Paesi più o meno vicini, piuttosto che ripartire di sana pianta con impianti ormai obsoleti, da adeguare; il piano sarebbe stato sicuramente osteggiato dalla gente dei luoghi interessati dalle centrali, ripercuotendosi negativamente sui collegi elettorali dei territori in questione. Dopo un lungo iter burocratico e una travagliata discussione parlamentare, la proposta fu accantonata, facendo tirare un lungo respiro di sollievo a Morganti e anche al Presidente. Erano ati pochi giorni dal definitivo accantonamento da parte del Governo del progetto nucleare, che una nota informale e personale giunse al Presidente dall’ambasciata statunitense: lo si convocava urgentemente per comunicazioni riservate e d’estrema importanza. Non poteva avere molti dubbi sul contenuto del colloquio, ma riteneva di avere argomenti a sufficienza per poterne uscire fuori e alla svelta. Era una convocazione che non giunse inaspettata. Prima di recarsi all’incontro il giorno stesso, chiamò Morganti che lo rassicurò ulteriormente. Ad aspettarlo in ambasciata non c’era, come previsto, l’ambasciatore o qualche suo collaboratore. Lo sconosciuto interlocutore ò subito al dunque; parlava un italiano quasi perfetto, anche se con marcato accento anglosassone, il tono era secco e irritato. Indossava un vestito chiaro, non certo alla moda, la cravatta a righe rosse e viola spiccava esagerata sulla camicia color fieno. Aveva i capelli impomatati ‘anni sessanta’ e i movimenti ritmati da un tic nervoso. Alto e asciutto, si spostava per la stanza illuminata da una finestra enorme che lasciava intravedere un deprimente paesaggio urbano, con studiata flemma. Spiegò al

Presidente che la C.I.A. era al corrente di un traffico di uranio arricchito che dalle coste italiane andava a finire in un Paese arabo, rimarcando la parola ‘arabo’. Diplomaticamente aveva parlato di coste italiane e non di Italia, si aspettava una collaborazione forse, non riscontrata. Quando l’americano iniziò con sempre maggiore sarcasmo ad entrare nei particolari dell’operazione, il Presidente iniziò a vacillare lasciandosi cadere stancamente sulla poltrona. “No!” disse debolmente, interrompendo il suo interlocutore. “Sì!” rispose colui che lo accusava. “Questo non lo sapevo, mi creda!” “Posso anche crederlo. Io posso anche crederlo, ma con tutti gli altri come la mettiamo? Le voglio ricordare che Amir è in mano agli israeliani”. “Chi si è occupato dell’operazione mi aveva assicurato che in Sudan sarebbe arrivato solo uranio esausto”. “Certo, signor Presidente, in Sudan è arrivato solo uranio esausto, e poi?” “No, io... io non sono a conoscenza di altro, mi creda!” “Ma bravo. Vede, i miei colleghi sono molto arrabbiati con Lei, e anche lui...” puntando l’indice in alto “...è molto arrabbiato con Lei, e anch’io, in nome di tutti gli americani. Presidente non si prenda gioco di me? Le centrali italiane, dalle quali è uscito l’uranio, quello che interessa a me, non quello fasullo, non sono mai partite, dunque? Sbaglio, oppure quello mandato ai mullah è uranio ricco ricco?” A corto d’argomenti per controbattere una verità tanto dettagliata, cercò disperate soluzioni nello sguardo del suo accusatore, il quale concluse: “Non si preoccupi, tutto ha un prezzo, stia al gioco e tutto si rimetterà, diciamo, a posto. Ah, dimenticavo, lasci perdere Morganti, è sotto controllo”. “Cosa dovrei fare?” “Stia calmo e rilassato, presto riceverà disposizioni in merito, e faccia il bravo”.

Anna tornò da Milano prima del previsto, da sola. In quei giorni ati da solo, avevo ripetutamente formulato mentalmente tutte le domande che intendevo rivolgerle, ma come previsto la sua presenza rigettò nel caos il mio ordine intellettivo. Il sole cominciava a perdere la sua consistenza, quando Anna mi raggiunse in giardino sedendosi al mio fianco. “È andato tutto bene!” “Mi fa piacere!” risposi distaccato. Per qualche minuto il silenzio si fece corposo. “Ho bisogno di sapere delle cose, Anna”. “Tipo?” senza scomporsi. “Sono ebrea, lesbica, da cinque anni orfana e con un sacco di soldi! Vuoi sapere se tutto questo mi fa sentire in colpa? La risposta è: si, ogni tanto” continuò con tono d’apparente sfida. “Pablo Hurtado, e relativi omissis”; ebbe un attimo di esitazione. “Non è buona educazione guardare nelle borse delle signore” continuò dopo aver riacquistato la necessaria spavalderia. “Non lo è neanche aggrovigliare la mia vita. Se c’entro qualcosa voglio saperlo subito. Ho l’impressione che si stia giocando troppo con i sentimenti delle persone oltre che con le loro vite”. “Sai quanto può valere la vita di un uomo, oggi?” “Molto poco!” “Anche meno, se si tratta di un uomo senza nome”. “Parli di clandestini?” “Parlo di clandestini! Gli omissis? Quasi tutti morti. Filippo Neri, Andrea Neri, Giuseppe Luciani. Manovalanza, anche se per certi versi griffata, il vero regista

di tutta la storia è Hurtado. Lo teniamo sotto controllo praticamente da sempre, è il più pericoloso di tutti. È lui a tenere insieme la rete di spionaggio parallelo in Europa, lui con il prezioso appoggio di Morganti! Mario Morganti, apparentemente solo braccio destro di Neri”. “Avevo ragione a non ritenerti un semplice avvocato d’ufficio. Voi chi?” “Accontentati del pronome per il momento. Hurtado è un’agente della C.I.A. incaricato di fornire uomini e mezzi agli eserciti dei Paesi più disparati, in modo da fomentare rivolte a comando, in grado di destabilizzare governi e regioni a fini propagandistici o altro. Morganti invece, una bestia immonda, un serpente a sonagli; ovunque c’è dell’illecito, lui c’entra. Per anni ha gestito un Centro di ricerche - causa di numerose morti sospette - poco ortodosso in Svizzera, dove testava strani farmaci su ignari studenti per una manciata di euro. Rientrato in Italia ha allacciato solidi legami con ambienti mafiosi e politici, che spesso sono la stessa cosa. Si è messo a commerciare uranio con i Paesi arabi, con l’avallo del Presidente, mentre col suo ‘socio’ Filippo Neri, deceduto in circostanze a dir poco sospette, stava creando un Centro ricerche per capitalizzare il lavoro di ricerca fatto in precedenza”. “Per la sperimentazione di vaccini!?” aggiunsi fingendomi all’oscuro di tutto. “Solo all’apparenza! Lo sai in quest’epoca di mercato globale, cosa rende di più? Due cose: le malattie e le guerre. Morganti stava mettendo su un Centro per la sperimentazione e la produzione in vasta scala di virus e batteri che sarebbero serviti sia a scatenare epidemie più o meno gravi e per vendere i vaccini da lui stesso prodotti, sia per destabilizzare aree geografiche sotto commissione”. “Li avrebbe venduti agli eserciti?” “Bravo! Insospettabili anche, poiché per via di trattati internazionali non possono essere usati in maniera convenzionale. Ma grazie ai tuoi amici, almeno per il momento il pericolo è stato scongiurato. Non è molto consolante, ma non sono morti per niente. Ormai siamo stanchi di pagare sempre noi”. “E io? E Grazia?” “Chi come me fa il gioco sporco, non crede nelle coincidenze. Il fatto che tu sia stato compagno di cella di Hurtado e il legame, sfociato in una strana morte, tra tua moglie e un Neri, poteva non essere pura coincidenza”.

“Poteva?” “Ora mi è chiaro che non era così, ma non potevamo rischiare che lo fosse”. “Poi è subentrato l’amore?” “Poi è subentrato l’amore!” “Sky e Ago sapevano di tutto questo?” “Sì” disse incupendosi. “Non avrei dovuto lasciarla sola, era una bambina...” “Le volevi bene?” “La sua morte è una delle cose che non mi perdonerò mai”. “Erano parte del disegno?” Glissò la domanda che l’aveva incupita ulteriormente. “Hurtado è ancora in galera?” aggiunsi. “Sì, ma temo che non lo sarà non ancora per molto. Sono tornata apposta, non possiamo lasciarcelo scappare, un’occasione del genere si potrebbe non ripresentare più. Per loro, perdere Hurtado significherebbe ripartire da zero perdendo degli anni”. “Strana coppia però!” “Si sono conosciuti a Mogadiscio agli inizi degli anni novanta. Morganti era lì per chiudere la vendita di un carico di scorie radioattive si con qualche signore della guerra, in cambio di un’ingente quantitativo di armi; mentre Hurtado stava organizzando, per conto di un potere parallelo, il nucleo dell’esercito di ribelli che da lì a poco avrebbe scompensato gli equilibri del Sudan con una pulizia etnica solo apparentemente a sfondo religioso, in Darfur. La casualità li ha fatti incontrare e da allora anche Morganti è entrato nel cono d’ombra della zona sporca”. “Ma?”

“Dove la povertà e straripante, come nei campi profughi, è molto più facile arruolare disperati per i compiti più strani e poi dirottarli all’inferno”. “Una nuova tratta di schiavi?” “E di schiave!” “Hurtado attingeva lì, per i suoi, diciamo ‘eserciti’?” “Abbondantemente! È un gioco ripetuto spesso in zone sempre diverse”. “Non era rischioso, visto che la cosa avrebbe attirato l’attenzione degli organismi internazionali?” “Che si sono mossi poco e lentamente”. “Cosa ci faceva in Italia, Hurtado?” “Stava riorganizzando le file dei movimenti anarchici per rendere tali movimenti antagonisti particolarmente visibili in prossimità delle elezioni, condizionando il risultato delle stesse e evitando così sgradevoli quanto pericolosi cambi di potere. Solo che qualche giudice particolarmente zelante e poco arguto ha pensato bene di indagare su quei movimenti e nella rete è finito anche lui”. “E Morganti?” “Nel caso italiano, Morganti, d’accordo con la C.I.A., ha organizzato un traffico clandestino dell’uranio presente nelle centrali atomiche italiane ferme da sempre, per rendere il Presidente ricattabile oltre che a guadagnarci su, e quindi disponibile a estradare Hurtado che al contrario rischiava di marcire in qualche carcere italiano”. Dopo essersi concessa una breve pausa, riprese: “Facevano arrivare l’uranio nelle centrali di Stati per così dire ‘canaglia’, facendoli transitare attraverso altre nazioni che fungevano da filtro e non direttamente dai Paesi europei. Questo escamotage metteva al riparo da qualsiasi sorpresa i fornitori diretti del materiale radioattivo”. “Cosa ci guadagnerebbero a fare questo?” “La sperimentazione non può essere eseguita in determinati Paesi. Così facendo evitavano di fare come la Francia, che per studiare le reazioni nucleari ha

distrutto interi atolli corallini con conseguenze sull’opinione pubblica ben note. Mandano clandestinamente l’uranio in alcuni Stati, insieme a tecnici che studiano le tecnologie d’uso della radioattività. Solo che tali Paesi, oltre ad acquisire l’uranio naturalmente, acquisiscono anche le conoscenze sull’arricchimento e l’utilizzo dello stesso”. “In cambio di cosa?” “Enormi contratti petroliferi a bassissimo costo, che entrando nel giro speculativo del prezzo del greggio sui mercati producono guadagni inimmaginabili oltre a poter gestiste direttamente il fluttuare di tutto il mercato dell’oro nero”. “Per questo mettono a repentaglio la vita di intere regioni?” “Nella maggior parte dei casi il processo di arricchimento non potrà mai portare allo sviluppo di armi atomiche, è solo propaganda, però... La situazione a nostro avviso potrebbe prendere risvolti poco piacevoli... questo inizia a preoccuparci e ci ha costretto a muoverci anche in maniera poco ortodossa. Le rassicurazioni non bastano più. In ogni caso è Hurtado a gestire tutto, è il solo a conoscere, in maniera capillare, la fitta rete in cui tutto si muove”. Il cielo sempre più rosso era un turbinio di rondoni da far paura; nel loro armonico volo si intersecavano parossistici pipistrelli nel loro incedere singhiozzante. Caos, dentro e fuori. “Tanto gli arabi ce l’hanno sempre con voi, giusto?” “Sssh!” sussurrò ponendo verticalmente il dito indice della mano destra sulle labbra e chiudendo gli occhi trasognante. Ero impegnato nell’operazione che più odiavo, suppongo per via del risultato sempre scadente; una fragranza di sandalo ed erbe di campo impregnava il bagno accuratamente tenuto in ordine. La solita smorfia divertita comparve sul mio mento schiumato oltremisura, la solita smorfia idiota. Iniziai a radermi distrattamente, perso dietro a digressioni ultime e lontane. Avevo deciso di andare via da tutto!

Una volta per sempre. Mi sembrava tutto inutile e sbiadito. Scavavo inconcludente nel mio inconscio cercando ancora una volta plausibili spiegazioni. Assenti! Forse prima di andare via le avrei spiegato come quest’assurdo vorticare di situazioni mi aveva casualmente ricondotto nella mia casa d’origine e come ad un tratto i ricordi, frapposti a elementi certi, erano diventati piacevoli e meno intriganti di quando nel cervello c’erano solo vacuità e sensazioni intangibili. Forse l’avrei anche ringraziata per questo, nonostante mi avesse probabilmente portato via per sempre Grazia. Terminai di radermi: come al solito il volto era segnato da rigagnoli scarlatti e un sordo bruciore invadeva il volto. Il corpo di Anna avvolto nell’accappatoio intersecò il mio sguardo per un istante infinito. Prima di perdersi oltre la porta del suo bagno, un profumo di sesso invase le mie narici penetrando fin dentro il cervello. Restai a guardare l’immagine filtrata dal vetro cattedrale, scomposta in un seducente caleidoscopio. Quando lo scroscio dell’acqua tacque, trasalii nel reale cercando di sfuggire alla sua presenza. Mi raggiunse nel tinello, era ancora avvolta nell’accappatoio, sedette goffamente sulla poltrona di fronte al caminetto. “Sono caduta proprio alla fine” La guardai. “Mi sono arresa all’amore nel momento sbagliato” le sue mani iniziavano a tradire una certa tensione, mentre le rughe del suo viso lentamente iniziarono a tendersi, ridisegnando un’idea di sofferenza mai vistale prima. La sua ambrata profilarità, compressa nell’asettico pallore spugnoso dell’accappatoio, si fondeva completamente con le incerte ombre, figlie di una lampada a petrolio. “Anche Sky?” “Lei lo ha fatto per vendetta!” “E tu?” “La mia è una missione!”

“Che ha il nome di vendetta?” “Anche!” Si alzò sinuosa. La mia mente rielaborò la sua immagine mentre lasciava cadere l’unico indumento e il riflesso del niente s’infrangeva soave sulla sua pelle brunita, incastrata a dovere nella silenziosa penombra. Immaginai la concavità del suo corpo catturare imponente la poca luce presente nella stanza. Mi alzai, mi fermò con la mano tesa. “Sono l’amante di tua moglie!” disse, mentre le sfioravo i capelli umidi. Il silenzio aleggiava strisciante. “Non pensavo al sesso, cercavo solo le parole per spiegarti cosa ha significato per me tutto questo”. M’interruppe: “Pensi che sia stata solo colpa mia? Se così fosse, spero che un giorno capirai e potrai magari perdonarmi”. “Tutte uguali voi donne” dissi accarezzandole una guancia, “non avete mai tempo per le spiegazioni. Volevo solo ringraziarti!”. Restò basita. Compresi la sua meraviglia, continuai: “Quarant’anni fa, è qui che ha avuto inizio la mia esistenza, in questa casa. Sono nato tra queste mura, proprio in quella stanza dove tu e Grazia probabilmente avete ato le vostre notti più belle”. Le afferrai la mano conducendola fuori nel cortile. Guardava esterrefatta, continuai a descrivere com’era quel posto qualche decennio prima. “In quel punto ammassavamo il tabacco raccolto, in attesa che i camion del monopolio venissero a ritirarlo, invece lì c’era la stalla di Silla, un mulo dispettoso che ragliava tutta la notte e…” - lei ci aveva fatto il garage senza sconvolgere la struttura originaria di pietre grezze e tegole, sorrette da assi di legno “…in questa pietraia mio nonno ci teneva le pecore, al centro, dove vedi questo spiazzo, c’erano le pile dove gli animali andavano ad abbeverarsi, mentre là in fondo c’era una tettoia che le riparava dalla pioggia” era tutto recintato con muretti a secco un po’ più alti di quelli originali, c’era ancora l’albero di carrubo,

vicino all’abbeveratoio. Parlavo, e mentre parlavo, rivedevo e mentre rivedevo, sentivo perfino le voci di mia madre, di mio padre, di mio nonno, il muggito delle vacche e il loro tonante o che tanta apprensione mi provocava, il belato scomposto delle pecore. Avvertii perfino l’odore del loro sterco che oggi pareva dolce profumo. Mi strinse la mano con forza; guardandoci, ci scoprimmo a piangere, io per l’emozione di riuscire a rivivere momenti che fino a poco prima erano rimasti sepolti nella memoria sconfitta dal tempo, lei chissà? Le mostrai tutto il resto: il forno dove si cuocevano il pane e le friselle, la stalla dei bovini, dove lei aveva conservato le mangiatoie riempiendole di piante grasse, e gli anelli al muro. C’ero entrato poche volte in quella stalla. Avevo una fifa matta delle vacche, della loro stazza e dei loro i pesanti e scanditi. Quando tornavano dal pascolo, mi nascondevo dietro la porta della cucina e fissavo le loro sagome scure e chiazzate vagare nel cortile, prima che mio nonno con l’aiuto di mio padre riuscisse ad indirizzarle verso la stalla. Uscivo solo dopo essermi assicurato che il portone della stalla fosse chiuso. Allora uscivo a giocare tra le pecore che invece non mi facevano paura. Ridevo nel sentirle belare e per farglielo fare spesso le rincorrevo cercando di colpirle con la mia mano sulla schiena. Il gioco durava diversi minuti, poi quando anche loro rientravano nell’ovile, mi arrampicavo sul muretto per continuare a guardarle mentre si abbeveravano prima di ammassarsi sotto la tettoia per are la notte. La mattina dopo, ancora turbato, l’aspettavo nel tinello con aria provata. Era prestissimo quando Anna entrò già vestita di tutto punto, profumata e truccata. S’avvicinò baciandomi la fronte. “Vado a scarcerare Hurtado! Dimenticavo... ho da dirti una cosa!” disse con sicurezza irritante. “sco Luciani è stato ammazzato per ordine di Andrea Neri…” fece una pausa, come per tirare il fiato, “...non stette ai patti. Aveva venduto sua figlia ad Andrea”. “Cosa?” “L’avrebbero ammazzata per procurarsi il cuore che serviva per trapiantare il piccolo Filippo Neri”. “No! Non è possibile?”

Senza fare caso alla mia confusione aggiunse: “Pensaci attentamente prima di decidere di farlo sapere a qualcuno”. “A te chi lo ha detto?” “Sono una spia, ricordalo! Anzi ero una spia! Pare che alla fine Luciani, malgrado avesse incassato i soldi, si sia tirato indietro facendo sparire la bambina”. “Il resto lo so io!” aggiunsi inascoltato. Si fermò un istante sulla porta, il suo sguardo mi trafisse lasciandomi esanime. Alzò la mano e soffiandoci contro mi disse: “Il mio maestro Ariel diceva che l’amore lo inventa chi non ha il coraggio d’inventarsi nient’altro”. Lessi per l’ultima volta i suoi occhi pieni di dolore, mentre aggiungeva: “Per un po’ ci ho anche creduto”. “Se hai voglia di ritornare qua, Grazia ha le chiavi!” disse ferma sul portone, con la macchina in moto. “Cos’è una minaccia?” “Non si sa mai!” “E tu?” “Io non ci sono più!” Salì in macchina chiuse lo sportello portandosi dietro il suo eccessivo profumo di donna: lo stesso del giorno il cui invase la mia esistenza. Il fuoristrada vacillando tra i sassi si perse alla mia vista.

XVIII Tutto era rimasto come prima in quella casa, anche il profumo era impregnato di ato indissolubile; guardai attentamente ogni cosa. Ogni mia cosa che da domani sarebbe servita a farmi ripartire. Nel silenzio assoluto della mia testa, si fece largo pressante un pensiero: Ufo! Uscii di casa, feci le scale in fretta e bussai alla porta che tardò ad aprirsi! Marilena! Come per uno strano gioco del destino lei era puntuale dove c’erano il dolore e il rimpianto; mi guardò pochi istanti, prima di abbracciarmi con veemenza bagnando il mio collo di lacrime. “Appena in tempo!” Non risposi. Fissai lungamente quel fagotto sul divano, prima di muovere dei i verso lui. Si girò lentamente, era chiaro che ciò gli costasse enorme fatica, sedendosi. Un sorriso spento e allucinato graffiò il mio cuore facendolo sanguinare. Risposi con un altro sorriso che probabilmente non ebbe l’effetto sperato, considerato il sarcastico riso con cui fu accolto. Mi sedetti al suo fianco, il suo alitare era pesante, con la voce tremante accennò: “Sono arrivato al capolinea”. “Non credo proprio”. “Non prendermi per il culo, vedi come sono ridotto? Faccio fatica a camminare…” “erà!” Con la mano fece un evidente segno di dissenso, continuando: “Molto lo porterò con me, ma altro è giusto che qualcuno lo sappia”. “Non sforzarti, stai calmo” c’interruppe Marilena con un tono di scarso comando.

Prima di uscire mi girai un’ultima volta verso di lui, veramente l’ultima volta, non lo avrei più visto, infatti: vidi uno scheletro vivente, pelle e ossa, seduta sul divano in controluce la sua figura perdeva ancora più consistenza. Sembrava un deportato. Fermi sul pianerottolo, Marilena mi ragguagliò sul decorso della malattia ormai agli sgoccioli. Con la mano le accarezzai una guancia. Mentre gli occhi si riempivano di lacrime, mi girai per non piangerle in faccia, singhiozzando ridiscesi le scale. Ero giunto appena in tempo per vederlo morire. Restai in casa per tutto il giorno, stranito da un presente di dolore e ferito da ricordi che tardavano a svanire. Sicuramente non era servito ad alienarmi la realtà, anzi, aveva acuito quel lancinante dolore originato dallo stato di Ufo, forse l’unica persona alla quale avevo veramente voluto bene. Quando il dolore si confuse, m’accorsi che piangevo e m’accorsi che ero solo con una grande voglia di gridare. Morì pochi giorni dopo con al fianco solo Marilena che aveva dedicato l’ultimo periodo della vita solo a lui. Due giorni dopo l’incontro che il Presidente ebbe nell’ambasciata americana, dalla stessa giunse una nota nella quale il Governo statunitense chiedeva ufficialmente al Governo italiano di rafforzare il contingente militare nei Balcani in modo da poter snellire numericamente la presenza statunitense nell’area e destinarla in altre zone calde; in più la richiesta di estradizione per il cittadino salvadoregno Pablo Hurtado, per via di reati non meglio precisati da lui commessi in zone varie del territorio statunitense. “Ecco il conto da pagare!” pensò il Presidente, preoccupato, e non poco per l’entità delle richieste. Nel primo caso, sarebbe stato veramente difficile riuscire a convincere il parlamento della bontà della proposta a meno che non si fosse servito di un decreto, e in quel caso avrebbe dovuto barattare chissà cosa per imporlo al Governo tutto. Nel secondo caso, il problema era la piazza, solo apparentemente meno pericolosa: alcune frange politiche e non, avevano fatto di Hurtado una specie di monumento all’anarchia, non conoscendo la sua vera identità. Come previsto fu l’affare Hurtado a provocare le reazioni più violente. Il Parlamento fu meta di una miriade di cortei di centri sociali e partiti ad essi

collegati, i giornali si mobilitarono per evitare quella che ritenevano una condanna a morte da parte del Governo italiano; era opinione diffusa che una volta negli Stati Uniti, per Hurtado la sedia elettrica sarebbe stato il sicuro destino. Anna era appena uscita dalla casa circondariale dove era detenuto Hurtado, per comunicargli l’imminente scarcerazione. Entrando in macchina fu investita da un forte desiderio di fuggire via e riscrivere tutto. Non si diresse a casa, né in ufficio. Come in balia della sorte indirizzò la macchina verso la costa. L’auto sfilava tra uliveti che incostanti, possenti e senza soluzione di continuità tracciavano una direzione predestinata. Nell’avvicinarsi alla costa gradatamente diradavano, sostituiti da una sempre più rigogliosa pineta. La strada improvvisamente sfociò al mare che la guardava sonnacchioso, col suo languido moto perpetuo. Svoltando per la litoranea, incrociò pochissime macchine malgrado fosse già giugno e il sole picchiasse come un martello. La macchia mediterranea le esplose contro in tutta la sua bellezza. A fare da sfondo, un mare di un azzurro invidiabile e una lingua di bianca e brillante sabbia a invadere gli occhi. Discretamente la sabbia lasciò il o a una spettacolare scogliera sovrastata da una vegetazione bassa ma rigogliosa, a prova di tramontana, che non occultava l’orizzonte. Dopo qualche chilometro completamente immersa nella natura, un susseguirsi di tre piccoli centri abitati la riportarono al presente. Torre dell’Orso e la sua sontuosa scogliera la lasciarono anche stavolta senza fiato. Scese dall’auto a meditare su quell’estasiante bellezza e respirare l’intenso profumo di mare che sotto di lei, a qualche decina di metri, era di un verde smeraldo. Di fronte, la scogliera alta a strapiombo e la pineta dell’Orsetta. Ritornò in solitudine; adesso il paesaggio era più ampio e brullo, muretti a secco tracciavano arcane figure geometriche. Entrò improvvisa in una fitta pineta che cingeva la strada. Anna rallentò sensibilmente e abbassando il finestrino fu invasa da un profumo di mare e natura che la stordì. La pineta precedeva il delizioso bacino lacustre dell’Alimini che stringendosi a imbuto si trasformava in uno stretto canale sfociante nel mare. La strada attraversava il canale a pochi metri dalla battigia. Guidava in silenzio da oltre mezz’ora, dentro di sé un travaglio di sensi e un’improvvisa paura la facevano tremare come mai prima. In un istante tutto le sembrò senza nessun senso, stretta nella sua trappola da lei stessa creata, cercava invano di sottrarre istanti alla morte. Riempiva il suo

sguardo di tutto, affinché tutto le restasse impresso fino alla fine. Sulla costa rocciosa troneggiavano sparse torri di avvistamento, testimoni tangibili di ate invasioni ottomane. Faceva caldo, anche se iniziava a soffiare una leggera brezza di tramontana che spargeva il mare di chiazze bianche fluttuanti. ò Otranto di slancio, troppo mondano anche solo nel nome, perché potesse prestargli attenzione. Dopo pochi chilometri di tortuosi saliscendi, di fronte alla stazione radar, parcheggiò l’auto in una piazzola di terra rossa improvvisata. Inoltratasi tra gli arbusti coriacei incastrati tra le rocce spigolose, fu ripetutamente ferita da tanta bellezza. La prima volta che vide quello scorcio di costa salentina era con un suo amico incontrato al Centro di accoglienza; le venne spontaneo dirgli: “Se veramente esiste il paradiso, sicuramente assomiglia a una costa nervosa a strapiombo sul mare tra ulivi e piante arcigne abituate alla sofferenza del vento; se il paradiso esiste, ha un mare di un colore tra il cobalto e lo smeraldo, se il paradiso esiste, ha il profumo che sento adesso!” Non le aveva pensate allora quelle parole, né le pensò adesso: fluttuarono inconsciamente nella sua testa confusa. A sinistra la piana delle Orte con la torre del Serpe. A destra il faro di Capo d’Otranto: punto più ad est dell’ex occidente, il posto dove per primo sorge il sole, il punto dove l’Adriatico e lo Ionio diventano un tutt’uno. ò più di mezz’ora a guardare il suo paradiso. Quando la sua testa fissò tutto quello che poteva contenere, risalì in macchina per l’ultima e definitiva tappa. Dopo un paio di curve, una salita morbida e una discesa scolpita tra le rocce calcaree, le si parò davanti un vasto pianoro diviso a metà da un nervoso canale di sassi e terra rossa che scendeva da un alto declivio opposto al mare scavato dall’acqua assente ormai da molto tempo. Superato il ponticello sul canale, svoltò a sinistra inoltrandosi nella campagna. Seguì un sentiero appena tracciato finché non diventò impraticabile. Scese dall’auto. Di fronte a lei alte rocce, oltre, lo Ionio ancora acerbo dava il meglio di sé. Sulla sinistra, in cima a un costone roccioso a sovrastare il piano, la Torre di Sant’Emilano: una torre d’avvistamento grezza e malconcia. Sulla destra si apriva una veduta del resto del litorale, che in qualsiasi modo fosse stato descritto, sarebbe stato riduttivo, tale e tanta era la sua bellezza. Si avvicinò al baratro. In pochi istanti ripercorse la sua ancora giovane vita già piena di assurdi momenti, la ripercorse fin nei minimi dettagli, si scoprì patetica e insignificante. Capì d’aver sbagliato tutto e un irridente senso d’incompiuto la pervase. Non si era mai appartenuta e forse solo ora iniziava a capire chi in realtà fosse. Troppo tardi!

“Perdonatemi!” sussurrò con l’ultimo filo di voce che la vita le concesse. Le onde possenti andavano a finirsi nelle pareti di grotte e anfratti, numerosi in quella parte di scogliera; frangendo, provocavano boati infernali che facevano tremare il terreno. L’acqua, defluendo, formava imponenti schizzi sibilanti che portati dal vento, come spruzzi di enormi cetacei raggiungevano la sommità della scogliera sferzando la sua faccia intorpidita. Rimase con la testa alta a fissare un punto oltre l’orizzonte, benché i ripetuti spruzzi le avessero ormai infradiciato la faccia e tutto il resto, mentre la vita le scivolava via sospinta dal vento. Si sfracellò su alcuni spuntoni rocciosi che sporgevano dalla scogliera, il suo corpo martoriato fu ritrovato su di un terrazzo a pochi metri dal mare. Il giorno stesso, Hurtado fu trovato morto in cella con evidenti sintomi di avvelenamento. Quando il Presidente apprese la notizia dai giornali, fu colto da un malore e ricoverato d’urgenza in ospedale. Era un uomo chiave e gli americani non ne avrebbero perdonato la morte. Un mese dopo. In una località dell’Algarve molto vicina ad Albufeira, due uomini mangiavano beatamente in un ristorantino affacciato sul piccolo porticciolo. Entrambi sulla sessantina d’anni, entrambi in camicia bianca e pantaloni in lino grigio. Il più apparentemente attempato aveva una barba incolta di un bianco innaturale; con gli occhi protetti da un paio di leggerissimi occhiali, rincorreva ipotesi. Sospirando disse all’amico con aria di sufficienza: “Questi occidentali! Bisogna sempre tenerli d’occhio”. “Già. Troppo legati ai soldi e poco furbi”. “Pensi che abbiano imparato?” “Forse per qualche anno se ne staranno buoni”. “Morganti?” “Per adesso è innocuo. erà del tempo prima che possa tornare a nuocere”.

“Come al solito è stato fatto un ottimo lavoro”. “Eh, insomma! Bisogna sempre stare in guardia”. “Però stavolta il conto sarà più salato del solito, abbiamo dovuto sacrificare la carta migliore”. “Che idioti!” “Salute, Ariel!” “Salute, Simon!” Lo sciabordare delle onde accompagnò il tintinnare dei bicchieri. La spiaggia andava svuotandosi, rimase solo una coppia di vecchiette completamente vestite di nero, intente a lavorare a maglia. Uno dei due alzandosi dal tavolino ricolmo di avanzi disse: “Ci toccherà lavorare fino alla fine”. “È scritto, Simon, è scritto nei testi, sempre che non tu non voglia rivelare il segreto”. Anche il secondo si alzò. Fissarono all’unisono un orizzonte inconsistente. Sistemarono le sedie e prendendosi sotto braccio si persero nel grigiore del crepuscolo.

XIX Cercavo a fatica di disincagliarmi da quella strisciante apatia che fra lunghe notti asfissianti e inutili giornate mi aveva attanagliato. Rimasto solo col mio caos, non riuscivo a collocare i pensieri con temporalità. Voci in parte concrete s’infilavano sfacciate nella mia testa senza più uscirne, rimbalzando sconnesse sulle pareti della scatola cranica, provocandomi dolori lancinanti. Il liquefarsi di tutte le aspettative, reali o presunte che fossero, aveva forse spezzato definitivamente il motivo della mia esistenza. Niente, nemmeno più la forza di odiare, di provare dispiacere. Spesso m’avvinghiavo per tempo interminabile a un graffiante silenzio che acuiva inesorabilmente il senso d’angoscia. M’atterriva la realtà che fuori attendeva per colpirmi, percepii inesorabile la così umana sensazione del vivere per forza, quell’aspettare domani per poi ricominciare, aspettando che tutto finisse. Quella tarda notte anonima, fredda di pensieri e vuota di sensazioni, s’accompagnava incessante all’ululato di un cane che mi catapultò come un boomerang impazzito attraverso i meandri più reconditi del mistero celebrale, celato da indistinte utopie molto simili alla follia. Si fece largo prima inconsistente, poi pressante, un pezzo di ato sepolto nelle nicchie infinite di un rimpianto da tenersi stretto. Apparve lento e faticante nei cubi mentali, il frammento di una scheggia di un’idea, chiara, allucinata, che non riusciva a tacermi quel sordo dolore che da chissà dove mi provocava indefinite ansie e un senso incontrollato di paura. Le mura di quella lurida cella mi riapparvero concrete, sentii quel nauseante puzzo di piscio che mi aveva accompagnato per dieci interminabili anni. ‘Dieci anni li avevo scontati’ pensai, ‘adesso mi resta soltanto un ergastolo senza appello!’ M’alzai abulico guardando la bottiglia vuota, le pareti della stanza mi attraversavano sconnesse, scagliandomi addosso mille led luminosi: il televisore, lo stereo, il videoregistratore, il cordless e ancora lucine rosse striscianti a traarmi il cervello. Aprii piano la porta per non farmi sentire dal buio, e il buio m’inghiotti.

Il freddo lancinante mi si aggrovigliò addosso, entrandomi dentro dai piedi, dalle mani, schiaffeggiandomi la faccia. Le luci soffuse del viale si difendevano a fatica dalla danza qualunquista delle fronde rimaste sui rami inespressivi. Oltre il portone di casa, un piccolo meticcio beige dal pelo disarticolato per la pioggia, mi venne incontro pateticamente festante, scodinzolava implorante, mi trafisse il pensiero col suo sguardo di comione e impotenza. Entrai frettolosamente in macchina per il freddo pungente e anche per eludere quello sguardo implorante. Mi catapultai nella notte. Freneticamente mi misi a cercare un cd nel bauletto sconquassato. Lo inserii nel lettore, traccia tre, cd pirata di Kusturica... non me né voglia in caro Emir, originali costano troppo! Partì piano una musica gitana, poi jazz e infine, dopo che un violino aveva rincorso, braccando inutilmente una tromba disperata in una metropoli di suoni rimbalzanti, il tutto esplose in un boato acustico che sciolse le membra del mio corpo che, attraversando le lamiere inconsistenti, si scaraventarono nel buio di un inverno di malessere. Non sentivo più l’ululato del cane, ma nel mio stomaco avvertivo i crampi tipici dei riverberi di un pensiero traato. “Grazia!” forse urlai. Quanti ululati e latrati avevo ascoltato e quante paure adolescenti, frutto di desideri che forse solo ora iniziavo a intuire. Ululati ignoti, noti, nudi e disperati accompagnarono le notti insonni di un’acerba pubertà alla ricerca di certezze che non potevo intuire nell’attimo del destino. Quando i sogni incontrando la parola diventano aspettativa. Poche automobili mi si fanno incontro nell’incertezza della pioggia oltre il parabrezza. Mi fermo quasi per prendere fiato in una piazzola di sosta. Scendo a sentire la pioggia sulla faccia, per sentirmi vivo. Rientro in macchina, guardo per un istante le chiavi nel cruscotto, appoggio stancamente la testa sul sedile lasciandomi andare a dormire, pensando che ata la notte, ancora un’alba avrebbe rischiarato le mie membra deformi.

Tanto Dio l’ho scartato da tempo, il tempo non s’è fermato, il dubbio resta, la notte avanza e io continuo a cercare disperatamente me stesso o qualcosa che mi assomigli. Pochi minuti e sono ancora sulla statale. Istanti d’allegrezza si alternano a un nero profondo come la notte che mi trovavo a solcare indifeso e abulico, come una rondine sorpresa dal primo freddo autunnale che volteggia senza meta apparente. Il piede sul gas a spronare i cilindri fino allora sonnacchiosi. La lancetta del cruscotto a ruotare su se stessa... il vento sulla scocca, attraverso le vene e i nervi, mi si attorciglia dentro, consapevolmente intrigante e padrone di un corpo palesemente esposto agli eventi. Milioni di secondi s’accavallano al deserto nella testa. Lo sfilare pressante ad arrossire gli occhi che, sfuocando i contorni, non metabolizzano i segnali dal cervello. Senza un perché nella notte sfatta a scavare solchi, a violare limiti. Spazi divelti, ponti innocenti e asfalto che, morso con rabbia, inizia a liquefarsi e fondersi con strane colate di luce improvvisa e ondulante. Ma gli occhi non hanno ragioni, o almeno non sempre riescono a leggere istantaneamente i pensieri. Questa volta sono indietro, molto indietro. Cerco uno spiraglio di certezza tra la nebbia assoluta, nel momento in cui mi confondo col niente. “Dove sto andando?” Tardi per dare risposte. Tardi, chè già una lunga disquisizione inutile è ata. Sudando, ricoperto di luci, mi rivolgo al destino. Senza ragioni, non vedo il reale, mi si scioglie la bocca, prendono fuoco le gambe, le braccia.

Tuoni nella testa, poi lampi e tuoni e caldo ovunque. Chiodi nei fianchi, le braccia spiccano il volo e le spalle a percuotere il buio. Tutto in un tourbillon di metalli a fiondare impazziti, ringhiosi coriandoli taglienti, ribollenti, che sciolti nell’aria si conficcano ovunque. Svanisce il dolore! Placido il mare sotto di me a guardare di sbieco, curioso di chi fossi. Fra nuvole sfatte guardavo in su, sotto, di lato, vedo mare, mare ovunque. Cerco le mani, le mie mani, non le trovo! Luce bluastra e fumo e odore acre di plastica in fiamme, e luce che si perde e il freddo che mi prende, e sento che la fine m’appartiene. Sirene! Il mio corpo sguainato, conteso nell’auto che brucia sull’asfalto bagnato, sulla barella che corre furiosa e poi in ambulanza dove la luce si spegne piano piano. La graffiante chitarra di Zamboni si sta introducendo sempre più nitida nel mio alveo indifeso, mentre mi riapproprio lentamente del mio corpo fisico. Si ricompone la materia nella mente e il dolore mi riprende lento. Mi sento dentro un involucro appena plasmato, ancora liquido. Quando un brivido percorre la mia schiena, sento il bisogno di muovermi, mentre ondate sonore riempiono le mie orecchie fischianti. Un input dinamico dal cervello impigrito mi fa scuotere leggermente le dita della mano, impercettibilmente. Avverto calore sul palmo, il tatto ritorna a essere efficiente. Il cervello mi comunica: trattasi di superficie di mano, mano amica. Trasalgo nel sentire un gemito languido, molto simile al miagolio di un gatto. Un pianto soffocato interrotto da uno stentoreo: “Ha mosso la mano, l’ha mossa, alza il volume!” con voce più chiara e forse nota, aggiunge, “Alzalo... si sta svegliando!” “Calma” disse una voce d’uomo. Sentivo sempre più nitide sia le parole sia la musica. La mia musica mi riattiva i

nervi facendo rifluire il sangue nelle vene. Un indescrivibile sforzo mi permette di staccare appena le palpebre. Intravedo nello spiraglio un volto segnato dalla stanchezza e stravolto dal sonno. Uno sguardo che cerca di penetrarmi per capire se la sensazione provata è reale. Copiose lacrime le avevano imbrattato le guance di rimmel che fuso, s’era impresso sul volto per lo strofinio delle dita; solo due righe distinte sono rimaste sgombre dal trucco, solchi netti tracciati dalle lacrime che dopo aver sostato brevemente sulle rughe labiali, riprendevano il loro incedere ad inumidire il candido collo. Ruoto piano il capo verso di lei e una vertigine esplosiva mi gonfia la testa sul punto di scoppiare. Un immane sforzo mi consente di pronunciare il suo nome con un filo di voce...

XX Tre anni dopo. Come spesso mi accade ando vicino al bar di Arco, contemplo tristemente la saracinesca abbassata ormai dal giorno del suo omicidio. Nessuno dei figli né la moglie avevano più messo piede nel locale. Contemplo quel grigio arrugginito e l’insegna spenta come il mio umore. Volgo lo sguardo verso il Centro ricerche. Col suo giallo ocra e arancio è diventato ormai il punto nodale di un quartiere che spinto da esso sta veramente, come previsto dai politici, tirandosi fuori dal degrado in cui era rimasto per decenni prigioniero; una vitale fibrillazione e una positiva voglia di riscatto aveva impregnato i cittadini delle Caserme. Era sorto come previsto sulle ceneri della vecchia fornace, della quale era rimasta una parte ben incastrata nella recente costruzione, oltre l’alto comignolo a fungere un po’ da faro. Tutte le più grosse case farmaceutiche avevano stipulato contratti con l’efficiente Centro e Mario Morganti era presto diventato un rispettabile e influente personaggio pubblico, ultimamente, a suo dire, vittima di una campagna diffamatoria mirata a distruggere quanto di buono da lui creato per mera invidia. Sui giornali iniziavano a leggersi articoli che rivangavano il suo ato a dir poco torbido, il suo nome era tirato in ballo ripetutamente. I puntelli creati probabilmente non tenevano più. ‘È arrivato anche il suo turno!’ penso. Distolgo lo sguardo da quella struttura che ogni volta mi fa rabbrividire, pensando alla sua reale funzione di produttrice di morte e di cure per essa. Penso a quanto fosse inutile tutto, la morte di Sky, di Ago, di Anna e di tutti quelli che avevano sacrificato la vita per una qualche causa. Anche il bene o il male sono ormai solo un’aleatoria relatività. Bisogna giudicare se stessi, per essere poi giudice altrui? Mi guardo la mano, il palmo e il dorso, cercando di scorgere i segni di un tempo inalienabile. Li trovai, eccome! Ogni cosa ha lasciato una traccia che cicatrizzandosi aveva formato dei grumi a volte insopportabili. Scuoto la testa avviandomi. No! Niente può valere una vita umana, qualunque essa sia.

“Solo nel resistere, si forgia la speranza!” mi disse una volta in cella Pablo Hurtado. Che cosa volesse dire l’avevo capito solo adesso. Tardi, forse non abbastanza. Il suo sguardo non era certo dei migliori, la fisso offrendole un sorriso di circostanza al quale lei non ha nemmeno la forza di rispondere. Farfuglio un confuso “Come stai?”, mentre il bambino che tiene per mano mi sorride. “Che bel bambino!” rispondo chinandomi a guardarlo più da vicino. Rialzatomi, cerco di scorgere un qualche stadio umorale nello sguardo spento di Grazia, l’unica cosa che riesco a carpire è un volto segnato dalla sconfitta. “Come va?” “Umm!” “Non mi sembri in ottima forma”. “Tu invece non sei messo male”. “Grazie! Che cosa fai di bello adesso?” “Lavoro al Centro ricerche: faccio la segretaria, Morganti mi ha trovato un posto”. Quel nome mi procura un moto captato da Grazia, che scuote la testa. “No! Il tempo mi ha sconfitta, ho solo lui ormai!” ruotando la testa verso Filippo. “Ti pare poco? Vivi da sola?” “Si! Mi sono anche arresa all’amore”. “Ammesso che tu ci abbia mai creduto”. “Può darsi!”

“Dopo Anna?” Non risponde voltandomi le spalle. “Credi nel destino?” “Forse”. “Credici, io l’ho sfidato è ho perso” finisce, mentre col gesto della mano accenna un saluto. “Chi era, mamma?” “Un vecchio amico!” “Mamma, perché piangi?” “Sono emozionata per il tuo primo giorno di scuola”. “Non preoccuparti, mamma! Sono grande!” “Sì, lo so, sei grande, sei grande!” Uno stuolo di madri e qualche padre attendevano trepidanti la camla che avrebbe dato inizio alla lunga avventura scolastica dei propri figli, gli unici a non essere tesi per il momento. Il trillo della camla arrivò puntuale a rompere lo stato di trance. Dopo gli ultimi baci e raccomandazioni, i piccoli si avviarono sparpagliati verso l’ingresso di un nuovo universo. Anche Filippo faceva parte di quella mandria, anche lui viveva il momento con l’inconsapevolezza che l’età comporta. Il portone si chiuse quando l’ultimo bambino fu entrato. Avevo accompagnato Marilena e Silvia in quel giorno solenne, ma ero rimasto defilato, per non scalfire quegli attimi tutti per loro. La piccola si staccò dall’abbraccio materno, mentre una lacrima iniziava a scorrere sulla sua guancia dorata. Quando la sagoma di Silvia si confuse del tutto con gli altri bambini, Marilena si voltò raggiungendomi. Anche le sue guance erano segnate da due solchi umidi che si perdevano lungo il collo. La abbraccio piano. Appoggiando la testa sul mio collo, con voce sottile mi dice: “Non mi perdonerei mai, se un giorno mia figlia dovesse vergognarsi di me”.

Nell’enorme atrio, un invadente e confuso vociare era di tanto in tanto sovrastato da una voce che scandiva nomi; quando le classi furono formate, le insegnanti organizzarono i bambini in file da due, una fila per ogni classe. Una bambina dagli occhi d’argento e i capelli di sole, piangeva silenziosa in fondo alla fila, davanti a lei due bambini procedevano spediti. Uno dei due si voltò, restando impietrito a guardare il dolce pianto di paura della nuova compagna; con uno strattone lasciò la mano del compagno e si portò al fianco della piccola che procedeva lentamente con la testa bassa. “Come ti chiami?” chiese dolcemente il bambino. La bimba alzò la testa a fatica e rispose con voce tremante: “Silvia Luciani”. “Io, Filippo Neri!” disse il bambino con un sorriso che aveva dentro tutta la bellezza e la forza dell’universo, prendendole con dolcezza la mano. Dopo pochi i silenziosi, Silvia alzò la testa verso il nuovo compagno che si premurò di asciugargli le lacrime, ricambiando il sorriso mentre il suo viso si tingeva di una gioia sempre più rara. Filippo si fermò, Silvia fece altrettanto, e dopo essersi fissati per un attimo infinito, Filippo col gomito le sfiorò il braccio dicendo.“Corri!” Silvia non se lo fece ripetere. Iniziarono a correre per il corridoio, con gli zaini che sbattevano pesantemente sulle spalle, inebriati di vita e felicità. Sia io, sia Grazia ammo ripetutamente davanti a quel bar senza mai incontrarci, anche se, forse…

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Stampato da Società Editoriale ARPANet nel mese di aprile 2013