Nino Raffa
L'amore allo specchio
EEE-book
Nino Raffa, L'amore allo specchio ©Nino Raffa
Prima edizione e-book: novembre 2013
Edizioni Esordienti E-book
ISBN: 9788866901693
Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi. In copertina: Maddalena penitente, di Georges de La Tour. New York, Wrightsman; olio su tela, 1641-42 ca.
15 agosto 2003
Il vecchio lasciò la stanza prima dell’alba. Chiuse la porta attento a non far rumore. Trascinava lungo il corridoio un pesante sacco di tela. Scese prudente le scale appena segnate dalla lampada notturna, attraversò l’ingresso, finalmente schiuse il portone. Uno schiaffo d’acqua maligna lo sorprese sulla soglia. “Notte fottuta! La mia solita fortuna!” Precipitava una pioggia battente. Il cappuccio tirato sulla testa, si avviò con cautela sulle mattonelle scivolose verso il retro della villa. “Pirri, questa è l’ultima che mi fa: stanotte saldiamo il conto!” sibilò scaricando il sacco su un rudimentale carrello nascosto dietro il capanno degli attrezzi. Il diluvio, più della notte, faceva buia la campagna. Spingeva con fatica crescente lungo un sentiero fangoso tra gli ulivi. La pioggia cadeva obliqua e per quanto cercasse di ripararsi tenendo bassa la testa, la camicia sotto l’impermeabile di plastica era già fradicia. “Se prendo una polmonite e ci resto secco, avrà anche questo sulla coscienza! Ma tanto lei era sicuro di finire all’inferno... anzi ci sarà già! A questo punto cosa le possono fare?” Il viottolo sbucava improvviso sulla strada costiera. Attraversò le quattro corsie di slancio, quasi senza guardare per non perdere l’abbrivio. Dall’altra parte la spiaggia era infestata da una bassa vegetazione selvatica; la sabbia bagnata e compatta l’avrebbe facilitato ma adesso era l’intrico dei rovi a ostacolarlo. “Potrebbe pure prendermi un infarto! Ma c’è un’altra cosa, professore, che mi fa incazzare: ho cominciato anch’io a parlare da solo!”
Scavava cauto distribuendo lo sforzo per non bruciare troppe energie nell’impeto iniziale. Ogni cinque minuti prendeva una breve pausa e in meno di un’ora aveva terminato. “Finalmente qualcosa gira per il verso giusto.” Sbirciò di nuovo l’orologio. Era ancora buio ma il sole doveva essere già sorto: un rapido spostamento delle nubi avrebbe spalancato in pochi istanti il giorno. Fece scivolare il sacco nella buca. “Addio.” Cominciò a riempirla. Adesso con affanno. Non c’era più tempo per riposare: un lucore crescente filtrava dalla cortina di pioggia. Il cuore accelerato, colmò la fossa con un’ultima serie di palate scomposte. Il temporale s’indeboliva. In un definitivo tocco di perfezione – la schiena a pezzi, le mani sanguinanti – spazzò la sabbia indurita con dei rovi. “Il dottore mi ha raccomandato di riguardarmi e non fare sforzi. Le metto anche questo in conto! Spero solo che il diavolo lo venga a sapere e sappia cosa farle!” S’era fatto giorno. Tre barche a strisce dai colori vistosi, tirate in secca per il maltempo, presidiavano la spiaggia; qua e là i resti dei falò di San Lorenzo punteggiavano la sabbia come macchie d’inchiostro pasticcione su un foglio spiegazzato; più avanti, nero d’inverni, inclinato a tribordo, agonizzava il relitto di un mercantile; bianca sullo sfondo, la massa cubista del paese più vicino. Indugiava con lo sguardo sulle onde, come in attesa di qualcosa dal mare. Dalla memoria tre sillabe scesero alle labbra. “Morgana... Morgana...” Un’eco distinta tornò da lontano. Strana, ritardata, plurima. Non aveva più importanza.
Migliorava. Dall’altra parte dello Stretto la sagoma del continente emergeva
massiccia dalla pioggia sottile; qualche barca si staccava dalla costa; alle sue spalle si facevano più frequenti le auto in transito. Rimanere con quell’attrezzatura sospetta era inutile e pericoloso: riprese la via di casa. Adesso che non serviva, aveva smesso di piovere.
Un uomo più giovane aspettava sulla strada. Magro, stempiato, barba di tre giorni, l’abito scuro del mestiere, giocava con una moneta d’argento appoggiato al cofano brillante del suo carro funebre. “Almeno poteva darmi una mano!” ringhiò il vecchio. “È il mio giorno libero. Certe cose le faccio solo in servizio.” “Come sapeva che ero qui?” “Mi hanno telefonato dalla villa. ando ho visto qualcuno sulle dune e ho immaginato. Le avevo detto di non farlo, e anche per questo sapevo che lo avrebbe fatto.” “Mi è sembrato il giorno giusto.” “Lui diceva sempre che le date sono importanti.” Il giovane aprì il portellone caricando il carrello nell’alloggiamento delle bare. Salirono sull’auto. “Io avrei scelto un altro posto. Magari il giardino della villa. Qui c’è il pericolo che qualcuno, scavando per caso…” “Non si preoccupi: tutto quello che potevo l’ho fatto a pezzi. Tranne i capelli. Li avrei dovuti bruciare, ma non me la sono sentita. In poco tempo tutto sarà marcio e irriconoscibile. Alla fine ogni cosa tornerà alla terra.” “Anche la foto?” “No. La foto l’ho conservata.”
“Lui come ci chiamava?” “Il cavaliere e la morte.” Per il resto del breve tragitto rimasero in silenzio.
I
La notte del 31 dicembre 1999 prometteva di essere diversa dalle altre anche al pensionato Villa Felice. “Perché prendete in giro noi vecchi con parole già false in altre età della vita?” chiedeva il professor Pirri agl’infermieri che con quella parolina – felice – pretendevano di risolvere ogni problema. Gli dicevano che il luogo fosse dei più belli. Una secolare villa liberty immersa in un parco abitato da diverse varietà di palme, e poi chicas, banani, ulivi, aranci, limoni, siepi di bosso, oleandri… Il tutto affacciato sulla sponda siciliana dello stretto di Messina, da dove – come vantano da queste parti – si prende la Calabria con le mani. Nino Pirri moriva a Villa Felice da diversi anni. Era entrato mezzo cieco sulla sedia a rotelle e in qualche modo contava di uscirne sdraiato, gli occhi chiusi e la corona del rosario intrecciata tra le dita. Non che avesse fretta: nonostante mancasse da un pezzo dei cosiddetti piaceri della vita, l’eventuale mondo a venire non gli sembrava del tutto tranquillizzante. Era stato, tra le altre cose, un filosofo. Era stato perché a novant’anni ati – come ripeteva spesso – o non si è più nulla o si è tutti filosofi, e quindi esserlo non costituisce ormai una distinzione. Come il medico conosce le complicazioni fatali, sebbene improbabili, della malattia più banale, così il filosofo non ignora le trappole in agguato dietro la necessità della morte. E se da giovane è un medico sano che coltiva e sorveglia le sue paure attraverso i libri, le riviste specializzate e la pelle degli altri, da vecchio diventa un medico malato – non più medico, solo un malato – senza intermediari tra sé e il dolore. Con le inevitabili angosce.
Per quel capodanno di fine secolo, la direzione del pensionato aveva voluto
qualcosa di diverso dal solito panettone e spumante. Grazie alla volenterosa orchestrina della parrocchia ci sarebbe stato un revival di canzoni d’anteguerra, tra il prevedibile entusiasmo degli ospiti. “Come se la musica fosse fatta di suoni; come se le note potessero esistere senza carne e sangue; come se l’anima si potesse risvegliare con un camlo; come se due colpi di legno su una pelle di tamburo bastassero a resuscitare i morti. Sarebbe più facile ridarmi la vista e tutt’e due le gambe, che farmi risentire La bella Gigogìn.” L’inevitabile commento di Pirri. Secondo i più ottimisti, erano attese torme di parenti. Figli e figlie, nuore e generi, con l’allegro contorno di nipotini, disposti a disertare i festeggiamenti alla moda per affrontare quel aggio memorabile in compagnia dei loro maggiori bavosi, sordi, orbi e incontinenti. “E perché, allora, li avrebbero buttati in quest’ospizio?” osservò implacabile il Nostro. L’ineffabile direzione aveva quindi invitato per l’evento ogni famiglia, anche quelle di cui si conosceva appena la sigla in calce all’assegno mensile. Pirri, invece, non rischiava delusioni: mancava di parenti prossimi, e quelli più lontani aveva avuto tempo e cura di dimenticarli. Non doveva quindi a nessuno, se non a se stesso, la scelta di quella dimora fatale. Anni prima, seppellita l’ultima sorella, aveva telefonato a Villa Felice, chiedendo che mandassero a prenderlo. All’autista aveva indicato un unico bagaglio: biancheria personale, qualche vestito, un libro, un bossolo d’artiglieria reduce di qualche guerra altrui, un registratore con le cassette di musica lirica e poco altro. Sul comodino, una consumata Predestinazione dei Santi di Sant’Agostino rimaneva aperta alla prima pagina, e forse nessun occhio umano sarebbe più caduto sul tratto incerto di un’intermittente sottolineatura. Del resto la grazia non è più tale, se viene data secondo i nostri meriti. La nostra preoccupazione è che ciascuno speri in se stesso, incorrendo così nella condanna della parola profetica: maledetto ognuno che ha speranza nell'uomo.
Uscendo di casa aveva sentito ancora di consumare una precisa azione per
l’ultima volta. Lo stesso in strada, quando d’istinto s’era girato verso un’invisibile persiana della casa di fronte. Si lasciava alle spalle quattro stanze con servizi, quasi un secolo di vita e poco meno di ricordi. Lo attendevano una stanzetta con bagno e qualche anno d’agonia. Gli sarebbero pure mancati i suoi libri. Persi da tempo nell’ombra inesorabile che gli era scesa addosso. Acconto scontato dell’altra, che tardava.
II
Il 31 dicembre piovve a dirotto sin dal mattino. Pirri rifiutò di scorgevi il degno epilogo di un secolo prodigo di calamità: sapeva che ogni generazione crede di vivere tempi unici e difficili per sentirsi importante; per illudersi – seppure nel dolore – di aver lasciato traccia nella millenaria indifferenza della storia. Il maestrale rinforzava gemendo tra le tegole; le sue pause lasciavano spazio al boato del mare in tempesta. Gl’infermieri giuravano di non aver mai visto onde così gigantesche scavare lo Stretto: suggestione anche questa delle date memorabili.
Per il resto, la mattinata trascorse normale. All’ingresso posteriore, il carro funebre attendeva Colosi, uno dei più entusiasti sostenitori di quella giornata. Si rimproverava sempre di aver mancato tutti gli appuntamenti importanti della vita e anche nell’ora fatale confermava la sua regola. Se n’era andato il pomeriggio precedente. Pirri ricordava di averlo contraddetto in extremis sul fatto che quello sarebbe stato l’ultimo giorno del millennio. Quanto alle occasioni perdute, il Nostro non si sentiva secondo a nessuno. Forse per questo, Colosi – sempre accanito nel dire la sua su ogni cosa, preferibilmente su quelle che meno conosceva, sempre avvolto da un’aura di pestilenziale dopobarba – era stato tra le poche compagnie tollerabili a Villa Felice.
Alle nove e mezzo Bruno, uno degl’infermieri, depositò il professore sulla sedia a rotelle nella sala comune, addobbata di festoni. Altri due già sonnecchiavano
sulle poltrone mentre la televisione trasmetteva un documentario ad altissimo volume. Di solito a quell’ora le infermiere seguivano qualche telenovela ando dal salone, ma in quel giorno indaffarato avevano sintonizzato un canale a caso, tanto per far compagnia ai vecchi. Una voce maschile parlava della Grande Guerra sopra una fanfara. L’Europa marciò allegra verso la guerra, salutando il conflitto come un salutare intermezzo nella noia della vita borghese... Qualche altra frase tratta dai proclami dell’epoca e la voce assunse un tono più grave su un sottofondo martellante di cannoni e armi automatiche. …le mitragliatrici, insieme alle tattiche miopi adottate da tutti gli stati maggiori, generarono spaventose carneficine sui campi di battaglia… Pirri cominciò a scivolare via col pensiero. Da tempo parlava da solo: abitudine non troppo strana a una certa età, se non fosse stato per la particolare convinzione di rivolgersi a una classe di alunni inesistenti. All’inizio l’aveva fatto consapevolmente: voleva dare una lezione a qualcuno, e allora per provocarlo ricorreva a questa stramba sceneggiata. Più tardi la trovata gli era parsa sfruttabile anche in privato: domande e risposte tra lui e i ragazzi immaginari, utili a riportarlo al dubbio nei rari casi di sicurezza. Inevitabile, poco a poco la messa in scena era scivolata nella patologia: ormai i ragazzi avevano smesso di rispondere e Pirri li istruiva in un delirio senza contraddittorio. … tra morti, feriti e dispersi si contarono nove milioni di russi, sette di tedeschi, altrettanti austro-ungarici… calcolava la televisione all’ingrosso, ma lui era già con i suoi discepoli in una strana aula sospesa tra cielo e terra. “La Grande Guerra, ragazzi miei, me la sono persa, ma mi sono rifatto vent’anni dopo nei cieli di Spagna. Dodici ottobre 1937: il mio CR 32 abbattuto da un Chato repubblicano sopra Fuentes del Ebro. Una raffica esatta di mitragliatrice ultrarapida Skas da 7,62 millimetri: femore destro spappolato da una pallottola esplosiva, gamba praticamente tranciata, mille metri in picchiata semi-svenuto, atterrato non so come a Zaragoza. Fortunato a lasciarci solo una gamba, amputata con la baionetta senza anestesia. Un mese tra la vita e la morte. E da allora per me il suono meccanico, cadenzato e regolare delle mitragliatrici
scandisce il o della morte… della morte! della morte! ...” Villa Felice non era posto dove si potesse impunemente evocare la morte. “... siamo attaccati! aerei nemici! cinque Chato a ore cinque! caposquadriglia abbattuto! le mitragliatrici! la morte! sono stato colpito! non risponde! perdo quota! non ho timone! non risponde! la morte! ...” Le urla di Pirri stavano gettando lo scompiglio nel salone. Ormai una mezza dozzina di vecchi gridava “la morte! la morte!” Rosetta, la cuoca, accorse dalla cucina, dalle scale vennero giù Bruno, Mario e Margherita. Nonostante l’esperienza, impiegarono un bel po’ a normalizzare la situazione distribuendo alla bisogna scossoni, bromuro e coramina.
Tornata la calma, il professore si addormentò nel suo cantuccio accanto alla televisione spenta. A bordo di una fantastica sedia a rotelle, duellava contro tre biplani rossi in un cielo plumbeo; lo abbatterono almeno quattro volte, altrettante gli amputarono la gamba, e altrettante si ritrovò un arto nuovo: una lucente meraviglia metallica così perfetta da dolere e sanguinare come una gamba vera. Venne svegliato verso le undici. “Professore, ha smesso di piovere ed è uscito il sole, ce li facciamo quattro i?” Il cavaliere Umberto Bonanno dall’alto (o dal basso, riferito a certi centenari in circolazione) dei suoi settantasette anni, tutte le mattine che il tempo lo consentiva, sputando, tossendo e fumando, spingeva volentieri Pirri lungo i viali del giardino. Indossati i cappotti, si avviarono. “Vuole che spenga la sigaretta?” “Faccia come le pare.” “Sa, il fumo ivo…”
“Si preoccupa della mia salute?” “Non vorrei che le venisse il cancro ai polmoni.” “Sarebbe la minor cosa.”
“Ha sentito del povero Colosi?” chiese più avanti Bonanno. “Non ce l’ha fatta per pochissimo.” “Per questo capodanno aveva una specie di mania.” “Poco male. Lo festeggerà da qualche altra parte.”
Intercalavano simili duetti a memorie di gioventù. “Lei ha fatto la guerra di Spagna, vero?” “Sì.” “La stupirò. Ho per le mani una lettura impegnata. Hemingway: Per chi suona la campana?” “Ritorni ai suoi soliti gialli. È meglio.” “Non mi dica che non le piace Hemingway?” “Glielo sto dicendo.” “Ho capito: vecchie ruggini della guerra. In Spagna eravate avversari, se non sbaglio.” “Non solo questo.” “Già: lui era amico di Castro.” “Anche questo.”
“A me invece Hemingway sta simpatico, non sembra nemmeno americano.” “Invece lo è. E si vede.” “Non mi dica che detesta pure gli americani.” “Glielo dico.” “E come mai?” “Gli americani sono lo stadio terminale della nostra civiltà. E come se non bastasse, se ne vantano.” “Che vuol dire?” “Vuol dire che qualcosa di grande che è cominciato ad Atene duemilacinquecento anni fa, sta finendo a New York adesso. Ma ormai non è problema nostro.” “Torniamo alla guerra di Spagna. Lei era con i volontari fascisti, legionari vi chiamavano…” “La guerra di Spagna è ata e io non ho niente da dire. Ma se ne vuole saperne qualcosa, lasci perdere Hemingway. Legga Orwell, piuttosto.”
Il viale adesso s’irripidiva piegando verso destra. A tratti, un sole perplesso faceva capolino tra le nubi. Bonanno ruppe ancora il silenzio. “Non ho mai visto suoi parenti.” “Ho solo una nipote, figlia di una sorella.” “E come mai non viene a visitarla?” “Qualche anno fa ha perso un bambino di pochi mesi in un incidente.” “Per caso quel bambino schiacciato nel eggino da un camion?”
“Sì, quello.” “Ricordo benissimo.” “A suo tempo è stato un bell’argomento per televisioni e giornali.” “E questo cosa c’entra col fatto che non viene mai a visitarla?” “Veniva. Ma dopo l’incidente in ogni frase che non diceva c’era una sola domanda: perché Dio, che lascia sulla Terra questo vecchio decrepito, si è portato il mio bambino? Un giorno l’ho pregata di non tornare e lei mi ha accontentato.”
Avevano percorso un altro tratto in salita fino a un padiglione esagonale. In posizione elevata rispetto alle costruzioni circostanti, era un buon osservatorio sulla feroce bellezza della giornata. Pirri accomodò il plaid sulle gambe. “Mi rivolga verso il mare” intimò con la sua tipica incapacità di gentilezza anche quando chiedeva una cortesia. Si sarebbe addormentato se l’altro non avesse ricominciato. “Scusi la curiosità, come mai non si è sposato?” “E lei come mai è vecchio?” La sedia di plastica su cui sedeva Bonanno vacillò sotto la sua mole non trascurabile. “Che domanda è questa? È naturale diventare vecchi: non c’è un perché.” “Benissimo. Per me è stato naturale non sposarmi: non c’è un perché!” “Ma una volta, se non baglio, è stato fidanzato…” “Ho capito: vuole sapere la storia delle sorelle Papa.”
“Se le dispiace parliamo d’altro.” “Ma non gliel’ho raccontata? L’ho racconta a tutti. Posso credere che solo lei sia scampato?” “A dire il vero l’ho sentita da Colosi, da Rosetta, da Bruno, da due o tre dei vecchi (al pensionato, con questo termine, offensivo se riferito a se stessi, s’indicavano gli altri ospiti, magari più giovani), ma c’è sempre qualche particolare diverso. Mi è rimasta la curiosità di sapere com’è veramente andata. C’è stato pure un morto, e lei conosce la mia ione per i gialli.” “Dopo settant’anni di morti in questa storia ce ne sono diversi. Quasi tutti, direi. E, con un po’ di pazienza, presto saremo al completo.” Bonanno si toccò. “Professore! Con queste cose non si scherza!” “Mai scherzato in vita mia.” Pirri scivolò sulla sedia assumendo la posizione adatta a un lungo racconto. I primi tempi in cui era arrivato alla villa si era lasciato scappare la storia delle sorelle Papa. In quel luogo estraneo, evocare certi fantasmi gli aveva dato il sollievo di una compagnia familiare. Quando il futuro scarseggia è naturale appigliarsi al ato: contano fatti vecchi d’un secolo, mentre quelli di ieri sono già dimenticati. Diventato popolare, il racconto di bocca in bocca era tornato al suo protagonista inevitabilmente trasfigurato: si diceva che il professore della storia fosse un tale cancrenoso morto a Villa Felice anni prima; secondo altri, le sorelle Papa erano le due vecchie legate ai letti nello stanzone del sottotetto che tutte le notti si lamentavano come spiriti in pena. Pirri non si era mai curato di smentire. Aveva ripreso a piovere. Cominciò a raccontare.
Giacobbe durante la notte chiamò Rachele e gli rispose Lia. Quando al mattino si accorse che era Lia, le disse: sei proprio figlia d’un impostore! Ogni maestro, – lei rispose – ha i suoi discepoli! Anche tuo padre chiamava Esaù, ma eri tu a rispondergli.
Bereshit Rabbah, 70.
III
“Le sorelle Papa erano figlie di Giuseppe fu Antonio e di Giovanna Romano, domiciliati al numero 16 di via Canova. – Il piglio da impiegato dell’anagrafe tradiva lo sforzo di essere preciso su una storia in cui la verità ne era sempre uscita male. – Dei loro sei figli, solo la metà raggiunse l’età adulta. Grazia, una delle due che c’interessano, nacque nell’ottobre del ‘903, anche se risultava del ‘904. Allora tra gli attributi del buon cittadino non figurava la sollecitudine verso gli uffici comunali.” “Anch’io fui rivelato sei mesi dopo” intervenne Bonanno. “Dicevo… – Dal tono secco e dalla pausa, Pirri fece capire che non gradiva interruzioni. – Grazia fu la prima di una schiera di tre femmine, macchiate agli occhi paterni dall’irredimibile colpa di essere sopravvissute ad altrettanti maschi, l’ultimo dei quali se lo sarebbe portato nel ‘18 la spagnola.” “Anche mio zio Orazio, se ne andò con la spagnola.” “Cavaliere, se lei a ogni o interviene a sproposito, facciamo notte.“ “Chiedo scusa.” “Dicevamo dei Papa… Concetta, la seconda, vide la luce nel fatale dicembre ‘908. Durante l’infinita notte del 28 fu dimenticata sotto le macerie del terremoto; in quel caos, i genitori si ricordarono di lei solo dopo molte ore, già sfollati a chilometri di distanza; tornati a precipizio la trovarono incolume nella cesta miracolosamente intatta, vegliata dai corpi dei vicini. Ottant’anni dopo, sulla soglia della morte, malediceva ancora quell’improvvida reminiscenza che la sottrasse alla pace celeste per consegnarla a un’esistenza tribolata.” Nonostante fe il difficile, a Pirri piaceva ricamare quella storia. “Dell’infanzia di Grazia e Concetta sappiamo poco. Probabilmente subirono quel
minimo d’istruzione che allora si cominciava a non negare alle femmine e che la saggezza dei vecchi comunque sconsigliava. Per il resto, le loro giornate trascorrevano tra giochi e occupazioni domestiche, oppure scambiando visite tra amiche. Frequentavano le mie sorelle, ma da noi venivano di rado. Le incontravo più spesso la domenica mattina, vestite a festa per la messa, tallonate dalla figura severa e imponente del padre, e da quella docile e minuta della madre. “Anche di don Peppino e donna Giovanna Papa ci sarebbe tanto da dire. Si erano sposati lui a sedici anni, lei a quattordici; e questo spiegherebbe perché sorvegliassero le figlie con un eccesso che era tale anche per l’epoca. Forse, nel calcolo delle insidie del mondo, scontavano più la propria che l’altrui condotta. Ma la stiamo prendendo troppo alla lontana…” “Non si preoccupi, non abbiamo impegni urgenti” scherzò Bonanno. Semidisteso sulla sedia pericolante, gambe allungate su un tronchetto, capelli bianchi scompigliati dal vento, sigaretta in bocca, sguardo perso. “Per farla breve… fatte donne, a Grazia e Concetta non mancarono gli spasimanti. Allora, come saprà, dopo mesi di occhiate fugaci, il padre del pretendente si presentava al padre dell’amata. Amata che, trattandosi di questione importante, quindi da uomini, nessuno si sognava di consultare. – Bonanno annuì. – Solo dopo il consenso paterno era consentito ai fidanzati lo scambio di qualche parola, mai da soli e a debita distanza. Data la delicatezza del rituale, si usava precederlo da contatti informali attraverso amici più o meno disinteressati.“ “I sensali di matrimoni.” “Allora questa professione era tra le più rispettate. Don Lillo Scarcella a quel tempo aveva superato sessant’anni, ma la sua fama traeva ancora lustro da fatti antichi. Lo chiamavano Lawrence d’Arabia per avere in gioventù trafficato in medio oriente. Su questo e sui suoi occhi azzurri, don Lillo aveva costruito e venduto la sua leggenda: a seconda dei casi, si spacciava discendente di un ramo siciliano di un’antica schiatta inglese, imbarcato in tenera età per girare il mondo; oppure figlio naturale di un colonnello inglese, in città al seguito del generale Forbes, e di una nobile locale... ma qui le date decisamente non quadrano. Non mancavano le presunte prove: foto di sbiaditi manieri o la carta intestata con lo stemma gentilizio degli Skargill, di cui il suo cognome siciliano sarebbe stato palese e indiscutibile corruzione.
“Più probabilmente era uno di quei carusi, figli di nessuno, dispersi per il mondo durante le grandi emigrazioni successive all’unità d’Italia; sbarcato, senza sapere come e dove, in Siria o in Libano e poi abbastanza spregiudicato da farsi strada nei loschi mercati del levante. Raccontava di aver commerciato animali, pelli e schiavi, di essersi comprato quattro o cinque mogli, di aver messo casa a Damasco e a Baghdad, di essere stato pellegrino a La Mecca come ogni buon musulmano, e pure di aver adorato il fuoco di Zoroastro. Si vantava soprattutto di aver partecipato alla conquista di Aqaba agli ordini di Lawrence in persona; impresa comunque capitata quando lui era qui da un pezzo. “Comunque un giorno, non doveva mancargli molto alla cinquantina, tornò a Messina. A sentirlo, era accorso per aiutare la ricostruzione dopo il terremoto dell’otto, ma in realtà se la prese calma arrivando intorno al quattordici. Forse l’ennesimo trasloco gli evitava di saldare certi conti lasciati in sospeso dalle sue parti. Può anche darsi che alla vigilia della Grande Guerra, tra si, Inglesi, Tedeschi e Turchi, avesse fiutato che anche in oriente il tempo si metteva male. “Sbarcato a Messina da signore, comprò un villino liberty nel quartiere di San Leo, a due i da casa mia. Una graziosa costruzione sulla piazza della Fontana Nuova, con un giardinetto attorno e due grossi cubi sui pilastri del cancello. Per il resto, continuò il mestiere di sempre. Sensale di animali, pelli e matrimoni: insisteva nel prediligere le merci fatte di carne. Per non smentirsi, si procurò una moglie che non usciva mai di casa. Di lei si favoleggiava che tenesse sempre il volto velato secondo un presunto uso orientale; che fosse bellissima, molto più giovane di lui e custode di un segreto; ma soprattutto si malignava che Scarcella l’avesse tirata fuori da un lupanare e per gelosia o vergogna non la mostrasse. L’unica cosa certa è che si chiamava Immacolata.” Bonanno ormai pendeva dalle sue labbra. Col pretesto di pigliare fiato, Pirri prolungò ad arte l’attesa. “Immacolata... la vidi una sola volta, ragazzino. Quella donna misteriosa e perduta, nominata solo per allusioni e sottintesi, m’incuriosiva, e così quando capitava andavo a sbirciare fuori dal villino. E una volta la sorpresi sul far della sera che coglieva rose in giardino. Una specie di mantello d’organza le svelava appena uno spicchio di viso. Da lontano mi sembrò che sorridesse, poi vedendomi indugiare si avvicinò al cancello. L’ammirai solo per pochi istanti dietro le trasparenze dei suoi veli: doveva avere una ventina d’anni e la sua straordinaria bellezza non era un mito. Senza una parola, scelse per me una rosa
bianca offrendomela attraverso le lance dorate. Sapeva di paradiso.” “Professore, non è che s’era innamorato?” “Immacolata: nome curioso per una vergine caduta. E a proposito di vergini cadute, cari ragazzi, mi viene in mente che San Gerolamo negava a Dio la possibilità di restituire la virtù fisica a una vergine che l’avesse perduta. E San Tommaso, rincarava che se Dio avesse cambiato il suo ato, quella donna sarebbe stata contemporaneamente vergine e puttana – non diceva proprio così, ma la sostanza è questa – con un’evidente violazione del principio di non contraddizione che neppure Lui può permettersi. San Pier Damiani, più liberale, invece concedeva a Dio di riparare tutte le vergini che voleva, infischiandosene della logica che lui stesso aveva messo in piedi e quindi poteva smontare a piacimento. “Che poi, con tutti i mali che Dio potrebbe aggiustare scombinando il ato, Gerolamo e gli altri si scervellassero proprio sulla verginità, suona curioso. Ma si sa: i santi sono strani. E chissà cosa pensano dal paradiso adesso che la verginità la recupera in mezz’oretta di bisturi un semplice chirurgo… A che punto eravamo?” “A Immacolata.” “Di lei abbiamo detto abbastanza: torniamo a suo marito. Vent’anni dopo, e siamo già nel ’33, il nostro sensale continuava a battere le strade del quartiere sotto il suo inconfondibile panama. Ormai aveva ristretto la sua attività alla ricerca di buoni partiti per i suoi clienti. Clienti che non sempre avevano scelto di esserlo. E tra questi c’era mio padre. – Don Ciccio, avete visto che bella figliola s’è fatta la prima delle sorelle Papa? Come si chiama? Carmela… no, forse Grazia... – In realtà, Scarcella di lei sapeva persino la taglia delle scarpe, ma per mestiere prendeva le cose alla lontana. – Corre voce che suo padre l’abbia dotata di trentamila lire più un appartamento. Avete visto che fianchi? Lasciatemi dire, al momento giusto scodellerà almeno sei figli. “Trentamila lire più un appartamento non erano argomenti che mio padre trascurasse. Una modesta pensione di guerra doveva bastargli per mantenere la famiglia: moglie, due figlie e il sottoscritto, l’unico che da qualche mese, grazie a un posto d’insegnante, portasse qualche soldo a casa.
“Dirimpettai dei Papa, con loro ci conoscevamo da sempre ma tra i due capofamiglia non correva buon sangue. Tanto espansivo l’uno, tanto riservato l’altro. Cosa più grave, don Peppino era comunista, mentre mio padre si professava fascista convinto. In via Canova li chiamavano il Rosso e il Nero.” “Un fascista e un comunista, come noi due. Ma tra noi è diverso: ci stimiamo” intervenne Bonanno. “Di lei cavaliere non so, ma per quanto mi riguarda, io non sono più nulla. Tanto meno fascista – replicò secco il professore. – Dicevo che mio padre e don Peppino Papa non andavano oltre il doveroso saluto; le donne invece si frequentavano con un’assiduità fatta di visite formali e scambi di pietanze che non escludevano l’amicizia. “Data la conoscenza, mio padre avrebbe potuto trattare il fidanzamento di persona, ma diverse circostanze lo sconsigliavano. In primo luogo, per correttezza non voleva mettere da parte Scarcella, cui riconosceva la paternità ideale di quel connubio. Inoltre non voleva rinunciare alla sua abilità allorché si sarebbero dovuti discutere i dettagli, ovvero quegli aspetti economici, la cui corretta calibratura serviva, secondo lui, a distinguere i matrimoni riusciti. E ancora, un sensale lo proteggeva dall’onta di un rifiuto diretto, con tutto quello strascico di ripicche, offese e maldicenze che tante volte, specie tra conoscenti, avevano rovinato la vita d’intere famiglie. Non ultimo, seppure rassegnato a don Peppino, preferiva incontrare quella testa balzana il più tardi possibile, a cose quasi fatte. “Comunque mio padre prese tempo. Furbo a modo suo: troppo entusiasmo avrebbe pagato più cara la sensalìa. Ciò gli dava pure modo di parlarmene; non che si aspettasse obiezioni, ma ritenendosi moderno gli sembrava una concessione accettabile ai tempi nuovi. “Qualche sera più tardi eravamo ancora tavola. Comandò alle donne di sparecchiare dopo e le spedì in cucina; chiuse la porta controllando che non stessero ad origliare; poi tornò a sedersi a capotavola. Arrotolando una sigaretta, iniziò con aria quasi distratta. – Figlio mio, fra poco farai ventinove anni. Io, a metà dei tuoi anni… “Si trattava del suo classico preambolo: ero già rassegnato alle solite storie mezze apocrife di guerre coloniali e amori corsari all’ombra di ulivi e palme, a
suo dire, indispensabili trascorsi di ogni maschio normale. In quei casi rimanevo a fissarlo con la mente altrove. Da qualche mese lavoravo a un saggio su Nietzsche, che rifiutava di prender forma, non mancandomi quindi pensieri su cui distrarmi. Talvolta era necessario fingere attenzione a lungo, ma stavolta poche battute bastarono al vecchio per esaurire cinquant’anni di storia pubblica e privata. – In questi giorni ho ricevuto una proposta di matrimonio per te – buttò giù lapidario, sempre concentrato sulla sigaretta. “Alla parola matrimonio sussultai, rischiando di rivelare la mia disattenzione; temevo pure di aver perso qualche parte essenziale del discorso. Lui continuò in un sapiente miscuglio di autorità e franchezza paterna. – Si tratta di Grazia, la primogenita di Peppino Papa. Porta in dote trentamila lire più un appartamento. Del padre è meglio non parlare, ma ha fatto qualche soldo col commercio e da suo suocero, il farmacista, ha ereditato delle quote della filanda. I contanti li dovrà aumentare almeno a cinquantamila lire. “Finalmente sollevò la testa e ci fissammo senza comunicare. Notai i suoi occhi acquosi. Iniziò a fumare la sigaretta, contento per averla ben confezionata. Seguì un breve silenzio. Tutto stava andando nel modo in cui se l’era immaginato: tra uomini, queste cose si sbrigano alla svelta. “Non avevo mai pensato di sposarmi. Fino a quel momento, i miei rapporti con l’altro sesso s’erano fermati all’obbligatorio approccio mercenario, ma in realtà, sia per un’innata tendenza all’astrazione che per non avere fastidi, alle donne reali preferivo una distaccata contemplazione estetica.” “Ammetta che sin da ragazzino era innamorato d’Immacolata, la moglie di Scarcella!” insistette Bonanno. “Non ammetto proprio niente! Torniamo a Grazia Papa. Mi si proponeva, rifiutavo di considerarla un’imposizione, di sposare una sconosciuta di scarsa attrattiva fisica, per non parlare delle qualità intellettuali. – Sarà una buona moglie. Casalinga e fedele. Non come quelle sfacciate che vanno all’università! E poi i Papa sono prolifici: avrò la casa piena di nipoti. “Aveva quasi consumato la sigaretta. Non senza teatralità, diede un’ultima
profonda tirata e con lentezza schiacciò il mozzicone nel posacenere. Quindi si alzò con un’espressione che voleva significare: – Bene. Abbiamo deciso. “Parlai solo a quel punto. – Aspettate. Accetto il matrimonio, ma a condizione di sposare Concetta, invece di Grazia... – La mano sulla maniglia della porta, il vecchio non aveva immaginato servisse una mia risposta per chiudere la discussione – e se quel comunista di Papa solleverà delle difficoltà, ci accontenteremo di trenta o quarantamila lire. Più l’appartamento, naturalmente. “Dovette sorprenderlo anche la mia vena commerciale: fin lì non ero stato capace di andare alla bottega senza farmi imbrogliare sul peso o sul resto, adesso mercanteggiavo sulla dote. “Non sapevo dove potesse parare quella bizzarra controproposta: delle due sorelle una non m’importava più dell’altra; quanto alla dote, non sarebbe bastata la ricchezza dei Rothschild per riscattare la parentela con Peppino Papa. Sulla stessa idea del matrimonio, da qualche minuto mi risuonava in mente una frase dei miei appunti su Nietzsche. Anche il concubinato è stato corrotto: dal matrimonio. “Mio padre si girò lentamente. Alto quanto me, le spalle più larghe non ancora curvate dagli anni. Per un attimo, lessi nei suoi occhi l’impulso di annientare la mia insolenza. Ma era anche un calcolatore, disponibile a trascurare la sottomissione che pretendeva gli fosse dovuta, in nome di un ragionevole tornaconto. – E cosa potremmo guadagnarci nello scambio? – sibilò. “Sorrisi dentro di me. Conoscevo ormai il suo punto debole: lo tenevo in pugno. – Grazia ha almeno trent’anni, è più grande di me, ma soprattutto potrebbe essere troppo vecchia per riempirti la casa di nipoti. È anche troppo bassa: che ne sappiamo che non ci scodelli dei nani? Concetta invece ha cinque anni di meno, la supera di mezzo palmo in altezza, ha il petto più grosso e i fianchi più larghi. – Infine sparai l’ultima bordata. – Non vorrete acquistare per trenta denari lo scarto dei Papa! “Ogni parola era andata a segno. Mio padre si fermò a riflettere; dietro l’espressione corrucciata nascondeva la sorpresa e la delusione di non essere stato l’autore di quell’idea.
– Sta bene – disse con tono grave – ma non accetteremo meno di quarantacinquemila lire. “Scarcella venne quindi incaricato di trattare Concetta. – Va bene l’appartamento. Le trentamila lire dovranno diventare almeno cinquantamila. Invece di Grazia, vogliamo Concetta. – Questo fu il lapidario mandato di mio padre. “Prevedendo complicazioni, il sensale tentò subito di farlo tornare sull’idea originaria, cioè su Grazia, ma il vecchio fu irremovibile. – Non acquisterò per trenta denari lo scarto di don Peppino. – Ma, scusate, in fondo è don Peppino a mettere i trenta denari. – O così, o niente! – troncò mio padre. “Scarcella non ritenne per il momento d’insistere e intanto lavorava anche sull’altro fronte. Con don Peppino Papa era di casa: quando il commercio di pellami andava a pieni giri, il sensale aveva importato per lui tonnellate di materia prima dall’oriente, lucrandoci ricche commissioni e una particolare amicizia ulteriormente coltivata nelle taverne e nei bordelli. Ormai affari – e piaceri – andavano scemando, ma l’amicizia era rimasta. Quasi tutte le mattine don Lillo si affacciava sull’uscio della bottega di don Peppino, spesso scherzando sulla bizzarra ipotesi che un giorno le scarpe si sarebbero trovate nei negozi già confezionate, plaudendo l’immancabile battuta del vecchio Papa: – Si comincia a credere che tutti hanno gli stessi piedi, e si finisce col pretendere che abbiano la stessa testa! “In realtà anche a don Peppino le scarpe importavano poco e i due finivano col parlare delle solite cose, ovvero di donne altrui. Non fu quindi difficile al sensale introdurre l’argomento. – Compare, che età hanno le vostre figlie? “Posta da Scarcella non era una domanda innocua. – La somma dei loro anni, vi farebbe di molto più giovane – rispose d’istinto don
Peppino, esaminando una partita di tomaie. – Don Peppino, con voi non uso giri di parole: ho una proposta di nozze per vostra figlia Concetta da parte di un comune conoscente sul quale posso garantire di persona. – Il vino nuovo non si spilla, se nelle botti c’è ancora quello vecchio. – Ma compare, il vostro vino dopo venticinque anni rischia di diventare aceto. E poi un’occasione del genere non capita più. Sto parlando di Nino, il figlio di don Ciccio Pirri. L’anno scorso ha preso la cattedra di filosofia al liceo: guadagna bene. Senza considerare le lezioni private... E poi è un intellettuale, sta scrivendo un libro su quel filosofo tedesco che per ora va di moda. Ha pure stretto la mano a Benedetto Croce. – Compare, di questo è meglio che non parliamo: sapete cosa ne penso dei fascisti. U pruf’ssureddu è alto una canna e magro da far spavento. Ha pure il naso storto. – Compare, con rispetto parlando, anche Concetta non è proprio una bellezza. Senza offesa, per me è come una figlia, ma gli manca un dente. Non è molto alta, e non per criticare, forse i fianchi sono un po’ troppo larghi. – Quei fianchi, se io volessi, potrebbero dare almeno dieci nipoti a don Ciccio! Sempre che suo figlio sia capace di fare il suo dovere… Sapete come sono fatti questi bibliotecari! – Ma che dite compare! Il giovane è robusto come un toro e sano come un pesce. Ha vinto una medaglia ai littoriali dello sport: terzo nei centodieci ostacoli. Ho visto la fotografia della premiazione al foro italico, col Duce in persona. Don Ciccio la tiene sul tavolino del salotto come la reliquia di un santo protettore. – E voi mi vorreste imparentato con un fascista! Compare, finiamola! Se continuate rischiamo pure l’amicizia! – Papa sembrava arrabbiato, ma probabilmente stava già trattando. – Caro don Peppino, l’avete detto voi: per me siete un amico. Di quest’affare non solo la nostra amicizia non ne avrà a soffrire, ma verrà il tempo in cui mi ringrazierete e penserete a me come un secondo padre.
– Proseguite. Ma vi avverto: con mio padre, il Signore l’abbia in gloria, non andavamo affatto d’accordo! – Per prima cosa, mettiamo da parte la politica. Io ho girato il mondo: in oriente ho conosciuto la legge crudele del sultano e quella civile dei nostri cugini si e inglesi. Non ho notato grandi differenze: la vita di un povero disgraziato non valeva né un dinaro, né un franco, né una sterlina. Qui non è diverso. A noi cosa interessa di fascismo e comunismo? Sono mode eggere! Prima si portavano i capelli all’umberto e tutti smaniavano per il Re, adesso stravedono per le camicie nere e Mussolini, aspettate dieci anni e erà anche questo. Forse torneranno le vostre camicie rosse, oppure verranno quelle a quadretti degli americani. Come la chiamano? Repubblica, democrazia... americanate, appunto! Ma qui in via Canova non cambierà nulla, se non un poco di fame in più. Quelli rimarranno sempre a Roma, a Mosca, o a Nuova York, manderanno le loro guardie, i loro giudici e i loro gabellieri e di noi continueranno a fottersene. – E allora? – Allora, non prendiamoci per il culo con la politica e pensiamo ai nostri interessi. “Il discorso genuino di Scarcella, fece il suo effetto. Anche don Peppino alla fine era meno idealista di quanto volesse far credere. – E secondo voi, quali sarebbero i nostri interessi? – Ve lo dico subito. Voi avete tre figlie: una è ancora ragazzina ma le altre due, sempre con rispetto parlando, rischiano di restare zitelle. Don Ciccio Pirri ha anche lui tre figli. Per le femmine, dice di non aver fretta, anche se io mi sto muovendo, ma quel bel figlio in casa lo fa imbestialire. Dice che a metà dei suoi anni aveva già ammazzato non so quanti abissini e sua moglie era già incinta. Ha paura di non campare abbastanza per vedere i nipotini; peggio ancora, trema al pensiero che il nome dei Pirri finisca. Siamo tutti commercianti: voi avete da troppo tempo in magazzino proprio la merce che lui cerca. L’affare è conveniente per tutti: se nessuno fa il furbo, che poi sarebbe il fesso, faremo il prezzo facilmente. “Don Peppino rimase qualche istante a riflettere.
– Forse non avete torto. Ma in ogni caso deve essere Grazia, la più grande, a sposarsi per prima. “Scarcella, pago di quel primo risultato, anche in questo caso non insistette. Tenne invece a precisare qualcosa di più importante. – Naturalmente, posso contare sull’appartamento e sulle trentamila lire di cui parlavate tempo fa? – Don Peppino Papa ha una sola parola. Ho detto che per Grazia c’erano l’appartamento di mio padre, che Dio l’abbia in gloria, e ventimila lire. Non una lira in più, non una lira meno. “Si lasciarono dopo qualche altra schermaglia, ma l’affare era sulla buona strada. “Non si sa come don Lillo intendesse sistemare lo scambio delle sorelle. Sembra che nelle settimane successive non andasse oltre qualche timido tentativo di convincere una delle parti. Col bastone dal manico d’avorio, faceva la spola tra casa nostra e la bottega di don Peppino per le minuzie, ingannandoli sull’essenziale; ogni tanto tornava con finta noncuranza sull’argomento ma desisteva alla prima occhiataccia. “Data la sua esperienza non doveva sfuggirgli il pericolo, ma era già vecchio e forse dopo una vita di trattative, menzogne e cavilli, si sentiva fatalista. Arriva un tempo in cui un mestiere non riserva più sorprese: Scarcella ormai era sensale più per abitudine che per necessità, e meno che mai per gusto. Sapeva che in quella storia, alla fine sarebbe arrivato il momento in cui tutti noi, io e mio padre, Papa e le sue figlie, ci saremmo dovuti guardare negli occhi per tirar fuori quello che avevamo dentro. A quel punto, neppure il Padre Eterno avrebbe potuto prendere il nostro posto, figuriamoci un povero sensale. Se poi l’affare fosse saltato, non sarebbe stato un gran danno: di soldi ne aveva tanti e gli piacevano sempre meno.” “Forse in prossimità della fossa si era convertito ai matrimoni d’amore” chiosò Bonanno e, una volta tanto, l’altro non sembrò infastidito. “Intanto mio padre e don Peppino erano diventati cerimoniosi: incontrandosi per strada insistevano a vicenda per offrire al bar. Mio padre addirittura aveva ordinato al futuro consuocero il camoscio per due paia di scarpe che non gli servivano e quello probabilmente meditava di regalarglielo.
“In questo clima d’idillio, decisero che le due famiglie trascorressero insieme il lunedì di Pasqua presso la masseria di un comune conoscente. Partimmo all’alba, attenti all’onore delle signorine nel distribuirci sulle carrozze. “Perché non si dicesse che avevamo ingannato i Papa sulle qualità dello sposo, l’occasione servì a rivelare il mio raffreddore da fieno. Trascorsi la giornata a starnutire, inzuppando una dozzina di fazzoletti: dopo un’ora stavo già sdraiato sotto un albero d’ulivo, ansimante, il viso paonazzo e gli occhi rossi. Don Peppino avrebbe sfruttato l’allergia per trattare una riduzione della dote; mio padre lo anticipava ripetendo che anche Garibaldi starnutiva all’Aspromonte. “L’improvvisa confidenza tra i due aveva insospettito le femmine di casa: Grazia e Concetta rimasero attaccate alla madre, a debita distanza dal sottoscritto; quindi con la futura sposa, chiunque fosse, non scambiammo una parola. Per il resto, si divertirono quasi tutti. L’inevitabile gara di chi mangiava più pasta se l’aggiudicò don Peppino con quasi un chilo e mezzo di spaghetti; in quella dei cannoli, prevalse sua moglie: l’insospettabile Giovanna ne fece sparire ventuno dentro la sua boccuccia. Sopravvissero. “I contatti s’infittirono nelle settimane successive. Si combatteva intorno alle trentamila lire di dote; i mobili li avrebbe portati lo sposo e così le fedi nuziali; i materassi, invece, almeno sei, erano di competenza della sposa. Mio padre pretese garanzie sulla qualità della lana. – Perché sulla lana non si scherza, ne va della salute della famiglia! “Anche di questo venne interessato Scarcella, il quale aveva già fatto tante volte la spola che volle da don Peppino pelle e suola per un paio di scarpe nuove. “Intanto i miei avevano stabilito di acquistare l’anello di fidanzamento presso l’antica gioielleria Minutoli, fornitrice da generazioni della mia famiglia. Provai a defilarmi, poi, per le insistenze di mia madre, dovetti accompagnarli. “Il fondatore della pregiata ditta, quel Giovanni Minutoli il cui dagherrotipo troneggiava sulla cassa accanto alla Madonna di Pompei, era stato grande amico di mio nonno e tale rapporto, esteso alle rispettive discendenze, era sopravvissuto per più di mezzo secolo. Il nipote Carlo, attuale proprietario, era un tipo basso e mingherlino, invecchiato da una precoce calvizie. – La montatura dovrà essere in oro bianco. Il brillante da circa un carato, né troppo giallo, per non sfigurare, né troppo azzurro, per risparmiare. Intorno, per
fare più effetto, montiamo una corolla di brillantini che riflettono e moltiplicano la luce della gemma centrale – sentenziò mentre mio padre ancora lo informava sul matrimonio. “L’alto concetto della sua professionalità faceva Carlo Minutoli sicuro dei gusti dei clienti anche contro il loro stesso parere: qualche timido appunto di mia madre non venne neppure considerato. Se quindi la scelta dell’anello fu rapida, più complicato si rivelò il prezzo. Mio padre contava di pagare in parte a rate, in parte con dei preziosi di famiglia religiosamente conservati in un sacchetto di velluto blu. Dopo un patetico preambolo sulla loro origine, li porse al gioielliere che gettò tutto sulla bilancia con sufficienza. – Don Ciccio, li prendo in nome dell’amicizia che prim’ancora di noi legava i nostri padri e prim’ancora i nostri nonni. Vedete, queste pietre sono poco più che pezzi di vetro – indicava due topazi, che erano stati il vanto di mia nonna – quanto all’oro, guardate voi stesso com’è scuro, lega quasi vile: fonderlo costerà più di quanto ne potrò ricavare. “A poco servì che i miei giurassero e spergiurassero, innanzi alla sacra effigie di Giovanni, che tutto quel ben di Dio proveniva dalla sua gioielleria, e che la buonanima ne aveva sempre garantito l’alto pregio. Alla fine i gioielli vennero valutati un quarto del previsto, il che avrebbe significato una decina di rate in più, e la fine di un’amicizia durata troppo a lungo. – Carlo Minutoli è un ladro, sento i nostri padri rivoltarsi nella tomba. Amici e parenti non ‘ccattare e non vinniri nenti – commentò mio padre, appena fuori dalla gioielleria. “L’indomani chiese a Scarcella di andare da Minutoli per tirare sul prezzo. Il sensale lo rimproverò dicendogli che se ne sarebbe dovuto occupare lui dall’inizio e che ormai il danno era fatto. S’impegnò comunque di fare il possibile e alla fine ottenne da Minutoli l’incisione di una dedica all’interno dell’anello. Omaggio che nessuno aveva richiesto. “Fu l’ultimo servizio di Scarcella. Sparì senza preavviso. Credevamo si fosse brevemente assentato per qualche affare, ma ci sbagliavamo. L’ultima volta che lo incontrai sembrava nervoso: chiese di mio padre, incupendosi alla notizia che era in viaggio per qualche giorno. “Per fortuna, rimaneva poco da concordare. Quello che tutti ormai sapevano
divenne presto ufficiale. Il fidanzamento fu fissato il 3 giugno, festa della Madonna della Lettera, a pranzo dai Papa. “Qui fervevano i preparativi. Venne l’ebanista per tirare a lucido i due buffet e il tavolo di ciliegio della sala da pranzo, mentre la sarta prendeva le misure alle donne di casa. Le stoffe non ci fu bisogno di comprarle: dalle casse del corredo saltarono fuori diversi tagli di seta acquattati da decenni per l’occasione. Piccole fantasie scure, mosse dall’ambizioso proposito di occultare le rotondità di Grazia e Concetta, finirono per fare sparire l’esile Giovanna. Si curò pure che l’abito della fidanzata fosse privo di fiocchi sulla pancia, affinché le malelingue non insinuassero precoci gravidanze. Alla terza figlia, ancora ragazzina, si adattò un vestito bianco e celeste smesso dalle sorelle maggiori. “Il corredo per ventiquattro, che sapeva già di vecchio, venne messo all’aria; più d’una vicina con qualche scusa entrava a curiosare. Si svuotavano e poi si riempivano cassetti, armadi, credenze e cristalliere; si rassettava, aggiustava, lustrava e spolverava come in attesa dell’ispezione di qualche autorità suprema. Stoviglie e vasellami vennero lavati e rilavati, e tra le urla delle donne più d’un pezzo non sopravvisse a tanto zelo. Giovanna chiese in prestito alla moglie dell’avvocato Salvo, che abitava al secondo piano, il servizio placcato in oro, collaudato protagonista di simili occasioni nel vicinato. Anche i presunti tappeti persiani all’ingresso, nel salotto e nella sala da pranzo venivano dalla generosità di parenti e amici. “La vigilia trascorse tranquilla: i due futuri consuoceri disputavano senza troppo impegno intorno alle ultime cento lire di dote; le donne mettevano a punto i dettagli delle pettinature e del vestiario; io stentavo ancora ad aver ragione del riottoso Nietzsche. “Venne il gran giorno. La mattina a casa Papa era iniziata prima dell’alba. Si cominciò a cucinare con la luce accesa. Cari ragazzi, allora il pranzo della festa era una cosa seria: se non si era troppi a tavola, mezza giornata bastava per preparare cinque o sei chili di pasta al sugo e almeno un centinaio di braciole, ognuna grande quanto un pugno. Questi due piatti costituivano una specie di ortodossia culinaria, che tollerava appena qualche variante nella pasta al forno, nel polpettone…” “Ah, il polpettone ripieno di mia madre… col pecorino, l’uovo sodo e il salame! Professore, i giovani che ne sanno! Questi mangiano surgelati, precotti, integrali,
panini e coca cola” intervenne Bonanno, per un attimo convinto anche lui dei ragazzi immaginari. “Ragazzi, il nostro geometra una volta tanto ha ragione: gli orrori della linea, dei piatti mezzi vuoti e della cucina veloce erano in un futuro impensabile e lontano. Contro tutte le porcherie che più tardi dall’America avrebbero infestato il mondo, a quei tempi le nostre donne dedicavano ancora ore e ore a ripetere gesti antichi davanti al fuoco.” “Ah, lardo, strutto, aglio, cipolla soffritta, sugna… a casa mia la domenica c’era un odore da far resuscitare i morti.” “Va bene. Lasciamo perdere la resurrezione della carne, argomento su cui, ragazzi, mi ricorderete di tornare, e occupiamoci del tre giugno 1933. Alle nove la tavola era apparecchiata; un’abbagliante luce quasi estiva rifletteva la tovaglia di Cantù sui remoti commensali fotografati sul buffet. “Alle undici l’ansia era palpabile. Grazia e Concetta, le pericolanti pettinature sorrette da ardite strutture di ferretti, scambiavano parole eccitate spiando attraverso le persiane; Giovanna, più silenziosa del solito, compariva e scompariva per la casa a controllare particolari rivisti dieci volte; don Peppino, completo grigio con gilè e giacca a tre bottoni, reduce da numerosi funerali e matrimoni, cambiava e ricambiava l’ordine dei posti a tavola e nel salotto; la terza figlia, la troppo vivace Pina, chiusa a chiave in camera da letto, sarebbe comparsa solo per pranzo e sotto stretta sorveglianza. “Alle dodici esatte trillò il camlo. S’irrigidirono come se la corrente elettrica si fosse scaricata su di loro. Don Peppino corse alla porta. Strinse la mano a mio padre e poi a me, invitandoci a entrare; alle ospiti riservò un baciamano plateale. Ci accomodammo in salotto, e nel teatrino imbarazzato di saluti e complimenti i posti non vennero rispettati: con grande sconvenienza finii tra Grazia e Concetta sul sofà. Gli altri presero posto sulle sedie, cercando d’imbastire qualche discussione: la siccità nelle campagne, la penuria d’acqua in città, i prezzi calmierati… Due battute e si ripiombava nel silenzio. Don Peppino tentò di criticare il Duce, subito arginato da Giovanna che gli sovrappose lodi sperticate sull’eleganza della Regina. Nella stanza affollata le leggere giacche maschili evidenziavano aloni di sudore sotto le ascelle, qualche trucco più pesante minacciava di franare.
“Mio padre sentì che era meglio tirar fuori l’anello prima che qualcosa andasse storto. – Prendi, figlio mio – disse con enfasi, porgendomi l’astuccio incartato. “Tutti trattennero il respiro, mentre io ritardavo, quasi non ne capissi il significato. Tentennai ancora rigirando il pacchetto tra le mani. Infine mi rivolsi a Concetta. A voce bassa, senza guardarla. – In segno del mio amore. “Non era all’altezza di Heine, ma non ebbi tempo per rimproverarmelo: tre urli femminili si levarono all’unisono, Concetta fece cadere l’astuccio come se fosse stato un tizzone ardente, scattando in piedi insieme a Grazia e a Giovanna. Don Peppino era pietrificato: un fascio obliquo di luce lo colpiva in faccia, evidenziandone i denti gialli attraverso la bocca semiaperta; un fremito percorreva le sue guance cascanti. Ci mise qualche secondo a riprendersi e scagliarsi su mio padre che, colto di sorpresa, cedette all’urto. Rotolarono per terra, travolgendo un’angoliera con l’inevitabile ceramica di Capodimonte, sfortunato regalo di altre nozze. – Maledetto! maledetto fascista! – ringhiava il vecchio Papa. “Mio padre, nonostante la superiorità fisica, incassò diversi colpi prima di riuscire a divincolarsi; mia madre e le mie sorelle, anche loro all’inizio inebetite innanzi a quello scoppio di follia collettiva, adesso si affannavano come potevano in sua difesa. Era il caos: Grazia e Concetta correvano per casa piangendo e urlando; Giovanna era accasciata sul sedile della bastoniera all’ingresso, il trucco disfatto, lo sguardo assente, se possibile, più piccola di quanto mai fosse stata. – Dannato fascista! Dovevo immaginarlo! Bello scherzo avete architettato! Ve la farò pagare! – continuava ad inveire don Peppino, cercando di divincolarsi dalle mie parenti che urlavano a loro volta, le capigliature e gli abiti scompigliati. “Mio padre intanto aveva guadagnato l’ingresso. Io, l’unico a non essermi mosso, sapevo già tutto. Mi sentivo rilassato. – Compare, per carità, fermatevi! Ho capito! È tutta colpa di quel disgraziato di Scarcella! Ci ha ingannato! Gli avevo detto di chiedere la mano di Concetta e adesso che ci penso lui ha provato a convincermi per Grazia ma al mio rifiuto non ha insistito, poi ogni tanto tornava sulla cosa come se niente fosse!
“Aveva buttato la sua verità tutta d’un fiato, pronto a guadagnare la porta. Don Peppino rimase fulminato a mezz’aria mentre stava avventandosi sul fucile da caccia. – Lo stesso ha fatto con me, al contrario! Bell’amico! Parlerete di me come di un secondo padre, diceva. Maledetto! Lo ammazzerò! Papa era una furia. La moglie, vedendo che prendeva l’arma, tentò pateticamente di bloccarlo. Lui se ne liberò senza sforzo, sbattendola contro il muro. – Lo ammazzerò – ripeté, agguantando il fucile. “Suonò il camlo. Qualcuno aprì la porta: una vicina attirata dal trambusto era scesa a controllare. Ne approfittammo per dileguarci mentre don Peppino ripeteva minacce e insulti innominabili contro Scarcella. “L’astuccio con l’anello era rimasto per terra. Non lo raccolsi. Attraversando l’ingresso, incrociai uno sguardo sgusciato dallo spiraglio d’una porta. Grazia o Concetta, non so dire. “Fu il prevedibile scandalo. Dissero che don Peppino ci aveva buttato giù dalle scale e sparato dal balcone, che le donne si erano tirate i capelli, che Grazia e Concetta erano svenute. Quanto a Scarcella, non ci fu bisogno d’ammazzarlo. Il maresciallo Caminiti lo trovò dopo qualche settimana sul fondo del pozzo di casa. I topi ne avevano fatto un tale banchetto da non potere nemmeno stabilire quando fosse morto. Il medico legale parlò di probabile caduta accidentale, non escludendo il delitto. Il cadavere non presentava tracce di armi da fuoco o da taglio, ma sarebbe stato facile per chiunque dargli una spinta, magari mentre tirava l’acqua dal pozzo. “Ci si ricordò dei suoi trascorsi in oriente, sospettando che qualcuno avesse riscosso qualche vecchio conto, calcando la mano con gl’interessi. Vennero interrogati alcuni arabi di aggio in città, senza esito; s’indagò pure sugli affari più recenti, con gli stessi risultati. Com’era ovvio, non si trascurò la sua parte nel fallito matrimonio: sia noi che i Papa fummo interrogati e le minacce proferite da don Peppino non arono inosservate. L’antipatia per il regime del vecchio Papa era notoria e quella poteva essere l’occasione per fargli pagare altre colpe; ma il maresciallo Caminiti, altro suo compare di bisbocce, mise più di una buona parola e credo che pure mio padre scomodasse a suo favore qualcuno del partito. Alla fine il caso fu archiviato. Morte accidentale.
“Nel frattempo ero diventato una celebrità: i curiosi m’infastidivano per strada. Sempre più insofferente, anche verso la mia famiglia, l’anno dopo mi dimisi dall’insegnamento e mi arruolai in aviazione. In pratica scappai di casa. “Con la famiglia mantenevo doverosi contatti epistolari, prima dal Nord Italia e poi dalla Spagna, dove mi recai volontario nel ‘36. Mio padre non ebbe comunque modo di vantarsene: una polmonite se l’era portato qualche settimana prima senza nipotini dietro la sua bara. Quanto ai suoi rapporti con don Peppino, dal giorno del fidanzamento riuscirono a evitare ogni contatto. Le donne, invece, ripresero pian piano a frequentarsi. “E questo è tutto, o quasi… caro cavaliere.” “E le sorelle Papa che fine fecero? Si sposarono?” “No, non si sposarono. Il treno del matrimonio per loro ò una sola volta a mezzogiorno di quel famoso 3 giugno. Presumo che l’episodio scoraggiasse altri a ripetere l’esperienza, e presto fu palese che don Peppino puntava più a una vecchiaia tranquilla accudito dalle figlie, che ad accompagnarle all’altare.”
Erano trascorse delle ore e aveva smesso di piovere. Bonanno, la testa zeppa di domande, guardò l’orologio, diviso tra curiosità e languore. “Allora, secondo lei, non fu don Peppino ad ammazzare il sensale?” “Scarcella probabilmente era morto prima del 3 giugno: nessuno l’aveva visto da settimane. E poi, che importanza ha? Ormai sarebbe morto lo stesso e pure don Peppino è stato già giudicato. Preoccupiamoci piuttosto del pranzo: è tardi e quelli sono capaci lasciarci digiuni.” Tornarono con maggior impaccio: lungo la discesa Bonanno faticava a trattenere la sedia a rotelle sulla pavimentazione bagnata. Fumava, tossiva e si lamentava. “Le sigarette mi ammazzeranno!” “Ormai è deciso, cavaliere: lei non sarà tra i cento milioni di fumatori crepati in questo secolo, ma tra il miliardo del secolo venturo.”
L’altro scongiurò senza ribattere.
IV
Gli alberi continuavano a gocciolare: entrarono nel salone con i vestiti bagnati senza destare particolari preoccupazioni tra il personale. “E voi dov’eravate? – li apostrofò Bruno, che stava finendo di sparecchiare. – Vi pare che siamo al ristorante, che uno si presenta a mangiare quando gli piace? La cucina è chiusa! Il mio turno è finito!” Tirò a Bonanno uno straccio per asciugarsi. “Vediamo cosa vi trovo da mangiare” sbottò dirigendosi in cucina. Temeva Visalli, l’amministratore del pensionato, che pur disprezzando gli anziani almeno quanto lui, per pura cattiveria sarebbe stato capace di affibbiargli una multa con la scusa di aver maltrattato quei due rompipalle.
La televisione era ancora accesa sui fasti del secolo morente. Su un sottofondo solenne di canti russi andava in onda la Rivoluzione d’Ottobre. … avvenuta in novembre, secondo il nostro calendario. “Vedete, cari ragazzi, come sono strani gli uomini: non si ritrovano nemmeno sulle date e vorrebbero mettersi insieme a migliorare il mondo.” Materialismo e ateismo furono le basi filosofiche su cui i bolscevichi si proponevano di fondare il loro paradiso in terra… “Questi comunisti sono proprio impossibili: vorrebbero tutto in comune e poi rifiutano Dio, l’unica cosa che noi uomini possiamo ragionevolmente sperare di condividere.” Bonanno – si stava asciugando i capelli – non raccolse la provocazione.
L’infermiere tornò dalla cucina mentre Pirri spiegava ai ragazzi dei trenta milioni di Kulaki eliminati da Stalin per liberare spazio nel suo paradiso. Con malagrazia lasciò scivolare sul tavolo due piatti freddi di brodo vegetale avanzati della sera precedente, due bicchieri d’acqua e un pezzo di formaggio dalla parte della crosta. Pranzarono all’estremità di un lungo tavolo senza tovaglia. Di solito qualcuno aiutava Pirri, ma non era il caso di chiedere a Bruno. Per la stizza rifiutò pure l’aiuto di Bonanno, trangugiando il brodo come poteva: la manica destra finì inzuppata nel piatto e diverse cucchiate tracimarono sui pantaloni, peraltro già umidi, ché il pannolone era ancora quello del mattino. La dentiera era rimasta sul comodino: quando toccò al formaggio, dovette spezzettarlo in piccoli bocconi che ingoiò senza masticare. Per dessert mandò giù due pillole con l’ultima acqua rimasta. Intanto Hitler mandava in visibilio i berlinesi. … c’è qualcosa che possa creare una felicità più grande del nazionalsocialismo, in cui tutti i cuori vibrano all’unisono? “Vedete ragazzi, le promesse di questo non sono troppo diverse da quelle di prima. Destra e sinistra, se ne è fatto un gran parlare… se va male sono una cricca di torturatori e assassini con filiali nei cinque continenti, nei casi più innocui, un’affollata combriccola di ladri.” “Che più o meno è quello che disse Scarcella a don Peppino Papa” osservò Bonanno, disposto in quel momento a sorvolare su alcune differenze tra destra e sinistra che a lui sembravano peculiari. Il frugale pasto lo aveva messo di buon umore: azzardò un blitz in cucina per procurarsi due bicchieri di vino. “Professore, questo le accenderà il sangue!” proclamò al ritorno. “Per accendere il mio sangue non basterebbe il kerosene.” Pirri rifiutò. L’altro invece centellinava con gusto quel rosso dozzinale e rimuginava.
“Dicevamo… malore o delitto, Scarcella una punizione se l’era meritata: a quel tempo sull’onore non si scherzava. Scambiare due sorelle non era cosa che un sensale potesse prendere sottogamba. Il professore non rispondeva. Avrebbe dovuto aspettare almeno tre ore prima che lo cambiassero; era ancora affamato e quelle dannate schegge di formaggio sembrava fossero rimaste conficcate nell’esofago; detestava Bruno per i suoi modi insolenti; ritardare a pranzo ed essere rimproverato proprio da lui lo faceva andare in bestia; non sopportava l’insistenza di Bonanno e ancor di più ne disprezzava la superficialità: non aveva capito nulla, si poteva stare a spiegargli le cose fino al giorno del giudizio e non avrebbe capito nulla; perché non era morto lui al posto di Colosi? Quella completa immedesimazione nel presente lo irritava e umiliava: ne avanzava per odiare se stesso e il mondo. La stanchezza lo aiutò a contenere quello che gli ribolliva dentro. Per non rispondere, finse di essersi addormentato. Danzò sui bordi del dormiveglia finché cadde nell’abisso del sonno.
V
Qualcuno lo aveva messo a letto. Lo svegliarono dopo molte ore i gesti decisi di Margherita che lo cambiava. Venne fuori con difficoltà dalle brume di un sonno senza sogni, fatto di quella stessa materia viscida che con la vecchiaia si era abituato a sentire addosso. “Professore, stasera sarà elegantissimo. Farà un figurone. Chissà che qualche ragazza del secondo piano non s’innamori?” L’infermiera lo prendeva in giro bonaria, rivoltandolo come un neonato. Non era stato facile adattarsi a quelle operazioni energiche, in cui con troppa noncuranza la dignità veniva sacrificata all’igiene. Se poi, come quasi sempre avveniva, si trattava di personale femminile, allora ne faceva le spese pure il senso del pudore. Comunque c’era poco da fare, e per abbreviare l’umiliazione aveva imparato a non irrigidirsi, abbandonandosi alle capaci mani estranee. Pantaloni blu, camicia verdina, gilet grigio, giacca marrone: la vestizione venne raffinata sulla sedia a rotelle col tocco della cravatta gialla a pois. Nella camicia mancava il primo bottone. Per nasconderlo, Margherita strinse con delicatezza il nodo della cravatta, raggrinzendo il colletto troppo largo di almeno due misure. “Se lo sente troppo stretto, allento.” “Dovresti stringerlo, piuttosto. Una bella stretta e tutto sarebbe a posto.” “Ma che dice, professore?!” Margherita era sincera. Orfana da bambina, cercava in ogni vecchio i genitori che gli erano mancati. Il pensionato era la sua famiglia, e da buona madre di famiglia di una volta, possedeva la corporatura massiccia e l’espressione semplice, complicata appena da un caschetto di capelli troppo rossi.
A metà pomeriggio Pirri si trovò nel salone. Insieme a un buon numero di coinquilini, egualmente tirati a lucido, faceva arredamento tra l’albero di Natale e la televisione, l’orecchio appoggiato all’apparecchio come usavano i vecchi con le radio a valvole di una volta. L’ennesimo documentario snocciolava le carneficine del secolo e i progressi della tecnica. Un bombardamento, un affondamento, un’avanzata, un contrattacco, la seconda guerra mondiale si trascinava attorno al globo fino al suo epitaffio. Alle ore otto, quindici minuti e diciassette secondi del 6 agosto 1945, un bombardiere B29 soprannominato Enola Gay, al comando del colonnello Paul Tibbets, sganciò la bomba atomica su Hiroshima. “Ragazzi, ve ne racconto un’altra a proposito di questo Tibbets: pensate, aveva dato al suo bombardiere il nome della madre. Così la signora Enola Gay – magari era una donna timorata che tre volte al giorno, seduta in veranda, pregava per l’umanità con la Bibbia in grembo – viene ricordata per il più spettacolare massacro della storia. Singolare dimostrazione d’affetto filiale, quella del nostro colonnello. Ma gli americani sono così: manca loro il senso del dramma; mescolano l’atrocità alla burla illudendosi di mantenere l’innocenza.” … centotrentamila vittime, a cui tre giorni dopo si aggiungeranno le sessantamila di Nagasaki. La voce continuava a snocciolare la contabilità della guerra … senza contare feriti e dispersi, in tutto il secondo conflitto mondiale perderanno la vita venti milioni di russi, quattordici di cinesi, sette milioni e trecentomila tedeschi… a cui vanno aggiunti sei milioni di ebrei periti nei campi di concentramento nazisti: Auschwitz, Dachau, Buchenwald… “Già, gli ebrei. E pure gli zingari e gli handicappati. Docciati con l’acido prussico, asfissiati con i gas di scarico nei furgoni sigillati, addormentati per sempre col Veronal, usati come cavie, fucilati, mitragliati… finirono nei forni e nelle fosse comuni e sono una specie di conto a parte. Il bello è che non c’entravano: non erano in guerra con nessuno. Ma secondo il caporale con i baffetti che da Berlino aveva ambizioni d’architetto, non erano decorativi:
guastavano il disegno del paradiso che anche lui aveva in costruzione.”
Entrò Bonanno: smoking striminzito, papillon con l’elastico, camicia di seta ingiallita, rosa rossa all’occhiello. L’aria da guappo in pensione era completata da una delle sue terribili sigarette, penzolante dalla labbra. Puro catrame, che suo figlio, comandante della marina mercantile, gli portava da chissà dove, secondo Pirri allo smaccato scopo di anticipare l’eredità. Si pavoneggiava per il salone, incassando i complimenti delle signore. Inevitabilmente si avvicinò a Pirri. “Professore mi vedesse! Stasera sono un figurino, smoking, due mazzi, rosa rossa all’occhiello…“ “Posso immaginare… anche le scarpe saranno all’altezza: nere di vernice lucida.” “A dire il vero, sono le mie solite scarpe marroni. Non ne ho altre – ammise Bonanno imbarazzato. – Ma non se n’è accorto nessuno. Lei come ha fatto?” “Il diavolo sta nei dettagli.” “Ha ragione: forse sono un po’ ridicolo. E ho anche esagerato a indossare lo smoking, che oltre tutto mi sta strettissimo. Ma lo rifarei! Alla mia età, chi mi dice che avrò altre occasioni di metterlo?” “Questo sta a lei deciderlo: dica a Margherita che vuole essere infilato nella bara con lo smoking e sarà elegante fino alla consumazione dei secoli. L’ultima occasione per cose del genere si trova sempre. E nel suo caso particolare c’è pure il vantaggio che i morti possono evitare le scarpe.” Bonanno fece i soliti scongiuri. “Va bene, parliamo d’altro. Ripensavo ai discorsi di stamattina... Scarcella avrebbe dovuto immaginare. La reputazione di due ragazze rovinata: in qualunque modo sia finito sul fondo di quel pozzo, se l’era meritato!” Il documentario proseguiva. Una voce femminile, leggermente metallica,
elencava la geografia della guerra fredda: Corea, Indocina, Cuba, Cis-Giordania, Angola, Afghanistan, Cambogia, Somalia… Per superare il volume della televisione e la reciproca sordità, Bonanno gridava, senza peraltro disturbare i presenti, diversi dei quali già dormivano. “Mi porti in corridoio” ordinò Pirri. Detestava quell’uomo, ma in quel momento era il male minore. Tutti quei morti: tanti milioni per la fame, tanti per le malattie, tanti per le guerre, totale per gli ultimi cinquant’anni, tanti in un anno, tanti al giorno, tanti ogni secondo… “Ragazzi, ho sempre odiato la contabilità! E odio pure tutti quelli che calcolano e misurano la superficie delle cose pretendendo, per il solo fatto di scribacchiare numeri sulla carta, di capire cosa sta sotto.”
Si fermarono nel corridoio davanti a un’ampia finestra sul buio dello Stretto. “Comprendo don Peppino Papa se ci ha messo una mano per saldargli il conto” ripeté Bonanno aggiustandosi la rosa. “Cavaliere, se sta un po’ zitto, capirà che i rapporti tra Scarcella e Papa erano più complicati. Dobbiamo partire da lontano.” Pirri assunse la solita posizione scivolata; Bonanno piegò la testa verso di lui per ascoltare la sua voce bassissima. “Quando lo conobbi, Peppino Papa era un uomo fatto. Si vantava di aver visto da bambino il suo omonimo Peppino Garibaldi entrare a cavallo in città come liberatore. In effetti una lapide, posta a pochi i da casa sua, ricordava l’episodio, salvo smentire con la sua data, ventisette luglio 1860, la testimonianza del Nostro, nato una quindicina d’anni dopo. “Peppino crebbe spavaldo e ignorante in quell’età di mezzo in cui la nostra città, memore delle antiche glorie, era già gravida dei futuri squallori. Sul buffet di casa Papa, una foto d’inizio secolo lo coglieva in posa accanto ad una colonnina, vestito di bianco su un finto sfondo montano; alto poco più d’un metro e sessanta, corporatura massiccia, testa tonda, labbra carnose, grandi occhi scuri,
naso grosso, pancia già sporgente: un bell’uomo per i canoni correnti. In gioventù s’era dedicato al commercio di pellami, ma con poco attaccamento: uno dei tanti che assillano, e talvolta disonorano, un mestiere senza un perché. Il mondo allora era quasi fermo e tipi simili, a dispetto dello scarso impegno, potevano rimanere a lungo sul mercato, magari guadagnando bene. Così l’insegna Giuseppe Papa fu Antonio, deposito cuoiami, pellami e tomaie campeggiò per circa quarant’anni all’incrocio tra via Garibaldi e via Canova ai numeri 16 e 17 delle cosiddette case Mazzullo. “Tanto per completare il quadro, aggiungo che nel ‘43, a liberarlo dal lavoro ci pensò la guerra. Comunque le bombe inglesi, distruggendogli magazzino e merci, non gli procurarono un gran danno; fu piuttosto la vecchiaia a togliergli ciò che per lui veramente contava… E questo, caro Bonanno, io e lei lo sappiamo. – L’altro annuì mesto. – Tra i diletti di don Peppino, oltre le femmine allegre, c’erano gli scherzi con gli amici: in questo nel rione non aveva pari. Delle sue imprese, molte il tempo le ha cancellate, altre il mutare dei costumi le ha rese inconcepibili e riprovevoli, qualcuna sopravvive con i colori sbiaditi dei volti dimenticati.” Era la sua frase preferita su don Peppino, e mai mancava di ripeterla. “Doveva essere intorno al venti, quando si seppe della scarcerazione di un pericoloso malvivente. Cambria, così si chiamava, aveva giurato vendetta contro il suo accusatore, Pappalardo. La notorietà del fatto aveva indotto la polizia a mettere sotto protezione quest’ultimo, che per sua sfortuna abitava a pochi i da Papa. Si disse che don Peppino uscì in strada di notte tenendo il mattone avvolto in un foglio di giornale; secondo altri salì sul tetto e lì stesso staccò una tegola; fatto sta che qualcosa volò contro la vetrata della camera da letto di Pappalardo mandandola in frantumi. Le guardie spararono e in pochi istanti l’intero quartiere, che dormiva con un occhio solo, fu in strada. In tanti giurarono di aver visto Cambria dileguarsi: alto e bruno come Rodolfo Valentino; tarchiato e zoppo; rosso e con una lunga cicatrice sul volto; veloce come il vento e dagli occhi di fuoco… I carabinieri lo trovarono quasi subito in una bettola del porto, talmente ubriaco da non servire testimonianze a scagionarlo. Strano che non scoprissero il colpevole: don Peppino già l’indomani si vantava con gli amici, e tra loro c’era pure il maresciallo Caminiti. Forse, in quei tempi frugali, l’aver inventato per tutti una notte d’emozioni invocava la pubblica riconoscenza più che il codice penale.
“Fatti simili consegnarono don Peppino alla mitologia del rione San Leo, che già vantava i natali di San Leone II, Papa di Santa Romana Chiesa nell’oscuro secolo sesto. E anche il più modesto nome di don Peppino Papa ricorreva spesso nei motti, nei brindisi e nelle canzoni con cui si consumava un altro secolo non più fausto dei precedenti. Davanti alla bottega, sotto una pergola, alla pescheria, sulla sabbia della marina, accompagnava col mandolino le sue strofe dialettali. Questi furono i suoi vanti. Dei due secoli che lo divisero, l’uno era troppo indietro, l’altro troppo avanti. Rimpianse, almeno a parole, di aver mancato le glorie risorgimentali, ma in cuor suo dovette felicitarsi di essersi risparmiato le carneficine industriali del novecento.” “Era comunista, se non sbaglio.” “Sì, negli anni venti si era scoperto comunista. Ma non s’inganni: di Marx al massimo sentì parlare. Il suo comunismo non andava oltre il miraggio di donne e ricchezze in comune senza sudore; forse era comunista solo contro l’intollerabile pretesa di Mussolini di farlo lavorare; forse era comunista perché dicevano lo fosse stato il suo eroe, Garibaldi. Certamente la sua rivoluzione non andava oltre la burla, e la militanza contro il capitalismo si fermò allo spavento procurato a un ricco borghese con una pietrata. Non era Lenin, ma forse il secolo non ci avrebbe perso nello scambio.” “Non tocchiamo Lenin.” “Ci tiene ai suoi santi!” rimbeccò Pirri. “Lenin era uno a posto.” “Come sempre furono i suoi successori a sbagliare.” “Perché, non è vero?” “Meglio tornare a don Peppino. Anche lui a modo suo è stato un eroe del comunismo.” “Come, col mandolino?” “L’eroismo di don Peppino, caro cavaliere, fu quello di rifiutare la tessera fascista e la camicia nera durante il Ventennio: avrebbe avuto i suoi vantaggi, eppure ci sputò sopra e non si preoccupò neppure che le autorità lo sapessero.
Non molto, ma neppure poco. Sicuramente molto più di tanti partigiani, spuntati a legioni per difendere l’Italia da Mussolini dopo Piazzale Loreto.” “D’accordo, ma non sfottiamo la Resistenza!” “Ragazzi, di questo discuteremo da soli un’altra volta. Quanto a lei, Bonanno, adesso stia attento perché risponderò alla sua dannata curiosità su Papa e Scarcella.” “Sentiamo.” “Qualche tempo dopo l’impresa ai danni di Pappalardo, don Peppino ne combinò un’altra: ordinò a un sensale una grossa partita di asini da acquistare per conto di un industriale conciario, suo fornitore. Il sensale naturalmente era Scarcella. C’era in ballo una bella somma, ma trattandosi di Papa s’imponeva precauzione: per non urtarne la suscettibilità, l’altro la prese alla lontana. – Compare, mi volete rubare il mestiere. Com’è che questo vostro fornitore si è rivolto a voi e non direttamente a me? – Questione di fiducia, caro compare. Io conosco le bestie, conosco voi e sarò garante dell’affare. “Continuarono per un’ora con simili schermaglie. – Compare, non è per caso, uno dei vostri scherzi? – obiettò alla fine Scarcella vedendo che non ne veniva a capo. Don Peppino era stato abile, ma l’altro sapeva di cos’era capace. “Il vecchio Papa non fece una piega, tirò fuori dalle tasche un rotolo di banconote da venticinque lire, quelle con l’aquila e la testa turrita, e cominciò a distenderle una ad una sul banco con studiata lentezza. – Un acconto per il vostro disturbo, compare. “Se c’era da fare uno scherzo come si deve, don Peppino non badava a spese. Quei soldi valevano mesi di un salario medio e, se tutto fosse andato bene, li avrebbe persi. Ma era fatto così: li reputava ben spesi. “A quel punto ce n’era d’avanzo per convincere Scarcella della serietà delle sue
intenzioni. Il sensale mise in tasca le banconote senza contarle, strinse la mano a don Peppino e per settimane sparì dalla circolazione battendo le campagne. Nel giro di almeno cinquanta chilometri, non evitò una stalla o un casolare: ai padroni delle bestie prometteva cifre generose, tanto più tardi ci sarebbe stato tempo per trattare; quindi, dava convegno per l’ultimo giorno del mese in via Canova, raccomandando di spargere la voce nel circondario. Non era più giovane e quando tornò in città aveva perso cinque chili; puzzava di sterco e la serva prima di farlo entrare in casa lo fece spogliare prendendolo a secchiate sul retro del giardino. In compenso era certo di avere almeno un centinaio di capi sottomano. Prima di mettersi a letto, fece avvisare don Peppino che la mercanzia sarebbe arrivata l’indomani. “Sul numero si era sbagliato, ma per difetto. I primi giunsero che era ancora buio. All’alba la via che dalle colline costeggiava gli argini del torrente Giostra brulicava di almeno trecento bestie e dei loro rustici accompagnatori; una fila simile scendeva dalla via per Palermo e ambedue convergevano sulla Fontana Nuova. Alcuni erano in viaggio da due giorni; fecero colazione con pane nero, pecorino e ulive, attesero che il sole s’alzasse un poco, s’infilarono le scarpe di pelo fin lì portate a tracolla per risparmiarle, infine si presentarono con la coppola in mano al cancello di Scarcella che era già pronto. “Si accodarono verso via Canova dietro il sensale, elegante nell’impeccabile completo bianco con l’inseparabile panama. Allora tutti erano mattinieri: lo spettacolo non ò inosservato. – Don Lillo, che sta succedendo? – chiedevano dai balconi al condottiero di quello strano esercito. – Niente compare, un affaruccio… – si schermiva, e già cominciava a sentirsi inquieto. A ogni svolta si girava indietro con finta indifferenza, immaginando la campagna lontana: su per le valli verso le montagne, la colonna di uomini e bestie da lui stesso evocata dal cuore di tenebra della Sicilia sembrava non finire mai. “Doveva percorrere qualche centinaio di metri, ma gli parve ci volessero ore per arrivare. A casa Papa, le imposte erano insolitamente serrate. Il sensale accostò svelto il portone, scuotendo la camla con un’energia traditrice. Trascorse un minuto e, siccome nessuno rispondeva, scrollò di nuovo la camla, quasi staccandola. Gli zotici attorno a lui tacevano e non era chiaro se fossero torvi di
natura o se già sospettassero qualcosa. S’era pure raccolta una discreta folla di curiosi. “Don Peppino stava acquattato da un pezzo dietro le persiane. Attese altre quattro scamlate, si arruffò i capelli a bella posta, spalancò le imposte facendo il maggior fracasso possibile e già dalla strada si sentivano le sue invettive. Apparve sul balcone in camicia da notte bianca e papalina. – Che modo è questo di svegliare i cristiani! Chi vi ha insegnato la buona creanza! Questa è una casa onorata! Non un bordello dove si suona come e quando a per la testa! Qui abitano una donna onesta e tre ragazze illibate! – La voce grossa, ruggiva come un leone, malediceva, bestemmiava, faceva a pezzi i gerani, mulinava i vasi minacciando di scagliarli. Fu la sua scena madre, capolavoro di un grande istrione, attacco non indegno di un più famoso duetto dal balcone. “Don Lillo aveva capito tutto già dalla seconda battuta. In altre circostanze sarebbe stato il primo a sbellicarsi, ma gl’imperscrutabili campagnoli gli si stringevano intorno. – Don Peppino, non scherzate! Ho portato gli asini che mi avete chiesto! – Don Lillo, voi pazziate! Quali asini e asini? Non vi ho chiesto niente! E senza offesa, l’unico asino che conosco siete voi! – Ma come! L’altro giorno, nella vostra bottega! – Scarcella davanti ai contadini non accennò al robusto acconto, ma quelli lo serravano sempre più muti e feroci. Già si sentiva tirare la falda della giacca, e c’era solo da prender tempo nella speranza di un miracolo. “Intanto la folla si godeva la scena dal marciapiede di fronte, e Scarcella si consolava pensando che tanti amici avrebbero impedito ai campagnoli di linciarlo. Ma quelli erano quasi un centinaio, robusti, armati di bastoni, usi ad adoperarli e malintenzionati a farlo. “Anche don Peppino si era reso conto che le cose potevano mettersi male. Cercò a modo suo di trarlo d’impaccio. – …e va bene, stamattina mi sento buono. E per non fare pensare a questi galantuomini che vi accompagnano di avere qualcosa contro gli asini, invito voi,
che siete il più grande asino di tutti, a bere un bicchierino a casa mia. “L’idea non era cattiva, ma come si dice: contadino scarpe grosse, cervello fino. Appena Scarcella accennò a guadagnare il portone, quelli lo agguantarono dalle spalle e uno gli si parò davanti puntandolo col bastone. – E allora, don Scarcella, dov’è questo ricchissimo commerciante che vuole comprare i nostri asini? “La situazione precipitava. – Arrivano i carabinieri! I carabinieri! I carabinieri! – gridò a quel punto don Peppino dal balcone. E siccome ancora ci si ricordava di Bava Beccaris e alla parola carabinieri la gente se la faceva addosso, l’espediente ebbe effetto. La folla ondeggiò echeggiando i carabinieri! i carabinieri! I bifolchi d’istinto lasciarono Scarcella, ritirandosi di qualche o. Si guardarono intorno scoprendo un ambiente ignoto e ostile: d’assedianti che erano si sentirono assediati da quei palazzi alti tre piani. Dagli spiragli tra le case si vedevano solo altre case. Case, strade e case in un labirinto senza fine. “Scarcella approfittò dello sbandamento per scappare verso la marina. Alcuni campagnoli se ne accorsero, tentennando per qualche istante se era il caso di acchiapparlo. Si guardarono negli occhi incoraggiandosi a vicenda e scattarono all’inseguimento. Giovani e lesti di gambe, dovevano recuperare solo una cinquantina di metri: il sensale non aveva scampo. “In quel momento la sagoma tonda del maresciallo Caminiti risaliva dondolando dalla marina, canna da pesca in una mano, secchio di latta nell’altra. Non era quella la sua strada, ma dalla spiaggia aveva avvertito un’insolita puzza di stalla e l’istinto di sbirro gli aveva suggerito di controllare. “Vedendo Scarcella venirgli incontro invocando aiuto con un gruppo di cafoni alle calcagna, immaginò che quelli delle campagne erano calati in città per la rivoluzione proletaria. Il maresciallo aveva ereditato un ammezzato da suo padre, e questa proprietà fortuita, nella disputa tra bolscevichi e capitalisti, lo faceva senz’altro propendere per i secondi. Pensando che i rivoluzionari ce l’avessero pure con lui, non si sa se come tutore dell’ordine o come possidente, rimase incerto se proteggere il sensale intimando l’alt o precederlo nella fuga. Nel dubbio lasciò cadere secchio e canna rimanendo pietrificato sul marciapiedi. Per fortuna bastò la divisa: gl’inseguitori appena lo videro da lontano fecero
dietro front, mentre Scarcella piombava esausto tra le sue braccia. “Le spiegazioni furono brevi. Caminiti, rassicurato per la sorte delle sue due stanze basse, scoppiò in una gran risata. Si ricompose con calma e solo allora si diresse verso casa Papa, rivestito della sicurezza e dell’autorità dell’Arma. “Intanto i villani si erano riorganizzati: sotto gli occhi divertiti della folla, tentavano l’assalto del balcone, alto per fortuna almeno quattro metri dalla strada. In mancanza di scale, lo bersagliavano d’indecifrabili improperi e di letame. Don Peppino si era prudentemente ritirato e adesso da dietro le persiane giungevano le urla, vere, delle sue donne. “Non sarebbe stato facile per il maresciallo ristabilire l’ordine. Gli assalitori non volevano sentire ragioni: sfumato il guadagno, restava loro la rappresaglia, e non volevano rimetterci anche quella. Caminiti, giudicandoli nel giusto e non trovando grossi pericoli in quell’onesto sfogo, li lasciò fare, andandosi a godere la scena in mezzo alla folla. – State tranquillo, don Peppino, ci sono io a difendervi – si limitava a tuonare, suscitando altre risate tra la gente. “ò forse un’altra ora. Sparsasi la notizia della rivoluzione, dalla prefettura mandarono un drappello di carabinieri a cavallo. Qualche sciabolata di piatto sostituì i cannoni di Milano e l’intero rione venne sgomberato. Oltre la casa dei Papa, anche il villino di Scarcella venne imbrattato, e tra quello che gli asini lasciarono per le strade e quello che i loro padroni lanciarono in giro durante la ritirata, gli spazzini lavorarono almeno una settimana. L’inchiesta, affidata sul posto al solito Caminiti, parlò di spontanea sommossa popolare. “La cosa non finì lì. Per diverso tempo ancora, tristi figuri continuarono ad appostarsi agli angoli del quartiere con intenzioni ostili. Don Peppino rimase asserragliato in casa, la bottega chiusa e tutta la famiglia campava di pane, patate, uova e minestra mandate da mia madre. Io, allora ragazzino, ero incaricato di consegnare il fagotto. Socchiudevano il grande porticato e per un istante quella fessura illuminava occhi neri di pupille, di rabbia e di paura. Poi richiudevano con un lungo sferragliare di chiavistelli e catenacci. Dalla strada si coglieva lo stesso sciabolare d’occhi attraverso le persiane.” “E Scarcella?”
“Scarcella si trasferì per qualche mese dalle parti di Catania; e al suo ritorno lo attendeva una testa d’agnello mozzata sulla soglia di casa. Si disse di un macabro avvertimento dei contadini, ma secondo me anche quella fu una trovata dell’incorreggibile don Peppino.” “Allora è chiaro: molti anni dopo Scarcella restituì a Papa lo scherzo degli asini montando quell’equivoco ai danni delle sue figlie. Sarebbe stata una bella vendetta. Peccato che valutò male le conseguenze del suo gesto e ci lasciò la pelle” concluse Bonanno soddisfatto. Pirri, spingendo sui braccioli della sedia, tese all’indietro il collo indolenzito. “La verità è come l’alba: rischiara a poco a poco. E in certi giorni di cattivo tempo non rischiara affatto.”
VI
Di solito a Villa Felice si cenava alle sei di sera, ma in quell’occasione speciale si prevedeva di tardare. Anche il salone era stato vestito di gala: candele, candeline, festoni alle finestre e ai lampadari, i tavoli con le tovaglie natalizie, l’albero con le lucine blu, l’angolo del presepe... A dispetto degli sforzi, di parenti se ne videro pochi. Il figlio di Bonanno, Eugenio, giunse di fretta, riferì di un imprecisato impegno alla capitaneria di porto, mollò nelle mani paterne un’altra micidiale stecca di sigarette avvolta in carta regalo stropicciata, e scomparve. Più o meno così un’altra mezza dozzina di discendenti. Il figlio dell’avvocato Carlo Magno Provvidenti, un tempo quotato cassazionista e deputato per una legislatura, giunse con la moglie e i due rampolli. La signora, alta ed elegante nel giubbotto di visone, eluse il tentativo d’abbraccio del vecchio allungandogli due dita, poi rimase impalata a qualche o di distanza, strofinandosi la mano con un fazzoletto ricamato. I bambini, occhi azzurri e capelli biondi, tali e quali i principini di una vecchia favola, si addentrarono nel salone come tra i viali di uno zoo; con l’incoscienza dell’età provarono persino a toccare le strane creature dagli occhi tristi, bavose e raggrinzite, che in quello strano posto lasciavano fuori dalle gabbie. Avevano quasi concluso che non dovevano essere pericolose, quando la mamma, che li seguiva da lontano, con un gesto imperioso ordinò loro di tornare. Un altero sibilo di rimprovero precedette altri strofinii di mani e fazzoletti. Quando finalmente Carlo Magno junior capì dalle occhiatacce della moglie di non aver più nulla da dirsi con suo padre, si congedò. “Non preoccuparti, a pagare il mensile ci penso io.” La signora allungò le due dita di prima, stringendo già nell’altra mano il fazzoletto; i bambini fecero al nonno un leggero inchino a distanza, come da
istruzioni.
Brodino per tutti, pollo al forno per chi poteva masticare, frullato per gli altri, formaggio per chi la sera riusciva a digerirlo, acqua a volontà (tanto prima d’andare a letto c’è tempo per cambiare il pannolone), vino ma non troppo, frutta fresca e l’immancabile panettone. Pirri naturalmente pretese per cena la solita zuppa di biscotti nel latte. La sorbì, imboccato da Margherita, ingoiò la solita pillola che non ricordava cosa curasse, chiese un plaid e si fece collocare accanto alla televisione. In quel momento il posto era occupato da Miriam, la figlia della cuoca. La donna, non avendo di solito a chi lasciarla, la portava spesso alla villa, dove, grazie al suo carattere dolce, era diventata una specie di mascotte. Miriam, che aveva dieci anni, spostò tentoni la sedia per fare spazio al vecchio. “Prendi il telecomando” disse allungando il braccio esile verso il professore. “Tienilo tu. Ascolterò anch’io il cartone animato”. La bambina – sua complice nel dono avvelenato di vedere cose invisibili a chi crede di vederci – impersonava l’unica eccezione alla misantropia del professore. Calda e carnosa tra un mucchio d’ossa aride, Pirri trattenne la piccola mano tra le sue; e così rimasero, insieme a Titti e Silvestro che s’inseguivano. Miriam aveva già seguito quel cartone insieme alla mamma. Le piaceva riascoltare i cartoni. Anzi rivederli, cioè inventarli. E ormai la matita della sua fantasia era capace di sfumature e dettagli sconosciuti al miglior disegnatore. E siccome quel vecchio professore le stava più simpatico degli altri – forse perché era l’unico a non prometterle che avrebbe riacquistato la vista – quella sera gli raccontò i cartoni come la mamma faceva con lei. E per la prima volta Pirri vide un cartone animato, ma soprattutto ascoltò una storia a lieto fine senza avere nulla da ridire. Silvestro si era stampato contro un albero, Titti cinguettava e Pirri si trovava a suo agio in quel mondo menzognero in cui di regola i canarini prevalgono sui gatti come pecore sui lupi. “Vieni Miriam, è ora di mangiare.” Rosetta era venuta a prendere la figlia.
“Grazie per avermi fatto compagnia. A più tardi.” La bambina sfilò la mano, accarezzandolo, e Pirri rimase a stringere il guscio di gomma del telecomando. Il sogno evocato da Miriam svaniva adesso in un’accozzaglia di suoni sconnessi e indecifrabili. Tornò presto nello stato d’animo abituale. Cambiava canale febbrilmente: varietà, cartone animato, film di Natale, altro varietà, altro cartone… “Cari ragazzi, finisce l’anno: felicità e buoni sentimenti almeno per oggi sono obbligatori. Domani torneremo a scannarci.” Trovò un telegiornale. Anche in quell’ultimo sprazzo, il Novecento non si smentiva. Tiberiade, autobomba dei terroristi palestinesi, tre vittime israeliane… Striscia di Gaza: rappresaglia israeliana, quattro palestinesi morti. “Proprio così, ragazzi, i palestinesi morti dovevano proprio essere quattro: tre per pattare e uno per soprammercato. La prossima volta agli altri toccherà farne fuori almeno due se vogliono tornare in vantaggio.” La giornata carica di tutti i pesi del secolo l’aveva estenuato. Cercò il telecomando tra le pieghe del plaid, premette più volte i tasti a vuoto, si accorse che lo impugnava al contrario, spinse ancora con troppa forza un paio di tasti e finalmente quella voce sinistra tacque. Dall’altra parte della stanza, i giovani della parrocchia suonavano melodie d’inizio secolo calcando la mano con i bassi ma il pubblico non aveva da ridire. “Ragazzi, questi sentirebbero appena lo squillo terrificante delle trombe del giudizio.” Chiese l’orario. Due ore abbondanti a mezzanotte. “Ragazzi, il Novecento è duro a morire. L’hanno chiamato il secolo breve ma a me è sembrato fin troppo lungo.” In mezzo ai tavoli sparecchiati rimaneva qualche dentiera, mezzo panettone e le bottiglie di spumante ancora da stappare.
“L’hanno chiamato pure il secolo delle idee assassine, e questo è verissimo.” Due vecchi erano crollati con la testa sul tavolo, un altro, nello sforzo di rimanere dritto, artigliava la tovaglia tirandola dalla sua parte. “Il Novecento muore ma le idee assassine resteranno. Eredità ai tempi nuovi, che nuovi non saranno affatto.”
Verso le dieci arrivò Angelo Caruso, il becchino di fiducia del pensionato. Grisaglia d’ordinanza, solita barba incolta, occhi chiari scavati dalle troppe notti insonni di chi lavora per un datore senza orario come la morte. La sua apparizione suscitò un incrociarsi di sguardi interrogativi. “Tranquilli, stasera sono in visita di cortesia! Ma non fateci l’abitudine!” scherzò bonario. Strinse mani tremolanti, accarezzò, baciò; chiamava tutti papà, mamma, nonno e nonna; saltando da una sedia all’altra dava fondo al suo vasto repertorio di barzellette e battute sconce; si complimentò con Bonanno per la sua sciccheria, sfilandogli la rosa dall’occhiello. Non contento dei sorrisi che finalmente apparivano sulle bocche sdentate, decise di organizzare una tombola. “Primo premio per il tombolone: funerali gratis; per l’ambo: solo la corona di fiori – proclamò entusiasta. Poi senza volerlo mosse lo sguardo in giro per la stanza e un’ombra gli scese sul volto. – No – corresse cambiando tono. – I funerali ai vostri parenti li faremo pagare il doppio.” Scattò un applauso accompagnato da qualche lacrima. Lasciò perdere i premi, magari più tardi gli sarebbe venuta qualche idea migliore. Con l’aiuto di Margherita e Rosetta riunì i tavoli, sedendo intorno quelli in condizione di giocare. “Vieni Miriam, tu estrai i numeri e io li chiamo, così nessuno potrà dire che imbrogliamo.” Mise la bambina in piedi sulla sedia a capotavola, le diede il bussolotto e lei cominciò a estrarre.
“Primo numero: venti-due” proclamò Caruso, scandendo forte ogni cifra. “Il pazzo” rimandò la signorina Di Blasi, immancabile esperta della cabala. “Come? Trentadue?” chiese uno dei vecchi più lontani. “Quarantadue. È uscito il quarantadue” lo rimbeccò la vedova Marotta. “Quarantadue o settantadue?” s’intromise un altro. Caruso, paziente, ripeteva ogni numero almeno quattro volte. Dopo cinque o sei estrazioni li ripeteva tutti, e in un quarto d’ora non era ancora uscito l’ambo. “Ottant - otto.” “Gli occhiali del Papa” commentò maliziosa la Di Blasi dando di gomito alla Marotta. Caruso continuava a chiamare. Distribuiva la sorte ai vecchi, chiedendosi cosa in realtà significassero quei numeri e se ci fosse una volontà o un ordine occulto nella loro destinazione. E lo perseguitava il sospetto che anche nell’innocenza di quel gioco stesse facendo il solito mestiere di servitore della morte.
VII
Pirri era rimasto in disparte, sottratto dai suoi occhi inutili a un gioco detestato. Se ne stava immerso in pensieri tortuosi tra l’albero e il televisore, quando ci pensò il solito Bonanno a disturbarlo. Gli era venuta voglia di fumare e non era tipo da eggiate solitarie. “Professore, facciamo quattro i.” Si ritrovò in corridoio prima di poter rifiutare. Erano già al portone quando l’altro ci ripensò. “Non è che uscire a quest’ora può farci male?” “Se ha paura di non arrivare a capodanno, può stare tranquillo: non esiste una polmonite tanto fulminante. Ormai per fermarla possono solo spararle.” Alla fine rimasero in casa davanti alla solita vetrata. Le luci tremule della Calabria punteggiavano il buio; lungo lo Stretto ombre di navi aleggiavano con i loro fanali lenti. “Brava persona quel Caruso” commentò Bonanno. “Sarà venuto a contare quante casse da morto gli serviranno per il prossimo semestre. Forse ha l’occasione di ottenere qualche sconto con un ordine importante” lo fulminò Pirri. Sapeva di essere ingiusto con Caruso, ma troppe cose l’avevano messo di malumore. “Va be’, parliamo d’altro.” “Magari delle sorelle Papa. Tanto per cambiare.”
“Infatti. Com’è che don Peppino fu così ingenuo da cadere nella trappola di Scarcella? Sapeva che quello aveva buone ragioni per rendergli la pariglia.” “Scarcella non nutriva rancore verso don Peppino. Anzi…” Pirri lasciò in sospeso la frase. A pochi centimetri dalle sue orecchie, sentiva gl’ingranaggi della testa di Bonanno a pieni giri nello sforzo di dare un senso alle sue parole. Riprese. “Scarcella era un uomo di spirito. A quel tempo tutti facevano scherzi e ne ricevevano: stare al gioco significava essere uomini di mondo. E poi, in fondo, dalla faccenda degli asini gli era rimasto in tasca il generoso acconto. A dimostrazione che non portava rancore, aveva proposto a don Peppino di rendergli la somma. Quello naturalmente rifiutò e i due erano rimasti più amici che mai.”
La voce di Caruso continuava ad arrivare dal salone. “Due.” “Come?” “Due.” “Lo scherzo.” “È uscito il cinque?” “No.” “E il nove” “Neppure. Ora chiamiamo il venti-tré.” “L’asino.” “Ambo!”
“Papa e Scarcella erano rimasti amici? Ma così torniamo al punto di partenza” rifletté Bonanno, perso. “Penso che Scarcella intendesse in extremis chiarire tutto con mio padre. Se noi avessimo accettato Grazia, le cose si sarebbero messe a posto, e per non perdere la dote, probabilmente mio padre si sarebbe piegato. In caso contrario si sarebbe rivolto a don Peppino, e se anche lui si fosse intestardito, si poteva ancora annullare tutto con discrezione, senza troppi danni. Siccome questo non avvenne, concludo che morì prima, e quindi che Papa non c’entrasse con la sua scomparsa.” “E così, secondo lei, Scarcella avrebbe voluto sistemare le cose distruggendo con le sue mani una vendetta già pronta? “Amicizia a parte. Scarcella era all’antica, con un suo codice d’onore: non avrebbe sputtanato due ragazze per fare torto al loro padre. E non perché credeva che due femmine potessero valere qualcosa, ma proprio per il motivo opposto: erano un bersaglio troppo meschino per un vero uomo. In altre parole le femmine, più che al di sopra, erano al di sotto di una vera vendetta. “Per questo, se non fosse morto, all’ultimo momento avrebbe fermato tutto. Ammesso che cercasse la vendetta, e io non credo, questa sarebbe stata quella di mettersi davanti a don Peppino e dirgli: io potevo rovinarvi le figlie ma non l’ho fatto. Adesso siete mio! E uno come don Peppino, col suo smisurato orgoglio, sarebbe rimasto impietrito sapendosi suo debitore per una cosa così importante. Ma tutte queste sono congetture campate in aria che trascurano un altro fatto.” “C’è altro?” Pirri per l’ennesima volta si lasciò scivolare lungo la sedia. “Qualche giorno prima di conoscere i progetti di mio padre e Scarcella sul mio fidanzamento, un ragazzino mi consegnò un messaggio per strada. Grafia e firma erano quelle rozze di Grazia Papa. Mi chiedeva, con le precauzioni dovute all’onore di un casa onesta, di presentarmi da lei l’indomani alle undici del mattino. Conoscevo Grazia a malapena: l’appuntamento galante per fortuna era da escludersi. Anche in questo caso lo scherzo era l’ipotesi più probabile e l’amico Rocco Salvo, che abitava proprio sopra i Papa, era il candidato ideale per una simile pensata. Nel dubbio, il messaggio m’incuriosì e al contempo m’irritò per quell’accostamento a Grazia Papa che in ogni caso mi risultava
sgradevole. “Comunque, l’indomani, all’orario fissato, mi accostai al portone di fronte, trovandolo aperto. Pensavo di salire direttamente al secondo piano da Rocco, ma attraversando il pianerottolo dei Papa sentii scattare una serratura. La porta venne socchiusa e la figura minuta di Giovanna Papa fece capolino: ero atteso. E qui, cavaliere, mi concedo una divagazione.” “Faccia pure, manca più di un’ora a mezzanotte.”
“Venti-sei.” “Il vecchio.” “Ottanta-nove.” “Il cavaliere.”
“Giovanna Papa, don Peppino l’aveva sposata a quattordici anni. Si dice che a quell’epoca la gente maturasse prima e che Maria di Nazareth non fosse più vecchia quando sposò un altro don Peppino; ma anche in questo caso meno illustre, e fatto salvo il mistero del concepimento verginale di Nostro Signore, tra le comari correva voce di una riparazione. Si aggiungeva pure che la famiglia di lei, farmacisti, non avesse giubilato per le nozze: probabile che pregi e difetti del nostro don Peppino fossero completi già dall’adolescenza. “Giovanna ava per una santa donna, di quelle che sopportavano in silenzio le bizzarrie e i tradimenti del marito. Era l’epoca del maschio cacciatore, le cui libertà si tolleravano senza infamia, se non con comprensione e orgoglio; il progresso avrebbe poi esteso tali licenze all’altro sesso, non saprei con quali vantaggi. Ragazzi miei, la strana aritmetica degli errori moltiplica, invece di sottrarre, quelli di segno opposto. Giovanna, invece, si sacrificava senza ripicche: nella sua semplicità doveva aver capito che torti e ragioni sono fili intrecciati nella trama maligna che ci avvolge tutti; e per chissà quali vie aveva scoperto che noi stessi siamo le prime vittime dei nostri abusi come delle nostre vendette.
“Era questa la donna furtiva che quella mattina m’introdusse in casa. L’ampia sala rettangolare era male illuminata da un’unica lampadina che pendeva dal soffitto pesantemente affrescato. Mostruosi pavoni confusi a motivi floreali sorvegliavano dall’alto. Giovanna chiuse il portoncino con circospezione e solo allora mi salutò dandomi del Voi, sebbene mi conoscesse fin da neonato. “Grazia e Concetta aspettavano nel salotto, appaiate sul sofà; la madre prese posto sulla poltroncina a destra, le spalle alla persiana, in leggera penombra; io dalla parte opposta. Grazia fu l’unica a parlare. La camicetta chiara aderente e una lunga gonna verde scuro rendevano spietata giustizia alle sue forme. “Con poche parole, recitate come a memoria dopo un accurato studio, espose il progetto nuziale di Scarcella, a cui suo padre aveva aderito. Evitò parole di biasimo, limitandosi a concludere: – Non intendo sposarvi. Dovete mandare a monte questo matrimonio! – E per un istante un lampo febbrile nei suoi occhi le diede un’imprevedibile attrattiva. “Le altre due annuirono. Io sorrisi, pensando più all’intimazione dei bravi a don Abbondio, che alla situazione in cui avevo appena scoperto di trovarmi. Le donne alla mia reazione svagata s’irrigidirono, temendomi già informato e consenziente. “Ero giovane, ancora sano, di aspetto fisico non disprezzabile, titolare di cattedra e stipendio sicuro. Nel mio orgoglio, mi credevo appetibile per una giovane dalle limitate prospettive come Grazia Papa. Non che m’importasse, ma pensai che dovesse esserci un altro uomo di mezzo. Buttai là: – Siete forse già fidanzata? In segreto, intendo… – Come vi permettete? – replicò lei offesa. – Non sposerò voi, né nessun altro! Piuttosto mi faccio monaca di clausura! “Alzò le braccia, melodrammatica. Anche l’ultima battuta doveva essere preparata, e qui Grazia smarrì la dignità che prima avevo ammirato. Colsi dell’altro nel suo sguardo: mi guardava impaurita e astiosa come faceva con suo padre. A dispetto dei modi compiti e del linguaggio forbito, ero anch’io un emissario di quel mondo rozzo, violento e volgare che don Peppino somministrava loro ogni giorno rientrando in casa; col suo puzzo di vino e di donnine, con la sua risata crassa, i modi maneschi e le bestemmie. Grazia, e pure Concetta, nella sua apparenza di silenziosa spalla, con quella messa in scena
proclamavano che il sacrificio di Giovanna sull’altare del matrimonio era bastato. “Tranquillizzai quindi le mie ospiti, confessando di essere all’oscuro della vicenda e di concordare sull’opposizione al matrimonio. “Grazia si ricompose. Disse che a Scarcella avrebbero pensato loro. Su questo punto in verità fu ambigua: alluse appena a un certo frate. Immaginai si trattasse di qualcuno del vicino convento di San sco di Paola con cui il sensale era in affari. “Rimanevano mio padre e don Peppino, i quali difficilmente avrebbero cambiato idea. Anzi, ammesso che lo stesso Scarcella, voltando faccia, li avesse sconsigliati, probabilmente si sarebbero incaponiti, sospettando ognuno dalla sua parte che qualcun altro si fosse messo di mezzo. Né un approccio diretto da parte nostra sarebbe servito a qualcosa: nessuno dei due vecchi sospettava che il consenso degli sposi fosse indispensabile, o quanto meno utile, in un matrimonio. Un esplicito rifiuto sarebbe stato solo fonte di litigi e minacce. Io stesso, che rischiavo meno, con ogni probabilità sarei finito fuori casa. “Grazia quindi mi espose un piano più ardito e promettente: lo scambio tra lei e Concetta. Ignoro se fosse frutto di consulti femminili nel vicinato, o se addirittura si rife a qualche storia dell’antico testamento sentita in chiesa. L’idea, ragazzi miei, era meno strana di quello che adesso potrebbe sembrare: allora, capitava che si entrasse in una casa a chiedere la mano di una sorella e se ne uscisse un’ora dopo impegnati con un’altra, magari più brutta e vecchia ma meglio dotata. Quindi lo stratagemma aveva una sua dignità, o quanto meno, una collaudata tradizione; sebbene nel nostro caso puntasse all’originale scopo di non celebrare alcun matrimonio. E in questo stava la sua genialità. “Prima di congedarmi, chiesi se avessero considerato l’inevitabile scandalo di cui sarebbero state le principali vittime. – È proprio quello che vogliamo – fu la risposta lapidaria.
“Sessanta-sei.” “La zitella.”
“È uscito il ventitré?” “Sì.” “Ambo! Ambo!” “Compare, l’ambo l’hanno già fatto: andiamo per il terno...”
“Tutto era stato detto. Giovanna si alzò per accompagnarmi alla porta. Violando le più comuni regole di buona creanza, non mi avevano neppure offerto un bicchierino: doveva esser chiaro che con me, o con chiunque altro, non volevano avere a che fare. Nell’androne, ebbi una sensazione di fresco, di aria nuova piacevolmente diversa da quella stagnante della casa. Quelle donne, a cui don Peppino aveva imposto un mondo ottuso e ristretto, se ne ammantavano per difendersi da quello esterno. Cari ragazzi, a modo loro una scelta eroica: l’eroismo continuo e minuto di eludere un nemico inesauribile: il mondo. Eludere, badate bene, non affrontare. Non una semplice serie di gesti risoluti, ma un’esistenza – ragazzi, questa vita potrebbe essere tutto il tempo a nostra disposizione e quindi la nostra eternità – consumata nel timore di un ignoto ostile, mai completamente manifesto…” Vedendolo uscire per la tangente, Bonanno si affrettò a ridargli la rotta. “Le sorelle quindi accennarono a Scarcella, senza chiarire come intendessero convincerlo a are dalla loro parte. Poi le cose si misero in modo tale che sarebbe bastato il suo silenzio. Parenti di farmacista, allora si usava scambiare pietanze tra vicini. Abboccano la moglie, la reputano una poco di buono, ma date le circostanze non si formalizzano. Le fanno avere qualche manicaretto avvelenato, Scarcella mangia, va a prendere l’acqua dal pozzo, si sente male e ci finisce dentro per sempre. Complicato, ma non troppo.” “Lei è proprio fissato! Vede gialli dappertutto. Ragioni! Se l’avessero avvelenato sarebbe stata male pure la moglie!” “Forse avevano scelto un piatto che piaceva solo a lui.” “Come devo dirle che Scarcella cadde nel pozzo da solo?”
“Va bene… – Bonanno sospirò poco convinto. – Mi levi almeno una curiosità: cosa accadde dopo? Che fine fecero le sorelle Papa?”
“Venti-quattro” “La femmina.” “Terno, terno” gridò stridula la Di Blasi.
“Come ho già detto, nel ’34 mi arruolai in aviazione e poi partii volontario per la Spagna, dove persi la gamba. La qual cosa mi evitò la successiva carneficina. Magari sarei finito sul Don… Comunque, nel ’37 tornai malvolentieri in famiglia, invalido, ad aspettare la seconda guerra mondiale. A partire dal ’42 la città fu pesantemente bombardata e quasi tutti ci rifugiammo in campagna. “Alla fine la guerra, arrivata con proclami e fanfare, andò via con i copertoni ai piedi e il pane nero a tavola. Qualche mese dopo di noi, anche i Papa tornarono nel solito appartamento di via Canova, davanti al giardino a mare che all’epoca chiamavamo lo Chalet… Cavaliere, ricorda lo Chalet?” “E come no! Io abitavo a Boccetta e da bambino scendevo allo Chalet a pescare con mio padre. C’era il palco con l’orchestrina tra gli alberi, i carrettini con le bibite ghiacciate e i gelati, le panchine attorno alle fontane, i vecchi seduti sotto il monumento ai caduti di Adua sempre a raccontare le stesse storie, i giovanotti che corteggiavano le signorine lungo i viali...” “Il mondo intanto s’era messo a correre: i Papa, prima benestanti, sperimentavano adesso dignitose ristrettezze, e presto l’età avanzata di don Peppino promosse Grazia e Concetta a responsabili di se stesse. Abiti scuri con piccole fantasie dozzinali, qualche mobile ereditato già dai loro vecchi, incorniciavano giornate meccaniche scandite da grossi orologi a molla. La sveglia alle cinque del mattino, l’aroma dell’orzo – dall’autarchia lo chiamavano caffè – le zuccherate da inzuppare, la spesa al mercato del Muricello, il pranzo verso le undici, il breve riposo, la eggiata nel primissimo pomeriggio per le vie deserte del centro, il rincasare prima dell’Ave Maria, la cena d’avanzi, precedevano il sonno. Solo in anni recenti osarono indugiare un altro po’ alla
televisione.”
“Settant-uno.” “La menzogna.”
“E la televisione suonava in casa sempre nuovi allarmi: una specie di palombaro era salito a sfidare Dio sulla luna; la legge sull’aborto riportava i tempi di Erode e la strage degl’innocenti. Si parlava di referendum e loro pensavano alle pratiche più abiette. Il divorzio soprattutto. Loro avevano dovuto scegliere tra l’eremo del nubilato e la gabbia del matrimonio, adesso una svergognata qualunque poteva cambiare marito a piacimento: il mondo presto avrebbe traboccato di buttane, cornuti e figli di nessuno. Anche il tempo non era più quello di una volta: non c’erano mezze stagioni, non si sapeva più come vestirsi, per mesi non pioveva e poi veniva giù il diluvio. C’era pure quella malattia col nome americano che per fortuna, ammazzava solo finocchi e drogati.” “Su questo io la penso esattamente come loro: certe cose non si fanno, e se si fanno Dio le fa giustamente pagare” sentenziò Bonanno d’incauto pregiudizio. “Giusto castigo divino... ovvio. E come potrebbe Dio essere ingiusto? Dio è giusto per definizione: se lo facciamo ingiusto dobbiamo cambiargli nome. Il punto è un altro: vedete ragazzi, il nostro geometra si crede con la coscienza a posto per aver fottuto solo qualche brutta femmina e fumato tabacco al posto di marijuana e coca. Ma potrebbe aver sbagliato i conti.“ “Non si permetta: mia moglie non era brutta! E poi che fa, difende finocchi e drogati?” “Mai difeso nessuno: nessuno è difendibile.” “Torniamo alle sorelle Papa che è meglio...“ “Non resta molto da dire. Le si vedeva spesso in chiesa, i capelli avvolti nel fazzoletto scuro, ma davanti alle loro preghiere c’era più il Padre di Abramo che quello di Cristo; un padre incomprensibile, autoritario e collerico come quello
che le aveva generate. Consolazione ebbero invece dalla Madonna, nelle cui vesti di Addolorata riconoscevano loro madre prim’ancora che se stesse. E grande affidamento riposero in alcuni Santi, posti senza empietà sul trono più alto del loro empireo. San sco di Paola innanzitutto; il Santo Padre, così lo chiamavano, le proteggeva da un capezzale ad olio appeso sopra il letto, e pure da una statua di cera sotto una calotta di vetro poggiata sul marmo del settimino.” “Tagliamo professore: mezzanotte s’avvicina!” “Già, s’avvicina… Grazia furba e autoritaria, Concetta condiscendente e isterica. Eppure la vecchiaia le aveva unite: alla fine, Grazia, l’unica che ci vedeva, leggeva il giornale per tutte e due, mentre Concetta, che più o meno sentiva, rispondeva al telefono.” “Sembra una barzelletta dei carabinieri.” “La barzelletta sta per finire. Negli ultimi tempi prima di trasferirmi qui, mi affacciavo sul nulla dal mio balcone e le sapevo di fronte senza vederle. Avvolte nello scialle di lana, spiavano i anti da dietro le persiane, la mano ossuta aggrappata alla maniglia, lo sguardo affilato attraverso le stecche oblique...”
“QuattordiciQQWWEEuattordiciQQQqqqq” chiamò ancora la voce arrochita di Caruso. “Le ossa.” “Come? La fossa?” “Compare, ma l’apparecchio le funziona? Ho detto le ossa!” “Venti.” “L’angelo.” Margherita e Rosetta, in camice bianco, volteggiavano attorno al tavolo. Sussurravano, indicavano, controllavano, dirigevano dita incerte, sollevavano e abbassavano le serrandine delle cartelle, affinché al tempo giusto a nessuno
mancasse il premio. “Settanta-due.” “Invidia.” “Quaterna!” “Comare, controlliamo i numeri” chiese la Di Blasi, diffidente. “Due, ventidue, settantadue e ottantotto... cara comare!” rispose l’altra, piccata.
I i strascicati dell’onorevole Provvidenti risuonarono nel corridoio semibuio, Bruno lo teneva sottobraccio. Aveva insistito per essere messo a letto e non era servito a niente dirgli che mancava poco a mezzanotte. ando, biascicò di essere stanco. “Quarantotto.” “La notte.”
VIII
Bonanno riprese con una strana serietà. “Professore, non se la prenda a male… lei dirà che ho letto troppi gialli e che ho preso la mentalità dello sbirro, ma tutto questo non sta in piedi: la strafottenza del sensale, il presunto pentimento, la sua strana morte, il movente di don Peppino, il ragionamento che lo scagiona, infine il complotto delle donne… troppe cose incongruenti. E poi lei conosce troppo i Papa. Certo, le sue sorelle e sua madre si frequentavano e tante cose le avrà sapute da loro, ma molti pensieri di Grazia e Concetta si accordano più a un vecchio professore che a due zitelle ignoranti. Col suo permesso adesso le racconto io un’altra storia.” “Sentiamo.” “Mi promette di non offendersi?” “Cosa vuole che me ne importi?” “Secondo me, in un modo o nell’altro, è stato lei a mandare il matrimonio a monte. Con la collaborazione del caso che s’è portato Scarcella al momento giusto, o dandogli una mano, ha poca importanza. Lei era giovane e idealista, pensava di avere grandi possibilità davanti a sé. Il fascismo, almeno all’inizio, le piaceva, tanto da partire volontario per la Spagna. Poi le cose sono cambiate: la guerra vera era più brutta di quella della propaganda e la sfortuna ci ha messo la sua togliendole una gamba. Mutilato e costretto a tornare in un posto che detestava, a quel punto le avrebbe fatto comodo avere una Grazia o una Concetta accanto. Ma ormai i giochi erano fatti: non ha avuto una donna, non ha avuto discendenza, ha sprecato i suoi anni su un’insignificante cattedra di liceo, col tempo le sono morti tutti attorno e non le è rimasto che il rimpianto…”
“Cinquanta-sei.”
“La guerra.” “Novanta.” “Scantu.”
Pirri accennò un sorriso. Ma era più una smorfia. “Bravo, cavaliere! A furia di non capire, ha finito col capire troppo. Non le dirò in cosa ha ragione e in cosa torto. Cari ragazzi, Nietzsche diceva che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Eppure cavaliere, per quel che conta è tutto vero. Le ho raccontato una piccola storia d’inganni, ma se sostituissimo i nostri personaggi con i grandi della terra, non racconteremmo una storia diversa: siamo stati tutti complici di quel colossale inganno che è stato il Novecento.”
“Sei.” “Lo specchio.”
“Lei scappa sempre nella filosofia…” Da lontano, giungevano scoppi sporadici di fuochi d’artificio. “La filosofia: tutto quello che d’inutile mi rimane… ragazzi, Carlyle insegnò che la storia è una scrittura sacra che noi decifriamo e scriviamo, e nella quale siamo anche scritti. A me la storia è sembrata più un tritacarne che un libro, ma se lo Scozzese avesse ragione oggi siamo all’ultima pagina. Se qualcuno scrive per noi non c’è problema, ma se la penna è nelle nostre mani, allora tutti tentiamo d’imbrogliare. Stiamo giocando alla fine del secolo, ma il secolo non è stato un gioco. E se gioco è stato, è stato un gioco sporco in cui nessuno può proclamarsi innocente. “Ci siamo imbattuti nel Novecento quando era ai primi i; presto l’abbiamo conosciuto come un mostro e in molti abbiamo provato a cavalcarlo o a domarlo
con l’entusiasmo e la presunzione della gioventù. Alcuni in qualche modo ne sono venuti fuori; altri si sono stancati per sempre nel fango di Verdun o di Tanneberg, negli abissi dello Jutland, nella sabbia di El Alamein, nelle baracche di Auschwitz, nel fuoco di Dresda o di Hiroshima, nel ghiaccio dei Gulag, nelle risaie del Vietnam, nelle pietraie dell’Afghanistan, nei labirinti dei Balcani, nei ghetti, nelle bidonville e nelle favelas di tutto il mondo... altri vi hanno fondato colossali fortune economiche, altri ancora glorie, o altrettanto immortali infamie... eppure, contro le apparenze, vincitori e vinti non sono poi tanto diversi tra loro. Ormai tutti sappiamo di aver fallito.”
“Settanta-nove.” “Il filosofo.” “Cinquina!” trionfò la Di Blasi. “Controlliamo i numeri...” “Che fa non si fida, comare?” “Ma che dice, comare? Sentiamo i numeri...”
“La cosa più patetica è che stasera in tutto il mondo si crede di celebrare una vittoria. Sa cosa le dico? Così sia. Voglio starci anch’io: reclamo la mia parte in questa farsa. E se dobbiamo festeggiare serve un simbolo adeguato.” Prese dal taschino il porta-pillole d’argento. Un anello brillò tra le sue dita. “Sa cos’è?” “È il suo anello di fidanzamento?” indovinò l’altro. “Proprio quello. Montatura in oro bianco, brillante da circa un carato, né troppo giallo, per non sfigurare, né troppo azzurro, per risparmiare. Intorno, una corolla di brillantini, per fare più effetto.”
“Non ha detto di averlo lasciato per terra nel salotto dei Papa?” “Donna Giovanna deve averlo restituito a mia madre. L’ho ritrovato dopo la sua morte. Vale ancora meno di quello che si potrebbe sospettare, poco più d’un fondo di bottiglia. Quel Minutoli era proprio un filibustiere, eppure senza volerlo ha scelto bene. L’essere un bidone ha fatto di quest’anello il simbolo perfetto del mio fidanzamento. E sarà il simbolo ancor più perfetto per la festa di stasera.” La pietra brillava gialla, debole e opaca, vergognosa di mostrarsi ancora a tanta distanza dalla prima sfortunata esibizione. Il professore provò inutilmente a infilarla all’anulare sinistro deformato dall’artrite. Quindi con qualche contorsione la mise al mignolo. “In un certo senso il fidanzamento c’è già stato: adesso con un po’ di ritardo lo sposo è pronto – disse con stanca enfasi. Poi aggiunse: – Caro cavaliere, in una cosa devo darle ragione: i figli. Li avrei voluti, e ho pure invidiato chi li aveva. Ma più del desiderio di dare e ricevere amore, in me ha prevalso la paura; la paura che qualcuno potesse scrivere il mio nome sulla carlinga di un bombardiere.” “Il suo nome su un bombardiere? Che significa?” “Non ha importanza.”
“Cinquanta-due.” “La mamma.” “Tredici.” “Il diavolo.”
Proprio in quel momento Bruno, sistemato a letto l’onorevole Provvidenti, riò dal corridoio. “Voi due che fate qui da soli? Non v’è bastato di essere rimasti a digiuno a
pranzo: volete perdervi pure la festa di mezzanotte!” Pirri fece roteare nell’aria l’anello. “Già la festa… cari ragazzi sapete qual è il vero senso della festa? La festa è un esorcismo della morte. Si fa baldoria, si balla, si canta, si mangia, si beve – se è il caso si fa all’amore – per dimostrare di esserci. E siccome la festa è ricorrente, anno dopo anno cresce l’illusione che la catena non si spezzerà mai e che ci saremo per sempre. Ma in ogni festa c’è sempre un posto riservato, un posto all’apparenza vuoto …
“Quarantasette.” “Tombolone!” “Tombolone!”
La Di Blasi e l’altra avevano fatto contemporaneamente tombolone. Dalle voci concitate sembrava litigassero. “Vecchio pazzo, non ho tempo per le tue cazzate!” esclamò Bruno accorrendo nel salone.
Caruso intanto cercava di ristabilire la calma. La Di Blasi, spalleggiata dalla Marotta, contestava all’altra l’assenza del ventisette, che in effetti era uscito, ma questo complicava le cose, perché con quel numero la Di Blasi avrebbe realizzato da prima il tombolone su un’altra cartella. Attorno al tavolo si erano coalizzate due agguerritissime fazioni e il becchino non sapeva come venirne fuori. Buon per lui, mezzanotte era vicina. Il carrello con lo spumante placò gli animi d’incanto.
“Omaggio del proprietario che ha telefonato per fare gli auguri a tutti” ripeteva
Margherita, distribuendo i bicchieri di plastica rossa. “Il proprietario... chissà, ragazzi, cosa ci riserva ancora. È strano che in tutti questi anni non si sia mai visto. Che dall’altra parte del telefono non ci sia nessuno?”
Cinque minuti a mezzanotte. Fuori la mitraglia si faceva sempre più fitta. Un gruppetto si unì ai due davanti alla vetrata. “Professore, vedesse che spettacolo! Lo Stretto, la Calabria... sembra giorno! I palazzi, i monumenti, le strade, le navi nel porto a gran pavese… le sente le sirene? “Cari ragazzi, nel ’43 eravamo sfollati sulle colline. Altissime e solenni, le fortezze volanti americane aravano di giorno la città senza problemi. Poi toccava agli Inglesi: più bassi e inquieti, i Lancaster seminavano di notte sbucando dalla Valle degli Angeli, e almeno con loro la nostra contraerea ci provava. La città, a guardarla da lontano alla luce dei bengala, era uno spettacolo. Una meraviglia pirotecnica che faceva dimenticare le case sventrate, i palazzi crollati, i crateri nelle piazze, i depositi di carburante in fiamme, le navi semi-affondate nel porto, i binari divelti, le vetture scagliate a isolati di distanza. E gli uomini e le donne in mezzo a quell’inferno. E chi aveva smesso: migliaia di cadaveri dilaniati dalle schegge, inceneriti dal fosforo, fulminati dal terrore, schiacciati nella ressa verso i rifugi, seppelliti sotto le macerie, nelle cantine, nelle botteghe, annegati nelle stive. Ossa e carne che nessuno avrebbe più ricomposto se non la ritardataria potenza divina nel giorno del giudizio. Di rado i nostri andavano a segno accendendo in cielo una cometa. Una cometa senza bambinello, senza grotta, né re magi si spegneva oltre il porto. Nel mare nero dietro la falce.”
Il telefono cominciava a squillare per qualche augurio di circostanza, di quelli che si fanno in anticipo tanto per togliersi il fastidio e ricominciare a divertirsi. Poi qualcuno accese il televisore: su un palco il solito coro falso contava alla rovescia.
Sessanta! Cinquantanove!…
“Cari ragazzi, negare il tempo potrebbe servire a combatterlo: un minuto non può are perché prima dovrebbero trascorrere trenta secondi e prima quindici e prima sette e mezzo, e prima uno e prima mezzo e prima un quarto… all’infinito. Ma il tempo non lo sa. E continua facendosi beffa della nostra filosofia.
… Quarantotto! Quarantasette!… “Il tempo è una convenzione. Non fosse il respiro della carne. Non fosse l’agonia dello spirito.
… Trentasette! Trentasei!… Finisce il secolo! Finisce il millennio! “Almeno finisse tutto veramente. Se allo zero, l’angelo rompesse i sigilli... suonassero le Trombe…
… Ventisei! Venticinque!… Il momento si avvicina! Noi ci siamo! “Essere: la sublime sensazione di aspettare immobili il tempo. Usurpare l’immunità di Dio, concepire all’istante presente, ato e futuro.
… Quindici! Quattordici!… “Siamo della stessa sostanza del secolo che ci siamo proposti di stancare.”
Cresceva l’eccitazione. Le lacrime rigavano qualche volto. Uno dei vecchi chiese ad alta voce: “Chissà se ci saremo ancora il prossimo anno?”
Il millennio era ancora lì, ma già dimenticato.
… Tre! Due! Uno!… È mezzanooootte!
Fuori botti e lampi raggiunsero il parossismo; nel salone saltarono due tappi di spumante. Bonanno piombò sul professore abbracciandolo forte “auguri! auguri!” Strapazzatolo per bene, si lanciò nel giro dei baci. La prima che gli capitò a tiro fu la Marotta: l’avvolse con le braccia trascinandola in qualche pericolante o di danza. “Eh! Ai nostri tempi!” sospirò quella, sistemando la parrucca scompigliata da quell’assalto proditorio. Il cavaliere – papillon di traverso, la canottiera di lana scura che faceva capolino da un bottone saltato della camicia – abbracciava e baciava tutti con entusiasmo pari solo a quello di Caruso. “Certo che ci saremo il prossimo anno!” ripeteva il becchino volteggiando anche lui per il salone. Dalla sua coppa ribattezzava tutti con lo spumante: efficace sacramento di un ministro tanto particolare.
Pirri strinse l’anello e reclinò il capo.
IX
Alla fine, tranne qualche ora di sonno perso, non erano accaduti fatti speciali. L’indomani tutti – proprio tutti – si erano svegliati ancora su questa terra; cosa non troppo scontata, date le circostanze. Le due vecchie del sottotetto avevano sbraitato tutta la notte, il farmacista Lo Surdo, che il medico dava per spacciato da settimane, continuò a rantolare e sputare sangue, gl’infermieri del turno di notte vennero alle mani per la spartizione delle mance natalizie. Stando alle apparenze, la sfera del mondo girava al solito modo: quella cifra tonda “2000” stampata sui calendari non ne aveva turbato la traiettoria.
Gennaio era entrato con un forte maltempo. Il maestrale scuoteva dai rami le ultime foglie secche e Caruso si vedeva più spesso del solito. Qualche giorno dopo, durante una burrasca, un vecchio mercantile si appoggiò sfinito sulla spiaggia. Che merce trasportasse fu subito chiaro quando a decine iniziarono a buttarsi in acqua scavalcando le murate. Il mare si era placato; i ragazzi conquistavano agevolmente la spiaggia; gli uomini attendevano nell’acqua, sollevando i pugni e incitando donne e bambini con urla inumane; qualche vecchio recalcitrante venne lanciato fuoribordo senza complimenti. Motovedette e canotti della capitaneria di porto, già sul posto, aiutarono il miracolo che non si contassero annegati. Miracolo comunque umano e quindi parziale: dalla stiva più tardi sarebbero usciti diversi cadaveri. Corpi da aggiungere agli altri scaraventati regolarmente in mare durante la navigazione senza neppure il tempo di morire. Molliche di Pollicino seminate lungo una via che sarebbe stato meglio dimenticare; tesori sommersi che nessun cercatore si sarebbe curato di recuperare; punti insignificanti ignorati dal GPS e rilevati solo sulle carte nautiche di Dio.
Dietro le finestre appannate, i vecchi del pensionato assistettero riconoscenti allo spettacolo fino a sera. I più sani rischiarono ben volentieri la polmonite sostando per ore in terrazza a temperature prossime allo zero. Descrivevano a Pirri la lunga carcassa nera distesa tra mare e terra. “Ricorda una balena” osservò Margherita. Da ragazza aveva scritto dei versi ancora custoditi dentro una scatola di biscotti. “Era vecchia e voleva anche lei ricoverarsi qui da noi. L’avremmo messa in giardino nella vasca dei pesci rossi e chissà che bella retta Visalli gli avrebbe fatto pagare” commentò Bruno sarcastico. Era ancora risentito per la questione delle mance; sul denaro non aveva scherzato prima di capodanno e non scherzava adesso. “Peccato per Caruso, altri duecento metri e avrebbe potuto organizzare il più grosso funerale della sua carriera” chiuse il solito Pirri. Bonanno, nonostante la pioggia, la tosse e i reumatismi, si era avventurato fino alla spiaggia per aiutare. I militari non l’avevano presa bene: un’auto dei carabinieri aveva imboccato sgommando il viale di Villa Felice, per riconsegnarlo fin dentro l’ufficio di Visalli.
Per fortuna non era finita: messi in salvo i naufraghi – Etiopi, s’era saputo più tardi – rimaneva da bonificare il litorale dalla nafta fuoriuscita dai serbatoi. Per settimane imbarcazioni di ogni tipo si affaccendarono attorno al relitto. Dall’alto gli elicotteri sorvegliavano; non erano gli angeli con le trombe, ma il mare era proprio nero e raggrumato come se la Seconda Coppa fosse stata versata.
X
Il naufragio, la spedizione di Bonanno e la sua restituzione non furono le uniche emozioni del nuovo anno. Se ne discuteva ancora, quando una notte qualcuno penetrò dal balcone nella camera di Pirri mettendola sottosopra. Il professore, sebbene a suo dire non dormisse che poche ore a notte, non sentì nulla. Alle sette, Margherita entrando nella stanza vide ante e cassetti aperti, vestiti e suppellettili per terra, la sedia rovesciata, il vetro della porta-finestra rotto, schegge dappertutto, tracce di sangue, il vecchio disteso sul letto a faccia in aria, la bocca aperta. “Hanno ammazzato il professore! L’hanno ammazzato!” Allarme un po’ eccessivo. Destatosi di soprassalto, Pirri intraprese una serie di metodiche ispezioni su di sé che presto lo autorizzarono a smentire. Nulla, inferno, persino paradiso, tutto quello che sentiva contrastava ogni ragionevole ipotesi di domicilio futuro: doveva trovarsi ancora a Villa Felice. Avvolto da un viscido velo di sudore, un frenetico battito rintronava nella gabbia toracica a un ritmo inopportuno per il suo cuore malandato. S’impose la calma con una profonda serie di respiri cadenzati. Contò mentalmente i battiti registrando che il vecchio arnese andava stabilizzandosi su frequenze più sostenibili. “Margherita, la smetta di gridare! Conservi la sua dannata voce per il momento giusto! Sto bene e senza di lei starei meglio! Porti piuttosto un bicchiere d’acqua!” Rimproverata dal morto, Margherita svenne all’istante. Intanto le urla avevano richiamato tutti quelli che più o meno potevano accorrere. Trovarono il professore seduto in mezzo al letto e Margherita esanime per terra. “Ma non è morto!” lamentò un altro vecchio deluso, come se nella gara della
morte, dopo ogni eliminazione, aumentassero le possibilità di vittoria per i superstiti. “Sto bene, sto bene, andatevene! – gridava Pirri, agitando le braccia tremolanti. – Per questa volta vi siete persi lo spettacolo del morto ammazzato. Comunque, ammazzati o no, scommetto che in diversi mi precederete all’inferno!” Gli altri infermieri soccorsero la povera Margherita, mentre Bruno cacciava tutti dalla stanza con i suo modi. Uno solo resistette. Bonanno – pantaloni di pigiama rigati e canottiera di lana a costine, rasato a metà, le orecchie ancora impiastricciate di schiuma da barba – era stato tra i primi a intervenire. Rassicurato per la salute di Pirri, aveva avviato subito le indagini. “Non toccate niente! Ogni elemento potrebbe essere utile alla polizia” ripeteva con aria da investigatore televisivo. Bruno già spazzava i vetri dal pavimento. “Vecchio scansati e non rompere.” Per sottolineare il concetto, scalciò un libro dall’aspetto antico caduto da una mensola che emise un brutto scrocchio di legatura rotta. “Lei non capisce. Ci sono tracce di sangue utili per l’esame del DNA!” “Ah! Ah! Tu sei proprio rincoglionito! L’esame del DNA per un balordo di aggio. Vai a raccontarlo agli sbirri: stavolta invece di rimandarti indietro, ti ficcano in manicomio! E sarebbe ora!”
Pirri, ancora seduto in mezzo al letto, attendeva nervosamente di essere cambiato. Indovinava la massa grigia delle sue cose accatastate alla rinfusa sul tavolo e l’ombra di Bonanno che entrava e usciva dal balcone congetturando a voce alta. “È chiaro: ha preso la scala del giardiniere ed è salito sul balcone. Ha trovato la serranda abbassata a metà e la vetrata chiusa, quindi per entrare ha rotto il vetro.
Ladro sprovveduto: un infisso così anche un bambino lo apre dall’esterno, basta infilare qualcosa di sottile tra i battenti.” “Perché ladro? Cos’ha rubato?” chiese Pirri. “Questo lo vedremo. Lei tiene dei soldi da qualche parte?” “No: la pensione viene direttamente incassata da Visalli.” “Va bene, su questo torneremo dopo. Dicevo: per aprire l’infisso senza combinare tutto questo casino sarebbe bastata la lama di un temperino o una carta di credito. Non si può dire che il tipo sia stato in gamba. E come se non bastasse, rompendo il vetro s’è tagliato.” Raccolse un pezzo di vetro insanguinato continuando a parlare per non farsi scorgere da Bruno. “Lei dormiva, vero? Non ricorda niente?” domandò a Pirri. “Fin da giovane soffro d’insonnia. Adesso dormo poche ore a notte. Sarà successo durante un breve intervallo di sonno.” “Verso che ora?” “Di solito sento le campane della chiesa che battono l’una, certe volte anche l’una e mezzo o le due. Dormo a sprazzi e mi riaddormento poco prima che venga Margherita a svegliarmi. La notte è fatta per i libertini, per me è un tunnel che si fa sempre più stretto e bagnato. Impazzirei se non fosse per i sogni che mi tengono compagnia.” “Non è che per caso ha visto o sentito qualcosa, ma crede di averlo sognato? Ci pensi bene…” incalzava il cavaliere. “Impossibile.” “Impossibile?” “Sono stato tutta la notte in compagnia del frate.” “Il frate?”
“Mi visita tutte le notti. Un frate agostiniano per età e forme assai venerando, credo Agostino stesso – in realtà non gliel’ho mai chiesto – con cui discutiamo certe questioni di comune interesse.” “Ah, ho capito... Non è che per caso stanotte il frate è venuto a visitarla… stavolta di persona?” “Ho già detto che è impossibile. Durante la veglia sono lucidissimo, rio gli argomenti del frate, li studio e se è il caso mi preparo a controbatterli. Per i miei gusti ha un’idea della giustizia divina troppo permissiva.” “E non è possibile che, durante queste riflessioni notturne, le capiti di confondersi? Magari è sveglio e crede di dormire!” “Cavaliere, non ho nessuna voglia di farmi prendere per rimbambito da lei! Si è trattato di un balordo di aggio. Non c’è altro da dire.” “Balordo di aggio… ma ci sono diverse cose che non quadrano. Ad esempio: perché invece di forzare una delle vetrate al piano terra, il nostro balordo complica tutto salendo con una scala a pioli su un balcone?” “Avrà visto la scala in giardino e avrà pensato che entrando direttamente in una stanza avrebbe corso minori rischi di essere scoperto che girando per saloni e corridoi.” “Va bene. L’uomo entra mentre lei dorme, quindi può fare con calma. Mette tutto sottosopra, probabilmente non prende niente e poi invece di are nelle altre stanze, dove magari potrebbero esserci dei soldi a portata di mano o qualche altra cosa da smerciare facilmente, desiste e se ne va. Le pare sensato?” “Dannazione! Era ferito, perdeva sangue... lei che avrebbe fatto? Ha semplicemente avuto il buon senso di andarsene. E poi del balordo e di tutte le sue congetture da poliziotto da strapazzo non me ne frega niente! Bruno, smettila di muovere il letto! Chiama Margherita! Che qualcuno mi cambi!” “Vecchio, non rompere! Io il letto lo faccio quando e come mi pare e piace e se non ti va bene fattelo da solo!” L’infermiere continuò a rassettare le lenzuola in malo modo.
“Margherita è andata a rinfrescarsi, s’è presa un bello spavento – intervenne Bonanno conciliante. Bruno era così: meglio non litigarci. – Torniamo a noi, professore. Rifletta un attimo: è vero, il ladro si era ferito entrando, ma questo non gli ha impedito di mettere sottosopra la stanza. Ha aperto i cassetti, ha pure controllato sotto il materasso con lei nel letto. Non si può dire che avesse fretta. E poi, come dicevo, la cosa strana è che non è entrato nelle altre stanze. Fosse uscito in corridoio avremmo visto del sangue per terra o sulla porta. Invece niente! Sembra che cercasse qualcosa proprio qui dentro. Sicuro che non manchi niente?” “Non lo so e non lo voglio sapere – sbottò Pirri. – Cosa vede in giro? Due mobili vecchi che non sono neppure miei, qualche vestito di almeno quarant’anni fa, mutande, calzini, canottiere che è più il filo dei rattoppi che quello originale… Ah si, c’è pure la dentiera! – Allungò la mano verso il comodino. – Eccola. In fondo è l’unica cosa che mi serve. In mezzo a questo disastro è rimasta intatta. “Ragazzi miei, le dentiere fanno schifo. Sarebbe meglio dire orrore. Hanno qualcosa del teschio, ma in fondo non sono diverse dai bastoni da eggio o dagli occhiali: fragili puntelli ai nostri corpi pericolanti. Stanotte lo sconosciuto visitatore poteva farla cadere, schiacciarla sotto i piedi, mandarla irrimediabilmente in frantumi… niente dentiera, niente mangiare, niente più Pirri: ergo Pirri vale la sua dentiera.” “Ho solo chiesto se manca qualcosa…” “Non avevo niente ieri sera e non ho niente stamattina. Non può mancare niente perché non ho mai posseduto niente. E se per caso, ragazzi miei, con la parola possedere intendeste alludere a cose importanti, cose che si possono veramente perdere... ormai sono così stanco che non mi preoccupo neppure per i brandelli della mia anima.” “L’anello di cui mi parlava tempo fa, ad esempio. Avrà pure qualche valore? È sicuro di averlo ancora?” “Sono sicuro” rimandò Pirri proprio mentre Margherita rientrava. “Come ti senti?” le chiese Bonanno. “Bene, bene... ho preso un bello spavento, ma mi sono ripresa. Adesso esca: devo cambiare il professore. Con tutto questo trambusto, siamo in terribile
ritardo! Chi lo sente Visalli: sono quasi le nove e ancora nessuno ha fatto colazione.” “Va bene: me ne vado. Ma tu controlla che non manchi qualcosa.”
Bonanno aveva visto giusto: più tardi, l’infermiera rassettando notò che era sparita la madonnina che la piccola Miriam aveva portato a Pirri da Lourdes. Era l’elemento che il geometra cercava per appoggiare le sue congetture. Agganciò il professore in sala da pranzo. “Vede che avevo ragione. Doveva per forza mancare qualcosa. Com’era questa statuetta? Aveva valore?” “Paccottiglia. L’ho tenuta solo perché era un regalo della bambina. È inspiegabilmente legata a me. Strane creature gli uomini: non si riesce ad essere abbastanza cari per evitare che qualcuno ti odi e tanto scorbutici da impedire che qualcuno ti si affezioni. E poi ci sono i peggiori, quelli che ti perseguitano per soddisfare le loro curiosità, le ambizioni, i sogni, le frustrazioni, le illusioni…” L’altro non raccolse. “D’accordo. La statuetta non valeva nulla. Ma era dorata e al buio si poteva scambiare per un oggetto prezioso.” “Assurdità. Se voleva qualcosa di dorato, avrebbe rubato il bossolo del proiettile di cannone” lo canzonò Pirri. “Sì, ha ragione. Non è possibile: anche il ladro più sprovveduto se ne sarebbe accorto. Comunque dobbiamo fare la denuncia. E mentre ci siamo riferiamo pure del frate. Così, senza dare peso alla cosa…” Pirri finse di essersi addormentato.
XI
Bonanno, dopo una nottata di riflessioni, si presentò di primo mattino da Visalli. “… furto con scasso, non è cosa da poco. Dobbiamo sporgere denuncia. Abbiamo delle tracce di sangue su questo pezzo di vetro. Facendo l’esame del DNA…” L’amministratore – occhietti iniettati, precoce calvizie, viso butterato – fece una smorfia. Aveva già chiamato il vetraio e per lui la cosa era chiusa. Non aveva voglia di sprecare tempo al commissariato per riempire un verbale che sarebbe rimasto sepolto negli archivi. Per non parlare della malaugurata, sebbene improbabile, eventualità di scoperta del ladro: si sarebbe aperto un processo penale di quelli che a furia di rinvii durano dieci anni, con i testimoni convocati ogni sei mesi a perdere la mattinata in tribunale. “Cavaliere non crei problemi, al suo solito. La statuetta non valeva niente, domani rimettiamo a posto il vetro e non se ne parla più!” Bonanno, preparato a una risposta simile, giocò d’astuzia. “Ha visto quanto sangue c’era in giro? Il ladro potrebbe essersi ferito gravemente. Magari è andato a morire in qualche fosso qui vicino, prima o poi il cadavere salta fuori, scattano le indagini, il furto viene scoperto e lei si ritrova più seccature di quelle che vorrebbe scansare. Oppure, senza farla tanto drammatica, l’uomo si presenta in ospedale pieno di strani tagli, qualche medico sospetta, chiama la polizia… e siamo al punto di prima.” L’amministratore – già in ato ripreso dal proprietario di Villa Felice per qualche leggerezza nella gestione di alimenti e medicinali – sentendosi pericolante preferì non correre rischi. Prese quindi in consegna le prove da Bonanno e nel pomeriggio, rivestito del suo peggiore umore, fece la parte del cittadino ligio al commissariato.
Il brigadiere fece appena una smorfia davanti alla bustina con il pezzo di vetro insanguinato, ma la allegò alla denuncia senza commenti. L’altro tacque sull’analisi del DNA e tutto finì con la perdita di tempo strettamente indispensabile. Sperava di aver chiuso la vicenda, ma l’indomani Bonanno volle vedere la copia della denuncia. Gli bastò poco per cominciare a criticarne la genericità che a suo dire impediva di cogliere alcuni notevoli spunti d’indagine. “Le avevo detto di accennare al frate…” “L’ho riferito al commissario, ma abbiamo preferito non verbalizzarlo” mentì l’amministratore con l’abituale naturalezza. “E quando sarà pronto il test del DNA?” Visalli in quel momento era di buon umore. In un pensionato in fondo non sono molte le occasioni per divertirsi. “Hanno mandato i campioni, in aereo, immediatamente a Roma. Sono esami lunghi e complessi… piuttosto, quelli del laboratorio hanno insistito nel chiedermi se per caso qualcuno non avesse contaminato i campioni. Io ho garantito. Ma lei quando li ha raccolti, ha usato tutte le precauzioni?” “Beh, sì… non avevo i guanti sterili, ma ho usato il fazzoletto…” rispose Bonanno, ora sulla difensiva. L’altro incalzò maligno. “Ma il fazzoletto era pulito?” “Sì pulito… almeno penso…” “Ma è sicuro?” “Non so… Ma sì!... Sono sicuro!” “Speriamo bene, non vorrei che per la sua incuria tutta l’indagine andasse a monte. Comunque quando gli esami saranno conclusi, il commissario mi ha promesso che saremo informati, sia pure ufficiosamente… capisce, c’è di mezzo
la magistratura, il segreto d‘ufficio…” “E quando verranno quelli della scientifica per i rilievi?” “Dopo gli esami preliminari, sapranno cosa cercare. Probabile che venga una squadra di specialisti da Roma.” “Ma Bruno ha pulito tutto! Gli avevo detto di non toccare niente!” “Non si preoccupi, cavaliere. Riusciranno a trovare lo stesso quello che serve.”
Bonanno, capendo che l’amministratore lo stava prendendo in giro, preferì non reagire: are per stupido poteva essere utile a seguire certe tracce indisturbato. Nei giorni successivi continuò le indagini con tutta la poca discrezione di cui era capace: perlustrava il giardino, si spingeva lungo i viottoli circostanti fino alla spiaggia, oppure piombava nella stanza di Pirri. Magari apriva la vetrata al maestrale senza preavviso, rimanendo per mezz’ora al gelo in balcone.
XII
A Villa Felice l’opinione generale accusava dello scasso i marocchini naufragati la settimana prima, ancora costretti negli squallidi stanzoni della vecchia scuola del paese. A comprovarlo, diversi furti nelle villette circostanti. Fosse amnesia dell’età o semplice razzismo, nessuno fece caso che questi furti, regolari tutti gl’inverni, quell’anno s’erano ridotti per il via vai di polizia e carabinieri.
A fine gennaio, il tempo sempre pessimo, Bonanno rimase qualche giorno a letto con l’influenza. Era un leone in gabbia che divorava gialli in edizione economica lasciando sparsi i resti per terra. “La prima malattia della mia vita” confidò a Pirri l’unica volta che andò a fargli visita. “Rimanga a letto. Che non sia l’ultima.” “Almeno smettesse di piovere.” “Su Giove piove da trecento anni.” Non si dissero altro.
Presto il furto sarebbe stato dimenticato, ma durante la potatura degli ulivi una statuetta rotta venne fuori da un cumulo di foglie secche sul retro della villa. I tre pezzi della madonnina di Pirri, consegnati dal giardiniere a due vecchiette, vennero puliti, ripuliti, incollati alla buona e sistemati in una scatola sul tavolo del salone.
“Non toccate!” intimò Bonanno piombando nella stanza qualche ora dopo. Avvisato in ritardo, era furioso per tanta leggerezza nel trattare un elemento d’indagine così fondamentale. “Potremmo alterare le prove! Non dovevate pulirla! Anzi, non si doveva neppure spostarla. L’unica cosa da fare era avvisare subito la scientifica. Ci saranno altre impronte, tracce, macchie di sangue...” “La statuetta è lì fuori da settimane, cosa vuole che sia rimasto?” lo rimbeccò Visalli. “Potrebbero esserci tracce microscopiche, invisibili a occhio nudo! Basterebbero per l’analisi del DNA!” “E col DNA di chi dovremmo confrontarlo? Preleviamo campioni da tutti quelli che abitano nei paesi circostanti? E se il ladro venisse da fuori?” “Ma non so… si potrebbe cominciare da quelli sbarcati dalla nave…” “È qui che la volevo, cavaliere! Bravo! Le sta tanto a cuore trovare il responsabile di un così grave crimine che arresterebbe tutti quei disgraziati!” “Non volevo dire questo.” “Li caricherebbe tutti, donne e bambini compresi, su un treno piombato e li metterebbe in fila dietro il filo spinato in attesa di confrontarli con i suoi campioni” incalzò Visalli. Bonanno, lo sguardo carico d’odio, si avvicinò all’amministratore. “Bastardo, credi di prendermi in giro? Mi hai rotto le palle, con questo modo di fare! Che vuoi insinuare? Carri piombati, filo spinato… mi vuoi dare del nazista? L’altro lo guardò con un sorriso sadico. “Lei è un vecchio razzista e sclerotico… e sì, pure nazista! Comunque, se non le piace quest’albergo, se ne può andare.” Si girò su se stesso e lo piantò in asso. Conosceva il suo orgoglio di militante
comunista e aveva scelto ogni parola per provocarlo.
La madonnina rimase dentro la sua culla nel salone e diversi si avvicinavano per toccarla. All’inizio era stata un polveroso soprammobile, poi il furto l’aveva resa un oggetto sacro, con la profanazione e il rinvenimento era assurta a reliquia: un segno di quell’intermittente Provvidenza della quale a una certa età pochi si permettono di dubitare. “L’hanno trovata! È un miracolo! È un miracolo!” proclamavano la Di Blasi, la Marotta e le altre vecchiette segnandosi. Pirri rimaneva in disparte. “Miracolo. Ogni anno da case, chiese e musei scompaiono migliaia di madonne, santi, crocifissi, calici, reliquiari, ostensori d’inestimabile pregio, e giusto il miracolo di essere recuperato capita proprio a questa statuetta che non vale niente.” “L’unico miracolo sarebbe stato se la vostra polizia fosse riuscita a recuperare qualcosa, ma è toccato al giardiniere… Dio non collabora con gli usurpatori” rincarò con un filo di voce il farmacista Lo Surdo. Vecchio monarchico di fede borbonica, sedicente prigioniero politico, prima dei Savoia e adesso della Repubblica, per merito dei suoi polmoni malandati si sentiva prossimo alla definitiva scarcerazione. “È un miracolo! È un miracolo!” insistevano le comari asciugandosi le lacrime.
XIII
Com’era da aspettarsi, il ritrovamento riaccese Bonanno. Lo stesso giorno tornò alla carica con Pirri. “Il frate, volevo dire il ladro, conosceva quel tipo di statuetta, sapeva che era cava con un foro sul fondo e che dentro poteva esserci qualcosa.” “Non c’era niente, l’ho detto cento volte!” “Ma è sicuro? Tutti i vecchi nascondono i loro soldi in posti simili e poi magari se ne dimenticano.” “Nonostante i vent’anni in meno, vecchio sarà lei! E pure testone! Quella statuetta l’ho toccata una sola volta, quando me l’ha data la bambina. E poi perché il suo ladro l’avrebbe rotta? “Gli sarà caduta mentre la prendeva.” “In questo caso avrebbe preso il prezioso contenuto lasciando la statuetta per terra.”
Alla fine Bonanno ammise di non avere un’idea precisa. “Ha ragione, qui non c’era proprio niente da rubare. Quel balordo era così idiota da non capirlo e io mi sto scervellando per niente.” Gli dispiaceva non avere più un caso di cui occuparsi. Si guardava intorno e continuava a rimuginare. “Al suo posto avrei preso quel cassettone. Sembra antico.”
Indicava un massiccio settimino intarsiato. “Sì, se lo sarebbe caricato sulle spalle, giù per la scala a pioli.” “Allora quel volume rilegato in pelle. Di sicuro varrà più della statuetta.” Il libro che Bruno aveva scalciato, stava piuttosto malconcio sulla mensola accanto al bossolo di cannone. Bonanno lo aprì con delicatezza. “Viaggio degli ambasciatori di Messina mandati alla Gran Madre di Dio in Gerusalemme congetturato e contemplato da mente devota della Sacra Lettera… – lesse ad alta voce – ristampa del 1842 di un testo del 1647. Interessante. Se me lo presta gli darei un’occhiata.” “Lo prenda, tanto per il momento ho altri impegni. Anzi, se promette di lasciarmi in pace per un po’, glielo regalo.” “La ringrazio. Ma mi tolga una curiosità: lei ha detto che quando si è trasferito qui già non poteva leggere… perché si è portato dietro un libro?” Pirri, sdraiato a letto, ebbe un leggero fremito. “Ragazzi, sapete cosa rispondeva sant’Agostino a chi gli chiedeva cosa fe Dio, prima della creazione? Ebbene, con qualche licenza possiamo dire che Agostino rispondeva: Dio, prima della creazione, preparava l’inferno per quelli che fanno domande stupide.” “Va bene professore, non si riscaldi: era solo curiosità. Volevo mettermi al suo livello e fare un po’ di filosofia. La mia domanda era semplice: come mai un cieco cammina con un libro in valigia?” “Cavaliere, i patti sono chiari: le regalo il libro se mi lascia in pace con le sue indagini. Può occuparsi del caso Kennedy, del ritorno di Elvis Presley, di Hitler redivivo, dell’invasione degli alieni dallo spazio… ma mi lasci in pace.” Si girò dall’altra parte e Bonanno capì che era il momento di andarsene. Era sulla soglia quando il professore lo chiamò. “Bonanno…”
“Dica.” “Sfogli le pagine con delicatezza: sono fragili.” “Stia tranquillo.” “Mentre c’è, accomodi in qualche modo la rilegatura, altrimenti si rischia di perdere qualche foglio.” “Sarà fatto.”
Viaggio degli ambasciatori di Messina mandati alla Gran Madre di Dio in Gerusalemme congetturato e contemplato da mente devota… eccetera, eccetera, era un romanzaccio barocco che faceva sua la pia tradizione della lettera inviata a Messina in epoca apostolica da Maria Santissima, trattandola come fatto vero. Pirri aveva pensato di sedare, con quella lettura, la straripante fantasia di Bonanno che superato l’impatto iniziale con la prosa seicentesca, in effetti, se ne apionò. Presto la Lettera della Madonna sostituì la statuetta nelle sue elucubrazioni, ma di questo il professore non ebbe a giovarsene: a dispetto dei patti, l’altro insisteva nel leggergli intere pagine del polpettone seguite dagl’immancabili quesiti. “Lei, professore, cosa ne pensa della Lettera?” “Non penso niente.” “Voglio dire, da studioso, pensa che l’originale possa esistere ancora? Magari dimenticato in qualche biblioteca.” “Prima dobbiamo chiederci se la presunta Lettera sia mai esistita.” “Come? Perché? Ci sono dubbi?”
La domenica si continuava a pranzo con la partecipazione di Miriam.
“Raccontami la storia della Lettera della Madonna.” “Ma te l’ho già raccontata!” rispondeva Bonanno. “La voglio sentire di nuovo” insisteva la bambina, recuperando col cucchiaio a tentoni le pennette al sugo. “E va bene! – si arrendeva volentieri il cavaliere. – Era l’anno 42, questo significa che Gesù era morto da quasi dieci anni, e l’instancabile S. Paolo aveva cominciato a girare il mondo per parlare a tutti di Gesù. Gira e rigira, venne a Messina. Tu hai sentito parlare di San Paolo, vero?” “Sì. La mamma mi ha detto che era un cattivone e che Gesù per farlo diventare buono l’ha fatto cadere da cavallo, e l’ha pure accecato… come me. Poi però ha fatto il miracolo di guarirlo e lui è diventato buono. La mamma dice pure che anch’io guarirò. Ma io non sono cattiva e penso che Gesù non farà il miracolo perché non c’è bisogno che io diventi buona. Forse per questo la mamma il miracolo lo chiede sempre alla Madonna, perché la Madonna fa i miracoli anche a quelli buoni… secondo te, la Madonna mi farà guarire?” Bonanno masticava rumorosamente per prendere tempo e guardava Pirri. Al centro della maschera di pietra, appena sollevata dal piatto, anche gli occhi spenti del professore brillavano di commozione. “Sì Miriam, la Madonna ti farà il miracolo” abbozzò incerto il cavaliere, e non trovava parole per andare avanti. “Va bene, adesso continua con la Lettera. Dammi il pane, per favore.” “Allora… quando San Paolo arrivò a Messina, tutti diventarono subito cristiani. Gli dei pagani vennero abbandonati e il popolo accorreva numeroso ad ascoltare il Santo e farsi battezzare. Quando seppero che Maria Santissima, la madre di Gesù, viveva ancora a Gerusalemme, decisero di mandarle degli ambasciatori. Vennero scelti cinque importanti cittadini, San Paolo li accompagnò e, dopo un lungo viaggio per mare, giunsero in Terra Santa. Lì, in una casetta come quelle del presepe, incontrarono Maria. Era bellissima. La Madonna parlò a lungo con loro, e poi per dimostrare il suo affetto scrisse una lettera, raccomandando di riportarla a Messina e di leggerla a tutti. E siccome le lettere a quel tempo erano delle specie di rotoli, la Madonna la legò con alcuni suoi capelli.”
“Mi puoi tagliare la carne? Cosa c’era scritto nella Lettera?” Ormai sulla Sacra Lettera, Bonanno andava a memoria, senza sbagliare una virgola. Trafficando nel piatto di Miriam, recitò: “Maria Vergine, figlia di Gioacchino, umilissima serva di Dio, madre di Gesù Crocifisso, della tribù di Giuda, della stirpe di David, salute a tutti e benedizione di Dio Onnipotente. Ci consta per pubblico strumento che voi tutti con fede grande avete a noi spedito legati e ambasciatori, confessando che il nostro Figlio, generato da Dio, sia Dio e Uomo e che dopo la sua resurrezione salì in cielo. Avendo voi conosciuta la via della verità per mezzo della predicazione di Paolo Apostolo eletto. Per la qual cosa benediciamo Voi e la vostra stessa città della quale Noi vogliamo essere perpetua protettrice.” “Ci ho capito poco. Però mi ricordo che all’entrata del porto c’è una statua della Madonna su una colonna altissima e ai suoi piedi c’è proprio scritto: benediciamo voi e la vostra città.” “È proprio così. Brava! Gli ambasciatori riportarono a Messina la Lettera, la Madonna fu proclamata protettrice della nostra città, e ancora oggi noi la festeggiamo.” “Sì, il tre giugno.” “Bravissima! Il tre giugno c’è una grande processione durante la quale viene portata per le strade una pigna di cristallo e argento che contiene il suo capello.” “La carne è insipida. Metti un po’ di sale?” “Te ne metto poco. Troppo sale fa male.” “Raccontami dei miracoli.” “Sono tantissimi i miracoli della Madonna per la nostra città. Ad esempio, nel 1282 Messina era assediata dai si che in diversi momenti stavano per conquistarla. Ma a difenderla interveniva sempre una Dama Bianca che copriva con un velo le mura. Allora per la paura i soldati nemici si ritiravano e gli antichi Messinesi li colpivano con frecce e proiettili, uccidendone a centinaia.” “Allora la Madonna non vuole bene ai si e ce li fa ammazzare” osservò la bambina, strappando un silenzioso sorriso al professore.
“Sì… cioè no. La Madonna vuole bene a tutti, ma siccome è la nostra protettrice, a noi Messinesi vuole più bene che agli altri.” “Ho capito. Cosa c’è di formaggio?” “Provola di Montalbano, caciocavallo e fior di latte.” “Dammi un po’ di provola.” “Ti metto pure una fetta di prosciutto?” “Va bene. Ora raccontami del Vascelluzzo.” “Nel 1603 nella nostra città c’era una terribile carestia. La fame era tale che i Messinesi erano costretti a fermare le navi di aggio per farsi dare il grano da distribuire ai cittadini affamati…” “E quelli delle navi davano il loro grano senza protestare?” Miriam era implacabile. “Sì… no… cioè certe volte glielo davano, altre volte magari bisognava convincerli…” “Insomma i Messinesi erano dei pirati.” “Pirati, no… sì, erano pirati, ma per necessità.” “Ho capito. Questo pezzo di formaggio è troppo grande, non ne voglio più.” “Avanti! Prendine un altro poco e il resto lo finisco io. Hai mangiato pochissimo. Io alla tua età…” “Andiamo al miracolo.” “Io te lo racconto, ma tu devi mangiare un altro poco di formaggio e pure il dolce.” Bonanno cominciò imboccarla. “Va bene.”
“Nonostante gli sforzi dei Messinesi, il frumento non bastava. Vecchi e bambini morivano di fame per le strade. Non rimaneva che affidarsi alla Madonna. Dappertutto si pregava con grande fervore, ma la carestia continuava. Quando ormai la speranza era perduta e tutti aspettavano solo di morire, entrò in porto un grande vascello stracolmo di grano, che nessuno aveva notato in lontananza. Cosa ancora più strana, a bordo non c’erano marinai. Tutti capirono che era stata la Madonna a mandarlo e grazie a quel grano fu possibile sfamare la città finché la carestia non ò.” “Quindi la Madonna aiuta i pirati.” “Sì, ma te l’ho detto: i Messinesi erano pirati per necessità.” “Va bene. Ora raccontami della pestilenza.” “A quel tempo in città infieriva una terribile pestilenza. Non c’era più spazio per seppellire i morti e non c’erano più uomini che avessero la forza di seppellirli. I cadaveri rimanevano per le strade, pasto per i cani. Un sole opaco martellava senza sosta la città…”
Pirri, era rimasto in silenzio per tutto il pranzo. “Complimenti cavaliere – osservò quando rimasero soli – belle storie: preghiere fervide, cessazione di pestilenze, rotta d’assedianti, e pure l’arrivo di un vascello privo d’equipaggio ma carico di granaglie durante la carestia.” “Alla bambina piacciono.” “Sembra che piacciano anche a lei.” “E ammesso che sia così?” “Sembra che lei ai miracoli ci creda.” “È forse vietato?” A Bonanno la discussione cominciava a non piacere.
“Vietato no...” “E allora?” “Diciamo che il materialismo dialettico non va tanto d’accordo con i miracoli.” “Se pure sapessi cos’è, del materialismo dialettico me ne fotterei e mi terrei i miracoli.” “Ma non era comunista?” “Fosse pure l’ultima cosa che mi rimane, sono ancora comunista.” E una volta tanto fu Bonanno a chiudere la discussione, alzandosi e andandosene senza salutare.
XIV
Comunista o no, Bonanno, lesse e rilesse il Viaggio degli ambasciatori ripromettendosi di recarsi in città per procurarsi qualche altro testo sull’argomento. Mantenendo la parola, si accinse pure a sistemare la rilegatura. Non era la prima volta che mani inesperte si mettevano all’opera su quel libro: sulle facce interne della copertina erano stati incollati alla buona dei fogli di grossa carta scura, adesso ammuffiti. Iniziò a rimuoverli armato di pinzetta, cotone e solvente. E avvenne l’imprevisto. Quell’imprevisto che nell’inconscio aveva desiderato e previsto. Dalle viscere della copertina saltò fuori una busta su cui si leggeva in caratteri fioriti: Illustriss. Avv. Federico Russo – Palazzo Fiorentino – Messina – Regno delle due Sicilie. Le mani tremanti, temendo di strappare la carta che sapeva fragilissima, estrasse un foglio di carta grossa piegato in quattro, scritto su ambedue le facciate.
Caro Avvocato Russo, Vi annuncio importanti nuove: i timori nati a cagione del ritrovamento del papiro siriano in Roma, all’inizio del secolo ato, sono fondati. La lettera esiste davvero. Poco conta che sia un falso costruito in antico per ingannare e tenere buono il popolino. Il suo pericolo rimane intatto come se veramente la madre di colui che si volle dio l’avesse vergata. Qui alla Reale Biblioteca dell’Escuriale, si serba un fondo partenuto all’archivio pubblico di Messina, nella torre delle campane del Duomo, e involato e trafugato in Ispagna, insieme a tanti altri beni della nostra bella
patria, dal Conte di Santo Stefano nel 1679. Il mese scorso sfogliando tra queste carte l’Iliade partenuta a Costantino Lascaris, mi venne in mano per caso un foglio scritto a penna in favella greca la cui calligrafia era diversa da quella del Lascaris che ben conosco. L’autore potrebbe essere Girolamo Patè, protopapa a Messina verso la metà del seicento, della chiesa intitolata a Nostra Donna del Graffeo che così si addimandava a cagione di un’icona della Madonna della Lettera che v’era serbata. In questo foglio di antica cronaca si dice degna di traare alla memoria de’ posteri la Compagnia dei Verdi, nata per difendere il sacramento nei tempi del giogo de’ saraceni, e la si nomina con lo strano titolo di Custode della Sacra Lettera. La cosa ha richiamato naturalmente la mia attenzione, ma in quel momento mi vidi astretto a interrompere le ricerche, a cagione della sospetta curiosità di un monaco siriaco che venne ov’ero io per misteriose ricerche. Fatto accorto di ciò, a buona ragione ho fatto disparire il foglio ove s’accenna ai Verdi e per diverse settimane ho evitato la biblioteca. Intanto ho appreso che il monaco pergiunge dalla lontana Baghdad, partenendo alla setta dei Nestoriani, colpevoli di antica eresia nei tempi di Nicea, fulminati dal Papa co’ suoi anatemi e abominati da più di quindici secoli, da Roma e Costantinopoli insieme. Poscia il monaco è improvvisamente partito ed io ho potuto riprendere le mie ricerche scoprendo con grande maraviglia, tra i documenti di Lascaris, un intero carteggio di cui non si aveva conoscimento. Ivi il presunto Patè riferisce dell’incendio del Duomo occorso nel 1254 durante i funerali dell’Imperatore Corrado IV, figlio del grande Federico. Scampata la lettera miracolosamente all’incendio, la nomata Compagnia de’ Verdi l’ha serbata nascostamente per timore di calamità naturali e di umana malvagità, facendo credere nella sua perdita. Il segreto è stato tramandato per secoli, riservandolo a’ più ragguardevoli confrati, del cui numero il Patè sicuramente parteneva. Qui l’autore pare in punto di rivelare il nascondiglio, ma la sua penna si fa tortuosa, pure a cagione di molte cancellature, di cui alcune paiono recenti. Comunque parla chiaramente del bastone di una statua innalzata rimpetto al Palazzo Reale, ov’è ora il Porto Franco. Non è intenzione mia dettagliarmi partitamente, ma forse i confrati astretti all’esilio dalla vendetta de’ spagnoli negli anni seguenti il 1678, lasciarono la lettera a Messina, come pegno del loro ritorno o forse per timore dei perigli e delle incertezze del viaggio. Poi, o del nascondiglio si perse la memoria, oppure
la lettera è stata trasferita altrove. Per noi cambia poco, soltanto la certezza della sua distruzione può darci pace e vittoria. Non sonvi dubbi che la scoperta della Lettera sarebbe di pregiudizio grandissimo alla nostra causa in tutto il Regno, scaldando i cuori de’ Messinesi alla falsa credenza. Il Borbone e i suoi preti non si periterebbero di spacciare in piazza il miracolo, magari condendolo – more solito – con opportune visioni e apparizioni prezzolate. Il resto lo farebbe l’ignoranza e la superstizione delle nostre genti. Vi scrivo immediatamente a cagione del fatto che il monaco Nestoriano potrebbe avere letto questi documenti, anzi credo che pure li abbia manomessi e che la sua subitanea partenza dipenda da questo. Penso di rimanere ancora in Ispagna per scoprire qualcos’altro di cui prontamente v’informerò. A proposito, Vi rammento di grazia di commettermi altri dieci ducati: Madrid è città molto fredda, ma per fortuna dimoro in una stanza provvista di camino, che però mi procura ingente spesa per la legna. Per il resto mi adopro a risparmiare sul desinare e già ho rammendato due volte il mio unico mantello. Mi sacrifico comunque benvolentieri, in nome della libertà a cui ci siamo votati e nel ricordo del martirio del mio omonimo cugino, spinto dagli sgherri del tiranno nel pozzo della Maddalena, che non sono trascorsi ancora dieci anni. Le avversità anziché menomare il nostro entusiasmo gli danno maggior cuore. Immersi nella notte oscura attendiamo trepidanti l’aurora che non può essere lontana. Quell’aurora sarà gravida d’uno splendido avvenire per la nostra patria, tanto mutila e corrosa da non lasciarne quasi più in vista l’antica bellezza. V’abbraccio stretto, Vostro devoto Nicola Ruggeri.
Madrid 13 gennaio 1857
Bonanno lesse e rilesse la lettera con indicibile emozione. Sapendolo messaggio di congiurati postulava significati reconditi. Più gli sembrava importante e più – ansioso di sconvolgenti rivelazioni – tralasciava parole, saltava righe, finendo col perdere pure i significati più evidenti. Dopo la quarta inconcludente lettura si precipitò da Pirri. “Avevo ragione, avevo ragione!” Il vecchio era a letto, disteso di fianco verso il muro. Non si mosse, ma Bonanno diede per certo che fosse attento. “Si ricorda il libro che mi ha prestato?” “Non dimentico mai un libro, e non ne avevo mai prestato uno. Quello era il primo e me ne sono già pentito. Ma lo sapevo.” “Ascolti: questa notizia la farà saltare dal letto! Nascosta nella copertina ho trovato una lettera del 1857… e sa cosa c’è scritto? C’è indicato il posto dove è nascosta la lettera che la Madonna ha mandato ai Messinesi.” “Ah! Bravo cavaliere! Ha trovato la Lettera delle Madonna. Le faranno una statua, e a tempo debito la porteranno in processione con la pigna, magari sotto un baldacchino.” Pirri ostentava il solito sarcasmo, ma l’altro era troppo eccitato per controllarsi: lo afferrò con tutte e due le mani dalla spalla ossuta, girandolo verso di sé. “Non sto scherzando! La Lettera della Madonna esiste veramente! – Messa da parte ogni precauzione, sbandierava la lettera di Ruggeri già strappata lungo una piegatura. – Qui ci sono le indicazioni per recuperarla! “Cari ragazzi, questa è una lezione importante: ora capirete perché i grandi maestri, Pitagora, Buddha, Socrate, Gesù... evitavano di scrivere. Parlavano per le strade e sulle piazze, tutti potevano sentirli, ma alla fine erano loro a scegliersi il pubblico. Erano loro a stabilire il momento opportuno per dire o non dire certe cose, e soprattutto decidevano chi fosse degno di sapere. Invece tu scrivi qualcosa, magari inizialmente l’affidi alle persone giuste, poi le tue parole ano di mano, e magari dopo un paio di secoli arrivano a un geometra in pensione, insignito pure del titolo di cavaliere del lavoro, che pretende di capirle.
E nella sua pretesa fa a pezzi il tuo pensiero, la tua memoria, la tua eredità, e ti riduce alla caricatura di te stesso. Hai scritto qualcosa per scherzo e lui ti prende sul serio: s’inventa cose che non esistono e te le affibbia per sempre. Hai scritto qualcosa di profondo, sei sceso negli abissi dell’anima per riportarne indietro un fragile frammento: il nostro geometra ne fa una burla, il resoconto di una scampagnata fuori porta, una chiacchierata da dopopranzo. Avanti cavaliere, sentiamo la sconvolgente rivelazione!” Bonanno iniziò a leggere ma quasi subito si accorse di Bruno che spazzava il corridoio. Temendo di essere spiato chiuse la porta, e solo dopo riprese con voce bassa e profonda. “Cavaliere, stiamo perdendo tempo. Lo sa che sono sordo! Se non alza la voce…” Alla fine, massacrando la punteggiatura, incespicando su qualche parola più difficile o desueta, ripetendo i i che gli sembravano più significativi, Bonanno esaurì quelle due facciate, che nella mezz’ora trascorsa nelle sue mani sembravano averne ate più che nei centocinquant’anni precedenti. Concluse trionfalmente “Vostro devoto Nicola Ruggeri.” Pirri rimaneva muto. “Non dice niente? Ha sentito: abbiamo trovato la Lettera della Madonna! Se ne rende conto?” “In primis ho proprio sentito che non c’è nessuna lettera della Madonna. Ruggeri, proprio all’inizio, scrive che la lettera, ammesso che esista, è un falso. Se poi vogliamo rivelare questo falso, dando la caccia a qualche antica contraffazione, questa è un’altra cosa. Purché si abbiano le idee chiare.” “Ma che dice! Come fa a dubitare che la Madonna abbia scritto la Lettera. Crede a Ruggeri? “È lei a credere a Ruggeri se continua a sbandierare la sua lettera!” “Ma che c’entra. Si vede subito che questo Ruggeri è un massone!” “Questa è la prima intuizione giusta da quando la conosco.”
“Come massone doveva essere il suo compare, l’avvocato Russo. Parlano di distruggere la Sacra Lettera: sono dei senza Dio!” “Detto da lei…” “Ricominciamo con la storia che sono comunista? Sì, sono comunista, ma credo in Dio. Anzi, ci credo più di lei.“ “Mi sta bene. Ma ci andrei piano a chiamare qualcuno senza Dio. Ha tanto da spartire con Dio da poterlo togliere a qualcuno? Se Dio fosse ovunque nessuno potrebbe esserne privo. Sebbene, se fosse lui a sceglierci, come voleva Sant’Agostino, allora potrebbe essere Lui a ritirarsi da noi, lasciandoci soli. Certo la responsabilità del rifiuto sarebbe sempre nostra, almeno così pretendeva il santo vescovo d’Ippona… Cosa poi intendesse… Comunque, posta la nostra evidente e generalizzata indegnità e forzando la mano a Sant’Agostino, che pure pessimista era di suo, potremmo facilmente essere tutti senza Dio. E questo nel caso migliore: cioè ammesso che Dio esista.” “Perché non mette da parte il suo dannato scetticismo e si convince che ogni tanto le cose possano andare per il verso giusto? Perché la Madonna non può avere mandato una lettera ai Messinesi? Una bella storia non può più essere vera? Di questi tempi solo l’incredulità e il fango sono di moda! La verità dev’essere per forza strana: Omero non è mai esistito e Achille se la faceva con Patroclo…” “Cose più che probabili. Anzi sicure, di cui ragazzi abbiamo già discusso… Comunque è inutile divagare: il fatto è che ci sono diversi elementi contrari alla tradizione della cosiddetta Sacra Lettera.” “Sentiamoli” sfidò Bonanno. “Partiamo dalla data.” “Anno 42.” “Benissimo: quarantadue dopo Cristo. La lettera dice pure che è stato S. Paolo a fare conoscere la fede ai Messinesi. Quindi, a prescindere dal fatto che l’Apostolo abbia o meno accompagnato la delegazione messinese a Gerusalemme nel 42, egli un po’ di tempo prima doveva essere capitato a Messina. E in effetti gli Atti riportano che S. Paolo proveniente da Siracusa,
costeggiò il nostro litorale per prendere terra a Reggio Calabria. Quindi è perfettamente verosimile che prima di attraversare lo Stretto, si sia fermato a sud della nostra città, per breve tempo. Magari in quella cala San Paolo indicata dalla tradizione, che è proprio di fronte a Reggio. “Tutto quadra, quindi.” “Tutto quadra, tranne le date. Le fonti principali che abbiamo sulla vita di San Paolo sono gli Atti degli Apostoli e le sue Epistole, da cui si deducono diverse notizie: ad esempio la sua conversione risale circa all’anno 36. Come saprete, ragazzi, prima Paolo perseguitava i cristiani, e oggi è il secondo Santo che incontriamo ad essere partito col piede sbagliato, perché pure il giovane Agostino ne aveva combinate... Siamo pure informati che Paolo ò da queste parti sotto scorta per affrontare un processo a Roma intorno al 62, cioè vent’anni dopo la supposta Lettera della Madonna. Niente Paolo a Messina nel 42, niente conversione, niente Lettera.” “E tutte queste date sarebbero sicure?” “Incrociando gli Atti e le Epistole con altre fonti storiche, la ricostruzione degli spostamenti di Paolo è abbastanza attendibile. Per salvare la Lettera si dovrebbe demolire mezzo Nuovo Testamento: cavaliere, il suo zelo verso la Sacra Lettera danneggerebbe la fede più dell’empietà di due innocui massoni che la volevano distruggere.” “E se ci fosse solo un errore di data nella tradizione e la Lettera, invece che del 42, fosse del 62? Lei diceva sempre al povero Colosi che Gesù è nato sei anni prima e che il millennio era già ato perché un monaco aveva sbagliato i conteggi. Non può essere così anche per la Lettera della Madonna? In fondo si tratta di scambiare un quattro con un sei.” “Lei non è il primo a pensarlo. In realtà si tratta d’invertire le cifre romane XL e LX che compongono parte della data.” “Allora è ancora più facile! Trascrivendo la Sacra Lettera nell’antichità qualcuno avrà fatto confusione” esultò Bonanno. “Il problema della data è molto delicato. Il fatto stesso che la Lettera faccia riferimento alla nascita di Cristo in un tempo in cui nessuno usava questo sistema di datazione è sospetto. Per di più viene indicato il mese solare, quando
gli ebrei, e quindi verosimilmente Maria di Nazareth, usavano il calendario lunare.” “E allora?” “A queste obiezioni si può rispondere che nell’originale ebraico non c’era data e che questa sia apparsa solo nella traduzione greca. Fin qui può andare, ma se portiamo la lettera al sessantadue sorgono altri problemi. Primo: è vero che Paolo era da queste parti in quell’anno, ma ammesso che si fermasse a Messina, dal racconto degli Atti è chiaro che si sarebbe trattato di una sosta di poche ore, insufficiente a predicare, suscitare l’entusiasmo di una popolazione pagana e persino consacrare un vescovo, come vuole la tradizione. Secondo: si può escludere che Paolo tornasse a Gerusalemme dopo quella data. Terzo: per tutti gli antichi autori, Maria di Nazareth nel 62 era già morta, o ascesa in cielo che dir si voglia.” “Quindi non c’è speranza” concluse Bonanno con un filo di voce. “In realtà è stata fatta una proposta che potrebbe riaccendere una speranza.” “Ah!” “Si potrebbe salvare la data del quarantadue, interpretando in senso lato un o dell’epistola ai Romani dove dice che san Paolo, prima di tornare a Gerusalemme nel 43 predicò dalle parti della Grecia e dell’Illiria. Con l’appoggio di qualche testo dei padri della Chiesa, per Grecia potrebbe intendersi anche l’Italia o almeno la sua parte meridionale.” “Certo, la Magna Grecia! San Paolo quindi poteva essere qui nel 42! Tutto è a posto dunque. C’era bisogno di farla tanto lunga?” “Lei è sempre frettoloso. Non sarei così ottimista. A parte la forzatura della geografia, anche qui ci sono delle difficoltà. Ad esempio nel 42 San Paolo non era vescovo: gli sarebbero quindi mancati i poteri per consacrarne a sua volta un altro. Inoltre…” “Va bene. Basta. Ho capito – tagliò corto Bonanno. – Per il momento è inutile discutere. Prima recuperiamo la Sacra Lettera e poi ne riparliamo.” “Invece si potrebbe affidare la lettera di questo Ruggeri a qualche esperto di
storia patria; vedere se è autentica, cercare di scoprire qualcosa sull’autore e sull’avvocato a cui scrive. Se è una montatura dovrebbe venire fuori. In caso contrario potrebbe esserci qualcosa d’interessante: a esempio quel riferimento alla biblioteca dell’Escorial.” “Adesso sono io a darle dell’ingenuo professore! Noi consegniamo il documento a qualcuno, quello trova la Lettera della Madonna e si prende il merito della scoperta. In fondo l’esperto è lui! Chi vuole che creda a due vecchi? E quello a alla storia al posto nostro. No. La cosa deve rimanere segreta: farò delle ricerche per conto mio.” Bonanno era disposto ad accettare lo scetticismo di Pirri, ma il consiglio di mettere di mezzo altri gli parve un tradimento; un modo subdolo per sottrargli la sua scoperta. Se ne andò di malumore.
La Sacra Lettera, in base alle indicazioni di Ruggeri, doveva trovarsi in una statua. Bonanno lesse e rilesse il o che lo interessava. … parla chiaramente del bastone di una statua innalzata rimpetto al Palazzo Reale, ov’è ora il Porto Franco. Palazzo Reale e Porto Franco erano indicazioni che non gli dicevano nulla. Ammise stizzito di aver ancora bisogno di Pirri.
Ritornò dal professore nel pomeriggio, trovandolo nella stessa posizione del mattino. Entrò piano credendo che riposasse. Sul tavolo rimanevano gli avanzi del pranzo. Un certo odore pungente lasciava supporre che Margherita ancora non fosse ata per cambiarlo. “È lei cavaliere?” “Sì, professore. Come si sente?” “Un giorno o l’altro, in un modo o nell’altro, starò meglio. E questa è una risposta ottimistica, perché se invece avesse ragione Sant’Agostino non è detto che le cose finiscano bene. Ma lei non è qui per sapere della mia salute, o delle
prospettive delle mia anima, ma per chiedermi qualcosa.” “Sì, volevo sapere dov’era il Palazzo Reale.” “Il Palazzo Reale subì gravi danni durante il terremoto del 1683 e non venne più restaurato. Cari ragazzi, i bei tempi per la nostra città erano finiti per sempre, la storia aveva preso un’altra strada: Colombo, quel genovese incosciente, con la scoperta dell’America aveva spostato il baricentro del mondo. Il Mediterraneo era ormai un lago di periferia e al suo centro Messina si barcamenava per sopravvivere. Dagli spagnoli aveva tentato di are ai si; era andata male e ormai era una città traditrice per qualcuno e insignificante per gli altri; in ogni caso indegna di un Palazzo Reale. I resti della règia nei secoli successivi vennero adattati a magazzini e uffici portuali, in attesa di essere spianati dal terremoto del 1908. Adesso al loro posto c’è la dogana. “Ah! La dogana di piazza Cavallotti! In mezzo c’è proprio un giardinetto con una statua. È fatta! L’abbiamo trovata! Domani prima di pranzo tornerò con la Lettera!” “Vuole sapere altro?” “No. So tutto.” “Beato lei… allora chiami Margherita, che venga a cambiarmi.”
XV
A pochi i dalla stazione ferroviaria, piazza Cavallotti si apriva irregolare tra alcuni edifici pubblici degli anni trenta e un modernissimo posteggio multipiano, pressoché inservibile per la rampa troppo stretta. Al centro campeggiava un gigantesco ficus, sorvegliato di spalle da una statua di marmo bianco. Bonanno, presentatosi di buon mattino, lesse distrattamente: Carlo III 17161788. Il buon Re, secondo le migliori aspettative, stringeva nella mano sinistra il bastone di comando; il foro sulla punta, che s’intravedeva dal basso, prometteva una lunga cavità. Non rimaneva che salire a prendere la Lettera, sicuramente nascosta lì dentro. La piazza – aggio verso la stazione, sito d’importanti uffici e capolinea delle corriere – a quell’ora era affollata. Cappellino da operaio, spazzolone con manico telescopico, spugna e stracci, Bonanno riempì il secchio da una fontanella. Finalmente il Comune di Messina – o l’apposito dipartimento della Regione Sicilia – mandava qualcuno a ripulire il buon Carlo: bel gesto di riconoscenza repubblicana verso un sovrano che sul trono non s’era comportato male. L’approssimativo piano di recupero elaborato nei giorni precedenti ignorava l’alto basamento cilindrico della statua. Ma il vecchio non si perse d’animo, trovando fortunoso soccorso in una scala di legno lasciata dai giardinieri sotto il ficus. Mezza fradicia, montanti sottilissimi, il secondo piolo rotto, arrivava appena. Si arrampicò con circospezione. Sembrava reggere. Arrivato in cima al basamento, distribuì gli attrezzi nel poco spazio lasciato dall’ingombrante Carlo, e si tirò su aggrappandosi senza riguardi al panneggio delle reali brache. Il sovrano emergeva dall’ampio mantello con le mani ai fianchi. Bonanno, adesso in buon equilibrio sul piedistallo, infilò l’indice nel foro del bastone di
comando toccando duro; ritentò inutilmente col manico dello spazzolone. Nessuna cavità: suonava pieno. “Che sta facendo?” chiesero dal basso. “Manutenzione!” ribatté pronto. Un vigile urbano seguiva da qualche minuto le sue evoluzioni attorniato dagl’immancabili perditempo. “Manutenzione… ma come? Da solo, senza casco, senza impalcature, senza cavi di sicurezza. Se cade s’ammazza!” “Intervento urgente delle belle arti. Poche settimane ancora e la statua sarebbe andata in pezzi” rimandò imperterrito. Agguantò quindi il pomo del bastone nel tentativo di smontarlo, poi riprovò col manico dello spazzolone dentro il foro... niente da fare. Tentò ancora con minore convinzione, ma ormai sapeva di essere su una falsa pista. Avrebbe voluto andarsene, ma davanti a tutto quel pubblico era obbligato a reggere la parte. Spazzolò la spada con la spugna bagnata, rimosse il muschio dalle fibbie delle scarpe, allungò lo spazzolone fino alla parrucca, in un ultimo slancio strofinò per bene il nasone. Traccheggiava ancora, non sapendo come uscirne, quando il vigile dovette allontanarsi per una lite tra automobilisti. Non attese un istante a fiondarsi giù per la scala con una destrezza a lui stesso inattesa e subito fu a terra. “Ma lei è vecchio!” esclamarono in coro i curiosi rimasti di piantone, come se non ne avessero mai visto uno. “Largo, largo, non intralciate i lavori! Fate are.” Il cappellino sugli occhi, sgusciò via. Il buon Carlo nei secoli ne aveva viste tante. Sorrise appena, continuando a guardare in lontananza oltre la stazione, verso il continente, oltre il mare.
XVI
Per Bonanno l’orgoglio di un’impresa che in pochi avrebbero affrontato alla metà dei suoi anni, bilanciava la delusione. Quella mezz’ora d’azione era servita più delle pillole prescrittegli dal medico, che lui comprava per fargli vedere le scatole e poi buttava nella spazzatura: da anni, due al giorno, a mesi alterni, secondo la più scrupolosa posologia. Sull’autobus ebbe modo di riflettere. Considerò le date sulla statua, e da lì seguirono alcuni ragionamenti che lo fecero stupire di come, nell’ansia di recuperare la Sacra Lettera, gli fossero sfuggite alcune domande ovvie.
Rientrato alla Villa, si precipitò dal professore. “Nella statua non c’è niente.” “Naturalmente” ribatté Pirri imibile. Stava ascoltando musica lirica in poltrona. Una volta di più diede segno di non gradire l’irruzione. “Ieri nella fretta non le ho chiesto come ha avuto quel libro?” “Ah, cominciamo a ragionare! Ragazzi, prima di cercare le risposte è importante trovare le domande giuste. Il libro me l’ha dato Immacolata Scarcella.” Spense di malavoglia il registratore. “La moglie del sensale?” “Sì. Scarcella dispose per testamento che le sue carte andassero a me. Se lei avesse esaminato il libro, avrebbe riconosciuto nel frontespizio l’ex-libris Skargill con l’elmo e la croce.”
“Scarcella era apionato di libri antichi? Lo facevo un tipo pratico.” “Perché, un tipo pratico non può essere apionato di libri antichi? E poi, com’è fatto un tipo pratico?” “Va bene, va bene... il libro era di Scarcella che era un amatore di libri antichi.” “Assolutamente falso: Scarcella dei libri se ne fregava forse più di lei. Ne aveva tanti ma servivano solo all’ambizione di costruirsi la nobiltà. Li aveva acquistati in blocco insieme alla casa. E qui le farò un’altra sorpresa: il precedente proprietario del suo villino era stato l’avvocato Federico Russo, quello stesso Russo destinatario della lettera che lei ha trovato.” Bonanno iniziò a riflettere a voce alta. “Quindi Russo nasconde la lettera nel libro, il libro a a Scarcella e questi lo lascia a lei. Non sappiamo se Russo utilizzando le indicazioni di Ruggeri abbia rintracciato la Sacra Lettera, ma considerata la sua intenzione di distruggerla, speriamo che non ci sia riuscito. Quanto a Scarcella, se i libri li teneva per figura, è difficile che abbia trovato la lettera nella copertina.” “Chi può dirlo?” Pirri, lo sguardo rivolto verso un indefinito punto in alto, sembrava di nuovo col pensiero altrove. “Però qualcosa possiamo scoprirla. Ha detto che le carte di Scarcella, e quindi di Russo, finirono a lei. Ci saranno lettere, appunti…” “Sì, c’è parecchio materiale.” “E dove sono?” “A casa mia. Riempiono almeno quattro scatoloni, se i topi non se le sono mangiate.” “Col suo permesso, vorrei vederle.” “Quando vuole può prendersi le chiavi. Però non la facevo topo di biblioteca, mi sembrava più uomo d’azione… A proposito, com’è finita con Carlo III?” La domanda trasudava perfidia.
“La statua non poteva essere quella giusta: nella targa c’è scritto che il re è morto nel 1788, il monumento è addirittura del 1859. Lei lo sapeva, vero?” “Bravo cavaliere, finalmente un po’ d’attenzione alle date. Ragazzi, le date sono importanti.” “Ruggeri si riferiva ad un’altra statua che doveva essere lì da almeno duecento anni. Tra terremoti, rivolte e occupazioni chissà che fine ha fatto.” “Se è per questo, la statua esiste ancora, ed è pure a portata di mano.” “Perché non me l’ha detto subito?” scattò Bonanno, che se l’altro fosse stato in migliore arnese gli avrebbe messo le mani addosso. “Perché lei ieri mi ha chiesto solo della piazza, aggiungendo per il resto di sapere tutto.” “Va bene… tanto ha sempre ragione lei! Qual è questa dannata statua?” “È ovvio che si tratta della statua di don Giovanni d’Austria. Ragazzi, nel l571 il nostro Giovannino, appena venticinquenne, entrava a Messina reduce dal trionfo di Lepanto. Il senato cittadino volle celebrarlo con una colossale statua di bronzo dorato, in cui il nostro eroe impugna un lungo bastone a tre fasci, simbolo d’imperiali, veneziani e pontifici, alleati nella flotta cristiana. Ma l’aspetto più curioso è la sua posa da calciatore sul dischetto di rigore, salvo che l’oggetto vagamente sferico sotto il suo piede destro non è un pallone ma la testa dell’ammiraglio turco Mehemed Alì Pashà, che a Lepanto la perse due volte: di suo, durante la battaglia, e per mano cristiana, dopo. “Nobile, bello, ricco, giovane e vittorioso, decisamente fortunato il nostro Giovannino, non fosse stato per il veleno recapitatogli dal fratellastro, il piissimo Filippo II, qualche anno dopo. E così ebbe presto un secondo monumento, stavolta disteso e di marmo, all’Escorial.” “Va bene professore – l’allergia alle lezioni di storia era più forte di Bonanno, nonostante l’esperienza gli suggerisse che, almeno quelle di Pirri conveniva seguirle fino in fondo – ho capito: è la statua che adesso si trova in Piazza dei Catalani. Ma siamo sicuri che all’epoca si trovava proprio davanti al Palazzo Reale?”
“Sicurissimo. Ragazzi, da noi le statue cambiano indirizzo come le persone e, oltre piccioni e inquinamento, hanno altri crucci. Don Giovanni, ad esempio, veleno a parte, corse più rischi da morto che da vivo: nel terremoto del 1783 prese una scivolata e cadde dal piedistallo; nel 1848 incassò addirittura una cannonata; poco dopo lo sfrattarono dalla piazza del Palazzo Reale e finì in quella dell’Annunziata dei Teatini. Se ricordo bene, nel 1857 quando Ruggeri scrive a Russo, doveva aver già traslocato, ma forse Ruggeri mancava da Messina da tempo e non lo sapeva. Giovannino scampò anche al terremoto del 1908 e siccome piazza dell’Annunziata non c’era più, si acquartierò, armi e bagagli, a piazza dei Catalani dove tuttora si può incontrare.” A quel punto Bonanno – la mente già alla prossima spedizione – aveva già staccato. “Cari ragazzi potrei parlarvi di altre statue peripatetiche. Ad esempio il buon Carlo III, che il nostro coraggioso cavaliere stamani ha avuto l’onore di spazzolare, è alla sua seconda vita statuaria. Prima si godeva la marina accanto alla fontana di Nettuno; nel 1848, un po’ perché come Borbone attraversava un momento di scarsa popolarità, un po’ perché il suo bronzo tornava utile per i cannoni della rivoluzione, finì nella fornace. Ma Messina evidentemente gli piaceva, e così dopo una decina d’anni Carletto si ripresentò in città sulle armi dei suoi discendenti tornati in auge. Stavolta prudentemente vestito di marmo, andò ad abitare a San Leo, proprio fuori dalla porta detta Reale, dove visse tranquillo per poco: nel 1860, all’arrivo dei garibaldini, le autorità dovettero nasconderlo alla vendetta popolare. “Storia simile quella di Ferdinando II, che se ne stava pacifico a piazza Duomo. Nella rivoluzione del 1848 finì a fare la bombarda; al ritorno dei Borbone si ripresentò cambiato d’abito al suo posto, e poco prima del ’60 si trasferì in via Ferdinandea, dov’era di casa anche per il nome; con l’avvento delle camicie rosse scampò per miracolo al popolino smanioso di regicidi postumi; pure la sua strada cambiò nome: via Garibaldi, naturalmente. “Carlo II, che la gente doveva avere in particolare uggia, in quei movimentati decenni fu distrutto, rifuso e di nuovo distrutto; non gli bastò a salvarsi che il suo bronzo fosse quello sacro di una campana del duomo. Egualmente sfortunati Ferdinando e sco I, anche loro scomparsi per sempre – ma chi lo può dire? – dalle nostre piazze.
“Vita dura quella dei grandi, anche da morti. Certo, i secoli sopiscono i rancori e consentono una vita più tranquilla. Il nostro Giovannino ad esempio, tranne una cannonata di striscio per sbaglio, non patì il Risorgimento. La gente s’era abituata a quel tipo che girava per la città con il pizzetto, le braghette corte e l’armatura antica. Avevano dimenticato chi fosse, e fu la sua fortuna perché in quel momento gli austriaci non erano certo popolari. Capitato a Messina di aggio, aveva ormai l’aria familiare di certi trisavoli di cui si parla volentieri senza saperne nulla. Quindi lo lasciarono in pace. Però non è detto che sia al sicuro: la storia ha strani rigurgiti, tornassero i turchi dopo quattrocento anni, il atempo di giocare a pallone con la testa di Alì Pashà a Giovannino potrebbe costare caro. “Ecco ragazzi: diventare una statua è un modo sicuro per saldare i propri debiti con la storia che, magari davanti a una vita postuma più ritirata, sarebbe disposta a dimenticare. Proprio i tiranni dovrebbero temerlo, ma per una bizzarra nemesi sono i più apionati consumatori di marmi e bronzi. Eppure la miglior protezione contro i secolari capricci della fama sarebbe proprio quella carne corruttibile di cui, nella Sua onniscienza e imperscrutabile misericordia, il Padre Eterno li ha dotati.” Con tanti esempi sottomano, chissà per quanto tempo avrebbe continuato. Intanto Bonanno, seduto sulla sponda del letto, trafficava nella sua mente con scale, martelletti, argani e paranchi. A mezzogiorno Margherita entrò con il carrello del pranzo. Il vecchio professore, con uno dei repentini scarti che rendevano ancora più curiose le sue digressioni, tornò al presente. “Cavaliere, ho l’impressione di annoiarla. Suppongo che adesso si precipiterà a piazza dei Catalani.” “Potrei andarci subito. Ma stavolta voglio fare con calma. Ho bisogno di aiuto: credo che mi rivolgerò a Caruso. Di lui mi fido, gli racconterò tutta la storia.” “Caruso, il becchino?” “Sì, proprio lui.” “Un cavaliere – sia pure del lavoro di una Repubblica che del lavoro se ne infischia – e un becchino. Una coppia perfetta: der Ritter und der Tod.”
“Cosa vuol dire?” “Il Cavaliere e la Morte.” Bonanno uscendo scongiurò.
XVII
Due notti dopo, il Cavaliere e la Morte si ritrovarono in piazza dei Catalani. A parte qualche auto di aggio e un gruppo di ragazzi troppo allegri di birra sul marciapiedi più distante, tutto era tranquillo. Per precauzione avevano posteggiato il carro funebre in una strada secondaria e, quando sbucarono sulla piazza, a Bonanno venne quasi un colpo vedendo una grossa impalcatura al posto della statua. Che don Giovannino avesse di nuovo traslocato? Una sbirciatina tra i teloni bastò a rassicurarli: lo stavano semplicemente restaurando sul posto. Caruso – cresciuto sveglio in un quartiere difficile – aprì con facilità il lucchetto che bloccava la porta dello steccato. Si ritrovarono in un cantiere modello: scale comode, parapetti e reti di sicurezza dappertutto. Salendo alla luce delle torce elettriche, furono meravigliati dagli intarsi dell’armatura e soprattutto dalle dimensioni: il Colosso lo chiamavano gli antichi. Per i ragazzi che rimanevano in piazza a fumare e bere fino a tardi, era invece il Chitarrista: posa molleggiata, look stravagante, quel curioso strumento impugnato di traverso con la destra, Giovannino proiettava sul palazzo di fronte un’ombra rockettara. Il Chitarrista appunto, ché ogni generazione interpreta a sua misura vecchi e nuovi eroi.
“Ci siamo!” Il grido di Bonanno echeggiò nella piazza, coperto a malapena dal vociare intermittente dei ragazzi. Lungo circa un metro, sottile ma non troppo, il bastone di comando in mano a Don Giovanni suonava felicemente cavo. Si avventò a mani nude tentando di svitare o estrarre quello che sembrava una specie di tappo, posto all’estremità.
“Calma cavaliere, la notte è lunga e don Giovannino non scappa” Il tappo resisteva. Caruso spruzzò del lubrificante preso dalla borsa degli attrezzi. “Aspettiamo che faccia effetto.” Per ingannare il tempo lanciava in aria un pezzo da cinquecento lire d’argento. “Visto in faccia da vicino sembra quasi un ragazzino.” “Pirri ha detto che aveva venticinque anni.” “Non sapevo fosse così giovane.” “Un tipo in gamba, altro che la gioventù d’oggi! Li guardi… – Bonanno indicò i ragazzi scomposti sul marciapiedi di fronte. – Gioventù senza futuro!” “Da sotto non avevo mai notato quella testa sotto il piede.” “Se ho capito bene è un Turco a cui don Giovanni ha fatto tagliare la testa.” “Ah!” “Ma anche a lui non andò meglio: lo fecero fuori intorno alla trentina.” “I Turchi?” “No. I cristiani. Anzi, i suoi stessi parenti.” “Altro che la gioventù d’oggi! – Caruso fece scherzosamente il verso a Bonanno. – Giovannino, tu si che hai avuto un bel futuro!”
In piazza il semaforo lampeggiava sul giallo; i ragazzi si allontanavano alla spicciolata; nel palazzo di fronte qualcuno abbassò rumorosamente una serranda. Caruso fissò gli occhi vuoti della statua. “Tranquillo Giovannino, non ti faremo male.”
Che quel giovane dai tratti delicati fosse stato autore e vittima di tanta violenza non aveva importanza. Per lui era semplicemente un morto. Un morto come quel vecchio appaltatore in odore di mafia che aveva seppellito il mese scorso, o il giovane prete in odore di santità dell’anno prima. E li avrebbe voluti così – puri, senza residui e senza attributi – se non fosse stato per certi spettri che cercava d’esorcizzare. Magari scherzando. “Non aver paura: ti daremo soltanto due colpetti delicati per fare saltare le incrostazioni. Neppure li sentirai.” Le parole tranquillizzanti erano l’antidoto – inefficace e truffaldino – che spacciava a se stesso contro i veleni del mestiere. Cercava sempre di mettere i morti a loro agio; mentre li vestiva, componendoli dentro la bara, iniettando la formalina, distendendo il sudario, in ogni caso prima di saldare. Caruso non pregava: ripeteva certe frasi calme, come si fa con i bambini mettendoli a letto prima di spegnere la luce, ed era quello il suo speciale modo di partecipare al mistero della morte. Con don Giovannino come per tutti gli altri. Bonanno intanto continuava a trafficare col bastone. “Cavaliere, cosa spera di trovare?” “Come, non gliel’ho detto? Dovrebbe esserci la Lettera della Madonna. E Pirri può dire quello che vuole: se la troviamo sarà sicuramente quella vera.” “E se la trovassimo? E se fosse proprio quella scritta dalla mano di Maria, Maria di Nazareth madre di quel Cristo che guariva i malati e resuscitava i morti: il suo amico Lazzaro, il figlio della vedova, la figlia di Giairo… cosa cambierebbe?” “Che significa, cosa cambierebbe?” “Voglio dire: se la Vera Lettera venisse fuori, i bambini smetterebbero di ammalarsi e di morire? E io di seppellirli?” “Cosa c’entra questo con la Lettera?” “Ho capito: anche lei, come i preti, quando non ha risposte dice che sono sbagliate le domande! Le richiedo, cavaliere, cos’è veramente questa lettera che cerca?”
Caruso aveva adesso uno strano tono. “Come, cos’è? È una reliquia…” replicò Bonanno sorpreso. “E cos’è una reliquia?” “Ad esempio l’ampolla col sangue di un santo, l’osso di un beato, il dito di una santa: la reliquia è ciò che resta.” “Sangue, ossa, pezzi di carne, resti… allora la reliquia siamo noi. Siamo noi ciò che rimane. Ma di che cosa? Cos’eravamo prima?” “Prima eravamo, anzi siamo, vivi.” “Siamo vivi, lei dice cavaliere. Ma cos’è la vita?” “La vita è la vita: non c’è molto da ragionarci sopra. Noi in questo momento siamo vivi. Punto.” “E se la vita fosse solo il prima della morte? E al limite, se hanno ragione i preti, il dopo? Se così fosse, sarebbe la morte a definire la vita, a darle significato, e il nostro centro di gravità sarebbe la morte, con la vita a girargli attorno.” “Lo sa che certe volte lei mi ricorda Pirri?” Il becchino non ascoltava: ormai i suoi spettri aleggiavano attorno al Colosso di bronzo furenti e incontrollati. “La morte è il nostro centro. Un centro sfuggente: così breve sembra la morte... Il tempo precedente lo misuriamo in giorni, in anni, qualcuno tocca pure il secolo. E anche il tempo successivo ha le sue esatte dimensioni: anni o secoli di purgatorio, la definitiva infinità del paradiso e dell’inferno, sempre per chi ci crede... per gli altri l’ancora più estenuante infinità del nulla. E in mezzo, sbilanciata da qualche parte, sta la morte. Ma qual è la misura della morte?” “Mia madre ci ha messo sette giorni ad andarsene.” “No, quella è l’agonia; l’agonia che fa parte ancora della vita. Altro che sette giorni: ho visto vite intere d’agonia! Io parlo della morte: il punto indistruttibile che sta tra il consumato prima e l‘inconsumabile dopo. Un punto... ecco cos’è la
morte: un punto!” “Se la morte è un punto, come tutti i punti non ha misura.” “Bravo cavaliere, finalmente ci siamo capiti: i punti sono senza misura, la morte non ha misura... sì, può essere. – Caruso ragionò tra sé per un istante. Riprese. – Ma i punti di cui lei parla sono tutti diversi o tutti uguali?” “Idealmente i punti geometrici sono tutti uguali.” “Tutti uguali?” “Sì. Può stare tranquillo: siamo nel mio campo!” “La geometria è il suo campo, ma la morte è il mio, e se li mettiamo insieme penso che la geometria della morte segua regole diverse. Esisteranno pure due punti uguali, ma di sicuro non esistono due morti uguali.” “Perché? In fondo cambiano le circostanze ma la morte è una sola per tutti.” “Mai viste due morti uguali, mai visti due morti uguali. Che se è sempre la stessa mano a segnare il punto fatale, devono sorreggerla un’abilità e un’astuzia infinite nel lasciare un firma sempre diversa. Ma forse le cose sono più semplici: la morte è sempre diversa perché diversa è la mano che la disegna. È una specie di autoritratto definitivo: dopo una vita di prove, copiature e cancellature, a ognuno di noi è data un’unica possibilità di tracciare nella propria morte il segno incancellabile, ma alla fine, nonostante il più o meno lungo esercizio, tutti improvvisiamo.” “Comincio a perderla…” annaspò Bonanno. “Il suoi punti tutti uguali, caro geometra, stanno perfetti sulla superficie di un foglio bianco che non esiste da nessuna parte. Io ho visto in fondo alla punta della morte segni così profondi da trafiggere e inchiodare per sempre il foglio della vita, e così strazianti da pugnalarlo e lacerarlo e farlo sanguinare; altri sgorbiati in modo da far credere che lo stesso foglio abbia tentato di sfuggire in un ultimo scarto disperato; altri così vasti e circolari che il foglio stesso non bastava a contenere; e altri ancora, incalcolabili, seminati con un disegno così folle da accecare i sentimenti e distruggere la ragione…”
Il becchino prese d’impeto la borsa degli attrezzi tirando fuori una grossa pinza e un martelletto. “È come dice lei, cavaliere: meglio non complicarsi la vita! Smettiamola con le domande! Si sposti, abbiamo perso abbastanza tempo! Facciamo saltare questo tappo e torniamo a casa!” All’improvviso impaziente e stanco, assestò un paio di colpi non proprio leggeri come aveva promesso, poi strinse con la pinza. Le braccia tremavano per lo sforzo, ma alla fine il tappo cedette: ruotò di mezzo giro dentro una rudimentale filettatura e si staccò. Bonanno diresse subito il fascio della torcia dentro il tunnel. Profondo una trentina di centimetri e irrimediabilmente vuoto. Per sicurezza infilò un bastoncino. “Vuoto! È vuoto! Maledizione!” Continuava ad armeggiare con il legno dentro il bronzo che risuonava cupo. Con cieca ostinazione avvicinò l’occhio destro per guardare meglio. Avrebbe voluto diventare un insetto, entrare nel cavo del bastone e esplorarlo millimetro per millimetro. “Caruso, sente quest’odore? Senta! Senta! Un odore antico, forse papiro. Perché no? Papiro, lo sento! Sono sicuro, la lettera è stata qui dentro per molto tempo e qualcuno, forse proprio l’avvocato Russo, l’ha tirata fuori. Ma l’odore è rimasto. Senta! Senta!” In effetti il cavo del bastone emanava un odore particolare, diverso da quello dello sbloccante. Un odore antico poteva essere una buona definizione, forse anche banale data l’età della statua; che poi fosse di papiro e che si fosse conservato lì dentro per un secolo era un’altra storia. “Andiamo.” Il becchino risistemò il tappo, raccolse i suoi attrezzi, quindi si avviò per le scale, seguito malvolentieri dall’altro. Erano quasi a terra quando Bonanno bisbigliò: “C’è qualcuno! Lì, all’angolo della piazza!”
Sbirciarono tra i teloni. Forse un’ombra aveva appena svoltato l’angolo verso il Duomo, ma a quell’ora tutto era sfuggente e indefinito. Poteva essere qualche ramo mosso dal vento o un gioco di luci prodotto dai fari delle auto. Uscirono furtivi, risistemarono il catenaccio e si allontanarono di fretta.
“Qualcuno ci spiava, aveva un mantello, una specie di frate, guardava verso di noi.” Sull’auto Bonanno continuava a congetturare e ogni dettaglio aggiuntivo rendeva più inverosimile l’apparizione. Squillò il telefono. L’agenzia di pompe funebri. Caruso era di servizio e sapeva già di cosa si trattava. “E ti pareva… Lettera o non Lettera, l’angelo non riposa.” “Quale angelo?” “Angelo, io. Angelo, lei: la Morte. Pirri non ha torto.” Rispose al telefono. Qualcuno aveva gettato la spugna dall’altra parte della città. Il becchino quasi non parlò. L’indirizzo era l’unica cosa indispensabile; le circostanze non le chiedeva mai. Più tardi, sul posto, avrebbe saputo tutto… e tanto altro. Troppo, per uno che non sapeva dimenticare. Faceva quel mestiere da quasi trent’anni e non aveva ancora esaurito la pietà. “Prima devo accompagnare un amico, sarò lì fra mezz’ora.” Chiuse il telefono con un gesto secco. Era quasi l’alba: lungo la strada sarebbe ato dal fioraio per la corona. “Chi era?” chiese Bonanno. “Non è più nessuno.” “Almeno sa quanti anni aveva?”
“Un vecchio. Un vecchio come lei, caro cavaliere.”
XVIII
Smessi i panni dell’archeologo d’assalto, Bonanno si rassegnò al ruolo meno gradito di studioso occhiuto e sedentario. Pirri gli fornì qualche sommaria indicazione sulle carte custodite nel suo studio. “I libri sono riconoscibili dagli ex libris: quello di Russo è prevedibilmente un como, in quello di Scarcella c’è un elmo sopra una croce di Sant’Andrea. I miei non hanno contrassegni perché, ragazzi, ogni libro nella sua essenza è un possesso segreto che sparisce con noi, e non sarà la vanità di un nome su un timbro o un cartellino a cambiare le cose... Vanitas vanitatum, molti volumi della mia libreria presentano sia l’elmo che il como: Scarcella appose il suo simbolo accanto a quello del precedente proprietario.” Poi le chiavi di casa non si trovavano, ma per fortuna Margherita ricordò di averle viste in un cassetto tra le mutande.
La casa di Pirri si trovava al primo piano di un vecchio fabbricato dalle parti della Fiera. Gli scatti secchi della serratura echeggiarono nelle stanze buie. Bonanno si ritrovò in un ampio ingresso. Mancava la corrente elettrica, ma per orientarsi bastava la luce proveniente dalle scale. Lo studio stava di fronte. Spalancò le imposte con un tintinnio di vetri sottili; maggiore resistenza opposero le persiane, una delle quali, mezza scardinata, era sul punto di staccarsi. Il professore aveva detto di avere lasciato tutto in ordine, invece libri, documenti e altri oggetti erano sparsi in giro alla rinfusa; diversi scatoloni pieni di carte stavano rovesciati per terra. Si guardò intorno scoraggiato, realizzando solo in quel momento la sostanza
della sua ricerca: avrebbe dovuto scartabellare migliaia di fogli che si strappavano solo a guardarli, selezionare quelli interessanti e perdere gli occhi nei labirinti di vecchie calligrafie. Non aveva ione per quel genere di cose: a differenza di Caruso, gli mancava la vocazione per le cose morte. Prese a caso qualche volume: diversi esibivano gli ex libris di Russo e Scarcella, altri ne erano privi. Concluse che questi ultimi fossero di Pirri e non avrebbe dovuto controllarli. Dopo mezz’ora d’indagini disordinate e inconcludenti, sentiva già la gola bruciare e le mani impastate di polvere. Lasciò perdere, e tanto per fare qualcosa aprì uno dei cassetti della scrivania. Saltarono fuori un paio di occhiali dalla montatura sottile con una lente scheggiata. Poi alcune vecchie foto in bianco e nero: volti ignoti, su sfondi altrettanto insignificanti. Aprì un altro cassetto: un vecchio orologio da polso con la cassa d’oro, il cinturino consumato e il quadrante ingiallito, gli ricordò quello lasciatogli da suo padre e che lui aveva perso. Apriva, chiudeva, girava chiavette, trovava le solite cose: mozziconi di matite copiative, temperini, fogli di quaderno sciolti, un tagliacarte arrugginito, una lente d’ingrandimento col manico d’osso… Incuriosito da un quadretto con una strana stampa, lesse attraverso la lente la microscopica didascalia. “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo... vecchio pazzo!” sibilò alla volta di Pirri, confermando senza volerlo l’espressione di Bruno. Continuò a rovistare con quella bizzarra immagine in testa, e alla fine si macchiò con la solita stilografica in agguato sul fondo dei vecchi cassetti. Tentando di pulirsi le dita col fazzoletto cominciò a chiedersi cosa stesse facendo. Gettò un’altra occhiata su quel caos e decise di andarsene. Sarebbe tornato più avanti – si disse – ma in realtà era convinto del contrario. Chiuse le persiane al prezzo di una scheggia di legno nel dorso della mano e di un pollice pestato. “Al diavolo Pirri, al diavolo Russo, al diavolo Scarcella.” Aveva già aperto la portoncino, più che mai deciso a chiuderselo alle spalle per sempre, quando sentì dei rumori provenienti dalla stanza accanto.
Spalancò la porta senza pensare. La cucina, o ciò che ne restava, era stata eletta a nido da una nutrita colonia di colombi. Nauseante di stoviglie rotte, mischiate a sale, zucchero, pasta, olio ed escrementi. Diversi sportelli penzolavano divelti dai pensili e non si sarebbe potuto indovinarne il colore originario. Gli uccelli erano entrati attraverso un vetro rotto e solo la porta chiusa aveva salvato il resto della casa. Resistendo al ribrezzo li cacciò con una scopa, respingendo pure qualche pericoloso tentativo di contrattacco; poi ribaltò il tavolo contro la vetrata per impedire che rientrassero. Non rimaneva molto da fare: rimise in piedi due sedie con gesto automatico e uscì chiudendo la porta a chiave. Il suo cervello d’investigatore si era rimesso in moto. Un vetro rotto, magari dal vento, poteva essere casuale, ma c’era pure la stranezza delle carte sparse per terra nello studio: era il caso di controllare il resto della casa. Schiudendo le persiane per avere un po’ di luce, scoprì lo stesso disordine violento dappertutto. In camera da letto brandelli di lenzuola pendevano dai bracci del lampadario. Rimaneva da stabilirsi se i visitatori avessero portato via qualcosa d’importante e se ci fosse qualche connessione con la Sacra Lettera. Un appartamento incustodito da anni, era quasi normale fosse stato saccheggiato. Andava però considerato lo strano furto ai danni dello stesso Pirri al pensionato. Coincidenza, l’avrebbe giudicata il professore. Oscillando tra ipotesi di complotti e furti di galline, accese una sigaretta e si ritrovò a rimuginare sul balcone. Al primo piano di fronte era appeso un cartello VENDESI. Nei vasi s’intravedeva qualche geranio superstite... Forse era l’appartamento dei Papa; quelle le persiane verde chiaro dietro cui Grazia e Concetta avevano trascorso la loro vita; quello il balcone col parapetto di pietra da cui don Peppino si era affacciato la mattina della beffa degli asini ottant’anni prima. Quella conferma tangibile delle storie di Pirri, e prima ancora i ladri: gli tornò la voglia d’indagare. Riaprì lo studio: l’aria sembrava più fresca, ma si era solo abituato. I documenti sulla scrivania erano quelli da cui cominciare. Dalle date doveva trattarsi delle carte di Russo: per lo più ingialliti fogli uso bollo, fitti di una
ricercata grafia ottocentesca che si stupì di riuscire a leggere. Copie di contratti, testamenti, bozze di comparse o di lettere… quasi tutto materiale relativo alla professione di avvocato. Sperava di trovare qualcosa di personale, magari un’altra missiva di Ruggeri. Dopo un’ora, gli bastava un’occhiata per scartare un documento; procedeva sicuro ma era tornata l’oppressione della polvere. Voleva lavarsi le mani ma l’acqua di sicuro l’avevano staccata. La polvere se la sentiva dentro: in bocca, nella gola, nello stomaco. Pensò che nella bottega di fronte avrebbe potuto comprare qualcosa da bere.
Donna Peppina aveva già notato lo sconosciuto in balcone; quando Bonanno entrò nella sua salumeria lo fissò con gli occhi scaltri. “Lei è il nuovo proprietario della casa dei Pirri?” chiese senza preamboli. “Sono solo un amico del professore. Mi ha dato le chiavi per fare prendere un po’ d’aria alla casa.” “Allora non è ancora morto! Un peccato…” “Un peccato?” “Un peccato per la casa. Una casa così bella chiusa da tanti anni. Ma come sta il professore?” “Non c’è male. Qualche acciacco, ma alla sua età è normale.” Quella insisteva e a Bonanno non dispiaceva scambiare quattro chiacchiere. Le nascose comunque dei ladri, notizia che l’avrebbe mandata in visibilio. “Ha fatto già cent’anni?” “No, ma gli manca poco: ne avrà novantasei.” “Novantasei anni: bell’età!” “Non è che lei conosceva anche i Papa?”
“E come no! Stavano qui sopra. Don Peppino mi ha battezzato. Alla fine la signorina Grazia era rimasta sola, e i nipoti l’hanno messa in un pensionato. Ora vendono la casa. Vogliono quattrocento milioni. Avrà pure lei cent’anni. Capace che è pure morta. Un peccato, una casa così bella.” “E conosceva pure Scarcella, il sensale?” “E come no! Quello buttato nel pozzo dal monaco.” “Buttato nel pozzo dal monaco?” “Sarà stato intorno al ’30. Ero bambina. Mio padre fu quello che lo tirò fuori dal pozzo. Raccontava che accanto al morto avevano trovato qualcosa di un frate, mi pare un cordone.” “Ma secondo la polizia era caduto da solo.” “Dissero così perché c’era da proteggere qualcuno. Per colpa di Scarcella c’era stata una brutta storia tra le sorelle Papa e il professor Pirri, anzi all’inizio sospettavano don Peppino Papa, ma quello non era il tipo: abbaiava, abbaiava ma non mordeva. Poi venne fuori la storia del cordone e si pensò ai frati del vicino convento. Secondo mio padre era stato il priore, ma allora i preti erano potenti e i fascisti non volevano scandali. Tutto fu messo a tacere.” “Quindi, secondo lei, il priore ammazzò Scarcella per vendicare il buon nome delle sorelle Papa.” “E che c’entra il buon nome delle sorelle Papa? Al priore delle femmine interessava altro che il buon nome… La vera questione era che il nipote del priore – nipote, per modo di dire – aveva comprato da Scarcella un terreno che poi era risultato ipotecato e lui aveva perso un sacco di soldi. Soldi che naturalmente erano del priore, anzi, secondo le malelingue, del convento. Comunque, il priore chiese a Scarcella i soldi indietro e questo si rifiutò dicendo che lui aveva solo fatto da intermediario, e che per di più nessuno gli aveva pagato la sensalìa. Ci fu pure una causa… per farla breve: i due si odiavano, e il priore era un tipo sanguigno capacissimo di qualunque gesto. Scarcella del resto non era un santo… " La bottegaia si dilungò volentieri in molti particolari che Pirri aveva trascurato. Mentre il professore aveva preferito volare alto, per delineare i tratti generali del
labirinto che Scarcella era stato, badando a non sporcarsi, il gusto della bottegaia era la melma accumulata negli angoli più bui dei suoi meandri. S’intrattenne con piacere su sua moglie – Immacolata era per necessità il pezzo forte del suo campionario di corruzione – affibbiandole una fantasiosa varietà d’epiteti, e quando li esaurì ò ad altri protagonisti di quegli anni lontani. Spacciava una vasta gamma di vizi e vizietti, intestandoli a quello o a quella, dopo averli inventariati secondo la qualità, la quantità e il genere. E quanto al genere, quello femminile era preponderante, segno di un’arbitraria preferenza di donna Peppina verso le forme femminili dell’abiezione, escludendo comunque una più grave asimmetria della natura nella distribuzione della colpa. Tra corna e contro-corna, diversi esemplari di gioco d’azzardo, qualche scampolo di omosessualità e molti tipi di donnine – esaminato con cura, il perverso assortimento della bottegaia dava poca scelta – il discorso si allontanò da Scarcella. Alla fine venne fuori che Bonanno era mezzo parente di mezzi parenti di donna Peppina, dove per mezzi parenti s’intendeva qualcosa di tipicamente siciliano – meglio, arabo – che con la parentela legale ha poco a che fare. Avrebbero fatto notte se non fossero entrati altri clienti, e per quanto l’anziana commerciante non si affannasse a servirli – anzi presentò Bonanno a diverse comari come uno di famiglia – alla fine il Nostro si congedò con una bottiglia d’acqua scontata sotto il braccio.
Rientrato in casa scartabellò senza costrutto per un’altra ora. Si stava apprestando a riporre tutto negli scatoloni, quando saltò fuori un ritaglio di cronaca del 1897: Famoso avvocato trovato morto nella Fontana Nuova. Il famoso avvocato era ovviamente Russo, annegato cent’anni anni prima in una fontana a pochi i da casa. L’articolo, riferendo la versione dei Regi Carabinieri – caduta accidentale, con conseguente trauma cranico ed annegamento – sottolineava come l’avvocato fosse un notorio e stimato esponente della massoneria. Col dovuto rispetto per l’autorità, la cronaca non andava oltre nell’ipotizzare un ipotetico movente d’un ipotetico delitto ma, con un tocco gotico, riferiva di un misterioso monaco visto sul luogo da diversi testimoni.
Mise in tasca il ritaglio, chiuse le persiane e uscì. Sarebbe tornato.
XIX
Bonanno aggiornò il professore nel pomeriggio. Sui ladri scambiarono poche parole. Pirri, affatto turbato dallo scempio della sua casa, rifiutava ogni connessione con la Sacra Lettera. L’altro quindi tirò fuori il ritaglio di giornale. “Sa che Russo è morto annegato nella fontana?” “Certo, a San Leone allora lo sapevano pure le pietre.” “Era massone.” “Questo l’abbiamo già detto. Ma anche qui non c’è niente di strano: erano massoni tutti quelli che fecero l’Italia. Invece, ragazzi miei, i preti si erano tanto affannati per non farla. E all’inizio sembrava ovvio che i primi avessero ragione e gli altri torto, ma poi le cose si sono confuse e forse ribaltate. È strano. ano i secoli, e alla fine i fatti danno sempre ragione ai preti, anche sulle cose più improbabili. Quasi quasi ci sarebbe da credere nell’ispirazione dello Spirito Santo, e pure nell’infallibilità del Papa. “A proposito di preti, che mi dice del monaco?” “Il monaco visto vicino al cadavere di Russo?” “Proprio quello.” “Fole, fantasie popolari. Il monaco col cappuccio, l’uomo nero, il vecchio soldato… c’era sempre un tipo simile sul luogo di un delitto. Fantasie frugali, in attesa che cinema e televisione divulgassero alieni e mutanti.” “E del cordone trovato accanto al corpo di Scarcella in fondo al pozzo?”
“Quale cordone? Chi le ha detto del cordone?” “Donna Peppina, la bottegaia di via Canova.” “Vecchia impicciona!” “Mi spieghi la presenza del cordone accanto al cadavere!” “Era solo una corda con un peso, in edilizia lo chiamate filo a piombo.” “Di quelli che si usano per controllare che le pareti siano esattamente verticali?” “Esatto.” “E Scarcella cosa se ne faceva?” “Questo glielo chiederemo all’inferno – sbottò Pirri, poi, siccome l’altro continuava ad aspettarsi una risposta, aggiunse – si può presumere che stesse lavorando nel pozzo.” “Sì alla sua età, faceva l’operaio dentro un pozzo!” “Conosco un altro, non giovanissimo, che si è arrampicato su una statua in una pubblica piazza: anche a lui sarebbe potuta andare male e nessuno avrebbe parlato di assassinio.” “Andiamo professore! Deve ammettere che è molto più verosimile la mia ipotesi.“ “Cioè?” “Scarcella è stato strangolato col cordone e poi gettato nel pozzo. Rimane da stabilire il movente. Si è trattato di questione d’interessi, oppure era la Sacra Lettera il vero obiettivo dell’assassino?” “Assassino che naturalmente è un monaco” concluse Pirri sarcastico. “C’è poco da scherzare! Qui i monaci implicati in strane circostanze stanno diventando troppi: quello incontrato da Ruggeri all’Escorial, quello visto accanto al cadavere di Russo, quello che ha strangolato Scarcella, l’ultimo che spiava me e Caruso l’altra sera.”
“Magari è lo stesso. Se la prima volta è apparso nel 1857, non dovrebbe avere più di duecento anni. Bella età! Ma si sa che in convento l’aria è buona, il mangiare genuino, non ci sono pensieri, e quindi si campa a lungo. Sebbene il nostro monaco, secondo lei, un pensiero, un’unica mania, sembra averla: la Lettera della Madonna. Oltre al fatto che ogni tanto aiuta qualcuno ad abbandonare questa valle di lacrime: e qui, forse, prende troppo sul serio il suo mestiere.” “A sentire lei, non dovrebbe esistere neppure la lettera di Ruggeri.” “Sarebbe una fortuna.” “Mi dica piuttosto, chi sono questi nestoriani?” “Cari ragazzi – trattandosi di teologia Pirri non poteva rivolgersi a Bonanno – Nestorio, a metà del quinto secolo, era patriarca di Costantinopoli. A quel tempo, per quanto a voi possa sembrare strano, certa gente perdeva il sonno su questioni come la natura di Cristo o le ipostasi della Trinità. Controversie su cui ognuno poteva dire la sua solo a patto di assumersene i relativi rischi, che non erano trascurabili. Ogni tanto infatti, per mettere un po’ d’ordine si convocava un concilio, si sottoponevano a giudizio alcuni scritti, e se qualcosa non quadrava li si bruciava in pubblico; il che già era meglio che bruciarne l’autore, come si sarebbe fatto più tardi. Per essere brevi…” “Meno male!” “… per essere brevi, secondo Nestorio in Gesù convivevano congiunti ma non uniti il principio divino e la natura corporea. Non la pensarono così i suoi colleghi vescovi riunitisi ad Efeso, e qui sulla regolarità del concilio ci sarebbe tanto da dire. Comunque tra minacce, risse, trappole e furbizie procedurali, venne definita l’esistenza in Cristo di una sola persona in due nature: umana e divina. E siccome il nostro patriarca non era un tipo accomodante, neppure se si trattava di salvare la poltrona, dopo alterne vicende abbandonò Costantinopoli e finì perseguitato in un’oasi del deserto libico. erà alla storia come eresiarca, fondatore di una chiesa ancora oggi diffusa tra la Persia e l’Iraq, e a credere al signor Ruggeri, uno dei suoi seguaci si trovava all’Escorial nel 1857.” “E secondo lei tutte queste storie possono entrarci qualcosa con la Lettera della Madonna?”
Pirri attese prima di rispondere. “Per evitare guai dovrei dirle no. E invece ammetto che una correlazione, per quanto tenue potrebbe esserci. Ha sotto mano il testo della lettera? “La so a memoria.” “Ripeta l’incipit.” “L’incipit?” “Ripeta l’inizio.” “Maria Vergine, figlia di Gioacchino, umilissima serva di Dio, madre di Gesù crocifisso… “Basta. La questione è tutta in quelle tre paroline: madre di Gesù. Dovete sapere – non disse ragazzi miei, lasciandolo comunque sottinteso – che tra le infinite liti che i teologi s’ingegnarono di cavare dalla presunte nature di Cristo, c’era quella se Maria si potesse o meno definire Madre di Dio. La formula era già antica a quel tempo, ma per Nestorio e i suoi suonava eretica. In un certo senso era evidente il paradosso di una creatura che fosse madre del creatore, ma dall’altra parte si opinava che se Gesù era Dio a tutti gli effetti, la formula era pienamente legittima. Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio avrebbe scritto più tardi Dante, dicendo in pratica la stessa cosa.” “Si fermi, ho capito! La lettera dice Madre di Gesù e non Madre di Dio, e se l’avesse scritta proprio la diretta interessata darebbe ragione ai Nestoriani. Una bella rivincita dopo tanti secoli!” “Sì. Potrebbe essere così. Tanto più che la lettera accenna pure alla duplice natura di Cristo, uomo e Dio.” “Quindi adesso, oltre agl’indizi contro i monaci, abbiamo il movente – chiuse Bonanno trionfale. E sentendo di avere in qualche modo incrinato lo scetticismo di Pirri incalzò – e cosa mi dice della copia della Sacra Lettera ritrovata nel 1700? Anche Ruggeri ne accenna all’inizio della lettera a Russo.” Il fatto che Bonanno ormai tradisse i gialli per i testi di storia patria, aveva le sue inevitabili conseguenze.
Pirri non fece una piega. “Come avrà letto, nel 1715 un monaco basiliano trovò un testo, pressoché uguale a quello della Sacra Lettera tramandata a Messina, in un codice arabo con caratteri siriaci. Naturalmente tale ritrovamento non cambia nulla, perché è ovvio che due falsi non fanno un autentico.” “Lasciamo stare la questione dell’autenticità. Non è possibile che i nestoriani, dopo il ritrovamento del 1715, si siano messi a cercare l’originale della Lettera? Può anche darsi che nelle loro antiche biblioteche ci siano documenti che giustificherebbero tali ricerche. Insomma, potrebbero avere altre informazioni.” “Tutto è possibile, purché non si pretenda di fare ricerca seria.” “E allora, non solo potrei aver ragione sulle ripetute apparizioni dei monaci, ma potrebbe essercene stata un’altra qui, la notte in cui hanno rubato la madonnina. Forse cercavano proprio la Sacra Lettera.” “E cosa c’entro io con la lettera?” protestò Pirri debolmente. “Questo lo dobbiamo ancora scoprire, ma se i nestoriani fossero arrivati a Russo e Scarcella, sarebbero potuti risalire a lei, che ha in casa le loro carte. Se poi penso alla brutta fine che hanno fatto, penso proprio che dovremmo proteggerla." “Non si preoccupi, con me il monaco arriverà in ritardo.”
XX
Bonanno tornò diverse volte in via Canova. Quando si stancava di leggere tirava fuori il taglierino ed esplorava le rilegature dei libri a caccia di nascondigli. Sbudellava libri con leggerezza infantile, crudele e innocente insieme, evitando pure quel minimo di cautela atta a limitare il danno. Si trattava spesso di volumi centenari e qualcuno pure di due secoli; non era la distruzione della biblioteca di Alessandria, ma un simile spettacolo avrebbe ucciso più di un bibliofilo. Dubitando della correttezza dei suoi metodi, omise di riferirli al padrone di casa.
Per fortuna non erano queste la sue uniche cure librarie: durante la strage, selezionava testi di storia patria da portarsi al pensionato per studiarli. A Villa Felice erano abituati a trovarselo dappertutto; rassegnati alla sigaretta e all’invadenza, ma in fondo grati alla sua chiacchiera che riempiva la giornata, facendone un buon compagno di agonia. Non ò quindi inosservato che da un giorno all’altro scomparisse, inghiottito dalle carte che si accumulavano nella sua stanza. Al tavolo della briscola rimasero senza il quarto e – cosa insolita – dovettero rimpiazzarlo ancora in vita.
Le viscere dei libri non restituirono altro, ma qualcosa d’interessante venne fuori dagli scatoloni. Si trattava di una nota spese del 1895, laconicamente intestata lavori nella cripta. Oltre ai materiali edili e al salario di un operaio e di un capomastro, vi era registrata la spesa per due paia di stivaloni. Particolare ancora più interessante, a margine si leggeva una curiosa annotazione: un palmo per due, a quattro palmi da terra, a sei canne dall’inizio del corridoio, sulla mano destra. Pirri, le cui condizioni di salute erano peggiorate, non diede indicazioni. Bonanno pensò a qualche sepoltura di famiglia, ma Caruso accertò che nella
tomba dei Russo al Gran Camposanto non c’era cripta. Probabile quindi che si trattasse dei sotterranei di una chiesa o di un monastero, sebbene fosse strano che un massone finanziasse simili lavori. O meglio, aveva senso solo se lo scopo di questi lavori fosse diverso da quello apparente, cioè se col pretesto di restaurare si volesse nascondere qualcosa. Le guide di Messina ricordavano diverse cripte ottocentesche distrutte dal terremoto del ’908, come quella del convento dei Cappuccini, oppure l’altra, sotto la chiesa di S. Maria di Gesù, proprio nel vecchio borgo di San Leo, dove si voleva sepolto Antonello da Messina. Bonanno non prese neppure in considerazione che la Sacra Lettera potesse essere stata inghiottita dal terremoto. Dei siti superstiti il posto più ovvio era la cripta del Duomo che, sebbene chiusa al pubblico, grazie agli uffici di Caruso non sarebbe stato difficile visitare. C’era pure la malandata chiesa dei Marinai, affacciata sul mare nell’antico borgo del Ringo, e la lista dei sotterranei più o meno accessibili proseguiva con almeno un’altra decina di candidati.
Era in queste ambasce, quando sfogliando la guida del 1840, appartenuta a Russo, notò l’appunto botola 1504, scritto a matita a margine del paragrafo sulla chiesa dell’Annunziata dei Catalani. Il libretto non accennava a una cripta in quella chiesa, ma Bonanno scoprì altrove che sotto il transetto se ne apriva una, accessibile appunto da una botola. L’edificio era stato restaurato intorno al 1895 e dalla cripta si allungava un corridoio, proprio sotto la navata centrale.
XXI
Le tre navate arabo-normanne della chiesa dei Catalani si affacciavano ormai da ottocento anni sull’omonima piazza. La stessa in cui molto più tardi, dopo le note peripezie, si era stabilito don Giovannino d’Austria con la sua chitarra. Nei secoli, a causa di terremoti e ricostruzioni sulle macerie, il livello della città si era sollevato, quindi l’edificio aveva finito col trovarsi a tre o quattro metri sotto il piano stradale. Sede di mostre, concerti e matrimoni, la chiesa, tranne che in queste particolari occasioni, era chiusa. Circostanza propizia per delle indagini riservate.
A procurare le chiavi naturalmente aveva pensato Caruso. Sulla botola ai piedi dell’altare, l’iscrizione latina segnava l’anno 1504. Sollevata la pesante lastra di marmo con una leva, si misero in ginocchio illuminando con la torcia elettrica il fondo della cripta. “È allagato. Almeno mezzo metro d’acqua” misurò Bonanno con occhio esperto. Avendolo previsto, erano muniti di stivali alti. Calarono una scala telescopica e Caruso scese con circospezione. “L’acqua è quasi fango. Mi arriva alle cosce: lei è più basso di me, avrà difficoltà. Meglio che vada da solo” disse riemergendo dalla botola. “Ne abbiamo già parlato: niente da fare. Riscenda: la seguo.” Caruso gli diede il suo cellulare. “Lo metta accanto agli attrezzi, se finisce nell’acqua lo posso buttare.”
Ancora una volta Bonanno dimostrò di sapersi destreggiare. “Nei cantieri ho usato migliaia di volte scale come questa, anche a trenta metri d’altezza” si vantò scendendo in scioltezza. La cripta, rischiarata dai coni delle torce, consisteva in un vano rettangolare con al centro un rozzo altare di pietra. “Sicuro di volere continuare?” ritentò Caruso. “Odio i sotterranei, ma per la Lettera scenderei fino all’inferno.” Caruso notò la voce incrinata che tradiva la spavalderia di quella contraddizione. “Lei costruiva palazzi, quindi è pratico di altezze. Invece il mio elemento è questo: il ventre marcio della terra. Molto peggio dell’inferno, perché se esistesse il rischio dell’inferno ci sarebbe pure la speranza del paradiso; e anche dannati tra le fiamme o in mezzo ai ghiacci saremmo ancora qualcosa, e qualcosa saremmo stati. Qui, nel buio, a sette metri di profondità, il velo del mondo, l’apparente bellezza della natura inizia a disgregarsi e viene fuori la sua vera sostanza. Che potrebbe pure essere la nostra. Il nostro traguardo: il nulla.” Gli antichi intonaci erano molto deteriorati: le pareti, un tempo riccamente affrescate, adesso scoprivano la grezza pietra; unico decoro, una croce dipinta alle spalle dell’altare. Intorno si aprivano con regolare successione quattordici nicchie vuote. “C’erano sicuramente delle statue” commentò Bonanno. “No, erano mummie. Li seppellivano in piedi, che i fluidi corporei defluissero verso il basso permettendo di conservarsi meglio; li puntellavano da qualche parte e loro rimanevano per secoli più dritti dei vivi, e senza stancarsi. Qui sotto non si doveva stare male: c’è una pace! In tanti, non si saranno annoiati: si potevano raccontare delle storie, magari di fantasmi!” “Non mi piacciono le storie di fantasmi.” Qualcosa cadde nell’acqua. Puntarono d’istinto le lampade ma non videro che le increspature dell’acqua smossa.
“Topi.” Caruso ne inquadrò uno con la torcia dentro una nicchia. “Non sopporto i topi.” “Dovrà farci l’abitudine. Se i miei sospetti su questo gran casino che chiamiamo mondo sono giusti, con topi e vermi eremo l’eternità. Che poi saranno i venti o trent’anni necessari a marcire e scomparire per sempre.” “Fantasmi, topi, vermi… la smetta! Cerchiamo il corridoio.” In mezzo alla parete ovest, si apriva una stretta porta sormontata da un architrave di pietra. Si avviarono in quella direzione sguazzando goffi nell’acqua. Il aggio era appena sufficiente per una persona non troppo robusta. “Sei canne, sulla destra…” ragionava Bonanno a voce alta. “Dovrebbero essere circa dodici metri da questo punto.” “Qui sotto tutto va in malora.” “Anche sopra, tutto va in malora: è solo questione di luce. La cosa strana è che ce ne accorgiamo meglio al buio.” “Lei somiglia ogni giorno di più a Pirri. E non è un complimento. Ho le scatole piene del vostro pessimismo!” Il corridoio era largo circa un metro e mezzo. Procedevano con lentezza, attenti a non scivolare sul fondo viscido e irregolare. Il pavimento doveva essere in leggera discesa, perché adesso il livello dell’acqua era più alto. Sembrava anche più fredda. Respiravano un’aria densa, esalazione d’acqua morta e mura marce. “Attento, cavaliere!” Caruso avvisò in tempo per schivare due topi che nuotavano a pelo d’acqua come siluri. Il vecchio scartò sulla destra perdendo di nuovo l’equilibrio e solo perché era a un o dal muro non finì disteso nella melma. La torcia però gli cadde di mano, sparendo nel liquido limaccioso. Imprecò, mentre Caruso lo aiutava.
“Si è fatto male?” “No. Ho solo urtato col braccio. La giacca s’è strappata, ma sto bene.” “La riporto sopra e torno da solo.” “Neppure morto! Siamo ad un o. Mancano pochi metri. Preferisco rimanere per sempre qui sotto che ritirarmi a questo punto.” Sudato e tremante, l’apparente risoluzione delle sue parole sembrava preludere una crisi nervosa. Caruso non fece una piega. “Come vuole. In fondo ha ragione: un posto vale l’altro per sfamare i vermi. E può star certo che se resta secco qui sotto, io, qui sotto, la lascio.” Sembrava il cinismo di chi per troppa dimestichezza con la morte finisce per prenderne le parti; ma voleva solo scuotere l’altro facendo leva sulle sue paure. “Proseguiamo, allora.” Caruso diresse la luce verso il fondo del corridoio. Rasentando il muro destro, l’altro lo seguiva con la mano appoggiata alla sua spalla. Si vedeva poco anche a causa della vegetazione e dalle radici che spuntavano fuori dalle crepe dei muri e del soffitto; doveva esserci un intrico simile anche sotto l’acqua: si sentivano sfiorare le gambe e rischiavano d’incespicare a ogni o. Con infinite cautele percorsero qualche altro metro. Bonanno teneva gli occhi semichiusi. “Fine della corsa” disse Caruso e in quelle tre parole tranquille c’era una percettibile delusione. “Cos’è quello?” “Un muro.” “Non è possibile! Un muro... i libri non parlano di un muro!” Il vecchio tentò rabbiosamente di superare Caruso scartando a sinistra con un brusco movimento, e avrebbe rischiato ancora di perdere l’equilibrio se l’altro non l’avesse sorretto.
Un muro trasversale chiudeva l’intero aggio. “Cemento armato.” Caruso indicò i ferri arrugginiti esposti in diversi punti. “Non è possibile! – ripeteva Bonanno prendendo a pugni la parete come se si trattasse di smascherare un’illusione ottica. – Non c’è motivo di costruire un muro!” “E invece il motivo c’è. – Caruso indirizzò la luce verso l’alto, illuminando la volta crepata. – Probabile che dopo il terremoto del 1908 la navata centrale rischiasse di crollare. Guardi in che stato è il soffitto…” “Hanno messo questo muro per sorreggere la struttura soprastante.” Guardarono indietro, erano circa dieci metri dalla porta. “Una bella sfortuna.” “Sei canne sulla destra, pochi metri e ce l’avremmo fatta.” “Ci vorrebbe la dinamite” azzardò Caruso tanto per fare una battuta. “Perché, lei sa maneggiarla? Quando lavoravo nei cantieri l’ho vista usare ma non ho pratica. Si possono produrre piccole esplosioni…” Parlava sul serio. Caruso lo prese per il braccio e iniziò a trainarlo verso l’uscita. “Aspetti! Guardiamo meglio, non possiamo ritirarci così facilmente. Dannato muro! Maledizione!” Mancò il tempo per altre recriminazioni: sentirono un rumore forte come di un grosso oggetto che cadeva nell’acqua, seguito da un tonfo ancora più cupo. Intuendo il peggio, accelerarono verso l’uscita. Oltre la porta il vano principale della cripta era completamente buio: qualcuno aveva chiuso la botola. “Non può essersi spostata da sola: l’avevamo poggiata per terra.”
“Qualcuno l’ha chiusa! Siamo sepolti vivi! Mi manca l’aria!” “Stia tranquillo cavaliere, si respira benissimo. Non è la prima volta che rimango in un posto del genere. Le ho raccontato di quella notte in cui sono rimasto chiuso in una cappella del Gran Camposanto e ho dovuto dormire dentro un loculo? Non si stava male. Anche se qui c’è troppa acqua…” Caruso tastava il pavimento con i piedi. La scala era pesante, normale che l’autore di quello scherzo bizzarro l’avesse fatta cadere invece di tirarla su. “Utilizzeremo la scala per uscire. Faccia luce, cavaliere” Diede la torcia a Bonanno, svuotò le tasche sull’altare e s’immerse lasciando solo la testa fuori. Recuperare la scala comportò un certo sforzo e quando riemerse era una buona approssimazione di qualche leggendario mostro di palude. “Caro cavaliere, da lei avanzo un vestito da sera.” Scrollato di dosso un po’ di fango, il becchino puntò la scala in verticale spingendo dal basso contro la botola per scoperchiarla. Inutile. Riprovò facendo più forza, ma ancora senza risultati. “Cavaliere, metta la torcia sull’altare e mi dia una mano.” Provarono insieme, ancora inutilmente. “In due ce l’avremmo dovuta fare: l’avranno bloccata caricandogli sopra qualcosa di pesante. Tentiamo in un altro modo.” Caruso, puntellata la scala tra il pavimento e il soffitto, si arrampicò per raggiungere direttamente la botola. Provò quindi a sollevarla prima con le mani, poi mettendosi curvo e spingendo con le spalle; cercò pure di spostarla lateralmente nel caso fosse rimasta incastrata in qualche punto. Tutto inutile. “È finita – gemette Bonanno – eranno anni prima che qualcuno venga a cercarci.” “Non esageriamo! Al massimo fra mezz’ora saremo fuori.”
Caruso scese dalla scala con la flemma di chi ha appena sostituito una lampadina fulminata. “Ha un fazzoletto?” Bonanno glielo porse meccanicamente e l’altro cominciò a pulirsi le mani con cura. “Le sembra il momento?” “Con le mani infangate non posso telefonare.” “Telefonare? Il telefonino è rimasto sopra. Me l’ha dato prima di scendere! Se l’è dimenticato?” “Quello era il mio telefonino personale, ma ho pure quello della ditta, da cui non mi separo mai. Le chiamate della morte non si possono rimandare. Né evitare.” “Ma perché non ha chiesto subito aiuto? Mi stava prendendo un colpo!” Caruso, una volta tanto, sembrò imbarazzato. “È per quella vecchia storia che le dicevo prima: quando sono rimasto chiuso nella cappella al camposanto, i miei colleghi mi hanno sfottuto per anni! Questa è la seconda. Due volte sono proprio troppe!” Guardò perplesso il visore del cellulare. “Quattro tacche, c’è più campo qui sotto che a piazza Caroli.” Diede un’altra occhiata verso la botola e finalmente chiamò. Risposero subito. Caruso espose la situazione tentando di minimizzare, ma dall’altra parte scoppiò subito una sonora risata. “Di nuovo? Dirò al padrone di darti una balia! Così non possiamo andare avanti!” Caruso subì un’altra serie di battutacce: “Questa è un’agenzia di pompe funebri, non la protezione civile... se sei con una bella femmina, ritardiamo un paio d’ore…” ma prima di staccare raccomandò: “Peppe, venite almeno in quattro,
non si sa mai!” Ed era chiaro che, sotto l’apparente tranquillità, la situazione non piaceva neanche a lui.
Sedettero all’asciutto sull’altare. “Chi sapeva che saremmo venuti qui?” “Solo noi e Pirri” rispose Bonanno. “Pirri è un po’ acido. In certi momenti penso proprio che ci ammazzerebbe volentieri, ma questo non è il suo stile. Possiamo scagionarlo.” “Seppellirci qui sotto è stata una bella carognata.” “Già, uno scherzo piuttosto pesante. Non si fanno cose del genere senza uno scopo. Se continua così, finirò anch’io col credere alle sue storie di assassini.” “Questa vicenda è piena di fatti strani. Secondo me ci sono almeno due morti ammazzati.” “E oggi potevano raddoppiare. Il furbacchione che ha spostato la botola, vedendo il cellulare lì accanto, avrà pensato di averci fregati.” “È il frate!” “Quello dell’altra sera?” “L’altra sera è solo l’ultima volta. Ne parla anche la lettera che ho trovato nel libro di Pirri. Il frate è in giro da almeno centocinquant’anni.” “Sono tanti. Si tratta di una setta?” Su questa domanda calò un breve silenzio. Erano ormai laggiù da un pezzo e a Bonanno tornò la paura. A tratti si sentiva qualcosa in movimento nell’acqua. Caruso per rincuorare il compagno aveva lasciato la torcia accesa; il gioco delle ombre generava strane forme dentro le nicchie attorno a loro. “E quella volta che è rimasto tutta la notte nella tomba, cosa ha fatto?”
“Un po’ ho dormito e ho anche sognato. Per il resto ho pensato. Il guaio di questi posti è che ti costringono a pensare. Ed è uno dei motivi per cui fanno paura.” Seguì un altro silenzio punteggiato da rumori inquietanti.
“Ma come mai lei è così interessato alla Madonna? Una volta mi ha detto che è comunista.” “Anche Gesù Cristo oggi sarebbe comunista.” “Mah... Cristo... – Caruso puntò la torcia sul rozzo Crocifisso alle loro spalle. Quasi completamente scrostato: s’intravedevano appena le gambe e parte della testa, mezza aureola e un solo occhio troppo grande. – Cristo, col mio lavoro ti vedo spesso... ma ti conosco poco... però ho l’impressione che tutti ti chiedono aiuto… specie quando le cose si mettono male… ma che nessuno pensa di darti una mano a scendere dalla croce. – Insisteva nel puntare sull’affresco la luce violenta della torcia. – Ti sei guardato? Hai una cera... e io di queste cose me ne intendo... non ti vedo bene... sembri uno che s’è messo con le sue stesse mani in un grosso guaio... e non sa più come venirne fuori... lassù si deve proprio stare scomodi... forse sei tu che hai bisogno del nostro aiuto... spero di sbagliarmi... se aspetti noi, allora stai messo proprio male... su quella croce ci puoi restare quanto vuoi... ti diremo che in fondo ci sei voluto salire da solo... non sono affari nostri... hai provato a convincerci che le cose stanno diversamente... per noi, per il nostro bene... sicuramente... sei sceso sulla terra... di mala morte te ne sei andato... ma non c’era un altro modo? sei onnipotente... fossimo noi onnipotenti... no, meglio di no... ripeto: non c’era un altro modo?... evidentemente non c’era... su quel legno si deve proprio stare scomodi... devi esserti stancato... non rispondi... continuerai a non rispondere... e noi a non capirti... a non capire...”
Chissà come sarebbe finita quella pietosa inquisizione, se non si fossero sentiti dei rumori dall’alto. La botola si spalancò dopo un breve grattare di metallo contro la pietra. Un pilastro di luce penetrò nel sotterraneo tracciando un torbido quadrato nell’acqua. Subito dopo una testa fece capolino. “Se sei morto ti tocca lo sconto sui funerali.”
Seguirono delle risate. Resuscitarono dalla cripta senza gloria. Pallidi, silenziosi, i vestiti da buttare. “Secondo me te la fai con qualche monaca” continuò a scherzare Peppe. “Che vuoi dire?” “Quando siamo arrivati, un tipo incappucciato, una specie di frate, ha tentato di sbarrare il portone per non farci entrare: abbiamo dovuto usare una spranga per forzarlo.” “E il frate?” “Dev’essere scappato dalla porta laterale: l’abbiamo trovata aperta.” “Che tipo era?” “Non l’abbiamo visto in faccia: sotto il cappuccio sembrava ci fosse un teschio. Una maschera di quelle che si mettono a carnevale, ma fatta così bene che sembrava vera. A incontrarlo di notte…” Peppe guardò gli altri e tutti annuirono senza l’aria sfottente di un attimo prima. “Per il resto era di corporatura normale, settantacinque chili non di più” aggiunse con tono professionale “Un tipo normalissimo.” confermarono gli altri. Un tipo normalissimo. Teschio a parte.
XXII
Bonanno supponeva che nel 1895, approfittando di un restauro, l’avvocato Russo avesse seppellito la Sacra Lettera nelle viscere della chiesa dei Catalani. Ignorava però che più di trent’anni dopo, per consolidare la struttura, s’era dovuto costruire sotto la navata centrale un muro che adesso impediva l’accesso al presunto nascondiglio. Per prima volta considerò l’ipotesi di avvisare le autorità delle sue scoperte. “Meglio essere defraudato, che lasciare la Lettera della Madonna a marcire lì sotto” aveva detto a Caruso quella mattina stessa, mentre tornavano al pensionato.
Alla fine non decise. Cercò di distrarsi con i gialli, ma il pensiero tornava sempre alla Sacra Lettera. Finì col rimestare tra i documenti di Russo in cerca di qualche altra pista che gli permettesse di aggirare quel dannato muro. Studiando le date – qui tornavano utili le lezioni di Pirri – ricapitolò a voce alta le sue scoperte. “L’avvocato Russo riceve notizia della Lettera nel 1857, la recupera non si sa bene quando, nel 1895 a sua volta la nasconde, nel 1900 muore.” Si chiedeva perché non avesse distrutto la Lettera. Forse il suo scetticismo era venuto meno dopo averla esaminata, avendovi trovato in qualche incontestabile segno le stimmate della sua verità. Oppure era stata la superstizione a impedirglielo: un oggetto venerato da secoli finisce, per il semplice scorrere del tempo, con l’assumere una minacciosa sacralità che non tutti hanno l’imprudenza di sfidare. Forse era stata la semplice ione antiquaria dell’avvocato a salvare la Lettera.
Ogni ipotesi era buona, ma non aiutava. Se Russo aveva trovato la Lettera intorno al 1857, nei quarant’anni in cui l’aveva custodita doveva aver lasciato qualche traccia: ad esempio, si poteva immaginare che Ruggeri avesse chiesto notizie, informando magari altri massoni.
Sebbene disperasse di cavarne fuori qualcosa, pensò di esporre a Pirri le sue congetture. Il professore ormai trascorreva la maggior parte della giornata dormendo, e per il resto alternava decrescenti barlumi di lucidità a vaneggiamenti. Bonanno ò diverse volte da lui prima di potergli parlare. Finalmente una mattina lo trovò seduto in poltrona insieme a Miriam. La bambina, raggiante, esibiva al dito un anello. “Hai visto cosa mi ha regalato il professore?” allungò la mano civettuola. “Conservalo bene, perché è bellissimo e ha una lunga storia.” “Quale lunga storia? La voglio sapere!” “Te la racconterò domani, adesso torna dalla mamma” disse Pirri, infastidito dall’arrivo di Bonanno. “Va bene. Non vedo l’ora di farle vedere l’anello! Ma domani mi racconterai la sua storia. Tanto lo sai che non me lo dimentico.” La bambina si arrampicò sul bracciolo della poltrona, cercando con le mani il volto del professore. Poi gli saltò al collo quasi soffocandolo con una lunga serie di baci. Il vecchio dovette quasi staccarsela di dosso. “Vai dalla mamma.”
“Sta distribuendo l’eredità?” osservò Bonanno. “Non si preoccupi, ci sarà qualcosa anche per lei.” “Se è per questo, lei già mi ha inguaiato con le sue eredità.”
“Uomo avvisato…” “Scommetto che, nonostante tutto, le è stato difficile separarsi dall’anello.” “No. Ho solo chiuso un capitolo e ne ho aperto un altro della sua storia bizzarra. Sembra che quell’oggetto abbia il destino di finire sempre in mano alla persona sbagliata: la luce di una gemma riflessa negli occhi di una bambina cieca… ragazzi miei, cosa può significare?” “Se non lo sa lei che gliel’ha regalato...” Pirri rimuginò per qualche istante. “Sa cosa significa Miriam?” “Mi pare stella del mare: dalle mie parti c’è una chiesa con questo nome dedicata alla Madonna.” “Sbagliato. Cari ragazzi, San Gerolamo, studiando il termine ebraico Miriam concluse che significasse goccia amara del mare e lo tradusse nel latino stilla. Più tardi, probabilmente nel Medioevo, qualche copista distratto – o peggio, ottimista – pensò di trasformare stilla in stella, facendo perdere il significato originale e profondo di goccia amara. Miriam, io lo tradurrei lacrima: le lacrime di Miriam la Lebbrosa sorella di Mosè, le lacrime di Maria di Magdala che lavano i piedi di Gesù, le lacrime di Maria di Nazareth ai piedi della Croce. E siccome alla gente piacciono le storie a lieto fine, la chiesa si adattò ai gusti dei suoi clienti: stilla divenne stella per tutti. E le cuoche chiamano le figlie Miriam credendo di farne delle stelle e invece preparano loro un destino di amarezza e lacrime. Nomen omen per la nostra piccola Miriam.” “È proprio una pena! Una bambina così buona, così dolce, così innocente. Dio non dovrebbe permettere queste cose!” “Anche qui la devo contraddire. Cari ragazzi, Sant’Agostino giunse a conclusioni sconcertanti – e inequivocabili – sull’umanità e sul suo destino. Nasciamo ineluttabilmente tarati, egoisti e prepotenti sin dalla culla, e la nostra Miriam non fa eccezione. Siamo segnati da una colpa originaria, alieni al bene, incapaci con le nostre forze non solo di volerlo ma pure di concepirlo: massa damnata da cui Dio trarrà generosamente, a sua imperscrutabile discrezione, i fortunati destinatari della Grazia. Meritiamo il male e puntualmente l’otteniamo:
questa è la regola. Il resto – la salvezza – è una divina eccezione su cui non possiamo accampare pretese.” “Ma che le a per la mente? È mostruoso!” “Chi siamo noi per dirlo? Che parte abbiamo avuto nella creazione?” Seguì un lungo silenzio. A Bonanno era ata la voglia di discutere. Avrebbe voluto riferirgli del frate mascherato, ma chissà quali altre follie gli avrebbe rimandato. Fu il vecchio a sorprenderlo. “Immagino che la ricerca della Sacra Lettera sia andata avanti.” L’altro espose quindi di malavoglia le novità. Il professore sembrava addormentato, ma quando arrivò il momento dimostrò di averlo seguito anche nei dettagli. “Secondo lei, Russo non distrusse la Lettera per rispetto o per superstizione; dà quindi per scontato che la lettera, vera o falsa, sia esistita, che lui l’abbia trovata, che non l’abbia distrutta... e cosi via. Va bene. Ma ammesso e non concesso tutto questo, il suoi motivi potrebbero essere opposti a quelli che lei immagina. Altro che rispetto per la religione: il nostro avvocato ambiva alla vittoria piena e definitiva della ragione! Aveva studiato la Lettera e attraverso analisi e perizie si era procurato le prove della sua falsità; quindi con astuzia luciferina tendeva una trappola agli odiati preti somministrando loro un boccone avvelenato. Al momento opportuno l’avrebbe fatta rinvenire, attendendo che quelli dessero fiato alle fanfare schierando il popolo, i predicatori, le vedove e gli orfanelli dietro la Sacra Lettera; e infine, nel pieno dei te deum e delle processioni, avrebbe tirato fuori le sue inoppugnabili prove, distruggendo la Lettera e principalmente coprendo di ridicolo la Chiesa.” “Anche così mi dà ragione. Se avesse avuto in mente un piano tanto diabolico, avrebbe informato qualcuno: nel 1895 aveva quasi ottant’anni e doveva pur mettere in conto di morire. Lasciando la Lettera della Madonna nella cripta rischiava di seppellirla per sempre.” “Forse era proprio quello che voleva.”
“Ma non ha appena detto che Russo aveva un piano?” “La mia era solo un’ipotesi: volevo solo dimostrare che per via di congetture si può arrivare a qualunque conclusione: dire tutto e il contrario di tutto.” “Lei riesce sempre a complicare le cose. Ad ogni modo rimango convinto che Russo per un motivo o per l’altro abbia conservato la Sacra Lettera, e sono pure sicuro che qualcun altro se ne è occupato dopo. Scarcella probabilmente.” “In questo caso non le resta che cercare ancora tra le carte.” “Quelle di Russo le ho lette e rilette cento volte. Ho dato un’occhiata anche a quelle di Scarcella e non c’è niente d’interessante.” “Questo è strano. Scarcella ha posseduto per decenni molte delle cose di Russo. Era un uomo intelligente, se Russo avesse lasciato qualche segno lui dovrebbe averlo trovato.” “Ma non era uno che dei libri se ne fregava?” “Non parlo di libri, dico che potrebbe aver notato qualcosa di strano e magari a sua volta aver lasciato qualche traccia. Che so, una lettera, un’annotazione, un appunto… Secondo me è tutto un abbaglio, ma al suo posto, per coerenza con le mie ipotesi, studierei meglio quelle carte.” “Posso riguardarle, ma penso che non ci sia niente. L’unica traccia rimasta è il frate.” “Ah! Il misterioso frate…” ripeté stancamente Pirri. Poi, a sottolineare quanto l’argomento lo infastidisse, chiamò Bruno che stava trafficando nel corridoio proprio lì davanti. “Voglio tornare a letto.” Quello fece finta di non sentire. “Del frate parleremo un’altra volta. Adesso se ne vada: sono molto stanco. Chiami Margherita che mi metta a letto.” “Lo faccio subito. Ma prima deve sapere una cosa: io e Caruso abbiamo
incontrato il frate.” Voleva esser un colpo ad effetto ma l’altro non diede segno di averlo accusato. “Durante l’ispezione alla cripta dei Catalani, qualcuno ha tentato di seppellirci laggiù chiudendo la botola alle nostre spalle...” Bonanno riferì fatti e congetture. “…e questo è tutto. Ha ancora dubbi, sul fatto che qualcun altro cerca la Lettera? E che per di più costui è un pericoloso criminale?” concluse dopo un buon quarto d’ora. La risposta giunse immediata. “E tre. Adesso oltre il Cavaliere e la Morte abbiamo anche il Diavolo. Il capolavoro è completo.” “Il frate portava la maschera della Morte, non quella del Diavolo. O abbiamo due Morti, oppure dovrà cambiare la parte di Caruso” tentò di stare al gioco Bonanno. “Se ho detto che il frate era il Diavolo, era il Diavolo. Ragazzi miei, il Diavolo ha sempre amato travestirsi. Di recente poi è diventata per lui una necessità: ormai che nessuno gli crede, farebbe ridere se si presentasse con la sua faccia. Invece la Morte fa ancora paura, e allora il Diavolo si mette la sua maschera. Mentre la Morte stessa, che vuole are inosservata, si traveste da simpatico becchino. In conclusione, nella nostra storia il Diavolo gioca alla Morte e la Morte al becchino e nessuno è quello che appare. E non sono solo loro a travestirsi: il nostro cavaliere Bonanno lo direste un innocuo don Chisciotte, e pure il vostro professore: un tipo un po’ matto, ma anche lui innocuo. Ma ricordate, nessuno è quello che appare.” “In certi momenti lei mi sembra folle: c’è chi si perde per troppa ignoranza e c’è chi si perde per troppa intelligenza.” Pirri stavolta sembrò colpito. “E qui ragazzi, mi dispiace dover dare ragione un’altra volta al nostro cavaliere, che non si direbbe ma ha le sue intuizioni … Sentite questa: Agostino era uscito
all’alba a eggiare sulla spiaggia di Ippona meditando le solite cose: il bene, il male, la salvezza, la dannazione, la morte… quando incontrò un bambino con una specie di secchiello che versava l’acqua dal mare in una piccola buca scavata all’asciutto nella sabbia. L’ora era insolita e il santo si fermò a osservare quello strano andirivieni. – Che gioco stai facendo? – gli chiese dopo un poco. – Non è un gioco. Voglio versare tutto il mare dentro la mia buca – rispose il bambino senza fermarsi. – Impossibile: la buca è piccola mentre il mare è immenso – replicò d’istinto Agostino. – Forse. Ma è ancora più impossibile versare nella piccola testa di un uomo l’immensità dei misteri di Dio – lo fulminò il bambino. E sparì davanti ai suoi occhi.” “Il bambino era un angelo, quindi. M’è piaciuta!”
“C’è un seguito. Secondo un’altra versione della storia, Agostino ebbe la prontezza di replicare: – Perché Dio non mi dà una testa più grande? Perché non vuole essere capito?” “E l’angelo?” “Ragazzi miei, l’angelo all’improvviso aveva assunto dimensioni colossali, e smisurato e mostruoso era diventato il suo secchiello. Allungò le braccia e in un colpo solo prosciugò il mare, riversandolo dentro la buca che s’era spalancata in un abisso senza fondo...” Ormai a Bonanno bastavano poche battute per capire quand’era meglio andarsene: lo lasciò mentre terrorizzava i suoi ragazzi. “... Agostino rimase impietrito sul bordo dell’abisso che stava inghiottendo non solo tutta l’acqua dei fiumi e degli oceani ma anche terra e cielo, e il firmamento e l’universo intero…”
XXIII
Bonanno si aspettava un’altra apparizione del frate. Sorvegliava il professore e quando usciva dalla villa controllava di non essere seguito. Alla fine tornò in via Canova per rivedere le carte di Scarcella. Si trattava per lo più di corrispondenza, fotografie e contratti scritti alla buona, raggruppati per anno in cartelline di carta grossa. Accanto ad indirizzi locali come Reggio Calabria, Catania, Siracusa, Acireale, Bronte, Randazzo, Naso… c’era il meglio del mediterraneo: Genova, Marsiglia, Barcellona, Tripoli, Giaffa, Corfù, Ragusa in Dalmazia. Parimenti vasti erano stati gl’interessi commerciali del sensale: a parte gli asini che dovevano costituire una specie di hobby, trattava balle di cotone e di lino con l’Egitto, banane con la Somalia, tappeti e spezie con l’estremo oriente, forniva vino e derrate alimentari alle navi mercantili di aggio nel porto e a quelle della Regia Marina Militare. Sfogliare quelle carte era come percorrere una specie di Milione: Bonanno ne apprezzò l’aria esotica. Le lettere più vecchie risalivano agl’inizi del secolo quando Scarcella risiedeva in oriente. Molte erano in se e in inglese, due o tre in arabo; spesso ai margini comparivano note in italiano, alcune, forse più importanti, portavano spillato un foglietto di sommaria traduzione. Una datata Damietta, agosto 1907, riguardante un traffico di reperti crociati, evidenziava in rosso la firma T.E. Lawrence. Dunque il sensale aveva veramente conosciuto Lawrence d’Arabia; anzi, il tono della missiva tradiva quella reticente confidenza già difficile da ottenere quando c’è di mezzo un inglese. Dal 1915 la corrispondenza era diretta a Messina. Tra le carte di quell’anno si trovava il contratto di acquisto del villino affacciato su piazza Fontana Nuova dagli eredi dell’avvocato Russo. Regnando Vittorio Emanuele Terzo per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia. L’anno millenovecentoquindici addì
nove novembre in Messina nello infrascritto mio studio, innanzi a me Giuseppe Florio del fu Notar Vincenzo Saverio… Una graffetta arrugginita lo teneva insieme a un’orgogliosa cartolina illustrata del Castello Skargill di San Leo, con tanto di didascalia. Sullo sfondo di una fontana, campeggiavano i due piani di un elegante palazzetto turrito, in stile neo gotico. Le carte raccontavano che da Messina, Scarcella aveva mantenuto i suoi contatti internazionali. Nel 1918 barattava sterline d’oro tra Inghilterra e Libano: in oriente le monete con l’effigie della regina Vittoria venivano scambiate sotto la pari rispetto a quelle con Edoardo VII, il sensale quindi, in società con due ebrei, trasferiva sovrane da un mercato all’altro, lucrando la differenza. C’era pure il contratto – cinque righe su un lurido foglio, datate Palermo 1916 – con cui Scarcella aveva comprato Immacolata coda di cavallo, per trecento lire dal padrone di una casa della Vucciria. Immacolata non aveva cognome. Una fotografia un po’ sgualcita la mostrava in primo piano: molto giovane, grandi occhi lucenti, lunghissimi capelli biondi, bella, forse bellissima se non per l’impalpabile diminuzione di un sorriso forzato. Qualcosa di sfuggente lo faceva indugiare su quell’immagine. Rigirava la foto smerlata tra le mani ripensando alla misteriosa donna velata che aveva colto per il piccolo Pirri una rosa bianca dal suo giardino, e che adesso possedeva un volto. Chissà se il professore conosceva quella foto. Volle guardarla meglio attraverso la lente. E scoprì finalmente il segreto d’Immacolata. Una crepa della foto nascondeva la lunga cicatrice che solcava il lato in ombra del suo viso. Ecco, dunque, il motivo per cui non si mostrava. Coda di cavallo era definita nel contratto al posto del più ovvio la sfregiata. Il venditore aveva sostituito un soprannome innocuo a uno infamante per spuntare un prezzo più alto. E di sicuro Scarcella aveva sfruttato quel vizio della cosa – magari dovuto all’uso improprio di un precedente proprietario – per ottenere uno sconto.
La foto era tra gli ultimi documenti dell’anno. Nel blocco successivo diverse lettere portavano l’intestazione Giuseppe Papa fu Antonio, deposito cuoiami,
pellami e tomaie. Don Peppino Papa usava la carta intestata della ditta a modo suo: sul retro di una commissione c’erano dei versi.
Pi me cumpare, Scarcella Lillinu, Omu bonu e sinsale finu.
Du righe di poesia vogghiu fare E chiddu chi scrivu lu dice lu core. N’ta Missina ci sunnu du cumpari Canusciutissimi di tutti ‘i pari,
Si stimunu, assumighiunu du frati Di nuddu vonnu essiri tuccati, Lillu Scarcella si chiama lu primu L’autru Papa di nomu Pippinu.
Quannu caminanu n’ta lu viale Assumighiunu a du Principi Riale, Si qualchi pirsuna arrusica sputazza È meghiu lu Signori mi l’ammazza.
Veramente non pi dire Sù du morettini chi fannu piacere, Lu caminare hannu cadenzatu Assumighiunu du butti misi all’atu
Manciunu pocu, mancu l’aceddi: Si manciunu tri chili ‘i pummiceddi, La carne si la manciunu arrustuta Lu vinu si lu bivunu a cannata.
Pisunu picca, sunnu siruletti: Ducentu chili e tri quatti netti. Quannu a cena si trovunu pi casu Spaghetti si ni manciunu nu vasu.
Cumpare Lillu, ci dice don Pippinu, Mi pariti Carlu Magnu, siti finu. Grazie cumpari, datimi n’abbracciu Accettati na picca i vinu cu lu ghiacciu.
Comu viditi, fannu piaciri Sti du cumpari, non pi diri. Quannu s’incontrunu succede ‘na festa All’invidiusi ci cade la testa.
Bonanno lesse con gusto ad alta voce. Scarcella aveva conservato una poesia dedicatagli da don Peppino. Pirri aveva ragione: tra i due c’era stato molto di più che un semplice rapporto d’affari.
Per giorni esplorò quelle carte, procedendo con ordine fino alla carpetta del ’27. Anno V dell’era fascista si leggeva d’inchiostro rosso in calce. Il primo foglio, privo d’intestazione, sembrava una delle solite missive riguardante certi affari a Beiruth, ma nella seconda facciata si faceva interessante.
…Ho fatto esaminare i Vostri campioni da un sacerdote maronita, avendo conferma che uno è scritto in ebraico e l’altro in greco, nelle forme usate nei tempi antichi. Nel testo ebraico sono presenti molti errori, probabilmente causati dalla Vostra difettosa copiatura. Riguardo al papiro, che modestamente è il mio campo, anche questo potrebbe essere molto antico. Mi servirebbe però un pezzo più grande per fare delle prove più sicure. Se le cose stanno come sembrano, avrei già un compratore. Potrei mandarVi in quindici giorni un corriere fidato, sempre che non preferiate venire Voi personalmente con la merce, cosa, che Vi confesso, mi lascerebbe più tranquillo. In attesa di una risposta trattengo il ritaglio come una reliquia.
La lunga lettera continuava con notizie personali, che rimandavano al tempo in cui Scarcella era stato in oriente. In una tipica accozzaglia orientale di sacro e profano si accennava con particolari grevi a una concubina che Scarcella aveva ceduto all’altro che gli rinfacciava di aver fatto un cattivo affare. Dopo i lunghi saluti e la firma seguiva un post scriptum.
Dimenticavo di darVi notizie sui Nestoriani. Il mio amico monaco mi ha riferito che ai tempi dell’impero romano si sono separati dalla chiesa a causa di strane questioni religiose che mi ha spiegato per un’ora senza farmi capire niente. Comunque questi Nestoriani esistono ancora, e sono numerosi nelle zone di Bagdad e di Mossul. Ho degli amici laggiù, se ne volete sapere di più posso informarmi meglio.
Era la conferma: le allusioni alla Sacra Lettera non lasciavano dubbi sulla sua esistenza. Pensò a Pirri con irritazione: stavolta avrebbe avuto poco da ribattere. Ma subito dopo dovette riconoscerne i meriti: in fondo era stato lui a insistere perché riguardasse quelle carte.
Tornando al pensionato riordinò le idee. Scarcella aveva trovato la Sacra Lettera intorno al ’27, accedendo al corridoio della cripta prima che venisse sbarrato dal famigerato muro. Sembrava un o avanti, ma a pensarci bene, se prima credeva di sapere dove era la Lettera, pur non potendo materialmente recuperarla, adesso quella certezza era sparita. Rimanevano comunque ancora dieci anni di corrispondenza da esaminare.
Trovò Pirri che parlava da solo, e il fatto gli sembrò così normale da non accorgersi che stava incidendo qualcosa al registratore. “Ho la prova che Scarcella aveva recuperato la Sacra Lettera” esordì trionfante. “Rii un’altra volta, adesso non ho tempo!”
“Devo sapere subito alcune cose di Scarcella.” “Non insista! Ora non posso aiutarla. Dopo, forse.” “Sono io a non avere tempo! Da settimane mi scervello sulla Lettera, sempre sul punto di trovarla, ma sempre un o indietro!” “Si enim fallor, sum.” “Lei ed il suo dannato latino! Maledizione, che vuol dire?” “Voglio dire che non deve lamentarsi per i suoi fallimenti. Grazie alla lettera, per la prima volta nella sua vita insignificante ha avuto un’emozione, si è sentito al centro di qualcosa d’importante: è questa la ricompensa! L’importante non è la meta, ma la via. È sempre stato così: la ricerca del Sacro Graal, della Vera Sindone, dell’Arca Santa... erano pretesti per vivere. Pretesti o illusioni. Perché la salvezza e quindi la vera vita sono state già assegnate: noi possiamo solo fingere di poterle meritare.” Era troppo. “Non ho più dubbi: lei è proprio pazzo! – sbottò Bonanno. – Io voglio trovare la Lettera e me ne fotto della sua filosofia! Dice a me che la mia vita è stata insignificante, guardi alla sua piuttosto!” Pirri lo ignorò: con un gesto secco spinse un pulsante del registratore. “Cari ragazzi, come dicevamo, quattro secoli più tardi Gotescalco sostenne la medesima doppia predestinazione: colui che Dio, per sue insondabili ragioni, ha predestinato alla vita eterna non può cadere nell’eterna morte; egualmente chi è predestinato alla morte in ogni caso non può assurgere alla vita. Rabano Mauro volle metterci una pezza opinando che la prescienza divina, in considerazione delle buone azioni dei giusti, li predestina alla vita eterna; ma prevedendo pure che i malvagi, per loro colpa, abanno delle grazie ricevute, li manda alla morte eterna…”
XXIV
Tra le carte di Scarcella non c’era altro che riguardasse la Sacra Lettera. Bonanno apprese comunque che nel ‘32 il sensale aveva acquistato per conto di don Peppino Papa quattro loculi nella cappella della confraternita di S. Omobono.
… s’intendono completi di copertura in marmo bianco. Restano a carico dell’acquirente la chiusura degli istessi, l’iscrizione sulla lapide, la fotografia in porcellana, portafiori e porta-fotografia…
Sottinteso – a carico dell’acquirente – pure l’onere di riempirli. Il sensale aveva preso gusto per quel genere di affari: l’anno successivo prenotava presso la medesima confraternita altri posti a favore di Ciccio Pirri, il padre del professore. Il prezzo doveva essere buono perché in quella stessa occasione aveva acquistato ancora due loculi, stavolta per sé e la moglie. Per la propria tomba Scarcella aveva pure ordinato una lapide scolpita con un bassorilievo; diverse lettere incluse nel carteggio lasciavano intendere una controversia col marmista per il prezzo. Dall’esame dei documenti cimiteriali risultava quindi che i Papa, i Pirri e lo stesso Scarcella – tutti protagonisti del famoso fidanzamento del ’33 – si sarebbero ritrovati vicini di casa almeno fino al giorno del Giudizio. Se Caruso avesse avuto ragione a proposito della compagnia che i morti si fanno tra loro, la cappella di S. Omobono doveva essere un posto movimentato. Dall’ultima carpetta venne fuori la ricevuta del gioielliere Minutoli relativa al famoso anello di Pirri.
… per un anello d’oro con un brillante purissimo di 1,5 carati, tagliato a pigna, più otto brillantini per un totale di altri 0,5 carati, al prezzo strasatto di lire 950, compresa nello stesso prezzo l’incisione della dedica.
Novecentocinquanta lire. Non c’entrava niente, ma con una strana associazione d’idee Bonanno pensò che l’anello era costato più di tre volte Immacolata. Anche considerando l’inflazione, probabilmente il vecchio Pirri non aveva fatto un buon affare. Oppure era stato il sensale abile a spuntare un buon prezzo sulla moglie. La ricevuta del gioielliere era tra gli ultimi documenti: ripensò alla foto con la cicatrice e con questo strascico di tristezza la ricerca tornava in alto mare.
XXV
Qualche giorno dopo Pirri volò a verificare di persona le sue perplessità teologiche. Prima di lasciare Villa Felice aveva disposto che i suoi oggetti personali andassero a Bonanno. La casa di via Canova, in mancanza di testamento e di eredi legittimi, sarebbe finita al Comune. “Stronzo fino alla fine” commentò Bruno davanti alla bara. Aveva cercato in tutti i modi di convincere il professore a nominarlo erede universale; poi gli aveva proposto di lasciare i suoi beni al personale del pensionato, secondo il principio del meglio dividere a malincuore che rimanere a bocca asciutta. Tutto vano.
I funerali andarono quasi deserti. Al primo banco sulla destra dell’altare, Margherita, Rosetta e Bonanno ricapitolavano un secolo scarso, d’affetti; oppure – avrebbe corretto lo stesso defunto – un secolo, scarso d’affetti. Caruso, in veste professionale, entrava ed usciva dalla chiesa rispondendo al telefono. Quei funerali erano stati un suo piccolo capolavoro: aveva dovuto combattere due giorni per convincere il vecchio padre Saja ad officiare. Il suddetto monsignore da molti anni visitava il pensionato per celebrare la messa e confessare. Inoltre alla bisogna correva – si fa per dire – anche di notte, per somministrare l’olio santo; se in ritardo, si limitava a benedire la salma, ma non mancava mai, qualsiasi ora fosse, di soccorrere i rimasti con la sua sovrabbondante parola di consolazione. A farlo benvolere, nonostante la loquela non sempre tempestiva, c’erano le sue promesse di paradiso per tutti sulla base di un’ottimistica teodicea, abrogatrice di qualunque futuro domicilio penitenziale, temporaneo o definitivo, che fosse. In tanti anni di questo meritorio ufficio padre Saja non aveva incontrato Pirri; circostanza sufficiente affinché questi, all’ora giusta, potesse ottenere delle dignitose esequie, con tanto di generica omelia sulle sue virtù cristiane. Un
rapporto, il loro, quindi felicemente improntato sulla reciproca misconoscenza e, in quanto tale, destinato a concludersi innanzi all’altare. L’incaglio s’era verificato un paio di settimane prima allorché Margherita, vedendo il professore agli sgoccioli, aveva chiesto al sacerdote di portargli i conforti religiosi. Gli occhi semichiusi, Pirri aveva ascoltato il rassicurante monsignore sull’amore di Cristo e la misericordia del Padre, sembrando pure disposto al piccolo sacrificio della confessione pur di varcare indenne i cancelli del Regno. Il buon Saja aveva gioito vedendo che il professore – fino ad allora apparentemente rimbambito – spalancava gli occhi articolando qualche parola. “Cari ragazzi… – anche nell’ora ultima non rinunciava ai suoi interlocutori preferiti – gli uomini sono naturalmente destinati al male… alla morte, ai supplizi… costituiti sin dall’origine nella massa dannata… per merito del peccato originale e dei loro peccati personali… Dio ha lasciato loro il permesso di vivere empiamente… e per conseguenza bruceranno secondo i loro demeriti nel fuoco eterno…” “Ma che dice! – insorse in ritardo il prete, che sulle prime, essendo un po’ sordo, non aveva capito bene. – Non deve pensare a queste cose! Dove le ha sentite? Ha capito male!” “Ho capito benissimo… più o meno sono le parole di Giovanni Scoto…” e Pirri riprese a citare il meglio – o il peggio – dei teologi da San Paolo ai giorni nostri. Il buon prete che, in tanti anni di cura di anime semplici, aveva avuto tutto il tempo di dimenticare la teologia, si trovò quasi subito a mal partito. Insisteva con amore e misericordia, mentre l’altro gli suscitava contro forni accesi per noi fin da prima della creazione, prendendo dalla sua la testimonianza di santi tra i più illustri. Ridotto al silenzio e allo sgomento, padre Saja scappò – mentre Pirri citava Lutero – convinto di avere a che fare con un indemoniato.
I funerali quindi durarono una ventina di minuti e se non fosse stato per le lacrime di Rosetta e Margherita non si sarebbero salvate nemmeno le apparenze. Al cimitero gli affezionati si ridussero ulteriormente: insieme agli operai
incaricati della sepoltura rimasero solo Bonanno e Caruso. Il Cavaliere fumava mentre la Morte giocherellava col solito pezzo d’argento. La cappella di San Omobono era un cubo neogotico ragionevolmente tappezzato di lapidi. Altissimo in mezzo al tetto a cupola, un oculo di vetro, opaco per decenni d’incuria, gli dava la semioscurità conveniente al suo ufficio. C’erano tutti: i quattro Pirri – padre, madre e sorelle – già alloggiati sopra il professore che adesso completava la colonna; i Papa impilati a partire da terra, anche qui nella parete di fronte. Con maggiore difficoltà Bonanno individuò pure Scarcella e consorte, in alto, tre file a lato. La torcia elettrica illuminava una strana lapide con delle figure in rilievo. Incurante delle proteste di Caruso, spostò una scala e salì a guardare da vicino. Il sedicente barone Letterio Skargill di San Leo aveva onorato il suo mito fino alla fine e anche oltre: scolpito in un ampio kaftano, la destra poggiata su un cannone, un pozzo tra le palme sullo sfondo, la scritta Aqaba incisa ai suoi piedi su un proiettile d’artiglieria. “Come le sembra?” chiese Bonanno al becchino che si era arrampicato dietro di lui. “Bel lavoro. Questo tipo aveva conoscenze: è l’unica lapide diversa dalle altre. In genere nelle confraternite sono tutte uguali, se permettessero ad ognuno di fare di testa sua....” “Che sia un segno? Se la Lettera della Madonna fosse seppellita con lui? Magari ha detto alla moglie di mettergliela in tasca da morto.” “Faccia luce, che c’è scritto?” “Dopo l’apertura del gran libro, Signore traimi dall’abisso che insidia la mia casa.” Bonanno lesse senza troppa attenzione, poi puntò la torcia verso l’altra lapide. Immacolata, adesso e per sempre Immacolata Skargill, baronessa di Palermo, giaceva dietro un marmo senza rilievi e senza epitaffio, accanto all’uomo che l’aveva comprata per darle titolo e cognome, non importa se allusivi e apocrifi,
in cambio dei suoi due soprannomi. “Potrebbe essere pure qui dentro. Lui l’ha lasciata alla moglie e lei se l’è portata per sempre, magari cucita dentro la fodera del vestito che si era preparata per l’occasione. Chi l’ha vestita da morta non se n’è accorto, e il gioco è fatto.” “Può darsi. Ma adesso scenda!”
Il geometra era tornato giù borbottando e ora pretendeva di fare valere le sue competenza per dirigere gli operai che muravano il sacello. “Questo cemento è troppo liquido: aggiungete una palata di sabbia. Ai miei tempi non si lavorava così...” Il lavoro rischiava di finir male, anzi di non finire affatto: Caruso se lo portò fuori con la scusa di una sigaretta. Risalendo per viali ricurvi si ritrovarono sulla spianata monumentale in cima al camposanto. “Erano secoli che non salivo quassù! – esclamò Bonanno entusiasta, affacciandosi sullo Stretto. “Andiamoci piano: i secoli sono faticosi...” “Ci venivamo sempre il giorno dei morti con mio padre, e lui tutte le volte mi raccontava che il Kaiser Guglielmo II guardando questo panorama aveva detto di aver scoperto un bel posto per morire.” “Pirri le avrebbe risposto: magari fosse stato fulminato in quel momento, forse ci saremmo risparmiati la Somme e Caporetto!”
La città bagnata da un lucido sole primaverile giaceva spiaggiata sotto di loro. Un traghetto sfilava fiacco sotto la stele della Madonna. “Guardi il porto! Che incanto!” si commosse Bonanno.
“Una bella falce. Precisa, esatta, disegnata per noi dagli dei.” “Ma lei pensa sempre a quella? Anche fuori servizio? Tocchiamo ferro!” Il geometra si aggrappò a una balaustra arrugginita. “Che vuole? Deformazione professionale...” La solita moneta volteggiava tra le mani di Caruso. “Cambiamo discorso. C’è una cosa che le voglio chiedere da un sacco di tempo: ho sentito dire che lei è laureato in medicina...” “E lei pensa così di cambiare discorso?” “Perché? Cosa c’entra la sua laurea con la morte?” “Cavaliere, alla sua età ha ancora la purezza di un bambino: quasi mi dispiace rivelarle che tutto ha che fare con la morte.” “Torniamo alla sua laurea: dovrei chiamarla dottore?” “Non c’è bisogno: non mi sono mai laureato.” “Ma è vero che studiava medicina?” “Sì, mi mancava una materia e la tesi era quasi pronta. A quel punto ho mollato. – La moneta gli volò via di mano con uno sfarfallio sinistro. Si abbassò a raccoglierla di scatto. – S’è fatto tardi: a quest’ora i muratori avranno finito. Meglio tornare.”
Scesero in silenzio verso la cappella. Gli operai, dopo aver murato Pirri, se ne erano andati. Caruso rubò una rosa bianca un po’ sgualcita da un’altra tomba e la infilò nel cemento fresco tra due mattoni. “Addio, professore.” Una rosa bianca. Bonanno la guardò come se mai ne avesse vista una. Come Adamo davanti alla prima rosa nell’antico giardino. “Aspetti, Caruso.”
La colse con delicatezza dalla parete. “Professore, se permette, lo faccio al posto suo.” Sotto lo sguardo interrogativo di Caruso si arrampicò di nuovo sulla scala e infilò la rosa nel portafiori d’Immacolata. “Signora, lei sa chi gliela offre” disse sorridendo. Il becchino attese che scendesse. “Devo essermi perso qualcosa.” “Niente, Caruso. Dopo tanto tempo, solo una piccola restituzione.”
XXVI
Bonanno aveva proposto di dare un’occhiata dentro le due bare ma stavolta Caruso, con suo grande disappunto, si era dissociato. Presto era caduto nella malinconia. Andava automaticamente nella stanza del professore e trovava un letto in più e due nuovi ospiti; e a quel punto non gli rimaneva che fingere di essere venuto a visitarli. “Come andiamo oggi?” “Come i vecchi” rispondeva invariabilmente l’unico che parlava.
Bruno aveva infilato gli oggetti personali di Pirri – al netto di quanto aveva ritenuto utile per sé – dentro un vecchio sacco di quelli usati per le pulizie del giardino. Quindi lo aveva scaricato da Bonanno, che a sua volta l’aveva gettato dentro l’armadio senza aprirlo. Anche dietro quell’apparente disinteresse c’era il testardo rifiuto di ammettere che il professore gli mancava. Il disincanto cinico, le verità taglienti, l’approccio visionario alle cose più banali, pure i pregiudizi, le stravaganze e le follie adesso gli apparivano sotto una luce profetica. Non aveva mai capito Pirri, ma gli aveva voluto bene, e nonostante le apparenze, era sicuro di essere stato ricambiato. Ripensava pure alla sua parte nella storia della Sacra Lettera: sempre scettico e insofferente, ma quando si era arrivati a un punto morto, i suggerimenti per superarlo spesso erano venuti da lui. Così anche a Pirri toccò quella comune rivalutazione postuma, che lui stesso per primo avrebbe rifiutato.
La domenica successiva si ritrovò a tavola con Miriam. “Tu eri amico del professore, vero?” “Sì, eravamo amici.” “Era il più buono di tutti.” “Sì, era buono.” “Sai che ha detto quel cretino di Bruno? Che il professore era uno… non posso dirlo è una parolaccia.” “Non ti preoccupare di quello che dice Bruno. È proprio lui quella parolaccia che non si può dire.” “Lo sai che mi ha regalato un anello prezioso? – Miriam tirò fuori dalla tasca un astuccio blu. – Guarda! La mamma non vuole che lo porti a scuola: ha paura che me lo rubino. Ma io non lo faccio vedere a nessuno. Lo porto con me solo di domenica. Quando sarò grande lo terrò sempre al dito.” “Hai ragione: è bellissimo! Puoi darmelo un attimo?” “Prendilo. Ma sta attento a non farlo cadere: la mamma dice che il brillante potrebbe scheggiarsi.” A Bonanno i celebrati riflessi dei brillanti ricordavano i pendenti di certi lampadari. Non aveva mai capito cosa le donne – e anche certi uomini – ci trovassero di tanto attraente: per lui l’unica cosa di salvabile nei gioielli era il metallo, ottimo materiale comunque da utilizzare altrimenti. Con l’indice percorse il bordo esterno dell’anello, poi nello stesso gioco ò all’interno. Ricordò la dedica. Alla donna che è un pozzo di virtù – 3/6/1933 – lesse attraverso la lente d’ingrandimento che ormai portava sempre in tasca. Sapeva che era stato il sensale a dettarla. Genio poliedrico: specialista in dediche oltre che in epitaffi. Spiccava la cura di non nominare Grazia o Concetta, stante la fondamentale incertezza sulla destinataria.
Diede un’altra occhiata alla gemma e la restituì alla bambina. Mangiò poco e di malavoglia, come gli capitava da diverso tempo.
Quella notte sognò di essere caduto in un pozzo. Rimase per un tempo indeterminato a rivoltarsi tra le lenzuola, ora quasi lucido, un attimo dopo risucchiato da un vortice d’immagini incongruenti. Alla fine riuscì ad allungare il braccio verso lampada sul comodino. La luce portò in superficie un pensiero che da chissà quanto spingeva per emergere dalle profondità della sua mente: poco a poco tutto ciò che sapeva della Sacra Lettera si era rimescolato in una perfetta soluzione che il sogno aveva provveduto a distillare. Saltò giù dal letto. “Stavolta ci sono! Sono sicuro: è la volta buona!” Precipitatosi in corridoio agguantò il telefono e compose febbrilmente un numero. “Chi è?” rispose Caruso. “Sono io! Bonanno!” gridò con pochi riguardi per il sonno altrui. “Sto lavorando. Se ha bisogno di me per motivi professionali di sua diretta pertinenza non posso servirla prima di due ore. Cerchi nel frattempo di non puzzare.” “La Lettera è nel pozzo!” “Quale pozzo?” “Il pozzo del villino di Scarcella.” “E come fa a saperlo?” “Quadra tutto: il pozzo scolpito sulla lapide, l’epitaffio che parla di un abisso sotto la sua casa, e poi l’anello di fidanzamento che aveva fatto fare per Pirri: anche li si parla di un pozzo! Scarcella stesso fu trovato cadavere in quel pozzo!”
“Ho capito, cavaliere: so già a chi toccherà calarsi!”
XXVII
L’idea del pozzo rimaneva una vaga congettura. Comunque, davanti alle alternative di violare due tombe o di fare saltare con la dinamite una cripta del XII° secolo, a Caruso parve la salvezza. Non fu difficile rintracciare il sito del villino di Russo e poi di Scarcella. Al suo posto adesso sorgeva un moderno condominio, ma il vecchio pozzo rimaneva accessibile nelle cantine. La varietà e l’imparzialità della morte rende le conoscenze di un becchino potenzialmente illimitate: anche stavolta Caruso aveva il suo aggancio. Attraverso un addetto alle pulizie, aveva potuto fare un sopralluogo preliminare, ottenendo pure copia della chiave della cantina. In pochi giorni organizzarono l’ennesima spedizione.
La bocca del pozzo – circa un metro e mezzo di diametro – era chiusa da una botola di alluminio e coronata da un muretto alto una ventina di centimetri, da cui sbucavano due grossi tubi d’acqua diretti verso gli appartamenti sovrastanti. Stavolta il pezzo forte dell’attrezzatura era una scala di corda di quelle che si usano in marina. Fissata ai due tubi, Caruso, casco in testa, si accinse alla discesa. “Se finisco come Scarcella, chi mi farà i funerali?” “Non dica queste cose: portano male” rimandò Bonanno. “La lettera non sarà appesa in un quadretto… cosa dovrei cercare?” “E io che ne so!”
Le pareti del pozzo erano rivestite di pietre squadrate disposte con regolarità a formare degli anelli. Caruso scendeva pianissimo. L’altro in ginocchio sul bordo del pozzo, gli faceva luce dall’alto con una grossa lampada. “Trovato niente?” “Niente. Il pozzo si restringe, ma è ancora abbastanza largo. Continuo a scendere.” Da un certo punto in poi la sezione diminuiva, formando una specie di cornice orizzontale larga una ventina di centimetri. Probabilmente in tempi antichi, quando il livello della città era più basso, la bocca del pozzo si trovava a quella quota. Un indizio in tal senso potevano essere due anelli arrugginiti fissati alle pareti, utili ad assicurare delle corde. Le pietre erano adesso più grezze e irregolari; Caruso, calandosi, le sentiva graffiare le spalle del giubbotto. Dopo altri quattro metri c’era una seconda cornice e il pozzo si stringeva ancora. Non più di settanta centimetri, probabilmente agevoli per uno speleologo, ma tali da preoccupare un becchino nel suo giorno di riposo. Rimanevano pochi metri di scala. Caruso lasciò la presa rimanendo in piedi sulla cornice. Nonostante la corrente d’aria fresca proveniente dal basso, era sudato. “C’è qualcosa?” “No, il pozzo è sempre più stretto…” “Di quanto?” “Un metro scarso… molto scarso...” “A che profondità è arrivato?” “E che ne so? Non sono geometra! Se proprio devo misurare qualcosa, misuro persone… e solo quando sono distese!” Incerto sul da farsi, Caruso lasciò cadere un sassolino; quasi subito gli ritornò il tonfo nell’acqua: non doveva essere troppo profondo. Diresse la lampada del casco verso il basso.
“Trovato niente?” “No, cavaliere.” “Che pensa di fare?” “Non lo so! È lei il capo spedizione! Aspetti...“ Aveva urtato qualcosa con la spalla. Girandosi con cautela notò una pietra sporgente marcata da una rozza l’incisione. “C’è una pietra con uno strano segno... una specie di ferro da stiro.” “È lì! sono sicuro! Provi a smuoverla!” incitò Bonanno sporgendosi. La parte esposta della pietra forniva un buon appiglio, ma Caruso, in equilibrio precario sul bordo del pozzo, poteva esercitare scarsa forza. Per fortuna era solo una lastra apposta a chiusura di una cavità, che il becchino staccò facilmente. “C’è una nicchia, ma sembra vuota.” “Guardi bene, deve esserci qualcosa!” Il vecchio gridava a testa in giù, la mano destra aggrappata alla scala di corda. “C’è murata una specie di basetta circolare.” “Certo! La base di un oggetto sacro! Una statuetta, una teca, un cofanetto…” “Può darsi…” “E non c’è altro? Guardi meglio! Tocchi le pareti: potrebbe esserci un doppio fondo!” “L’ho già fatto: la pietra suona piena da tutti i lati. Sono sicuro. Ora risalgo.” Ancora una volta tutto era svanito. Bonanno aveva voglia di gettarsi giù. “Quant’è grande la nicchia?” chiese in un ultimo barlume di lucidità. Ma non ebbe risposta.
Nell’eccitazione, si era affacciato con tutto il busto dentro il pozzo sempre tenendosi alla scala di corda. Appena Caruso aggiunse il suo peso per risalire, i tubi a cui era fissata la scala cedettero in successione. Il cavaliere, con uno scatto disperato, riuscì a agguantare il bordo evitando di essere inghiottito; Caruso invece, senza appigli, precipitò per un paio di metri, impattando malamente col sedere la cornice nel punto in cui il pozzo si stringeva. “Caruso!” gridò Bonanno. “Tranquillo. Non si sa come, e soprattutto per quanto, ma sono vivo” rispose calmo il becchino. “Come sta?” “Più o meno bene, non dovrei avere nulla di rotto.” “È un miracolo! Ringrazi la Madonna se non s’è ammazzato!” “Sì, un miracolo... Comunque, con tutto il rispetto, considerando che sono qui sotto proprio per Lei, poteva trattarmi anche meglio!” “Le lancio una corda e tiro su la scala.” “Abbiamo un piccolo problema: la scala è finita in fondo al pozzo.” “Va bene, si arrampicherà con la corda.” “Lei mi vuole proprio morto: quella cordicella non reggerebbe un quarto del mio peso.” “E adesso come facciamo?” Bonanno era in preda al panico. “Stavolta i miei colleghi non basteranno: a occhio e croce, servono i pompieri.”
I pompieri arrivarono a sirene spiegate. Montarono l’argano e un maresciallo si calò nel pozzo. Trovò Caruso seduto sul bordo che lanciava la sua moneta d’argento. Venne imbracato senza troppi complimenti e tirato fuori come un monello che ne aveva combinata una più grossa del solito.
Nel frattempo le cantine e l’androne si erano riempiti di curiosi. Vociferavano di un bambino caduto nel pozzo: quando videro Caruso venire fuori senza un graffio, serpeggiò un distinto mormorio di delusione. I due archeologi, dopo un sommario accertamento delle loro buone condizioni di salute, arono dalle mani dei pompieri a quelle non meno premurose della polizia. Bonanno provò a spiegare che avano di lì, il coperchio del pozzo era aperto, l’amico non se ne era accorto ed era finito dentro. Anche i poliziotti osservarono con devozione che una caduta di dieci metri senza un graffio era un autentico miracolo, e per accertare chi si dovesse ringraziare li portarono al commissariato.
XXVIII
Gardelli aveva avuto la solita mattinata infame. Prim’ancora d’interrogarli ringhiò che il pozzo serviva di acqua potabile un paio di condomini; quindi, a parte la violazione di proprietà privata, si poteva ipotizzare il tentato avvelenamento. “Se avete voglia di giocare, chiamatevi un avvocato, io vi interrogo con tutte le garanzie di legge, sento tutte le vostre cazzate e alla fine vi sbatto dentro come pubblici avvelenatori e poi ve la vedete col giudice” andò giù duro. “Qualche mese di galera non sarà peggio dell’eternità dentro una bara” ribatté Caruso senza fare una piega. Bonanno si mostrò meno flemmatico. “È inutile: ormai non sappiamo più dove cercare” sospirò, disarmato, dopodiché iniziò a snocciolare tutta la storia della Sacra Lettera a partire dal furto della Madonnina di Pirri. Gardelli era un istintivo della specie più estrema, capace di seguire l’intuito pure di fronte a montagne di prove contrarie; davanti a un vecchietto che riferiva imprese di quella fatta non dubitò che fosse tutto vero. A conferma, venne fuori pure la denuncia presentata tempo prima da un vigile urbano per …tentati atti vandalici a danno della statua di re Carlo Emanuele di Savoia (sic!) sita in piazza Cavallotti ad opera d’ignoto ultrasettantenne subitamente dileguatosi non potendosi escludere essersi trattato di travestimento da parte di maniaco di questo genere d’imprese come si legge sui giornali… Mentre Gardelli predisponeva imprecisati accertamenti, il Cavaliere e la Morte rimasero per diverse ore su un divano sfondato nel corridoio del commissariato. “Siamo messi bene: lei con una denuncia a carico e io con due” osservò
Bonanno. “Che vuole! Rispettano l’ordine di anzianità. Ma non si preoccupi, cavaliere: alla sua età non possono farle niente. Quanto a me…” “Secondo lei, adesso continueranno le ricerche? Magari le affideranno a qualche professore dell’università che vorrà parlare con noi, in fondo siamo quelli che su questa storia ne sanno più di tutti.” “Secondo me se ne fotteranno.”
Col are delle ore, la paura della galera diminuiva e Bonanno ricominciava a pensare alla Lettera. “Se la nicchia nel pozzo era vuota, le cose non stanno come pensavo. La casa e il pozzo erano all’origine proprietà di Russo, forse era stato lui a nascondere la lettera lì sotto e Scarcella l’aveva trovata per caso. Allora la chiesa dei Catalani potrebbe essere il posto dove Russo aveva trovato la lettera nel 1895, non quello dove l’aveva nascosta.” “Può darsi.” Caruso chiuse gli occhi, come se dormisse. Bonanno rimuginò ancora, poi gli venne in mente una domanda. “Ma lei, con tutti i fastidi che le ho dato, perché continua a venirmi dietro?” “Voglio vedere come va a finire” ribatté l’altro senza aprire gli occhi. A sera Gardelli li rilasciò, con l’intimazione di rimanere reperibili.
L’indomani la gazzetta titolava: Le imprese di due Indiana Jones caserecci. L’occhiello rincarava: Un becchino e un geometra ottantenne sulle tracce della Lettera della Madonna. L’articolo, derivato dal verbale della polizia, citava in disordine il furto della madonnina, la discesa nella cripta dei Catalani, il rinvenimento della lettera di
Ruggeri, fino alla caduta nel pozzo; confondeva a intermittenza l’avvocato Russo con Scarcella, don Giovanni d’Austria con Carlo III, la lettera di Ruggeri, non solo con quella di Maria Santissima ma pure con l’altra proveniente da Beiruth; aggiungeva un inedito Ferdinando II di Borbone, dava Pirri per annegato in una fontana, pullulava di sinistri adepti di un’imprecisata setta.
Gli effetti furono immediati. La vedova Marotta e la signorina Di Blasi lettrici puntuali e mattutine, piombarono in camera di Bonanno che si stava ancora lavando. Pretendevano di vedere la Lettera della Madonna e non ci fu verso di convincerle che la lettera ritrovata era quella tra due massoni. Spazientito, il cavaliere la prese dal cassetto tra le maglie di lana e la gettò sul tavolo. Davanti all’evidenza, la Marotta – per avere seppellito due mariti professori impersonava l’intellettuale della coppia – ribatté che il giornale parlava di una seconda lettera. Bonanno dovette esibire pure questa, faticando un’altra mezz’ora per spiegare che l’aveva scritta un trafficante di Beiruth e che, sebbene con ogni probabilità accennasse alla Lettera della Madonna, aveva ben poco di sacro, trattando pure di loschi traffici di donne. Alla fine le due vecchie se ne andarono mormorando. “Nasconde la Lettera della Madonna per non dividere i miracoli con noi.” “Mi basterebbe toccarla per farmi are la sciatica.” “Ha ragione comare… e a me la catarratta.” “Ma stia tranquilla: a uno così la Madonna non fa nessuna grazia.”
Chi la prese ancora peggio fu Lo Surdo, il farmacista borbonico sempre in procinto di avvalersi dei servigi di Caruso. Mandò a chiamare Bonanno. “Cavaliere… lei con le sue buffonate… ha oltraggiato i nostri legittimi sovrani… che ci hanno difeso dai turchi… e con questa storia della lettera… si è pure messo dalla parte di quei traditori dei preti… per colpa loro abbiamo la repubblica piemontese… e per colpa loro i turchi torneranno da signori nelle nostre case... si prenderanno le nostre cose e si fotteranno le nostre femmine... e
stavolta non ci saranno in nostri Re a liberarci... – e tra sputi di tosse, rantoli d’asma, pause d’ira e sibili d’enfisema ci mise cinque minuti a infilare quattro frasi, senza chiarire se preferisse i turchi ai piemontesi.
Degli altri ospiti, un po’ tutti erano convinti che Bonanno nascondesse qualcosa. Nel pomeriggio, ad accrescere curiosità e diffidenza nei suoi confronti, servì pure l’arrivo di un giornalista. Valenti si presentò come l’autore dell’articolo apparso quella mattina sul giornale, aspettandosi chissà quale accoglienza. Invece Bonanno lo aggredì dandogli del bugiardo e minacciando di querelarlo; fece pure riferimento al presunto poco onorevole mestiere della madre, cui associò le sue eventuali sorelle, e solo dopo averne esaurito la parentela femminile si chiuse nella sua stanza. Il cronista comunque non s’arrese. Se il protagonista si negava, rimanevano i comprimari. Di fronte alla magica parola stampa, nessuno gli rifiutò del buon materiale per futuri pezzi i cui rapporti con la verità avrebbero fatto rimpiangere quello iniziale. Andandosene, appuntò il suo numero di telefono su una grossa banconota lasciata nelle mani grate di Bruno. Grazie a quel lucroso biglietto da visita, in caso di novità sarebbe stato senz’altro informato.
XXIX
Bonanno, ormai senza stimoli, trascorreva le giornate a letto, leggendo e fumando; evitava il salone e i pasti gli venivano serviti in camera. Usciva solo di sera tardi, quando tutti già dormivano. Avvolto nel vecchio impermeabile color crema, eggiava in giardino fino a notte fonda, bruciando una sigaretta dietro l’altra. Una notte più fresca delle altre era rientrato in stanza prima del solito. Dai brividi, pensava di essersi raffreddato. Accese la lampada del comodino cercando inutilmente il termometro nel cassetto. Prese quindi un’aspirina provando a versarsi dell’acqua, ma la bottiglia era vuota: gli toccava scendere in cucina. Si lasciò cadere sulla sedia ai piedi del letto e in un moto di stizza mandò giù a secco la compressa, che scivolò lungo l’esofago con la leggerezza di un bullone. Il termometro doveva essere sulla mensola del bagno insieme allo spazzolino, ché una volta – ricordò – l’aveva usato per rimuovere il cerume dalle orecchie. Le gambe malferme, si alzò a stento come se il suo peso all’improvviso fosse raddoppiato. Articolò qualche o tenendosi dal tavolo e nonostante l’appannamento del malessere percepì una presenza. “Te lo sei meritato!” confermò una voce roca alle sue spalle. Accusò un colpo fortissimo. Vide un lampo. Perse i sensi.
Rinvenne che l’orologio digitale segnava l’una e mezza. L’aria densa della stanza era tagliata dalla luce radente della lampada rovesciata per terra. Per fortuna la direzione del colpo lo aveva fatto accasciare sul letto. La testa gli pulsava, si tastò con cautela e appena sfiorò la mascella non riuscì a trattenere un lamento: come minimo aveva qualche dente rotto.
La vista era annebbiata, ma iniziava a comporsi nella sua mente una figura. Il frate. Con terrore sentì riecheggiare la voce cavernosa: Te lo sei meritato! Ricordò pure il teschio sotto il cappuccio. Sedette sul letto con prudenza. Il minimo movimento gli procurava dolore, ma la vista poco a poco schiariva. Sforzandosi di mettere a fuoco gli oggetti circostanti, scoprì che il cassetto dei documenti era aperto. Barcollando si avvicinò a controllare: il libro di Pirri, la lettera di Ruggeri, carpette, fotografie, contratti, il taccuino con gli appunti… tutto sparito. Tirò la cordicella del camlo per dare l’allarme.
Ancora una volta il ladro si era volatilizzato. Porte e finestre, a quell’ora sbarrate, non porgevano sospetti d’effrazione. Visalli, avvisato da Margherita, rispose in malo modo che non sarebbe venuto prima del mattino. Disperando in altri aiuti, Bonanno ancora traballante, un tampone sulla guancia, fece un inutile giro di perlustrazione insieme a Mario. Solo alle quattro, dopo lunghe insistenze, riuscirono a metterlo a letto.
L’amministratore comparve verso le nove. Rifiutò di vedere Bonanno e appena Margherita riferì della notte, le disse ultimativo che non c’era stata nessuna aggressione: il vecchio era svenuto per uno sbalzo della pressione sanguigna e nella conseguente caduta aveva sbattuto contro uno spigolo. Punto. Quanto alle carte sparite, non le prese neppure in considerazione.
Al risveglio Bonanno stava così male da rimanere a letto in attesa del dottore. Enrico Carbone era un medico paziente. Il vecchio gli espose in un unico guazzabuglio i dolori diffusi in tutto il corpo, gl’insulti nei confronti del frate, i commossi ricordi di Pirri, le lamentele per com’era finita la sua ricerca e le ultime ipotesi sulla Sacra Lettera. Il dottore ascoltò attento come se quel frullato di sintomi, parolacce, rimpianti, recriminazioni e congetture servisse alla
diagnosi. Poi, con l’aria di chi già sapeva tutto, visitò il malato in maniera completa, riscontrando un leggero trauma oltre l’evidente ecchimosi sulla guancia. “Un bel cazzotto: lei è comunque un buon incassatore.” C’erano pure due denti rotti. “Peccato. Una dentatura quasi perfetta per la sua età.” Gli prescrisse un antidolorifico, una pomata e la visita dentistica. “Niente più risse. Riposo assoluto. Mi raccomando, rimanga a letto per almeno due giorni. Se si manifestano altri sintomi, mi faccia chiamare.”
L’indomani il vecchio geometra, sentendosi un po’ meglio, si fece accompagnare da Caruso al commissariato, dove fu ricevuto da Gardelli. “E così è venuto a dirmi che ieri notte, il solito frate che la perseguita s’è preso le prove di tutto quello che mi ha raccontato!” “Lei non mi crederà, ma le cose stanno così.” “Quindi questo frate, dopo averla stordita, è sparito nel nulla e lei vorrebbe denunciarlo.” “Esattamente.” “Esattamente un cazzo! Se lei mi scrive una minchiata del genere su un foglio di carta e me la firma, io l’accuso di simulazione di reato. E così invece di due procedimenti se ne trova tre sul groppone.” Era solo una sceneggiata: Gardelli era sempre più convinto di dover prestar fede a quel vecchio strampalato; solo che riempire scartoffie con denunce e controdenunce avrebbe complicato le cose. “Non fatevi più rivedere se non dietro convocazione” intimò mettendoli alla porta.
Più tardi riprese il fascicolo per studiarselo.
XXX
In quei giorni Visalli telefonò al figlio di Bonanno per informarlo. Tale premura serviva per scansare eventuali responsabilità e poteva pure preparare il terreno per potersene finalmente liberare. Eugenio, capendo che stavano succedendo cose poco chiare, decise una visita fuori programma approfittando dello scalo a La Valletta della sua nave.
“Papà ti vedo in forma” mentì, porgendogli l’ennesimo carico di sigarette. “Hai saputo cosa mi è capitato?” “Visalli mi ha informato: una bell’avventura.” “Sì, bell’avventura… mi sono beccato due denunce!” “Serviranno a tenerti occupato.” “Per non parlare dei due denti rotti... Ma non è questo. Alla fine devo dare sempre ragione alla buonanima di Pirri. La verità è che in questa storia della Lettera della Madonna ci avevo preso gusto: la sentivo una cosa mia. Finita sui giornali, è come se me l’avessero rubata!” “Va bene papà, è stato un piacevole atempo, una specie di caccia al tesoro, ma non la devi prendere troppo sul serio. In fondo è chiaro che la Lettera non è mai esistita.” “È questo il punto. Voi credete che io sia abbattuto per la figura di vecchio cretino che ho fatto davanti a tutti. Invece non è così: io sono ancora certo che la Sacra Lettera, non solo esiste, ma è pure a portata di mano! Solo che non ho più la forza di cercarla. Ci fosse ancora Pirri! Tra noi era diventata una specie di gara, io facevo un o avanti e lui faceva finta di smontarlo. È strano, ma molti
suggerimenti per proseguire me li ha dati proprio lui: ripeteva che non c’era niente da cercare, faceva finta di fregarsene, ma anche se non l’avrebbe mai ammesso, voleva la Lettera quanto me. Adesso che non c’è più ho perso la voglia di continuare.” Eugenio preferì cambiare discorso. Sebbene non badasse molto a queste cose, aveva notato il disordine della stanza. “Ma papà, con quello che paghi non viene mai nessuno a rassettare?” “Sono stato io a dire di lasciar perdere. Non voglio gente tra i piedi.” “Ma è un porcile! Non puoi stare in queste condizioni: metterò un po’ d’ordine.” Cominciò dagl’indumenti accumulati sulla sedia ai piedi del letto. Controllato che non ci fossero soldi o documenti nelle tasche, li infilò in una busta di plastica, incerto se destinarli alla spazzatura o alla lavanderia. Poi raccolse sulla mensola i gialli sparsi sopra il letto, sotto, sulla poltrona, sotto il comodino, nel lavandino del bagnetto... Riordinava incurante delle proteste del padre, che prima gli gridava di lasciare ogni cosa dov’era e subito dopo lo implorava di bruciare tutto. Eugenio aveva trascorso gli ultimi trent’anni per mare sotto molte bandiere e l’avere per casa il mondo gli era parso segno di libertà e progresso. A lungo aveva considerato la sua città natale solo uno scalo secondario dove per qualche ora lo attendevano le attenzioni esagerate della mamma, che l’avrebbe voluto geometra, e i silenzi di papà, deluso che non fosse ingegnere. Ma da quando il vecchio era rimasto solo erano cominciati i sensi di colpa: nel vederlo in un pensionato, per non possedere una casa dove ospitarlo, per non avergli generato dei nipotini che giocassero con lui e magari studiassero da ingegneri. Ci pensava spesso nel troppo tempo libero durante le lunghe navigazioni. L’antica vecchiaia del mare, uguale a se stesso da prima che esistessero occhi d’uomo, alla fine lo aveva smascherato: non era l’uomo moderno che si era voluto, e neppure l’uomo libero che si era creduto. E in quel vecchio appestato di tabacco e solitudine decifrava, riflesso, il suo futuro. Dai gialli ò ai cassetti del settimino. Sapeva quel servizio inutile. Inutile perché suo padre non lo voleva; inutile
perché tra un’ora se ne sarebbe andato e tutto sarebbe tornato in disordine; inutile perché potevano farlo gl’inservienti che erano pagati per questo; inutile perché è scritto nelle leggi della natura che il caos, l’entropia, cresca senza sosta e alla fine sommerga quest’universo che abitiamo stancamente. Ma quel rassettare, appunto perché inutile e quindi più faticoso, gli dava il gusto della riparazione. Questo il senso incompiuto delle sue visite e delle sue stecche di sigarette. Aprendo l’armadio, il sacco con le cose di Pirri gli rotolò tra i piedi. “Cos’è questa roba?” “L’eredità di Pirri.” Tirò fuori tutto. Mise da parte un registratore a cassette ancora funzionante; gl’indumenti finirono in sacchi di plastica destinati al più vicino cassonetto. “Di questo che ne facciamo?” chiese riferendosi al bossolo di cannone. “Per Pirri era un ricordo di guerra. Della guerra di Spagna, penso. Buttalo con tutto il resto.” “Guerra di Spagna? A me non sembra. – Eugenio s’intendeva d’armi: esaminò la base del bossolo. – British Artillery 1912: proiettile inglese. Può darsi che sia finito in Spagna, ma è più probabile che sia stato sparato durante la prima guerra mondiale.” Rigirava tra le mani l’oggetto con aria professionale. Bussò sul metallo dorato ricavandone un suono cupo. “La cosa strana è che questo bossolo è stato modificato. All’interno è stato saldato un cilindro di calibro più piccolo. Probabilmente tra le due pareti c’è una cavità. Un buon vecchio lavoro artigianale: quasi non si nota, anche se ormai alcuni punti sono arrugginiti.” Bonanno scattò dal letto. “Ecco cos’era il segno nel pozzo! Un proiettile, non un ferro da stiro! Un proiettile come quello scolpito nella lapide di Scarcella! Presto: apri la saldatura! Abbiamo trovato la Lettera della Madonna!”
Gli strappò di mano il bossolo come se volesse spezzarlo con la sola forza delle dita. “Aspetta, papà, ci serve qualche attrezzo.”
Quello che serviva saltò fuori da un cassetto. “Fai più forza! Metti qui il giravite! Non così, è troppo forte! Attento! Guasti la Lettera…” “Calma papà: nessuno metterebbe un documento importante in un posto simile!” Un affare di cinque minuti durò mezz’ora e quando la cavità venne aperta Bonanno rischiò l’infarto. Ma sarebbe morto felicissimo stringendo in mano due fogli di papiro scritti in caratteri sconosciuti e un involto di carta velina con un groviglio di capelli biondi. Crollò sulla sedia balbettando.
Carbone stava facendo il consueto giro al piano superiore. Chiamato dal preoccupatissimo Eugenio, cercò di fare sdraiare il vecchio, ma era impossibile staccarlo dalle reliquie. Si limitò a somministrargli alcune gocce di calmante. “Avete visto! Avevo ragione!” ripeteva Bonanno, indicando i rotoli e i capelli poggiati sul tavolo che non osava più toccare. Il medico si avvicinò incuriosito. I papiri, di color bruciato, erano sfibrati lungo i margini; alcune lunghe fratture verticali rendevano il testo lacunoso ma leggibile. “Questo è scritto in greco.” “Conosce il greco?” “L’ho imparato al liceo e modestamente la ione m’è rimasta. Come comincia
la lettera della Madonna?” chiese Carbone, scrutando i fogli da vicino. “Maria Vergine, figlia di Gioacchino umilissima serva di Dio, madre di Gesù Crocifisso…” “A occhio e croce è proprio quello che c’è scritto” sentenziò il dottore, leggendo a bassa voce le prime righe. “È la traduzione di San Paolo! L’altro foglio è quello più importante: scritto da Maria Santissima in Ebraico!” “Per l’ebraico, dovrà rivolgersi a qualcun altro. Intanto, se si calma, le misuro la pressione.”
La notizia si diffuse in un attimo. Le prime a precipitarsi furono la Di Blasi e la Marotta, presto seguite dalle altre comari. Riconosciuta all’istante la mano della Vergine Maria su quei fogli accartocciati, si buttarono in ginocchio davanti al tavolo. Una del gruppo impallidì, prese a sudare freddo e svenne. Carbone dovette sdraiarla per terra con i piedi sollevati e pizzicarla per farla rinvenire. La stanza si riempì di donne; complice l’assenza di Visalli, pure le infermiere lasciarono le loro incombenze per l’adorazione. Margherita aveva già allestito attorno alle reliquie un altarino con la famosa madonnina di Pirri tra due ceri accesi.
Bonanno fissava estatico le reliquie. In altre circostanze avrebbe cacciato tutti a pedate, cominciando da quelle perfide vecchie che pochi giorni prima lo avevano svillaneggiato e che ora stavano ai suoi piedi. “Lo sa, comare? Ci vedo già meglio.” “A me lo dice! Se non per miracolo della Madonna, con la mia sciatica, come potrei stare inginocchiata?”
Le ore trascorrevano inavvertite tra bisbigli e preghiere. Allorché si spense una candela, molte voci gridarono al miracolo, seguite dagl’inevitabili attacchi isterici. Anche la madonnina venne vista sorridere. Tra una cosa e l’altra si fece mezzogiorno senza che venisse servito il pranzo. Immersi nell’estasi, non se ne sarebbero accorti se quel miscredente di Lo Surdo non avesse cominciato a sbraitare dalla stanza accanto. Quando gli spiegarono il motivo del ritardo perse ogni ritegno. “Sono duemila anni che i preti, quand’è ora di mangiare, s’inventano il miracolo... Ammesso che sia riuscito la prima volta col pane e i pesci, tutte le altre volte ci hanno preso per il culo… i miracoli servono a tenere piena solo la loro pancia!... Voglio mangiare! Voglio mangiare subito!” Nonostante dare da mangiare agli affamati sia un’opera di misericordia corporale e il momento mistico predisponesse una speciale inclinazione alla pietà, la sfuriata di Lo Surdo cadde nel vuoto. Il vecchio monarchico sarebbe rimasto digiuno se Visalli, appena rientrato, non avesse ordinato in malo modo ad una riottosa Rosetta di tornare in cucina. “Vecchio ateo! Neppure la Madonna può salvarlo dall’inferno” commentò la Di Blasi tra un Ave e un Gloria.
Eugenio rifletteva che la scoperta delle reliquie per suo padre era una bella rivincita. Ma l’autenticità rimaneva dubbia e se qualcosa fosse andato storto, difficilmente si sarebbe ripreso. Controllò l’orologio: avrebbe perso l’aereo. Li guardò per l’ultima volta, serrati attorno alle reliquie, cercando di convincersi che in fondo erano solo una ventina di vecchietti invasati: il massimo pericolo era qualche altro articolo sul giornale. Si raccomandò a Visalli, ma l’amministratore aprì le braccia con un’espressione dura. Arrivato pensieroso, ripartiva angosciato. Mentre usciva dal cancello, un’auto con il contrassegno stampa sgommava a
tutta velocità in direzione opposta.
XXXI
Bruno si era guadagnato la sua mancia. Valenti piombò nella stanza con un operatore, e prima che Bonanno lo cacciasse possedeva le riprese per il telegiornale della sera. Al resto pensò lo stesso infermiere vendendosi la prima esclusiva sul ritrovamento della Sacra Lettera e dei Sacri Capelli. Il servizio aprì il telegiornale delle otto. “Il nostro vecchietto ce l’ha fatta!” Da quel momento il telefono della villa prese a squillare senza sosta. Il telegiornale era ancora in onda e già gruppi di persone risalivano il vialetto del pensionato. Insistevano al camlo ma l’amministratore aveva ordinato di sbarrare tutte le aperture a piano terra e non rispondere. Presto una nenia insistente iniziò a levarsi dalla folla: “La Lettera, la Lettera, i Capelli, la Lettera…” Visalli si affacciò da un balcone spiegando, col poco garbo di cui era capace, che si trovavano su una proprietà privata e che anche volendo sarebbe stato impossibile fare entrare tutti. Avrebbero avuto notizie dalla stampa. In basso protestarono ma per il momento rimasero tranquilli. La folla si accumulava e già pressava quelli che stavano avanti.
Intanto le donne erano scese a gruppi nel salone per una rapida cena. Nella stanza di Bonanno si pregava senza sosta seguendo l’indistruttibile signorina Di Blasi.
“Maria, aiuto dei cristiani, prega per noi... Maria aiuto dei cristiani...” Le più vecchie, sedute sul letto, si addormentavano a turno; quando qualcuna cominciava a russare, le vicine ristabilivano il decoro a gomitate. Margherita e Rosetta ne avevano già coricate un paio a forza. Unico uomo presente nella stanza oltre Bonanno, il colonnello Urzì, per ore sull’attenti in un angolo, s’era adesso accartocciato su uno sgabello in penombra. Della sua sagoma ingobbita s’intravedevano appena la calotta lucente del cranio calvo e il viso pensoso. I movimenti delle labbra lo dicevano immerso in silenziosa preghiera, ma forse era solo una lieve forma di Parkinson. “Maria, aiuto dei cristiani, prega per noi” insistevano le donne. Dall’altro lato della parete, Lo Surdo imprecava senza ritegno presente, né timore futuro.
Bonanno aveva rifiutato di cenare. Sedeva rigido accanto al tavolo, investito di una specie di dignità vescovile. Lo sguardo guizzava dalla lettera di San Paolo, scritta con degl’indecifrabili caratteri minuti, a quella delle Vergine, dalla grafia più grande e altrettanto impenetrabile. Lui stesso, le mani tremanti, aveva esposto i sacri Capelli sotto una calotta trasparente presa in cucina tra quelle usate per le torte. Ogni tanto tentava di allungare una mano, ma una invisibile barriera mistica lo paralizzava a pochi centimetri dalle reliquie impedendogli il contatto.
Visalli girava per i corridoi dando ordini concitati quanto disattesi. Aveva i lampioncini del giardino ormai pieno di gente, e dopo i primi tafferugli si era sentito con la polizia. Aveva pure telefonato al proprietario del pensionato ottenendo significative istruzioni. “Per noi sarà tutta pubblicità gratuita. Faccia come meglio crede, purché non ci siano danni.”
Nella stanza delle reliquie e nel corridoio si cominciarono a vedere degli estranei. Bruno si giustificava con Visalli
“Li ho fatti are per ridurre la pressione sull’ingresso: la situazione è critica.” Pura verità, accompagnata dall’innocente omissione delle mance intascate. L’amministratore convenne che con centinaia di persone che premevano sul portone, l’unico modo di controllare la situazione era di farli are a piccoli gruppi. Misero a punto un piano in cui Bruno e Mario si sacrificarono all’ingrato compito di regolare i flussi, mentre Visalli avrebbe spostato le reliquie nel salone a piano terra, più facile da raggiungere e più capiente.
“Cavaliere ero sicuro che lei mi avrebbe procurato dei guai, ma non così tanti! Ha decisamente superato le mie peggiori attese! Comunque, visto che siamo nel ballo, cerchiamo di collaborare.” Un insolito Visalli virò sui toni accomodanti per convincere Bonanno a trasferire le reliquie. Non aveva scelta: in quel momento, agli occhi di tutti, il vecchio era una specie d’icona vivente su cui cadeva il sacro riverbero della Lettera. Se avesse usato i soliti modi, comari e infermiere lo avrebbero sbranato sul posto in un cattolicissimo baccanale. Bonanno non fece obiezioni. Pretese solo che le Lettere e Capelli venissero protetti. Inventarono quindi una specie reliquiario fatto di una vecchia confezione di legno per liquori, col vetro di uno scrittoio per coperchio. Per maggiore precauzione, si decise di custodire i papiri dentro due carpette portadocumenti di plastica trasparente. Nessuno osava toccarli, e alla fine, per evitare che lo fe Visalli, Margherita si sacrificò alla delicata operazione. Il verso delle Lettere era incollato a una carta grossa, scurita e macchiata dal tempo, che fungeva da fragile o: qualunque tocco inopportuno le avrebbe irrimediabilmente danneggiate. L’infermiera, guanti sterili e decine d’occhi puntati addosso, trasse un lungo respiro lasciando scivolare i fragili papiri tra due fogli plastica come corpi indifesi tra lenzuola candide. Ancora una volta dimostrava speciale talento nel maneggiare la vecchiaia, di qualunque materia fosse fatta.
Poco prima della mezzanotte, una processione – statuetta della Madonna e candele in testa – si snodò lungo corridoio e scala verso il salone. Le reliquie
vennero esposte su un tavolo rettangolare apparecchiato con una tovaglia candida; i vecchi sedettero sul lato lungo dalla parte del muro. La scena possedeva una spontanea, essenziale suggestione: pareti bianche, le reliquie in primo piano, Bonanno sullo sfondo, la Di Blasi alla sua destra, il colonnello Urzì alla sinistra – Cristo, Maria e San Paolo – sulle ali di una schiera di Sante in mistica contemplazione. La folla, opportunamente selezionata da Bruno e Mario, cominciò a sfilare.
XXXII
La stampa locale riportò subito la notizia in prima pagina. Valenti su tre colonne si era lasciato andare ad un prevedibile La rivincita di Indiana Jones. Occhiello: Il terribile vecchietto ritrova la Lettera della Madonna. Folla oceanica di fedeli al pensionato Villa Felice. La stessa folla era pure immensa, sterminata, incalcolabile, secondo il gusto e la misura delle altre testate.
L’indomani in moltissimi continuarono a sfilare davanti alle reliquie. Verso le undici, apparve un furgone attrezzato per la vendita di bibite e gelati. Richiesto da Visalli se ne sapesse qualcosa, Bruno prima cadde dalle nuvole, poi riconobbe degli amici. “Hanno avuto una buona idea: la gente ha bisogno di ristoro.” Andò avanti così per diversi giorni. La stampa locale continuava a pompare la notizia e la gente ad accorrere. Visalli, suo malgrado, aveva finito per gestire una specie di sala stampa. In attesa di novità che non si sapeva quali dovessero essere, si limitava al bollettino delle affluenze, degli attacchi isterici e dei malori. A dargli colore ci avrebbero pensato i giornalisti. “È questo il nostro sporco mestiere” secondo le parole di Valenti. A proposito di stampa, Bonanno continuava a rifiutare le interviste; ma non era un problema: ogni giorno gliene venivano pubblicate diverse.
Le autorità intanto non s’intromettevano.
Quelle civili, distratte dall’ennesimo rimpasto nella giunta comunale, si limitavano alla prudente gestione dell’ordine pubblico. Riguardo a quelle religiose, il segretario del Vescovo – occhialuto e segaligno – sottolineava che la Curia non era stata invitata ad interessarsi della cosa, e ricordava che la fede non poggia sulle reliquie o sui miracoli, ma sull’adesione all’esempio di Cristo. Qualcosa comunque si muoveva. Nei giorni successivi – d’iniziativa propria, o inviato dall’alto – padre Saja fece capolino alla villa. Diede un’occhiata di sfuggita alle reliquie, cercando di are inosservato, poi confabulò con Visalli in ufficio. Appreso che in quella storia c’era di mezzo Pirri, andò via senza commenti; scuro in volto e convinto fosse opera del diavolo. “Quando viene il Vescovo?” chiese brusco Bonanno all’amministratore, poco dopo. “Di quale Vescovo parla?” “Cosa le ha detto padre Saja?” “Mi ha detto che finché c’è questo teatrino non verrà. Né per la messa, né per confessare.” “Non può farlo!” “Chi glielo impedisce, lei? E poi è meglio: con questo casino, una seccatura di meno!” “Le donne resteranno senza comunione.” “Senti questa! Prima la lettera della Madonna, ora la comunione. Mi tolga una curiosità: com’è che lei si preoccupa tanto di queste cose? Non era comunista?” “Anche Gesù Cristo oggi sarebbe comunista!” “A voi comunisti Cristo piace perché è un perdente. Con i compagni Russi credevate di dominare il mondo, invece il vostro miserabile impero non è durato settant’anni. Per non parlare della fame che ha lasciato!”
“E voi capitalisti, che avete combinato di buono? Avete forse tolto la fame?” Era finita in politica. Presero in ostaggio i destini del mondo e scomodarono i massimi sistemi soltanto per sfogare la reciproca avversione.
La domenica successiva ci fu il picco delle presenze. Numerosi pullman arrivarono pure dalla provincia. Approfittando della bella giornata, in molti avevano pensato di mangiare all’aperto seminando di tavoli, sedie pieghevoli e barbecue il giardino e i terreni circostanti. In diversi punti strategici si vendevano pane cotto a legna, costolette e salsicce di quelle genuine, formaggi e sottaceti caserecci. Mancavano i pesci, era tutto a pagamento – anzi decisamente caro – ma bastò a sfamare circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini. Se non un miracolo in senso stretto, fu una specie di miracolo organizzativo; e anche economico, a misurare da quanto Bruno e soci spartirono a sera. Pari soddisfazioni diede la vendita d’oggettistica prodotta per l’occasione. Tra tovaglie, bicchieri, tazze e portafiori con l’immagine della Madonna, l’articolo più richiesto fu la maglietta commemorativa, disponibile in tre colori. Sullo sfondo di un’esile mano che scriveva con una penna d’oca, spiccava il volto maschio di Bonanno-Jones ritoccato sotto un cappellaccio da cow-boy.
A Villa Felice molte cose erano cambiate. La presenza del pubblico e della stampa aveva indotto le vecchiette a rivedere il loro aspetto. Dagli armadi erano risorti gli abiti migliori, e non s’era badato a spese per ingaggiare una parrucchiera a domicilio. Sicché tra le capigliature delle Sante erano spuntate inedite tonalità, dal biondo platino al rosso , e pure generose reminiscenze di scollature. Non da meno, il colonnello Urzì esibiva la divisa di gala completa di spada, cappello, medaglie e tarli. Solo Bonanno aveva mantenuto il consueto aspetto trasandato al centro della scena.
XXXIII
Si procedette così per un po’ di tempo, poi il pubblico cominciò a scemare. Prima impercettibilmente, poi in maniera vistosa, finché un lunedì nel salone si videro solo un nonno con due nipotini riottosi. “Uffa, siamo già venuti!” “Cinque minuti soli e poi vi compro il gelato.” “Non vogliamo il gelato, ci devi comprare la videocassetta con i mostri.” “Va bene. Appena usciamo iamo dall’edicola.” “C’è puzza!” “Sssss queste cose non si dicono. È cattiva educazione!” “È vero: questi vecchi fanno puzza di pipì!” “Andiamo che s’è fatto tardi.”
Sulle prime pagine politica, delitti e sport ripresero il loro posto e alla villa continuò a non vedersi gente. Si limitarono le visite a qualche ora al giorno, ma il salone rimaneva vuoto. Nel fine settimana successivo apparve appena qualche persona in più. L’unico pullman scaricò un gruppo di ritardatari rimasti in panne la domenica precedente sull’autostrada. Quintali di pane e insaccati, carne e sottaceti rimasero nei furgoni. A sera, Bruno e i suoi registrarono furiosi che in quella disgraziatissima giornata erano andati in fumo molti dei guadagni precedenti.
In breve il pensionato scivolò nella precedente atmosfera sonnacchiosa. Nel salone, le Sante snocciolavano i rosari solo in presenza di pochi estranei; per il resto parlavano dei fatti loro, anzi di fatti altrui. Visalli già meditava di trasferire tutto l’apparato – vecchi compresi – in una stanzetta sul retro.
Giovedì nel primo pomeriggio – il portone chiuso, il salone deserto – Bonanno era andato a riposare lasciando sul posto il fido Urzì, addormentato. Di ritorno dopo un’ora, vide subito il vetro della teca fuori posto. Si avvicinò con trepidazione. “Colonnello, sveglia!” I Sacri Capelli erano sparsi in disordine nel contenitore. Non c’erano dubbi: ne mancava uno. “Sveglia Colonnello! Sveglia! Hanno rubato un Capello!” Urzì, duro d’orecchi, rimase nei suoi sogni, ma gli altri accorsero da ogni parte. “Sacrilegio! Sacrilegio!” strillavano le Sante, promettendo immediati castighi al colpevole, quale acconto sulla certezza dell’inferno. “Chiudete le porte! Il Capello non deve uscire! Fermate tutti gli estranei!” “È tutto chiuso e non ci sono estranei” notò freddo Visalli, anche lui richiamato dal trambusto. “Allora è stato uno di noi” concluse Bonanno. Nel breve silenzio tutti si guardarono negli occhi, come per decifrare reciprocamente lo stigma di un’abiezione tanto grave da non poter rimanere invisibile. Nell’incrociarsi di sguardi sospettosi tutti finivano sull’amministratore. “È stato lei! Dal primo momento è stato contro! Ci vuole intimidire, ci vuole cacciare! Lei non crede in niente! – lo assalì Bonanno. – In nome di Dio, rimetta il Capello a posto!”
Incapace di controllarsi, gli saltò addosso. Ma se contava nel timore reverenziale dell’altro per concludere un assalto vittorioso, si sbagliava: Visalli lo respinse con una manata decisa facendolo rovinare per terra. Davanti a tale infamia, gli altri, colonnello e signorina Di Blasi in testa, insorsero, costringendo l’amministratore a ripiegare verso la porta. “Siete tutti pazzi! Vecchi rincoglioniti! Me ne frego dei vostri giocattoli! Qui comando io e non ho bisogno di rubare niente! Quello che voglio me lo prendo! E se mi salta in testa le vostre reliquie le accendo nel camino! E pure vi caccio quando mi pare! Vi caccio e basta! E se finite fuori da qui, i vostri cari parenti vi buttano in una camerata d’ospedale… così pure risparmiano!“ Non rinunciava alla provocazione e poteva finir male se non fossero intervenuti Bruno e Margherita a disimpegnarlo. Seguirono le cure a Bonanno – non si era fatto niente – e diversi malori dei suoi soccorritori. Per calmare gli animi, Margherita e Rosetta testimoniarono che Visalli era appena arrivato, ma i vecchi non si convinsero. “Sarà stato lui a rubare anche la madonnina – congetturava la Di Blasi. Concludendo – chi è capace di queste cose ci riprova!” “Per questo non vuole mai andare dalla polizia” rincarò Bonanno tra l’approvazione generale.
Alla fine Visalli fu costretto a promettere l’ennesima denuncia contro ignoti. Cosa avrebbe dovuto dichiarare? Sottrazione e danneggiamento di reliquia andava bene, ma senza un riconoscimento non c’era alcuna reliquia, anzi a dichiararlo ufficialmente si rischiava di are per truffatori; furto di capello di donna ignota: immaginava già la faccia del brigadiere. Si poteva aggiungere vissuta duemila anni fa per dargli più importanza, ma anche in questo caso, con quali prove? Si poteva pure specificare che il capello era di vergine, come insisteva la signorina Di Blasi, secondo la quale i capelli di vergine si distinguono dagli altri.
“Verranno a interrogarci, e noi riferiremo i fatti. E lei, caro amministratore, dovrà spiegare tante cose” incalzava Bonanno. “Cavaliere, io sono tranquillo: darò tutte le spiegazioni che servono. Ho un solo errore da rimproverarmi: quello di non averla cacciata prima. Ma presto o tardi rimedierò!”
XXXIV
Il furto ebbe un prevedibile risvolto: poche ore dopo riapparvero Valenti e colleghi. Intervistarono, raccolsero sospetti, illazioni, congetture e pettegolezzi, fotografarono, ripresero, misurarono i rimanenti due capelli… e fin dal telegiornale della sera le reliquie riconquistarono attenzione. Con la stessa meccanica regolarità la gente riprese a sfilare nel salone. Il sabato successivo molti approfittarono del pomeriggio libero per una benefica immersione nel sacro. C’erano le telecamere e con un po’ di fortuna si poteva comparire al telegiornale. Molti di quelli che c’erano già stati tornavano con gli amici. Davanti alle reliquie spiegavano con aria esperta che il capello rubato era molto più lungo dei due rimasti. “Era avvolto, grosso quasi come un gomitolo di lana, due metri a occhio e croce, del resto un capello della Madonna, si sa, non è un capello come tutti gli altri...” Ognuno teneva ad essere testimone di qualcosa d’irripetibile e di scomparso, che poi è il modo di saltare dalla cronaca alla storia.
Verso il tramonto, la coda si snodava fino alla strada provinciale. Il salone strapieno, Bonanno, Urzì e le Sante ai loro posti, lo stereo sintonizzato su radio Maria. Canti fervidi e stonati si levavano dalla folla. A quel punto in due cominciarono ad avanzare dal fondo della fila spingendo una sedia a rotelle come un ariete. Chi li precedeva si faceva da parte, ma se qualcuno fingeva di non vederli, i due – un uomo e una donna robusti, dall’aspetto poco raccomandabile – lo spostavano di lato, e se quello accennava a protestare replicavano minacciosi: “Non vedi che è paralitico?”
E in quelle cinque sillabe pa-ra-li-ti-co c’era ogni giustificazione; come se per qualche via misteriosa gli abusi dei due energumeni sulla gente in fila compensassero gli abusi della natura sul disgraziato che accompagnavano. Superarono il giardino e attraversarono il salone. Il malato, un uomo massiccio intorno ai quarant’anni, appoggiava il braccio sinistro inerte sulla coscia, la gamba sinistra, appena più corta dell’altra, penzolava dalla sedia. Davanti alla teca balbettò qualcosa, poi stese il braccio sano facendo scivolare la grossa mano sudata sul vetro. Quelli che seguivano pressavano perché lasciasse loro il posto, ma gli accompagnatori li tenevano a bada. L’uomo ripeté più volte la spasmodica carezza, come cercando un appiglio sulla lastra trasparente che proteggeva le reliquie. La sedia a rotelle gl’impediva di avvicinarsi meglio; con sforzo crescente faceva leva sulla gamba sana, spingendo il busto in avanti nel folle tentativo di abbracciare la teca. “Attento! Può cadere!” Bonanno dall’altra parte del tavolo non ebbe tempo d’intervenire. L’uomo perse l’equilibrio, la sedia scivolò all’indietro e tutti videro un braccio annaspare nell’aria come un’ala inetta, per poi rovinare insieme al resto del corpo sulla teca. Le Sante urlarono. Bonanno e Urzì scattarono in avanti, incerti se soccorrere le reliquie o il relitto umano abbattutosi sul tavolo. Ma prim’ancora che qualcuno lo sfiorasse, quello emise un urlo sovrumano. Scosso da un violento tremito, poggiò i piedi a terra oscillando come per trovare un equilibrio dimenticato, infine sollevò il busto ergendosi in tutta la sua altezza. “Cammino! Cammino!” Una scossa attraversò la folla. Il salone cadde in un silenzio irreale. Bonanno e Urzì si ritrassero terrorizzati. L’uomo, agguantata con tutte e due le mani la teca, la teneva alta sulla testa. “Il mio braccio funziona! Cammino!” ripeteva gutturale.
Barcollando fece qualche o verso il centro del salone. Zoppicava – la gamba sinistra era rimasta più corta, mentre il braccio offeso funzionava a perfezione – baciava la teca e piangeva. “Maria! Maria!” Attorno la folla era in visibilio; tutti cadevano in ginocchio gridando al miracolo.
“Viva Gesù! Viva Maria!… Miracolo! Miracolo!… Gesù! Maria!…”
Il miracolato continuava a sbandierare le reliquie; qualcuno si allontanava, ma i più accorrevano per toccarlo e baciarlo. Sarebbe stato travolto se gli altri due non lo avessero spalleggiato. La teca comunque gli scappò di mano e il vetro andò in frantumi. Nella calca, Bruno e Mario dimostrarono prontezza e coraggio gettandosi tra i piedi della folla per recuperare le reliquie. I papiri non finirono a brandelli solo grazie alle custodie. L’uomo intanto trovava riparo con i suoi sgherri sul tavolo e in tanti si accalcavano per toccare la gamba risanata. Dietro di loro i vecchi rimanevano attoniti contro il muro.
“Miracolo! viva Gesù! viva Maria! miracolo! Gesù! Maria!…”
In mezzo al caos nessuno sentì le sirene della polizia. L’irruzione venne scambiata per un tentativo di sequestro delle reliquie, contro cui la folla oppose resistenza. Al grido la Lettera è nostra… il miracolo è nostro… Maria è con noi... volarono calci, pugni e sputi. Diversi tra i fedeli più accaniti finirono in manette.
Ci volle un bel po’ per ristabilire una parvenza di calma. L’ex paralitico scese dal tavolo, rassettandosi in qualche modo gli abiti strappati. Quindi protetto dai due tangheri e dalla polizia, attraversò con o stentato due ali di folla in delirio. “Cammino! Cammino!” Spingeva davanti a sé la sedia a rotelle e piangeva.
Stavolta le telecamere avevano ripreso tutto e non si trattava più di quattro vecchi imbalsamati davanti a tre capelli sfibrati e due lettere incartapecorite. Nel giro di poche ore il miracolo fece il giro del mondo. Prima di mezzanotte centinaia di milioni di persone, dall’Argentina all’Australia, avevano visto il paralitico di Messina sorgere davanti alle reliquie della Madonna. Quasi immediatamente la villa fu presa d’assalto da una folla mai vista. Bruno parlava di centomila persone; erano molte di meno, ma nonostante fosse notte la gente continuava ad arrivare. All’alba, sullo sfondo dello Stretto, apparvero le stazioni mobili televisive. La sala stampa ricominciò a lavorare a pieno ritmo; si trasmetteva dai corridoi, dalla terrazza, dai balconi, dal gazebo, davanti al capanno degli attrezzi, sotto gli alberi in giardino. Nella caccia all’esclusiva, Bonanno ò all’improvviso in secondo piano. Tutti adesso cercavano il miracolato, che però era riuscito a far perdere le sue tracce. In attesa che riapparisse, Visalli, Bruno, Margherita, Urzì e gli altri venivano intervistati nelle lingue più ignote e tutti sembrarono soddisfatti delle risposte.
XXXV
Le autorità non potevano più considerare le reliquie il atempo di quattro vecchi annoiati e superstiziosi. Nei giorni successivi si presentarono alla villa diversi consiglieri comunali e qualche assessore. Uno di questi, dopo aver sostato nel salone in conveniente raccoglimento, si appartò con Visalli nel suo ufficio. Di corporatura imponente, parlava con ponderazione sprofondato in poltrona; sigaro in bocca, aria da padrone, chiese dettagli sulla vicenda per poi esporre la soluzione. “Dobbiamo, naturalmente con l’accordo di questo cavaliere Bonanno – e qui, caro Visalli conto sui suoi buoni uffici – disinnescare la situazione. Togliamo da qui le cosiddette reliquie con la scusa di sottoporle ad analisi. Magari le mandiamo all’estero raccomandando di prendersela con calma. Intanto la gente se le dimentica. Li vede: sono bambini... A poco a poco facciamo filtrare qualche indiscrezione dubbiosa e poi, magari fra qualche anno, pubblichiamo un comunicato ufficiale che salva la faccia a tutti.” “Benissimo assessore, chiamo subito il cavaliere Bonanno.” “Aspetti, evidentemente non mi sono spiegato. L’amministrazione comunale in questa storia deve apparire defilata: rispettosa dei valori religiosi ma, al tempo stesso, tutrice della buona fede popolare. (Questa frase gliel’aveva detta il sindaco un’ora prima.) Con l’aria di fanatismo che tira qui dentro, se incontro il vecchio e poi questo mi consegna le reliquie, diranno che l’ho circuito approfittando della sua età. Se invece l’idea delle analisi nasce all’interno del pensionato e l’amministrazione offre semplicemente i mezzi per realizzarla, la cosa è diversa. Per questo se ne dovrebbe occupare lei. Naturalmente avrà la mia riconoscenza: se non sbaglio suo figlio è tra i candidati al concorso per quei dieci posti d’impiegato di concetto…” L’espressione di Visalli, fin lì impenetrabile, mutò all’istante nel suo tipico ghigno sarcastico.
“E così caro assessore dal sacro siamo finiti al profano: dalla Madonna agl’impiegati di concetto. Sono contento che lei sia venuto al sodo. A proposito di quel concorso, sono informato, e so, come saprà anche lei, che i posti sono già assegnati. Il concorso è blindato: mio figlio è fuori.” “Lei non conosce le mie possibilità. Le prometto…” “Delle sue promesse, con tutto il rispetto, me ne frego.” “Sbaglia: io posso…” “Comunque, che lei possa o non possa, voglia o non voglia, non ha importanza, perché neppure se venisse la Madonna in persona a riprendersi la sua corrispondenza Bonanno accetterebbe di restituirgliela, specie ora che il cosiddetto miracolo gli ha confermato che lui aveva ragione e tutti gli altri torto.” L’assessore aveva pensato di possedere gli argomenti per convincere Visalli. Davanti all’inattesa resistenza s’indispettì, alzando la voce. “Si rende conto che se viene fuori che è tutto un imbroglio, noi ci facciamo una figura di merda! Dopo quel dannato miracolo, ormai abbiamo gli occhi del mondo addosso: se qualcosa va storto, il partito da Roma chiederà le nostre teste! Potrebbe saltare l’amministrazione comunale!” “Cazzi vostri, caro assessore! Suoi e del signor sindaco! Per quanto mi riguarda può mandare i carabinieri a arrestare quel pazzo di Bonanno e la sua corte dei miracoli, e pure bruciare le reliquie. Fate pure! Di giorno, di notte, quando volete: le porte della villa sono aperte! – Gettò sulla scrivania un mazzo di chiavi. – Fate pure! Ammesso che abbiate il fegato di affrontare tutta la gente che c’è la fuori. Si ricorda che fra un anno ci saranno le elezioni?” Pensava di aver colpito duro, ma l’assessore era una maschera di cinismo. Rise. “Sì, potremmo fare arrestare tutti. Lei compreso. Pensa che ci manchi la fantasia per inventare accuse e costruire prove? Oppure i mezzi per impiantare sul nulla processi e magari condanne? Lo abbiamo fatto, lo facciamo e lo faremo ancora; e abbiamo fatto, facciamo e faremo anche di peggio. E qualunque cosa accada, non si preoccupi per noi: tra un anno, e dopo altri cinque anni, e dopo altri cinque anni ancora, ci eleggeranno. Ci eleggeranno sempre: stia tranquillo! –
Rise ancora. – E se non eleggeranno noi, eleggeranno qualcuno peggiore di noi. È la democrazia!” “Ha ragione – abbozzò Visalli, colpito nel suo da un cinismo superiore. – Comunque non venite a cercarmi un aiuto che non vi serve. Troverete lo stesso una soluzione: come dice lei, avete fatto di peggio! Avete rubato di tutto a quella gente: i soldi, la dignità, i diritti… alla fine riuscirete a rubare loro pure il miracolo.” “L’illusione del miracolo.” “L’illusione del miracolo e il miracolo sono la stessa cosa per chi non ha altro. Ma in fondo la gente è stupida e merita di essere governata da voi... e da quelli che verranno dopo.” Non avevano altro da dirsi: l’assessore uscì sbattendo la porta. Si riprese lungo le scale. Sul portone dichiarò alla stampa, con perfetti modi curiali, di aver visto una gran fede.
Se questo era stato l’approccio dell’autorità civile, il silenzio di quella religiosa si faceva sempre più assordante. Il solito segretario dell’Arcivescovo – ogni giorno più magro e miope – prendeva tempo invocando la tradizionale prudenza della Chiesa. Comunque a un riluttante don Saja fu intimato di riprendere le visite alla villa, nonché l’amministrazione dei sacramenti.
Per il resto, Bruno e soci avevano ripreso a raccogliere quella manna giunta più o meno dal cielo. Si erano già piazzate diecimila magliette: adesso la stampa più richiesta era quella del miracolato che spingeva la sedia a rotelle verso la Madonna.
I nuovi gadget non costituirono l’unica trasformazione: da quel sabato pomeriggio molto era cambiato. Prima si faceva la fila per devozione e per curiosità; e nella confusione, nel vociare e nella ressa c’era quell’aria leggera tra la gita al santuario fuori porta e la visita al museo. I più piccoli chiedevano se la
Madonna era bionda e le mamme confermavano, aggiungendo gli occhi azzurri; giunti senz’altra aspettativa che una lieve emozione, tutti andavano via ripagati. Adesso le domande erano diverse. Domande che quasi nessuno aveva il coraggio di pronunciare. Diversa pure la composizione della folla: zoppi, ciechi, muti, storpi, sembianze d’idioti, ammassi slogati d’ossa e carne raccolti nelle carrozzelle s’incolonnavano per ore sotto il sole con l’unico ossessivo pensiero di essere sanati. Guarire contro i medici, contro le cure inutili, contro le statistiche spietate, contro i profittatori, contro i consolatori. Guarire contro le leggi della natura la cui celebrata perfezione distrae i sani da certe crudeli ambiguità: le leggi della fisica che muovono la maestosa rotazione delle galassie, conducono le stelle e l’universo intero a spegnersi; le leggi della biologia, insieme al miracolo della vita, generano malattia e morte. Anch’esse miracoli a questo punto. E tra tanti miracoli – miracoli parlati, immaginati, inventati, presunti: miracolosa è pure l’ambiguità della parola – ognuno di quei corpi pericolanti si sentiva stritolato; e anche l’anima pativa la stessa insostenibile pressione, trasmessa dalla carne attraverso una meccanica ancora tutta da spiegare. S’è detto: chiedere la guarigione significa sollevarsi contro la distratta armonia della creazione e la sua attesa è sovrumana come il potere da cui il miracolo proviene. Dio stesso tentennò a Getsemani e l’indomani gemette sulla Croce, sospeso verso la resurrezione da Lui stesso predisposta. Così nel loro lento avanzare verso le reliquie, zoppi, ciechi, muti e storpi percepivano la gigantesca opposizione della natura, come se la loro personale guarigione esigesse per contrappeso il dissesto d’interi mondi. Allora, per proteggersi, s’atteggiavano a professionisti della grazia. Pazienti d’apparente indifferenza, lamentandosi quel minimo per non are da impostori, gettavano nella battaglia tutto il peso d’innumerevoli pellegrinaggi, di visite ai santuari più famosi, di processioni, fiaccolate, messe e benedizioni sempre troppo affollate, d’immersioni in acque taumaturgiche solo per gli altri. E ricordavano pure, senza vergogna, – ché nessuno sa veramente dove i la via della grazia – di lunghe e buie anticamere presso santoni di paese, di quelli che maneggiano olio e sale, invocano padre Pio e la Madonna, leggono le mani, rimasticano formule ebraiche, aspergono sangue di capra, attenti soprattutto al portafoglio. Al termine della fila, stordito da un’attesa non di ore ma di decenni, il malato si
trovava solo innanzi alla Lettera. Lettera vergata dalla stessa mano che aveva accudito Gesù Bambino e che dopo trentatré anni lo aveva cosparso di mirra all’imbrunire del venerdì fatale. E innanzi ai Capelli: capelli di madre che lo stesso Redentore avrà certamente accarezzato. Non c’era altro nella sala: spariti gli accompagnatori, spariti gli altri malati, spariti anche quegli strani vecchi schierati dietro il tavolo che sembravano aspettare il loro personale miracolo più di tutti. E a quel punto non c’era esperienza o distacco che tenesse. Lo zoppo, il cieco, il muto e lo storpio tremavano, si agitavano, piangevano e imploravano, ognuno secondo condizione e misura della dignità rimastagli. Accadeva pure che qualcuno tentasse d’imitare il miracolo visto in televisione o raccontatogli. Come se i miracoli uno se li potesse sceneggiare da solo, costui in forza di disperazione tentava di lasciare la sedia a rotelle o le stampelle; scattava in avanti abbattendosi sul tavolo, oppure rotolava per terra in mezzo alla costernazione generale. Nel salone echeggiava un grido strozzato e nessuno interveniva temendo che un istintivo gesto di pietà potesse compromettere i delicati – insondabili – meccanismi della grazia. Durante lunghissimi attimi quello cercava scompostamente di sciogliersi dai lacci dell’infermità: puntellava le gambe inerti, spingeva sulle braccia, tentava impossibili torsioni, spingeva la testa contro il tavolo per riavere arti assenti. I movimenti spasmodici si facevano sempre più brevi e solo quando le forze cessavano gli accompagnatori intervenivano. Si serravano intorno per censurarlo; ne ricomponevano più o meno le membra sulla sedia, oppure lo prendevano in braccio, e uscivano in fretta dalla sala verso la prossima speranza. Non erano in pochi ad andarsene più sofferenti di quand’erano arrivati.
XXXVI
Miracolati dalla resurrezione dei loro affari, Bruno e soci non si risparmiavano nel ricambiare – e se possibile incrementare – i benefici della Provvidenza. Per grazia ricevuta, a Villa Felice si contava adesso su un sistema di prenotazioni che gestiva i visitatori delle reliquie attraverso la loro neonata agenzia di viaggi. Tanta fede – e tante opere – facevano naturalmente del suddetto gruppo (allargandosi gl’interessi della ditta, il Nostro era stato obbligato a coinvolgere gente di un certo peso) il più attivo difensore delle Sacre Lettere. Giornalisti compiacenti tenevano alta la tensione nell’opinione pubblica, ribattendo colpo su colpo agli scettici; oppure giocavano d’anticipo nel rivelare presunti complotti orditi ai danni delle reliquie.
Bonanno e le Sante, inconsapevoli di quanto montava alle loro spalle, insistevano nel chiedere a don Saja quando sarebbe venuto l’Arcivescovo. “Dopo il miracolo, non ci sono più dubbi: le reliquie sono autentiche” era il ritornello. E di fronte allo strano comportamento del prete e alle sue risposte evasive, tiravano fuori le accuse più meschine. “È colpa sua. Chissà cosa ha detto al Vescovo! Lo sappiamo che ha litigato con Pirri poco prima che morisse!” A rafforzare i vecchi, s’era aggiunta la circostanza che dal giorno del ritrovamento delle reliquie a Villa Felice nessuno era più morto. “È un altro miracolo” mormoravano le Sante, spuntando ogni giorno il calendario. E se non lo proclamavano ad alta voce era solo per paura di essere smentite da Lo Surdo, in equilibrio sempre più precario tra i due mondi.
“Quello sarebbe capace di morire apposta! Tanto per fare un dispiacere a noi e alla Madonna!” mormorava avvelenata la Di Blasi. Bruno al contrario non aveva avuto scrupoli a far filtrare tra i pellegrini la notizia del secondo miracolo. E per dargli corpo l’aveva pompata con fantasiose statistiche secondo le quali, prima, al pensionato ne morivano due o tre la settimana. Anche di questo ne faceva le spese Visalli, subissato di richieste per entrare alla villa, quasi bastasse cambiare residenza per rendersi irreperibili alla morte. Per colmo della beffa a causa del secondo miracolo da tempo non si liberava un letto, e alcuni aspiranti ospiti, credendo li si escludesse a bella posta, si rivolgevano direttamente al proprietario promettendo magari di pagare il doppio. Questi a sua volta pressava Visalli. “Ricavi nuovi spazi, dobbiamo sfruttare l’occasione” era il ritornello telefonico.
Circolava pure una variante più sofisticata del secondo miracolo. D’incerta paternità ma sicura suggestione, partiva dall’assunto che l’ultimo pensionante ad andarsene, cioè Pirri, era stato uno dei colpevoli occultatori della Sacra Lettera; e in quanto tale aveva condiviso la punizione divina dei suoi predecessori, Russo e Scarcella, perendo di giusta morte violenta. Il fatto che il professore avesse chiuso gli occhi nel suo letto in genere veniva rifiutato dai sostenitori della dottrina, che a questo punto si concentravano sul destino di Bonanno. Dalla premessa occultamento uguale morte, seguiva – more geometrico – che il rivelatore al mondo delle reliquie, al contrario, non sarebbe più morto, e con lui, per estensione, gli altri che le custodivano. E poiché tutti avevano già una bella età, se non la si voleva tirare troppo per le lunghe, la conclusione lampante era l’imminenza del giudizio universale. A partire da queste congetture si era infittita tra i pellegrini la schiera minoritaria ma agguerrita degli apocalittici. Abili a sgranare rosari come a brandire catene e robuste croci, lesti a riconoscere ovunque i segni dei tempi ultimi, costoro mostravano particolare attaccamento alle figure – definite escatologiche – di Bonanno e di quelle che chiamavano apertamente le Sue Sante. Ne facevano oggetto di canti, di lodi, di manifesti, di striscioni, d’intarsi sulle cortecce degli alberi, di murales e ritratti sui marciapiedi secondo l’uso dei madonnari. Alla
bisogna non disdegnavano il tafferuglio con i poliziotti, servi del principe di questo mondo, secondo un’altra delle loro classiche definizioni.
Mentre questi rumori e furori si davano pubblicamente, anche nel silenzio delle segrete stanze qualcosa iniziava a muoversi. Sui giornali cominciò a circolare il progetto d’un santuario dedicato alle reliquie. Intuendo qualche macchinazione, Bruno aveva chiesto a Valenti cosa ne sapesse. “È un’idea che viene dall’alto” aveva risposto enigmatico il giornalista. E l’infermiere, che non era tipo da considerare i poteri superni, capì da chi si doveva guardare. Il santuario prendeva forma. Un noto architetto venne incaricato del progetto, si vociferava di certi terreni proprietà di questo o quel personaggio su cui sarebbe sorto, e si aggiungeva un polo alberghiero destinato ai pellegrini. Come d’uso, si preventivavano le spese di costruzione e si stimava il numero dei fedeli da accogliere, all’aumentare degli appetiti s’incrementava la spesa e per far quadrare i conti si raddoppiavano i futuri pellegrini, quindi con un più generoso preventivo ricominciava il giro. “… quanto ai tempi dell’opera, tre o quattro anni dovrebbero bastare. Naturalmente si partirà dopo aver espletato la formalità di accertare l’autenticità delle reliquie. Cosa di cui tutti siamo certi, ma che naturalmente andrà fatta secondo certe modalità legali, e in questo, come sul resto del progetto, naturalmente contiamo sull’indispensabile collaborazione dell’attuale detentore… oltre, naturalmente, che su quella dei fedeli. Naturalmente siamo tutti ansiosi di offrire alla Lettera della Madonna una degna cornice” dichiarò più volte il solito assessore, e tra tanti naturalmente le sue parole lasciavano parecchio da pensare. L’assessore aveva fatto le sue indagini e se diceva detentore aveva le sue ragioni. Le reliquie, pur trascurando i nebulosi aggi precedenti, da Pirri erano ate a Bonanno insieme ai suoi oggetti personali. Ma ad essere cavillosi, il professore gli aveva lasciato il bossolo senza accennare al suo contenuto e, questione ancor più delicata, non esisteva prova scritta, ma solo le testimonianze del personale del pensionato che alla luce dei fatti successivi valeva la pena verificare. Inoltre la stessa capacità d’intendere e volere di Pirri poteva essere messa in dubbio.
Insomma, s’intravedeva abbondante materia per avvocati e tribunali.
Queste sfumature non sfuggivano a un Bruno sempre più apprensivo. Né Valenti lo tranquillizzava. “I politici finora vi hanno fatto giocare, e pure vincere qualche soldo, ma adesso hanno cominciato a fare sul serio e per te e i tuoi la festa è finita. Se in questa storia delle reliquie c’è qualcosa di vero – cosa a cui nessuno di quelli che contano crede – allora saranno loro a sfruttarle, e al momento giusto coinvolgeranno pure la Chiesa. Se invece è una montatura, si devono parare il culo dalle risate – e dai calci – che pioveranno da tutto il mondo. Il santuario e tutto il resto servono per mettere le mani sulle reliquie senza che succeda la rivoluzione. Se risulteranno false si prenderanno il merito di avervi smascherati e nessuno potrà accusarli, in caso contrario gestiranno loro la cosa. In un modo o nell’altro voi siete tagliati fuori, ed è meglio che non facciate storie perché potrebbero venir fuori certe cose…”
Nei giorni successivi Gardelli venne incaricato dell’ordine pubblico nell’area del pensionato e gli bastò poco per capire come andassero le cose. L’indomani all’alba, squadre di vigili dell’assessorato annona e mercati si presentarono presso le rivendite sorte come funghi nel circondario mentre aprivano i battenti. Controllando autorizzazioni e merci, in poche ore elevarono decine di multe, sequestrarono derrate, apposero sigilli, rimossero mezzi, prelevarono in manette qualche ambulante più riottoso. Alle dieci del mattino, tra lo stupore dei tanti che si avvicinavano per comprare qualcosa, l’ultima bancarella venne smontata. Quella stessa mattina i medici dell’azienda sanitaria si presentarono alla villa per uno dei consueti controlli di routine. Di solito queste visite non costituivano un problema, ma forse nelle ultime settimane il pensionato aveva accolto qualche ospite di troppo rispetto ai parametri della normativa vigente.
A poco a poco ogni tassello di una strategia occulta e spregiudicata andava al suo
posto. Rimaneva da superare la testardaggine di Bonanno. Il sentirsi bersaglio di un complotto risvegliava in lui energie che sembravano sparite per sempre. Conscio che l’unica arma per difendere le reliquie erano le reliquie stesse, provò a contattare qualche esperto che potesse avvalorarne l’autenticità. Subendo però sistematici rifiuti, decise di alzare la posta. Se finora aveva rifiutato le interviste, adesso abbondava nel denunciare le congiure dei potenti ai danni delle Sacre Lettere e del popolo dei fedeli. “La città degli uomini non prevarrà su quella di Dio!” farneticava – la mano poggiata sulla teca delle reliquie – attingendo ai testi agostiniani di Pirri tra le urla d’approvazione degli apocalittici. I media che già lo avevano apprezzato nei panni d’Indiana Jones, colsero al volo un nuovo Savonarola.
XXXVII
Nonostante le sortite dei difensori, il macchinoso assedio procedeva verso il fatale epilogo. La capitolazione di Bonanno dipese però da qualcosa di più sottile. La trasformazione dei pellegrini non era ata inosservata neppure a lui e alle Sue Sante. Nei primi tempi avevano visto le colorate comitive come un piacevole diversivo alla loro vita piatta; ciò oltre a farli sentire importanti – centrali in qualcosa di diverso dalla loro personale agonia – li aveva rinnovati anche nell’aspetto. Più in profondità, tale accidentale compagnia era servita a distrarli da quei malanni fisici che a una certa età – reali o immaginari che siano – finiscono per intossicare l’esistenza in attesa di reciderla. Dopo il miracolo – s’è detto – la folla era cambiata e i vecchi presto lo avevano accusato. Suggestionabili in fatto di malattie, vedendone sfilare tante, finivano con l’inventarsene, oppure col percepire l’aggravarsi di quelle vere. Ed era come se quella torbida corrente d’umanità derelitta di cui costituivano la riva, lambendoli, inesorabile li usurasse. Davano quindi un bel da fare al dottor Carbone che prescriveva palliativi e consigliava qualche vacanza. E in realtà negli ultimi tempi sempre più posti dietro il tavolo si svuotavano. Lo stesso Bonanno, frustrato, stanco, tradito, deluso, ricadde nella malinconia. Sentiva nell’aria le parole di Pirri: “Non ha capito niente: l’importante non è l’obiettivo, ma la ricerca. La salvezza è stata già assegnata, noi possiamo solo fare finta di poterla meritare.” Adesso che l’obiettivo era stato raggiunto, quella profezia risuonava in tutti i suoi significati. Non dubitava del fatto che le reliquie fossero vere, lo sconvolgeva piuttosto l’effetto della loro presenza, ovvero l’arcana capacità di sollevare maree di disperazione. In poco tempo aveva visto migliaia di condannati sfilare davanti alle Lettere come su una specie di patibolo. Uno solo
era stato graziato. Solo lui era buono? Oppure aveva più fede degli altri? C’era da dubitarne. Aveva visto are tanti bambini malati senza che lo sconosciuto potere annidato nelle reliquie si muovesse a pietà. Quali i pesi sulle sue bilance? Era veramente la bontà il motore della sua azione? Fino ad allora aveva dato tante cose per scontate. Nel mezzo della vecchiaia Bonanno iniziava a porsi certe domande fondamentali. Troppo tardi per prendere dimestichezza con le loro minacce; egualmente, per forgiarsi una corazza di scetticismo o d’indifferenza. Si sentiva la caricatura di Pirri proprio in quegli aspetti che del professore aveva aborrito. In breve si svuotò delle energie vitali. Per settimane era rimasto diciotto ore al giorno davanti alle reliquie, da un giorno all’altro sembrò essersene dimenticato. Si chiuse in camera e a parte Rosetta per i pasti, e Carbone che fingeva di visitarlo, rifiutava chiunque.
La sua assenza non ò inosservata. Corse voce che la direzione del pensionato, d’accordo con le autorità, lo tenesse segregato nella sua stanza sotto sedativi. Una sera un gruppo di apocalittici assaltò con scale e corde il balcone della sua stanza per liberarlo. Respinti dai poliziotti, appiccarono fuoco ad alcune auto nel parcheggio tra cui quella di Visalli. “Lo sapevo che quel vecchio pazzo mi avrebbe portato dei guai, ma questo è veramente troppo!” gemette l’amministratore davanti alla carcassa carbonizzata.
Alla fine risolse tutto Carbone. “Sotto continua la processione… che pena! Ma siamo sicuri, cavaliere, che stiamo facendo veramente bene a qualcuno?” Dagl’imbarazzati silenzi dell’altro il dottore capiva di essere sulla strada giusta. Parlava in buona fede: avrebbe detto le stesse cose anche se non fosse stato compagno di partito dell’assessore, al quale garantiva centinaia di voti riscuotendo i presunti obblighi morali dei suoi assistiti. “Mi scusi se ho ritardato – esordiva il giorno dopo – anche stamattina tre
svenimenti. Una bambina l’hanno dovuta portare via in ambulanza, un altro ha preso a pugni la teca per la disperazione, il vetro s’è rotto di nuovo, sangue dappertutto…”
Così una mattina, Bonanno, spalleggiato dal dottore, si presentò ai giornalisti tirato a lucido con in mano un discorsetto scritto a quattro mani. Sulla parete alle loro spalle venivano proiettati gli schizzi della erigenda cattedrale su un sottofondo di musiche sacre; completavano la scena le Sante, implotonate quasi a forza per l’occasione. Bonanno ripercorse le vicissitudini che avevano portato alla scoperta delle reliquie, sottolineò il grande afflusso di folla, ebbe parole commosse per la devozione e l’entusiasmo dei fedeli, ringraziò con poca convinzione le autorità e la stampa, coinvolse a vario titolo la Madonna, Gesù e lo Spirito Santo… “…ma adesso serve un salto di qualità. Ho l’onore di comunicare che è stato costituito un comitato che coordinerà la verifica scientifica dell’autenticità delle reliquie. È una verità indiscutibile, ma secondo la logica degli uomini certi accertamenti sono purtroppo un o indispensabile per la fase successiva. E tutti voi sapete di cosa sto parlando: la costruzione di un santuario deputato alla custodia ed alla venerazione delle Sacre Lettere e dei Sacri Capelli…” A quel punto entrò in azione la claque disposta nelle prime file che si tirò dietro l’esplosione della folla in visibilio.
“La Lettera, il santuario… Gesù e Maria… La Lettera, i Capelli…” Il resto della conferenza stampa fu condotto da Carbone che diede qualche scarno dettaglio sulla prossima destinazione delle reliquie. “Un istituto tedesco specializzato le tratterrà per almeno sei mesi. Si utilizzeranno tecniche classiche come il carbonio 14 e pure quelle più recenti. Non si vuole lasciare nessun dubbio…” Non mancarono riferimenti ai progetti successivi.
“Il santuario, oltre ad avere un significato del tutto speciale nel campo della fede, sicuramente apporterà grandi benefici all’economia della città. Tanto per fare un esempio a noi vicino, San Giovanni Rotondo, ospita ogni anno milioni di pellegrini: anche la capacità ricettiva della città dovrà essere adeguatamente dimensionata, l’intero piano regolatore ne dovrà tener conto…”
Intanto i malati continuavano a sfilare. Tutto stava per finire: una percettibile urgenza attraversava la folla. L’attenzione era concentrata più che mai sulla teca; quasi nessuno ascoltava Carbone; gli applausi si facevano più radi; Bonanno era tornato nella sua stanza; qualche Santa dormiva sul suo trono.
XXXVIII
Presto vennero divulgate le modalità del trasferimento delle reliquie all’estero. Qualcuno fece notare che le stesse analisi si potevano fare presso i R.I.S. dei Carabinieri, con minore spesa e tempi più brevi, ma il programma non venne modificato. Per evitare sorprese, Gardelli e i suoi perquisirono gli accampamenti intorno alla villa arrestando i più facinorosi degli apocalittici contro i quali i capi di accusa non mancavano. Nei giorni rimanenti la folla si accalcò nel salone numerosissima. L’ultima sera i cancelli vennero chiusi in anticipo e nel giro di un paio d’ore il pensionato si svuotò.
Visalli introdusse quindi i tecnici nel salone. Calò un silenzio irreale, uomini con camici bianchi, guanti e mascherine si muovevano a rallentatore attorno alle reliquie. Le Lettere e i Capelli, vennero riposti in contenitori distinti a prova d’urto, di fuoco, di scoppio, di campi magnetici, di sbalzi termici, di agenti chimici e biologici; contenitori a loro volta sistemati in una cassa sigillata, delle dimensioni di una bara, anch’essa a prova d’ogni possibile disgrazia. Le operazioni vennero filmate, oltre che in un verbale controfirmato dai diversi responsabili. I vecchi provavano insieme il presentimento che le non avrebbero più viste. Volevano finalmente toccarle e qualcuno chiese pure di conservarne un frammento, ma fu loro negato. Solo per la decisione di Bonanno – minacciò di mandare tutto a monte – non li cacciarono.
I tecnici andarono via intorno a mezzanotte: sarebbero tornati per il prelievo
l’indomani alle sette. Poco dopo anche l’amministratore lasciò il pensionato. Bonanno e gli altri rimasero nella pensosa penombra di una strana veglia funebre. Poi, all’unisono, ognuno accostò la sua sedia alla cassa poggiata su un carrello al centro della stanza. Lì dentro c’era qualcosa di molto caro, ma anche se non lo avrebbero ammesso, si sentivano sollevati. Quel distacco somigliava alla perdita di un caro dopo una lunga malattia durante la quale per la fatica e la pena loro stessi avevano temuto il risucchio della morte. E il dolore si confondeva col sollievo che tutto era finito, e con la consolazione di ritrovarsi sulla solida riva dalla parte della vita. Le Sante iniziarono a snocciolare i rosari. Poi le orazioni si fecero sempre più flebili e indistinte. Dopo l’una cessarono del tutto. A turno si alzavano per andare in bagno. Qualcuno ne approfittò per ritirarsi. Trascorse dell’altro tempo. Adesso cinque o sei superstiti russavano con le teste ciondoloni.
A un orario imprecisato Bonanno venne svegliato: come quella notte in camera sua prima di essere colpito, avvertì qualcuno alle spalle. Volse istintivamente la testa e vide un teschio di ghiaccio spiccare nell’ombra. Paralizzato dal terrore sperò di sognare, ma quelle orbite vuote lo fissavano al di là di ogni dubbio. La figura fin lì evanescente che aveva chiamato il frate era in piedi a pochi i da lui; avvolta in un mantello nero, la testa coperta da un cappuccio sotto il quale brillava la lucida maschera della Morte. Provò a gridare, ma dalla gola secca non uscì che un rantolo. Il mantello del frate ondeggiò e il vecchio si trovò una pistola puntata alla testa. “Chiama qualcuno e ti saldo il conto.” Riconobbe la stessa voce roca. Pensò che era finita, ma in quel momento fatale, il freddo del metallo contro la tempia ebbe l’effetto paradossale di rincuorarlo. Non gli sfuggì che altre dovessero essere le armi della Morte: una pistola, per quanto spaventosa, appartiene alla sfera dell’umano escludendo ben più angoscianti aggressioni metafisiche. Anche le parole dissonavano da quelle solenni attese dalla Morte.
Lo sparo non arrivò.
Mentre gli altri continuavano a dormire, il frate spinse la cassa delle reliquie verso una delle portefinestre aperte sul giardino. Il carrello scivolava silenzioso. Prima di superare la vetrata, la maschera rivolse a Bonanno un ultimo saluto di minaccia.
Attraverso le tende semitrasparenti, il vecchio continuava a seguire il frate che girava intorno alla casa col suo carico. Avrebbe potuto dare l’allarme, ma rimaneva paralizzato.
“Mani in alto! – L’ordine di Gardelli risuonò perentorio. – Butta la pistola! Sei circondato!” Colto alla sprovvista, il frate sparò due volte in direzione della voce. Le reliquie, sue per qualche istante appena, erano di nuovo perse: abbandonò il carrello correndo verso il retro della villa. Mossa prevista: due poliziotti sbucarono da una siepe alla sua destra, intimando di fermarsi. Il frate sparò ancora, abbattendo l’agente più vicino, ma non ebbe il tempo di ripetersi che dall’altra mitraglietta partì una raffica letale. Fulminato in pieno petto, era già morto quando l’impatto dei colpi ravvicinati lo scaraventò contro una vetrata. Sfondatala, finì riverso nel salone quasi ai piedi di Bonanno.
I vecchi avevano spalancato gli occhi senza comprendere. Da fuori giungevano rumori di sirene e grida concitate. I poliziotti si erano precipitati a soccorrere il collega ferito: un colpo al fianco, ma grazie al giubbotto antiproiettile se la sarebbe cavata. Gardelli entrò dalla vetrata infranta. Fece un cenno a Bonanno e si avvicinò al
cadavere scomposto. L’orrido ghigno rivolto verso un punto indistinto del soffitto adesso sembrava innocuo: il riso di un buffone in un carnevale fuori tempo. Cercò con le dita nel collo per rintracciare un improbabile battito. “La Morte è morta” commentò senza spirito. “Gli tolga la maschera, vediamo chi è.” “Non lo immagina?” Gardelli sfilò con delicatezza la maschera. “È Bruno, l’infermiere... io lo conoscevo bene” constatò il vecchio con un rantolo stupito. “Lei non lo conosceva affatto. Caro cavaliere, il suo giallo finisce nel modo più banale. Tenevo d’occhio questo gentiluomo da un pezzo. Stavano venendo fuori varie cose: associazione a delinquere, truffa, estorsione, minacce, frode in commercio. Immaginavo che non si sarebbe fatto portare via il suo tesoro senza tentare qualcosa, ma non credevo che sarebbe finita così. Il diavolo ci ha messo lo zampino.” “Strano. Secondo qualcuno il diavolo era proprio lui.” “Che vuol dire? Chi era questo qualcuno?” “Niente, niente. Storie vecchie. Vaneggiamenti di vecchi, senza importanza” e gli sembrò che la voce non fosse la sua, ma proprio quella di Pirri.
L’alba fu testimone di due scene. All’ingresso principale di Villa Felice gli specialisti adagiarono con mille precauzioni la cassa con le reliquie su un furgone speciale. Le attendeva un complicato trasferimento sotto scorta. Nello stesso momento, sul retro, il cadavere di Bruno usciva dalla porta di
servizio per un trasferimento non meno lontano e incerto. Mentre lo caricavano la sua maschera scivolò per terra. L’autista la raccolse con indifferenza e la gettò dentro il furgone. Il vuoto ghigno della Morte – Bendicò? Yorick? – balenò ancora una volta nell’aria prima di afflosciarsi nella polvere livida.
XXXIX
La notte di sangue a Villa Felice ebbe vasta eco sulla stampa. Presto, in parallelo all’emergere dei retroscena, cominciarono a trapelare le prime indiscrezioni sulle analisi delle reliquie. La prima lettera che si presumeva vergata da Maria di Nazareth, risultava una sequenza di caratteri priva di senso: i segni erano più o meno quelli dell’alfabeto ebraico, ma sembravano messi a caso a comporre parole inesistenti. La seconda, quella in lingua greca attribuibile a San Paolo, almeno nel testo andava bene: la traduzione corrispondeva con quella tramandata. Si vociferava pure la stranezza degl’inchiostri che sembravano uguali per ambedue le lettere – circostanza già strana – e per nulla corrispondenti, quanto a composizione, con l’inchiostro ferro-gallico misto a nerofumo, impiegato nei primi secoli della nostra era. Per un responso finale, rimanevano da esaminare i papiri e naturalmente le fibre dei capelli.
Sul lato criminale delle indagini, Gardelli rintracciò il famoso miracolato, appurando che in gioventù era stato costretto alla sedia a rotelle da un incidente, ma ben presto grazie alle terapie aveva ripreso a camminare, sia pure zoppicando sulla gamba rimasta più corta; il braccio sinistro era sempre stato sano. Quindi il presunto miracolo non sembrava averne migliorato la salute, posto che la Volontà Celeste, pur potendo allungargli la gamba, aveva preferito non farlo. Quanto a salvargli l’anima, secondo molti teologi, sarebbe in ogni caso servita la sua collaborazione, e quindi anche in Cielo avevano le mani legate. L’uomo risultò pure lontano parente di Bruno. Quanto a quest’ultimo, i libri e le altre carte sottratte a Bonanno vennero trovati in casa sua. Quindi anche il mistero del frate era chiarito; almeno per la parte di
quel frate che chiudeva botole e pestava vecchietti, distinguendosi dall’altro che nel ato più remoto aveva violato archivi e forse assassinato sensali e avvocati. A Villa Felice la situazione andava normalizzandosi. Uno dei primi segni venne da Lo Surdo. “Dio lo ha finalmente punito” commentò la vedova Marotta alla notizia del suo trasferimento. Per allontanare qualche residuo curioso il cancello veniva tenuto chiuso. Gli operai avevano rimosso cumuli di rifiuti dalla proprietà circostante e il giardiniere si lamentava perché ci sarebbero voluti anni prima che siepi, aiuole e prato devastati potessero riprendere l’aspetto originario. Sparite le telecamere, le gigantografie e gli schermi, risistemati i tavoli, il salone era tornato al suo vecchio aspetto. Si vedeva pure qualche faccia diversa tra il personale: oltre Bruno, assente giustificato, era andata via anche Rosetta, sostituita in cucina da un tipo smilzo e taciturno. Quanto agli ospiti, per contrapo rispetto alle esagerate emozioni degli ultimi mesi, erano sprofondati in un pesante sopore. Molti preferivano rimanere nelle stanze; per intere giornate la televisione rimaneva accesa senza spettatori; la copia della gazzetta giaceva intonsa sul tavolo. Le ultime notizie quindi arono inosservate, o almeno mancarono commenti che indicassero qualche attenzione.
Bonanno fece pulizia di ciò che rimaneva di Pirri. Il bossolo e pure diversi libri che avrebbero potuto avere qualche valore, dentro il solito sacco di tela finirono in balcone. Il registratore pensava di tenerlo ma delle cassette di musica lirica non sapeva che farsene. Stava maneggiando proprio le cassette, quando su una di esse notò una scritta: Post mortem. Per il cavaliere Bonanno. La inserì nel registratore premendo AVVIO. “Caro Cavaliere, se pensava di non sentire più la mia voce, le do una delusione. Una delusione in ogni caso meno grave delle reliquie, di cui suppongo che a
questo punto avrà scoperto la falsità. “Si metta comodo: le sto per raccontare una storia lunga. Lunga come tutte le storie dei vecchi. Anzi, se è una bella giornata, le consiglio di trasferirsi nel gazebo. Ricorderà che il 31 dicembre scorso eravamo proprio lì quando iniziai a raccontarle i miei trascorsi con la famiglia Papa…” Era una specie di consiglio ultraterreno. Bonanno, per quanto ansioso di conoscere quello che il vecchio matto aveva ancora da dirgli, decise di seguirlo. Bloccò il registratore, se lo mise sottobraccio e uscì dalla stanza diretto in giardino. Per le scale incontrò Caruso. “È proprio vero: chi non muore si rivede!” lo apostrofò Bonanno. “Buon giorno, cavaliere.” “È un bel po’ che non ci vediamo.” “La vedo bene.” “Perché è scomparso?” “Qui non servivo, c’era già tanta compagnia… e poi ho sentito dire che a Villa Felice avevate deciso di non morire!” “Adesso abbiamo cambiato idea.” “Contenti voi… per me è meglio: rischiavo la disoccupazione!” “Dov’è stato?” “Soliti posti, soliti affari.” “È venuto per Lo Surdo?” “Anche.” “Quel giorno, al commissariato, mi ha detto di voler vedere come andava a finire. Adesso sarà soddisfatto.”
“Finché non avrò saldato il suo zinco, non potrà dire che è finita.” “Se è per questo, con Pirri anche dopo la sua saldatura non è ancora finita: ha lasciato una registrazione. L’ho appena trovata tra le sue cose. Venga con me a sentirla.”
Nel gazebo, il vecchio sedette al solito posto mentre Caruso rimase appoggiato alla balaustra con le sue cinquecento lire volanti. Davanti a loro si apriva una giornata limpida e incantata. Affacciandosi da quel poggio l’occhio era attratto oltre gli uliveti, oltre la spiaggia, oltre lo specchio piatto del mare, oltre la costa del continente, oltre i primi rilievi fitti di case su per il massiccio muro grigio dell’Aspromonte. E ancora oltre s’impennava lungo la parabola del cielo azzurrissimo fino a ricadere indietro inebriato ed esausto. Bonanno riavviò il registratore. “Cavaliere, se adesso è nel gazebo, vuol dire che è una bella giornata, e nelle belle giornate, magari quando c’è un po’ più di caldo, sul nostro stretto avviene quello strano fenomeno chiamato Fata Morgana. Ne avrà sentito parlare. “Cari ragazzi, Morgana era la sorellastra di Re Artù, maga e incantatrice, discepola e nemica di Merlino, bellissima e fatale. Grazie alla stregoneria s’infilò nel letto di Artù per concepire l’incestuoso Mordred, rovina di Camelot e della Tavola Rotonda. Ma queste storie non ci riguardano, immerse come sono nelle brume del sesto secolo e della Britannia. C’interessa, invece, che Morgana dopo queste imprese volle concedersi climi più temperati. Magari soffriva di reumatismi e il sole le giovava alla salute. Comunque sia, salpò su un vascello d’argento, volse la prua a sud, doppiò l’Armorica, costeggiò l’Aquitania e la Lusitania, varcò le colonne d’Ercole e alla fine si stabilì nel fretum Siciliae. Proprio qui da noi, sullo stretto di Messina, dove, da par suo, abitava un palazzo di cristallo sul fondale. “Secondo le antiche cronache, qualche secolo dopo – siamo intorno al 1058 – la incontrò Ruggero d’Altavilla. Il conte, messosi in testa di levare la Sicilia ai Saraceni, era in ambasce per l’esiguità delle sue truppe. Mentre rimuginava sulla costa calabra, vide il mare ribollire ed emergere da un gorgo una bellissima fata su un cocchio tirato da sette cavalli bianchi e azzurri. Morgana stava uscendo di casa. Lei bretone, lui normanno, in una favola guerriero e fata si sarebbero
innamorati, invece in questa, che favola non è, i due la buttarono in politica. Ruggero svelò i suoi piani di guerra e lei offrì di aiutarlo. Forse dopo tanto tempo tra pesci e sirene – creature meravigliose ma notoriamente insipide – aveva nostalgia degli uomini. Del peggio degli uomini: di quel sapore bestiale di escrementi, carne e sangue che si può gustare solo su un buon campo di battaglia. Oppure c’era qualcosa che sfuggiva ai suoi poteri e sperava ancora di ritrovare in qualche giovane guerriero il suo bel Mordred, perduto secoli prima nella remota piana di Camlann a quattro i dal vallo di Adriano. “Per convincere Ruggero, oppure solo per alzare il prezzo, Morgana diede dimostrazione dei suoi poteri: roteò nell’aria la bacchetta magica, lanciò in mare tre sassolini bianchi, e dalle acque di cristallo sorse una città con tanto di palazzi, strade, piazze, ville, fontane e portici. L’agognata Sicilia adesso sembrava a portata di mano, e siccome Morgana conosceva i segreti crucci dello squattrinato socio, schierò pure un esercito pronto a mettersi ai suoi ordini. “Ignoriamo perché i due, che sembravano fatti per intendersi, non s’accordarono. Probabilmente lui paventò d’imbarcare nell’impresa un’alleata troppo ingombrante; forse sapeva per altre vie del povero Artù. Oppure intuì – e temette – la dote di secoli – e di morte – che lei avrebbe portato al loro connubio. Comunque alla fine non se ne fece niente e Morgana ritornò da gran signora al suo castello. Probabilmente si consolò pensando che in futuro non sarebbero mancati altri buoni macellai con cui accordarsi. “Ruggero alla fine raccolse quattro gatti e quattro barconi che stavano appena a galla, insieme alla benedizione del Papa. E così tra scaramucce, assedi, agguati, tradimenti, pestilenze e cronica penuria di denari impiegò trent’anni a concludere l’impresa. Non sappiamo se, andando la cosa per le lunghe, si pentisse di avere respinto Morgana. Più tardi i preti avrebbero inventato la storiella edificante secondo la quale il conte aveva rifiutato per amore di fede la fata pagana. Morgana disse: «Rimani qui con me. Tu sarai il re di Sicilia», e quello rimandò sprezzante: «Non voglio per amore terre fatate. Non voglio con l’inganno liberare la Sicilia dal paganesimo. Essa me la darà Cristo Nostro Signore e non una fata». La fata agitò ancora la bacchetta magica nell’aria: castelli, palazzi, strade, chiese, torri e ville svanirono e la Sicilia tornò lontana. “Secondo me invece, fu proprio Ruggero a chiamare Morgana. A dispetto delle cattedrali che avrebbe fatto erigere, il nostro conte nel profondo era ancora pagano. A mille anni dalla Croce, nel momento capitale, volle quindi evocare
proprio una divinità dei suoi avi che suscitasse i castelli in aria e le armate fantasma che la sua smania di potere agognava. “Ruggero alla fine si ricongiunse ai suoi avi, ma Morgana rimase. avano i secoli e lei tornava. Stavolta la testimonianza è ancora più attendibile per essere di parte avversa. Nel 1643, padre Ignazio Angelucci, gesuita, racconta di aver visto dalla sua finestra il mare gonfiarsi e poi diventare come una piazza di cristallo su cui si riflettevano immagini di città bellissime. Non sappiamo quali fossero stavolta i desideri che padre Ignazio riversò nella sua visione. La data dell’apparizione – il quindici agosto, giorno dell'Assunta – ci suggerisce che anche lui cercasse in una donna celeste, stavolta la Madonna, la soluzione dei suoi problemi. “Per farla breve, arriviamo ai tempi moderni: il fenomeno continua ancora, sebbene adesso sia vietato parlare di fate e Madonne. Ai misteri della religione si sono sostituiti quelli dell’ottica e della meteorologia: escursioni termiche, rifrazioni, riflessioni e miraggi. Spiegazioni che magari vanno d’accordo con l’aritmetica e la geometria ma che rimangono sostanzialmente inutili. Si sbeffeggiano gli antichi, si taccia di superstizione, si crede di saperne di più, e invece senza Morgana si è persa una chiave che magari non rivelava i segreti dell’atmosfera, ma apriva qualche porta nelle nostre anime. “Adesso, ragazzi, vi chiederete cosa c’entra una fata con il cavaliere Bonanno. C’entra, c’entra… anche lui, come il Conte Ruggero e Padre Angelucci ha visto qualcosa che non c’era; e anche lui l’ha vista perché l’ha voluta vedere. “Sì, cavaliere, la lettera di Ruggeri all’avvocato Russo, come ho cercato in tanti modi di spiegarle, è un falso. Falso è una parola grave, evocatrice dei rigori del codice penale, preferirei usare il temine beffa, che oltretutto rende meglio le circostanze. Comunque la lettera è falsa. Falsa come i papiri e i capelli che avrà trovato nel bossolo. Do per scontato che sia accaduto, in caso contrario non avrà che da rallegrarsene, infatti la scoperta, stante la sua congenita mancanza di precauzione, procurerà un bel trambusto a Villa Felice e non pochi grattacapi a lei personalmente. “E ora andiamo ai fatti. Nella primavera del ’26, appena laureato, incontrai per strada don Peppino Papa. Ci conoscevamo di vista, ma non avevamo avuto molti contatti.
– Nino, ho bisogno di parlarti con calma, è cosa delicata… – Sono a vostra disposizione, don Peppino. Se permettete vi accompagno alla vostra bottega. Mi spiegherete per strada. “L’uomo non mi stava simpatico. Cari ragazzi, la mia apparente disponibilità dipendeva solo da quella deferenza verso le persone di una certa età che adesso a voi neppure a per la testa, ma che all’epoca era normale. “In breve, mi disse di aver architettato uno scherzo e che io gli servivo per metterlo a punto. Non rivelò il nome della vittima, né io pensai di chiederglielo, concentrato com’ero ad inventare qualche scusa per sottrarmi a una complicità sgradita. “Ma Don Peppino, buon conoscitore di uomini, puntò sul mio orgoglio di studioso. Mi chiese se sapevo della leggenda della Lettera. Io annuii. – …quello che dovresti prepararmi è una copia della lettera della Madonna, la carta, anzi il papiro te lo procurerò io facendolo venire da Siracusa. Tu sei l’unico che conosco capace di scrivere una cosa del genere. Secondo la leggenda le lettere sono due: una in greco e l’altra nella lingua del Signore. – Sì, in ebraico. – Oltre al greco, conosci pure l’ebraico? – Certamente – mentii. – Lo sapevo che eri un professore – concluse Don Peppino soddisfatto. “E in quel professore colsi un barlume di orgoglio paterno; un orgoglio per la mia cultura e i miei studi che mio padre mai aveva dimostrato. “Che fingesse o fosse sincero, Don Peppino fu abilissimo nel convincermi. Né fece il o falso di propormi un compenso. “Mi misi all’opera. La versione greca non presentava problemi; per maggiore accuratezza tradussi dal testo latino, più vicino all’originale. Riguardo all’ebraico, per quanto mi fossi procurato un manuale, sapevo d’improvvisare un testo privo di significato. Con più tempo a disposizione mi sarei rivolto a
qualche esperto, ma avrei dovuto dare delle spiegazioni; inoltre don Peppino mi pressava e l’orgoglio m’impediva di palesare le mie difficoltà. “In poco tempo consegnai il lavoro. Don Peppino fu entusiasta. Conoscevo la cerchia delle sue amicizie: il mio ebraico sarebbe bastato per lui come per la misteriosa vittima dello scherzo. Don Peppino si era procurato un libro ottocentesco di argomento appropriato – il famoso viaggio degli ambasciatori – nella cui copertina contava di mettere le presunte reliquie; non sapeva però come farle scoprire in circostanze convincenti. Io gli suggerii di preparare un altro documento con l’indicazione del nascondiglio. Accolse l’idea con entusiasmo. – Tutti buoni e benedetti i libri che hai studiato! – esclamò prendendomi la testa tra le mani e baciandomi la fronte. “Decidemmo quindi di nascondere la lettera cosiddetta di Ruggeri nel libro e le false reliquie in un luogo da stabilirsi. “Ormai ci avevo preso gusto: mi occupai anche della redazione di questa terza lettera. In verità, l’idea di sfruttare la figura dell’avvocato Russo venne da don Peppino. Il personaggio andava benissimo: massone, morto annegato nella fontana, dopo trent’anni nel quartiere la sua memoria non si era spenta. Lo inventai destinatario della lettera proveniente dalla Spagna. Il cognome del suo interlocutore, Ruggeri, lo ricavai dalla lista dei caduti di una strage borbonica, collegandolo a un ipotetico cugino. Per quanto riguarda i documenti dell’Escorial, il protopapa Gerolamo Patè, la compagnia dei Verdi, la statua di don Giovanni d’Austria, attinsi alle cronache di storia patria, congegnando un intreccio che si accordasse con i fatti storici. La figura del frate la presi dalla scena della morte dell’avvocato Russo; farlo Nestoriano costituiva un tocco di esotismo, e al tempo stesso rappresentava una finezza di occulta erudizione, per le sue implicazioni teologiche riguardo alla Madonna come Madre di Dio. “Rimaneva da stabilire dove nascondere le reliquie. Ricorrevano in quel periodo dei lavori di restauro alla chiesa dei Catalani, ancora danneggiata dal terremoto di vent’anni prima. In una città semidistrutta, il luogo spiccava per la sua antichità e le sue suggestioni. Don Peppino per di più conosceva il capomastro avendo quindi facile accesso al cantiere. “Decidemmo quindi in tal senso. Più tardi scoprii per caso di un altro restauro tardo-ottocentesco, che rendeva ancor più verosimile l’occultamento delle
reliquie da parte dell’avvocato Russo. Come vedremo non fu l’unica coincidenza calzante al caso nostro. Cari ragazzi, anche quando crediamo d’inventare una trama originale, leggiamo soltanto un paragrafo di una storia già scritta: qualcuno ha già predisposto antefatti e seguiti che noi ignoreremo per sempre. Altre volte scopriamo, in luoghi insospettati, qualche rigo estraneo che combacia perfettamente con la nostra storia, e il fatto ci confonde. E a pensarci bene, umilia il nostro orgoglio di presunti autori. “Fu don Peppino a compilare la nota spese degli operai. Venendo fuori al momento giusto avrebbe indirizzato la vittima dello scherzo verso la cripta. In quegli anni col cantiere aperto, la sola parola cripta suggeriva facilmente la Chiesa dei Catalani. “E questa è la prima parte della storia. Come ho detto, allora ignoravo l’identità del destinatario dei nostri sforzi. Chi fosse costui lo scoprii solo più tardi. “Don Lillo Scarcella amava la biblioteca acquistata insieme alla casa di Russo, più come attributo del suo presunto blasone che per vera ione, quindi, invece di godersela in silenziosa solitudine, la ostentava. Non c’era amico, conoscente, oppure cliente capitato a casa sua per affari, a cui non la mostrasse, soffermandosi su quei volumi che per la dimensione, l’aspetto vetusto o la lingua sconosciuta giudicava di maggior pregio. Il che non era sempre vero. “Don Peppino lo aveva notato, sfruttandolo per la sua complicata beffa. Riuscì quindi a introdurgli in casa il volume con la lettera di Ruggeri che il sensale prese per suo. Poi rimanendo nell’ombra, un po’ come io ho fatto con lei, caro Cavaliere – e forse dovrei porgerle le mie scuse postume – lo seguì lungo i successivi gradi della scoperta. In qualche modo Scarcella recuperò le presunte reliquie prima del 1932, anno in cui furono completati i restauri ed edificato il muro di cemento armato. “Una vita di malizie però aveva fatto prudente il nostro sensale. Tacque la scoperta e intraprese degli accertamenti. I contatti non gli mancavano: forse mandò in oriente una copia ricalcata delle lettere e qualche frammento di papiro. Se il greco poteva andare, il mio ebraico nei posti giusti non avrebbe ingannato un bambino. Scarcella quindi accertò ben presto che si trattava di uno scherzo. “Anche se non aveva la sicurezza delle prove, di certo il suo pensiero andò a don Peppino. Per il momento non fece nulla, si limitò a segnare un’altra cifra a
credito nei loro frequenti rapporti di dare-avere. “Ma Scarcella oltre che accorto era pure persona di spirito: quel meccanismo complicato in qualche modo dovette piacergli. Senza avere un destinatario ben preciso a cui girarlo, pensò non solo di tenerlo innescato ma addirittura vi aggiunse di nuovi pezzi. Recuperò un ritaglio di giornale che riportava la morte dell’avvocato Russo; redasse la lettera proveniente da Beiruth, con cui confermava l’autenticità delle reliquie insieme alla leggenda dei nestoriani da me costruita; aggiunse pure i tre capelli, che per colore e lunghezza erano certamente di sua moglie. E qui, pensando al vecchio mestiere d’Immacolata, fu un po’ Caravaggio che scelse una puttana annegata, modella della sua Dormizione. “Seminò pure altre tracce. Una era l’anello del mio fidanzamento; ricorderà, cavaliere, la sua dedica alla donna che è un pozzo di virtù, dal sapore vagamente biblico. Probabilmente sospettava un mio coinvolgimento: quello era un messaggio sottile destinato proprio al sottoscritto. Donna ricordava in qualche modo Madonna: anticamente i due termini erano sostituibili. La dedica se riferita agli attributi della Madonna poteva andar bene sia per Grazia che per Concetta: la Madonna delle Grazie o l’Immacolata Concezione. Nel rosario si dice vaso delle virtù; qui al posto di vaso c’è pozzo, e pozzo era la parola chiave su cui Scarcella voleva attirare l’attenzione. “L’altra traccia era la lapide col pozzo e il proiettile, mimetizzati in uno scenario beduino apparentemente riferito alla sua gioventù. “Scarcella aveva arrotolato i papiri dentro un bossolo di proiettile di cannone che contava di murare nelle pareti del pozzo di casa sua. Probabilmente vi cadde dentro mentre predisponeva quest’operazione. Come seguendo una sceneggiatura attenta a ricorsi e simmetrie, finì più o meno come l’avvocato Russo. Si può dire che quella morte – casuale per quanto ne sappiamo – fu il suo più geniale apporto alla montatura. “Quest’ultima parte della storia la scoprii al ritorno dalla Spagna quando mi vennero recapitati gli scatoloni con le cose di Scarcella: documenti, libri e altro, tra cui il famoso bossolo che non aveva avuto il tempo di nascondere. Destinarli a me dopo la sua morte era una restituzione e pure un modo elegante per farmi sapere che aveva capito tutto. Da vero sportivo – da quell’inglese che aveva sempre desiderato essere – stava al gioco e rilanciava.
“All’inizio, in base al messaggio dell’anello, pensai che i papiri fossero in fondo al pozzo; per me irraggiungibili. Più tardi seppi per caso la lapide di Scarcella al camposanto e non mi sfuggì la coincidenza del proiettile di cannone con il bossolo che ormai stava su una mensola della mia libreria. Verificai l’esistenza di una doppia parete, ma non l’aprii: nonostante i tentativi postumi di don Lillo di coinvolgermi ancora, pensavo che la mia parte in quella storia fosse esaurita. “Tutti gli elementi di quel congegno dai tanti artefici erano in mano mia. Decisi di conservarli. Non li distrussi, né li propagandai: per cinquant’anni rimasero a casa mia e, quando mi trasferii a Villa Felice, uno strano istinto m’impose di portarmeli dietro. Lo stesso che mi spingeva a raccontare del mio fidanzamento con le sorelle Papa e a soffermarmi su don Peppino e su Scarcella: raccontavo una storia ma ne prefiguravo un’altra. “I fatti successivi, caro cavaliere, li conosce. Il furto insignificante della Madonnina, la sua goffa indagine, la curiosità verso quel vecchio libro che da mezzo secolo stava in agguato. Così la trappola è scattata per la seconda volta. Il primo e unico scherzo della mia vita – o forse il secondo – si realizza dopo la mia morte, e io ne lascio in moto la meccanica senza conoscere il punto in cui si arresterà. “Cari ragazzi…” Bonanno, furente, bloccò il registratore. “Cose da pazzi. Ha sentito che bel tiro? E sfotte pure: forse dovrei porgerle le mie scuse postume – imitò senza troppo successo la voce flebile di Pirri – lo avessi sotto mano!” “Non c’è che dire: una bella storia. Don Peppino e Scarcella si saranno fatti delle matte risate dal fondo dell’inferno. E Pirri con loro. Forse laggiù avrà imparato a ridere. In caso contrario, la punizione più crudele per lui sarà proprio quella di rimanere per sempre con quei due.” “Ormai non ci sono più dubbi: la storia delle reliquie e di quello stupido del cavaliere Bonanno è finita. E lei, Caruso, può dire di averla vista tutta.” “Finiamo di ascoltare…” Bonanno riavviò di malavoglia.
“… cari ragazzi, in questo gioco, ammesso che qualcuno si sia divertito, molti hanno pianto. Vi chiederete se mi pento di aver partecipato e come mi aspetto che la mia parte verrà giudicata nel luogo in cui mi appresto a trasferirmi. Vi dirò che non mi pento, che non sono contento e che non mi preoccupo. Il giudizio c’è già stato e sulla destinazione finale non m’illudo. “Quanto a questa terra che lascio, una stanza squallida con un cesso che nei giorni di scirocco fa più puzza del solito, una mensa col tavolo sempre unto, qualche faccia che ho già dimenticato… non mi mancheranno. Cari ragazzi, dopo le malie della fata Morgana, vi lascio con le parole del duca Prospero, altro maestro d’illusioni. “I nostri svaghi sono finiti. Questi nostri attori, come già vi ho detto erano tutti degli spiriti, e si sono dissolti in aria, in aria sottile. Così, come il non fondato edifizio di questa visione, si dissolveranno le torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosi palazzi, i solenni templi, lo stesso immenso globo e tutto ciò che esso contiene, e al pari di questo incorporeo spettacolo svanito, non lasceranno dietro di sé la più piccola traccia.”
E se anche avessi il dono di profezia, intendessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede da trasportare i monti, ma non ho amore, non sono nulla. E se spendessi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri e dessi il mio corpo per essere arso, ma non ho amore, tutto questo niente mi giova. Ora infatti vediamo in maniera enigmatica, come per mezzo di uno specchio, ma allora vedremo a faccia a faccia. I Corinzi 13
XL
La Madonna della Lettera, per dodici mesi discreta Patrona di Messina in cima alla stele che domina il porto, il tre giugno ama scendere per le strade tra i suoi figli, che in quel giorno accorrono al suo fianco rimediando l’abituale disattenzione.
Anche quell’anno erano spuntate con largo anticipo sul percorso della processione le bancarelle con la calia, il torrone, i ceci, le mosche e lo zucchero filato. Erano invece dell’ultimo momento le squadre d’operai che riparavano i marciapiedi, rattoppavano l’asfalto, ripristinavano la pubblica illuminazione, rimuovevano qualche carcassa d’auto abbandonata. Ordinaria, approssimativa e ritardatissima manutenzione che effettuata solo per l’occasione si trasformava anch’essa in grazia – profana, ma non per questo meno attesa – della Patrona.
La mattina della festa, sotto il baldacchino dell’altare maggiore del Duomo, l’icona con Maria e il Bambino indossava la manta d’oro al posto del giornaliero abito d’argento. Poco avanti, la baretta con la Vergine aspettava al posto d’onore sotto l’arco trionfale. L’uomo che vi armeggiava sopra per gli ultimi accomodamenti innestò il cilindro di bronzo con i due Sacri Capelli nella colonnina alle spalle della statua. Un altro gli porse dal basso l’antica pigna di cristallo di rocca, e lui la prese cauto con due mani, fissandola in cima alla stessa colonnina. Un po’ corona di maestà, un po’ calotta protettiva delle reliquie. Nonostante gli aspri richiami del parroco – una tonaca nervosa, che per star dietro a tutti saltava da un punto all’altro della chiesa – tra inservienti, turisti e curiosi, in quelle ore il Duomo era un luogo poco propizio alla preghiera. In alto, molto in alto, sul catino dell’abside centrale, un gigantesco Cristo Pantocrate,
assiso sul problematico trono dell’Universo, sorvegliava tutto con un cipiglio che Pirri avrebbe senz’altro approvato.
I festeggiamenti della patrona, per secoli occasione di vaste folle, registravano un continuo calo di presenze, secondo l’ormai comune disinteresse per la religione tradizionale che un po’ ovunque a per modernità. Quell’anno invece si notava un rinnovato interesse facile da collegare ai recenti fatti di Villa Felice. Molti messinesi avevano percepito la spedizione delle Lettere e dei Capelli all’estero come l’ennesimo stupro alla città. Violenza non riparata, anzi ripetuta, dalle notizie della loro falsità scientifica. Dando per scontata la perfidia dei politici, e allargando maneggi, corruzione e complotto a giornalisti e scienziati, moltissimi continuavano a credere alle reliquie di Bonanno. E ormai per partito preso ci credevano sempre di più man mano che dall’altra parte si sventolavano prove contrarie. Scettici al quadrato, ovvero scettici dello scetticismo altrui, che – contro le semplificazioni della logica – è molto più profondo dell’essere creduli. L’eccezionale folla di quel tre giugno dipendeva quindi più dalla collera che dalla devozione, e in molti senza confessarselo aspettavano un segno: una lacrima della statua della Madonna, qualche strana acrobazia aerea di una colomba, il roteare del sole… Ma se, per assurdo, avessero potuto scegliere il miracolo, allora un fulmine si sarebbe abbattuto sul gruppo delle autorità in un limpido pomeriggio di sole siciliano, oppure una colonna colossale sarebbe rovinata sui primi banchi riservati della chiesa, risparmiando tutti gli altri. Miracoli a rovescio, fantasie perverse, atroci parodie del misterioso codice penale di Dio. Per quelli che durante le file a Villa Felice avevano preso gusto a raccontarsi guai misti ad Ave Marie, la processione era un puro ritrovarsi; si riconoscevano da lontano, il tempo di abbracciarsi ed ecco gli ultimi aggiornamenti sulle reciproche disgrazie. Nel gran numero non mancavano gli scettici, in cerca di conferme della propria superiorità intellettuale sull’ignoranza e la superstizione altrui; e infine gli esibizionisti e i curiosi, per i quali il vero miracolo sarebbe stato essere ripresi e poi vedersi in televisione.
I pensieri scomposti della folla generavano un’insolita tensione. Labari in testa, le confraternite – colorate, mantellate, medagliate e incappucciate – cominciarono a sfilare attraverso il portale maggiore del Duomo alle sei del pomeriggio; seguivano i volontari con i malati, suore e religiosi dei vari ordini e congregazioni, i monsignori, l’Arcivescovo e infine la Madonna con la pigna. E tutti sbucando al sole dalla penombra della navata, si stupivano della gran folla che riempiva la piazza come neppure un famoso cantante la settimana prima era riuscito a fare. Senza un motivo ben preciso, per la prima volta da moltissimi anni, c’era anche Bonanno. L’inseparabile Caruso lo aveva reso irriconoscibile con occhiali da sole e cappellone. Si procedeva lenti con frequenti soste. Alcuni seguivano la Madonna scalzi nel marrone di un saio scano; molti pregavano in coro accompagnando gli altoparlanti, qualcuno sgranava il rosario in un silenzio proprio.
I due camminavano ai margini della folla. “Ha parlato con qualcuno della registrazione di Pirri?” chiese il becchino. “No.” “Nemmeno io.” “Prima pensavo che Pirri fosse tutto il contrario di quello che voleva sembrare. Ma forse odiava veramente l’umanità e se stesso.” “Un altro enigma, il nostro professore…” “E lei si aspettava di Bruno?” “Da un pezzo non mi aspetto più niente da nessuno.” “L’ho visto morire in quel modo... e per che cosa?”
“Comunque non gli è andata troppo male. Nel Trecento a un tale che aveva rubato la cintura della Madonna dal duomo di Prato, prima, quasi per scherzo, hanno tagliato la mano e poi l’hanno bruciato vivo. Oggetti pericolosi le reliquie... forse ancora di più quando sono vere.”
Procedevano persi in pensieri spiacevoli, quando all’altezza della fontana Gennaro, notarono poco avanti Rosetta con la piccola Miriam, ambedue scalze. In pochi i le affiancarono. “Ciao Rosetta.” “Ciao Angelo… c’è anche lei, cavaliere…” La donna sembrava imbarazzata. Gli occhi umidi di una preghiera importante e intensa, distolse lo sguardo stringendo la bambina. “Ciao Miriam” salutò Caruso, chinandosi per darle un buffetto. “Ciao” replicò la bambina fissandolo. L’uomo percepì una luce in quei grandi occhi verdi guardati tante volte. Incapace di staccarsi, una vertigine gli spezzò il respiro. Adesso stava veramente precipitando in un pozzo: pareti fatte dei colori dell’arcobaleno scorrevano a velocità folle attorno a lui. Poi la sensazione si capovolse come se qualcosa o qualcuno stesse scendendo ad esplorare le sue profondità. Miriam con spostamenti esatti delle pupille esaminava centimetro per centimetro il suo volto; seguendo un’invisibile mappa ne sfiorava i lineamenti con i polpastrelli, nello sforzo di raccordare ciò che vedeva con quello che tante volte aveva solo toccato. “Parla ancora. Tu sei il becchino…” Caruso rimaneva in silenzio mentre la bambina continuava “… sei buono… sei quello che a capodanno chiama i numeri… quello che accompagna i morti in paradiso…” Erano fermi in mezzo alla folla che scorreva. Rosetta cercava di tirare Miriam senza farsi notare, ma questa resisteva. Anche il vecchio si era accorto che c’era qualcosa di strano nella bambina e la fissava meravigliato.
“Rosetta... la bambina… vede…” balbettò, senza capire bene cosa significasse. “Vede… vede…” echeggiò Caruso. “Che dite! Siete pazzi!” La donna, gli occhi pieni di lacrime, con uno strattone più forte trascinò via la figlia. Gli altri due rimasero scioccati in mezzo alla strada. “Sono sicuro che Miriam vede.” “Anch’io.” “Cavaliere, non ha notato niente di strano l’ultima volta che l’ha vista al pensionato?” “Rosetta non lavora più al pensionato. E a pensarci bene anche prima che se ne andasse, era un bel po’ che non portava la bambina. Ma con tutta la confusione che c’è stata, non sono sicuro.”
La processione svoltò a sinistra per via Tommaso Cannizzaro, poi giù per Corso Garibaldi, ancora a sinistra lungo via Primo Settembre, infine dritto di ritorno al Duomo. Sul sagrato l’Arcivescovo ringraziò Maria e Le affidò ancora una volta la città, ricordandoLe i licenziati di una certa azienda di trasporti, i cassaintegrati di una fabbrica di birra, i precari di tale cooperativa e i disoccupati di quell’altra. A due i, i politici alzavano gli occhi al cielo limpido del tramonto, la bocca leggermente aperta di ponderato stupore come apprendendo solo allora quel catafascio di cattive nuove. E in fondo lieti che quelle pratiche rognose finissero nelle mani della Madonna, lasciando nelle loro interessi più proficui. Quando l’Arcivescovo si mosse a rientrare in chiesa per il pontificale, lo seguirono devoti, e qualcuno – secondo opportunità e possibilità politica – facendosi avanti gli baciò l’anello. Nessun fulmine: evidentemente lassù, contando di essere sempre in tempo, non hanno fretta di regolare i conti.
Intanto Rosetta, trascinando Miriam in lacrime per i piedi doloranti, s’era infilata quasi di corsa in una viuzza secondaria. Caruso, che non l’aveva persa di vista, attese che la folla si diradasse, raggiungendola poco dopo nel giardino davanti il Municipio. “Rosetta, perché scappi? La bambina è stanca. Ho la macchina, vi do un aggio.” “Sul carro funebre noi non saliamo!” “Non è il carro funebre, ho la mia macchina.” “Grazie lo stesso, torniamo a casa a piedi.” La donna continuava a camminare frettolosa e scomposta, incurante delle lamentele di Miriam che fissava Caruso in cerca d’aiuto. “Mi fanno male i piedi” piagnucolava, strofinandosi gli occhi arrossati. “Non ti toccare gli occhi, per carità, vuoi tornare cieca!” le gridò la madre e siccome non smetteva, le strinse i polsi fino a farle male. L’uomo, disperando ormai di farla ragionare, le si parò davanti bloccandola dalle spalle. “È inutile che scappi: ormai lo sappiamo! Perché nascondi che la bambina ci vede?” La donna negò ancora, provò pure a divincolarsi, ma con poca convinzione. Tremava e singhiozzava. “Per l’amor di Dio, vattene! Non posso dire niente: Visalli e Carbone mi hanno minacciata.” “Visalli e Carbone, minacciata? Che significa?” Rosetta crollò su una panchina. “Visalli mi ha detto che se la cosa fosse finita sui giornali avrei perso il posto.” “Ma tu non lavori più al pensionato.”
“Non parlo di quel posto. Carbone mi ha procurato un lavoro da bidella. Ha messo di mezzo il partito... non potevo più rimanere alla villa, era troppo pericoloso.” “Pericoloso?” Nel frattempo Bonanno li aveva raggiunti con una busta di canditi. “Prendili, che Dio ti benedica” disse a Miriam baciandole la fronte. “Rosetta, com’è successo? Sapevo che era incurabile.” “Va bene, vi racconterò tutto dall’inizio... come andrà, andrà.” Sembrava si fosse decisa all’improvviso, ma in realtà quel segreto le cresceva dentro da un pezzo, tanto ingombrante da soffocare tutto il resto, persino la gioia di una madre che vede risanata la sua bambina. “Prima di tutto devo chiedere scusa proprio a lei, cavaliere: sono stata io a rubare uno dei capelli della Madonna. E dico della Madonna, e ripeto della Madonna, perché nessuno, né i giornali, né la televisione, né l’Arcivescovo e nemmeno il Papa in persona, che Dio mi perdoni, mi può venire a dire che quello non è il capello della Madonna. E ora sentirete perché...” Rosetta prese fiato, poi ricominciò a parlare sempre più agitata. “Bruno diceva sin dall’inizio che le reliquie erano lo scherzo del secolo e che si potevano fare tanti soldi manovrando i vecchi. – Una cosa del genere è un grande affare. Avete visto cos’è successo a San Giovanni Rotondo con padre Pio? Figuratevi con la Madonna! La gente verrà da tutto il mondo. Ci sono da fare miliardi a palate, alle spalle dei polli che ci credono. “Io sapevo che Bruno era un mascalzone e non volevo dargli retta. Ne avevo pure parlato col mio parroco e anche lui mi aveva fatto capire che le reliquie erano false. Ma avevo un solo pensiero e non m’interessava altro. Avevo girato tanti medici, speso tutto quello che avevo e pure fatto debiti, ma tutti mi avevano preso in giro. Credevo di non avere più illusioni, né possibilità di delusioni; invece, cavaliere, appena ho visto le reliquie nella sua stanza, mi è tornata la
speranza. Anzi, la sicurezza: le reliquie della Madonna erano lì per Miriam. E da quel momento ho avuto un unico pensiero: la mia bambina poteva veramente guarire! “Ricorderete che per un certo periodo veniva pochissima gente. Non è stato difficile, subito dopo pranzo alla fine del mio turno, approfittare del sonno del colonnello Urzì per portare via un capello. Sarebbe stato più facile prenderli tutti, erano un’unica matassa e mi tremavano le mani mentre li sbrogliavo, ma volevo lasciare qualche altro pezzo di speranza ad altri che ne avevano bisogno come me. “La sera, quando la bambina si addormentò, le attorcigliai il capello della Madonna al polso come un braccialetto, e rimasi tutta la notte a pregare. L’indomani avevo il turno di riposo, non puntai la sveglia e mi addormentai solo all’alba con la serranda alzata. Mi svegliò Miriam. – Mamma, vedo – disse. “Io non volevo crederci. Lei si orientava bene in casa, quando si alzava veniva sempre nel mio letto... e poi le piaceva fare finta di vedere. – Giochiamo a vederci – diceva, e mi descriveva la stanza nei minimi particolari. Era una specie di gioco... “Quella mattina, insisteva – Mamma, vedo! – e la sua voce era diversa. Mi guardava negli occhi e mi toccava come ha fatto prima con lei, Caruso. Il capello era al suo polso: avrei dovuto crederci subito, ma avevo più terrore di essere delusa di quanto immaginavo. Le ho indicato la radiolina sulla toletta – quella cos’è? – e lei rispose con sicurezza; poi una camicetta sulla sedia, e lei indovinò il colore. Quel gioco non le piaceva: si sentiva offesa perché non le credevo. – Mamma, vedo! – ripeteva ossessivamente e gli occhi le brillavano. Alla fine presi il libro di preghiere che tenevo sul comodino: la bambina prima della malattia aveva imparato a leggere. Ho aperto una pagina a caso, e lei seguendo con le dita le lettere, cominciò a leggere piano – Salve Regina, madre di misericordia, vita, dolcezza, speranza nostra… “… non posso dire cosa provai in quel momento… Istintivamente, gli occhi allagati di lacrime, riabbracciò la bambina. “L’ho portata subito dallo specialista che l’aveva in cura e quello non ci voleva credere. Ma dopo un’ora di visita confermò che la lesione al nervo ottico era inspiegabilmente scomparsa. In quei giorni a Villa Felice c’era stata la
guarigione del paralitico, avvisai subito Visalli, ma quello fu più duro del solito: chiese il nome dello specialista e poi mi minacciò. – Per il momento, non dire niente a nessuno. Verrò con il dottore Carbone a casa tua. Sta’ attenta: una parola con i giornalisti, con Bonanno o con chiunque altro e perdi il posto! “Ci rimasi malissimo: non capivo quella reazione. E poi immaginate: avevo voglia di mostrare gli occhi della mia Miriam e ringraziare la Madonna davanti a tutto il mondo, invece ero costretta a stare zitta. Ma del posto avevo troppo bisogno… Potevo denunziare tutto ai sindacati e ne avrei avute cose da dire… ma avevo paura, ho visto tanta gente cacciata: i padroni ungono le ruote e i poveri disgraziati restano in mezzo alla strada. Alla fine sono rimasta in silenzio. “Qualche giorno dopo Visalli venne da me insieme a Carbone. Il dottore fu molto gentile. Regalò una bambola alla bambina, la fece giocare, le fece vedere pure la fotografia del suo nipotino nato da poco. Scherzò pure con me dicendo che adesso avrei dovuto comprare a Miriam tante video-cassette. Ma quando la bambina andò a giocare nell’altra stanza si fece serio. – Rosetta, per quanto riguarda tua figlia puoi accendere cento ceri a santa Lucia e alla Madonna, anche se io al loro posto avrei scelto un momento diverso per aiutarti. Ma io naturalmente non sono al loro posto. Adesso però dobbiamo stare attenti che da una cosa buona non ne vengano fuori tante cattive. – Cose cattive? Che vuol dire? Parli chiaro! Non capisco! – Non posso parlare troppo chiaro. Ti dico solo che per il bene tuo e della bambina nessuno deve sapere della guarigione. – Ma come! Tutti parlano del paralitico guarito, perché io dovrei stare zitta? Io voglio dire, anzi gridare, a tutti quello che la Madonna ha fatto per me! “Visalli e Carbone si scambiarono un’occhiata. Poi il dottore continuò come se avesse deciso all’improvviso di dire qualcosa che prima s’erano messi d’accordo di non farmi sapere. – Il punto è proprio questo: forse le cose col paralitico non stanno come sembrano. Ancora non è chiaro come andrà a finire. Se noi mostriamo a tutti la bambina guarita e poi venisse fuori qualcosa di strano a proposito del paralitico,
la gente farebbe di tutta l’erba un fascio e tu e Miriam vi trovereste nei guai. – Continuo a non capire... “A quel punto Visalli si spazientì. – Rosetta! Il dottore è stato con te più sincero di quanto io gli avessi consigliato. Non c’è altro da dire. Se ti vuoi fidare, fai come ti abbiamo detto, se no, arrangiati! In ogni caso a questo punto io ti licenzio. – Calma, calma – intervenne Carbone – non è questo il modo! – Era irritato con Visalli. Poi si rivolse a me con la solita gentilezza. – Vedi Rosetta, per i motivi che in qualche modo ho cercato di farti capire, è bene che nessuno veda più Miriam alla villa, e dato che attraverso te si può risalire alla bambina, è meglio che anche tu smetta di lavorare al pensionato. – E che fa, campiamo d’aria? – Questo non è problema: posso procurarti un posto in un asilo comunale. Guadagnerai di più e avrai più tempo per la bambina. “Il dottore mi aveva sempre fatto una buona impressione: l’istinto mi diceva che potevo fidarmi. Un posto e uno stipendio sicuro avrebbero aggiustato tante cose. – Ma è impossibile nascondere la cosa: un sacco di gente conosce Miriam, e poi la scuola, i vicini… – Non ti preoccupare: da settembre la trasferiremo in un’altra scuola dove nessuno vi conosce. Ai parenti e agli amici dirai che partite per qualche settimana per delle cure, durante questo tempo vi ospiterò io in un appartamentino che tengo libero. Quando tornerete comincerai a spargere la voce che la bambina sta migliorando. Miriam è molto intelligente, all’inizio fingerà di vedere solo in parte e con le dovute istruzioni ingannerà chiunque. – Lei fa tutto facile, dottore… – Affronteremo i problemi uno per volta, ma credimi, per il vostro bene tutto questo è indispensabile. Se si diffonde la notizia della guarigione, all’inizio verrete messe sugli altari, ma poi, quando le cose finiranno come sono sicuro che finiranno, finirete distrutte.
“Sembrava sincero, ma io non ero ancora convinta. – Io voglio dire a tutti quello che la Madonna ha fatto per me, la gente deve sapere, deve credere! Se io nascondo sotto terra la grazia che mi ha fatto è come se fosse sprecata… mi sembra di tradire la Madonna! – Tu pensi che sbandierare il miracolo, dire a tutti che lassù c’è qualcuno che ci ama, sia un modo per mostrare la tua riconoscenza. Ti capisco… Comunque prenditi qualche giorno per pensarci: avere un posto di lavoro sicuro non mi sembra un peccato. Io non m’intendo di grazie, ma forse la vista della bambina non è l’unico pensiero che la Madonna ha avuto per te. – Il posto di bidella non me lo procurerà la Madonna, ma il partito. – Chi sa? Intanto prendilo, e stai certa che nessuno te lo toglierà. Magari fra qualche tempo, quando le acque si saranno calmate, potrai levarti il debito di riconoscenza con la Madonna. Al momento giusto tutti potranno ascoltarti con la serenità che adesso manca, e forse le tue parole serviranno. Da bambino mi leggevano il Vangelo e mi pare che Cristo raccomandasse ai suoi di essere semplici come colombe ma prudenti come serpenti. Lui stesso, dopo aver guarito un lebbroso, gli ordinò di non dirlo a nessuno. Ogni cosa a suo tempo. “Più o meno è tutto. Poi le cose sono andate come aveva detto Carbone: ho avuto il posto all’asilo comunale, il dottore ci ha ospitato e solo da poco siamo tornate a casa nostra. Tutto quello che è successo a Villa Felice l’ho visto alla televisione, e devo essere riconoscente a Carbone: se non fosse stato per lui, anch’io sarei ata per delinquente. E quando sento dire che la Lettera e i Capelli della Madonna sono falsi e che lei Cavaliere è un imbroglione, vorrei dire a tutti della mia Miriam… ma ho paura!... mi manca il coraggio! Rosetta scoppiò di nuovo a piangere e ci volle un bel po’ prima che si calmasse. Continuava a chiedere scusa e accusarsi di tradimento. E poco valevano le parole di Caruso e Bonanno a consolarla. S’era fatto buio. Mentre la Morte andava a prendere la macchina, il Cavaliere comprò il gelato per tutti.
XLI
Dopo aver accompagnato a casa Rosetta e Miriam, rientrarono alla villa lungo la Strada Panoramica. “Chissà cos’hanno scoperto in Germania su quei capelli?” si chiese Bonanno. “Spenderanno un sacco di soldi per analizzarli.” “Potrebbero chiedere a noi.” “E che gli diremmo?” “La verità: che sono i capelli di una buttana.” E c’era un che di amaro e rispettoso nell’insulto. “Però fanno miracoli che neppure il vero capello di Maria Santissima portato in processione dall’Arcivescovo in persona” osservò Caruso. “Vorrei chiedere all’Arcivescovo come se lo spiega.” “Risponderebbe che il miracolo non sta nel capello, ma nella fede e nelle preghiere di Rosetta.” “Però mi dovrebbe spiegare perché Rosetta aveva pregato tante volte ma solo una volta ha funzionato. E torniamo al punto: alla reliquia. Al capello intrecciato al polso della bambina. Al capello d’Immacolata: senza offesa, un’Immacolata al contrario.” “Al contrario? Direi allo specchio – corresse Caruso a voce bassa. – L’immagine di un originale, magari rovesciata, deformata, maltrattata... sì, anche stuprata... che non è l’originale, ma ne conserva qualcosa. Qualcosa d’indistruttibile e d’essenziale.”
“Come il potere di fare miracoli?” “Sì, quello. E forse altro ancora... più importante.” “Un potere più importante dei miracoli?” “Molto più importante.” “E cosa sarebbe?” “L’amore… forse.” “L’amore? L’amore di chi?” “L’amore di tutti: l’amore d’Immacolata, quello di Rosetta, quello mio, quello suo… – Caruso all’improvviso s’illuminò. – Ha ragione Rosetta: le reliquie sono vere! La Madonna, o chiunque altro ci sia lassù, ci ha scritto di nuovo come ai tempi di San Paolo!” “Peccato che quelle lettere le ha scritte Pirri...” “L’amore, cavaliere! Non sappiamo come... ma funziona! E tante volte funziona al contrario, col dritto che sbuca dal rovescio. L’amore, cavaliere! Se non avessi amore… potrei spostare le montagne, sfamare il mondo, parlare le lingue più strane… tutto sarebbe inutile e io sarei una pura fantasia! Non ho amore: non sono nulla!” “Se non avessi amore… non ho amore… non sono nulla… – echeggiò Bonanno stupito. All’improvviso rifletteva accorato, come davanti a una sorpresa atroce – ... non sono nulla... pura fantasia...” “Lei ha amore, cavaliere?” “Sì, penso di sì… non le sembra?” “Non posso essere io a stabilirlo.” “In realtà non sono sicuro...” “Deve sentirlo dentro.”
“Ci ho pensato tante volte … mi vede: sono un vecchio solo… abbandonato in un ospizio… forse c’è un motivo… per tutta la vita ho cercato certe cose… la giustizia… l’eguaglianza… un mondo migliore… cosa mi resta?... cos’ho realizzato?… erano solo parole… inutili fantasie, come dice lei... deve esserci un motivo se è finita così… doveva mancare qualcosa dentro di me... forse è quello che merito… non sono diverso da Pirri e Lo Surdo... un vecchio incarognito dalle delusioni e dai pregiudizi... morirò solo come un cane.” Bonanno, sopraffatto, quasi piangeva. “Lei crede che io non abbia amore?” chiese con la voce rotta in un ultimo sussulto. Caruso lo fissò dritto negli occhi col suo irresistibile sorriso triste. “Ma sì, cavaliere! Può stare tranquillo: lei ha sicuramente amore! E anche tanto.” “Dice per dire... per consolarmi… la verità è quella che le ho detto.” “Ma no, cavaliere! Ci pensi bene: se Miriam vede di nuovo è merito suo che tanto s’è intestardito da trovare quelle benedette reliquie!” “La mia era solo curiosità, caccia, avventura, sfida verso Pirri... atempo contro la solitudine, rabbia verso la sorte… Niente di buono. A Miriam non pensavo proprio.” “È sicuro? L’ho sentita mentre raccontava alla bambina dell’assedio dei si e della Dama Bianca, della peste, della carestia e del vascelluzzo entrato in porto col grano e senza equipaggio…” “Favole…” “… ho visto come la imboccava, ho visto come la guardava.” “Comunque non è un merito: come si faceva a non avere tenerezza per quella bambina?” “E cosa mi dice della rosa bianca sulla tomba d’Immacolata?” “Immacolata... a casa di Pirri ho trovato la sua foto... sa, me la sono conservata.” “Vede che ho ragione, cavaliere! Lei è un grande rompicoglioni, ma d’amore ne
ha d’avanzo!”
Dopo la galleria la strada curvava in discesa. Di fronte, seminato di fiammelle sacre, riposava il camposanto di Pace. Sulla destra, una gigantesca luna rossa, proprio in quel momento, si levava dall'Aspromonte. “Lo sa che adesso mi sento meglio?” riprese Bonanno. “Anch’io. Era da un pezzo che non stavo così bene.” “Anche lei certe volte pensa di averle sbagliate tutte?” “Altro che certe volte: quasi sempre!” “Eppure non si direbbe: sembra così sicuro di sé.” “È solo teatro: a furia di repliche ormai mi viene bene una certa parte.“ “E quando si toglie la maschera, come fa ad andare avanti?” Il becchino aggiustò pensieroso lo specchietto retrovisore. “A cinquant’anni sono sceso a patti con i miei fallimenti: loro fanno il loro sporco mestiere e io non me la prendo.” “E quale sarebbe il mestiere dei fallimenti?” “Non lo so, ma a furia di trattare fallimenti...” “Tratta fallimenti?” “E come no? Io tratto i fallimenti più importanti, quelli definitivi, quelli senza possibilità di appelli, riabilitazioni, intrallazzi o concordati.” “Che vuol dire?” “La morte non le sembra un fallimento? Ce l’avessimo sempre davanti, quante
imprese neppure penseremmo d’iniziare? E quante condurremmo da tutt’altra parte? E quante liquideremmo all’istante senza badare al capitale?” “Proprio vero…” “Dicevo che a forza di lavorare con i fallimenti mi sono fatto l’idea che anche loro servono a qualcosa.” “E così riesce a non prendersela?” “Ci riesco è un’esagerazione... diciamo che ci provo.” “Quella mattina, al camposanto, non mi ha detto perché ha mollato la medicina a un o dalla laurea.” Caruso contrasse il piede sull’acceleratore trasmettendo all’auto un lieve sobbalzo. “Il mio migliore amico s’era ammalato gravemente e io m’ero messo con tutta l’anima a curarlo. C’erano dei medici che lo seguivano, ma ero io a coordinarli, a are due volte al giorno a controllarlo, a calibrare i dosaggi, a vegliarlo in qualche nottata critica, e a contattare gli specialisti, ad accompagnarlo negli ospedali del nord, a cercare sulle riviste le terapie più innovative e promettenti... E dopo mesi disperati sembrava ce l’avessimo fatta: s’era ripreso a vista d’occhio e le analisi erano rassicuranti.” “E poi?” “E poi ha mollato. Così, da un momento all’altro. La mattina m’ha sorriso di essere stanco e la sera se n’è andato con la stessa assurda maschera in faccia.” “Una mazzata!” “Sì. Un bel colpo: ci ho messo un po’ di tempo a rimettermi in piedi. E allora – lo so che è folle – mi sono fatto l’idea che la medicina arriva troppo presto per aiutarci: un tragico anticipo che serve solo al dolore. Il vero aiuto serve un attimo dopo... un attimo dopo…” L’eco turbinò per qualche istante nell’abitacolo prima di disperdersi, ma Caruso all’improvviso era tornato di buon umore.
“Così, caro cavaliere, ho cambiato professione. Potevo anche fare il prete, ma non sono mai stato bravo a vendere, e magari incassare anticipi, su merce che non sono sicuro di poter consegnare. I clienti non mi avrebbero creduto! Quindi, per rimanere nel settore, non mi restava che il becchino. E grazie a un’ulteriore serie di coincidenze anche lei avrà il piacere di essere mio cliente.” “Il più tardi possibile.” “E poi c’è un’altra cosa… A proposito di quello che ha detto prima, stia tranquillo.” “Tranquillo di cosa?” “Cavaliere, le ho appena detto una bugia: lei non è mio cliente.” “Ah, no? “No. Lei è molto di più: lei è mio amico.” “Grazie.” “E quindi può stare sicuro che non morirà solo come un cane.” “Grazie” ripeté Bonanno con filo di voce.
All’altezza del Lago Grande squillò il telefono. Peppe comunicava dall’agenzia le solite istruzioni. “Conosco la zona, è il portone di vetro di fronte alla macelleria.” Caruso riattaccò senza commenti. “Vecchio o giovane?” “Vecchio, vecchissimo. Più di lei.” “Un altro miracolo.” “Miracolo forse no, ma oggi le cose ci vanno tutte bene!”
XLII
Poco a poco, il polveroso velo del tempo coprì ogni cosa. Le sempre più brevi notizie sulle reliquie si confondevano all’interno dei giornali. Le questioni legali si sarebbero protratte per anni sotto l’ancor più polveroso manto della giustizia. Riguardo alle accuse minori che pendevano sul suo capo (l’assalto a Carlo III e la violazione del pozzo), Bonanno non seppe più nulla; quanto a quelle più serie, gl’inquirenti avevano escluso la sua complicità nei plurimi maneggi di Bruno, riconoscendolo anzi come vittima. “Ai tempi del fascismo, queste cose non succedevano” gli sfuggì di dire in un accesso di nostalgia giovanile. Se ne pentì subito e quasi si aspettava di sentire una delle repliche fulminanti di Pirri.
Tempo dopo ebbe qualche risposta da Gardelli, venuto al pensionato per restituirgli le carte sottratte da frate Bruno. “I suoi complici ci hanno riferito un sacco di cose interessanti: quel tipo è entrato nella sua storia prima di quando sospettassimo. Era stato lui a rubare la Madonnina di quel professore... Pirri, mi pare si chiamasse.” “Avevo ragione che fin dall’inizio c’entrava il frate!” “Sì, ce l’ha confermato l’analisi del DNA sul pezzo di vetro che lei aveva recuperato.” “Quella mattina Bruno aveva fretta di pulire tutto, ma io sono riuscito lo stesso a prendere quel frammento col suo sangue. Però non mi spiego com’è che cercava già le reliquie: la lettera di Ruggeri l’ho trovata dopo.” “Le reliquie ancora non c’entravano: cercava un anello prezioso di proprietà del
professore. Probabilmente, rovistando nella stanza, aveva sentito qualcosa nel cavo della Madonnina e aveva pensato fosse nascosto lì dentro.” “Sì, era un anello di fidanzamento. Pirri lo teneva sempre addosso.” “Bruno finse di entrare dall’esterno, rompendo il vetro si ferì, ma prese comunque la Madonnina. Non avendo trovato l’anello, continuò a spiare, scoprendo per caso che lei era sulle tracce della Lettera della Madonna. Da quel momento divenne la sua ombra: era presente la notte in cui lei e Caruso siete saliti sulla statua di don Giovanni d’Austria, e poi nella chiesa dei Catalani dove, pensando che aveste trovato la lettera, provò a seppellirli vivi.” “Saremmo rimasti lì sotto per sempre.” “Il vostro affezionato infermiere, vi aveva seguito anche nel pozzo di Scarcella, più o meno con gli stessi propositi; ma siccome avevate chiuso la porta della cantina non ha potuto fare niente. Poi le ha rubato le carte, cavaliere, mettendola fuori combattimento. E a proposito di carte, era pure entrato a rovistare in casa di Pirri prima di lei.” “Già, i ladri a casa di Pirri. Gli scatoloni per terra… lo sapevo che quelli non erano ladri comuni.” “L’epilogo trionfale doveva essere il furto delle reliquie e la richiesta di riscatto. Ma gli è andata male.” “E quello strano travestimento da frate?” “Vi aveva sentito parlare di un misterioso frate e gli è sembrata una buona copertura: allo stesso tempo intimoriva e allontanava i sospetti. La maschera con teschio è stata un ulteriore, lugubre dettaglio, un tocco di orrore che si sarà inventato da solo.” “Mi dispiace che sia morto: l’avrei voluto vedere in galera.” “Forse è in una galera peggiore delle nostre. Il suo amico Bruno è stato un coglione a forzare la mano sparandoci addosso. Si fosse fatto prendere, tra udienze, rinvii, dibattimenti, prove, testimoni, ricorsi, appelli, cazzi e mazzi, caro cavaliere, lei sarebbe crepato prima di vederlo condannato. E se pure si fosse aggrappato a questa porca vita, magari preferendo pisciarsi a addosso per altri
vent’anni pur di vederlo in galera, rischiava di schiattare vedendolo assolto, o magari salvato dalla prescrizione: un cavillo, una cacata di mosca su una convocazione e si deve ripartire dal primo grado. E lei cavaliere a quel punto dove li avrebbe trovati altri vent’anni? Senta a me, se ci teneva a vederlo sottochiave, il suo frate è nel miglior posto che si possa immaginare. Se vuole un consiglio, non pensi più a questa storia e si goda in pace i quattro giorni che le rimangono.”
XLIII
I restanti giorni terreni di Bonanno furono più di quattro. Nell’estate di qualche anno dopo giunse alla villa un pacco dalla Germania. Tassa a carico del destinatario. A migliaia di chilometri di distanza, avevano rintracciato Herr Humberto Bonanno. Tipico zelo teutonico si direbbe, ma probabilmente l’indirizzo era stato comunicato dall’Italia, dove più nessuno teneva a ricevere quel pacco scomodo. Si trattava delle ex-reliquie. Trattate, campionate, esaminate, classificate e infine impacchettate e rimesse al proprietario. Bonanno diede appena uno sguardo ai capelli: dentro una bustina di nylon ne rimaneva uno intatto insieme a una miriade di cortissimi segmenti. Ripensò a Immacolata e alla rosa bianca, poi a Miriam che non aveva più rivisto, infine infilò tutto nel solito sacco con le cose di Pirri.
Veglia e sonno, qualsiasi cosa siano, partecipano di misteriosi commerci. Qualche notte dopo si ritrovò bambino, sulla spiaggia davanti al giardino dello Chalet nel quartiere di San Leo. Suo padre – cappellaccio di paglia, camicia bianca, maniche risvoltate, pantaloni scuri rimboccati alle ginocchia – pescava con la canna. Una canna di una volta: fatta di canna e senza mulinello. Doveva avere dieci anni. Scavava inginocchiato sulla battigia con una paletta di ferro. L’acqua riempiva la buca e ad ogni riflusso venivano a galla piccoli vermi rossi e bianchi che lui infilava in una boccia di vetro chiudendo bene il tappo di sughero. Sarebbero serviti da esca. Guardò la punta immobile della canna. Ancora non avevano pescato niente. Il mare era piatto e deserto, il sole basso lo tingeva di striature rossastre. Un vecchio vestito di nero e un frate col cappuccio alzato si avvicinavano lungo la spiaggia.
Al bambino la coppia sembrò strana. Guardò la boccia con i vermi e gli venne un bruttissimo pensiero. Scappò verso suo padre stringendosi alle sue gambe. “Papà, ho paura!” L’uomo gli sorrise, interrogativo. “Ho paura!” “Di cos’hai paura?” “Ho paura della morte.“ “Cosa ti viene in mente, amore? – Suo padre lo prese in braccio. – Stai tranquillo: qui la morte non esiste più!” Gli sorrise ancora, lo strinse forte e il bambino si rassicurò.
Poco distante, una ringhiera liberty delimitava una terrazza affacciata sul mare. Da dietro gli alberi giungeva l’allegro ritmo di una marcetta. Un vecchio in finanziera e cilindro salutò due guardie baffute, con il tricorno e lunghe sciabole. “Salute al Re.” “Salute a Ferdinando di Borbone” risposero marziali. “Meno male, ancora non sono arrivati i Savoia. Per oggi si può campare.” Il farmacista Lo Surdo si allontanò tossendo. Soddisfatto che anche per quel giorno a Palazzo non fossero avvenuti spiacevoli avvicendamenti.
Lì vicino due uomini attempati – abiti chiari di lino, camicie dai colletti duri, bastoni da eggio, ghette e panama – si godevano il sole affacciati alla balaustra. Ragazze in bikini eggiavano sotto di loro sulla spiaggia.
“Compare, con tanto ben di Dio a disposizione, noi a vent’anni chissà che avremmo fatto!” “A vent’anni, compare? Ma pure a trenta, quaranta e cinquanta!” “Ma sì, compare! E pure a sessanta o settanta!” “Avete ragione, compare! Non mettiamo limiti alla Provvidenza!” I loro sguardi avevano qualcosa di concupiscente e molto di nostalgico. Peppino Papa e Lillo Scarcella, nello sforzo di cogliere ogni dettaglio di quelle forme invitanti e d’immaginare il poco nascosto da qualche centimetro di stoffa, cadevano risucchiati dalla memoria. La balaustra in ferro battuto, fitta di fiori e rami ritorti, costituiva un’invalicabile barriera temporale, e tutto quello che stava oltre era miraggio più che promessa. “Compare, avete notato che gli uomini sulla spiaggia neppure le guardano?” “Non ci sono più i maschi di una volta.” “U’ masculu muriu.” “Parole sante.” I paradossi non li toccavano: solidi e innocenti uomini di una volta, il sigaro in bocca, continuavano imperterriti a ruminare fantasie piccanti. Maligno alle loro spalle, seminascosto da un oleandro, un fauno di marmo, indovinandone i pensieri, li spiava. “E voi che fareste se, con tutto il rispetto, vostra moglie e le vostre figlie si presentassero così agli occhi di tutti?” “Ma che dite, compare! Mia moglie e le mie figlie? Non vi permettete!” “Non v’arrabbiate, era per dire...” “Farei una strage. La mano sul fuoco potete mettere.” “A proposito delle vostre figlie, un certo giovane ci sarebbe…” “Che fate compare, ricominciate?”
Dall’altra parte del giardino, tre donne sedevano su una panchina accanto a una fontana di ghisa. Un putto cavalcava tra gli spruzzi un delfino scortato da un branco di cavallucci marini. Tutto intorno ciclisti, pattinatori, corridori – maschi e femmine – lucidi, aderenti e succinti percorrevano i viali in abbigliamento sportivo. Giovanna, Grazia e Concetta Papa – monumentali acconciature, ingombranti abiti scuri, strati di gonne, sottogonne, busti e corpetti rigidi – ignoravano il caldo. “Guarda quella!” “Tutto si vede!” “Ha il petto di fuori!” “Gesu, Gesu.” “Non c’è più mondo.” “Tutte buttane sono diventate!” “Guarda quello: con gli occhi la spoglia!” “E che c’è da spogliare?” “Certo che poi succedono certe cose!” “Il maschio, si sa, è cacciatore!” “Vede una così e non ci pensa due volte a saltarle addosso!” “E che ha torto?” Giudicavano spietate il loro sesso, attente pure a misurare certi virili rigonfiamenti sottolineati da occhiate maliziose. Se ava qualche conoscente scambiavano saluti cerimoniosi, felicitandosi per il tempo sempre bello. “Donna Giovanna, dov’è vostro marito?”
“È con Scarcella sulla terrazza, a guardare il mare.” “Sì… a guardare il mare…” E in quello scambio di battute c’era da una parte la provocazione, e dall’altra la tranquillità, la rassegnazione e l’orgoglio di chi mantiene una posizione di moglie che crede ambita; una posizione ontologicamente destinata a durare e a distruggere tutte le effimere rivali. Le tre donne sedevano di fronte al padiglione con l’orchestrina. Un pallido violinista, l’ultimo della fila, i capelli neri lucidi di brillantina, gettava uno sguardo languido verso la panchina. “Che sfacciato!” “Certo uno spiantato.” “Un profittatore a caccia di dote.”
Il piccolo Bonanno tornò sulla spiaggia: il vecchio vestito di nero e il frate si erano avvicinati. Guardò di nuovo suo padre che gli rimandò un sorriso confortante. L’uomo prese una breve rincorsa e lanciò con un ampio movimento rotatorio delle braccia. Appena i piombi toccarono l’acqua, il mare iniziò a ribollire. Bella e maestosa – i lunghi capelli cangianti in una complicata acconciatura – Morgana emerse dalle acque. Avvolta in una tunica sfolgorante saliva verso il cielo su un’interminabile colonna di pietra candida. Ormai era altissima, e una corona di stelle gli sfavillava intorno. VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS si leggeva di fuoco nel cielo azzurrissimo e la splendida dama non era più Morgana, ma la Madonna. Distante, ma al tempo stesso tanto vicina che il bambino poteva ammirarne il volto. Un volto indefinibile. Maria era bella, più bella delle sue statue, più bella dei dipinti. Continuava a salire sempre diversa: per un lunghissimo attimo fu
Immacolata coda di cavallo, con i capelli intrecciati in un’interminabile coda bionda. La cicatrice che dall’occhio scendeva fino alla mascella ne accresceva lo splendore, come se quel segno di crudeltà partecie alle gloriose piaghe di Suo Figlio Risorto. Poi la visione si confuse contro il sole, e dal cielo planò lentamente una pagina mezza arrotolata. Il bambino protese le mani per prenderla al volo, ma il foglio le attraversò come se fosse fatto d’aria. Finì nella buca schiudendosi al contatto con l’acqua in una grafia d’inchiostro rosso. Il bambino si gettò in ginocchio per recuperarlo, ma s’era già dissolto. Per un attimo bei svolazzi di lettere tonde tremolarono incatenati a fior d’acqua, ma prima che potesse leggere un refolo di vento sciolse tutto in un rosso indistinto. Le mani nella buca tinta di sangue, sentiva di aver perso qualcosa di fondamentale. Cercò suo padre ma al suo posto c’era il frate. Sorridente, corta barba grigia, l’età messa da parte di chi è molto antico. “L’ho perso” piagnucolò. “Non ti preoccupare, non era importante.” “Ma veniva dal cielo! Da lassù volevano dirci qualcosa!” “Stai tranquillo, in cielo non usano la carta. Per risparmiare, parlano direttamente dentro di noi.” “Ma io non sento mai nulla!” “Certe volte dentro di noi c’è troppo rumore… prova a fare silenzio e ti accorgerai di sentire qualcosa.” “Dici sul serio?” “Non solo sentirai, ma pure vedrai tante cose nuove.“ “È impossibile!”
“Impossibile qui non esiste. Rio più tardi – promise il frate allungandogli un buffetto – e mi racconterai.”
Si allontanò. Pirri – abito scuro, camicia bianca, cravatta scura, scarpe nere allacciate – gli era di nuovo accanto. “Chi è quel bambino?” “Lo conosci.” “È un angelo?” “Può darsi.” “Ma com’è andata veramente quella volta col bambino che voleva svuotare il mare?” “Acqua ata …” “Tu da quel giorno non sei più lo stesso: hai perso tempra, ti sei ammorbidito …” “Nino, un po’ di morbidezza anche a te non farebbe male…”
“La spiaggia, il mare, il boschetto, l’orchestrina… è tutto così banale! Sembra il finale di una commedia americana!” “Mentre a te sarebbe piaciuta una bella tragedia greca.” “E perché no!” Meglio ancora un bel dramma medievale con tanto di diavoli, tenaglie, graticole, fiamme e pece bollente.” “Sarebbe stato senz’altro più serio.”
“Purtroppo – si fa per dire – non sei tu il produttore di questo spettacolo, e nemmeno il regista.”
“Non ho mai sopportato gli americani: sono semplicisti e superficiali! Insisto: questa sembra proprio una delle loro sceneggiature!” “Mi pare che in Iberia tu abbia combattuto contro gli americani. Non è che sei un po’ prevenuto?” “La guerra d’Iberia – come la chiami tu – non c’entra. E poi, almeno quella volta, gliele abbiamo date. Sono morti in tanti, ma gliele abbiamo date!” “E te ne vanti.” “Sì, me ne vanto, perché avevamo ragione.” “Combattevi per un tiranno.” “Quelli dall’altra parte erano peggio.” “M’era parso di avere letto il contrario.” “Avrai letto i libri sbagliati! Gli americani scrivono la storia a modo loro!” “Tutti scrivono la storia a modo loro. Il problema è che di solito la storia la scrivono i vincitori e ai perdenti questo non piace.” “Con gli americani è diverso! Quelli con le loro cineprese, la storia la riscrivono in ogni caso, anche quando perdono.” “Mah… Ai miei tempi questi americani non c’erano. Li conosco poco, ma ne sento parlare tanto male che finiranno per starmi simpatici.” “Per quanto mi riguarda, non c’è pericolo!” “E poi ogni tanto parlo con quel tale… quello scrittore che incontriamo qui, seduto a pescare sulla spiaggia. Come si chiama?… quello col sigaro…” “Hemingway… te lo raccomando!”
Il bambino aveva ripreso a giocare con la paletta. Nell’acqua della buca, tornata limpida, era sbocciata una rosa bianca: profumatissima, dal gambo lungo e senza spine. La colse e si avvicinò a suo padre. “La portiamo alla mamma!” “Meno male che almeno tu hai pescato qualcosa – scherzò l’uomo indicando il secchio vuoto. – È bellissima!” “Quel signore con la barbetta me l’aveva detto che avrei visto cose nuove… sai papà, non ho più paura!” Tutti e due rimasero a guardare il frate e Pirri, ormai distanti, finché non sparirono dietro una fila di barche colorate. Dalla stessa parte, a occidente, il sole incombeva su un promontorio boscoso. A minuti sarebbe tramontato.
eggiando ancora sulla battigia, il vecchio incalzava e il frate cercava di sviarlo su argomenti più leggeri. “Agostino, hai visto quei due maniaci affacciati alla balaustra? “Chi, Papa e Scarcella?” “Sapessi che bella coppia! Io li ho conosciuti in vita… nella vita di prima intendo… e ti ripeto: qui c’è troppa gente che in ogni caso non dovrebbe esserci” “Ma perché? Sono due tipi divertenti: ti hanno mai raccontato lo scherzo degli asini?” “Figuriamoci…” “E conoscono pure un sacco di storielle sui santi e sul paradiso. Magari non tutte ripetibili, ma fanno sbellicare!” “Lo vedi! Sono sempre gli stessi!”
“Se è per questo anche tu…” “Appunto! Anch’io non dovrei essere qui. Come te lo spieghi?” “Nino, che vuoi che ti dica! Neppure io so tutto! Forse quell’altro posto è difficile da raggiungere.” “Agostino, proprio da te un argomento simile non l’accetto! E tutte quelle storie sulla massa dannata e sulla doppia predestinazione, non me le sono certo inventate io!” “Non ti fissare! Anche noi santi certe volte esageriamo. Molti uomini per non farsi troppo male hanno bisogno di un po’ di paura su ciò che li aspetta dopo... E poi sono storie vecchie! Ho scritto pure le Ritrattazioni!“ “Quelle non c’entrano: sai benissimo che parlavano d’altro.“ “Nino, sei impossibile! Con te non si può discutere! Sei rimasto professore di filosofia fino al midollo!” “Mi sembra di sentire il cavaliere Bonanno.” “Brava persona quel Bonanno.” “Per fortuna non è ancora arrivato! Ci mancherebbe solo lui! Magari insieme a suo compare Caruso! Non sai di cosa sono capaci!” “Per Caruso puoi stare tranquillo: è il nostro miglior agente di viaggi. Rimarrà ancora al lungo al suo posto.” “Meno male.” “Bonanno invece è più vicino di quanto tu non creda.” “Dici veramente?” “Sicuro.” “Bella notizia: la pace è finita... dov’è?” “Nino, rilassati! Perché non smetti di fare domande e ti godi il paradiso come
tutti gli altri?”
NOTA FINALE
Dubito dell'opera letteraria di pura fantasia: Peppino e Giovanna Papa sono stati miei bisnonni materni; le loro figlie Grazia e Concetta le ricordo sorelle maggiori di nonna Pina, la ragazzina ribelle appena intravista in questa storia. Nella finzione del romanzo – naturalmente senza sfiorarne l’enigma – ho versato molto di ciò che so di loro. All’alba di un secolo che già volgeva al sangue e alla paura, le cifre di don Peppino Papa furono la compagnia chiassosa, l’amicizia virile, lo scherzo – anche pesante –, gli amori illeciti, la tavola esagerata, il gesto malandrino, le carte siciliane, la storiella sconcia, il brindisi, la rima indovinata insieme al mandolino. Per essi trascurò doveri di casa e impegni di bottega. In una famiglia più incline a rigori calvinisti che a cattoliche indulgenze, portò il marchio della riprovazione. Lo conobbi vecchio di mente e corpo più che di anni, e l’inquietudine per i suoi occhi vacui si aggiungeva alla repulsione per le sue carezze: ragazzino giudizioso, ravvisavo in quel disfacimento la retribuzione dei suoi disordini. Più tardi lo ritrovai nelle carte ingiallite e negl’inchiostri stinti dei suoi versi ingenui; e insieme, e più, lo riscoprii nei fatti scompigliati della vita, e di ogni vita. Queste righe sono pure la correzione di quel ragazzino impietoso, ché la pietà verso gli altri è pietà verso se stessi, ed è frutto tardivo di esperienza e tempo. Accennavo all’ultima sorella Papa: mia nonna. Bambina, sgattaiolò sul predellino della carrozza, ospite abusiva tra i bagagli, di una gita di famiglia da cui la punizione paterna l’aveva esclusa: saltò giù piccola, incrostata di polvere e impertinente davanti all’incredulo don Peppino molte ore dopo, a destinazione raggiunta, quand’era ormai impossibile spedirla indietro. Qualche anno dopo, ricavò dal grande ombrello nero di suo padre, rubato dalla bastoniera, la fodera per cucirsi la gonna di figlia della lupa che quello gli rifiutava per i motivi che sappiamo.
Anche per questa figlia sediziosa, l’autoritario don Peppino intravedeva un destino di nubilato, ignorando quei segni, premonitori della sua definitiva disfatta proprio su questo fronte. Così quando lei incontrò mio nonno non cercò autorizzazione diversa da quella dell’amore. Scettica sulle cose della terra e fiduciosa in quelle del cielo. Femminista dura nei fatti duri della vita, contro il femminismo dei palchi, dei cortei, dei cori e delle chiacchiere. Alla sua tempra devo esistenza e esempio, insieme a un certo ideale di donna fatto di ione e decisione, di carne e di ferro.
12 IX 2003 – Festa del Nome di Maria.
POST SCRIPTUM
San Paolo scrisse il suo famoso adesso vediamo in maniera enigmatica come in uno specchio, guardando gli opachi specchi di bronzo del suo tempo. Non gli dovette sfuggire un altro, non meno enigmatico, specchio: la pagina bianca davanti ai suoi occhi che andava scrivendo ai Corinzi. Riprendendo il romanzo dopo dieci anni per la pubblicazione, non ho potuto evitare qualche ritocco dettato dal tempo: pochi tagli e alcuni nuovi dialoghi mossi dalle inevitabili esperienze personali di amore e di morte – materia di questa storia e forse di ogni altra – toccate nel frattempo. Ma insieme all’autore lo specchio cattura chi gli sta accanto: Sandra e poche altre persone vicine facilmente coglieranno in queste pagine i riflessi di tante intense conversazioni cadute nei momenti più vari della nostra vita. La mia profonda gratitudine verso tutti loro va ben oltre questo libro. Senza ricusare gli altri, magari sconosciuti, tra i miei debiti più lontani segnalo solo una breve sequenza di Lisbon Story, lasciando il lettore al gioco di scoprirla. Mestiere plagiario quello dello scrittore: tutto quello che c’era da scrivere forse è già stato scritto. Adesso vediamo in maniera enigmatica come in uno specchio, mi sembra ancora l’unica constatazione possibile; dopo vedremo faccia a faccia, l’unica speranza credibile.
Settembre 2013.
Index
L'amore allo specchio
15 agosto 2003
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
NOTA FINALE
POST SCRIPTUM
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