Ilaria Ainora Allo specchio
Isbn: 978-88-6882-495-2
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Buona Lettura!
1
“Fallo.” Sarah fissava il suo volto nello specchio della camera da letto. “Fallo.” Lasciava scorrere la lama lentamente… uno… due. Poteva sentirne il gelo sulla gola. Questa volta era decisa a farlo. Un colpo solo, niente più sofferenza, niente più domande, nessuna ragione per cercarne la risposta. “Fallo.” Strinse fortemente il manico del coltello che aveva preso in cucina. Pensò: “Cosa hai da perdere?” In fondo era già tutto deciso. Non si era nemmeno risparmiata di scrivere una lettera d’addio. Un saluto generale a tutte le persone che volendole bene le avevano reso la vita un inferno. “Fallo. Coraggio, è un attimo. Non sentirai dolore, finirà tutto prima che te ne accorga… fallo.” L’aveva lasciata lì sulla scrivania, in bella vista. Accanto, una foto di quando aveva sei anni ed era in montagna con i suoi genitori adottivi. Un piccolo frammento di memoria, residuo dei giorni in cui era stata davvero felice. Ora non lo era più. Nessuno aveva mai più visto il suo sorriso da quando i suoi genitori adottivi erano morti in un incidente d’auto. “Per niente originale,” si disse Sarah. “Ora andrò da loro,” bisbigliò fra sé. Non era vero. Sapeva che sarebbe bruciata nella fiamme per l’eternità. Dopotutto, la sua non era stata un’esistenza di piaceri, né di euforiche esperienze. In quei venti anni, dal giorno in cui aveva sfortunatamente aperto gli occhi - un comico incidente come amava definirlo lei - al giorno in cui li avrebbe sbarrati, fissando un soffitto invece che il volto della sua madre naturale, aveva sofferto in silenzio, sebbene fosse sempre stata un libro aperto. Ma ora doveva farlo. Ora era arrivato il fatidico
momento in cui avrebbe finalmente messo un fermo a quel flusso di agonie che non sembravano voler scemare. “Fallo! Fallo! Fallo!” Allontanò di poco la lama, quel tanto necessario per sferrare un colpo deciso. “Fallo! Fallo! Fallo!” Guardò per un’ultima volta il suo riflesso. Un’ultima sbirciatina agli occhi, alle labbra, alle gote che, da un momento all’altro, avrebbero perso il loro rossore naturale per lasciare il posto a un asettico pallore. “Fallo!” Lasciò scivolare il coltello, sempre più vicino. “Fallo!” Ora era vicinissimo, poteva sentirlo sfiorarle la pelle. “Fallo!” Un attimo, sarebbe stato un attimo. “Fallo! Fallo! Fallo!” E mentre stava per sferrare il colpo fatidico, i suoi pensieri furono interrotti bruscamente dallo squillo del telefono. “Questa era la volta buona,” sussurrò. Il telefono continuava a suonare più nervosamente del solito. Sarah sbatté il coltello per terra. Chiuse gli occhi e li riaprì pensando fosse tutto un incubo. Ma lei era ancora davanti allo specchio, il coltello era ancora per terra e anche il telefono, impresso a vita nella sua lista nera, squillava ancora. Scese le scale per andare a rispondere. Se non riusciva a mettere fine alla sua vita, avrebbe almeno messo fine a quell’assordante baccano. Poco prima di alzare la cornetta, come libero sfogo della sua rabbia, si lasciò scappare un “fanculo”. “Pronto?” mugolò Sarah.
“Sarah, sei tu? Stai bene?” strillò Martha Vitrey dall’altro capo del telefono. “Sì… sì… alla grande. Stavo giusto concludendo alcune cose. Per quale motivo mi hai chiamata?” pronunciò queste ultime parole a metà fra la noia e il nervosismo ma Martha, sua sorella maggiore, non parve accorgersene. “In realtà c’è più di un motivo. Sai, ho avuto come un presentimento.” “Un presentimento,” ripeté Sarah con voce piatta. “Sai che ci credo… Insomma, pensavo fosse meglio telefonarti.” Sarah pensò che sua sorella credesse a troppe cose: alle fate, agli elfi. I suoi genitori avevano faticato per farle smettere di credere in Babbo Natale. Credeva persino in Dio. “Uhm… Sai che fortuna,” si disse Sarah sarcastica. “E il secondo?” “C’è da sbrigare una faccenda in libreria,” annunciò tutto d’un fiato Martha, consapevole dell’ira che quelle parole avrebbero scatenato, ma fu costretta ad allibire quando sua sorella, con la stessa voce piatta di prima, disse mezza rassegnata: “Ok, sarò lì fra poco”. Sarah riagganciò e, se prima era nervosa, agitata, assillata dai suoi stessi pensieri, in quel preciso istante si sentiva soltanto seccata e ogni briciola di ribellione sembrava scomparsa dalla sua mente. Era il suo giorno libero. Non sarebbe mai andata in libreria se la sua sorellastra non l’avesse chiamata. In realtà, se fosse stata d’umore normale, non ci sarebbe andata lo stesso, ma ora era diverso. Aveva appena tentato il suicidio e non c’era riuscita. Si sentiva come se si fosse lasciata sfuggire la zanzara che, per mero piacere personale, era stata a ronzare attorno al suo orecchio durante tutta la nottata. Indossò il soprabito giallo, quello che la faceva sembrare una spazzina alla quale non avevano neanche concesso il titolo di collaboratrice ecologica. Non si guardò nemmeno allo specchio… Tanto meglio. Senza mezzi termini, aveva un aspetto pietoso che qualche persona più garbata e sottile avrebbe definito trash. I suoi capelli biondi erano unti e spettinati, lo sguardo vacuo e bordato da pesanti occhiaie violacee in tono con i suoi lucenti occhi cobalto. Aveva perso peso negli ultimi mesi e le sue guance, un tempo carnose e colorate di rosa, erano diventate scarne e biancocce. Non era molto alta, tuttavia, poco
prima di uscire, sbatté la testa contro il lampadario dell’ingresso. “Accidenti!” strillò. Si era proposta più volte di farlo rialzare ma a quanto pare era sempre stata impegnata con i preparativi della sua morte. A un tratto si fermò. “La lettera!” urlò nervosamente lasciando trasparire del panico. Tornò in camera da letto. Sollevò il coltello da terra, notando una leggera scalfittura che doveva aver lasciato quando lo aveva scagliato durante il suo leggero sfogo di rabbia. Prese la lettera, la rilesse una volta o due, scosse la testa bisbigliando “Non va bene.” La strappò in tanti piccoli frammenti per poi gettarli, concludendo definitivamente quel teatrale episodio che tanto si era angustiata di organizzare, nel cestino dell’immondizia vicino alla sua scrivania. Prima di abbandonare la sua stanzetta, perché di una stanzetta si trattava, diede un’occhiata in giro. Era peggiorata dall’ultima volta in cui si era fermata a guardare il mondo al di fuori della sua mente contorta e disordinata come una soffitta in disuso: il pavimento in terracotta era la reincarnazione del Lerdammer preistorico, marrognolo e pieno di voragini; il soffitto era pregno di ragnatele e l’intonaco verde quasi del tutto scrostato; da una delle travi lignee pendeva un simpatico ragno che a Sarah ricordò vagamente un barbone impiccato. Sulla parete alla destra della porta c’era una macchia rossa. Sarah arricciò le sue labbra in una smorfia che non poteva dirsi un sorriso: sembrava più l’espressione che i cadaveri hanno quando vengono deposti nell’eterna dimora. Ma era la mimica più vicina all’allegria che tanto le era mancata negli ultimi anni. L’avevano fatta lei e la sorella, quella macchia. Era Halloween e a Martha era venuta la brillante idea di decorare la casa con ragnatele, teste di morto, Goblin… L’inquietante assortimento venne infine ridotto a del gel per capelli, vernice gialla e smalto rosso. “Avremmo risparmiato di più se avessimo aspettato qualche anno,” pensò Sarah. “Guarda com’è degradato questo posto.” Poi aggiunse, quasi involontariamente: “Come la mia anima.” Guardò per un’ultima volta la macchia, tentativo patetico di imitare il sangue. Volse gli occhi al suo letto e alla sua scrivania che, oltre allo specchio, costituivano gli unici elementi del suo misero arredamento. Il suo giaciglio era in ferro battuto, un vecchio regalo che sua zia Margaret le aveva concesso per la santissima intercessione del buon vecchio zio Joe. Pace all’anima loro. Lui amava quel letto: era un ricordo del suo trisavolo, o del nonno del suo trisavolo. Sarah non se lo ricordava, molto probabilmente perché non le importava affatto. Sapeva solo che erano tutti artigiani, precisamente “artigiani dal 1713”. Pensò queste ultime parole con la voce snervante delle pubblicità, odiandosi per aver lasciato che una vocina odiosa le si insinuasse nel cervello.
La scrivania era sul lato sinistro del letto. Era di legno di cedro. Sarah aveva sempre creduto che fosse stonata in quel contesto ma dovette ravvedersi: era perfetta… per la casa di una fattucchiera. Non che lei fosse una strega, ma ci si vedeva con i capelli spettinati, senza denti, un vestito nero e strappato agli orli, un corvo e qualche bambino a rosolare nel forno. Aveva tre cassetti, uno a sinistra e due a destra. Quello a sinistra era ormai “L’ostello del ragno”, quello in basso a destra era vuoto, quello in alto era pieno di cicche di sigaretta che non si era presa la briga di spostare. Quando Martha la andò a trovare il mese scorso le aveva consigliato di disfarsene, ma Sarah le aveva risposto che si era affezionata. Non era vero, semplicemente non voleva farlo. Una era quasi del tutto integra. Sarah prese l’accendino nel taschino del soprabito, si infilò il filtro fra le labbra e lasciò la punta della sigaretta sulla fiamma per qualche secondo, fino a quando non fu rovente. Inspirò lentamente, fino a farsi salire tutto il fumo al cervello. Si era suggerita di smettere perché, come sua sorella le aveva spesso ricordato, “il fumo fa male”, ma non aveva senso non fumare più. Prima o poi lei avrebbe anticipato ogni conseguenza del tabagismo e l’avrebbe fatta finita. Guardò l’orologio. Se avesse concluso l’atto ignominioso a cui aspirava, in quel momento, quella stessa stanza sarebbe stata gremita di poliziotti e, forse, ci sarebbe stata anche qualche persona in lacrime. “Perché piangere?” mormorò. “Sarei stata felice così. E poi sono lacrime di coccodrillo: prima mi rendete la vita un escremento canino e poi piangete… Ipocriti!” L’ultima parola la disse a voce alta, abbastanza forte da far abbaiare uno dei tanti cani che abitualmente defecavano nel suo giardino, senza avere la decenza di raccogliere i loro regali non graditi. Guardò di nuovo l’orologio: era tardi, doveva sbrigarsi ad andare in libreria, prima che Martha avesse mandato una pattuglia a vedere se fosse ancora viva. “Lo sono, Martha,” bisbigliò. “Purtroppo lo sono.”
2
Smorzò la sigaretta sulla scrivania. Una bruciatura in più, una in meno… Dopotutto le davano un tocco vintage. Corse fuori dalla sua stanza, afferrò una sciarpa dall’attaccapanni davanti la porta d’ingresso e si diresse in libreria. Faceva freddo. Tirava un vento gelido che le penetrava nelle ossa. La testa le faceva male. Fissò una nuvoletta di vapore che le era uscita dalla bocca mentre espirava. “Sembra un’anima…” bisbigliò. Affrettò il o: in quella via c’erano poche persone e non aveva intenzione di incappare in un malintenzionato. “Mi devo uccidere io!” disse fra sé, pensando di essere egoista così come in vita, anche nella morte. Ma, in fondo, era la vita a essere stata egoista e gretta con lei. La libreria era poco distante, mancavano giusto una ventina di metri. Si fermò qualche secondo ad apprezzare una sciarpa a quadri in una vetrina. Le sarebbe stata bene, pensò, ma poi si disse che i vestiti stanno bene solo ai manichini. Forse perché i manichini non pensano di essere inguardabili o disadorni: i manichini indossano una maschera di panni e basta. Lei non poteva essere un manichino perché era troppo semplice vivere senza fregarsene o senza ragionare. Era troppo semplice indossare una maschera di indumenti allegri e gioiosi, perché era come stamparsi un falso sorriso sulla faccia. Aveva sempre odiato le menzogne… Per questo aveva smesso di credere nella religione e nelle sue profetiche leggende. Quella che la faceva ridere di più era il paradiso… O forse le faceva paura. Non aveva mai saputo distinguere le sue emozioni: erano un eterno contrasto. Prima o poi le sue eterne contraddizioni l’avrebbero logorata dall’interno senza lasciarle il soave piacere di premere un grilletto o affondarsi un coltello nel petto. Il paradiso… Un’eterna felicità dopo una vita di sofferenza. Ma non è forse troppo l’eternità? Perché mai restare in eterno in un posto celeste quando il mondo è così pieno di colori, proprio come la sciarpa a quadri che Sarah stava guardando? A un tratto, mentre fantasticava e vagava nei colori di quel incrocio meraviglioso vide nella vetrina qualcosa, o meglio, qualcuno riflesso. Non era un manichino, di questo fu sicura quasi subito. Fissò il riflesso per qualche attimo. Un uomo. Era un uomo. Indossava un cappotto scuro ma non
riuscì a distinguerne il colore. Sembrava nero, forse grigio… Portava un cappello a falda che gli scendeva fino a sopra gli occhi. Non vedeva i suoi lineamenti: era troppo nell’ombra e troppo lontano. Poteva avere una trentina d’anni visto di sfuggita ma aveva delle movenze stranamente mature. Teneva una mano in tasca, l’altra reggeva una pipa dalla quale fuoriusciva un piccolo nugolo di fumo. La gamba destra era leggermente avanzata mentre quella sinistra sembrava aggrapparsi all’altra da dietro. Il signore dal cappotto scuro alzò il cappello e sorrise. Sarah percepì vagamente la forma dei suoi occhi e delle sue labbra: quelle avevano più di una trentina d’anni… Il signore fece un cenno con la mano. Sarah pensò che stesse salutando lei, rabbrividì e tornò sui suoi i cercando di dimenticare quella figura strana che sembrava uscita da un libro di favole noir.
3
Spinse la porta e un simpatico e a dir poco odioso camlo tintinnò. “Martha? Ci sei?” disse affannata. Da lontano Sarah sentì un flebile “Sì, sorellina sono in cantina! Vieni a darmi una mano!” Sarah sbuffò. Non le piaceva affatto quel posto freddo. Non sapeva dove si patisse più fortemente il gelo: fuori o in quel bugigattolo di cantina. Strillò rassegnata: “Ora scendo!” La cantina odorava di muffa e, miasma ancora peggiore, di libri dimenticati. Le dava un po’ fastidio che delle persone senza cuore abbandonassero dei libri, lì, negli scaffali. Lasciare un libro non letto era, per lei, tanto uno spreco quanto piangere sul latte versato. Molte mensole erano impolverate, altre avevano così tanti fori da non essere degne di tale titolo. Sua sorella Martha la aspettava dietro uno di quei pezzi di legno che avevano appena la forza di portare il peso della cultura. In realtà riusciva a vedere a stento i capelli di sua sorella: era completamente immersa in una pila di libri. Poteva vedere le sua mani gettarne un paio alla volta per aria. Sarah credette addirittura di sentire delle urla stridule che uscivano, come piccole voci silenziose, dalle pagine di quei libri, vittime di un tale sacrilegio. “Cosa fai, Martha?” gridò Sarah, sentendo dentro di sé risvegliarsi la sindrome della croce rossina per quegli agglomerati di carta stampata. “Aiutami! Non stare lì impalata!” strillò ancora più forte lei, ma la voce giunse leggera e ovattata, coperta da strati e strati di cellulosa. Sarah si precipitò a raccogliere i volumi che erano atterrati dopo un volo accidentale sul pavimento di legno. Le era parso di vedere più volumi di quanti ne fossero realmente. “Vedi la realtà distorta… è normale… questa non è la tua realtà…”
“Sta zitta!” mormorò nervosa Sarah. “Cos’hai detto, cara?” urlò sua sorella. Sarah si chiese come mai le persone sentono sempre tutto ciò che non dovrebbero sentire. “La vita è strana” si disse. “Niente, Martha” si affrettò a rispondere. “A me sembrava di aver sentito qualcosa… Bah, sarà l’età.” “Oh, merda! Il suo compleanno…” Sarah l’aveva completamente dimenticato. Non aveva nemmeno comprato un regalo. E mancava un solo giorno! “Meglio essere soli al mondo,” pensò. “Niente regali o convenzioni, nessuna data da ricordare, nessuno di cui preoccuparsi o di cui dispiacersi, nessuno che sia lì a giudicarti quando ricadi nei tuoi errori…” Poi, avvilita aggiunse: “Nessuno che pensi a te, che ti voglia bene…” Così, Sarah si sentì morire nelle sue stesse convinzioni. “Non sei poi così vecchia…” disse Sarah tornando improvvisamente alla realtà. “Ho trentacinque anni… trentacinque…” poi aggiunse “Cosa darei per averne venti…” “Venti anni di rimpianti e sofferenze, cara sorella. Molto meglio avere trentacinque anni e un po’ di dolore in meno.” “Sarah, non ci sarai ricaduta?” Si guardarono negli occhi e non ci fu bisogno di parlare. “Sarah… so che non ti piacerebbe andare in un centro, ma sarebbe per il tuo bene… io…” “Martha, smettila!” strillò Sarah. “Sto bene! Io sto bene!” Pronunciò queste ultime parole con sforzo. Le lacrime cominciarono a uscirle dagli occhi e la disperazione che aveva cercato di esprimere in un folle gesto ignominioso le si riversò in un profluvio di piccole e trasparenti gocce salate.
Martha Vitrey strinse fra le braccia sua sorella minore. Le diede un bacio sulla fronte e, per qualche minuto, come se quella fosse la loro vera lingua, piansero
insieme. Quel magico coro fu interrotto, altrettanto bruscamente di come era cominciato, dal tintinnio dei camli della porta d’ingresso. “Un cliente!” esclamò Martha entusiasta. “Un cliente!” ripeté Sarah senza nascondere il suo abbattimento. Sua sorella le sorrise, la guardò dolcemente, la prese per il braccio e la trascinò fuori con tutta la forza che aveva. Salirono rapidamente i gradini che cigolarono sotto i loro piedi. “Buongiorno!” disse Martha mostrando uno dei suoi sorrisi migliori, quello che faceva quando fiutava il denaro. “Salve!” rispose educatamente il signore di fronte a lei chinando il capo. Sarah rabbrividì. Le sembrava di conoscere già quell’uomo, di averlo già visto da qualche parte. Poi ricordò: la vetrina! Sì, doveva essere lui! Indossava lo stesso cappotto che scoprì essere grigio scuro. Da vicino poteva vedere la lanugine che si era formata attorno alle maniche e ai bottoni di pelle nera. Un fazzoletto bianco sporgeva dal taschino superiore. Sembrava essere di accurata fattura, ricamato, non così diverso da quelli che sua madre adottiva le aveva regalato per il suo decimo compleanno. Il cappello che gli copriva il capo era piuttosto malridotto. “La pioggia di ieri,” pensò Sarah. In effetti, osservandolo meglio, notò che la falda e la cinghia, che era avvolta alla base di un piccolo rilievo che lasciava appena lo spazio necessario per la testa, erano leggermente bagnate. Teneva la pipa in mano. A Sarah sembrò un vecchio cimelio di famiglia. Ricordava vagamente quelle che suo nonno teneva gelosamente custodite in un cassetto della sua camera da letto. Poi il signore mosse la bocca e pronunciò alcune parole, risvegliando Sarah dal torpore che la sua attenta osservazione le aveva procurato. “Sto cercando una raccolta di poesie. È piuttosto vecchia. L’autrice è Laira Noir.” Sarah vide i suoi occhi brillare. Avevano qualcosa di malefico. Qualcosa di antico. “Ѐ solo frutto della tua fantasia” si disse. Eppure quel qualcosa era lì. Ma che cosa? “Non abbiamo alcuna raccolta di Laira Noir ma lì, sullo scaffale alla sua destra,
potrebbe trovarne altre, a mio parere splendide, di altri autori.” Lo disse con la voce di chi cerca disperatamente di vendere. Martha avrebbe venduto la sua anima per qualche soldo in più. “Non fa niente,” rispose con un filo di voce il signore. Sarah ipotizzò che avesse una quarantina d’anni. L’uomo si rimise il cappello, con un lieve cenno salutò le due ragazze celate dall’ingombrante bancone e uscì, così come era entrato, accompagnato dal tintinnare dei camli. “Bell’uomo,” mormorò Martha, per la quale ogni uomo era un “bell’uomo”. Una sera le aveva confessato di volersi sposare. Sarah le aveva detto che gli uomini sono solo una fonte inesauribile di preoccupazioni. Martha le aveva risposto che delle volte le preoccupazioni sono migliori della solitudine. Ma questa volta aveva ragione. Il signore che era appena uscito dalla libreria era davvero bello. Se non fosse stato per quel qualcosa. Martha sospirò, poi vide gli scatoloni e annunciò con quel suo tono allegro che Sarah odiava: “Oh, guarda, quelle scatole non sono ancora state svuotate. Vai tu?” rivolse lo sguardo a sua sorella. “Non mi chiedere se vado io,” pensò. “Non domandarlo affatto se sai che devo obbedire e basta. Vai tu?” e la voce della sua mente diventò quella isterica dei comici che non sanno far ridere. “Sì che vado io,” si rispose. “Anche se il culo lo potresti muovere anche tu.” E, litigando brevemente con la vocina odiosa che si era impossessata della sua mente, prese le scatole, guardò sua sorella con aria di rimprovero, proprio come una moglie guarda suo marito quando ha sbagliato a fare la spesa, e scese nel magazzino. Di nuovo quello schifo di posto.
4
“Ti odio, Martha. Perché mi devi far fare sempre le cose che non voglio fare?” la voce non era la sua, come al solito. Questa volta era quella di una bambina, una di quelle che nei film sono le infime schiavette delle sorelle maggiori. Beh, era così che si sentiva. Un’infima schiavetta, per di più con delle scatole in mano che le bloccavano il sangue. Scese le scalette che portavano al magazzino dove tenevano la maggior parte dei volumi; posò gli scatoloni in un punto che le sembrò meno sudicio degli altri; prese una decina di libri e cominciò a sistemarli in ordine alfabetico per autore. Il primo era Viaggio al centro della terra di Defoe.
“D…. D… D… Eccoti!”
Mise il libro accanto a Mille leghe sotto i mari. “Mai letto,” si disse. “Nessuna intenzione di farlo.” “Questo è lo spirito giusto!” disse la voce di suo padre adottivo. Diceva sempre così quando dovevano andare a pescare e lei rideva, e come se rideva. La prima volta aveva preso una trota, una trota enorme. L’avevano cucinata insieme e l’avevano mangiata con la mamma e con Martha. Le piaceva pescare, le piaceva stare con quello che chiamava papà anche se, in fondo, non era suo padre. Però lo amava e insieme a lui aveva amato il calcio, il bton e la pesca. Poi le canne da pesca furono messe in un ripostiglio e suo padre, proprio come un vecchio oggetto in disuso, sotto terra, in una cassa, mano nella mano con sua moglie. Erano fredde l’ultima volta che le aveva sfiorate, fredde come… Prese un altro volume. L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo, il suo preferito. Lo sfogliò per qualche attimo. “Tutti gli uomini sono condannati a morte,” lesse. “Lo adoravi, vero?” disse la sua mente con la voce di suo padre. “Te l’avevo regalato io per il tuo compleanno. Avevi undici anni…”
“E ancora qualche sogno,” aggiunse Sarah sardonica. Fu allora che lo sentì. Era come un fruscio. Ricordava vagamente lo scorrere dell’acqua. Ascoltò meglio… Non era acqua: era vento. Pensò che ci fosse qualche crepa nel muro e asse dell’aria. Sì, poteva essere un’ipotesi. “Non essere stupida,” disse la stessa vocina che solo qualche ora prima la incitava al suicidio. “Siamo sotto terra, non possono esserci spifferi.” “E allora cos’è?” mormorò Sarah in risposta. Neanche la vocina lo sapeva. Avanzò di qualche o. Ora poteva sentirlo ancora più chiaro. Sì, era il vento, ma era anche qualcos’altro. Si fermò e tese le orecchie. Le parve di sentire una voce. “Vieni…,” poi qualcosa di simile a un verso di dolore. “Ho le allucinazioni,” disse Sarah rassegnata alla pazzia che gradualmente, come un rivolo d’acqua, si stava infiltrando nel suo cervello. Ma quella voce c’era. C’era! “Vieni…,” era più forte. “Chi sei?” bisbigliò spaventata Sarah. “Non è tempo di risposte,” questa volta la voce era nella sua testa. Sarah trattenne a stento un urlo. Riprese a camminare, piano. Era terrorizzata dall’idea di vedere un morto, pallido, con gli occhi vuoti e i rivoli di sangue che gli scendevano dalla bocca, e la bocca che si muoveva… Il resto non la spaventava granché. Ma la bocca che si muoveva era un altro paio di maniche. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì non c’era nessun morto parlante. “Pericolo scampato” si disse. Poi la voce, proprio come lei aveva ripreso a camminare, continuò a parlarle. “Vieni, vieni da me…” Era una voce femminile, la voce di una donna stanca. Sarah la percepì ovattata, come se a coprire il suono ci fossero libri e libri. “E il regno dei morti,” aggiunse quasi involontariamente. “Vieni! Vieni!” ora la voce non bisbigliava più. Strillava. Sarah cominciò a temere per la sua sanità mentale prima che per la sua vita.
“Ora mi giro,” pensò. “Ora mi giro e c’è il cadavere che mi parla.” Sarah si voltò, piano. Aveva troppa paura di farlo bruscamente e all’improvviso. Un dodicesimo… due dodicesimi… tre dodicesimi… quattro dodicesimi… cinque dodicesimi. Si fermò. Aprì gli occhi. Davanti a lei c’era quello che sembrava essere la fonte della voce. Non un cadavere, non un mostro… Un libro. Lo prese fra le mani. Era pieno di polvere. Lo pulì un po’ con le maniche della sua maglietta scollata. Sarah giurò fra sé di non averlo mai visto fra i libri del magazzino. Poi lesse il titolo.
LAIRA NOIR
Poesie
“Non dovresti avere paura di nulla,” pensò. “Ѐ un libro.” Aveva ragione, era solo un libro. Un centinaio di pagine rilegate in una copertina bianca. Al centro c’era l’immagine di un’autostrada, vuota, come avrebbe voluto che fosse la sua mente. “Non essere stupida,” mormorò la vocina. “E allora spiega com’è arrivato qui sotto!” Sarah scrollò le spalle. “Martha potrebbe averlo portato qui,” rispose alla vocina cercando di non perdere la razionalità che tanto la contraddistingueva. Ma sapeva che non era così… “Certo che lo sai,” continuava a ripetere la vocina. “Martha non l’ha mai sentito nominare. L’ha ammesso lei stessa oggi.” Era vero. “Potrebbe semplicemente averlo dimenticato,” rispose, questa volta trattenendo il fiato e buttando fuori le parole come se le fe male tenerle dentro. Anche la sua razionalità cominciava a cedere. Sarah si aspettava di vederla uscire dal suo cranio da un momento all’altro con l’aspetto di una bambina vestita a festa, sollevare le spalle e le mani e saltellare via dicendo semplicemente Boh. Era quello che avrebbe detto anche lei se la faccenda non le fosse sembrata così strana. Il libro era lì, ma né lei né sua sorella ce l’avevano portato. E allora chi? “Sarah? Hai finito di sotto?” la voce stridula di sua sorella interruppe i suoi pensieri. Per una volta ne fu felice e, al posto di una parolaccia, le scappò un sospiro di sollievo e un grazie.
“Un attimo!” gridò. Finì il lavoro che aveva cominciato, sempre tenendo il libro di poesie in una mano. Stava decidendo se tenerlo con sé o lasciarlo lì insieme a tutta la questione. Guardò il libro, poi la mensola vuota. “Al diavolo,” si disse. Strinse il libro a sé e salì le scale. Poco prima di poggiare il piede sull’ultimo gradino sentì di nuovo quella voce levarsi dalle pagine di quel libro. Brava le sembrò che dicesse, ma non ci fece caso. Forse era realmente frutto della sua fantasia.
5
“Diamine, sorellina, il tramontare del sole arriva prima di te!” Martha rise. Autocompiacimento cronico. Sua sorella ne era affetta sicuramente. “Hai mai visto questo libro?” chiese Sarah. “Sai già la risposta,” disse la vocina. “Come potresti non saperla,” continuò. “No, dove l’hai trovato?” “Nel magazzino,” sua sorella glielo tolse di mano. “Ehi! Ridammelo!” gridò avventandosi contro Martha. “Però… Non è lo stesso libro che cercava quel signore?” Sarah annuì. In fondo era strano. Quel libro era apparso esattamente dopo la comparsa di quell’uomo ambiguo nella libreria. A un tratto le attraversò la mente un’idea assurda: e se la sola vista di quel signore, riflesso nella vetrina, avesse innescato una sequenza di eventi dall’incerto sviluppo? “Deliri, Sarah,” si disse. “Hai detto qualcosa, cara?” mormorò Martha intenta a osservare la foderina del libro. “No… niente… pensavo ad alta voce,” Martha fece finta di non sentirla. Scrutava in ogni dettaglio quel libro, forse ripescando nella memoria l’ultima volta in cui le era ato per le mani. Niente, nessun ricordo del genere. Quel libro, se era entrato nella libreria ed era stato poggiato su uno scaffale da mani umane, non era stato certo attraverso le sue. Umane…
“Forse dovremmo chiamare quel signore e venderglielo. È in ottimo stato. Potremmo spillargli un po’ di soldi,” annunciò Martha annusando il libro. Se per Sarah odorava di carta, per Martha ogni singola pagina era una banconota formato gigante. “Non ha lasciato il numero di telefono,” disse Sarah. Le sembrò di cogliere un sospiro di sollievo nascosto fra le parole. “Rinuncia,” si disse. “No, lo sai,” replicò la voce. “Ѐ contentezza,” poi aggiunse: “Tu sei contenta di non venderlo, lo vuoi tutto per te.” “Guarda che fortuna!” strillò Martha. “Non è lui? Quello che sta attraversando ora?” Era lui. Martha fece per uscire. “No!” urlò Sarah. Martha si voltò. Un espressione di incredulità le colorò il viso. Fissò sua sorella con aria di disappunto. “No?” il tono di voce sembrava piuttosto iroso. “Vorrei leggerlo,” bisbigliò Sarah, un po’ atterrita. Poi ritrovò il coraggio: era sua sorella, non un buttafuori della disco. “Problem?” aggiunse. Sua sorella la osservò per qualche altro secondo, poi disse: “Non c’è alcun problema,” e aggiunse “Non ti facevo così attaccata ai libri.” “Nemmeno io,” pensò Sarah. Quel libro, però, continuava a chiamarla. Per qualche istante pensò che avesse bisogno del suo aiuto. “No, Sarah,” si disse. “Sei tu che hai bisogno di aiuto,” scosse la testa “Dell’aiuto di uno psicologo.”
6
Sarah diede un’occhiata all’orologio mordendosi le labbra. Erano le undici e tredici… e un secondo… e due secondi… e… “Io vado,” disse esasperata. “Di già? Sono appena le undici, chiudiamo alle dodici!” Sarah la guardò inarcando le sopracciglia. Alzò leggermente le braccia e le riabbassò. “Chi credi che venga?” esclamò. “I nostri unici clienti sono la polvere e i ragni ma a quanto pare non usano la moneta corrente e ripagano i libri con ragnatele e insetti morti.” Poi aggiunse: “Puoi cavartela senza di me.” Martha sembrò sorpresa. Poi la sua espressione venne completamente trasfigurata dall’accenno di disapprovazione che scaturiva dai suoi occhi. Martha fece un sospiro, poi un altro e al terzo parlò: “Hai sempre fatto così. Scarichi le tue responsabilità sugli altri. Dai la colpa agli altri della tua infelicità ma sei tu, con il tuo rammarico e con la tua perseveranza a rammentare gli eventi spiacevoli che hanno segnato la tua esistenza,” prese fiato e sollevò leggermente la testa. “Non porti nemmeno rispetto alla memoria dei nostri genitori che hanno lavorato per anni a questa libreria!” Si voltò, rivolgendo le spalle a sua sorella minore. “Va,” aggiunse. Sarah, riconoscendo in un secondo gli errori di tutta una vita a riversare lacrime senza tentare in alcun modo di asciugarle, valutò se andare, chiudere la porta alle sue spalle e rifugiarsi a casa sua, in camera, davanti al suo specchio, magari senza un coltello in mano, o restare. Restare e subire i rinfacci di quella che restava sua sorella, o andare ad analizzarsi la nera coscienza sperando in un pentimento o in una specie di
conversione? A convenienza, Sarah scelse la seconda e, coerentemente, aprì la porta e uscì stringendo il libro di poesie fra le braccia. Fuori il vento soffiava ancora più forte di prima. Il rigido inverno sembrava non voler placarsi, come se avesse deciso di permeare il mondo con il suo gelo fino alla fine dei tempi. Ma per Sarah il vento, la pioggia, la grandine o la neve non facevano alcuna differenza. Il suo gelo era diverso. La logorava dall’interno, le trivellava gli organi vitali lasciandola quasi esanime. Il suo spirito, o la sua mente, o quel qualcosa che più di ogni altro era vicino ai suoi sentimenti, era pressappoco inanimato, come una vecchia teiera da esposizione, troppo vecchia e troppo bella per essere usata. Aveva ormai dissipato ogni briciola di energia e nei suoi occhi trapelava soltanto la spossatezza di un’esistenza vana. “Gioventù bruciata,” pensò. Mentre camminava sbirciava di tanto in tanto le vetrine; scrutava il suo riflesso. Era pallida. Il suo naso un po’ tozzo era rosso come un peperone. Anche le sue guance erano leggermente rosee. “Il freddo” si disse. Prima o poi sarebbe andato via. Anche se non sembrava averne la minima intenzione, se ne sarebbe andato, perché tutte le cose vengono per andarsene. Come gli uomini nascono per morire, le foglie crescono per cadere, i fiori per apire. Solo il dolore che a tratti le percuoteva il cuore persisteva, affezionatosi ormai a una così fragile vittima.
7
Si fermò a un Caffè. Era da tanto che non si sedeva a un tavolino e non ordinava qualcosa. Il solo fatto di “ordinare”, in realtà, accresceva la sua autostima. L’insegna del piccolo, se non minuscolo Caffè di paese era arancione. La scritta Caffè del Corso era accompagnata da un’altra meno voluminosa dal 1952. “Non si effettuano restauri e/o pulizie” aggiunse Sarah imitando la voce delle pubblicità che tanto la perseguitavano, il ritratto del sistema che si rifiutava di accettare, la sintesi perfetta fra il conformismo e la falsità. Niente è come nelle pubblicità. Nemmeno il grande miracolo della vita si rivela un prodigio una volta aperta la confezione. Sarah appoggiò i gomiti sul tavolino di finto marmo. Mise pigramente la testa fra le mani e chiuse gli occhi. Che bello chiuderli per un secondo, massimo due… “Signorina?” una voce maschile, calda e profonda, la risvegliò dal torpore che per qualche attimo si era imprigionato del suo corpicino. Sarah sollevò lo sguardo. L’uomo dalla voce calda e profonda aveva due grandi occhi cerulei, un naso minuto e capelli castano chiaro incredibilmente spettinati. Sembrava di poco più grande di lei, non poteva avere più di venticinque anni. Quello che aveva creduto fosse un uomo era soltanto un ragazzo con una tenuta da lavoro arancione come l’insegna, con la stessa scritta sul taschino destro. Con una molla al taschino era agganciato un rettangolo di plastica lucida. Sarah strizzò appena gli occhi leggendo il nome del ragazzo dalla voce calda. Il ragazzo lo sfiorò con un dito e Sarah alzò ancora un po’ lo sguardo tornando a fissarlo negli occhi. Era lì per l’ordinazione. “Su svegliati,” si disse. “Mi scusi. Devo essermi addormentata.” Poi, per giustificarsi disse quasi sottovoce: “Ѐ stata una giornata no.” “Deve essere proprio sfortunata, signorina!” e indicò il sole oscurato lievemente da alcune nuvolette bigiognole. “Ѐ ancora giorno!” Sorrise. Sarah ricambiò. Il
sorriso del ragazzo dalla voce calda era radioso. Poteva quasi sentirne l’ardore sulla pelle. “Glen,” disse allungandole la mano. “Glen Haber.” Sarah la strinse. “Sarah Vitrey.” Era inaspettatamente calda per quel freddo pungente. La guardò: era affusolata come quella di un pianista, la base delle dita era callosa e scorticata, le unghie tagliate male o rosicchiate fino al possibile. Poi, abituatasi al calore che emanava, la lasciò andare a malincuore. “Le porto una cioccolata calda e un cornetto?” disse il ragazzo dalla voce calda, quello che per qualche strana ragione la sua mente battezzava con tale definizione e si rifiutava di chiamare Glen. Sarah accennò un sì col capo. Il ragazzo voltò pagina sul suo blocknotes e si appuntò due o tre cose. Poi si voltò e si avviò verso il bancone. Qualche attimo dopo fu di ritorno con un vassoio con una tazza colma di cioccolata fumante e un cornetto ripieno alla crema. “Grazie,” bisbigliò Sarah. Un secondo dopo affondava i denti nel cornetto, cercando di allietare con il dolce l’amara solitudine. La cioccolata era bollente, abbastanza da ustionarle la lingua e da farle scappare una piccola imprecazione. Sarah sentì una risata profonda dietro le sue spalle. Non era il ragazzo dalla voce calda. Sembrava più la risata di una persona che ha superato da un po’ la quarantina. Si voltò un po’ spaventata trovandosi faccia a faccia con l’uomo della vetrina. “Però è anche l’uomo del libro,” disse la vocina nella sua mente. Era vero. Sarah strinse più forte il libro di poesie che per qualche attimo aveva abbandonato i suoi pensieri. L’uomo della vetrina sorrideva. C’era qualcosa in quel sorriso che la attraeva, proprio come era stata attratta dal libro. Ma non era affettuoso, non le scottava la pelle come lo sguardo del ragazzo dalla voce calda. Era freddo e morto come scartafacci dimenticati, vuoto come le parole e le vite di personaggi inventati di cui nessuno ha mai saputo nulla, gelido come l’anonimato. Sarah cercò di contraccambiare il sorriso. Con la mano, fece cenno al signore di sedersi. “Fa che non si sieda, fa che non si sieda,” ripeteva nella testa, quasi rivolgendo una preghiera al destino che, in un modo o nell’altro, avrebbe determinato il corso degli eventi. Al terzo “fa che non si sieda,” l’uomo della vetrina fece un cenno con il capo, si tolse il cappello appoggiandolo dalla parte del tavolino
opposta a quella occupata dalle braccia congelate di Sarah, allontanò leggermente la sedia e poggiò il suo deretano sul sedile, fingendo di non accorgersi dello sguardo un po’ contrariato della ragazza che aveva di fronte. “Libro interessante,” disse fingendosi indifferente. Sarah scrollò le spalle. “Avevo intenzione di leggerlo,” chinò lo sguardo verso la copertina del libro. Troppo bianca. “Beh, anche io,” disse l’uomo della vetrina con una punta di istigazione. “Mi dispiace di averglielo sottratto,” fece Sarah per niente dispiaciuta. “Ve lo farò recapitare non appena lo avrò terminato.” L’uomo sorrise e abbassò leggermente la testa. Quando la rialzò accennò quello che v’era di più simile a un grazie. “Joan Madson,” tese la mano affinché Sarah gliela stringesse. Era la seconda persona che si presentava a Sarah quel giorno. Lei pensò, un po' stupita, a quanto frequentare i bar incrementasse la rete di relazioni di qualunque individuo, anche del più asociale. Sarah allungò il braccio e afferrò la mano dell’uomo che le stava davanti. “Sarah.” “Bel nome,” biascicò. “ Il nome di mia figlia,”. “Avete una figlia?” chiese Sarah incuriosita. “Avevo. Il fato me l’ha strappata brutalmente dalle braccia quando aveva appena pochi giorni,” il signore che diceva di chiamarsi Joan piegò la testa sfiorandola con le mani robuste. “Se si può chiamare fato un assassino,”. Nei suoi occhi grigi Sarah scorse una lacrima. Si sarebbe commossa se anche quella, come ogni fibra del corpo di quell’uomo, non avesse stillato gelo. “Mi dispiace,” fu tutto quello che le venne in mente. Eppure era un fenomeno con i biglietti di condoglianze. Quelli erano la sua specialità. Ne aveva scritti tanti in vita sua, e quella sua stessa vita aveva ricambiato con un biglietto di compianti e uno per il treno di sola andata verso Fanculandia.
La conversazione procedette, tralasciando l’argomento della presunta figlia deceduta. L’alquanto ambiguo essere umano che stava seduto davanti al Caffè del Corso sembrava piuttosto interessato alla famiglia e alla triste storia che aveva accompagnato Sarah ai suoi venti anni. “Cosa faceva tuo padre?” “Aveva una libreria, la stessa che ha visitato stamattina,” Sarah sospirò. “E pescava.” “Interessante,” disse l’uomo della vetrina corrugando la fronte. “E sua madre?” “Disoccupata, qualche volta aiutava papà in libreria,” Sarah sorrise ricordandosi di come sua mamma si desse da fare per essere e sentirsi il più utile possibile, di come si innervosisse quando suo marito indossava le camicie non stirate solo per risparmiarle un’altra fatica, di come sorridesse di nascosto quando fingeva di essere arrabbiata. Poi, Sarah si ricordò dell’uomo che aveva di fronte e riaffiorò sulla terra ferma dopo un breve sguardo all’oceano dei suoi ricordi. “E i suoi genitori?” domandò Sarah cercando di apparire incuriosita. “Si suicidarono, senza lasciare lettere o testamenti,” disse, quasi imibile. “Tutti si chiesero il perché. Non avevano debiti, stavano bene. A me non è mai importato molto del motivo: erano morti e basta. Io non ero nemmeno qui quando successe: ero fuori in viaggio. A quanto pare sono arrivato troppo tardi,” Sarah tacque per un secondo. Poi tirò un mezzo sospiro, interrotta dalle parole dell’uomo della vetrina: “Molti definiscono la mia vita una storia triste,” mormorò. “Me compreso.” “Ho sentito di peggio,” biascicò Sarah ricordando lo specchio nel quale aveva fissato il suo riflesso mentre cercava disperatamente di congedare il mondo terreno per sprofondare nel regno del sogno eterno. Sarah guardò l’orologio: era l’una e mezza. “a in fretta il tempo nei bar,” si disse. Strinse al petto il libro di poesie e fece per prendere il portafogli; il signore della vetrina le mise una mano sul braccio impedendole di prendere il borsello in cuoio logoro e semivuoto. “Ma io…” fece per dire Sarah, sorpresa dinanzi alla generosità di un uomo alla
vista freddo come l’acciaio e dagli occhi di ghiaccio. “Insisto,” disse sorridendo. Sarah annuì. “ Grazie,” disse. “Ma non posso lo stesso darle il libro,” pensò. Lasciò pagare il conto al signore della vetrina, scostò la sedia e si alzò. Fece un lieve cenno con il capo mentre l’uomo di fronte a lei si alzava. Gli strinse nuovamente la mano e si voltò. Mentre si allontanava salutò furtivamente il cameriere che l’aveva svegliata. Lo guardò negli occhi per un’istante, poi riprese a camminare. Cinque i, sei i, sette i… E già si sentiva l’anima ardere. Nemmeno le lacrime delle più tristi memorie avrebbero potuto spegnere quel fuoco vivo. Chiuse gli occhi, giusto in tempo per evitare che anche i suoi pensieri più razionali bruciassero invano.
8
Sarah affrettò il o. Si sentiva le gambe gelate e non vedeva l’ora di stendersi sotto una coperta di lana a leggere il libro che aveva trovato nel magazzino. Ripensò per qualche secondo a quella fiamma ardente che erano gli occhi del cameriere e sorrise. Ma affezionarsi a qualcuno non faceva per lei: quelli a cui era legata, prima o poi, l’abbandonavano per volontà del fato o loro. Mancavano una trentina di metri da casa sua; sfilò le chiavi dalla tasca del soprabito e si preparò ad aprire il cancello che la separava dall’uscio della sua infima ma tanto accogliente - in alcuni momenti - dimora. Sfiorò le chiavi a una a una fino a quando riconobbe quella che apriva il cancello; lo aprì e si diresse verso la porta del suo appartamento. Erano anni che si basava sul tatto per riconoscere le chiavi delle diverse serrature. Quella del cancello di ferro aveva sopra inciso un muro in mattoni e la scritta ORION. Il suo colore acciaio brillante aveva lasciato il posto a un acciaio un po’ più sporco, ma pulire quelle chiavette non era nei suoi progetti per il futuro: l’affezionato sporco non avrebbe dovuto temere di perdere la compagnia delle sue chiavi. Almeno lui. Inserì la chiave - questa volta lunga - senza incisioni nella toppa, girò e spinse lievemente. La porta di legno e ferrò si aprì lasciandola entrare in un ambiente leggermente più caldo della strada. Sarah appoggiò il libro su una mensola accanto alla porta, si tolse il soprabito e lo riappese all’attaccapanni. Ne avrebbe dovuto comprare uno nuovo. “Ѐ troppo vecchio” pensò. “E con uno nuovo potresti sembrare più attraente per il cameriere,” mormorò la vocina nella sua testa. “Taci,” disse a voce alta. Poi fece una piccola smorfia con la bocca, sentendosi costretta ancora una volta a dare ragione alla sua coscienza. Sarah cercò di ricordare dove aveva riposto le coperte. Rovistò velocemente fra i dati che aveva immagazzinato sulla disposizione degli oggetti in casa. Si ricordò del vecchio mobile nella camera da letto dei suoi genitori. Dopo un cinque - sei i, Sarah fu davanti a quella porta che per molto tempo, aveva lasciato aprire solo a sua sorella, temendo di risentire l’odore dei suoi genitori, rivivendo ancora più intensamente ogni attimo trascorso in loro
compagnia. Afferrò la maniglia con un po’ di indecisione. Poi, pensando al tepore che quelle coperte le avrebbero potuto offrire gratuitamente, la strinse e la abbassò. Allungò il braccio, spingendo verso l’interno quella porta che tanto aveva temuto ma che non era altro che un pezzo di compensato eroso dal tempo e dai sospiri della casa. La stanza da letto dei suoi genitori era pulita e in ordine. L’odore dei suoi genitori aveva lasciato il posto all’asettico effluvio del detersivo alla lavanda di sua sorella. I mobili erano sempre gli stessi, il letto era sempre lo stesso, nemmeno il copriletto era stato cambiato dall’ultima volta che l’aveva visto… Ma era diverso. Ora la stanza era solo una stanza, i suoi genitori erano solo una sfortunata coppia deceduta in un incidente d’auto, lei era solo lei più triste e forse, in quel mondo in continuo mutamento, era cambiata meno di tutte le altre cose. Si avviò verso l’armadio che ricordava essere bianco e che ora era di un grigio sporco. Lo strofinò con l’indice della mano destra, in orizzontale. Si guardò il polpastrello con il quale aveva tastato la superficie del mobile e, notando un grigio polvere piuttosto accentuato, si chiese da quanto tempo sua sorella non venisse a pulire casa. Poi chiuse gli occhi per un secondo rendendosi conto di quanto fosse stata immatura e infantile durante tutti quegli anni, senza concedere a sua sorella un sorriso, un sorriso vero e rassicurante, uno di quelli che solo sua madre sapeva offrire a chiunque, senza una particolare ragione. E lì di ragioni ve n’erano a bizzeffe. Impugnò saldamente la maniglia dell’anta dell’armadio, decisa a sfrattare ogni granello di polvere da quello che doveva essere il loro giaciglio da qualche mese. Si diresse in bagno dove era sicura di trovare uno strofinaccio e qualche secchio. Prese un secchio blu sbiadito decisamente vecchio, con una ventina di graffi e due o tre ammaccature ai lati. Anche il manico in ferro era un po’ arrugginito, ma era il meglio che potesse trovare nel piccolo stipo sotto il lavandino e si accontentò. Del resto le necessitava per mansioni umili che di certo non andava a narrare nei dettagli fra le strade del suo paesino. Lo strinse tenacemente e lo riempì d’acqua. Aggiunse un po’ del detersivo alla lavanda di sua sorella giusto per darle un po’ di aroma. Sebbene non ne andasse pazza le sembrava desse un tocco di classe all’ambiente. Trovò gli strofinacci dietro allo sturalavandini in plastica rossa. Ne prese due, uno per l’armadio la cui pulizia costituiva il suo principale obiettivo, e un altro per l’oggettistica alla
quale sua madre teneva con particolare riguardo. Bagnò il primo strofinaccio immergendolo nel secchio blu. Poi cominciò a strofinare energicamente con le mani nude - non era riuscita a trovare i guanti che di lì a breve sarebbero divenute inguardabili. Lucidare la parte più alta dell’anta le risultò faticosissimo, soprattutto perché, non essendo molto alta, doveva tenere le braccia sollevate il più possibile. Avrebbe potuto usare una sedia, in mancanza di una scala, ma le sedie, come il resto dell’arredo, avevano più dei suoi anni e non assicuravano la massima stabilità. Dopo due o tre minuti di sfregamento, i primi trenta centimetri dell’anta destra dell’armadio erano di nuovo bianchi. Sciacquò lo strofinaccio impregnato di sudiciume e riprese il suo lavoro. Le faceva bene “muoversi e sgobbare” come diceva sua madre. “Un secchio e una pezza fanno miracoli,” aveva sempre detto… Ed era vero. Per l’intera ora impiegata Sarah non aveva rivolto alcun pensiero agli eventi negativi che avevano segnato la sua gioventù e l’armadio era splendente. I consigli di sua madre, che nella sua velleità adolescenziale aveva disprezzato, le tornavano utili. A lavoro ultimato si discostò dalle ante di qualche o e osservò la sua opera. Si congratulò brevemente con la sua forza di volontà, poco prima di rendersi conto di aver appena cominciato. L’interno dell’armadio era nel caos più assoluto. Avrebbe voluto chiamare sua sorella e insultarla ma si ricordò poco dopo che quella era la casa in cui viveva lei e sua sorella non era tenuta a farle le pulizie. Scorse alcune scatole dell’IKEA sull’ultimo ripiano in basso. Le prese, decisa a riporre con cura ogni oggetto che fosse appartenuto ai suoi genitori. Iniziò dai maglioni. Erano sparsi e appallottolati. Aveva paura di stirarli quindi si limitò a piegarli metodicamente come sua madre le aveva insegnato. Sarah notò come fossero consumati e pensò a quanto i suoi genitori adottivi si fossero negati ogni vizio per darle un’infanzia piacevole. Fu obbligata, ancora una volta, a chiedere scusa per la sua irriconoscenza. Chiedere scusa, però, non basta mai. Sarah doveva ricambiare e piegare i maglioni era un buon modo per ricominciare a vivere con il lieto ricordo dei suoi genitori amorevoli, pazienti, in vita, e non con il funesto pensiero della loro partenza per mete troppo sconosciute affinché il corpo vi ci si avventuri. Il maglione rosso di Natale di sua madre: lei che sorrideva felice con il panettone fra le mani, suo marito che le baciava la guancia destra un po’ arrossata; il
maglione di lana verde che avevano comprato assieme quella volta che l’aveva convinta a fare spese “folli”; la camicia bianca di seta che suo padre trovava fosse troppo scollata e provocante, ma che in realtà credeva fosse terribilmente seducente e, pertanto, temeva che qualcuno potesse gettare a sua moglie delle occhiate indiscrete; i guanti di velluto rosso con la pelliccia ai bordi che sua nonna metteva nelle occasioni speciali; la felpa grigia che sua padre indossava per andare a fare jogging e che qualche volta bagnava con l’acqua per dare l’impressione di aver corso a lungo e di essere atletico. Sua madre rideva ogni volta che se ne accorgeva, ma non glielo faceva mai notare. Sarah chinò lateralmente il capo cercando di scorgere qualche altro indumento. C’era qualcosa… Allungò il braccio. Al tatto le sembrò lana. L’afferrò saldamente e lo tirò fuori. Era una copertina per neonati, verde e con tre piccoli elefantini rosa, saltellanti e felici. Era piuttosto vecchia e sudicia. Sarah pensò che nessuno si fosse preso la briga di lavarla da venti anni… Era avvolta su sé stessa; Sarah la srotolò partendo dall’orlo destro. Un dubbio, un pensiero, si stava impossessando della sua mente come un parassita. La coperta conteneva qualcosa. Poi lo vide, ripiegato su sé stesso, e avvertì i battiti del cuore arrestarsi all’improvviso. Il foglio era ingiallito e sgualcito, ma ancora si discernevano nitidamente i caratteri di una grafia tremolante. L’inchiostro nero si stagliava davanti ai suoi occhi come fosse una minaccia. Sarah si fece coraggio e cominciò: Cara famiglia Vitrey, sono giorni che vi osservo, ma, vi prego di non denunciarmi: le mie intenzioni non erano e non sono maligne. Vi scrivo affinché vi prendiate cura della mia bambina. Si chiama Sarah ed è nata il 13 dicembre di questo anno. Vedete quanto sono disperata da privarmi del sangue del mio sangue la vigilia di Natale! Ma non ho più tempo. Non stracciate la lettera, ve ne prego, continuate a leggere. Come dicevo, sono giorni che vi osservo. La serenità e la calma che suscita il vostro nucleo familiare mi hanno portato alla scelta di dare a voi la mia unica figlia. È un ambiente in cui potrebbe crescere sana e tutelata dalla sofferenza. Temo per la mia vita e per la sua. Lasciarla a voi è l’unica scelta che ho. L’unica. Per favore, prendetevi cura della mia bambina. Non posso
ricambiare in denaro o in nessun altro oggetto di valore: lei è tutto quello che ho. Se lei vive, in una parte di lei continuerò a vivere anch’io. Salvateci. In fondo al foglio, la firma… S.L.
“Esse… Elle…,” mormorò Sarah, come se cercasse di afferrare un fugace ricordo pronto lì lì a fuggire. Niente, nemmeno la più misera traccia di quella che un tempo era sua madre. Sarah ripiegò silenziosamente la lettera. Alzò lo sguardo, fissò il lampadario e sospirò prima di riaprirla nervosamente e rileggerla per comprendere a pieno il significato di quelle parole. Non riusciva ancora a credere di essere stata abbandonata, di aver vissuto per anni ignara di tutto.
Cara famiglia Vitrey, sono giorni che vi osservo, ma, vi prego di non denunciarmi: le mie intenzioni non erano e non sono maligne. Vi scrivo affinché vi prendiate cura della mia bambina. Si chiama Sarah ed è nata il 13 dicembre di questo anno. Fin qui niente di strano. Una bambina abbandonata davanti all’uscio di una famiglia perbene. Lei. Vedete quanto sono disperata da privarmi del sangue del mio sangue la vigilia di Natale! Ma non ho più tempo. La vigilia di Natale… Era stata abbandonata la vigilia di Natale. Questo concetto le fu subito chiaro data la semplicità e la chiarezza del periodo. Era la vigilia di Natale e sua madre era così disperata da privarsi dei dolciumi e dell’alcol natalizi. Ma non aveva più tempo. Sua madre non aveva avuto tempo per trascorrere la vita con sua figlia, con la sua “piccola Sarah”, mentre quella stessa “piccola Sarah”, la bambina che lei aveva cercato in tutti i modi di proteggere dalla sofferenza, aveva dissipato quegli ultimi anni della sua vita fantasticando sui metodi più scenografici per farla finita. E sua madre non aveva avuto tem… C’era un altro pezzo di carta nella copertina. Era più piccolo e meno spiegazzato. Sarah lo sollevò delicatamente con entrambe le mani e se lo avvicinò al volto: era una fotografia. Una donna dai capelli poco più scuri dei suoi, con grandi
occhi cobalto e labbra sottili e rosee, sorrideva, stringendo fra le braccia una bambina di pochi giorni. La piccola portava al collo una collanina d’argento con una sottile esse brillantata. Sarah pensò di averla vista da qualche parte... forse in qualche cassetto. Si ricordò improvvisamente di una scatoletta rossa in cui teneva conservati i gioielli che i suoi parenti acquisiti le avevano regalato al battesimo. Appoggiò la foto sulla coperta e andò, quasi correndo, in camera sua. La scatoletta rossa era sotto il letto, assieme ad alcune bambole spettinate e impolverate. Stava accanto a una con un vestitino a quadretti verdi e bianchi, i capelli neri e un cappellino di paglia sulla testa. Per un secondo pensò che la bambola le avrebbe impedito di riappropriarsi del suo portagioie. “Sei stupida,” le disse la vocina che era stata, per qualche ora, a fissare, muta, la sua vita. Imibile, come la bambola che, contro ogni sua aspettativa, le lasciò prendere la scatolina rossa accennando, nella paradossale trama fra realtà e fantasia intessuta nella mente di Sarah, un sorriso. Sarah tornò in camera da letto, si sedette sul divano, accanto alla fotografia, e aprì la scatola. Le sembrò di percepire lo sguardo approvante di sua madre. Le sembrò che la guardasse dalla foto. “Le foto non hanno gli occhi,” si disse cercando di essere il più convincente possibile. “Non li hanno,” ripeté. Tutte le cose in cui credeva si stavano dimostrando una mera falsità. Persino il paradossale, ora, sarebbe potuto essere più plausibile della sua esistenza. La esse era sul fondo della scatolina. Prese le estremità della catenina fra il pollice e l’indice, e congiunse le mani dietro al collo. Con un po’ di applicazione aprì il gancetto e, dopo qualche attimo, la collanina tornò alla posizione in cui era il… “Ventitré dicembre…” lesse sul margine inferiore della fotografia. Il giorno dopo la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa. E, rileggendo quei due numeretti, si rese conto di quanto equivoco fosse il tempo e quanto fortuita fosse la vita. Si stese sul letto e rimase a fissare il soffitto per qualche istante. Bianco, scrostato. Un giorno l’avrebbe ridipinto, si propose. Chiuse gli occhi, e, quando li riaprì qualche istante dopo, si chiese: “Perché mia madre non aveva più tempo?” tacque per due o tre minuti, restando in bilico fra il sonno e la meditazione.
“Cosa l’ha spinta di tanto grave ad abbandonarmi?” Ad un tratto una frase le illuminò i pensieri, dando un senso a ciò che l’aveva resa Sarah “Vitrey”. Temo per la mia vita e per la sua. Come aveva potuto lasciarsela sfuggire, tralasciarla come se fosse semplicemente marginale. Sua madre non aveva più tempo, aveva solo lei. E aveva fatto in modo che il fato le rubasse gli anni della maternità, lasciando incolume sua figlia. Sarah si sollevò con le braccia; drizzò la schiena e adagiò le mani sulle ginocchia. “Mia madre è stata assassinata,” mormorò. Si mise la mani nei capelli e appoggiò i gomiti sulle gambe. “Da chi?” chiese fra sé Sarah. “Non importa chi l’ha uccisa,” disse la vocina nella sua mente. “Lei non c’è più, non puoi portarla indietro.” “Chiunque l’abbia uccisa ha preso il suo tempo,” disse Sarah, la voce permeata di veleno. “Ѐ ora che qualcuno lo vada a riprendere, siamo in ritardo di venti anni.” Detto questo si alzò, chiuse la scatolina rossa, ripose la lettera e la fotografia nella copertina e mise quell’ammasso di lana verde nell’armadio che per due decenni le aveva celato la gravosa verità.
Sarah chiuse la porta della camera da letto, posò il secchio e lo strofinaccio nel bagno e si avviò in corridoio. Stava per reindossare il soprabito quando vide il libro di poesie. Se n’era quasi dimenticata, ma, ora che aveva posato lo sguardo sulla sua copertina bianca, provava nuovamente l’ardente desiderio di leggerlo. Si sfilò le maniche parzialmente indossate del soprabito e lo riappese all’attaccapanni. Afferrò il libro di poesie di Laira Noir e pensò di prendersi una coperta dall’armadio che aveva chiuso da pochi minuti, ma si accorse di non avere freddo. Andò in camera sua e si lanciò sul letto atterrando sul fianco sinistro. Accostò il libro al viso. Le sembrava le parlasse. Sentiva quasi un flebile vociare, dei gemiti, un alito di vento. Aprì la prima pagina. “Stampato in… nel… vabbè ci interessa poco,” pensò Sarah. Volse lo sguardo
alla pagina successiva.
LAIRA NOIR
Poesie
La scritta occupava un terzo della pagina. Semplice, impersonale, spoglia. Sarah sperò che l’autrice fosse più espressiva di quelle poche lettere che precedevano le poesie. Erano in ordine alfabetico. La prima: Alla ricerca della libertà. Partire… Ci abbiamo mai pensato? Confonderci fra la folla, ignorare il ato. Non guardiamo indietro: è il primo o per fermarsi, e anche se questo futuro sembra tetro, noi, corriamo: correre non è scappare. Dopotutto, in questa effimera esistenza non si può temere di cambiare. Partiamo, senza una meta, perché l’avere cognizione di essere senza obiettivo, è mille volte meglio di errare
senza averne intenzione. Dopotutto, saremmo poi così diversi, senza restrizione? Già al terzo verso, Sarah si sentiva completamente persa fra le parole. Il confine di vetro che separava i suoi ricordi, le sue emozioni, le sue percezioni tattili e olfattive, dalla carta stampata, si era completamente infranto. Sarah pensò a quando viaggiava in auto con suo padre. Il finestrino abbassato, il vento che le agitava i capelli. Avvertiva l’odore dell’asfalto, l’odore dell’erba appena tagliata, dell’acqua che costeggiavano con l’auto. Si dimenticò di essere su un letto, su un materasso vecchio e statico, in una casa vecchia e statica, per di più maleodorante, circondata da bambole impolverate, con i vestitini rattoppati. Prima o poi avrebbe viaggiato di nuovo, avrebbe preso la vecchia auto di suo padre, chiusa da anni in garage, avrebbe azionato il motore e sarebbe partita, senza una meta, senza regole, assaporando il vero gusto della libertà. Sarah proseguì nella lettura. La seconda poesia si intitolava Amore. Parlava di un amore finito e deleterio, della sofferenza che si avverte quando non si è ricambiati. Sarah non aveva mai avuto quel genere di esperienze. In realtà non ne aveva avute affatto nel campo sentimentale. Tuttavia si commosse e, per qualche attimo, le sembrò di essere stata appena respinta da un ragazzo, di essersi follemente innamorata per poi avere il cuore a pezzi. Sarah pensò al cameriere, il ragazzo dalla voce calda; pensò a lui avvinghiato a un’altra ragazza e provò un bollore diverso da quello che l’aveva salvata dall’assideramento quella mattina: un corvo le beccava ripetutamente lo stomaco, il cuore si contraeva fino a restringersi alle dimensioni di una noce, le mani le tremavano ed ebbe, per qualche interminabile secondo, il desiderio di afferrare il cuscino e di gettarlo per terra imprecando. Si calmò. “Non ha senso,” mormorò fra sé. “Certo che ce l’ha,” disse la vocina che le infestava la mente. “Ѐ l’amore.” Sarah sorrise: dopotutto aveva venti anni, e il ribelle seme del sentimento amoroso già cominciava a dare i suoi primi frutti. Continuando a leggere le altre poesie, tutte dai titoli e dagli argomenti più vari, Sarah rimase affascinata dall’accostamento dei suoni, dal ritmo lento delle parole, dalla chiarezza e dalla pluralità d’interpretazione che ogni componimento offriva. A un certo punto si dimenticò anche che erano il frutto di una mente umana, della mente di Laira Noir.
Erano le sei del pomeriggio, leggeva da circa un’ora e aveva un leggero languore. Anzi, più che un lieve appetito, Sarah sentiva una voragine nello stomaco. I continui gorgoglii che fuoriuscivano dalla sua pancia non erano particolarmente rassicuranti, così Sarah si alzò e andò difilato in cucina, pregando che vi fosse qualcosa di commestibile in frigorifero. Aprì lo sportello. La mancanza di luce contribuiva a rendere lo spettacolo più misero di quanto fosse già: v’era una confezione scaduta di latte, due uova, una bottiglia d’acqua consumata a metà e del formaggio. Sarah prese le due uova avidamente e frettolosamente, come se qualcuno fosse pronto dietro di lei a rubargliele. Prese un padellino e fece il possibile per romperle correttamente entrambe. Diede un colpo alla prima… Pak. L’uovo finì, con sua sorpresa, interamente nel padellino. Provò con la seconda. Non era stata tanto fortunata questa volta: buona parte del tuorlo era finito sul fornello e le sarebbe toccato di ripulirlo non appena finito di cucinare. “Pazienza,” si disse. Aggiunse del formaggio e accese il fuoco. Dieci minuti dopo, l’odore di uova permeava l’appartamento, lo stomaco di Sarah era finalmente quieto e anche il fornello era stato pulito. Si risedette sul letto. Appoggiò il sedere sulla gamba destra e prese il libro fra le mani. Era arrivata a… “Malinconico lamento” sussurrò Sarah. Le sembrò che il libro le parlasse di nuovo. Bisbigliava, gemeva… “Forse è solo la tua fantasia” si disse. Eppure quei versi, quei rumori, quei fruscii, erano così nitidi, così vivi, troppo per qualcosa di puramente effimero e immaginario. Continuò a leggere. Non c’è speranza, né via, in una strada vuota sei vittima della pazzia.
Mentre il tuo cuore si ribella a Dio i tuoi polsi sgorgano il sangue
di un animo pio consumato dalla violenza di una vita privata della sua essenza.
Un lampione illuminato rischiara il volto di chi ti ha violentato e di chi ha profanato il tuo corpo benedetto avvinghiando il tuo petto in un giorno maledetto.
Adesso guarda che pozza immensa, ora, non c’è più differenza fra chi non ragiona e chi pensa.
Scopri la tua umanità sentendo il dolore della violata dignità. Dichiari in un momento la tua verità.
Sfiorando il tuo profilo malandato ricordi il ato, il tuo sorriso che non brillerà mai più su questo mondo devastato.
I fruscii aumentarono. Le sembrò di udire un bicchiere di vetro cadere per terra in cucina e infrangersi fragorosamente. Fece mente locale. “Non ho cacciato bicchieri dalla mensola,” pensò. “Né ne ho visti,” poi aggiunse: “Credo.” Non era vero, ne era convinta. Scosse il capo. “Suggestione,” disse, a voce abbastanza alta e con tono sufficientemente sicuro da lasciarlo credere almeno a sé stessa.
Lacrime di vetro tagliente senti scorrere lungo ogni emozione mentre il freddo pungente ti regala l’ultima sensazione.
Prima di morire non c’è più spazio per il dolore. Accanto a te vetri infranti come il tuo cuore.
Sentirò i tuoi pianti.
Il balcone cigolò. Avvertì una donna urlare sotto il suo palazzo, forse una decina di metri dall’ingresso. Si affacciò alla finestra: nessuna donna urlava… Non c’era nessuno. Sarah percepì la pelle accapponarsi dai polpastrelli alle dita dei piedi. Poi i lamenti cessarono. Lesse rapidamente gli ultimi versi ad alta voce:
La tua sofferenza colmerà l’oscurità, e per le vie echeggerà trascinato dal vento il tuo malinconico lamento.
Il libro… lo sentiva lamentarsi… Sarah sussultò. L’avvertiva nitidamente. Un respiro affannato, stanco, freddo come… la morte. Le si avvicinò. Non aveva il coraggio di voltarsi. Sentì una mano fredda e ossuta sfiorarle il collo. Rabbrividì. Poi la cosa alle sue spalle parlò. Una voce che le parve meno consistente di un alito di vento le mormorò all’orecchio: “Vendicami,” Era una voce femminile. “Come?” chiese Sarah istintivamente. Nessuna risposta. Così, senza che Sarah se ne accorgesse, la cosa se né andò, proprio come era venuta: in silenzio.
9 Sarah cadde sul letto. Rimase qualche minuto a fissare il vuoto e l’infinito
contemporaneamente, prendendo sempre più coscienza di una forza sovrannaturale che l’aveva intrappolata in una catena di eventi. L’unico modo per uscirne era risolvere il problema… dopo averlo capito. “Acqua,” biascicò Sarah stordita. “Mi ci vuole dell’acqua bollente.” Si sollevò sulle braccia, scese dal letto furtivamente. Si assicurò che la caldaia fosse accesa e andò in bagno. La vasca sfiorava la fatiscenza, ma, tutto sommato, era ciò di cui aveva necessità in quel preciso istante. Mise il tappo di plastica nera nello scarico dell’acqua; girò la manopola verso il rosso e cominciò a spogliarsi. Si guardò solo dopo che fu completamente svestita. Era più magra dall’ultima volta che aveva osservato il suo nudo profilo integralmente: le anche sporgevano e si discernevano le costole una a una. Il suo seno non era mai stato molto pronunciato, ma ora, lì, davanti a quello specchio, era quasi impercepibile. Il viso… quello lo vedeva sempre… Le piacevano i suoi occhi, blu. Era un bel colore, il suo colore preferito. Suo padre aveva gli occhi blu, non cobalto… un blu acqua… sembravano una distesa immensa di purezza e limpidezza. Ripensando a quel magico colore si risvegliava in lei il ricordo dell’odore del mare, della salsedine sulla pelle, delle raccomandazioni di sua madre del tipo “non andate oltre le boe.” “Se non vai oltre le boe non vivi,” si disse Sarah, dopo anni ati nel recinto di boe, senza respirare. Guardò ancora i suoi occhi. Erano così strani, le sembrava stessero ingrigendo. Si avvicinò al suo riflesso, guardando meglio. Rabbrividì: il suo riflesso aveva strizzato l’occhio destro… senza che lei lo muovesse. Si coprì il volto con le mani, sbirciando lo specchio fra le fessure delle dita. Il suo riflesso aveva le mani davanti agli occhi, ma… sorrideva. Sarah sentì la paura scorrerle nelle vene. Un brivido freddo le salì lungo la schiena. Istintivamente prese una delle scarpe che aveva riposto disordinatamente sul pavimento, e la lanciò contro lo specchio. Si sentì un tonfo. Lo specchio, in una decina di pezzi, era accanto alla scarpa, inerme; soltanto tre frammenti erano rimasti al loro posto. Sarah si mise le mani sulla fronte, senza capire se fosse spaventata da se stessa o dal libro. Sarah infilò la gamba destra nella vasca. Si lasciò scappare un urletto: era bollente. Strinse i denti e mise anche l’altra gamba; cominciava a percepire meno calore. Si distese completamente e chiuse gli occhi. Tappò il naso e si immerse, per ritornare su qualche attimo dopo. Il sapone le irritava leggermente le orbite, ma sentire l’acqua che le bagnava la pelle, il suo tepore che la
proteggeva, la fece sentire sicura… sicura come ai vecchi tempi. Come quando sua madre le cantava la ninna nanna dopo averle rimboccato le coperte. Lei, con la sua vocina non molto dissimile da quella che si era impossessata della sua mente pochi giorni prima… forse soltanto da poche ore. Lei, che implorava sua madre di cantare. Suo padre che appoggiava la schiena alla porta e sorrideva. La musica, lenta. La voce calda di sua madre… la voce del cameriere… il cameriere. Qualche attimo dopo non vi fu più nemmeno lui… Il mondo si fece silenzioso e la mente di Sarah fu avvolta da un meritato sonno. Quando si svegliò, l’acqua era fredda. Sollevò le mani: sembravano quelle di sua nonna. Le faceva male il collo. Si alzò lentamente, evitando di scivolare. Si tenne ai bordi della vasca fino a quando non fu con i piedi saldamente a terra. Era congelata. Si abbassò per cercare un asciugamano nel mobiletto sotto lo specchio. Qualcosa non andava… Lo specchio! I vetri per terra non c’erano più! Si alzò di scatto, rimanendo incredula dinanzi a quell’assurdo fenomeno: lo specchio era perfettamente intero. Non un graffio, non una crepa. Era appannato, ma nient’altro. Eppure aveva lanciato la scarpa, e la scarpa aveva colpito lo specchio. Erano rimasti solo tre pezzi al loro posto. Però… Sarah intirizzì: sullo specchio… c’era qualcosa. Si avvicinò. Era rossa e piccola: una goccia di sangue. Si sporcò il polpastrello dell’indice e se lo avvicinò agli occhi: era proprio sangue. Ora che sperava fosse solo smalto rosso. Si allontanò, intimorita. Non una goccia, non due gocce, ma un profluvio di sangue cominciò a colare sul vetro. Quel disarmonico caos di linee rosse si intrecciò a formare disegni… sgorbi… una croce? “Lettere,” si disse Sarah e, ad alta voce, lesse: “ S. L.” Sgranò gli occhi. “Mamma!” strillò. Sentì la stessa mano fredda di prima accarezzarle il collo. Istintivamente, si girò: nessuno. Si guardò intorno: niente. Solo acqua e vapore; anche lo specchio non era più imbrattato di sangue.
10
Sarah si rivestì. Indossò un maglione rosa e un jeans scambiato. Si legò i capelli biondi “stinti” in uno chignon. Indossò il soprabito e prese il libro di poesie. Uscì, chiudendo accuratamente la porta alle sue spalle. Doveva capire cosa fosse successo venti anni prima e cosa legasse quel libro a sua madre. Mentre riponeva le chiavi di casa in una tasca interna del cappotto, il libro bianco le cadde dalle mani. Si piegò per prenderlo. Fu allora che la vide. In fondo al libro era stata inserita una foto. Ritraeva due ragazze. Una delle due era sua madre; l’altra aveva i capelli neri e mossi, gli occhi castani e la pelle olivastra. Nel complesso erano entrambe delle ragazze stupende. Sorridevano abbracciandosi l’un l’altra. Accarezzò con il dito il volto di sua madre. C’era qualcosa in rilievo… Girò l’immagine: era una scritta. “Quando in eterni versi al tempo tu crescerai: finché uomini respireranno o occhi potran vedere, queste parole vivranno, e ti daranno vita." Firmato L.N. “Laira Noir,” pensò Sarah. Dopotutto, quegli strani e inspiegabili eventi erano cominciati da quando quel libro, così candido e inerte all’esterno, eppure così irrequieto e raccapricciante nei contenuti, era entrato nella sua vita, senza chiederle il permesso. Sarah pensò di bruciarlo, di finirla così e riprendere la sua vita di prima, meglio di prima: andare a pesca il giorno e dormire la notte, andare in libreria ad aiutare sua sorella, leggere, fare colazione al bar. Queste parole vivranno, e ti ridaranno vita… “Mia madre è stata uccisa,” si disse. Le parole di Laira Noir l’avevano risparmiata a un eterno dimenticatoio, avevano tenuto vivo il suo ricordo… “Come posso ferirla di nuovo?” e così dicendo, ripose la fotografia nel libro e riprese a camminare con un nuovo obiettivo: trovare Laira Noir. Dopo qualche minuto, Sarah guardò l’orologio: erano quasi le otto e mezza. “Ѐ un po’ troppo tardi per disturbare una persona a casa sua…” pensò; poi capì che in realtà non sapeva nemmeno dove abitasse Laira Noir. In che stato avesse avuto la residenza, o se fosse stata ancora viva. Quest’ultimo punto non l’aveva proprio preso in considerazione. Non aveva nemmeno osato immaginare quanto
complesso sarebbe stato comprendere l’intera situazione: cosa Laira avesse a che fare con sua madre, cosa sua madre avesse a che fare con “Malinconico Lamento”, cosa lei stessa avesse a che fare con tutto, e con niente. In quel momento si sentiva così: niente. Completamente persa, completamente vuota. Eppure era tutto. Sarah capiva di essere un anello di giunzione fra il presente e il ato di una vicenda lugubre e taciturna di cui percepiva soltanto il flebile eco. Una voce… una mano fredda… sua madre… una poesia. E poi c’era lei, lei che non sapeva più chi fosse, lei che aveva perso sua madre, di nuovo. “Vendicala e saprai chi sei,” disse la vocina nella sua mente. Ma lo voleva davvero? Non lo sapeva. In realtà era indecisa anche sulla strada da percorrere. Ora che il progetto di trovare Laira Noir era stato scartato, non le rimaneva che eggiare per riordinare i pensieri. Improvvisamente si ricordò del compleanno di sua sorella e sussultò: doveva comprarle un regalo e non aveva la minima idea sull’acquisto che si accingeva a fare. Si promise di rintracciare Laira Noir il giorno seguente. “Destra o sinistra?” si chiese, arrivata a una viottola che culminava con una biforcazione. Sarah chiuse gli occhi, respirò profondamente e andò a destra, lasciandosi guidare, ancora una volta, dall’istinto.
11
Non aveva percorso una ventina di metri che si sentì chiamare. “Sarah!” strillò una voce maschile. Era proprio come quella di… “Glen!” esclamò Sarah. Quando si girò a guardarlo, lei sorrideva. Se ne accorse e si coprì la bocca con la mano sinistra. Poi si ricordò che sorridere non è un crimine e non costa nulla. Abbassò la mano e rivolse al giovane cameriere dalla voce calda uno dei suoi migliori sorrisi. Glen pensò che fosse splendida, ma non disse nulla. Si limitò a chiederle “Dove stai andando?” I suoi occhi brillavano di un riverbero che sembrava alimentato dalla sua anima. “Devo comprare un regalo per mia sorella,” disse amichevolmente Sarah, cercando di sembrargli meno cupa e solitaria di quanto fosse effettivamente stata nella mattinata. “Conosco un negozio di abbigliamento femminile,” rispose Glen. “Mia madre lo frequentava spesso e, per quanto ne so, tutto ciò che riguarda il vestiario entusiasma le donne al punto di spendere cifre esorbitanti,” poi si rese conto che la ragazza che aveva davanti agli occhi non indossava nulla che fosse alla moda, nulla che fosse provocante o che la valorizzasse. Niente in quello che indossava era gioviale o piacevole alla vista, o sbrilluccicava come le borse paiettate che aveva visto indossare alle giovani della sua età. La ragazza che aveva davanti agli occhi brillava di luce propria; ogni singolo centimetro del suo essere emanava bagliori sufficientemente intensi da incantarlo, da stordirlo, da ammaliarlo. Anche la notte più spenta gli sarebbe sembrata mezzogiorno alla sola vista di quella ragazza che non ostentava nulla, ma che era diventata tutto… il suo tutto. “Se vuoi ti ci accompagno,” concluse Glen, dopo qualche attimo di completa reticenza.
Sarah annuì, senza smettere di sorridere, mentre nel suo cuore, nei suoi polmoni, nel suo stomaco, ogni sua cellula riviveva la Seconda Guerra Mondiale. Si incamminarono per i viottoli. Scambiarono qualche chiacchiera convenzionale. Glen disse di essere stato uno studente di filosofia fino a due anni prima, di aver abbandonato gli studi perché aveva bisogno di soldi e l’università era troppo cara per una famiglia come la sua: tre sorelle minorenni, due fratelli rispettivamente di tredici e quindici anni, e un fratello maggiore di ventisette che vedeva soltanto quando aveva finito i soldi da scommettere. Sua madre era stata abbandonata dal marito l’anno prima che Glen lasciasse l’università. “Sei arrabbiato con lui?” le chiese Sarah. “No,” rispose Glen. “Sono arrabbiato con me stesso perché non ho fatto nulla per evitarlo,” continuò. “Non avresti potuto fare nulla,” mormorò Sarah. “Se non stare accanto a tua madre. Hai rinunciato agli studi per loro,” disse con voce più sicura. “Sei un ottimo figlio, Glen, e secondo me non sei da meno come fratello,” sorrise. Glen ricambiò il sorriso. “Perché non mi hai visto quando usciamo a fare compere: c’è chi mi denuncerebbe per sfruttamento minorile.” Glen rise. Rise anche Sarah, sperando che il suo fosse semplice umorismo. Rise più energicamente della sua stupidità. Poi si guardarono negli occhi. “Oh, eccoci!” disse Glen. Sarah si accorse solo dopo qualche attimo di essere davanti al negozio che l’aveva attratta quella mattina. Non lo disse a Glen. Credeva fosse troppo complicato da spiegare e troppo sdolcinato da dire. La sciarpa era ancora in vetrina. Era così bella… “A tua sorella potrebbe piacere?” domandò Glen. “Cosa?” gli chiese Sarah. “La sciarpa.” “Ok,” pensò Sarah. “Telepatia.” “Sì,” rispose. Entrarono nel negozio. La commessa, una ragazza non più grande di Sarah, con i
capelli neri a caschetto, li salutò con un “Buonasera, stiamo per chiudere.” Glen le rispose che sarebbero stati rapidi e le chiese di prendere quella sciarpa e impacchettarla. La commessa fu tempestiva. Sarah pagò e prese il pacchetto. In due minuti furono fuori dal negozio e Sarah si sentì quasi terrorizzata dallo scorrere troppo rapido del tempo.
12
Sarah diede una sbirciata all’orologio: erano quasi le nove. Le strade cominciavano a farsi silenziose, la folla scemava e il freddo diveniva sempre più pungente. Volse lo sguardo a una vetrina, scorgendo il suo scarno riflesso… e quello di Glen. La sua figura, così ferma ed energica, ma contemporaneamente soave e veemente ai suoi occhi, le incuteva sicurezza. Senza accorgersene cominciò a fissarlo per un secondo, poi per due, per tre; Glen lo notò e le sorrise. “Vuoi che ti riaccompagni a casa?” sussurrò. “Perché sussurra?” si domandò, forse un po’ ingenuamente, Sarah. E, quasi spontaneamente, rispose con altrettanta delicatezza: “Sì, grazie.” Tirò un sospiro e aggiunse: “Le strade mi fanno paura a quest’ora.” “Di qui,” disse Sarah, indicando con la mano sinistra una viuzza al loro fianco. “Non avrei mai creduto di ripercorrerla,” mormorò Glen. “Cosa?” disse Sarah interessata. “Questa strada: tempo fa abitavo qui,” rispose. “Ma mi sono trasferito quando avevo appena cinque anni. Me la ricordo poco.” “Dove vivi ora?” “Non molto lontano, ma mia madre ha insistito tanto affinché ce ne andassimo dal quartiere dopo che avevano assassinato quella ragazza… brutta storia,” il suo tono di voce era terribilmente melanconico; sembrava compiangesse quei tempi spensierati. Tuttavia, c’era una sfumatura di preoccupazione mista a confusione nel suo tono di voce. Sarah la notò e disse: “Io non ne so niente.” “Ѐ successo proprio qui,” Glen indicò una viottola buia sulla loro destra. Sarah scorse alcune palazzine, usurate e stinte, rischiarate dalla luce dei lampioni. Le
imposte erano tutte serrate; non ava nessuno. Quel luogo, che, dopotutto, non rasentava per un soffio la fatiscenza, le suscitava un terrore violento: le sembrava di essere già stata lì, in qualche sogno o… in qualche incubo. Le parve di fissare un cadavere: dalle case inermi, morte, non proveniva alcun suono. Nessuna risata infantile, nessun eco televisivo, nemmeno lo scorrere dell’acqua del rubinetto. In quella via, tutto era morto. Tuttavia, ascoltando attentamente, Sarah percepì il soffiare monotono del vento, lento, fluente. Diede un’altra occhiata, rendendosi tristemente conto della staticità delle foglie. Cercando conforto, la sua mano destra afferrò il braccio di Glen. “Continua, per favore,” biascicò Sarah. Glen riprese. La sua voce era fredda, sterile come quella di un automa. Quanta poteva essere stata la brutalità o la drammaticità di quegli eventi da fargli mutare del tutto intonazione? “Alcuni affermano ancora che fu tutta opera di un malintenzionato, altri dicono che fu tutto premeditato. La verità è che nessuno sa come sono andati realmente i fatti. Secondo i giornali l’omicida, un uomo di circa venticinque anni, per di più ubriaco, violentò una giovane di venti, per poi martoriarle ripetutamente il corpo con una scheggia di vetro di una decina di centimetri. Fine della storia.” Sarah restò fra la confusione e il panico per qualche istante. L’intera vicenda non le era sembrata più di un semplice e fortuito episodio di violenza. “La madre di Glen deve essere una donna molto sensibile,” pensò. “Dopotutto anche Glen ha l’aria di essere…”. Lo scorrere del suoi pensieri fu interrotto dalla voce di Glen che, quasi bisbigliando, disse: “Il corpo lo aveva rimasto lì,” indicò dei gradini. “Mia madre fu la prima a vederlo, si alzava sempre presto… un tempo,” il suono delle parole che fluivano dalle sue labbra era lo stesso di prima, armonico, naturale, caldo. “La sentimmo urlare e io e i miei fratelli scendemmo. Mio padre trattenne appena in tempo le mie sorelle,” il volto di Glen trasudava angoscia, come se ricordare gli dolesse in una remota area dell’anima. Sembrava stremato. Poi prese fiato e continuò: “Ricordo ancora il suo viso; aveva degli occhi bellissimi, sembravano vivi, se non fosse stato per il fatto che fissavano il cielo, immobili, opachi. Mi piace pensare che stessero guardando l’anima che un tempo aveva vivificato quel corpo. Gli occhi erano l’unica cosa intatta,” si fermò e abbassò le
palpebre, come per rammentare meglio. Quando le sue labbra si schio, le parole vi arono attraverso stentatamente. “Le aveva deturpato le guance. Se non fosse stato per quegli occhi, blu, non avrei mai pensato a un essere umano, così, ridotto in quello stato. Il sangue era incrostato, le copriva i capelli, il naso. Persino la bocca era sudicia. Aveva decine di tagli… uno qui” e fece per indicarsi le sopracciglia. “Un altro le ava dall’estremità della fronte al mento…” “Basta,” sussurrò Sarah. La descrizione del volto straziato della giovane donna le aveva fatto rigirare lo stomaco e se ne vergognava. L’unico suo conforto era il provare mortificazione per quell’essere umano che non meritava una fine simile. “Nessuno meriterebbe di morire così,” pensò. Il modo in cui l’assassino aveva lasciato il corpo, sui gradini, nudo; il modo in cui le aveva sfregiato il viso, disonorandole lo spirito e il corpo e privandola della sua identità alterandone i tratti: l’uomo che l’aveva violentata non era un uomo, poiché tale crudeltà è un contrassegno dell’unico criminale impunito, il demonio. Sarah tremava. Glen le avvolse un braccio attorno alle spalle. “La ragazza della poesia è stata ammazzata così,” disse la vocina nella sua testa con aria saccente. Era vero. Si sforzò di non pensarci: voleva godersi ogni attimo al fianco di Glen. Cinse le sue spalle possenti con le braccia e abbandonò la testa sul suo petto. Glen le accarezzò le gote con i polpastrelli della mano destra. Il volto di Sarah era pallido. Chinò leggermente il capo affinché le labbra fossero più vicine alle orecchie della giovane che aveva fra le braccia. “Sarah, andiamo. Ti riporto a casa,” mormorò. Sarah annuì flebilmente. Le era scappata una lacrima. Glen gliela levò via con il pollice. Sarah teneva gli occhi bassi. Glen le sollevò il mento. Si guardarono negli occhi per un istante che sembrò infinito e poi… “Accompagnami a casa,” sussurrò Sarah con la voce rotta da quella emozione fulminea e improvvisa. Il tratto che restava da percorrere era breve. Quando furono davanti al cancello restarono l’uno davanti all’altra per qualche attimo, il tempo sufficiente per attutire il dolore della separazione. Sarah osservava il volto di Glen, cercando di assimilarne i lineamenti. “Ti rivedrò?” le chiese Glen.
Sarah annuì e sorrise. “Domattina al bar?” Glen ricambiò il sorriso e sussurrò: “Sarò lì ad aspettarti con il tuo cornetto e la tua cioccolata calda.” Sarah gli sfiorò la mano. Le sembrò di prendere la scossa. “A domani, Glen.” “A domani, Sarah.” Quando richiuse il portone alle sue spalle, il domani le apparve troppo lontano e già si sentì bruciare dentro dall’opprimente attesa.
13
Salì le scale. L’interno del palazzo era gelido. “Fuori fa più caldo,” pensò. “Fuori c’è Glen,” disse la vocina nella sua mente. Sospirò, aprì la porta, poggiò il libro di Laira Noir e il regalo per sua sorella su una mensola e, dopo essersi tolta il giaccone, si lasciò scivolare sotto le coperte senza nemmeno togliersi i vestiti. Ripensò al viso di Glen, alla ragazza assassinata, alla donna della poesia, a Laira Noir. “Come farò a trovarti?” fu l’ultimo pensiero della giornata. Abbassò le palpebre e si abbandonò a un quieto sonno senza né sogni né incubi. Quando si risvegliò erano le sette ate. Si sollevò sulle braccia. Chinò il capo in avanti fino a toccare il materasso. Si scoprì e scese dal letto. “Devo andare da Glen,” si disse. “E devo trovare Laira Noir,” ricordò. Non sapeva dove iniziare con le ricerche. Decise di precedere con ordine. Tolse i vestiti della sera prima e andò in bagno. Si sciacquò nel lavabo, evitando di guardare lo specchio: temeva che potesse grondare sangue, di nuovo. Lì, nuda, al freddo, davanti allo specchio, si sentiva indifesa. Anche il solo sbirciare il suo riflesso le incuteva terrore. Si fece coraggio e sollevò lo sguardo. Lo specchio non sanguinava, non era sporco. Il suo riflesso era lì e le sembrava più bello e solare del solito. Si gettò l’acqua calda sul viso e si insaponò. Dopo essersi risciacquata accuratamente, si asciugò. Indossò un pantalone bianco che non aveva messo dalla cresima di sua sorella. “Il regalo!” si ricordò improvvisamente. Glielo avrebbe portato prima di andare al bar. Si infilò una camicia bordeaux e un maglione di lana bianca. Sfiguravano sotto il suo vecchio soprabito giallo, ma era l’unico che aveva e che le stava. Indossò un paio di calzini velati e le scarpe bianche. Tutto sommato, quella mattina aveva un aspetto piacente. Si complimentò con sé stessa per aver scelto qualche capo d’abbigliamento gradevole alla vista e scese le scale. Al secondo gradino si ricordò del regalo per sua sorella e, dopo aver borbottato una o due parolacce, ritornò in casa e prese il pacchetto, senza accorgersi che il libro, che aveva lasciato sulla mensola accanto al regalo la sera prima, non c’era più.
Una volta chiuso il portone, si chiese come si sarebbe dovuta presentare. In fondo, il giorno prima avevano litigato. Avrebbe dovuto chiederle scusa? Abbracciarla? Ammettere di aver sbagliato e implorare il suo perdono? Alla terza domanda, capì che non le importava più di tanto. Si avviò con il pacchetto stretto fra le braccia, sperando che la sciarpa le pie. Pochi minuti dopo era arrivata alla libreria. “Martha?” disse quando entrò nel locale umido e freddo. Nessuna risposta. “Martha?” riprovò. Niente, nessun rumore. Cominciò a preoccuparsi. Alzò la voce e chiamò nuovamente sua sorella. Dopo aver pronunciato il suo nome, sentì un libro cadere nel magazzino. Scese le scalette scivolose. “Martha? Sei tu?” Un altro libro cadde per terra. “Martha, mi sto spaventando. Dove sei?” disse con la voce permeata di timore e apprensione. Poi vide una figura dietro lo scaffale della L. “Martha, eccoti! Perché non rispondevi?” Si avvicinò alla figura femminile. Vista da dietro, assomigliava vagamente a sua sorella. “Martha?” Era vestita di nero, un vestito lungo. Ammiccò gli occhi, tentando di vederla meglio: non era un vestito, era sangue rappreso. La donna si voltò. I grumi di sangue le imbrattavano i capelli, le labbra, il seno. Poi Sarah la distinse nella sua interezza. Guardandole il viso, le sembrò di impazzire: era dilaniato dai tagli, il maggiore dei quali era una profonda cicatrice che andava dal mento alla sommità della fronte. Poi il suo sguardo si posò sul libro che aveva fra le mani. Era bianco, con la fotografia di un’autostrada in copertina: il libro di poesie di Laira Noir. La giovane donna le sorrise e Sarah vide la luce bianca e asettica degli inferi emergere dalle sue labbra. Il suo volto esangue le era familiare. Le porse il libro. Sarah lo prese intimorita. La donna le fece cenno di aprirlo. Ubbidì. Il libro si aprì alla pagina numero 26. Nel mezzo v’era la fotografia di Laira Noir e sua madre. Sussultò. Sollevò lo sguardo, sentendosi morire incontrando quegli occhi blu cobalto così simili ai suoi. Lasciò cadere il libro e si portò le mani alle labbra.
“Mamma!” biascicò poco prima di iniziare a piangere. “Che ti hanno fatto?!” le lacrime le scavavano il viso. Se le asciugò con la manica del soprabito. Si schiarì la voce. “Che devo fare?” La donna guardò la fotografia che ritraeva lei, viva, e Laira Noir. “Come? Dimmi come!” disse Sarah apprestandosi alla disperazione. “Dimmelo, ti prego,” sussurrò quasi piagnucolando. Guardò la fotografia, le espressioni felici di quelle che suppose fossero due amiche. Rialzò lo sguardo. Sua madre non c’era più. Sul pavimento, lì dove si erano posati i suoi piedi nudi, erano state scritte col sangue due parole a caratteri maiuscoli. Sarah si chinò e lesse: TETTI ROSSI
14
“Papà! Corri!” la sua voce puerile echeggiò nei meandri isolati della sua mente. “Arrivo, Sarah!” Suo padre sorrideva. E correva. E il cuore gli batteva nel petto. Forte. “Sei vecchio! Sei vecchio e stanco!” strillava lei con quella voce così… felice. “Certo! Ma ci sarai sempre tu a farmi sentire giovane!” Stavano correndo insieme in un campo di grano immenso. Forse era soltanto erba gialla e secca, ma a Sarah era sempre piaciuta l’idea che fosse grano, che fosse qualcosa di vivo e biondeggiante. Si era voltata a guardare il volto di suo padre. Lei non lo sapeva, ma stava pensando di volergli un bene dell’anima. “Pensiamo così tante cose senza accorgerci di farlo,” si disse Sarah, ricordando quel momento con suo padre. “Qualche volta moriamo, senza accorgerci di essere il nostro stesso carnefice.” Continuavano a correre, ridendo. Come se fosse la cosa più bella del mondo. Forse lo era. Suo padre la stava raggiungendo. “Ti prendo, sacco di patate!” “Quante volte ti ho detto di non chiamarmi sacco di patate?” Lui era già lì. La abbracciò forte e la sollevò. Lei era leggera come l’ala di una farfalla. Sorrideva e strillava euforica… e guardava suo padre. “Ti voglio un mondo di bene, sacco di patate.” Le sussurrò. A Sarah sembrarono le parole più dolci e mielate del mondo. Quasi istintivamente, forse senza conoscere il significato di quelle parole, disse deliziosamente a suo padre di volergli bene, “Bene quanto l’Universo!” E aveva agitato le mani indicando il cielo. “Anzi, più dell’Universo!” Continuava a ridere, e a scuotere le braccia come se volesse catturare l’aria, senza sapere di essere la regina dell’aria, del sole, del fuoco, del mondo.
“Dai, papà! Andiamo!” Suo padre l’aveva fatta scendere e avevano ripreso a camminare. La teneva per mano. La sua stretta era così salda e sicura. “Dai, su! Siamo quasi arrivati!” diceva entusiasta Sarah. E, nel frattempo, affrettava il o. Ancora una decina di metri… ed eccoli lì! I tetti rossi. “Papà, perché non possiamo entrare nel palazzo con i tetti rossi?” “Ci abitano, Sarah. È proprietà privata.” “E chi ci abita?” chiese lei strabuzzando gli occhi. Suo padre la prese in braccio. Le accarezzò i capelli con la mano libera e le sorrise: era la solita smorfia che faceva quando stava per raccontarle una storia. I suoi racconti le erano sempre piaciuti, erano paradossali e surreali. Perciò restò sorpresa quando le annunciò con voce solenne “Lì, ci vive una poetessa”. “Poetessa.” ripeté Sarah: era una nuova parola da aggiungere al suo vocabolario da bambina di quattro anni scarsi. “Chi è una poetessa, papà?” chiese con aria ingenua e incuriosita. “Ѐ una persona che parla di sé agli altri e gli altri, nelle sue parole, vedono loro stessi, la loro anima.” Sarah ammutolì per qualche secondo; poi tirò un respiro profondo e domandò “Quindi una poetessa è uno specchio dell’anima?” Suo padre annuì. “Più o meno.” “Parlami di lei,” incalzò la piccola Sarah. “Vediamo…” mormorò suo padre grattandosi la nuca, come faceva sempre quando pensava. “Ci sono!” esclamò. Sarah aguzzò le orecchie: erano tutte per la voce del padre. “Vive lì da quando aveva venti anni, e non esce mai dal suo castello. Questo è tutto quello che so.” “E perché non esce mai?” chiese Sarah.
“Forse ha paura del mondo,” le rispose suo padre, carezzandole la guancia rosea e calda. “Paura del mondo,” ripeté la piccola. “Perché si dovrebbe aver paura del mondo?” si domandò. Lei aveva il suo campo di grano, il suo papà: il mondo era portentoso ai suoi teneri occhi cobalto! Poi con il tempo, smise di interrogarsi sul perché si dovrebbe avere paura del mondo e su altri perché che il tempo aveva cancellato. E proprio quando smise di chiedersi perché, cadde nel vizio endemico del terrore.
15
I Tetti Rossi non erano affatto cambiati. Sarah li osservava, percependo una misteriosa bolla temporale tutt’attorno al palazzo. Era rimasto lì, ad aspettare. Ad aspettarla. I mattoni non avevano una scalfittura in più, i gradini non una macchia in meno, le porte avevano atteso, chiuse, per tutti quegli anni. Soffiava lo stesso vento di un tempo, aleggiava l’odore e l’essenza della gioia e dell’euforia della sua infanzia, l’erba era ancora incolta e ingiallita. Mancava solo la voce di suo padre, il suo flebile respiro, il suo cuore pulsante, le sue braccia, il suo sorriso. “Papà! Corri!” la sua voce puerile echeggiò nei dedali dei suoi ricordi. “Eccomi!” si girò, credendo di riuscire a vederlo. Ma, niente. Solo l’assenza, quella assenza che aveva più consistenza della carne sulle sue ossa. Sarah tornò a guardare avanti, promettendosi di farlo sempre, fino alla fine dei suoi giorni. Si avvicinò all’antico portone di legno che la separava da quella che sperava fosse Laira Noir. Mentre suonò il camlo - molto più recente del portone pensò a sua sorella, a come le aveva lasciato il pacchetto sul bancone con un semplice bigliettino: Scusami per tutto, buon compleanno. Sentiva il bisogno asfissiante di apprendere la verità, di sapere cosa fosse successo a sua madre quella notte, ma soprattutto voleva conoscerne il perché. Bussò di nuovo. Proprio mentre tutte le sue speranze cominciavano a morire, la porta si aprì, di poco, quel tanto per vedere un familiare occhio castano. “Salve, sono Sarah Vitrey e sto cercando Laira Noir. Sa dove posso trovarla?” Mentre parlava aveva paura, paura che “Tetti Rossi” non volesse indicare quel luogo, paura che Laira Noir non abitasse il quel palazzo. Persino l’idea di essere solo una pazza schizofrenica le aveva traato il cervello, quasi paralizzandola. Così sputò fuori tutte le sue parole, tutto d’un fiato, sperando.
“Sono io.” Sarah tirò un sospiro di sollievo. Prese la foto dal libro di poesie e gliela mostrò. “Può darmi delle informazioni su questa persona?” Le indicò sua madre. Laira sgranò gli occhi. A Sarah parve di scorgere una lacrima scendere, lenta, dall’occhio sinistro. “Va a casa, figlia mia.” Disse infine, coprendosi gli occhi con le mani. “Va a casa e straccia quella fotografia.” Fece per chiudere la porta. Sarah la bloccò. “Le sue parole l’hanno tenuta in vita. Vuole uccidere mia madre proprio ora?” E così tutte le sorelle della prima lacrima, memori del rancore covato negli anni, sgorgarono dagli occhi castani e stanchi della poetessa. Aprì la porta, ed ebbe appena la voce per mormorare “Entra. Mettiti comoda, Sarah.” Laira Noir era una donna di soli quarant’anni. La sua pelle era chiara, ma i capelli non erano più mossi e neri come un tempo; gli occhi avevano conservato il loro colore naturale, ma la loro forma era stata alterata dalle rughe e dagli altri segni del tempo. Non era molto alta, non più di lei, e aveva una corporatura robusta. Le sue mani, affusolate e sottili, erano macchiate di inchiostro sui polpastrelli e sulle unghie. La condusse in un salotto caldo e accogliente, e la fece sedere su una poltrona di velluto rosso un po’ scolorito. Il resto dell’arredamento della stanza era piuttosto sontuoso, ma al contempo un po’ logoro e decadente. Il camino era in marmo bianco con gli intarsi rossi e abbondava di legna, ma era impolverato e la cenere era arrivata a coprire il tappeto a ricami dorati, al centro della stanza. Il tavolo dove, molto probabilmente, Laira consumava i pasti, era in legno con rilievi leonini alla base, ma era costellato di fori e graffi. Persino la poltrona su cui si era accomodata Sarah era piuttosto malridotta. Ve n’erano altre tre identiche. Laira si era allontanata, poco dopo aver annunciato che sarebbe ritornata in pochi minuti. Quando rientrò nella stanza, portava con sé una grossa scatola di cartone. La appoggiò sul tavolo e si sedette su una di quelle poltrone scolorite. La accostò
alla sua. “Cosa sai di Susanne?” le chiese Laira. “Fino a ora sapevo soltanto che fosse mia madre, non sapevo nemmeno il suo nome,” rispose Sarah, assaporando mentalmente ogni singola lettera del nome della donna che era morta per lei. Laira abbassò le palpebre e sorrise melanconicamente. “Sue era la mia migliore amica,” mormorò. Riaprì gli occhi, “Stavamo sempre insieme, fin dall’asilo. Io stavo sempre in disparte e lei fu l’unica che si avvicinò a me chiedendomi come mi chiamassi. ‹‹Gran bel nome, Laira›› mi disse. Si sedette accanto a me e mi strinse la mano. Ci tenemmo per mano anche quando nascesti tu. Fui la prima a tenerti in braccio, fui io a posarti nelle braccia di tua madre. Sue avrebbe voluto che io fossi la tua madrina, ma le cose andarono diversamente.” Si fermò per qualche istante. “Vuoi davvero che ti racconti questa storia?” “Con tutta la mia anima,” rispose Sarah. Laira le sorrise e continuò. “Tua madre ha sempre avuto una capacità innata: amare. E gli altri la amavano; molti in maniera disinteressata, altri colmavano la loro vuota esistenza con il suo sguardo, con il suo sorriso. Aveva un sorriso bellissimo e degli occhi stupendi, identici ai tuoi. Era così solare, così semplice. Aveva la purezza di una bambina; io la chiamavo piccola Sue. Un bel giorno piccola Sue si innamorò, della persona sbagliata.” Il suo tono era quello delle mamme che raccontano la favola della buonanotte ai loro figli. Si sentiva leggermente sminuita, ma quella donna avrebbe dovuto essere la sua madrina, così la lasciò continuare. “Sue era così ingenua. Lui si chiamava Adam, Adam Jonson, ed era bello. Era veramente bellissimo. Era molto alto, aveva i capelli neri e gli occhi grigi. Sarah era affettuosa e amorevole e gentile con tutti, ma per lui aveva sempre mostrato una cura particolare. Parlavano molto spesso e trascorrevano molto tempo insieme. Sarah lo aiutava con lo studio. Andavamo tutti e tre allo stesso liceo. Sarah voleva diventare medico, ma non finì mai gli studi, non ne ebbe il tempo. Di lui non seppi più niente dopo quello che successe alla piccola Sue.” Laira aprì la scatola e prese un blocco di fotografie legate da un nastro rosa.
“Guarda,” le disse. “Qui siamo io e tua madre il primo giorno di scuola al liceo. Com’eravamo giovani!” Sarah la guardò. Erano giovani davvero. Sorridevano, in tutte le foto sorridevano. Sarah pensò a tutta la menzogna che si nascondeva in quegli scatti, frammentari scorci di vita; in fondo, la peggiore bugia è la parziale verità. “Vedi questa?” chiese. Ormai parlava con se stessa. “Questa è Sue il giorno della maturità. Promettemmo che se fossimo riuscite a are l’esame, avremmo corso per tutta la scuola in reggiseno. Così, quando uscirono i quadri, Sue andò a vedere e quando tornò non aveva la maglietta. Me la tosi anche io e corremmo, cavolo se corremmo. In quel momento volevamo soltanto correre, lontano da tutti, alla ricerca della nostra libertà. Tutti ci guardavano, eravamo entrambe attraenti e partì anche qualche applauso. Sue strillava parolacce a tutti mentre correva e guardava il cielo. Lei era così, spontanea. Alcuni pensarono che fosse impazzita, altri scoppiarono a ridere. Insomma, lei che era così buona dire parolacce! Non trovi sia buffo?” Sarah si limitò ad annuire, divertita. “A quel tempo lei si era fidanzata con Adam. Lui la amava, la idolatrava. Così, una volta finito il liceo, voleva andare a vivere con lei. Sue no, ma non gliel’ha mai detto. Ripeteva solo ‹‹Dobbiamo partire, è ora. È il nostro tempo!›› e mentre lo diceva pensava al suo futuro come medico. Ma lei se lo sentiva; sapeva che sarebbe finita prima del tempo. Lei aveva ragione: era quello il nostro tempo, il viaggio. Così partimmo, con una decappottabile usata, un paio di zaini e tanti sogni. Vedi?” le mostrò un’altra fotografia. Ritraeva una decappottabile blu, sporca di fango, che riluceva ai raggi del sole. Sua madre stava appoggiata con la gamba destra alla portiera. Aveva un paio di occhiali da sole bianchi, una camicia a fiorellini chiari velata appena appena, e un paio di jeans. Laira le stava accanto: i suoi capelli erano scurissimi, e il suo sorriso incantevole. Indossava un vestito rosso, leggermente provocante, e un paio di ballerine nere. Era così diversa dalla donna che le stava mostrando la fotografia. Era… più viva. “Chi l’ha scattata?” chiese interessata. “Oh, mia cara. Chi l’ha scattata ha catturato più di un’immagine con quella macchina fotografica: chi ha fatto quella foto ha catturato il suo cuore. Tuo padre.” “Allora mio padre non è Adam Jonson?”
Laira scosse la testa. Sarah la vide rabbrividire. “Sue non lo amava da un po’. Si era dimostrato diverso da quanto era all’apparenza. Un grave macigno, così lo chiamava quando ne parlava con me. Adam voleva dei bambini, voleva una famiglia numerosa e la voleva subito. Sarah non si era mai concessa a lui. In fondo non stavano insieme nemmeno da un mese. Ma quando incontrò Dan, cambiò tutto. Faceva autostop e noi lo prendemmo su. Fu Sue a dire di fermarci, se fosse stato per me l’avrei ignorato. Quando ne riparlammo ci ridemmo sopra, io, Sue e Dan. Lui era un aspirante fotografo che aveva abbandonato la scuola a sedici anni per inseguire il suo sogno. Gli era andata male e tutto quello che possedeva era una valigia di vestiti un po’ stretti e quella macchina fotografica. Non aveva nulla da perdere, non avevamo nulla da perdere tutti e tre, tranne che la vita. Non riesco ancora a capire come Sue si sia innamorata di lui. Era un folle, e trasudava follia. Chimica, diceva Sue. Una sera pioveva forte e ci riparammo in un albergo. Anche Dan. Ormai stava con noi. Affittammo due stanze. Io e Sue in una e Dan nell’altra. La mattina, quando mi svegliai, Sue non dormiva accanto a me. Non so se fu la preoccupazione o la curiosità a farmi alzare, ma sta di fatto che li trovai insieme, nel letto di Dan, nudi, a baciarsi. Sue fu la prima ad accorgersi della mia presenza. Scoppiò a ridere, come in tutti i momenti imbarazzanti della sua vita: dal primo peto in pubblico alla volta in cui la sua migliore amica l’aveva beccata ad amoreggiare con il ragazzo che avevano preso sull’autostrada. Poi risi anche io, poi Dan. Andammo a farci la doccia e ripartimmo. Nessuno fiatò. Poi Dan si avvicinò a Sue sussurrandole di amarla. Sue lo abbracciò; piangeva. ‹‹Devo dirlo ad Adam,›› disse. Ci fermammo a un telefono pubblico. Io e Dan sentimmo tutta la conversazione: Adam strillava, e anche Sue. ‹‹Non ti amo più,›› ripeteva Sue. ‹‹Non avrebbe mai funzionato fra noi,›› e tratteneva le lacrime a stento. ‹‹Ma io ti amo, sei la cosa più importante per me! Dovevamo formare una famiglia!›› e Sarah non trattenne le parole, così gli disse che lei non avrebbe mai formato una famiglia con lui. ‹‹Se non potrò averti io non potrà averti nessun altro!›› si sentì echeggiare dall’altra parte del telefono. Adam agganciò. Sue ritornò alla macchina e, fra le braccia di Dan, pianse silenziosamente. Né io né lui sapemmo mai se fosse di felicità o di tristezza. Io ho sempre creduto, ho sempre saputo anzi, che una parte di Sue volesse ancora bene ad Adam, ma lei era arrivata alla conclusione che lui voleva soltanto possederla, senza amarla, senza viverla veramente nella sua interezza di corpo e di donna. Dan la tenne stretta tutto il giorno. Le accarezzava i capelli, le sussurrava soavi parole. Si addormentarono abbracciati. Il mattino dopo, Sue era di nuovo Sue e il viaggio era ancora lungo. Guarda, questo è Dan.”
Nella foto, suo padre aveva circa venticinque anni. Laira aveva ragione: trasudava follia. I suoi capelli castani scuro erano scombinati e informi, e i suoi occhi effondevano frenesia, ma il suo sorriso, grande e abbagliante, era meraviglioso e, alla sola vista, si sentì permeata di ilarità e spensieratezza. “Forse è per questo che mamma si è innamorata di lui,” pensò Sarah. “Era la felicità in persona, Dan. E Sue amava la felicità. L’aveva trovato, non se lo sarebbe perso per niente al mondo.” Mentre Laira parlava di gioventù, di sentimenti, di amore, Sarah non rivolgeva i suoi più sdolcinati pensieri che a Glen. Persino nei momenti in cui piangeva la morte di sua madre e meditava vendetta, la sua mente e il suo cuore la riportavano al suo sorriso, ai suoi occhi cerulei, a lui, semplicemente. “Continua, Laira,” disse Sarah, impaziente di capire cosa fosse successo a sua madre, a suo padre… ad Adam. “Io, Sue, e Dan tornammo in città un mese dopo. Avevamo fittato un appartamento in comune. I miei genitori e quelli di tua madre, i signori Lewis, ci aiutavano con le spese. Dan aveva trovato un impiego come assistente meccanico in un'autofficina. Guadagnava poco, ma quel poco serviva. Sue e Dan stavano bene insieme. Io mi sentivo d’impiccio, ma Sue aveva sempre detto che se non fosse stato per me e per il viaggio che avevo contribuito ad attuare, non avrebbe mai conosciuto Dan. Mi rassicurava il pensiero di essere stata una degli artefici di quella instancabile felicità, ma ogni weekend andavo a dormire dai miei con la scusa della malattia di mia madre. Se ne andò anche lei, poco dopo di Sue. Le aveva sempre voluto un gran bene. Ho sempre creduto che la sua morte sia stata il colpo di grazia ai suoi nervi. Il fato, Sarah,” e la guardò negli occhi, “è avverso agli uomini più di quanto gli uomini lo siano a loro stessi. Sue ò i test all’Università di Medicina. Ci comunicò la notizia un sabato mattina. Lei sorrideva. Ci guardammo dritte negli occhi e lei annuì. Ci abbracciammo e Dan si unì a noi. Fu in quel momento che le chiese di sposarlo. Si conoscevano da poco più di un mese, ma Sue lo amava più di quanto amasse sé stessa e disse di sì. Lei mi disse di averti concepita quella notte. Si sposarono la settimana seguente. Sue non voleva qualcosa di ricercato, né di troppo dispendioso dal punto di vista economico. Era quello il suo tempo, non poteva più aspettare il domani, aspettare… di morire. Così, il dodici settembre, davanti a un altare di marmo e sotto gli occhi lacrimanti di sua madre, Sue giurò di essergli fedele, nella buona e nella cattiva sorte, finché la morte non li avrebbe separati. Lei però
fece di più: rimase fedele alla sua anima, al suo ricordo, al cuore che quell’uomo le aveva donato nel momento in cui si era abbandonato a quel dolce sentimento, nel momento in cui i loro sguardi si erano incrociati in una decappottabile blu; gli restò fedele anche dopo la morte, per quel poco tempo che il fato le concesse.” La sua voce era rotta dalle lacrime trattenute a forza negli occhi. “Stava proprio bene con quell’abito bianco,” le disse mostrandole una foto che ritraeva sua madre e suo padre in abito da cerimonia. Lui indossava il classico smoking nero e aveva i capelli spettinati, come al solito. Gli brillavano gli occhi, ma non era follia: era pura ed essenziale felicità. Sua madre gli teneva la mano e sorrideva guardando l’obiettivo della macchina fotografica. Aveva i capelli arricciati per l’occasione, raccolti in una coda alta. Uno le cadeva sulla guancia sinistra sottolineandole il profilo dello zigomo. Aveva poco trucco, un filo di rossetto e un accenno di matita bianca. Il vestito che indossava era splendido quasi quanto la sua figura: aveva due ampie spalline che si intrecciavano sul petto accentuandole il volume del seno; poco più in basso, era cinta da una fascia non più alta di cinque centimetri. Il resto del vestito ricadeva in leggere pieghette come gli antichi pepli delle donne greche. Sua madre era leggiadra e vistosa nella sua semplicità e provò un piacere orgoglioso nel momento in cui si avvide di assomigliarle. Sarah alzò gli occhi dalla fotografia. Laira si era raggomitolata sulla poltroncina versando lacrime silenziose. Le si avvicinò, carezzandole le mani sporche di inchiostro. Laira sussultò: era spaventata; sembrava un vecchio coniglio bianco ferito e in trappola. “Va via, Sarah,” biascicò. Sarah non controbattette. Laira le pareva così fragile e impaurita, le sembrava quasi che le implorasse di andarsene, che le dicesse “Lo faccio per il tuo bene.” Sarah non cercò nemmeno di spiegarle che non le importava quale fosse il prezzo da pagare: voleva conoscere la verità. Ma aveva sufficiente senno da riconoscere una battaglia persa e altrettanto per comprendere di aver appreso il possibile dai gioiosi e funesti ricordi di Laira Noir. “Abbi cura di te,” sussurrò Laira. “Fallo per lei.” “Lo farò,” rispose Sarah, giurando a sé stessa di aver pronunciato l’ultima promessa che non era in grado di mantenere.
16
Si allontanò dai Tetti Rossi avendo l’impressione di non aver mai incontrato Laira Noir, senza ricordare cosa si fossero dette, le foto che le aveva mostrato, le sue mani sporche di inchiostro. Si incamminò credendo di essere al punto di partenza, sdraiata sul letto con gli occhi a fissare il soffitto, in libreria a sistemare i libri in ordine alfabetico, nel ventre di sua madre. Per qualche secondo dimenticò la sofferenza che aveva vissuto alla morte dei suoi genitori adottivi, alla morte di coloro che aveva chiamato madre e padre e che non erano altri che scelte. Pensò ancora una volta a quello che era stato suo padre, al modo buffo in cui correva, alla sua voce. Poi pensò al suo vero padre, a Dan, a un uomo che nemmeno conosceva, che non aveva mai sentito parlare, che forse non le aveva mai rimboccato le coperte o letto una fiaba prima di baciarle la fronte sussurrandole la buonanotte. Pensò a sua madre, al suo spirito o a qualunque cosa fosse quell’essere che le aveva stravolto l’esistenza. Pensò al modo in cui aveva trovato la foto: in un fagotto, proprio come l'aveva lasciato lei sulla porta dei Vitrey venti anni prima. “I genitori sono quelli che ti crescono,” le aveva sempre ripetuto la sua madre adottiva, e ora capiva pienamente il motivo di quelle parole. Non smetteva di amare incessantemente i Vitrey, né di ricordare con rammarico il giorno in cui volarono via anche loro, ma Sue, sua madre, la sua vera madre, era morta per lei e anche suo padre, stando alle parole di Laira Noir. Sarah si accasciò sull’erba gialla e pianse; pianse per i Vitrey, pianse per sua madre, per suo padre, per se stessa, per quelle persone che aveva amato e che se n’erano andate. Per un attimo pensò che fosse una sua peculiarità, forse una semplice maledizione, il veder andar via tutti quelli a cui teneva. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi come il sangue che era fluito dallo specchio del bagno. Si abbandonò ancora un po’ alla tristezza, riconoscendo in quel lento stillicidio un legame indissolubile fra lei e sua madre, fra lei e le donne, fra lei e il mondo, perché tutti, nei modi più diversi eppure identici nella loro essenzialità, piangiamo. E Sarah pianse, finché la vocina non le disse “Alzati.” Si alzò e continuò a camminare, fino a quando i Tetti Rossi non furono altro che un distante elemento del paesaggio. Poco a poco, a ogni o che faceva, i dettagli, i volti, i nomi che Laira Noir le
aveva descritto le tornarono alla mente. Adam Jonson, la decappottabile blu, i vestiti che indossavano Laira e sua madre, Lewis. Ecco, Lewis era il suo nuovo indizio, il suo nuovo riferimento. Chi meglio dei genitori di Sue, dei suoi nonni, le avrebbe potuto dire cosa fosse realmente accaduto alla loro bambina? E, mentre pensava al modo migliore per rintracciarli, quella vocina stranamente più dolce e gentile le disse “Calma.” Così tirò un respiro e continuò a camminare, cercando di non pensare a niente. Si concesse soltanto una domanda: perché, anche nel niente, continuava a vedere Glen?
17
Erano quasi le undici. Sarah si ricordò di avere un appuntamento con Glen al Caffè del Corso e cominciò a correre. Pensò a quando sua madre si era messa a correre in reggiseno insieme a Laira. Scartò l’ipotesi di fare lo stesso, deducendo che l’effetto, in quel gelo invernale, sarebbe sicuramente stato una bronchite. E bronchite equivaleva a niente ricerche, niente Glen, niente di niente. Ma l’avrebbe fatto, prima o poi. E un giorno, si ripromise, sarebbe partita anche lei, come aveva fatto sua madre. Magari un giorno avrebbe comprato una decappottabile tutta per lei, avrebbe messo in moto e schiacciato il pedale a tavoletta. Un giorno avrebbe anche fatto l’amore. Era quasi arrivata al bar. Diede un’occhiata all’orologio: erano le undici e trenta. Pochi minuti dopo riuscì a scorgere, in lontananza, l’insegna arancione e, dopo qualche secondo, l’uniforme di Glen… e Glen. Si fermò per poi corrergli incontro e abbracciarlo. Senza accorgersene, chiuse gli occhi e appoggiò la testa sulla sua spalla. Glen aveva gli occhi sbarrati e la braccia tese e aperte, ma non gli ci volle molto per abbandonarsi, completamente, a quell’abbraccio. Strinse il corpo di Sarah a sé e chinò il capo. Poi Sarah aprì gli occhi e si scostò. “Perché l’hai fatto?” si chiese, adirata con se stessa. “Scusa, non so perché l’ho fatto,” cercò di giustificarsi. “Non fa niente,” le rispose Glen. “Non devi scusarti.” Sarah sorrise. Assomigliava così tanto a sua madre. “Mi avevi promesso la colazione,” disse ridendo. “Non te ne sarai dimenticato?” Glen scosse il capo. “Come potrei?” Andò un attimo nel piccolo locale e tornò mezzo minuto dopo con un vassoio di plastica, una tazza di porcellana colma di cioccolata calda e un cornetto.
Le allontanò la sedia dal tavolo con la mano libera, per farla accomodare. Appoggiò il vassoio sul tavolo e fece per andarsene. Sarah lo prese per la mano. “Resta, fammi compagnia,” sussurrò. Glen annuì e si sedette al suo fianco. Sarah cercò di pensare a qualche domanda non troppo banale, ma nemmeno troppo ricercata; semplice e generica, ma non eccessivamente stupida… “Che lavoro fai?” le chiese Glen, smorzando il fluire dei suoi pensieri. “Lavoro in una libreria. Era dei miei genitori adottivi,” gli disse. “Oh, e di cosa si occupano loro adesso?” “Sono morti,” rispose Sarah con un filo di voce. Glen ammutolì. “ Scusa, non volevo…” “Acqua ata,” disse Sarah, non del tutto convinta delle sue parole. “Successe tanti anni fa, in un incidente d’auto.” “Mi dispiace,” disse Glen. Sembrava che gli dispie davvero. Le strinse la mano, come per dirle “Io ci sono, qualunque cosa sia accaduta e qualunque cosa accadrà.” Poi, prima che Sarah se ne accorgesse, le accarezzò il viso e le si avvicinò. Lei si lasciò scivolare il cucchiaino dalle mani, che cadde sul gelido lastricato con un sonoro clack. Fece una smorfia e Glen sorrise. Glen schiuse appena le labbra e le avvicinò a quelle di Sarah. Restarono così, uniti, per un minuto, forse due, sfiorandosi i capelli, le guance, l’anima, in quel bacio invernale, il loro primo bacio. Voleva dire “Io ci sono, e non me ne andrò mai via. Promesso”. Si scostarono, tenendosi per mano. Glen le baciò la fronte e si guardarono negli occhi. Non disse di amarla, né disse di essere innamorato di lei. Non la adulò con futili lusinghe. Eppure i suoi occhi parlarono e decantarono le magnificenze del suo viso. Il suo cuore e la sua anima le giurarono amore eterno, il suo corpo le promise protezione fin quando il suo cuore avrebbe continuato a pompare il sangue e la sua mente fosse stata sufficientemente lucida da sapere di essere un
tutt’uno con quella di Sarah. Lei gli strinse più forte le mani, proprio sulla punta delle dita; sembrava gli stesse consegnando il suo cuore. “Tienilo al sicuro,” sussurrava la sua anima. Così, il cuore di Glen scivolò dritto nel petto di Sarah, come surrogato del suo. Sarah lasciò scorrere le mani di Glen sul suo viso. Lei chinò il capo e lui la baciò di nuovo. Questa volta glielo disse. Avvicinò le labbra all’orecchio destro della giovane che irradiava le sue giornate e mormorò: “Ti amo.” “Ti amo anch’io,” sussurrò Sarah a sua volta. Ora aveva anche lei qualcosa per cui valesse la pena vivere, soffrire. Aveva anche lei qualcuno da amare… qualcuno da perdere.
18
“Sarah c’è qualcuno che ci sta fissando,” disse Glen distogliendo lo sguardo dagli occhi di Sarah. “Il mondo è pieno di persone curiose, non ci pensare,” replicò lei. “Oh, no, Sarah… se lo vedessi. Lui non è incuriosito da noi, è incuriosito da te,” disse Glen con aria preoccupata. “Non sarai geloso?” il tono di Sarah era scherzoso e ironico. Tuttavia, assillata dall’angoscia, si girò. L’uomo della vetrina la stava fissando. “Vuole il libro,” pensò, ma non lo aveva con sé. “Lo hai nella tasca del soprabito,” disse la vocina nella sua testa. Era vero, ma fece finta di non essersene accorta. Accennò un saluto con la mano. L’uomo della vetrina ricambiò. Sarah gli fece cenno di venire a sedersi al loro tavolo, lui scosse la testa e si allontanò. Lei scrollò le spalle: almeno era stata educata. “Lo conosci?” chiese Glen. “L’altro giorno è venuto a cercare un libro di poesie al negozio. L’ho trovato dopo che lui si fosse già allontanato e ora lo sto leggendo io. Credo lo voglia.” L’attaccamento di quell’uomo per quel libro, il libro di poesie di Laira Noir, un libro di cui non aveva mai sentito parlare prima del fatidico giorno in cui aveva brandito quel piccolo rettangolo bianco, la incuriosiva: era quasi morboso. Senza accorgersene, Sarah cominciò a guardare il tavolo ininterrottamente. “Sarah?” la chiamò Glen. La sua voce la riportò alla realtà. “Scusami, stavo pensando a mia madre. Quella vera.” “Non me ne hai mai parlato,” disse Glen. “Ci conosciamo soltanto da un giorno,” Sarah sorrise, “ho tutta la vita per parlarti di mia madre.”
“La vita è anche adesso,” le rispose Glen. Aveva ragione, anche quell’attimo, quel secondo era vita e, un secondo dopo, quell’attimo sarebbe stato ato, ricordi, fumo. Era quello “il suo tempo”. Così pagò il conto, opponendosi energicamente quando Glen cercò di offrirle la colazione come promesso, invano. Il ragazzo caldo si tolse l’uniforme arancione e indossò un giaccone. Si incamminarono a braccetto e Sarah gli raccontò tutto, dal libro di Laira Noir ai suoi genitori, dalla lettera all’incontro con la migliore amica di sua madre. Gli parlò di lei, di come avesse scoperto che sua madre fosse proprio la ragazza violentata sotto la sua vecchia casa, lasciata a fissare il cielo con i suoi occhi cobalto sui gradini freddi dell’uscio di una casa vuota. Gli disse delle sue allucinazioni e quando gli chiese se credeva fosse pazza, lui rispose semplicemente: “Non sei pazza, ti credo,” poi aggiunse: “Quasi il mondo intero crede in divinità che non ha mai visto; io stesso ci credo. Tu sei sana quanto me, perché non dovrei crederti?” Sarah scosse la testa: in se stessa non ci credeva nemmeno lei. Cinse il suo collo con il braccio destro e accostò il capo al suo petto. Glen le baciò i capelli. Sussurrò “Andrà tutto bene.” Sarah si limitò a sorridere flebilmente. La verità è che aveva paura, per lei… per lui. Ora c’era Glen, e Glen aveva dato valore alla sua vita. Era tutto così logico, così matematico. In quell’intangibile unione aveva trovato la serenità e il tormento eterno, la difesa e il rischio, il vigore e la vulnerabilità. Un unico individuo, un'unica anima; il brutto era che nessuna delle due metà sarebbe potuta sopravvivere senza l’altra. “Mi accompagni al negozio?” Glen accennò un sì con la testa e la prese per mano. Nella solitudine fredda e tesa delle strade, camminarono fianco a fianco. Glen ogni tanto sorrideva, ma non parlarono. Sarah non riusciva a proferire parola: il segreto che le era scivolato dalle labbra doveva essere suggellato con il silenzio. Dopotutto, il silenzio pesa più del rumore. Glen non fiatò, non cercò di farla parlare, né di farla sorridere, ma le strinse, per tutto il tempo, la mano congelata e tremolante. Arrivata al negozio, Sarah baciò Glen sulla fronte e lo guardò negli occhi. Glen le accarezzò il viso, sussurrandole “Ti aspetterò.” Sarah annuì e sorrise debolmente. Spinse la porta d’ingresso e quegli odiosi camli tintinnarono. Alla scrivania a fare i conti, sua sorella.
19
La carta colorata della sciarpa giaceva abbandonata su una pila di libri. Il suo contenuto stava al collo della donna alla scrivania. Al suono dei camli Martha Vitrey sollevò lo sguardo dalle carte colme di annotazioni a matita e inchiostro nero. Celò un sorriso con un broncio fittizio e salutò sua sorella. “Sei arrabbiata con me?” chiese Sarah. Martha restò a fissarla, imibile. “Oh, Martha, non fare così,” le si avvicinò e le poggiò le mani sulle spalle. Accostò la testa al suo orecchio sinistro e mormorò “Scusami.” “Scuse accettate,” brontolò Martha. Sarah le baciò una guancia. “Ti è piaciuta la sciarpa?” le chiese. Il motivo a scacchi colorati donava particolarmente al viso di sua sorella. Il rosso si intonava con il castano dei suoi capelli, il verde con il marrone dei suoi occhi e il blu con il suo maglione. Martha annuì e disse: “Ѐ molto bella, Sarah, grazie.” “Dovresti parlarle,” disse la vocina nella sua mente. “Dovete chiarirvi, non puoi semplicemente farle un regalo e credere sia tutto apposto.” Sarah sospirò e disse “Dobbiamo parlare, Martha.” Vide una vecchia sedia di legno al lato del piccolo locale. Era impolverata e sul sedile v’erano appoggiati una decina di volumi. Li scostò e li appoggiò su uno scaffale che le sembrava meno instabile degli altri. Smosse un po’ di polvere con le mani e avvicinò la sedia alla scrivania. Si sedette e guardò sua sorella negli occhi, quegli occhi così maturi, così dolci e sereni, così familiari. Martha era tutto ciò che le rimaneva della sua famiglia. C’erano i Lewis, i genitori di sua madre, ma non era certa fossero ancora vivi. Invece Marha era lì, davanti a lei, a congelarsi nel freddo del loro piccolo negozio di parole. Ne avevano vendute tante e lette abbastanza da credere che la vita vera fosse nei libri, ma non avevano mai sprecato due parole per dirsi quanto rimaneva di omesso, per chiedersi reciprocamente scusa per quell’esistenza ata a tacere, per chiudere i conti e andare avanti con più
leggerezza. Così, Sarah strinse le mani stranamente calde di sua sorella che rabbrividì al contatto delle sue, congelate. Sarah fece per scostarle ma Martha le trattenne. E insieme, involontariamente e impulsivamente mormorano: “Scusa.” Sarah sorrise. “Mi dispiace, sul serio,” lo sguardo di Martha era titubante. “Ti prego di credermi, Martha,” sussurrò. “Sono successe delle cose in questi pochi giorni, non so nemmeno quanti giorni siano ati. È tutto così confuso, Martha,” chiuse gli occhi. Sospirò e riprese, mentre sua sorella la guardava perplessa e sconcertata. “Martha, mi dispiace di aver discusso con te l’altro giorno, mi dispiace di non aver parlato con te negli anni ati, di non essermi sfogata con te, di non averti lasciato sfogare con me quando mamma e papà se ne sono andati. Ti chiedo scusa per ogni sorriso che ti ho negato, e per tutti quelli fasulli che ti ho concesso quasi rammaricata. In realtà, credo che non bastino le mie parole per farti capire quanto sia dispiaciuta di aver reso tutto così complicato, di aver vissuto ogni giorno credendo che il mondo mi fosse avverso e che anche tu, insieme a tutti gli altri, volessi semplicemente ferirmi e vilipendermi. Tutte le tue attenzioni, tutte le tue premure nei miei riguardi, solo ora capisco come fossero soltanto una manifestazione del tuo affetto nei miei confronti. Sei stata come una madre per me quando la mamma ci ha lasciate sole, mi hai difeso e mi hai amato e io non ho ricambiato che con astio e scontrosità. La verità è che mi rendo conto soltanto ora di averti voluto bene e di volertene ancora di più. Scusa, Mar…” Sua sorella le serrò la bocca con la mano. “Avresti fatto meglio a distribuirle negli anni tutte queste parole, Sarah. Sembrano le acque di un fiume in piena.” Rise, trattenendo le lacrime a stento. “Anche io ho le mie colpe. Io credo di essere stata troppo asfissiante con te.” Sarah la guardò inarcando le sopracciglia. “Solo?” disse. Si guardarono per qualche attimo negli occhi. Poi Sarah non si trattenne più e cominciò a ridere. Martha la seguì. Risero, come nei giorni lieti in cui giocavano a biglie sulla sabbia, e piansero, come in quei momenti più duri in cui le lacrime non sono che uno sfogo essenziale. Sarah si asciugò gli occhi e disse: “Pace.” Martha strinse la mano a pugno e sollevò il mignolo. Sarah fece lo stesso e li intrecciarono come facevano all’asilo, ai vecchi tempi in cui il fardello più grande era mandar giù la pasta della mensa. “Pace,” disse Martha, sorridendo.
“Chi è quel ragazzo lì fuori?” chiese Martha indicando Glen con la testa. Sarah arrossì e inarcò le spalle. “Lui è… Glen,” rispose semplicemente. “Oh, cara, il suo nome non ha importanza. Tu sai cosa voglio sapere.” Sì, Sarah lo sapeva, ma conosceva sufficientemente bene sua sorella da capire che lei avesse intuito tutto. “Devi essere cambiata veramente. La vecchia Sarah non si sarebbe mai lasciata avvicinare da un ragazzo.” Sarah sorrise. “Glen non è un ragazzo. Ragazzo è troppo generico. Lui è l’unico ragazzo,” disse sottolineando la parola unico, “L’unico al quale io mi sia mai affezionata sul serio, l’unico che io abbia mai amato.” Sarah si stupì delle parole che aveva pronunciato. Sgranò gli occhi e si coprì la bocca un po’ aperta con la mano. “E lui ti ama?” chiese Martha. Sarah annuì. “Lui dice di sì.” Martha serrò i pugni e li poggio energicamente sulle sue ginocchia. “Cosa vuol dire che lui dice di sì? Sarah, quel ragazzo sta congelando lì fuori per te! Certo che ti ama!” Sarah rise, un po’ perché le movenze di sua sorella le ricordavano quelle della nonna di Titti, un po’ perché la “nonnina” aveva ragione, un po’ perché era felice di sentirsi dire da sua sorella, donna giovane ma dotata di una singolare saggezza e perspicacia, una verità così gradevole alle sue orecchie… e al suo cuore. Abbracciò sua sorella e la baciò sulla guancia. “Non facciamolo più,” le disse e anche l’insensata ambizione della felicità le parve concretizzabile. Glen la aspettava fuori. Quando la vide uscire dal negozio sorrise e, dovette ammettere, non ne fu lieto solo per aver rivisto la donna che amava, ma anche per poter finalmente muoversi e riscaldarsi. Si salutarono davanti al bar con un fugace bacio sulle labbra. Un attimo dopo, Sarah fu di nuovo sola.
20
Sarah continuò a camminare per inerzia. Il vento le percuoteva violentemente le tempie e le mani le erano diventate rosse, ma non le importava. Quella gioiosa mattinata non doveva distrarla dal suo vero obiettivo. Quei pochi momenti di allegria non dovevano cancellare il dolore lancinante che ogni respiro le era costato fino al giorno in cui quello strano libro era capitato su uno dei tanti scaffali impolverati della piccola libreria di famiglia, tutta la sofferenza che sua madre aveva provato, le violenze che aveva subito poco prima di morire, il modo in cui il suo corpo era stato deturpato, la brutalità con cui il fato aveva strappato una madre dalla sua unica figlia. Non doveva dimenticare quella melodia incompiuta che attendeva da venti anni il compositore che fosse finalmente stato in grado di suonare le sue melanconiche note sporche e confusionarie, che fosse riuscito a leggerle e a completarne la successione con l’accordo finale. Semplicemente, non doveva dimenticare il ato, quel ato che le sembrava di conoscere sempre meno. “Devi trovare i Lewis,” disse la vocina nella sua mente. “L’avevo capito,” si disse Sarah. Il problema era come trovarli. Avrebbe potuto cercarli negli elenchi telefonici. Le sovvenne di averne uno nel ripostiglio di casa sua. “E se non fossero di qui?” si chiese. “E se fossero morti?” Era un’ipotesi che aveva già considerato, ma non aveva ancora riflettuto su quanto questo avrebbe potuto comportare. Se i Lewis non fossero stati più nel suo mondo, per così dire, avrebbe dovuto convincere Laira a darle più informazioni, a raccontarle tutta la verità, a dirle il nome dell’assassino di sua madre; se fosse stato così, non avrebbe avuto alcun parente da parte di sua madre, nessuno. Niente madre naturale, niente padre naturale, niente nonni. Si rassicurò al pensiero di avere ancora Martha, ma avere dei nonni le rendeva più facile persuadersi che non fosse tutto perduto. Avrebbe cercato i Lewis sull’elenco, avrebbe controllato ogni indirizzo se necessario. Eppure il nome Lewis le era familiare. Suo padre… Aveva a che fare con lui. Lui andava dai Lewis qualche volta, ma per cosa? Si sforzò di ricordare.
Sì, c’erano dei Lewis. Secondo quanto le suggeriva la memoria, erano una coppia di sessantenni senza figli. Fino a qualche anno prima avevano venduto fiori in un negozio non lontano dal bar in cui lavorava Glen. Suo padre andava da loro tutte le domeniche a comprare le orchidee per la mamma. Poi suo padre aveva smesso di andarci e Martha aveva preso il suo posto. Sua madre non poteva più sentire l’odore delle orchidee ma Martha aveva sempre pensato che tenere viva quell’abitudine, quel gesto, avrebbe tenuto viva anche una parte di lei. Poi avevano chiuso, i Lewis si erano trasferiti in una casetta sulla costa, una vecchia proprietà di famiglia, a godersi la pensione. Sarah sperò che sua sorella si fosse fatta lasciare un recapito telefonico, un indirizzo… “E se non fossero loro?” Anche questo era possibile. Ma quali altri Lewis potevano esserci? Dopotutto il suo paesino non aveva più di un centinaio di famiglie e, in un modo o nell’altro, sarebbe riuscita a risalire a qualcuno, ad almeno una persona che avesse conosciuto sua madre. O avrebbe bussato palazzo per palazzo, spacciandosi per una postina o per una venditrice di cosmetici, chiedendo informazioni, chiedendo di lei, di loro, per giorni, per mesi se ve ne fosse stato il bisogno. Si obbligò a pensarla positivamente, a credere che il nome dei Lewis fosse nell’agendina che Martha lasciava sempre accanto al telefono di casa sua, a sperare che quei Lewis fossero i Lewis proprio come aveva pregato che la poetessa dei Tetti Rossi fosse Laira Noir. “Fortuna, ” si disse, ma una parte di sé la pensava diversamente. Era stata sua madre a dirle di andare lì e lì aveva trovato la sua migliore amica. Laira le aveva detto involontariamente che il cognome di sua madre era Lewis, che si chiamava Susanne. Era stata sua madre a innescare la reazione a catena, non lei. Lei era solo il tramite. Si sentì frustrata, in parte. Le sembrava di avere un ruolo marginale in quell’angusto teatro degli eventi. Era il contrario e l’altra parte di lei ne era consapevole. Tuttavia, sperare le parve rassicurante; così sperò. Dopotutto la speranza è sempre l’ultima a morire e, se muore lei, in fondo sono già morti tutti. Ma il suo cuore batteva, forte: non era mai stata più viva di così. Infilò le mani infreddolite nelle tasche del soprabito giallo. Avanzava a o svelto fra i pochi anti indaffarati; le scivolavano ai fianchi come ombre. Alzò lo sguardo al cielo: era bianco. “Sembra il manto di un angelo,” pensò Sarah. C’era, tuttavia, qualche nuvola impalpabile e cinerea, ma nel complesso il cielo pareva davvero il velo di un angelo. Poi si ricordò di non aver mai creduto nelle creature celesti e scosse il capo. Eppure ora le sembrava tutto così reale,
così possibile. Sarah pensò a sua madre, a come il dolore la trattenesse al suolo, a come stesse ancora a guardare con i suoi occhi cobalto il cielo, senza poterlo toccare. Le sembrava di poterci guardare dentro, di poterlo attraversare. “Sono pazza, ” si disse. Anche la malattia le sembrava possibile. Così avrebbe spiegato tutto: l’endofasia, le allucinazioni, la sempiterna estasi che distingueva il suo sguardo da quello degli altri, dei normali. Scosse il capo e abbassò gli occhi, trovando sorprendentemente confortevole guardare il suolo.
21
L’agendina di Martha era accanto al telefono, come Sarah sperava. Era più vecchia di quanto ricordasse. Il suo rivestimento in cuoio era rigato e imbratto; la matita al suo interno era temperata fino alla sommità e lo strato di colore restante era piuttosto informe; il laccio rosso per segnare le pagine era sfilacciato all’estremità inferiore; le pagine erano ingiallite e l’inchiostro si leggeva a malapena. Sarah andò alla lettera L. Si sedette al tavolo della cucina. “Lacey, Lafond, Lennox, Levison, Levi,” lesse aumentando progressivamente il tono di voce. “Lewer,” nella sua voce traspariva un’ansia pressante. “Loyan,” girò nervosamente la pagina. In cima, la lettera M. “Non è possibile!” strillò sbattendo i pugni sul tavolo. Rilesse concitatamente l’elenco due o tre volte. “Lewer… Loyan,” Lewis sarebbe dovuto essere lì in mezzo. E non c’era. Gettò l’agendina per terra. Sollevò le braccia portandosi le mani alla testa. Chiuse gli occhi e fece una piroetta, come faceva sempre la signora Vitrey per distendere i nervi. Sospirò e schiuse le palpebre. Si chinò a raccogliere l’agendina. “Sto gettando troppe cose per terra, ultimamente,” si disse. Tendendo il braccio per afferrarla, sbirciò rapidamente la pagina a cui si era aperta: la lettera F. “I Lewis erano fiorai,” pensò Sarah e, prima di accorgersi di aver pensato, ghermì bruscamente l’agendina e cominciò a leggere. Poco sotto la scritta Finnick, qualche riga sotto la F in neretto, stavano due sole sostanziali parole: fioraio Lewis. Sarah digitò il numero sulla tastiera del telefono. Poco prima di portarsi la cornetta all’orecchio bisbigliò “Grazie.” Non sapeva a chi fosse rivolto, a sua sorella, a sua madre, a quel Dio in cui aveva cominciato a credere; ringraziò e basta, perché credeva fosse giusto. La linea era libera. Il primo “Tuu”… il secondo “Tuu”… il terzo… “Pronto, ” disse un uomo anziano con la voce roca. Sarah sgranò gli occhi. Per qualche secondo aveva maturato la convinzione di non ricevere alcuna risposta. E invece…
“Pronto, è il signor Lewis?” domandò. Strinse la cornetta con entrambe le mani. “Sì, sono io. Lei chi è?” “Sono Sarah Vitrey, ” rispose. “Mio padre veniva sempre da lei a comprare i fiori, non so se si ricorda…”. “Sì, mi ricordo,” la sua voce sembrava improvvisamente più calda. “Ma io non vendo più fiori, non so come potrei esserle utile, ” disse. “Non voglio dei fiori, signor Lewis. Vorrei sapere se conosce Susanne Lewis. ” Il signor Lewis tacque. “Io non so come potrei esserle utile,” ripeté. Dall’altro capo del telefono si sentì la signora Lewis domandare: “Chi è, caro?” Sarah sospirò e disse tutto d’un fiato “Per favore, signor Lewis. È davvero importante.” “Stai fuori da questa storia, ragazza mia,” mormorò l’anziano signore. “Sono vecchio ormai, troppo vecchio. ” “La prego, signor Lewis, ” il tono di Sarah rasentava il pianto. Poi ammutolì e, una volta ritrovato il coraggio di parlare, sussurrò: “Nonno.” Il signor Lewis cominciò a piangere. Allontanò di poco la cornetta per non farsi sentire dalla nipote ma Sarah percepiva chiaramente i suoi singhiozzi. Sentì di nuovo la signora Lewis chiedere chi fosse al telefono. “Ѐ Sarah, ” biascicò l’uomo piangendo. “Ѐ la figlia di Sue!” La nonna di Sarah si portò le mani alle labbra e afferrò la cornetta dalle mani del marito. “Sarah!” esclamò. Aveva la voce rotta dal pianto. “Sì, nonna, ” mormorò Sarah. I suoi occhi erano lucidi e una lacrima le bagnava la guancia destra. Sua nonna non riusciva a parlare. “Io… vorrei sapere cos’è successo… voglio conoscere la verità,” disse Sarah. “Ne hai il diritto, nipote mia,” sussurrò la signora Lewis trattenendo a stento un
pianto di gioia. “Posso venire da voi?” “Sì, ti lascio l’indirizzo, piccola mia. Prendi carta e penna.” Sarah riaprì l’agenda e scrisse con la matita l’indirizzo che le dettò la signora Lewis. “Prenderò l’autobus,” disse Sarah. La fermata era a pochi metri dal suo appartamento. “Ti aspetto, Sarah,” bisbigliò sua nonna. “Sarò lì fra un’ora,” le rispose e, prima di riattaccare, disse “Grazie, nonna. Ti voglio bene.” “Anche io te ne voglio, amore mio,” mormorò la signora Lewis riportandosi le mani alle labbra. “Un bacio, piccola.” Poi riagganciò. Non sentiva più la voce di sua nonna, né di suo nonno, ma percepiva già due nuove presenze nel suo petto, rimasto inaridito troppo a lungo.
22
Sarah guardò furtivamente l’orologio: erano le due. L’autobus sarebbe ato appena dieci minuti dopo. Senza guardare, allungò il braccio verso l’attaccapanni per prendere il soprabito giallo e quasi cadde quando le sue mani non trovarono altro che aria nel posto in cui di solito lo poggiava: lo aveva ancora addosso. Mise l’agendina nella tasca destra e aprì la porta. Scese le scale furtivamente; le sembrava di sfiorare appena i gradini di marmo. Fuori il freddo era sopportabile. Infilò le mani nelle tasche e chinò leggermente la testa agitando le gambe per riscaldarsi. Guardò nuovamente l’orologio: erano le due e cinque. “Altri cinque minuti al gelo,” pensò. “E poi nell’autobus.” Riflettendoci, stare all’aperto, respirare aria inodore, muoversi liberamente era un’ipotesi più allettante rispetto a un autobus traboccante di gente accalcata e sudaticcia. “Pazienza,” si disse. “Devo andare dai nonni.” Le piaceva l’idea di avere ancora dei parenti in vita. Quasi ne assaporava il concetto, come fosse un piatto prelibato, di quelli che non poteva permettersi perché troppo costosi, di quelli che, se ne avesse avuto l’occasione, avrebbe gustato tanto lentamente da masticare centinaia di volte un boccone prima di mandarlo giù. Sarah tirò un sospiro e deglutì. La saliva sapeva di caramelle gommose e liquirizia, con un retrogusto di orchidee e crampi allo stomaco. “Devi averli per forza dopo aver ingerito caramelle e fiori,” si disse e rise fra sé. Era strano, paradossale, eppure si sentiva felice. Sorrise: sua madre le aveva donato la felicità… morendo. “Sarei stata più felice se non fosse morta,” rifletté. Era vero. La serenità e la gioia non le sarebbero mancate. Sarah dovette riconoscere, tuttavia, di apprezzare quella serenità, quella leggerezza, solo dopo aver sofferto e penato. “Questo è il prezzo,” mormorò. “Questo è il prezzo della felicità,” e dopo un po' aggiunse: “La tristezza.” L’autobus non tardò ad arrivare. L’angusto mezzo un tempo giallo e ora interamente decorato a graffiti fu alla fermata in pochi minuti. Non era pieno
come aveva immaginato. Trovò un posto libero sulla destra, accanto a una delle sbarre di appoggio per le mani. Un finestrino bianco di acqua condensata le stava sulla destra. Quando l’autobus ripartì, barcollò leggermente in avanti. Si resse alla sbarra di appoggio, poi tornò a guardare fuori. Gli alberi erano ormai spogli. Si ergevano grigi in quel cielo azzurro come anime parve che disperatamente si contorcevano pur di sollevarsi. Le presenze umane e le case andavano progressivamente diminuendo. Qualche metro più avanti vi fu solo erba e qualche albero ogni tanto. Alla vista di un tale paesaggio le sembrò addirittura impossibile l’esistenza del mare. Eppure l’acqua, le onde, la sabbia non erano molto distanti. Si sforzò di non pensare a come fosse prodigiosa la coesistenza degli opposti, a come fosse così evidente il loro confine, delle volte, e a quanto fosse intangibile, delle altre. Pochi minuti dopo l’autobus si fermò di nuovo. Allungò leggermente il capo verso il finestrino e guardò giù, ma non vide nessuno: l’autista aveva aperto lo sportello e l’uomo stava già salendo. Dal suo posto riuscì a distinguerne chiaramente i i pesanti. Tuf… Tuf… Tuf… Sembrava si stesse quasi trascinando. “O forse tu hai questa impressione, ” si disse. Un ultimo sonoro Tuf. Poi vide l’uomo sorriderle e salutarla chinando il capo. Indossava un cappello e un cappotto grigio, teneva la pipa spenta stretta fra le labbra: era l’uomo del libro. Sarah si sforzò di sorridere e le riuscì particolarmente bene. L’uomo si sedette a un posto non molto distante dal suo. “Ora mi chiede se ho finito il libro… ora me lo chiede,” pensò Sarah. Quando l’uomo si girò a guardarla e schiuse le labbra, si preparò a rispondere: “L’ho finito ma l’ho rimasto a casa, i il sessanta novembre al negozio e sarò lieta di venderglielo.” Poi l’uomo, che Sarah ricordava avesse detto di chiamarsi Joan Madson, le sussurrò: “Dove va di bello signorina?” Sarah, un po’ stordita, gli chiese di ripetere. “Sta andando al mare?” chiese l’uomo sempre sorridendo. Sarah annuì. “Bel posto,” disse. “Ci andavo sempre con mia moglie,” aggiunse sussurrando. “Lei dove va?” domandò Sarah, cercando di cambiare argomento. “Oh, mi allontano un po’ dalla città. Devo sbrigare alcune questioni familiari. ”
Joan distolse lo sguardo da lei e cominciò a fissare la strada che scorreva velocemente al suo fianco. Sarah fece lo stesso. Appoggiò il capo al finestrino e chiuse gli occhi. “Fra mezz’ora sarò al mare, dai miei nonni… dai miei nonni.” Così, con la voce di sua nonna che la chiamava “piccola” e con il pianto di gioia del nonno in sottofondo, si abbandonò al sonno.
23
“Correvamo, cavolo se correvamo.” Sarah correva in quel campo di erba secca. Le sembrava che a ogni suo o sgorgasse sangue. I Tetti Rossi si facevano sempre più grandi, sempre più grandi. Dietro di lei vide una figura nera inseguirla. Era lontana, ma si avvicinava. Ogni suo o era il doppio di quelli di Sarah. Continuò a correre, il vento le sciolse i capelli. “Proprio come tua madre,” sentì dietro di lei. “Corri piccola Sue, corri.” La voce era roca e confusa, soffocata dalla terra che copre la dimora dei morti. Sarah sentì le sue labbra schiudersi. Poco dopo udì la sua voce gridare “Laira! Apri”. La porta dei Tetti Rossi si aprì, ma Sarah non vide nessuno. Salì velocemente i gradini ed entrò. Chiudendosi la porta alle spalle vide la figura nera rallentare. Si voltò quasi rassicurata. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì, la vide di nuovo: sua madre. I grumi di sangue erano più spessi, il suo volto contratto in una smorfia di dolore. “Sarah,” biascicò sputando saliva mischiata a grumi rossastri… e la casa cominciò a tremare. Prima il lampadario, poi i quadri, poi il pavimento. Sarah credette di morire schiacciata dalle macerie quando i Tetti Rossi le crollarono addosso. Chiuse gli occhi, aspettando la fine, ma non successe nulla. La casa le ò attraverso per poi sparire. Solo sua madre rimase a fissarla, immobile, nell’erba secca. Le porse la mano. Sarah si appoggiò a lei. La guardò con gli occhi colmi di lacrime. “Piccola Sue,” mormorò piangendo. Poi piccola Sue scomparve e l’ombra nera fu alle sue spalle. La afferrò per i capelli e la costrinse a voltarsi. “Proprio come tua madre,” continuava a ripetere. “Proprio come tua madre.” Incontrò i suoi occhi grigi e trasalì. Sarah sentì una lama attraversarle il petto, traandole il cuore. L’ombra nera la stava pugnalando violentemente, uno, due, tre. Il sangue le colava sul soprabito giallo, una macchia enorme che si allargava ancora e ancora e ancora. Strillava il suo nome con la voce degli inferi. “Come tua madre! Sarah! Sarah! Sarah!” Lo guardò per un’ultima volta negli occhi: brillavano di una luce diabolica.
“Sarah! Sarah! Sarah!” “Sarah?” la chiamò Joan, scuotendola. Sarah si svegliò toccandosi il petto. Il suo soprabito era integro, niente tagli né sangue, semplicemente giallo e vecchio com’era prima che Sarah si perdesse fra gli spettri della sua mente. “Come?” “Deve scendere fra poco,” le disse Joan. “Anche io scendo a questa fermata.” “Grazie,” mormorò Sarah. Si alzò, ancora intorpidita dal sonno. “Proprio come tua madre, ” sentì echeggiare nella sua mente. “Verrà anche per me, ” si disse. “Mi ucciderà… proprio come ha ucciso mia madre.” Sarah scese dall’autobus, seguita da Joan. Quando fu fuori, si lasciò andare a un respiro profondo. Inalò l’odore della salsedine, della sabbia, del mare. Il vento non era molto forte, una brezza piacevole le lambiva il viso e le scompigliava i capelli. “Dove devi andare?” le chiese Joan. Sarah prese dalla tasca l’agendina e lesse l’indirizzo fra sé. “Sai dov’è questa via?” domandò mostrandogli il foglio e coprendo involontariamente il numero civico con il pollice. Joan annuì. “Seguimi,” le disse. La via che cercava non era molto distante. Sarah si guardò attorno: non c’era nessuno. Né sulla spiaggia, né per strada. “Sono tutti chiusi in casa,” pensò. Sarah guardò le villette che costeggiavano la spiaggia. Erano di un bianco sporco, tendente al grigio, con le tende blu, abbassate fino alle ringhiere. Sarah sentì una risatina. Sulla sua destra, affacciato a un balcone, v’era un bambino che non poteva avere più di tre anni. “Ciao,” gli disse Sarah sorridendo. Il bambino rise di nuovo. Aveva la bocca sporca di cioccolata. Poi due braccia femminee lo sollevarono e le tende blu lo coprirono del tutto. “Quante volte ti ho detto di non uscire fuori?” aveva detto la donna, probabilmente sua madre. “Non devi uscire più, capito?” “Capito,” disse Sarah fra sé. Il bambino continuò a ridacchiare, come se non
sapesse far altro. Qualche secondo dopo fu troppo lontano da essere sentito e Sarah ritornò a pensare ai suoi nonni, a che aspetto avessero, a come fossero di carattere. “Eccoci,” annunciò Joan. Sarah aprì di nuovo l’agendina. “Numero 83,” lesse nella mente. “81, 82… 83,” scorsero i suoi occhi sulle porte delle villette. “Io sono arrivata, ” disse. “Lei prosegue?” Joan tacque per un secondo. Sarah lo guardò: la stava fissando. Il suo sguardo era vuoto, le sembrava le asse attraverso. “Joan?” lo chiamò. “Sì, proseguo,” rispose. Continuò a guardarla per qualche secondo, poi si allontanò tacito, senza salutarla. Sarah scosse il capo e si avviò verso l’uscio della villetta numero 83. La porta era di legno verniciato di bianco. Un pomello dorato sporgeva sulla destra, con accanto un pulsantino nero. Allungò il braccio e lo premette. Un argentino Driiin echeggiò nella via silenziosa. “Chi è?” chiese la signora Lewis. Sarah prese fiato e disse “Nonna, sono Sarah,” e la porta si aprì. Sarah fece appena in tempo a dire il suo nome che sua nonna la abbracciò forte, in lacrime. “Entra, entra,” disse. “Augustin Lewis, vieni!” gridò. Suo nonno venne. Alla vista di Sarah, sua nipote, rimase immobile, con le labbra leggermente aperte, fino a quando sussurrò “Susanne.” Poi lo disse più forte e cominciò a camminare verso di lei, poi a correre e infine la strinse fra le braccia le baciò la fronte. “Sei proprio come lei,” disse suo nonno. “Proprio come tua madre,” echeggiò nella sua mente. “Ѐ stato lui!” disse la vocina. “No,” si disse Sarah. “Non è stato lui, non può essere.” “Come fai a dirlo?” le chiese. “Lo sento, lo so, ” rispose. “Le assomigli tanto,” le disse sua nonna annuendo. “Vieni a prenderti una tazza di tè, cara,” mormorò cingendole le spalle con il braccio. “Non c’è bisogno, nonna,” disse Sarah. “Sì, invece,” le rispose. “A tua mamma piaceva tanto il tè.” Sarah sorrise. Suo nonno le indicò il divano e la fece sedere. Poi si sedette sulla poltrona accanto a lei.
“Così tanto tempo,” disse fissando il pavimento. “Perché non mi avete mai detto la verità? Conoscevate mio padre! Conoscevate me!” disse Sarah, quasi sputando le parole che non riusciva a trattenere. “Oh, Sarah!” esclamò suo nonno. “Che succede qui?” domandò sua nonna. Aveva il vassoio da tè in mano. Sarah si alzò e la aiutò a sistemarlo sul tavolo. “Brava figliola,” le sussurrò sua nonna sorridendo. “Dobbiamo dirle la verità,” asserì il signor Lewis accostando la tazza con il tè alle labbra. Sua nonna annuì. “Chiedici quello che vuoi sapere e noi ti risponderemo, è giusto,” disse. Sarah voleva sapere tutto. “Come è morta mia madre?” domandò trattenendo le lacrime. Suo nonno si lasciò scappare un singhiozzo e si coprì gli occhi. Sua nonna deglutì e disse “Tua madre, la piccola Sue, è morta assassinata. Hanno trovato il suo corpo su dei gradini, al freddo, completamente spoglio, ricoperto di sangue,” deglutì di nuovo. Sarah abbassò lo sguardo. “Com’è morto mio padre?” Sua nonna sospirò. “A quanto pare dovrò raccontarti tutto,” disse. “Sai già che tua madre conobbe tuo padre durante un viaggio con la sua migliore amica?” Sarah annuì. “So che si sono sposati,” disse. Sua nonna fece sì con il capo. “E vennero a vivere qui; noi gli regalammo la casa. Non avevano molti soldi e dovevi nascere tu, così decidemmo di dargli un aiuto più grande del previsto. Susanne non era mai stata così felice. Aveva anche trovato un lavoro come commessa in un negozio di abbigliamento non lontano dalla libreria dove lavoravano i Vitrey. Non guadagnava molto ma stare al negozio non era faticoso, nemmeno con te che le crescevi nella pancia,” sorrise. Poi continuò “Tu nascesti proprio in questa casa. Io e Laira, la sua migliore amica, la aiutammo. Dan arrivò poco tempo dopo. Era tanto un bravo ragazzo, Dan. Ma non mi sono mai piaciuti i suoi capelli, erano così spettinati.” Sarah ridacchiò, pensando alla foto che Laira le aveva mostrato il giorno del loro
incontro. “Scelse lui il tuo nome. A tua mamma piacque tanto. Le sembrava leggero, come l’aria. Il giorno dopo tuo padre morì.” Lo sguardo di sua nonna divenne vuoto, quasi assente, come se la sua mente si fosse persa nei ricordi infausti che l’avevano tormentata. “Chi ha ucciso mio padre?” chiese Sarah, accarezzando la spalla della nonna con la mano destra. “Lo stesso uomo che ha ucciso tua madre,” sollevò il capo. “Adam Jonson.” “Adam Jonson,” scandì Sarah. Suo nonno ascoltava quasi imibile. Solo i suoi occhi rossi e lacrimanti lasciavano intendere che fosse vivo. “Sai che erano stati fidanzati?” Sarah annuì. “Adam Jonson,” disse di nuovo, scandendo, lentamente e dolcemente, le sillabe del nome dell’uomo che aveva ucciso la sua famiglia. “Aveva sempre detto di volere dei figli da Sue, di voler formare una famiglia con lei, di volerla sposare. Sue aveva lasciato Adam per Dan e aveva formato una famiglia con Dan, aveva avuto una bambina con Dan, aveva sposato Dan… Adam voleva essere Dan, ma non poteva. Così lo uccise. Lo affogò, proprio sulla spiaggia, nel punto dove non affacciano case, a notte fonda. Trovò lei il suo corpo, a pancia in giù, esangue, ricoperto di sabbia. Susanne fu anche la prima a leggere il messaggio che Adam le aveva lasciato sul corpo di suo marito: Morirai. Sotto aveva inciso anche le sue iniziali. Quella mattina, quando mi alzai, vidi Sarah abbracciata al corpo di Dan, in lacrime, che gli parlava. ‹‹Proprio come volevi tu,›› sentii. ‹‹Nel giardino, sotto le orchidee, ti piacevano tanto le orchidee,›› e continuava a parlargli delle cose che avevano fatto assieme, del viaggio, persino della loro prima notte. Io la lasciai parlare, non cercai di fermarla, non ne avevo il coraggio. Quando lei riprese a piangere, mi sentii costretta ad avvicinarmi. La feci staccare dal corpo e la abbracciai. Le portai un lenzuolo e lei mi fece cenno di andarmene. Augustine non si era ancora svegliato. Lo chiamai solo dopo che Sarah ebbe scavato una fossa sufficientemente profonda nel giardino ed ebbe sepolto Dan, proprio sotto le orchidee. Non dissi ad Augustine della scritta. Forse, se gliene avessi parlato, Sue sarebbe qui ora.” Sua nonna cominciò a piangere. Augustine Lewis le cinse le spalle e le sussurrò: “Non ci pensare, il peggio è ato. Le cose possono solo migliorare.” Sua nonna tirò su con il naso e proseguì. “Mi disse che non voleva rivolgersi alla polizia, che ti avrebbe affidato ai Vitrey, per proteggerti. Adam avrebbe ucciso anche te, altrimenti. Mi disse di nasconderti da tutto questo, fino a quando non fosse arrivato il momento di sapere la verità. Aveva detto anche
che saresti venuta, che lei ti avrebbe mandato da noi. Ed è stato così. Sue fu assassinata la vigilia di Natale, poco dopo averti abbandonata sulla soglia dei Vitrey. Nessuno la aiutò, nessuno. Adam era solo un uomo ma quelle persone, tutte quelle persone che sentirono Sue urlare nella strada in cui è stata uccisa, lo hanno reso il diavolo. Nessuno seppe più nulla di Adam; la vicenda ò dalla prima pagina, alla terza, poi a un piccolo riquadro nell’ultima e infine scomparve del tutto. Pochi giorni dopo fu come se Sue non fosse mai esistita.” Sarah abbracciò sua nonna. Poco dopo anche suo nonno si avvicinò a loro e le strinse in un abbraccio. “Vieni con me,” le disse la signora Lewis. “Devo darti una cosa.” Le mostrò la stanza in cui avevano dormito Susanne e Dan. Era arredata solamente da un letto e da un armadio di legno chiaro. Il letto era basso e ricoperto da un semplice lenzuolo bianco, l’armadio troppo piccolo per quell’ambiente così grande. Una finestra con le imposte bianche affacciava sul giardino con le orchidee. “Ciao papà,” sussurrò guardando fuori. Sua nonna la sentì e le cinse le spalle. “Guarda,” le disse. Aprì l’armadio e le mostrò un cappotto nero. “Era il preferito di tua madre,” continuò sbottonandolo. Sarah si tolse il soprabito giallo e lo ripose sul letto. Sua nonna le porse il cappotto nero e lei lo indossò. Le calzava a pennello, sembrava fosse stato fatto apposta per lei. Sua nonna la guardò sorridendo. “Sembri lei,” disse. Sarah si guardò nello specchio agganciato nell’armadio. Tolse con le mani i capelli che le erano rimasti nel collo del cappotto e restò qualche secondo a fissarsi, stupefatta. Si sentiva bellissima, quasi perfetta. “Mi sento una donna,” mormorò. Proprio lì, in quello specchio, Sarah vide sua madre e lei in un unico corpo. In un attimo sentì la forza di cui aveva bisogno permearle le vene, la paura che aveva avuto sua madre poco prima di morire tramutarsi in odio e in desiderio di vendetta, la sua paura diventare coraggio. Abbottonò il cappotto e guardò sua nonna. Le sorrise. “Andrà tutto bene, ” sussurrò. “Me lo sento.”
24
La signora Lewis baciò Sarah sulla fronte e la strinse forte prima di lasciarla uscire. Sarah salutò suo nonno con un abbraccio e aprì la porta. “Ancora un secondo,” pensò. Voleva colmare gli occhi di quell’immagine così dolce, di quei volti così familiari, persino della casa. Guardò furtivamente l’orologio: era lì da quasi un’ora. Sorrise e disse “Vi voglio bene,” poi si incamminò verso la fermata. Senza fermarsi, diede un’occhiata al balcone sul quale aveva visto il bambino. Era vuoto. “Com’è triste qui,” disse fra sé. “Un posto così bello, con così poca vita e voglia di vivere.” “Anche tu eri come questo posto,” sussurrò la vocina. “Anche tu eri bella, eppure così vuota, così vuota…” Sarah vide l’autobus arrivare. Affrettò il o e allungò il braccio facendo segno all’autista di fermarsi. L’autobus frenò e le porte si aprirono con un risonante cigolio e le ruote stridettero sull’asfalto. Arricciò il naso, infastidita dal rumore, pensando alle ruote che strusciavano l’asfalto e alle guarnizioni che si contraevano spasmodicamente nell’atto di aprire le porte, e arrossì, avvedendosi di aver pensato, per uno strano meccanismo di impudiche associazioni, a Glen. L’autista la salutò con un cenno del capo. Copiose ciocche di capelli brizzolati spuntavano sporadicamente dal berretto indaco con la visiera nera. Sarah vedeva appena i suoi occhi neri e raggianti che la guardavano incuriositi. Si mordicchiava il labbro distogliendo lo sguardo dalla ragazza ogni tanto e rivolgendolo al mare, placido e inerme. Borbottò qualcosa fra sé mentre Sarah si sedeva su uno dei posti liberi della prima fila. “Lei mi ricorda qualcuno che conoscevo,” disse infine l’autista con aria indifferente. Sarah sorrise. “Non sono di qui,” rispose, fingendo a sua volta indifferenza. “Viveva lì, in quella casa,” e fece un cenno con il capo alla villetta bianca dei
signori Lewis. Sarah si voltò a guardarla. Le parve di scorgere sua nonna affacciata alla finestra. Camuffò un bacio a volo e ripeté: “Sul serio, è la prima volta che vengo qui,” senza fingere nulla poiché era la mera - e in parte triste - verità. L’autista scrollò le spalle: era il segno che quella furtiva conversazione era giunta al suo termine. Sarah ne fu lieta e, conquistando una sempre maggiore serenità, appoggiò il capo al finestrino appena in tempo per vedere Joan Madson in lontananza correre verso l’autobus. “Può fermarsi un secondo?” chiese Sarah “Dovrebbe salire un mio amico.” L’autista frenò. Sarah osservava Joan avvicinarsi, avvicinarsi. Ora era quasi arrivato alla casa dei nonni di Sarah. Si avvicinava, si avvicinava e, invece di correre verso l’autobus, Joan Madson girò a destra. Pochi secondi dopo la sua figura rigida e ansante fu ritta sull’uscio di casa Lewis. Sarah lo fissò per qualche secondo. “E se…” non fece in tempo a finire il pensiero. “Signorina, non c’è nessuno. Posso ripartire?” sussurrò educatamente l’autista. “Ci muoviamo!” disse infastidito qualche eggero. Sarah guardò attonita l’autista. “Vorrei essere a casa per cena!” gridò annoiato un uomo con una giacca marrone e una cravatta a righe rosse e beige. Ritto sull’uscio... “Sì, scusi” disse Sarah portandosi le mani strette a pugno alla fronte. Per un attimo sentì l’irrefrenabile impulso di colpirsi violentemente il capo fino a farlo sanguinare, affogando nel sangue i suoi pensieri, soffocandoli e frenandone il flusso con un altro più intenso e cruento. Chiuse gli occhi e abbandonò le braccia, lasciandole cadere sulle gambe. Tuttavia, mentre le sue mani, non più a pugno ma aperte con i palmi rivolti verso l’interno, giacevano immobili, nella sua mente continuavano a dimenarsi e contorcersi quelle due asfissianti sillabe, E se…
Mentre scendeva dall’autobus, Sarah salutò educatamente l’autista. Lui le rispose con un cenno del capo sussurrando: “Lei mi ricorda ancora qualcuno che conosco.” Sarah sorrise, senza dire nulla. Il suo primo pensiero, quando entrambi i suoi
piedi furono sull’asfalto cittadino, lontano dal mare, lontano dai suoi nonni, dalla casa che era stata dei suoi genitori, fu andare da Glen. “Ti amo anche io,” le aveva mormorato. “Ti amo,” disse fra sé Sarah e, per qualche secondo, ebbe l’impressione di averlo gridato o di averne avuto l’ardente desiderio. Sì, aveva voglia di strillare, di girare e rigirare su sé stessa fino a sentirsi male. Per un attimo, un piccolo frammento di secondo, credette di poter vivere in eterno, di poter vedere il sole tramontare e sorgere fino alla fine dei tempi, di non chiudere mai gli occhi senza riaprirli, di non tacere mai senza la consapevolezza di poter parlare ancora, di poter gridare all’infinito senza che la sua voce si consumasse, di vivere, amare, correre, senza che il suo corpo sentisse il peso degli anni. Allora cominciò a correre, come nel suo incubo, come aveva corso sua madre il giorno dei quadri, come forse aveva corso poco prima di essere uccisa, verso la morte. Sarah sentiva il vento infrangersi sul suo viso e lambire i suoi capelli biondo sporco. Le sembrò di udire anche quel malinconico lamento di cui parlava la poesia, quello di sua madre, quello delle altre donne che erano morte come lei, quello del mondo gravato dal peso delle nefande anime umane e desiderò anche in quegli istanti di gioia - vendetta, giustizia, guardare negli occhi l’uomo che l’aveva strappata dalle braccia dei suoi genitori. “Perché?” si chiese, accorgendosi di aver rimosso i pensieri più truci e brutali e di aver desiderato semplicemente sapere perché quell’uomo avesse ucciso la sua famiglia. Adam voleva essere Dan, ma non poteva. Così lo uccise. Era per un così frivolo motivo che sua madre e suo padre erano morti? Per gelosia? Sarah fece una smorfia al pensiero di quella parola. I suoi non potevano essere morti per gelosia. Pensò di riformulare la frase, sostituendo quel sentimento così triviale a un altro, più terso e candido. Così, guardando dal marciapiede opposto il bar dove lavorava Glen, sussurrò: “I miei genitori sono morti per amore.”
25
Quando entrò nel bar, Glen stava lavando i bicchieri da liquore in un lavello d’acciaio. Sarah battette le dita sul bancone di marmo. “Desidera qualcosa?” chiese Glen senza alzare lo sguardo dai suoi bicchieri. “Sì. Te,” mormorò Sarah. Glen levò lo sguardo dal lavabo. I suoi occhi cerulei brillavano e aveva le labbra dischiuse. Sarah gli sorrise e lui la baciò, accarezzandole i capelli. “Ti sta bene questo cappotto,” le disse quando le loro labbra si divisero. “Era di mia madre,” disse lei sollevando le spalle. “Li ho trovati, Glen… i suoi genitori, i miei nonni. Loro sono vivi, stanno bene e mi vogliono bene e io…”. Prima che finisse la frase, Glen aveva oltreato il bancone e l’aveva abbracciata. Sarah chinò il capo sul suo petto, piangendo di gioia. Lui le sfiorò l’orecchio con la guancia e la base del collo con il naso. “Si sistemerà tutto, prima o poi,” sussurrò. Sarah annuì, ancora stretta fra le sue braccia, al caldo, trovando, in quell’abbraccio, la consapevolezza di non avere più paura. Attese Glen seduta a uno dei tavoli all’interno, fissandolo mentre lucidava i bicchieri con lo strofinaccio, bagnandosi le mani con l’acqua gelida del rubinetto. Di tanto in tanto lui sollevava lo sguardo e le sorrideva. Poi tornava ai suoi bicchieri. Per tutte le volte che Glen curvava il capo su quel lavabo, sulle sue mani rosse e screpolate, Sarah vide nel ragazzo che amava non soltanto sacrificio, ma anche disperazione. Lo immaginò indossare una giacca marrone, una camicia, una cravatta, un paio di pantaloni eleganti. Lo vide poggiare un po’ nervosamente una valigetta di pelle su una scrivania di un’Università in un luogo imprecisato che, per il momento, aveva indirizzo a Via della Fantasia n°3. Udì l’eco della sua
voce encomiare Socrate, Platone, Schopenhauer sotto gli occhi di una quarantina di studenti intorpiditi. Vagheggiò il loro avvenire insieme, in una casa decorosa, con una paga opportuna, una vita dignitosa. Poi tornò bruscamente all’inclemente realtà e vide il suo volto riflesso su una vetrinetta che custodiva gelosamente alcune tazzine da caffè: una ragazza di venti anni che aveva finito il liceo, non aveva mai iniziato l’università né aveva mai ipotizzato di farlo, destinata a lavorare in quella libreria che disprezzava e amava al contempo, senza genitori. Le sembrò, per un’impercettibile frazione di secondo, che aver trovato quel libro, averlo letto, aver indagato sulla morte della sua madre naturale ed esserne venuta a conoscenza avesse dato un senso alla sua vita, a quello che aveva ato e a quello che era pronta ad affrontare. Sospirò di sollievo quando vide Glen sistemare su un ripiano l’ultimo bicchiere, togliersi il grembiule arancione e avvicinarsi a lei. Sarah chiuse le mani del ragazzo fra le sue, riscaldandole. “Il ragazzo caldo ha le mani più fredde delle tue,” disse la vocina. Sarah pensò alla madre di suo padre che le diceva sempre “Mani fredde, cuore caldo.” “Un cuore caldo,” si disse, “Ѐ proprio quello di cui ho bisogno.”
26
Si incamminarono verso le sei ate. Sarah gli chiese di accompagnarla al negozio da sua sorella. “Speravo di trascorrere tutto il giorno con te,” disse Glen. Sarah abbozzò un sorriso. “Abbiamo tutta la vita per stare insieme. Oggi non sono proprio andata in libreria.” “E va bene,” sussurrò Glen, fingendo un rassegnato dispiacere. “Ma te la farò pagare,” disse ridendo e, prima che Sarah potesse anche solo ridacchiare, la sollevò sostenendole le gambe. Glen girò su se stesso ripetendole di amarla, mentre Sarah rideva, euforica, senza agitare le mani come quando suo padre la stringeva, ma sfiorando con i polpastrelli la barba sfatta di un uomo che amava in un modo diverso rispetto a suo padre, ma non meno intensamente. Glen la mise giù baciandola sulle labbra. Le cinse il fianco con il braccio destro e ripresero a camminare, quasi in sincronia, come solo i giovani innamorati sanno fare. Mancavano pochi metri dal negozio. Fu allora che Sarah avvertì, nei recessi della sua mente, un mesto presentimento. Ebbe la sensazione che a sua sorella stesse per succedere qualcosa, o peggio, che fosse già successa. Fu come un incubo, un sogno confuso, un intreccio di oggetti correlati tra loro da un fatale nesso causa-effetto: una mano inguantata, una lampada, sua sorella, un bagliore, sua sorella immobile sul pavimento. Poi solo sangue. Strinse la mano di Glen e cominciò a correre. Solo un metro dalla porta, mezzo metro, dieci centimetri. Sarah abbassò agitatamente la maniglia, costringendo le sue mani a non tremare. Quando la porta fu spalancata, Sarah vide Martha sul pavimento, inerte, diafana. Solo un rivolo di sangue le colorava il volto. Il tempo sembrò fermarsi, lo spazio contrarsi spasmodicamente, allungarsi, ingrandirsi, allontanarsi fra lampi improvvisi e buio profondo. Le labbra violacee di sua sorella, le sue guance bianche, il rivolo di sangue. Cadde sulle ginocchia mentre Glen le scrollava le spalle strillando il suo nome. Sarah non lo sentì. Un atono fischio le attraversò il cervello, poco prima che cominciasse a chiamare sua
sorella a gran voce. “Martha! Martha!” gridò a metà fra lo spavento e il pianto. Poi ci furono solo lacrime. Sarah si accasciò sul petto di sua sorella. “Mia sorella è morta, è morta per colpa mia.” Si lasciò scappare un singhiozzo, poi due. “Adam mi ha trovato,” disse fra sé. “Prima o poi toccherà a me.” Sarah sentì qualcosa pulsarle sulle tempie. “Ѐ il mio cervello che sta per esplodere, fra poco morirò anche io,” si disse. Quel martellare non cessava: era lento ma costante. Un battito, due battiti, tre battiti. Sarah guardò il petto di sua sorella: si alzava e si abbassava. Il suo cuore batteva. “Lei è viva!” strillò mentre Glen le sentiva il polso. Lui annuì e prese il cellulare. Mentre Glen chiamava un’ambulanza, Sarah ripeteva a Martha che sarebbe andato tutto bene, senza capire se lo stesse dicendo a sua sorella o a se stessa. Martha era viva, per il momento, ma Adam l’aveva trovata. Sarah volse lo sguardo a Glen che aveva appena riagganciato. “Ucciderà anche lui, proprio come ha fatto con papà,” disse fra sé. “Vuole che tu soffra come tua madre, vuole finire l’opera,” mormorò la vocina. Sarah scosse il capo promettendosi di non desistere. “Non lascerò che mia madre sia morta invano,” sussurrò. Glen chinò il busto baciandole i capelli. “Starà bene, vedrai, ” biascicò. Sarah accennò un sì con il capo. Glen la aiutò ad alzarsi. Lei lo abbracciò, sospirando, stanca, mentre degli uomini con una divisa bianca e arancione caricavano sua sorella su un’ambulanza. Permisero a Sarah e a Glen di salire. Si sedettero su due sgabelli bianchi. Glen non smise mai di abbracciarla e di parlarle. Sarah guardava fissa il margine inferiore dello sportello, persa fra un asettico biancore e il nero dei rivestimenti di plastica, senza sentire, senza vedere, come se fosse morta lei al posto di sua sorella. “Trauma cranico… lesione al cuoio capelluto… aprite, aprite” fu tutto ciò che i suoi sensi captarono in quegli attimi di stasi. Poi, il nulla. Camminò al fianco di Glen, aggrappandosi al suo braccio come fosse l’unico tramite fra lei e il mondo. i affrettati, voci confuse, porte che sbattevano, Glen che la chiamava, sua sorella immobile sul lettino. Sarah guardava quasi imibile i medici. Poi Glen le cinse la testa con il braccio; Sarah chiuse gli occhi odorando il suo giubbino. Pianse. Glen la sentì sussurrare “No”. Gli diede un pugno sul petto facendogli male, ma lui non disse niente. Le prese la mano e le baciò le nocche. Lei bisbigliò “Lo ucciderò” e, per un
interminabile attimo, Glen pensò a quanto la amasse e a quanto fosse impotente, incapace di aiutarla. Riguardava solo lei, la sua piccola Sarah, la sua dolce Sarah, la sua forte e impetuosa Sarah. Così, quando lei mormorò al suo orecchio “Stringimi”, la strinse, perché tenerla fra le braccia e amarla erano le uniche cose che fosse in grado di fare.
27
Si erano seduti nella sala d’aspetto poco prima che Sarah si addormentasse. Quando il medico, appena un’ora dopo, arrivò, Glen le stringeva le mani e la guadava, incurante delle lacrime e della saliva che gli bagnavano il giubbino. Il medico tossì. Glen lo vide e svegliò Sarah. “Ci sono novità su Martha,” le sussurrò. Lei schiuse lentamente le palpebre e si sollevò. Guardò il medico. I suoi occhi imploravano buone notizie. “Signorina,” disse, “Sua sorella ha avuto un trauma cranico lieve, con una lesione del cuoio capelluto che ha provocato la perdita di sangue. Ha avuto una commozione celebrale, ma sta bene. Adesso sta dormendo. Se vuole, può vederla.” Sarah rimase a fissarlo con le labbra socchiuse, immobile, con le braccia penzoloni. Il medico si tirò indietro con la mano i capelli neri; non doveva avere più di trent’anni. “Signorina, tutto bene?” Le toccò la spalla con un gesto rassicurante. Glen gli gettò un’occhiataccia, ma lui non se ne accorse. Sarah sollevò un braccio e disse “Sì, voglio vederla.” Baciò Glen sulla guancia e si alzò. Seguì il medico fino ad una sala, la numero 27, scrutando alternativamente il pavimento a mattonelle bianche e il camice che quasi svolazzava scoprendo delle gambe tozze e muscolose. “Ecco, ci siamo” annunciò il medico. Sarah osservò sua sorella attraverso una vetrata. “Sembra serena,” pensò. “Ed è meno pallida.” La guardò ancora, ricordando i giorni in cui erano piccole e piene di vita e correvano insieme. La guardò e le lacrimarono gli occhi perché per un soffio, un impercettibile alito di vento, non aveva perso anche lei. “Sei stata fortunata,” le disse la vocina e Sarah non poteva essere più d’accordo. Il solo pensiero di vivere senza sua sorella, ora che le aveva chiesto scusa, ora che erano tornate sorelle come un tempo, le faceva raggelare il sangue e fermare il cuore. Si rese conto, così, di volere a Martha più bene di quanto immaginasse. Si coprì gli occhi, come per nascondere il pericolo e il dolore che aveva scampato, ma questo era ancora visibile e le tormentava l’animo, risvegliando in lei quella promessa che avrebbe mantenuto a tutti i costi. Scostò la mano dal viso e osservò il corpo inerme di sua sorella, il lenzuolo bianco, l’asettico biancore
della stanza. Strinse le mani a pugno. “Mai più permetterò che accada, mai più.”
28
“Potrà parlarle tra alcuni giorni, uno, massimo due. Per il momento è meglio che riposi.” Sarah annuì e si allontanò con il medico. Questa volta guardò di sfuggita nelle altre sale: uomini, donne, anziani immobili in un letto, collegati a dei monitor che segnavano le loro pulsazioni. In una delle sale vide un bambino. Era identico in tutto e per tutto agli altri pazienti, con l’unica differenza dei cerotti con gli orsacchiotti su uno sfondo blu. Una donna sulla sedia accanto al letto stava leggendo, ma ogni tanto chiudeva il libro e piangeva guardando quello che Sarah suppose essere il figlio. “Non potrei dirglielo ma… Lei è stata veramente fortunata. Quello è un trauma cranico grave, potrebbe non riprendersi,” le disse il medico. Sarah annuì, guardando la donna che piangeva. Glen la attendeva nella sala d’aspetto, con la testa fra le mani e i gomiti sulle ginocchia. Sarah gli sorrise flebilmente. Ringraziarono il medico e gli lasciarono un recapito telefonico. Glen fece in modo che fosse il suo e non quello di Sarah. Si allontanarono dall’ospedale e camminarono insieme. “Come l’hai vista?” le chiese Glen. “Viva,” rispose Sarah e lui pensò che non vi fosse risposta più adatta di quella. “Vi volete molto bene, eh?” Sarah annuì. “Per un po’ di tempo l’ho odiata. Lei mi ha salvato la vita, Glen. Me l’ha resa impossibile, ma mi ha salvata.” “Come?” chiese Glen. Lo sguardo di Sarah si svuotò. Ricordò lo specchio, il coltello, la sua gola, poi il telefono e la voce di Sarah. “Ѐ giusto che sappia” mormorò la vocina nella sua mente. “Il giorno in cui ti ho conosciuto - Oddio! Era appena qualche giorno fa! -, quella mattina… io avevo cercato di togliermi la vita,” Sarah guardava fisso davanti a sé. Glen si fermò, girandosi verso di lei. Sarah fece lo stesso. “Non era la prima volta, Glen. Anche le altre volte, era stata sempre lei a fermarmi. Ma, quella mattina era diverso. Ero sola in casa e, poco prima che mi uccidessi,
Martha mi ha telefonato perché aveva avuto un presentimento e quel giorno è cambiato tutto. Quel giorno ho trovato il libro con la poesia su mia madre e… ho incontrato te. Ed è cambiato tutto perché da allora ho una ragione per vivere,” i suoi occhi si erano arrossati e avevano cominciato a lacrimare. “Sei tu, Glen. Sei tu la mia ragione! Sei tu!” Prima che finisse la frase Glen la strinse a sé, forte, come se da un momento all’altro potesse volare via. Le baciò i capelli, sussurrandole “Non fare mai più una cosa del genere, Sarah.” Ora anche i suoi occhi lacrimavano. “Io… non saprei come fare senza di te.” Le baciò le labbra e proseguirono lungo il marciapiede. Il sole tramontava accanto a loro accentuandone le ombre. Lo guardarono per un po’, sognando entrambi di guardarne altri mille, poi ancora mille, fino a invecchiare e a guardarne altrettanti con i loro figli e con i figli dei loro figli, raccontando loro di Laira Noir, di Adam Jonson e di quello che sarebbe stato, un giorno, semplicemente un brutto sogno.
29
Era sera quando arrivarono sotto casa di Sarah. “Non vorrei lasciarti sola stanotte,” mormorò Glen. “Ho paura che possa succederti qualcosa, che tu non sia al sicuro. Non potrei sopportare di non sapere dove sei, cosa fai, se va tutto bene… non posso lasciarti”. “Non farlo,” sussurrò Sarah. Le mani le tremavano. Glen le prese fra le sue e le baciò. Chiuse gli occhi e respirò, concentrandosi solo sul fiato che esalava dalle narici e che si condensava davanti ai suoi occhi. Schiuse le labbra e deglutì. Il cuore le si dimenava nel petto, battendo spaventosamente forte. Sarah sospirò, senza capire se i suoi pensieri si fossero semplicemente fermati o se avessero cominciato a fluire con più veemenza fra i meandri della sua mente e della sua anima. E, senza discernere più i confini della ragione e dell’irrazionalità, biascicò con la voce rotta da un’emozione ignota “Sali.” Camminava lentamente, con la consapevolezza che qualcosa sarebbe successo ma senza comprendere esattamente cosa. Il respiro era sempre più pesante, i suoi i sempre più incerti, i suoi movimenti sempre più nervosi e i battiti del suo cuore sempre più innumerabili. Glen le sfiorò le dita della mano. Sentì l’aria mancare e i pensieri tramutarsi in un bollore che le colorò il viso di un verginale rosso. Cercò nervosamente e disperatamente le chiavi, il contatto con il loro freddo metallo. Quando lo trovò, capì che quel qualcosa era prossimo e, per qualche secondo, si vergognò di desiderarlo così ardentemente. Inserì la chiave nella serratura. La girò una volta. “Oddio,” pensò. Due volte… tre. La porta si aprì. La spinse all’interno e, per la prima volta in tutta la sua vita, le sembrò gradevole anche il rumore del margine inferiore che strusciava sul pavimento. Guardò Glen negli occhi e le sembrò di annegare nel loro blu, nella loro immensità, pensando che mai un colore le era parso così caldo e avvolgente. Glen le si avvicinò. Sentiva il bollore del suo corpo sulla pelle. Le sollevò il mento, la baciò. Sarah pensò al mare, alle risate, alla salsedine, poi più nulla tranne i loro respiri. Nel buio della sua camera, Sarah fu sua, e Glen fu suo. Vissero una notte d’amore e, per quelle brevi ed effimere ore si sentirono
completamente liberi d’amare e d’amarsi, avvinghiati in un’assoluta e incondizionata noncuranza del mondo. Aveva chiuso gli occhi e, per qualche attimo, le era sembrato tutto un sogno, un paradossale e assurdo sogno adolescenziale e fiabesco, ma quando li aveva riaperti, lui era lì accanto a lei. Li aveva richiusi continuando a respirare senza sentire nulla se non il tepore delle sue mani che le sfioravano la pelle, il calore delle sue labbra che lambivano le sue, l’intangibile e convulso vortice delle loro anime e la sua voce flebile che le giurava amore eterno. L’aveva stretto a sé sussurrando “Non farmi male”. “Non lo farò mai,” le aveva mormorato lui all’orecchio. “Lo giuro.”
30
Adam voleva essere Dan, ma non poteva. Sua madre le sorrideva attraverso lo specchio. Il suo sorriso, così bianco, irradiato dalla flebile luce degli inferi; il suo volto squarciato, martoriato; il sangue rappreso; i suoi occhi, così vitrei, così blu, così simili ai suoi. Adam voleva essere Dan, ma non poteva. Così lo uccise. Sarah correva sulla spiaggia vicino la casa dei Lewis. Il vento e la sabbia che sollevava si fondevano con le sue lacrime. Le sue gambe si facevano più pesanti, il respiro più affannato, i pensieri più assillanti. Le onde si infrangevano fragorosamente sulla spiaggia, le lambivano i piedi facendola incespicare. Cadde. Provò a rialzarsi ma le ginocchia le facevano male e cadde di nuovo. Si sfiorò il collo con la mano. Quando la ritrasse una striscia di sangue l’attraversava diagonalmente. Sentì un urlo. Si alzò e riprese a correre. Vide un uomo accasciato sulla sabbia e un’ombra nera che si allontanava. Sembrava strisciasse. L’ombra si fermò. Si voltò e Sarah vide quegli occhi, i suoi occhi, grigi e freddi e iniettati di sangue. Scoprì i denti gialli e grugnì. Qualche attimo dopo scomparve. Sarah corse più velocemente fino al corpo dell’uomo disteso sulla sabbia. Era abbastanza vicina da distinguere i lineamenti del volto. Quei capelli spettinati e sporchi di sabbia, quegli occhi blu, quelle labbra. Sarah si fermò coprendosi il volto con le mani. Le gambe la abbandonarono e cadde sulle ginocchia. Mentre le lacrime le scorrevano più insistentemente sul viso, Sarah sfiorò con i polpastrelli i tratti di quel volto cianotico, gonfio e freddo, terribilmente freddo. Chinò il capo fino a toccare con la fronte la spalla dell’uomo. Non smise di accarezzarlo nemmeno quando biascicò, con la voce rotta dal pianto, “Papà.” Sollevò lo sguardo, guardando ancora una volta quel corpo esanime. Gli abbassò le palpebre con l’indice e il medio della mano destra e gli baciò la fronte. Ancora uno sguardo, appena prima di accorgersi delle lettere scritte col sangue, con il suo sangue appena sotto il torace. “Morirai”, proprio come le aveva detto sua nonna, seguito dalle iniziali. Ma, questa volta erano diverse… Niente A.J. Adam Jonson. “J.M.” lesse Sarah. “J.M.” ripeté e ripensando a quegli occhi freddi, grigi e iniettati di sangue non
vide altri che un uomo, quell’uomo senza volto, nascosto da un cappotto e da un cappello grigi, quell’uomo che era il ritratto del male. Sarah si svegliò sussultando. “Allora è stato lui,” pensò. “Lui è l’uomo che ha ucciso i miei genitori.” “E che ha tentato di uccidere tua sorella,” soggiunse la vocina nella sua mente. Sarah annuì. Chiuse gli occhi rivedendo così nitidamente il cadavere di suo padre, i suoi occhi blu che, proprio come quelli della mamma, fissavano il cielo imibili. Quando li riaprì, vide Glen che dormiva al suo fianco e si ricordò di quella notte, la loro notte. Cercò di non svegliarlo. Scese dal letto facendo attenzione a non smuovere troppo le lenzuola bianche. Poco prima di posare i piedi sul freddo pavimento di marmo si avvide di due gocce di sangue che macchiavano il copriletto. Distolse lo sguardo ma non poté trattenersi dal sorridere. Si rivestì frettolosamente, sentendo l’insolita necessità di coprirsi. Infilò la biancheria, odorò i vestiti che aveva indossato il giorno prima e, sentendo che profumavano ancora di bucato, li indossò di nuovo. Proprio l’attimo dopo aver messo il maglione bianco sentì l’ambiguo desiderio di accendersi una sigaretta. Ne prese una dal cassetto del comodino, proprio come aveva fatto quella lontana e fatidica mattina. Si avvicinò alla finestra a piedi nudi. Girò la maniglia e la aprì il necessario, sentendo un soffio di vento gelido lambirle la pelle diafana. Respirò profondamente e si accese la sigaretta con un fiammifero. Accostò le labbra al filtro e inspirò. Quando buttò fuori il fumo, chiuse gli occhi e, per qualche secondo, le parve di aver dimenticato tutto: Adam Jonson, il sangue, il mare… “No,” pensò. Quei volti, quegli scorci di paesaggio, quei frammenti di memoria le assillavano l’anima. Da un po’ aveva maturato la consapevolezza che non l’avrebbero mai abbandonata, nemmeno quando, sperava, il cerchio si sarebbe chiuso in un modo o nell’altro. Il suo solo conforto era contemplare il corpo nudo e sudato di Glen, le sue gambe avvolte nelle lenzuola bianche, il suo volto sereno. Glen si girò sull’altro fianco. A Sarah parve avesse detto qualcosa ma, quando si fermò ad ascoltare, non sentì niente se non il suo respiro regolare e profondo. Sorrise: aveva la metà sinistra del volto arrossata e i suoi capelli su quel lato erano appiattiti. Inspirò ancora dalla sigaretta. Mentre facevano l’amore, le aveva promesso di
non farle mai male. Sarah capì che non avrebbe mai mantenuto il giuramento: il solo pensiero di perderlo, la folle fantasia che a lui succedesse quello che era successo a Dan, suo padre, le martoriava le membra, le stracciava il cuore con la brutalità di una sega elettrica. Espirò. La sua voce calda, le sue mani calde. “Se non avessi litigato con mia sorella, non sarei mai andata in quel bar,” si disse. “Forse,” mormorò quasi timidamente la vocina. Rabbrividì al pensiero di non aver mai conosciuto Glen se quell’esatta successione di eventi non si fosse verificata, di non aver mai conosciuto il suo corpo. Inspirò e scosse il capo, soffocando i pensieri in quell’unico fiato. Sarah guardò Glen scostare le coperte con le gambe. Poco dopo schiuse gli occhi. Sarah spense la sigaretta premendo la cicca sul davanzale di marmo e si avvicinò a lui sorridendo. “Buongiorno,” biascicò lui stendendo le braccia sul cuscino. “Buongiorno a te,” sussurrò Sarah baciandogli la fronte. Mentre si ritraeva, la attirò a sé prendendola per il maglione. Lei rise lasciandosi accarezzare i capelli. Glen si chinò su di lei per baciarla sulle labbra. Quando si scostò, restarono per un po’ a guardarsi negli occhi. Sarah pensò che fossero così incredibilmente belli e profondi e, in quegli attimi labili le parve verosimile trascorrere tutta la vita lì, fra le lenzuola bianche, a guardarsi in eterno. Le sembrò persino necessario, come se la sua vita senza fissare quello sguardo non fosse nemmeno degna di essere vissuta. Carezzò la guancia di Glen con i polpastrelli. Più lo guardava e più si rendeva conto di quanto fosse importante e vitale per lei, di quanto fosse disposta a dare pur di proteggerlo. “Anche la tua stessa vita?” domandò la vocina. “Sì,” si disse Sarah. Era convinta che se Glen avesse continuato a respirare e se il suo cuore avesse continuato a battere, anche una sua parte avrebbe continuato a vivere e a respirare, i loro cuori avrebbero pompato il sangue all’unisono e, fino all’ultima goccia sarebbero rimasti insieme. In fondo, il legame che si era creato fra lei e sua madre non era così diverso, sebbene l’amore che provassero l’una per l’altra fosse disinteressato e premuroso. Ripensando a sua madre le ritornarono in mente Adam Jonson e il sogno. Sarah sentiva che, inconsciamente, una parte di lei l’aveva sempre saputo. Si ricordò di lui, di come attendesse sull’uscio i Lewis quando lei si era allontanata. Ora era
spaventata, soffocata dal pensiero che potesse essere successo qualcosa ai suoi nonni, quel qualcosa a cui sua sorella si era sottratta per un soffio. Presa da una disperata inquietudine si sollevò di scatto. E se fosse successo davvero? E se fosse tutta colpa sua? “Qualcosa non va?” le chiese Glen con un filo di voce. Le lacrime avevano offuscato lo sguardo di Sarah, ora le rigavano le guance. Una goccia le bagnò le labbra. Glen si accostò baciandola e la abbracciò. “Cosa c’è che non va? Ho fatto qualcosa di male?” sussurrò con la sua voce dolce. Sarah scosse il capo. “Ieri credo, forse due giorni fa, ho visto un uomo. Era lo stesso uomo che ci stava fissando, lo avevo visto altre volte prima.” Glen la fermò. “C’era qualcosa tra voi?” domandò allarmato. Sarah rabbrividì al pensiero. Le si accapponò la pelle e tremò. Si avvicinò di più a Glen. Lui la strinse a sé. “Era lui il ragazzo che mia madre lasciò per mio padre, Glen. Lui è Adam Jonson. È l’uomo che venti anni fa ha ucciso i miei genitori.” Si accasciò sulla spalla nuda di Glen e scoppiò a piangere. Sentiva l’odore del suo sudore permearle le narici. Affondò ancora di più la testa sul suo petto e lui le cinse la testa con il braccio. Le baciò i capelli biondi. Sospirò e guardò fisso un punto indefinito sulle lenzuola per qualche istante. Poi le chiese sommessamente “Vuoi ucciderlo?” Sarah scosse il capo stringendo gli occhi. “Non lo so,” bisbigliò. “Non lo so!” disse più forte. Lasciò scivolare le mani dal petto al collo di Glen. “Credo che abbia fatto del male ai miei nonni, Glen,” aggiunse. Sollevò lo sguardo. “Credo che Martha fosse la prossima dopo di loro e, se toccava a lei, vuol dire che…” singhiozzò. Si sforzò invano di soffocare il pianto. “Andremo a controllare, Sarah. Mi vesto e andiamo.” Glen fece per alzarsi ma Sarah lo tenne per un braccio. “Ti ho rovinato la vita, Glen. Non dovevo coinvolgerti.” Glen le strinse le mani sussurrando: “Sarah, la mia vita sei tu. Sei tutto e ringrazio Dio per ogni attimo che mi lascia trascorrere con te. Cosa sarei senza te? Un cameriere squattrinato?” Sarah sorrise.
“Sei ancora un cameriere squattrinato,” disse. Glen ricambiò il sorriso. “Sì, ma quello più felice del mondo.” Glen andò in bagno. Sarah sperò che non accadesse anche a lui di vedere uno specchio sanguinante o di percepire presenze spettrali alle spalle. Sfilò le lenzuola sporche e le appallottolò. Le gettò in un angolo della stanza, accanto alle coperte che avevano scostato dal letto quella notte. Prese delle lenzuola pulite nell’armadio della stanza da letto dei suoi genitori. Vide la copertina verde con gli elefanti e sospirò. Prese fra le dita la collana con la S che aveva ancora attorno al collo e la strinse. Non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di uccidere Adam Jonson con la stessa veemenza con cui lui aveva assassinato sua madre. In un attimo rivide il suo corpo, nudo e sfigurato, coperto dai grumi di sangue, reclinato sui freddi gradini di marmo in una posa disumana. Strinse gli occhi nella speranza di scacciare quell’immagine. Lo fece talmente forte da farsi girare la testa. Si appoggiò alle ante dell’armadio con la mano destra. Sua madre putativa l’avrebbe richiamata all’istante. Le riecheggiò nelle orecchie la sua voce calma e intonata. “Sarah Vitrey, metti giù le mani dall’armadio,” le avrebbe detto. Poi l’avrebbe sollevata per i fianchi e le avrebbe stampato un bacio sulle guance lasciandole una traccia di rossetto. Sarah sorrise. Per un folle secondo pensò che sarebbe stato meglio non sapere, pensare di essere stata orfana soltanto una volta, di aver avuto dei genitori che l’avevano cresciuta con affetto e che l’avevano vista crescere finché avevano potuto. Quella che le era parsa come una mera ricerca della verità ora le appariva come la disperata corsa verso la serenità. Si sforzò di non pensarci e prese le lenzuola. Rifece il letto distrattamente. Glen uscì dal bagno qualche minuto dopo. Gli sorrise. Si domandò improvvisamente come sarebbero arrivati a casa dei Lewis: gli autobus non avano a quell’ora e Glen non aveva né una moto né un auto… Si ricordò dell’auto che suo padre teneva chiusa in garage. Si alzò di scatto provando a rammentare dove fossero le chiavi. Istintivamente si diresse al comodino del corridoio: suo padre le lasciava sempre lì al ritorno. Aprì il cassetto del comodino. Frugò e rigirò tutto sottosopra. “Dove siete?” disse ad alta voce. Glen intanto si era vestito e la aspettava. “Non ci sono, non ci sono, Glen!” gridò. Affondò la mano nel cassetto. Vide un sacchetto semitrasparente con qualcosa di metallico all’interno: le aveva trovate. C’erano anche quelle
dell’auto in cui erano morti i suoi genitori adottivi. Prese il soprabito e corse verso Glen facendo tintinnare nervosamente le chiavi. Sorrise debolmente lasciando trasparire l’ansia che aveva di sapere che i suoi nonni erano vivi e stavano bene. “Sai guidare?” chiese a Glen. Lui annuì. “Il problema non sarà guidarla, ma farla partire,” disse. Sarah annuì.
31
L’auto era sporca ma non aveva perso il fascino che aveva attirato Sarah fin da quando era piccola. La vernice blu era ancora intatta a parte qualche lieve graffio sugli sportelli. Essendo una decappottabile non era l’ideale per l’inverno ma, in quel momento, rasentava il miracoloso. Sarah la guardò meglio mentre Glen, borbottando preghiere o parolacce, cercava di farla partire. Le sembrò di averla vista da qualche altra parte, in alcune foto… Sussultò: era quella, non aveva dubbi. Il colore e il modello erano gli stessi: era l’auto su cui Sue, Laira e Dan avevano viaggiato l’anno del diploma. Si domandò per quale assurdo motivo fosse stata nel garage di casa sua per tutti quegli anni. Non ebbe il tempo di azzardare risposte: sentì Glen esultare e si fiondò in macchina. “Accelera! Accelera!” strillò Sarah mentre Glen premeva il piede sull’acceleratore. Avevano superato i novanta chilometri orari e ora stavano raggiungendo i cento. Glen sudava freddo. I suoi occhi erano fissi sulla strada e la vena sul collo si era sensibilmente ingrossata. “Abbiamo perso tempo! Dovevamo muoverci prima! Perché sono così stupida e piagnucolona?” Stringeva i pugni. Le unghia le premevano contro i palmi delle mani. Sentiva il sudore colarle giù per i polsi e lungo la schiena, sebbene la temperatura fosse di poco sopra i quindici gradi. “Ci riusciremo. Vedrai, non è successo nulla, ” disse Glen con una voce ferma e posata. Non distoglieva gli occhi da davanti a sé. Stringeva il volante con le mani sudate e ogni tanto picchiettava con le dita sul cambio per evitare di impazzire. Sarah vide il mare poco distante e sussurrò “Ci siamo.” Pochi metri dopo vide anche la casa dei Lewis. Da lontano le sembrava tutto normale e tirò un sospiro di sollievo. Glen accostò l’auto davanti alle scalette bianche che conducevano all’ingresso. Sarah scese prima che l’auto fosse ferma del tutto. Salì i gradini a tre alla volta. Prese fiato e bussò al camlo. Cominciò a battere nervosamente il piede sullo zerbino. Nessuna risposta. Suonò di nuovo.
“Nonna, sono Sarah! Apri!” disse, trattenendosi a stento dall’urlare. Chiuse gli occhi cercando disperatamente il conforto nel buio delle palpebre, ma non vi trovò altro che sangue, cadaveri senza volto, ricordi di intangibile felicità e soffocante amarezza. Li riaprì, in parte per fuggire dalle sue ansie, in parte per fuggire da se stessa. Ma quel sangue era indelebile: sembrava le si fosse impresso nella retina. Fissò la porta bianca per un secondo, due secondi, poi le lacrime cominciarono a rigarle il volto. Batté nuovamente il palmo sul legno tinto. Quando scostò la mano, le parve fosse sporca di sangue. Rabbrividì. “Glen!” urlò. Lui la raggiunse. Indietreggiò per prendere la spinta necessaria. “Uno,” sussurrò. “Due,” chiuse gli occhi. “Tre”. Mentre stava per prendere la rincorsa sentirono un rumore metallico, nervoso… Il tintinnio delle chiavi. Poco dopo avvertirono il cigolare della porta e intravidero, attraverso un’angusta fenditura, un occhio azzurro, poi una ciocca di capelli bianchi e l’altro occhio. “Nonno!” biascicò Sarah. “Che ti hanno fatto?” mormorò sfiorandogli con i polpastrelli lo zigomo violaceo e gonfio. Il vecchio si ritrasse con una smorfia di dolore. “Non saresti dovuta venire, Sarah,” disse freddamente scuotendo il capo. “Non avresti nemmeno dovuto chiamare,” aggiunse. Sarah lo fissava con le labbra leggermente dischiuse, perplessa e turbata. “Nonno,” sussurrò “Che avrei dovuto fare?” “Non avresti dovuto fare domande!” grugnì il vecchio Lewis. Sarah sospirò e chinò il capo nascondendo le lacrime. Quando sollevò lo sguardo, incrociò gli occhi azzurri e lucidi di suo nonno. Il labbro gli tremava. “Lui dov’è?” chiese Sarah camuffando la rabbia e il dolore. “Non so di chi tu stia parlando,” rispose lui con la voce rotta e soffocata dalle lacrime che tratteneva invano. “Fammi entrare,” disse senza più celare il disprezzo che nutriva nei confronti dell’assassino di sua madre. “So che è qui,” aggiunse con altrettanto sdegno.
“Se n’è andato,” mormorò sua nonna dall’interno. Sentiva i suoi i avvicinarsi all’ingresso. Vide la sua mano diafana e tremolante carezzare piano la spalla di suo nonno. Lui gliela baciò e la sfiorò le dita con la mano destra. Sarah pensò che in gioventù non dovessero essere stati meno innamorati di lei e Glen. Il vecchio Lewis spinse la porta all’interno. “Entra,” disse. Poi guardò Glen. Si schiarì la voce e chiese, rivolto a Sarah, “Chi è lui?” Glen fece per presentarsi, ma la signora Lewis lo interruppe dicendo: “Lui è un membro della famiglia, ecco chi è.” Sorrise a Sarah e le rivolse un’occhiata d’intesa. Sarah annuì e sorrise flebilmente. “Sono Glen,” disse infine lui, quasi infastidito dall’essere improvvisamente al centro dell’attenzione. “Entrate,” corresse la signora Lewis. Sarah prese la mano di Glen ed entrarono. Lo sguardo di Sarah si posò su alcuni cocci di terracotta sparsi sul pavimento dell’ingresso. Il vecchio deglutì fissandoli inebetito. La signora Lewis indicò il divano con la mano. Si sedettero. Il nonno prese posto sulla poltrona. “Perché…” iniziò Sarah. “Perché ci ha risparmiato?” continuò il vecchio. Sarah annuì. “Il perché è molto semplice: vuole che vediamo morire tutto quello per cui abbiamo resistito in questi anni, il ricordo di Sue, di Dan, te. E anche tu figliolo,” disse rivolto a Glen, “Non sei al sicuro. Tenterà di uccidere anche te se proteggerai lei, ne sei consapevole ragazzo?” Glen annuì. “Non mi importa, io starò con lei a qualunque costo.” Sarah sorrise e gli strinse più forte la mano. Quelle poche parole erano la dichiarazione più sentita e commovente che le avesse mai fatto. E chissà quale sovrumano contegno la trattenne dall’abbracciarlo e spingerlo sul divano, spogliarlo e amarlo spudoratamente. Si limitò a sussurrargli all’orecchio “Grazie”. Glen le sorrise, le baciò le labbra e le sfiorò i capelli con la mano. Il vecchio Lewis, rimasto impietrito sulla poltrona, interruppe il silenzio con un colpo di tosse e gridò: “Amore, ne sono rimasti di biscotti al miele?” La moglie in cucina rispose, ignara: “L’ultimo l’hai mangiato ieri sera, non ricordi caro?” Sarah e Glen risero debolmente e si staccarono. Sua nonna arrivò
dalla cucina con una confezione di biscotti danesi. Nell’altra mano aveva un sacchetto trasparente con i cocci di porcellana. Uno di quelli era sporco di sangue. “Accontentati di questi, poltrone!” esclamò la signora Lewis rivolta a suo marito. Sarah rise. Era tutto così serafico, come se un folle omicida non fosse mai entrato in casa loro, non avesse dato un pugno a un uomo di sessant’anni e non avesse fracassato un vaso di porcellana. Si ricordò del coccio sporco di sangue e si avvicinò a sua nonna. Le prese la mano e rivolse il palmo verso l’alto. “E questo?” chiese lasciando trasparire la sua preoccupazione. “Non è niente, piccola,” disse con finta indifferenza ritraendo la mano. “Dovresti disinfettarlo, dovresti…” “So cosa devo fare, piccola Sarah. E so anche cosa dovresti fare tu, ” mormorò stizzita la signora Lewis. Le allungò il sacchetto con i cocci e fece cenno al marito di chiudere le tende. Sarah guardò il sacchetto confusa. Poi vide qualcosa che prima non aveva notato: un fodero nero. Quando suo nonno ebbe chiuso tutte le tapparelle lo afferrò e ne estrasse una pistola. Glen sussultò e le si avvicinò. Sua nonna le chiuse entrambe le mani sull’impugnatura. “Guardami negli occhi, Sarah” Sarah non distoglieva lo sguardo dall’arma. Aveva sempre pensato e fantasticato su come uccidere l’assassino di sua madre ma, ora che era arrivato il momento di compiere quel o così decisivo e rischioso, sentiva tutte le sue promesse venire meno. Le mani le tremavano e il cuore sembrava aver smesso di pompare il sangue. Il suo volto perse colore, le gambe le parevano troppo gracili per sorreggerla. Glen la prese per il fianco. “Guardami negli occhi, Sarah” ripeté sua nonna. Nella sua mente echeggiò una voce lontana, disumana, empia… Guardami negli occhi mentre ti ammazzo, piccola Sue… Sarah strinse i pugni. Sentì nuovamente il sangue scorrerle nelle vene, il cuore batterle animato da un’irrefrenabile smania di vendetta, la stretta salda di Glen attorno ai suoi fianchi, la voce di sua nonna reale e presente. Alzò lo sguardo e guardò sua nonna negli occhi, quegli occhi blu, così simili a quelli di sua madre.
“Chiuderò i conti,” disse Sarah, con voce abbastanza forte e decisa da convincere anche se stessa. Eppure le gambe le tremavano ancora e il cuore si arrestava ogni tanto, il suo respiro era sempre più irregolare e anche la vista di Glen non le infondeva tanta sicurezza. Le restavano soltanto un fodero nero, una fredda canna fra le mani e troppe effimere promesse da mantenere.
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Sarah baciò sua nonna sulla guancia avvertendo sotto le labbra la sua pelle fredda e rugosa. Abbracciò il nonno e gli sussurrò all’orecchio: “Ce la farò.” Al vecchio Lewis scappò qualche lacrima. “Sta attenta,” biascicò. “Lui è forte, è spietato. Pensa a come ha ucciso la mia bambina,” scoppiò in un pianto, soffocato soltanto dalla voce flebile e dolce della signora Lewis. “La mia piccola Sue,” lo sentì mugolare Sarah. Lo guardò. Osservò lui e sua nonna, la sua forza, la sua pacatezza. Eppure, nell’oceano dei suoi occhi blu lesse un dolore indescrivibile, un susseguirsi di spasmi che non poteva tradursi in altro modo se non in calma e tacita rassegnazione. Le ricordò vagamente la Pietà del Michelangelo. L’aveva vista sul libro di storia dell’arte quando studiava al liceo. Aveva disegnato una cornice di spine attorno alla figura e un suo compagno di classe si era divertito a personalizzare il tutto con un paio di baffi su Quel volto angelico. Si avvicinò di più al vecchio Lewis. Lo prese per le spalle con un vigore tale che lo fece trasalire. Lei lo guardò negli occhi lucidi e lacrimanti. Le sembrava così indifeso e impaurito, come un cucciolo inseguito dai cacciatori. Pensare ad Adam Jonson nelle vesti di un cacciatore la fece rabbrividire. Lei era la preda. Lo era sempre stata, da quella vigilia di Natale di venti anni prima. “Guardami,” disse con voce ferma. Lui obbedì, incapace anche di un mero diniego. “Pagherà per quello che le ha fatto, pagherà per aver ucciso mia madre, mio padre e per avermi tenuto lontano da voi per tutto questo tempo. Pagherà per aver ucciso tua figlia, per aver soffocato anche la più misera e fragile speranza di poter vedere la tua nipotina crescere alla luce dei tuoi insegnamenti, per il male che ha fatto a questa famiglia e alle persone vicine a noi e ti prometto, nonno, che un giorno tutto il fiele che ingurgitiamo meccanicamente e ivamente, gravati dal peso di quel mostro, non sarà altro che un sospiro malinconico, un brutto ricordo, una storia alla quale anche noi stenteremo a credere. Metterò fine
a tutto questo, te lo prometto nonno.” Aveva pronunciato le ultime parole con la voce strozzata da un pianto che tentava di trattenere. I suoi occhi si erano arrossati, ma avevano conservato un barlume cocente e tenace. Il nonno non piangeva più, ma la scrutava ancora con aria spaesata e terrorizzata e, per qualche attimo, sembrò che la causa della sua paura fosse Sarah Vitrey e non Adam Jonson. Scosse il capo, forse, avendo avuto lui stesso quella fugace impressione, e la abbracciò. “Dove hai intenzione di cercarlo?” le chiese. Sarah sospirò. “Dove tutto è cominciato.” Sua nonna annuì e Glen le accarezzò la spalla. Sarah gli sfiorò la mano con i polpastrelli e chinò il capo. Era arrivato il momento e, nel profondo della sua anima, sentiva che non sarebbe riuscita a premere il grilletto. Una parte di lei credeva che non sarebbe nemmeno bastata una pallottola per ucciderlo, ma forse era soltanto una scusa per giustificare la sua ansia. “Lo premerai,” cantilenò la vocina nella sua mente. Ora le appariva chiaro: era la sua voce da bambina, soltanto più spietata, vissuta e cinica. “Lo premerai per lui, non lo lascerai morire, lui è tutto per te.” Quelle parole profetiche le risuonarono nelle tempie con la delicatezza di un trapano. Volse istintivamente lo sguardo a Glen, ai suoi capelli castani, alle sue labbra, ai suoi occhi e, improvvisamente, li vide vitrei e imibili. Tremò quando nella sua mente si stagliò nitida l’immagine del suo corpo esangue, accasciato non molto distante dalle scalette di marmo su cui avevano ritrovato sua madre, morta. Vide la pioggia, talmente fitta da coprire quasi tutto tranne loro due, Glen e la figura nera che gli stava sopra. La vide girarsi, mostrarle il suo ghigno e, quando la sua mente incontrò il suo sguardo diabolico, le parve di specchiarsi nell’inferno. Scosse le spalle. Si congedò dai suoi nonni con un abbraccio affettuoso. Sua nonna invitò anche Glen a unirsi e lui accettò senza esitazioni. Mentre si allontanavano nella decappottabile blu, sua nonna agitò la mano bianca. “Ciao,” sussurrò. Sua nonna si allontanava sempre di più. Sarah la guardò ancora per un po’, pregando che non fosse l’ultima volta che la vedeva. Poi volse lo sguardo alla strada. Sotto le sue dita gelide, quel maledetto fodero nero.
33
“Ce la farai,” le sussurrò Glen all’orecchio mentre guidava. “Ce la faremo,” si corresse. Scrutò Sarah con la coda dell’occhio: aveva lo sguardo fisso davanti a sé, le mani strette sulla pistola, il volto diafano. Era rigida e quasi le sfuggì un urlo quando lui le sfiorò la coscia. Lei sorrise debolmente, lasciò la pistola e prese la sua mano fra le sue. Se la portò alle labbra e la baciò. Glen la osservò ancora, cercando di non distogliere troppo lo sguardo dalla strada. Le sue labbra morbide lambivano ancora la pelle della sua mano calda. I suoi occhi erano chiusi. Quando gli sembrò di scorgere una lacrima pensò che la cosa migliore fosse farla ridere. “Allora,” le disse. “Mi chiedevo se…” aggiunse. Sarah lo guardava inebetita. “Secondo te sono piaciuto ai tuoi nonni?” sputò le parole tutto d’un fiato, così velocemente da renderle poco comprensibili. Sarah afferrò la domanda e, dopo averlo fissato per qualche secondo come se stesse parlando di unicorni cavalcati da elfi fatati, scoppiò a ridere. Glen la seguì poco dopo. “Se gli sei piaciuto?” non aveva smesso di ridere. Staccò la mano destra da quella di Glen portandosi l’indice sulle labbra e il pollice sotto il mento. Volse lo sguardo al cielo fingendo una pausa di riflessione. “Fammi pensare… Secondo me, mia nonna stravede per te. Mio nonno… Devi lavorartelo per bene. Non sarebbe una cattiva idea astenersi dai baci davanti a lui o dalle carezze o da qualsiasi contatto fisico. Uno spazio di tre metri l’uno dall’altra potrebbe aiutarti a stringere migliori rapporti con lui,” scoppiò in un’altra fragorosa risata. Glen, rassicurato dal pensiero che stesse scherzando, rise divertito. Tuttavia, avvertiva, in una regione remota del petto, un dolore indistinto che poteva consistere in un vuoto come in un enorme fardello. ando, quasi nervosamente, lo sguardo dal sorriso di Sarah alla pistola che aveva sulle gambe, percepì la stessa impotenza che aveva provato nella sala d’aspetto dell’ospedale. Non avrebbe permesso a nessuno di farle del male, avrebbe fatto l’impossibile
pur di non farla soffrire. Quando Sarah gli sussurrò “Che hai?”, lui le rivelò il pensiero che aveva avuto fin da quando aveva visto la pistola nel sacchetto con i cocci di porcellana. “Potrei premerlo io,” disse guardando la strada davanti a sé. “Il grilletto. Potrei ucciderlo io, se tu non ce la fi. Insomma se… Potremmo andare alla polizia.” Sarah lo interruppe. “No,” scosse il capo. “Devo farlo io, Glen,” un mezzo sorriso le colorava ancora il volto. Le gote tinte di rosso risaltavano sul cappotto nero. “Scusa,” sussurrò Glen. “Non ho paura per me, Sarah, non ho paura di morire. Non mi importa nemmeno di quello che mi attende dopo questa vita. Continuerò ad amarti nell’incoscienza del buio eterno, nella luce del paradiso e nelle fiamme dell’inferno. Io ho paura per te. Ho paura che ti faccia del male, paura di quello che potrebbe succedere se tu avessi un attimo di incertezza, se ti tremassero le mani o… Non lo so. So solo che ti amo e che mi assilla il terrore di non poterti difendere dagli altri e da me.” “Io non ho paura,” disse Sarah. Gli sorrise. Non era mai stata così bella, così serena. Glen sperò che il merito di quella calma imperturbabile fosse anche delle sue parole. “Io ce la farò e tu sarai accanto a me quando metterò fine a tutto. Ho bisogno di te. Sei l’unica ragione che ho per vivere, l’origine delle mie speranze, della mia forza. Ce la faremo. Insieme.” Glen le strinse più forte la mano. “Insieme,” sussurrò lui e la baciò sulle labbra. Da lontano si vedevano già le luci della città. Tenendosi la mano raggiunsero la prima casa sulla strada, poi la seconda, la terza. “Ci siamo quasi,” sussurrò Glen, cercando di nascondere il suo nervosismo. Procedettero cauti e impazienti verso il loro destino, con il solo conforto di essere, fino alla fine, insieme.
34 Era ancora giorno ma il sole era coperto da nuvole fitte e il freddo era pungente. Sarah guardò il cielo, sperando che almeno non piovesse. La pioggia, talmente fitta da coprire quasi tutto tranne loro due, Glen e la figura nera che gli stava sopra… Chiuse gli occhi e agitò forte la testa. Quando li riaprì, le tempie le pulsavano violentemente e il cuore le batteva all’impazzata. “Mamma, aiutami tu,” sussurrò. Sentì un alito di vento, quasi impercettibile, sfiorarle il collo. A Sarah parve odorasse di orchidee. Sorrise. “Ce la faremo,” disse fra sé. Strinse forte i pugni. Quando Glen fermò l’auto nel garage, lo tirò a sé in un abbraccio. Odorava di caffè, di cioccolata e di lei. Lo baciò sulla fronte. Lui la strinse più forte e ricambiò il suo bacio con un altro più intimo sulle labbra. Le accarezzò la schiena e i fianchi per sentirla, ancora una volta, sua. Si staccarono. Avevano entrambi lo sguardo perso nel vuoto. Continuarono a tenersi per mano e s’incamminarono insieme verso la stradina disabitata non molto distante dall’appartamento di Sarah. Doveva essere piovuto prima perché la strada era completamente ricoperta di pozzanghere. Ogni loro o risuonava nel sonoro sussurro dell’acqua sporca. Sarah sentiva il cuore batterle nella gola e risuonarle all’altezza dello stomaco. Guardò Glen. Era pallido e sudato nonostante il gelo. Strinse più forte la sua mano. Erano vicinissimi. Lei fu la prima a vederlo. La sua ombra nera e massiccia si stagliava accanto a una porta di legno scardinata sulla quale due ragazzi avevano inciso le loro iniziali con la vernice rossa. A Sarah sembrò sangue. L’ombra sollevò appena il cappello in segno di saluto. Soltanto allora Sarah ebbe il coraggio di guardarlo in volto. Quando incrociò quegli occhi grigi e mefistofelici rabbrividì. “Piccola Sue,” si rimise il cappello. “Io non sono Sue. Sono Sarah Vitrey!” gridò, cercando dentro di sé la forza di
cui aveva bisogno. L’assassino di sua madre rise. Sarah strinse i denti e iniziò a respirare pesantemente. “A quanto pare è il momento delle presentazioni. Sono Adam Jonson, ma tutti mi chiamano…” “Joan Madson!” grugnì Sarah. “Al vostro servizio,” fece un inchino e ghignò. “Non fare il buffone! Finiamola adesso, ho già aspettato troppo!” Adam rise di nuovo. “Ma come? Tu che volevi conoscere la verità, non vuoi sapere cosa ho fatto dopo aver ucciso crudelmente e brutalmente i tuoi genitori? E, lascia che ti faccia una domanda, chi è il ragazzo accanto a te?” Lo guardò, poi schiuse la bocca in un’espressione di sorpresa. Sarah si avvide, in quel momento, di quando fosse pazzo. “Oh! È il tuo ragazzo! Piccola Sue sta crescendo…” Si portò le mani agli occhi. Tirò su col naso e finse un paio di singhiozzi. Poi scoppiò a ridere e fissò lo sguardo su Sarah. “Mi divertirò con te, piccola Sue. Dopotutto, ho atteso venti anni, venti anni!” Si portò le mani agli occhi. Sollevò con gli indici le palpebre rigirando le pupille all’interno. Mostrò la lingua e sbavò: due rivoli di saliva gli delinearono il mento. Lasciò le pupille, tirò la lingua dentro e scoppiò di nuovo in una risata isterica. Sembrava che tutte le anime dell’inferno ridessero all’unisono. “Ti ho cercato per venti anni, piccola Sue. Me ne andai per un po’ e cambiai nome. Quando tornai dai miei genitori, mi rifiutarono come figlio, perché ero un assassino, ” lo disse descrivendo con le dita due virgolette e imitando una voce stridula e assillante. “Ho fatto quello che fanno gli assassini,” era diventato serio. “Ho ucciso mia madre, mio padre. Inscenai il loro suicidio con dell’arsenico in due bicchieri e poi sparii, di nuovo. Restai rintanato in un albergo per un po’, fino a quando tutti si scordarono di tutto e non fecero più domande nemmeno su dove fossi finito.
Non fecero mai il mio nome sul giornale. Dopotutto gli sbirri di qui sono incompetenti: le carceri sono pieni di innocenti e io sono ancora qui,” sorrise e sollevò le spalle come se tutto non lo riguardasse o peggio, lo divertisse. “Ti ho cercata, Sarah. E ho cercato anche ogni copia di quel diavolo di libro e l’ho distrutta. Tutte tranne una, quella che mi ha portato a te. Non ti avevo mai notata prima di quel giorno, ma tu sei così simile a Sue. Come potevo non trovarti, piccola Sue? Hai il suo odore. Puzzi di paura come lei. Sento il fetore da qui. Mi divertirò con te, piccola Sue, proprio come ho fatto con lei,” si avvicinò. Sarah estrasse la pistola. “Tu sei pazzo!” gridò. Lui si fermò e si piegò sulle ginocchia sollevando le braccia al cielo. “Sì, sono pazzo di lei!” A Sarah sembro che piangesse. Gli occhi gli si erano arrossati. I capelli gli cadevano in ciocche nere sulla fronte. Si sollevò. Stringeva i pugni. Si avvicinò, quasi correndo, a lei. Si fermò poco distante. Sarah sentiva il suo alito di tabacco e… morte. “Il suo pensiero mi tormenta, non sai come faccia male sentirlo mangiarti e consumarti. Mi logora da venti lunghi anni!” Teneva i denti stretti. Le parole sembravano schizzare fuori insieme alla saliva che grondava dal suo labbro inferiore. “Finirà! Sì! Quando avrò ucciso te!” Si avventò contro di lei con le mani tese. Sarah armeggiava con la pistola. Le dita le tremavano sul grilletto. “Non la toccare!” strillò Glen accanto a lei. Non l’aveva mai sentito parlare in quel modo: trasudava rabbia, dolore, disperazione. Sferrò un pugno contro il viso di Adam. Lo colpì. Adam non sembrò nemmeno accorgersene. Lo colpì di nuovo. Vide del sangue scorrergli sullo zigomo destro. Adam torse la testa e il collo verso Glen, lasciando penzolare il capo sulla destra. Lo afferrò per le spalle e lo gettò per terra, tutto nell’arco di un secondo. Sentì Glen ansimare. Adam aveva tirato un coltello dalla tasca. Lo sollevò sulla testa. In un lampo Sarah si ricordò della lama con cui aveva tentato di togliersi la vita. Glen e Adam non erano molto distanti dalle scale. Sarah sentì Glen strillare il suo nome, la sua voce echeggiare nella strada deserta e nei meandri della sua mente. Non era nemmeno sicura di quello che aveva sentito: la realtà le appariva
simile alle allucinazioni di un febbricitante. Sudava freddo. Adam stava per affondare il coltello nella carne e nel cuore di Glen. Lui stringeva invano il suo collo fra le mani, la presa sempre più allentata. Adam gli premeva la gamba nella pancia. Sarah strinse più saldamente la pistola e sparò, colpendo Adam alla spalla. Gli cadde il coltello di mano e, per qualche dannatissimo secondo, Sarah pensò di aver assassinato il suo unico amore. Il coltello ferì Glen al braccio. Lui urlò. Dalla manica squarciata del cappotto cominciò a scorrere del sangue. Sarah continuò a sparare puntando alla schiena di Adam. La mani le sudavano e la gola le bruciava. Deglutì forzatamente. Un colpo, due colpi, tre colpi. Una parte di lei credeva che non sarebbe nemmeno bastata una pallottola per ucciderlo… Prima o poi sarebbe arrivato qualcuno in suo soccorso, qualcuno avrebbe sentito gli spari. Ripensò a sua madre: nessuno aveva aiutato lei e nessuno avrebbe aiutato sua figlia. Meglio restarne fuori quando sulla piazza ci sono un paio di armi e la possibilità di finire ammazzati. Vide il sangue schizzare fuori dal cappotto nero di Adam, scorrergli in rivoli scuri lungo la schiena. Lui si voltò verso di lei. Sarah premette ancora il grilletto ma aveva esaurito i proiettili. Sentiva il suo rumore sordo e ovattato rimbombarle nella testa. La afferrò per il collo e la scaraventò sui gradini di marmo. Sentì la sua spina dorsale urtare contro uno spigolo freddo. Le sfuggì un urlo di dolore. Adam le strinse più forte il collo e cominciò a premere alla base della gola. Sarah gli allungò le mani sul viso, verso gli occhi, nel disperato tentativo di accecarlo, ma non sentiva più la forza nelle braccia, né nelle gambe. Il suo respiro si faceva sempre più debole e strozzato e il volto di Adam Jonson e quello di Glen che lo pugnalava alle spalle, i suoi occhi lacrimanti e le sue labbra carnose, dolci, rosse, tutto ciò che li circondava le appariva confuso, sbiadito, lontano come un incubo al risveglio. “Non serve a nulla Glen,” cercò di bisbigliare, ma quello che le uscì fu soltanto un rantolo. Allungò le braccia verso di lui, verso i suoi capelli castani e scompigliati, verso le sue guance, le sue mani sporche di sangue.
“Non si possono uccidere i demoni, Glen,” tentò di dirgli. Voleva che lo sapesse, che non se la prendesse con sé stesso una volta che lei non ci fosse stata più. Perché non era colpa sua. Loro non erano nulla, erano sempre stati nulla, solo che non lo sapevano. Vide il loro primo bacio, il suo sorriso quando le porgeva la cioccolata calda, i suoi occhi lucidi mentre facevano l’amore, il suo grembiule arancione e le sue mani calde. Ripensò al giorno in cui aveva visto sua madre nel deposito della libreria. Le parve di averla davanti agli occhi. Non era molto distante da lei e le sorrideva. “Ti ho delusa, mamma,” pensò. Le rimaneva poco fiato ed era già un miracolo che fosse resistita così tanto. Sua madre le si avvicinò e lei sorrise. Agitò la mano e Sarah fece lo stesso. “Sei venuta a prendermi,” pensò. Sua madre scosse il capo. Sarah la vide sfiorare il braccio di Glen. Lui si scostò, come se scottasse. La vide allungare le mani verso il collo di Adam. Lui sgranò gli occhi e allentò la presa. Era tutto così strano, pensò Sarah. “E così reale.” Quando Adam le lasciò il collo, tossì violentemente. Più l’aria le riempiva i polmoni, più si accorgeva che era tutto vero. L’odore di sangue mischiato a orchidee le permeò le narici. Respirò avidamente per riprendere fiato. Mentre tossiva ancora, guardò Glen, chino sulle ginocchia con il coltello fra le mani e lo sguardo fisso su di lei. Poi guardò Adam, freddo, rigido, come fosse morto. Lui si voltò verso sua madre. Lei era ricoperta di sangue e di cicatrici. Glen si alzò e la trascinò via dai gradini. Lei lo lasciò fare, inebetita e inerme. Fissò sua madre: sorrideva. Sembrava serena e felice; guardava Adam, il suo volto scavato da un’espressione di terrore. Si avvicinò a lui fino a sfiorarlo, a toccarlo, a tenerlo per le mani… ad abbracciarlo. Sotto gli occhi storditi e sbalorditi di Sarah, Adam pianse. Sarah lo sentì chiedere perdono fra i singhiozzi. Sputava sangue. Sua madre la guardò per un’ultima volta: tutte le cicatrici erano scomparse e le restava soltanto quel sorriso angelico stampato sul volto. Le sembrò sussurrarle: “Grazie.” Sarah fece appena in tempo a dire “Mamma”, che entrambi, lei e Adam, esplosero come un gigantesco palloncino pieno di sangue. Qualche goccia le schizzo sul viso. Glen la strinse a sé. Poco dopo cominciò a piovere. Sarah tenne fisso lo sguardo sui gradini ricoperti di sangue. La pioggia lo stava
lavando via. Goccia dopo goccia, il sangue sembrò fondersi con l’acqua e allontanarsi rapido verso il tombino più vicino. Qualche minuto dopo, sembrava che non fosse mai successo niente: anche le gocce sul volto di Sarah erano scomparse.
35
“Ѐ finita,” sussurrò Sarah, gli occhi spalancati e lo sguardo immobile sui gradini. “Ce l’abbiamo fatta,” aggiunse sorridendo, senza battere le palpebre. Si voltò verso Glen: aveva il volto sudato e i capelli sporchi di sangue. Si ricordò della ferita sul braccio. “Fammi vedere,” disse tirandolo per il polso. Lui le mostrò il taglio: non era molto profondo. “Falso allarme,” mormorò sorridendole. Aveva un po’ di sangue anche sul labbro. Lo baciò. “Dobbiamo andare in ospedale,” disse lei. “E dai nonni e da Laira. Martha si sarà svegliata, sarà in grado di parlare,” si era alzata di scatto e ora camminava descrivendo cerchi nel mezzo della strada e agitando le mani. Glen si alzò e la abbracciò da dietro. Sarah sentiva il suo fiato dolce e caldo sul collo. “Andiamo a casa,” sussurrò. “A casa nostra.” Sarah sollevò lo sguardo verso il cielo e sorrise. Pioveva ancora ma il sole già si affacciava dalle nuvole. Ancora qualche minuto e avrebbe smesso. “Nostra,” scandì Sarah lentamente. In quel suono avvertiva il trascorrere dei loro giorni insieme, del loro avvenire, del mero attimo presente. Lo abbracciò. “Andiamo a casa, ” disse cantilenando. Si incamminarono cingendosi l’un l’altro i fianchi con le braccia. Su di loro, le ultime gocce di pioggia.
36
Erano da poco ate le due quando Sarah chiamò i suoi nonni. Glen si stava facendo una doccia. Ogni tanto intonava qualche motivetto infantile, strillando sulle note più acute. Sarah rideva: la sua voce stonata la divertiva. Pensò più di una volta che lo stesse facendo apposta. Rispose suo nonno. “Pronto?” la sua voce era roca come la prima volta che aveva sollevato la cornetta. Quel giorno avevano pianto insieme. “Nonno, va tutto bene!” Sarah si portò la mano libera agli occhi: aveva cominciato a piangere. Si asciugò le lacrime, senza capire se stesse ridendo o singhiozzando. “Va tutto bene!” gridò. Questa volta rideva, ne era sicura. Rideva con le lacrime agli occhi. Sentì suo nonno esultare all’altro capo del telefono. “Cara, è finita!” gridò. Poco dopo sua nonna afferrò la cornetta. Non rideva, non singhiozzava. Domandò soltanto: “Lui è andato via?” Sarah annuì. Poi, ricordandosi che non poteva vederla disse: “Sì.” Deglutì. “L’ho vista, nonna. Lei ci ha salvati e poi l’ha portato con sé. Sta bene! È felice!” Sentì sua nonna sospirare. “E tu sei felice?” chiese dopo essere rimasta qualche secondo in silenzio. Sarah respirò profondamente e sorrise. Ne era certa. “Sì, sono felice.” La signora Lewis tacque. Poi sussurrò: “Allora sono felice anche io.” “Sono felice anche io!” questa volta gridò. Aveva smesso di sospirare. Sarah la sentiva chiaramente piangere. E ridere.
37
Era sicura che Martha si fosse ripresa. La giovialità del momento le aveva fatto sperare di poterla portare a ballare subito. Le avrebbe detto che era giovane e bella come una ragazzina e lei avrebbe indossato i tacchi a spillo che aveva attaccato al chiodo già da qualche anno. Sua sorella avrebbe attirato un bel giovanotto, alto e con la mascella squadrata come l’uomo che aveva sempre desiderato sposare. Si sarebbero guardate allo specchio truccate e impernacchiate come due attrici dell’opera e avrebbero riso ripensando a quando dipingevano figure astratte e senza senso con i cosmetici della madre che avevano avuto in comune. Quando il medico le disse che ci sarebbe voluta ancora una settimana le sembrò che quello specchio fosse andato in frantumi. “Può parlare?” chiese Glen. Sarah aveva avvertito un certo astio nel suo tono di voce. “Sarebbe meglio di no, non vorrei affaticarla troppo. Ma è sveglia. Però… Ha un minuto signorina.” Sarah lo ringraziò e si avviò verso la sala in cui avevano sistemato sua sorella. Prima di entrare diede un’occhiata alla stanza in cui aveva visto il bambino con i cerotti blu sul braccio. Scosse il braccio del medico e lo guardò in attesa di una risposta: la sala era vuota. Lui volse lo sguardo alla stanza, poi a lei. “Un miracolo,” disse sorridendo. “Si è svegliato ieri pomeriggio. Sua madre era accanto a lui e quando l’ha visto aprire gli occhi è quasi svenuta dalla gioia. Lui non ha fatto altro che parlare di dove vorrebbe andare in vacanza, come se non fosse successo nulla. Non la sente lei? È strano eppure mi sembra che l’aria che respiro sia diversa, più leggera, non le pare?” Sarah annuì. “Profuma di orchidee,” rispose, senza sapere veramente cosa stesse dicendo, ma era la prima cosa che le era venuta in mente. Guardò sua sorella attraverso il vetro e la salutò con la mano. Aveva gli occhi
rossi e lacrimevoli. Sua sorella le sorrise e le mandò un bacio. La prima cosa che le disse quando si accostò al suo letto fu: “Hai visto quanto è bello il medico?” Sarah annuì ridendo. “Stai bene?” le chiese. Martha annuì. “Cercava te, quell’uomo: dovrei farti io questa domanda.” Sarah si piegò sulle ginocchia e le baciò la guancia. “Sto bene. È tutto finito.” “Un giorno mi racconterai,” biascicò lei in uno sbadiglio. “Ora ho bisogno di riposare.” Guardò sua sorella con la coda dell’occhio e si allungò per baciarla sul capo. “Ti voglio bene, Sarah. Non sarei qui, se non fosse per te.” Sarah rise. “In tutti i sensi, sorellina.” Rise anche Martha. “Ti voglio bene anch’io,” disse infine Sarah. La baciò di nuovo e si allontanò. La guardò ancora una volta attraverso il vetro. Aspettò che chiudesse gli occhi e che si addormentasse, mentre, nelle sue orecchie, risuonava il bip dell’elettrocardiogramma: polso regolare. Sorrise: andava tutto bene.
38
“Dobbiamo andare da Laira, Glen,” gli disse quando lo vide seduto con le braccia conserte nella sala d’aspetto. Glen si alzò. Salutarono il medico con una stretta di mano. “Aspettate,” disse improvvisamente lui come se si ricordato di qualcosa di importante. Li avvicinò e abbassò la voce. “Ho visto la ferita sul cranio. Non credo sia stato un incidente, signorina.” Sarah scosse il capo. “Martha è maldestra. Episodi simili sono capitati altre volte. Non si preoccupi,” gli rivolse il suo falso sorriso migliore e lo congedò definitivamente, osservando la sua espressione titubante svanire poco a poco.
39
I Tetti Rossi erano rimasti immutati dall’ultima volta che Sarah li aveva visti. L’erba secca giaceva inerme sotto il sole freddo. Si chiese perché fosse ancora arida nonostante la pioggia. Si avvicinò alla casa tenendo Glen per mano. Era tutto così calmo, troppo. Il prato, il palazzo, il cielo sembravano in stasi, rigidi come morti. Sarah trasalì. Bussò sul portone con le nocche. Non appena lo sfiorò, si accorse che era già aperto. Sentì il freddo scorrerle in brividi sotto la pelle. “Laira!” cominciò a urlare. “Sono Sarah!” Spinse il portone in avanti, spalancandolo. La casa era silenziosa. Sarah deglutì nervosamente. Attraversò il corridoio. “Io controllo di qui,” disse Glen. Sarah scosse la testa. Aveva gli occhi sbarrati. “Non ce n’è bisogno,” rispose, indicando una mano esangue e macchiata di inchiostro che pendeva dal bracciolo di una poltrona. Si avvicinò a i felpati, come se temesse di svegliarla o di non poterla svegliare. Strinse gli occhi. Poi si fece coraggio e li riaprì, guardando il volto pallido di Laira Noir, i suoi occhi castani persi nel vuoto, le sue labbra schiuse in un sorriso vago e malinconico. Mentre piangeva, le accarezzò le guance fredde e senza vita. La scosse, nell’ultimo e vano tentativo di salvarla. I capelli le scivolarono sugli occhi semiaperti. Li scostò. Glen si avvicinò a Sarah e le cinse le spalle con il braccio. Guardò Laira e, con due dita della mano, le abbassò le palpebre. Fu lui il primo a notare la lettera. Era sul tavolo, accanto alla fotografia che ritraeva lei e Susanne davanti alla decappottabile blu. Sul davanti stava una sola scritta: “PER SARAH”. Glen la aprì. “Sarah, questa dovresti vederla.” Sarah sollevò lo sguardo dal cadavere della migliore amica di sua madre. Si strofinò gli occhi lucidi con la
manica del cappotto e prese la lettera che le porgeva Glen. La carta era ingiallita e la scrittura era tremolante ma comprensibile. Cominciò a leggere: Cara Sarah, scusami se non ti ho detto tutta la verità. Una parte di me temeva che Adam mi avrebbe trovata e uccisa. Soltanto quando lo vidi qui, a eggiare sotto casa mia, a ridere di tanto in tanto, capii che non era tempo di morire: era tempo di soffrire e di ricordare. È sempre stato il mio compito: non dimenticare quello che era successo, darle giustizia, quella che lo Stato non le aveva concesso. E, nonostante i miei timori, le mie apprensioni, credo di aver adempito ai miei oneri. Mi rendo conto solo adesso di essere sempre stata soltanto una copia del mio libro. Oh, mia piccola Sarah, lascia ora che io i a te la staffetta, lascia che io ti racconti un’altra storia, la mia storia, quella che ho narrato in versi in quell’unico libro di poesie che io abbia mai scritto. Ma è stato tanto tempo fa, prima che mi chiudessi qui dentro a marcire. La nuda e triste verità è che sono cresciuta all’ombra della mia migliore amica. Non biasimo lei, biasimo me, incapace di affermarmi, di staccarmi da lei. Provavo e provo per tua madre un amore forse più insano di quello che Adam Jonson provava per lei. La amavo come una donna sola ama una donna e la imitavo come una ragazzina imita la star di turno in copertina. Non biasimo lei, biasimo me che capisco soltanto ora di aver pianto per il mio fato, per il ato, senza avere la forza di andare avanti. Sono debole, Sarah, ma ora che capisco tutto quello che ho sbagliato, tutto quello che avevo e che ho sprecato, mi sento forte, anche se sto per morire. Sono stata una bambina fragile e insicura, una giovane sola, un’amica fedele. Non ho mai amato un uomo, Sarah. Ho guardato avidamente i loro lineamenti quelle poche volte che uscivo per quelle spese necessarie alla sopravvivenza, ma li allontanavo, forse per insicurezza, forse per stupidità, forse per masochismo. Ma la verità è che io non ho mai avuto la forza di andare avanti, dopo tutto quello che era successo. Soltanto adesso mi rendo conto di essere il ato, Sarah, il ato che perpetua se stesso in un presente che lo rifiuta. Non è più il mio tempo ed è giusto che io muoia e che tu viva. So che ce l’hai fatta, me lo sento. So anche che quella volta è stato il nostro ultimo incontro. Sento il respiro mancarmi e il polso che si fa sempre più debole. Mi gira la testa e non sono sicura di riuscire ad arrivare alla poltrona. Mi fa male il cuore, come se fosse stretto in una morsa, ma sono serena, non ho paura. Sento che lei è vicino a me in questo momento. Posso vedere il suo sorriso, il sorriso di mio padre e dell’uomo che non ho mai avuto, dei bambini che non ho mai cresciuto e chissà se Dio mi concederà di averne in quell’altra vita. So che lei è lì, che c’è anche
Dan in quel posto splendido di cui tutti parlano, che viaggeremo ancora insieme, per l’ultima volta e sì, me lo sento, lì la mia ricerca sarà finita: troverò, infine, la mia libertà. Sarah alzò gli occhi al soffitto, poi li chinò sul corpo inerme di Laira Noir annuendo. E, proprio nel momento esatto in cui capì di aver finalmente chiuso i conti col ato, sentì l’intenso e irrefrenabile desiderio di andare avanti.
Allo specchio
Sotto i miei occhi mia figlia cresce. Muove già i suoi i e io resto a guardare, chiedendomi se camminare sia così diverso da volare. Scorgo il mio riflesso riflesso nel suo sguardo, sempre diverso, eternamente lo stesso. E non esiste specchio migliore dei suoi occhi per vedere chi sono, chi sono stata, chi sarò, fino al mio ultimo respiro, fino a che vivrò. Sarah Haber Lewis