In Tutti I Respiri Che Ti Ho Preso 6t66v

IN TUTTI I RESPIRI CHE TI HO PRESO romanzo

Alessio Biagi

Published by Giuseppe Meligrana Editore at Smashwords

Copyright © 2010 by Giuseppe Meligrana Editore ISBN 978-88-95031-73-4 www.meligranaeditore.com All rights riserved - Tutti i diritti riservati Copertina © foto di Sabrina Conforti

* * * * *

A Giovanna

* * * * *

“Io sono un povero uomo dal cuore ubriaco

ed il peccato fu la causa di tutto questo” Robert Johnson

“Ho fatto un giro immenso per finire poi qui, sulle tue labbra”

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1

Al mio risveglio nell’aria c’era un robusto odore di stalla, di pelo di capra e di merda. Il sole non era ancora alto e davanti ai miei occhi c’era un campo di gente morta ammazzata. Mi alzai a fatica, affondando le dita nella fanghiglia e togliendomi di dosso il corpo di Jesse. Avevo perso il mio elmetto e l’uniforme era tutta inzuppata di acqua e sangue. Ero ancora intontito e mi sentivo stanchissimo. Il petto mi faceva male come se mi avessero conficcato dentro la lama di una spada. L’aria era fredda, freddissima, ed una nebbiolina sottile mi copriva la vista. Caddi indietro per il forte dolore al petto finendo col culo nel fango. Cercai di capire dove fossi, ma attorno c’erano solo cadaveri. Mi trascinai per un pezzo spingendo con i gomiti e con le ginocchia, ripresi fiato e provai ad alzarmi in piedi. Feci qualche decina di metri fino ad una collinetta, sempre stando attento a non calpestare nessuno. Le facce dei morti del Centosedicesimo Reggimento Fanteria statunitense avevano tutte la stessa espressione: smarrita ed incredula. L’impasto di fango, erba e sangue mi si appiccicava sotto gli scarponi e mi dava il vomito. Le parti del corpo di tutti quei giovani, ciancicate e sputate un po’ dappertutto mi costringevano a guardare solo di fronte a me. Il mio obbiettivo era raggiungere quel piccolo promontorio per potermi orientare. La nebbiolina si stava lentamente alzando, il sole anche. Il sangue uscitomi dalle orecchie si era seccato, come anche la terra sulle mani e dentro le unghie. Mi tenevo il petto cercando di soffocare il dolore e non lasciarmi cadere. La leggera

salita fino alla cima della montagnetta fu più impervia di quanto credessi: le gambe mi cedevano, i dolori si accumulavano man mano che il rumore della risacca aumentava. La nebbia a quel punto s’era completamente alzata, il sole picchiava dritto come un faro illuminando la spiaggia di Sainte-Honorine-des-Pertes tinta di un rosso intenso, ed il mare della Normandia ad ogni onda restituiva un cadavere alla terra ferma. Mi lasciai cadere sulle ginocchia, coprendo la bocca con la manica dell’uniforme, strozzando nella gola il pianto e la disperazione. Mi sdraiai con la faccia rivolta al sole, spalancai le braccia lasciando affondare la nuca nella terra umida. Guardai il cielo terso, le nuvole che avano lentamente e persi di nuovo i sensi per lo sforzo e per il dolore.

* * *

La mia famiglia è d’origine acadiana, deportati della Nova Scotia che arrivarono in Louisiana di seguito all’occupazione del Canada da parte dell’Inghilterra. I miei antenati erano contadini analfabeti, indesiderati, derisi dalla società creola se che già abitava quelle terre, e che li emarginò nella zona paludosa ad ovest della città. Generazioni d’allevatori di bestiame, zappatori, disgraziati senza futuro con le mani sempre sporche di terra e la schiena rotta dalla fatica. Mio padre era un uomo normale, come tanti uomini normali del sud della Louisiana. È nato con la vanga in mano e con i dieci comandamenti marchiati a fuoco sulla pelle. Mio nonno era un rigido, cocciuto ed ignorante che aveva combattuto una guerra e per questo si sentiva un grande eroe nazionale che poteva pretendere rispetto. Mio padre nato con una gamba più corta dell’altra di qualche centimetro, nel ‘14 fu riformato. La Grande Guerra non lo sfiorò nemmeno, anche se lui una guerra ce l’aveva dentro, nel cuore. Venne su a forza di cinghiate e patate cotte in tutte le maniere: lesse, fritte, trifolate, con le melanzane, in salsa dolce, in salsa di funghi, con salsa di pomodoro, all’olio di noci, nel pasticcio, nel ripieno, forse persino nei dolci. Le sue mani erano la sua vita, i suoi dolori la sua storia. Viveva di poche cose sperando sempre in qualcosa di meraviglioso: come la carità di Dio Onnipotente, o qualche dollaro in più in saccoccia, o nell’amore di una bella ragazza di città. Ma alla gente della

periferia di New Orleans non era permesso nemmeno avvicinarle certe ragazze. Mio padre ed i suoi amici, disgraziati come lui, si preparavano tutta una settimana, si muovevano come un branco di lupi affamati. Poi s’incollavano con le schiene a qualche muro e guardavano per un paio d’ore le ragazze che non avrebbero mai potuto avere. Andò avanti così fino a quando tutti i suoi amici partirono per la guerra e lui rimase a casa. Emarginato tra gli emarginati; avevano detto che non valeva nemmeno il prezzo della sua vita. Rimase solo. L’unico motivo di soddisfazione gliela diede la radio e Duke Ellington. Andava spesso a sentire suonare questa gente che veniva allontanata dal mondo proprio come lui, e tra di loro finalmente si sentiva vivo, felice. Nessuno tra i neri lo trattava come un contadino cajun con le unghie rotte ed i vestiti cuciti a mano. Era finalmente un integrato tra i non integrati. Fece anche amicizia con un ragazzo di colore di nome Blue, un disperato che si arrangiava come poteva. Nella famiglia di Blue erano 13 fratelli, Blue era l’ottavo. Mio padre e Blue diventarono ottimi amici: lui lo portava a Storyville, a sentire il jazz, e mio padre in cambio gli regalava qualche patata. Fu così che mio padre sentì suonare i più grandi del jazz come Duke Elligton ed altri, che però a differenza sua non fecero mai successo. Si sentì finalmente integrato tra gente uguale a lui, in un mondo perfetto dove non c’era razzismo, o segregazione, od odio, o violenza, ma solo gioia, da ballare al ritmo della musica jazz. Blue morì in una rissa da bar, con un vetro di bottiglia infilato nella gola. Mio padre smise di frequentare Storyville e quel mondo tutto trine e pizzi fuori, ma dannatamente marcio dentro, e che per un momento lo aveva reso un ragazzo diverso, lo aveva reso partecipe.

* * *

Ci sono tre date fondamentali nella vita di un uomo: la data di nascita, la data di morte, e quando incontri l’amore della tua vita. Per mio padre quel giorno era l’8 agosto del 1918, e per i suoi occhi marci la ragazza in fila accanto a lui per la carne era come Cleopatra per gli antichi egizi. Non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, stava come un sasso ma pieno d’amore. Il sangue gli poteva anche uscire dalle orecchie tanto non se ne sarebbe accorto. Capì subito che quella donna era la sua donna. Fece di tutto per sapere il suo nome, conoscere il suo indirizzo, poterci scambiare una sola parola. Mia madre era figlia di un calzolaio che a New Orleans era quasi una celebrità. Tutte le famiglie bene andavano a

comprare le scarpe da lui. Lei aveva sedici/diciassette anni e la sua pelle era bianca come il latte, liscia e perfetta. Quella di mio padre era olivastra, sporca, segnata dai graffi e dalle vesciche. Non era assolutamente possibile che riuscisse ad avvicinarla, tantomeno a sposarla; nonno non lo avrebbe mai permesso. Mio padre cominciò a corteggiare mia madre che, seppur bellissima, non era mai stata avvicinata da un uomo, e la sua insistenza la faceva felice. Si frequentarono per diversi mesi, di nascosto, poi mio padre decise che era arrivato il momento di conoscere il suocero. Mia madre rimandava sapendo che nonno non avrebbe mai accettato un contadino selvatico e rozzo in casa sua, ma mio padre insisteva. Era innamorato, bontà sua. Mia madre gli mentì: disse che spesso in casa parlavano di lui ma che ancora non era arrivato il momento; bisognava aspettare che suo padre metabolizzasse questa cosa. Mentiva. Il nonno aveva dei sospetti ma si rifiutava di pensare che fosse possibile una tragedia del genere. Mia madre, disperata, decise di farsi mettere incinta per costringere il nonno ad accettare la sua relazione. Convinse così papà che l’unico modo per avere la sua approvazione e quindi essere riconosciuti ufficialmente come coppia fosse quello di creare una famiglia e mettere su casa. Disse che erano parole uscite direttamente dalla bocca di nonno. Mio padre non aspettava che quello. Ma quando si venne a sapere che la giovane figlia, delicata e immacolata primogenita del calzolaio più rinomato di New Orleans, era stata violata da uno schifoso pezza da culo di origini acadiane, che viveva di stenti in una casa con due stanze ad ovest della città, fu come andare a mettere un lupo in un pollaio. Mio padre, però, non aveva nessuna colpa: né per le sue origini povere, né per le menzogne di mia madre. Ma per nonno, il figlio che portava in grembo era solo un fagotto d’immondizia venuto dalle paludi ed iniettato con la forza dentro un ventre giovane e puro. E vista la determinazione di mia madre a non abortire, allora avrebbe ripudiato la sua unica figlia. Mia madre fu cacciata da casa. Fu grazie alla benevolenza inaspettata di mio nonno paterno che i miei genitori non morirono di fame con un figlio in arrivo. Il 14 maggio del 1920 nacqui io: William Michael O’Neill.

* * *

Nel primo pomeriggio riuscii a scendere fino alla spiaggia. La sabbia era collosa e intrisa di sangue, gli scarponi affondavano raccogliendo di quando in quando

piccoli pezzi di carne. Ovunque guardassi non c’erano che cadaveri smembrati dalle pallottole o dilaniati dalle bombe. Quattro mila morti, la più grande mattanza umana di questo secolo davanti ai miei occhi e i miei occhi non piangevano più. Cercai delle borracce e qualcosa da mangiare. Frugai nelle tasche dei morti che mi guardavano con occhi spenti. Trovai qualche barretta di cioccolata, un paio di scatolette di tonno e tre borracce d’acqua ancora piene. Bevvi, sciacquai la faccia e mangiai qualche barretta. Il petto mi bruciava ancora e decisi di andare a pulirmi con l’acqua del mare. La riva era completamente rossa, qualche corpo galleggiava cominciando a gonfiare ed a marcire. Dovetti immergermi fino alla cinta per poter lavare la ferita con acqua pulita. Sbottonai la camicia, scostai la canottiera e lavai il petto dal sangue secco. Quando fui tutto ripulito, notai un foro d’ingresso sul pettorale sinistro: un foro arrossato, il sangue grumoso e la carne tutta mangiucchiata rivoltata verso l’interno. Provai a stuzzicarlo e mi fece un male cane. Uscii dall’acqua carezzandomi la schiena in cerca del foro d’uscita, ma non riuscivo ad arrivarci. Il sole calava ed il buio veniva a spegnere la luce sulla striscia di morti adagiata sul litorale. Mi andai ad infilare dentro una delle poche imbarcazioni rimaste arenate sulla riva e scambiai i miei vestiti con quelli più asciutti di un capitano freddato con un colpo alla testa. Lo rivestii dei miei abiti e gli coprii il viso con un elmetto, poi iniziai a prepararmi per la notte. Cercai dentro qualche zaino trovando un telo ed andai a sfilare i giacconi a due ufficiali. M’infagottai per bene e cercai di rannicchiarmi in un angolo. L’indomani avrei cercato di contattare qualcuno, avrei chiesto soccorso; il mio primo pensiero era quello di tornarmene a casa.

* * * * *

2

Il mio fiume serpeggia pigro sulla pancia tagliando per una larga pianura. Delle volte ti sembra che stia fermo a guardarti, che aspetti una tua mossa. Io e Madison andavamo fino alle cypress swamps, le zone permanentemente acquitrinose del delta, alla ricerca di rane grandi come cappelli. Tornavamo a casa sempre con un ricco bottino di caccia. Eravamo i pionieri delle cypress

swamps: e non c’era isolotto, sputo di terra, insenatura, corso d’acqua o bozzo che non conoscessimo. Madison ed io eravamo come attaccati con la colla: dove finiva il culo di uno cominciava quello dell’altra. Lei era una bambina sveglia, con i capelli sporchi, le unghie spezzate e nere, le ginocchia ed i gomiti sempre con del sangue rappreso sopra. Madison aveva il fuoco dentro gli occhi. Quando compì sei anni suo padre le regalò una vecchia chitarra scassata, con le corde lise ed un suono marcio, ma per lei fu il regalo migliore del mondo. Non se ne separò per anni, poi ne comprò una nuova dal vecchio Red: un nero che faceva blues e costruiva chitarre per un solo dollaro nella baracca dietro la chiesa battista di St. James. Quel pomeriggio gli amici neri di Red giocavano a carte in un angolo della baracca, illuminati da una piccola lampada ad olio. Bevevano e fumavano oppio. Lui stava lavorando su un pezzo di legno senza troppa convinzione. - «Questo legno non ha l’anima» – disse quando ci vide arrivare. Lo buttò su un tavolo con tre gambe e sputò per terra. L’odore acre di sudore e tabacco mi entrava nelle narici come un coltello. Io e Madison cominciammo a respirare lentamente per non prendere troppa aria. Red si alzò e prese la chitarra di Madison. Lei si accese come un fiammifero. - «Vuoi fare il blues Madison?» – le disse il vecchio Red masticando erba e tabacco tra i denti gialli e sporchi come il pagliericcio sul quale dormiva. Madison rispose di sì solo con la testa, senza dire una parola. - «Ed una bambina della tua età ha il cuore già così tormentato?». Madison non capì cosa intendesse. Red prese una corda di paglia e la legò ad un chiodo sul fondo della chitarra. Le sue dita erano come stecchi di legno, i suoi capelli bianchi erano piccoli riccioli tormentati. Girò l’altro capo della corda al manico della chitarra facendoci un nodo, poi se la mise sulle ginocchia. Fece vibrare tutte le corde con una carezza leggera. Annuì e solo dopo la consegnò a Madison. Lei se la mise subito a tracolla, gli diede il dollaro e se ne andò. Io rimasi con il vecchio Red che diceva a tutti di avere un pomodoro al posto del cuore, qualunque cosa volesse dire. Si buttò indietro, sputò per terra e venne a visitarmi la faccia. - «Siediti ragazzo» – disse. Gli andai vicino e mi sedetti su uno sgabello. Era come se mi potesse leggere dentro. «Sai chi è il diavolo?».

- «Sì signore» – risposi. Un uomo sorrise nella penombra. Red gli fece un cenno con la testa; mi guardava come un meccanico guarderebbe il motore di una macchina. Aveva la fronte imperlinata da piccole gocce di sudore, due occhi umidi e neri come inchiostro. - «Vuoi che ti racconti la storia di quando ho visto il diavolo?». Risposi di sì con la testa. Avevo la bocca asciutta come una zolla di terra secca e mi sentivo formicolare le budella. Red si asciugò la fronte con la manica sporca della camicia. Si tirò avanti e sputò il tabacco che gli era rimasto in bocca dentro un piatto, sopra al tavolo. Un rivolo nero gli scese dall’angolo della bocca. Si asciugò con una mano e cominciò a raccontare: - «Avrò avuto la tua età, forse qualche anno di più!» – disse con una voce che sembrava un ruggito – «Abitavo con la mia famiglia in una capanna di legno sulla riva est del vecchio fiume. Mio padre era morto ammazzato di lavoro. Un bianco di nome Sig. Wilson lo faceva sgobbare dall’alba al tramonto senza sosta, come un vero animale. Quando lui morì, mio fratello maggiore J prese il suo posto. Mia madre puliva le case per pochi spiccioli al giorno. Il mio compito era quello di badare ai miei tre fratelli piccoli. Quel pomeriggio da cani l’afa era ovunque e veniva a togliermi il respiro, il sole picchiava duro e non si muoveva nemmeno uno starnuto di vento. Strimpellavo la chitarra di mio fratello J respirando grosso, quando il fiume perse improvvisamente la voce. Smisi di suonare e ascoltai quello strano silenzio come nemmeno sulla luna. Niente, né uno spruzzo né uno scroscio d’acqua. Uscii dalla capanna e guardai il fiume immobile. Mi avvicinai alla riva e infilai una mano nell’acqua: era calda come se fosse a scaldare sul fuoco. “Red!”, sentii chiamare. Quella voce rimbalzò intorno come dentro una bottiglia. Mi voltai e vidi un bianco, alto e con gli occhi chiari quasi bianchi seduto sotto un albero. Il cuore mi arrivò in gola. L’uomo si alzò in piedi: era altissimo e completamente nudo, con la pelle liscia e lucida come l’olio. Mi ò accanto sorridendo con una bocca piena di denti, come una collana di perle. L’uomo entrò in acqua fino alla vita, si tuffò e nuotò avanti e indietro per diversi minuti. Andava sotto con la testa, dando anche qualche bracciata. Alla fine uscì dall’acqua, stanco. Camminava tutto storto come se sotto i piedi avesse due grosse vesciche. Mi si piazzò davanti piegandosi sulle ginocchia. I suoi occhi mi facevano male. “Sai chi sono io?”, disse. Feci di no con la testa. “Lo immagini però?”. Feci sì con la testa. Sorrise. “Regalami la

chitarra di tuo fratello J”, disse indicando la porta della baracca. Non me lo feci dire due volte: entrai in casa e presi la chitarra. I miei fratelli dormivano ancora. Quando tornai fuori l’uomo non c’era più ed il fiume scorreva di nuovo, lento». Il vecchio Red si tossì nel pugno e mi carezzò la testa. - «Lo sapevi che il diavolo adora i bambini?». Il suo viso arato di cicatrici e rughe mi stava proprio sopra. Il suo fiato pesante mi scaldava la faccia. Mi alzai e uscii dalla capanna correndo a perdifiato. Me la feci tutta di corsa fino a casa. Madison era sotto il suo portico che provava la sua chitarra nuova. - «Will!» – gridò quando mi vide are veloce. Entrai a casa e m’infilai a letto anche se erano solo le cinque di pomeriggio. Non le raccontai mai quella storia.

* * *

Mi svegliai intorpidito, con la testa che mi pulsava ed il petto che mi dava fitte lancinanti. Lo stomaco vuoto, il cuore ancora in guerra. Uscii dal mezzo da sbarco anfibio ritrovandomi di nuovo davanti tutto l’assurdo del mondo. Mi fermai vicino al corpo di un soldato con la mascella distrutta da una sventagliata di colpi: aveva ancora il fucile a tracolla. Glielo sfilai assicurandomi che funzionasse. Ora dovevo decidere cosa fare: d’addentrarmi verso l’interno non mi ava nemmeno per la testa, ed alle mie spalle invece c’era il mare. Cosa fare? Ricordai che a qualche chilometro a occidente, sulla spiaggia di Utah Beach erano sbarcati diversi reggimenti. La divisione era dislocata sulla costa tra il settore di Utah Beach e la città di Cherbourg e copriva una linea di circa cento chilometri. Mi guardai attorno un altro momento e poi decisi di tentare l’impresa. M’incamminai faticosamente lungo la spiaggia di Omaha, con la speranza che tra i dodici mila uomini sbarcati a Utah e gli undici battaglioni paracadutati nell’immediato entroterra ci fosse un solo soldato americano che potesse aiutarmi. I piedi affondavano faticosamente nella sabbia umida. Il petto mi s’infiammava ogni tre i; continuavo a ripetere a me stesso che non ce l’avrei mai fatta:

sarei morto di stenti su un’anonima spiaggia della Normandia se. Mi fermai spesso per rifiatare, ed ogni volta era sempre più difficile ripartire. Lungo il cammino mangiai una barretta di cioccolata e bevvi qualche sorso d’acqua dalla borraccia. Fui tentato più volte di tornare indietro, e mi odiai per la scelta che avevo fatto, ma poi tornavo a marciare sentendo che le forze mi stavano lentamente abbandonando. Camminai per chilometri senza scorgere niente che non fosse sabbia e costa rocciosa. Alla fine le mie gambe si piegarono da sole sotto il peso della stanchezza e della rassegnazione. Crollai faccia sotto, affondando il naso nella sabbia. Respiravo a fatica ed il petto mi bruciava come se fosse stato marchiato a fuoco. In quel momento sperai solo di morire velocemente. Guardai il fucile che stringevo nella mano e pensai di farla subito finita, senza rimandare un destino comunque segnato. Immaginai il mio cadavere che imputridiva gradualmente, si gonfiava per l’umidità e si sbiancava per l’acqua marina, marcendo. Nessuno lo avrebbe più ritrovato e questa sarebbe diventata la mia tomba: il tratto di costa attorno a Pouppeville e La Madeleine. Quando sentii i sensi che m’abbandonavano, mi augurai che un Dio giusto mi concedesse di morire nel sonno. Le voci che si aggiunsero allo scroscio del mare in risacca le sentii arrivare da lontano, dall’interno della costa. Dischiusi lentamente gli occhi intravedendo di sfuggita un uomo. I dolori alle ossa mi uccidevano, ma la paura era più forte. Le voci raddoppiarono ma non riuscivo a comprendere cosa dicessero. Avvicinai il fucile e lo strinsi nella mano. Restai sdraiato, fingendomi morto, cercando di non farmi prendere dal panico. Le voci si avvicinarono borbottando qualcosa d’incomprensibile. Fu allora che decisi di farmi coraggio e balzare agilmente in piedi. Raccolsi tutta la forza che avevo nelle gambe e mi alzai con un urlaccio grottesco intimando un “Alt!”. I due uomini si bloccarono ad una decina di metri da me, spaventati. Non erano militari, non indossavano uniformi. - «Chi siete? Cosa volete?» – dissi tenendogli il fucile puntato addosso. Risposero qualcosa che non capii, ma non era tedesco, era se. Tenevano le mani alzate ed avevano il terrore negli occhi. - «Friend!» – disse subito il più anziano – «Please! American my friend!». La paura mi attanagliava il cuore e pesava sulle braccia come macigni. Il petto mi formicolava e di quando in quando mi dava fitte tremende. Ebbi un sussulto potente dentro il petto, ed aprii leggermente la giubba per controllare la ferita.

Un rivolo di sangue sgorgò fuori dal buco lasciato dal proiettile. Mi cadde il fucile dalle mani, crollai sulle ginocchia e finii con il muso nella sabbia. Inghiottii e respirai un po’ di rena prima di svenire e non ricordare nient’altro.

* * *

La storia dice che due si, i fratelli Bienville, furono i primi a risalire il grande fiume, e che vent’anni dopo tornarono per posare la prima pietra della nuova Orléans. I primi coloni furono si, ed i primi a tirare fuori i piedi dalle paludi del sud della Louisiana furono sempre i si; ad ogni modo rifiutati come una sposa che non arriva vergine al matrimonio. In seguito fu un re spagnolo a prendersi il fardello di uno stato troppo costoso, negro fin dentro le ossa, marcio e illegale. Uno scarabocchio sulla cartina degli Stati Uniti. In cambio, ricevette dai si la promessa di un sostegno militare nell’eventuale guerra contro gli inglesi; strana ironia del destino. Ben presto anche gli spagnoli n’ebbero abbastanza del “buco di culo del mondo”, la regione acquitrinosa, e lo stato illiberale della Louisiana tornò ai si di Napoleone che poi cedette agli Stati Uniti del Presidente Jefferson. Era un dicembre e New Orleans, il ramo più alto di tutto il roveto, rimaneva la sintesi perfetta di uno stato dimenticato da Dio. La fanghiglia, la melma, l’acquitrino sul quale galleggia è lo specchio di quello che è sempre stata, e chi l’ha abitata e la abita è marchiato come gli altri: siamo gli inutili, gli emarginati e gli ingombranti. Quello che non ci fece la povertà ce lo fecero le epidemie di febbre gialla, ma nonostante questo alla fine del secolo New Orleans era la quarta città degli Stati Uniti per numero di abitanti. Sotto la presidenza Lincoln, la Louisiana fu il sesto stato a proclamare la secessione dall’Unione, facendo di fatto scoppiare la guerra civile, ma fu anche la prima a cadere; come un bambino che vuol fare la guerra con una fionda. Ventiquattro mila neri si unirono alle Guardie Native del generale Butler già durante la presa di New Orleans. Quando le truppe dell’Unione lasciarono la città, i diritti civili emanati da Lincoln furono presi a calci nelle palle, facendo fare alla città un salto indietro di un secolo. Ma fu proprio in quel periodo, dove certe persone erano considerate animali o ancora meno di questi, che ebbe origine il jazz. Mio padre amava la musica jazz più di mia madre: Bix Beiderbecke, Fletcher

Henderson, Louis Armstrong ma soprattutto Duke Ellington. Fin da ragazzo era solito andare a Congo Square dove i neri si potevano riunire, l’unico luogo nel Sud in cui ciò era permesso, per mischiarsi a loro e ballare al ritmo delle percussioni. È storia che il jazz come lo conosciamo oggi prese forma nei bordelli, tra le puttane, le malattie virali, lo sperma, il sudore, il puzzo di tabacco e di whisky distillato a mano in qualche sottoscala lurido o tra i boschi delle paludi. Molti musicisti della prima ora si esibivano nel quartiere a luci rosse chiamato Storyville, dall’assessore Albert Story che confinò il vizio e tutto il marciume all’interno di quella zona. - «Ma che cazzo è?» – disse mio padre con in mano il disco dei The Original Dixieland Jazz Band, un’orchestra bianca di New Orleans che aveva inciso il primo disco di musica jazz. Il jazz era nero come la pece, nell’anima e nell’aspetto, eppure i primi ad avere un successo immediato e non solo negli Stati Uniti furono un gruppo di bianchi. Tale fu la loro popolarità che il termine dixieland finì per indicare lo stile di New Orleans suonato dai bianchi. Il tutto mentre Louis Armstrong sgobbava nei bordelli tra la merda e l’odore acre d’ascelle. - «Se ne sono andati a Chicago» – disse mio padre mettendo un disco di Henderson sul vecchio grammofono. Si riferiva ai grandi del jazz emigrati nelle grandi città per fare i soldi veri. «Ora hanno la fama, il successo, tra poco si dimenticheranno persino che sono neri». Nel 1918, mentre faceva la fila in polleria, conobbe mia madre ed il suo cuore si mise a suonare del buon jazz. Nel ‘20 nacqui io. Poi la crisi del ‘29 spazzò via tutto, ma il jazz sopravvisse quasi di nascosto. Durante la depressione, negli anni ‘30-‘34, il più grande era Duke Ellington, che mio padre aveva sentito suonare dal vivo a Storyville; comprò il suo disco e s’innamorò di nuovo.

* * * * *

3

Quando aprii gli occhi sentii un calore avvampare nel petto, le mani non erano più secche per la terra, ed i capelli ed il viso erano puliti. Tenevo gli occhi fissi sul soffitto e la schiena accomodata su un bel materasso morbido: mi sembrava di stare a galleggiare sulla spuma del mare. Richiusi gli occhi e feci un respiro profondo. Il cuscino odorava di fiori di campo e sapone di Marsiglia. Fuori c’era un buio impenetrabile. Respirai ancora, portando ossigeno in tutto il corpo cominciando a chiedermi dove fossi. Scostai le coperte, mi misi seduto sul bordo del letto e carezzai i vestiti puliti che indossavo. Sbottonai la camicia di qualche bottone e guardai il petto che era stato fasciato con cura. Una macchiolina di sangue puntellava la fasciatura altrimenti immacolata. Guardai fuori dalla finestra e intravidi un recinto di legno, sentii il verso di qualche capra. Andai alla porta stando attento a non fare troppo rumore. La aprii senza preoccuparmi di cosa avrei trovato dall’altra parte. Quando la porta fu completamente spalancata, la famiglia Montreau si voltò per guardarmi. Rimanemmo tutti fermi come statue di cera. La signora Montreau, Cécilia, smise di sciacquare i piatti sporchi, Jean corse accanto a lei e la prese per un lembo della gonna. Pierre rimase seduto a tavola assieme al padre Maurice, mentre Annabelle stava cercando d’attizzare il fuoco aggiungendo dei ramoscelli secchi per scaldare un recipiente di acqua. Maurice si alzò da tavola per venirmi incontro. - «Annabelle» – disse facendole un cenno. Annabelle si pulì le mani alla gonna lunga e si avvicinò al padre che le mise un braccio attorno alle spalle. La strinse a sé per darle un po’ di coraggio. - «Come ti senti?» – mi chiese lei in un buon inglese. Non risposi, non mi fidavo, non capivo. Maurice era l’uomo che avevo visto alla spiaggia, l’altro era Pierre. - «Non devi temere nulla» – disse ancora Annabelle. «Siamo amici. Mio padre e mio fratello ti hanno soccorso, ti abbiamo curato. Sei un soldato americano?». Li guardai ancora con sospetto accennando un sì con la testa. Pierre mi fissava, forse impaurito, ma faceva più paura lui a me. Cécilia disse qualcosa in se ad Annabelle che disse: - «Mia madre chiede se hai fame?».

Di nuovo non risposi, rimasi sulla porta della camera per osservare attentamente ogni loro mossa. Poi il piccolo Jean prese coraggio e venne dalla mia parte, mi tese la manina guardandomi dritto negli occhi, senza paura. - «Allez! Allez!» – disse. Gli diedi la mano e me la strinse forte. Mi portò verso la tavola e mi fece sedere. Sua madre Cécilia prese un piatto pulito e lo riempì di stufato. Me lo mise sotto gli occhi che ancora fumava. Il profumo saliva dal piatto fin dentro il mio naso; questo riuscì a placare la mia diffidenza. La bocca mi si cominciò a riempire di saliva, e ne dovetti deglutire un bel po’ prima di decidermi a prendere il cucchiaio e dare un primo assaggio. Pierre prese un tozzo di pane da una cesta e lo mise vicino al mio piatto. Maurice venne a sedersi di fronte a me, spalancando un sorriso rintanato sotto la folta barba. Mi guardava soddisfatto. Rallentai il ritmo. Disse qualcosa che non capii ma che prontamente Annabelle mi tradusse: - «Dice di non badare a lui, di mangiare che ne hai bisogno». Lo guardai e dissi «Mercì», l’unica parola che ci avevano insegnato all’addestramento assieme a “Je suis american!”. Finii il mio stufato e me ne fu versato dell’altro. Mangiai con voracità, spazzolai il piatto tanto da riuscire a specchiarmici dentro. Quell’ottimo pasto riuscì a rimettermi un po’ in sesto nonostante il petto mi fe ancora male. - «Non dovreste tenermi qui, è pericoloso per voi» – dissi prendendo un goccio d’acqua. Annabelle tradusse per tutta la famiglia. - «Non preoccuparti!» – rispose Annabelle – «Gli alleati stanno avanzando verso Parigi, la fine della guerra è vicina, i tedeschi si ritirano». La famiglia Montreau fu molto gentile, s’era trasferita a Grandcamp-Maisy scappando dalla loro casa di Caen, diversi chilometri ad est, capoluogo del dipartimento del Calvados e della regione della bassa Normandia. Maurice fece le presentazioni, poi mi raccontò che era un artigiano, figlio di pastori. Il figlio Pierre dopo cena mi aiutò a rimettermi a letto, mentre Cécilia venne a cambiarmi la fasciatura. Il buco sul petto era ancora d’un rosso vivo, ma almeno era stato disinfettato. Cercai ancora il foro d’uscita ma non riuscivo a muovermi senza sentire qualche fitta. - «No no no» – disse Cécilia afferrandomi per il braccio.

Quando finì di cambiare le bende, mi fece un sorriso materno. La ringraziai. Lei mi carezzò la fronte ed uscì dalla stanza. Guardai fuori e pensai a quanto fossi lontano da casa. Pensai a mia madre, ai miei amici, ai volti dei soldati rimasti a marcire sulla spiaggia di Omaha, al sangue, agli spari. - «Posso entrare?» – disse Annabelle in piedi vicino alla porta. Le feci cenno che poteva avvicinarsi. Prese una sedia e la trascinò vicino al letto. - «Come stai?». - «Un po’ meglio.» – dissi – «Grazie per quello che state facendo». Sorrise. Tornai a guardare fuori dalla finestra. - «Annabelle, se ti faccio una domanda mi rispondi sinceramente?». - «Sì certo» – rispose subito. - «Il proiettile è ancora dentro?». Annabelle non disse nulla, abbassò solamente lo sguardo ma tanto mi bastò per ottenere una risposta. Mi carezzai il petto, chiusi gli occhi e nella mia mente rividi i momenti dello sbarco, quegli attimi interminabili d’inferno. Il rumore dello scafo del nostro mezzo da sbarco anfibio s’infrangeva ritmicamente nell’acqua, l’aria s’era rinfrescata e sulla faccia ci arrivavano raffiche di spruzzi salati. Jesse recitava di continuo il Padre Nostro, ed il capitano in comando ci urlava continuamente di fare il nostro dovere, di non avere paura. Poi sentimmo quel primo sparo: un fischio tagliente come una lama, una striscia rossa e gialla che segnava l’oscurità come un pennarello su un pezzo di carta. Dopo di quello, le prime raffiche di mitragliatrice tedesca che aveva un rumore diverso dalle nostre. Poi i sibili che si moltiplicarono, il cielo s’illuminò a giorno, e arrivarono le grida dei soldati sulle altre imbarcazioni che venivano colpiti. Il trillo dei proiettili che rimbalzavano sulle nostre barche facendoci saltare ogni volta. Poi ci fu il nostro primo morto a bordo: Neil Hammond del Maine. Neil venne raggiunto da un dardo di fuoco che gli traò la gola da parte a parte. Eravamo tutti lì a guardarlo impietriti mentre si accasciava a terra con una

galleria in mezzo al collo. Era il primo morto ammazzato che vedevo in vita mia. Il sangue s’allargò copioso, ed io come gli altri cercammo di non calpestarlo. La spiaggia ormai era vicina e le raffiche aumentarono. La nostra barca fu la terza a spiaggiarsi, alcune vennero colpite e affondate ancora in mare. Appena il portellone venne abbassato, la compagnia fu investita dalle raffiche di mitragliatrice: eravamo scoperti e indifesi come dei fucilati durante un’esecuzione. Jim Brice, Ricky Newman e Kevin Liotta ci fecero da scudo umano, rimanendo uccisi senza neanche avere la soddisfazione di mettere un piede a terra. Scattarono tutti fuori, spingendosi e cercando di ripararsi l’uno col corpo dell’altro. Io scavalcai di lato volendo evitare la brutta fine degli altri. Saltai in acqua con Jesse che mi si era incollato dietro. Cominciammo a correre veloci verso la riva, qualche proiettile ci sfiorava la faccia, mentre le prime bombe cominciavano a far saltare in aria sabbia, gambe e braccia. Jesse mi aveva preso per la tasca posteriore dei pantaloni ed io gli gridavo «Stai basso! Stai basso!». Le bombe esplodevano con un colpo tozzo, ovattato dalla sabbia, ma con un suono ugualmente tremendo perché accompagnato da quello strascicato della carne che si dilaniava e si strappava dal resto del corpo. Dalle postazioni tedesche piazzate in alto, arrivavano continuamente colpi di mitra ed il fischiare lento delle bombe a mano. La spiaggia era piena di trappole, bombe seppellite sotto la sabbia e filo spinato. Ero riuscito ad arrivare alla fine della spiaggia e non avevo ancora sparato un colpo. Mi guardai attorno e vidi che in pochi eravamo riusciti ad arrivare così lontano… Avevo paura; dove stavo andando di preciso? E poi una volta arrivato cosa avrei dovuto fare? A chi dovevo sparare? Per quanto ancora avrei dovuto spingermi avanti? Mentre correvo sulla terra battuta, con i pantaloni che frusciavano contro l’erba bassa, capii di essere arrivato molto vicino alle postazioni tedesche; riuscivo addirittura a sentirli quando ricaricavano. Poi successe che una di quelle scie rosse e gialle che mi scalzavano continuamente, venne da me per prendermi in pieno petto. Fui sbalzato indietro come se fossi stato spinto con forza. Precipitai con la schiena sull’erba facendo un tonfo sordo. I miei occhi guardarono il cielo, il torace pulsava e mi bruciava dentro; eppure respiravo ancora, eppure sentivo Jesse che mi chiamava: «Will! Non morire Will!». Mi voltai a guardarlo. Stava sopra di me e mi teneva per il bavero della giacca. L’elmetto gli cadeva sugli occhi, il suo viso era tutto sporco di terra. Provai a dirgli “Stai giù!” ma non riuscii a spingere fuori dalla gola nemmeno un fiato. Jesse fu colpito da una pallottola che gli traò la testa da parte a parte. Pezzi di cervello gli schizzarono fuori spinti dal proiettile. Perse un bicchiere di sangue dalla bocca prima di cadere faccia avanti sul mio petto. «Jesse! Jesse!», gridai. Quando sentii che perdevo i sensi ebbi solo

il tempo per pensare: “Allora è così che si muore?”. - «William!» – disse Annabelle. Mi voltai a guardarla – «A cosa pensi?». - «Niente» – risposi. - «Di dove sei?». - «New Orleans. Delta del Mississipi. I miei hanno una casa molto simile a questa». - «Ti manca casa tua?» – mi domandò seria Annabelle allungando una mano e stringendola con la mia. - «Mai come adesso» – risposi voltandomi a guardarla – «Dove hai imparato l’inglese?». - «A scuola». - «Lo parli bene» – dissi sforzando un sorriso. Annabelle aveva un viso molto dolce e due occhietti di un colore profondo. Le labbra erano identiche a quelle di sua madre, mentre i capelli neri e forti li aveva ereditati da suo padre. Mi diede una specie d’olio da mettere sulla ferita: un unguento oleoso che effondeva un cattivo odore di cera per pavimenti. Le sorrisi disgustato e lei sorrise complice. Aveva i capelli neri come la pece, legati in una coda; pensai che se li avesse sciolti sarebbe stato un bel problema. Vederla mi metteva sempre di buon umore. Guardai fuori dalla finestra: quella giornata ci regalava un sole timido e non troppo caldo. - «Grazie per quello che state facendo» – dissi piano. - «Non dirlo nemmeno» – rispose aprendo quella bocca fantastica con un sorriso perfetto. Avrei tanto voluto aggrapparmici sopra. Le guardai le ginocchia nude. Il cuore accelerò un momento e subito dopo frenò bruscamente. - «Ti va di fare due i?» – mi chiese – «Credo ti farebbe bene. Ti ho portato un paio di scarpe. Provale». Annuii ed Annabelle uscì sorridendomi dalla stanza. Mi vestii velocemente. Le

scarpe mi andavano giuste, nemmeno fossero state le mie. Sistemai i capelli e attraversai la stanza. Salutai Cécilia e raggiunsi fuori Annabelle. Mi guardò subito i piedi e sorrise contenta. Camminammo l’uno accanto all’altra in direzione di un piccolo sentiero che si stringeva come il vitino di una donna. Per un momento mi sembrò di essere tornato a casa, quando da piccolo io e Madison correvamo verso il Mississippi. Facevo girare quelle gambette secche il più velocemente possibile ma questo non bastava per starle dietro. Lei è sempre stata più veloce di me. Il vento che fischiava tra le fronde faceva un rumore terribile, come uno stormo d’uccelli che ti scende in picchiata dentro le orecchie. Annabelle infilò le mani nei capelli e li tirò tutti indietro. - «Come va?» – disse. - «Bene, per adesso» – le risposi. Procedevo lentamente misurando ogni o come se camminassi su un filo. Mi aspettavo che arrivasse una fitta da un momento all’altro, invece niente. L’aria fresca entrandomi nei polmoni mi fece bene. Annabelle guardava avanti, con la sua bocca contratta ed i suoi capelli che si muovevano nel vento come una fiamma. Si voltò a guardare dalla mia parte, sorrise sedandomi tutti i dolori. - «Vuoi fermarti un momento? Sei stanco?» – si informò. Le risposi con un cenno del mento. - «Va bene, mettiamoci su quel tronco» – disse allora Annabelle andomi vicino. Ci sedemmo e lei mi carezzò dolcemente una mano. Sentii subito qualcosa agitarsi dentro la pancia. Mi spostai con la testa e senza farmene accorgere allungai il naso dalle parti dei suoi capelli. Annusai forte. Rubai gran parte del loro profumo senza lasciarne niente. Ci guardammo di nuovo, lei spinse i capelli indietro e poi tutti dall’altro lato. Increspò le labbra in una smorfia e allacciò la braccia sul petto. - «È un posto bellissimo» – dissi. - «Sì, è vero».

Mi guardai intorno, lasciai andare gli occhi mentre Annabelle si stringeva nelle spalle. Sentivo la maglietta appiccicata alla schiena e la bocca asciutta. - «Posso farti una domanda Will?». - «Certo». - «Credi che certi errori riusciremo a perdonarceli?» – chiese Annabelle con una certa tristezza nella voce. - «Non lo so!» – le risposi mentre pensavo a com’era morto Jesse – «Non è compito nostro decidere certe cose». - «Lo so, ma questo non mi aiuta» – concluse Annabelle sistemandosi i capelli dietro le orecchie. Rimanemmo in silenzio, ognuno impegnato a fare a cazzotti col proprio demone; io non conoscevo ancora il suo. Annabelle aveva la mascella rigida. I suoi occhi cominciarono ad incelofanarsi ed a tremare come la fiammella di una candela. Io non sapevo che dire. La sua faccia era tutta in disordine, come il mio stomaco. Avevamo entrambi il cuore in affanno ed era evidente quanto fossimo vicini l’uno all’altra. Le misi un braccio intorno alle spalle e lei si lasciò abbracciare. La strinsi e la accarezzai. Si asciugò gli occhi e mi mise un braccio attorno alla vita. - «Raccontami qualcosa di te» – disse cercando di cambiare argomento. - «Non c’è niente d’interessante da dire» – le risposi asciutto. - «Hai avuto molta paura?». - «Non riuscirei a farti capire quanta». Non mi vergognavo di ammetterlo: me lo si poteva comunque leggere in faccia. Annabelle mise la testa contro la mia spalla ed io affondai il naso dentro i suoi capelli. La sua piccola testa odorava di pulito. Senza pensare ci posai sopra le labbra e la strinsi appena più forte. - «Torniamo a casa?» – mi domandò.

- «Va bene» – le risposi mestamente. Ci staccammo da quell’abbraccio e tornammo indietro, ognuno concentrato sui propri pensieri, separati. Avrei tanto voluto tenerla vicino a me. Quella notte dormii poco per i forti dolori al petto e quando riuscii a prendere sonno, i sogni s’affollavano delle facce dei morti di Omaha, e di quella di Jesse che con il cranio sfondato mi chiedeva di riportarlo a casa. Quando aprii gli occhi fuori non era ancora giorno. Mi alzai dal letto ed andai alla finestra. C’era il silenzio assoluto e mi sembrava la cosa più bella del mondo. Andai verso la porta, la aprii e attraversai il soggiorno per andare verso la brocca con l’acqua. Il camino era quasi spento ma faceva ancora luce. Cercai un bicchiere e lo riempii d’acqua fino all’orlo. Mi era rimasta la sgradevole sensazione d’avere ancora la terra in bocca, tra i denti, sulle gengive; vuotai il bicchiere d’un sorso. Andavo a posarlo nel lavandino quando sentii una porta aprirsi alle mie spalle; era Maurice. Gli feci un cenno con la testa, lui mi sorrise. Andò verso il mobile grande per accendere una vecchia lampada ad olio. Cercò qualcosa nel piccolo stanzino poi venne da me con la lampada in una mano ed i miei scarponi militari nell’altra. Me li porse: erano stati puliti e fatti tornare come nuovi. - «Jean!» – disse tutto fiero. Il piccolo s’era preso l’impegno di pulire l’unico paio di scarpe che mi erano rimaste, strofinando via lo sporco e togliendo dalle fessure della suola la terra ed i grumi di sangue. Aveva fatto sparire tutto il marcio con pochi colpi di spazzola. Maurice mi fece cenno di seguirlo alla finestra e m’indicò la stalla. - «Allez!» – disse. Gli annuii con la testa mentre infilavo gli scarponi. - «Très bien». Mi aprì la porta ed uscimmo fuori. Il cielo era sgombro da nuvole e la luce del sole solo una finissima striscia all’orizzonte. Accompagnai Maurice fino alla stalla. Lo guardai prendere del fieno e lanciarlo verso le due capre che possedeva, poi rimestò il mangime del maiale. Maurice prese uno sgabellino ed entrò nel recinto delle capre. Andò a piazzarsi vicino alla più grassa, la prese con

forza per una zampa e la tirò a sé. - «Will» – disse indicandomi qualcosa alle mie spalle. Voleva che gli assi un secchio. Lo presi e gli indicai se fosse quello che voleva. - «Oui, mercì» – disse. Munse la capra raccogliendo un bel po’ di latte, poi mi fece cenno di avvicinarmi. Mi mostrò come fare, cercando di farsi capire solo con i gesti, infine mi lasciò il suo posto. - «Oh, no no» – dissi; ma Maurice mi prese per una mano costringendomi a provare. Impugnai le mammelle: erano mollicce, come unte, viscose. Quando le strizzai non uscì quasi niente; visto fare a Maurice pareva molto più facile. - «No Will, regarde-moi» – disse. I suoi movimenti erano decisi, secchi, quasi violenti, ma il risultato era ottimale. Provai ancora ed andò subito molto meglio. Dopo aver riempito mezzo secchio tornammo in casa. Il camino era di nuovo vivo e Cécilia intenta a sistemare la cucina. Maurice le diede un bacio e le porse il secchio. Lei lo riversò in un altro catino e lo mise a scaldare. - «Comment ça va?» – mi chiese Cécilia carezzandomi un braccio. Non capii. - «Ça va, ça va…» – le rispose Maurice dandomi una pacca sulla spalla. Andai a sedere guardando i coniugi Montreau scherzare e darsi piccoli baci; la guerra sembrava stesse continuando da un’altra parte, su un altro continente, su un altro pianeta, lontana milioni di chilometri. Annabelle scese le scale che ancora si sistemava i capelli. - «Bonjour» – disse. Mi sorrise e venne subito a chiedermi come stavo, le risposi meglio, così mi regalò un bel sorriso che mi fece bene al cuore. Maurice le disse qualcosa e lei guardandomi si mise a ridere. - «Cosa ha detto?» – le chiesi. - «Che oggi hai imparato a mungere una capra».

Sorrisi anch’io con lei. Maurice mi strizzò l’occhio e tornò ad impastare farina, acqua ed uova. Annabelle tolse il latte dal fuoco e lo versò in cinque tazze ed un bicchiere, poi si avvicinò alle scale e chiamò i fratelli. Pierre scese per primo e si sedette subito al tavolo. - «Bonjour Will» – disse. - «Bonjour Pierre» – risposi. Maurice e Cécilia si voltarono per guardarmi, Annabelle e Pierre si scambiarono uno sguardo stupito. Mi sentii in imbarazzo ed arrossii. - «Très bien, monsieur William O’Neill, très bien» – disse Annabelle sorridendomi a tutta bocca e facendo “Ok” con la mano. Risero tutti con molto gusto e subito mi unii a loro. Jean scese le scale ancora assonnato, probabilmente svegliato dalle risate, si fermò sul penultimo scalino per guardarci. I Montreau ridevano ancora quando mostrai a Jean che indossavo gli scarponi. Fece un bel sorriso timido ma soddisfatto, corse a prendere la tazza di latte dalle mani della sorella Annabelle e si sedette a tavola, ma sempre senza guardarmi. - «Will» – disse Annabelle porgendomi il bicchiere col latte. Andai a prenderlo. Le sorrisi mentre lo stringevo tra le mani. ai accanto a Jean e mi abbassai per sussurrargli all’orecchio l’unica cosa che sapevo dire: - «Mercì Jean». Poi gli carezzai la testa tornando a sedere al mio posto. Credo che gli bastò solo quello. Maurice e Pierre uscirono con i fucili in cerca di qualcosa da mangiare. Io ciondolai per casa fino a metà mattina. Quando il sole fu più alto, uscii per fare due i. Annabelle volle venire con me e mi accompagnò verso un boschetto oltre il quale c’era la scogliera. Ci dovemmo fermare un paio di volte per via dei dolori al petto e del fiato corto. Annabelle fu molto carina e premurosa nel lasciarmi appoggiare a lei, o sostenermi quando camminavamo. Arrivammo fino in fondo, oltreammo il boschetto e mi fermai a guardare il mare e le sue onde. - «Quanto dista la spiaggia dove mi hanno trovato tuo padre e Pierre?» – chiesi ad Annabelle.

- «Qualche chilometro, perché?». - «Cosa ci facevano tuo padre ed i tuoi fratelli laggiù?». - «Papà disse d’aver fatto un sogno». - «Quale sogno?» – dissi sorpreso. - «Non lo so, non disse altro, e quella mattina chiese a Pierre di andare con lui. Quando io e mamma li vedemmo tornare tu eri con loro, svenuto ma vivo». Rimasi in silenzio ed Annabelle non aggiunse nient’altro. Il vento ci spazzava la faccia, il sole ci scaldava i capelli. Guardai Annabelle che mi sorrideva e le ricambiai il sorriso. - «Somigli un poco a Robert» – disse. - «Chi è Robert?». Annabelle tornò a guardare il mare senza rispondermi, chiuse gli occhi e prese un respiro carico di salmastro. - «Quando starai meglio ti porterò a conoscerlo». Fummo interrotti da Jean che gridava ed agitava le braccia mentre ci correva incontro. Scattai in piedi spaventato, ma Annabelle venne a mettermi una mano sulla spalla per calmarmi. - «Sta dicendo di tornare a casa, mio padre ha preso due conigli belli grossi».

* * * * *

4

La carne di coniglio era tenerissima ed il pranzo favoloso. Maurice raccontò di

come li aveva scovati, ed Annabelle sedutamisi accanto, traduceva tutto, come sempre. Mi fecero domande sulla mia famiglia, su New Orleans, sull’America. Gli raccontai quello che sapevo, poco per la verità. Poi parlai di mia madre, di mio padre e di mio fratello Scott. Raccontai loro di quel pomeriggio quando vidi arrivare il militare con la cartolina in mano. Parlai loro di Madison, e mentre lo facevo capii quanto mi mancasse il suono della sua chitarra o la vista del Mississippi dalla sua veranda. Dopo pranzo Maurice uscì di casa assieme a Jean per andare a custodire le bestie, Pierre invece andò assieme alla madre nell’orto dietro casa. Annabelle rimase con me. Andammo in camera da letto e mi controllò le bende. Non appena allentò la fasciatura, la ferita cominciò a farmi molto male. Presi fuoco in pochi minuti. Annabelle andò a prendere un panno umido e me lo poggiò sulla fronte. Mi addormentai.

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La mia Madison ha sempre preferito il blues, le “note blu”, quelle che ti prendono a cazzotti sulla gola, a differenza del jazz che ai tempi della crisi era considerata “la musica per non pensare”. Madison amava Bessie Smith tra tutte, e provava ad imitarne la voce senza però riuscirci. - «Falla finita Madison!» – le gridava mio padre affacciandosi ad una finestra di casa – «Sembri un gatto col mal di pancia!». Poi sbatteva le mani sul davanzale e tornava dentro ad ascoltare l’orchestra di Duke Ellington che suonava un tipo di musica da ballo chiamata “jungle music”; dove per “jungle” s’intendeva esotismo e erotismo impastati insieme come acqua e farina. - «Non è male nemmeno “Ma” Rainey» – dissi. Madison smise subito di suonare la sua sei corde e mi guardò di traverso. - «Come Bessie non c’è nessuna!». Bessie Smith e “Ma” Rainey erano le blues singer che avevano portato il blues

sotto le luci della ribalta. Si esibivano sempre coperte di gioielli e piume di struzzo, regalando a noi poveracci che le ascoltavamo, la speranza di un futuro migliore. Loro, infatti, venivano dal nostro stesso cassonetto, eppure ce l’avevano fatta, lasciandosi alle spalle tutta la miseria e la disperazione. Come loro anche Clara Smith, Sippie Wallace, Sara Martin, Bertha “Chippie” Hill, delle vere dee, dalla voce armoniosa e piena di dolore. Il ‘29 però mise in ginocchio anche loro, risbattendole nella polvere da dove erano venute. - «Il jazz fa schifo!» – disse Madison cantandolo come strofa di una canzone. - «Augurati che mio padre non ti senta». - «Non m’importa». Madison era sempre definitiva, ma in quel caso forse aveva ragione. Il blues era morto e sepolto, ed il jazz faceva la fame. A salvare il bilancio di alcuni tra i musicisti migliori ci pensarono le incisioni di musica commerciale, solo lontana parente del jazz tradizionale che conosceva mio padre. I nomi dei gruppi cambiavano ma gli esecutori erano sempre gli stessi: Tommy e Jimmy Dorsey, Benny Goodman, Red Nichols, Glenn Miller, Joe Venuti, Gene Krupa e Eddie Lang. Molti dei migliori musicisti neri di jazz, abbandonarono la professione per diventare camionisti, artisti di piazza o semplici bottegai. Mio padre intanto continuava a lavorare nei campi e ad allevare bestiame, ma per campare dovevamo lo stesso usufruire dei sussidi statali. Tutte le sere ogni famiglia americana si chiedeva se il giorno dopo avrebbe mangiato, o per quanto ancora poteva andare avanti così. Le “blu notes” di Madison facevano male come bastonate sulla schiena; nessuno voleva più sentire canzoni che parlassero di dolore e sofferenza, ce n’era già troppa per le strade e dentro le case, ed il blu era bandito in quanto colore della tristezza e della malinconia. Il blues era la musica del diavolo ed il vecchio Red lo sapeva bene: i suoi occhi erano vuoti come la sua pancia, e Madison dentro i suoi, nascondeva lo stesso triste sgomento.

* * *

Mi svegliai che era sera tardi, i Montreau avevano già cenato ma era pronto un piatto per me; la loro generosità mi commuoveva. Mangiai senza alzarmi dal letto. Annabelle rimase vicino a me per tutto il tempo. - «Devo avvertire qualcuno che sono qui!» – dissi – «Che sono vivo». - «Non devi preoccuparti. Papà ha contatti con la resistenza se. Quando sarà tutto finito manderanno qualcuno a prenderti, per adesso devi stare qui e riprenderti. Il viaggio fino in America è lungo». Sorrise. - «Tuo padre ha contatti con la resistenza?» – chiesi sorpreso. - «Sì. Grazie a Robert». - «Chi è Robert?» – insistetti nonostante pronunciando quel nome Annabelle si fosse subito rabbuiata. - «Robert è mio fratello maggiore». - «È nella resistenza se?» – chiesi ancora. Annabelle non mi rispose. Prese il piatto dalle mie mani ed alzandosi chiamò il padre nell’altra stanza. - «Annabelle…» - dissi prendendole un polso – «Devi portarmi da tuo fratello, lui può farmi arrivare al più vicino comando americano». - «William!» – disse Maurice affacciandosi dentro la camera con la testa – «Comment ça va?». - «Ha detto come stai» – disse Annabelle slegandosi dalla mia mano. - «Ho capito» – risposi cercandole lo sguardo – «Chiedi a tuo padre di Robert. Digli se può farlo venire qui o può portarmi da lui». Quando Maurice sentì pronunciare il nome del figlio maggiore, aggrottò le sopracciglia, chiuse la porta e andò deciso verso Annabelle per farsi spiegare. - «Nanà…» – disse serio – «Quesq’il e?».

Annabelle riferì al padre della nostra conversazione, intanto io aspettavo con gli occhi desiderosi di una risposta qualsiasi, ma ad ogni parola pronunciata da Annabelle, il volto di Maurice mutava un poco. I suoi occhi si spensero lentamente e la sua barba sembrò sbiancare. Maurice carezzò piano il braccio di Annabelle, le sussurrò qualcosa e poi uscì dalla stanza. - «Che succede?» – dissi confuso. Annabelle andò verso la porta. - «Domani ti porto da Robert» – disse asciutta prima di uscire anche lei dalla stanza. Ero contento, direi euforico. Non riuscii a dormire che qualche ora; per il resto del tempo rimasi con gli occhi rivolti al soffitto, pensando alla possibilità di tornare a casa, a New Orleans. Se Robert era della stessa pasta degli altri Montreau, avrebbe fatto tutto il possibile per portarmi al più vicino comando americano, assicurandosi che ci arrivassi senza rischi. Ero felice, presto sarei tornato alla mia vita, al mio fiume, da Madison.

* * *

- «Maddy!» – gridavo dalla strada – «Maddy! Maddy!», - «Falla finita Will!» – disse mio padre da dentro casa. S’era buttato sulla poltrona a fiori con un bicchiere di bourbon in mano, ed ascoltava Satin Doll. Avevo tredici anni ed il vecchio Duke era sempre il migliore. Andai a bussare alla porta di casa di Madison. Nessuno venne ad aprire, allora girai intorno alla casa fino alla finestra di camera sua. Mi alzai sulle punte e sbirciai dentro. Madison se ne stava per terra, con un braccio sotto la testa e le gambe accavallate. Cantava St. Louis Blues di Bessie Smith, intanto si rastrellava i capelli con una mano. La sua voce era funebre. Con gli anni iniziò a lasciarsi i capelli più lunghi; questi le cadevano di continuo sulla faccia e lei puntualmente li ricacciava indietro con una zampata. Con la chitarra era diventata molto brava: il sabato cantava nei bar per racimolare qualche spicciolo. - «Ehi!» – dissi piano. Madison si tirò su spaventata. Indossava solo una maglietta e sotto le mutandine.

- «Che diavolo fai?» – disse. Venne alla finestra e la chiuse bruscamente, poi tirò le tende. Mise su un disco della vecchia Bessie ed alzò il volume al massimo. La voce roca di Bessie picchiava sul vetro e mi fece pensare a quella volta che io e Madison la sentimmo cantare dal vivo, giù al Mississippi Club. Era grassottella ma carina, ed indossava un vestitino nero con un grande fiocco rosso a pallini bianchi proprio in mezzo alla pancia. Mentre cantava ondeggiava sui fianchi larghi come una nave nella tempesta. Era buffa ma incantevole. Povera Bessie, che fine ingloriosa le capitò: coinvolta in un incidente stradale nel ‘37, morì dissanguata dopo essere stata rifiutata da tre ospedali. La musica s’interruppe bruscamente. Pochi secondi dopo Madison uscì dalla porta sul retro. - «Sei un guardone!» – disse. Mi alzai e pulii i pantaloni. Lei ò oltre. - «Dove stai andando?» – dissi. - «Devo fare delle cose». - «Ah ok, va bene» – risposi accodandomi a lei. - «Non venire» – fece secca – «Vado da sola». Girò l’angolo e sparì. Mi grattai la testa e me ne tornai a casa. Mio padre si era addormentato col bicchiere vuoto infilato tra le cosce. I Washingtonians di Duke Ellington suonavano ancora. Tolsi il disco e lo rimisi nella sua custodia di cartone. In copertina il vecchio Duke sorrideva dietro quei baffetti tagliati per bene a misura, e quel completo chiaro che lo faceva così di classe. Mio padre lo amava come un Dio. Lo avevano già deluso tutti quanti, tutti tranne il vecchio Duke; l’America, il Presidente Hoover e Coolidge prima di lui ed anche Harding ancora prima. Infine mia madre, il destino e Nostro Signore Gesù Cristo. In due anni aveva perso tutto, aveva un’ipoteca sulla casa e odiava tutto tranne il jazz; ma solo perché quello era ancora gratis. Quel fatidico 24 ottobre del ‘29 era un giovedì. Le banche avevano improvvisamente ritirato dal mercato diciotto milioni di dollari chiedendone poi la restituzione. Eppure dieci anni prima la grande guerra aveva portato prosperità e progresso, tanto che anche New Orleans aveva tirato fuori la testa dal suo vaso di piscio. Poi ci fu il crollo di Wall Street ed il panico dei piccoli risparmiatori che videro evaporare i risparmi di una vita alla velocità di una scoreggia; era rimasta solo la puzza. Nel ‘30 e nel ‘31 ci fu la grave recessione, tutti avevano debiti e camminavano sull’orlo del baratro finanziario. I borghesi diventarono

rapidamente membri del ceto medio, gli abbienti disgraziati, i disgraziati morti di fame. Quando quel pomeriggio del ‘33 Madison uscì per fare le sue cose, suo padre si sparò in bocca col fucile da caccia. Il cervello schizzò sulla parete del bagno, la mandibola quasi gli si staccò per il contraccolpo, ed il cranio si aprì come una scatoletta di tonno. Durante il suo discorso d’insediamento tenutosi il 4 Marzo del 1933, riferendosi alla Grande Depressione, il neo eletto Presidente Roosevelt disse: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa». Mio padre si alzò dalla sua poltrona a fiori e spense la radio. Ne aveva sentite fin troppe per farsi fregare ancora. - «Non mi piace quest’uomo» – disse amaro – «Speriamo di togliercelo presto dalle scatole». Mentre il democratico Roosevelt vinceva facilmente le presidenziali del ‘36, nella mia famiglia arrivò il secondogenito O’Neill, a cui venne dato il nome di Scott Duke. Un bel bimbo dai capelli nerissimi e le braccia troppo lunghe rispetto al resto del corpo. Madison sembrava essersi definitivamente ripresa dalla morte del padre, e con lei anche sua madre. Le cose andavano un po’ meglio.

* * *

Il mattino dopo Annabelle venne a svegliarmi con un bicchiere di latte di capra. La ringrazia e lo buttai giù d’un fiato. Mentre mi vestivo le chiesi chi mi avrebbe accompagnato da Robert. - «Io» – disse. La guardai perplesso. - «Tu? Non è più prudente se mi accompagna tuo padre o al massimo Pierre?». - «Andiamo» – disse soltanto, ed uscii dalla stanza. L’aria era fresca, il vento tirava a singhiozzi e ti prendeva a schiaffi la faccia. C’incamminammo in direzione del boschetto dov’eravamo stati il giorno prima.

Lo scansammo ed andammo in direzione opposta. Fiancheggiammo la costa. Annabelle tracciava la rotta mentre io le arrancavo dietro. - «Ma tuo fratello dobbiamo incontrarlo qui?» – dissi col fiato rotto dalla fatica – «Chi lo ha avvisato del nostro arrivo?». Annabelle non rispose a nessuna domanda. Continuava ad andare come un carrozza senza cocchiere. Il cielo era azzurro, chiazzato da nuvole grigie, e all’orizzonte si vedevano cumuli minacciosi che sembravano essere gonfi d’acqua come spugne. Il vento cominciò a tirare con più intensità. Proseguimmo per un tratto, fino a quanto Annabelle si voltò per vedere se ce la facevo. - «Manca ancora molto?» – le dissi annaspando. - «No» – disse con i capelli che le coprivano la faccia – «Siamo diretti là. A quella punta». Il suo dito indicava una scogliera a picco sul mare. La guardai di traverso. Continuavo a non capire. - «L’appuntamento è là?» – chiesi, ma Annabelle per l’ennesima volta non rispose. Quando fummo vicini alla punta della scogliera, vidi un masso grezzo spuntare dalla terra. Mi tenevo la mano sul petto seguendo Annabelle come un cane. Lei fece il giro della pietra e si fermò immobile a contemplarla. Alzò gli occhi incrociandoli con i miei. Le andai accanto e guardai.

ROBERT MONTREAU 14.5.1920 – 16.5.1943

Cercai lo sguardo di Annabelle senza trovarlo: s’era voltata a guardare il mare, con il vento che le scompigliava i capelli. Mi lasciai andare per terra, stanco, sconfitto, di nuovo. Mentre riprendevo fiato, Annabelle venne a sedersi vicina. Si sistemò i capelli e mi raccontò la storia di suo fratello Robert. La sua voce si

mischiava al rumore del mare in risacca. Quando, nell’estate del 1942, la situazione a Caen si fece difficile per tutti, Maurice trasferì immediatamente la famiglia alla fattoria di Grandcamp-Maisy, al sicuro. Robert, però, mostrò subito evidenti segni d’insofferenza: tacciava spesso il padre di vigliaccheria, ma a parlare era il giovane e non il padre di famiglia. Nonostante il volere contrario, Maurice costrinse Robert a seguire il resto della famiglia a Grandcamp-Maisy. Robert resistette alla fattoria per pochissimo tempo; un giorno incontrò un amico di scuola che s’era unito alla resistenza se. Quando tornò a casa era deciso ad unirsi a loro per onore della patria. Maurice si arrabbiò talmente tanto che gli proibì di allontanarsi da casa a suon di schiaffi. Ogni sera discutevano, alzavano la voce, si accapigliavano, ma Robert era sempre più deciso ad andare. Si presentò a diversi partigiani si, fece loro piccoli favori come comprare viveri o far avere loro coperte e vestiti. In cambio ottenne che alcuni di questi andarono a parlare con Maurice tentando di convincerlo a lasciarlo unire a loro, ma lui li respinse ogni volta. Una notte, dopo l’ennesima discussione, Robert scappò di casa. Quando la mattina seguente trovarono una lettera di Robert, Maurice non disse nulla, né tentò di andarselo a riprendere: non poteva abbandonare moglie e figli. Decise quindi di confidare nel destino ed in Nostro Signore, aspettando a GrandcampMaisy il ritorno del suo primogenito. Era un mattino di maggio, il sole cadeva a picco ed il cielo era sgombro da nuvole. Quello sembrava essere un buon giorno. Maurice rovistava nella terra con le mani nude quando vide un piccolo commando spuntare da dietro la collina. Non erano tedeschi. Maurice gli andò incontro correndo per evitare che Cécilia vedesse. Il cuore gli stava avanti di un paio di metri. Quando fu abbastanza vicino, vide che tre giovani trasportavano un corpo su una lettiga. Sotto un telo sporco c’era il corpo freddo di Robert. Maurice con gli occhi lucidi ringraziò i tre per averglielo riportato a casa, poi se lo caricò sulle spalle e lo portò fino a quella scogliera. Scavò una tomba con le proprie mani, spezzandosi le unghie, ferendosi le dita. Fece un’ultima carezza sul volto di suo figlio Robert, e piangendo disperato lo ricoprì di terra. Non disse niente a nessuno, nemmeno a Cécilia. Annabelle fu la sola a capire che qualcosa sul volto di suo padre era come morto per sempre. Un pomeriggio lo seguì di nascosto e quando lo vide sedersi in quel punto della costa, lo raggiunse. Fu allora che Annabelle scoprì cos’era successo. S’abbracciarono stretti e piansero a lungo tutte le lacrime che avevano. Infine si fecero la promessa di non dire niente agli altri della famiglia, che il tempo avrebbe provveduto a tutto. Maurice ed Annabelle erano i soli a

conoscere la verità. Maurice conficcò quella grossa pietra nel terreno, ed Annabelle c’incise sopra i caratteri. Rimasi immobile ed in silenzio fino a quando Annabelle non ebbe finito di raccontare. Non versò nemmeno una lacrima; s’era abituata a comprimere il dolore in fondo allo stomaco, come aveva fatto anche Maurice. - «Quando starai meglio» – disse – «mio padre andrà a cercare alcuni degli amici di Robert e chiederà loro di scortarti fino a qualche accampamento americano, prima però vuole che tu ti rimetta completamente». - «Perché dici che somiglio a Robert?» – chiesi. - «Avete nello sguardo la stessa malinconia». Non trovai nient’altro da dire. Ci fermammo uno dentro gli occhi dell’altra, cercando nell’anima qualcosa da prenderci e qualcosa da darci reciprocamente. - «Ora torniamo indietro» – disse alzandosi. Il vento aveva smesso di soffiare, le nuvole avevano rallentato il loro aggio. Sentimmo come un rumore di tamburi arrivare da lontano assieme a dei nuvoli minacciosi. Forse avrebbe piovuto. Forse. ai il pomeriggio a letto, cercando di dormire quello che non avevo dormito la sera prima. Mi rigirai un paio di volte, pensando a mille cose tutte insieme. Pensai a Robert che avrebbe avuto la mia stessa età ed invece era morto combattendo con onore. Pensai a Madison, provandone a ricordare la voce. Poi chissà perché pensai a Caroline ed a suo nonno Oregon.

* * * * *

5

Caroline aveva un bel viso, una bocca carnosa e dei denti perfetti. Era mezza afro-americana e mezza olandese. Viveva con il nonno Oregon, un nero che aveva avuto cinque mogli e le aveva consumate tutte e cinque. Caroline mi piaceva molto. Lavorava nella bottega di generi alimentari del nonno. Quando le parlai la prima volta mi si accese una luce dentro, da qualche parte. Oregon stava seduto in veranda a suonare con l’armonica le canzoni di Robert Johnson. - «Sono quarantacinque centesimi» – disse Caroline con quella voce da bimba. Gliene diedi cinquanta. Li prese e lasciò il resto sul bancone. Prese una busta di carta e ci sistemò dentro le mie cose. La guardavo con il cuore che mi andava fuori strada. - «Hey tu!» – disse il vecchio Oregon. - «Dice a me signore?». - «Sì, tu». Mi fece cenno di avvicinarmi. Presi la busta dalle mani di Caroline, le sorrisi e andai dal vecchio. - «Come ti chiami?». - «William» – dissi – «William O’Neill. signore». Mi visitò la faccia girando l’armonica tra le dita. Poi si frugò nelle tasche e mi allungò qualche moneta. - «Corri a prendermi del tabacco. Lascia qui le tue cose». - «Sì, signore». Pensai che fare un favore al vecchio m’avrebbe dato qualche chance in più con Caroline. Corsi a comprare il tabacco e tornai indietro come se avessi il fuoco sotto le scarpe. Il vecchio Oregon suonava Come In My Kitchen. - «Ecco il suo tabacco Mr. Oregon». - «Grazie figliolo» – disse lui smettendo di suonare e prendendo la busta. Ci

guardò dentro e tirò su col naso soddisfatto. Rimasi fermo a guardarlo. - «Ora puoi andare» – disse. - «Sì, lo so signore, ma volevo sentirla suonare ancora Robert Johnson». - «Tu conosci Robert Johnson?». - «Dove sono cresciuto io, signore, se non conosci Robert Johnson non puoi nemmeno uscire di casa». Il vecchio Oregon sorrise. Sistemò gli occhiali sul naso e si grattò la barba con una mano. - «Quanti anni hai?». - «Sedici signore». - «Conosci questa canzone?» – disse infilando l’armonica in bocca e soffiandoci dentro. Poi si fermò aspettando una mia risposta. - «Me And The Devil Blues, signore. Inconfondibile». Oregon fece di sì con la testa, poi mi fece ancora un cenno con la mano. Mi avvicinai. Si cercò nelle tasche e tirò fuori una fotografia tutta sgualcita. Me la diede. Era una donna, nera, con un bel collo ed i capelli raccolti. - «Quella è mia sorella Virginia». - «Virginia? Come la moglie di Robert Johnson» – dissi. - «Infatti è proprio lei, la povera Virginia. È morta di parto a soli sedici anni. Robert Johnson è mio cognato. Si è risposato con una certa Calletta Craft e si sono trasferiti a Copiah County, a sud di Huzlehurst». Mi tolse la fotografia dalle mani e se la rimise in tasca. Si allungò sulla sedia e tolse gli occhiali. I suoi occhi dicevano qualcosa. - «La conosci la storia secondo la quale Bob si è venduto l’anima al demonio?». - «Sì, signore» – dissi mettendomi seduto per terra – «È famosa quanto i i

della Bibbia». - «Sentiamo». Guardai Caroline che sistemava dei barattoli di fagioli sugli scaffali. Mi sorrise. Era bellissima. - «Si dice che una notte, dopo la morte della moglie Virginia, Robert Johnson incontrò ad un crocicchio un uomo vestito di nero. Quest’uomo in cambio della sua anima, gli accordò la chitarra e gli diede una fenomenale abilità alla chitarra che Johnson non dimostrò di avere prima di quella sera». - «Tutte sciocchezze…» – sbottò il vecchio interrompendomi – «Bob era un ubriacone, un donnaiolo ed un maledetto figlio di buona donna, ma il diavolo non c’entra niente. Ti dico io la verità, la vuoi sentire?». - «Sì, signore» – dissi tutto eccitato. Magari Madison fosse stata lì con me. - «Ike Zinneman» – disse Oregon con una voce solenne. - «Sai chi è?». - «No, signore». - «Ike Zinneman è un grande bluesman, forse uno dei più grandi. A Ike piaceva suonare nei cimiteri, tra le tombe dei morti. Virginia era morta e Bob si sarebbe ammazzato presto, te lo dico io. Lui e Ike s’incontrarono una notte al cimitero di Robinsville dov’è seppellita Virginia. Zinneman suonava la chitarra. Fecero amicizia e Ike gli insegnò il blues. Il resto lo fece Bob ed il dolore che covava dentro per la perdita di sua moglie». Il vecchio Oregon rimase in silenzio per farmi digerire la cosa, poi disse: - «Tu figliolo credi al demonio?». Pensai a Red. - «Sì, signore». Oregon fece una smorfia con la bocca. Non se lo aspettava. Abbassai la voce per

non farmi sentire da Caroline. - «Mio padre non crede più a niente, mia madre invece prega tutti i giorni. Io credo che il demonio ce lo abbiamo dentro, mentre Nostro Signore Gesù Cristo è tutto intorno». Il vecchio Oregon annuì contento. Gli piacevo, era un buon segno. Prese l’armonica e la appoggiò sul mento. - «Ho insegnato io a Charles Johnson, il fratello maggiore di Robert, a suonare l’armonica. E Robert ha cominciato con l’armonica cercando di imitare il fratello». Mi sorrise. - «Hai una richiesta?» – disse avvicinando l’armonica alla bocca. - «Cross road Blues». Oregon allargò le labbra ed attaccò a suonare, mentre io e Caroline ci scambiammo occhiate veloci e sorrisi complici. La prima volta che ci baciammo fu dietro il negozio: la presi per i fianchi e le infilai la lingua in bocca. Gliela feci saettare dentro e fuori per una decina di minuti. Le sue labbra erano così morbide che sembravano piene d’acqua. Ci davamo da fare finché il vecchio Oregon non smetteva di suonare They’re Red Hot o Dead Shrimp Blues. Quello era il segnale che ci diceva di smettere. Andammo avanti così qualche anno. La mia prima volta fu con lei, non con Madison come avevo sempre pensato. A lei piaceva un certo Johnny Page, il lentigginoso figlio del macellaio. Un bulletto dalle gambe ed i denti storti. Per lui scrisse perfino una canzone, una ballata noiosa. Un giorno feci incontrare Madison ed Oregon. S’intesero subito. Fu una buona cosa: dopo la morte del padre Madison aveva lasciato da parte il suo blues. Oregon la trattò come si farebbe con una nipote e Madison sembrò rifiorire. avamo i pomeriggi seduti sotto la veranda del negozio col vecchio Oregon che ci raccontava le storie del blues, di gente come Son House, Skip James, Johnny Temple e Hambone Willie Newbern. Oppure suonava l’armonica e cantava accompagnato dalla chitarra di Madison.

Due anni dopo, il 16 agosto del ‘38, a Greenwood nel Mississippi, a 27 anni d’età, il grande Robert “Bob” Johnson morì abbaiando come un cane dopo due giorni d’agonia. C’era chi raccontava che fosse stato avvelenato, chi accoltellato da un marito geloso. Qualcuno sostenne che le sue ultime parole fossero state: “So che il mio Redentore vive e mi richiamerà dalla tomba”. Queste stesse parole mi tornarono in mente poco prima dello sbarco sulla spiaggia di SainteHonorine-des-Pertes. - «Esiste il diavolo?» – chiese un giorno Madison al vecchio Oregon. Lui la guardò con un mento contratto e le labbra chiuse. Si lisciò la barba e prese a pulire l’armonica dalla saliva. - «Credo che ognuno abbia il proprio, bambina mia» – rispose con una voce cavernosa – «Un maledetto demonio che ci pungola per tutta la vita ed a volte anche oltre questa». Io e Caroline ci guardammo. Il vecchio Oregon aveva una faccia curva e due occhi rassegnati. Sapeva di non poter mentire a Madison e le aveva risposto sinceramente. Madison sorrise e attaccò a suonare Hellhound On My Trail, ed Oregon cantò:

If today was Christmas Eve, If today was Christmas Eve And tomorrow was Christmas day If today was Christmas Eve, If today was Cristmas Eve And tomorrow was Christmas day Aw, wouldn’t we have a time, baby? (Se oggi fosse la sera di Natale, se oggi fosse la sera di natale E domani il giorno di Natale Se oggi fosse la sera di Natale E domani il giorno di Natale

Non ci divertiremmo un po’, bambina?).

* * *

Annabelle entrò nella stanza in punta di piedi per lasciarmi dei vestiti puliti. - «Annabelle» – dissi. Girò la testa dalla mia parte. - «Oh scusami, non volevo svegliarti». - «Ero già sveglio». Mi alzai tutto indolenzito, con le spalle doloranti e la testa pesante. Il sole stava calando come un sipario e tutto sembrava essere in pace, mentre io sentivo di dover ancora imparare a perdonare me stesso. - «Hai fame?» – mi chiese Annabelle. Le feci di no con la testa e le feci cenno di venirsi a sedere accanto a me. Mise giù le cose che teneva ancora in mano e venne da me, sorridendo. - «Volevo chiederti scusa per quello che è successo stamani. Mi dispiace di aver insistito a quel modo. Immagino sia stato molto doloroso per te portarmi laggiù». - «Non preoccuparti» – disse dolcemente carezzandomi una gamba. Si alzò di nuovo e uscì dalla stanza. Io avrei voluto continuare a parlarle. Mi alzai e indossai una maglia ed infilai gli scarponi ma senza allacciarli. Uscii dalla camera incrociando le braccia sul petto. Aprii la porta e fui subito aggredito da un odore forte di qualcosa che bolliva in pentola. Mi diede alla gola, ma sforzai lo stesso un mezzo sorriso per Cécilia che sembrava si stesse impegnando parecchio. Cercai Annabelle con lo sguardo senza trovarla. Attraversai la cucina e uscii fuori. L’aria era asciutta, il sole lontano e rosso come un semaforo. Il cielo sembrava fosse stato attizzato ed ora stesse prendendo fuoco. Annabelle era poco lontana, seduta tra l’erba alta, e parlottava col piccolo Jean. Andai loro incontro. Pierre aiutava Maurice. Mi fecero entrambi un cenno con il mento. Andai dritto da Annabelle. Il sole le arrivava alle spalle e le avvampava la testa. Mi avvicinai piano.

- «Ciao» – dissi. Si voltò a guardarmi e sorrise; era in assoluto la cosa che faceva meglio. Jean si buttò indietro e si mise a ridacchiare contento. Io mi sedetti accanto a loro. - «Cosa fate?». - «Giochiamo» – rispose Annabelle. - «Jean!» – chiamò Maurice dalla stalla. Gli fece cenno di andargli incontro. Mi grattai la testa e guardai di nuovo Annabelle. - «Sì, somigli decisamente a mio fratello Robert» – disse inaspettatamente sorridendo a fior di labbra. - «Parlami un po’ di lui» - dissi io. Annabelle sorrise strappando qualche filo d’erba, poi si riavviò i capelli con un colpo della mano. - «Robert era straordinario…» – disse – «Io e Pierre siamo sempre stati innamorati di lui. Aveva qualcosa di magico nello sguardo ed in tutto quello che faceva». - «Allora non siamo così simili come dici». Sorridemmo. - «Dovevi guardarlo negli occhi per capire chi fosse. Proprio come te. Rabbia, malinconia, amore, ogni cosa gliela potevi leggere sul viso. Tutti lo amavamo». Gli occhi di Annabelle si spensero improvvisamente. - «Nanà!» – sentimmo chiamare dalla casa. Era Maurice. Annabelle si mise in piedi e mi aiutò ad alzarmi. - «Dopo cena voglio mostrarti una cosa!» – disse Annabelle guardando davanti a sé – «Penso ti sarà di grande aiuto». Raggiungemmo gli altri Montreau e cenammo. Mi sentivo bene, riposato, anche perché i pensieri erano troppi per poter tentare di dormire. Quello strano odore si

era magicamente trasformato in una deliziosa minestra. Come avvenne un tale miracolo non riuscii mai a spiegarmelo. Dopo cena Annabelle prese una lampada ad olio e mi fece cenno di seguirla. Mi alzai ed uscimmo fuori. L’aria era fresca, il vento tirava a singhiozzi. Andammo nella stalla. Ci sedemmo su un mucchio di paglia. La lampada ad olio ci illuminava appena i contorni del volto. Annabelle aveva qualcosa nascosto sotto la maglia. - «Ti voglio far vedere una cosa» – disse. Si rovistò sotto la maglia e tirò fuori dei fogli ed un quadernetto tutto rovinato. Me lo diede in mano. Lo aprii alla prima pagina e lessi il nome: Margharet H. Deen. - «Chi è?» – dissi. - «Margharet era la ragazza di mio fratello Robert» – disse prendendo una sua foto in mezzo al quadernetto. La presi e guardai. Margharet era una ragazza deliziosa, con i capelli castani, ondulati, gli occhi marroni e ben definiti, il naso dritto ed una bella bocca carnosa. La pelle lucida come quella di una bambola». - «Era la ragazza di Robert?» – domandai curioso. Annabelle abbassò gli occhi come tutte quelle volte che qualcosa le cominciava ad agitarsi dentro. Spostò la lampada sospirando e cominciò a raccontare: - «Margharet era ebrea. Suo padre aveva una piccola libreria a Caen. La madre lavorava nella lavanderia della sorella. Io e Margharet avevamo la stessa età e diventammo presto ottime amiche» – Annabelle fece una pausa – «Sai cosa significa in greco la parola “Olocausto”?». Le feci di no con la testa. - «Tutto bruciato» – disse. Rimasi in silenzio e carezzai i bordi bruciacchiati di quel quaderno con la copertina rigida rossa. Lo aprii una seconda volta e lessi di nuovo: Margharet H. Deen, Drancy. - «Drancy?» – dissi ad alta voce. Annabelle mi annuì.

- «Il campo di transito di Drancy è il più importante campo di transito per ebrei catturati sul suolo se. Si trova nella periferia di Parigi. Inizialmente a Drancy portavano i comunisti si messi fuori legge dal decreto Sérol del ‘39. Ma con l’invasione nazista nell’estate 1940, vi hanno collocato i prigionieri di guerra si e anche qualche soldato britannico. Poi nella primavera-estate del ‘41 i nazisti progettano e realizzano lo Judenlager o Abwanderungslager, per la raccolta ed il transito degli ebrei si. La prima operazione per riempirlo è scattata il 20 agosto 1941: quel giorno vennero rastrellati quattro mila ebrei stranieri e si, provenienti dall’undicesimo arrondissement di Parigi». Ascoltavo attentamente Annabelle che parlava con un leggero filo di voce. Quelle notizie mi arrivavano dirette e secche come schiaffi sulla faccia. «Perché in America non si sapeva niente?» – pensai. - «Il primo anno del nuovo campo di Drancy fu caratterizzato dalle condizioni disastrose di vita: si moriva spesso di fame e di malattie. Nel dicembre di quello stesso anno, trecento internati vennero inviati a Compiègne, dove partì il primo convoglio dalla Francia diretto ad Auschwitz». Quella fu la prima volta che seppi dell’esistenza del campo di concentramento di Auschwitz, ed al solo sentirne pronunciare il nome avvertii un brivido lungo la schiena. - «Il 14 dicembre quarantaquattro ebrei si e stranieri (in maggioranza russi e polacchi) verranno portati a Parigi per essere fucilati al Mont-Valérien, il giorno dopo toccò a cento ostaggi comunisti». Annabelle era rigorosa, come se avesse registrato freddamente nella testa tutte le informazioni apprese dalla radio, dal aparola o dagli articoli dei giornali clandestini. - «Nel ‘42 il campo è perfezionato. Si mettono a punto e si organizzano le fasi di riempimento e di svuotamento. Da metà giugno il trasporto ad Auschwitz non a più da Compiègne ma parte direttamente da Drancy. Circa mille persone a convoglio. Ne partono a centinaia dalla stazione ferroviaria di Drancy-Le Bourget; uomini, donne e bambini stipati come animali». Annabelle fece una pausa come se dovesse riprendere fiato. Quando tornò a raccontare, la sua voce tremava appena.

- «Le retate cominciarono prima nella regione parigina, poi in altre regioni e località della Francia, comprese le zone non occupate. È stata la polizia se ad organizzare il rastrellamento, sempre coordinate dai generali nazisti. Robert era ovviamente molto preoccupato per Margharet e la sua famiglia, ma pensava giustamente che la mancanza di mezzi avrebbe rallentato le operazioni di quel tanto da permettergli di organizzare loro una fuga. Poi a metà luglio del ‘42, venne messa in piedi l’operazione denominata “Vento di primavera” dalla polizia parigina, e tutto precipitò velocemente. Il piano prevedeva l’arresto di ventidue mila persone, da inviare nei vari campi di Drancy, Compiègne, Pithiviers e Beaune-la-Rolande. Il 16-17 luglio 1942 scattò la retata. Nello stesso periodo partono da Drancy cinque convogli diretti ad Auschwitz. Margharet ed i suoi vennero arrestati una notte nel settembre del ‘42 e subito trasportati al campo di Drancy. Fu una cosa rapida ed inaspettata. Li sorpresero nel sonno». - «La paura di Robert allora era concreta ?» – domandai. Annabelle annuì. - «Come ti ho detto, appena venimmo a conoscenza dei primi rastrellamenti nella zona di Parigi, Robert cominciò a diventare sempre più nervoso e preoccupato, come se presagisse che qualcosa di orribile sarebbe accaduto anche a Caen. Ogni volta però che Robert confidava il proprio timore a nostro padre, lui gli ricordava che la famiglia di Margharet si era più volte rifiutata di lasciare Caen insieme a noi, e che non era comunque compito suo difenderla dall’invasione tedesca. Ma Robert continuava ad opporsi strenuamente al volere di nostro padre di lasciare Caen: non era intenzionato ad abbandonare Margharet al suo destino. D’altra parte il rifiuto dei genitori di Margharet di venire con noi a Grandcamp-Maisy non lasciò a mio padre nessun’altra scelta se non quella di decidere per il bene della propria famiglia». Annabelle sciolse un nastro dal polso sinistro e si legò i capelli in una coda. Carezzò la faccia e si massaggiò il collo. «Tra il 10 agosto ed il 30 settembre1942, partirono da Drancy per Auschwitz ventidue convogli. Altri quattro tra il 4 e l’11 novembre, ed altri cinque tra il febbraio ed il marzo del ‘43. Margharet era su uno di questi». - «Come sai tutte queste cose?» – le chiesi. Annabelle diede un’occhiata al quaderno che tenevo tra le mani e capii. - «Come lo hai avuto?».

Annabelle fece una pausa prima di rispondere, come se stesse ricaricando le batterie. - «A Drancy arrivò un ufficiale tedesco, un certo Brunner, che organizzò il campo in modo che potesse essere autosufficiente e autogestito dagli stessi internati. Un vero e proprio ghetto all’interno di Drancy, con divisioni complesse e precise dislocazioni: una falegnameria e serramenteria, una farmacia, un dentista, uffici di cancelleria gestiti insieme al personale tedesco, un obitorio, depositi vari ed una tipografia. Quando i sottufficiali di Brunner seppero che il padre di Margharet aveva una libreria, fu messo a capo alla gestione della tipografia. Fu lui a far uscire da Drancy le lettere ed il quaderno della figlia. Il destinatario era ovviamente Robert, ma quando arrivarono da noi a GrandcampMaisy, tramite amici comuni del padre di Margharet ed il mio, Robert purtroppo era già morto». Annabelle si buttò indietro, affondando la testa e le spalle nella paglia. Non aveva nient’altro da aggiungere. - «Perché lo mostri a me?» – dissi senza riuscire a vederla in faccia: la luce untuosa della lampada la illuminava solo fino alla pancia. - «Perché devi sapere» – rispose definitiva. Sfogliai il quaderno velocemente. Era scritto a matita, fitto fitto. - «È in se!». - «Ovviamente. Lo leggerò io per te». Guardai di nuovo la foto di Margharet. Sembrava così felice. Annabelle si alzò chiedendomi di rientrare in casa con lei. - «Non me lo leggi?» – dissi allungandole il quaderno. - «Non stasera». Maurice era rimasto sveglio, mentre Cecilia, Pierre e Jean erano andati a dormire da un pezzo. Quando ci vide rientrare, attraversò la stanza ed andò a prendere una bottiglia di liquore nascosta nello stanzino. La mise sul tavolo e chiese ad Annabelle di prendere tre bicchieri puliti. Lavorava sul tappo e parlava mentre Annabelle mi traduceva ogni cosa.

- «L’avevo conservata per il ritorno a casa di Robert» – disse Maurice – «Ma come ben sai non c’è più niente da festeggiare adesso». Lo disse con un misto di rassegnazione e rabbia nella voce. Fece forza sul tappo digrignando i denti e gonfiando le guance. Finalmente il tappo saltò fuori per la gran soddisfazione di Maurice che riempì subito i bicchieri. - «Posso chiederti una cosa?» – gli domandai. Annabelle tradusse. - «Bien sûr» – fece lui accompagnandosi con un cenno della mano. Annabelle mi annuì. - «Cosa hai sognato la notte prima di venire alla spiaggia?». Annabelle esitò un momento, ma poi si avvicinò all’orecchio del padre traducendogli la mia domanda. Il volto di Maurice si fece subito serio, abbassò gli occhi guardando nel bicchiere, come se cercasse nel cognac una risposta. Si lisciò la barba e tornò a guardarmi. - «Robert» – disse soltanto. Non ci fu bisogno della traduzione di Annabelle. Rimanemmo tutti e tre in silenzio. Maurice svuotò il bicchiere con un solo sorso e ne riprese dell’altro. Anche Annabelle prese un goccio. Poi Maurice cominciò a parlare con la voce quasi rotta dal pianto, ma con gli occhi fermi, lucidi ed immobili sui miei. Annabelle lo fece cominciare poi gli si accodò traducendo per me le parole del padre: - «Robert era in mare che faceva il bagno, io sulla riva che gli chiedevo di non allontanarsi troppo. Il mare ingrossava ma lui continuava a nuotare e ad allontanarsi. Io gli gridavo: “Robert torna indietro, è pericoloso!”; ma lui rispondeva: “Non preoccuparti papà, non ho paura!”. Cominciò a piovere, da prima lentamente, una pioggerella fine, poi ci fu un lampo che sentii cadere vicinissimo, come una bomba. La pioggia s’ingrossò, diventò pesante quasi da fare male. Le onde aumentavano ed io vedevo Robert sempre più lontano. Non mi buttai in acqua anche se avrei voluto farlo: pensai che se mi fosse successo qualcosa non ci sarebbe rimasto nessuno ad occuparsi di Annabelle, di Pierre e del piccolo Jean. “Torna indietro Robert”, gli gridavo, ma lui continuava a dirmi di stare tranquillo. Poi non lo vidi più. Andai verso il mare e c’entrai dentro fino

alle ginocchia, mi fermò la voce di Robert che disse: “Non venire papà, non puoi aiutarmi! Torna domani, vedrai che sarò qui ad aspettarti e torneremo a casa insieme”». Quando Maurice finì di parlare ed Annabelle di tradurre, i miei occhi erano come sacche gonfie d’acqua che tracimavano ed il cuore mi si era stretto al punto di farmi più male della ferita. Maurice svuotò ancora il bicchiere e guardò la figlia scoppiare a piangere. Se la carezzò e se la strinse al petto. La baciò sulla testa e la fece sfogare un poco. Annabelle tentava di soffocare il pianto con la mano per non fare troppo rumore; io tenevo il bicchiere nelle mani e non provavo nient’altro se non un dolore devastante. Guardai dentro il bicchiere e lo alzai verso Maurice che tornò a guardarmi. - «A Robert» – dissi. - «Mercì» – disse lui. Buttai giù tutto d’un sorso avendo la sensazione di bere sangue, sangue puro, sangue degno d’onore. Asciugai la faccia e mi alzai da tavola, feci il giro del tavolo e mi piazzai di fronte a Maurice. Lui scostò Annabelle asciugandole le lacrime con le sue grandi mani, la baciò ancora sulla fronte e si mise in piedi davanti a me. Ci guardammo qualche secondo e senza aggiungere nessun’altra parola, ci abbracciammo così forte che quasi non volevo lasciarlo più andare. Andai a letto con il cuore gonfio. Chiusi gli occhi e pensai a mio padre, alla mia famiglia ed ovviamente alla mia Madison.

* * * * *

6

Roosevelt disse che non avrebbe mandato i ragazzi americani a combattere in guerre straniere. Poi ci fu Pearl Harbor, nel dicembre del ‘41, e fu chiaro per tutti che qualcosa era cambiato; la guerra chiamava al di là del grande oceano e,

seppur sperassimo nel contrario, un mercoledì pomeriggio arrivò la cartolina della chiamata. Avevo compiuto ventitré anni da nemmeno un mese. Era il giugno del ‘43. Madison suonava la chitarra su una sedia di vimini. Io ero seduto sugli scalini di casa sua ad ascoltarla. Madison aveva i capelli legati in una treccia ed era molto intonata. Mio padre non le diceva più di smettere di cantare. Qualcuno in città le aveva persino proposto di incidere una canzone, ma cose piccole da trasmettere nelle radio locali. - «Cantami la canzone di Johnny Page» – le dissi, poi sorrisi. - «Quanto sei stupido!» – disse lei strizzando gli occhi e digrignando i denti. - «Cosa c’è? È una bella canzone… piena d’amore». - «Falla finita Will!» – disse, poi rise di gusto – «Idiota! Pensa a Caroline». - «Ora come ora la frequenti più di me. Tra noi è finita. Tra te e Johnny invece…». Ridemmo insieme, poi Madison tornò a cantare una vecchia canzone di Sara Martin. Non aveva fatto in tempo a cantare la seconda strofa che arrivò una macchina che sembrava avere una gran fretta. Parcheggiò proprio davanti casa mia. Madison smise subito di suonare. Scese un ragazzo in uniforme. Era magro, con la visiera del cappello ben tirata sugli occhi, le scarpe lucide che brillavano. Andò a bussare alla mia porta. Aprì mio padre. Il ragazzo gli disse qualcosa, poi consegnò un foglietto, girò sui tacchi e tornò alla macchina. Mise in moto e ripartì. Si fermò solo qualche casa più sotto, davanti quella di Jesse. Mi alzai in piedi e guardai mio padre. Lui si voltò dalla mia parte con una faccia smarrita ed il foglietto ancora stretto tra le dita. - «Will» – disse Madison. I suoi occhi chiari s’incelofanarono subito, tirò su col naso e venne ad abbracciarmi facendo cadere la chitarra per terra. Mi allacciò entrambe le braccia attorno al collo ed io la strinsi sui fianchi. Mia madre uscì da casa chiedendo a mio padre chi avesse bussato alla porta. Mio padre non le rispose. Carl, il padre di Jesse, arrivò di corsa completamente sudato e col fiato grosso. Jesse correva appena dietro di lui. - «Jack!» – gridava verso mio padre – «Jack!».

Parlarono. Mia madre cacciò un urlo e si lasciò cadere per terra. Jesse mi vide sotto il portico di Madison e venne da me. Aveva gli occhi come uno che ha visto un morto. - «Will» – disse. Io avevo ancora Madison incollata addosso – «Cristo Santo, Will! Ci hanno chiamato…». Strinsi Madison con forza, lei non la smetteva di piangere. Jesse si sedette sul primo scalino e infilò le mani nei capelli. La cartolina diceva che dovevamo presentarci al comando generale di Washington per l’addestramento entro una settimana. Poi saremmo andati a New York e da lì ci avrebbero imbarcati per l’Inghilterra. Mia madre pianse finché non salii sul treno. Madison mi diede un bacio sulla guancia infilandomi una mano tra i capelli; mi fece così bene al cuore. Mio padre era una pietra. Teneva in braccio mio fratello Scott. - «Ciao papà» – gli dissi. Fece scendere il piccolo e mi strinse come mai aveva fatto. - «Ti prego torna a casa» – disse soltanto. Jesse salutò i suoi genitori e la fidanzata che avrebbe sposato una volta tornato. Le diede un bel bacio, l’ultimo. Salimmo e prendemmo posto. Quando il treno si mosse guardai Madison e lei guardò me. Avrei tanto voluto baciarla sulla guancia. Le sorrisi e rischiai di piangere quando mi vennero in mente le parole di From Four Till Late di Robert Johnson:

When I leave this town I’m gonna bid your fair, farewell When I leave this town I’m gonna bid your fair, farewell And when I return Again

You’ll have a great long story to tell (Quando lascerò questa città Ti dirò addio, addio Quando lascerò questa città Ti dirò addio, addio E quando tornerò ancora Avrai una lunghissima storia da raccontarmi).

Era la prima volta che io e Jesse mettevamo il naso fuori da New Orleans. Guardammo il panorama per miglia e miglia senza dire una parola; vidi are l’America dal finestrino, sapendo che quella poteva anche essere l’ultima volta che la guardavo. - «Vedrai che ci metteranno a pulire i fucili» – disse Jesse tirando fuori un sandwich al tonno dalla sacca. - «Speriamo» – dissi io. - «Ne vuoi uno?». - «No grazie, non ho fame». Jesse addentò il suo panino e dando un bel morso si riempì la bocca. Gli guardai la testa rasata. Se ne accorse. - «Non sto poi così male, non è vero Will?» – disse specchiandosi nel vetro. - «Sembra il culo di una scimmia». Ridemmo, poi tornai a guardare fuori e Jesse finì il suo sandwich. Ci assegnarono delle brande e rimanemmo a Washington per sei mesi. Alcuni dei ragazzi sembravano più pronti di altri.

- «Ciao, mi chiamo Neil Hammond, vengo dal Maine». - «Ciao Neil io sono Will, e questo che affonda il naso nel purè di patate è Jesse». - «Ciao» – disse Neil. - «Ciao» – disse Jesse senza alzare la testa dal piatto. - «Posso sedermi?». Gli feci cenno di sì. Neil prese posto, tirò un sospirone e guardò Jesse che buttava giù badilate di purè. - «Che cazzo ha il tuo amico?» – disse Neil abbassando il tono della voce. Neil diceva sempre “Cazzo”: “Cazzo questo, cazzo quello”. - «Jesse? Ha la guerra» – risposi. Neil sorrise. Aveva dei denti bianchi e perfetti, i capelli squadrati e le orecchie piccole. «Questo è uno che se la cava sempre», pensai. - «Di dove siete?». - «New Orleans» – rispondemmo in coro. - «Cazzo, il vecchio sud!» – disse Neil – «Siete fortunati allora… cazzo». - «Perché siamo della Louisiana?». - «No cazzo, perché conoscerete un po’ di se immagino. A me hanno dato questo cazzo di foglietto, ma non ci capisco un cazzo di niente. Io guido un cazzo di trattore, mi spacco la schiena dalla mattina alla sera, e non ne so un cazzo di se». - «Non conosco il se» – dissi buttando in bocca del polpettone secco sui bordi e molliccio all’interno. Niente a che vedere con quello che cucinava mia madre. - «Cazzo!» – disse Neil sorpreso.

* * *

La nostra nave era attraccata al porto di New York e aspettava noi. Io e Jesse girammo senza meta con la mandibola sempre contratta e la bocca spalancata. New York per noi campagnoli era qualcosa che i nostri occhi non potevano proprio contenere. Camminavamo con la testa sempre rivolta verso l’alto chiedendoci come ci si possa abituare a tutto questo. Solo dopo comprendemmo che l’uomo riesce ad abituarsi a qualsiasi cosa; cose tremende come la morte di tanti giovani inconsapevoli, come la scarnificazione delle membra, come la guerra. Rimanemmo a New York due giorni in tutto. Non appena ci imbarcammo, dimenticai ogni cosa; come se la mia mente fosse stata improvvisamente ripulita. Dentro questa c’era solo la paura costante per ciò che ci aspettava dall’altra parte del mondo. Sulla nave facemmo amicizia con altri ragazzi della nostra Divisione come Kevin Liotta di New York City: un italo americano con la fissa per le automobili. Kevin vomitava spesso ed era sempre bianco in faccia. Diceva che New York era ad oggi, l’equivalente di quello che era Roma ai tempi dell’Impero Romano. I suoi avevano un ristorante-pizzeria. Io e Jesse nemmeno sapevamo cosa fosse una pizza. Jim Brice invece aveva le ciglia più folte che avessi mai visto. Veniva dal Minnesota e d’inverno dovevano tenergli calda la faccia. Ricky Newman veniva dalla California e giocherellava sempre con un coltello a scatto. Era tozzo, con la schiena piena di cicatrici, gli occhi vuoti come un secchio. Il padre di Ricky era un ufficiale della marina militare. Aveva messo incinta la madre ed era ripartito subito dopo. Ricky aveva otto fratelli che sua madre aveva avuto precedentemente da tre uomini diversi. Tre di questi lo picchiavano. Eravamo un bel gruppetto: per circa due settimane diventammo come fratelli. Non avrei rivisto vivo nessuno di loro.

* * *

Sotto il generale Montgomery, Comandante Operativo per le forze di invasione

terrestre erano pronti sei mila vascelli, quattro mila mezzi da sbarco, centotrenta navi da guerra, dodici mila aerei e cinque mila tonnellate di bombe, più Io e Jesse da New Orleans, Louisiana. Il piano era quello di fintare un attacco sulla costa tedesca per poi approdare in Normandia, proprio come quei giocatori di football. Io e Jesse fummo assegnati alla Prima Armata Statunitense, Centosedicesimo Reggimento Fanteria, con attracco alla Spiaggia di Omaha, da Sainte-Honorine a Vierville sur Mer. La prima linea. - «Cristo Santo Will, prima linea!» – gridava Jesse con la bocca tutta tremante – «Ci mandano a morire! Ci faranno a pezzi». Io non riuscivo a spiccicare parola. Mi si era seccata la lingua, la testa mi faceva dei giri. Ci spiegarono poche cose e ci diedero una pacca sulle spalle. Il nostro mezzo da sbarco anfibio assegnatoci era il numero ventisei. Ci fecero indossare delle uniformi, un elmetto con retina, una cintura contenente un kit completo di medicinali e morfina, scarponi. Ci diedero un fucile, munizioni, una pistola ed una serie di caricatori. Quando prendemmo posto Jesse aveva la mascella contratta in una smorfia. - «Jesse!» – dissi. - «Che c’è?». - «Ce la faremo. Tu rimani vicino a me, ok?». Non rispose. Sorrideva. - «Jesse?» – gli dissi. - «Che c’è?». - «Hai capito quello che ti ho detto?». Non mi rispose. Slacciò l’elmetto e se lo mise sulle gambe. - «Hey ragazzi» – disse Jim – «Io mi metto davanti, venite… non vorrete mica fare la fine del topo».

- «No Jim, grazie. Stiamo bene qui». - «Forse dovremmo andare» – disse Jesse. Il comandante salì a bordo. Ci chiese di non fare casino. Pioveva ed eravamo fradici, con il cuore a pezzi ed i nervi tesi. Mi guardai intorno: con noi c’erano i migliori giovani d’America, tutti così in gamba. «Forse possiamo farcela» pensai. «Li prenderemo di sorpresa». Ad Omaha la Trecentocinquantaduesima Divisione tedesca era già piazzata ed in attesa sopra le scogliere ripide che sovrastavano la spiaggia. Erano i soldati meglio addestrati dello schieramento tedesco. Prima del nostro arrivo era previsto un potente attacco aereo e navale. Un fuoco talmente potente che avrebbe spazzato via le difese tedesche; il nostro sbarco sarebbe stato comodo come una eggiata sul bagnasciuga. Purtroppo per noi nessuno di quegli attacchi andò a bersaglio. Quando sbarcammo ad Omaha le difese tedesche erano ancora intatte. Ci fecero imbarcare e ci dirigemmo verso la costa. Il mare era agitato e Kevin vomitò come sempre. Un paio d’imbarcazioni affondarono e dei soldati annegarono. Non potemmo nemmeno fermarci ad aiutarli. A pochi metri dalla riva sentii come un colpo nel cuore. Guardai Jesse che rimetteva l’elmetto e mi sorrideva fiducioso. Per avvisare la Resistenza se del nostro arrivo, gli alleati trasmisero attraverso il notiziario della BBC i versi iniziali della Chanson D’Automne di Paul Verlaine: “I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno”. Due giorni prima dello sbarco trasmisero l’ultima parte: “… mi feriscono il cuore con monotono languore”. Un bellissimo verso annunciò al mondo la nostra disgrazia. Quello che successe dopo è storia. Ogni sforzo era concentrato alla conquista della costa se. L’operazione Charnwood per esempio, prevedeva il bombardamento di Caen per il 7 luglio. Montgomery la riteneva il nocciolo della battaglia e Caen fu bersaglio di tre pesanti attacchi dal 7 giugno al 1 luglio. Maurice ci aveva visto giusto. Con l’ausilio delle corazzate britanniche la città subì sia i bombardamenti anglo americani, sia la resistenza della Prima e della Dodicesima Divisione Panzer tedesca. Molti amici dei Montreau morirono resistendo o scappando.

* * *

Mi svegliai con lo stomaco sottosopra e la bocca impastata. La ferita si stava cicatrizzando ma mi preoccupava l’idea d’avere ancora il proiettile dentro, incastrato da qualche parte. Maurice era uscito ed Annabelle faceva cuocere qualcosa dentro una pentola. - «Ciao» – disse sorridendo. Mi avvicinai e le diedi un bacio sulla guancia, poi mi andai a sedere a tavola. Lei arrossì e sorrise imbarazzata. Mi prese un bicchiere e me lo mise di fronte. - «Tuo padre dov’è andato?». - «È uscito con Pierre». Lo disse con una certa tristezza nella voce. Mi versò latte di capra nel bicchiere. - «Come hai dormito?» – disse. - «Tormentato dai ricordi». - «Brutti ricordi?». Non le risposi. Pensai a Jesse; povero Jesse. Cécilia e Jean erano fuori nel campo ed io e Annabelle ci spostammo in camera per cambiare la fasciatura. Tolsi la camicia ed Annabelle mi allentò le bende con molta cura. Disinfettò la ferita lavorando con solo due dita per fare piano. Potevo sentire l’odore dei suoi capelli. - «Parlami ancora di Madison» – disse. - «Cosa vuoi sapere?». - «Mi hai detto che per un periodo non siete stati uniti come sempre. Parlami di questo». La ferita mi elargì una fitta rilevante. Annabelle si scusò e tirò indietro le dita. Le dissi che non era colpa sua e presi un bel respiro. Poi prese delle bende pulite ed io cominciai a raccontargli.

- «Il padre di Madison era un agricoltore, come il mio e come la maggior parte dei padri di famiglia della Louisiana. I figli di mezzo di quell’America post “Grande Guerra”; né schiavi, né padroni. Il padre di Madison aveva una bellissima voce, dura e potente. Cantava gli spiritual dei bianchi pregando Nostro Signore Gesù Cristo. Non si ricorda a New Orleans un bianco con un tale temperamento nella voce. Era una bella persona, un marito attento, ma la grande depressione lo piegò in due come un giornale. Non era pronto a tutto quello e si fece schiacciare». Mi fermai per pensare al padre di Madison, alle sue braccia forti. Annabelle finì di sistemarmi le bende. Ci guardammo e le dissi: - «Sapevi che è stato solo dopo il ‘29 che i grattacieli sono costruiti con le finestre bloccate, in modo che non si possano aprire dall’interno?». - «No» – rispose Annabelle riavviandosi i capelli – «Perché?». - «Fu dopo che si suicidarono undici tra i più famosi operatori di Wall Street». Annabelle rimase immobile sulla sua sedia. Sorrise appena; le sembrava tutto così assurdo. Le spiegai che dopo il ‘29 al nord la situazione era disastrosa, mentre al sud si nuotava nei rifiuti. Molta gente fu costretta a vendersi qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Il padre di Madison era pieno di debiti quando si uccise. - «Povera ragazza» – disse soltanto. Annuii e mi tirai indietro per sdraiarmi. - «Madison si chiuse a riccio e non volle più avere a che fare con nessuno. Io conobbi Caroline e cominciai a are le giornate con lei. Poi un giorno decisi di farle conoscere il vecchio Oregon. Andai a casa sua e la trascinai a forza fino in città». - «Annabelle!» – sentimmo chiamare dalla cucina. Era Cécilia. Annabelle si scusò, mise a posto la sedia ed uscì dalla stanza dicendo che doveva preparare il pranzo. - «Finisci di raccontarmi più tardi, ok?».

- «Va bene, grazie» – dissi. Lei sorrise mentre chiudeva la porta. Pensai alla mia Madison ed al giorno in cui il vecchio Oregon le fece conoscere la musica di Robert Johnson. Chiusi gli occhi e provai a concentrare i ricordi; mi venne naturale sorridere.

* * *

- «Mi spiace signore, ma Bessie è Bessie» – disse Madison scocciata. Non ne voleva proprio sapere di quei discorsi. - «Oh Santi del cielo, bambina mia. Lasciami spiegare» – le disse Oregon cercando la posizione sulla sedia. Io e Caroline ce la ridevamo. - «No!». - «Cocciuta di una bianca!» – sbottò lui infilando l’armonica in tasca e sistemando gli occhiali sul naso – «Le Bessie Smith o le “Ma” Rainey sono delle grandi cantanti di blues, le loro canzoni sono meravigliose, ma quello è blues commerciale, studiato a tavolino dai bianchi e per i bianchi. Il vero blues viene dallo spiritual, dalla segregazione razziale. Il blues esprime disperazione, solitudine, smarrimento, la condizione dolorosa dell’uomo di colore. I Robert Johnson, i Son House e Willie Brown cantavano litanie malate. Nelle loro canzoni parlano di corvi, prigioni, ferrovie, di spose violate e di ira». Madison sembrava perplessa ed il vecchio Oregon sudava dentro la sua camicia celeste cielo. Faticava come un mulo da soma. Poi per farsi capire meglio, attaccava a suonare Sweet Home Chicago o Rambling On My Mind o ancora When You Got a Good Friend. Musicalmente il blues di Johnson era più sgraziato, era evidente anche a me: aveva disintegrato l’armonia ed il ritmo, lo stile della voce era cambiato diventando un unico lancinante calvario verso l’inferno dell’anima. Nelle sue canzoni cantava di un mondo senza salvezza, senza possibilità di redenzione, dove il peccato è il prezzo da pagare per soddisfare le proprie pulsioni umane. - «Tradire, uccidere e mercificare se stessi, questo dicono le sue canzoni! Bob

era consapevole di non avere futuro! La tua Bessie il futuro se lo voleva assicurare in banca… Lo capisci o no?». Madison rimase in silenzio. Il vecchio Oregon schiumava dalla bocca. Io e Caroline, seduti da una parte, guardavamo divertiti la loro corrida. - «Insegnami a suonare quel blues» – disse alla fine Madison. - «Oh finalmente!» – disse il vecchio Oregon asciugandosi la fronte – «Ora si che mi piaci… pazza di una ragazzina bianca. Avvicinati».

* * * * *

7

Mi svegliai con il suono della dolce voce di Annabelle che mi chiamava. Ero crollato in un sonno profondo senza nemmeno accorgermene. - «Come stai?» – chiese. - «Bene». - «C’è ancora tempo prima di poter pranzare. Vuoi che ti legga qualcosa dal diario di Margharet?». Mi tirai su e dissi di sì con la testa. Prese il quaderno da sopra il comodino e lo aprì. La sua voce era ferma, precisa, come se quelle parole le conoscesse a memoria. Quasi certamente era così.

13 Settembre 1942

La polizia ha pagato alle ferrovie di stato un biglietto di sola andata di terza classe per ciascuno di noi deportati. Qualcuno dice che, se il carico superasse le mille persone, verrebbe applicata una tariffa collettiva pari alla metà di quella normale. Pazzesco. Il treno sta viaggiando lento da quando ha lasciato la stazione di Caen, a volte procede persino a o d’uomo. Molte persone si stanno sentendo male. Non c’è ossigeno e dopo mezz’ora il nostro vagone era già saturo, l’aria è irrespirabile. Sono riuscita a mettermi seduta, scrivendo e cercando di non pensare che ho fame, ho freddo, ed ho sete. I bambini piangono continuamente. La gente si urina nei pantaloni, altri defecano negli angoli del vagone. Ho visto bestie da macello essere trattate meglio di noialtri. Sento profondamente dentro il mio cuore, che questo non è che l’inizio.

Annabelle si tossì nel pugno e raschiò la voce. Mi guardò un momento poi continuò a leggere.

15 Settembre 1942

Due bambini sono morti di stenti durante il viaggio per Drancy. Le loro madri hanno pianto fin quando non siamo scesi dal treno, e poi anche dopo. Ci hanno divisi: donne, vecchi e bambini da una parte. Uomini e ragazzi dall’altra. Mio padre mi ha mandato un bacio da lontano che ho raccolto con amore. A tutti gli internati del campo di concentramento hanno fatto indossare una divisa a strisce su cui ci è stato cucito un numero ed un triangolo colorato che ne distingue la categoria: rosso per i politici, rosa per gli omosessuali, verde per i criminali comuni, nero per gli asociali, violetto per gli obiettori di coscienza, marrone per gli zingari. A noi ebrei sotto il primo triangolo ne è stato cucito un secondo di colore giallo che forma la stella di David. Alle persone poco intelligenti hanno dato un bracciale con la scritta “IDIOTA” incisa sopra. Il campo di Drancy consiste in un enorme caseggiato situato in un quartiere a basso costo di affitto chiamato “Cité de la Muette”, o almeno così ho sentito

dire. Il corpo principale è costituito da un edificio a forma di “U” su quattro piani. I due bracci dell’edificio racchiudono un cortile stretto e lungo. Tutta l’area è circondata da una triplice barriera di filo spinato, con torri di controllo ogni cinquanta metri lungo il perimetro. Ogni ora che o dentro questa prigione, ho sempre più la convinzione che non ti rivedrò più, Robert.

Pronunciando il nome di suo fratello, Annabelle ebbe come un sussulto: la voce gli si strozzò nella gola e non riuscì ad andare avanti. - «Continuiamo più tardi! Vuoi?» – disse. Risposi di sì e lei uscì dalla stanza lasciando il quaderno sul letto. Lo raccolsi e lo sfogliai attentamente. Di quando in quando Margharet aveva fatto qualche piccolo disegno, soprattutto fiori con dei lunghi gambi. Qualche ritratto, a volte. Tutta la dolcezza la metteva in quegli schizzi, le sue parole invece erano secche come cannonate. Era lucida e fredda, come il posto dove l’avevano rinchiusa. Andai in soggiorno con il cuore in tumulto. Quella brutta storia mi stava rovistando dentro lo stomaco e mi tirava fuori di tutto. - «Will!» – disse Maurice. Mi fece cenno di sedere vicino a lui. Jean si lavava le mani e Cécilia ed Annabelle riempivano i piatti con dello stufato. - «Ci sono novità?» – dissi. Annabelle tradusse per il padre. - «Ouì» – disse Maurice. Rimandando a dopo pranzo. Annabelle sembrava tesa: il suo volto era rigido, come bloccato dentro una morsa. Non capivo se dipendesse dal diario di Margharet o dalla notizia che portava Maurice. Mangiammo in silenzio. Cecilia e Annabelle sparecchiarono e Maurice andò a tirare fuori dallo sgabuzzino la bottiglia di cognac. Si fece dare cinque bicchieri. Il piccolo Jean protestò; voleva un bicchiere anche lui. Annabelle mi sedette accanto mettendomi una mano sulla coscia. - «Ecoutez-moi» – disse Maurice riempiendo i bicchieri. Annabelle mi si avvicinò e tradusse le parole del padre con un tono pacato, quasi rassegnato.

- «Dice mio padre che hanno parlato con uno della resistenza se. Gli Alleati stanno avanzando verso l’interno, i tedeschi si stanno ritirando. Dice che il porto di Caen come anche Port en Bessin sono sicuri. Questa persona gli ha anche detto che a Bayeux c’è un comando stabile delle forze alleate e che avrebbe dato loro comunicazione della tua situazione». Maurice aveva terminato di riempire i bicchieri per tutti. Cécilia dette a Jean un bicchiere con dell’acqua. Maurice si alzò in piedi subito seguito da Pierre, ci alzammo tutti tranne Annabelle. - «Facciamo un brindisi a Will che presto tornerà a casa dalla sua famiglia!» – disse Maurice. Annabelle tradusse per me con una voce sgonfia. - «Nanà!» – le disse il padre. Annabelle si alzò di controvoglia così che potemmo fare il nostro ultimo brindisi. Pierre mi diede una pacca sulla spalla ed io lo ringraziai. Cécilia mi diede un bacio sulla guancia e mi abbracciò. Tornavo a casa.

* * *

- «Ti va di fare due i?» – disse Annabelle mettendo la testa dentro la stanza. Mi tirai su dal letto annuendo con la testa. Presi il quaderno di Margharet e lo arrotolai in tasca. Uscimmo che era quasi metà pomeriggio. Maurice badava alle sue capre, mentre Pierre dava lezioni di matematica al piccolo Jean. Annabelle ed io c’incamminammo verso la scogliera. L’aria si faceva sempre più secca, ma il sole cadeva ancora senza troppa forza. Sentivo che Annabelle teneva qualcosa dentro e questo mi rendeva agitato. - «Anna…» – le dissi. Lei si voltò a guardarmi con un’aria triste – «Cos’hai?». - «Niente» – rispose. Mentiva, ed era evidente come avere un naso sulla faccia. Scegliemmo un punto e ci mettemmo seduti sull’erba. Annabelle accavallò le gambe e cominciò a dare piccoli calci nel vuoto. Io la guardavo pensando a

qualcosa da dire. - «Mi mancherai» – le dissi alla fine. Non rispose. Girò la faccia dall’altra parte e non disse niente. Strappai qualche ciuffo d’erba e cominciai a legarli insieme. Il mare lo si poteva sentire anche da dove eravamo, l’orizzonte era sgombro, la guerra ata. - «Come hai detto?» – dissi. Annabelle non disse niente. Le cercai gli occhi. Piangeva. - «Annabelle!». Si mise le mani sulla faccia e pianse a dirotto. Fiumi di lacrime tristissime. Le andai vicino e me la strinsi addosso. Le carezzai la testa e ci sganciai sopra qualche bacio. - «Annabelle. Guardami». Tirò su la testa e ci visitammo gli occhi. A quel punto non sapevo più che dire; qualsiasi cosa sarebbe stata sciocca e inutile. Ci abbracciammo ancora. - «Hai portato il quaderno?». Lo sfilai dalla tasca. - «Sì, ma non so più se è il caso» – dissi. - «Adesso più che mai: voglio che tu sappia!» - rispose Annabelle cominciando a leggere per me.

20 Settembre 1942

La vita qui al campo è durissima: veniamo svegliati all’alba e ci viene consegnato solo un tozzo di pane ed una scodella di zuppa leggera. Ci fanno incolonnare e ci portano nel cortile per l’appello. Infine raggiungiamo il posto di lavoro. Lavoriamo fino al tramonto, con un solo intervallo di circa mezz’ora

per consumare il misero pasto che ci danno. Alla fine della giornata torniamo nei nostri alloggi dove riceviamo altra zuppa. I primi tre giorni non riesci a buttarla giù: ha un saporaccio che ti si appiccica al palato ed alla lingua per ore. Il quarto giorno che patisci la fame, diventa la cosa più buona del mondo. Il pane è stantio o addirittura secco. Dopo il pasto serale viene fatto un secondo appello e quindi ci ritiriamo a dormire nelle nostre cuccette di legno, dove spesso stiamo in due. Io divido la mia con mia madre. A volte durante la notte la sento singhiozzare. Non vedo mio padre da circa una settimana. Prego Dio che sia ancora vivo.

23 Settembre 1942

Succedono molte cose ogni giorno, ed ogni giorno se ne dicono anche di più. Si dice per esempio che nelle stanze al quarto piano, sul lato nord del palazzo, si facciamo esperimenti: inoculazione di virus come la malaria, il tifo e altri per studiarne gli effetti, i tempi di reazione dell’organismo umano e le evoluzioni della malattia. Non faccio nessuna fatica a credere che queste voci siano vere. Questa gente non ha cuore. In questo posto l’uomo sta sperimentando il limite della sua inumanità. Questa gente prova gusto nello sterilizzarci, nel bruciare la carne col fosforo, vivisezionare i cadaveri. Prendono appunti, aprono discussioni. Nei “campi della morte lenta” esiste il vero inferno, ed è un inferno organizzato.

La mia mente rifiutava certe realtà. Non era possibile che tutto quello fosse successo realmente. Che ci fossero luoghi come il campo di Drancy nei quali Dio permettesse un tale scempio. Annabelle mi lasciò un momento a riflettere, poi voltò pagina e continuò a leggere, come se fosse Margharet stessa a farlo.

4 Ottobre 1942

La fame comincia a farsi sentire. Ci hanno appena comunicato che non c’è abbastanza minestra per tutti. Oggi due donne si sono prese a schiaffi ed a morsi perché una aveva ricevuto la zuppa sia a pranzo che a cena, mentre l’altra solo pochi pezzetti di rapa e cavolo. Ho visto mia madre frugare negli immondezzai fuori dagli alloggi del personale. Si litiga per dividerci gli avanzi, le bucce di patate mescolate con la cenere dei camini. Quando finalmente arrivano i rifornimenti, la merce viene prima frugata dai gendarmi che sottraggono cibarie, ricostituenti, sigarette. Ieri ad un soldato è caduta nel fango la mela che stava addentando voracemente. Ha bestemmiato e l’ha lasciata lì dov’era. Avrei dato entrambe le braccia per poterla mangiare così com’era.

Annabelle girò pagina e vacillò un momento. - «Che c’è? Vuoi fermarti?» – le domandai. Lei fece di no con la testa. Guardai sul foglio, ma ovviamente non capii cosa c’era scritto. Appena iniziò a leggere purtroppo mi fu tutto più chiaro.

12 Ottobre 1942

Ci sono centinaia di bambini qui a Drancy. Troppi bambini. Le madri dicono che vengono ammassati a centinaia nelle camere, senza letti, su pagliericci o stesi per terra a nuotare in una sporcizia stomachevole. I loro bisogni li fanno dentro dei secchi perché molti sono troppo piccoli per scendere le scale da soli, e raggiungere i gabinetti che si trovano nel cortile. Dopo le nove di sera vengono strappati dalle braccia delle loro madri perché non è permesso loro di stare nelle camerate con gli adulti. Il loro sonno è agitato, molti gridano e chiamano la mamma, ed altre volte tutti i bambini di una camerata emettono grida di terrore. I miei cugini sono tra loro.

Le madri piangono e si disperano. Ma nessuno ha il potere di fare qualcosa; nemmeno Dio sembra volersi occupare di noi.

- «20 Otto…». - «Fermati!» – dissi veloce – «Ti prego, Annabelle. Basta per adesso». Mi coprii gli occhi per non farle vedere le lacrime. Annabelle chiuse il quaderno e lo lasciò sulle sue ginocchia. Mi carezzò la testa e mi diede un bacio sulla fronte. Sentivo un groppo che mi spingeva sulla gola e feci una gran fatica a buttarlo giù. Asciugai la faccia e tornai a stendermi. Pensai al mio dolore e capii quanto poco fosse, e quanto poco fossi io. Non volli mangiare, mi si era chiuso lo stomaco. Cercai di non pensare ma era impossibile da fare. Avrei voluto mettere da parte tutto il dolore, l’angoscia, le cose di cui ero venuto a conoscenza. Spazzare via dalla mia mente le scene raccapriccianti che quel quaderno conteneva. Morire, un momento. Guardai fuori dalla finestra: il cielo era scuro, la notte fitta ed impenetrabile. Presi il quaderno dal comodino e uscii dalla stanza. Salii le scale ed andai nella camera di Annabelle. - «Will? Stai bene» – disse preoccupata. Risposi di sì, poi le mostrai il quaderno. - «Ho bisogno di sapere». Scendemmo le scale nel buio della casa. La luna effondeva una piccola luce lattiginosa che filtrava appena dalle finestre della cucina. Annabelle accese una lampada ad olio e si sedette al tavolo. Io rimasi in piedi, nel buio, ad ascoltare.

20 Ottobre 1942

Ogni settimana dei camion caricano a bordo un centinaio di noi e li portano a

Compiègne. Partono pieni, tornano vuoti. Si dice che succeda lo stesso negli altri campi di Beaune-la-Rolande, Pithiviers. I gendarmi si non ci dicono niente. Gli stessi uomini che prima della guerra assicuravano la nostra incolumità, adesso ci condannano a morte. Dieci bambini non sono tornati dalle loro madri stasera. Gli altri dicono che li hanno prelevati e portati “a fare la doccia”, così hanno detto. Oramai sappiamo tutti cosa intendono questi maiali con “doccia”. Li gasano. Li ammazzano con questo Zyklon B, così si chiama. Ci stanno sterminando a gruppi di venti alla volta. Ci fanno morire di fame, ci ammazzano di lavoro, con il gas o ci deportano in un altro campo e ci fanno ricominciare tutto da capo. Ho avuto notizie di mio padre, dicono che stia in salute, compatibilmente con la situazione. Mia madre invece invecchia di un anno ogni ora. È magra, debole, malata. Temo non riesca ad arrivare alla fine dell’anno. Come vorrei essere ancora a Caen, per mano al mio Robert. Il ricordo della sua voce mi aiuta a superare la notte.

27 Ottobre 1942

Oggi c’è stata un perquisizione. Ho nascosto il quaderno nelle mutande. Se lo avessero trovato mi avrebbero sicuramente fucilata. Pare che arrivi un nuovo direttore del campo, un tedesco. Se le cose andavano male sotto il comando della gendarmeria se, temo che con l’arrivo delle SS le cose peggioreranno. Ho paura per mia madre. Vorrei evitarle tanto dolore, ma sono impotente, come ognuno di noi del resto.

28 Ottobre 1942

Il tedesco si chiama Brunner, è arrivato a bordo di una macchina con le bandiere naziste ai lati del cofano. Le brutalità fisiche sono cominciate immediatamente: i soldati delle SS hanno schiaffeggiato donne e anziani senza motivo e picchiato gli uomini con il calcio della pistola. Ci sono state comunicate anche le nuove direttive del campo: è severamente proibito avvicinarsi ad una SS. Incontrando una SS bisogna mettersi sull’attenti. Le SS hanno libertà di picchiarci, darci ordini, fare di noi tutto ciò che vogliono senza alcuna obbiezione, pena la fucilazione. Per darci dimostrazione di quello che intendono, hanno picchiato a sangue un uomo con una specie di manganello in legno e cuoio, hanno schiaffeggiato delle donne e ci hanno tirato contro delle pietre raccolte per terra. Picchiano anche i bambini, e noi non possiamo reagire, solo rimanere sull’attenti a testimonianza del rispetto che dobbiamo ai nostri aguzzini.

- «Will, devo andare avanti?». - «Sì» – dissi nascosto nella penombra. Volevo sentire tutto. Volevo credere che niente di quello che sentivo fosse vero, e mi chiedevo perché in America non erano arrivate notizie. - «Qui c’è un salto temporale di diverse settimane» – disse Annabelle voltando pagina. Non le domandai se avesse una teoria sul perché avesse impiegato tanto per scrivere qualche riga, o aggiornare il suo diario. Annabelle mise i capelli dietro le orecchie, si schiarì la voce e tornò a leggere. 1 Dicembre 1942

Mia madre è gravemente malata. Temo che se le SS lo venissero a sapere me la porterebbero via. Cerchiamo di tenere duro. Le cose comunque sembrano

andare meglio: dopo il primo terribile periodo, Brunner, pur mantenendo il pugno di ferro con gli internati, ci ha quantomeno concesso delle piccole e grandi libertà come avere una falegnameria ed una serramenteria, un dentista ed addirittura una tipografia. Mio padre si è proposto come responsabile ed è stato accontentato. Addirittura hanno affidato a lui l’intera direzione. Un paio di giorni a settimana io e mia madre abbiamo la possibilità di vederlo quando veniamo impiegate nei lavori di copisteria. Non possiamo parlare con lui, né abbracciarci, ci limitiamo a guardarci intensamente ed a sfiorarci la mano. Adesso abbiamo una piccola speranza che le cose possano migliorare. Ogni giorno che trascorre e rimaniamo in vita, lo riteniamo un piccolo o verso la libertà.

Fermai Annabelle e le dissi che avremmo continuato in un secondo momento. Volevo rimanere solo. Chiuse il quaderno e lo lasciò sul tavolo. Mi venne a dare un bacio sulla guancia e mi diede la buonanotte. Aspettai che avesse salito le scale, poi uscii fuori, nella notte. La luna era alta in cielo, quasi piena. La guardai pensando se almeno lei fosse riuscita a capirci qualcosa. Non rispose; lo presi per un no. Feci fatica ad addormentarmi: in Europa succedeva tutto questo e noi Americani non sapevamo niente? Possibile che potessero accadere certe oscenità senza che la più grande potenza al mondo ne sapesse niente? Il mattino dopo, a colazione, guardai Annabelle in modo che intuisse le mie intenzioni senza che dovessi parlare. Mi fece di sì con la testa. Sbrigò qualche lavoro in cucina poi mi raggiunse tra l’erba alta. Era una buona mattina di sole. L’aria era gradevole, il cielo pulito. Tolsi il quaderno da sotto la camicia e glielo misi in mano. Annabelle lo sfogliò fermandosi al punto in cui avevamo lasciato la sera prima. Mi diede una rapida occhiata, poi riprese a leggere.

25 Dicembre 1942

Oggi è Natale dappertutto, non qui a Drancy. Stamani sveglia all’alba, zuppa e lavoro. Pausa, lavoro e ancora zuppa. Mia madre ha avuto un forte attacco ieri

ed è stata portata via da alcuni soldati delle SS. Non ho potuto trattenerli. Probabilmente a quest’ora sarà già morta. Non sono riuscita nemmeno a mettermi in contatto con mio padre. L’uniforme mi va larga e la devo tenere su con un lenzuolo legato in vita. Ho perso un altro dente stanotte. Tra un paio di giorni torneranno per rasarci la testa, di nuovo. Sarà la seconda da quando sono arrivata a Drancy. Se qualcuno in questo momento mi offrisse la possibilità di decidere tra continuare a vivere o morire, sceglierei senza nessuna esitazione di morire.

Annabelle spostò i capelli dal viso e mi guardò un momento. Io ero concentrato su di lei. - «Cosa c’è?». - «Manca una sola pagina» – disse Annabelle. - «Una soltanto?». Mi rispose con un cenno della testa. Mi arono per la mente molte cose. Immaginai Margharet dimagrita, scheletrica, senza nessuna luce negli occhi ma solo una gran voglia di lasciarsi morire. - «Hai avuto più notizie di lei?». - «Nessuna». - «Quindi potrebbe ancora essere viva?». Annabelle accennò un sorriso non troppo convinto. Guardò di nuovo il quaderno e carezzò la copertina. - «Come si sono conosciuti?» – le chiesi. Ora Annabelle sorrideva come solo lei sapeva fare.

- «Margharet era seduta su una panchina della stazione di Caen, fuori dalla caffetteria. Mio fratello le si avvicinò chiedendole semplicemente: “Posso offrirti un caffè?”. Il cielo prometteva pioggia. Margharet rimase colpita ed accettò il suo invito. Sorseggiarono il caffè guardando i binari della stazione. Chiacchierarono a lungo, poi Robert allungò una mano e prese quella di Margharet. Si guardarono già innamorati, pronti a fare il tuffo nel vulcano. “Cosa ti terrorizza Margharet?”, le chiese Robert. Lei rispose: “La cattiveria delle persone”. “Qualcos’altro?”, insistette Robert. “La solitudine”, rispose di nuovo Margharet. “E a te cosa terrorizza Robert Montreau?”. “Il silenzio”. “Che altro?”. “Le lunghe chiacchierate”. Si baciarono come due piccioni che tubano e gridano giù per le grondaie». Sorrisi. Era un amore perfetto, come lo avrei voluto io. Avrei tanto voluto baciare Annabelle, ma non lo feci subito e me ne pentii. - «Dobbiamo tornare» – disse. - «Manca l’ultima pagina». - «Abbiamo tempo». - «Mi hai detto che potevi fermare Robert; in che mo-do?» - «Te lo racconto mentre torniamo». A cena Maurice portò un vino rosso molto buono e molto forte. Mangiammo ma soprattutto bevemmo così tanto che quando andai a letto ero ubriaco, e camminai impacciato come se avessi le gambe nel fango fino alle ginocchia. Il mattino successivo fui svegliato dalla voce roca di Maurice che mi entrava nel sonno. Aprii gli occhi e lo vidi sopra di me, con quella barba folta e quei suoi soliti occhi brillanti. Diceva qualcosa che non capivo. Mi alzai e guardai fuori dalla finestra. Si avvicinava qualcosa, mi sembrò un carro con le ruote; non riuscivo a vedere bene con gli occhi ancora appannati. Poi riuscii finalmente a mettere a fuoco: era una jeep con dei militari sopra. Gli occhi mi si scollarono all’istante. Infilai un paio di pantaloni e corsi fuori seguito da Maurice. Gli altri Montreau erano già sulla porta. La jeep parcheggiò davanti alla famiglia schierata. C’era un giovanotto alla guida ed un ufficiale al posto del eggero. Scesero.

- «Sono il maggiore Sinclair!» – disse questo - «Lei è il soldato di fanteria William O’Neill?». - «Sì, signore». - «Si è dimenticato che si saluta un superiore?». - «Ho dimenticato un sacco di cose signore». Sorrise. Tolse il cappello e salutò i Montreau uno per uno. Si fece portare dal soldato che era con lui una sacca piena di viveri e la consegnò a Maurice che lo ringraziò. - «È pronto a tornare a casa soldato O’Neill?». Il sangue mi finì tutto nei piedi. Guardai Annabelle che non fece una mossa. I suoi occhi erano gelidi. - «Sì, signore» – risposi. - «Bene, allora prenda le sue cose. La porterò alla base di Bayeux dove salperà con la prima nave per l’Inghilterra. Da lì farà ritorno in America dove la stanno aspettando per farle i giusti onori. Mi faccia vedere la ferita». - «Sì, signore». Mi aprii la camicia e gli mostrai il bendaggio. Fece una faccia impressionata. Guardai i Montreau e tornai in casa. Raccolsi le mie poche cose in una busta di carta e guardai la stanza per l’ultima volta. Quando mi voltai sulla porta c’era Annabelle. I suoi occhi erano incelofanati dalle lacrime che faceva una gran fatica a trattenere. Le andai incontro e la baciai sulle labbra. Un bacio caldo, umido a causa delle lacrime che le scesero mentre le spingevo la faccia contro la mia. Ci staccammo e ci stringemmo forte, quasi a romperci le ossa. Non avevo mai provato un dolore simile in tutta la mia vita. Le budella mi si annodarono ed il sangue mi sembrò evaporare fuori dalle vene. Il clacson della jeep suonò un paio di volte. Baciai Annabelle una seconda volta e la salutai con gli occhi, senza dirle niente. Non era davvero necessario. - «Tienilo tu» – disse Annabelle mettendomi il quaderno in mano.

- «No Annabelle, non posso prenderlo». - «Voglio che lo tenga tu. Ti prego». - «E l’ultima lettera?» – dissi con un filo di voce. - «Troverai qualcuno». Ci baciammo ancora, poi scappai fuori. Pierre mi diede un bell’abbraccio e la solita pacca sulla spalla. Jean pianse qualche lacrima; me lo strinsi addosso e lui mi allacciò le sue braccine attorno al collo. Cécilia mi diede un bacio per guancia e mi disse qualcosa che non capii e che era meglio non avessi capito. Maurice mi tenne stretto senza dire una parola. Mi prese il collo dentro le sue grandi mani e mi scrollò la testa come un barattolo di biscotti. - «Au revoir» – disse. - «Grazie» – replicai. Salii sulla jeep che ripartì subito. Mi voltai a guardare la fattoria di GrandcampMaisy ancora una volta. Il tetto ondulato, la stalla tirata su a forza di speranza, il camino che fumava e loro, i Montreau, che mi salutavano stringendosi l’uno con l’altro. Perdemmo presto di vista la fattoria di Grandcamp-Maisy, non appena lasciammo quella specie di sentiero per la strada costiera. Quella era una giornata grigia, con nuvole basse e rarissimi sprazzi di sole. La jeep continuava a prendere buche ed a saltellare a destra ed a sinistra, e la ferita cominciò a pulsare e ad elargire come delle piccole punture. Mi sentii improvvisamente stanco ma mi costrinsi a rimanere sveglio. Guardai il paesaggio immobile e bellissimo della Normandia se. Il mare era appena agitato e tirava quel poco di vento che riusciva ad incresparlo appena. Potevo contare le onde che correvano verso la riva formando piccole striscioline di spuma bianca, che poi si spegnevano dopo poche decine di metri. La costa invece si affacciava sul mare disordinatamente, con lunghe lingue di roccia dalle punte frastagliate e ripidi strapiombi. Tutto era in pace, tutto faceva finta che a pochi chilometri di distanza non stesse succedendo niente.

- «Soldato?» – disse il maggiore Sinclair voltandosi indietro. - «Sì, signore». - «Quanti nazisti hai ammazzato?». Ero stanco di parlare della guerra, volevo solo guardare il mare. - «Nessuno signore». - «Dici sul serio?» - il maggiore Sinclair sembrava molto sorpreso. - «Sì, signore». - «Sai sparare figliolo?». - «Non centrerei il mare nemmeno se sparassi da una barca, signore». Mi guardò ancora, questa volta deluso. Lo irritava la mia indifferenza. Si aspettava di avere di fronte una specie di macchina da guerra, addestrata, preparata, efficiente e spietata. Ed invece aveva caricato a bordo un molliccio contadino che aveva avuto solo una gran botta di culo, uno che nella guerra c’era stato tirato dentro come una pallina su un campo da golf. A me non importava niente di cosa stesse pensando; mi importava solo di Annabelle, dei Montreau, della mia famiglia, di Madison. La guerra mi aveva tolto troppo: innocenza, fiducia, coraggio, ma soprattutto il mio migliore amico, Jesse. Ora che ci pensavo, lo avevo abbandonato su quella spiaggia senza nemmeno preoccuparmi di che fine fero le sue spoglie. Me lo ero tolto da dosso e me n’ero andato, frastornato, confuso, e poi non lo avevo più cercato. Oramai mi stavo punendo per ogni cosa. La jeep prese ancora un’altra buca e la ferita mi fece male. Mi avvicinai la mano al petto e strinsi i denti. - «Le dispiace se mi sdraio, signore?» – domandai al maggiore Sinclair che non rispose. Credo che ce l’avesse con me: tutta quella strada per cosa? Un nonnulla ferito di striscio? Ci avrei scommesso che avrebbe preferito essere in prima linea per sparare sui cattivi anziché trovarsi su quella jeep. Aveva il profilo duro di uno che stava pensando proprio a quello. Non aspettai una risposta e mi sdraiai tenendomi il petto con la mano. Chiusi gli occhi e pensai ad Annabelle, ai suoi capelli che si muovevano col vento, alla sua bocca morbida. «Avrei dovuto baciarla più di quel che ho fatto!» – pensai. Richiamarla alla mente mi rilassò i

muscoli e mi stampò uno stupido sorriso su quella faccia balorda che avevo. Guardai le nuvole coprire tutto con morbidezza. Quella luce lattiginosa mi diede fastidio agli occhi e decisi di chiuderli, sforzandomi di non pensare, ma era impossibile. I pensieri facevano a gara nella mia testa come in una corsa di cani. Misi un braccio sugli occhi e ne cercai solo uno. Uno giusto per occupare il tempo. Decisi per l’ultimo, il più fresco. Annabelle me lo aveva raccontato ieri sera, prima di entrare a casa per la cena.

* * *

Robert tardava a rientrare e Maurice, anche se cercava di non darlo a vedere, era molto preoccupato. Cècilia armeggiava in cucina e cercava di tenersi occupata, mentre Annabelle giocava con suo fratello guardando continuamente fuori dalla finestra. - «Perché ci mette tanto?» – chiese Cècilia a Maurice quando rientrò dalla stalla. Maurice non rispose, si lavò le mani e si sedette a tavola con il viso contratto. Cenarono, in silenzio, poi si radunarono tutti vicino al camino, sempre in silenzio. Nemmeno il piccolo Jean diceva una parola. Quando finalmente la porta si aprì, Maurice saltò in piedi infuriato, ma fortuna di Robert che sua madre anticipò tutti e gli saltò al collo baciandolo sulle guance. - «Dove sei stato?» – disse Maurice incattivito dall’ansia. - «Lo sai dove sono stato papà, perché me lo domandi» – rispose asciutto Robert lanciando sulla tavola un paio di conigli appena cacciati. Sfilò il fucile dalla spalla, lo appoggiò al muro e si sciacquò la faccia. - «Ti riscaldo la cena» – disse Cècilia. - «Non c’è bisogno» – disse Maurice – «Robert non ha fame». - «Maurice!» – sbottò Cècilia.

- «Non importa mamma, non ho fame» – disse Robert guardando suo padre dritto negli occhi e salendo le scale velocemente. - «Maurice!» – fece ancora Cècilia, ma Maurice Montreau era più duro della roccia mentre cercava di far capire a suo figlio che questa guerra non era la sua. Annabelle salì le scale e corse dal fratello che si stava togliendo gli stivali. - «Che vuoi Nanà?». - «Dove sei stato?». Robert sorrise. - «Lo sai benissimo anche tu dove sono stato, dagli amici della resistenza se». Tolse uno scarpone e iniziò a slacciare l’altro. - «Ma perché più semplicemente non rimani qui a difendere noi?». - «Per questo c’è nostro padre». - «Robert!». - «Ascoltami bene Annabelle» – sbottò Robert mettendosi in piedi, ma cercando di non alzare troppo la voce – «Non me ne starò qui ad aspettare che vengano ad ammazzarmi o che tutto sia finito. Preferisco essere uomo e combattere per il mio paese». - «Ma il tuo paese non te lo sta chiedendo» – provò a dirgli Annabelle. - «Forse è vero» – disse Robert slacciando la camicia – «Forse hai ragione, ma voglio raccontarti una storia che ho sentito oggi. Una famiglia: padre, madre, due bambini piccoli, nessuna voglia di intromettersi. Il padre aveva ricavato una stanzetta nella loro cantina, ben nascosta, al sicuro…» – Annabelle ascoltava in silenzio, mentre Robert continuava a prepararsi per la notte – «Un giorno succede che il padre viene catturato da una pattuglia tedesca e costretto a rivelare dove si nascondono i suoi parenti. Lui non parla. Allora questi lo portano nella sua casa, lo trascinano in cantina, e cominciano a torturarlo fino a quando la

moglie, esasperata dalle grida del marito, scoppia a piangere disperata da dentro il suo rifugio. I tedeschi scoprono l’ingresso del nascondiglio, dietro un armadio. Prendono la moglie, legano il marito e tengono a bada i figli mentre uno dopo l’altro violentano la donna e la picchiano ferocemente fino ad ucciderla di pugni e calci. Poi costringono i bambini a vedere il padre che si prende una pallottola in testa…» – Annabelle adesso piangeva – «Tu penserai: “L’incubò è finito?”. No, non per quei maiali. Legano mani e piedi dei bambini e li chiudono dentro l’armadio, ci girano intorno una catena e lo sigillano per bene. Quando hanno finito ed i bambini piangono e chiamano la mamma, bagnano l’armadio con la benzina e gli danno fuoco. Fuoco Cristo!» – disse tra i denti Robert avvicinandosi alla faccia di sua sorella – «E questo è successo a venti chilometri da qui. Non importa quanto lontano possiamo scappare, ci troveranno, ci tortureranno per il loro piacere personale e poi ci uccideranno». Annabelle singhiozzava. Robert capì di aver esagerato: le si avvicinò e se la strinse addosso. - «Io me ne vado da qui Nanà, stanotte. Pascal e gli altri mi aspettano. Promettimi che non lo dirai a papà, lui non capisce. Me lo prometti?». Annabelle se lo strinse addosso con più forza. Sapeva di non poter evitare questa cosa, ma allo stesso tempo non voleva che Robert se n’andasse. - «Sì!» – disse piano – «Te lo prometto». Robert sorrise e la baciò sulla testa. - «Brava Nanà, ora però scendi, mi devo preparare». - «Robert, promettimi che almeno scriverai una lettera a mamma e papà». - «Nanà, non ho tempo per questo». Annabelle guardò suo fratello con due occhi imploranti, ai quali Robert non riuscì a dire di no. - «E va bene… Ora scendi di sotto». Si guardarono e si sorrisero. Nessuno dei due immaginava che quella sarebbe stata la loro ultima volta insieme.

Il mattino seguente Annabelle si svegliò di buon’ora e trovò il letto di Robert già vuoto, come pensava. Ebbe un sussulto. Scese di sotto e sul tavolo della cucina trovò un foglio piegato in due parti. Lo lesse per prima.

Caro Padre e cara Madre, So di darvi un grande dolore lasciando la nostra casa nel mezzo della notte, ma non trovo altro modo per fare quello che la coscienza m’impone di fare. Non riesco più a sopportare tanta ingiustizia, tanta inutile sofferenza senza muovere un dito per evitarla. Sento che il mio cuore mi spinge a darmi totalmente a questa causa anche a costo della mia stessa vita. Oggi si fa la storia, ed io ne voglio far parte. Vi prego di non cercarmi, di non impedirmi di compiere il mio destino. Mi mancherete moltissimo, ma spero di rendervi fieri di me come io lo sono di voi. Il mio unico e solo pensiero, durante le battaglie che mi attendono, sarà quello che sto contribuendo anche alla vostra sicurezza ed alla vostra libertà. Papà, lascia che io decida per me, come tu da buon padre hai sempre deciso per tua moglie e per i tuoi figli. Ho il desiderio di tornare a casa da vincitore, fiero di portare il tuo cognome e dimostrare a te più che a chiunque altro, la forza ed il coraggio che pervade il mio spirito. Vi amo fortemente. Robert.

Annabelle non fece in tempo a finire di leggere che Maurice uscì dalla sua stanza e le tolse la lettera dalle mani. La lesse in silenzio, scorrendo le parole con gli occhi. Quando ebbe finito, la piegò e la mise in tasca. - «Papà!» – disse Annabelle cercando di trattenere le lacrime. - «Tuo fratello è la persona più stupida che conosca. Stupido ed incosciente!» – disse Maurice digrignando i denti per la rabbia. Andò verso la porta e la aprì. - «Papà, cosa farai adesso?» – gli domandò Annabelle fermando Maurice sulla porta.

- «Pregherò nostro Signore che me lo riporti a casa» – rispose Maurice, poi uscì di casa.

* * *

- «Soldato! Soldato!» – la voce rauca del maggiore Sinclair mi esplose nelle orecchie come una bomba – «Sveglia soldato, siamo arrivati». Mi tirai su tutto intorpidito. Meglio sarebbe stato se avessi continuato a dormire. Bayeux era un labirinto di tende sistemato su una palude di fango, con infermiere e dottori che facevano avanti ed indietro, e soldati che sembravano essere stati rappezzati alla meglio. Da alcuni di questi il campo militare di Bayeux era soprannominato “Bayeux meno qualcosa” perché chi non moriva in battaglia e arrivava lì, aveva sicuramente lasciato qualcosa da qualche parte: un braccio, una gamba, un occhio, la vista, l’udito. Tutti pagavano dazio, tutti tranne me ovviamente. Arrivati al campo militare di Bayeux, il maggiore Sinclair diede ordine al soldato d’accompagnarmi all’ospedale da campo. Probabilmente ero il prima ad esserci entrato sulle mie gambe. C’erano lettighe disposte su quattro file per tutta la lunghezza del tendone. Alcuni soldati piangevano a fiumi, altri chiamavano la mamma, altri ancora non avevano nemmeno la forza di respirare. C’erano ovunque bende, sangue, piscio, merda e un intenso odore di disperazione. Il soldato mi fece sedere su una lettiga libera. - «Ti vado a chiamare un dottore» – disse. - «Grazie». Mi fece un cenno e se ne andò. Buttato sulla barella alla mia sinistra c’era un ragazzo con tutti e quattro gli arti amputati. Dormiva. In quella alla mia destra ce n’era un altro con gamba e braccio sinistri steccati e benda sull’occhio destro. - «Ciao» – disse. - «Ciao».

- «Come ti chiami?». - «William». - «Ciao William, io sono Spencer». Ci facemmo un cenno con il mento, poi tornai a guardarmi intorno. Alcune infermiere facevano avanti ed indietro come le palline di un flipper. - «Cos’è che hai?» – mi chiese. - «Come?». - «Mi sembri più sano del dottore, che cos’hai?» – ancora Spencer. - «Mi hanno sparato». - «Capirai che novità; hanno sparato a tutti qui dentro». Tornò il soldato con il dottore. Era giovane, troppo giovane, ma con la faccia di chi ne ha già viste troppe. Moro, capelli corti ed occhi piccoli come acini d’uva. Prese una cartelletta da sotto la mia branda ed una penna dal taschino del suo camice. - «Nome e Cognome» – disse. - «William Michael O’Neill». - «Data di Nascita?». - «14 Maggio 1920». - «Reparto?». - «Prima Armata, Centosedicesimo Reggimento Fanteria di sbarco alla spiaggia di Omaha». A queste parole il dottore fermò la penna sul foglio. Spencer si alzò dalla sua branda, ed il povero ragazzo senza arti voltò la testa dalla mia parte. Mi sentii in imbarazzo.

- «Eri davvero laggiù?» – chiese Spencer. Gli feci di sì con la testa. - «Dove ti hanno colpito soldato?» – chiese il dottore. M’indicai il petto. - «Infermiera!» – chiamò – «Venga qui». Si avvicinò una ragazza molto carina, con i capelli riccioli legati sulla testa come una bambola. Aveva la divisa schizzata di sangue e di qualcosa di scuro che poteva essere fango o più probabilmente merda. - «Mi faccia vedere» – disse il dottore. Sbottonai la camicia e mostrai il bendaggio che Annabelle mi aveva fatto solo il giorno prima. - «Chi l’ha curata?». - «Una famiglia se». Annuì come a dire che avevano fatto un buon lavoro, poi chiese all’infermiera di portagli delle forbici. Mi fecero sdraiare ed iniziarono a lavorare sulla fasciatura. Quando finirono il dottore cominciò ad ispezionare il foro d’entrata quasi rimarginato. La pelle intorno alla ferita era arrossata, quasi morta. - «È stata pulita bene» – disse il dottore ad alta voce. Spencer si avvicinò per guardare meglio – «Il proiettile è stato estratto?». Risposi di no. - «Le fa male?» - «Non molto, adesso». Il dottore si rimise dritto e si asciugò la fronte con la manica del camice. Scrisse qualcosa sulla cartelletta e disse: - «Soldato, il proiettile contiene piombo, potrebbe rischiare un’infezione. Potremmo estrarlo qui sperando di trovarlo immediatamente, oppure rimandare l’estrazione del proiettile a quando sarà tornato a casa. Decida lei, la vita è la sua».

Riabbottonai la camicia e mi rimisi seduto sul letto. Ero stato eloquente. Il dottore mi fece un cenno, posò la cartella e se ne andò. L’infermiera rimase. Controllò le fasciature attorno ai mozziconi del ragazzo senza arti, poi mi guardò e sorrise: - «Ciao, io sono l’infermiera Penny» – disse. - «E chi se lo dimentica» – fece Spencer. - «Non fare caso a lui» – disse ridendo. Il suo sorriso in quel posto era come una secchiata d’acqua fredda all’in-ferno. Prese una bacinella di piscio sotto la branda del ragazzo mutilato e se ne andò anche lei. - «Ehi William?» – disse Spencer – «Raccontami di Omaha!». - «In un’altra vita forse» – risposi buttandomi a letto. Non avevo certo voglia di parlare o ricordare ancora. Mi sentivo spossato, triste ed inutile. Pensai ad Annabelle ed alle sue belle labbra. Mi girai su un fianco dalla parte di Spencer. - «Era l’inferno?» – disse. - «Tu sei molto peggio» – gli risposi; poi mi voltai dalla altra parte. Il ragazzo mutilato mi guardava. Aveva gli occhi di un nero intenso, i capelli cortissimi ed una testa perfetta. - «Io sono Mike» – disse. - «Ciao Mike». - «Hai una sigaretta?». - «No». - «Cristo, se non fumo subito una sigaretta diventerò invalido sul serio» – disse, poi sorrise. Gli mancava anche qualche dente. - «Non ho sigarette…» – dissi – «Mi spiace». - «Ah non preoccuparti, sono abituato a rinunciare alle cose». Provai a sorridergli ma ero stanco. Un torpore mi salì dalle gambe fino alla punta

dei capelli e le palpebre mi si chio come i portelloni di una nave. Crollai in un sonno profondo. Feci un sogno strano. Più che un sogno era un vecchio ricordo di quando ero piccolo, in pratica l’unica volta che io e Madison ci scambiammo un vero bacio. Eravamo seduti vicino alla riva del Mississippi, lei aveva portato la sua chitarra anche se non aveva troppa voglia di suonare quel giorno. Io mi ero sdraiato sull’erba e guardavo il cielo terso. Nemmeno una nuvola, nemmeno uno sputo di vento. - «Tu mi trovi carina?» – disse Madison tutto d’un tratto. - «Come?» – dissi anche se avevo già capito benissimo la prima volta. - «Niente, lascia stare». - «No avanti, ripeti». Mi appoggiai sui gomiti e strappai un filo d’erba che infilai in bocca. Madison s’era pentita di averlo detto ad alta voce, lo si capiva bene: era diventata rossa sulle guance e s’intrecciava i capelli come tutte quelle volte che era nervosa. - «Te lo dico, ma prometti di non ridere!». - «Promesso. Dimmi». Fece una smorfia ed un sospiro. - «Ho detto se mi trovi carina». Provai a trattenermi con tutte le forze ma alla fine scoppiai a ridere. - «Will!» – disse prendendomi a pugni – «Bugiardo, me lo avevi promesso!». Io non la ascoltavo e continuavo a morire dal ridere. Non ero abituato, tutto lì. Madison mi spinse indietro e mi saltò sopra. Mi diede una raffica di cazzotti ed io non sapevo se ridere o dirle di smetterla. Feci entrambe le cose. Mi assestò un paio di cazzotti sulle costole che accusai. - «Basta, basta!» – la pregai invano. La presi per i polsi e tentai di fermarla ma

era più forte di me. L’unico modo per farla smettere era abbracciarmela e tirarmela addosso. Lo feci. La afferrai per le spalle e me la misi sopra. Petto contro petto, naso contro naso, la mia bocca vicino alla sua. Lei, sorpresa, smise subito di colpirmi. Io capii subito in che brutto guaio mi ero andato a cacciare. Rimanemmo fermi, immobili come alberi. Non l’avevo mai guardata da così vicino nonostante fossimo cresciuti insieme e l’avessi avuta tra i piedi ogni santissimo giorno negli ultimi dodici anni. In quel momento, su quel prato, lei, la mia Madison, era una sconosciuta. Chiuse gli occhi e fece fare alla sua bocca un breve tragitto finché non trovò le mie labbra. Erano morbide, leggermente salate. Quando aprì la bocca per tirare fuori la lingua, m’irrigidii come un sasso. La spinse sopra la mia dando una leggera spennellata, poi riaprì gli occhi. Mi trovò rigido, con gli occhi sbarrati e la bocca ancora semiaperta. Fece uno scatto indietro e mi si tolse da dosso. - «Scusa» – disse soltanto prima di scappare via.

* * *

- «Will! Ehi Will!» – sentii entrarmi nel cervello come un ronzio fastidioso. Aprii gli occhi. Spencer mi teneva per un braccio. - «Che vuoi?». - «Guarda!». - «Cosa?». Mi fece un cenno con il mento mentre si umettava le labbra. Mi voltai nella direzione che mi stava indicando. Penny era piegata su un soldato che abbaiava come un cane. Cercava di tenerlo fermo buttandocisi sopra e sporgendo in fuori il sedere. - «Come vorrei affondare la faccia dentro quelle chiappe!». Mi slegai dalla sua presa e mi asciugai la faccia con entrambe le mani. Ero

infastidito: da lui, dalla situazione, dal suo poco tatto. - «Ma cosa sei, una checca?» – sbottò Spencer facendo schioccare le labbra – «Tu che dici Mike?». - «Che la faccia è l’unica cosa che ci potrei affondare dentro» – rispose Mike. - «Bravo ragazzo mio!» – gli disse Spencer prima di scoppiare a ridere. Mike mi sorrise e mi disse con gli occhi di lasciar perdere. Gli annuii. - «Hai fame?» – mi chiese Mike. Dissi di sì. - «Ehi Meg!» – chiamò con una bella voce e un delizioso accento – «Il nostro eroe ha fame. Gli porteresti qualcosa?». Un’infermiera grassottella gli annuì con la testa. Lui la ringraziò lanciandole un bacio che lei fece finta di prendere al volo. - «Grazie!» – dissi – «Tu non hai fame?». - «No». Rimanemmo un momento in silenzio. - «Com’è successo?». - «Com’è successo? Semplice: mi hanno portato un vassoio di roba da mangiare e sono stato imboccato finché non ho detto basta…». Ci facemmo una risata sciocca. Mike era davvero una persona incredibile. Io al posto suo mi sarei lanciato su una baionetta. - «Una mina antiuomo. Quello che non ho perso subito me lo hanno dovuto amputare». - «E Spencer?». - «La gamba ed il braccio se li è rotti cercando di portarmi in salvo. Per l’occhio invece è stata una scheggia della stessa bomba».

- «Quindi è un eroe?». - «È mio fratello» – rispose con un sorriso pieno, orgoglioso. Arrivò l’infermiera Meg con un piatto di pasta e fagioli. Una brodosa zuppa che sapeva di terra bruciata. Finii tutto in pochi minuti. Spencer si alzò dalla branda per andare a pisciare. Mike mi cominciò a raccontare. Le flotte americane ed inglesi erano sbarcate al porto di Caen da nemmeno venti minuti. Il porto e la zona limitrofa era stata presa a cannonate per diverse ore, i tedeschi ritiravano lentamente. Per rallentare l’avanzare degli alleati, cominciarono a seminare le strade di mine coprendole con la terra o pezzi di macerie; un lavoro accurato. A gruppi di dieci, americani ed inglesi scesero a terra e cominciarono ad avanzare verso l’interno. C’erano mezzi da sbarco anfibi, mitragliatrici e tutto l’armamentario per conquistare l’obiettivo prefisso. Il gruppo di Mike e Spencer uscì per secondo. Con loro c’era un certo Dave del Texas, un bravo ragazzo, alto, secco, biondo quasi albino. Lui era l’ufficiale più alto in grado ed era a capo del plotone. Il porto di Caen era deserto, in giro non c’era nemmeno un elmetto tedesco; sembrava tutto tranquillo. La prima squadra si diresse a nord est in direzione del municipio, la squadra di Mike e Spencer invece a nord ovest. Si erano disposti in formazione con Mike e un altro soldato come esploratori davanti al gruppo. Spencer era dietro. C’erano cadaveri ovunque, teste spappolate, donne abbracciate ai loro bambini dentro pozze di sangue polveroso. Fuoco, fumo, non si vedeva un granché. Mike sentì uno strano crepitio e diede segnale di stop a tutto il plotone. Spencer mise il calcio del fucile contro la spalla destra, pronto a fare fuoco. Intanto teneva d’occhio suo fratello che avanzava lentamente, un o alla volta. Dave si mise dietro a Mike, in copertura. Erano tutti in attesa dell’ordine di via libera, pronti come animali sul punto di scattare. Spencer guardò il fratello, il fumo davanti a lui si stava diradando. Fu allora che gli cadde l’occhio davanti ai piedi di Mike e vide quel mucchietto di macerie senza senso: un piccolo castello di sassi che sembrava fosse stato messo lì di proposito. Mike guardava dritto e gli andava incontro. «Mike!» - gridò Spencer, ma non fece in tempo a fermarlo: il piede di Mike innescò la carica e quando lo rialzò la bomba esplose. Dave del Texas fu sbalzato qualche metro indietro crivellato dalle schegge. Una di queste sfiorò le teste degli altri e filò dritta nell’occhio di Spencer, che cadde indietro perdendo il suo fucile. Iniziarono a piovere raffiche di mitra, proiettili che fendevano l’aria come un vento metallico. I tedeschi si erano rimpiattati per bene, ed ora ci davano dentro con i mitra. Spencer continuava a chiamare il fratello, soffocando in gola

il dolore per quell’occhio che gli era stato spappolato dal frammento della bomba. Qualcuno riuscì a rispondere al fuoco, ma venne colpito quasi subito. Spencer si girò sulla pancia e cominciò a spingere sui gomiti in direzione di Mike. Raggiunse il corpo di Dave del Texas, estrasse la sua pistola e sparò qualche colpo a vuoto. Il sangue gli copriva metà faccia: lo beveva, lo sputava, lo sentiva colare sulla faccia come se fosse olio. Andò ancora avanti qualche metro, sempre rimanendo basso. Mike era riverso a terra, a pezzi, buttato via. Entrambe le gambe gli si erano spappolate subito: quella sinistra aveva ancora il ginocchio, mentre la destra era a brandelli dalla coscia in giù. Il braccio destro era ancora attaccato anche se scarnificato, mentre quello sinistro gli penzolava attaccato solo per un lembo di carne. Spencer si avvicinò al volto bruciato e sanguinante del fratello. Gli mise la testa sul petto e lo sentì respirare ancora. «È vivo!» - pensò. Lo prese per il braccio buono e lo trascinò via. «Spencer! Che cazzo fai lascialo!» - gli gridarono i suoi commilitoni tra una raffica e l’altra. «È vivo!» - rispose lui - «È ancora vivo!». I proiettili continuarono a sfiorargli le orecchie mentre tirava Mike lontano dallo scontro. Alla fine se lo prese in spalla e cominciò a correre. Non sapeva quanto ancora Mike sarebbe rimasto in vita, ma quello che si poteva tentare, Spencer lo voleva tentare fino in fondo. I tedeschi cominciarono a prenderlo di mira, Spencer sentiva i proiettili rimbalzare vicino ai suoi piedi, fischiare vicino alla sua testa. Portava Mike come uno zaino a tracolla e correva più veloce che poteva. Quando vide un piccolo cratere sulla sua sinistra, ci si buttò dentro senza pensarci. Atterrò male sulla gamba e se la ruppe in due parti, poi tentò di proteggere la caduta con la mano e si ruppe anche il braccio che si piegò a novanta gradi dalla parte sbagliata. Spencer cacciò un urlò. Lasciò andare il fratello che continuava a perdere bicchieri di sangue ogni secondo. Poi ci fu uno scoppio, poi un altro, una raffica di fucili ed un rumore di i e cingoli: erano arrivati i rinforzi. - «Quando sono arrivato qui non avevo nemmeno un litro di sangue in corpo» – asserì Mike quel pomeriggio. - «Cristo!» – dissi. - «Se non fosse stato per mio fratello, credo che mi avrebbero lasciato crepare». Guardai Spencer che inseguiva l’infermiera Penny zoppicando sul suo gesso. Lei lo teneva lontano scacciandolo come una mosca. - «Tu invece? Che ti è successo ad Omaha?».

- «Niente». - «Ah scusa, non ti va di parlarne?». - «No, figurati, è quello che è successo veramente: niente. Sono sbarcato, ho evitato proiettili per quasi cento metri e poi mi hanno colpito. Ecco tutto. Non ho nemmeno sparato un colpo». - «Meglio no?» – disse Mike sorridendo – «E dove sei stato tutto questo tempo?». - «A casa di una famiglia se». - «Brava gente?» – chiese Mike. Dissi di sì con la testa mentre Spencer veniva verso di noi. - «Ehi erina?» – disse rivolto a me – «Ti va un goccio di brandy?». - «No». - «Mike?». - «E me lo chiedi?». Spencer gli avvicinò la bottiglietta alle labbra. Gli sollevò la testa e gli mandò giù una sorsata di brandy. - «Cazzo fratello… sei caldo come l’inferno, tutto bene?». - «Ho solo un po’ di febbre». - «Penny!» – chiamò Spencer preoccupato – «Vieni un po’ qui». - «Avanti Spencer non c’è bisogno…» – disse Mike. Penny si avvicinò alle nostre brande domandando cosa stesse succedendo. Spencer gli disse della febbre di Mike, e Penny andò a prendere qualcosa per misurargliela. - «Non è niente!» – continuava a dire Mike con il termometro in bocca.

- «Fammi vedere» – disse Penny sorridendogli. Quando guardò il termometro tornò improvvisamente seria. Lo diede in mano a Spencer e corse a chiamare un dottore. Quando Spencer guardò il termometro, anche lui come Penny contrasse le labbra in una smorfia. - «Che c’è? Quanto segna» – gli domandai preoccupato. - «Quarantatre» - rispose Spencer. Era una sera fresca quella in cui Mike morì. A me sembrava la miglior notte che vedevo da mesi: limpida, silenziosa e illuminata come un luccioleto. Stavo seduto da una parte e pensavo ad Annabelle e a Madison. - «Infermiera!» – sentii gridare dal tendone – «Infermiera!». Era la voce di Spencer. Mi alzai e corsi dentro. Mike aveva la febbre alta già da diversi giorni e non gli si era abbassata di nemmeno mezzo grado. Spencer era sopra il corpo mutilato di suo fratello e gli teneva la faccia con entrambe le mani. - «Mike!» – disse – «Se mi muori giuro che non te lo perdonerò mai!». Il dottore lo riempì d’iniezioni per circa mezz’ora, ma non ci fu niente da fare. Mike Richarson dall’Alabama, morì il 25 Agosto in una insolitamente fresca serata estiva, nel Campo Base Americano di Bayeaux, nella Normandia se.

* * * * *

8

- «Chi è William O’Neill?» – stava gridando un soldato in uniforme da combattimento – «William O’Neill?». Ero sdraiato sulla mia branda, con gli occhi spenti ed umidi. Spencer si era addormentato solo da qualche minuto. Mi tirai su ed alzai un braccio. Il soldato

mi vide e venne dalla mia parte. - «Sei tu William O’Neill?». - «In persona». - «Ho questa comunicazione per te. Domani pomeriggio sarai imbarcato per l’Inghilterra». Presi un foglietto dalle sue mani e lo aprii. Il soldato se ne andò subito gridando un altro nome. - «Charles Mackay? Chi è Charles Mackay?». Penny mi si avvicinò subito pulendosi le mani al camice. - «Torni a casa?» – disse. - «A quanto pare». - «Bene, sono felice per te». Mi alzai e uscii fuori senza guardarla, tenendo quel foglietto tra le dita. Cercai di allontanarmi abbastanza da non sentire più i lamenti dei feriti ed il puzzo dei morti. Mi sedetti da una parte, solo, con mille pensieri nella testa. Penny uscì dalla tenda e venne dalla mia parte. - «Will?» – disse – «Stai bene?». Le risposi di sì con la testa. Si venne a sedere accanto a me. Aveva un buon odore confuso tra tutti quelli cattivi. Mi tirai indietro e lasciai che il sole venisse a scaldarmi la faccia. - «Cos’è quell’espressione triste? Non sei contento di andartene da questo posto? Tornare a casa?». Mi grattai la testa pensando ai Montreau. Non avevo risposte in quel momento, nemmeno una. Penny mi carezzò un braccio dicendo che doveva rientrare, ma che se avessi voluto, quella sera avremmo potuto parlare.

- «Sì, va bene» – le risposi. Sorrise dolcemente e tornò dentro, richiamata dalle grida dei feriti come Ulisse col canto delle sirene. Restai sdraiato per ore, guardando le nuvole are, assorto nei miei pensieri. Annabelle mi mancava, Madison mi mancava. Ero stanco di tutto, volevo dormire e svegliarmi a casa o tra le braccia di Annabelle. - «Ti ho portato una specialità della casa!» – disse più tardi Penny. Aveva sciolto i suoi ricci e si era data una bella ripulita. Era bella quando sorrideva, ed era bella anche quando rimaneva seria. - «Grazie» - dissi tirandomi su. Ero intontito e con la schiena a pezzi. Penny mi allungò una scodella con della carne rossa. La divorai come un lupo. - «Di dove sei Will?» – domandò. - «New Orleans» – risposi parcheggiando il cibo da una parte – «Tu?». - «Detroit». - «Sei volontaria?». Fece di sì con la testa. Il suo volto infondeva serenità, come quello di una madre che ti bacia prima di andare a dormire. - «E Spencer?» – le chiesi. - «Spera di andarsene il prima possibile. Come tutti noi. Tutti tranne te» – disse quasi sottovoce. Ci guardammo. «Non è forse vero?». - «Cosa te lo fa dire?». - «Quella strana disperazione che hai stampato sulla faccia». Sorrisi. - «Me lo ha detto anche un’altra persona» – sospirai. - «Una sicuramente in gamba».

- «Assolutamente sì!» – dissi guardandola – «Assolutamente!». Penny ed io rimanemmo a parlare per ore, mentre il cielo si colorava di un giallo mieloso. Quando le dissi quant’era bella, lei sorrise stancamente come se avesse mangiato polistirolo. Chiunque, in quel posto, si portava dentro un dolore tutto personale. Quello di Penny era fatto di odori e di sapori, di ravioli dolci fritti, del vitello tonnato preparato dalla madre, del gateau di sua nonna, e del tempo che nessuno le avrebbe più restituito. La ascoltai cicalare per ore su quello che le piaceva di più a questo mondo: il sole, il mare, la notte e la tempesta, il vento che bussa alle imposte della sua casa e la pioggia, quella fitta fitta. Le piaceva affondare i piedi nella neve fino alle caviglie, ma non avere i calzini bagnati. Le piaceva dipingere anche se non era capace. Le piaceva leggere e le piaceva scrivere. Le piaceva casa sua, e le piaceva il suo lavoro. Le piaceva addormentarsi ancora vestita, le piaceva sognare. - «A cosa stai pensando?» – mi chiese interrompendosi. La guardai. - «Immaginavo te addormentata con le scarpe sul letto». Sorrise. Potevo vedere tutti i suoi pensieri turbinarle nella mente come l’elica di una barca. Spostò i capelli di lato e li lasciò liberi mentre un soldato calvo e macilento ci ava davanti. Si voltò a guardarla come un bambino guarderebbe la vetrina di una pasticceria. Era bellissima. Lei si strinse nelle spalle e poggiò la guancia sinistra sopra le ginocchia. Mi guardò e sorrise a tutta bocca. «Se c’è qualcosa di bello in questo posto maledetto da Dio» – pensai – «Sta tutto su questo viso, dentro questi occhi. Tutto il buono è addosso a lei». - «Tu conosci il se Penny?». - «Sì. Perché mi fai questa domanda?». - «Aspettami qui». Feci una corsa dentro la tenda e rovistai nella sacca. Quando tornai indietro Penny si era messa con la testa tra le gambe e teneva gli occhi chiusi. Quando tornai a sederle accanto, si tirò su come se nel frattempo avesse dormito profondamente. - «Che cos’è?» – disse.

- «Il più bel regalo che mi abbiano mai fatto» – risposi mentre sfogliavo il quaderno fino alla pagina con l’ultima lettera di Margharet – «Puoi leggermi… questo?». Penny diede un’occhiata veloce e mi guardò basita. - «Ma da chi lo hai avuto?». - «Tu leggilo, poi ti dirò tutto quello che vuoi». Mi guardò perplessa, poi tornò sul quaderno. - «Allora vediamo… Ok, dice…».

20 Febbraio 1943

Domani mattina ci caricheranno su un treno, me e altre sessanta persone. Il cielo è nero, promette pioggia. Ho salutato mio padre: lui ha pianto, io no. Gli affiderò questo diario con la speranza che possa arrivare all’unico uomo che ho amato nella mia vita: Robert Montreau. Amore mio, i tuoi occhi sono nella mia mente. I tuoi baci sulle mie labbra, per sempre. Mia madre non è più tornata dopo quel giorno, ho perso ogni speranza di rivederla, almeno in questa vita. I miei cugini di otto, sei, quattro e tre anni sono stati tutti gasati il mese scorso. Mia zia è stata fucilata assieme ad altre sette persone nel cortile del campo, mentre un gruppo di ufficiali delle SS giocavano a pollone dieci metri più in là. Dicono che siamo diretti ad Auschwitz. Onestamente spero di non arrivarci mai. Questo è il mio diario, spero non vada perduto o bruciato. Spero che il mio Robert lo riesca ad avere, come ultimo ricordo di colei che tanto lo ha amato.

Margharet H. Deen Campo di concentramento di Drancy, Francia

Penny aveva gli occhi umidi. Chiuse il quaderno e me lo restituì. - «Grazie» – dissi, le carezzai una guancia e tornammo entrambi a guardare lontano. Il giorno dopo arrivò un camion diretto a Caen, ed io ero in attesa di partire assieme ad una ventina di altri soldati, chi su delle barelle, chi aggrappato alle stampelle zoppicando su una gamba sola. A qualcuno mancava una mano, un braccio, una gamba, un occhio solo o entrambi. - «Amico del sud!» – sentii chiamare mentre ero in fila con gli altri. Mi voltai, era Spencer. Si era alzato dalla sua branda dopo due giorni. - «Spencer» – dissi. Zoppicava sul suo gesso e per fare prima cominciò a saltellare su una gamba sola. - «Mi raccomando, stai in salute» – disse abbracciandomi. - «Anche tu». Ci tenemmo stretti un momento. - «A me ci pensa Penny. Voglio chiederle se mi sposa». - «Io non ci spererei troppo fossi in te. Sei troppo brutto» – dissi. Sorridemmo e ci guardammo negli occhi. «Grazie di tutto Spencer». - «A buon rendere». Non ci dicemmo nient’altro, ci stringemmo e capii che dentro quell’ultimo abbraccio c’era già tutto quello che mancava. - «Ciao Soldato». - «Ciao Penny» – dissi. Era spuntata da chissà dove ma fu comunque una

meravigliosa sorpresa. Ci baciammo su entrambe le guance e ci abbracciammo stretti. Mi voltai e salii sul camion. Il torace mi diede una leggera fitta, la prima dopo settimane. Partimmo subito, nemmeno il tempo di scambiare ancora due parole. Li salutai con la mano. Sapevo che non li avrei più rivisti in vita mia, e cercai di scolpirmi nella mente i loro volti e le loro voci. Sembrava che il destino mi stesse mettendo di fronte le migliori persone del mondo per poi togliermele da sotto il naso. Il camion prese una strada tutta buche che fiancheggiava la costa. A tratti si poteva vedere anche il mare. Qualcuno mi guardava storto e uno, con una vistosa benda su un occhio e le stampelle, mi fece la stessa regolare domanda: - «E tu cos’hai?». Non rispondevo più, era stanco di dover raccontare sempre la stessa storia. Mi buttai contro il telone che copriva il camion e pensai ad Annabelle. Chiusi gli occhi e ripensai a quegli ultimi giorni a Bayeaux.

* * *

- «Ehi Spencer!» – lo scrollai – «Amico…». Cercava di dormire ma invece piangeva. Mike era stato infilato in una bara e messo sotto un tendone pronto ad essere seppellito o rimpatriato. Spencer lo aveva adagiato dentro con delicatezza. Il povero Mike non riempiva una normale cassa da morto, così per evitare che si muovesse troppo, era stata riempita con degli stracci dove sarebbero andate le gambe, per fare da tappo. Fu molto triste. Penny era rimasta in silenzio tutto il tempo, facendo scendere solo un paio di lacrime, non di più. Sapeva che ne avrebbe versate molte altre e sembrava stesse attenta a non finirle tutte subito. Il cappellano recitò una veloce cerimonia, chiedendo a Nostro Signore di accogliere Mike nella sua casa, ma molto probabilmente in quel momento Dio non stava ascoltando. C’era troppo dolore nel mondo perché ci fosse qualcuno che potesse rimanere tanto insensibile a girarsi i pollici. Il mio cervello non conteneva una cosa del

genere, e vedere Spencer appallottolato sulla sua branda, con l’occhio buono spento, come fosse cieco, non me ne fece convincere di più. - «Spencer?» – lo chiamai di nuovo – «Ti porto qualcosa da mangiare? Un po’ di quella brodaglia schifosa?». Fece di no con la testa. Mi buttai indietro sulla mia branda e sospirai sconsolato. In giro c’era poca gente, e chi c’era dormiva o soffriva stringendo i denti. - «Sai la cosa più ridicola che mi hanno detto?» – disse Spencer d’un tratto continuando a darmi le spalle. Rimasi in silenzio – «Che per Mike è stato meglio crepare che fare il mutilato a vita. Non capiscono un cazzo! Mike era un grande spirito, un’anima immensa. Non gli servivano le braccia e le gambe. Scommetto che in una settimana avrebbe trovato il modo per giocare di nuovo a baseball. Non capiscono un cazzo!». Non sapevo cosa dire. Rimanemmo in silenzio entrambi per qualche minuto. - «Will? Ci sei ancora?». - «Certo». - «Ora quella brodaglia schifosa la mangerei volentieri». Sorrisi, gli dissi «ok» e andai a prendergliene un piatto. Quando tornai indietro si mise seduto e spazzolò lo stufato in pochi minuti, affondando il pane nel sugo e facendo risplendere il piatto come se fosse stato appena lavato. Andava molto meglio, almeno lo stomaco non si lamentava più. - «Voglio raccontarti una cosa su mio fratello Mike» – disse Spencer pulendosi gli angoli della bocca – «Posso?». - «Certo» – risposi. Spencer sorrise, si grattò la testa e cominciò a raccontare…

* * *

Una buca mi fece tornare bruscamente alla realtà. Buttai un occhio fuori dal furgone: eravamo arrivati a Caen; sempre se quell’ammasso senza senso di pietre, mattoni e calcinacci poteva ancora essere considerata una città. Caen quasi non esisteva più. Ogni tanto c’era un edificio rimasto miracolosamente in piedi, ma era comunque raro. Mi domandai quale fosse la casa dei Montreau. Attraversammo la città diretti verso il porto. Quando arrivammo, ci fecero mettere in riga di fronte ad un ufficiale della Marina Militare: - «Voi venite dal campo di Bayeux?». - «Sì, signore» – rispondemmo in coro. - «Bene. Chi è William Maichel O’Neill?». - «Sono io, signore» – dissi alzando un braccio. - «Vieni avanti soldato». Mi feci largo. - «Sì signore!» – dissi facendo il saluto. - «Tu sei quello di Omaha?». Non sopportavo più quella storia. Non ero un eroe, né un grande soldato: avevo fatto settanta, forse ottanta metri di spiaggia e poi ero finito col culo per terra. Il mio amico Jesse era morto, tutti erano morti. Io ero stato morto per quasi tre ore, non avevo sparato nemmeno un fottuto colpo; praticamente non ero servito ad un cazzo di niente. - «No signore, sono quello di New Orleans» – risposi. Quell’ufficiale si fece una risata alla faccia mia, mi diede una pacca sul braccio e disse a tutti di seguirlo. Ci fecero subito imbarcare su una nave che tornava in Inghilterra. - «Ehi» – sentii chiamare dietro di me – «William giusto?».

Un ragazzo senza l’avambraccio destro mi veniva incontro. - «Io sono Frank». - «Piacere Frank». - «Ho una zia di New Orleans». - «Ah sì?» – dissi – «Mi dispiace». Frank sorrise ed insieme c’incamminammo verso la nave. Salimmo e prendemmo posto vicino. Frank veniva dell’Oklahoma, era il figlio di un postino e di una fioraia. Continuava a ripetere «Vaffanculo! Vaffanculo questo, vaffanculo quello». Pensai a Neil Hammond ed al suo vizio di dire sempre “Cazzo!”. Povero Neil. Mi mancava anche Neil. Pensai un momento a Jesse che forse, nella migliore delle ipotesi, se ne stava dentro una cassa di legno chiaro, a marcire tre metri sotto terra, ricordato solo da una croce bianca confusa tra tante altre croci bianche. - «Come hai detto?» – dissi soprappensiero. - «Mi sono fatto dare del tonno, ne vuoi?» – disse Frank sedendosi accanto a me – «Gli ho chiesto del pane, e mi hanno detto che non ne avevano più. Gli ho detto: “Vaffanculo amico, vi ho dato un braccio e voi non mi date nemmeno un tozzo di pane?”». - «Gli hai detto davvero così?». - «No, ma avrei tanto voluto farlo». Aprimmo il tonno e lo mangiammo con le mani. La nave si mosse e guardammo fuori: il cielo era sereno, le nuvole lontane, il mare una tavola. - «Vaffanculo Francia di merda! Ti sei presa il mio braccio e la mia anima» – disse Frank mostrandole il dito medio con la mano che gli rimaneva. Pensai ad Annabelle, a Maurice, a Cécilia, a Pierre ed al piccolo Jean; pensai che quello che ero lo avevo lasciato a loro. - «Vaffanculo!» – ripeté Frank, poi mi domandò se volevo salire in coperta.

- «Va bene» – gli risposi. Buttammo la scatola di tonno, ci pulimmo sui pantaloni le mani unte d’olio e salimmo sul ponte di prua. Mentre attraversavamo la Manica chiacchierammo del più e del meno. Frank era un esperto di fiori: da quando era piccolo li coltivava, li curava e li vendeva assieme alla madre. Rose, margherite, tulipani bianchi, gialli, di tutti i colori. Piante di tutti i tipi e di tutte le specie: fusto alto, medio, piccolo. Mi spiegò sulla cura del germoglio, la regolarità delle fioriture, l’annaffiatura, l’innesto. Mi feci una vera cultura. - «…se invece l’innesto non prende e la pianta lo rigetta, allora vaffanculo! Butti via tutto e ricominci da capo». - «Frank» – dissi. - «Che c’è?». Gli indicai la costa inglese. Mi appoggiò il moncherino sulla schiena e sorrise contento. Era un po’ come sentirsi a casa. Quando sbarcammo ci dissero che saremmo partiti il prima possibile per gli Stati Uniti. Qualcuno ebbe la forza di fare un urlo di gioia. - «Ora sarete portati al Quartiere Generale delle Forze Armate. Chi ha bisogno di cure mediche lo faccia presente all’ufficiale in comando, per tutti gli altri ci saranno pasti caldi e letti morbidi fino al momento della partenza. Ci sono domande?». Un ragazzo sulle stampelle disse: - «Potremmo telefonare a casa?». - «Sì, figliolo, potrai sentire la tua mammina e dirle quanto le vuoi bene!». Tutti risero, io no. Ci caricarono su un altro camion e facemmo un paio di chilometri fino al comando generale. Ci assegnarono le stanze e ci portarono cibo e acqua. Appena trovai la mia branda mi ci buttai sopra. Ero sempre così stanco.

- «Ehi Will, io con altri ragazzi vediamo se si può telefonare, tu vieni?». - «No Frank. Forse più tardi». Mi annuì ed uscì dalla stanza. Una finestra era stata aperta ed arrivava un soffio d’aria fresca che mi faceva bene alla faccia. Levai gli scarponi e tirai su i piedi. Le gambe mi si infiacchirono dandomi una piacevole sensazione di rilassatezza. Chiusi gli occhi e senza nemmeno accorgermene sprofondai in un dolce sonno.

* * *

Quando nel settembre del ‘39 Hitler invase la Polonia, da noi, in Louisiana, la notizia provocò lo stesso interesse che desta una mosca che entra da una finestra. Dubito persino che qualcuno sapesse indicare dove si trova esattamente la Polonia. Le notizie che ci arrivavano erano così fredde che non ci allarmavano più di tanto. Quando sentimmo dire dalla radio che «Il mondo era ricaduto dentro un’altra guerra mondiale», fu come se New Orleans non fe parte di quel mondo. A casa mia non ne parlavamo mai, con Madison nemmeno. Niente era più lontano di quella schifosa guerra. Inoltre il nostro Presidente aveva allontanato con forza l’eventuale invio di forze americane, e così anche la più remota delle ipotesi era stata messa da parte. Andammo avanti così per quasi due anni, ignorandola semplicemente fino al 7 dicembre del 1941, giorno in cui tutte le nostre sicurezze furono letteralmente silurate da quella tragica notizia. La base americana di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, era stata attaccata da una flotta di trecentosessanta aerei giapponesi. Ero appena rientrato in casa con una gran voglia della torta ai mirtilli che stava preparando mia madre, quando trovai entrambi i miei genitori davanti alla radio che gracchiava qualcosa. Mia madre aveva addosso il suo solito grembiule imbrattato di farina e la mano sulla bocca come nastro adesivo. Mio padre invece aveva le mani in tasca e gli occhi fuori dalle orbite. Le notizie erano secche e drammatiche: la prima nave ad essere colpita fu la corazzata Utah, poi l’incrociatore leggero Raleigh, poi un altro incrociatore, l’Helena, ormeggiato in coppia con il posamine Oglala che si rovesciò lentamente su un fianco e affondò quasi subito. - «Cristo Santo non è vero!» – dissi. Andai alla porta e mi affacciai sulla

veranda. Gridai forte verso casa di Madison. Arrivò subito. - «Cosa succede?» – disse aggiustandosi i capelli e asciugando la fronte con una mano. Il così detto Battleship Row, “viale delle corazzate”, era stato oggetto di continui attacchi da parte degli aerei e dei sommergibili leggeri dell’impero giapponese. Più di due mila persone tra marinai, militari e civili erano morti in quell’attacco. Quasi la metà di questi erano sulla corazzata Arizona. Delle novantasei navi ormeggiate a Pearl Harbor tre furono completamente distrutte, sei affondate, rovesciate o arenate, sette gravemente danneggiate. Cento ottantotto aerei distrutti. Il giorno dopo, l’8 dicembre del 1941, il Congresso degli Stati Uniti dichiarò guerra al Giappone. Nel giro di poche ore, le nostre vite si erano completamente capovolte: l’inatteso era arrivato prepotentemente a bussare alle nostre porte, l’impossibile era diventato così possibile che sapevamo non si sarebbe fatto attendere a lungo. Io e mio padre ci guardammo senza dirci niente. Nei nostri occhi c’era la speranza che non succedesse quello che inesorabilmente successe. La guerra dall’altra parte dell’oceano ora echeggiava prepotente anche nelle paludi isolate di New Orleans, tra i contadini analfabeti ed i loro figli maggiorenni. Le settimane ed i mesi avano e quel giorno poteva arrivare da un momento all’altro, senza preavviso. La radio era diventata la cosa più preziosa che avevamo in casa, e nel vicinato raccoglievamo informazioni e ci si scambiava opinioni. Ci ritrovammo a discutere di nazismo, fascismo, citavamo personaggi come Churchill, De Gualle, Stalin e lui, Adolf Hitler. Ricordo ancora quella mattina che comprai il giornale e vidi per la prima volta una sua immagine. Era terrificante solo a guardarla. Sentir parlare di lui tanto a lungo e non avere idea di come sia fatto, lo rendeva quasi una figura mitologica, impalpabile come quegli eroi dei fumetti. Presi il giornale e guardai bene: teneva stretta nella mano destra, alzata in segno di vittoria, una bandiera, alle sue spalle un fiume di persone con altrettante effigi naziste, e lui che come un fiero condottiero alla testa del suo esercito, marciava contro i suoi oppositori. Aveva i capelli alzati forse dal vento, lo sguardo fisso, impenetrabile. Le labbra sottili ed i baffi squadrati e perfetti. La mano sinistra stretta in un pugno tirato, e sopra la sua testa un’aquila in picchiata con le ali spiegate che sembrava essere stata mandata da Dio in persona. Quella foto fu presto sostituita con un più semplice primo piano del dittatore, con lo sguardo rivolto alla sua destra e l’aria sempre dura ma

leggermente persa in qualcosa. Un ritratto meno onnipotente del nemico, anche se nel mio immaginario Adolf Hitler rimase a lungo quel condottiero temerario in testa a quello smisurato esercito. La realtà come sappiamo era ben diversa: il delirio di un solo uomo fu la causa principale della morte di milioni e milioni di esseri umani, trascinati tutti nella medesima follia collettiva. Ripensai a quell’immagine terribile di Hitler e compresi di essere stato travolto da qualcosa troppo più grande di me.

* * *

- «Vaffanculo!» – disse Frank così forte che mi svegliò. - «Cosa c’è?» – dissi mettendomi sui gomiti ancora tutto informicolito. - «Mia madre! Non risponde a quel cazzo di telefono. Ora mi tocca aspettare che ricomincino il giro». Frank sembrava piuttosto arrabbiato. Sbuffò un paio di volte poi disse: - «Piuttosto, tu non telefoni?». - «Non saprei dove chiamare» – risposi tornando a sdra-iarmi con le mani dietro alla testa – «Nessuno dei miei vicini ha un telefono». - «Ma vaffanculo Will, mi prendi per il culo?». Dissi di no. Frank non era mai stato a New Orleans ovviamente. Mi venne di nuovo una gran voglia di dormire. Mi girai su un fianco, mi feci carezzare da quel filo di vento, e mi addormentai di nuovo.

* * *

Caroline fu molto dolce con me, ed io cercai di esserlo con lei. Avevamo aspettato quel momento da parecchio e finalmente era arrivato. Oregon era uscito e sarebbe stato via per tutto il pomeriggio. Il negozio rimaneva chiuso. Entrai dal retro e salimmo subito di sopra. Le assi di legno delle scale scricchiolarono e miagolarono qualcosa. Cercai di non fare troppo rumore anche se non c’era nessuno in casa. Non ero mai stato al piano di sopra, solo in negozio o nel retrobottega. Le scale finivano in un corridoio, ed il corridoio con una piccola finestra che si affacciava sulla casa accanto. Alla mia destra c’era il bagno, alla mia sinistra la cucina. Più avanti la camera da letto di Oregon e di fronte quella di Caroline. Lei mi prese per mano e mi trascinò in camera sua. Era molto carina, con poche cose e tutte fatte da sé. Un piccolo armadio, una scrivania ed il letto. Ci sedemmo e cominciammo a baciarci. Fu Caroline a prendere l’iniziativa: mi infilò le mani sotto la maglietta e le fece scivolare fino alle spalle. La levai. - «Toglimi la camicetta» – disse piano. Cominciai a lavorare sui bottoni ma ero troppo nervoso. Ci impiegai un’infinità di tempo. Alla fine però riuscii a toglierla e mi ritrovai sotto gli occhi un piccolo tesoro: due piccoli seni gonfi. Ci misi sopra le mani e sentii qualcosa muoversi dentro i pantaloni. Continuammo a baciarci, a stringerci, fino a quando Caroline disse: - «Ti va se ci spogliamo e ci mettiamo sotto le coperte?». Dissi di sì immediatamente. Ci togliemmo i vestiti velocissimi e ci infilammo sotto facendo qualche gridolino stupido. Il contatto dei nostri corpi fu la sensazione che ricordo con più piacere. Lei era fresca, profumata e buona. Ci mettemmo più di un momento per farlo entrare: a lei faceva male ed io non volevo essere troppo frettoloso. Quando ci riuscimmo fu come affondare la lingua dentro un bicchiere di cioccolata calda. Facemmo l’amore. Lei mi disse di stare attento, che se sentivo qualcosa lo dovevo immediatamente togliere. E così feci. Mi salì un fiume che sfociò tutto sul pavimento di legno della stanza di Caroline. Lei mi accarezzava la schiena mentre mi liberavo di tutto quello che avevo.

* * *

- «William O’Neill? Chi è William Maichel O’Neill? O’Neill?». - «Will, ti cercano» – disse Frank agitandomi come un sacchetto di noccioline. Ero crollato come un sasso in un sonno profondo. - «William O’Neill?» – chiamarono di nuovo. Spiccicai gli occhi e biascicai: - «Sono qui!». Un soldato inglese ò di fronte alla nostra stanza, poi tornò indietro mettendo dentro la testa. - «William O’Neill?» – disse ancora con quel tipico accento inglese. - «Sì, sono io» – risposi con il mio tipico accento del Sud America. - «Vieni, c’è una telefonata per te». Scesi dal letto e lo seguii. Girammo per alcuni corridoi, poi entrammo in un ufficio dove c’era un telefono appoggiato sulla scrivania. - «Prego» – disse il soldato facendomi entrare, poi chiuse la porta e mi lasciò solo. Alzai la cornetta e la portai all’orecchio. Dall’altra parte c’era silenzio. Era la seconda o terza volta che parlavo ad un telefono in vita mia. - «Sono William O’Neill» – bisbigliai non sapendo bene cosa si debba dire. - «Will! Sei tu?». Mi tremarono subito le gambe, crollai sulla sedia e scoppiai a piangere come un bambino. - «Will?» – chiamava mio padre dall’altro capo del telefono – «Will, dimmi qualcosa!» Faticavo a far uscire anche una sola parola. Presi fiato e dissi solo: - «Papà!».

Sentii mio padre piangere come e più di me. Andammo avanti così per almeno un paio di minuti. - «Come stai?» – riuscì a chiedermi alla fine. - «Bene». - «Sì?» - «Sì» – risposi. Asciugai la faccia con la camicia e tirai su col naso un po’ di muco – «Avete saputo di Jesse?». - «Sì, figliolo. La salma è arrivata qualche settimana fa». - «E Madison?» - «Ti aspetta. Tua madre vuole parlarti, aspetta che te la o». - «Mamma?» – dissi. Non ricordavo quanto fosse bello il suono di quella parola. Avrei voluto gridarlo forte, dire al mondo che anche io ne avevo una ed era la più bella di tutte. - «Will…» – riuscì a dire soltanto, poi pianse a dirotto e non spiccicò nessun’altra parola, ma già sentire la sua voce fu come bere un bicchiere di latte caldo prima di andare a dormire. - «Figliolo?» – riprese la cornetta mio padre – «Quando torni a casa?». - «Non ce lo hanno detto, presto comunque, con la prima nave». - «Ti aspettiamo. Ora ti devo salutare purtroppo». - «A presto» – dissi. - «Will?». - «Sì, papà?». - «Ti voglio bene». Riattaccai per non dover rispondere e finire a piangere un’altra volta. Uscii

dall’ufficio e tornai alla mia stanza. Frank litigava con un tizio dello Utah, un certo Al e qualcosa. - «Vaffanculo amico, dalle vostre parti giocavate ancora a “palla” quando noi vincevamo già i campionati nazionali!». Al e qualcosa rideva, aveva perso un piede in un’operazione di sminamento. Mi buttai a letto e coprii la faccia con le mani. - «Will? Tutto bene?». - «Sì Frank, tutto bene». - «Buone notizie?». - «Ottime». - «Ah, ok!» – disse. Poi si alzò dal letto e andò verso Al dello Utah – «Se avessi ancora la mano ti prenderei a schiaffi» – gli disse. - «E se io avessi ancora il piede ti prenderei a calci nel culo!». Scoppiarono tutti a ridere. Al e Frank si abbracciarono e si diedero grandi pacche sulla schiena. Io sorridevo felice. Diversi giorni dopo ci radunarono di nuovo tutti quanti e ci imbarcarono in direzione New York City. Annabelle era lontana miglia e miglia. Chissà se mi pensava mentre faceva le sue cose, se le mancavo. A me mancava abbastanza da tentare di raggiungerla a nuoto. Me la immaginavo spesso, in piedi, fuori dalla sua fattoria, bellissima con i capelli al vento. Quando la nave si mosse, io e Frank eravamo sul ponte di babordo, appoggiati alla balaustra. - «Vaffanculo anche a te Inghilterra!» – disse – «Spero di non rivederti mai più… Non mi hai tolto niente, ma ti odio lo stesso perché non hai fatto abbastanza!». Sorrisi mentre Frank le mostrava il solito dito medio.

* * *

Se il viaggio d’andata ò veloce come una lustrata di scarpe, quello di ritorno mi sembrò lunghissimo e straziante. Promisi a me stesso che per almeno dieci anni non avrei voluto sentire parlare, vedere, toccare, o respirare l’odore salsedinoso del mare. - «Con i soldi del governo mi farò fare una protesi!» – esclamò Frank – «Ed imparerò a scrivere con la sinistra, tu che dici Will?». - «Che te la caverai benissimo». Frank si guardò il suo moncherino e lo fece roteare in tondo. Io mi voltai dall’altra parte e provai ad addormentarmi nonostante il rumore delle onde ed il motore della nave che muggiva come una mucca. I giorni li dividevo pensando equamente ad Annabelle ed a Madison. I loro volti quasi si sovrapponevano. Il loro sorriso sembrava lo stesso, ma quasi sempre finivo col pensare a quel bacio dato sulle labbra di Annabelle poco prima di partire. «Perché non l’avevo fatto prima?». Più di ogni altra cosa avrei voluto stringermela addosso, usare il suo corpo come una coperta. Le notti in mare sono tutte uguali: un rumore di onde, di vento e di motore costante, sempre il solito lamento per giorni. Ma se mentre di giorno quella cantilena era ovattata dalla vita sul ponte, la notte non ti dà tregua. Lo scafo avanza tagliando l’acqua come la punta di una freccia, l’orizzonte è sempre sgombro, il buio totale. A volte succedeva che salivo in coperta e rimanevo per ore a guardare quel nulla. Mi lasciavo andare in strane lucubrazioni mentali nelle quali per esempio, correvo sulla spiaggia di Omaha con il mio fucile stretto tra le mani, evitavo proiettili con agilità, sfioravo gli scoppi delle bombe, puntavo e facevo fuoco uccidendo un soldato tedesco ad ogni colpo. Ed ogni volta finivo per pensare a quel soldato tedesco mandato a combattere la mia stessa guerra senza speranza, caricato sullo stesso treno, addestrato per affrontare la stessa battaglia, vestito con la stessa divisa solo che di colore diverso. Magari quel ragazzo che avrei tanto voluto uccidere, aveva in comune con me le mie stesse paure, desiderava solo di essere da tutt’altra parte, a casa, con la sua famiglia o

con la propria ragazza. Ed ogni volta che finivo per pensare a questo, tornavo nella mia cabina e mi buttavo di nuovo sul letto, pensando e ripensando finché non mi addormentavo. - «Tu ce l’hai una ragazza Will?» – mi domandò Frank rovistando tra i piselli nel suo piatto. - «Una ragazza?». - «Sì, una che ti pungola, che ti aspetta a casa, una alla quale hai chiesto di aspettarti?». - «No» – dissi, considerando Madison come una sorella, e Caroline… Lei non era più la mia ragazza da molto tempo. - «Io sì, si chiama Rose». Infilai un pezzo di carne in bocca e la masticai mentre Frank mandava giù un sorso d’acqua. Posò il bicchiere e si mise a rastrellare il purè di patate. - «Rose è una bella ragazza, non è alta ma è fatta bene, ben proporzionata. Ha la fissa per la pittura, ma dovresti vederli i quadri che dipinge… mi sento male se solo provo a ricordarne uno». Sorrise, io gli annuii con la testa. Frank si guardò il moncherino e lasciò cadere la forchetta sul piatto. - «Ehi amico? Che c’è?» – dissi. - «Cosa c’è? E me lo chiedi pure Will? Non è abbastanza evidente?» – rispose sbattendo il moncherino sul tavolo. Poi si alzò da tavola e se ne andò. - «Frank!» – lo chiamai – «Frank!». Arrivò in fondo alla sala serpeggiando tra i tavoli, poi uscì. Mi alzai e lo seguii; sapevo dove trovarlo. Il mare era calmo, in pace con se stesso. Il sole picchiava duro ed il ponte di poppa era deserto. Frank era poggiato alla balaustra a guardare quella cosa sempre uguale che è l’Oceano Atlantico.

- «Frank!» – dissi raggiungendolo. - «Scusa Will, non dovevo…». - «Non fa niente» – dissi mettendogli una mano sulla spalla. - «Guardami Will, sono un handicappato. I ragazzini mi prenderanno in giro, le persone mi fisseranno, le donne proveranno ribrezzo solo a guardarmi. La mia bella Rose all’inizio proverà comione, ma poi mi lascerà perché sappiamo entrambi che lei merita qualcosa di meglio di uno storpio». - «Il tuo meglio è un uomo con due braccia intere?» – chiesi ironicamente. Frank non rispose, così pensai di dover dire qualcos’altro – «Per quanto mi riguarda Frank, c’è una sola categoria di uomo migliore di te: uno che nonostante sia stato ammassato e trattato come un maiale tra tanti altri maiali, ha combattuto una guerra ed è tornato a casa con entrambe le gambe. Se la tua Rose non capisce questo, allora non merita di starti affianco». Frank sorrise. Non avevo mai parlato tanto da quando ci eravamo conosciuti. Frank continuava a sorridere e non capivo perché. - «Perché ridi?» – gli chiesi. - «Tu sei quell’uomo William O’Neill… Vuoi fregarmi la ragazza per caso?». - «Vaffanculo!» – dissi io. - «Finalmente!» – disse lui. Ridemmo e ci scambiammo un paio di pacche. – «Grazie Will, sei un vero amico». - «Già… Ricordatelo quando sposerò la tua Rose».

* * *

Due giorni dopo avvistammo il porto di New York. Qualche bontempone gridò: «Americaaaa!» e ci fece fare una risata generale. La Statua della Libertà s’ergeva

potente e magnifica, con la schiena dritta e la fiaccola tenuta in alto come una bandiera. - «Bella vero?» – dissi a Frank - «Fosse stata nuda mi sarebbe piaciuta di più». Il vecchio Frank era tornato. Quello che ci trovammo davanti era un ingorgo di palazzi, grattacieli, cemento e vetro. Come se si stessero tutti accalcando sulla riva per vedere cosa stesse succedendo; fu quella la mia prima impressione. Da una parte c’era un porticciolo con la scritta grande in evidenza Munson line ed un nove proprio in mezzo; oltre la zona del porto il tutto: uffici, appartamenti, palazzi già di per sé altissimi che ancora non vedevano la loro fine, in una continua gara a chi raggiungeva per primo il cielo. Rimanemmo solo un paio di giorni a New York City. La grande mela era così fresca, tenebrosa e magnifica. Sembrava potesse respirare, mangiare, cagare e fare una vita propria. Partendo per l’Europa l’avevo ovviamente notata, ma ogni volta è come la prima volta. In più, all’andata avevo lo stomaco continuamente sottosopra e si prendeva lui tutta la mia attenzione. Rimasi tutto un giorno a guardarmela dalle finestre della mia stanza all’ospedale militare. Me la stampai nella mente come una fotografia. – «Non riuscirei a vivere in un posto del genere» – disse Frank uscendo dalla doccia. Su questo aveva ragione. Avemmo un pomeriggio libero prima di partire per Washington; io e Frank ne approfittammo per girare un po’ la città. New York era come un cazzotto in pieno stomaco. Allora i grandi grattacieli non erano poi molti, si concentravano soprattutto nella parte a sud di Manhattan. Io e Frank sembravamo due ragazzini dentro un negozio di giocattoli. Lui agitava il suo moncherino in giro per indicarmi questa o quella cosa. Io sorridevo ed un po’ mi vergognavo del nostro entusiasmo. Di alcuni grattacieli non se ne vedeva la fine, se solo avessimo avuto più tempo avrei voluto salire fino in cima per capire se, come dicono, si riesce a fare il solletico sotto i piedi di Dio. Il mattino seguente ci portarono alla stazione per prendere il treno in direzione Washington. Io e Frank oramai eravamo inseparabili: non facevamo un o

senza che l’altro fosse incollato dietro. Ero arrivato con Jesse e tornavo con Frank. Jesse, uno dei miei più vecchi amici era morto, e Frank, un quasi perfetto sconosciuto, era diventato in poche settimane come mio fratello. La General Waiting Room della Pennsylvania station di New York era una grande caverna di cemento armato. Alta, monumentale, con un soffitto che ricordava un nido d’api. Le colonne, gli spazi, persino i lampioni erano fuori misura. Io e Frank quasi ci prendemmo per mano dallo spavento. Era l’adrenalina a tenerci in piedi, ed era stato il terrore di morire a rubare la mia attenzione durante il viaggio d’andata. Ora vedevo tutto come nuovo. Appena salimmo sul treno, mi sentii le spalle pesare come macigni, gli occhi come due tizzoni ardenti, e tutto ad un tratto la magia sparì. Mi sentivo stanco come uno che ha vissuto mille anni in piedi. Anche il treno sembrava andare più lento, ed i miei occhi non ne potevano quasi più di vedere cose, paesaggi, luoghi che non erano quelli a me familiari. Ora basta. A volte pensai di volerli chiudere per un paio d’anni per non vedere più niente. Mi addormentai.

* * *

Quel terrificante giovedì del ‘33 era caldo come l’inferno, non si era mai sentita una calura simile. Mi venne voglia di andare fino al fiume, sperando che non fosse un brodo, ma Madison aveva altri programmi per quel giorno, così tornai a casa e sistemai il disco di mio padre nella sua custodia. Gli presi il bicchiere di bourbon e feci per andare verso la cucina quando sentii un colpo: secco, stridente. Feci cadere il bicchiere per terra. Mio padre accese gli occhi. - «Cos’è stato papà?» – dissi. Non mi rispose, non perché non lo sapesse anzi, proprio perché lo sapeva benissimo. Lo avevano comprato insieme quel fucile, Lui ed il padre di Madison, ed insieme erano andati a provarlo nelle paludi. Mio padre conosceva quel suono come il battito del suo cuore. Uscì di casa correndo, attraversò il prato ed entrò in casa di Madison facendo sbattere la porta. Io gli corsi dietro d’istinto. Se solo mio padre se ne fosse accorto me lo avrebbe di certo impedito, ma la sua faccia in quel momento sembrava dire soltanto: «Ti prego, no!». Quando entrai in casa di Madison mio padre era accasciato per terra e piangeva. Non avevo mai visto mio padre piangere fino ad allora. La porta del

bagno era aperta e mio padre era in ginocchio con le mani sulla faccia e singhiozzava. Era successo qualcosa di terribile ma non capivo che cosa. - «Papà?» – dissi piano. Lui mi guardò, si pulì la faccia e chiuse subito la porta del bagno. Mi venne incontro, mi strinse per le braccia e mi disse di andare a chiamare immediatamente mia madre. Avrei voluto rimanere, sapere, conoscere il motivo di tanta disperazione. Ma ubbidii. Tornai a casa e avvertii mia madre. Insieme tornammo a casa di Madison con mio padre che ci aspettava sulla porta. Fece entrare mia madre chiudendo la zanzariera e lasciandomi ad aspettare fuori nel portico. Le disse qualcosa all’orecchio per non farmi sentire. Mia madre cacciò un urlo terrificante e si buttò tra le braccia di mio padre, disperata. La madre di Madison arrivò circa un’ora dopo, quando le macchine della polizia e l’ambulanza occupavano già il vialetto e mezza strada. Mio padre le andò incontro prima che potesse farlo chiunque altro. Era pieno pomeriggio ed il sole picchiava ancora più duro. I poliziotti si lamentavano del caldo e gli infermieri di tutto quel sangue. La madre di Madison si sentì male ed ebbe bisogno di un dottore; accorsero un paio di paramedici da dentro casa, tanto dentro non c’era da soccorrere nessuno ma solo da raccogliere. A fine pomeriggio era tutto finito. Il corpo era stato portato via, il bagno ripulito alla meglio dal sangue, ed i pezzi di cervello raschiati via dal muro. Il fucile requisito dalla polizia. Quando Madison imboccò il vialetto erano rimasti solo i segni degli pneumatici dell’ambulanza sul prato. Sua madre era a letto, frastornata. Toccò a mio padre darle la notizia, di nuovo. I suoi occhi persero la loro luce alla velocità di uno schiocco di dita. Dubito persino che stesse respirando in quel momento. Fece due i verso il bagno, mio padre non riuscì a fermarla. Spalancò la porta e vide la grande macchia rossastra spruzzata sulla parete bianca. Il viso di Madison si allungò più del normale, i suoi occhi si bagnarono e la sua mascella iniziò a tremare. Scappò fuori ando dalla porta sul retro. - «Madison!» – la chiamò mio padre – «Madison!». Saltai in piedi e le corsi dietro. Mio padre non provò a fermarmi, e comunque non ci sarebbe riuscito nonostante i miei tredici anni. Ho ancora negli occhi l’immagine eterea di Madison seduta in riva al fiume col sole che lentamente scendeva e infiammava ogni cosa: l’acqua che spruzzava, la

vegetazione selvaggia, il viso di lei che piangeva. Non mi avvicinai. Mi sedetti non lontano, sull’erba, ad aspettare che sfogasse parte del dolore. Ero sicuro di essere stato visto, ed ero convinto che facevo bene a tenermi lontano. Ognuno ha un personale dolore da dover smaltire, al quale deve tenere testa usando unicamente le proprie forze, perché quando quel dolore tornerà a picchiarci sul cuore, saremo soli, senza nessun aiuto ma preparati. Madison rimase su quella riva fino a sera, e con lei io, sempre a distanza. Pianse solo per i primi cinque minuti, lacrime a fiumi e poi basta, più niente, solo il fiotto continuo del vecchio Mississippi che ava veloce e non gliene fregava niente. - «Will!» – la sua voce leggera come un batuffolo di cotone mi venne ad interrompere il sonno. Mi ero addormentato come lo stupido bambino che ero. - «Oh mio Dio, scusa Mad, non so come sia successo…». Lei sorrideva, svogliatamente, ma sorrideva. Mi abbracciò stretto e mi sussurrò all’orecchio una cosa che non scorderò mai: - «Non ho nient’altro che te adesso». Lo disse come se stesse espirando parola dopo parola, poi ci slacciammo e tornammo assieme verso casa. Nei mesi a venire, Madison si chiuse sempre più in se stessa come se fosse un’altra persona, come se non avesse mai detto quella frase, ed io non seppi cosa fare o cosa dirle. Finii col non fare niente fino a quando non avemmo più niente da condividere. Poi nella nostra vita arrivò Oregon, e tutto cambiò nuovamente.

* * *

- «Will!». Per un momento pensai di sentire la voce di Madison che mi chiamava, proprio come quella sera. Invece era Frank che mi scuoteva con la mano buona. - «Che c’è?» – dissi con la bocca tutta impastata.

- «Siamo arrivati». La stazione centrale di Washington D.C. mi apparve come un miraggio. Avevo ancora gli occhi assonnati e la vista appannata. Il treno rallentò e si fermò facendo un rumore stridulo di freni. Prendemmo le nostre cose e ci avviammo verso l’uscita. Mentre scendevo vidi immediatamente mio padre che mi cercava con lo sguardo. Era più vecchio e stanco di quando ero partito. Dietro di lui mia madre per mano a Scott. Gli feci un fischio ed alzai un braccio. Lui si voltò, mi vide e corse veloce dalla mia parte. - «Scendi Will» – disse Frank bussandomi sulla schiena col suo moncherino. Lanciai la sacca e scesi le scalette. Mio padre mi arrivò addosso come un’onda. Ci abbracciammo forte e lui pianse come un bambino al quale hanno bucato il pallone. Mia madre correva su un paio di scarpe con il tacco che la rallentavano parecchio. Non ne aveva mai avute e lo si poteva capire bene. Quando finalmente mi abbracciò le era già colato tutto il trucco. Scott mi strinse sul fianco e tentai di prenderlo in braccio, ma ero troppo stanco e lui troppo pesante. Lo rimisi subito giù. I miei sembravano più vecchi, più duri e più stanchi. - «Cosa ci fate qui?» – chiesi a mio padre. - «Siamo arrivati ieri. Ci hanno comunicato che stavi arrivando». - «Tesoro, come stai?» – chiese mia madre. - «Sono stanco da morire!» – le risposi – «Voglio subito dormire su un vero letto». - «Non c’è tempo Will, ti aspettano» – disse mio padre. - «Chi mi aspetta?». - «All’ospedale. Ti vogliono operare subito». Mi ero dimenticato del proiettile, eppure me lo portavo ancora dentro, conficcato da qualche parte. C’era una macchina ad aspettarmi, ero decisamente un privilegiato. La prima tappa fu direttamente all’ospedale militare. Attraversammo tutta la capitale, ammo nelle vicinanze del Campidoglio e della Casa Bianca. Gli spazi a Washington erano meno angusti di New York. Le

case più basse, l’aria più respirabile. C’era molto più verde e molto meno caos. Mia madre continuava a tenermi la mano e ad accarezzarmi il viso; non aveva ancora smesso da quando ero sceso dal treno. Io rimuginavo se fosse davvero necessario estrarre il proiettile adesso; in fondo me lo ero portato dietro per mezzo mondo, potevo lasciarlo lì dove stava, ma il chirurgo che mi doveva operare non era affatto d’accordo. - «Tanto per cominciare, figliolo, dobbiamo scoprire dove sia andato a finire. In secondo luogo non è affatto prudente tenere un corpo estraneo all’interno del corpo. Apriamo e diamo un’occhiata. Operiamo il prima possibile, forse anche oggi stesso». A quel punto non avevo niente da replicare. Mi diedero un letto, in una camera da condividere con altri tre commilitoni, tutti storpi e moribondi. Come sempre mi sentii inutile. Mi fecero una radiografia e finalmente vidi la radice del mio dolore. Il proiettile mi aveva trafitto il petto e si era fermato contro una costola appena sotto l’ascella destra. Quindi era entrato diagonalmente e non frontalmente come avevo sempre pensato. Dall’alto verso il basso. Era lungo non più di qualche centimetro, il che escludeva che fosse di una mitragliatrice tedesca, sembrava piuttosto un calibro più grande, come quello di una pistola. Rimasi sorpreso: le mie congetture in proposito erano del tutto sbagliate. - «Figliolo» – disse il dottore con un mezzo sorriso – «Se fossi stato colpito da un proiettile di una mitragliatrice tedesca, ti avrebbe certamente trafitto da parte a parte». Poi mi mostrò la sua penna e la usò per farmi capire quando grande fosse un proiettile «…di quei fottuti nazisti!», disse lui, parola più parola meno. - «Indossi quel camice militare signor O’Neill, si va sotto i ferri!» – concluse. Me lo disse come se mi stesse invitando ad una gita al luna park. Diede istruzioni alle infermiere e uscì dalla stanza fischiettando. Mi operò quello stesso pomeriggio. Di per sé l’operazione fu una sciocchezza: nemmeno un’ora d’intervento. Ci volle di più per spiegarmi come sarebbe andato avanti l’intervento. Infilai il camice aperto sul didietro, mi stesero su una barella e mi portarono in sala operatoria.

- «Sei teso figliolo?» – chiese il dottore con quel solito tono sarcastico – «Non dirmi che hai paura di una semplice incisione, proprio tu che hai combattuto in Normandia?». - «A loro, signore, non avevo dato il mio consenso». Si fece una risata: cosa ci trovasse di divertente lo sapeva solo lui. – «Ora prendi un bel respiro e sogni d’oro». Mi fecero prendere aria da una mascherina e persi velocemente i sensi.

* * *

Spencer aveva appena spolverato quella salatissima zuppa di patate che ci davano da mangiare al campo militare di Bayeux, e mi stava raccontando quella storia di suo fratello Mike. - «Prima della chiamata, Mike si era innamorato di una ragazza, una certa Jenny e qualcosa. Una bella ragazza, la più bella della contea. Capelli biondo cenere, occhi chiari, bel fisico ed uno sguardo che ti metteva il fuoco addosso. Tutti le sbavavano dietro come cani, me compreso, ma nessuno le si poteva avvicinare. Il padre era un uomo facoltoso, con una proprietà che si estende a perdita d’occhio. Mike fece di tutto per conquistare Jenny, ma lei non ne voleva sapere, come con tutti noi perdenti, ma mio fratello era determinato come non mai. Le disse che era disposto a qualsiasi cosa pur di uscire una volta con lei, e lei impressionata da tanta risolutezza, si convinse, ma solo ad una condizione…». - «Quale?» - gli domandai. - «La condizione era che Mike, andasse da suo padre e si offrisse di ridipingergli lo steccato. Solo dopo aver portato a termine queste due richieste, avrebbe acconsentito ad uscire con lui. Mike era elettrizzato: ridipingere uno steccato non era certo una clausola tanto terribile. Ma aveva fatto male i conti. Andò a casa di Jenny. Lei era presente quando Mike propose a suo padre di pitturargli lo steccato completamente gratis…».

- «Lo steccato?» – disse il padre di Jenny – «Perché proprio lo steccato?». - «Mio padre signore…» – inventò Mike sul momento – «dice che mi devo rendere utile, che non devo starmene con le mani in mano». Il padre di Jenny sembrò sinceramente colpito. - «In effetti avrebbe bisogno di una rinfrescata, ma ti consiglio di farti dare una mano figliolo». - «Non lo farei mai signore. È un compito che devo svolgere da solo». L’uomo si fece una grassa risata. Si lisciò i baffi e si alzò dal divano. - «Come ti pare!» – disse – «In bocca al lupo allora». Mike si sforzò di sorridergli senza però capire fino in fondo il motivo di quella risata e di quelle parole. Il padre di Jenny gli fece strada ed uscirono fuori. Jenny rimase sulla soglia di casa con un sorrisetto malizioso. Mike pensò che fosse per lui. Sbagliava. - «Allora figliolo. La staccionata gira intorno a tutta la proprietà. Sono molti acri e credo sia quasi un miglio di steccato più o meno». A Mike finì il sangue nei piedi. La sua mascella scese di qualche centimetro ma provò a non farsene accorgere. Jenny rideva, divertita. Lo aveva inguaiato per bene e lui c’era caduto come un pollo. - «Buon lavoro figliolo» – disse il padre di Jenny allungandogli una mano – «Ti farò avere quello che ti serve. Ci vediamo questo fine settimana». Rientrò in casa prendendo la figlia sotto braccio. Jenny appena prima di chiudere la porta di casa, si fece una risata alla faccia dello stupido di mio fratello. - «Dio santo…» – dissi – «e Mike che fece?». - «Qui arriva il bello. Jenny aveva sottovalutato il mio fratellino, e quella risata irridente lo aveva caricato come una molla. Quel fine settimana si presentò di buon ora, e Jenny fece una faccia tutta da ridere quando se lo ritrovò in piedi sulla porta. E andò avanti così per molto tempo. In tutto impiegò quasi cinque

mesi per finire, venti week end, quaranta sudatissimi giorni, dal mattino fino all’imbrunire, ma alla fine portò a termine il suo impegno». - «Quindi uscì con Jenny?». - «Proprio per niente» – rispose Spencer facendosi una risata. La prima dalla morte di Mike. - «Non dirmi che dopo tutto questo lei si tirò indietro?». - «Oh no, anzi, era praticamente cotta a puntino». - «Cosa successe allora?» – dissi ansioso. Ero anch’io cotto a puntino. Spencer sembrava averlo capito e mi fece aspettare un momento prima di proseguire, giusto per farmi bollire per bene. - «Mio fratello si congedò dal padre di Jenny e se ne andò. Lei uscì da casa tutta contenta e gli corse dietro». - «Mike!» – si mise a chiamare. Lui si fermò a metà vialetto e si lasciò raggiungere – «Allora quando vogliamo vederci?» – disse Jenny. Lui la guardò un momento negli occhi poco convinto: - «Mi spiace Jenny, ma non posso uscire con te!». Lei sembrò sorpresa: - «Ma cosa stai dicendo. Hai finito di dipingere lo steccato?». Mio fratello le sorrise. - «Vieni con me» – disse. Percorsero tutto il vialetto fino all’ingresso principale in pietra. Girarono sulla loro destra e camminarono per una decina di metri, fin dove finiva il muro di pietra e cominciava lo steccato. - «Guarda» – fece Mike indicandogli qualcosa. Jenny si voltò e vide che il primo paletto del recinto non era stato ripitturato. Jenny fece una faccia amarissima. «Mi dispiace Jenny, addio!».

La lasciò lì, ad aggrovigliarsi le budella. Le aveva dato una gran bella lezione, e l’aveva data anche a se stesso. Era un uomo. Rimasi con la bocca aperta come un pesce preso all’amo. - «Mike non aveva affatto bisogno d’avere le gambe e le braccia per essere felice. Lui era un persona straordinaria, sempre e comunque».

* * *

Al risveglio dall’operazione mi aspettava un regalo ed un’inaspettata sorpresa. Il regalo, se così lo si può definire, fu il proiettile che mi consegnarono in una bustina di plastica trasparente: un souvenir direttamente dalla Seconda Guerra Mondiale. La sorpresa invece fu scoprire il calibro e la provenienza. Piccolo calibro come era stato ipotizzato, di provenienza americana. Il proiettile era stato sparato da una pistola in dotazione all’esercito americano. Non solo ero stato abbattuto a pochi minuti dallo sbarco, ma ero stato colpito da uno stronzissimo proiettile americano, dal cosiddetto “fuoco amico”. Eppure era proprio grazie a quel proiettile partito per sbaglio, da chissà che punto, da chissà quale soldato, ad avermi salvato la vita. Pensai che morire in quella schifosa guerra era davvero l’ultima cosa che mi poteva capitare. Ma le sorprese non erano finite lì. - «William» – disse mia madre tutta eccitata entrando nella mia stanza d’ospedale – «Abbiamo ricevuto l’invito ufficiale». - «L’invito ufficiale per cosa?». - «Guarda tu stesso». Presi la busta che teneva in mano con mittente il Congresso degli Stati Uniti d’America, ed a firma direttamente del Comandante delle Operazioni Militari e del Presidente in persona. Aprii la busta in uno stato d’animo per metà sconvolto e per metà curioso. Ero stato invitato ad un ricevimento in onore dei reduci di guerra, dove mi avrebbero consegnato la medaglia al valore militare. Avrei dovuto indossare la divisa d’ordinanza e avrei potuto portare con me i componenti della mia famiglia.

La divisa mi andava larga, i pantaloni mi cadevano e mia madre me li dovette fermare al volo, con spille e filo. Per la giacca invece mi dovetti accontentare: non l’avrei riempita nemmeno se ci avessi indossato sotto quattro maglioni di lana pesante uno sopra l’altro. Ero dimagrito troppo, e non mi stava più quello che prima di partire mi calzava a pennello. Quando mi presentai alla cena, una ragazza con i capelli neri e cotonati mi guardò come se avessi tutte e due le orecchie sulla fronte. - «Soldato!» – disse – «Lo sai che devi incontrare il Presidente?». - «Sì, signora» – risposi con imbarazzo. - «Io dico di no invece». Mi guardai le maniche larghe e le spalline della giacca che cadevano in malo modo. Mi prese per un braccio e mi accompagnò in una stanzetta con degli abiti militari imbustati e appesi a dei carrelli movibili. - «Fanteria, giusto?». - «Sì, signora». Mi diede una rapida occhiata e prese un completo di una taglia tra le più piccole. - «Questa ti dovrebbe calzare a pennello» – disse. - «Lei dice?». Mi sorrise. Si muoveva rapidamente su un paio di tacchi alti e parlava anche più veloce. Continuai a darle del lei anche se aveva approssimativamente la mia stessa età, ma aveva un rossetto d’un rosso così intenso che pretendeva rispetto. - «Dove posso cambiarmi?» – le domandai impacciato. - «Qui» – rispose con una specie di squittio. Balbettai qualcosa d’incomprensibile anche per me. Lei avvertì il mio imbarazzo. «Oh suvvia soldato, non ho tempo da perdere. Si provi la divisa e vediamo come le sta!». Mi voltai e cominciai a sbottonare la giacca. Con i pantaloni invece feci molta

più fatica: mia madre aveva girato l’ago nella cinta un’infinità di volte e mi aveva riempito di spille e spillette dal cavallo all’orlo. La ragazza, Nadine si chiamava, vedendomi in difficoltà mi venne in aiuto: - «Che problema c’è soldato?». Le mostrai i pantaloni che mia madre aveva ripreso più volte in vita per farmeli andare. Non avevo avuto nemmeno bisogno della cinta: me li aveva praticamente cuciti addosso. - «Avrei bisogno di una forbice per tagliare…». - «Ma quale forbice» – disse Nadine spazzando l’aria con una mano. Mi si inginocchiò davanti ed infilò le dita dentro i pantaloni, all’altezza dei fianchi. Diede uno strappo, poi un altro, ed un altro ancora che le fece cadere un ciuffo di capelli sul viso. I pantaloni mi cascarono a terra come un frutto maturo. - «Voilà!» – disse Nadine rimettendosi di nuovo in piedi e sistemandosi di nuovo l’acconciatura. Infilai l’uniforme il più velocemente possibile. Lei mi guardava con aria distaccata e professionale: le importava solo che mi presentassi in maniera decorosa davanti al nostro Presidente. Non fece nemmeno domande sull’abbondante fasciatura che mi strizzava come un salame. Mi sistemò il colletto e m’infilò il cappello in testa, poi sorrise. - «Ora ci siamo!» – disse soddisfatta – «Avanti soldato, questa è la tua grande serata». Quando mi presentai di nuovo dai miei ero un uomo nuovo. Mia madre rischiò di piangere, ancora. Pianse continuamente per un mese di fila quando tornai, e per qualsiasi futile, stupido motivo: anche quando mi vedeva grattarmi la punta del naso. Ora si copriva la bocca con una mano e le s’incelofanarono gli occhi. - «Mamma, ti prego!» – la rimproverai. - «Non piango, va bene, promesso». Ma intanto era lì che con la punta del fazzoletto cercava di non far colare il trucco. Presi Scott per mano ed andammo a cercare il nostro tavolo, ed i nostri posti. Per ogni tavolo c’erano almeno due famiglie. Facemmo il giro della sala senza trovarlo. Dovemmo chiedere aiuto ad una ragazza bionda per trovare il

nostro. - «O’Neill ha detto?». - «Sì» – dissi cercando un buon sorriso nel mio repertorio. - «Tavolo trentacinque. Prego vi faccio strada». La sala delle cerimonie al congresso di Washington era enorme ed affollata. Facevo fatica a concepire tanto spazio e tanta gente tutta insieme. Al nostro tavolo sul lato sinistro della sala, quello delle finestre, c’era una targhetta con scritto Soldato di Fanteria William O’Nell + 3. Ringraziammo e ci sedemmo. Scott sembrava divertirsi: era affascinato dalle luci, dalla maestosità del posto. Non avrebbe più visto così tanta gente in smoking in vita sua. Mio padre aveva gli occhi di uno che brancola nel buio più totale. Indossava una giacca marrone svanito e un paio di pantaloni blu, su una camicia scura. La cravatta l’aveva tolta un minuto dopo essersela messa. Penzolava ancora dalla tasca sinistra della sua giacca. Mia madre cercava di stare più composta possibile, ma non era a suo agio e si vedeva. Non indossava un bell’abito dal giorno del suo matrimonio, ed avrei giurato fosse proprio quello, bianco con i fiori finti cuciti a mano. La fame patita in quegli anni le aveva consentito di mantenere la stessa linea di quando era ancora una ragazzina. Sembrava una serata perfetta, eppure come mi succedeva da parecchio tempo, sentivo un vuoto nello stomaco che non riuscivo a colmare in nessun modo. Con noi al tavolo c’erano i Clifford. Pierce, aviatore, era stato abbattuto appena fuori Parigi. Il suo pilota e amico James invece era morto nell’impatto. Lui era riuscito a salvarsi pur perdendo una gamba. I Clifford venivano dalla California. Pierce sembrava molto più giovane della sua età. Quando si sedette al tavolo aiutato da sua sorella Monica, mi sorrise stancamente. Aveva i capelli di un giallo untuoso e le guance scavate come chi non mangia da mesi. Gli occhi castani erano incastonati in fondo a due voragini scure. Potevo quasi contargli tutte le ossa della faccia. Suo padre Clarke invece era un uomo massiccio, calvo e macilento. Aveva delle dita nodose ed una pelle arrossata dal sole californiano. La moglie invece era la più circospetta dei quattro: si avvicinò con la diffidenza di un gatto selvatico e non disse più di quattro parole messe in croce. Monica era molto carina, con un bel seno nonostante i suoi quindici anni. Troppo piccola per me e troppo grande per Scott, purtroppo. Le sorridemmo entrambi scambiandoci per tutta la cena occhiatine stupide. Mi sembrava di sentirmi meglio, durò poco.

- «Tu William dov’eri distaccato?» – mi chiese il signor Clifford. - «Ero nel Centosedicesimo Reggimento di Fanteria, signore. Prima Armata di sbarco ad Omaha». - «Sul serio?». Il signor Clifford sembrava molto impressionato. Mi diede un’occhiataccia sorpreso anche lui del fatto che fossi sopravvissuto e fossi seduto a quel tavolo; apparentemente integro. Arrivarono gli antipasti e dopo aver assaggiato le prime tartine miste feci una gran fatica a non vomitare. Il mio stomaco non si era ancora abituato. Aspettavamo tutti il primo piatto quando dal fondo sala sentimmo arrivare del gran movimento. Entrarono degli uomini in completo scuro che si posizionarono in punti strategici della sala. C’era dell’agitazione e non capivo quale fosse il motivo. Un uomo con occhiali e capelli ben sistemati sulla testa, salì sul palco e parlò al microfono. Gli bastò dire poche parole per scatenare l’ovazione dei presenti: «Signori e Signore, il Presidente degli Stati Uniti D’America». Roosevelt venne accolto da un crepitare di mani e da sorrisi di pura eccitazione. Mio padre rimase seduto insieme al povero Pierce. - «A me sta poco simpatico. Tu che scusa hai?» – gli disse papà cercando di strappargli una risata, ma lui non lo trovò per niente spiritoso. Il Presidente entrò sorreggendosi ad una guardia del corpo e salutò tutti con un cenno della mano. Salì sul piccolo palco con non poca fatica. Quando si lasciò andare, appoggiò i gomiti sul trespolo quasi dovesse riprendere fiato. «Grazie e buonasera a tutti» – furono le sue prime parole – «Sono molto contento di essere qui stasera assieme a voi. È un grande onore per me condividere la cena con dei veri eroi americani e le loro famiglie. Questo grande paese che io rappresento, vi sarà per sempre grato. La felicità nel vedere che questi ragazzi sono tornati a casa vivi, fa il paio col rammarico ed il profondo dolore per quelli che invece sono morti sul campo di battaglia per portare la libertà a popoli oppressi. Propongo un momento di silenzio e preghiera in ricordo di questi uomini valorosi».

La sala scese nel silenzio più totale. Pensai a Jesse, e il suo ricordo cominciò a girarmi in testa come un’elica: il suo volto sformato dalla paura e dal terrore di non farcela. Il suo sorriso, la sua troppa voglia di vivere. «Grazie» – disse il Presidente tirandomi fuori da quella triste reminiscenza – «Vogliate gradire con me di questa cena come modesto ringraziamento per il vostro coraggio. Dio vi benedica e benedica l’America. Buona serata». Applaudirono tutti, tutti tranne mio padre che però sembrava molto colpito da quelle parole. Si diede un morso alle labbra e si sistemò di nuovo a tavola. A fine cena, fummo chiamati a riunirci ordinatamente sul palco con il Presidente Roosevelt che ci avrebbe consegnato la medaglia. A me personalmente fece molti complimenti, anche se non ne meritavo nemmeno uno. Mi spillò la medaglia al petto e mi diede una pacca sulla spalla reggendosi ad un uomo della sicurezza. - «Bravo figliolo!» – disse con un tono solenne. Mi sentii fiero di me, ma quando gli sentii dire le stesse cose anche a tutti gli altri, mi venne quasi la voglia di restituirgliela. Quando ebbe finito, fece uscire tutta la stampa e si riaccomodò sulla sua sedia a rotelle spuntata magicamente da dietro una porta. Mio padre gli si avvicinò quasi di soppiatto, si presentò e cominciò a fargli uno dei suoi lunghi sermoni. Immaginai il nostro presidente tentato di lanciarsi giù dalla sedia a rotelle per darsi alla fuga spingendo sui gomiti. Fu semplicemente allontanato con un: «Grazie, è stato molto gentile», ma almeno aveva parlato con il Presidente degli Stati Uniti, anche se solo per pochi minuti. - «Ehi Will!» – sentii chiamare tra la gente. Era Frank – «Vieni qui!». Mi feci largo e gli andai incontro con un sorriso pieno. Sapevo che quella era l’ultima volta con Frank e già mi mancava. - «Lei è Rose» – disse avvicinandomi una ragazzina bionda, con un bel viso pieno. - «Piacere Rose, io sono Will». Mi strinse la mano e mi visitò tutto, dalla testa ai piedi, poi fece una smorfia e

disse a Frank: - «Hai ragione tesoro, non è affatto bello come te». Silenzio, poi Frank scoppiò a ridere e con lui anche Rose. - «Scusa Will» – disse lei – «Mi ha costretto a farlo!». Frank si teneva la pancia ed era diventato tutto rosso in faccia. Io mi vergognavo come un ladro. - «Dovevi vedere la tua faccia, Will». - «Questa me la paghi». Frank mi si avvicinò e mi strinse dentro un abbraccio. - «Allora amico, stammi bene!» – disse. - «Anche tu» – risposi slacciandomi da lui - «Quando parti?». - «Domani mattina. Appena avrò imparato a scrivere con la mancina ti scriverò una lettera». - «Ci conto» – gli risposi. Sorrisi e me lo abbracciai di nuovo mentre faceva scendere un paio di lacrime. - «Piangi femminuccia?» – gli dissi. - «Vaffanculo contadino!» – rispose lui, poi mi strinse ancora più forte mentre ci dicevamo addio.

* * * * *

9

New Orleans. Se non fosse stato per i punti sulla ferita, credo che la strada da Washington a casa l’avrei fatta di corsa. Il mio cuore sbuffava più del treno. La stazione era la solita schifosa stazione, non era cambiata. Pensai a chi, scendendo dal treno, per un attimo ha la tentazione di risalire ed andarsene senza rimpianti. Eppure quella era casa mia, il mio squallore, la mia eterna malinconia. Alla stazione c’era il sindaco con tutti gli assessori. Mi portarono loro a casa, in macchina. La gente mi applaudiva come se avessi fatto una gran cosa, come scoprire il vaccino per la polio, o aver vissuto trent’anni tra i lebbrosi. Invece ero solo andato dall’altra parte del mondo per prendermi una sventagliata dal fuoco amico e tornare indietro, punto, fine della storia. La via di casa era tutta piena di palloncini colorati e stelle filanti attaccate ai pali della luce o alle cassette della posta. «Tutto denaro sprecato» – pensai. La macchina filava dritta ed il sindaco, seduto accanto a me, aveva l’espressione di uno che stava pensando: «Ma dove cazzo siamo?». Mia madre mi fissava e sorrideva, non aveva ancora smesso da quando ero arrivato alla stazione. Mio padre rimuginava qualcosa, ma non disse niente, io non c’ero in quel momento: il mio unico pensiero era rivolto all’istante in cui avrei rivisto lei, Madison. Era seduta sotto la veranda di casa sua, con i capelli raccolti nella sua solita treccia. Quando la macchina parcheggiò davanti casa, la vidi scattare in piedi come se fosse stata punta da qualcosa. Rimase immobile finché non scesi dalla macchina. Quando mi vide si portò tutte e due le mani alla bocca e scoppiò a piangere. Io le sorrisi. Fece un saltello giù dalla sua veranda ed una corsa a perdifiato fin dentro le mie braccia. - «Oh Dio grazie!» – disse – «Grazie, grazie». Mi stringeva la testa tra le mani e mi riempiva di baci. - «Grazie Dio! Non sai quanto ho pregato per te, Will!». - «Mi è mancato il tuo blues, Maddy» – le risposi io. Lei rise e pianse per la gioia, poi mi tenne ancora chiuso dentro quel lunghissimo abbraccio. La sera cenammo tutti insieme, ed infine andai a letto stremato: avevo fatto più chilometri io in una settimana di quanti uno qualsiasi della mia famiglia avrebbe fatto in tre vite consecutive. Mi buttai a letto con un solo pensiero in testa: rivedere la mia triste e meravigliosa città. New Orleans era identica a come l’avevo lasciata, solo più povera e più stanca.

La guerra aveva richiesto un ennesimo sforzo economico alle famiglie che tornavano a prendere aria dopo la Grande Depressione. La gente si dava un gran da fare. Qualcuno per strada mi riconobbe e mi venne a salutare; ero diventato più famoso del sindaco. Quella era una giornata di sole, appiccicosa come solo sul delta. Non si alzava nemmeno uno starnuto di vento. Quando mi voltai per guardare in giro vidi il vecchio Oregon seduto sulla sua logora sedia di vimini, sotto la veranda del suo negozio. Mi avvicinai sorridendo e commosso. Salii i quattro gradini e mi fermai aspettando che si voltasse dalla mia parte. - «Di cosa hai bisogno ragazzo?» – disse. - «Conosci una canzone che s’intitola Me and the Devil Blues?». Oregon si agitò freneticamente sulla sedia, infilò gli occhiali da vista e mi visitò la faccia. Storse tutta la bocca in una smorfia, asciugò la fronte con una mano e poi si ributtò indietro. - «Ci sono solo due persone in questo schifo di posto che possono venirmi a chiedere una cosa del genere: una è la mia Madison, ma tu figliolo, non sei né biondo né bello come lei. Quindi devi per forza essere Will!». Sorrisi. Oregon fece per alzarsi dalla sedia ma gli tremarono i polsi dallo sforzo. Lo andai a prendere e lui mi si allacciò addosso. - «È bello rivederti figlio mio!» – mi disse ad un orecchio con una voce rotta dal pianto. - «Anche per me». Era ato poco più di un anno ma sul fisico fragile pesò come se ne fossero ati almeno dieci. - «Dov’è la tua armonica?» – gli chiesi. - «Guarda le mie mani ragazzo, non se la smettono un momento di tremare. Mi è stato succhiato via il talento dalle dita» – disse. Poi gridò: «Caroline!». Sentii un rumore frenetico di i arrivare da dentro il negozio, ed il mio cuore prese a galoppare.

- «Nonno, ma che combini?» – lo rimproverò una giovane donna dai capelli raccolti sulla testa. Magra, magrissima, con le ginocchia a punta e con quelle inconfondibili labbra carnose. «Ma scusami…» – disse distrattamente senza guardarmi nemmeno in faccia. Prese Oregon sotto le ascelle e lo rimise seduto sulla sedia. Gli asciugò la fronte con un fazzoletto che poi si rimise in tasca del grembiule. - «Ho pregato per la tua salvezza» – disse Oregon appoggiando i gomiti sui braccioli della sedia. Caroline al quel punto tornò a guardarmi meglio sistemando i capelli dietro le orecchie. - «Oh mio Dio!» – disse portandosi le mani alla bocca. - «Ciao Caroline». Ci abbracciammo forte. - «Tesoro, prepara qualcosa di buono» – disse Oregon – «Oggi abbiamo a pranzo un eroe». Ci staccammo e Caroline sorrise. Il suo viso sembrava fosse stato investito da un camion. Lo si vedeva bene. Mi carezzò commossa e rientrò in casa. - «Aiutami a mettermi in piedi Will!» – disse Oregon. Lo aiutai. Sembravano essere ati anni da quando ero partito: le persone erano ate attraverso un tritacarne. - «Jimmy Newman!» – gridò Oregon con quella voce da orco. Dall’altra parte della strada un ragazzino tutto ossa si staccò dal suo gruppetto d’amici impegnati a spiccare salti con una corda. Oregon entrò nel negozio e prese una stecca di cioccolata. La diede a Jimmy Newman dicendogli: - «Corri a chiamare Madison e dille che deve venire a pranzare da noi». - «Sì, signore» – disse Jimmy Newman, poi corse via. Gli altri bambini gli si accodarono come un branco di cani affamati. - «Vieni dentro» – disse Oregon prendendomi sotto braccio. Caroline era andata di sopra per preparare qualcosa da mangiare. Io ed Oregon

entrammo in una saletta con un divano letto e con un tavolo al centro. Ci sedemmo ed Oregon mi invitò a prendere due bicchieri ed una bottiglia di bourbon. Ne versai due dita a testa. Lo buttammo giù mezzo, poi Oregon mi prese la mano e disse piano: - «Raccontami com’è l’inferno». Caroline faceva avanti ed indietro tra la casa ed il negozio per servire i clienti. Quando tornò da noi teneva in braccio un bel bambino. Quasi cascai dalla sedia. Mi guardò e sorrise. - «Mio figlio Ben» – disse. Lo consegnò ad Oregon che se lo prese tra le braccia. Dormiva. Aveva la pelle olivastra, i capelli nerissimi e due labbra carnose come quelle della mamma. Rimasi sorpreso, quasi impietrito. Oregon grugnì vedendo la mia espressione, ed io imbarazzato feci una smorfia. Proprio in quel momento entrò nella stanza un nero, alto, altissimo, con due braccia enormi e lucide di sudore, con addosso una canottiera e dei pantaloni scuri sporchi di terra. La faccia consumata da una mattinata di lavoro nei campi. - «Ciao amore» – disse Caroline. Si avvicinò a lui e gli diede un bacio sulle labbra. «Lui è Ray. Il padre di Ben. Lui è Will». - «Will, l’eroe di guerra? Molto piacere». Ci stringemmo la mano. Gli mancavano due dita: l’indice ed il medio. - «Riformato» – disse subito – «Purtroppo o per fortuna non posso sparare». - «Decisamente per fortuna» – gli confermai. Mi diede una pacca sulla spalla e sorrise mostrandomi una scuderia di denti bianchissimi. Ray carezzò la testa di Oregon e diede un bacio sulla fronte di suo figlio. - «Ray vatti a lavare che tra poco si mangia» – gli ordinò Caroline. Ray salì di sopra. Caroline apparecchiò la tavola velocemente. Provai a darle una mano ma Oregon mi prese per un braccio e insistette perché continuassi il mio racconto. Caroline tornò anche lei di sopra. Oregon mi ascoltava attentamente mentre gli parlavo dello sbarco, di Jesse, dei Montreau. Tornò Ray che prese il

figlio Ben dalle braccia di Oregon, e cominciò a baciarlo su tutta la faccia. Arrivò Madison. I suoi capelli erano ancora intrecciati dentro la sua solita coda. Mi venne a dare un bacio sulla guancia, poi fece lo stesso con Oregon e Ray, che gli ò il piccolo Ben. Caroline chiamò Madison al piano di sopra. Lei restituì il bambino a suo padre e salì le scale. - «Hai trovato Dio in quel posto?» – disse Oregon finendo il bourbon. Ci pensai un momento, poi dissi: - «Sì, possiede due capre e parla se». Ridemmo tutti e tre, anche se la mia risata era più malinconica delle altre. Le ragazze tornarono con in mano delle zuppiere fumanti. Ray sistemò Ben sul divano letto, tra due cuscini, poi si sedette a tavola accanto ad Oregon. Mangiammo e bevemmo, ridemmo e ricordammo i tempi andati, la felicità consumata. A fine pranzo Oregon fece un cenno a Ray che uscì dalla stanza e tornò subito dopo con una chitarra. - «Prego bambina» – disse a Madison. Lei allontanò la sedia dalla tavola, si frugò in tasca e tirò fuori un ditale di metallo. Lo infilò all’anulare e prese un goccio di Bourbon. Poi attaccò con la chitarra e con la voce. Suonò Death Letter di Son House. Mandava spesso la testa indietro chiudendo anche gli occhi. La sua voce era incredibilmente calda, graffiata, tortuosa e amara. Le sue dita si muovevano precise, il suono si trascinava fuori dalla chitarra come se stesse dando pennellate. Oregon rimase fermo, annuendo con la testa per tutto il tempo. Quando Madison terminò di cantare, le facemmo un lungo applauso che fece svegliare Ben; anche lui nell’altra stanza si mise a cantare un bel blues. Io e Madison tornammo a casa assieme. Finalmente trovammo un momento per stare soli. Parlammo di Jesse, dei Montreau, le raccontai di Annabelle e diventai subito triste. Madison mi strinse le spalle teneramente. - «Raccontami di te, piuttosto» – dissi. Lei si attorcigliò la coda dei capelli tra le dita e cominciò a giocarci. - «Mia madre si è risposata con un tizio di nome Sam, un brav’uomo. Ha un’officina in città e vorrebbe aprirne un’altra. Io lavoro come cameriera in un ristorante, la paga è da fame, ma le mance sono buone. Nel week end canto nei locali e qualche produttore discografico mi ha persino chiesto se volessi incidere

qualcosa». - «Fantastico, e tu che hai detto?». - «Di no». Mi fermai. Lei si fermò con me. - «Perché no?». - «Dovevo trasferirmi a Chicago». - «Perché non sei andata?». - «Prima volevo vederti tornare». Il sangue mi si accumulò tutto nei piedi. Diede ancora una zampata alla coda dei capelli cacciandola indietro. Io me la strinsi forte al petto per almeno un intero minuto. Quella sera Madison aveva da lavorare, ed io rimasi nella mia camera a pensare. Mi mancava Annabelle e tutta la famiglia Montreau. Proprio in quel momento bussarono alla porta. - «Sì?». Era mio padre. - «Stai bene?». Gli feci un cenno con la testa. Infilò una mano in tasca e tirò fuori una lettera. - «Oggi è arrivata questa lettera per te» – disse consegnandomela – «Ti lascio solo». Sorrise contento. Da quando ero tornato i suoi occhi erano sempre più dolci: credo che a modo suo avesse fatto la pace con tutti, Dio compreso. Uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Mi alzai, aprii la busta e lessi. Dopo le prime due righe, il mio cuore si perse più di un colpo.

Grandcamp-Maisy, 3 Agosto 1944.

Caro William, ti scrivo sperando di trovarti in buona salute. Mi capita sempre più spesso di ricordare con nostalgia i giorni ati insieme alla fattoria. Sembra quasi che prima di questi non abbia memoria. Qui in Francia la vita riprende con lentezza, ma c’è speranza, più di quanto ne serva in realtà. Il piccolo Jean oramai caccia i conigli con l’esperienza di un vecchio bracconiere, mentre Pierre ha trovato lavoro come commesso presso una tipografia di Caen. Come potrai ben immaginare la nostra casa è stata seriamente danneggiata dai bombardamenti del giugno e del luglio scorso. Papà Maurice dice che per il momento resteremo qui a Grandcamp-Maisy finché la situazione in città non sarà del tutto sicura. Solo Pierre rimane in città a casa di amici per via del lavoro. Ci manchi in un modo quasi eccessivo, ma posso anche immaginare la felicità della tua famiglia nel saperti sì ferito, ma ancora vivo. Condividiamo con loro la gioia di vedere un figlio che torna a casa sano e salvo. Concludo augurandomi che con questa lettera ti possa raggiungere anche l’amore che la famiglia Montreau nutre per te, il nostro William O’Neill. Ti bacio. Annabelle.

P.s.: allego inoltre alcune parole di mio padre Maurice che come nostra consuetudine riporterò per te.

Caro Figlio, il mio cuore è spezzato. Una parte di esso è qui con i miei ragazzi e la mia cara Cécilia, mentre l’altra sua parte è li con te, in America.

Non a giorno che non preghi per il mio William. Abbraccia tuo padre come lo abbraccerei io potendo. Prego un Dio giusto che ci faccia un giorno ritrovare.

Maurice Montreau.

Il mio cuore riprese a battere solo quando terminai di leggere. Rilessi altre due, tre volte, poi annusai la lettera cercando un qualche odore familiare. Mi ributtai sul letto e per non so quale motivo, cominciai a piangere. Un pianto a fiumi, forte, una cascata di gioia e di malinconia. Buttai fuori tutto il dolore trattenuto con quell’unico pianto. - «Will? Stai bene?» – disse mia madre da dietro la porta. - «Sì» – risposi tra i singhiozzi – «Non preoccuparti». Sentii mio padre che la portava via. Cercai un foglio ed una penna e cominciai a scrivere, con il naso che mi colava e le lacrime che non mi stavano più negli occhi.

New Orleans, 12 Settembre 1944.

Cara Annabelle, ricevere la tua lettera è stato il dono più grande che potessi ricevere assieme a quello della vita, che tra l’altro voi Montreau avete con tanto amore contribuito a restituirmi. Quella ferita e la cicatrice che da questa è nata, non sono niente in confronto al dolore ed alla tristezza che provo nel sapervi tanto lontani dal mio cuore.

Mi trovo spesso a pensare quanto questa stupida guerra abbia tolto e quanto abbia dato all’uomo che ero prima di essa. Ebbene, voi Montreau avete fatto di me un uomo migliore: più fiero, più consapevole di sé e più onorevole di quanto questa guerra avrebbe mai potuto fare se fossi riuscito a combatterla fino in fondo. Provate ad immaginare ogni goccia dell’oceano che ci separa, come un bacio che vorrei darvi ed un abbraccio col quale potervi stringere ancora. Siete la mia carne ed il mio sangue.

William O’Neill.

Caro Maurice, ti abbraccio come farebbe un figlio che torna alla casa del padre. Abbraccio Annabelle, Pierre e Jean come sorella e fratelli, e bacio Cécilia come bacerei mia madre. Confido a te il forte desiderio di tornare in vostra compagnia per poter godere del vostro tenero affetto. Mi unisco a te nella preghiera che ci vorrebbe nuovamente insieme.

W.

La piegai e la infilai in una busta. Il mattino seguente sarei andato ad imbucarla. Mi distesi di nuovo sul letto e chiusi gli occhi. Pensai ai Montreau, agli occhi caldi di Maurice, al piccolo Jean, a Pierre, alle mani di Cécilia ed ovviamente a lei: Annabelle. Immaginare il suo viso mi rallentava il sangue nelle vene. Quei baci che ci scambiammo alla fattoria prima che partissi, li potevo sentire ancora sulle labbra. Poi d’un tratto rividi gli occhi morti di Jesse, le braccia e le gambe dei soldati staccate dai corpi e buttate a caso per la spiaggia come rami secchi portati dal mare. Il sangue, le budella, le urla lancinanti di chi non aveva più pezzi di corpo, il proiettile dentro il mio petto, il tonfo, la luce, il niente. Mi svegliai sudato. Mi alzai ed andai a prendere un bicchiere d’acqua e mi sedetti al

tavolo della cucina. - «Will?» – disse mio padre – «Non riesci a dormire?». Non gli risposi. Guardai il mio bicchiere ed asciugai il sudore della fronte andoci sopra il braccio. Mio padre aprì la porta e mi fece un cenno. - «Andiamo fuori, vieni». Mi alzai e lo seguii tenendo il bicchiere in mano. Ci sedemmo in veranda. La notte era serena e scura, i grilli cantavano le loro canzoni d’amore. - «Quando ci siamo sentiti per telefono, mi sono fatto una promessa: non ti avrei mai chiesto niente di quello che avevi ato. Volevo vederti, abbracciarti, dirti che ti volevo bene e nient’altro. E sai perché?». Feci di no con la testa e buttai giù tutta l’acqua. - «Perché è toccato a me dire a Carl e Mary di Jesse». I suoi occhi guardavano dritto, lontano. Si carezzò la barba e si sistemò meglio sulla sedia. «Come fai a dire a qualcuno che suo figlio è morto? Come fai a dire ad uno dei tuoi migliori amici che suo figlio sta tornando a casa dentro una bara? Come fai a dire che tuo figlio invece è ferito ma vivo? Come spieghi loro che il destino o Nostro Signore Santissimo ha voluto così?». Si fermò per prendere fiato. Piangeva. Le lacrime gli rigavano la faccia distrutta dagli anni e dalla fatica di vivere. «Sai cosa è successo quel giorno? Ho bussato alla loro porta, come ero solito fare tutti i giorni. Carl mi ha aperto, come sempre. Ho attraversato la stanza e mi sono seduto sul loro divano, come sempre. Ma quel giorno non era come gli altri giorni. Carl ha la radio per sentire i giornali, come sempre. Io gli ho detto di spegnerla. Carl non capiva. “Ho ricevuto notizie dal comando militare di Washington”, dissi. “Quando?”. “Questa mattina. Ho chiamato mentre ero in città”. “Ci sono notizie di Jesse e Will?”. Sono riuscito solo a fare sì con la testa. È arrivata Mary. Si asciugava le mani al grembiule. Sono scoppiato a piangere. Mi vergognavo come un ladro, e non sapevo il perché. Mio figlio era vivo, di cosa dovevo vergognarmi? Eppure piangevo come un bambino. “Cos’è successo?”, chiese Mary sedendosi sul divano accanto a me. “Mi spiace tanto Carl…”, borbottai alzandomi, “…ma Jesse è morto, gli hanno sparato”. Mi tremavano le gambe. “Non è vero!”, disse Mary, “Non è vero!”. “Mi spiace tanto!”. Carl non disse niente. Andò subito da sua moglie e la abbracciò. Mary pianse ed io con lei. “E Will?”, chiese Carl. “Lo hanno ferito, ma è vivo. Dicono

che ci faranno avere un numero di telefono e potremo parlare con lui. Lo imbarcano e lo rimandano a casa”. Carl sorrise. Suo figlio era morto e lui trovò la forza di sorridere. Io mi buttai per terra e piansi disperato. Lui mi tirò su con una mano sola e mi tenne stretto insieme a Mary. Mary mi abbracciò e ci stringemmo tutti e tre. Carl baciò la fronte di Mary e disse: “Grazie Dio che rimandi a casa il nostro Will!”». I miei occhi erano gonfi. La mia bocca tremava e si scuoteva. Mio padre parlava ancora. - «Tornando a casa ho promesso a me stesso che non ti avrei chiesto niente. L’unica cosa che m’importava era che tu fossi tornato vivo». Si era alzato un venticello fresco che fece bene ad entrambi. Io non dissi niente. Mio padre si alzò, prese il bicchiere dalla mia mano ed entrò in casa. Io rimasi ad ascoltare la notte per qualche minuto, poi rientrai e tornai a letto.

* * * * *

10

Il mattino seguente mi alzai e presi la lettera di Annabelle e la mia che sarei andato ad imbucare. Infilai in tasca la medaglia d’oro del congresso ed andai a casa di Madison. - «Buongiorno» – disse. Le consegnai le lettere e mi sostituii a lei ai fornelli. Mentre preparavo la colazione per entrambi, lesse le lettere. Si mise una mano sul petto e le si incelofanarono gli occhi. Versai del caffè e tostai del pane. - «Sono senza parole» – disse. Le stampai un bacio sulla fronte e versai le uova per entrambi. Finito di fare colazione, la salutai rimettendo le lettere in tasca.

- «Dove vai?» – disse. - «Devo fare una cosa». Ero stato poche volte a casa di Jesse, preferivamo scorazzare per le paludi o sulle rive del Mississippi. Mi aprì Mary, sua madre. Quando mi vide scoppiò a piangere e mi si buttò al collo. Carl arrivò di corsa da un’altra stanza. - «Will!» – disse trovandomi sulla porta, poi sorrise – «Mary lascialo entrare, avanti». Mary mi carezzò la faccia e mi tirò dentro. - «Siediti Will!» – disse Carl. Ci sedemmo sulla poltrona in soggiorno. Sapevo cosa dire e lo dissi tutto d’un fiato. - «Se sono vivo è solo grazie a Jesse, al suo altruismo e al suo coraggio». Poi presi la medaglia dalla tasca dei pantaloni e la diedi in mano a Mary. - «Questa appartiene a voi non a me». Mary scoppiò di nuovo a piangere. Carl mi strinse la gamba con una mano. Cercò con tutte le forze di trattenersi, e ci riuscì. Mi alzai. Loro si alzarono con me. Ci abbracciammo ed uscii da casa loro. Presi un lungo respiro e guardai l’albero dal quale da piccolo Jesse cadde rompendosi un braccio. Gli penzolava molle, ma Jesse diceva che non gli faceva male. Entrammo in casa per mostrarlo a sua madre. Mary ebbe un mancamento e svenne girando indietro gli occhi. Io e Jesse ci guardammo e scoppiammo a ridere. Arrivato in città andai subito all’ufficio postale. Comprai dei francobolli, baciai la lettera e la imbucai. Poi ai da Oregon e facemmo ancora due chiacchiere. Infine tornai a casa e giocai con Scott tutto il pomeriggio. Madison ci guardava e suonava la chitarra. La ferita si rimarginava. La vita andava avanti, serena.

* * *

Il dottor Wilbur mi levò i punti. Era il mio dottore da quando avevo quattro anni, e quando gli mostrai la ferita si commosse. Era un dolce vecchietto, un uomo diverso. Durante il lungo periodo della recessione era l’unico dottore bianco che curava chiunque: neri, bianchi, cajun come me, gialli, viola, senza fare alcuna distinzione. Sua moglie era morta durante la crisi del ‘29, si era ammalata e a New Orleans non arrivarono i medicinali per colpa di uno sciopero indetto dagli autotrasportatori. Anche lui come mio padre aveva un sacco di motivi per odiare l’America e chi l’amministrava. - «Quanto le devo dottore» – dissi. - «Esci da qui William O’Neill» – rispose mentre metteva i ferri a sterilizzare. - «Grazie». - «Grazie a te, William». - «Per cosa?». Si voltò e mi accompagnò alla porta agganciando il suo braccio col mio. - «Per essere rimasto vivo» – disse sorridendo. La sua faccia sembrava un argine scoppiato, ma i suoi occhi erano profondi come un pozzo. Lo salutai e uscii per strada. Andai al negozio di Oregon, lui dormiva sul divano letto del retrobottega, Caroline invece svuotava degli scatoloni. Le diedi una mano. - «Come sta tuo nonno?» – le chiesi mentre sistemavamo scatolette sugli scafali. - «Insomma… Il dottor Wilbur non è molto ottimista. Tu invece? La ferita sta guarendo?». - «Sì, quasi del tutto oramai». - «Bene» – disse sistemandosi i capelli dietro l’orecchio. - «Dimmi un po’ Caroline: come hai trovato Ray?». La presi di sorpresa. Arrossì, sorrise e si schiarì la voce.

- «Ci siamo trovati a vicenda» – disse. Pensai subito ad Annabelle. - «Già!» – risposi – «È sempre così che succede». Finii di aiutare Caroline e poi la salutai. Tornai a casa cercando un modo per non pensare di nuovo ad Annabelle; lei rimaneva comunque la mia cicatrice più profonda.

* * *

Stavo imboccando il mio vialetto quando mi sentii chiamare: - «William O’Neill?». - «Sì sono io» – risposi andando incontro al postino. - «Prego» – disse allungandomi una busta bianca. Presi la lettera, lessi il mittente e corsi subito a casa di Madison. Lei stendeva delle lenzuola sul retro. Le sventolai la lettera sotto il naso e lei fece un urletto scemo. Ci andammo a sedere all’ombra e mentre aprivo la lettera, lei m’infilzava le unghie nel braccio senza però farmi male.

Grandcamp-Maisy, 16 ottobre 1944.

Caro William, le tue parole ci hanno commosso e straziato i cuori per l’affezione con la quale parli di noi tutti. Solo tenere tra le mani una lettera, sapendola scritta di tuo pugno, ci scuote e ci rende enormemente felici. Sii consapevole che quello che tu hai dato a noi è molto più di quello che noi abbiamo dato a te. Quello stesso Dio che ci ha tolto Robert, ci ha portato in

dono un altro figlio e fratello da amare con la stessa intensità. Ti saremo per sempre grati della gioia con la quale hai riempito il vuoto della nostra casa. Credo di esprimere il comune pensiero dicendoti quanto saremmo desiderosi di rivederti. Mio padre più di ogni altro, sebbene io stessa senta dentro un vuoto colmabile solo dalla presenza dei tuoi occhi e della tua voce. Sogno spesso di te, delle nostre serate ate a vegliarci l’un l’altro, schiena contro schiena, come le due facce della stessa moneta. Il silenzio della camera dove hai riposato è così avvilente e intollerabile che potendo farlo, ti ruberei alla tua città, alla tua casa ed ai tuoi affetti, per poterti tenere qui con me, con noi.

Ti abbraccio fortemente. Annabelle.

Ti saluto e ti abbraccio. Jean. Come stai amico mio? Pierre. Ci manchi come manca il cibo ad un affamato. Cécilia. Le mie capre chiedono delle tue mani. Maurice.

Scoppiammo a ridere. Pensai alla faccia di Maurice. Madison disse: - «Che persone straordinarie». Io le annuii mentre rileggevo la lettera. Madison me la tolse dalle mani e se la rilesse tutta, poi disse: - «Bé, che farai adesso Will?».

- «Gli risponderò ovviamente». - «E poi?». - «Poi cosa?». Lei sorrise. Io sorrisi. Madison riusciva a guardarmi dentro. Non sapevo davvero cosa dirle. Il mio cuore parlava una lingua diversa dal mio cervello. Erano troppi chilometri, era un’altra vita. Cosa mi sarei dovuto aspettare? Avrei abbandonato la certezza di una vita a New Orleans per cosa? Non riuscivo nemmeno ad immaginare la controparte. La sera, nel silenzio della mia camera, stringevo tra le dita la lettera di Annabelle e la immaginavo alla fattoria di Grandcamp-Maisy mentre la scriveva. La vidi distintamente, curva sullo scrittoio di noce chiaro con di fronte la finestra che dà sul lato destro della casa. I capelli raccolti in una coda, il suo collo compatto, la sua bella bocca. Presi della carta e cominciai a scriverle cercando di dirle tutto quello che avevo dentro.

New Orleans, 24 Novembre 1944.

Cara Annabelle, quello che scrivi mi uccide per il troppo amore. È sempre più difficile vivere lontano da voi e da te. Ciò che chiamavo casa, adesso è come una nota dissonante che non suona come dovrebbe. Il mio cuore appartiene tanto a questi luoghi quanto a voi. Se fare una qualsiasi cosa potesse servire a restituirmi tutto quello che non ho di voi e che mi manca, allora lo farei fino a prosciugarmi il sangue nelle vene. I miei ricordi migliori sono proprio quelli che hanno il colore dei vostri occhi o il suono della tua voce, o ancora il profumo della tua pelle. Sento che qualcosa mi spinge a tornare alla vostra fattoria di GrandcampMaisy, che questo dolore provocato dalla vostra assenza ha bisogno di essere estinto.

Vorrei solo poterti tenere tra le mie braccia ogni momento del giorno e dirti che il tuo volto, Annabelle, mi percuote le ossa e mi fa stringere lo stomaco come in una morsa. Posso solo credere a quello che sento nel profondo del cuore, e questo chiama e ribadisce sempre un solo nome: Annabelle Montreau.

Ciao mio piccolo Jean e caro Pierre. Cara Cécilia, sei come una luce intensa. …e le mie mani chiedono delle tue capre, Maurice.

William.

* * *

Per diverse notti prima di addormentarmi, mi succedeva di sentire nel naso l’odore della sabbia bagnata misto a quello della polvere da sparo. Chiudevo gli occhi avendo ancora nelle orecchie un sibilo leggero e lo scoppio sordo delle granate. Quando alla fine mi addormentavo, facevo sempre lo stesso sogno: ero sdraiato per terra, con la camicia aperta. Sul pettorale destro avevo un foro grande come una moneta, e da questo uscivano nuvolette di fumo denso e grigio. Intorno solo lo scoppiettare delle mitragliatrici, le voci di chi bestemmiava, urlava, o chiedeva aiuto. Poi d’un tratto il silenzio più totale, nemmeno lo scroscio del mare in risacca. Ero solo, il cielo completamente nero e carico di pioggia, e non riuscivo a mettermi in piedi. Provavo ad alzarmi ma era come se avessi qualcuno seduto sopra. Rimanevo così per alcuni minuti, poi qualcuno arrivava alle mie spalle. Non potevo voltarmi per vedere chi fosse, ma solo sentire i suoi i pesanti affondare nella sabbia. Continuavo a pensare che sarei morto, che quella persona mi avrebbe sparato in testa oppure mi avrebbe conficcato una baionetta proprio in mezzo al petto. I i si avvicinavano e con

quel silenzio potevo sentirli bene; dieci i, dieci, e quell’ombra era in piedi alle mie spalle. La sua mano si avvicinava al mio petto, ed il suo dito indice si metteva a rovistare dentro la mia ferita come se stesse rubando da un barattolo di marmellata. - «Chi sei? Cosa vuoi da me?» – gli gridavo. L’ombra allora si rimetteva dritta in piedi, girava intorno e mi si piazzava dritta davanti. - «Jesse!» – dicevo. Era proprio lui. - «Ciao Will». Jesse mi sorrideva. Era vestito normalmente, con i suoi jeans preferiti, quelli lisi sulle cosce, una camicia a quadri ed i capelli bagnati e tirati tutti indietro. - «Vuoi che ti aiuti a tirarti su Will?». - «Jesse… io…». Provavo sempre a dirgli qualcosa, ma ogni volta non riuscivo a scollare una sola parola. Lui mi allungava una mano e continuava a sorridermi. - «Vieni Will, andiamo». - «Non riesco ad alzarmi Jesse». - «Avanti Will, vieni con me…» E mentre provavo ad alzarmi, a muovere un braccio o una mano verso di lui, Jesse cominciava a perdere sangue dagli occhi, dalle orecchie e dal naso. Sangue a fiotti, che gli colava denso sulla camicia, sui pantaloni e sulle scarpe. - «Vieni Will» – continuava a dirmi – «Vieni…». A quel punto aprivo gli occhi nel buio della mia stanza e mi asciugavo la fronte sudata. A volte mi riaddormentavo. Altre volte invece non riuscivo più a prendere sonno e fissavo il soffitto per ore. Quella mattina era una di quelle mattine: erano già diverse ore che mi giravo i pollici, così mi alzai ed andai a

fare un giro. Ero tornato a letto da qualche minuto cercando di mettere in fila i pensieri, quando bussarono alla porta della mia camera. Era Madison. - «Ciao» – disse. - «Ciao Maddy, vieni siediti». Si sedette accanto a me; aveva una strana espressione sul viso. - «Che cos’hai?» – le chiesi Si buttò in avanti affogando la faccia dentro le mani. Le carezzai la schiena e le chiesi ancora cosa avesse. Si tirò su e mi guardò seria. Aveva gli occhi lucidi. - «Vado a Chicago». Lo disse così, veloce come uno starnuto. - «Quando?». - «Sabato». Poi le venne da piangere. - «Mad!». Ci abbracciammo. La lasciai sfogare un momento. - «Ti avevo parlato di quel produttore, no?» – singhiozzò. Annuii con la testa. Si asciugò le lacrime con un dito – «Mi ha mandato una lettera, mi vogliono offrire un contratto. Accetterò». Le sorrisi. - «È meraviglioso! Perché piangi?» - «Perché so già che mi mancherai tanto Will» – disse, poi pianse ancora. Sorrisi contento. - «Mi mancherai anche tu, ma ti prometto che se farai i soldi mi trasferirò da te e mi farò mantenere, ok?».

Ridemmo. - «Assolutamente sì» – rispose asciugandosi la faccia e tirando su col naso – «Tu invece che hai deciso di fare?». - «In che senso?». - «Con la tua bella sina. Vuoi continuare a fare finta di niente?». Le sorrisi amaro, non sapevo che risponderle. Mi sorrise, fece un saltello ed un urletto stridulo. Mio padre bussò subito alla porta ed infilò dentro la testa. - «Che succede?» – disse. Madison lo tirò dentro abbracciandolo e baciandolo sulle guance più di una volta. «Che succede Will?» – chiese a me. - «Madison, ha ricevuto un’offerta da un’importante casa discografica di Chicago». - «Bambina, è vero?» – le domandò mio padre prendendole la faccia tra le mani. Madison fece di sì con la testa. - «Oh Dio!» – gridò – «La mia Madison! La mia Madison va a Chicago!» Cominciò a ridere fortissimo come un bambino la mattina di Natale. Abbracciò Madison e chiamò mia madre nella stanza. - «Che succede?» – disse. Spiegammo anche a lei. Mamma si commosse, così Madison se la prese tra le braccia e la baciò sulla testa. Quello sì che fu un bel momento.

* * *

- «Voglio proporre un brindisi» – disse Ray alzandosi dalla tavola e tenendo il bicchiere con le tre dita – «A Madison, che ci renderà tutti più felici, più orgogliosi e speriamo più ricchi!». Ridemmo tutti tranne Oregon. Buttammo giù il bourbon. Avevamo cenato e

festeggiato. Il piccolo Ben dormiva nella sua culla al riparo dal male del mondo. Innocente e felice. Ray rideva pesantemente, cantava e batteva le mani. Caroline ballava facendo svolazzare la gonna, mostrandoci quelle sue gambine secche. Oregon non aveva detto una parola per tutta la sera. Madison si alzò per andargli a dire qualcosa all’orecchio. Oregon levò gli occhiali e cominciarono a tremargli le labbra. Madison lo carezzava sulla testa. Al vecchio Oregon scese una lacrima, una soltanto, ma per lui era già abbastanza così. Aveva pianto a sufficienza. Fece di sì con la testa un paio di volte poi rimise gli occhiali sul naso. Madison tornò a sedersi accanto a me. - «Tutto bene?» – le chiesi. Fece sì con la testa e mi carezzò un braccio. Il vecchio cuore di Oregon era strizzato come una prugna, asciugato dall’improvvisa partenza di Madison. Qualcosa si muoveva per la stanza: una strana sensazione entrata da una finestra lasciata aperta, che ci prese tutti quanti e ci rese consapevoli che dopo quella sera, qualche cosa nelle nostre vite sarebbe cambiata per sempre. Madison ci lasciò per andare a lavorare al ristorante. Era così contenta di non dover mai più sparecchiare tavoli, pulire cessi puzzolenti e ascoltare le lamentele dei clienti, che uscì tutta sorridente. Io restai con Oregon, entrambi seduti al fresco della sua veranda. - «E così Madison se ne va a Chicago» – dissi per attaccare bottone – «Credi sia pronta?». Oregon fece sì con la testa. - «Mi mancherà moltissimo» – biascicai. - «Will». - «Sì, dimmi». - «Ricorda sempre una cosa: le persone che amiamo le teniamo sempre con noi» – disse con un tono solenne. Sembrava avesse capito qualcosa e volesse rendermi partecipe della cosa. «Prendi la mia sorellina Virginia, o lo stesso Bob Johnson, per esempio: sono nel mio cuore. Anche Madison rimarrà per sempre qui, nei miei ricordi, a suonare su questa veranda per tutti i giorni finché non sarò morto».

- «Lo so» – dissi. - «No figliolo, non lo sai». Aggrottai le sopracciglia; non capivo. - «Madison per me è come un’altra nipote, esattamente come la mia Caroline. Ma il destino la chiama a Chicago; è Dio che ha voluto questo per lei e così sia. Quello che voglio dirti Will, è che posso sopportare la partenza di Madison solo perché so che a Chicago sarà felice, però non potrei mai vivere senza il mio Ben, perché è lui la mia felicità. Tuo padre, tua madre o il tuo fratellino o la stessa Madison, sono importanti per te, ma saranno sempre nello stesso posto, in ogni momento della tua vita mentre ricerchi la tua felicità. Tu devi cercare la tua strada, la tua felicità come sta facendo Madison, altrimenti figlio mio, che senso avrebbe vivere? Tu ed io siamo più fortunati di molti altri perché alla nostra felicità sappiamo dare un nome. Il mio è quello di Ben e Caroline… mentre il tuo figliolo? Qual è il nome che dai alla tua felicità?». Tornai a casa da solo. Madison era ancora a lavoro. Camminavo e pensavo. Le parole del vecchio Oregon mi tornavano continuamente in testa: la mia felicità? Dov’era? Con chi era? Arrivai di fronte il mio vialetto senza nemmeno rendermene conto. Mi sedetti in veranda chiudendomi dentro la giacca. Chiusi gli occhi ed allungai le gambe. La notte era fresca, il Mississippi scorreva dietro casa. New Orleans non mi era mai sembrata così bella, ma Madison se ne sarebbe andata presto e quindi sarebbe presto tornata ad essere la solita fogna, la solita fanghiglia maleodorante senza senso e senza nessun talento. Per un momento desiderai che Madison non se n’andasse, ma come aveva detto Oregon, la felicità la dobbiamo rincorrere, catturare e fare nostra ad ogni costo.

* * *

Quando Madison salì sul treno il mio cuore salì con lei. Il giorno prima era ata a salutare tutti perché non voleva essere accompagnata alla stazione. Era andata da Oregon ed erano rimasti soli per quasi venti minuti. Aveva baciato Caroline, Ray ed il piccolo Ben. Poi era stata all’officina del patrigno per salutare la madre, subito dopo al cimitero da suo padre ed alla fine a casa mia.

- «Non venire domani, ok?» – mi pregò. - «Va bene». - «Promettilo». - «Promesso». Mi sorrise e mi stampò un bacio sulla bocca. C’abbracciammo e la guardai uscire da casa con una certa disperazione nel sorriso. Il giorno dopo arrivai alla stazione proprio mentre Madison stava salendo sul treno. La chiamai: - «Madison!». Quando mi vide s’irrigidì subito, lanciò la valigia sul treno e mi venne incontro con la faccia di una che vuole spaccare qualcosa. - «Perché diavolo sei venuto?» – mi gridò addosso – «Ti avevo detto di non venire! Lo avevi promesso! Sei un bugiardo!» – scoppiò a piangere – «Sei un maledetto bugiardo Will! Me lo avevi promesso!» – continuò. Era andata in bestia e quando mi fu abbastanza vicina cominciò a battermi i pugni sul petto. «Non dovevi venire! Non dovevi venire… non sei mio amico!». La lasciai sfogare fino a quando con un pugno mi prese in pieno la cicatrice. - «Aia!» – dissi. Madison si portò una mano alla bocca smettendo di inveirmi contro. - «Oh Dio, scusa Will! Ti ho fatto male?». Le dissi no con la testa e l’abbracciai stretta fino a quando qualcuno gridò forte di salire tutti in carrozza. Avrei voluto strapparle qualcosa da potermi tenere con me per sempre. Poi ci fu un fischio, dissi a Madison che doveva andare, e lei disse che lo sapeva ma continuava lo stesso a tenermi stretto. Alla fine salì sul treno con il viso bagnato da un bicchiere di lacrime. Il treno ripartì lentamente, ed io rimasi a guardarlo curvare leggermente sulla sua

sinistra fino a quando sparì dietro l’orizzonte. «Ciao Mad» – pensai tra me, poi tornai a casa.

* * *

Mi fu offerto un lavoro. Niente di particolare: smistavo la corrispondenza nel retrobottega dell’ufficio postale di New Orleans. Il mio compito era quello di fare piccoli mucchietti di posta dividendoli a seconda dei quartieri. Quelli più grandi del centro città, andavano ulteriormente divisi in zone. Un mucchietto a parte era quello destinato agli uffici pubblici, al sindaco, agli assessori, ecc. Il mio orario di lavoro dipendeva dalla quantità di posta che arrivava a New Orleans. Avevo diritto ad un’ora di pausa che avo a pranzo da Caroline ed Oregon. La paga era decente, la vita quella che era. Madison telefonò una volta e scrisse un paio di lettere. Diceva che Chicago era un città ventosa ma piacevole. La gente sembrava sempre avere una gran fretta. Alloggiava in un hotel carino, a pochi isolati dal centro. Si era sistemata bene. Aveva già inciso quattro canzoni e sembravano tutti molto contenti di lei. Erano rimasti impressionati dalla sua abilità alla chitarra e dalla timbrica ruvida della sua voce. Sembrava felice. Probabilmente lo era. - «Come va il lavoro all’ufficio postale?» – mi chiese Oregon. - «Bene». - «Sei felice?». - «Sì». - «Bugiardo!» – grugnì, poi sorrise. Prese il cucchiaio, lo fece girare nel brodo e provò ad infilarlo in bocca ma la sua mano tremava troppo. - «Ti aiuto io, nonno» – disse Caroline asciugandosi le belle labbra al tovagliolo e spostando indietro la sedia. - «Non occorre» – le rispose subito il vecchio Oregon posando il cucchiaio sulla

tavola, accanto al piatto. Piantò entrambe le mani tremolanti sul tavolo, si alzò appena dalla sedia e ficcò la testa dentro il piatto, poi cominciò ad aspirare il brodo come una pompa. - «Nonno!» – disse Caroline. Io scoppiai a ridere, così come Ray e pure il piccolo Ben. La prima risata vera da quando Madison era partita. L’unico lampo. Quando tornai all’ufficio postale nel pomeriggio, tra il mucchio, quasi in fondo alla cesta, confusa tra le altre, c’era una lettera per me. La guardai a lungo e lei guardò me.

Grandcamp-Maisy, 22 Dicembre 1944.

Caro William, qui in Normandia è arrivata la stagione fredda ed a volte nevica per giorni. Mi chiedo se nella tua New Orleans sia mai caduta la neve. Presto torneremo ad abitare a Caen. Oramai la situazione è sotto controllo, c’è solo bisogno di olio di gomito per rimettere in piedi quello che è stato tirato giù dalle bombe. Mio padre è ottimista e sereno come al solito, dice che la nostra casa sarà ancora più bella di quella che avevamo prima. Ti confesserò che lasciare la fattoria mi stringe il cuore, ma oramai la decisione è presa e lentamente stiamo raccogliendo le nostre cose. Per il momento io e Jean staremo con Pierre a casa di amici, mentre i miei genitori a casa dei cugini di mamma. Potessi decidere io, rimarrei a Grandcamp-Maisy per sempre. Per certo torneremo questa estate. Già non vedo l’ora. Mi riesce così difficile non scriverti quanto tu ci manchi, ed è un dolore costante che non ci dà tregua. William ti prego perdona la mia incapacità di esprimerti con altre parole i sentimenti di profonda malinconia e tristezza che proviamo nel saperti tanto distante. Ti porgo i saluti di tutti i Montreau.

La famiglia Montreau.

P.s.: i miei pensieri sono tutti per te. So di essere ridicola, sciocca, ma io stessa sono sorpresa per questo inaspettato sentimento che mi smuove lo stomaco. Avessi la forza di distaccarmi dai miei sentimenti lo farei. Potessi fingere con me stessa di non provare questo vuoto lacerante, ti giuro tenterei fino ad estinguerlo. Ma la verità William, è che non riesco a farlo, consapevole però del fatto che non vorrei nemmeno riuscirci.

Ti bacio. Annabelle.

Mi buttai indietro e chiusi gli occhi stringendo la lettera nella mano. Gli odori di Annabelle mi arrivarono al cervello dritti come uno stormo di uccelli. I suoi movimenti sinuosi e leggeri. Le sue mani. Ogni cosa che le vidi fare, ogni sua mossa. Annabelle con le mani sporche di fuliggine. Annabelle che mi sorride e mi chiede se mi sento bene. Annabelle che mi parla all’orecchio in un ottimo inglese. Annabelle che mi aspetta quando la ferita mi comincia a pulsare e perdo fiato. Annabelle che si riavvia i capelli finiti per il vento sulla faccia. Annabelle che piange, Annabelle che sorride. Annabelle che mi carezza la pelle, Annabelle che mi cambia le bende. Annabelle che mi salta al collo. Annabelle che mi bacia con le sue labbra che sanno d’oceano. Annabelle ed il suo viso fresco contro il mio. Annabelle che odora di campo. Annabelle che odora di buono e Annabelle che odora di sapone. Annabelle che mi dice addio. Annabelle che con gli occhi lucidi sulla soglia della camera da letto, sta lì ferma a dirmi: «Guardami, mi sono innamorata di te!». - «Come ha detto?» – dissi al direttore dell’ufficio postale. - «Ho detto se ti senti bene». - «Sì, grazie». Silenzio. Mi tirai in avanti e mi sistemai alla scrivania.

- «William?». - «Sì?». - «Stai piangendo?» – mi domandò il direttore sorpreso. Asciugai un paio di lacrime con il palmo della mano. - «Non è niente» – risposi e mi rimisi a lavoro.

* * * * *

11

Era una domenica. Andai con Scott a pescare. Partimmo presto e mia madre ci fece dei sandwich al tonno. Odiavo il tonno ma non le dissi niente. Era la prima volta che facevamo qualcosa insieme. Era la prima volta che riprendevo in mano una canna da pesca da dieci anni. Il tempo era buono ed un venticello fresco non ce ne faceva accorgere troppo. Cercammo un punto buono del fiume e ci sedemmo a montare le canne. Infilzai un vermicello nell’amo e questo mi fece una gran pena; mi sentivo esattamente come lui. Diedi la canna a Scott e gli consigliai di andarsi a mettere su una roccia piatta, qualche metro a sud, proprio dove il Mississippi crea una piccola ansa. Quello era il punto migliore. Io mi spostai più a nord, cercando un posto tranquillo dove pescare un paio di pesci non di più e potessi tenere d’occhio il piccolo Scott. Lanciai ed infilai la canna tra due rocce assicurandomi che fosse ben messa. Scott sembrava saperne molto più di me: lanciava con un ottimo gioco di polso, mirando ad un punto preciso del fiume e centrandolo ogni volta. Dopo dieci minuti aveva già due bei pesci nella sua nassa. Mi sciacquai la faccia e mi piazzai sotto un albero all’ombra, non lontano dalla mia canna che però non si muoveva di un capello. Durante quella settimana avevo provato a rispondere ad Annabelle, ma scriverle

mi faceva male. Mi si formava un groppo in gola ed era come se mi si aprisse la pancia ed uscisse tutto di fuori. - «Will!» – gridò Scott, tenendo in mano un pesce lungo quanto il suo braccino d’adolescente. Gli sorrisi. - «Bravo» – gli risposi. La mia canna era ancora immobile come un albero e come un albero sembrava aver messo le radici. Provai a cambiare punto ed a lanciare più verso il centro del fiume. Mi ci vollero un paio di goffi tentativi prima di ottenere il giusto lancio. Ripiazzai la canna mentre Scott mi raggiungeva trascinandosi dietro la nassa piena di pesci. - «Ne metto qualcuno nella tua?» – disse. - «Molto gentile» – gli feci io sorridendo – «Hai fame?». Fece di sì con la testa. Lo aiutai a mettere la nassa in acqua e mettemmo un paio di pesci nella mia. Ci sciacquammo le mani nel fiume e ci andammo a mettere all’ombra. Dopo mangiato Scott riprese subito a pescare, invece io mi buttai da una parte e mi addormentai. Feci molti sogni, nessuno buono, tranne quello in cui sognai di stare con Annabelle. Lei mi teneva per mano e mi sorrideva felice. Eravamo seduti su una piccola barca che discendeva il Mississippi senza bisogno di remi o motore. Il fiume era in pace, la natura era in pace e con loro il mio cuore. Lei indossava un vestito leggero, bianco, leggermente scollato sul seno. Era scalza e aveva un fiore tra i capelli. Era bella come il mondo. Io la guardavo e le dicevo quanto mi fosse mancata e quanto la trovassi bella. Lei mi rispondeva in se ma capivo ogni parola che diceva. Il sole picchiava forte ma non avevamo caldo. Tutto era perfetto. Parlavamo e ci dicevamo un sacco di cose quando sentii chiamare il mio nome: - «Will!». Sbirciai fuori dalla barca. - «Mike!».

Era davvero lui. Con tutte le cose al posto giusto: braccia e gambe. Nuotava a dorso, dando grandi bracciate. L’acqua che gli schizzava sulla faccia sembrava così fresca e lui così felice. - «Come stai amico mio?» – gli dissi. - «Bene, sono felice». Cercai di allungargli una mano ma non arrivai a toccarlo. - «Prenditi cura di quella bella ragazza Will. Sii felice…». - «Grazie Mike». Ci facemmo un cenno, poi Mike nuotò così veloce da scomparire dalla mia vista in pochi secondi. Tornai a sedermi di fronte ad Annabelle che era rimasta seduta ad ascoltare. - «Cosa ti ha detto Mike?» – mi chiese. - «Di essere felice». Sorrise. - «Lo sei?». - «Sì, moltissimo» – le risposi. - «Will! Will!» – Quella vocina arrivò da lontano come un treno – «Svegliati Will». Aprii appena gli occhi e trovai Scott che stava sopra di me e mi tirava per una manica. - «Ha abboccato, vieni!». Smise di bussarmi alla spalla e corse alla mia canna da pesca che oscillava vorticosamente avanti ed indietro. L’afferrò e cominciò a tirarsela addosso. - «Corri Will. Corri».

Mi stropicciai gli occhi e cercai di rimettermi in piedi. Quella bestia ci fece sudare per diversi minuti, arrendendosi solo allo stremo delle forze. Mi ricordò Mike. Riuscimmo a tirarlo a riva solo dopo una lotta estenuante. Lo slamai con molta attenzione e lo strinsi tra le mani fissandolo dentro quei suoi occhi vitrei. Boccheggiava ma non si riteneva vinto, anzi. Sorrisi, lo baciai ed andai a rimetterlo in acqua. - «Will? Perché?» – disse Scott. - «Ne abbiamo già abbastanza…» – dissi – «E poi mi stava simpatico». Tirai su le nasse; la mia con i due pesci che mi aveva regalato Scott, e la sua piena come una scatola di sardine. Lo mandai a prendere la sua canna da pesca e tornammo a casa.

* * *

Senza Madison le mie serate erano senza senso. Non andavo più lontano del mio giardino, magari solo un giro fino al fiume per pensare. Mi sentivo piccolissimo. Un punto minuscolo in una città che non mi era mai sembrata tanto grande. Quando arrivi dall’altro capo del mondo, e conti le distanze con gli occhi e le senti mano a mano pesare sulle tue spalle, capisci quanto il piccolo stagno dove eri abituato a sguazzare sia così infinitamente minuscolo ed insignificante. Sei stato ovunque e non sei stato da nessuna parte; questo è il senso della tua nuova vita. Ti rimangono solo poche cose e anche di quelle sai di poter fare a meno. Quando hai visto quello che ho visto io, è come se ogni tuo senso, ogni tua percezione, si sia spostata un po’ più in là, di una misura indefinita; ed allora la zuppa insipida, le scarpe sfaldate che sarebbero da cambiare, le cose che non puoi permetterti di comprare, i capelli fatti in casa da tuo padre o i vestiti cuciti a mano da tua madre, ogni cosa diventa meno importate, muta in nulla, perde d’importanza e di significato. Il tuo personale livello di sopportazione si alza d’un numero imprecisato di tacche, e tutto è niente, ed ogni cosa è lontana, faticosamente lontana. Guardavo nello specchio quell’espressione tragica che avevo stampato sulla faccia, e mi sentivo sicuro come un ubriaco sulle scale. Ero vuoto, arido,

infarcito di terra come un panino. Mattina lavoro, poi pranzo da Caroline, pomeriggio ancora lavoro e di nuovo casa. Cena, veranda, camminata e poi a letto. Incubi, sogni delicati, il viso di Annabelle e di nuovo tutto da capo. Alcune vite come per esempio la mia andrebbero dimenticate, saltando direttamente dalla culla alla tomba.

* * *

Aprile è il mese migliore di New Orleans. La vita si risveglia lentamente e la gente sembra più felice. La temperatura si fa più mite, ed i locali rimangono aperti oltre l’orario di chiusura. Uscii da lavoro e decisi di non andare subito a casa. Entrai in un bar e ordinai una birra. Dietro al bancone c’era un bianco con dei grandi baffoni neri e la mascella dura di chi non vuole problemi nel suo locale. Succhiai la birra e mi guardai in giro. C’erano un paio di ragazze che chiacchieravano ad un tavolo. Erano carine, ma pensai subito che Annabelle era molto più bella. Avevo provato a scriverle ma non c’ero riuscito, mi faceva troppo male. Finii la mia birra e tornai a casa, quel momento era il migliore della mia giornata. Camminare fino a casa mi dava modo di pensare, ed allo stesso momento mi faceva sentire triste e solo come quando dopo cena, andavo a lanciare sassi nel fiume. Quando entrai in casa mio padre spense la radio. Mia madre cucinava. Io filai in bagno a lavarmi le mani. - «Dov’è Scott?» – chiesi sedendo a tavola. - «Dai Clarson» – rispose mia madre che venne a mettermi un piatto di minestra fumante sotto il naso. Non ci dicemmo niente, mangiammo in silenzio. Erano ati già tre mesi dall’ultima lettera di Annabelle, ed io non le avevo ancora risposto. Avevo tentato ma non c’ero riuscito. La convinzione che fosse inutile continuare a scriverle mi aveva mangiato da dentro come un cancro, eppure lei era sempre davanti a tutto. Entrai nella mia stanza all’ufficio postale, e mi trovai di fronte il solito sacco di

lettere. Sgomberai la scrivania e ne presi un bel mucchietto. Evans, Martin, Rosslyn, Dott. Newman, ecc. C’era anche una lettera per Caroline senza mittente, la misi da una parte e andai avanti fino a quando, smistata una cartolina da Los Angeles per una certa famiglia Carter, il mio mucchietto finì. Tornai al sacco e ci infilai le braccia dentro per prenderne un altro. Qualche lettera cadde per terra. Lasciai andare il mucchietto sulla scrivania e andai a raccogliere quelle cadute. Mr. Padrige c’era scritto sulla prima e William O’Neill sulla seconda. Mi sedetti per terra, lì dov’ero. Aprii e lessi.

Grandcamp-Maisy, 26 Marzo 1945.

Caro William, continuo a scriverti senza sapere se la mia ultima ti sia arrivata. Il tuo silenzio è ancora più doloroso della tua assenza. La mia convinzione rimane quella che l’ultima lettera che ti ho inviato, si sia perduta da qualche parte nel suo lunghissimo viaggio. Il mio terrore più grande, però, è quello che tu stia cercando di farmi capire, non rispondendomi, che la tua decisione più difficile è stata infine presa. Ho un disperato bisogno di sapere come tu stia, fossero anche solamente due righe andrebbero bene ugualmente. Mi dispiacerebbe profondamente, Will, se le mie parole ti avessero in qualche modo turbato, ma come posso comandare il mio cuore? Come posso scriverti che la mia vita è felice se questo non corrisponde al vero? Ti prego soltanto di scrivere per chiarire i miei dubbi e per dirmi se sei in salute. Attendo con ansia una tua risposta.

Annabelle.

P.s.: un cuore grida verso un altro con tutta la voce, chiamando fino allo

sfinimento sempre lo stesso nome: William.

Rimasi seduto a terra per quasi un’ora: la testa contro la scrivania e le braccia molli. Guardai l’ora: quasi mezzogiorno. Mi alzai, presi la lettera di Caroline ed uscii dall’ufficio postale. Entrai al negozio e consegnai la lettera a Ray, poi andai dritto nella stanza di Oregon. Dormiva. Le mani non gli davano pace nemmeno nel sonno. Mi sedetti sul bordo del letto e guardai fuori dalla finestra. La luce mi arrivava dritta sulla faccia come uno schiaffo. Chiusi gli occhi e provai ad immaginare la mia vita così com’era: mi sembrava così triste che avrei tanto voluto piangere. - «Ragazzo!». - «Ciao Oregon». - «Che stai facendo?». - «Niente». Prese gli occhiali da sopra al comodino. Li sistemò dietro alle orecchie e mi visitò la faccia. - «Il tuo vecchio demone è venuto a trovarti?». Sorrisi da dentro una smorfia. - «Will… fa quello che devi fare, ma fallo adesso» - disse serafico. Come al solito Oregon aveva ragione. Dovevo fare qualcosa, prendere una decisione anche dolorosa, ma dovevo prenderla alla svelta.

* * *

Quello che mi ha sempre fatto paura è quello che non posso controllare, come le

vertigini. Ho sempre pensato che le vertigini fossero la consapevolezza che se cadi, non potrai in nessun modo fermare la caduta fino alla fine, fino allo schianto. Le mie paure più profonde vengono da quello che non riesco a controllare: paura dell’amore, paura dei sentimenti sinceri. Paura degli altri e delle loro reazioni. Paura di se stessi, dei propri malumori e del proprio carattere. Non conoscersi e continuare a sbagliare. Avrei potuto mettermi su un treno, su una nave e tornare da dove ero arrivato mesi fa’. Arrivare a Caen, cercare casa Montreau e dire ad Annabelle quali fossero i miei sentimenti, e magari amarla e poi? E se quello che provavo fosse stata soltanto malinconia? O paura appunto? O riconoscenza magari? Valeva la pena affrontare un’odissea per scoprirlo? E se fosse lo stesso per Annabelle? Se la sua fosse soltanto un’infatuazione eggera? Un dolore forte provocato solo dallo strappo improvviso che non ci ha dato tempo di salutarci come volevamo? Così come stanno adesso le cose, i Montreau sono le persone più meravigliose su questo schifo di mondo ed avrei una grande storia da raccontare ad amici e nipoti un giorno. Quando Frank mandò a quel paese la Francia sul ponte della nave che ci portava in Inghilterra, io lo feci con lui, in silenzio. Promisi a me stesso di dimenticarmela. A parte i Montreau, quel posto mi aveva portato solo morte, dolore, abbandono, impotenza. Volevo dimenticare che possono esistere cose come queste nel mondo, almeno per un po’ di tempo. Compresi che la possibilità che tornassi in Francia era assolutamente da escludere. Una notte, credo fosse marzo, sognai Annabelle. Camminavo sulla spiaggia di Omaha, sgombra dai morti e dal sangue. Mi chiedevo quanto tempo fosse ato, mi sentivo vecchio. Il cielo era grigio e dal mare tirava un vento importante dritto sulle scogliere in fondo alla spiaggia. Annabelle uscì dall’acqua come una sirena, nuda, a qualche metro da me. - «Annabelle!» – la chiamai. Ero felice di vederla, ancora. Ma lei non mi sentì e tornò a tuffarsi in acqua prendendo una piccola rincorsa. Mi avvicinai ed aspettai che uscisse di nuovo dall’acqua. Le sorrisi mentre mi veniva incontro. «Ciao Annabelle» – le dissi, ma lei non rispose. Era come se non ci fossi. Si carezzò i capelli bagnati e li rastrellò con le mani. Era una visione magnifica. Si stringeva nelle braccia e tremava dal freddo. «Annabelle» – insistetti – «Sono io, Will». Mi scansò e si ributtò in acqua. Ridendo, felice. Decisi di andarmene, triste. Tornai indietro e lasciai Annabelle al suo bagno. Feci solo qualche o, tre o quattro al massimo, e quando mi voltai a guardarla era già lontana un paio di

miglia. Aprii gli occhi. Fuori era ancora buio. Cambiai fianco e provai a riaddormentarmi senza riuscirci, ma in quel periodo succedeva spesso.

* * *

Grandcamp-Maisy, 17 Giugno 1945.

Caro William, ti scrivo questa lettera sperando di ricevere finalmente una tua risposta. Comincio a chiedermi se sia utile insistere nello scriverti. Continuo a sperare che le mie lettere o le tue siano andate perdute per non so quale motivo, ma oramai ho quasi la certezza che il tuo silenzio sia voluto. Qualunque siano le ragioni sappi che il nostro amore per te resta immutato. Così è adesso e così rimarrà per tutto il tempo necessario, perché non c’é malinconia, né abbandono, ma solo nutrimento, in tutti i respiri che ti ho preso. Non mi resta che augurarti una vita di piena felicità.

Annabelle e la famiglia Montreau.

* * *

Si smette. Ad un certo punto si smette qualsiasi cosa. Annabelle smise di scrivere come io avevo smesso di risponderle già da tempo. Si smette di amare

qualcuno, si smette di sperare, di ricordare, a volte si smette persino di vivere, come avevo fatto io. Altre volte invece si rimane incastrati, sospesi fra giorni peggiori e giorni migliori, giorni cattivi e giorni inutilmente ati. Si galleggia e si spreca tempo, noi che il tempo lo avremmo ma nemmeno ci facciamo caso. Avrei potuto scrivere una lettera, facilissimo, eppure non trovai mai il coraggio di farlo. Non ricordo se fosse peggio pensare ad Annabelle così lontana, o non trovare la forza di fare qualcosa. Entrambe, credo. Come se non fosse abbastanza, nel luglio di quell’anno successe l’ennesima tragedia annunciata. - «Will!» – sentii chiamare mio padre. Mi alzai dal letto e andai a vedere cosa volesse. Sulla porta di casa c’era Ray, sudato, col fiatone. - «Che c’è Ray?» – gli domandai, ma chissà come lo immaginai da me. Lui trattenne il respiro ed abbassò gli occhi. Capii senza che aggiungesse una parola che la mia paura più grande, era infine diventata realtà. Cenere che torna alla cenere. Fango misto a fango. Una persona muore e muore semplicemente. Muore il suo talento, muore la sua voce, muore una vita intera fatta d’esperienze grandiose. Una vita di letture, di studio. Una vita ata a migliorarsi, ad imparare dagli altri, ad essere d’esempio e poi? E poi più niente. Questione di tempo e siamo solo cenere che torna alla cenere. Fango che si mischia ad altro fango. Verrebbe quasi voglia di lasciarsi guidare dalle circostanze e non sapere mai niente, riconsegnare il bicchiere ancora vuoto. Fregarsene, fino a morire. Se fossi morto ad Omaha, poco sarebbe cambiato. Cosa potevo aver lasciato io a soli ventiquattr’anni? Cosa ha lasciato Jesse a noialtri rimasti vivi? Niente, povero lui. Era un ragazzo semplice, nemmeno tanto sveglio, che è stato buttato nel calderone della guerra. A cosa è servito che morisse? A niente. Il Centosedicesimo Reggimento non lo ricorderà certo per la sua abilità come soldato di fanteria, o per il suo coraggio. È morto ammazzato, nient’altro. E Neil? E Ricky? E gli altri come Mike? Stesso triste destino. Sopravvivendo a quell’inferno forse mi ero convinto che il numero di morti che avevo visto in una sola vita era abbastanza, ed invece non è mai abbastanza. “Si muore un giorno, si vive per sempre”, diceva qualcuno in un vecchio blues, eppure quel caldissimo giorno di luglio, sembrava che morire non fosse così normale. Al funerale di Francis Benjamin Cole III, soprannominato Oregon, per il suo

strano accento, parteciparono centinaia di persone, tutte con l’aria di chi ne ha viste troppe in una vita sola. Madison arrivò a bordo di un’auto nera: era ancora così bella e la sua musica che suonava in tutte le radio d’America, semplicemente stupenda. “La miglior voce blues del Delta Mississippi”, si diceva. Indossava un abito lungo nero ed un cappello altrettanto scuro con una retina che gli cadeva sugli occhi. - «Will» – disse strozzando il magone in gola. - «Ciao Mad». Ci abbracciammo e lei si mise subito a piangere. Un po’ per me ed un po’ per Oregon. Fu un bel funerale: Madison cantò una canzone, e mentre tutti guardavano al feretro, io guardai al cielo immaginando il giovane Robert Johnson alla chitarra, ed il vecchio Oregon che con la sua armonica, suonavano per Dio il miglior blues che si sia mai sentito, là sopra e qui sotto. Chiusi gli occhi e sorrisi, senza preoccuparmi di chi in quel momento stava ancora piangendo. - «Credevo di non trovarti» – disse Madison al rinfresco del dopo funerale a casa di Caroline e Ray. - «Non trovarmi?» – risposi sorpreso. Lei fece di sì con la testa. Ci sedemmo sotto la veranda del negozio di Oregon, con due bicchieri in mano. Guardammo la strada. – «Perché non mi avresti dovuto trovare?» – le domandai. Madison sorrise per la prima volta da quando era arrivata. - «Sai com’è… il viaggio dalla Francia è lungo». Pensai ad Annabelle. Dopo l’ultima lettera ero certo che non mi avrebbe più scritto. Io non le avevo più risposto. - «Quando torni a Chicago?» – le chiesi. - «In serata».

Prendemmo entrambi un sorso di bourbon. - «Come vanno le cose Will?». - «Vanno» – risposi asciutto. Madison si riavviò i capelli e mi mise una mano sulla coscia. - «Ho una cosa per te» – disse. Entrò in negozio e uscì subito dopo con in mano la sua borsetta. Ci rovistò dentro e mi consegnò una busta. - «Che cos’è?» – dissi. - «Non aprirla adesso. Aspetta che me ne sia andata». - «Perché?». - «Perché così non potrai restituirmela». - «Mad…». - «Devi promettermelo Will». Guardai la busta e me la rigirai tra le dita un paio di volte. - «Se può aiutarti a mantenere l’impegno, sappi che mi ha chiesto Oregon di fare questo per te». - «Oregon?». Fece di sì con la testa. - «Ora me lo prometti?». - «Va bene, te lo prometto». Madison cenò con tutti noi: la mia famiglia, Ray, Caroline, il piccolo Ben, sua madre ed il suo patrigno Sam. Fu una bella serata. Poi salì in macchina e tornò a Chicago. Aspettai che tutti se ne fossero andati, poi eggiai fino al fiume con la busta di Madison infilata nella tasca dei pantaloni. Cercai un punto e mi

sedetti. C’era una grande luna, che m’illuminava come un faro. Aprii la busta e ci trovai dentro una lettera e delle banconote, molte banconote. Lessi.

Mio caro Will, se stai leggendo questa lettera ed hai tenuto fede alla nostra promessa, io me ne sarò andata da qualche ora e tu probabilmente hai cercato un posto tranquillo dove aprire la busta che ti ho consegnato. Ora posso spiegarti: poco prima di morire, Francis, o meglio Oregon, mi ha scritto una lettera commovente dove mi pregava di aiutarti a ricercare la tua felicità. Ebbene Will, devo esaudire la richiesta di colui che è stato per te come un secondo genitore, e per me come un nuovo padre. I soldi contenuti in questa busta sono abbastanza per andare in Francia e tornare, o andare in Francia e viverci bene per qualche tempo, a te la scelta. Provo ad immaginare quali siano i sentimenti che ti attanagliano il cuore. Decidi in fretta. Ma ricorda: tra tutte le cose che mi ha insegnato il nostro Oregon, la più importante è stata “vivi per far felice te stesso e gli altri”. Questi soldi Will sono tuoi, puoi farne l’uso che preferisci: puoi bruciarli, regalarli o gettarli nel fiume. Oppure puoi darti una possibilità. Puoi guardare negli occhi la persona che ami e capire quanto ci sia di vero in quello che ti suggerisce il cuore. Io sarò sempre qui ad aspettarti, ma niente mi renderebbe appagata come saperti felice con una donna che ti ama. Quello che dovevo fare l’ho fatto. Il mio patto con Oregon è saldato. La sua volontà esaudita. Tu cosa farai Will?

Ti bacio e ti abbraccio forte. Mad.

Contai il mucchietto di dollari e li rimisi nella busta. La piegai e la misi in tasca. Rimasi ad ascoltare il Mississippi per quasi un’ora, senza pensare a niente, solo

respirando ed ascoltando il cuore cosa mi diceva. Di sicuro avrei scritto ad Annabelle e probabilmente avrei dato i soldi a mio padre, o li avrei messi in un fondo per il piccolo Ben, oppure no. Qualcosa avrei fatto, ma per certo avrei fatto la cosa che tra tutte mi avrebbe reso finalmente felice, come avrebbe voluto Oregon.

* * *

Dalle finestre aperte della mia stanza all’ufficio postale, entrava una calura densa. Avevo la camicia fradicia di sudore e le lettere mi si appiccicavano ai polpastrelli. Prendevo una lettera alla volta sperando di trovarci sopra il mio nome. Nessuna, come immaginavo. Andai alla finestra e guardai la vita di fuori. I soldi di Madison li avevo messi nella scatola di latta dove tenevo anche le lettere di Annabelle, sotto il letto. Dovevo ancora decidere come usarli, e quel pomeriggio presi la mia decisione. - «Will?». - «Sì?». - «Puoi andare» – disse il direttore dell’ufficio postale. Gli sorrisi. - «Sì, credo proprio che lo farò». Lo scansai ed uscii. Non andai da Caroline come ogni giorno, tornai verso casa, ma non entrai. Slacciai la camicia e feci una corsa fino al fiume. Tolsi i pantaloni, i calzini e le scarpe. Levai anche le mutande e mi tuffai. L’acqua era fresca, l’aria un incendio. Infilai la testa sott’acqua e nuotai contro corrente. Quando tornai a prendere aria, la mia anima era stata ripulita. Cominciai a schiaffeggiare l’acqua ed a gridare, a ridere, a saltare ed a tuffarmi ancora. Poi uscii e feci una corsa a casa infilando solo i pantaloni. Mia madre si sorprese nel vedermi. - «Will?».

- «Ciao mamma» – dissi baciandola. Corsi in camera, presi carta e penna e scrissi ad Annabelle. Comunque fosse andata, qualsiasi cosa fosse successa, volevo rimanere in contatto con la famiglia Montreau, con Annabelle che mi aveva restituito alla vita. La loro felicità era anche un po’ la mia, e viceversa.

* * *

C’è stato un solo momento durante il quale ho pregato Dio. Il mio mezzo da sbarco era a un centinaio di metri dalla spiaggia di Omaha, ed il borbottio dei bombardieri ci entrava prepotentemente nelle orecchie. Il cielo era scuro come le nostre anime. Rimanemmo in attesa fino a quando dalle navi spararono le prime raffiche di cannone. La bordata partiva con una specie di risucchio ed un contraccolpo che ti faceva tremare tutte le ossa. Poi sentivamo un sibilo che si disperdeva piano fino a quando una palla di fuoco s’accendeva sulla costa. Strinsi il fucile tra le mani e ci appoggiai contro la testa. Chiusi gli occhi e pregai. Non sapevo nemmeno come fare, se quello era il modo giusto di farlo o se qualcuno mi avesse ascoltato. Mi costrinsi a non ascoltare la tempesta che avevo intorno a me, e pregai intensamente. Credo di non aver mai creduto a niente in modo così intenso. Quando alzai gli occhi al cielo, vidi are sopra le nostre teste un’ombra nera che si accompagnava con un gorgogliare di eliche e motori. Assieme a quel primo aereo, altri raggiunsero la costa e seminarono manciate di bombe che esplosero una dopo l’altra. Sembrava di assistere ad una nuova alba. Poi ancora cannoni. Una serie di tiri di martellamento che sembrarono non finire mai. Guardai Jesse ma lui guardava altrove, oltre le mie spalle, ma in quella direzione non c’era niente, solo il mare e l’orizzonte. I suoi occhi erano pieni di una strana meraviglia. Poi tuonò un dardo di cannone che partì dalla nave a noi più vicina, e Jesse sobbalzò uscendo definitivamente da quella stasi. Poi ancora tonfi fino a che tutto tornò nel silenzio; sentii solo la pioggia che cominciava a venire giù forte. - «Ok, ci siamo» – disse il nostro comandante – «Ci muoviamo». Ci mettemmo in moto e Jesse cominciò a recitare il Padre Nostro ad alta voce. Io lo ascoltai pensando che fossero delle bellissime parole. Non lo conoscevo bene, ma mi lasciai rapire. «Sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra…».

Eravamo tutti nelle sue mani ma lui in quel momento non era in ascolto. Chi ha bisogno di un Dio ostile, disinteressato? Come adopera le proprie scelte? Con quale metodo o con quale imparzialità? Non ricevetti mai nessuna risposta a queste domande, ma forse un segno sì. Mentre correvo incontro alle postazioni tedesche di Sainte-Honorine-des-Pertes, e dalla boscaglia vedevo accendersi delle piccole luci che scoppiettavano come carta da imballaggi, sentii una pesantezza alle gambe, forse dovuta alla corsa sulla sabbia molliccia. Jesse mi si restava attaccato tirandomi indietro. Io cercavo di correre nonostante avessi le gambe piegate e la schiena quasi orizzontale al terreno. Fu allora che mi alzai un momento per guardarmi intorno, e fu proprio in quell’istante che sentii il fischio del proiettile arrivarmi addosso. Persi subito l’equilibrio e, con Jesse che continuava a tirarmi a sé, finii per fare un piccolo volo sul sedere. Se non mi fossi alzato in quell’istante, probabilmente mi sarei preso un colpo in testa o in faccia o in gola, e magari Jesse si sarebbe buttato a terra rimanendo immobile fino a quando non si sarebbe rabbonita la situazione. Lui avrebbe vissuto, io sarei morto. I Montreau non mi avrebbero mai conosciuto, ed Annabelle non starebbe soffrendo così tanto a causa mia. Destino? Fatalità? O Dio che ha benevolmente teso il suo divino orecchio per ascoltare la mia preghiera? Non lo saprò mai. Quello che so è che la mia più grande felicità non sta nell’essere sopravvissuto o nell’aver vinto la mia partita con la vita. La mia più grande felicità sta nella consapevolezza di aver avuto in qualche modo un’altra opportunità

* * * * *

12

Mio padre e mia madre vivono in pace nella stessa casa poco lontana dalle rive del Mississippi. Quando si guardano negli occhi è come se da quel giorno in polleria fosse ata solo qualche ora. Mio fratello Scott vive in città con una bella moglie e quattro bellissimi bambini. È un uomo fortissimo a differenza mia.

Madison si è sposata due volte, ed in entrambi i casi ha poi divorziato. Mi ha scritto: “…rimani tu l’unico uomo della mia vita, e l’unico che ancora mi sopporta”. I suoi dischi ed il suo talento l’hanno consacrata come icona della musica blues, qualcuno suggerisce persino più grande anche di Bessie Smith. Ci scriviamo spesso ed a volte mi telefona. La amo profondamente e da sempre. I ragazzi Montreau, Pierre e Jean, si sposarono giovani ed ebbero due figli ciascuno; due figlie Pierre, un maschio ed una femmina Jean. Oggi vivono con le loro famiglie nella città di Saint-lo, a qualche chilometro da Caen. Annabelle invece fu la prima a prendere marito; rimase incinta nell’estate del ‘47 e si sposò in luglio. Fu una cerimonia semplice e lei era bellissima come sempre. Nel marzo del 1948 partorì un bellissimo maschietto di quasi quattro chili, al quale venne dato il nome di Robert. Non ricevette mai la mia ultima lettera.

* * *

Il campo di concentramento di Drancy fu il più grande di Francia come si può dedurre dalle cifre complessive: in meno di quattro anni vi arono settanta mila ebrei di molte nazionalità; sessantasette mila di essi vennero deportati, nella stragrande maggioranza, ad Auschwitz. Un numero impressionante se si tiene conto che il totale degli ebrei deportati dalla Francia assomma a circa ottanta mila persone. Il 17 agosto 1944 l’ultimo gruppo di nazisti abbandonò il campo di Drancy con cinquantuno prigionieri: fu l’ultimo trasporto di ebrei dal territorio se. Nel corso del viaggio, venti di essi riuscirono ad evadere gettandosi dal vagone; tra gli altri trentuno, ne sopravvissero solo undici, tra questi c’era il padre di Margharet. Quello stesso pomeriggio gli internati rimasti a Drancy, si strapparono la stella di Davide che portavano obbligatoriamente sui vestiti. Le cifre dicono che il totale degli ebrei deportati dal campo di concentramento di Drancy assomma, secondo i vari criteri di calcolo, da un minimo di sessantasette mila e settantatré a un massimo di sessantasette mila e quattrocentosettantuno persone, la grande maggioranza delle quali perì in Lager.

Margharet H. Deen morì ad Auschwitz un mese dopo il suo arrivo.

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Maurice Montreau morì nella sua casa di Caen l’11 aprile del 1955, a nemmeno sessant’anni, stringendo la mano della sua Cécilia, e circondato dai suoi tre figli e dal primo nipote Robert. Quel pomeriggio mi fece cenno di avvicinarmi. In braccio tenevo mio figlio Robert. Mi sedetti sul bordo del letto e lui si avvicinò alla guancia del nonno e ci stampò sopra un bel bacio. Maurice sorrise e gli strinse la piccola mano. Gli sorrisi pure io. Maurice mi guardò con quei suoi occhi acquosi allungandomi una mano e carezzando appena il petto, sopra la cicatrice. Gli si bagnarono le guance mentre gli rideva tutta la faccia. Chiuse gli occhi e morì, sereno. Ebbe una vita felice.

Ringraziamenti

A Giovanna Di Nuzzo che è per me come il perno per la finestra. Ai miei genitori. A mia sorella Cristina ed ai miei “piccoli diamanti ossuti”: Mayla, Noemi e Zoe. A tutti gli amici ed amiche che mi sostengono con commovente dolcezza. Ad Afra Tommasi, Cristina Gabrielli, Elisa Bertugelli, Arianna Ghironi, Jonathan Lazzini, Marianna Manfredi, Michela Mannoni, Samantha Danese, Patrizia Mannini, Valentina Spalierno. I ragazzi del corso di scrittura creativa “La Città che Narra” (Antonio, Patrizia, Renza, Rolando, Silvia e Samantha) ed al gruppo musicale dei FermoPosta per l’appoggio, l’amicizia e la stima reciproca. Ad Alessia Sarcone, ringraziandola smisuratamente per l’impegno di cuore e cervello. A Luca Alberti, mio fondamentale punto di riferimento che in tempi non sospetti ha contribuito fortemente al crollo della mia diga, e che ora si sta adoperando per demolire la propria. (Buona fortuna). A Pelaghia per aver animato il mio primo focolare. A Roberto e Luca Ceccarelli ed ai loro genitori per essere nei miei ricordi più belli. Al poeta Gabriel Del Sarto

per i consigli e per i meravigliosi versi. Al poeta Umberto Roffo per le parole d’apprezzamento e per l’aiuto ato e futuro. A Marco Vichi per l’amicizia ed il suo straordinario talento. A Ferdinando, Stefano e Lina per il troppo amore e per il sicuro occhio di riguardo. A Sabrina Conforti per la splendida foto di copertina senza la quale il romanzo non sarebbe lo stesso. A Giuseppe Meligrana con infinita gratitudine per la fiducia e l’opportunità. Grazie alla ragazza sempre affacciata alla finestra e a Lei che mi ama sempre un pelo più di quel che merito.

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