Diario Di Un Insonne 4q5x4e

> mi sbagliavo. Non che mi interessi sul serio, ma a qualcosa bisogna pur pensare; d'altronde non a molto tempo da quando spegni la macchina a quando il benzinaio vuole i suoi soldi dopo averti sfilato il pistolone dal serbatoio. Insomma bisogna sbrigarsi anche; è una questione di tempo e il tempo va ottimizzato. Vi dirò, è un pensiero comodo…da taschino magari, nel senso che è a portata di mano, ma non per questo stupido. Io almeno ci provo, no? E sapete cosa? Sono soddisfatto, mi ci trovo bene. Suono…ma no c’ho le chiavi. Apro. O cavolo. C’è una bambina nel mio ingresso. E’ bionda, coi capelli raccolti in due trecce, è ferma. Ha le mani dietro la schiena, chissà cosa nasconde, forse un coltello o forse un regalo o forse entrambi e forse sono per me. Mi guarda negl’occhi gaia gaia gaia, e sorride, ed è immobile sul serio, capisco che il tempo non la preoccupa, ne ha quanto ne vuole, e la prima mossa spetta a me. Sono pietrificato, ho una fifa maledetta. La mano destra stringe la chiave ancora inserita nella serratura, la mia mano sinistra è infilata nella tasca della giacca e stringe a sua volta qualcosa…qualcosa di duro…non so…non so cos’è. Mi salta in mente che qualunque cosa sia forse potrò utilizzarla per difendermi, se mai farò in tempo ad estrarla. D'altronde spero che non ce ne sarà bisogno, però non vedo davvero altra soluzione. E’ deciso: quando arriverà il momento, e il momento arriverà, veloce veloce tiro fuori l’affare duro dalla tasca e vi giuro venderò cara la pelle.

Ora l’importante è stare calmo, non devo mostrarmi impaurito: se ne accorgerebbe, se ne accorgono sempre. L’esserino biondo è ancora lì immobile che mi guarda e continua a sorridere, con la testa, quella bionda testolina, appesa leggermente di lato. Per un’impercettibile frazione di secondo noto un lampo nei suoi occhi…ha mosso leggermente la testa, mi sembra. Forse ha capito tutto. Cazzo! Ma non dovevo stare calmo? Sto sudando come un prete. Il suo sorriso si espande…ecco se n’è accorta, adesso attacca si sa, è finita. < > Mi fa la bimba. < > Rispondo. E qui ci vorrebbe un gran bel dialogo padre-figlia, un affogato d’amore. Ma anche no. < > < > <<Maaaaaaaammaaa, Papà dice che va bene.>> E’ proprio una bella bambina. Ed è mia. In senso lato, ovvio: una persona non è mai davvero tua, specialmente un figlio. Però neanche sua, di sé stessa intendo. Eppure a qualcuno dovrà pur appartenere. Gli uomini solitamente hanno un forte senso di appartenenza, lo sviluppano negli anni, ed immancabilmente ciò li rende vulnerabili, attaccabili; foss’anche solo da nobili pregiudizi. Ma d'altronde li rende anche forti, quantomeno fornisce argomenti, davanti e dietro le loro spalle. Ma…e i bambini? Forse è la differenza che a tra un piccolo paese ed una grande metropoli: forse la quantità di persone in un luogo è indirettamente proporzionale al senso di solitudine che ognuna di loro prova. Ma se questo è vero, allora un individuo per non sentirsi solo dovrebbe essere completamente solo. Perlomeno così non potrebbe che appartenere a sé stesso, però non avrebbe nessuno per notare la differenza.

Che gran mucchio di cazzate. Per fortuna c’è la pizza. Certo che è proprio una bella bambina, mia figlia. La Figlia. Se la vedesse il proprietario del Mulino Bianco la rapirebbe di certo e la porterebbe con sé in quel bellissimo luogo dove si può essere tutto tranne che imperfetti, e lei mangerebbe un mucchio di cazzutissime merendine e si sveglierebbe tutte le mattine sorridente e profumata, con la sua bionda testolina appesa leggermente di lato. Non so se è giusto, forse qualcuno dovrebbe denunciarlo il Sig. Mulinobianco, che rapisce i bambini più belli. Ma forse è proprio a lui che appartengono. < > Dice mia moglie. < > Risponde il marito. E qui ci vorrebbe un gran bel dialogo routinario, come ad evidenziare la reiterazione delle azioni di una vita N-O-R-M-A-L-E. Ma anche no. Barthes diceva che il linguaggio è nato dall’antitesi. Convincente, no? L’uomo capisce solo ciò che può essere contrapposto a qualcosa. Forse è per questo che tende a dividere, spezzare. L’uomo è un fabbricante di dicotomie: tutto è giorno o notte, bello o brutto, oggetto o soggetto, merendina o non merendina, scienza o religione. E se invece esistesse qualcosa che unisce tutto? E se questo qualcosa adesso, su due piedi, lo chiamassi assoluto? E se non sapessi cos’è? Certo che quel lavandino da solo non si aggiusta mica. Credo che gli piaccia sgocciolare, non fa altro tutto il giorno. Che figata L’Assoluto. < > < > < > < >

<<Scemo.>> No, in effetti è più importante togliersi la cravatta, slacciarsi tre bottoni della camicia, spettinarsi, mettersi le pantofole…e poi cos’altro s’ha da fare? Ah, gia: il giornale. Lo apro. Discretamente ricolmo di stupidaggini direi. Ma forse lo tengo storto. O forse è il mio salotto ad essere storto, me compreso, ed il giornale è l’unica cosa dritta. Ma no, ma no. Giornale…mi sa che si chiama così perché esce tutti i giorni. Oh, io le cose le capisco. Pensa: in Olanda hanno legalizzato l’eutanasia. Il centro-destra italiano è indignato. A me invece mi sa tanto che non me ne frega nulla. << Ma come Sig. Cervigni, non gliene frega davvero niente?>> Chi ha parlato? Sono solo nella stanza, nessuno ha parlato. < > OmmioDio, è il presidente del Consiglio dei ministri che mi guarda e mi parla da una fotografia posta proprio sopra l’articolo sull’Olanda. E’ Berlusconi! < > Insiste lui. < > <<Si sforzi. Pensi Cervigni, pensi.>> < > <<Mi chiami Silvio.>> < > <<Si immagini>>

< > < > <<…..Direi di si.>> < > <<Si, si. Sono contrario.>> < > <<Si, sono sicuro di essere contrario.>> < > <<E già, ha proprio ragione, grazie mille.>> <<Si immagini.>> < > < > <<Mi chiami Federico.>> < > < > < > < > <<Buonasera.>> La foto ritorna a fare la foto. Vado in bagno.

Intanto la Figlia è seduta per terra e parla di non so quale problema con la sua bambola mentre, assieme, sorseggiano un simbolico the. Solo il destino ed i bambini sono i detentori del grande segreto della fantasia, perché, credo, non sanno in realtà cosa sia. Non esiste forse tutto ciò in cui facciamo lo sforzo di credere? Crescendo ci stufiamo di sforzarci e ci accontentiamo di credere un po’ tutti ad un prestampato di realtà. Giocare sì che è faticoso, lasciarsi guidare lo è un po’ meno. Comunque sia, sono in bagno. Chiudo la porta. Quando mi guardo allo specchio penso di non essere brutto, specialmente se c’ho un lieve velo di barba che mi da’ un senso di accuratamente trasandato. Allora, spesso, mi faccio l’occhiolino o mi do dei simpatici schiaffetti o mi sorrido o mi o la mano tra i capelli. Se sapessi atteggiarmi sarei pieno di donne. Stavolta mi sorrido corrucciando un po’ la fronte e ottenendo quell’espressione di chi la sa lunga. < > E immagino che il mio canino dovrebbe luccicare come lo sguardo dei cattivi nei cartoni animati e dovrei stringere un drink nella mano destra badando di procurare quel malizioso rumore di ghiaccio che cozza contro il bicchiere. E tutto questo dovrei farlo continuando a fissare negl’occhi la mia preda. La pollastrella, dico. Credo che tu non abbia scampo baby. Davvero, sei finita. Se tu potessi avere scampo te lo direi. Ma non è così. Sei cotta, non hai scampo. Yeah baby! Ok, niente male. Niente male davvero. Eppure molto spesso questo corpo m’è d’intralcio: vorrei esser solo mente per agire d’intenzioni. Mi slaccio la cinta e sbottono i pantaloni in automatico, dopo di che , con un sol colpo magistrale, abbasso insieme pantaloni e mutande fino alle caviglie e in quel momento, guardandomi nuovamente allo specchio, mi trovo decisamente meno attraente e penso, per un attimo, che l’uomo non derivi dalla scimmia ma dal pinguino. A questo punto sono pronto. Mi siedo sulla tazza e comincio a pensare ad una musica indiana che immediatamente riempie la stanza e i miei denti si serrano come quelli d’un mafioso e sul mio volto si formano rughe in punti impensabili e comincio a sudare cera come una candela accesa e in ogni goccia di quel plastico

sudore vi sono milioni di nuove forme di vita. E poi ancora immagino il sole che ha smesso di girare attorno alla terra e l’ultima foglia dell’albero che cade e gli Esquimesi che mangiano merendine e capisco tutto questo e la mia parte negativa mi abbandona e poi finalmente raggiungo il Nirvana. Insomma, ho fatto la cacca. Guardo quel Titanic organico con un po’ di tristezza mentre affonda e so gia che dovrò aspettare molte ore prima di riprovare una sensazione così bella, così gratificante. Nel frattempo, senza farci caso più del dovuto, ho cominciato a stuzzicare il mio pene con tre dita della mano sinistra (quella che si usa per i peccati), e non riesco a fare a meno di pensare ad una ragazza che ho incontrato per la strada questa mattina e che mangiava un cono gelato, ma con tale arte, che se al posto del gelato ci fosse stata una chiave inglese, quella si sarebbe squagliata allo stesso modo. La mia immaginazione ed il mio pene sono dei maiali! E il sangue comincia a correre di brutto e la mia mano gli sta dietro (maledette mani sinistre) e raggiungo un’erezione che farebbe invidia persino a Bat-man, mentre la giovane donna continua a gustarsi il suo gelato e mentre centinaia di pinguini si lanciano in un’orgia ignorante e migliaia di segretarie in tanga vengono sculacciate dai datori di lavoro. Poi ancora immagino un fabbro con le giarrettiere che da’ colpi sull’incudine e la mia maestra delle elementari e la maestra dell’aula affianco alla mia e quella ragazza continua a leccare un cono enorme mentre una merendina alta come un uomo masturba l’idraulico che doveva aggiustarmi il lavandino e ci sono 33 donne Marines che nuotano in una gigantesca vasca di ricotta calda e io respiro con affanno e mi si ingrossano le vene sulle tempie e mi si ingrossa il glande e un’infermiera maggiorata mi invita ad entrare con lei nella camera iperbarica e….mentre….il vulcano…..erutta…….ed io faccio appena in tempo ad allungare la mano verso la carta igienica per tamponare lo schizzo di sperma. Un forte brivido mi attraversa come un’onda attraversa il mare ma subito dopo, riprendendomi, bado di pulirmi per benino da quell’eccesso di entusiastica generosità del mio corpo e…improvvisamente sento qualcosa di caldo e denso che mi scorre sul viso e, non so bene perché, penso che debba per forza essere qualcosa di rosso.

In effetti sto perdendo sangue dal naso, sicuramente per la rottura di un capillare che non ha retto l’orgasmo. Istintivamente argino la fuoriuscita di sangue con ciò che mi trovo fra le mani: la carta che avevo usato prima per pulirmi! Sono immobile, con la testa all’indietro, tutto divertito da quella strana situazione e faccio allora la cosa più sensata: respiro ampiamente quella mistura di sangue e sperma ripensando con malinconia alla minestrina calda di mia madre. <<Mamma, Mamma…perché hai smesso di bere?>>

Notte del 2 Settembre

Ore 01.23 Di solito un punto di vista nuovo, pur senza cacciarlo via del tutto, prende a calci uno vecchio. Di quest’ultimo rimane solo un ricordo un po’ ambiguo, una sfumata reminescenza, un connubio di nostalgia e presa in giro che, comunque, fa parte della nostra parte più intima. Come quando ti trovi in mano una tua vecchia foto in cui avevi un taglio di capelli agghiacciante. Che però, allora…eri tu. Quando ero più giovane avrei voluto incontrare un uomo affamato e dargli un pesce da mangiare; oggi invece vorrei insegnargli a pescare. Così mangerà ogni volta che avrà fame, e darà da mangiare a sua moglie e insegnerà a pescare ai suoi figli. Crescere significa guardare le cose dall’alto: salire sull’altopiano e guardare la vallata. Pensare il bene comune, non lamentarsi dei piccoli incidenti della vita, non lasciarsi andare all’ira e alle nevrosi. Solo dall’alto puoi avere il vero sentimento dell’umanità: l’alacre movimento avvolgente del genere umano che fa la fila per la spesa, che guarda le stelle e sogna, che guarda la tv e un po’ muore dentro, che ripete se stesso nelle generazioni come un’eco ripete la vibrazione di un suono. Siamo, nel bene e nel

male, costruttori di civiltà. Una cosa che si vede solo dall’alto. Una cosa che…vale immensamente di più delle azioni fisiche necessarie a farla. Gli uomini…presi uno per volta mi creano spesso una specie d’imbarazzo, ma pensarli tutti insieme mi commuove.

“L’uomo è l’unico essere in tutto il creato visibile che non solo è capace di sapere, ma sa anche di sapere.”

Poniamo l’uomo al posto che nel creato gli spetta – primo tra le creature, ma anche docile ed umile di fronte alle indagini su se stesso e sul mondo –, e non lasciamoci abbindolare dalle stelle cadenti del pensiero, i vaneggiamenti nichilisti che seducono e abbandonano molte persone, che proprio come le stelle cadenti imbambolano le menti in un inaspettato fulgore ma poi lasciano subito tutto al buio. Non siamo animali. Anche se tentano di farcelo credere in tutti i modi possibili, non siamo animali. Sarebbe molto più semplice crederlo in un certo senso, quantomeno renderebbe più semplici un sacco di cose, ma l’uomo porta con sé un destino che è come una condanna: è condannato al pensiero, a produrre arte, a costruire civiltà, ad innamorarsi e poi a scrivere poesie sull’amore. Non è solo una questione di intelligenza, la parola giusta è un’altra: l’uomo è “condannato” a trascendere se stesso. Superare le barriere dell’oggetto sensibile. Essere, fortemente essere. Si può essere spontanei come uno starnuto? Davvero, si può?

Ore 04.06 La persona comprensiva, per via di una strana ambiguità nella definizione stessa, è colui che accetta ciò che di te non comprende affatto.

Ore 04.38 Un uomo potrebbe mai togliersi la vita semplicemente trattenendo il respiro? Non lo so, spero di no. Cioè, la domande era: quanto può essere sincera la voglia di un uomo di uccidersi? La questione, vecchia come il mondo, se il suicidio sia un atto eroico oppure di assoluta codardia mi interessa relativamente. Propenderei comunque per la seconda. Ma quello che vorrei sapere è se un uomo che si suicida è consapevole di uccidere se stesso. Pensare di farlo secondo me non è neanche così difficile…insomma, il pensiero ti può ronzare in testa ammettiamolo. Farlo sul serio però è ben altra cosa. A ben rifletterci, comunque, chi considera l’idea di uccidersi non pensa quasi mai a se stesso; si calcola appena. Anzi, se ragionasse sul profondo significato che la propria persona rappresenta l’iniziativa suicida gli apparirebbe immediatamente molto stupida. No, in realtà egli non pensa a sé. Pensa a tutto il resto, e non gli piace niente. Non accetta niente di quel mondo che vive come uno scherzo di cattivo gusto. Che gli pesa sulle spalle come una croce.

E allora quell’uomo si uccide, diciamo noi; ma in realtà ha compiuto una strage! Ha ucciso il mondo intero. Ha ucciso il sorgere del sole, il suo lavoro, le persone che incrociava per la strada, il fiore del campo. Ha ucciso tutto. Ha ucciso tutti. Ha chiuso gli occhi per non vedere. Ha tappato le orecchie per non sentire. Si è strappato il cuore per non provare emozioni. Si è cucito la bocca per non doversi giustificare.

Ha tolto alla vita il diritto di esistere.

C’è qualcuno che pensa veramente di avere questo diritto? Io penso che un uomo abbia il dovere di trascinarsi fino in fondo.


Ore 03.14 - Una delle più alte espressioni di consapevolezza ambientale mai concepite dall’uomo –

Nel 1854 il Governo degli Stati Uniti fece pressione su Capo Seathl e la sua tribù di nativi americani allo scopo di acquistare i territori del Puget Sound, dove loro vivevano e cacciavano: due milioni di acri e uno stile di vita in cambio di 150 mila dollari e di una riserva entro la quale il si impegnavano a mantenere la tribù. Capo Seathl rispose con un discorso che dipinge con graffiante efficacia la società urbana degli Stati Uniti nel 1850 e delineava un pauroso ritratto del mondo come lo vediamo oggi.

«Il Grande Capo ci manda a dire che desidera comprare la nostra terra. Il Grande Capo ci manda anche parole di amicizia e di buona volontà, e questo è gentile da parte sua, visto che ha ben poco bisogno della nostra amicizia. Prenderemo in considerazione la proposta perché sappiamo che, se non vendiamo la terra, l’uomo bianco potrebbe prendersela con il fucile. Come si possono comprare il cielo e il calore della terra? Per noi è un’ idea strana. Se non possediamo la freschezza dell’aria e lo scintillio dell’acqua, come possiamo acquistarli?

I morti dell’uomo bianco dimenticano la terra dove sono nati quando vanno a camminare fra le stelle. I nostri morti non dimenticano mai questa magnifica terra, perché essa è parte dell’uomo rosso. Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi. I fiori profumati sono le nostre sorelle; il cervo, il cavallo, la grande aquila…questi sono i nostri fratelli. Le creste rocciose, gli umori dei prati, il calore dei pony e l’uomo…appartengono tutti alla medesima famiglia. Così, quando il Grande Capo a Washington manda a dire che vuole comprare la nostra terra, chiede molto. Il Grande Capo manda a dire anche che ci farà riservare un posto dove potremo vivere comodamente fra di noi, egli sarà nostro padre e noi i suoi figli. Prenderemo in considerazione la vostra offerta. Ma non sarà facile, perché questa terra ci è sacra Qui e ora faccio di questa la prima condizione…che non ci venga negato il privilegio di recarci a visitare, indisturbati, le tombe degli antenati, degli amici e dei figli. L’acqua scintillante che scorre nei fiumi e nei torrenti non è semplice acqua, ma il sangue dei nostri antenati. Se vi vendiamo la terra, dovete ricordare che è sacra, dovete insegnare ai vostri figli che è sacra e che ogni pallido riflesso nell’acqua limpida dei suoi laghi racconta gli eventi e le memorie della vita della mia gente. Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli; essi spengono la nostra sete. I fiumi trasportano le nostre canoe e nutrono i nostri bambini. Se vi vendiamo la nostra terra, dovete ricordare e insegnare ai vostri figli che i fiumi sono nostri fratelli…e vostri; dovete quindi trattare i fiumi con la gentilezza che avreste per un fratello. L’uomo rosso è sempre fuggito davanti all’uomo bianco, come la mutevole bruma dei monti fugge davanti al bagliore del sole. Ma le ceneri dei nostri padri sono sacre. Le loro tombe sono suolo consacrato e allo stesso modo si sono sacri queste colline, questi alberi, questa porzione di terra. “Noi sappiamo che l’uomo bianco non capisce il nostro modo di sentire. Per lui un pezzo di terra è uguale all’altro, perché egli è uno straniero che viene nella notte e prende dalla terra quello di cui ha bisogno. La terra non è suo fratello, ma il suo nemico e, dopo averla conquistata, la abbandona. L’uomo bianco si lascia dietro le tombe dei suoi padri e non se ne cura. Ruba la terra ai suoi figli e non se cura. La tomba del padre e il diritto di nascita del figlio vengono dimenticati. Egli tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, alla stregua di cose da comprare, saccheggiare e vendere, come pecore e perline

luccicanti. La sua fame divora la terra e la rende un deserto. Io non so. Il nostro modo di sentire è diverso dal vostro. La vista delle vostre città ferisce gli occhi dell’uomo rosso. Ma, forse, l’uomo rosso è un selvaggio e non capisce. Nelle città dell’uomo bianco non c’è un posto tranquillo, un posto dove ascoltare le foglie che si dischiudono in primavera e il frinire delle ali di un insetto. Ma, forse, è perché sono un selvaggio e non capisco. Il frastuono delle vostre città ferisce le nostre orecchie. Cosa rimane della vita di un uomo se non può ascoltare il richiamo solitario del succiacapre o le discussioni notturne delle rane attorno a uno stagno? Io sono un uomo rosso e non capisco. Gli indiani preferiscono il soffice sospiro del vento sulla superficie dello stagno e l’odore di quel vento, lavato dalla pioggia di mezzogiorno o profumato dalla resina dei pini. Per l’ uomo rosso l’aria è preziosa, perché tutte le cose dividono il medesimo respiro; l’animale, l’albero, l’uomo…dividono tutti lo stesso respiro. L’uomo bianco non sembra far caso all’aria che respira. Come l’uomo che agonizza, non si accorge del proprio fetore. Ma se vi vendiamo la nostra terra, dovete ricordare che per noi l’aria è preziosa, che lo spirito dell’aria è lo stesso della vita che essa sostiene. Il vento che ha dato a mio nonno il primo respiro ha raccolto anche il suo ultimo sospiro. E se vi vendiamo la nostra terra, dovete mantenerla separata e sacra, un posto dove persino l’uomo bianco possa assaporare la brezza addolcita dalla fragranza dei fiori. Prenderemo in considerazione la vostra proposta di acquistare la nostra terra. Se decideremo di accettarla, io porrò un’altra condizione: l’uomo bianco deve trattare gli animali di questa terra come fratelli. Io sono un selvaggio e non capisco nessun altro modo di vivere. Ho visto i bufali marcire a migliaia nelle praterie, uccisi dall’uomo bianco che ava sul treno. Io sono un selvaggio e non capisco come il cavallo di ferro fumante possa essere più importante del bufalo che noi uccidiamo solo per sopravvivere. Cos’è l’uomo senza gli animali? Se tutti gli animali sparissero, l’uomo morrebbe

di una grande solitudine dello spirito. Perché tutto quello che accade agli animali presto accade all’uomo. Tutte le cose sono collegate. Dovete insegnare ai vostri bambini che il terreno sul quale camminiamo è formato dalle ceneri dei vostri nonni. Affinché rispettino la terra, dite loro che è ricca delle vite della vostra gente. Insegnate ai vostri bambini quel che noi abbiamo insegnato ai nostri, che la terra è la nostra madre. Quel che avviene alla terra, avviene ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su loro stessi. Questo noi lo sappiamo: non è la terra che appartiene all’uomo, ma l’uomo alla terra. Questo lo sappiamo. Tutte le cose sono collegate, some il sangue che unisce i membri di una stessa famiglia. Tutte le cose sono collegate. Quel che avviene alla terra, avviene ai figli della terra. L’uomo non tesse la sua trama della vita, ne è semplicemente uno dei fili. Qualsiasi cosa fa alla tela, la fa a se stesso. Ma noi prenderemo in seria considerazione l’offerta di andare nella riserva che avete pronta per la mia gente. Vivremo separati e in pace. Ha poco importanza dove trascorrere i giorni che ci restano: non sono molti. I nostri figli hanno visto i loro padri umiliati nella sconfitta. I nostri guerrieri hanno conosciuto la vergogna, e da dopo la sconfitta trascorrono le giornate nella pigrizia, ubriacandosi. Ancora qualche ora, ancora qualche inverno e nessuno dei bambini delle grandi tribù, che un tempo abitavano questa vasta terra e che ora si aggirano in piccole bande fra i boschi, sarà lasciato a piangere sulle tombe di una gente una volta potente e piena di speranza come la vostra. Ma perché dovrei addolorarmi per la scomparsa della mia gente? Le tribù sono fatte di individui, e non sono di loro migliori. Gli uomini vengono e vanno, come onde del mare. E l’ordine della Natura. Perfino l’uomo bianco, che ha parlato e camminato a fianco del suo Dio come amico, non può essere esentato da questo destino. Potremmo essere fratelli, dopotutto. Staremo a vedere. Una cosa sappiamo, che forse un giorno l’uomo bianco scoprirà…il nostro Dio è lo stesso Dio. Ora voi pensate di possederlo, come volete possedere la nostra terra, ma non potete. Egli è il Dio degli uomini, e la sua comione è uguale per l’uomo rosso e per l’uomo bianco. Questa terra gli è preziosa e offendere la terra significa mancare di rispetto al suo Creatore.

Anche i bianchi eranno; forse prima di tutte le altre tribù. Contamina il tuo letto e una notte soffocherai nei tuoi stessi rifiuti. Ma nel vostro perire, scintillerete vivamente, infiammati dalla forza del Dio che vi ha portati qui e, per qualche speciale motivo, vi ha dato dominio su questa terra e sull’uomo rosso. Un destino che ci è misterioso, perché noi non comprendiamo tutti i bufali uccisi, i cavalli selvaggi domati, gli angoli segreti delle foreste pieni dell’odore di molti uomini e il profilo delle fertili colline deturpato dai fili parlanti. Dov’è il boschetto? Sparito. Dov’è l’aquila? Sparita. La fine della vita è l’inizio della sopravvivenza. Così prenderemo in considerazione la vostra offerta di comprare la nostra terra. Se acconsentiremo, sarà solo per assicurarci la riserva che promettete. Là, forse, potremo finire di vivere i nostri brevi giorni come desideriamo. Quando l’ultimo uomo rosso se ne sarà andato dalla faccia della terra, quando la sua memoria fra gli uomini bianchi sarà diventata un mito, queste riserve brulicheranno degli invisibili morti della mia tribù. Loro amano questa terra come un neonato ama il battito del cuore della madre. L’uomo bianco non sarà mai solo. fate che sia giusto e gentile nel trattare la mia gente, perché i morti non sono privi di potere. Morti ho detto? La morte non esiste. Solo un cambiamento di mondi! Se vi venderemo la nostra terra, amatela come noi l’abbiamo amata. Curatela come noi l’abbiamo curata. Conservate nella mente il ricordo di questa terra, così com’è, quando la prenderete. E con tutta la vostra forza, con tutta la vostra mente, con tutto il vostro cuore, preservatela per i vostri bambini e amatela…come Dio ama noi. Una cosa sappiamo: il nostro Dio è lo stesso Dio. Questa terra Gli è preziosa»


Ore 02.50 Riflessione: ci sono persone che mancano del comparativo, sono solitamente le più interessanti. In queste persone, a volte, pregi e difetti coincidono.

Ore 03.30 Un uomo vivo, con uno spirito vivo, non ha altro interesse al di fuori della verità. N’è alla continua ricerca. Procede nel suo studio con ione viscerale, procurando col tormento l’alibi al suo disordinato cammino; poiché egli cerca la verità in ogni cosa ben sapendo che, se il vero esiste come forma unica e universale, deve per forza di cose essere riscontrabile in ogni luogo fisico o mentale, ed anche nelle idee mendaci a patto di riuscire a risalire al motivo originario da cui scaturì l’umana esigenza di nascondere qualcosa. Se a quell’essere è dato di inventare alcunché, sono solo i rami di un grande albero che da esso si distanziano sempre più, allungandosi nel vuoto, assottigliandosi, divenendo sempre più qualcosa di dissimile dall’albero da cui sono nati e facendosi poi foglie piegate dall’ultimo dei venti in attesa di seccarsi e morire. Poiché sono caduche le foglie. Nate nell’incertezza della loro stessa ragion d’essere. E l’uomo cammina con lo sguardo a terra, esule sconsolato tra le cose del mondo, e non può vedere altro che le foglie precipitate al suolo, continuando la propria ricerca con triste fervore e con presagio d’insensatezza. Non basterebbe alzare lo sguardo? Si può forse trovare la verità nelle più basse e rinsecchite realtà? Effettivamente sì, dicevo, ma vi sembra l’uomo atto ad un così profondo acume?

Ma la verità è come un rumore non udito: esiste a prescindere dall’uomo.

E ci guarda, lo giuro, da un angolo qualunque della nostra casa. Ci guarda dagli occhi dei nostri figli e da quelli delle persone che odiamo. Persino dalla televisione ci guarda talvolta. Ma quante volte abbiamo incrociato il suo sguardo e smarriti, impauriti, abbiamo voltato il nostro altrove? Quante volte siamo stati codardi nella nostra vita? Un milione? Già. Ecco, ci vuole coraggio per guardarla negli occhi, anche un solo istante. E anche un solo istante ci può cambiare la vita. D’altronde, la nostra vita non è forse una decisione che solo noi possiamo prendere? E non basta un attimo a decidere? Coraggio, forza, audacia, eroismo addirittura.

Della verità, persino per averne paura ci vuole fegato!

Ore 04.08 Che i segni uguali si respingono è molto spesso vero. In effetti basta pensare alle calamite: due poli positivi si rigettano. O per esempio, prendiamo due psicanalisti: vi immaginate cosa otterremmo a stenderli uno di fronte all’altro su due lettini da analisi? Mi parli della sua infanzia, prego. E no caro collega, mi parli lei della sua infanzia. Ma guardi…che l’ho detto prima io. Mi racconti di sua madre.

Ma insomma caro collega, mi parli lei di sua madre piuttosto. E allora di suo padre suvvia, inizi pure. Ma vuole scherzare, le analisi le faccio io. Ma cosa dice, l’analista sono io. E non la finirebbero più. Rigetto. Ora, questo non vuol dire affatto che per natura noi ci accompagniamo alle persone a noi più dissimili, addirittura opposte. Ripeto: è vero che segni uguali si respingono, ma solo nel campo della competizione concorrenziale. Infatti nessuno dei due psicanalisti accetterà la prominenza dell’altro, che leggerà sempre come avversario. E in fondo anche i poli positivi delle calamite non fanno altro che il loro lavoro, e dunque si rigettano. Ma nell’amore, e più in generale nella sfera dei sentimenti, succedono cose diverse; e noi cerchiamo chi davvero ci assomigli. Qualcuno che sia come noi. Punti in comune in diversi punti dell’anima. Cerchi chi possa capire quello che dici, quando lo dici. E soprattutto che sappia capire quello che dici, quando te ne stai in silenzio.

Sono le 04.36 di un martedì notte. Il mio cane russa nell’angolo accanto all’armadio e sogna che la Fata Turchina lo trasformi in un bambino vero. Tiro boccate alla mia sigaretta…un rumore che è come un bacio, e poi uno sbuffo che si espande tutto intorno in una danza di fumo bianco e grigio, che sbatte contro il monitor del computer, contro le parole che sto scrivendo ora. Adesso. E sapranno di tabacco e fumo quando qualcuno le leggerà…forse si può sentire, no? Se ci credi lo senti. Lo sentiranno in molti, te l’immagini cane? (il mio cane si chiama cane) ad annusare le parole. Le robe dei matti.

- Le parole non hanno odore, fanno solo rumore; non hanno nessun dannatissimo odore. -

Allora sai cosa…lascia perdere.

Nessuno annusa le parole. Ho visto tante volte qualcuno annusare un libro, odor di stampa buona buona. Ma le parole mai. Sono le cose che non fa nessuno. Cose che non hanno senso, ma significato. E il loro significato è non aver senso. Ovvero: le scrivo perché significhino un’assenza di senso pratico e consueto: perché uno solo, anche uno solo, accolga l’invito insensato di fare una cosa stupida come annusare una parola: perché un uomo sensato si lasci affascinare da un atto sconclusionato e ingenuo come quello di cercare con il naso particelle di verbi e discorsi, che se qualcuno gliene chiedesse spiegazione non avrebbe modo di uscirne senza la bollatura d’idiota: perché neanche queste parole sono sufficienti a spiegare. Lo dico per voi: cose stupide vanno fatte, l’importante è non diventarne schiavi. Che si ricordi, e per sempre, che l’uomo pazzo non è colui che ha perso la ragione ma colui che ha perso tutto fuorché la ragione. Un pazzo non si sentirebbe pazzo ad annusare una parola. A questo serve la prova: fallo, annusa un concetto…se ti sei sentito matto vuol dire che va tutto bene.


Ore 04.04 Che cos’è che ti spinge a ciucciare per ore uno stecco di liquirizia, quando tu la liquirizia la odi? Perché ti costringi a ripetere all’infinito un rumore che ti da solamente fastidio? Perché uno si provoca se non per prendersi a sberle?

Oh, ma le faccio solo io queste cose? Fermo, sul mio 3spolo, godo il 3mendo 3more del 3no che a. E fischia. E cincischia di gente una mischia e fa 3sca, nel 3no, 3mando ol3modo cos3tta in un nodo attendendo l’approdo; in che modo? 3pitando, e in3cciando senza 3gua una 3ccia di 3cento3dici croci al 3bbio, di vite e discorsi, percorsi perversi dispersi nei versi giavvisti, mai visti. Non è snervante? L’ho scritto per darmi fastidio, per farmi dispetto. Mi sa del lento scricchiolio di una sedia a dondolo, con una vecchia pazza sopra che guarda il vuoto da vent’anni. E il cieco gioco di un orologio a muro che ride: vent’anni e un secondo, vecchia; vent’anni e due secondi, vecchia… Sì, sono paranoico. È tutto il giorno che ragiono per rime e assonanze varie. Io odio le rime. È stata una giornata dura.


Ore 23.36 As it begun

Ci fu un brivido. Ed è così che inizia ogni volta. Oddio…è così che finisce se vogliamo, ma non è il caso di stare a sottilizzare. Il brivido era uno spruzzo di vita. Quella vita era milioni di piccolissimi, atletici, incazzati spermatozoi che proseguirono il commovente slancio avuto con una corsa più personale e meno divertente, più competitiva. Cominciarono a guardarsi in cagnesco l’un l’altro, correndo; correndo e dandosi spallate; agguerriti avversari, fratelli eppure reciprocamente ostili. Dentro di noi esiste una società competitiva di pescecani arrivisti.

Filavano velocissimi e aerodinamici con quei capoccioni affusolati mentre già la natura selezionava i più deboli, o i più sbadati che sbagliavano ai primi bivi e si avviavano chi verso un piede, chi verso un orecchio, chi verso il fegato. Filavano sudando appiccicume e sbattendosi fuori strada e facendosi pernacchie e un piccolo gruppetto di poche migliaia di loro era già in fuga e si guardava alle spalle per valutare i distacchi e i tempi giusti da dare al guizzo. Guizzzzavano. E si ferivano dandosi colpi con le code e qualcuno sanguinava appiccicume dagl’occhi e si ritirava dalla corsa sacramentando contro fratello destino o sorella sfortuna. E il gruppo in fuga andava, veloce come un giudizio, inarrestabile come il tempo, violento come una verità sbattuta in faccia; e solo pochi, i più forti, tenevano testa al loro destino di ottusi carrieristi, e con quel destino giocavano alle spade gustandosi appieno il proprio instancabile vigore, finché aveva un senso quel narcisistico gusto che si sarebbe tramutato per tutti in sale sulla lingua e amarezza sul palato. Per tutti tranne che per uno di loro: io. E per forza che uno è incazzato già dentro la pancia di mamma se solo, non dico per nascere, non ancora, ma solo per essere qualcosa in più di un pensiero – uno di quelli che tolgono il sonno - ha già dovuto correre e lottare e, porca miseria, non sono neanche venuto al mondo ancora!

Lottare per nascere, lottare per vivere. Lottare per non morire di vecchiaia troppo presto. Lottare per i propri talenti e i propri ideali. Lottare per il sorriso di una donna. Non c’è davvero riposo sotto questo sole. Datemi una ragione per lottare, un’altra ancora.

Ore 24.41 Molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore.

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo.

Non si sazia l'occhio di guardare né mai l'orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c'è niente di nuovo sotto il sole.

Ecclesiaste - Capitolo 1

Ore 24.59 La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. La sazietà del ricco non lo lascia dormire.

Gli affanni e i dolori.

Il vomito, il panico, il senso di colpa. A volte sei triste. E non essere particolarmente allegro è già un buon motivo per essere triste. Mi è capitato di pensare che la tristezza sia un privilegio da ricco. Avere un vuoto dentro e buttarci cose superflue che alla fine ti fanno solo male. E scegliere con che cosa farsi del male, questo è davvero un privilegio da ricco. L’ho già detto: è facile confondersi tra privilegi e inconvenienti. È facile sentirsi soli e non capire neanche di che si tratta: pensiamo di essere soli quando non ci sentiamo amati ma in realtà siamo soli quando non diamo amore a nessuno. E non c’è altra cosa che ci salvi sotto questo sole, nulla che non sia l’amore.

Ma. La sazietà del ricco non lo lascia dormire. Ma. Le cose superflue sono come un’indigestione d’aria. E mi rigiro nel letto.

E allora scrivo. Vedo le righe allungarsi cadenzate dal tik-tak-tik-tak dei tasti; come un orologio che scandisce un tempo solo mio. Scrivere è una cosa che esiste già dentro di te. Evapora dall’anima per andare a condensarsi nel cervello e poi sgocciolare di nuovo nell’anima. Goccia. Dopo goccia. Dopo goccia. Tlik-tlak. Orologi che non mettono fretta a nessuno.

Titolo: # Federico Niente # C’era una targa in ottone allato del portone. Diceva: DOTT. T. TAGLIO.

ORECCHIE NASO E GOLA. Nessuno aveva avvertito il Dott. Taglio che sarebbe diventato uno dei miei idoli. Con quel cognome. Non so quale fosse il suo nome di battesimo…con la T, che ne so…mettiamo Terenzio. Dott. Terenzio Taglio. Non sarebbe successo niente, no? Non l’avrei neanche notato. Oppure, Dott. T. Taglio. Otorinolaringoiatra. Che c’era di strano? Niente. E invece no. Perché dietro a questa storia c’è un genio; e i geni trasformano la normalità in bellezza. Vi prego leggete quella targa così com’era scritta: Dott. T. Taglio. Orecchie naso e gola. Cioè, il dottore TI TAGLIA le orecchie il naso e la gola. Un criminale. Una minaccia. Poteva scriverla in maniera diversa? Assolutamente no. C’era un destino in quel cognome. E quell’insegna esiste sul serio. Pagine utili: RENATO CONDOTTI. IDRAULICO DOTT.SSA E. MELOMETTI. GINECOLOGO DOTT. ALFIO SCAVANTE. PSICOLOGO AVV. S. PROTOCOLLI. NOTAIO Annunci di lavoro: SIG.RA L. INSEGNO. PER RIPETIZIONI MARGHERITA DISPONIBILE. 20 ANNI, ACCOMPAGNATRICE. NO PERDITEMPO. GUIDO SICARI. ASSASSINO MERCENARIO Elenco telefonico: CESARE IMPERATORE. VIA ROMA, 15 GIANNI TUTTOILMONDO. Ecco, qui siamo di fronte ad un’altra genialata: il sig. Tuttoilmondo. Non lo sto inventando, esiste. Lui va al lavoro e la moglie che magari chiama in azienda:

- Buongiorno, sono la moglie di Tuttoilmondo. - Come posso aiutarla? - Vorrei parlare con mio marito. - Attenda in linea, vado a chiamare Unoqualunque. Anche la nostra storia comincia con una targa e un nome inciso sopra. La storia di: FEDERICO NIENTE. PERDIGIORNO DISOCCUPATO. O almeno una piccola parte della sua storia. Una storia scema scema, per carità. Non state ad aspettarvi insegnamenti. Quindi c’è la targa, affianco il portone, dietro l’androne, due rampe di scale; porte chiuse, salendo; poco rumore; un’altra porta, quel nome scritto sul camlo. Sono le ore 15:00. Dietro la porta d’ingresso c’è un corridoio, alla fine del corridoio una porta sulla sinistra, la cucina. No, scusate la cucina non c’entra nulla. Porta a destra, stanza semibuia, camera da letto, quindi..il letto. Lui dorme ancora, alle tre del pomeriggio, il cuscino è bagnato di bava. In corridoio, sul mobiletto, il telefono prende a squillare, ragliare, saltellare. Insiste. Federico apre gl’occhi -cheppalle-, si alza con mooolta calma e un filetto di saliva segue l’angolo della sua bocca fino a staccarsi per tornare a dormire sul cuscino. Lui guarda quella chiazza viscosa e un po’ l’invidia. Trova la ciabatta sinistra e la infila nel piede sbagliato, dell’altra neanche l’ombra. - E muoviti! Il telefono. Barcolla con le gambe piegate e senza staccare mai i piedi da terra e con le braccia inanimate e la mutande a metà culo e risponde: - Pronto. - Sigor Niente? - Temo di sì. - Hmmm, mi avevano avvertito del suo senso dell’umorismo. - C’è poco da scherzare nell’essere me. - La chiamo dalla banca popolare di ***.

- Già. - Sa perché la sto chiamando, vero? - S-sì, cer…mi scusi un attimo. Poggia la cornetta e corre, per modo di dire, in bagno. La tavoletta è aperta, sennò mica faceva in tempo. Si inginocchia e rende culto al cesso, sbocca. Vomita. E vomitare fa sempre schifo. C’è una mezza bottiglia di vino bianco, la prende e la porta alla bocca e dà una bella sorsata. Si guarda nello specchio mentre con le guance che pulsano come un cuore artificiale, gonfiandosi e sgonfiandosi, si sciacqua la bocca e i denti col vino. Poi inghiotte il tutto e rimane ancora a guardarsi. Senza provare niente. Profilo destro, profilo sinistro. Le basette sono asimmetriche, un lavoro da cani; Alfredo è un’incapace. – Devo tagliarmi i peli del naso. Si ricorda del telefono. Ritorna in corridoio e mentre si avvicina al mobiletto, dalla cornetta esce una voce: - Signor Niente, c’è ancora? Signor Niente… - Massì, eccomi, ero andato a vomitare. - Lei mi sta facendo perdere un sacco di tempo. - Mi dispiace. - Non faccia lo spiritoso. Lo sa perché la chiamo? - Certo. - La banca, signor Niente, non è un istituto di carità. Noi non abbiamo intenzione di prorogare ulteriormente BLA BLA BLA avvallando un così indegno comportamento su e giù, questo e quello, la banca pretende che BLA BLA BLA…perché lei aveva eccetera eccetera… Federico vede un giornale pornografico sulla mensola. Allunga la mano. Lo apre sul mobiletto e comincia sfogliarlo con fare annoiato leccandosi la punta delle prime due dita, come fa la nonna. Porno-grafia. Uomini e donne, uomini con donne, uomini con uomini, donne con donne, donne con oggetti, donne con cani,

cani con uomini, cani con oggetti e donne. Avvinghiati come erbe rampicanti al balcone delle umane perversioni, in posizioni che lottano contro le leggi fisiche e morali. - La banca, signor Niente, le intima l’immediato BLA BLA BLA…poiché non ha dato il minimo intendimento alle precedenti…AAAAAH! Poi le espressioni. Dei giornali porno. O fanno laccia di chi sta godendo un casino, oppure, e questo è il massimo, fanno la faccia felice. Donne appoggiate al lavandino, con la gamba destra intorno al proprio collo, i muscoli delle braccia tesi allo spasmo per reggere, oltre al proprio peso, quello di un negroneignorentesuperdotato con-catena-d’oro-da-quindici-kili…e hanno la faccia felice. Non contenta, felice. Poi, dopo l’ultimo scatto, le espressioni tornano ad essere depresse, si fanno una doccia, salutano i colleghi e tornano a casa a guardare la televisione col gatto sulle gambe che fa le fusa. Almeno lui vuole solo carezze. - La banca, signor Niente, da molto tempo ha capito che…XXXXX…eccetera eccetera…la sua condotta disdicevole le ha precluso la possibilità…BLA BLA BLA…signor Niente? Mi sta ascoltando? - Certo, certo. Una donna se ne sta a cosce aperte in una foto che occupa due pagine del giornale. Una gamba nella pagina di destra e l’altra nella pagina di sinistra. Fissa Federico negl’occhi, sempre con quell’espressione in viso. Lui con la penna le schizza una barbetta da professore, poi un neo giusto tra il naso e le labbra, poi un paio di corna, le infoltisce le sopraciglia e le allunga le basette fino a metà guancia. A-simmetriche. Poi le fa una collana di perle che scende in mezzo al seno e gli orecchini a forma di croce e un pugnale conficcato nel cuore e sangue. La carie sui denti, una benda da pirata, una cicatrice in fronte e poi un paio di ali da angioletto, e un gatto che le fa le fusa, e a lui viene un po’ da piangere per lei, per se stesso, per quello stronzo al telefono, per il vino che è quasi finito. Piangere è un dono. Chi non ha lacrime dovrebbe vergognarsi. - La banca, signor Niente, ritiene di non dover…PE-PE-RE-PE-PE-PEE…e come lei ben sa…SSSSSSTT. Silenzio cazzo!

Lacrime. Sguardo in forma liquida. Anima che sgocciola qua e là. Spremuta di te stesso. Federico piange, dagl’occhi agli zigomi al mento al giornale. E le sue lacrime diventano le lacrime di quella ragazza; a gambe spalancate, con corna e ali e sorriso e pianto. E, Dio, com’è bella. Com’è imperfetta. Lui si abbassa su di lei e la bacia in bocca, in fronte, sulle guance; e il sapore è quello salato della vita, del mare e delle lacrime. E se ne sta così: con la cornetta attaccata all’orecchio, chinato in avanti, con la bocca appiccicata al giornale. A singhiozzare. La tristezza è forse il più stronzo dei talenti. L’immagine di quell’uomo al telefono, che seppellisce i propri genitori, che eiacula in un preservativo, che addobba l’albero di natale, che è uguale a lui. - Signor Niente…ma…che fa piange? Federico attacca il telefono. E beve da quella bottiglia e singhiozza e manda giù e si sbrodola. Il vino è finito. Può tornare a dormire. Amen. Dopo che ti hanno svegliato tornare a letto non è più la stessa cosa. Ti rigiri in una trappola di cotone e la depressione ti violenta. Occhi chiusi, occhi aperti; tenti d’ignorarti ma ci sei sempre, attaccato a te stesso, alla tua carcassa, al tuo cadavere. Vorresti solo dormire. Lui vuole solo dormire. Lasciarsi stare per un po’ e sognare di svegliarsi diverso, senza quel peso nel petto, quella cosa sensibile, frignona. Quell’incrollabile essere se stesso. Vola una mosca, lo guarda e scodinzola, qualche clacson in lontananza. Fastidio. L’armadio lo guarda, l’orologio lo guarda, il soffitto lo guarda, tu lo guardi, io lo guardo, tutto il mondo lo guarda ed è come essere trafitto da mille schegge. Sospesi nel silenzio, quegli sguardi, si aspettano qualcosa da lui. E lui non fa Niente, vuole solo dormire. Alzati ti stanno guardando. - Lasciatemi stare in Pace. Non vorrai rimanere lì tutto il giorno? - Devo riposare, sono stanco, peso troppo. Stai parlando da solo, lo sai? - Andatevene! Il pesce rosso galleggia sun fianco nella boccia di vetro. La morte è sempre a portata di mano. Anche la follia. Persino l’amore. Federico non si muove, è immobile, respira sempre più piano, cerca di essere sempre meno e tra poco qualcuno verrà a cercarlo, lo chiamerà al telefono, vorrà parlargli. È inaccettabile. Perché sì. Perché è in un cunicolo che si restringe sempre di più, fino a non potersi più muovere. E ce l’ho messo io, lo so. È una forma d’odio anche questa.

Si gratta un polpaccio e sotto le unghie sente quei tessuti, così maledettamente umani, così veri. E la verità non ha pietà. Non ha titubanze, non ha mai dubbi. Federico è solo e neanche desidera il contrario. Siamo tutti qui a guardarlo e lui non sta facendo Niente. Nessuno sta facendo niente. Chiamatelo destino…vi prego dategli un nome.

Io vorrei cambiare le cose, ma non posso; non credo. Non me la sento. Potevo metterlo in qualsiasi altro luogo, lo so. Ma ora è tardi. Lui esiste così com’è ed ha un destino da rispettare. Nessuno può farci niente.

È una fitta in una parte del cervello che nessuno ha ancora mai visto. Un sapore di roba chimica in bocca. Un crampo allo stomaco che lo accartoccia come una foglia secca. È il bere, il fumare, l’aver lasciato morire il pesce rosso. È la misantropia, che ti entra dentro silenziosa come un bisbiglio, come un rosario, che gli si rintana dietro gli occhi. È il Niente, ed è come essere impalato suna torcia accesa. Si può perdere il contatto con la realtà, oppure si può avere l’esatta percezione della realtà. Una delle due si chiama follia, l’altra disperazione. - La cura per la disperazione è la follia. Perché ci insegnano il contrario? Ma stai zitto tu, che cosa ne sai? E alzati da quel letto, stupido. Ti guardano. - Perché mi stai facendo questo? - Non rispondi? - Allora? Il fatto che tu mi ponga questa domanda significa che non capiresti la risposta. - Beh sta a vedere. Federico si alza. Va nel corridoio, torna indietro, torna nel corridoio. Va in cucina, apre cassetti e credenze e frigorifero e poi prende una sedia e ci si mette

in piedi e tira fuori dal lampadario una bottiglia di rum ancora chiusa. Taglia con l’unghia il sigillo, svita il tappo, lo butta dove vuole, gli trema la meno, prende il bicchiere, ci versa il rum, se lo scola e si sente meglio. Tutto qui? - Dammi tempo. C’è una cucina, un uomo in mutande è seduto con i piedi appoggiati sul tavolo, con un bicchiere in mano e non guarda Niente. Non ha un solo motivo, non è necessario né veramente superfluo. Beve, semplicemente, e si infila un dito nell’ombelico e ne tira fuori una pallina di lana o cotone, o di angoscia; e lo tiene schiacciato con due dita, quell’ammasso, quel groviglio illogico di qualunque cosa sia, foss’anche il suo intestino, che non è diverso dai programmi in tv o dal freddo o dai telegrammi di condoglianze dei parenti che non hai mai sentito prima. Quella pallina significa tutto un universo, la corporeità fondamentale, la sostanza base da cui tutto prende forma: Niente. Niente avvolge il mondo, niente lo fa muovere, niente ci fa vivere e sperare. Pensa quell’uomo. Ed è come non pensare affatto, pensa. Ossia Niente. E anche tutto; e sono davvero la stessa cosa. Un massimo ed un minimo, una negazione ed il suo contrario. Misantropia, bioterrorismo al tg, ali d’angelo e corna di demone. Sensazione schiumosa e biancastra nel cervello. Follia o disperazione? E una pallina di lana, che sembrerebbe avere un qualche motivo, che si può toccare e tenere tra le dita ed è una cosa vera; esiste, ma è Niente. Come lui, come i tessuti del suo polpaccio e il rum che scende e brucia la gola. E non è neanche tristezza, ma è vita. - Perché mi stai facendo questo? Stai parlando ancora da solo. Si tira su dalla sedia ed è ubriaco. E ancora si attacca alla bottiglia e quel contatto gli fa schifo, toccare quella materia, che esiste e che la puoi sentire, liscia e fredda e vera e Niente. E che quando gli cade dalle mani fa rumore, si rompe e si trasforma in altro Niente; che ancora puoi sentire e camminarci sopra e tagliartici i piedi. Federico ha milioni di piccole schegge di vetro conficcate nel piede e perde sangue, che si mischia col rum a terra. Sotto casa c’è gente. Sono tutti ammassati a poca distanza dal portone e guardano in su.

Mangiano patatine e bevono cocacola fumando sigarette. È il pubblico di sempre, che aspetta sempre che accada qualcosa. Lo incontri nei cinema, alle feste dell’unità, nei teatri, con patatine e cocacola, che aspettano l’inizio e lo svolgimento di qualunque cosa. Sono sempre ammassati, per tuta la vita, hanno sempre qualcosa da masticare e bucce da sputacchiare e le stesse battute su cui ridere sempre, ancora. Li vedi alle sfilate folcloristiche; dove succedono incidenti; sono alle tue spalle quando dai un esame, attorno a te quando muori. Li trovi accalcati quando c’è qualcuno che litiga o una scena d’amore, e sono sempre pronti a succhiarti 5 minuti di vita, con le dita sporche del sale delle patatine, la macchinetta fotografica e secoli di spuntini ficcati tra i denti. E aspettano. Federico cade in ginocchio e a terra c’è confusione tra vetri, rum, sangue, Federico. Si china ancora fino a toccare con la fronte a terra e annusa tutto questo, a occhi chiusi. Poi tira fuori la lingua e lecca l’alcol con le schegge ed il suo stesso sangue e inghiotte tutto e non fa male perché è solo vero ma non è Niente. Sono le quattremezza del pomeriggio ed è quasi l’ora. La gente sotto casa si domanda, ma che ora è? Perché non succede Niente? Sputacchiandosi. Lui è ancora in ginocchio, faccia a terra. Con la coda dell’occhio vede sotto il tavolo un giornale, un quotidiano, “Il Destino”. Non ricorda di averlo comprato, quel giornale, perché è lì, affianco a lui? Guarda la data: è roba vecchia, di due settimane fa. E gli sembra, più o meno, di ricordare qualcosa a proposito, che l’ha trovato, forse, non si ricorda dove e immagina che probabilmente l’ha portato a casa chissà perché. Il Destino di due settimane fa. Non prenderlo quel giornale, dammi retta. - Sei ancora qui? Vattene. Lo prende, se l’avvicina e lo apre a caso, perché è così che si fa col Destino. La gente sotto casa si domanda, ma quanto ci mette? E sono sempre di più. Tanti.

E il Destino si apre alla pagina delle inserzioni e il Destino gliene fa capitare una bordata di rosso, davanti agl’occhi: ANTONELLA PREVISTO. CHIAROVEGGENTE. Lettura dei tarocchi, filtri d’amore e protezione contro il malocchio. Ricevo su appuntamento. Telefonare al numero… La vita ci guarda a bocca aperta: a volte ci stupisce, ma solo perché non sappiamo quanto noi stupiamo lei. - See, belle parole, ma ora finiscila, vai via. E va bene, basta così. Antonella Previsto. Una volta alla settimana mette un annuncio sul Destino. La gente sotto casa si domanda, hai portato i popcorn? Sotto l’annuncio fa sempre scrivere una previsione e la poi sua firma. Quello che accadrà. Tra un anno, un mese, due giorni, per far vedere che lei è in gamba. Federico legge: il giorno 27 del corrente mese un uomo si ucciderà gettandosi dal balcone della propria abitazione, in via ***, al numero 3. Lui si alza e apre la finestra. Applausi. Migliaia di persone che lo guardano e fischiano e battono le mani, creando un polverone di sale, lo amano. Uno striscione dice: fallo. La gente grida: so-tto, so-tto, so-tto. Lui sale sul davanzale. La gente dice: è in mutande, guardate. Dai scatta, scatta. Lui apre le braccia come le ali degl’angeli. La gente sotto casa fa il tifo. Lui si lascia andare e cade, e cade, e muore. Applausi, grida. Grazie, grazie, no, non è Niente, davvero, così mi emoziono, non è Niente. Grazie. Grazie.

Gli stati d’animo che succedono alla tristezza sono solitamente i più costruttivi


Ore 00.09 Il pubblico pagante bordava di rumorosi colori il pallido giallognolo della pista sabbiosa. Il telo, un pallone gonfio di quelli tipo da spiaggia hai presente, precisamente incombeva sulla platea con macchie di scuro. Ma si teneva lì, gonfio e teso e fiero, tirato come un tamburo, mica dalle funi esterne o dalla struttura metallica, anche se lo potevi pensare a vederlo. A tenerlo su erano tutti i sogni e gli applausi che erano ati di là. Tutti gli adulti con lo sguardo da bambino e tutti i bimbi con il sempre dentro gli occhi. E dietro quegli occhi si nascondeva la speranza o addirittura la certezza, nei più piccoli, che da allora ogni giorno sarebbe stato così. Ci sono dei posti nei quali tutto può succedere, a tutto puoi credere, e non sei mica scemo. Noi facciamo solo il circo, i sogni li portate voi. Diceva un omino panciuto vestito tipo portiere d’albergo. Ve li portate da casa stretti sotto il maglione di lana. E noi facciamo il circo. E voi tenete su il telone coi sospiri e gli applausi. Continuava il grande impresario circense. L’immenso baraccone di portenti. L’anello di congiunzione tra ciò che è spettacolo per definizione e ciò che lo è suo malgrado. Come la donna barbuta, l’uomo a tre teste o l’uomo elefante. Si torna bambini e si torna cattivi come sono cattivi bambini: solo per lo stupore delle cose. Una cattiveria pura. Il pagliaccio in capo, il Prof. Grondasudore, spingeva una specie di barella da ospedale travestita da altarino, con teli bianchi fino a terra e un baldacchino di una tela trasparente, con riflessi dorati; e sacramentava con la voce da catarro per il vino lasciato a metà e per quel dannato lavoro, col sorriso disegnato che da lontano mica te ne accorgevi. Sotto il baldacchino se ne stava un ometto vestito tipo asceta indiano, con le gambe incrociate e lo sguardo da scemo. Lo sguardo di chi non ce la fa più.

“Eccolo signore e signori”. Diceva allora il portiere d’albergo, il grande impresario. “Eccolo qui per voi e per i vostri racconti a figli e nipoti. Eccolo fortunati, privilegiati dal destino che assistete a questo spettacolo; alla surrealtà della natura stessa. Uno scherzo dite? Forse signore e signori, forse. L’estensione della normalità, l’essenza delle perfezione che il piccolo spaventato uomo chiama diversità. Ed eccolo signore e signori, dopo infiniti pellegrinaggi, esule tra le cose del mondo e delle cose del mondo maestro; e balia, cari amici, da ciucciare ai capezzoli! Eccolo! L’uomo più geniale del mondo. Per voi. L’uomo più geniale del mondo. Avvicinatevi pure non abbiate paura, lui non vi farà nulla; e toccatelo pure, toccategli la testa. Ma non guardatelo negl’occhi signore e signori, ve lo ripeto, mi raccomando: un suo sguardo e voi impazzireste immediatamente, giacché troppo è il peso dell’intelligenza di questo essere e voi non siete certamente preparati miei cari e non vorrete mica fare una brutta fine? Ho visto persone perdere la ragione all’istante per colpa di quello che avevano scorto nella profondità di questi meravigliosi occhi! E inoltre non vi parlerà, non rivolgerà la parola a nessuno di voi. Non importa se qualche scellerato avrà l’ardire di porgli un quesito: egli ha promesso e non parlerà. Stolti, mille volte avventati e stolti coloro che credono di poter ascoltare la sua voce e i suoi ragionamenti superiori senza che il cervello gli si spappoli all’istante”.

“Noi facciamo solo il circo. I sogni li portate voi”.

Ore 02.33 Possiamo dire che una zanzara non potrebbe mai fare teatro perché gli applausi la farebbero cagare sotto?


Ore 01.11 La barista del bar dove ogni giorno compro le sigarette mi fa il filo. Preme play sullo stereo e parte un cd di Biagio Antonacci. Lo fa sempre quando mi vede arrivare, sempre lo stesso cd. È sempre lì pronto. Lei è convinta che mi piaccia quel cd perché un volta, tempo fa, mentre entravo nel bar l’ho trovata che ne cantava una canzone, e la conoscevo anch’io quella canzone; e allora l’ho guardata per qualche secondo fino a che lei se ne accorse con un sobbalzo, sentendosi sorpresa, e di colpo ammutolì. Io sorridevo e continuai a cantare da dove aveva lasciato lei, poi la smisi anch’io, sempre guardandola, e scoppiammo a ridere tutti e due. È il mio flirt giornaliero. La mia barista tutta carina e me la flirto. Preme play e poi si gira verso gli scaffali e prende le mie sigarette e poi me le posa sul bancone. Io le sorrido – anche quando non ne ho voglia le sorrido – e poggio i soldi affianco al pacchetto; lei li prende, li ripone in cassa, mi da il resto, poi mi guarda di nuovo e mi fa un bel sorriso. E tutto questo senza dire una parola, né lei né io. Ecco perché non riesco a smettere di fumare.

A volte…così…ti accorgi di una persona. Te ne accorgi per un motivo qualunque. A volte una persona, di colpo, la guardi veramente e non come guardi tutti gli altri. La guardi come se ti fossi svegliato in quel momento. Ti accorgi di lei, la scopri. Per un motivo sciocco. Magari solo perché quel giorno eravate allegri tutti e due. O magari ti colpisce perché è malinconica.

Sarebbe interessante riuscire a guardare tutti in quel modo. Anche solo per un giorno.


Ore 03.45 A me stesso… La mia mente si piega per seguire il profilo delle cose. La mia mente s’incunea negli spigoli del muro e nei risvolti dei tuoi pantaloni. La mia coscienza accarezza la sagoma della realtà e talvolta le schiocca un bacio sulla fronte.

Quante volte ho ritenuto di poter affogare o soffocare le ragioni delle mie età scagliando i pensieri al di là del muro del presente. E quante volte, facendo poi il giro, non li ho più trovati. Volevo solo crescere e farlo velocemente. Forse credevo che sarei diventato immune al dolore. Ma il dolore non ti abbandona mai: anche se è difficile da capire, lui ci vuol bene e non ci lascia mai soli! Ridi scrittore, ridi. Come un ragazzino. Vivi tutte le vite che puoi. Non accelerare il tempo, perché la parola fine non spetta a te: sei solo una strofa della poesia. Fai il tuo, semplicemente.

Ore 04.23 Certe volte vorrei essere Snoopy e starmene sdraiato sulla cuccia con le orecchie penzoloni. Avere un pubblico tutto mio, essere un fumetto. Avere qualcuno da intenerire con i sottili stratagemmi della normalità sbattuta in faccia in quanto unità di misura dell’omino perdente che è in ciascuno di noi. Vorrei, certe volte, essere un sognatore amato per non essere in grado di realizzare i propri sogni. Vorrei essere Snoopy che gioca a credersi il Barone Rosso. Questo è l’insegnamento del dio televisivo: vale la pena di essere normali solo se lo fai davanti ad una telecamera, perché questo ti rende speciale.


Ore tarde Antibiologia antievolutiva Bateson, nel suo libro “mente e natura” spiega che in biologia non esistono valori monotòni. Che significa? Un valore monotòno è un valore che cresce sempre o decresce sempre. La sua curva, cioè, non a mai da un aumento a una diminuzione o viceversa. Sostanze, cose, strutture o successioni di esperienze desiderate – regimi alimentari, condizioni di vita, temperatura, divertimenti, sesso, ecc – non sono mai tali che una quantità maggiore di esse sia sempre meglio che una quantità minore. Al contrario, per tutti gli oggetti e le esperienze esiste sempre una quantità con un valore ottimale; al di sopra di essa la variabile diventa tossica, scendere al di sotto di quel valore significa subire una privazione.

Più calcio non è sempre meglio di meno calcio: esiste una quantità ottimale di calcio di cui un organismo può aver bisogno nella sua dieta, al di sopra della quale il calcio diventa tossico. Stessa cosa dicasi per l’ossigeno che respiriamo. Una relazione di coppia senza conflitti è noiosa, una relazione con troppi conflitti è tossica. Ciò che è desiderabile, dunque, è una relazione con una quantità ottimale di conflitti. L’equilibrio. In ultima analisi, il troppo, in natura, è sempre nemico del bene. Questa caratteristica dei valori biologici, non si riscontrerebbe invece nel denaro e nel potere. il denaro e il potere, considerati non in sé, ma nei loro effetti su chi li possiede, possono forse, oltre un certo limite, diventare tossici? A mio avviso, sì. In ogni caso, la filosofia del denaro, l’insieme dei presupposti secondo cui quanto più denaro si ha tanto meglio è, è del tutto antibiologica, anche se questo non ci esime dall’apprenderla quotidianamente ed insegnarla ai nostri figli.


Ore 01.01 Chesterton definiva la modestia come l’equilibrio fra il puro orgoglio e la pura prostrazione. Gli uomini naturalmente cercano l’equilibrio, poiché si spaventano a morte di fronte a ciò che non si regge saldamente in piedi con le sue gambe. Il nostro raziocinio, tutto il giorno e per tutta la vita, non fa altro che giocare all’equilibrista per tenere in piedi le definizioni della realtà. Lo fa con un sorriso tirato e le tempie sudate, con fatica, come quando ci schiacciamo una mano nello sportello della macchina ma sorridiamo lo stesso e facciamo finta che “tranquilli, non è successo niente” per evitare di fare una figuraccia davanti agli altri. La

nostra logica umana si fa in quattro per noi. Se interrogassimo qualcuno dosando saggiamente adulazione e dubbio, guardandolo fisso negli occhi, lui certamente ci direbbe qualcosa del tipo: “ beh, sono contento di me, ma non totalmente soddisfatto. Ci sono un mucchio di persone migliori di me, ma anche un sacco di peggiori. I miei meriti sono sicuramente limitati, ma sono certo di averne”. Ecco l’equilibrio. Una posizione umana e razionale. Ma se mischiamo acqua e vino nello stesso bicchiere quello che avremo non sarà né acqua né vino. Una miscela di due cose è pur sempre una diluizione delle due cose: nessuna delle due sarà presente nella sua piena forza né ci darà il pieno contributo delle sue qualità. Il cauto orgoglio dell’uomo razionale non solleva il suo cuore in un volo d’aquila e la sua blanda modestia non è simile ad un lavacro purificatore. Una delle grandi novità portate dalla filosofia del Cristianesimo è proprio l’espediente tramite il quale si riesce a salvarli entrambi, orgoglio e umiltà. Le due idee sono state divise e poi portate all’esagerazione; da un lato l’uomo sarebbe stato orgoglioso come non lo era mai stato prima, dall’altro sarebbe divenuto quanto mai umile: in quanto sono l’uomo, sono il re delle creature; in quanto sono un uomo, sono il primo dei peccatori.

Ore 02.03 Spero che domani rinfreschi. Sono stufo del caldo.


Ore 00.52 Sembra che i geni siano coloro che aprono delle porte che subito dopo

richiudono alle proprie spalle. In questo risiede la genialità: nel varcare coscientemente quella soglia. Sbirciare fugacemente da fuori è invece tipico della maggior parte degl’uomini. Il genio entra. E ne vien fuori con delle risposte incredibili. La differenza maggiore consiste nella lucida gestione dell’intuizione. Che si parli di poesia, fisica quantistica o matematica pura, la mente geniale è capace di congelare l’intuizione e successivamente sezionarla, viverla, rivoltarla come un guanto e tradurla in un linguaggio semi-comprensibile. Questa è la differenza: lucida gestione. Per quel poco che c’è di lucido nell’intuizione; la maggior parte delle volte, infatti, casi di serendipità o pure ispirazioni. Si potrebbero definire, i geni, come medium della verità. L’intuizione, però, è tipica della mente umana e non solo di quelle più palesemente brillanti. Ma nella maggior parte dei casi l’intuizione a, transita presso di noi, veloce come il vento, come lungo un viaggio di cui non sei né tappa né meta. Eppur lasciandoci, da qualche parte (?), briciole di cognizione che entrano senza bussare e che, successivamente, neanche sappiamo più di avere. E restano lì. In attesa. Di essere risvegliate al momento giusto. La poesia ha una forza tutta sua perché è evocativa. Quando ne hai una davanti non si tratta di leggere e capire, ma di salire a bordo e lasciarti trasportare. Dai suoni delle parole che per puro prodigio si trasformano da qualche parte (?) in sensazione o sentimento. A patto però che siano cose…come dire…che possiedi già in archivio. Si può essere infatti assolutamente impermeabili ad una poesia, qualunque sia la sua forma. E faccio distinzione tra le forme perché, è chiaro, la poesia scritta è solo una delle possibilità. Tornando all’archivio. È formato da quelle cellule d’intuizione che uno non sa di avere finché non esplodono, innescate dall’evocazione. E il merito sta nell’aver carpito un numero di emozioni, aver subito, senza coprirsi la testa, la pioggia di suggestioni cui siamo tutti sottoposti. Avere annusato la vita.

Non sono le parole scritte su un foglio ad essere poesia. La poesia sei tu che leggi.

Ci vuole talento per leggere. E anche qui, coraggio; perché una delle principali funzioni del cervello e del sistema nervoso è di proteggerci contro il pericolo di essere sopraffatti e confusi da questa massa di emozioni, peraltro inutile ai fini utilitaristici umani. A volte leggo le pagine di uno scrittore particolare e mi sento legato a lui. Come un cordone ombelicale che tiene unite due parti (?) in cui esiste solo la vita nuda. È così personale da non poterlo condividere con altri o descrivere; perché sconfigge ogni parola. E non accade molto spesso, anzi…

La poesia è quella forma di perversione che ci obbliga a guardare sotto un’ottica diversa, morbosa, sentimentale, l’urina di un cane o una macchia d’umidità sul muro.

FIORE DI LOTO

Che lavoro hai detto che fai in quel letto? Già…tu regali Il sorriso… E apri i cassetti altrui, sì, sì. Hmmm… forse sei solo

una donnaccia, e non mi fai pena, io… ti amo.

Ehi, Paradiso… Babbo Natale è morto suicida e i dieci comandamenti sono stati scritti sulla capocchia di uno spillo. Ma tu lo sai.

Certe sere,

Paradiso, la poesia fa male assai: quando la scrivi con le unghie, quando le foglie a terra sono bagnate e puzzolenti, quando il tuo cavallino muore guardandoti negl’ occhi e quando una

macchina si ferma davanti a te e poi riparte con una risata allegra e ottusa come uno schizzo di sperma.

…ma è questo il bello, Paradiso.

Non è giusto dire che la poesia ti si infili sotto pelle; è precisamente lì che nasce. È l’occhio con cui guardi.

Spesso ci sono parole nel vento. E spesso silenzi nelle parole al vento.

Titolo: # Confusione # “…ero un bambino irrequieto, capisce…ero turbato da qualcosa credo. Avevo i miei motivi, certo. Le dico, a scuola picchiavo sempre i miei compagni di classe e anche i mocciosi delle aule vicine, alla ricreazione. Si faceva tutti un gioco che lo chiamavamo lo sgambettiere. Se lo immagina? Si aveva da correre a più non posso, nell’androne sì, e ci si ava vicini sfrecciando e ridendo e guardandosi con sospetto e come palle matte e tutti blu come i nostri grembiuli e sempre più vicini, fino a quando qualcuno si distraeva –era scoperto, ecco- e allora qualcun altro faceva tipo una scivolata, insomma e con le gambe unite o anche no e gli metteva uno sgambetto. Non è che venivi eliminato, ti dovevi solo rialzare e rimetterti a correre assieme agl’altri, se per caso non ti eri fatto male, perché è chiaro, ci facevamo male spesso. Imparavamo un sacco di cose da questo gioco, più che…sì, esorcizzavamo le nostre paure. Boh!! Ci fracassavamo i nasi e le maestre parlavano preoccupate coi genitori di noi altri. Senta cosa penso. Il futuro è alle nostre spalle e noi gli andiamo incontro camminando a ritroso. Il ato quindi ce l’abbiamo di fronte ed il nostro sguardo è costantemente rivolto ad esso, no? Mi segue? Come funziona allora che i ricordi ti assalgono da dietro? Ti organizzano delle imboscate da niente, i ricordi. A volte piango per la bellezza sfumata delle cose ate, sa. Cioè, non sono veramente morte e non sono veramente vive, sono solo ate. Accomuniamo il ato con il tempo trascorso ma in realtà è un luogo senza tempo. ” “………………” “…Non trova? ” “ E già. Senti tesoro, anche se non facciamo niente devi pagarmi lo stesso, lo sai vero? ” “ Oh si certo, mi scusi. Un secondo soltanto…ecco, prenda.” “ Grazie tesoro. ” “ Tenga pure il resto. ”

“ Ah, ok.” “ Mi chiedevo, dovete guadagnare molto voi…” “ Puttane. Puoi dirlo, non è offensivo. ‘Nsomma. ” “ Lo sa che i miei genitori avevano una cartoleria? ” “ No, non sapevo neanche questo. Spero che non mi si ritorca contro tesoro! ” “ Certo che no. D’estate mia madre accompagnava me e le mie sorelle al mare, dove c’è la sabbia. Sporca , sì, ma è l’ideale per i bambini, no? Al mare potevamo giocare, al mare pensavamo di essere più grandi di quanto eravamo, c’era libertà. Capisce cosa voglio dire? Le uniche regole erano: aspettare tre ore e mezza per fare il bagno, dopo aver mangiato, in acqua non allontanarsi troppo –che d'altronde valeva anche sulla spiaggia-, non chiedere più di due gelati e pulirsi bene i piedi prima di entrare in macchina. Poi, alla sera, mio padre chiudeva il negozio, la cartoleria, no? Tornava a casa e prendeva dal frigo quello che mamma aveva cucinato. Montava in macchina e così ci raggiungeva. Facevamo il bagno tutti insieme la sera e l’acqua a quell’ora era sempre calda. Perché, sa, ha assorbito per tutto il giorno i raggi del sole. Senta questa: papà apriva il tavolino e lo adagiava sul bagnasciuga. Cenavamo così: con l’acqua del mare che ci accarezzava le caviglie, ci crede? Con l’acqua che ora c’è ora non c’è, ora viene adesso si ritira. Che cos’era? Voglio dire, non era veramente mare e non era veramente terra: un luogo senza luogo. Come con il ato, no? Perché sono ricordi. Sono in un posto senza tempo che parlo di un posto senza luogo, sì. ” “ ………………” “ Non trova? ” “ Beh, quella cosa lì del mare era carina. Da fare, dico. Anche mia madre mi portava sulla spiaggia a volte. Era una puttana anche lei. ” “ La spiaggia? ” “ Ma no, mia madre. ”

“ Ma come, sua madre era una prostituta? ” “ Certo è da lei che ho imparato. ” “ Ma una mamma…non può… ” “ Cosa? Fare la zoccola? Credi che essere mamma cambi la natura di una persona? O che la natura cambi se stessa? ” “ …………….. ” “ …………….. ” “ Come si chiama? ” “ E’ morta da parecchio. Un’infezione intestinale mal curata, i dottori non si sprecano per noi. E’ praticamente morta di diarrea. ” “ No, dicevo lei, come si chiama? ” “ Oh, io. Paradiso mi chiamo. ” “ Mia sorella era un’insegnante di matematica, è morta di cancro. ” “ Già. Senti tesoro, è bello chiacchierare con te, anche se sei un po’ suonato mi sa. Però, capisci, il tempo stringe. Adesso scendo dalla macchina, ok? ” “ L’altra sorella invece, perché erano due, era un ingegnere idrico. ” “ Mi hai capito? Adesso scendo e vado. ” “ Come? Va via? E dove? Ma signorina Paradiso, no aspetti. ” “ Guarda che io ho un lavoro. E dei tempi da rispettare, il tuo è finito. ” “ E’ questo. Io posso pagarla ancora, non vada via adesso. ” “ Ok, hai fatto centro tesoro. Fuori il grano. ” “ Fumi una sigaretta, sono americane, qui non le trovo quasi mai..tenga. Aspetti la faccio accendere. ”

“ Tesoro..? ” “ Sì, i soldi, giusto. Beh, sarebbe molto più comodo se potessi pagarla con la carta di credito, d'altronde….non penso sia proponibile, sì…..ce l’ho qui, nel portafoglio, non la carta, no, no. Ma se l’immagina? He, he, he , sarebbe una cosa quantomeno insolita…la carta di credito, che idea. Eccoli qui, li prenda tutti. ” “ Bravo, ottima idea. ” “ Cosa la carta di credito? In Verità mi sembra poco…. ” “ Ma no, scemo, dicevo…vabbè lascia perdere. Ma lo sai che sei un bel po’ strano? ” “ Grazie. ” “ …………….. ” “ …………….. ” “ …………….. ” “……………… ” “ Sa, il silenzio mi fa pensare alla moquette. Ce l’ho in camera da letto. ” “ La moquette fa schifo. ” “ Sono d’accordo. ” “ Senti ma davvero non vuoi che ti faccia…che ..io faccia qualcosa per te? Capisci cosa ti chiedo tesoro? E’ quasi offensivo insomma, forse non ti piaccio? ” “ Oh no, lei mi piace davvero molto. ” “ Allora? ” “ Le andrebbe di farmi un massaggio alle spalle? ”

“ Appunto! ”

“ Qui sulle spalle, sono sempre così teso. ” “ Ma non mi dire ” “ Eh già. Come la corda di un violino. Ha visto quante stelle signorina Paradiso? ” “ Ma stai fermo almeno. ” “ Scusi.” “ Ecco così va meglio. ” “ Lo sente quanto sono teso? Vede che avevo ragione? ” “ Ehi tesoro, qui l’esperta di cose TESE sono io! Sopravvivrai: ho avuto di peggio…per le mani. ” “ Ahi. ” “ Buonooo…i massaggi devono fare un po’ male. ” “ Ma perché? ” “ Perché…..di sì! ” “ Mamma mia, ma è bravissima. Dove ha imparato a farli così? ” “ Sapessi. ”

“ Ecco, ecco così. No, no rifaccia come prima…ecco, ecco sì…è proprio brava. ” “ Normale. ” “ No, ma che. Mi sta sciogliendo tutto…mi sento già molto meglio…AAAHH. ” “ Ehi tesoro, che fai godi? Non avrai mica i testicoli sulle spalle? ” “ Signorina Paradiso! Ma che dice? ” “ Eh eh, mi sembrava. Oh, ma che caldo fa? ” “ Infatti, ho i brividi. ” “ Cos’è che hai? ” “ Brividi. Di caldo. ” “ Ma non dire scemenze. ” “ Perché? ” “ E’ una cosa impossibile, mi vuoi coglionare? ” “ No, non la voglio…cosare. A me quando fa caldo mi vengono i brividi. ” “ E’ completamente illogico. ” “ Già. Come il bagnino che va in montagna aspettando la gente la cui vacanza al mare è andata a monte! ” “ Come? ” “ Dicevo…illogico come un bagnino che va…” “ No no, non continuare, ti prego. ” “ Sì ecco, proprio li. ” “ Ok, ok. ”

“ Ma guardi quante stelle, signorina Paradiso. Mi sa che l’ho già detto eh? ” “ ‘Nfatti. ” “ Il cielo di notte mi sembra un lenzuolo nero bucherellato e la lucie filtra dall’altra parte, forse. Magari il sole è capitato di qua per sbaglio. ” “ L-u-c-e! ” “ Come? ” “ Tu hai detto lucie: con la i. Si dice l-u-c-e. ” “ Già, ho sbagliato. Si dice luce. ” “ E’ come se le vedessi scritte. ” “ Che? ” “ Le parole. A volte, non so se ti capita…ecco, tipo stasera, mi sembra come se qualcuno ci stesse…come dire…scrivendo! Vabbè lascia stare. ” “ No, perché? Mi spieghi. ” “ E’ una sensazione. Come se noi non esistessimo veramente, ma fossimo i personaggi di uno scrittore scarso che scrive di noi. ” “ Non credo di capire. ” “ Certo. Io me ne accorgo dai salti. ” “ I salti. ” “ …Nel dialogo. Certe volte uno dice qualcosa e mi sembra di non aver afferrato bene, ok? Subito dopo c’è un salto, magari per un’errore che ne so io. E si forma un punto morto, tipo cancello e riscrivo.” “ Signorina Paradiso… ” “ Cosa? ”

“ Ha detto -un’errore- con l’apostrofo. Si dice senza. ” “ Ma si pronuncia uguale! ” “ Certo. ” “ hfugvkugdyj! ” “ Come? ” “ No dicevo, le stelle…hai proprio ragione: sembrano infinite. ” “ Già. ” “ C’è una cosa che non capisco. ” “ Una? Beata lei! ” “ Sentimi tesoro. Per noi il sole è sinonimo di luce, Giusto? Ci permette cioè di vedere le cose. Come va allora che proprio il sole ci impedisce di vedere le stelle? ” “ E’ per via della circolazione, credo. ” “ La…circolazione? ” “ Sì. Il giorno è fatto per stare con la testa all’ingiù, per questo c’è il sole. La notte, invece, stiamo tutti con la testa all’insù, e a questo servono le stelle. Così il sangue arriva meglio al cervello, come un massaggio. ” “ La sai lunga tu. ” “ L’unghia? Quale unghia? ” “ Lunga! L-u-u-n-g-a-a-a-a. ” “ Ahhh. ” “ Senti mi sono scocciata di massaggiarti, ce l’hai un’altra di quelle sigarette? ” “ Certo. Aspetti la prendo anche per me. ”

“ Ecco. ” “ Grazieee. ” “ L’accendino? ” “ Pronto. ” “ Che lavoro fai, tesoro? ” “ Io? L’astrofisico. Non in faccia il fumo. ” “ ‘Cidenti sei un cervellone allora. Lo dicevo che sei strano. ” “ Grazie. ” “ Quindi studi le stelle, le comete…fai anche l’oroscopo? ” “ Temo di no. ” “ Peccato. E cosa fai allora signor Astrofisico?” “ Misuro le grandezze. ” “ Beh quello lo faccio anch’io.” “ Signorina Paradiso! ” “ Scusa. Continua, dai.” “ Lo sapeva che l’atomo è un’immagine speculare in scala ridotta della struttura dell’universo?” “ ………………” “ Adesso le spiego: nel cosmo le distanze sono enormi, ok? Quindi le unità di misura sono diverse da quelle terrestri. L’unità base, diciamo così, è l’anno luce che rappresenta la distanza percorsa dalla luce durante un intero anno alla velocità di trecentomila chilometri al secondo, capisce? La stella a noi più vicina è un piccolo sole, molto meno luminoso del nostro, che si chiama Proxima Centauri. Bene, questa stella, attenzione è la cosa più vicina al nostro sistema

solare, si trova a quattro punto tre anni luce, cioè a quarantatremilamiliardi di chilometri. ” “ Cazzo! ” “ Infatti. Ma ora arrivo al punto: dunque…prendiamo una molecola. Al suo interno vi sono gli atomi e sappiamo poi che ogni atomo è composto da un nucleo ancora più piccolo e da elettroni che vi ruotano attorno. Ma la Fisica atomica ci permette di andare oltre e troviamo allora una moltitudine di particelle piccole piccole: protoni e neutroni. Ora facciamo finta che uno di quei protoni anziché essere grande un infinitesimo di millimetro sia grosso come un chicco di mais. Ebbene l’elettrone che gravita attorno a quel chicco descriverebbe una circonferenza ampia come…l’Europa! Capisce? Anche nell’infinitamente piccolo si trova l’infinitamente grande. E tra i due sistemi ci siamo noi che con i nostri sensi cerchiamo concepire l’inconcepibilità dell’uno e dell’altro. ” “ Interessante…forte. ” “ Siamo circondati da un tale vuoto che se ci penso mi viene il terrore. ” “ Perché terrore? ” “ Mi prende come una nausea…no, non nausea, si tratta di vertigine, ecco. Io ho paura del mio lavoro. ” “ E’ una bolla d’aria nello stomaco, vero? ” “ Già. Non posso fare a meno di avvicinarmi ad un tavolino e pensare che è profondo miliardi di chilometri. A volte cammino per la strada come se mi muovessi su una corda appesa nel nulla. Sono pazzo, eh?” “ Forse sì. Forse lo sono anch’io. ” “ I miei ricordi, le leggi della materia, tutto si fonde in unico perfetto ordine dominato dal vuoto…così immenso, grande come…insomma, mi capisce, cosa ci sto a fare io in mezzo a tutto ciò? Barcollo e soffro la vertigine. ” “ Mi succede. Succede anche a me. ”

“ Cosa? ” “ Queste storie qui, il giramento di testa...non capire niente. Ma al contrario direi. ” “ Che vuol dire? ” “ Che la mia è vertigine da soffocamento. Il mondo tesoro, io lo vedo sempre troppo piccolo, compreso tutto l’universo, per scappare, per essere diversa, essere ciò che non sono. Anch’io ho paura del mio lavoro. ” “ Lei? ” “ Da ragazzina ero bellissima. Ero una bellissima ragazzina senza padre e con una madre puttana. Lei era sempre senza soldi per via della droga e aveva anche dei debiti. Io mi sforzavo di essere semplicemente una ragazza normale, come le altre. Andavo a scuola e bene anche ma più ava il tempo e più capivo di essere soltanto la figlia di una puttana eroinomane. Capisci tesoro? Siamo quello che il mondo vuole da noi, e quello che voleva da me era sin troppo chiaro. << Il tuo visino vale una fortuna, guardati come sei bellina. Sarebbe anche ora che cominciassi a guadagnare soldi per la famiglia, imparare il mestiere. >> Questa era mia madre, nei suoi momenti di dolcezza. I genitori delle mie coetanee pianificavano vacanze e carriere universitarie, mia madre mi costringeva a guardarla mentre un perfetto sconosciuto la scopava legata alla spalliera del letto. Avevo quindici anni. I clienti di mia madre telefonavano alle loro famiglie: < > E poi venivano a casa nostra. Le loro figlie erano davanti alla tv, ben protette del mondo esterno. Erano le mie compagne di classe, il giorno dopo le avrei riviste, ne avrei sostenuto gli sguardi, e i loro bravi papà mi toccavano il sesso con quelle grandi mani. Di notte piangevo, mi accartocciavo per i crampi allo stomaco e vomitavo. Piangevo ma non volevo piegarmi e non mi piegai. E come tutte le cose che non si piegano, quando il peso fu veramente troppo, mi spezzai. M’innamorai di un ragazzo che lavorava in un cinema. Mi ci vede a me che gli faccio le poste per poterlo guardare? Quando si accorse della mia esistenza ci mise pochissimo a portarmi a letto. Lui mi scopava ed io facevo l’amore. Facevo da sola l’amore di cui avevo bisogno. Fu la più dolce menzogna di tutta la mia vita. Quando finimmo lui si rivestì immediatamente. Io cercai di baciarlo sulle labbra ma lui mi schivò, si girò di spalle e mi diede…mi Dio…mi diede dei

soldi. Non potevo farci niente, ero una puttana. Rimasi lì, con quei soldi in mano, guardandoli e senza il coraggio di capire. E quelle facce disegnate sulle banconote continuavano chiamarmi: puttana, puttana, puttana. ” “ Ma che colpa ha la candela delle zanzare che la sua luce attira? ” “ Tu sei così dolce, pazzo. Stai piangendo, perché? Sapessi quanto ho pianto io. Cominciai ad odiare la mia bellezza che attirava gli uomini, fino a non poterne più. Una sera, ubriaca, mi tagliai la faccia in due con un coltello. ” “ Ecco come, mio Dio. ” “ Poi la malattia di mia madre, la sua morte, la solitudine, l’alcol. Una prostituta sfigurata da pochi spicci a botta. Perché hai scelto me, così sfregiata? Non mi vuole mai nessuno. Mi prendono solo quando sono l’ultima rimasta. ” “ Per il suo sguardo: era così fuori posto in quella strada. Quello che vedo ogni giorno segue l’ordine delle cose, le leggi fisiche. E’ tutto così ordinato. E’ perfetto. Lei invece è stata una sorpresa: inaspettata, fuori luogo, bellissima. Ha invertito l’ordine delle cose signorina Paradiso, ha riempito il vuoto. Lei è l’unica vera stella che io abbia mai visto, ha guarito la mia vertigine. ” “ Claudia. ” “ Cosa? ” “ Il mio nome è Claudia. Non so quanto tempo è che non lo dico a qualcuno. E anche tu tesoro hai guarito per una sera la mia vertigine. Hai allargato i confini del mondo e forse per la prima volta in vita mia non sono stata quello che sono. Ma ora basta, devo andare. ” “ Claudia… ” “ Ti prego non dire niente, ti prego. Smettila di piangere. ” “ Stasera ho provato una cosa… ” “ Diversa, solo diversa. Posso fare quest’effetto. Ora devo veramente andare. ” “ Aspetta. Che dici? Rimanga…rimani. ”

“ Guarda la tua mano. ” “ Cosa ha la mia mano? ” “ La fede, La tua fede. Ti prego smettila di piangere per me, torna a casa tua da tua moglie. Addio. ” “ Aspetta sign…Claudia. ” “ Addio. ”

E scese dalla macchina. Ordine o caos? Speranza o esempio? Il molto ed il poco. Era così confusa. Correva… Era una puttana e non ne poteva più.


Ore 06.20 La nostra memoria, in fondo, è precisamente ciò che siamo; la nostra stessa natura. Come un tubo di gomma, di quelli per annaffiare: puoi piegarlo o tirarlo quanto vuoi, ma quando lo arrotoli per rimetterlo a posto ti accorgi che è lui stesso a guidare il movimento. Perché se lo ricorda bene ciò che è sempre stato.

Notte del 1 Ottobre

Ore 23.50 Ho bisogno di perdono e di una volontà tutta nuova. Certo, per ricominciare. Se queste fossero cose che si possono acquistare in un discount…anche una

sottomarca della volontà andrebbe bene…in fondo, che diamine. Le belle parole e i bei propositi delle anime belle. Ma io cerco un perdono vero. La strada che conduce all’inferno è lastricata di buone intenzioni, ha scritto qualcuno. Ed è vero. Anche se tu non ci credi che esiste un inferno, è vero lo stesso se ci pensi. Sono molti dei sorrisi che ti hanno fatto per la strada e tutte le persone che ti hanno parlato del clima che sta cambiando o degli aumenti dei prezzi…anche se sono altrove quando lo dicono. Nessuno ti dice mai quello che vorrebbe dirti veramente. E hanno dei progetti che sembrano buoni a sentirne parlare. Se solo ci credessero con la forza che impiegano a fingere di credere importanti cose delle quali non gliene frega niente a loro quando ne parlano e non te ne frega niente a te quando le ascolti. Se solo fossimo sinceri. Se la smettessimo di avere l’aria da vincenti e l’anima che trema. Perché? La mia anima trema di continuo e io non lo voglio nascondere. Voglio essere un uomo migliore perché non c’è, al mondo, un solo progetto più ambizioso di questo. E farlo come se fosse l’inevitabile e naturale prosecuzione del tempo che ho impiegato a scrivere queste quattro righe. E voglio iniziare col trovare perdono.

Notte del 2 Ottobre

Ore 25.14 LETTERA A CHIUNQUE SIA PIU’ GIOVANE DI ME

Tutta la mia personalità si riassume in una semplicissima asserzione: mi piace salire, però mi piace anche cadere. Salire è meraviglioso, senti con tutto te stesso che puoi farcela e poi ti accorgi che in effetti, sì, puoi farcela davvero. Ogni istante ti migliora rispetto al precedente. Salire è meraviglioso perché puoi raggiungere altezze incredibili e non provare mai vertigine, semplicemente perché continui a guardare sempre e solo in alto. Più su. Più su. E il segreto, se ce né uno, credo sia proprio questo: guardare solo in alto, vincere l’intuizione che ti monta dentro e che ti dice che pure un’altra strada è percorribile e va verso il basso. La scelta. La possibilità. La libertà. Libero arbitrio. Cazzo, che smorfia crudele dell’anima essere liberi. Sentire il piacere ossessivo e perverso della scelta. Farsi conquistare da un comportamento distruttivo solo perché è la massima espressione della tua libertà. Libertà significa tutto ciò che la tua creatività può concepire. Se questo non ti da i brividi non sei un uomo: sei una sedia, un muro, non so..una pianta di limoni, ma non un uomo. Lo so che l’hai sentito il brivido. Personalmente ho sempre diviso gli uomini in due categorie: ci sono quelli che si lasciano affascinare dal pensiero della libertà fino a farne un vizio, quasi una depravazione. E poi ci sono quelli che, a guardarli, sembrano immuni, anzi, Impermeabili direi. Ci sono persone in cui la capacità di fare è molto superiore alla capacità di pensare a cosa fare. E ci sono persone che mancano completamente del comparativo: in queste persone, a volte, pregi e difetti coincidono. Sono affascinanti da guardare, da ascoltare. Hanno una percezione di auto-sovranità totale. E queste persone, mentre salgono, non possono proprio resistere: devono guardare giù. Perché? Perché è il frutto proibito. Semplicemente perché è possibile farlo, è come rendere culto in modo in modo un po’ perverso alla propria libertà. Ed è anche il modo più disinteressato di farlo. voglio dire, che ci vuole a essere liberi quando le tue azioni ti portano un vantaggio economico, sociale o quel che sia? Ma quando hai tutto da perdere e, deliberatamente, lo perdi, allora ti senti l’essere più complesso e potente dell’universo. È il delirio

della vanità. Il pavone che fa la ruota. Un’autocelebrazione emotivamente idiota che non è molto diversa, in fondo, dal comprare una macchina figa per andarsi a fare un fighissimo aperitivo in un locale strafigo pieno di gente figa tra cui tu sei il più figo di tutti. Sai cosa fa la gente per lo più? Se ne sta in vetrina con un prezzo attaccato addosso e spera di essere notata e acquistata da qualcuno. Guarda come si atteggiano per dare forza alle banalità che dicono, per essere ascoltati, guardati…ancora un attimo, ancora..guardatemi so fare la ruota..mamma guarda, vado sulla bici senza mani. La televisione non ci ha solo rincoglioniti, ha fatto di peggio: ci ha resi emuli. E ora non possiamo stare un attimo senza farci guardare. Diventiamo isterici se non ci guardano abbastanza. Soprattutto i tentativi di diversità e originalità sono cartellini con il prezzo scritto. E persino i miei sofisticati retroscena mentali lo sono. Ma siamo scene che il mondo ha già visto. Ti prego, non volgarizzare così la tua libertà. Non ti svendere. Ti diranno “ragazzo, sii te stesso”, come se essere se stessi fosse una premessa e non il punto d’arrivo di una vita intera. Un giorno lo saprai chi sei. Un giorno. Ma fino ad allora scivola silenzioso sulla vita come un gatto con i calzini di spugna. Fa in modo che la gente non ti senta arrivare. Incombi. Materializzati all’improvviso, spaventali. Meno rumore fai e più sarà difficile capire cosa li avrà colpiti, quando sentiranno la fitta al cuore del tuo sguardo autentico di uomo. La sfida è riuscire ad essere liberi senza essere superbi per la propria libertà.

Notte del 3 Ottobre

Ore 24.07 La cultura è la parte meno talentuosa della filosofia. Per noi un uomo colto è uno che ha letto molti libri, ha studiato moltissimi anni. Noi lo guardiamo e diciamo ‘Ehi, ecco un uomo colto!’, perché sa tante cose. Per assurdo una persona coltissima potrebbe anche essere anche la persona più

stupida del mondo. Personalmente conosco un mucchio di uomini decisamente colti e decisamente coglioni. Dei filosofi non si può dire lo stesso: tra di loro di stupidi non ce ne sono stati, solo menti brillanti. Ce ne stato forse qualcuno pazzo, ma coglioni no. La filosofia ha qualcosa in più rispetto alla cultura ed è il talento. ‘Il dono’. Il ‘coltello analitico’. Con una lama sempre a doppio taglio perché: Molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore.

Il talento del filosofo scopre le piccole crepe nell’affresco della vita. E con il coraggio con cui il domatore infila la testa nelle fauci del leone, il filosofo in quelle crepe ci si infila fino ai piedi.

Lo studio senza riflessione è inutile; la riflessione senza studio è dannosa. Confucio.

Notte del 5 Ottobre

“Libertà di parola è il diritto di urlare in un fuoco affollato” Abbie Hoffman

Ore 02.04 Odio il mio lavoro. Odio la signora grassona dalla quale dipendono i miei mezzi economici. La signora culo enorme. Sono tutte signore ‘culo enorme’ le mie clienti, e non le sopporto. Non sopporto loro e non sopporto i loro figli obesoidi – con quelle magliette a righe…tirate dal grasso – e le loro figlie tarchiatelle che puntualmente entrano in negozio succhiando il ghiacciolo e lasciando scie di limone o arancia o quel che diavolo sia per tutto il locale. Vengono da me perché consigliate dalla loro amica che ha pure lei un sederone che fa provincia, due baffoni tipo criceto e un paio di figli ingombranti. Vengono da me senza avere neanche capito benissimo di che si tratta – e non l’hanno capito bene neanche quando se ne vanno –, e assumono allora quell’espressione che è la tipica espressione del fesso di fronte ad una novità che non capisce, non sa gestire, e affronta con la puzzetta sotto il naso e lo snobbissimo sopracciglio alzato. Vengono da me perchè se ne parla, ne hanno sentito parlare, glielo ha raccontato la cugina dell’amica dal parrucchiere, sembra faccia bene…è innovativo. È una moda. La moda salutista: la moda inventata per le persone brutte. Le fighe ballano in discoteca e non vengono mai nel mio negozio. Ballano per ore sui tacchi a spillo e non hanno mai problemi di postura. È possibile? Cioè, la colonna vertebrale delle belle ragazze è strutturata per reggere migliaia di ore di ballo, shopping e sesso sfrenato nei parcheggi; il tutto con scarpe da tortura, e loro non hanno MAI bisogno di un plantare Mr. Foot? Se una invece ha i baffetti e le vene varicose, ecco che l’esame posturale computerizzato diviene indispensabile per tutta la famiglia. Ma no, no, non indispensabile nel senso di vitale. Indispensabile come la minigonna per la bella ragazza da discoteca: indispensabile in quanto moda. Io gestisco la moda del brutto e grottesco nel mio punto vendita Mr. Foot franchising network. Nessuno ne ha bisogno per stare in salute. Ne hanno bisogno per potersi dire: ‘io sono brutta, le mia famiglia è brutta, però siamo gente furba che non cadrà mai nel tranello del degrado fisico e morale del tacco a spillo che ti rovina la schiena. Noi conosciamo i nostri problemi di postura e li combattiamo con metodo scientifico grazie al valido sostegno di tecnici specializzati’. Tecnici specializzati? Dici a me, grassona? In realtà io ho solo tirato fuori ventimila Euro e poi hanno fatto tutto loro: studio del territorio, arredamento, insegne luminose… Specializzato…mah, ho fatto il corso di formazione certo; 20 ore mica niente. Se consideriamo che prima facevo l’imbianchino… Prego si accomodi signora, certo il cappellino nuovo le dona molto e…ooh l’apparecchio odontoiatrico di sua figlia le sta ch’è un amooore, ma che bel sorriso al titanio, no, non importa se sgocciola il gelato si figuri, e questo ometto qui? suo figlio? Noo! Ma com’è cresciuto non l’avrei mica

riconosciuto, come? ah, porta il busto per la scogliosi, e vabbè, da grande sarà forte come un toro…scusa…caro, no, non toccare il computer, sai ci lavoro…ah ah ah è adorabile; e il caro marito, come va? un operazione? la prostata? mi dispiace, me lo saluti tanto….scusa piccola, no, da lì esce corrente elettrica sai? heee i bambini, piezzecore! Ma non mi dica, anche suo fratello…pure lui la prostata? ah il fegato, ho capito. Per il resto immagino…certo il colesterolo alto e la pressione bassa e…come? a me come va? cosa vuole che le dica signora… sono morto, ma per il resto tutto bene! La famiglia Sfiga mi entra nel negozio. Questi qui non hanno neanche partecipato all’evoluzione della specie e vengono a comprare i miei plantari correttivi. Faccio accomodare il/la “paziente” – così, insomma…da un tocco di professionalità chiamarli così – sul MACCHINARIO ed inizio l’esame posturale. “Molte delle problematiche posturali hanno origine da un cattivo appoggio dei piedi”. Recito a memoria la frasetta di repertorio appresa al Corso di Formazione e Addestramento Mr. Foot. La signora Sfiga cammina sul MACCHINARIO poggiando goffamente i piedoni sull’apposito tappeto. Agguanta con le mani la barra di sostegno e continua a muoversi come se qualcuno ce l’abbia messa di forza. Lei non lo sa perché si trova lì; segue l’esempio e le regole imposte da entità sfuggevoli di cui ignora l’esistenza. Non conosce le cause di un atto per lei senza ragione, semplicemente obbedisce alla proiezione del personaggio che le hanno dato e che ha imparato a interpretare dalla parrucchiera, al mercato, da un uomo senza spessore emotivo che l’ha resa madre di due piccoli personaggi ai quali insegnerà a muoversi nel mondo con la stessa consapevolezza che il giocatore d’azzardo ha di ciò che la fortuna gli procurerà nel lanciare i dadi. Fissa il nulla e cammina. Come una bestia da traino. Sono queste le cose grazie alle quali noi uomini costruiamo dal nulla quella che chiamiamo civiltà? Io di solito lo capisco quello che sta succedendo dentro le persone, e in lei non sta succedendo niente. Proprio niente di lucido. Obbedisce senza fiatare alla forza che l’ha fatta invecchiare giovane. Alla forza che ha spezzato il respiro della giovane se stessa ipotecando il suo vivere. La fisso, la sto fissando: perché non piangi? Perché non senti? Credi che abbia bisogno anche delle tue lacrime? Ho già le mie, io lo dico per te. La fisso troppo a lungo…sono solo un “tecnico specializzato” in misurazioni posturali. Mi raccomando giovanotto faccia tutto bene, non come i medici che hanno esaminato mia zia e hanno detto che stava bene e poi lei è morta di tumore, oppure quei dottori che non hanno capito un accidente col cugino di mio marito e ora poveretto è allettato in fin di vita, ok? Stia ben attento con quel MACCHINARIO. Attento? A me? Stia tranquilla signora, io sono talmente attento che al cinema l’anno scorso ho vinto l’oscar come miglior spettatore! Non capisce la battuta. Sono un depresso. E questo non è l’aspetto peggiore della

mia vita. Quello che davvero mi ammazza è non poter essere come lei! Stare qui a scrivere a notte fonda anziché dormire affianco a una donna che russa e non chiedermi che senso ha. Il narcisistico compiacimento di una notte in cui specchiarsi e bearsi della propria bellezza di quadro da soffitta – uno di quelli belli, solo nella casa sbagliata – ha già raggiunto il valore massimo nel grafico della mia confusione mentale. E ora non dormo più. E ripetermi che in fondo questo è il prezzo e che in fondo questo è il bello e che in fondo la gente pagherebbe per una delle mie nottate se sapesse cosa farne è stucchevole e logico quanto dire che un serpente non suda perché non ha le ascelle. Forse è il caso di smetterla con questo diario.

Notte del 6 Ottobre

Ore 01.01 Quello che il senso comune definisce “destra” e “sinistra” non è altro che, per quanto riguarda la destra la soluzione dei problemi creati dalla sinistra estrema, e per quanto riguarda la sinistra la soluzione dei problemi creati dalla destra estrema. Una dicotomia che si basa sulla paura. Cosa scegliere dipende da cosa ti fa meno paura.

Ore 01.46 …lo chiamavano il tartaruga per via di quelle rughe pendenti sul collo e della bocca priva di denti, buona solo a strappare foglie di lattuga con le labbra

protese in avanti. Aveva circa duemila anni. Gli abitanti del quartiere, per quanto potessero ricordare, lo conoscevano da sempre e anche i più anziani lo avevano visto sempre vecchio. Come quando entri in una stanza buia e devi lasciare che le pupille si abituino all’assenza di luce, allo stesso modo, entrando in casa del tartaruga, dovevi lasciare ai tuoi sensi il tempo necessario ad abituarsi a quell’odore-sapore di morte lenta, di vecchio, di lembi di pelle lasciata a seccare sul cuscino. A quella terribile percezione di essere umano in decomposizione. Ero un ragazzino e respiravo con lentezza quella lezione di vita. Il vecchio tartaruga mi aveva chiamato dalla finestra dicendomi ho un problema con la TV, figliolo, vieni a vedere cosa diavolo ha la mia TV, ragazzo. Quella TV. Altri due anni e avrebbe smesso di essere vecchia per diventare antica, eppure, funzionava a meraviglia. Le vecchie e tremanti dita grigie del vecchio tartaruga cambiavano i canali. Click. Guarda ragazzo. Click. Inondazione in Giappone. La melma trascina via automobili e cadaveri. Click Guerra in Medio Oriente. Donne in lacrime sui corpi dei propri figli. Click. Crisi finanziaria. Impiegati licenziati portano via gli effetti personali in anonime scatole di cartone. Click. Il politico di grido ti guarda dall’alto in basso. Click. La griffe di grido ti guarda dall’alto in basso. Click. La ragazza del realitisciò piange disperata con i capezzoli a favore di telecamera. Click. Pubblicità. La cellulite è una malattia. La timidezza è una malattia. Farsi domande è una malattia. Tu sei una malattia. Click. Vedi ragazzo? Click.

Non funziona il mio maledetto televisore. Click. C’è qualcosa che non va. Click. Tu puoi aggiustarlo vero? I suoi occhi lattiginosi e lucidi su di me. No, vecchio. Mi dispiace. Non posso fare niente. Il tuo televisore è ok. È nel mondo che c’è qualcosa che non va…

Notte del 11 Ottobre

Ore 03.03 Un tempo in cielo c’erano sette soli. Faceva troppo caldo. Le gente trovò un bravo arciere e gli chiese di abbatterne qualcuno. L’arciere, che era un uomo audace, disse: < > Ne centrò cinque. Quando tirò l’ultima freccia, un ero gli volò davanti. La freccia prese la coda del ero, il che spiega perché i eri hanno la coda forcuta. L’arciere mantenne a promessa e divenne una marmotta. Ecco perché le marmotte sono provviste di carne anche umana

Questa è una antica leggenda mongola. Nota già ai tempi in cui Gengis Khan conquistava le pagine di storia formando il suo formidabile impero. Fatto sta che le marmotte in mongolia le mangiano; sembra anzi che siano un piatto particolarmente gradito. Soprattutto d’estate, quando le marmotte sono belle grassocce e nutrite, vengono servite come pietanza da festa. Il nome del piatto, appunto, è “carne umana”.

PASTICCIO DI MARMOTTA (Per sei persone. Tempo di cottura: circa un’ora)

Ingredienti: una marmotta sterco essiccato in abbondanza pietre assortite di media grandezza un coltello spago filo metallico un paio di pinze un cannello a petrolio

Innanzitutto, andate a caccia e prendete una marmotta. Con l’aiuto dello spago, appendete a un ramo la marmotta che avete ucciso. Scuoiatela, tirando con cura la pelle verso il basso perché rimanga integra. Eliminate le interiora. Ignorate le mosche. Pulite la carne e fatela a dadini. Nel frattempo, fate in modo che qualcuno raccolga mucchietti di sterco di vacca (se vi sembra strano come

ingrediente pensate che i mongoli lo sterco essiccato lo tirano agli sposi dopo la celebrazione del matrimonio, come noi facciamo con i confetti) e si accerti che detti mucchietti siano ben essiccati, con la consistenza del polistirolo. Mettete insieme lo sterco e usate il cannello per accendere lentamente il fuoco, in modo che il fumo vada verso la carne di marmotta fatta a pezzetti, allontanando le mosche. Disponete le pietre nel fuoco. Usando il filo metallico e le pinze, ricucite le aperture nella pelle della marmotta e fissatele saldamente. Non chiudete il buco della testa. Introducete la carne e le pietre incandescenti nel contenitore fatto con la pelle della marmotta, usando dei pezzi di legno per prendere le pietre. Non fate caso a sterco, cenere eccetera. Chiudete il buco della testa con il filo metallico, usando le pinze per fissarlo. ate il cannello sulla pelle, raschiando via la pelliccia bruciata. Nel frattempo, le pietre roventi avranno iniziato a cuocere la carne dall’interno l’aria trattenuta dentro si espanderà fino a formare un contenitore a forma di salsiccia. Una volta rimossa la pelliccia, il cannello cuocerà la carne dall’esterno. Dopo un’ora, aprite e servite la carne con le mani. Non appena le pietre si raffreddano, atele da una mano all’altra fin quando non riuscite a reggerle senza scottarvi: sono di buon augurio per la salute e portano fortuna.

Ore 4.51 Meno gente, rispetto a qualche anno fa, mi manda sms di auguri a capodanno. Molta meno. Soffro d’insonnia, prima non era così. Penso sempre più spesso ai soldi, divento avido. Mi fido di meno persone. Sono diffidente come un serpente. Ho imparato a sorridere e tacere. Le mie perversioni si acuiscono. Mi stupisco meno della vita e delle cattiverie. Ho dimestichezza col male. Sta accadendo: sto diventando GRANDE. Non è che sto invecchiando, sto diventando GRANDE. Ed è proprio come te lo immaginavi. Sapete perché quando eravamo bambini non volevamo crescere? Perché ci rendevamo conto che i GRANDI erano degli sfigati. Che sgobbavano. S’incazzavano. Ridevano poco e male. Fingevano. Litigavano. Dormivano sempre meno di noi. Guardavano solo programmi noiosissimi in tv. Erano stressati. Piegati. Impauriti. Però…comandavano!

E tanto basta. Sapete perché siamo diventati GRANDI nonostante sapessimo che i GRANDI erano degli sfigati? Per il potere. Semplicemente, abbiamo imitato le persone che detenevano il potere. Che ci comandavano. E ci hanno fregati. Ebbene sì, ci hanno fregati.


Ore 00.00 Paradosso delle affinità: Quattro personaggi: io, mio padre, una vedova e la figlia della vedova. Io sposo la vedova. Divento quindi patrigno di sua figlia. La vedova diventa nuora di mio padre. La figlia della vedova sposa mio padre. Io divento suocero di mio padre e lui mio genero. Io divento figliastro della figlia della vedova di cui ero patrigno. La vedova diviene quindi mia nonna, ma essendo anche mia moglie, io divento il nonno di me stesso. Ma che ho detto?

Titolo: # La tonnellata # Proruppe Stepan Trofimovic: < >

< > Disse con enfasi Varvara Petrovna. <<Ma sì, si capisce, vuol dire che anch’io. Altro che questo mi hanno fatto vedere! Quanto a questi versi, il defunto Herzen li avrebbe scritti a Satov quando questi andava girovagando all’estero, pare in ricordo d’un loro incontro, come encomio, come raccomandazione, che ne so io?…e ora Satov li diffonde fra i giovani, come a dire: vedete l’opinione che aveva di me lo stesso Herzen?>> - La tua acqua - Eh? - L’acqua, avevi chiesto l’acqua no? La cameriera, una ragazzona da 85 Kg. Le enormi mammelle pendono come sconfitte, come canotti sgonfi. CIAK, CIAK. Mastica rumorosamente una gomma americana senza ritenere utile accompagnare con le labbra il movimento schifosamente ritmato dei denti. Apre e chiude la mascella con un moto rotatorio da cammella e io posso ammirare le otturazioni di piombo che ornano i suoi dentoni: montagne innevate, solo al contrario. Le sue guance sono modellate da onde di carne che vanno avanti e indietro in armonia con i movimenti di mandibola. Un mattarello che rotola su quella faccia, pasta fatta in casa, con perizia. Lo sguardo di lei altrove. Aspetta nervosamente una risposta dondolando il grosso culo, con la mano libera appoggiata su un fianco, a pugno chiuso, formando col braccio come l’impugnatura di una teiera. Meglio: come l’impugnatura di una brocca colma di vino rosso della casa. La immagino inginocchiata in chiesa, la immagino fare sesso con le lacrime agl’occhi: è invariabilmente lei. - S-sì, mettila pure lì, grazie. Chiudo il libro in faccia al signor Trofimovic, cominciava proprio a stufarmi. La brocca di vino posa l’acqua sul tavolo e se ne va, sempre badando a non guardarmi in faccia. Prendo il bicchiere per posarlo più vicino a me e vi tuffo dentro una compressa

di aspirina, di quelle che si sciolgono. Ci sono cose che non si guardano mai abbastanza come, appunto, lo smembrarsi dell’aspirina nell’acqua: è come immergere una mano nell’acido, credo. L’acqua mangia la compressa, la corrode, la guardi sparire lentamente e per sempre. Poi non ci sarà più nessuna aspirina. Mi piace osservare la scena dall’alto, poi avvicinare l’orecchio e ascoltare lo sfrigolio con quelle piccole gocce che ti colpiscono, poi posizionare il bicchiere davanti alla faccia per esaminare di taglio ciò che rimane della pasticca, poi studiarla dal di sotto. Non è mai uguale alla volta prima e non smetti mai di notare particolari nuovi e di imparare qualcosa. Mi piace così tanto perché, forse, mi ricorda quand’ero bambino e facevo la stessa cosa. Mi dà quell’impressione di tepore, di certezza consolidata; come il fatto di non toccare il mercurio, in caso si rompesse il termometro, perché è velenoso. Lo sa ogni bambino, ed è rassicurante sapere che il mercurio è tossico perché così non è un pericolo. E’ una sensazione calda.

Compressa. Sinonimi: pasticca, cachet, repressa, costretta, ristretta. Contrari: sciolta, allentata, libera, distesa.

Libera? Ma allora… Ho sbagliato tutto. L’aspirina mica muore in acqua, viene liberata! Quando è disciolta non vediamo che l’acqua, ma sono solo i nostri sensi a non percepire la forma libera delle compresse. La libertà è una cosa alla quale non siamo preparati. Desidererei sapere di cosa sono io il contrario. Libero l’aspirina, vuoto il bicchiere. L’aspirina è dentro di me. Libera. Spero decida di darmi una mano col mal di testa. Temo mi si stia preparando un’influenza: ho la gola arrossata, mi tremano le gambe, ho gli occhi lucidi, soffro di tallonite, ho un quadricipite stirato, ho caldo, ho la nausea, ho le allucinazioni, ho la batteria della macchina scarica. Si può anche morire di queste cose. E si può vivere per meno.

Poi sono un fissato, ho dei pensieri tenacemente conficcati nel cervello, tipo la storia dei sinonimi. Mi prende così. Penso sempre: cosa è il contrario di cosa? Cosa è uguale a che? Qual’è il contrario di porsi domande simili? Forse ignorarmi. Dalla finestra alla mia sinistra vedo are sul marciapiede, premurosa, femminile, commovente, una giovane madre che spinge un carrozzino. Matuska, direbbe Gogol. Ho imparato che la più elevata espressione dell’amore è quella che guarda verso il basso, non quella che volge gl’occhi al cielo. Non quella che si eleva ma quella che si china. Bel pensiero, no? Dio ha riempito il cielo di cose meravigliose. L’uomo lo ha scientificamente svuotato. La giovane madre. Giovane donna. Mamma. Allatta un figlio, spera per lui, prega per lui, di lui già sente il vuoto in grembo. Mammina cara. Consuma se stessa nell’amore e di quell’amore si nutre. E sculetta la donna appoggiata con le mani alle maniglie del eggino. Vorrei essere a casa sua ad aspettare il suo ritorno. Accoglierla con un bacio, mettere assieme a letto il nostro bambino e fare l’amore con lei. Venire svegliato nel cuore della notte dal pianto del piccolo e sentirmi dire che adesso tocca a me alzarmi perché l’ultima volta c’è andata lei. Perché non sculetti per me? I sognatori vivono con la testa all’insù e ad ogni o sbattono le ginocchia e sanguinano. Voglio dire: beate le ginocchia di quegli occhi che ancora guardano il cielo. E’ concesso? Grazie. Sono confuso, scotto. Ho gl’occhi gonfi, lucidi. Qual è il contrario di scottare? Allietare, ad esempio. C’entra qualcosa? Sono confuso, decisamente ho la febbre. Lo studente Raskòlnikov, nelle mie condizioni, vagherebbe senza meta per le vie della città, per pagine e pagine, in preda al delirio e all’astrazione e alla febbre, impropriamente detta. Ma io non sono buono come protagonista di romanzi. Lui aveva il destino come guida, non come sorpresa. Bello sforzo, sei stato scritto tu! Per fare paragoni come minimo dovrei avere un pensiero di quelli tosti, invece mi viene solo in mente che devo pisciare. Ecco. Sono un fallito. Sono pallido, sto morendo. Mi alzo per andare in bagno e sbatto il ginocchio contro lo spigolo del tavolo. Ahi, porca miseria. Devo cercare di non zoppicare, che figura, devo dissimulare il dolore. Ho la pressione bassa, potrei svenire da un momento all’altro. Eccola

lì, la cameriera, odiosa creatura. S’è accorta che ho urtato il tavolo, il bicchiere ha girato su se stesso rumoreggiando, traditore. Non mi ha degnato di uno sguardo quando mi parlava, ma come mi fissa ora: dall’alto in basso. Ma perché si sente superiore a me? Tiro la pancia in dentro, è la mia unica arma per ora. Cerco di camminare con disinvoltura ma mi rendo conto di avere lo sguardo da fesso. Lei continua a fissarmi. Sì, va bene, sì, ho sbattuto il ginocchio contro il tavolino e ho quasi fatto cadere il bicchiere, quasi, sono un patetico sognatore, ok? Problemi sua altezza la cicciona? Ho la gola secca. Cammino tentando di darmi un contegno, ma cazzo sembro uno spaventaeri, non sono per nulla convincente. Mi guarda ancore. Mi ha bollato, squadrato, classificato, giudicato e condannato. Non è giusto. La ucciderei. E continua a fissarmi, pensa tu. Ho le vertigini, mi gira la testa. Devo, devo, devo restare in piedi, mancano pochi i al bagno, ce la posso fare. Giro lentamente la testa verso la mia nemica e con la coda dell’occhio spio i suoi movimenti: incredibile: non mi guarda più! Assurdo. Si è messa a giocherellare con le unghie della mano la cretina. E chissà da quanto tempo non mi guarda. Forse non mi ha mai guardato. Ma che sono invisibile? Questo è davvero troppo. E’ umiliante. E’ offensivo. Certo, non sono degno di essere guardato, vero? Era meno deprimente il pensiero di essere giudicato un cretino. Lo sopportavo con meno frustrazione. Mi fai male, non lo capisci? Ora sono io che ti fisso. E tu ancora che fai finta di non vedermi. Perché fai finta, chiaro. È il tuo gioco stronzetta. Ti sei accorta benissimo di avermi umiliato, e continui perché semplicemente ti dà gusto. Che bel gioco. Non so cosa daresti per poter guardare la mia faccia irosa ed offesa, scoppiare a ridere grassamente della tua vittoria. Ma non lo fai, vinci la tentazione. Solo perché sarebbe la fine del gioco. A te piace troppo. D’accordo sono ingrassato, non sarò nella mia forma migliore, ma, dico, ti sei vista tu? Vascello di carne. L’aria della Carmen, all’improvviso. Vince il silenzio. Messaggio sul cellulare. Qualcuno ti ha scritto. Qualcuno ti ha pensato. Il silenzio proveniente dalla mia figura è una marcata sottolineatura in rosso del mio fallimento. Ed ecco…per un attimo..sì, sono sicuro, certo, ha sorriso! Nel gesto di afferrare con la mano il telefono le si è stampato sulle labbra un risolino, no, un ghigno. Malefico. Vorrei sprofondare, sparire. I miei vestiti si stanno allungando. Che succede adesso? Di già le maniche hanno superato le mani e penzolano vuote e flessuose come modelle da sfilata. I pantaloni si arricciano sopra le scarpe. Le scarpe creano il vuoto attorno ai miei piedi. Mi scoppia la testa. Ad occhi sgranati assegno un significato d’insensatezza alla mia figura. Il bancone cresce a dismisura, i tavolini si allungano sopra la mia testa. In questa scena dilatata e deforme anche il mio

destino si muove svariati metri più su dei miei pensieri. La consunzione. Non sono i vestiti a crescere né la sala né la distanza tra me ed il bagno, mi sto consumando. Sto diminuendo, mi sto restringendo, fino a che non ci sarà niente di meno, giacché non c’è niente meno di niente, ed io sto divenendo niente. Mi sento incredibilmente leggero. Più divento piccolo e più fortemente avverto una sensazione d’infinito. Sono sparito, questa è una buona ragione per non accorgersi di me. Me ne accorgo io però. Non vedo più le mie mani, abbasso gl’occhi e niente ginocchia niente trippa, niente di niente. Sono così piccolo da non potermi vedere, da non poter vedere nulla. Non esiste più una cosa chiamata occhi né un espressione stupita dello sguardo. Infinito. Infinitamente piccolo, centimetri d’illimitato spazio che non posso vedere. Il punto di vista del nulla. Nel nulla c’è qualcosa…che non si muove, non ti guarda. Ci sono io. Ci sono ancora. Nei miei pensieri non riesco ad essere niente, non posso sparire, non ne ho la capacità. Né la forza di nascondermi. Sono il concetto di me stesso. È strana come sensazione non avere la capacità di non pensare. È una fregatura. Condannato ad essere. Quello che mi separa dallo sparire è questo consapevole concepire. Ogni pensiero mi accresce e mi consuma, condannandomi ad un equilibrio instabile. Potei non pensare? Pensare di non star pensando, sarebbe anche questo un pensiero. Non pensare di star pensando sarebbe solo uno sporco trucco. Se riuscissi a non sviluppare niente di nuovo riuscirei a spezzare l’equilibrio crescita-consunzione. Ma ci sarei ancora. È incredibile ma continuerei ad esistere nel mio ato. Quel ato che credevo di aver perso, di non avere più. Non c’era, giuro. Adesso sì, perfettamente nitido in una dimensione immateriale in cui io esisto. Il mio ato, appoggiato al muro con le braccia conserte, mi fissa negl’occhi il suo sguardo stupido e ostinato, senz’altro aspettarsi da me se non che io esista. E la leggerezza scompare quando t’accorgi che non puoi andare da nessuna parte. Questa è la tonnellata. Il peso della realtà. Il finito che impedisce d’essere infinito. Mamma, ti vedo. Mi hai cresciuto, hai fatto del tuo meglio. Ed eccomi qui ora: poco meno di qualunque cosa, poco più di nulla. Sono un riverbero circonfuso del mio ato, la sfumatura del mondo che nessuno nota. Sono l’alone di sudore sotto la tua camicia, la macchia d’umidità nel bagno. Inevitabilmente sono. Con coscienza. Profondamente consapevole di esistere, e di creare. Sì, creare. Non faccio niente eppure non sono niente. Penso ma non sono i miei pensieri ed i miei pensieri non sono me. I miei pensieri non sanno

nulla di me, dei miei motivi; nascono, semplicemente, da sotto i miei piedi, inconsapevoli di essere parte di un ragionamento. Non possono capirmi, io sono. Sono più grande di loro, li metto in fila, li uso a mio piacimento, loro non sanno niente. Pensare, creare. Nulla si crea e nulla si distrugge, dicono i fisici; ma non è sempre vero. C’è stato donato il pensiero per fare di noi dei creatori, completamente autonomi e responsabili delle nostre creature. Le idee non sono l’esatta prosecuzione degli stimoli esterni cui siamo sottoposti e neanche una loro distorsione intrapsichica: qualcosa in più di ciò che ci circonda e qualcosa in meno di noi stessi. Membra impalpabili, nascono come appendici per poi sfumare in qualche cosa di cui non abbiamo più un preciso controllo. Creatori di cose libere siamo, come giusta metafora dell’esistenza. I nostri pensieri nascono piangendo, estirpati senza preavviso da un mondo in cui non sapevano di esistere, e immediatamente gettati in un altro mondo di cui non sanno nulla ma nel quale sviluppano immediatamente un’indigeribile consapevolezza di essere. Viviamo tutta la vita a cosce spalancate, tra le contrazioni, dando alla luce miriadi di creature che a noi sopravvivono e che ci seppelliscono senza versare lacrime, senza averci voluto veramente bene. Creatori finiti di cose infinite. Creatori imperfetti. Questa è la tonnellata. I nostri pensieri vengono scritti, tramandati e diventano immortali. Diventano i pensieri del mondo, della storia, dell’umanità. Immortali. Intanto noi ci facciamo calvi, gobbuti, grinzosi, giallastri: vecchi. E moriamo. E la nostra carne imputridisce. E il putridume diviene polvere. E di noi non rimane nulla, mentre i nostri pensieri galleggiano nell’eterno, senza nulla sapere, privi di ragioni e di domande non conoscendo altro che la consapevolezza di essere. - La tua acqua. - Eh? - L’acqua, avevi chiesto l’acqua no?

La cameriera, una bella ragazza, mi sorrise. Devo smetterla di inventare storie. - S-sì, mettila pure lì, grazie. Bicchiere d’acqua fresca, niente di meglio. Lo bevo tutto d’un fiato, nervosamente, con un rivolo che mi scorre dall’angolo della bocca andando a sgocciolare sotto il mento. Buona acqua. Vado in bagno. Apro la porta ed entro in un mondo di piastrelle rosse e bianche. Follia. Mi avvicino ad un orinatoio di quelli attaccati al muro a schiera. Sono contento che non ci sia nessuno, pisciare accanto ad uno sconosciuto è una cosa che non sopporto. Lo tiro fuori, la faccio. - Ehi, scusa. Voce alle mie spalle. Sono calmo, non me lo sto inventando. Semplicemente c’è qualcuno dietro di me che mi chiama. È possibile, voglio dire. - Psss, scusa ragazzo. Finisco con calma quello che ho cominciato. Lo sgrullo, lo rimetto dentro, mi volto. - sì? Ci sono altri bagni, di quelli chiusi, con la porta e la tazza, per i bisogni più seri. Da una di queste porte, a mezz’altezza, fa capolino la testa di un uomo. A quell’altezza può essere solo un nano oppure un uomo piegato. Penso alla seconda. - Ehi giovane di’ un po’, hai carta? - Cosa? - Carta…fazzoletti, tovaglioli, un giornale. Ero ad un tavolo che me la facevo sotto porca miseria, sono corso in bagno per ammollarne una fatta bene e una volta finito che vedo? Non c’è carta.

- Ah, vediamo…sì, ho dei fazzoletti. Ecco. - Grazie amico, mi hai salvato. - Si figuri. Ma da quanto è lì? - Due ore porca miseria. Non entrava nessuno. - Due ore? - Due ore cazzo. - Due ore! - Già. Senti siccome sei così gentile fai il piacere, tirami fuori. - Tirarla fuori? - Tirarmi fuori porca miseria. Sono seduto sul cesso da due ore, le gambe non rispondono più. Mi prendi le mani e tiri. - Ok. Adesso tiro, è pronto? - Certo che sono pronto. - Su venga…faccia uno sforzo anche lei però, guardi che pesa. - Sì, sì. - Ecco qui. Ce l’abbiamo fatta. - Grazie tante ragazzo, mi hai salvato veramente porca miseria. - Ce la fa a stare in piedi? - Sì, credo di sì. Come ti chiami? - Martirio. - Che cazzo di nome è Martirio?

- I miei avevano deciso di chiamarmi col nome del santo festeggiato nel giorno in cui sarei nato ed io sono nato il 29 agosto, ricorrenza del martirio di San Giovanni Battista. - E non potevano chiamarti Giovanni? - Non lo dica a me. - Bene Martirio, sei un bravo ragazzo, sì, sei un bravo ragazzo. Ti saluto, bello. Grazie ancora. - Senta, mi scusi se mi permetto. Non dovrebbe prima tirarsi su mutande e pantaloni? - Oh bella! Ma senti questo che discorsi. Mi tirerò su le braghe quando avrò voglia di farlo. E poi di che ti impicci? Mi hai aiutato ti ho detto grazie, la cosa finisce qui. - Ha ragione, mi scusi. - Porca miseria. E l’uomo apre la porta del bagno per uscire, così, con pantaloni e mutande alle caviglie camminando a ettini come un pinguino. Attraversa il locale in scioltezza, neanche camminasse sempre così, e si ferma davanti alla cassa, dov’era ancora seduto il cameriere. E gli fa: - è finita la carta, in bagno! - e poi guadagna l’uscita. Succedono cose strane a volte e io non le capisco. La gente è strana. Vado anch’io alla cassa. - Dica. - Signora, le pago un caffè e un bicchiere d’acqua minerale. - Un €. - Sorriso. Morirò senza aver dato tutto, senza aver dato nulla a nessuno, fatta eccezione di qualche pensiero.

Sono la minestra lasciata troppo a lungo sul fuoco, il rotolo della carta igienica da cambiare. Esco, vado a prendere l’auto. Sul marciapiede trovo il tipo del bagno, con i pantaloni ancora giù, che grida e gesticola come un matto alla volta di due poliziotti, due ragazzini, che con la faccia allibita tentano di rivestirlo. Le uniche parole che riesco a sentire sono fascisti e porca miseria. La scena non mi diverte e neanche mi irrita. La macchina non parte al primo colpo, la batteria.

La follia è quando non cedi, quando non vuoi proprio gettare la spugna. E’ quando continui a chiederti il perché fino a non sentire altro che il suono della parola perché, facendole perdere senso. Questa è la tonnellata.


Ore 21.43 La nascita di un uomo è come la nascita dell’universo: un’immane esplosione di energia vitale. Per tutta la sua vita l’universo non fa altro che espandersi e allontanarsi dal proprio centro, che è il luogo in cui è nato. Così anche le nostre vite si espandono senza sosta… e noi ne perdiamo di vista alcuni pezzi.

Ore 22.41 “Lo Zen e l’arte di raccontare cazzate come se fossero cose serie”

C’era una volta un fattore. Cioè uno che ha una fattoria. L’uomo viveva del suo lavoro, del proprio sudare tra bestie e campi. Aveva anche un cavallo, un bel cavallino giovane, un morello brillante, forte e grosso. Lavoravano insieme nei campi e lui gli accarezzava la stella che aveva tra gli occhi palluti, grossi e lucidi come uova al tegamino. Un brutto giorno (è così che si dice) il cavallo (si chiamava Sig. Jack, l’avevo già detto?) non voleva saperne di alzarsi. Restava steso, indolente e indifferente elle urla del bravuomo e addirittura alle pacche di incitamento che il fattore gli rifilava sulla coscia muscolosa. Lo guardava di sfuggita e poi tornava a poggiare pigramente il testone. Il fattore, preoccupato e infastidito dal contrattempo (ma lui era infastidito come principio di vita. Una brava persona per carità, ma così…nervosetto), chiamò subito il suo amico veterinario; grosso luminare della veterinariologia e tenuto – e temuto – in gran considerazione in tutto il paesetto. Il dottorone arriva lesto e dopo uno sguardo alla bestia e un paio di boccate alla pipa diagnostica emette il verdetto: “trattasi di ectoparassiti funestevoli e furfanti, la bestiola andrà trattata con semi di lino ben cotti e due di queste compresse…una al mattino ed una alla sera. Se non vi saranno miglioramenti apprezzabili, il Sig. Jack verrà abbattuto al terminare del quinto giorno dall’odierno” Il maiale, che aveva assistito a tutta la discussione, corse dal cavallo per invitarlo ad alzarsi o sarebbero stati guai seri: “amico, non scherzare. Noi animali siamo vivi finché siamo utili. Mica siamo come gli uomini che vivono anche quando non servono più a nessuno, a noi c’accoppano ecco cosa. Alzati, dammi retta o qui finisce male”. Il Sig. Jack mosse la testa quel poco necessario a emettere uno sbuffo, nel quale il maiale non mancò di notare una vena di sarcasmo, e subito tornò al dolce poltrire. I giorni successivi non portarono al buon fattore le notizie sperate: il cavallo di alzarsi non ne voleva sapere. Lui d’altronde di abbatterlo avrebbe fatto volentieri a meno, ma doveva arare i campi e un cavallo dormiente non era di utilità alcuna. Poi ci si metteva anche la moglie: “uccidila quella bestia sfaticata. Almeno ne faremo carne da vendere al mercato e coi soldi compreremo un cavallo decente”. Non aveva mica torto, comprare un cavallo nuovo non era uno

scherzetto e poi il Sig. Jack non si alzava…ma a mangiare mangiava! L’illustre veterinario fu nuovamente convocato per giudicare la situazione. Arrivò col calesse e, senza neanche scendere, dichiarò: “mio buon fattore, son forse io uomo da perdite di tempo? Non le ho già dato cura ed anche soluzione estrema per il suo cavallo?”. Ma il fattore scusandosi con riverenza e cappello sul petto lo pregò di guardare ancora la bestia malata. Lo stimato veterinario allora, con malcelato disappunto e o affrettato, si recò nella stalla. “per mille anfetamine” disse fuor di sé, “non si tratta di parassitosi. Il tutto è ben più grave! Trattasi di enfisema corrosivo unitamente a carenze nutritive dovute alla mala digestione del latte in fase di svezzamento…e…perché no…di tumore persino! Se al termine del secondo giorno dall’odierno, queste punture non sortiranno effetto curativo…io stesso abbatterò l’animale”. Il maiale sentite queste parole corse dal cavallo e lo pregò in tutti i modi di porre fine al suo teatrino: “ma allora sei scemo?! Questi ti ammazzano non hai capito? Due giorni! Due giorni e tu sei morto! Alzati, ti prego”. Il Sig. Jack mosse appena la coda e la frustò placidamente sul fieno a terra. Decorsi che furono i due giorni, puntale come la battuta acida di una cattiva moglie, il geniale medico giunse saltellando sul suo calesse alla fattoria. Immediatamente si informò presso il fattore della salute di sua moglie e di cosa ci fosse in tavola per il desinare, dicendo con fare signorile e disinteressato: “guardi, è già la mezza!”. Il bravuomo del fattore lo informò degli apprezzabili i in avanti della depressione sulla debole psiche della moglie, e di come il morbo di Alzheimer, a causa della proteina betamiloide, le stesse causando una forte diminuzione di acetolina nel cervello. Ma se a queste dissertazioni l’arguto medico parve prestare poca attenzione, si riprese nel corpo e nella mente quando udì la parola cannelloni. E poi chiese del cavallo. Il fattore abbassò la testa e farfugliò qualcosa circa il fatto che , insomma, il mio buon Sig. Jack, come si dice…non è proprio, che voglio dire…insomma… L’infallibile scienziato all’udire queste parole bloccò un con gesto netto della mano il balbettio dell’agricoltore e dichiarò: “allora è deciso: il cavallo morirà. Prima del desinare, proprio adesso. Preparerò la letale iniezione”. Il maiale allora, che sentiva sempre tutto e aveva molto a cuore le sorti del cavallo, che giudicava tutto sommato una buona e brava creatura, nonostante la

sua vena di folle e smodato protagonismo che lo conduceva non di rado ad assumere comportamenti bizzarri e tutt’altro che dignitosi, corse ansante a dare l’estremo avviso allo sprovveduto Sig. Jack: “sentimi cretino, ascoltami bene: non è affar mio come decidi di gestire o gettare i pochi anni che la natura ci concede in vita. Non è affar mio se decidi di non alzarti più di terra. Non è affar mio e dunque non è mio compito emettere un giudizio etico sul tuo dissennato comportamento. Ma, ecco…volevo solo salutarti e per sempre…giacché oggi avviene quello che non credevi sarebbe mai avvenuto. Oggi ti uccidono amico mio. E ti chiamo amico in punto di morte, perché nella morte almeno io ti ho amato. Ma ecco che arrivano…e non c’è più tempo…e io…”. E il maiale si dileguò, con gli occhi grondanti e la voce rotta dall’emozione. Il SIg. Jack aveva ascoltato con apparente imibilità e ora alzava piano piano il testone per dirigere l’occhi palluto in direzione del vociare che emettevano le due figure appena uscite da sotto l’ombra della tettoia dell’abitazione del fattore. Come vide avvicinarsi i due, e soprattutto notando il siringone che conduceva in mano il veterinario, il cavallo balzò in piedi all’improvviso! Si mise a correre e saltare…nitriva e correva…sbuffava e sculettava…abbozzò qualche o di danza persino! I due uomini lo fissarono con le mascelle pendenti e gli occhi sgranati. Il mitico Taumaturgo cercò subito la compostezza di un atteggiamento da cui si potesse notare che, in fondo, non stava accadendo nulla ch’egli non avesse già previsto; e ostentò quel sorrisino soddisfatto che fai quando si realizza una tua profezia cui gli altri non hanno dato credito, ma di fronte alla quale non ha vacillato mai la tua saggia certezza. Il semplic’uomo del fattore, invece, non smetteva di fissare la bestia con la sorpresa dipinta in volto – che già sfumava in felicità e riconoscenza – e non avrebbe neanche osato chiedere spiegazione circa il significato misterico della pianificazione scientifica del miracolo! Solo, poté voltarsi con lenta venerazione alla volta del Santo Guaritore e con voce intermittente – mentre ancora il Sig. Jack galoppava e scorrazzava per il cortile e i campi – esclamare: “lei dottore..lei…è u-un genio…ha salvato il mio caro cavallino da morte certa…un miracolo è questo, sì…MIRACOLO…che scienziato! che uomo! Ma…ma qui bisogna festeggiare, fare festa grande in onore dell’evento…CHE SI UCCIDA IL MAIALE!!!”.

Vi invito ora ad una riflessione sulla morale di questa storia. Si potrebbe supporre che l’insegnamento di ordine etico della parabola sia inequivocabilmente FATTI I CAZZI TUOI! Eppure, nonostante ciò che sembra, ciò che sembra non è, e la vera morale della storia è che: è quando rinunci a notare i tuoi difetti che sei un fallito. Mah.

…l’aurora è il capo del cavallo sacrificale, il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l’anno il suo corpo, il cielo è il dorso del cavallo sacrificale, l’atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine, i punti cardinali i suoi fianchi, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni, i fiumi sono i suoi intestini,

il lampo il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce del cosmo il suo nitrito

Upanisad Primo Adhyata Primo Brahmana


Ore 01.02 In un imprecisato tempo-spazio è stato fondato il partito dei colpevoli. Esso sostiene che ad andare in galera sono i colpevoli perché a giudicarli sono degli innocenti “o presunti tali”, e promuove dunque il diritto dei colpevoli a giudicare gli innocenti “o presunti tali”. Come controprova. Se uno spaccato della società giudica sempre la restante parte degli uomini che giustizia è? “…chi l’ha deciso che a giudicare devono essere sempre loro – i santi innocenti (e seguiva occhietto ammiccante rivolto alla platea e conseguente risata orgogliosamente compiacente della platea) -, chi l’ha stabilito? forse la Bibbia ? un libro scritto migliaia di anni faaa???? (risatina astuta) ma come si può parlare di giustizia se lo stesso gruppo di individui giudica sempre senza essere giudicato mai? Non si può! Semplice!...”

IL FIORE DEL BENE Mi ricordo, quando facevo delle rose con la carta lei arrivò, e ne trasse una rosa vera.

Ore 02.36 Ci sono delle volte che ti senti decisamente al posto tuo. Le volte che stai facendo esattamente ciò per cui sei nato Con naturalezza, allora, prendi le cose e ci giochi! Tu hai preso un pensiero, l’hai sviscerato, rivoltato, assorbito e infine prolungato ed evoluto fino al gioco, per tuo personale divertimento, e gli altri intorno a te stanno ancora annaspando per capire il significato della cosa che tu hai già doppiato. Questa è la mente quando sei davvero nel tuo mondo. Quando fai ciò per cui sei nato. Il tuo talento. Bisogna imparare a riconoscerlo. Il mio, purtroppo, ha ancora troppo poca attinenza col mondo dei fatti.

Ore 03.15

La sincerità è una cosa bellissima. I più grandi fessi che conosco sono tutti molto sinceri. Ma sono anche le persone migliori che conosco.


Ore 4.23 Torno ora da una serata fuori. Camminavo verso casa quando, mezzo ubriaco, mi soffermai a sentire il canto degli uccelli appena svegli. Precisamente gli uccelli non cantano, fischiano. Fischiettano. E lo fanno in modo divino. E così indugiai. Poi pensai una cosa: non c’è davvero nessun essere umano che potrebbe fischiare in quel modo. Nessuno. Ci sono persone abili a fischiare, che magari imitano il canto degli uccelli, ma non è la stessa cosa. Non possono, queste persone, avere la stessa abilità nell’eterogenia della mescolanza delle varietà dei suoni. Davvero nessun uomo può cantare come un uccello. Poi pensai un’altra cosa: ci sono uomini molto forti, incredibilmente forti. Ma quale uomo potrebbe mai essere forte come un gorilla? Nessuno. Oppure prendi il più veloce tra gli uomini; sarebbe deriso in velocità dalle morbide e sinuose movenze del ghepardo. Allora mi misi a pensare a quale fosse il talento grazie al quale anche l’uomo potesse avere il suo picco qualitativo su tutte le altre creature. Non può certo vantarsi di avere la vista migliore di un’aquila, o di nuotare meglio di un delfino.

In cosa l’uomo eccelle, mi domandai allora. Nell’intelletto certo. In quella soave capacità interpretativa della realtà che l’uomo possiede e nessun altro animale può vantare. L’intelligenza. Cercai anche di capire se la distribuzione di questi talenti distintivi delle varie specie fosse avvenuta per caso oppure no. Praticamente; poteva magari toccare all’uomo la velocità o la forza e sentire un gorilla cantare come un uccellino alle quattro del mattino. Si sarebbe potuto vedere…che so…un delfino correre a 130 km/h sulla terra, magari saltellando sulla pancia e assistere al velocissimo nuoto dell’aquila che agitando le ali in modo circolare improvvisava uno stile libero. Vabbè, detto così sa di stronzata. Ma la domanda rimane: i talenti distintivi delle creature sono equivalenti da un punto di vita qualitativo? L’intelligenza dell’uomo vale quanto la forza del gorilla? La velocità del ghepardo si può stimare dello stesso valore della vista dell’aquila? Se la risposta fosse positiva vorrebbe dire che l’uomo non ha nessun diritto di proclamarsi “primo tra le creature”. Con nessun diritto si può sentire come “l’essere privilegiato”, se non privilegiato dal caso. La dea bendata che non sa mai quello che fa. Ma se la risposta fosse negativa, se quindi le rispettive attitudini delle creature si potessero comparare da un punto di vista qualitativo, allora come potremmo risolverci a metterle in un ordine di valore anziché nell’altro? Se affermassimo che il massimo valore spetta all’intelligenza umana saremmo un po’ di parte. E neanche potremmo chiedere agli animali cosa ne pensano perché non sono abbastanza intelligenti per darci una risposta. Solo l’uomo può porsi una domanda simile. In virtù della sua intelligenza. Gli animali non possono competere con noi in questo campo. Precisamente come noi non possiamo competere a braccio di ferro con un gorilla. E torniamo ancora alla domanda. Personalmente risolvo il dilemma nel seguente modo: c’è un altro elemento che non ho nominato e che più di ogni altro distingue l’uomo da ogni altra forma di vita terrena. Un elemento più metafisico. Che non è come la velocità o la forza un modo di interagire con la realtà – il che è un movimento che parte dall’uomo in direzione del mondo –, ma una comunicazione attiva con il mondo che non si vede, un movimento che parte dal cielo per arrivare all’uomo. Si chiama anima.

Questo non è di parte, è che ci credo veramente.

Ore 06.12 La luna che ammiri nel cielo è il riflesso di quella che custodisco nel mio pozzo.

Ore 06.23 Nello stato di ubriachezza c’è un narcisistico – sottile ma sensibile – autocompiacimento nel dare ascolto incondizionato ai propri pensieri, tale da far credere, in quei momenti, che davvero quella condizione possa favorire e addirittura addizionare la vostra capacità creativa.

L'Arte è una sedia rivolta verso un muro spoglio. Annoiarsi, senza voglia di non essere annoiati.


Ore 0.11 Adesso sto fumando. Sono appoggiato allo schienale della sedia e penso a me che scrivo. Stai leggendo le cose che io sto immaginando di scrivere. Non so neanche se le scriverò; eppure le stai leggendo. Forse le ricorderò parola per parola e le scriverò; beh in tal caso avrebbe più senso il fatto che le stai leggendo. Ma forse non lo farò, e in talaltro caso non capisco cosa possa significare il fatto che sto immaginando di scrivere a qualcuno che legge.

Non sto parlando da solo; sto pensando da solo. E questo non è da matti, no? Scrivere qualcosa che nessuno leggerà mai è il silenzio perfetto. Pensare qualcosa che non scriverai mai è il silenzio perfetto. E non so se scriverò mai questa verità. Forse ella stessa sarà il silenzio perfetto. Tiro un’altra boccata e mi stravacco sulla sedia, con un braccio allungato a terra dalla forza di gravità e la testa piegata di lato. La luce del monitor mi disturba nella contemplazione del buio della finestra. Lo spengo. È la finestra che non posso accendere e siamo in un epoca in cui non poter accendere qualcosa ti da un senso di frustrazione. Ma poi la vedo. È lì, limpida e bellissima. Non la notavo prima col monitor . La luna, bella come non si vede neanche nelle pubblicità. Le sorrido, lei ricambia. Ma che ci fa una bella ragazza come te in un posto come questo? Dovremmo vederci qualche volta. Ci stiamo vedendo! Si, beh…io intendevo solo io e te…un appuntamento…come si diceva una volta… Ah ah…tu e io? Ma lo sai quanti uomini ho reso pazzi? Immagino. E…e tu? Non ti sei mai innamorata? Innamorata… No? Sono una ragazza semplice in fondo, malgrado quel che si possa pensare. Solo un po’ capricciosa. Ti senti mai sola? Seeempre. Da sempre.

Ehi Luna, ma lo sai che io e te ci assomigliamo in fondo? Scemo! Non sai quante persone me l’hanno detto… Già. Ehi brillantone! Altri frasi storiche prima di andare a dormire? No, no…no. Basta così. Però…sai una cosa....no, niente… Sai una cosa…cosa? E dai dimmi… No, no niente sul serio… E no ora me lo dici! Eeehh, come sei curiosa! Sì, sono curiosa! Quindi? Daiiii, dimmelo… Curiosa come le donne. No. Ora proprio non te lo dico. Guarda che piango! Buonanotte Luna… Seee buonanotte; buonanotte un cavolo! E non te la prendere Luna, domani te lo dico…buonanotte. Stronzo!

Titolo: # The Jenny fantastico show # Jenny aspettava, il suo amore il suo uomo l’unico che le fe davvero tremare le gambe soltanto a pensarci, a quella bocca, a quel corpo, la voce. Il suo amore, l’uomo non suo, che la faceva sua, ogni volta. Perché Jenny era sua. E lui era di un’altra. E forse neanche, perché lui era uno libero, non so se rendo l’idea, uno di quelli sicuri di sé e disinvolto e sa quello che deve dire ad una donna e la

faceva volareeee. E quella volta nel bar, cavolo, s’era avvicinato ed era proprio fico colla giacca di pelle e il bavero tirato su che le sembrava quell’attore là, come si chiama…dai quello colla moto e jeans stretti sul culo…che pezzo, cavolo, e si era fermato davanti a lei che stava così come si sta nei bar a farsi ammazzare dal tempo, che se lo sapeva prima mica la faceva quella faccia scema, che la faceva sentire veramente scema quando lui si fermò lì, al suo tavolo, con tutte le sue amiche, che lo fissavano colle bocche aperte che ci poteva piovere dentro o con le labbra mozzicate, lussuriose, e Jenny non lo sapeva che quando la vita ti a affianco ti trova sempre così, così come si sta di solito nei bar a cazzeggiare con la faccia idiota che non eri pronto, ma ormai è già lì che ti fissa e sa quello che vuole e tu sai già che lo avrà e che ti piacerà e che in fondo ti farà stare male, e che le amiche ti diranno che hai fatto il colpaccio Jenny, cavolo, quella volta…se lo mangiavano cogl’occhi, e si mozzicavano le labbra che potevano pure gocciolare sangue per quanto stringevano, Jenny, il colpaccio…il tempo che rimane senza benzina e scende a fare l’autostop e lei che a in spider e che fa finta di volergli dare un aggio ma riparte ridendo quando lui si avvicina, l’illusione che il tempo è un illuso e che puoi ridergli dietro se uno così ti guarda in quel modo davanti alle tue amiche che sbrodolano e che poi ti diranno che, porca miseria ti rendi conto o no? se toccava a loro…che colpo, Jenny, gl’hai fatto venire l’infarto a tutte le galline del pollaio quando quello s’è fermato a guadarti e che poi dicevano in tua assenza che quello non aveva gusto e che in fondo non era manco sto granché, le sceme invidiose, gliel’ha fatta vedere a tutti, e pure a quell’altro pupazzo d’un ragazzino che le stava sempre appresso a farle regali e complimenti e cheppalle non si staccava mai e aveva pure pianto una sera, dietro al parcheggio e le altre ce l’avevano beccato e lui a negare e a tirare su col naso, il pupazzo, che Jenny lo chiamava coccobellodellamamma e gli pizzicava le guance, e adesso l’avrà capito cos’è un uomo vero che ti guarda e che ti toglie il respiro e che se ti guardasse in eterno allora fanculo il respirare, l’ha capito o no? che lei era Jenny, di un’altra categoria bello, che a scuola le facevano il filo pure i bidelli e che quando si faceva accompagnare dal puapazzetto era solo per farsi accompagnare e andare in giro colla macchina a bere nei bar, lei, colle amiche e il coccobello, che l’amava e non l’avrebbe mai tradita e poteva essere la sua regina e piangeva, una sera l’avevano pure visto le amiche e figurati se poteva reggere il confronto con lei e con quell’altro pezzo che era lì con quell’espressione sorpresa che fanno i maschi quando ti vogliono far credere di non credere ai loro occhi perché tu sei troppo bella per essere vera ed essere veramente lì, una dea in minigonna, e ci si crede perché, porca vacca, quello è uno sguardo da uomo e ti fa svenire il cuore e ti fa svenare la mente e ti fa svanire il mondo solo con gl’occhi, che non

avevano pianto e timore, esitazione, caro pupazzetto, a mettere canzoni romantiche al bar e offrire giri di tequila sono buoni tutti, vero Jenny? che era patetico quell’amore, vero? Niente a che vedere cacchio, altro che scrivere poesie e non avere il coraggio di fargliele leggere, e piangere, di nascosto bellomio, che se c’aveva una moto allora si che…ma che? portami di qua e portami di là? e che cambiava? niente cambiava, Stupida macchina pulsante, innamorarti d’un sorriso…è un po’ come viaggiar sulle stelle cadenti: ti fanno brillar d’un fulgore inatteso per poi mandarti in picchiata a fari spenti, e cose così scritte in un diario sporco di lacrime e moccolo di naso, che le amiche le dicevano a Jenny che era proprio uno sfigato, che cavolo c’entrava lui che si vestiva come il nonno di chiunque e amava veramente e veramente era un pupazzo, ascolta noi, Jenny, non c’entri niente se non te ne sei accorta…che botto, quella volta, colla sciarpa attorno al collo fermo immobile come un santo che la fissava senza chiedere il permesso e lei era cotta, e scorreva la mano sul bicchiere ch’era pure freddo sennò a lei gli sembrava di potergli dare piacere anche così, colla mano a scorrere su e giù, a quel pezzo che la stava a guardare come se ci fosse solo lei e non le vedeva neanche le altre, colla giacca e i capelli indietro che lei già accarezzava con l’altra mano che stendeva la mini sulle cosce che tremavano, e sorrise, finalmente e quel sorriso era proprio il bagliore inatteso delle stelle cadenti, solo che Jenny quelle cose le non le sapeva dire, e che ce n’è bisogno di ‘ste fregnacce da sfigati? lo sentiva ed è già pur qualcosa, che una donna non c’ha mica la necessità di dargli un nome e cognome, che mica le puoi trovare sull’elenco telefonico alla voce sorriso che ti turba, o sospiro da quant’è bello quello lì, o porca vacca che sorriso che le colorava la mente di smalto bianco e la gola che non fa più la gola e i piedi che non fanno più i piedi, no, non serve mica a una donna, colle amiche colle lingue penzoloni che se veramente devi dire qualcosa da provare ci vai in bagno, ti chiudi dentro e dici Mamma mia che pezzo e ti lasci andare veramente e ti lasci sorridere a lui e da lui, ma, comunque, non è necessario, non più che stare lì a stringere il bicchiere che poteva essere il sesso di quell’uomo forte o il mondo intero da stringere e far smettere di girare, così, solo perché lo puoi fare e allora lo fai, e tutto il mondo la guardava impietrito e tutti a sussurrare Jenny ha fatto il colpaccio e le ragazze crepano d’invidia che guarda solo lei…e lei che ricambia il sorriso che è come sbattere una pietra sull’altra e fare le scintille quel momento, e la sentiva la colonna sonora di se stessa che sorride e assomigliava al tempo delle mele senza cinema come canzone: dream la la la la la dream, generazione da telecamere, le veniva voglia di esplodere o solo scoppiare a ridere e forse addirittura prendersi in giro, giusto per ridere dalla gioia, in mondovisione, nel Jenny fantastico show, dove si volava gratis sullo sgabello ovunque volevi tu, a braccia aperte e la testa

indietro e i capelli al vento e la gente che le puntava le dita addosso e diceva che, cavolo, quella è Jenny ed è quasi più bella dal vivo, ciao Jenny ciaaooo; mamma ho visto Jenny e l’ho salutata, sì, quella Jenny dell’amore in mondovisione, che bella ragazza, ciao Jenny, mandami un bacio da lassù, da quello sgabello volante e da quelle labbra rosse rosse e da quella volta che hai fatto il botto, il colpo grosso che ancora tutti se lo ricordano e ne parlano e che se il proprietario del bar c’aveva la macchinetta delle foto te ne scattava una quella volta, e l’appendeva come quando vengono i divi a prendere il caffè e tu fai la foto per dimostrare che è vero, che mica spari palle e che quello t’ha pure detto che era buono e t’ha stretto la mano quella volta lì, e non hai preso i soldi perché, santa liquirizia, è un divo dico, non è che ano tutti i giorni a farsi fotografare da te, che il locale ci guadagna soltanto, come quella volta di Jenny, vi ricordate ragazzi? Ve l’ho raccontato? e tutti a dire che, sì, l’aveva raccontato 100.001 volta, di Jenny e di quel bel ragazzo che non si può dire neanche ragazzo a uno così…così…così, che le faceva partire le pupe e giurare vendetta, le donne, e di quell’altro, innamorato secco che piangeva come un vitello e che scriveva poesie il codardo pupazzo e che parlava come un neon scarico e provava a dire quello che provava a lei, a Jenny, come se fosse veramente possibile dire io provo questo e quello e tu mi fai così e tu mi fai cosà e con lo sguardo che hai che volevi fare non lo so, moccioso, come se veramente fosse possibile che due anime si incontrano, voilà, e con quella vocetta che portava ancora il grembiule dell’asilo e gli scatti del neon quando proprio non ce la fa piu: J-J-Je-nny s-sei ll-l-ll-la più b-b-ell-l-a, e tirava su col naso e Jenny a fare la super-lei e che io non mi innamorerò mai e tutti a guardare in tv e a fare il tifo quando lei era una stronza per davvero, ma la gente che ne sa, che c’è un’anima dentro l’altra gente e che si soffre, che uno torna a casa ed è stanco e mica ci può pensare sennò a che serve lo show se non a questo, e neanche s’erano resi conto quando tifavano ancora Jenny, sempre Jenny, l’innamorata wow Jenny, che se volevamo essere costanti non nascevamo uomini e allora non dovevate inventarlo lo show che però vi fa comodo quando ci sono da fare gli autografi e le foto da appendere al bar che poi uno non se lo può scordare più di quella volta, che quello guardava quella e quelle sbavavano e che poi lui, finalmente, no, al momento giusto, era un professionista, le disse che c’ho la moto e se le andava di farsi una galoppata, ti faccio vedere quant’è piccola ‘sta città dal sellino della moto che l’ho comprata col lavoro baby, e fa una musica che sembra una senile perversione e lo diceva sorridendo che una donna che cavolo può fare se non arrossire falsamente, una donna come lei? e poi alzarsi e dire sì, con gl’occhi socchiusi e pensare che sorriso, che sorriso, che giacca, che uomo, coma mastica la gomma americana lui, e sculettare verso l’uscita che non era mica la prima volta che lo

faceva, e lo sapeva, ooh se lo sapeva, che effetto faceva agl’uomini, e sorridere minchiona, allora andiamo? che una donna deve pure saper prendere l’iniziativa qualche volta e ‘ste cose non te le insegnano alla scuola dell’obbligo, nossignore, e argli accanto, ma vicino, e quasi toccarlo con la spalla mentre era fermo e la guardava soddisfatto, il cacciatore, e quei jeans e quelle spalle e quello sguardo che le si inchiodava addosso mentre lei lo sfiorava nel are e la stordiva, anche se tu non lo potevi dire a guardarla, e la spogliava e la seguiva ancora quando lei ò oltre e andò verso la porta e sculettava e lui glielo guardava di sicuro, mica come il coccobello che magari s’imbarazzava o addirittura la rispettava e allora fine del film, no, lui conosceva il gioco e Jenny pure e si girò con quello sguardo che ti fa venire in mente una bambina birichina, che è una specie di premessa, e il tipo la squadrava e dava le spalle alle ragazze che erano piccole piccole e inadeguate e fuori posto e, semplicemente, non possono fare tutti i protagonisti, la vita è fatta di comparse, vero Jenny, che te lo guardavano persino loro il culo quella volta? e che se non si chiama intuizione geniale allora io non lo so come si chiama quella musica che rompe l’attesa al momento giusto, subito dopo che lei aveva detto allora, si va? e serviva a cambiare scena, perché l’amore non è mica soltanto una musica mielosa, così dolce che ti fa cariare l’anima, è pure una canzone fatta di spasmi di batteria e metallo su metallo, mica solo l’immobilità di quella statua di uomo, pure l’azione e andare e fare e cambiare scena al momento giusto e ritrovarli sulla moto che agiva e andava e volaaavaaa sulla strada che era mondo ed era cielo ed era un clima freddo che si può sopportare, anzi, con lui per lui e quella marmitta che sembrava un sassofono che non ci possono soffiare dentro tutti ma soltanto chi ha coraggio e tristezza e ha vissuto per davvero e ha tante storie da raccontare, le diceva, e lei sorrideva e basta e si stringeva a quel pezzo, cavolo, e teneva gl’occhi chiusi, che lo sguardo serve solo quando vuoi di più, e lei non lo voleva di più di così, e la gente si dava gomitate, a Jenny, quella è Jenny e magari ci riprendono anche a noi e poi stasera invitiamo gli amici a casa a guardarci in tv, nel fantastico show di Jenny, coi capelli al vento che era bellissima e colle amiche fregate che sembrano delle prugne al confronto di lei, e tutti a salutare e mandare baci e pensieri e la gente a volte si sente buona quando la loro squadra vince e non hanno pietà per gli sconfitti e festeggiano per lei che è la più bella, che mica è colpa loro se la protagonista è una sola e gli altri buuu, allora non lo dovevate fare lo show, mica l’abbiamo deciso noi che è come i coriandoli che qualcuno li deve raccogliere ed altri ci devono giocare, o le feste a casa di qualcuno che ci si diverte e si casina e quello del piano di sopra si deve svegliare alle cinque, certe volte sei incudine e certe volte sei martello e quando sei martello sei quello che batte e dà colpi, altre volte sei sfigato brufolone

piagnone e allora scrivi poesie sull’amore e nessuno verrà a chiederti se stai male o cosa, che non sei la star e la gente non ti può amare, perché lo ripeto, uno torna a casa stanco la sera, dopo il lavoro, e mica si mette in poltrona a pensare ai sentimenti che se volevamo essere eroi non nascevamo uomini e allora non lo dovevate inventare lo show, con Jenny e quell’altro lì che erano belli da togliere il fiato su quella motocicletta cromata e lucente che era come cavalcare la luce del sole che la gente sui marciapiedi si copriva gl’occhi con le mani e qualcuno cadeva in ginocchio e pregava per i suoi figli, che assero l’esame o guarissero dal cancro e quella luce e quel sassofono e quei capelli biondi al vento davano coraggio e speranza e li amavano e dicevano Dio protegga Jenny e il suo show e quel ragazzo che è proprio bello, e magari mia figlia…con quella giacca e le scarpe alte a punta che scalavano le marce in curva e lo sentivi dal canto del motore e dalle ruote che perdevano aderenza quando lui ridava gas all’improvviso e allora pensavi che era proprio in gamba il tipo, con gl’occhi pieni di cose e la schiena dritta, e le braccia e le mani che facevano sempre la cosa giusta da sembrare l’ovvia prosecuzione della sua volontà, che non è da tutti, ma solo da attori consumati, e poi con lei attaccata dietro, con le braccia attorno al petto che però lui badava solo a guidare e scalare marce e dare gas, come se fosse stata sempre lì con le cosce nude strette alla sua vita ad emettere calore e stringersi un po’ di più e con la testa appoggiata alla sua spalla e gl’occhi chiusi, e allora tu stavi fermo a guardare e pensavi che, no veramente quello è uno tosto e no, non volevi stare al posto suo che eri mica all’altezza, della moto e della giacca e di Jenny, che lo ripeto la vita è fatta di comparse e non per le comparse, e la moto è fatta per due persone che sanno volare insieme e gli altri stiano a guardare, ed è così che pensava Jenny stretta stretta, con l’odore della pelle invecchiata nel naso che era così fica addosso a lui, e non guardava niente e sorrideva e forse…piangeva…da qualche parte, pur se non dagl’occhi e ripensava al ragazzino babbeo e alle poesie e alle stelle cadenti e al silenzio dei suoi genitori ed era come, che ne so…tenerezza, che cavolo, e tepore e natale e no come prima che quelle cose lì le sembravano farsi raschiare lo sporco dal dentista con quei ferri freddi e appuntiti che ti fanno saltare ogni volta, era proprio diverso, e ne cercava il nome, Jenny, andando a pescare nella memoria alla voce film o libri, perché non ho letto di più, e discorsi e sentimenti e niente, non c’era proprio, che magari non esiste veramente la parola adatta e forse che ne sanno gli altri, non sanno neanche di che parlo, di questa cosa che almeno riuscissi a capire da dove nasce e dove si nasconde, e perché si nasconde, ed era bello lo stesso, pure senza capire niente e viverla, così, come si respira o si mangia il gelato che Jenny non lo sapeva che le cose più grandi di noi non le possiamo capire per fortuna, né usarle né sculettargli davanti e che ci vuole

coraggio per guardarle anche da lontano e lei era solo una ragazza, e pensava a quella parola che magari se le stava in bocca vuol dire che la poteva addirittura capire o gestire o giocarci al saltimbanco e farla volare in alto e riprenderla al volo e non sapeva neanche che, a volte, il cielo è troppo basso per un giocoliere che dipende da quello che hai da far volare, e quella cosa faceva volare lei, che sono mica gli uccelli a far volare le ali, è il contrario, e pensava alle amiche nel bar che addirittura le voleva bene e alla leggerezza e quel film che forse…quella parola…non sarà mica…ma figurati, che s’era messa in testa, però, a pensarci… quella marmitta e le altre macchine e le donne affacciate alle finestre e il vigile che fischiava e qualcuno con lo stereo , era rumore e suono e musica e… una parola formata dal tutto e bisbigliata come dal vento e da una preghiera, e la parola era Amore, Amore, Amore…ed è facile sbagliarsi, Jenny, una parola, magari solo uno scherzo, magari aveva capito male e tendeva l’orecchio e non c’era già più, solo suoni, uno scherzo, sì, uno scherzetto del cuore a pensarci bene e della mente e del destino che è quella cosa che va in un certo modo perché sì, e se lo ripeteva nell’attesa, nell’attendere quell’uomo che forse sarebbe venuto a prenderla oggi, colla moto e la giacca e che cavolo c’era in quel giorno di diverso che il rumore diventava parola e lei volava, a ripensarci e dire doveva andare così ci puoi pure impazzire, a quel dannato show e quella volta del colpaccio e a quello scherzo che forse lei c’aveva creduto per davvero e che adesso sola a casa non capiva, miseria, che siamo solo uomini e allora siamo materia e allora era pure materia quello là e le mie cosce che gli stringevo attorno alla vita e la moto e tutto il resto, materia, e allora perché era diverso dalle altre cose da non sapere neanche che roba è? quella cosa, quella volta, che volava e il mondo si fermava a guardare che poi mica ti possono dire sei fuori moda, la gente vuole il quiz, lo show chiude, e chiudeva, e lei stirava pur di non pensarci e piangeva lacrime che era come leccare le pietre del mare, hai presente, e stirava e piegava e riponeva e piangeva e lui correva sulla moto chissà dove, con chi, che era libero e prima lo era pure lei e lo pensiamo tutti questo, di essere liberi, perché siamo giovani, perché siamo stupidi, perché è il nostro talento stupido, e Jenny stirava e aspettava, aspettava e la gente non chiedeva più autografi che c’erano altri da amare e tifare, aspettava, e perdeva, pensava, che perdere è quella cosa quando non vinci e nessuno si ricorda più di te che hai volato sulle loro teste e t’hanno additata e adorata e uccisa, in fondo, perché smettere di respirare è soltanto uno dei modi di morire, e piangeva per quella parola rubata e per quello stronzo che la sbatteva sulla moto quando ne aveva voglia lui e per le poesie che fanno un casino di male e quello show, che finché c’era era un fantastico show.

Notte del 1 Dicembre

Ore 03.03 Desiderare d’esser pazzi è da pazzi? Secondo me no perché un pazzo non lo desidererebbe mai. Giacchè il pazzo ha il problema di non “vedere” il “normale”; se sapesse che esiste un “normale” rinuncerebbe immediatamente alla pazzia. È la gente sana a desiderare a volte di essere pazza.


Ore 00.51 Il mio Cane sta morendo. Oddio, veramente sono anni che sta morendo; fa di quelle finte clamorose, ma stavolta mi sa che è vero. Cane ha 17 anni e il cuore gonfio come una zampogna. Il cuore di Cane spinge contro il polmone e lui tossisce a non finire. Hai presente quella tosse tra il secco gratta-gola e il grasso-catarroso? Soffre come un cane. Mi guarda, mi fissa negli occhi ogni volta che lo spasmo della tosse non gli piega il collo e si aspetta che io faccia qualcosa. Mi implora di fare qualcosa. Sente dolore e sa che è vicino alla fine. Perché, voglio dire, quando ci sei così vicino lo capisci. Non sorreggo il suo sguardo, non lo reggo proprio. Mi fa male vederlo così. Mi fa male che la vita si mostri così forte e prepotente in casa mia, tra le pareti che mi dovrebbero proteggere. Mi fa male avere trent’anni e accorgermi di colpo che

perdo i capelli. E perdo il cane. E le certezze del futuro artefatte in un ato che visto dal presente mi mostra il dito medio. Mi fa male. Eppure sono momentaneamente felice. E non è poco per uno come me poter sospendere l’auto controllo della gioia, la censura della felicità che scaturisce dal male degli altri. Il non diritto a sorridere se c’è chi piange. Scusa Cane, ma oggi sono felice. Tu mi guardi mentre te ne stai adagiato sul momento più importante della tua vita e io non riesco a essere triste; non oggi. Mi sento un po’ mostro. Ma è così.


Ore 1.48 Lo spicchio di luna, uno spicchio d’arancia in attesa del suo Martini, era come un’amaca appesa nel cielo.


Ore 05.48 Ho trent’anni. Dovrei accettarlo, lo so. Ma non lo faccio. M’incazzo.

Ora, lo so, molti rideranno, e sono sicuro che hanno le loro ottime ragioni. Ma comunque, il fatto è questo: io non tollero di avere già trent’anni. Già da ora. I trent’anni dovrebbero arrivare quando sai che cosa significano, cioè verso i quaranta o cinquanta. Come anche così dovrebbe essere per i vent’anni ovviamente: io adesso dovrei avere vent’anni, non dieci anni fa. Ora, quelli che ridevano prima, con incontrovertibile logica mi faranno notare che se non li vivi a trent’anni, i trent’anni, a quaranta non potresti sapere cosa significano. Beh, francamente me ne frego di questa logica. Posso scegliere a cosa credere e scelgo di credere che il mio sistema logico si struttura in avvitamento carpiato fino al cuore della verità. E allora è arrivato il momento nella storia di quella verità di essere svelata: io non ho trent’anni Non contate sui dati cosidetti “certi” o “sicuri”, come un archivio dell’anagrafe di stato o le date scritte dietro le foto; queste sono convezioni alle quali scelgo di non credere. Sono le certezze che non voglio. Sì, ci penso a volte alla morte. Chi non ci pensa? E mi scoccia doverne avere paura. Non è mica un’ossessione però ci penso, a volte. In maniera molto vaga… non sto lì a immaginarmi nella bara o accartocciato in un’auto tra le lamiere che abbracciano il guard rail. Penso solo…così…il fatto che prima o poi me ne andrò, e che ogni giorno che a è un po’ prima piuttosto che poi. E allora mi viene da invidiare la prontezza con cui si affrontava la morte in altre epoche: i gladiatori, prima dell’inizio dei giochi, salutavano l’imperatore dicendo “ave Caesar morituri te salutant” (letteralmente: ave Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano) e poi morivano sul serio, mica per scherzo. Ne morivano eccome, e lo sapevano quando salutavano il Cesare che non era uno scherzo; che la frase non era buttata lì tanto per fare bella figura. Promettevano di morire e poi morivano. Non sto parlando di un culto della morte, chi disprezza la vita non la merita neanche. Però ecco, odio l’idea della paura. Vorrei avere il coraggio di un gladiatore e guardarla in faccia la morte. Cercarla no. Sperarla tanto meno. Ma fargli un buffetto e strizzargli l’occhio come si fa a una persona della quale non subiamo il fascino. Prima di imparare a correre ho imparto a camminare. Anzi, per prima cosa ho

imparato a gattonare. Le cose si fanno per gradi diamine. E allora per giustizia dovremmo prima imparare a vivere e poi, solo allora, morire. E invece moriamo che ancora non ci abbiamo capito niente; della vita, di noi stessi, della persona che amiamo. È per questo che non posso tollerare di avere “già” trent’anni, perché sono volati via e non so neanche dove sono finiti. Il tempo si è consumato come sulle giostre, quando metti il gettone e prima che tu possa capire come funziona tocca a quello dietro di te.


Ore 14.16 Stanotte ho dormito per diverse ore di seguito; forse 4 o 5. Sono come caduto con la fronte sul pavimento. Quando sei rintronato e ti rimbalza nella testa una palla matta…poco prima che il buio sia. Ho dormito senza riposo, un sonno svogliato. Il riposo non fa più parte di me. La notte è quello che scrivo per noia e per inspiegabili esigenze dello spirito. Non il riposo, quello no. E quando di notte dormo non scrivo e allora mi ritrovo nel primo pomeriggio a far finta che sia buio e silenzio tutt’attorno a me e provo a buttare giù due righe. Ma non è la stessa cosa. Per la cronaca, poi cane è morto. Già da qualche giorno. L’ho ritrovato teso e immobile, morto. Una pena. Qualche anima bella direbbe “in fondo meglio così, ha smesso di soffrire”, ma ora soffro io. Perché mi mancherà, perché eravamo amici da 17 anni, perché dormivamo insieme tutte le notti; perché non mi capiva – era un cane – ma almeno non fingeva, mi voleva bene.


Ore 01.01 Mi è successa una strana. A pensarci meglio è una cosa normalissima, però mi ha colpito come se fosse una cosa strana. Strano, no? Insomma le cose normali sono quelle che ti aspetti, sono le cose che prevedi e dai per scontate. Se una cosa è normale ma non ci pensi diventa strana. Come se magari uno muore e ci rimane malissimo: ma come, sono morto? Ma veramente? A me nessuno mi aveva avvertito che dovevo morire…sì insomma mi è capitato di vedere altre persone morire…ma..ecco..non ci pensavo. Sembra una differenza da poco, ma infondo è più o meno la differenza che c’è tra un bene e un male. Infatti noi definiamo “male” la privazione di un bene “dovuto”. Mi spiego meglio: tutti noi nasciamo con due occhi, belli e funzionanti. Il senso della vista ci appartiene dalla nascita non è che dobbiamo conquistarlo e dunque lo definiamo un bene dovuto. Per lo stesso motivo definiamo un male nascere ciechi. Se però ci lamentassimo di non riuscire a vedere gli angeli con i nostri occhi allora saremmo dei somari, e anche questo è un male…però è diverso. I nostri occhi infatti non sono strutturati per vedere l’invisibile. Gli angeli li vedono solo pochi santi..e molti somari. ‘Nsomma…se uno non si aspetta una cosa quella cosa risulta strana come se d’un tratto vedesse un angelo che gli chiede da accendere davanti alla stazione. Ecco, ora lo racconto il fatto. Ero su internet e navigavo – si dice ancora così? – sul sito e-bay. Lo conoscono tutti, è quel posto virtuale in cui puoi trovare cose da acquistare. Precisamente qualunque cosa; dall’abbigliamento sexy agli aeroplani telecomandati. Credo sia nato per la vendita di roba usata inizialmente. Ora è il più grosso centro commerciale del mondo. Sono sicuro che in futuro lo doteranno di grafica tridimensionale interattiva, e allora potremo letteralmente camminare all’interno del sito e guardare le vetrine in successione. Presto ci porteremo la famiglia a are la domenica, a ordinare i congelati che ci consegneranno entro tre ore al massimo e magari a guardare un film al cinema. Comunque insomma..ero lì e ad un certo punto mi arriva un messaggio sul telefonino. Lo leggo..e chi era? Il sito

e-bay, anzi il Sig. e-bay, proprio lui, mi scriveva per salutarmi e avvertirmi che avrei potuto usufruire di uno sconto se solo avessi fatto un acquisto nell’arco delle successive tot ore. Ci rimango. Io, ingenuo come un bambino, ho immediatamente pensato: ma che strano…è la prima volta che mi arriva in vita mia un sms da e-bay e va a succedere proprio oggi, mentre sono connesso proprio su quel sito che di solito, tra l’altro, io non frequento quasi mai? E quasi quasi pensai fosse un caso. Dopo un millesimo di secondo dall’aver pensato così, mi accorsi di aver pensato una vaccata. E mi diedi del cretino. È ovvio: e-bay ha un programma che manda sms in automatico agli utenti connessi al sito in quel momento. Il numero evidentemente glie l’ho dato io al momento dell’iscrizione. Sicuramente dopo aver clikkato per sfinimento “Accetto” dopo aver abbandonato, dopo la terza ora di lettura, l’idea di leggere tutto il testo dei “Termini di Contratto”, nel quale ovviamente, magari in fondo, c’era scritto che il Sig. e-bay ha la facoltà di mandarmi pubblicità sul cellulare. Non è mica per la pubblicità – anche se in visione futura ci conviene sin da ora starne alla larga – ma per il fatto che mi sono sentito “toccato”. Scovato. Il Sig. Internet non si è limitato a starsene lì, pavone e ivo, a farsi guardare da miliardi di persone. No, lui è venuto dentro casa mia, ha fatto squillare il mio cellulare, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: lo so che tu sei lì. Ti vedo. Ti osservo. E in quell’attimo la cosa non mi è piaciuta per niente. Mi è venuto da pensare al Grande Fratello di Orwell nel suo 1984. Il grande occhio. Sono esagerato di sicuro. Ma anche no. Sicuramente sì. Ora però non pensate che io sia il nuovo Theodore Kaczynski, io Internet l’adoro. La tecnologia mi eccita, fisicamente. Al contrario di una donna però la tecnologia non devo per forza averla per trarne godimento: mi piace pensare che esiste, che è lì tutta fiera di quanto sia bella e nuova e di come le rivolgiamo i nostri sguardi pieni di stupore e persino gratitudine e lussuria. Perché noi siamo lussuriosi di fronte alla tecnologia. Le sbaviamo dietro. Una ione feticista. Mi scoccia che le innovazioni non siano davvero al servizio della qualità della vita e della nostra comprensione della vita stessa, sono invece al servizio dell’utile di mercato che per vendercele meglio creano il “feticcio”, ossia tutti quei design accattivanti e quelle laccature che ci arrapano così tanto.


Ore 04.04 GUERRA DEI ERI

Nel 1958, in Cina, si tenne l’VIII congresso del partito comunista. In tale circostanza il leader indiscusso della Cina e del partito, il grande timoniere, Mao, dichiarò guerra ai cosiddetti ‘quattro flagelli’: ratti, mosche, zanzare e…eri! L’intento era eliminare quegli animali ritenuti infestanti. Se è facile intuire perché ratti, zanzare e mosche possano generare ostilità, il caso dei eri necessita di qualche spiegazione. Il 1958 fu l’anno del ”grande balzo in avanti”, un piano per la crescita economica che, al contrario del modello sovietico basato sull’industria pesante, concentrava i propri sforzi su agricoltura e piccola industria rurale. Dal momento che le rese agricole erano scarse, e considerato che il partito non poteva naturalmente ammettere di aver sbagliato qualcosa, era evidente l’esistenza dell’ennesimo ‘nemico del popolo’, una creatura terribile e famelica che impediva la realizzazione del piano. Questo nemico fu identificato proprio nel ero, colpevole di sottrarre riso e grano all’agricoltura. E dunque gli fu dichiarata guerra. Come sempre, la cosa venne presa molto sul serio. Un giornale di Shanghai titolava, il 13 dicembre 1958: “Tutta la città è all’attacco dei eri”. L’articolo precisava: “La mattina presto la battaglia cittadina per distruggere i eri è iniziata. In strade grandi e strette sventolavano bandiere rosse. Spaventaeri sono apparsi sui palazzi, nei cortili, in spazi aperti, su strade e nei campi. Sentinelle, studenti delle medie e delle elementari, impiegati del governo, operai delle fabbriche, contadini e soldati dell’esercito popolare gridavano i propri urli di guerra. Nella città e in periferia quasi metà della forza lavoro cittadina è stata mobilitata per l’esercito anti-eri”. Alla fine della campagna contro i eri, almeno otto milioni di uccelli furono sterminati. Le campagne erano finalmente silenziose. Mao avevano vinto un’altra guerra. Non contro i capitalisti, questa volta, ma contro i piccoli nemici svolazzanti. Purtroppo, però, la vittoria del partito si rivelò una catastrofe di dimensioni epiche: i eri, certo, non avrebbero più rubato riso e grano, ma non avrebbero nemmeno fermato il proliferare di animali voraci come locuste e cavallette di cui, solitamente, è nemico naturale. Questi famelici insetti, molto più difficili da sterminare dei eri, si moltiplicarono senza ostacoli e crearono, loro sì, dei serissimi problemi all’agricoltura. Nella carestia che seguì morirono

probabilmente circa trenta milioni di cinesi!


Ore 04.00 A volte hai l’impressione di stare dalla parte sbagliata della cattedra. A volte succede. Sia da una parte che dall’altra, dico. Sapere e tacere è un narcisistico piacere che a volte ci concediamo. Non sapere e parlare è una delle migliori descrizioni dell’uomo.

Ore 04.55 Se prima non ci rendiamo conto di essere un misto di amore e di odio, un misto di maturità ed infantilismo, di pusillanimità e coraggio; non potremo mai avere un vero rapporto con noi stessi e con gli altri. La promiscuità umana è una cosa meravigliosa: Dio ci ha dato dei talenti per metterci alla prova e ci ha fornito al contempo delle debolezze, che sono le nostre attenuanti. Il fatto di abitare in un corpo fatto di materia è già di per sé insostenibile. Mi piacerebbe, a volte, sfilarlo via e lasciarlo nell’armadio come uno qualunque dei vestiti che puoi scegliere di mettere o meno.


Ore 02.03 Dell’avere sogni l’aspetto più bello risiede nel fatto che non li possiamo scegliere.

Descrivere le nostre esperienze e i nostri sentimenti, quelli che più profondamente ci hanno turbato, significa solitamente descrivere i loro ricordi. Una loro versione più matura, vedi anche stagionata, non per questo meno genuina. Bisogna che i un respiro profondo tra la percezione di un’emozione e la sua metabolizzazione. Come quando il vento gelido t’inchioda in un brivido, che se prima non a non hai neanche la forza di dire ‘fa freddo’! Altro fatto è che i ricordi si confondono con le nostre paure, le nostre incertezze, le nostre speranze, le nostre idealizzazioni. Quello che pensiamo di provare è dunque un’evoluzione, da noi elaborata, di ciò che abbiamo effettivamente provato in origine e che si amalgama con tutto quello che conosciamo di noi stessi. È per questo motivo che l’amore, contemporaneamente, ci fa scoppiare il cuore dall’emozione, gonfiare il petto d’orgoglio, tremare le gambe dall’incertezza, fischiettare motivi scemi. C’è tutto dentro. Tutto di noi.


Ore 01.26 Forse ci sono troppe parole che non conosco. Forse bisogna ancora inventarle. E neanche dirle, magari. Come fossero odori: particelle di significato che si staccano da un concetto e ti si infilano nel naso per arrivare dritte al cervello. Solo allora potremo dire tutto.

Ore 02.33 Amici: Battere mani e denti dal freddo, saltellare sul posto e brividi e continuare a

ridere, raccontare, ascoltarsi e tacere, intuire e prendersi in giro; davanti ad un portone chiuso. È tardi. Domani si lavora. Fa freddo davvero. E ti rimbocchi la sciarpa e continui a ridere ed è tardi sul serio. E non puoi andare via senza aver prima raccontato…aver ascoltato…oppure ti ricordi quella volta? E uno c’ha una teoria strana, e ridere…ma senti che cosa mi è successo oggi…ah, ora ho capito. Il tempo corre, ragazzi andiamo? Ma sì…aspetta, mi fumo una sigaretta.

Titolo: # Silver Foil (Psichedelicarredamento)# No testimoni di Geova, no new-age, no calzini bianchi, no finocchi, no controtendenza, no intellettuali, no filo-nazisti, no ebrei, no occhialuti, no gonne sotto il ginocchio, no protesi dentali, no grunge, no sognatori, no falliti, no scarpe da tennis, no zampa d’elefante, no farfalloni, no ciglia finte, no pentiti, no depilati, no gelatina sui capelli, no volontariato, no camice a fiori, no sindacati. C’era la coda, lunga, da fare. E cappotti stretti sotto il mento da mani arrossate dal freddo di quel sabato sera che si prospettava come ogni altro sabato sera. C’era la coda, e la coda era un bruco di gente che si salutava e spingeva e diceva che faffreddo. E il bruco era infilato colla testa nella porta d’ingresso del SilverFoil, il più in, il locale più esclusivo di tutti, che dovevi essere a posto insomma. C’era la coda e la coda era un brucone carnoso multicolore che si muoveva come si muovono sempre i bruchi, ammassandosi al centro e spingendo verso la testa, per entrare, per ballare, per esserci. Anche loro; in quel sabato sera schifoso, un po’ acido, che era così, giusto per distrarsi e non pensare troppo a quel mostro che si lasciavano alle spalle, entrando, che li sbranava e li confondeva e li giudicava. Erano sicuri di sé, al riparo dai problemi quotidiani che ti uccidono, in quel bruco che erano loro sul serio e non come la fila alle poste che era mostro pure quello, ed erano quasi contenti di essere lì, ubriachi o strafatti o che. Una battuta, una cosa qualunque che faceva ridere e dal bruco viene fuori una risata grassa da fornaio e la gente si girava a guardare spaventata o che, e neanche girarsi sul serio ma piuttosto girare gl’occhi fin dove è possibile e spiare che cacchio succede? Mica si può fare, dicevano. Non si poteva fare. Un buttafuori, bestione pelato con auricolare, fa due i e alza il braccio, al termine del quale c’è il dito indice teso in avanti che prende la mira e azzecca il bersaglio, come da copione, e quello disse: - ok, tu, boy, fuori dalla fila. – ma no, dai, Mister, aspetta. – fuori ho detto, non vogliamo piantagrane. Sul cartello

appeso all’ingresso, infatti, c’era anche scritto: no risate grasse, no manifestazioni di gioia, no butterati. E quello era pure un po’ butterato. Era il regolamento, era in. Era esclusivo. Era il Silver-Foil. Pettinature shocking, calze shocking, pupille rigirate e bianco degl’occhi e acido lisergico e tutti contenti come le vacche nel mattatoio, in fila, colle mani gelate e i denti freddi e la voce dal megafono che continuava: non spingete, piano, non date confidenza agl’estranei, lasciate a casa i sogni, siete solo giocattoli, tornate nella vostra scatola, Siiiiilver-Foil! E quelli ubbidivano. Perché era sabato, e come si dice…il peggio sembra essere ato, e allora vai, a divertirti e far casino. C’era uno che gli scappava da mezz’ora e non potendone proprio più se ne stava colle mani a stringersi in mezzo alle gambe e faceva ridere gli amici, che bastava semplicemente non esagerare, in fondo non erano cattivi; non è che non potevi ridere e divertirti, ma non esagerare ecco, era pure giusto, se tutti facevano quello che volevano allora, che cacchio. Si chiamava Tommy-boy e gli scappava da pisciare. E ci sta sempre quello che vuole fare lo splendido e farsi notare, e uscire dai ranghi per così dire. – oh, io la faccio. – Tommy-boy non fare il cretino, siamo quasi entrati. – ci sentite boys? Mi scappa; la faccio. – fai come vuoi Tommybello. ‘zzi tuoi dopo. E quello mise un piede fuori dal bruco e prese a farla, coperto dalla luce che non c’era, sghignazzando ce la faccio, non mi beccano. E forse non lo beccavano veramente se non era per quella stronza, in fondo poverina non era mai riuscita ad entrare, presa male a marijuana che cominciò a starnazzare: Mister, Mister, pisciano! E tutto il bruco si girò stavolta, che era talmente grave da rischiare addirittura, pur di guardare. E Tommy-boy che cercava invano di rimettere tutto dentro e si sporcò tutte le scarpe, che già solo per questo addio serata, e non era mica solo questo. E dalla cassa si mosse il Mister, non uno qualunque ma Mister-1, che era il più cattivo di tutti i Mister, e mentre camminava era chiaro che stavolta era grave sul serio, e Tommy-boy se la faceva sotto nel vero senso della parola e si sbrodolava i pantaloni e diventava piccolo così, mentre Mister-1 faceva tremare l’asfalto coi i della giustizia che sopraggiunge. Sul cartello c’era anche scritto: no piscioni. E diceva già tutto, ma per sicurezza c’era anche scritto: no scarpe schizzate d’urina e no pantaloni impataccati e no piedi fuori dalla fila e no risvolti all’infuori. E quello c’aveva pure i risvolti all’infuori. Mister-1 lo prese dal colletto e lo trascinò di forza verso la cassa mentre Tommy-boy implorava e frignava che non voleva mancare di rispetto a nessuno, Mister, che infondo che cos’era mai e che se lo lasciava andare lui correva a casa e non si faceva vedere più, giuro. – troppo facile, boy.

Troppo facile. – la prego Mister. E piangeva come un vitellino e aveva paura mentre quello lo prendeva a schiaffi e gli tirava i capelli e gli gridava nell’orecchio se sapeva leggere e se credeva che lui, Mister-1, era un cretino o che? – no Mister, no. E sberle e cazzotti e il bruco si chiudeva gl’occhi quando Tommy-boy perdeva sangue e denti e quello continuava a pestarlo fino a che le preghiere e suppliche diventavano gorgoglii e calci nello stomaco. E poi, che era giusto lo pensavano un po’ tutti. Persino Sammy-boy che era un vero amico. Tommy ha fatto lo scemo. C’era un regolamento. Era in. Giusto così. Mister-2 afferrò il ragazzo da sotto le ascelle e lo portò con sé oltre la porta nera. A volte qualcuno era entrato da quella porta. Nessuno era mai tornato fuori. Mister-1 si girò sui tacchi e tornò verso il bruco e chiese chi era la girl che aveva strillato? E Nina-girl sapeva benissimo che era inutile mentire, che qualcuno avrebbe parlato comunque e così si fece coraggio e disse: sono stata io. – ok, fuori dalla fila. Sul cartello, infatti, c’era anche scritto: no spioni e no presi male a marijuana. E il bruco era un viscido rifugio, era stare fermi ma era anche avere un obiettivo e avere un obiettivo era anche camminare in un certo senso, muoversi nella serata che era già iniziata, con circospezione e timore e senz’altro. L’altoparlante continuava a parlare di abbandonare le speranze e voi siete piccoli uomini e piccole donne e noi siamo il Siiiilver-Foil e vi faremo ballare e divertire e vi uccideremo se necessario perché, diceva l’altoparlante, loro lo sapevano che cosa serve ai giovani: regole, costanza, esempi. Qualcuno veniva pizzicato e sbattuto fuori dal partecipare a quelle cose che ti fanno sentire al centro di te stesso, che era il locale giusto e la moda che ti accarezza e uno c’ha bisogno di queste cose, di sentirsele addosso, intorno, perché è lì che germoglia la novità e la vita come si deve e tutti si muovono come sagome di cartone che l’anima l’hai lasciata fuori, a che serve? L’anima è una cosa spaventosa e fa male, un mal di pancia lungo tutta la vita, come l’amore e quelle storie sull’essere responsabili e dovere, sempre dovere, senza sosta e non capirci un bel niente del perché. Era così complicato avere un’anima e il grande bruco lo sapeva e l’avrebbe lasciata fuori o anche data in pagamento per il biglietto, per un giro sulla giostra matta, per essere sagome di cartone col sorriso e il sudore disegnati; e l’avrebbero data in pasto al primo che avesse saputo cosa farne. E si sarebbe nutrito, il bruco, di quella foglia d’argento, fin quando ce n’era. Che almeno era uno scambio, io do una cosa a te tu dai una cosa a me, ed era già molto perché al mondo tutto li voleva per sé senza nulla

dare. Poi era inverno e col freddo era tutto più grigio, sembrava un’enorme boccata di sigaretta. D’inverno la gente non guarda quasi mai il cielo. Guardano tutti a terra, misurando con gl’occhi i i brevi e rapidi del freddo. D’inverno il cielo fa paura. Il grandecielo che sembra ti possa far piovere addosso goccioloni di vernice grigia o scaglie d’argento o schegge di specchio. E si guarda a terra, dagl’occhi che fanno capolino tra sciarpe e cappelli; e c’è il calore della paura sotto quei cappelli o dietro quei cappotti o nelle macchine che ano coi vetri appannati, e proprietà privata ovunque, roba tua e di nessun altro. Che fa freddo e non ci sei per nessuno. L’inverno è la pigrizia della terra, il coprifuoco dell’umanità, una corsa a casa. Pensare quando non ne hai voglia. E mani rosse e cristallo nell’occhio. La sorpresa che ammutolisce. E quell’altoparlante che continuava, siete giocattoli, rientrate nella vostra scatola. Altri riuscivano ad entrare, ed era l’invidia. avano alla cassa, lasciavano sogni e speranze che valevano quanto una serata e ne ottenevano l’aprirsi della porta e un paio di consumazioni. Si fregavano le mani, saltellavano compostamente e varcavano la soglia della libertà tiranna. Schiavi di quella libertà artefatta e quindi non liberi, stringevano i gomiti gli uni contro gli altri e s’incastravano sulla porta per la fretta e finalmente esplodevano nel locale. Dov’era musica e fumo e luci e immagini rubate ai cartoni animati e volti tirati dai giudizi attesi e ritmo e ascelle sudate. Una bomboniera da funerale. Uomini e donne. Secchi vuoti che attingevano alla disperata al pozzo dei desideri rubati. E avevano tutto quello che volevano: ni-ente ed un timbro con un numero sul braccio: essere prevede una responsabilità. L’incessante ripetizione di colpi regolari combinati con i ritmi sincopati produceva sul loro organismo una ripercussione biopsicologica. Il beat accelerava i loro battiti cardiaci e aumentava il tasso d’adrenalina. Il beat provocava in loro un’eccitazione sessuale fino ai limiti dell’orgasmo. Il beat faceva promesse. Una frequenza ultrasonica stimolava i loro cervelli producendo una reazione equivalente ad un’iniezione di morfina che li spalmava d’uno strano benessere e attivava una distorsione nei loro processi percettivi. Lo stroboscopio emetteva luce intermittente rallentando le movenze di quegl’oggetti animati da rapidi movimenti. La veloce alternanza di luce e di tenebre indeboliva il loro senso dell’orientamento, del giudizio e i riflessi. Il ciclo dell’alternanza portato a 8 interruzioni al secondo gli rubava la percezione della profondità. Quando il ciclo dell’alternanza fu elevato a 25 interruzioni al secondo, sprazzi luminosi crearono un’interferenza con le onde alfa del cervello che controllano

la capacità di concentrazione. L’altoparlante interrompeva la musica per dire, siete solo pecore e noi siamo i pastori, noi dirigiamo il mondo, noi vi scegliamo, questo è il centro energetico della nuova cultura, Siiiilver-Foil! E i boys e le girls applaudivano e apprezzavano. E l’altoparlante diceva noi vi uccideremo e quelli applaudivano e apprezzavano. Noi schiacceremo la vostra volontà, applausi e salti e…gioia senza vita dentro. Esseri invertebrati e filiformi si muovevano con la sinuosità delle meduse nel mare. Esseri massicci e coi peli arrampicati su per il petto si muovevano con i goffi, plastici scatti delle galline. L’adrenocromo schizzava alle stelle deformando la qualità delle loro coscienze e gettando luce su problemi antichissimi ed insoluti come il posto della mente nella natura e il rapporto tra cervello e coscienza. Era tutto chiaro: le bugie del mondo, la schizofrenia delle masse umane al supermercato – ballando, ballando –, che siamo tutti soli là fuori, come i martiri nell’arena – danzando, danzando –, che l’amore è quel disperato tentativo di fondere due estasi isolate ed ingiustificate in una singola autotrascendenza – colle braccia al cielo –, che uno spirito incarnato è condannato a soffrire in solitudine - colle gambe leggere –, che non saprò mai cosa vuol dire essere chi ho affianco – giù in pista –, che siamo idee di seconda mano. Tutti i concetti, chiari, lucidi, si muovevano nell’aria e li potevi respirare; tutte quelle geometrie colorate e impensabili architetture erano costantemente ad un o dall’estrema rivelazione. In quel momento una rosa sbocciava in un prato e qualcuno l’avrebbe spezzata o calpestata. In quel momento le loro anime vagavano ubriache per le vie del mondo. Ma loro erano al sicuro, nella ragnatela psichedelica delle idee sintetizzate in laboratorio, in quel mondo in provetta, in quel doppio fondo segreto della valigia dei viaggi senza senso. Era un odore iniettato sotto pelle. Nulla diveniva, semplicemente era. Niente a che vedere coll’universo obiettivo che gli avevano insegnato per anni; che bisognava essere in un certo modo e fare certe cose e al momento giusto e avere pazienza e fede. Perché è così che si è sempre fatto, giovanotto. E quella danza di luci dorate? E tutte quelle cose che vedi tenendo gli occhi chiusi? Noi siamo la verità, diceva l’altoparlante, il mondo ha paura di noi; siete solo giocattoli, vite scopiazzate, esistenze rimediate. Noi vi annienteremo, Siiiiiilver-Foil! Mentre il pavimento ondeggiava come un tappeto e tutti sorridevano dentro e i

movimenti creavano strascichi di energia dal colore brillante che sfumavano in forme sfuggenti, che si fondevano le une alle altre trasformandosi nuovamente pur senza divenire qualcosa di diverso, e poi tornando ad essere il movimento di un braccio, una testa o flutti di capelli. Ed era ordine o metodico e ponderato caos. Era la forma naturale delle cose. Era tornare al liquido amniotico. Era dormire, cullati. Sammy-boy tirava lo spino dalle labbra, lasciava il fumo armeggiare dentro di sé e poi lo soffiava via. Poi la stessa operazione, ancora; mentre non smetteva di muovere le gambe e le braccia e tirare fumo e sputarlo fuori e mentre qualcuno diceva: boy, falla are. E lui allora allungava la mano verso la voce e gocce di sudore proseguivano il movimento, da dove la mano si fermava in poi, andando a sbattere contro i fasci di luce colorata del locale. O della sua mente. Perché non c’era differenza lì, e questo era il bello. – siete solo arredamento, uomini! Faceva l’altoparlante. Ed è questo che intendeva dire. In un angolo due Mister pestavano un meschinello chissà per cosa, e quello perdeva sangue che era un piacere e giù calci in faccia. Sammy-boy guardava la scena e negl’occhi quel tipo che prendeva calci ovunque e continuava a sorridere, fatto di brutto, e a dire mamma ancora dieci minuti, è presto; e si domandava se era vero o lo stesse immaginando, che in fondo era solo arredamento quello che usciva dalla loro testa, questo era il punto importante. Inventato o no erano loro, non era una bugia, erano loro. Quei colori e odori e immagini e quella girl che gli leccava il braccio a occhi chiusi. E quelle porte che si aprivano su cose migliori. E quella Madonna che piangeva lacrime rosse. Perché piangi Madonnina? Il meschinello a terra non sorrideva più, non guardava niente, non respirava. E Sammy-boy chiedeva indietro il suo spino. Nel bagno Mamma-girl si faceva un tipo. La chiamavano così perché era vecchia. Un boy rannicchiato sul pavimento piangeva perché le giraffe gli tiravano i capelli, e si sporcava di urina e sicuro si cacciava in un guaio se lo trovavano così. Mamma-girl affondava le unghie nella schiena e tratteneva con le gambe e gettava la testa all’indietro e diceva di checcacchio di giraffe parli, boy? E lui piangeva che era disperato e che, non lo capisci? Ci stanno fregando. Ci fottono il cervello con questa musica e le luci e io ho paura di non uscirne vivo. E Mamma-girl lo fissava con la bocca aperta, ansimante, e il trucco che scolava e quasi provava qualcosa per lui e gli diceva di quali santissime giraffe parli? E lui singhiozzava che, non capisci? Io faccio il meccanico, ho un lavoro e che ci faccio a terra in mezzo al piscio; ci stanno uccidendo, non lo vedi? E

Mamma-girl arrivava all’apice e stringeva forte forte gl’occhi e le gambe attorno al tipo e spalancava la bocca in un gemito e diceva eccole. Le giraffe. Le vedo anch’io. Già, le giraffe. L’altoparlante chiamava un numero e quel numero corrispondeva ad un braccio, cioè ad uno di loro. Glieli avevano timbrati addosso all’entrata. Quando ti chiamavano tu andavi dal Mister più vicino. Numero 556, ripeto 5-5-6. E il cinquecinquesei andava e diceva sono io. E lo portavano da qualche parte. Sammy-boy era sbracato suna poltroncina e fumava lentamente. Gli veniva da vomitare. Uno affianco a lui masticava un fungo secco da mezz’ora e a volte lo abbracciava e gli voleva per forza ridare dei soldi per non so che. Sammy, scocciato, lo allontanava e gli dava pure qualche sberla e gli diceva di piantarla. Vedi amico, tu mi piaci. Come hai detto che ti chiami? Ti inviterò al mio matrimonio e voterò per te alle prossime elezioni e saremo vicini di casa e potrai venire quando vuoi per il sale o la farina. Tu mi piaci e ti ridarò fino all’ultimo centesimo. – Non mi devi dei soldi, piantala, non starmi addosso. Numero 431, ripeto 4-3-1. Mamma-girl correva in sala con il seno al vento. Il seno di Mamma-girl saltellava per la sala. La sala era un prato pieno di rose che nessuno poteva spezzare o calpestare. E odore di muschio e natura bagnata. Mamma guardava e viveva, e in un certo senso era, è appropriato dire, quelle rose e quei profumi – era nuovamente sbocciare -, quei colori brillanti: a volte inevitabili prosecuzioni di un senso inequivocabilmente e stupidamente e magnificamente umano, a volte vivacemente dissonanti da qualunque possibile evocazione mnemonica o immaginifica. Non era godere della bellezza propria di ciò che è bello. Era reinventare daccapo la propria struttura di pensiero circa la rosa, in quanto alito di bellezza totale. Era la sorpresa alla quale non sei preparato. Era Adamo, la mattina della sua creazione, che guarda la rosa per la prima volta e subisce l’urlo della nudità del miracolo del creato. Era la sua mente. Una cosa così profondamente personale, così a fondo innestata, da non poterne avere più che una flebile intuizione; che pur bastava a cadere lunga a terra, a far sorriso di quell’umido contatto sul seno e sul ventre. Mamma-girl, con le labbra e il naso e le guance, a occhi chiusi, accarezzava quelle entità mistiche fluorescenti; e poi guardandole, ancora, vide ciò che, inopportuno, fuori luogo, sconveniente, era

materia costitutiva della vita: il respiro delle rose. O quantomeno un suo equivalente qualitativo. E non c’era niente di circolare in quel respiro; non c’era ritorno; non c’erano riflussi. Era un unico flusso costante, ripetuto, dalla bellezza a una bellezza più alta, più profonda, meno comprensibile. Più commovente. Era arredamento. Numero 68, ripeto 6-8. E quello andava. Numero 164, scattare. C’era un tipo che aveva la testa infilata nella pancia di un vitello e ne mangiava le interiora. Un Mister calpestava la faccia di un boy e lo sgridava. Sammy era in pista, vedeva una ragazza correre a seno scoperto e poi abbassarsi a terra e sorridere e pensava chissà se è vero. Sammy ballava tra le prospettive ingannevoli dell’arredamento. Le pareti della stanza non sembravano più incontrarsi negl’angoli giusti. Le geometrie circostanti si aprivano e si chiudevano senza apparente logica, andandosi ad intersecare con linee e spigoli e situazioni di cui erano la prosecuzione meno adatta. Eppure nulla si trasformava veramente o veramente si muoveva, semplicemente era, ora in quella forma ora in quel colore. I rapporti di spazio avevano cessato di avere un peso fondamentale nei giudizi e la sua mente percepiva il mondo in termini diversi dalle categorie di spazio e distanza. Tutte e cose splendeva di luce viva e non era importante stabilire le loro distanze. Le tre dimensioni si fondevano in un ordine unico e relativo che si piegava e si deformava seguendo, anzi anticipando, forse imponendo, i moti cerebrali. La categoria di spazio, però, non era stata abolita e Sammy-boy ci poteva ballare e saltare: lo spazio era sempre là, aveva solo cessato di predominare. E con l’indifferenza per lo spazio venne un’indifferenza ancor più completa per il tempo: sembrava essercene in gran quantità. I concetti di ato e di futuro erano stati aboliti a favore di un presente eterno che era per questo, molto più semplicemente, un sempre. E si articolava in una continua mutevolezza statica, un eterno equilibrio che non prevedeva inizio e fine, ma solo un continuum di concetti che rompevano lo schema del compromesso dei significati umani. Un presempre in cui non aveva senso la distinzione tra oggetto e soggetto. E Sammy-boy ballava, saltando con lo sguardo da pezzo d’arredamento all’altro, da una figura umana ad un tavolino alle piastrelle del pavimento, contemplandone le composizioni; il suo tattile sguardo scivolava su

quei tessuti di esistenza che si amalgamavano in un unica essenza, senza percepire diversità tra se stesso ed il resto. Poiché lui era quelle piastrelle e la loro levigatezza, il loro colore, il loro scopo. E neanche davvero lui, perché Sammy non era veramente implicato nella questione, né in un certo senso lo erano le piastrelle. Meglio dire che il non-lui era nel non-lui che era nelle piastrelle o nelle gambe del tavolino. Ad un tratto qualcosa di liquido lo colpì ripetutamente sulla testa, qualcosa di colloso e denso, come olio ma più attaccaticcio; erano gocce e gli imbrattavano i capelli e i vestiti. Erano pioggia in una stanza chiusa. Arredamento che ti piove addosso. Sammy-boy si ò le mani tra i capelli ed erano zuppi e sorrise con un moto di commozione. Era fermo ora, con le mani sulla faccia e poi sul cuore e la sorpresa negl’occhi, comunque, nonostante fosse lui stesso la sorpresa, e pensò che era strano anche questo sorprendersi e che in fondo era un dono del quale aveva voglia di ringraziare qualcuno. Alzò lo sguardo verso il cielo, perché è così che naturalmente si reagisce di fronte all’incanto, e guardò dritte negl’occhi quelle stille perfettiformi che non erano altro che lo sgocciolare del soffitto. Gocce di materia al rallentatore che nascevano come piccoli bozzi sulla volta di cemento, come piccole uova messe al mondo senza amore, e si staccavano al momento giusto – sono i tempi della natura – per precipitargli in faccia e infrangersi in altre piccole entità d’arredo. Qualunque cosa avrebbe potuto avere qualunque forma e manifestarsi in tutti i modi immaginabili, anche quelli che ti sorprendono quando sei tu a crearli, ed era chiaramente, se qualcuno avesse avuto motivo di dargli un nome, la consapevolezza del tutto; un concetto che per la natura che le è propria a sua volta ti colpisce a gocce. E quello di nuovo a ballare sotto la pioggia, evocazione del sentimento del sentito dire, del visto fare, dell’imparaticcio, del cinematografico. Ballare nudo sotto la pioggia che era l’invertimento di una realtà che gli balenava ora nella mente: quelle gocce erano le sue lacrime non piante e le parole non dette che gli ricadevano addosso direttamente da una dimensione abortita chiamata ato. E non c’era più verso ora, nella corsa di quegli spermatozoi impazziti, che come lo colpivano in viso altrettanto nascevano dai suoi occhi per sgocciolare verso l’alto e andare a fondersi in quella materia, quella dimensione, quel tutto, quel niente. E il sorriso cessò. Delusione, rimpianto. Tristezza che soffoca. La delusione è quando ti si spezza qualcosa dentro. Numero 222, ripeto 2-2-2. Faceva l’altoparlante, e ormai quelli rimasti in pista non erano molti.

Mamma-girl non aveva più le sue rose. Mamma-girl era un moto disperato nella sala, la manifestazione del suo autolesionismo. Mamma-girl era una reazione chimica chiamata delusione ottica. Chiunque può scegliere come farsi del male e lei aveva scelto di uccidere le sue rose. Le aveva annerite e bruciate e adesso cercava il colpevole. Frustrazione e disincanto. Odiarsi. E il moto disperato, con gli occhi asciutti e secchi come sassi e sgranati come sbadigli, formava traiettorie angolari simili al volo delle mosche o alla madre che ha perduto il suo bambino, vorticando, col cuore in tumulto, lasciandosi dietro una scia di capelli strappati. Piangendo granelli di sabbia. E sputando cosa avete fatto alle mie rose? Le mie rose. Fatte di plastica e di mente che erano la cosa più bella che mi fosse mai accaduta. Tu le hai viste mai? Le rose fatte di luce? E la gente in sala era sempre meno; l’altoparlante li chiamava e quelli andavano, disciplinati come vacche. E Mamma cadeva in ginocchio e si rialzava, sempre a bocca spalancata e con un urlo strozzato in gola, un urlo senza voce, che di umano aveva solo la parvenza. E la gente in sala pareva avere dimestichezza col proprio corpo e ballava con fare sofisticato e sembravano avere tutti al posto della faccia una colata di cera, senza vere espressioni esterne ma con pensieri impensabili nella testa che erano il corrucciare della fronte o lo sgranare degli occhi o un sorriso, di un viso che avevano dentro senza rendersene conto. Ed erano pochi ormai a muoversi in pista, ognuno irrimediabilmente solo, come rinchiuso in una bolla di sapone, ognuno di loro a non conoscere e non sapere ed ignorare, se stessi se possibile e il dolore di una donna che ha perso la bellezza dei fiori e di un uomo che ha perso parole e lacrime nel ato che non torna più. Ognuno a – e l’altoparlante li chiamava – ballare la miusic, farsi di miusic, provare emozioni. E le emozioni sono castelli invisibili, parole intraducibili della solitudine. - Sono solo suoni. * Cosa sono suoni? E Mamma-girl lo guardava senza guardargli gli occhi. Gli fissava il mento. – Tutto è solo un suono. * La musica? - Quello che provo. La musica. Il mondo. La vita. E Sammy-boy si asciugava le lacrime e rispondeva in che senso? Non capisco.

- Le uniche cose vere avvengono dentro di noi e non le possiamo raccontare a nessuno, capisci? Ho ucciso le mie rose, capisci? * No. - Le mie parole. Sono suoni. * Sei bellissima. - Avevo un prato bellissimo. C’è tanto rumore intorno a me. Anche io, cosa sono? Rumore. * Come dici? - Rumore. * Magari potrei amarti. - L’amore è solo un suono. E lui la baciò. Un bacio tenero come un bambino. Spontaneo come uno starnuto. Aspro come uva di luglio. E il bacio è il più dolce dei silenzi. E come tutte le cose che avvengono in silenzio è vero, o almeno mente bene. - Grazie. * Non basta essere rosa per fiorire: ci vogliono l’acqua, l’aria, la luce…l’amore. Le ho viste prima le tue rose, erano belle. Tu sei più bella. - Quel bacio…non ha fatto nessun rumore. * È successo dentro di te. - Mi ami davvero? * Credo di sì. E il Silver-foil era una scatola di cartone che si apriva all’improvviso. Le pareti scorrevano all’indietro fino a sparire, come a teatro quando c’è il cambio di scena e dove prima c’era un muro ora c’è il mare. La corda giusta tirata, un pannello che scorre sun binario e ti ritrovi sulla luna. Arredamento che scappa

via. In silenzio. E il Silver-foil era un intrico di carrucole e corde e chiodi e braccia da lavoro. Pannelli che si alzavano di colpo, silenziosi, precisi, inaspettati come il destino. Movimenti complicati solo prima di avvenire. - Sarà vero? * Cos’importa? L’arredamento che si apre attorno a due ragazzi abbracciati e che quando si richiude, quelli sono seduti al tavolino di un bar. Hai presente le cose strane che avvengono ai quei tavolini, quando due si conoscono e timidamente si innamorano? E parlano a loro, di loro, magari sinceri per davvero, e sorridono un po’ impacciati e incuriositi da quell’assenza di rumore che fanno le parole. Lascia, pago io. E già la scena cambia – sarà vero? – e sono per la strada a eggiare sotto braccio, sotto la pioggia, sotto il cielo disegnato sun pannello di compensato. Azzurro come non lo vedi mai. Che scorre via in un attimo e diventa il nero del cielo di notte, con quelle piccole tremolanti luci da presepio che però se le guardi da lontano sembrano stelle veramente. E i due ragazzi sono abbracciati sotto quelle stelle, appoggiati ad una casa che ha solo il davanti e si baciano, con le lingue che si cercano e si trovano e poi si staccano per guardarsi con quello sguardo pieno di promesse. Sotto un cielo finto. Appoggiati ad un muro di legno, che fanno appena in tempo a scostarsi che quello viene portato via e diventa uno sfondo di mare, sun terrazzo, in un ristorante, seduti ancora, a guardarsi negl’occhi ancora. E lui a fare lo scemo con un pezzo di verdura attaccato al labbro e lei che gli diceva di pulirsi, che era sporco. E lui a fare ma di quale pezzo di verdura parli, amore? E lei a dire piantala. E lui con quell’enorme pezzo di verdura sempre attaccato a dire che non sapeva davvero di cosa stesse parlando. E la faceva ridere come nessun altro. E lei l’amava. Su quel terrazzo o al cambio scena che diventava una stanza da letto e diventava loro due abbracciati sul letto a dirsi ti amo. Ti amo anch’io. E, ogni alito di vento mi sussurra il tuo nome. E, mi sembra di averti sempre amato. E, ti prego amore fai piano. E facevano l’amore con dolcezza come uno non osa neanche immaginarlo. Nel loro mondo scorrevole, fatto di binari e corde, senza aspettarsi applausi. Nel loro arredamento mutevole fatto di intenzioni e sogni. - Non mi lascerai mai sola, vero? * Non sarai più sola. - Sarai il mio silenzio? * Sarò il tuo silenzio. - Sarai quello che gli altri non possono capire? * Sarò quello

che non si può dire. Mentre volavano veloci suna macchina decappottabile e un grosso ventilatore fingeva il vento che gli scombinava i capelli, e pannelli dipinti di scene bucoliche venivano calati sullo sfondo e l’amore sembrava non poter finire mai. E il Silver-foil era una scatola di freddo acciaio, imibile come l’onore, e guardava due ragazzi sudati al centro pista. Ed erano gli ultimi due. E l’altoparlante chiamò i loro numeri. Forza, siete gli ultimi. Mister-1 li accompagnava lungo il corridoio, collo sguardo duro, i lineamenti tirati, plastici, e con la luce dei neon che giocava alle ombre sotto i suoi zigomi e con la perfetta cadenza dei suoi tacchi sbattuti energicamente a terra. Mamma e Sammy lo seguivano in silenzio tenendosi per mano e forse, in quel momento, nessuno dei due aveva la forza di pensare, tanto che quel corridoio era semplicemente un tunnel bianco. Sembrava di camminare dentro un dente. E risuonava l’eco di quei tacchi, TOC TOC TOC TOC TOC TOC TOC, ed era il bianco la percezione di quel rumore ammorbante ed ipnotico che sembrava non dover avere fine e che rischiava di trascinare il ritmo di tutta la scena oltre il limite della noiosità. Una piccola macchia. D’unto. Sul dorso dell’impeccabile abito del Mister e i due ragazzi la videro contemporaneamente e si guardarono negl’occhi un po’ divertiti, volgendo subito dopo lo sguardo altrove, ancora ridacchioso, a terra, per guardare il ponticello di legno giovane sul quale attraversavano un ruscello di latte, bianco sì, ma gorgogliante parole informi ed ammiccanti. C’era una teca di cristallo ad un certo punto del tragitto e in questa teca era rinchiuso un vecchio uomo, con barba bianca e riccioli di capelli bianchi che facevano capolino dal suo strano cappello. Erano la sfumatura di uno strano ricordo quelle gote rosse rosse e quel suo bel trippone sano che esplodeva salute. Era un mazzo di ricordi mischiato male quella sua voce paffuta e giocosa. Era un brumoso smarrimento quella paura marchiata a fuoco nel suo sguardo. La teca si stava riempiendo d’acqua in maniera lenta e costante e, lui lo sapeva, inesorabile. Di già il liquido era arrivato a lambire la cintura, e cominciava a inzuppare i bottoni di bianco pellicciotto, simili a palle di neve, del camiciotto rosso. L’anziano signore diceva, aiutatemi; in un sospiro, senza crederci neanche lui molto alle sue parole, puntando le mani contro le pareti di vetro e dimenando le gambe e strabuzzando gli occhi alla volta dei visitatori, dei quali non sapeva

neanche cosa pensare: erano la sua salvezza? – e non ci credeva –, o erano lì per infierire su di lui? > Aiutatemi. Diceva Babbo Natale rinchiuso sotto vuoto come una nocciolina. > Ragazzi aiutatemi, vogliono uccidermi. Salvatore…Sal, aiutami…ti ricordi di me? * Il mio nome è Sammy. > No, ti chiami Salvatore. Non ricordi da piccolo che mi scrivevi quelle lettere… con le promesse di essere più buono…firmato Salvatore, il piccolo Sal. E mi chiedevi i robot e i videogame…firmato Sal. * Il mio nome è Sammy, vecchio. > No, ti chiami Salvatore. E la sera prima di Natale andavi a letto presto e mettevi la testa sotto le coperte per non far vedere che eri ancora sveglio e tendevi l’orecchio ad ogni rumore, ogni scricchiolio della casa, che t’avevano detto, quando arriva Babbo Natale se ti trova sveglio non ti lascia che carbone, ma non era vero Sal, il robot te lo portavo lo stesso. Tu lo sai, vero? Che le leggevo sempre le tue lettere e mi commuovevo…così dolci…e i biscottini che mi lasciavi sul tavolo; e io li portavo via per farti credere che li avevo mangiati e mi erano piaciuti, anche se poi non li mangiavo veramente, ed eri così…puro Sal. Te lo ricordi? Che ti portavo i robot, Sal? * Sì! Me lo ricordo. > E io avo sempre nella tua camera quella notte, quando tu dormivi e ti stavo a guardare per qualche minuto e ti accarezzavo la testa, prima di andare. E sarei rimasto lì tutta la notte, soltanto a guardarti respirare…oh, e quella volta che ero lì, fermo, e tu ti svegliasti e con gli occhi confusi e assonnati mi guardasti, a bocca aperta, esclamando piano, come tra te e te, Babbo Natale! e io ti dissi, dormi piccolo Sal, è solo un sogno, solo un sogno. * S-sì, mi sembra…quel sogno. > Ero io Salvatore. E ti amavo, ti ho sempre voluto bene. Quelle storie sul carbone non erano mica vere, erano i tuoi genitori a fartelo trovare sotto l’albero, eri così buono…figurati, uno dei miei preferiti.

* Lo dici a tutti. > Noooo Salvatore, te lo giuro. Ma ci pensi a quanto eri felice la mattina di Natale quando ti svegliavi e correvi pieno di speranze verso i pacchetti colorati, ed eri mai deluso? No dico, ti ho mai deluso? Te li ricordi i robot, chi te li portava, la befana? No! Ero io Salvatore, e tornavo sempre a guardarti di nascosto quando scartavi i pacchetti e mi ringraziavi a voce alta…così felice… con così poco, e io tre le lacrime ti rispondevo piano, prego piccolo Sal, prego. E quanto avrei voluto correre verso di te ed abbracciarti forte forte. * E perché non l’hai mai fatto allora, eh? E una lacrima, un piccolo cristallo di nostalgia, solcava il viso di Sammy. > I tuoi genitori non me lo permettevano…è una storia lunga Salvatore, vecchia come il mondo. Sapessi quanto ho lottato, da sempre e con tutti gli adulti…ma nessuno di loro voleva…avevano paura che voi bambini voleste più bene a me. Aiutami, Sal. * Tu non capisci vecchio. Non lo sai quanto mi hai fatto male. Non lo sai cosa significano quelle battutine del cuginetto più grande, quelle parole carpite qua e là…insinuanti…che uno non ci vuole credere all’inizio…e t’ho pure difeso, vecchio…a dire, noooo lui esiste e piangere…e poi, cedere. All’evidenza e crescere e fa male, un casino di male…quando devi crescere e accantonare i giochi e svegliarti la mattina di Natale e, per la prima volta, sapere che non è roba tua quella…quei regalini, bugie incartate e infiocchettate e messe sotto l’albero, che parevano ridere di me, di un bambino che…cazzo era presto per crescere non lo capiva nessuno? E tu dov’eri quella mattina? Dov’eri la mattina di Natale più triste di ogni bambino? Mi hai imbrogliato. Ci hai imbrogliati tutti. E l’acqua saliiiiiva, fino al collo di un povero patetico vecchio vestito in maniera ridicola. > Ma…io n-non…potevo fare niente…piccolo Sal…che dici? Io ti amavo e non vorrai credere…i tuoi genitori…loro sapevano tutto, Sal…i robot te li ricordi? I biscottini, qualche volta li avevo anche mangiati piccolo Sal…erano buoni te lo giuro…aiutami ti prego…io sono Babbo Natale! * Stupido vecchio! Ma lo vuoi capire che tu non esisti?! > Salvatore…

* È la fine che meriti per quello che mi hai fato are, vecchio bugiardo grassone. Tu non esisti. Non esisti. > Salvatoooore noooo! Andiamo, il direttore ci aspetta. Disse Mister-1. E Sammy si voltò per riprendere il suo cammino lungo un corridoio con le pareti imbottite di pellicciotto bianco. > Torna indietro piccolo stronzo. Non puoi lasciarmi qui a morire…Saaaaal, figlio di un cane, Saaaaal, i tuoi genitori sapevano tutto…non puoi lasciarmi qui Saaa-a-a-a-aaal! Ignoralo. Disse Mister-1. E il Silver-foil era un carillon d’avorio, l’afflitta colonna sonora della nostalgia che accompagnava i i di Sammy-boy & Mamma-girl & Mister-1 e le teche di cristallo che si susseguivano in un corridoio senza fine, in cui morivano i sogni dei bambini. Le bugie dei grandi messe in fila per la punizione finale. C’erano tutti: Babbo Natale, la Befana, il Topolino dei denti, il Lupo cattivo, l’Uomo Nero, l’Uccellino pettegolo che quando facevi qualche marachella lo diceva sempre ai tuoi –me l’ha detto l’Uccellino!–, il Vigile sadico che doveva metterti in prigione se non facevi il buono, le streghe e le fatine della Walt Disney, il mio Mini-Pony, le Tartarughe Ninja…tutti in fila, in vetrina, come in un ipotetico centro commerciale delle menzogne a cui tutti abbiamo creduto; che ci hanno fatto rimanere fanciulli finché si poteva, ma poi basta, non era più il tempo e ci hanno delusi, tutti. Ed ora, in vetrina, morivano implorando clemenza in nome di un ato sedotto e abbandonato. Sammy&Mamma scorrevano faticosamente nella corsia psichiatrica dei loro pensieri, inciampando nei ricordi e nel loro glaciale tepore, con la vendetta appollaiata sulle spalle e un vigliacco fremito nel cuore. E il ato certe volte non è un bel posto. E il ato è quella cosa alla quale allora non eravamo preparati. E il ato affogava nelle vetrinette mentre il boy e la girl gli transitavano affianco. Poi il Mister si fermò davanti ad una porta chiusa e in fondo è così che uno se l’immagina la rivelazione: una porta chiusa da bussare. E lui bussò. E lei si aprì. E i ragazzi entrarono. Nell’ufficio del direttore del Silver-foil, il proprietario della moda e quindi della verità, la voce dell’altoparlante che diceva ai giovani come e cosa e quando e perché mai. Un essere la cui umana fisicità era solo la giustificazione di una mente superiore. Una superiorità la cui mente era soltanto

una pallida giustificazione del suo essere. Una giustificazione il cui pallore era semplicemente l’inappuntabile scusante della superiorità di quell’uomo. “ Vi prego, vi prego…”. Disse il direttore con cortese risolutezza, indicando le due poltroncine davanti alla scrivania. “…vi prego, annoiatemi pure” E il Silver-foil era il diligente meccanismo di un orologio, un ticchettio partito molto tempo prima, e tic dopo tac sembrerebbe non aver nulla a che fare con te; ma quando ti ritrovi seduto di fronte alle tue domande capisci che quel battito regolare ti ha accompagnato da sempre al tic del presente, al tac dell’adesso, e che, in fondo, ha sempre suonato per te. Tic, tac, tic…tac…tic! Ed era l’ultimo dei rintocchi. L’ora prefissata alla quale si sarebbe fermato il tempo; l’ora, nel senso di adesso. L’orologio che si ferma. “Perché vedete”, continuava le voce del direttore, “lo scorrere del tempo è solo la conseguenza, umanamente logica, del movimento delle lancette dell’orologio. Se non avessimo inventato gli orologi non esisterebbe neanche il tempo. Corretto, direi. Continueremmo ad invecchiare, certo, ma non avremmo età. E non avendo età di fatto non potremmo invecchiare. Tic, tac, tic, tac…che cos’è questo? I secondi: l’unità di misura della morte. Quando quel tale inventò l’orologio pensò di aver creato solo un modo per misurare il tempo. Si sbagliava: aveva inventato il tempo! Un modo per morire. La malattia mentale di tutti i popoli. La morte. E senza tempo non saremmo forse immortali?” Quest’uomo è un cretino. Pensò Sammy-boy. Quest’uomo è uno stronzo. Pensò Mamma-girl. Chissà se le vendono ancora quelle gommeamericane al sapore di anguria? Pensò Mister-1. E lo sguardo di quella voce, penetrante come lame, appuntito come frecce, continuava i suoi, NOI abbiamo fermato il tempo e tutte le menzogne. E, NOI siamo l’eternità. E, NOI vi uccidiamo per darvi nuova vita: Siiilver-Foil. Allargando le braccia e sorridendo e con la testa al cielo. “Vi insegniamo la soggiacente essenza delle cose per liberarvi dai falsi concetti del mondo. Questa è la nuova libertà e la nuova moda. Arrediamo insieme il nuovo mondo…quello che il mondo vi ha rubato con l’inganno e l’astuzia.” “Siamo tutti schiavi dell’opprimente forza dell’esempio. Ci abbandoniamo

all’imitazione della vita, del visto fare. Abitiamo l’era della parodia di noi stessi. Prima della nascita del cinema e della televisione l’impatto caricaturale era limitato ad un ambito di vita più reale: guardavamo ed imitavamo per lo più ciò che realmente ci circondava, facevamo nostri gli atteggiamenti che provenivano comunque dall’esperienza diretta e ogni nuova esperienza si accompagnava ad un cambio di prospettiva. Oggi invece esperienze nuove non ci sono, perché sappiamo già come comportarci. Sempre. Non ci sono vere novità, subiamo la vuotezza delle idee suggerite, la piattezza di comportamenti non nostri, e nella maggior parte dei casi abbiamo perso la possibilità di scegliere.” * Non capisco. - Di cosa sta parlando? “I mistici, i religiosi, loro non sono mai soli. Perché Dio è sempre con loro e non li abbandona mai. Dio o l’idea di Dio non li lascia mai soli. In una stanza vuota, abbiamo sguardi commoventi, pance tirate indentro, sguardi ammaliatori nel nulla…perché ci aspettiamo che le telecamere vengano fuori dall’armadio e i flash delle fotografie. E non siamo mai soli. Ci hanno rubato la capacità di essere soli. Eppure soli ci sentiamo, no? Ci atteggiamo come divi davanti allo specchio e sappiamo già tutto sull’amore e sulle espressioni da fare in questo caso o nell’altro. Siamo cloni di immagini prodotte al cinema; contemporaneamente al di qua e al di là dello schermo. Siamo il pubblico di noi stessi e ci applaudiamo e ci chiediamo autografi. L’idea della televisione è il nuovo Dio del mondo. E non l’abbandona mai.” E il Silver-Foil era un bellissimo parco in cui scorrevano fiumi di miele sotto nuvole di zucchero filato. E gli animali correvano felici e giocavano in pace tra loro e l’Uomo e la Donna davano loro nomi. L’Uomo e la Donna erano nudi e perfetti. E si lasciavano cullare dalla voce che proseguiva i suoi, NOI vinceremo per voi la menzogna. E, NOI vi apriremo gli occhi. “Conosciamo le nostre reazioni e le nostre emozioni prima di averle provate. Capite? Uno sa già come comportarsi di fronte a qualunque avvenimento e che espressione è necessario fare; soprattutto questo è importante. Pensiamo di essere meglio preparati alla vita, ma solo perché ci hanno programmati come

robot. Dentro di noi non c’è più posto per la meraviglia e per la novità. Vi hanno rubato la personalità. E NOI desideriamo restituirvela.” Mentre le mascelle di Mamma e Sammy erano appese come calzini messi ad asciugare e le bestie correvano felici e pacifiche nell’Eden. “Quello che il mondo ci dà è sempre il peggio. Il cefalo ad esempio. Il cefalo è un pesce particolarmente furbo e diffidente, ogni pescatore lo sa. Abita sul fondale, non viene quasi mai a galla e al primo rumore o...che ne so…basta un’ombra, e lui scappa. È un pesce che non si fa fregare così, come niente fosse; eppure quando butti l’amo uno abbocca: il più stupido di tutti. Il cefalo che mangiamo, che ci ritroviamo sulla tavola, è sempre il più stupido del branco. Questo è quello che abbiamo: il cefalo più idiota di tutta la combriccola dei cefali.” E, “il mondo vi odia e vi dà il peggio di sé.” E, “siete solo giocattoli.” E, “cosa credete che sia facile essere un fottuto genio?”

“La genialità sta nel provare delle emozioni collettive e nel subire i complessi di un’intera generazione, prima che siano manifesti nella società stessa. La genialità è, talvolta, una specie di percezione del futuro circa l’emotività e la sofferenza di un popolo. Essere il martire di se stesso. Noi conosciamo le vostre sofferenze e le vostre paure e vi guideremo, tenendovi per mano, verso un futuro migliore. Abbiamo fatto le domande giuste alle persone sbagliate e siamo ancora in attesa delle risposte che non arriveranno mai. E, gli scienziati hanno creato l’AIDS per stroncare la crescita demografica. E, il prezzo dell’acciaio è alle stelle. E, mamma e papà vi hanno sempre mentito. E, state buoni nella vostra scatola e non vi accadrà niente di male.” “Le vostre povere anime hanno un fucile piantato in bocca.

Quando parlo di me parlo al futuro, perché sono un genio. La prossima tappa della più profonda depressione sociale sarà la delusione spirituale. Abbiate fede nella nuova moda. IO sono chic!”. E il Silver-foil era una palla di vetro con dentro la neve e un’immagine delicata e neve; che la voltavi, la rivoltavi e veniva una bufera di materiale sintetico, nella palla di vetro; e una musica molesta per l’anima. Che ti costringeva ad essere vero e presente, quando avresti avuto voglia di essere da un’altra parte. Questi odiosi oggetti, malinconici, adorabili. Fanno parte del ato di chiunque e della casa di nonna e delle merende con pane e marmellata. Trik, trak, gli dai la carica e…quella musica…quel calore…che ti pigliano un po’ per il culo e ti chiamano moccioso…chi si rivede, il piccolo te stesso; dov’eri finito? Moccioso. E ti graffia e t’accarezza e ti chiama piccolo mio. E, “il mondo è una palla di vetro con dentro la neve e il suono di un carillon che ti rincoglionisce le budella!”. “Tutte quelle storie sulla psicologia infantile, che i bambini devono sviluppare la fantasia e bisogna raccontargli un fracasso di fregnacce e prepararli alla vita e al dovere – Siiiiilver-Foil –, che se da grande ti compri il macchinone è solo un’immagine sostitutiva del tuo piccolo pene, e il sé imperativo; dover fare, dover fare, dover fare. Palle. Palle con la neve dentro! Menzogne, fumo negl’occhi. NOOOOOOI smaschereremo il complotto generazionale che vi ha generato, figli dell’omertà. Staccate la bocca dalle sterili mammelle del mondo e succhiate dalle mie prosperose poppe. Non vi eravate ancora cercati e trovaste me! Perché IO vi chiamai e IO vi trovai e vi scelsi, esseri privilegiati.” “Oppure quella parola: democrazia. Governo del popolo! Cazzate! Vi danno le sale bingo, le partite in tv, le stelle cadenti, gli onomastici, IL VARIETA’…!!…fonti di luce colorata, fumo negli occhi…carillon con la neve dentro, a forma di palla. Vi distraggono dalla verità. E scelgono la vostra vita al posto vostro. I popoli non sono mai a favore delle guerre eppure la guerra è l’unica vera costante della storia dell’uomo.

Poche menti malate decidono il destino di miliardi di rincoglioniti utenti televisivi. Democrazia. E, hanno detto che gli eserciti esistono solo per mostrare i muscoli ed evitare di essere attaccati…perché sì, insomma…è chiaro no? Se non esistessero gli eserciti scoppierebbe la terza guerra mondiale!!!!!!!!! Combattuta da chi cazzo chi? La menzogna è l’oscuro motore del mondo e voi siete le batterie. Vi succhiano vita per tutta la vita. Vi attaccano un orologio al polso e vi dicono: ecco, attento eh, quando la lancetta lunga arriva qui tu scadi e allora devi morire. Tutto il nostro sistema economico si basa sun semplice principio: nessuno vuole che voi siate felici perché chi è veramente felice non compra niente. Hanno cresciuto e coccolato una massa d’insoddisfatti inadeguati infelici. Le malattie le hanno inventate per sterminare i meno produttivi. Quelli più problematici che si fanno troppe domande. Perché gli scrittori muoiono giovani e suicidi? Solo un caso secondo voi? Poverini…sono solo…incidenti! E, pensate davvero che il mondo sia sferico? E, credete sul serio che l’uomo sia andato a eggiare sulla Luna? E, credete che esista una cosa chiamata Luna? Esistono solo degl’enormi proiettori che proiettano sunenorme volta di catrame l’immagine della Luna. E delle stelle e…infondo dei nostri sogni, no? O almeno di quello che hanno deciso di farci sognare: che la tecnologia avrebbe risposto a tutte le nostre domande e ci avrebbe guariti tutti da quel vuoto che avevamo dentro. Io li ho visti quei proiettori.” “Hanno inebetito la vostra forza creativa. Siete solo giocattoli, arredamento. Siiiilver-Foil!”

“Là fuori c’è un grosso dragone affamato che reclama le vostre vite.” “Lasciate che vi dica. Lasciate. Nel 1974 George Foreman salì sul ring per difendere il titolo di campione del mondo dei pesi massimi da un certo Muhammad Alì. Alì era già stato campione del mondo e il titolo gli era stato tolto, era stato in prigione per diserzione, e aveva parlato, scritto, provocato, predicato, vaneggiato. Era diventato il più grande e non solo con i pugni ma anche e soprattutto col carisma, era diventato un mito. Foreman quella sera non combatté contro un pugile, per quanto forte, si scontrò con una leggenda! E per battere una leggenda ci vuole un essere con un egocentrismo tale da essere quasi cattiveria. Foreman era un uomo. Un uomo forte ma solo un uomo. E perse. È questo ciò di cui il mondo ha paura. Quello che cerca di impedirvi: essere liberi e forti e veri e leggendari. Farò di voi dei miti e allora non avrete bisogno di vincere il mondo perché sarà il mondo ad aver paura di sconfiggervi!”

CAZZO IO SONO UN ESSERE SUPERIORE LA LA LA LA…

FERMERO’ILTEMPOEVIRENDERO’ESSERIMMOTRALICOMEME! IMMORTALICOMEPENSIERILALALALA!

Canticchiando e ballando, alzatosi in piedi, alle spalle dei due ragazzi; come in uno di quei vecchi film in cui non si sa perché ad un certo punto tutti ballavano e

cantavano. E in effetti la scena era in bianco e nero, ed era un bel po’ strano a pensarci, ma i ragazzi, ovviamente, non ci fecero caso. Canticchiando e ballando, appoggiato ad un bastone da eggio e, la la la la… in bianco e nero. Quest’uomo è completamente bollito. Pensò Semmy-boy. Quest’uomo è uno stronzo. Confermò a se stessa Mamma-girl. Devo pulire la lettiera del gatto. Pensò Mister-1. Canticchiando e ballando il tip-tap. Mentre i ragazzi venivano assorbiti dall’ambiente. Proprio. Erano idee e pensieri che si sgretolavano in polvere di concetti. Finissima impalpabile lieve polvere d’arredo che volteggiava nella stanza. Sottile cipria che si andava a mescolare alle circostanze e alle intuizioni. Arredanime immortali: ricordi, lampade, visioni, sentimenti, sgabelli, bicchieri di whisky and coca…li avrebbero cercati, forse, ma non li avrebbero più trovati. Qualcuno si sarebbe domandato perché, come può, perché un bicchiere può piangere. Ma che ne potevano sapere? Un bicchiere è solo un cazzo di bicchiere. No? Il Mister si alzò per tornare in sala e disporre le attività per la serata.. Bisognava sbrigarsi, un’altra serata sarebbe cominciata tra poco e già la gente era in fila a spingere, salutarsi e a dire che faffreddo. Un nuovo carnoso, affamato bruco da nutrire. E l’altoparlante che cominciava, piano, non date confidenza agl’estranei, lasciate a casa i sogni, siete solo giocattoli, tornate nella vostra scatola, SiiiiilverFoil! Canticchiando e ballando la miusic del twist. Suna pellicola in bianco e nero che arrivava alla parola…

…FINE

anticipando di pochi istanti l’accensione delle luci nel cinema. Certo che…boh…io ‘sti registi moderni non li capisco mica. Non era da capire. Che vuol dire non era da capire? Era evocativo. Beh, io non c’ho capito un benedetto nulla. Era un film ermetico, scemo. Allora l’hai capito. No, non era da capire. Ma io ho pagato. Uffa…dai andiamo. No, sul serio, l’hai capito o no? Ascolta…andiamo a prendere la macchina intanto. Vedi, il cinema ermetico…

# # #

Caro lettore, grazie per aver letto il mio libro. Mi auguro che il tempo trascorso insieme sia stato per te piacevole. Se ne hai la volontà puoi seguirmi, per avere aggiornamenti sui miei lavori, su: http://www.facebook.com/Cervigni.Federico mailto: [email protected]

Diario Di Un Insonne 4q5x4e

Overview 5o1f4z

More details 6z3438

Related Documents c2h70

Diario Di Un Insonne 4q5x4e

Diario Di Un Taoista 306h1u

Diario Di Un Trader 4b51w

Diario Di Un Ragazzo Bipolare 6k6pn

Diario Di Un Camionista Affamato 3l3g3k

Diario Di Un Ex Carabiniere 3m495x

More Documents from "Lloyd Mischke" cy4z

Domus Crudelis 5r6r5v

The Social Life Of Spirits 1m2h2f

After Hours 2q4o3p

Prima Che Sia Buio 6z5j4e

A La Cara: Retrats Que Ens Retraten 3b2jn

Der Holle Rache - Soprano And Woodwind Quintet (bassoon): Queen Of The Night - The Magic Flute 2w1hu