Maria Laura Ferrera
Domus Crudelis
Cavinato Editore International
© Copyright 2015 Cavinato Editore International ISBN: 978-88-6982-078-6 I edizione 2015 Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
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Progetto grafico, copertina e impaginazione RAKESH KUMAR SHARMA
TABLE DES MATIÈRES
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
EPILOGO
APPENDICE IL DECALOGO DI WANDA:
Ad Alessandra, sorella del mio cuore, e a Manuela, lei lo sa.
Fatti, luoghi e persone citate in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore, pertanto ogni riferimentoa fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
I
Non si era mai sentito così soddisfatto, appagato ed elettrizzato. In una parola, felice. “La felicità esiste dopotutto” pensò Leonardo sentendo la porta di casa chiudersi alle sue spalle. Quasi senza rumore, solo un impercettibile morbidissimo fruscio, come se metri di seta preziosa si stessero srotolando alle sue spalle. “Ce n’è voluto di tempo per arrivare a questo” continuava a pensare, mentre con lo sguardo accarezzava il salone in penombra. Poi ricordò, sorridendo appena, che sarebbe bastato un o in avanti per far sì che le luci della sala si accendessero da sole. I piccoli sensori applicati al telaio della porta d’ingresso avevano iniziato a lavorare egregiamente, attivando l’illuminazione degli ambienti a mano a mano che Leonardo si spostava nell’appartamento.
La laboriosa e complessa ristrutturazione del loft era terminata la settimana prima e i tecnici della DomoTechna S.p.A. avevano finito di collaudare il sofisticatissimo impianto di gestione domotica di tutte le utility di casa. Adesso possedeva una delle poche, vere abitazioni ‘intelligenti’ della capitale. Era situata nel quartiere di Ponte Milvio, da qualche anno diventato molto in voga, ‘the place to live’ di ultima tendenza tra i poco più che trentenni a la page della capitale, tipi - tanto per capirci - adeguatamente danarosi e muniti di discreto prestigio sociale.
Il cellulare iniziò a vibrare nella tasca interna della giacca di lino grezzo color ghiaccio, gettata distrattamente sul divano Poliform di pelle bianca. Guardò sorridendo l’immagine che l’iPhone gli rimandava: un tavolino dell’Harry’s Bar di Venezia con la laguna come strepitoso fondale.
– Wanda, più puntuale di una cartella esattoriale!
– Ciao bel toso! Allora? Son qui tutta orecchi…
– Beh, non puoi capire… fan-ta-sti-ca!
– Grazie, eh lo so, sono proprio fantastica.
– Ma dai, lo sai a cosa mi riferisco.
– Lo so, lo so, il tuo splendido, fantasmagorico, fighissimo appartamento.
– Loft, Wanda, loft. C’è una bella differenza!
– Loft, appartamento, bicocca... vabbé descrivi, habla, la curiosità mi sta uccidendo!
– Ok, mettiamola così: lusso puro! Al di là del desiderio più presuntuoso. Vivo in un sogno, mia insostituibile amica.
Sbottonò la camicia blu notte di garza leggera e si sdraiò sul divano, facendo attenzione a non sporcare i cuscini immacolati con i mocassini di camoscio color tabacco. – Oltre alla bellezza dell’edificio, i volumi ampi e la luce che filtra dal grande lucernario, creando riflessi suggestivi, la straordinarietà della mia ‘umile’ dimora sta proprio nel fatto che non devo muovere un dito per soddisfare la minima necessità.
– Ohi, parli come l’architetto di un programma in onda su uno dei miei adorati canali tematici di Sky. Traduci in un idioma semplice per una povera tosa come me.
– Una parola sola Wanda… domotica. Saprai sicuramente di cosa parlo, tu che non ti perdi neanche un fotogramma di “Case da sogno”, “Due cuori e un superattico” e “Vendo e Cerco”.
– Domotica? Beh qualcosa ho sentito su questa roba qua, le cosiddette case intelligenti.
– Bravissima e per dirla tutta, questa non è solo ‘intelligente’, è anche ‘pensante’… proprio così, è stata progettata in maniera tale da non dovermi preoccupare più di, che so, accendere o spegnere la luce, i condizionatori dell’aria, la lavatrice o il forno a microonde.
– Fantascienza pura, che figo! Immagino ci sarà un cervellone che comanda tutto.
– Esattamente, un server con una serie di monitor touchscreen posizionati nei punti strategici di casa. Da lì mi sarà più facile dialogare per ogni necessità o evenienza.
– Ti sarà costata una fortuna, hai svaligiato il Bingo sotto casa o ti è morto il vecchio?
Leonardo rise di cuore alla battuta di Wanda. Adorava il suo cinismo pragmatico, quell’andar dritto al punto senza diplomazia, ma con un candore disarmante che ogni volta lo spiazzava.
– Bonus annuale… – disse in un sospiro studiato ad arte per enfatizzare il momento.
– Elapeppa! Vuol dire che la tua performance è stata superlativa.
– Le mie lo sono sempre, baby.
– Ma piantala, di solito chi ne parla non lo fa.
– Sai bene che per quanto mi riguarda è esattamente il contrario ‘signora mia’. – Leonardo rise di cuore immaginando la faccia di Wanda. La stimava, anche se si punzecchiavano in continuazione. Era la sua confidente, l’unica vera amica di sesso femminile. “Con le donne” diceva, “Non si può essere amici, si scopano e basta. Quelle ‘ottime’ almeno, poi ci sono le ‘improponibili’, ma per me non esistono proprio”. Wanda però era un capitolo a parte. Si conoscevano da sempre, le loro mamme, entrambe veneziane, erano amiche per la pelle e per un lungo periodo avevano trascorso insieme gran parte delle vacanze estive. Fin da ragazzini erano stati accompagnati alla Mostra del Cinema di Venezia ad assistere a un’infinità di proiezioni. Come risultato di quelle villeggiature Wanda era diventata una vera esperta di cinema, un critico cinematografico di prim’ordine conteso dalle più prestigiose testate giornalistiche. Leonardo, al contrario, aveva sviluppato una forte idiosincrasia per tutto ciò che riguardava il cosiddetto cinema d’autore, ma non solo. Gli unici film che sopportava a malapena erano gli action movie di Tom Cruise (non si era perso neppure un
capitolo di Mission Impossible) e i thriller-horror alla Saw. Tutto il resto era pura noia. Wanda viveva in pianta stabile a Venezia e con Leonardo s’incontrava mediamente una volta l’anno, quando lei scendeva a Roma in occasione della Festa dell’Unità, roba che la mandava in brodo di giuggiole. Adorava trascorrere le serate seduta ai tavoli fra arrosticini, patatine e birre, (anche se lei beveva soltanto coca-cola) e chiacchierare con i dirigenti di partito su tutte le problematiche irrisolvibili che attanagliavano l’Italia. Bello era godersi il caldo vento romano d’inizio luglio sotto i pini delle Terme di Caracalla mentre Leonardo, che l’accompagnava sempre, cercava di stanare qualche ‘ottima’ turista capitata lì per caso o, nel migliore dei modi, flirtare con la ‘trucidella’ ovvero con l’aggressiva di turno che accompagnava l’aspirante politico del momento. E mentre Wanda si godeva quei dibattiti romani, tra ritmi di salsa e merengue o di cover band più o meno rockettare, Leonardo dal canto suo organizzava future e promettenti serate con amiche nuove di zecca. Wanda era molto di più di un’amica, era la sua famiglia. Poteva dirgli qualunque cosa, muovergli qualsiasi rimprovero. Lei aveva questo privilegio. Wanda era la sua coscienza, semmai ne avesse avuta una.
– Si può sapere quanto ti hanno dato per la tua… chiamiamola performance aziendale?
– Mi vergogno quasi a dirtelo… non riesco.
– Oddio, così tanto? Roba di centinaia di migliaia?
– Vai più su…
– Come più su? Milioni?
– Uno.
– Un milione di euro? Ma che hai fatto? Traffico di cocaina?
– Ah ah ah, di più: siero antiage NR45, lanciato sul territorio nazionale otto mesi fa. In poco meno di 240 giorni, grazie alla mia strategia di marketing ‘olistico’ e, diciamo pure grazie a una squadra di collaboratori scelti personalmente dal sottoscritto e a una capillare copertura del territorio da parte di una sales force aggressiva come non mai, il tutto coadiuvato da un battage pubblicitario senza precedenti… la multinazionale per la quale mi onoro di lavorare ha quadruplicato, ho detto quadruplicato, il suo fatturato in Italia. Outstanding performance come la definiscono e quindi… outstanding bonus!
– Hai capito il ragazzo? E tutti questi soldi sono andati nella casa, pardon, nel loft?
– Vuoi farmi i conti in tasca eh? Ok, ti dirò che non sono nemmeno bastati per essere pignoli.
– Cioè hai speso più di un milione di euro?
– Un milione e mezzo chiavi in mano.
– Che esagerazione!
– Non dirlo, non per me. Ripeto che questa non è una casa, è un’esperienza extrasensoriale.
– Mah, forse hai ragione ma adesso non ho tempo di approfondire. Ho due articoli da scrivere e la puntata di Front Row su Fox. Scusami...
– Per carità! Rompiamo le righe, ho da fare anch’io. Doccia e un salto al MET per vedere di dare un senso alla serata. Baci baci Wandina.
– A bientot Leo.
Leonardo rimase assorto per un istante, poi iniziò a perlustrare il suo loft, centimetro per centimetro. Era un cubo di dieci metri per dieci, per un’altezza di sette. Si sviluppava in un unico grande ambiente intorno a una scala centrale di acciaio e vetro che conduceva ai due livelli superiori. La luce proveniva esclusivamente da un grandissimo lucernario aperto sulla copertura circondato dal terrazzo. Al piano terra si trovava l’ampio salone con due grandi divani e al centro, a fungere da divisorio con la zona cucina, troneggiava la scala, vero e proprio elemento architettonico. Al livello superiore si trovavano due camere da letto, quella padronale e quella per eventuali ospiti, una grande cabina armadio, il bagno principale, un secondo servizio e uno studio che Leonardo aveva arricchito di un paio di librerie Metamorphosis di Sebastian Errazzuris e di una scrivania di cristallo, il Teso di Renzo Piano, con un iMac da 27 pollici in bella vista.
Infine il lucernario e il terrazzo con vista mozzafiato sul Tevere e Ponte Milvio in lontananza.
Era tempo di farsi una doccia, quel pomeriggio di fine giugno volgeva al termine, malgrado il sole ancora alto. Erano i giorni più lunghi dell’anno, il periodo che Leonardo amava maggiormente, quello che precedeva le sue prime vacanze estive. Per quell’anno poi aveva il suo loft con il terrazzo pronto per ospitare feste da sballo. Fece per incamminarsi verso il bagno padronale, al piano superiore, poi si ricordò di una cosa fondamentale da fare prima di iniziare a vivere lì dentro. Avrebbe dovuto impostare il computer che regolava tutte le attività di casa, o meglio cominciare a conoscerlo per usarne al meglio le enormi potenzialità. Il giorno prima aveva fatto un corso accelerato per imparare a dialogare con la casa, un training tenuto da uno specialista di domotica fornitogli dalla DomoTechna S.p.A.
Credeva di ricordare tutto, o almeno lo sperava. Il tecnico aveva inizializzato il computer e adesso Leonardo doveva impartirgli i suoi ordini o desideri che dir si voglia. Si diresse quindi verso l’area cucina dove era sistemato il monitor principale. Lo trovò in bella vista, su una comoda mensola di vetro poco prima del bancone di acciaio e ardesia, un parallelepipedo perfetto che nascondeva ad arte cassetti e vani per stipare pentole e stoviglie. Prese uno sgabello, si avvicinò allo schermo e lo sfiorò delicatamente. Il monitor, in stand by, s’illuminò e apparve un viso di donna. Il giorno prima Leonardo stesso, aiutato dal tecnico, aveva scelto il sesso dell’avatar e i suoi tratti somatici, da una lista molto ampia di preferenze. Aveva tratti caucasici, pelle chiara, capelli neri e lunghi con un piccolo accenno di frangia, occhi grandi e leggermente allungati di un verde chiarissimo, naso piccolo e leggermente all’insù, bocca con labbra carnose ma non troppo, insomma uno schianto di avatar; come poteva essere altrimenti? Al momento di darle il nome Leonardo ci aveva pensato su un bel po’, per poi scegliere Andrea, un nome maschile in Italia ma femminile in tutte le altre parti del mondo. Gli piaceva quell’ambiguità, una sorta di leggera trasgressione, qualcosa d’indefinito al confine tra certo e incerto. Ovviamente l’avatar disponeva dei suoi dati. Conosceva il nome e la data di nascita, oltre a una lunga serie d’informazioni, anche le più disparate, che lo stesso Leonardo aveva reso disponibili prima di traslocare. Addirittura anche foto sue e di amici, video di lavoro e vacanze, la musica che ascoltava, i film e i programmi TV che preferiva, i cibi e i drink che amava… insomma, nel giro di poche ore Leonardo non aveva più segreti per Andrea, tutta la sua vita era lì dentro, stipata nei piccoli microchip del server.
– Buonasera Leonardo. – Andrea esordì subito dopo essere apparsa sullo schermo. La sua voce era morbida, calda e ricca di toni. “Perfetta” pensò con soddisfazione Leonardo.
– Buonasera Andrea… e adesso che devo fare? – improvvisamente Leonardo entrò nel panico. Di colpo dimenticò tutte le istruzioni apprese il giorno prima, non sapeva più da dove cominciare a impartire i comandi. Lo stallo durò un attimo. Ricordò le prime mosse necessarie ad avviare quella sorta di dialogo, sfiorò nuovamente lo schermo in alto a destra e immediatamente apparve l’elenco degli ambienti. Leonardo spuntò la voce ‘bagni’, poi ‘bagno padronale’ e ancora ‘doccia’. Scelse la temperatura dell’acqua e le modalità del getto. Pigiò poi la voce ‘musica’ e selezionò Sally di Vasco Rossi, l’unico artista che ascoltava, il suo profeta, il suo guru. Da diligente proselita dell’artista emiliano Leonardo conosceva tutti i testi delle sue canzoni a memoria e si dilettava a citarle in continuazione, talvolta era solito esprimere concetti, idee ed emozioni attraverso alcuni versi ‘illuminanti’ di Vasco. La sua frase prediletta era ovviamente “È tutto un equilibrio sopra la follia!”.
Le note di Sally iniziarono a spargersi per gli ambienti del loft attraverso il sofisticato sistema di diffusione audio. Leonardo raggiunse il piano superiore ed entrò in bagno. L’acqua della doccia era già a temperatura ottimale e lui si lasciò avvolgere dal tepore del liquido, quasi stesse prendendo il sole; in realtà lo stava facendo, tutta l’energia proveniva dall’impianto fotovoltaico installato sul terrazzo.
– Chiamata esterna… – la voce morbida e calda di Andrea s›inserì nell’impianto stereo al posto di Vasco. – Chiamata esterna da Alberto Cacciaguerra… accettare? – Leonardo rispose immediatamente di sì mentre con la mano destra sfiorava i sensori posti sotto l’erogatore per interrompere il flusso.
– Ehi Al, come butta?
– A me bene e a te? Vedo che ti sei insediato nel paradiso in terra, bravo! Senza nemmeno un cenno d’invito eh? Cosa aspetti a chiamarmi?
– Sono sotto la doccia, anzi per la verità ho appena finito e mi sto asciugando, che sballo eh? Ti sto rispondendo senza alzare un mignolo, fa tutto Andrea.
– E chi è Andrea? Non mi dire che hai anche un maggiordomo adesso!
– Più che maggiordomo direi la mia ancella. É una donna, o meglio un avatar femmina, strepitosa. L’ho appena definita sul monitor, si può scegliere tra una moltitudine di tipologie. Ovviamente ho scelto la numero uno.
– Invidia! Allora che fai, ci vediamo al Met stasera? Mi sono liberato apposta per te, avevamo deciso per stasera, no?
– Sì certo, dammi una mezz’ora e ci vediamo là.
– Ah senti, Gaby ha portato un’amica, così tanto per non farti sentire troppo solo. So che non ne hai bisogno ma lei ha talmente insistito.
– E com’è?
– Boh, è una sua collega. Pare che sia un bel tipo, almeno a detta di Gaby. Al limite si accanna al dolce, in caso contrario…
– Beh, se è ‘ottima’ allora portala qua… devo inaugurare il futon. – sogghignò Leonardo, mentre l’acqua gli scivolava addosso sciogliendo gli ultimi residui di bagnoschiuma.
– Dai vedremo tra un po’, sbrigati.
– Ok, a dopo.
Entrò nel dressing a piedi nudi, adorava quel pavimento a doghe larghe di ulivo. Gli abiti, le camice, i golf e tutti gli accessori erano stati riposti in ordine sistematico per articolo, stagione e colore, in armadi senza sportelli retroilluminati da piccoli spot a luce fredda e bianchissima, che si accendevano al aggio. Si avvicinò all’armadio che conteneva i pantaloni per il tempo libero, i jeans e le giacche sportive. Scelse un Calvin Klein stonewashed e una camicia bianca di cotone leggerissimo, quasi una garza. Calzò morbidi mocassini di suede celeste polvere, rigorosamente senza calze; infilò una cinta di sottili strisce di cuoio azzurro intrecciato per completare l’abbigliamento per la serata. Aveva addosso un impercettibile aroma di Greene Street di Etro, il suo profumo, sempre quello da quando Wanda glielo aveva fatto conoscere anni prima, regalandoglielo a un compleanno. Si fermò davanti all’enorme specchio posto di fronte all’entrata del guardaroba, l’immagine gli piacque: aveva trentotto anni e ne dimostrava qualcuno di meno, folti capelli neri di cui andava particolarmente fiero, visto che gran parte dei suoi amici già combatteva con incipienti calvizie. Non era alto ma nemmeno basso, raggiungendo la dignitosa altezza di un metro e settantadue centimetri, con un peso che oscillava tra i sessantatré e i sessantacinque chili in periodi di maggiori eccessi. Quello che più gli piaceva di se stesso erano gli occhi e il sorriso. Non era da tutti avere quello sguardo nero e malandrino che ricordava tanto un giovanissimo Tom Cruise in Top Gun unito a un sorriso smagliante corredato da denti bianchissimi e regolari, frutto di lunghe
e costose sedute in uno di quei centri di cosmesi dentale che tanto andavano in voga nella capitale. Più che dentisti erano estetisti, si occupavano principalmente di sbiancamento e di riallineamento con le famose ‘faccette’ di cui si faceva un gran parlare nei salotti. Il tutto a prezzi da capogiro, ma era noto che il look giusto, unito a un aspetto curato nei minimi dettagli fosse sinonimo di sicuro successo. Scese in fretta la scala e si girò per contemplare la sua bellezza: una struttura di acciaio cromato, apparentemente molto sottile ma resistente, reggeva i gradini di cristallo temperato a specchio che permettevano di godere di una vista perfetta del loft.
L’uscita immetteva in un impluvium circondato da muri rosso scuro. A terra della brecciolina bianca circondava una vasca di travertino monoblocco, a sua volta attorniata da piccoli ulivi. Un piccolo sentiero in legno di teck permetteva di camminare fra i sassolini e Leonardo lo percorse a o di carica. Uscì più felice che mai.
La serata prometteva bene, pensò Leonardo, mentre si dirigeva a piedi verso Piazzale di Ponte Milvio. Era una sera davvero bellissima, dolce e profumata di gelsomino, o per meglio dire il ‘finto’ gelsomino, quello che a Roma spesso spacciano per tale ma altro non era che rinchospermum, dai fiori un po’ più grandi, bianchi e altrettanto profumati. “Che periodo pazzesco” pensò, “Mi va tutto alla grande… posso fare quello che voglio, riesce tutto esattamente come previsto”. Con quella sorta di mantra in mente entrò nel cortile del Met, superando con un sorriso disarmante il piccolo drappello di guardie di sicurezza che, al contrario, non sorridevano mai. Si diresse all’interno della villetta, sede del ristorante più in voga del momento, verso la Met Home, una vasta sala da cocktail dove servivano gli aperitivi. Intravide subito, seduto a un tavolo, Alberto che iniziò a sbracciarsi per indicargli la sua posizione. Il suo carattere napoletano si notò immediatamente, Leonardo alzò gli occhi al cielo in segno di finto scoramento. Accanto ad Alberto era seduta la moglie, Gaby e vicino a lei c’era una tipa sui trent’anni. Leonardo la fissò per un momento e decise di soprassedere. “Serata persa” pensò. – Leo, sei svenuto sotto la doccia? Il tuo avatar non ti ha soccorso in tempo?
– Ah ah ah… mi ha preso in braccio e mi ha pure vestito. Invidia eh?
– Veramente un pochino. Dai che siamo ancora in tempo per ordinare. – Il lieve accento campano di Alberto ogni tanto veniva fuori. Ci aveva messo una vita a debellarlo, non gli piaceva farsi riconoscere, come diceva lui, da quei “Padani di merda” che spesso aveva avuto la sventura di incontrare durante i suoi innumerevoli meeting a Milano. Non sopportava granché di essere etichettato per quello che non era, ma che gli altri pensavano fosse solo in virtù dei suoi natali. Napoli era una città straordinaria ma pochissimi ne apprezzavano il valore, forse nemmeno lui ne era in grado. Dopotutto era fuggito alla fine del liceo per continuare gli studi prima a Roma, poi a Milano e infine a New York dove, nelle aule della Stern School of Business presso la New York University, anno ’97-’98, aveva conosciuto Leonardo. A chi gli chiedeva dove fosse nato, Alberto rispondeva “Sono del Vomero” per non nominare “L’innominabile”. Come se il Vomero fosse una città a parte, un’isola a sé stante nel grande caos del degrado partenopeo. Quella debolezza faceva sempre sorridere Leonardo, che ogni tanto ne approfittava per prendere in giro l’amico.
– Jamm’ Ja… ordiniamo! – rise Leonardo rivolgendosi alle signore. – Ciao Gaby come stai?
– Bene Leo e tu? Lei è Nicoletta, una mia collega.
– Ciao Nicoletta come va?
La squadrò come suo solito con tutte le donne, senza farsene minimamente accorgere, elargendo il miglior sorriso. “Niente di che”, pensò “diciamo sull’improponibile”. Mentre fingeva di leggere la carta dei drink l’osservò meglio: sebbene fosse seduta, riuscì a farle una specie di rapidissima risonanza magnetica. Altezza sul metro e sessantadue centimetri per cinquantadue chili di
peso (forse qualcosa di più), cosce corte, gambe ‘innocue’, caviglie che denotavano una leggerissima ritenzione idrica; il sedere non riusciva a vederlo, lo avrebbe fatto dopo o forse no, tanto non gli interessava granché. Il seno era celato da un golfino di filo di seta a collo alto e senza maniche, una scelta inappropriata, pensò. “Se non lo mostri non ce l’hai… non esisti. Una femmina senza tette? Inaccettabile!”. A meno che non avesse un sedere da competizione. ando al viso le cose non migliorarono: capelli castani dal taglio anonimo né lunghi né corti, con una piccola inutile frangia. Occhi castani altrettanto anonimi, naso un po’ grosso e una bocca che non meritava alcuna menzione d’onore. Insomma, serata morta. Iniziò a riflettere anche sulla moglie dell’amico che le sedeva di fronte. Da anni non faceva che rivolgersi la stessa domanda senza tregua, non riusciva a farsene una ragione. Che cavolo ci aveva trovato Alberto in quella femmina lì? Possibile che un uomo così attraente, affascinante, che attirava le donne come un favo di miele attrae un orso, si fosse confuso per una donnetta come quella? Era abbastanza alta, questo sì, quasi come Al che però non è che giganteggiasse con il suo metro e settantatré centimetri. Forte di fianchi e di cosce, anche un po’ culona, con lunghi capelli neri allisciati dalla piastra, mostrava un viso un po’, come dire, a punta. Naso lungo e leggermente aquilino, occhi scuri e allungati che avrebbero potuto anche sembrare belli, se solo il tutto non fosse stato rovinato da quel mento che a Roma chiamavano ‘scucchia’ ovvero un mento affilato e ben pronunciato. Gaby era il prototipo della brava ragazza, una donna di famiglia. Ventinove anni, undici meno del marito, laureata in giurisprudenza, lavorava nell’ufficio legale di una banca. Innamoratissima e gelosissima di Alberto, come prevedibile, non lo mollava mai ed era sempre sul piede di guerra nei confronti delle altre donne che avessero l’ardire di avvicinarlo. Leonardo smise di rimuginare mentre leggeva il menu. – Stasera una birra va bene… – e iniziò a guardarsi intorno. Quella sera il Met era pieno di magnifiche prede e non sedevano certo al suo tavolo.
II
– Wow! – la ragazza sgranò gli occhi incorniciati da lunghe ciglia finte. Scostò una ciocca di capelli neri e liscissimi e si guardò intorno imbambolata. – Dove abiti? – poi rise forte fin quasi all’isteria. Leonardo le fece segno di abbassare la voce, infastidito da quella specie di stridio, quel timbro acuto che gli si stava ficcando nel cervello già da qualche minuto, da quando aveva lasciato il Met con quella moretta tutto pepe, molto scosciata e sicuramente “Ottima”.
– Ehm… Martina, vero? Potresti abbassare la voce? Prego accomodati, cosa prendi?
– Che fico qui! É tua tua? Sembra come in quelle riviste… sai AD, Casa Vogue… troppo giusta! – la giovane si buttò quasi a peso morto su uno dei divani immacolati. L’abito, già cortissimo, si ritirò ulteriormente scoprendo tutte le cosce, lunghe e perfette, e il perizoma nero che comunque già s›intravedeva alla perfezione. Leonardo sorrise, dirigendosi verso l’angolo bar. Continuò a fissarla di sottecchi mentre preparava i bicchieri, da un piccolo frigo invisibile tirò fuori la vodka ghiacciata e un minuscolo involucro di carta stagnola che teneva in un cassetto. ”Notevole” pensò, era stato un colpo di fortuna rimorchiarla al Met mentre si accomiatava da Alex e dalle sue noiose donne. Aveva sì e no venticinque anni, ma non era importante. Bella, gioiosa e disponibile, per nulla impegnativa, cosa sperare di più? Le si avvicinò con i bicchieri e il piccolo involucro di stagnola in tasca. Si sedette al suo fianco e le scostò i capelli, baciandola sul collo. La ragazza non si mosse, iniziò a ridere e si sistemò meglio sul divano, sdraiandosi un pochino. Iniziarono a sorseggiare la vodka, poi Leonardo tirò fuori il piccolo incarto, lo aprì poggiandolo sul tavolo basso accanto al divano. Lentamente dalla tasca dei pantaloni estrasse una minuscola cannula di metallo e cominciò a sniffare. Poi la ò alla ragazza, che parve molto divertita all’idea e chinatasi sulla polvere si tirò indietro i capelli e poi, chiudendo una narice, inspirò con l’altra. Tirò un po’ su con il naso e sorrise a Leonardo, che iniziò a giocare con la spallina del suo mini abito.
– Vivi in zona? – iniziò a sussurrarle mentre con una mano le accarezzava la spalla nuda e leggermente abbronzata. Un’abbronzatura compatta e ambrata, da manuale, frutto di week-end ati sul ponte di barche in rotta verso Ponza, pensò, oppure su quei gommoni grandi e veloci che facevano la spola da Porto Ercole al Giglio.
– Beh quasi… – rispose in un gridolino sommesso la ragazza, mentre buttava indietro la testa sventagliando le sue lunghe extension nere corvine. – Grottarossa, hai presente?
– Beh non è esattamente in zona, direi… – commentò ironico Leonardo.
– É sempre Cassia, no? – replicò un po’ piccata allontanandosi appena da Leonardo, che anelava a riappropriarsi del suo collo.
– Di cosa ti occupi Martina? – la lingua di Leonardo aveva cominciato a esplorare il retro dell’orecchio sinistro della ragazza.
– Sono ragazza immagine. – La sua testa ondeggiava in sintonia con quella di Leonardo.
– Di cosa?
– Di quello che capita; locali, automobili, cosmetici, eventi particolari...
– Quanto particolari? – fece scivolare la parte superiore del vestito della ragazza sui suoi fianchi, scoprendole il seno nudo con i capezzoli ingrossati dall’eccitazione e dalla cocaina.
Percepì la luce del mattino che filtrava dal lucernario. La camera da letto improvvisamente fu invasa da un’enorme quantità di luce, “Troppa” pensò Leonardo mentre si girava su se stesso. Il lenzuolo gli si arrotolò come un sudario attorno al corpo nudo, aprì gli occhi quel tanto che bastava per vedere di fianco a sé la ragazza rimorchiata la sera prima. S’infastidì leggermente, non gli piaceva che le sue prede rimanessero a dormire da lui dopo aver fatto sesso. Generalmente, qualsiasi orario fosse, chiamava un taxi e le accompagnava graziosamente alla porta con un promettente bacio della buonanotte. Stavolta qualcosa era andato storto, pensò, sforzandosi di ricordare come avessero terminato. Possibile che fosse talmente strafatto da non ricordare quasi niente? Avevano esagerato con vodka e cocaina, evidentemente.
– Buongiorno Leo… – la ragazza si stiracchiò come un gatto, sfilandosi di dosso la sua parte di lenzuolo. ”Good job” pensò Leonardo, fissando le più belle tette mai viste negli ultimi mesi. Il chirurgo estetico evidentemente sapeva il fatto suo, pensò ancora, mentre con una mano prese ad accarezzarle un capezzolo. Improvvisamente partì la musica. I due sobbalzarono sul letto, il volume non era particolarmente alto ma l’intera casa risuonava di Anger never dies degli Hooverphonic. Leonardo non ricordò di aver impostato nulla del genere la sera prima, ne era certo. Guardò il suo Rolex Submariner poggiato sul cubo di cristallo e acciaio fungente da comodino, segnava le 10.30. Era tardissimo, aveva appuntamento a Fregene con un paio di amici per un veloce pranzo in spiaggia, doveva sbolognare l’intrusa.
– Colazione? – propose alzandosi dal letto per dirigersi in bagno. Non esisteva privacy, tutto era a vista, la doccia, i sanitari dal design purissimo e minimale, tutto circondato dal cristallo temperato che trasformava il bagno in una sorta di gigantesco acquario.
– Sì, fico! – trillò la ragazza – Ho una fame… prepari tu?
– Certo… – Leonardo la fissò interdetto “Chi vuoi che prepari, tu forse? Allora mangiamo…” pensò, alzando gli occhi verso il lucernario. Il sole entrava prepotente nel loft, realizzando bellissimi giochi di luce, era incredibile come una sola apertura potesse trasmettere così tanto chiarore.
Doveva mandarla via, non voleva nessuno di sabato mattina, specialmente dopo una simile serata. Non ricordava niente, accidenti, era intontito e irritabile, voleva stare solo. – Senti… – disse alla ragazza mentre usciva dal bagno – Martina! – l’aiutò lei con un’altra risata delle sue, oltremodo snervante. – Sì Martina, scusa ma forse faresti meglio ad andare adesso. Non credo di avere niente per preparare la colazione, non ho fatto ancora la spesa, ho traslocato da un paio di giorni… qui fuori, dietro l’angolo, c’è un bar. Potresti prendere qualcosa lì, io non ti accompagno… scusa ancora ma non posso. Avevo un appuntamento al mare e sono in ritardo, un ritardo pauroso direi. Dì pure in cassa che offro io, non ti preoccupare, prendi quello che vuoi. Scusa ma devi andartene adesso.
– Okay… – la ragazza lo guardò di sottecchi mentre si alzava dal letto e cercava di raccattare sandali e vestito. – Mi chiamerai? – la voce di Martina si era fatta ancora più cantilenante. Leonardo le sorrise ma non rispose. “Ovvio che no” pensò, regalandole uno dei suoi smaglianti sorrisi, la ricompensa di una notte di cui nemmeno si ricordava.
Era tardissimo, non credeva di farcela ad arrivare a Fregene per l’ora di pranzo. Si guardò intorno e valutò che poi non era così grave rimanere a casa, ne avrebbe approfittato per sistemare ancora un po’ di cose, anzi molte, ad esempio il terrazzo; sì, avrebbe iniziato a prendere confidenza con la zona più glamour del suo loft. Si vestì sommariamente indossando un paio di vecchi jeans sfilacciati
tagliati al ginocchio, una canotta bianca di cotone grezzo e un paio di espadrillas color corda ai piedi. Mise in azione la caffettiera americana acquistata qualche mese prima da Macy’s a Manhattan e tirò fuori dal bancone della cucina un mug di ceramica bianca, pieno di zucchero grezzo Mascobado. Affettò del pane Procorn morbido e nero, ottimo con burro leggermente salato e marmellata di arance e fiori di gelsomino, acquistata in una bottega a Marzamemi, in Sicilia. Riempì un vassoio e proprio mentre si dirigeva verso la scala-scultura che scintillava alla luce del Sole, udì la voce morbida e sensuale di Andrea che annunciava l’arrivo di una telefonata. – Chiamata esterna da Wanda Crosera. Accettare? – Leonardo tornò indietro verso la zona cucina. – Accettare? Accettare?
Andrea era impaziente, Leonardo s’innervosì. – Sì, sì, sì accidenti, dammi un minuto che poso il vassoio, cazzo!
– Ehi! E’ questo il modo di salutarmi? Accidenti a te, ti è andata male la serata ieri sera? – la voce cristallina di Wanda risuonò per tutto il loft. Leonardo trasalì e si ricordò che non serviva premere un pulsante o sfiorare tastiere touchscreen per accettare la chiamata. Bastava semplicemente un sì della sua voce, immagazzinata a suo tempo dal computer.
– Wandina! Devo solo abituarmi a tanta tecnologia, e riguardo alla serata di ieri, beh… centro! Come sempre d’altronde, le faccio morire!
– Ehm… questo sarebbe da chiederlo a loro. Magari muoiono di noia. Chi era ’sta volta la tosa? Dove l’hai rimorchiata?
A Leonardo venne in mente che non serviva nemmeno rimanere all’interno del loft per parlare con Wanda. Poteva tranquillamente uscire sul terrazzo e continuare a parlarle, poiché il sistema di telecomunicazione ato
nell’abitazione era attivo anche nelle aree esterne. Doveva solo posizionarsi vicino all’isola servizi, dove si trovava una piccola cucina incassata in un assemblato di teak, munito di frigo, cantinetta e barbeque. Lì era stato installato un interfono dove si ricevevano e si effettuavano le telefonate e dove si poteva anche, tramite comando vocale, azionare l’apertura del portone di casa. A fianco si trovava un monitor per dialogare con il computer centrale e su quello stesso video era possibile controllare l’esterno e l’interno dell’abitazione mediante un sistema di microtelecamere a circuito chiuso.
– L’ho scovata al Met. Ieri sera ero là con Alberto, Gaby e una sua amica, roba inutile. Così mi sono girato un attimo intorno e… indovina? Lei era lì davanti al bancone del bar, seduta sullo sgabello, cosce da competizione, da misurarsi al garrese, mi spiego? Ottima, veramente da sballo!
– Ma sì, fammi indovinare… mora, extension al sedere, mini ‘straccetto’ a metà chiappa, tacco quindici, quarta misura di tette (ovviamente al silicone), festival di botox e labbra di gommapiuma leggermente socchiuse perché non riesce a chiuderle dal glicogeno, collagene, plastica del cazzo insomma… ah dimenticavo, french manicure a pioggia, anche e soprattutto ai piedi.
– E le ciglia finte dove le metti? E le sopracciglia tatuate ad ali di gabbiano? E il tatuaggio sulla era depilata? Sei un po’ arrugginita amica mia!
– Il tatuaggio sulla era depilata? Cossa ti me disi?
– Una bella serratura a forma di cuore in attesa della chiave giusta! Ah ah ah!
– E come si chiama questa favola?
– E chi se lo ricorda? Cristina? Marina? Boh non serve sapere il nome, è carne da macello.
Fece per addentare una fetta di pane imburrato, quando una vespa gli punse con violenza il labbro superiore.
– Fanculo!
– Ah grassie!
– Non dicevo a te… mi ha punto una vespa! ’Sta stronza. Che male, proprio sul labbro. Adesso mi si gonfierà tutto.
– Mettici subito un batuffolo di ovatta imbevuto di acqua e ammoniaca, ma prima devi togliere il pungiglione. I tuoi programmi, oltre a convivere con il tuo labbrone adesso? Sabato casalingo? Non ci posso credere.
– Sarei dovuto andare al mare a pranzo ma mi sono svegliato troppo tardi… quindi ne approfitto per conoscere un po’ di più casa mia. Durante la settimana il tempo è pochissimo, orari impossibili, impegni continui, lo sai. Mi godo il mio castello, ecco… ahia che male!
Leonardo continuò a toccarsi il labbro, senza però rinunciare al suo caffè americano.
– I tuoi impegni invece? No aspetta, adesso provo a indovinare io... Lido? E poi filmetto serale sul divano? Perché sarai così stanca e bruciata dal sole che non ce la farai a uscire per un’altra folle notte veneziana
– Sfotti, sfotti pure. Sì, sto andando al Lido e sì, questa sera mi guarderò un filmetto su Sky. Che male c’è? La settimana prossima parto per la Sardegna e poi verrò a Roma, da te. Sei contento? Non vedi l’ora?
– Certo che sono contento, pensa quanto sarà contento Alberto di rivederti e di sopportare le tue frecciatine.
– Quel gran figo dell’Albert… mi piacciono i napoletani!
– Non glielo dire che hai scoperto le sue origini, diventa una belva! Comunque voglio organizzare una grande festa prima della tua partenza.
– Allora vedi di invitare qualche maschio decente. Che sia scapolo, single e solitario, non voglio casini.
– I migliori sono quelli impegnati, lo sai; non essere talebana, potresti farti una storiella interessante e poi via, ognuno per i fatti suoi. Non è meglio così? Cosa cerchi, il matrimonio?
– No, nemmeno un uomo in condominio però; anche solo per una settimana deve essere tutto e unicamente mio. Antica eh?
– Un po’ e poi ti perdi il meglio. Sembra che gli sposati siano i più esotici: con le mogli si annoiano talmente tanto da sviluppare una fantasia pazzesca; e non vedono l’ora di metterla in pratica!
– Di fantasia ne ho fin troppa, figurati! Chissà perché noi due finiamo sempre i nostri discorsi su quest’argomento? Mah…
– Probabilmente dovremmo deciderci a fare il grande o.
– Beh, in effetti ho sempre pensato che gli uomini possono essere i migliori amici per una donna solo se ci si finisce a letto (che è quello che uno dei due vuole). Ma non sarà il nostro caso, stai tranquillo. Non ci penso proprio, e se per questo nemmeno tu.
– Verità assoluta. Ti prendo come mia amica e in questa veste prometto di esserti fedele sempre e di volerti bene ogni giorno della mia vita! Anche se a volte, anzi spesso, è forte l’istinto di mandarti a quel paese. So che il sentimento è reciproco, quindi…
– E dopo queste dichiarazioni… andemo! Go il vaporo che parte! Ciao amor, stammi bene e goditi il tuo loft!
– Ciao Wandina, bacio!
Leonardo continuò a toccarsi il labbro che aveva cominciato a gonfiarsi. Non ci
voleva, pensò, sperando che potesse sgonfiarsi entro il lunedì successivo, giorno del meeting con il Direttore Marketing della Regione Europa. L’altissimo papavero arrivava a Roma per congratularsi personalmente con lui, ma soprattutto per gettare le basi della nuova strategia mondiale, quella che avrebbe elevato gli utili aziendali a vette insperate solo pochi mesi prima. Doveva essere perfetto, in tutto. Si guardò intorno e improvvisamente avvertì un caldo infernale. Erano ormai quasi le tredici e quel giorno il sole picchiava forte. Il terrazzo si sviluppava intorno al grande lucernario di cristallo acidato con il pavimento realizzato interamente di teck steso a tolda di nave. Il perimetro esterno era circondato da vasche di resina bianca, rossa bordeaux e nera alternate da grandi anfore di terracotta, all’interno delle quali esplodevano cespugli di alloro e piante d’ulivo. Qualche pezzo di reperto archeologico minore, acquistato in un negozio di antichità in via del Babuino, spezzoni di opus reticulatum e piccoli fregi di marmo di basiliche romane erano sparsi tra il fogliame, le vasche e le anfore. Completavano l’arredo divani e pouf grigi antracite di materiale idrorepellente, insieme a un grande tavolo ovale e varie sedie, tre tavolinetti bassi e decine di lanterne di vetro e ferro ordinate a un artigiano di Marrakech, alternate a dozzine di candele bianche, di diverse misure. Una doccia realizzata con un semplicissimo e sottile tubo di metallo e una piattaforma di teck leggermente sopraelevata completava il terrazzo, che da un lato guardava sul Tevere e dall’altro sui colli della Farnesina.
Su tutto troneggiavano imponenti tendoni bianchi posati su strutture di metallo brunito molto resistenti anche se dall’aspetto leggero e discreto. Leo si sdraiò sull’amaca pensando che non sarebbe uscito da casa quella mattina. Era meraviglioso lasciarsi cullare sotto quel cielo romano così luminoso, godendo della brezza leggera e stranamente fresca, dato il periodo. A occhi chiusi fece il punto della situazione, cercando di organizzare la settimana lavorativa entrante, che dopo il meeting l’avrebbe visto partire per Francoforte e poi per Parigi. Lì ne avrebbe approfittato per salutare i suoi genitori, negli ultimi anni avevano scelto come residenza la Ville Lumiere dopo decenni trascorsi in giro per il mondo, complice l’attività diplomatica di suo padre. Improvvisamente si ritrovò bambino, si rivide mentre giocava sotto il sole africano nel vasto giardino della residenza nell’ambasciata italiana di Abidjan, rivide la governante keniota che cercava inutilmente di farlo rientrare in casa, perché era troppo caldo e non si poteva stare fuori. Urlava in una lingua incomprensibile, un misto di swahili e inglese, che lo avrebbe detto a sua madre, sì, le avrebbe detto che ‘Lio’ era un
bad boy… Gli mancava l’Africa, in realtà ci aveva vissuto poco - solo quattro anni - ma erano bastati per essere ‘infettato’ del suo male, della struggente malinconia che coglie tutti quelli che, almeno per una volta nella vita, hanno un contatto con il continente più antico, più selvaggio. Qualcosa di quell’atmosfera, di quei colori, di quei tramonti gli era rimasto dentro, scavandogli un impercettibile solco di dolore, di mancanza. Quello squarcio andava richiuso, quel vuoto riempito con qualsiasi eccesso, qualsiasi follia pur di non pensare, di non tornare a quei paesaggi, a quell’orizzonte, a quegli odori che lo avevano stordito e ammaliato e che nel corso degli anni non aveva più ritrovato, nonostante le decine e decine di viaggi intorno al mondo.
Adesso, all’ombra della sua tenda bianca, lì dove tutto sembrava perfetto e inattaccabile, si sentì improvvisamente assalito dalla ‘mancanza’. Spalancò gli occhi di colpo, iniziò a sentire il battito del suo cuore che accelerava… nostalgia, tristezza, paura! Cazzo, che stava accadendo? Si alzò immediatamente dall’amaca, quasi fosse stato investito da una scarica elettrica. Si ò una mano tra i capelli, un gesto istintivo e quasi scaramantico, nell’ingenua speranza di ritrovare una forza perduta, un coraggio svanito fra i ricordi. “Che sciocchezza”, pensò. L’unico modo per uscirne era mettersi a lavorare… certo che lavorare di sabato, un sabato di giugno, peraltro! “Beh? E allora?”. Lunedì mattina avrebbe dovuto presentare il nuovo Business Plan in azienda, davanti a quel bastardo di Jimmy Ragowski, venuto apposta per verificare se il generosissimo bonus annuale gli fosse stato concesso a ragione. Motivo più che valido per impiegare quel che restava del week-end in un rio generale del Key Notes, la cui preparazione aveva occupato l’intera settimana precedente. “Accidenti al labbro!”, pensò mentre con la lingua esplorava la piccola escrescenza sporgente in alto a sinistra. Che strano quella vespa, così violenta e incattivita… da dove arrivava? Lasciò il terrazzo di fretta, dirigendosi verso lo studio.
III
Si sciacquò il viso nel lavandino del bagno al secondo piano, quello delle sale riunioni e del bar aziendale. Finalmente si specchiò: andata! La riunione si era appena conclusa nel migliore dei modi e Jimmy Ragowski era servito; lui, il bastardo - come veniva chiamato nell’ambiente della multinazionale cosmetica svizzera - il famigerato Direttore Marketing della Regione Europa che faceva di tutto il suo lavoro un viaggio da una sede all’altra, viveva solo per segare le gambe a quelli che lui riteneva incompetenti, inadeguati e non all’altezza della prestigiosa famiglia “Elvetica per nascita, internazionale per vocazione”, come recitava una delle frasi portanti della brochure istituzionale. Stavolta Jimmy non avrebbe riportato a casa lo scalpo di nessuno, anzi, gli aveva fatto addirittura i complimenti, gli aveva stretto la mano. Cose che non capitano tutti i giorni, non accadono quasi mai. L’amministratore delegato della sede italiana era raggiante, incombeva il pericolo di una scivolata dell’ultimo minuto ma Leonardo aveva esibito un contegno superlativo. In due ore di riunione aveva messo in pratica con successo tutte le astuzie, gli espedienti, i trucchetti appresi dalle lezioni del Master americano. Busto eretto, sorriso smagliante, mai guardare negli occhi l’interlocutore ma fissarlo ‘tra’ gli occhi, così da non farlo sentire in qualche maniera ‘minacciato’ e poi camminare avanti e indietro per non più di due metri, o deciso ma tranquillo, fermandosi ogni tanto mentre si pronunciavano le parole chiave. Poche slides, ancora meno numeri, solo quelli decisivi, riportati in un grigio perla chiarissimo su fondo nero con un font bastone essenziale e immediato. Pause studiate, quasi a voler gettare un minimo d’ansia sull’interlocutore, lasciarlo un attimo nel brivido dell’incertezza “... e adesso cosa dirà, quali numeri sfodererà ancora, che strategia pazzesca tirerà fuori dal suo cilindro…”. E poi il sorriso perfetto, canagliesco e sfrontato. Quel sorriso che spiazza, rassicura ed entusiasma, che raggira anche il più bastardo dei Direttori Regionali, degli Amministratori Delegati, dei CEO, Chairman, General Manager e Sancta Santorum delle Multinazionali più potenti del pianeta. La sua arma più micidiale l’aveva sfoderata con cattiveria al momento giusto, proprio mentre presentava la slide con una cifra, una sola cifra a sei zeri. Era l’ammontare che la sede di Roma, o meglio lui, chiedeva di budget per l’anno successivo. L’amministratore delegato sudava leggermente, seduto accanto a Ragowski nella penombra della sala riunioni dalle gigantesche vetrate, quelle finestre immense che affacciavano su altri palazzi e altre finestre ancora nella
calda valle del Torrino. Si mosse avanti e indietro sulla poltrona di pelle, sperando di non mostrare il suo nervosismo. Non era quello il momento di farsi vedere debole e meno che mai impaurito. Portava in dote risultati strepitosi, vaffanculo, quella cifra era il minimo che potesse pretendere. E Leonardo era l’unico che poteva chiedere, doveva farlo subito, ora o mai più. Jimmy Ragowski si era soffermato sul quel sorriso, aveva sentito forte l’odore di vittoria, di successo, di soldi: la fiera aveva odorato il sangue. Giocherellò per qualche secondo con la sua MontBlanc senza staccare lo sguardo da quel sorriso, da quei denti perfetti. Quei soldi glieli avrebbe dati. Quel sorriso lo esigeva.
Leo uscì dal bagno con un lieve senso di spossatezza e un impalpabile, impercettibile principio di emicrania. Anche la nausea ci si metteva adesso, mentre raggiungeva di nuovo la sala riunioni dove era stato allestito il buffet per il working lunch. Prima di entrare si mise l’auricolare e digitò sull’iPhone il numero di casa. Gli rispose, dopo il primo squillo, la voce morbida e calda di Andrea. – Buon giorno Leo, digita il codice di riferimento prego…
Il codice di riferimento, già, qual era? Voleva sapere se c’erano state telefonate nel frattempo, qualcuno che per errore avesse chiamato sul fisso invece che al cellulare. In realtà voleva staccare per un istante, aveva bisogno di un piccolo tuffo nel suo focolare domestico, nella sua bellissima dimora. Il codice… il maledetto codice di riferimento.
– Zero, quattro… – gli era tornato in mente tra un conato di vomito e un dolore fortissimo alle tempie.
– Chiamata ricevuta alle dieci e zerocinque da utente sconosciuto. Resta in linea per l’inoltro messaggio: “Ciao Leo, sono Alberto… niente, per errore sto chiamando casa tua. So che a quest’ora stai probabilmente sotto torchio… beh, visto che ci sono…”.
Cosa gli stava prendendo ad Alberto? La sua voce era insicura, bassa e un po’ sofferente, non riusciva a capire il perché di quella telefonata, a quell’ora e sul fisso di casa poi. Si fermò nel corridoio e ascoltò il resto della registrazione con estrema curiosità.
– Sei libero nel tardo pomeriggio? Ho bisogno di parlarti… di parlare insomma, cerca di liberarti. É urgente, tanto.
– Riascoltare il messaggio? – Andrea si era inserita e aspettava una risposta.
– No, va bene così. – Leo chiuse la comunicazione, pensieroso. Stava per richiamare Alberto sul cellulare, poi ricordò di essere atteso in sala riunioni e decise di chiamarlo più tardi.
– Dio, Leo! Me lo avevi detto ma… inimmaginabile, davvero! – Alberto era in piedi al centro del salone, sotto il grande lucernario di cristallo e acciaio da cui il sole prepotente d’inizio estate continuava a penetrare con forza, sebbene fossero ate le sette di sera. Il suo sguardo si perdeva nei meandri di quello spazio puro ed essenziale, fatto di luci e di ombre studiate ad arte in un dialogo muto e articolato. Sguardo che poi seguiva la scala che rifletteva come un prisma gigante la luce esterna, scintillando fra i livelli del loft. Rimase ammaliato da quello spazio armonico, da quell’eleganza pacata e perfetta.
Leo sorrise divertito e orgoglioso. L’approvazione di Alberto lo gratificava, la sua meraviglia e il sincero stupore lo lusingarono, aveva fatto centro ancora una volta, era un vincente su tutta la linea.
– Prova questo Mojito e dimmi se non è spaziale! – Alberto afferrò il bicchiere e
si accomodò su uno dei divani immacolati. Era strano, pensò Leonardo, guardandolo di sottecchi mentre sorseggiava il suo drink. Tuttavia non disse nulla, aspettando che fosse l’amico a parlare.
– Fantastica davvero! La devi inaugurare degnamente eh? Aspettiamo una super festa…
Leonardo si chinò in avanti fissando negli occhi Alberto e sorrise malizioso, aspettando che l’amico finalmente iniziasse a parlare sul serio.
– Diventerò padre.
– Che? – Leonardo per poco non sputò il suo Mojito.
– Bel modo di congratularsi! – Alberto non sapeva se ridere o restarci male.
– Beh certo… congratulazioni! Di già?
– Come ‘di già’? Dopo tre anni e mezzo di matrimonio mi sembra il momento.
– ‘Ti’ o ‘le’ sembra il momento? – Leonardo aveva ripreso il suo tono abituale, a metà fra l’ironico e il sarcastico.
– Ci… che ti piglia? Grazie dell’affetto eh.
– Ma dai, lo sai come la penso sui bambini… du’ palle! Come du’ palle sono l’interruttore di quel cazzo di orologio biologico. A un certo punto, dopo aver trombato alla grande a destra e manca, anche la più zoccola scopre il suo lato materno e vai a figliare! É un’ossessione ecco… presenti esclusi ovviamente. Per carità, non volevo certo dare della zoccola a… oddio mi sto incartando. Dai Alberto, sai quello che voglio dire… okay, lo sai. Dovresti essere al settimo cielo amico! Auguri, è bellissimo! – Leonardo cercava di recuperare terreno, poi si accorse che qualcosa non andava.
– Cosa c’è? Che hai?
Alberto posò il suo bicchiere sul tavolo basso tra i divani. Lo sguardo in giù, la voce impercettibilmente incrinata, le mani che giocavano con la trama dei jeans. – Non lo so… dovrei essere al settimo cielo come dici tu. Dovrei sentirmi scoppiare di gioia, è quello che volevamo, il nostro sogno che si realizza, eppure ho un macigno qui dentro, mi sento franare la terra sotto i piedi. Sarò padre cazzo! Io che non ho mai smesso di essere figlio… non mi sento ancora marito, figurati padre. Sono terrorizzato, Leo! Non lo so… io l’adoro questo bimbo, già sento che è e sarà la mia vita ma… vedessi Gaby! È come se tutta la sua vita, ata e presente, fosse stata programmata in funzione di questo momento. Cammina a mezzo metro da terra, nessun dubbio o turbamento, niente più incertezze. Granitica e raggiante, ha già pianificato la nostra vita da qui all’eternità. E non solo lei, figurati! Tutto il clan si sta mobilitando, non si parla d’altro, non si vive d’altro. Stanno già pensando al secondo, Cristo santo! – Alberto si alzò di scatto e cominciò a camminare avanti e indietro come un leone in gabbia.
– L’ineffabile avvocato Pasquarelli e signora, i miei distinti e onnipresenti suoceri, e l’avvocato Andrea, il primogenito, insieme con il futuro avvocatino Chicca, l’ultimogenita della casata, senza contare l’orda barbarica delle cugine…
sai quante sono? Nove! E tutte a commentare, a telefonare, a messaggiare, ci stanno addosso, mi stanno addosso. Controllato, pedinato e interpretato in ogni cazzata che dico, e ovviamente contraddetto perché lo sai, in questo caso le donne prendono il sopravvento, ti schiacciano, ti zittiscono. “Tu hai semplicemente inseminato e basta, ora zitto e buono, fatti da parte e lascia fare a noi. Cameretta, corredino, ginecologo, clinica, bomboniere, festa di battesimo, inviti, il nome da scegliere, si fa l’amniocentesi? E il cordone ombelicale lo congeliamo? Lo facciamo nascere a Roma o da mammà? Ma da mammà, certo! Tata o asilo nido? Eh tu non fai un cazzo, chi partorirà è lei, chi allatterà è lei…” – Alberto sembrava un fiume in piena, fuori controllo. Leonardo non lo aveva mai visto così.
– Cos’è, non dici niente? Proprio adesso che mi servono le tue sparate, le tue puttanate ti stai zitto? Magari ci godi pure.
Alberto tornò a sedersi e a fissare Leonardo con lo sguardo nero, gli occhi impauriti.
– Beh ma non dici niente di nuovo, a parte l’erede in arrivo. Tutto questo andazzo c’è sempre stato, mi pare, fin da quando ti sei messo con Gaby. Scusa, non volevo dire quello che non vuoi assolutamente sentirti dire… – Leonardo sottolineò la parola dire con consapevole lentezza.
– Te lo avevo detto! Eh sì, scusa ma quante volte l’ho ripetuto? Tu niente, così convinto di buttarti nel baratro... giuro che non ho mai incontrato un masochista come te. Ovvio che ti ha fatto gioco entrare in quella famiglia così impegnativa, soffocante, cannibalesca ma tanto potente. Lo capisco, certo, lo dici a me? Certe conoscenze vanno coltivate, coccolate, curate come orchidee in serra, io lo faccio di continuo… ma non mi sposo certo le loro figlie! Cosa aggiungere? Stai pagando un bel mutuo.
– Che fai infierisci, stronzo? Non è stato esattamente così.
– Ah no? E come è andata? La storia del grande amore risparmiamela almeno. – Leonardo non sapeva se inalberarsi o tentare con l’ironia. Il momento non era facile, Alberto sembrava a pezzi.
– L’amore c’è, certo che c’è, altrimenti non l’avrei sposata.
– Una ragazzina undici anni più giovane di te, tutta casa, università e chiesa, odorosa di profumo alla vaniglia, un po’ culona e coscia grossa; scusa eh? Né brutta né bella, per nulla intrigante... Lasciamo perdere. Profilo importante, fossi in te a Natale le regalerei un ritocchino al mento. Last but not least il suo aspetto di madre di famiglia, di moglie fedele al seguito, gelosa e oppressiva tipo: “Hai portato il latte? Non ti scordare che domenica c’è il pranzo con zia Teresa, mammà ci tiene!”. No, scusa tanto ma non ce la faccio, e non capisco come hai fatto tu a reggerla. E a fartela …
Si rese conto di avere oltreato il limite. Erano argomenti rimasti in sospeso da troppo tempo, da quando Alberto gli aveva fatto conoscere Gaby, una sera di cinque anni prima a Formia. Leonardo era appena sceso dal catamarano di Rolf, un amico tedesco in comune che li aveva invitati per un week-end a Ponza. In quell’occasione Alberto aveva sorprendentemente declinato l’invito. Gli spiegò poi che questa Gaby l’aveva invitato a Formia nella casa di famiglia e non poteva rifiutare, glielo aveva promesso.
Che storia era? Come minimo si aspettava una femmina incredibile, una delle super ottime che ti eccita al punto da mandare all’inferno la fiabesca barca di Rolf e tutto l’indotto di Ponza. E invece eccola lì: si era palesata come un’entità astratta, con un vestitiello senza carattere, sandali bassi per non far sfigurare quel ragazzo non altissimo che si mangiava con gli occhi da innamorata senza
ritegno, gioiellini da prima comunione e una borsina Burberry da vera paesana in agghindo. Leonardo rimase semplicemente basito. Per caso Alberto era sotto macumba? Lui che poteva contare su un parterre di strafighe da paura e non aveva nemmeno bisogno di chiedere, gli bastava uno sguardo fosco per ammansire la pantera più bellicosa e piena di sé.
“Alberto, ti sei rincoglionito?”. Avrebbe voluto urlare mentre l’astratta gli porgeva la mano, recitando la solita, vecchia frase (anche lì niente di originale, nulla che potesse ricondurre a una personalità minimamente interessante): – Finalmente ci incontriamo! Al mi ha tanto parlato di te… è come se ti conoscessi da sempre!
Mamma mia, vade retro! Leonardo abbozzò un sorriso da emiparesi facciale e spostò lo sguardo sull’amico, come per chiedere aiuto, come per dire “Ma che cazzo ti sei fumato?”. Ecco, quella era Gaby, non aveva ancora ventiquattro anni e già sembrava sua nonna. Mai cambiata da quando era approdata a Roma, mai uno sforzo per integrarsi nella capitale, nel giro di amicizie di Alberto e ovviamente di Leonardo; solo un po’ di shopping nei negozi di via Frattina e via Condotti, mantenendo sempre lo stile ‘signora mia’, e qualche cenetta nei ristorantini sotto casa, in zona centro. Eh sì, perché paparino, oltre ad aver provveduto a sistemarla in banca e a imbucare anche Alberto nella possente multinazionale automobilistica (perché l’avvocato aveva tante amicizie di grande, grandissimo peso) le aveva anche acquistato un appartamento al primo piano di un bel palazzo d’epoca, nei dintorni di via Veneto. Quell’appartamento di fatto era un dormitorio, perché la vita vera si svolgeva da mammà e papà, a Formia d’estate e a Marcianise d’inverno, perché lei - e mettiamo anche questo nel calderone - era di Marcianise!
Alberto lanciò a Leonardo uno sguardo stanco. Non replicò allo sfogo un po’ brutale dell’amico e rimase in silenzio tormentandosi le mani.
– Scusami Al, ma ’sta storia mi fa incazzare, lo sai, lo hai sempre saputo e non
ho mai capito il perché. Perché questa scelta? Perché, porca puttana?
– Perché? E chi lo sa. Forse ero arrivato al punto di non ritorno? Forse avevo voglia di stabilità emotiva e sentimentale? Forse ero stanco di tutta quella macelleria sbattuta in faccia tutte le sere, tutto l’anno, di tutte le strappone, le trucide, le affamate che ci assediano di giorno e di notte. Cercavo pace, avevo voglia di famiglia o forse era solo riconoscenza per quella dannata posizione offertami su un piatto d’argento. Forse è… che non lo so!
– É che adesso, caro il mio Alberto, con questo figlio tua moglie ti ha messo definitivamente i coglioni nella cassa, per dirla con un eufemismo. Perché sono convinto che questo non è tutto eh? Qualcosa mi dice che c’è dell’altro. Sbaglio? – Leonardo incalzò l’amico in tono ironico. Deciso a sdrammatizzare, aveva captato qualcosa di non detto, di non rivelato.
Alberto restò in silenzio, poi si alzò di scatto e iniziò a camminare intorno alla scala, lentamente, mentre si ava la mano destra dietro la nuca, massaggiandosi il collo indolenzito.
– Tu mi conosci troppo… sì, c’è dell’altro.
IV
– Andrea, microonde… tre minuti. Set alarm per domani, ore sei e quarantacinque e ore sette. Inizio irrigazione piante terrazza ore sette. Accensione macchina caffè ore sette e trenta. Connessione con Radio Taxi ore otto. Connessione telefonica con Melina per le pulizie, ore dieci. Accensione lavatrice ore sedici. Good girl!
Leonardo finì di impartire ordini al monitor e sorrise all’immagine di Andrea, come se l’avatar potesse in qualche modo percepire il suo sorriso. Invece ripartì la voce calda e bassa
– Input registrati con successo.
Leonardo si avviò verso la zona cucina dove, nel forno microonde, si stavano scaldando le costine di maiale con tanto di salsa barbecue. Prese a stappare una bottiglia di Cerasuolo di Vittoria dell’Antica Tenuta del Nanfro, un ottimo rosso acquistato durante il suo ultimo viaggio in Sicilia, lo lasciò respirare per qualche minuto prima di scaraffarlo nel decanter di cristallo purissimo dal design danese. Intanto aveva apparecchiato per due, aspettando con pazienza, ma nemmeno poi tanta, che Alberto si liberasse del peso che sembrava schiacciarlo da quando era entrato in casa.
– Beh? – chiese, mentre versava il liquido color rubino nei grossi calici da degustazione.
– Beh… non indovini? Sei sempre così bravo a sgamare, provaci anche stavolta.
– Il tono di Alberto era amaramente ironico. E stanco.
Leonardo lo fissò per qualche istante, poi esplose in una risata. – No! Non è possibile… oppure sì, certo che sì, perché non dovrebbe essere possibile? Anzi, è possibilissimo invece… ed è già accaduto altre volte ultimamente. Lasciati guardare meglio, però stavolta mi sembra diverso… eh sì caro mio, mi sa che questa volta ti sei messo un po’ nei guai. Chi è? Deve essere notevole altrimenti non si spiega questa faccia, la tua visita e le lagne. Questa volta non si tratta di una semplice scopata e via. Dai racconta!
– Macché scopata! – Alberto prese il calice e mandò giù un sorso ben più che abbondante.
– Eh no! Che fai? Sacrilegio! Questa ambrosia va assaporata piano, lentamente, a occhi chiusi, come la era di una femmina strepitosa. Aspetta, te ne verso ancora, ma vacci piano!
Mentre Leonardo versava nuovamente il vino nel bicchiere di Alberto si sentì una specie di gracidio, o meglio, una sorta di gracchiante interferenza sonora che proveniva dal blocco server-computer centrale-monitor. ò il bicchiere ad Alberto e andò a controllare. Trovò il monitor , di solito era in standby, lo sfondo normalmente nero era costellato di puntini luminosi di un colore che virava sul rosso scuro e solo gli occhi di Andrea che apparivano e scomparivano a ritmo incostante. Improvvisamente tutte le luci di casa si spensero, l’aria condizionata smise di funzionare, un sibilo simile a un allarme sordo iniziò a spandersi in tutto il loft.
– Porca puttana, che cazzo ti prende adesso? – Leonardo iniziò a preoccuparsi. Sfiorò il monitor cercando di far apparire la lista delle applicazioni, ma senza successo. Incominciò a sudare freddo, non riusciva a vedere niente, il buio era
totale. Strano, la serata era così chiara da ricordare le notti bianche del profondo nord scandinavo. Quell’innaturale oscurità non gli faceva vedere niente, sprofondandolo in un’ansia quasi ingestibile. Il caos durò pochissimo, poi come per incanto il monitor tornò scuro, i puntini e gli occhi sparirono, il gracchiare cessò. Le luci si riaccesero, il sibilo scomparve e i condizionatori tornarono in attività.
– Andiamo bene! Eh sì, pochissimi giorni di uso e già problemi. Dovrò sentire quei geni di DomoTechna. Okay… torniamo a noi, guarda che sto aspettando la confessione, per assolverti ovviamente!
– Va avanti, o meglio… non va avanti da un mesetto, più o meno. – Alberto aveva iniziato a raccontare con un filo di voce evitando di guardare Leonardo.
– L’ho incontrata durante il lancio della SW Coupé. Lei è la Creative Director dell’agenzia che ci sta seguendo il lancio, appunto. Eravamo a Milano. Mi è piaciuta subito, non appena l’ho vista.
– E com’è? Ottima sicuramente… almeno guardandoti! Tettona? Cosce lunghe? Sedere alto? Tacchi quindici? – Leonardo cominciava a infervorarsi. Intanto aveva iniziato a spolpare le costine e il livello del vino non superava il quarto di litro, forse meno.
– Ma dai, piantala! – replicò Alberto leggermente infastidito.
– Aiuto! Stiamo così eh?
– É… luminosa, l’attrazione che emana, che provoca è pazzesca. Anche lei vive a Roma, ma fa la pendolare a Milano perché la sede d’agenzia è lì. – Alberto nel raccontare cominciò a calmarsi. Il viso stava riprendendo la sua espressione di sempre, gli occhi si addolcirono. Stava quasi sorridendo.
– Ci siamo piaciuti immediatamente… siamo come entrati in contatto. Mi sono sentito gratificato, non nel senso professionale, della notorietà insomma, ma riconosciuto per quello che sono in realtà. Anticipato nelle domande e ancor di più nelle risposte. Lei sconosciuta, eppure mia complice. Mistero!
– Caro il mio Alberto… ti vedo inguaiato, per usare un vocabolo che riconosci immediatamente. – Leonardo continuava a fissare l’amico e a riempirgli il bicchiere. Intanto aveva stappato una seconda bottiglia di Cerasuolo. La serata stava diventando impegnativa.
– Finita la conferenza stampa siamo usciti a cena, ovviamente accompagnati, lei dal direttore d’agenzia, io dal General Manager e dal Marketing Director. C’erano anche un paio di giornalisti della stampa specializzata. Insomma un bel gruppetto. Ma era come se fossimo noi due soli. Non smettevo di guardarla, non smetteva di guardarmi. Avrei voluto toccarla per tutto il tempo, mordicchiarle l’orecchio destro, sfiorarle la nuca, baciarle il collo. Non capivo più niente, volevo solo lei, la volevo e basta! Mi guardava in un modo… sapevo che provava le stesse cose, le stesse cose e senza bisogno di dircelo.
Leonardo spezzò quel momento quasi lirico dell’amico, lo vedeva troppo perso in un sogno che non capiva, ma in un certo senso temeva, proprio perché non poteva entrarci. – Te la sarai portata a letto almeno.
– E questo è il bello, o il brutto… Per niente! Non ci siamo nemmeno sfiorati, abbiamo fatto tutto con la mente e con gli occhi. Da quella sera esistiamo solo
noi, l’uno per l’altra, in un certo senso non ci siamo più lasciati. Ci telefoniamo, ci mandiamo mail alle ore più assurde, e poi Skype. Vedersi è difficile, rischioso. Anche lei è, diciamo, abbastanza impegnata. Insomma non è la ragazzina che credi tu, non ha i capelli piastrati, le extension, non indossa stivali fetish. Nessuna scollatura abissale, niente tette strizzate e tirate su fino al collo…
– Bah, peccato davvero! – Leonardo si accese una sigaretta strizzando l’occhio all’amico.
– Dammene una – Alberto si sporse in avanti per prendere una sigaretta dal pacchetto – É una donna Leo, non una bambola gonfiabile, un essere pensante, oltretutto bello e sensuale. Un altro pianeta, un’altra dimensione. Non me la sono cercata ed è capitata proprio nel momento più sbagliato.
– Ci sei andato a letto o no?
– No, non ancora e qui sta il punto. Non voglio portarla in un albergo, non voglio una cosa squallida, da clandestini.
– E che altro siete, scusa?
– Al solito tu riduci tutto.
– Io ridurrò pure tutto ma tu… sembri un bel po’ confuso. Lei impegnata, tu impegnatissimo che se lo scopre Gaby ti taglia le palle; se non siete clandestini voi...
– Insomma, non ho voglia di portarla in un albergo ecco.
– Non vedo altra soluzione. – Leonardo si alzò dallo sgabello di acciaio satinato e si stiracchiò. La conversazione cominciava a pesargli, non riusciva a capire dove Alberto volesse andare a parare. Raggiunse un cubo di legno wengè che conteneva una serie di bottiglie di alcolici. Scelse un meraviglioso whisky scozzese torbato, Lagavulin con sedici anni d’invecchiamento, prese due tumbler e versò in ognuno un dito del prezioso liquido color dell’ambra scura.
– Tieni, assaggia questo. E smettila con questa lagna.
– Una soluzione ci sarebbe invece… – Alberto prese il bicchiere e iniziò a sorseggiare lo scotch. – Che ne dici di prestarmi casa tua? Per mezza giornata, mentre sei in ufficio. Anzi, organizziamo per quando andrai a Ginevra al tuo solito meeting regionale, mi pare che sarà a breve no?
– Cioè, tu hai già pianificato tutto! Il mio meeting regionale… ti ricordi pure che sarà a breve! Meglio della mia assistente, vuoi farti assumere?
– E dai! Qual è il problema? Ovviamente le nostre due case sono off limits, dove la porto, a Villa Borghese? In albergo no, ti prego.
Leonardo sospirò, di un respiro lungo ed enfatico. Guardò Alberto e scosse la testa.
– Guarda, lo faccio solo perché se tu. Davvero, per nessun altro e non lo dico per dire. Mi sembra tutto molto cretino: lei la luminosa, tu che ancora non te la sei trombata, tua moglie incinta. Non so, questa storia non mi piace, proprio per niente. Sei strano, come se ti fossi indebolito, quasi non ti riconosco. Esci da questo corpo! – E Leonardo ridendo fece il gesto dell’esorcista, una sorta di croce con l’indice e il medio di entrambe le mani, poi toccò la spalla dell’amico.
– Sai – continuò Leonardo – l’Alberto che conosco io è quello che prima se le tromba e poi chiede loro il nome, semmai! A proposito come si chiama la splendente?
– Miriam. – rispose Alberto e mandò giù l’ultimo sorso di scotch.
– Che razza di nome è?
– Beh certo non è Selvaggia, Nicole, Mia… aspetta, com’era quella… ma sì quella di Formentera, l’estate scorsa, la riminese… Topazia! – Alberto iniziò a ridere.
– Gran bella topa! Ottima su tutta la linea! – e Leonardo si unì alla risata liberatoria di Alberto. – Ok allora vada per casa mia. Ma prima, mio rincoglionitissimo amico, dovrò farti un training accurato. Questa non è come casa tua, per fortuna! Vieni, comincio a erudirti, ti presento Andrea.
S’incamminarono verso il server centrale, portandosi dietro i bicchieri e lo scotch. La notte era appena iniziata.
V
– Non si riesce a capire, qui funziona tutto alla perfezione. – Il tecnico di DomoTechna non si raccapezzava, stava lavorando da più di un’ora sul server centrale del loft. Leonardo l’aveva chiamato il giorno prima in preda al panico. – Qui è saltato tutto! Non sono nemmeno due settimane che abito qui e già abbiamo problemi.
– Mah… il fatto che abbia avuto questi blocchi… sono stati due no?
– Esattamente. L’altra sera ero con un amico ed è successo la prima volta, poi ieri mentre stavo parlando al telefono, insomma ero in comunicazione telefonica. Mi ha capito, no? – Leonardo era leggermente sarcastico nel tono della sua risposta.
– Quello che non riesco a capire è che succeda così, dal niente. Di punto in bianco si blocca tutto e poi, sempre di punto in bianco, senza alcun intervento da parte mia, si riattiva tutto.
– Qui è stato smontato tutto l’hardware del server, è stato controllato e rimontato. Funziona tutto, come funzionava al momento dell’installazione. Lei mi dice che l’immagazzinamento dei dati è stato effettuato con successo, e le credo, ci mancherebbe, cosa vuole che le dica? Probabilmente sarà un problema di extra corrente, insomma uno sbalzo di corrente elettrica che deriva dall’esterno. Io chiamerei il suo gestore per controllare meglio l’erogazione di energia. Mi faccia sapere e se necessario torneremo da lei per un altro check-up.
Leonardo congedò il tecnico con malcelato malumore, era tardi e doveva fare un salto in ufficio. Aveva preso un day off ma intendeva partecipare a un veloce meeting, più che altro un brainstorming sulle prossime attività di promozione del famoso siero anti-age presso una serie di profumerie di segmento A dislocate in tutta Italia. Inoltre avrebbero steso la road map di una serie di eventi sponsorizzati proprio dal miracoloso cosmetico. Solo un salto però, roba di un paio d’ore per poi scappare a Fiumicino dove l’aereo di Cloe proveniente da Nizza sarebbe atterrato alle 15.30. Al pensiero di lei si sentiva indurire il basso ventre. Cloe, la sua femmina preferita, il suo ideale, almeno in quel periodo.
– Chiamata esterna da Wanda Crosera. Accettare? – La voce di velluto di Andrea si era insinuata nei suoi pensieri erotici.
– Accetto – sospirò Leonardo rassegnato, mentre entrava nella doccia. – Tempismo perfetto Wandina! Niente in contrario se mi faccio una doccia vero?
– Va a saudar el mio parruchier! El me manca, ieri el me ga fatto un tajo orrendo qua a Venessia! – la voce cristallina di Wanda risuonò per tutto il loft.
– ’ngiorno eh, Wanda… ricordami l’indirizzo così magari ci o prima di andare a prendere Cleo che oggi arriva a Roma.
– Uh, arriva la zoccola? – la voce di Wanda s’insinuava nello scrosciare delicato dell’acqua a temperatura corporea.
– Ecco, ci siamo… – Leonardo si strofinò le braccia con una lavette color ardesia in morbida spugna di cotone egiziano.
– El mio parruchier xe chiama Graziano, è in via delle Carrozze, e vedi di mandarci la zoccola che avrebbe bisogno di un taglietto ecco, con quelle extension che le arrivano al culo. E poi… ma tutte uguali te le prendi? Nere, piastrate, frangia come uno shitzu nero, che non parlano, rantolano, interessi zero, opinioni mille, dalle Jimmy Choo all’ape di Piazza Euclide e i perizoma per Formentera; che strazio!
– Perché avverto un’ombra di gelosia, solo un ‘pochino’ percettibile?
– Può darsi, è che mi piacerebbe vederti con ‘qualcosa’ di diverso addosso ecco. E poi bisogna dire sempre quel che si pensa, anche a costo di essere antipatici!
– Cloe mi piace da impazzire e per la cronaca, mi fanno impazzire proprio queste donne, capito? Ora come ora non voglio niente di diverso addosso. Vuoi vedermi con una Gaby intorno? Hai visto com’è ridotto Alberto? A rincorrere eccitazione e desiderio altrove. Sempre a caccia di belle fighe, sguardi languidi e tette grosse. Roso dai sensi di colpa e dalla paura di essere scoperto da quella Erinni e dal clan di Marcianise, pronto a sparargli alle gambe. No grazie! Cloe è perfetta. – Leonardo uscì dal vano doccia e si gettò addosso un asciugamano.
– Nessuno vi ha detto che esistono le vie di mezzo? E poi ve l’ha ordinato il medico di sposarvi? Parlo dell’Alberto ovviamente, che bisogno c’era di fare tutta la manfrina con veli, bouquet, bomboniere e viaggio di nozze quando dopo cinque minuti già guardava i culi delle cameriere che servivano al suo pranzo nuziale, scussa eh?
– Non dirlo a me! Sapessi come sta adesso… – disse scuotendo la testa mentre s’infilava i jeans.
– Cioè? Crisi? Casini in vista? Racontame.
– Eh no Wandina, adesso scappo. Sentiamoci con calma fra un paio di giorni, ok?
– Figurati, vado, mi eclisso, evaporo… – la comunicazione s’interruppe con la calda voce di Andrea che informava, qualora ci fosse ancora dubbio, che la telefonata era finita. Leonardo finì di vestirsi in tutta fretta, scese le scale al piano terra e avvertì uno strano calore. Si fermò un attimo e poi esplose. – Porca puttana! L’aria condizionata… e adesso?
Si precipitò verso il computer centrale, gettò una rapida occhiata al monitor senza, al solito, capirci niente. L’aspetto del desktop era normale, niente segnali strani o messaggi di malfunzionamenti. Non aveva tempo di stare lì a smanettare, avrebbe chiamato più tardi i soliti incompetenti di DomoTechna, la sua pazienza si stava esaurendo ma doveva correre via. Più tardi, senza dubbio più tardi avrebbe risolto. Si avviò quasi correndo verso l’uscita. In penombra, sul monitor nero apparvero i grandi occhi verdi di Andrea…
Erano al Mastino di Fregene dietro a un tavolo per quattro, cena in riva al mare sotto una luna esagerata. Cloe si tormentava i lunghi capelli neri e lisci con la mano destra, facendo attenzione a non incastrare le unghie di acrilico biancolatte fra le extension. Una miriade di braccialini d’argento di Tiffany tintinnavano dal suo braccio destro, mentre sul sinistro faceva bella mostra un grande Rolex Daytona in acciaio e oro, insieme a una veretta di diamanti in condominio con un solitario di cinque carati, taglio brillante montato su platino, che rivestiva completamente l’anulare sinistro.
– E dai, mangia qualcosa… questo spaghetto è uno spettacolo! – Leonardo cercò di imboccare la ragazza che gli resisteva con indolenza.
– Uff… non ne ho voglia, non insistere, sono troppo stanca anche per ingoiare una vongola. – La voce di Cloe era una cantilena, l’accento a metà strada tra il ligure e il se tradiva la sua origine monegasca che lei sbandierava in continuazione, quasi fosse un pregio incommensurabile.
– Mia nonna è monegasca, sì… proprio cittadina monegasca, con tutti i diritti del caso. Io sono nata a Monaco ma da genitori italiani.
– Quindi non sei monegasca a tutti gli effetti? – Alberto cercava disperatamente di avviare un minimo di conversazione. Non gli piaceva per niente Cloe, la trovava melensa ed esageratamente vistosa. Per niente attraente, pensava, troppo secca, senza seno, labbra da papera, bassa e gambe troppo corte, perennemente inguainate da stivali di ogni tipo. Anche quella sera con quasi trenta gradi di temperatura indossava un mini abito nero e stivali traforati di suede color miele. Inutile aggiungere con tacco quindici. Non capiva perchè quella sera Leonardo avesse voluto cenare anche con lui e Gaby. Generalmente quando Cloe era a Roma si eclissava, non si faceva vedere nè sentire. Irraggiungibile come il suo cellulare. Stavolta no, li aveva invitati a Fregene come se volesse festeggiare chissà che cosa.
– Sai Cloe, Gaby è incinta… – Leonardo tentò con un argomento diverso, la novità della settimana.
– Ah… congratulazioni! Sei agli inizi?
– Sì, sono entrata nel secondo mese.
– E come ti senti? Mamma mia, se penso alle mie di gravidanze… ne ho avute due.
– Hai due bimbi? – Gaby cercava di mostrarsi molto interessata e forse lo era realmente.
– Sì, un maschio e una femmina. Sette e quattro anni, sono molto carini anche se impegnativi, parecchio eh.
Rise mentre vuotava il secondo bicchiere di Traminer gelato. Gaby sorrise e il suo sguardo si fissò, come sotto ipnosi, su quei cinque carati che scintillavano sfacciati alla luce delle candele bianche a centro tavola.
– Pensa – aggiunse tra un sorso e l’altro – ho dovuto spegnere il cellulare altrimenti non mi avrebbero fatto campare questa sera… ogni cinque minuti avrebbero costretto mia madre a chiamarmi. Eh sì, con la scusa del bacio della buonanotte… li ho chiamati un’ora fa e poi, zac! Ho spento e via, almeno respiro! Certo, fosse tornato il papà allora…
– Tuo marito vive con voi? – domandò Gaby timidamente.
– Ma certo! – Cloe la guardò interdetta. Leonardo fulminò Gaby con uno sguardo, mentre Alberto, imbarazzatissimo, abbassò gli occhi.
– Siamo sposati! Ovvio che viviamo insieme. – Concluse mentre s›infilava in bocca una briciola di panino alle olive.
– Scusa, credevo che voi… beh… ecco non parli mai di tuo marito e pensavo… – Gaby si stava arrampicando su un grattacielo di specchi.
– No, figurati! Tranquillissima. – mugolò Cloe mentre si sistemava all’indietro, per l’ennesima volta, la lunga ciocca di capelli nero corvino. – Non ne parlo mai semplicemente perché, in effetti, insomma, diciamo che è… un enorme stronzo! Ah ah ah! – la risata scomposta di Cloe risuonò per tutta la spiaggetta del Mastino. Leonardo controllò il livello del vino nella bottiglia, praticamente era finito ed erano già alla seconda.
– Beh diciamocela tutta! – Cloe si sporse verso Gaby come per rivelarle il più pazzesco dei segreti. – L’unico pregio è il conto in banca e poi è molto ben sistemato. Voglio dire ammanicato, si dice così da queste parti? – e strizzò l’occhio ad Alberto.
– Sì, si dice così. – Leonardo sembrò leggermente infastidito. Non era il massimo trovarsi a parlare del marito della sua ultima conquista.
– Quanto ammanicato? – Alberto si scoprì curioso, nonostante gli sguardi esplicativi della moglie e dell’amico.
Arrivarono al tavolo i secondi, due fette di pesce spada alla griglia per le signore, una fetta di tonno in crosta di sesamo per Leonardo, gamberoni reali per Alberto.
– Parecchio, è in politica. Un uomo di Landolfi, l’ex Ministro della Difesa, eletto l’anno scorso nel consiglio regionale della Liguria. Aggiungiamo che è nei Consigli di Amministrazione di un paio di banche locali, credo che basti. – Leonardo chiuse il suo intervento con un boccone di tonno.
– Scusate, non volevo essere indiscreto. – Alberto alzò il suo calice di vino come se stesse brindando a qualcosa, in realtà tentava di spezzare quella piccola e impercettibile tensione che si era creata da quando, tutti e quattro, si erano seduti al tavolo. Non gli piaceva Cloe, e non perché non ne apprezzasse le forme, comunque assenti, o per l’aria da ‘zozza’ che emanava. Semplicemente non lo convinceva, era noiosa e irritante. Una questione di pelle probabilmente, non vedeva l’ora di alzarsi e andarsene. Cercava lo sguardo della moglie per farle capire che non ne poteva più, ma Gaby era tutta concentrata nella ricerca di nuovi argomenti di conversazione. Cosa poteva esserci in comune tra le due? Erano distanti miliardi di anni luce e si vedeva, si sentiva.
– Dove vi siete conosciuti con Leo? – Gaby non mollava.
– A Formentera l’estate scorsa.
– Formentera? Ci siamo stati in luna di miele! – Gaby aveva finalmente trovato un punto in comune.
– Beh ma non è stato mica un colpo di fulmine! Poi ci siamo rincontrati a Milano a dicembre. Io ero lì per un casting, Leo per un evento aziendale credo, ci si è ‘scontrati’ in un locale di Brera per un›ape, ricordi micio?
Cloe si spalmò addosso a Leonardo con un miagolio. Leonardo rise e si versò
ancora del vino. Fece cenno al cameriere di portarne un’altra bottiglia e baciò Cloe sulla bocca.
– Casting? – Gaby insisteva e Alberto le tirò un piccolo, impercettibile calcio. Era al limite.
– Sì, era per uno spot pubblicitario. È andata male, troppo bassa hanno detto. Però ho rivisto Leo e qui è andata bene, anzi meglio! Da quel momento in poi abbiamo cominciato a fare gli zingari… Sanremo, Milano, Roma, ogni tanto un week-end a Londra o Berlino, insomma le solite cose.
– Beh sì, come tutti d’altronde… – intervenne Alberto accendendosi l’ennesima sigaretta. A Leonardo non sfuggì il suo tono sarcastico.
– Vacanze? Avete già prenotato? – Cloe si rivolse a Gaby sforzandosi di mostrare un interesse che non provava.
– Quest’anno saranno molto tranquille, nel mio stato non mi sento di viaggiare. Andremo a Formia nella casa al mare dei miei.
– E perché scusa? Nel tuo stato? Io quando ero incinta ho fatto traversate a vela fino in Sardegna. Che so, la gravidanza non è mica una malattia, anzi, sei sempre al centro delle attenzioni di tutti, puoi permetterti i vizi e le impuntature che ti vanno, sei sempre scusata e coccolata. Se non stai male è meglio che te la si perché poi arriva il buio, il grande tunnel. Fine del divertimento, almeno per qualche annetto. Bam! – E accompagnò la sua espressione con un gesto della mano che imitava lo scoppio di una bomba.
– Chiediamo il conto? – Alberto chiuse definitivamente l’argomento. – É tardi, scusate, sono anche parecchio stanco, giornata pesante oggi, in tutti i sensi.
– Sì certo – Leonardo fece di nuovo cenno al cameriere e al suo arrivo, senza guardarlo, gli consegnò la carta di credito color platino. – Ovviamente miei ospiti… – strizzò l’occhio all’amico che, di rimando, fece un piccolo inchino con il capo.
VI
La montò da dietro mentre la doccia distribuiva sui loro corpi piccole perle d’acqua appena tiepida, quasi nebulizzata. Dai due lati dell’abitacolo quattro piccoli getti d’acqua venivano sparati orizzontalmente a idromassaggio, rendendo l’amplesso ancora più eccitante. La sera precedente non erano riusciti a farlo, troppo stanchi e gonfi di vino dopo la cena a Fregene e in tacito accordo avevano rimandato alla mattina successiva. Adesso erano là a godersi un momento di sesso intenso, in quella meraviglia di doccia che Andrea stava facendo funzionare alla perfezione. Le dita di Leonardo strizzavano i capezzoli di Cloe mentre la penetrava con forti colpi di bacino. Quell’acqua che li inondava da ogni lato, li accarezzava e li massaggiava quasi con discrezione, era perfetta. Stando ai mugolii, anche la sua compagna condivideva quel pensiero, tutta quell’acqua la eccitava e la stordiva, non poteva pensare a nulla di preferibile a quella scopata perfetta. Improvvisamente entrambi percepirono come una scarica elettrica sulla pelle e poi un dolore insopportabile, tanto da farli urlare. La temperatura dell’acqua si era alzata di botto, raggiungendo l’ebollizione. La pressione dei gettiti orizzontali era diventata enorme, sembravano geyser islandesi, con temperatura da geyser.
– Fanculo! – urlò Leonardo uscendo di corsa dalla doccia, seguito a ruota da Cloe che continuava a urlare istericamente. – Che cazzo succede? Aspetta che prendo gli accappatoi… stai bene? Fammi vedere…
Cloe continuava a strillare come impazzita, mentre la sua pelle, in particolare quella delle cosce e delle braccia, iniziava ad arrossarsi violentemente. Anche Leonardo aveva gran parte del corpo semiustionato e dopo aver ato l’accappatoio a Cloe ed essersi infilato il suo, tentò di chiudere quell’inferno d’acqua che stava ancora schizzando al massimo della pressione. Alla fine ebbe ragione della cascata bollente e si sedette esausto sulla panca di teck posta all’interno del vano doccia.
– Guarda Leo! – piagnucolò la donna mentre mostrava al compagno le chiazze violacee che si allargavano sulle braccia. – Mi ha scottato quella cazzo di doccia! Questa sarebbe la ‘casa intelligente’? Per un pelo non ci abbiamo rimesso le penne. Che gli ha preso?
– E che ne so? É da qualche giorno che sta svirgolando ’sta scema.
– Scema?
– Sì… Andrea, il computer di casa, quello che governa tutte le funzioni. Te lo avevo detto no? Ho scelto l’aspetto dell’avatar l’ho chiamata Andrea, al femminile… cioè, l’avatar è donna con il nome da uomo, ma anche da donna, insomma…
– Sì ho capito, non me ne frega niente adesso. Sto bruciando Leo, dammi qualcosa! E chiama anche qualcuno, fai aggiustare questa Andrea del cazzo. – Cloe stava raggiungendo vette d’isteria piuttosto elevate.
– Basta che abbassi i decibel, mi irriti quando urli, ti si assottiglia la voce, si distorce e diventa sgradevole. Senza offesa ma ti preferisco quando ansimi. – Leonardo si diresse verso il mobile dei prodotti da bagno, dove conservava anche i medicinali. Andò a colpo sicuro, tra la schiuma da barba e la bottiglia di Eau de Toilette Greene Street di Etro afferrò un flacone di vetro marrone scuro, semplice, senza etichetta, con il tappo a vite. Lo aprì e versò un po’ della lozione lattiginosa nel palmo della mano sinistra, si sfregò entrambe le mani e iniziò a massaggiare le braccia di Cloe.
– Che roba è? – cantilenò la ragazza.
– Viene dall’Africa, me l’ha portato mia madre qualche mese fa. É una specie di lozione contro le scottature a base di olio di cocco e aloe. Praticamente un miracolo! L’ho già provata qualche volta ed è portentosa. Senti già un po’ di sollievo, vero?
Cloe annuì e si lasciò massaggiare a lungo. – Quanto tempo sei rimasto laggiù? – gli domandò mentre a occhi chiusi si lasciava andare a massaggi sempre più intensi, sulle braccia, sulle spalle e poi ancora più giù, sulla schiena, sul sedere. Le mani di Leonardo s›insinuarono piano tra i glutei fino ad arrivare, con estrema lentezza, alla vagina.
– Quattro anni. Ne avevo tre quando arrivai ad Abidjan e sette quando la lasciai. – La sua voce si abbassò impercettibilmente.
– E com’era lì?
– Bello… – non aveva voglia di parlare di quel ato, non ne aveva mai avuto voglia. Continuò a massaggiare Cloe reiterando i movimenti lenti e morbidi, aspettando il risalire del desiderio abortito. Il richiamo dell’Africa però l’aveva destabilizzato, come sempre quando pensava a quel periodo lontano, a quella sua personalissima età dell’oro in cui era stato perfettamente felice, da solo in quella luce, fra quei colori, quegli odori. Non aveva mai voluto condividere con nessuno quella stretta al cuore, il piccolo dolore sordo che s’insinuava alla bocca dello stomaco e che, alcune notti, non lo faceva dormire, la mancanza d’infinito che non lo lasciava mai. Nessuno aveva accesso a quel suo mondo di porpora e cacao, lontano, immerso nella laguna di Le Plateau, tra gli ibis bianchi e neri e gli aironi cenerini che arrivavano dall’Italia a svernare in quella terra.
Si staccò improvvisamente da Cloe, come se ne avesse ricevuto una scossa elettrica.
– Cosa c’è? – miagolò lei sorpresa.
– Niente… non hai fame? Dai che preparo, stamattina sono allupato, in tutti i sensi. – Leonardo rise mentre si buttava addosso l’accappatoio.
– Beh, alla fine non mi è parso così tanto sai. – Cloe non gli stava perdonando l’abbandono dell’ultimo minuto. Sicuramente avrebbe preferito finire il massaggio in altro modo. Indossò il suo accappatoio lentamente, svogliata e lievemente imbronciata.
Calcarono insieme le pedane di cristallo della scala e raggiunsero la zona living e cucina. Lei si buttò su uno dei divani e accese con il telecomando l’ultrapiatto Led di cinquantadue pollici incassato a filo muro, sintonizzandolo su un canale tematico di moda. Leonardo intanto dietro al bancone di cottura aveva iniziato il suo dialogo con Andrea, apparsa tempestivamente sul kitchen monitor.
– Pancake, ricetta tradizionale…
Occorse solo una manciata di secondi e la voce calda e morbida di Andrea iniziò a dettare gli ingredienti. Contemporaneamente Leonardo prese la bilancia e prese a seguire, o o, le indicazioni del computer.
– ... duecento grammi di farina, due uova, due cucchiaini di lievito in polvere, mezzo cucchiaino di sale, un cucchiaio di zucchero, duecentocinquanta millilitri di latte, tre cucchiai di olio di semi.
Ogni volta che Andrea citava un ingrediente Leonardo la metteva in pausa, il tempo necessario per pesare, misurare e metterlo nella ciotola. Poi prese il padellino per le crepes, lo unse appena di burro e lo arroventò sul fornello di ceramica nera. Gli piaceva da matti cucinare, amava il buon cibo e prepararlo per sé o per gli altri, che fossero amici o compagne non era importante. Mangiare e bere bene in compagnia era uno dei piaceri della vita. Si soffermò un attimo a pensare che la gran parte delle donne con cui era stato, anzi quasi tutte, non sapeva preparare nemmeno il classico uovo al tegamino, a detta degli chef il piatto più difficile del mondo da cucinare a regola d’arte. Comunque non aveva nessuna importanza il fatto che quelle donne non solo non sapessero cucinare, ma che nemmeno mettessero piede in cucina. A lui interessava che riuscissero a fare altro e lì la loro competenza era senza dubbio notevole. Sorrise e gettò lo sguardo su Cloe, abbandonata sul divano mentre giocherellava con una ciocca lunghissima di capelli neri corvini, una delle sue extension. Wanda sarebbe rimasta inorridita, ma lei sapeva cucinare…
– Pronte! Che fai, vieni a sederti? – Leonardo si accomodò su una delle sedie in pelle bianca che circondavano il grande tavolo da pranzo di cristallo e acciaio. Sistemò in bella mostra le pancake su due piatti da portata. Frittelle allo sciroppo d’acero in uno e alla marmellata di frutti di bosco in un altro. A fianco c’era del succo d’arancia e una brocca termica con il caffè americano appena fatto.
– Non mi va di alzarmi, portami qualcosa qui… – Cloe era intenta a guardare l’ennesima sfilata di moda in televisione.
– Dai, sei a un metro da me. E poi mi sporchi il divano…
– Uff, sembri mia madre… vieni tu qui!
Leonardo sbuffò un po’, poi si arrese e le portò un piatto con alcune pancake, il tovagliolo, e un mug con il caffè. La guardò prendere il piatto pigramente mentre non fece il minimo sforzo per afferrare la tazza, lasciandogli l’onere di poggiare il resto delle vettovaglie sul tavolino basso. “Svogliata e indolente, anche nel mangiare” pensò lui, ma gli piaceva così, lo eccitava quella pigrizia, quel suo non saper fare quasi niente. Le ricordava un felino accucciato sotto un albero della savana in attesa. Svogliata e ardente.
Cloe assaggiò appena una frittella, poi si sporse per prendere il mug pieno di caffè ma, nell’afferrare la tazza, ne versò un po’ sul pavimento.
– Fa’ attenzione …
– É troppo piena, colpa tua! – si lamentò Cloe che non accettava rimproveri, anche sommessi, da nessuno. Non si curò nemmeno di asciugare le gocce di caffè colate dalla tazza, che adesso sporcavano il divano immacolato.
– Cristo Cloe! Cazzo, ma stai attenta!
– Ehi, ma che modi! Datti una calmata, sembri una portinaia isterica…
– Isterica un cazzo, mi hai macchiato un divano e te ne freghi pure. Hai idea di quanto costi? Lo sai che non è nemmeno un mese che sono in questa casa e già me la rovini? Ti sei resa conto di che tipo di casa sia questa?
– Ma che cazzo ti urli eh? Per una macchietta di caffè su un divano, ti rendi conto? Cose che succedono in continuazione, ma tu mi sembri sclerato di brutto! Esistono le donne delle pulizie, ti è arrivata ’sta notizia? E poi, sì, me ne sono accorta di questa razza di casa superstrafiga… allora sai che ti dico? Interpella quel cazzo di oracolo di Delfi che c’hai nel computer e chiedilo a quella come si smacchia ’sto cazzo di divano e non rompere le palle a me!
Cloe si alzò dal divano, calpestò con i piedi nudi le gocce di caffè sul parquet, lasciando altre macchie sui listoni di legno chiaro. Alzandosi caddero anche alcune briciole di frittella che andarono ad appiccicarsi al caffè caduto, creando una piccola serie d’impiastri scuri e appiccicosi. Leonardo allargò le braccia e poi alzò gli occhi al cielo in silenzio. Con lo sguardo seguì la compagna mentre si dirigeva verso la scala, seguì l’ondeggiare dei fianchi e delle extension nere sul sedere. Poi si decise a parlarle di nuovo.
– Cosa vuoi fare oggi?
VII
Si svegliò all’improvviso nel cuore della notte. Il cuore batteva all’impazzata, era sudato, anzi madido di sudore benché l’aria condizionata funzionasse a pieno ritmo. Era solo, Cloe era andata via, tornata a casa dopo tre giorni di furore sessuale e verbale. Tremava in preda al panico, una paura infantile e assoluta, gli battevano i denti, i muscoli irrigiditi gli facevano male, non riusciva a capire chi fosse, dove fosse. C’era un buio anomalo, di solito nel loft il chiarore delle notti estive penetrava dal lucernario e illuminava tutto lo spazio interno. Non quella notte, non in quel momento di terrore. Rimase immobile sul letto, avvolto per metà dal lenzuolo, a fissare con gli occhi sbarrati la parete di fronte. Qualcosa non tornava, qualcosa di strano, talmente strano da sentirsi accapponare la pelle. Il colore della parete… che stava succedendo? Quello era rosso, rosso scuro, vecchio e rovinato. Quella meravigliosa nuance di beige che aveva scelto tra le decine di sfumature all’apparenza identiche, in realtà con abissali differenze tra l’una e l’altra, quel meraviglioso beige cipriato dov’era andato a finire? Fece per alzarsi, sentiva le gambe pesanti, tutto il corpo rifiutava di obbedire ai comandi del cervello. E quella musica… non ricordava di aver programmato Andrea in quel senso. Figuriamoci poi a quell’ora di notte. Anche la musica gli dava i brividi, anzi, proprio quella specie di nenia, di strana cantilena. Prestò attenzione alle note: riconobbe il suono del flauto, almeno tale sembrava, e poi di sottofondo, in un crescendo lentissimo ma costante, lamenti raccapriccianti che salivano sempre più forti, alternati a schiocchi come di nacchere… no, non erano nacchere, piuttosto rumori di cocci rotti, o di bicchieri? E poi un frastuono di vento tempestoso, che strano il vento a fine giugno, il vento dentro casa!
Riuscì ad alzarsi e con un po’ di coraggio, facendo leva sulla curiosità, scese per la scala cercando di individuare la fonte di quella musica inquietante. Arrivato nel living si girò intorno ma niente da fare, non riusciva a localizzare l’origine di quei suoni, di quel vento maledetto. Sembrava che l’intera casa fosse posseduta da quella melodia raccapricciante. Lo sguardo di Leonardo si posò sul monitor in cucina e vide uno strano bagliore, era il verde smeraldo degli occhi di Andrea che brillavano nel buio. Si vedevano solo gli occhi, grandi e scintillanti, si muovevano come se stessero controllando lo scuro ambiente circostante.
– Ma che caz… – Leonardo si avvicinò con circospezione al server, il cuore continuava a pulsare. Sfiorò il monitor con la mano tremante, cercando di capire cosa diavolo stesse succedendo. Era tutto in ordine, almeno così sembrava. Andò alle selezioni musicali e le trovò in modalità off, non riusciva a capire, mentre il volume della musica, quell’orripilante lamento antico, continuava ad aumentare. Sembrava uscire dalle viscere della terra, dalle fiamme dell’inferno. Quella melodia - se così poteva chiamarsi - non aveva nulla di terreno. Leonardo si sentì perso, il terrore aumentò, sentì il cuore schizzare fuori dalla gabbia toracica, la pressione stava toccando vertici pericolosi. Fu proprio in quell’istante, all’apice del panico, che tutto tacque, i lamenti, i rumori, il vento. Si appoggiò al bancone della cucina, stremato.
– Come sarebbe, una nenia antica? – la voce di Wanda risuonò squillante e divertita dal telefono dell’ufficio. L’aveva messa in viva voce tenendo la porta a vetri opportunamente richiusa.
– E già… praticamente un lamento senza fine. Un’angoscia che non ti dico. Così, di punto in bianco, in piena notte… e poi quel buio. Non c’è mai buio pesto in casa, il lucernario svolge il suo compito alla perfezione, l›ho pagato un occhio proprio per questo. Invece sembrava di stare in una catacomba, ero in piena crisi claustrofobica.
– Fammi capire, non avrai pippato più del solito, eh?
– Vaffanculo. Io ti sto parlando di un incubo vero, per poco non ci restavo secco e non per quello che credi tu. Non avevo nemmeno bevuto un goccio di vino… e mangiato pochissimo se lo vuoi sapere. Avrei voluto che fossi con me, così, tanto per farti collassare un po’.
– Eh, sarei collassata senz’altro. Ma poi come hai risolto?
– Niente, di punto in bianco la cosa si è fermata. Così come era nata. E io lì, a reggermi da qualche parte per non cadere stecchito, una roba infernale. Ma da inferno vero! Ci avrò messo non so quanto per rimettermi in piedi e smanettare sul computer. Niente di niente, tutto perfettamente regolare e funzionante, quella musica non so proprio da dove sia uscita e perché proprio a quell’ora, visto che non avevo programmato nulla. La prima cosa che ho fatto stamattina è stato chiamare i deficienti della DomoTechna, a modo mio sai, tanto per dargli il buongiorno. E loro sai cosa hanno risposto? Sarà uno sbalzo termico. Capito? Uno sbalzo termico… ’sti coglioni incompetenti! Abbiamo messo su tutto questo ambaradan di casa, foto su riviste, pure l’intervista sul tuo canale tematico preferito... e il sistema comincia a svalvolare. E questi mi parlano di ‘sbalzo termico’? Che dici, non dovrei essere un tantino incazzato?
– Uh, beh certo non è piacevole aver speso tutto quei soldi e poi trovarti a combattere con la meteorologia, cosa antica e imprevedibile, fuori dai tuoi adorati planning. Che vuoi che ti dica, sopporta con eleganza e comprati dei tappi per le orecchie, in farmacia con 6 euro ti salvi la vita.
– Guarda che lo faccio sai? – Leonardo finalmente si concesse un abbozzo di risata – Ti prendo in parola e mi compro anche la mascherina per gli occhi, tiè!
– Oggi voja de far un cavoeo… dovrò decidermi a prenotare il biglietto per Roma. La Festa dell’Unità è già iniziata.
– Mmmh, non vedo l’ora! Per la Festa dico, non vedo l’ora di accompagnarti per rivedere tutti i tuoi amichetti di partito e immergermi in quelle dotte conversazioni che più che altro mi ricordano le ciacole da spogliatoio.
– Mai sottovalutare il mondo del gossip, è lì che naviga la politica!
– Su questo ti do ragione. E non solo la politica mia cara, anche tutto il resto. Le mie mosse professionali migliori le ho fatte grazie agli inciuci.
– Dammi una data, così prenoto. Vorrei almeno beccarti a Roma. Non ti preoccupare, non voglio che mi ospiti, non mi permetterei mai di esserti d’intralcio, terzo incomodo con le tue adorate zoccole. Però almeno vederti eh?
– Vai a stare da Marta?
– Credo di sì, il mio budget, lo sai, è sempre scarso… a differenza del tuo, ignobilmente illimitato.
– Tutto strameritato.
– Perché vuoi dire forse che il mio, i miei do schei, non lo siano? Mi faccio il culo io, dalla mattina alla sera per racimolare due soldi, sudati e onesti e ci pago pure le tasse. La cultura non paga in questo schifo di paese, il cinema poi… non ho la multinazionale delle mucche che mi a anche la carta igienica, oltre allo stipendiuccio da manovra finanziaria del Mali.
– Non fare l’acida, non oggi che sono ancora scosso.
– Lo sai qual è stato il primo film che vidi al cinema? Sinuhe l’egiziano. Entrai al cine dicendo che dovevo cercare mio fratello. Ero piccina, avrò avuto forse dieci anni, il cinema era vicinissimo a casa. Andai da sola e pure a scrocco.
– Abitudini che non hai più dimenticato…
– Dici che sono scroccona?
– Almeno con me, ma lo sopporto lo sai, con signorilità. Non mi verrebbe mai in mente di rinfacciartelo. È un piacere farmi ‘scroccare’ da te, mettiamola così – questa volta Leonardo rise di cuore.
– Mai fare del bene per avere qualcosa in cambio: fai del bene e dimentica!
– Ah sì? Di quale bene stai cianciando?
– Basterebbe solo il fatto di esserti amica sai? Amica vera, non come quelle… ci siamo capiti. La Wandina è sempre qui, nel bene e nel male, in salute e in malattia, finché morte non ci separi.
– Ecco, lo sai che sto facendo in questo momento vero?
– Non lo voglio sapere, ma immagino. Cerca di non consumartele troppo però.
– Questo mai! Massima cura dei gioielli di famiglia. Senti Wanda, sul più bello devo chiudere, le bovine mi reclamano. Fammi sapere dei tuoi spostamenti a Roma e anche stavolta vedrò di esserci a Caracalla, a ingozzarmi di arrosticini e a sparlare di politica.
– Contaci Leo. E stai in guardia co’ casa tua… non so, ma go l’impression che la parona sia ea eh?
Caldo, troppo caldo, l’aria era immobile, solida, irrespirabile. Le tende del terrazzo non si erano gonfiate così come sperava Leonardo. Per la cena d’inizio estate, celebrazione della notte più corta dell’anno, nessun venticello romano era accorso per contribuire alla scenografia allestita, al coup de theatre immaginato dal regista della serata. Quei teli di garza di lino trasformati in candide vele trasparenti avrebbero dovuto danzare alla luce delle decine e decine di candele bianche, di svariate misure e fogge. La luce era magnifica ma amplificava se possibile ancora di più quel caldo, quella strana afa che all’imbrunire si sarebbe dovuta attenuare se non addirittura dissolvere. Le notti d’estate, si sa, dovrebbero essere un tantino meno roventi delle giornate, in genere dopo il tramonto l’aria diventa più dolce, più sopportabile, viene voglia di uscire, di star fuori a godersi quel fresco atteso per tutto il giorno. E invece no, Leonardo stava sudando come un cavallo dopo il Grand Prix d’Amerique a Parigi. Era in bianco, pantaloni ampi di lino, casacca di garza leggera comprata in un viaggio a Delhi, sandali greci ai piedi. La pelle, già scura per eredità genetica, era ancora più abbronzata dai numerosi week end ponzesi iniziati più di un mese prima sul catamarano di Rolf. Le note di Kissing dei Bliss avevano iniziato a risuonare dal grande impianto stereo posizionato in un angolo della terrazza e governato dal dj Josh, un afroamericano trapiantato a Roma da un po’ e già sfruttato per gli innumerevoli eventi aziendali organizzati dallo stesso team di Leonardo. In pratica quella sera lavorava gratis, un obolo a Lio, così lo chiamava, per assicurare che il suo nome fosse presente in pianta stabile nel prezioso albo dei fornitori. E gratis sarebbe stato, per lo stesso motivo, anche il catering della serata, un’ottima selezione fusion di piatti prevalentemente orientali accompagnati da vini all’altezza della situazione e della casa che li ospitava. Il bianco evidentemente era il colore della festa, come nella migliore tradizione modaiola romana e non. Alle feste d’inizio estate si sfoggiavano abiti e accessori
acquistati per lo più in viaggi esotici, o in trasferte di lavoro in località ‘ispiranti’ quali il Marocco, la Malesia o l’India, nuova ambitissima meta dove organizzare meeting di un giorno e mezzo estendibili fino a sette.
Il bianco, oltre a rivestire le sottili strutture di metallo, a ricoprire i divani e le poltrone, a decorare i tavolini bassi con sottobicchieri e micro tovaglioli, a scintillare sulle candele e a esplodere nelle decine e decine di gardenie immacolate raccolte in ciotole di resina nera al centro dei tavolini, il bianco era anche il protagonista del dress code della serata. L’universo femminile che popolava la terrazza sembrava essersi ato la voce anche se, in effetti, Leonardo non aveva specificato che si sarebbe trattato di un ‘White Party’. Nuvole di leggiadre ragazze squittivano nei loro “Ma dai!”, “Spettacolo!”, “Non vivo senza!” nel tintinnio delle loro flute, mentre sbocconcellavano distratte e inappetenti microscopiche porzioni di sushi. Mini abiti bianchi, come piccoli pepli greci, si alternavano a lunghe tuniche di garza o lino candido, trasparenti al punto da lasciar intravedere inesistenti perizoma e tette nude con capezzoli bene in vista.
– Ma quella già si è sparata la sua dose giornaliera di neve? – chiese Alberto mentre guardava insistentemente una ragazza bionda inguainata in un abito lungo dalla trama finissima e inconsistente. Sotto ovviamente non c’era quasi nulla se non un sedere ben sodo e due capezzoli parlanti.
– Ma chi, Sveva? E bravo Al, vedo che la paternità e la Luminosa non ti hanno ottenebrato il cervello e soprattutto un’altra cosa! – rispose Leonardo dandogli una pacca sulle spalle.
– Sei matto? Parla piano che se Gaby ti sentisse…
– Dio che palle! Lasciala figliare e spediscila a Marcianise. Che sgravi pure ma
non ti può ridurre così. Sai che ti dico? Stasera dovresti mollarla a casa e poi farti un giretto con Sveva, così lo fai rinascere un po’ il tuo diavolo. Cazzo di vita fai?
Alberto guadagnò un posticino su uno dei divani vicino alla ringhiera. Il caldo era ancora insopportabile, mentre continuava a bere prosecco. Gettò un’occhiata al panorama su Ponte Milvio. S’intravedeva uno spicchio di Tevere, una moltitudine di tetti e terrazze e poi i Colli della Farnesina, il tutto illuminato da una luna sfrontata, grande e piena senza sbavature. Il cielo era chiaro, sembrava quasi una notte bianca, come quelle che si vivono nel grande Nord; gli venne in mente Rovaniemi, dove si era recato mesi prima per celebrare il lancio della nuova versione della City Car ‘Tiny’. Avevano approfittato del Natale imminente per organizzare una gita da Santa Claus con tanto di super spot promozionale, stampa e televisione, giornalisti ed esperti del settore. Un circo itinerante nel freddo inaudito, ma un viaggio splendido con gita su slitta e renne inclusa. Chissà perché gli era venuto in mente, visto il caldo equatoriale che stava patendo; forse era per quella luce strana, quella Luna insolente, quel qualcosa che mancava, il sentirsi la terra franare sotto i piedi.
– Oggi mi ha contattato sca. Te la ricordi? Quella di Olbia, te ne ho parlato tempo fa.
– Aspetta, la tipa che hai rimorchiato su Skype?
– Veramente mi ha rimorchiato lei, poi c’eravamo conosciuti in Costa Smeralda, lei era una delle hostess della nostra convention nazionale. Qualche settimana fa mi ha beccato su Skype e ha incominciato ad attaccare bottone.
– Oh ma sei un demonio! Ti sei stancato di scoppiarti di seghe a quanto pare…
– Che cazzo dici?
– E dai ammettilo… da quando ti sei sposato ti sono rimaste loro, compagne fedeli e sempre compiacenti. Voglio ma non posso, non sia mai che Gaby lo venisse a scoprire… mamma mia, anzi mamma sua, e che mamma! Però gli istinti non si castrano e quindi vai con le ottime. E questa com’è? É quella un po’ zozza? Occhi socchiusi e labbra prominenti? Certo, è quella con il sedere sempre in primo piano, che si fa fotografare di fianco con il culo per aria. Beh però niente tette, piattume in zona alta. Niente di che, a parte l’aria da porca che per un paio di seghe va benissimo.
– Senti chi parla di piattume, con quella cosetta che ti trascini dietro da un po’. E di zozze poi… beh lasciamo perdere.
– Che fai, il risentito per la sarda? Sei matto?
– Non me ne frega un cazzo della sarda, l’ho accannata subito, figurati. É a Roma, qui in zona Ponte Milvio. Insisteva per vedermi e le ho detto semplicemente di no. Punto. Era solo par parlare e se mi sarò fatto una sega sulle sue foto saranno pure cazzi miei o no? Che mi fai dire, sono già ubriaco.
– Per carità, non ti scaldare che con queste temperature potresti liquefarti. Mutismo ora, sta arrivando tua moglie.
– Che avete da parlottare sempre voi due? – Gaby s’incollò al marito, il suo braccio lo cinse in vita così stretto che Alberto sentì la milza scoppiare. – Amore
che hai? Sei sempre strano da qualche tempo. Dai papi, dovresti essere al settimo cielo, no? Che c’è? – continuò imperterrita ad accarezzarlo e sbaciucchiarlo.
Leonardo si allontanò dalla coppia con aria leggermente annoiata. Puntò verso Matteo per chiedere di essere salvato dall’onda di melensaggine che aveva sommerso l’amico napoletano. Matteo Magrelli, altro fedelissimo del gruppo MBA, nonché compagno di aperitivi in spiaggia a Formentera e seguace instancabile dei tour di Vasco per ogni dove, era appena tornato per il week-end da Londra, dove ricopriva il ruolo di Investor Relations Manager in una banca d’investimenti.
– Grande Mat… – Leonardo tese il palmo della mano destra verso l’amico, che rispose restituendogli il ‘cinque’.
– Beh Leo, complimentoni! Hai una casa da paura, superiore davvero. Mai vista una cosa simile nemmeno a Londra, e sì che là ce n’è di roba buona. Chi è il progettista?
– Il migliore sulla piazza, Bahram Zadeh. Dovresti conoscerlo, vive a Londra e al momento è il più richiesto del circuito. Averlo è stata una scommessa, ho dovuto supplicare il mio collega inglese che lo conosce benissimo, visto che ha progettato la loro sede sul Tamigi. Abbiamo combinato un incontro ma senza metterci tanto il cuore, sai, credevo che non avesse tempo, che fosse schedulato fino al 2015. Invece mi ha chiesto cosa avessi in mente, la location, la tipologia di abitazione e zac! É impazzito, ha accettato immediatamente, si è subito innamorato dell’idea. La prima, vera casa domotica romana, inserita in un tessuto antico, a due i da ponte Milvio, e giù a raccontarmi aneddoti e storie sul ponte, sui dintorni, sulla Roma tardo imperiale. Io francamente ne sapevo poco.
– Diciamo niente. Non ti vedo patito di storia romana.
– Dai, lo so. Appunto, dicevo, non m›interessava sinceramente la storia dei dintorni del mio loft, più che altro lo volevo a Ponte Milvio, che secondo me è l’unica zona di Roma degna di essere abitata.
– Se ti sentisse Alberto…
– Beh? Lui ha i suoi gusti e lo capiamo guardando la moglie.
– Già, a proposito, sta diventando papà. Non riesco ancora a crederci. Mi sembra ieri che ci avamo le strappone che rimorchiavamo ai nostri eventi, e poi quella professoressina di Aversa? Oddio…
– Sì, quella robetta… aspetta come si chiamava, Pasqualina? Un nome un destino!
– Sì però lei si faceva chiamare Toffy, y, Lilly; vuoi mettere?
– Che era, un cane?
– Beh vista la sua mania per gli animali direi che i nomignoli ci stavano tutti. Una matta, ecco quello che era, sbroccò completamente per Alberto. Lui ci ha giocato un po’, giustamente. Che avresti fatto? Te la sbatte su un piatto d’argento, ti riempie di moine, fa pure l’intellettuale, a suo modo naturalmente, e
poi quello che piace tanto ad Alberto…
– Capelli scuri, lunghi e spettinati sugli occhi a mezz’asta e labbroni socchiusi in primo piano! – Leonardo iniziò a ridere fragorosamente.
– Esatto! Lei poveretta ci aveva quasi creduto, ma come si fa? – Matteo si girò un istante verso Alberto, ancora ostaggio della moglie. – Era già con Gaby a quei tempi? – chiese a Leonardo.
– Mah, credo di sì e comunque si dava da fare altrove, come sempre. Il punto è che potrebbe scegliersele un po’ meglio, non si capisce questa mania per le astratte. Mi piacerebbe invece che stasera si trombasse Sveva, appurato che è in crisi di astinenza. Di femmine serie intendo.
– Serie… nel senso che intendiamo noi, ovviamente!
– Ovviamente! – Leonardo sollevò leggermente la flute e brindò con Matteo, sperando in un fine serata più frizzante per Alberto.
I camerieri avano rapidi e discreti fra tavolini, divani e poltrone, vasche di granito e siepi di olivo, schivando le grandi lanterne poggiate a terra in studiato disordine. Sui vassoi le flute avevano lasciato il posto a mise en bouche di ogni tipo: micro quiche con zucchine e bacon, cucchiai di gambero e bottarda, terrine di parmigiana di melanzane, quadrotti di tonno scottato al sesamo e riduzione di soia, bicchierini di crema di chevre e granella di mandorle tostate. Intanto sul tavolo da pranzo, allestito nell’angolo opposto alla consolle del disk jokey, si facevano notare torrette di pata negra, tajine di agnello speziato e cous cous, fiamminghe di paccheri con melanzane, pomodorini e pesto di pistacchio, grandi
ciotole con insalata di riso basmati allo zenzero e cumino e infine zuppiere trasparenti su ghiaccio con trionfi di freschissime cruditè di mare.
Alberto decise che era giunto il momento di staccarsi dalle asfissianti spire della moglie per gettarsi in una conversazione di gran lunga più eccitante. Leonardo e Matteo si stavano intrattenendo con Claudio Bini, amministratore delegato di una delle massime agenzie mondiali di comunicazione e pubblicità, ovviamente per la sede italiana. Entrambi si erano avvalsi più volte dei servizi pubblicitari di quella società, dalle campagne istituzionali a quelle di lancio di nuovi prodotti, di estensioni di linea, di spot celebrativi e via di seguito. Tuttavia quello che interessava di più ad Alberto era che Bini fosse il capo di Miriam, la donna - non la femmina - che gli era entrata nell’anima rubandogli il sonno e la vita, almeno in quei giorni, in quell’ultimo mese. Avvicinarlo era come accostarsi di nuovo lei.
– Bel lancio eh, Cacciaguerra… un gran bel lavoro di sinergia non c’è che dire. – Esordì Bini alla vista di Alberto. Leonardo rimase per un istante in silenzio, immobile, poi capì, ricordò il racconto dell’amico, ripensò alla Luminosa e cercò con inattesa e crescente curiosità di inserirsi nella conversazione.
– Mi hanno raccontato meraviglie di questo progetto, Claudio. Quasi quasi dovrò inventarmi qualche novità anch’io, voglio provare il tuo nuovo team creativo. – Concluse, strizzando l’occhio ad Alberto.
– Davvero? Sì, devo dire che ho notato un particolare affiatamento tra Alberto e il mio nuovo Creative Director, la Miriam. Elemento di prim’ordine, non c’è che dire, in tutti i sensi… – altra strizzatina d’occhio. Alberto cominciava a innervosirsi, non gli andava giù la piega che stava prendendo la conversazione.
– Infatti… si parlava proprio di quello. Bravissima e bellissima a quanto pare.
Dovrò incontrarla prima o poi.
– Facciamo prima, eh? Ma da quel certo punto di vista permettimi di avvisarti, non riuscirai a farci proprio niente. Inarrivabile. Non sai in quanti, naturalmente il fior fiore del management europeo, ci hanno provato. È una vestale, caro Leonardo, di quelle integraliste. A onor del vero, devo ammettere che l’ho vista stranamente interessata al nostro Alberto. Per carità, sempre nei confini della decenza e del buon gusto, ma c’era qualcosa tra loro, una corrente, una tensione particolare.
– Ma no. Semplice condivisione. Abbiamo lavorato bene, stessi ritmi, stesso approccio, nessun contrattempo. Tutto è filato liscio e continua ad andar liscio, almeno per il momento. – Alberto cercava di mantenersi vago, sperando che non trapelasse nessun turbamento, nessuno sguardo particolare, proprio lui, così facile nel tradirsi.
– Dai Leonardo, non vuoi provare il nostro genio creativo? Non ho ancora ricevuto nessun brief per il prossimo Natale e siamo già prossimi al time off.
– Vero, ma abbiamo avuto l’ok sul budget poche settimane fa. Allora, ti faccio inviare il brief dai miei manager entro dopodomani. Finalmente un po’ di sano straordinario in ufficio, adoro vederli incollati ai computer fino a mezzanotte. Con il mio fiato sul collo, le mie mail alle tre del mattino, i miei sms all’alba.
– Scusa, ma tu hai questi orari? Non dormi mai? – Bini lo guardò scettico.
– Certo che no. Quando c’è la consegna di progetti, preparazioni di convention o di meeting capita che mi organizzi una cena fuori, magari vicino all’ufficio e poi
rientrando, faccio in macchina il giro del palazzo e butto un’occhiata alle stanze del mio piano. Dalle vetrate mi rendo subito conto se il team c’è e se sta lavorando, è semplice. Li voglio tutti alle scrivanie. Per quanto riguarda le mail e gli sms, metto la sveglia e spedisco. Poi mi riaddormento, ma pretendo da loro risposte immediate. É bene che siano sempre impauriti, tesi e aggressivi. Producono di più, mi devono temere e adorare, perché quando vinciamo, e succede sempre, io so premiarli. Mi devono anche odiare, certo, fa parte del gioco.
Claudio Bini annuì con atteggiamento di stupito rispetto.
– Caspita Leo! Sei un vero leader tu, una bestia feroce… e vincente mi auguro.
– I risultati parlano per me, non ho bisogno di aggiungere altro. La mia casa parla per me.
L›orologio segnava le tre del mattino e gli ultimi ospiti se ne stavano andando. Ci fu un via vai sulle scale, il cristallo mostrava i segni dei numerosi aggi, c’erano macchie ovunque, strisciate di tacchi, orme di sandali e di mocassini maschili. E macchie anche sul pavimento del salone, perfino su un divano. Leonardo cercò di dissimulare il suo nervosismo mentre salutava gli amici ritardatari, poi mentre anche quello che credeva l’ultimo guadagnava l’uscita sentì dei mugolii alle sue spalle. Si fermò un istante ad ascoltare meglio, si accorse che provenivano da uno dei divani celati nel buio della sala. Si avvicinò con circospezione e li vide. Selvaggia e Paolo, seminudi, o meglio lui con la camicia addosso e il bacino nudo mentre lei gli stava sopra completamente spogliata con la testa poggiata al suo basso ventre, la bocca incollata al membro.
– E che cazzo! – Leonardo perse definitivamente la pazienza.
– Lo puoi dire forte… – rispose Selvaggia staccandosi dal partner del momento.
– Potete continuare fuori l’esercizio per favore? No dico, non ce l’avete una casa? Un’automobile? Un pratone dove sfogarvi? Avete scambiato casa mia per un bordello? Fatela finita, immediatamente.
– Eddai Leo, non mi fare il puritano proprio tu! – Paolo si alzò dal divano cercando di rivestirsi in fretta. I suoi boxer e i jeans erano sparsi sul pavimento, i mocassini sotto il divano.
– Io faccio il puritano quanto cazzo mi pare a casa mia, chiaro? Per la cronaca, io non vado a scopare a casa di altri senza chiedere il permesso… e poi davanti a tutti.
– Ah sì? Memoria corta… vediamo di rinfrescarla insieme allora. A casa di Tommy tu e Cloe un mesetto fa? Ti ho beccato in cucina che te la sbattevi sulla porta del frigo. Poi, vediamo… ah certo, a Pasqua a Punta Rossa, casa di Giorgia, tu e quella russa, la slavatona con i sandali arancioni, Dio che bestia! Eravate guarda caso in salotto… che faccio, continuo?
Leonardo iniziò a ridere forte. – Brutto figlio di puttana! Va, va… tornatene a casetta che è tardi. Vai, e non peccare più!
Improvvisò una goffa di benedizione, barcollando leggermente. L’alcool si faceva sentire e vedere, era ora di buttarsi sul letto e svenire.
VIII
Iniziò con un freddo innaturale, tremava come se avesse la febbre altissima. Poi di nuovo la musica, quella nenia infernale. – No, ti prego, Dio fa che non succeda ancora!
La preghiera gli salì spontanea dalla gola in fiamme. La testa pulsava, sentiva tutte le vene rigonfie e il freddo continuava ad attanagliarlo. Non riusciva a muoversi per il gelo, i denti battevano talmente forte da fargli male, la paura lo paralizzò, obbligandolo all’immobilità assoluta. Nonostante il terrore all’improvviso si ritrovò in piedi accanto al letto, mentre la musica continuava a risuonare per tutta casa, con lamenti alti come le fiamme dell’inferno.
Basta, basta, l’orrore doveva finire, doveva svegliarsi dall’incubo e tornare alla vita, riemergendo dal quel delirio di buio, freddo e musica, sottraendosi alle mani scheletriche che lo ghermivano e lo graffiavano, fino a farlo affondare, morire. Molto lentamente riuscì a spostare le gambe e poi a muovere qualche o incerto. Il gelo era insostenibile, gli facevano male le mandibole per il tremito fortissimo dei denti, ma comunque s’impose di scendere al piano di sotto. Aveva una stramaledetta, vitale voglia di prendere a calci il computer, il monitor e quella stronza di Andrea, di accendere un falò al centro del salone e dare fuoco alla casa, in modo da scaldarsi un po’ e fuggire via, per ritornare in quel caldo umido e avvolgente che era stato il leit-motiv dei suoi anni più felici. Iniziò a scendere le scale mentre quell’orrenda musica continuava a suonare, quasi a urlare. Se Dio non lo ascoltava almeno i demoni degli inferi potevano aiutarlo. Si rivolse a loro cercando di evocarli, si sforzò di ricordare il nome dello spirito maligno che la sua nounou, la sua tata, nominava durante le tempeste tropicali che squassavano Abidjan, quando possenti muraglie d’acqua s’infrangevano contro le vetrate della residenza di Monsieur l’Ambassadeur e i lampi illuminavano a giorno i saloni, gli specchi, i candelabri, l’argento delle brocche e i cristalli dei calici. I tuoni poi, quelli se li ricordava perfettamente, boati senza fine che arrivavano fin nella pancia, che gli facevano sobbalzare il
cuore mentre correva verso la sua stanza a rintanarsi sotto il letto. Gli venne in mente Shango, il dio del tuono, era lui che la nounou evocava in quei momenti apocalittici, ma forse non era maligno, era semplicemente uno fra i tanti dèi del pantheon africano.
A che stava pensando? Mancavano solamente gli spiriti, maligni e non, a rallegrargli la nottata.
Raggiunse in qualche modo il server centrale e si fermò un attimo a osservare il monitor, trattenendosi a stento dal prenderlo a pugni. Gli occhi di Andrea erano lì che lo fissavano nel buio, smeraldi fiammeggianti e crudeli che sembravano volerlo morto. Esitò ancora un istante prima di affrontare il touch screen, quasi paralizzato da quello sguardo virtuale, anche se in quel momento tanto virtuale non era. Erano occhi veri, o almeno parevano tali, lo fissavano nel buio e nel gelo del loft che in quel frangente assomigliava a un enorme sarcofago. Riuscì finalmente ad avvicinarsi al monitor e a colpirlo, più che toccarlo. La rabbia e la paura lo spinsero a pigiare con forza il sottilissimo schermo con dispositivo ‘retina’, che mal sopportava la sua irruenza nevrotica. Disperatamente tentò un set-up ma non gli riuscì, la macchina era bloccata mentre la musica e i lamenti sembravano aumentare d’intensità. Benché fosse agghiacciato dalla paura e dalla temperatura polare Leonardo iniziò a sudare. Continuò a pigiare sul monitor ma quello che vedeva erano solo gli occhi fissi di Andrea; improvvisamente tutto tacque, lo sguardo verde sparì, il gelo sembrò meno intenso. Il display si accese sulla schermata dei menu, era tutto regolare, come se mai niente fosse successo. Anche le luci del salone si accesero e Leonardo iniziò a guardarsi intorno come se fosse in quella casa per la prima volta. Di nuovo tornò a fissare il monitor per guardare l’ora: le tre e un quarto del mattino, l’ora del lupo pensò. Vargtimmen, l’omonimo film di Ingmar Bergman, che Wanda lo aveva costretto a vedere molti anni prima, era l’unico film ‘impegnato’ apprezzato da Leonardo e adesso gli tornava in mente in tutta la sua drammaticità. L’ora del lupo, come spiegava nel film il protagonista Johan, è quel momento tra il finire della notte e l’inizio dell’alba in cui tanta gente muore e nasce, nel quale il sonno è più profondo e gli incubi più reali. É l’ora in cui i bimbi piccoli si svegliano terrorizzati e piangono cercando la mamma, sperando di essere presi in braccio e portati nel lettone.
Prese uno sgabello e si sedette di fronte al computer, la testa fra le mani, le gambe molli. Rimase così per un po’ con il desiderio di essere anche lui preso in braccio dalla mamma, coccolato e portato nel lettone. La temperatura stava lentamente tornando a livelli accettabili per poi ristabilirsi, sperò, ai ventuno gradi costanti. Decise di tornare a letto e di aspettare lì l’alba ormai prossima, contenendo la voglia di fuggire via e di non tornare più. Risalì le scale e raggiunse la stanza, fece per sedersi sul letto quando il suo sguardo cadde sullo schermo nero del televisore incassato a filo parete. C’era qualcosa che non capiva, si alzò di nuovo ormai completamente esausto, andò barcollando verso il muro di fronte. Lo schermo era bagnato di condensa a causa del forte sbalzo termico e s’intravedeva qualcosa, un segno o forse una scritta, sì qualcosa di scritto. Alcune lettere gocciolavano, altre si leggevano meglio. Si avvicinò quasi a toccare con il naso lo schermo, poi indietreggiò per vedere meglio e lesse: pudeat te.
IX
– Non ne ho idea, veramente. Non so cosa dirle, abbiamo fatto tutti i controlli del caso, tutti i set up possibili. Il risultato è che non c’è niente di anomalo, il sistema è perfettamente funzionante.
– Non mi ha capito, oppure non mi sono spiegato. – Leonardo si sporse leggermente verso Iccardi, il General Manager di DomoTechna, un quarantenne di Lambrate approdato da un paio d’anni a Milano dove aveva fondato la sua società.
Erano in collegamento su Skype; Leonardo, completamente devastato dalla nottata da incubo e stravolto dalla rabbia non riusciva a contenere l’ira, mentre il suo interlocutore faticava a mostrarsi disinvolto.
– Sto vivendo in vero incubo. Ha presente una casa infestata? Condizionamento dell’aria completamente kaputt, così all’improvviso e sempre nel cuore della notte, musica terrificante che non si capisce da quale oltretomba arrivi, mai impostata da me e mai registrata. Il computer che non risponde ai comandi, l’avatar che mi guarda come se mi volesse accoppare e poi… – e lì si fermò. Non riuscì a finire il suo racconto, ebbe come una sorta di misterioso pudore nello svelare quello che aveva letto sullo schermo bagnato dal gelo del suo televisore. Si ò la mano tra i capelli con un gesto nevrotico, cercando di calmarsi. Doveva risolvere quel casino e di certo non ci sarebbe riuscito dando in escandescenze, quindi respirò a fondo buttando fuori il fiato in maniera quasi plateale.
– Le ripeto, se crede posso mandarle nuovamente uno dei nostri tecnici migliori. Ovviamente tutto a nostre spese, non c’è problema. Questo pomeriggio stesso
sarà da lei, le smonteremo il server, controlleremo i monitor, la rete e tutto il resto. Certo questo richiederà del tempo, lei magari dovrà dormire da un’altra parte, almeno per stasera, però sono sicuro che così ne verremo finalmente a capo. La soddisfazione del cliente innanzitutto.
Leonardo annuì scettico. – Me lo auguro, caro Iccardi, me lo auguro più per lei che per me, sa? Perché altrimenti le farò causa, la vincerò perché io vinco sempre, e la rovinerò. La farò chiudere, le farò vendere il suo Porche Cayenne, il suo yacht a Montecarlo e la sua bella villona ad Agrate Brianza, e non sarò ancora sazio. Per cui faccia quello che deve fare e in fretta. Aspetto quel suo genio di tecnico e voglio che l’intervento sia risolutivo. Dormirò fuori casa stanotte, ma solo per questa volta.
Chiuse repentinamente il collegamento senza un saluto. Era ancora fuori di sé, non riusciva a calmarsi. Cercò di concentrarsi sull’ultimo planning delle attività di promozione della linea Créme Supreme, un costosissimo prodotto rivolto alle donne over 50. L’idea già di per sé l’annoiava, non amava particolarmente quel target anche se doveva riconoscere che non di rado alcune cinquantenni fossero fantastiche. Decise di chiamare Alberto per sapere se poteva contare sulla sua ospitalità per quella notte; non aveva nessuna voglia di cercarsi un albergo, era anche disposto a sopportare la petulante Gaby.
– Chiedo asilo. – Esordì al telefono, diretto e sfrontato come sempre. – Per stanotte. Almeno spero che basti una notte.
– Che succede in paradiso? – Alberto stava entrando in riunione e si era fermato fuori dalla sala meeting; si trovava al primo piano di un brutto palazzo direzionale ai margini del G.R.A. nei pressi dell’uscita Labaro.
– Il sistema domotico, la meraviglia delle meraviglie, sta sclerando, collassando.
Succedono cose assurde, poi ti spiego... devo solo riuscire a far riparare il mostro entro stanotte. Ergo, ho bisogno di un tetto per la nottata, non mi va e non ho tempo di trovarmi un albergo. Domani sloggio, te lo assicuro. Altrimenti quel coglione di Iccardi dovrà servirmi le sue palle su un vassoio d’argento. Arriverò per cena, avvisa Gaby che non preparasse niente, porto cinese. O vi va l’indiano? – stava pensando alle orrende bruschette di Gaby, che era solita preparare per gli amici come aperitivo. Una specie di pane indurito da un forno violento, quasi carbonizzato, ricoperto di sottaceti, pomodori secchi troppo salati e oleosi, salame, mozzarella e di tutto e di più. Un osceno papocchio disgustoso che gli ospiti, di volta in volta, erano costretti ad accettare di buon grado per poi sputarlo non appena potevano. Questa volta l’avrebbe evitato portando dai Cacciaguerra il miglior cibo etnico sulla piazza.
– Vada per il cinese, l’indiano è troppo piccante e Gaby non lo tollera, specialmente adesso, figurati. Va bene fratello, ti aspetto per cena allora. Ti preparo il pigiamino.
– Fanculo! A stasera.
Leonardo chiuse la comunicazione e rimase per un po’ a scrutare fuori dall’ampia vetrata del suo ufficio, le dita delle mani intrecciate sotto il mento, lo sguardo scuro che fissava senza realmente vedere le numerose costruzioni, i tanti palazzi e palazzine che popolavano quell’angolo di Roma sud ovest, quartiere che lui non riteneva nemmeno parte della città, ma un enorme villaggio distante anni luce dalla Città reale, quella che andava da Ponte Milvio al Gianicolo. Tutto il resto era periferia, sobborgo, satellite, tutto eccetto Roma. Era furente, non riusciva nemmeno più a lavorare quel pomeriggio, non pensava ad altro che a casa sua, l’aveva sognata, desiderata e progettata fin nei minimi particolari, ci aveva speso una fortuna investendovi tempo, energia, creatività, era il suo biglietto da visita, la sua immagine elevata all’ennesima potenza, motivo di orgoglio e specialmente d’invidia per gli amici, ma soprattutto per i nemici, il segno smaccato che lui, Leonardo Saggese, appartenesse a pieno titolo all’Olimpo dei più grandi figli di puttana sul mercato italiano e, perché no,
internazionale. Invece quella casa così amata gli si stava rivoltando contro, il sistema domotico che la rendeva unica e invidiabile stava collassando dopo poche settimane dall’attivazione. C’era qualcosa di sinistro in quelle anomalie, qualcosa d’indefinito e raccapricciante che doveva risolvere al più presto, fiducioso comunque che quell’imbecille di Iccardi avrebbe provveduto. Contava fin troppo sulla sua forza di persuasione e sulle sue capacità di make things happens riconosciute in ogni assessment, le valutazioni cui regolarmente veniva sottoposto in azienda. Sì, certo, con quella sua innata leadership tutto si sarebbe risolto e ovviamente per il meglio. Ma quella scritta gocciolante sullo schermo del televisore lo agghiacciava, come anche la temperatura della casa la notte prima, a tacere di quella musica delirante. Si prese la testa tra le mani e rimase così per un po’.
IX
A casa di Alberto i condizionatori funzionavano a pieno regime. Si trattava di un appartamento al primo piano in un palazzo dei primi del Novecento, situato in una stradina nei pressi di Via Veneto. Non c’erano balconi né tantomeno terrazzi, solo finestre e neanche tanto grandi, a differenza dei piani superiori dell’edificio. Quello era il grande cruccio di Alberto che, sebbene vivesse lì da soli due anni, era già in cerca di un’altra soluzione abitativa che prevedesse almeno un balcone se non un terrazzo vero e proprio, naturalmente senza cambiare la zona che adorava. – Se non altro per fumare in santa pace! – disse a Leonardo mentre si accendeva l’ennesima Marlboro Lights affacciato a una delle otto finestre di casa.
– Ora che Gaby è incinta, figurati! – Leonardo annuì sollevando gli occhi al cielo in segno di mal sopportazione.
– E vendila ’sta tomba! Una casa senza terrazzo non è nemmeno considerabile, figurati poi al primo piano!
– Mi sto dando da fare, credimi, mica è facile. In questo quartiere un appartamento di questa metratura con terrazzo non si trova, nessuno te lo vende.
– Già… – Leonardo finì di bere la sua birra in silenzio. Gaby aveva finito di sparecchiare e si era ritirata in camera da letto dicendo di sentirsi spossata.
– Allora, che fai con la tua casa? Che cosa succede con la strepitosa Andrea? Già in crisi?
– Ma no. Sciocchezze di altissima tecnologia. Sono sicuro che domani sarà tutto a posto, dovrà esserlo altrimenti quell’imbecille padano si troverà le palle attaccate al tubo di scappamento della sua Porche Cayenne Turbo.
– Beh, si tratta di riparare l’impianto di condizionamento, non ci vuole un Nobel della Fisica.
– Ho la sensazione che sia un po’ più complicato. Intanto bisogna mettere mano all’intero sistema domotico, e non è uno scherzo. C’è da rivedere anche la diffusione della musica e poi l’illuminazione… insomma un po’ tutto.
Leonardo evitò di raccontare nei dettagli quanto era successo la notte prima, non disse della musica infernale e tantomeno della scritta sullo schermo del televisore. Non riusciva a parlarne e nemmeno ad ammetterlo a se stesso.
– Beh, speriamo si risolva subito, anche perché la casa mi serve completamente funzionante… e al più presto. – Alberto strizzò l’occhio all’amico e si voltò verso il corridoio, controllando che la porta della sua camera da letto fosse ben chiusa. L’ultima cosa che voleva era che Gaby uscisse proprio in quell’istante.
– Ecco, a proposito di questo… dovremo rimandare almeno di una settimana, dieci giorni. Non ho in programma di muovermi adesso, il meeting regionale di Ginevra è stato posticipato e non ci sono altri eventi in trasferta per il momento. Dai, si tratta di aspettare al massimo due settimane. Che c’è? Sei impaziente?
– Ma no, non è questo… forse sì, che ne so? É che non faccio altro che pensare a
questo, a lei, al nostro incontro e a come sarà. Ritardarlo forse lo renderà ancora più eccitante.
– Ecco, bravo! Che curiosità di vedere la Luminosa, io non l’ho mai incontrata, non ancora.
– Aspetta… – Alberto prese l’iPad dal tavolino in cristallo posto accanto al divano bianco a penisola, che riempiva gran parte del salone. Cominciò a sfiorare il touchscreen e un istante dopo aprì un album fotografico.
– Sono state scattate durante l’ultimo evento di Milano. Eccola.
Leonardo prese il tablet e fissò la foto con grande attenzione. La prima cosa che lo colpì fu, appunto, la luce che il viso della donna emanava. La pelle chiarissima, di grana sottile, rifletteva una luminosità incredibile. Poi iniziò a studiare con estrema attenzione quel viso. Gli occhi grandi, scuri e intensi, appena velati da una lontana malinconia, lo riportarono nello spazio di un secondo a un’altra malinconia, ben nascosta, quasi dimenticata ma mai sopita, la sua. Per un attimo sentì il tepore del Sole, l’odore dell’oceano, il verso degli uccelli nella laguna di Ebrié e subito riemerse il piccolo dolore sordo alla bocca dello stomaco. Questione di un momento, poi si concentrò sul resto del viso, sul profilo perfetto, la morbida bocca, le labbra socchiuse, il labbro inferiore che invogliava a morderlo. I capelli biondi leggermente ondulati le sfioravano le spalle, il collo lungo e slanciato e la scollatura dell’abito appena accentuata lasciavano immaginare più che intravedere un bel seno. A giudicare dalla foto la donna era snella ma morbida, avvolta in un petite robe noir, le gambe sembravano slanciate con polpacci torniti, messe appena in mostra da calze nere coprenti e scarpe di suede color tabacco a tacco alto, sobrie ed eleganti, come lei. L’immagine nella sua totalità esprimeva bellezza, raffinatezza, distacco.
Leonardo sollevò gli occhi dall’iPad e fissò l’amico di fronte a lui, che sembrava seduto su un cuscino di spine in attesa di un suo cenno di consenso, un’approvazione.
– Caspita … – finalmente Leonardo proferì parola. – Questo è un livello superiore amico mio. Eh sì, sei ato a uno stadio più elevato e, se permetti, un po’ distante da te.
– In che senso distante?
– Nel senso che non rientra nei parametri. Penso a tutte le tue ex, ate, presenti e probabilmente future. Sto pensando alle sche, Pasqualine, Angeliche, Roberte e decine di altre ancora, sto pensando al loro denominatore comune, gran bei troioni insomma, tutte ottime. Ma qui… – Leonardo puntò il dito sulla foto di Miriam. – Qui sei entrato in un terreno minato, uno spazio sconosciuto. Vedo guai, fiuto pericolo. Questa ti entra dentro, ti mette nei casini e per come stai messo, con tuo figlio e tutto il resto, non credo sia salutare.
– Diciamo che sarei d’accordo con te almeno per quanto riguarda la differenza tra lei e… ma sì, le altre. Per quanto riguarda il casino, il pericolo, i guai, non credo. Sono io che guido, come sempre, sono io che staccherò la spina come e quando vorrò e come ho sempre fatto in fin dei conti. Lei è diversa d’accordo, ma io sono sempre io e mantengo il posto di comando.
– Ti vedo particolarmente preso stavolta. E lei non mi convince, non ha l’aria di una che si lascia comandare, non mi sembra. Te l’ho detto, qui siamo approdati a un livello superiore e se fossi in te non mi fiderei.
– Ma no, vedrai che andrà benissimo. Basta che mi presti la casa e tutto andrà a meraviglia!
– Sì, certo. – Rise Leonardo e mandò giù un lungo sorso di birra. – Sempre che quell’idiota di Iccardi ce la faccia a sistemare il server.
In quel momento squillò il cellulare. Leonardo guardò il display: – Lupus in fabula. Salve, spero di ricevere buone notizie.
– Sì dottore, stiamo testando i collegamenti telefonici con i numeri presenti nel suo database. Come vede stiamo chiamando dal suo fisso di casa. Possiamo chiamare qualche numero della rubrica, così, random, per accertarci che non ci siano interferenze?
– Certo, ma non date troppe spiegazioni. Dite solo che si tratta di un check telefonico computerizzato, ovviamente fate il mio nome. A proposito, iniziate dal numero di Alberto Cacciaguerra Home così controlliamo subito.
– Va bene, un attimo solo – e sentì la voce del tecnico impartire i comandi vocali ad Andrea. Immediatamente dopo si udì la morbida voce dell’avatar informare che il numero selezionato risultava occupato. Alberto si alzò dalla poltrona dirigendosi verso la camera da letto. – Gaby, sei al telefono?
– Sì Al, sto parlando con mamma. Che succede?
– Puoi interrompere per un paio di minuti? Stiamo facendo un controllo…
– Va bene. Mamma ti richiamo tra breve, metti giù. Ecco, ho fatto.Vai.
– Vai Leo.
– Ok, andate.
Dopo pochi secondi il telefono di Alberto squillò.
X
– Quanto ne sai di latino? Almeno credo che sia latino.
Leonardo era sdraiato sul letto e teneva con sé un foglio di carta, dove aveva appuntato le parole apparse sul monitor nell’ultima notte da incubo. Stava parlando in viva voce con Wanda.
– Beh vengo dal liceo classico, dovrei saperlo. Perché me lo chiedi?
– Dovrei saperlo anch’io visto che ho frequentato lo scientifico, ma chi se lo ricorda. Le parole dovrebbero essere queste: pudeat te. Ti dice niente?
– Mah… di primo acchito mi sembra una cosa del tipo: “Non ti vergogni?”. Che roba è?
– Se te lo dicessi non mi crederesti mai.
– Tu prova.
– Era scritto l’altra notte sullo schermo del televisore della mia camera da letto.
– Scritto?
– Già, sulla patina di condensa che si era formata per lo sbalzo termico. A un certo punto la temperatura di casa era scesa sotto zero. L’impianto di condizionamento…
– Me ne frega dell’impianto! Che vuol dire “Scritto sullo schermo” cioè come se qualcuno avesse scritto queste parole con il dito? Non capisco… pure in latino?
– Proprio così, che vuoi che ti dica? Non riesco a spiegarmelo nemmeno io, cazzo Wanda so solo che me la sono fatta addosso per la paura. Non è la prima volta che succedono stranezze, solo che l’altra notte è stato devastante.
– Quali stranezze? Che succede?
– Guarda, faccio fatica pure a raccontarlo. Non riesco a razionalizzare, a collocarlo in qualche tipo di contesto. Voglio dire, tutto può accadere, può succedere che il sofisticatissimo sistema domotico di casa vada a puttane, che qualche microchip si frigga come un uovo strapazzato, ma questo non giustifica… non giustifica… – la frase gli morì in gola mentre continuava a fissare la frase latina sul foglio.
– Cossa?
– Quella musica che parte tutte le volte che succede… non so descriverla. Una roba infernale, pazzesca, mai sentita prima. Grida, lamenti e suoni quasi orientali
di flauti, tamburi. Poi quello sguardo, quegli occhi… erano veri, capisci? Come se mi guardassero da dietro a un vetro, altro che monitor!
– Gli occhi di chi?
– Andrea.
– Andrea il tuo computer? La strafiga che hai impostato?
– Proprio lei. Lo so che ti sembra assurdo ma è la verità. L’altra notte, come anche in precedenza, era lì che mi fissava con quegli occhi, lo sguardo cattivo, gelido. Erano occhi veri Wanda, non un’immagine virtuale, e mi fissavano con odio.
– ’nsomma, ricapitoliamo eh? Allora, succede che di notte improvvisamente si rompe il sistema di condizionamento di casa, nello stesso momento s’innalza una musica orripilante che ti fa gelare il sangue e il tuo computer inizia a fissarti come se volesse squartarti vivo. Infine sul televisore appare una scritta in latino che, più o meno, vuol dire ‘vergognati’ o qualcosa del genere. Ho riassunto bene?
– Diciamo che il concetto è questo. Non mi dire che lo trovi normale…
– Boh, tutto può essere con ’sti computer.
– E dai Wanda, va bene gli sbalzi termici, anche la musica, per quanto non mi sia mai sognato di programmare una robaccia del genere, non so nemmeno chi sia a cantare, cioè a gridare. Ma quella scritta? Come cazzo c’è arrivata lì? E di chi è? Me lo spieghi questo?
– E perché dovrei spiegartelo io? Hai in dotazione il fior fiore della tecnologia esistente sul campo, il meglio dei tecnici pagati profumatamente dalla tua smisurata spocchia, un architetto genio dell’umanità e dei portafogli dei tycoon, britannici e non… e tu vieni a chiedere a me, una povera disgraziata in odor di miseria nera, derelitta scribacchina di cinema, disperata sognatrice a budget zero e indebitata fino ai capelli, senza nemmeno la speranza di un matrimonioassicurazione sulla vita. Tu chiedi a me? Come potrei risolverlo io questo cazzo di arcano?
– Che palle! Sì lo chiedo proprio a te e vuoi saperne il motivo? Perché sei l’unica alla quale racconto tutto, anche e soprattutto le cose più incredibili, senza il rischio di essere preso per pazzo. Mi dici come faccio a raccontare ’sta merda di roba a Bahram Zadeh? Mi guarderebbe come se fossi un coglione e poi a quel demente di Iccardi che cosa dovrei dire? Che oltre al condizionamento impazzito e all’impianto acustico ‘svalvolato’ c’è anche un qualcuno, chissà chi, che si diverte a scrivere sugli schermi di casa in latino?
– Per quello che penso io, credo che tu ti sia fatto troppo di tutto ultimamente e sai di cosa parlo. Non sei invincibile come vuoi apparire, non fare il top manager con me, ti smerderei subito, capito? Ti dico questo: bisogna pensare sempre che a ogni decisione o azione si potrebbe danneggiare qualcuno, a volte anche se stessi, anzi spesso.
– Eh?
– Voglio dire che tutte le tue bravate, i tuoi eccessi, i tuoi vizi, tutto questo ha finito per danneggiarti seriamente. Tutta quella neve che pippi, l’alcool e le scopate con ogni genere di bestiolina che ti capita davanti, tutti quei viaggi di lavoro e non, nessun limite di orario, tre ore di sonno a notte - quando ti dice di lusso - per non parlare di quello che mangi o che non mangi... da quand’è che non ti fai un’analisi del sangue, un check up, un elettrocardiogramma?
– Scusa tanto, stai dicendo che tutto quello che ho visto e sentito può essere frutto della mia immaginazione? No dico, potrei anche essere esaurito ma non fino a questo punto. Cristo santo, mi sono aperto con te, ti ho raccontato cose che non direi mai a nessuno, faccio fatica anch’io a raccontarle, e tu? L’unica cosa che mi sai dire è ‘fatti un’analisi’?
– E perché no? É la cosa più sana mi pare… o vuoi sentirti dire hai casa infestata dagli spiriti maligni? Mi sembra che tu abbia, come dite voi in managerese, approcciato bene la questione. Hai fatto controllare l’intero impianto domotico, i tecnici hanno assicurato che tutto è in perfetto ordine, almeno speriamo. Che ti devo dire? Aspettiamo e vediamo.
– E quella scritta?
– Mah… magari avrai creduto di vederla… non t’incazzare. Dico che potresti aver creduto di intravedere una roba del genere, ma in realtà era solo un effetto ottico. Che ne so? Potresti però darci un taglio con qualche tuo vizietto e provare a condurre un’esistenza più tranquilla, almeno per un periodo, fino alle ferie. A proposito, manca poco eh?
– Una ventina di giorni, forse venticinque e poi… alè! Anzi, olè!
– Perché olè? Che me so desmentegada?
– Formentera! Dove se no?
– Grande fantasia. Non ti annoi ad andare sempre là, solito posto, solite facce, poi dici che la vecia sarei io… sembri mia zia Clara che stava sempre buttata alle Terme di Montecatini, quelle erano le sue vacanze. Guai a toglierla da lì, con la moglie del giudice Blasi, la cognata del vescovo Nocelli e il professor Mattei, primario di Gerontologia del Gaslini di Genova.
– Tale e quale praticamente.
– Qual è la differenza? Il concetto è lo stesso. Non cambi mai destinazione, sei attaccato al tuo gruppetto di amici sgangherati peggio di una patella allo scoglio, dici di divertirti ma fai sempre le stesse cose. Dormi fino a mezzogiorno, un brunch rincoglionito sotto il pergolato del villone della tua amica di Firenze, che farebbe meglio a fare la nonna invece di radunare frocetti e ragazzi di belle speranze, a parte te ovviamente, sotto il suo tetto. E poi, ciondolarsi in spiaggia fino all’ora dell’aperitivo, ovviamente nel bar più figotrendyglam del reame, stuolo infinito di zoccole ridens al seguito, aspettare sdraiati sui lettoni bianchi in spiaggia che arrivi l’ora di cena. Strafogata di pesce, vino bianco ghiacciato e ancora cazzate al chiar di luna, magari una scopata, anzi no, prima in discoteca, oppure no, discobar? Insomma, altro ciondolamento fino alla scopata finale, forse.
– Beh, mi sembra un programma di tutto rispetto. Quali sarebbero le ferie migliori? Ah sì, le tue.
– Lo puoi urlare ai quattro venti. Non guadagno e lo sai, ma quei quattro sghei sudatissimi me li sparo a Porto Cervo nel mare più bello del mondo, caro mio. Vabbè starò con i pappa russi per una settimana, non che abbia a che fare con loro, non ho il fisico ma nemmeno il cervello, tiè. Sto lì, in uno degli alberghi migliori del pianeta, mi coccolano, m’incensano, godo di quelle acque strepitose e mi ripago di tutto lo schifo che sopporto. E poi leggo, che cosa inutile eh? Libri sai, quelle cose di carta così antiche. Sarò anche in solitudine ma che bello, che pace. Mi rigenero e mi purifico. Non potrai dire lo stesso di te.
– Punti di vista. Al solito i nostri divergono profondamente, forse per questo ci amiamo.
– Vacci piano con l’amore. Non hai la minima idea di cosa sia e su questo metto le mani sul fuoco. Sei una bestia e chiunque sia stato a scrivere quella frase, i ga proprio ragion!
– Dio che stronza! Non farti vedere quando mi ritroveranno squartato in casa, non ti azzardare a piangere sul mio cadavere e nemmeno a far discorsetti commemorativi cretini. Tanto sarò all’inferno a sarmela, alla faccia tua!
– Tu pensa a morire che al resto ci penso io!
Leonardo si alzò dal letto ridendo. – Vecchia pantofola mi hai fatto tornare il buonumore. E ti amo un po’, va. Adesso vado a prepararmi da mangiare visto che sarebbe anche ora di cena.
– Ma allora mangi! Credevo che andassi avanti a finger food e altre porcate del genere.
– Stasera riso thai e gamberoni in salsa piccante… detto così sembra una roba porno.
– Ti vedrei di più con una pentolaccia di spaghetti alla puttanesca.
– Eh, quelli me li faccio di continuo, anzi, me le faccio…
– Sembriamo una vecchia coppia di avanspettacolo.
Leonardo raggiunse la cucina e aprì il grande frigo di acciaio, da uno dei ripiani sfilò il vassoio con i gamberi e lo ripose sul tavolo da lavoro.
– Domani ho in programma di chiamare Zadeh, tanto per sapere qualcosa di più sulle caratteristiche di questa casa. Non me ne sono mai interessato veramente, gli ho dato le chiavi delle quattro mura - in origine era un magazzino - e la cosiddetta ‘carta bianca’, ovvero la felicità di qualsiasi architetto.
– Non dirmi che non sei mai andato a vedere i lavori. Mai rotto i coglioni al capo mastro, ai muratori, e nemmeno a Sua Genialità Mr. Architect?
– Mai. Sì, ci sono andato credo un paio di volte in tutto. Mi è bastato vedere il progetto, che ho adorato da subito, e di volta in volta i rendering dei vari ambienti con le proposte di arredo e di interior design.
– E che ti aspetti che ti dica Mr. Zadeh?
Leonardo ci pensò un attimo. Nel frattempo aveva infilzato negli spiedini quattro grossi gamberi, dopo averli spennellati di olio d’oliva.
– Non lo so. Forse parlandone ne saprò di più. So che lui aveva fatto una specie di ricerca storica, questa zona è piena di reperti archeologici…
– Cos’è? Sei entrato in fissa con il latino?
– Chissà… – il mix di zenzero, peperoncino e curry era lì, già pronto in un flacone. Lo prese e ne spolverò una manciata abbondante sugli spiedini che poi mise a grigliare su una piastra arroventata.
– Voglio solo saperne di più, conoscere qualsiasi cosa abbia a che fare con questa casa.
– E se la vendessi?
– Sei matta? Mai e poi mai. Tu non l’hai ancora vista, ecco perché dici così. É il mio sogno realizzato, la mia vita, il mio orgoglio.
– Più di un figlio…
– E che ne so? Non ho figli e non ci penso nemmeno. Se poi un figlio ti fa fare la fine di Alberto, beh allora… – aprì di nuovo il frigo, prese una ciotola di vetro temperato bianco piena di riso thai già cotto a vapore e la mise direttamente nel forno a microonde. Sfiorò la superficie nera e lucida dello sportello e avviò l’elettrodomestico.
– Scusa, che fine ha fatto Albie? Tempo fa mi avevi accennato a qualcosa tra lui e la moglie… troppo giovane quella per lui, troppo immatura per stargli dietro.
– Sta facendo la fine del topo in gabbia. Uno che per sopravvivere alla noia ha tutta una serie di situazioni esterne. Con il rischio che se lo pesca la tenera Gaby saranno cazzi, specie poi se lo dice ai suoceri.
– Che situazioni?
Leonardo estrasse il riso dal microonde e finì di apparecchiare un lato del tavolo. I gamberi erano già cotti e un profumo squisito si sprigionò in quell’angolo di loft. Un cestino con del pane al sesamo insieme a una ciotolina di salsa di soia, un calice di cristallo e una bottiglia di Gewurztraminer freddissimo completavano la mise en place.
– Lo sai che il buon Albie ha sempre avuto il pisello caldo o, per dirla a suo modo, una sensibilità parecchio accesa. Ci hai mai creduto alla coppietta felice? L’unica che ci crede ancora è quella poveretta, forse. L’erede in arrivo gli sta dando il colpo di grazia. Per accorciare la saga ti dirò che adesso Al si vede con una donna, una del suo giro lavorativo insomma.
Si fermò un attimo per addentare un gambero e ripensò a quello che aveva
appena detto. – Che strano, ho parlato di donne e non di tipe, tizie, squinzie.
– Già, vorrà dire qualcosa. Mi par di capir …
– Ci vuol poco cara mia. Mmmm, questo Traminer è squisito, non sai cosa ti perdi!
– Sono astemia, vado a Coca-Cola io… continua con il racconto.
– Una donna appunto. Bella, intelligente, intrigante, raffinata, ha tutto questa qui. Non è per lui. O meglio, non è per come è lui adesso. Sarebbe stata ottima prima, prima di quella improponibile che si messa in casa.
– Beh se le cose stanno così non era per lui nemmeno prima. I narcisi non sposano quelle donne, ma qualcuna al di sotto della loro prestanza, della loro avvenenza, altrimenti sfigurerebbero.
– Un’analisi approfondita eh?
– Approfondita no, ma realistica, credi a me. Queste donne vanno bene per un’avventura appunto, per solleticare l’io malato e insicuro di questi super belli.
– Sì, come no. E comunque il nostro Alberto mi ha chiesto se può portarla a casa mia, perché in albergo è, come dire... volgare!
– E a casa di lei? Scusa ma che c’entri tu?
– Che fai la gelosa? É un favore a un amico, tutto qui. Anche a me questa richiesta in un primo momento ha dato fastidio. Poi ho capito che desiderava una cornice particolare, come particolare è lei, la luminosa …
– Luminosa?
Leonardo finì di bere e addentò un piccolo pezzo di pane al sesamo. – Sì, la chiamo così perché la prima cosa che Al mi ha detto di lei, con gli occhi sognanti, è stata “Luminosa”, pensa un po’.
– Ah, siamo già agli ‘occhi sognanti’? Luminosa? Che aggettivo singolare… non è che il nostro si sta innamorando?
– Ci ho pensato… ma no, Al è innamorato solo di se stesso.
– Che novità, come tutti voi insomma. Un bel merdaio, non c’è che dire.
– Ehi, sto mangiando! Dolce amica mia, hai bisogno di un uomo tu, uno vero, non quei tuoi amori di celluloide.
– E chi sarebbero questi uomini veri? Ne conosci qualcuno? Fammi pensare…
decisamente no. É ora di andare in branda, almeno per me. Interessante la storia di Albie, tienimi aggiornata.
– Sarai invitata alla prima, darling, come sempre.
XI
– N’oublie pas que tout a une âme.
– Aussi ce table? Aussi cette pièce? – chiese alla sua nounou nell’ombroso salotto della residenza di Monsieur L’Ambassadeur. La luce fortissima del primo pomeriggio africano filtrava attraverso i tendaggi leggeri, che dal soffitto cadevano eleganti e discreti sul pavimento. Leonardo guardò attentamente la donna, mentre questa quasi solennemente indicava i mobili, i tappeti, le lampade e poi tutto lo spazio intorno a loro, invisibile allo sguardo. Chiuse gli occhi e cominciò ad annusare quell’aria, quel silenzio, quella luce, immaginò di percepire l’anima di tutte quelle cose, il loro silenzioso messaggio di vita. Annuì e sorrise alla piccola e magrissima africana che, di rimando, lo abbracciò forte e lo tenne stretto a sé per un po’, cullandolo al suono di una dolcissima nenia in dyula, una delle tante lingue indigene.
Si svegliò credendo ancora di sentire il canto della sua nounou e si accorse di avere il viso inondato di lacrime. La notte era stata tranquilla, finalmente. Aveva dormito come un ghiro, non ricordando nessun sogno o incubo, tranne l’ultima parte della nottata in cui era tornato ad Abidjan, tra le braccia della sua Adjoa, un nome femminile che non aveva mai dimenticato contrariamente alla sua abitudine di cancellare nomi e facce di quasi tutte le donne incontrate nel corso della vita. “Che strano sogno” pensò, per la verità non era nemmeno un sogno, ma un ricordo molto nitido. Quell’episodio gli tornò in mente come se fosse avvenuto un secondo prima. Si alzò dal letto e si ò le mani sul viso scuotendo la testa.
Forse Wanda aveva ragione, come sempre d’altronde. Doveva fare un check-up completo, analisi del sangue e tutto il resto, quelle lacrime non erano normali, quei sogni o ricordi non avevano senso, come non aveva senso la malinconia
lacerante che provava ultimamente. Mentre entrava nella doccia ricapitolò la sua agenda giornaliera. Quel giorno non sarebbe andato in ufficio, avrebbe telefonato da lì a poco per informare la sua assistente che si sarebbe preso un day-off. Aveva fretta di sentire l’architetto Zadeh su Skype, per un colloquio che non voleva rimandare, così da chiarire quel qualcosa che ancora gli sfuggiva. L’acqua a temperatura corporea gli scivolò addosso accarezzandolo con tutti i getti azionati, verticali e orizzontali. Dopo essersi insaponato sfiorò il pannello di controllo generale, posto su una parete del vano doccia. Prenotò il caffè americano con accensione della caffettiera elettrica da lì a cinque minuti. Scelse anche la musica, che si diffuse immediatamente in tutto il loft. Le note di Adele gli sembrarono adatte per quel risveglio nostalgico. Si sciacquò restando qualche minuto immobile sotto gli schizzi d’acqua e poi infilò l’accappatoio bianco. Scese al piano terra, la luce violenta di quella mattina d’inizio luglio quasi gli ferì gli occhi, il profumo del caffè lo placò riportandolo alla normalità, al piacere del risveglio. Riempì il mug con sopra lo stemma di Stern School of Business della New York University, un ricordo del suo MBA e pensò a come affrontare quella conversazione con Zadeh.
Sgranocchiò svogliatamente un paio di biscotti di pasta frolla e guardò l’orologio. Poi cominciò a guardarsi intorno come se fosse entrato per la prima volta in quello spazio, cercando di capire cosa avrebbe potuto chiedere all’architetto. C’era qualcosa in quegli ambienti che cominciava a destabilizzarlo, a dargli sui nervi; rifiutava di pensare a qualcosa che potesse addirittura spaventarlo, come quelle ombre lunghe e terribili che si formavano nella villa in Africa, quando il sole iniziava a calare e Adjoa accendeva un piccolo fuoco al limite del parco per onorare i suoi dèi. All’epoca Leonardo aveva sei anni, adesso trentotto e una casa spettacolare a Roma con Ponte Milvio sullo sfondo. Nessuna paura al mondo, nessun turbamento, nessuna insicurezza gliel’avrebbe sottratta. Doveva solo risolvere qualcosa che ancora non sapeva e non capiva, ma che a breve avrebbe individuato, ne era sicuro. Gli vennero in mente le ultime parole dei tecnici inviati da Iccardi per risolvere, una volta per tutte, le anomalie del sistema domotico. – Abbiamo smontato interamente il server centrale, controllato tutte le derivazioni, abbiamo anche effettuato un controllo su tutti i collegamenti esterni, il database telefonico e il sistema GSM. Abbiamo fatto svariati test sul funzionamento, provato e riprovato e il risultato è stato negativo. Negativo cioè positivo, nel senso che non abbiamo trovato nulla di anomalo, il sistema è funzionante al cento per cento.
Ecco, pensò Leonardo, forse sarebbe stato meglio trovare qualche anomalia, almeno si poteva attribuire il delirio di quelle notti al malfunzionamento di un microchip. Così invece si ripartiva da zero sperando solo che i fenomeni scomparissero da soli, così come si erano manifestati. Era arrivato il momento di chiamare Zadeh a Londra. Prese l’iPad e si sedette su un divano, entrò in Skype e trovò il suo interlocutore già in linea.
– Hi Bahram, there you are!
– Fammi parlare in italiano, ho così poche occasioni amico mio. Allora, come va il mio jewel?
– Bene, nel complesso… – con la mano sinistra Leonardo si accarezzò la nuca, in un piccolo sussulto d’imbarazzo. Come glielo avrebbe detto? Da cosa e da dove sarebbe partito?
– La casa è fantastica, adoro vivere qui davvero. É come l’ho sempre sognata, il tuo lavoro è stato superiore a ogni aspettativa, simply outstanding!
– Felice di sentirtelo dire. Non ho ancora avuto occasione di venire a vedere la creatura. Se ricordo bene il collaudo finale l’ha fatto uno dei miei collaboratori.
– Esattamente.
– Allora, cosa posso fare per te? Hai per caso un’altra casetta da affidarmi? –
Bahram Zadeh scoppiò a ridere, la sua faccia scura, in controluce, s’intravedeva appena, stagliata sul magnifico skyline londinese. La sua scrivania di acciaio e cristallo era posta davanti a una grande vetrata cielo-terra che affacciava sul Tamigi, all’altezza del Millennium Bridge con vista sulla riva settentrionale del fiume.
– Innanzitutto volevo ancora una volta complimentarmi con te per la meraviglia che hai realizzato. Durante la festa d’inaugurazione che ho dato sere fa e alla quale non hai potuto partecipare, che peccato, ho ricevuto dei pazzeschi. Hanno sbavato tutti, per il terrazzo con gli ulivi, per la scala di cristallo, per gli ambienti, i mobili, i materiali e i colori usati, anche per l’ingresso e il cortile. Mi hanno fatto notare che quello che io chiamo cortile in realtà è un impluvium romano… pensa un po’.
Zadeh rise di cuore. – Non mi dire che non te ne sei mai accorto?
– Di cosa?
– La tua casa, amico mio, è tutta una citazione! Mio Dio. Okay, ricordo quello che mi hai detto all’inizio del progetto, di non volere sapere niente, non volere essere aggiornato o o sui lavori. Do not disturb con gli stati di avanzamento dei lavori, la scelta dei materiali e altro ancora. Sei stato praticamente il cliente ideale. Brief iniziale, chiavi in mano e tanti saluti. Ci siamo rivisti alla consegna.
– Beh ma ho visto i tuoi rendering spettacolari, mi sono fidato, sapevo con chi avevo a che fare. E poi ho pagato per questo. La tranquillità è un lusso che mi sono concesso, non volevo perdermi tra le mazzette dei rivestimenti dei divani o impazzire tra i campioni di parquet. Ho saputo delegare in base ai miei gusti e i risultati sono stati quelli attesi, come sempre. La casa mi è piaciuta, era quella
che volevo. Di che citazioni stai parlando?
– Ti sei mai accorto che questa casa, la casa che tu chiami loft, e forse lo è secondo i canoni attuali, per gli spazi, per il volume eccetera, in realtà è stata concepita come una casa romana? Come un’antica domus romana I mean.
– Ma dai! Dici? No, non me ne sono mai accorto, non mi è mai interessato. É stupenda così com’è, non m’intendo di citazioni, men che meno di quelle storiche o artistiche. Però conoscevo la tua ione per Roma e la romanità, quindi la cosa non mi stupisce.
– Quando mi hai parlato di quel volume che avevi appena comprato, quel magazzino in disuso a ponte Milvio, un posto che parlava da solo di battaglie e di eroi non ho potuto fare a meno di pensarci, di immaginare qualcosa che richiamasse tanta grandezza. – Zadeh si stava esaltando ancora a distanza di quasi un anno.
– Già… – Leonardo, dal canto suo, si stava sforzando di condividere l’entusiasmo del grande architetto.
– Sai, ho dei problemi… – finalmente era partito.
– Che problemi? – Zadeh divenne serio, sporgendosi in avanti verso lo schermo ultrapiatto del suo iMac.
– Non lo so nemmeno io. Per la verità abbiamo pensato a un malfunzionamento
del sistema domotico, in pratica del server centrale.
– Che anomalie riporta?
– Problemi di microchip probabilmente. Ho scatenato l’inferno con Iccardi, sai quello della DomoTechna, quel lombardo spocchioso. Abbiamo smontato e rimontato il server svariate volte. Speriamo che l’ultima sia stata definitiva, altrimenti non so più cosa inventarmi.
– Sì, ma non mi hai ancora detto cosa succede?
– Sbalzi pazzeschi di temperatura. Da un altoforno a un freezer insomma, e poi contemporaneamente parte quella musica…
– Quale musica?
– Una musica infernale, nel senso letterale del termine, che proverrebbe dagli inferi se esistessero… non so come spiegarlo, anche a me riesce difficile accettarlo. – Leonardo faticò a rendersi credibile agli occhi di Zadeh, a non apparirgli isterico, adrenalinico. Non voleva che il suo interlocutore lo fraintendesse o addirittura pensasse che si stava inventando tutto; e perché poi? A quale scopo?
– E questa musica da dove parte? Dall’impianto di diffusione? Dal server centrale quindi…
– Sì da lì, almeno così sembra. L’orario in cui tutto accade è intorno alle tre del mattino o giù di lì…
– The wolf time… oh sorry it’s Bergman.
– Esattamente! L’ora del lupo, Bergman, conosco. È successo a quell’ora per due o tre volte, vengo svegliato dal caldo o dal gelo che si spande per tutta casa e dalla musica, assordante, agghiacciante, che rimbomba ovunque. É una musica che sembra antica, quasi tribale, con cori strazianti di donne… sì, credo siano donne che urlano più che cantare. Ricordo suoni di flauti e percussioni ma la melodia, se melodia si può definire, Dio mio è qualcosa di spaventoso, di perverso.
Si fermò un attimo, come per riprendere fiato. Era riuscito a dirglielo e ora guardava la faccia di Zadeh, nella penombra londinese. Non riusciva a coglierne l’espressione e questo lo incoraggiò a proseguire. Tanto ormai era come trovarsi nel confessionale, sebbene per lui la fede cattolica fosse un’esperienza sepolta nei meandri della memoria.
– Il fatto è che questa roba non è mai stata inserita in nessuna playlist, voglio dire che non proviene da radio presenti nei miei elenchi virtuali di fornitori di musica, ecco. A un certo punto della notte questa ‘cosa’ salta fuori come dalla bocca dell’inferno, per urlarmi nelle orecchie senza che sia stato mai individuato il canale di entrata. Inoltre, insieme a questi episodi eclatanti ce ne sono stati altri, più piccoli, ma altrettanto significativi. Strane dispersioni di elettricità, piastre di adduzione che si accendono da sole, strani sibili provenienti dalla zona del server centrale, acqua bollente nella doccia, per non parlare del mio avatar…
– Che avatar?
– Quello che ho scelto dall’inizio, appena messo piede in casa, colui, o meglio colei con la quale dialogo. Ho scelto un’immagine femminile, una mora pazzesca con un paio di fari verdi al posto degli occhi… uno spettacolo. – Leonardo rise leggermente imbarazzato. Che strano, era la prima volta che provava una sensazione del genere, quasi di vergogna della sua predilezione per quel tipo di femmina. Era come se temesse il giudizio del luminare di architettura che aveva davanti. “Che sciocchezza” pensò. In fin dei conti erano cazzi suoi.
– Ecco, Andrea, cioè l’avatar, quando avvengono queste cose, questi fenomeni, è come se cambiasse aspetto. I suoi occhi diventano veri, mi guardano in un modo crudele, come se volessero uccidermi. Ti dico che diventano reali, non un’immagine di graphic design. Quello sguardo, quello sguardo… – si fermò come se non riuscisse più a proseguire.
– Beh, questo è un bel mistero non c’è che dire. Almeno come lo racconti tu. Da ciò che sento mi sembra che sei nel pieno di una specie di tempesta elettromagnetica, occhi a parte. E tutto questo mi sembra molto strano, sai? Casa tua è stata costruita come un manuale vivente del Feng Shui e di Bio Architettura. Eppure ci deve essere qualcosa… sto pensando ai Nodi di Hartmann.
– Ecco, entriamo nel complicato adesso.
– Non proprio. Parliamo di Geobiologia, secondo la quale viviamo su un pianeta attraversato, sembrerebbe, da un sistema di linee che formerebbe una rete. I punti d’incrocio di queste linee sono chiamati ‘nodi radianti’ o ‘nodi di Hartmann’. Questi punti o nodi sarebbero nocivi per l’organismo perché provocherebbero le cosiddette ‘geopatie’.
– Delle malattie insomma…
– Sì. Per spiegarti meglio, la rete di Hartmann - ammesso che esista - è una griglia di o due metri per due metri e mezzo che ricopre tutta la Terra. Tornando alle geopatie, queste sarebbero le malattie causate dallo stazionamento sopra le zone d’incrocio della rete di Hartmann, dove si hanno i cosiddetti nodi chiamati anche nodi radianti o punti cancro. Secondo la Bio Architettura il sostare per lunghi periodi sopra questi nodi potrebbe essere estremamente dannoso per la salute, soprattutto se sotto al nodo, anche a profondità di centinaia di metri, ci dovessero essere falde acquifere oppure faglie che, si ritiene, intensifichino le radiazioni nocive sviluppate dal nodo. Però qui siamo nel campo delle supposizioni, delle teorie. Non ci sono prove certe, ma sai, tutto può essere.
– Se così fosse, cosa possiamo fare? Come si risolve?
– Si tratterebbe pur sempre di un reticolo magnetico, una specie di maglia invisibile di linee elettromagnetiche e fasce. – Zadeh era come se stesse parlando a se stesso.
– Sì, d’accordo, ma come ovviare?
– Premesso che nella ristrutturazione del loft siamo stati attentissimi a questa problematica, premesso che abbiamo fatto anche una mappatura della zona e quindi abbiamo lavorato in tal senso, e non è stato rilevato niente, diciamo che possiamo pensare eventualmente a un bio-dispositivo, un campo magnetico stabilizzato nord-sud che rafforzi il sistema immunitario difendendo l’organismo dalle influenze delle radiazioni cosmo telluriche, geopatogene ed
elettromagnetiche.
– In pratica un talismano antimalocchio…
– Ma sì, forse… – Zadeh scoppiò in una fragorosa risata. – Più semplicemente possiamo pensare a una pannellatura di sughero al basamento, ma questo comporterebbe un grande intervento sia in termini di tempo sia di denaro.
– Ok, ricevuto. Puoi farmi un preventivo? Nel caso dovessi trovarmi ancora in situazioni del genere. Spero di no, ma non si sa mai.
– Ti dico subito che dovremmo scavare un po’ più in basso delle attuali fondamenta e lì sorgerebbero i guai. Se non lo sapessi ancora, e credo di averlo omesso all’epoca, all’inizio dei lavori di sbancamento e di scavo ho notato che l’edificio sorge su resti romani, infatti ho trovato delle tracce murarie di opus reticulatum. Ovviamente all’epoca non abbiamo avvisato le autorità competenti, altrimenti ci avrebbero bloccato i lavori e i tempi di realizzazione sarebbero slittati all’infinito. Per scavare nuovamente dovremmo andar giù di almeno un altro metro e mezzo e non ho idea di quello che potremmo trovare, non so se mi spiego. A quel punto sarà necessario avvisare chi di competenza.
– Stai dicendo che il rischio di blocco dei lavori è alto.
– Molto.
– Non avrei speranza allora.
– Beh, possiamo sempre provarci se vuoi, se ritieni la cosa necessaria, sempre che questi fenomeni continuassero a tormentarti. Datti ancora un po’ di tempo, magari parti in vacanza, la stagione è arrivata. Al rientro vedrai che tutto tornerà a posto, non avrai più problemi. Take it easy my friend.
– Già. Take it easy… ok, farò così. Ovviamente l’invito da me è sempre valido, quando vuoi e puoi. Ti aspetto sempre.
– Don’t worry, arriverò presto con un paio di giornalisti di AD per un degno servizio fotografico. Ti va un’intervista a due?
– Ovvio che sì! Grazie Bahram per il tuo tempo e… la tua pazienza.
– My pleasure!
Leonardo chiuse la conversazione e si allungò sul divano in preda a un’indefinibile agitazione. Aveva la giornata libera ma non riusciva a pensare a nient’altro che a quella situazione assurda. Presto sarebbe partito per le ferie, ma non si sentiva tranquillo a lasciare la casa senza aver sistemato quel casino, senza la certezza di poter ritornare alla normalità. Non avrebbe sopportato altre notti così. Si stava appisolando quando la voce di Andrea lo riportò alla realtà.
– Chiamata esterna da Alberto Cacciaguerra… accettare?
– Mmm? Sì, sì certo…
– Leo? Ci sei?
– Sì, diciamo di sì. Credo di essermi addormentato, un attimo e zac. Crollato.
– Che succede? Il tuo cellulare è spento, ho chiamato in ufficio e mi hanno detto che non c’eri, non ci sei andato oggi. Stai male?
– No. Sono rimasto a casa, ho chiamato Zadeh a Londra, sai l’architetto? Dovevo chiarire questo cazzo di guasto all’impianto domotico. Almeno ho tentato…
– Perché, che ti ha detto?
– Ha cominciato a parlare di bio-architettura, nodi elettromagnetici, dispositivi anti malocchio, pannelli di sughero, falde acquifere sotterranee. Sempre più difficile amico mio. Questa casa… non lo so, c’è qualcosa che non capisco e mi sta facendo girare le palle. Ho speso uno scandalo di soldi e continuo a spenderne, senza riuscire a viverci come vorrei e dovrei. E tu? Come te la i? Perché mi cercavi?
– Leo, avrei bisogno della tua casa. Mi avevi detto che in settimana saresti partito per Ginevra.
– Non parto più, spiacente. Tutto rinviato.
– Nooo.
– Ok, ma posso sempre prestartela per una mezza giornata. Io sarò in ufficio, poi andrò a bere una cosa con un collega, infine cenetta da qualche parte, Insomma, ti lascio campo libero per, diciamo dodici ore. Ti bastano?
– Ce le faremo bastare. – Il tono di Alberto era tra l’ironico e il soddisfatto. – Grazie Leo. Mi devi dare il codice di accesso, così lo comunico a Miriam. Lei arriverà prima di me, io devo sistemare un po’ di cose in ufficio e poi la raggiungerò. Ti prometto che tratteremo casa tua come merita.
– Condicio sine qua non! – e mentre Leonardo chiudeva la conversazione, si udì un impercettibile scricchiolio nelle mura del loft.
XII
Digitò le quattro cifre del codice di apertura, il portone d’ingresso si aprì senza alcun rumore e lei entrò. Le pareti del cortile interno, di quel rosso particolare tra il porpora e il vermiglio con una punta di ocra, l’accolsero in un silenzio assoluto, innaturale. La luce fortissima di quella mattina di luglio entrava prepotente dall’impluvium, illuminando la magnifica vasca centrale di travertino bianco. L’acqua a ciclo continuo brillava sotto il sole, riflettendo bagliori purpurei; piccoli alberi di ulivo piantati intorno alla grande vasca regalavano illusioni di ombre, troppo scarse per trarne refrigerio. Camminando per il sentiero tracciato in teck, lungo il lato sinistro della corte, arrivò alla grande porta-finestra d’ingresso al loft, che si aprì automaticamente grazie a una cellula fotoelettrica. Era stata avvisata della particolarità e bellezza della casa, ma non credeva che arrivassero fino a quel punto. Restò sbalordita quando raggiunse l’interno dell’abitazione. Si fermò per una decina di secondi ad ammirare il colpo d’occhio dato del grande volume illuminato dal lucernario e dalla scala di cristallo che a sua volta rifletteva il sole nell’ambiente circostante. Era come se stesse vivendo un istante sacro, unico, quasi fosse entrata in una cattedrale di luce, una luce che sembrava volerle parlare, raccontarle qualcosa.
Con o leggero camminò tra i divani e le poltrone, sfiorò con la mano sinistra il tavolo da pranzo, studiò la disposizione degli spazi osservando con attenzione gli eleganti ed essenziali mobili del lato cucina e l’angolo in cui era stato sistemato il monitor del computer centrale. Lì si fermò, estasiata, a fissare gli occhi di Andrea che a loro volta sembravano guardarla con intensità. Era come ipnotizzata dalla loro profonda bellezza, pareva che la stessero guardando e catturando in una malia senza tempo. Ci fu un attimo di dialogo muto e intenso tra i suoi occhi grandi scuri e quelli verdi dell’avatar, due pezzi di smeraldo vivi e scintillanti. Sentì le gambe tremare e lo stomaco chiudersi in un piccolo spasimo, ma non distolse lo sguardo, ancora perso in quegli occhi gelidi eppure roventi.
– Chiamata esterna da Wanda Crosera. Accettare?
Si voltò come colta da una scossa elettrica, la voce di Andrea l’aveva colta alla sprovvista, spaventandola.
– Accettare? Accettare?
Andrea era diventata insistente, la sua voce sembrava un crescendo che s’irradiava in tutta la casa, espandendosi nella luce che cadeva dall’alto e avvolgeva in mille raggi quell’incredibile scala di cristallo.
Non sapeva cosa fare, non era preparata a tutto questo. Nello spazio di un istante sentì se stessa rispondere:
– Sì.
– Ehilà bel toso! ’spetta eh che arrivo nella città eterna, urca ce l’ho fatta. Prenotato volo, atterro sabato prossimo e tu mi verrai a prendere come se fossi una delle tue zoccole, capito? Non ti azzardare a prendere impegni per il weekend che dobbiamo andare alla Festa dell’Unità, c’è la Loredana e il Gianni che ci aspettano e poi la mia amica giornalista di Rai Tre, sai la Lidia? Vabbè, come al solito ciacolo troppo eh… ma ci sei? O sei morto di paura di nuovo perché ti hanno scritto ‘stronzone’ sulla tazza del cesso?
– No, Leonardo non c’è… mi scusi se ho ascoltato ma la comunicazione è partita da sola, cioè credo che il computer abbia… – imbarazzatissima, non sapeva
come spiegare a quella voce femminile veneziana che il padrone di casa non c’era e che invece lì c’era lei.
– Oddio, ho sbagliato numero? Eppure mi era sembrato di…
– No, non credo, lei avrà chiamato Leonardo Saggese presumo.
– Infatti. Un momento, credevo di aver digitato il numero di cellulare e invece è partito quello di casa, cazzone di un iPhone! Oh, scusi eh… faccio sempre la mia figura io. Sono Wanda Crosera, l’amica bastarda di Leo, l’unica fuori lista per intenderci, la lista delle zoccole. Scusi ancora… presenti escluse ovviamente, ecco mi sto ingavinando di brutto, al solito.
– No, assolutamente… – rise e sentì sciogliersi l’imbarazzo iniziale insieme a quel freddo strano fra la bocca dello stomaco e il cuore, che a dispetto della mattinata caldissima le era salito prepotente fin da quando aveva varcato la soglia di quel loft incredibile.
– Sono Miriam Lenzi e… beh, ufficialmente non dovrei essere qui. – Si sorprese a dire quelle parole, ma che diavolo le era preso? Svelare, o quasi, a una sconosciuta il motivo della sua presenza in quella casa.
– Ah, caspita! Sei quella dell’Albie… ecco, un’altra gaffe. Sai, mi devi scusare ma sono diretta, non mi trattengo. Liberissima di mandarmi a quel paese eh, fai pure non mi offendo mica.
– No, figurati, hai solo detto la verità. Anche se, in tutta franchezza, non mi aspettavo questo gossip spread sul mio incontro con Alberto. Confidavo in una maggiore discrezione, da parte sua ovviamente.
– Magari sì, però la colpa è di Leo che avrebbe dovuto tacere e invece ha ciacolato con me e io… parlo!
– A questo punto dovrei provare un po’ d’imbarazzo. Saprai anche il perché della mia presenza in questa casa.
– Diciamo di sì, ma non mi permetto di aggiungere altro. Non sono affari miei, anche se non ti nascondo una certa curiosità. Mi piace sapere come nascono le storie, sono un’inguaribile romantica, o se vuoi semplicemente curiosa. Vivo di emozioni, amo il cinema e la letteratura sai, e anche questo tipo di storie ne fanno parte inevitabilmente. Sei libera di mandarmi a quel paese, ripeto, non mi offendo mica.
Miriam sorrise e lanciò un’occhiata al suo orologio. Erano le dieci e un quarto, Alberto sarebbe dovuto arrivare alle undici e lei era in netto anticipo, come sempre. C’era tempo quindi per una chiacchierata e quella tipa lì, che si era intrufolata quasi di soppiatto in un momento molto particolare della sua vita, la intrigava, la rasserenava. Sentiva che in qualche modo poteva fidarsi, era come stare dallo psicanalista, uno psicanalista molto particolare, invisibile, quindi ancora più attraente. E poi c’erano da riempire almeno quarantacinque minuti di ‘buco’ prima che Alberto arrivasse; quindi decise di accomodarsi su uno dei divani del soggiorno, pronta a svelarsi.
– Intanto che ne dici di darci del tu? Mi sembra quanto mai opportuno, vista la situazione…
– Certo che sì! Ci mancherebbe. Bene, espletata questa formalità, posso chiederti come hai conosciuto Alberto? Lo so che è una domanda banale, ma si parte con l’ovvio per rompere il ghiaccio.
– Nel modo ‘ovviamente’ più ‘banale’, lavorando insieme su un progetto. Noi agenzia, lui cliente. Niente di particolare... e in realtà tutto di particolare. A cominciare dal colpo di fulmine che credevo non esistesse in natura, pensavo fosse una figura retorica buona per certa ‘letteratura’. A quarantaquattro anni non immaginavo di cadere in questa trappola emotiva, oltretutto non me lo potevo permettere. E invece…
– Sei sposata?
– Separata. Due figli preadolescenti come da copione. Un lavoro a tempo pieno, pienissimo. Poca voglia d’intrattenimenti particolari, nessuna intenzione di imbarcarmi in una situazione del genere, eppure… eccomi qua.
– Già. Sai, dalla tua voce, da come ti ha descritto Leo e da come parli, non mi sembri una della scuderia di quei due.
– E come ti sembro? – la voce di Miriam assunse una sfumatura divertita.
– Sembri una tipa seria, insomma, come dicevano le nostre mamme, una donna ecco. Certo, hai una certa età, senza offesa eh? Voglio dire, non sei la venticinquenne o trentenne di turno, quelle che bazzicano i nostri eroi.
– No, sono in odor di carampana direi…
– Ma dai! Leo mi ha detto che sei bellissima, una vera donna… e detto da lui ci puoi stare, anche perché quello solitamente è abituato alle vacche.
– Dove mi ha visto?
– Mah, sembra che Albie gli abbia fatto vedere delle foto.
– E poi dicono che sono le donne a starnazzare…
– Giusto. Te li immagini quei due cosa si saranno detti, quello che avranno commentato?
– Sai che ti dico? Non m’interessa nemmeno un po’, davvero. Ho smesso di preoccuparmi di quello che dice o pensa la gente in generale, figuriamoci gli uomini. Mantengo solo un interesse professionale ovviamente. Sono interessata alle opinioni dei cosiddetti customers, ai loro gusti, alle loro preferenze su prodotti, beni di consumo, stili di vita. Stop. Alla perdita di tempo e di energie nel sapere cosa dicono o pensano di te preferisco leggere un libro.
– Leggere sempre quando si ha voglia, mai lasciare i libri. E comunque, merce rara questa. Chi ha voglia di leggere libri voglio dire.
– No, ce ne sono ancora di quelli come noi. Perché ho la sensazione che anche te, come me…
– Leggo tanto io e di tutto. Per scrivere bisogna leggere, serve amare la lettura. A volte o le giornate intere sdraiata sul mio divano con i miei libri, giornali, e poi anche in rete sai? Ovviamente per lavoro ma anche per piacere. Il mio motto è ‘Non fare lavori che non gratificano’. Sempre quando si può e nei limiti del possibile ovviamente. Io lo faccio anche se guadagno du’ sghej e sono sempre in bolletta. Ma sono contenta, la sera vado a dormire leggera, non ho rimorsi e neppure ripensamenti. Mi guardo allo specchio e riesco ancora a non sputarmi in faccia.
– Beh, io a volte non ci riesco. Mi verrebbe voglia di cancellare la mia di faccia, di svanire nel nulla, di evaporare, specie quando sono costretta a fare o dire cose completamente contrarie a ciò che penso, a quel poco in cui credo, a quei due valori che ancora mantengo come punti fermi nella vita. Poi però penso ai miei bambini, al mutuo di casa, alla spesa settimanale, alle bollette… e il disgusto mi a, metto un velo di fondotinta in più, una riata supplementare di rossetto e via. Sono pronta per un’altra pagliacciata.
– E l’Alberto in tutto questo come si è inserito? Cosa ti ha folgorato a parte il fatto che sia un gran bel figo?
– Non ho mai smesso di chiedermelo perché, sulla carta, è quanto di più lontano dal mio tipo di uomo ideale. Poi è sposato, fatto per nulla secondario. In vita mia non ho mai insidiato - Dio, che parola da feuilleton! - un uomo impegnato. Era una specie di tabù, un limite invalicabile che me lo rendeva del tutto inappetibile, un fatto di solidarietà femminile. Questa è la prima volta che mi succede. Per la prima volta non me ne frega niente di niente, ed è preoccupante. Mi sono chiesta cosa avrà lui di così speciale, di così unico da farmi cadere quel tabù. Il suo sguardo, il suo sorriso, la sua tenerezza… forse il fatto che non bisogna parlarsi troppo, che si è immediatamente in sintonia. Quel suo
accarezzarti con la voce, quel modo di farti sentire l’unica in tutto l’universo, il mio continuo esistere nei suoi pensieri, nei suoi sogni, il suo eccitamento quando mi vede, quando mi parla. La sua voglia di me, il fatto che non cambierei una virgola di com’è...
– Chiarissimo. E poi mai voler cambiare un uomo, scapperebbe.
– Mai pensato e mai fatto. Sono belli e terribili proprio per quello che sono, ovvero basici.
– Quindi sai già che l’Alberto è sposato e sta per diventare papà.
Ci fu un istante di silenzio e a Wanda bastò. – No, questo non lo sapevi eh?
– No.
– Cambia qualcosa?
– No, ma mi chiedo perché l’abbia omesso. – Il tono della voce di Miriam si era impercettibilmente inasprito.
– Eh, magari temeva un giudizio peggiore da parte tua. Avere una moglie è una cosa, anche dei figli già nati, ma essere in attesa del primo figlio e avere intenzione di farsi storie fuori di casa è tutt’altra cosa. A me fa’ un po’ schifo, scusa se te lo dico, ma si sa, sono un po’ talebana.
Ancora silenzio. Miriam si alzò dal divano e iniziò a eggiare nervosamente intorno alla scala. Si voltò di scatto verso la zona cucina e vide sul monitor gli occhi di smeraldo di Andrea fissi su di lei. Non c’era più il viso intero dell’avatar come prima, quando le aveva ato la telefonata di Wanda, ma solo due occhi indagatori su sfondo completamente nero, che la guardavano. Provò un brivido lungo la schiena, quegli occhi sembravano veri.
– Lo confesso, m’infastidisce pensare che mi abbia nascosto una cosa così importante che sta accadendo nella sua vita proprio adesso.
– Che senso ha vivere una storia con uno così? Scusa se m’impiccio ma, ripeto, non mi sembri una della scuderia…
Miriam tornò sotto la scala e s’immerse nella luce che pioveva dall’alto. Una luce bianchissima, che l’avvolgeva come un lenzuolo di seta scintillante. Chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro come se volesse essere risucchiata interamente da quel bagliore, assorbendone tutta l’energia possibile. Era come se la casa le si stringesse intorno, la sentiva, ci dialogava. Restò così per un bel po’ in un assoluto silenzio, poi di scatto si voltò verso la zona cucina: il monitor continuava a rimandarle due occhi di smeraldo che la fissavano intensamente. Miriam rabbrividì nuovamente e distolse il suo sguardo con un po’ d’inquietudine, riportandolo verso la luce.
– Vuoi sapere il senso? É che mi sento morire tutte le volte che leggo il suo nome sul display del cellulare quando chiama, quando lo intravedo mentre arrivo nei suoi uffici per il solito update meeting e mi sorride da lontano ancora prima di raggiungermi. Muoio tutte le volte in cui ci scriviamo, quando leggo parole che sono carezze sul mio corpo o quando ci incontriamo su Skype, attraverso un monitor sgranato e spesso fuori fuoco. Mi ritrovo a scrivergli, perché lui me lo chiede, a mandargli pensieri, emozioni, la mia voglia che ho di lui. E di rimando
ricevo righe bellissime che mi raccontano la sua ione, il suo desiderio forte, impellente. Mi chiedi il senso di tutto questo? Il senso siamo noi due, insieme.
– Bello, sì molto. Lo dico davvero, ma sento puzza di pericolo, un enorme pericolo di delusione. Tu ci hai investito, ti sei data e ti stai dando senza riserve, sei te stessa, ti sei abbandonata a lui così, senza difese. Ho paura però che dall’altra parte tutto questo non lo troverai. Alberto, come tutti quelli della sua specie, non è programmato per un tale sublime coinvolgimento. Il suo narcisismo patologico non lo prevede. Sai, non vorrei che mi fraintendessi, non voglio apparire come la solita stronza che sputa sentenze, forse un po’ lo sono ma non in questo caso. Magari sbaglio, anzi sì dai, mi sto sbagliando, magari Albie stavolta è preso davvero, è coinvolto, a modo suo è innamorato a quanto ne so. Tutto può essere a questo mondo e poi vi state per incontrare, finalmente. Starete insieme, entrerete in contatto… vi farete una sana scopata, ecco. Poi si vedrà.
– Già. In pratica è così senza giri di parole. – Miriam guardò di nuovo il suo orologio. Alberto era in leggero ritardo.
Di nuovo il suo sguardo vagò per gli ambienti del loft. Poi all’improvviso le venne voglia di esplorare il piano superiore, dove da lì a poco sarebbe comunque andata insieme ad Alberto. Salì i gradini della scala e raggiunse il primo livello, la zona notte e lo studio. Si fermò a osservare il letto e provò a immaginare come sarebbe stato.
– Sai, non ho fatto altro che pensare a come sarebbe stato il suo primo sfiorarmi. Cosa avrebbe toccato prima? Il mio viso, la parte inferiore della guancia con le sue dita che si farebbero leggere per me, delicate. Avrebbe accarezzato il mio orecchio scendendo per la nuca, le sue labbra sui miei capelli, il respiro sui miei occhi...
XIII
Alberto era ancora in ufficio e chiamò Leonardo con il cellulare. In quel preciso istante il suono della chiamata si diffuse in tutto il loft.
– Cos’è? Un’interferenza? – Chiese Wanda.
– Credo di sì, Non parlare, aspetta… – Miriam si mise all’ascolto in assoluto silenzio.
Nello stesso momento nell’appartamento di Alberto, sua moglie Gaby era al telefono con la madre. Udirono anche loro lo stesso suono ed entrambe interruppero la conversazione.
– Ma che c’è?
– Zitta mamma, credo che qualcuno si sia inserito nella linea… facciamo silenzio un attimo.
– Ciao Leo, ti disturbo?
Leonardo tolse il viva voce dal fisso dell’ufficio e afferrò la cornetta. – Al, che succede? Problemi? Aspetta un istante.
Si rivolse alla sua assistente con un cenno di capo, lei capì che doveva lasciare la stanza e chiudere la porta.
– Dimmi tutto. Sei da me? È arrivata?
– Non sono da te e non credo che andrò, anzi non ci vado.
Leonardo non disse niente e aspettò pazientemente che Alberto continuasse a parlare. – Tutto a un tratto non me la sento più. Aspetta, mi squilla il telefono fisso… un attimo.
Leonardo ascoltò la brevissima conversazione dell’amico sull’altra linea telefonica. Doveva essere con una donna perché la voce di Alberto era diventata di colpo flautata, il tono più basso del normale.
– Eccomi qui, scusa, era un’amica. La conosci pure tu, credo.
– Non dirmi il suo nome! Qualche indizio dai, che indovino.
– Bionda, tonnellate di extension, bassina, sempre seminuda, parecchio ritoccata, ultimamente naso e labbra. Una ione per Charlize Theron della quale è fermamente convinta di essere il clone.
– Chi, quella maitresse calabrese? Aspetta un attimo, quella che ho conosciuto a Milano per la festa di Chiara. Ora ricordo, la giornalista. Insomma, parolone… diciamo wish to be. Gran bel troione!
– Ma dai… – Alberto scoppiò in una fragorosa risata. – Adesso si è lanciata pure nel mondo dell’hotellerie.
– Ah sì? Ha organizzato una maison particulier?
– Mah, sembra che abbia messo su una specie di resort, non ho ben capito, Comunque si sta riciclando pure come interior designer.
– I pompini li continua a fare? No, perché con quelle labbra... quanto pesano? Diciamo un paio di chili di silicone? Che insieme alle bocce che si ritrova fanno chili e chili di felicità, almeno per te che te la sarai spupazzata, spero!
– Beh, me l’ha sbattuta in faccia… una leccatina gliel’ho data, certo. Più di una per la verità.
– Quante volte figliolo?
– Mah, mica le conto. Non è che stia sempre in giro a predare. Diciamo che ci siamo visti un po’ ultimamente. Poi ho dovuto azionare il freno a mano. Come sempre accidenti.
– Cos’è, le tue si attaccano…
– Pare di sì. Che palle! Non capisco, io sono sempre stato chiaro fin dall’inizio. Solo del buon sesso e niente di più. Non voglio saperne di segreti reconditi, pensieri, malinconie, ricordi, storie ate e presenti. Non chiederei neanche il nome se potessi. Nessun problema e nessun coinvolgimento. Puro piacere. Tutte sembrano più che d’accordo, ti dicono che la pensano esattamente come te, anzi di più! Cominci, te le scopi e poi zac! Iniziano a rompere, a chiedere, a pretendere. Fanno pure le gelose e che cazzo! Una moglie ce l’ho già, basta e avanza. Cancello tutte le tracce e queste niente, ti mandano mail, esigono risposte. Adesso ho anche imparato a non lasciare più il numero di cellulare, non a tutte almeno. Però mi danno il loro sperando che io contraccambi.
– Ovviamente le chiami con il numero privato.
– Ovviamente! Poi c’è chi rompe pure su Skype. Mi ritrovo ogni giorno decine di richieste di contatto, figurati.
– E in tutto questo la Luminosa? La buca che le stai dando?
– Eh sì, sta cominciando a pretendere anche lei, ecco il punto. Emotivamente voglio dire. Non lo so, mi ha fatto are la voglia. É che ho la libido a tempo. Se non concludo entro un certo periodo, sempre breve comunque, mi stufo e mi spengo. Oltretutto sto avvertendo, come dicesti tu tempo fa, una sensazione di pericolo. Mi piace sì, mi piace molto ma dopo? Potrebbe essere una magnifica scopata e poi? É vero, è diversa dal puttanone calabrese e dalla zoccola sarda ma che faccio? Mollo Gaby e mi fidanzo con Miriam? Io una famiglia ce l’ho e me la tengo stretta, non ho la minima intenzione di cambiare il corso delle cose. Non adesso almeno e non penso nemmeno in futuro. Gaby lo intuisce e a volte s’incazza ma chiude un occhio, mi ama. Io sono così, lo sono sempre stato e non
me ne vergogno, perché dovrei? Adoro il sesso e sono profondamente attratto dalla bellezza, mi piacciono le donne, tutte, quelle eleganti e di classe, ma anche quelle porche, trucide e pacchiane e io piaccio a loro.
– Intanto Miriam è a casa mia che aspetta…
– Spero che se ne vada presto, spero che capisca e non faccia capricci. D’altro canto non ci siamo promessi nulla.
– Cosa vuoi fare, svanire nel nulla? Ti chiamerà, ti scriverà, preparati.
– E perché mai? Se chiama non rispondo, se scrive sarà come se non avessi mai ricevuto nulla e ovviamente non risponderò. Non devo spiegazioni a nessuno.
– Alleluia! Adesso ti riconosco, altro che deliri d’intesa unica, parlare di tutto senza inibizioni “Come se ci fossimo conosciuti da sempre”, “Mi sono sentito riconosciuto”... riconosciuto come l’immenso figlio di puttana che sei. Finalmente sei tornato, fratello! Ci si vede stasera? Cena tra maschi, ricordi? Dovevamo vederci con Matteo e Tommy già un mese fa, adesso credo che tu non abbia più scuse! Almeno fino alla prossima stella cometa…
– Ah ah ah ah ah, niente luminose almeno per un po’. Meglio una porcona veloce, bel culo e faccia da zozza.
– Mitico Al! Mi sa che hai già qualcosa sotto mano.
– Cagliari, Talent Agent, titolare. La conosco da un po’ ma ieri è tornata alla carica. Mi sa che…
– Ci racconterai stasera. Alle nove al Blu e naturalmente poi la zozza la i agli amici. Casa mia si presta ad accoglierla, ne sarà felice e onorata!
– Ti devo comunque un favore, anche se la consumazione non c’è stata.
– Dici? Credo che farò un salto a casa invece, che dici se mi presentassi prima che la luminosa vada via inviperita e la consolassi un po’? Pensa che scena: io con fare premuroso magari le asciugo qualche lacrima, poi magari l’asciugo da qualche altra parte… almeno quel ben di Dio non andrà sprecato.
– L’idea mi darebbe un po’ fastidio per la verità, però capisco. Se la vuoi è la, ancora per poco credo… mi auguro. A stasera allora.
– See you.
E finalmente fu il silenzio. Nei pressi di via Veneto Gaby stringeva il cordless tenendolo incollato all’orecchio. Era immobile con il cuore in tumulto, il viso arrossato e stravolto, mentre sua madre aveva iniziato la giaculatoria d’improperi contro quel genero schifoso, che non l’aveva mai convinta fino in fondo.
– Adesso basta! Finalmente hai le prove del porco che hai sposato. Torna subito a casa tua, a casa nostra. Che razza di uomo è uno che, con la moglie incinta del suo primo figlio, continua ad andare a puttane, come ha sempre fatto! ’Omm’e
merda!
– Mamma ti prego… – Gaby cercò di riprendere fiato ma l’unica cosa che ebbe la forza di fare fu quella di correre in bagno. Gettò il telefono sul tappeto della doccia, s’inginocchiò accanto al water e vomitò quel poco di colazione di un paio d’ore prima.
Dopo pochissimo nel loft di Ponte Milvio il silenzio fu rotto dalla voce di Wanda.
– Porca zozza! Mi dispiace… non so cosa dire.
Ancora silenzio, pesante, lunghissimo, si poteva quasi toccare. Miriam era rimasta in piedi accanto al letto, muta e immobile. Sentiva il sangue vorticare nelle arterie, in tutte le vene del corpo e fin nei più piccoli capillari. Tentò di muovere le labbra per parlare, per dire qualcosa, ma non ci riuscì. Si vide riflessa sul monitor nero del televisore di fronte al letto, non si riconobbe e cominciò a odiarsi. L’odio si trasformò in dolore e fu allora che iniziò a piangere. Un pianto sommesso, silenzioso e disperato, fatto di singhiozzi muti e di lacrime salate che le inondarono quegli occhi troppo grandi, troppo scuri, belli e inutili.
– Miriam, ci sei? – il tono della voce di Wanda era preoccupato. – Fatti sentire ostrega!
– Sì, sono qui. – La voce di Miriam era un sussurro, rotto da un impercettibile singhiozzo.
– Tutto bene? Certo, che domanda del cavolo eh? – Wanda cercò maldestramente di sdrammatizzare a modo suo.
Miriam non riusciva a risponderle, la gola era piena di lacrime, altre lacrime formavano fiumi in piena sul viso stravolto, il trucco sciolto le sporcava le guance. Si sedette sul letto come in trance, non riusciva a muoversi. Aveva la bocca completamente asciutta, era sudata, le tremavano le gambe e le mani.
– Dai Miriam, dì qualcosa… tira giù un bestemmione magari, che se lo merita quella merda!
Miriam abbozzò un sorriso e cercò il fiato per rispondere alle premure di Wanda.
– Eccomi…
– Ah ben, almeno ti sento. Dai reagisci, non serve stare male, non per uno come lui. Come diceva Tony Curtis a Marylin ‘Non piangere Zucchero, non c’è uomo che lo meriti’ o una roba del genere. Insomma, animo!
– Sì, ci provo. Certo che se mi vedessi adesso… non certo un bello spettacolo. – Miriam si alzò dal letto quasi barcollando, tirò su una spallina del vestito, un tubino semplicissimo di seta leggera azzurro ghiaccio alle caviglie, che faceva risaltare ancora di più il chiarore della sua pelle. Entrò in bagno, si specchiò a lungo poi azionò il rubinetto elettronico attraverso il touchscreen accanto all’erogatore dell’acqua.
– Qui ci vuole un master in computer-idraulica o in effetti speciali, Dio mio.
– Ehi, stai tirando fuori un’ombra d’ironia, brava! Sei in bagno?
– Sì, sto cercando di lavarmi il viso, sembro un pagliaccio, anzi sono un pagliaccio o per meglio dire, una cretina.
– Ecco sei arrivata alla fase dell’autocommiserazione. Non ci siamo. É il tipico atteggiamento femminile, invece di sputare addosso ai mediocri nei quali ci siamo imbattute, diamo la colpa a noi stesse. Che volpi…
Miriam cominciò a lavarsi il viso lentamente, si tolse il trucco colato e il rossetto, si sciacquò ancora quasi a voler togliere tutto il dolore che le era piovuto addosso come piombo fuso. Si specchiò di nuovo e vide riflesso il volto di una bambina infelice, venne fuori qualche piccolissima efelide che il make up puntualmente nascondeva, su una pelle leggermente arrossata ma pur sempre splendente. Abbassò gli occhi, non riusciva a sostenere quello sguardo. Sentì risalire le lacrime e si scoprì stanca. Lentamente uscì dal bagno e mentre camminava in direzione della scala il suo sguardo si fermò sullo schermo del televisore in camera da letto. Lì per lì non riuscì a capire cosa ci fosse, era stranamente bagnato, come se ci fosse della condensa.
– Ehi, Miriam, tutto bene? Ci sei ancora?
– Sì, ero in bagno. C’è qualcosa qui, aspetta…
– Dove sei?
– Sono in camera da letto, davanti al televisore. É molto strano, qui c’è una scritta.
– Come una scritta?
– Sì, è come se ci fosse uno strato di rugiada, una specie di condensa insomma. E sullo strato c’è scritto qualcosa.
– Lo leggi?
– Sì. Quem nunc amabis? É latino…
– Chi amerai ora? Ma che roba è?
– Non ne ho idea. Non riesco a capire come sia venuta fuori. Certo questa domanda non potrebbe essere la più adatta in questo momento. Ho voglia di bere.
– A quest’ora? Ma sono le undici del mattino! Ti farà male e non servirà a niente.
– Questo posto mi dà l’angoscia.
– Ma come? Credevo che fosse un posto pazzesco. Io ancora non l’ho visto, dovrei arrivare sabato prossimo a Roma. Ovviamente non dormirò da Leo, starò da una mia amica, ma non vedo l’ora di mettere piede in quel Sancta Santorum.
– Sì certo, è un posto pazzesco ma mette inquietudine. Non so, è… troppo. Troppo di tutto, troppo perfetto, stylish, leccato, ovvio. Quelle case che vedi in TV nei programmi di arredamento o sulle riviste.
– Un po’ fredda vuoi dire?
– Direi… cattiva. Sì, cattiva, non so perché mi è venuto in mente questo aggettivo, non si addice per niente a una casa vero? Eppure lo è.
– Cattiva?
– Forse incattivita… – Miriam mormorò quest’ultima frase in un sussurro, come se lo stesse dicendo a se stessa, mentre scendeva per la scala.
– Incattivita? Mica ti capisco sai? Sei sotto choc questo è sicuro. Dove stai andando? Stai uscendo?
– Te l’ho detto, voglio bere. Sono scesa al piano terra e sono a caccia di una bottiglia.
– E va bene. Magari un po’ di vino, so che Leo ne ha di magnifici e poi ti farà meno male che qualche super alcolico del cavolo.
– E dove li terrà questi magnifici nettari? Probabilmente avrà una cantinette da qualche parte. Figurati se qua può mancare una roba del genere. – Il tono della voce di Miriam si era fatto più basso e più duro. Non c’era più alcun cenno di incrinature nella voce, nessuna lacrima. Entrò di nuovo nella zona cucina e notò l’enorme frigo di acciaio con accanto la cantinette dalla porta di vetro scuro, attraverso la quale si vedevano perfettamente le bottiglie di vino stipate in ordine sui vari ripiani. L’aprì per sceglierne uno, poi si rese conto che ovviamente, essendo una sorta di frigo, i vini erano solo bianchi o champagne. Aveva voglia di un rosso, poi ci pensò un attimo.
– Ma sì, certo. Festeggiamo. Quale occasione migliore? Una bella presa di coscienza di quella che sono. E tu Wanda, non ti intromettere. Lascia che mi festeggi. Fammi celebrare l’ennesima fregatura, me lo merito.
Prese una bottiglia di Billecart Salmon Brut Reserve e la stappò. Non si preoccupò nemmeno di trovare un bicchiere o una flute e si attaccò direttamente alla bottiglia. Mentre beveva con la testa gettata all’indietro, le lacrime ricominciarono a scorrere sulle guance, fin sui capelli. Gli occhi di Andrea erano sempre lì e sembravano seguire tutti i suoi movimenti.
– Stai bevendo mica? – Wanda sembrava preoccupata, da qualche minuto aveva perso il contatto con Miriam.
– Non ho mai tradito mia moglie, non uso la mia professione per trombare, non vado a hostess, né mi faccio le giornaliste. Se tu la sola, l’unica. Ti adoro… non
te l’ho mai detto eh?
Miriam tracannò un altro sorso generoso di champagne.
– Non ho mai smesso di pensarti, di pensarci. Sono a due i da te, sempre, mi senti? Dovresti, perché non ti lascerò mai. Sei il mio sogno proibito di giorno, di notte, sempre.
E ancora champagne, ancora lacrime. – Miriam? Dai su… – Wanda non sapeva cosa dire, una delle poche volte in vita sua.
– Tu sei la sola, l’unica… – non riuscì a finire la frase, cominciò a singhiozzare forte, scagliò la bottiglia ormai semivuota sul pavimento e cadde per terra anche lei sulle ginocchia, poi si rannicchiò in posizione fetale. Non riusciva a smettere di piangere.
– Miriam, mi fai preoccupare… hai bevuto eh?
Non riusciva a rispondere a Wanda, né a sollevarsi da terra e neppure ad aprire gli occhi.
Non sapeva quanto tempo fosse ato da quando si era gettata per terra. Cominciò a sentire come un soffio leggero sul viso, un piccolo refolo d’aria fresca e poi partì la musica, una melodia dolcissima, struggente e lontana, si udivano suoni di flauti e canti femminili. Miriam iniziò a calmarsi e a occhi ancora chiusi non si chiese da dove arrivasse quel canto, si lasciò semplicemente
cullare da esso, tentando persino di cantare lei stessa. Era come se conoscesse quel pezzo.
– Brava, hai messo un po’ di musica… ma che pezzo è? Bello però, anche se strano. Mai sentito, sembra musica antica, eh?
Qualche minuto dopo Miriam aprì gli occhi, come se si risvegliasse da un lungo sonno. Alzò prima la testa, poi il busto, rimanendo ancora seduta sul pavimento. Accanto a lei i resti della sua libagione, pezzi di vetro e gocce di champagne.
– Non l’ho messa io… – la sua voce era un sussurro, quasi da bambina.
– É mica partita sola? Allora ha ragione il Leo! Quella casa è stregata. Anca la scritta in latino… e ga razon devo venire subito a controllare.
La musica durò ancora per qualche secondo, il tempo di calmare Miriam, di cullarla, poi cessò. Miriam cambiò immediatamente atteggiamento, recuperò se stessa come se si risvegliasse da un lungo sonno.
– Credo sia arrivato il momento di togliere il disturbo. Che ore sono?
– É mezzogiorno. Come ti senti? Sei in macchina?
– Sì. Sto bene, almeno dovrei. Non abito troppo lontano da qui, diciamo una ventina di minuti con il traffico nella norma.
Finalmente si rimise in piedi, girò la testa e si appoggiò al tavolo della cucina, poi lentamente entrò nella zona soggiorno, dove aveva lasciato la sua borsa. Non si preoccupò nemmeno di darsi un’aggiustata ai capelli o al viso, ormai completamente struccato. Inforcò gli occhiali da sole cercando nella borsa le chiavi della macchina.
– Beh, allora ti saluto Miriam. Comunque è stato un piacere, lo dico per davvero, e non starci troppo male. Il giusto insomma, ma non tanto.
– Ci proverò Wanda. Anche per me è stato un piacere… ma mi chiedo, se tu non avessi chiamato, non avrei mai saputo niente, avrei aspettato invano tutto questo tempo e poi… non avrei mai più avuto notizie, forse. Chissà. Certo questa casa… fammi andar via.
La comunicazione s’interruppe e Miriam s’incamminò verso l’uscita. Si ritrovò davanti Leonardo appena entrato nel loft, che a sua volta finse stupore, ringraziando tra sé la buona sorte nell’averlo fatto arrivare in tempo.
– Buongiorno! – Leonardo sfoderò il suo sorriso più smagliante. Era perfino più bella di come la ricordava in foto, anche se un po’ maltrattata con il viso stravolto e i capelli arruffati era ‘arrapante’.
– Ecco, tombola! Scusa l’intrusione, anzi no. Scusa un cazzo!
– Ehi, quanta aggressività! Ci rilassiamo un po’?
Miriam si fermò un istante a guardarlo, iniziò dagli occhi e poi scese giù indugiando un po’, prima sul petto, poi sul bacino e infine sulle gambe, fino ai piedi. Poi si decise.
– Ma vaffanculo! – e uscì.
XIV
– L’utente da lei chiamato potrebbe avere il telefono spento o non essere al momento raggiungibile. Riprovare più tardi.
Era la quarta volta in un’ora che Leonardo tentava di chiamare Alberto al cellulare. Evidentemente era occupato in qualche riunione fiume. Voleva raccontargli dell’incontro con Miriam, dirgli che aveva dovuto raccogliere i cocci di quel fallito incontro, e non solo metaforici visto che in cucina c’erano i resti di una bottiglia di prezioso champagne millesimato frantumata. Quella donna era proprio notevole, che spreco non sbattersela un po’, quasi quasi l’avrebbe assaltata nei prossimi giorni, tutto quel ben di Dio non poteva andar perso.
Decise che era ora di farsi uno spuntino, non un vero e proprio pranzo però. Era fuggito dall’ufficio con una scusa proprio per incrociare la luminosa, vederla dal vivo e dare un voto alla donna che l’amico stava scartando a causa di un attacco di panico secondo lui ben poco giustificabile. Andò verso la zona cucina quando a un tratto si rese conto che stava camminando sul bagnato.
– Che diavolo… – il pavimento era allagato da qualche millimetro di liquido scuro e maleodorante che proveniva dal bagno del piano terra. Si precipitò nel locale e vide che dal pozzetto d’ispezione, situato tra il bidet e il lavandino, traboccavano acque nere.
– Cazzo! E adesso? – uscì di corsa dal bagno e raggiunse il computer centrale. – Vigili del Fuoco, chiamata urgente.
Andrea mise in collegamento Leonardo con la caserma più vicina. I vigili assicurarono il loro intervento di lì a pochi minuti. Leonardo era stravolto, a piedi nudi in mezzo a quel pantano, mentre i maleodoranti liquami della fogna si stavano espandendo rapidamente per tutto il piano terra. Arrancò verso la cucina, aveva bisogno di un bicchiere d’acqua, la sua bocca era asciutta, la gola secca. Aprì il frigo per prendere una bottiglia di acqua minerale e un’ondata di larve gli cadde ai piedi. Con un grido di ribrezzo fece un salto all’indietro e per poco non cadde nel pantano che intanto aveva invaso anche quel lato della casa. Era allibito, non credeva a quello che stava accadendo sotto i suoi occhi.
Una sensazione gli stava montando dentro, una specie di disperata rassegnazione, qualcosa che non aveva mai provato in vita sua. Gli sembrava di combattere contro l’intero universo sceso in campo per annientarlo, non credeva alla malasorte e tantomeno al malocchio, ma davanti a quello sfacelo non riusciva più a mantenere il sangue freddo. Altro che elettromagnetismo e menate del genere, qui bisognava chiamare l’esorcista. Fece un attimo appello alla sua memoria per ricordare il nome dell’esperto in campi magnetici che Zadeh gli aveva consigliato durante la loro ultima chiacchierata. Afferrò il suo cellulare e controllò fra le note. Eccolo lì, lo avrebbe chiamato all’istante mentre aspettava l’arrivo dei pompieri. Non fece in tempo a digitare il numero che gli arrivò la chiamata di Alberto.
– Leo, ascolta, non ho tempo per parlare adesso. Stasera non posso venire al Blu, è successo un casino con Gaby. Metto giù, spero di risentirti nei prossimi giorni. Sto nella merda. Non mi chiamare, aspetta che lo faccia io. Capito? Ciao.
Leonardo restò con il cellulare in mano, muto e disorientato. Non aveva capito niente per la verità, la voce di Alberto era luttuosa, fosse morto il suocero? Che voleva dire ‘sto nella merda’? Nella merda c’era lui altro che, nel senso letterale del termine. D’accordo, adesso non aveva tempo e nemmeno voglia di pensare anche ad Alberto. Il disastro era totale, sentiva franare la terra sotto i piedi, si vedeva perduto.
Ancora il cellulare, questa volta era Tommy. – Ehi Leo, non posso stare troppo al telefono, sono in pausa da un meeting infinito. Temo che stasera salti tutto bello mio. Al mi ha mandato un messaggio, non viene e io sono costretto a portare ‘sti marziani di coreani a cena all’Hassler, sai, si sono fissati con Piazza di Spagna. Che palle! Organizziamo di sicuro prima di partire per Formentera, dai. Promesso.
Leonardo non si sforzò nemmeno di replicare. Chiuse la comunicazione con un atteggiamento sempre più rassegnato. Udì la sirena dei vigili del fuoco avvicinarsi, “Caspita, sono stati velocissimi” pensò. Almeno questo.
Si precipitò fuori per accoglierli in qualche modo. I liquami fognari continuavano a traboccare, avevano allagato tutto il piano terra e stavano raggiungendo l’impluvium.
– Da questa parte, prego. – Leonardo indicò alla squadra dei vigili il pozzetto d’ispezione. Poi si diresse nuovamente in cucina. In tutto quel caos gli era venuta voglia di caffè. Le cialde Illy erano finite, non c’era una cosa che stesse andando per il verso giusto. Decise per una moka. Dopo averla riempita con un po’ di acqua Evian trovata in dispensa, la mise su un induttore. Appena diede il comando di accensione partì una scarica elettrica che lo colpì in pieno.
Si risvegliò sul divano con sopra di sé due vigili del fuoco che stavano cercando di rianimarlo.
– Sto bene, sto bene… – l’idea di una respirazione bocca a bocca praticata da uno dei due ragazzotti in divisa gli diede il voltastomaco. Dio che botta! Si sentiva ancora formicolare le mani e i piedi.
– Signor Saggese, come si sente? Chiamiamo un’ambulanza, la portiamo al Pronto Soccorso?
– No… tutto a posto. Ecco mi alzo, vedete? Ce la faccio…
– Sì, va bene… stia molto attento però, e non cammini scalzo. Senta, abbiamo chiamato il Servizio Spurgo, dovrebbero essere qui tra un po’. Noi abbiamo verificato il guasto, informato chi di dovere, il nostro compito è esaurito. Stia attento anche a non maneggiare più apparecchiature elettriche per il momento, visto che tutto il piano è invaso dall’acqua. La possiamo lasciare? Si sente bene? Ce lo assicura?
– Ma sì, certo. Andate pure. Grazie per la celerità.
I vigili uscirono lasciando Leonardo nel marasma. Tentò nuovamente di mettersi in contatto con il bioenergeta o come cavolo si definivano i moderni stregoni racconta-balle. Recuperò il nome e il numero di telefono dal cellulare e chiamò.
La telefonata fu breve e, grazie al cielo, concisa. Pietro Monetti era il titolare di un’azienda specializzata in edilizia bioenergetica ed egli stesso si definiva una sorta di rabdomante alla ricerca delle fonti di energia e campi magnetici, quei nodi di Hartman di cui aveva parlato Zadeh. Sembrò capire al volo la situazione e promise un sopralluogo quasi immediato, fissando l’appuntamento per il mattino successivo.
Continuò a guardarsi intorno con lo sguardo perso nel vuoto, cercando di fare appello alla sua conclamata leadership, a quella capacità di ‘far accadere le cose’ (make things happen) così cara ai migliori coach sulla piazza, e poi a quel suo
pianificare da Dio, sempre una spanna più su degli altri, con i suoi forecast impeccabili se non infallibili. Questo però non l’aveva previsto, non riusciva a capacitarsi, un simile disastro proprio nella sua casa perfetta, equiparata a un business plan inattaccabile. Non aveva più la forza di reagire, forse era stata la scossa elettrica di poco prima. Si sentiva sull’orlo di un esaurimento nervoso. Attese con insolita pazienza l’arrivo del Servizio Spurgo e della squadra di pulizie straordinarie che aveva chiamato nel frattempo. La sera si avvicinava e Leonardo cominciò ad avere paura. Decise di non andare via, non voleva darla vinta a nessuno, non aveva mai abbandonato un campo di battaglia lui, mai si era arreso davanti alle poche difficoltà che la vita fino a quel momento gli aveva presentato. L’enfant d’or, come lo chiamava la sua nounou, era abituato da sempre a comandare, a vincere. L’ultimogenito di Monsieur L’Ambassadeur, l’unico figlio maschio, era il delfino di casa Saggese, educato fin dal primo vagito a dominare gli eventi, perfino a provocarli, mai a subirli; adesso era lì, seduto su uno dei suoi costosissimi divani bianchi, con la testa fra le mani e i piedi nella merda. N’oublie pas que tout a une âme, questa frase non riusciva più a togliersela dalla testa.
XV
– Mi dispiace ma il dottor Cacciaguerra oggi non è al lavoro, ha preso un paio di giorni di permesso. Non so dirle di più.
L’assistente di Alberto chiuse in fretta la comunicazione e Leonardo rimase interdetto. Non era più riuscito a parlare con l’amico dal giorno prima, a casa non rispondeva nessuno, il cellulare era spento. Qualcosa doveva essere accaduto, ricordando poi la sua brevissima telefonata proprio mentre casa sua si stava allagando di merda, i “Problemi con Gaby”. Probabilmente legati alla gravidanza, forse. O forse no. I conti non tornavano, era successo qualcosa di serio che non sapeva definire. Avrebbe provato a rintracciarlo più tardi. Era in cucina, si guardò intorno per l’ennesima volta in quelle ultime ventiquattro ore di caos. Il Servizio Spurgo aveva risolto il problema del rigurgito fognario e la squadra di pulizie aveva portato egregiamente a termine il suo compito. Adesso quella porzione di loft aveva ripreso le sembianze ante disastro. Si era preparato una razione doppia di caffè americano, nero e bollente, ma non aveva fame anzi, a dire la verità il suo stomaco era serrato in una morsa, ripensava alle migliaia di vermi e di larve che gli avevano invaso il frigo il giorno prima. La squadra di pulizie aveva ripulito tutto, svuotato e disinfettato l’elettrodomestico. Era in attesa di Pietro Monetti, il bioenergeta che avrebbe dovuto effettuare il sopralluogo per debellare Dio solo sapeva cosa. Necessitava anche lui di un o energetico, si sentiva a pezzi dopo una nottata trascorsa in bianco. Era terrorizzato nel rivivere le ate esperienze di musiche infernali, sbalzi termici, fottute scritte in latino e altro ancora. Non ne poteva più. Quella notte però non si erano verificati episodi del genere, tutto taceva in un silenzio quasi irreale, in qualche modo anch’esso terrorizzante. Il suono del camlo d’ingresso interruppe quei pensieri funesti. Leonardo si alzò dallo sgabello e andò ad aprire, trovandosi davanti un uomo minuscolo, dai capelli rossi e la pelle lattiginosa. Portava con sé una valigetta di alluminio e teneva la giacca di stoffa leggera appoggiata su una spalla.
– Molto lieto, sono Pietro Monetti. – Leonardo sorrise tendendogli la mano. Si sentì subito a suo agio davanti a quell’omino dall’aspetto mite e leggermente dimesso. Anche la sua voce gli ispirava calma, tranquillità, sentì che in qualche modo si poteva fidare. Lo fece accomodare e iniziò a raccontargli i fatti, sforzandosi di apparire il più razionale e freddo possibile. Monetti lo ascoltò con estrema attenzione, non cambiando nemmeno per un istante il suo atteggiamento rassicurante e serafico. Era come fosse abituato a tali stranezze, non fece una piega nemmeno al racconto della scritta in latino sullo schermo spento del televisore.
– Bene, se questo è tutto direi di procedere con l’ispezione degli ambienti. Avrei bisogno di controllare tutti gli angoli della casa. Ovviamente essendo un unico ambiente, anche se suddiviso in più livelli, mi basta operare sul piano terra. Poi credo che una visita alle fondamenta sia oltremodo necessaria.
– Certamente. Prego, le faccio strada.
Cominciarono dall’ingresso esterno, oltre l’impluvium. Monetti aprì la valigetta e Leonardo non credette ai propri occhi quando lo vide estrarre una bacchetta da rabdomante. Evidentemente l’uomo percepì lo stupore del suo cliente e sorrise.
– Non si sorprenda troppo. Inizio sempre così, con l’antico sistema della ricerca di acqua o filoni metallici. Mi rendo conto che ai più possa apparire quantomeno bizzarro. Certo, la scienza ufficiale smentisce totalmente l’efficacia di questo mezzo, come non riconosce la radioestesia, ma la mia esperienza e il mio curriculum professionale possono dimostrare il contrario. La maggioranza dei miei interventi ha sempre dato esito positivo, nel senso che sono stati individuati forti campi magnetici in diversi siti da me ispezionati. Non mi pongo il problema di farmi accettare dalla comunità scientifica, non m’interessa il riconoscimento da parte di questi signori. Ciò che mi preme è risolvere i problemi delle persone che si rivolgono a me, tutto il resto lo lascio agli altri.
Mentre esponeva la sua teoria Monetti camminava avanti e indietro, ispezionando accuratamente tutti gli angoli del piano terra e ogni volta la sua bacchetta vibrava un po’. Leonardo lo seguiva come un cagnolino fedele e scodinzolante. Non sapeva se credere o meno alle storie della bacchetta da rabdomante e della radioestesia o come diavolo si chiamava. Si sorprese a sorridere tra sé, badando bene a non farsi scorgere dall’omino. Aveva messo la sua casa nelle mani di uno stregone, ecco dove era arrivato! Se solo lo avessero visto gli amici, i colleghi, i suoi capi... era quella l’ultima spiaggia? L’unico conforto che aveva in quel momento, guardando le strane movenze di Monetti, era che questi gli era stato raccomandato da Zadeh e quindi godeva di una piccola assicurazione di affidabilità, almeno lo sperava. Dopo una buona mezz’ora d’ispezione al piano, Monetti chiese di poter accedere alle fondamenta del loft.
– Intende dire lo scantinato? – Leonardo non aveva idea di dove recarsi. In quel momento maledisse la sua protervia nel non volersi minimamente interessare ai lavori di ristrutturazione. “Sono il cliente, pago e non voglio rotture di scatole. Non ho tempo e nemmeno voglia di stare in cantiere con gli operai, pago profumatamente un direttore dei lavori per questo”. Ricordò quelle parole pronunciate una sera di qualche mese addietro durante una delle innumerevoli cene con gli amici. Adesso quelle serate gli sembravano così lontane nel tempo...
– Sì, scantinato, sottoscala e cantina. – Monetti lo guardò perplesso. Leonardo restò un po’ in silenzio raccogliendo più in fretta possibile tutte le informazioni che a suo tempo gli furono date al momento della consegna del loft. Poi finalmente realizzò.
– Sì certo, venga con me. – Uscirono verso l’impluvium, e proprio al lato esterno della porta-finestra, all’interno del locale impianti c’era una piccola porta. Se ne ricordava perché una volta, durante una delle rare visite in cantiere, scherzando con il direttore dei lavori, l’architetto Covelli, chiese se quella porta nascondesse una piccola dependance per eventuali ospiti.
– Ecco, da questa parte. É la prima volta che entro qui, non ho idea di cosa ci sia sotto, faccia attenzione con la scala.
Aperta la piccola porta s’intravedevano dei gradini di cemento grezzo che finivano nel buio. Non c’era illuminazione, né naturale né artificiale. Monetti si fermò in cima alla scala, poggiò la valigetta sul primo gradino, l’aprì e prese una torcia elettrica.
– Dovrebbe far predisporre una qualche illuminazione qui dentro, può sempre tornare utile.
– Ci penserò.
Raggiunto il locale Monetti cominciò a camminare rasente i muri, soffermandosi agli angoli. La bacchetta vibrava sempre più forte mentre Leonardo continuava a illuminare il locale con la torcia. L’omino si fermò per qualche minuto quasi al centro del grande spazio vuoto e chiuse gli occhi, mentre la bacchetta sembrava fremere ancora di più.
A Leonardo quei minuti parvero interminabili, era sui carboni ardenti, aveva bisogno di sapere subito quello che c’era, sempre ammesso che qualcosa ci fosse; a quel punto se l’augurò. Dopo poco Monetti riprese a camminare osservando con attenzione il pavimento in lastroni di pietra, vecchio retaggio del magazzino sulle cui rovine era stato costruito loft.
– C’è un forte campo elettromagnetico alla base di questa casa. Mai sentito
parlare dei Nodi di Hartmann?
– Sì, ne ho sentito parlare.
– Ecco, siamo in presenza di una griglia di nodi che emettono onde elettromagnetiche. Qui sotto, quasi sicuramente, scorre anche acqua. É un luogo singolare dove molte forze sono concentrate, si sovrappongono le une sulle altre creando dei campi di disturbo, di alterazione. Sa se durante i lavori sono scesi a un livello inferiore a questo?
– Non lo so, ma non credo. Mi è stato detto che questa costruzione sorge su antichi reperti romani, ecco perché si sono limitati notevolmente nello scavo in profondità, proprio per evitare problemi con la Sovrintendenza.
– Capisco… – Monetti annuì pensieroso. – Sarebbe comunque interessante poter accedere alla quota più bassa. Guardando qui, vede? Proprio qui, all’incrocio di queste fughe fra i lastroni, si nota un incavo… come se ci fosse una botola.
I due uomini si chinarono per vedere meglio. In effetti c’era un rettangolo ben delineato, di circa ottanta centimetri per un metro, sigillato. – Per aprirlo occorrerebbe una piccozza.
– Senta Monetti, io non me la sento di rischiare e aprire una cosa che sia l’architetto sia il direttore dei lavori si erano guardati bene dal fare. Mi ci manca solo un controllo della Sezione Archeologica dei Beni Culturali, un sequestro e via. Direi che se non è proprio una questione di vita o di morte cerchiamo di farci bastare quello che abbiamo appurato fino adesso. No?
Pietro Monetti convenne di buon grado con la richiesta di Leonardo. – Va bene allora, faremo così. Possiamo installare su tutta la superficie del basamento dei pannelli di sughero per provare a isolare le fondamenta dalle onde elettromagnetiche. Se i fenomeni persistono dovremmo considerare l’idea di lavorare più in basso, oltre la quota attuale.
– Va bene così allora. Attendo da lei un preventivo di spesa, materiali e messa in posa, insieme alla sua parcella ovviamente. Io le manderò entro oggi le misure. Cerchiamo di fare tutto il prima possibile, la prego. Le assicuro che vivere qui sta diventando inquietante.
– Certamente dottor Saggese. Entro oggi riceverà la mia mail.
Accompagnò Monetti all’uscita e mentre salivano i gradini che dallo scantinato portavano al piano terra Leonardo intravide proprio all’entrata del locale macchine una piccozza appoggiata al muro. Strano non averla notata prima, e comunque non l’avrebbe usata di certo.
Tornò in casa sentendosi esausto. Riprovò a chiamare Alberto al cellulare, ma risultava sempre non raggiungibile.
– Chiamata esterna da Wanda Crosera. Accettare?
– Eh? – Leonardo era soprappensiero e non realizzò subito il messaggio vocale di Andrea.
– Accettare? Accettare?
– Sì, sì, cazzo!
– Eh! Che modi da Milord! Ti butta male eh?
– Guarda che non è giornata!
– Ultimamente non lo è nessuna vedo…
– Già, congiunzione astrale pessima o più precisamente, come da diagnosi del mago Monetti, massiccio bombardamento elettromagnetico. Perché io non mi faccio mai mancare niente.
– Chi è ’sto mago adesso?
– Un esperto, diciamo così, di Bioenergetica o più semplicemente una specie di rabdomante… ma che ne so, me lo ha consigliato Zadeh, figurati. Io credevo che fosse l’architetto più razionale e pragmatico dell’universo. Visto che non è stato in grado di darmi il benché minimo appiglio per risolvere i fottuti problemi di questo loft, se ne è uscito con una consulenza di questo stregone. Pensa che si è presentato con una bacchetta da rabdomante. Gli mancava il mantello di raso con le stelline e il cappello a punta da Mago Merlino, Cristo santo!
– E che ti ha detto?
– Dopo un accurato sopralluogo, siamo stati anche nello scantinato di casa, una camera sotterranea vuota e oscura, ha rivelato l’arcano. Forti campi elettromagnetici e probabile falda acquifera sotterranea. Insomma, senza speranza.
– Quindi che fai, traslochi?
– Non ci penso nemmeno, non per ora almeno. Tenteremo foderando il pavimento dello scantinato con pannelli di sughero e poi vedremo.
– Ah ben… ti ricordo che sto arrivando. Cerca di venirmi a prendere all’aeroporto che no ’go voja de spender per il taxi.
– Sì, sì, va bene.
– Hai visto l’Albie per caso ieri sera?
– No, mi ha chiamato in fretta e furia per dirmi che… scusa ma tu come lo sai che dovevamo vederci ieri sera?
– Eh… non hai idea di quello che è successo ieri.
– Non fare dire a me cosa che è successo qui, ieri!
– Ah sì? Subito dopo che Miriam se ne è andata?
– Adesso mi dici come cazzo fai a sapere tutte queste cose?
– Una parola sola… interferenza.
– Che interferenza?
– Ieri mattina ti ho chiamato, ma per errore, almeno credo, invece di chiamarti al cellulare ti ho chiamato a casa. ’Sta mona dell’Andrea, che giusto il tuo avatar può essere, ha ato la comunicazione urbi et orbi per tutta casa, e indovina chi c’era dentro?
– No! Era già arrivata?
– Eh sì, quella poverina, quell’anima candida.
– Sì, ma non mi dire che hai attaccato bottone con lei? Non te lo togli mai il vizio di non farti gli affari tuoi eh?
– Non è un vizio, è una virtù. E poi è stato spontaneo, anche da parte sua sai? É
stata una gran bella chiacchierata.
– E che le hai detto eh? Che cavolo lei hai raccontato su Alberto, su me…
– Io niente, ci avete pensato voi!
– Noi? Che vuoi dire?
– Eh sì, perché nel bel mezzo delle nostre ciacole da femmine indovina? Una bellissima interferenza sempre grazie alla tua avatar… a un certo punto vi siete inseriti voi due, non chiedermi come, ma il fatto è che abbiamo udito distintamente una vostra telefonata.
– Non dirmelo… avete ascoltato tutto.
– Ovviamente, perché anche volendo non sapevamo come chiudere la comunicazione.
– Ma brave. Ecco perché la reazione di Miriam a…
– Quale reazione?
– No, niente. Quindi avete ascoltato tutto. Che bastarde!
– E dai! Risparmiati lo sdegno e la predica.
– Sì figurati, tempo perso e comunque me li riserverò per sabato, non appena ti vedo.
– Hai chiamato in ufficio per caso? Mi hai cercato lì?
– Sì, credevo che lavorassi un tempo, ma vedo che sono più le volte che sei a casa… che succede?
– Succede che ieri si è otturato lo scarico fognario e si è allagato il piano terra di casa. Ho dovuto chiamare il servizio spurgo e una squadra per le pulizie speciali. A tutto questo aggiungi che il frigo si è riempito di vermoni, larve schifose e non si è capito da dove provenissero e poi… ah, sì, ho preso una bella scarica elettrica dall’induttore in cucina e sono svenuto.
– Ostrega! La notte l’hai ata tranquilla?
– Secondo te? Sono sfinito e oggi pomeriggio dovrei rientrare in ufficio per delle urgenze.
– Sempre un bastardo rimani, anche se un po’ stai pagando… eh eh eh!
– Wanda adesso ti mollo. Se non ci sono novità ci vediamo direttamente sabato. Mandami un messaggio con i dettagli del volo.
– Va bene. Ciao e riguardati un po’.
XVI
Aprì gli occhi e vide i riflessi di luce disegnare arabeschi dorati sulla parete color sabbia della camera da letto. Allungò la mano per prendere la sveglia Oregon sul tavolo basso di patuk accanto al letto, che fungeva da comodino. Erano le 8.30 e decise all’istante di non andare in ufficio quella mattina. Aveva ancora nelle orecchie la feroce discussione del pomeriggio precedente tra un suo Brand Manager e una Sales Analyst. Si stava lavorando alla preparazione di uno dei tanti meeting quindicinali in cui si riportavano le vendite, le cosiddette ‘decadi’, proprio perché si registravano ogni dieci giorni del mese. Tuttavia questo non sarebbe stato un meeting come gli altri perché era a ridosso di un lancio molto importante su cui tutta la squadra di Leonardo aveva lavorato alacremente e sul quale la sussidiaria italiana della Company aveva puntato, per ottenere il maxi aumento di budget per l’anno successivo. La lite tra Giorgio Rosarno, il Brand Manager del nuovo prodotto, e Lisa Conte, l’analyst, era scoppiata ovviamente per una questione di numeri, anche se evidenziava un malessere più profondo in seno al team di Marketing. Qualcosa evidentemente si stava scollando, tutto il lavoro di leader di Leonardo nel ‘guidare e ispirare’ stava mostrando le prime crepe, delle imprevedibili defaillance. Sicuramente erano le conseguenze dei suoi problemi personali negli ultimi tempi, quel suo ‘non esserci’ come invece avrebbe dovuto, come era abituato a fare con la sua presenza ossessiva di almeno dodici ore al giorno. Aveva allentato i freni, si era allontanato un po’ troppo, preso com’era dai suoi guai di casa. I risultati erano inevitabili, un team sull’orlo del collasso e gli ultimi dati di vendita che mostravano una piccolissima perdita in volumi; per uno squalo come lui era un pessimo segnale, bastava un niente, il crollo era proprio lì dietro l’angolo. Doveva riprendere in mano la situazione, la sua squadra, il suo territorio, e doveva farlo immediatamente, prima delle vacanze estive. Ma in quel momento sentiva di non farcela a rimettere piede in ufficio, si sentiva fisicamente spossato, debole come se stesse incubando il virus dell’influenza. La notte prima aveva dormito profondamente come non gli succedeva da tempo, senza sogni, senza la coscienza di stare riposando. Era stato un sonno strano, come se invece di addormentarsi avesse perduto i sensi e fosse svenuto sul letto, un vero sonno da anestesia. Prese il cellulare e avvisò la sua assistente.
– Vanessa, sono io. Oggi non vengo, cancella gli appuntamenti se ce ne sono. Comunque sono reperibile a casa per qualsiasi evenienza.
– Ma come Leo? Dovevamo vederci tu ed io oggi…
– Ah sì?
– Per la mid-year evaluation…
– Porca puttana, è vero. Senti facciamo così. Dammi un paio d’ore e ci vediamo su Skype. Ci vorrà non più di una ventina di minuti al massimo. Okay?
– Va bene. Allora a dopo, chiami tu.
– Sì, a dopo.
Gli girava la testa, si buttò dentro la doccia. Non si sentiva più sicuro in quella casa, ecco la verità. Percepiva un’atmosfera negativa, non arrivava a dire ‘maligna’ ma comunque molto pesante. Era inquieto, non voleva restare troppo tempo da solo e ciò lo riconduceva immancabilmente all’infanzia. Solo che allora non stava mai solo, c’era sempre la nounou al suo fianco, e poi mamma e papà e le due sorelle più grandi. Ricordava loro e le grandi botte che si davano tutti e tre, perché Leonardo era sì il più piccolo ma anche il più prepotente. L’istinto di vincere e di prevaricare gli era innato, così come quell’aggressività quasi giocosa che lo rendeva irresistibile agli occhi dei più. E poi l’Africa, l’antica madre, il grembo della sua anima tormentata tornava sempre alla
memoria, a scavare nello squarcio mai ricucito. Chiuse gli occhi sotto i getti d’acqua caldissima e rivide quella luce accecante delle mattine d’inizio estate, respirò gli odori di terra e acqua. Era lì che voleva stare adesso, doveva tornare per ritrovare la pace. “Basta sentimentalismi”, pensò, era ora di un caffè forte. Si asciugò e in accappatoio scese per andare in cucina. Salutò con un gesto teatrale il monitor dove da lì a pochissimo apparve Andrea e le commissionò i primi input della giornata. L’aroma di caffè si sparse per tutto l’ambiente e lo confortò, placandolo un pochino. Sì, dopo tutto mancavano un paio di settimane all’inizio delle vacanze estive, avrebbe sistemato anche il seminterrato con i pannelli di sughero, la scorsa notte non si era verificato fenomeno particolare e le rogne in ufficio si sarebbero aggiustate, ce l’avrebbe fatta come sempre. Nessun problema.
– Vanessa, non t’innervosire, non ne vedo il motivo. Niente di personale, qui si sta valutando la tua performance in azienda.
– Dici niente di personale? Mi hai detto che sono una deficiente! – il viso della ragazza appariva alterato sul grande schermo dell’iMac.
– Beh è una tua percezione, non ho mai usato questo termine. Però se ti ci senti allora vorrà dire che in parte è vero, scusa eh?
– Non sono qui per farmi insultare… – la sua voce iniziò a incrinarsi e non riuscì ad andare avanti.
– Qui non stiamo insultando nessuno, si cerca solo di analizzare il tuo comportamento professionale di questi ultimi se mesi o giù di lì. E cercando di essere quanto più razionali e analitici possibili, la realtà è questa. Performance scandente, inadeguata al ruolo, al di sotto delle aspettative aziendali.
– Come sarebbe? Io ho sempre dato il massimo, ci sono sempre, ti sto sempre dietro, non mi assento quasi mai.
– E con ciò? È la qualità del lavoro, non la quantità che conta. Non m’interessa il fatto che tu ci sia o non ci sia, noto che sei spenta, non hai energia, entusiasmo, non provochi gli eventi ma li subisci. Stai lì quieta e immota, non dai l’impressione di un essere pensante ma di una bambola di pezza poggiata sulla scrivania. Il nostro è un team vincente, aggressivo, cattivo e ha bisogno che tutti, dico, tutti i suoi componenti mantengano questo standard. Siamo a mille, anzi a diecimila, a un milione! E poi quel look… scusa eh, ma ti sei accorta di chi hai intorno? Sembri una polacca. L’apparire è altrettanto importante dell’essere. Questo è il mio credo, la mia religione.
– Mi stai offendendo… – la voce della ragazza era diventata un sussurro.
– Non è un mio problema, è un tuo problema. Questo dimostra che non hai carattere, non sai reagire alle avversità. Io ti dico che sembri una polacca e tu l’unica cosa che mi tiri fuori è ‘mi stai offendendo’? Riesci minimamente a controbattere le mie deduzioni?
La durezza del tono di Leonardo colpì come una frustata Vanessa che non riusciva più a risalire in superficie, annaspava in un mare di angoscia e frustrazione. Sentiva salire le lacrime ma non voleva assolutamente farsi vedere piangere da lui, cercava con disperazione di mantenere un filo di aplomb, di lucida dignità, quella che Leonardo le stava togliendo come fosse un vestito troppo leggero, troppo scollato.
– É perché con te non ci sono mai stata, è così?
Leonardo restò per un attimo interdetto, non aspettandosi una domanda del genere, poi scoppiò in una fragorosa risata.
– Ehm... ti sei vista? No carina, non ci siamo proprio. Mai sfiorato dall’idea di trombarti, sta’ tranquilla. Spiacente per te, rimarrà una tua fantasia, temo. E a dirtela tutta non è perché sei la mia assistente, ma proprio perché non rientri nei canoni, diciamo. Cristo santo… nemmeno se fossi l’ultima sfigata sulla terra guarda. Faccio finta di non aver sentito questa tua ultima stronzata, finiamola qui. Come rate non posso darti che Nearly there per il momento, con la speranza che possa spronarti a dare il tuo meglio per il Succeed finale. E sono stato fin troppo clemente non dandoti Inadeguate, quello che in realtà meriteresti. Direi che questo è tutto, ci vediamo domani in ufficio.
Chiuse velocemente la videochiamata sul viso stravolto di Vanessa. Pensava alla domanda della ragazza e rispose a voce alta. – Quella stronzetta improponibile! Hai capito? Voleva pure essere scopata… specchi di legno in casa eh?
D’improvviso sentì un lungo brivido dietro la schiena e il terrore s’impossessò nuovamente di lui. Non riusciva a capire bene da dove venisse quella sensazione, guardandosi intorno non vedeva niente di anormale, d’insolito, ma avvertiva qualcosa. Come un animale selvaggio fiutava il pericolo, era pronto alla fuga. Sentiva i peli delle braccia alzarsi, un velo di sudore stava cominciando a imperlargli la fronte e un tremito dalle gambe saliva su per tutto il corpo. Percepiva qualcosa di maligno, qualcuno era lì, dietro di lui ma anche intorno e lo spiava, ammantandolo d’inquietudine e di angoscia. Anche la luce era diversa, più fredda se possibile, più tenue.
Decise di chiamare Wanda, aveva bisogno di sentirla, di avere accanto a sé una presenza di rassicurante normalità. Si avvicinò al monitor del computer centrale, al solito il viso di Andrea campeggiava luminosissimo sullo sfondo nero.
– Chiamare Wanda Crosera.
Leonardo aspettò qualche secondo la comunicazione che non arrivava. – Chiamare Wanda Cro-se-ra!
Le palpebre di Andrea si mossero aprendosi e chiudendosi sui grandi occhi verdi ma non vi fu alcun cenno di connessione telefonica.
– Fanculo! – Leonardo afferrò l’iPhone che aveva poggiato in precedenza sul tavolo della cucina e digitò il nome dell’amica.
Wanda rispose un po’ trafelata. – Eccomi… che orario strano, ti xe in ufficio?
– No, a casa. Wanda…
– Sei strano, che c’è? Stai male?
– Wanda, non è che puoi anticipare il tuo arrivo? Magari prendi il volo di domani mattina?
– E perché mai? Ho brigato come una pazza per prendere questo volo super scontato, praticamente un miracolo, e di sabato poi. Che ti succede?
– E se te lo pagassi io? Dai, te lo prendo io, eh?
– Perché?
– Non riesco più a stare solo qui dentro… non voglio stare più solo.
– Mi dici che sta succedendo?
– Non riesco a spiegarti Wanda, credimi, sono pieno d’angoscia, ho paura che da un momento all’altro possa capitarmi qualcosa di grave, lo sento a pelle. Chiamala come ti pare, premonizione, presenze, negatività, che cazzo ne so, è che sto troppo male, mi succederà sicuramente qualcosa. Questa casa… questa casa, è come se fosse viva.
– Leo, non mi piaci per niente! Io verrei anca prima ma devo finire delle cose qui, ho degli impegni di lavoro, non posso proprio anticipare il mio arrivo, credimi. Perché non vai a stare da qualche tuo amico? Finché non arrivo e poi, invece che andare da Marta, vengo da te così stai un po’ più tranquillo. Va bene?
– Cristo Wanda, se ti dico che non ce la faccio, non ce la faccio! Ti sto chiedendo un favore, non te ne chiedo mai…
– Va bene! Senti, facciamo così, dammi una mezza giornata per vedere di organizzarmi, richiamo stasera e ti dico. Intanto tu, fammi il piacere, prenditi qualcosa, un bel calmante. Varda te digo anca de farti un bel cannone rilassante e
poi, dammi retta, chiama qualche tuo amico o amica e fatti ospitare, almeno per questa sera. Dai, stai su, ci sentiamo più tardi.
Leonardo chiuse la comunicazione scuro in volto. Non intendeva stare un minuto di più in quella casa, almeno in quel momento. Corse al piano di sopra, si vestì sommariamente in jeans e camicia bianca e si precipitò fuori. Entrò nel box accanto all’ingresso del loft, salì a bordo della sua BMW M3 Coupé e si diresse verso il Lungotevere. Indossò l’auricolare del cellulare e lentamente pronunciò un nome: – Alessandro Ruggeri.
– Ehi, Leo, come butta?
– Ho bisogno di vederti Alex, adesso.
– Sei fortunato, sono a casa in questo momento. Dai vieni… dal tono che hai direi che non te la stai ando bene.
– Te lo dirò quando ci vediamo. Credo che fra un quarto d’ora dovrei essere da te. A dopo, grazie.
– Figurati, ti aspetto.
Sfiorò appena l’acceleratore e l’auto schizzò nel traffico del Lungotevere della Vittoria in direzione Prati. Superato Ponte Margherita svoltò subito dopo a destra per via Giuseppe Gioacchino Belli e proseguì in rettilineo qualche decina di metri prima di girare a sinistra per via Pierluigi da Palestrina, arrivando fino
all’angolo con via Vittoria Colonna. Per pura fortuna una Range Rover stava lasciando un preziosissimo parcheggio proprio sotto casa di Alessandro. Rapidissimo Leonardo s’insinuò sulla scia della Rover, spense immediatamente il motore e uscì dall’auto in gran fretta. L’amico abitava al secondo piano, il piano cosiddetto ‘nobile’ di un palazzo ottocentesco dalla facciata imponente. L’appartamento però rifletteva il gusto estremamente minimal del padrone di casa con molti bianchi e grigi, pochi mobili dalle linee essenziali e pulite, intense tele in acrilico dai colori brillanti quasi violenti. Alessandro lo accolse calorosamente con un abbraccio e una pacca sulle spalle.
– Grande Leo che succede?
– Hai da bere?
– É mezzogiorno! Vuoi bere di già? Allora è roba seria… – Alessandro guardò l’amico attentamente per un lunghissimo minuto. Leonardo si ò la mano tra i capelli spettinati e un po’ più lunghi del solito, poi si buttò sul divano e gettò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi. Iniziò a raccontare la storia del suo bellissimo loft, le stranezze a cui da un po’ assisteva inerme, l’angoscia e la paura che lo stavano attanagliando, il senso di pericolo imminente che avvertiva sempre più forte e che non sapeva come fronteggiare. Alessandro lo ascoltò con attenzione e interesse, ma anche con un atteggiamento a metà tra l’incredulo e il sorpreso. Intanto aveva preso dal carrello dei liquori una bottiglia di scotch di puro malto e due tumbler. Versò il liquido ambrato nei bicchieri e ne offrì uno all’amico. – Beh, non so che dirti Leo, mi lasci senza parole. Peccato non averla ancora vista casa tua, dovrebbe essere comunque fantastica.
– Perché poi non sei venuto alla festa d’inaugurazione?
– Ero a Chayanda, nella Siberia orientale, in quei giorni. Te l’avevo detto che
dovevamo siglare il contratto per la compartecipazione alla costruzione del gasdotto siberiano.
– Già… beh è stata una festa pazzesca, peccato che te la sia persa.
– Eh lo immagino! Beh, comunque adesso che intendi fare? Insomma le hai provate tutte, devi solo piazzare quei pannelli di sughero nello scantinato e poi, nel caso non funzionassero, non vedo cos’altro possa inventarti.
– Sai, non voglio arrendermi, non voglio gettare la spugna, non l’ho mai fatto in vita mia e non intendo cominciare adesso. É solo che sto di merda, non posso continuare così.
– Capisco il tuo punto di vista però… beh dovresti cautelarti in qualche modo. Parlo dal punto di vista emotivo principalmente, devi poter mantenere la lucidità, il sangue freddo. In fin dei conti si tratta di un malfunzionamento del computer centrale, che poi ti fa andare fuori di testa, certo…
– Ho bisogno di calmarmi, seriamente. Che dovrei fare, ubriacarmi in continuazione, spararmi cannoni, farmi di Prozac nell’attesa di trovare una soluzione tecnica e razionale?
Alessandro lo guardò a lungo in silenzio.
– Il tuo silenzio non mi aiuta.
– Quando dovrebbero venire a installarti i pannelli?
– Tra due giorni.
– Ascolta, io avrei qualcosa per farti arrivare sano almeno fino a quando ti monteranno il sughero.
– In che senso?
– Nel senso che ho una cosa che potresti prendere per calmarti, e parecchio, arriveresti a dopodomani con una certa tranquillità. Però devi seguire scrupolosamente le mie istruzioni, non si scherza con questa roba.
– Che roba è?
Alessandro fissò in silenzio l’amico poi continuò – Amanita Muscaria.
– Cosa? Un fungo?
– Esattamente. Quando sono stato in Siberia una sera mi hanno portato in un posto… se solo ci penso non so se ridere o rabbrividire. É che lì non ci sono molte cose da fare oltre il lavoro e le solite cene e poi sbronzarsi ovviamente. Quella sera però hanno voluto farmi vivere un’esperienza, chiamiamola così. Siamo arrivati ai confini con la taiga, un posto pazzesco, foreste di larici a perdita d’occhio, laghi e valli bellissime. Alle nove di sera il Sole era ancora
alto, l’aria mite, non troppo calda. Siamo arrivati in una specie di villaggio, per la verità quattro casupole e una capanna. All’interno di questa c’era uno sciamano, sì insomma uno stregone, una specie di mago guaritore. Si diceva avesse più di cento anni, un uomo saggio e in contatto con gli spiriti della natura. In pratica mi avevano portato ad assistere a uno spettacolo sui generis, un rito sciamanico, un viaggio, il cosiddetto ‘volo dell’anima’ in cui l’anima abbandona momentaneamente il corpo per trasferirsi in altre realtà popolate dagli dei, dagli spiriti o dalle anime dei defunti. Uno spettacolo, se spettacolo si può chiamare, davvero pazzesco.
Leonardo ascoltava l’amico con la massima attenzione, cercando di capire dove volesse andare a parare. Che c’entrava lo sciamano con quello che stava ando lui con la sua casa? Non voleva mica proporgli un intervento dello stregone siberiano? Ormai era pronto a tutto...
– Ti starai chiedendo cosa diavolo c’entra questo con te, vero?
– In un certo senso… ma se vuoi propormi lo sciamano se ne può parlare.
– Ti propongo l’amanita muscaria invece. É il fungo usato dallo sciamano per il viaggio. No, non mi prendere per pazzo. In piccole dosi, bada bene, in minime dosi, può aiutarti davvero a calmarti, a farti rilassare per bene così da arrivare a dopodomani, quando ti sistemeranno i pannelli. Hai bisogno solo di tranquillità e distensione e questo fungo può dartele. Il resto fa poco credimi. Ovviamente ti consiglio di prenderti qualche giorno di permesso dal lavoro, te ne stai per i fatti tuoi, piazzati in terrazzo, prendi il Sole.
– E tu ce l’hai questo fungo? Te lo hanno dato in Siberia?
– Diciamo che faceva parte del pacchetto cadeaux donatomi alla fine della seduta. Ne ho un po’, sì, e posso dartene un pezzetto. Sono parti del fungo essiccate, da sciogliere in un bicchiere d’acqua. L’effetto dovrebbe partire entro le prime tre ore dall’assunzione e dura dalle sei alle otto ore. Ti consiglio di prenderlo di sera, così vai a dormire tranquillo. Ovviamente la dose dev’essere minima, altrimenti farai tu ‘il viaggio’ e non mi sembra il caso adesso. In quantità minima, dicevo, è un ottimo rilassante. Dammi retta, fai come ti dico. Dormici su e tutto si sistemerà.
– Okay, ho provato di tutto, proverò anche questo.
Alessandro aprì il cassetto di un piccolo mobile accanto al televisore e ne estrasse una bustina di plastica trasparente che consegnò all’amico.
– Ecco qui, mi raccomando, piano con le dosi.
Leonardo annuì mentre fissava come ipnotizzato quella bustina. Poi mandò giù un abbondante sorso di scotch.
Rientrò in casa leggermente più sollevato. Merito forse dello scotch che si era scolato da Alessandro, o forse degli ottimi panini che l’amico aveva preparato con roast beef sottilissimo, salsa al rafano e formaggio di alpeggio straordinario. Salì per andare in camera da letto, aveva voglia di spogliarsi e di fare una doccia calda, sebbene la temperatura esterna, nonostante il pomeriggio inoltrato, fosse ancora alta.
– Chiamata esterna da Wanda Crosera, accettare?
Andrea si era risvegliata dal black out di quella mattina. – Ah, adesso parli eh? Accetto.
– Leo, ti te ga calmà? Sei uscito come ti avevo detto?
– Sì mammina, sono uscito. E sono anche tornato come vedi, anzi come senti… dammi la lieta novella, hai trovato il volo?
– No purtroppo, niente da fare. Devo tenermi il mio e arrivare sabato comunque.
– Porca puttana!
– E dai Leo, solo due giorni anzi ormai uno e mezzo, poi arrivo e non vedrai l’ora di rispedirmi in laguna.
– Due notti da solo…
– Eh detto così sembra che dormiamo insieme, in quel senso eh…
– Beh, lo puoi sempre scrivere su twitter… ho lasciato Leonardo Saggese dormire da solo per due notti. Statement epocale.
– Forse potrei, perché no?
– Certo che tu ci vivi nel web… hai più amici virtuali che reali mi sa. A volte mi chiedo che rapporti hai con loro. Saranno come quelli che hai con me? Sei più cortese, più affabile o li mandi al diavolo?
– Nel web? Mai farsi scrupoli a mandare a quel paese chi si conosce solo virtualmente. Se ci s’intenerisce per chi esiste solo al di là del monitor è finita: sono persone? Non sempre lo sono, brave persone intendo.
– Ecco, come volevasi dimostrare. Quindi ti aspetto per sabato?
– Eh sì, temo di sì.
– M’ingozzerò come un tacchino per placare l’enorme vuoto che avrò da adesso a sabato.
– Attento, non ingrassare che poi è difficile dimagrire.
– Dicevo per dire, mamma mia come prendi tutto alla lettera tu.
– Con te non si sa mai.
– Come te nessuno mai.
– Che vuoi dire?
– No, niente, mi è venuto in mente così. Un film di Muccino, no?
– Esattamente, uno dei primi. Mi piaceva Muccino, Gabriele e anche il fratello Silvio. Adesso che fa l’americano non so, non li ho visti i suoi ultimi film. Bello quel titolo, la dice lunga…
– Come te nessuno mai Wanda, davvero. E ora chiudo che vado a ‘docciarmi’. Bacini tesoro.
– Come sei tenero, mi metti l’ansia toh! Ciao Leo, bacini anca a ti, dormi bene eh?
XVII
Restò un po’ a fissare la bustina di plastica trasparente regalatagli da Alessandro. All’interno si vedevano bene alcune fettine essiccate del fungo Amanita Muscaria che, stando all’amico, avrebbe finalmente placato la sua angoscia e le sue paure. Alla fine si decise, prese un bicchiere e lo riempì di acqua Evian, ci buttò dentro un po’ del contenuto della bustina prestando massima attenzione alla dose. Ci pensò su qualche secondo poi buttò giù una generosa manciata di fungo, infischiandosene di tutte le avvertenze. Voleva stordirsi e magari un bel ‘viaggio’ sarebbe stata la soluzione più giusta in quel momento. Gettò un’occhiata al suo Rolex, erano le 19.00, ancora tre ore più o meno e il fungo avrebbe fatto effetto, almeno ci sperava. Decise che sarebbe andato in camera, si sarebbe sdraiato ad attendere. Finalmente la quiete.
Caldo, l’aria è solida. Le pareti della stanza ruotano tutte intorno, rosso, rosso scuro, niente luce, suoni di cimbali, note lontane di flauti, rosso, rosso, odore di terra, N’oublie pas que tout a une âme, nounou dove sei? Voli di ibis neri, sole accecante in un cielo di corniola, la laguna scintilla come diamante, voici mon petit chéri, vento forte, le palme, quelle palme intorno a casa, è in arrivo la tempesta, courir mon amour... mon petit, nounou non andartene, non adesso, luce rossa di torce accese, caldo, troppo caldo, il respiro si fa piombo, i battiti del cuore sono un dolore senza fine, rosso, rosso scuro, dov’è la luce d’oro della laguna? Lamenti, grida di donne, pianto, suoni di tamburi e ancora grida. Ho paura nounou, ho paura. E quei capelli così biondi, così lunghi, non vedo il viso di quella donna, chi sei? Sentore di terra umida, di cera, aroma di gelsomino e d’ambra. Lacrime, pianto sommesso, dolore, stridere di uccelli di laguna, Abonsam dio del male vattene, i raggi del Sole adesso sono così forti, troppo forti… nausea, la testa fa male, non c’è ombra qui, caldo, troppo caldo. Fermez les yeux, mon fils... ne regardez pas, ho paura nounou, portami via! Non c’è più luce, dov’è la luce? Allontanati da me, va via! Oscurità, freddo, odore di morte. Un refolo gelido dietro la nuca, ombre danzanti in una musica dionisiaca, odore e sapore di sangue, il ritmo dei tamburi si fa più veloce, serrato. Sudore per tutto il corpo, le tempie battono, la testa sembra scoppiare. Mi devo alzare, andare via di qua. Devo trovare la strada, il sentiero. Dove sei? Dove sei finita? Ti devo
vedere, ho bisogno di guardare il tuo viso, allora capirò. Fatti raggiungere. Quei capelli così lunghi su quella tunica, rossa come il sangue, come queste pareti che si stringono sempre di più. Devo andar via, via di qui. Adesso, subito. N’ayez pas peur, mon petit, pas plus peur. Non mi lasciare nounou. Manca l’aria, il caldo si fa insopportabile e poi il dolore, ovunque, nelle ossa, nelle viscere, nel cuore, nella gola e nella testa, che batte, così forte, vuole scoppiare. Fuori di qui, verso il buio, verso il freddo dell’oscurità. Adesso so. Sarai tu a guidarmi, donna senza volto. Indicami la via ma fa presto. É il momento. Lo so che troverò quello che cerco. Nounou stammi vicino. É buio qui. Fa freddo. Non respiro. Dov’è lei? Dove sono i suoi capelli? La sento. La senti questa musica? Ho dolore. Tantissimo dolore. Non mi lasciare adesso. É qui, è qui. La sento. Mi vuole. Vuole me da tanto tempo. Riesco a vedere in questa oscurità rossa. Eccomi. Prendimi. Non ho paura adesso. Non ho più paura.
Nec vereor ne mihi. [Tacito cit.]
– Leo, dove diavolo sei finito?
Wanda era appena uscita dalla porta automatica degli Arrivi all’aeroporto di Fiumicino e si guardò intorno sconsolata.
– Ecco che significa non essere una zoccola! Alla fine mi toccherà pure prendere il taxi.
Continuò a guardarsi intorno leggermente smarrita, poi dal borsone a tracolla estrasse l’iPhone e tentò di chiamare per l’ennesima volta Leonardo. Provò a casa, poi al cellulare. Nessuna risposta. Non era da lui quel silenzio. Non era mai accaduto in ato, l’aveva sempre avvisata quando c’era un contrattempo, un ritardo. Decise di aspettare ancora una decina di minuti e andò a prendersi un caffè.
Leonardo continuava a essere irreperibile, così Wanda si decise a prendere un taxi. L’avrebbe stanato a casa, almeno credeva che fosse lì, di sicuro aveva fatto bagordi la notte prima, come al solito e non era riuscito a svegliarsi in tempo; magari non aveva nemmeno messo in carica il cellulare. Era andata senz’altro così. Mentre il taxi sfrecciava per via Cristoforo Colombo ed entrava nel centro di Roma attraverso il varco di Porta Ardeatina, Wanda ripercorse la sua vita con Leonardo sforzandosi di ricordare il loro primo incontro, anche se le era impossibile. Erano quasi nati insieme, si conoscevano da sempre e dal primo momento, fin dal loro primo contatto avevano iniziato quel perenne battibecco che li avrebbe accompagnati per tutta l’infanzia e l’adolescenza fino alle soglie della maturità. Leonardo aveva sempre voluto lei accanto nei momenti cruciali della sua vita, da Venezia a Parigi, fino ad approdare a Roma. Sempre insieme, pensò, nonostante gli amori di entrambi, le amicizie diverse, gli opposti stili di vita, le famiglie in un certo senso ingombranti, gli impegni professionali. La loro amicizia forte, bella nonostante tutto e tutti, non sarebbe finita mai e di ciò Wanda era sicura. Chissà perché se lo stava ripetendo mentre guardava rapita il Colosseo che si stagliava sulla destra, alla fine di via di San Gregorio. Intanto il taxi aveva svoltato per via dei Cerchi dirigendosi verso il Lungotevere. Si chiese il perché di quei pensieri... quanto era bella Roma. Eccettuata Venezia non esisteva città al mondo che potesse lontanamente superarla in splendore.
Il taxi arrivò all’indirizzo convenuto, una piccola strada a pochi i da Ponte Milvio. Wanda scese e prese il borsone in cui aveva stipato tutto ciò che le sarebbe servito per quattro giorni. Ripeteva sempre a Leonardo di essere una vera spartana, non aveva bisogno di molto lei, specialmente in viaggio. Si sorprese un attimo a specchiarsi nel finestrino del taxi, non era andata volutamente dal parrucchiere perché una delle sue tappe d’obbligo era appunto il coiffeur di via delle Carrozze e in una sorta di pellegrinaggio ci sarebbe stata poco prima di ripartire. I capelli castani erano raccolti in una coda di cavallo piuttosto disordinata, ma il suo completo-pantalone di lino color sabbia non era niente male, ravvivato dalla grande sciarpa di garza rosso porpora che aveva al collo, regalo di Leonardo dopo un viaggio in Kerala. Il taxi la lasciò proprio davanti a quella che doveva essere l’abitazione dell’amico. Wanda restò un attimo interdetta vedendo che il portone d’ingresso era socchiuso, poi pensò che, in qualche maniera, forse Leonardo aveva visto il taxi fermarsi e lei scendere.
Spinse il portone ed entrò guardinga, la vista dell’impluvium la lasciò quasi senza fiato. Leonardo non le aveva parlato di questo coup-de-theatre, una vera e propria quinta scenografica che citava alla perfezione l’ingresso di una domus romana. “Caspita” pensò, “Meglio che al cine”. Strano però, anche la grande porta finestra che introduceva all’interno del loft era aperta. Che la donna delle pulizie si fosse dimenticata di chiudere? Oppure… “Mio Dio, i ladri? Ma Leo dove diavolo è?”.
Con fare guardingo, quasi guardandosi le spalle, Wanda entrò in casa. Non aveva mai visto niente di più bello. La luce di quel sabato mattina era talmente forte da inondare tutto l’ambiente, rendendo la scala di acciaio e cristallo talmente scintillante da non poterla guardare a lungo. Tutto era chiaro, i colori netti, senza sfumature, quasi non c’erano ombre, quel chiarore abbacinante sembrava strano, quasi inquietante. E poi la vide, quella doveva essere la famosa Andrea, pensò. Il volto dell’avatar si stagliava netto sullo sfondo scuro del monitor posto a ridosso della zona cucina. Wanda si avvicinò con circospezione ed estrema curiosità. Leonardo non aveva esagerato nel descriverla. Bellissima e sensuale, con quegli occhi a dir poco umani che ti scrutavano, ti rovistavano. Pensò a Miriam, a ciò che le aveva detto quando tentava di descrivere quel posto incredibile, una casa pazzesca che però trasmetteva angoscia: “Troppo di tutto, troppo perfetto… una casa cattiva, o meglio, incattivita”.
Adesso capiva, percepì tutta l’inquietudine emanata da quei luoghi. Di Leonardo però neppure l’ombra. Cominciò a chiamarlo a voce alta, quasi urlando come quando erano bambini e lui si nascondeva dietro i tendoni del Lido per farle paura. “Che scemo, non è cambiato per niente da allora”, pensò.
La scala al centro del loft era spaziale! Decise di salire, magari l’amico dormiva ancora, gli avrebbe fatto prendere un colpo. Anche il secondo livello manteneva le aspettative, con i suoi ambienti senza finestre completamente illuminati da quella strana luce proveniente dal grande lucernario sovrastante. La camera da letto padronale era vuota, il letto disfatto, vuoto il bagno a vista, così come lo studio e l’altra camera da letto. Guardò ancora in alto e vide che la scala
continuava verso quello che avrebbe dovuto essere un terrazzo. Ecco dov’era l’amico, a prendere il sole, altro che andarla a prendere in aeroporto. Arrivò in cima alle scale e davanti a lei si aprì automaticamente una porta-finestra interamente di vetro. Uscì sul terrazzo e restò abbagliata sia dal Sole, fortissimo già a quell’ora, che dalla bellezza della struttura, dagli ulivi, gli orci di terracotta, le lanterne di ferro, i divani e i lettini ricoperti da cuscini e piccoli materassi bianchi. E poi quelle candide tende di lino e quella vista sull’ansa del Tevere con ponte Milvio in lontananza: quasi un set cinematografico, era troppo! Adesso capiva l’entusiasmo di Leonardo, quel suo attaccamento così morboso alla casa. Di lui però nemmeno l’ombra. Non sapeva cosa fare, dove andare a cercarlo e poi era troppo caldo per restare sotto quel Sole. Tornò rapidamente in casa e raggiunse di nuovo il piano terra. Non aveva più idea di dove guardare, il loft l’aveva ispezionato tutto e di Leonardo non c’era traccia.
Poi se ne accorse. Notò delle macchie di colore marrone scuro sul pavimento o almeno così sembravano; guardandole con più attenzione assunsero l’aspetto di orme umane. Si notavano anche sui gradini della scala e poi proseguivano per parte del salone fino ad arrivare all’ingresso principale. “Curioso” pensò, dovevano essere di Leonardo. Si sorprese a seguirle e così uscì nuovamente sull’impluvium e svoltò a sinistra lungo il percorso delineato da quei piedi imbrattati da chissà cosa. A metà della parete notò un piccolo locale, una sorta di ripostiglio con la porta aperta. Si sorprese di tutte quelle porte aperte, non riusciva a capirne il perché e cominciò a sentirsi inquieta. Chiamò di nuovo l’amico a gran voce, poi, nonostante non rispondesse nessuno, si decise a entrare nello stanzino adibito a locale tecnico. Niente di particolare, solo i quadri elettrici e i server dedicati e poi, di nuovo, un’altra porta aperta! Una porticina per la verità dove ci sarebbe ata a malapena una persona a capo chino. Strano, chissà dove portava quella scala che intravedeva proprio dietro la porta. Wanda proseguì il suo cammino, era buio pesto e dal borsone, che non aveva mai posato da quando era scesa dal taxi, estrasse il suo iPhone. Azionò l’iTorcia, una fantastica luce virtuale ottima per illuminare l’ambiente. Era nello scantinato del loft, uno spazio completamente spoglio e grezzo dove s’intravedeva un’apertura nel pavimento. Wanda si avvicinò con circospezione e notò che erano stati rimossi alcuni blocchi di pietra. Si sentiva come l’archeologo Carter all’ingresso della tomba di Tutankhamon, avvertì fremiti in tutto il corpo e una strana elettricità mista a paura, tuttavia comprese di non volersi più fermare. Provò a chiamare ancora Leonardo, pur chiedendosi perché mai avrebbe dovuto
stare lì sotto. Scorse un paio, forse tre di quelli che sembravano scalini, grandi blocchi di pietra consumati dal tempo, rotti e in forte dislivello. Sentiva il cuore battere forte in quel silenzio assoluto, irreale e la paura crebbe come un’onda inarrestabile di maremoto.
– Leo? Leonardo?
Nessuna risposta. Cominciò a scendere quei gradoni verso il buio, quasi fosse guidata da qualcosa o da qualcuno. I gradoni erano tre, scese il primo e poi il secondo. Si fermò per guardare meglio l’ambiente sottostante e rimase abbagliata, anche se ciò che vedeva era avvolto nell’oscurità. Si trovava al cospetto di una grande sala con le pareti rosso porpora intenso, la volta era completamente affrescata con serti di fiori e foglie intrecciate, e amorini e suonatori di flauto che si alternavano. Non credette ai suoi occhi, era all’interno di una domus romana, un ambiente intatto, probabilmente inesplorato da secoli. Sentiva odore di terra, di aria rarefatta, poi un impercettibile sentore di cera unito a un ricordo di essenze floreali, ma fu un attimo. All’improvviso cominciò a percepire un altro odore, stavolta molto più forte, dolciastro e nauseabondo che proveniva dal basso. Con la torcia illuminò il pavimento della sala e finalmente lo vide. Leonardo era riverso a terra completamente nudo, in posizione fetale ma con le braccia sollevate sulla testa. Tra le mani teneva ancora la piccozza con la quale si era fracassato la fronte. Il cranio in prossimità del lobo frontale mostrava un buco dal quale erano fuoriusciti sangue e materia cerebrale. Il viso e i capelli neri erano completamente ricoperti di sangue e così il collo e il petto. I piedi apparivano sporchi di quello che sembrava sangue raggrumato. Sulla testa, in prossimità del foro, dei topi stavano rosicchiando lembi di carne e cervello.
Wanda non riuscì neppure a urlare. La voce le era svanita, la gola completamente secca. Restò lì impietrita, non riuscendo quasi a capire cosa gie ai suoi piedi. Sentì il dolore risalire da abissi infiniti e mai del tutto conosciuti, una sofferenza così grande da non potersi nemmeno definire, arginare. Scoppiò in un pianto straziante, infantile, rumoroso, un pianto disperato e disumano. Cercò di accarezzare Leonardo, di abbracciarlo in qualche modo, ma non ci riuscì. Quei
topi non la facevano avvicinare e poi si rese conto che era meglio non toccare nulla, tanto non avrebbe potuto fare più niente per lui. Si sedette sull’ultimo gradone e rimase lì a dondolarsi in un lamento antico, la testa fra le mani, i singhiozzi che le scuotevano l’anima mentre il tempo si era fermato. La vita svanì in quella stanza rosso sangue.
XVIII
Non aveva idea di quanto tempo avesse trascorso in quella casa. Wanda era lì, all’esterno del locale tecnico da cui si accedeva al seminterrato e poi, ancora più giù, alla domus romana. Erano da poco arrivati i Carabinieri con una squadra della scientifica per i rilievi. Avevano isolato tutta l’area pregando Wanda di allontanarsi per non pregiudicare la scena del crimine. Lei non aveva opposto alcuna resistenza, completamente inebetita, sotto choc con il borsone stretto al petto come se volesse ripararsi da qualcosa, trovare rifugio da un dolore troppo grande, da quell’orrore che non riusciva più a scacciare. Si accucciò per terra appoggiata a una parete dell’impluvium e si portò le ginocchia al petto, cingendosele con le braccia. Non riusciva più nemmeno a piangere, era totalmente smarrita, non ricordava nemmeno il suo nome a momenti.
– Signorina, ce la fa a descriverci esattamente com’è arrivata a scoprire il cadavere del signor Saggese?
Il Tenente Colonnello Moretti era in piedi davanti a lei e aspettava pazientemente una sua risposta.
– Cosa?
– Ho chiesto se ci può…
– Ah sì, certo scusi, è che… sono arrivata a casa di Leonardo perché non l’avevo visto in aeroporto. Mi sarebbe dovuto venire a prendere, eravamo d’accordo così. Non l’ho trovato però e allora ho preso un taxi e sono arrivata qui. Ho
trovato tutto aperto, il portone d’ingresso, la portafinestra, questa qui… – indicò l’entrata che dall’impluvium conduceva direttamente all’interno del loft.
– Sono entrata, l’ho cercato ovunque e niente, non mi rispondeva…
Si fermò, un singhiozzo le chiuse la gola. Si guardò intorno come se non riconoscesse il luogo dove si trovava in quel momento. Il tempo e lo spazio avevano assunto nuove connotazioni, lei stessa non si riconosceva, tutto era stravolto, invertito.
– Poi sono uscita qui fuori e ho visto quella specie di ripostiglio, anche qui la porta era aperta. Sono entrata , era tutto buio, ho il cellulare. Ho visto le scale, le ho seguite…
– Ha notato qualcosa di particolare? Sia in casa che lì dentro?
– Particolare? No… non mi pare, non ricordo.
– Ha toccato niente? Ha spostato qualcosa?
– No. – Istintivamente strinse a sé il borsone. Moretti concluse per il momento il breve interrogatorio, riservandosi di riprenderlo più tardi e tornò a ispezionare le fondamenta della casa. Wanda si assicurò di essere sola e poi guardò dentro il borsone. L’aveva messa in cima a tutto il resto, una piccola lamina di metallo arrotolata in modo da formare un cilindretto. Non voleva farsi vedere da nessuno ma era fortemente tentata di srotolare quella lamina trovata ai piedi di Leonardo.
Era stato istintivo prenderla e metterla via, senza quasi accorgersene. E adesso era lì con quella cosa che aveva tutta l’aria di essere un reperto, ma non solo. Mentre la sfiorava immaginò che quella potesse essere la chiave per arrivare a una spiegazione di quella morte assurda. Che ci faceva Leo lì sotto? E perché si era spaccato la testa? E quel sito poi, le fondamenta sopra quella domus! Il loft era il prolungamento, l’estensione di quell’antica dimora romana, ancora presumibilmente intatta, che si estendeva nel sottosuolo a due i da Ponte Milvio. Pensando a Leonardo gli occhi le si riempirono ancora di lacrime. Non gli aveva mai detto il bene che gli voleva, quanto fosse importante per lei, nonostante tutti i suoi sforzi di farsi detestare, di mostrare l’immagine peggiore che un uomo potesse dare di sé. “Cosa ci eri andato a fare laggiù? Che ne sapevi di quel posto, come l’avevi scoperto? Cosa devi aver sentito, cosa devi aver provato per addentrarti nel buio, scavare quella buca e darti la morte in quel modo orribile?”.
I singhiozzi si fecero più forti, la bambina Wanda tornò sul Lido di Venezia, di fronte a un tendone dietro al quale Leo si era nascosto per farle paura. Lui uscì improvvisamente allo scoperto ridendo forte e abbracciandola per non farla piangere più, mentre le mamme gli strillavano di non fare il cretino. “Sei una femmina stupida, ecco quello che sei!”.
“Stupido tu, stupido tu, ecco!”.
– Stupido tu che mi hai lasciato! Non hai voluto aspettarmi, ci avrei pensato io a te, ti avrei salvato da questa casa infernale… vaffanculo!
Si alzò da terra, si asciugò il viso con la manica della casacca e andò a cercare Moretti o qualcun altro. La lamina l’aveva nascosta nel borsone, non l’avrebbe consegnata ai Carabinieri per niente al mondo.
A casa della sua amica Marta, rannicchiata sul divano con le gambe avvolte da un plaid leggero nonostante la serata calda di metà luglio, Wanda teneva in mano il cilindretto di metallo trovato seminascosto fra i detriti secolari ai piedi di Leonardo. In quel momento decise di srotolarlo, cercando con la massima attenzione di non rompere la sottile lamina di piombo. Prima sfilò il lungo chiodo che la attraversava completamente per richiuderla, poi la distese con massima cura. Notò un testo composto da circa una ventina di righe, inciso probabilmente con uno stilo metallico. Si sentì come ritornata sui banchi del liceo, davanti alla versione di latino più importante e difficile della sua vita. Iniziò a leggere.
EPILOGO
EGO, QUINTILIA PULCHRA, TREBATIAE GENTIS, CAII TREBATII TESTAE CONSULIS FILIA, VOS SACROS LARES, VIOLATI FOCI CUSTODES, INVOCO UT HUIUS MALEFICII TESTES ESSETIS.
A CARIS FAMILIARIS AFFECTIONIBUS EIECTA, NUPTIALIBUS VOTIS VIOLATIS, A FILIBUS AVERSA, IN LEGITTIMA DOTE ATTULIS BONIS PRIVATA, FALSIS ACCUSATIONIBUS DEDECORATA PATRIAQUE EXUL, VOS, TARTARI OMNES DEOS, INVOCO ET IUSTITIAM REQUIRO.
VIBIUM LUCILIUM NEVIUM MALEDICO.
VOBIS, TARTARI DIIS, EIUS CORDEM, EIUS RATIONEM, EIUS LINGUAM, EIUS SPIRITUM EIUSQUE OMNIA MEMBRA DICO.
SACRI LARES, SUB EIUS PEDIBUS PURPUREUM PANNUM VOLVITE, EIUS DOMUS DELEATUR, EIUS NOMEN DERIDATUR, EIUS CORPUS INIURIA AFFICIATUR.
CUM PER MULTA TEMPORA EMPIETATIS DEDECORISQUE CALICEM IMPLEVISSET, USQUE AD ULTIMAM STILLAM TOTAM EAM BIBERET.
TARTARI DII, VOS ONORO, MEAM SUPPLICAM ACCIPETIS, UT EIUS CALAMITATE ESSE BEATA POSSIM VOSQUE OPULENTO CUM SACRIFICIO RETRIBUERE.
“Io Quintilia Trebazia Pulcra, della gens Trebazia, figlia del console Gaio Trebazio Testa, invoco Voi Sacri Lari custodi del focolare violato, affinché siate testimoni di questo maleficio.
Strappata ai cari affetti familiari, violati i voti nuziali, allontanata dai figli, privata dei beni portati in legittima dote, infangata da false accuse, esiliata dalla terra natia, chiamo Voi déi degli inferi tutti e invoco giustizia.
Io maledico Vibio Lucilio Nevio. Dedico a Voi déi degli inferi il suo cuore, il suo pensiero, la sua lingua, il suo respiro e le sue membra tutte.
Stendete sotto i suoi piedi un tappeto di porpora sanguigna, si disfaccia la sua casa, sia deriso il suo nome, sia scempio del suo corpo.
Per lunghi anni, di empietà e vergogna ha colmato la coppa, possa egli berla tutta fino all’ultima goccia.
Déi degli inferi io Vi onoro, accogliete la mia supplica, che io possa gioire della sua disgrazia e ripagarvi con ricco sacrificio”.
Nel De viris illustribus di Svetonio (70 d.c. - 126 d.c.), in merito a una biografia di un notabile romano, Vibio Lucilio Nevio, lo storico romano dedica alcune righe a Quintilia Trebazia Pulcra, spiegando come questa sventurata, bellissima giovane donna avesse subito una tra le peggiori condanne per il reato di adulterio. La bionda figlia del console Gaio Trebazio Testa, andata in sposa giovanissima a Marco Livio Marcello, appartenente alla gens Giulia, proprio a
causa della sua relazione adulterina con Vibio Lucilio, fu condannata all’esilio perpetuo lontano da Roma, alla perdita dei diritti civili, di tutti i suoi beni, e della tutela dei figli. Si narra che, al contrario, nulla fu fatto contro il presunto amante della donna, un potentissimo e ricco senatore dell’impero, benché la donna lo avesse infine accusato di averla sedotta e poi lasciata al suo destino. La lastra in questione, molto probabilmente potrebbe essere ricondotta a una tabellae defixionum ovvero una forma di maledizione in uso nella Roma antica tra il quarto secolo a.C. e il quarto secolo d.C. consistente nell’invocare le divinità degli inferi per arrecare danno al nemico. Su lamine di piombo venivano incise il nome della persona da maledire e la disgrazia che gli si voleva augurare; in seguito si arrotolavano le lamine e si chiudevano con un chiodo ponendole poi in buche o in cavità che si credeva potessero comunicare con gli Inferi.
Tanto si doveva. Con cordialità.
Prof.ssa Giulia Maria Castelli - Dipartimento di Storia Romana - Facoltà di Lettere e Filosofia - Università Ca’ Foscari.
Wanda finì di leggere la traduzione giurata della lamina. Ci aveva messo un po’ di tempo per farla analizzare, essendo sempre in bolletta aveva dovuto trovare un migliaio di euro per la parcella dell’esperto, cosa non facile specialmente perché aveva dato fondo a gran parte dei suoi risparmi per acquistare, come ogni anno, il per il Festival del Cinema di Venezia. Adesso che tutto era finito e che a suo modo forse aveva scoperto quello che c’era da scoprire, o forse no perché non ce la faceva proprio ad accettare quella specie di folle e improbabile spiegazione, si sentiva finalmente in pace. Ripose la lettera con le conclusioni del perito in un cassetto, dove aveva già conservato la lastra. Da un ripiano della libreria prese una cornice di legno bianco che conteneva una foto di Leo scattata in una mattina d’estate nel puttanaio di Formentera, il suo viso abbronzato, gli occhi neri e impertinenti, i capelli indomabili, neri e lucenti scompigliati dal vento e quel suo sorriso aperto, bellissimo, trascinante. Il suo Leo, pensò, mentre accarezzava la superficie di vetro, l’uomo che nessuno mai aveva conosciuto a
fondo, lui che le mancava così tanto da farla sentire quasi mutilata. Si voltò verso la finestra che dava sull’Arsenale. Doveva sbrigarsi, a breve avrebbero proiettato l’ultima pellicola con il suo idolo Fassbender, e non l’avrebbe persa per niente al mondo. – Poi te digo Leo… stasera te conto… go el vaporo che me parte!
Nel suo ufficio di Baku, in Azerbaijan, Alberto era alla sua scrivania intento a digitare sulla tastiera del computer. Erano le ventidue, ben oltre l’orario consueto di lavoro, stava navigando su MeetPeople, un sito per incontri virtuali. Sulla schermata del suo profilo spiccava una foto scattata tempo addietro sul bordo della piscina dell’Aldrovrandi Palace di Roma, lui sdraiato con la metà inferiore del corpo in acqua e l’altra metà appoggiata sul pavimento di mattoncini rossi, le braccia dietro la testa, abbronzatissimo in bermuda bianchi. Sotto la foto del profilo aveva inserito una piccola biografia, Alberto Cacciaguerra, anni quaranta, stato civile single.
– Ciao Giorgia.
– Ciao Alberto, piacere di conoscerti.
– Il piacere è mio, credimi! – Alberto si soffermò sulla foto della ragazza appena abbordata in chat, bionda, occhi languidi verde azzurro, abbastanza attraente, un bel sorriso. Giorgia, sì, non male, un primo piano promettente, peccato che non si vedesse il resto, ma per ora andava bene lo stesso, sarebbe durata un po’.
In un residence di Milano Miriam si era appena svegliata. La giornata si presentava come sempre fittissima d’impegni, di riunioni interminabili, clienti incontentabili e il suo cuore pesante, per via di quel dolore che non voleva svanire mai. Era l’unica cosa che la fe ancora sentire parte di lui. Si alzò a fatica dal letto trascinandosi in bagno, poggiò entrambe le mani sul lavandino
come a sorreggersi e si guardò a lungo allo specchio. Poi si sfiorò il viso come se volesse accarezzarsi, sorpresa di parlare a se stessa in un sussurro.
– … e quante volte vorrei poterti parlare ancora, guardandoti negli occhi, vorrei poterti chiedere “Ciao, come stai? Che fai? Cosa hai fatto in tutto questo tempo senza di me, senza di noi? E la notte schiacci ancora il viso sul cuscino immaginando il mio odore?”.
APPENDICE IL DECALOGO DI WANDA:
1. Mai far del bene per aver qualcosa in cambio: fai del bene e dimentica. 2. Mai voler cambiare un uomo, scapperebbe. 3. Gli uomini possono essere i migliori amici per una donna solo se ci si finisce a letto (quello che uno dei due vuole). 4. Mai sottovalutare il mondo del gossip, è li che naviga la politica. 5. Leggere sempre quando si ha voglia, mai lasciare i libri. 6. Pensare sempre che a ogni decisione e azione si potrebbe danneggiare qualcuno. 7. Dire sempre quel che si pensa anche a costo di esser antipatici. 8. Non fare lavori che non gratificano. 9. Non ingrassare, che poi è difficile dimagrire. 10. Nel mondo web? Non farsi scrupoli a mandar a quel paese chi si conosce solo virtualmente, se ci si intenerisce per chi esiste solo al di là del monitor è finita: sono persone? Non sempre lo sono, brave persone.
Stampato da: Universal Book S.r.l. - Rende (CS)