sco Paolo Matarangolo
Diario di un ex carabiniere
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Indice dei contenuti
Parte I Dopo la maturità Un anno di Scuola a Firenze Prima destinazione: caserma di Pantigliate Da Pantigliate all’aula bunker del Tribunale di Milano come aggregato Aggregato al nucleo operativo di Milano 630 chili di hashish Il capitano Illecito La caserma Montebello Mio padre La squadra di Parenti Teresa Sparatoria a Porta Volta Parte II Dal coma in poi
Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale. Alcuni luoghi del romanzo sono frutto di pura fantasia.
A mamma Carmela, a papà Angelo e al mio caro amico, l'appuntato Manzi Aniello
Se tremi per l'indignazione davanti alle ingiustizie, allora sei mio fratello. Ernesto Guevara
Parte I
Dopo la maturità
Nel Giugno del 1980 mi diplomai in Ragioneria con votazione 57/60. La mia aspirazione era di poter entrare in banca, mi piaceva lavorare con i numeri, mi apionavano, non ero ambizioso e nemmeno interessato a nessuna scalata nell’alta finanza, il mio desiderio era trovare un lavoro tranquillo in un ambiente pulito, ordinato e pieno di numeri. Feci anche diversi concorsi per entrare nella Pubblica Amministrazione: a Roma il concorso per entrare alle Poste, ma non lo superai per dieci punti. Poi tentai il concorso alle Ferrovie dello Stato, compartimento di Trieste, i posti erano pochi ed anche i concorsisti, ma questa volta fu la geometria a fermarmi essendo digiuno di questa materia dalle medie inferiori. Nel 1981 ricevo la cartolina per partire per il servizio di leva, mi mandarono a Savona dove feci un mese di CAR presso la Caserma Bligny con i soldati semplici e caporali istruttori. Il giorno del mio giuramento, nell’agosto del1981 era presente la mia famiglia. Terminato il CAR fui inviato alla Caserma Ponzio di Roma presso la città militare denominata Cichignola; alloggiavo all’interno della caserma e seguivo il corso per diventare meccanico-pilota di mezzi corazzati. Erano previste guardie presso il magazzino delle armi, i fucili in dotazione erano di fabbricazione americana modello Garand, lo stesso utilizzato dai soldati degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. In seguito fui trasferito a Vacile di Spilinbergo in provincia di Pordenone, presso l’ufficio movimento che si occupa degli automezzi dell’esercito, compilavo i fogli di marcia per tutti i veicoli della compagnia, controllavo i movimenti dei camion che entravano ed uscivano per servizio. Mi capitò anche il controllo di un carro armato di recupero Leopard, in dotazione all’esercito italiano. Tali carri armati erano fermi dai tempi della guerra. A capo dell’ufficio c’era il capitano Lullis, estimatore della grappa. Svolsi un campo militare in prossimità di Pordenone e più precisamente nel paese di Taoriano: facevo La Guerta ai fucili e alle tende. Mi trovavo lì con altri compagni: il rapporto con loro era buono. In quel periodo ricevetti il grado di caporale. Dopo 12 mesi di leva mi congedai e rientrai a Roma Era il mese di Luglio del1982. Cercai lavoro come ragioniere
trovando subito posto presso un commercialista. Trattavo contributi e paghe per le ditte, il mio mensile era di 600.000 (senza contributi; il commercialista, alle mie continue sollecitazioni di essere messo in regola con i contributi continuava a rispondermi che queste erano le condizioni. Decisi di andare via ritentando i concorsi nella Pubblica Amministrazione, senza successo. Nel 1985 tentai il concorso per entrare nell’Arma dei Carabinieri come allievo sottufficiale e finalmente riuscii a vincerlo. Mi sottoposero a visite a Firenze. La scuola di sottufficiale durò due anni: uno a Velletri e uno a Firenze, dove studiai il Codice Penale, il Codice di Procedura Penale e le Leggi Speciali. Dovetti sostenere diversi esami difficili, bisognava studiare molto ma tutti i sacrifici erano ripagati da voti molto alti rispetto alla media. Presso la scuola per sottufficiali, a Velletri e a Firenze eravamo in pochi ad avere il diploma di scuola media superiore. Non avevo grosse difficoltà nell’apprendere nuove materie giuridiche, anzi alcune nozioni di diritto civile e penale mi erano già note; ero anche bravo in dattilografia perché sapevo utilizzare tutte le dieci dita sulla tastiera senza mai distogliere lo sguardo dal foglio. Purtroppo a scuola i rapporti con i miei colleghi non erano sempre idilliaci. La maggiore preparazione non era sempre ben vista e l’ombra dell’invidia aleggiava un po’ dappertutto, la competizione era molto alta e senza esclusione di colpi. A Velletri, un collega/allievo cambiò completamente atteggiamento nei miei confronti dopo che io ebbi preso un voto alto (20/20) in un compito scritto, correttomi dal magistrato. Si trattava dell’allievo sottufficiale Bianco. Io non reagii poiché si trattava solo di una provocazione e per non compromettere la mia situazione all’interno della Scuola. In attitudine militare la media era un po’ bassa l0/20; immagino che le mie manifeste idee di sinistra non fossero particolarmente apprezzate ne dai colleghi ne dai superiori, come dal vicebrigadiere Boccino che mi mandava sempre in mensa a lavorare, spesso e volentieri a lavare i piatti con la lavastoviglie, mentre gli altri, nel frattempo, avevano la possibilità di studiare. Un giorno mi arrabbiai e andai a rapporto dai miei superiori per lamentarmi di questo disagio; loro non ebbero una buona reazione e continuarono ad impormi questa punizione; nonostante tutto, io riuscivo in ogni modo a studiare nel pomeriggio ed anche di notte, da solo, con i libri dell’Arma Sinossi, testi fatti dai carabinieri per formare la nuova generazione. A volte, sempre a Velletri, con i miei colleghi andavo a mangiare la pizza. Avevamo diversi scambi d’idee rispetto a tutto quello che si diceva e si svolgeva presso la scuola di sottufficiali. A Velletri diventai Carabiniere Allievo Sottufficiale e feci giuramento alla presenza della mia famiglia. Quel giorno mi furono conferiti gli Alamari, in pratica le mostrine da carabiniere. Questo comportò un aumento del mio stipendio. Ebbi anche l’occasione e l’onore di partecipare alla parata militare del 2 giugno 1986. Il capitano Mazzei della
Scuola Allievi Carabinieri di Roma ci faceva marciare all’aeroporto romano Cento Celle per prepararci in modo che non fossero commessi errori. La manifestazione si svolgeva presso i Fori Imperiali di Roma alla presenza delle più alte cariche dello stato; inoltre era trasmessa in televisione e tutti quanti volevano fare bella figura, a maggior ragione davanti a famigliari e ed amici. La manifestazione si svolse alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica sco Cossiga, morto nell’agosto del 2010. Ovviamente vestivamo tutti con l’alta uniforme dei carabinieri, con tanto di pennacchio sul cappello. Sentivo il rumore sincronizzato degli scarponi battere sul pavimento storico dei Fori Imperiali e l’emozione crescermi in petto alle stesse battute. Al aggio della parata davanti alle massime cariche dello stato e dell’esercito, al grido del Comandante Mazza: – Attenti a – tutti i carabinieri si voltavano verso la platea presidenziale; nel gergo militare, l’ordine impartito dal comandante attenti a, indica ai militari che devono voltarsi a destra. Sono momenti, voci e suoni rimasti nella mia mente e che mai dimenticherò. Partecipai anche alla festa dell’Arma dei Carabinieri a Roma, il 5 giugno sempre del 1986 con l’alta uniforme e sempre con la stessa emozione. La manifestazione si svolse a piazzale Siena dove c’è Villa Borghese, alla presenza del Comandante Generale e degli alti ufficiali di tutte le armi, esercito, marina, aeronautica, polizia e guardia di finanza. L’organizzazione e la partecipazione a tali eventi era sempre faticosissima ragion per cui molti colleghi, al contrario di me, cercavano di defilarsi. Per il resto tutte le mattine andavo a correre e a marciare in Piazza D’Armi,a Velletri all’interno della caserma, con i miei colleghi. La sera invece studiavamo. Il sabato e la domenica tornavamo a casa. Io fortunatamente abitavo nelle vicinanze della scuola , per la precisione a Torricola vicino alle Cale, alla periferia di Roma. Qualche volta durante la libera uscita, con indosso l’uniforme, facevo una eggiata con i miei colleghi per le vie importanti di Roma facendo loro da Cicerone, a Piazza di Spagna, Piazza Navona, qualche volta riuscivamo ad attirare l’attenzione delle ragazze, ma queste non ci davano retta perché sapevano che eravamo militari e che in futuro ci avrebbero trasferito per altre destinazioni; noi allora ci arrendevamo. A Velletri, una volta la settimana dovevamo svolgere un tema d’italiano, per migliorare la lingua in generale e per molti colleghi che erano abituati a parlare il dialetto della propria regione; essendo molto bravo in italiano, aiutavo il mio compagno di banco Savatori Alberto che dopo le scuole medie non aveva proseguito gli studi. Non si trattava di un semplice aiuto: oltre a svolgere il mio tema svolgevo anche il suo. Per sdebitarsi Pasquale mi offriva spesso il caffè. Fortunatamente i superiori non si sono mai accorti di questo trucchetto. Sempre a Velletri m’insegnavano la tecnica del judo attività che a me piaceva parecchio. La mia materia preferita
però rimanevano quelle giuridiche. La mensa rimaneva il mio incubo, lavavo i pentoloni della pasta e le teglie unte d’olio, avrei preferito seguire i miei compagni che andavano a studiare. Per me non era per niente un peso, l’attesa per l’esame da sostenere era un momento sereno poiché mi sono sempre preparato bene. All’epoca percepivo un mensile di 1.200.000 lire; mentre coloro che erano già carabinieri avevano uno stipendio maggiore dovuto all’anzianità di servizio. A Velletri mi mandavano a tenere l’ordine pubblico allo stadio Olimpico e aspettavo l’evento sportivo per svolgere sì il mio dovere ma nello stesso tempo avevo la possibilità di vedere da vicino la partita di calcio, il mio cuore ha sempre battuto e batte per la Roma. Dopo aver fatto il giuramento fui trasferito a Mortigliano, in provincia di Udine, per il tirocinio, alle dipendenze del Maresciallo Leggiu, d’origine sarda, e del Brigadiere Patria, di Pavia. Avevo il compito di pulire il pulmino, sistemare il giardino, l’orto e di lavare i piatti della mensa, insomma mi occupavo più dell’aspetto domestico della casa e non tanto del ruolo militare! Però a Mortigliano mi trovai molto bene. Facevo i posti di blocco e le multe per la velocità: misuravamo lo spazio-tempo con l’orologio e approssimativamente calcolavamo la multa a chi superava il limite. Una volta fatto il verbale i contravventori pagavano in contanti la multa e i soldi venivano consegnati al maresciallo capo Brunendo, che a sua volta li versava sul conto corrente dell’Arma; per chi non poteva pagare in contanti l’ammenda veniva pagata con un vaglia postale. Oggi non avviene più così: il verbale, viene compilato e consegnato a chi ha commesso l’infrazione, andrà, poi, direttamente in posta a fare il versamento sul conto dell’Arma. Le nuove modalità di pagamento sono state scelte per evitare ammanchi di soldi fatti, mi duole dirlo, da parte di alcuni miei colleghi. Per fare benzina ai mezzi (un’Alfetta a quattro fari e un Pulmino Fiat 900) andavamo a Udine, perché a Mortigliano non c’era il deposito dell’Arma. Trascorso il periodo del tirocinio, circa un mese, ad ognuno di noi venne indicata la sede della scuola di sottufficiali. Le scuole sono tre: Velletri (Roma) obbligatoria per il primo anno e questo vale per tutti coloro che vogliono svolgere il servizio di sottufficiale dei carabinieri, le altre due scuole, Firenze e Vicenza, erano scelte dal Comando Generale dei Carabinieri secondo criteri loro, ma entrambe le scuole erano obbligatorie per completare ed avere i gradi da vice brigadiere.
Un anno di Scuola a Firenze
Correva l’anno 1987 ed anche a Firenze mi mandavano allo stadio assieme ai miei colleghi a tenere l’ordine pubblico ed a perquisire tutti i tifosi. Era molto delicato e difficile come lavoro in quanto doveva vietare l’ingresso all’interno dello stadio di coltelli, bastoni, mortaretti e fumogeni, il materiale sequestrato era poi distrutto. Le difficoltà non erano tanto nella perquisizione ma nel relazionarsi con personaggi violenti e sostenuti dai propri pari. Lo stesso mestiere lo facevamo ad Empoli. Una volta in occasione della partita di serie A, Empoli l Napoli, in cui giocava Diego Armando Maradona e di cui mi ricordo la vittoria del Napoli ma non il risultato, accaddero dei tafferugli tra la tifoseria dell’ Empoli e quella napoletana, quest’ultima fu in particolar modo molto chiassosa e con molta fatica si riusciva a contenere il loro entusiasmo. Noi accompagnammo i tifosi napoletani dallo stadio alla stazione ferroviaria di Empoli li vicina. Con noi c’era il vice questore di Empoli, che fu colpito alla testa da un sasso lanciato da un gruppo di tifosi napoletani. Anche io mi presi un sasso sul petto: dovetti reagire per legittima difesa, dando al tifoso un colpo di carabina sul braccio. Lasciai il ferito in stazione, dovendo occuparmi di altri tifosi che scappavano, mentre il mio collega Mastroianni picchiava tutti i tifosi e gli avventori del bar della stazione con colpi di carabina, rispondendo alle violenze degli ultras. A Firenze studiavo più che a Velletri, perché non mi occupavo della mensa; il motivo era che ora avevamo bisogno di più tempo per studiare. Quindi la mensa la facevano i civili o i carabinieri cuochi. Io qui mi sentivo più rilassato avendo maggior tempo a disposizione. Il rapporto con i miei colleghi era bellissimo. Gli altri ragazzi arrivavano dalle varie regioni d’Italia, soprattutto da quelle del sud. Le persone con cui legai di più furono Mastroianni, sco Moscio e Salvo Mazzarella. Con loro facevo le libere uscite per Firenze. Mangiavamo sempre nello stesso ristorante, che conoscevamo bene perché i proprietari erano parenti di Mastroianni, i piatti tipici erano quelli calabresi. Dopo la cena, rientravamo subito in caserma, perché tutte le sere c’era il contro appello alle ore 22.00. Per il fine settimana tornavo a Roma con un mio collega romano, Melo Acerbo
soprannominato Melito orgoglioso di darmi un aggio con la sua macchina, una Lancia Prisma grigia, di cui lui era molto fiero. Utilizzava per la manutenzione della sua Lancia le migliori marche di prodotti per auto. Per tutto l’anno 1987 i viaggi erano scanditi dalle canzoni di Lucio Battisti, che al dire il vero a me personalmente non piaceva, ma come dice il proverbio: – A cava donato non si guarda in bocca – . Mi piaceva trascorrere il fine settimana con la mia famiglia. Mia madre mi cucinava sempre il mio piatto preferito: lasagne fatte in casa, orecchiette pugliesi e ravioli ripieni di ricotta e spinaci, tutto rigorosamente fatto a mano, si alzava al mattino intorno alle 7.30 e si dedicava alla cucina; nel vedere mia madre dedicarsi alla famiglia con tanto amore e devozione pensavo ad una mia futura famiglia. La domenica sera rientravo in caserma e il giorno dopo riprendevamo la settimana con l’alza bandiera che si faceva tutte le mattine e la corsa in Piazza D’Armi a o veloce. C’era un mio collega Espedito Matarrese, che non faceva mai la doccia né a Velletri, né a Firenze ed emanava uno odore sgradevole, per dirla con un eufemismo, che ogni giorno copriva con spruzzate molto abbondanti di deodorante di marca Brut. Matarrese si faceva chiamare Il Professore, ma tutti noi lo chiamavamo O’spuorc (in dialetto napoletano significa sporco), mentre c’era qualcuno di noi ancora più pesante nel soprannome, Salvo Mazzarella lo soprannominava Aids, in ogni modo i sopranomi non gli mancavano. Di fronte agli ufficiali era sempre ruffiano, ma al giuramento tutti noi avevamo l’uniforme con il pennacchio dei carabinieri, mentre lui e suo fratello erano in borghese. Che fosse l’odore? La stessa situazione si verificò a Velletri durante il giuramento per carabiniere allievo sottufficiale, i due fratelli sebbene provvisti dell’alta uniforme, utilizzata nelle parate importanti, decisero di indossare abiti civili, con il consenso dei superiori, immaginiamo per la stessa ragione. Durante il periodo degli esami, i due fratelli cercavano d’arruffianarsi i professori regalando a loro dei vassoi di pasticcini provenienti da Napoli.
Prima destinazione: caserma di Pantigliate
Dopo due anni di scuola a Firenze, presi i gradi di vicebrigadiere e nell’anno 1988 fui trasferito alla caserma di Pantigliate, vicino a Milano, che dipendeva dalla Compagnia di San Donato Milanese. Mi vennero a prendere il vicebrigadiere Pizzardone e l’appuntato Lazzarone; a comandare la stazione c’era il maresciallo maggiore Turri Salvatore, originario della Sicilia, Fucci Siculo (Messina). Quando arrivai a Milano, prima di prendere servizio a Pantigliate dormìì in una caserma in Via Giulio Monti, la Montebello, dotata di letti il cui materasso era confezionato con la paglia. Il maresciallo Turri si rivelò subito un po’ burbero con tutti i sotto ufficiali, sottolineava sempre che la realtà della stazione non era quella della scuola e che tutti noi eravamo solo dei novellini senza esperienza pratica. In compenso però il maresciallo Turri aveva una moglie grassissima che si chiamava Franca ed avevano un figlio che si chiamava Giulio, da me soprannominato Canguro, poiché non avevo mai visto fino allora un uomo, o meglio un adolescente con dei piedi così grandi, il numero di scarpe era il quaranta e aveva solo tredici anni. Il mio collega vicebrigadiere che condivideva con me la stanza si chiamava Calippo. Con lui il rapporto era buono. Con gli altri carabinieri andavamo a giocare a biliardino al bar di Pantigliate, davanti alla caserma. Quando ero di riposo andavo a Milano con i mezzi pubblici che preferivo alla macchina. In città eggiavo per le vie del centro, San Babila, Piazza del Duomo. Finita la libera uscita si ritornava a Pantigliate con il pullman. Calippo ed io una volta la settimana andavamo all’aeroporto di Linate in macchina, una golf bianca a cinque porte, perché lì c’erano le cabine a scatti, io chiamavo la mia famiglia e lui chiamava la sua fidanzata, la comodità delle cabine a scatti era che potevi stare tutto il tempo che volevi e pagavi alla cassa, così le conversazioni erano più lunghe e non eri costretto ad interrompere la
telefonata nel momento e modo meno opportuno. A Pantigliate, invece, c’era solo una cabina a gettoni, sempre guasta. Siamo nel 1988: il primo arresto avvenne nello stesso anno di fronte alla caserma di Pantigliate: un tizio con un coltello minacciava un signore del posto. Quel giorno non c’era il maresciallo Turri. La persona minacciata, per richiamare l’attenzione iniziò a suonare il camlo della caserma. Poi io e Savatori, che stava facendomi visita dalla caserma di Segrate, sentimmo il trambusto che proveniva da fuori, uscimmo e disarmammo l’uomo. Durante la colluttazione sia io che Mastroianni venimmo aggrediti dall’uomo armato, con calci e pugni in faccia! Una volta immobilizzato, il reo fu condotto in una cella di sicurezza della stazione di Pantigliate. Era di sabato; quando l’appuntato Lazzarone e il vicebrigadiere Pizzardone rientrarono in caserma feci la mia consegna verbale rispetto al caso. Pizzardone si arrabbiò con me, credendo che ci fosse del lavoro da fare lasciato incompiuto ma avevamo già fatto tutto. Io ed il mio collega Savatori ci recammo al processo al Palazzo di Giustizia per testimoniare sui fatti che hanno visto coinvolto il reo. L’aggressore ricevette una condanna di cinque mesi di reclusione, senza attenuanti, per violenza a Pubblico Ufficiale, da scontare presso il carcere di Milano, San Vittore. Dopo un mese dal mio arrivo presso la stazione di Pantigliate, Pizzardone venne destinato alla Compagnia di San Donato M.se, perché aveva concluso i due anni di servizio presso la Stazione. Una sera d’inverno a Peschiera Borromeo, paese sotto il comando della stazione di Pantigliate, in via Walter Tobagi, mi trovavo in pattuglia con un mio collega, il carabiniere Gentile. Quella sera me la ricordo in modo particolare in quanto c’era molta nebbia e Gentile faceva fatica a vedere la strada, nonostante ciò, al di là dei capannoni in costruzione notiamo un gruppo di persone che scappano per i campi alla nostra vista. Dalla fuga notiamo che a terra c’è riverso un corpo. Si scoprirà trattarsi di Fido Giuseppe, già coinvolto nel rapimento dell’industriale Trezzi delle Acciaierie, ma in seguito si era pentito e si voleva costituire, da qui la ragione dell’assassinio da parte della banda di Corsico. Dopo l’uccisione ci fu un conflitto a fuoco con i fuggiaschi ed io bucai il serbatoio della Golf grigia di Gino Lo storto, appartenente alla banda,
incendiandola. Usavo la pistola d’ordinanza. Quando il conflitto a fuoco terminò, purtroppo senza arrestati, chiamai via radio la Compagnia di San Donato M.se, comunicando quanto accaduto. Subito dopo ci raggiunse sul posto anche il capitano Lonzoni. Il mio collega Calippo, vedendo la macchina in fiamme mi disse: – Ha fatto un macello Matarangolo! – . Durante la sera giunse il capitano di San Donato, confermando ciò che aveva detto Calippo, il fatto che avevo combinato un disastro. Infine arrivò il maresciallo Turri e lui, al contrario dei colleghi, si complimentò con me. Dopo quest’operazione, mi recai con Turri presso la Compagnia di San Donato M.se e con l’aiuto del Nucleo Operativo composto dal maresciallo Giordano, il brigadiere Pizzardone e dell’appuntato Incognita Rossa, ci recammo a Corsico, perché lì abitava Fido Giuseppe, per parlare con la vedova: dovevamo comunicarle il decesso del marito. Il maresciallo Turri le domandò inoltre se qualcuno di sua conoscenza potesse essere implicato nel sequestro Trezzi; ma la donna non sapeva niente ,anche perché il marito era uscito dal carcere poco tempo prima. Per l’accaduto feci un rapporto giudiziario, facendo una relazione dettagliata della sparatoria. La Golf incendiata fu sequestrata e portata a San Donato dall’incaricato Pasqualino Carboni, che recuperava tutte le auto di San Donato M.se. Nei giorni seguenti venne arrestato il basista del rapimento Trezzi. A Pantigliate era arrivato il Generale di Brigata a fare i complimenti a me e a Gentile; c’era anche il capitano Lonzoni, tutto contento. La visita del Generale di Brigata si concluse con una buona stretta di mano a me e a Gentile. Nei giorni a seguire Pizzardone fece intercettazioni telefoniche presso l’abitazione della vedova per saperne di più rispetto a ciò che era capitato quel giorno. Queste indagini furono condotte dal Procuratore della Repubblica Ilda Boccassini. Io stavo ancora a Pantigliate. La Boccassini mi invitò nel suo ufficio per interrogarmi, domandandomi i dettagli della vicenda di Peschiera Borromeo. Il Procuratore mi fece i complimenti per l’operazione svolta. Poi il Giudice Istruttore Grigo m’interrogò ancora e mi disse di rivedere le foto segnaletiche dei rapitori coinvolti nel sequestro Trezzi. Riconobbi subito l’uomo alla guida della Golf bianca, Gino Lo storto, mentre si
allontanava dal luogo del delitto. Una volta fatto il riconoscimento fotografico il giudice istruttore delle indagini elogiò l’operazione da me svolta, il suo complimento rinforzò il mio modo di lavorare e tornai al mio impegno più appagato. Il maresciallo Turri tutti i sabati, con la moglie e il figlio, andava fare la spesa al supermercato di Trezzano sul Naviglio, perché aveva grossi sconti essendo l’ex comandante della Stazione di Trezzano; ciò comportava altre agevolazioni: ad esempio sempre a Trezzano sul Naviglio lui e la sua famiglia usufruivano di un grosso sconto sul taglio dei capelli, sull’acquisto di abbigliamento, scarpe ed accessori. Il maresciallo Turri, tutti i giorni, con il pulmino della Stazione, accompagnato dal carabiniere Gentile, si recava al panificio industriale, che si trovava a Settala e prendeva il pane gratis. I carabinieri e i sottufficiali consumavano i loro pasti in caserma, forniti da una ditta esterna: si mangiava molto male, infatti Turri, che non usufruiva della mensa ogni qualvolta ci vedeva andare a pranzo ci prendeva in giro domandandoci se non ci sentivamo male per la qualità del cibo che si mangiava in mensa, concludendo la provocazione con grasse risate. Io gli rispondevo, in quanto non accettavo le sue continue vessazioni: – Maresciallo, ma sua moglie è una cuoca sopraffina! – e lui mi rispondeva: – Si, Franca cucina benissimo – E doveva essere vero dato che il figlio era grasso ed anche la moglie aveva delle curve molto morbide. Giulio, il figlio di Turri, dalla finestra lo chiamavo anche scemo perché faceva il giro in bicicletta nel cortile della caserma cronometrandosi con l’orologio, c’è da dire che il povero Giulio era costretto a fare i giri in caserma perché il padre non gli permetteva di andare in paese per paura delle macchine. Nello stesso anno, 1987, in cui prestai servizio a Pantigliate il figlio del maresciallo conseguiva la licenza media inferiore. Giulio Turri conseguì il diploma di scuola media inferiore con valutazione sufficiente. Agli esami si presentò insieme il padre e fu promosso. Dopo la scuola media, il ragazzo s’iscrisse al Liceo Classico di San Donato M.se. Un giorno il maresciallo Turri, davanti a Giulio Zarro e a me, fece una domanda al figlio, chiedendo come si traduceva in latino il seguente complimento: – Giulio,
come si dice in latino la ragazza è bella? – lui rispose: – La ragazza est bona – io risposi: – No, la puella est pulchra – e Turri deluso, mandò il figlio in camera a studiare, apostrofandolo come Testa di cavolo; il figlio rispose in un latino romanesco. Quella giornata è stata soddisfacente perché vedere l’espressione delusa e amareggiata di Turri di fronte alla poca conoscenza del latino da parte del figlio fu per me un’immensa soddisfazione. A Segrate si trovava il mio amico Savatori Alberto, che ogni tanto veniva a farmi visita, andavamo al solito bar di fronte alla caserma a prendere un caffè e scambiare due parole, quasi sempre gli argomenti della conversazione riguardavano il lavoro. Giunsero finalmente le vacanze estive. Il maresciallo Turri andava a Furci Siculo, in provincia di Messina, con moglie e figlio. Siccome la caserma non poteva rimanere sprovvista del comandante, essendo io il più anziano mi fu affidato il comando interinale della stazione di Pantigliate; interinale significa che il vice brigadiere più anziano è al comando della stazione; io lo feci a Pantigliate per la durata di un mese (Luglio 1988). Prima di affidarmi il comando della stazione, Turri mi portò dal capitano Lonzoni, per il aggio di consegne. Organizzavo tre pattuglie al giorno, mattina, pomeriggio e sera, i carabinieri erano molto contenti quando si compivano gli arresti: un giorno, a Peschiera Borromeo il carabiniere Botto, di origine piemontese ed il carabiniere Piva di origine veneta presero due spacciatori di droga che detenevano 5 g di eroina consegnandoli in caserma. Un tempo, con 5 g di eroina, si veniva arrestati; telefonai al Procuratore di Milano di turno, spiegandogli dell’arresto. Il magistrato di turno mi disse di condurre gli arrestati a San Vittore poiché l’indomani ci sarebbe stato il processo. Entrambi i ragazzi furono condannati a cinque anni di carcere. Con Giulio Zarro andavo molto d’accordo. A volte, fuori dell’orario di caserma, quando finivo le pratiche, prendevamo la radio portatile e facevamo pattuglie, con la sua macchina, il modello vecchio della Polo. Un giorno, a San Giuliano M.se c’era un deposito di formaggio grana: avendo visto degli individui salire su una scaletta ed entrare nel magazzino chiamammo il proprietario; il custode arrivò dopo circa venti minuti ed insieme facemmo un giro di ricognizione per il caseificio, l’odore era molto forte ed io facevo molta fatica a controllarmi per la mia intolleranza al formaggio. Chiamammo la centrale operativa di San Donato M.se, ma non arrivò nessuno. Quindi, dopo aver compiuto l’ispezione, non essendo risultato nessun ammanco, tornammo in caserma.
Facendo una pattuglia in divisa all’idroscalo di Milano, trovammo un tizio che portava un coltello sul fianco; lo denunciammo, a piede libero, per porto abusivo d’arma bianca come previsto dal codice delle armi, che distingue in armi da fuoco ed armi bianche, per le prime è previsto l’arresto mentre per le seconde la denuncia a piede libero. Un giorno in caserma arrivò il vice brigadiere Marchioni, dalla Stazione di San Donato M.se. Venne a farmi visita perché mi voleva rubare il comando della Stazione. Lonzoni gli rispose per le rime, ricordandogli che il Comando l’avrei condotto io. Quando ad agosto tornò il maresciallo Turri dalle ferie andai in vacanza per venti giorni, a Roma dalla mia famiglia; andavo al mare ad Anzio Colonia, vicino alla mia città. Prendevo il treno da Torricola (dove abitavo coi miei genitori) e, percorrevo 59 km per raggiungere il mare e sdraiarmi al sole, fare delle lunghe nuotate, assaporare l’odore della salsedine e aspettare che il sole iniziasse a calare. Andavo con mia sorella e con Giancarlo Pesce amico d’infanzia.
Da Pantigliate all’aula bunker del Tribunale di Milano come aggregato
Vorrei fare delle precisazioni ai lettori su l’organigramma della compagnia dei carabinieri. Ogni compagnia ha a disposizione tutta la giurisdizione del territorio, alle cui subordinazioni vi sono varie stazioni dei carabinieri. Esempio: la compagnia di San Donato aveva sotto la sua giurisdizione le seguenti stazioni: San Donato Milanese, Segrate, Pioltello, San Giuliano Milanese e Pantigliate. Quando rientrai a Pantigliate, dopo le vacanze estive, il Maresciallo Turri d’accordo col capitano Lonzoni decisero di aggregarmi ai carabinieri che prestavano ordine presso l’aula bunker del Tribunale di Milano, mi comunicarono che servivano sottufficiali e carabinieri per assistere ai processi del clan dei Catanesi ed Epaminonda, il cui capo era il cosiddetto Tebano. L’aula bunker del tribunale di Milano si trova nei pressi del carcere milanese San Vittore in piazza Filangeri. Assistetti a tutte le udienze, rimasi come aggregato per un periodo di sei mesi. Purtroppo il lavoro in tribunale era sì interessante ma abbastanza noioso, i detenuti non facevano altro che litigare, mi mancavano molto le pattuglie e nello specifico l’adrenalina che mi correva nelle vene quando c’erano gli inseguimenti. Poi, feci conoscenza con Mauro Ciao, un vicebrigadiere della Stazione di Gratosoglio, Milano. Durante il periodo di lavoro presso l’aula bunker feci la conoscenza del Noce Americano, che comandava una sezione del Nucleo Operativo di Via Moscova. Al Noce Americano io dissi: – Ma perché non mi rimanda alla stazione di Pantigliate? – . La sua risposta fu che ormai mi ero aggregato al Tribunale e traduzioni. Io ci rimasi molto male, perché dovetti rimanere lì altri sei mesi. Durante le fasi del processo, noi carabinieri e sottufficiali aggregati al Tribunale eseguivamo le perquisizioni personali a tutti gli appartenenti al clan reclusi a San Vittore e quando finì il processo rimasi al Palazzo di Giustizia di Milano, per assisterne ad altri. Avevo una camera presso la caserma Montebello, in Via Giulio Monti, e tutte le mattine, con il pullman dei carabinieri, mi recavo al Palazzo di Giustizia. Dopo quest’incarico il maresciallo Turri, d’accordo con il capitano Lonzoni, mi fece aggregare al Nucleo Operativo di Milano, sezione antidroga, dove prestava servizio il mio amico Ciao Mauro, di Caserta, proveniente dalla sezione omicidi.
Al nucleo operativo di Milano molti di noi avevano soprannomi, assegnatici dai colleghi: il mio era Materasso, da Matarangolo, il mio cognome. Altri soprannomi, ad esempio erano: Andy, Rocky, Lenticchia e c’era anche l’appuntato Capoccetta, da Concheddu Tino. Quando ero al nucleo operativo di Milano, sezione antidroga, il tenente a capo della sezione organizzò un servizio antidroga alla discoteca Hollywood nei pressi della stazione Garibaldi, non è stato proprio un servizio antidroga ma una copertura alla scorta del figlio dell’attuale capo del governo, Pier Silvio Berlusconi. Al nucleo operativo di Milano svolsi un’indagine che riguardava macchine di grossa cilindrata rubate, a Piazzale Lodi. Con me c’era pure Lando, che faceva le fotografie da un cinema in Piazza Lodi. Quando arrivò Gorbaciov a Milano, organizzammo un servizio d’ordine completamente in borghese, perché al nucleo operativo si lavorava così. D’altro canto vivevo la sezione con estremo disagio. Non riuscivo ad abituarmi al modus vivendi, fatto di eccessiva goliardia che non mi s’addiceva, anche se probabilmente normale per altri. Dentro di me soffrivo per le ingiustizie subite, non riuscivo a capacitarmi di tanta cattiveria nei miei confronti che ero un loro collega, probabilmente perché ero troppo giovane ed inesperto. Alla fine il tenente mi concesse di rientrare a Pantigliate. Ero talmente sconfortato che non riuscii a trattenere le lacrime davanti al maresciallo Turri quando mi domandò cos’era successo. Al mattino seguente il maresciallo, inizialmente mi ritirò la pistola d’ordinanza e poi mi accompagnò a San Donato M.se, a parlare con il capitano Lonzoni. Io e il maresciallo dicemmo al capitano della violenza privata che mi era stata fatta a Milano. Allora, i miei superiori, con il Tartaglini del Nucleo Comando, mi portarono all’infermeria regionale, fui trasferito all’ospedale militare di Baggio, senza sottopormi ad alcun test psicologico mi dimisero con una diagnosi di turbe disforiche con note atipiche. Secondo me l’ospedale commise un atto illecito poiché mi diedero una diagnosi senza sottopormi ad accertamenti più specifici, data questa sorta di esaurimento nervoso. Il carabiniere Penna mi portò alla stazione di Milano facendomi prendere il treno da solo: mi avevano dato quaranta giorni di malattia; decisi di trascorrerli a Roma dalla mia famiglia, la quale era contenta di avermi, ma dispiaciuta per tutto quello che mi stava accadendo. In quei giorni trovai uno psichiatra che mi avrebbe potuto accompagnare all’ospedale militare: il Marongiu, che abitava in una zona borghese di Roma, vicino al quartiere Parioli. Ci andai con mio padre e poi, dopo una visita superficiale, mi diede una terapia farmacologica per l’esaurimento nervoso. Dopo quaranta giorni andai all’ospedale militare di Roma, Celio,
accompagnato da mio padre. In seguito venni sottoposto ad alcuni test psicologici, nello specifico il Minnesota e le macchie di Rorschach per valutare il mio stato mentale. Questi esami erano quelli che avrebbero dovuto farmi all’ospedale Baggio di Milano. Al Celio mi dichiararono idoneo a svolgere il servizio e ripresi il mio posto a Milano, precisamente alla stazione di Pantigliate. Il maresciallo Turri mi riconsegnò la pistola. Quella stessa notte mi fece fare pattuglia. Subito dopo il capitano Lonzoni ed il Tartaglini mi videro arrivare alla caserma di San Donato M.se, la mia nuova destinazione.
Aggregato al nucleo operativo di Milano
Fui assegnato al Nucleo Radiomobile come capo equipaggio. Quando da vicebrigadiere sono stato promosso a brigadiere, la moglie di Occhiolino mi ha cucito sulla manica della divisa i gradi. Per sdebitarmi ho regalato loro una bottiglia di Civas. Avrei voluto mandare delle rose ma il marito era troppo geloso per vedere di buon occhio un gesto simile. Mi avvisava che ero diventato brigadiere un certo Bianchi, centralinista di San donato Milanese. A San Donato non mi vedevano di buon occhio, perché conoscevano la mia storia al nucleo operativo di Milano, in cui ero stato considerato pazzo. Il comandante della stazione, il Maresciallo Furone mi fece dormire su un materasso senza coperte e cuscini, dormii in questa condizione per due giorni e tutti i giorni continuava a ripetermi di andare a dormire a Pantigliate. Andai a riferirlo al capitano Lonzoni, il quale si arrabbiò molto con il maresciallo, che dopo il richiamo manteneva le distanze da me, anzi, il Maresciallo Furone mi fece firmare un foglio bianco; sul quale poi ha scritto che avevo ricevuto 200.000 lire di compenso trasferta sebbene non mi furono mai consegnati. L’appuntato Momplen mi accompagnò al magazzino della Montebello perché dovevo ritirare la divisa dei carabinieri del nucleo radio mobile che consisteva in: due paia di pantaloni, due paia di stivali ed una giacca a vento. La prima pattuglia che feci a San Donato M.se mi vide al fianco dell’appuntato Occhiolino. Un giorno arrivò un nuovo compagno di stanza, Barletta, vicebrigadiere; poi ne arrivò un altro che si chiamava Giulio Zarro stesso grado, già conosciuto a Pantigliate. Non andavo d’accordo con i brigadieri Daddeo e Pizzardone. Non andavo d’accordo neppure con Franco Fureri, vicebrigadiere. Andavo d’accordo, invece, con tutti gli altri carabinieri, anzi, mi rispettavano perché alle pattuglie da cui rientravano dopo gli arresti facevo gli atti e i verbali per tutti, anche quando non ero in servizio, con mia disponibilità totale, praticamente h 24. Daddeo fece una pattuglia con me alla Centrale Operativa di San Donato M.se, arrivò al 112 una telefonata che avvisava di una lite in famiglia a Pioltello.
Daddeo, comunicò che non si sarebbe recato sul luogo perché aveva paura, sosteneva che nella suddetta località vigeva una violenza priva di controllo contro tutte le forze dell’ordine soprattutto dai clan delle famiglie calabresi. Daddeo si comportò da vile in quanto non manteneva fede al giuramento dei carabinieri, è normale e lecito avere paura ma è dovere di tutti i carabinieri difendere il cittadino, a maggior ragione soprattutto se si ricopre il ruolo di sottufficiale. Daddeo mi era superiore e non intervenimmo. Un giorno ci fu un incidente, provocato dall’appuntato Natale Porceddu, che fece sbandare una macchina che lo voleva sorare, buttandola contro la banchina pedonale; l’auto coinvolta subì diversi danni, il conducente riportò delle lesioni lievi. Io avevo la valigetta che conteneva i verbali e la rotella metrica, utilizzata per il rilievo degli incidenti stradali. Natale Porceddu che non si rese conto che avevo dimenticato la valigetta sul tettuccio della macchina, senza dirmi niente partì velocemente e gli oggetti sul tetto della macchina caddero sulla strada disperdendosi sull’asfalto, cosa della quale mi accorsi solo rientrato in caserma. La sera stessa un signore di Peschiera Borromeo mi riportò gli oggetti smarriti. Io lo ringraziai. Quando facevo pattuglia con Occhiolino, soprannominato occhio di bue perché aveva gli occhi sporgenti , mi divertiva molto, era sempre di buon umore ed aveva la battuta pronta, anche in situazioni di pericolo e delicate riusciva a rendere l’atmosfera serena dando un senso di fiducia e tranquillità, ed è per questo che lo stimavo come collega e come amico mi farà sempre compagnia nei miei pensieri. Durante un pattugliamento in Via XXV Aprile a San Donato, c’era una cascina dismessa abitata da dei marocchini che la utilizzavano per spaccio di droga: eroina, cocaina e quant’altro io con il collega facemmo irruzione nella cascina con le armi spianate per sorprenderli. Nella cascina c’era anche una prostituta, con tanti anni di servizio di nome Chiara: io dicevo: – Signora, lei quando vede i carabinieri fa scappare i marocchini, per questo motivo non abbiamo mai potuto sorprenderli. – Lei non replicava. Nella stessa via c’era anche un’altra prostituta che si chiamava Zucchi Fulvia: era un’eroinomane molto giovane e si forniva di droga dai magrebini. Lei aveva tanti clienti che venivano a trovarla sulla strada. A San Donato facevo tante pattuglie e compievo anche arresti. In caserma c’era
un carabiniere di nome Zappa Antonio del nucleo comando: con la sua macchina ci recavamo al biliardo di San Donato M.se. Chi lo gestiva era una certa Caterina, col marito. A giocare a biliardo andavamo anche al Gran Biliardo Due; a volte vinceva lui, a volte vincevo io, però non abbiamo mai giocato a soldi. Al nucleo comando c’era il Tartaglini che faceva le paghe dell’ufficio. Un giorno arrivò un carabiniere scelto, di nome Iovine, prima di arrivare a San Donato faceva servizio al nucleo radio mobile di Milano. Era molto preparato sulle leggi, facendo pattuglia anche con lui mi trovavo veramente bene. Non avveniva la stessa condizione con il carabiniere Franco Brodo e l’appuntato Natale Porceddu, perché sapevo di esser loro antipatico; però quando prendevano qualche partita d’eroina, chiamavano me per fare gli atti. Io e i miei colleghi sottufficiali facevamo la spesa presso la Metro acquistando vari generi alimentari; pagavamo una cuoca, che abitava in Via Di Vittorio affinché cucinasse per noi presso la mensa della caserma. Per pagarla il capitano Lonzoni suggerì che ognuno di noi versasse 1000 lire per pasto, così facendo alla fine del mese si ricavava lo stipendio della cuoca che era all’incirca di 600.000 lire. Un giorno, al nostro pranzo si unì anche il capitano Lonzoni, il brigadiere Pizzardone e l’appuntato Incognita Rossa i quali non volevano pagare, non voleva pagare neanche l’appuntato Asuriu della centrale operativa. Un giorno l’appuntato Incognita Rossa del nucleo operativo decise di mandare via la donna perché a suo dire era troppo cara, la decisione fu accolta. Anche per ragioni di sicurezza sul lavoro. La contabilità della mensa per tutta la compagnia e per tutte le stazioni della circoscrizione era tenuta da noi sottufficiali scapoli che come detto ci occupavamo anche di fare la spesa. Era un incarico noioso, ci veniva offerto perché disponevamo di più tempo rispetto a quelli sposati, che mangiavano in ogni caso con noi, mettendo una firma in un documento, un foglio in cui erano segnati tutti i nomi dei carabinieri che usufruivano del servizio mensa, l’allegato 30. Quando la signora che cucinava per noi è andata via, ha iniziato a cucinare un appuntato ammogliato, Domenici il quale considerava un suo diritto sottrarre dalla cucina alimenti e quant’altro. Io comunicai il fatto al capitano Lonzoni, che però non fece niente per debellare tale fenomeno. La cosa andò avanti a lungo. Uno dei nostri atempi preferiti era giocare a ping pong in sala mensa dove era stato attrezzato un tavolo. Le sfide erano frequenti, con piccoli tornei
organizzati tra noi, dove chi perdeva pagava il caffè. Il campione della caserma era un certo (sco Ping pong) detto Il Chiattone, tra l’altro simpaticissimo, del quale però non ricordo il nome. Secondo lui i veri carabinieri erano quelli con gli stivali e quindi apprezzava molto coloro che lavoravano al nucleo radiomobile e mi diceva che dovevo essere fiero di prestarci servizio. Spesso giocava con me anche il capitano Lonzoni e ci divertivamo un sacco. Un giorno un mio collega brigadiere, Franco Fureri, che operava presso la stazione di San Donato con il Maresciallo Furone, sequestrò a un privato delle radioline portatili sintonizzate alla Gamma 400 delle centrali operative di tutta la Lombardia. Siccome erano state sequestrate senza verbale Fureri se le portò a casa. Lonzoni, saputo l’accaduto, lo contattò e le ricetrasmittenti furono restituite al legittimo proprietario e Lonzoni disse a Fureri che era un ladro. Nei giorni successivi io facevo sempre le pattuglie con l’appuntato Occhiolino. Quando il capitano Lonzoni vide me e l’appuntato Occhiolino senza il berretto d’ordinanza, non fece nulla: avrebbe potuto darci una punizione, ma fece un semplice richiamo. Io in comune accordo con Occhiolino avevamo deciso di fare i contestatori e di non portare sempre il cappello in testa, un po’ per dispetto, un po’ per giocare. Ed un po’ perché francamente tutte quelle ore con il cappello in testa era una tortura. Secondo quanto riferito dal carabiniere Magliaro la società Snam regalò al capitano Lonzoni uno dei primi telefonini cellulari quelli che funzionavano a bollette. Il capitano Lonzoni era sposato e aveva l’alloggio di servizio nella caserma. Spesso andava a giocare a tennis al Club Mala Penna, che si trova a Segrate, dove ci sono gli uffici di Mediaset. Si dilettava in questa disciplina assieme ai facoltosi di Segrate. L’appuntato Incognita Rossa e il brigadiere Pizzardone mi prendevano in giro per la mia bravura nel fare i verbali di perquisizione, d’arresto, notizie di reato etc. Secondo me erano solo invidiosi perché conoscevo molto bene la materia. Un giorno quando facevo pattuglia con il carabiniere Giulio Cardellino a Peschiera Borromeo siamo riusciti a prendere le difese di una povera donna che era stata scippata del collier da due tossicodipendenti che abitavano a Ponte Lambro, luogo tristemente noto a San Donato, in quanto ci abitano molte
famiglie che spacciano stupefacenti nelle proprie abitazioni. La signora finì in ospedale a causa delle ferite riportate al collo; appena siamo riusciti a prendere i due scippatori li abbiamo portati in caserma. Alla signora fu restituita la refurtiva e identificò e denunciò i due rapinatori. Quando arrivò Pizzardone era già tutto pronto, il verbale di arresto e la notizia di reato, mi domandò se volevo una mano per fare gli atti, risposi di averli già fatti e che avevo contattato il sostituto procuratore di Milano per informarlo degli avvenimenti (art. 628 del Codice Penale- rapina). I due tossicodipendenti dopo aver fatto gli atti di rito, sono stati accompagnati da me e da Cardellino a San Vittore: questo, Pizzardone, non me lo ha mai perdonato, perché tutti quanti andavano da lui per farsi fare gli atti d’arresto, mentre io non ci andavo perché ero in grado di farli in piena autonomia. Pizzardone e Incognita Rossa mi proposero di fare intercettazioni telefoniche per trovare capannoni con merce rubata. Io non accettai, perché si approfittavano già della mia disponibilità, ero sempre pronto nell’aiutare i colleghi in assenza loro, per compiere gli arresti. Quando al capitano Lonzoni fu cambiato l’incarico, ovvero mandato al comando generale a Roma, decise di offrire una cena a tutti i sottufficiali della compagnia in un noto ristorante che si chiamava L’Osterietta. Mangiammo tutto a base di pesce. Al capitano Lonzoni regalammo un orologio d’oro. Alla cena partecipò anche il maresciallo Turri poiché non prestava più servizio presso la stazione di Pantigliate ma la sua nuova caserma era Peschiera Borromeo, sempre facente parte della compagnia di San Donato M.se. Era anche presente il maresciallo Giordano, che comandava il nucleo operativo di San Donato e poi Incognita Rossa, Pizzardone, il maresciallo Galanti, comandante della stazione di San Giuliano M.se. Il maresciallo Galanti era una persona squisita; quando si verificavano incidenti stradali mortali il egli era sempre disponibile a darmi una mano, io lo ringraziavo facendoli capire che eravamo una squadra. Gli volevo bene, ma lo stimavo anche e soprattutto per la sua professionalità, molto preparato in campo giuridico; inoltre aveva il compito di comandare una stazione difficile poiché collocata in una zona di Milano con un alto tasso di criminalità e ci riusciva molto bene. Ogni volta che potevo, andavo a trovarlo e gli offrivo il caffè; spesse volte era lui ad offrirmelo, in un bar vicino alla stazione. Incognita Rossa e Pizzardone, siccome Galanti era d’origine pugliese, lo dipingevano come un farabutto che non sapeva esercitare il suo mestiere, ma non era assolutamente vero. Una notte, l’appuntato Nanni Mica (detto coniglio
per i denti sporgenti) mi chiamò per fare gli atti di un arresto. Io stavo dormendo, mi alzai, indossai la mia divisa e scesi. Mica aveva compiuto un arresto per droga ed aveva già chiamato il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Milano: era stato arrestato il proprietario del bar di San Donato M.se, perché era stato scoperto con dosi di cocaina ed ingenti quantità di denaro e aveva due minorenni al seguito. Io dissi a Mica di chiamare Pizzardone perché avrei dovuto fare il turno della mattina. Stefano Pizzardone arrivò con la sua Renault 5 verde per fare gli atti di arresto. Conoscevamo l’arrestato perché io e Zappa Antonio, talvolta, andavamo a giocare a biliardo in quel bar. La moglie del barista, Caterina, pregò Mica di non arrestare il marito, però lui aveva già chiamato il magistrato di turno, che gli avrebbe consentito di compiere l’arresto. Quando arrivò Pizzardone si arrabbiò con me, perché io non avevo aiutato Mica. Io non mi difesi, motivando però che Mica, essendo un appuntato da tanto tempo, avrebbe potuto compiere in autonomia gli atti per l’arresto. Il mio collega Laudato Giuseppe, vicebrigadiere, aveva il compito nel nucleo operativo di versare i proventi delle multe pagate, raccogliendo tutti i verbali che facevano le nostre pattuglie. Io non facevo tante multe; preferivo compiere gli arresti con Occhiolino, perché il carabiniere vive d’arresti, mentre secondo me fare le multe dovrebbe essere compito solo della polizia municipale. A volte prima di uscire in pattuglia con i miei colleghi, Occhiolino e Natale Porceddu ci fermavamo al bar per prendere il caffè dalla signora Troja. La signora aveva, sfortunatamente, una mano monca, poiché al di fuori del bar gestiva, con il marito e la figlia Silvia, anche una pasticceria, all’interno della quale le era capitato un incidente: le era finito il braccio dentro ad un’impastatrice, le lesioni riportate erano state di una tale gravità da non permettere la ricostruzione della mano. Ci faceva pagare il caffè solo 1000 lire eravamo, privilegiati essendo in divisa. Anche con il capitano Lonzoni ed il maresciallo Giordano del nucleo operativo, andavamo spesso dalla signora Troja a prendere il caffè. Quando, il capitano Lonzoni andò via arrivò il tenente Caproni a comandare la compagnia. Era di origine argentina e proveniva dal battaglione di Bologna. Successivamente arrivò da Malnate (Varese) un brigadiere Aureliano Pasquale, di origine toscana (Pistoia) con cui diventammo subito amici e conoscendoci meglio abbiamo scoperto di condividere le stesse idee politiche di sinistra. In quel periodo con la collaborazione di Aureliano facevamo molti controlli ai ristoranti e ai bar di tutta la giurisdizione in quanto eravamo preparati in tutte le contravvenzioni del caso; queste riguardavano sempre le norme igieniche dei locali pubblici, l’inadeguata conservazione dei
cibi, le temperature dei frigoriferi non sempre a norma. Poi hanno trasferito Aureliano al nucleo comando e a me è stato cambiato l’autista. Con Occhiolino facevo come sempre le pattuglie. Quando, però, arrivò un carabiniere che si chiamava Giulio Cardellino uscivo con lui di pattuglia, perché era stato deciso da Incognita Rossa e Pizzardone. Alla stazione di Pioltello c’era un maresciallo che si chiamava Corrutela Peppino; lo conoscevo poiché mi recavo presso la sua stazione per fare i controlli nei bar e nei ristoranti della zona. Corrutela Peppino non aveva simpatia per la radiomobile di San Donato perché secondo lui interferiva nel controllo del suo territorio. Un giorno scattò l’allarme alla Concessionaria Citroen di Pioltello: io ed il carabiniere Cardellino, ci recammo presso la concessionaria, scoprendo che era stato il medesimo proprietario a farlo scattare perché voleva cronometrare il tempo d’intervento della pattuglia in turno. Rimproverò sia me che Cardellino, dicendoci che ce l’eravamo presa troppo comoda; a quel punto io gli dissi che quella frase gli poteva costare molto cara: infatti intimai di denunciarlo per procurato allarme e perché non mi diede i documenti per farsi identificare. Quando seppe che stavo per denunciarlo, intervenne il maresciallo Peppino, dicendomi di non procedere nella compilazione dell’atto. E così fu, non lo denunciai.
630 chili di hashish
Una notte durante un pattugliamento con l’appuntato Nanni Mica, d’origine sarda, sul territorio di Segrate, zona Milano 2, notammo due ragazzi su di una Renault 5 ferma in un parcheggio nelle vicinanze di un furgone, ci avvicinammo per controllare, e fummo insospettiti sia dalla reazione dei due giovani ma anche dal furgone; in accordo con il mio collega prendemmo la decisione di controllare all’interno del furgone stesso. Il mio collega aprì il portellone e fummo completamente basiti dalla quantità di hashish trovata all’interno di cesti di plastica, confezionate in panetti di vari tagli da 1 a l Kg. Durante la perquisizione del furgone i due occupanti della macchina si erano nascosti convinti di farla franca. Li arrestammo, ma il mio collega non si accorse che si trattava di hashish, pensava che fosse creta; io perciò ho preso un panetto, l’ho strizzato e ho detto al mio collega: – Senti l’odore – era proprio hashish! Se ne accorse, finalmente, anche lui. Li accompagnammo in caserma: uno si chiamava Abbaponte, dell’altro non ricordo il nome; erano di Cologno Monzese. Io guidavo la macchina di servizio. Chiamammo il nostro recuperatore di macchine rubate, Capotti, che subito si mise alla guida del furgone con l’hashish e poi la droga venne consegnata da noi in caserma negli uffici del nucleo operativo; gli arrestati vennero rinchiusi in cella di sicurezza. Io telefonai subito al sostituto procuratore della Repubblica Rubio: gli parlai dell’arresto e lui si complimentò con me. Redassi subito il verbale d’arresto dei due rei e la notizia di reato ai sensi dell’art. 347 del Codice di Procedura Penale. Ad operazione compiuta chiamai il tenente Caproni: – Venga subito in ufficio e vedrà che operazione ho fatto – . Arrivò subito. Vide 630 chili di hashish per terra che avevamo scaricato assieme ai carabinieri della stazione di San Donato M.se, che dormivano in caserma con me. Quando Caproni giunse strabuzzò gli occhi e mi disse: – Ha avvertito il magistrato? –. – Certamente gli dissi. – Anche lui, allora, si complimentò con me. Poi arrivarono Pizzardone, Incognita Rossa e il brigadiere Daddeo, assieme ad Aureliano e non mancarono le solite battute. Il tenente Caproni chiamò subito il comandante di gruppo per parlarmi personalmente; quando il colonnello Paris,
mi domandò chi si era occupato dell’operazione risposi che ero stato io con l’appuntato Mica. Il tenente Caproni mi consigliò di affidare l’operazione al nucleo operativo di Milano, ma io gli risposi che non ci pensavo minimamente e che, da disposizioni del magistrato, il caso era mio e di Mica e tale rimase. Dopo l’operazione, abbiamo portato a San Vittore gli arrestati, in attesa di essere sottoposti a processo, per direttissima. Il colonnello Paris portò me e Mica dal Prefetto Caruso di Milano, che si complimentò dell’operazione con noi. In seguito, a Segrate, abbiamo distrutto l’hashish ed io mi occupai di stendere il verbale. La procedura di tutte le forze dell’ordine, dopo aver sequestrato ed analizzato le sostanze stupefacenti attraverso il narcotest, è di procedere alla distruzione per mezzo degli inceneritori di zona, i medesimi della spazzatura. Poi io andai personalmente a portare un pezzo di hashish a Roma, per farlo analizzare per capire la provenienza, il tipo di sostanze e principio attivo che conteneva. Mi recai presso la squadra narcotici da solo; Mica, impegnato nelle pattuglie, non mi accompagnò. Portai l’hashish in Via Primo Camera, zona Eur, dove ha sede l’Interforce, che è composta da: Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato. Per i grandi quantitativi di droga è tappa d’obbligo tale sede di Roma per l’esecuzione delle analisi. Successivamente andai al processo di Abbaponte. Ci andammo sia io che Mica e anche l’appuntato Natale Porceddu, per spiegare le varie fasi d’arresto. I due malviventi sono stati condannati agli arresti domiciliari e i Carabinieri di Cologno Monzese avevano l’incarico di controllarli. Un giorno, quando facevo pattuglia con Giulio Cardellino, fermammo una Mercedes, alla cui guida c’era Giulio Bastaso, il fratello minore di Andrea Bastaso, sindaco di un paese, sostenitore delle idee socialiste di Bettino Craxi. Quasi tutti i carabinieri di San Donato avevano acquistato macchine modello Golf da questo signore. Anche il mio collega Daddeo comprò l’auto da lui. Giulio Bastaso era concessionario per il nord d’Italia del marchio Porche, vendeva anche macchine italiane come Fiat e Lancia ed in ultimo era anche un concessionario dalla Volkswagen. La patente di Giulio Bastaso era scaduta da sei mesi e quindi gli fu sequestrata dal sottoscritto come da regolamento del Codice della Strada. Saputo del sequestro della patente di Giulio Bastaso, un brigadiere di Peschiera Borromeo, mi chiamò alla radio per comunicarmi di restituirla al proprietario anche se era scaduta. Il brigadiere era Pantalli, di origine siciliana, sotto l’ordine del maresciallo Turri. Anche il maresciallo Turri aveva acquistato da Giulio Bastaso un’auto, una Lancia Thema. Rientrato in caserma mi misi a dormire con a fianco una valigetta contenente la
patente di Giulio Bastasi, perché l’indomani l’avrei dovuta trasmettere alla Prefettura di Milano. La mattina successiva, mentre iniziavo a trascrivere il verbale per la patente in Prefettura, arrivarono in caserma Daddeo e Incognita Rossa i quali mi dissero di consegnare a loro la patente sequestrata. Mi opposi, rispondendo che non avrei consegnato nulla; Daddeo con uno scatto furtivo mi tolse dalle mani la patente. C’era ancora il tenente Caproni. Daddeo, nonostante tutto, riconsegnò la patente al proprietario. Tutti i carabinieri di S. Donato Milanese che avevano comprato un’auto da Giulio Bastaso sottocosto se la presero con me: loro dicevano che anziché arrestare i balordi levavo la patente alla gente per bene. Dopo questo fatto mi misero in ufficio a controllare tutti i verbali delle radio mobili che erano scaduti e non pagati e con la macchina da scrivere, a carrello lungo, ho fatto questo lavoro perché Daddeo, Incognita Rossa e Pizzardone, col tenente Caproni, dicevano che fuori ero un pericolo. Ma per chi? Perché avevano paura che fi danni per le patenti scadute? Quando è andato via il Tenente Caproni ha offerto la cena a tutti, tranne a me, all’Osterietta, perché il nuovo brigadiere, Marchioni, diede ordine di non invitarmi. Io domandai spiegazione a Caproni il quale si è limitato a confermarmi che non mi aveva invitato. Un giorno, nella frazione di Settala,vicino a Pantigliate, scoppiò una pericolosa rissa e di turno c’ero io. A San Donato M.se, all’Ospedale Clinicizzato, arrivò un ragazzo ferito da un colpo di pistola, di piccolo calibro, alla coscia. Io e Occhiolino andammo all’ospedale per interrogare il giovane e scoprimmo che a sparare erano stati dei ragazzi di Merlino, paese vicino a Settala. Dopo averlo interrogato abbiamo iniziato a cercare i responsabili a Settala; abbiamo arrestato tutti coloro che erano stati coinvolti nella rissa. Gli atti relativi li compilai io. Marchioni parti per Roma per fare il corso di dattiloscopia, per i non addetti ai lavori è lo studio delle impronte digitali e per un periodo non lavorò a San Donato. Quando ebbe luogo il processo per la rissa di Settala io andai a Lodi, perché Settala era sotto la giurisdizione del Tribunale di Lodi, andai solo. I rissosi di Settala furono sottoposti agli arresti domiciliari per qualche tempo. A Lodi incontrai un vecchio compagno di corso, di cui non ricordo il nome, che gentilmente dopo il processo mi accompagnò alla Stazione Ferroviaria di Lodi per prendere il treno per raggiungere Milano. Quando al Comando c’era ancora Caproni, venne assassinato il generale Dalla Chiesa, tutti i dipendenti della Snam e dell’Agip di San Donato cominciarono a fare delle manifestazioni per le strade
del paese, come omaggio al generale. Consapevole che ci voleva un permesso della Questura e della Prefettura per qualsiasi tipo di manifestazione, con il carabiniere Franco Brodo, bloccai i manifestanti con la macchina di servizio e intimai loro a rientrare negli uffici, altrimenti avrei chiamato il battaglione di Milano per disperderli. Chiamai così il tenente Caproni per radio. Questi mi raggiunse e parlando ai manifestanti diede loro la stessa comunicazione che avevo già dato io precedentemente e i manifestanti rientrarono negli uffici. Un giorno a San Donato si trovavano a manifestare contro la Snam e l’Agip dei giovani di Green Peace e come simbolo di protesta innalzarono un pallone aerostatico. Erano una ventina di persone di Green Peace e non volevano abbassare il pallone nonostante glielo avessimo intimato, perché secondo loro la Snam è una multinazionale che inquina le acque. Io chiamai il tenente Caproni perché mi fe aiutare da altre pattuglie per far terminare la manifestazione, accompagnai con la macchina di servizio tutti i manifestanti presso gli uffici e li denunciai. Questo è il mio lavoro e nonostante la solidarietà verso le ragioni di questi ragazzi non potevo ignorare il reato. Un giorno io, Mica e Morre Antonio, in borghese, facemmo un servizio fotografico per seguire il caso di una prostituta che veniva picchiata dal protettore. La donna si chiamava Lella Datterino. Ci accostammo vicino alla via per riuscire a fare le foto da una casa privata. Avevamo fatto circa quattro fotografie alle macchine che accompagnavano la donna a svolgere il suo lavoro e che si fermavano in Via XXV Aprile, a San Donato M.se. L’uomo portava alla prostituta della legna per fare il fuoco e ripararsi dal freddo, prendeva tutti i suoi guadagni e tratteneva una parte per acquistare la droga da dei marocchini che vivevano li vicino. Dopo averle fatte, accompagnammo Datterino presso gli uffici a sporgere denuncia. Poi, io e Mica ci recammo presso il Tribunale di Milano, dal giudice Remondini, per fargli vedere le prove e per chiedere la custodia cautelare per l’uomo. Il giudice ci accordò la custodia per sfruttamento della prostituzione e l’indagato venne subito trasferito al carcere di San Vittore. Quando andò via il tenente Caproni arrivò un capitano che si chiamava Illecito.
Il capitano Illecito
Il capitano Illecito andava d’accordo con Marchioni, Daddeo e Incognita Rossa perché ricominciavano a seguire i capannoni di merce rubata. Il capitano, abitava in caserma con la moglie in una stanza dove prima c’erano altri due carabinieri, Morre Antonio e Franco Brodo. La moglie del capitano Illecito era molto disinvolta e certo non adeguata a vivere in caserma. Il capitano era originario di Roma, mentre la moglie della Sardegna. Illecito, una volta ottenuta la promozione come capitano, assunse il comando della compagnia di San Donato. Il capitano era molto contento di essere stato trasferito al nord. In questo periodo, l’arma dei carabinieri riuscì ad identificare il rifugio di Totò Riina detto Il Corto e a catturarlo; durante l’arresto di Totò Riina io ed il collega Morre Antonio eravamo di pattuglia a Ponte Lambro impegnati nell’inseguimento di due spacciatori che abbiamo arrestato. Eravamo contenti poiché, Totò Riina era stato preso dai carabinieri del Reparto Operativo Speciale, ROS, comandato da Ultimo, chiamato così in quanto arrivò ultimo al corso ufficiali. Il capitano Illecito non capiva niente di Codice Penale: una sera ci avvertirono di una rapina in banca a Pantigliate ed io con il carabiniere Magliaro eravamo di pattuglia: la banca era sita in Via Risorgimento. La tecnica della rapina era stata quella di intrufolarsi in banca e poi aspettare il direttore, all’apertura. Intervenne anche il vicebrigadiere Vallelinda, della Stazione di San Giuliano M.se, comandata dal maresciallo Galanti. Avevo già preso i gradi da brigadiere; in Via Risorgimento, proprio al nostro arrivo, abbiamo visto i rapinatori che stavano entrando in banca, e ho esclamato: – Alt! Carabinieri! – ; loro, in tutta risposta, iniziarono a spararci addosso, fortunatamente senza colpirci e scapparono nelle campagne di Pantigliate. Durante l’inseguimento, a piedi, tentai di sparare alle gambe ad uno dei componenti della banda e riuscii a ferirlo di striscio. Questi abitavano nei pressi di Varese e facevano parte della banda Di Matteo, soprannominato La Biscia, chiamato così perché sfuggiva sempre alle pattuglie dei carabinieri durante le rapine; gli altri miei colleghi il brigadiere Vallelinda ed il carabiniere Zeno si misero ad inseguire i restanti componenti della banda. Magliaro se la vide brutta, perché un proiettile di una pistola di piccolo calibro (PKS, arma d’origine tedesca) lo raggiunse di striscio. Il capitano Illecito arrivò sul posto, arrivarono a Pantigliate anche pattuglie della radio mobile di Milano. Io,
interrotto l’inseguimento, sfondai con un calcio una porta chiusa della banca mentre il capitano Illecito salì al piano di sopra, ma erano già scappati tutti lasciando le armi a terra. In quel momento In Via Risorgimento ano un ragazzo ed una ragazza su una Fiat Uno. Li fermammo pensando che fossero i rapinatori in fuga; notai che il blocco sterzo aveva i fili dell’accensione collegati, alias la macchina era rubata. Li portammo in caserma a San Donato, ma poi ci rendemmo conto che loro neanche sapevano che c’era stata una rapina. C’era molto nervosismo ed io e il ragazzo abbiamo avuto un corpo a corpo e lui mi chiese per quale motivo lo stavo colpendo, l’avevo scambiato per uno dei rapinatori in fuga, anche perché il ragazzo era alla guida di un’auto che era rubata. Insomma, quella notte io e Magliaro la ammo quasi tutta in caserma a sequestrare le armi che erano state lasciate sul posto. Ce n’erano molte, tra cui un mitra ed una mitraglietta di fabbricazione argentina ed una pistola PKS; la mitraglietta aveva ancora quaranta colpi nel caricatore perché il rapinatore nel tentativo di afferrarla, durante il nostro intervento, al mio: – Fermati o sparo! – lasciò cadere la mitraglietta a terra. Negli uffici della radio mobile di San Donato M.se, sequestrammo tutte le armi e proiettili. Non c’era collaborazione tra noi e il nucleo operativo della compagnia, questo gravava spesso sul nostro lavoro, perché in certe situazioni e condizioni collaborare avrebbe giovato alla qualità del lavoro; questa situazione avveniva solo a San Donato, nelle altre caserme c’era più collaborazione, solidarietà e spirito di gruppo. La mattina seguente uno dei rapinatori, che vagava per le case di Pantigliate si fece avvistare involontariamente, il carabiniere della Centrale Operativa di San Donato M.se, Carlo Porcu, prese il rapinatore e con l’appuntato lo portarono in caserma. Pizzardone non fece niente. Io avevo sequestrato tutte le armi e i proiettili, contandoli uno ad uno e l’appuntato Incognita Rossa, lamentandosi, impacchettò tutta la roba che avevamo sequestrato per portarla a Palazzo di Giustizia. Terminata l’operazione andai a Monza per prendere informazioni sulla banda Di Matteo La Biscia e scoprimmo che aveva la ragazza a Pantigliate. Io e Magliaro, ricercammo la ragazza, ma aveva cambiato indirizzo e nessuno sapeva dove fosse andata; pensavamo che fosse una basista della banda. Il capitano Illecito, rinforzato da Pizzardone e Incognita Rossa non mi fece andare avanti con le indagini, perché facevo parte del nucleo radio mobile e non del nucleo operativo di San Donato. Non condividevo l’idea di Illecito, ma lasciai stare, perché ritenevo d’avere tutti contro, soprattutto Pizzardone e Incognita Rossa. In seguito i carabinieri del nucleo operativo di Saronno catturarono Giovanni La Biscia, io andai al processo che si tenne a Busto Arsizio, per testimoniare contro di lui e la sua banda, mi recai da solo utilizzando i mezzi pubblici; potevo
usufruire di un accompagnamento con la macchina civetta ma il clima di lavoro che si respirava era d’ostilità. Arrivò come perito delle armi il mio collega Melo Acerbo. Il pubblico ministero mi fece i complimenti per le indagini svolte. La banda fu condannata a venti anni di carcere. Dopo la rapina, Cardellino continuava a fare pattuglie come me. Un giorno Illecito decise di fare intercettazioni su una banda di Pioltello: i Mannarino, di origine calabrese, che provenivano da Caulonia, vicino a Reggio Calabria. Io e il vice brigadiere Sazza, che proveniva dalla stazione di Pioltello, al Palazzo di Giustizia cominciammo le intercettazioni telefoniche. Anche da Caulonia stavano facendo la stessa indagine. Però i Mannarino non furono messi in carcere perché gli elementi raccolti dal comando di Caulonia, da me e Sazza non erano sufficienti. Il capitano Illecito cominciò a fare perquisizioni domiciliari illegali in tutto il territorio del comune di Pioltello per la ricerca di armi e droga, ma non fu sequestrato nulla. Il capitano Illecito, dopo il bluff che fece a Pioltello decise di non continuare la strada intrapresa. Però mi mandò al nucleo operativo di Milano per fare accertamenti patrimoniali sulla famiglia Mannarino. Fui assegnato come aggregato al nucleo operativo di Milano sezione patrimoniale, mi fecero fare un corso di dieci giorni all’interno del quale mi fu spiegato, a grandi linee, come dovevo elaborare i dati per leggere fra le righe, le manovre utilizzate dalla malavita per riciclare il denaro sporco. Il capitano Illecito, per avere maggiori prove per dimostrare le attività illecite della famiglia Mannarino mi mandò al catasto di Milano dove sono depositati gli atti di acquisto sia degli immobili che dei terreni; dopo un’attenta visione delle mappe catastali e degli atti, risultavano a carico della famiglia proprietà acquistate regolarmente. Il capitano rimase soddisfatto del mio lavoro al catasto decise così di affidarmi altri incarichi di questo tipo. Perciò pensò bene di farmi fare accertamenti patrimoniali per una ditta americana, la Sagacica, una Società per Azioni che raccoglieva i rifiuti urbani per le zone di Pioltello, San Donato, Pantigliate, Segrate, la sua attività si estendeva a tutta la Lombardia; e oltre al lavoro di accertamento mi affidò anche il lavoro di intercettazioni telefoniche per la ditta Keller. Non contento mandava me e Sazza, tutti i giorni a controllare i telefoni del centralino per la Sagacica; i controlli erano molto impegnativi e faticosi, perché l’azienda riceveva molte telefonate ed era un duro lavoro riuscire a cambiare in tempo le bobine, richiedeva sempre una presenza costante. Un giorno il capitano Illecito con Incognita Rossa e Daddeo, mi fece un richiamo fuori luogo: sosteneva che il lavoro svolto fosse tutto da buttare via in quanto il materiale raccolto non era d’utilità per le indagini in corso. Ci rimasi male perché fui costretto a fare un lavoro che non volevo e poi non era colpa mia se le
intercettazioni non portavano ad alcuna conclusione; l’obiettivo del capitano era di fare un’indagine a suo nome chiamandola Sozzoppoli. Insomma, il capitano Illecito non aveva probabilmente grandi capacità a coordinare le attività investigative, pensava solo ad andare al bar a bere birra mandando allo sbaraglio i suoi sottufficiali. Dopo tante intercettazioni e le prove raccolte, il lavoro fu poi presentato alla magistratura; nello specifico ad un pm il quale però dopo una attenta visione delle prove, non ritenne opportuno procedere, in quanto gli accertamenti a carico della Sagacica non erano sufficienti. Dopo questo fatto cominciò l’operazione Silver Truck, seguita da Pizzardone, Incognita Rossa e Marchioni; io ero di nuovo alla Radio Mobile e facevo pattuglie con Occhiolino o Cardellino. Un giorno sulla Strada Paullese, Pizzardone, dalla Centrale Operativa chiamò Fiamma, l’elicottero dei Carabinieri, perché era stato trovato un capannone con materiale rubato. C’era anche il maresciallo Galanti di San Giuliano, con l’appuntato Casti, che piantonava la merce rubata; e Pizzardone, con Incognita Rossa asportavano la refurtiva. Illecito era molto contento di Silver Truck, una fonte continua di merce. Io e Cardellino non toccammo neanche uno spillo e neppure il maresciallo Galanti. Quando è andato via Pizzardone, perché trasferitosi all’anticrimine di Milano, io cominciai a respirare, poiché non facevo più intercettazioni telefoniche. Questo mestiere, infatti, mi provocava un’immensa noia; non solo a me, ma anche a Duca e Manna. Il capitano Illecito andava molto d’accordo con Marchioni, poiché lui andava sempre all’IBM dal dottor Maggio che lo riforniva di computer gratis. Anche a me venne proposto di ricevere gratuitamente un computer da tavolo, ma io non accettai, non mi sembrava corretto. Inoltre preferivo usare la macchina da scrivere; ormai io e la mia Olivetti eravamo inseparabili. Una sera il capitano Illecito, che abitava in caserma, con Marchioni Stefano sequestrarono un tir che trasportava computer come da bolla d’accompagnamento; l’autotrasportatore fu mandato in un hotel nei pressi di Peschiera Borromeo ad attendere ordini. Musica Maurizio, anch’egli carabiniere, presente all’operazione, mi ha riferito che Marchioni aveva rubato qualcosa dal camion, il capitano Illecito sosteneva il contrario cioè che Marchioni e Daddeo avevano fatto una bella operazione e così decisero di sequestrare i computer. Per tutta questa vicenda soffrivo, ma la cosa più brutta da sopportare fu la richiesta da parte del capitano Illecito di fare un regolare fermo di indiziato di delitto per arrestare il camionista. A tale affermazione risposi che non accettavo e non volevo essere complice di questo comportamento meschino nei confronti di tutta
l’arma dei carabinieri. Spesso si sente dire in giro che siano tutti disonesti e questo mi ferisce molto perché invece ci sono persone che hanno deciso di mettere a rischio la loro vita per proteggere quella degli altri. Il fermo lo fece Marchioni. Nel periodo in cui ho operato a San Donato ho avuto una relazione amorosa, durata due anni con Lisa Bicchiere; io volevo molto bene a Lisa, che era bellissima bionda, alta 1.75 m come me; Quando la nostra storia è diventata ufficiale io ero già da tempo in confidenza con tutta la famiglia. Col fratello andavo in palestra, vicino a Piazzale Lodi, a Milano. Lisa mi regalò, per la nostra relazione, un anello di fidanzamento, una fedina d’oro e una medaglietta col mio segno zodiacale Cancro. Anch’io le feci diversi regali, anzi le pagai più volte l’assicurazione della macchina, una Ford Fiesta di color verde bottiglia. Nel 1995 siamo partiti insieme da Milano per recarci al matrimonio di mia sorella Maria Grazia a Roma, in quella occasione molto importante per tutta la mia famiglia presentai Lisa, ricevendo i complimenti da amici e parenti. Rosa, la sorella più piccola di Lisa abitava a Vimodrone ed intratteneva una relazione con un chitarrista di un complesso musicale I Panda. Andavamo spesso a Vimodrone a trovare Rosa Bicchiere, perché da poco era diventata mamma di un maschietto, Yari, nato dall’amore con il chitarrista. La sorella Rosa, quando ava del tempo in compagnia di Lisa, non faceva altro che parlare e gettare scredito su di me ed il mio lavoro, perché il loro fratello, Luigi, aveva avuto problemi con la giustizia. Fu arrestato dalla polizia stradale, perché aveva tentato un furto al Motel Agip di San Donato M.se, su una macchina di gran cilindrata. Fu sorpreso insieme con un amico. Lisa mi apparve molto arrabbiata con il fratello. Entrambi gli amici non furono comunque condannati perché si trattava del primo reato. In quel periodo ricoprivo il ruolo di brigadiere. Mi arrabbiai molto con Luigi, ma lui fece – finta di non capire – . Io gli comunicai, a malincuore, che non avrei più potuto sposare la sorella perché lui era diventato un pregiudicato; il regolamento generale dell’arma, che risale al 1814, anno di fondazione dell’arma, dice che un carabiniere non può sposare una donna appartenente a famiglie pregiudicate. Luigi aveva la fidanzata a Crema. Si chiamava Sonia. Io ogni tanto andavo a Crema a pranzare con la sua famiglia. Fui io a comunicarle che Luigi era stato arrestato. Sonia era innamorata del suo fidanzato, quindi lasciò correre l’accaduto e sposò in ogni modo Luigi. La sorella maggiore Licia, – filava – con un trafficante di droga, Pacifico, che era stato arrestato dalla Finanza. Non c’è che dire, una bella famiglia! A compimento di tutto ciò l’8 Marzo del 1995, Festa della Donna, io comprai un mazzetto di mimose presso il fiorista di San
Donato M.se, Lisa però non si presentò all’appuntamento, era andata al posto di lavoro per incontrare un camionista sposato e divorziato e con quattro figli al seguito. Io mi sono un po’ arrabbiato perché era in ritardo all’appuntamento, ma ancora ignaro di dove si fosse recata. Nanni Mica l’aveva incontrata con il camionista alla Postal Market di San Bovio, dove lei lavorava come operaia, ma non me lo riferì subito. Alle mie continue insistenze mi disse tutto. Fu l’inizio della fine. Ho sofferto moltissimo per il tradimento e la rottura con Lisa per la quale, tra l’altro, avevo già dato un anticipo per comprare un appartamento per sposarci. Persi lei e i soldi. Un giorno Marchioni in una casa di San Donato M.se, con il carabiniere Carlo Porcu sequestrò un’ingente somma di denaro, 600 milioni di Lire, che erano stati trovati ad una prostituta marocchina. Carlo Porcu e Marchioni presero tutti quei soldi e li lasciarono al carabiniere Bernini, piantone della Stazione dei Carabinieri di S. Donato M.se. I soldi erano stati nascosti in un sacco della spazzatura. La prostituta si trovava davanti agli uffici; quando giunsi sul posto e vidi tutti quei soldi dissi a Bernini di chiamare Daddeo, perché Marchioni, a dire della marocchina, aveva sottratto 200 milioni di Lire assieme a Carlo Porcu. Quando arrivò Daddeo gli dissi: – Guarda cosa ha combinato il tuo pupillo! – , riferendomi a Marchioni; Daddeo incominciò a contare i soldi davanti alla donna, che diceva che erano i guadagni del suo lavoro: 600 milioni di Lire. Ma Daddeo ne trovò “solo” 400 milioni. Che fine avevano fatto gli altri 200 milioni? Ai sensi dell’art. 708 del Codice Penale, poi abrogato, quando una persona viene trovata in possesso di valori contanti, denaro, gioielli, ecc., questi devono essere sequestrati e portati presso il Tribunale Penale, ma Marchioni e Porcu trattennero dalla somma trovata un’ingente quantità di denaro. Quindi Daddeo avrebbe dovuto sancirli e denunciarli alla procura militare di Milano, facendo loro restituire i soldi; ma i due non ricevettero nessun richiamo né condanna, perché nessuno credeva alle parole della prostituta. Io avrei voluto denunciare i miei colleghi, ma non lo feci, perché pensavo che non mi avrebbe creduto nessuno, anche perché nessuno era convinto delle affermazioni della donna. Io ero molto triste a San Donato M.se, perché vedevo troppe cose che non mi piacevano; un giorno, durante un pattugliamento con Leo e Cambiale lungo la statale Paullese individuammo un distributore di benzina che il proprietario aveva lasciato incustodito e Leo e Cambiale sottrassero prodotti vari e se le portarono a casa: dalle lattine d’olio da motore ai tergicristalli.
Per decisione da parte del comando generale dell’arma dei carabinieri, il capitano Illecito fu trasferito prima all’anticrimine di Milano che ha sede in Via Moscova e poi alla Scuola Carabinieri di Iglesias, in Sardegna. Secondo me i superiori avevano valutato che aveva commesso troppi errori, anche presso l’anticrimine la condotta del capitano era inadeguata. Rimasero Incognita Rossa e Mica, che arono al Nucleo Operativo. In seguito arrivò il Capitano Zozzo Alfonso, che portava al suo seguito diversi appellativi. Ripresi a fare intercettazioni telefoniche presso il Palazzo di Giustizia per seguire il caso della famiglia Perda di Pioltello. Questa famiglia spacciava droga in casa e come copertura aveva una lavanderia. Durante le conversazioni telefoniche avveniva la compravendita di eroina – Mi porti cinque mattonelle, quattro mattonelle... – , dove le mattonelle stavano per l’eroina e i numeri per i grammi. Il capo dell’associazione nonché capo famiglia era Giuseppe Perda. Andavo in motorino, modello Ciao della Piaggio, da San Donato Milanese fino al Palazzo di Giustizia per compiere le intercettazioni. Quando arrivò il Capitano Zozzo mi accorsi che non mi era simpatico e la cosa era reciproca, poiché Daddeo Giuseppe e Incognita Rossa non facevano nient’altro che gettare discredito sul mio modo di lavorare. Però io andavo per la mia strada e lavoravo ricevendo i decreti di intercettazione ai sensi dell’art. 267 C.P. P. Le intercettazioni andarono avanti per 6 mesi, lavoravo col dottor Franco Corretto, che mi rinnovava i decreti di intercettazione ogni quindici giorni; le richieste dei decreti di intercettazione telefoniche le sottoponevo io all’azienda telefonica Sip, ora Telecom. Lavoravo anche con la dottoressa Pradella Grazia, moglie di Getto. Con Getto io mi trovavo molto bene e tutti i giorni andavo nel suo ufficio per mostrargli il risultato delle intercettazioni. Getto aveva molta fiducia nei miei confronti, infatti, dopo i sei mesi di intercettazione, mi diede venticinque decreti di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 285 C.P.P., per associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Per le intercettazioni telefoniche, durante i sei mesi d’indagine, il riconoscimento economico fu di : 400.000 lire, invece gli altri colleghi del nucleo operativo, che svolgevano altre operazioni presero di più. Questo modo diverso di riconoscere il lavoro, nello specifico il mio, mi fece capire come all’interno di un organo preposto alla difesa dei più deboli sia lui stesso discutibile. Alla fine delle intercettazioni feci un rapporto per associazione a delinquere, con la vecchia macchina da scrivere, in quanto il mio ufficio non era ancora dotato di un computer, anche se eravamo già nel 1995. Quindi furono tutti arrestati, condotti in caserma per fare le foto segnaletiche e per rilevare le impronte
digitali e di li poi alla volta di San Vittore. Durante le intercettazioni mangiavo panini al bar adiacente al Palazzo di Giustizia, oppure qualche pezzo di pizza. Questo intervento, come già detto precedentemente, è durato mesi ed è stato per me estenuante, anche perché non sono stato affiancato da nessuno. Mi ha aiutato solo il brigadiere Buio, che lavorava con me alla sala intercettazioni. Al Palazzo di Giustizia lavoravo su dieci telefoni. Il capitano Zozzo mi diede in aiuto il brigadiere Buio, che faceva radiomobile a San Donato M.se.. Iniziai a compilare una serie di verbali di intercettazioni telefoniche e sequestrai 5 g di eroina alla famiglia Perda con l’aiuto dell’appuntato Boezzi ed il carabiniere Carro feci il sequestro sotto la casa dei Perda intercettando due acquirenti di eroina. Ogni tanto per gioco un bambino della casa alzava la cornetta del telefono; a quel punto si sentivano tutte le conversazioni che facevano tra loro. Col frullatore preparavano l’eroina con sostanze tipo lattosio, così la quantità diventava più pesante. Durante l’operazione Perda detta anche Laudry and Drug lavoravo col dottor Leonardo Getto, della Procura del Tribunale di Milano, al quale, durante tutto il periodo delle intercettazioni facevo rapporto giornalmente, nel suo ufficio, stanza 250. Il dottor Leonardo Getto mi voleva bene come ad un fratello, perché condivideva le mie idee durante il lavoro dei Perda e con tutte le famiglie di Pioltello di cui avevamo seguito il caso. Dopo le intercettazioni sono riuscito a fare una comunicazione di notizia di reato ai sensi dell’art. 347 del C.P.P., in seguito ho constatato un’associazione a delinquere ai sensi dell’art. antidroga 309, delle leggi speciali in materia di sostanze stupefacenti e il dottor Getto mi diede 25 ordinanze di custodia cautelare in carcere e quindi, a fine operazione ci recammo presso l’abitazione dei Perda per notificare l’associazione a delinquere al fine di spaccio di sostanze stupefacenti e li conducemmo in carcere, a San Vittore. La mamma dei Perda aveva 600 milioni di Lire nascoste – addosso – , Incognita Rossa scoprì il denaro che venne immediatamente sequestrato. Svolsi quest’operazione tutto da solo. Avevo contro il brigadiere Marchioni e il brigadiere Daddeo; poi a fine operazione si prese tutti i meriti il capitano Zozzo, che sosteneva che tutta l’operazione non fu svolta da me, ma da tutti gli uomini della compagnia di San Donato M.se, soprattutto del Nucleo Operativo. Quindi il capitano Zozzo, dopo il mio lavoro di intercettazioni, non mi volle riconoscere nemmeno un’ora di straordinario.
Questa situazione mi ha fatto molto male, come altri avvenimenti, di cui parlerò più avanti e che mi hanno portato ad un ricovero ospedaliero. Prima di sentirmi male feci delle altre operazioni antidroga con il capitano Zozzo. Mi recavo a Pioltello a prendere gli spacciatori di hashish. Però, quando compievo gli arresti per droga Zozzo Alfonso invece che dare a me i meriti, li dava a tutta la Stazione di Pioltello, insieme al maresciallo Elmo. Ma li facevo io gli arresti a Pioltello! Il capitano Zozzo faceva le segnalazioni al Comando Generale, che era composto dagli uomini di Elmo. Io, al mio amico Aureliano Pasquale, che comandava il Nucleo Comando della Compagnia di San Donato, dicevo che non era giusto, perché ero io a compiere gli arresti non la stazione di Pioltello. Dopo l’operazione antidroga di Pioltello facevo anche operazioni per Segrate, dove c’era il mio amico Savatori Alberto, compagno di corso presso la scuola sottufficiali a Velletri e poi a Firenze. A Milano Oltre, frazione di Segrate, accompagnato da un carabiniere, con un binocolo seguivo i movimenti di un ragazzo che spacciava hashish. Io vedevo ripetutamente che prendeva la droga da un vaso di fiori e poi la spacciava ai suoi amici. Quindi gli feci una perquisizione a casa e trovammo soldi e altri l00 g di hashish. Allora chiamai la dottoressa Pradella Grazia per avvertirla telefonicamente che avevo arrestato lo spacciatore. Portai tutto in caserma ed anche il ragazzo venne condotto per compiere gli atti di rito (verbale di arresto, di perquisizione domiciliare e notizia di reato); poi, con Morre Antonio gli facemmo le foto segnaletiche e prendemmo le sue impronte digitali. Fatto questo lo condussi presso il carcere di San Vittore. Dopo un mese il ragazzo uscì dal carcere e fu condotto a casa a scontare la pena agli arresti domiciliari. Maria Prada, dopo questa operazione si complimentò con me. Lei sapeva che lavoravo con suo marito. Avevano due figli e quando, in mia presenza, facevano i capricci in ufficio, Getto diceva a loro: – Guardate lui, che lavora con me ed è bravo e preparato, se non fate i bravi vi faccio arrestare dal brigadiere Matarangolo e sarà lui a darvi la giusta punizione – . Un giorno, a San Donato M.se, l’appuntato Penna mi portò con lui perché ebbe notizia che in una casa c’era un ragazzo che spacciava hashish. Vi andai trovai la sorella e la mamma e sequestrammo 6 kg di hashish e sei milioni e mezzo di lire in contanti nascosti sotto un tavolo. L’appuntato Penna, brillantemente, aveva fatto un colpo sensazionale e portammo il ragazzo e i suoi famigliari con la droga e i soldi in caserma. Quando giunse Giuseppe Daddeo si arrabbiò un’altra volta con me, ma io questa volta gli risposi per le rime: – Tu che sei il capo del
nucleo operativo, invece di riprendere me perché non fai qualche arresto per droga? – Allora Daddeo uscì dall’ufficio per parlare con il capitano Zozzo, che però non gli diede retta; anzi, mi apprezzava per l’operazione che avevo compiuto. Quando terminò anche l’operazione dei Perda di Pioltello, Daddeo Giuseppe e il capitano Zozzo si videro recapitare venticinque ordinanze di custodia cautelare in carcere; Zozzo mi fece i complimenti, perché sapeva che tutta l’operazione l’avevo condotta e portata a termine io. Però Daddeo e Incognita Rossa, dopo l’operazione fecero gli elogi a tutta la compagnia. L’appuntato Occhiolino era al nucleo operativo di San Donato e fu spostato alla radio mobile per decisione del capitano Zozzo. Una notte accadde un incidente in cui fu coinvolto l’appuntato Occhiolino, travolto da una macchina in corsa, il brigadiere che si trovava al suo fianco diede subito l’allarme e chiamò l’ambulanza; ma Occhiolino era già morto, aveva subito un forte trauma e morì sul colpo. Io ho sofferto molto per la morte di Occhiolino, non è stato facile partecipare al suo funerale in quanto davo l’ultimo saluto ad un collega che era anche un amico. Abitava a Spino D’Adda, in provincia di Cremona, con la moglie e due figli maschi. La comunicazione della morte del mio collega mi arrivò presso il nucleo operativo: io mi trovavo in camera. Stavo dormendo. Aureliano Pasquale, il mio compagno di stanza, mi avvertì che Occhiolino aveva avuto un incidente stradale con conseguenze letali ed io mi recai subito all’obitorio dell’Ospedale di Melegnano con Aureliano. Arrivarono anche Daddeo e Incognita Rossa. Andai a casa di Occhiolino, una villetta nel centro abitato di Spino D’Adda, per stare vicino alla vedova e rivedere per un’ultima volta la casa del mio caro amico e collega carica di ricordi. I figli dormivano. Rimasi lì tutta la notte con un mio collega. La moglie di Occhiolino ci preparò del caffè. Ero molto nervoso e continuavo a fumare, mi ritrovavo in una realtà che non avrei mai voluto vivere anche se tutti eravamo consapevoli del rischio che correvamo ogni volta che uscivamo in pattuglia. La camera ardente fu allestita presso l’abitazione di Occhiolino; la mattina prima del funerale le donne del paese recitarono il santo rosario. Quando ebbero luogo i funerali arrivò il comandante generale dei carabinieri di Roma, e tutte le più alte cariche della regione Lombardia per onorare la Messa in suffragio del povero Occhiolino. Al funerale c’era tantissima gente, tutto il nucleo operativo e radio mobile tranne quelli che dovevano essere in servizio, persino la vecchia prostituta del paese Carla. Tanti colleghi
piangevano. Lo stesso giorno, dopo il funerale, Lisa mi lasciò. È stato un periodo difficile in quanto mi sembrava che il mondo mi stesse crollando addosso, avevo perso un amico oltre che un collega, si era creato un vuoto intorno a me che a fatica sono riuscito a colmare, infatti Occhiolino è sempre nel mio cuore e nei miei pensieri e questo mi aiuta ogni volta ad iniziare una nuova giornata. Dopo questo periodo mi prese una crisi di nervi. Il capitano Zozzo chiamò l’ambulanza di Melegnano: mi tolsero la pistola, la placca da carabiniere (che hanno in uso i nuclei operativi) e mi mandarono all’Ospedale di Melegnano. Fui ricoverato per 15 giorni per esaurimento nervoso; gli infermieri del reparto si domandavano per quale motivo ero stato ricoverato in psichiatria per quindici giorni. Dopo aver perso il controllo delle mie emozioni, mi resi conto che ero stato inadeguato, ma reputai e reputo eccessivo il ricovero e il periodo trascorso in ospedale tant’è che gli infermieri s’interrogavano sul perché di una scelta così pesante. Giornalmente assumevo delle gocce di Serenase, io però non volevo prenderle ma mi costringevano a farlo sotto la minaccia di contenermi con la forza. Ricevetti diverse visite tra le quali il capitano Zozzo, l’appuntato Incognita Rossa, il brigadiere Daddeo e Aureliano Pasquale, durante una loro visita stavo dormendo, Incognita Rossa mi svegliò con un calcio ai piedi dicendomi che voleva parlarmi il capitano Zozzo, a fatica mi svegliai chiedendo al capitano che cosa volesse da me dopo avermi rovinato la vita, ma il capitano non ha saputo darmi una risposta se non ridere di fronte alla mia sventura. Durante la mia degenza all’ospedale di Melegnano mi fecero visita i genitori di Lisa, perché il figlio del fidanzato di Licia, sorella di Lisa era stato ricoverato nello stesso ospedale, quindi la visita non era di cortesia ma di convenienza in quanto dovevano solo salire di un piano; un giorno mi venne a trovare pure Lisa chiamata dal primario del reparto di psichiatria, durante il colloquio Lisa parlava della mia gelosia nei suoi confronti anche quando non stavamo più insieme; Lisa non parlò del suo tradimento ma parlava del fatto che la mia gelosia morbosa era stato il motivo dello scioglimento del nostro fidanzamento, tralasciando un particolare: le corna che mi ha fatto con il camionista del Postal Market. Il medico sosteneva che ero troppo geloso di lei, infatti lei mi lasciò per un altro. Durante il periodo ato in ospedale vennero a trovarmi anche i miei genitori, papà Angelo e mamma Carmela. Dopo un colloquio con il medico mio padre si stupì che io fossi finito in un reparto di psichiatria. Quando vennero i genitori di Lisa a Melegnano mi confermarono che la figlia era scappata a Fondi con il camionista del Postal Market. Lisa, prima di lasciarmi definitivamente, mi venne a trovare un’ultima volta portò una pizza margherita, perché il mangiare
dell’ospedale non era buono; Durante la mia degenza in ospedale arrivò il comandante della stazione di Melegnano, un certo Cani, che voleva parlare con me. Io non risposi, neanche lo salutai. Non avevo voglia di parlare. Gli dissi soltanto che ero stato ospedalizzato per colpa del capitano Zozzo, Incognita Rossa e di Daddeo. Quindi mi lasciò in pace. ai in ospedale Natale e Capodanno. Il 6 gennaio 1996 mi dimisero e nelle dimissioni indicavano un periodo di convalescenza di sei mesi; decisi di are questo tempo a casa con la mia famiglia. A Roma mi sono cercato un nuovo psichiatra, una donna, che veniva con me alla Cecchignola, dove c’era l’ospedale militare di Roma. Lei, a seguito della sua visita approfondita e facendomi fare i test psichiatrici, disse che non ero pazzo, che ero un po’ esaurito e che si sarebbe battuta affinché mi avrebbero ritenuto idoneo. Sempre durante la convalescenza andavo a trovare spesso mia sorella in Viale Marconi e qualche volta, con lei e suo marito uscivo per mangiare una pizza. Con mio cognato Maurizio, giocavo alla play-station, calcio macchine etc. Durante la convalescenza, tornai a Milano per testimoniare riguardo a tutti gli arresti della famiglia Perda mi trovai davanti tutta la famiglia che mi guardava con odio, perché sapevano che l’operazione era stata compiuta solo da me. Il giorno in cui testimoniai ai prima dall’ufficio del dottor Getto e gli raccontai tutta la vicenda riguardante la mia crisi. Il dottor Leonardo Getto e la moglie Maria Prada non ci credevano e dicevano: – Hanno rovinato un bravo ufficiale di polizia giudiziaria. – Non credevano a ciò che udivano le loro orecchie, erano molto dispiaciuti del fatto che mi avessero momentaneamente sospeso dal servizio. Il dottor Getto aggiunse che Giuseppe Daddeo non l’aveva molto convinto come carabiniere. Ho sempre apprezzato il modo corretto del magistrato Getto in quanto era contenuto nel dare giudizi di merito. Finita la testimonianza e dopo la visita a Getto tornai a casa; fu una giornata molto intensa e resa ancora più pesante dal fatto che tutto gravava sulle mie finanze. Durante la convalescenza andai a votare a San Donato M.se. Era il periodo delle elezioni del 1996. Andai in caserma, dove incontrai il maresciallo Giordano, Incognita Rossa, Daddeo, il capitano Zozzo e Aureliano Pasquale, quando entrai li vidi erano a pranzo; in quell’occasione chiesi se c’erano ancora il mio computer ed il cellulare, la risposta fu molto vaga, nessuno rispose alla mia
domanda e tergiversavano sul fatto che io non li avevo portati in caserma. Terminati i sei mesi di convalescenza mi dichiararono idoneo all’Ospedale Militare di Roma per il servizio militare. Ritornai a San Donato per riprendermi la pistola: non c’era più il capitano Zozzo. Io presi la mia valigetta con tutte le mie cose e mi accorsi che mi avevano rubato il giubbetto con scritto Carabinieri, che usano i nuclei operativi, il telefono cellulare e il computer portatile insieme alla stampante. Durante i sei mesi di convalescenza ho telefonato a Lisa per incontrala. Ci siamo visti alla stazione ferroviaria Roma Termini per bere un caffè, poi ci siamo salutati con un bacio volante; nonostante il suo comportamento io non riuscivo a dimenticarla.
La caserma Montebello
Nel 1996 mi dichiararono idoneo per riprendere servizio nell’arma dei carabinieri, la mia destinazione fu la caserma Montebello, in Via Giulio Monti, n °58 a Milano. È difficile descrivere la gioia che provai quando, l’ospedale militare di Roma mi dichiarò idoneo per il servizio permanente nell’Arma dei Carabinieri. Non è stato facile rendermi conto di quanto la mia fiducia riposta nelle istituzioni sia stata la causa del motivo dell’allontanamento dall’arma. L’inizio del mio rientro al lavoro fu reso più incoraggiante dall’encomio del dottor Mariotti arrivato al nucleo comando della caserma Montebello. I sostituti Procuratori dottor Marco Marga e dottor Leonardo Getto mi hanno segnalato, con la relazione 09.06.96 di cui allego copia: i significativi meriti professionali del Maresciallo Matarangolo sco, constatati nell’ambito di due distinte indagini concernenti traffico di sostanze stupefacenti nelle zone di Pioltello, di San Giuliano e di San Donato Milanese. Sono lieto di farmi portatore di tale elogio, e desidero unire alle parole dei Sostituti Procuratori l’espressione del mio personale vivissimo compiacimento per l’impegno, la sagacia e l’efficienza del predetto Ufficiale di Polizia Giudiziaria, al quale mi auguro possa giungere un segno di apprezzamento e di riconoscenza per la validissima collaborazione prestata al mio Ufficio. IL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA - sco Saverio Mariotti All’interno della caserma c’era una sezione che si occupava d’antinfortunistica stradale dei mezzi militari, rilevava gli incidenti in cui erano coinvolte veicoli delle autorità; tale sezione era nominata La Faina. Non ero soddisfatto della nuova sistemazione, neppure del compito che mi era stato dato, ma ero in ogni modo contento di essere ritornato in servizio. Ero alle dipendenze del maresciallo Nasi, la cui particolarità era un tic nervoso, muoveva sempre la testa a scatti, del tenente Guerra, figlio del generale Guerra e del tenente Tappi. Durante il mio servizio presso la Faina svolgevo pattuglie in borghese come tutti
gli altri, in parco Sempione, dove c’erano extracomunitari che spacciavano hashish. Mi occupavo anche di diverse tipologie di casi: rilevazione incidenti militari, antiprostituzione, antidroga. Durante lo svolgimento di un turno di notte, un blindato dei carabinieri che pattugliava il Tribunale di Milano in via Friguglia, andò contro alcune macchine parcheggiate, danneggiandole in maniera grave, il carabiniere alla guida, un ausiliario del battaglione 3° Lombardia, si giustificò dicendo di aver avuto un colpo di sonno. Dopo che furono fatti i rilievi delle automobili coinvolte nell’incidente, insieme al carabiniere Soldatini Luca ammo ai rilievi planimetrici; andai in caserma negli uffici della Faina e stesi il rapporto dell’incidente con i rilevamenti effettuati. Anche alla Faina utilizzavo la macchina da scrivere in quanto la caserma non era dotata di un personal computer; finito il lavoro tornai in camera a dormire. Nella mia camera dormivano il carabiniere Freddo Giuseppe e l’appuntato Porada Maurizio. Loro erano sull’autoradio, ma non operavano presso la Faina. Tutti i carabinieri della Faina dormivano nelle palazzine nuove della caserma Montebello, dove era stato aperto un nuovo spaccio per comprare le sigarette e prendere il caffè. Porada Maurizio era separato dalla moglie e quindi tornò a dormire nella camera che occupavo io. Anzi, gli prestai l’alcool denaturato per disinfettare l’armadietto che gli era stato assegnato. Lui mi ringraziò. La moglie Mara si era ricostruita una vita con un altro uomo e dalla loro relazione era nato un bambino, Porada non accettava di buon grado la nuova famiglia che l’ex moglie si era creata, spesso mi confidava che non riusciva a placare la rabbia, penso che l’amasse ancora e non riuscisse ad accettare la realtà; mi sentivo molto vicino a Maurizio perché rivivevo la mia storia con Lisa e ascoltando il mio collega mi rendevo conto che il non aver realizzato una famiglia con lei era stata una grande fortuna, nelle parole e negli occhi di Maurizio si vedeva la preoccupazione anche per la figlia, Giulia, che vedeva molto poco. Alla Faina, oltre a rilevare incidenti stradali, chi faceva il turno di notte aveva il compito di fare il giro dei giornali per portare i quotidiani, qualiIl Corriere della Sera, Il Giorno ed Il Sole 24 ore etc, in Centrale Operativa a Milano; si faceva anche il giro della divisione Pastrengo di Milano per portare al Generale i giornali. Lo facevamo col furgone che era stato dato in dotazione alla Faina, all’interno del quale erano collocati una macchina da scrivere con tavolino, le rotelle metriche per rilevare gli incidenti ed una macchina fotografica che scattava solo foto in bianco e nero: portavamo i rullini da sviluppare all’appuntato Sazza che alla caserma Montebello aveva la camera oscura per sviluppare le foto degli incidenti, inoltre, faceva anche le foto ai carabinieri per rinnovare il tesserino quando si cambiavano i gradi.
Quando c’era lo sciopero dei giornalisti dovevamo stendere una relazione motivando il perché non venivano consegnati i giornali. Ogni settimana andavo all’Ufficio Casermaggio per prendere lenzuola, cuscini e coperte. Col maresciallo Mario Bagasseri e con il maresciallo Povero cominciai a fare pattuglie in borghese a piazzale Lotto. Ricordo che c’era una prostituta di origine albanese che veniva picchiata dal suo protettore. Io mi accorsi che aveva entrambi gli occhi pesti per i pugni che prendeva. Io, Povero e Bagasseri facemmo un servizio fotografico. Il maresciallo Calippo, con le sue pattuglie interferiva sull’indagine che stavamo conducendo ed anche la squadra volante della polizia di stato di Milano controllando per quattro notti il nostro lavoro; spesso ci interrompevano chiedendoci i documenti e dovevamo presentare i nostri tesserini per farci riconoscere. Facendo le foto, vedevo il protettore che prendeva i guadagni della donna. Dopo quattro notti abbiamo arrestato il protettore albanese per sfruttamento della prostituzione, ai sensi dell’art. 20 del Febbraio 1958, detta Legge Merlin, che punisce i favoreggiatori e gli sfruttatori delle prostitute. Il comandante del nucleo radio mobile di Milano mi fece i complimenti: io, Povero e Bagasseri fummo chiamati presso il nucleo operativo di Milano, in Via Moscova, per ricevere di persona i complimenti dal comandante del nucleo operativo. La notizia di reato fu trasmessa al Tribunale di Milano al giudice Urra, che si occupava di reati sessuali e sfruttamento della prostituzione. Urra era l’unico giudice che si occupava di questi casi a Milano. Durante il commiato disse: – Avete fatto il primo servizio sulla prostituzione a Milano, portato a termine in maniera professionale e attenta, questa operazione non è mai stata compiuta nel migliore dei modi – . Il tenente colonnello Marrone, dopo l’operazione, disse, accarezzandosi baffi: – Maresciallo, quanto onore per un lavoretto del cazzo – . Questo però non gli impedì di prendere tutti i verbali che avevamo compilato per la notizia di reato e il verbale d’arresto per l’uomo e di darli alla stampa, per precisione al quotidiano Il Giorno di Milano. Questo non si può fare perché gli atti non possono essere divulgati; per cui Marrone fece un illecito penale. Tutti quelli della radio mobile, soprattutto il maresciallo Nasi, erano invidiosi di me, perché loro non hanno mai compiuto arresti; però si rendevano conto che ero in gamba. I primi sei mesi dopo la convalescenza li ai alla sezione antinfortunistica e poi mi riconfermarono nella sezione Faina per altri sei mesi (1997).
Durante una delle tante operazione svolte all’interno della Faina ci furono dei fermati, quattro uomini di origine albanese, per ricettazione, che dovevano essere trasferiti al carcere di San Vittore; il trasferimento doveva essere a carico del nucleo radio mobile che si occupava del pattugliamento. La richiesta di trasporto fu fatta però agli uomini della Faina. La richiesta di traduzione di carcere ci fu fatta da un appuntato della squadra del maresciallo Calippo. Io mi opposi, perché da regolamento, i fermati devono essere trasferiti dagli uomini della caserma Montebello. Calippo si permise di violare queste regole d’ingaggio che oltre tutto mettevano a rischio i carabinieri addetti al trasferimento in carcere. L’atteggiamento di Calippo era arrogante e superficiale, in quanto, non si preoccupava dell’incolumità dei militari e dei cittadini. Il tenente Guerra mi disse: – Fammi un favore porta a San Vittore i fermati per ricettazione, di Calippo – . Feci presente al mio superiore che la richiesta non era legittima ed ero molto contrariato nel metterla in atto, ma non ero nella posizione di potermi rifiutare. Io risposi che per portare quattro uomini a San Vittore ci volevano otto carabinieri, due per fermato, come da regolamento. Il maresciallo Calippo non mi affiancò il numero di uomini previsti per il trasporto dei fermati secondo le norme di sicurezza e se fossero fuggiti durante il tragitto dalla Montebello a San Vittore avrei dovuto presentare il mio congedo dall’arma, in quanto in quel momento ricoprivo il ruolo di custode, è così denominata la funzione di trasporto di detenuti: si hanno novanta giorni di tempo per trovare i fuggitivi in caso contrario avviene il congedo dall’arma. Non solo, si paga una pena con la detenzione di sei mesi nel carcere militare di Capua a Vetere in provincia di Caserta. Dato che il tenente Guerra insistette li portammo tutti e quattro io e il carabiniere Soldatini Luca: mi feci prestare la macchina dal maresciallo Calippo, dicendogli: – Prendo la tua macchina per andare a San Vittore –, lui mi rispose di no intimandomi a prendere il furgone. Io dissi che con il furgone non avrei portato nessuno, presi una delle tante macchine della squadra del maresciallo Servo e portai i quattro a San Vittore. Un giorno il carabiniere Cristiano Malu picchiò negli uffici della sala equipaggi un uomo di nazionalità albanese, perché secondo lui lo guardava in una maniera che al mio collega dava fastidio; io quindi presi le difese dell’uomo, salvandolo dalle grinfie di Malu: presi quest’ultimo alle spalle e lo trascinai fuori dell’ufficio della squadra equipaggi del nucleo radio mobile. Malu mi disse: – Ma difendi gli albanesi? –. Io risposi: – Non sei un giustiziere, ma un carabiniere –, Malu andò da Marrone a lamentarsi del mio operato ma Marrone non diede peso alle sue parole.
Una ragazza di origine calabrese fece una fuga d’amore con il suo fidanzato, che era un istruttore di guida in un’agenzia di Porta Romana, si rifugiarono dalla nonna di lui in zona Lorenteggio. Malu e Agrippa li rintracciarono portandoli in caserma contro la loro volontà. I due volevano denunciare il ragazzo per sequestro di persona, ma la legge non lo consente. Malu fece violenza fisica sulla ragazza per costringerla a fare la denuncia di sequestro, il tenente Tappi presente a tale scena non intervenne minimamente sull’accaduto, a dire il vero sembrava quasi compiaciuto dal comportamento dell’appuntato. Io che non riuscivo a reggere le prepotenze, presi le difese della donna dicendo: – cosa fai? Ti metti a tirare i capelli alle ragazze? – E lui in risposta disse: – ma sei sempre in mezzo tu!? – Te la prendi sempre con i più deboli, chi ti credi di essere un giustiziere? – Gli risposi. Malu Cristiano non fu punito per il suo comportamento dal tenente colonnello Marrone. Quest’ultimo, che dirigeva tutto il nucleo radio mobile di Milano impartiva a tutti noi l’ordine di recarci al Parco Sempione perché c’erano diversi extracomunitari che spacciavano hashish: andavamo a piedi ed in borghese, perché il parco si trovava in prossimità della caserma Montebello; quindi, qualche volta io ed i miei colleghi di altre squadre, fermavamo gli acquirenti e gli spacciatori che avevano con sé qualche grammo di hashish. Però io non li arrestavo perché per quantitativi, di uno o due grammi di hashish non sono previsti sanzioni poiché può considerarsi ad uso personale, perciò denunciavo a piede libero e segnalavo all’Ufficio Droga della Prefettura di Milano le persone; non era compito del nucleo radio mobile fare arresti per droga, ma il colonnello Marrone li faceva are come servizi antirapina, per dimostrare che il lavoro dei suoi uomini era sempre attivo. Parlai con il tenente colonnello Marrone informandolo della mia volontà di cambiare sezione e con l’approvazione anche del maresciallo Servo fui trasferito presso la squadra di quest’ultimo. Fui affiancato dal carabiniere sco De Salvo, un ragazzo in gamba. Con lui e con il comandante di squadra maresciallo Servo mi trovai molto bene poiché si era reso conto che in materia di diritto Penale e di Procedura Penale ero preparato e per sei mesi rimasi sotto le sue direttive. Feci amicizia con il brigadiere Angelo Virtù, anche lui della squadra. Mi piaceva come lavorava ed anche lui apprezzava la mia professionalità. Nel tempo libero con Servo, Cano e il brigadiere capo Lo Caro si giocava spesso a – stoppa – , un gioco di carte d’azzardo meridionale, puntando solo qualche lire; quando giocavamo a stoppa negli uffici, Argiolas giocava al computer (giochi di guerra). Ogni mattina offrivo il caffè al bar a sco De Salvo, diventato poi
maresciallo nel 2004. Con sco facevo pattuglie e trovavo sempre macchine rubate e se il colpevole era a bordo si procedeva con la denuncia a piede libero. Invece la squadra del maresciallo Calippo faceva sempre per le macchine rubate fermi di indiziati di delitto, arrestando e portando a San Vittore i malviventi. Art 648 C.P. Ricettazione. Un giorno il tenente Guerra con il carabiniere Malu e il carabiniere Agrippa fecero un’operazione antidroga fallimentare a p.le Vetra, dove c’erano spacciatori di hashish. Spararono alcuni colpi di pistola in aria per spaventarli ed arrestarli, ma gli spacciatori scapparono per le vie limitrofe. Il tenente Guerra, però, fece partire un colpo verso una finestra di un palazzo . Fortunatamente non ci furono feriti, ma solo vetri rotti, così facendo fece un illecito detto uso improprio di armi da fuoco in luogo pubblico. Un giorno, quando ero ancora alla squadra, nucleo radio mobile, di Servo, c’era un carabiniere che si chiamava Luca Argiolas, faceva pattuglia col brigadiere Piccolo: si recavano in Via Novara, dove c’erano le prostitute. Un giorno Piccolo prese una prostituta di origine colombiana e la portò in caserma. Le sequestrò il aporto, senza un reale motivo, lo fece solo per fare un dispetto alla donna, iniziando a picchiarla selvaggiamente dandogli pugni e schiaffi. Argiolas si lamentava con Servo, perché Piccolo lo costringeva ad andare alle 6.00 di mattina in Via Novara, a vedere le prostitute e quindi assegnò Argiolas a me. Piccolo abitava a Milano in casa della convivente, la quale ripetutamente chiamava la Polizia, perché più volte era picchiata dal suo compagno. Nessuno, a parte la convivente, denunciò i pestaggi del brigadiere. Le denunce non servirono a niente e l’unica soluzione fu di lasciare il compagno. Piccolo faceva abuso di alcolici, sia nel privato che durante il lavoro, perdendo spesso il controllo delle proprie azioni, picchiando i fermi indistintamente dal sesso. Piccolo, fu congedato dall’arma dei carabinieri per abuso incondizionato di alcolici durante il servizio. Un giorno, sempre con la squadra di Servo, facemmo un servizio per gli alberghetti in P.zza Aspromonte, a Milano, perché secondo Marrone c’erano albanesi con armi; però anziché trovare armi trovammo le solite prostitute. Quindi la notizia di Marrone non era veritiera, facendo una brutta figura davanti
a tutti noi. Una sera, con tutta la squadra di Servo e con le altre squadre comandate dai marescialli Pani e Carboni, facemmo irruzione a P.zza Vetra dove erano presenti gruppi di marocchini che spacciavano. Eseguimmo un rastrellamento, compiuto con atteggiamento fascista, non condiviso da parte mia. C’era anche l’appuntato Brunendo Pio, che guidava l’autobus dell’arma; noi radunammo tutti i marocchini e gli italiani che acquistavano droga. Questo sequestro fu trasmesso dalla televisione regionale, attraverso le telecamere di Rai Tre. In questo frangente l’autista del colonnello Marrone prese due italiani che stavano semplicemente bevendo una birra su una panchina e mi chiese di dargli le mie manette per far vedere l’arresto in diretta, con lo scopo di apparire in televisione; risposi che i due non avevano fatto niente, ma lui mi replicò che gli arrestava per resistenza a pubblico ufficiale. Io risposi: – fai tu adesso gli atti per i due italiani –, andò subito dal colonnello Marrone, che mi riprese motivando che la squadra doveva fare i numeri. Io risposi: – io i numeri li faccio quando si tratta di droga, non perché lo dice il suo autista –. Quando portavano in caserma i fermati di P.zza Vetra, dopo averli fatti scendere dal pullman, tutti extracomunitari, li portavamo nello – scannatoio – per prendere le impronte digitali; a volte capitava che se tra gli arrestati c’erano persone di nazionalità marocchina e/o tunisina venivano picchiati. C’era anche il tenente Marchioni che stava a S.Donato Milanese con il grado di brigadiere: dirigeva i carabinieri per prendere le impronte digitali. In seguito al superamento di un concorso interno il brigadiere Marchioni diventò tenente e fu assegnato alla compagnia di Porta Magenta vicino alla caserma Montebello. Gli extracomunitari che dovevano essere arrestati venivano portati presso la caserma di Via Moscova, dove c’è il comando regionale dei carabinieri; poi rientrati in caserma si stendevano i verbali di arresto. Tutti i fermati mi chiesero: – Ma che abbiamo fatto noi? Non ci avete trovato né hashish, né droga... – . Io risposi che essendo extracomunitari i carabinieri doveva accertarsi della loro identità e del permesso di soggiorno, mi spiaceva se venivano picchiati senza motivo; spesso capitava che l’ordine di picchiare arrivasse da un diretto superiore, io cercavo sempre di evitare la collusione e spesso venivo ripreso solo verbalmente in quanto i miei superiori sapevano di commettere degli illeciti. La legge che regola il permesso agli extracomunitari in Italia ha subito negli anni diverse modifiche; nel 1994, non era reato essere privo del permesso di soggiorno quindi la domanda fattami allora era lecita io non potevo arrestarli perché privi di
permesso. Un giorno, al Parco Sempione c’era il collega e amico sco De Salvo: prendemmo due ragazzi che acquistavano da un marocchino un grammo di hashish. Li accompagnammo a piedi in caserma. Io non li arrestai perché per una tale quantità non è previsto l’arresto ma la denuncia a piede libero, con segnalazione all’Ufficio Droga della Prefettura di Milano. I miei colleghi delle altre squadre invece, li arrestavano: provocavano l’acquisto chiedendo ai marocchini se avevano – il fumo – , loro glielo davano e nello stesso momento venivano arrestati. Questo è un illecito, in quanto non si può far provocare l’arresto, in quanto la Legge Antidroga dice che: solo per grandi quantitativi si può compiere l’arresto e solo gli organi preposti per l’antidroga, quali Polizia, corpo speciale dei Carabinieri e Guardia di Finanza potevano provocare gli arresti in tal modo, invece loro commettevano così un illecito penale ed omissione di atti d’ufficio. Tutti questi arresti provocati a piazza Vetra e al Parco Sempione erano azioni illegali, i componenti della squadre del maresciallo Pani e del maresciallo Carboni, costringevano gli uomini sotto di loro a commettere tali illeciti. Talvolta le squadre di Pani e di Carboni prendevano ciò che i marocchini gettavano sotto le panchine come movente per arrestarli: questo non si può fare sempre secondo la Legge Antidroga, la quale afferma che l’arresto è consentito solo in fragranza di reato e non come descritto prima. Un giorno arrivò un nuovo tenente alla radio mobile che si chiamava Gini Pasquale. Lo conoscevo già perché aveva frequentato con me la scuola sottufficiali a Velletri e a Firenze; aveva modi di fare gentili ed educati, molto rari nel comportamento maschile, con tutti gli uomini della squadra. Gini andava molto d’accordo con Malu ed Agrippa. Il carabiniere Giancarlo Botte, della squadra di Servo, si sposò con una vigilessa di Rho, li conosciuta dato che vi aveva svolto il servizio prima di essere trasferito a Milano. Si sposò in uniforme di gala con il grado di vicebrigadiere e la fiamma sul cappello era argentata. Giancarlo Botte non poteva sposarsi con la divisa di gala, essendo un carabiniere semplice, era vietato, poteva sposarsi con la grand’uniforme come tutti i carabinieri semplici. Giancarlo Botte era figlio di un industriale del Veneto e secondo me faceva il carabiniere per hobby. Al suo matrimonio invitò Servo con l’autista, mentre fece con tutta la squadra l’addio al celibato in un ristorante di Nerviano.
Un giorno accadde che al Parco Sempione una donna diceva di essere stata violentata da un uomo di nazionalità marocchina; io e Servo la portammo, insieme da Argiolas Luca, alla clinica Mangiagalli di Milano, per farla visitare dal ginecologo. Io non ci credevo. In effetti, la donna non era stata violentata dal marocchino: lei aveva già denunciato per violenza carnale il dottore presso il quale era in cura. Prendemmo informazioni dalla Stazione dei Carabinieri di Magenta, che dicevano che si trattava di una – eccentrica – che denunciava per violenza carnale tutti gli uomini che le venivano a tiro. Quindi, dopo la visita ginecologica non fu riscontrata violenza carnale. La signora venne denunciata per procurato allarme.
Mio padre
Era il 1997. Mentre facevo pattuglia con il carabiniere Frau arrivò, da parte di mia sorella, una telefonata al cellulare dove mi comunicava il ricovero d’urgenza di nostro padre Angelo presso l’ospedale San Giovanni di Roma. Partii di corsa con il treno dalla stazione centrale di Milano. Durante il viaggio pensavo che non era una cosa grave visto che mio padre da tanti anni soffriva di diabete e che teneva sotto controllo con le pillole. Forse mia sorella si era talmente spaventata d’aver esagerato nel definire le condizioni di nostro padre gravi. Quando arrivai all’ospedale San Giovanni di Roma, direttamente dalla stazione senza are da casa, nel vedere i miei genitori insieme la loro immagine mi commosse, mia madre era molto preoccupata nel vedere il compagno di una vita soffrire. Lasciammo l’ospedale intorno alle 19.00, dirigendoci verso la fermata della pullman linea 93 per rientrare a casa. Durante il tragitto rivedevo i luoghi dell’infanzia con un po’ di nostalgia e pensavo a quante gite avevamo fatto con la mia famiglia con la Fiat 1100, girando per Roma e nei dintorni e nello stesso tempo vedevo Roma al crepuscolo. Dopo venti minuti di tragitto entrai in via Stazione Di Torricola n°3l e quando aprii la porta sentii l’odore di casa mia. Mia madre era stravolta da tutto ciò che era accaduto, decisi di portarla fuori a cena, una pizza e poi subito a letto; faticavo a prendere sonno, nella testa si raccoglievano mille pensieri ed emozioni contrastanti, da una parte la preoccupazione per mio padre e il pensiero di mia madre nel vederla soffrire, dall’altra i ricordi dell’infanzia. Dopo due giorni, nel cuore della notte arrivò una telefonata dall’ospedale avvisandoci che le condizioni di salute di mio padre erano peggiorate. Vennero i parenti di mio padre che abitano a Foggia; anche loro ferrovieri, adesso tutti in pensione. Venne anche Chiara una mia cugina infermiera professionale presso l’ospedale di Foggia. Al capezzale di mio padre le domandai: – Mio padre è grave secondo te Chiara? – . Lei non disse nulla, ma in cuor mio capii che era stato fatto tutto il possibile, i dottori mi comunicarono che aveva avuto una crisi cardiaca molto seria. Mio padre morì nel Giugno del 1997. Comunicai al mio superiore l’avvenuto decesso di mio padre e richiesi il
permesso che spetta agli impiegati statali per gravi situazione familiari, otto giorni. La squadra di Servo mi fece recapitare una corona d’alloro con i colori dell’Arma rosso e blu per il funerale di mio padre; furono i miei due colleghi nonché amici ad occuparsi della raccolta dei soldi, sco De Salvo e Angelo Virtù. Io organizzai il funerale di mio padre. Feci mettere una sua foto che lo ritraeva mentre accompagnava mia sorella all’altare. Ricordando la sua devozione a sant’Antonio feci realizzare una statua del santo di Padova sulla lapide. La sepoltura di mio padre avvenne presso il cimitero Prima Porta. A mio padre avevo fatto presente di star bene nella squadra di Servo, perché foggiano come lui, sapevo quanto ci teneva alla sua terra e quanto era orgoglioso di essere pugliese. Dopo otto giorni di congedo per motivi familiari tornai a Milano dove ripresi a fare pattuglia nella squadra di Servo. Come già detto andavo molto d’accordo con il comandante Servo, mi faceva accedere al suo computer per compilare gli atti di polizia giudiziaria, arresti, notizie di reato ai sensi dell’art. 347 c.p.p.. Servo mi portava spesso da Marrone per fare elogio di quanto ero bravo a lavorare. Marrone era invidioso del mio lavoro, perché risultavo essere più bravo degli altri, soprattutto di Malu e Agrippa, perché quando prendevano la macchina di servizio facevano solo danni, nel senso che, non avendo cultura giuridica, erano capaci solo di picchiare gli arrestati. Li picchiavano in caserma e poi, a volte, neanche li arrestavano, poiché non sapevano stilare gli atti di polizia giudiziaria. Li aiutava, nella squadra di Parenti, l’appuntato Penna, diventato in seguito vicebrigadiere. Poco dopo però Giancarlo Botte fece la spia, disse a Marrone che mi rifiutavo di arrestare gli spacciatori con meno di 2 grammi, cosi mi rimandarono alla Faina. Ripresi con Mario Bagasseri e Povero a fare servizi antiprostituzione negli alberghi di piazza Aspromonte e limitrofi. La tecnica era che io controllavo a vista i movimenti delle prostitute e dei loro clienti, poi facevamo irruzione negli alberghetti. La squadra rilievi fotografava i preservativi utilizzati cosi che riuscivamo ad arrestare i padroni degli alberghi interessati per favoreggiamento della prostituzione. Rimasi nella Faina per due mesi, quando chiesi di tornare nella squadra di Servo, mi venne risposto da Marrone che dovevo rimanere in Faina per i miei troppi errori e che doveva servirmi da purgatorio! Il tenente Guerra giocava al computer a Fifa 98 un gioco di calcio, anziché preoccuparsi dell’andamento della Faina da lui comandata. Un giorno entrai senza bussare, convinto, ed ebbi
la conferma, che le ore lavorative le ava giocando al computer e pensai, tra me e me: – Invece di lavorare e di dirigere la Faina, si mette a giocare – . Quindi gli dissi: – Gioca a Fifa 98? –, lui rispose: – si bel gioco –, ripresi io: – A casa mia avevo la Play Station per giocarci – . Poi il tenente Guerra fu trasferito presso una Compagnia in Piemonte, perché era Ufficiale d’Accademia e quindi soggetto a trasferimenti. A comandare la Faina al suo posto arrivò un altro tenente. Un giorno, nella via dove ha sede il N.A.S. il Nucleo Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma dei Carabinieri c’era un alberghetto frequentato da prostitute e dai loro clienti. Io, Soldatini Luca, Mario Bagasseri ed il maresciallo Povero facemmo irruzione. Sfondammo le porte, sfollammo i locali e poi arrestammo il proprietario ed il protettore delle donne. Quindi chiamammo la Squadra Rilievi del Nucleo Operativo di Milano per fare le fotografie ai cestini pieni di preservativi. Al Nucleo Antisofisticazioni di Milano operava il mio amico Aureliano Pasquale, che con me aveva prestato servizio a San Donato Milanese. Dopo quell’incontro riprendemmo a frequentarci più spesso. Lui abitava a San Giuliano M.se, in un appartamento di sua proprietà. Andavamo in pizzeria e qualche volta al ristorante; partecipammo anche a qualche iniziativa della città di Milano, tra cui la Festa dell’Unità, presso l’allora Palavobis. Quando stavo ancora nella squadra di Servo, accadde che Nanni Mica, del Nucleo Operativo di San Donato M.se, venne colpito alla pancia da una pallottola mentre stava facendo un appiattamento, che nel gergo militare significa appostamento. Io e sco De Salvo ci recammo sul posto, dove trovammo Mica ferito. Un maresciallo del Nucleo Operativo di San Donato mi chiese: – Ma tu sei Matarangolo? –; io risposi: – Perché, ti hanno parlato male di me a San Donato M.se?. – No, anzi... – , mi disse, – Sei stato un buon brigadiere a San Donato M.se; hanno parlato tutti bene di te, a parte Daddeo e Incognita Rossa –. Portarono Mica in ospedale con l’ambulanza. Io ripresi normale servizio di pattuglia perché il fatto era accaduto vicino Corso Buenos Aires. Dopo quest’episodio capitò che un giorno il maresciallo della Stazione Gratosoglio fece intervenire la radio mobile di Milano per fare perquisizioni nella sua giurisdizione, perché un anonimo aveva scritto che una famiglia spacciava droga. Prima di iniziare l’operazione andammo in un bar a bere il caffè. Non pagò lui. Quando compimmo l’operazione io comandavo la squadra. Non trovammo neanche l’ombra di stupefacenti e quindi andammo dal maresciallo di Gratosoglio, un sardo, e riferimmo che non avevamo trovato
nulla. Lui ci ringraziò. Noi facemmo tutti gli atti di rito, verbale di perquisizione e notizia di reato ai sensi dell’art. 347 C.P.P., e trasmettemmo tutti i verbali alla magistratura del tribunale di Milano, con esito negativo. Marrone mi convocò per conoscere l’esito della perquisizione e io gli comunicai che non avevamo trovato stupefacenti. Un giorno, alla festa dell’Arma che si teneva presso la Caserma Montebello, vidi la moglie di Occhiolino. In quell’occasione ricevette la medaglia d’oro al valore dopo la morte del marito. Parlai con lei e le domandai come stavano i loro bambini. Lei mi rispose che stavano bene. La moglie di Occhiolino lavorava al comune di Spino d’Adda, dove abitavano. Io e il mio amico Virtù siamo andati a trovare la tomba di Occhiolino, che riposava nello stesso cimitero dove era sepolto il padre della moglie sempre a Spino d’Adda. Per Occhiolino fu fatta una tomba con la fiamma dell’Arma dei Carabinieri. Siamo andati a Crema e in quel giorno il Milan vinse lo scudetto e quindi c’erano tante macchine con le bandiere rosso/nere, che facevano caroselli per la città. Poi andammo a fare una visita a Luigi Bicchiere, fratello di Lisa, la prima fidanzata che ho avuto; gli chiesi dove fosse la sorella e mi disse che Lisa abitava vicino a Latina e che stava insieme al camionista con il quale mi aveva tradito. Luigi mi disse, inoltre, che la sorella era una stupida, perché lasciava un brigadiere dei carabinieri per un camionista. Sulle capacità di giudizio di Lisa, il fratello non aveva tutti i torti, ma l’amore come dice il proverbio è cieco. Luigi Bicchiere faceva anche lui il camionista, mentre la moglie era operaia in una ditta di Crema. Io e Angelo Virtù andavamo spesso a fare giri a Crema e a Cremona, soprattutto dove c’è un bar che faceva cocktail molto buoni: a me piaceva in particolar modo il Margarita ; invece Angelo prendeva sempre la birra. Un giorno andammo al ristorante vicino San Bovio, frazione di Peschiera Borromeo, dove abitavano anche Mia Martini e Bruno Lauzi. Mangiammo risotto alla pescatora e calamari fritti. Prima di andare a mangiare a Peschiera Borromeo, andammo in Via Libertà, a San Donato M.se, per bere un aperitivo: la titolare del bar, la signora Troja, ci offrì gli aperitivi, poiché mi conosceva molto bene; infatti quando operavo presso la Radio Mobile di San Donato facevo sempre colazione nel suo bar. Alla fine della cena rientrammo in caserma. Il gestore del ristorante ci disse che un carabiniere di San Donato M.se, che aveva organizzato il banchetto nuziale presso di lui, non aveva pagato niente: era Marrone. Il ristoratore diceva che era un – pastore sardo – perché non aveva pagato niente, gli aveva fatto cucinare anche il porceddu .
Una sera, alla discoteca di Milano che si chiamava Killer Plastico, Marrone fece irruzione con gli uomini della Squadra di Carboni e di Pani: cercavano sostanze stupefacenti; io mi limitai a prendere i nomi degli avventori con Mario Bagasseri. Dopo aver svolto questa operazione, risultò che non venne trovato neanche un grammo di stupefacenti e quindi non arrestammo nessuno. Io e Bagasseri trascrivemmo sull’ allegato A tutti i nominativi delle persone. Per l’occasione c’era anche una macchina di Rai Tre, che avrebbe dovuto riprendere gli eventuali arresti. Un telecronista di Rai Tre, quando io uscii dalla discoteca, disse: – Perché non provocate una rissa, così arrestate qualche persona? – , io risposi: – Non ci penso neanche per sogno, perché le botte le prendo io –. Un’altra volta facemmo un’irruzione in una discoteca dei Navigli, di cui non ricordo il nome. Veniva suonata musica latino americana. Il tenente Tappi fece irruzione col tenente colonnello Marrone e noi, per cercare nella discoteca stupefacenti. Il tenente Tappi gridò: – Questo è un controllo di Polizia Giudiziaria, spegnete la musica! – Si spense la musica e il tenente Tappi prese il microfono e disse: – Gli avventori vengano perquisiti –. Dato che c’erano delle donne io dissi che non si possono fare perquisizioni fisiche alle donne se a farle non è una donna vigile o una donna poliziotto. Tappi mi diede ragione, perché non era un tenente d’Accademia, ma un militare di carriera e quindi, col colonnello Marrone e tutti i compagni della Squadra della Radio Mobile fece ritorno in caserma, senza portare via stupefacenti. Si trattava di una discoteca “pulita’’. Nuovamente Marrone fece una figura meschina davanti a tutti gli uomini. In quel frangente incontrai il maresciallo Di Bari, un ex collega di San Donato M.se il quale mi chiese il motivo della perquisizione: – Matarangolo, perché fate questa perquisizione? – Io risposi che stavamo cercando stupefacenti, ma non li trovavamo. Di Bari mi domandò se stessimo perquisendo anche le donne. Io risposi di no, perché conoscevo la legge.
La squadra di Parenti
Dopo sei mesi fui trasferito di nuovo presso la squadra della radio mobile di Milano quella però comandata dal maresciallo Parenti. Purtroppo non mi trovai molto bene, Parenti non mi sembrava all’altezza del suo ruolo di capo squadra; faceva pattuglia con l’appuntato Malu, invece io facevo servizio con l’appuntato Sazza Salvatore, che era sardo: qualche volta, quando parlava in dialetto al telefono con sua zia in Sardegna, anch’io ascoltavo la conversazione e riavo il sardo. Un giorno, quando facevo pattuglia con l’appuntato Penna, trovammo un ladro di macchine: l’avevamo seguito perché ci aveva insospettiti, lo fermammo e scoprimmo che l’auto che guidava era segnalata come rubata. Anche con la squadra di Parenti facevamo i servizi in Piazza Vetra. Un giorno Antonio Povero e Maurizio Porada, furono chiamati presso il Mc Donald’s di Piazza Duomo, perché due persone volevano pagare con soldi falsi; Porada rimase in macchina e Povero entrò nel locale: quando vide la banconota falsa, invece di sequestrarla la strappò. Avrebbe dovuto invece sequestrare il denaro e inviarlo alla Banca d’Italia. Quindi, Antonio commise un illecito penale che viene anche definito omissione d’atti d’ufficio (c.p. 694). Presso la Banca d’Italia c’è un ufficio falsario, Falso Nummario, dove sono trasmesse le banconote contraffatte per studiarne gli inchiostri. Nel vecchio conio c’era sempre la dicitura: La legge punisce i fabbricatori e gli spacciatori di biglietti falsi. Nella squadra di Parenti, composta all’epoca da 22 elementi circa per coprire 5 turni, c’erano tra gli altri: Malu, Porada, Fidelio, Lenza, Murru, Marino, Compagno, Giotto, Barny, Nulo, Ciccio, Agrippa. Il nostro comandante di sezione era il tenente Giordano. Mi trovavo bene con un collega, allora appuntato adesso vice brigadiere, Sazza Salvatore soprannominato Il Casteddaio poiché cagliaritano; facevo pattuglia con lui. Continuavamo a percorrere Parco Sempione e Piazzale Vetra per cercare gli spacciatori di hashish, eroina e cocaina. Al aggio presso la squadra di Parenti c’era un certo Audace Minuto che picchiava gli extracomunitari negli uffici della caserma. Un giorno sferrò un
calcio ad un uomo colpendolo al basso ventre. Io mi ribellai e parlai col colonnello Marrone che non fece niente: entrò l’ambulanza in caserma per prestare soccorso all’uomo che era stato malmenato da Audace e anche in questo caso il colonnello Marrone rimase fermo. Un giorno fu condotto in caserma da Fidelio e da Porada un extracomunitario d’origine palestinese, che aveva rotto gli specchi di un bar di p.le Loreto. Porada e Fidelio lo picchiarono: un calcio negli stinchi arrivò da Porada, poi Fidelio si mise al computer per scrivere gli atti di polizia giudiziaria; quindi Porada, minacciato da parte mia di denuncia, andò dal colonnello Marrone affermando che con me non poteva lavorare. Il colonnello mi chiamò per farsi raccontare l’accaduto anche da me. Io difendevo sempre gli extracomunitari picchiati in caserma e quindi mi chiamavano il protettore degli albanesi e dei marocchini poiché non ero complice dei miei colleghi nell’alzare le mani sugli arrestati; se c’è da arrestare si arresta, senza picchiare le persone. Quindi poi i fermati erano portati in Via Moscova per fare le foto segnaletiche e identificarli come da prassi. Il palestinese non fu poi arrestato, ma venne denunciato per danneggiamento, poiché in casi simili non è previsto l’arresto, ai sensi dell’art. 635 del codice penale; il bar avrebbe dovuto fare la querela nei confronti del palestinese ma non fu ben chiaro perché il proprietario non lo fece. Porada e Fidelio la arono liscia un’altra volta e io ci rimasi molto male. Fidelio veniva da noi chiamato Il cazzaro, perché sosteneva che stava insieme ad una donna anziana tedesca di ben trentacinque anni più grande di lui. Fidelio, prima di andare alla Radio Mobile di Milano, operava presso la Radio Mobile di Luino, raccontava tante frottole, perché descriveva cose inverosimili: affermava che per andare a Santo Domingo in aereo bastava la carta d’identità. Fidelio dormiva in camera con Piccolo e con il maresciallo Pasquale Ravioletti, entrambi della nostra squadra. Pasquale Ravioletti, quando si sposò, invitò me e Carlo Compagno. E’ stato un bel matrimonio, c’erano molte persone giovani tra cui le amiche della moglie. Il matrimonio fu celebrato nella chiesa del paese dove viveva la sposa. Mangiammo molto bene al banchetto. Carlo Compagno ed io regalammo agli sposi una friggitrice. Carlo Compagno faceva lo stupido con le amiche della sposa. Tant’è vero che ballando cadde per terra. Io cantai al karaoke Sara di Antonello Venditti riscuotendo molti consensi da parte degli invitati, perché
cantavo molto bene le canzoni del mio cantante preferito. Ricevetti molti complimenti, volevo cantare – Roma capoccia – , ma non fu possibile. Sono cresciuto con le canzoni di Venditti tra l’altro romanista come il sottoscritto. Ho avuto il piacere di partecipare ad un suo concerto a Parco Sempione nel 1995. Leggevo le parole sul video: a quel tempo il senso della vista era acuto. La sposa fu molto gentile nei confronti miei e di Compagno poiché ci ospitò presso la casa al mare di proprietà della famiglia nelle vicinanze di Rimini e Compagno, col telefono cellulare chiamava la sua compagna Barbara, che aveva tre figli. Il giorno dopo, al ritorno verso Milano, decidemmo di fermarci a mangiare del pesce in un locale tipico della zona, ordinai io per entrambi giacché Compagno si fidava del mio gusto in fatto di cucina. Prima del matrimonio il padre di Pasquale che era un carabiniere in pensione, ci offrì pane, salame e prosciutto crudo. Vennero gli amici di Pasquale: lui disse loro che io ero un bravo maresciallo. Al termine del matrimonio con Carlo ritornammo in caserma. Pasquale usufruì della licenza matrimoniale, quindici giorni, per andare in Thailandia, dove trascorse il suo viaggio di nozze. Al suo ritorno riprese a lavorare con noi alla Montebello. Io uscivo in pattuglia con Pio il quale mi consigliava di non litigare con i colleghi, perché secondo lui nell’Arma non esistono gradi e quindi un maresciallo e un appuntato davanti al tenente colonnello Marrone erano uguali. Le parole del mio collega erano anche giuste ma nella vita di caserma le discriminazioni erano tante, Marrone aveva la sua cerchia di preferiti che non facevano nient’altro che i ruffiani tra i quali Cristiano Malu il lecchino per eccellenza ed Agrippa occupava il secondo posto; Malu ed Agrippa si erano dati loro stessi dei soprannomi in quanto avevano un’alta opinione di sé, Malu si faceva chiamare drago in quanto sosteneva che al suo arrivo bruciava tutti i delinquenti con lo sguardo mentre Agrippa si faceva chiamare Hooker, il protagonista di una vecchia serie televisiva americana ed infine Parenti il capo squadra si faceva chiamare Ivan, come lo zar di Russia, in quanto si sentiva il nobile della caserma. Molto bravi nel darsi dei soprannomi ed altrettanto incapaci di lavorare sul campo; infatti, è capitato una volta al Parco Sempione che arrestavano per spaccio di piccoli quantitativi di hashish, omettendo la segnalazione da presentarsi all’Ufficio Droga della Prefettura. Un giorno fermai due spacciatori di hashish al Parco Sempione, con il maresciallo Chiesa: lui aveva paura perché i due erano grandi e grossi. Io ascoltavo il venditore che diceva all’acquirente: – Dammi 10 mila lire, che io ti do l’hashish – . I compratori erano due giovanotti d’età compresa fra i 17 e i 18
anni. Chiesa non intervenne; mi feci coraggio, afferrai la pistola tenuta sotto il giubbotto e intimai l’ALT ai due spacciatori. Presi le manette e da un braccio all’altro ammanettai i due uomini. Poi li portammo a piedi in caserma. Chiesa era nella Squadra di Parenti, poi ò all’Ufficio Denunce della Montebello, dove il Nucleo Comando era guidato dal Maresciallo Pacifico, quello che si segnava parecchie ore straordinarie che in realtà non svolgeva. Il tenente colonnello Marrone aveva quattro autisti, che lo portavano al Nucleo Operativo della Montebello e si vantava che i suoi uomini compivano arresti per piccoli quantitativi di hashish. Quando alla radio mobile si raggiunse il numero di 1500 arresti, molti dei quali illegali, in mensa fu organizzato un pranzo con tutte le squadre per festeggiare i loro successi illegali, il banchetto fu semplice ma gustoso a base di spaghetti aglio, olio e peperoncino; non pagò Marrone, perché ci pensava il maresciallo La Guerta che conduceva la mensa della Montebello. Un giorno l’appuntato Mire, non appartenente alla mia squadra, ricevette una punizione, poiché denunciava troppi oltraggi a Pubblico Ufficiale che, in realtà, erano provocati da lui: fu quindi inviato all’armeria, con un nuovo incarico: all’ufficio consegne d’armi per gli equipaggiamenti. Mire, un giorno vide un albanese su una mountain bike, convinto che fosse rubata si fece consegnare le due ruote e anziché sequestrarla la portò a casa sua regalandola al figlio; come sempre fu commesso l’ennesimo atto illecito poiché i sequestri di corpi di reato vanno consegnati presso l’Ufficio Reperti, che ha sede presso l’Ufficio Denunce della Montebello, non basta il semplice deposito della refurtiva ma va steso un verbale di sequestro e denuncia a piede libero, sempre però accertandosi che la refurtiva sia frutto di una rapina o furto. Le rapine sono fatte dai rapinatori e non dai carabinieri, come nell’episodio appena descritto sopra. Cristiano Malu, che su indicazione del proprio comandante pattugliava piazzale Loreto e le vie limitrofe in borghese per cercare gli spacciatori non li trovava mai; anche gli altri membri della squadra di Parenti svolgevano spesso pattuglia in borghese ma non sempre riuscivano a compiere arresti. Poi, d’accordo con Agrippa, Malu si recava a p.le Loreto, dove si trovavano spacciatori di colore che vendevano eroina in palline, ma non riusciva mai a sorprenderli in flagranza di reato. Anzi, un giorno, prese il furgone del nucleo operativo, denominato Balena, dotato di apparecchiatura e di un sistema a specchio che riprende i movimenti della strada senza destare sospetti e risulta molto utile in indagini dove necessitano prove concrete quali fotografie, filmati degli spostamenti dei
sospetti, ma loro non sapendo utilizzare la macchina fotografica non riuscivano ad utilizzare a pieno le caratteristiche di Balena, quindi la decisione di Agrippa e Malu, fu quella di arrestare gli spacciatori alla vecchia maniera: saltando giù dal furgone ed inseguirli. Poi prendevano gli spacciatori, non sempre con metodi ortodossi, e gli atti d’arresto li faceva Pio, che aveva la terza media però una cultura giuridica invidiabile, tant’è vero che qualche volta ci si aiutava a vicenda a compiere gli atti di polizia giudiziaria. Nel 1998 arrivò Penna tenente ed ex sotto ufficiale che aveva vinto il concorso per diventare ufficiale e prese comando presso la squadra di Parenti. Conoscevo già il tenente Penna in quanto per un periodo di cinque, sei mesi siamo stati colleghi presso la squadrò sotto officiali al Velletri a Firenze. Parenti era maresciallo capo e quindi superiore di grado rispetto a me. Però non conosceva le leggi, non sapeva come compilare i verbali di arresto e nemmeno le notizie di reato, delegava me e Penna nella stesura degli atti. Io chiedevo a Marrone se potevo tornare nella squadra di Servo, però Marrone mi diceva che Parenti era ignorante e quindi io e Penna dovevamo aiutarlo e di conseguenza il trasferimento non avvenne. Così diventai capo turno, vice comandante di squadra. Un giorno mi chiamò il colonnello Marrone, mentre stavo mangiando in mensa; terminai di mangiare e mi recai da lui. – Maresciallo, ho una chicca per lei, mi disse lisciandosi i baffi. – Ho saputo – riprese – che una bambina è stata violentata dal padre, ma non conosco la zona. – L’informazione gli era stata data da un amico che possedeva un Mercedes targato Montecarlo. Io risposi: – Non si può fare niente – , in quanto le informazioni che mi erano state date erano troppo generiche; un carabiniere per agire deve avere delle prove tangibili, anche una minima traccia ma che sia concreta, anche la fonte che fornisce tali informazioni deve essere attendibile per evitare che chiunque possa nuocere a qualcuno solo mosso da motivi personali; gli spiegai le ragioni per cui non potevo indagare per lui. Gli dissi: – Perché non si rivolge al Nucleo Operativo di Milano? – . Mi rispose che al Nucleo Operativo di Milano avrebbero cestinato questa sua richiesta. Io feci spallucce e me ne tornai nel mio ufficio. Quello stesso giorno, davanti a me, Marrone chiamò un amico che si lamentava al telefono di avere ricevuto un prosciutto guasto. Io feci finta di non ascoltare e tornai nel mio ufficio. Nella squadra di Parenti c’era anche il carabiniere Giancarlo Botte, anch’egli trasferitosi dalla squadra di Servo; quando eravamo di turno di mattina, ci offriva la colazione in un bar vicino al Duomo, pagandole profumatamente. Era ricco di famiglia e quindi se lo poteva permettere. Aveva una BMW e tutti lo chiamavano
Il Commenda. Io non accettavo mai, mi pagavo sempre il caffè; mentre gli altri accettavano, soprattutto Cano, che gli faceva d’autista. Un giorno Parenti, dopo aver fatto colazione, disse: – Andiamo a combattere la criminalità. – Era ignorante come una capra e quindi, quando faceva delle esternazioni si comportava come tale. Un giorno io e Porada conoscemmo due ragazze al Bar Magenta. Io facevo lo spiritoso. Una si chiamava Graziella, era molto bella; l’altra, meno bella, si chiamava Tiziana. Io iniziai a frequentare Graziella. Porada aveva una relazione con una certa Monica. Un giorno, al bar della Coin in corso XXII marzo, c’erano Graziella e Tiziana. Io stavo bevendo un cuba libre. Porada era invidioso perché io – avevo – Graziella. Quindi arrivò alla Coin con Monica. Lei mi domandava se prendevo la bevanda di Che Guevara, il cuba libre. – Sì, perché, c’è qualcosa di male? – , rispondevo io. Intanto Porada chiamava Monica e me, per andare con lui. Io non potevo lasciare lì Graziella e Tiziana e quindi risposi: – Vado coi mezzi in caserma – . Ma Porada insisteva prendendomi per il braccio: – Vieni con noi – . Io per evitare scenate andai con loro e Graziella si offese un po’. Poi col mio amico Compagno Carlo siamo andati vicino alla casa di Graziella per parlare un po’ con lei; le domandai se sarei potuto uscire un’altra volta con lei e Tiziana. Lei mi rispose di sì, ma in realtà non la vidi più. Un giorno stavo facendo pattuglia in Corso Buenos Aires con Carlo Compagno; vedemmo Parenti all’interno di una Porche. Lo seguimmo per Corso Buenos Aires, perché l’auto non era sua, ma di un suo amico facoltoso e noi volevamo vedere dove si stesse recando. Gli facemmo i lampeggianti per fermarsi ma lui proseguì per la sua strada. Lanciammo allora l’allarme via radio dicendo che stavamo seguendo una Porche che non si era fermata all’Alt. A quel punto Parenti, con il suo amico accanto, scappò per Corso Buenos Aires a folle velocità e noi l’inseguimmo. Però la Porche è più veloce di una Alfa Romeo 155 e scomparve alla nostra visuale. Parenti era frequentatore di discoteche ed era sposato ma non aveva figli. Ho saputo da un collega in comune che viene ogni tanto a trovarmi che ora è diventato padre. Un giorno Malu e Parenti, che facevano coppia, in abiti borghesi andarono a P.za Vetra, per individuare spacciatori di hashish. Con loro c’erano anche Agrippa e Guerra. Non trovarono né acquirenti di hashish né spacciatori e quindi ripiegarono in un’altra via, vicino P.za Vetra; dato che individuarono delle bottiglie di birra accanto ad alcuni marocchini, li portarono in caserma per arrestarli per ricettazione: i miei colleghi avevano, infatti, la certezza, ma non le prove, che gli extracomunitari avessero rubato le bottiglie in questione al supermercato, ma la merce era stata acquistata regolarmente. Nonostante ciò le bottiglie di birra erano state sequestrate presso
l’Ufficio Reperti della Montebello. I marocchini non furono arrestati, ma vennero denunciati a piede libero, per reato di ricettazione di birra. Nel 1998 partii per Velletri per fare il corso per diventare Maresciallo Capo. I colleghi presenti erano più giovani di età e prestavano servizio da meno tempo di me. Finito il corso a pieni voti andai da mia madre con un mio collega per fargli vedere l’encomio che mi trasmise il Dottor Mariotti. Il mio collega disse a mia madre: – Suo figlio è molto coraggioso – ; poi lui partì per la stazione che comandava ed io sono rimasto qualche giorno con mia madre. Qualche volta andavo da mia sorella e mio cognato per recarci insieme a mangiare la pizza a Ostia Lido. Tornai a Milano con il grado di maresciallo capo. Io dormivo in camera con Porada e il carabiniere Freddo. Con loro giocavo con la play station a FIFA 98. Qualche volta vincevo io, altre volte vincevano loro. Quando tornai a Milano riprovai a chiedere al colonnello Marrone il trasferimento presso la squadra di Servo. Ancora una volta me lo negò. Chiesi anche di non dormire più in camera con Freddo e Porada, perché ero diventato maresciallo capo e loro erano di grado inferiore. Marrone rispose che non aveva camere per sottufficiali, continuai così a dormire con loro.
Teresa
Un giorno un mio collega Gianni Murru mi parlò di una ragazza di nome Teresa, collega della moglie; lavoravano entrambe alla Medicair/Gastec, azienda di forniture medicali, sia per privati che per enti pubblici quali ospedali e case di cura convenzionate con le ASL. La breve storia con Graziella era terminata. Andammo alla pizzeria Lo Zingaro che conoscevo perché frequentata con i miei colleghi. Faceva un po’ di tutto: pesce, primi piatti, pizze... Eravamo, io, Giorgio, sua moglie e Teresa. Mangiammo solo pizza. Ero più magro allora perché facevo palestra all’American Conturella in Via Meravigli, vicino al Duomo, pesavo 80 kg. Teresa mi è piaciuta subito e anch’io a lei. Entrambi abbiamo subito ritenuto che l’altro fosse una persona intelligente e nel parlare con lei, seppi che faceva teatro come hobby. Le raccontai che con Aureliano Pasquale andavo a teatro e che avevo assistito al Teatro Delle Muse alla commedia di Faissbinder – I rifiuti la città e la morte – . Guarda caso l’aveva vista anche lei. Questa coincidenza colpì entrambi perché non è facile trovare qualcuno che condivida gli stessi interessi culturali. Mi piacque subito Teresa, perché era buona di cuore, di buona famiglia, non come Lisa Bicchiere quella di S. Donato, tanto bella quanto ignorante e di facili costumi. Dopo la pizza siamo andati in un locale a bere qualcosa, al Radeschi. Dopo la serata ci riaccompagnò in caserma Teresa con la sua macchina, una golf grigia. Nel frattempo usciva di pattuglia Lenza, che non mi aveva mai visto con una donna. Si era quindi incuriosito e mi guardava in modo strano. La prima volta che uscì da solo con Teresa siamo stati a Legnano, alla Fabbrica della Pizza e io le dichiarai il mio amore. Mi portò a casa sua per farmi conoscere tutta la famiglia: il fratello, che non era ancora sposato, la zia Fortunata e la zia Rosa, che aveva novantatre anni e abitava con loro, in un appartamento piccolino. Conobbi così tutta la famiglia. Era quasi Natale. Le regalai un piccolo anello di diamanti, invece lei mi regalò un bracciale d’oro. Il fratello mi regalò un maglione bellissimo, grigio, della Marlboro. Io alla zia regalai un libro di ricette. Alla mamma un peluche della Trudi. Un giorno nella centrale operativa di Milano l’operatore Dimari mandò me,
Lenza e Murru da una ragazza albanese che era stata violentata da suoi connazionali. Arrivammo sul posto e dopo aver sfondato a calci la porta dell’appartamento io e Lenza entrammo nella casa e vedemmo la ragazza vestita con jeans e maglietta. Io le chiesi se aveva subito violenze e lei mi rispose di no, disse di aver chiamato perché impaurita dai connazionali; portammo la giovane in caserma, facemmo le carte per farla rimpatriare in Albania e così accadde.
Sparatoria a Porta Volta
Un giorno Antonio Povero, capo equipaggio dell’auto radio, era in pattuglia in zona porta Volta con l’appuntato Nulo. Trovarono un extracomunitario che aveva rubato una macchina di grossa cilindrata all’Hotel Gallia di Milano. Nulo inseguì l’auto e guidando sparava alla macchina rubata, per legge non si può sparare a veicoli in movimento e tanto meno in mezzo al traffico di Milano. Nulo raggiunse la macchina che era imbottigliata e a portiera aperta sparò altri colpi verso la macchina rubata. Io ero allora capo turno e comandavo tutte le macchine della squadra di Parenti che in quel periodo era in licenza. Io e tutte le macchine in turno raggiungemmo il luogo ed arrestammo l’albanese; questi però si sentì male e chiesi a Ravioletti di accompagnarlo all’ospedale Fatebenefratelli con l’appuntato Compagno e di piantonarlo. Io ritornai in caserma per telefonare al sostituto procuratore della repubblica, Ilda Bocassini, ma poco dopo arrivò Carlo Compagno con la macchina di servizio dicendomi che l’extracomunitario era scappato dall’ospedale, perché Ravioletti, credendo alla buona fede dell’extracomunitario gli aveva tolto le manette, ed è quindi fuggito senza lasciare traccia. Io però avevo già contattato il magistrato di turno quindi dovetti richiamare e mettere a conoscenza dell’accaduto, consapevole di aver fatto una figura ridicola per la leggerezza altrui. Naturalmente si arrabbiò moltissimo con me ed io non potei fare altro che scusarmi. Mi arrabbiai con i ragazzi dandogli degli incompetenti. Per tutta risposta Ravioletti invece di cercare l’extracomunitario andò in camera sua, lo raggiunsi per dirgli: – ti ho salvato il culo, adesso cerca l’extracomunitario al Fatebenefratelli. – Io e Carlo Compagno tornammo all’ospedale e appurammo che l’extracomunitario era fuggito dalla finestra. Di tutto ciò che era accaduto a Porta Volta lo descrissi nel rapporto, dissi che era successa un’apocalisse in una zona molto trafficata. Malu, l’appuntato autista del Maresciallo Parenti, mi disse – mettiamo una pistola finta per incastrare l’extracomunitario? – io, per tutta risposta dissi: – le porcate che fate voi, non mi interessano. Chi ha fatto lo sbaglio deve pagare –. Nulo parlò con il colonnello Marrone il quale gli fece solo una ramanzina. Il capo equipaggio Antonio Povero, oggi vice brigadiere, non si rendeva conto del reato che avevano fatto sia lui che Nulo e quindi
Marrone mi disse: – Matarangolo, mettici una pezza tu. – Andai al computer che avevo in caserma e feci la comunicazione di esercizio di reato ai sensi dell’articolo 347 c.p.p. Un’altra volta scoppiò un incendio in un palazzo, non mi ricordo il luogo, spento poi dai vigili del fuoco. Dopo l’incendio Malu si attaccò alla radio di servizio della macchina per avvisare la centrale operativa mentre io sono entrato in un appartamento per vedere i danni. Malu dalla macchina disse che era un incendio doloso, io invece risposi alla centrale operativa che era scoppiato perché un ragazzo aveva messo qualche mortaretto nella casa. I vigili del fuoco con il capo squadra dissero che non era un incendio doloso, quindi rimproverai Malu. Lui era il leccapiedi degli ufficiali della radio mobile e quindi disse a Marrone, che io non sapevo lavorare. Marrone, questa volta, per tutta risposta gli disse che era lui a non capire niente. Meno male! Un giorno, durante una pattuglia nei pressi del palazzo di giustizia di Milano, gli appuntati Marino e Capelli trovarono una scatola da scarpe dalla quale si sentiva un ticchettio e dei fili che fuoriuscivano, aveva tutte le sembianza di un ordigno esplosivo. Il carabiniere Audace Migliozzi, fascista convinto, che portava nel portafoglio la foto di Benito Mussolini che era con loro, gridò: – aiuto, aiuto, c’è una bomba! – allertando tutta la squadra in servizio a palazzo di giustizia. Dopo poco arrivò la squadra artificieri e la scatola di scarpe fu aperta e si resero conto che non era una bomba. Infatti trovarono una sveglia da camera con dipinto le gallinelle che beccano nell’aia, con scritto BOOM! Gli Squatter, artefici dello scherzo, e che avevano rubato una macchina a Torino per venire a Milano, non si fecero più trovare. Il colonnello Marrone dopo l’accaduto della bomba incontrò il Comandante del Tribunale, un colonnello dei carabinieri. Io fui chiamato nel suo ufficio e feci rapporto per procurato allarme in merito all’art. 658 del c.p. Audace Migliozzi avrebbe dovuto essere denunciato per procurato allarme ma non lo fecero. Marrone mi disse – Invece di denunciare gli Squatter denunci un carabiniere? – Anche il colonnello fu d’accordo con lui. Un giorno fui inviato dalla centrale operativa della radio mobile a casa del giornalista, allora del TG4, Paolo Brosio che ci aspettava perché aveva subito un furto. Migliozzi arrivò a casa di Brosio solo per fare presenza, il proprietario di casa ci disse che dovevamo controllare il furto; Brosio in quel frangente ci disse che era il nipote di Gabriele D’Annunzio. Io gli feci i complimenti e poi siamo andati sotto casa al bar a bere un caffè che ha offerto lui. Migliozzi invece di prendere solo un caffè si fece offrire al bar tabacchi anche un pacchetto di
Marlboro rosse, accattone. Tornati in caserma, io andai a dormire perché dovevo fare la notte. Un giorno successe una rissa con sparatoria nel campo di zingari di Monte Bisbino, a ridosso di Milano nel comune di Bollate. Il vice brigadiere Lenza e il carabiniere Freddo, accorsero subito nel campo nomadi a fine sparatoria. Freddo si mise nella mischia e Lenza stava in macchina perché era un vigliacco. Arrivai anche io, Carlo Compagno e l’appuntato Penna ed in o la squadra di Servo. Cercammo le armi ma trovammo solo delle caffettiere d’argento, Servo voleva sequestrare tutti gli oggetti, ma io e Penna non sequestrammo nulla, non si può fare se non si può dimostrarne la provenienza e che si tratta di refurtiva. Servo stava sbagliando. Monte Bisbino è vicino alla compagnia di carabinieri di Rho e l’appuntato Penna che era stato in servizio alla radio mobile di Rho, conosceva tutti gli zingari, e quindi poté parlare con la regina degli zingari della rissa con sparatoria. Andai anch’io nella sua roulotte ma questa non disse nulla. Un giorno quando facevo pattuglia con Giorgio Murru, siamo intervenuti in via Coni Zugna vicino a S. Siro perché c’era una donna che aveva subito una rapina da due giovani minorenni in scooter. Noi iniziammo l’inseguimento e li acciuffammo, li portammo in caserma per gli atti di rito, poi li accompagnammo al carcere minorile Beccaria di Milano. La donna venne in ufficio per la denuncia e recuperò la borsetta a cui era molto affezionata perché le era stata regalata dal marito in un viaggio in Marocco. In seguito andai al processo dei due arrestati, l’avvocato difensore dei ragazzi mi disse se non potevo denunciare a piede libero anziché arrestare, io risposi di averli colti in flagranza di reato e che quindi dovevo compiere l’arresto. Al termine del processo la donna mi regalò una bottiglia di Champagne Moet Chandon. Un giorno, mentre facevo pattuglia con Giorgio Murru, intervenimmo in una rapina ad un ristorante cinese. Il proprietario ci segnalò di seguire una moto che si stava allontanando, noi perdemmo di vista la moto che andava ad elevata velocità e tornammo al ristorante cinese; scoprimmo un cinese ucciso da un colpo di pistola al cuore, chiamammo subito la squadra omicidi del nucleo operativo con sede in via Moscova. Il capitano arrivò fumando un grosso sigaro e ci disse di non toccare niente, accompagnammo in caserma tutte le persone presenti nel ristorante (c’erano solo i dipendenti, perché i clienti scapparono dopo la sparatoria) e scoprimmo che non parlavano una parola di italiano, c’era solo una ragazza, molto carina, che conosceva la nostra lingua. Abbiamo
chiamato un interprete dalla procura di Milano, quando arrivò disse che i cinesi parlavano un dialetto stretto di Shangai che neanche lui riusciva a capire. Io e Murru siamo rientrati in caserma, abbiamo fatto una relazione di servizio dell’accaduto e non sapemmo più nulla di ciò che successe dopo. Un giorno trovammo un pregiudicato e facemmo una perquisizione nella sua abitazione, il vicebrigadiere Lenza trovò un fucile a canne mozze, quindi il pregiudicato fu accompagnato in caserma e io lo arrestai per possesso di arma alterata. Andammo con il fucile all’ufficio di Marrone. Dissi: – Hai visto che operazione ho fatto con Lenza!? – lui si complimentò con me. Dopo aver fatto il verbale d’arresto, accompagnammo il pregiudicato a S. Vittore e portammo il fucile imballato nell’ufficio reperti del Nucleo Radio Mobile. Nel 2000 il tenente colonnello Marrone chiese il congedo dall’arma e andò via dalla caserma, al suo posto arrivò il maggiore Di Matteo, che proveniva da Porta Magenta. Venni assegnato all’ufficio denunce dal nuovo maggiore, per la mia capacità di fare polizia giudiziaria, anche se ho sempre preferito fare pattuglia sull’auto radio. Quando venne effettuato l’avvicendamento di Biasi mi diede eccellente come valutazione. Spesso andavo da Di Matteo per tornare sulle macchine, ma lui mi rispondeva che ero più preparato in ufficio, influenzato in queste considerazioni dal tenente Biasi. Il maresciallo capo Mosca, con cui andavo molto d’accordo e stava con me in ufficio venne trasferito alla compagnia di Cassano D’Adda, dove iniziò a fare nucleo comando. L’appuntato Malu, diceva a Biasi che non ero in grado di lavorare con gli arresti facili della droga. Allora io andai da Biasi per fargli capire che Malu non era più bravo di me e io venivo discriminato, nonostante ciò sono stato messo in ufficio anche se mal volentieri. Quest’anno è stato particolarmente sfortunato in quanto mi è stata data la convalescenza. Mi hanno accusato di avere un esaurimento nervoso perché litigavo con i miei colleghi. I motivi dei litigi erano legati al fatto che io pensavo non fero le cose per bene. Approfittando di questa convalescenza, non avendo vincoli di servizio, decisi di fare un viaggio con Teresa a Lanzarote nelle isole Canarie. Era la prima volta che prendevo l’aereo. Avevo sempre avuto un po’ di paura dell’aereo. È stata una vacanza meravigliosa. Facevamo l’amore in ogni momento. Io parlavo in napoletano e lei rideva senza sosta. Siamo sempre
andati d’accordo. Dopo i quindici giorni di vacanza ho fatto la seconda visita a Verona, la prima l’avevo fatta all’ospedale militare Baggio a Milano. A mio avviso i primi controlli non erano stati fatti adeguatamente, la diagnosi di esaurimento nervoso non era giustificata da nessun test valido. Questo mi dava la certezza che una volta fatta la seconda visita in un’altra sede mi avrebbero riabilitato al servizio. Non fu così. Anche a Verona ricevetti lo stesso trattamento e mi confermarono altri novanta giorni di convalescenza. I miei colleghi mi accompagnarono a casa di mia madre per are del tempo insieme a lei. Dopo aver trascorso parte della convalescenza a Roma ho preso in affitto un appartamento ammobiliato a Rho e trascorsi li quei novanta giorni. Purtroppo questo è stato anche l’anno della perdita di mia madre. Il 28 settembre vengo chiamato da mia sorella a Roma nel cuore della notte per avvisarmi che nostra madre stava male ed era stata chiamata l’ambulanza. Ho chiamato subito Teresa che mi ha raggiunto a casa mia. Non sapevo cosa fare, le notizie arrivavano frammentarie ma l’unica era aspettare il primo treno per Roma alle sei del mattino. Dopo una notte praticamente in bianco Teresa mi ha accompagnato alla Stazione Centrale. E’ stato il viaggio più doloroso della mia vita. Arrivato alla stazione di Roma Termini c’era mia sorella e mio cognato ad aspettarmi sulla banchina. In quello stesso momento mi ha comunicato la peggiore delle notizie: mia madre era già morta quella notte stessa ma non aveva voluto dirmelo per telefono. Scoppiai a piangere e ci abbracciammo tutti. Informai subito Teresa, quello stesso pomeriggio è subito partita in macchina per raggiungermi accompagnata da sua madre. Il funerale si svolse due giorni dopo. Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con mia mamma ciò non toglie che la sua perdita ha creato un vuoto terribile. Il 24 maggio 2001 sono stato colpito da arresto cardiaco. Ero in strada. L’ambulanza, chiamata per soccorrermi, mi ha praticato tutte le tecniche di rianimazione, dal massaggio cardiaco all’adrenalina ed il defibrillatore e finalmente il mio cuore è ripartito. Ricoverato all’ospedale Sacco i medici non erano affatto ottimisti e mi davano per spacciato, ma dopo quaranta giorni di coma post anossico mi sono risvegliato. Gli esiti però sono stati di tetra paresi spastica e cecità corticale. Così finì la mia storia da maresciallo, ed iniziò la mia nuova vita da disabile.
Parte II
Dal coma in poi
La mia vita cambiò totalmente dal giorno in cui ebbi l’arresto cardiaco, il 24 maggio 2001. Facciamo un o indietro. Nei mesi precedenti ero sotto pressione costante e parecchio stressato. Lo stress di cui parlo si riferisce al mobbing ricevuto dai miei colleghi, che portò a numerose discussioni; fui trasferito dal servizio di pattuglia radiomobile quale capo turno presso il Nucleo Radio Mobile di Milano a capo dell’ufficio denunce. Non fui contento di quel trasferimento. Ne risentii molto e caddi in depressione. Proprio per questo successe che i miei superiori ordinarono di farmi fare delle perizie psichiatriche per verificare il mio stato di salute mentale. Fui mandato all’Ospedale militare del quartiere Baggio dove non mi venne fatto nessun tipo di test psicologico e lì mi diedero una convalescenza di sei mesi per una forte depressione. ati i sei mesi di convalescenza decisi di recarmi all’ospedale militare di Verona, in seconda istanza, dove credevo mi avrebbero valutato idoneo per il servizio militare e infatti portai con me per assistermi, uno psichiatra di parte, il dottor Scattaglini, che fece una relazione dettagliatissima in cui spiegava che ero una persona sana di mente. Purtroppo chi mi esaminò a Verona non fu d’accordo e mi diedero altri novanta giorni di convalescenza. Così arrivò quel famoso 24 maggio in cui decisi di fare una eggiata per le vie di Rho. Uscii dal mio appartamento in cui vivevo in affitto da solo e mi avviai per il Santuario della città quando all’improvviso mi sentii male, mi accasciai a terra e l’ultima visione che ebbi fu quella di un sacerdote dei preti oblati che mi dava l’estrema unzione. I anti, vedendomi a terra chiamarono l’ambulanza. Ormai in arresto cardiaco subii parecchie manovre di rianimazione ma il mio cuore non ne voleva sapere. Insistettero con massaggi cardiaci, defibrillatore e punture di adrenalina e finalmente il mio cuore riprese a battere. Fui trasportato al reparto di Rianimazione dell’Ospedale Sacco di Milano, vivo ma in coma. Mi misero la tracheo per respirare, il sondino naso gastrico per permettermi di nutrirmi ed il catetere. Fui sottoposto a numerosi esami alla ricerca delle cause del mio arresto cardiaco,
persino esami tossicologici per sapere se avevo fatto uso di sostanze stupefacenti ed ovviamente l’esito fu negativo, come il resto degli esami non spiegarono mai le cause che rimangono tutt’ora sconosciute. Il mio collega appuntato Brunendo Pio avvisò subito Teresa, la mia fidanzata, per informarla di quanto fosse accaduto. Teresa arrivò di corsa all’ospedale e per entrare nella mia stanza dovette indossare il camice, la mascherina e i guanti. Furono giorni lunghissimi. I medici non si sbilanciavano, anzi. Arrivarono a parlare di espianto poi di stati vegetativi permanenti ed io continuavo il mio sonno senza dare segni di ripresa. Rimasi in coma per ben quaranta giorni duranti i quali sognavo sempre, ma non mi è mai successo di vedere luci, tunnel, persone che parlano dall’aldilà, ricordo solo che facevo tantissimi sogni molto confusi. Sognavo le persone a me care: i miei genitori, mia sorella, Teresa, i miei colleghi. Ero in uno stato di pace assoluta! Contro ogni previsione esplicita il 2 luglio 2001 mi risvegliai. Il 5 luglio compievo quarant’anni. Era tutto buio e presto scoprii perché. All’inizio non capivo, ero frastornato. Dove mi trovavo? Ero collegato ad un respiratore. Avevo il sondino naso gastrico per nutrirmi ed il catetere. I miei movimenti erano pochi e non controllati. Mi rendevo conto solo di essere in un letto nudo, dovevo scaricarmi e la cosa mi imbarazzava moltissimo. Non riuscivo a parlare, esprimevo i miei si e no stringendo gli occhi. Avevo tanta sete ma mi bagnavano solo le labbra. Sentivo tanta musica ed avevo la compagnia di un pupazzo appeso al mio letto, un pesciolino che se schiacciato diceva: – I love you! – Comunque nel breve spazio di quindici giorni fui svezzato dal respiratore, mi tolsero la tracheo e ricominciai a mangiare per bocca. All’inizio cose frullate ma ben presto normalmente. Continuavo ad avere il catetere. Ricordo le numerose dolorosissime punture all’addome di fluidificante del sangue. Sebbene avessi notevoli difficoltà a parlare o meglio ad articolare le parole incredibilmente riuscivo a cantare benissimo e con chiarezza per cui mi scatenavo ad urlare canzoni a tutto spiano, era l’unica cosa che potevo fare autonomamente. I miei cavalli di battaglia erano: Bella ciao, Bandiera rossa, Fratelli d’Italia, Il carrozzone, Sant’Antonio nemico del demonio dei 99 Posse e ripetevo spesso una loro frase: – gli sciacalli sono in proliferazione . – Il giorno in cui mi svegliai Teresa, per mettermi alla prova, mi disse che la Roma, squadra di cui sono tifoso, aveva vinto il campionato ed io riuscii a dire: – Forza Roma! – e cosi un’infermiera mi chiese come si chiamava la mia fidanzata e pronunciai Teresa. Fu un momento davvero emozionante.
Ero ancora confuso. Le giornate in rianimazione non sono scandite dal giorno e dalla notte ed io non avevo ancora ben compreso le conseguenze di quello che mi era capitato. Teresa era sempre al mio fianco nelle ore di visita, mia sorella Maria Grazia ed il marito venivano da Roma ogni week-end, il mio collega Angelo Virtù veniva praticamente tutti i giorni, vennero a trovarmi anche mia cugina Pina, Nicola e qualche collega ed amico. Li sentivo tutti ma ancora non riuscivo ad esprimermi bene. Intanto fu sciolta la prognosi e comunicato l’esito del mio coma post-anossico: tetra-paresi spastica e cecità corticale. In breve, avevo compromessa la coordinazione della mia mobilità ed ero cieco! La mia vita era completamente cambiata. Era urgente che trovassi al più presto una clinica per la riabilitazione ma era estate ed era difficilissimo trovare una collocazione adeguata. I giorni di immobilità e le conseguenze del coma avevano portato i miei nervi a cominciare a ritirarsi, stavo riassumendo la posizione fetale e la poca ginnastica che mi facevano nel letto del reparto di rianimazione non era sufficiente, il tempo stringeva e più ava e più i miei arti si ritraevano. Per un paio di volte mi misero su una carrozzina. Non riuscivo a mantenere la posizione seduta e mi avevano legato in modo tale da rimanere appoggiato allo schienale! Mi portarono a fare delle eggiate nel parco dell’ospedale, dove sentivo gli uccellini e le cicale cantare e immediatamente pensavo di avercela fatta, di essere vivo e lentamente, molto lentamente, cominciavo a prendere consapevolezza della mia situazione. Devo molto al primario, ai medici ed a tutti gli operatori del Reparto di Rianimazione dell’Ospedale Sacco. Non solo mi hanno riportato alla vita ma si sono adoperati senza tregua per curarmi e trovarmi una soluzione che alla fine arrivò! L’11 settembre 2001, mentre si consumava la tragedia dell’attacco alle Torri Gemelle a New York, io venivo trasferito in ambulanza al Centro Riabilitativo COF di Lanzo d’Intelvi (Como). Teresa e sua mamma mi seguivano in macchina. L’accoglienza da parte del primario del reparto non fu delle migliori. La dottoressa fu lapidaria e senza avermi nemmeno visto ne visitato disse testualmente a Teresa: – Cosi lo vede e così rimarrà – e con queste parole cominciò il mio vero inferno. A distanza di quattro mesi dall’arresto cardiaco ormai avevo capito chi ero diventato e chi non sarei più stato. La prima reazione fu di rifiuto del cibo. Non potevo muovermi non potevo fare altro per esprimere il mio dolore e la mia totale impotenza! Fui vicino all’alimentazione forzata, ma grazie alla costanza ed alla cocciutaggine di Teresa e di Grazia, moglie del mio
collega Bagasseri, che a forza di omogenizzati alla frutta ripresi a mangiare normalmente. Intanto cominciò la riabilitazione: durissima. Mi iniettavano il botulino nei muscoli affinché li rilassasse e permettesse le manovre di allungamento dei fisioterapisti per recuperare la distensione degli arti. Non posso descrivere il dolore di quelle operazioni e della costrizione di tenere i tutori alle gambe quando ero a letto. All’inizio non ero collaborativo, mi facevano troppo male, non vedevo niente, non capivo cosa mi facevano ed io ero distrutto! Ma il lavoro continuò, i fisioterapisti erano bravissimi ed io mi convinsi che dovevo reagire e cominciarono i primi piccoli progressi. Nonostante tutto avevo mantenuto un certo tono muscolare che mi aiutava e stava migliorando il mio uso della parola grazie alle sedute con la logopedista. Ricordo che in palestra mi facevano indossare guanti di gomma, tutori alle gambe ed alle braccia e dovevo rotolare a destra e a sinistra e mi tiravano i muscoli fino a farmi urlare! All’inizio per alzarmi dal letto e mettermi sulla carrozzina usavano il sollevatore elettrico. Io, non vedendo, ero spaventatissimo. Gridavo. Era importante che mi descrivessero tutte le operazioni che compivano su di me. Non vedendo avevo perso il controllo e ciò mi rendeva insicuro, sospettoso e molto spaventato. A Lanzo conobbi il comandante della stazione Carabinieri il maresciallo Andrea Prete. Fu molto gentile e disponibile con me. Veniva a trovarmi e mi dava l’opportunità di confrontarmi e di raccontare le operazioni svolte durante il mio lavoro, infatti avendogli esposto la mia storia ed essendosi informato sul mio conto a Milano, mi faceva sempre molti complimenti e mi aveva soprannominato Il genio ribelle. Erano poche le cose che mi facevano stare bene in questa struttura: un bar nel quale potevo recarmi a bere il caffè e fumare qualche sigaretta e la possibilità che avevo di ascoltare le mie cassette di musica,che gentilmente gli infermieri mi sistemavano nel registratore così potevo avere qualche momento di serenità, anche se a volte suor Margherita arrivava e fermava la cassetta per farmi ascoltare radio Maria. Venivano a trovarmi i soliti colleghi: Angelo, Bagasseri, Compagno, Porada, Penna etc. Ci sono stati anche episodi negativi a partire dall’atteggiamento di Suor Angela, la caposala del reparto, che aveva dei comportamenti di scherno nei miei confronti, riguardo la mia cecità o il catetere che purtroppo ancora dovevo tenere e che a volte mi causava delle perdite di urina nel letto,così suor Margherita
alzava la voce dicendomi di vergognarmi. Per questo motivo le chiesi più volte: – Ma lei è una suora cattolica? Complimenti per la carità cristiana che ha! – Fortunatamente c’era la dottoressa Riva, di grande umanità, che oltre all’assistenza medica mi dedicava del tempo per consolarmi a differenza del primario dottoressa Datterino che era un pezzo di marmo! Una volta mi mise in mano forchetta e coltello incitandomi a mangiare da solo il pasto che mi avevano servito, ma io continuavo a spiegarle che non ci riuscivo, che facevo troppa fatica, così per tutta risposta mi tolse il piatto e mi lasciò a stomaco vuoto. La logopedista era gentilissima perché mi faceva fumare con lei, anche se Suor Margherita non voleva e mentre facevamo la pausa sigaretta mi teneva compagnia e mi rassicurava sul mio miglioramento nel linguaggio. Ero in una camera a due letti e fra i compagni di sventura mi trovai con Alberto, un ragazzo in coma, al suo fianco c’erano sempre Karen la fidanzata e la madre Rita. Una notte non riuscivo a dormire e ad un certo punto sentii il respiro di Alberto più affannoso del solito,mi spaventai molto e iniziai a gridare chiedendo aiuto, così corsero in stanza gli infermieri,spiegai quanto stava succedendo e riuscii quindi a salvare la vita a questo ragazzo e mi sentii felice di aver fatto del bene. Un giorno il comandante Prestino, in presenza di Teresa e di sua madre, mi portò l’informativa delle note caratteristiche che ogni carabiniere riceve alla fine dell’anno come valutazione del lavoro svolto durante l’anno stesso ed era risultata eccellente. Erano descritte le mie qualità fisiche ottime, morali e di carattere irreprensibili sotto ogni aspetto, di provata lealtà e rettitudine. Qualità culturali ed intellettuali vaste e profonde come quelle professionali con altissimo senso del dovere e della disciplina. Pregevoli doti di fondo ate da preparazione tecnico professionali di tutto rispetto specie nel settore di Polizia Giudiziaria esercitate con grande slancio ed astuzia. Fu un momento di grande orgoglio e soddisfazione. Un giorno venne a trovarmi il comandante provinciale di Como Maggiore Sacca. Teresa mi chiese di fare il saluto militare ma io risposi che a capo scoperto non si fa ed il maggiore mi diede ragione. Era accompagnato dal capitano Podda e con Teresa ebbero un colloquio con la dottoressa Datterino e con la dottoressa Riva. Fu prospettato un quadro molto negativo sulle mie possibilità di recupero, i pochi progressi non mi avrebbero
mai portato per esempio a camminare. Non mi aspettava un bel futuro. Ma le cose andarono diversamente. In quel periodo mi fu vicino anche il cappellano militare dell’epoca Don Cristiano che si adoperò molto per me. Mia sorella Maria Grazia e mio cognato Maurizio vennero a trovarmi a Lanzo d’Intelvi e furono contenti di vedermi meglio rispetto a quando mi avevano visto al Sacco a Milano. Nel mese di dicembre mi arrivò il congedo illimitato dall’Arma dei Carabinieri ed ero cosciente di non poter più fare il carabiniere, questo fatto di aver perso il mio lavoro mi rese molto triste ed è per questo che spesso piangevo domandandomi perché proprio a me fosse successa una cosa così brutta. Un giorno ricevetti anche la visita medico legale per l’accertamento dell’invalidità e l’avvio delle pratiche per il riconoscimento. Rimasi a Lanzo d’Intelvi circa cinque mesi ma avevo ancora bisogno di molta fisioterapia per recuperare ancora di più le mie funzioni. Avevo fatto un grosso lavoro con l’equipe ma non bastava ed il centro non poteva più tenermi. Con l’anno nuovo, precisamente nel Gennaio 2002 fui trasferito in una nuova struttura, l’ospedale riabilitativo Domus Salutis di Brescia e riuscii ad accedervi grazie all’intervento del comando generale dell’Arma che si impegnò a trovarmi una struttura adeguata. La clinica si rivelò assolutamente d’avanguardia, cominciammo a lavorare subito nell’attrezzatissima palestra. Mi fu assegnata Livia come fisioterapista che scommesse sui miei progressi che arrivarono anche se non subito. Tutta l’equipe medica ed infermieristica era eccellente ed avevo un buon rapporto con tutti, ma sopra tutti c’era Suor Giacomina che è stata il mio angelo custode per tutta la mia permanenza all’ospedale, mi accompagnava sempre a fumare facendomi molta compagnia, sostenendomi nei momenti di tristezza, sconforto e malinconia, che erano ancora molti, e io le dimostravo il mio affetto ripetendole svariate volte: – Suor Giacomina bella come una madonnina! – Del resto lo erano tutte le suore che gestivano la struttura. Suor Paola, la capo sala e Suor Enrica, anziana, che mi imboccava e mi sbrodolava sempre ma mi faceva gran tenerezza anche quando cercava di essere severa. Suor Giacomina e Livia furono determinanti quando la direzione dell’ospedale sembrava volermi dimettere, inizialmente delusa dai progressi che non arrivavano. La loro insistenza fece si che potessi continuare la mia riabilitazione ed i fatti diedero loro ragione. Grazie al prolungamento del mio ricovero ed il grandissimo lavoro in palestra sono riuscito ad arrivare ad una buona deambulazione, cosa per la quale nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Purtroppo nonostante i miglioramenti il catetere non mi era ancora stato tolto e mi creava molto fastidio,
spesso era motivo di infezioni che mi provocavano bruciori e necessitavo di cure antibiotiche. Una vera tortura. Sembrava che fossi destinato a non liberarmene mai o almeno cosi dissero i medici a Teresa ma un giorno il dottor decise di intervenire, mi applicò un gel anestetizzante sulle parti intime e mi sfilò il catetere e cosi ricominciai ad urinare senza difficoltà. Fu una sensazione bellissima. Telefonai immediatamente a Teresa perché ero felicissimo e mi pareva di volare! La domenica andavo ad ascoltare la Santa Messa frequentata dagli operatori, dai medici e dai boy scout di Brescia che cantavano le canzoni sacre, così conobbi anche il prete della struttura con cui capitava mi fermassi a dialogare della mia vita e quando gli dicevo di essere comunista mi rispondeva sempre che esistono i cattocomunisti. Anche il dottore che mi aveva in cura era molto professionale e mi esponeva sempre i suoi pensieri dicendomi la verità,infatti un giorno preoccupato per il mio stato di salute mi fece fare, per scrupolo ,una radiografia allo stomaco ma non trovò nulla di strano. Nella struttura era presente anche una sala bar ritrovo dove veniva suonata della musica da un pianista e si poteva giocare a scacchi. Anche a Brescia fui assistito dal comandante della stazione del luogo il maresciallo Caputo che fu molto gentile con me. Mi veniva a trovare anche con sua moglie, parlavamo di lavoro, operazioni ed ogni tanto mi portava la mozzarella di bufala di cui sono golosissimo. Premetto che in ospedale di mangiava benissimo. La presenza di Teresa era costante, ogni week-end arrivava pronta a donarmi il suo sostegno e le sue cure e anche sua madre Wanna e suo fratello Paolo non mancavano mai. La loro vicinanza mi ha aiutato molto perché si sono sempre battuti per me, per trovare le soluzioni giuste e per farmi stare bene. Accompagnato da Teresa venne a trovarmi Brunendo Pio, collega della radio mobile di Milano, con il quale avevo un buon rapporto. Parlammo dei colleghi e di come stessero andando le cose alla Montebello e capii che parlare dell’arma mi provocava una strana sensazione, mi sentivo bene e mi tornarono alla mente tutti i bei momenti ati. Veniva spesso ovviamente anche Angelo Virtù molte volte accompagnato da altri miei colleghi: Servo, Argiolas, De Salvo etc... nonché i già citati. Dopo sei mesi tornai di nuovo al COF di Lanzo d’Intelvi. Di fatto a Brescia mi avevano rimesso in piedi. Avevo recuperato la totale distensione della gamba
destra e dovevo essere valutato se subire un intervento al tendine della sinistra per la quale la distensione non era completamente avvenuta. Ma non fu necessario. Iniziai un nuovo percorso di riabilitazione con le fisioterapiste, con l’obbiettivo di riuscire a stare in piedi e a camminare sostenuto per un maggiore lasso di tempo e dedicarci agli arti superiori che erano stati un po’ trascurati a favore della conquista della deambulazione. Riuscii nel mio intento e mi sentii appagato perché finalmente avevo ritrovato un pizzico di tranquillità. Mi trovai in camera con Sergio che era in coma ed era accudito ogni giorno da sua mamma Maria che spesso al bar mi offriva il caffè corretto cognac. A trovare Sergio veniva spesso anche Mario, il compagno di Maria che capitava mi portasse dei pacchetti di sigarette come regalo. In camera con noi c’era anche un ragazzo tunisino di nome Rashid, che in seguito a un arresto cardiaco causato da overdose era sulla sedia a rotelle e faceva fisioterapia insieme a me e a Sergio. Mentre mi trovavo in questa struttura, si svolsero nell’estate del 2002, i mondiali di calcio in Corea e io seguivo le partite in una stanza comune, dove ci trovavamo con i pazienti e i parenti a tifare per l’Italia. Sfortunatamente rincontrai Suor Margherita che continuava a rimproverarmi per futilità, come una volta che si arrabbiò perché stavo fumando sul balcone, ma nel frattempo mi ritenni fortunato perché c’era ancora la dottoressa Riva con cui avevo un ottimo rapporto. Il comandante Prestino veniva ancora a trovarmi e mi portava anche la pizza. Ricordo con grande piacere il giorno in cui mi venne a trovare Cristiano Maggio, comandante della stazione dei Carabinieri di Como-Rebbio, insieme al comandante Prestino, mi offrirono un caffè e il comandante Maggio mi presentò la sua famiglia, mi regalò delle cassette di Leone di Lernia, un cantante pugliese di musica anni 70 e si complimentò con me per il lavoro che svolgevo, sostenendo che avevo sempre svolto il ruolo di maresciallo con onestà e grande preparazione nella polizia giudiziaria. Finito il mio ciclo di riabilitazione a Lanzo d’Intelvi, dovetti scegliere una struttura in cui trasferirmi. Mentre ero ancora a Lanzo contattata dall’assistente sociale venne a trovarmi la responsabile di struttura del RSH Simpatia di Valmorea (Como) Pia Franchi che ammaliò me e Teresa con un sacco di
promesse , dicendoci che avrei camminato, fatto le scale e addirittura che sarei andato a cavallo. Accettammo quindi di provare ad andare in questa struttura perché i presupposti ci sembravano buoni. Scoprii solo dopo che ciò che mi diceva la signora Pia erano menzogne. La tipologia degli ospiti presenti non aveva nulla a che vedere con me, le mie patologie ed i miei bisogni. Infatti al Simpatia non mi trovai molto bene ed ebbi numerosi screzi con la capo struttura Gina che spesso usava brutte parole nei miei riguardi e faceva battute infelici sul mio stato di salute. Rimasi soprattutto deluso dall’assenza di qualunque fisioterapia promessa e che per me era ancora importantissima. Non potevo permettermi di perdere terreno rispetto a tutto quello che avevo guadagnato. E protestavo. Per tutta risposta un giorno Oreste, il tirapiedi di Gina, mi portò a fare una visita psichiatrica, mi vennero prescritti diversi psicofarmaci per calmarmi e quando Teresa mi vide sotto l’effetto di questi medicinali si arrabbiò molto e fu contraria al metodo che stavano utilizzando. Un altro dispetto che mi fecero fu quello di buttare in spazzatura i supplì che mia sorella mi aveva portato come regalo in una sua visita; Peppuzzo, l’infermiere che aveva compiuto il gesto si giustificò dicendo che non potevo mangiarli. In questi giorni in cui mia sorella e mio cognato vennero a farmi visita ,uscimmo a pranzo tutti insieme e andammo in un ristorante vicino a Valmorea dove mangiai gli spaghetti allo scoglio e festeggiammo il compleanno di Maria Grazia. In questa struttura erano presenti persone con diverse disabilità tra cui ricordo Romina che si trovava sulla sedia a rotelle e che giocava spesso al computer con Fofò, un’ospite che sulla sua carrozzina aveva il simbolo della Ferrari, Stefania con cui spesso fumavo, Mohamed che era ipovedente e che fumava sigarette Merit. In camera con me c’era Pasqualino un milanista di circa 50 anni ex dipendente comunale. Era sposato con Santina e aveva un figlio di nome Giulio e ricordo che ascoltava sempre le canzoni di Lucio Battisti. Trascorsi l’Epifania qui al Simpatia e la situazione fu animata della mamma di Romina che si travestì da Befana .Io non capii subito di chi si trattava,ma poi riconobbi la voce e ricordo che si creò un pomeriggio di divertimento e risate. Solitamente venivo imboccato da Caterina che era una ragazza giovane sui vent’anni, stipendiata dalla struttura, che esprimeva idee politiche simili alle mie, ma c’erano anche molti volontari come ad esempio Raffaele e Armando,
che ci facevano compagnia leggendoci i quotidiani e a me in particolare leggevano il mensile dei Carabinieri, Fiamma d’argento. Raramente camminavo con Cristina e Roberta, due educatrici ed era una grande soddisfazione, se non fosse stato per le considerazioni di Gina che mi innervosivano, infatti vedendomi solo mi disse: – Visto che cammini perché non vai a trovare i tuoi amici a Milano? –. Come attività fisioterapica c’era anche la piscina anche se dovevamo recarci fuori dalla struttura. La partecipazione a questa attività era subordinata al fatto che i parenti si fero carico di accompagnare i propri malati se no niente. Teresa ovviamente lavorava e mi portò solo la prima volta. Le poche volte successive si offri un mio collega Compagno che grazie ai turni aveva disponibilità di tempo. Quindi ci spostavamo in un paese vicino, mi aiutava a fare la doccia e mi riaccompagnava in struttura e quando arrivavamo prendeva in giro le ospiti donne fingendo di essere omosessuale e tutti ridevano molto. L’unica televisione che c‘era si trovava nel salone centrale così capitava spesso che dopo cena fumavo l’ultima sigaretta della giornata e andavo a letto ad ascoltare la radio, anche perché sca,un infermiera, mi regalò delle cassette dei 99 Posse che ascoltavo molto volentieri. Non trovavo soddisfazione nemmeno a fare musicoterapia, svolta da un signore se di nome Jacques, che consegnava a ogni ospite uno strumento musicale e a me assegnava sempre le maracas e a Mohamed il tamburello. E tantomeno in sedute pseudo psicologiche dove mi veniva richiesto di immaginare di camminare liberamente su una spiaggia. Eh no questo è troppo! Durante la mia permanenza assistetti anche ad un litigio tra Marino, molto irascibile e Toni, un obbiettore di coscienza, a cui Marino lanciò di punto in bianco un coltello da cucina ma se la presero con me. Fortunatamente in quell’occasione era presente Teresa che vide tutto e mi difese. L’insieme di eventi e situazioni negative stavano degenerando. Ad allietare alcune delle mie giornate c’era il mio amico di sempre Angelo, che mi faceva visita e mi portava in dono pacchetti di sigarette che sapeva mi facevano piacere e mi accompagnava fuori a bere il caffè, a volte si accompagnava anche con altri colleghi. Ogni tanto capitava che venisse a farmi visita anche Brunendo Pio, così un giorno quando venne da me in struttura erano presenti anche Teresa e sua mamma e andammo a bere un caffè in un bar. Durante il tragitto in macchina
Antonio andava veloce per divertirmi e ricordarmi i tempi ati insieme nell’arma dei carabinieri, io riuscii a bere il caffè corretto cognac e a fumare qualche sigaretta in più rispetto a quelle che potevo fumare di solito. Ma al Simpatia stavo perdendo tempo: non c’era una vera assistenza, nessuna fisioterapia degna di questo nome, nessuna attività possibile, non facevo nessun progresso anzi regredivo; eravamo parcheggiati li riempiti di psicofarmaci per disturbare il meno possibile. Teresa mi portava a casa ogni week-end e mi disintossicava da tutti gli psicofarmaci che mi davano. Riuscii finalmente ad andarmene ma come ultimo sgarro non mi diedero i farmaci che abitualmente prendevo sostenendo che erano a carico della struttura ricevente ma come ben sapevano ci sarei andato dopo due giorni. Soprattutto non mi diedero il Gardenale, il medicinale che evitava di farmi venire le crisi epilettiche e Teresa dovette procurarselo attraverso il suo medico di famiglia. Nel frattempo, finalmente, dopo due anni dall’inizio della mia malattia, iniziai a percepire l’accompagnamento per disabili, compreso anche degli arretrati che non avevo ricevuto fino a quel momento. Il 2 febbraio 2003 arrivai al Vita Residence di Guanzate accompagnato da Vanna e Achille Gaggini, il suo vicino di casa. Il presidente era il dottor Oliva, poi c’era il dottor Pellegrino, la dottoressa Monica Baldini e l’amministratore delegato Bossi. La capo struttura sca Consonni. Il cambiamento fu radicale. La casa ospitava pazienti di vario tipo sia anziani in che disabili a vari livelli come comatosi e stati vegetativi. I tre piani della struttura erano divisi per gravità e fui sistemato al piano terra, in zona R.s.a. (Residenza sanitaria assistenziale). La riabilitazione ricominciò immediatamente e quotidianamente grazie all’attrezzata palestra, la piscina interna e personale specializzato. Il mio primo fisioterapista fu Aloi, un ragazzo spagnolo. Lavoravamo molto, dovevo recuperare tutto il tempo perso al Simpatia. Grazie a lui ho cominciato a fare le scale, altro traguardo che sembrava irraggiungibile. Mi faceva esercitare anche negli addominali sulla panca e tutti i giorni mi allenavo con la cyclette, sabato compreso. Facevo riabilitazione alle braccia che era molto dolorosa e con lui avevo un buon rapporto. Parlavamo spesso di calcio e di politica, ritrovandoci a discutere e a ridere di questi temi. A volte capitava avesse degli atteggiamenti poco professionali, come un giorno in cui mi disegnò un teschio con le tibie incrociate sulla mano e quando Franca, un’assistente privata che divenne mia amica, se ne accorse me lo riferì. Mi sottoposero ad ulteriori verifiche per testare le mie capacità residue. Sotto
suggerimento dei medici, Aloi un giorno provò a farmi toccare dei numeri di cartone, nella speranza che con il tatto riuscissi a riconoscerli, ma purtroppo mi fu diagnosticata anche un’agnosia tattile ovvero, avevo perso la sensibilità necessaria a riconoscere gli oggetti al tatto. Non avrei mai potuto imparare il Braille. Mi trovai subito a mio agio in questa struttura per svariati motivi. Era molto più bella ed adeguata della precedente con attività ludiche e la presenza fissa di un’educatrice che si occupava di leggere il giornale e che a volte mi faceva ascoltare le cassette di Franco Battiato. Si chiamava Anna, ma dopo poco se ne andò e venne sostituita da Gabriela. La domenica si faceva sempre aperitivo tutti insieme, mangiavamo pizzette e bevevamo spumante. Il momento del pasto era diviso tra le persone disabili che mangiavano al piano terra perché assistite dagli operatori, mentre le persone abili mangiavano al primo piano, dove si trovava un ristorante i cui piatti venivano serviti da Silvana e successivamente da Giovanna, una ragazza brasiliana. Ogni giorno facevo la doccia e venivo aiutato da Maria e Germana, ero felice di ciò perché non capitava spesso di trovare strutture che lo fero. I primi tempi al Vita Residence mi capitava la notte di sognare Lisa, la mia ex fidanzata, che mi chiedeva di sposarla; io mi svegliavo in lacrime urlando e questo incubo durò per qualche tempo, ma poi finalmente un giorno smise. A settembre andai al matrimonio del mio amico Angelo che si sposava con Anna vicino a Piacenza. In quella giornata di festa conobbi la famiglia di Angelo e ritrovai due amici della radio mobile di Milano, sco De Salvo e Pasquale Seclì. In struttura svolgevo delle attività ricreative con un educatrice, Gabriela, che mi riconobbe subito perché abitava a Pantigliate dove anni fa facevo servizio. Insieme a Gabriela leggevamo il giornale e l’oroscopo, peccato che non sapeva parlare molto bene l’italiano e spesso capitava che ciò che leggeva non fosse molto comprensibile, sia a me, sia agli anziani presenti in struttura. Ricordo che alle volte mi faceva ascoltare le canzoni di Janis Joplin con le cuffie. Ci venne l’idea di scrivere un libro autobiografico ma trovai sempre le stesse difficoltà linguistiche anche se non ci impedì di gettarne le basi. Purtroppo un
giorno venne lasciato il mio computer Toshiba incustodito nell’armadio della mia stanza e me lo rubarono. Per rimediare al brutto episodio di cui fui vittima, sotto suggerimento di un impiegato degli uffici sco Marino, la struttura me ne ricomprò un altro, un HP, che sto utilizzando tuttora. TO BE CONTINUED.... Guanzate, 31/12/13