VITE SFIORATE
Titolo | Vite sfiorate Autore | Luca Corna Immagine di copertina a cura dell’Autore ISBN | 9788891123251
Prima edizione digitale 2013
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Otto persone, otto sconosciuti, otto vite che in un giorno qualunque si sfiorano. La casualità degli incontri, pochi minuti in cui il sorriso di un estraneo, uno sguardo, un gesto involontario celano una storia. Vite spesso lontane tra loro, vite felici, vite disperate, vite normali e vite assurde. Vite che si sfiorano e per un attimo si lasciano sfiorare.
L’ASCENSORE
I GUANTI ROSSI
IL MOTO FLUTTUANTE
L’ESSENZA DI LAVANDA
IL BINOCOLO
IL TICCHETTIO
LA GIACCA DA HOCKEY
IL SORRISO SPONTANEO
GLI OCCHI COLMI
CINQUANTACINQUESIMO PIANO
L’ASCENSORE
Seconda metà di Gennaio. Fuori la neve, al di là dei vetri appannati si scorgeva il normale caos mattutino della città. Tra la folla una giovane ragazza entrò nell'edificio dalla porta girevole sulla trentaduesima. I capelli biondi nascosti da un berretto nero lasciavano cadere una ciocca sul viso. Il cappotto pesante, gli stivali scuri sporchi di neve e l'ombrello ormai chiuso sembravano nasconderla in mezzo alla confusione della hall. Se non fosse stato per i guanti in lana di un rosso , lo sguardo timido e la camminata veloce verso gli ascensori non lasciavano intendere nulla di lei.
Giusto quando le porte del secondo ascensore di destra si stavano per chiudere, riuscì a entrare. Nell'intenzione di scegliere il piano, la mano, ancora con il guanto rosso, sfiorò quella dell'uomo accanto a lei per poi ritirarsi subito, come se non l'avesse mai toccata. L'uomo con un mezzo sorriso circondato da una barba ben curata le rivolse parola: "Anche lei al cinquantacinquesimo?". La ragazza frettolosamente rispose: "Sì, grazie". Le porte si chio. L'uomo con la barba la fissò per qualche secondo quasi compiaciuto del suo rossore. Ottavo piano.
Era un uomo sulla quarantina, aveva l'aspetto del tipico manager in carriera, ben vestito e curato. I suoi occhi erano azzurri, un azzurro intenso, molto chiari quasi tendenti al grigio. Era sicuramente consapevole del suo fascino e in qualche modo avrebbe voluto continuare la conversazione con la ragazza. Nello stesso momento il silenzio dell'ascensore venne interrotto da un brusco starnuto. Diciassettesimo piano.
Una vecchia signora rivolgendosi al bambino alle sue spalle disse: "Salute". Prima che il bambino potesse educatamente risponderle grazie, aggiunse: "Hai preso freddo?”, “D'altronde con questo tempo bisogna coprirsi bene, erano anni
che non nevicava così”. “Ricordo che alla tua età aspettavo solo che nevicasse per giocare con le mie sorelle”. “Ti piace la neve?". Il bambino sorrise e annuì con la testa. Ventiquattresimo piano.
La signora reggeva due grosse borse della spesa, aveva i capelli lisci completamente bianchi e di una lunghezza fuori dal comune. Le mani a differenza del viso portavano il segno del tempo trascorso. Sembrava una di quelle vecchiette garbate sempre interessate a scambiare quattro chiacchiere con qualcuno. Oltre al sorriso la cosa che più si notava di lei, era l'intensa essenza di lavanda che emanava e che impregnava tutt'attorno l’ascensore.
Continuando la conversazione disse al bambino: "Nel tuo Paese c'è la neve?". Il bambino grassottello di origine asiatica, sistemandosi lo zainetto sulle spalle, le rispose: "Non lo so, vivo qui da quando sono nato". Trentunesimo piano.
Nell'angolo in fondo all'ascensore una donna dallo sguardo severo sembrava quasi infastidita dalla loquacità della vecchietta. All'ennesima domanda fece uno sbuffo di disapprovazione. I capelli rossi, l'aspetto magro e il continuo ticchettio delle dita sulla targa dorata dell'ascensore lasciavano intendere uno stato d’inquietudine. Sembrava aver fretta e allo stesso tempo voglia che le porte si aprissero. Fissava il soffitto. Trentanovesimo piano.
Il ragazzo accanto a lei doveva avere poco più di vent'anni. Pantaloni larghi e giacca da hockey su ghiaccio. La testa rasata era nascosta dal cappuccio della felpa e alle orecchie due di quelle grosse cuffie che si usavano un tempo. Mordicchiava insistentemente il labbro inferiore giocherellando con il piccolo piercing. Si accorse dello scambio di sguardi tra la ragazza dei guanti rossi e l'uomo con la barba. Per qualche secondo in qualche modo sembrò voler essere quell'uomo, sembrò voler avere il coraggio di sorridere alla ragazza. Quarantaduesimo piano.
Nelle cuffie i Beatles cantavano: "Hold me, Love me". Continuava a fissare l'uomo con la barba quando di fronte a lui si accorse che qualcun altro canticchiava a sottovoce il motivo della canzone. Doveva aver il volume delle cuffie troppo alto pensò. Era un uomo di colore di mezz'età, vestito con una tuta blu, portava sulle spalle un borsone pieno di lettere. Pensò fosse un corriere. Quarantottesimo piano.
Anche l'uomo dalla tuta blu si accorse del ragazzo, capendo la situazione non esitò a mostrare un sorriso spontaneo, uno di quei sorrisi da bambino e tanto bianco quanto lo sono solo i sorrisi delle persone di colore. Era un uomo dall'aspetto bonario, spontaneo, sembrava felice. Forse con l'intento di nascondere l'imbarazzo si levò il cappello, anch'esso blu come la tuta e, portando la mano alla fronte, si sistemò i corti capelli brizzolati. Cinquantesimo piano.
Dalla tasca semiaperta dello zainetto del bambino grassottello cadde qualcosa, forse un binocolo. La ragazza al suo fianco si chinò per raccoglierlo e porgendolo al bambino disse: "Tieni ti è caduto dallo zaino". Il bambino sorrise, ringraziò e strinse al petto l'oggetto. La ragazza era piuttosto esile e minuta, sotto la giacca aperta portava un camice da lavoro color celeste. Doveva lavorare nella clinica privata ai piani alti, i capelli ricci castani erano raccolti in una treccia. Guardando il bambino gli occhi le divennero rossi e colmi di lacrime. Cinquantacinquesimo piano.
I GUANTI ROSSI
La prima di due sorelle, Lisa nacque una trentina di anni prima in una soleggiata casa di periferia. Lontana dal traffico e dalla confusione della città, quella casa era speciale per lei. A differenza delle case delle sue compagne di classe, la sua era in stile inglese e aveva un gran giardino tutt'attorno. Le tegole del tetto erano color cioccolato e le finestre rosse. Qui viveva con la madre Marion e con Susan, la pestifera sorella di nove anni più piccola. La madre era una figura fondamentale nella vita di Lisa, entusiasta e sempre sorridente, non si arrendeva di fronte a nulla pur di vedere felici le figlie. Effettivamente agli occhi di tutti sembrava essere riuscita nell'intento di colmare il vuoto lasciato dal padre. Lisa aveva poco più di dodici anni quando un giorno di Novembre tornando a casa trovò la madre china sul tavolo della cucina. Le mani giunte sul capo e lo sguardo perso nel vuoto, fissava la parete, negli occhi il dolore e la paura. Fu la prima e l’unica volta che vide sua madre in quelle condizioni, forse non era la donna forte e invincibile che credeva, per la prima volta ebbe la sensazione di volerla proteggere come si protegge qualcuno d’indifeso. Il ricordo di quello sguardo la tormentò per diversi anni. Il padre era uscito di casa la mattina per non far più ritorno. Da qualche tempo all'oscuro delle bambine le cose tra lui e Marion non andavano bene e dopo l'ennesima litigata silenziosa della notte, la mattina decise di andarsene. Dovettero are quasi diciotto anni per rivederlo in una grigia stanza del New York Presbyterian Hospital. Nel giro di poco Marion agli occhi delle figlie era tornata la mamma di sempre, per loro aveva deciso di dimenticare, ogni mattina ingoiava il dolore come s’ingoia una manciata di vetro e in qualche modo trovava la forza per andare avanti. Le svegliava con un sorriso, cantando dietro ai fornelli preparava loro la solita colazione e all’ora di partire non mancava di salutarle con un caldo bacio sulla fronte. Non appena rientrava in casa però, gli occhi le si riempivano di vuoto e si ritrovava spesso seduta a fissare il muro nella stessa posizione di quella stramaledetta mattina. Non voleva dividere il peso della sua vita con le figlie, non ne aveva il diritto, non poteva prendersi la libertà di mollare tutto, di arrendersi. Era una madre e come tutte le madri si sarebbe sacrificata, avrebbe superato ogni prova e lottato fino all’ultimo giorno.
Con gli anni le figlie le parvero crescere felici, Lisa da subito comprese la madre, sapeva cosa si celava dietro il suo sorriso e dietro la falsa felicità che si era creata. Non avrebbe potuto parlarle, non voleva farla star male, farle capire che conosceva il suo dolore. Vedere la figlia farsi carico del suo peso sarebbe stato l’ennesimo fallimento. Susan era più ribelle, la mancanza di una figura maschile, contrariamente a tutti gli sforzi di Marion, lasciò in lei un senso d’incompiuto. Conservava un ricordo sbiadito del padre, poche immagini, si ricordava come la sua barba le pungeva le guance quando la baciava, si ricordava di quando per gioco sdraiati sul divano la faceva volare in aria per poi riprenderla con quelle mani tanto grandi. Le mani sono impresse anche nel ricordo di una festa, forse Natale o il suo compleanno, quelle mani le porgevano un ippopotamo di peluche color viola, più volte invano lo aveva cercato tra i suoi giochi. Pochi ricordi, per lo più trasformati dal tempo o forse solo frutto della fantasia. In fondo lei quella tragedia non l’aveva vissuta sulla sua pelle, il padre avrebbe voluto conoscerlo e a volte pensava che forse un motivo ci fosse se era scomparso così dalle loro vite. Tendeva a giustificarlo, si era costruita nella testa quest’immagine di lui lontano partito contro volontà e sperava potesse un giorno far ritorno. Sotto il cuscino conservava una sua foto, aveva sì e no trent’anni, l’aveva trovata in un barattolo in soffitta. Un giorno la mostrò a un’amica raccontando che suo padre era in Iraq per difendere il Paese e che presto avrebbe potuto riabbracciarlo. Forse erano state delle figlie cattive o forse era stata la madre ad aver sbagliato, per colpa sua se ne era andato. Quest’ultimo dubbio inconsapevolmente aveva fatto crescere in lei un certo rancore nei confronti di Marion. Anche in età adulta, quando ormai quei pensieri non facevano più parte di lei, c’era sempre un sottile distacco tra lei e la madre. Tutte le sue scelte la portarono inevitabilmente ad allontanarsi dalla famiglia, in quella casa si sarebbe sentita sempre incompiuta, il college decise di farlo lontano, forse avrebbe trovato altrove quello che da tempo cercava. Lisa, al contrario, aveva sviluppato quasi un rapporto morboso con la madre. Se tardava, era lei a chiamarla, era lei a preparare la cena la sera e nelle poche volte in cui Marion usciva con le amiche, lei la aspettava sveglia a casa. Di ritorno dall’ennesima vacanza sola con la madre, nel momento della scelta del college, a differenza di Susan, scelse quello più vicino a casa di modo da poter continuare a vivere dove era cresciuta. Non aveva molte amiche e ai ragazzi difficilmente dava modo di aver un contatto. Da sempre lei era la ragazza timida che in classe arrossiva a ogni domanda, nessuno la notava e la conosceva veramente, era quel
tipo di ragazza a cui nessuno chiedeva una dedica sull’annuario scolastico. Tutto sommato a lei non interessava, si era abituata a questa situazione e tutta la sua vita sembrava girare attorno alla figura della madre. Marion lo sapeva e anni dopo seduta di fronte a quell’uomo con il camice bianco il suo primo terrificante pensiero andò proprio a Lisa. Erano mesi che si sentiva stanca, aveva perso qualche chilo, sapeva che qualcosa non andava. La mattina si svegliava con un costante lieve mal di testa, di rado la nausea le permetteva di fare colazione, la giornata la ava trascinandosi a forza tra i vari impegni e la sera crollava nel letto esausta. Come sempre nella sua vita, anche quella volta decise che poteva fare da sola, non doveva creare più problemi di quanti già ne avesse creati alle figlie. Era da sola nel momento in cui il medico pronunciò la parola “carcinoma pancreatico” e da sola fissava lo sguardo comionevole di quell’uomo. Non le diede speranze, parlò di pochi mesi, avrebbe potuto piangere, disperarsi ma semplicemente raccolse tutte quelle carte e uscì dalla clinica. Fuori la neve era fitta, le sue mani erano gelide, camminando il suo sguardo si posò su una vetrina, entrò e senza pensarci comprò un paio di guanti. Solamente fuori dal negozio, nel momento d’indossarli, si accorse del loro colore, erano rossi. Il rosso non le era mai piaciuto, ma quella volta senza una ragione non esitò nella scelta. Era un rosso , per un momento si scordò delle parole del medico e ripensò a quando da piccola sua madre si ostinava nel farle indossare quella spessa gonna rossa di flanella e quei calzettoni a quadretti che detestava, forse per quello non amava troppo il rosso. Nel giro di pochi secondi la sua testa si riempì di domande, pulsavano come una ferita aperta, come fare a dare la notizia, come avrebbe reagito Lisa, cosa ne sarebbe stato della sua vita. Neanche per un momento pensò a se stessa, sembrava non aver paura della morte, la sua vita d’altro canto si era spenta anni prima. Prese la metropolitana nella direzione opposta, solo dopo quattro o cinque fermate se ne rese conto. Cambiato il vagone, si sedette a pensare. Per un momento avrebbe voluto solo farla finita, ma poi comprese che sarebbe stato meglio solo per lei. Le figlie non avrebbero capito, così come con il padre, si sarebbero sentite tradite, avrebbero sofferto ancora. Come sempre quindi prese la decisione migliore per loro, non lo avrebbe detto quella sera forse l’indomani o forse nel fine settimana quando Susan sarebbe tornata a casa per le vacanze.
Entrata in casa trovò Lisa indaffarata in cucina, aveva il libro aperto su una ricetta di biscotti. I capelli erano raccolti da un elastico e il grembiule che portava in vita era per metà ricoperto di farina. Non si accorse subito della madre alle spalle, era troppo concentrata nel ripetere mentalmente il dosaggio degli ingredienti. Nel girarsi la vide e le sorrise. Per un attimo Marion in quel sorriso rivide lo stesso sorriso di quando Lisa la riconosceva tra il gruppo di mamme all'uscita di scuola. Come il grembiule la farina era un po' ovunque, Marion le si avvicinò e con la mano le pulì la guancia destra. Risero senza dir nulla. In quel momento Lisa si accorse dei guanti rossi, le punte delle dita erano ora sporche di bianco, volle provarli. La domenica Susan e Lisa dormirono fino a tardi, la sera prima si erano aggiornate sulle ultime novità, in realtà a parlare fu quasi per tutto il tempo Susan eccitata dalla nuova vita fuori casa. Lisa come sempre ascoltò pazientemente la sorella, era felice che fosse tornata. Quella mattina Marion si chiuse in bagno, allo specchio cercava le parole giuste con cui rivelare alle figlie il suo atroce segreto. Non aveva pensato a nessun discorso e per un momento si chiese se stesse facendo la cosa giusta. Le ragazze si svegliarono e trovarono preparata la colazione sul tavolo del grande terrazzo sul retro. Faceva freddo ma Marion voleva che quella fosse una colazione speciale e disse alle figlie di mettere la giacca sopra il pigiama e di munirsi di sciarpe e guanti. Sorrisero e la seguirono. Al centro del tavolo un vaso di fiori finti e delle candele, Marion versò a entrambe il latte, tiepido a Susan e ben caldo a Lisa. La sera prima mentre le figlie erano chiuse in camera a raccontarsi i loro segreti aveva preparato una torta di carote e dei biscotti di uvetta e noci. Fu una delle colazioni migliori della loro vita, le ragazze erano felici, risero ricordando l'espressione di Susan poco prima di atterrare sul pavimento e di rompersi l'avambraccio. Un'estate la madre fece montare una di quelle piscine da esterno proprio su quella terrazza, dopo l'incidente la richiuse nello scatolone e per anni rimase in soffitta a prendere polvere. Quando anche Lisa terminò la sua fetta di torta, Marion si fece coraggio e tutto d'un fiato rivelò il suo dramma. Parlò della sua malattia, era stata dal medico ma purtroppo non c'era nulla da fare, l'aspettativa era di pochi mesi. Le ragazze si paralizzarono Lisa lasciò cadere a terra il cucchiaino che aveva tra le mani e Susan scoppiò a piangere. Entrambe avevano gli occhi pieni di terrore, Susan la abbracciò mentre Lisa corse in camera. Le mani sulla tastiera del computer le tremavano, non riusciva a scrivere quelle maledette parole: “carcinoma
pancreatico”. Cercò la definizione, le parole poco a poco sfuocarono per poi spegnersi del tutto, cadde a terra svenuta. Le prime settimane furono devastanti, Susan cominciò a cercare ovunque specialisti in grado di curare il male della madre, ma ogni volta la speranza veniva rimpiazzata dal dolore e dalla rabbia. La solita risposta, purtroppo il tumore era inoperabile. Lisa si era chiusa in sé, a stento aveva emesso parola nei primi tempi. Come avevano predetto i dottori, la madre peggiorò e in poco tempo dovette farsi ricoverare al New York Presbyterian Hospital. Uno degli ultimi giorni in quella fredda stanza dell'ospedale ricevette la visita di un uomo su di età. Nell’ultimo anno Susan era riuscita in qualche modo a riallacciare i rapporti con il padre. L'aveva trovato grazie ad un vecchio amico di famiglia e all'insaputa della madre e di Lisa lo aveva contattato telefonicamente. Non lo aveva perdonato, solo per se stessa era andata alla ricerca di quell’uomo, non meritava perdono. Viveva in un altro Stato dalla parte opposta del Paese, era solo e ormai vecchio. Decise nell’autunno precedente alla malattia della madre di incontrarlo. Rivederlo le suscitò un insieme di sensazioni contrastanti, da un lato la rabbia e il risentimento per tutto quello che quell’uomo le aveva portato via e dall’altro la speranza di avere delle motivazioni reali per giustificare la sua scomparsa. In fondo nessuna spiegazione le sarebbe bastata, voleva solo dare un volto a suo padre. Si erano dati appuntamento in una tavola calda nella secca e desolata cittadina dove viveva il padre. Lui la aspettava seduto al tavolo, guardandolo per un momento Susan provò una certa pena, era vecchio e non sembrava in buonissime condizioni. I capelli erano pochi e quasi del tutto bianchi, la pelle del viso era solcata da profonde rughe e le mani, che Susan ricordava tanto grandi e forti, adesso sembravano poter reggere solo quella sigaretta fumata per metà. Parlarono molto, Susan non ebbe le spiegazioni che voleva, ma tutto sommato nel tornare a casa, seppur sconvolta, sentiva di aver chiuso per sempre quella questione. Non lo avrebbe mai più cercato. Negli ultimi giorni in ospedale lo confessò alla madre, si sentiva in colpa e, anche se aveva paura di farla soffrire, decise di esser sincera. Marion inaspettatamente volle incontrarlo. Fu così che organizzarono l’incontro la settimana seguente. Lisa non ne seppe nulla fino a quel pomeriggio.
Entrando nella stanza della madre lo vide seduto accanto al letto. Il padre non ebbe il coraggio di reggere lo sguardo della figlia, abbassò la testa e continuò nervosamente a giocherellare con i guanti rossi che aveva trovato sul comodino di Marion. Susan aveva le spalle appoggiate alla finestra che dava sul cortile interno dell’ospedale. Fuori aveva da poco iniziato a piovere. Lisa non esitò un minuto a riconoscerlo, tutto sommato lei era già grande quando il padre sparì dalle loro vite. Guardò la madre, si avvicinò e la baciò sulla fronte. Salutò la sorella e inaspettatamente si girò verso il padre. Si avvicinò così tanto che Susan ebbe quasi paura che le sue intenzioni fossero di schiaffeggiarlo. Lisa poteva vedere ogni singola ruga, ogni capello bianco, poteva sentire l’odore di tabacco che emanava. Nessuna smorfia, nessuna parola, lo sguardo gelido di Lisa dava al silenzio di quei pochi secondi il significato che mai le parole avrebbero potuto dare. Prese i guanti rossi e uscì dalla stanza. Non lo rivide mai più. Marion morì la settimana seguente.
IL MOTO FLUTTUANTE
Gli occhi si aprirono a fatica, a stento riconobbe la camera. Nelle orecchie un fischio continuo. Nel tentativo di girarsi sul fianco la testa gli sembrò esplodere e la nausea gli strappò un secco conato. Marco era disteso pancia all’aria, portava solo le mutande e le lenzuola umide e stropicciate nelle poche ore di sonno si erano ammassate ai piedi del letto.
Il caldo e l’aria pregna degli odori della notte non facevano che aumentare la sua nausea. Nella penombra della camera allungò una mano sotto il letto nel tentativo di raggiungere la valigia ancora intatta. Ricordava di aver riposto nella tasca frontale dei farmaci, ma non riuscì a trovarli. Per qualche minuto riprese la posizione iniziale sperando che quell’incessante martellio in testa gli desse pace. Le pale del ventilatore sopra il letto continuavano a girare a velocità due. Si riaddormentò e dopo un tempo imprecisato si svegliò, ora il sole dietro la tenda della camera d’albergo era più alto. Grazie alla luce più decisa si accorse di essere solo in camera, accanto a lui nel letto matrimoniale non c’era più nessuno. Come sempre si ripromise di non toccar più alcool. Si soffermò a guardare alcuni dettagli della camera, probabilmente la sera prima non aveva avuto il tempo di notarli o più facilmente non era nelle condizioni di prestarci attenzione. Per un momento si chiese dove fosse e se quella fosse realmente camera sua.
Ora la nausea era diminuita, il mal di testa invece non gli dava tregua. Con tutte le sue forze ed esitando non poco nel camminare andò in bagno. Pisciò e spogliatisi gli slip, si buttò sotto la doccia gelata. Dai tempi del college dopo ogni sbornia l’acqua fredda pareva dargli sollievo. Aprendo la bocca ne bevve quattro o cinque sorsi. S’insaponò i capelli e la barba, era un uomo prestante, molto alto e dalle spalle larghe. I capelli corti e neri e la barba facevano risaltare ancor di più gli occhi azzurri.
Il padre era di origine italiana e come tanti aveva cercato fortuna altrove. Era partito dalla sua città nel nord dell’Italia poco più che ventenne e qui si era costruito un’attività. Come tutti gli immigrati inizialmente si era arrangiato alla meglio, aveva svolto ogni tipo di mansione. Per lo più lavori umili, dopo una decina di anni le cose erano migliorate, aveva trovato impiego come taxista, ma poi gli orari e la voglia di riscatto lo avevano portato a realizzare il suo vero sogno. A metà degli anni sessanta, con tutti i risparmi che aveva racimolato, decise di aprire una pasticceria in un quartiere periferico. Fu proprio in quegli anni che incontrò la madre di Marco.
Johanna era figlia di una coppia tedesca emigrata dalla Germania poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il padre, professore di filosofia e contrario al regime nazista, capì che la scelta migliore per la loro sicurezza era di trasferirsi all’estero. Così Johanna, che tutti impararono a chiamare semplicemente Anna, crebbe lontano dalla sua Germania. Conservava un ottimo ricordo dei primi anni e avrebbe voluto un giorno tornare a visitare i luoghi della sua infanzia.
Marco, figlio di due emigranti, era nato e cresciuto in America. Sentiva di essere americano, ma allo stesso tempo in parte italiano e tedesco, spesso scherzando si definiva cittadino del mondo. Aveva la carnagione e i capelli scuri del padre e gli occhi azzurri della madre. Da sempre considerava l’essere figlio di stranieri una risorsa, oltre l’inglese parlava perfettamente il tedesco e l’italiano e al college aveva studiato spagnolo. Il conoscere più lingue e l’apertura mentale ereditata dai genitori l’avevano portato a viaggiare molto.
Aveva deciso di non seguire il padre nel negozio di pasticceria e si era laureato in ingegneria. Finito il college, dopo qualche esperienza di lavoro all’estero, aprì una società con un vecchio compagno di studi. Alla soglia dei quarant’anni si poteva definire un uomo realizzato, da sempre era riuscito in ogni suo intento. Era colto e dava l’impressione di sentirsi a suo agio in ogni situazione e in mezzo ad ogni tipo di persona. Sapeva come comportarsi nei contesti più formali e allo stesso tempo non si faceva problemi nel parlare con un senzatetto in strada
o nel prendere il sole a piedi scalzi nel parco in pausa pranzo. Non gli mancava quel pizzico di follia, nel gruppo dei vecchi amici era lui il primo che proponeva le cose più assurde. Perdendo una sfida, pur rischiando di essere arrestato, aveva dovuto correre nudo per un centinaio di metri in Central Park.
L’unica cosa che proprio non andava giù alla madre era che alla sua età non avesse ancora trovato la donna della sua vita. Dopo una travagliata storia alla fine del college erano ormai quindici anni che si definiva single. D’allora era ato da ogni tipo di ragazza, era consapevole delle sue qualità e a differenza della madre non sembrava per niente interessato a sistemarsi definitivamente. I suoi amici in parte ammiravano e invidiavano il suo stile di vita.
Proprio per questo quando il vecchio compagno di camera divorziò dalla moglie, i due decisero di partire per un viaggio a Las Vegas. D’altronde tutto ciò che succede a Las Vegas, rimane a Las Vegas si dissero. Marco voleva farlo divertire come ai tempi della scuola. Dave da sempre aveva sfruttato la sua intraprendenza, soprattutto con le donne. Si erano un po’ persi di vista negli ultimi tempi, ma la loro amicizia era rimasta intatta. Potevano anche non sentirsi per mesi, ma dopo cinque minuti insieme avevano la sensazione che le cose tra loro non fossero mai cambiate. Dietro la spalla destra avevano lo stesso tatuaggio fatto anni prima in un pomeriggio d’estate. Anche se ormai era un po’ sbiadito dal tempo, Marco ne era molto fiero. Capitava spesso che gli riportasse alla mente vecchi ricordi e anche nel momento in cui uscì dalla doccia non poté che sorridere nel rivederlo. Solo allora si ricordò di Dave, non sapeva dove fosse, ricordava solo a tratti la serata trascorsa.
Erano partiti la mattina del giorno precedente con direzione Las Vegas. Doveva essere un weekend indimenticabile per esorcizzare il brutto periodo di Dave. Si erano dati appuntamento in aeroporto. Marco si fece trovare già in pantaloncini, canotta e infradito, in pieno stile Las Vegas. In una mano teneva due sigari e nell'altra una grossa bottiglia di tequila. Solo poche ore prima si era liberato del suo completo carta da zucchero, con camicia bianca e cravatta coordinata. Aveva sempre odiato ogni tipo di camicia, soprattutto quelle strette al collo, ma
all'interno dell'ambiente lavorativo non aveva altra scelta.
Dave, al contrario, era vestito più sobriamente, vedendolo da lontano Marco si rese conto quanto negli ultimi anni fosse invecchiato. I capelli erano ormai sale e pepe e sotto gli occhi si scorgevano due profonde borse. Forse il suo aspetto dismesso era il frutto degli ultimi anni di vita matrimoniale. Si era sposato molto giovane, appena finito il college. La moglie era la fidanzata di sempre e agli occhi di tutti la loro era una coppia perfetta. Le cose iniziarono ad andar male qualche anno dopo quando nonostante i diversi tentativi non riuscirono a realizzare il sogno di diventare genitori. Non avevano impedimenti fisici, i medici non sapevano spiegarsi il motivo, ma dopo esami di ogni tipo e tre aborti, uno dei quali al sesto mese, abbandonarono dolorosamente l'idea. La moglie in cuor suo non riuscì a superare il trauma e inconsapevolmente incolpò Dave di questo fallimento, così anno dopo anno il distacco crebbe fino alla fine completa del loro amore. Dave si ritrovò così ormai quarantenne a dover ricominciare da zero. Da quando era al college tutta la sua vita l'aveva trascorsa con lei, aveva mantenuto pochi amici e adesso si ritrovava completamente solo. Come per tutti i divorziati, il primo periodo fu quasi liberatorio, s’iscrisse in palestra, fece tutte quelle cose che prima un po' per il tempo un po' per il dover condividere la vita con una compagna non aveva mai fatto. ata quella fase sopraggiunse la depressione e fu proprio in una delle sere peggiori che ricevette la telefonata di Marco. Forse per caso o forse per sesto senso Marco lo chiamò semplicemente per il piacere di fare quattro chiacchiere. Decisero allora di fare quel viaggio, in realtà Dave non era molto dell'idea di far baldoria, ma il pomeriggio stesso Marco, acquistò i biglietti dell'aereo e prenotò l'albergo.
La bottiglia di tequila non potendo imbarcarla videro bene di scolarsela prima di partire. Il viaggio fu alquanto pittoresco, accanto a loro eraseduta una coppia di sposini di origine asiatica. Pur in evidente disagio non si lamentarono per le urla e gli schiamazzi dei due. Ogni tanto accennarono un timido sorriso senza però dar troppa confidenza. Due file davanti a loro erano sedute un gruppo numeroso di ragazze, una di loro era travestita da sexy coniglietta. Marco trovò la scusa per attaccar bottone, stavano andando a Las Vegas per l'addio al nubilato dell'amica. La futura sposa era forse la più sobria del gruppo e sicuramente l'unica a disagio. Stava al gioco, ma gli sguardi della gente e i continui scherzi e cori volgari delle
amiche spesso le facevano desiderare di essere altrove. Marco iniziò a parlare con una tra le amiche più carine, come le altre portava in testa un capello da cowboy e i suoi jeans cortissimi facevano risaltare ancor più le lunghe gambe. Dave si ritrovò seduto tra due delle ragazze, forse per l'alcool o forse per la presenza di Marco, che sapeva come gestire con disinvoltura la situazione, sembrava tutt'altra persona rispetto all'immagine triste di poche ore prima in aeroporto. Cercando di nascondersi al personale dell'equipaggio le ragazze scattarono alcune foto della sposa insieme ai due. Marco riuscì a strappare un mezzo appuntamento a un paio di ragazze nel gruppo, non le rividero mai più.
L'aereo atterrò. Al bar dell'uscita bevvero un paio di cocktail ciascuno e, dopo essersi ripresi da una scivolata spettacolare di Marco sul nastro trasportatore, tra una risata e l'altra presero il primo taxi libero per il centro della città. Camminando sulla Las Vegas Boulevard il caldo era insopportabile. Marco ebbe l'impressione che le infradito sotto i piedi si stessero sciogliendo. L'hotel era uno tra i più rinomati, entrando un muro di aria condizionata gelida gli fece tirare un sospiro di sollievo. Prima di arrivare alla reception presero una caraffa da un litro con due grosse cannucce colorate, doveva essere una caipirinha alla fragola. In camera ebbero giusto il tempo di lasciare le valige e in preda agli effetti dell'alcool uscirono senza avere una meta precisa.
Nel tardo pomeriggio si trattennero nel casinò al piano terra, al tavolo del poker fumarono i sigari che aveva portato Marco e un paio di pacchetti di sigarette. Era così strano poterlo fare in un luogo pubblico. I due normalmente non avevano il vizio del fumo, solo Dave aveva un ato da fumatore. Smise per aumentare le probabilità di una gravidanza. Il medico aveva detto che il fumo poteva influire sulla qualità del seme e da allora la moglie non fece altro che tormentarlo affinché smettesse. Ora il solo gesto di portarsi la sigaretta alla bocca e respirarne il fumo a pieni polmoni era del tutto liberatorio. Non gli piaceva veramente, si trattava per lo più di una sciocca abitudine, era completamente consapevole dei rischi e delle possibili conseguenze, ma questo non era il momento per pensarci. Non avrebbe voluto smettere, lo fece solo per la moglie, quindi la giustificazione che si diede nel ricominciare fu proprio quella di farle un torto. Marco invece era in grado di fumare anche solo per una serata o un'occasione particolare, spesso fumava solo in vacanza e comunque poteva
smettere in ogni momento e mai sentì una vera e propria dipendenza.
Quando Dave accese l’ennesima sigaretta, sopra il tavolo vicino al loro, una ragazza di colore iniziò a ballare. La pelle color cioccolato era liscia e perfetta. Ai piedi le scarpe dovevano avere un tacco dodici, erano rosse. Rosso era anche il minuto costume da bagno che indossava. Il seno e il culo erano a dir poco marmorei. Ballando, i lunghi capelli neri oscillavano da un lato all'altro, non eseguiva chissà quali coreografie ma quei pochi movimenti agli occhi di tutti i presenti risultavano quasi ipnotizzanti.
Marco diede una gomitata a Dave che inizialmente essendo di spalle non l'aveva notata. I due scherzarono sulla bocca della ragazza, le labbra erano grandi e carnose. Pensarono potesse fare grandi cose con quelle labbra. Un po' per l'eccitazione del momento e un po' per aver perso l'ennesima partita decisero di uscire a prender un po' d'aria.
Il pomeriggio tardo aveva lasciato spazio alla sera. Il sole ormai quasi del tutto tramontato rendeva più sopportabile lo stare in strada. Sorreggendosi a vicenda camminarono per un centinaio di metri. Per tutto il percorso collezionarono una serie di biglietti da visita di avvenenti lavoratrici notturne. Si fermarono a bere una birra in un locale messicano a lato della strada e togliendo dalle tasche il malloppo di biglietti a Marco venne l'idea di divertirsi ancora di più quella notte. Non era mai stato con una donna di strada, forse per il fatto di essere a Las Vegas e poiché qui la cosa era legale e del tutto controllata, l'idea gli parve più accettabile. Sempre di puttane si trattava, ma forse per Dave poteva essere la svolta perfetta pensò. Alla proposta l'amico iniziò a ridere e poi quasi per sfida accettò lasciando però a Marco il compito di chiamare e prendere appuntamento. Così fece, lasciò il nome dell'hotel e il numero della camera d'albergo. Chiudendo la chiamata, i due si guardarono quasi increduli, Dave per un momento si convinse che la telefonata fosse finta, ma così non fu. Scelse due ragazze così a caso. Per Marco una certa Sharon e per Dave, visto l'effetto della ballerina al casinò, una ragazza di carnagione scura chiamata Kira. Tornati all'hotel, si fecero portare in camera due bottiglie di champagne.
Prima che le ragazze arrivassero, si accorsero di non aver troppo spazio a disposizione. La camera era piccola, non c'era la possibilità di separare gli spazi. Cercarono di spostare i letti nei due angoli opposti, poi non trovando altra soluzione, decisero che Dave avrebbe utilizzato il bagno con la vasca idromassaggio. Finirono la metà della caipirinha alla fragola dimenticata prima in hotel. Ormai era del tutto annacquata, ma nelle condizioni in cui erano a stento ne sentirono il gusto. Erano eccitati e agitati nello stesso tempo e immaginando di sentire i mugolii l'uno dell'altro risero fino quasi a vomitare.
Nel momento in cui Dave urtando contro un piccolo tavolino fece cadere il vaso che vi era riposto sopra, suonarono alla porta. Le ragazze entrarono, Dave che fino allora si era dimostrato il meno intraprendente, afferrò per mano la ragazza di colore e dopo un cenno di complicità salutò Marco e si chiuse in bagno. Il compagno di viaggio era completamente ubriaco, iniziò a spogliarsi e si gettò sul letto. La ragazza bionda sfilandosi il vestito dalle spalle scosse la testa facendo ondeggiare i capelli. Da sempre quel gesto, che ora sembrava ancor più sottolineato dall'alcool, attirava l’attenzione di Marco. Trovava quel moto fluttuante dei capelli una tra le cose più femminili al mondo. Mentre ancora Marco ne era estasiato, la ragazza iniziò a giocare con le sue parti basse. Dopo un tempo imprecisato, in uno stato di semi incoscienza, Marco si accorse che qualcuno aveva preso a giocherellare con i suoi capezzoli. Aprì gli occhi, si trattava della ragazza di carnagione scura. Solo dopo si accorse di Dave alle spalle della bionda. Lui gli sorrise con aria di sfida, la stava possedendo da dietro. Marco si sorprese, ma la vista dei tre lo eccitò ancor di più.
Fu l'ultima immagine che riuscì a ricostruire. Allo specchio i ricordi della serata riaffiorarono tutti in un momento. Non sapeva cosa fosse successo dopo e come si fosse conclusa la nottata. Suonarono alla porta, era Dave. Nelle mani due grossi bicchieri di caffè, sorrise.
L’ESSENZA DI LAVANDA
Erano le undici di sera e Margaret non aveva ancora preso sonno. Fissava il soffitto e si girava continuamente da un lato all'altro del letto cercando di trovare la posizione giusta. Il cane dei vicini prima, e alcune voci giù in strada poi, la distraevano ancor più dal tentativo di addormentarsi. Provò a contare fino a cento un paio di volte ma era troppo agitata. Pensava alla domenica che la aspettava. Le sorelle avrebbero fatto meglio a non dirle nulla fino al mattino seguente. Dopo l'ennesimo richiamo della maggiore che dormiva nel letto accanto al suo, Margaret riuscì a prender sonno.
La sua era una famiglia benestante, fortemente religiosa. Le sorelle nacquero nei primi anni di matrimonio. La piccola arrivò un po' a sorpresa dopo undici anni. La differenza di età e gli impegni lavorativi dei genitori fecero si che le sorelle si occuero della crescita di Margaret. La maggiore era Emily molto materna e protettiva e la seconda era Sophie apionata di arte e letteratura. Non andavano a scuola, i genitori optarono per un'educazione privata. Tutte le mattine la professoressa McCallan arrivava puntuale alle nove, era una donna sulla cinquantina, si occupava indistintamente dell'istruzione delle sorelle maggiori e di Margaret. Emily studiava per diventare un giorno maestra, Sophie ava giornate immersa nei suoi romanzi e nei suoi libri d'arte, mentre Margaret a stento riusciva a rimanere seduta al banco per più di una mezzora. Era poco portata per lo studio e specialmente per tutte le materie di base scientifica. Odiava la matematica e la geometria, un giorno, dopo i ripetuti richiami all'attenzione dell'austera professoressa, finse di svenire pur di evitare l'ennesimo calcolo inutile. Per lei non aveva nessun senso are le ore in quella biblioteca al piano alto, non capiva quella perdita di tempo. Al posto dell'aria fresca c'era solo polvere e la poca luce del giorno che entrava dalla piccola finestrella nell'angolo era sostituita da quella di due puzzolenti lampade a olio. Preferiva are il suo tempo nel grande giardino di fronte casa. Trascorreva ore giocando con le formiche e rincorrendo le farfalle. Sempre sorridente, era molto più loquace delle bambine della sua età. Riusciva a parlare anche con gli animali e con le piante, e ogni volta si entusiasmava di fronte ogni piccola scoperta.
Un autunno, doveva avere sì e no dieci anni, si nascose sotto un grosso mucchio di foglie secche. Il loro odore misto a quello della terra umida la fece rilassare a tal punto che si appisolò per una ventina di minuti. Le sorelle dopo averla cercata ovunque si spaventarono e allertarono la servitù per ritrovarla. Finirono tutte in punizione, loro per non averla controllata e Margaret per averne combinata un'altra delle sue. Era la più piccola e la più scapestrata, la madre sperava che acquistasse giudizio crescendo, mentre il padre sapeva in cuor suo che difficilmente sarebbe cambiata. Era la loro piccola peste, tanto ribelle quanto speciale, ma in fondo la amavano forse ancor più per questo.
Quella mattina si svegliò all'alba. Attraverso la quercia del giardino alcuni timidi raggi di sole battevano sulla finestra della camera. In un balzo solo scese dal letto e corse ad aprire le tende. Scrutò il cielo e assicurandosi delle buone condizioni metereologiche cominciò a strillare eccitata. Voleva che le sorelle si svegliassero al più presto, non doveva perdere neanche un minuto di tempo. La sera prima si era portata avanti, aveva chiesto gentilmente a Nancy di apparecchiare la tavola e di far trovare la colazione pronta. La fidata cameriera di famiglia, pur dovendosi svegliare presto nell'unico giorno libero, accettò la proposta. L'aveva vista crescere e come tutti aveva una certa predilezione nei suoi confronti, come avrebbe potuto dire di no a quegli occhi tanto dolci.
Margaret si tolse la vestaglia e la gettò a terra. Corse in bagno per lavarsi e raccolse i capelli in una coda. Li portava molto lunghi, erano lisci e rosso fuoco. Normalmente per darle un aspetto più composto la madre glieli raccoglieva in una lunga treccia, ma puntualmente a fine giornata la sua testa aveva più l'aspetto di un groviglio di rovi. Quella mattina non aveva voglia e tempo di farsi una treccia quindi li legò semplicemente con un elastico. I vestiti erano pronti sul mobile vicino al lavabo. Si vestì in un lampo e, uscendo dal bagno ancora con le scarpe slacciate, si rese conto che le sorelle non avevano messo piede giù dal letto. Spalancò le finestre e urlando eccitata, tolse loro le coperte lasciandole del tutto esposte all'arietta frizzante di quella mattina di metà estate. Sophie fece una smorfia come se il suo intento fosse di piangere, mentre Emily, dopo aver messo la testa sotto il cuscino per qualche minuto, si alzò sconfitta. Nella sala da pranzo
le aspettava Nancy, sorrise amabilmente quando vide le espressioni delle sorelle maggiori. La colazione come da accordi era pronta. Quella mattina avrebbero saltato anche la messa, senza poca fatica riuscirono ad avere il permesso dal padre. Il patto era che l'avrebbero recuperata la sera e per una volta l'idea di rimanere una giornata intera solo con la moglie in fondo in fondo non dispiaceva neanche a lui.
A tavola Margaret non la smise di parlare, non era mai stata allo zoo e tempestava le sorelle di domande: “Quanto sarà alta la giraffa?”, “I ghepardi sanno nuotare?”, “Quanti denti ha un coccodrillo?”, “Gli animali si possono toccare?”, “Emily rispondimi, si possono toccare?”. La sorella all'ennesima domanda la guardò sbuffando e le disse di darsi una calmata. La giornata era lunga e con un po' di pazienza avrebbe avuto tutte le risposte che voleva. Sophie, forse per l'orario o forse per la sveglia traumatica, non aveva la capacità di reggere l'interrogatorio della sorella. Pur avendo la tazza per metà ancor piena di latte, si alzò e andò in camera a prepararsi. Margaret ce l'aveva fatta, le sorelle ancora frastornate e sonnecchianti erano lì, fuori dalla porta di casa, pronte per partire. Tutt'attorno non si vide nessuno, i vicini sembravano dormire ancora.
Lo zoo si trovava nella cittadina a fianco alla loro, ci sarebbero voluti una quarantina di minuti di treno per raggiungerlo. Aveva aperto da poco i cancelli e grazie alla pubblicità sul principale quotidiano e ormai era diventato la meta più ambita per i bambini. Margaret guardando per un momento le sorelle si accorse dello sforzo che stavano facendo per lei, era sicuramente una bambina fortunata, l'aveva sempre vinta, ma allo stesso tempo era generosa e di animo buono. Corse nel retro della casa e tornò con tre rametti di lavanda. La madre aveva il pollice verde e nel giardino sul retro aveva creato un piccolo orto botanico, dove coltivava piante di ogni tipo. C'era un grosso cespuglio di lavanda selvatica che fioriva in quel periodo, spesso ne raccoglieva dei mazzetti che poi distribuiva in tutta casa inebriandola di quell'aroma intenso. Margaret fece chinare le sorelle e, dopo aver riposto nei loro capelli uno dei rametti, infilò il suo nel taschino anteriore della giacchetta estiva.
La giornata fu indimenticabile al ritorno la piccola era talmente stanca che crollò appena il treno partì dalla stazione. A peso le sorelle la portarono a casa, le poche ore della notte e le forti emozioni della giornata la fecero dormire fino al mattino seguente. Non dimenticò mai quella gita allo zoo. La sua fu un'infanzia felice e quella giornata o ancor meglio l'attesa di quella giornata per anni rappresentò il ricordo migliore della sua vita.
Il tempo ò, le sorelle si sposarono e Margaret si ritrovò tutta sola con i genitori in quella grande casa. In qualche modo riuscì a prendere l'agognato titolo di studio. Lavorò per diversi anni nell'istituto bancario della città, il direttore era un vecchio amico del padre. Tutto si sarebbe aspettata la professoressa McCallan tranne che vedere la piccola Margaret, tanto ostile a conti e tabelline, lavorare in banca. Era riuscita a farsi piacere anche quel lavoro, come sempre affrontava ogni cosa e ogni sfida della vita con la ione e la curiosità che aveva da bambina. Di fronte alla proposta di trasferimento nella sede della grande città non ebbe paura di mollare tutto e partire. Erano gli anni del boom economico e quell'occasione non poteva farsela sfuggire. Un po' inconsciamente decise di lasciare la sua amata casa e di trasferirsi nella metropoli. La madre non era felice della sua scelta, mentre il padre, che da sempre era abituato ai colpi di testa di una figlia tanto speciale, se l'aspettava.
Margaret chiuse la valigia, si mise il cappello e prima di uscire dalla stanza si girò per dare un ultimo sguardo. Salutò con un cenno ogni singola camera, in cucina trovò Nancy che a stento trattenne le lacrime nel vederla. La città era molto lontana e l'idea che la sua piccola bambina se ne andasse la addolorava infinitamente. Le altre sorelle si erano sposate e vivevano nei paraggi, poteva vederle ogni domenica, mentre Margaret si sarebbe trasferita lontano e, un po' per l'età, la sua paura era di non rivederla più. Margaret la rassicurò con un abbraccio, le baciò il viso e si diresse sulla porta nel retro della casa.
Era metà estate e come quella mattina della gita allo zoo, la lavanda era in piena fioritura. Il profumo era così intenso da coprire l'aroma delle altre piante, chiuse gli occhi e fece un lungo respiro, come a volerne trattenere un po'. Con il senno
di poi diede a quel momento un significato particolare. Era la fine di tutta quella parte della sua esistenza, il aggio da un'infanzia meravigliosa alla vita adulta. Trattenendo nei polmoni quell'aroma di lavanda, voleva portare con sé tutti quei luoghi e quei ricordi fantastici.
Davanti a casa c'erano tutti. La madre dopo averla baciata e stretta a sé le consegnò un pacchetto con il pranzo che avrebbe consumato in treno. Il padre la guardò e la abbracciò. Fu uno degli abbracci più lunghi che ricevette nella sua vita. Si accorse dopo che i suoi occhi erano lucidi dalla commozione, era la prima volta che lo vide così. Salutò anche le sorelle con i rispettivi mariti. Emily aveva in braccio il primogenito, lo accarezzò e baciò sulle guance. Salì sulla macchina che l'avrebbe portata alla stazione, dal finestrino fece un ultimo cenno di saluto. Chiuse gli occhi per non piangere.
IL BINOCOLO
Ne era sicuro il professore di storia si sbagliava, il tirannosauro aveva solo due artigli sugli arti anteriori e non tre come l'allosauro. Era seduto pensieroso sull'ultimo gradino della scalinata. Gli altri compagni giocavano nel prato di fronte. Alcuni correvano e strillavano andosi la palla da rugby, mentre altri erano impegnati a distruggere un piccolo nido di formiche trovato poco prima.
Vissero anche in epoche diverse pensò, il primo comparve nel Cretaceo, mentre il secondo risale al Giurassico. Aprì il cestino della merenda e diede un morso al sandwich col burro di arachidi. Da quella volta in cui i compagni lo presero in giro, non portò più a scuola il cibo cinese che la madre gli preparava.
Le dimensioni erano completamente differenti, l'allosauro poteva raggiungere un'altezza media di tre metri, mentre il tirannosauro arrivava anche al doppio. Entrambi erano tra i carnivori più feroci mai esistiti, ma questo non giustificava l'errore del professore, come aveva potuto confonderli. Durante la lezione avrebbe voluto alzare la mano e dire la sua, ma poi come al solito rimase in silenzio.
Non aveva mai avuto una predilezione per il tirannosauro, a parte le grandi mandibole di un metro e mezzo e il grosso collo muscoloso, non aveva nulla che in particolare lo affascinasse. Era uno dei dinosauri più spietati, ma il fatto che tutti lo conoscessero faceva sembrare banale metterlo nella rosa dei suoi preferiti. Il carnotauro almeno aveva due piccole corna sulla testa, il carcarodontosauro aveva denti simili a quelli dell'odierno squalo, mentre il velociraptor come dice il nome stesso era il cacciatore più veloce tra i dinosauri. In linea generale preferiva i dinosauri erbivori, non perché fossero più deboli e quindi meritevoli di comione, quanto perché erano diversissimi gli uni dagli altri. Alcuni avevano colli lunghissimi per raggiungere le cime degli alberi di cui
si nutrivano, altri avevano forme e colori stupefacenti, mentre altri ancora avevano parti del corpo trasformate in armi da difesa che utilizzavano contro i carnivori.
Quella mattina, sapendo che a scuola avrebbero trattato il suo tema preferito, si era svegliato presto. Eccitato, aveva messo nella cartella tutto l'occorrente, la sua amata enciclopedia dei dinosauri, il kit da paleontologo e il binocolo da esplorazione. I genitori inizialmente non avevano potuto far altro che assecondare questa sua ione, pensavano fosse una fase normale, capitava a tutti i bambini di avere degli interessi quasi morbosi per un certo periodo di tempo. Jiang invece, sembrava proprio non voler mettere da parte questa sua fissazione. Aveva tutto quello che si poteva avere per essere un vero apionato di preistoria, era diventata quasi un'ossessione. Pur straniti dalla situazione si abituarono alla ione del figlio, in fondo non faceva nulla di male. La sua camera era completamente colma di dinosauri, c'erano poster, peluche, fossili e un'intera libreria a tema. Sulla parete dietro la scrivania, un grosso puzzle raffigurava una gigantesca femmina di diplodoco con il suo piccolo. Era un animale affascinante, lungo venti metri e pesante più di dieci tonnellate. L'estremo della coda era molto sottile e questo gli permetteva di usarla come una frusta per difendersi. Lo aveva costruito con l'aiuto del papà, erano millecinquecento pezzi, ci lavoravano la sera dopo cena.
L'anno prima aveva trascorso due settimane in un parco avventura, aveva visto dei veri resti di dinosauro e aveva imparato le prime regole per la ricerca e la pulizia dei fossili. Fu lì che comprò il suo binocolo d'esplorazione, spesso la sera lo portava a letto con sé, sognava un giorno di avvistare un vero dinosauro. Il più delle volte la madre lo trovava addormentato ancora col binocolo al collo, si era ormai stancata di vietarglielo, così delicatamente glielo sfilava per evitare che si strozzasse durante la notte.
Jiang era un bambino di undici anni, i genitori avevano deciso di chiamarlo così in onore della provincia cinese di Jiangsu da dove provenivano. Era un bambino timido, ma estremamente buono. Si era rinchiuso nel suo mondo di dinosauri
forse perché nel mondo reale sembrava non trovare il suo spazio. Non aveva delle vere amicizie, a scuola se ne stava sempre in disparte e anche il tentativo dei genitori di iscriverlo al corso di nuoto per farlo socializzare fu vano. Quel costumino stretto, lo faceva sembrare ancora più grasso, riuscì a resistere solo un paio di settimane.
Sulle scale continuava a pensare alla lezione della mattina, in parte era dispiaciuto dell'errore del professore e in parte la consapevolezza di saperne di più lo inorgogliva. Immerso nei suoi pensieri, non si accorse della camla di fine ricreazione. I compagni poco alla volta rientrarono in classe. D'un tratto da dietro qualcuno lo spinse violentemente. Alzò gli occhi e girandosi vide alle sue spalle Timothy, il temibile bullo della classe. Bocciato l'anno precedente, era arrivato nella classe di Jiang a Settembre. Era un bambino più grande, forte e carismatico. Aveva un'influenza negativa anche sul resto dei compagni di classe. Chi non era con lui era contro di lui. Il ragazzo guardò Jiang con disprezzo e gli disse: “Palla di grasso muoviti, cos'hai due involtini primavera nelle orecchie?”. Altri bambini risero e nel giro di poco Jiang si ritrovò solo.
Era seduto sulle scale e teneva nelle mani la metà del panino che non aveva terminato. La lattina di tè che stava bevendo, nell'urto si era rovesciata completamente sulla maglietta e sui pantaloni. Rimase fermo, non riuscì a dire neanche una parola. Avrebbe voluto reagire all'ennesimo scherzo del compagno, ma come al solito non fece nulla. Sarebbe stato meglio scomparire, essere inghiottito dalla terra piuttosto che rientrare in classe in quelle condizioni. Sembrava si fosse pisciato addosso. Rimase immobile quasi paralizzato per qualche minuto, poi si alzò e lentamente rientrò nella scuola. La mano si fermò qualche secondo sulla maniglia della porta, per un attimo pensò di scappare, prendere il primo bus e ritornare a casa. Dentro il professore di matematica aveva già iniziato l'interrogazione. Sentiva la sua voce e il brusio di fondo dei compagni, sembravano non aver notato la sua assenza, non pareva importare a nessuno. Entrò a testa bassa, di colpo il silenzio. Durò pochi secondi ma fu un'eternità per Jiang. Alcuni iniziarono a ridere, mentre altri lo guardarono schifati. Il professore si avvicinò e gli chiese cosa fosse successo. In un attimo lo sguardo di tutti si posò su Timothy, tutti sapevano fosse opera sua. Alla domanda Jiang rispose che si trattava solo di un incidente. Anche il professore
probabilmente aveva intuito di chi potesse essere la colpa e, quasi più per dovere che per un vero interesse, chiese a tutti se qualcuno avesse visto cosa era accaduto. Nessuno parlò, nessuno ebbe il coraggio di difenderlo. Jiang non si aspettava niente di diverso, anche lui prima degli altri non aveva avuto il coraggio di dire la verità. Andò a sedersi nell'indifferenza generale, il professore sapendo di non poter far nient'altro e sentendosi a posto con la coscienza continuò l'interrogazione.
La sera a casa non ne parlò, ormai i vestiti si erano asciugati e nessuno lo avrebbe mai scoperto. Dopo aver cenato e dopo essersi lavato, si chiuse in camera. Seduto sul suo letto a castello, aprì lo zainetto, tolse le cose che ci aveva messo la mattina e, col binocolo stretto tra le mani, s'addormentò. Sognò di essere su una grande scogliera, sotto di lui la schiuma delle onde tingeva l'acqua di bianco. Poteva sentire l'odore del mare, d'un tratto alzando gli occhi al cielo, poco prima del sole, vide due figure avvicinarsi. Li riconobbe, erano due splendidi esemplari di pteranodonti, stavano pescando. Sembravano enormi, ricordava di aver letto che la loro apertura alare misurava ben nove metri, avrebbe voluto lanciarsi e volare con loro.
Erano ate tre settimane dall'episodio del tè e nessuno ne parlava più. Quella mattina la professoressa di geografia diede alla classe il compito di eseguire una ricerca. Dovevano lavorare in gruppi da due e le coppie furono estratte a sorte. Avrebbe preferito eseguire il lavoro da solo o per lo meno sperava di capitare con una delle bambine della classe. Il nome scritto sulla lavagna accanto al suo era quello di Jordan. Faceva parte del gruppo di amici di Timothy. Era il bambino più alto della classe, sembrava avere un paio d'anni in più. Era portato per ogni tipo di sport e dalle bambine era considerato uno tra i più carini. Direttamente non aveva mai fatto nulla a Jiang, ma allo stesso tempo non aveva mai fatto niente per evitarlo. Settimane prima, rientrando in classe, rise vedendolo bagnato fradicio sulla scalinata.
Nel leggere i nomi sulla lavagna, l'espressione di Jordan non nascose il suo disappunto. Ci furono delle risatine e qualcuno ironicamente gli diede una pacca
sulla spalla e si complimentò per la fortuna. Jiang vide tutto. Chiese alla maestra il permesso di andare in bagno. Seduto sulla tazza, pensò che la soluzione migliore fosse di eseguire da solo il compito. Avrebbe scritto lui la ricerca e la mattina della consegna l'avrebbe fatta leggere al compagno. Anche se la maestra era stata chiara, era sicuramente la cosa più logica da fare e per lo più vantaggiosa per entrambi. Si lavò la faccia con un getto di acqua gelida e uscì dal bagno. Proprio mentre pensava a come dirlo al compagno, Jordan si avvicinò e gli disse: “Da me non si può, i miei stanno traslocando quindi facciamo da te nel pomeriggio?”. Jiang non rispose, il suo piano era andato in fumo. Forse aveva capito male. Il compagno gli rivolse nuovamente parola: “Allora?”, “Hai sentito?”, “Facciamo da te per le cinque del pomeriggio?”. Jiang annuì con la testa. Jordan rimase un paio di secondi stranito dalla reazione del compagno, poi alzando le spalle lo salutò e tornò dal suo gruppo di amici.
Il bus che ogni giorno lo riportava a casa quel pomeriggio sembrava più lento che mai. Il traffico di certo non aiutava e Jiang ogni cinque minuti controllava l'orario. L'orologio lo aveva comprato qualche anno prima, la lancetta dei minuti era rappresentata da un esemplare di brachiosauro con il suo lungo collo, mentre quella delle ore raffigurava un triceratopo. Era impaziente di tornare a casa, doveva avvisare i genitori e sistemare le sue cose prima dell'arrivo del compagno. Per un attimo sperò che la madre non fosse in casa, non voleva che Jordan la prendesse in giro per il suo modo di parlare. Il padre di Jiang lavorava da anni in una grossa multinazionale e il suo americano era quasi perfetto, la madre invece si era dedicata alla famiglia e aveva mantenuto il suo forte accento cinese.
Era solo in casa, entrando nella sua camera pensò di nascondere i dinosauri di peluche, aveva paura che il compagno lo potesse prendere in giro o peggio potesse rovinare o rubare qualcosa. Decise di chiudere la stanza e di fermarsi a studiare in sala da pranzo. Mancavano pochi minuti alle cinque, per un attimo pensò di fingere di non essere in casa e non rispondere al citofono. Non sarebbe stata la scelta migliore, sicuramente il giorno successivo a scuola l'avrebbe pagata.
Quando ormai erano ati quindici minuti dall'orario dell'appuntamento e giusto quando Jiang cominciava a tirare un sospiro di sollievo, suonarono alla porta. Jordan entrò chiedendo il permesso, gli sorrise e lo salutò. I primi minuti furono imbarazzanti per entrambi i bambini. Jiang non sapeva come comportarsi, ma il fatto che anche Jordan fosse a disagio in qualche modo lo metteva sul suo stesso piano. Il suo aspetto sembrava differente, non aveva l'atteggiamento che aveva a scuola. Sembrava educato e lavorando insieme alla ricerca di geografia si accorse che era anche più intelligente e interessato di quello che voleva far intendere a scuola. Per poco non si spaccò la testa quando dondolandosi sulla sedia, cadde all'indietro. Fortunatamente non si fece nulla, i fogli che aveva in mano si erano sparsi un po' ovunque. Dopo il primo momento di paura si guardarono e, Jordan per primo, iniziarono a ridere a crepapelle. Mai Jiang avrebbe pensato di divertirsi tanto e di poter ridere in quel modo. Fino al giorno prima sembrava una cosa del tutto impossibile, non avrebbe mai immaginato che un suo compagno e per di più un amico di Timothy avrebbe trascorso un pomeriggio in casa sua. Era davvero simpatico e per la prima volta anche Jiang si sentì a suo agio.
Dopo la caduta Jordan andò a bagnarsi il bernoccolo sulla nuca. Uscendo dal bagno, aprì la porta della camera di Jiang. Rimase affascinato dalla collezione di dinosauri, sembrava un museo. Jiang non vedendolo tornare in sala da pranzo andò a cercarlo e lo trovò in camera, per un attimo avrebbe voluto che il compagno non fosse entrato, ma poi vedendolo così interessato, si ricredette. Forse di lui si poteva fidare. Jordan aveva preso tra le mani un grosso dinosauro con una lunga cresta colorata e due file di spine che gli percorrevano il collo e il dorso. Pensò fosse un drago, si girò verso Jiang e gli chiese come si chiamasse. Seduto sul tappeto, Jiang spiegò che si trattava di un amargasauro, era un erbivoro dell'inizio del Cretaceo. Le file di spine servivano per difendersi dai predatori, mentre la cresta colorata aveva la funzione di regolare il calore corporeo e attrarre le femmine.
Mostrò a Jordan alcuni dei suoi dinosauri preferiti. Il saichania aveva la testa e il corpo coperto da una corazza ossea piena di punte, mentre la coda terminava con una pesante mazza che scuoteva per attaccare i nemici. C'era poi il parasaurolophus uno tra i dinosauri becco d'anatra più suggestivi. Sul muso
aveva una lunga cresta a forma di tubo con la quale emetteva forti suoni per comunicare con i compagni.
Jordan si mise comodo, anche lui sembrava particolarmente preso dall'argomento. Proprio mentre Jiang tirò fuori dall'armadio il kit da paleontologo, ricevette la telefonata di sua madre. Doveva essere a casa già da mezz'ora, non si accorse di essere così in ritardo. Jiang lo accompagnò alla porta. Prima di uscire Jordan gli chiese: “Quanto hai detto che misurava la cresta del parasaurolophus?”. Jiang rispose: “Quasi due metri”. Jordan sorrise e uscendo gli disse: “Sei forte Jiang, ci vediamo domani a scuola”. Jiang chiuse la porta, si sedette a terra con le spalle appoggiate al muro e sorrise. D'un tratto si fece pensieroso forse aveva sbagliato, forse era stato affrettato nella risposta, forse la cresta del parasaurolophus misurava solo un metro.
IL TICCHETTIO
Da sempre odiava aspettare. Se qualcuno tardava più di dieci minuti a un appuntamento, lei se ne andava. Era qualcosa che non riusciva a controllare, non aveva pazienza e tempo da sprecare. Quella volta della coda all'ufficio pubblico fu una delle peggiori. Erano ormai quasi venti minuti che attendeva il suo turno, il caldo insopportabile e la calca delle persone le fecero sfiorare la crisi di nervi. Per colpa di quell'inetto dietro al bancone aveva perso tanto di quel tempo che avrebbe dovuto annullare l'appuntamento successivo. Per non parlare poi di quel vecchietto che a stento riusciva a capire la metà delle parole che l'impiegato cercava di scandire da dietro il vetro. D'istinto avrebbe voluto andarsene, ma doveva per forza mandare quei documenti al cliente. Pensò che avessero programmato tutto, sicuramente avevano lasciato a lei il compito di inviarli proprio all'inizio del mese, nel giorno del ritiro degli assegni familiari. Dovevano ridersela dalle loro comode scrivanie pensandola in mezzo a quell'orda di poveracci. Non aveva la minima stima e considerazione dei colleghi di lavoro, si sarebbe potuta aspettare di tutto, ma questa volta avevano davvero esagerato. Se non si trattava di una loro congettura, dietro questo scherzetto doveva esserci l'emerito incompetente del suo datore di lavoro. Al giorno d'oggi le sembrava del tutto ridicolo dover inviare quella documentazione in formato cartaceo.
Per l'ennesima volta guardò nervosamente l'orologio, le sue mani erano piccole e scarnite. Le unghie prive di smalto erano rosicchiate fino al bordo delle dita e leggermente ingiallite dal fumo. In coda non riusciva a star ferma, continuava a cambiar posizione, alternando il peso del corpo da una gamba all'altra. Il tailleur blu che indossava faceva risaltare ancor più le gambe secche e bianche come la porcellana. Ai piedi portava due eleganti scarpe coordinate con il completo e ovviamente senza tacco. Lavorando tutto il giorno non riusciva a portare scarpe a tacco alto e in ogni modo era un vezzo che non le interessava.
Camminava sempre, la sua era una camminata nervosa, frenetica e decisamente più rapida di quella delle persone normali. Teneva la testa alta, raramente
incrociava lo sguardo dei anti. Deviava leggermente la sua traiettoria per evitare di urtarli, il solo sfiorare qualcuno la infastidiva. La distraeva dai suoi pensieri e le faceva interrompere il ritmo convulso dei suoi i. Odiava i luoghi affollati, soprattutto i centri commerciali, pieni di famigliole indaffarate a fare compere. Le sembrava di non respirare in mezzo a tutta quella gente. La sensazione fu la stessa anche in coda all'ufficio. Quando in fila davanti a lei aveva solo un paio di persone, stirando con la mano una piega della gonna, le cadde un foglio. Il giovane ragazzo alle sue spalle riuscì a prenderlo al volo prima che toccasse terra, rendendoglielo le sorrise. Amanda ringraziò senza neanche guardarlo in faccia, un grazie secco per nulla sentito. Era uno di quei grazie detti tanto per dire, un convenevole. Rimettendo il documento nella cartelletta lo controllò da entrambi i lati, più che sollevata per non averlo perso, sembrava preoccupata che si fosse stropicciato.
Quando toccò a lei, erano ati ormai quasi trenta minuti dal suo ingresso nell'ufficio. Salutò freddamente e con un'unica frase disse come e dove quei documenti dovevano essere inviati. Le capitava spesso di preparare mentalmente le frasi da utilizzare. Iniziava i discorsi sapendo già cosa dire e cercando di dare tutte le indicazioni necessarie per evitare inutili dialoghi. L'impiegato quasi non si accorse di Amanda, stava ancora sistemando le ricevute del cliente precedente e riuscì a capire solo la parte finale della sua frase. Lei sospirando cercò di trattenere la rabbia accumulata nella coda interminabile. Neanche tutte le pillole dell'ansiolitico che aveva nella borsa le sarebbero servite. Lentamente ripeté la stessa identica frase scandendo ogni parola in modo netto. L'impiegato scambiò uno sguardo d'intesa con la collega alla sua destra e la mezza espressione ironica fece imbestialire ancor di più Amanda. Fortunatamente per entrambi ci vollero pochi minuti per compilare l'indirizzo del cliente e pagare la commissione per l'invio della documentazione.
Uscendo la prima cosa a cui pensò fu di accendersi una sigaretta. Era l'ultima del primo pacchetto, ma come tutti i giorni non usciva di casa se non ne aveva uno di riserva nella borsa. Cercando l'accendino si accorse di aver ricevuto un messaggio al cellulare. Lo lesse, era Sheila una delle poche amiche che aveva in città. Il testo recitava così: “Ciao Mandy, stasera faccio una piccola cena a casa con amici, c'è anche Jack, non darmi buca anche questa volta”. Non rispose, le
aveva ripetuto più volte che odiava essere chiamata così, il suo vero nome era Amanda. Aveva permesso solo a Robert di utilizzare quel diminutivo e da allora lo odiava ancora di più. Era ato più di un anno da quando si erano lasciati. Inevitabilmente i pensieri caddero su di lui, non lo aveva più visto da quel pomeriggio a Chelsea. Si erano dati appuntamento sulla stessa panchina della High Line. Le piante e i primi fiori di primavera la rendevano una piccola isola felice in mezzo alla confusione e al traffico della città. Proprio lì anni prima la loro storia ebbe inizio. Si accordarono per vedersi in pausa pranzo.
Robert arrivò per primo, quando la vide per un attimo avrebbe voluto solo correrle incontro e abbracciarla, ma poi si ricordò il motivo del loro appuntamento. Non avrebbe mai voluto lasciarla, l'amava ancora, ma non poteva fare altro. Amanda lo aveva portato a tale decisione, lo aveva esasperato, si sentiva distrutto e adesso aveva trovato la forza per chiudere definitivamente la loro storia. Si salutarono freddamente, da mesi il loro rapporto era in crisi. Amanda pareva distaccata, come al solito non perse occasione per fare la stronza. Probabilmente aveva intuito il senso di quell'incontro. Guardò Robert dritto negli occhi e come se avesse fretta gli disse: “Volevi vedermi se non sbaglio, dimmi”. Proprio con lui stava utilizzando l'atteggiamento da algida donna in carriera, lo stesso atteggiamento distaccato che più volte Robert le aveva rimproverato. La conosceva bene, era molto più insicura e fragile di quello che voleva mostrare. Probabilmente il suo era più un meccanismo di difesa ma ora più che mai Robert non riuscì a tollerarlo. Lui, che era sempre stato dalla sua parte e che aveva sempre cercato di capirla, si trovava ora a fare la parte del bastardo che la stava mollando. Non aveva mai superato l'aborto.
Amanda aveva deciso da sola di interrompere la gravidanza. Al lavoro le avevano assegnato quell'incarico nuovo, le avevano dato quella benedetta promozione che attendeva da anni. Non era il momento giusto per una gravidanza, non avrebbe sopportato per l'ennesima volta di vedersi scavalcare da un collega. Avrebbero rimandato il tutto in un altro momento, in fondo un bambino vero e proprio non c'era, si trattava solo di un ammasso di poche cellule. Robert anche quella volta cercò di capirla, era vicino a lei quando si svegliò dall'anestesia in quel letto dell'ospedale. Solo dopo qualche tempo si accorse della tragedia. Una notte, dopo aver preso sonno alle due del mattino,
ebbe un incubo terrificante. Nel buio totale iniziò a sentire il lamento di un bambino. Poco alla volta il pianto divenne assordante. Robert non poteva aiutarlo, non sapeva come farlo smettere, come consolarlo. L'angoscia che provò al risveglio lo accompagnò tutto il giorno. Non si perdonò mai di aver rinunciato a quel bambino. Avrebbe potuto convincere Amanda, avrebbe potuto obbligarla a dare alla luce suo figlio e invece non fece nulla. Non lo aveva difeso, non aveva lottato per lui.
Con questi pensieri Robert chiese ad Amanda di vedersi quel pomeriggio. Voleva chiudere definitivamente con lei, così come non si perdonò mai l'aborto, non l'avrebbe perdonato neanche a lei. Alla sua domanda rispose con poche parole. La voce, inizialmente forte, via via si fece più tremolante, nascondendo poco l'emozione. Amanda non ebbe nessuna reazione, agli occhi di Robert rimase completamente imibile. Anche se dentro si sentiva morire, non voleva mostrarsi debole. Robert si alzò e senza guardarsi alle spalle se ne andò. Se l'avesse vista piangere non avrebbe avuto la forza di lasciarla. Amanda invece non versò una lacrima, rimase quasi un'ora su quella panchina, poi semplicemente tornò a casa. Probabilmente non capì mai realmente Robert, si convinse che le sue erano tutte scuse, doveva avere un'altra, sicuramente più giovane e bella di lei.
Dopo qualche mese tramite una conoscenza comune venne a sapere che Robert aveva iniziato a frequentare una ragazza nuova, solo allora si rese realmente conto di averlo perso. A poco servirono le sedute dalla psicoterapeuta e tutti gli ansiolitici che si prendeva ogni sera per poter dormire. Non poteva cambiare il ato, ora era sola e, anche se si era convinta di odiarlo, in fondo sapeva che mai nessuno avrebbe occupato il posto di Robert nel suo cuore.
Ripensando a qual maledetto pomeriggio si accese la terza sigaretta consecutiva e solo allora decise di rispondere a Sheila. Declinò l'invito, non aveva per nulla voglia di uscire e tanto meno di vedere gente. Sheila era poco più che una conoscente. Amanda non la considerava una vera amica, a volte si rendeva conto di frequentarla solo perché non aveva grosse alternative. Fu lei a convincerla a
cambiare il colore dei capelli dopo aver chiuso la storia con Robert. Disse che era il primo di tanti cambiamenti che l'avrebbero fatta rinascere, ma in fondo il rosso non donava ad Amanda, la rendeva ancor più austera di quanto che già non fosse. Ogni mattina guardandosi allo specchio malediceva l'amica.
Sheila, nonostante il fisico abbondante, era una donna veramente affascinante e piacevole. Anche se di viso era molto bella, Amanda non capiva come una donna con tutti quei chili di troppo potesse essere circondata da tanti uomini. In alcuni momenti la odiava, la cosa che più detestava di lei era vederla mangiare. La volta che fuori dal cinema la vide mangiarsi due hot dog pieni di maionese e senape le diede una nausea tale che dovette tornare a casa. Il pensiero di quelle labbra carnose che addentavano il panino la tormentò tutta notte.
Amanda non aveva mai avuto un buon rapporto con il cibo. In realtà dall'età del college per lei era solo un appuntamento dovuto. Mangiava giusto quello che le serviva, era fissata con il calcolo delle calorie e a casa, metodica com'era, segnava ogni settimana il peso. Aveva avuto problemi di anoressia e ora si era convinta di esser guarita, pensava di essere solo una donna attenta al proprio peso. Da quando la storia con Robert finì, il vecchio nemico cibo tornò più che mai nella sua vita. Non aveva voglia di cenare quella sera, tanto più che Sheila avrebbe cucinato solo cose grasse e fritte. Vedere Jack era poi l'ultimo dei suoi pensieri. Era stata l'amica a presentarli e da qualche tempo cercava il pretesto per farli frequentare. Non era proprio il tipo di uomo che poteva interessarle, non sarebbe mai stata con un mezzo artista squattrinato come lui. Suonava e dipingeva, la cena era per festeggiare la vendita di un suo quadro. Si trattava di un'opera astratta totalmente lontana dalla visione matematica di Amanda.
Voleva solo tornare a casa, era stata una giornata pesante, si sarebbe fatta un bagno e poi sarebbe andata subito a letto. Arrivata sotto casa, spense l'ultima sigaretta, salendo ripensò all'orribile mattinata nell'ufficio pubblico. Aprì la porta e accese la luce del grande appartamento con vista su Manhattan. Per un attimo guardò la miriade di piccole luci sotto di sé, si ricordò dei colleghi e pensò come vendicarsi il giorno seguente al lavoro. Dal frigo prese il cartone del latte e come
al solito ne lasciò nel bicchiere metà. Non mangiò nulla. Pensò a Sheila e a Jack, decise di non frequentarli più. Si lavò e si mise la camicia da notte. Coricandosi prese dalla scatola di ansiolitici due pillole rosse. I pensieri tornarono su Robert. Strinse tra le braccia il cuscino, chiuse gli occhi e come tutte le sere, prima di dormire chiese perdono al suo bambino mai nato.
LA GIACCA DA HOCKEY
Non ci poteva credere, avevano vinto loro. Contro ogni previsione erano riusciti a battere la squadra di casa e si erano aggiudicati la finale del campionato. Di fronte a loro l'ultimo incontro, solo una partita li separava dalla vittoria e da quella tanto agognata coppa. Il punto di Peter fu decisivo, mancavano pochi minuti alla fine del tempo supplementare. Il risultato nei tre tempi era di parità e con il meccanismo del suddendeath bastava aggiudicarsi il primo tiro in porta per portarsi a casa la partita. Sganciandosi dall'avversario il numero sei gli ò con un colpo secco il puck. Peter, che si trovava nella zona d’attacco, riuscì a riceverlo, lo spostò in avanti con il pattino e con la mazza lo scagliò direttamente in porta. A poco servì il tentativo del portiere di parare il colpo, il puck con precisione spietata gli ò tra le gambe finendo in rete.
Per un attimo tutti trattennero il fiato, quei pochi decimi di secondo sembrarono interminabili, solo il movimento violento della rete alle spalle del portiere confermò il punto. Da dietro la protezione in plexiglas della balaustra, il boato della folla decretò la vittoria della Columbia University. James dalla parte opposta del campo lasciò la porta, tutto d’un fiato attraversò la pista ghiacciata del campo da hockey e nel giro di pochi secondi raggiunse il resto della squadra. In un attimo Peter si trovò addosso tutti i compagni, erano ormai due stagioni che era il loro capitano, ma ora più che mai andava fiero del suo ruolo. Poco importava non aver vinto ai tempi regolamentari, avevano guadagnato comunque due punti in classifica e ora si trovavano in finale. Liberatosi dalla ressa dei compagni di squadra rivolse lo sguardo al pubblico cercando Emily. Sollevò entrambe le braccia in segno di vittoria e alzando la visiera le sorrise.
Da sempre amava questo sport, doveva avere sì e no sei anni quando suo padre gli regalò il primo paio di pattini e la prima mazza. Nel giro di poco dovette procurargli anche il resto dell'attrezzatura e con l'inizio della scuola si convinse nell'iscriverlo al primo corso di hockey. La madre dal canto suo non ne era entusiasta, lo giudicava uno tra gli sport più pericolosi e anche adesso che Peter
aveva superato i vent’anni difficilmente riusciva ad assistere a una sua partita. Fu proprio a quel primo corso che conobbe James. Come lui aveva poco più di sei anni, non era molto bravo a pattinare, ma ogni volta che cadeva si rialzava subito ed era pronto a riprovarci. Era molto simpatico e sempre pronto a scherzare, aveva una risata contagiosa, una di quelle risate cui è impossibile restare indifferente. Era un ottimo calcolatore, aveva sangue freddo e sapeva riconoscere i punti deboli degli avversari. Un po' per queste qualità e un po' per la poca velocità sui pattini il ruolo nel quale si trovava più a suo agio era quello del portiere. Da allora le loro strade non si divisero più, diventarono grandi amici. L'hockey li aveva fatti conoscere e con il are degli anni consolidò sempre più la loro amicizia. Per nulla al mondo avrebbero perso gli allenamenti in settimana, per non parlare delle partite la domenica.
Avevano all'incirca dieci anni quando Peter prese la varicella. Con la collaborazione dell'amico decise di uscire di nascosto da casa e di giocare ugualmente l'incontro. Scappò dalla finestra del bagno sul retro e calandosi dalla grossa quercia raggiunse James. Era il loro segreto e, a parte qualche giramento di testa dovuto forse alle poche linee di febbre, riuscì a terminare la partita. Ricoperto di puntini rossi, doveva essere veramente buffo sotto la tuta e sotto tutto l'equipaggiamento da hockey. L'averlo nascosto al resto della squadra non fu una buona idea, nel giro di tre settimane la metà dei compagni si ammalò e questo valse a entrambi una domenica di squalifica. Era la prima volta che assistevano alla partita dalla panchina e fu una vera sofferenza non poter aiutare i compagni di squadra. Persero clamorosamente e a poco valse la consolazione di condividere la punizione con l'amico per diminuire il senso di colpa di Peter.
Con il tempo la vergogna per quello che avevano fatto lasciò spazio al compiacimento. Non perdevano occasione per raccontare quell'episodio a chiunque, anche anni più tardi in viaggio con un paio di amici si sbudellarono dalle risate ricordando tutti i compagni in preda al prurito spasmodico della varicella. Stavano andando in montagna per are un fine settimana in campeggio, si erano presi una pausa dalla scuola e dagli impegni sportivi. Tra le altre cose era anche il compleanno di Carlos uno dei ragazzi che negli ultimi mesi era entrato a far parte della squadra. Aveva giocato sì o no due partite prima di procurarsi un brutto stiramento alla coscia e anche se lo conoscevano da poco
tempo per consolarlo gli avevano organizzato questa sorpresa per il suo sedicesimo compleanno. Guidava James che all'epoca era l'unico ad avere la patente. Mentendo sulla destinazione era riuscito a convincere il padre a lasciargli la macchina. Se avesse saputo che invece di andare nella loro casa fuori città, che distava circa quaranta minuti di strada, avrebbe dovuto guidare per quasi quattro ore non glielo avrebbe mai permesso. Sapeva il rischio cui andava incontro, ma la voglia di divertirsi e di stare con gli amici non lasciava spazio alla paura di essere scoperto. Si sentiva già grande, invincibile e l'idea di quel primo viaggio solo con i compagni di squadra era troppo allettante.
Fu l'unico a non bere, per lo meno durante il viaggio di andata. Il povero Carlos dopo solo due ore dovette fermarsi a vomitare. Riuscì giusto in tempo ad aprire lo sportello della macchina mentre James accostava sul lato destro della strada. Tra un conato e l'altro Peter gli teneva sollevata la testa aiutandolo a respirare, mentre Paul, il quarto compagno di viaggio e forse quello più ubriaco, non la smetteva di ridere. James sembrava più preoccupato che la macchina si sporcasse piuttosto che dell'amico. Non sarebbe stato in grado di spiegarlo al padre e sicuramente non avrebbe più avuto la macchina per chissà quanto tempo. Nel giro di poco Carlos si riprese e il gruppo continuò il viaggio. Fu una serata indimenticabile, la mattina Peter si svegliò per primo. I raggi del sole rendevano la temperatura all'interno della tenda insopportabile. La testa gli scoppiava, riuscì a fatica a tirar fuori dal sacco a pelo le gambe e solo allora si accorse delle scritte oscene che aveva su tutto il corpo. Doveva essersi addormentato per primo e gli amici non avevano perso occasione per divertirsi un po'. L'odore di vomito e sudore gli diede la nausea, solo quando si mise seduto, si accorse di James alla sua destra. Dormiva beatamente, era rannicchiato su se stesso e tra le braccia stringeva la felpa come un bambino stringe il suo orsacchiotto di peluche. Lui che tra tutti era quello che per primo si era sviluppato, il più muscoloso e forte, in quel momento gli parve così fragile che cercò di muoversi il più delicatamente possibile per non svegliarlo.
Senza poche difficoltà di equilibrio riuscì a uscire dalla tenda, fuori tra una lattina di birra e l'altra trovò disteso a terra Paul. Aveva dormito all'aria aperta e a causa del suo aspetto per un attimo Peter pensò potesse essere morto. Lo strattonò più volte con il piede destro e quando l'amico lamentandosi si girò
dall'altro lato tornò a preoccuparsi del suo mal di testa.
Le foto che scattarono vennero male, il più delle volte mosse e prive di significato. La migliore e quella che decisero poi rappresentare la vacanza era quella che li ritraeva nel lago durante il bagno di mezzanotte. Paul aveva appena azionato l'autoscatto quando si spogliò le mutande. Nel giro di pochi secondi gli altri divertiti dall'idea e sempre più ubriachi fecero lo stesso. Si girarono verso la montagna e il risultato fu una foto completamente nera dove si vedeva solo il riflesso del flash sui fondoschiena dei ragazzi. Fortunatamente nessuno scoprì dove erano stati quel fine settimana e tutti riuscirono a tornare a casa senza troppe conseguenze.
Anni più tardi sempre con la macchina del padre di James fecero un altro viaggio. Questa volta avevano un'altra meta e un altro spirito. Erano solo Peter e l'amico, erano ati ormai quattro anni da quell’avventuroso weekend e adesso si stavano recando in Canada a casa degli zii di James. Avevano l'idea di are qualche giorno durante le vacanze natalizie e volevano visitare un paio di stadi da hockey. Peter non era mai stato in Canada, da sempre aveva avuto il sogno di visitare il luogo dove il suo sport era nato e in più aveva l'occasione di are qualche giorno solo con l'amico.
Ultimamente James faceva coppia fissa con una certa Melissa. Era una tra le ragazze più carine dell'università e per colpa sua l'amico aveva dato buca a un paio di serate tra di loro. Non era che l'ultima di una lunga lista di ragazze, ma agli occhi di James sembrava speciale. Per la prima volta era realmente coinvolto e forse anche per questo Peter non la poteva digerire. Era abituato a dividersi l'amico con una serie di ragazzette di aggio, ma lei era diversa. Non sembrava interessata solo alla fama del bel portiere della squadra da hockey. Razionalmente, oltre che bella, era anche intelligente, ma qualcosa non finiva di convincere Peter. Lui a differenza del compagno non aveva mai avuto grosse esperienze con l'universo femminile. All'epoca del viaggio in Canada aveva da poco iniziato a uscire con Emily. Aveva qualche anno in meno di loro, con lei stava bene, poteva parlare di tutto, persino di hockey. Gli piaceva e sentiva di
potersi innamorare, ma mai avrebbe mandato all'aria una serata con gli amici per stare con lei.
Le aveva chiesto di accompagnarlo quando si fece il piercing al labbro inferiore. Seduto sul lettino, le tenne la mano mentre il ragazzo tatuato del negozio gli bucava il labbro. Non fu nulla di sconvolgente e il risultato valse la sofferenza. James se ne accorse solo in macchina, non lo avevano mai entusiasmato i piercing, inoltre trovava snervante il continuo giocherellare dell’amico con la piccola pallina di acciaio.
All'arrivo in casa dei parenti di James, la zia aveva appena sfornato una profumatissima torta di mele. La signora Morrison non aveva figli e ogni volta accettava di buon grado le visite del nipote. Fuori la temperatura era gelida, cenarono insieme e prima di uscire per andare all'unico pub del paese decisero di farsi una doccia per scaldarsi un po' e riprendersi dal lungo viaggio. James aveva appuntamento con alcuni amici di vecchia data. Per non far tardi si buttò subito sotto la doccia e nel giro di cinque minuti la liberò per l'amico. Di fronte allo specchio per un attimo sorrise compiacendosi del suo aspetto. James si ritrovò a fissarlo da dietro il vetro appannato della doccia. Era abituato a vederlo nudo, aveva visto il suo corpo cambiare nel tempo. Il ragazzino magro che aveva conosciuto ora era un uomo di un metro e ottanta, le sue spalle erano larghe e il petto peloso. Era bello e aveva successo in tutto quello che faceva. A differenza della testa rasata di Peter, lui aveva dei ricci castani che ora bagnati lasciavano cadere gocce di acqua ovunque. Sapeva di volergli bene, lo considerava il suo migliore amico. Ne era affascinato, era convinto che James fosse una persona unica, speciale. A volte sentiva verso di lui una certa attrazione, forse era solo il suo senso di possessività o forse lo ammirava tanto perché avrebbe voluto esser come lui. Mentre nella doccia questi pensieri s’intrecciavano, i suoi occhi non potevano smettere di fissare l'amico. Le spiegazioni che si era dato in tutti questi anni poco poterono fare contro la risposta del suo corpo. Per la prima volta la vista di quel corpo nudo lo eccitò. Fu una reazione inaspettata, ne fu sconvolto, si girò di scatto per paura di esser scoperto e aprì l'acqua gelida. James ignaro uscì dal bagno e andò a vestirsi. Restò solo, rimase immobile nella doccia, solo il labbro continuava insistentemente a mordicchiare il piccolo piercing. L'acqua correndo sulle guance iniziò a mescolarsi con le lacrime. I secondi sembrarono
non are, neanche tempo dopo riuscì a ricostruire i suoi pensieri, solo paura e angoscia. Cercò di non far trasparire nulla durante la serata, ma la notte non chiuse occhio.
Tornato a casa, non seppe darsi pace. I primi tempi tentò per l'ennesima volta di trovare una giustificazione, ma poi l'inconsapevolezza di quello che era e di quello che provava per l'amico lo gettò in una bruttissima depressione. Cercò di allontanarlo dalla sua vita, si convinse che in questo modo si sarebbe risolto tutto. Allo stesso tempo aveva paura di perderlo per sempre. A volte fantasticò di come lui potesse ricambiare il suo sentimento, avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo. Una volta stava quasi per confessargli tutto.
Le continue attenzioni di James, preoccupato per le condizioni dell'amico, non facevano altro che aumentare il dramma che Peter doveva portare nel cuore. Voleva liberarsi, voleva urlare tutto, ma non lo fece. Solo una persona si accorse di quello che stava ando. Fu una cosa inaspettata, Emily quel giorno era andata a trovarlo a casa. Come al solito Peter era ancora in pigiama, inerme sul divano del salotto. Doveva aver perso almeno un paio di chili dall'ultima volta.
Mesi prima c'era voluto poco per comprendere che la loro era solo una forte amicizia e da allora lei era l'unica che sembrava capirlo. Intuì il suo dramma, lo aveva capito da alcuni piccoli gesti, forse ancor prima che Peter se ne rendesse conto. Fino a quel pomeriggio non lo affrontò mai direttamente, non voleva forzarlo a confessare. Le bastava stargli accanto e assicurarsi che stesse bene. Quel giorno capì che non poteva più aspettare. Lo guardò dritto negli occhi, gli prese le mani e gli disse: “Devi dirglielo, devi farlo per te”. Peter sentì una grossa fitta al petto. Lei sapeva, era lì pronta a condividere il peso che per tutto questo tempo lo stava schiacciando. La guardò e a fatica rispose: "Non ce la faccio".
IL SORRISO SPONTANEO
Un chilo di costolette d'agnello, mezzo chilo di topinambur, tre cipolle, la buccia e il succo di un limone, un mazzetto di prezzemolo, un barattolo di olive nere, mezzo litro di salsa di pomodoro, olio di semi, aceto, mezzo litro di brodo di carne, zenzero, zafferano, cumino, cannella, peperoncino, sale e pepe.
Voleva cucinare senza l'aiuto di nessuno, tutto doveva essere perfetto. Neanche lontanamente si aspettava un risultato paragonabile a quello della moglie. Nel suo Paese gli uomini non cucinavano, erano le donne a far tutto, prima le madri e le sorelle e poi le mogli e le figlie. Da quando si ritrovò solo, aveva dovuto imparare ad arrangiarsi. Il più delle volte si scaldava qualcosa di surgelato o si comprava qualche piatto già pronto. L'ultima volta che tentò di cucinare, l'odore di bruciato impregnò per diverse settimane le tende della cucina. Dovette lavarle due volte, ma il loro colore da bianco ò a un tenue grigiastro e dovette buttarle.
Questa volta non doveva sbagliare, era un'occasione talmente importante che settimane prima decise di fare una prova. Doveva arrivare preparato, fare una bella figura con la famiglia, voleva dimostrare quanto quella città, così aperta e generosa, lo avesse cambiato. Il tajin era sicuro di averlo, doveva solo trovarlo tra gli scatoloni della dispensa e dargli una spolverata. Era una delle poche cose che si portò in viaggio, non tanto per usarlo quanto per avere un ricordo dei sapori e degli odori della sua terra. Era la pentola tipica della sua tradizione, la base era formata da una casseruola di terracotta e il coperchio aveva la caratteristica forma di cono per trattenere il calore e i vapori della cottura. Avrebbe accompagnato il tutto con del couscous e delle verdure.
Un collega gli consigliò un supermercato che poteva fare al caso suo, giusto nel quartiere accanto. Quel giorno era di riposo e, armato di buone speranze, prese il
foglio con la lista della spesa e uscì di casa. Per il primo quarto d'ora sembrò vagare senza senso tra gli scaffali. Iniziò cercando i vari ingredienti seguendo l'ordine della ricetta, poi, non avendo una matita per depennarli e trovando non poche difficoltà nel recuperare il tutto, decise di ripartire da capo attraversando una alla volta tutte le corsie. Il tutto gli costò qualcosa come un'ora in più rispetto a quanto aveva stabilito. Oltretutto alcuni ingredienti, come il topinambur e il cumino, non li trovò. Neanche l'addetta del reparto gli fu d'aiuto, forse avrebbe fatto meglio a cercare un negozio di cucina etnica nei dintorni. Prima di pagare controllò nuovamente la lista della spesa, la pagina strappata su cui si era appuntato gli ingredienti era talmente sgualcita e umidiccia che a stento riuscì a distinguere le ultime righe. La pioggia di quella mattina non lo aiutò, aveva iniziato a diluviare nel preciso istante in cui uscì da casa. Erano diversi giorni che il cielo era scuro, ma quella mattina ci fu un netto peggioramento con scariche violente di pioggia su tutta la città. Fortunatamente la lista degli ingredienti che aveva nel taschino della giacca era solo una copia e la ricetta originale, scritta con la bella calligrafia della moglie, se ne stava al sicuro sulla mensola della cucina. Najat gliela spedì qualche mese prima insieme con una lettera e delle foto dei figli. Erano anni che non assaporava quel piatto, avrebbe potuto aspettare l'arrivo della moglie e lasciare a lei il compito, ma decise che quello era il suo regalo, doveva essere di buon auspicio per loro nuova vita.
Uscendo dal supermercato questo pensiero lo rincuorò, in fondo sarebbe stata una bella sorpresa per la sua famiglia, per loro valeva la pena affrontare quel diluvio universale. Le mani bagnate e rattrappite dal freddo reggevano i due pesanti sacchetti della spesa quando iniziò a correre in direzione della fermata della metropolitana. Per fortuna non li prese di cartone, poco avrebbero resistito sotto tutta quell’acqua. Il pensiero di lui, chino sulla strada a raccogliere i vari prodotti rotolati qua e là, gli strappò una risata. Era una cosa a cui era abituato, gli capitava spesso di ridere da solo immaginandosi scene divertenti, il più delle volte si trattava di cadute rovinose nei momenti e nei luoghi meno opportuni. Solo lo sguardo stranito delle persone accanto a lui lo riportava alla normalità. Il sacchetto fortunatamente non si ruppe, ma quando arrivò senza poca fatica alla metropolitana, si accorse che l'ingresso era chiuso. Doveva essere una congiura, l'acqua copiosa di quelle ore allagò quel tratto della linea. Era troppo lontano da casa per tornare a piedi, non aveva più soldi neanche per prendere un taxi e per giunta era completamente fradicio.
Sarebbe potuto spazientirsi come il resto delle persone accanto a lui, invece alzò gli occhi al cielo e per un attimo si ritrovò a pensare a casa. Sorrise ricordando quei grossi temporali estivi che c'erano dalle sue parti, sentì il caldo, l'odore della terra bagnata e l'elettricità nell'aria. Il suo primogenito nacque proprio durante una tempesta come quella. Non poteva crederci, ancora non se ne rendeva conto, nel giro di pochi giorni li avrebbe rivisti. Avrebbe riabbracciato la sua Amina, ogni giorno si faceva sempre più simile alla madre, l'aveva lasciata poco più che bambina e ora aveva già sedici anni. Come il padre anche lei aveva una bella voce e amava cantare, le aveva trasmesso la ione per i Beatles che erano diventati la perfetta colonna sonora del sabato mattina in famiglia. Non erano molto conosciuti nel loro Paese ma Said da ragazzo aveva avuto la fortuna di lavorare un paio di mesi in Inghilterra. Amina era da sempre la sua preferita, anche se non lo ammetteva, aveva un debole per lei, sul comodino accanto al letto teneva una delle sue prime lettere, sul retro tra mille cuoricini colorati c'era scritto: “A Said, il mio fantastico papà”.
Youssef invece era il maschio, più grande della sorella aveva un carattere forte e deciso. Dopo la partenza del padre si responsabilizzò molto, era lui l'uomo di casa. Aveva la bocca e il sorriso di Said. Fra tutti fu quello più difficile da convincere, ormai aveva già ventiquattro anni, aveva finito di studiare e da qualche tempo aveva trovato un buon impiego. Il padre lo sapeva e anche per questo si affrettò nei preparativi del trasferimento. D'altronde erano anni che lo progettava, tutti quei sacrifici li aveva fatti per loro, voleva dare ai suoi figli tutte le possibilità che non erano state date a lui.
Sempre con gli occhi rivolti al cielo, si rese conto che nel giro di poco la sua famiglia si sarebbe riunita, l'idea di loro, seduti attorno alla stessa tavola da pranzo, lo emozionò. Quando arrivò in città pensava di sistemarsi in poco tempo, li avrebbe fatti venire nel giro di qualche anno. I primi mesi non furono semplici. Dovette faticare un po' per ingranare con la lingua, stentò a trovare lavoro e, giusto quando riuscì ad avere il primo impiego reale, le cose peggiorarono. Era lì quel maledetto giorno in cui le torri crollarono. Anche se a tutti gli effetti era ancora un cittadino straniero, quella tragedia lo segnò nel profondo. Era già
innamorato di quella città, in qualche modo la sentiva sua e sentiva di farne parte. Dal suo arrivo la cosa che più lo sorprese fu come tutta quella moltitudine di persone di nazionalità, etnia e credo differenti potessero convivere in piena armonia. A volte restava piacevolmente sorpreso e affascinato ascoltando tante lingue così diverse in una stessa carrozza della metropolitana o nella stessa fila al supermercato.
Nei primi tempi ebbe paura di perdere tutto, di essere discriminato e additato per una colpa non sua, ma così non fu. Anche nell'orrore di quei giorni non si sentì mai colpevolizzato per le sue origini, era parte di quella grande comunità e condivise con loro il dolore e la voglia di riscatto. Tutto questo lo commosse e rinforzò sempre più il suo progetto. Non rinnegava le sue radici e anche se non escludeva un giorno di fare ritorno in patria in quel momento più che mai si rese conto di aver fatto la scelta migliore per la sua famiglia. Voleva per loro il meglio, voleva che crescessero liberi e che avessero a disposizione tutte le opportunità possibili. Amina avrebbe potuto studiare e realizzare così il sogno di diventare medico, mentre Youssef, così bello e determinato, non avrebbe fatto fatica a trovarsi un impiego e nuovi amici. Oltretutto nel suo quartiere c'erano una moschea e poco lontano un circolo di connazionali che sicuramente avrebbero dato o alla moglie e ai figli nel primo periodo.
Si riparò sotto il tendone di un bar aspettando che spiovesse e, dopo aver recuperato anche gli ultimi ingredienti, arrivò finalmente a casa. Era esausto, si fece una doccia calda e, anche se la tentazione di abbandonarsi sul divano per riprendersi da quella mattinata infernale era forte, si mise subito all'opera.
Dispose le cipolle tritate finemente e le costolette di agnello nel tajin, le salò e cosparse il tutto con tre cucchiai di olio si semi. Coprì a filo con il brodo di carne e aggiunse zenzero, zafferano, cumino, cannella, pepe e peperoncino. Era un piatto sicuramente particolare e non adatto a palati che temono i sapori speziati e decisi. Fece cuocere il tutto a fuoco moderato, la carne doveva diventare tenera e sciogliersi in bocca liberando gradualmente tutti i suoi sapori. Aggiungendo di volta in volta altro brodo per evitare che le costolette di agnello si asciugassero
troppo, cominciò a sbucciare i topinambur. Con il grosso coltello da cucina li tagliò a tocchetti di un centimetro circa e li mise in una ciotola di acqua acidulata con l'aceto. Sempre controllando il grado di cottura della carne, cominciò a pulire la cucina cercando di rimediare al caos che aveva creato. Non essendo abituato a cucinare e non avendo dalla sua una grande tendenza all'ordine, ad ogni movimento generava più confusione. Si accorse di aver finito i cucchiai, ogni volta che aggiungeva un ingrediente ne adoperava uno nuovo e poi puntualmente lo perdeva in mezzo al marasma della cucina.
Quando la carne fu ben cotta, la tolse dal tajin e la mise da parte. Nella stessa pentola mise i tocchetti di topinambur dopo averli risciacquati e li fece cuocere fino a renderli morbidi. A questo punto ce l'aveva quasi fatta, doveva solo unire il resto degli ingredienti e sperare che il risultato fosse per lo meno commestibile. Di volta in volta rileggeva il procedimento della ricetta, non era troppo speranzoso del risultato, ma fino a quel punto a quanto pare non aveva compiuto grossi errori. Unì al topinambur le costolette di agnello cotte in precedenza, aggiunse le olive nere, il succo e la buccia grattugiata del limone ed infine la salsa di pomodoro. Aggiustò di sale e fece cuocere il tutto per qualche minuto.
Controllò nuovamente la ricetta scritta da Najat e si accorse solo ora che l'ultima riga riportava questa frase: “Guarnire con prezzemolo finemente tritato e servire ben caldo. Bissahhawaal'afiya”. Quell'ultimo augurio di buon appetito nella sua lingua madre lo commosse, si sedette di fronte al suo tajin di agnello e tompinambur. Doveva essere una scena alquanto comica, aveva cucinato tutto il pomeriggio per sei persone e ora se ne stava tutto solo seduto di fronte al suo piatto. Era distrutto dalla stanchezza e teso per il risultato finale, se qualcosa fosse andato storto, probabilmente, non avrebbe avuto il coraggio e la voglia di tentare nuovamente.
L'orologio segnava le cinque del pomeriggio, non era l'ideale per cenare, ma non poteva aspettare fino a sera. Prese un pezzettino di carne intriso della sua salsa, lo annusò e lo portò alla bocca. La testa bassa concentrata nel cogliere ogni
minimo sapore di colpo si alzò. Dalla bocca spalancata i denti bianchi e perfetti mostrarono un sorriso gigantesco. Bevve un sorso d'acqua e, mostrando un'espressione fiera, disse: “Bissahhawaal'afiya”.
GLI OCCHI COLMI
Positivo. Alzò la testa. Nessun pensiero, nessuna emozione, solo il vuoto. Per un attimo tutto si fermò, gli occhi fissavano la parete di fronte quando, dopo un tempo non ben definito, bussarono alla porta del bagno. Dall’altro lato sua madre le disse: “Helena, sei pronta? Come al solito mi farai far tardi, ti aspetto in macchina”. Non rispose, solo il rumore del camlo all’ingresso, la fece uscire dallo stato di semi trance in cui era caduta.
Spostò lo sguardo e gli occhi le caddero sulla foto di famiglia appesa al muro. Aveva nove anni, insieme a lei il fratello maggiore e i genitori. L'avevano scattata al mare, era una delle ultime vacanze con la famiglia al completo. Il padre in quel periodo si era apionato di fotografia, aveva scelto l’obiettivo più adatto, valutato la luce e calcolato la giusta prospettiva. Voleva un autoscatto della loro vacanza al mare, come prima cosa decise il posto e la posizione di tutti, mise la moglie seduta davanti a Travis mentre per sé lasciò uno spazio vuoto di fronte ad Helena. Sotto di loro gli scogli e all’orizzonte il blu dell'oceano si mescolava con l’azzurro del cielo. Nonostante le lamentele dei figli, annoiati dall’attesa, riuscì a trovare la giusta inquadratura e dopo qualche prova attivò il timer. Aveva cinque secondi, giusto il tempo per raggiungere il resto della famiglia e sedersi al suo posto. Se solo non avesse urtato contro il piede del cavalletto, tutto sarebbe andato secondo i piani. Invece per poco non cadde a terra, saltellando riuscì a restare in piedi e la macchina fotografica, che nell’urto si era inclinata tutta di lato, scattò una foto a dir poco esilarante. In primo piano il padre di spalle era proiettato in avanti con le braccia tese verso i figli. Helena di fronte a lui si portava le mani alla testa socchiudendo gli occhi come se qualcosa dall’alto le stesse piombando addosso. Alla sua destra Travis aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta. A un primo sguardo sembrava un'espressione di sorpresa mista a spavento, osservandolo meglio, invece, si poteva riconoscere un sottile accenno di sorriso. Helena lo sapeva, conosceva bene il fratello e da quella sua cinica espressione sapeva che, più che preoccupato per il padre, era divertito dalla scena comica. Tutt'altra sensazione le suscitava l'immagine della madre. La bocca tirata faceva intravedere una sottile striscia di denti e gli occhi erano semichiusi. La strana smorfia del viso pareva
da un lato preannunciare il dolore della caduta e dall'altro sembrava raffigurare il suo disappunto per l'ennesima distrazione del marito. Il braccio teso verso di lui forse voleva essergli d'aiuto, ma più probabilmente era solo un gesto riflesso, quasi a volerlo rimproverare. Mesi dopo, fuori dalla casa della nonna, le vide fare l'identica espressione assistendo dal marciapiede a un tamponamento tra alcune macchine che arrivavano dalla corsia opposta. La riconobbe subito, era l'espressione di mamma nella foto al mare.
Forse erano anni che non si soffermava tanto a fissare quella foto appesa al muro. La vedeva ogni giorno, era impossibile non notarla, l’aveva di fronte ogni volta che entrava in bagno, ma per la prima volta dopo anni in quel preciso istante la guardò veramente, ne studiò ogni minimo dettaglio. Il padre dopo averla sviluppata volle farne ingrandire una copia e decise lui di appenderla in bagno, amava quella foto. Diceva che lo metteva di buon umore, un sorriso era sempre il giusto modo per iniziare la giornata. La amava tanto anche perché in quella foto c'era tutta la famiglia e poi quelle smorfie, ben lontane dagli asettici sorrisi delle classiche foto di famiglia, li ritraevano così come erano nella realtà. Sicuramente non era uno scatto da professionista, l'immagine era scentrata e risultava leggermente sfuocata, ma per lui era una foto davvero speciale.
Era Agosto, fu una vacanza indimenticabile, l'ultima che trascorsero insieme. Il padre la primavera successiva morì improvvisamente. Da sempre era stato un uomo atletico, aveva praticato ogni tipo di sport ed era perfettamente in salute. I medici non se lo seppero spiegare, fu una cosa improvvisa, morì sul pavimento dell’ufficio colpito da un aneurisma cerebrale. Lo trovò la sua segretaria quando ormai non c’era più nulla da fare.
Dare una spiegazione a quel momento fu qualcosa che accompagnò tutta la vita di Helena. La sconvolgeva che il padre fosse morto in quel modo e soprattutto che in quel momento fosse solo. Spesso si chiedeva cosa avesse pensato nel preciso istante in cui cadde a terra, si domandava se fosse stato consapevole di quello che gli stava accadendo e se poco prima di morire avesse pensato a lei. In alcuni momenti avrebbe preferito una malattia, Helena avrebbe avuto il tempo
per salutarlo, per abbracciarlo, per sedersi sulle sue ginocchia e baciarlo un’ultima volta.
Aveva solo nove anni e quel pomeriggio cambiò per sempre la sua vita. La madre e il fratello, più grande di sette anni, inizialmente per proteggerla le nascosero la verità. Le dissero che il padre non era stato bene ed era in ospedale per fare degli accertamenti. Ci volle poco a Helena per realizzare cosa realmente fosse avvenuto. L’incessante squillare del telefono e l’andirivieni di amici e parenti le fecero capire che qualcosa di grave era capitato. ò due giorni dalla nonna materna e poi, ascoltando una telefonata con una parente lontana, lo venne a sapere. La nonna singhiozzando disse: “Carl è morto, si è sentito male al lavoro”. Il pennarello con cui stava colorando il disegno per il suo papà le cadde dalla mano, sentì solo quelle parole poi un grosso buco allo stomaco. Una macchia bagnata comparve sulla gonnellina color lilla che le aveva messo la nonna quella mattina, fece un lento lungo respiro e con un’espressione di terrore urlò tutta la sua disperazione.
Per un momento lo stesso buco allo stomaco le venne osservando la foto della vacanza al mare. Nonostante la mancanza del padre crebbe protetta dall’amore smisurato della madre e di Travis. Il fratello nel giro di poco divenne l’uomo di casa e superato lo shock del primo periodo, si prese carico lui della crescita di Helena. Era lui che al mattino la svegliava, le preparava la colazione, decideva i vestiti da indossare e con la sua macchina la portava a scuola. Lui e la madre volevano proteggerla dalla vita, avrebbero dato tutto quello che avevano per evitarle altro dolore. In qualche modo ci riuscirono, Helena crebbe apparentemente felice, la mancanza del padre si sentiva, ma allo stesso tempo il legame con il resto della famiglia le fece ritrovare la sicurezza e la serenità che aveva perso quel maledetto pomeriggio dalla nonna.
Il giorno del funerale versò tutte le lacrime del mondo, fu l’ultima volta che pianse. Per il resto della sua vita fu come se i suoi occhi avessero dimenticato come piangere, non riuscì mai a lasciarsi andare, sembrava aver esaurito tutta la riserva idrica delle sue ghiandole lacrimali. Spesso le persone la trovavano
fredda e distaccata, aveva una certa difficoltà a mostrarsi realmente per quello che era. Dopo anni riuscì a capire che inconsciamente non voleva legarsi a nessuno per non rischiare un giorno di sentirsi nuovamente abbandonata. A volte avrebbe voluto sfogarsi, piangere le avrebbe fatto bene, ma non riuscì mai, nemmeno in quel momento. Era sola in bagno, seduta sulla tazza del water fissava la foto di famiglia e, ricordando il padre e tutto il dolore che aveva nel cuore, stringeva nelle mani il suo test di gravidanza.
Conobbe Xavier alla mensa del campus. Era sola al tavolo e lo vide avvicinarsi. Con un accento straniero le chiese se poteva sederi e pranzare con lei. Nel suo Paese le persone non mangiavano mai sole al tavolo, era un momento speciale e dovevano per forza condividerlo con qualcuno. Iniziarono a parlare, lui era all’ultimo anno di letteratura straniera e dalla Spagna si era trasferito in America grazie ad un programma di scambio per poter completare la sua tesi. Parlò in sostanza solo lui, le raccontò la sua ione per la lettura, le disse di avere delle idee per un paio di libri. Certamente in Europa la storia della letteratura aveva radici più profonde, avrebbe potuto scrivere la tesi in Inghilterra o ancor meglio in Italia, ma la sua propensione per gli scrittori americani lo spinse fino a lì. Parlò molto, forse troppo, di preciso Helena non seppe quantificare il tempo che ò ad ascoltarlo. Lei, che da sempre cronometrava ogni singola pausa per non rubare del tempo agli studi, per la prima volta sembrò non interessarsene.
Fu come un tornado che la travolse, rimase affascinata e allo stesso tempo intontita da quell’incontro. Non era tanto quello che diceva, quanto il modo in cui lo diceva, il suo accento e il continuo gesticolare con le mani la ipnotizzarono. A dir la verità a lei la letteratura non era mai interessata, aveva una formazione più scientifica, aveva da poco terminato gli studi di base in infermieristica e stava per iscriversi a una scuola di specializzazione per diventare ferrista in sala chirurgica. Seppur poco coinvolta dal racconto della sua tesi, Helena lo lasciò parlare e si sorprese di sentirsi così a suo agio con una persona del tutto estranea.
Con la stessa semplicità con cui Xavier si sedette al tavolo, finito il pranzo, le
disse che doveva andare. Alle due del pomeriggio aveva appuntamento con il professore per discutere il suo progetto di tesi. Si alzò dal tavolo, s’inclinò verso di lei, le diede due baci sulle guancie e le disse: “Piacere di averti conosciuto, domani stessa ora e stesso tavolo?”. Helena ancora confusa dall’incontro e sorpresa dal saluto di Xavier gli rispose solamente: “No”. Lui la guardò stranito. Pochi secondi ci vollero per rendersi conto di quanto quella sua risposta poté sembrare sgarbata. Aggiunse: “No, volevo dire che domani non ci sono, sono di turno in clinica, giovedì penso di venire”. Il rossore del suo viso poco nascose l’imbarazzo per la gaffe. Xavier sorrise compiaciuto e le disse: “Vada per giovedì”, fece un cenno di saluto con la mano e se ne andò. Helena rimase seduta al tavolo, d’un tratto il sorriso stampato sul suo viso s’interruppe. Tolse dalla borsa il piccolo specchietto da trucco regalatole dalla madre al compleanno, si guardò e, sconsolata, si ricordò di non essersi messa neanche un filo di trucco quella mattina.Inoltre ifolti capelli ricci e castani per praticità li aveva raccolti in una lunga treccia. Pensò di essere un mostro, probabilmente Xavier non si sarebbe più fatto vedere. Dopo essersi presentata in quelle condizioni e dopo la figuraccia che aveva fatto salutandolo, sarebbe stato meglio per tutti.
Così non fu, il giovedì alla stessa ora e allo stesso tavolo della mensa questa volta Helena ci trovò lui. In realtà sperava ci fosse, giorno dopo giorno il loro incontro divenne quasi un rito. avano circa un’ora insieme, parlavano di tutto. Si sorpresero notando la facilità con cui potevano discutere di questioni importanti, come la politica estera, la cronaca e l’economia e allo stesso tempo are a parlare ore e ore di musica, ricette di cucina e del modo per far andar via le macchie di erba dai vestiti. Spesso nelle discussioni avevano punti completamente opposti e s’instaurava una specie di competizione per chi avesse la meglio tra i due.
I mesi arono e l’interesse per quel ragazzo affascinante poco a poco divenne amore. In qualche modo avrebbe voluto frenarsi, sapeva che alla fine dell’anno sarebbe ritornato nel suo Paese, ma ormai non poteva più farci niente. Aspettava solo un gesto, una sua conferma per gettarsi tra le sue braccia. Lei non avrebbe fatto mai la prima mossa, non era così sicura di sé. Anche se ormai si sentiva coinvolta, aveva paura di legarsi a lui, aveva paura di perderlo e di sentirsi
nuovamente abbandonata. Per una volta invece si lasciò trasportare dalle emozioni, tutto andò nei migliori dei modi. Seduti nel parco, in una giornata fredda d’inverno lui la baciò. Nemmeno allora pianse.
CINQUANTACINQUESIMO PIANO
Seconda metà di Gennaio. Fuori la neve, al di là dei vetri appannati si scorgeva il normale caos mattutino della città. Tra la folla Lisa entrò nell’edificio dalla porta girevole sulla trentaduesima.
Una mattinata come tante, triste e nera come il colore dei suoi abiti. Dalla morte della madre i giorni le sembravano maledettamente tutti uguali e il trascorrere del tempo non aveva più nessun significato. Come ad ogni risveglio quella mattina il primo pensiero cadde su di lei. Per pochi secondi ebbe quasi la speranza di aver fatto solo un brutto incubo, scendendo l’avrebbe trovata in cucina intenta nel prepararle la colazione, l’avrebbe abbracciata e baciata prima di uscire per andare al lavoro. L’illusione di quei primi attimi nel giro di poco divenne angoscia. Per l’ennesima volta cercò di cancellare il dolore, si preparò e scese al piano di sotto. La casa era buia e l’odore di chiuso e la polvere sui mobili la facevano sembrare ancor più triste. Raccolse i capelli biondi e li nascose sotto il solito berretto nero. Accanto alla porta s’infilò il cappotto pesante e gli stivali e, prima di prendere l’ombrello appeso alla maniglia, si ricordò dei guanti di rossi. Li aveva dimenticati sul tavolo della sala da pranzo, tornò a prenderli e prima d’indossarli si fermò a fissarli per qualche minuto. Erano i guanti di sua madre, scoprì dopo che li comprò quel pomeriggio all’uscita della clinica.
Durante l’ultimo periodo Marion decise di aprirsi con le figlie, non voleva più nascondersi dietro al ruolo della mamma forte e invulnerabile, raccontò tutto quello che aveva ato e quello che aveva provato dalla scomparsa del marito fino alla scoperta della malattia. In quei momenti nelle sue parole le difficoltà e il dolore sembravano ormai dimenticati, era soddisfatta per quello che era riuscita a fare, era orgogliosa delle figlie e in qualche modo sembrava anche aver perdonato il marito. Raccontò di come quel pomeriggio il suo sguardo si posò sulla vetrina e senza accorgersene si ritrovò tra le mani quel paio di guanti rossi. Rise descrivendo come il loro rosso le fece tornare alla mente la spessa
gonna di flanella e i calzettoni che indossava da bambina.
Ripensò al racconto della madre e uscì da casa, la neve aveva ricoperto tutto il giardino di fronte, indossò i guanti e se li portò al viso, conservavano ancora il profumo di Marion. Pensò al giorno in cui la madre la sorprese in cucina a preparare i biscotti. Le accarezzò la guancia e la punta delle dita si sporcarono di farina. Quegli stessi guanti li ricordava nelle mani del padre il giorno che lo rivide in ospedale. Non poteva accettare che lui li toccasse, non ne era degno, non aveva il diritto di starsene al capezzale di Marion fingendo di essere il buon marito che non era mai stato. Tanti anni prima aveva scelto lui di andarsene e da allora aveva smesso di essere un padre e un marito.
Con questi pensieri arrivò al lavoro, attraversò a testa bassa la hall del piano terra e camminò velocemente cercando di evitare lo sguardo delle altre persone. Da tempo ormai non aveva voglia di stare in mezzo alla gente, soprattutto nei luoghi affollati, preferiva starsene a casa da sola. A parte le telefonate sempre più frequenti e preoccupate della sorella, le poche parole che scambiava durante la giornata si limitavano all’orario lavorativo. Quella mattina ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Proprio mentre pensava alla scusa per evitare la solita pausa caffè con le colleghe arrivò di fronte al secondo ascensore di destra. Riuscì a entrare giusto poco prima che le porte si chiudessero e nell’intenzione di scegliere il piano, la mano, ancora con il guanto rosso, sfiorò quella di Marco. Arrossendo, la ritirò subito, non lo guardò neanche in volto. La mise in tasca quasi a nasconderla, non voleva che nessuno toccasse i guanti di sua madre, non voleva che perdessero il profumo della sua pelle, le era rimasto solo quello. Marco le rivolse parola: “Anche lei al cinquantacinquesimo?”. Lisa, dopo un rapido scambio di sguardi, rispose semplicemente: “Si, grazie”. Le porte si chio. Marco si accorse dell’imbarazzo della ragazza e nonostante l’evidente gesto di chiusura di Lisa non riuscì a smettere di fissarla. Era quasi compiaciuto del suo rossore. Ottavo piano.
Come sempre si sentiva sicuro di sé, sapeva di avere un certo fascino sul gentil sesso. Gli occhi azzurri, di un azzurro intenso, molto chiari quasi tendenti al grigio, continuarono a fissarla. Come tutte le mattine quel giorno si svegliò presto e spese più di tre quarti d’ora per prepararsi. Dopo la doccia si sistemò i capelli, regolò la barba e si lavò i denti. Non amava i profumi, usò solo il deodorante e, dopo essersi messo l’elegante completo per l’ufficio, uscì di casa per andare al lavoro. Si controllò un’ultima volta nello specchio dell’entrata, s’infilò il caschetto della bici e prese la sua valigetta di pelle nera.
Lisa gli ricordava qualcuno, seppur minuta e dall’aspetto un po’ triste, era una bella ragazza e aveva qualcosa di misterioso. Nel momento in cui togliendosi il berretto nero, Lisa scosse la testa facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi, si ricordò della prostituta di Las Vegas e del week end selvaggio che aveva trascorso con l’amico Dave. Dopo essersi sfilata il vestito dalle spalle, anche lei fece quel gesto così sexy agli occhi di Marco. Pur distante anni luce da Lisa, il moto fluttuante dei suoi capelli gliela fece ricordare.
Pensò a quella notte assurda, al risveglio traumatico la mattina seguente e per un momento il ricordo del caldo e della camera d’albergo, pregna degli odori della notte, gli fece tornare la nausea. Mai era stato così male dopo una sbornia, ci vollero parecchi giorni per smaltire totalmente quel fine settimana di bagordi. Nonostante tutto fu uno dei viaggi più belli e assurdi della sua vita. Lo aveva organizzato Dave, fu una sorpresa per esorcizzare il brutto periodo che stava ando. Dopo il fallimento del suo matrimonio e al limite di una depressione ci voleva qualcosa di estremo per azzerare tutto e voltare pagina. Marco si sorprese vedendo come l’amico riuscì a reggere l’alcool più di lui. Voleva farlo ubriacare come ai vecchi tempi, ma alla fine si ritrovò lui disteso sul letto, devastato dal mal di testa e dalla nausea.
Era l’estate precedente e dopo il ritorno a casa ebbe modo di sentirlo telefonicamente più volte. Solo pochi giorni prima l’amico lo chiamò raccontandogli le ultime novità in merito alla sua nuova relazione. Dal ritorno da Las Vegas qualcosa era cambiato, aveva conosciuto al bar sotto casa una
ragazza. Era la cameriera del locale, ogni mattina gli serviva la colazione fino al giorno in cui, oltre al suo latte macchiato e al toast al formaggio, al tavolo gli portò un tovagliolino con scritto il suo numero di telefono. Da allora le cose nella vita di Dave iniziarono ad andare meglio, non sapeva a che punto fossero arrivati, sapeva solo di essere legato a lei da quasi due mesi. Non aveva importanza definire il loro rapporto, con lei stava bene, era più giovane di almeno una decina di anni, voleva viversela così, in modo spensierato. A letto poi facevano faville, lei aveva l’energia e l’intraprendenza della carne giovane e questo risvegliò tutta la carica sessuale e l’istinto represso di Dave. Marco non poté che rallegrarsene, sapeva bene che in quel momento era quello che serviva all’amico. Anche dal punto di vista sessuale la notte di Las Vegas fu il primo o per riaprire le porte a tutto un mondo ormai lontano da Dave.
In ascensore si ritrovò a ridere da solo ripensando all’orgia con le due prostitute e alla ricostruzione della nottata fattagli dall’amico. Ricordò il sorriso di Dave quando, dopo aver suonato alla porta, si fece trovare con due grossi bicchieri di caffè tra le mani. Con lui ricostruì l’intera nottata, Dave raccontò di come l’idea di fare un’orgia tutti insieme sorprese lui stesso. Rise simulando l’espressione di Marco nel vederlo possedere da dietro la prostituta bionda. Continuando a raccontare aggiunse che, benché Marco non si ricordasse di nulla e fosse ubriaco perso, il tutto durò un paio di ore. Senza nessun tipo d’imbarazzo si complimentò con l’amico per come aveva retto l’intera prestazione in quelle condizioni e, tra una risata e l’altra, lo rassicurò che tra loro, a parte qualche contatto indiretto di corpi, non successe niente.
Nonostante Marco avesse fatto un po’ di tutto nella vita e nonostante la sua grossa apertura mentale fu la prima e ultima volta che si ritrovò in una situazione simile. In ascensore i particolari del racconto dell’amico riaffiorarono. Per certi versi non andava granché fiero di aver fatto un’orgia, oltretutto non se ne ricordava neanche. Si guardò attorno come a controllare se qualcuno nell’ascensore avesse intuito i suoi pensieri, si ripromise di non raccontarlo a nessuno, sorrise e dopo tutto pensò: “Tutto ciò che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas”. Nello stesso momento il silenzio dell’ascensore venne interrotto da un brusco starnuto. Diciassettesimo piano.
Margaret rivolgendosi a Jiang disse: “Salute” e prima che lui potesse educatamente risponderle grazie, aggiunse: “Hai preso freddo?”. “D’altronde con questo tempo bisogna coprirsi bene, erano anni che non nevicava così”. “Ricordo che alla tua età aspettavo solo che nevicasse per giocare con le mie sorelle”. Nello stesso momento in cui pronunciò queste parole lo sguardo si fece mesto, continuò: “Ti piace la neve?”. Jiang sorrise e annuì con la testa.
Come sempre anche quella mattina si era svegliata all’alba, era il momento del giorno che le piaceva di più. La sera le metteva una certa tristezza, stentava a prender sonno, si ritrovava malinconicamente a pensare ai primi anni della sua vita, alla sua famiglia e alla loro casa ormai lontana. Ogni volta si sentiva inesorabilmente sola. Quella mattina uscì da casa molto presto, andò in chiesa, fece colazione alla solita tavola calda e, dopo aver fatto la spesa al supermercato dell’angolo, comprò un mazzo di lavanda nel chiosco sotto casa. Cercando di non rovinarlo lo infilò in una delle borse che aveva sotto braccio, entrò nell’edificio e prese l’ascensore. Da sempre era la sua pianta preferita, la sua essenza la riportava al periodo felice dell’infanzia. Ogni volta che ne percepiva il profumo mille ricordi, mille sensazioni la travolgevano.
In ascensore pensò a sua madre e al grosso cespuglio di lavanda selvatica che coltivava nel giardino sul retro. I ramettiche aveva l’abitudine di sparpagliare in ogni stanza profumavano tutta casa. Anche dopo anni le mancavacome solo una mamma può mancare. Nonostante l’avesse persa in età adulta e nonostante avesse avuto la possibilità di assisterla durante la lenta malattia, soffrì molto quando se ne andò. Margaret aveva quasi cinquant’anni e in quel momento si sentì persa come solo un’orfana si può sentire. Dopo tutto, a parte le sorelle, che ormai vivevano lontane con le loro famiglie, non aveva nessun altro.
Nonostante le diverse occasioni non si sposò mai, non costruì una sua famiglia. Non fu una scelta precisa, terminò un paio di relazioni perché troppo immersa nel lavoro e nei mille interessi e alla fine si ritrovò sola e vecchia. I capelli rossi che aveva da bambina ora erano completamente bianchi, li portava molto lunghi
raccogliendoli sovente con dei vistosi fermagli. Le mani, raggrinzite dal tempo, sembravano sorreggere a stento i due pesanti sacchetti della spesa, mentreil viso, a differenza del corpo minuto e fragile, pareva ancora ricco di vita. Aveva un bel sorriso naturale e lo sguardo furbo che aveva da bambina.
L’essenza di lavanda, che ormai si era diffusa dentro tutto l’ascensore, le fece tornare alla mente quella mattina di mezza estate. Si ricordò della gita allo zoo e di Emily e Sophie catapultate giù dal letto all’alba. Pensò alle loro espressioni e alla complicità amorevole della fidata Nancy. Anche dopo anni, quella gita rappresentò il ricordo più felice della sua vita. L’immagine delle sorelle con gli occhi gonfi dalla stanchezza e con i rametti di lavanda tra i capelli era indimenticabile.
Improvvisamente, proprio nel momento in cui parlava con Jiang, si ricordò di suo padre. Fece una breve pausa e sentì una fitta al cuore. Tornò al giorno in cui lo vide per l’ultima volta. Si ricordò di come quella mattina cercò di catturare nei polmoni il profumo del giardino di casa per portarlo con sé nella grande città. Pensò al suo ultimo abbraccio, alla sua commozione, alla mano alzata che la salutava dal giardino. Morì qualche mese dopo. Non voleva legarsi a qualcuno per poi soffrire ancora. Ventiquattresimo piano.
Forse avrebbe dovuto farsi una famiglia, avere dei figli, forse ora qualcuno si sarebbe occupato di lei, forse non sarebbe così sola. Fece un lento respiro e sforzando un sorriso continuò la conversazione con Jiang, disse: “Nel tuo Paese c’è la neve?”. Jiang, sistemandosi lo zainetto sulle spalle, le rispose: “Non lo so, vivo qui da quando sono nato”.
La sera prima, Jiang decise all’insaputa dei genitori di andare a trovare Jordan. Da qualche giorno il compagno di classe era malato e dopo l’episodio della lite con Timothy la settimana precedente, non aveva più avuto modo di ringraziarlo. Lo aveva chiamato a casa e la madre gli aveva riferito che per un altro paio di giorni, fino a quando non si fosse completamente ripreso dall’influenza, non
sarebbe tornato a scuola. Decise così di saltare le prime ore di classe e di are a trovarlo, aveva l’indirizzo nuovo, bastava solo prendere la metropolitana nella direzione opposta e fare un cambio dopo due fermate. Mise nello zainetto gli ultimi numeri di “World of Dinosaurs”, un paio di disegni da colorare e il suo amato binocolo d’esplorazione. Da quando l’aveva comprato al parco avventura non se ne era mai separato, lo avrebbe prestato a Jordan solo per un paio di giorni. Dopo che l’amico lo difese da Timothy di fronte a tutta la classe, non poteva fare altro.
Il compito che la professoressa di geografia aveva assegnato settimane prima andò molto bene, presero il massimo dei voti. Jiang si sorprese quando il giorno successivo Jordan gli chiese di are un altro pomeriggio insieme. In fondo il compito lo avevano terminato, si era trovato bene con lui, ma non riusciva ancora a fidarsi totalmente, dopo tutto era un amico di Timothy. Forse Jordan lo trovava davvero simpatico, forse non aveva fatto tutto solo per prendere un bel voto nella relazione di geografia, forse era davvero un amico.
Qualche giorno dopo, di fronte al litigio tra Jordan e Timothy, si vergognò di questi suoi dubbi. Come al solito Timothy, spalleggiato da altri del suo gruppo, aveva preparato uno scherzo per Jiang. Erano in palestra nell’ora di educazione fisica e con una scusa riuscirono a rientrare prima negli spogliatoi. Tra una risata e l’altra misero nell’armadietto di Jiang un secchio pieno di acqua e lo lasciarono in bilico sull’anta superiore. Jordan questa volta non partecipò allo scherzo, vide tutto uscendo dal bagno. Rientrando negli spogliatoi Jiang si ritrovò tutti gli occhi dei compagni addosso, il silenzio di colpo fu rotto da qualche risatina soffocata. Provò la stessa identica sensazione di quando settimane prima dovette rientrare in classe con i pantaloni fradici di tè. Quel silenzio non era un bel segno, coma allora avrebbe voluto scomparire, sapeva che avevano in serbo qualche altro scherzo, ma non fece nulla. Non ebbe per l’ennesima volta il coraggio di ribellarsi, si arrese andando in contro semplicemente al suo destino. Proprio mentre si aspettava il peggio, Jordan intervenne. Affrontò Timothy e sorprendendo tutti aprì lo sportello dall’armadietto di Jiang e lo spinse dentro, bagnandolo completamente. Era il più alto e forte della classe, non fu una cosa difficile. Si sorprese lui stesso, in fondo non poteva considerare Timothy un amico, fu quasi una liberazione, l’inizio di una rivoluzione interna alla classe. Ne
conseguì una scazzottata di pochi minuti fino a quando il professore di ginnastica intervenne e spedì entrambi in presidenza, Jiang e il resto dei compagni ne rimasero in parte sconvolti e in parte piacevolmente colpiti.
Era la prima volta che qualcuno teneva testa al bullo della classe, in fondo tutti avevano più che altro paura di lui, ebbe quello che si meritava pensarono. La punizione di Jordan non fu tanto grave, Jiang non ebbe il tempo quel giorno di ringraziarlo, si ripromise di farlo il giorno seguente. L’indomani però l’amico non venne a scuola, si era ammalato, la madre telefonò dicendo che aveva preso l’influenza. Qualcuno in classe suppose che forse Jordan non era venuto per paura di Timothy.
In ascensore ripensando alle parole dei compagni di classe Jiang scosse la testa, non era possibile, Jordan non aveva paura di nessuno. Finalmente lo avrebbe ringraziato e gli avrebbe prestato anche il suo amato binocolo d’esplorazione in gesto d’amicizia. Immerso nei pensieri non si accorse che il binocolo gli cadde dallo zainetto. Trentunesimo piano.
Nell’angolo in fondo all’ascensore Amanda era visibilmente infastidita dalla loquacità di Margaret, all’ennesima domanda fece uno sbuffo di disapprovazione. Gli occhi fissavano il lento scorrere dei piani sul tabellone dell’ascensore, come sempre odiava aspettare.
Si era sistemata nell’angolo più lontano dall’entrata, non voleva che qualcuno le parlasse o addirittura la sfiorasse, il solo pensiero le dava ai nervi. Aveva l’impressione di non riuscire a respirare in mezzo a quella calca di persone. Nervosamente controllò l’ora, doveva farla pagare ai suoi colleghi, avrebbero avuto quello che si meritavano per l’estenuante coda che le avevano fatto fare all’ufficio pubblico. Sembrava ancor più magra del solito, con le dita della mano destra iniziò a ticchettare compulsivamente sulla targa dorata dell’ascensore. Per una piccola frazione di secondo vide la sua immagine riflessa nello specchio di fronte, odiava il rosso dei suoi capelli e odiava ancor di più Sheila per averla
convinta a quella nuova tinta.
Come il giorno prima, anche in ascensore non riuscì a star ferma nella stessa posizione, alternava sistematicamente il peso del suo corpo da una secca gamba all’altra. Mentalmente riò il discorso per il suo capo. Il viso si fece ancor più serio e le labbra sembrarono scandire ogni singola sillaba. Ci aveva pensato quella notte, le due pillole rosse che aveva ingurgitato la sera prima avevano svolto il loro compito fino alle quattro del mattino e da quel momento aveva avuto tutto il tempo per pensare alla vendetta. Aveva lavorato così duramente per arrivare dov’era, aveva sopportato più di quanto una persona normale avrebbe potuto fare, aveva sacrificato tutta se stessa per quel dannato impiego. Improvvisamente le labbra si fermarono, le palpebre si chio e la bocca si stirò leggermente come in segno di dolore. Pensò a Robert, aveva perso anche lui per colpa di quel lavoro, aveva perso anche il loro bambino mai nato, aveva perso tutto. Si sentiva sola, sconfitta e tradita dall’unica cosa per cui aveva combattuto duramente. Forse non ne era valsa la pena, forse si era rovinata la vita inutilmente, forse aveva buttato al vento le uniche cose belle che la vita gli aveva offerto.
Odiava quell’ufficio e odiava il suo lavoro. Le sue colleghe erano solo un mucchio di vipere false e acide, forse ancor più di lei. Quelle della contabilità poi, prima di sedersi alla scrivania erano ate tutte nel letto di qualcuno ai piani alti, non le sopportava. Per non parlare del suo datore di lavoro, era un emerito idiota, l’unica cosa positiva erano le frequenti trasferte. Per la moglie si trattavad’importanti incontri di lavoro o corsi d’aggiornamento, mentre in realtà se la sava con qualche troietta del momento o al massimo se ne andava brillantemente a giocare a golf. Che idiota non sapeva neanche impugnare la mazza, nella foto sulla scrivania era ridicolo, vestito di tutto punto con quel cappellino da deficiente.
La tristezza negli occhi a poco a poco divenne rabbia, sul viso le comparve un mezzo ghigno. Avrebbe fatto una scenata storica, probabilmente l’avrebbero licenziata, ma ormai nulla contava. Voleva urlare e sbraitare tutta la sua
frustrazione. Aveva fretta e allo stesso tempo voglia che le porte dell’ascensore si aprissero. Si rosicchiò compulsivamente quel poco di unghie che le rimanevano sulle dita della mano sinistra. Trentanovesimo piano.
Accanto a lei si trovava Peter, indossava dei pantaloni larghi e la solita giacca da hockey su ghiaccio. Vide la sua immagine nello specchio dell’ascensore, era la giacca della squadra, da mesi ormai non andava più agli allenamenti, da mesi non vedeva più James.La testa rasata era nascosta dal cappuccio della felpa e alle orecchie due di quelle grosse cuffie che si usavano un tempo. Si era chiuso in se stesso da diversi mesi, dopo quella maledetta serata al pub sentiva di averlo perso per sempre. Aveva sbagliato a raccontargli tutto, non doveva seguire il consiglio di Emily. Lo sapeva che si sarebbe allontanato, aveva perso il suo migliore amico, la persona che più amava al mondo.
Quando s’incontrò con James, era trascorsa poco più di una settimana dalla visita di Emily. Fu l’unica a capire quello che ava nella sua testa, conosceva il tormento di quell’amore impossibile. Peter rannicchiato sul divano le parve un bambino, il volto triste e pallido sembrava chiederle disperatamente aiuto. Parlarono per diverse ore, lo abbracciò e per la prima volta stringendolo lo sentì piangere. Per la madre fu un sollievo vedere che qualcuno gli faceva visita. Lei e il marito erano all’oscuro di tutto, Il figlio aveva costruito attorno a sédelle mura inviolabili, non voleva chiedere aiuto a nessuno. Con Emily invece qualcosa iniziò a smuoversi. Parlarono per un paio di ore e alla fine l’amica riuscì a convincerlo che doveva affrontare questa situazione. Probabilmente non sarebbe mai successo quello che lontanamente sperava, ma per lo meno anche James avrebbe saputo la verità. Era un ragazzo intelligente e ci teneva troppo a lui per allontanarsi, non lo avrebbe perso. Emily lo convinse, non poteva continuare così, si stava lasciando andare, doveva farlo prima di tutto per rispetto a sé stesso.Quelle parole gli diedero la percezione di quello che gli stava accadendo, fu come vedersi attraverso gli occhi di qualcun altro e per la prima volta non riconoscersi. Se ne stava in pigiama a deprimersi sul divano quando era il momento di affrontare le sue paure e ricominciare a vivere.
In ascensore ripensando alle parole di Emily sentì crescere dentro di sé l’ansia. Iniziò a mordicchiarsi insistentemente il labbro inferiore giocherellando con il piccolo piercing. In quel momento si accorse dello scambio di sguardi tra Lisa e Marco. Notò come Marco cercava insistentemente lo sguardo della ragazza. Sembrava un uomo così forte e sicuro di sé. Per qualche secondo avrebbe voluto essere quell’uomo, avrebbe voluto avere il coraggio di sorridere a Lisa. Se fosse stato come lui, per la prima volta si sarebbe sentito un ragazzo normale, sarebbe stato attratto anche lui da quella donna. Tutto sarebbe stato più semplice, non avrebbe sofferto tanto e forse non avrebbe perso il suo migliore amico. Quarantaduesimo piano.
Pensò a quella sera del pub. Si rivide seduto di fronte all’amico, la birra che aveva di fronte era già la terza. James, ignaro di tutto, stava raccontando un aneddoto divertente capitatogli la settimana prima, quando Peter, improvvisamente e senza staccare gli occhi dal boccale, disse: “Sono innamorato di te, lo sono da sempre”. Gli occhi di James si sbarrarono, nei minuti successivi nessuno parlò. Peter trovò la forza di raccontargli tutto poi si alzò e uscì dal locale. Non pianse quella sera e non lo fece neanche quando ricevette la mail dell’amico il giorno seguente. James ne uscì sconvolto, al pub non riuscì a dire niente. Nella mail spiegò che da sempre considerava il loro rapporto speciale, gli voleva bene e lo credeva l’amico che tutti avrebbero voluto avere. Ovviamente disse di non poter ricambiare il suo sentimento, cercò di capirlo, ma fondamentalmente aveva paura di non riuscire ad accettarlo. In parte disse di sentirsi tradito e usato, gli chiese quanto la loro amicizia fosse sincera. Voleva del tempo per riflettere, voleva capire cosa era meglio per entrambi, non voleva fargli del male, ma era consapevole che da quel momento in poi le cose tra loro sarebbero inevitabilmente cambiate.
Nello stesso istante in cui Peter lesse le ultime righe, ebbe la certezza di averlo perso per sempre. Ripensò a quelle parole anche in ascensore. Nelle cuffie i Beatles cantavano: “Hold me, Love me”. Lo aveva perso per sempre. Continuava a fissare Marco quando di fronte a lui si accorse che qualcun altro canticchiava a sottovoce il motivo della canzone. Doveva aver il volume delle cuffie troppo alto pensò. Era un uomo di colore di mezz’età, vestito con una tuta blu, portava sulle spalle un borsone pieno di lettere. Pensò fosse un corriere.
Quarantottesimo piano.
La sera del giorno precedente Said aveva finalmente potuto riabbracciare la sua famiglia. Fu uno dei momenti più felici della sua vita, Najat non riuscì a trattenere le lacrime rivedendolo all’uscita dell’aeroporto. Amina sembrava cresciuta ancora di più rispetto alle foto che aveva ricevuto mesi prima insieme alla ricetta del tajin di agnello e topinambur, gli corse incontro e lo abbracciò. Alle sue spalle Youssef era sommerso dai bagagli, gli sorrise, ogni giorno assomigliava sempre di più al padre. Ormai aveva accettato l’idea di trasferirsi, avrebbe avuto una vita migliore e nuove possibilità, dopo tutto aveva solo ventiquattro anni, era il momento giusto per farlo.
In un attimo Said si rese conto di avercela fatta, aveva riunito la sua famiglia, dopo tanti anni di sacrifici e di solitudine potevano ricominciare una vita insieme. L’agnello lo aveva cucinato la sera prima e l’aveva lasciato nel tajin tutta la notte per farlo insaporire. Questa volta si era superato, la prova ai fornelli era servita. Sapeva dove recuperare con facilità tutti gli ingredienti e dopo l’ottimo risultato della settimana precedente si sentiva più sicuro delle sue capacità culinarie. Controllò solo un paio di volte la ricetta scritta con la bella calligrafia della moglie. Tornando dall’aeroporto improvvisamente si fece silenzioso. Ebbe il dubbio di aver compiuto un errore, forse si era dimenticato di aggiungere la radice di zenzero tagliata finemente. Riò mentalmente uno a uno tutti i aggi della ricetta e, dopo una decina di minuti, si convinse di non aver sbagliato nulla. Avrebbe dovuto solo preparare al momento il couscous e aggiungere le verdure bollite per accompagnare il tutto.
Entrati nel piccolo appartamento, i figli e la moglie si sorpresero nel ritrovare dei profumi tanto famigliari. Said mostrò loro la casa, li fece accomodare a tavola e, mentre riscaldava l’agnello, preparò il couscous e le verdure bollite. Baciò la fronte della moglie, tolse il coperchio del tajin e commosso guardando tutta la sua famiglia riunita disse: ”Bissahhawaal’afiya”.
La serata fu un vero successo, andò tutto secondo i suoi piani. In ascensore ripensando all’espressione di sua moglie, sorpresa ancor più dei figli per quello che il marito era riuscito a fare, iniziò a sorridere e a canticchiare sottovoce la canzone dei Beatles. D’un tratto anche lui si accorse di Peter, capendo la situazione non esitò a mostrare un sorriso spontaneo, uno di quei sorrisi da bambino e tanto bianco quanto lo sono solo i sorrisi delle persone di colore. Forse con l’intento di nascondere l’imbarazzo si levò il cappello, anch’esso blu come la tuta, e portando la mano alla fronte si sistemò i corti capelli brizzolati. Cinquantesimo piano.
Dalla tasca semiaperta dello zainetto di Jiang cadde il binocolo. Helena si chinò a raccoglierlo e porgendoglielo disse: “Tieni ti è caduto dallo zaino”. Jiang sorrise, ringraziò e, dopo aver controllato che non si fosse rotto, lo strinse al petto.
Helena aveva i capelli raccolti in una treccia lasciata cadere sulla spalla destra. Quando lavorava in clinica li raccoglieva sempre, non era obbligatorio, lo faceva per una questione igienica, ma soprattutto per comodità. Gestire tutta quella massa di capelli ricci non era semplice, anche durante gli studi, quando non aveva tempo e voglia di sistemarli ricorreva per semplicità alla solita treccia.
Quella mattina faceva il primo turno, era riuscita a cambiare la settimana delle notti con una collega. La nausea e la stanchezza alle gambe non le davano tregua. Non sapeva ancora cosa ne sarebbe stato della sua vita. Non aveva preso nessuna decisione, non lo aveva ancora detto alla madre. In ascensore ripensò al suo test positivo, ripensò a quel pomeriggio, giorni prima, in cui si ritrovò a fissare la foto di famiglia scattata al mare. Seduta sulla tazza del bagno pensò a suo padre e a quella maledetta telefonata della nonna che le fece crollare il mondo addosso. Pensò a come quell’episodio la segnò per sempre, si chiese come sarebbe stata la sua vita se suo padre non fosse mai morto, se per tutto quel tempo non si fosse mai sentita così sola e abbandonata. Pensò a cosa avrebbe detto suo padre nel saperla incinta.Ripensò a Xavier, a giorni sarebbe dovuto rientrare dalla Spagna.
A differenza sua, lui pianse quando Helena lo chiamò per dargli la notizia. Era spaventato, ma allo stesso tempo inaspettatamente felice di quella notizia. Al telefono cercò di tranquillizzarla, le promise di tornare, si sarebbe assunto le sue responsabilità, l’amava come il giorno in cui si baciarono per la prima volta su quella fredda panchina al parco. Anche dopo quella telefonata Helena non sapeva cosa fare, non sapeva se quel bambino lo voleva o meglio se era in grado di crescerlo. Non sapeva come avrebbero reagito sua madre e suo fratello, non sapeva se Xavier avrebbe mantenuto la sua promessa. Erano giovani e lui viveva dall’altro capo del mondo. Un giorno avrebbe potuto lasciarla e tornare nel suo Paese. Suo figlio si sarebbe sentito abbandonato senza un padre, non voleva commettere questo errore, non voleva farlo soffrire come aveva sofferto lei.
D’un tratto il sorriso di Jiang la sconvolse. Per la prima volta realizzò veramente di esser incinta. Tutte le paure sembrarono scomparire dietro la consapevolezza di portare dentro di sé un’altra vita. Si rese conto di esser già madre, si rese conto che tutte le sue paure erano tali solo perché dal primo istante aveva già iniziato ad amare quella creatura.Non importava cosa avessero detto i suoi famigliari, non le importava dover interrompere il lavoro e neppure l’idea di affrontare tutto senza Xavier. In quel momento si rese conto di non esser sola, quello era il suo bambino, non sarebbe mai più stata sola, lo avrebbe amato per sempre. Si accarezzò con la mano destra la pancia, abbassò lo sguardo e per la prima volta dopo anni gli occhi le si gonfiarono di lacrime.
Lisa strinse le mani nelle tasche, portava ancora i guanti rossi, Marco la fissò per l’ultima volta cercando di incrociare i suoi occhi. Margaret posò uno dei due sacchetti della spesa per recuperare le chiavi di casa, si guardò attorno, sorrise, ma nessuno le ricambiò il gesto. Jiang fece un sospiro di sollievo, teneva stretto con entrambe le mani il binocolo, non poteva rischiare di perderlo ancora. Amanda nell’angolo sbuffò nuovamente, continuò a rosicchiarsi le unghie della mano sinistra fissando il soffitto. Peter abbassò lo sguardo e iniziò a giocherellare con il piccolo piercing al labbro inferiore. Said si mise il cappello, prese un pacco di lettere dalla borsa e si specchiò soddisfatto. Helena si asciugò le lacrime con la manica della giacca, si accarezzò nuovamente la pancia e
timidamente sorrise. Le porte si aprirono.
Otto persone, otto storie, otto sconosciuti in un ascensore, otto vite sfiorate.
Cinquantacinquesimo piano.