Maria Teresa Rossitto
Vite sospese
Racconti
In copertina: Tino Aime, Pini e rocce, 2001, acquerello su carta Un ringraziamento affettuoso e sentito al Maestro Tino Aime per aver impreziosito i miei racconti vestendoli con un suo acquerello. Grazie ad Alessandro Miglio e Fiorenzo Oliva per il puntuale lavoro di editing. Grazie di cuore a Giorgio per gli incoraggiamenti durante le varie fasi del lavoro. Tutti i personaggi e le situazioni descritti nei racconti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice.
© Maria Teresa Rossitto, 2012 twitter: @parolesogni blog: parolesogni.it
A mia madre
Il pittore della spiaggia
Ogni mattina intorno alle otto il pittore cammina spedito verso la spiaggia con la sua sacca a tracolla. È tra i primi a scendere le scale che portano alla spiaggetta. Lascia lo scooter nel parcheggio della piazza e si dirige a piedi lungo un breve tratto della strada romana che conduce verso il mare. Il sole è una palla di fuoco all’orizzonte. La sua camminata segue un ritmo sincopato; il pittore ogni tanto sembra barcollare leggermente per poi riprendere il o. Una siepe di buganvillae fucsia si muove impercettibilmente al suo aggio come un alito di vento, leggero e fluttuante. Il bagnino ha da poco aperto gli ombrelloni bianchi, in file perfette come soldatini. In sottofondo una radio trasmette musica pop con il suo ritmo invadente e ossessivo. Presenza inutile ma necessaria secondo le mode del momento. Getti d’acqua in particelle micronizzate avvolgono la spiaggia per portare un po’ di refrigerio agli ospiti. Il mare saluta festoso con piccole onde e riccioli spumosi la nuova giornata. Il pittore raggiunge una roccia macchiata di rosa, si sistema sulla sedia a sdraio pensando a quale sarà il suo prossimo lavoro. Non sa ancora quale angolo catturerà la sua attenzione e si trasformerà in un acquarello. È il mistero quotidiano che sta per compiersi. Per il momento osserva, respira dilatando le narici, e borbotta, lamentandosi con se stesso. Non ama la vita da spiaggia e non gli piace il chiacchiericcio, questo inutile e vuoto esercizio di dialettica pettegola. Quando la natura si mostra nella sua essenza bisogna tacere e basta. Egli proviene dalla montagna, dal mondo in cui il silenzio danza tra i sentieri, e che cosa importa di tutto il resto di fronte alla schiacciante bellezza delle vette? Qualche volta ha provato a farsi piccolo come un insetto per osservare un fiore di campo, lo stelo del fiore, il velluto dei petali, il gambo leggero e trasparente. La perfezione del piccolo è una conferma della grandezza della natura. La natura parla incessantemente, solo che quasi nessuno l’ascolta. Questi pensieri affollano la mente del pittore, come in un fitto dialogo interiore, mentre, con ampie bracciate, nuota costeggiando le rocce.
A quell’ora la spiaggia ha perso il suo incantesimo, la luce violenta del sole ha invaso ogni angolo, i riti collettivi si sono consacrati nella loro forma esteriore celebrando l’aperitivo delle undici, i giochi, i pettegolezzi. Il fondamento della vacanza si nutre di divertimenti a orari fissi, nessun imprevisto, ma un ripetersi ossessivo di incontri, il teatrino del commento quotidiano per non perdere il contatto con la realtà, neanche durante la vacanza. Il pittore, stanco di nuotare, raccoglie la sua sacca ed esplora la spiaggia alla ricerca di un angolo per dipingere. Un angolo che gli offra sensazioni, che gli trasmetta emozioni, che diventi una terrazza sul mondo. Egli cerca quell’ispirazione necessaria affinché la luce del giorno, distribuita sulla tela, possa riprendere vita in un’altra forma. La natura si offre nuda a questo scopo, abbagliante, poetica, selvaggia. E il pittore la traduce, scomponendola. Non altera ma umanizza. L’interpretazione è una suggestione, è lo stimolo dei colori, ma può essere anche la stigmatizzazione del male. Nel percorso dall’occhio alla mano si compie la traduzione del pittore. Lui, che è l’interprete unico e che ha il potere di scegliere la forma e i colori che ritiene più opportuni, può decidere per esempio che in un tratto di costa l’acqua abbia l’aspetto viziato e malato del suo mondo interiore, oppure può dipingere un cielo grigio piombo che raccoglie l’inquietudine del mondo. Dalle sue mani la natura appare filtrata e ricomposta. Il respiro del mondo, sia esso incanto o inferno, trova la soluzione nella tela. Dopo una lunga ricerca, finalmente si ferma su un incavo naturale vicino a due grandi rocce. Subito inizia a dipingere, rapito dai suoi pensieri e dall’ispirazione che gli trasmette quell’angolo di mondo. Un bambino, fermo su uno scoglio, lo osserva incuriosito. Sta solleticando con un bastoncino dei granchi per vederli correre sotto le rocce. Ogni tanto alza lo sguardo verso il pittore. Poi finalmente si decide, si avvicina e si siede accanto a lui. – Ciao, come ti chiami? – gli domanda il piccolo. – Io sono Giovanni, ma tutti mi chiamano Vanni. E tu, come ti chiami? – chiede il pittore, con tono quasi paterno. Mentre si volta verso il bambino, l’uomo posa il pennello e osserva con più attenzione il viso del piccolo. È interamente ricoperto di lentiggini e la sua fronte è nascosta sotto una spessa frangetta
bionda, inoltre nota che gli mancano i due incisivi superiori. – Io sono Edoardo, ma tutti mi chiamano Edo. Vieni spesso qui a dipingere? – No. Ogni volta scelgo un punto diverso. – Perché? – Perché non posso dipingere sempre gli stessi paesaggi… altrimenti nessuno comprerebbe più i miei quadri! Il bambino sorride, annuendo. – Ma tu vendi quello che dipingi? – Cerco di viverci. È per questo che non mi fermo mai, nemmeno in vacanza. – Guarda cosa ho trovato in quell’angolo vicino allo scoglio grande! – il bimbo gli porge una conchiglia sorridendo, orgoglioso di averla trovata. L’uomo, che ha sempre osservato con cinismo la realtà che lo circonda, di fronte a quel sorriso così disarmante e genuino, si sente come attratto e desideroso di continuare la conversazione. – Hai mai provato a dipingere una conchiglia come questa? – No, non ho mai dipinto una conchiglia. – Perché no? – chiede il bambino incuriosito. – Perché il mondo è nella conchiglia, e non fuori, e quindi non posso vederlo. – Eppure, Vanni, se io avvicino la conchiglia all’orecchio sento mille rumori. Perché tu non sei capace di dipingere il mondo lì dentro? – No… Nessuno può farlo! Come si può disegnare un mondo che non puoi vedere, che è fatto solamente di suoni? – Beh, allora se tu fossi cieco potresti farlo, non è così? Tanto non vedresti nulla neanche del resto del mondo! – Forse.
Lunghi secondi di silenzio. Il bambino continua a guardare incuriosito la tela, il pittore diventa invece molto pensieroso. Egli spalanca prima gli occhi e poi li socchiude immaginando come poter dipingere dei suoni, come poter rendere sulla tela le vibrazioni che scaturiscono dalla musica senza note della conchiglia. Un pensiero gli attraversa la mente. Si fa largo lentamente e diventa quasi una certezza. Osservare la realtà da un punto di vista completamente diverso. L’infanzia è il mondo della sincerità a volte crudele, delle verità scomode. Il suggerimento del bambino può sembrare all’uomo, che ha conosciuto il male e l’ha tradotto in una tela, come una suggestione inconsueta, una nuova visuale. – Edo, sei un bambino intelligente e curioso, – dice il pittore accarezzandogli i capelli, – quasi quasi se mi lasci la conchiglia io ci provo. – Ok, tieni, te la regalo. Ma non perderla, mi raccomando. Il bambino si allontana senza voltarsi e il pittore rimane colpito dalla stranezza dell’incontro. Si domanda come ha potuto rispondere alla sfida del bambino, come se si potesse vedere il mondo attraverso il rumore che proviene dalla conchiglia. La prende in mano. È ruvida, piena di striature rosate e chiazze color antracite. Più la guarda e più sorride. Poi se la porta all’orecchio e scopre un mondo. Il rumore è quello delle onde. Ma non sono solo onde, sono urla, voci di donne, pianti di bambini. È sul punto di individuare i visi, di sentire le voci, il rumore della vita. Le emozioni della vita sono trattenute, racchiuse nel vortice di una pietra che proviene dal mare più profondo. Come non pensarci prima? Doveva essere un bambino a offrirgli uno spunto così grandioso? Ma non gli basteranno pochi giorni per questa tela, che diamine! Il pittore si rinchiude nel suo studio per lavorare, tanto la materia è tutta dentro quella piccola conchiglia. I giorni ano ma nessuno lo vede più uscire dallo studio. Dopo quasi due settimane di lavoro ininterrotto, il pittore finalmente completa l’opera. La tela è la più grande che abbia mai realizzato. Due metri e mezzo di altezza per quattro di lunghezza. L’ha chiamata L’evoluzione della vita. Da quel giorno il pittore non è più lo stesso. La sua stessa opera lo ha trasformato. Si tratta di un’opera straordinaria, di cui egli stesso si stupisce. Dentro quel quadro è contenuto un affresco dell’intera esistenza umana. Ha
rappresentato la vita dall’infinitesimo della molecola all’organismo più complesso. Ci sono tutte le fasi dell’esistenza, i vizi e le debolezze umane. Il panorama è una natura a volte arcigna, a volte selvaggia, oppure delicata come le stagioni della vita. Egli si è talmente immerso nell’interpretare le voci della conchiglia, nel decifrare il rumore del mondo, da dimenticarsi di se stesso. Un uomo completamente asservito a comprendere e tradurre in luce e colore il significato dell’esistenza, dall’avere egli stesso perso cognizione e contatto con la realtà. Il pittore, con una carriera di tutto rispetto al vertice del mondo dell’arte italiana e non solo, ha perso completamente il controllo di sé. Sconvolto dalla sua interpretazione. E, nelle poche interviste rilasciate, ha spiegato di avere compreso il significato dell’esistenza grazie al suggerimento di un bambino. Ma non viene creduto, anzi, la gente pensa che sia diventato matto. Nell’ultima intervista, ha dichiarato che la sua opera non è in vendita, perché è un affresco dell’esistenza umana. Ha raccontato la storia del bambino, spiegando che è stato proprio lui a fargli capire, con poche parole e un piccolo regalo, che il significato dell’esistenza sta tutto nell’uso appropriato dei cinque sensi che tutti possediamo. Ha descritto il mondo come un alfabeto simbolico, un alternarsi di alfa e omega come inizio e fine di ogni cosa. Tutto è un susseguirsi di eventi come un ballo infinito, e il cielo che ci sovrasta riproduce in grande come uno specchio riflettente tutto ciò che ci accade sulla terra. Il fondamento della vita è il concetto stesso del ciclo. Ogni emozione ha una spiegazione. Anche il male tanto deprecato respira accanto a noi, possiede una finalità specialissima e perciò si inserisce anche nel suo quadro. Ciascuno alla fine della propria vita arriverà alla medesima consapevolezza. Da molti è ritenuto pazzo, ma qualcuno è convinto che sia un grande genio. Dopo quel quadro, dal punto di vista pittorico la sua tecnica ha raggiunto il vertice. Una leggenda su di lui continua a circolare: pare infatti che cammini sempre solo e senza meta, in riva al mare, con in mano una conchiglia. Sorride, come rassicurato dalla sua stessa interpretazione.
Il profumo del vento
Paros, bianca isola delle Cicladi, è lo sfondo della storia del vecchio Callisto. In quella profumata e fiorita isola, piante mediterranee crescevano copiose e ordinate, favorite dal clima e dalla posizione riparata. Callisto viveva nel villaggio di Kolimbithres. La sua casa, che si affacciava sulla spiaggia di Santa Maria, era circondata da enormi masse rocciose. Una casa stretta e bianca, addossata e accarezzata da tante altre tutte uguali. Ogni giorno dell’anno il sole con la sua luce accecante e violenta era testimone della bellezza e del silenzio, quest’ultimo infranto solo dal rumore del mare. La casa custodiva un piccolo giardino collocato sul retro della costruzione, circondato da una cascata di ibiscus fucsia e rosso. Un muretto, sul quale piccole lucertole correvano infilandosi negli anfratti, seguiva minuzioso il perimetro del giardino, infoltito qua e là da ciuffi di parietaria e da una piccola edera che si spingeva fin sul muro della casa. Callisto era alto, un po’ curvo, il viso incorniciato da una folta barba bianca, un sorriso simpatico e accattivante. Quando era giovane ogni tanto prendeva il traghetto per il Pireo, e tornava a Paros raccontando agli amici aneddoti curiosi della vita di città. Nel suo animo però amava solamente quei luoghi, e il suo villaggio era un microcosmo nel quale trovava la felicità guardando il tramonto ogni giorno dell’anno e seguendo con lo sguardo i profili delle bianche case e le piccole chiese che incorniciavano la sua isola. Prima di ritirarsi nel villaggio di Kolimbithres, Callisto viveva dei proventi di un laboratorio nel centro dell’isola, costruito con molti sacrifici, nel quale dipingeva e vendeva ai turisti ceramiche e manufatti che riproducevano miti e leggende dell’antica Grecia. La sua vita, un tempo ricca di affetti e interessi, si era improvvisamente trasformata in una esistenza solitaria dopo la morte della moglie e la lontananza dei figli. Continuare a dipingere la ceramica era diventata ormai un’esigenza insopprimibile, non solo economica, ma anche un modo per trovare la forza per continuare a vivere. Gli abitanti di Paros erano cittadini singolari: lavoratori instancabili che
sembravano non soffrire o dimenticare i propri problemi grazie a una natura così prepotente da renderli testimoni inconsapevoli di un miracolo quotidiano. Callisto negli ultimi tempi lavorava a casa, dopo la morte della moglie aveva infatti venduto il laboratorio. Si alzava molto presto al mattino, intorno alle sei e, quando il sole era già alto e inondava ogni angolo della casa, aveva alle spalle due ore di lavoro. La vicina di casa conosceva la situazione di Callisto così, dopo alcuni mesi di solitudine, decise di aiutarlo mandandogli una donna giovane, in precarie condizioni economiche, che lo aiutasse nelle faccende di casa. La donna arrivò una mattina molto presto. Aveva capelli lunghi e neri raccolti in un grande chignon, era vestita in maniera umile ma molto decorosa. Sorrideva mostrando una dentatura bianchissima e camminava con o sicuro tenendo per mano due bambini molto piccoli. Si chiamava Demetra, non era originaria di Paros ma di un’altra piccola isola distesa sul mar Egeo. Si sedette sulla veranda di Callisto ed esordì raccontando al vecchio tutto quello che riteneva importante al fine di farsi assumere come cameriera. Callisto, che per tutto il tempo l’aveva ascoltata senza guardarla, continuando a dipingere una brocca che stava ultimando, alzò gli occhi per un solo istante e poi disse che poteva cominciare anche subito. La figura di quella donna, la fierezza nello sguardo e l’incedere deciso trasmisero al vecchio una sensazione immediata di fiducia. Prima ancora di averla osservata con attenzione quell’uomo sapeva dentro di sé che avrebbe fatto la scelta giusta. La sua disponibilità nasceva infatti da una percezione emotiva prima di qualsiasi ragionamento. Una capacità che Callisto aveva acquisito nei tanti anni di osservazione dei comportamenti umani, che lo aveva portato a una lettura attenta di tracce, sguardi, movimenti del corpo e timbri della voce, che gli consentiva con una certa sicurezza di respingere o accogliere chi cercava un contatto con lui. Demetra rimase in silenzio a osservare il vecchio, poi aggiunse che la sua presenza avrebbe comportato una piccola complicazione. I suoi bambini di due e quattro anni non avevano un padre, né qualcun altro che potesse occuparsi di loro. Demetra non aveva abbastanza denaro per mandarli all’asilo, e così chiese a Callisto se poteva portarli con sé durante le ore di lavoro, così che non dovesse lasciarli soli o nelle mani di estranei. Mentre pronunciava queste parole le sue mani tremavano e non nascondevano la paura che una risposta negativa avrebbe significato. I figli erano la sua unica ragione di vita.
Callisto smise di dipingere, guardò i bambini mentre osservavano delle formiche correre verso il muretto e sorrise. Poi alzò lo sguardo andola da parte a parte e cercando di capire chi fosse, chiamò i bambini vicino a sé e diede loro una carezza insieme a una caramella. Per troppo tempo il silenzio doloroso aveva danzato nelle stanze di quella casa e le grida gioiose dei bambini avrebbero nuovamente riportato la vita in quel luogo. Sarebbe stato felice di vederli giocare. Demetra lo ringraziò e fu così che iniziò a lavorare in quella casa. Dopo pochi giorni la casa di Callisto era così in ordine che lui stesso stentava a riconoscerla. Nello stesso tempo il giardino, ormai dominio incontrastato dei bambini, era attraversato da grida e da risate. Al vecchio, che oramai da tempo non accadeva di sentirsi al centro di un nucleo familiare, non sembrava vero. Alla sera Demetra tornava alla propria casa non prima di avere cucinato qualche piatto per Callisto, il quale preparava un aperitivo sulla veranda offrendo alla donna un bicchiere di vino resinato con delle olive. Era una piccola cerimonia, un rito. Callisto parlava molto poco a causa di una forte timidezza, ma voleva dimostrare a quella donna tutta la sua riconoscenza. Sembravano come due anime silenti, due testimoni dello spettacolo offerto ogni giorno dalla natura che ai loro occhi si offriva senza riserve e senza pudori. Le vite contrastate e sofferenti non necessitavano di racconto. Paros insegnava l’arte del silenzio. Vi era inoltre un testimone spesso invitato alla danza degli elementi naturali: era il vento. Il vento è da sempre un attore principale e un protagonista bizzoso e straripante nelle vite degli isolani. Non vi è isola, a qualunque latitudine della Terra, nella quale il vento non abbia un ruolo fondamentale. Nell’isola di Paros soffia a volte impetuoso e infuriato travolgendo le imbarcazioni dei pescatori e trascinando nella sua corsa impazzita ogni cosa, si insinua sibilando tra le rocce e schiaffeggia le acque del mare. Alcune volte come leggera brezza increspa le acque, solleva e scombina i capelli e le gonne delle donne, trascina via le foglie dagli alberi, riporta profumi dimenticati e innalza odori ributtanti. Illumina le bianche scogliere e l’orizzonte, spazzando via nuvole minacciose e gonfie di pioggia, ricompone il quadro armonico delle case strette e addossate, patrimonio delle isole greche. Sparge terra e trascina sementi in un movimento sempre uguale e sempre nuovo. Se il vento avesse voce potrebbe raccontare la storia degli uomini, perché tutto osserva e di tutto è padrone. Nelle giornate di Callisto, le ultime della sua vita, il vento era rappresentato dalla presenza silenziosa di Demetra e dalla gioia rumorosa dei suoi figli. Un vento
portatore di vita e uno spettacolo nuovo, a cui non aveva mai assistito. Dopo l’arrivo di Demetra la serenità si era impadronita di quella casa. L’ordine, il profumo, ogni cosa aveva un posto speciale. Nelle belle giornate il vecchio lavorava nella veranda fermandosi ogni tanto a giocare con i bambini, e durante le giornate più fredde occupava una stanza con tutto il materiale necessario per dipingere, indaffarato e stranamente contento di avere intorno a sé un nucleo familiare sconosciuto, ma che oramai era presenza affettuosa e indispensabile. Un giorno Callisto si accorse di un fatto abbastanza insolito. La donna non sapeva scrivere. Doveva prendere nota di un ordine telefonico ricevuto da un negoziante, per alcuni piatti che il vecchio avrebbe dovuto consegnare il mese successivo. In quell’occasione Demetra fece finta di scrivere qualcosa su un blocco, senza però riuscire a comporre alcuna lettera. Confusa, farfugliò arrossendo qualche parola e il vecchio capì che era analfabeta. Un senso di smarrimento si era impadronito della donna e un desiderio immediato di giustificarsi davanti al vecchio a causa di questa lacuna, vissuta come una vergogna, come qualcosa da nascondere. Callisto, stupito e anche commosso, si offrì di insegnarle a scrivere e leggere. Durante le prime ore del pomeriggio, quando i bambini dormivano, il maestro e l’allieva iniziarono un vero e proprio percorso scolastico. Demetra, sensibile e intelligente, imparava facilmente e nel giro di poco tempo imparò a leggere e a scrivere. Le giornate di Callisto, che poteva sentirsi ancora utile, avevano assunto un significato speciale. La pittura su ceramica assorbiva molte ore della sua giornata. Osservato da lontano, questo curioso e singolare nucleo di persone appariva come fuori dal tempo moderno, sospeso nel ato. L’incontro tra simili semplifica e scioglie ciò che i condizionamenti sociali o i rigidi stereotipi tengono separato. La sensibilità e il buon gusto di Demetra facevano sì che ogni prodotto o manufatto dipinto dal vecchio asse attraverso il suo insindacabile giudizio. Lo scambio era completato, vi erano stima reciproca e riconoscenza. Callisto divenne anche il confessore di Demetra nelle vicende sentimentali che la vedevano protagonista, e si improvvisò psicologo per aiutarla a sbrogliare la matassa e rimediare ad alcune scelte sbagliate. Ogni tanto, quando l’ispirazione del momento e il profumo dei gelsomini arrampicati sul muretto dei vicini era troppo intenso, Demetra sospendeva i lavori di casa e si metteva a cucinare dolci, così, senza alcun preavviso. Il luogo forniva le principali materie prime. Dolci in cui i pistacchi, i pinoli, l’uva a e
il miele trionfavano, rendendo giustizia alla sua terra. Copriva il tavolo di biscotti con profumi intensi di cannella e altre spezie e lo sguardo intenerito di Callisto rivelava una riconoscenza più profonda di mille parole di ringraziamento. Così avano i giorni, nella casa del villaggio di Kolimbithres, affacciata sulla spiaggia di Santa Maria. Una notte Demetra fece un sogno molto strano. Una vecchia del paese, conosciuta per essere una sorta di indovina, le apparve nel sonno e incontrandola per la strada le disse che il vecchio non l’avrebbe mai abbandonata. Si svegliò inquieta, prese i figli e raggiunse come ogni giorno il suo luogo di lavoro. Non capiva il significato di quel sogno, ma turbata non ne fece parola con nessuno. Quello stesso giorno il vecchio non stava bene. L’inverno stava per terminare ma Callisto continuava a tossire e restava a letto febbricitante per molte ore al giorno. Demetra si decise e, nonostante le ritrosie del malato, chiamò un medico di Paros che, dopo averlo visitato, confidò alla donna la gravità della situazione. Una polmonite complicata da una febbre virale. Le condizioni erano disperate ed era necessario avvertire i figli. I bambini giocavano in silenzio per non turbarlo e ogni tanto si avvicinavano al vecchio tenendogli la mano. La donna decise che non avrebbe lasciato solo Callisto nemmeno durante la notte e si sarebbe sistemata alla buona nella camera degli ospiti. Le giornate trascorsero con un’ansia palpabile, infranta solamente dai ripetuti colpi di tosse di Callisto e dai i frettolosi di Demetra che cercava di alleviare in ogni modo la sofferenza del vecchio. Lavorava in silenzio e ogni tanto si avvicinava all’uomo per scambiare qualche parola e per confortarlo, ma Callisto non aveva più molta voglia di parlare, anzi, più che altro mugugnava lamentandosi e allontanava i bambini perché non aveva più la forza per dedicarsi a loro. Ogni oggetto, ogni cosa, ogni colore nella quiete e nella penombra della casa, sembravano vaghi simulacri di una creatività ormai esaurita. La forza fisica e l’energia avevano abbandonato il grande vecchio e anche il giardino sempre fiorito e rigoglioso attraversava un momento molto difficile. I figli di Callisto arrivarono a Paros in tempo per vederlo ancora vivo, anche se molto sofferente. In quei giorni il vento, testimone anche dei drammi privati, soffiava impetuoso e violento trascinando nuvole minacciose e ricordando a tutti che l’inverno non era ancora terminato, e che il distacco era un fatto inevitabile come il vento stesso. L’addio giunse all’alba di un nuovo giorno. Una processione silenziosa di amici,
provenienti da Paros ma anche da altre isole, venne a salutare per l’ultima volta il vecchio. Demetra, seduta immobile sul retro della casa, guardava l’orizzonte senza più lacrime. Nei giorni seguenti i figli furono convocati dal notaio per dare lettura delle sue ultime volontà. Il denaro proveniente dall’attività e la casa furono divisi tra i figli come da disposizione paterna. Demetra ricevette invece una piccola somma di denaro come liquidazione per il lavoro svolto in quegli ultimi anni, e un vaso di maiolica, dipinta a mano dallo stesso Callisto, raffigurante il Ratto di Proserpina, che Demetra aveva particolarmente apprezzato e non aveva mai voluto che lui se ne disfe. Rimase stupita e commossa per il singolare dono e per il fatto che Callisto si fosse ricordato di quel vaso. Tornata a casa osservava con sguardo sognante il vaso posato sul tavolo, ricordando tutti i dialoghi accesi e le risate con il vecchio. Mentre si accingeva a riempirlo d’acqua si accorse di un piccolo involto di carta al fondo del vaso. Essendo molto profondo e ristretto, il vaso non permetteva di poter scorgere dall’esterno quello strano involucro così perfettamente sistemato e mimetizzato. Si trattava di una busta con una lettera che la donna lesse ad alta voce come se volesse far partecipe tutta la sua casa di quel singolare evento, come se vi fosse ancora un dialogo aperto o un immaginario interlocutore. Dopo toccanti parole di ringraziamento e affetto, Callisto lasciò la donna assolutamente sconcertata. Nell’ultima parte della lettera le confidava infatti di avere posseduto un magazzino in un’altra isola delle Cicladi, nella quale aveva soggiornato in ato per un breve periodo. Un locale che aveva poi venduto a un amico e che custodiva una serie di anfore e piatti da lui dipinti e mai venduti, di cui nessuno era mai venuto a conoscenza. Si trattava di una trentina di pezzi di un certo valore. Non si era mai disfatto di quegli oggetti perché sentiva che un giorno avrebbe potuto avere necessità di denaro e avrebbe potuto ricavare qualcosa mettendoli in vendita. Conosciuta Demetra e le condizioni disagiate nelle quali si trovava, decise che alla sua morte avrebbe trovato il modo di farla diventare padrona di quel piccolo tesoro, all’insaputa dei figli, che sicuramente non avrebbero acconsentito. Dalla vendita di quegli oggetti lei avrebbe ricavato una discreta somma che le avrebbe permesso di mandare i figli a scuola. Questo era il desiderio di Callisto. Egli non aveva necessità di arricchirsi, la sua ricchezza l’aveva già ottenuta il giorno in cui aveva cominciato a dipingere e a creare oggetti che prendevano forme e colori e ai quali dava vita. I suoi affetti e le sue sostanze gli permettevano una vita già piena.
Demetra dovette sedersi per superare lo stupore, per non sentirsi svenire. Si era sempre domandata quale fosse il segreto della serenità di quell’uomo. Ora cominciò a capire la sua vera natura. Sapeva andare all’essenza delle cose, sapeva capire quali fossero veramente importanti e quali inutili. Sapeva essere spiazzante, nel suo silenzio e nella sua discrezione assordante. Spalancò la finestra, con gli occhi ancora umidi e lo stupore nell’animo. La giornata di fine inverno era limpida e all’orizzonte le barche tornavano dalla pesca con i loro carichi di pesci che presto avrebbero affollato i banchi sul molo. Quella donna non aveva avuto molto dalla vita, eppure aveva imparato molte cose nella casa affacciata sulla spiaggia di Santa Maria. Aveva appreso l’amore per la sua isola, per i doni preziosi della natura e soprattutto la forza dei sentimenti. Un’altra estate sarebbe arrivata a Paros portando profumi e turisti e Demetra non avrebbe mai smesso di raccontare, in un dialogo immaginario con il vecchio, i progressi dei suoi figli perché ora quel filo sottile che li univa non li avrebbe mai separati.
Sola andata per tre
Alla stazione di Milano Centrale
Una delle tante mattine d’inverno in cui i i delle persone sono affrettati a causa del freddo pungente, con il vapore che fuoriesce dalle bocche e sembra che tutti corrano come improvvisamente raggiunti da una notizia inattesa. In quegli istanti gli sguardi frettolosi esprimono un unico pensiero: raggiungere in tempo il proprio treno in partenza. Un po’ di calore fuoriesce dai bar della stazione, dove rimangono abbandonati sui tavolini i giornali spiegazzati, letti e riletti mentre si aspetta di partire. I bambini corrono aggrappati alle mani degli adulti in uno sforzo estremo, mentre i calzini dei piccoli scivolano arrotolandosi sulle caviglie. Poi la tribù dei viaggiatori si affolla sul marciapiede, chi attende il proprio treno, chi aspetta di abbracciare un amico o di rivedere un amore. Cellulari in mano per l’ultimo messaggio mentre in sottofondo una voce metallica, spesso incomprensibile, avvisa i eggeri delle numerose partenze. Alcuni ragazzi corrono buttando a terra zainetti e spintonandosi, mentre alcune donne ferme, immobili, si specchiano in piedi davanti ai finestrini del treno che sta per partire. La gente batte i piedi per cercare di scaldarsi, qualcuno fuma. Il vapore e il fumo delle sigarette si fondono. eggeri seduti sulle panchine di fronte ai treni in partenza osservano annoiati residui di chewing-gum infilati tra le fessure del marciapiede. È il momento dell’attesa. È un’umanità che viaggia perché pendolare, perché deve raggiungere i parenti, fare una visita medica, sostenere un colloquio di lavoro, prostituirsi in un’altra città. Il movimento è sempre lo stesso, accompagnato da gesti ripetuti ogni mattina, come una danza tribale: la successione precisa dei piccoli gesti, la telefonata a casa, il caffè caldo, il giornale, lo sguardo oltre il finestrino. La stazione è il luogo del supremo ripetersi delle stesse azioni all’infinito. Poi, quando il treno parte, il turbine dei pensieri riprende con forza. La mente, come uno schermo del computer, apre e chiude le finestre dei propri pensieri. Ognuno in silenzio
insegue i propri sogni o incubi, cullato dal ritmo delle traversine del treno. Dal vetro centinaia di scatti, segmenti di terra e filari di alberi, una successione continua di grigi su grigi. Il panorama di un paese che appare dal treno sembra sovente uniforme, perché è terra che costeggia la ferrovia o le autostrade, soprattutto d’inverno. In altre stagioni lo sguardo del viaggiatore può scoprire terre e colori inaspettati ritagliati nel paesaggio come ricami di una mano sapiente. Un uomo è seduto vicino al finestrino, indossa un giaccone pesante e tiene sul grembo un computer portatile. Sta lavorando. Da quando si è seduto non ha degnato di uno sguardo nessuno dei suoi vicini. Sembra completamente assorto nei suoi pensieri. La gente vicina parlotta e questo lo infastidisce molto. Prende le cuffie dell’iPod e si isola immediatamente. I lineamenti del viso sono regolari, porta una barba corta e curata e i capelli sono brizzolati. Ha una piccola cicatrice vicino all’occhio destro. Per un momento solamente si distrae dal lavoro osservando un bambino che raccoglie delle caramelle cadute dalla borsa della mamma. Allora lo guarda e gli sorride con una dolcezza infinita. Poi riprende a battere macchinalmente sulla tastiera del portatile. Risponde al cellulare e parlotta brevemente, quindi si alza per andare alla toilette. Quando ritorna, alla sua destra si è seduta una donna e di fronte la mamma con il bambino accanto. La donna porta degli occhiali scuri e una borsa da viaggio di quelle morbide. Più che vestita sembra coperta dai suoi stessi abiti. Indossa dei jeans con degli stivaletti e un pullover. Sopra un piumino corto e un cappello di lana che nasconde una massa di capelli ricci. L’età della donna non è chiara: tra gli occhiali e i capelli il viso non appare se non in piccoli frammenti. La donna non guarda i suoi vicini e non parla. Sembra assorta. A un certo punto estrae un libro dalla borsa e comincia a leggere.
Milano-Ginevra: tre ore e cinquantatré minuti
Alla prima stazione la mamma e il bambino scendono e accanto alla donna si siede un ragazzo. Ha un fisico asciutto e atletico. È biondo con gli occhi chiari. Per circa un’ora nessuno dei tre pronuncia una sola parola. Solamente il movimento lento e costante del treno culla i pensieri e il sonno dei tre
eggeri. A un tratto, un carrello con le cibarie si ferma e distrae i viaggiatori con il rumore metallico dell’apertura delle bottigliette e il fruscio dell’incarto dei panini. Il ragazzo si alza e compra un panino e una bibita. Di seguito anche la donna e l’uomo cominciano a sbocconcellare qualcosa da un pacchettino che hanno portato con sé. Dopo alcuni istanti il treno si ferma in mezzo alla campagna. Il colore uniforme che si vede dal finestrino è una declinazione di grigi. Durante la notte è caduta un po’ di neve, che si è depositata qua e là confondendosi con il colore del terreno. L’uomo osserva la donna, che nel frattempo si è tolta gli occhiali per mangiare. Ha un viso affascinante, gli zigomi alti e lo sguardo seducente. Le mani tradiscono nervosismo, le muove spesso per toccarsi i capelli o mettere a posto delle cose nella borsa. L’uomo rompe il silenzio per primo. – Tutte le volte che devo prendere questo treno, almeno mezz’ora la si perde aspettando in piena campagna senza sapere il perché. – Lei pensi a quanto si aspetta nella vita per motivi personali… Mezz’ora in più non è un grave danno, – aggiunge la donna. – Per esempio? – domanda l’uomo incuriosito. – Ma, non lo so. Magari si aspetta una pensione, il ritorno di un uomo, la vendetta per un torto subito. Qualche volta si attendono anni per avere ragione di qualcosa. – Sì, è vero. Eppure mi pare che il tempo ato sul treno, aspettando, sia perso. – Secondo me è perso comunque, – interviene il ragazzo. – Siamo noi che siamo costretti a pensare in treno, nell’attesa. E pensare non fa mai troppo bene. – Dipende da quello che si pensa, – dice l’uomo. – Io penso a tutto quello che nella mia vita non ha né capo né coda, – interviene la donna. – Tutto è senza capo e senza coda. Basta non dargli troppa importanza, – aggiunge l’uomo.
Poi alcuni momenti di silenzio. Il treno era fermo da più di venti minuti senza che nessuno del personale in servizio desse alcuna informazione. Improvvisamente il ragazzo si volta verso la donna e dice: – Mi chiamo Andrea Monti, e lei signora? – Io Virginia Pennetta, – pronuncia senza quasi respirare la donna. L’uomo, che nel frattempo aveva ripreso la lettura di un libro, alza lo sguardo e, sorridendo, si presenta ai due. – Sono Marco Ambrosetti. Dopo pochi istanti il treno riprende la corsa, con una lentezza insopportabile. Più che un treno sembrava una carrozza d’altri tempi. – Non ricordo chi ha scritto L’elogio della lentezza, ma in questo momento lo odio con tutto il cuore, – dice l’uomo. – Kundera, – risponde la donna quasi sottovoce. – Come prego? – Kundera ha scritto L’elogio della lentezza. Lo scrittore ceco. – Dico solamente che nel 2011 non è possibile restare in balia di un mezzo di trasporto pubblico così anacronistico! – Lo so. Ha fretta di arrivare perché c’è qualcuno che l’aspetta? – domanda la donna. – Vado a Ginevra per una riunione d’affari per cui dovrei arrivare puntuale. E lei invece? – Sto facendo forse… una follia, e quindi non so… forse non avrei mai dovuto partire…. ma sì, ve la racconto. Dopo un’infinità d’anni ho ritrovato il mio primo ragazzo su un social network. Una settimana fa, lui insisteva, mi ha chiesto di venire a Ginevra per un weekend e mi sono lasciata convincere. Lui vive lì da molti anni e mi ha detto di essere divorziato. Io non sono libera ma sono in crisi da molto tempo con mio marito. Sono molto combattuta, ma avevo
una gran voglia di rivederlo. – Con il tono della voce e con lo sguardo , Virginia dimostra ai suoi compagni di viaggio quello che è il suo vero stato emotivo. – Stupendo! – interviene il ragazzo che aveva ascoltato tutto, – o lei è totalmente incosciente e quindi si tratta di un azzardo, oppure è razionalmente convinta e allora potrebbe cambiare la sua vita. – La prima è molto più probabile. Sono ati trent’anni. Io avevo diciotto anni. È un puro azzardo, ma ero curiosa di rivederlo, e forse non so… ma vedremo. – Ha paura di rivederlo? – domandò Andrea. – Un po’ sì, ma ho tante di quelle cose da raccontargli che mi tengo dentro da tanti anni. – Anch’io mi sono domandato tante volte come mi sarei sentito se avessi rivisto una donna che ho tanto amato venti anni fa. Lei è andata via così, senza alcuna spiegazione, e mi ha lasciato una tale rabbia dentro che non so neanche spiegare. Il mio desiderio di rivederla sarebbe come cercare una vendetta. Ormai non provo più nulla nei suoi confronti, – aveva commentato Marco: – Ma cos’è che l’ha spinta a cercarlo? – Da qualche anno ho una pagina su un social network, come dicevo prima. Scrivo commenti, seguo altre persone e così facendo un giorno l’ho cercato. Così, per pura curiosità. E l’ho trovato. Mi sono fatta riconoscere e ci siamo scritti per circa sei mesi. Ho mantenuto sempre un certo distacco, poi ho sentito un grande desiderio di rivederlo e lo stesso è accaduto a lui. Veramente ho cercato un pretesto convincente per allontanarmi da casa, in realtà non sto cercando di recuperare il ato. Mi fermerò qualche giorno, così, per distrarmi un po’. Il ragazzo li osservava mentre consumava il suo pasto e non osava intervenire. Virginia alza lo sguardo e vede che Andrea sta sorridendo. – Le sembro un po’ ridicola, vero? – No. Sorridevo perché lei potrebbe essere veramente a un bivio. Cioè, potrebbe avere una forte delusione oppure potrebbe scoprire una parte di sé che non immaginava neanche di possedere.
– E questo la fa sorridere? – Apprezzo l’audacia. Il mondo è pieno di pavidi, di prudenti che vivono ripiegati su se stessi per paura di qualsiasi cosa che possa modificare minimamente l’assetto della loro vita. Lei è coraggiosa. – Mi scusi, Andrea, forse le sembro invadente ma lei per quale motivo sta andando a Ginevra? – Sono un donatore di seme. So che suona un po’ strano. Ho firmato un contratto con una clinica svizzera e una volta all’anno, dietro un compenso in denaro, lascio il mio seme per l’inseminazione artificiale. Virginia e Marco puntarono il loro sguardo contemporaneamente sul ragazzo, senza sapere come commentare il fatto. Riprese la parola Andrea: – Forse vi ho turbati? – No, affatto, – rispose Virginia, – riflettevo solamente. Non ho mai conosciuto persone che lo fero in Italia. So che in alcuni paesi è abbastanza diffuso. Ecco, lo trovo singolare. – Veramente anch’io non ho mai conosciuto nessuno che lo fe, sono incuriosito, – commenta Marco. – È una forma di generosità e di altruismo che rispetto. Ma, mi scusi, come le è venuto in mente? E poi non vorrebbe conoscere le creature che lei contribuisce a mettere al mondo? – aggiunge Virginia con lo sguardo rivolto verso Marco in attesa di approvazione. – È successo tutto qualche anno fa. Avevo ventun anni. Ho sentito parlare di questa forma di donazione e mi sono interessato. Mi è sembrato giusto aiutare chi non può avere figli perché non ha un compagno. Ho dovuto sottopormi a una serie di esami, anche psicologici, e poi mi hanno accettato. La mia famiglia d’origine mi considera un po’ pazzo. Non posso avere contatti con le future madri e questo fa parte del contratto. Credo di avere già cinque o sei figli in giro per il mondo a oggi! – Ma Andrea, mi scusi, lei dorme serenamente? – chiede Marco.
– Sì, certo. Perché? – Non sente mai il desiderio di vederli questi figli? Anche se il tutto è assolutamente asettico e privo di qualsiasi forma di umanità, io non potrei non sentire comunque un forte desiderio di conoscere i miei figli… – C’è una punta di disprezzo nella voce di Marco, un fastidio che Andrea conosceva benissimo. – Quando lei compie un gesto d’umanità, fa una donazione a una fondazione, invia dei soldi a dei terremotati, non le importa di conoscere le persone che riceveranno il suo danaro. Lo fa e basta, – ribadisce Andrea. – Ma scusi Andrea, qui è profondamente diverso. Lei dà una parte di sé a una donna che nemmeno conosce, per un concepimento che avviene nella maniera più fredda e distante possibile, e non parlo da credente in questo momento. Una cosa è il denaro inviato per generosità, una cosa è dare una parte di se stesso così importante, che ha delle implicazioni in tutta la sua vita futura. – Forse lei ha ragione. Ma, vede, mi ha fatto molto riflettere un fatto. Ci sono persone che hanno famiglie regolari, figli legittimi nati da un matrimonio, che però non vengono assolutamente considerati. Le famiglie si spezzano e si ricompongono. I genitori si lasciano e si risposano, seguendo i loro personali egoismi, e i figli, come merce, vengono distribuiti qua e là, magari ricompensati dai genitori con del denaro per tacitare la propria coscienza. Questo a me sembra profondamente ingiusto. Ho pensato che aiutare chi non potesse avere figli fosse un atto di generosità di per sé, anche se non potrò mai conoscerli. In fondo quando si firma questo contratto si sa quali sono le condizioni. – Scusate se mi intrometto, vorrei dire la mia, – aggiunge Virginia: – Mentre vi ascoltavo stavo riflettendo su quale fosse il vero motivo che può spingere un uomo a fare questa scelta. E, prima ancora, quale sia lo stato d’animo di una donna che non ha un compagno e vuole a tutti i costi un figlio. Da una parte la donna non intende rinunciare a un desiderio legittimo, ma che non riesce a realizzare nei tempi che si è data. Dall’altra c’è un uomo che, in cambio di denaro, offre questa possibilità. Non c’è scambio, non c’è amore, c’è un contratto di tipo commerciale e basta. Non che ciò mi scandalizzi, ma non lo trovo un accordo sano. Perché secondo me il padre non è un elemento accessorio, e se non è possibile avere un vero padre o conoscerlo, lo trovo persino crudele. Scusatemi.
– Apprezzo le vostre obiezioni. Non dovete scusarvi. Io ho fatto una scelta e non pretendo di essere apprezzato o capito. Da quel momento ci fu solo silenzio. Un silenzio pesante, ma necessario rispetto a tutto il rumore dei loro pensieri. Per alcuni minuti nessuno dei tre aggiunge una sola parola. Intanto, il treno si era nuovamente fermato. Da troppi minuti oramai. A un certo punto, un controllore informò i eggeri che un uomo si era buttato sui binari, ed erano stati bloccati tutti i convogli verso la Svizzera, per permettere alla polizia scientifica di effettuare i controlli. Con un solo sguardo i tre commentano la situazione. Non occorrevano parole. Dopo circa un’ora, il treno riprende lentamente la sua corsa, ingoiando gallerie e spazi bianchi. I tre eggeri dopo lo scambio vivace di battute si isolano inseguendo ciascuno propri pensieri e idee, cullati dolcemente dal movimento del treno. Andrea, dopo aver riposto il cellulare nella sacca, solleva la testa per guardarsi intorno e distende le gambe a lungo sacrificate nella scomoda seduta. Volge lo sguardo alcuni metri più in là e si rende conto che non c’è più nessuno. Si alza in piedi, fa alcuni i, così si accorge che anche oltre il divisorio fra gli scompartimenti sembra non esserci nessuno. Come se dopo l’ultima sosta fossero scesi tutti. Si siede nuovamente senza attribuire grande importanza al fatto e si addormenta. Nel frattempo, il treno aveva ripreso a correre, probabilmente per recuperare un po’ del tempo perso. I tre avvertono come un fruscio improvviso. Come quando qualcuno si avvicina e ci sfiora appena. Un contatto lieve come un battito d’ali. Virginia, intenta nella lettura, alza lo sguardo, perché percepisce la presenza di qualcuno. Vede del bianco, indistinto. Poi mette a fuoco. Si è seduto di fronte a lei un giovane uomo. I lineamenti sono simmetrici e perfetti. È completamente vestito di bianco. Osserva Virginia e le sorride. Accavalla le gambe e così facendo la sfiora, volutamente. Virginia ha come un sussulto. Sente un misto tra inquietudine e attrazione. Riflette tra sé che sono ate più di quattro ore, forse cinque, soste comprese. Il treno sta correndo e, nonostante i ritardi, ormai dovrebbe essere arrivato a destinazione. C’è qualcosa di strano. Perché ha cominciato a correre in questo modo? L’uomo vestito di bianco continua a sorriderle. Improvvisamente le rivolge la parola.
– Mi sembra agitata, c’è qualcosa che la preoccupa? – Ma sì… dovremmo essere arrivati, già da un bel po’. Questo mi innervosisce. – Perché lei pensa alla destinazione anziché al viaggio. – Non mi sembra un viaggio così affascinante. Gallerie, alberi nudi e nient’altro. – Perché lei è proiettata verso il futuro e non vive il presente. – Non ho detto questo. Vivo il presente quando è intenso, significativo. – Qui lei sbaglia, se permette; ogni secondo della sua vita è intenso, perché irripetibile. Ma è un errore che fanno in tanti. Per esempio, lei sa qualcosa dei suoi compagni di viaggio? – Sì, certo. Abbiamo chiacchierato un po’. Nel frattempo i due uomini continuavano a dormire. Si erano accorti che qualcuno si era aggiunto al gruppetto, ma la potenza del sonno era stata più forte. – Il sonno naturale è un beneficio per il corpo, ma il sonno della ragione è un danno, mia cara Virginia, – commenta l’uomo vestito di bianco. – Come fa a sapere il mio nome? Non mi sembra che ci siamo presentati. – Lo so e basta. Lei è curiosa. – Ma scusi, lei è arrivato da neanche cinque minuti, non è così? E poi cosa intendeva per “sonno della ragione”? – Lei, come tante persone, vive attendendo qualcosa di importante, che verrà. Lei non coglie l’essenza della vita. Anche adesso, mentre legge il suo libro, mentre sta parlando con me. È un momento irripetibile, non crede? – Scusi, si sta divertendo con questi giochi di parole? – Lei sa che non arriverà mai a Ginevra, vero? – Ma che dice? Ma chi è lei? – Virginia comincia ad agitarsi, si alza in piedi scuotendo gli altri due viaggiatori per cercare di svegliarli.
– È inutile che si agiti. Voi tre avete qualcosa in comune, e io sono qui per spiegarvelo. – Marco, dov’è il controllore? Marco faccia qualcosa. Quest’uomo è un pazzo! – urlò Virginia. Gli altri due nel frattempo si erano svegliati di soprassalto, e avevano iniziato a osservare l’uomo con attenzione. Si sentivano come se avessero un macigno sulla testa. L’uomo vestito di bianco riprende la parola. – Alzatevi, guardate con i vostri occhi. Su questo treno non c’è più nessuno. Io sono il vostro traghettatore. Voi tre avete qualcosa in comune che ora vi spiegherò, se mi lasciate parlare. Andrea si alza in piedi e osserva incuriosito l’uomo vestito di bianco: – Scusi che sta dicendo? Guardi se non se ne va subito chiamo il controllore. L’uomo comincia a ridere in maniera incontrollata e sarcastica, poi riprende a parlare: – Guardi pure se trova qualcuno, ma non troverà nessuno. – Adesso lei ci dice cosa vuole da noi, per favore, – aggiunge con voce concitata Marco. – Non lo avete ancora capito? – No. La sua supponenza ci preoccupa, invece. – Non è supponenza, ma realtà dei fatti. Le vostre vite si sono incrociate nel momento preciso in cui termina la vostra esistenza. – Lei è sicuro di sentirsi bene? – chiede Andrea. – Sto benissimo. Vedete, questo treno non ha conducente, o meglio, ha un conducente che farà un errore banale e farà deragliare il treno. Voi siete i soli eggeri e siete giunti tutti e tre a uno snodo fondamentale della vostra vita. Tu, Andrea, stai cercando attraverso la donazione del seme un prolungamento della tua vita che non comporti un vero atto di generosità. Tu, Virginia, stai cercando, a modo tuo, un salvacondotto per il futuro. Vuoi recuperare quel ato sospeso pensando a un nuovo amore che avevi ormai ipotecato. Legittimo, ma tardivo. Tu, Marco, non hai detto ai tuoi compagni di viaggio tutta
la verità. C’è una riunione d’affari alla quale non puoi mancare. Sei esposto con debiti elevati e potresti fallire. Non puoi sottrarti a questo appuntamento. I tre viaggiatori impallidiscono improvvisamente. Virginia non può frenare un incontenibile tremore perché una paura concreta sta impossessandosi di lei. Anche Andrea e Marco hanno assunto un colorito sempre più pallido. Virginia si avvicina con il busto verso l’uomo e impulsivamente lo tocca come per capire con chi esattamente aveva a che fare. Insomma, a quale razza appartenesse lo strano personaggio. – Chi è lei? Per favore ci spieghi che significa tutto questo. Dove stiamo andando esattamente? – chiede Virginia con la voce tremante. – Virginia, sono qui apposta per spiegarvi. Non è un sogno o un incubo. La vostra vita è giunta al termine. Io sono il traghettatore. Il messaggero, colui che vi spiega quello che non riuscite a vedere. Anzi, non c’è nulla da spiegare, non ci sono colpe, non ci sono altre parole che possano chiarirvi che un disegno superiore ha previsto che vi incontraste su questo treno. Il treno a pochi chilometri da Ginevra deraglierà. – Sta mentendo, è un pazzo! – grida Andrea sempre più alterato. – La vita di ognuno di noi si compone di tante linee affiancate che, a differenza delle linee parallele che non si incrociano mai, si possono incontrare in un preciso momento, per terminare la loro corsa insieme, non siete né i primi, né gli ultimi. – Lei conosce le nostre vite? – chiede Marco sempre più agitato. – Io conosco il vostro destino. Nel frattempo il treno procede a una velocità inquietante. L’uomo vestito di bianco parla con una calma ieratica che contrasta con la velocità con la quale il treno ingoia chilometri. Era inverno ma i tre eggeri provavano un caldo soffocante insieme a un’angoscia sottile e persistente. Intanto, alla stazione di Ginevra i funzionari responsabili delle ferrovie svizzere uscivano ed entravano dagli uffici, con agitazione, con sconcerto. Parlottavano a bassa voce, dimostrando un nervosismo eccessivo. Poi, l’addetto stampa delle
ferrovie venne incaricato di trasmettere un comunicato alle principali agenzie stampa.
Ginevra 10 aprile 2011. Il rapido Milano-Ginevra delle 11.57 è deragliato a pochi chilometri dalla stazione di Ginevra-Cornaiven. Squadre di soccorso e Croce rossa internazionale si stanno dirigendo sul luogo del disastro. Non si conoscono i motivi della sciagura, si sa soltanto che non si è trattato di uno scontro con un altro treno né del mancato rispetto dei semafori. Probabilmente si è trattato di un malore del conducente. Le autorità hanno dichiarato l’apertura di un’inchiesta per fare luce sulle cause della sciagura.
A distanza di un mese dal disastro, i risultati delle analisi scientifiche e tecniche sul treno non portarono ad alcuna conclusione. Il macchinista non aveva avuto alcun malore, né aveva male interpretato la segnaletica ferroviaria. La cosa ancora più sconcertante fu che gli unici cadaveri ritrovati, oltre al conducente, furono quelli di una donna e di due uomini, come se tutti gli altri eggeri fossero scesi prima del deragliamento. La fermata precedente è Losanna e tutto risultò, ai funzionari svizzeri, veramente incredibile. Ma vi fu una circostanza altrettanto inquietante: i tre sconosciuti che si trovavano sul treno, una volta effettuate le rispettive autopsie, non furono reclamati da nessun famigliare. Furono seppelliti in terra svizzera, uno a fianco all’altro, a spese del cantone ginevrino.
L’isola di Calaverde
L’isola di Calaverde, incastonata tra le acque cristalline del nord della Sardegna e le ultime frastagliate costiere della Corsica meridionale, è ricoperta da una vegetazione fittissima di larici, eucalipti, betulle contornata da spiagge sabbiose e digradanti. Da sempre è conosciuta come l’isola dei reclusi. Se non ospitasse una prigione potrebbe essere lo scenario ideale per trascorrere giornate a contatto con il fascino primitivo della natura. Invece chi vi soggiorna ha un’anima tormentata, qualche volta rassegnata, sopraffatta da pensieri ricorrenti che, come serpenti nel deserto, trovano la strada per insinuarsi e rimanere accanto alle proprie vittime. Sul promontorio a ovest dell’isola una struttura di cemento color tortora, molto simile a una moderna fortezza, si innalza verso il cielo, catturando lo sguardo di chi in barca o su qualche traghetto si trova a osservarla. Gli isolani sono pochi, per lo più pescatori, familiari delle guardie del carcere, piccoli bottegai. Non vi sono alberghi, né villaggi turistici, così come nessun turista. Ogni giorno dell’anno, dall’alba al tramonto, la natura è l’unica testimone delle vite rinchiuse, dei sogni mai realizzati e dei pentimenti tardivi. Tra i detenuti qualsiasi pretesto è valido per sfogare la propria aggressività e per alimentare contrasti destinati a uno scontro fisico. Sentimenti come l’odio, o il desiderio di affermare se stessi, di non soccombere, sono sempre presenti. L’individuo privato della libertà urla, non si piega al bavaglio imposto e cerca di esprimere comunque la sua identità soffocata. Un tribunale ha deciso il destino di ognuno dei reclusi. Una sentenza definitiva ha ipotecato il loro futuro, ha deciso che la loro storia non ha dignità di stampa. È la storia di uomini qualunque, senza volto, senz’anima. Il riscatto è un’eventualità lontana, una semplice ipotesi. La certezza è invece soffocante: è una stanza grigia con due o tre letti, una linea ininterrotta di crepe sul muro come a disegnare un volto sofferente, l’arredamento ridotto a una piccola televisione, una mensola, un lavandino con uno specchio rigato ai bordi. Qualche fotografia di casa e qualche libro sull’unico comodino. La finestra piccola, alta, dalla quale ogni giorno filtra una luce prepotente a dimostrazione di una vita che continua,
nonostante tutto. La percezione della vita al di fuori del carcere ha il sapore amaro di una quantità di emozioni e di sogni che non si possono più catturare. All’interno di quelle mura il tempo per pensare si espande e costringe l’essere umano a misurarsi ogni giorno con la propria condizione. Una condizione che nella maggior parte dei casi ha per protagonista assoluta la noia e un senso di frustrazione e impotenza. Solo in qualche caso la presenza di un laboratorio, perlomeno nelle strutture più organizzate, produce l’illusione di una qualche similitudine con la vita che pulsa al di fuori. A cinquecento chilometri da questo luogo, nella redazione di un giornale che si è sempre occupato di tematiche civili e di giustizia sociale, un gruppo di giovani giornalisti prepara il timone del nuovo numero. Un giornale che ha fatto dell’inchiesta sociale il proprio fiore all’occhiello. La realtà osservata con una lente d’ingrandimento: analizzata, segmentata, scorporata e restituita sotto forma di cruda narrazione della vita di determinate fasce sociali. Un giornale che non racconta storie di personaggi famosi, ma ripercorre la vita di persone che riempiranno difficilmente una pagina in cronaca rosa. Maria Giovanna collabora da alcuni anni con il giornale e spesso propone al caporedattore inchieste e reportage difficili. Non si sottrae alla documentazione delle realtà più complesse, ma si lascia trasportare dalla notizia che non è soltanto un titolo roboante, ma l’occasione per un viaggio all’interno di una realtà spesso fastidiosa, urticante, che diventa uno stimolo a indagare mondi sconosciuti ai più. Quella settimana, tra le tante notizie che andavano approfondite, Maria Giovanna decise di seguire il suo istinto e soprattutto un desiderio di giustizia sociale. Tempo prima alcuni detenuti del carcere di Calaverde avevano scritto una lettera al ministro di Grazia e Giustizia per chiedere maggiore attenzione alla loro realtà. A causa dei tagli di spesa erano stati sospesi alcuni servizi per i detenuti e le proteste nei confronti del direttore, arrivate fino allo sciopero della fame, non erano servite a nulla. La decisione di sviluppare quell’inchiesta avrebbe consentito a Maria Giovanna di dare voce a questa realtà e nello stesso tempo di poter ripercorrere le vite di quei detenuti. Decise così di proporre al caporedattore un reportage sul carcere di Calaverde, nel quale avrebbe intervistato tre uomini condannati per reati diversi, per fornire un quadro delle loro esistenze. La giornalista cercò il materiale necessario sulla struttura, sulla storia del
carcere, dati e statistiche, documentandosi a fondo in relazione ai recenti eventi che avevano portato i detenuti ad attuare lo sciopero della fame. Ottenuto il materiale necessario si recò dal caporedattore. Appena varcata la soglia, Maria Giovanna vide il suo capo seduto davanti al computer e intento a discutere animatamente al telefono. Sulla sua scrivania una quantità infinita di carta, cd, giornali accatastati e le fotografie della famiglia rovesciate e sepolte sotto questa massa imponente. Renato Massimini, il caporedattore, si presentava sempre allo stesso modo, non parlava molto ma spesso alzava la voce. Succedeva un po’ con tutti, semplicemente perché era attanagliato dall’ansia. La chiusura del giornale era da lui vissuta come un incubo. Dopo mezz’ora che si trovava in redazione la sua giacca giaceva stazzonata su una poltroncina mentre la cravatta veniva lanciata sistematicamente su una bassa libreria accanto alla scrivania. Massimini riusciva a sembrare stravolto come se fosse stato investito da eventi enormi e incontrollabili, come se si fosse trovato ore e ore a correre per le stanze della redazione per qualche incredibile scoop. Un alone scuro compariva sotto le ascelle e piccoli rivoli di sudore correvano dalle tempie lungo il viso. All’ora di pranzo la barba era già spinosa e pungente e rendeva l’aspetto dell’uomo ancora più trasandato. Massimini, che era impegnato al telefono, fece cenno col capo a Maria Giovanna di sedersi sulla poltroncina di fronte alla scrivania. Dopo alcuni minuti di conversazione l’uomo buttò giù il telefono insultando lo sfortunato interlocutore. Poi, sempre sbuffando per l’incompetenza generale, apostrofò la collaboratrice: – Che c’è? Di cosa vuoi parlarmi? – Avrei una proposta per l’inchiesta che uscirà il prossimo numero, – disse Maria Giovanna tutto d’un fiato. – Ma la riunione di redazione è per stasera. Faremo il timone della settimana… – Volevo parlartene prima. Di solito decidi tu l’argomento dell’inchiesta, ma in realtà non volevo che tu l’affidassi a un altro. – Lo sguardo della giornalista era diretto e non mostrava dubbi o insicurezze. – Ho capito, vuoi un canale preferenziale? – aggiunse il Massimini grattandosi la barba. – No. Solo che stavolta ho avuto un’idea, e non volevo farmela soffiare da
qualcun altro alla riunione. – Sentiamo… – Da alcuni giorni nel carcere di Calaverde sono in atto delle rivolte. Ho pensato di fare un’inchiesta, prendendo spunto da queste rivolte, andando a intervistare tre detenuti per ripercorrere la storia della loro vita. Se pensi che possa interessare mi metto in contatto con il direttore oggi stesso per accordarmi sulle persone da intervistare. – Potrebbe essere interessante. Ma tu te la senti? – Ti sembro spaventata? – aggiunse Maria Giovanna appoggiando volutamente il dossier sulla scrivania come a dimostrare la sua ostinazione. – Voglio dire, lo sai che significa entrare in un carcere e intervistare dei detenuti? – Ti sei scordato di quando sono entrata in quella comunità di tossicodipendenti? Non è stato molto tempo fa, mi pare. – Volevo solo ricordarti che non è esattamente come un’inchiesta al mercato sull’aumento dei prezzi, o un’intervista alle insegnanti sul bullismo nelle scuole. – Lo so bene. Penso di potercela fare. – Oggi è lunedì, hai una settimana da oggi per metterti in contatto con il direttore e preparare le interviste. Non c’è bisogno che ti dica che dovrai farti indicare tre persone con storie veramente forti e cercare di tirare fuori il meglio. Non voglio troppi sentimentalismi, ma solo la cruda realtà. Quando Maria Giovanna chiuse la porta del direttore alle proprie spalle non poteva credere che si fosse convinto così velocemente ad affidarle quell’inchiesta. Di solito la metteva di fronte a molti problemi, invece stavolta sembrò subito deciso. Tornò spedita alla sua scrivania e chiamò il direttore del carcere per spiegargli quale fosse l’intenzione del giornale. Inizialmente dovette vincere le perplessità del direttore della prigione. L’uomo infatti non conosceva il giornale e non aveva assolutamente idea di quanto potesse incidere sull’opinione pubblica. Il direttore si prese così un giorno di tempo per raccogliere qualche informazione, parlò con alcuni suoi collaboratori,
tra i quali lo psicologo e l’assistente sociale e infine si convinse a selezionare i tre detenuti che sarebbero stati intervistati. Il direttore alla fine prese così a cuore la sorte della giornalista che le procurò anche una sistemazione sull’isola presso una famiglia di bottegai che affittavano una stanza. Così Maria Giovanna prese con sé tutto il materiale che aveva raccolto e prenotò il traghetto. La fredda e ventosa mattina di primavera aveva spazzato via tutte le nuvole. Maria Giovanna fu tra i primi eggeri a giungere al porto, alta e magra sulla banchina, pronta per l’imbarco. Lo sguardo della ragazza era fisso sull’orizzonte e la tensione era palpabile. Il filo continuo dei suoi pensieri venne interrotto da un membro dell’equipaggio che distribuiva sacchetti ai viaggiatori. Il mare era piuttosto agitato, ancora più agitato dei pensieri di Maria Giovanna. I compagni di viaggio avevano tutta l’aria di essere parenti dei detenuti o fornitori del carcere. Durante la navigazione molti si sentirono male, una processione continua di persone verso i bagni. La giovane giornalista rimase per tutto il tempo sul ponte, respirando a pieni polmoni per cercare di ricacciare dentro di sé la forte nausea. Quando cominciò a scorgere il profilo dell’isola e poi, più avanti, la struttura della fortezza-carcere, una sottile inquietudine si insinuò e divenne persistente fino a quando non ne varcò la soglia. Non aveva mai visitato un carcere. Ampi e lunghi corridoi luminosi introducevano in altrettanti corridoi. Ogni locale terminava con sbarre altissime e spesse. Durante il tragitto all’interno della struttura una guardia carceraria la accompagnava in silenzio. Giunti in fondo a un corridoio la fece accomodare in una stanzetta inaspettatamente accogliente, con due divani e un piccolo tavolino. Maria Giovanna si sedette subito perché era provata dalla difficile traversata. Rimase alcuni minuti in attesa, poi entrò il direttore. Un uomo ancora giovane e distinto l’accolse con un sorriso aperto e una stretta vigorosa della mano. – Finalmente la stampa si interessa a noi! Lei non sa quante difficoltà. Strutture come questa vanno avanti perché ci sono persone di buona volontà che ci mettono tutto il loro impegno e il loro sapere. Ma diventa sempre più difficile. – Immagino, – provò a dire Maria Giovanna prima che l’uomo riprendesse a parlare. – Comunque apprezzo l’interesse del vostro giornale. – Il direttore appariva
cordiale ma trattenuto, come se volesse ancora sincerarsi della credibilità del giornale, o aspettasse l’input della giornalista. – La nostra testata si occupa da tempo di tematiche sociali, – aggiunse con un certo orgoglio Maria Giovanna. – Mi sono informato sul suo giornale. Per quanto ci riguarda invece, nel caso non avesse provveduto a scoprirlo da sola, deve sapere che ospitiamo circa centocinquanta detenuti più una trentina in isolamento diurno. Stiamo attendendo i fondi che ci hanno promesso da tempo dal ministero, ma a tutt’oggi tutto tace. Tra poco l’accompagno a incontrare i detenuti. Non è facile avere a che fare con un galeotto, ma credo che di questo lei ne sia consapevole. – Certo,– aggiunse convinta. – Si prepari all’eventualità di poter avere qualche scontro verbale con queste persone. L’aggressività è una forma di comunicazione, e in questo ambiente è molto comune. Non bastano programmi di reinserimento o attività sportive. La rabbia è sempre presente. – Il direttore pronunciò le ultime parole accompagnando Maria Giovanna verso una saletta attigua alla biblioteca, dove i detenuti accompagnati dalle guardie avrebbero incontrato la giornalista. La donna si sedette in attesa del primo detenuto. Lo sguardo rivolto verso l’ampia finestra dalle spesse grate da dove filtrava un sole prepotente. Avvertiva i affrettati, vociare indistinto, canzoni pop provenienti da una radio. Nella mente di Maria Giovanna tutto si mescolava in una babele di rumori. Mentre attendeva il detenuto lesse una scheda di presentazione che il direttore del carcere le aveva lasciato prima di congedarla. Il primo detenuto si chiamava Giuseppe Trabucchi, aveva quarant’anni ed era stato condannato a cinque anni di detenzione per truffa. Aveva potuto beneficiare della sospensione condizionale della pena dopo il primo reato, però poco dopo aveva ripreso a truffare, così si trovava a scontare la pena completamente. Nella scheda un appunto personale del direttore precisava che Giuseppe era un vero personaggio tra tutti i detenuti. Viveva con una sua logica, ed era un profilo sicuramente interessante per come affrontava la vita. Trascorsi alcuni minuti, Giuseppe e una guardia seguita dal direttore varcarono la soglia. Non appena furono entrati l’uomo, vestito con una camicia a quadri e un paio di jeans, si avvicinò alla giornalista porgendole la mano con fare
cordiale. Il direttore li lasciò soli, chiedendo alla guardia carceraria di rimanere in attesa fuori dalla porta. Giuseppe era un uomo non molto alto, scuro di capelli e con due grandi occhi sorridenti. Portava due baffetti minuscoli che sembravano quasi posticci e profumava in maniera esagerata, come chi non è abituato a ricevere visite da tanto tempo, oppure come se avesse considerato l’occasione di incontrare qualcuno proveniente dall’esterno, in questo caso una donna, come un’opportunità che non andava sottovalutata. – Giuseppe, lei sa perché mi trovo qui a parlare con lei? – Sì, certo. L’assistente sociale mi ha spiegato ogni cosa. – Bene. Allora si accomodi, iniziamo. – Prima di iniziare posso chiederle io qualcosa? – domandò improvvisamente l’uomo. – Va bene, – rispose Maria Giovanna un po’ stupita. – Lei gioca a poker? – No. Perché scusi? – Vede, il gioco a poker è come la vita. Non scegli dove nascere, ti trovi in una famiglia povera, ricca, borghese o altro. Quelle sono le tue carte. Poi puoi cercare di cambiare qualcosa ma non sai cosa ti riuscirà e cosa no. Anche nel poker puoi cambiare qualche carta, ma non sai quali carte hanno in mano gli altri, fai delle ipotesi. Fai il tuo gioco. Nella vita è lo stesso. – Cosa vuol significare quest’esempio? Vuole giustificare le sue scelte criminose? – interloquì Maria Giovanna con un filo di ironia nella voce. – Ecco, vede, lei è subito aggressiva. Pensa immediatamente a quello che ho fatto. Io sono stato condannato e basta. Non è così? – Senta, forse abbiamo cominciato con il piede sbagliato. Cosa voleva suggerirmi con l’esempio del poker? – Volevo solo dire che il poker è un esempio della vita. Poi, certo, ognuno si deve prendere le proprie responsabilità.
– Non avevo mai pensato alla vita in questi termini. Abbia pazienza, ora vorrei iniziare l’intervista. Ho letto nella sua scheda che è stato condannato per truffa. Può raccontarmi qualcosa di lei, qual è il percorso che l’ha portata alla condanna? – Sono nato in un piccolo paese di provincia. La mia è una famiglia numerosa. Mio padre era un impiegato del catasto e mia madre aveva una tintoria. Dopo il diploma ho fatto alcuni lavoretti, poi a trent’anni un parente assessore comunale mi ha dato la possibilità di entrare in uno studio di consulenza nel quale si prestavano servizi agli associati. Insomma, con i soldi degli associati versavamo contributi all’Inps, e in questo modo avevamo una grossa disponibilità di denaro. – Giuseppe aveva cominciato a parlare a ruota libera, come se non aspettasse altro che una persona disposta ad ascoltarlo. – La interrompo un momento. Aveva mai avuto contatti con la malavita? – No, nel modo più assoluto. Sono totalmente responsabile dei miei guai con la giustizia. – Detto questo, Giuseppe si ò una mano fra i capelli e fece un leggero sorriso come se fosse orgoglioso delle sue scelte. – Beh, il direttore mi aveva detto che lei era un personaggio piuttosto curioso, – aggiunse Maria Giovanna, pentitasi subito dopo di quella inappropriata osservazione. – Secondo lei affermarsi responsabile dei propri guai è un atteggiamento curioso? Io direi che in generale nessuno dichiara la propria responsabilità nei fatti della vita. – Su questo ha ragione. Però mi sembra che lei ne parlasse come se ne fosse orgoglioso. – Forse. Ma vede, ci sono delle situazioni che portano gli uomini a trovarsi a un o dal crimine, senza per questo sentirsi troppo responsabili. Lei sa che io sono stato condannato per truffa e sa anche che durante la sospensione condizionale della pena ho truffato ancora e quindi sono qui per scontare per intero la mia pena. – Perché la truffa e perché di nuovo? Sapeva quali potevano essere le conseguenze, non è così?
– La mia è una famiglia modesta: vivevamo del nostro lavoro senza pretese. Però, quando ho cominciato a lavorare, mi sono accorto che mi avevano messo nelle condizioni di maneggiare molto denaro, e che nessuno controllava mai quello che facevo. Come se il denaro che ci veniva lasciato in ufficio non avesse un valore. Mi sono reso conto che, quando restituivo nelle mani dei soci le ricevute dei versamenti da noi effettuati, nessuno controllava la corrispondenza degli importi. – Mi interessa sapere come si è sviluppato in lei il pensiero di organizzare una truffa, e chi è lei adesso, più che parlare del meccanismo del raggiro, – interloquì la donna. – Non è stato un pensiero improvviso ma un lento meccanismo d’osservazione dei comportamenti altrui, delle distrazioni e della leggerezza con cui molte persone trattano il denaro che possiedono. Poi, lei non ci crederà, ma è diventato un pensiero fisso. Ho sistematicamente osservato un certo numero di persone e mi sono accorto che non si sarebbero neanche resi conto della truffa. Gli ammanchi di denaro potevano sembrare semplici errori di battitura quando invece io avevo studiato un meccanismo quasi perfetto. – Lei ha studiato un meccanismo a tavolino, con il proposito pervicace di ingannare centinaia di persone. In pratica lei approfittava della fiducia che i clienti riponevano nei confronti dello studio di consulenza, non crede? – aggiunse Maria Giovanna. – A me sembrava invece che il denaro sottratto in fondo non fosse così fondamentale nella vita delle altre persone, se non si accorgevano di nulla. Per me era diventato il perno della mia esistenza, l’accumulare denaro sottraendolo a ignari e sprovveduti. Me ne sono reso conto chiuso nella mia cella in questi anni. – Con questo vuole dire che il carcere per lei ha significato un ravvedimento, in qualche modo? – No. Vuole sapere la verità? Sono un bastardo che si è approfittato degli altri. Perché lei forse non è mai stata tentata di fare qualcosa contro la legge? Mi sembra una maestrina che riprende un allievo disubbidiente. – Certo che l’istinto alla trasgressione appartiene agli uomini. La capisco, ma non significa che condivido la sua scelta. – Nella voce di Maria Giovanna si poteva leggere un po’ di risentimento.
– Mi guardi negli occhi Maria Giovanna. Lei parla come se fosse a una conferenza sul regime carcerario. Sono un uomo che ha fatto una scelta attirato dal denaro. Lo riconosco. Ho approfittato della buona fede delle persone. – Allora quale peso ha, dopo circa due anni di carcere, la sua condanna e cosa si aspetta dal futuro? – chiese Maria Giovanna. – Il futuro è un cerchio bianco, il disegno interno sarà mio compito. Certo lei vorrebbe che io dicessi che mi sono pentito e che la detenzione mi è servita per capire e per non sbagliare più. In parte sì. Sono un uomo che ha giocato le sue carte e ha perso. Certo questo non vale per tutti i detenuti, sono d’accordo. – Continui. – Certo forse lei si aspettava una specie d’uomo completamente abbrutito, senza un pensiero preciso. Brutalità, maleducazione e nient’altro. Sa, il carcere è simile a uno specchio lievemente deformato rispetto alla società esterna. Per quanto mi riguarda, qui mi chiamano “il filosofo”, solo perché penso e leggo, e guardo in faccia la realtà. – Che cosa mi dice invece a proposito delle rivendicazioni che avete portato avanti con lo sciopero della fame? – Ci avevano promesso che avrebbero attivato un laboratorio di falegnameria alcuni mesi fa, e per noi questo è essenziale, poi non sono arrivati i fondi, o comunque non sono arrivati a noi, ma forse a qualche altra struttura. Se lei potesse scriverlo sul suo giornale sarebbe importante. – Poi aggiunse, trafiggendola con lo sguardo: – Si prepari ad ascoltare anche qualche altra storia e poi si renderà conto di quanto è difficile vivere qui dentro. Ci sono innocenti e persone totalmente incapaci di porre dei limiti alla loro vita, vissuta fuori da ogni regola. Anche perché, lei mi insegna, tornare nella società è ancora più difficile dopo aver scontato una pena. A questo punto il tempo di Maria Giovanna per il primo detenuto era terminato e dovette, suo malgrado, troncare l’intervista. La guardia carceraria aveva bussato per ricordare che il tempo a disposizione era terminato e che il detenuto doveva tornare in cella. Giuseppe e Maria Giovanna si salutarono con una stretta di mano poi l’uomo si voltò e fu accompagnato fuori dalla stanza dalla guardia. Maria Giovanna rimase sola qualche minuto in attesa del secondo detenuto. Si
alzò in piedi per sgranchirsi un po’ le gambe e osservò oltre le grate il cortile del carcere. In lontananza una lingua di mare formava una delicata cornice al colosso di cemento. Il secondo detenuto si chiamava Nicola Aiello. Nicola aveva trentacinque anni ed era stato condannato a diciotto anni per omicidio. Aveva, secondo i giudici, ucciso la moglie dopo anni di litigi e d’incomprensioni. In primo grado aveva avuto venticinque anni e successivamente la pena gli era stata ridotta, considerando alcune circostanze attenuanti che però non avevano scalfito la convinzione della giuria sulla sua colpevolezza. Secondo la nota del direttore Nicola era innocente. Non erano state condotte bene le indagini durante la fase istruttoria e questi errori avevano portato alla sua condanna. Nicola era un detenuto modello. I primi tempi aveva sofferto di gravi forme depressive, poi aveva cominciato a occuparsi della biblioteca del carcere e questo impegno gli aveva dato uno scopo nella vita. Manteneva buoni rapporti con quasi tutti i detenuti e non aveva creato mai problemi. Quando Nicola varcò la soglia, il primo sguardo riservato a Maria Giovanna fu duro e freddo. Era abbastanza alto, con molti capelli e uno sguardo vivace. Non appena si sedettero l’uomo osservò Maria Giovanna con molto interesse, come se dovesse giudicarla per la sua avvenenza, poi abbassò lo sguardo e sorridendo fece la sua prima battuta – Quale onore! Una giornalista che viene a fare visita allo zoo degli umani… Ma lei mi sembra troppo giovane per un servizio in un carcere. Dal suo aspetto si direbbe che al massimo, nella sua breve vita, avrà rubato una merendina al supermercato, non è così? – Il direttore mi ha detto che lei era disponibile a rilasciare un’intervista sulla sua vita qui a Calaverde. Se non è così avrebbe dovuto dirlo prima. Ora dovrà rispondere alla mie domande, mi spiace. – Stavo scherzando! Tanto per rompere il ghiaccio. La vedo un po’ tesa… – Mentre diceva queste parole Nicola sorrideva sardonico, Maria Giovanna invece tradiva un certo imbarazzo nel tono della voce: – Signor Nicola, vogliamo ricostruire la sua vicenda per favore? – Se proprio è necessario…
– Cosa vuole dire a riguardo? – La mia vita ora non ha molto senso. Sono innocente ma non sono stato creduto. Gli indizi erano tutti contro di me e il mio avvocato non è riuscito a convincere la giuria. Tra me e mia moglie c’erano molti motivi di contrasto e non le nascondo che l’insofferenza aveva sostituito l’amore. Ma non sono stato io a ucciderla, quando sono tornato a casa lei era già morta. – Qual è la sua vita ora? – Non mi aspetto più nulla. La mia vita e le mie aspettative sono finite il giorno della condanna definitiva. Qui devi guardarti le spalle, non sai mai che accadrà. Sono più solo di prima. Ogni sera qui dentro c’è una lotteria per decidere chi sarà la donna di turno. – Lo sguardo di Nicola si fece cupo. – Vuole spiegarmi meglio? – Non c’è molto da spiegare. Qui dentro sei un uomo finito, perché ti inserisci in una rete già preparata da qualcuno prima di te. Sei l’ultima pedina e se vuoi sopravvivere devi piegarti a delle regole squallide. – Poi Nicola abbassò lo sguardo e dopo un momento di silenzio disse: – Sono uno dei tanti che ha subito violenza. – Capisco. Se la sente di raccontarmi quello che sta vivendo? Sono qui per ascoltare la sua testimonianza. – Se vuole la verità, dovrò essere spiazzante. – Lo sguardo di Nicola era duro e provocatorio. – La ascolto… – Cosa vuole scrivere sul suo giornale, che riflettiamo sui nostri sbagli e che siamo sinceramente pentiti? Che la privazione della libertà ci rende uomini migliori? Beh, se vuole scrivere questo lo scriva, ma non è la verità, glielo assicuro. – Allora mi dica lei come si sopravvive all’interno? Quale strategia per non essere sopraffatti? – Lo sguardo di Maria Giovanna aveva perso il distacco iniziale.
– Qui dentro si costruiscono reti di favori, alleanze e protezioni e poi c’è il rovescio della medaglia. Finché sei qui hai un ruolo, una “posizione” ma fuori di qui… – Vuole dire che è meglio rimanere qui piuttosto che immaginare la vita fuori? – domandò Maria Giovanna tutto d’un fiato. – Mi spiego meglio. Quando entri qui hai già perso tutto. La famiglia molto spesso non ti cerca più. La vergogna impedisce alle donne di accompagnarsi a un detenuto. Sì, la vita è fuori, ma quando esci non sai dove andare e sembra che negli occhi degli altri tu ritrovi solo ostilità. Lei viene qui con il suo taccuino, il suo registratore e con il suo vestitino firmato, poi magari si fa bella con i suoi amici raccontando quale servizio ha reso al suo giornale. – Signor Nicola, io sto solo lavorando e sto cercando di far conoscere la storia di chi vive dentro un carcere… – Non me ne frega niente di lei e del suo giornale da strapazzo. Quando lei uscirà da questa stanza, la mia vita continuerà cercando di evitare quelli che si fanno, altri che si pestano perché non si sopportano. A questo punto Giovanna si alzò in piedi, posò la penna sul tavolo e, un po’ spazientita dal comportamento del detenuto, lo interruppe bruscamente con queste parole: – Senta, io sono venuta qui per capire e per conoscere la vostra realtà, non sono qui per dimostrare nulla. Non sono entrata con la presunzione di chi sa di essere dalla parte del giusto e del bello. Ma cerco di far conoscere a più lettori la vostra condizione, forse anche per far nascere una coscienza diversa. I giornali possono fare qualcosa, non crede anche lei? Lei non è un insetto fastidioso e repellente che va allontanato, ma un uomo la cui vita è difficile qui dentro, che potrà forse un giorno avere qualche opportunità in più, se permette che se ne parli! – Maria Giovanna aveva alzato volutamente il tono della voce come a esprimere con maggiore forza la sua opinione, ma Nicola ribatté con foga: – Lei è molto giovane e forse ingenuamente crede ancora alla parola “riscatto”, oppure pensa veramente che ai lettori del suo giornale importi qualcosa della nostra vita? Diciamo piuttosto che parlare di problemi scottanti è l’imperativo per vendere più copie, non è forse così?
– Lei riduce tutto a una questione di mercato, semplifica senza riconoscere che, se qualche opportunità in più il mondo carcerario l’ha ottenuta, è anche grazie alla stampa che ha fatto pressioni sulla vostra condizione negli ultimi anni. – Mi scusi se insisto, ma lei è l’esempio lampante di chi è stato infarcito di concetti retorici sulla stampa di denuncia sociale. Ha imparato bene la lezione, sarà stata un’alunna modello. Allora deve scrivere tutto quello che le ho detto, senza tralasciare nulla. Deve dire che non ci può essere comunicazione fra mondi separati e che alla durezza della vita nel carcere, nonostante biblioteca, laboratori e via dicendo, corrisponde una totale solitudine quando si torna alla vita fuori. Se sei stato dentro sei diventato un uomo vecchio, da buttare. Non solo perché la società non ti riconosce, ma anche perché non hai speranze. Ma non è colpa della società, come forse lei si aspetta che io dica, ma è l’avere subìto la privazione della libertà. Comunque, da innocente o da colpevole, la tua vita è stravolta. Cosa te ne fai della libertà riacquistata se non hai una donna da amare, una famiglia da ritrovare, un lavoro dignitoso? Ti aggiri per le strade della tua città come un fantasma, cerchi luoghi familiari e trovi tutto diverso, spazzato via dal tempo. Se sei straniero forse trovi lavoro in qualche impresa edile, se no non ti fanno fare neanche il commesso. Se conosci una donna che ti domanda da dove vieni che gli dici? Che hai studiato e che poi sei stato condannato per avere ucciso tua moglie? Il tuo ato ti insegue dovunque e in questo senso sei condannato. Questa volta era Nicola a essersi alzato in piedi. Aveva detto al direttore che avrebbe accettato di parlare con quella giornalista solamente alla condizione di poter essere totalmente libero, almeno in quel caso, di esporre il suo pensiero senza dover esprimere la vuota retorica del detenuto modello che tutti si aspettano. Maria Giovanna aveva ascoltato Nicola senza fiatare; rassegnata, aveva posato la penna sul tavolo e non aveva voluto scrivere. Non ne aveva bisogno. Le parole di quell’uomo l’avevano trafitta, stavolta in maniera devastante. Si sentiva, suo malgrado, coinvolta nella vicenda umana di Nicola. Si accorse che lo stava guardando con occhi diversi, come se la sincerità di quell’uomo l’avesse resa simile a lui. E lui se ne accorse. – Voleva chiedermi ancora qualcosa? – disse l’uomo fissandola. – No. Credo possa bastare.
– Mi sembra provata. – Nessuno prima di lei mi aveva mai parlato in maniera così sincera e devastante. – Non ha mai conosciuto persone sincere? – Forse è così. Non so, ma da qui la mia vita appare insensata. La sua, invece, mi appare inutilmente dolorosa. – Sono sincero e brutale perché non ho modo di nascondere nulla. Forse le persone che si incontrano fuori mentono per ottenere qualcosa. Io da lei non mi aspetto nulla e quindi posso dirle tutto. Tornerà a trovarmi? – Come, prego?– La domanda di Nicola aveva lasciato Maria Giovanna senza fiato. – Sì, voglio dire, mi farebbe piacere rivederla e poter ancora parlare con lei. – Ma veramente l’intervista è finita. Non ho motivo di tornare. – Scusi… mi perdoni, ma lei è la prima cosa bella che mi sia capitata negli ultimi anni. Voglio dire, parlare con una donna normale. Mi è sembrato che anche a lei fe piacere. – Quanto a sincerità non la batte nessuno. Se vuole posso tornare domani ma poi devo prendere il traghetto, venerdì devo tornare al lavoro. – Mi dica almeno che anche a lei farebbe piacere tornare a trovarmi. – Non lo so. Lei mi preoccupa. – Perché? – Perché è senza freni. – E lei invece ha paura di lasciare i suoi… di freni. – Non so se riuscirò. Dovrò parlare con il direttore. Non era prevista una prosecuzione dell’intervista.
Maria Giovanna gli tese la mano senza riuscire a sostenere il suo sguardo e poi si voltò verso la finestra. Nel frattempo l’uomo raggiunse la porta mentre la guardia era pronta ad accompagnarlo alla sua cella. Si sentiva infastidita, turbata, affascinata, agitata. Si sarebbe aspettata tutto, ma non di rimanere così coinvolta. Che assurdità. Eppure, nella sua mente quell’uomo tornava e ritornava come una presenza ossessiva. Come avrebbe giustificato davanti al direttore del carcere una richiesta di ulteriore visita a Nicola? Camminava nervosamente su e giù per la stanza senza sapere esattamente cosa le stesse accadendo. Si ricordò che nel giro di pochi minuti la guardia le avrebbe condotto il terzo detenuto. Si chiamava Sergio Pinardi ed era il classico delinquente che entra ed esce abitualmente dal carcere. Aveva cinquant’anni e una fedina penale lunghissima: reati contro il patrimonio, sfruttamento della prostituzione, ricettazione. Stava scontando una condanna a quindici anni per il sequestro della figlia di un imprenditore. Questo era il detenuto più difficile, era arrogante e cinico e qualche volta anche violento. Aveva alle spalle una storia significativa, molto difficile. Mentre la giornalista era assorta nei suoi pensieri, Sergio era comparso sulla soglia della porta. La donna si voltò e vide un uomo molto alto e robusto con alcuni tatuaggi piuttosto grossolani sulle braccia. La osservava con un sorriso cinico, e sembrava divertito di rispondere alle domande di una giornalista. Stava masticando chewing-gum e teneva le mani infilate nelle tasche della felpa. – Vuole raccontarmi qualcosa di lei, signor Sergio? – Certo, madame. Ho cinquanta anni, ho scontato tre anni per aver clonato carte di credito, poi altri cinque per ricettazione e ora sono qui, nell’hotel a cinque stelle Calaverde, a scontare una bella condanna definitiva per sequestro di persona. Mi manca tanto così per diventare Cavaliere del Lavoro. – Forse può raccontarmi qualcosa di più che un elenco delle sue condanne, non crede? – Se vuole le racconto una favoletta. Non ho mai avuto una vera famiglia, poi a diciotto anni la strada è diventata la mia famiglia. Ho iniziato con delle piccole cose, qualche furto e poi non ho finito più. Fino a quando non ho incontrato quelli che sono diventati i miei soci nel sequestro. Io non sono certo uno sprovveduto, ma mi hanno fregato.
– In che senso l’hanno fregata? – Eravamo in tre ad aver organizzato il sequestro: io avevo tutte le informazioni sulla famiglia della ragazza perché la conoscevo, ho messo a disposizione un locale, ho pianificato il tutto. Durante il sequestro uno dei due soci è stato intercettato perché ha commesso un errore stupido, da dilettanti. I carabinieri erano già sulle sue tracce e avevano messo sotto controllo il telefono della fidanzata e così ci hanno beccati tutti. – Più che averla fregata mi sembra che ci sia stata un po’ d’ingenuità. – Questi sono dilettanti che rovinano la piazza. Madame se ho deciso di sequestrare quella ragazza avevo i miei motivi. Li ho chiariti durante il processo. – Quindi non cambierebbe di una virgola le sue scelte, se potesse tornare indietro? – Le cambierei sì. Cambierei faccia e identità, purtroppo sono quello che ho scelto di fare per vivere. Non avevo alternative e forse non le avevo neanche mai cercate. – Non ha mai sensi di colpa per quello che ha fatto? – Assolutamente no. Qui mi annoio moltissimo, non ci sono donne e la notte non si dorme. Posso farle io una domanda? – Sentiamo. – Se lei avesse una minima possibilità di vivere meglio la sua vita non accetterebbe certi compromessi? Se lei non avesse nessuno che l’aspetta a casa si farebbe tanti problemi a cercare un guadagno più facile? – No. La questione è etica Sergio. Non lo farei. – Madame. Sono commosso dalla sua indole. – Vuole trasmettere un messaggio ai lettori del mio giornale? Chiedere qualcosa di cui abbiate veramente bisogno? – Se proprio devo restare qui, vorrei che la mia compagna potesse venire più
facilmente a trovarmi. Ma ora non ho più voglia di parlare con lei. Tanto è inutile, – aggiunse seccato. – Un’ultima domanda. Ha partecipato anche lei allo sciopero della fame? – Certo. Anche se non cambierà la situazione qui dentro, ne sono convinto. Guardi che il laboratorio di falegnameria non serve a cambiare le teste. Ci tiene impegnati per un po’ di tempo. Devo costruire il modellino della barca che non potrò mai avere? Magari prepararmi per un lavoro quando esco? Domani mi sveglierò ascoltando gli sciacquoni del cesso del vicino e la radio mi ricorderà che sono ancora vivo, nonostante tutto. – Sergio aveva smesso di sorridere e si era avvicinato al busto della giornalista spingendo le sue ginocchia in tono provocatorio contro quelle della donna che era seduta di fronte. Maria Giovanna cominciava a temere qualche reazione aggressiva da parte dell’uomo. In fondo si rese conto che il dialogo con Sergio aveva preso la piega di una continua provocazione. – Sergio, può bastare così. Le auguro buona fortuna. – Grazie madame. – L’uomo, che continuava a fissarla e a masticare il chewinggum, si alzò in piedi chiamando a gran voce la guardia. Maria Giovanna condusse questa intervista completamente distratta, sembrava quasi indifferente alle vicende dell’ultimo detenuto, perché nella sua mente un turbine di pensieri la riportava unicamente in quella piccola stanza, vicina a un uomo, Nicola, che nella sua integrità scomoda era più interessante di quanto avesse potuto lontanamente supporre. Tornò nell’ufficio del direttore per congedarsi e nello stesso tempo gli chiese un altro permesso di alcuni minuti per poter parlare nuovamente con Nicola il giorno dopo. Si giustificò dicendo che aveva avuto un malore improvviso durante l’intervista e non era riuscita a completarla. Il direttore concesse un altro permesso e la giornalista uscì dal carcere apparentemente sollevata. Quella sera stessa scrisse un pezzo che aveva forza e intensità inaspettate. La verità, cruda e scomoda, si dipanava nelle tre interviste in maniera coinvolgente. La donna non sapeva esattamente cosa le stesse accadendo. Durante l’intervista a Nicola aveva percepito chiaramente un turbamento che non aveva mai conosciuto prima. Non aveva dimestichezza con i sentimenti improvvisi, a cui peraltro non aveva mai creduto. Un sentimento deve seguire delle tappe precise,
diceva a se stessa per convincersi, non può comparire così come una tempesta ai tropici. Prima di separarsi definitivamente da quel luogo e da quell’uomo voleva rendersi conto di quale forma di smarrimento fosse rimasta vittima. L’indomani tornò al carcere e trovò Nicola che la aspettava nella stanza dei colloqui. Si era vestito bene, indossava un paio di pantaloni di fustagno blu e una camicia rosa. Era sbarbato e sorridente e per qualche istante le sembrò un uomo che avrebbe potuto incontrare in qualsiasi luogo, non un galeotto. Si sorrisero. Nicola parlò per primo. – Ti ho pensata continuamente da quando sei andata via. Non ho dormito tutta la notte. E tu? – Anch’io. Ho scritto il pezzo e poi sono stata alla finestra a guardare il mare e a cercare con gli occhi quale fosse la tua finestra. Non so che cosa stia accadendomi. – Ci stiamo innamorando, – pronunciò a fil di voce il detenuto. Nicola e Maria Giovanna erano in piedi uno di fronte all’altro. Sembravano intimiditi, desiderosi soltanto di guardarsi per cercare di capire di quale strano sortilegio fossero vittima. – Mi sembra tutto così assurdo, – disse laconicamente Maria Giovanna. – Succede ogni giorno, dovunque, perché non qui? – Non è possibile. – Maria Giovanna si era seduta appoggiando le mani sul tavolo. Rifletteva a quale pensiero razionale aggrapparsi per allontanarsi il più possibile da quell’uomo. – Ci ho pensato stanotte. Non è possibile anche per me. Poi stamattina mi è stato tutto chiaro. – Cosa vuoi dire? – chiese Maria Giovanna. – Puoi fare qualcosa per me? – Dipende. – Io non posso stare qui altri quattordici anni e non posso scappare. E non posso
pretendere di avere una relazione a distanza, sarebbe un’assurdità. Poi ho capito una cosa. Veramente è da un po’ di mesi che ci sto pensando, e ora sapere che posso ancora provare un’emozione reale come innamorarmi, senza poterla vivere, mi fa comprendere tutta l’assurdità della mia vita qui. Se ci tieni un po’ a me puoi aiutarmi? Puoi procurarmi un barbiturico? – Il direttore mi aveva detto che avevi sofferto di depressione ma non credevo che fossi ancora così dipendente dai farmaci. – Forse non hai capito. Tu mi hai fornito una ragione per farla finita. Ma non posso accedere alla farmacia del carcere e tu potresti procurarmi del Nebiotal senza problemi. – Tu sei completamente impazzito. – Ma non capisci che ho trovato la soluzione incontrando te? Se devo essere sincero ieri, per la prima volta dopo un tempo infinito, ha preso forma nella mia mente un desiderio che non immaginavo potesse nascondersi ancora dentro di me. Immediatamente dopo ho capito che questo abbozzo di sentimento non ha alcuna ragione di nascere e di svilupparsi. – Tu sei un detenuto modello, così mi ha detto il direttore. Tra qualche anno potrai avere dei permessi… – Lascia stare per favore. Puoi portarmi il Nebiotal? Lo faresti per amore, solo per amore? – No, no, no! Tu stavi cercando solamente un pretesto,un aggancio per farla finita. Oppure vuoi sul serio farmi credere di provare un sentimento per me? – La solitudine produce mostri ma alimenta anche i sogni. E quando i sogni prendono una forma umana e concreta allora diventa difficile staccarsene, – disse Nicola tutto d’un fiato. – Ma io non posso fare quello che mi chiedi. Ci scriveremo, magari tra qualche anno sarai fuori. E poi… non lo so. Sono confusa. – La voce della donna era titubante. Nicola riprese a parlare. – Non sarebbe questo un atto estremo d’amore? Pensi che si soffra solamente per una malattia fisica? Ti divora più l’indifferenza del mondo conosciuto, perché è
un tarlo che assottiglia le tue difese, ti mangia dentro. Cosa vuoi capire tu di questo, che ne sai tu che sei piccola e delicata come un fiore? Il viso di Maria Giovanna era rigato dalle lacrime. In due giorni era ata dal paradiso all’inferno. La vita sarebbe stata esattamente come lui l’aveva descritta. Una matassa aggrovigliata senza fine. Ma no, lei non l’avrebbe aiutato a morire. Mai! Poi si riprese e parlò. – Non ti aiuterò a morire! – Un groppo in gola le impediva di pronunciare altre parole. – In ogni caso, grazie, – aggiunse Nicola tenendogli le mani. – Perché grazie? – Perché mi hai regalato un sogno. Improvvisamente si baciarono. Un gesto inevitabile, non c’era nulla di dolce in quel bacio. C’era rabbia, desiderio di annientare l’altro, di rubare un briciolo di vita uno all’altro. Senza respirare. Poi Maria Giovanna si staccò dalla stretta di Nicola e si avvicinò alla porta chiamando a gran voce l’agente che attendeva fuori. Un ultimo sguardo tra i due fu come una lama tagliente che incide la carne. La donna camminava affiancata all’agente per raggiungere l’uscita del carcere, mentre intorno a loro si sentiva una radiolina che trasmetteva canzoni degli anni Settanta. Maria Giovanna avvertiva soltanto il rumore metallico delle serrature e un freddo improvviso, quel freddo che non trova conforto negli indumenti. Poi la luce violenta del sole la riportò alla realtà. Maria Giovanna salì sul traghetto senza voltarsi. Non sarebbe mai più tornata su quell’isola.
La nebbia nel cuore
L’inverno a Vienna è lungo, rigido, con frequenti nevicate. Il Prater è il parco più famoso della città ed è la meta più amata dai viennesi per praticare jogging perché all’interno del parco si sviluppa una lunga strada che si dirama in numerosi sentieri, luogo ideale per prepararsi alla maratona che si svolge ogni anno ad aprile. Anche Mark era un maratoneta dilettante. Nato e vissuto a Vienna, era un ragazzone biondo e allampanato con grandi occhi e mani ossute. Era timido e un po’ solitario, amava in modo particolare i luoghi deserti a contatto con la natura. Mark proveniva da una famiglia di commercianti di stoffe che dall’inizio del Novecento vestiva la buona borghesia viennese. Non si era posto molte domande rispetto al futuro, aveva sempre dato per scontato che avrebbe continuato l’attività famigliare che gli consentiva, in ogni caso, di vivere con un certo agio. Un paio di volte alla settimana, prima di tornare a casa, aveva preso l’abitudine di fare jogging lungo la sponda del Danubio. Gli piaceva osservare il fiume, sentire l’aria frizzante picchiare sulle gote e partecipare ai cambiamenti che la natura assumeva nelle varie stagioni. Anche quell’anno aveva intenzione di prendere parte alla maratona e così si recava a correre lungo il fiume quando il freddo si faceva più pungente, perché ne sentiva quasi un bisogno fisico. La corsa non era per Mark solo esercizio fisico perché ogni momento della giornata, riconsiderato o analizzato calpestando il terreno durante la corsa, assumeva un aspetto completamente diverso. Il freddo rendeva i suoi pensieri più chiari, gli sembrava di riuscire a osservare e a capire il mondo che lo circondava con maggior lucidità, con il giusto distacco emotivo. Una sera stava correndo lungo la sponda destra del Danubio, quando sotto l’arcata di un ponte scorse una figura goffa, all’apparenza un vecchio ricurvo e vestito in modo sommario. Quando si avvicinò vide invece che si trattava di un uomo abbastanza giovane, che indossava un vecchio impermeabile sdrucito e sporco, a cui sovrapponeva un golf da donna. Calzava vecchie scarpe da ginnastica, alle quali aggiungeva degli involti di giornale ripiegati per contrastare il freddo, e indossava su una massa di capelli stopposi un cappello a
tesa larga, con qualche buco laterale. Non appena si trovarono a pochi metri di distanza il clochard interpellò Mark. – Hai fiammiferi? – No, mi spiace. – Fa molto freddo, non posso nemmeno accendere il fuoco. – Mi spiace, ma non porto fiammiferi con me, di solito. – Dopodiché Mark lo salutò sbrigativamente e riprese a correre. Quella sera era calata una nebbia fittissima che ricopriva ogni cosa. La visibilità era limitata a pochi metri e lo spettacolo era un incanto di forme e di arbusti che apparivano e scomparivano. Altre persone correvano e i loro fiati formavano piccole nuvole di vapore. Il freddo era intenso e, nelle parti del corpo scoperte, punture di ghiaccio infliggevano alla pelle scosse ripetute e incalzanti. Mark pensò a come potessero i clochard sopravvivere in una città gelida come Vienna, con il loro misero repertorio di vestiti e stracci sovrapposti, e con quei fuochi di fortuna accesi qua e là. Poi i suoi pensieri e il suo corpo ripresero la via di casa, sovrapponendo a questi ragionamenti, così lontani dalla sua vita, i pensieri per quello che avrebbe fatto durante la serata o l’indomani. Trascorsi alcuni giorni, Mark tornò nuovamente ad allenarsi. Quella sera era un po’ stanco e distratto. Nel giro di pochi minuti si trovò proprio nel punto in cui aveva incontrato il clochard. Si stava avvicinando a quell’uomo quando lo vide piegato a raccogliere qualcosa da terra e così, intento a osservarlo, non si accorse di aver appoggiato il piede su un grosso sasso. Questa disattenzione gli causò una storta che lo fece cadere per terra emettendo un grido soffocato. Il clochard si avvicinò per aiutarlo e così Mark poté guardarlo con più attenzione. Si trattava di un uomo di circa quarant’anni, con una folta barba e una chioma nera e lunga. Come molti barboni, quell’uomo portava guanti di lana con le punte tagliate, da cui fuoriuscivano i polpastrelli ingialliti. Ma ciò che colpì fortemente Mark fu l’odore che emanava quell’uomo. Era un insieme di effluvi provenienti da varie sostanze: cibo, tabacco, alcool, odori secreti dal terreno. L’uomo si avvicinò e tese la mano a Mark con l’evidente intenzione di aiutarlo. Il ragazzo lo squadrò da terra, non senza manifestare a livello espressivo un certo disagio, poi accettò la mano che, senza farsi notare, dopo poco strofinò contro i suoi calzoni. Dopo averlo aiutato, il clochard si sedette accanto a Mark, e
abbozzò un principio di conversazione. – Sei caduto per guardare cosa stavo facendo? – Prego, scusi? – Sì, sei curioso. Ho visto come mi hai guardato l’altro giorno. Pensi di essere allo zoo. Pensi che io sia una razza a parte, non è così? – Scusi, sicuramente l’altra sera l’ho vista, ma non sono così attento nell’osservare chi incontro. Sono concentrato nella corsa. – Rispondendogli, Mark continuava volutamente a dargli del lei, per mantenere una certa distanza. Nel frattempo prese a massaggiarsi la caviglia dolorante. – Già, nessuno pensa a come noi iamo le giornate… – Senta, non vorrei sembrarle scortese, ma non ho proprio voglia di parlare. La caviglia mi fa molto male! Per questa sera torno a casa e mi cerco una medicina. – Perché non ci beve sopra? – Sta scherzando? – domandò Mark con sguardo sorpreso. – Ho finito lo scotch, perché non me ne porta una bottiglia domani? Non ha voglia di fare una buona azione, che diamine! – Lei pensa che si guarisca tutto con l’alcool? – No. Però non mi è rimasto altro dalla vita. – Mentre pronunciava queste parole, il viso era chinato verso il basso, il timbro della voce sembrava alterato. Mark si era appena alzato quando, mosso da un certo calore verso questo poveretto, gli chiese: – Come si chiama? – Steffan. – Va bene, domani vedrò se riesco a trovarle qualcosa. Non le prometto nulla. – Grazie. Se non trova lo scotch, va bene anche la vodka. Anzi forse scalda di più. – Steffan le pronunciò sommessamente queste ultime parole, quando già Mark si era voltato per tornare a casa.
Mark camminava con una leggera zoppia e decise che sarebbe ato in farmacia per cercare qualcosa per bendarsi la caviglia. Sentiva ancora su di sé un fetore nauseabondo, e non pensava ad altro che a una doccia calda per togliersi di dosso il disagio che quell’uomo gli aveva trasmesso. Perché non era solo un problema di scarsa igiene personale, ma anche un sottile imbarazzo rispetto alla condizione nella quale un uomo precipita, e dalla quale non riesce più ad uscire. Una mancanza totale di amor proprio e uno squallore esistenziale così profondo e radicato da trasmettere a colui che vive nella cosiddetta “civiltà” un senso di rifiuto totale. Forse l’uomo che si considera civilizzato, pensava Mark, si sottrae a qualsiasi confronto per paura di rimanere contaminato. Comunque avrebbe cercato qualcosa per Steffan. In fondo era stato gentile con lui. Tornato a casa, quella sera stessa si ricordò di avere una coperta di lana molto pesante in macchina e così, dal momento che non la utilizzava mai, pensò che il giorno seguente l’avrebbe portata a Steffan. Del resto gli sembrava già troppo alticcio per assecondarlo con una bottiglia d’alcool. Aveva bisogno di cose sane, piuttosto che di compromettersi completamente il fegato e di accorciare ancora di più la sua già difficile esistenza. Pensò, anzi, che gli avrebbe portato del denaro, una piccola somma per ripulirsi un po’, magari per comprarsi un vestito. Il ragazzo avrebbe voluto saperne di più, non foss’altro per capire come una persona potesse sentirsi così completamente alla deriva, e quale meccanismo avesse preso il sopravvento all’interno del suo animo. L’indomani mattina, molto presto, decise che sarebbe andato a correre. D’altronde mancavano solo più tre mesi alla maratona e non si sentiva affatto preparato per affrontare quella corsa. Sulle rive del Danubio una spessa coltre di nebbia ricopriva piante, panchine, e anche i ponti più vicini non si distinguevano. Il fiume color fango procedeva sinuoso e silenzioso. Sembrava che i rumori della città, che si stava svegliando in quelle ore, giungessero attutiti e lontani come echi in una vallata. Mark prese a correre spedito, anche se la caviglia ancora gli faceva male. Quando giunse in corrispondenza del ponte del barbone, si fermò. In un angolo, un giaciglio di fortuna conteneva il corpo di Steffan che stava dormendo sotto una coltre di cartoni. L’impressione immediata che ne ebbe il ragazzo fu come una visione di abbandono e di morte. La desolazione totale e lo smarrimento di un’umanità dimenticata. Mark lo chiamò e Steffan si svegliò all’improvviso, quasi spaventato, e lo apostrofò bruscamente:
– Che c’è? Cosa mi hai portato? – Tieni. Ti servirà molto di più che una bottiglia di scotch. – Grazie. Non pensavo che ti saresti ricordato. Perché non mi hai portato dello scotch? – Basta con tutte queste domande. Vuoi vivere? Questo è quello che ti serve. A Mark doleva ancora la caviglia, perciò proprio non desiderava correre. Si allontanò dal barbone e si sedette sulla panchina appena oltre il ponte. Dopo alcuni minuti, anche Steffan si trascinò con tutto il suo fardello di stracci per sedersi accanto a lui. Iniziò così, nonostante tutto, un brandello di conversazione tra due persone sconosciute, ma le cui due sensibilità, e la situazione contingente, consentivano un minimo dialogo. – Mi chiamo Mark e vivo a Vienna da sempre. – Non ricordo molto del mio ato. Sono a Vienna da qualche anno, – disse Steffan con lo sguardo rivolto verso il fiume. – Cosa ne è stato del vecchio Steffan? – Sono nativo di Graz. Nella mia famiglia erano tutti operai, eravamo poveri ma con dignità. Poi mio padre ha iniziato a bere e sono nati tutti i problemi. Sono andato via di casa, ho fatto i lavori più vari. Un giorno un amico mi ha convinto a investire tutti i miei guadagni in un locale. All’inizio sembrava andasse tutto bene. Poi, alle prime difficoltà, lui è sparito. Il locale è fallito e mi sono ritrovato senza uno scellino, anzi ora si direbbe un euro. Tutti mi hanno voltato le spalle. – La sua famiglia? – chiese Mark voltandosi ad osservarlo. – Della mia famiglia non so più nulla. Cosa vuoi che ti dica? Pensi che io abbia ancora una possibilità di scelta? Sì, certo, posso scegliere se dormire alla stazione di Vienna, se riesco a intrufolarmi, oppure posso stare qua sotto, al freddo, ma più al sicuro. Mark, superato lo sconcerto per la storia appena ascoltata, riuscì a pronunciare poche parole perché non sapeva che dire di fronte a tante difficoltà.
– Se ti venisse offerta una seconda possibilità, avresti il coraggio e la forza di cercare di ricominciare? Capisco che ti possa sembrare strano, ma tu vorresti riprovare a condurre una vita normale? – Ehi amico, sei sicuro di non avere bevuto tu un goccetto stamattina, magari per non sentire il tuo dolore alla caviglia? Tu lo sai che cos’è la nebbia nel cuore? – No. Non ho bevuto, e non so cos’è la nebbia nel cuore. – Vedi, Vienna è una bellissima città. D’inverno, per me che la osservo da questa sponda del fiume, è magica. Quando la nebbia l’avvolge tutta, facendo scomparire i ponti sul Danubio, rendendo invisibili luoghi come l’Hofburg, come la grande ruota del Prater, tutto ciò mi lascia senza fiato. Anche perché poi, improvvisamente, come per uno strano incantesimo, accade che la nebbia si dissolve, e tutta la grandiosità di questa città torna nuovamente sotto gli occhi di tutti i viennesi. Invece c’è una nebbia fitta, perenne, che si è insidiata nei cuori di quelli come me, che vivono ai margini e non vedono più la loro nebbia interiore dissolversi. Il cuore è un muscolo inutilizzato ormai, è un organo che non sente più. È l’unico modo per difendersi dalle crudeltà della vita. Per rispondere alla tua domanda, forse, se ci fosse una minima possibilità, dopo tutti questi anni, magari ritenterei. Certo, non so come uscirne, non ho contatti con il tuo mondo da anni ormai, e sono stanco di questa vita. Ma è un problema che non si pone per me. Le parole di Steffan, così spiazzanti nella loro durezza, provocarono nel ragazzo un senso di smarrimento, un immediato desiderio di allontanarsi da quella realtà così difficile e scomoda. La fuga dal dolore e dal disagio altrui ebbe il sopravvento in quel preciso istante nell’animo di Mark. – Adesso devo andare. Tanto oggi non riesco a correre. Intanto ti lascio questa piccola somma, così ti compri un vestito pulito e ti lavi in un bagno pubblico. Non so quando riuscirò a tornare nei prossimi giorni, ma ripensa a quello che ti ho detto, può darsi che ti faccia una sorpresa. – Così dicendo, Mark riprese la strada di casa. Il freddo era meno intenso e la gente cominciava ad affollare le strade per andare al lavoro. Steffan, ancora seduto sul bordo della panchina, si grattava la testa, perplesso rispetto alla chiacchierata che aveva avuto pochi minuti prima. Non aveva capito cosa quell’uomo avesse voluto dire, ma almeno ci aveva guadagnato una coperta
per scaldarsi, senza doverla rubare da qualche parte, e una piccola somma di denaro. arono alcuni giorni in cui Mark proprio non riuscì ad andare a correre. La caviglia si era gonfiata e il lavoro era molto incalzante. Tuttavia non aveva dimenticato Steffan e quella tremenda storia. Un’idea assai singolare gli era venuta quel giorno al parco, ma in fondo chi, se non un uomo che non aveva più niente dalla vita, avrebbe potuto gioire di un inaspettato regalo? Mark avrebbe dato del danaro a Steffan, solo ed esclusivamente affinché egli tornasse a Graz per ricominciare, anche con una piccola attività, o come cameriere o altro. Aveva un amico là che gli avrebbe dato una camera in affitto. Alcuni giorni dopo, tornando al parco, vide che Steffan era visibilmente ubriaco e quasi non lo riconosceva. Mark si avvicinò a lui e notò che non c’era alcun cambiamento nel suo aspetto, anzi, era in condizioni peggiori dell’ultima volta che si erano incontrati. Mark gli domandò bruscamente: – Steffan, che ti succede? Che ne hai fatto dei soldi che ti ho dato? – Li ho bevuti alla taverna di Rose, alla tua salute amico! Che ti importa? Tu non sai che fartene dei tuoi soldi, non è così? Mark, visibilmente alterato, cominciò a scuotere il braccio di Steffan, che si lasciava toccare senza reagire. Poi, sempre più furioso, lo investì con queste parole: – Ma cosa credi, che nella tua vita, così come sei, tu possa avere qualche possibilità?! Non incontrerai un altro Mark, stupido barbone ignorante! Aprili quegli occhi, dimostrami di avere ancora un pizzico di dignità! – Cosa vuoi da me? Perché vuoi salvarmi? Non so che farmene dei tuoi soldi, non ho nessuno, non potrò mai farcela! – Steffan cadde a terra e cominciò silenziosamente a piangere, ogni tanto con qualche singhiozzo più forte. Mark osservava il movimento lento del fiume e la nebbia che si stava diradando. Poi Steffan parlò, lento e ieratico come se un’altra persona fosse entrata in lui acquisendone forza e solennità. – Perdonami, non riesco più a vedere oltre la vita che sto vivendo. Non riesco a capire che sta succedendo. Sono turbato dalla tua offerta ma ho bisogno di bere per non pensare più. Accetterò il tuo aiuto, scusami, ma quando è così non riesco
a controllarmi e perdo ogni stima di me stesso. Mark di rimando gli fece un debole sorriso. Tuttavia, si rese conto solo in quel momento che non poteva pretendere che un uomo che da anni viveva ai margini della società potesse anche soltanto accettare l’idea di una svolta così imprevista nella sua vita. Steffan aveva compreso il valore dell’offerta del ragazzo ma era sconcertato e spaventato dall’eventuale cambiamento. In quel preciso momento Mark realizzò un analogo senso di smarrimento. La sequenza di incontri ravvicinati con il barbone aveva lasciato in lui un segno tangibile, un desiderio di tamponare quelle sofferenze, anche se il margine di recupero di un’esistenza dignitosa per quell’uomo fosse stato minimo, trascurabile, il ragazzo non poté fare altro che abbozzare mentalmente un piano di salvataggio, un progetto che prese forma e sostanza in quei giorni. Infatti, alcuni giorni dopo, Mark tornò al parco portando con sé il denaro e si diresse verso il solito ponte. Vide Steffan seduto, nello stesso luogo dove si erano lasciati giorni prima, ma sembrava diverso. Era diverso. Si era comprato un paio di pantaloni e una maglia, ed era andato ai bagni pubblici per lavarsi. – Ehi Mark, sei venuto a vedere se sono ancora vivo? Che ti sembra? Stasera cena speciale. Ho trovato in terra cinque euro e quindi nessuno può privarmi di un panino con il prosciutto affumicato e la mostarda. Non avresti mica portato una bottiglia di vino del Reno per caso? Ma mi accontento anche di una birra alsaziana. – No. Ma ti ho portato qualcosa di più interessante. Qui c’è del denaro. C’è anche un biglietto per Graz. Con questi soldi potrai pagarti l’affitto per un mese dal mio amico Joseph Kunz, e nel frattempo ti cercherai un lavoro. Questo è l’indirizzo del mio amico. Da domani non voglio più vederti sotto questo ponte. Siamo intesi? Steffan lo osservava allibito. Rimase per alcuni istanti a fissare gli occhi di Mark. Un ciuffo di capelli raggrumati si era depositato davanti agli occhi. Ciò nonostante Mark si accorse che due lacrime scendevano sul suo viso per depositarsi agli angoli della bocca. I due uomini rimasero in silenzio per alcuni istanti, poi Steffan con la voce rotta e il capo abbassato, quasi vergognandosi di ricevere da quello sconosciuto, disse: – Perché fai questo per me? C’è un motivo?
– Non uno in particolare. Volevo aiutarti, forse perché non ho dimenticato le difficoltà della mia vita, e penso che tu abbia diritto a una possibilità. Io dei miei soldi non so che farmene. A questo punto Mark diede una piccola borsa a Steffan. Prima di salutarsi, il ragazzo pronunciò queste parole: – Domani mattina tornerò a correre e tu sarai partito, sono stato chiaro? Poi tra qualche giorno chiederò al mio amico di Graz tue notizie, vedi di fare il tuo dovere. – Grazie Mark. Non so cosa dire. Non riesco a pronunciare una sola parola perché sono confuso, stordito. Ti conosco appena… Per la prima volta il ragazzo vide il barbone sorridere e distendere il volto in quei giorni sempre contratto. Lo sguardo era diventato luminoso. I due uomini si strinsero la mano, poi Mark si girò per tornare a casa, camminando lentamente lungo il fiume. Dopo un centinaio di metri, si voltò verso il ponte e vide che in lontananza Steffan era ancora fermo, con la borsa in mano, e lo osservava andare via come impietrito. Il tramonto di quella sera invernale, fredda e tersa, disegnava, come su un dipinto ad acquarello, striature rosa e porpora. Quella città poteva essere anche il teatro di storie come quella di Mark e Steffan. L’indomani mattina Mark si recò al parco. Cominciava a nevicare, piccoli fiocchi bianchi si depositavano qua e là, lasciando ancora più ovattato il panorama sul fiume. C’erano pochi corridori. Una volta giunto sotto il ponte di Steffan, notò che i cartoni e qualche coperta erano abbandonati sul posto. Poi si rese conto di un fatto strano. Su un cuscino strappato che Steffan usava per dormire, c’era appoggiato un cappello. Mark non ricordava di averlo visto addosso a Steffan. Rimase qualche istante a osservare quei resti, finché si accorse della presenza di un altro clochard, poco più avanti, e allora pensò di domandare a lui notizie di Steffan. – Scusi, ha notizie di Steffan? – Ehi, cosa vuoi, sei della polizia? – No. Assolutamente no. Conosco Steffan, lo sto cercando. – L’ho visto andare via stamattina all’alba. Però c’è una cosa strana. Il cappello. – Cioè? Che significa?
– Già, lei non è dei nostri. Quando uno di noi cambia vita, quando lascia queste strade, c’è un segnale che avverte gli altri che ha cambiato esistenza. Lascia il cappello sul suo giaciglio, e noi tutti capiamo che non sarà più dei nostri. Non succede quasi mai. Credo sia successo a Steffan, per quanto tutto ciò mi sembra incredibile. – Ah, grazie. – Doveva dirgli qualcosa? – No. Solamente salutarlo. Mark, sorridendo, salutò il clochard e capì che Steffan avrebbe cercato il suo riscatto. Forse ci sarebbe riuscito o forse no. Riprese a correre, come al solito, pestando la neve fresca, bianca e spumosa. Dopo pochi metri, sentì la voce del clochard che gli urlava qualcosa. Si fermò per ascoltare: – Non avresti mica una bottiglia, amico? – No. Mi spiace. Mark sorrise pensando che un altro inverno e un’altra nevicata avrebbero incorniciato Vienna, portando via con sé la nebbia dalla città. E un uomo appena conosciuto, in un’altra città, avrebbe cercato di ricominciare, liberandosi definitivamente della sua nebbia nel cuore.
Una strana scommessa
Al ristorante Tramonto a Marrakesh, un locale etnico del centro storico di Roma, avevano aggiunto da tempo alla cena l’intrattenimento serale, ingaggiando alcune ballerine di danza del ventre. C’era anche un piccolo gruppo di danzatrici italiane. Maria Sole Brigantin era una di quelle. La ragazza di origini venete viveva in una mansarda affacciata su una grande piazza della capitale. Era alta, mora, dalla pelle ambrata, con gambe lunghe e affusolate, il bacino ampio e una risata contagiosa. I suoi punti di forza erano la sensualità nel movimento, la grazia con la quale camminava e nello stesso tempo la pungente ironia che spiazzava qualsiasi interlocutore. La vita di Maria Sole non era stata facile. A due anni era stata adottata perché la madre, in precarie condizioni economiche, l’aveva abbandonata. A diciassette anni, dopo una lezione di prova, aveva improvvisamente scoperto l’incanto e la bellezza della danza orientale, più banalmente conosciuta come danza del ventre. Da quel momento ne aveva fatto la ragione della sua esistenza. Aveva lasciato la famiglia adottiva per trasferirsi a Roma con un’amica, decisa a trasformare quella ione in un lavoro. Una sera al Tramonto a Marrakesh si presentò una comitiva di soli uomini, cosa che peraltro accadeva con una certa frequenza. Festeggiavano un compleanno. Tra gli invitati alla cena, un uomo sembrava trovarsi lì per sbaglio. Era piccolo, stempiato, con un naso affilato e labbra sottili ed esangui. Indossava un vestito grigio a doppiopetto, una camicia con il colletto di una grandezza esagerata e al mignolo sinistro portava un anello con una vistosa pietra. Durante la cena non aveva partecipato alla conversazione con gli amici, se si esclude il parlottare sommesso con il vicino di sedia. L’uomo sembrava non manifestare alcun interesse né per lo spettacolo, né per la cena. Le labbra rimanevano serrate in una smorfia di disgusto e sembrava che fosse capitato lì per caso, come spinto involontariamente da un amico insistente. Ogni tanto lanciava rapidi sguardi verso la pedana dove si esibiva Maria Sole, che sembrava però essere l’unica ad avere catturato in qualche modo la sua attenzione. La settimana successiva, senza alcuna prenotazione, l’uomo con il doppiopetto
grigio si presentò nuovamente chiedendo di poter cenare. Era solo. Quella sera manifestò un interesse più deciso per Maria Sole. Osservava le sue movenze con misurato entusiasmo e, terminato lo spettacolo, prese tutto il coraggio possibile e si avvicinò al tavolo dove la ragazza cenava da sola. – Buonasera signorina. Mi chiamo Gaudenzio Bettini e ho cenato al tavolo 22, quello vicino alla finestra. Insegno religione e sono celibe. Devo confessarle che è la seconda volta che assisto a uno spettacolo di danza del ventre e sono rimasto colpito. – Pronunciò queste parole in maniera precipitosa e con la voce leggermente incrinata. Poi si abbottonò l’ultimo bottone della giacca accarezzandosi la tasca destra e rimase in attesa della risposta della ragazza che non si fece attendere. Maria Sole non l’aveva ancora osservato con attenzione. Le luci del locale erano soffuse perché lo spettacolo era terminato e la ragazza non riusciva a mettere a fuoco con chiarezza la figura dell’uomo. – Buonasera signor Bettini. La ringrazio per i suoi complimenti. – Complimenti? Non mi sono spiegato affatto. – Cosa vuol dire esattamente? – Quando dicevo che sono rimasto colpito mi riferivo al fatto che la settimana scorsa sono stato trascinato dai miei amici e colleghi in questo locale, che peraltro trovo affascinante, ma non avevo mai visto uno spettacolo di danza del ventre. Sono rimasto profondamente turbato. Anzi, dirò di più: sono emotivamente scosso. – Scosso? Mi scusi, ma non riesco a capire. – Ecco, vede, io sono un uomo religioso, pio. Non posso sopportare manifestazioni di sensualità così evidenti. Perciò mi sono detto, confidandomi con un collega, che nel giro di pochi giorni sarei riuscito a convincerla ad abbandonare questo lavoro. Ho fatto una scommessa. – Mi scusi ma il locale tra poco chiude. Non capisco dove vuole arrivare con il suo ragionamento. Abbia pazienza, – disse un po’ seccata Maria Sole. – Guardi, pazienza io ne ho molta. – Detto questo, l’uomo si sedette di fronte
alla ragazza. Nel frattempo i camerieri e il personale del ristorante si guardavano tra di loro scambiandosi sorrisetti complici come a lasciar intendere che sarebbe stata dura per Maria Sole allontanare lo strano personaggio. – Mi perdoni, sono molto timido e riesco a fronteggiare certe situazioni soltanto aggredendo l’interlocutore. Vede, lei è molto bella ma il suo lavoro, se mi permette, non è serio. Non le rende giustizia. – Quindi lei è venuto in mio soccorso. È una specie di salvataggio in extremis? – Ora Maria Sole non riusciva più a trattenere una risata. – Le movenze, gli sguardi lasciano intendere molto più di ciò che appare. Non è decoroso, non è degno della sua bellezza. Intendiamoci questo è un punto nodale, un problema. – Scusi, per me no. Lei non è obbligato a venire in questo locale. – Lo so. Ha ragione. Ma, vede, io mi sono esposto. – Come prego? – Ho fatto una scommessa, come le dicevo prima. Ho scommesso che l’avrei condotta su strade lecite, decorose. Peraltro devo dirle che non è soltanto una questione di lecito o meno ma anche di inadeguatezza, che poi le spiegherò. Nel locale quasi tutto il personale si era allontanato e la ragazza e l’insegnante di religione erano rimasti soli, seduti uno di fronte all’altro. La luce proveniente da un faretto laterale illuminava di sbieco i loro volti, attorno soltanto buio, tavoli sparecchiati, tovaglie sporche e bottiglie vuote. In sottofondo un’orchestrina suonava la canzone di una famosa cantante israeliana. – Senta signor Bettini, da quando ho iniziato questo lavoro non mi era mai capitata una cosa di questo genere. Non vedo il motivo per continuare questa conversazione assurda. – Capisco la sua posizione. Ora la saluto ma le chiedo di concedermi in futuro la possibilità di ascoltarmi. Insegno religione da trent’anni. Il perno della mia esistenza è la visione della donna nella religione. Una donna come lei, che fonda la sua esistenza su questa danza, ha perso le linee guida. Deve essere ricondotta su strade sicure.
Nella mente della ragazza improvvisamente si faceva strada un pensiero. Non sarebbe stato facile allontanare il professore e quindi fece un rapido ragionamento e decise di sfidarlo al contrario, anziché cercare di allontanarlo bruscamente o offenderlo. – Signor Bettini, diciamo che non comprendo la sua scommessa. Ognuno nella vita sceglie un lavoro e non pretende certo di far cambiare idea agli altri. Lei non mi conosce, non sa nulla della mia scelta. Mi piacerebbe sapere con quale argomenti lei vorrebbe farmi cambiare idea. Tutto qui. – Tornerò a trovarla una delle prossime sere. Vediamo se avrò ragione o no. L’assurdo ragionamento dell’insegnante di religione scombussolò per alcuni giorni la mente della ragazza. Non poteva sopportare di essere oggetto di scommesse che potessero mettere in discussione il suo lavoro. Per sua natura Maria Sole non sopportava la minima provocazione, per puntiglio. Ma sapeva che quell’uomo non avrebbe mollato facilmente la presa e avrebbe dovuto contrastarlo senza lasciargli nemmeno uno spiraglio. Gaudenzio Bettini non si fece attendere. Aveva preso sul serio quella strana scommessa. La settimana successiva aspettò Maria Sole fuori dal locale per accompagnarla a casa e continuare con il suo pacato ragionamento, verso un cambio radicale della sua vita. La coppia in sé era abbastanza curiosa. La ragazza alta, mora e dal corpo sinuoso camminava affiancata al piccoletto stempiato e vestito sempre in maniera quasi monacale. – Lei è italiana, le sue radici sono in questa terra, immagino. Nel nostro paese. Cosa trova in questa danza che l’affascina tanto? – Potrei risponderle con una domanda che mi viene spontanea. Cioè: perché lei ne è tanto turbato? Non credo sia una questione religiosa quanto una questione personale, un fastidio che lei avverte a causa di una sensualità troppo esplicita. – La sfera personale, signorina, se permette qui non c’entra. – Mi scusi, non capisco ancora. Io non vengo a proporre i miei spettacoli durante le sue lezioni. Lavoro in un locale e lei viene e paga spontaneamente, mi pare. È una scelta. – Ma lei, signorina, non è di origini arabe o egiziane e non capisco francamente
come possa far sua una danza che non la rappresenta. In questo senso non è autentica! – La danza del ventre, forse non lo sa, ha origine antichissime. È il trionfo della femminilità e della fertilità. Sono una donna e quei riti mi appartengono anche se non provengo da quei paesi. – È un errore. Lei appartiene all’Occidente semmai. Non può vantare origini che non ha. – Occidente e Oriente oramai si toccano, si confondono. Questo forse le dà fastidio. Non sopporta le contaminazioni, le mescolanze. – Vede, se lei pone al centro del suo lavoro una danza che rappresenta popoli lontani, e nello stesso tempo semplifica la sua femminilità al movimento sensuale del suo corpo, nel farlo lei non suggerisce, non evoca nulla e questo mi urta. Lei usa il suo corpo mutuando una gestualità che non è nelle sue radici e in più ne fa una ragione di vita. Totalmente assurdo. – Continuo a non capire. – Lei non vuole capire, perché insegue una moda. E poi non dica che Oriente e Occidente si confondono. Non mischiamo le etnie, non appropriamoci di riti che non ci appartengono e soprattutto non fingiamo di essere quello che non siamo, – sottolineò in tono alterato l’uomo. – Guardi, lei probabilmente mi sopravvaluta. Non ho fatto mai tutti questi ragionamenti. Semplicemente ho scelto questa danza, perché mi piace. Non pensavo che un giorno avrei incontrato un professore così pignolo come lei! – Perdoni la mia cocciutaggine. Ammetto che lei forse è ingenuamente convinta di quello che sta facendo, ma le chiedo di riflettere un po’ di più sul ragionamento che le ho proposto. In prima battuta c’è un problema di autenticità, il suo lavoro è una forzatura; in seconda battuta l’immagine che lei trasmette non è decorosa. Lo dico da uomo religioso e se vuole anche bigotto, ma tanti anni di evoluzione femminile e siamo ancora fermi alle movenze così esplicite! – Su quest’ultimo punto non sono assolutamente d’accordo, – incalzò con voce perentoria Maria Sole. – Parità significa anche libertà di espressione. Anzi, le dirò di più: parità significa soprattutto libertà. Se per me realizzarsi significa
ballare su un cubo o fare la danza del ventre non vedo perché lei veda in questo un lavoro indecoroso, indegno. Si domandi, piuttosto, da dove nasce il suo disprezzo. Posso, in un certo senso, essere d’accordo con lei sulla questione delle radici, ma la sensualità e i riti collegati fanno parte della vita. La femminilità che si esprime attraverso la danza non è qualcosa che non ci appartiene, è universale. Se lei si sente disturbato nella sua integrità allora, le ripeto, non venga più nel mio locale. E poi, mi scusi, adesso vorrei proprio sapere di quale tipo di scommessa si tratta. Non mi sembra che sia solo una questione di mancanza di radici o inadeguatezza. Quest’ultima domanda fermò per alcuni minuti la conversazione. L’uomo e la donna avevano camminato per tutto il tempo affiancati, chiacchierando come se si conoscessero da tanto tempo, fino a raggiungere piazzetta Campo de Fiori dove la ragazza abitava. Gaudenzio non rispondeva alla domanda della ragazza, sembrava non volesse spiegare quale scommessa fosse alla base. Maria Sole nel frattempo osservava quello strano personaggio e pensava che, se il professore non l’avesse sfidata con quel fine ragionamento, lei non sarebbe mai uscita con un uomo di quel genere. Forse non avrebbe neanche posato uno sguardo su quell’individuo, che però ora, in un modo pacato e persuasivo, l’aveva in qualche modo coinvolta. Il silenzio che era seguito alla conversazione incalzante di poco prima, non era altro che un momento per riflettere e nello stesso tempo per considerare il fatto evidente che, pur nella lontananza delle argomentazioni, le distanze apparenti sembravano essersi assottigliate. Si era inserita, come elemento nuovo e curioso, una certa piacevolezza nelle argomentazioni. Una circostanza che all’unisono la ballerina e il professore non poterono non notare. Lei non era più soltanto e solamente una bella ragazza e lui non era solamente un uomo pio e bigotto. Poi il professore prese un po’ di coraggio e decise che era venuto il momento di scoprirsi, anche se tutto ciò avrebbe fatto infuriare la ragazza. – Adesso lei si arrabbierà, ne sono certo, ma dopo averla così duramente attaccata le devo un po’ di sincerità. – Dicendo queste parole l’uomo teneva forzatamente lo sguardo basso. Poi continuò: – La scommessa era la più banale e sciocca possibile. Me ne vergogno. L’altra sera, quando sono venuto in compagnia dei miei amici non ero mai stato in un locale di quel tipo, né avevo mai assistito a uno spettacolo di danza del ventre. Non esco spesso la sera e sono inadeguato alle frequentazioni femminili, non si tratta solamente di goffaggine o di principi religiosi, è molto di più. I miei amici
sanno perfettamente che non sarei stato in grado di uscire con una donna così bella come lei, Maria Sole. Ho scommesso che se fossi riuscito a uscire con lei, anche una sola sera, i miei amici si sarebbero impegnati a offrirmi tutte le prossime cene fino alla fine dell’anno in corso. Lo so, è puerile, ma io ho usato l’unica arma che conosco e che so usare in qualche modo: la mia dialettica. Anche se devo dire che sono convinto rispetto alle argomentazioni che ho usato nei discorsi con lei. Mi perdoni, sono uno sciocco. Mentre Gaudenzio raccontava il fulcro della scommessa, Maria Sole lo osservava e sorrideva. Avrebbe voluto infuriarsi ma in realtà si era molto divertita con Gaudenzio. Un uomo singolare che l’aveva costretta a pensare e a vedere la sua vita da un’angolazione diversa. Lei che aveva fatto della bellezza e dell’esteriorità il suo biglietto da visita, lei che era consapevole che quella danza non era altro che un bisogno di affermarsi nel solo campo nel quale si sentiva padrona: la sua sensualità. – Vede Gaudenzio, i suoi amici l’hanno provocata, sicuri che lei non sarebbe riuscito in quest’obiettivo. In fondo non ha fatto altro che accettare la sfida. Non c’è niente di più imprevedibile di quello che ci appare certo con sicurezza. Lei, con i suoi discorsi puntuali mi ha fatta infuriare, mi ha fatta sentire incoerente. Mi ha costretto a riflettere sul motivo reale che mi ha portato a fare questo lavoro. Non so perché all’inizio non l’ho spinta fuori dal locale. Lei mi incuriosiva e mi sono divertita ad ascoltarla. Torni una delle prossime sere a cena al Tramonto a Marrakesh e ci torni con i suoi amici. Poi, però, lei non mangerà con loro e mi aspetterà, così dopo lo spettacolo ceneremo insieme in un tavolo a parte. Almeno i suoi amici potranno vedere e saranno sicuri di avere perso la scommessa. Adesso era Gaudenzio che sorrideva. Lui, sempre composto, abbottonato e con quel fare goffo e misurato, si sentiva improvvisamente un altro uomo. Poi un pensiero rapido fece oscurare il suo volto. – Ma lei si presta a questo gioco perché le faccio pena? Perché sono stato sincero con lei? – No. Lei è un uomo divertente. Mi piace la sua compagnia. Quella fu per Gaudenzio una vittoria inaspettata. Non sapeva come sarebbe riuscito a continuare a frequentare quella ragazza, anzi non si poneva nemmeno
la domanda successiva. Ma aveva raggiunto un obiettivo superiore a qualsiasi aspettativa. Istintivamente l’uomo le porse la mano tremante e si voltò per tornare a casa. La ragazza aprì il portone di casa continuando a sorridere, poi la sua figura sinuosa venne inghiottita dal buio dell’androne. Gaudenzio riprese la strada di casa camminando più leggero e ogni due i faceva un saltello, pronunciando come una litania propiziatoria: – Tramonto a Marrakesh, tramonto a Marrakesh…
Vite sospese
Era un venerdì pomeriggio di fine estate, pioveva a dirotto. L’autunno incombeva con i suoi primi segni ormai evidenti; non c’era solo la pioggia. Era cambiata l’aria, che soprattutto al mattino si era fatta frizzante. Le prime foglie gialle ricoprivano i prati ancora verdi. La gente correva per tornare a casa in attesa di qualcosa di speciale o forse semplicemente per rilassarsi dopo una settimana di lavoro. Un uomo riparato da un cappello di tessuto impermeabile con una borsa in mano, camminava spedito, e ogni tanto sollevava la testa per controllare cosa fe una giovane ragazza che camminava a una certa distanza da lui. Era piuttosto evidente che la stava seguendo. Poi, poco prima di entrare in uno stabile, la ragazza scivolò a terra e l’uomo si nascose dentro un portone per non essere visto. Alcuni istanti dopo la ragazza varcò la soglia di un edificio piuttosto moderno, un colosso d’acciaio e vetro, sede perlopiù d’uffici. L’uomo la seguì e si avvicinò agli ascensori, scuotendosi con violenza l’acqua di dosso, restando a pochi metri di distanza dalla ragazza. Gli ascensori erano due ampie strutture quadrate di vetro verde scuro. Procedevano paralleli non producendo alcun rumore, con una delicatezza che contrastava con la grandezza e lo spessore della struttura stessa. Sembravano due stanze di vetro sospese, gabbie trasparenti per gli esseri umani che venivano traghettati in verticale. Il vetro che avvolgeva tutta la struttura e le telecamere all’interno, inserite per ragioni di sicurezza, producevano uno strano effetto: chi saliva aveva la concreta e reale sensazione di essere nudo anche se vestito, come se in qualche modo il proprio corpo dietro quel vetro scuro fosse osservato e scandagliato. Un senso di disagio e di imbarazzo tangibile. La conseguenza più evidente era che quasi nessuno nel tragitto parlava, tutti trattenevano il respiro, come se anche il minimo rumore potesse pregiudicare i sofisticati meccanismi della coppia di ascensori. La ragazza, pur avendo raggiunto per prima l’ascensore, indugiò qualche istante. Sembrava spaurita e infreddolita. L’uomo la raggiunse dopo poco e per primo pigiò il pulsante della chiamata. Dopo alcuni istanti si aggiunse ai due un uomo molto alto, con due lenti spesse. L’ascensore
si fermò con un leggero sibilo, quasi impercettibile. Subito dopo le porte di vetro si aprirono e i tre entrarono con o veloce e felpato nella cabina. Trascorsi pochi secondi la stanza di vetro cominciò la sua corsa ma, tra il nono e il decimo piano, si fermò in maniera inavvertibile, con la stessa delicatezza con la quale era salito fino a quel momento. I tre si guardarono per qualche secondo, poi cominciarono a muoversi e a parlare tutti insieme: chi suggeriva di attendere, chi imprecava, chi guardava sconcertato le porte di vetro toccando i pulsanti senza sapere esattamente che cosa fare. L’uomo con la borsa pigiò il bottone dell’allarme e subito si accese una luce supplementare all’interno dell’ascensore. Una voce metallica avvertì i eggeri che si sarebbe presto provveduto a chiamare i soccorsi, e pregava di mantenere la calma. Ritornò il silenzio. Nelle scale non c’era più nessuno, solo quella gabbia di vetro sospesa nel vuoto con i tre sconosciuti prigionieri all’interno. Decisero di aspettare perché non c’era altro da fare. L’uomo con la borsa spezzò il silenzio: – Beh, questi giganti di vetro e acciaio sono meccanismi delicatissimi, strutture perfette con all’interno un’anima di cristallo. Speriamo di non dover aspettare troppo. – Aspetteremo quel che è necessario, – aggiunse secco l’uomo con le lenti spesse. La ragazza non fece alcun commento e si limitò a sbuffare con impazienza. Non cercava lo sguardo di nessuno dei due, sembrava non li considerasse affatto. Dopo alcuni istanti l’uomo con la borsa cominciò ad allentarsi la cravatta, poi si tolse il soprabito aggiungendo: – Non trovate che qui dentro ci sia un caldo eccessivo? – No. Io ho i brividi, – disse la ragazza, questa volta fissando l’uomo con insistenza. – Vuole la mia giacca? – aggiunse l’uomo con le lenti spesse rivolgendosi sorridente alla ragazza. – No, grazie. I pochi minuti trascorsi nella stanza di vetro avevano amplificato il disagio e la
distanza tra i tre eggeri. L’uomo con la borsa stava lentamente perdendo il controllo e decise di iniziare una conversazione. – Dimenticavo di presentarmi. Mi chiamo Mark Kluger e dovevo andare al dodicesimo piano presso una società di produzione cinematografica, avevo infatti un appuntamento di lavoro importante. Prese la parola l’uomo con le lenti spesse: – Sono Gustavo Zanetti ed ero qui perché ho rintracciato un vecchio compagno di scuola che ha un ufficio in questo stabile, e volevo fargli una sorpresa. – Era vestito con un curioso completo a quadri e portava un papillon. Aveva un fisico tarchiato, occhi cisposi e pochi capelli di colore rosso. – Tutti i meccanismi sofisticati sono necessariamente delicati, – aggiunse dopo poco, – anche l’uomo lo è. A questo punto prese la parola la ragazza. Sebbene fosse alta, la sua struttura aveva un che di fragile e di nevrotico. Era castana con i capelli corti, le mani affusolate e piene di graffi. Portava un crocifisso di legno al collo ed era molto nervosa. – Mi chiamo Sofia Ricci. Ho perso il treno, sono scivolata proprio davanti a questo palazzo e ora si blocca anche l’ascensore! – Un po’ distratta? – aggiunse con tono provocatorio il tedesco. – Non sono distratta. La sua mi sembra un’osservazione inutile, – rispose stizzita. – Vede signorina, lei non deve pensare che oggi sia una giornata negativa, semplicemente non è una giornata uguale a tante altre, ma questo è il sale della vita. Alcune giornate imprevedibili sovvertono una vita già tracciata. Non è d’accordo? – riprese la parola l’uomo con i capelli rossi. – Scusi ma qual è la sua professione? – chiese la ragazza. Nel rivolgere lo sguardo verso l’uomo Sofia mostrava tutta la sua considerazione. – Insegno filosofia in un liceo, perché? – Ora capisco…
– Cosa vuole dire esattamente? – Immagino che la consuetudine nel rispondere a domande universali, tipica della sua professione, la porterà sicuramente ad analizzare le varie situazioni della vita da angolazioni differenti. – Giusta considerazione. – Le sue osservazioni in questi pochi secondi sono talmente evidenti. Lei è trasparente come il vetro di questo ascensore. – Scusi ma lei, che è così intuitiva, studia psicologia? Perdoni l’impertinenza ma a questo punto sono curioso. – Studio medicina, sono al terzo anno. La ragazza, con le sue osservazioni e la delicata polemica con il professore, aveva sciolto l’atmosfera nella stanza di vetro, e anche l’altro uomo cominciò lentamente a partecipare alla conversazione. Il tedesco, a differenza del professore, era un uomo dai lineamenti delicati, dall’apparente età di circa quarant’anni, alto e magro. Vestiva sportivo e aveva un sorriso accattivante. Parlava l’italiano molto bene e aveva un tratto elegante. – Scusate se mi intrometto, ma è molto curiosa questa situazione. Potrebbe essere uno spunto per il mio lavoro. – E lei che lavoro fa? – lo interruppero all’unisono la ragazza e il professore. – Scrivo sceneggiature per film di produzione indipendente. Cioè, si tratta di film a basso costo, non ci sono grandi investitori alle spalle, contano le idee più che i mezzi. Insomma non si tratta certo di sceneggiature hollywoodiane, ma di cinema di contenuto, più che di effetti speciali. – Bello! – rispose entusiasta il professore. La ragazza invece commentò improvvisamente acida: – Questo significa che lei può trarre spunto anche da una situazione assurda come questa? Non me ne frega niente, io voglio soltanto uscire da qui. Il più presto possibile, – puntualizzò in tono insolente. – Da questo ne deduco che lei è impaziente d’uscire. Non mi dica che soffre di claustrofobia? – aggiunse il tedesco.
– Non soffro di claustrofobia, ma non ho molta voglia di fare conversazione. Tutto qui. – Lei è molto giovane signorina e alla sua età si crede di avere il mondo fra le mani, non si ha voglia di ascoltare, si è chiusi nelle proprie convinzioni – si inserì il professore. – Senta, non vorrei sembrarle scortese, ma il fatto che ci si trovi chiusi o costretti per qualche minuto, o qualche ora, in questo assurdo ascensore non mi costringe a farle confidenze, a esprimere opinioni personali o altro. Sono libera di esimermi, non è così? – Liberissima! – rispose il professore. Per alcuni minuti, a causa della tensione che si era creata tra il professore e la studentessa, nessuno fiatò. Il tedesco si sedette sul pavimento vicino alla porta dell’ascensore, il professore fece una breve telefonata e la ragazza scrisse qualcosa su un’agenda. Ad un certo punto una voce proveniente dal piccolo altoparlante dell’ascensore li avvertì che si stava procedendo a riparare il guasto, ma che ci sarebbe voluto ancora del tempo. I tre si guardarono in silenzio. Poi, dopo alcuni secondi, lo sceneggiatore tedesco prese la parola. – La situazione è imbarazzante, ma per me parlare è l’unico modo per far are il tempo e non sentire troppo la tensione. Non ho intenzione di costringervi a confidenze o altro del genere, ma semplicemente mi occorre parlare per non pensare, se potessi dormire lo farei. – Sono assolutamente d’accordo con lei, Kluger, anch’io non vedo altro modo per ingannare il tempo, – disse il professore lanciando un fulmineo sguardo alla ragazza. La ragazza non disse nulla, poi sollevò lo sguardo e fece un timido sorriso. Subito dopo, seguita dal professore, si sedette sul pavimento dell’ascensore. Il tedesco domandò allora al professore: – Non le è mai capitato di riflettere sul fatto che situazioni come questa che stiamo vivendo, sovvertono non solo l’ordine mentale di un’intera giornata, ma possono incidere anche nelle nostre vite? – Può essere più preciso?
– All’apparenza si tratta di una banale interruzione, come di una parentesi, un black-out. In realtà le conseguenze di quest’incontro possono andare oltre un appuntamento di lavoro saltato o un incontro rimandato. Si possono aprire scenari inconsueti, non so… per esempio lei potrebbe invitarmi a una conferenza sulla filosofia del terzo millennio e portarmi a conoscere un mondo nuovo. – È possibile. Non lo escludo. Lei si sta rivolgendo alla persona giusta. Il problema del permanere e del mutare è uno dei primi problemi del pensiero filosofico. A questo punto la ragazza li interruppe con una sonora risata: – Per favore, con questo vorreste dirmi che io potrei abbracciare un’altra religione domani mattina solo perché ho incontrato in ascensore il signor Kluger, con tutto il rispetto, e diventare, che so, mormone o evangelica? – Credo che lei signorina, finga di non capire, – rispose il filosofo. – La questione non è così semplice o sbrigativa come lei la descrive. – Ah no? Mi spieghi lei allora. – Il signor Kluger voleva semplicemente dire che è necessario accettare il cambiamento anche qualora provenga da situazioni inconsuete, apparentemente quasi insignificanti, come quella che stiamo vivendo ora, e non escludere a priori conseguenze e strascichi che possono anche non essere minimi ma incidere più pesantemente. – Credo di avere capito. Ma penso dipenda dal mio carattere, non amo gli imprevisti, e non mi fido delle situazioni improvvise, – aggiunse la ragazza. – Ma ammette che qualcosa possa cambiare? – domandò il tedesco. – Credo di sì. A questo punto calò il silenzio tra i tre prigionieri nella stanza di vetro sospesa. Ogni tanto, attraverso l’altoparlante, i tecnici dell’ascensore rassicuravano i tre che si stava procedendo, e di mantenere la calma. La ragazza, dopo la conversazione di poco prima, sembrava essersi un po’ tranquillizzata, anche se continuava a osservare il tedesco con fastidio. All’improvviso prese con affanno a cercare qualcosa nella sua borsa, dopo poco
ne estrasse alcuni oggetti e un fazzoletto appallottolato cadde a terra. I due uomini non poterono fare altro che osservare, dal momento che lo spazio era ridotto, che il fazzoletto era intriso di macchie di sangue. Il professore prontamente lo raccolse e poi chiese: – Non si è sentita bene? – No, sono caduta, come dicevo prima, proprio qui davanti e mi sono sbucciata le ginocchia. Non è niente. Lo sceneggiatore osservò la scena e non ritenne necessario aggiungere nulla, tuttavia aveva osservato lungamente la ragazza. Quel suo fare così scontroso, inoltre le sue mani erano piene di graffi e aveva due lividi violacei all’altezza dei polsi. Si era creata già troppa tensione, così cercò di portare la conversazione verso territori più leggeri. – Allora, signorina, dove è stata per le vacanze quest’estate? – Non ho fatto vacanze. Dovevo preparare un esame, – rispose laconica e quasi seccata. – Certo che è proprio difficile imbastire una conversazione con lei! Kluger si era rassegnato a evitare di fare qualsiasi domanda alla ragazza, quando l’ascensore fece un sussulto seguito da uno scossone più forte, ma la porta ancora non si aprì. Lo scossone però fece cadere a terra la borsa della ragazza. Ne uscirono alcuni oggetti, tra i quali un piccolo coltello a serramanico ancora aperto. I due uomini si guardarono immediatamente. La ragazza si chinò come una furia, raccolse tutto e lo infilò velocemente dentro la borsa. Un gelo improvviso calò tra i tre e per alcuni minuti nessuno pronunciò parola. Solo ogni tanto Kluger e il professore incrociavano i loro sguardi, quasi per condividere un misto di curiosità e inquietudine che quella giovane donna aveva loro trasmesso. Dall’altoparlante si sentì una voce: era il responsabile della sicurezza che li rassicurava che nel giro di pochi minuti sarebbero stati liberati. – Che ore sono? – chiese insistentemente la ragazza rivolgendosi al professore.
– Sono quasi le diciotto, – rispose il professore. Tirarono tutti un sospiro di sollievo. Il responsabile aggiunse le sue scuse per l’increscioso incidente e disse che per sollevare gli animi e distrarli avrebbe collegato la radio alla cabina dell’ascensore, così almeno il tempo sarebbe ato più velocemente. Poi una musica in sottofondo, un notturno di Chopin, invase la stanza di vetro. I tre rimasero in silenzio ad ascoltare i virtuosismi del pianista e la dolcezza delle note si impose su qualsiasi commento. Dopo poco, un notiziario flash interruppe il programma musicale. Lo speaker, dopo le prime notizie economiche e politiche, ò alla cronaca nera. Avvertì i radioascoltatori che un delitto era stato commesso nei confronti di una giovane studentessa proprio nel primo pomeriggio, e in una via parallela allo stabile dove i tre si trovavano prigionieri in quel momento. L’assassino era fuggito, anche se la polizia era sulle sue tracce da tempo, in quanto poteva trattarsi di un omicida seriale. Già un’altra ragazza era stata uccisa un mese prima, e le due giovani vittime si conoscevano. Poi riprese il programma musicale. – Certo che… è molto strano, – disse Kluger fissando Sofia Ricci. – Cosa è strano? – Beh, il suo comportamento, per esempio. Lei è sfuggente, irritante, e poi porta sempre con sé un coltello? – Penso che questo non la riguardi. – Credo invece che ci riguardi, – ribadì il professore. – Siamo chiusi insieme in questo ascensore, lei ha un coltello insanguinato nella borsa… Non pensa che dovrebbe darci qualche spiegazione? A questo punto il tedesco osservò incuriosito entrambi. Il professore aveva cambiato completamente il tono della voce, lo sguardo era fisso e torvo. – Vede signorina, – proseguì il professore, – lei è giustamente diffidente, nervosa, lo sarei anch’io nella sua situazione. Perché sono giorni che la seguo, lei è imprevedibile, ma negli ultimi giorni si comporta come un animale braccato, l’ansia la sta uccidendo. Non è più lucida. Questo giorno può cambiare la sua vita, come le dicevo prima. Non voleva ascoltarmi. Poi, il professore estrasse dalla tasca della giacca un distintivo, lo mostrò alla
ragazza e aggiunse: – Non faccia resistenza, e non pensi di tirar fuori quel coltello. Sono un agente del commissariato San Paolo, non un professore di filosofia. Non appena saremo liberi, e sarà questione di poco, scenderà nell’atrio con me senza cercare di scappare. Sotto c’è una macchina con degli agenti che ci sta aspettando. La ragazza tremava, lanciò con rabbia la sua borsa contro la porta, poi cadde per terra e cominciò a singhiozzare. Il tedesco nel frattempo continuava a deglutire a bocca semiaperta, come chi non finisce di stupirsi di tutto quel trambusto. Poi si rivolse all’agente: – Scusi, mi tolga una curiosità. – Prego, dica. – Mi dica almeno che ha una ione per la filosofia, lei è assolutamente credibile nelle vesti di un professore. – Beh, sì ho un certo interesse per la filosofia, qualcosa di vero c’è. I tre furono interrotti dalla voce proveniente dall’altoparlante che annunciava che il guasto era stato riparato. Dopo pochi istanti la cabina, con la stessa dolcezza con la quale si era fermata, riprese a muoversi e giunse al piano terra. I tre uscirono dalla stanza di cristallo un po’ provati sia dalla chiusura forzata, sia dagli ultimi sviluppi. Davanti all’entrata del palazzo, una volante attendeva con una portiera aperta. Due agenti si avvicinarono al gruppetto appena uscito dall’ascensore, uno dei due aveva le manette ben visibili. Poi improvvisamente i due agenti giunti davanti all’ascensore bloccarono Mark Kluger, il quale li apostrofò con una sonora risata. – C’è un grosso equivoco, ragazzi. Non sono io che dovete arrestare ma la signorina Ricci. Non è così, “professore”? – No, non c’è nessun errore, – intervenne l’agente Zanetti: – Vede, la signorina Ricci non è una studentessa ma una nostra agente. Sono giorni che la pediniamo, Kluger, e Sofia oggi faceva da esca. Infatti lei è entrato in questo stabile per seguirla e proseguire nella sua scia ininterrotta di delitti, ma quel finto guasto in ascensore ci ha consentito di rassicurarla con un’abile messa in scena riguardo alla nostra identità. In fondo non aveva torto, prima quando diceva che anche
queste improvvise situazioni apparentemente banali possono cambiare il corso di una vita. Il volto di Mark Kluger si era trasformato in una smorfia sarcastica. All’uomo vennero strette le manette e l’ultima battuta prima di salire nell’auto della polizia venne spontanea alla ragazza, l’agente Sofia Ricci. – Effettivamente devo riconoscere che nel tempo libero che le resterà in carcere potrà sempre scrivere una sceneggiatura, mi sembra che l’intreccio sia davvero sorprendente. La macchina ripartì con uno stridio di gomme verso la centrale, mentre le prime luci della sera inondavano i viali. Aveva smesso di piovere e in lontananza un piccolo arcobaleno colorava il cielo autunnale.
La chitarra di Ramón
La casa di Ramón Gutierrez, bianca e luminosa, si affaccia all’angolo della Puerta de Almodóvar, nel cuore del centro storico di Cordoba, a pochi i dalla Mezquita Catedral. La famiglia di Ramón, prima della guerra di Spagna, aveva comprato quella casa in cui un famoso poeta andaluso aveva abitato per tanti anni, e ora valeva sicuramente una grossa somma. L’immagine più conosciuta di Ramón è quella che lo vede seduto sul bordo di una sedia di paglia, in casa di amici o, più spesso, in un locale fumoso di qualche città spagnola. Il volto quasi appoggiato sulla sua chitarra per cercare nuovi accordi e catturare l’anima di quelle note, l’anima nascosta del suo paese. Ramón era alto, portava capelli lunghi raccolti in una coda improvvisata, gli occhi color nocciola e uno sguardo ironico, perché osservava con distacco e con superiorità ogni cosa. Indossava camicie colorate chiuse sul petto dal terzo bottone in giù, pantaloni scuri a zampa d’elefante e scarpe da ginnastica. I suoi amici lo chiamavano “Todo oidos”, tutto orecchi. Un orecchio straordinario per gli accordi musicali, ma soprattutto un eccezionale interprete della malinconia profonda e della gioia di vivere del suo paese. Un paese in grande trasformazione, pieno di contraddizioni e di spinte radicali allo stesso tempo. Profondamente religioso e legato alle tradizioni, ma anche teatro di cambiamenti nel costume e nella società. Un paese in cui, nonostante queste spinte verso il futuro, si continuava a osannare la lotta tra un uomo e un animale. Nella famiglia del chitarrista non si seguivano le esibizioni dei vari toreri, ma si conosceva quale forma di rispetto e considerazione nutriva parte della popolazione verso quell’ambiente. Sarebbe stato peraltro difficile, vivendo in città dove periodicamente si organizzavano le corride, non venirne in qualche modo toccati. La sua indifferenza nasceva da un’incomprensione della ione che spingeva un uomo a iniziare una carriera di quel genere. A rischiare la vita in quell’assurda lotta. Tuttavia una forma di curiosità e poi ammirazione era nata in lui, nel momento in cui aveva deciso di avvicinarsi a quel mondo con lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti di qualcosa che si teme o che non si capisce.
Ramón tra le dita possedeva una chiave. Una chiave universale che gli consentiva di tradurre in musica tutti gli incontri della sua vita. Ma non solo, anche l’anima nascosta della sua Spagna, l’anima collettiva. Non parlava molto, le sue parole erano le note musicali. Guardava l’interlocutore, lo ascoltava, e dopo poco tempo aveva capito tutto. Le radici profonde, le paure nascoste. Non era mai solo. La sua casa era visitata da tutta la famiglia, dai nonni che gli portavano ogni tanto da mangiare, dalle sorelle e dalle loro amiche, scalmanate quanto basta. Un’umanità rumorosa che ogni giorno, senza alcun preavviso, si presentava con qualsiasi scusa nella casa bianca vicino alla Puerta de Almodóvar. Ramón in silenzio li faceva entrare, e poi sorridendo riprendeva i suoi accordi, senza curarsi troppo delle persone che giravano per casa. Tutti erano molto premurosi da quando era diventato famoso. Era già stato sposato due volte: due donne l’avevano accompagnato per un certo periodo della vita, poi, non riuscendo a sopportare il rapporto maniacale che Ramón aveva instaurato con la sua chitarra, entrambe l’avevano lasciato. Si erano sentite tradite. Lui aveva reagito, come al solito, con un sorriso ironico e un’alzata di spalle. Non era cinico e freddo, anzi era un ionale, ma il suo apparente distacco era fondamentale in quanto niente e nessuno poteva intromettersi nel suo rapporto speciale con la musica e soprattutto con la sua chitarra. La musica era la sua vita. Anche le donne avrebbero dovuto capirlo, senza pretendere. Lui era fatto così. Per i suoi concerti non aveva bisogno di i tecnologici raffinati, di strumentazioni elettroniche. Una sedia in penombra, la chitarra, e un bicchiere di vino appoggiato su un tavolo a fianco. La casa bianca non era visitata solamente dai numerosi familiari, ma anche da amici e da persone importanti che lo invitavano a serate speciali, a programmi radiofonici o televisivi. Il suo carattere schivo però gli faceva preferire di gran lunga i concerti in qualche cantina alle luci abbaglianti della ribalta televisiva. Tutti gli anni ai primi di luglio, nella suggestiva cornice dell’Alcázar de los Reyes Cristianos, si svolge il Festival della chitarra. In questa importante manifestazione tutti i maggiori artisti delle sei corde convergono a Cordoba, tra i tanti George Benson, Gerardo Núñez, Toquinho e naturalmente Ramón Gutiérrez. Ramón stava preparando per questa importante vetrina internazionale il suo concerto di chitarra flamenca. L’agente di Ramón, Pedro Olivares, conosceva
molto bene la diffidenza del suo artista nei confronti dei toreri. Tuttavia riteneva che il concerto di Cordoba avrebbe potuto lanciare il fenomeno Gutiérrez su tutto il territorio nazionale e non più soltanto nelle cantine o nei piccoli teatri di Siviglia. Con una politica di sottile e persistente convincimento Olivares piegò le resistenze del chitarrista, convincendolo alla preparazione di un concerto ai giardini dell’Alcázar al quale avrebbe partecipato anche Paco de Lucía Arenal, l’ultimo erede della famiglia Arenal. Una sera, circa qualche mese prima di questo evento, Ramón ricevette una telefonata molto singolare. – Parlo con Ramón Gutierrez? – Sì, chi parla? – Ciao Ramón. Non ci conosciamo di persona ma io ho tutti i tuoi dischi e ti seguo da anni. Sono Paco de Lucía Arenal, il torero. – Non ci credo. Davvero sei Paco, quel Paco? – Certo. – Che posso fare per te? Ti seguo anch’io anche se non vado mai alle corride, ma sono un lettore di Toros e so esattamente cosa ti capita a ogni corrida. – Grazie. Il tuo agente mi ha detto che potremmo organizzare un concerto insieme, prima della mia corrida di Siviglia. Ho in mente una canzone che vorrei scrivere insieme a te. Che ne dici? – Dico che potremmo incontrarci tra qualche giorno. Lucido la chitarra e riempio il frigo di birra! – Va bene. Anzi no, io bevo solo tè. – Non siamo in territorio neutrale. Qui decido io. A presto. Dopo questa telefonata, il silenzioso e schivo Ramón andò a confidarsi con la sua vecchia tata, che era totalmente all’oscuro dei preparativi di questo concerto. La tata, che appariva a occhi sconosciuti unicamente come una domestica e segretaria, era in realtà per Ramón molto di più. Se di primo acchito sembrava,
senza ombra di dubbio, ricoprire l’archetipo della donna spagnola di una certa età, quasi una caricatura, una figura del ato, in realtà la sua forza era la capacità di sintetizzare con estrema precisione il successo o l’insuccesso di una serata. I suoi consigli o le sue battute, prima e dopo un concerto, erano sentenze inappellabili come i suoi giudizi sulle persone e sulle situazioni, che difficilmente venivano smentiti dalla realtà. Per Ramón, Carmen era l’unica persona che, con parole lucide, dure e univoche, definiva e coglieva ogni aspetto. Insomma, la sua confidente. Poteva sembrare paradossale che un artista si fidasse più della sua tata che del suo agente, ma nel caso di Ramón fu sempre così. Paco de Lucía Arenal era l’ultimo grande torero. Era l’erede giovanissimo di una famiglia di toreri madrileni di lunga tradizione. Aveva solo 23 anni ma il suo talento attraversava l’oceano e arrivava sino al Sudamerica. Ramón non credeva che un artista così popolare avrebbe potuto desiderare di comporre una canzone insieme a lui, ma ne era lusingato che commentò questa notizia con Carmen, lui che di solito parlava pochissimo, e mai in casa, dei suoi progetti di lavoro. Carmen stava riassettando la cucina e cercava una ricetta del gazpacho che la madre di Ramón aveva conservato gelosamente, perché voleva prepararla per la domenica successiva, quando Ramón entrò trafelato per condividere quella notizia con l’anziana tata. – Carmen, hai inteso chi viene qui tra pochi giorni? – Dovresti saperlo che io non ascolto mai, e dico mai, le tue telefonate, non è forse così!? – Hai sentito parlare di Paco de Lucía Arenal? – Oh, santo Iddio! Non vorrai dirmi che Paco il torero ti vuole conoscere? – e mentre pronunciava queste parole Carmen, che stava in piedi su una piccola scala con il busto interamente proteso all’interno di un ripostiglio, per l’emozione fece cadere un’intera pila di pentole dalle mensole. Per Carmen l’arrivo di un torero, e di quel torero specialmente, era una vera emozione. La donna cominciò ad agitarsi e a correre da un angolo all’altro della casa, pensando ad alta voce a tutto quello che avrebbe detto alla sua famiglia, e a come accogliere quel personaggio in modo straordinario. Nel frattempo Ramón la osservava divertito vedendola così confusa e agitata. Poi si fermò di colpo e
domandò a Ramón: – Che cosa vuole da te? – Preparare insieme il concerto che si terrà prima della corrida di Siviglia. Carmen stava quasi svenendo per il forte calore e per l’emozione che a malapena Ramón, dato il peso notevole della donna, riuscì a trattenerla prima di essere anch’egli trascinato a terra. Poi, ripresasi dallo shock, uscì a far spese. E raccontò a tutto il vicinato quello che sarebbe successo nei giorni successivi. Si comprò anche un vestito per l’occasione, un assurdo abito fasciante di seta rossa con una rosa di tessuto nera appuntata sul petto. Certo il buon gusto non le apparteneva, tuttavia ella si riteneva assai elegante, e non poteva non esserlo il giorno in cui un torero della famiglia Arenal entrava nella casa che lei considerava la sua casa, da sempre. Ovviamente nel giro di poche ore tutto il vicinato era a conoscenza dell’evento che di lì a poco avrebbe segnato, nel cuore e nella mente, tutti gli abitanti di Cordoba. Il ricordo di quei giorni rimase forte, nitido, come il sole accecante che non dava tregua alle bianche case di quella città. Il giorno dell’incontro tra i due artisti vide un andirivieni febbrile e continuo attorno alla casa del chitarrista, e anche all’interno regnava un’agitazione incredibile. I nonni, le sorelle di Ramón, addirittura la sua prima moglie, che per l’occasione aveva cucinato un piatto di pesce e si era precipitata al mattino presto per non perdersi l’arrivo del grande torero. Ramón, di solito imperturbabile, quella mattina sbottò: – Dobbiamo lavorare, non è una festa di famiglia! Non ho bisogno di nessuno e non voglio infastidirlo, sono stato chiaro?! – e poi ancora: – Al concerto potrete avvicinarvi, adesso basta così. Pronunciò le ultime parole con il tono della voce volutamente alterato. Tutti i parenti delusi si avviarono verso la porta incrociando per qualche istante lo sguardo ironico e beffardo della tata, che tronfia e gongolante li accompagnava oltre la soglia. Lei, unica testimone dell’evento e depositaria di tutti gli sviluppi che di lì a poco si sarebbero svelati. Quando Carmen richiuse la porta, Ramón si rese conto di non averla ancora osservata con attenzione. La donna aveva indossato per l’occasione l’abito di
seta rossa che la stringeva in maniera inverosimile. Lo stile era un po’ datato ma era evidente il significato che per quella donna poteva avere conoscere un personaggio così popolare e nello stesso tempo così difficile da avvicinare se non si faceva parte del suo stesso ambiente. Inoltre, calzava scarpe nere col tacco, e due pettini di madreperla incorniciavano la sua capigliatura corvina fresca di tintura. Ramón non l’aveva mai vista così elegante e spontaneamente si rivolse alla donna sorridendo con queste parole: – Non sapevo che ti stessi preparando per lo spettacolo di questa sera al Tablao Flamenco Cardenal. Non pensi di avere esagerato un po’? – Ramón, non ti permettere di parlarmi così. Ti ho cresciuto io, diamine, e mi devi un po’ di rispetto. – Non ti ho mai mancato di rispetto, la tua parola e i tuoi giudizi sono un punto di riferimento per me. Lo sai! – E allora non dimenticarti che sono nata in un piccolo villaggio dell’Andalusia ma conosco il significato della parola rispetto. Non ho mai incontrato un torero e non mi vestirò certamente con un grembiule da cameriera solo perché ti vergogni di dire che sono la tua segretaria! – Ma, Carmen, non è così! Mi sembri un po’ esagerata, sopra le righe. Tutto qui. Non mi vergogno certo di te! – Insomma io sono così. Il discorso è chiuso. Detto questo, si ritirò in cucina, visibilmente offesa. La porta rimase socchiusa, e Ramón non poté fare a meno di vedere che, non appena l’anziana donna si sedette, lanciò le sue scarpe lontano per poi massaggiarsi i piedi sofferenti. Il chitarrista prese i suoi spartiti e cominciò a suonare. Poi preparò la stanza dove di lì a poco i due uomini si sarebbero incontrati. Era nervoso ed eccitato per l’evento. Quella era certamente una bella occasione per confrontarsi, forse per avvicinarsi a un mondo sconosciuto e che egli temeva. Mentre stava pensando a quali brani proporre al concerto con Paco, venne distratto dal suono del camlo e si avviò spedito verso l’entrata per incontrare il torero.
Carmen aveva appena aperto l’uscio quando una figura magra, alta e sorridente varcò la soglia di casa, investita dall’entusiasmo invadente della tata che non smetteva più di complimentarsi con il giovane torero. Poi si avvicinò Ramón che strinse la mano a Paco. Un sorriso dolce e scanzonato mascherava la forza e il controllo che quell’uomo esercitava su se stesso quando la situazione lo richiedeva. I due uomini si ritirarono per parlare e programmare il concerto. Non si erano mai incontrati prima di quel giorno, ed entrambi conoscevano solamente alcuni dettagli delle rispettive carriere. Quello fu un incontro speciale, che avrebbe segnato profondamente Ramón. Egli non avrebbe mai più dimenticato quel giorno e i giorni che seguirono. – Allora, Paco, hai avuto difficoltà a trovare la mia casa? – Beh, a dire il vero, già duecento metri prima c’era una folla vociante che mi aspettava. Non sapevo che avevi inviato dei comunicati stampa avvertendo del mio arrivo! – Ma non sono stato io! Sarà stata Carmen, la mia segretaria, che non riesce a tenersi nulla e avrà avvertito tutto il vicinato! I due uomini risero divertiti per alcuni istanti, poi cominciarono a conversare e a conoscersi un po’ di più. – Sai, Paco, se devo preparare un concerto vorrei sapere qualcosa di più su di te. Non solo sui brani che preferisci, ma anche su come sei tu, sulla tua storia. Devo confessarti che non conosco il mondo delle corride e ne sono sempre stato lontano perché non lo capisco e mi fa paura. – Immagino tu sappia già qualcosa sulla mia famiglia, – iniziò a parlare il torero. – La mia è una famiglia di toreri da almeno due generazioni. Sono nato a Madrid e già a tre anni spiavo mio padre mentre si preparava i giorni precedenti alle corride. Ricordo la casa sempre piena di gente, mio padre si ritirava due giorni prima in una stanza, nella penombra, in un silenzio assoluto. Non voleva vedere nessuno, neanche me. Mi sembrava che fe qualcosa di straordinario, di immensamente importante. Riviste patinate di allora parlavano di lui e dei suoi successi, ma io che l’avevo a fianco non riuscivo a parlargli. – Dopo una breve pausa riprese: – La prima corrida la vidi a 7 anni. Volevo fuggire, quella arena mi sembrava un posto assurdo, una lotta senza vincitori e vinti, un inutile
massacro. Ricordo che quel giorno rimasi quasi stordito dal giallo intenso dell’arena, dalle urla della gente sugli spalti, dal sangue sulle banderillas che trafiggevano i tori. Mi sentii svenire. Quando nasci e cresci in un certo ambiente le scelte che fai sono guidate dall’ambiente che frequenti, dalla tua stessa famiglia. Mio padre mi disse che una forza sconosciuta e un dominio prendono il sopravvento, e che se avessi preso la sua strada sarei giunto da solo a decidere di continuare nella tradizione. Da quel giorno non ne parlammo più, ma l’anno dopo, in primavera, senza dire nulla in casa, mi sono iscritto alla Scuola taurina di Malaga. Paco raccontò in modo febbrile i suoi inizi e Ramón rimase quieto e attento ad ascoltarlo. Poi ruppe il proprio silenzio: – Da due anni ormai sei l’erede di Juan de Lucía Arenal. Senza alcun dubbio. Quando il mio agente mi ha suggerito di incontrarci per preparare questo concerto mi sono domandato se fosse la scelta giusta, se i nostri mondi potessero comunicare. – Seguo la musica, e non solo quella del mio paese, tu sei un grande chitarrista e la tua musica mi piace molto perché in qualche modo mi rassomiglia. – Mi spieghi meglio? – Mi sembra che dalla ione che tu metti nei concerti, dalla ricerca e fusione tra jazz e flamenco all’apparenza inconciliabile, tu cerchi un linguaggio nuovo che non dimentica le tue radici, ma le esalta. Anch’io ho continuato nel solco della tradizione, che al di fuori del mio paese è poco apprezzata, ma era inevitabile. Paco pronunciò queste ultime parole con lo sguardo lievemente appannato. Poi prese la parola Ramón: – Sono stato molto colpito dal tuo racconto. Il flamenco per me rappresenta la vita stessa. Poi però, mi sono detto: “Ramón, devi trovare il modo di proporre una musica che nasca da una ricerca, da uno studio”, e ho provato nuove strade senza però rinnegare le origini. In questa ricerca sono stato solo. Ora che ho successo la mia casa è piena di gente, tutti mi cercano, ma prima, quando nel silenzio studiavo e provavo, sperimentavo, mi osservavano perplessi. Sono diffidente più di prima, ora che un chiasso inutile mi circonda.
Poi, i due uomini cominciarono a lavorare all’organizzazione della serata, sui pezzi da inserire, e provarono i primi accordi sulle note proposte da Paco. Certo la preparazione del concerto non fu breve e tantomeno facile. Il torero spesso si assentava per la preparazione fisica prima della corrida e il chitarrista molto scrupoloso non trascurava alcun dettaglio. Per la prima volta aveva accettato di preparare una serata che lo avrebbe lanciato a un pubblico più vasto e quindi doveva essere tutto accuratamente studiato. Una sintonia speciale e imprevista si creò tra i due giovani artisti. Quella sintonia che nasce dalla condivisione, nessuna domanda inutile, un incontro tra artisti che sentono e che vogliono trasmettere emozioni. – Non hai mai paura prima di scendere nell’arena? Cosa provi? – domandò improvvisamente Ramón. – Prima hai parlato di qualcosa di ancestrale e profondo che ci appartiene, bene, io credo che sia accaduto qualcosa di simile nella mia storia. – Quindi hai paura? – Certo che ho paura. Si tratta di studiare l’avversario. Poi il metodo, la concentrazione sono fondamentali, come anche i momenti precedenti sono importanti. – Non hai mai pensato di lasciare? – Ogni tanto ci penso , forse è semplicemente una gara con me stesso. I giorni seguenti arono preparando il concerto e lavorando sulla scaletta dei brani che Ramón proponeva. I due uomini venivano ogni tanto interrotti da Carmen, che con la scusa di portar loro viveri e bevande, si sedeva sul divano in totale adorazione di Paco, ponendogli domande, qualche volta impertinenti, qualche volta inutili, qualche volta semplici curiosità, fino a quando Ramón, per non stancare l’ospite, spazientito, allontanava la donna con richieste improvvise e improrogabili. Nei giorni precedenti la preparazione del concerto gruppetti di persone attendevano davanti alla casa di Ramón l’arrivo del torero per qualche autografo. Alcuni dettagli delle loro giornate trapelavano dai pettegolezzi di Carmen che, uscendo per compere, non dimenticava di informare tutto il vicinato raccontando
qualche frammento rubato alle conversazioni fra i due. Nel frattempo la macchina organizzativa del grande evento si era messa in moto. I giornali pubblicizzavano il concerto come uno spettacolo unico, in quanto mai era accaduto prima che due personalità così popolari e famose si mettessero insieme per il pubblico. Ramón avrebbe proposto i suoi brani, tra i più conosciuti e, come ospite d’onore durante il concerto, Paco avrebbe cantato con lui una canzone che, in quei giorni, i due artisti avevano scritto insieme. Nell’ampio e profumato giardino dell’Alcazár, il pomeriggio precedente il concerto, si stavano ultimando i preparativi. Paco era entrato da poco, ma nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Si sedette in silenzio tra le sedie del pubblico e rimase alcuni minuti ad ascoltare le prove. Aveva poco tempo in quanto doveva prepararsi per la corrida dell’indomani. Il suo sguardo si fissò all’improvviso sulle corde della chitarra di Ramón, diventò lentamente scuro in volto e i suoi lineamenti sembravano contratti, si alzò subito dopo per poi allontanarsi, seguito dallo sguardo dell’amico che comprese che forse l’emozione, o la paura del debutto serale, lo stavano agitando oltremisura. La sera stessa prima dello spettacolo i due amici si parlarono per pochi minuti nella tenda sistemata a fianco del palco. – Allora, Paco, sei teso? Ti ho visto oggi e mi sembravi preoccupato. – No, sono sempre così prima della corrida. Del concerto sono entusiasta, sono esauriti tutti i biglietti da parecchi giorni. Devo continuare la mia preparazione per domani, per cui stasera dopo lo spettacolo partirò immediatamente per Siviglia e non so se riusciremo a salutarci. Mi vedrai almeno sul canale 24 domani? – Domani no. Lo sai che non riesco a vedere una corrida da tanti anni, a maggior ragione se ci sei tu. Sentirò il commento alla radio ma Carmen provvederà sicuramente a darmi i dettagli. Perdonami ma non riesco, è più forte di me. I due amici si salutarono abbracciandosi, poi di corsa Ramón andò a vestirsi per il concerto. Entrambi avrebbero voluto ancora aggiungere qualcosa, un augurio, una battuta, ma le parole rimasero strozzate in gola. Erano tesi, nervosi. Il cielo disegnava una geometria infinita di stelle e preparava la scenografia migliore per la serata che di lì a poco sarebbe iniziata.
I giardini dell’Alcazár nel giro di pochi minuti si riempirono di una folla rumoreggiante e colorata. E il concerto non fu al di sotto delle aspettative. Due ore circa di chitarra flamenca, e alla metà del concerto un’ovazione accolse l’entrata del torero, e i due artisti cantarono accompagnati da mille luci accese dal pubblico, per rendere ancora più suggestivo il momento. Paco rimase sul palco il tempo di cantare la canzone composta con Ramón e poi guadagnò rapidamente l’uscita, inseguito da ragazzine in cerca di autografi e mamme scalmanate. Quella serata calda e luminosa fu speciale. La musica non fu altro che un tramite, e i due artisti seppero tracciare un disegno, una composizione al cui centro vi era una grande ione e il pubblico non poté fare altro che riconoscersi in tutto ciò. Era notte fonda quando Ramón richiuse la sua chitarra nel fodero e raggiunse il furgone insieme agli altri componenti del gruppo per tornare a casa. Era molto tempo che a Ramón non capitava di sentire provenire dal pubblico tanta forza, tanto entusiasmo. Rientrato in casa si gettò sul letto senza però riuscire ad addormentarsi. Prese dal frigo un paio di birre e cominciò a bere. C’era qualcosa in quella serata perfetta che gli sfuggiva. Non sapeva cosa. Un particolare forse insignificante, ma non era riuscito a cogliere un solo sguardo di Paco, era come se l’amico, tanto entusiasta nella preparazione del concerto, si fosse poi improvvisamente raffreddato, come se quella serata tanto attesa l’avesse deluso, oppure come se Paco in realtà non fosse mai stato presente, quasi un fantasma. Poi, la stanchezza ebbe il sopravvento e il chitarrista si addormentò vestito sul divano. Il mattino seguente Ramón fu svegliato da una serie di telefonate di amici e discografici, ai quali Carmen non faceva altro che ripetere che il musicista stava riposando ed era impossibile parlargli. Carmen e Ramón non riuscirono a comunicare per tutta la mattinata. Il chitarrista rimase chiuso per molte ore nella sua stanza per ascoltare la registrazione del concerto. Era pensieroso, cupo. Nel primo pomeriggio sentì voci provenire dalla cucina. Carmen aveva la televisione per seguire la corrida, poi entrò per qualche minuto per portargli del caffè con qualche fetta di pane appena tostato. I loro sguardi si incrociarono per qualche istante ma nessuno dei due aveva voglia di parlare. Poi Ramón accese la radio, si sedette in
poltrona con l’orecchio teso ad ascoltare lo speaker e le mani sulla chitarra, tentando qualche timido accordo. La radiocronaca fu precisa e puntuale, rese l’atmosfera. Anche lo speaker citò il concerto della sera prima parlandone come di un evento, e descrisse minuziosamente la cappa dei vari toreri, poi un’ovazione accolse l’entrata nell’arena di Paco. Ramón, seduto in poltrona a torso nudo, con i capelli sciolti, i piedi su uno sgabello, sorrise appena immaginando la figura dell’amico. Preferiva immaginarsi tutto, non sopportava quello spettacolo. Niente e nessuno poteva convincerlo del contrario. Anche se della corrida qualcosa apprezzava, il confine ultimo tra vita e morte, la sfida estrema. A un certo punto, inaspettatamente, Paco fece un movimento inutile, forse una distrazione.“Todo oidos” sentì soltanto un forte boato e le parole concitate dello speaker. Si alzò di scatto e andò d’impeto a spegnere la radio, sudava copiosamente. In quello stesso istante Carmen, che aveva seguito ogni mossa dallo schermo, entrò come una furia e si piantò davanti a Ramón senza riuscire a parlare, gli occhi gonfi di lacrime, le mani tremanti. D’impeto Ramón afferrò il cavalletto sul quale teneva gli spartiti e lo gettò con violenza contro la porta. Carmen rimase a singhiozzare seduta sul divano poi si avvicinò al chitarrista e disse con voce tremante: – Paco è a terra, non si muove. Lo speaker ha detto che è ferito gravemente al torace. Non ho potuto guardare. Ha perso molto sangue quindi lo operano subito nella infermeria della Plaza de Toros. Il chitarrista uscì sconvolto, senza una meta precisa, camminò spedito fino alle rive del Guadalqivir e dopo pochi istanti decise che sarebbe partito subito per Siviglia, non avrebbe lasciato solo Paco nella sua sfida più difficile. Così decise di recarsi da un amico per farsi accompagnare in macchina a Siviglia. Quanti pensieri affollavano la sua mente sconvolta, le pause, gli sguardi silenti. Il paesaggio contrastava con il suo animo inquieto. Mentre osservava distese infinite di girasoli, a un certo punto vide un enorme toro di ferro nero piantato nella campagna assolata, come un presagio. Erano anni che Ramón non piangeva. A pochi chilometri da Siviglia, ricevette la telefonata del suo agente, Pedro Olivares, che si affannava a informarlo che un incidente di quel genere avrebbe
sicuramente funzionato come un enorme incentivo a comprare il disco del grande Gutierrez. Un successo assicurato. Una nausea improvvisa lo colse e con rabbia Ramón insultò l’agente, troncando bruscamente la conversazione. Nel giro di pochi minuti raggiunse l’infermeria della Plaza de Toros. Una confusione incredibile regnava nei locali adiacenti l’infermeria. Polizia, troupe televisive che bivaccavano sulle panchine, altri giovani toreri semisvestiti e agitati, in attesa di notizie. In un angolo, vicino alla porta dell’infermeria, si accorse della presenza di un uomo seduto in disparte, il viso affondato tra le mani e tutto il corpo scosso da singhiozzi ripetuti. Ramón si avvicinò e si sedette, poi l’uomo sollevò il viso e il chitarrista riconobbe nelle sue fattezze Juan de Lucía Arenal, il padre di Paco. – Buongiorno, può darmi qualche notizia? Sono un amico di Paco, mi chiamo Gutierrez… – Mi perdoni ma non riesco a parlare. Sono annientato, annichilito. Non so se ce la farà. Non ho capito e non capisco, – rispose con una voce flebile e sommessa e senza sollevare gli occhi da terra il padre di Paco. – Posso vederlo? – In questo momento nessuno può vederlo. Lei è il chitarrista con cui ha preparato il concerto, non è così? – Sono io. È un ragazzo forte e sensibile, supererà anche questo momento. – Non lo so. Ho paura. – Le mani del padre tremavano e la voce era rotta per l’emozione. – Coraggio. – Non avrei dovuto spingerlo a continuare, lui voleva assomigliarmi. – Lei non ha colpe. – Ramón avrebbe voluto dire al padre altre cose. Che quel ragazzo nato e cresciuto in quell’ambiente era in realtà un’altra persona. Si poneva delle domande, era inquieto e alla ricerca di un altro se stesso. Era cresciuto nella tradizione delle corride e non voleva deludere le aspettative della sua famiglia. Ma nessuno avrebbe creduto e nessuno avrebbe ascoltato le parole di un amico che lo conosceva da meno di due mesi.
Invece aggiunse cercando di rincuorare il padre: – Non si attribuisca colpe che non ha. Paco sa benissimo quale pericolo corre ogni volta che scende nell’arena ma è un uomo, non è infallibile. Detto questo la conversazione venne interrotta perché il padre fu convocato nella sala medica per parlare con il chirurgo. Un’ansia crescente e un silenzio assordante avvolgevano i locali antistanti l’infermeria. Da una conversazione intercettata tra due giornalisti seduti lì accanto, Ramón seppe che non accadevano incidenti di quella portata dai tempi della morte del grande Manolete. Dopo poco, un grido soffocato squarciò il silenzio greve. Fece seguito un breve e laconico comunicato nell’adiacente sala stampa, che troncò ogni dubbio e incertezza.
Paco de Lucía Arenal, 23 anni, ultimo erede della famiglia Arenal, era deceduto pochi minuti prima per un’emorragia sopravvenuta durante l’intervento.
Da quel momento Ramón cominciò a non avvertire più rumori accanto a sé, nonostante la gran confusione. I suoi occhi si riempirono di lacrime che rimasero come sospese senza solcare il suo viso, producendo però un annebbiamento della vista per cui ogni oggetto e ogni persona gli appariva sfocata. Prese a camminare fino a raggiungere i locali adiacenti all’infermeria. Là c’era un piccolo museo taurino, meta di turisti in quanto conteneva la storia dei più grandi toreri dall’inizio del secolo ato. Cimeli di ogni tipo, cappe, documenti, riviste d’epoca, fotografie. Un mondo sconosciuto per Ramón, un mondo da cui aveva sempre mantenuto le distanze, un mondo mai compreso. Solo quando aveva conosciuto Paco, per un breve momento, aveva capito quale sfida lo avesse catturato. Tuttavia, senza condividere la sua scelta, si era sentito molto vicino all’amico. Forse da tanto tempo non sentiva un’affinità pari a quella provata con Paco. Entrambi avevano seguito le loro ioni a costi molto alti. Certo, Ramón aveva successo, ma in fondo nella vita privata era un uomo solo. Paco aveva avuto anch’egli un grande successo ma la posta in gioco, ogni volta, era altissima. Rimase in silenzio per alcuni minuti a osservare quei frammenti del ato, poi venne un addetto alla sicurezza che pregò Ramón di uscire dal museo in quanto nessuno poteva più accedere a quei locali a causa
dell’incidente. Tornò a casa. Per la prima volta, dopo tanto tempo, non provò fastidio ma piacere nel trovare la casa piena di gente. Vide volentieri, e abbracciò uno a uno, i nonni e le sorelle, Carmen e alcuni amici ancora increduli per la notizia. Non avrebbe sopportato di restare da solo neanche un minuto nella stanza dove aveva preparato il concerto fino alla settimana precedente. Tre giorni dopo l’incidente Ramón ricevette una lettera. La trovò appoggiata su un vassoio dell’entrata. Carmen l’aveva ritirata dalle mani del postino, ma era di fretta e non aveva fatto caso al mittente. Ramón dovette sedersi per superare lo stupore. La lettera proveniva da Paco.
Caro Ramón, in questi ultimi giorni ho compreso sino in fondo il significato della mia scelta. Pensavo di essere un vincitore sull’arena, ma nello stesso tempo l’ultimo testimone di una scelta anacronistica. Combattere contro un animale. Poi quando ti ho conosciuto mi sono accorto che non ci si può sottrarre al proprio destino, quando è l’unica cosa che si vuole fino in fondo. Sono cresciuto, come tu sai, in questo ambiente e non lo rinnego. Ma in questi giorni, per la prima volta, ho sentito che qualcosa si stava incrinando. Non so come andrà questa corrida, ho i riflessi lenti. Ho avuto successo, e molto anche, ma sento che inevitabile non significa definitivo. Per ora non posso sottrarmi. Grazie della tua amicizia. Paco.
Ramón rimase impietrito a leggere e rileggere quelle poche righe. Un vento freddo e improvviso sollevò le tende del salotto. Il chitarrista chiuse la lettera e impresse dentro di sé ogni parola, fin quando non si accorse di saperle a memoria. Tenne stretto quel pezzo di carta per molti minuti tra le sue mani. Quelle parole profetiche e tardive provocarono a Ramón un capogiro improvviso. Telefonò al Museo taurino di Siviglia e si fece are il responsabile, al quale
spiegò le sue intenzioni. Avrebbe donato al museo la sua chitarra, quello strumento dal quale mai si era separato, e con il quale aveva preparato tanti concerti e inciso dischi. La chitarra come ultima testimone di un evento unico e irripetibile, come atto estremo d’amicizia. Questa fu l’ultima testimonianza pubblica dell’imprevedibile amicizia tra Ramón e Paco. Ma non fu l’unica. Da quel giorno ogni anno, quando gli impegni di lavoro glielo consentivano, Ramón si recava per qualche giorno dalla famiglia di Paco. Il dolore antico e composto dei genitori diventava per qualche giorno sopportabile, e per Ramón quello divenne un appuntamento inevitabile e ricercato.
La confessione
Quando la figlia di un diplomatico giapponese, alto funzionario dell’ambasciata di Roma, aveva detto al padre che sarebbe andata a convivere con il suo compagno, Akihiro Komitsumi aveva subito cercato una casa che potesse essere all’altezza della sua amatissima figlia. Le aveva quindi acquistato un silenzioso villino con piscina e 300 mq di giardino nelle vicinanze dello splendido parco dell’Appia Antica, tra il quarto miglio Erode Attico e Venere Placida. Sarah, questo il nome della ragazza, era nata in Giappone da madre inglese, cresciuta poi a Roma nel massimo agio, a contatto con un ambiente eterogeneo in cui si alternavano abitudini di vita tipiche della cultura giapponese e di quella anglosassone. Frequentava gli ambienti della buona borghesia romana nei quali la sua famiglia l’aveva introdotta da quando si era trasferita in Italia. Era una ragazza dinamica, con molti interessi e uno spirito intraprendente. Pur essendo sempre vissuta a Roma, Sarah aveva mantenuto alcune caratteristiche del carattere nipponico. Nei confronti degli amici nutriva assoluto rispetto e manifestava altrettanta discrezione. Soprattutto nel momento in cui doveva confrontarsi con una realtà o una situazione imprevista, prendeva il sopravvento il suo cortese riserbo, che le impediva di invadere la sfera privata altrui con domande o con atteggiamenti aggressivi. I suoi tratti non nascondevano la sua origine orientale, anzi, la esaltavano. Era molto bella. Aveva occhi a mandorla, scuri e profondi, era alta e atletica, e sapeva sfoderare un sorriso dolcissimo e disarmante. Sarah era una pubblicitaria, si occupava di strategie di vendita di prodotti di largo consumo; nel tempo libero andava a cavallo e non perdeva un concerto all’Accademia di Santa Cecilia. Tuttavia, nella sua vita piena di impegni legati essenzialmente al lavoro, sembrava che il tempo asse senza alcuno spazio per capire esattamente cosa fosse importante. Sarah era fidanzata da anni con un architetto che spesso lavorava all’estero, e che non si decideva mai a sposare. Ultimamente si annoiava molto con lui ma non aveva il coraggio di lasciarlo. La sua bella casa, arredata secondo i principi e i dettami tecnologici più all’avanguardia, le trasmetteva un senso di vuoto, di inutilità. Le ampie finestre
affacciate sulla campagna romana, una distesa infinita di verde e alcune querce secolari in lontananza, erano l’unica nota rassicurante. Il villino acquistatole dal padre si trovava a circa venti chilometri dal centro di Roma, qua e là vi erano altre case sparse. Il fine settimana spesso invitava amici che accorrevano volentieri, attratti dalla bella casa e dalla cucina di Sarah. Quella casa era diventata il suo biglietto da visita. Il padre aveva pensato che l’arredamento dovesse essere quanto più sofisticato e formale, per circondarla con un ambiente elegante. Sarah aveva accettato i consigli del padre ma ora si sentiva triste. Tutto era così prevedibile, non c’era nulla lasciato al caso. La bellezza degli oggetti, la ricercatezza nell’arredamento che lei peraltro aveva personalmente scelto, da un po’ di tempo le trasmettevano anche un senso di nausea. Nel periodo estivo Sarah aveva preso l’abitudine di nuotare prima di cena almeno un’ora per dimenticare lo stress della giornata. Gli unici rumori percepibili in quelle serate erano il frinire delle cicale e il traffico della macchine sulla statale. Quando il sole era definitivamente tramontato, Sarah usciva dall’acqua e si preparava la cena. Non possedeva una televisione ma, cenando sulla veranda affacciata sulla campagna, ascoltava una piccola radio. Una sera d’estate, poco prima del tramonto, quando ancora il sole è caldo e avvolgente ma la calura concede una tregua, Sarah stava nuotando e non avvertiva alcun rumore se non quello prodotto dalle bracciate rapide con le quali fendeva l’acqua davanti a sé. Una macchina si fermò a pochi metri dalla casa. Il conducente cercò ripetutamente di riavviare il motore, poi scese dall’automobile, fortemente infastidito, imprecando e scalciando contro la ruota. La macchina da alcuni minuti creava dei problemi e l’attenzione dell’uomo era tutta focalizzata sulla strada. Visti gli inutili tentativi di farla ripartire, il conducente si avvicinò alla casa e suonò al camlo, ma non ottenne risposta. Nel frattempo si accorse che il cancello era aperto, così decise di entrare per chiedere aiuto. Era un uomo alto, con una barba folta, scuro di capelli, di circa 45 anni e vestiva in modo dimesso e disordinato. Lo sguardo era indagatore, molto nervoso. Si toccava i capelli in continuazione e cercava, rivolgendo lo sguardo intorno a sé, di capire se qualcuno abitava quella villa. Aveva percorso pochi metri quando vide la piscina e una donna dall’aspetto orientale appena uscita dall’acqua che lo osservava preoccupata. Sarah ricordava di avere dimenticato il cancello aperto, ogni tanto le accadeva, e quindi tutto subito la sua reazione vedendo lo sconosciuto fu un misto di timore e di curiosità. Lui protese le mani in avanti e poi esordì:
– Buonasera, non si spaventi. Chiedo scusa ma ho un problema alla macchina. Ho suonato, non mi ha risposto nessuno e così visto che il cancello era aperto sono entrato. – Vedo. Devo averlo dimenticato aperto. Che succede alla sua macchina? – chiese Sarah infilandosi un accappatoio. – Negli ultimi cinquecento metri ha cominciato a ingolfarsi e ora non parte più. Non ho con me un cellulare e non conosco nessuno. Posso usare il suo telefono? Per la verità non conosco la zona… se potesse anche segnalarmi un meccanico qui vicino. – L’uomo aveva pronunciato queste ultime parole con agitazione e con un affanno esagerato. Sarah lo guardò con più attenzione e pensò che aveva un aspetto molto trasandato e sembrava avesse paura di qualcosa. – Certo. Può telefonare da qui, ma è domenica sera e non credo che troverà un meccanico tanto facilmente. Il mio è in centro a Roma, ma stasera non sarà sicuramente reperibile. – Capisco. Certo, oggi è domenica. Proprio un bel pasticcio, – aggiunse l’uomo andosi le mani sui capelli. – Se vuole può telefonare a qualche suo amico, farsi venire a prendere. Tenga, questo è il telefono. – Lui arretrò di colpo, dicendo che non era di Roma e che non sapeva chi cercare. L’uomo tornò all’automobile scusandosi e armeggiò con il motore per alcuni minuti, poi si sedette sulla macchina a osservare la campagna circostante. Si accese una sigaretta e fumò aspirando rapide boccate. Sarah intanto lo osservava da lontano e non sapeva cosa fare. Era tutto molto strano. Un uomo senza cellulare, senza amici a cui telefonare, con una vecchia Fiat Tipo che sembrava uscita da uno sfasciacarrozze. Non sapeva se avere paura o ridere della situazione. Sarah si stava preparando cena mentre l’uomo continuava a fumare seduto in macchina. A un certo punto si decise e uscì, avvicinandosi alla macchina. Indossava una specie di sari a colori tenui, era così bella nella luce del tramonto con i capelli lunghi e neri che incorniciavano quel viso dolce e delicato. Quando la vide, lui ebbe quasi paura, le sembrò un fantasma. Sarah lo guardò e poi disse: – Mi scusi, lei non conosce veramente nessuno a Roma? Non vorrei sembrarle
indiscreta ma se si trova qui, nella zona dell’Appia Antica, immagino che lei abbia una meta precisa, non è così? – domandò con una certa apprensione la ragazza. – Non esattamente. Non posso spiegarle, è troppo complicato. A questo punto nonostante l’iniziale diffidenza, si impose in Sarah un sentimento di fiducia nei confronti dello sconosciuto. – Venga a mangiare qualcosa, vuole restare lì tutta la notte? – Guardi, non so se posso, sono sporco… non vorrei disturbare. – Se la sto invitando non disturba. Lui la seguì con uno sguardo preoccupato. Poi entrarono e l’uomo si presentò dicendo di chiamarsi Massimo Forti. Cenarono in silenzio. In Sarah prevalse proprio quella forma di discrezione tipica delle sue origini giapponesi. Non invadere in alcun modo con domande insistenti la sfera privata altrui. Come un codice genetico che si tramanda di padre in figlio. Si faceva strada nella mente della ragazza un misto di quieta accettazione della realtà imprevista e una iniziale attrazione nei confronti dello sconosciuto. A un certo punto della cena però Sarah ruppe il silenzio: – Scusi, non che la cosa mi riguardi direttamente, ma cosa intende fare? Voglio dire, ha pensato a come risolvere la situazione? Lui la osservò per qualche secondo con uno sguardo fisso, indagatore e poi affermò che avrebbe dormito in macchina e l’indomani mattina presto avrebbe cercato di chiamare il meccanico. C’era in lui qualcosa di sfuggente, di enigmatico. Subito dopo appariva uno sguardo dolce, rassicurante. Sarah, così su due piedi, disse qualcosa di cui subito dopo si pentì. Ma ormai era fatta. – C’è una camera in fondo al corridoio, con un divano letto, può sistemarsi lì per questa notte e poi domani chiamerà il meccanico. Lui continuava a toccarsi i capelli e a grattarsi la barba. – Si faccia anche una doccia, c’è un bagno accanto alla camera.
Lui raccolse le poche cose che aveva in macchina, ringraziò Sarah e accetto l’invito con il garbo che ogni tanto traspariva dai suoi gesti. Sarah era incuriosita da questo strano individuo. Indossava abiti di foggia antica, consumati, e sembrava semplicemente spaventato da qualcosa. Mentre l’uomo si stava facendo la doccia, Sarah non poté resistere alla curiosità e cercò dentro il borsone dell’uomo qualche elemento in più. Non trovò nulla di particolare, ma frugando nella tasca dei pantaloni, accanto a dei soldi trattenuti da un fermaglio, vide una carta d’identità. La fotografia riproduceva il suo viso, ma il nome accanto non era Massimo Forti. Prima di tornare in cucina rimise febbrilmente tutto a posto, indecisa sul da farsi. Fece qualche telefonata e poi andò a dormire. Avrebbe potuto raccontare alla sua collega d’ufficio, o alla sua vicina di casa sempre molto premurosa, quello strano fatto ma una parte di se stessa le impediva di parlarne ad anima viva. Tuttavia era tesa, nervosa. Forse non avrebbe dovuto accoglierlo. Chi era e come mai non conosceva nessuno che potesse aiutarlo? L’indomani mattina presto lo trovò seduto in giardino a osservare il movimento dell’acqua ai bordi della piscina. Fece un’osservazione curiosa incontrandola, che Sarah non poté che registrare con una certa perplessità. – Sono molti anni che non vedo una piscina. L’acqua di una piscina è come un animale in gabbia. Produce una leggera increspatura ma non si altera mai. Non può agitarsi. – Senta signor Forti, ora devo andare in ufficio. Prima ho sentito che parlava con il meccanico, cosa le ha detto? – Mi ha detto che erà più tardi nella mattinata. Aspetterò in macchina, per ora la ringrazio molto della sua ospitalità. La ragazza gli tese la mano con un debole sorriso poi salì in macchina lasciando l’uomo appoggiato al cofano dell’autovettura. Quando si trovava a pochi metri dal suo ufficio si rese conto di avere nuovamente dimenticato il cancello aperto. Quella situazione e quello sconosciuto non facevano altro che crearle agitazione interrompendo il flusso ordinario delle azioni quotidiane. La giornata ò veloce tra riunioni e telefonate. Nel tragitto che la riportava a casa Sarah osservò che nel cielo si rincorrevano rapide nuvole nella luce del tramonto accompagnate da una brezza estiva. Quando si trovava ormai a pochi
metri da casa, vide che l’automobile era ancora lì e, varcato il suo cancello, si accorse che il misterioso ospite stava nuotando nella sua piscina. Entrò spazientita e inveì contro di lui mentre stava uscendo dall’acqua. – Come si permette di nuotare nella mia piscina? Chi l’ha autorizzata, e soprattutto cosa ci fa ancora qui? – Sarah ora era spaventata e tremava visibilmente. – Mi scusi, ma non avevo il suo numero di telefono. Il meccanico non è venuto a ritirare la macchina e così sono rimasto tutto il giorno qui. Poi non ho resistito alla tentazione di fare una nuotata. Il cancello l’aveva dimenticato aperto. – Mentre si difendeva aveva una voce calma, sembrava quasi divertito. – Senta, mi sembra di avere tollerato fin troppo la sua intromissione. Non la conosco, lei non può stabilirsi a casa mia. Adesso lei chiamerà qualcuno, non so chi e non mi riguarda, e toglierà il disturbo, non posso permetterle ancora di rimanere a casa mia. Dopo aver pronunciato queste parole si accorse che l’uomo non sorrideva più. Si avvicinò grondante d’acqua a Sarah e pronunciò con voce perentoria queste parole: – Andrò via stasera stessa. Non si preoccupi. C’era nel suo sguardo una sfida, nonostante avesse ammesso che la circostanza fosse inopportuna, la situazione stava precipitando decisamente a suo sfavore. Lui aveva nel frattempo chiamato un altro meccanico che sarebbe venuto a ritirare la macchina prima di cena. Sarah era inquieta. Quell’uomo così particolare le trasmetteva un senso di tensione. Doveva capire chi fosse. Forse era pericoloso o semplicemente stava fuggendo da qualcosa o da qualcuno. Sarah in ogni caso voleva capire. Dalle finestre del primo piano puntava lo sguardo verso il cancello. Tutto a un tratto apparve un furgoncino, l’uomo parlò brevemente con il meccanico poi si allontanò per rientrare in casa. Poco dopo Sarah e l’uomo si incontrarono nell’atrio. – Allora grazie di tutto. Mi scusi per averla importunata oltre misura. – Aveva nuovamente ripreso i modi gentili. Lei esordì perentoria: – Lei non è Massimo Forti. Sulla sua carta d’identità il nome indicato è Claude Perrain. Chi è lei e da
cosa si nasconde? – Senta, è una situazione molto complicata. Mi rendo conto di avere invaso la sua privacy più del dovuto, ma non posso raccontarle tutto così senza un minimo di spiegazione. – Allora diciamo che aspetto una spiegazione, – aggiunse Sarah con una certa risolutezza nella voce. – Va bene, le dirò tutto ma entriamo in casa un momento. Sono evaso stanotte. Ho notato con piacere che tu non possiedi un televisore. Forse non hai tempo di leggere i giornali, in ogni caso mi chiamo Claude Perrain. – Detto questo uscì a confabulare con il meccanico per alcuni minuti. Nel frattempo Sarah avrebbe potuto telefonare alla polizia o chiamare la vicina di casa, ma un black-out di tipo emozionale non le fece fare assolutamente niente. Si sedette in cucina in attesa dell’uomo. Dopo pochi istanti lui rientrò, e riprese a raccontare. – Il meccanico ha portato via la mia macchina. Ora siamo soli. Cosa vuoi sapere? – aveva preso a darle del tu come se la confidenza appena fatta li ponesse sullo stesso piano. Come se volesse imporre una sorta di complicità inquietante. – Mi sono fidata di lei e ora lei mi deve perlomeno una spiegazione valida, – puntualizzò Sarah con voce piccata. Claude guardandola con apparente calma aggiunse: – Sai, sono anni che nessuno vuole ascoltare la mia storia, la mia verità. A cominciare dai giudici che mi hanno condannato. Adesso tu mi ascolterai. Fuori dalla finestra un segmento di tramonto arancione colorava il cielo e una leggera brezza accarezzava le tendine della cucina. In lontananza macchine sfrecciavano sulla statale e alcuni bambini giocavano nei giardini delle case vicine. Sarah era pallida e tuttavia sembrava ancora più bella. Sembrava quasi che tutta la casa, ogni oggetto, ogni mobile, fosse pronto ad ascoltare la confessione di Claude. – Va bene, ti ascolto. Claude aprì il frigo e prese due birre, poi le offrì una sigaretta. Iniziò il suo racconto in modo affrettato e quasi febbrile, come dovesse
liberarsi da un grande peso. – Sono nato in Francia, i miei genitori si sono trasferiti in Italia per motivi di lavoro quando avevo circa dieci anni. Sono un ingegnere informatico. Avevo, e ho ancora, una piccola ditta vicino a Milano con alcuni soci. Per alcuni anni la mia attività è stata in crescita. In quegli anni mi sono sposato e per i primi tempi sembrava che tutto filasse. Poi Clara, questo è il nome della donna che ha rovinato la mia esistenza, è entrata in società e da quel momento, come un ragno che tesse una tela invisibile, ha cominciato lentamente a danneggiarmi. Il suo lavoro è stato meticoloso, persistente e soprattutto subdolo. Mentre parlava il suo sguardo era a volte limpido, a volte improvvisamente cupo, come oscurato da un rapido pensiero. Era come se quell’uomo dovesse liberarsi di un grosso fardello, come un peso proprio lì vicino al cuore. Sarah lo ascoltava e involontariamente si accorse di provare una certa curiosità verso tutta la faccenda. Tutto sembrava così lontano dalla vita che conduceva, una lontananza siderale dalle sue amicizie, dall’ambiente sofisticato che la circondava. Eppure quell’individuo, in parte assassino dichiarato e in parte gentiluomo, le faceva apparire meno noiosa quella giornata. – Mia moglie si era innamorata e poi alleata con un concorrente, andogli notizie molto importanti relative ai nostri programmi e ai miei clienti. La beffa che ho subito era veramente intollerabile e così ho deciso di ucciderla, non senza avere sofferto moltissimo per tutto quello che lei è stata nella mia vita. – A Sarah sembrava una storia assurda, aveva la sensazione che Claude nascondesse molte più cose di quante ne esprimesse. Continuò, fissandola: – Tu non sai cosa significa costruire giorno dopo giorno la tua vita accanto a una persona che piano piano invade ogni campo della tua esistenza, e come una formica che lentamente scava un tunnel sottoterra invade ogni settore. Clara dirigeva, manteneva le relazioni con tutti gli amici, organizzava il lavoro, ma nel frattempo costruiva lentamente la mia rovina. – Mentre parlava lo sguardo era fisso verso un punto dell’orizzonte, e sembrava parlasse a un altro se stesso. Sarah, versandogli della birra, disse: – Ma non sarebbe stato più semplice divorziare? Perché toglierle la vita? Poteva pagare per tutto quello che ti aveva fatto in modo diverso, civile. Claude aggiunse spazientito: – Non potevo e non volevo fare diversamente. La
mia vita non aveva più senso. Non avevo più credibilità nel mio lavoro e nella mia vita privata ero una ridicola macchietta. Era un pensiero fisso che occupava le mie giornate e anche la notte non riuscivo a dormire. Per lei era così naturale controllare tutta la mia vita, sembrava che la sua felicità non fosse vivere accanto a me, ma impossessarsi del potere che questo ruolo le dava. Come uno stato di ebbrezza perenne di cui non poteva fare a meno. Che strano, pensò Sarah, un uomo apparentemente colto, con una importante attività, che a un certo punto della propria vita decide di comprimere, anzi di annullare, qualsiasi istinto di rispetto per la vita altrui. L’uomo non sembrava mostrare alcun turbamento, come se l’assassinio fosse stata la conseguenza naturale del susseguirsi progressivo e inevitabile degli eventi. Durante la confessione Sarah aveva osservato con attenzione lo sguardo dell’uomo che era fisso nei suoi occhi tuttavia sembrava tradire un’enorme sofferenza interiore. Muoveva le mani, spostava gli oggetti sul tavolo e la voce in qualche momento aveva qualche incrinatura. Dalla finestra della cucina le prime luci della strada si distendevano come ombre lunghe sul giardino. Poteva trattarsi di una serata come tante altre, se non fosse stato per lo sconosciuto nella casa di Sarah che decideva di condividere con lei, proprio in quella sera, tutta l’insensatezza della sua scelta. A un certo punto qualcuno suonò il camlo. Sarah incontrò lo sguardo preoccupato di Claude, si alzò in piedi e lui la seguì in soggiorno, nascondendosi di fianco alla porta. Lo sguardo che Claude rivolse verso Sarah era la conferma dell’assoluto riserbo nei confronti di chiunque, soprattutto in quei momenti. – Ciao Sarah, – esordì Anna, la vicina di casa. – Non ti ho sentita nuotare e non ti ho vista in giardino, e così sono ata a vedere se va tutto bene. – Bene grazie. Sono solo un po’ stanca e non avevo voglia di nuotare. – Ti ho portato un po’ di gelato. Se però hai voglia puoi venire da noi, ci sono degli amici di Franco e potremmo are la serata assieme. – Ti ringrazio per il pensiero, ma penso che andrò a letto presto. – Ti vedo strana, sei sicura che non hai bisogno di nulla? – Ti assicuro che va tutto bene.
– Ieri ho notato una macchina ferma davanti al tuo cancello… aspettavi qualcuno? – chiese Anna con sguardo indagatore. – No. Una persona che aveva bisogno di un’indicazione stradale mi ha chiesto alcune informazioni. Tutto qui. – Va bene, ciao e buonanotte. – Anna, perplessa, non ebbe il coraggio di insistere e si voltò per tornare a casa. – Buonanotte. Sarah richiuse la porta con una certa impazienza. Non era certa che si trattasse semplicemente di curiosità per quello che stava accadendo all’interno delle sue mura, o perché voleva tenere al di fuori chiunque dagli ulteriori sviluppi di questa anomala vicenda. Non aveva paura di Claude. Ma voleva capire perché tutto era precipitato così, e perché continuasse ancora ad ascoltare questo sconosciuto. Quando tutto le sembrava improvvisamente chiarirsi, si complicava nuovamente. Non solo, si trattava anche di distacco da tutto ciò che fino a pochi mesi prima considerava essenziale. Lei avvertiva che quell’uomo, di cui fino al giorno prima ignorava perfino l’esistenza, aveva bisogno di essere ascoltato. Forse non aveva nemmeno voglia di chiamare il suo fidanzato, la sua famiglia, o qualche amica. Semplicemente voleva continuare ad ascoltare, mettere a tacere il mondo all’esterno per affondare completamente nella vicenda umana di Claude. L’uomo tornò in cucina, non appena Sarah richiuse la porta. Si accese una sigaretta e riprese a raccontare. – Comprai del veleno per topi poi gliene misi un po’ nella minestra e anche nella carne. Dopo cena uscii di casa e andai a camminare. Avevo bisogno di camminare. Quando tornai la trovai in bagno, ormai cadavere, riversa accanto alla vasca da bagno. Poi chiamai la polizia e confessai il mio delitto. Fui condannato all’ergastolo. Tutto si svolse esattamente come avevo previsto, ma nessuno volle capire che la vittima di tutta questa storia ero io, solo io. – Perché tu la vittima?! – esplose Sarah, – tu hai deliberatamente soppresso una vita. Come puoi ragionare in questo modo assurdo? – Claude si alzò in piedi furente, stava per aggredirla, poi improvvisamente scoppiò a piangere e, coprendosi il volto con le mani, continuò a parlare come se stesse rivolgendosi unicamente a se stesso.
– Mi aveva detto che non aveva contatti di lavoro con la concorrenza, che mi stavo sbagliando. Ma io ho trovato alcuni fax, la corrispondenza, le e-mail, tutto era chiaro. Sapevo che amava un altro, e quello avrei anche potuto accettarlo, ma lei ha deliberatamente agito per infangarmi. Continuava a piangere, era scosso da singhiozzi così forti che Sarah temette che i vicini li avrebbero potuti sentire. Che assurda situazione, pensò Sarah. Osservò dalla finestra aperta una porzione di cielo color glicine e porpora. Mentre Claude continuava in silenzio a piangere, Sarah aprì il gelato e ne versò un po’ in due coppe. La notte sarebbe stata ancora lunga ma non sapeva esattamente come sarebbe andata a finire. In quel momento aveva azzerato qualsiasi pensiero legato alla sua vita, tutto ciò grazie a uno sconosciuto seduto in cucina che piangeva e mangiava il gelato innaffiandolo di lacrime salate. Si sentiva stranamente sollevata. Tutto era drammatico e assurdo nello stesso tempo. E anche ridicolo. Claude la incalzò: – Anche tu pensi che Clara non meritava quella fine. Tu credi che io sia pazzo, non è cosi? Fino a quando avrei dovuto sopportare in silenzio, secondo te? Sarah si alzò, si avvicinò al suo insolito ospite e poi trafiggendolo con lo sguardo gli disse: – Se tu non sei pazzo, come pretendi che io ti capisca o ti giustifichi? Se tutta la storia che mi hai raccontato questa sera è vera, posso soltanto capire il dolore per il doppio tradimento che hai subito, ma non capisco il tuo delitto. Hai smarrito la ragione e pretendi che gli altri seguano il tuo ragionamento assurdo. E poi sono ati degli anni, non hai cercato in tutto questo tempo di superare quello che è successo? La tua vita è ancora ferma a quel giorno. Ma, – insinuò perplessa, – chi mi dice che quello che mi stai raccontando è vero? Non ti conosco, non ho riscontri per affermare con certezza che la tua storia è vera. Un evaso, per quanto sprovveduto, non racconta la sua storia sapendo che potrebbe essere nuovamente riportato in prigione. O tu sei un ingenuo o mi stai raccontando una storia per sfuggire a qualcosa che ancora non so. E inoltre, se tu sei evaso come dici, non dovresti avere alcuna carta d’identità con te. – Non chiamerai la polizia? Anche se non mi credi, non la chiamerai? Domani ritirerò la macchina e non mi vedrai più.
– Va bene, non ti denuncerò. Per stanotte puoi ancora dormire nella stanza degli ospiti. Ma domani te ne andrai. Ti ho ascoltato, ma capisci anche tu che questa situazione non ha alcun senso. Non posso, e non voglio proteggerti ulteriormente. Dopo la confessione dell’uomo Sarah, pur avendo notato le assurde incongruenze, non sapeva quale fosse l’esatto comportamento da tenere. Era stata gentile e disponibile il primo giorno, dopo il guasto della macchina, ma ora la confessione di un evaso la stava rendendo complice di qualcosa di completamente diverso. Mentre si allontanava, Claude pensò per la prima volta che Sarah era molto bella. Non aveva mai conosciuto una donna dai tratti orientali che fosse così affascinante. Ma in quel momento quella dolorosa confessione gli aveva provocato un forte mal di testa. Rimase seduto in cucina ancora per alcuni minuti, poi decise che quella giornata era stata troppo pesante e si avviò verso la stanza degli ospiti. L’indomani mattina molto presto Sarah accompagnò Claude dal meccanico prima ancora che riaprisse. Prima di congedarsi, Sarah gli chiese: – Scusa, ma non temi di essere scoperto, così, lasciando la tua macchina da un qualsiasi meccanico? Io non ho la televisione ma qualcun altro non ne fa a meno. Potresti essere riconosciuto. Sei così ingenuo? Claude, senza guardarla, rispose: – Non ti riguarda quello che io faccio. Grazie per avermi ospitato e per avermi ascoltato. Ciao. – Così dicendo scese dalla macchina, regalandole un triste sorriso. Quando ormai Claude non rappresentava che un puntino nello specchietto retrovisore, Sarah pensò che si era messa in un vero guaio. Si era resa complice di un evaso. Se tutta la storia di quell’uomo fosse stata vera, se qualcuno l’avesse vista con lui, avrebbe potuto essere accusata di favoreggiamento. Un reato piuttosto grave. Tutta l’insensatezza di quella serata le apparve nella sua gravità. Eppure quella storia non la convinceva affatto. Salì in ufficio, pensierosa, e decise che avrebbe analizzato con calma la situazione per decidere che fare. Accese il computer e fece una veloce ricerca su internet. Se tutta la storia di Claude fosse stata vera, qualche giornale avrebbe sicuramente riportato la notizia della sua fuga. A un certo punto della ricerca la sua attenzione venne attirata da
un articolo abbastanza curioso, nel quale si parlava della scomparsa di un uomo residente a Milano, socio di un’importante ditta di informatica. La donna che aveva presentato la denuncia si chiamava Clara Berri. Nell’articolo si parlava della scomparsa di un uomo di circa quarant’anni, un ingegnere informatico che da alcuni mesi era in cura da uno psicanalista milanese per una forte depressione. Inoltre, si precisava nell’articolo, l’uomo soffriva di una patologia caratterizzata da deliri persecutori che gli impedivano di svolgere la normale attività lavorativa. Il nome dell’uomo era Claude Perrain. Sarah impallidì e cominciarono a tremarle le gambe. Tramite la redazione del giornale era possibile mettersi in contatto con la signora Berri per fornire eventuali ragguagli sulla scomparsa del marito. Sarah rimase in silenzio per alcuni secondi, poi eggiò nervosamente per la sua stanza incapace di prendere una decisione. Il quel momento il suo capo entrò: – Sarah, posso affidarti un incarico urgente? Puoi partire subito con la campagna promozioni? Ti manderei a Milano domani. – Non posso. Puoi mandarci Carlo? Devo restare a Roma per una faccenda personale. – Ma stai bene? – Sì, certo. Scusami ma è una cosa piuttosto seria. Il capo uscì visibilmente stizzito. Sarah prese il telefono e chiamò la redazione del giornale, infine riuscì a mettersi in contatto con la Signora Berri. Si parlarono brevemente al telefono, poi decisero di incontrarsi il giorno dopo in un albergo di Roma vicino alla redazione del giornale. La Berri avrebbe preso il primo volo da Milano per incontrarla, poter ascoltare il racconto della giornata appena trascorsa e cercare così di rintracciare Claude. La Berri, che precedentemente aveva denunciato la scomparsa del marito, avvertì la polizia della segnalazione avuta dalla giapponese e dell’incontro che ne sarebbe seguito. La mattina dell’incontro Sarah era molto nervosa e, prima di recarsi all’appuntamento con la signora Berri, decise di camminare un po’, tanto per decidere che cosa avrebbe detto. Non era sicura di raccontare alla Berri tutto quello che era successo. Claude era un uomo malato e di questo non vi erano dubbi. Ma Sarah voleva capire fino in fondo se la situazione professionale e personale che quella sera
Claude le aveva rivelato fosse una pura invenzione o se corrispondesse a verità. Temeva che forse quell’uomo cercasse protezione, o volesse fuggire da una situazione reale ma non venisse creduto, o più semplicemente desiderava sentire ciò che la moglie avrebbe detto. Ma poi perché preoccuparsi tanto del destino di uno sconosciuto per di più psicopatico? Questa vicenda dai contorni così foschi la stava coinvolgendo e, giunta a questo punto, desiderava avere una visione più chiara del tutto. Nella hall dell’albergo la Berri la stava aspettando. Si trattava di una donna dall’aspetto deciso, magra, rossa di capelli, alta. Non particolarmente bella, sembrava molto impaziente, continuava nervosamente a giocherellare con un accendino d’argento e guardava verso le porte automatiche con uno sguardo ansioso. Quando Sarah le fu accanto, ebbe un sussulto. Nonostante la presentazione telefonica, la donna non si aspettava l’aspetto orientale di Sarah. Sembrava ansiosa di avere notizie di Claude. Le due donne si strinsero la mano e abbozzarono un lieve sorriso. Dopo essersi presentate si sedettero sul divano. Sarah ruppe il silenzio per prima con la prima bugia che le venne in mente. – Le chiedo scusa per il ritardo, ma ho trovato molto traffico. Come le dicevo al telefono ho incontrato suo marito un paio di giorni fa, in seguito a un guasto della sua autovettura avvenuto proprio davanti al cancello della mia casa, sull’Appia Antica. La Berri la interruppe un po’ bruscamente: – Mi scusi, ma cosa le ha detto Claude? Voglio dire, come le è sembrato? Sono molto preoccupata per la sua salute mentale. È in cura da alcuni mesi e la sua fuga sicuramente è un desiderio di interrompere la terapia. – Sarah scelse una risposta prudente al fine di sollecitare, con la sua parziale omertà, una maggiore confidenza. – Mi è sembrato un uomo dai modi garbati, forse un po’ nervoso e suscettibile, ma comunque non ho notato comportamenti strani. – Questa bugia, pensò Sarah, era assolutamente necessaria. Non aveva alcuna intenzione, per ora, di rivelare come in realtà si fossero sviluppati gli eventi. – Vede Sarah, – incalzò Clara, – mio marito nell’ultimo anno ha sviluppato un grave disturbo di tipo psicologico che non gli ha permesso di svolgere il suo lavoro regolarmente. Si sente perseguitato e la sua malattia gli impedisce di condurre una vita normale e di assumersi delle responsabilità. Sono costretta, mio malgrado, a occuparmi della sua società. Senza considerare il peso di una
situazione che non sembra risolversi a breve. Mentre Clara parlava, Sarah non poté fare a meno di osservare il movimento nervoso delle sue mani che, appoggiate sulle ginocchia, si incrociavano e poi si scioglievano palesando uno stato notevole di tensione. A questo punto Sarah preferì concludere la conversazione dando all’interlocutrice quelle sole informazioni riguardanti l’incontro e il momento del congedo da Claude. Le riferì di averlo lasciato la mattina precedente davanti al meccanico e di non averlo più visto. Si salutarono e Sarah le disse che sarebbe stata a disposizione per eventuali domande o qualora avesse in qualche modo avuto altre notizie. Tornò in ufficio molto preoccupata. Questa vicenda, che riguardava esclusivamente la vita privata fra due estranei, la stava coinvolgendo come una vicenda personale. Certo, tutto era molto strano ma le consentiva di sottrarsi, per qualche tempo, a una serie di questioni private di cui non aveva alcuna voglia di occuparsi. Quella sera tornò a casa presto. Aveva un gran desiderio di tuffarsi in piscina e così fece. La casa era avvolta da un gran silenzio. Si avvertiva solo il frinire delle cicale e qualche macchina che, a forte velocità, correva lungo la strada. Mentre si stava preparando cena, osservava il tramonto infuocato dalla finestra della cucina. Si mise ad ascoltare un programma musicale alla radio, poi prese il telefonino per fare qualche telefonata. Mentre osservava l’orizzonte, notò una macchina ferma e un uomo in piedi vicino al cancello che sembrava interdetto e come sospeso tra il suonare il camlo o sottrarsi e ripartire. Sarah riconobbe Claude, uscì e attraversò il giardino fino a quando si trovarono uno di fronte all’altro. – Ciao Sarah, ti ho portato qualche bottiglia di vino per ringraziarti della tua ospitalità. Lo so che non avrei dovuto più farmi vedere, ma prima di partire volevo ringraziarti ancora. Sono stato sciocco a coinvolgerti in questa assurda situazione. – Ciao Claude, vuoi entrare un momento? Forse c’è qualcosa di cui dovremmo parlare, non credi? Lui la guardò e un lampo attraversò il suo sguardo. La seguì fino in soggiorno, in un angolo posò la scatola con i vini e poi, andosi una mano fra i capelli, con uno sguardo ansioso le chiese:
– Di cosa mi volevi parlare? È successo qualcosa, ti ho messo forse nei pasticci con i tuoi vicini? Sarah si sedette ed esordì con queste parole: – Stamattina ho conosciuto tua moglie, Clara Berri. Ti sta cercando. Ho fatto una ricerca su internet e ho trovato un articolo che parlava della tua vicenda e ovviamente tua moglie ha presentato una denuncia di scomparsa. Ho cercato la redazione del giornale e così ho contattato Clara. Lei sa che sei a Roma e che ci siamo incontrati. Non credi che a questo punto sia necessaria una spiegazione da parte tua? – Mentre Sarah pronunciava queste parole, Claude si era seduto ed era visibilmente impallidito. Si coprì il viso con le mani e, dopo alcuni interminabili secondi, cominciò a parlare. Come un fiume che rompe gli argini e travolge ogni cosa nella sua corsa impazzita, Claude sembrava non aspettasse altro. Appariva agli occhi di Sarah un uomo sofferente, inascoltato e forse, per la prima volta da quando si erano conosciuti, avrebbe raccontato quello che gli stava veramente accadendo. – Clara mi sta cercando perché da circa una settimana mi sono allontanato da casa e non ho più dato mie notizie. Sono partito una mattina, prima dell’appuntamento con il mio psicanalista. Ho preso la mia vecchia Tipo, ho imboccato l’autostrada senza sapere esattamente dove andare, poi sono arrivato a Roma. Ho pochi soldi con me e soprattutto in questa città non conosco nessuno. Cercavo un posto per dormire fuori dal centro, poi la macchina si è guastata davanti a casa tua. Sono in cura da diversi mesi per un forte esaurimento nervoso, non riesco più a lavorare e ho delle manie di persecuzione. Non vedo più il confine tra realtà e finzione, così dice lo psichiatra. Nella mia vita si inseriscono, come pericolose parentesi, ossessioni nelle quali elementi veri si distorcono e si ingigantiscono diventando realtà inquietanti. Nel momento in cui sono vittima di queste ossessioni costruisco trame mentali che diventano parti fondamentali della mia vita. Il dottor Monti, che mi ha in cura, non crede che ciò che gli ho raccontato a proposito della mia situazione personale e professionale sia vero. Vorrei vedere Clara morta ma non riesco a dirlo al dottore. Attraverso il racconto dell’altra sera mi sono in un certo senso liberato identificandomi in un evaso. Dopo queste parole Clara si alzò e disse: – Mi ci vuole un bicchierino di cognac.
Claude nel frattempo si era una sigaretta e la osservava attendendo che si avvicinasse per continuare il racconto. – Non riesco più a concepire un lavoro in cui io non posso esercitare alcun controllo. Ho cominciato con l’estraniarmi, con accumulare elementi che dimostrassero che Clara mi stava ingannando, ma nello stesso tempo non potevo continuare ad andare in ufficio perché tutta la sua macchinazione mi impediva di lavorare, mi sembrava che tutti i miei collaboratori sapessero e non sopportavo l’umiliazione. Sono stanco e non vorrei più tornare alla mia vita di prima. Si è creata una frattura così evidente che non riesco a riprendere in mano una vita ingannata, una vita finta. – A questo punto Sarah lo interruppe. – Probabilmente il tuo esaurimento oramai così evidente non ti aiuta. Nel senso che anche qualora questa donna fosse effettivamente come tu la descrivi, tu ora non sei credibile. Devi riacquistare il controllo della tua vita, curarti e poi, se hai effettivamente degli elementi che provino che lei ti ha danneggiato, ti muoverai nella maniera più opportuna. Forse dovresti riconsiderare l’opportunità di tornare a casa e continuare la terapia. Claude si alzò in piedi e cominciò a camminare, poi si fermò accanto a Sarah, osservandola. – Hai ragione, non sono credibile. Tornerò a casa e affronterò le mie ossessioni. – Non so se ho ragione, ma non vedo altre alternative, – aggiunse Sarah. – Non credo che ci rivedremo, – disse Claude con un debole sorriso. – Non credo proprio, – disse Sarah allungando una mano per salutarlo. Lui si avvicinò e le accarezzò i capelli con la mano un po’ tremante. Decisero di lasciarsi i rispettivi numeri di cellulare. Mentre Claude si allontanava, Sarah si trovò a pensare alla stranezza della vita e a quanto si fosse sentita vicina a quest’uomo così infelice. Quella sera si coricò molto presto, ma quella strana storia continuava a frullarle per la testa. C’era qualcosa che continuava a sfuggirle e che la lasciava perplessa. Si alzò diverse volte per bere poiché non riusciva a prendere sonno. L’indomani mattina, mentre si preparava per andare in ufficio, accese la radio per ascoltare il notiziario. Durante la trasmissione lo speaker disse che in una camera d’albergo della capitale, all’hotel Metropolitan vicino alla Nomentana,
era stato rinvenuto il cadavere di una donna, registratasi come Clara Berri. Della donna si sapeva soltanto che era nella capitale perché stava rintracciando una persona scomparsa, il marito, tale Claude Perrain. La morte della Berri era ascrivibile apparentemente a un malore improvviso sopravvenuto la sera precedente, probabilmente un infarto. Si pregavano tutti coloro che avessero avuto notizie del marito di rivolgersi alla polizia o cercare in qualche modo di fornire elementi per rintracciare lo scomparso. Sarah si stava pettinando e rimase per qualche istante sospesa a fissare la radio, poi si sedette sul bordo della vasca da bagno, incapace di credere a una notizia così sorprendente. Non sapeva cosa fare. Andare alla polizia e raccontare tutta la faccenda, con annessi e connessi? Oppure rintracciare lo stesso Claude e convincerlo ad andare alla polizia? Una vicenda incredibile e sorprendente allo stesso tempo. Dopo pochi minuti suonò il cellulare. Era Claude: – Ciao, hai sentito la notizia? Sono sconvolto. Stavo preparandomi per tornare a Milano. – Che farai ora? Andrai alla polizia? – Credo proprio di sì. – Vuoi che ti accompagni? Dovresti raccontare ogni cosa. – Le confidenze che ti ho fatto quel giorno sono frutto delle mie ossessioni e, in ogni caso, ora non hanno più importanza, non credi? Se vuoi, puoi sempre raccontare di come ci siamo conosciuti, se alla polizia interessa ancora. Per quanto riguarda ieri, è giusto che tu sappia che sono rimasto tutta la sera in albergo a giocare a carte con due ospiti. Non ho cercato Clara al telefonino, avevo intenzione di ripartire l’indomani con l’unico obiettivo di tornare a curarmi. La polizia vorrà sentire gli ospiti dell’albergo e controllerà la mia macchina e il telefonino di Clara. Non ho nulla da nascondere. – Va bene. Se mi dai l’indirizzo del tuo albergo o a prenderti e andiamo alla polizia. – Va bene, ti aspetto. Sarah si vestì di corsa, telefonò in ufficio per avvertire che sarebbe arrivata un po’ in ritardo. Prese la macchina e si diresse all’appuntamento con Claude.
Durante quei giorni il fuggiasco aveva soggiornato in una piccola pensione fuori Roma, una di quelle pensioni per coppiette, che desiderano riparo da clamori e pubblicità. Sul piazzale antistante il piccolo e riparato albergo, Sarah vide Claude appoggiato alla sua macchina. Stava fumando e aveva l’aria sciupata come il primo giorno che si erano conosciuti. Quell’uomo, pensò Sarah, rimane comunque un vero enigma. Quando le sembrava di avere decifrato la sua personalità, tornava ad assumere aspetti e modi inquietanti. Salì in macchina. Per alcuni istanti non parlarono. Poi Claude ruppe il silenzio: – Non appena saranno completate tutte le formalità, riporterò Clara a Milano. Non so cosa dire. Se ci fossimo conosciuti in altre circostanze, ti chiederei di poterci frequentare. Sei una donna straordinaria. Hai fatto molto per me. – Non ho fatto niente di particolare. Ho cercato di aiutarti. Ora però dovresti continuare la tua terapia. In ogni caso. Questo fatto assurdo e incredibile non muta la tua situazione. Però, se ti fa piacere, possiamo rimanere in contatto. – Certo, Sarah. Non posso dimenticare questi ultimi giorni. Arrivati al commissariato, rilasciarono tutte le deposizioni di rito. Claude dovette spiegare le circostanze della sua fuga. Gli inquirenti gli chiesero di rimanere a Roma a disposizione perché il medico legale avrebbe ancora dovuto fare alcuni accertamenti sul corpo della moglie. Sulle scale del commissariato Sarah e Claude si salutarono. Un ultimo sguardo, prima di salire in macchina e tornare alla vita di sempre. arono alcuni giorni e Sarah era in attesa del padre che avrebbe ato il fine settimana come suo ospite. Era una sera molto calda, il cielo era limpido e le nuvole che si rincorrevano nel cielo azzurro assumevano le forme più diverse, buffe e stilizzate. La ragazza si sentiva serena. Non aveva più avuto notizie di Claude da quando si erano salutati fuori dal commissariato. Mentre cucinava ascoltava come al solito il notiziario. Sentì una notizia che le gelò il sangue.
Nella camera d’albergo dove aveva soggiornato una signora milanese, tale Clara Berri, deceduta improvvisamente per cause naturali circa quindici giorni prima, la cameriera che preparava la stanza ha ritrovato una confezione contenente tracce di polvere bianca, che non era stata notata dal personale
dell’albergo al momento del decesso. La donna sembrava aver avuto un infarto ma, nonostante le apparenze, l’autorità giudiziaria aveva deciso di effettuare un’autopsia. I risultati dell’autopsia vennero resi noti contemporaneamente alla comunicazione del reperimento delle tracce di polvere alla polizia. La polvere risultò essere un micidiale topicida. Questo fatto dà il via a una serie di indagini più approfondite per chiarire le circostanze del decesso.
Lo speaker precisò che si sarebbe nuovamente ascoltato il marito, il quale per un certo tempo si era allontanato da casa, proprio nel periodo coincidente con la morte della Berri, e si trovava a Roma in quei giorni. Dopo queste parole Sarah rimase impietrita con lo sguardo rivolto verso le colline distanti, poi rivolse lo sguardo verso l’acqua della piscina leggermente increspata. Venne distratta dal rumore di un’autovettura ferma davanti al cancello. Quando sentì la voce del padre che la chiamava a gran voce, uscì cercando di dissimulare il forte turbamento che scuoteva il suo animo. Il sorriso aperto e dolce del padre le diede forza, e così gli corse incontro a braccia aperte, dimenticando, almeno per qualche ora, quella sorprendente vicenda. Non sapeva esattamente se coinvolgere il padre, confidandogli ogni cosa e non tralasciando nulla, ma in realtà ne temeva il giudizio. O forse, quello che la preoccupava, era la sua forte ingerenza. Il padre era un diplomatico, le sue conoscenze erano vastissime in molti ambienti, non solo nella diplomazia romana. Due giorni dopo la notizia del rinvenimento della polvere bianca, Sarah ricevette una telefonata. Al telefono la polizia la informò che, in seguito ai riscontri effettuati e alla sua precedente deposizione, era necessario risentirla per chiarire alcuni dubbi e sgombrare il campo, definitivamente, da pesanti sospetti che riguardavano Claude Perrain. Quale sarebbe stato il comportamento più giusto ? Quell’uomo l’aveva in qualche modo affascinata, quel sottile e confuso confine tra verità e menzogna produceva in Sarah uno strano effetto, si sentiva avvolta e come infatuata, ma non sapeva esattamente se delle vicende o dell’uomo. Questo stato d’animo, di cui avvertiva la complessità, rischiava però di compromettere la lucida analisi dei fatti e di non consentire di giungere alla verità. Già, ma quale verità? Quella notte rimase sveglia a fissare il soffitto, osservava le ombre prodotte dalle luci sulla strada e pensava. Pensava agli sviluppi più recenti di quella strana storia, alla vita che stava conducendo e al padre che era stato sempre una presenza lontana e distante, perché gli impegni lavorativi lo avevano sempre allontanato e la ragazza l’aveva visto più spesso in
circostanze ufficiali che a casa. Improvvisamente si alzò in piedi e le fu tutto chiaro. A costo di alterare i fatti, avrebbe parlato con il padre. Del resto, non poteva sopportare il continuo stillicidio di notizie, così come la nebbia che avvolgeva Claude, come persona e come uomo, la disturbava. Voleva capire a ogni costo. Quella mattina si alzò molto presto anche se aveva riposato poco. Portò la colazione al padre e poi gli raccontò tutto quello che era successo nell’ultimo periodo, senza omettere nulla. Il padre la ascoltò senza fiatare, poi si sedette davanti alla grande finestra affacciata sul giardino e cominciò a farle alcune domande. – Sarah, cosa vuoi che faccia esattamente? – Aiutare Claude a scoprire la verità. Forse nasconderlo. – Eh?! Cosa stai dicendo? – Se devo raccontare tutta la verità alla polizia, sicuramente vorranno interrogarlo, lo presseranno di domande. Lui è innocente, ne sono sicura, ma per dimostrarlo c’è bisogno di tempo. Se io racconto alla polizia che Claude avrebbe voluto ucciderla, sicuramente lo arresteranno, non seguiranno altre tracce. – Tu non sai in che posizione mi metti. Si tratta di intralciare delle indagini. Potremmo essere accusati di favoreggiamento. È un reato molto grave. Cosa intendi fare? – Andrò alla polizia e racconterò le circostanze in cui ci siamo conosciuti, oltre al comportamento della moglie e del concorrente. Nel frattempo, ti chiedo di nascondere Claude presso l’ambasciata giapponese, fino a quando non raccoglierò altri elementi a suo favore. Poi diremo alla polizia che non sapevamo dove potesse essersi nascosto. Troverà lui una giustificazione. – Mi stai chiedendo di trovare una qualche motivazione per nascondere quell’uomo, anche agli occhi degli addetti all’ambasciata, non è così? Costui deve contare molto per te. Mi sembra che questa storia travalichi ogni altro tuo interesse. – Puoi fare questo per me? In fondo devi solo trattenerlo quel tanto che basta per indagare più a fondo. Nessuno verrà a cercarlo mai all’ambasciata giapponese di
Roma. – Se è veramente malato ed è innocente, perché nasconderlo? – Perché tutto è contro di lui. Lui era a Roma la sera della morte della moglie, lui si sentiva perseguitato da quella donna. – Non lo so Sarah, mi sembra che tu non abbia alcun elemento concreto per credere che quest’uomo non sia coinvolto nella morte della moglie. Non capisco questa tua fiducia incondizionata. – Lui è rimasto in albergo a giocare a carte con altri ospiti durante tutta la serata, non è uscito affatto. La sua posizione è stata controllata. L’ho accompagnato io stessa dalla polizia il giorno in cui è stato trovato il cadavere della moglie. In ogni caso la verità è un’altra. Ma lui non sa proteggere se stesso. – Farò questo per te. Spero che tu abbia ragione. Vedrò come nasconderlo. Dopo la conversazione con il padre, Sarah raggiunse rapidamente la stazione di polizia per essere interrogata dal commissario Salvatore Marino, incaricato delle indagini sulla morte della signora Clara Berri. L’agente Palumbo la fece accomodare in uno stanzino adiacente alla stanza del commissario. Sarah si sedette e per qualche istante, riuscì anche a distrarsi ascoltando le conversazioni concitate e le risate nei corridoi. Dopo alcuni minuti si aprì una porta e comparve il commissario Marino. Un uomo alto, allampanato, con due grandi occhi verdi, un naso aquilino e un pizzetto brizzolato che incorniciava il volto triangolare. I capelli erano molto disordinati e portava degli occhiali appesi con una cordicella un po’ consunta. Squadrò Sarah dalla testa ai piedi, poi con un sorriso di circostanza la fece accomodare. – Ho già agli atti la sua deposizione del 2 luglio 2010. Dopo i recenti sviluppi si è reso necessario ricostruire tutta la vicenda, per questo è stata convocata. Può darmi, nuovamente, le sue generalità e spiegarmi in che circostanza ha conosciuto la signora Berri e il marito Claude Perrain che stiamo cercando di rintracciare? – Mi chiamo Sarah Komitsumi, sono nata a Tokyo il 10 agosto del 1979, abito a Roma. Ho conosciuto Claude Perrain il 26 giugno 2010 davanti a casa mia. Aveva avuto un guasto alla sua macchina davanti al cancello, e mi ha chiesto di poter chiamare un meccanico, ma dal momento che era domenica sera e lui non
era di Roma, lo feci fermare a dormire nella camera degli ospiti. – Mi scusi se la interrompo. C’è qualcosa che non capisco. Lei vive da sola, da quanto risulta. Nonostante ciò, ha ospitato un perfetto sconosciuto a casa sua, senza il minimo dubbio, una perplessità? – Certo, avevo qualche dubbio, ma mi sono fidata. – Continui. – Mi disse che non conosceva nessuno a Roma, che era di aggio e io gli credetti. Poi mi raccontò una strana vicenda famigliare. Mi disse inizialmente di chiamarsi Massimo Forti, però io trovai la sua carta d’identità e scoprii che il vero nome era Claude Perrain. Allora a quel punto mi raccontò di essere in cura da uno psicoterapeuta e che la moglie aveva una relazione con il titolare di una ditta di informatica, concorrente a quella del Perrain, appunto tale Massimo Forti, un concorrente al quale la moglie ava notizie riservate e che nel contempo cercava di screditare la sua posizione. – Durante la deposizione Sarah si guardò bene dal riferire il racconto dell’evasione ritenendolo in ogni caso frutto delle ossessioni dell’uomo. – Quando conobbe Clara Berri? – Esattamente due giorni dopo. Feci una ricerca su internet e scoprii che un uomo, di nome Claude Perrain, era scomparso da Milano e la moglie lo stava cercando. Chiamai il giornale, rintracciai la Berri e incontrai la signora in un hotel vicino alla Nomentana. Mi raccontò del forte esaurimento del marito e che lei aveva dovuto sostituirlo nella ditta, e questo le causava molto stress. Non aggiunse altro. Io riferii le circostanze dell’incontro, poi ci salutammo rimanendo d’accordo che non appena avessi avuto altre notizie l’avrei cercata. Tutto qui. – Come le sembrò la Berri in quell’occasione? Tesa? Nervosa? Che impressione le fece? – Mi sembrò un po’ tesa, questo sì. Ha mosso nervosamente per tutto il tempo le mani sopra le ginocchia, ma l’incontro fu molto breve. – Ha avuto ancora occasione di sentire il Perrain dopo la morte della moglie?
– L’ho accompagnato alla polizia dopo la morte della moglie. Credo che ci sia un verbale con delle sue dichiarazioni. Poi non l’ho più visto. – Signorina Komitsumi, è sicura di non averlo più incontrato? Guardi che si tratta di omicidio. Lei potrebbe essere accusata di favoreggiamento, – il tono della voce era divenuto perentorio. – No, non l’ho più visto, – rispose con tono risoluto Sarah. – Stiamo cercando di rintracciare il Perrain per interrogarlo, ma al momento sembra irreperibile. Può darci qualche notizia sulla ditta concorrente di cui le ha parlato il Perrain? – So che il concorrente si chiama Massimo Forti, la ditta è a Milano, ma altro non so. – Va bene. La ringrazio, resti a disposizione per eventuali chiarimenti. Così dicendo la accompagnò alla porta, non prima di averle rivolto uno sguardo indagatore e penetrante, come per captare messaggi da piccoli gesti e da movimenti anomali. Il padre di Sarah, subito dopo la conversazione avuta con la figlia, aveva rintracciato Claude Perrain e lo aveva messo al corrente degli ultimi sviluppi. Poi gli disse che alcune persone di sua fiducia lo avrebbero prelevato e nascosto in ambasciata fino a quando gli sviluppi del caso non fossero stati più chiari. Claude manifestò tutta la sua perplessità al diplomatico e a Sarah, tuttavia si rese conto che la sua malattia mentale e la situazione di isolamento totale nella quale si trovava rendevano la sua posizione più fragile e tutto ciò non avrebbe fatto altro che gettare ulteriori sospetti su di lui. Fu così che accettò l’invito del diplomatico. La notizia dell’avvelenamento saltò agli occhi anche a un negoziante della periferia romana. Un certo Amilcare Quartullo, che aveva un negozio di sementi e prodotti per il giardinaggio, si ricordò che circa quindici giorni prima un signore giovane, gli chiese una confezione di solfato di tallio. Il Quartullo rimase un po’ stupito, in quanto questo tipo di topicida non si vendeva più molto. Lui stesso ne aveva solo più una confezione. Telefonò alla polizia, ma la sua testimonianza inconsistente non giovò molto al proseguimento delle indagini. La polizia intanto aveva rintracciato Massimo Forti e l’aveva convocato per un
colloquio. Si presentò al commissariato un uomo alto, con i capelli brizzolati, vestito in maniera sportiva. L’uomo, visibilmente infastidito e nervoso, continuava a telefonare in ufficio per avere notizie, e cercava in qualche modo di sbloccare la tensione. Dopo alcuni minuti fece il suo ingresso il commissario trafelato e scusandosi del ritardo fece entrare e accomodare il Forti. – Buongiorno. Può darmi le sue generalità? – Mi chiamo Massimo Forti, sono nato a Brescia il due dicembre 1970, lavoro a Milano dove ho, in società con altri, una ditta di informatica. Mi occupo di elaborazione di software. Senta, vorrei sapere per quale motivo sono stato convocato. Anch’io lavoro come lei, sono spesso all’estero, e non ho molto tempo da perdere. – Lei conosceva la signora Clara Berri e suo marito, Claude Perrain? – Certo. Claude è un collega, un uomo inaffidabile. Era, una volta, molto bravo nel suo lavoro, una specie di guru dell’informatica, anche se prevedibile e un po’ noioso. Poi, certo, quel suo esaurimento… Clara invece era una donna inquieta e annoiata, del resto ci voleva una pazienza infinita a sopportare le crisi di Claude. – Ci risulta che lei avesse una relazione sentimentale con la Berri, di cui il Perrain era a conoscenza. – Scusi ma questo cosa c’entra? Sono fatti privati. E poi chi vi ha informato della mia relazione con la Berri? – Non la riguarda. Lei risponda alla mia domanda! aggiunse perentorio il commissario. – Sì, avevo una relazione con Clara. Questo cosa importa? – Mi dica piuttosto dove si trovava tra il 26 giugno e il 2 luglio 2010. – Ero a Roma, per lavoro. Dovevo incontrare due clienti per installare nuovi programmi. Ho un piccolo ufficio qui nella capitale. – Certo. Una strana coincidenza, non crede? Lei era a Roma, nei giorni in cui Clara si trovava qui per cercare il marito, e poi da riscontri successivi è risultata avvelenata. Non le sembra strano?
– No. È solo un caso. – In quei giorni l’ha incontrata? – No. Non avevo molto tempo, e non sapevo che lei si trovasse a Roma. Da un po’ di tempo non ci vedevamo con frequenza. Mi dispiace per quello che le è successo, francamente non capisco perché non cerchiate altrove. – Ho bisogno di verificare il suo alibi in maniera precisa e dettagliata. Dovrò chiedere al pubblico ministero di emettere un mandato di perquisizione nei suoi confronti, che probabilmente si estenderà anche alla sua abitazione, sia quella milanese sia l’ufficio romano. Si cerchi un avvocato, da oggi lei è indagato. Dopo queste parole il Forti si alzò furente e investì il commissario Marino con una valanga di accuse generiche e confuse. Dovette intervenire Palumbo per sedare e bloccare le intemperanze dell’uomo, che ormai aveva perso ogni controllo. – Ma cosa sta dicendo commissario? Lei è impazzito?! Perché non indagate sul Perrain, è un uomo malato, mi odiava. Voi lo state proteggendo. Poi Palumbo accompagnò Forti verso il corridoio fino all’uscita, per accertarsi che non aggredisse ulteriormente il commissario. Ovviamente i giornali seguivano da giorni l’evoluzione di questa misteriosa vicenda, e pubblicarono le foto di Massimo Forti e di Claude Perrain. Un paio di giorni dopo la pubblicazione della fotografia di Massimo Forti sul Messaggero, si presentò al commissariato Paola Pini, una cameriera dell’hotel Metropolitan di Roma, colei che aveva trovato tracce di polvere bianca nella stanza dove aveva soggiornato la signora Berri. Venne ascoltata dal commissario e la sua deposizione fu ritenuta importante ai fini dell’indagine. Disse che l’uomo sul giornale, Massimo Forti, era venuto a trovare la Berri in quei giorni, e lei l’aveva riconosciuto perché era successa una cosa singolare. Di solito non osservava i visitatori che si recavano in albergo per incontrare gli ospiti, ma in quel caso rimase stupita perché il Forti, che le sembrava un uomo dall’aria spavalda e sicura di sé, le fece delle avances, invitandola a cena fuori, proprio la sera precedente la scoperta del cadavere della Berri. Questa cosa le rimase impressa, e quando vide la foto sul giornale e la collegò a tutta la vicenda, decise di venire a testimoniare.
Per il commissario Marino era sicuramente molto importante. Prima di torchiare il Forti, doveva però trovare qualche elemento che collegasse in maniera chiara e inequivocabile l’uomo al delitto. Era necessario trovare anche un movente. Il negoziante però, non aveva riconosciuto in Forti l’uomo che aveva acquistato il veleno. Le perquisizioni negli uffici del sospettato sembrarono portare a un nulla di fatto, finché vennero anche analizzati, nel cortile adiacente l’ufficio romano, i contenitori della carta straccia e quelli del vetro. Furono rivoltati uno per uno finché un poliziotto della scientifica trovò, completamente aderente al fondo di una bottiglia di birra, una parte di scontrino fiscale emesso dal negozio di sementi del Quartullo. La prova venne portata al commissario Marino che trasmise gli atti al magistrato, il quale convocò il Forti per un interrogatorio formale. Quella sera il caldo era opprimente. Negli uffici della procura della Repubblica il magistrato aveva convocato Massimo Forti per procedere a un interrogatorio che si presentava determinante a quella fase delle indagini. Verso le 19 Massimo Forti fece il suo ingresso insieme con l’avvocato, un brillante difensore della borghesia romana. L’informatico non aveva più l’aria spavalda del primo giorno, sembrava invece molto preoccupato. Portava un completo di lino azzurro e un golf blu di cotone sulle spalle. La barba era un po’ lunga e gli occhi infossati. L’uomo e l’avvocato vennero introdotti nella stanza e si sedettero di fronte alla scrivania del giudice. Per alcuni istanti i tre rimasero in silenzio. Si avvertiva solo il fruscio continuo delle pale del ventilatore e in lontananza, nel corridoio, un vociare alterato tra poliziotti e piccoli spacciatori della zona, appena introdotti nei locali della procura. Il giudice era un uomo dotato di una pinguedine esuberante, con due grandi basette e due occhi piccoli come due fessure, che muoveva in continuazione come fossero due palline di vetro in un videogioco. Le mani del giudice sembravano possedere vita autonoma rispetto al corpo dell’uomo, in quanto producevano movimenti continui e frenetici sulle carte e sui tasti del computer. La massa corporea era totalmente immobile e sprofondata nella poltrona e lingue di grasso fuoriuscivano dai fianchi e si appoggiavano ai braccioli. Dalle labbra l’uomo emetteva un leggero sibilo come un grande cetaceo nelle profondità dell’oceano. Dopo qualche minuto il giudice ruppe il silenzio e illustrò brevemente gli ultimi
sviluppi dell’indagine e le testimonianze raccolte. Chiese al Forti di raccontare, senza alcuna reticenza, quali fossero esattamente i suoi rapporti con Clara Berri, dall’inizio alla fine della loro conoscenza. – Ho conosciuto Clara quando iniziò a lavorare con Claude. Era una donna molto decisa, preparata, e anche se non aveva competenza specifica in informatica, sapeva benissimo gestire e coordinare. Rimasi colpito dalla sua capacità di prendere delle decisioni anche quando Claude non era in ufficio o si trovava all’estero, un piglio manageriale indiscutibile. Iniziammo a uscire tutti insieme e rimasi affascinato dalla sua personalità; non era particolarmente bella, ma sapeva catalizzare l’attenzione su di sé. Claude non sopportava la sua invadenza continua, l’amava ma non tollerava la sua personalità. Certo, Clara inizialmente lo aiutò, soprattutto quando lui cominciò a dare segni di squilibrio, poi dovette prendere delle decisioni e assumersi delle responsabilità e lo fece, anche bene. Fu in quel periodo, circa un anno fa, che iniziò la nostra relazione. Claude era asfissiante e insicuro e cominciò a mettersi in cura, e Clara dal canto suo non tollerava più questa situazione. – A un certo punto della vostra relazione questa donna si è inserita nella sua attività lavorativa. Può spiegarmi in che modo? – La società con il marito non andava più bene. Stava sempre male e lei mi disse che mi avrebbe aiutato. – Voleva screditare l’azienda del marito? – Penso di sì, – disse tutto d’un fiato. – Signor Forti, Claude Perrain era a conoscenza di questo raggiro, nonostante l’esaurimento, e lo disse al suo psichiatra che però non gli credette. Poi lo confidò anche alla signora Sarah Komitsumi, la giapponese che lo ha ospitato durante la sua fuga. Abbiamo trovato, scartabellando nel suo ufficio milanese, un elenco di clienti che prima si servivano dal Perrain e sembrerebbero essere stati dirottati verso la sua azienda. Qual era il fine? Far fallire l’azienda del Perrain, inglobarla ed estromettere definitivamente il concorrente? Che ruolo aveva Clara in tutto ciò? – La voce e il corpo del giudice si erano improvvisamente animati. – Perché non lo chiede a Perrain? Dov’è adesso? – Lo sto chiedendo a LEI! – aggiunse il giudice con voce alterata.
Massimo Forti non riusciva a trattenere la tensione. Parlava con la testa bassa, non riusciva a sostenere lo sguardo del magistrato. L’avvocato gli aveva suggerito di essere reticente e prudente in ogni contestazione, di non esporsi in dichiarazioni compromettenti, ma la sua situazione si stava marcatamente evidenziando come pericolosa. Riprese la parola nuovamente il magistrato. – Senta, la sua posizione può considerarsi quasi del tutto compromessa. Abbiamo trovato nel suo ufficio questi documenti, lei era a Roma nei giorni in cui la Berri è deceduta. È stata avvelenata con del solfato di tallio in dosi massicce, che le è stato sciolto nella birra. Perlustrando tra i suoi rifiuti abbiamo trovato lo scontrino d’acquisto del veleno. Lei ha avvelenato la Berri perché era diventata scomoda. Forse non le ava più le informazioni, è successo qualcosa tra voi due. Le conviene parlare, se non lo fa noi giungeremo comunque a una incriminazione. Se parla, potrebbe alleggerire la sua posizione. Lei rischia l’ergastolo. Ha capito?! – disse il giudice sbattendo con forza un fascicolo sulla scrivania. – Ho capito. Ho bisogno di consultarmi qualche minuto con il mio legale. – Va bene. Le lascio dieci minuti, non uno di più. – Il magistrato si alzò in piedi mentre due grossi rivoli di sudore gli attraversavano il viso. Ormai non aveva dubbi circa la colpevolezza del Forti. Certo era molto strana la circostanza della sparizione di Claude Perrain. Sicuramente era un uomo malato, ma da cosa si nascondeva? Per un momento solamente, il magistrato si estraniò pensando che avrebbe voluto essere in vacanza. Tutti gli anni ava un breve periodo alle isole Eolie. Un paradiso di profumi e di colori. Con degli amici faceva pesca subacquea e poi grandi mangiate di pesce sulla spiaggia. arono alcuni minuti poi il giudice rientrò velocemente nella sua stanza per riprendere l’interrogatorio del Forti. L’uomo era in piedi vicino alla finestra aperta e stava fumando nervosamente. L’avvocato stava telefonando ma riattaccò subito. – Signor Forti spenga quella sigaretta, non si può fumare qui, è un ufficio pubblico. Intervenne l’avvocato che rivolse al magistrato la richiesta tanto attesa. – Il signor Forti, alla luce degli ultimi sviluppi, intende rilasciare una piena e immediata confessione.
– La ascolto, – disse il giudice riprendendo il posto sulla poltrona che in tutta risposta emise un gemito di sofferenza. Il Forti si sedette. Poi si ò una mano fra i capelli e si coprì il volto con le mani. Dalle stanze adiacenti non filtrava nessun rumore. Probabilmente, data l’ora tarda, vi era solamente qualche collega di turno per ricevere le denunce. – Cominciò tutto circa otto mesi fa, quando Claude iniziò ad avere disturbi nervosi. Clara cominciò a occuparsi della parte commerciale, e iniziò a prendere contatti con i clienti. Riuscì a concludere buoni affari anche senza la presenza del Perrain. In quello stesso periodo iniziò la nostra relazione. Non avevo idea, allora, di come sarebbe continuata questa situazione, ma certo, qualche volta lei sembrava darmi piccoli suggerimenti, si potrebbero chiamare messaggi subliminali. Cioè mezze frasi, ma tutte insieme avevano un importante significato. – Scusi, non riesco a capirla. Può essere più chiaro? – Mi diceva che aveva incontrato la tal ditta con la quale erano in trattative per fornire programmi, ma che non erano in grado di concludere e che se io avessi voluto mi avrebbe dirottato il cliente. A me questo parve subito strano e ricordo che un giorno le chiesi che intenzioni avesse. Lei disse che mi avrebbe aiutato, mi avrebbe ato i clienti di Claude perché lui non era più in grado di continuare, e questo mi parve molto strano. Diceva che lei da sola non sarebbe riuscita a seguire l’attività e che prima o poi l’avrebbe lasciato. Voleva da me una percentuale su ogni cliente dirottato. Inizialmente la percentuale era bassa, poi dopo qualche mese mi chiese molto di più. Mi sentivo avviluppato in una maniera così sottile e continua e ho avvertito il pericolo solo dopo molto tempo. – Di che pericolo parla? – chiese il giudice ora visibilmente incuriosito. – Vede, inizialmente io ho visto solo il guadagno che Clara mi offriva, spostando i contratti futuri verso la mia società, poi mi sono reso conto che la sua bramosia di denaro mi avrebbe soffocato, sarei stato un burattino nelle sue mani e forse la malattia di Claude poteva avere una ragion d’essere anche nel comportamento di Clara. Questo mi ha portato ad allontanarmi da lei, sia nella relazione affettiva che nei rapporti di lavoro. Lei si è subito accorta di quello che stava accadendo e ha minacciato ripetutamente di are le sue informazioni ad altri, per danneggiarmi, così come aveva fatto con il marito. Clara non è una vittima, è la
più grande manipolatrice che io abbia mai conosciuto. Negli ultimi due mesi Claude non veniva più in ufficio e per ogni nuovo cliente che Clara acquisiva a totale insaputa di Claude, lei mi chiedeva percentuali sempre più alte per dirottarmi il cliente. – L’uomo si ava la mano tra i capelli e muoveva il busto sulla sedia con un’agitazione continua. – Mi scusi ma lei ha accettato questo compromesso, non mi dica che non si rendeva conto delle mire di questa donna. Una donna che approfitta della malattia del suo compagno per, non solo intrattenere una relazione con un concorrente, il che di per sé non costituisce alcun reato, ma si insinua nella sua attività commerciale continuando nello stesso tempo a fingere di lavorare con il marito, – aggiunse spazientito il giudice. – Lei ha commesso un omicidio premeditato e non può presentare questa donna come l’unica responsabile di questa tragedia. Lei è altrettanto responsabile e forse, se qualche attenuante le sarà concessa, sarà unicamente in relazione alle minacce ricevute. Ma certo il suo avvocato l’avrà sicuramente informata. – Mi ha informato. Dottore, sono distrutto. Lei non immagina come posso sentirmi ora. Quando hai costruito la tua vita, giorno dopo giorno, mattone su mattone, e poi una luce falsa, abbagliante ti mostra cosa puoi raggiungere senza troppa fatica, ci credi, ci vuoi credere. Poi l’abisso, il vuoto. Perdere tutto quello che hai costruito, in pochi giorni, a opera di una donna avida e arrampicatrice, cieca e sorda. Sapevo che non avrebbero trovato la polvere, che non potevano risalire a me. Non immaginavo che Claude avesse fatto tutte quelle confidenze alla giapponese. Non avrebbero mai pensato a un omicidio. E comunque non sarebbero mai risaliti a me. E poi ho fatto un errore, uno stupido errore. Invitare a cena quella cameriera, quella stupida e insignificante cameriera. Mi sentivo liberato e invece avrei dovuto vigilare, e vigilare ancora. Queste furono le ultime parole pronunciate da Massimo Forti, poi il silenzio. Un silenzio cupo, interrotto da improvvisi singhiozzi, che scuotevano il corpo dell’uomo. Il caldo era opprimente e il giudice lasciò per qualche momento quell’uomo al suo sfogo, rivolgendo uno sguardo preoccupato all’avvocato. Poi disse a Massimo Forti, con voce perentoria: – Lei sarà rinviato a giudizio per omicidio premeditato. Richiederò la convalida del suo arresto e lei erà la notte in carcere. Alcuni istanti dopo il magistrato raccolse la sua borsa e uscì dalla stanza, fece pochi i e raggiunse la strada buia per la notte incombente. All’angolo della strada si accese una sigaretta e si
voltò verso le finestre della procura. In quel momento gli sembrò che tutto il palazzo fosse avvolto dalla nebbia, ma era solo una sensazione, la stessa sensazione che provava ogni volta che un uomo gli confessava la sua pena. Tutti i giornali riportarono a grandi titoli la notizia della confessione del Forti, e tutta la vicenda venne analizzata e approfondita, fin nei minimi particolari. Quale occasione migliore per raccontare una storia che conteneva in sé uno spaccato della società odierna! L’amore, l’odio, il denaro, il delitto e la malattia. Vi era coinvolta la figlia di un funzionario dell’ambasciata giapponese e ogni risvolto venne analizzato da giornalisti della cronaca, e da acuti osservatori del costume nazionale. Il giorno successivo la pubblicazione della notizia si presentarono al commissariato il diplomatico Komitsumi con la figlia e Claude Perrain. Vennero accolti dal commissario che aveva seguito le indagini. Questi rimase sulle prime interdetto, poi ascoltò il diplomatico che disse di voler spiegare il mistero della scomparsa del Perrain. Il commissario lo ascoltò in silenzio. – Mia figlia, dopo la morte della Berri, mi chiese di ospitare per alcuni giorni Claude Perrain in ambasciata, in quanto riteneva quell’uomo innocente e riteneva che a causa della sua malattia non avrebbe potuto sopportare interrogatori continui. Perrain voleva allontanarsi da tutta questa vicenda, anche perché la sua prima scomparsa era legata alla situazione di sofferenza che stava vivendo. So che non avrei dovuto sottrarlo agli interrogatori, ma lui era già stato sentito dopo la morte della moglie e pur odiandola, non aveva nulla a che fare con la sua morte. Mia figlia ha avuto ragione. – Sua figlia ha avuto ragione. In ogni caso lei non avrebbe dovuto intralciare le indagini, proteggendo una persona così vicina alla vittima. Tuttavia, dal momento che il Perrain non è mai stato indagato, potrei considerare il suo eccesso di prudenza quantomeno scorretto e soprattutto ingiustificato. – Signor Perrain, lei cosa mi dice di tutta questa vicenda? – chiese il commissario incuriosito. L’aspetto di Claude era decisamente cambiato. Quasi come se il soggiorno in ambasciata gli avesse restituito una certa sicurezza e dignità. – Non mi sembra vero che tutta questa vicenda, così amara e dolorosa, si sia conclusa. Sicuramente mia moglie mi stava rovinando l’esistenza ma non avrei
mai pensato che Massimo, dopo quello che lei ha fatto per lui, fosse arrivato a un punto tale. Ma del resto Clara aveva perso ogni controllo, la sua avidità era un tarlo che la divorava dall’interno senza darle scampo. – Certo che se lei non si fosse confidato con la signorina Komitsumi. Non molte persone nella sua situazione sarebbero state ad ascoltarla e a credere alle circostanze così come si presentavano, – aggiunse il commissario. – Lo so che devo molto alla signorina Komitsumi. Se non fosse per la fiducia che ha riposto in me, per aver creduto alle mie parole, lei stesso, commissario, non mi avrebbe creduto. – Signor Perrain, – disse il commissario, – per ora continui la terapia e cerchi di recuperare, se può, parte del suo lavoro. Si lasci alle spalle questa storia così angosciante e buona fortuna. Detto questo i due uomini e Sarah uscirono dal commissariato. Era una splendida giornata estiva, il sole caldo e accecante illuminava tutta la piazza antistante il commissariato. Claude si rivolse a Sarah: – Sarah, come hai fatto ad avere fiducia in me? Non ti ho dato nessun appiglio. Tra le manie di persecuzione e i continui colpi di scena, non so proprio come tu abbia potuto credermi. – Mah, non lo so. Intuito, forse. Inizialmente volevo crederti nonostante le apparenze, per sfuggire a me stessa e alla vita che stavo conducendo. Poi ho capito che avevi bisogno d’aiuto e non mi sono sottratta. Che farai ora? – Torno a Milano. Vediamo se riesco a rimettere in piedi la mia azienda. Posso sperare di rivederti, tra qualche tempo? – Pensavo giusto tra qualche giorno di organizzare una festa in piscina da me. Se non ricordo male ti piace nuotare. E poi magari puoi tornare a usare quella camera per gli ospiti. Ma questa volta ti prometto che non frugherò nei tuoi calzoni. Puoi venire anche senza la carta d’identità! Sarah e Claude si abbracciarono e rimasero un po’ in silenzio. Poi Claude si infilò su un taxi, per raggiungere l’aeroporto e tornare finalmente a casa. Sarah seguì con lo sguardo il taxi fino a quando non svoltò nella prima via. E sorrise.
Ora nulla sarebbe stato più come prima.