Un ricamo di fragole rosa - Delitti di provincia 5
Annarita Coriasco
© 2013 Annarita Coriasco
Edizione Smashwords
Prima edizione
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Un ricamo di fragole rosa - Delitti di provincia 5
-Ma pensa te! –esclamò il signor Carpati, vicino di casa dei signori Pucci –“Casaro ritrovato a testa in giù nel calderone della ricotta”! -Che brutta fine... –commentò la signora Lucia, sua moglie, strabuzzando gli occhietti scuri dietro le spesse lenti da miope. -Sembra uno dei delitti ne “Il nome della rosa” –osservò la signora Franca assestandosi sul sedile del pullman. Pucci, seduto lì di fianco, sbuffò. L’autista suonò il clacson e la nervosissima signorina Boero trasalì sul sedile alla sinistra di Pucci, dall’altra parte del corridoio. “Almeno qui...” pensò Pucci “Basta con questi delitti!”. Era inutile. La gente aveva ed ha proprio una speciale predilezione per i fatti di sangue, meglio se conditi di mistero. “Certo, morto annegato nella ricotta non è proprio il massimo per un thriller” pensò distrattamente Pucci. Il fatto era che a lui le vacanze lunghe o corte che fossero gli entravano nel sangue. Non appena prenotava un qualsivoglia biglietto, esigeva di staccare da tutto. Era un pezzo che sognava San Gimignano e le sue famose torri, nella terra avita che aveva dato i natali a suo nonno paterno Giacomo del quale portava orgoglioso e fiero il nome. E invece doveva ahimè accontentarsi della gita parrocchiale ai Tornetti di Viù. Dieci giorni ad un prezzo irrisorio. Non che a lui non pie la montagna, anzi, per anni sotto gli ombrelloni e tra i piedi e le natiche più disparate aveva sognato la montagna. E poi Franca aveva ragione: erano indietro con i pagamenti delle tasse e Paola, la loro unica figlia, aveva ecceduto un po’ nelle spese da quando era fidanzata con quel Pierlivio che, tra l’altro, non gli piaceva proprio. Ah, se solo avesse trovato un giovane, morigerato e accorto come il suo vice Paolo Stenti. Ma a lei piaceva tutt’altro genere di ragazzi. Mah... Franca, sua moglie, ora si era messa a chiacchierare con la tremebonda signorina Boero e lo faceva tartassando il suo timpano, perché il maresciallo era proprio seduto tra la moglie vicino al finestrino e la Boero, sul sedile al lato opposto, oltre il corridoio dell’automezzo. Per fortuna, mancava poco al loro arrivo ai Tornetti di Viù e l’albergo “Villa Tornetti” li avrebbe accolti nel silenzio e nella
quiete alpestri, tra i suoi pini secolari, il campo da bocce, il vasto salone locale bar e le accoglienti stanze con vista sulla splendida vallata. Così recitava il depliant “faidate” di Don Secondo, parroco di Foli.
L’albergo “Villa Tornetti” era la vecchia villa padronale d’un paesotto tutto in salita al quale si accedeva solo a piedi. Il parcheggio era una trentina di metri più in basso. Salirono uno stretto viottolo a scalini di pietra e, ando carichi di valigie, ammirarono il campo da bocce deserto, il vasto cortile nel quale torreggiavano quattro abeti enormi ed altissimi. L’esiguo dehors sul marciapiedi dell’albergo, composto da tre tavolini e otto sedie vuoti, e un altro tavolino dove giocavano a carte una signora enorme con un grembiale a scacchi rossi e bianchi, un anziano con i pantaloni di fustagno senape ed un cappellaccio marrone in testa, un altro signore col pizzetto ed i pince-nez, giacca di velluto a costine color cammello e stivali fino al ginocchio ed un’anziana con i calzettoni di lana neri, il vestito blu a fiorellini bianchi e un gilet fatto presumibilmente a croquet di un verde imprecisato, il tutto condito da uno chignon sulle “ventitre”. Il padrone era uscito tutto festoso ad accoglierli. Si fregava le mani come un usuraio ed aveva l’aspetto di un capitano di lungo corso: occhi azzurri, barba corta e paffuta nonché bianca, baffi a spazzola e cespugliose sopracciglia immacolate. Di contro era vestito quasi come un vecchio alpino: pantaloni di fustagno e camicia a quadretti rossi e verdi. Gli mancava solo il cappello con la piuma. Contava i suoi ospiti amorevolmente indicandoli timidamente con l’indice, mentre Don Secondo gli ricordava le otto stanze doppie e le due singole che aveva prenotato. Ben presto furono all’interno di un vasto locale scuro con un lungo bancone più scuro ancora e di legno. Di legno era il pavimento a larghi assiti grigiastri. Le mura erano costellate da trofei di caccia e pesca lievemente impolverati. Il pianoforte, che a Franca ricordava quelli dei locali del far west, con la specchiera grande appesa enorme e macchiata dell’opacità del tempo. I tavoli sparsi qua e là erano invece molto “anni sessanta”, rotondi e non molto grandi. Pucci si guardava attorno: non c’erano porte su sale comunicanti. L’unico aggio era a lato del bancone, completo anch’esso di specchiera da bar. Scoprirono ben presto che da quella parte si accedeva ad un esiguo aggio che al fondo, dall’odore e dalle casse di verdure, dava sulle cucine. Sul lato sinistro aveva una porta che probabilmente accedeva ad una cantina e poi a metà aggio la stretta e scivolosa scala di pietra che portava ai piani superiori. Seguirono in fila indiana dietro al padrone (certo Giovanni Mulatè), Don Secondo e via via tutti i pensionanti che cercavano di non incastrare da qualche parte le valigie e borse su per la stretta scala. La stanza che fu assegnata ai signori Pucci era bassa quanto il locale sottostante era alto, aveva le finestre piccole quanto quelle al piano inferiore erano alte e
piene di luce. Il pavimento era di fredda pietra. Il letto di ferro, alto come un catafalco funebre, scricchiolante come le ossa di zia Rosa, parente e amica di Franca. C’era un vecchio e strettissimo armadio tirato a lucido con un’anta che non voleva saperne di stare chiusa, due comodini alti e stretti con l’antina per il pitale. Un tappeto grande come un fazzoletto da naso ai piedi del letto, un lampadario coi puttini di maiolica che tenevano su tre lampadine lunghe e impolverate e due puttini solitari attaccati al muro sopra ai comodini. Niente comò e niente tende alle due finestrucole. Pucci pensò che tanto era inutile, bastava appenderci due francobolli. Rise tra sé con moderata disperazione. Il bagno era uno solo, in comune fra le tre stanzette di quel piano. “E ci va pure bene” commentò tra sè il maresciallo. Altre cinque stanze erano due rampe di scale sopra di loro. In compenso il luogo era pacifico e si mangiava proprio bene. Il latte e la panna di stalla erano per ogni dove, deliziosi come il formaggio caprino fatto col latte di vere capre pascolate nei prati che circondavano il paesino. Quest’ultimo era composto si e no da una ventina di case, quasi tutte abitate soltanto d’estate dai turisti. C’era una piazza in terra battuta grande quanto il salotto di casa Pucci (una ventina di metri quadri). Un bar su in cima al paese aveva anch’esso il ristorante con una sala da pranzo da ben quindici posti e due camere con bagno in affitto. Aveva inoltre uno spiazzo in cemento con i “calcio-balilla” e i flipper protetti da una tettoia verde che era forse più grande della piazza del paese.
Il pianoforte mezzo scordato dell’hotel “Villa Tornetti” era divenuto il chiodo fisso della signorina Boero. Questo fatto mandava in ambasce le signorine Camusso e Cafiero, sue amiche, che amavano le eggiate in montagna sopra ogni cosa e non ci misero molto ad abbandonarla al suo per loro noioso trastullo. Le note risuonavano nel vasto locale semivuoto, mentre il resto dei pigionanti eggiava, giocava a bocce, faceva pic-nic, ma soprattutto eggiava... I signori Carpati vicini di casa dei Pucci avevano una predilezione per questi ultimi e li seguivano ovunque. Alla Franca faceva piacere perché la signora Lucia aveva un bel carattere ed inoltre avevano un interesse in comune: le “telenovela” brasiliane e argentine. Parlavano in continuazione di personaggi, trame e ambientazioni, anche per ore, mentre si camminava lieti sotto il sole tra paesaggi di stupenda quiete alpestre e pupù di mucche. Ma Luigino Carpati, con la sua mania per gli omicidi celebri era divenuto insopportabile al povero Pucci. Neppure l’essere citato con i suoi casi di tanto in tanto, lo smuoveva dal suo apatico nervosismo che da tre giorni lo sovrastava. Costui gli era divenuto così insopportabile che il mattino del quarto giorno decise di giocare a bocce. Una tremenda decisione perché non ci era per niente portato, se ne tediava oltremodo e perdeva infallibilmente. Sapeva però carognescamente che il signor Carpati aveva un menisco malandato e un principio di ernia del disco e non poteva giocare. Costui però non demordeva e per un po’ rimase seduto su una delle panchine in freddo cemento ad osservare Pucci e ad applaudire a casaccio. Mentre schivava api e calabroni, altri villeggianti di Foli che lui conosceva a malapena si dissero sicuri che nel bosco pianeggiante più a valle c’erano già dei funghi. Vi si recarono capeggiati da Don Secondo e finalmente Carpati sparì con loro mentre la signora Franca e la di lui moglie Lucia sedute al dehors con una valligiana trattavano il prezzo di certe forme di formaggio. Pucci intanto si faceva stracciare con un arrabbiatissimo compagno Folese, certo Camagna, da due villici locali contro i quali avevano avuto la ventura di iniziare la tenzone. Ben presto però Pucci si liberò anche dei bocciofili con una vile scusa: il riacutizzarsi della sciatica. Finse anche di rientrare claudicante in albergo. Sgusciando destramente dietro uno degli abeti colossali, ò di gran carriera lungo il sentiero che portava in cima al paese vicino alla chiesetta di pietra. La Franca lo vide con la coda dell’occhio mentre seguitava a contrattare per il formaggio. Il suo Giacomo a volte aveva bisogno di rimanere solo per rilassarsi, anche se non aveva particolari pensieri. Lei lo sapeva più che bene. Trent’anni di matrimonio e poteva ben dire di conoscerlo come le sue tasche. E poi questa era un’urgenza, il marito di Lucia a volte era davvero pesante con quel suo chiodo
fisso della cronaca nera ata, presente e persino futura. L’aveva sentito lei sul pullman dire che nel futuro si sarebbe avuto a che fare con armi del delitto tipo laser e altro che ora neppure immaginavamo... Persino sua moglie aveva distolto lo sguardo per alzare segretamente gli occhi al cielo in una muta supplica.
Erano ati altri tre giorni di quiete alpestre e c’era stata anche la festa del paese con “il gran ballo” la sera prima nell’ampio salone locale bar sala da pranzo dell’hotel “Villa Tornetti”. Quel giorno erano quasi tutti in gita all’Alpe Verde, altitudine millecinquecento metri. Erano partiti con bastoni, scarponi e borracce. Era Don Secondo che li guidava con cipiglio fiero e ardimentoso. Pucci e sua moglie avevano invece deciso che inerpicarsi a millecinquecento metri non si confaceva al nervo sciatico e alla punta d’ernia del maresciallo. Più che altro l’aveva deciso la signora Franca. E quindi, sempre la signora Franca, aveva optato per la eggiata pic-nic. Invece di inerpicarsi erano discesi in lento declivio oltre il piazzale ghiaioso che faceva da parcheggio ai veicoli vari dei villeggianti. Erano scesi per un tratto di strada verso la frazione Piè e poi avevano preso un sentiero che portava ad un esiguo torrente alquanto impetuoso. Giorni prima, durante una delle loro eggiate con i Carpati, Franca aveva adocchiato uno spiazzo erboso, anzi muschioso al di sopra del torrente. L’ideale per un pranzetto al sacco a coronamento di una mattinata ata a prendere il sole sul plaid leggendo e risolvendo cruciverba. L’allettante programma era per la moglie di Pucci il massimo che poteva offrire la montagna. Fu mentre la signora risolveva enigmi stravaccata sul plaid che Pucci volle iniziare un breve cammino costeggiando il greto del torrente a scopo meramente digestivo. L’acqua cristallina ma gelata invase parzialmente lo scarpone quando egli si volle produrre in un troppo agile salto da un pietrone all’altro, mancando l’ultimo in modo plateale. La Franca lo chiamava, il piede era fradicio e l’ultimo salto l’aveva portato tra alberi e sottobosco che attorniavano il torrente. Decise di tornare indietro addentrandosi nella vegetazione per non rischiare ulteriori incidenti con ammaraggio forzato nell’acqua gelida. Ma ben presto si ritrovò tra rovi e felci che per ampiezza e altezza parevano del carbonifero. Rami e rametti si infilavano ovunque e la terra pseudofangosa lo respingeva, tanto che stava per ritornare sui suoi i. Avrebbe ormai persino considerato fattibile un guado con l’immersione nell’acqua ghiaccia fino al ginocchio. Franca insistette nuovamente nel chiamarlo: -Ma dove sei? –urlò. -Arrivo, malediz... –da un ramo era caduto un qualcosa che era finito sulla sua testa schiacciandogli sugli occhi il cappellino da pesca. Afferrò quel qualcosa con esitante livore: gli copriva la visuale, era morbido, croccante e puzzava di cose non meglio definite. L’ebbe tra le mani e finirono insieme tra i rovi. Emise
un lamento rabbioso e alcune esclamazioni degne d’un camallo di Genova. -Ma si può sapere che fai? –la voce della moglie era tangibilmente più vicina. Pucci emerse dalle felci non esattamente con la grazia di una ninfa dei boschi e finì addosso alla consorte. Traballarono un bel po’ nel tentativo riuscito di non cadere. Franca aveva afferrato la cosa caduta dai rami e quando emerse dalla plastica semi-annerita ne ebbe un moto di repulsione. Indietreggiò e: -Ma che schifo è sta roba! Puzza di m... Pucci che già l’osservava, decise che a tutti gli effetti pareva, anzi era, una maglione. Un cardigan di lana con grossi bottoni bianchi. Pure il capo di vestiario doveva essere stato bianco, ma ora era ingrigito e inverdito qua e là dalla permanenza nel bosco. Franca si avvicinò: -E’ sporco da far paura. L’avranno buttato via... Qui intorno c’è altra spazzatura.- e indicò un agglomerato di bottiglie in plastica e lattine schiacciate, residuo di gite domenicali, tipicamente italiche. -Mah! Sembra nuovo... Forse l’ha perso qualcuno- osservò Pucci. -Oramai non diventa più bianco neppure con la calce viva. Buttalo...- e ciò detto la Franca si avviò verso il plaid. Il maresciallo stava considerando le ragioni pratiche della moglie e intanto osservava distrattamente il golfino. Ad un tratto fu colpito da un disegno verde e rosa sulla parte alta, tra la bottoniera e la spalla dove si appuntano spille e medaglie. Lo sfiorò col polpastrello. -E’ ricamato –disse- a mano... –precisò raggiungendo la moglie che già raccattava i resti del pic-nic per riporli in un capiente borsone in tela grezza sparso di papaveri rossi stilizzati. La moglie lo degnò d’uno sguardo tra l’indifferente e lo schifato mentre ripiegava il plaid a scacchi gialli e rossi. -Ma te lo porti dietro? –sorrise con fluttuante ironia. –Ma chi vuoi che se lo metta ancora... -Se qualcuno l’ha ricamato a mano vuol dire che ci teneva e poi non è così sporco... Tre macchiette qua e là... Per me non è tanto che è andato perso. Sarà di
qualche turista...- e intanto pensava a quei rami alti e si domandava come poteva esserci finito in mezzo a quel bailamme vegetale. -Ma figurati-rispose la moglie –era in un sacchetto di nylon da negozio d’abbigliamento. Se è stato chiuso bene per un po’ di tempo, può essere una vita che sta in mezzo agli alberi.
All’hotel “Villa Tornetti”, Giovanni Mulatè mesceva un vino che sapeva di rancido ad un valligiano piuttosto annebbiato dai fumi dell’alcol. L’oste, che ricordava tanto capitan Findus, si trovò d’accordo con Franca a proposito del maglione. Forse era meglio buttarlo. I pensionanti che stazionavano nei pressi non l’avevano mai visto. La signora Pucci era ormai più che seccata dal comportamento del marito. Stava per raggiungerlo tra gli abeti del cortile per fargli notare che era già quasi ora di cena e che quel maglionaccio non era il reperto di un’indagine, quando con raccapriccio sentì esclamare dalla moglie del Mulatè, la grassona in perenne grembiule a scacchi rossi e bianchi: -Ma sa che mi pare di averlo già visto!?- la signora lo osservava accigliata, tra le grasse mani ghermiva un cabaret di bicchieri e bottiglie vuote prelevato dalla zona dei campi da bocce. La proprietaria di “Villa Tornetti” non riusciva a ricordarsi di chi fosse il maglione, ma s’era detta sicura che fosse di qualcuno che conosceva. Poi la cena e tutto il lavoro che ne derivava l’aveva tenuta lontana da Pucci e dal misterioso golfino. Ma mentre il locale strabordava di pensionati che cenavano allegramente, qualcuno di loro aveva preso interesse per l’oggetto in questione con risultati devastanti per i nervi del maresciallo e della signora Franca. Il solito signor Carpati, orafo in pensione e a detta sua espertissimo di delitti, era approdato con la sua signora al loro tavolo e non mollava la presa un solo attimo: -Un ricamo fatto a mano...- stava blaterando in attesa del secondo –Presuppone sia una signora di tarda età. I giovani d’oggi non sanno fare niente. Mi ricordo che... Persino la Franca era ridotta al silenzio. La moglie del Carpati rimescolava stancamente i resti del minestrone e scambiava con lei sguardi desolati di malinconica intesa. Pucci, dal canto suo, fingeva di starlo ad ascoltare con un sorriso di circostanza stampato sul volto paffuto, mentre in cuor suo sognava che la piccola crepa notata sul soffitto si tramutasse in un crollo mirato di intonaco e stucchi capace di stendere l’insopportabile figuro. Ogni tanto puntava l’occhio verso il bancone del bar o sulla porta che dava alle cucine, speranzoso di padrone d’albergo grasse con grembiule a scacchi rossi e bianchi dalla memoria invidiabile.
L’indomani mattina Pucci pensava con orrore a quella serata conclusasi con una solenne litigata con la moglie, stanca di sentirsi parlare del misterioso maglioncino. Ora si trovava seduto nel piccolo dehors sul marciapiede. Di fronte a lui c’era il signor Torbecco che lo squadrava dall’alto del suo metro e ottantatre, attraverso dei curiosi quanto obsoleti pince-nez. -Si- ammise quello tutto serioso –son qui per vedere la maglia bianca col ricamo di fragole rosa. Un’ora fa ne parlai con Settimia, tra l’altro, cuoca meravigliosa ed impagabile esperta di funghi, ma piuttosto distratta –il boriosotto si sedette al tavolino di fronte a Pucci senza chiederne il permesso. Gli abeti del piccolo parco ondeggiavano ad improvvise folate di vento. Franca era in giro con la signora Lucia e il noiosissimo Carpati doveva essere ormai nella chiesetta di San Quintino, immersa tra i boschi, dove un meraviglioso frammento d’affresco attendeva che gli occhi di Carpati, di Don Secondo e di altri due o tre pensionati di Foli se ne beassero. Pucci sorseggiò l’aranciata amara e offrì verbalmente un assaggio di “tomini al verde”, specialità valligiana, al signor Torbecco. -Nooooo! A quest’ora del mattino non potrei –rispose questi praticamente scandalizzato. Per poi precisare: -Come le dicevo, io possiedo una memoria fotografica eccezionale. Solo per portale un paragone, posso dirle che dieci anni fa, mi trovavo ad eseguire con i miei colleghi d’allora un brioso concertato in quel di Recanati. Eravamo diretti dal Conte di Cortebella e il controfagotto sbagliò la... -Così lei sa di chi sia questo maglione –tagliò corto Pucci sorridendo tutto speranzoso. -So, so... Si fa presto a dire so! Dovrei vederlo personalmente e così potrei portare un paragone esatto alla mia memoria, non fuorviato da spiegazioni imperfette dettate da memoria imperfetta, benché appartenente ad una pregiata cuoca. Pucci si alzò e gli fece cenno di seguirlo. Sparirono ai piani superiori attraversando i locali del bar mentre il Torbecco continuava inascoltato la sua storia del controfagotto. Il locale era deserto, persino i titolari di “Villa Tornetti” erano nei campi da bocce perché c’era la gara di ferragosto. L’avvenimento speciale per il caratteristico minuscolo paesino, raccolto tra le asperità e la
maestosità dei boschi circostanti era come la biennale per Venezia.
Erano le due del pomeriggio, il sole faceva capolino tra le nubi e quasi tutti i turisti erano raccolti per seguire o partecipare alla famosa gara di bocce che si sarebbe protratta per tre giorni. Un’insolita fila indiana percorreva in salita gli scalini stretti e sconnessi del paese e i sentierini ghiaiosi o sterrati tra le case ammassate quasi in sequenza l’una all’altra. Apriva la fila il signor Torbecco, già professore di viola da gamba all’istituto musicale del centro concertistico di Volpiano “Notiamo bene”. Appresso a costui, la signorina Boero Agata, timida zitella nervosissima e paurosa. Subito dietro, il maresciallo Pucci con un sacchetto in plastica contenente il maglioncino in questione. Ancora dietro, la signora Franca che odiando letteralmente il gioco delle bocce e non avendo di meglio da fare, accompagnava il consorte nell’insolita raffazzonata spedizione. Alle sue spalle, tale signorina Dalpè amica della Mulatè, padrona dell’hotel “Villa Tornetti”, con indosso il suo immancabile gilet verdognolo e gli occhialini alla Wertmuller, proprietaria in quel di Viù della discoteca Bonga-Bonga nonché di tutto lo stabile che la conteneva formata da cinque appartamenti e uno studio dentistico. E per finire, la signora Lucia Carpati, sfuggita per un pelo alla gita alla chiesetta di San Quintino per insistenza della signora Franca, che temeva in cuor suo la noia che le sarebbe derivata da quella giornata all’insegna del cardigan col ricamo di fragole rosa. Per inciso, secondo lei era più un rosso stinto da eventuali intemperie e rugiade che un rosa effettivo. Ma secondo la signorina Boero, esperta in croquet, lavori a maglia e ricamo, quello era proprio rosa. La casetta di due piani con infissi tipo “le mie prigioni”, balcone in legno e tetto in pietre lisce lamellari chiamate “lose” era pressoché uguale alle altre. Alcune, come quella con la quale aveva in comune un muro portante erano state modernizzate con balconi e ringhiere in cemento e ferro e coppi rossi. -Ecco- disse la Dalpè –Questa è la casa dei vecchi e la professoressa veniva qui tutti gli anni fino a due anni fa. Il professor Torbecco era visibilmente contrariato dalla intempestiva affermazione della signorina. –Un anno fa... La signorina Dalpè non si fece scoraggiare dalla prosopopea del professore:
-Due anni, sono due anni che non viene, mi ricordo bene che... Gli astanti ascoltavano muti, più o meno interessati alla questione. Una voce fuori campo interruppe la Dalpè. -Sono tre anni. –a parlare era stata una ancor giovane donna insaccata in un grembialone a fiori più stretto di lei, gambe impaludate in stivali in gomma sino al ginocchio. Il colorito e l’abbronzatura erano tipici di chi lavora all’aria aperta. I denti forti, bianchissimi. Salute e forza emanavano da tutta la sua persona. Appoggiata sulla spalla destra aveva una zappa ed era semisommersa da alte pianticelle di pomodori. Un cappellaccio di paglia e una catenina d’oro con crocifisso sul petto strabordante, completavano il tutto. L’orto era di fianco alla sua casa che aveva il muro portante in comune con quella adiacente esaminata dal gruppetto mal assortito. Pucci si fece avanti all’improvviso col sacchetto contenente il maglione stretto nella mano sinistra e il cigarillo fumante alla destra. -Tre anni? La donna fece segno di si con la testa. -Ma che dice! –insorse il Torbecco -E’ un anno. Io vengo qui da sempre ed è un anno.- e fulminò la contadina con un’occhiata di superiore scocciatura. -Ma sono due anni! –sbottò la Dalpè. La donna squadrò Torbecco con represso livore. Pucci li ignorò entrambi e seguitò a parlare con la giovane la quale disse che si riteneva sicura di ciò che asseriva. -E’ vero che non ci frequentavamo. Io ci ho sempre da fare e lei ormai è una turista, anche se i suoi vecchi li conoscevo e frequentavo quando ero piccola. Ma io le vendevo burro e formaggio caprino: ci ho una vacca e quattro capre là dietro. –e indicò con l’indice un punto imprecisato alle proprie spalle, dove c’erano due o tre costruzioni basse e di pietra grezza. –Io lo scrivo quello che vendo e anche se sono sicura che non la vedo da tre anni, se volete ci ho il quaderno con tutte le date.
Il maresciallo assentì con un gesto del capo, poi tirò fuori il maglioncino macchiato dal sacchetto e lo accostò alla rete di recinzione attraverso la quale il gruppo interloquiva con la giovane. La Dalpè borbottava tra sé e sé e si era avvicinata alla signorina Boero, seduta su un gradino d’una vecchia casa disabitata a lato della stradina. Il Torbecco snervava verbalmente Franca e la sua amica Lucia –Vi porto un paragone: Due anni fa mio fratello mi presentò un tale e lo vidi per due minuti circa, ma l’ho riconosciuto un mese fa... Nel frattempo la contadina era uscita dal cancelletto in ferro battuto un po’ arrugginito qua e là ed aveva preso in mano il capo d’abbigliamento. -Ma questo è della professoressa, sono sicura. L’ho vista che lo ricamava e forse se l’è anche messo addosso una volta o due. –la donna pareva sinceramente colpita se non preoccupata. Pucci le spiegò per sommi capi la circostanze del ritrovamento e aggiunse per rassicurarla: -L’avrà perso prima del ritorno dalle vacanze. La giovane osservava il ricamo e aveva uno sguardo tra l’incerto e il preoccupato. -Io non la vedevo sovente... Ma mi ricordo che l’aveva indosso l’ultima volta che ha comprato da me. Forse... Venga! –lo invitò sia con la voce che con la mano e rifece quei pochi i che la separavano dal cancelletto continuando a parlare. -Formaggio di capra per un’amica. Era ferragosto, sono sicura. Il maresciallo si affrettò a seguirla. La casa era a sinistra dell’orticello, tutta intonacata di bianco, con gli infissi verde brillante e un po’ sporchini. Entrarono in una cucina ampia ammobiliata poveramente. Gas e frigorifero vecchissimi, lavandino in marmo grigio, tavolo con la cerata a fiori, sedie impagliate e una grande stufa con le piastre per cuocere i cibi. Un piccolo e stretto camino di mattoni annerito completava l’ambiente. La donna gli disse d’accomodarsi mentre frugava in un cassetto della vecchia credenza, probabilmente già appartenuta ai genitori e forse anche ai nonni. Tirò fuori un grosso quaderno sgualcito con la copertina nera, lo sfogliò brevemente e lo depose aperto sul tavolo di fronte al maresciallo.
-Ma si sieda- disse –vuole un po’ di limonata? Il maresciallo rifiutò entrambe le cose, inforcò gli occhiali e si concentrò sulle pagine aperte. -Vede?- disse la giovane- Dieci agosto duemilatre... Tre anni fa. Ci avevo ragione io. Sia Pucci che la donna si accorsero della presenza del professor Torbecco nel piccolo cortile. -Tornerò più tardi. Le dispiace? –disse Pucci. La donna che di certo aveva in animo magari di vendere qualcosa a qualcuno di quei turisti che stazionavano fuori, sembrava un po’ delusa. Ma rispose: -Venga prima delle cinque che poi devo mungere la mucca e tagliare l’erba.
Pucci e la moglie eggiavano lungo una delle impervie viuzze del paesino. C’era voluto un bel po’ di tempo per sbarazzarsi della Dalpè e del Torbecco. Curiosi come un’orda di giornalisti e decisi ad avere sempre ragione li assediavano, la prima sino all’ora di pranzo, perché era rigorosamente a dieta. Il secondo stette loro dietro sino a villa Fornetti, ma era invitato da un certo signor Buricco per una polentata. Il marito della signora Lucia col suo chiacchiericcio impetuoso e costante, mai sazio di cronaca nera, quel giorno non era presente perché era sceso a Viù a vedere la mostra fotografica intitolata “I delitti dell’ottocento nella vallata”. Restavano la signorina Boero e la moglie del seccatore seduti al loro tavolo. Ma quando Pucci era già quasi al settimo cielo ecco che comparve il miserando figuro. -Che mostra povera... Non c’era quasi niente... -disse con la morte nel cuore. La signora Lucia, la sua consorte, a fatica riuscì a trascinarlo verso un altro tavolo con due posti ancora liberi. Finito di mangiare i coniugi Pucci, dopo un brevissimo sguardo d’intesa, se l’erano data a gambe dietro ad un gruppo di bocciatori che andavano ad allenarsi prima della riapertura delle gare alle tre in punto. Pucci pensava alla maglia che aveva lasciato nella camera d’albergo, mentre da più di un’ora Franca s’estasiava dei paesaggi e cercava di convincere il marito dell’opportunità di prenotare qualcosa da affittare per l’anno seguente nel paesino “da cartolina”, come lo chiamava lei. -Ma se non ti piaceva che il mare... -aveva tentato di obiettare lui più di mezz’ora prima. -Piace a tua sorella Giovanna. A me piace anche la montagna, ma tu lo sai che quella ci ha costretti per anni ad andare a Spotorno. Lo sapeva sì, e per anni si era scocciato in silenzio senza dire niente. Ma ora Franca gli aveva chiesto espressamente cosa ne pensava e lui aveva tirato fuori le spese per l’istruzione di Paola, le tasse sempre più alte, gli impegni da detective, fino a che l’entusiasmo della moglie si era smorzato e la signora non aveva più insistito oltre. Nel silenzio claustrale, il campanaccio di una mucca dette il “la” al pensiero che occupava realmente la mente di Pucci sin dalla mattina.
-Ho un appuntamento con quella contadina... La moglie lo squadrò con evidente insofferenza: -ma anche qui in vacanza?! –si lamentò, persino un po’ teatralmente- Ma che cosa vuoi che ci sia dietro a una maglia mezza marcia! -Devo essere sicuro che non sia successo niente a quella donna. La professoressa... Come si chiama... Bertassino. Lei grugnì accelerando il o verso un’erta che li riportava a villa Fornetti, piantandolo lì come un macaco.
Un vecchio pendolo un po’ tarlato suonava le 16,30 in sordina e la cucina era immersa in una piacevole penombra. -...ho anche le chiavi della casa, se è per questo. –la contadina aveva chiuso il quaderno dei pagamenti già consultato al mattino. “A quest’ora Franca starà sfogandosi con la signora Lucia” pensò Pucci. Rammentarsi dell’amica della moglie e del suo insopportabile marito era un tutt’uno: il maresciallo rabbrividì involontariamente e per reazione si infervorò vieppiù nel caso della professoressa Bertassino. -Allora potremo vedere l’interno della casa... Sa, per scrupolo. La donna, che trovava stranissima la riapparizione del maglione, e che nel lasso di tempo tra un incontro e l’altro con Pucci vi aveva riflettuto a lungo, era però titubante. -Me le ha date soltanto perché entrassi se fosse successo qualcosa tipo un incendio o che so io... Sa, non vorrei che... -ma si vedeva che in linea di massima era d’accordo con l’investigatore. Alla fine, considerando che Pucci era un maresciallo dei carabinieri in pensione e per giunta un detective, cedette. Uscirono dalla casa e si avvicinarono all’abitazione di fianco. Nel frattempo la giovane contadina descriveva per sommi capi l’interno della casa che era composta da una grande cucina al piano terreno e due stanze e il bagno al primo piano, con balcone ristrutturato e abolizione del cesso a caduta. La contadina, che Pucci aveva appreso chiamarsi Maria Reviglio, tolse lo scuro interno alla finestra della cucina al piano terreno. I mobili erano moderni, pezzi componibili tipo Ikea. Un divano a tre posti rosso, una televisione, tavolo quadrato a quattro sedie, un lampadario moderno. Tutto sembrava a posto. Pucci ficcò il naso di qua e di là mentre la Reviglio saliva di sopra. Aprì anche qualche cassetto. Sentì il rumore degli scuri che venivano rimossi e si guardò intorno sentendosi alquanto cretino: non c’era proprio niente di strano lì dentro.
“Mi sono fissato proprio” si ripeteva mentre saliva la stretta scalinata in legno scuro. Entrò nella stanza aperta sul pianerottolo, dove sentiva i i della contadina. La Reviglio lo sentì avanzare e disse con animo sollevato –E’ lei signor Pucci? Anche qua non c’è niente... Solo delle valigie. Il maresciallo affrettò sensibilmente il o. -Piene? –chiese mentre penetrava nella stanza. -Non so... -rispose la donna perplessa. Le valige erano due, per terra. Pucci si chinò e ne sollevò una. Era pesante. -Che fa? Le apre? Ma non credo che... Pucci non ascoltava affatto le obiezioni della Reviglio. Le disfece tutte e due velocemente. Erano colme di vestiti, scarpe. C’era persino una foto in cornice. Nella tasca esterna di quella più piccola c’era un biglietto d’aereo andata e ritorno e le date erano 5 settembre 2003 e 25 settembre 2003. I voli erano Torino – Parigi e Parigi – Torino.
Erano ati circa quattro mesi dal ritrovamento del golfino col ricamo di fragole rosa. Per le strade tirava un’aria di Natale completa di neve, addobbi e luci. A Pucci, che stava guidando la sua auto all’uscita del parcheggio dell’ipermegasupermercato “H” in quel di Venaria Reale, pareva di poter incrociare da un momento all’altro la slitta di Babbo Natale con tanto di renne. Il suo aiutante Paolo Stenti era seduto di fianco a lui sconsolato: entrambi non avevano trovato nulla che potesse andar bene come dono di Natale per la signora Franca. Ma Pucci aveva trovato quello che per lui era un interessante regalo per la figlia. Una stupenda lavatrice da usare nel piccolo appartamento che divideva a Torino con altre due studentesse, in modo che lei e le sue amiche avrebbero inaugurato l’era del “faidate” nel campo della biancheria e del vestiario da lavare. Pensò che la signora Franca ne sarebbe rimasta entusiasta, più di Paola. A ben vedere questo era un classico regalo “a doppio taglio”. -Questa lavatrice –disse allo Stenti- è un regalo che dimostra come donare rende felici! L’aiutante continuava a lamentarsi quasi inascoltato di come fosse difficile fare un regalo a qualcuno, soprattutto quando si tratta di donne. Ad un certo punto il maresciallo stava per rispondergli che dopo tutto non si trattava d’una fidanzata, ma di sua moglie Franca, quando svoltando verso la via che li avrebbe condotti verso casa notò il nome della medesima. Un lampo e la mente balzò verso le indagini che erano appena state concluse sulla scomparsa della professoressa Bertassino. Ed ancora di fronte ai suoi occhi quel maledetto ricamo di fragole rosa. Via Vittorio Emanuele. Al 13 o al 13/bis, aveva abitato quella donna prima della scomparsa. Quattro mesi prima il maresciallo si era fatto da parte e non era mai intervenuto su espressa richiesta del maresciallo Bentivoglio, a sua volta sollecitato dal capitano Dainetti. Ma ora le indagini aperte come “rapimento da parte di ignoti” si chiudevano con l’archiviazione. Niente di niente. Nessun elemento che potesse suggerire una pista invece che un’altra. Mentre attendeva al semaforo rosso, sommerso dalle argomentazioni dell’aiutante che ormai facevano da stracco sottofondo ai suoi pensieri, Pucci rammentava. La professoressa Bertassino era vedova da quindici anni, senza figli. Un unico parente di terzo grado che abitava sul lago Ontario in Canada. Altri due o tre parenti molto alla
lontana sparsi per il mondo: uno a Zanzibar e l’altro a Zabriskie Point. Una vita irreprensibile: casa e lavoro, lavoro e casa. Molte conoscenze tra le colleghe di lavoro nel liceo “Cavaradossi” a Torino, ma nessuna amicizia. Nel suddetto liceo tutti erano stati interrogati, anche i bidelli, ma non era emerso niente. Come nulla era emerso ai Tornetti, né tra i valligiani né tra i turisti stagionali. Due amici di famiglia erano stati rintracciati in quel di Viù. Uno aveva un bar di fronte alla discoteca Bonga – Bonga, l’altro viveva a Pino Torinese; entrambi da anni non avevano quasi più niente a che fare con la professoressa. Il brigadiere Casapiccola l’aveva sempre tenuto al corrente in quei mesi, anche se c’era ben poco da sapere. Sempre rimuginando, il maresciallo imboccò la via che portava fuori da Venaria Reale. “Niente di niente...” La decisione fu improvvisa e irrevocabile. In fondo non mancava poi molto all’archiviazione del caso... L’inversione a “U” ebbe il potere di zittire lo Stenti per ben trenta secondi, durante i quali una flotta di clacson raggiunse le orecchie di Pucci semi-sigillate dal suo impeto investigativo, come un flebile assolo di flauto e quelle dell’atterrito Stenti come il boato che precede la valanga. L’aiutante di Pucci cercò di dire qualcosa di poco carino che data la situazione urgeva nel suo petto, ma le corde vocali riuscirono a fare il loro dovere solo all’imbocco della famigerata via Vittorio Emanuele. -Ma le pare il modo, accidenti... -fu la debole protesta che Pucci accolse quando già parcheggiava l’auto in seconda fila. -Ti lascio le chiavi. Se devi, spostala. E lo Stenti fu abbandonato fra gli alti casermoni tutti uguali, le auto ferme, quelle in movimento e i pedoni che attraversavano la strada come se parteciero ad una corsa ad ostacoli. Il casermone era uguale a tutti gli altri. Grigio smog, tapparelle scure. Al piano terra, file d’insegne polverose e locali dalle vetrine più o meno addobbate. Un Babbo Natale dal volto ascetico che mal s’accostava al pancione di gommapiuma lo apostrofò a male parole perché non si toglieva dall’angusto aggio sul marciapiede mezzo assalito da automobili in parcheggio apocalittico.
Pucci nemmeno se ne avvide, continuava a fissare il numero 13 e a compiacersi segretamente della sua memoria. Sotto gli appartamenti c’era proprio un sexy shop, come aveva a suo tempo detto Casapiccola. Il maresciallo si ricordò che il brigadiere gli aveva anche rivelato con estrema ilarità che fra gli abitanti della via era in corso da anni una specie di rivolta per far sloggiare da lì il negozio poco serio. Pucci stava suonando al citofono del portone dove sapeva essere l’appartamento di proprietà della Bertassino. Temeva però d’essere respinto o preso a male parole: il caso aveva fatto abbastanza movimento tra giornalisti di stampa e TV locali. Poteva essere scambiato per uno di costoro. D’un balzo si spostò verso l’entrata del sexy shop e si precipitò al bancone senza guardarsi troppo intorno. C’erano tre, quattro clienti sparsi qua e là a rimirare la merce e una donna giovane supertruccata al bancone che lo ricevette con un sorriso che illuminò il locale oppresso da luci al neon e tendaggi rosso pompeiano. -Desidera? –chiese la bionda con estrema cortesia –Un regalo di Natale? -No. Io vorrei un’informazione –il sorriso della giovane si spense all’istante, come se le avessero staccato la spina. -C’è il bar qui di fronte –precisò ancora cortese, ma molto meno. -Lei conosceva la professoressa Bertassino? Un signore di una certa età si era nel frattempo affiancato a Pucci di fronte al bancone. In mano teneva una frusta a nove code di cuoio rosso. La giovane rispose –Bergassino? -Bertassino –fece di rimando Pucci. -No, mi spiace –sbuffò la commessa, e stava per rivolgersi con un nuovo sorriso al signore d’una certa età con frustino, quando costui si rivolse a Pucci. -Parla della professoressa del liceo “Cavaradossi”, lei? -Si –rispose il nostro speranzoso. -Ah, quella. Era del comitato anti sexy shop da due anni quando è sparita.
-Ne fa parte anche lei? –celiò Pucci ammiccando verso l’oggetto tra le mani del tizio. -Scherza? –quasi si offese il praticamente coetaneo di Pucci –Io sono di mentalità più che moderna e quei quaccheri non li sopporto. –concluse agitando il frustino. Poi, parlando alla giovane: -E per favore mi faccia arrivare “Lola 2”, perché “Lola 1” ha il seno troppo piccolo... Quindi si diresse alla cassa per pagare il frustino lasciando momentaneamente senza parole il maresciallo. Questi però si riprese prontamente e raggiunse il signore all’uscita. -Permette? Giacomo Pucci, detective. Il signore lo squadrò con un po’ di diffidenza poi: -Ernesto Collisanti. Comunque io la conoscevo, ma di vista... -e si affrettò verso le strisce pedonali con l’involto contenente il frustino. -Conosce qualcuno che... Un vicino, un amico. Qui si guardano tutti in cagnesco. I due attraversarono le strisce. -Provi dai quaccheri... -Ma... -Là –disse l’anzianotto indicando un negozio di fronte al sexy shop, dall’altra parte della strada. Pucci alzò gli occhi all’insegna nera a caratteri bianchi e vi lesse: “RICORDIAMOLI (Articoli funebri, vasi, arredi, ecc)”. Il negozio era piccolo e gremito d’ogni possibile arredo funebre, compresi tendaggi, candelabri, puttini dorati, angeli, santi, ecc. Era assolutamente deserto. Anche dietro allo stretto e alto bancone d’antico legno lucidato a specchio.
Una giovane ragazza bionda dal volto angelico e sereno uscì da dietro un tendaggio lillà. -Mi scusi, stavo inventariando –disse con voce melodiosa e un sorriso giustappunto angelico. Era vestita con moderna sobrietà e indossava un golfino bianco molto simile a quello della professoressa scomparsa. Anche il ricamo era simile, sempre sulla sinistra del petto, in alto. L’unica differenza stava nel colore delle fragole: rosse anziché rosa. Pucci ne fu profondamente colpito, al punto da non saper rispondere nulla alla giovane, neppure un cenno di saluto. -Desidera? –chiese la ragazza installandosi dietro al vetusto bancone tirato a lucido. -Lei conosceva la professoressa Bertassino? La giovane cambiò immediatamente espressione, il volto divenne pallido e collerico. Ma Pucci, ristabilitosi dallo shock della vista di quel maglione praticamente uguale a quello da lui ritrovato ai Tornetti, la prevenne. -Non sono un giornalista –e si affrettò a tirare fuori il tesserino da detective. La giovane si rifiutò di leggerlo e voleva che uscisse. -Sono un detective. Ho ritrovato io il maglioncino della professoressa nel bosco in montagna. I giornali e “Retetua” ne avevano parlato abbondantemente, ma il nome di chi l’avesse trovato non era mai trapelato. La giovane parve colpita e tacque dubbiosa, ma da dietro alla tenda uscì una donna più anziana. -Se non compra nulla, esca per favore –esordì la donna fulminandolo con degli occhi neri forniti di due borse alle palpebre inferiori che parevano borse per la spesa.
-Presto, telefona a mia moglie. –Pucci si infilò come un fulmine nella vecchia panda. Di fronte all’espressione esterrefatta di Stenti, precisò burberamente – Muoviti, no! Dille che siamo fermi perché c’è stato in incidente su “La Mandria”. Stenti continuò a fissarlo. -Muoviti, che tra un po’ esce... -Chi? –domandò perplesso l’aiutante. -Una, le devo parlare. Telefona a Franca quando esci dal coma, eh? –e il maresciallo si affrettò ad uscire nuovamente dall’abitacolo... Erano le diciannove in punto quando la donna anziana e la “angelica” chio la serranda. Come Pucci aveva intuito, non erano parenti. La vecchia si infilò in una “punto” grigia e sparì in direzione Torino. L’altra, a piedi, nella direzione diametralmente opposta, percorreva via Carlo Emanuele avvicinandosi alla Reggia di Venaria Reale. Svoltando a sinistra percorse una via fatiscente e giunse davanti ad un portone vetusto aperto su di un cortile interno. Fu a quel punto che Pucci la raggiunse arrancando e sudando nonostante la temperatura fosse vicina allo zero. Un lampione solitario illuminava malamente la scena. Dapprima lei si spaventò, poi, riconoscendolo, esclamò un “Ancora lei!” pieno di esasperazione. -Voi la conoscevate bene, lei e quella donna, la padrona del negozio –buttò lì Pucci- Il maglioncino che lei indossa è praticamente identico a quello della professoressa. La giovane si infilò nell’androne semibuio. Lui istintivamente l’afferrò per un braccio: -La prego. Se era sua amica deve aiutarmi a scoprire che fine ha fatto, sennò archivieranno il caso. Lei stava per urlare e chiedere aiuto, ma le parole di Pucci la fecero desistere. -Eh! Mi lasci! –si indispettì tirando il braccio. Pucci lasciò prima di subito la presa –Era più amica della signora Macario che di me –disse piano –Io la conoscevo solo da quando avevo incominciato a lavorare lì, da due anni.
-E il maglione? -Ma che ne so... Me lo ha regalato per simpatia. Diceva che assomigliavo a sua sorella Agata, morta giovane di parto assieme al neonato... -Era molto amica della signora che ho visto? -Si. Da quando viveva qui. Dieci anni più o meno –la giovane mosse qualche o verso il cortile interno. –Io non so niente e non voglio fastidi. -Mi dia l’indirizzo della sua datrice di lavoro, almeno –e la riafferrò per un braccio. Silenzio e ombre era tutto ciò che avvertiva Pucci. -Via Martiri della Libertà 102, qui a Venaria. Ma non dica che glie l’ho detto io. –e fuggì via come un incorporeo angelo senza ali.
Suonava al citofono dopo che la Macario l’aveva già mandato al diavolo. Erano le nove di sera, ma della sera dopo. Il giorno addietro erano poi tornati a casa subito dopo l’abboccamento con la commessa per non turbare la Franca con una assenza troppo prolungata. Ma, purtroppo, lei era già turbatissima ed in compagnia della sorella di Pucci, Giovanna, nonché dell’immancabile zia Rosa. Va detto che quando erano giunti a Foli erano di già le 20,30 ate. Dopo la fuga in motorino dello Stenti verso la sua magione sulle Vaude, aveva dovuto affrontare le tre arpie da solo e ancora ne portava i segni: niente cena, litigata furiosa, colazione indecente fatta a suon di. “Non hai alcun giudizio...” Solo il dono della lavatrice alla figlia era riuscita a rabbonire, in parte, la moglie. Ma ancora a pranzo lei ce l’aveva su con lo spavento che aveva avuto e quando si era presentato lo Stenti verso le due con l’indirizzo d’un nuovo possibile cliente, la Franca aveva assalito anche lui. -Dagli man forte eh? Dagli sempre retta e vedremo dove si andrà a finire! Che poi voglio vedere io, dove siete stati! Che a me non me la contate giusta... Dopo pranzo aveva telefonato al povero Stenti per raccomandargli di non dire nulla a Franca delle indagini sulla professoressa Amalia Bertassino: -Non è il caso. Sai come la pensa mia moglie. Se ti interroga non fare come l’altra volta: resisti! Sennò quella non la smette più! La Macario era scesa, ma con lei c’era un giovane sui trenta anni dal fisico alla “Mike Tyson” e anche col medesimo ghigno. -Sono il figlio della signora. Lei ci deve lasciare in pace- grugnì il molosso sovrastando il maresciallo piuttosto erculeamente. Occupavano l’entrata del palazzo, ma quello che ne occupava di più era il gigantesco figlio della Macario. -Guardi che io sono un detective... Volevo solo sapere qual e l’ultima volta che la signora ha visto la professoressa... Che tipo era... Cose così... -sorrise Pucci col gargarozzo ingrippato dalla fifa. - Perché?! – grugnì l’ammasso di muscoli. - Lascia stare, Aurelio. – mormorò la donna –Io non voglio noie signore. Era una brava donna... Eravamo amiche da qualche tempo... Tutto lì. La vedevo si e no due volte la settimana.
- Eravate diventate amiche per il comitato? La donna pareva contrariata. –Ma no. Quello è venuto dopo. E’ una stupidaggine. Tanto è per la crisi che si vende poco. -Quel porco del Bortolotti! –intervenne il mastodontico figliolo -Non dire cazzate mà... Doveva proprio aprire quel porcaio davanti al nostro negozio!l’erculeo arrossì come l’avessero fatto flambè. -Vieni via, Aurelio. – la donna lo tirò per la manica del giubbetto verso l’androne. Pareva una formica che cerca di rimorchiare un elefante. –A ma’! Io vado a fare un giro ai videogame... Già lo sai eh! – e l’aveva piantata lì da sola con il Maresciallo. -Mi dispiace, signore, ma io l’ho detto! Io so niente delle faccende personali di Amalia e il Comitato l’avevano organizzato i commercianti della via... Tutti insieme. E adesso se ne vada... Che io ci ho ben altri problemi per conto mio...
Sul dossier non c’era niente di significativo ed era aggiornatissimo: gli era stato ato dal brigadiere Casapiccola prima di partire per le vacanze di Natale: otto giorni ad Ibiza con una fornaia molto simile alla Kate Moss delle annate migliori. In grande segreto Pucci aveva messo lo Stenti dietro alla signora Macario per una settimana. Fai come quando fotografi per i cornuti. – gli aveva ordinato quel lunedì. Ma lo Stenti aveva obiettato che era un po’ differente. -Non lo è. – aveva spiegato Pucci insolitamente paziente –La fotografi con tutti quelli che incontra e le piazzi la cimice nel negozio. Ma per la legge noi... -Tu fallo. Al resto penso io. Ma già al sabato gli venne da pensare che forse era meglio dirottare il tutto sulla commessa “viso d’angelo”, perché in sei giorni di appostamenti, pedinamenti e ascolto non avevano rimediato nulla, tranne l’insoddisfazione d’un presunto cornuto o due che avevano trascurato e la conseguente arrabbiatura della signora Franca.
Il lunedì seguente lo Stenti seguiva da lontano la giovane e avvenente commessa in un supermercato d’una nota marca in quel di Venaria Reale. La ragazza era in compagnia di un giovane elegante. Si sbaciucchiavano ogni tre i e tutto finiva lì. Per fotografarli usò una finta penna a sfera con camera digitale ultrasottile che era stata donata a Pucci in occasione del compleanno dai ragazzi della stazione dei Carabinieri di Ciriè. A Stenti, pareva proprio una perdita di tempo. Sempre quel lunedì, il Maresciallo era giunto sul piazzale sottostante il paesino dove, senza prove contrarie, era sparita la professoressa Bertassino. Per fortuna non aveva nevicato, ma faceva un freddo da gelare un orso polare. Era il tredici dicembre, un gruppetto di giovani trasportava sci e snowboard giù per la scalinata del borgo. Il Maresciallo saliva pian piano con i doposci ai piedi doloranti di calli mai risolti, e si fermò al cancello d’entrata spalancato dell’albergo “Villa Fornetti”. I turisti erano pochissimi, ma vocianti di discese baby e indaffarati a parlottare di piste proibitive e di abilità nelle varie discipline. Entrò nel locale per bere qualcosa di caldo; ne aveva proprio bisogno.
Verso sera lo Stenti seguì la giovane verso l’androne fatiscente della vecchia palazzina dove lei abitava. Si nascose in un portone scuro pestando qualcosa di disgustosamente molle e scivoloso. La giovane s’era voltata per un attimo. Forse aveva avvertito in qualche modo di essere seguita. Stenti vide che entrava nell’uscio subito dopo l’androne al piano terra. Quando, dopo un bel po’, uscì dall’androne nel cortile interno, ghiaioso e pieno di buche e buchette, un bambino correva solo soletto e gli tirò una palla di neve sporca dritto sul barbarozzo. Intorno, anche per via del freddo, non c’era nessuno. La neve si scioglieva e scendeva nel maglione, i piedi, che avevano scarpinato tutta la mattina e parte del pomeriggio appresso ai due innamorati erano due frittate bruciacchiate. Fotografò l’entrata della porzione di casa abitata dalla ragazza e stava per andarsene ignorando gli sberleffi del ragazzino quando la sua attenzione fu attirata da uno stenditoio grigio colmo di panni addossato alla parete di quella porzione di casa. Tra la porta d’entrata tutta in legno pieno scrostato d’antiche verniciature e la finestrucola con le inferriate spesse, cementate nel muro come si vedevano ancora nelle carceri circondariali di Ciriè, un maglioncino bianco era steso fra mutandine in pizzo, reggiseno, mutande da donna di modello sorato e decisamente più capienti e una gonna in tweed. Era proprio uguale a quello della foto che Pucci aveva fatto al maglione della professoressa prima di consegnarlo al capitano Dainetti. S’avvicinò e vide il ricamo. Si guardò intorno. Non c’era nessuno: persino il maledetto ragazzino era sparito. Non riusciva neppure lui a capire perché l’avesse fatto. Correva lungo il marciapiede esterno con il maglione ancora più che umido infilato tra il giaccone e la camicia in pile. Sentiva il freddo e l’umido arrivare già alla pelle.
Pucci aveva avuto l’avventura di reincontrare il professor Torbecco che era venuto ai Tornetti per l’abbronzatura invernale, come diceva lui. Aveva anche aggiunto: -Noi che dobbiamo esibirci in pubblico, dobbiamo curare la parte estetica... Così con quell’impiastro era ata quasi un’ora. Poi aveva notato la donna vicina di casa della scomparsa professoressa Bertassino, la Maria Reviglio. Non era stato facile disfarsi del noioso concertista per seguire la donna che usciva dalle cucine con delle banconote in mano. Pucci lasciò i soldi della consumazione sul bancone e si mise dietro alla Reviglio che nel frattempo era uscita nel cortile invaso da una piccola comitiva di ragazzini, forse di una qualche scuola media della vallata. La raggiunse al cancello. La Reviglio lo riconobbe subito e tornò sui suoi i tutta sorridente. Si strinsero la mano. Pucci chiese se qualcuno fosse venuto ancora ad esaminare quella casa. -No. Dopo settembre hanno chiuso tutto, mi hanno ridato le chiavi, e non è venuto più nessuno. Pucci estrasse la fotografia della signora Macario e la fece vedere alla Reviglio. -Non mi pare d’averla mai vista. Ma sa, la mia casa ha la facciata spostata dalla strada e l’entrata della casa della professoressa la vedo solo se esco dal cortile. Pucci annuì. Estrasse la fotografia della commessa abbarbicata al “moroso”. La Reviglio prese in mano la foto e la osservò brevemente. -Forse. Un po’ di tempo fa... Con i capelli più corti. Si, mi pare. E’ una faccia che non si può scordare. Lui no. Mai visto. E restituì la foto. -E’ sicura? La Reviglio annuì tutta seria. -Non si ricorda quando? -Eh! Chi lo sa... Tre o forse quattro anni fa. Ma non sono sicura. Sa, ogni tanto la
professoressa veniva ai Tornetti anche nei week-end, con delle tipe che conosceva, forse colleghe. -Anche d’inverno? -No. Questo no. Ma durante il resto dell’anno si. Però di rado. La contadina lo invitò a casa sua. -Sa, ho del formaggio di capra proprio buono... Così conosce anche mio figlio Mario. Siamo rimasti in due e non è facile. Mio figlio ha studiato a Torino. Mio marito è morto in un burrone che era ancora piccolo. C’era mia madre che mi aiutava, ma è mancata cinque anni fa. Mio figlio trova lavoro, ma sempre precario. Quest’estate faceva l’animatore su una nave da crociera e pensi che è laureato in ingegneria: tutto con le borse di studio... Salivano verso la casa e parlavano. Pucci riportò la conversazione sul caso Bertassino, ma quasi gli dispiaceva: sapeva quanto fe bene potersi sfogare ogni tanto. La Reviglio però non parve contrariata e rispose alla sua domanda sulla professoressa. -So che era vedova e senza figli. So che era figlia unica. Conoscevo bene i suoi genitori già anziani. Ma non lei. C’erano quindici anni di differenza e quando lei è andata via per studiare io ero ancora una bambina. Erano in prossimità del cancelletto di casa Reviglio, la porta della casa della professoressa dava direttamente sulla strada, come del resto era per quasi tutte le case di quel paesino in miniatura abbarbicato sulla montagna. -C’è un’altra entrata in quella casa? L’idea l’aveva colpito improvvisamente. La Reviglio aprendo il cancelletto rispose di no, ma Pucci insisté. Gli pareva sempre che un dossier senza punti significativi fosse impossibile. E la sua mente cercava e cercava perché, come da tempo sosteneva anche con Casapiccola e lo Stenti, qualcosa si era dovuto per forza tralasciare o non trovare. Fino ai Tornetti c’era venuto per questo. Tornare lì, dove aveva trovato il maglione e dove, ancor più importante, era sparita la Bertassino, gli pareva quasi dovesse divenire fonte di ispirazione. Lui detestava i punti morti di un’indagine e quell’indagine era stata ed era un gigantesco punto morto. Quasi domandò d’istinto:
-Una cantina? –ben sapendo che non c’erano all’interno della casa porte che conducessero... -Certo che c’è –disse lei fermandosi nel bel mezzo dell’entrata del cancelletto. Pucci ristette. -Ma è sicura? –chiese dubbioso –Io non ho visto porte al piano terra oltre a quella d’entrata. -Eppure c’è –ribatté la Reviglio –Non ci avrà fatto attenzione. -Lei conosce bene la casa? -Non ci entravo mai, ma è uguale alla mia, lo so per certo perché è stata costruita in società tra i miei bisnonni paterni e quelli della Bertassino. E un tipo di casa che si costruiva spesso qui in montagna, una volta. -Sarà stata murata, magari chissà quando. -E quando?! Lo saprei. -Non è stata fatta riaggiustare dalla Bertassino? –fu la domanda di Pucci, che senza attendere risposta disse più a se stesso che alla donna: -Si, ma perché murare una cantina? Si guardarono in faccia con la stessa espressione dubbiosa. Fu chiamato il figlio della Reviglio, Mario, al quale la madre chiese, dato che al tempo dei lavori lui era a casa ad occuparsi della nonna inferma e a studiare per l’ultimo esame prima della tesi, se sapeva qualcosa a proposito di questa presunta muratura della cantina da parte dell’impresa che aveva fatto i lavori. Il giovane, robusto e rubicondo come la madre, non ne sapeva niente, ma rintracciò il numero telefonico del Pertusio, l’uomo che aveva eseguito i lavori. Pucci fu invitato a pranzo dai due, ma rifiutò. Avrebbe mangiato qualcosa a “Villa Fornetti” o all’altro ristorante. La telefonata fu fatta. Il Pertusio non aveva eseguito muratura di porte e non si
ricordava se la porta che annetteva alla cantina vi fosse o meno. Nel frattempo, la Reviglio gli aveva fatto vedere la sua, di porta, che era collocata sotto la scala che accedeva al piano superiore. Anche dai Reviglio il piano terra era formato da una unica grande cucina e al piano superiore c’erano il bagno e due stanze da letto. Erano le undici, ma la contadina non aveva ancora messo niente sul fuoco e non lo mise. I tre uscirono fuori dall’abitazione, Pucci davanti e i due Reviglio subito dietro. Su indicazione del Maresciallo, il giovane si allontanò verso la rimessa per prendere un piccone. Nevicava fine fine quando i tre penetrarono all’interno della casa dalla stradina deserta. La Reviglio era molto dubbiosa e pavida, ma sapeva che Pucci era un Maresciallo, anche se in pensione, quindi era lui che doveva decidere. Il giovane era titubante e Pucci si impadronì del piccone. Erano nel sottoscala. Il punto era lo stesso che nella casa dei Reviglio, cambiava solo l’ubicazione perché l’alloggio era uguale, ma orientato in modo diverso. Ben presto Pucci dovette essere sostituito dal figlio della contadina se non voleva rischiare un accidente. Nel frattempo la donna aveva lestamente sprangato la porta d’ingresso e attivato l’impianto elettrico. Lo squarcio era così illuminato dal lampadario da cucina bianco e giallo, simile ad un disco volante. La scala in legno era lì, sporcata da una nutrita serie di calcinacci e illuminata da una lampadina nuda. Pucci scese seguito da Reviglio figlio e da una sempre più titubante Reviglio madre. Dieci scalini, gli ultimi, illuminati da un’altra lampadina, accesa dal giovane che evidentemente sapeva dove cercare l’interruttore, giacché quella era praticamente la fotocopia della cantina di casa sua. Solo che in quella cantina c’erano delle casse vecchie e piene di ragnatele e non patate e damigiane di vino e olio, non c’erano ripiani di barattoli di conserve e marmellate e odore di muffa e salumi, ma un odore dolciastro e penetrante che già aveva fatto indietreggiare la Reviglio e costringeva il figlio e Pucci a premersi un fazzoletto sul naso. Da
dietro una grossa cesta di vimini ammuffita spuntavano due rami secchi, molto inquietanti, dalla vaga forma di gambe umane. L’orlo d’una gonna verdastra incollata ad antiche ginocchia che spuntavano biancastre e ricoperte a metà dal terriccio scavato del pavimento in terra battuta.
La sera di quel lunedì vide lo Stenti aggirarsi nel salotto di casa Pucci mentre la Franca esaminava ancora il ricamo del maglioncino bianco. -Si. E’ la stessa mano –confermò. Poi, come colta da un pensiero incalzante –Ma che ore sono? -Le ventuno e trenta ate. -Hai provato a telefonargli ancora? -E’ staccato –rispose lo Stenti. -Quell’uomo mi farà morire! –s’infervorò la signora Franca. Si alzò dalla poltrona preferita dal Maresciallo e prese anche lei a camminare su e giù senza costrutto. Sentirono entrambi il rumore della porta d’entrata che cigolava perché Pucci non si ricordava mai d’oliarla. -E’ lui –esclamò Franca tra il sollevato e il furente. -Ma non si è sentita la macchina –protestò quasi con sé stesso lo Stenti. Pucci entrò nel salotto e per poco non si scontrò muso a muso con la moglie. -Ma è questa l’ora? –l’aggredì lei- Avevi detto che saresti arrivato prima di cena. -Ho dovuto chiamare il capitano Dainetti. La Franca vide il volto pallido di Pucci e si rabbuiò. -Che è successo? –chiese lo Stenti. -Ho trovato il cadavere della professoressa Bertassino. La Franca, che stava versando un cognacchino al mobiletto bar, mancò poco che lasciasse cadere la bottiglia. -Il cadavere? –pigolò stupita. Lo Stenti lo guardava come avrebbe guardato Neil Armstrong mentre posava il piede sulla Luna.
-E dove? –pigolò anche lui. -In cantina. A casa sua. La moglie porse il bicchierino a Pucci che lo vuotò d’un colpo. -Ora basta –disse guardando la bottiglia che lei teneva in mano –Ne ho già presi due ai Tornetti, uno in Stazione a Viù e non ho ancora mangiato niente in tutto il giorno. -Ti preparo qualcosa? –si premurò la moglie. -No. Magari più tardi, un caffelatte. -Ma perché non l’avevano trovata? –chiese lo Stenti al colmo dello stupore. -Murata... -Murata? –fecero la moglie e l’aiutante all’unisono. -Già. Probabilmente, anzi sicuramente dall’assassino. Sembra che le abbiano rotto l’osso del collo. Per il resto bisogna aspettare l’autopsia. E sarà una cosa lunga: Chiamano uno specialista di archeologia forense da Milano. -E perché? –si stupì la Franca, che stava anch’ella bevendo un sorsetto tanto per rimettersi dalla preoccupazione e dallo shock. -Sarà tre anni che è lì. Son quasi tutte ossa. Per fare un buon lavoro ci vuole l’archeologo forense. -Ma se si sa che le hanno spezzato il collo... -insisté blandamente la moglie. -Potrebbe uscire dell’altro – precisò lo Stenti sorprendendo piacevolmente Pucci –Che ne so... Stupro, coltellate, si può vedere dalle ossa scheggiate, dal D.N.A... Non si può mai sapere. E’ meglio così.- e lo Stenti si lasciò andare sul divano come prosciugato dalle sue stesse parole. -Allora avrai delle noie –sentenziò la moglie con l’espressione di chi si rende conto di non aver considerato bene da tutti i lati una faccenda. Pucci non replicò.
-Figurati. Hai sfondato un muro di una proprietà privata. Oh Signore! Chissà che noie darai a questo Dainetto... -Dainetti – precisò Pucci –Tutto sta da come la prenderà il magistrato poiché Bentivoglio l’ho avvertito e poi metterà una buona parola: in fondo il caso era belle chiuso. La Reviglio e il figlio li ho fatti uscire prima che arrivassero i Carabinieri, quindi sono a posto. -Potevi fare una telefonata anonima –disse Franca smaniosa. -Sono pur sempre un ex Maresciallo dei Carabinieri e certe cose non le faccio. -Bravo! Non le fare, così ti sbattono in galera e ti ritirano il patentino. Poi lo guardò con una cert’aria gelida che si tramutò quasi all’istante in calma apparente. -Vabbè, va. Ci penseremo poi. Ora vado a scaldarti il latte prima che mi svieni sul divano...
Una donna quarantasettenne, distinta, anche piacente, se vogliamo. Era la fotografia della professoressa Bertassino che Pucci aveva, per così dire, prelevato con tutta la cornice su un mobile credenza della vasta cucina dove stavano attendendo il magistrato. L’aveva presa mentre Dainetti e i suoi erano ancora nella cantina. Ora la esaminava con attenzione. Molte erano le cose che sapeva di lei e venivano dal Dossier, ma non l’aveva mai vista: i capelli lisci sulle spalle, probabilmente tinti, d’un biondo che dava leggermente sul rossastro, occhiali rettangolari con montatura blu elettrico, naso leggermente aquilino, occhi chiari ravvicinati, bocca ben disegnata e piccola, collo lungo adornato da un bel collier d’altri tempi, bello pesante. Vestiva di chiaro, nella foto, un azzurro simile a quello degli occhi. E le mani ben curate, unghie lunghe rosa scuro come le labbra. Franca lo distolse dall’esame estetico della vittima. Il Natale aveva lasciato dei grossi strascichi sul tappeto del salotto dove Giovanna, la sorella del maresciallo, aveva accidentalmente rovesciato del caffè e sul tavolo che il nipote, figlio del figlio di Giovanna, aveva graffiato giocando con il mostro in plastica regalatogli dai coniugi Pucci. Franca borbottava e sfregava nuovamente il tappeto con un nuovo intruglio. -Bisogna portarlo a lavare –sentenziò Pucci sbucando dalla stanza da letto in mutande, camicia e cravatta. -Bisognerebbe strozzare tua sorella –grugnì la moglie carponi dietro al tavolino, aveva i guanti gialli e spugnona viola –Il lavaggio costa l’ira di Dio. -Se lo rovini sarà peggio –replicò lui salendovi sopra con i piedi nudi. -Sono le nove –Franca lo squadrò di sotto in su –Hai intenzione di girare in quello stato per casa fino a mezzogiorno? -Alle dieci sarò a Corio per sostituire Stenti e magari seguire la signora Bielloni per poi fotografarla in attività extraconiugale con chissà chi. Contenta? Lei brontolò qualcosa di inintelleggibile. Erano ati trentacinque giorni dal ritrovamento del cadavere e si attendevano a momenti i risultati dell’esame autoptico, forse non ancora completo.
Alle volte gli accadeva di soffermarsi sul ricordo del ritrovamento del cadavere in cantina. Ma che poteva fare? Le indagini erano affidate al magistrato tanto “amato” dal Maresciallo Bentivoglio, il dottor Caprotta e al Capitano Dainetti del comando di Venaria Reale. Pezzi grossi che lui non conosceva bene. Era tanto se non l’avevano indiziato per essere penetrato nella casa di Amalia Bertassino. Il telefonino si mise a vibrare mentre percorreva in auto la strada provinciale per Corio, paese poco ridente di una vallata laterale a quella di Lanzo. Sentire la voce di Bentivoglio lo stupì non poco. -Senta a me, Pucci. Io le do gli elementi e lei indaghi. -Non che mi dispiaccia –aveva risposto tutto gaudente- Ma posso sapere il perché? -Son cose mie, Pucci. Ma senta a me, se quel Caprotta si fa una figuraccia con questo caso che è importante, forse me lo tolgono dai piedi. Comunque anche noi abbiamo una parte nell’indagine. E’ un caso importante con dispiegamento di forze e... Senta a me: in questi casi certe fughe di notizie sono all’ordine del giorno. Gli diede appuntamento per il pomeriggio in un bar sulle vaude, proprio dalle parti dove ora abitava lo Stenti, il bar “Fiaschetta”, famoso per la bassissima concentrazione d’avventori ancora versati alle antiche tradizioni del posto: cioè quasi tutti avvinazzati.
Il padrone del “Fiaschetta” era letteralmente fissato con una nota squadra di calcio torinese. I muri erano metà bianchi e metà neri, ovunque scudetti ed effigi di calciatori più o meno recenti.. Pavimento a scacchi bianconeri, bancone in legno con dipinta per tutta la lunghezza esterna un’enorme zebra stilizzata. In mezzo alla sala, ben contornato da tavoli in parte bianchi e in parte neri con relative sedie, c’era una statua enorme d’un toro color granata con “guepière” nerazzurra alla zampa anteriore destra, orecchini alla zingara e scarpe con i tacchi da donna giallo canarino e rosso brillante. Pucci entrò nel locale semideserto e riconobbe a fatica il Maresciallo Bentivoglio in borghese seduto su un alto sgabello bianco al bancone e sorseggiante quello che sembrava un latte e menta da una cannuccia zebrata, è inutile dirlo, in bianco e nero. Si salutarono e Bentivoglio ordinò per lui il caffè che desiderava, mentre Pucci si arrampicava a fatica in cima allo sgabello a fianco di Bentivoglio. -Senta a me –fece questi, esauriti i pochi convenevoli, ed estrasse dal giaccone in jeans foderato d’agnello bianco una cartellina blu con l’elastico. -Qui ci sono le notizie che le possono servire. Pucci prese la cartellina e impaziente stava per aprirla, dimentico anche del caffè e del volto paffuto del Caracco, il padrone del locale che non li perdeva di vista pur essendo qualche metro più in giù intento nella mescita d’un “latte di suocera”. -Non qui. A casa –si spazientì Bentivoglio –Si ricordi che conto su di lei e che se le serve c’è pronto per lei l’appuntato Midollina. Per adesso lavora in stazione e non è un granché negli interventi. Ma è bravo col computer, se le dovesse servire. -Grazie, mar... Vabbè, grazie... Bentivoglio posò il bicchiere vuoto sul bancone e, prima di salutarlo disse: -Del resto, senta a me, le due cose principali le ha scoperte lei, quindi chi meglio di lei può scoprire la terza e risolutiva –e con somma sorpresa di Pucci lo gratificò d’una cameratesca pacca sulla spalla e gli fece persino l’occhiolino.
Il referto fu consultato da Pucci in quattro e quattr’otto. Chiuso nella sua panda in una stradina della zona, piuttosto fuori mano, apprese con avidità che la professoressa era stata uccisa con manovra meccanica di strangolamento o di impiccagione atta a spezzare di netto una vertebra del collo e lederne un’altra. Si leggeva che era stata un’azione violenta provocata o da una vera e propria impiccagione o da un individuo particolarmente robusto e motivato. Lesse poi che la donna era stata violentata e tracce del DNA dell’assassino erano state isolate. Quando alzò gli occhi dallo scritto vide il volto spiegazzato di rughe di un contadino che lo fissava poco amichevolmente attraverso il parabrezza. Tirò giù il finestrino quel tanto che bastava per farsi udire, che la prudenza non è mai troppa. -Desidera? -Dietro quegli alberi ci ho la mia casa e la mia macchina, e con la macchina ci voglio andare a fare la spesa. Pensi di leggere ancora per tanto? Pucci si accorse che alle spalle dell’uomo, alla fine del viottolone alberato c’era una specie di cancello. Non l’aveva notato prima poiché era troppo preso dall’urgenza di leggere i risultati dell’autopsia e poi perché l’oggetto in questione era costituito da un’esigua intelaiatura verde ata da una semplice rete anch’essa verde. Queste considerazioni non occuparono che qualche secondo, ma il personaggio aggiunse subito: -Questa è una proprietà privata. L’hai capito? Vacca boia! La retromarcia era l’unica soluzione. Finì di leggere a casa. Nel bagno, per non essere seccato da Franca e da Wilma, la sua migliore amica che era in visita – pettegolezzo su una sua parente non meglio precisata. Prendevano il te in cucina e lui era sgattaiolato fino a lì senza farsi sentire. No, non c’era nulla di significativo nelle varie testimonianze e interrogatori. Solo certe diversità di vedute sul maglione. Alcuni osservavano che era così col ricamo delle fragole rosa. C’era invece qualcuno, una vecchia del posto, che era pronta a giurare che
le fragole erano rosse. Chi poteva uccidere una donna in quel modo, strangolarla con tale violenza da spezzarle il collo? Perché era chiaro che era stata uccisa. Se non bastava l’assenza di corda in cantina o resti di essa o di un qualunque oggetto adatto allo scopo, restava la violenza, il soffitto della cantina privo d’appigli. In cucina c’erano travi ma erano murate al soffitto ed in ogni caso non è che uno si impicca in cucina e poi si fa ritrovare in cantina. Con la mente cercò di focalizzare i pochi valligiani e turisti abituali dei Tornetti che conosceva, ma non bastava. Doveva tornarci. Sua moglie lo guardava torva e disse: -Ma sei diventato sordo o non mi ascolti? La televisione era accesa su di un film, un thriller hollywoodiano di recente fabbricazione, uno di quei film dove c’è sempre almeno un’auto che esplode e un assassinio ogni minuto secondo. -Che hai detto? – sorrise Pucci ansioso di non fomentare le ire della moglie. Fuori pioveva a dirotto ed erano circa le dieci di sera. -E’ da quando sei rincasato che mi sembri uno zombi. Stenti ti parlava del maglione che ha rubato a quella commessa e quasi non gli rispondevi. La zia Rosa ci ha invitati domenica a pranzo da lei. Mi hai sentito adesso? -Ti ho sentita anche prima –mentì Pucci –Ma non mi sembra una gran novità. -Ha vinto duemila euro al bingo. E’ questa la novità. Solo che tu stai sempre a pensare alla morte di quella donna e sembra che tu sia diventato autistico o sordo. Lei si alzò. -Non c’è un bel niente stasera in TV. Vado a dormire. Lui annuì in silenzio.
-Ricordati che domani devi andare a parlare col benzinaio di Barbania. E’ convinto che Stenti non gli abbia portato tutte le fotografie, che sua moglie lo tradisce e che noi, pagati da lei, non gli diciamo la verità. -Ci vado dopodomani. -Ma non puoi! Quello telefona sempre a Paolo e anche qui a casa. -Chiamate il manicomio... -Ti ricordo che tu vivi in questa famiglia e che io non mi farò accoppare da quel matto. -Ma suvvia, non esageriamo –il maresciallo si alzò dal divano sbadigliando – Non mi sembra così grave... -Ma se quello sragiona! Non hai sentito cosa ti ho detto? -Ci vado dopodomani. Domani devo fare altro. La moglie girò sui tacchi e sparì in direzione stanza da letto lamentandosi piuttosto collericamente. -...Se quando torni mi trovi cadavere non mi dirai che non ti avevo avvertito... Lui la raggiunse in camera mentre lei si toglieva la vestaglia corta e informe e la lanciava su una delle poltroncine verdi ai piedi del letto in ottone brunito. -A parte il fatto che se ti trovassi cadavere non è che potrei dirti grandi cose... E va bene! Ci vado domani mattina sul presto. Poi però non ci sono per nessuno e torno per cena... Lei spostò nervosamente le coltri. -Ecco! Lo sapevo! Di nuovo ai Tornetti. Ma questa volta se c’è qualcosa che ti fa ritardare mi telefoni, sennò è meglio che non ti ripresenti! L’ultima parte della frase fu detta dalla signora Franca con i tappi di cera già piazzati nelle orecchie. Sbuffando come un mantice e borbottando come un esercito di pentole, Pucci
fece marcia indietro e si diresse verso il bagno.
Già mentre guidava verso i Tornetti, che erano abbastanza lontani da Foli e ad una altitudine di circa mille metri, aveva pensato al maglioncino bianco col ricamo di fragole rosse che lo Stenti aveva, per così dire, “requisito”. Perché mai gli pareva che qualcosa gli fosse sfuggito? “Una maglia è una maglia”, continuava a ripetersi. Eppure, sentiva come una sensazione di fastidio che lo prendeva ogni qualvolta focalizzava la sua attenzione sul pensiero del maglioncino della giovane commessa. Ciò succedeva esattamente da quando l’aveva esaminato con una certa attenzione dopo che lo Stenti l’aveva, per così dire, “espropriato”. Si, le fragole erano rosse, e il ricamo era pressoché uguale. “Tutto qui” aveva pensato “stupidaggini”. Ora era di fronte alla casa natia della professoressa Bertassino. “Qui è nata e qui è morta...” pensò. S’aggiustò il cappotto, la martingala pendeva ancora perché quel matto di Precarico, il benzinaio di Barbania, gli si era aggrappato come una grondaia piangendo calde lacrime sul suo destino di cornuto. A nulla erano valse le sue parole. Avevano solamente fatto sì che il presunto cornuto gli chiedesse un pedinamento di un’altra settimana e gli fe le scuse per aver dubitato della sua buona fede e di quella dello Stenti. La casa della signora Reviglio, lì di fianco a quella della scomparsa professoressa era aperta ma non pareva esserci nessuno. Chi avrebbe potuto interrogare? Erano già stati tutti ati al setaccio dal capitano Dainetti e dal magistrato. C’era già tutto sul dossier che Casapiccola gli aveva fatto pervenire a suo tempo. Nessuno aveva visto niente di strano, nessuno ci aveva capito niente e nessuno si ricordava di facce sospette o di visite strane alla casa della Bertassino né nei giorni lontani in cui si presumeva fosse sparita né in seguito. Non rimaneva che la notte. Magari la professoressa aveva già fatto la valigia il giorno prima, poi la sera, sul tardi, qualcuno aveva bussato alla porta. Qualcuno che conosceva... Ma chi? Pucci ci mise più o meno quattro ore ad interrogare senza parere alcuni rappresentanti della quattro famiglie residenti. Poi ò ai ristoratori e a qualche persona che veniva lì tutti gli anni e vi possedeva una casetta o un alloggetto dove veniva anche nei fine settimana. Il risultato non cambiò di una sola virgola. Uno solo di questi, un vecchio montanaro tutto raggrinzito, ebbe a dire che quel giorno se lo ricordava perché qualcuno gli aveva gettato un sacchetto bianco con
della carta appallottolata nella gerla appoggiata davanti a casa. -Ai Carabinieri non ci interessa ma a me si perché io non sono lo spazzino di tutte le porcherie che mi tirano dappertutto i turisti, ‘sti purcun! Ma non mi era mai capitato che mi buttavano direttamente le loro merdate nella cesta davanti a casa. Robe da mat! Sosteneva che era per questo che si ricordava la data. -Perché non l’era mai capitato. Il vecchietto con gli stivaloni e il cappellaccio nero lo faceva ancora sorridere, se ci ripensava. Ma il resto era una vera e propria palude dalla quale non se ne usciva.
Il terzo giorno dalla consegna del dossier da parte del maresciallo Bentivoglio, Pucci si alzò così presto che la Franca dormiva ancora della grossa. Si mise a fare il caffè, ruppe un bicchiere nel lavabo e si ingozzò di corn flakes al cioccolato perché non aveva trovato niente altro di dolce in tutta la cucina. La Franca lo sorprese mentre tentava di sturarsi la gola con una mezza scodella di tè al mirtillo. -Ma che fai? Questi si mangiano col latte caldo sopra –osservò seccata la moglie afferrando la scatola che giaceva di traverso sul tavolo con un rivolo di corn flakes che le usciva dall’apertura. Era quasi esaurita. -E adesso che mangio? –si lamentò lei guardandolo sconsolata. -In questa casa non c’è più niente da mangiare –attaccò Pucci dirigendosi verso la porta della cucina. -Non c’è più niente di dolce da mangiare... -corresse lei –Perché tu sennò pappi come un porco all’ingrasso e sei già più di novanta chili... Ma il maresciallo era già in camera da letto che apriva l’armadio per trovare un paio di pantaloni puliti. Il maglioncino era lì, pigiato in un sacchetto di nylon e solitario sul pianale di fondo. Pucci lasciò andare i pantaloni piegati e appesi così come erano e si chinò a raccogliere il sacchetto. La finestra con tutto l’avvolgibile sollevato dava la luce d’una camera ardente e Pucci accese quella centrale sul comodino. In lontananza captava a stento le lamentele della moglie. Tirò fuori il maglioncino e lo soppesò tra le mani. “Anche il tipo di lana è uguale” e lo erano anche i bottoncini. Il ricamo era lo stesso, nella medesima posizione di quello repertato dalla scientifica, ma le due fragole erano rosse. Istintivamente si diresse in cucina. La moglie, che stava bevendo il caffè, continuava il discorso come se non si fosse assentato affatto.
-...Quindi non compro più niente di dolce e mi pare che ero già stata chiara su questo punto. Mangiati un’arancia o un kiwi. Pucci avrebbe voluto ribattere sostenendo che la frutta col latte caldo faceva acidità, ma in quell’istante era pressato da ben altro argomento. Si avvicinò alla moglie. Fece l’atto di porgerle il maglione. -‘Mbè? –fece lei affatto socievole, spalmando del burro su un crostino di pane. -Ha qualcosa che non va –asserì lui e posò il maglione sul tavolo di Franca accanto alla caffettiera ormai vuota. -Se lo posi lì avrà di certo qualcosa che non va: una bella macchia di caffè! Che poi non capisco perché lo tieni, guarda! –e lo prese finendo per tenerlo steso per le spalle di fronte a sé. -Cosa diavolo ha che non va? –domandò fissando gli occhi perplessi sul marito. -E che ne so. Sento che ha qualcosa... -Sei diventato anche un medium adesso. –il sorriso di Franca lo indispose. -Ma, guardandolo... Tu sei esperta di queste cose... -Ma io l’altro l’ho visto pieno di macchie. E la moglie fece il gesto di abbandonare il maglione sul tavolo. -Forse è il ricamo –obiettò Pucci neanche troppo convinto.. Lei lo esaminò più che altro per accontentare il marito e togliersi di torno lui e il maglioncino rubato alla commessa. Ma poi le venne l’istinto di riprenderlo per le spalle. Il suo sguardo si fece più attento. -Hai notato qualcosa? –fece Pucci larvatamente speranzoso, sedendosi sulla sedia di fianco a Franca in pedalini, mutande e camicia di flanella. -E’ più grande –disse lei con un’espressione estremamente professionale. -E che vuol dire?
-E’ più grande di quell’altro. Tutto lì. Semplicemente è stato ripreso un po’ dappertutto -la signora Franca se lo rimise sotto gli occhi e lo rimirò per un lungo istante. –Si vede che questo è per una signora robusta -concluse con estrema sicurezza. –Probabilmente era troppo grande per quella là di Venaria. Le cadeva sulle spalle. Pucci rifletté per un po’, cercando gli occhi della moglie e automaticamente un inesistente cigarillo nella tasca dei pantaloni che però non aveva ancora indossato. -E’ importante? –si informò lei alzandosi con la caffettiera vuota in mano. -E chi lo sa... -mormorò lui, alzandosi a sua volta per andare ad infilarsi i pantaloni. -Chi può dirlo... -la guardò in viso, estremamente dubbioso. Poi: -Ma dove sono i miei cigarilli? –bofonchiò. E sentì un enorme freddo alle gambe. Anche se i termosifoni erano accesi, era pur sempre l’inizio di febbraio.
Stenti fece un’altra apparizione in quel di Venaria Reale. Il maresciallo si era ficcato in testa che bisognava saperne di più su questa commessa che aveva posseduto il maglioncino bianco con il ricamo di fragole rosse. Gli aveva ordinato di chiedere in giro senza specificare niente. Aveva scelto la via dei vicini di casa e quindi si aggirava nei paraggi del casolare fatiscente già da più di mezzora. C’era il sole, ma faceva anche un freddo cane e non si vedeva un granché di persone in giro, anche perché si era in orario lavorativo e non c’erano negozi di alcun genere nelle immediate vicinanze. Solamente muri scrostati, balconetti scrostati, sampietrini e lastricati sconnessi. Percorse la via per ben tre volte ed entrò in tre portoni, trovando cortili interni simili in tutto e per tutto a quello dove abitava la commessa. Di lei sapeva solo che abitava lì, lavorava dalla signora Macario, la famiglia era Parrodi (l’aveva appreso la volta precedente leggendo il nome sulla cassettina della posta addossata al muro). In più aveva paura che qualcuno che poteva averlo visto portare via il maglioncino bianco gli potesse far storie. Finalmente si decise a rientrare nel cortile che l’aveva visto compiere tale azione impulsiva. Era deserto, ma d’un tratto, proprio mentre era all’interno dell’androne, ecco che una figura maschile apparve e venne verso di lui. Era un giovane vestito da “rapper” con la cresta gialla e un giubbottone enorme a più colori. Stenti lo lasciò are. Troppo giovane e complicato per via delle cuffiette alle orecchie. -Scusa un po’ –qualcuno gli batteva energicamente sulla schiena con qualcosa. Si voltò: il qualcosa doveva essere stato la punta del manico d’una vecchia scopa di saggina. Il volto era rugoso. Gli occhi due pezzetti di carbone e il cappotto era troppo grande per la piccola figura ingobbita. -Desidera, signora? -Guarda che qui siamo tutti morti di fame e delle enciclopedie non ci frega un cacchio! La voce stridula, il portamento ardimentoso. Pareva uscita da un cartone animato dei tempi andati. -Non vendo niente... -obiettò lo Stenti, sorridendo quasi invisibilmente, in quel tratto così scuro rispetto al sole che inondava il cortile da una parte e la strada stretta senza marciapiede dall’altro lato.
-Allora che ci fai avanti e indietro da un’ora? Guarda che chiamo qualcuno! Paventando un irrimediabile raduno di un opinabile vicinato scontroso, Stenti si affrettò a precisare: -Ha presente quella signorina bionda che abita là... -e indicò la parte sinistra dell’androne –La vorrei incontrare e mi hanno detto che oggi non lavora... -Ma chi è che ti ha detto ‘sta cretinata! –osservò la vecchia ancora diffidente – Oggi l’è martedì e lavora eccome! Ma te com’è che la conosci? -L’ho incontrata nel negozio. Ma la padrona, se non compri niente si arrabbia subito e allora... -Ci ha pieno di innamorati quella... -tagliò corto la vecchia. Stenti si presentò con nome, cognome e mestiere fittizi. Nel frattempo ava una donna piuttosto budinosa, con un’incredibile pelliccia di lapin e tacchi altissimi. La vecchia la seguiva con lo sguardo e l’aiutante di Pucci la imitò istintivamente. Non appena fu sparita all’angolo sinistro dell’androne, l’anziana disse: -Io mi chiamo Maria Casassa –e gli toccò appena un braccio con la punta di un dito artiglioso e un po’ sporco. Poi aggiunse: -Quella è la madre. A quelle ci piace blaghé, fare il lusso. Son delle belle marpione, quelle due e non so se ti conviene metterti in mezzo. -Che vuol dire? -Eh, controllati il portafoglio e poi vedi te... L’ultimo fidanzato di due o tre anni fa era il figlio del Notaio Baldambò di Torino. Non so se mi spiego. Adesso ci ha un tipo che ogni tanto viene qui, ma non so mica se quello non ci ha come un cerchio alla testa, ogni tanto...
-E così te lo ha detto anche un tizio sulla sedie a rotelle. -Si. Un portone più in giù... Mi ha anche detto che la Macario per lui ha un certo debole per la commessa... Stenti e Pucci erano seduti al bar della stazione, in quel di Foli. Sul tavolino, oltre ad una tazzina ed un bicchiere vuoti, c’era una busta strapiena di fotografie. Più in là erano parcheggiate la panda di Pucci ed il motoscooter coperto che l’aiutante si era comprato da poco a rate. Erano le tre del pomeriggio e a casa del maresciallo c’era una riunione: sua moglie si era intestardita nell’organizzare il primo concorso di poesia di Foli. O meglio, la pro loco l’organizzava e aveva chiesto aiuto a lei che era poetessa e conosceva gente del calibro di Amilcare Vallè e Pinuccia Mistrale Ribolletti, noti artisti locali. -Eh, si... -disse lo Stenti –pare che quella sia una gran furbona. -Mah... Più che altro è bella. –disse Pucci –Le malelingue, mio caro, sono sempre all’erta quando si tratta di belle ragazze. Comunque, nel dossier, non c’è nulla su di lei e la Macario. -Si vede che ai fini dell’indagine sulla professoressa... -lo Stenti non riuscì a finire la frase. -Dobbiamo insistere, Stenti. Quello stupido maglioncino è l’unica cosa che lega qualcuno all’assassinata. -Ma... Magari al Dainetti è sfuggito qualcosa. Magari ai Tornetti... Un vecchio spasimante mal corrisposto. -Me lo avrebbe già fatto sapere la contadina... La Reviglio. No... Non era una donna da spasimanti. Seriosa, votata allo studio, con gli occhiali... -Non si può mai sapere... Gli ultimi fuochi della menopausa giocano brutti scherzi. Pucci si alzò raccattando la busta. -Certo. Non si può mai sapere... Magari un turista mezzo matto, mi dici tu. Ma lei lo conosceva sennò non gli avrebbe aperto quand’era già notte, la sera prima.
Lo Stenti cambiò l’espressione da affranta a dubitativa e allora Pucci si sentì in dovere di proseguire. -Nessuno lo ha visto questo assassino. Eppure è entrato in casa della professoressa senza effrazione. Quindi, o aveva le chiavi oppure, escludendo la notte fonda, resta la sera. In quel paese la sera sono tutti concentrati in due zone: “Villa Fornetti”, a giocare a carte e a bocce e il ristorante “Altopicco” per i calciobalilla, il tavolo da ping pong, le freccette e i videogame. Stenti stava per replicare, ma il maresciallo proseguì imperterrito. -E ricordati che ci ho ato dieci giorni. E lassù lei conosceva solo due o tre famiglie di valligiani, il professor Torbecco e quella del “Bonga - Bonga”, già interrogati ampiamente come da dossier. Stenti si alzò e aprì bocca per dire qualcosa, ma Pucci riprese: -Non era tipa da grandi confidenze. -E il Mulatè? –riuscì finalmente a dire lo Stenti. -Il padrone di “Villa Fornetti”, come anche il proprietario dell’altro ristorante, l’Altopicco, lavorano come matti per non assumere camerieri. Comunque la prossima volta che ti vede quel ragazzino, quello che t’ha visto rubare il maglioncino, non scappare senza guardare dove metti i piedi. Pucci indicò le scarpe e i jeans mezzi infangati da far paura. -Ho sbagliato strada... Non sono pratico... -Vai a casa, fatti una doccia e cambiati. Oh! Questa sera a cena da me che c’è il coniglio alla cacciatora. -Ma sua moglie non è in riunione? -A quest’ora avranno già belle che finito, spero. E poi il coniglio l’ho preparato io stamattina. Avevo bisogno di staccare un po’. Pucci sorrise, quasi come se si volesse scusare: -Sai, succede ogni tanto...
Il diluvio lo costrinse ad entrare nel sexy shop, perché era il posto più vicino a dove s’era fermato con lo scooter. Ancora una volta era poco frequentato. Erano le 16 del giorno seguente e molta gente era entrata nei negozi a causa del fortunale, ma non in quel locale. Siccome pioveva a dirotto, decise di riprovare a parlare con la biondina, così, tanto per stare in esercizio. Mentre si avviava al bancone incrociò un signore in giacca e cravatta, molto distinto, e un tizio mezzo sbragato con un giaccone a quadretti rossi e blu, scurito dagli scarsi lavaggi. Al bancone la donna stava servendo una specie di hippy “de noantri”, carico di medaglioni e braccialetti di cuoio, con un camicione felpato largo come una tenda dal quale spuntavano capelli a foresta e polsi ossuti. La bionda gli stava incartando un attrezzo di gomma con la stessa pratica disinvoltura con la quale si incartano due etti di stracchino in un negozio di alimentari. La biondina lo riconobbe: dal suo volto traspariva l’improvvisa insofferenza acuta dell’animo. -Cosa vuole?- gli chiese senza tanti preamboli. Il tono era socievole come l’altolà d’una guardia armata. Anche Pucci non perse tempo in convenevoli: -Vorrei che lei mi parlasse dell’attività della professoressa Bertassino contro il vostro locale. E per la cronaca, sono un detective –finì con l’affermare posando un sacchetto di plastica che portava con sé sul bancone, vicino ad un completino sadomaso infilato su un busto da esposizione. -Lo so che lei è un maresciallo. Già la conoscevo, ma se pensa che io abbia accoppato quella stronza si sbaglia. A noi, l’associazione non ci ha neppure solleticato un alluce e si vende che è una bellezza. Piuttosto, quella strega là di fronte, la Macario. Quella lì proprio non si rassegna. –la bionda si tirò su un ciuffo di capelli dagli occhi bistrati. –L’ho detto anche al magistrato, sa. Controllate un po’ quella lì, che è meglio! -Ma se erano insieme, associate contro di voi... -Se è per questo, tutta la via ce l’ha su con noi. E sa perché? –l’occhio ceruleo mandava lampi. Dal retrobottega spuntò il volto allungato d’un giovane muscoloso con le sopracciglia depilate. Indossava una maglietta così stretta che
si stentava a credere che potesse ancora respirare. -Perché io vendo! –concluse la biondona inviperita. -Vendiamo, cara, vendiamo... –il bellimbusto sorrise a Pucci –Vuol comprare qualcosa? –chiese con stucchevole buona grazia, ma allo stesso tempo con una certa perentorietà che stava a significare che l’argomento Bertassino era chiuso. Nel medesimo tempo indicava con un gesto ampio e carezzevole della mano curata una collezione di ammennicoli “notturni” inscatolati con tanto di foto e requisiti per così dire, tecnici, posti in fila sul bancone. -No, grazie –rispose Pucci frettolosamente –Ho già il mio... Comunque le voglio solo ricordare che la professoressa Bertassino è stata ritrovata tra l’inscheletrito e il mummificato in cantina dopo tre anni che era sparita. -Lo sappiamo benissimo! –ruggì la biondona –Ne parlano tutti i giornali... E lei la deve piantare... -Ti prego, Vanessa... –tentò di blandirla il cicisbeo palestrato. -Eh no! Ora basta! Noi non c’entriamo niente. La conoscevamo di vista e tutti se lo devono mettere in testa. E andate piuttosto da quelle due lesbiche là a chiedere... -Ti prego, Vanessa... -Oh, ma vai a cagare anche te! –e la donna respinse in malo modo il giovanottone per rifugiarsi nel retrobottega. I tre restanti clienti, imbambolati e stupefatti dalla sfuriata, osservavano da dietro agli scaffali colmi d’ogni ben succedaneo, scambiandosi sguardi allibiti. Il palestrato formulò le sue scuse al maresciallo e lo accompagnò verso l’uscita. Rincarò però la dose anche se con una certa eleganza: -A volte le tinte fosche si trovano dove uno meno se lo aspetta... –e fece un breve cenno del capo verso il negozio di arredi funebri della signora Macario, dall’altra parte della strada. “Questa, poi” pensò Pucci. E pensare che lui era entrato in quel sexy shop solo per via del temporale. Ancora pioveva e il maresciallo attraversò la strada di
corsa ed entrò nel negozio di fronte con una certa vivacità, portando con sé il vento e gli ultimi spruzzi di pioggia. Ormai la gente usciva anche da quel negozio, una processione ancora gocciolante fra le teste di santi e madonne, vasi di finto marmo e suppellettili religiose varie. La signora Macario tentava di asciugare il pavimento, imitata dalla giovane commessa. Entrambe si fermavano ad ogni istante per parlare con questo e con quello del diluvio scatenatosi e per salutare premurosamente i possibili clienti futuri. Infine, fulminarono con un’occhiataccia in tralice il maresciallo in piedi vicino alla porta, schiacciato tra una possente matrona che voleva uscire e un ciclista fradicio, preoccupato di ritrovare la sua bici, che nell’ambasce di uscire gli pestò un callo. Un paio di persone osservavano ancora la merce con finta attenzione, non si sa se per una sorta di educazione verso le involontarie ospiti o per evitare di essere pestati malamente uscendo troppo in fretta. Infatti una specie di uragano di persone sconquassava la via, riversandosi fuori dei ripari. Lontano si sentiva l’eco di sirene. Una era dei carabinieri, distinse il maresciallo. Restava ancora un occhialuto col riporto il quale comprò un vaso in plastica marrone. Poi, rimase solo Pucci. Sempre vicino alla porta, dalla quale improvvisamente si spostò per salutare cordialmente le due donne. Allungò la mano alla vedova, proprietaria del negozio, ma inutilmente: lei rimetteva a posto ciò che la ressa aveva un po’ scombussolato tra i suoi vasi e i ripiani. -Glie l’ho già detto una volta –si voltò ingrugnita verso Pucci –Io ho ben altre preoccupazioni. -Ma come -fece Pucci –hanno ucciso una sua amica, violentata e uccisa... Non vuole sapere chi è stato? -Certo che lo voglio. Ma se lo chiede a me, sbaglia. Io non so un bel niente. La commessa rientrò dietro al bancone con un vaso ripulito in mano. -E lei, che ha perso un maglioncino ricamato da Amalia Bertassino? -Ma di che parla? –sorrise la giovane. Pucci tirò fuori la maglia dal sacchetto di plastica che portava con sé. -Mi sembra un po’ grande, per lei. Vuole indossarla? -Com’è che ce l’ha lei?
-Ah, ma che stupido! –fece Pucci ignorando a bella posta la domanda –Lei lo ha “ripreso” sulle spalle ed ora deve andarle benissimo... La ragazza cercò la vedova Macario con lo sguardo e: -Non so di che parla... – ma si vedeva che era molto confusa e sulle spine. -Sa, io come tutti credevo che il maglioncino ritrovato nel bosco fosse della professoressa, e invece no. Era più piccolo, lo ricordo e comunque gli inquirenti possono facilmente dimostrarlo. -E con questo? –rise ironicamente la Macario avvicinandosi. -Beh, è questo, quello della professoressa –e Pucci lo sciorinò di fronte alla donna. -Si sarà sbagliata nel darmelo –suggerì la faccia d’angelo dai capelli inanellati e color del grano. -E come faceva, se non era ancora tornata dalle vacanze? –ribatté Pucci, improvvisando sul momento. L’idea del maglione scambiato già l’aveva avuta prima, ma ora gli sovvenivano idee molto più incisive. Da omicidio, forse. –E poi lei ha detto agli inquirenti che non ha più visto la professoressa Bertassino da quando era partita per i Tornetti. La professoressa saprebbe dirmi perché questo maglione che era suo ce l’ha lei e quello che doveva essere ricamato per lei è finito tra gli alberi del bosco! Le due si guardarono brevemente. Uno sguardo d’intesa apprensiva che non sfuggì a Pucci. “Vuoi vedere che ci sto azzeccando?” pensò tutto eccitato. E proseguì imperterrito nell’idea che di colpo la sua mente aveva percepito. -L’ha buttato via lei, signorina Parrodi, oppure è stata la signora Macario, o magari suo figlio? -Il mio Aurelio? –gracchiò la vedova –E perché avrebbe dovuto far fuori la povera professoressa? -Io non ho parlato di un omicidio, ma della maglia con le fragole rosa –obiettò Pucci con un sorriso ironico sulle labbra.
-Lei è matto! Enrica, chiama la polizia! -Nooo, Enrica –aggiunse Pucci serio –Chiami i Carabinieri, così consegnerò loro il maglione e provvederanno magari ad interrogare meglio voi e la montagna di muscoli...- sapeva di essere in un terribile azzardo, ma non riusciva più a trattenersi. La signora Macario divenne più melliflua, quasi lamentosa. -Ma che ragione avremmo avuto per far del male ad Amalia... Il povero Aurelio, poi, non farebbe male a una mosca... –si lamentò –E’ la mia croce, povero figlio. Pucci le squadrò severo e inflessibile ed uscì all’improvviso portando con sé il misterioso maglioncino bianco col ricamo di fragole rosse, seguito a ruota dalla giovane commessa. Lei lo tirò per il braccio. -Io non c’entro niente, maresciallo. Hanno fatto tutto loro, mi creda... Non mi rovini, la prego. Ne possiamo parlare. Nel frattempo, l’altra si era chiusa nel negozio abbassando la serranda e gridava che lei non c’entrava niente e che aveva fatto tutto quell’altra. Pucci era già in sella allo scooter, col telefonino in mano. La giovane lo guardava implorante con i suoi grandi e dolci occhioni azzurri. Si sentì un gran rumore e Pucci si rialzò dallo scooter. Si precipitò verso la serranda abbassata. Chiamò più volte la Macario, ma non ne ottenne risposta. Si voltò verso la giovane: era fuggita, sparita nei meandri di viuzze collaterali. Pucci sospirò e iniziò a comporre il numero della stazione di Ciriè. Quindi riprese a bussare alla serranda e a chiamare la Macario. Dopo un po’ una folla di curiosi s’assiepò comparendo dal nulla. Uscirono anche alcuni negozianti. Furono chiamati i pompieri, poiché anche l’uscita sul retro, che Pucci non conosceva, era bloccata. L’avevano trovata proprio nel retrobottega, impiccata ad una vecchia trave con una corda da imballaggio. I suoi piedi lambivano la testa di una statua di madonna sorridente.
Era marzo inoltrato. Pucci fumava un cigarillo sul balcone della cucina e ripensava all’accaduto. Non aveva intuito poi un granché in quella faccenda. Tutto gli era stato suggerito dal caso. E certe cose non le aveva neppure notate, come il sacchetto nella gerla del vecchietto dei Tornetti. L’aveva conservato, povero vecchio. Tutte le immondizie con le quali i turisti rovinavano il suo piccolo mondo perfetto, lui le conservava come reliquie in una stanzetta vuota, in casa, quasi fossero testimonianze della violenza perpetrata alla sua montagna. Un sacchetto da merceria, conservato da un valligiano che tutti avevano sottovalutato, sia i Carabinieri che lui stesso. Conteneva un foglietto dove la Macario chiedeva alla giovane di tornare da lei e c’erano, tra le altre, testuali parole: “Dopo quello che ho fatto per te, ora che mio marito non c’è più (e tu sai bene il perché) il negozio è mio, e sarà tuo perché Aurelio, poverino, che può mai fare... Adesso mi abbandoni per sposarti con quello...” Un foglietto caduto in una busta piena di fili da ricamo. Per questo era morta la professoressa Amalia Bertassino di anni 47, nata a Viù il 13 agosto 1956 dal fu Domenico e di Agnese Pertusina. Per quel foglio, la Parrodi e la Macario avevano aizzato un poveraccio con il quoziente intellettivo d’un bimbo di cinque anni e la massa di muscoli del pugile Carnera, contro la donna. Lui diceva che la Parrodi l’aveva accompagnato in auto sino alle prime case in basso, nel piazzale dal quale si vedeva “Villa Fornetti”. Poi, nel silenzio della mezzanotte era salito fino alla casa. La Bertassino gli aveva aperto perché lo conosceva bene e sapeva che era un bravo ragazzo, ma non così bene da non trovare strano che fosse lì a quell’ora. Il resto era venuto da sé. Folle di rabbia perché la professoressa brigava per farlo internare da tempo (come gli aveva spiegato la Parrodi), lui aveva travolto la donna e l’aveva violentata e strangolata. “Così si impara” era stato il suo commento durante il racconto. Poi però la giovane, quando lui era tornato alla macchina, si era arrabbiata ed erano tornati su insieme per mettere tutto a posto. Lei aveva trovato la lettera nel sacchetto da ricamo ed aveva ordinato a lui di buttarla via, cosa che Aurelio aveva fatto come gli era stato ordinato, ma in un secondo tempo: prima c’era da trasportare il cadavere in cantina e da murare la porta. La Parrodi l’aveva deciso così all’improvviso, dopo che aveva visto i mattoni e il cemento in un angolo del sottoscala. Avevano preparato il cemento in cantina, con la paura che i vicini
potessero sentirli. Ma nessuno si era accorto di niente. Mentre finalmente fuggivano, lei si era presa il maglioncino con il ricamo. Poi gli avevano fatto giurare che non avrebbe detto niente “Sennò t’internano”. E così la giovane assassina si era rimessa con la vedova uxoricida. Ma a Pucci era la gerla del vecchio che rimaneva sullo stomaco. E pensare che l’aveva anche interrogato! La giovane commessa era stata arrestata all’aeroporto di Caselle mentre tentava di fuggire con la madre, che però non ne sapeva niente e credeva d’anticipare l’agognata vacanza ai Caraibi promessale dalla figlia. Mah! Pucci rientrò in casa. C’era un odorino di coniglio in salmì da far venire fame anche ad un vegano in ascesi, ma il maresciallo non si sentiva in vena. Nella sua mente c’era il viottolo che ava un bel po’ sopra il prato e il posto dove lui e la moglie erano stati quel giorno del ritrovamento della maglia. Pensava alla professoressa che leggeva quel foglietto sconvolta nel suo intimo per aver dato fiducia a simili persone. Si era sentita tradita. E pensare che quella ragazza le ricordava tanto la sorella mancata così giovane, e la Macario che le era stata tanto amica e aveva riempito un po’ del suo dolore e della sua solitudine. Forse era stato in quel momento che aveva deciso l’irreparabile, cioè di telefonare alla vedova. E quando era ata la vecchia “Pian di Sole”, una mezza barbona che girovagava per la vallata chiedendo l’elemosina, l’aveva rincorsa e le aveva donato quel maglione, che a suo tempo aveva ben chiuso nel suo sacchetto di nylon, in modo che non si rovinasse durante il viaggio di ritorno per poterlo donare a quella bella e dolce ragazza dagli occhi di cielo. La vecchia “Pian di Sole” non ci stava più tanto con la testa. Conosciuta da tutti ma da tutti ignorata, come in fondo anche la professoressa Bertassino, aveva buttato via l’involto: teneva troppo posto ed era troppo bello. “Peccato”, raccontava a tutti, “per quel bel ricamo con le fragole rosa”. Quello l’aveva colpita ed era andata in giro a raccontare di quel dono a tutti, giù in vallata, quasi che non l’avesse gettato via. Negli ultimi tempi era tornata su ai Tornetti e si era fermata sotto ai pini dell’hotel a chiedere “qualcosa” e a parlare del favoloso ricamo di fragole rosa.
LIBRI DI ANNARITA CORIASCO
“UN CASO COMUNE – Delitti di provincia 1” (giallo) “OMICIDI TRA LE RIGHE – Delitti di provincia 2” (giallo) “LO SPECCHIO, LA SPADA, IL FUOCO E LE CATENE” (fantasy) “MOVIE PLANET” (giallo fantascientifico) “PROFILO D’AUTORE” (umoristico) “DISARMONY – Racconti rosa ‘sciocching’” (umoristico) “SUL SERIO MA NON TROPPO” (umoristico) “SABBIE MOBILI” (poesia) “VOCI FUORI CAMPO” (poesia) “ODI BUROCRATICHE” (umoristico) “UNICO INDIZIO: UN FILO D’ORO – Le indagini di Lady Costantine (Torino 1806)” (giallo) “IL SUONO SEGRETO DELL’ARPA – Delitti di provincia 3” (giallo) “UN PICCOLO MISTERO MORTALE – Le indagini di Lady Costantine Vol.2 (Torino 1806)” (giallo); “L’INCIDENTE CHIAPPERO – PESCOTTINO – Delitti di provincia 4” (giallo) “UN RICAMO DI FRAGOLE ROSA – Delitti di provincia 5” (giallo).
LIBRI DI DANILO CORIASCO
“POESIE E PENSIERI POSTUMI DI UN CARRELLISTA FIAT” (poesia)