Roberto Borzellino
STRADA SENZA USCITA
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Titolo | Strada senza uscita
Autore | Roberto Borzellino
ISBN | 9788891179715
Prima edizione digitale: 2014
© Tutti i diritti riservati all’Autore
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Capitolo 1 – Il risveglio
Un rumore sordo e di colpo aprii gli occhi: un frenetico brusio arrivava dalla strada, ma era una lingua strana, dal forte accento, che inutilmente cercavo di capire, di tradurre.
Forse stavo ancora sognando o, magari, era solo la mia mente che rifiutava il risveglio e s’inventava strane situazioni per farmi capire che era meglio rimettersi a dormire.
Fu solo un attimo è questo pensiero era già svanito; a quel tempo, in quelle condizioni, non avevo certamente il lusso di potermi riaddormentare.
Potevo fare solo una cosa: alzarmi, raggiungere la cucina e prepararmi un buon caffè’.
Già il caffè: ma mentre cercavo di ricordare in quale direzione andare, sentivo ancora quelle voci giungere dalla strada, i toni diventare sempre più accesi, acuti.
Ecco, ora le distinguevo bene, sembravano due donne che litigavano in strada, magari per contendersi le attenzioni di un amante, oppure erano delle semplici automobiliste distratte che litigavano per la precedenza allo stop.
Svogliatamente mi alzai dal letto e con lo sguardo cercai le pantofole: “Ah, eccone una e l’altra, quella maledetta, dove sarà finita?”.
Probabilmente era nascosta sotto a un mobile, ma quella mattina non avevo il tempo per cercarla e neanche avevo voglia di arrabbiarmi, almeno non così presto.
Infine, mi decisi ad accendere la luce per vedere meglio, ma niente da fare, la seconda pantofola non si trovava, sembrava svanita nel nulla.
Ora il pensiero del caffè’ si era fatto prepotentemente strada nella mia mente e, ciondolando come uno zoppo invalido, finalmente arrivai in cucina.
Dalla strada le voci erano improvvisamente sparite, poi guardai l’orologio e finalmente compresi che erano solo le sette di mattina: allora decisi di affacciarmi alla finestra, facendo attenzione a spostare delicatamente le tendine e cercando di restare quanto più nascosto possibile.
Dovevo essere prudente per non farmi vedere, abitavo pur sempre al primo piano e non era difficile notare il mio bel faccione italiano.
Ero curioso di vedere queste due donne che, alle sette di mattina, stavano litigando.
La mia sorpresa fu grande quando vidi la strada vuota, deserta, e solo qualche ombra che si aggirava in lontananza, camminando velocemente, probabilmente
per raggiungere la fermata del tram dall’altra parte del cortile.
“Chissà’ dove saranno finite quelle due matte”, ripetevo tra me e me, ma ormai il profumo del caffè espresso si era fatto intenso e inebriava tutta la cucina: già al primo sorso mi sentii completamente sveglio.
Finalmente cominciavo a capire perché non riuscivo a tradurre quelle frasi, quelle parole dall’accento così strano, adesso tutto era chiaro nella mia mente.
Ero a mille chilometri da casa, in un luogo lontano, sperduto, tra palazzoni di periferia tutti uguali, che potevo distinguere tra loro solo dal tono sfumato dei colori sulle facciate dei muri, che il tempo e il freddo dei gelidi inverni avevano sbiadito.
Ero seduto in cucina, con la tazzina del caffè ancora in mano e guardandomi intorno mi vedevo circondato dalla carta da parati: questa era dappertutto, in ogni stanza, e aveva disegni orrendi, incomprensibili, dai colori appena abbozzati, in prevalenza di un giallo tenue.
Ecco, ora ricordavo esattamente: mi trovavo nell’est Europa, ero a Minsk.
“Perché ero finito in quel posto così lontano?”.
“Cosa mi aveva spinto a partire e a lasciare ogni cosa: la patria, i luoghi della gioventù, i parenti, gli amici?”.
Mentre questi pensieri si affollavano nella mia mente, vedevo scorrere velocemente, come in un film, il fallimento di tutta la mia vita: come marito, come padre e, soprattutto, come uomo.
Fin da piccolo avevo un sogno da realizzare e mentre i ragazzi della mia età, alla classica domanda dei loro genitori, rispondevano che da grandi sarebbero diventati medici, avvocati o, magari, astronauti, per me queste risposte erano tutte scontate e banali.
Già all'epoca mi sentivo fuori dal coro e rispondevo che, da grande, avrei voluto fare lo scrittore di romanzi, per raccontare storie e inventare sempre nuovi personaggi.
Non credevo di essere più intelligente di quei ragazzi, ma sentivo il desiderio di fare qualcosa di diverso dal “normale”, qualcosa per cui credevo di avere talento: scrivere libri.
Questo per me era stato chiaro fin da subito.
Già in seconda elementare non erano sufficienti quattro pagine del quaderno per finire i temi d’italiano e, molto spesso, dopo aver ricevuto un bel dieci, venivo “costretto” dalla maestra a fare il giro delle altre classi dove, con mia grande vergogna, dovevo leggere ad alta voce le mie composizioni affinché tutti potessero ascoltare i miei pensieri, le mie fantasie, i miei personaggi.
In quelle occasioni, dal confabulare tra le maestre, percepivo la loro ammirazione ed anche il loro stupore.
All’epoca non si capacitavano di come quel minuscolo bambino potesse esprimere così tanta energia espressiva, avere così tanta immaginazione senza, peraltro, commettere alcun errore grammaticale.
Inutile nascondere che mi sentivo pieno di orgoglio e di felicità, soprattutto al pensiero di rientrare a casa per dire a mia madre: “Ecco, vedi che avevo ragione, da grande farò il poeta o lo scrittore”.
Purtroppo, già a quell'età, dovevo imparare, a mie spese, che nella vita reale anche i bambini potevano essere molto crudeli.
Capii che non era possibile dimostrare il proprio talento senza provocare invidie o gelosie e che dovevo aspettarmi qualche forma di reazione o ritorsione.
E così avvenne.
Un giorno di primavera, all'uscita dalla scuola, fui fermato da un piccolo gruppetto di altri alunni, delle classi più diverse, che mi minacciarono di smetterla di scrivere in quel modo così diverso e complicato per loro.
Mi spiegarono che le loro maestre li costringevano, tutto il giorno, con continui esercizi di scrittura creativa ed erano stanchi di tutto quello scrivere.
Il loro unico desiderio era di tornare alla “normalità” delle lezioni.
Fui minacciato delle più' indicibili ritorsioni, come quella di essere scaraventato in un pozzo profondo, alla mercé di cani inferociti che per giorni non avevano mangiato.
Da quel momento in poi le mie “creazioni letterarie” diminuirono di quantità e qualità.
Di proposito le infarcivo con grossolani errori di grammatica, facendo comunque attenzione a non ricevere mai un voto inferiore al sette, per evitare di compromettere troppo, verso il basso, la media dei miei voti.
A un certo punto anche le maestre e i miei genitori si accorsero che qualcosa era cambiato in me, ma non riuscirono a capacitarsi di come fosse stato possibile, in così breve tempo, una tale involuzione letteraria.
A scuola, dopo poco tempo, tutto ritornò come prima e molti furono felici per quel cambiamento.
Di questo episodio non ne parlai mai con nessuno, nemmeno con il mio amico più fidato, e il mio segreto restò sepolto, profondamente, dentro di me.
Questa era stata la mia prima esperienza negativa a scuola e, con il tempo, molte altre situazioni complicate avrei dovuto affrontare e risolvere.
Cercai di allontanare dalla mia mente questi ricordi spiacevoli e m’incamminai
verso la stanza letto per guardare nuovamente dalla finestra; adesso avevo una nuova prospettiva per poter distinguere, meglio, quei grandi palazzoni che mi circondavano.
Il loro aspetto era imperioso ma cupo al tempo stesso e, con regolare monotonia, sembravano essere stati messi in fila di proposito, uno dopo l’altro, come dei bravi soldatini.
Era in queste occasioni che cercavo d’immaginare il viso e gli occhi delle donne che, come tante formichine, abitavano in quelle case tutte uguali.
Le immaginavo dormire nelle loro stanze oppure le vedevo in cucina, intente a preparare la colazione per i loro figli e mariti.
A volte mi chiedevo chi fossero quelle figure misteriose che, di mattina presto, rinchiuse strette nei loro cappotti per proteggersi dal freddo intenso e dal vento, percorrevano, con o veloce, l’ampio cortile per raggiungere la fermata del tram.
Riflettevo e mi rendevo conto che, durante tutta la mia permanenza a Minsk, ancora non avevo avuto la fortuna di conoscere nessuno dei miei vicini e, quei pochi che avevo incontrato, sembravano avere l’aria stanca e l’espressione sempre triste.
Anche dai loro sorrisi potevi capire che, ormai, si erano già arresi al proprio destino e alle difficoltà di quella vita.
Forse potevano sperare in un avvenimento fortunato, come sposare un uomo straniero, ma sapevano che, probabilmente, avrebbero trascorso in quel posto tutta la loro esistenza.
Adesso anch’io mi trovavo in quel luogo desolato e, per quanto potessi sforzarmi di guardare in lontananza, non riuscivo a scorgere nemmeno una montagna o magari solo una piccola collina.
In quell’istante pensai alla vista del mare, che più’ di ogni altra cosa adesso mi mancava, e desideravo guardare quel colore azzurro intenso, tipico delle coste del sud Italia, dove anche d’inverno i raggi del sole riescono a scaldarti il cuore.
Più restavo ancorato in quel posto e più cresceva in me la paura che sarei rimasto per sempre a Minsk, magari sepolto sotto quel terreno freddo e gelido, colpito da un infarto improvviso a causa dalla mia grande tristezza d’animo.
Mi commuovevo spesso perché capivo che non avrei più rivisto i luoghi della mia infanzia, gli amici di un tempo e tutte le persone care, compreso il mio adorato figlio.
Ora questo posto mi sembrava come un deserto di ghiaccio, immenso e sconfinato, completamente aperto ed esposto a tutte le intemperie, con la costante presenza di un vento forte e gelido che soffiava e urlava perennemente sulle finestre delle case.
Sapevo che non aveva senso lamentarsi contro la sorte perché avevo scelto volontariamente di venire a Minsk, senza alcuna costrizione; avevo solo bisogno di un po’ tempo per rimettermi in sesto e, magari, avere la possibilità di
ricominciare una nuova vita.
Capivo che questo nuovo giorno era iniziato in modo strano e forse per me era giunto il momento di tirare una lunga riga rossa sulla mia vita.
Ormai avevo quasi cinquant’anni e, invece di diventare un romanziere, mi ero trasformato in uno scrittore ombra, un ghost writer, pagato per scrivere articoli e storie, che poi sarebbero stati firmati da altri.
A volte, quando mi sentivo giù di morale, per tirarmi su, mi ripetevo “Dai Roberto, non ti deprimere, bisogna pur mangiare tutti i giorni”.
Era un lavoro pagato poco e male, che non mi dava grandi soddisfazioni economiche e professionali e, di tanto in tanto, cercavo di arrotondare le misere entrate mensili lavorando come correttore di bozze per alcune case editrici.
In questo modo vedevo scorrere davanti ai miei occhi le parole scritte da altri, di quelli che si sentivano scrittori da sempre e che non avevano voluto abbandonare il loro sogno, che non avevano mollato di un centimetro.
Più leggevo e correggevo quelle bozze e più mi rendevo conto di avere sprecato tanto tempo e tutto il mio talento rincorrendo i sogni degli altri, soprattutto quelli di mia madre.
Mi ero iscritto all’università proprio per fare contenti i miei genitori e scelsi la facoltà di legge perché tutti, amici e parenti, dicevano che avevo le qualità per
diventare un bravo avvocato.
Una volta entrato a far parte di quel mondo mi sentivo ogni giorno più depresso, come un pesce fuori dall’acqua; durante le udienze in tribunale mi divertivo a immaginare quei mie colleghi come squali affamati, pronti ad azzannare anche la madre pur di avere un nuovo cliente importante.
Frequentando quelle aule di giustizia mi accorsi che non era la legge a trionfare, ma prevaleva sempre chi, con il tempo, era riuscito a farsi un nome o aveva stretto un rapporto confidenziale e di amicizia con il giudice di turno.
Per anni mi ero sentito a disagio in quell’ambiente e avevo cercato un’occasione concreta per potermene allontanare, per liberarmi da tutto quello schifo.
Ma ero frenato dal prendere questa decisione perché, nonostante avessi già trent’anni, vivevo ancora a casa con i miei genitori e, quando li guardavo negli occhi, li vedevo così soddisfatti e orgogliosi del loro figlio che, subito dopo, rinchiudevo in un cassetto tutti i miei progetti di fuga dalla realtà.
Come sempre accade nella vita, l’occasione giusta capitò improvvisa e inaspettata: arrivò l’amore che, in un istante, travolse tutto e tutti in un istante.
In poco tempo mi ritrovai a percorrere una strada completamente diversa: sposato e con un figlio in arrivo.
Cercai di allontanarmi dal mondo nel quale avevo vissuto fino a quel momento e
decisi di andarmene dall’Italia per provare una nuova esperienza di vita.
Andai a vivere a San Pietroburgo, una bellissima città russa, costruita da Pietro il Grande sul fiume Neva, che racchiudeva in se un mix di stili architettonici diversi, prevalentemente europeo nel centro città e tipicamente russo nella vasta periferia.
Mia moglie, russa, mi facilitò in questa scelta e mi proiettò in una realtà in cui mi sentivo, finalmente, a mio agio.
Ebbi la fortuna di trovare subito lavoro, come insegnante di lingua italiana, in una scuola non lontano dal piccolo appartamento che, ormai, condividevamo in tre.
Mi sentivo fortunato e felice, come non lo ero mai stato in vita mia perché adesso, nel tempo libero, potevo anche dedicarmi alla scrittura di tutto quello che desideravo: romanzi, piccole storie, poesie.
Potevo scrivere e fantasticare su tutto quello che mi ava per la testa e così, tutta quella ione che avevo dentro uscì prepotentemente e si animò su centinaia di fogli di carta.
Purtroppo, come tutte le cose belle, anche quell’esperienza finì velocemente a causa dei burrascosi e quotidiani conflitti coniugali.
Fu con la fine del mio matrimonio che mi decisi a tornare in Italia, lasciare quel
piccolo appartamento e rinunciare alla mia vita di padre affettuoso.
Nel mio ultimo ricordo mi vedevo con le valigie in mano, pronto a partire, mentre stringendo tra le braccia mio figlio ancora piccolo, gli sussurravo dolcemente nell’orecchio: “Il tuo papà ti ama e un giorno tornerà qui a riprenderti, questa è una promessa”.
Purtroppo, non fui in grado di mantenere quella promessa e il ricordo di quella scena continuava a perseguitarmi nonostante il trascorrere del tempo.
Forse la mia permanenza prolungata a Minsk era figlia proprio di quelle scelte sbagliate, di quei sensi di colpa che ancora mi portavo dentro.
Guardai l'orologio e vidi che il tempo era trascorso velocemente: ormai erano già le otto di mattina e non avevo ancora il computer.
Dovevo rimettermi subito a lavoro perché avevo ancora tante cose in sospeso da finire; ma prima di immergermi nella routine quotidiana pensai di prendermi ancora qualche minuto per leggere le ultime notizie e aprire qualche e-mail.
Peraltro, solo recentemente ero riuscito a ottenere un importante incarico editoriale ed era di vitale importanza che riuscissi a portare a termine quel lavoro nei tempi concordati.
Dovevo occuparmi della correzione della bozza sulla nuova riforma pensionistica, un lavoro lungo e noioso che avrebbe preso tutte le mie energie.
Avevo comunque un grosso problema perché dovevo consegnare, entro la fine del mese, le bozze corrette per andare in stampa, ma fino a quel momento mi ero occupato di altro e avevo trascurato quel lavoro.
Mi restavano solo pochi giorni per finire quelle correzioni e, adesso, diventava veramente urgente concentrarsi solo su quello, senza altre distrazioni o divagazioni.
Ero consapevole che, se non avessi consegnato il file entro la data stabilita, non avrei ricevuto alcun compenso, nemmeno un piccolo rimborso spese.
Avevo un assoluto bisogno di quei soldi perché dovevo ancora pagare l’affitto della stanza.
Ero già in ritardo di tre mensilità ma per fortuna Olga (così si chiamava la donna che mi aveva dato in affitto una camera del suo appartamento), quando mi vedeva triste e sconsolato, cercava di tirarmi su di morale, ripetendomi, nel suo incerto italiano: ”Roberto, non preoccuparti dell’affitto, sono sicura che alla fine tutto si risolverà”.
Desideravo farmi perdonare per tutti quei ritardi che, ormai, stavano diventando una cattiva abitudine e pensai di invitarla a cena o di comprarle dei fiori, di quelli che lei amava tanto: le rose rosse.
Olga era una donna dolce e gentile e aveva grandi occhi a mandorla, che tradivano le sue origini usbeche.
Era nata in un’ex repubblica che un tempo apparteneva alla vecchia Unione Sovietica, ma ci teneva a puntualizzare che la sua mamma aveva origini russe e che, per metà, anche lei si sentiva russa.
Olga aveva ormai superato la quarantina, ma la sua bellezza non era ancora del tutto sfiorita: si vedeva che amava tenersi in forma e aveva il viso e le mani curate, l’aspetto sempre in ordine.
Mi aveva raccontato la sua triste storia.
Era stata sposata con uno straniero per oltre venti anni, un egiziano che aveva lavorato a Minsk come professore universitario e con il quale aveva avuto tre figli.
Le prime due figlie ormai erano già grandi, rispettivamente di diciotto e quattordici anni, mentre l’ultimo figlio, il maschio, aveva appena compiuto undici anni.
Il marito l’aveva lasciata ed era andato via da casa due anni prima del mio arrivo: diceva di sentirsi stanco di quella vita familiare, della monotonia di una città che, dopo tanti anni, ancora non riusciva a capire.
In realtà il marito non aveva mai sopportato lo stile di vita occidentale ostentato, in tutti quegli anni, dalla moglie bielorussa e, spesso, le ripeteva che non si sentiva amato e rispettato.
Poi, all’improvviso, aveva deciso di tornarsene al Cairo, accettando l’offerta di lavorare come consulente esterno per il Museo egizio e portando via con sé le due figlie più’ grandi.
Olga, alla scoperta del rapimento delle figlie, dopo lo shock iniziale, aveva fatto di tutto per tentare di fermare il marito, ma nemmeno la denuncia alla polizia aveva sortito alcun effetto; alla fine si era dovuta arrendere, impotente di fronte ad una situazione che si era dimostrata più’ grande e più forte di lei.
Bastava parlarci insieme pochi minuti per capire che era una donna con una forte personalità.
Un giorno Olga mi confessò, candidamente, che si sentiva ancora fortunata ad avere con se' il piccolo figlio maschio: ora avrebbe dedicato tutto il suo tempo e le sue energie per farlo crescere nello stile occidentale.
Il piccolo Amir aveva un viso rotondo e gioviale, con due occhi grandi, neri ed espressivi, un’energia infinita e un insaziabile appetito; spesso potevo sentirlo mentre, rivolgendosi a Olga, ripeteva continuamente, in russo: “Mamma, ho fame”.
Olga, con pazienza, cercava di esaudire tutti i desideri del piccolo figlio preparandogli ogni sorta di prelibatezza e, la sera, nonostante la stanchezza per il lungo e duro lavoro, si prodigava per aiutarlo a finire i compiti per il giorno dopo.
Quando la mamma era assente per lavoro, mi divertivo a guardare Amir scorrazzare per casa, insieme ai suoi amici di scuola: questi trascorrevano tutto il tempo tra televisione, playstation e giochi di lotta, dimenticandosi completamente di dedicarsi allo studio e mettendo a soqquadro tutto l’appartamento.
Amir aveva una grande ione per la musica e dopo la scuola percorreva alcuni chilometri a piedi per arrivare al conservatorio, che frequentava tre volte la settimana, per perfezionare il suo talento musicale.
La mamma, con grandi sacrifici, era riuscita a comprargli un pianoforte usato, con cui Amir si divertiva a inventare nuove melodie.
Quando lo sentiva suonare al pianoforte Olga piangeva di nascosto, ma erano lacrime di gioia perché, in quelle occasioni, vedeva il figlio felice.
Mi faceva una grande tenerezza questo “piccolo principe”, (tale era l’origine araba del suo nome Amir), forse perché mi ricordava mio figlio che ormai non vedevo da tanti anni.
Per lui ero diventato come un padre e qualche volta mi chiedeva di uscire insieme in strada per giocare a palle di neve o per farsi spingere con lo slittino giù dalle piccole collinette di ghiaccio che, nella notte, si erano formate all’interno del cortile.
Mentre riflettevo sulla forza d’animo della mia padrona di casa, mi decisi ad aprire la posta elettronica e il mio sguardo fu immediatamente catturato dall’intestazione di un’e-mail che, nell'oggetto, riportava un nome e una stringata frase:
“Massimo, il tuo vecchio amico”.
Rimasi completamente sorpreso, ma quella frase non mi lasciava alcun dubbio: era proprio Massimo, il mio vecchio compagno di liceo.
Quel nome mi riportava con la mente al ato, ai tempi in cui tutto sembrava possibile, quando, a sedici anni, pensavamo di avere il mondo e il futuro nelle nostre mani.
Era trascorso tanto tempo dall'ultima volta che avevo avuto sue notizie e adesso mi chiedevo: “Come mai questa e-mail e come ha fatto ad avere il mio indirizzo?”.
Questo per me era un mistero da risolvere.
Solo poche e fidate persone avevano il mio indirizzo e-mail e queste potevano contarsi sulle dita di una mano.
Con il mio isolamento, con la lontananza fisica, pensavo di potermi proteggere da tutto e da tutti, invece ora mi sentivo senza più’ alcuna difesa.
Ormai quell'email era arrivata sul mio computer ed ero comunque curioso di leggerne il contenuto.
Mi affrettai ad aprirla, sperando che contenesse qualche bella notizia, in modo da
poter affrontare il resto della giornata con qualche linea di entusiasmo in più.
Intanto, cercavo di contare gli anni che erano trascorsi dal nostro ultimo incontro: tanti, troppi per essere ricordati.
Non potevo dimenticare la spensieratezza di quegli anni di scuola, i famosi anni ‘80, dove tutte le speranze erano ancora intatte e dove tutto sembrava potersi realizzare.
Lessi voracemente il contenuto di quell’e-mail: era proprio Massimo, che con il suo stile inconfondibile, misto d’ironia e tristezza, mi svelava finalmente il mistero di come avesse fatto a rintracciarmi.
Era capitato per caso sulla pagina Facebook di mia sorella e, come fulminato sulla strada per Damasco, era riuscito a mettersi in contatto, pregandola di darmi il mio indirizzo: le disse che gli avrebbe fatto molto piacere riallacciare i vecchi rapporti con me.
Mi raccontava che non era riuscito a realizzare i suoi sogni di artista, di non essere diventato famoso come cantante, anche se fino alla fine ci aveva tanto sperato; con la sua musica non era riuscito a trovare quel sound, quel guizzo, quelle note, che gli avrebbero permesso di scrivere il pezzo-capolavoro, quello che lo avrebbe proiettato nel firmamento della musica italiana.
Continuai a leggere e finalmente potevo conoscere quello che aveva fatto Massimo dopo la fine della scuola.
Mi scrisse che ci aveva provato fino in fondo e che aveva soggiornato a Milano per diverso tempo, giustificando quella scelta con i suoi genitori e barattandola con un’iscrizione al Conservatorio di musica.
Il tempo era ato velocemente e nessun avvenimento degno di nota era arrivato a sconvolgergli la vita di musicista, nemmeno un incontro fortuito, così come a volte succede nella vita.
Alla fine la sua delusione era stata troppo grande e aveva deciso di fare ritorno a casa, di tornare al sud, in quella stessa piccola città di provincia dov'era nata la nostra amicizia ai tempi del liceo.
Aveva capito che, per realizzare il suo sogno, doveva percorrere un cammino troppo difficile, tortuoso, pieno di ostacoli e di compromessi, un cammino che, probabilmente, lo avrebbe condotto su di una strada senza uscita.
Ora lavorava come operaio in una fabbrica di occhiali, ma di tanto in tanto ancora si divertiva ad andare in qualche locale a suonare al piano bar e a raccontare agli ospiti qualche aneddoto della sua vita da artista vissuta nella capitale della musica: Milano.
Questo gli sembrava comunque un modo piacevole per trascorrere le serate e tenersi aggrappato al suo sogno, oltre che per arrotondare le magre entrate mensili.
Nell'email si rammaricava che erano trascorsi così tanti anni dal nostro ultimo incontro e si diceva dispiaciuto per non aver avuto il tempo di frequentarmi anche dopo la scuola.
Mi allegava una sua fotografia dalla quale a stento riuscivo a capire che fosse proprio lui: la sua attuale fisionomia contrastava con i miei ricordi giovanili, anche se poi, guardandola meglio, nei suoi occhi vedevo ancora quella scintilla di luce, di follia, che solo i veri artisti potevano avere.
Finì quella sua lettera con una domanda finale, da me tanto temuta: ”Robbè, ma almeno tu sei riuscito a realizzare i tuoi sogni di diventare scrittore?”.
Per un attimo fui preso dal panico e mille pensieri, mille paure, si affollarono improvvisamente nella mia mente; adesso anche una vocina mi supplicava di cancellare quell'email, di dimenticarla e di fare in modo che tutto tornasse come prima.
Ormai ero totalmente confuso e non potevo fare finta di niente, dovevo reagire in qualche modo.
Tra quelle righe mi era parso di leggere una sua richiesta di aiuto e non potevo lasciare un amico in difficoltà.
Probabilmente anche Massimo aveva voglia di abbandonare quella sua vita sempre uguale e monotona, senza prospettive per il futuro, forse aveva intenzione di fare esattamente come me: allontanarsi da tutto e da tutti e trovare un posto dove poter dare respiro alla propria mente di artista e sollievo all’anima.
Anche per me era giunto il tempo di fare i conti con le mie paure e dovevo avere
il coraggio di affrontarle definitivamente; forse questa era l'occasione giusta, quella che aspettavo, e avrei cercato di rispondergli nel modo più sincero possibile.
Mi pesava molto dover confessare proprio a lui, al mio caro amico di gioventù, che avevo abbandonato definitivamente ilsogno di diventare uno scrittore e che adesso conducevo una vita modesta, in completo isolamento.
Ero solo rallegrato dal fatto di potergli scrivere che ero riuscito a dare una piccola soddisfazione ai miei genitori: avevo conseguito la sudata laurea in giurisprudenza.
E’ vero, si trattava di una magra consolazione che non mi avrebbe riabilitato ai suoi occhi, ma era pur sempre un piccolo successo in un mare di fallimenti.
Avrei potuto finire la lettera allegando una mia foto recente e sfidandolo a riconoscermi.
Già immaginavo la faccia di Massimo e le sue risate di scherno, la sua tagliente ironia.
Lo vedevo seduto in cucina che, mentre sorseggiava il suo caffè, diceva a voce alta: ”Molto bene, il ragazzo dai lunghi riccioli biondi si è trasformato in un uomo dalla fronte alta e dai pochi capelli, in un cinquantenne imbolsito e depresso”.
In tutto questo mi chiedevo se anche Massimo avrebbe intravisto nei miei occhi quella speranza, quel desiderio di avere un’ultima occasione.
Probabilmente, fu quello il momento in cui dentro di me cominciò a formarsi la convinzione che noi due, insieme, avremmo ancora potuto realizzare i nostri sogni.
Improvvisamente balenò in me l’idea di unire i nostri due talenti, le nostre due ioni, la musica e la scrittura, per provare a compiere insieme un’ultima missione prima di poter dire, definitivamente: “Mi dispiace, ho provato, ma ho fallito”.
Era un’idea strana, folle, ma come tutte le idee che nascono per caso aveva la sua base di razionalità; inoltre, mi dicevo: “Noi non abbiamo nulla da perdere, se non quel poco di dignità che ancora ci resta”.
Erano ancora tante le domande che attendevano una risposta: “Noi, così diversi, potevamo avere un progetto in comune e il talento artistico per realizzare un disco di successo di musica pop?”.
In fondo non eravamo più’ dei ragazzini e, certamente, avevamo perso il nostro “fisic du role”; ma dentro di me sentivo ancora viva la fiamma della ione per la scrittura e questo, forse, avrebbe potuto convincere Massimo ad accettare il mio invito.
Era tempo di agire e il lavoro adesso poteva aspettare ancora qualche minuto: dovevo concentrarmi sulla risposta da dare a Massimo e mi misi subito a scrivere al computer.
Quando fui soddisfatto della lettera, gli allegai la mia foto più recente, scattata da Olga durante quell’ultimo Natale e mi affrettai a premere “invio”.
Bisognava solo avere pazienza e aspettare che il tempo fe il suo corso: molto presto avrei capito se quella mia idea, quell’intuizione, avrebbe preso forma e vita.
Mentre pensavo a tutto questo, come in un flash back, mi tornarono alla mente gli anni del liceo.
Capitolo 2 – Gli anni del liceo
Fin dall’adolescenza mi domandavo chi fossi, se in realtà avessi talento e la capacità di realizzare i miei sogni che, a volte, sembravano troppo grandi anche per un ragazzo di sedici anni.
Ogni giorno percorrevo a piedi la strada per andare a scuola, cercando di evitare il centro e di camminare sul lungomare, per ammirare quei bellissimi promontori della costiera Amalfitana.
A volte mi fermavo su di una panchina, chiudevo gli occhi e aspettavo quell’anelito di vento che trasportava la brezza marina del mattino; poi, come incantato, ascoltavo il canto dei gabbiani che, in cerca di cibo, si tuffavano voracemente nelle azzurre acque del mare.
In quei due chilometri nascevano e morivano mille idee, mille progetti e tutt’intorno sembrava rallentare come un film visto alla moviola.
Immaginavo come sarebbe stato “figo” arrivare a scuola a bordo di una fiammante e nuova spider Alfa Romeo, tutta rossa, decappottabile e quale invidia avrebbero provato i miei compagni di classe nel sentire il rombo del motore salire di giri, sempre più forte, un rumore quasi assordante.
Grande sarebbe stata la mia soddisfazione nel vedere le ragazze più’ carine della scuola corrermi incontro; le immaginavo disposte a fare qualunque cosa pur di poter salire su quell’auto e correre in giro per la città, per sentire l’ebbrezza della
velocità e il vento nei capelli.
Ma quelli erano solo i pensieri di un adolescente che, intanto, continuava ad andare a scuola a piedi, mentre in quegli anni ’80 anche un semplice motorino, magari usato, avrebbe potuto fare la differenza tra uno “sfigato” e uno che “ci sapeva fare”.
Quei sogni, quelle illusioni, duravano solo il tempo di quel breve percorso e poi sarebbe cominciato il tormento di quella giornata: cinque ore di lezioni, chiuso in una grande stanza, come un prigioniero in attesa della grazia.
Tant’è, non avevo ancora cominciato a pensare all’agonia di quel lunedì che già mi ritrovavo all’entrata della scuola: ora si potevano distinguere perfettamente le grandi stanze al piano terra di quel banale condominio di colore rosso porpora.
Noi giovani adolescenti, come mandrie mansuete, eravamo “costretti” a entrare in quelle grandi stanze fredde e con i calcinacci che pendevano dal soffitto.
A volte mi chiedevo quand’era stata l’ultima volta che avevano provato a dare una sistemata o, almeno, una mano di colore.
Il povero bidello Gianni faceva quello che poteva, ma oltre alle pulizie generali s’interessava solo di cambiare qualche lampadina o sostituire le serrature delle porte delle nostre aule, che qualche buontempone aveva provato a divellere.
Quel Gianni era un tipo davvero strano: aveva un aspetto tarchiato e corpulento,
la statura più bassa della media, ma con delle grandi mani, ruvide e callose.
Era evidente la sua origine contadina e, quando aveva del tempo libero, si divertiva a coltivare il piccolo giardino che si stendeva tutt’intorno al perimetro della scuola.
Qualche volta, tra una lezione e l’altra, mi affacciavo dalla finestra al piano terra e mi divertivo a fare ambigui commenti sul tipo di ortaggi che avrebbe potuto coltivare durante la giornata.
Comunque Gianni era un tipo simpatico, non reagiva mai in malo modo ai nostri scherzi e, spesso, ci invitava a prendere un caffè che era solito preparare nel suo stanzino, quello delle scope e dei detersivi.
Con il tempo aveva saputo organizzarsi bene portando da casa un piccolo fornello da campeggio al quale aveva collegato una minuscola bombola da gas; a volte si preparava anche da mangiare e l’odore della carne arrostita attraversava tutto il corridoio, per giungere fin nelle nostre aule.
All’ora di pranzo quel profumo diventava una vera tortura, mentre dovevamo aspettare ancora qualche ora prima di poter tornare a casa per mangiare.
Dal preside all’ultimo dei professori tutti chiudevano un occhio per quei comportamenti poco “ortodossi”, ma Gianni sapeva farsi perdonare, perché era sempre gentile e disponibile con tutti.
Arrivato all’entrata della scuola, mi fermai per sedermi su di un piccolo muretto: un posto considerato strategico, perché potevo vedere l’intera scuola e luogo d’incontro per tutti i miei compagni di classe.
Per il momento ero ancora tutto da solo e continuavo a pensare che andare in quella scuola fosse solo uno spreco del mio tempo.
Spesso immaginavo di eggiare per le vie del centro, soprattutto in quei giorni quando il sole di primavera riscaldava l’aria e il profumo dei fiori sul viale diventava intenso e penetrante.
Seduto sul muretto, potevo vedere l’entrata della scuola e quello strano cancello di ferro, rosso e nero, che per me segnava il confine tra la libertà e l’agonia di una giornata da trascorrere ad ascoltare lezioni spesso inutili.
Tutti quei professori, messi insieme, non erano in grado di dirti o di spiegarti chi eri, in quale direzione andare o di orientarti nelle scelte future.
Ci parlavano di lingue morte ed io riflettevo: “Ma se sono morte ci sarà stato un motivo e perché resuscitarle proprio con noi?”.
Era evidente che in quelle condizioni non potevo fare altro che immaginare la scuola come una gabbia, una fabbrica di nozioni, un posto tetro dove venivano rinchiuse le nostre idee, le nostre aspirazioni, la nostra voglia di conoscenza.
Per me l’unica via d’uscita sarebbe stata quella di voltarsi e di tornare indietro.
Sì, ma per andare dove?
Certamente non a casa, dove mia madre mi avrebbe inveito contro duramente, ripetendomi all’infinito che la scuola è fondamentale per avere un futuro certo e promettendomi chissà quale esemplare punizione, al ritorno di mio padre dal lavoro.
Alla fine entrare a scuola diventava la scelta più saggia, il male minore.
Ormai mancavano solo pochi minuti al suono di quella “maledetta” camla: da sempre la immaginavo come una “campana a morto” che salutava il carro funebre al termine della funzione sacra, mentre lasciava la chiesa, per incamminarsi verso il cimitero.
Ero perso nei miei pensieri quando, all’improvviso, giunse al mio orecchio il suono di una voce familiare; ero girato di spalle ma quella voce era dolce e gentile e l’avrei riconosciuta tra mille altre: “Ehi Roberto, sono felice di vederti, allora ci siamo proprio tutti questa mattina?”.
Mi voltai lentamente cercando di incrociare subito il suo sguardo e, in quel momento, la luce di due occhi grandi e azzurri illuminò subito il mio viso, così come un faro nella notte buia.
Era Marina, la mia compagna di classe, che sedeva nel banco centrale, in prima fila, sempre accanto alla sua amica del cuore, Marta, da tutti noi soprannominata, bonariamente: “La nostra ultima speranza”.
Marta era considerata il genio dell’intera scuola e non era per niente facile tenerle testa perché aveva almeno due lunghezze di vantaggio su tutti, sempre preparata su ogni argomento, anche quelli tradizionalmente più impegnativi.
Era la nostra fortuna, la nostra ancora di salvezza, sempre disponibile ad aiutare quelli che restavano indietro, soprattutto in quelle materie che molti di noi trovavano particolarmente ostiche: il latino, la fisica e la matematica.
Per la “nostra ultima speranza” quelle materie sembravano non avere più segreti ed era raro vederla commettere degli errori.
Era accaduto sovente che, durante la lezione, correggesse il professore di turno, il quale non poteva fare altro che ammettere la “distrazione”, non senza mostrare un mal celato imbarazzo.
Pensai: “Perfetto, anche oggi Marina è venuta a scuola”; immediatamente accennai ad un sorriso e il mio sguardo si posò su quei lunghi capelli biondi, leggermente ondulati, che le cadevano perfettamente sulle spalle.
Anche lei mi sorrise.
Era incantevole, un mix di dolcezza e sincerità le illuminava il viso e mi aprì il cuore in due, come un apriscatole.
Sentivo le pulsazioni andare a mille ma come un navigato attore che, giunto sul
set, è pronto a dire la sua battuta, cercai di distogliere lo sguardo dai suoi occhi e provai a balbettare: “Ciao Marina, come va questa mattina, immagino che avrai studiato tutto il giorno, oppure ieri sera sei andata in giro a divertirti con le amiche?”.
Mi veniva naturale il desiderio di scoprire cosa avesse fatto il giorno prima: “Era stata impegnata sui libri di scuola oppure era uscita con qualcuno in particolare?”.
Ero un tipo molto geloso e, se avessi saputo che usciva con qualche mio compagno di classe, avrei sicuramente reagito male.
Alle mie domande impertinenti rispose con tono deciso: “Purtroppo ieri niente divertimenti ma solo tanto studio con Marta e poi, oggi, ci sono così tante interrogazioni che non avevo la testa per fare altro”.
Marina non fece in tempo a finire la frase che, come un falco cattura le sue prede, arrivò la sua amica Marta per portarsela via; mi dispiacque non avere avuto altro tempo per stare con lei, ma quei pochi minuti erano bastati per risollevarmi il morale.
Comunque ebbi il tempo di vederle allontanare insieme, abbracciate, perdersi in mezzo alla folla degli altri studenti che, nel frattempo, avevano riempito l’atrio della scuola.
Pensai: “Benissimo, allora Marina ieri è rimasta a casa tutto il giorno”.
Mi sentivo soddisfatto e contento per quelle sue parole, ma adesso mi assaliva il pensiero delle interrogazioni, ed era un problema immediato, urgente, che bisognava risolvere in qualche modo.
Mi chiedevo: “Come posso evitare di essere interrogato e cosa posso fare per non diventare la preda sacrificale del giorno?”.
Bisognava inventarsi qualcosa e occorreva farlo in fretta perché ormai mancavano pochi minuti al suono della camla che indicava il “tutti dentro”.
Era di vitale importanza avere un’idea illuminate e risolutrice, oppure escogitare qualche scherzo particolarmente pesante, magari coinvolgendo qualcuno del gruppo che, come me, non aveva avuto tempo o voglia di studiare.
Quello poteva essere l’unico modo per ritardare l’inizio delle lezioni ed ero disposto anche a prendermi una nota in condotta, pur di evitare il peggio quella mattina.
La “camla” emise il suo lamento mattutino e gli studenti, come incantati dal suono di un magico pifferaio, cominciarono a entrare nelle loro classi; l’atrio si svuotò rapidamente mentre io, ancora fuori, ero aggrappato con le mani a quel cancello, con l’idea, adesso ancora più forte, di andare via.
Inaspettatamente, sentii il rombo di una moto in lontananza che si avvicinava velocemente all’entrata della scuola: era il suono inconfondibile di una Vespa 50, con la marmitta truccata.
Finalmente era arrivato anche il mio caro amico: era arrivato Massimo.
Da lontano potevo chiaramente distinguere la sua inconfondibile figura: aveva lunghi capelli neri da vero hippy inglese, gli occhiali da sole Ray-Ban e la classica sigaretta Marlboro tra i denti.
Sì, era proprio lui e in un attimo scomparvero tutte le ansie e i dubbi che fino a quel momento mi avevano assalito; con lui in classe sarebbe stata tutta un’altra musica e la giornata prendeva decisamente un’altra piega.
Pensai: “Ecco, vedi, la fortuna sembra girare nel verso giusto”.
Con Massimo eravamo diventati grandi amici fin dai primi giorni di scuola ed eravamo anche gli ideatori degli scherzi più divertenti e pericolosi fatti in quegli anni.
Visti dall’esterno non potevamo essere due persone più diverse e sembravamo appartenere a due mondi troppo lontani e inconciliabili.
Io ero completamente immerso nel mondo del calcio e facevo una vita da atleta, senza eccessi, in pratica monacale; Massimo, invece, viveva la sua vita a tutta velocità, con uno speciale menù fatto di sigarette, alcool, qualche droga leggera e tanta, ma proprio tanta musica.
Non potevo negare che tutto questo mi provocava sentimenti contrastanti: da un lato lo vedevo come disturbatore della mia quotidianità, fatta di allenamenti al
campo di calcio e poco altro, ma dall’altro desideravo essere come lui e lo invidiavo per questo, soprattutto perché ci sapeva fare con le donne.
Anzi, era proprio in quelle rare occasioni in cui trascorrevamo le serate insieme che cercavo di osservarlo attentamente, tentando di rubargli tutti gli atteggiamenti e le frasi a effetto che rivolgeva alle ragazze.
All’epoca potevo essere etichettato come il classico “bravo ragazzo” ma, in fondo, nessuno conosceva la parte ribelle che era dentro di me.
Probabilmente, solo Massimo aveva intuito quest’aspetto nascosto del mio carattere e anche per questo lo consideravo un “vero amico”.
Abitavamo in città diverse e la lontananza ci costringeva a non vederci spesso dopo la scuola, soprattutto nei weekend.
Era pur vero che trascorrevamo insieme gran parte del giorno e questo fu sufficiente a farci uscire dal grigio rigore di quelle aule, soprattutto quando organizzavamo tremendi scherzi e prendevamo di mira il professore meno incline a infliggerci punizioni.
Furono rare le volte in cui fummo scoperti e, in quei casi, dovemmo appellarci alla magnanimità del preside Fusco per ottenere uno sconto delle giornate di sospensione che, inevitabilmente, ci affibbiavano.
Era evidente a tutti che Massimo mi attraeva come una calamita: ero colpito dal
suo dal suo modo di vestire, di parlare, di conquistare le ragazze facilmente, dai suoi modi anticonformisti; con lui cercavo di superare la mia timidezza.
Massimo, a scuola, era l’istrione del gruppo, sempre con il sorriso, la battuta pronta, mille idee originali nella testa.
Lo vedevo come un gigante e, già allora, credendo nelle sue capacità artistiche, gli dicevo: “Massimo, tu un giorno diventerai un personaggio televisivo, un comico alla Valter Chiari, perché hai una comicità innata, sei un vero talento”.
Aveva costruito il suo personaggio, adattandolo a se stesso, come un abito costoso tagliato su misura - e che abito! - il migliore, mi dicevo.
Quelle erano le emozioni che provava un ragazzo di sedici anni, facilmente influenzabile, com’ero io a quel tempo.
Massimo parcheggiò la sua Vespa 50 all’interno del cortiletto della scuola, proprio in prossimità della finestra della nostra aula, in modo che, con una semplice occhiata, potesse tenerla sotto controllo da “mani indiscrete”.
Si avvicinò a me, che nel frattempo ero rimasto fermo, immobile, a guardare la conclusione della sua pantomima e, come un attore consumato dall’esperienza, mi disse: “Allora Robbè, cosa facciamo questa mattina?”.
Quindi, mi prese per un braccio e, letteralmente, mi spinse ad attraversare il portone della scuola.
Fu sufficiente questa semplice sua mossa per ritrovarmi già in aula.
Poi Massimo, con una mossa già studiata da tempo, dopo aver dato un ultimo tiro alla sua Marlboro, aprì la finestra e con un semplice schiocco delle dita la allontanò da se’, oltre il piccolo prato.
Mi dissi: “Bene, ho ancora tempo per respirare i miei ultimi momenti di libertà prima dell’inizio della lezione”.
Nel frattempo, cominciai a guardarmi intorno e, con mio grande stupore, mi accorsi che nessuno era seduto al proprio posto.
Guardai i miei compagni e pensai che avessero un comportamento strano, inconsueto per quel lunedì mattina: non erano per nulla preoccupati per le imminenti interrogazioni ma i loro volti erano sorridenti, come sollevati.
Avevo notato che in fondo all’aula, vicino alla cattedra del professore, si erano formati alcuni gruppetti che parlavano fittamente ma con un tono della voce decisamente basso.
Ero troppo lontano e non riuscivo a distinguere perfettamente i loro discorsi ma, ogni tanto, il suono di qualche parola sbiascicata arrivava alle mie orecchie e riuscii a capire solo: - Professore, malattia, supplente -.
In tutto quello strano movimento mattutino un’altra cosa mi sembrava fuori
posto, quindi volsi nuovamente lo sguardo verso la cattedra e vidi che era completamente vuota.
Non riuscivo ancora a capire cosa stesse succedendo e mi chiesi: “Dov’è il registro di classe e dove sono i libri del professore d’italiano?”.
In effetti, l’attore principale era stranamente assente e, ora, il mio pensiero ricorrente era diventato solo uno: “Ma dov’è finito il professore d’italiano?”.
Inconsciamente speravo nella sua assenza, nel miracolo, perché, in caso contrario, saremmo stati interrogati o seduti tre ore ad ascoltare la lettura di qualche singolare brano a noi completamente sconosciuto.
A volte il suo comportamento mi appariva davvero surreale e mi dicevo: “Ma perché ci legge testi di autori che non fanno nemmeno parte del programma di studio?”.
Evidentemente, quella era la sua tecnica preferita per mettersi in mostra, confonderci le idee e confermare la sua nomea di “Professor terribile”.
In questo caso dovevamo comunque ritenerci fortunati perché, quando arrivava in classe con la “luna storta”, allora tirava fuori dal cassetto il tanto temuto registro di classe e cominciava a interrogare.
Nell’aula scendeva un silenzio assordante e potevamo osservarlo mentre, con il suo dito indice, scorreva i nomi di quella breve lista sul registro.
In quegli attimi già sapevamo che per noi si sarebbe messa male e che i tre sarebbero fioccati come la neve in un gelido inverno.
Solamente Marta, il genio della classe, riusciva a tenergli testa ed era proprio in tali occasioni che la vedevo sorridere, come se non avesse aspettato altro per tutto il giorno, felice di potersi confrontare con lui.
Purtroppo, il nostro “professor terribile”, con il tempo si era fatto furbo e sapeva benissimo come fare per evitare tutti i nostri trucchi per non essere interrogati.
In quelle particolari circostanze anche la morte di una nonna o di un parente caro, magari avvenuta il giorno prima, non sarebbe comunque servita allo scopo, perché non era più considerata una valida giustificazione.
Bisognava ammettere che, negli ultimi tre anni, per salvarci dalle sue interrogazioni, tutti noi avevamo abusato della “morte presunta” dei nostri parenti.
Adesso, contarli tutti, sarebbe stato come fare l’elenco della strage di S. Valentino e, in ogni caso, saremmo dovuti essere tutti orfani già da un bel pezzo.
Per questo motivo il professore evitava, accuratamente, di fare il nome di Marta, ben sapendo che avrebbe avuto pane per i suoi denti, mentre si divertiva a chiamare tutti quelli che riteneva sicuramente impreparati.
Inutile dire che il mio nome e quello di Massimo erano tra i più gettonati di quella lista e, in quei casi, nemmeno i suggerimenti di Marta potevano salvarci.
Infatti, noi due, come scelta strategica o, anche perché ritenevamo in questo modo di essere invisibili, avevamo scelto di sederci nell’ultima fila, proprio nel primo banco vicino all’uscita.
Purtroppo, nei casi in cui eravamo sottoposti alla “tortura” di quelle interrogazioni, capivamo di essere seduti troppo lontano da Marta e non potevamo ricevere i suoi preziosi suggerimenti senza essere notati dal professore.
Solo in rare occasioni ebbi il coraggio di contestare il professore d’italiano e i suoi metodi d’insegnamento, che consideravo dittatoriali e non ortodossi.
In un’occasione, in particolare, cercai di salvarmi da quella “incresciosa disavventura” affermando che si trattava di un’interrogazione a sorpresa, non preventivamente concordata con noi studenti.
Terminai quella mia “prima arringa”, d’imbelle futuro avvocato, dicendo che si trattava di una chiara violazione del regolamento interno che anche lui aveva contribuito a scrivere.
Era evidente a tutti che cercavo di arrampicarmi sugli specchi, ma ebbi la sensazione che non gli dispiacque quel mio “inutile tentativo di salvataggio”.
Purtroppo, quello era il tipico professore che difficilmente tornava sui propri i e non si fece intimorire dalle parole di un cocciuto sedicenne: quindi, dopo avermi ascoltato con molta attenzione, si aggiustò le stanghette degli occhiali e si mise a scarabocchiare un numero e una nota sul registro.
Si prese il suo tempo e quando ebbe finito, con voce calma, mi disse: “Bravo, bel tentativo Russo ma, anche per oggi, ti meriti un bel tre e mezzo”.
Nell’espressione del suo viso leggevo tutta la sua arroganza e quel mezzo voto in più era il suo modo contorto di farmi capire che apprezzava il mio coraggio e che dovevo considerarlo come una sorta di premio.
Per tutti gli altri miei compagni la situazione non era certamente più rosea e, tale era la paura per il professor Baglio, che nessuno di questi si azzardò mai a contestarlo o ad aprire bocca.
Solitamente queste “interrogazioni a sorpresa” finivano con una débâcle generale dalla quale non si salvava nessuno, tranne ovviamente Marta, e raramente Marina.
Tutto questo “terrore” per il professor Baglio aveva origini lontane e nasceva fin dai primi mesi del liceo quando in aula eravamo ben trentadue alunni.
A volte qualcuno arrivava in classe in ritardo e Massimo, scherzando su quell’inusuale affollamento, gli diceva: “Vendiamo solo biglietti per posti in piedi, tutti gli altri sono già occupati”.
Fin dal primo giorno di lezione capimmo che tirava una brutta aria e, quando vedemmo per la prima volta il professor Baglio entrare in classe, subito capimmo che era un “tipo tosto” dal quale avremmo fatto bene a stare alla larga.
Il professor Baglio aveva sempre un’andatura decisa e una smorfia di arroganza sul viso, le spalle larghe, la corporatura robusta, i capelli neri lisci con la nuca appena rasata, spessi occhiali da vista e un’enorme borsa di pelle nera dove, come avremmo scoperto nel tempo, teneva a portata di mano tutti i suoi libri più amati.
Nei primi anni di liceo fu il protagonista assoluto e l’autore della “strage degli innocenti” (così definimmo le sue bocciature “seriali”), perché alla fine del biennio, in quella classe, restammo solo in quattordici.
Anche il Preside Fusco si trovò in difficoltà dopo quello “spargimento di sangue” perché, secondo gli standard del Ministero dell’Istruzione dell’epoca, un classe non poteva essere composta da un numero di studenti inferiore a quindici.
Mi chiedevo: “Come farà il preside Fusco a risolvere questo casino e trovare qualcuno, tanto coraggioso o pazzo, da volersi trasferire nella terza C?”.
La soluzione fu trovata presto grazie al trasferimento, da un’altra scuola, di un nuovo alunno, Paolino, che negli anni seguenti si sarebbe rivelato un compagno prezioso perché, spesso, ci avrebbe tirato fuori dai guai.
Per fortuna riuscimmo a superare indenni quelle “purghe staliniane” e, anche in quel caso, le battute fioccarono numerose; come al solito la più gettonata fu quella di Massimo, che ripeteva spesso: “Ne resterà solo uno”.
Con il professor Baglio le interrogazioni a sorpresa non erano il nostro unico problema quotidiano, perché poteva capitare che arrivasse in aula con l’aria di chi è “particolarmente incazzato” e, allora, capivamo che saremmo stati i capri espiatori sui quali si sarebbe sfogato.
Inderogabilmente, ci assegnava una traduzione dal latino, di quelle più difficili e complicate, e in quei casi solo con l’aiuto di Marta riuscivamo a salvarci.
Con il professor Baglio ogni giorno di scuola era diverso dal precedente perché non sapevi mai cosa aspettarti e, tutti noi, in quegli anni, avevamo imparato, a nostre spese, che era sempre buona norma portarsi da casa il dizionario di latino e qualche versione già tradotta, proprio per evitare spiacevoli conseguenze.
Era proprio in quei momenti di difficoltà che Massimo dava il meglio di sé e tirava fuori la sua naturale inclinazione di dissacratore: con il suo humor e le sue battute sagaci, puntualmente, ci risollevava il morale.
A volte ci diceva che tutto quel casino, in realtà, dipendeva dalla moglie del professore e dalla sua disponibilità notturna “a dargliela o meno”; poi concludeva il suo improvvisato show con qualche altra frase ad effetto particolarmente volgare.
Ormai erano già trascorsi più di dieci minuti dalla nostra entrata classe ma, del professore d’italiano, ancora nessuna traccia: tutto questo era molto strano perché era un tipo conosciuto anche per la sua puntualità a scuola.
Fino a quel momento non avevamo avuto ancora nessuna notizia certa della sua assenza e, né il bidello Mario né altri professori che avevamo incrociato quella mattina in corridoio, avevano saputo dirci granché.
Tutti cominciarono a formulare ipotesi e man mano che avano i minuti cresceva in me la speranza che quel giorno, almeno per quelle tre ore, saremmo stati liberi.
Poi rivolsi il mio sguardo verso la prima fila, il banco centrale: finalmente potevo ammirare Marina, avvolta nel suo jeans bianco, che la strizzava al punto giusto e metteva in risalto le sue forme perfette.
Era uno spettacolo per i miei occhi perché potevo vederla di schiena, appoggiata in precario equilibrio sul suo banco, intenta a parlare con la sua amica del cuore Marta e le altre due ragazze del gruppo: Viola e Anna.
Speravo che il mio nome fosse ricorrente nei suoi discorsi e pregavo perché girasse la sua testa verso di me, anche solo per avere un timido sguardo o un suo sorriso.
Desideravo trasformarmi in un piccolo moscerino e posarmi sulla sua spalla solo poter ascoltare i suoi commenti, ma ero distante e le loro voci troppo soffuse perché potessi capirle.
Qualche volta, quando ero assalito dalla noia di un’inutile lezione, mi distraevo osservando Marina intenta a tirare fuori dallo zaino i quaderni e i libri e, trattenendo il fiato, restavo in attesa del suo pezzo forte: il diario rosa.
Marina era una classica sedicenne di quegli anni ‘80 e da lontano la guardavo scorrere velocemente quelle pagine e soffermarsi sulle foto dei Duran Duran, probabilmente ritagliate da qualche rivista di moda femminile.
Quella pagina sembrava la più curata di tutto il diario, era ripiegata in quattro e Marina la sfogliava di tanto in tanto, nelle occasioni in cui, anche per lei, arrivava la noia di quelle lezioni.
In quei momenti non era raro vedere il suo sguardo perdersi sulla foto di Simon Le Bon e, allora, diventavo tremendamente geloso.
Sulla copertina del diario Marina aveva disegnato un grande cuore, colorato di rosso solo per metà, con delle scritte a pennarello blu che non ero stato ancora in grado di decifrare.
Ogni volta che cercavo di leggere quelle righe, era come se lei potesse percepire il mio sguardo e, allora, velocemente chiudeva le pagine del suo diario, che finiva inesorabilmente in fondo allo zaino.
Mi dicevo: “Come posso aprire e leggere quel diario?”.
“Come posso fare per sapere se anche il mio nome è scritto in blu in quelle pagine e se quel cuore rosso a metà è dedicato a me?”.
Purtroppo, quelle domande restarono senza una risposta e, per me, il contenuto
del suo diario rimase per sempre un mistero.
In verità avevo avuto diverse occasioni per farlo, soprattutto quando Marina andava al bagno in compagnia della sua amica Marta, ma la paura di essere scoperto prendeva sempre il sopravvento.
All’improvviso, fece il suo ingresso in aula il nostro preside Fusco, il quale ci confermò che, per problemi personali, il professor Baglio non sarebbe venuto alle lezioni per tutta la settimana.
Poi concluse dicendo che lo avrebbe sostituito lui stesso, compatibilmente con le sue funzioni amministrative.
In pratica, per tutta la settimana, quella fu l’unica occasione in cui vedemmo il preside nella nostra aula.
Fu una settimana sicuramente fortunata, che dedicammo alla preparazione e realizzazione dei nostri scherzi preferiti.
Infatti, quello stesso giorno, il preside Fusco ci avvertì che, a causa dell’aggravarsi delle condizioni di salute, sarebbe stato assente anche il nostro professore di fisica e matematica, il vecchio professor Morello.
Non fummo stupiti per quella notizia perché sapevamo, ormai da qualche tempo, che il professor Morello veniva a scuola solo perché gli mancava ancora un anno per andare in pensione; il poverino, ogni mattina, faceva sacrifici e sforzi
tremendi per potersi alzare dal letto.
Qualcuno di noi era anche andato a trovarlo a casa scoprendo che aveva un’intera stanza piena zeppa di libri che parlavano di “scienza”; la sua ione, oltre naturalmente per la fisica e la matematica, era dedicata al cosmo e ai suoi misteri.
Leggeva tutto quello che poteva su buchi neri, quasar e quant’altro lo apionava fino a scivolare nella fantascienza e nei libri sugli UFO.
Non era raro, durante le lezioni, sentirlo commentare questa o quella notizia che parlava di nuovi avvistamenti o di dossier su vecchi incidenti, in particolare su Roswell.
Era proprio durante i giorni in cui il professor Morello era assente che davamo sfogo alla nostra frustrazione di studenti pigri e svogliati e quelle due ore diventavano l’occasione per inventarsi nuove goliardate.
In quei momenti era sempre Massimo a prendere l’iniziativa e, cercando di coinvolgermi, mi diceva: ”Allora Robbè che facciamo?”.
Quando vedeva la mia espressione perplessa e non riuscivo a dargli una risposta soddisfacente, tornava subito alla carica e, insistendo, mi ripeteva, nel suo classico slang: “Robbè diamoci una mossa, pensiamo a qualche scherzo da fare, cosa ci inventiamo questa volta?”.
Fu proprio in una di quelle occasioni in cui non ebbi il tempo né di pensare né di rispondere, che nacque lo scherzo dell’anno.
In quell’occasione, dal gruppo che si era formato alla finestra, si udii il suono forte di una voce che diceva: “Massimo, cosa pensi di usare le foto delle riviste sexy che il bidello Mario tiene nascoste nel ripostiglio in fondo al corridoio?”.
Fu un suggerimento inaspettato, soprattutto perché proveniva da Maurizio, un tipo che, normalmente, preferiva farsi “gli affari suoi”.
Maurizio sedeva nel banco accanto al mio, e aveva un perenne atteggiamento arrogante e strafottente.
Con i capelli rossi e una muscolatura possente, costruita con anni di duri esercizi in palestra, si dava arie da “Bullo”.
Alla sua età era più alto della media, circa un metro e ottanta, e questo gli consentiva di guardarci sempre con un tono di sfida, cercando di incrociare i nostri sguardi per provocare la nostra reazione.
Era sempre pronto a menar le mani, in ogni occasione, e si tuffava, come un pesce nell’acqua, in tutte le risse che gli capitavano a tiro, finanche in quelle in cui lui non c’entrava proprio niente.
Sembrava che fosse innamorato solo della boxe e quasi ogni giorno tornava a casa mezzo sanguinante per le conseguenze delle scazzottate alle quali,
puntualmente, partecipava.
Maurizio si sentiva superiore a tutti noi, non solo per questa sua caratteristica di “attaccabrighe”, ma perché suo padre era un noto politico regionale che, in quegli anni, aspirava a raggiungere posti ben più importanti e prestigiosi, come la carica di deputato nel Parlamento nazionale.
Era il tempo in cui dominava la Democrazia Cristiana e, farne parte, significava assicurarsi la possibilità di entrare nel gotha della politica.
Il padre di Maurizio godeva di amicizie e appoggi politici importanti e, il figlio, approfittava di questa sua notorietà per darsi arie da classico “figlio di papà”.
Il suo atteggiamento strafottente e da bulletto di periferia lo aveva, di fatto, allontanato dal nostro gruppo e Massimo evitava di coinvolgerlo nei nostri scherzi a scuola.
Per questo fui sorpreso quando vidi Maurizio accorrere in nostro aiuto per “regalarci” la sua brillante idea.
Alla fine capimmo l’arcano: ci disse che avremmo potuto “usare la sua idea” solo a patto che fosse stato lui il protagonista di quello scherzo.
Nonostante le nostre proteste non ci furono ragioni, Maurizio voleva essere “l’attore principale” e, per farci capire meglio le sue intenzioni, ci minacciò pesantemente, dicendoci che, in caso di nostro rifiuto, ci avrebbe “pestato a
sangue”.
Come potevamo rifiutare quel dolce l’invito?
Durante la pianificazione di quello scherzo fummo tutti consapevoli che, in caso di disastro, avremmo guadagnato una sicura espulsione dalla scuola e, nella migliore delle ipotesi, un cattivo voto in condotta, con conseguente sospensione.
Nessuno nel gruppo volle tirarsi indietro e, per darci coraggio, ripetemmo ossessivamente: “Succeda quel che succeda io non mollo”.
Guardai il volto di Massimo e capii che eravamo intimoriti dal fatto che tentavamo un’impresa rischiosa e con un protagonista, Maurizio, notoriamente poco affidabile.
In ogni caso decidemmo che il rischio fosse accettabile perché, se lo scherzo fosse riuscito, sarebbe rimasto negli annali della scuola e ricordato per molto tempo.
Quando il piano fu pronto, ci rendemmo conto che, per realizzarlo, occorrevano almeno due persone.
Come nelle occasioni di maggior pericolo ricorremmo all’aiuto del nostro più fidato compagno di classe: Paolino.
I suoi genitori, inopinatamente, gli avevano imposto un nome veramente riduttivo perché Paolino, a sedici anni, era già un omone alto più di due metri, grande come due ante di un armadio e pesante più di un quintale.
Era lento nelle sue movenze ma quando ti arrivava vicino, sembrava come un “Tir impazzito”.
Tutti noi amavamo Paolino e quelli che non lo amavano, giustamente, lo temevano.
Nel tempo, ripensando a lui, al suo carattere e alla sua mole, non potei fare a meno di paragonarlo al personaggio del film: “Il miglio verde”, che si sacrifica per salvare gli altri.
Paolino, in ogni caso, era un elemento importante del nostro gruppo e, con quel suo faccione dall’aspetto pacioso e rubicondo, era sempre pronto a farsi in quattro pur di aiutare qualcuno di noi in difficoltà.
A scuola, durante le nostre frequenti conversazioni, amava sentirsi definire “un serio musicista” perché studiava le note musicali fin da piccolo e adesso suonava il trombone nella banda musicale del piccolo paese di montagna, dove abitava.
In pratica, si sentiva già un professionista della musica ed era questo il tipo di lavoro cui avrebbe voluto dedicarsi al conseguimento del diploma.
Probabilmente, Paolino amava il termine “serio musicista” anche per distinguersi
da Massimo che, a quell’epoca, si considerava già un musicista a tutti gli effetti e che, da qualche mese, aveva creato il suo primo complesso musicale, dal nome inequivocabile: “The Ira band”.
Paolino, per arrivare a scuola, doveva alzarsi ogni giorno alle cinque di mattina e prendere in tempo la corriera per percorrere i trenta chilometri che lo separavano dal liceo.
Non aveva altra possibilità perché, al suo paese, di corriere ne partiva solo una al giorno e, con quella stessa corriera, avrebbe dovuto fare ritorno a casa.
Doveva fare molto attenzione agli orari e non sgarrare nemmeno di un minuto; ma questo imprevisto capitò raramente perché le sue assenze potevano contarsi sulle dita di una mano.
Paolino, in tutti quegli anni, era riuscito a farsi apprezzare da tutti noi ed anche Maurizio, “il bullo”, ne temeva i rari “eccessi d’ira”.
Capitò molto spesso di dover ricorrere al suo aiuto, soprattutto in quelle situazioni in cui altri studenti, in particolare i più grandi, ci sfidavano quotidianamente a fare a botte.
Paolino, in tutti quei casi, intervenne sempre in nostro favore, tanto che ormai lo consideravamo il vessillo della nostra classe, il nostro biglietto da visita.
Anche a quelle “teste calde”, dopo averlo visto in tutta la sua possente mole,
avano la voglia di attraversare il nostro territorio, quel lungo corridoio che dalla sezione C si diramava in tutte le altre sezioni della scuola.
I guai, per quelli del nostro gruppo, cominciavano solo quando il Preside Fusco ci convocava nel suo ufficio per farci la solita “lavata di testa”, in conseguenza di qualche nostra bravata finita male.
Non temevamo l’ira del preside ma il problema era come raggiungere incolumi il suo ufficio perché, in quel caso, eravamo costretti a percorrere il cosiddetto “territorio neutro”, dal quale era possibile accedere anche ai bagni, e considerato da tutti noi, non a caso, il posto più pericoloso della scuola da attraversare da soli.
Solitamente era proprio in questo luogo che avvenivano gli scontri più feroci tra le opposte fazioni, in particolare tra noi della sezione C e quelli della A.
Questi studenti erano particolarmente invisi a tutti perché si consideravano “l’élite” dell’intera scuola e all’uscita, spesso, ci divertivamo a provocarli, pur di fare a botte e cercare di dargli “una bella lezione”.
Raramente qualcuno interveniva per tentare di fare da paciere, magari qualche genitore venuto a prendere il figlio all’uscita della scuola, ma il più delle volte solo l’intervento, autoritario e risolutivo, del Preside Fusco, riusciva a far cessare quelle risse.
Come in un lungo flash back tornai indietro con la memoria, al momento in cui, tutto il gruppo, aveva finito di organizzare lo scherzo finale per quell’anno scolastico.
Avvertimmo Maurizio di attenersi scrupolosamente alle nostre istruzioni, altrimenti lo scherzo rischiava di trasformarsi in un boomerang, con il rischio concreto, per tutti, di essere scoperti.
Procedemmo con cautela e riuscimmo subito ad aprire lo stanzino, dove Mario, il bidello, teneva le sue cose; quindi aprimmo l’armadietto dove Maurizio era sicuro ci fossero le riviste sexy e, dopo averne presa una a caso, uscimmo velocemente dalla stanza cercando di non dare troppo nell’occhio.
Poi aspettammo il momento più propizio per agire e, quando il corridoio ci sembrò completamente libero, demmo l’avvio alla fase finale dello scherzo.
Massimo aprì il paginone centrale dove, in bella mostra, comparivano le fattezze nude della coniglietta del mese, e lo ò direttamente nelle mani di Maurizio.
Con fatica riuscimmo a sollevarlo e farlo salire sulle spalle di Paolino e, quindi, i due si avviarono, con andatura incerta, fino alla porta dell’aula della seconda C.
Ormai il grosso del lavoro ci sembrava fatto per cui Massimo diede il segnale finale.
Come previsto, Maurizio riuscì a mettere il giornale, completamente aperto al paginone centrale, direttamente sulla finestrella che sovrastava la porta di entrata di quell’aula.
Dopo pochi istanti, dall’intero della seconda C, sentimmo ridere e sghignazzare, con un tono che andava sempre più in crescendo, tanto che potemmo distinguere anche alcuni commenti di divertito apprezzamento per le forme della modella.
Per noi lo scherzo era perfettamente riuscito e quindi dovevamo solo velocemente rientrare nella nostra classe, nascondere la rivista sexy e fare finta di niente.
Maurizio, purtroppo, non fu dello stesso avviso e, come avevamo previsto e temuto, cercò di improvvisare; questi, con un movimento brusco e senza avvertire Paolino, provò a sbirciare dalla finestrella, curioso di vedere le facce e le espressioni di tutte quelle risate.
Quella mossa, imprevista e repentina, fece barcollare in avanti Paolino che, inavvertitamente, si appoggiò sulla maniglia della porta che, di scatto, si aprì.
I nostri due compagni caddero violentemente a terra, con un tonfo tale da ricordare una scossa di terremoto del quarto grado.
Indimenticabile fu l’espressione di stupore e d’incredulità stampata sul volto della professoressa di se che, ora, poteva osservare distintamente Paolino e Maurizio a terra, con la rivista sexy ancora tra le mani.
Fino a quel momento non si era accorta di nulla e non si capacitava del perché di tanto trambusto nella sua aula.
Adesso, finalmente, aveva capito.
I due “poveretti” furono condotti immediatamente in presidenza, per chiarire quell’increscioso episodio e, dopo alcuni giorni, anche noi fummo convocati davanti al preside Fusco.
Evidentemente qualcuno aveva parlato e tutti sospettammo che fosse stato Maurizio, ma non ne avemmo mai la certezza.
A causa di quella stupida bravata la nostra situazione a scuola si fece ogni giorno più seria e imbarazzante, e fu solo grazie all’intervento dei nostri genitori che fummo salvati da una probabile espulsione di gruppo.
In ogni caso, non riuscimmo a evitare una nota in condotta e cinque giorni di sospensione dalle lezioni.
Nonostante tutto, potemmo dirci soddisfatti perché, di quello scherzo, se ne parlò a scuola per diverso tempo.
Capitolo 3 – Il concerto in villa
All’inizio dei primi anni ’80 Massimo aveva creato il suo primo gruppo musicale: “The Ira Band”, che traeva ispirazione dalle nuove band musicali inglesi, che in quel periodo stavano compiendo i primi i nel mercato discografico.
In quella band Massimo aveva il ruolo di leader e di front man e si divertiva a suonare il basso e la chitarra.
Dopo qualche tempo e numerosi concerti fatti in giro per i paesi di provincia, grazie soprattutto alla partecipazione a feste e sagre, raggiunsero una discreta notorietà a livello locale.
Questo improvviso e per molti versi inaspettato “colpo di fortuna” fu dovuto, principalmente, al aparola di chi aveva assistito alle loro performance, sulla falsa riga di quello che oggi accade con i social network.
Durante i loro concerti si divertivano a suonare le cover di band rock straniere, in particolare apprezzavano i nuovi gruppi inglesi emergenti come: The Smiths, Cure e i Depeche Mode.
Di solito, giunti a metà della loro esibizione, Massimo suonava anche uno o due brani originali che si era divertito a scrivere a scuola, tra una lezione e l’altra.
Pensava che, in questo modo, avrebbe avuto la possibilità di poter verificare la bontà delle sue composizioni davanti ad un pubblico molto eterogeneo.
Solitamente, le critiche più feroci provenivano proprio dal ristretto gruppo dei suoi amici che cercavano di non perdersi nemmeno un loro concerto.
Questi, in fatto di musica, erano molto esigenti, soprattutto quando c’era da ascoltare un nuovo gruppo con un sound originale.
Quelle critiche, con il tempo, si rivelarono giuste e fondate, perché nessuna delle canzoni create da Massimo e dal suo gruppo, ebbero notorietà e successo.
In ogni caso, tutti desideravano partecipare a quelle serate di musica all’aperto perché era facile farsi delle nuove amicizie e, soprattutto, perché frequentato da ragazze molto carine.
A volte, Massimo, decideva di dare qualche concerto solo per gli amici più stretti e, in quei casi, metteva a disposizione di tutti il grande giardino della villa, dove abitava con i suoi genitori e il fratello più grande: Giorgio.
Com’era facilmente prevedibile, l’amico portava un altro amico e alla fine ci si ritrovava stretti come sardine a un evento che, inizialmente concepito come “privato”, si trasformava in un happening aperto al pubblico.
Naturalmente tutto questo era possibile solo quando i genitori di Massimo erano assenti, magari perché in crociera in giro per il mondo, comodamente sdraiati, a
prendere il sole in qualche angolo di paradiso.
La famiglia di Massimo era “benestante” e il padre aveva fatto una fortuna con la compravendita d’immobili e terreni agricoli poi trasformati, “magicamente”, in edificabili.
Era il geometra del Comune e, all’epoca, si vociferava che avesse stretto amicizie influenti con le quali scambiare importanti favori, soprattutto quando si trattava di proporre e far approvare variazioni al piano regolatore.
Non diedi mai peso a quelle illazioni che considerai solo pettegolezzi di paese.
Anche Giorgio, il fratello maggiore di Massimo, partecipava ai concerti in villa, dando una mano con l’organizzazione e la sicurezza.
Era diventato maggiorenne da poco più di un anno e aveva soggiornato per qualche tempo a Londra; qui ebbe la fortuna di partecipare a diversi concerti dal vivo tenuti proprio da quei gruppi musicali inglesi, come i The Smiths, che Massimo amava tanto.
Il sedicenne Massimo era affascinato, quasi ipnotizzato, dalle storie raccontate dal fratello Giorgio e, ossessivamente, gli chiedeva di parlargli di quei concerti, di rivelargli ogni più piccolo particolare: dal tipo di chitarre usate, all’abbigliamento, agli arrangiamenti.
La parola d’ordine, per tutti gli amici invitati alla villa di Massimo, era di portare
i cosiddetti “beni di conforto”; ognuno di noi, in base alle proprie possibilità economiche, comprava birre, alcolici e sigarette.
La richiesta delle sigarette era particolare e precisa, perché Massimo ci chiedeva di comprare solo quelle a marca Marlboro o Kamel, anche se poi, al concerto, non si andava troppo per il sottile e si fumava di tutto, anche gli spinelli.
La sola parola d’ordine era “abbondanza”, ma di tutto.
Purtroppo non ebbi sempre la possibilità di partecipare a questi “eventi speciali” perché Massimo viveva in un’altra città, distante circa sei chilometri da casa mia.
Ora quella distanza mi sembrava così ridicola ma, a sedici anni, per me era come andare dall’altra parte del mondo.
Non avevo un mezzo di trasporto personale, una moto o un motorino che fosse, e non potevo certamente chiedere a mio padre di accompagnarmi a un concerto rock.
Anzi, solo l’idea di chiederglielo mi faceva venire i brividi senza contare che, quella mia insolita richiesta, avrebbe sicuramente insospettito quel detective di mia madre.
Già immaginavo le sue mille domande: “Dove devi andare questa sera?”.
“Chi sono i tuoi amici?”.
“A che ora pensi di tornare a casa?”.
Sicuramente avrei ricevuto un netto rifiuto e poi ero stanco di sentirla ripetere la solita tiritera: “Ricordati che questa casa non è un albergo e finchè vivi qui, insieme con noi, queste sono le regole che devi rispettare”.
Quella era una strada sicuramente da non percorrere, per cui non restava altro da fare che affidarsi all’ingegno e alla fantasia.
Il quel caso, che sembrava disperato, venne in mio soccorso Magda, mia nonna, che fortunatamente abitava in centro, nella stessa città di Massimo.
Mia nonna era un’arzilla vecchietta di ottanta anni, di chiare origini tedesche, perché la sua famiglia si chiamava Richthofen ed era una lontana cugina dell’aviatoreManfred von Richthofen, soprannominato, durante la prima guerra mondiale, il “Barone rosso”.
Anche la sua storia era degna di un romanzo: appena ventenne, subito dopo la fine della guerra, era venuta in Italia, con i suoi genitori, per una vacanza al mare.
Qui aveva conosciuto mio nonno, il suo futuro marito, che all’epoca faceva il cameriere nel ristorante più famoso della città, “Il Panorama”, gestito dal padre.
Fu amore a prima vista e dal quel giorno non si sarebbero più lasciati fino alla prematura scomparsa di mio nonno Oreste, a causa di un tumore ai polmoni.
Di solito andavo a trovarla quando ero libero da impegni sportivi e, a volte, nei fine settimana, mi fermavo da lei a dormire.
Abitava da sempre in quel piccolo appartamento di due stanze, che aveva ereditato dal nonno, e non volle mai fare ritorno in Germania, neanche alla morte dei suoi genitori.
Quando restavo da lei a dormire mi divertivo ad ascoltarla e mi perdevo nei suoi racconti, nelle sue avventure.
In gioventù aveva dovuto superare molti ostali e affrontare molte avventure per coronare il suo sogno d’amore.
Naturalmente, la sua famiglia si era sempre opposta a quella sua “impropria relazione” con un povero ragazzo del sud e cercarono di impedirle, con ogni mezzo, di raggiungere nuovamente l’Italia per rivedere mio nonno.
Fu solo la caparbietà di mia nonna Magda e il coraggio di mio nonno Oreste, ato in questo caso dall’appoggio di tutta sua famiglia, in particolare di suo padre Giuseppe, che fu possibile organizzare rapidamente il matrimonio e mettere davanti al fatto compiuto i genitori di Magda.
Questi non perdonarono mai la figlia, perché considerarono il suo
comportamento come un atto di ribellione, un tradimento, e la diseredarono dal patrimonio familiare.
I miei nonni furono comunque felici di rinunciare a soldi e proprietà, proprio per dimostrare a tutti che il loro era un vero amore, senza altri reconditi fini.
In quel caso pensai che mia nonna fosse la soluzione che cercavo: potevo dire ai miei genitori che, quel sabato, sarei rimasto a dormire da Magda e il gioco era fatto.
Mio padre si rese subito disponibile ad accompagnarmi in macchina e con la nonna trovai subito un’intesa: le raccontai che quella sera ci sarebbe stata una festa importante a casa di Massimo, il mio amico e compagno di scuola, che avrei fatto molto tardi e che, sicuramente, sarei rimasto lì a dormire.
In quell’occasione, come in tante altre, mia nonna Magda si divertiva a essere la complice delle mie “bravate” perché poteva fare un dispetto alla sua unica figlia: mia madre.
Le due donne non erano mai andate d’accordo perché troppo diverse, nel carattere e nel modo di concepire la vita: conservatrice e bigotta mia madre Maria, avventurosa e liberale mia nonna Magda.
Erano due mondi così lontani che si riavvicinarono solo alla morte di mia nonna quando, sul letto di morte, chiese perdono a mia madre per tutti quei contrasti che, adesso, le apparivano così futili.
Dentro di me era ancora indelebile l’immagine di Magda che, tenendo stretta la mano di mia madre, le disse: “Figlia mia, ti ho sempre amato, ti amo tanto e ti amerò per sempre; perdonami, se puoi”.
Queste furono le sue ultime parole prima di morire.
La perdita di mia nonna Magda fu una tragedia per tutti noi e per me, in particolare.
Questo evento luttuoso avrebbe segnato inevitabilmente tutta la mia vita, non solo perché persi una complice e una vera amica, ma perché con la sua scomparsa venne a mancarmi un punto di riferimento importante.
Comunque, con quel sotterfugio e l’aiuto di mia nonna Magda, quella sera riuscii a partecipare al concerto in villa.
Quel venerdì mattina concordai con Massimo il da farsi per il sabato sera.
Cercai di essere puntuale e alle otto di sera ero già in attesa sotto il portone di mia nonna; Massimo, com’era sua abitudine, arrivò in ritardo ma, fortunatamente, si trattava di un ritardo accettabile, solo dieci minuti.
Montai in sella alla sua Vespa 50 bianca e, insieme, ci dirigemmo a tutto gas verso la villa.
Ricordo ancora quella tiepida serata di primavera: il cielo notturno era terso e lindo tanto che si potevano distinguere, nella volta celeste, miliardi di piccoli puntini luminosi.
Per tutto il tragitto rimasi con il naso all’insù, estasiato a osservare quel magnifico spettacolo.
Appena giunti nei pressi della villa ci accorgemmo subito che qualcosa non andava; infatti, appena arrivammo davanti al cancello, vedemmo Giorgio, il fratello di Massimo, che sembrava molto turbato.
Questi, appena ci vide, ci corse incontro e, ansimando e sbraitando, aggredì verbalmente Massimo, dicendogli: “Questa è l’ultima volta che organizzi un concerto in villa ed è sicuramente l’ultima volta che ti dò una mano”.
Giorgio aveva ragione a essere arrabbiato perché all’entrata della villa trovammo il caos più totale: un’enorme massa di persone, macchine e moto, si accalcavano sul lungo viale che dava accesso alla villa.
Sembrava un lungo serpente impazzito.
La situazione poteva sfuggire al controllo di Giorgio da un momento all’all’altro e anche noi avemmo difficoltà a farci largo tra quella folla che, ormai, presidiava ogni angolo del giardino.
In quella grande confusione potei facilmente distinguere i più “furbi” che, con le
buone o le cattive, cercavano di occupare i posti migliori.
Massimo riuscì a salire sul palco e, dopo aver il microfono, avvertì tutti i presenti che quel concerto si sarebbe tenuto solo se fosse stato possibile riportare un po’ di calma e di ordine.
In effetti, bisognava fare di tutto per evitare lo scoppio di qualche rissa che, in quello “spingi spingi”, stavano diventando sempre più probabili.
Finalmente, anche Giorgio riuscì a chiudere il cancello principale e così riuscì a impedire che potessero entrare ancora altre persone.
Purtroppo, come di solito accade in questi casi, molti dei nostri amici rimasero fuori dalla villa e non ebbero altra possibilità che ascoltare il concerto da lontano oppure ritornarsene a casa.
Qualcuno più fortunato fu riconosciuto da Giorgio e fatto are dall’ingresso principale, tra le proteste e le urla di tutti gli altri che continuavano a restare fuori.
Intanto, l'annuncio di Massimo sembrò sortire l’effetto sperato e calmò parzialmente tutti quegli spiriti bollenti.
Purtroppo eravamo solo all’inizio della serata, quando la gradazione alcolica era ancora su livelli accettabili ed eravamo consapevoli che tutto potesse ancora accadere quella sera.
Io cercavo di restare quanto più possibile vicino a Massimo in modo da potermi sistemare dietro al palco, il posto migliore dove potermi godere in santa pace il concerto e restare lontano da tutta quella calca.
Fu in quel momento che mi accorsi di un volto familiare, non molto distante dalla mia posizione.
A soli pochi metri da me potei vedere perfettamente la fisionomia di una ragazza dai lunghi capelli biondi, girata di spalle, che assomigliava, tremendamente, a Marina, la mia compagna di classe al liceo.
Pensoso, mi chiesi: “Ma quella è proprio Marina?”.
Ero sorpreso e preoccupato anche perché, in quello stesso istante, una seconda domanda, ben più importante, prese il sopravvento sulle altre: “Forse Marina è venuta al concerto con il suo nuovo ragazzo?”.
Da quel momento la mia attenzione fu solo e tutta per lei: il concerto, Massimo, la folla, tutto era sparito dai miei pensieri ed il mio cuore correva all’impazzata.
Desideravo, volevo con tutte le mie forze, che fosse lei, la donna che amavo ormai da troppo tempo e alla quale non ero mai riuscito a confessare i miei sentimenti.
Non ebbi il tempo di elaborare alcuna risposta a quelle mie domande che vidi
Marina voltarsi e, proprio in quell’istante, i nostri sguardi s’incrociarono.
La mia pressione salì rapidamente, la testa cominciò a girare freneticamente ed ebbi la sensazione di essere salito su di una giostra impazzita.
Cercai di calmarmi, tant’è che pensai: “Adesso mi viene un infarto”.
Quella era proprio Marina che, dopo avermi fatto un cenno di saluto con la mano, si diresse verso di me.
Adesso ci separavano solo pochi metri e contai ogni suo o, cercando di prendere tempo e di pensare a una frase simpatica da dirle, magari una battuta brillante.
Fu tutto inutile perché appena arrivò a stretto tiro di sguardo, dalla mia bocca uscì solo un semplice: “Ciao Marina, come stai, anche tu qui al concerto di Massimo?”.
Non avrei potuto pronunciare una frase più banale ma sentivo, dentro di me, che quella serata sarebbe stata diversa e fortunata.
Marina ormai era lì, davanti a me, che mi sorrideva dolcemente e nemmeno nei miei sogni più reconditi avevo potuto immaginare quella scena.
Fu lei a trarmi dall’imbarazzo e dall’incertezza, dicendomi che era stata invitata
personalmente da Massimo al concerto e che, suo fratello Pietro, era un fan della musica rock inglese; quindi, per lei era stato un gioco da ragazzi farsi accompagnare alla villa.
L’accordo con il fratello era molto semplice: sarebbero arrivati insieme alla villa ma, dopo, ognuno sarebbe stato libero di cercarsi il posto che preferiva.
Il fratello Pietro le aveva imposto, come unica condizione, quello di ritrovarsi a mezzanotte in un punto prestabilito della villa.
Immediatamente pensai: ”Allora ho solo poche ore per confessarle quello che provo”.
Sembrava di essere stato scaraventato improvvisamente nella favola di Cenerentola e avevo tempo fino a mezzanotte per tentare di conquistare il cuore della mia bella principessa.
Erano già tre anni che cercavo, disperatamente, di farmi notare da lei, ma sempre con risultati deludenti.
Alla fine mi ero quasi arreso, immaginando che Marina preferisse ragazzi dallo stile meno classico del mio; pensai che Massimo potesse essere il suo tipo ideale, il ragazzo più ribelle e anticonformista della scuola.
Probabilmente Marina mi considerava troppo “serio e banale” e, questo, mi gettava nello sconforto più profondo.
Quando mi sentivo sul punto di rinunciare, mi bastava un suo sorriso o un semplice “ciao” per riaccendere in me la speranza che tutto fosse possibile, e il mio cuore tornava a battere come un ossesso.
Speravo che i miei sentimenti per Marina sarebbero stati, prima o poi, ricambiati e, spesso, restavo sveglio la notte a fantasticare su come sarebbe stata la nostra vita di coppia insieme.
Intanto il concerto ebbe inizio e fu subito un mescolarsi di urla, applausi ed anche qualche fischio di “incoraggiamento”, com’era nello stile inglese.
Il volume della musica si fece sempre più assordante tanto che, né io né Marina, riuscimmo più percepire e capire il senso delle nostre parole, delle nostre frasi.
Decidemmo che fosse stato più saggio smettere di parlare e di limitarci ad ascoltare semplicemente la musica, anche perché eravamo in un posto privilegiato, proprio dietro al palco.
Da quella posizione potevamo distinguere perfettamente le fisionomie di Massimo e dei membri della sua band, nonché quella del fratello Giorgio e dei suoi amici.
Questi erano dei ragazzoni corpulenti che aiutavano Giorgio come servizio d’ordine; dalla mia posizione potevo osservarli mentre, disperatamente, cercavano di respingere un poco più indietro quella massa selvaggia che si andava accalcando sempre più vicino al palco.
Massimo quella sera diede il meglio di sé, forse anche perché galvanizzato da tutto quell’inaspettato pubblico e le canzoni furono eseguite perfettamente, una dopo l’altra.
Nonostante le forte musica mi sentivo completamente immerso nei miei pensieri ed ero come imbambolato dalla presenza di Marina al mio fianco.
Intanto il tempo ava inesorabile e mezzanotte si avvicinava velocemente: dovevo assolutamente pensare a qualcosa, elaborare una strategia.
L’occasione arrivo subito dopo.
A metà concerto Massimo prese il microfono e annunciò a tutti una sorpresa.
Quella sera, invece dei loro pezzi “originali”, avrebbero suonato la cover di un gruppo già famoso: “Baby come back” dei Player.
Si trattava di un gruppo californiano che nel 1977, con questo brano, avevano raggiunto i vertici delle classifiche mondiali.
La particolarità di questo gruppo era dovuta alla presenza, tra i loro membri, di Ron Moss (al basso), che in seguito diventerà famoso come protagonista maschile della soap opera Beautiful, nel ruolo di Ridge.
Sulle note di quella canzone melodica, decisi che fosse giunto il momento di agire e, quindi, tentai di prendere la mano di Marina e di stringerla nella mia.
Era una mossa azzardata ma, quella sera, tentai il tutto per tutto perché ero stanco di aspettare; dalla reazione di Marina avrei capito se quell’amore aveva un futuro, oppure era stata solo una mia illusione.
Prima di agire pensai che fosse stato necessario trovare la giusta dose d’incoscienza e coraggio e, quindi, dovevo abbassare i miei freni inibitori.
Era arrivato il momento di bere qualcosa di alcolico.
Presi lo zaino che tenevo appoggiato a terra, davanti ai miei piedi, dall’interno afferrai una lattina di birra, la aprii velocemente e diedi dei profondi sorsi.
Marina non si accorse di nulla o, almeno, fece finta di non accorgersene e, per questo, evitai di offrirgliela, tirando un sospiro di sollievo.
Poiché non era abituato a bere alcolici, la birra fece immediatamente effetto, dandomi subito quel senso di euforia che stavo cercando; quindi, con fare deciso, provando a non tremare, presi la sua mano nella mia.
Ormai ero preparato a tutto e, impaziente, attesi la sua reazione; Marina non lasciò la mia mano e, senza distogliere lo sguardo dal palco, si limitò a sorridere, come divertita da quel mio inaspettato gesto.
Quel suo atteggiamento mi dava una strana sensazione, sembrava come se, in tutti quegli anni, lei non avesse aspettato altro da parte mia.
Ora mi sentivo al settimo cielo, come l’unico vincitore della lotteria di capodanno.
Pensai: “Bravo, abbiamo fatto il primo o ma adesso come faccio per baciarla?”.
Dovevo pensare rapidamente a una mossa più coraggiosa se volevo raggiungere il vero obiettivo di quella serata: darle un bacio ionale.
Da sempre sognavo di darle un bacio, di quelli alla “se” per intenderci, ma quella sera mi sarei accontentato anche di un semplice bacio sulle labbra, un cosiddetto bacio “a stampo”.
Pensavo sempre alle sue labbra, che la natura sembrava avere disegnato con cura e al sapore di un suo bacio.
Ormai un unico pensiero era ricorrente nella mia mente: dovevo baciarla entro mezzanotte!.
Provai a voltarmi verso di lei e dopo averle sorriso, con fare sicuro, le dissi: ”Marina, ti andrebbe di allontanarci da questo casino?”.
“Ho tante cose da dirti”.
Lei mi strinse forte la mano e mi rispose semplicemente: “Ok, andiamo, anch’io devo parlarti di cose importanti”.
Ci allontanammo tenendoci per mano e, senza parlare, ci fermammo dove ormai la folla non poteva raggiungerci e la musica era meno assordante.
Alla fine ci sedemmo su di un piccolo dondolo che trovammo vicino al garage della villa: fu solo in quel momento che potemmo parlare in tutta tranquillità, senza che nessuno potesse disturbarci.
Tra di noi si era creata un’atmosfera molto strana, quasi magica, ed io mi sentivo perfettamente a mio agio: era come se Marina fosse stata, da sempre, la mia ragazza.
Se qualcuno ci avesse osservato da lontano, camminare mano nella mano, avrebbe potuto pensare che quella scena fosse per noi un’abitudine quotidiana: invece, per noi, era la prima volta in assoluto.
Mi feci coraggio, cercando di trovare le giuste parole, e le raccontai tutto.
Per me fu come una liberazione.
Le dissi che ero innamorato di lei fin dal primo anno di liceo ma che, per la
timidezza e la mancanza di coraggio, avevo sempre rimandato il momento della dichiarazione.
Purtroppo gli anni avano velocemente e ogni giorno diventava sempre più difficile poterle stare accanto solo come semplice amico.
Sostenni che era giunto il momento di attraversare la linea di confine che separava l’amicizia dall’amore e che dovevamo farlo insieme, quella stessa sera.
Quando ebbi finito di parlare, attesi con ansia la sua risposta e cercai di guardarla dritta nei suoi occhi azzurri, sperando di poter leggere i suoi pensieri e di interpretare ogni sua più piccola emozione.
Marina mi lasciò la mano e dopo aver respirato profondamente, come per prendere tempo o darsi coraggio, mi disse: “Vedi Roberto, anche tu mi piaci molto e le tue parole mi fanno molto piacere; non posso dirti in questo momento se anch’io provo per te le stesse emozioni, ma vorrei che questa fosse una serata speciale per noi due”.
“Speciale in che senso?”, mi affrettai a chiederle.
Allora Marina aggiunse: “Speciale nel senso che, questa sera, potrebbe essere per noi l’inizio di qualcosa d’importante, forse di un amore”.
Poi si avvicinò lentamente verso di me per rimettere la sua mano nella mia e, con questo suo gesto, le nostre labbra vennero quasi a contatto.
Colsi subito l’occasione e mi spinsi leggermente verso di lei: cercai di baciarla dolcemente mentre, con l’altra mano, provai ad accarezzarle i capelli.
Era una serata fortunata, l’avevo detto, lo sentivo, e adesso cercavo di mantenermi il più lucido possibile, senza farmi stravolgere dall’emozione del momento.
Volevo evitare di dire qualcosa di stupido o fare qualche gaffe che avrebbe compromesso tutto quel faticoso lavoro di corteggiamento.
Restammo in silenzio per alcuni minuti, abbracciati stretti l’uno all’altra, finché Marina non mi disse che era giunto il momento di tornare indietro, fino al palco.
Guardai il mio orologio e, ormai, mancavano solo pochi minuti allo scoccare della mezzanotte.
Avevo compiuto un’impresa che solo poche ore prima mi sembrava impossibile; esattamente entro mezzanotte ero riuscito a baciare la mia principessa e adesso, anch’io, come un brutto anatroccolo, mi sentivo trasformato in un bellissimo principe dai riccioli biondi.
Raggiungemmo lentamente il palco, dove trovammo ad attenderci suo fratello Pietro; subito notai il suo sguardo indagatore, come se si stesse chiedendo chi fossi e perché tenessi la mano di sua sorella stretta nella mia.
Marina si accorse degli sguardi del fratello e liberò subito la sua mano dalla mia, poi, con calma, si rivolse a Pietro dicendo: “Vedi, come promesso, sono qui, puntuale, esattamente nel posto concordato; adesso possiamo tornare a casa”.
Nel frattempo Massimo aveva appena finito di cantare l’ultima Canzone e il concerto poteva considerarsi concluso.
Molti cercarono di lasciare velocemente la villa per evitare di dover aspettare il deflusso di quell’enorme folla.
Marina si allontanò in fretta con il fratello e con lo sguardo cercai di non perderla di vista.
Proprio in quel momento Massimo scese dal palco e, ancora tutto sudato e su di giri per il concerto, mi disse: “Robbè vieni con me, ho bisogno di stendermi un minuto e di bere qualcosa di freddo”.
Ci dirigemmo verso la villa e Massimo si accese la sua solita Marlboro, quindi mi chiese: “Robbè, cosa ne pensi del concerto?”.
“Ti è piaciuta la mia sorpresa, il brano dei Player?”.
In quel momento tutti i miei pensieri erano solo per Marina e mi affrettai a rispondere: “Guarda Massimo, il concerto è stato molto bello e divertente, ma sono arrivate talmente tante persone che, a un certo punto, ho temuto anche per la nostra incolumità”.
Poi conclusi dicendo: “I brani che hai suonato questa sera mi sono piaciuti tutti, ma sai che non sono critico musicale affidabile”.
Massimo mi guardò con aria divertita e mi disse: “Robbè, ma non capisci che questo è stato un successo straordinario e domani tutti parleranno di noi?”.
“Capisci che razza di pubblicità avremo dopo questo concerto?”
“Adesso tutti vorranno avere gli IRA alle loro feste”.
Quando fummo all’interno della villa notai che era il grande caminetto vicino all’entrata e che su di un grande tavolo erano appoggiati, alla rinfusa, diversi vassoi in argento, con dentro una grande quantità di carne.
Massimo, dopo il concerto, aveva intenzione di fare una bella grigliata per tutti i suoi amici più stretti, per ringraziarli di essere venuti.
Salimmo velocemente al primo piano e Massimo, dopo avermi fatto sedere sul divano della sua camera, si diresse velocemente verso il bagno.
Dopo pochi minuti tornò in camera e, con il viso ancora bagnato dall’acqua fredda, mi chiese se avessi visto Marina al concerto.
Non ero certo sorpreso per quella domanda, in fondo Marina mi aveva detto di essere stata invitata personalmente da Massimo, il giorno prima a scuola.
Quello che mi parve strano nella sua domanda era il tono della voce, diverso da solito, quasi emozionato e, poi, mi sembrò di scorgere, nel suo sguardo, come un bagliore, come l’accendersi di una luce nel momento in cui pronunciò il nome di Marina.
In ogni caso cercai di non dare troppa importanza alla cosa e gli risposi con una mezza verità.
Gli raccontai che Marina era arrivata alla villa insieme con il fratello Pietro e che era stata con me per tutto il tempo, dietro al palco, a godersi il concerto.
Massimo era visibilmente soddisfatto per l’esito della serata e rideva al pensiero del fratello Giorgio che era ancora impegnato con i suoi amici a fare defluire dal giardino della villa tutta quella massa di persone.
Poco dopo ci raggiunsero in camera anche gli altri membri della sua band che, visibilmente stanchi, si stesero subito a terra o sul divano.
Avevano tutti le sigarette accese e bevevano voracemente dalle lattine di birra che avevano trovato in cucina.
Anche Massimo si accodò al gruppo cercando di coinvolgermi in quella prima bevuta: ero pur sempre un ospite in quella casa e non mi azzardai a rifiutare.
Intanto mi sentivo ancora euforico per l’esito della serata perché, finalmente, potevo dire di essere un uomo innamorato ricambiato dalla sua donna.
Dopo circa un’ora arrivarono in casa anche Giorgio e i suoi amici e qui ci fu la resa dei conti tra i due fratelli.
Giorgio minacciò Massimo con un alare preso, probabilmente, dal caminetto in entrata ma, prima che la lite degenerasse, tutti intervenimmo cercando di fare da pacieri.
Evidentemente quella serata non fu per tutti un dolce ricordo e pensai che Giorgio, prima o poi, si sarebbe vendicato del fratello.
In quel periodo anche Giorgio aveva creato il proprio gruppo musicale, anche se suonava un genere completamente diverso da quello del fratello e che, oggi, potrei definire: new romantico.
Giorgio ci disse che la domenica seguente avrebbe tenuto un concerto in villa con il suo gruppo e, a conclusione della sua filippica, rivolgendosi con il dito teso verso Massimo in segno di minaccia, disse: ”Tutti in questa stanza, nessuno escluso, domenica sera, farete gli addetti alla sicurezza”.
Sembrava che in quella famiglia, tutti i giorni, mangiassero solo pane e musica.
Era una scena molto comica e qualcuno di noi si mise a ridere, contagiando tutto
il gruppo; questo servì a stemperare la tensione e quella serata proseguì leggera, senza altri episodi particolari.
Massimo non fece una piega alla ramanzina del fratello e, dopo averlo guardato, con la sua solita aria di strafottenza, scrollò le spalle e disse: “Ragazzi, chi di voi ha fame?”.
La risposta non si fece attendere e tutti, come leoni affamati, ci spostammo nuovamente al piano terra, questa volta andando verso la grande cucina.
Massimo e il fratello Giorgio, invece, si diressero verso il grande camino e cominciarono a grigliare la carne che avevano fatto marinare il giorno prima, con olio, limone e spezie varie, e continuando a discutere animatamente.
L’aria di festa e spensieratezza invase immediatamente la cucina e fu un susseguirsi di barzellette e commenti sulle ragazze carine che quella sera avevano affollato il concerto.
In fondo tutto era andato nel verso giusto, non c’erano stati incidenti né risse, e il caos della serata poteva fare solo piacere a Massimo e al suo gruppo perché questo significava che la strada per il successo era aperta.
Avevamo solo sedici anni e tutto il mondo, allora, sembrava ai nostri piedi.
Andammo a dormire solo all’alba e quella fu la prima sbornia della mia vita.
Ci svegliammo solo nelle prime ore del pomeriggio, con la testa era pesante e l’alito cattivo.
Feci veramente fatica ad alzarmi dal letto e quando fui in piedi, cercai di svegliare anche Massimo, che ancora dormiva profondamente.
Gli dissi che erano già le quattro del pomeriggio e che avevo bisogno di un suo aggio in Vespa per tornare a casa, da mia nonna, ormai sicuramente molto preoccupata.
Adesso il pensiero era solo per i miei genitori perché, se fossero arrivati per primi a casa della nonna, Magda non avrebbe potuto fare altro che dire la verità.
Avevo messo mia nonna in una difficile situazione e le conseguenze per il mio ritardo avrebbero potuto essere molto sgradevoli.
Ancora avevo negli occhi l’immagine di mio padre quando, a sette anni, dopo una delle mie solite bravate, per punizione, mi aveva sollevato in aria con la forza di un solo braccio e mi aveva spinto sull’armadio della sua stanza da letto.
Dovetti rimanere supino in quella posizione per oltre due ore e quel ricordo ancora mi perseguitava nei miei incubi notturni.
Quindi facemmo tutto in fretta, ci lavammo velocemente con l’acqua fredda, in modo da svegliarci completamente e riuscire a tenere gli occhi aperti e ci incamminammo verso il garage.
Con la solita Vespa 50 partimmo a tutto gas verso il centro città e in pochi minuti fummo sotto casa di Magda.
Fortunatamente i miei genitori non erano ancora arrivati ma vidi l’espressione molto preoccupata di mia nonna.
Era raro vedere Magda arrabbiata, soprattutto con me, perché ero il suo nipote preferito ma, evidentemente, quella volta avevo superato anche il suo limite di tolleranza che, di solito, era molto ampio.
La mia testa continuava a girare vorticosamente ma cercai di mostrarmi lucido e sveglio.
La nonna Magda non era facile da prendere in giro e si accorse immediatamente che avevo bevuto; quindi, si diresse in cucina e preparò un suo intruglio segreto, che mi costrinse a bere tutto di un fiato.
Il sapore era tremendo ma, piano piano, cominciò a armi quella tremenda sensazione di pesantezza e mi sentii fresco come una rosa.
Ancora oggi mi chiedo cosa avesse messo mia nonna in quel bicchiere ma, la cosa più importante, fu che quell’intruglio mi garantì la salvezza.
All’arrivo dei miei genitori questi non si accorsero di nulla e, dopo aver ringraziato la mia “crocerossina”, tornai con loro a casa, dove trovai ad
attendermi i compiti da fare per il lunedì seguente.
Era la prima volta che mi sentivo felice di tornare a scuola perché pensavo che, quel lunedì mattina, avrei rivisto Marina ed ero ancora eccitato per tutto quello che era successo sabato sera al concerto.
La mattina seguente mi svegliai molto presto, ando più tempo del solito per prepararmi e scegliere le cose giuste da indossare per quella giornata.
Alla fine preferii indossare un jeans e una semplice felpa con il cappuccio, di colore verde chiaro e con la scritta in bianco “Flowers”.
Anche quel lunedì percorsi i soliti due chilometri che mi separavano dalla scuola, ma mi sembrarono un’eternità.
Ad ogni o pensavo a qualche frase a effetto che avrei potuto dire, cercando di scegliere con cura le parole, anche se quando arrivai davanti al cancello della scuola tutto quello che avevo pensato di dire mi sembrò così banale, che decisi di improvvisare.
Stranamente, quel lunedì mattina Marina non venne a scuola e pensai che, probabilmente, si fosse ammalata oppure che non fosse riuscita a finire tutti i compiti.
Era risaputo che veniva a scuola solo se perfettamente preparata.
Cercai di informarmi con Marta, la sua amica del cuore, e le chiesi se avesse avuto notizie di Marina.
Mi rispose frettolosamente dicendomi che non la vedeva e sentiva da quel venerdì sera.
Solitamente Marta era sempre stata una persona decisa e quel suo titubare nella risposta mi sembrò abbastanza strano; inoltre, dall’espressione dei suoi occhi capivo che non era stata completamente sincera.
Marta sapeva esattamente dove si trovasse in quel momento Marina ma, probabilmente, aveva avuto l’ordine categorico di non rivelare a nessuno quella circostanza.
Questa almeno fu la mia sensazione, ma cercai di non darle alcun peso.
Quel giorno anche Massimo non si presentò a scuola ma la sua assenza era prevedibile e giustificata dai bagordi di quel fine settimana.
Dopo qualche ora accusai anch’io i postumi della sbornia del sabato sera e una sensazione di malessere generale avvolse tutto il mio corpo.
Chiesi al professor Baglio il permesso di andare in presidenza perché non mi sentivo bene e, fortunatamente, il Preside Fusco mi autorizzò per iscritto a tornare a casa.
All’uscita vidi che era una splendida giornata di primavera e il sole ancora alto brillava nel cielo con i suoi raggi accecanti.
Il tepore di quel calore sulla faccia mi face cambiare idea e, per non sprecare quella bella giornata, invece di tornare a casa mi diressi verso il lungomare.
Quando giunsi sulla mia panchina preferita, mi sedetti, cercando di rilassarmi il più possibile per godermi la brezza marina.
Sentivo le onde del mare infrangersi sugli scogli e la luce del sole era così forte che non riuscivo a tenere gli occhi completamente aperti.
All’improvviso notai, in lontananza, la figura di due innamorati che, eggiando mano nella mano, si scambiavano tenere effusioni.
Camminavano sul lungomare dirigendosi verso di me, nella mia direzione e, man mano che quelle figure si avvicinavano, mi sembrava di riconoscerne le fisionomie.
Pensai che fosse solo lo scherzo del sole che mi abbagliava con i suoi potenti raggi.
Quando furono a poche decine di metri, ebbi la certezza che si trattasse proprio di Massimo e Marina che, dopo essersi fermati e seduti su una panchina, si godevano abbracciati la vista del golfo.
Il cuore sembrava essersi fermato improvvisamente e una tristezza infinita pervase ogni cellula del mio corpo.
In quell’attimo mi sentii tradito dal mio migliore amico e dalla donna che amavo da tanto tempo.
Mi chiedevo come fosse stato possibile in tutti quegli anni non accorgermi di niente.
Probabilmente i segnali c’erano sempre stati ma, inconsciamente, avevo fatto finta di niente e, come lo struzzo, avevo nascosto la testa sotto la sabbia per non vedere.
Adesso non sapevo cosa fare, come comportarmi, dovevo alzarmi in piedi e andare via oppure affrontarli.
Non ero certamente il tipo da scenate di gelosia o di sfide all’Ok Corral.
Quella situazione doveva essere risolta in maniera definitiva, senza tentennamenti, dubbi o perplessità.
Mi alzai dalla panchina e, con o calmo, mi diressi verso di loro; erano di spalle e non potevano vedermi, tant’è che quando fui alla loro presenza notai immediatamente il loro imbarazzo.
Mi rivolsi direttamente a Marina e le dissi: “Ma per te non conta nulla quello che è successo sabato sera?”.
“Perché mi hai preso in giro?”.
Marina, evidentemente sorpresa, non fu in grado di accennare nessuna risposta.
Massimo, nel tentativo di aiutarla, cercò di intervenire nella discussione ma non gli diedi neppure il tempo di cominciare la sua frase; quindi, senza guardarlo negli occhi, come se per me fosse invisibile, gli dissi: ”Tu stai zitto, io non parlo con i traditori”.
Continuai a fissare Marina negli occhi e le dissi: “Puoi anche non rispondere, ormai tutto questo per me non è più importante”.
Mi voltai e rapidamente m’incamminai verso casa.
Versai fiumi di lacrime durante il tragitto e nei mesi seguenti, tante da poter riempire tutto quel mare che mi accompagnava ogni mattina, andando a scuola, con il suo sguardo e il suo profumo.
Fu una tremenda delusione, tanto più forte perché inaspettata, e dalla quale mi sarei ripreso solo dopo molto tempo, grazie al primo vero amore conosciuto all’università.
Dopo la fine del liceo non ebbi più modo di vedere né Massimo né Marina e, fino al conseguimento del diploma, i nostri rapporti si limitarono solo a brevi e semplici saluti, ma solo in talune circostanze e solo per educazione.
Quella magia era finita, così come il mio amore per Marina e la mia amicizia con Massimo.
Da quel momento il mio animo s’inaridì, giorno dopo giorno.
Capitolo 4 – L’incontro a Minsk
Le giornate a Minsk trascorrevano sempre uguali, nessuna novità arrivava ad allietarmi l’anima e ormai avevo perso ogni speranza di una miracolosa resurrezione.
Per mesi avevo atteso la risposta di Massimo alla mia email, ma sembrava sparito, come ingoiato nel nulla più assoluto.
Avevo tentato di tutto per rintracciarlo ma era stato vano e anche le ricerche sui social network non diedero alcun risultato.
La mia casella di posta elettronica continuava a essere desolatamente vuota alla voce Massimo Sebastiani; questo era un segnale preoccupante perché significava che avevo interpretato male le sue parole e mi rimproveravo di non essere stato più prudente.
Ormai era già primavera e il tiepido sole di Minsk cominciava a sciogliere la neve dalle strade e dai marciapiedi; tutto sembrava riprendere vita e anche i giardini, al centro di quegli enormi palazzoni, si coloravano di verde.
Con Olga le cose sembravano procedere lentamente, qualche volta eravamo usciti a cena, ma le mie entrate non mi permettevano di scegliere locali troppo raffinati e, spesso, dovevo ripiegare su posti molto più economici e alla mia portata.
A lei tutto questo sembrava non interessare e mi ripeteva che non erano i locali alla moda a renderla felice, ma poter uscire con me la sera e fare qualcosa di diverso dal solito.
Sapeva essere divertente e mai banale e, qualche volta, le nostre conversazioni diventavano comiche e surreali.
Infatti, per facilitare la nostra conversazione, usavo un linguaggio a metà tra il russo e l’italiano, e Olga si divertiva in modo particolare quando, gesticolando animatamente con le mani, cercavo di spiegarle il significato di una parola che non sapevo tradurre in russo.
Pensavo che il nostro rapporto, con il tempo, potesse trasformarsi in qualcosa di più che una semplice amicizia e desideravo, con tutto me stesso, che quella donna provasse per me un sentimento vero, reale.
Mi colpiva molto la sua forza d’animo e la sua viva intelligenza e non furono rari i momenti in cui pensai di aver trovato la donna della mia vita.
La vedevo come una donna ancora molto bella, con un corpo in piena forma e, qualche volta, fantasticavo su come sarebbe stato intenso fare l’amore con lei.
Cominciavo a innamorarmi di quei grandi occhi a mandorla, della sua dolcezza, del suo sorriso e cercai di rendere sempre più frequenti le serate trascorse insieme a eggiare sul lungo viale del centro, sulla Nemiga.
Qualche volta avevo provato ad abbracciarla nel vano tentativo di baciarla, ma lei si era sempre tirata indietro, imbarazzata da quelle mie avance.
Probabilmente, sentiva che non ero l’uomo adatto per lei, perché mi aveva visto spesso depresso e troppo preso dai miei problemi esistenziali; inoltre, immaginava che non sarei stato capace di garantire un futuro sereno anche al piccolo Amir.
Aveva perfettamente ragione e non potevo certamente biasimarla; avevo già troppe difficoltà economiche a sopravvivere da solo, figurarsi se potevo assumermi la responsabilità di altre due vite.
In me si creò un continuo tira e molla tra questi due opposti sentimenti, da un lato volevo qualcosa di più che una semplice amicizia ma dall’altro ero spaventato dalle responsabilità che questa scelta avrebbe comportato.
Alla fine il nostro rapporto si consolidò in una reciproca stima e amicizia e così andammo avanti per circa un anno, fino all’arrivo di Massimo, che sconvolse le nostre vite come un tornado.
Durante quell’anno vissuto sotto lo stesso tetto, mi comportai sempre in modo gentile ed educato, senza mai esagerare troppo con le avance, anche per evitare di rovinare il nostro bel rapporto.
Tra l’altro, era pur sempre la mia “padrona di stanza”, e non volevo ritrovarmi improvvisamente per strada a dover cercare un nuovo alloggio.
Quel giorno, mentre riflettevo sul mio rapporto con Olga, ebbi la strana sensazione che stesse arrivando qualcosa di nuovo nella mia vita, come se percepissi nell’aria un cambiamento imminente.
Diversamente dal solito mi sentivo pieno di energia e decisi di accendere il computer per mettermi a lavorare, ma il mio istinto m’indusse ad aprire subito la posta elettronica.
Le sensazioni positive di quella giornata si trasformarono subito in realtà perché, finalmente, apparve la tanto sospirata risposta di Massimo.
L’intestazione era inequivocabile e mi appariva come un nostro codice segreto: “Massimo, il tuo vecchio amico”.
Pensai che tutta quell’attesa non fosse stata vana ma, dopo così tanto tempo, volevo essere prudente e prepararmi al peggio.
Ero già rassegnato all’idea di un ennesimo rifiuto, ma cercai di leggere con calma il testo di quell’e-mail, disposto ad accettare serenamente qualunque sua decisione.
Dalle prime parole scritte da Massimo, s’intuivano le sue intenzioni e queste erano come musica per le mie orecchie: non solo si mostrava entusiasta della mia idea ma voleva partire immediatamente per Minsk e raggiungermi.
Mi confermava che era stanco di quella monotonia quotidiana in cui era immerso e si sentiva eccitato all’idea di poter iniziare un nuovo progetto con il suo vecchio amico di liceo.
Concluse la sua lettera spiegandomi che aveva voglia di riscattarsi da tutti i suoi fallimenti e che quella mia proposta gli sembrava una seconda occasione.
Anche lui desiderava riprovarci, almeno un ultima volta.
A cinquant’anni non aveva più nulla da perdere e nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, neppure una moglie o un figlio, perché aveva sempre preferito non rischiare e non assumersi la responsabilità di mantenere altre vite.
La sua ultima frase era la sintesi del “personaggio Massimo” che, nel suo inconfondibile stile, mi scrisse: “Robbè, dimmi quando posso venire che in cinque minuti faccio le valige, compro il biglietto aereo e sono da te”.
Ero al settimo cielo perché avevo ritrovato il mio vecchio amico, forse l’unico e vero amico che avessi mai avuto.
Gli risposi immediatamente per paura che potesse ripensarci.
Gli scrissi che bisognava pazientare qualche mese ancora perché dovevamo risolvere alcune questioni burocratiche, come l’invito di ospitalità per ottenere il visto.
Quella sera stessa, al rientro di Olga dal lavoro, le comunicai la buona notizia, chiedendole se per lei non fosse stato troppo disturbo poter alloggiare in casa anche un altro italiano.
Qualche mese prima le avevo accennato della mia corrispondenza con un vecchio amico e del mio progetto di realizzare con lui qualcosa d’importante in campo musicale.
Mi aveva detto che le sembrava un’ottima idea e che, se il mio amico avesse accettato di venire a Minsk, lei si sarebbe offerta di darmi tutto il suo aiuto.
Era tempo che Olga mantenesse fede alla sua promessa.
Per cercare di sbrigare velocemente tutte le formalità burocratiche, la incaricai di recarsi personalmente presso l’ufficio OVIR più vicino, che era il centro di polizia territorialmente competente al rilascio degli inviti di ospitalità.
Dopo due settimane ammo a ritirare il documento, firmato e timbrato, e lo spedimmo immediatamente a Massimo, con una raccomandata, con dentro l’originale.
Dopo circa un mese Massimo ottenne il sospirato visto di tre mesi e, immediatamente, comprò il biglietto aereo per Minsk.
Durante quel mese di attesa pensai che Massimo avrebbe avuto tutto il tempo per sistemare tutte le situazioni lasciate in sospeso.
Arrivò maggio e giunse il giorno tanto atteso: Massimo era in volo per Minsk.
Di mattina presto, insieme a Olga, ci mettemmo in viaggio verso l’aeroporto a bordo della sua Opel station wagon, ideale per le famiglie numerose.
Da qualche anno Olga usava quell’auto solo per andare a lavoro o per fare la spesa e viaggiava spesso da sola; il suo ex marito le aveva distrutto il sogno di una famiglia unita, portandole via le sue amate figlie.
In quell’auto ancora si potevano notare i segni del suo più recente ato perché Olga custodiva, gelosamente, alcuni oggetti regalati negli anni alla figlia più grande: Fatima.
Questa, ormai maggiorenne, frequentava l’Università di lingue straniere al Cairo, in Egitto e, spesso, si metteva in contatto con la mamma attraverso Skype o con altri programmi di messaggistica.
Questo permetteva a Olga di poter continuare a sperare che, un giorno non lontano, avrebbe potuto riabbracciare le figlie e riunire la famiglia.
L’aeroporto non era lontano, circa sessanta chilometri da casa, ma dovevamo percorrere tutta la tangenziale, una lunga striscia di asfalto che, come un semicerchio, costeggiava esternamente la città di Minsk.
Quella mattina pioveva a dirotto e la strada era viscida e bagnata, per cui dissi a
Olga di tenere un’andatura moderata poiché eravamo partiti con molto anticipo e saremmo sicuramente arrivati in tempo.
Negli ultimi chilometri trovammo ad attenderci anche una fitta nebbia che ci fece rallentare, ulteriormente, ma ormai la città era già alle nostre spalle e mancavano solo pochi chilometri per l’aeroporto.
Proseguimmo la nostra corsa in una zona quasi deserta, in aperta campagna e, di tanto in tanto, il cielo sembrava aprirsi e tra le nuvole potei scorgere il bagliore di un tiepido sole e i contorni sfumati di un cielo azzurro.
Raggiungemmo il piccolo aeroporto di Minsk con circa due ore di anticipo e Olga scelse con cura dove parcheggiare l’auto, cercando di non allontanarsi troppo dall’uscita degli arrivi internazionali.
In quelle due ore di attesa crebbe l’ansia per l’arrivo di Massimo.
Mi chiedevo: “Troverò lo stesso Massimo di un tempo, con la sua aria strafottente e anticonformista, oppure il tempo lo ha completamente cambiato e trasformato in un antiquato e triste cinquantenne?”.
Olga notò la mia agitazione e cercò subito di tranquillizzarmi, dicendomi: “Roberto, oggi, per te e Massimo, sarà un giorno felice perché siete due vecchi e cari amici che si ritrovano dopo tanto tempo e quello che accadrà dopo dipenderà solo da voi”.
Aveva perfettamente ragione perché tutto quello che successe dopo, di lì a pochi mesi, dipese solo dal coraggio e dall’incoscienza di chi, come noi, sperava di potersi rimettere in gioco un’ultima volta.
Sapevo che l’idea di unire i nostri due talenti si sarebbe rivelata una mossa risolutiva, ma le conseguenze di quella scelta si abbatterono come un tornado su tutti noi, anche se con esiti notevolmente differenti.
Dall’altoparlante, finalmente, una voce gentile annunciò l’atterraggio del volo Belavia, provenienza Roma; ormai mancavano solo pochi minuti e avrei rivisto Massimo, non più solo in foto ma questa volta in carne ed ossa.
Dopo circa un’ora, con un colpo secco, si aprì la grande porta che dal settore bagagli conduceva direttamente all’uscita e vidi subito l’inconfondibile fisionomia di Massimo che, con un largo sorriso, si avvicinava rapidamente verso di noi.
Fu un abbraccio forte e commovente che avvolse entrambi come una calda coperta.
Restammo così, immobili, per alcuni secondi e senza dire alcuna parola.
Poi, allontanatosi lentamente da me, rivolse il suo sguardo verso Olga e disse, con il suo solito tono scanzonato: “Robbè, ma chi è questa bella donna al tuo fianco?”.
Lo guardai notando che il suo fisico era completamente cambiato e il viso molto diverso da quello che appariva nei miei ricordi, mentre il suo sorriso e il tono della voce erano rimasti gli stessi.
Pensai che quelli fossero, da sempre, i suoi segni distintivi, come se fossero stati il suo marchio di fabbrica.
Mi affrettai a presentargli Olga spiegando che si trattava di una mia cara amica e, cosa non di non poco conto, anche l’affittuaria della nostra stanza a Minsk.
Continuai dicendo che si era offerta, gentilmente, di accompagnarmi in aeroporto evitando di farci tornare a casa in taxi.
Olga meritava tutto il nostro rispetto poiché non era certamente facile per lei permettere che due uomini, in pratica due sconosciuti, potessero vivere sotto il suo stesso tetto.
Vidi Massimo sorridere, come se avesse capito perfettamente la situazione, mentre sul viso di Olga potei leggere un’espressione preoccupata e perplessa.
Mi accorsi che, con Massimo, stavo parlando in italiano troppo velocemente e la mente di Olga faticava a seguire quel fiume di parole: non era riuscita a tradurre tutte le frasi e aveva perso il senso del discorso.
Cercai di rincuorarla dicendole che erano solo batture ironiche tra vecchi amici e nulla di più.
Così ci incamminammo verso il parcheggio e notai che Massimo, oltre al semplice bagaglio, aveva portato con sé anche la sua chitarra classica, rinchiusa in un’elegante custodia di pelle nera.
Fuori aveva smesso di piovere e il cielo sopra di noi sembrò aprirsi in due, con le nuvole che scappavano in ogni direzione, sospinte dal gelido vento.
Lo considerai un segnale positivo, buon presagio.
Con Massimo, durante tutto il viaggio, cercammo di ripercorrere le tappe del nostro ato, soffermandoci, di tanto in tanto, sul destino di qualche nostro ex compagno di scuola.
Gli confessai che, dopo il conseguimento del diploma, non avevo mantenuto i contatti con nessuno del nostro gruppo perché desideravo dare un taglio netto con quel ato.
Massimo capì’ immediatamente che il centro del mio discorso si stava spostando velocemente verso Marina e, con tono preoccupato, mi chiese: ”Ma tu mi hai perdonato, vero?”.
Tirai un sospiro di sollievo perché, finalmente, potevo dirgli tutto quello che pensavo di lui e di come quella storia mi avesse fatto soffrire violentemente.
Pesai attentamente le parole e con calma gli dissi: “Certamente che ti ho
perdonato, altrimenti non saresti qui con me, ma solo un brutto ricordo del ato”.
Poi conclusi dicendo: “Caro Massimo avremo tanto tempo per parlare di tutto ma, per il momento, godiamoci il breve viaggio ammirando il panorama di questa splendida campagna che ci circonda”.
La strada era ancora bagnata per la pioggia e Olga tenne un’andatura rilassante, cercando di arrivare a casa in orario per il pranzo.
La nostra amica aveva insistito tanto per cucinare personalmente perché desiderava dare un segno di benvenuto al nuovo ospite; inutili furono tutti i miei tentativi per farla desistere, dicendole che sarebbe stato più pratico fermarci in qualche ristorante che avremmo trovato lungo la strada, durante il viaggio di ritorno.
Non volle sentire ragioni e, alla fine, dovetti accettare il suo inderogabile e perentorio invito a pranzo.
Olga era un’ottima cuoca e una gradevole padrona di casa: oltre agli antipasti di formaggio e salame, preparò pollo al forno con patate e spezie varie.
Il giorno prima mi ero premurato di comprare due bottiglie di vino rosso e una di spumante italiano e, così, potei festeggiare degnamente l’arrivo del mio caro amico.
Giunti a casa feci sistemare Massimo nella stanza da letto che, per qualche mese, avremmo dovuto dividere in due e, dopo aver terminato le nostre necessità fisiologiche, ci sedemmo a tavola per mangiare.
Anche Amir, il piccolo figlio di Olga, arrivò in cucina incuriosito da quel nuovo ospite e ansioso di poter azzannare la coscia di pollo che la mamma, premurosamente, gli aveva messo nel piatto.
Alla fine di quell’abbondante pranzo preparai un buon caffè espresso per tutti e, dopo esserci congedati da Olga, non prima di averla ringraziata, ci recammo nella nostra stanza.
Aiutai Massimo a sistemare il suo bagaglio nell’armadio, dopodiché ci sedemmo sul letto dove cominciammo nuovamente ad aprire il libro dei nostri ricordi.
Con la mente ritornammo al tempo in cui avevamo sedici anni e spesso i nostri racconti erano interrotti da sonore risate, ripensando agli episodi più divertenti accaduti durante gli anni del liceo.
Fu in quei momenti che dissi a Massimo che, senza di lui, tutti quegli anni a scuola sarebbero stati, sicuramente, noiosi e opprimenti.
Gli confessai che, in gioventù, lui era stato il mio mito oltre che l’unico amico di cui mi fidassi veramente e che avevo sempre cercato di imitarlo, nelle movenze e negli atteggiamenti, per cercare di darmi quella sua stessa aria di ragazzo ribelle.
Poi il discorso ritornò, inevitabilmente, su Marina e, questa volta, fu lui ad avere la parola.
Mi disse che non aveva mai sospettato che potesse piacermi quel tipo di ragazza, soprattutto perché, nelle nostre conversazioni a scuola, non gli avevo mai confidato che ero perdutamente innamorato di lei.
Ammise che con Marina era stato sempre un continuo tira e molla ma che, alla fine, si era stancato e l’aveva lasciata andare, probabilmente anche a causa di quello che era successo tra di noi, quella mattina di primavera, sul lungomare di Salerno.
Continuò il suo ragionamento dicendo che, quando le chiese spiegazioni, cercando di conoscere il motivo di quella mia sorprendente scenata di gelosia, Marina si limitò a rispondere che lei non aveva mai ricambiato il mio amore.
A quel punto interruppi il discorso di Massimo ed esclamai: “Mai ricambiato?”. “Oh, ma che bugiarda!”.
Improvvisamente, dentro la stanza, l’aria si fece pesante e opprimente.
Sapevo che quello di Marina era un argomento spinoso che andava trattato con cura e che avrebbe potuto riaccendere emozioni e rivalità mai del tutto sopite.
Mi affrettai a dire a Massimo che la nostra comune amica, Marina, non era stata del tutto sincera con lui perché tra di noi c’era stato più di qualche semplice
bacio.
Vidi lo stupore nei suoi occhi e cercai di tranquillizzarlo con un sorriso, poi gli dissi: “Ma non pensare subito male, non abbiamo fatto sesso, se è questo che stai alludendo con i tuoi sguardi”.
Anche Massimo iniziò a sorridere e quella mia frase fece tornare il sereno tra di noi; in fondo, stavamo parlando di un episodio accaduto tanti anni prima e non aveva più senso litigare.
Pensai: “Vale ancora la pena riaprire quelle ferite che il tempo ha, ormai, rimarginato?”.
Dissi a Massimo che era arrivato il tempo di dimenticare il male, di metterci sopra una bella pietra, di quelle grandi e pesanti, e di concentrarci sul futuro, che vedevo roseo per entrambi.
In fondo era proprio questo il motivo che aveva spinto Massimo a percorrere migliaia di chilometri e allontanarsi dall’Italia.
Un’ultima cosa, chiese Massimo con tono pensoso: “Puoi dirmi dove e quando, tu e Marina, vi siete baciati per la prima volta?”.
Certamente, risposi, eri presente anche tu quella sera.
Guardai il viso di Massimo farsi sempre più serio e, per creare la giusta suspense, mi presi una pausa di qualche secondo, poi gli dissi: ”Ricorderai sicuramente il concerto nella tua villa quando venisti a prendermi con la tua vespa 50 a casa di mia nonna Magda.
Al concerto trovai anche Marina che, tra l’altro, tu avevi invitato personalmente.
Dopo qualche canzone ci allontanammo dal palco e fu allora che le confessai il mio amore.
Marina mi disse che tra di noi, quella sera, poteva iniziare qualcosa di speciale e, quindi, cominciammo a baciarci e accarezzarci per tutto il tempo.
Poi, il lunedì successivo, a scuola, mi sentii male per i postumi della sbornia di sabato e chiesi al preside un permesso di uscita; quindi, mi recai sul lungomare a prendere il sole e qui vi ho visto insieme.
Il seguito lo conosci benissimo”.
Avevo parlato ininterrottamente e tutto di un fiato e ora aspettavo la reazione di Massimo.
Questi, dopo un lungo e interminabile silenzio, fece un’espressione di sdegno con la bocca tirando su le spalle, come per evidenziare la sua indifferenza.
Poi Mi guardò fisso negli occhi e disse: “Robbè, ma chi se ne frega, pensiamo a noi e al nostro futuro, abbiamo parlato pure troppo di quella troia”.
Quasi contemporaneamente ci alzammo dal letto e cominciammo a rovistare tra le nostre cose, in cerca di quei fogli di carta sui quali avevamo scritto testi e musica.
Esaminammo attentamente tutti i nostri vecchi lavori ma sembrò, a entrambi, che nessuno di questi avesse la forza e la potenza artistica tale da poter realizzare un disco di successo.
Era chiaro che, se volevamo dare un senso al nostro progetto, dovevamo fare “tabula rasa” di tutto e metterci insieme attorno ad un tavolo.
Furono mesi complicati, ma non mollammo di un centimetro perché sentivamo quanto fosse importante quell’idea, quel progetto: dovevamo andare fino in fondo, per vincere o affogare insieme.
Quella prima settimana fu molto difficile per Massimo perché dovette abituarsi ad alcuni cambiamenti, come il clima, che era ben diverso da quello mite del sud dell’Italia, e il cambio di fuso orario (a Minsk eravamo avanti di due ore).
Inoltre, dovevamo anche cucinarci da soli.
Non avemmo problemi a trovare prodotti italiani di generi alimentari, come pasta, caffè e vino, soltanto che questi costavano almeno il doppio o il triplo del
loro prezzo all’origine e, alla fine, per risparmiare, ci accontentammo anche di comprare prodotti tipici locali.
Comunque, cercammo di non farci mai mancare del buon vino italiano, prestando attenzione a non sforare troppo il budget per non ritrovarci, alla fine del mese, senza soldi e con l’affitto da pagare a Olga.
In quella prima settimana portai Massimo in giro per la città avvertendolo che abitavamo in una metropoli, grande quasi come Milano, con circa due milioni di abitanti.
Gli spiegai che dovevamo percorrere ogni giorno delle lunghe distanze ed era necessario abituarci a quegli spostamenti utilizzando i mezzi pubblici a nostra disposizione: il bus e il metrò.
In sostanza non c’era molto da vedere a Minsk, ma il centro era carino, con un laghetto dove, in estate, era possibile anche fare un giro in pedalò e un parco molto grande, con un delizioso orto botanico, dove poter eggiare tranquillamente.
Approfittammo di quella prima settimana da “turisti” anche per dare un’occhiata a tutti quei locali che, di sera, avevano il piano bar come attrazione principale.
Il nostro progetto era abbastanza semplice, io mi sarei occupato di fargli da manager mentre Massimo avrebbe preparato una scaletta musicale con i pezzi, italiani e internazionali, da poter proporre come piano bar.
In questo modo potevamo guadagnare quello che ci serviva per vivere decentemente e avere il tempo per trovare l’ispirazione artistica, necessaria a scrivere il pezzo musicale di successo che avevamo sempre sognato.
Cercammo in internet l’indirizzo e i numeri di telefono di quei locali che ci sembravano più adatti alla musica di Massimo, dando la precedenza a quelli che, nel menù, proponevano la cucina italiana o europea.
In pratica telefonammo a tutti e in qualche locale ci andammo anche di persona, come al “Fashion Club”, ma ricevemmo solo risposte di rifiuto.
Invariabilmente, ci dicevano che avevano già il loro musicista di piano bar, che i loro clienti erano soddisfatti e non avevano bisogno di aggiunte o cambiamenti al loro programma serale.
Ci sentimmo frustrati e avviliti, come incapaci di reagire, sull’orlo del precipizio del nostro definitivo fallimento artistico e professionale.
Come sempre avviene in questi casi la fortuna bussò inaspettatamente alla nostra porta e, quella stessa sera, ricevemmo la telefonata del sig. Dimitri, manager del locale “Fashion club”.
Si trattava di un importante locale in centro a Minsk, frequentato, nel fine settimana, dai clienti più facoltosi del luogo.
Era stato il primo locale, della nostra lista, che avevamo visitato personalmente,
ma era già trascorsa una settimana dal loro rifiuto e, nel frattempo, qualcosa di grave doveva essere successo.
Il manager ci spiegò che, la sera prima, aveva litigato con il cantante del piano bar a causa delle lamentele ricevute da alcuni clienti abituali e, quindi, gli aveva contestato lo scarso impegno e la mancanza di entusiasmo che metteva nel lavoro.
Per quella sera il piano bar era senza un cantante e ci chiese se avevamo ancora interesse a proporre la nostra collaborazione artistica.
Era l’occasione che aspettavamo da tanto tempo e la cogliemmo al volo: rispondemmo che eravamo ancora liberi e disponibili a suonare quella stessa sera.
Dopo aver concordato con Dimitri l’ora dell’appuntamento, Massimo prese immediatamente il lettore con le basi musicali e si caricò sulle spalle la custodia con la sua la chitarra.
Insieme, pensierosi e senza dire una parola, ci incamminammo alla fermata del bus.
Eravamo ancora vestiti in modo tipicamente invernale perché, nonostante la primavera fosse ormai cominciata da un pezzo, l’aria era ancora fredda ed era necessario avere anche il cappello di lana per proteggersi dalle folate di vento gelido.
Finalmente arrivò il nostro autobus numero 42 che, dopo circa sette lunghe fermate, ci lasciò esattamente di fronte all’entrata della metropolitana di Kamennaja Gorka, il nostro capolinea.
Ormai sapevamo muoverci con una certa disinvoltura tra le strade di Minsk e, nelle rare volte in cui c’eravamo persi, era stato sufficiente fermare qualcuno in strada e, con il mio russo o grazie al perfetto inglese di Massimo, riuscivamo sempre a ritornare a casa.
Con il metrò arrivammo velocemente in centro e, dopo pochi minuti di cammino a piedi, fummo davanti all’entrata del locale “Fashion Club”.
Qui trovammo ad aspettarci Dimitri, il manager del locale con il quale avevamo parlato al telefono.
Ora potevo osservarlo da vicino: sembrava un ragazzo molto giovane, sui trent’anni, vestito secondo la moda, con uno stile impeccabile tipicamente europeo e con un taglio di capelli particolare, con una piccola cresta sul lato destro della testa.
Con fare sicuro e sbrigativo ci disse che quella sera sarebbe stato il nostro debutto e che la firma su un eventuale contratto dipendeva dalla performance di Massimo e dal gradimento della clientela.
Avevamo ancora una mezzora, circa, per prepararci e sistemare l’attrezzatura.
Massimo ebbe il tempo di provare gli accordi alla chitarra mentre il manager ci mise a disposizione un pianoforte, le casse, il mixer e un microfono.
L’accordo iniziale fu che ci avrebbe pagato circa cinquanta euro a sera e Massimo avrebbe dovuto proporre almeno trenta brani, divisi equamente tra musica italiana e internazionale, dalle otto di sera fino a mezzanotte, pausa compresa.
Eravamo entrambi molto agitati perché tutto stava accadendo molto in fretta.
Massimo era particolarmente emozionato perché era la prima volta che suonava all’estero e, in quell’occasione, mi confessò di avere mille paure: dalla rottura di qualche strumento alla voce stonata.
Cercai di tranquillizzarlo e, con calma, gli dissi: “Massimo, prendiamo tutto questo come un gioco, in fondo non abbiamo nulla da perdere e, se dovesse andar male, nessuno verrebbe mai a saperlo; in ogni caso ci sono tanti altri locali dove possiamo andare a suonare e, magari, questa volta senza la fretta del momento”.
Vidi il suo classico sorriso illuminargli il viso e, come ai tempi del liceo, continuai dicendo: “Comunque vada io non mi tiro indietro perché io credo in te”.
Poi aggiunsi: ”Massimo sii te stesso e tutto andrà bene”.
Ormai erano quasi le otto di sera e il locale si andava già riempiendo.
I tavoli erano rotondi, addobbati elegantemente e disposti in modo tale che tutti potessero avere una libera visuale del palco, con il piano bar visibile da ogni angolazione.
Massimo iniziò la serata suonando al pianoforte alcuni classici della musica italiana, cercando di variare, di tanto in tanto, con musica internazionale molto conosciuta, utilizzando, soprattutto, le canzoni di Elton John e George Michael.
Durante tutta la serata osservai Massimo destreggiarsi con disinvoltura, sia al pianoforte sia con la chitarra, completamente immerso in quel suo mondo, come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita.
Prese sempre più confidenza con quel lavoro e cominciò anche a dialogare con i clienti della prima fila: con il suo inglese impeccabile li ringraziava al termine di ogni canzone.
Erano frequenti e sempre più intensi gli applausi al termine di ogni sua performance, e questo sembrava dargli nuova energia.
Ormai era una continua richiesta di ascoltare brani italiani e Massimo cercava di improvvisare come meglio poteva; il suo talento musicale, in quei casi, fu fondamentale per toglierlo da qualche piccolo impaccio.
Per soddisfare tutte le richieste dei clienti Massimo dovette abbandonare la
scaletta dei brani musicali, che aveva preparato con cura a casa.
Dimitri, prima dell’inizio della serata, gli aveva consigliato di essere “molto elastico” e di accontentare, nei limiti del possibile, ogni richiesta.
Ormai Massimo suonava e cantava a braccio, spesso improvvisando perché dimenticava le parole o intere strofe di alcune canzoni.
Lo vidi particolarmente teso e sul viso gli apparve una smorfia quasi di dolore quando fu “costretto” a eseguire alcuni vecchi brani italiani, come: “Felicità” di Albano e Romina Power, “Se m’innamoro” dei Ricchi e Poveri e “Sono un italiano” di Toto Cutugno, famosissimo da quelle parti.
Era divertente guardare tutte quelle signore, non sempre vestite con gusto ma perfettamente ingioiellate, fare a gara tra di loro per attirare l’attenzione di Massimo e le vedevo particolarmente soddisfatte quando erano esaudite nelle loro richieste musicali.
Fu un successo clamoroso, oltre le nostre più rosee aspettative e questo ci spinse a proseguire su quella strada perché, ormai, il solco era tracciato.
Massimo, durante la sua esibizione, a volte si voltava verso di me e, con il suo solito sorriso, misto d’ironia e di soddisfazione, mi faceva l’occhiolino, per confermarmi che andava tutto bene e che si sentiva in forma.
Alla fine della serata Dimitri, il giovane manager del locale, ci venne incontro
sorridendo, dicendoci che era già pronto per noi il contratto da firmare.
Ci offriva tre mesi garantiti per cinque giorni a settimana e cinquanta euro a sera, cena compresa.
Il contratto era in duplice lingua, inglese e russo, ma non feci fatica a leggerlo come se il successo di quella sera mi avesse aperto completamente la mente.
Massimo firmò il contratto e dopo ci guardammo negli occhi senza nascondere la nostra soddisfazione.
Eravamo euforici e la nostra fortuna continuò’ ancora, quella sera, perché una delle cameriere, che aveva da poco finito il turno di lavoro, si offrì di darci un aggio fino a casa.
Ormai le cose cominciavano ad andare nel verso giusto, come caramelle che si tiravano una dopo l’altra.
Anche Olga fu felice per quel nostro primo successo, forse perché così era sicura che avremmo pagato l’affitto mensile della stanza con una certa regolarità.
Massimo, nelle settimane che seguirono, s’impegnò come mai aveva fatto durante la sua vita artistica e le sue performance furono sempre molto apprezzate.
Anche in quel caso il aparola dei clienti soddisfatti decretò la nostra fortuna.
Il “Fashion Club”, notoriamente sempre pieno nel week end, cominciava a essere affollato anche durante gli altri giorni della settimana, a conferma che la buona musica è apprezzata a qualunque latitudine.
Dopo quelle prime settimane così eccitanti dissi a Massimo che, la sera, non potevo più stare con lui al “Fashion Club” o, comunque, non con la solita frequenza, perché avevo trascurato completamente il mio lavoro di correttore di bozze e avevo delle scadenze improrogabili.
Pensai che fosse stato meglio lasciare una porta aperta perché, se quel successo fosse stato effimero e non duraturo, mi sarei ritrovato senza un lavoro e senza soldi; pertanto, ritenni che fosse giunto il momento di fare un o indietro e recuperare il tempo perduto.
Olga venne in mio aiuto e si offrì di accompagnare Massimo al locale in tutte quelle occasioni in cui io non potevo andare.
Mi chiese solo un semplice favore, quello di badare al piccolo Amir durante la sua assenza; in particolare, avrei dovuto fare in modo che fosse già a letto per le nove di sera, non oltre.
Per quell’ora dovevo anche tenere spenta la televisione, senza dare ascolto alle probabili proteste del figlio.
Acconsentii con piacere e con il mio sorriso le feci capire che ero ben contento di poterle fare un favore.
Probabilmente fu proprio in quelle sere che tra Olga e Massimo nacque qualcosa di più di una semplice amicizia e quando la situazione divenne evidente a tutti nella casa, Massimo mi disse, apertamente, che aveva una storia d’amore con lei.
Quando Massimo aveva la serata libera, cercava di allontanarsi per un po’ dalla musica e accompagnava Olga a guardare i grandi negozi del centro, oppure si divertivano insieme andando a pattinare sul ghiaccio.
Questa era la grande ione non solo di Olga ma di tutti i bielorussi: ovunque potevi trovare arene o grandi spazi all’aperto dove era possibile praticare il pattinaggio.
Sicuramente Massimo non si divertì moltissimo a pattinare perché, spesso, tornava a casa tutto dolorante per le continue cadute sul ghiaccio.
Cercò, comunque, di non lamentarsi mai e, da buon cavaliere, accontentò Olga in ogni sua richiesta.
Capitolo 5 – La strada per il successo
Sono strani i meccanismi che danno vita a un opera d’arte come un quadro, una scultura o un pezzo musicale.
In fondo sapevo che quella canzone era già nell’aria, libera, che aspettava solo qualcuno che cercasse di catturarla, di farla sua per sempre.
Probabilmente in tutto questo c’entrava anche il mio amore, non corrisposto, per Olga, che ormai aveva scelto Massimo, senza alcun dubbio.
Era uno strano sentimento che sentivo nel profondo della mia anima: da un lato, ero felice per loro e mi facevano tenerezza quando li vedevo tenersi per mano e abbracciarsi durante le serate a casa ma, dall’altro, sentivo anche un senso d’impotenza e gelosia verso il mio caro amico che, ancora una volta, mi aveva portato via la donna che amavo.
Era una situazione già vissuta ai tempi del liceo, con Marina, e ora si ripresentava a distanza di tempo, con una forza e un’intensità maggiore.
Tutto accadeva esattamente come allora, nonostante l’esperienza della vita avrebbe dovuto proteggermi dagli affanni e dal dolore che provoca l’amore.
Il mio era sentimento vero, arrivato inaspettato e violento, come una tempesta
che spazza via ogni cosa e lascia solo macerie da ricostruire.
Volevo dipingere con Olga il mio nuovo mondo, con mille colori e con le sfumature più dolci e intense.
Ora, invece, mi sentivo solo e mi fermavo a fissare quei fogli bianchi sulla scrivania, mentre sulla parete della mia stanza vedevo tutti quei colori che sbiadivano lentamente, fino a sparire del tutto.
Fu con quello stato d’animo che cominciai a scrivere una poesia: sembrava che le parole uscissero da sole dalla mia penna e riempissero quel vuoto nel mio cuore.
La lessi e rilessi molte volte quel testo, apportandovi solo piccole modifiche e, quando fui soddisfatto del risultato, le diedi il titolo che ritenni più appropriato: “Amore impossibile”.
Sembrava perfetta e volli che anche Massimo potesse leggerla, per ascoltare il suo parere, non solo come amico, ma anche come musicista.
Ogni parola di quella poesia esprimeva dolore e, con un senso di frustrazione e rabbia, dava il senso di un amore ormai lontano e impossibile da raggiungere.
In pratica era la mia confessione d’amore per Olga perché, adesso, volevo prendermi cura di lei e di suo figlio ed ero disposto anche a sposarla, se me lo avesse chiesto.
Sapevo che mi ero fatto avanti troppo tardi e capivo che Olga aveva già scelto, ma io conoscevo bene Massimo e sentivo che il suo non era vero amore.
Al suo rientro in Italia avrebbe dimenticato facilmente quella donna, perché solo la musica era il suo vero amore, la sua unica ione, mentre tutto il resto faceva solo da contorno.
Continuamente mi ripetevo: “In amore si vince e si perde, l’importante è non abbandonare mai la speranza perché tutto può cambiare, all’improvviso”.
Quella stessa sera aspettai il ritorno a casa di Massimo e gli diedi il testo della poesia e dicendogli: “Penso che questa sia quella giusta”.
Massimo mi guardò divertito e cominciò a leggere, attentamente, soffermandosi, di tanto in tanto, su alcune parole che lo avevano particolarmente colpito.
Naturalmente la parola “amore” era la più ricorrente.
Quando ebbe finito di leggere, gli chiesi, con tono deciso: “Allora, cosa ne pensi, è quella giusta?”.
Massimo mi guardò intensamente e, dopo aver appoggiato la mano sulla mia spalla, rispose: “Robbè, penso che sia proprio quella giusta, è intensa e dice tutto quello che pensiamo quando un amore fugge via senza darci alcuna possibilità; ti prometto che cercherò di dargli un arrangiamento adeguato, ma riparliamone
domani mattina, perché adesso sono stanco morto e voglio solo andare a dormire”.
Mi salutò e si avviò direttamente verso la stanza da letto di Olga, dove ormai, da qualche tempo, si era trasferito insieme con tutto il suo bagaglio.
Quella fu l’esperienza della mia vita più dura da superare.
Era una situazione difficile da sopportare: il mio migliore amico e la donna che amavo erano proprio li, in un'altra stanza, a pochi metri da me, che facevano all’amore e magari ridevano alle mie spalle.
Mi sentivo un idiota e spesso pensavo di andare via da quella casa, di trovarmi un altro alloggio, un’altra camera in affitto.
Non lo feci perché sentivo che si era creata una magia speciale con Massimo, un sodalizio artistico importante e non volevo che tutto potesse finire, ancora una volta, a causa di una donna.
Restai, cercando di fare il possibile per accettare quel loro rapporto d’amore.
Nei giorni che seguirono, vidi Massimo dare sfogo a tutto il suo talento, impegnarsi costantemente alla ricerca del sound giusto con il quale rivestire quella poesia.
Finalmente, dopo tanti tentativi andati a vuoto, in un pomeriggio assolato, arrivò il motivo tanto atteso: ora musica e parole sembravano sposarsi alla perfezione e non restava altro da fare che suonarla il più possibile, per eliminare qualche imperfezione sonora o modificare qualche parola.
Sembrava fatta, era un motivo molto orecchiabile e capimmo che avevamo tra le mani la canzone giusta.
Ne nacque una ballata romantica, nella pura tradizione della musica italiana, con un ritornello che ti restava nella testa e non potevi fare a meno di cantarla.
Massimo provò e riprovò a suonarla finché non fu soddisfatto e, come primo banco di prova, decidemmo di sottoporla all’ascolto di Olga e del piccolo Amir.
Eravamo curiosi di vedere l’emozione nei loro sguardi e, dalla loro prima reazione, potevamo comprendere se quel brano avesse qualche possibilità di successo.
Olga si sottopose volentieri a quel test e, quando Massimo ebbe finito di suonare la nostra canzone, si alzò dalla sedia, lo abbracciò e lo baciò intensamente.
Anche Olga intuiva che quel brano poteva essere un successo commerciale.
Allora con Massimo decidemmo di fare un esperimento molto più importante e decisivo: cantarla quella sera stessa al “Fashion Club”.
Arrivati al locale, ne parlammo con Dimitri che ci chiese di poterla ascoltare in anteprima, insieme con tutto lo staff.
Fu un esperimento divertente e dai calorosi attestati di apprezzamento che ricevemmo, capimmo che eravamo sulla strada giusta; ora dovevamo solo attendere la fine della serata e vedere se anche gli ospiti del “Fashion Club” avrebbero applaudito quel nuovo brano.
Massimo iniziò la performance normalmente ma, giunto a metà della sua esibizione, comunicò ai presenti, in un timido russo, che quella sera avrebbe cantato un suo brano inedito.
Sentimmo un forte brusio iniziale, come se fossero stati tutti sorpresi da quell’annuncio poi, d’improvviso, nell’ampia sala cadde un silenzio innaturale e tutti guardarono in direzione di Massimo.
Fu un successo e tutti applaudirono calorosamente, anche lo stesso staff del locale che si era fermato dall’attività lavorativa per ascoltare la nostra canzone.
La nostra musica prese vita, ufficialmente, quella sera, sul piccolo palco del “Fashion Club”.
La nostra canzone, ad un primo ascolto, richiamava alla mente un vecchio brano di George Michael: “Prayng for time”, ma con un’intensità e una disperazione maggiore.
Molti chiesero il bis e Massimo provò ad accontentare tutti, risuonandola per almeno tre volte.
Si stava realizzando il sogno della nostra vita e potevo dire, finalmente a tutti, che la mia intuizione era stata quella giusta e che non ero un fallito.
Eravamo pronti ad assaporare il successo, quello vero, quello con la S maiuscola.
La sera successiva il locale era strapieno; il caro Dimitri aveva dovuto aggiungere qualche tavolo in più perché non aveva potuto dire di no a qualche potente locale, nonostante i tavoli fossero già tutti prenotati.
Anche la disposizione dei tavoli aveva perso la sua iniziale originalità e, mentre normalmente questi erano disposti in un ampio semicerchio, adesso lo spazio era tutto occupato.
Gli ospiti, diversamente dal solito, erano seduti uno accanto all’altro e facevano fatica a muoversi, anche per andare al bagno.
Ormai potevamo dire, senza essere smentiti, che Massimo e la nostra musica erano le vere e uniche attrazioni del “Fashion club”.
Sembrava che gli ospiti fossero disposti a pagare qualunque cifra per ascoltare dal vivo Massimo e la sua nuova canzone italiana.
Un sabato sera, tra quel pubblico eterogeneo, trovò posto anche un noto DJ di Minsk, Igor B, che lavorava a tempo pieno per “Radio RomantiKa”, la più ascoltata della città.
Un aggio della nostra canzone in quella radio avrebbe potuto decretare il nostro definitivo successo e la nostra musica raggiungere un pubblico più; in pratica, poteva essere ascoltata in ogni angolo della Bielorussia.
Igor si presentò alla fine della serata e disse di essere entusiasta del nostro brano “Amore Impossibile”.
Ci chiese se eravamo disponibili a concedergli un’intervista in esclusiva e a preparare una demo del nostro brano, che poi lui avrebbe pensato a farla are in radio.
In precedenza, sia Dimitri sia Olga, ci avevano informato sulle potenzialità di quella radio e della notorietà del suo DJ di punta, Igor B.
Fissammo l’appuntamento in radio per il lunedì seguente e chiedemmo a Dimitri il permesso di utilizzare la strumentazione del locale per realizzare la demo.
Quando la demo fu pronta, Massimo, per evitare problemi di copyright, si affrettò a caricarla on line su MCA, una società che garantiva un buon servizio di tutela del diritto d’autore, in alternativa a quello normalmente offerto dalla SIAE.
Quel lunedì portammo con noi in radio anche Olga, che ci aiutò come interprete.
Il brano fu trasmesso in radio ed ebbe un immediato successo; ci furono molte telefonate in redazione e tutti vollero sapere chi fosse quel musicista italiano apparso così all’improvviso, praticamente dal nulla.
Sapevamo che quello era stato solo il primo o verso una lunga salita, ma sentivamo addosso l’adrenalina e l’ebbrezza del successo.
Con Massimo ci divertimmo a immaginare che anche i grandi della musica, alla loro prima esibizione, avevano provato quelle nostre stesse emozioni.
Sentimmo che era iniziata una nuova carriera.
Sembrava di vivere in un sogno e, spesso, partivano dei sonori ceffoni sulla guancia e, subito dopo, ripetevamo insieme: “Se questo è solo un sogno, allora non mi svegliare”.
In quelle occasioni Olga ci guardava con un misto di divertimento e d’incredulità e, rivolgendomi a Massimo gli dicevo: “Probabilmente la nostra amica penserà a quanto sono stupidi gli italiani e noi due in particolare”.
In quei giorni anche la nostra casa sembrò catapultata in quel caos; il telefono cominciò a suonare incessantemente e facemmo fatica a tenere la situazione sotto controllo.
Molto spesso si trattava di amici e parenti di Olga che chiedevano informazioni su Massimo, oppure erano le redazioni delle radio che volevano un’intervista.
Di tanto in tanto capitava anche la telefonata di qualche fan di Massimo che, non si sa come, era riuscito a procurarsi il nostro numero di telefono.
Massimo, ormai, era diventato un piccolo fenomeno musicale, anche se ancora limitato alla piccola Bielorussia.
Sapevamo che il vero successo ci avrebbe spalancato le porte solo se fossimo riusciti ad arrivare nella vicina e grande Russia, dove avremmo avuto a disposizione circa 200 milioni di potenziali ascoltatori.
Con il successo in Russia avrebbero cominciato a parlare di noi anche in Italia, obiettivo finale del nostro progetto.
Per fortuna la nostra magia non era ancora finita e, dopo qualche tempo, fummo contattati da una piccola casa discografica russa: “Melodia”.
Si offrirono di produrre il nostro brano, curarne il marketing e i aggi sulle varie radio nazionali, da quelle più grandi e importanti a quelle più piccole; in questo modo, la nostra canzone, poteva essere programmata e ascoltata anche nelle lande più desolate della Russia.
Ci preparammo a partire per Mosca e sbrigammo le formalità necessarie per avere i visti d’ingresso; solo Olga non ne ebbe bisogno in quanto cittadina
Bielorussa.
Prima di partire andammo a salutare Dimitri, il manager del “Fashion Club”, ringraziandolo per tutto quello che aveva fatto per noi; ormai erano già trascorsi tre mesi da quella prima sera e il suo locale ci aveva portato una grande fortuna e proiettati in una nuova dimensione artistica.
Olga si aggregò alla nostra piccola comitiva come interprete e, quindi, concordai con Massimo che le avremmo pagato tutte le spese oltre ad un piccolo extra per il disturbo.
Il piccolo Amir fu affidato agli zii che abitavano poco lontano, mentre Olga chiese e ottenne un periodo di ferie dal lavoro.
La casa discografica russa si occupò di tutto: visti, biglietti aerei e prenotazione presso l’hotel “Savoy”, in centro a Mosca.
Per Massimo e Olga riservarono una bella suite all’ultimo piano, mentre io dovetti accontentarmi di una normale camera singola.
Il viaggio in aereo fu abbastanza rapido, mentre impiegammo circa un’ora per sbrigare le formalità doganali e per il ritiro dei bagagli.
All’uscita trovammo ad attenderci un autista che aveva un cartello bene in vista tra le mani e sul quale aveva scritto, in un italiano corretto “Massimo Bastiani + 2”.
Il tempo era perfetto, ormai anche per Mosca era giunta l’estate e fuori dall’aeroporto potei respirare un’aria frizzante e piacevole.
Il cielo era terso e limpido e ci affrettammo a salire sulla limousine bianca che ci avrebbe scarrozzato per le vie del centro.
Era la prima volta che viaggiavamo in limousine e dissi a Massimo, con tono scherzoso: “E’ questo quello che si prova quando si ha successo?”.
Tra noi due Massimo era sicuramente il più felice perché cominciava a rendersi conto che la sua vita stava cambiando, rapidamente e decisamente, per il meglio.
Stava accarezzando il sogno della sua vita e voleva stringerlo forte tra le sue mani perché sapeva che il successo può essere effimero e volare via all’improvviso.
Teneva stretto a se Olga che lo guardava come se fosse in estasi, completamente innamorata del suo uomo.
Sentiva di appartenere a Massimo mentre io, da buon amico, facevo di tutto per reprimere i miei sentimenti e le mie emozioni; volevo permettere alla loro storia d’amore di vivere serenamente e senza ostacoli.
Cercai di allontanare da me tutta quell’amarezza e cominciai a guardare fuori dal finestrino; eravamo già nel centro di Mosca e rimasi con la bocca aperta
nell’ammirare tutta quella grandezza e i segni di onnipotenza che si potevano notare ovunque.
Era un continuo susseguirsi di grandi palazzi dallo stile più vario, a volte tipicamente europeo, altre volte di classica architettura russa, ma colpirono la mia attenzione soprattutto le enormi guglie del Cremlino.
Mosca, di sera, era bellissima e completamente illuminata, il traffico intenso ma scorrevole e anche la pubblicità che appariva su enormi cartelloni luminosi era piacevole da guardare, soprattutto quando apparivano donne bellissime e in abiti succinti.
Giunti al “Savoy” effettuammo la registrazione di rito, consegnando i nostri aporti e, subito dopo, un addetto del personale ci accompagnò fin nelle nostre camere.
Massimo, quella sera, si sentiva particolarmente generoso ed elargì una consistente mancia al ragazzo che ci aveva portato i bagagli; lo guadai divertito e, cercando di non essere da meno, tirai fuori venti euro dalla tasca.
Non era il caso di badare a spese e fare gli avari perché, di lì a poco, avremmo firmato un contratto che cambiava le nostre vite, probabilmente, per sempre.
Dopo esserci sistemati nelle rispettive stanze, una telefonata della hall ci avvertiva che eravamo attesi per le 20, nella sala del ristorante del hotel, dai rappresentanti della casa discografica “Melodia”.
Ci preparammo in modo impeccabile, come se avessimo dovuto partecipare alla prima della Scala e ci recammo al ristorante.
Trovammo ad attenderci Ivan Dushenko, manager della casa discografica e il suo avvocato, Michail Melenkov.
Dopo i saluti di rito ci accomodammo tutti al tavolo e cominciammo a parlare.
Ivan chiese a Massimo di rivelargli ogni particolare della sua vita artistica, delle sue precedenti esperienze musicali, dei locali in cui aveva suonato ma, soprattutto, volle sapere la genesi del nostro brano “Impossibile amare”.
Finalmente arrivò anche il cameriere che ci servì del buon vino rosso italiano, un Pinot nero, e chiese se poteva cominciare a servire la cena.
Non aspettavamo altro perché in tutta quell’eccitazione della giornata non avevamo mangiato in pratica nulla e ora i morsi della fame si facevano sentire.
Probabilmente Ivan notò, dai nostri sguardi, che eravamo letteralmente affamati e con un cenno del capo diede l’autorizzazione al cameriere di servire in tavola.
La scelta di portare Olga con noi fu un’intuizione felice perché, il suo lavoro d’interprete, ci rese la serata più gradevole e rilassante; grazie a lei potei anche rendermi conto di tutti gli aspetti particolari e delle varie clausole del contratto.
In pratica ci chiedevano un’esclusiva di due anni durante i quali avremmo dovuto produrre altre canzoni, comunque tante almeno da riempire un album completo.
La casa discografica si sarebbe occupata della promozione e commercializzazione del disco, nonché della produzione di uno o più video musicali, a seconda del numero di singoli scelti.
Infine arrivò la parte che tutti noi attendevamo con ansia: quanto avrebbe offerto per quell’esclusiva?
Ivan prese un tovagliolo e scrisse una cifra, poi lo piegò in due e lo ò a Massimo in modo che solo lui potesse leggere.
Non capivo il motivo di quella sceneggiata perché ero io il manager e il legale di Massimo, oltre a essere il co-autore di quel brano di successo.
Comunque stetti al gioco e feci finta di niente.
Massimo aprì il tovagliolo, gli diede un’occhiata e poi lo ò a Olga, senza degnarmi nemmeno di uno sguardo o un cenno d’intesa, così com’eravamo soliti fare.
Massimo riprese il tovagliolo dalle mani di Olga e lo riconsegnò a Ivan dicendogli: “La cifra va bene, ma voglio anche una percentuale del 5% su tutte le vendite”.
A quel punto decisi d’intervenire perché mi sentivo veramente tagliato fuori, come un invitato di pietra.
Mi rivolsi a Massimo e con tono duro e scortese gli dissi: “Mi spieghi cosa sta succedendo?”.
“Perché mi hai escluso dalla trattativa?”.
“Sono ancora il tuo manager e socio oppure hai deciso di tagliarmi fuori da tutto questo?”.
Mi guardò con aria infastidita e rispose: “Ora non ho tempo di darti spiegazioni, ne riparliamo dopo, quando saremo soli”.
Era evidente che qualcosa di grave fosse successo ma, per quanto cercassi di sforzarmi, non vedevo un motivo particolare che potesse giustificare quel suo comportamento assurdo.
Cominciai a pensare che il successo improvviso gli avesse giocato un brutto scherzo, gli avesse dato alla testa.
Mi dicevo: “Ma questo crede veramente di poter fare a meno di me?”.
“Pensa di essere lui la star, mentre io solo un comprimario, facilmente sostituibile?”.
Rimasi in silenzio per tutto il tempo e non riuscii a mangiare quasi nulla ma cominciai a bere molto vino, fino a quando cominciò a girarmi forte la testa.
In quel momento mi ritornò in mente la prima sbronza che avevo preso proprio con Massimo, nella sua villa, la sera del suo concerto.
Ero incazzato nero e a stento trattenni la mia ira; non volli fare una scenata davanti a tutti per evitare di fare la figura del pessimo italiano che, quando si trova all’estero, si comporta malissimo.
Attesi con impazienza la fine di quella cena e quando Ivan e il suo legale si furono congedati, cercai di prendere Massimo per un braccio e lo tirai verso di me, poi mi avvicinai al suo orecchio e gli dissi: “Ora, stronzo, mi dici quello che sta succedendo o ti spacco la tua bella faccia, proprio qui, davanti a Olga”.
Massimo tirò via il braccio, come infastidito da quella mia insistenza, e mi disse: “Andiamo nella mia suite, qui non voglio discutere”.
Ci alzammo dal tavolo e ci dirigemmo verso gli ascensori; nessuno di noi provò a dire un’altra parola, nemmeno Olga, ma dai nostri sguardi era possibile percepire la tensione.
Arrivammo nella suite e fui colpito dallo sfarzo e dall’eleganza di quella camera,
poi cercai di raggiungere il balcone per prendere una boccata d’aria fresca e cercare di calmare i miei bollori.
Dalla terrazza potei assistere a uno spettacolo mozzafiato: vedevo le luci della città sotto di me, le ampie strade a sei corsie e il traffico chiassoso della notte.
Pensai che tutto quel lusso avesse dato alla testa a Massimo facendogli perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
Pensai: “Certo, lui è la star principale di questo show, ma è pur vero che senza di me, senza il mio aiuto, non sarebbe mai arrivato fin qui”.
Poi tornai in camera e vidi Massimo disteso sul divano, vicino all’entrata, che teneva in mano un bicchiere con dentro, probabilmente, del whisky.
Cominciò a sorseggiare lentamente senza nemmeno avere l’accortezza e l’educazione di offrirmene un assaggio.
ai subito all’attacco e gli dissi: “Allora, qual è la tua spiegazione a tutto questo?”.
Alzò lo sguardo dal bicchiere e, guardandomi con tono di sfida, mi disse: “Robbè, in questi mesi ho pensato molto al nostro sodalizio artistico e alla nostra società e, alla fine, sono arrivato alla conclusione che posso fare anche a meno di te”.
Fece una breve pausa e poi aggiunse: “Ti ringrazio per quello che hai fatto, ma è arrivato il momento che le nostre strade si dividano”.
Ero esterrefatto per quelle sue parole e, subito, ribattei: “Questo è tutto quello che hai da dirmi?”.
“Questa è la tua spiegazione?”.
“Ma capisci che ti stai comportando da vero pezzo di merda?”.
Alla fine aggiunsi: “Sappi che quando uscirò da questa stanza e chiuderò dietro di me quella porta, tu per me sarai come morto e non vorrò più sentirti ne vederti”.
Massimo sorrise e, con tono sprezzante, rispose: “Sei libero di fare e dire quello che ti pare ma, per me, la nostra società finisce qui, questa sera, in questa stanza”.
Ora ero veramente sconvolto e provai a voltarmi verso Olga, che in quel momento era in piedi vicino alla finestra, per cercare un suo sguardo di conforto, di complicità, elemosinando una sua parola di critica verso il comportamento di Massimo.
Ma si sa, in questi casi l’amore prevale su tutto e lei, invece di incrociare il mio sguardo, abbassò il suo verso il pavimento e poi si girò verso la finestra, facendo finta di guardare fuori.
Pensai: “Molto bene, sono rimasto solo e senza amici, e adesso cosa faccio?”.
Mi avviai verso l’uscita e quando giunsi sulla porta, mi rivolsi nuovamente verso Massimo e, minacciandolo con il dito indice, gli dissi: “In ogni caso, mi devi il 50% dei diritti d’autore della nostra canzone, perché sono comunque l’autore dei testi”.
Fui sorpreso nel vedere Massimo tranquillo, che continuava a sorseggiare il suo liquore, come se le mie parole non avessero avuto alcun peso ma che, come piume nel vento, fossero volate via, lontane da lui.
Alzò lo sguardo verso di me e questa volta il suo tono si fece arrogante e volgare, dicendomi: “Io non ti devo proprio un cazzo perché la canzone è solo mia e poi è registrata a mio nome, testi e musica di Massimo Bastiani, informati pure, se vuoi”.
Al tradimento si aggiungeva la beffa, questo per me fu abbastanza e cercai di tornare indietro velocemente, nel tentativo di prendere Massimo per il collo e scaraventarlo giù dalla finestra.
Giunto a metà della stanza vidi Olga che mi veniva incontro perché aveva intuito le mie intenzioni.
Con quella mossa, si frappose tra me e Massimo, poi mi prese la mano e, guardandomi negli occhi, disse: “Roberto non fare pazzie, tu sei un uomo buono, ma ora è meglio che vai via”.
Accettai il suo suggerimento, in fondo non valeva la pena sporcarsi le mani per un simile individuo, ipocrita e traditore.
Arrivai in camera con il sangue alla testa e cercai refrigerio sotto la doccia.
Non potevo ancora credere a quello che era accaduto e alle parole di Massimo; tutto mi sembrava senza senso e speravo, ancora, che si trattasse di uno dei suoi soliti scherzi, magari fuori luogo, ma sempre meglio di quell’amara realtà.
Mi buttai sul letto cercando di dormire, perché sapevo che il giorno dopo mi attendeva un duro risveglio.
Dormii profondamente quella notte, forse perché stanco del viaggio o per il troppo alcool o perché avevo perso tutte le mie energie mentali in quella discussione notturna con Massimo.
A quel punto dovevo prendere una decisione e mi trovavo in una posizione veramente scomoda.
Potevo restare a Mosca e provare a far nascere un putiferio, cercando di mettere i bastoni tra le ruote all’ancor vergine carriera artistica di Massimo, oppure, potevo tornarmene a Minsk, con la coda tra le gambe, e riprendere la mia solita monotona vita.
Decisi di tornare a Minsk e in quella decisione fu determinante l’amore che
provavo per Olga.
Avevo riflettuto bene e desideravo che anche lei godesse, con il suo amato, i frutti di quel successo, almeno finché fosse durato.
Sapevo che, alla fine, sarebbe arrivato anche per lei il benservito ma, nel frattempo, lasciai tutto e tutti e partii per l’aeroporto di Mosca.
Il mio rientro a Minsk non fu per niente facile perché, adesso, vedevo questa città non più come un porto sicuro dove nascondermi, ma un posto opprimente dove sarebbe stato difficile trascorrere il resto della mia esistenza.
Tornai in quella casa che adesso sembrava fredda e vuota, senza energia per fare qualunque cosa.
Mi buttai sul letto e cominciai a piangere, fu un pianto a dirotto e senza fine, fin quando caddi addormentato per la stanchezza.
Rimasi per giorni come un ebete, con la barba lunga, ciondolando per casa senza avere nulla da fare e neanche le belle giornate di sole attirarono la mia attenzione e m’invogliarono a uscire.
arono velocemente quelle due settimane, fino a quanto sentii un rumore di chiavi alla porta d’ingresso.
Feci un balzo dal letto e, in un attimo, ero già all’entrata, poi vidi Olga con la valigia in mano che, guardandomi con la sua solita dolcezza, mi disse: “Ciao Roberto, come stai, sei sorpreso di vedermi a casa così presto?”.
Risposi in fretta: “Ciao Olga, bentornata a casa, ma perché sei qui e non a Mosca?”.
Poi le presi la valigia dalla sua mano e la portai nella sua camera, in modo che capisse che non ero arrabbiato con lei, ma solo con il suo amato Massimo.
Poi provai a chiedere il motivo di quel suo arrivo improvviso ma lei, con un cenno della mano, mi fece capire che non aveva nessuna voglia di parlare, almeno non in quel momento.
Quella sera tornò a casa anche il piccolo Amir, super felice di poter riabbracciare la mamma dopo così tanto tempo e, con il suo solito insaziabile appetito, si rivolse a Olga chiedendole: “Cosa mi prepari di buono per cena?”.
Era una scena divertente da vedere e, con il ritorno anche di Amir, sembrava ricostituirsi la nostra vecchia armonia familiare.
Il mio animo tornò sereno e, per un po’, dimenticai tutto quello che era successo con Massimo.
La vita di Olga riprese normalmente, con la stessa regolarità e monotonia di un tempo, ma nei suoi occhi potevo leggere una grande tristezza e una sofferenza
infinita, come se il destino continuasse ad accanirsi contro di lei.
Un sabato sera le chiesi di uscire dicendo che, entrambi, avevamo bisogno di un po’ di distrazione e che dovevamo ancora chiarire alcuni malintesi che si erano creati negli ultimi mesi.
Inizialmente sembrò titubante, ma vide dalla mia insistenza che quella volta non mi sarei arreso facilmente e, alla fine, acconsentì ad andare in centro, a eggiare.
Prendemmo la sua auto per essere più liberi negli spostamenti e durante il tragitto non dicemmo una parola, come immersi nei nostri pensieri.
Arrivammo sul Viale Nemiga e fummo fortunati a trovare subito parcheggio; quindi cominciammo a camminare lentamente, cercando di stemperare la tensione parlando di argomenti frivoli, come il tempo e la moda.
Dopo circa una mezz’ora ci fermammo su di una panchina e, finalmente, potemmo guardarci negli occhi.
Ero sereno ed evitai che quella nostra chiacchierata potesse trasformarsi in un interrogatorio, ma erano troppe le mie domande che attendevano ancora una risposta e le chiesi se potevo farle alcune domande.
Mi rispose: “Roberto puoi chiedermi tutto quello che ti interessa sapere, prometto che sarò sincera”.
Non persi tempo con altri giri di parole e, senza esitazione, le chiesi: “Olga, ma tu eri a conoscenza dei progetti di Massimo?”.
“In questi ultimi mesi ti aveva confidato che voleva sciogliere la nostra società?”.
Fece una pausa come per trovare le giuste parole e poi rispose: “Non ho mai saputo niente dei progetti di Massimo perché, solitamente, non parlavamo mai di lavoro”.
“Posso solo dirti che, prima della partenza per Mosca, avevo notato un cambiamento nel suo carattere e nel suo modo di fare, ma pensavo che quella tensione dipendesse dalla particolarità del momento”.
Non fece in tempo a finire la frase, che la incalzai: “Pensi che quella di farmi fuori dal nostro progetto sia stata una decisione maturata nei giorni prima di partire per Mosca?”.
“Si”, rispose Olga: “Ma non conosco il motivo per cui ha preso quella decisione e, francamente, Massimo si è sempre rifiutato di parlarmene, neppure quella sera, quando hai lasciato la suite dell’Hotel Savoy a Mosca”.
Sembrava sincera e provai a rendere la nostra conversazione più leggera chiedendole: ”Allora come sono stati questi giorni di vacanza a Mosca?”.
“Sei riuscita a visitare qualche bel posto, chiese, musei, negozi in centro?”.
Mi prese la mia mano nella sua e con dolcezza mi rispose: “Roberto, non ti preoccupare, so quello che vuoi sapere e non ho nessuna vergogna a raccontarti tutto”.
“Dopo che sei partito per Minsk ci siamo trasferiti dall’hotel Savoy e siamo andati a vivere in un bel appartamento in centro, con due camere da letto, una sala da pranzo e un ampio bagno, con una terrazza enorme, dove potevamo ammirare lo splendido panorama di Mosca”.
“Purtroppo, in quelle settimane, Massimo era sempre in giro, impegnato con la casa discografica a dare interviste alle radio o sul set per girare il video della sua canzone”.
“Io non potevo seguirlo nei suoi spostamenti perché la casa discografica, al mio posto, aveva assunto un’interprete professionale, per cui, tutto il giorno, ero costretta a stare a casa, senza poter vedere e parlare con nessuno”.
“Per diverse sere consecutive Massimo non rientrò a casa e, nonostante la mia preoccupazione e gli innumerevoli tentativi di contattarlo sul suo cellulare, lui non mi aveva mai risposto ne richiamato”.
“Per fortuna una gentile segretaria di redazione della casa discografica m’informò che Massimo stava bene, ma che sarebbe tornato a casa solo nei prossimi giorni, benché anche lei non sapesse dirmi esattamente quanto”.
“Massimo, quando finalmente rientrò a casa, era completamente ubriaco e allora capii che quella vita non faceva per me; quindi gli scrissi una lettera di addio, presi un taxi per l’aeroporto e m’imbarcai sul primo volo per Minsk”.
“Questo è tutto quello che ho da dirti e, da allora, non ho più avuto notizie di Massimo, nemmeno una sua telefonata”.
Compresi che, alla fine, eravamo stati traditi entrambi, benché in modi e per motivi differenti e che, adesso, eravamo li, seduti su quella panchina a raccontarci la storia di un amore e di una amicizia che, ormai, appartenevano al ato.
La guardai con tenerezza e le dissi “Se per te va bene, Olga, mi piacerebbe restare a casa tua e continuare a pagarti l’affitto della stanza”.
“Sai che puoi contare su di me e la mia amicizia e, se un giorno vorrai, sappi che le porte del mio cuore saranno sempre aperte per te”.
Mi sorrise e rispose: “Certo che puoi rimanere, ci mancherebbe, anch’io sono felice per la nostra amicizia ma adesso parlare d’amore, dopo tutto quello che è successo, mi sembra prematuro e fuori luogo”.
Feci un cenno d’intesa con la testa, poi ci alzammo e ci dirigemmo verso la macchina per tornare a casa e rinchiuderci nelle nostre stanze, con i nostri pensieri e i nostri dolori.
Quella fu l’ultima volta che eggiammo insieme, anche se non mancarono le occasioni di svago e divertimento, come la festa di compleanno di Amir.
Ormai il tempo ava rapidamente e le giornate si susseguirono una dopo l’altra, senza novità di rilievo, se non quella del tempo che cominciava a peggiorare in vista dell’arrivo delle prime nevi.
Le giornate si accorciarono rapidamente e presto fu il buio a dominare l’atmosfera.
In quei mesi Olga fu sempre carina e gentile con me e, per dimostrarmi il suo affetto, riuscì a farmi assumere presso una scuola privata di Minsk, dove potei insegnare la lingua italiana per tre pomeriggi alla settimana.
Fu una sera di dicembre, di ritorno a casa da una di quelle lezioni, che trovai Olga in lacrime, disperata, mentre abbracciava il piccolo Amir.
Capii subito che qualcosa di grave fosse accaduto alla sua famiglia e il mio primo pensiero fu per le figlie lontane.
Allora, mi affrettai a chiederle cosa fosse successo.
Olga, senza dire una parola e con il viso ancora rigato dalle lacrime, mi mise nelle mani un tablet aperto sul sito di Russia Today; immediatamente balzò ai miei occhi la foto di Massimo in un piccolo riquadro e, di fianco, in bella mostra, quella di una Mercedes nera, praticamente distrutta.
Già dal titolo si poteva capire la tragicità di quella terribile notizia: “Ascesa e morte di un cantante italiano”.
Quell’articolo, in sintesi, spiegava tutte le fasi dell’incidente: “Massimo Bastiani, emergente cantante melodico italiano, ieri sera, alla guida della sua Mercedes, a causa dell’elevata velocità, si è scontrato frontalmente contro il muro di un palazzo, sulla centralissima Tverskaya Street.
Dai primi accertamenti sembra che il cantante italiano fosse sotto gli effetti dell’alcool e di sostanze stupefacenti”.
Era una notizia incredibile, inaspettata e, sicuramente non desiderata.
Non ebbi nemmeno il tempo di commentarla con Olga, perché le consegnai il tablet e, senza parlare, mi diressi nella mia stanza da letto.
Piansi per la sua morte del mio amico, perché sapevo che, questa volta, non lo avrei più rivisto, nemmeno per un ultimo saluto.
Capii che non avrei mai più avuto la possibilità di un confronto sincero con lui, e non conobbi mai i reali motivi che lo spinsero a prendere la decisione di allontanarmi dalla sua vita.
Inoltre, la sua morte mi rattristava perché Massimo aveva solo sfiorato il successo sognato, senza sapere se la sua carriera di artista sarebbe decollata per
approdare anche in Italia.
Avevamo avuto un unico e solo grande successo e, per vari motivi, nessuno dei due era riuscito a goderselo fino in fondo.
La morte del mio amico, nonostante tutti i nostri dissapori, mi aveva veramente sconvolto e con l’approssimarsi delle feste di Natale mi sentivo sempre più solo, triste e disperato.
Capii che il mio tempo a Minsk era finito e che fosse giunta l’ora di tornare a casa, in Italia, nella mia bella Salerno.
Presi il telefono e chiamai mia sorella Elena a Salerno.
Appena sentii la sua voce le dissi: “Elena sono Roberto, tuo fratello, cosa ne pensi se questo Natale lo trascorriamo insieme, guardando il mare?”.
Sentii il suo pianto commosso e, dopo un attimo di silenzio, mi rispose: “Parti subito, ti aspetto, anzi tutti noi, da sempre, desideriamo il tuo ritorno a casa, anche mamma e papà, che sono qui con me, questa sera”.
Fui felice di sentire la sua voce e quelle sue parole di affetto mi diedero la forza di pensare che, in fondo, tornare a casa non era una strada senza uscita ma, forse, una speranza per una vita migliore.
Spensi il cellulare e andai in sala da pranzo per comunicare a Olga la mia decisione.
La trovai mentre guardava un film in tv e, cercando di disturbarla il meno possibile, le dissi sottovoce: “Olga posso parlarti un minuto, ho una notizia importante da comunicarti”.
Immediatamente spense la tv, accese la luce e mi pregò di sedermi sul divano, accanto a lei, quindi comincia a parlare: “Olga, ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me in questi anni, per la tua sincera amicizia e gentilezza, ma ho deciso di tornare in Italia, sento che, in questo momento, è la migliore decisione per me e la mia”.
Mi sorrise e risposte: “Ogni tanto mi chiamerai, vero?”.
Feci cenno di si con la testa, mi alzai dal divano e tornai nella mia stanza.
Le avevo detto addio per sempre e quella sera sarebbe stata l’ultima volta che saremmo stati così vicini.
La mattina successiva, mentre Olga era già andata a lavoro, mi affrettai a fare i bagagli e chiamai un taxi per fari accompagnare all’aeroporto.
La sera prima avevo comprato, on line, il biglietto aereo e adesso dovevo affrettarmi perché avevo solo poche ore per l’imbarco.
Il viaggio di ritorno fu tranquillo, senza imprevisti dell’ultimo minuto.
Finalmente tornai nella mia amata Salerno e, come prima cosa, volli fare una eggiata sul lungomare, come ai vecchi tempi.
Quando giunsi presso la mia panchina preferita, prima di sedermi, cercai di osservarla attentamente: era ancora così, come l’avevo lasciata tanti anni prima, solo un po’ più vecchia, segnata dalla ruggine e dalla salsedine.
Poi mi sedetti lentamente e guardando il mare, in direzione del golfo, dissi a bassa voce: “Ecco, ora sono pronto, non ho più paura di morire”. Capitolo (titolo del capitolo opzionale, cancellare solo il testo del titolo se non necessario, non eliminare il segno di paragrafo (¶) per mantenere lo spazio bianco prima dell’inizio del testo)
[1] Questo romanzo è dedicato ad Alessia Marinetto per essermi stata sempre vicina in tutti questi anni difficili…
Table of contents
Capitolo 1 – Il risveglio Capitolo 2 – Gli anni del liceo Capitolo 3 – Il concerto in villa Capitolo 4 – L’incontro a Minsk Capitolo 5 – La strada per il successo
Note Ringraziamenti
Ringraziamenti
Ringrazio Marija Halikova Vladimirnova per la sua collaborazione nella traduzione, dal russo all’italiano, dei luoghi e nomi dei personaggi, e per il suo prezioso aiuto nella descrizione degli ambienti più caratteristici di Minsk e Mosca.
Data 19 febbraio 2015
ROBERTO BORZELLINO