La Strada
I capitoli dal 2.5 al 3.3 sono stato aggiunti successivamente alla storia originaria perché sono una prima parte de “La Nuova Strada” che verrà editato nei prossimi anni e comprenderà i suddetti capitoli che si aggiungono ad una diversa struttura della storia. Chi fosse disturbato da questa intrusione, potrà semplicemente saltarli e leggerli in un secondo momento in quanto non sono funzionali al corretto svolgimento della trama.
Prologo.
Era un pomeriggio piovoso d'Inverno, mia moglie non era in casa, una di quelle riunioni commerciali; io ero in malattia per quel maledetto dolore alla schiena ed avevo un po' di tempo per frugare in soffitta. Dalla finestrella del solaio entrava ad un tempo la luce rossa del sole al tramonto ed il ticchettio continuo e prolisso della pioggia. Davanti a me avevo il baule dei vecchi ricordi aperto ed invitante. Fu lì che trovai il vecchio diario di viaggio da cui trassi lo spunto per scrivere questo romanzo. Mi misi a sfogliare le pagine umide cercando di riportare alla mente le emozioni e gli episodi vissuti in quel tempo, quando ero ancora un ragazzo e cercavo la mia Strada.
La fuga. L'inizio del viaggio.
Quella mattina mia madre mi aveva preparato i biscotti con la marmellata. Era una splendida giornata ed il babbo s'era svegliato di ottimo umore. La primavera stava arrivando ed era il gran cinguettare per il bosco a ricordarcelo. Mi sembrava un buon giorno per partire. Tutto era pronto nel mio zainetto: sacco a pelo, vestiti di ricambio, pentolame, utensili ed attrezzi d'ogni genere. L'esperienza del campeggio con gli amici del Villaggio mi era servita moltissimo, ora conoscevo quei piccoli trucchi che in qualche occasione possono anche salvarti la vita. La mamma aveva già sparecchiato la colazione del babbo che era uscito a raccogliere qualche tronco e degli arbusti per il fuoco: la sera faceva ancora fresco ed il caminetto era un piacevole ritrovo. Ho sempre voluto bene ai miei genitori. Con le loro premure e la giusta dose di severità hanno fatto di me una persona deliziosa ed equilibrata, forse però un tantino immodesta. In realtà la colpa non era loro; vivendo in un piccolo villaggio come il nostro un ragazzo di buona famiglia spicca subito tra i suoi coetanei portandosi dietro il disprezzo dei compagni di scuola e le care parole di tutte le mamme benevolmente gelose della grazia di un figlio non loro. La mia decisione di partire era ignota a tutti. Nemmeno Kelemata, la mia più cara compagna di giochi lo sapeva, era un po' il mio segreto col mondo: una partenza improvvisa ed inspiegabile. Mi angosciava invece il dolore che avrei procurato alla mia famiglia. Non volli pensarci troppo, e decisi di partire senza lasciare tracce né bigliettini o messaggi su cui certo tutti si sarebbero arrovellati per capire di più e
diversamente da quello che vi avrebbero effettivamente letto. Portai con me soltanto un piccolo diario ed una penna, niente libri. Decisi così perché il mio era un viaggio esplorativo, il viaggio della maggiore età. Mi ricordai più tardi il perché dei biscotti: quel giorno era il mio diciottesimo compleanno. L'austerità familiare non mi aveva educato al piacere ed alla sfrenatezza, ed il compleanno per me non giungeva mai accompagnato da feste e da doni: solo i biscotti alla mattina ed un pranzo più ricco. A noi ragazzi viene sempre prima o poi la voglia di fuggire di casa, di abbandonare parenti e amici per scoprire la vita da soli, senza l'intervento "educativo" delle istituzioni, sia familiari che scolastiche. Oppure siamo costretti a fuggire perché in disaccordo con i nostri genitori. Per me non era nulla di tutto questo: il mio era un viaggio, non una fuga né la ricerca di avventura; solo un viaggio per conoscere e diventare finalmente maturo, non solo per la legge. Mi fu facile inventare una scusa per uscire di casa con lo zaino in spalla, era mia abitudine infatti portare a certi amici gli attrezzi da campeggio quando, per un motivo o per un altro, ne avevano bisogno. Mia madre mi ha sempre apprezzato per questa generosità e per la volontà di dividere con gli altri la mia ricchezza. Dice che è un importante principio cattolico, cose di religione credo. Mi è dispiaciuto doverli ingannare, ma non avevo scelta: non mi avrebbero mai lasciato partire se avessi spiegato loro i miei motivi. La mia era una follia, ma l'ho sempre saputo: molto spesso, ciò che al buon senso appare follia in effetti è solo la realtà. La Strada che ho percorso è quella del Nord. Ho scelto quella direzione per una istintiva attrazione verso le scelte estreme, esse hanno il fascino dell'imprevedibile, racchiudono in sé l'emozione forte che deriva dalla decisione violenta e nichilista. Negare tutto e poi sceglierlo, affrontare per distruggere, conoscere decidere uccidersi. Eppure, in tutto questo quadro così apparentemente violento e drammatico della mia adolescenza, scopro solo ora di
aver sempre amato la mediazione, la scelta saggia: il distacco dalle cose. Una sorta di dimensione separata in cui tutto mi toccava senza contagiarmi, dove tutto mi riguardava senza interessarmi. Una dimensione totalizzante, estrema come si è estremi da ragazzi. Il Nord rappresentava per me il futuro, il dopo, l'avanti: il senso della vita, insomma. Ciò verso cui è giusto andare, insindacabilmente. Perché, anche questo l'ho scoperto dopo, avevo un terribile bisogno di scelte sicure, capaci di darmi la forza di reagire anche di fronte alle situazioni più difficili. Credo dopotutto di essere stato un ragazzo normalissimo; i miei genitori desideravano che fossi il migliore, non so bene in che cosa poi. Ma ora vi racconterò cosa mi è accaduto durante il viaggio.
Imboccata la Strada del Nord mi fermai ad osservare il panorama. Il sole era già caldo all'orizzonte, ancora coperto dalle vette più alte che lentamente perdevano il colorito azzurro del primo mattino fino ad assumere il nero opaco del controluce. Non mi piaceva che il sole nascondesse le montagne, ma proseguii tranquillo, sapendo che presto tutto sarebbe finito ed il sole avrebbe raggiunto il culmine del cielo nascondendo in ogni cosa la propria ombra. Il fondo stradale era sassoso e lo sarebbe rimasto fino a Valle dove si trovava Città Uno, la prima tappa del mio viaggio. Da lì poi sarebbe cominciato l'asfalto e, con esso, la civiltà. Mi piaceva ogni tanto fantasticare sulle simbologie tipiche: asfalto-civiltà, automobili-progresso, semafori-sovrappopolazione, grattacieli-solitudine ed infine denaro-felicità. Mia madre mi parlava spesso di queste cose, altre notizie poi le traevo dai romanzi della città, dai libri di scuola, dai racconti dei viandanti che, ogni stagione, valicavano il o fermandosi in qualche taverna del nostro modesto villaggio. Gli scarponcini si aggrappavano al pietrisco che franava a valle, le mani
trattenevano le bretelle dello zaino in modo da ridurne le oscillazioni dovute al movimento del corpo. Gli occhiali scuri nascondevano il mio volto alla vegetazione che scorreva alla mia destra lentamente diradandosi ed impoverendosi. Mi angosciava vedere come la foresta morisse nella terra. Su da noi non accadeva così: era la roccia che si vedeva rubato il territorio dalla vegetazione; qui pareva il contrario, come se l'aridità dell'uomo fertilizzasse il terreno, rendendolo invivibile alla flora ancora selvaggia. Con buone gambe percorsi gran parte della strada senza avvertire la fatica. Ben presto però fu lo stomaco a farsi sentire: decisi di fare una pausa per il pasto. Ero riuscito a rubare un panino dalla cucina, lo tagliai a metà e vi misi una tavoletta di cioccolata che conservavo da tempo per questa occasione. Mentre mangiavo, seduto su di una pietra levigata, vicino al margine della strada, vidi un uomo salire dalla Valle.
La Coscienza
1.1. - Il montanaro solitario.
Quando mi fu più vicino potei osservarlo meglio: era un montanaro (a giudicare dallo zaino e dall'abbigliamento) certamente molto allenato perché saliva ad un o lungo e costante, tipico di chi conosce la montagna e i suoi ritmi. Indossava una camicia di panno grezzo grigio antracite, un paio di calzoni alla zuava, scarponi leggeri, calzerotti di lana ed aveva un fazzoletto rosso che gli circondava la testa per assorbire il sudore della fronte. Nel complesso lo trovai ben vestito: avevo sempre avuto una certa attrazione per quel tipo di abbigliamento, lo trovavo comodo per le eggiate e pratico per le arrampicate. Nel viso gli si leggeva evidente la fatica, anche se mi parve di scorgervi qualcos'altro. Quando mi ò accanto lo guardai con ammirazione: chissà da quale rifugio proveniva e verso quali vette stava andando. - Ragazzo - disse voltandosi subito dopo avermi superato - non avresti qualcosa da mangiare anche per me? Lo guardai stupito e un po' deluso, me lo ero immaginato molto più orgoglioso ed eroico, mai avrei sospettato che potesse provare la fame. La cosa mi imbarazzò molto in quanto non avevo cibo a sufficienza nemmeno per me, e dividerlo sarebbe stato molto doloroso. - Certo signore, - gli risposi porgendogli il mio panino - posso chiedervi dove andate? Il montanaro afferrò il panino con avidità e lo addentò con violenza, in pochi istanti lo mangiò tutto. Mi dava sui nervi vedere un montanaro così distinto abbassarsi a livelli così infimi: dopotutto esiste anche una dignità, e la fame non è motivo sufficiente per venirvi meno. Tra l'altro adesso ero praticamente digiuno e non avrei resistito fino a Valle in quelle condizioni. - Scusami ragazzo - riprese a parlare - se ho divorato il tuo panino, ho capito che avevi solo quello, ma non avercela con me per questo. Ho molta strada da fare e
non ho denaro, probabilmente il gelo della notte mi avrebbe stroncato prima di raggiungere il rifugio di Monte Alto. Capisco che la cosa non ti riguarda, ma credo di sapere come ricompensarti. - E come ? - gli chiesi con grande curiosità. - Ti darò un buon consiglio che ti servirà di sicuro quando sarai a Valle. Strano, un attimo prima lo disprezzavo per avermi deluso, adesso lo odiavo per la sua presunzione. Ma chi si credeva di essere: il solito adulto operoso incaricato di dar buoni consigli? Non sapevo che farmene delle sue prediche, comunque l'ascoltai. - Quando la sete di successo porterà un uomo a venire a patti con la propria coscienza, allora quell'uomo sarà il mio amico: digli che hai incontrato il Montanaro Solitario, lui ti darà qualcosa. Proprio non riuscivo a capire cosa volesse dire, ciò nonostante non chiesi spiegazioni e, quando riprese il cammino, lo salutai debolmente. Avevo fatto la prima esperienza del mio viaggio. Era stato uno strano incontro e qualcosa mi diceva che sarebbe stato il primo di una lunga serie, tutti ugualmente misteriosi e affascinanti, anche se non del tutto positivi. Decisi così di prolungare la pausa e di prendere qualche appunto sul mio diario.
Quando ripresi il viaggio lo stomaco taceva, ma ero certo che non sarebbe stato zitto a lungo; non aveva importanza, avrei trovato qualcosa da mangiare. Mentre camminavo vidi un leprotto rifugiarsi tra la vegetazione ormai scarsa. Mi accadde qualcosa di strano, dovetti inseguirlo. L'animale era assai più agile, ma io molto più furbo, i nascondigli erano pochi e la lotta sembrava ad armi pari. Dapprima tentò di arrampicarsi su di un cucuzzolo, poi, accortosi che scivolava all'indietro, cominciò a sgattaiolare tra gli arbusti. La piccola radura in cui ci trovavamo non gli permetteva però di fuggire lontano ed era costretto a are
di albero in albero rischiando sempre di finire nelle mie mani che, come la rete di un pescatore, gli apparivano davanti improvvisamente, lasciandolo stupito e terrorizzato. Io correvo avanti e indietro davanti alla macchia in cui s'era nascosto, cercando di stringerlo in una morsa naturale da cui non potesse uscire. D'improvviso, vistosi spacciato, spiccò un balzo fuori dai cespugli tentando la sortita. Questo gli fu fatale: le mie mani lo catturarono senza dargli nemmeno la possibilità di divincolarsi. Era un piccolo leprotto bianco, morbido come il cotone prima della filatura. Non capivo perché lo avevo preso, non certo per fargli del male, né per mangiarlo; forse solo per poterlo guardare. Ed infatti fu ciò che feci per tutto il tempo che lo tenni tra le mani. Gli animali avevano sempre destato in me attrazione e repulsione a un tempo. Ero attratto dalla sensazione che in loro vivessero molte risposte agli interrogativi dell'uomo, mi affascinava la complessità dei loro organismi, l'intrigo dei comportamenti e il calore della loro compagnia. Eppure, in un quadro così roseo, troppo spesso sentivo verso di loro (ed in particolare verso quelli più domestici) un disprezzo apparentemente ingiustificabile: mi disgustava il loro odore; il vederli fare le cose simili alle nostre, ma in modo così selvaggio; mi infastidiva la totale stupidità e l'incapacità con cui si rapportavano a noi; ma, più di tutto io credo, non volevo pensare di potermi affezionare ad un organismo che sarebbe certamente morto, provocando in me solo angosce e preoccupazioni. Rifiutavo il condizionamento che mi sarebbe derivato dall'affetto per qualcosa non strettamente indispensabile alla mia crescita umana e culturale. Fu per questo che lasciai andare il tenero coniglietto bianco che ansava tra le mie mani, impaurito. Tornato sulla strada ripresi il cammino verso Valle. Avevo perso tempo e avrei dovuto correre per rispettare la tabella di marcia che mi ero imposto.
1.2. - Il coniglietto bianco.
I sassi ripresero a sgretolarsi sotto le suole degli scarponcini, questa volta con più fragore perché il mio o era molto svelto e ad ogni pietra trasferivo l'ansia di arrivare a Città Uno prima di notte. Dopo circa quaranta minuti di discesa mi fermai un attimo a riprendere fiato, voltandomi a guardare indietro: mi accorsi che a pochi i da me era seduto un coniglietto bianco. Istintivamente pensai ad una coincidenza, poi mi parve di riconoscere il quell'animale il mio coniglio, o almeno quello che avevo catturato poco prima. - Che fai tu qui? - gli chiesi sorridendo. - Voglio venire con te. - mi rispose. Sinceramente scrivere questa cosa mi imbarazza non poco, non vorrei che qualcuno mi credesse pazzo; tuttavia quell'animale mi rispose davvero, e non si trattò di allucinazioni. - E perché? - chiesi facendo finta che fosse del tutto normale parlare con un coniglio. - Perché voglio accompagnarti nel tuo viaggio: io sarò sempre con te, sarò la tua coscienza ed il tuo consigliere. Incredibile, uno sconosciuto mi fermava per strada spacciandosi per la mia coscienza e volendomi accompagnare, senza rendersi conto di essere un coniglio, neanche grande: un coniglietto. - E va bene - risposi - se ti fa piacere, ma ad una sola condizione. - Quale? - Che non parlerai o farai cose strane in presenza di estranei.
Era pazzesco, stavo dettando le condizioni ad un animale. - Va bene accetto! - mi rispose con grande soddisfazione. Avevo trovato un compagno di viaggio, chissà se mi sarebbe andato bene. Ho una mia teoria a riguardo, credo infatti che solo in un viaggio si possano conoscere veramente le persone (non so nulla circa i conigli). Durante un viaggio infatti si fanno nuove esperienze, si entra in contatto con gente e mondi diversi dal nostro, si devono dividere le gioie e le restrizioni, bisogna rinunciare e sacrificarsi per l'altra persona, bisogna scegliere insieme, agire insieme, mangiare dormire: vivere insomma in contatto più stretto ed in situazioni del tutto nuove. Solo in questo caso quindi si può stabilire se due persone vanno d'accordo e si rispettano. Mi veniva da chiedermi se si può rispettare ed essere rispettati da un coniglio. Un po' perché il viaggio era appena iniziato, un po' perché ero ancora sconvolto, un po' perché non avevo ancora preso confidenza: non parlai affatto con Coniglio (lo chiamai così per comodità), limitandomi ad accertare se mi seguisse sempre. Fu con molta sorpresa che mi accorsi di aver trovato un "compagno" rispettoso del silenzio altrui e di buone gambe. Per adesso mi bastava.
La strada era ormai quasi orizzontale, la vegetazione era scomparsa del tutto e gli edifici di Città Uno cominciavano a spuntare all'orizzonte dove adesso il sole stava tramontando. Le cime delle montagne erano ancora innevate ed il pulviscolo dell'aria, colpito dai raggi obliqui del sole, si infervorava di rosso depositandosi sulla neve ormai vicina a trasformarsi in gelidi ruscelli senza sale. Coniglio era sempre con me anzi, forse per timore della notte che si avvicinava, mi si era affiancato molto, tanto che più di una volta ho avuto paura di calpestarlo. Città Uno era ormai giunta e con essa era andato via il sole. Le case della periferia erano tutte uguali: un tetto, una finestra grande tutta la facciata, un portoncino a due ante ed un giardinetto. Semplici ma
irrimediabilmente uguali. Ognuno aveva tentato di personalizzare la propria casa con le piante, gli attrezzi da giardino, verniciando con colori strani e guarnendo con lampade d'ogni forma e dimensione. La strada adesso era asfaltata: la civiltà era giunta e con essa sarebbero cominciati i problemi. Problemi per mangiare, per dormire, per trovare ospitalità, per fare amicizia, per conoscere senza rischiare. Ma, dopotutto, questo viaggio era stato concepito per questo, ed affrontare la civiltà sarebbe stata la mia strada. Primario obiettivo adesso era trovare una locanda dove are la notte, per pagarla poi avrei prestato qualche servizio. - Ehi! - mi disse Coniglio balzandomi sulla spalla - lì c'è una piccola locanda, forse può andar bene per noi. Io lo guardai con aria di rimprovero, ma dopotutto mi aveva aiutato e ai sopra al fatto di non aver rispettato le procedure che gli avevo posto come condizione all'inizio del viaggio in comune. Era una locanda veramente molto piccola, ma pareva ben tenuta. Un'insegna diceva:" Al viaggiatore " e su di un piccolo cartello aggiunto:" Prezzi modici!". Ispirava fiducia: decisi di seguire il consiglio del mio morbido amico. Mi accorsi dopo di essermici già affezionato. Appena entrato mi accolse il locandiere, un anziano signore con una folta barba incolta e due occhietti vispi che lasciavano immaginare come da giovane avesse avuto una vita movimentata. - Salve ragazzo - mi disse appena entrato - posso fare qualcosa per te e il tuo amico? Come fe a sapere che eravamo amici non sono ancora riuscito a spiegarmelo, comunque gli risposi normalmente. - Vorrei una stanza per questa notte, però non ho denaro per pagarla, in compenso posso lavare i piatti o spaccare la legna o pulire le stanze. Se mi aiutasse le sarei grato, vengo dalla Montagna e sono molto stanco. Il locandiere si fregò le mani pensieroso, poi disse: - Certo che è un brutto affare.
Non saprei proprio cosa farti fare. Prima che potessi controbattere comparve dal buio del salotto un uomo di mezza età, claudicante, che intervenne nel dialogo dicendo: - Pagherò io per lui, così mi aiuterà a copiare le poesie. Lo guardai stupito, poi mi volsi verso il locandiere in cerca di spiegazioni. - Certo signor Poeta! - esclamò il locandiere con ironia. - Non ci fare caso - disse poi rivolgendosi a me parlando a bassa voce - è un mattacchione che crede di essere un grande poeta, disturba tutti i clienti propinandogli le proprie poesie; ma non posso farci nulla in quanto paga sempre e lascia mance sostanziose. - Non è vero - esclamò il Poeta - non sono matto, è che non sono più in grado di scrivere per colpa dell'artrite alle mani, e se qualcuno non mi aiuterà tutto il mio genio andrà perduto per sempre. Ti prego ragazzo scrivi per me i versi che ti detterò e avrai vitto e alloggio. La proposta non era malvagia, del resto era un buon modo per cominciare la mia avventura: accettai la sua offerta.
1.3. - Il poeta sensibile.
Mi alloggiarono nella stanza n_ 7. Era una stanzetta carina interamente rivestita di carta decorata a fiorellini il cui mobilio e le stoffe erano intonati con il rivestimento delle pareti; un cassettone di legno (probabilmente antico) fungeva da armadio, il letto era d'ottone lavorato ed accanto ad esso sedeva un piccolo comodino con su una lampada ad olio, adattata alla corrente elettrica mediante l'introduzione al suo interno di una piccola lampadina opaca. La finestrella dava sulla strada così potevo vedere are la gente con le sue storie. Posai lo zaino sulla seggiola Thomet e mi rilassai sul letto: verso le otto sarebbe salito il Poeta ed avremmo cominciato a lavorare. Avevo solo un'ora e mi sarebbe bastata; Coniglio s'era sistemato nel bagno comune dove, gentilmente, il locandiere aveva approntato una piccola cuccia.
- E permesso? - chiese il Poeta aprendo la porta della mia stanza con discrezione - sono venuto per cominciare il lavoro. - Prego, s'accomodi. - lo invitai, alzandomi repentinamente dal letto. Non vedevo l'ora di cominciare il lavoro, ma il mio stomaco protestava incessantemente, senza voler sentire ragioni: decisi di agire in modo risolutivo. - Mi scusi Poeta - gli dissi mentre posava le sue carte sul tavolino - sarebbe possibile in questa locanda avere qualcosa da mettere sotto i denti? - Ma certo, ti vado a prendere qualcosa in camera mia; ho delle specialità che nemmeno immagini! Quando Poeta fu uscito, volli dare un'occhiata alle sue scartoffie per scoprire in che razza di letterato mi ero imbattuto. Fu una sorpresa scoprire la qualità dei suoi scritti: ogni parola sembrava essere la
sintesi di interi ragionamenti filosofici, ogni cesura rappresentava il ritmo stesso della vita rappresentando con i versi un intero spettro di emozioni di cui nessuno saprebbe definire il limite. - Eccomi qua, ti ho portato un bel panino con i crauti. Ti piacciono i crauti, vero? Sono speciali, cucinati in una salsetta che è un mio segreto, ma se vuoi te lo insegno. L'odore era un po' pesante e l'aspetto repellente, ma l'appetito era tale che, dopo aver finito il panino in pochi voraci bocconi, non seppi dire con certezza se mi fosse piaciuto più per il sapore o più per la fame. Ma questo a Poeta sembrò non interessare un gran ché, gli bastava che lo avessi mangiato con quella voracità. Cosicché ci mettemmo al lavoro, lui dettava il testo, magari chiedendomi qualche consiglio, ed io lo trascrivevo in bella copia su di un blocco che sembrava fatto apposta, tanto era nuovo e raffinato. Mi piacque moltissimo un brano di un poemetto in cui si parlava di una ragazza che aveva tradito il proprio amante e non sapeva come spiegare di essere ancora innamorata di lui. Scrivo le stesse parole con cui Poeta me l'ha dettato: "E' vero, ti ho tradito \ ma non di questo incolpar mi devi" - Vedi - mi disse Poeta interrompendosi - è evidente come il tentativo di lei di discolparsi non sia animato dalla volontà di addossare a lui le colpe, bensì è l'estrema volontà di una donna che si rende conto della propria schiavitù d'amore e che non riesce a concepire la propria vita senza il proprio amante. Ma guarda come continua:" Non nel mio animo era intenzione \ di vedere in altrui cuore il tuo amore,\" Qui è evidente come il fatto non è accaduto per sua volontà, bensì, come vedrai tra poco, per necessità." non volli mai cercar in altra casa \ il calore della nostra casa, \ non ho mai donato ad altro uomo \ quello che per te sento." Bello qui, no? - Sì - feci io - perché ti dà proprio l'idea del fatto che il tradimento è come se non fosse mai avvenuto. - Certo, naturale: lei ama la propria casa ed il proprio uomo in modo così radicato in se stessa che non riuscirebbe a concepire altra dimensione se non quella che, per un attimo, ha tradito (ma dimostrerà di non averlo fatto). Ma
adesso senti come continua: "Tu sei il mio amore \ e la mia vita intera, \ e se ho sviato nel mio cammino \ è solo per il troppo amore: \ per quella voglia di dare che, \ per un poco, \ non ho potuto donare a te, \ perché lontano era il tuo cuore \ quando d'amor morivo." La conclusione è evidente, no? - Evidentissima! Ella era talmente innamorata del suo amante e di ciò che per lei significava che, nel momento in cui le è venuto a mancare quell'affetto, ha sentito l'impulso di riconvalidare tutto quel mondo (e ovviamente il suo amore) negandolo per un attimo e quindi agendo in modo opposto al suo istinto: un modo per dimostrare a se stessa di amarlo al punto da rendere insignificante e disgustoso il tradimento. - Bravo! - si complimentò Poeta - sapevo di essermi messo in buone mani. Io, lusingato, arrossii confuso. ammo tutta la notte a scrivere e a discutere sulla poesia e sull'amore, sull'insensibilità di certe persone, ma, fondamentalmente, sull'incapacità ad amare. Fu un tema molto affascinante e Poeta si accorse che le mie reazioni ed il mio interesse dovevano essere ben motivati, ma non volle andare a fondo: gli rimase il dubbio. Andammo a dormire all'alba, quando ormai le campane suonavano per chiamare i fedeli alla Messa. Mentre la città si svegliava dal sonno dell'ignoranza, noi ci addormentavamo in quello della sapienza. Mi piacque a tal punto quel pensiero che fu capace di monopolizzare i brevi momenti prima del sonno in cui la nostra mente spazia liberamente in un'altra dimensione.
Mi risvegliai starnutendo. Guardai istintivamente fuori dalla finestra e mi accorsi che era buio: ero nel letto e accanto a me sedeva Coniglio. - Che fai qui? - gli chiesi, stupito di trovarmi dentro il letto quando mi ricordavo di non esservi entrato. - Stavo aspettando che ti svegliassi. - mi rispose un po' alterato.
- Brrr...- c'era la finestra aperta ed entrava un vento gelido. - Quanto ho dormito? - chiesi a Coniglio. - Circa dodici ore. Non ti pare abbastanza? La testa mi doleva, e gli occhi mi bruciavano: avevo perso un intero giorno del mio viaggio chiuso dentro una stanza a dormire, era imperdonabile. - Coniglio - dissi rivolgendomi al mio piccolo amico - nessuno ha capito che tu...sì insomma, che non sei un coniglietto normale. - Nessuno che possa costituire un pericolo. - Che vuoi dire? - Poeta mi ha dato questa busta per te - rispose frugando tra le pieghe del letto con le zampette - ha detto che non devi aprirla fino a che non crederai di essere innamorato. - Di che si tratta? - domandai, più a me stesso che al mio interlocutore, ed era tanto evidente che Coniglio non mi rispose. Presi in mano la busta, conteneva dei fogli di carta: forse una poesia. La misi tra le pagine del mio diario e andai in cerca di lui.
- E partito stamattina. - mi bloccò Coniglio prima che potessi uscire dalla stanza. Mi dispiaceva non averlo potuto salutare; nella vita, e più ancora durante i viaggi, ci capita di incontrare persone, di conoscere problemi e modi di pensare molto diversi dal nostro. Eppure, anche senza volerlo, a volte ci innamoriamo di queste persone e delle loro idee, del loro modo di vivere; non vorremmo mai più abbandonarle, vorremmo trascorrere con loro la nostra vita finché non ci venga a noia. Ma non possiamo, il viaggio deve proseguire e la realtà, le persone a cui abbiamo già affidato il nostro amore, ci richiamano a loro e dobbiamo abbandonare tutto. In noi rimarrà un ricordo, per qualche tempo forse la volontà di non perdere i contatti, ma infine tutto si annullerà trasformandosi nella dimensione della memoria dove il male ed il bene, il giusto e l'ingiusto cambiano
così tante volte la propria connotazione che non riusciamo più a distinguerli. Poeta era partito ed aveva portato con se tutto il calore e l'emozione di quei momenti che avevamo trascorso nella notte a scrivere e parlare di poesia. Addio Poeta, non ti dimenticherò.
Era sera ormai e volli andare ad esplorare la città. Presi il mio zaino, salutai il locandiere ed uscii. Coniglio capì che avrei voluto sapere il perché della improvvisa "fuga" di Poeta, ma anche io mi resi conto che alla mia domanda non c'era una risposta che, ora, avrei potuto capire. Non chiesi nulla. La notte per me è sempre stata importante, un momento in cui sembrano incontrarsi le autentiche energie vitali delle cose, in cui gli uomini scoprono la propria essenza e riescono a parlare con se stessi e con chi gli sta vicino. Coniglio volle venire con me. Le strade erano debolmente illuminate e le nostre ombre scorrevano a terra silenziose ogni tanto stendendosi o stringendosi lungo le incertezze del manto stradale. Un sottile odore di smog galleggiava a mezz'aria: mi mancava l'aria pura di Montagna, dove potevi tirare un respiro profondo senza tossire. Città Uno non era una brutta città, non che ne conoscessi tante (e tutte per foto), forse perché era sufficientemente piccola da non lasciare spaesati, ma già abbastanza grande da non farti sentire il fiato della gente sul collo: quell'opprimente sensazione di essere osservato che si ha nei piccoli paesi come il mio. Procedendo per la nostra strada incontrammo quella che doveva essere la più importante della città: Via del Lusso. Vetrine illuminate, caffè di classe, sale da ballo per alta società, ristoranti a cinque forchette e case da gioco si affacciavano sulla strada invitando i anti ad entrare con insegne luminose, musiche soavi e uomini in livrea dai bottoni d'oro. Io e Coniglio eravamo poveri di denaro, eppure non riuscivamo ad invidiare nessuno di quei signori dalle grandi automobili o le loro signore che zampettavano su trampoli incerti come appendiabiti ricoperti di gioielli, cercavano di essere più attraenti ed erano sempre più goffe. Ci riempiva di sconforto vedere come l'uomo si affannasse a ricercare cose di cui rendersi
schiavo, di cui non poter più fare a meno. Coniglio mi disse: - Dove vivo io queste cose non esistono: ogni coniglio veste del proprio pelo e si vanta del cespuglio di tutti, dell'orticello in cui riesce a rubare. Noi non cerchiamo di apparire diversi da quel che siamo perché nessuno deve giudicarci, a nessuno dobbiamo render conto delle nostre azioni ed ognuno è libero di fare della propria vita quello che vuole, senza che interferiscano i giudizi degli altri componenti della comunità. Siamo tutti liberi di essere insieme quello che saremmo se fossimo da soli. Ogni giorno nasce uguale al precedente e muore identico a quello che lo seguirà. La nostra vita è piatta, ma nessuno potrà mai toglierci la facoltà di riempirla col sapore quotidiano della libertà. Essa appartiene ad ognuno di noi ed è l'unica cosa che ci differenzia l'un l'altro. Rimasi colpito dalle parole di Coniglio; fino ad ora era sempre rimasto così silenzioso che non ero riuscito a capire se, nel suo silenzio, elaborasse una profonda analisi della realtà oppure non avesse nulla da dire perché niente a lui diceva ciò che gli avveniva intorno. Era la prima delle due ipotesi. - L'uomo - risposi io dopo un attimo di riflessione - non sa cercare nel posto giusto quello di cui abbisogna. Egli non è mai contento perché cerca la soddisfazione nelle cose sbagliate: il piacere più grande si prova guardandosi negli occhi, stringendo nelle mani il frutto del proprio lavoro e dicendo: "Sono io. Io ho fatto questo: è per te." Solo in questo modo: esaltando la propria identità, la propria coscienza, il proprio lavoro e l'amore per un'altra persona; riuscirà a trovare nella realtà un senso da dare alla propria esistenza che, altrimenti, non ne avrebbe. Coniglio mi guardò scettico. Procedendo sul marciapiede della Via del Denaro vidi un uomo ben vestito procedere barcollando in senso opposto. Sembrava che stesse male, come a volte mi capitava di vedere i viandanti del mio Villaggio: uomini di mondo, credo. - Signore! Si sente male? - chiesi io per aiutarlo. L'uomo mi vide ed attraversò la strada puntellandosi sulle gambe che quasi non lo reggevano più. D'improvviso da dietro l'angolo sbucò un furgoncino a tutta velocità in un gran fragore di pneumatici sull'asfalto. L'uomo era in mezzo alla strada, impietrito dalla paura. Non persi un istante: mi gettai su di lui spingendolo a terra sul marciapiede da cui era sceso, il furgone sbandò
inchiodando i freni. Una gamba dell'uomo finì sotto la ruota del veicolo che intanto si era schiantato contro un cartello pubblicitario. - Ma che diavolo facevate in mezzo alla strada, delinquenti! - uscì gridando il conducente del furgone con la testa insanguinata. - Quest'uomo è ferito e sta male - dissi mentre cercavo di stenderlo sulla strada in modo che respirasse bene. - Pazzi! - urlò ancora il conducente risalendo sul furgone - Pazzi. Il furgone se ne andò con un gran fumo nero: non riuscii a prendere il numero di targa. - Come vi sentite? - chiesi al mio nuovo incontro - la gamba vi fa male? Dalla bocca dell'uomo uscì soltanto un lamento, con la testa mi fece capire che stava bene, dal fiato capii che era ubriaco. Provai a toccargli la gamba: non era rotta. Al campeggio avevo imparato le tecniche di pronto soccorso e sapevo riconoscere una frattura. Avevo visto male, la ruota era ata sul piede (che infatti era slogato) maciullando solo la scarpa. Ero contento che fosse andata bene. Ma Coniglio dov'era? Mi guardai intorno e lo vidi che si dirigeva verso di noi saltellando. Lo guardai negli occhi, fece una smorfia col naso ed incise con la zampetta un disegno sulla terra che si era accumulata vicino al marciapiede. Guardai meglio, era una scritta: "PDH 8799", il numero di targa del furgone. - Non preoccupatevi - feci all'ubriaco - ho preso il numero di targa. Sorrisi a Coniglio, ancora una volta si era dimostrato utile. - Come vi chiamate? - gli chiesi mentre già si stava avvicinando gente. L'uomo tirò fuori dalla tasca una banconota. Capii che con quel gesto mi stava dando il suo biglietto da visita: avevo incontrato il Materialista Ubriaco.
1.4. - Il Materialista Ubriaco.
- Lo porti a casa lei - mi disse il medico dopo averlo visitato - in una settimana dovrebbe rimettersi. Probabilmente zoppicherà per tutta la vita, non c'è nulla da fare, il nervo è lesionato in modo definitivo. Mi dispiace. - Grazie dottore. Lo aiuterò per quello che posso. Il Materialista Ubriaco era seduto sul divano in sala d'aspetto con la testa tra le mani, soffriva ancora i postumi della sbronza. Chiamai un taxi e raggiungemmo la sua casa: non poteva camminare da sé senza perdere l'equilibrio. Abitava in una villa piuttosto lussuosa ai margini della città, verso Nord. Il grande parco ben curato e l'abbondanza della servitù mi colpirono molto: non ero abituato a vedere tanto spreco per una sola persona. Eppure, in così tanto spazio, sapevo che il Materialista era prigioniero, che la sua villa lussuosa, il club ed il golf erano (per grandi che fossero) sempre un territorio limitato in cui esercitare la sua libertà: aveva ben ragione Coniglio, il vero spazio è solo quello naturale e quello che riusciamo a costruire dentro di noi. L'uomo che ci ricevette alla porta aveva ai suoi ordini almeno altri quattro ragazzi che si prodigarono per accomodare il Materialista su di una sedia a rotelle, uno di loro volle a tutti costi prendere il mio zaino. L'ingresso era enorme, grande quasi quanto la mia casa; marmi levigati, stucchi dorici, tappeti orientali e vasellame cinese guarnivano il tutto. L'ambiente dopotutto non era spiacevole, forse un po' freddo, ma non mi infastidiva. L'unica cosa che non riuscivo a capire era quella fissazione di portarmi via le cose: con Coniglio però non ci riuscirono. Ormai eravamo inseparabili. - Signore - mi chiamò il maggiordomo - la condurrò nei suoi alloggi, più tardi il Duca verrà a farle visita. - Duca? - chiesi stupito.
- Come, non lo sa? Il Duca di Città Uno, ultimo discendente della nobile famiglia dei Fenores; possibile che non ne abbia mai sentito parlare? Credo che il maggiordomo mi considerasse un alieno o qualcosa di simile. Io però non mi sentivo così, mi pareva che fosse bello ignorare i titoli nobiliari, le dinastie e le classi sociali: è inutile illudersi di essere qualcosa di più indossando nomi e dondolandosi nel denaro. Ognuno possiede solo la propria coscienza. La mia stanza era enorme (come tutto del resto) ed inutile mi sembra descrivere tutti i particolari che pure sono incisi nella mia memoria con estrema lucidità. Coniglio, come sempre, fu alloggiato nella toilette, sopra ad un morbidissimo cuscino di raso rosso. Io mi sedetti al tavolino per scrivere qualche appunto sul diario. Adesso mi rendo conto di aver fatto bene a portarlo con me, senza di esso forse la mia storia non sarebbe mai stata raccontata ed sarei morto portando con me il segreto della mia vita, per come era stata. Ora mi trovavo nella ricca residenza di un illustre nobile della città; gli avevo salvato la vita e meritavo gratitudine e riconoscenza. Ma non per questi motivi lo avevo accompagnato prima dal medico e poi a casa, non era gloria che cercavo, né tanto meno il denaro; bensì esperienze, nuovi modi di vivere e di pensare, così che la mia conoscenza crescesse e la mia maturità raggiungesse presto il giusto colore. Bussarono alla porta, dal tocco avrei detto una mano femminile. - Avanti - dissi alzandomi dal letto su cui mi ero sdraiato a fantasticare. Un viso di donna si affacciò timidamente alla porta. - La disturbo? - mi chiese con voce esile ma decisa. - Oh, niente affatto, si accomodi, faccia come se fosse a casa sua - le risposi buttandola sull'ironico. - Che divertente! - guaì la ragazza (avrà avuto all'incirca una ventina d'anni). - Ma no - mi schernii - è tanto per rompere il ghiaccio, è che sono piuttosto nervoso: come sta suo... Mi interruppi prima di poter fare brutte figure, non sapevo che rapporto di parentela ci fosse (se mai ci fosse) tra il Materialista e la ragazza.
- Vuol sapere di mio marito? - disse, intuendo la mia incertezza. - Certo, sì. - Ora sta meglio - riprese - ed è tutto merito suo: se non lo avesse soccorso in tempo a quest'ora sarei una povera vedova dal cuore infranto. Detto questo si mise a sedere sulla poltroncina in stile, nello sguardo le si leggeva una tristezza che, a dire il vero, dalla gioiosità dei suoi lineamenti non mi sarei mai aspettato. Avrei voluto consolarla, invece dissi: - Una vedova addolorata, ma ricca. La ragazza alzò subito gli occhi verso di me. - Cosa intende dire? Avevo esagerato e cercai di rimediare. - Volevo solo dire che nella povertà il dolore è più duro da sopportare. A me, per esempio, quando è morto il nonno ho dovuto occuparmi per tre anni anche della sua fattoria. Sapesse che angoscia vedere ogni giorno tutti gli oggetti appartenuti a lui e sapere che non li avrebbe più potuti toccare. Era angosciante. Se avessimo avuto il denaro avremmo incaricato qualcuno di occuparsene, risparmiandomi da quel martirio. La ragazza parve commuoversi. - Oh, mi dispiace, pensavo volesse insinuare. - Non sia mai detto! - esclamai come se la buona educazione fosse per me un principio fondamentale. Eppure, in quello scatto improvviso che aveva avuto intuii che la sua coscienza non era pulita, come se, per qualche caso, avessi centrato in lei il pensiero più vero e disonesto. La conversazione proseguì su toni variabili, parlammo della vita nell'alta società,
degli svantaggi ma anche dei piaceri che comporta e tutto il resto. Terrificante, ma non sapevo resistervi tanto quel mondo era lontano dal mio. - E ora di cena - si interruppe ad un certo punto Melenza (questo era il suo nome) - se vuoi seguirmi... Eravamo arrivati a darci del tu, non so bene come, però era accaduto ed ora mi pareva che fosse inevitabile e del tutto naturale, come se ci conoscessimo da decenni. Era strano l'effetto di quella donna dal viso gioioso. Mi catturava, ma solo di sfuggita; ed è per questo che non ho dedicato a lei questo capitolo. La tavola era lussuosamente imbandita e a ricevermi trovai il Materialista, ormai Sobrio. - Benvenuto - mi disse - sono contento che hai acconsentito a rimanere a cena con noi, spero che Melenza ti abbia fatto buona compagnia. - Certamente - risposi lanciandole uno sguardo d'intesa - ho avuto modo di conversare piacevolmente: è molto bello qui. Credo che il mio abbigliamento li avesse lasciati un po' disgustati, tant'è vero che, dietro suggerimento di Melenza, avevo fatto la doccia ed avevo indossato un vestito del maggiordomo che aveva pressappoco la mia corporatura. Mi ricordo che mi eccitò molto parlare con Melenza mentre ero sotto la doccia e l'acqua scrosciava irregolare; non so cosa ci fosse di particolare, forse la sensazione di trovarmi nudo di fronte ad una sconosciuta, pur se mi sembrava che non lo fosse. Insomma, ero imbarazzato, ma di un imbarazzo piacevolissimo, erotico. La mia vita sessuale doveva ancora nascere; mi ricordo solo che, pochi giorni prima della partenza, fu Kelemata (la mia compagna di giochi) a farmi provare una strana sensazione per tutto il corpo, più tardi capii di cosa si trattava. Mi sorprese parlare con loro come se li conoscessi da una vita, forse a causa di un certo modo educato e rispettoso che avevano di portare avanti il discorso: riuscivo a parlare normalmente anche di quegli argomenti dalla mamma sempre ritenuti "personali". Il concetto di personalità, in vero, mi era molto ostico, non riuscivo a capire cosa intendesse. Non sapevo se dovevo trattare certi argomenti solo con certe persone o se, addirittura, vi fossero argomenti segreti, da non svelare a nessuno, nemmeno a se stessi. Credo fosse più forte di me (e quindi
irrefrenabile) la voglia di comunicare a tutto il mondo i miei pensieri e le mie idee; senza parlare non riuscivo a stare più di tanto, anche se talvolta giocavo a fare il muto. Era un modo per vedere le cose da un altro punto di vista: e questa è tuttora una mia fissazione. Ne volli parlare con loro. - Io sono poliedrico - esordii durante una di quelle tregue che permettono di non digiunare durante un pasto, uno di quei momenti dove tutti masticano qualcosa e cercano gli argomenti per il dibattito successivo. - In che senso? - mi chiese Materialista. - Nel senso che riesco a vedere le cose da diversi punti di vista. Se voglio so immedesimarmi tanto in qualcuno da riuscire a ragionare ed agire come lui, oppure posso dare qualche consiglio anche a chi, per carattere, agirebbe in modo opposto al mio. - Interessante - disse Melenza. - Posso metterti alla prova? - mi chiese Materialista in tono di sfida, bonaria però. Amavo le sfide, specialmente quelle dialettiche: non potei rifiutare. - A quanto ho capito - cominciò - tu non sei molto d'accordo con il nostro modo di vivere e di concepire la realtà. Annuii con la testa. - Ebbene - continuò - una persona qualsiasi al tuo posto non sarebbe in grado di accettare il nostro modo di vedere le cose. Io vorrei che tu mi ascoltassi attentamente e che, alla fine, mi dicessi se, dati i miei presupposti, non è del tutto logica la nostra impostazione. - Sì - lo interruppi - e farò anche di più: ti dimostrerò che, pur con certi presupposti, è illogico agire come te. Non includo Melenza perché, a quanto ho capito, si trova ancora in una fase transitoria in cui l'attrazione verso il materialismo le deriva non dall'istinto, ma da una scelta di interesse-piacere. O sbaglio? Melenza mi sorrise: non sbagliavo.
- Posso cominciare? - mi chiese Materialista che sembrava non aspettasse altro che mettermi in difficoltà. - Certamente - lo incitai con un sorriso quasi cattivo. - Orbene, è naturale che, prima di cominciare, occorre enumerare e spiegare quali sono i presupposti di base. Prima ancora, ma anche per dimostrare ciò, enuncio i fatti di cui sono a conoscenza: io sono nato e sono vivo, oggi. Nessuno sa dirmi niente di certo sul futuro, la mia vita è sicuramente limitata, ma ignoro la sua durata; non credo nell'esistenza di una entità superiore a cui affidare la mia vita; sono figlio di una ricca e nobile famiglia con grosse rendite da terreni e fabbricati; ho una moglie giovane, bella e sessualmente abile; possiedo molto denaro (come è evidente), ho tutto ciò che desidero e, forse, posso avere più di quello che il mio cervello è in grado di desiderare. A questo punto io ti chiedo: per quale motivo non dovrei desiderare di vivere nel lusso, di trascorrere le mie giornate divertendomi e gozzovigliando, non rinunciando a nessun vizio e a nessun piacere? Perché dovrei limitare le mie possibilità di gustare ogni emozione nuova, perché dovrei limitarmi nel piacere sessuale, perché dovrei dividere con altri ciò che possiedo quando non mi torna utile, perché dovrei fare qualcosa in previsione di un futuro se nessuno mi può garantire che un futuro ci sarà? Perché cercare nell'animo la felicità sapendo che il benessere e l'oblio mi derivano solo dal piacere fisico, perché dover fare se posso non fare, perché rinunciare se posso raddoppiare il mio diletto? Perché dovrei abbandonare o limitare ciò che mi produce benefici immediati con la semplice speranza (qualcuno direbbe anche certezza) di un beneficio maggiore, ma successivo? Non è forse vero che essere appagati ogni giorno nello stesso modo è meglio di dover alternare grandi piaceri a grandi sofferenze? Il discorso di Materialista, per quanto sintetico, era molto chiaro e lo compresi nella sua esatta estensione. Per dimostrare la mia tesi, però, non dovevo aggredirlo subito distruggendo la sua costruzione; bensì assecondarlo, immedesimandomi in lui, in modo che fosse lui stesso a far crollare il proprio castello di denaro (mi si perdoni l'allegorica rappresentazione), corrodendo dall'interno le fondamenta della struttura. Non era facile, è vero, ma non per questo dovevo rinunciare. - Perché? - cominciai - E molto semplice, prova intanto ad immaginarti adesso. Con quel piede non potrai più camminare bene, non potrai andare a cavallo o in motocicletta, non potrai guidare l'auto, non potrai stare in piedi a lungo, magari
su di un motoscafo in velocità, non potrai scendere dalle pendici innevate con gli sci, non potrai correre per fuggire o per raggiungere, non sarai più amato e ricercato dalle donne (e mi scuso con Melenza per la mia impudenza, ma so che è così), non ti vorranno più in un salotto "bene" (uno storpio non è elegante), non sarai più nel pieno possesso delle tue facoltà. Vidi che il viso di Materialista stava sbiancando: forse non se ne era ancora reso conto. Ma proseguii: - E, se sarai escluso da certe attività, non potendo più frequentare i club finirai escluso dalla cerchia di conoscenze importanti e nessuno affitterà più i tuoi capannoni o i tuoi campi; del resto basterebbe un incendio o una alluvione e il disastro sarebbe assicurato. Ma non voglio pensare alle fatalità, veniamo alle certezze. Quando ti mancherà la fonte del piacere, e quindi il piacere stesso, ti accorgerai del vuoto che sta nel tuo essere. "E perché dovrebbe mancarmi?" Dirai tu. Perché, se non dovessero verificarsi fatalità, verrà un giorno in cui il tuo stesso corpo non sarà più in grado di sopportare l'eccitazione e la fatica del piacere. Dovrai desiderare di morire presto per non dover soffrire la vecchiaia, però (se dovessi vivere) non riusciresti ad autodistruggerti perché la presunzione e l'ingordigia ti farebbero desiderare ancora cose di cui non potresti più sopportare il peso. Questo è quanto ti accadrà se, così come fai ora, continuerai a vedere nell'edonismo esasperato il fine del tuo materialismo. Tu sei un guscio di un frutto senza polpa: quando si romperà il guscio cadranno a terra i semi, secchi e senza vita; da loro non nascerà una pianta, nessun fiore porterà il tuo ricordo. E per questi motivi (anche se non sono tutti) che ti conviene adottare una visione più oculata e attenta, così da scongiurare le sofferenze che, giungendo improvvise ed inevitabili, saranno per te doppiamente insopportabili in quanto troppo avvezzo al piacere ed al lusso. Avevo fatto una bella tirata e mi congratulai da solo, prima che potessero farlo Materialista e Melenza. Erano tutti e due molto perplessi, non sapevano se ritenersi soddisfatti della mia "arringa" o se invece potessero controbattere e non dichiarare vinto da me il primo scontro verbale. Li lasciai riflettere e presi a meditare tra me e me. Mi meravigliai di come fossi in grado di condurre discorsi portando avanti teorie
a cui nemmeno io credevo o che, peggio, discordavano con lo stesso mio modo di vedere le cose. Anche in quella occasione avevo fatto così, dopotutto non ero affatto immune al fascino del piacere, non era la mia vita proiettata verso la costruzione di un futuro radioso e puro, realizzato però con un presente duro, faticoso e senza soddisfazioni. Questo era il desiderio dei miei genitori, non il mio. - Non so - iniziò a dirmi Materialista - se possa dichiararti vincente, devo ammettere che hai ben dimostrato la fragilità della mia situazione, non sono sicuro però che tu abbia inteso quanto sia difficile dover scegliere e rinunciare ad un dolce oggi (tanto per fare un esempio) sperando in un banchetto domani o, peggio ancora, sapendo solo che vi debbo rinunciare perché potrebbe recare danno al mio organismo. Siccome non vi è modo per appurarlo, propongo la parità. Tu che ne dici Melenza? Melenza stette un attimo zitta, poi mi guardò negli occhi e, rivoltasi al marito, disse: - Certo, sarebbe meglio, ma non è tanto giusto verso di lui che, in fin dei conti, ti ha salvato la vita. - Grazie, ma non ha importanza - dissi io per evitare una crisi - non mi interessa vincere, mi è bastato trascorrere con voi questa splendida serata a chiacchierare. Non chiedo altro dalla vita. Quando il maggiordomo mi accompagnò alla porta detti un'ultima occhiata a Materialista e Melenza che si abbracciavano in silenzio: vidi in loro la paura di esistere che compare per la prima volta, quella paura violenta che ci rende ostili alla vita e ce la fa amare ad un tempo. Riconosciamo, infatti, che la vita è la causa prima di ogni problema, ma è in essa che si trovano le soluzioni a tutti i problemi, sia quelli reali che quelli di cui abbiamo bisogno per crescere e maturare quella sicurezza che, da sola, è in grado di assicurarci la sopravvivenza e, a volte e per brevi momenti, la felicità. La sicurezza di cui parlo è la certezza di essere nati e di dover vivere fino al momento in cui qualcosa non ci condurrà alla morte; vivere aspettando quel momento come una liberazione ultima di cui, purtroppo, non possiamo assaporare il gusto frizzante ma amaro. Avevo scritto un'altra pagina del mio diario e della mia vita, lasciando anche una piccola impronta sul mondo.
Sprofondai nell'enorme letto dalle lenzuola di seta. Coniglio volle dormire con me quella notte, e si accoccolò sulle coperte. Non riuscii a prendere subito sonno; un po' per Coniglio che si agitava, un po' per le parole da poco ascoltate che mi echeggiavano ancora nella testa. Prima di addormentarmi e prima di svegliarmi sono gli unici momenti in cui riesco ad incontrare quella parte di me che mi è più sconosciuta, quella che mi procura le emozioni e che scatena i processi mentali associativi, quella che, qualcuno, chiamerebbe coscienza. I momenti di cui parlo, però, sono sostanzialmente diversi l'uno dall'altro. Quando sto per addormentarmi avverto il cedere dei freni inibitori, l'allentarsi dell'autocontrollo, il sopraggiungere dell'incoscienza e della dimensione onirica. Quando si avvicina il risveglio, invece, tutto ciò che è stato protagonista durante la notte cede il posto lentamente alla razionalità, all'autocontrollo e alla percezione (mediata attraverso le sovrastrutture socioculturali) della realtà. Un processo continuo e circolare, quindi, ma che si svolge secondo le regole della casualità e dell'istintivo. Pensando alla coscienza mi ricordai delle parole di Coniglio (non riesco ancora a credere di poter riferire le "parole" di un animale) quando si presentò a me come "la tua coscienza ed il tuo consigliere". Forse questa mia difficoltà a prendere sonno e la presenza di Coniglio, anche lui irrequieto, erano un modo per dirmi che dovevo al più presto chiarire i miei rapporti con essa. Non esitai quindi ad accendere la luce e a svegliare Coniglio. - Ehi, posso parlarti? - gli chiesi solleticandogli le orecchie dal pelo candido. Coniglio aprì gli occhi e parve contento.
- Dimmi tutto quel che vuoi - disse. - Tu cosa ne pensi di stasera, sì, insomma, come ti è sembrato il clima, i discorsi fatti, i nostri atteggiamenti... un po' tutto. Coniglio arricciò la punta del naso, la strofinò con la zampetta, poi disse: - Mi è sembrato che nessuno di voi fosse sicuro di quello che diceva di pensare. Fuggivate tutti quanti, Materialista dal futuro e dall'ignoto, Melenza dalla paura di rimanere a terra e senza appoggi, e tu fuggivi da te stesso e da me, per quello che io rappresento.
- In che modo? - chiesi io. - Non hai commesso colpa grave, non hai ingannato che per divertirti e provare ad indossare le vesti di un altro uomo; ma questo non ti basti a consolarti, hai comunque commesso l'errore di far apparire di te una immagine diversa da quella reale e questo non è onesto, non è opportuno per chi, come te, sta compiendo questo viaggio verso una meta così importante come la maturità intellettuale. Capivo bene cosa volesse dire ed era forse la capacità che avevo di autocritica l'unico fattore capace di darmi la forza per sapere che avrei usato questa esperienza come esempio e monito perché non si ripeta. Spensi la luce, salutai Coniglio e mi addormentai all'istante.
Un calore improvviso sulla pelle mi destò rapidamente dal sonno. Mi sembrava di trovarmi in una casa in fiamme, sepolto da tende e tappeti, avvolto da lingue di fuoco. "E un sognò dissi tra me, poi mi accorsi di no. - Ciao - fece Melenza mentre mi si strofinava addosso - ti ho fatto paura? Rimasi stupito di trovarla nel mio letto, praticamente nuda; riflettendo mi accorsi che, in un certo senso, l'avevo previsto. - Non proprio - risposi io cercando di liberarmi dal suo peso - stavo facendo un brutto sogno. Coniglio si era accucciato sotto il letto, pur non vedendolo ne ero certo. - Cosa fai qui? - chiesi ingenuamente. - Mmh... ma che domande, sono venuta per te; l'avevo capito sai che ti piacevo. Quando mi guardavi con quegli occhi mi sentivo tutta scombussolata dentro, hi hi hi - guaì - non è eccitante? Sinceramente lo era, cominciai a sentire in me un irrefrenabile desiderio di possederla, eppure non lo assecondai. - Veramente non ti ho mai chiesto di venire nel mio letto, tu sei la moglie di
Materialista. Sarebbe meglio che te ne vada, potrebbe accorgersi della tua assenza. - Ma va' - disse indignata - quell'animale sta dormendo ubriaco sul divano. Ed io che pensavo mi volesse bene; quando tu sei salito mi ha abbracciato e poi, come se nulla fosse, si è annegato nel bere: finisce sempre così, io mi sono scocciata. Potevo immaginare il suo stato d'animo e comprenderla, invece dissi: - Immagino che farai così con tutti i vostri ospiti? - Ebbene - fece lei ancora duramente - cosa c'è di male, che dovrei fare: la moglie fedele e abbandonata? Non ci penso nemmeno, se qualcuno mi piace me lo prendo, senza chiedere il permesso. Melenza, tutto d'un tratto mutò ruolo nei miei pensieri; ora non era più la dolce ragazza sulla via del materialismo, ma la donna sensuale e insoddisfatta sulla via del piacere per distrarsi. Non che mi fossi fatto una idea definitiva di lei, ero troppo concentrato su Materialista, ma dovetti ammettere di non aver avuto un'opinione a largo spettro. Cambiare idea per me non era mai stato duro e questo viaggio avrebbe dovuto ottenere anche questo: trovare un punto fermo, irremovibile.
1.5. - La ragazza facile.
Dovevo trovarlo anche qui, il punto intorno al quale far girare tutto il resto, il fulcro della mia volontà: ma non lo trovai, ero ancora troppo giovane ed inesperto del mondo perché lo trovassi. Il mio desiderio di conoscenza ed una strana sensazione di calore (sicuramente si trattava del piacere sessuale) mi spingevano violentemente verso di lei: la Ragazza Facile, quella che, fino a poche ore prima, era stata Melenza, la moglie di Materialista. D'altro canto, però, sentivo che concedendomi a lei e alla sua ione un po' generalizzata avrei di sicuro insudiciato il mio orgoglio e quella sorta di purezzabenessere interiore che ancora conservavo: sentivo insomma che, accettando lei, avrei dato un calcio alla mia inconscia volontà di donare me stesso solo a chi veramente mi meritasse. La Ragazza Facile non era quel soggetto che avevo sognato in quei momenti estatici in cui, da bambini, si crede in un mondo capace di serbarci ancora delle sorprese piacevoli che, in fin dei conti, coincidono con i nostri sogni più belli. - Quello che cerchi da me - le dissi respingendole la mano che tendeva un po' troppo verso il basso - non lo possiedo, il mio unico modo di dare è quello di regalare, e non mi sembra che tu accetterai volentieri l'unico regalo che ora potrei farti. La Ragazza Facile esitò, non capiva se il mio era un rifiuto reversibile od irreversibile, non sapeva se, insistendo, l'avrebbe spuntata lei o meno. Le lasciai questo dubbio perché scattai fuori dal letto e raggiunsi Coniglio che mi aspettava, impaziente, al centro della stanza. Mi accorsi poi, pensandoci, che era stato il solletico sottile della sua zampetta a distrarmi da quella strana sensazione nuova per condurmi fuori dal letto: non seppi se ringraziarlo, comunque l'ascoltai. - Ma che fai? - mi chiese lei - Non mi vuoi? La guardai negli occhi cercando di capire cosa si nascondesse dietro alla sua
smania di piacere. Vidi la paura di esser sola, la paura di dover affrontare i grandi problemi di ogni giorno senza un punto di appoggio, il terrore di rimanere impotente di fronte alla violenza della vita che ogni istante scaglia contro di noi i suoi dardi infuocati, l'angoscia di scoprirsi vuota e di non poter gridare il proprio nome e riconoscersi in esso. Mi accorsi che i nostri mondi e le nostre esperienze, pur se così lontane, in realtà erano frutto degli stessi problemi, mi accorsi che l'intera umanità è afflitta dal dramma di cui essa stessa è la causa principale. - Ti aiuterò - le dissi - anzi, ci aiuteremo. Cominceremo a risolvere il nostro problema di fondo aiutandoci in questo momento, evitando di ripetere quegli errori, che poi errori non sono (ma solo fughe), che ci conducono verso obiettivi sbagliati e confusi. La Ragazza Facile mi guardò, irritata dal mio rifiuto, ma attratta dalle mie parole: questo mi faceva piacere, è molto più difficile infondere negli altri i sentimenti del cuore servendosi delle parole piuttosto che con i fatti. - Cosa intendi dire? - mi chiese. - Tu non vuoi me, vuoi il mio corpo; desideri provare la sensazione di avere addosso a te un corpo nuovo e straniero; cerchi le parole mute e senza amore che si dicono a chi non si conosce; ti vuoi immergere nel vuoto di una ione breve che, una volta finita, non ti lascerà che l'insoddisfazione ed il desiderio di bere ancora dalla bottiglia ormai vuota da tempo. Io voglio invece riempire quella bottiglia e darti da bere quel poco di liquido che riuscirà a formarsi al pensiero di te, Ragazza Facile, che desideri bervi. - Forse nelle tue parole c'è qualcosa - mi disse sedendosi sul letto come esausta credo che tu voglia darmi qualcosa, qualcosa di vero. Sorrisi. - Non sbagli - le dissi - voglio privarti di ciò che credi di desiderare e donarti invece quello di cui non sai di aver bisogno. Tu hai bisogno di affetto, come me, di un affetto disinteressato e spontaneo, ma, più di tutto, che sia sincero. La Ragazza Facile abbassò lo sguardo a terra, nella luce che la notte proiettava sul pavimento, si alzò in piedi e venne verso di me; mi abbracciò. Sapevamo tutti e due che in quell'abbraccio era racchiusa la nostra sofferenza e la sofferenza di tutti quanti. Ogni uomo, quando ama, esprime la propria solidarietà con tutti gli
altri uomini, anche se gli sembra di odiare chi gli sta intorno. Siamo rimasti abbracciati per un ora, immobili, a piangere silenziosi l'uno sulla spalla dell'altra; il calore delle mie lacrime mi accarezzava il viso, il calore delle sue scorreva lungo il mio corpo: questa fu la nostra unione, la ione profonda a cui ci siamo concessi. La notte trascorse indifferente.
- Buongiorno Coniglio - dissi non appena mi accorsi del solletico sulla punta del naso - hai dormito bene questa notte? - Da un certo punto in poi sì - mi rispose, con quella ormai tipica aria di rimprovero e di accusa. Sapevo a cosa si stava riferendo, ma ero a posto con la mia coscienza, cioè con lui. Dopo un buon lavaggio, mi preparai e, rifatto lo zaino, mi recai nella sala da pranzo per fare colazione. Melenza era lì che giocherellava con un biscotto sul bordo della tazza di ceramica. - Buongiorno Melenza - la salutai - ti vedo rinnovata questa mattina. Melenza mi guardò, sapeva di non essere più la Ragazza Facile e questo la rincuorava. Forse un po' era anche merito mio. Feci colazione scambiando con lei parole di rito. Era interessante e forse piacevole trovarsi a parlare di niente con una persona a cui poter dire tutto, e che vuole sapere tutto, ma forse è come se già lo sapesse. E bello vedere come si riesca a tacere pronunciando parole vuote, parlando invece con i pensieri ed i gesti per ricordarci l'un l'altro che i momenti trascorsi insieme sono stati importanti: dalla Ragazza Facile è rinata Melenza, dal suo mutamento è nato un altro capitolo del mio diario. Melenza d'improvviso divenne molto seria. - Devo confidarti una cosa - disse - e si tratta di un fatto per il quale mi considererai spregevole. Devi promettermi però che, pur sapendo tutto ciò, non
farai nessuna azione di nessun tipo che abbia attinenza con quanto sto per dirti. Riflettei un attimo, infine promisi. - Ebbene - cominciò - è giusto che tu sappia la verità, dimostrandoti in questo modo che capisco e apprezzo tutto quello che hai fatto per me. Come certo ricordi mio marito è stato investito da un furgone. - Sì - feci io incitandola a continuare. - Non è stato un incidente, l'autista di quel furgone aveva l'ordine di uccidere mio marito. Sgranai gli occhi, anche se in realtà l'avevo sospettato. - Che vuoi dire, chi lo aveva ordinato? Melenza abbassò lo sguardo colpevole, poi lo rialzò con orgoglio violento. - Sono stata io. Mi volevo liberare di lui ed ereditare tutto per poi vivere in pace senza limitazioni e senza quel suo continuo badare alle cose materiali. Non potei fare a meno di sorridere: una donna che, per cercare il denaro (e quindi riconoscendone l'importanza), uccideva chi per primo credeva in esso. - E perché? - le chiesi. Rimase per un attimo perplessa, come se fosse del tutto ovvia la risposta, poi si accorse che non lo era. - Non so - disse - forse per sentirmi più libera. - Mi pare che Materialista non ti faccia mancare nulla, tanto meno la libertà? - Be', in effetti... - ammise Melenza. - Dai retta a me - dissi - il tuo tentativo di delitto è maturato in un ambiente malsano, dove sono così sconvolti i principi naturali che, là dove tutti vedono il giusto, voi non riuscite a vedere altro se non l'ingiusto. - Non so se hai ragione, comunque non ha importanza; quello che conta adesso è
che non desidero più la morte di nessuno. Vivrò con mio marito finché ne avremo voglia entrambi, dimenticherò tutti e specialmente lui. - Lui chi? - chiesi sapendo che la mia domanda era stata provocata. - Già - ammise Melenza - non ti avevo ancora detto, amavo un altro, uno spiantato arrivista in cerca di sistemazione. Ci siamo conosciuti ad un party e abbiamo ato qualche notte insieme, durante i periodi in cui mio marito era fuori per affari. E con lui che ho preparato il delitto. - Ma non ti è venuto in mente - feci io, che per natura sono sospettoso - che il suo fosse un interesse esclusivamente materiale, come tu stessa hai accennato poc'anzi? - No, non mi è mai venuto in mente: l'ho sempre saputo. Nel constatare l'impossibilità di quei ragionamenti, mi rassegnai e non volli più ribattere con altre domande; una cosa l'avevo capita: tutti noi, per quanto dissimili, racchiudiamo in realtà la totalità di tutti i modi di essere possibili. In ogni essere umano ci sono tutti gli altri esseri umani, ognuno possiede in sé i germi delle infinite combinazioni di personalità, indole e carattere; per questo è possibile capire e comunicare tra di noi. Le difficoltà che nascono e che ci fanno pensare ad una invincibile incomunicabilità sono causate dalla impossibilità, per alcuni, di avvertire in sé la presenza di altri esseri, magari opposti a quello che essi credono di essere. E, forse, il mio viaggio è servito anche a questo: a scoprire tutte le modalità che sono contenute in me, venendone a conoscenza mediante un processo dialettico di rapporti umani e intellettuali. Dopo aver chiarito a me stesso la filosofia del viaggio, mi volli congedare da Melenza. Ella però mi pregò di rimanere ancora un poco perché voleva chiedermi un favore. L'ascoltai. Avrei dovuto andare a trovare il suo ex-amante (che viveva a Città Due) e pregarlo di uscire dalla sua vita senza opporre resistenza. Ovviamente non sarebbe stato facile e, per riuscirci, avrei dovuto usare il ricatto, uno strumento a me sconosciuto. La questione era grave e, prima di accettare, volli chiedere a Coniglio cosa ne pensasse.
- Dicesi ricatto - cominciò Coniglio - ogni azione tesa all'ottenimento di somme di denaro o alla costrizione che altri eseguano determinate azioni, mediante appropriazione (indebita o meno) di beni, persone o valori immateriali che vengono usati come merce di scambio tra il ricattatore ed il ricattato. Coniglio prese fiato per un attimo, poi proseguì: - Nel caso specifico la donna desidera che tu, mediante la minaccia di una denuncia, persuada il suo amante a desistere da ogni azione di rivalsa su di lei per riottenere l'amore perduto (o forse mai avuto). - Bene Coniglio! - e le mani quasi mi applaudirono. Vidi però che in lui si annidavano ancora delle preoccupazioni che il mio entusiasmo aveva accentuate. - Mi sono congratulato con te per l'abilità oratoria - dissi - ma so perfettamente che si tratta di un compito rischioso; dopotutto posso anche non farlo, no? Non certo Melenza mi verrà a cercare lungo la Strada che ancora percorrerò. Coniglio sembrò irritarsi, nei suoi piccoli occhietti neri comparve la luce cristallina della cattiveria, anche se, poi vidi, era tutta una montatura per spaventarmi. - Ma cosa credi? - urlò con la tipica vocina da coniglio - Pensi di poterti prendere gioco degli altri in questo modo, promettendo qualcosa che non manterrai? Non pensare di guadagnarci, è molto più onesto ammettere la propria volontà negativa piuttosto che sembrare disponibili e non esserlo. E molto facile dare a parole una immagine di sé eroica e robusta, tutt'altra cosa è dimostrarsi tali nelle piccole grandi prove della vita. Era un maestro di etica e morale, un filosofo. Era odiosissimo e intransigente in certi momenti, con quel suo modo brusco e violento di impormi la realtà; però non potevo non dargli ascolto. Non che il mio rapporto con lui fosse quello del "servo-padrone", ben altra cosa è la stima ed il rispetto per una volontà più nitida e precisa della mia. Il mio assoggettarmi al suo pensiero era del tutto volontario e, sembra strano, ben gradito. Accettai così la richiesta di Melenza e ripresi il mio viaggio. Prima di lasciare la villa a bordo della limousine, scorsi nel parco tra gli alberi la figura di
Materialista, intento a persuadere una cameriera a dargli un bacio.
L'auto si fermò al margine estremo a Nord di Città Uno. Io e Coniglio riprendemmo il nostro viaggio lungo la Strada. Il sole era già alto all'orizzonte e ci aspettava una lunga camminata fino a Città Due, la grande metropoli del denaro, là dove la Valle si stringe in una gola per affacciarsi sulle brumose pianure di Campagna. Decisi di chiedere un aggio, ma le automobili sfrecciavano troppo veloci con la loro fretta e la loro arroganza: un dito di un uomo non era che un granello di polvere nella tempesta di segni e messaggi che l'automobilista deve di continuo percepire e raccogliere per non scontrarsi con coloro che, come lui, divorano la strada senza sapere esattamente il perché del loro movimento, ignorando del tutto se raggiungeranno indenni la destinazione. La somma delle volontà di tutti gli individui al volante si componeva in una instabile somma di frammenti di singoli pensieri, ognuno legato all'altro da un filo invisibile ma resistentissimo, sarebbe bastata una sola sottile incrinatura per far crollare l'intero costrutto, con conseguenze disastrose per le altre componenti della struttura. Ero giunto a queste conclusioni, forse un po' contorte, perché vedevo nell'umanità viaggiante la totale incoscienza del proprio movimento; non un guidatore solitario (e nemmeno le coppie, perché si è sempre soli) sa che, nelle mille automobili come la sua o sui treni della terra, sulle navi del mare e sugli aerei del cielo, viaggiano altri guidatori, tutti uguali tra loro eppure distinti dalla diversa composizione dei problemi che stanno affrontando (anche in questo momento) o di quelli che si rifiutano di affrontare e risolvere. Proprio a questi guidatori di angoscia stavo chiedendo un aggio, stavo chiedendo di arrestare il loro cammino frenetico per dare anche a me la possibilità di partecipare al Grande Viaggio della Vita; chiedevo loro di perdere tempo, fermarsi e raccogliere l'ignoto, una contaminazione esterna, un elemento disturbatore. Perché avrebbero dovuto posare l'attenzione su di me (se non con secondi fini) e desiderare di aiutarmi a percorrere un tratto della Strada? Perché avrebbero dovuto fidarsi di me, io che, molto probabilmente non avrei potuto dar loro altro ringraziamento se non un po' di compagnia? Eppure, nonostante l'assurdità del tutto, qualcuno si fermò.
1.6. - Il Guidatore Senza Meta.
Fu il conducente di un autotreno a concedermi il aggio. Era un omone grosso, dalle gambe enormi e una pancia spropositata che rigurgitava dai bottoni tiratissimi della camicia di panno a scacchi rossi. - Dove vai, ragazzo? - mi domandò un po' urlando perché lo sentissi nonostante il rombo del motore. - A Città Due - risposi - e porto con me uno zaino ed un coniglio, posso salire? - Ma certo - mi invitò. Non che fossi scontento di aver trovato un aggio, però non potei fare a meno di avere un poco di paura, dopotutto era la mia prima esperienza del genere; il aggio più lungo me l'aveva dato Matteus col suo trattore dal Campo delle Vacche a Villa Secca. Caricai lo zaino, sistemai Coniglio sul sedile ed infine salii anche io. - Da dove vieni ? - cominciò ad informarsi l'autista del camion. - Dal Villaggio di Montagna - risposi cordialmente - non credo lo conosca, è un paesino di poche case ai piedi del Gruppo del Kellers: la montagna che domina Città Uno. - Non sarai mica scappato di casa, vero? - disse in tono paternalistico. - Nient'affatto - mentii - devo fare un viaggio per raccogliere quante più informazioni possibili per poi scrivere un resoconto da presentare a scuola. Avevo inventato una bellissima bugia, affascinante. Non che fosse mia abitudine mentire (mai fatto prima), però lo trovai molto invitante, mi dava un senso di spregiudicata libertà; una libertà illusoria, siamo d'accordo, ma pur sempre autentica negli effetti. Coniglio mi guardò storto, ancora una volta la voce della coscienza si era fatta sentire, in modo discreto ma consistente. Mentendo mi sentivo capace di
spersonalizzare la mia essenza e di indossarne una nuova, del tutto diversa; potevo inventare un ato avventuroso, grandi sofferenze ed esperienze mozza fiato; mi permetteva di giocare a far l'attore, recitando personaggi di fantasia o reali, senza che nessuno potesse smascherare la mia finzione. Dopotutto chi non è attore nella vita (che è quasi un palcoscenico) e si trova, più per costrizione che per scelta, a dover interpretare parti spesso diverse senza essere né pagato né premiato per la propria abilità? Tocca a tutti. Il camionista mi fece altre domande ma, sinceramente, non riesco proprio a ricordare su cosa vertessero. Erano quel tipo di domande che tutti gli esseri umani si fanno tra loro un po' per rompere il ghiaccio, ma che soprattutto servono a rendersi conto delle reciproche tendenze; infatti se da argomenti banali si arriva ai discorsi "seri" è molto probabile che la persona con cui si ha a che fare possiede un certo spessore, qualunque sia. Non mi dimenticherò mai, invece, quello che io ho chiesto a lui e che gli ha fatto guadagnare il nome di Guidatore Senza Meta. L'autotreno viaggiava a velocità costante lungo il margine destro della carreggiata e ogni tanto una buca mi faceva sobbalzare sul sedile, il Guidatore era troppo pesante e ben ancorato al sedile per risentire dei cambiamenti d'assetto del veicolo. - Ma lei - gli chiesi - dove sta andando esattamente, cosa trasporta e a chi? L'uomo sorrise, o almeno così mi parve di intuire, perché il viso paffuto spruzzato di una barba dura mal tagliata non lasciava capire il formarsi ed il muoversi delle espressioni. Si schiarì la gola, comunque, e cominciò. - Sei un ragazzo curioso, ma voglio risponderti perché mi stai simpatico, dopotutto non se ne trovano che pochi di tipi come te, ormai. Si grattò un sopracciglio con le unghie sporche di grasso e olio di motore. - La mia destinazione - riprese, con la sua voce roca - è Città Due, come ti ho già detto, ma non sarà lì che mi fermerò; la merce che porto è preziosa per colui che la desidera, non vale nulla per gli altri. Io vado in tutti i luoghi e porto con me tutte le merci, consegno ogni cosa a chiunque la desideri; ognuno mi paga con la
ricchezza che possiede, qualcuno mi offre da bere e parliamo di noi e delle nostre avventure, qualcun'altro mi dà il denaro del suo stipendio: altri ancora mi rubano la merce, dandomi però il vantaggio di una nuova esperienza. Io sono in tutti i luoghi dove qualcuno aspetta una merce che venga da lontano, io sono in tutte le speranze degli uomini, in tutti i loro desideri; io porto da un capo all'altro del mondo le parole e le storie di tutti gli uomini soli, delle donne senza amore, dei bambini senza genitori. Io sono la ricchezza, il mistero che giunge da chissà dove portando esotiche spezie, aromi orientali o semplici utènsili da lavoro. Le sue parole mi stupirono molto, e Coniglio non fu da meno: era strano trovare in un modesto (e sostanzialmente brutto) autista di camion, tanta filosofica saggezza, tanta coscienza di sé e della propria funzione sociale. - Interessante - commentai - e quindi anche io potrei essere un suo possibile destinatario? Il Guidatore annuì con i baffi e con la folta capigliatura selvaggia e scompigliata: - Certamente, dimmi quel che vuoi: di sicuro l'ho con me, e, se non dovessi averla, la posso ordinare e ti giungerà molto presto, dovunque tu sia. Io rappresento la più efficiente ditta di consegne del mondo. Non gli credevo, era evidente, e fu per questo che gli chiesi la cosa più impossibile che mi potesse dare; la più difficile da avere, ma forse la più ovvia: un'automobile. Il Guidatore ebbe un attimo di spaesamento ed io credetti d'averlo incastrato, ma non fu così. La sua momentanea titubanza derivava non dalla eccezionalità del mio desiderio, bensì da un altro fattore. - Un automobile? - mi chiese - E di che tipo? Riflettei per un secondo, guardai Coniglio poi dissi che desideravo un piccolo fuoristrada economico: nell'azzardo mitigai le pretese. - Bene - commentò - l'avevo immaginato, tant'è vero che lo porto con me. E così dicendo pigiò violentemente con entrambi i piedi sul pedale del freno e l'autotreno si arrestò in pochi metri. Io e Coniglio finimmo con la testa contro il vetro, ma senza conseguenze.
Il Guidatore scese facendomi segno di seguirlo: obbedii. Andammo nel retro del rimorchio; svitò un paio di bulloni, aprì tre lucchetti, tolse un paletto, slacciò una cordicella e, mediante una pulsantiera, fece aprire la pedana pneumatica che chiudeva la parte posteriore del rimorchio. Non si vedeva nulla all'interno, finché Guidatore non accese una luce interna. La cosa più stupefacente era che il rimorchio era perfettamente vuoto, vi era soltanto un piccolo veicolo fuoristrada, di tipo economico. Non capii bene come fosse possibile, ma non ci volli pensare e lo seguii mentre saliva all'interno del rimorchio. Era esattamente il tipo di auto che avevo sempre desiderato, quella posseduta dai genitori di Kelemata, la mia più cara compagna di giochi. L'avevo sempre desiderata, ma la mia famiglia era troppo povera per potersela permettere ed era rimasta un sogno da ragazzi, di quelli che nascono già destinati a rimanere tali. - Sali a bordo - mi suggerì Guidatore - sai guidare vero? In effetti non avevo mai guidato un fuoristrada, in compenso però mi ero fatto la mia bella esperienza sul trattore della fattoria del nonno e risposi di sì alla sua domanda. Salii a bordo, ma volli che Guidatore mi insegnasse i comandi principali avanzando come scusa la mia scarsa esperienza in materia. Era un sogno, non mi sembrava possibile di possedere l'auto dei miei desideri; infatti ero talmente entusiasta di tutto che la realtà mi si parò dinanzi agli occhi brutalmente in tutta la sua durezza: non avevo né il denaro per pagare l'auto né la patente per guidarla; fu così che dovetti rinunciare al mio sogno. Nulla diventa realtà se non finché rimane nel mondo dei sogni. - Mi dispiace - dissi - ma non posso proprio accettare, non possiedo il denaro per pagarla e per mantenerla. Mi piace moltissimo, era proprio come l'avevo sempre desiderata, ma non posso. Dentro di me soffrivo terribilmente e di questo se ne accorsero anche Guidatore e Coniglio. L'uomo mi sorrise benevolo e Coniglio arricciò la punta del naso: tramavano qualcosa contro di me. - Non serve il denaro - cominciò a dire Guidatore - come ricompensa accetterò volentieri la tua compagnia fino a Città Due, una volta arrivati ci saluteremo, tu
proseguirai con la tua auto nuova ed io andrò ancora avanti alla ricerca di nuovi clienti. - Ma la patente? - fu l'unica cosa che riuscii a dire. - Non c'è problema - mi rassicurò - conosco un amico in città che saprà darti una mano, ad una condizione però, che gli darai questo pacchetto, senza aprirlo: per nessuna ragione. Non mi fu difficile accettare la proposta del Guidatore Senza Meta e la felicità e la gioia di vivere tornarono a splendere nel mio piccolo mondo di adolescente in maturazione. Ora possedevo alcune cose in sospeso: la persona che mi aveva preannunciato il Montanaro Solitario, la busta datami dal Poeta Sensibile, la commissione della Ragazza Facile ed il pacchetto del Guidatore Solitario. Curiosità? Ancora non volli saperlo, invece cominciai a chiacchierare con il mio nuovo incontro. I discorsi che facemmo (Coniglio non parlò mai, limitandosi ad annuire con i baffi) mi affascinarono molto e, taluni, mi sconvolsero. Parlammo di paesi lontani, di motori, di avventure, ma soprattutto di donne. Mi raccontò delle donne di strada, di ragazzine che facevano le cameriere barbaramente violentate, di donnone grasse che trangugiavano boccali enormi di birra, di donne acide e senza cuore che trattavano a mestolate i propri mariti, di signore d'alta classe che si toglievano gli sfizi con i camionisti, di povere vecchiette isteriche ed intolleranti, di donne-manager che dettavano ordini e sembravano più brutte degli uomini, di donne senza volontà che chiedevano l'auto-stop sotto l'effetto della droga; di donne di ogni tipo e specie, ma nessuna, mi sembrò, che corrispondesse alla idea che di loro mi ero fatta. Forse, pensai, Kelemata non era una donna e di certo sarebbe cambiata. Le donne erano o troppo dure o troppo deboli, o orribili e simpatiche o bellissime ma inavvicinabili, o troppo emancipate o troppo inibite, o troppo allegre e confusionarie o eccessivamente monotone, o più di questo o più di quello: sembrava che nella donna non esistesse l'equilibrio. Non capivo perché, mi venivano in mente tutte le donne che avevo conosciuto, tra cui Kelemata, mia madre, Melenza. Nessuna di loro mi parve appartenere a nessuno dei gruppi che Guidatore aveva prospettato, forse Melenza, ma solo quando era la Ragazza Facile.
La donna cominciava ad essere per me un mondo affascinante che volevo a tutti costi conoscere e capire.
Il viaggio non fu molto lungo, al tramonto eravamo già alle soglie di Città Due. Dal punto di vista architettonico, era del tutto simile alla precedente; per quanto concerneva l'assetto urbanistico, invece, era totalmente diversa; come se entrambe le città fossero state disegnate sì dallo stesso architetto, ma basandosi su criteri diametralmente opposti. Città Uno era la sede del lusso, dello spazio visto come ricchezza; ogni angolo era curato e voluto, ogni quartiere era costruito in perfetta sintonia con la sua posizione nell'ambito della geometria del suolo e della Natura, come se l'uomo dovesse viverci nel migliore dei modi: una sorta di fusione tra efficienza e comodità. Città Due invece, ed entrandovi lo constatai con maggior certezza, era costruita con criteri molto diversi: qui l'efficienza era considerata in via primaria ed il fattore più importante a cui era affiancato il concetto di funzionalità era appunto quello del minor impiego possibile di spazio. Gli edifici erano molto alti (direi troppo), le strade strette e tutte a senso unico; i trasporti pubblici sembravano l'unica forma di vita motorizzata; i pedoni camminavano lungo marciapiedi tubolari sopraelevati; i negozi, gli uffici e le abitazioni si trovavano tutti ai piani superiori, al livello del suolo solo garage e gli ingressi per i magazzini sotterranei. Il Guidatore mi spiegò tutto, mentre ci dirigevamo verso il grande deposito dei veicoli industriali e di commercio (GRADEPIC). Parcheggiato il potente autotreno in un apposito settore del GRADEPIC, alcuni addetti provvidero allo scaricamento della mia nuova vettura fuoristrada. Era un Vester W2000L, l'ultimo grido in fatto di piccole tutto-terreno. Non capii allora, e nemmeno adesso mi è molto chiaro, come il Guidatore avesse potuto prevedere il mio desiderio in ogni dettaglio (perfino nel colore dell'auto), ma, principalmente, il perché non trasportasse nient'altro: un intero rimorchio pieno solo della mia piccola auto. L'unica spiegazione che mi resta è proprio la risposta che il mio magico donatore mi ha dato quando gli ho rivolto la stessa domanda. - Ma è ovvio - mi disse - come ti ho detto io trasporto i desideri di ognuno, in quel momento trasportavo il tuo perché era te che avevo incontrato sulla mia strada senza meta. Nel mio camion si materializzano i beni desiderati dai miei clienti, con te è stato un caso particolare: ti ho fatto dono di un desiderio che non avevi formulato espressamente.
Non potei far altro che ringraziarlo ancora e cominciare a prendere confidenza con il veicolo. Anche in questo mi aiutò Guidatore, dandomi le indicazioni di massima per guidare correttamente. Mi impratichii con rapidità all'interno del grande parcheggio in cui ci trovavamo, infine affrontai il traffico (per fortuna scarso) esterno per pochi metri ancora in compagnia del Guidatore Senza Meta. Purtroppo ci dovemmo salutare, le nostre strade così come si erano unite per un poco, ora si dividevano; i nostri destini erano diversi anche se accomunati dalla certezza del nostro incontro e, se così si può chiamare, della breve amicizia.
Il saluto fu semplice e breve: una stretta di mano, un sorriso e via verso nuove avventure. Uso la parola avventure perché credo fermamente che la vita stessa sia un'avventura e che racchiuda in sé una gamma di sotto-avventure incalcolabili che possono essere vissute sia basandosi sulla impostazione data alla vita in generale sia seguendo autonome linee di condotta. Avventure perché ognuna nasce, vive e si conclude portando nuove esperienze e richiedendo maggiore perizia e abilità. La vita è una prova continua a cui ci sottoponiamo per avere, una volta superata, il senso da dare alla prova successiva; quando, per qualche motivo, non riusciamo a superarne una viene subito meno il senso stesso della vita. Per riconquistarlo occorre superare, subito con successo, una nuova prova capace di ridarci il senso perduto. Non esiste quindi un senso della vita unico ed immutabile nel tempo, bensì una somma di piccole finalità momentanee capaci, unite insieme, di costituire una entità unitaria. Continuavo a credere in questa teoria anche se consideravo che, in quel momento, stavo vivendo con un senso molto preciso e a largo spettro: percorrere interamente La Strada della maturità. Quell'obiettivo infatti non discordava in nessun modo dalla mia teoria; esso era il motivo primario per cui nascevo ogni giorno con il sole, non l'unico. La forza di affrontare le singole situazioni mi proveniva, in misura diversa e variabile, sia dal senso primario globale che da quelli particolari e specifici. Al venir meno di uno dei due tipi, c'era sempre l'altro in grado di bilanciarlo: se affrontare una sofferenza era troppo per il vantaggio immediato, mi aiutava il sapere quel momento come necessario al fine ultimo; se non vedevo il perché avrei dovuto sopportare qualcosa in nome del mio compito finale, mi bastava trovare il motivo nel presente e continuare in questo modo.
Mi trovai a parlare di questo a Coniglio, il quale mi ascoltava col suo solito silenzio di rispettoso ma critico silenzio. Il senso del momento era recarsi subito all'indirizzo dell'amico di Guidatore, dove avrei trovato la patente che mi serviva e a cui avrei consegnato il misterioso pacchetto. Tutto sarebbe andato per il verso giusto, o almeno così sperai. Avevo una piantina (disegnata dal Guidatore) in cui era brevemente stilizzato il percorso da seguire per raggiungere l'abitazione del signor Tasser Lenias, il destinatario del pacchetto. Non ero assolutamente pratico del traffico e della città, il mio Villaggio non contava che poche case, ma possedevo un ottimo senso dell'orientamento che mi avrebbe permesso di arrivare a destinazione senza troppe difficoltà. Coniglio mi parlò, per la prima volta dopo parecchio tempo. La mia piccola vettura procedeva a bassa velocità (non ero molto pratico ancora) per le strade semi-deserte di Città Due, il sole era ormai tramontato da parecchio e le luci erano tutte accese, il pacchetto era poggiato sul sedile posteriore. - Non mi piace questa storia - disse molto seriamente - non mi convince affatto quel pacchetto, il regalo e questo fantomatico signor Tasser Lenias che ti darà la patente; perché tutto questo? All'inizio mi ero lasciato ingannare anche io, ma a guardar bene mi sfuggono molti particolari, non trovi anche tu? Dovetti ammettere di sì, ma che la realtà era troppo bella per doverla rifiutare: il consiglio che mi aveva suggerito Coniglio era di abbandonare automobile e pacchetto e di proseguire per la nostra strada, come se nulla fosse. Non volli ascoltarlo, mi pareva eccessiva tutta quella diffidenza e il suo atteggiamento così drastico; preferii fare come promesso, anche se forse avrei fatto meglio ad ascoltarlo. Quando fui a poca distanza dalla destinazione ebbi paura; e così decisi repentinamente di cambiare strada, facendo una pericolosa conversione a "u" con la macchina. Coniglio si spaventò. - Che fai adesso? - mi rimproverò. - Non ci vado da quel tizio, adesso fermo la macchina e ce ne andiamo. Non feci a tempo a finire la frase che sentii dietro di me un suono breve e
ripetuto, come di una sirena. - E la polizia! - gridò Coniglio - Ci hanno fregato. Mi stupì sentire la mia "coscienza" esprimersi in quel modo, ma non era importante, ora mi trovavo faccia a faccia con un agente di polizia. - Sono il sergente Sullivan - disse l'uomo che si avvicinò alla macchina con un blocchetto in mano - lei è in contravvenzione, favorisca patente e certificato di circolazione. Ero nei guai, occorreva sangue freddo. - Il certificato eccolo - dissi porgendo all'agente il foglio che Guidatore aveva compilato a mio nome - per la patente non c'è problema, sono venuto giusto a riprenderla qui da un mio amico dove l'avevo smarrita, se attende un secondo la vado a prendere. E sorrisi come un ebete. - Conosco la scusa, mi faccia vedere un suo documento - mi intimò. Estrassi dalla tasca la carta di identità e la porsi all'agente. L'uomo la guardò un poco, poi fece uno strano gesto al suo collega rimasto nella macchina della polizia e mi disse: - Lei è in arresto per guida pericolosa, senza patente e senza età necessaria. - Ma sono maggiorenne! - esclamai stupìto. L'agente sghignazzò. - Non in questa città, sono ammessi alla guida le persone che hanno compiuto il 25° anno di età. Detto questo mi estrasse con forza dalla macchina, mi mise le manette e mi chiuse nella parte posteriore della sua auto, opportunamente blindata. Coniglio mi seguì, di nascosto, e riuscì ad infilarsi senza essere visto. Gli agenti poi continuarono a frugare nella mia fuoristrada, presero lo zaino e il pacchetto.
Tremavo e sudavo freddo, ero nei guai fino al collo, senza vedere il modo come uscirne; ma non ci volli pensare subito: la paura non me lo avrebbe permesso. Vidi un grande armeggiare intorno all'auto, poi vidi un agente scartare il pacchetto il quale, tanto per rincarare la dose, conteneva una pistola automatica.
La cella era buia, puzzolente. Coniglio era rimasto con me perché non sapevano dove metterlo; ero accusato anche di detenzione abusiva di arma rubata, ce n'era abbastanza per are il resto dei miei giorni in galera. Scoprii più tardi, e a mie spese, che non avrei avuto nessuno a tutelare i miei diritti e che sarei stato processato per direttissima nelle ventiquattrore successive al mio interrogatorio che si sarebbe svolto tra poco. Era la prima volta che venivo rinchiuso in una prigione, mi riferisco ovviamente alla figura del "castigò a cui di solito i genitori sottopongono i figli poco diligenti. Mia madre (per non parlare di mio padre) erano sempre stati contrari al castigo reclusivo, ed ogni punizione mi veniva inflitta con oculato senso di giustizia e proporzione. La cella per me, quindi, non era un luogo che mi richiamava paure infantili, tutto l'odio e la paura che provavo per essa era frutto di nuove e spontanee sensazioni nate dalla totale mancanza di libertà. Nessuno mi aveva mai privato della possibilità di muovermi e di decidere dei miei orari e delle mie abitudini; tranne ovviamente le poche ma precise regole familiari (del tutto bene accette), per me la libertà era sempre stata un dono sin dalla nascita e non ne avevo mai assaporato il valore. Come spesso si dice, apprezziamo le cose solo dal momento in cui non le possediamo più; io aggiungerei che, oltre a questo, è ancora più difficile apprezzare elementi astratti della nostra vita (come la libertà, la gratitudine, la simpatia) che ci viziano nel momento in cui esistono, impedendoci di considerare quanto nella vita di ogni giorno essi siano indispensabili. Ciò nonostante, non mi rammaricai troppo per la mia sorte: avrebbe costituito il nuovo senso della vita del momento, uscire sano e salvo dal carcere. Mi rincuorò altresì il fatto che, di lì a poco, sarebbe venuto il Magistrato d'Accusa ad interrogarmi. Coniglio, che si era intrufolato tra le sbarre della cella, mi si avvicinò ad un orecchio, facendomi cenno di volermi parlare. Lo ascoltai. - Non hai pensato - mi disse - come quel Guidatore Senza Meta, che tanto sembrava un benefattore, ci sta mettendo proprio in un bel guaio?
La domanda era sintetica, ma capivo cosa intendesse dire: mi stava rimproverando per l'eccessiva fiducia accordata ad uno sconosciuto. In effetti non aveva tutti i torti, ero stato un tantino sprovveduto, ciò nonostante sapevo di aver agito bene, e lo spiegai a Coniglio. - Vedi, cara la mia coscienza, quello che dici è vero, non avevo garanzie sufficienti per agire come ho agito; ciò non toglie, però, che non è altrettanto giusto agire in un clima continuo di sfiducia gli uni verso gli altri; la solidarietà umana, per quanto ne ho visto sinora, anche se rara non è un valore del tutto estinto, e credo debba animare un po' tutti la volontà di credere a chi vive insieme a noi. Sono d'accordo ad agire con cautela mettendosi al riparo da possibili inghippi, ma non me la sento di condizionare la mia serenità e l'entusiasmo che mi deriva dal clima di fiducia reciproca solo per evitare qualche "fregatura" o tradimento. Coniglio mi guardò scettico, a tal punto da accorgermi di aver mentito: nemmeno io credevo alle mie parole, la vita è una lotta per la sopravvivenza dove ogni colpo basso, oltre che legittimo, è addirittura consigliato. Abbassai la testa in segno di sconfitta e lasciai che l'ottimismo lasciasse la mia persona per sempre, da quel momento, giurai, non avrei più creduto a nulla e a nessuno senza le dovute garanzie. Coniglio parve soddisfatto.
La chiave si contorse due volte nella serratura facendo scivolare il bilanciere che comanda la molla che fa scattare il rullo che chiude la porta: probabilmente era giunto il Magistrato d'Accusa. Con gran delusione constatai che si trattava invece del secondino che veniva a portarmi un nuovo ospite delle "patrie galere".
1.7. - Il Carcerato Innocente. Era un uomo magro, intorno ai 35 anni, barba incolta, capelli corti ben pettinati, abiti eleganti. Nel complesso doveva essere stato un bravo ragazzo. Ho usato il verbo "stato" perché, in tutta sincerità, non mi parve che lo fosse ancora, visto il luogo dove ci trovavamo. Coniglio mi insegnò, con un solo sguardo e leggendomi nel pensiero, a non giudicare nulla solo dal contesto in cui si trova. Spesso realtà qualsiasi, se vengono trapiantate in dimensioni aliene, si presentano cariche di connotati che non hanno. L'espressione disegnata sul viso del mio compagno di cella ispirava fiducia, mi salutò entrando, spinto dalla possente mano del secondino. La serratura si richiuse alle sue spalle. - Salve amico! - lo salutai a mia volta - Perché sei dentro? L'uomo sorrise tristemente tra sé, poi si rivolse a me con sguardo stanco. - Per nessun motivo, ho solo commesso la colpa di essere innocente. Lo guardai stupito, da un lato, ma anche deluso: mi aspettavo chissà quali atroci delitti commessi con crudeltà disumana, oppure truffe colossali, rapine spettacolose e rapimenti con risvolti violenti. Invece, di fronte a me, solo un misero, squallido innocente, un errore giudiziario. Avrei dovuto capirlo da quel volto senza il colore della morte e della violenza. - Che significa? - gli chiesi, con astio, forse. - Non ho violato nessuna legge né alcuna consuetudine, non ho tradito truffato o corrotto nessuno; sulla mia coscienza non vi è alcuna macchia. L'unica colpa che ho commesso è appunto quella di non aver commesso colpe, quella di aver condotto una vita irreprensibile, nella più totale onestà, senza voler capire ed accettare il modo in cui la vita debba essere impostata e vissuta, ossia a scapito totale del prossimo, tentando di schiacciare gli altri prima che possano schiacciare noi. Io non ho voluto accettare questo modo di vivere ed è per questo che sono stato preso, perché ho rifiutato di mettere in vendita la mia persona e di cederla al miglior offerente; non ho voluto che la mia famiglia venisse risucchiata nella logica del consumismo e della prevaricazione; non ho voluto
accettare la sfida con l'umanità, tentando invece di convivere pacificamente con essa. L'umanità non mi ha voluto, non ha compreso ed accettato la mia offerta, ed è per questo che mi trovo qui, adesso. Coniglio mi guardava col suo sguardo vigile e attento, sapeva cosa avevo pensato di quel Carcerato Innocente e non mi stimava per questo. Mi ero sbagliato, mi ero lasciato prendere forse dall'ira di essere rinchiuso lì dentro senza aver commesso altra colpa se non quella di essermi fidato di un benefattore misterioso. Una cosa mi insegnò Coniglio, col semplice piegarsi di un baffo: nessuno dà nulla per nulla, credere nella generosità incondizionata è illusorio e pericoloso come vedere in ogni uomo il proprio nemico. Il Carcerato Innocente, questo era ormai il suo nome, non era quella figura meschina che mi ero immaginato, bensì un eroe, un martire della società, un perdente, un fuorviato, un fallito, ma pur sempre un coraggioso profeta della fraternità umana che sembra scomparsa da decenni. Non riuscii a dirgli nulla, ma, limitandomi a guardarlo, gli feci capire come, pur disapprovando il suo tentativo di porsi contro tutto, lo ammiravo per l'orgogliosa e coraggiosa coerenza che lo aveva spinto fino a quella situazione estrema da cui, con molta probabilità, non sarebbe uscito facilmente. Dal suo sguardo capii che le mie parole senza suono erano giunte a destinazione. Gli sorrisi. Ci addormentammo sulle brande sudicie, nel sottomesso cigolare degli anelli delle bandiere appese al vento sui lunghi pali al centro del piazzale della prigione.
La notte non era che il riflesso delle stelle sulla parete scalfita da parole di libertà, dallo scorrere dei giorni, dagli amori perduti rimasti ad aspettare o che forse hanno già tradito. Leggevo in ogni ombra che il fine pulviscolo dell'intonaco scalcinato deposita sul pavimento, negli angoli maleodoranti dove i topi rosicchiano spigoli di calce, in quella buia stanza senza libertà, mi addentrai nella dimensione dell'inconscio e cercai di raggiungere i pensieri e le paure che non sapevo d'avere. Con stupore m'accorsi che, come me, il mio compagno di cella, il Carcerato Innocente, stava viaggiando anche lui nel mondo dell'inconscio: ci salutammo,
mentre le nostre menti fluttuavano senza meta nella gelatina dei pensieri. Eravamo diversi in molte cose, del tutto sconosciuti l'uno all'altro, eppure, in quel momento, ci sembrò di essere vecchi amici che rivivono insieme i lunghi anni ati trascorsi insieme, tra sventure e festeggiamenti nella banalità quotidiana. Mi ricordai di sua madre; della gelosia del povero padre, morto in guerra; della falciatrice che s'inceppava sempre; delle prime delusioni amorose; dei compagni di scuola e la loro arroganza; degli amici falsi e opportunisti; del primo lavoro e della strana sensazione di essere comandato a bacchetta; della disonestà della gente e della sua corsa al successo e al denaro; della moglie, incontrata durante un incidente stradale; dei figli e della gioia dolorosa di crescerli ed educarli; della vita condotta senza errori, fino a giungere in questa cella dove anche la mia mente tenta di buttar giù le pareti, come se un sogno potesse, con la sua prepotenza, abbattere i muri ed aprire la strada alla vita libera. Anche il Carcerato incontrò tutto di me ed insieme percorremmo a folle velocità i nostri momenti più belli, per sorridere soddisfatti; o quelli più cupi, per aiutarci l'un l'altro. La nostra era un'amicizia immateriale, vissuta nel pensiero. Eravamo legati dal nostro ato, ma, soprattutto, dal presente che ci accomunava in una sorte ingiusta ed incerta.
1.8. - Il Magistrato d'Accusa.
- Sveglia pelandroni! - disse il secondino mentre ci scuoteva con un bastone Oggi udienza con il Magistrato d'Accusa, lavatevi bene e rispettate la buona educazione. Quelle parole ci colpirono, non tanto per il contenuto, per la totale mancanza di rispetto nei nostri confronti, per la scarsa considerazione delle nostre capacità; bensì per il modo con cui venivano pronunciate, per l'arroganza ed il disprezzo che portavano con loro. Non potevamo sopportare (Io, il Carcerato e Coniglio) che qualcuno, solo per la funzione che svolgeva, potesse rivolgersi a noi in quel modo, non tenendo in nessun conto il fatto che tutti eravamo uomini con pari dignità, anche se alcuni di noi si trovavano, dal punto di vista della società, in una condizione di svantaggio. Pur senza parlare né guardarci, io ed il Carcerato ci dimostrammo (mentre ci conducevano alla sala docce) l'un l'altro una solidarietà ed una collaborazione di molto superiori a quelle che la situazione avrebbe pur dovuto stimolare. La nostra amicizia era più della solidarietà reciproca, era la volontà di lottare contro il mondo che ci condannava, pur senza condannare gli uomini che ci avrebbero giudicato e fatto eseguire la sentenza. Istintivamente ci vedevamo già condannati; l'assoluzione era tanto improbabile quanto era stato ingiusto il nostro arresto. Presso il Magistrato avremmo fatto valere le nostre ragioni, ma avremmo perso: era certo. Questo però, come invece si potrebbe pensare, non ci scoraggiava affatto, anzi, quasi senza motivo, ci dava maggior impeto e decisione: le guerre perse in partenza sono le uniche per cui valga la pena di combattere.
La sala delle docce sembrava un mattatoio, come quello che avevo visto giù al Paese, dall'altra parte della Montagna, verso Sud; le pareti maiolicate erano sudicie e incrostate, l'acqua gocciolava da ogni giuntura delle tubazioni, due omoni nerboruti presiedevano l'ingresso, pronti a costringere chiunque si fosse rifiutato di farsi lavare o (e sarebbe stato folle) avesse tentato la fuga.
Ci costrinsero a spogliarci. Era la prima vera violenza che avevo subito sino a quel momento; l'arresto e la carcerazione li vedevo quasi legittimi nella loro ingiustizia, ma vedermi strappare i vestiti di dosso ed essere gettato, nudo, in un mattatoio e colpito da un potente getto d'acqua fredda, questa era stata violenza vera ed ingiustificata. Anche il Carcerato sembrò soffrire di questo trattamento, e sentii dentro di me tutta la rabbia che il suo sguardo sprigionava e l'odio verso coloro che, nell'assolvere il proprio dovere e nel rendere un oneroso servizio alla società, invece di impegnarsi con professionalità, stillavano sadico divertimento dalle mani nevrotiche e dalle risatine isteriche. L'incubo finì, e sembrava lunghissimo. Quel getto d'acqua fredda contro il corpo indifeso, gli occhi di tutti puntati su di noi che ci dibattevamo per difenderci dall'impeto dell'acqua e della cattiveria umana; tutto rimase fotografato nella memoria, nella mia come in quella del mio amico solitario e Carcerato. Ci presero anche le impronte, ma fu il meno. Tutto avvenne come eravamo abituati a vedere alla televisione (quando si poteva, a casa degli Herbess), con la sola, ma grande, differenza che quegli stessi momenti li avevamo vissuti con doloroso timore, e non con la spavalderia provocatoria di certi personaggi della cultura televisiva. Su al Villaggio non esisteva un cinematografo, però, d'estate, veniva tirato su un telone bianco su cui il generale Kopper (un vecchio eccentrico patito di cinema) proiettava i capolavori della cinematografia mondiale di cui possedeva delle copie, avute chissà come. Usava un vecchio proiettore requisito (a detta sua) ad una compagnia teatrale che si serviva, durante la guerra, dei contenitori delle pellicole per contrabbandare armi e generi alimentari. Di storie il generale Kopper ne raccontava tante, qualcuna di queste la raccontai al Carcerato quando, finita la schedatura, tornammo nelle nostre celle in attesa di parlare col Magistrato d'Accusa.
La prima di esse (e forse la più inverosimile) è quella che parla della guerra, la cosiddetta Guerra Totale di cui leggemmo sui libri di scuola, ma di cui nessuno sa nulla di preciso. Un tempo viveva un Grande Re, che possedeva migliaia di ettari di terreno, fattorie efficientissime e sudditi fedelissimi. Un giorno il Grande Re si accorse
che avrebbe volentieri esteso i suoi possedimenti alle terre vicine, per cui decise di attaccar briga col Principe Wetybur, proprietario dei territori confinanti. Sfortunatamente il Principe aveva avuto la medesima idea, per cui accadde (non si sa bene come) che tutte le genti di un territorio si trasferirono in quello del nemico, lasciandosi dietro il proprio. Dapprincipio entrambi i re furono contenti delle proprie conquiste, poi, per colpa di un cantastorie dalla lingua troppo lunga, si accorsero di non aver risolto un bel nulla, e si rimisero in movimento. Questa volta però, il Grande Re decise di dichiarare guerra al Principe Wetybur, di modo ché non questi non potesse rifiutarsi di combattere e fuggisse. La guerra durò per molti anni, ma nessuno dei due riusciva a prendere un territorio altrui senza perderne uno dei propri. La questione dovette essere risolta in modo diverso. Vennero chiamati gli ambasciatori che, chiusisi in una stanza per settimane, alla fine decisero come doveva risolversi il conflitto. Il Principe Wetybur avrebbe posseduto le terre del Grande Re, ma avrebbe incassato i guadagni prodotti dalle proprie, mentre il Grande Re avrebbe posseduto le terre del Principe sempre alla stessa condizione che i guadagni gli provenissero dalle proprie. Sembrava una soluzione geniale ed infatti, per qualche tempo, sembrò risolvere il problema; se non fosse stato che ognuno dei due, per far dispetto all'altro, cominciò a non curare le terre di cui era proprietario. Andò a finire che quell'anno ci fu carestia, tutta la gente morì di fame ed il Re ed il Principe morirono anche loro mentre litigavano per stabilire di chi fosse la colpa. Il Carcerato apprezzò molto il mio racconto e, per gentilezza, volle ricambiare la cortesia raccontandomi anche lui una storia.
Una notte, quando il sole si trovava nella costellazione dell'Acquario, un giovane uomo si accorse, come d'incanto, che la propria solitudine sarebbe svanita per sempre a mezzo di una donna che conosceva da tempo, ma che solo allora si stava dimostrando interessante ai suoi occhi, anzi, per meglio dire, era vero il contrario: lui l'aveva sempre presa in considerazione, era lei che, per la prima volta, stava facendo altrettanto. Quella notte, per volontà di lei, i due si incontrarono in uno splendido giardino fiorito. La Primavera era ancora lontana, ma qualche gemma più precoce delle altre stava già schiudendosi alla vita. L'aria era frizzante, non fredda; la luna si specchiava in una fontana piena di ranocchie e di ninfee: tutto sembrava promettere bene per quell'incontro romantico che lui aveva sempre sperato ed
ora stava divenendo realtà. Quando si incontrarono, però, nessuno dei due sembrava desiderare l'altra persona, entrambi si evitavano con le parole, anche se con i fatti accorciavano pian piano le distanze. Guardai il Carcerato mentre raccontava la storia; sembrava che l'incontro, ormai prossimo, con il Magistrato non lo spaventasse in alcun modo, talmente era assorto nella narrazione della storia. Sentivo che il suo racconto era molto di più di una favola: la realtà riesce spesso a superare la fantasia perché quest'ultima è il prodotto delle cose conosciute combinate tra loro in modo nuovo ed originale. Solo la realtà è però in grado di generare fenomeni puramente nuovi. Il Carcerato si accorse che lo stavo osservando, esitò un attimo ed infine proseguì. - Come stavo dicendo - riprese - i due, a mano a mano, nel procedere dei loro discorsi ostili ed un po' assurdi, si ritrovarono molto vicini anzi, per l'esattezza, la testa di lui era appoggiata dolcemente alla spalla della donna la quale lo accoglieva con una lievissima inclinazione del busto. Insieme guardavano le immagini di un libro illustrato e le commentavano, continuando a sfuggire alla situazione che stavano creando. La paura, più che dividerli, sembrava unirli. - E poi? - chiesi io, di nuovo attratto dalla narrazione. - Poi accadde che lei, quasi senza motivo, gli portò un braccio intorno alle spalle interrompendo il commento delle immagini. Lui, meravigliato ma infinitamente contento, quasi senza accorgersene si ritrovò nel suo abbraccio e l'accarezzò. Lentamente la loro intimità crebbe fino a divenire enorme, esagerata rispetto alle premesse. Senza né volerlo né impedirlo si ritrovarono ad amarsi. - Addirittura? - feci io. - Sì, e la cosa andò molto al di là di quella notte nel giardino; le loro vite si fo in modo così radicale che entrambi rimasero sbigottiti (ma contenti) della ione che li stava rapendo. Poi, però, accadde qualcosa che venne a turbare la quieta violenza del loro amore... Il Carcerato si interruppe, la porta della cella si aprì all'improvviso ed entrarono due energumeni talmente grossi che nemmeno avano per la porta. - E la fine - pensai.
Ed infatti ci condussero nella saletta dove ci attendeva il Magistrato d'Accusa. La saletta era buia tranne che per una luce molto potente che si dirigeva da un tavolo verso una sedia in mezzo alla stanza. Il Magistrato, quando entrammo, stava in piedi accanto alla lampada; ci fece cenno di sederci sul panchetto che, avvolto nell'oscurità, si trovava accanto alla porta. Obbedimmo. - E dunque giunto il mio momento - esordì il Magistrato d'Accusa - potrò finalmente spremervi e costringervi a parlare; vi farò confessare tutte le colpe esistenti, anche quelle che non avete commesso; vi farò rinnegare ogni vostra credenza, vi farò giurare il falso a mio piacimento, vi punirò con le parole e con la violenza; vi farò implorare pietà, vi costringerò a chiedere scusa di esistere e a strisciare per terra come vermi; io sarò il vostro carnefice, prima ancora che qualcuno vi possa giudicare; sfogherò su di voi tutta la mia ira, eserciterò tutta la mia perversione fino e scaricarvi ogni mio più remoto desiderio di violenza. Vi schiaccerò. Quelle parole erano come torce incandescenti puntate contro di noi, erano come le onde di una tempesta che si abbattono sulla scogliera, erano come il vento di un uragano che afferra i tetti da sotto fino a farli scoperchiare; erano parole che ci spogliavano più ancora di quanto avevano fatto alle docce, erano parole che violentavano ogni proposito di resistenza e di giustizia. Erano una minaccia vicina che non si può ancora afferrare, ci sfioravano senza toccarci, ma erano abbastanza orribili da farci tremare. Guardai il Carcerato e Coniglio (che si era nascosto sotto la panca) cercando in loro il conforto della solidarietà, ma dentro di loro non vi era che il vuoto della paura e lo stupore nel vedere un essere umano capace di tanta aggressività verso suoi simili contro cui non ha nulla. L'uomo, il Magistrato, puntò verso di noi (o meglio verso di me) un dito accusatore e quel gesto bruciava più di ogni altra parola; portava con sé l'intera umanità, rappresentava l'odio di tutti i popoli verso tutti gli altri; era la imprescindibile volontà di giustizia che nasce dall'istinto di reprimere coloro che non si adeguano al modo di vivere "comune", era una condanna sociale già scritta, di cui mai ci saremmo liberati, nemmeno ando la nostra vita in carcere. E fu per questo che quella figura così imponente ed inquisitoria divenne ai nostri occhi un essere incapace di nuocerci in alcun modo: non avevamo nulla da perdere ad affrontarlo a viso aperto, inutile sarebbe stato tentare di far valere i
nostri diritti per cui, arrogandoci i più gravi dei misfatti, confessammo le colpe più atroci. Senza saperlo, e questo era forse il gioco del nostro nemico, confessammo tutto fuorché i reati che realmente avevamo commesso. Il Magistrato d'Accusa sghignazzò tra i baffi biondi un sorriso malizioso e soddisfatto: ci aveva incastrati per bene. Non riuscimmo subito a capire come, eppure una sensazione di sconfitta ci pervase entrambi. Il mio compagno di sventura si rinchiuse in un silenzio quasi religioso mentre il Magistrato preparava il suo Atto d'accusa, ad un tratto mi accorsi che stava comunicando telepaticamente con me. - Non capisco - mi disse, sempre senza parlare - se sarò condannato ingiustamente per dei reati che ho confessato e mai commessi o per quelle che agli occhi della società sono le vere e uniche colpe che non confesserò mai. - Nemmeno io lo so - gli risposi mentalmente - ma ho la sensazione che sia più probabile la seconda ipotesi, lo leggo nello sguardo di quell'uomo. D'improvviso un dolore violentissimo mi strinse le tempie, era atroce, come se qualcuno avesse messo la mia testa in una morsa e stesse lentamente ruotando il perno per stringerla. Istintivamente portai le mani alle tempie poi, come spinto da un richiamo irresistibile, diressi lo sguardo verso il Magistrato: mi stava guardando. - Esatto - disse, anche lui servendosi della telepatia - avete indovinato, firmerete la confessione su cui sono scolpite indelebili le colpe che non avete avuto l'ardire di denunciare. Il dolore alla testa scomparve, appena potei distogliere lo sguardo dal carnefice lo rivolsi al Carcerato; anche lui doveva aver ricevuto lo stesso messaggio. Coniglio era rimasto fortunatamente escluso da questo scambio di energie mentali, forse perché la lunghezza d'onda delle sue cellule cerebrali differiva da quella umana. L'esperienza della telepatia, per quanto mi ricordi, era vissuta in modo parzialmente inconscio, vale a dire che tutti avevamo la certezza della comunicazione senza però percepirla nella sua estensione temporale. Firmammo le nostre confessioni come se fosse il prodotto di un destino
inevitabile e fummo ricondotti in cella, questa volta in due diverse. Ora mi trovavo in cella con altri due detenuti; era giunto il momento per riflettere e prepararsi alla fase successiva, in attesa del giudizio. Avevo tempo per guardarmi intorno e così feci. - Buongiorno - dissi per attaccar discorso con i miei nuovi compagni di cella. - Salve - mi risposero cordialmente. Sembravano simpatici, forse anche loro erano innocenti; volli chiederlo. - Come mai siete dentro? I due si guardarono e risero un po', poi dissero: - Perché crediamo nella speranza. Rimasi stupito della risposta, infine compresi che avevo incontrato due nuovi personaggi del mio viaggio, due viaggiatori lungo la Strada.
1.9. - I Fratelli della Speranza.
- Ben venuto nella nostra cella, amico. Così mi accolsero i miei nuovi compagni di cella. Erano due ragazzi non troppo più grandi di me, uno era assai curato nel vestire e nella toletta, profumava delicatamente; l'altro, trasandato e sciatto, erano forse settimane che non si lavava a fondo. Istintivamente provai simpatia per quello dei due più pulito. Si somigliavano fisicamente, seppi poi che erano fratelli: i Fratelli della Speranza. Li chiamai così perché dai loro discorsi e dal diverso modo di rapportarsi alla vita ed al futuro emergeva una similare simpatia per la speranza. Racconterò i discorsi che feci con loro, nei giorni che rimasi in cella prima del processo, riportando solo quelle parti che, per la loro emblematicità, mi sono sembrate le più adatte a sintetizzare il pensiero (a volte affascinante) di questi uomini, più vecchi di me nell'età, ma assai vicini nella sorte. Forse per la spiccata preferenza che avevo nei riguardi del più pulito fu con lui che cominciai a parlare. Gli chiesi il perché della sua detenzione, ricambiandolo con il racconto del mio. Ma non fu questo che mi colpì, bensì il suo atteggiamento verso il giorno in cui sarebbe uscito. - Sai - mi disse una mattina mentre eggiavamo nel piazzale del carcere ed il sole, velato tra la nebbia, ci accarezzava dolcemente sfumando i contorni del viso - quando uscirò di qui voglio rifarmi una vita. - Ovviamente! - commentai benevolo. - Ma no, non capisci - obbiettò - non una vita qualsiasi, voglio costruire qualcosa, magari una famiglia; trovarmi un lavoro sicuro e, soprattutto, tranquillo. Capisci? Quel genere di vita dove ogni giorno è uguale ad un altro, in cui posso portare a so il cane per i giardini senza paura di essere arrestato; voglio trovare una brava ragazza che dimentichi il mio ato e mi ami per quello che sarò tra dieci anni; voglio avere dei figli che gironzolino per casa e portarli al parco giochi la domenica. Capisci che genere di vita?
Comprendevo bene cosa volesse dire, eppure non potei fare a meno di chiedergli perché desiderasse questo. - Ma è ovvio, lo hai detto anche tu, la società mi ha tolto tutto questo tempo per guarirmi del male che c'era in me; quando uscirò avrò espiato le mie colpe e sarà giusto che la società mi dia la possibilità di riscattarmi integralmente. E giusto che io desideri la vita più normale e più equilibrata, l'unica che, in un certo senso, val veramente la pena di essere vissuta. - Ma come puoi essere sicuro che la società ti accetterà dandoti privilegi e felicità che non concede nemmeno a coloro che sono sempre vissuti nel "giusto"? - Deve essere così. Non posso pensare altrimenti. Capivo che in lui vi era più la volontà di una convinzione che il convincimento stesso. Ma chiesi ancora. - E se così non fosse? Se la società, il giorno che uscirai, ti sputerà in faccia, ti guarderà come un essere spregevole ed abbietto? Come farai a realizzare il tuo sogno? Il sole era a mezzo cielo, una brezza leggera depositava sulla pelle le mille goccioline della nebbia, il riflettore mandava dal muro un potente fascio di luce, sfocato anch'esso dal filtro nebuloso che, come polvere d'acqua, galleggiava nell'aria. Lo guardai negli occhi e vidi in lui la paura di una risposta. Una lacrima, la sola lacrima possibile, scaturì delle ciglia lunghe e ben pettinate. Era il dolore di un sogno che crolla. - Amico mio - disse rivolgendosi a me quasi implorante - forse tu hai ragione, forse il mio futuro è segnato da un destino crudele, forse il mio sogno rimarrà tale, forse la mia vita è morta ancor prima di nascere veramente; però, ti prego, lascia che rimanga in me un brandello di speranza, fammi sognare ancora ad occhi aperti, concedimi di credere che tutto questo tempo ha ed avrà un senso positivo; non privarmi dell'ultimo appiglio che mi resta: la speranza. Tutti gli uomini vivono la loro esistenza circondandosi di speranza, essa è l'unica vera forza capace di spingerci sempre avanti. Sai bene quanto un anno che finisce sia sempre seguito da uno più ricco e felice, tutti rivolgiamo in varia misura al nostro futuro preghiere perché sia migliore del presente; e, se così non fosse, a
che varrebbe vivere? Ebbene, io attendo fiducioso adesso il giorno in cui potrò vivere senza dover più ricorrere alla illusione ed alla speranza come motori immobili capaci essi soli di dare respiro alla soffocata oscurità dei miei giorni qui, in carcere: nel carcere che è la vita in questo mondo immaturo ed incosciente. L'avevo ferito, stavo per strappare ad un ragazzo l'ultimo spiraglio di luce prima di essere seppellito nella bara della solitudine e del disprezzo. Dovevo rimediare. - Scusami - iniziai a dire - non volevo in alcun modo privarti della speranza. Sono stato così cinico forse perché in me non esiste tale stato d'animo positivo: io non conosco la speranza, la mia vita finisce ogni giorno quando mi addormento e nasce ad ogni risveglio. Il Fratello più trasandato, che in quel mentre ci aveva raggiunti al centro del piazzale, ascoltata la mia ultima frase, mi guardò con aria di secco disappunto. - E no - mi disse - non è possibile. - Cosa? - chiesi io stupito dal suo intervento, ma curioso di sapere quale fosse il suo pensiero. - Tutti - proseguì - viviamo insieme alla speranza: persino io. Non capivo cosa intendesse dire, ma attesi che proseguisse spontaneamente. Ed infatti, intuendo il mio desiderio. - Ora tu mi vedi così umile, trasandato e sciatto; i vestiti consunti e logori, lo sguardo spento e senza vita, i movimenti lenti e svogliati: e mi giudichi. Non di questo mi lamento, legittimo è il tuo giudicare; nondimeno mi lamento e ti biasimo del fatto che tu voglia estendere senza limiti una tua idea un po' fasulla. Non è vero, e sono qui a dimostrartelo, che la speranza è pane solo per gli affamati: forse che i ricchi non mangiano pane? Mi pare di sì. Ed ecco allora che, pur colui che crede di poter fare a meno della speranza, si trova invischiato in essa e debba servirsi di questa grande forza per proseguire la propria vita. Non lo capivo bene, tuttavia mi interessava. - Come fai a dimostrare ciò che dici? - gli chiesi per sfida, ma in realtà volevo solo capire.
- Presto detto - riprese lui - la mia vita è essa stessa dimostrazione alle mie parole che a te sembrano ancor vuote. Un tempo io non ero come tu mi vedi adesso, mio fratello saprà dartene prova, bensì ero uomo di grande stile e portamento, ricco felice e pieno di ogni bene. Più di ogni cosa mi riempiva il cuore una moglie dolce ed affettuosa che amavo con tutto me stesso. Si interruppe e mi parve leggere nei suoi occhi una sottile parola di tristezza. - Non mi mancava nulla - proseguì - ed ogni mio desiderio era appagato. Perché mai avrebbe dovuto aver posto nella mia vita quella strana "cosa" chiamata speranza? Non v'era motivo alcuno, ed infatti non speravo in nulla perché tutto mi era concesso. Venne un giorno, però, in cui mia moglie perse la vita in uno stupido, ridicolo incidente stradale. Morì così, senza poter salutare nessuno, nemmeno me, che pure l'amavo. Da quel giorno la mia vita ebbe una svolta decisiva: ogni ragione per vivere era scomparsa e meditavo il suicidio come risoluzione appropriata. Pensi in cuor tuo che avrei fatto bene a prendere quella estrema decisione? Rispondimi. Non ci pensai neppure un po' e dissi: - No, visto che avevi tutto non avresti dovuto perdere la speranza di ricostruire la tua vita. Appena pronunciata quella frase mi accorsi di aver commesso un errore. - Bravo - mi interruppe - l'hai detta, infine, la parola chiave: Speranza. Fu proprio lei che m'incatenò. La mia vita sarebbe veramente finita allora, pochi giorni dopo la morte di mia moglie, purtroppo, però, non mi riuscì; tutti intorno a me vollero che vivessi e mi provocarono dentro la nascita della speranza. Senza che lo volessi, per la prima volta nella mia vita mi costrinsero a sperare, a pensare di poter rifare tutto quello che a me già sembrava bello che conchiuso. Non volli però accettare questa sorte e la mia vita divenne come tu ora la vedi. Per impedirmi di trovare il modo di rifarmi una vita ho distrutto fino alla fine quella che possedevo e che ho vissuto insieme a mia moglie. Ora vivo sul filo di una speranza che non voglio e che rifiuto, che mi sta avvinghiata addosso; io lotto con la morte di ogni volontà ed il rifiuto di ogni elemento vitale: io sono morto con mia moglie e nessuna speranza, pur se mi tiene in vita, sarà in grado di ridarmi ciò che non ho più. Finalmente capii e condivisi, ma non del tutto.
- Come mai - chiesi ancora, pur se vedevo nei suoi occhi quella parola di tristezza divenire una pagina intera - ti trovi ora qui in questo carcere insieme a tuo fratello? Era una domanda che non avevo ancora posto, forse per paura di quegli atroci delitti che, all'inizio, tanto mi attiravano. - Io mi trovo qui perché alla gente non piace che ci si arrenda di fronte alla morte, la gente vuole vederti lottare fino a stramazzare a terra, vuole vederti sperare e lottare per la propria speranza. Io non ho fatto nulla di tutto questo, sono stato irriconoscente con quanti mi avevano donato la speranza ed ingiusto verso il mondo intero perché mi lasciavo morire senza lottare. Sono qui per questo. - Io invece - intervenne l'altro Fratello della Speranza - sono qui per solidarietà con lui, per tenerlo in vita e riportarlo al mondo volenteroso e vivo. Mi piacquero così tanto i loro discorsi e la loro vita che decisi di lasciarli, andai via e mi feci cambiar cella. Avevo ricevuto da loro tutti gli insegnamenti possibili, era mio dovere, adesso, cercare nuovi mondi umani da conoscere.
1.10. - Il Bibliotecario Onnisciente.
Fui assegnato al servizio di assistenza alla biblioteca del carcere, luogo impolverato e scarsamente frequentato che ben pochi detenuti consideravano come propria meta abituale. La mia cella era la medesima del responsabile della biblioteca, un ergastolano di una sessantina d'anni. Era un uomo di corporatura esile, dal volto magro e scavato, nel suo sguardo non si leggeva più il peso della condanna, bensì un onere assai più grave. Egli deteneva tutto il Sapere umano e ne era geloso custode; fu per questo che meritò il nome di Bibliotecario Onnisciente. Nelle sue mosse a scatti, nel leggero zoppicare del suo incedere v'era qualcosa di misterioso e, forse, di divino. Mi pareva, benché fossi a digiuno delle cose di Dio (nonostante una certa educazione religiosa), che quel suo spostare e ruotare le dita nell'aria significasse possedere quel qualcosa che manca all'uomo comune, come se possedesse la chiave per capire i più segreti meccanismi e prevedere gli eventi più imprevedibili. Mi piaceva, tutta quella scienza, ed allo stesso tempo mi faceva rifuggire da lui. Non mi trovai molto spesso a parlare di cose serie con lui, ci dicevamo quali libri riordinare e quali consegnare alle celle, nulla di più. Eppure leggevo nel suo ghigno velato dalla barba bianca ed incolta un divertito piacere nel rendersi conto che sarei stato io, prima o poi, a fare delle domande, a voler sapere. Così fu. Non potei fare a meno di desiderare il possesso di quella gigantesca sapienza che quell'anziano piccolo uomo sembrava possedere. Tutto accadde, lo ricordo ancora bene, una mattina d'Autunno, quando erano ati ormai due mesi dalla mia partenza. Il Bibliotecario stava registrando i dati salienti di una nuova partita di libri giunta di recente in magazzino. La sua penna scriveva lettere tremanti sui registri dalla carta ingiallita dalla noia. Io stavo leggendo un testo sulle filosofie orientali; non potei resistere e domandai: - Bibliotecario, tu che detieni il sapere puro e conosci le risposte ad ogni domanda, puoi dirmi perché mi trovo qui, perché devo vivere dentro questo
carcere gli anni più belli della mia vita, perché non posso proseguire il mio viaggio verso la maturità, cosa significa tutto questo, perché esiste questo carcere in cui ogni prigioniero sembra essere un inno all'innocenza ed ha solo commesso errori sociali? Il vecchio Bibliotecario Onnisciente scese dal suo seggiolino di legno tutto scricchiolante e mi sorrise benevolo. Mi prese una mano per aiutarsi, poi la lasciò e si sedette a terra. Lo imitai - Ragazzo mio - iniziò in tono paterno e solenne - mi hai seriamente aiutato in tutti questi giorni, senza borbottare né lamentarti, hai fatto il tuo dovere con umiltà e con dedizione, anche se nessuno te lo chiedeva; questo ti fa onore. Sei stato di compagnia, ma senza importunarmi; hai aiutato me e tutti i detenuti che si sono rivolti a te per avere informazioni; anche questo ti fa onore. Infine, forse pronunciando parole che ti ronzavano in testa da tempo, mi rivolgi tutte queste domande a cui, tu credi, io potrò dare risposta. Non voglio dirti di no, ma non hai pensato che anche io mi sono poste le stesse domande? - Sì, certo - feci io - appunto per questo... - Ebbene - mi interruppe a sua volta - non pensi che le mie risposte possano essere assai diverse dalle tue? Non credi che ogni uomo trovi una risposta personale ai problemi, non credi che, benché tutti si cerchi la stessa cosa, la si trovi in mille forme diverse? - Forse sì, e allora? - Allora - riprese lui - sappi che le mie risposte, quelle che tra poco ti darò, saranno solo le mie risposte e per nulla potranno valere con te. Rifuggi dall'idea che sia possibile imparare e conoscere dall'esperienza altrui: ogni uomo commette gli errori di tutti gli uomini e non sa evitare nessun errore, neanche quelli che ha visto commettere ad altri, finché non li commetterà a sua volta, dal momento che non si può riconoscere altro che le cose conosciute. Le mie risposte dovranno essere da te interpretate, forse andranno a formare un punto di riferimento in qualche luogo remoto del tuo cervello, forse saranno la scintilla che provocherà un incendio di idee e di pensieri, forse ti eranno accanto e tu non avvertirai nemmeno il loro odore. - Sì - feci io - lo so.
- Or dunque - riprese - procediamo con ordine; tu mi hai chiesto molte cose e molte delle risposte si assomigliano. Ti trovi qui perché qualcuno ha ritenuto scorretto il tuo comportamento nei confronti della società: sei straniero a questa città e nessuno potrà aiutarti se non il Destino e le tue misere forze. Quando mi parli del tuo impedimento a proseguire il viaggio che avevi intrapreso permettimi di sorridere e di suggerirti che il tuo viaggio non è affatto interrotto: non occorre spostarsi nello spazio con il corpo, le risposte alle eterne domande dell'uomo si trovano frammentate in ogni angolo della terra, basterà saperle leggere viaggiando con la mente, nel tempo forse. Il tuo viaggio sta proseguendo invece con maggior velocità, stai entrando in nuove dimensioni e le stai esplorando. Quanto a questo carcere, caro ragazzo, è certamente il luogo più crudele che tu possa conoscere; sono qui rinchiusi infatti, e per molto tempo, tutti coloro che la società rifiuta e non vuole vedere. Non delinquenti, malfattori, maniaci o assassini: essi sono ammessi dalla società; bensì coloro che, per scelta o per caso, per volontà o debolezza, non hanno voluto accettare i meccanismi occulti della nostra vita insieme agli altri e si sono alienati da quel sistema. Ebbene tale sistema li ha puniti, rinchiudendoli in questo carcere buio, che sembra una gabbia intollerabile ed invece è una limpida barriera di cristallo che ci divide da un mondo capace di schiacciarci in un solo istante, senza curarsi della nostra intelligenza o, meno ancora, dei nostri sentimenti. Dormi sereno, figliolo, se uscirai da qui non sarà affatto meglio e dovrai scontrarti con una umanità ostile e violenta. Rimasi esterrefatto da tanta cruda franchezza e non potei far altro che domandare ancora, come per sfuggire alle risposte che mi erano state date. - Bibliotecario Onnisciente - chiesi ancora - lei che di sicuro può anche prevedere il futuro, mi dica quale sarà la mia sorte, uscirò di qui? E quando? Il vecchio sorrise, si guardò intorno perdendo l'occhio nella molteplicità dei titoli e delle forme, infine mi guardò e disse: - Se, quando e come uscirai di qui non mi è dato sapere, una cosa di sicuro ben so: troverai molto presto una persona capace di rispondere a molte delle tue domande, capace di dare un significato superiore ai tuoi giorni. Attendi questo evento, perché avverrà. Ed ora - proseguì - lasciami ritornare ai miei lavori e ricordati che colui che più sa, meno è capace di dire. Con questa frase enigmatica si conclo i miei discorsi col Bibliotecario
Onnisciente che rappresentò per molto tempo la figura più indefinita mai incontrata durante il viaggio. Solo ora ho capito che si trattava di un essere la cui comprensione era subordinata al fatto di essere o meno capaci di credere alla sua onniscienza. Ogni cosa è per noi tale solo se vogliamo che così essa sia.
Rileggendo le pagine precedenti mi sono accorto di non avervi parlato più di Coniglio, che pure è un personaggio importante nel mio viaggio. Il motivo è assai semplice e risiede nel fatto che, per quanto fosse, non avevo più bisogno di una coscienza che mi accompagnasse o o; era divenuto, piuttosto, un'entità il cui influsso era esercitato su di me in modo indiretto ma continuo. Alloggiava nella mia stessa cella, al solito posto, sotto al letto in un pagliericcio di fortuna. Mi faceva compagnia la sera prima di addormentarmi, perché cantava certe sue canzoni folcloristiche di montagna che avevano per me un significato del tutto particolare: le legavo a Kelemata, la mia compagna di giochi, che avevo lasciata su, al Villaggio in Montagna. Mi mancava Kelemata e, più di tutto, mi mancavano di lei quelle manine piccole ma ben tornite che si destreggiavano in pazienti lavori di ricamo, di cucina e di falegnameria. Kelemata era una mia amica, se avesse saputo del mio viaggio sono sicuro mi avrebbe accompagnato. Non le dissi nulla perché il mio è il viaggio della maggiore età e non posso dividerlo che col mondo esterno: lei era già troppo dentro di me per essere inclusa nel mondo esterno.
1.11. - Il Giudice Giusto.
La mattina del processo mi svegliai per tutta la notte. Non mi riuscì di dormire che dieci minuti ogni ora, fu infernale la sofferenza provata nel rigirarmi di continuo, insonne, nella branda di stoffa consumata, coperto solo da una rugosissima copertaccia che mi arrossava il collo tanto era dura. Erano circa le sei quando decisi che non avrei dormito più, mi alzai, presi un buon libro, e mi sedetti sul vaso per fare i miei bisogni in tutta calma: dopo qualche ora avrei dovuto affrontare il Giudice Giusto e la sua corte di Giustizia. Un rumore di i tuonanti nel corridoio attirarono la mia attenzione: che fosse arrivato il mio momento? - Carcerato matricola E84623 si alzi - ordinò un signore ben vestito accompagnato dai secondini di turno. Era arrivato il mio momento: la resa dei conti. Si decideva la mia sorte presente e futura, mi sarei dovuto difendere dalle accuse senza l'aiuto di nessuno, neppure Coniglio mi avrebbe potuto aiutare; né la saggezza del Bibliotecario, né la forza d'animo dei Fratelli della Speranza. Ero solo davanti alla Giustizia, io, un ragazzo da poco maggiorenne, un giovane di montagna inesperto delle cose del mondo, una creatura indifesa ed incapace di reagire. Abbandonai subito certi toni vittimistici e mi feci forza; seguii secondini e signore in giacca blu fino ad una piccola saletta piena di divani, mi fecero sedere ad aspettare. Attesi circa due ore senza vedere nessuno o sentire alcunché. Infine una stretta porticina di legno si aprì. Mi trovavo al banco degli imputati, con grande sorpresa scoprii che accanto a me era seduto il Carcerato Innocente, mio vecchio compagno di cella. " Amico mio " lo salutai, sempre servendomi della telepatia - come mai anche tu qui? " Siamo giunti insieme " mi rispose, anche lui mentalmente " ed insieme saremo
giudicati; il corso della Giustizia procede inesorabile senza battute d'arresto o rallentamenti nei confronti di qualcuno. Dimmi, piuttosto, come stai? - Bene. - dissi, e poi sorrisi accorgendomi della banale stupidità della risposta Insomma - mi corressi - come vuoi che stia, sono molto preoccupato. Tu, invece, devi ancora finire di raccontarmi quella storia d'amore, ricordi? Il Carcerato si rabbuiò, molto di più di quanto già non lo fosse a causa della situazione. - Non posso - mi disse - perché quella storia è ancora da scrivere, tutte le mosse devono ancora essere giocate. Se non potrò essere io a finirla, voglio che lo faccia tu. Te lo chiedo come ultimo favore: se ti liberano ed io dovessi rimanere qui dentro, scrivi tu la continuazione di quella storia e poi fammi sapere come va a finire. - Ma io... - obiettai, ma fui interrotto. - Imputato matricola G45988 si alzi - disse il Giudice Giusto. Era un uomo alto e robusto, sui cinquant'anni, dal volto sembrava bonario, ma si capiva bene come in lui si combattessero ben altri duelli. Era il mio giudice e, forse, carnefice, ma non riuscii ad odiarlo o a temerlo: mi faceva pena invece, perché troppo netta era la sensazione che fosse un uomo sofferente, turbato da un dramma interiore.
- Questa corte - cominciò a dire il Giudice in tono più stanco che solenne - nel giorno di oggi è riunita per giudicare le azioni commesse dalle matricole E84623 e G45988, e decidere della loro sorte secondo le leggi dello Stato e l'opinione della Giustizia. Imputati alzatevi! Ci alzammo ubbidienti. Lo guardavamo con attenzione, forse nel tentativo vano di conoscere in anticipo la nostra sorte. Ci fecero avvicinare entrambi al banco del giudice. - Matricola G45988 - disse il Giudice rivolgendosi al mio amico - siete accusato di aver condotto vita integerrima e morale, di non aver nutrito odio o rancori verso nessuno, di non aver rubato, truffato o ingannato chicchessia; confermate
le accuse contro di voi? Rimase un attimo silenzioso, nella mia mente sentivo la sua volontà di opporsi a quella ingiustizia, eppure disse: - Sì, ammetto di essermi comportato così e, non solo me ne vanto, ma sarei disposto a rifarlo. Con quella frase perdemmo entrambi ogni speranza: lui perché si sapeva perduto, io perché l'assistere al crollo di un mio amico colpito da sorte comune non mi incoraggiava circa l'esito della sentenza su di me. - Molto bene - grugnì il giudice, forse stupito di quella dichiarazione di colpevolezza. - E lei, - rivolgendosi a me - matricola E84623, è accusato di essere stato trovato alla guida di un autoveicolo rubato, senza patente e con un'arma da fuoco rubata, senza licenza. Ammettete queste accuse? Io non potei fare come il Carcerato e tentai la difesa con ogni mezzo. - No! - proclamai a gran voce - Non sono responsabile di quanto è accaduto, l'auto mi è stata regalata, la patente l'avrei presa di lì a poco e dell'arma non sapevo nulla, era un regalo che dovevo consegnare. Il giudice non si convinse. - Come fate voi - ripresi a gran voce - a giudicare un uomo conoscendo solo un frammento di verità? Come potete fermare la vita di una persona, di un ragazzo come me, privarlo della sua libertà solo in forza di alcune circostanze sfavorevoli? Non potete sapere né giudicare. Mi sembrava di essermi difeso bene perché vedevo il Giudice interdetto, ma qualcosa avvenne d'imprevisto: il Giudice scoppiò a piangere. Singhiozzava lamentandosi e dibattendosi. Infine si calmò. L'intera aula era sconvolta da quel comportamento, nessuno però intervenne; tutti abbassarono la testa in segno di umile rispetto, tutti tranne me. Anche l'accusato accanto a me, sconfitto dalla propria filosofia di vita.
Quando il giudice si fu ripreso mi guardò. - Cosa ne sai tu - mi accusò - di cosa significhi oggi fare il giudice, cosa ne vuoi capire tu del concetto di Giustizia? Pensi che sia facile essere il custode di questo alto valore? Dover bilanciare la giustizia dei buoni con quella dei cattivi, destreggiarsi tra le volontà dei potenti ed il rispetto dei deboli, riconoscere e distinguere ciò che sulle leggi è scritto veramente da ciò che gli uomini vorrebbero che fosse scritto, scegliere tra l'essere equilibrati nell'assolvere ed implacabili nel condannare oppure essere facili al perdono e restii a punire: ti pare facile tutto questo? Credi che un uomo possa portare su di sé il rimorso di essere stato ingiusto; la paura di aver sbagliato; il timore continuo che qualcuno, non riconoscendo la mia giustizia come tale, venga a punirmi? Non pensare così perché sbaglieresti. Il giudice è una figura criticata da tutti, mal vista. Il giudice sbaglia sempre ed è sempre ingiusto: verso coloro che ha assolti, perché non lo ha fatto con formula piena; verso coloro che ha condannati perché ovviamente erano tutti innocenti; verso la gente che voleva pene più severe ed atroci; verso le mille volontà che si incontrano e contro cui ci si deve scontrare quando si fa questo lavoro. Ebbene sì, perché di lavoro si tratta, e come tale ho il diritto che le mie sentenze si rispettino senza riserve o contromisure. Non pensare quindi che io ti voglia condannare alla prigionia eterna, lìberati piuttosto del fardello delle tue colpe ed ammetti le tue responsabilità. Lo guardai esterrefatto, ma non potei ragionare che ricominciò: - Il dramma vero però, al di là di ogni discorso, è che le mie scelte non sono libere, io non posso decidere secondo l'arbitrio della Giustizia, devo adeguarla invece a quella della società: se gli uomini aggregati insieme ti ritengono indegno di stare con loro sarai punito, anche se non hai fatto nulla; viceversa, se hai commesso le colpe più gravi, ma la società ti accetta e ti stima, allora vivrai nella gloria. Ed è per questi motivi che ora io pronuncerò le sentenze su di voi. Detto questo il Giudice Giusto si ritirò nelle sue stanze per consigliarsi con la Giustizia, rappresentata in quel momento dai codici, dalla coscienza e dalla fortissima legge della società. Io e Carcerato fummo condotti di nuovo nella saletta con i divani e lì parlammo tra noi, sempre attraverso il pensiero. Le parole del Giudice Giusto ci avevano colpito in modo molto profondo, per la
prima volta riflettemmo su cosa significasse veramente la giustizia; eppure, nel nostro girovagare mentale, ci accorgemmo che avevamo un visione ben diversa delle cose. Il Carcerato Innocente vedeva la giustizia organizzata come un'istituzione dell'umanità, un valore aggiuntivo che sopravanza ed annienta il senso innato di giustizia che c'è in ogni uomo; io, invece, non credevo nella possibilità di determinare in alcun modo cosa fosse e cosa non fosse giusto in assoluto, bensì unica alternativa era adeguarsi alle norme consuetudinarie purché venissero applicate dagli uomini di comune accordo. La mia teoria era ancora molto fragile e debole, non era certo frutto di attente riflessioni; di sicuro però, da quel momento lo sarebbe divenuta. La porta si riaprì e fummo ricondotti nell'aula del tribunale. Il giudice entrò di lì a poco. Scartabellò un poco con le carte sul tavolo, si consultò con il cancelliere, appoggiò gli occhiali sul naso e pronunciò le sentenze su di noi. - In nome dello Stato e della legge di Città Due, grazie ai poteri conferitemi ed all'autorità della mia persona; pronuncio la sentenza n_ 34 a carico della matricola G45988 che, in base agli articoli 345, 902 e 1079, considerate le attenuanti e le aggravanti del caso, risulta colpevole di gravi danni sociali e condannato a dieci anni di reclusione, da scontarsi presso il carcere sociale di Città Due. Fu un colpo incredibile per me: non mi sarei mai aspettato una condanna tanto dura. Provai a ribellarmi, ma lo sguardo soddisfatto e compiaciuto del Carcerato mi frenarono nell'intento. Perché sorrideva tra sé, perché era contento di quella condanna come se l'avesse voluta? Ma forse era stata davvero una sua precisa intenzione, e, se così fosse, perché? Non trovai risposte a quelle domande così come a nessun altra mi fosse venuta in mente: il mio amico telepatico ora mi diceva addio, sarebbe stato condotto nuovamente in carcere a scontare una pena per una colpa che non aveva commesso. Mentre la porta si chiudeva dietro di lui mi parve di sentir ronzare nella mente ancora un suo messaggio, diceva: "Grazie amico." Sicuramente era solo un'illusione. Il giudice, presi altri fogli, riprese col suo tono da proclama:
- Sempre in nome di quanto detto in precedenza, la matricola E84623, a norma degli articoli 560, 712, 2011, 76 del DPR 988, 121 del Regolamento Stradale... Tutti quei numeri e quelle leggi erano per me una condanna sicura: mi stupivano con l'abbondanza dei codici per impedirmi ogni difesa. - ...risulta colpevole - continuò il giudice - di aver guidato un veicolo rubato senza la patente e l'età sufficiente, di detenere un'arma rubata e senza porto d'armi; ma, poiché tali delitti non risultano essere delitti sociali, egli è libero di uscire e di riprendere possesso di tutto quanto ha rubato; inoltre, a titolo di indennizzo del tempo trascorso ingiustamente in carcere, gli sarà concessa una patente speciale ed un i per superare ogni frontiera ed ogni posto di blocco. Detto questo vi saluto perché la fame mi chiama; il mio dovere di Giudice pentito l'ho fatto. Ed infatti appoggiò le carte sul tavolo ed uscì dall'aula.
1.12 - Il risveglio della Coscienza.
Ho intitolato così questo capitolo perché desideravo distinguere dagli altri avvenimenti un fatto molto importante che è avvenuto in seguito alla sentenza pronunciata dal Giudice Giusto. L'interessato, come è ovvio, fu Coniglio, che fino ad allora era rimasto in silenziosa preoccupazione per la sorte comune. Eravamo appena usciti dall'aula: entrambi sconvolti per l'accaduto. Non dallo stesso motivo, però. Io ero al settimo cielo per come la fortuna mi aveva assistito e non vedevo l'ora di riprendere il mio viaggio con la nuova fuoristrada economica. Sì, mi dispiaceva per il Carcerato, ma dopotutto era una sorte che si era voluta ed a me non doveva importare più di tanto. Coniglio, invece, era schifato per l'ingiustizia commessa dal giudice, ma, più di tutto, dal mio comportamento strafottente e soddisfatto. Furono queste le sue parole, le appuntai sul diario immediatamente: - Tu non puoi accettare nulla di ciò che ti verrà offerto, né l'auto né la pistola né i documenti: ora noi andiamo via senza dir nulla a nessuno, riprendiamo il vecchio zaino e percorriamo la Strada così come eravamo partiti. Lo guardai divertito. - Ma sei scemo - dissi bruscamente - cosa credi che dopo aver ato due mesi di ingiusto carcere abbia intenzione di andar via senza rifarmi di nulla? Non mi scocciare invece colla tua moralità; hai sentito cos'ha detto il giudice: la giustizia non è di questa società, ed io mi atterrò alle sue parole. Va avanti solo chi non si guarda indietro, questo l'ho imparato. Coniglio rimase indignato. - Follie! - sbraitò - Sei pazzo a credere di potermi zittire in questo modo, tu sei dalla parte del torto e devi espiare.
- Io? Ma se sei stato tu a volermi far accettare a tutti i costi il regalo di quel (maledetto) Guidatore senza Meta. Te ne sei dimenticato forse? Lasciami perdere invece, torna a raspare la terra in cerca di radici, non ho più bisogno né di compagnia né tanto meno di una coscienza come la tua. Vattene. Coniglio mi guardò duramente, questa volta però il suo sguardo non ottenne il solito effetto: rimasi della mia idea, senza oscillazioni. Coniglio fu costretto ad andarsene, tornò indietro ripercorrendo alla rovescia tutto il cammino fin lì percorso. Quando si allontanò non lo salutai nemmeno. Ero solo finalmente, solo con la mia vita e le nuove avventure che la Strada mi avrebbe offerto. Salii in macchina, presi patente, pistola e tutti i documenti ed in un soffio uscii dalla città. Addio Città Due, con te se ne vanno preoccupazioni ed angosce, lascio dietro di me la Coscienza ed un pizzico di infantilismo. Troverò invece una libertà più serena, il rimorso, i ricordi ed un pizzico di maturità.
Questi furono i miei pensieri e le conclusioni che trassi allora, li ho trascritti per dare un immagine fedele di me e di come si svolse realmente questo viaggio. Riprenderò col prossimo capitolo il racconto vero e proprio.
2. L'Indipendenza
2.1. - Il Killer Spietato.
Mi fermai alla stazione di servizio LEONARDOK, quattro pompe per il rifornimento organizzate in file parallele coperte da un'ampia pensilina sorretta da un unico braccio di cemento, interamente smaltato di bianco. Entrai nel ristoro. - Buon giorno straniero - fece il barista che di sicuro conosceva bene gli avventori abituali - cosa posso offrirle? Interpretai la sua domanda come una richiesta di ordinazione che avrei dovuto pagare, per cui mi tenni sul semplice: - Una Gipper Step, per favore, con una fettina di limone. L'uomo del bar sorrise largamente privilegiando la mia ordinazione rispetto ai clienti giunti prima di me; questo però non parve turbarli affatto anzi, mi sorrisero benevoli. Tale accoglienza era di certo ambigua, non per questo gustai con minor soddisfazione la mia bibita rinfrescante ed il panino imbottito che ordinai in seguito. Mentre pasteggiavo allegramente mi guardai intorno, mi accorsi che, senza Coniglio, ogni oggetto ed ogni persona assumevano significati ben diversi da quelli che avevo loro attribuito sinora. Ogni volto raccontava storie il cui peso si avvertiva in modo epidermico, quasi tremavo nell'ascoltare la sofferenza annidata tra le rughe tenui e a volte profonde dei clienti di quel piccolo bar di provincia. Mi parve che ogni gesto di quelle persone fosse l'unico gesto possibile, come se da millenni ognuno ripetesse se stesso sempre uguale. Con Coniglio vedevo in ogni uomo solo un argomento per il mio diario, un personaggio del mio viaggio; ora, senza di lui, l'umanità assumeva un significato nuovo. Volli osservarli attentamente, cercando di indovinare i loro drammi e le loro storie, non mi ponevo il problema della conferma; mi bastava sapere di aver immaginato quelle persone come le custodi di un frammento di realtà, la più vera e cruda a un tempo: quella dell'umanità silenziosa che si trova in ogni luogo, ma
di cui nessuno conosce l'esistenza. Appoggiate al bancone del bar vi erano tre persone: un uomo giovane, un omone anziano molto robusto ed una donna. L'uomo giovane era seduto accanto a me. Aveva dipinto sul volto quel sorriso amaro tipico di noi ragazzi. Portava dentro la sofferenza per la profonda fenditura che divideva la sua irrefrenabile voglia di vivere dalla reale possibilità di realizzare l'oggetto del suo desiderio. I suoi occhi nascondevano un'antica vitalità ormai frenata e molto ridotta; il boccale mezzo pieno di birra era l'unica meta del suo sguardo, sicuramente anni prima i suoi occhi avrebbero compiuto viaggi estenuanti di cosa in cosa, nel tentativo, mai vano, di carpire alla realtà ogni segreto. Ora no, nel suo guardare spento non c'era che la traccia di quella vitalità: troppo spenta per ferire, da troppo poco finita per estinguersi del tutto. Tutto questo leggevo nel suo sguardo, in certi suoi modi di muovere il corpo; troppo lenti per un ragazzo, troppo rabbiosi per un adulto. La sua mano stringeva debolmente il boccale. Solo a volte le dita si contraevano più forte fino a divenire rosse per lo sforzo, eppure non tremavano mai, come se quel gesto fosse a un tempo disperato e abituale, come se quel corpo giovane contenesse una mente vecchia, ormai prossima a finire e quei gesti fossero il tentativo di strappare qualche ora alla morte: nessun uomo però, per quanto faccia, riuscirà mai ad allungare o ridurre di un sol giorno la propria esistenza, perché essa sarà sempre più breve dei nostri progetti e più lunga del nostro futuro. L'uomo di grandi dimensioni doveva essersi accorto di me e mi guardava con quella curiosità bambina che ci lascia perplessi in un adulto. Ma chi non ha dentro di sé qualcosa della sua infanzia? In ogni uomo e in ogni donna si annidano remoti agganci col mondo dell'infanzia; un mondo dove ogni cosa ha il suo posto e il suo perché, dove le grandi ingiustizie hanno la durata di un rancore ed il calore di uno schiaffo, dove i giochi sono strumenti di potere per governare il mondo, un mondo selvaggio e bellicoso che nulla ha da spartire con la perfezione di un essere umano ancora immaturo: sia esso un bimbo di quattro anni che un omone di sessanta. In quel grosso individuo scoprii esistere una natura bonaria, un’innocenza incapace di non esserlo, una solida esistenza condotta nella gioia minuta di un corpo di donna in una foto sul cruscotto e nel calore materno ed ignaro di una moglie fedele e rassegnata che assiste ai giochi del figliolo, che poi è suo marito.
Rimaneva la donna, chiusa in un'austerità quasi religiosa, impegnata con distacco a nutrire un organismo svogliato e traditore. Con lei volli parlare, forse perché ho sempre amato il dialogo con le persone del sesso opposto: esse sole infatti sanno farmi incontrare con un mondo veramente diverso dal mio che non è solo un'altra faccia della stessa medaglia. - Scusami - le dissi prendendo una confidenza forse eccessiva - conosci un certo Lomellani? Dovrebbe abitare da queste parti. La ragazza, o forse era una donna, si volse verso di me, mi squadrò con un solo sguardo, si alzò dal seggiolino davanti al bancone, mi prese per il bavero della giacca e mi spinse fuori del locale davanti agli sguardi sbigottiti delle altre persone: nessuno intervenne. - Chi sei tu, come conosci il mio nome? Sinceramente non mi aspettavo in nessun modo che il Killer di cui andavo in cerca fosse di fronte a me, donna poi. - Mi manda l'Arrivista Pentito - dissi senza esitare, quel viso duro mi intimoriva - mi ha parlato di un Killer capace di svolgere un compito in poco tempo e senza rischi, lasciandomi il suo nome. La donna, viso lungo affilato, occhi azzurri, capelli biondi lisci e lunghi fin quasi al sedere, continuando a squadrarmi con fare sospettoso, disse: - Ma cosa puoi volere tu, che sei un ragazzo, da un killer professionista? Sorrisi, mi rendevo conto della legittimità della domanda, tuttavia le risposi così: - Non è l'età di un individuo ad implicare il desiderio di morte e di vendetta, bensì sono le sofferenze e le ingiustizie subite, la bontà troppo sfruttata e l'ingratitudine, che generano reazioni violente e troppo piene di se stesse per stare indosso ad un ragazzo come me. Desidero che tu rintracci il Guidatore Senza Meta, un individuo strano che, nel suo altruismo ambiguo, nascondeva ben altre sostanze: regalava il Male mascherandolo con il Bene. Ed una volta che lo avrai trovato voglio che tu gli impedisca di proseguire nella sua azione distruttiva, portata avanti in nome di una rivoluzione generosa. Non mi importa come, purché la mia esperienza negativa possa essere servita a fermare un essere capace di abbracciare e poi uccidere a tradimento chiunque gli si avvicini
indifeso. Le mie parole dovetterlo turbarla abbastanza, probabilmente non si aspettava che un ragazzo da poco maggiorenne fosse in grado di contenere in sé tanta cattiveria e volontà di giustizia e di vendetta; infatti rimase un attimo silenziosa distogliendo lo sguardo che fino a quel momento le era servito per scandagliare il mio essere in ogni suo più remoto movimento. - Accetterò il tuo incarico - mi disse - ad una sola condizione, però. - Non ho soldi - la interruppi credendo di anticipare la sua richiesta - l'Arrivista mi aveva detto che lo facevi per ione... - Non stavo dicendo questo - mi interruppe a sua volta piuttosto irritata per la mia confidenza e sfrontatezza - la condizione è un'altra. Annuii per farle capire che mi ero reso conto dell'errore commesso e che aspettavo che mi dicesse. - Bene - commentò - voglio che tu smetta di provare desiderio di vendetta. Lasciò la frase come sospesa e mi fissò negli occhi, questa volta senza desiderio di scandagliare il mio essere per prevederlo, bensì per apprezzarlo; voleva suggerirmi, mi parve di capire dall'espressione del suo viso, di abbandonare la via della vendetta come strumento di giustizia ristabilita, ma di concentrarmi piuttosto su qualcosa che ancora non avevo assaggiato, ma di cui avevo assaporato l'odore. Capii in seguito di cosa si trattava. Interruppi io quello scambio di pensieri e consigli fatto solo con gli occhi, e dissi: - Vogliamo andare in giro - le proposi - così ti dico i particolari e tu mi racconti un po' della tua vita? Ciò che le proponevo, in verità, stupì più me che lei. Una donna doveva essere abituata ad inviti del genere, ma un ragazzino come me che si prendeva tutta quella confidenza con un Killer era veramente fuori luogo. Dietro la stazione di servizio c'era un parco giochi per i bambini, ci andammo a sedere su di un'altalena: lei da un lato, io dall'altro. Dondolavamo come bambini.
Trovai le parole per i miei pensieri; la volontà di sapere animava la mia mente, avvolta in una spirale di curiosità, affascinata dalla figura femminile che ora sedeva di fronte a me. Una donna. Avevo sempre provato una incredibile attrazione per il loro mondo. La donna è una esistenza alternativa a quella dell'uomo, possiede una visione delle cose differente dalla nostra, a volte le basta uno sguardo per scavare nell'intimo di chiunque, altre volte sembra non voler accettare pensieri che non siano i suoi; le donne hanno buon gusto (di solito), una fine sensibilità, pur se a volte si lasciano trasportare dalle emozioni e si ritrovano accusate di isterismo o di eccessiva superficialità; sanno essere dolcissime nel loro infantile modo di essere, ma possono mordere con la rabbia di chi difende se stesso sapendosi spacciato. Le donne sono allegria, riflessione, compagnia e amore. Fu quella parola a scatenare in me mille domande da rivolgere alle donne: cos'era l'amore, perché esisteva, come funzionava? Per trovare la risposta a queste domande mi rivolsi a lei, il Killer Spietato, la donna che avevo davanti a me, l'unica con cui poter parlare: Kelemata era troppo lontana e forse non era neppure donna, fino in fondo almeno. - Capiti male ragazzo - rispose al mio desiderio di sapere - ti trovi di fronte ad una persona incapace di provare il sentimento dell'amore: io sono nata per uccidere, non so far altro. Ovviamente non le credetti, nelle sue parole si leggeva invece un rancore profondo, che da solo sarebbe bastato ad invalidare ciò che aveva detto a me, nella speranza forse di non dover esporre il suo caso doloroso. Non potei credere che un essere umano attraente come lei non celasse in sé ben altro al di là dell'istinto di uccidere, congenito o meno che fosse. La guardai con rimprovero, con un'autorità troppo audace per un ragazzo sprovveduto; eppure lei, nella torre d'avorio della sua durezza, parve comprendere il mio biasimo affettuoso e lo interpretò, senza sbagliare, come uno strumento che mi consentisse di accedere al suo intimo. Ed infatti, recedendo sui propri i, ricominciò a parlare per rispondere alle mie domande, ma forse no. - Tu non mi credi - disse pentita, con l'amarezza di chi sa di aver mentito per disperazione - ed io l'ho capito. Forse non sbagli credendomi capace di quel complesso modo di essere qual è l'amore: tu non lo conosci, ma ne sai vedere gli
effetti. Questo ti deve incoraggiare, se riesci a capire senza conoscere: molto presto riuscirai a provare ciò che hai compreso. Stai attento però a non trovarti in una situazione in cui ciò che conosci rimane chiuso in se stesso e non coincide più con ciò che provi. Le ero grato per aver iniziato a parlare senza che la pregassi ancora, tuttavia non comprendevo tutto quanto mi stava dicendo. Non dissi nulla e presi a far dondolare di nuovo l'altalena, per incoraggiarla a proseguire. Ogni volta che toccava a lei puntare i piedi a terra per spingere in su, il movimento le scostava i capelli dal viso ed io, attento come sempre ad ogni frammento di bellezza, scorgevo tra le pieghe della sua bocca nascere un sorriso che, sùbito dopo, moriva nell'austera serietà della sua professione. - Più tardi capirai ciò che dico. - proseguì fermando l'altalena, col viso nascosto dall'ombra del pomeriggio che filtrava tra i capelli - Vuoi conoscere la mia storia ed io ti accontento. S'interruppe. Morivo dalla voglia di sapere, di conoscere la sua storia, di scoprire come si potesse condurre la propria vita procurando la morte. Si alzò dall'altalena e prese a camminare lungo il selciato, verso la stazione si servizio. La seguivo, in silenzio, pochi i dietro. Ad un tratto infilò una mano dentro la giacca di pelle e, voltandosi verso di me, ne estrasse una pistola di grosso calibro.
Non so perché lo feci; forse me l'aspettavo da un momento all'altro, o forse erano stati tutti quei film di guerra che avevo visto alla televisione, quella cultura della violenza che tanto strideva con la pace globale che lassù, nel mio piccolo Villaggio di Montagna, regnava sovrana. Il suo corpo giaceva a terra in una pozza di sangue, una gamba si contraeva ancora, ma era morta: per sempre. Avevo ucciso una persona, una donna, un personaggio del mio diario era scomparso senza poter lasciare una traccia di sé. In realtà, direi adesso, la traccia l'aveva lasciata in me ed il suo non avere storia era già di per sé una storia, assai più interessante di mille trame tessute dal caso e dalla volontà. Sopraggiunsero delle persone dalla stazione di servizio.
- Cos'è successo? - chiese urlando l'addetto alle pompe. - Che diavolo è stato? - gridò il meccanico. - Chi ha sparato? - fece il barista precipitandosi fuori del bar. Venivano tutti verso di me, col dito puntato, pronti ad assalire e linciare l'autore del delitto, senza prendersi la briga di verificare. Questo in realtà fu il mio pensiero, infatti nessuno di loro ebbe la reazione che mi aspettavo. Quando furono abbastanza vicini a me a al corpo del Killer Spietato tutti ebbero la medesima reazione: un moto di gioia attraversò il loro volto. - Bravo, l'hai uccisa - si complimentò il meccanico. - Ma come hai fatto, in piena fronte poi? - mi chiese l'addetto alle pompe. - Finalmente! - esclamò il barista. Non capivo quell'entusiasmo, dopotutto avevo ucciso una persona, avevo commesso un delitto, orribile, anche se per legittima difesa. Perché congratularsi con me per l'uccisione di una donna, sebbene fosse un'assassina? Non c'era Coniglio accanto a me e non potei accorgermi subito di ciò che avevo fatto, cosicché chiesi il perché di tanta ammirazione ed eccitazione. Mi guardarono tutti stupiti nel constatare come fossi del tutto ignaro dell'azione commessa. - Ma come... Accidenti... Ma allora? - furono i commenti titubanti della gente. - Dunque voi non siete il Vendicatore Senza Tregua? - domandò il più anziano tra tutti. - No - si udì provenire dalle nostre spalle - sono io colui che chiamate il Vendicatore Senza Tregua; questo semplice ragazzo ha svolto il mio compito senza saperlo, merita lui una ricompensa. Era un uomo vestito tutto di nero, la voce sembrava uscirgli da dentro, era
impossibile intuire i connotati del viso talmente era avvolto nel suo mantello risvoltato di rosso. La voce era piena, profonda ma non roca; tutti rimanemmo sconcertati. - Ah, è lei! - esclamarono i presenti, presto riavutisi dalla sorpresa, rivolti all'uomo vestito di nero - La stavamo aspettando. Complimenti. Decine di mani, nel frattempo era sopraggiunta altra gente (tranne gli avventori del bar di cui avevo parlato prima), si protesero verso di lui per ringraziarlo o anche solo per toccargli quel mantello nero, lucido e risvoltato di rosso. L'uomo si divincolò da quella folla euforica ed invadente, mi afferrò per un braccio e, come spinto da una forza superiore, abbandonò con un balzo quel luogo tirandomi con sé fino ad una splendida motocicletta, anch'essa di colore nero e cromata d'argento, facendomi cenno di salire. Non mi rendevo conto più di nulla ormai, eppure obbedii. Partimmo immediatamente, lasciando quella folla dentro una nuvola di polvere.
2.2. - Il Vendicatore Senza Tregua.
Il vento agitava i miei capelli come una vecchia bandiera sfilacciata; lo zaino ad ogni curva sembrava volerci far cadere a terra, tanto era pesante; il mantello del misterioso uomo vestito di nero non si muoveva affatto, nonostante leggessi sul tachimetro la velocità di 120 chilometri l'ora. I suoi movimenti erano flemmatici eppure rapidi, come se sapesse prevedere ogni cosa in modo da agire progressivamente e senza movimenti bruschi. La moto era stupenda, non ne avevo mai vista una simile (non che ne avessi viste tante, giusto quella di Pino il macellaio che portava la carne in città), silenziosa e stabile, con un motore grintoso ma regolare. Non che mi intendessi molto di meccanica, tuttavia possedevo la cultura sufficiente per apprezzare il mezzo di trasporto su cui mi trovavo. "A proposito" pensai "in che situazione mi trovo?" Cominciai a riflettere su ciò che mi era accaduto e mi stava accadendo. "Mi trovo su di una motocicletta guidata da un fantomatico Vendicatore Senza Tregua, diretto verso chissà dove a folle velocità; avevo da poco ucciso il Killer Spietato, prima che potesse uccidermi a sua volta." Su quest'ultimo aspetto dovetti riflettere meglio: "Ho ucciso un essere umano, io ho premuto il grilletto di un arma da fuoco puntandola contro una donna togliendole la vita. Ho commesso un crimine verso la società e verso me stesso." Mi sentii mancare, non avrei mai creduto che un viaggio pacifico come questo potesse trasformarmi al punto di arrivare ad uccidere. Dovevo svenire, ma non sapevo come. Con la mano sinistra strinsi il braccio del Vendicatore (questo nome non era di mia invenzione) suggerendogli di fermarsi un attimo; in realtà dovetti urlare perché il vento non rendesse vane le mie parole. L'uomo non si mosse, sembrava non ascoltare le mie parole, tuttavia rallentò fino a fermarsi. Con un balzo scesi dalla moto e mi sdraiai sull'erba di un prato che si inerpicava sul ripido pendio vicino alla carreggiata. Era d'erba morbida: mi sdraiai completamente e chiusi gli occhi.
Pur non vedendolo, sentivo che la misteriosa figura era ancora ferma nella sua posizione, sulla moto, e che il suo mantello non si era mosso affatto. Come una statua mi vegliava immobile, come un mago sembrava anticipare i miei pensieri e le mie mosse. Non resistetti a lungo nella posizione in cui mi trovavo nel tentativo, ormai vano, di riorganizzare le idee o, almeno, di svenire. Non potei far altro che alzarmi di scatto e, rivolgendomi al mio misterioso accompagnatore, dire: - Chi sei tu, ma, ancora di più, perché mi hai portato via? L'uomo dal grande mantello immobile si mosse, non nel modo flemmatico e cadenzato di prima, questa volte compì un gesto unico, rapido e deciso: sollevò il mantello, roteò su se stesso facendo perno sulla pedalina della moto piantandosi infine davanti a me, stupìto dalla fulminea armonia di quel movimento. Non riuscivo a scorgergli il volto talmente era coperto dai pesanti baveri del mantello, tuttavia una parte della mia curiosità venne soddisfatta: infatti parlò. - Hai ragione tu - cominciò a dire come se la voce sgorgasse dall'interno di un mantello inanimato piuttosto che da un uomo - le domande che tu mi rivolgi sono legittime ed avranno una risposta. La voce, lontana e profonda, pronunciava quelle parole con un ritmo ed un'intonazione quasi arcaica, medioevale, come se le parole fossero state scritte quattro secoli prima di essere pronunciate. La figura del Vendicatore Senza Tregua si ergeva immobile ancora dinanzi a me, pronta a cominciare un lungo discorso che io non vedevo l'ora di ascoltare. Così fu. - Ti starai chiedendo chi io sia e perché mi comporti in questo modo così misterioso. Prima che potessi rimanere rapito dalla profondità della sua voce, lo interruppi per rispondere al suo periodo ipotetico. - Veramente sì - risposi ad occhi bassi anche se entusiasti per aver avuto la possibilità di aggiungere altre pagine al mio diario - sono molto affascinato nonché sconvolto dalla sua figura. Il Vendicatore Senza Tregua dapprima parve commuoversi ascoltando le mie
parole, forse perché intuiva che il mistero è l'origine di tutte le attrazioni, subito dopo però divenne scuro in volto rivolgendosi verso di me con queste aspre parole: - Ragazzo, sono giunto qui e ti ho rapito perché ho letto nella tua mente un disgustoso desiderio di vendetta ed io non posso tollerare che qualcuno desideri vendicarsi per un torto che ha subìto. La mia triste storia deve costituire un monito verso tutti i miei simili così da cancellare il sentimento della vendetta dall'animo di ogni essere umano. Lo guardavo incantato e colpevole sapendo che la sua storia, benché a me ancora sconosciuta sarebbe stata sicuramente convincente e capace di redimere il mio desiderio di trovare colui che aveva ingannato la mia buona fede. - Un tempo - cominciò a raccontare il Vendicatore - ero un uomo normale, senza grandi aspirazioni, senza torti né soprusi; una vita condotta all'insegna dell'onestà e del rispetto reciproco. Vivevo in una tranquilla casetta nella periferia di Città Tre; un piccolo prato ed una deliziosa moglie rendevano i miei giorni piacevoli e sereni. La donna con cui vivevo era l'unica persona per cui valesse vivere, infatti il mio lavoro di assistente sociale era improntato sulla base dei princìpi che Joselia, mia moglie, mi aveva donato durante tredici anni di felice matrimonio. Il Vendicatore si interruppe all'improvviso, come se il ricordo della moglie e del suo ato costituisse motivo di angoscia. Capii che doveva essere accaduto qualcosa di molto drammatico, a tal punto da sconvolgere completamente la vita di un normale essere umano. - Scusami - riprese, sempre nascosto nel suo mantello nero - non trovo più le parole... - Non importa - lo incoraggiai - credo di capire che non sia facile per voi raccontare la storia di qualcuno che non c'è più. Il Vendicatore sembrò trasalire. - Come facevi, mi chiese, a sapere che mia moglie era morta e la mia era una storia di fantasmi del ato? Gli risposi che durante il mio viaggio avevo imparato a capire che la morte di chi
ci sta intorno incide sul nostro io in modo talmente radicale che ogni più piccola fibra del nostro essere cambia modo di vivere e di apparire. Una persona che ha incontrato la morte durante la propria vita non può dimenticarla più e rimane dentro di lei un germe inestinguibile che le ricorda come tutto è vano ed ogni nostra azione è tanto inutile quanto è illusorio credere nell'immortalità, se non della carne, almeno delle azioni compiute. Il Vendicatore comprese le mie parole e proseguì il suo racconto. - Mia moglie, come ti ho detto, era il motore immobile della mia esistenza, l'unico motivo per cui valesse vivere e fu per questo, io credo, che un uomo sconosciuto con un'automobile una sera la investì mentre attraversava la strada insieme a me. Io non mi feci nulla, lei morì poco dopo tra le mie braccia. Da quel giorno decisi che mi sarei vendicato di quello sconosciuto, promisi a me stesso e al ricordo di mia moglie che lo avrei trovato e massacrato, così come lui aveva fatto con me. La mia casa divenne un arsenale militare: fucili di precisione, mirini telemetrici, detonatori ed esplosivi. Ogni essere umano era mio nemico, vivevo o rintanato nella mia casa o in continua caccia di prede su cui esercitare la mia vendetta. Ed è così, trasformando la mia vita in una caccia all'uomo, che mi trovo ora seduto qui, per la prima volta, accanto ad un essere umano senza vedere in lui un nemico, una preda da catturare. Per la prima volta riuscii a scorgere nel nero del suo mantello una traccia del suo volto: gli occhi gli lacrimavano, o almeno così mi piacque immaginare. Quando si accorse che scorgevo il suo volto dalla fronte corrugata, si strinse il bavero sul naso e si alzò di scatto. - Dove va? - tentai di bloccarlo afferrandolo per un braccio. Nello stringere mi accorsi quanto le sue ossa fossero fragili ed i muscoli fiacchi: come potevo aver avuto di lui un immagine di forza e di robustezza? - Lasciami - mi intimò il Vendicatore sottraendo rapidamente alla mia presa il braccio, forse accortosi della mia reazione. Ubbidii prontamente, per non alterare il suo animo già sofferente. Il Vendicatore cominciò a eggiare tutto intorno alla motocicletta, lustrando a tratti le cromature più opache; regolando i registri fuori posto; tastando, con piccoli colpettini, la solidità dell'intera struttura. Infine si rivolse a me e, dal buio del suo mantello, scaturirono queste parole:
- Ragazzo, so cosa pensi di me e della mia sorte ed è per questo che ti metto in guardia da quello che stai facendo: non meditare più la vendetta, essa è un legittimo desiderio solo nel momento in cui il torto è subìto, ma quando l'ingiustizia viene a cessare l'equilibrio è già ristabilito, il desiderio di vendicarsi perde energia, si diventa superiori, il ato è ato e l'attuazione dei propositi di vendetta sarebbe solo uno strumento per sconvolgere nuovamente l'equilibrio. Io ho capito tutto questo troppo tardi ed ora mi trovo a non poter smettere la strada che ho iniziato a percorrere. Abbandonala tu, finché sei in tempo. Prima che le sue parole potessero colpire nel segno della mia intelligenza, mi accorsi che dai suoi occhi immersi nel mantello scaturiva una luce insolita, quasi un lampo misto di odio e di dolore. Ne fui spaventato. - Vattene - urlò a gran voce il Vendicatore senza tregua - fuggi lontano prima che desideri vendicarmi anche di te. - Perché - chiesi io ingenuamente - cosa ho fatto? Il Vendicatore rimase un attimo silenzioso, abbassò la testa e disse: - Mi sto affezionando a te e questo non deve accadere, io ho giurato fedeltà e vendetta a mia moglie e non posso, anzi non devo lasciar entrare nessuno nel mio cuore. Dette queste parole, prima che potessi capire se avesse torto o meno, si gettò sulla moto e scomparve in una nuvola di fumo.
2.3. - Il Collezionista di Donne.
Quando il Vendicatore Senza Tregua scomparve nell'aria con la sua moto ed io ebbi finito di scrivere le pagine del mio diario, ricominciai il mio viaggio riprendendo a camminare lungo La Strada. Mi trovavo a circa metà strada tra la Valle e la Campagna e, benché fossi diretto al non lontano Paese Uno, data l'ora tarda, decisi che avrei trovato riposo in qualche pensione lungo la via provinciale, che avevo percorso col Vendicatore. L'ultimo incontro che avevo fatto, mi accorsi più tardi, ebbe un effetto dirompente sulla mia personalità; grazie a quelle parole, e a ai fatti accaduti, compresi che occorre avere il giusto atteggiamento verso ogni cosa per poterne apprezzare i vantaggi o attenuare gli svantaggi; per arricchirmi e crescere durante questo viaggio avrei dovuto sperimentare qualcosa, una sorta di chiave universale capace di interpretare tutte le realtà possibili. Non sapevo dove o in cosa fosse questa Chiave, eppure ero certo della sua esistenza, fu così che decisi di orientare tutto il mio viaggio alla ricerca di tale strumento di conoscenza: da quel momento, finché non l'avessi trovato, avrei orientato tutte le mie energie verso tale obiettivo. Non mi volli porre domande sterili e viziose del tipo: "Che cos'è, dove è probabile che stia, chi ce l'ha..?". Avrei agito invece come colui che cerca senza sapere né cosa né dove, sarei stato un'artista insomma, una sorta di "carpitore dei segreti della Natura". Del resto, riflettei, a cosa potrà mai servire la vita se non per conoscere quante più cose possibile in modo da saper affrontare la morte il giorno che verrà?
La strada discendeva verso la campagna come un serpente si insinua nella sabbia della riva, il vento muoveva il grano che, come un'onda, ricopriva e a tratti mostrava il corpo del serpente. Camminavo a piedi, lo zaino in spalla; la fuoristrada era rimasta alla stazione di servizio, la pistola nel parco giochi. Ora proseguivo il cammino così come l'avevo intrapreso quattro mesi prima: uno zaino, un paio di scarpe buone e tanta voglia di scoprire.
La bettola in cui mi fermai si chiamava "La bettola del Viandante e del Pellegrinò; pavimenti marciti e scricchiolanti, pareti sporche e scrostate, illuminazione debole e gialliccia, avventori fumosi ed iracondi: uno scenario veramente poco invitante. Eppure, in tutta quella sporcizia mi parve di scorgere un elemento positivo; dapprima non riuscivo a capire quale fosse, poi mi accorsi che si trattava di un aromatico e saporitissimo odore di buona cucina campagnola. Fu quando vidi la cucina che apprezzai definitivamente quella bettola, riconoscendo come sempre efficace il mio "fiutò in fatto di posti dove mangiare. Stoviglie lucide, forni elettrici a micro-onde, lavastoviglie ultrarapide, contenitori sterilizzati ed ogni altra misura di igiene alimentare costituivano un ottimo motivo per decidere di are la notte lì. Mi sedetti ad un tavolo, unto fin nel tessuto legnoso più interno, in attesa del cameriere per le ordinazioni. Nell'attesa decisi di farmi un'idea dettagliata della sala: v'erano in tutto dieci tavoli in nove dei quali almeno quattro persone si contendevano boccali pieni di birra e grossi panini imbottiti e pieni di salse. Solo, in un tavolo vicino al mio, era seduto l'unico uomo che non mangiava né beveva alcunché: scriveva su di un blocco di appunti tascabile. Può essere in quell'uomo, pensai, una risposta alle mie domande. Scelsi quell'individuo perché era diverso dagli altri ed il suo comportamento strideva con l'ambiente che lo circondava. Il cameriere giunse di lì a poco. Era un panciuto garzone con un canovaccio sulla spalla ed un grembiule sudicio pieno di sugo, birra e altri grassi; tuttavia, il viso imberbe, il berretto in testa e quel profumo di pepe e di pane casereccio mi spinsero ad ordinare il piatto più sconosciuto e misterioso: le fettuccine al ragù. Non chiesi nemmeno di cosa si trattava, mi lasciai guidare dal desiderio di avventura. Non appena il cameriere tornò in cucina rimettendosi in tasca il blocchetto delle ordinazioni (strano che ne avessero in dotazione), tirai fuori dallo zaino il mio diario e feci per scrivere su di una nuova pagina. In realtà era una provocazione diretta al mio vicino di tavolo, volevo attrarre la sua attenzione e, non si sa mai, quella pagina scriverla davvero. Difatti, come previsto, l'uomo si accorse della mia presenza: una persona che legge in un locale affollato di burrascosi camionisti e grassocci paesani nota facilmente una persona che scrive.
Dapprima mi osservò fugacemente, poi, a poco a poco, alzava la testa con maggior frequenza, fino ad arrivare a fissarmi continuamente. Fui io che interruppi quel ciclo di sguardi. - Mi presento - gli dissi alzandomi - sono un giovane viaggiatore in cerca di un personaggio da descrivere nel proprio diario: mi piacerebbe parlare anche di lei. L'uomo, di bella presenza sui trentacinque, dapprima tirò la testa indietro per esprimere sorpresa, subito dopo sorrise e mi invitò a sedermi con un gesto. - Mi presento anche io - disse, con voce suadente - sono il Collezionista di Donne. Favoloso, pensai tra me, avevo trovato un personaggio che si era definito da solo: non mi sarei nemmeno dovuto sforzare a dare una classificazione adatta al mio nuovo personaggio. Fu così che ci mettemmo a parlare, io seduto composto sulla seggiola di mogano, pronto a prendere appunti; lui, semidisteso e con aria superba, pronto a narrare le sue gesta. "Sin da piccolo" mi raccontò "fui educato a cercare il divertimento insieme agli altri, a desiderare la compagnia di ragazze da sedurre ed illudere; e di ragazzi con cui vantarmi delle mie bravate. Un'infanzia spensierata; un'adolescenza sessualmente emancipata, vissuta all'insegna dell'egoismo più radicale; un'età adulta goliardica e buffonesca, dove la donna è l'alimento primo per anima e corpo. Ho conosciuto finora quasi tutti i possibili tipi di donna. Di ognuna conservo tutto ciò che, in un modo o in un altro, le ho collegato: biglietti, regali, oggetti, feticci e così via. Io so tutto di tutte le donne, so capire i loro più reconditi desideri, so intuire ogni istinto, anticipare ogni reazione, interpretare qualsiasi comportamento. Detto questo si interruppe per un attimo e prese a sfogliare il suo blocchetto; poi, selezionata la prima pagina, riprese a dire: - In questa specie di rubrica ho descritto, catalogato e registrato ogni donna che ho conosciuto; di tutte queste (che sono più di mille) ne ho "collezionate" cento: anche io faccio le mie selezioni. Senza volerlo dovetti manifestare interesse per quel taccuino ed il Collezionista
se ne accorse. - Credo di capire - fece, ironico - che ti piacerebbe leggerne qualcuna di queste descrizioni: ebbene, ascoltami. Prendi per esempio la donna aggressiva; tu le penseresti tutte uguali, invece esistono una miriade di aggressività diverse, non solo, ma anche nell'ambito dello stesso tipo di manifestazioni variano i moventi che le generano. C'è l'Aggressiva Preventiva che attacca prima di essere attaccata; è una debole, in fondo, troppo insicura per abbandonarsi serenamente e concedere agli altri l'opportunità di ferirla: per amare ci vuole innanzitutto coraggio, occorre correre il rischio di non essere corrisposti o di essere traditi. Poi c'è l'Aggressiva Volitiva, che rifiuta di concedersi veramente a qualcuno (sfruttandolo e prosciugandolo) e crede di usarti a suo modo, quando invece ha solo una gran paura di rimanere sola. E la preda preferita da noi collezionisti, forse perché la più dura da vincere. Di contro esiste la Timida Gentile, tenera e mite donnettina incapace di voler male ad una mosca; può essere abbindolata facilmente, ma occorre sapersi giostrare nei suoi continui tentativi di condurti al matrimonio. Continuò a raccontare per un'ora descrivendomi ogni possibile combinazione di malizia ed innocenza, di candore e fascino sensuale, di armonia e malagrazia. Conclusi, dai suoi discorsi, che ogni possibile tipo di donna era stata da lui descritta. Dalle sue parole dedussi che nella mia vita non avrei mai incontrato una donna adatta: ognuna aveva i propri pregi, accompagnati però da altrettanti difetti; quella che ti lascia libero, prima o poi ti tradisce; quella che ti opprime, alla lunga ti tarpa le ali. Che donna scegliere: nessuna, ripetei tra me. Mentre ero assorto nei miei pensieri ed il Collezionista rimetteva a posto i propri fogli, una figura femminile comparve sulla porta della taverna: ci fu silenzio in tutta la sala, il fumo si depositò a terra in pochi istanti, la cucina smise di sbuffare minestre, la brace nel forno si assopì. La donna si avvicinò al nostro tavolo e la sua chioma fluente l'accompagnava. Il Collezionista ne fu rapito ed il suo viso, per la prima volta di fronte ad una donna, arrossì; il taccuino gli cadde dalle mani ed iniziò a sudare freddo. Che si fosse di colpo innamorato? - pensai tra me. Nel frattempo la misteriosa donna si sedette al nostro tavolo. Il fisico, strutturalmente perfetto, si insinuava nello spazio con evidente fluidità; la linea slanciata le conferiva un austerità maestosa, anche se perfettamente mitigata
dall'abbigliamento romanticizzante ed infantile; la silhouette, perfettamente curvilinea, invitava ad un ipotetico simposio la dolcezza e la malizia; gli splendidi occhi chiari, grandi e caldi, lanciavano inviti continui, contrastati, in questa azione provocatoria, dalle timide contrazioni delle labbra carnose e mai invadenti. Mentre io mi soffermavo a valutare l'essere ed il non-essere di quella creatura vivente (ero ancora troppo confuso per osservarla come donna), il Collezionista si gingillava su se stesso, senza attivare una delle sue tattiche sempre vincenti di conquista; fu lei ad attaccare discorso con fare disinvolto ma gentile: - Buonasera, mi presento: sono Nadia, non sono del posto e cerco una guida con cui visitare la città; lei - disse indicando il Collezionista - mi sembra simpatico, mi potrebbe aiutare? Non mi ritenni assolutamente offeso per non essere stato preferito al mio compagno di tavolo: non mi sarebbe piaciuto essere oggetto delle attenzioni di quella creatura tanto perfetta. Il Collezionista esitò, non si aspettava che fosse lei a cominciare e perse qualche colpo prima di sciorinare il suo fornito repertorio di complimenti. - Ma certamente dolcezza... Come no, pupa... Io conosco questa città meglio delle mie tasche... Non potevi scegliere persona più adatta di me... Una serie interminabile di "Io qui, Io lì" e di "Bellezza, Donna dalle guance di vellutò e altre melensaggini. Dapprima li seguivo con interesse; via via al ripetersi delle stesse frasi, la curiosità venne meno e quella spudorata esposizione di capacità seduttive mi venne a noia. Fu così che, al termine della serata, il Collezionista di Donne e Nadia, usciti insieme dal locale, si misero a tubare come piccioncini in un piccolo giardinetto adiacente. Non volli perdermi la scena e mi sedetti su di un bidone della spazzatura fuori del locale, sperando di non essere visto. Era strano, pensai tra me, come un uomo ed una donna potessero ingannarsi a tal punto l'uno con l'altra senza sentire un prorompente bisogno di dichiararsi per quelli che realmente si è e non per ciò che si vorrebbe far credere di essere. Il mio pensiero anticipò i fatti.
2.4. - La Collezionista di Uomini.
D'un tratto il Collezionista divenne rosso in volto, rimase per un attimo impietrito e poi, come un invasato, fece uno scatto indietro abbandonando la sua compagna: - Come sarebbe a dire! - imprecò a gran voce - Cosa saresti tu, una Collezionista di Uomini ? Questa è pura follia: tra le tante donne che ho sedotto e poi abbandonato mi sono andato ad innamorare proprio di una copia in femminile di me stesso! Oh, me derelitto. Queste furono le sue ultime parole perché lo vedemmo subito dopo scomparire in un vicolo buio. Mi lanciai al suo inseguimento, ma, oltre al ticchettio dei suoi i in fuga, di lui non mi rimase altro che il taccuino-archivio in cui aveva canonizzato e descritto ogni donna. Lo trovai gettato a terra in una pozza di fango e petrolio; nell'unica pagina che riuscii a decifrare c'era scritto: "Ad ogni donna che ho catalogato è associato un grande errore: nessuno può vivere solo di se stesso e della propria gloria, ognuno ha bisogno (prima o poi) di rendersi umile verso qualcuno, di sacrificare un proprio egoismo a vantaggio di una persona che, senza volerlo, è entrata nella nostra sfera dell'intimità..." Sorrisi a quella frase incompleta eppure profonda per un uomo che, a prima vista, sembrava improntare la sua esistenza sulla base dell'effimero e dell'illusorio.
Tornato indietro sui miei i trovai la Collezionista di Uomini che annotava qualcosa su di un taccuino, non volli leggerlo questa volta: e ripresi la mia Strada.
2.5. - La Ragazza del Cimitero.
Mentre il vento mi scivolava tra i capelli, annodandoli, e la strada correva veloce al mio fianco, cominciai a sentirmi strano, qualcosa stava turbando la mia serenità. Provai a chiedermi cosa fosse e coprii che, in realtà, lo stato d'animo che mi dominava non era affatto ansia né agitazione, bensì eccitazione ed euforia. Ero desideroso di incontrare quanto prima l'Amore Vero che mi era stato annunciato.
Chi sarebbe stata e come l'avrei incontrata non potevo sapere, e mi dilettai ad immaginare gli incontri più fantasiosi e, perché no, elettrizzanti qualora si fossero realizzati davvero. Il primo lo immaginai così: "Quella mattina il cielo azzurro era navigato da poche nuvole candide e compatte che lo attraversavano rapide mutando forma di continuo, come la spuma formata dalle onde quando s'infrangono sulla riva del mare. Ma non volli stare in casa ad osservare quello spettacolo e decisi di uscire. Presi la bicicletta, visto che era Domenica avrei trovato molto meno traffico, e cominciai a vagare per le vie, lasciando che fosse la strada a condurmi, affidando la decisione delle svolte a segni esterni o irrazionali. Una via alberata mi attrasse guidandomi fino a trovarmi nei pressi del cimitero. Entrai, nonostante non fossi un amante del culto dei morti, perché l'aria di tranquillità avrebbe certamente giovato all'osservazione del cielo e dei suoi naviganti. Le tombe erano disposte secondo lo stile inglese: una croce nell'erba rasata, cipressi e tanti fiori. eggiando per i sentieri che si arrampicavano sul colle dove si trovavano le cripte, vidi una ragazza che guardava una tomba, silenziosa. Mi avvicinai lentamente e mi accorsi che il suo viso era solcato da un tenero sorriso. Fermatomi ad osservare la tomba accanto alla sua, volli imitare il suo sorriso. Dopo qualche istante mi notò. 'Ehi!' disse ad alta voce gesticolando come per superare il rumore di una folla (ben rara in un cimitero) 'anche tu sei un cultore di tombe?'
Rimasi interdetto, poi biascicai un '...veramente io...' Lei capì di essersi sbagliata e tentò di rimediare. 'Scusami, dato che avevi sul viso un sorriso tenero pensavo fossi un mio collega. La cosa mi stava incuriosendo sempre più. 'In che senso, collega in che cosa?' 'E' giusto che mi presenti: io sono la Ragazza dei Cimiteri, colei la quale gira per i cimiteri nelle tranquille giornate di sole leggendo epigrafi e targhe per immaginare le storie, la vita e le cause della morte dei defunti. E immagino come avrebbero vissuto emozioni e dolori se avessero saputo in anticipo le circostanze e le cause della loro morte. Questo mi porta a prendere un sereno distacco dalle cose che sembrano, al tempo stesso, di maggior valore, ma senza importanza.' 'Ma se il quadro che tu fai è così sconsolato, se ti accorgi dell'inutilità dell'agire umano, se acquisti distacco dalle cose: perché sul tuo viso c'è quel tenero sorriso, a parte la rima? 'Spesso capita nella vita che, pur sapendo (o intuendo) come e quando una situazione possa finire, si cerca in tutti i modi di annullare quell'evento, prolungandone idealmente il godimento il più possibile, senza avere riguardo al momento finale. Ebbene, come certo saprai, nessuno può allungare in nessun modo la durata di nessuna situazione e sorrido d'orgoglio nel vedere i tentativi, vani, degli uomini per farlo.' 'Ma il tuo sorriso è tenero e non freddo come verrebbe da pensare, perché?' La Ragazza dei Cimiteri abbassò la testa, mi prese la mano e si avvicinò a me, fino a toccare con la punta del suo piccolo naso le mie labbra. 'Perché in realtà mi fanno tanta pena e divento triste se penso a me che sono consapevole di questo e soffro perché non riesco a desiderare che la mia vita duri di più. Non riesco nemmeno a desiderare che duri di meno e mi accontento dei suoi ritmi' e con queste parole portò le sue braccia ai miei fianchi appoggiando la sua fronte al mio naso. 'Ma non dovresti essere felice invece perché possiedi il tanto agognato Equilibrio Esistenziale?'
'No, mio caro Viaggiatore degli animi umani, perché fino ad ora ero sola nel mio equilibrio e scoprirai che l'equilibrio non dà la felicità.' 'E adesso, non lo sei più?' 'No, perché ho incontrato te, che imiti i sentimenti degli esseri umani per imparare ad amarli. Impari bene, mio caro viaggiatore, perché io ti amo..." Questo fu il primo incontro che la mia fantasia partorì, mentre il vento continuava a trasformare i miei capelli in fruste che si scatenavano sul mio viso. La strada si inerpicava adesso su Collina, la ripida altura che divideva Paese Uno da Paese Due. La vegetazione era a foglia piatta, stagionale, ed ora (essendo già in Autunno) la gran parte delle foglie era ancora sui rami, anche se ingiallita e quasi secca. Al aggio della mia fuoristrada le foglie più deboli, trascinate dal risucchio dell'aria, si staccavano dai rami e si rotolavano su se stesse dietro di me, inseguendosi l'un l'altra. Quando raggiunsi la sommità del colle fermai la macchina e scesi a fare una eggiata. Mi trovavo in uno spiazzo panoramico al margine della strada e da qui potevo vedere, dietro di me, il degradare di Collina. Gli alberi stagionali erano riuniti in gruppi, come per scaldarsi a vicenda nelle lunghe notti invernali, quando sono ormai privi di foglie; i sempreverdi, invece, spuntavano sparsi per il pendio, a gruppi di tre, non di più. Mi chiesi se quella disposizione fosse stata opera di un rimboschimento dell'uomo o se piuttosto la natura superasse se stessa in arcane simmetrie. A volte un colpo di vento più forte scuoteva i rami più alti ed il fruscio delle foglie sembrava un chiacchiericcio di bambini. Gli abeti, invece, al vento reagivano poco e si dondolavano con aristocratico distacco senza parlare. Mi piaceva ascoltare la Natura: aveva sempre tante cose da dire e con lei non mi annoiavo mai.
2.6. - La Ragazza degli Angoli.
Fu mentre ascoltavo e odoravo quel panorama che qualcosa, forse la realtà, chiamò a sé la propria attenzione, bruscamente. Su di un'automobile sgangherata che portava sul tetto un gigantesco megafono la voce di un uomo invitava tutti, vecchi e bambini, a partecipare alla fiera di Paese Due che si sarebbe tenuta quella sera nella piazza principale. Forse quell'uomo aveva dimenticato il nastro, forse aveva ricominciato a gridare dopo avermi visto, in ogni caso lì, in quel punto panoramico un tempo silenzioso, non c'era nessuno (oltre me) da invitare alla fiera. Lo presi come un segno del destino e decisi che avrei partecipato anche io alla fiera. Interrotto ormai il colloquio con la Natura, allontanatosi il rumoroso (ma utile) disturbatore, risalii in macchina con calma, soppesando ogni mossa e rallentando tutti i movimenti, come spesso si fa per non perdere il gusto di una situazione piacevole precedente che ci sfugge tra le mani e svanisce. Nonostante la temperatura non fosse più tiepida, lasciai ugualmente la capote aperta per assaporare, procedendo a bassa velocità, l'odore delle piccole gocce di rugiada che evaporano dalle foglie autunnali distese, esauste, sull'asfalto. Non so dire se fossero più gli odori od i colori dell'Autunno a farmi sentire al tempo stesso malinconico ed euforico. Come se l'avvicinarsi dell'Inverno mi procurasse paura per le imminenti giornate grigie e piovose, ed eccitazione per l'attesa del sole quando vince la pioggia e della Tramontana che porta via la notte. Fu nel pieno di quei pensieri che incontrai, nella mia fantasia, un'altra ragazza. Immaginai di trovarmi ad una di quelle feste in cui gli altri sembrano sempre divertirsi da morire mentre noi, tristemente, li osserviamo e li invidiamo da un angolo della stanza. L'invidia, poi, è più che altro quella sensazione di ingiustizia che si prova vedendo come la nostra ragazza preferita, o quella che comunque ci ha colpiti di più, in realtà sia tutta presa da mille ammiratori di cui sceglie sempre quello più diverso da ciò che noi siamo. L'invidia diventa subito sconforto e disgusto perché non si può invidiare chi non si stima. L'ingiustizia sembra essere sempre più grande quando noi ci chiudiamo nel nostro muto rifugio cercando, con la forza degli sguardi e con le pose più sofferenti, di
attrarre l'attenzione di qualcuno, magari di "Lei" che, improvvisamente delusa di ciò che ha, riconosca in noi la felicità e l'amore. Immaginai così di trovarmi proprio ad una festa come questa, mezzo intontito dal troppo vino, dolorante per le bevande gassate, assonnato per l'ora tarda e profondamente depresso per l'esito della festa (altrui). La più carina era una biondina sui 16 anni, con un nasetto dritto e poi leggermente all'insù, la pelle del viso liscia e due occhi profondi verde scuro. Intorno a lei c'erano tre ragazzi malvestiti (ovvero vestiti alla moda) che le facevano la corte, lei però non se ne occupava e si abbracciava un biondo sui vent'anni, che guardava tutti con sguardo sprezzante. Gli altri giocavano, bevevano, ridevano e ballavano al suono di note chiassose e gracchianti che un piccolo giradischi scagliava nella piccola stanza buia. Io ero lì, nell'angolo più triste della stanza, appartato ma visibile quanto basta a chi mi avesse voluto aiutare. Lentamente il rumore, le grida delle ragazze che scappavano alle mani audaci dei maschietti, la musica che martellava le casse degli esausti amplificatori e le risate di chi (beato lui!) si divertiva si fo insieme fino a divenire una base, un sottofondo continuo ed indistinguibile, incapace di crearmi né tristezza, né invidia. La mia mente stava producendo, senza che potessi impedirlo, quell'isolamento dalla realtà di cui si diventa schiavi quando la paura di vivere prende il sopravvento. Dopo poco, quando già avevo alzato le barriere contro il mondo, mi sentii addosso una sensazione di malessere diffuso, come una presenza opprimente che minacci il contatto senza attuarlo. Poi questo contatto ci fu, come una mano che si posasse sulla mia spalla, ma quella sensazione di peso cessò. Leggerezza era, invece, ciò che sentivo in quel momento, come se quella mano sollevasse ogni cellula del mio corpo in egual modo e la fe volteggiare ad un palmo in più da terra. La mia testa si girò verso quella mano e gli occhi cercarono subito chi ne fosse il proprietario. Era lei, la ragazza più bella e più irraggiungibile della festa, che veniva da me e, vedendomi triste, mi voleva aiutare. Questo credetti all'inizio, poi la ragione mi consigliò di ridimensionare le mie illusioni, probabilmente, pensai, le serviva un favore o chissà cosa.
- Sei triste? - mi domandò con sorriso materno. Mi ero sbagliato, dunque? Era venuta veramente per me: e di nuovo la speranza rimise in movimento il sangue che si era nel frattempo gelato. - Un poco... - le risposi cercando di forzare un sorriso che poi fosse molto più piccolo di quello che il mio cuore mi suggeriva di mostrare. - E sei solo? - proseguì. - Be', qui siamo in tanti... - risposi rivolgendomi alla massa che mi circondava. - E non avresti mai creduto che io ti sarei venuta vicino per aiutarti? - Lo speravo - ammisi. Lei mi guardò raddolcendo ancora lo sguardo, mi prese la mano. La sua era perfetta: liscia, fresca e morbida. - Non devi più preoccuparti: sono la Ragazza degli Angoli - disse orgogliosa. - E che vuol dire? - mi venne ingenuamente da chiederle. - Io sono - rispose - colei che ama tutti gli uomini che, in un modo od in un altro, cercano rifugio negli angoli di una casa, di una situazione o del mondo. Io sono pronta a mostrare la mia vera identità non appena vedo che qualcuno ha bisogno di me. Quando un uomo, provando ad esprimere il proprio generoso desiderio di amore, non riesce ad ottenere altro che l'isolamento da parte degli altri; è in quel momento che intervengo io, Ragazza degli Angoli, capace di curare ogni uomo dall'invincibile ed onnipresente sensazione di essere incapace di amare e di ricevere amore. La guardai, e l'insolita luce che scaturiva dai miei occhi dovette turbarla molto, perché mi prese per mano trascinandomi fuori dalla casa dove si stava svolgendo la festa.
@@@@@@@ segue dialogo per dare forza e possibilità di reagire da soli.
Il sole era tramontato ormai da tempo, ma la strada conservava ancora quell'odore che produce l'asfalto quando, caldo per il calore accumulato, comincia ad essere bagnato dall'umidità della sera. Qui finisce il mio incontro nell'immaginazione, ma per sempre legherò quel profumo alla Ragazza Degli Angoli.
2.7. - Il Giocoliere dei Birilli.
Paese Due era ormai alle porte ed il freddo intenso mi suggeriva di chiudere la capote. Così feci, fermandomi sul ciglio della strada, laddove mi era consentito. La strada adesso scendeva leggermente e, da dietro una leggera altura, la punta del campanile mi dava un'esatta misura della distanza a cui Paese Due si trovasse. Non vedevo l'ora di vedere la fiera, curioso di aggiungere nuove pagine al mio diario. Scoprii solo arrivandoci che Paese Due era una località assai deliziosa, meta, tra l'altro, anche del turismo non solo locale. Probabilmente tanto successo le derivava dalla posizione arroccata sul dorso della ripida collina rocciosa su cui era stata costruita quasi sfidando le forze della natura. Infatti il campanile che avevo scorto arrivando altro non era che la parte più alta del paese, il quale si estendeva orizzontalmente per poco più di un chilometro, ma verticalmente scendeva a valle per almeno due chilometri di terrazzamenti e stradine ripide a strapiombo sulla vallata. Mi chiesi dove mai avrebbero potuto impiantare una fiera, visto che la piazzetta del duomo, incantevole, era capace sì e no di ospitare la fontana, i tavolini del caffè e le automobili di aggio. Vista la situazione e curioso di esplorare a piedi, cercai subito un parcheggio per la mia macchina, accorgendomi immediatamente delle difficoltà che avrei incontrato. La strada principale infatti era appena sufficiente per il aggio di due autovetture affiancate e, supposi, se fosse ato un pullman avrebbe di certo creato dei problemi. Le stradine secondarie bastavano appena al loro scopo e comunque, nei pochi spazi che lo permettevano, erano già colme di automobili. Decisi di ricorrere all'aiuto delle forze dell'ordine chiamando un vigile urbano (almeno pensai che lo fosse) che stava chiacchierando con un signora molto in carne dal viso cotto dal sole. - Mi scusi - chiesi con tono affabile - potrebbe dirmi dove posso trovare un parcheggio? Il vigile diede una rapida occhiata alla targa, forse per sincerarsi circa le cause del mio modo di parlare diverso, poi mi elargì un gran sorriso e disse: - Come no, seguiti sulla strada principale per circa mezzo chilometro: troverà un
cartello indicatore, lo segua fino al parcheggio. - Grazie! Ah, mi scusi ancora, è qui che si svolge la fiera? - Sì, inizia tra poco, troverà le indicazioni anche all'interno del parcheggio... E buon divertimento. Mi salutò in modo militare ed io andai via seguendo le sue indicazioni. Trovato il cartello con la grande "P" lo seguii fino ad una galleria piuttosto anonima scavata nella roccia da dove entrava ed usciva una discreta quantità di veicoli. All’ingresso una sbarra biancorossa impediva il aggio ed un cartello suggeriva di premere un pulsante per ottenere il tagliando di ingresso. "Ecco" pensai tra me "adesso mi spelano vivo con il parcheggio, ed io non ho che pochi soldi!". Ma rimandai il problema, presi il biglietto ed entrai all'interno del parcheggio. Era una grandiosa costruzione sotterranea, i miei occhi non avevano mai visto nulla di simile, nemmeno nelle pellicole di fantascienza che guardavamo a casa di Lecris, il ragazzo più intelligente del Villaggio. Colonne di pietra grezza sembravano sorreggere il soffitto che era tutto rivestito di pannelli attrezzati con lampade a basso consumo, cavi elettrici e dispositivi antincendio. Centinaia di veicoli di ogni genere (anche autocarri, mezzi agricoli, motocicli) sostavano ordinatamente parcheggiati nelle aree delimitate. Una freccia verde mi indicava la direzione da seguire, una figura di autoveicolo luminosa mi faceva intuire che il posto verso il quale mi stavano portando era quello destinato alle auto delle mie dimensioni. Così fu; parcheggiai e mi incamminai seguendo le indicazioni per la fiera. Osservai come, stranamente, un piccolo paese di provincia potesse essere meglio attrezzato delle città, ben più grandi, che avevo visitato; mi risposi immaginando che forse in una piccola comunità è più facile trovare accordo su questioni che riguardano tutti e che gli interessi particolari del singolo, quando contrari alla volontà comune, vengono più facilmente alla luce. Un ascensore mi attendeva con le porte aperte, lo presi; persino sulla pulsantiera era indicato il piano a cui andare per la fiera: che organizzazione! Uscito di nuovo all'aperto mi trovai di fronte ad un paesaggio incredibile rispetto alle fiere del Villaggio cui ero abituato. Migliaia di persone, di espositori, di saltimbanchi, giocolieri, burattinai, centri di ristoro e sale congressi. Ero al tempo stesso affascinato e schiacciato dalla grandezza e dalla ingegnosa disposizione delle strutture, perfettamente inserite nel paesaggio urbano e nella
naturale disposizione del suolo. Per gli anziani erano addirittura disponibili delle piccole auto elettriche per non affaticarli nelle frequenti e ripide salite. Chi attrasse per primo la mia attenzione fu il Giocoliere dei Birilli che intratteneva una piccola e assortita folla stupefatta dai mirabolanti e virtuosi giochi di abilità del mio nuovo incontro. Che sarebbe stato lui il primo la capii da come mi guardò non appena arrivai, sembrava come se conoscesse la mia storia e con occhio ammiccante volesse farmelo capire. Per un po' guardai silenzioso il suo numero. - Adesso prendo un birillo - diceva agli spettatori - e lo faccio girare in aria con la mano destra, poi ne prenderò un altro con la sinistra ed infine un terzo... E così fece, aggiungendo di volta in volta un birillo e togliendone un altro. Cinque in aria, due a terra, quattro in aria tre a terra, sette in aria, tutti a terra. Sembrava che per lui i birilli fossero come le paure che galleggiano da sole nel nostro cervello anche senza il nostro aiuto. Poi prese a palleggiare con le gambe, a ruotar cerchi con le braccia, a tenere in equilibrio bastoncini sulla testa. Era affascinante vedere come se per lui la complessità del numero o la quantità degli oggetti non avesse alcun valore. Il numero, al culmine della complessità, finì in un grande applauso dei anti affascinate dei bambini eccitatissimi. Qualcuno gli lanciò delle monete, altri biglietti di maggior valore; poi tutti andarono via. Ma io rimasi lì a guardarlo mentre rimetteva a posto i suoi strumenti di lavoro. Lui si accorse subito della mia presenza, ma proseguì indisturbato la sua attività. - Sai - esordii dandogli confidenza vista la giovane età - stavo pensando una cosa... - Che cosa? - mi rispose senza alzare la testa. - Che spesso l'uomo è portato a godere soltanto del lato spettacolare, ma fugge via annoiato non appena si presenta l'aspetto della preparazione o dello smantellamento. - E allora? - Dicevo, che in pratica sembra sia sempre necessario un intrattenimento per ogni cosa, come se le pause o i momenti intermedi racchiudano i mostri della coscienza.
- Sì - rispose lui seccamente, ma non disturbato. Io ripensai al mio distacco con Coniglio: "dopotutto le cose vanno bene, non mi posso lamentare, forse questa coscienza non è così indispensabile?" pensai tra me. Ma ripresi a chiacchierare. - Io sono un Viaggiatore - dissi. - E da dove vieni e verso dove vai? - Non so, sono cittadino del mondo - feci con aria soddisfatta. - Interessante - commentò alzando un sopracciglio. - Tu invece chi sei? - chiesi retoricamente. - Io sono il Giocoliere dei Birilli, sono colui che genera e arresta il moto delle cose con la propria volontà. Io regolo anche il movimento di me stesso attraverso città, paesi e villaggi; dovunque vado ho sempre il medesimo potere di far muovere o fermare le cose al mio comando. Era notevole aver incontrato un individuo tanto sicuro delle proprie capacità, fu così che la tentazione di metterlo alla prova divenne inarrestabile. - Ma spiegami meglio cosa vuoi dire - lo incitai. Si aggiustò un po' la casacca sdrucita, verificò se i capelli fossero in ordine (a me parevano totalmente sconvolti), mise a posto gli ultimi birilli, tranne l'unico di colore rosso con cui prese a giocherellarci, poi disse: - Sì, certamente. Come hai potuto vedere io comincio sempre con un'unità semplice ed esercito su di essa la mia forza imprimendole un certo moto: un birillo lanciato in aria che ricade... Mi venne da interromperlo subito, perché già faceva acqua la sua teoria, ma lo rispettai e tacqui. - ... Poi applico un'altra forza, contrapposta ma non contraria alla precedente, su di un'altra unità (il secondo birillo) in modo da ottenere due unità che si inseguono senza mai raggiungersi. Costantemente, siccome la comune tendenza
è quella di ritornare allo stato di quiete, imprimo ad entrambi una nuova forza così che il loro rapporto rimanga sempre uguale ad uno. - Ecco allora - non resistetti e lo interruppi - che ti sei contraddetto perché in pratica tu non sei artefice del loro fermarsi ma ne sei vittima, anche se ti opponi! Il Giocoliere dei Birilli non poté che sorridere alla mia, evidentemente sciocca, osservazione. Alzò una mano come per farmi cenno di calmarmi, poi riprese a parlare: - Se tu mi avessi fatto continuare ti avrei spiegato adesso in che senso io sono autore anche del loro arrestarsi. Lasciami però spiegarti e fare alcune precisazioni. Normalmente le due unità viaggiano in senso inverso su di un medesimo piano verticale; con l'introduzione della terza unità sorge il problema dell'impossibilità (apparente) di contrapporla alle altre in quanto il piano, come si sa, è bidimensionale. Se si fe girare il terzo birillo su di un altro piano più orizzontale si otterrebbe un'asimmetria se non addirittura un urto tra le unità. E' qui, infatti, che entra in azione il mio grande potere: io posso fare in modo, rallentando il moto delle unità contrapposte verticalmente, di comprimere il piano orizzontale della terza unità, verticalizzarlo e introdurlo in quello principale. In questo modo ciascuna unità è sempre in contrapposizione ad un'altra, ma non può scontrarsi con la terza perché giacente su di un piano diverso. Il discorso prosegue poi, e si complica, per le unità successive. Nonostante mi fossi ritrovato con la bocca mezza aperta ad ascoltare quella teoria esposta con ritmo incalzante, mi sembrò di aver capito tutto. Non ero più in grado di formulare altre domande, solo una mi venne spontanea alla bocca: - Come puoi? Il Giocoliere sorrise come se la mia domanda gli avesse dato la conferma di essere un uomo superiore, ed infatti, con spiccata espressione paternalistica, mi diede (a modo suo) una lezione di vita. - Impara per il futuro - disse - che le leggi della natura non possono essere mutate dall'uomo, né se ne possono creare delle altre; l'unica cosa che l'uomo può fare è imparare a sfruttarle, riconoscendole e catalogandole. Ed io non faccio altro che guardare alla realtà circostante in cerca di combinazioni insolite, di meccanismi nascosti, di regole invisibili. Acquisite le informazioni, poi, non faccio altro che applicarle a mio vantaggio, non prima di aver acquisito la
dimestichezza e l'esperienza necessaria. Questo è il mio segreto: te l'ho svelato perché mi sembri desideroso di conoscenza. E così detto, senza darmi spazio per altri interrogativi, ricominciò a riordinare gli strumenti, anzi, le conseguenze del suo lavoro. Ripresi così a camminare per la fiera, in cerca di nuovi incontri.
2.8. - Il Miniaturista Immobile.
Abbondavano, come a separare tra loro le attrazioni principali, numerose bancarelle in cui agricoltori, artigiani e mercanti della provincia esponevano ognuno il frutto del proprio lavoro. Pensai che anche questo fosse un modo per accrescere la mia esperienza e decisi di osservarle con maggior attenzione. La prima che attrasse la mia attenzione era una bancarella poco affollata dietro la quale un anziano signore col cappello in testa (essendo sera non era certo necessario) sembrava contare i sassolini del selciato. Esponeva minuscoli cubi di legno in cui erano state abilmente intagliate delle microscopiche città, realizzate con notevole ricchezza di particolari. Rimasi per parecchi minuti ad osservarle una per una. Molte di esse erano addirittura colorate nei particolari più importanti e, in quelle tra le più grandi, la facciate delle case erano addirittura levigate e trattate con il coppale. Queste cose le sapevo perché mio nonno, che già aveva costruito la casa in cui abitiamo, costruì, in mia presenza, una piccola capanna per gli attrezzi, permettendomi di imparare molte cose sul trattamento del legno. Vicino ad ogni gruppo di miniature, a seconda della grandezza, vi era un cartello per il prezzo, ma, con mio grande stupore, non vi era scritto alcun numero. Forse, pensai, per fissare il prezzo si regolava in base alla simpatia o all'afflusso di gente. Per tutto il tempo che io ai ad osservare, comunque, il vecchio non mosse mai la testa, come se i sassolini che contava fossero infiniti. Mi piacque pensare a riguardo che il vecchio signore avesse la facoltà di vedere l'infinitamente piccolo e che quindi il numero di sassi, benché finito, fosse per lui comunque enorme. Comunque mi feci coraggio e richiamai la sua attenzione. - Mi scusi, potrebbe dirmi quanto costa questo? - ed indicai una delle miniature più belle.
L'uomo, dopo qualche interminabile secondo, alzò il cappello (e la testa con esso), guardò me e l'oggetto che il mio dito indicava. - Ottima scelta - disse alzandosi dalla sedia - un gran bel pezzo: mi ci sono voluti sei mesi per realizzarlo. - Sei mesi? - chiesi conferma io un po' stupito per il tempo eccessivo ed un po' spaventato dal prezzo che, di conseguenza, avrebbe richiesto. - Sì, e lavorando ogni giorno per ore ed ore, quasi come hai visto poco fa. Non capivo cosa intendesse dire e chiesi spiegazioni. Alla mia domanda si tolse il cappello dalla testa lisciandosi i pochi capelli bianchi e mi guardò con aria benevola. - Guarda, prendi in mano la città che hai scelto, - mi disse - cosa vedi? Io la guardai attentamente e gli dissi ciò che vedevo. - Ecco, vedi, - riprese lui - io ti ho detto di guardare e tu hai guardato solo con gli occhi e con quella piccola parte di cervello necessaria ad usarli; devi guardare con gli occhi della tua interiorità e con quelli della fantasia. Guarda bene all'interno delle piccole finestrelle che ho intagliato, guarda bene e dimmi cosa vedi. Capii cosa volesse dire e diedi fondo a tutte le mie energie per guardare nel modo che mi aveva indicato. Riflettei, poi, come illuminato improvvisamente, dissi: - Vedo, vedo! Il Miniaturista sorrise compiaciuto annuendo leggermente. - Vedo una donna che cuoce la minestra di verdure... Sì, ne sento anche l'odore! - Continua - mi spronò il vecchio - guarda nelle altre finestre e per strada. - Ecco, adesso vedo un giovanotto che si fa la barba... Un signore che legge il giornale sportivo... Un gatto che dorme vicino al caminetto, e sento anche il
calore! Ma è incredibile! - gridai. Il Miniaturista riprese a parlare. - Ora capisci cosa voglio dire: in quel piccolo pezzetto di legno, che ho inciso in pochi giorni, sono rinchiuse storie, persone e realtà che hanno richiesto mesi e mesi per essere inserite. Quando tu mi hai visto seduto con aria assente avrai pensato ad un vecchio rincretinito, ma se avessi guardato bene avresti visto stringere tra le mie mani questa miniatura che ho appena finito di intagliare, dentro la quale sto inserendo le gioie, le emozioni e le vicende di questa fiera di paese. Detto questo mi porse il pezzo di legno e, guardandolo bene, mi accorsi di esserci dentro anche io. - Te lo regalo - mi disse - così che tu possa sempre ricordarti di me. Impara anche tu ad inserirvi dentro fatti e persone così come ti ho insegnato, vedrai che sarà un tuo fedele compagno di viaggio, più ricco e fedele di qualsiasi diario. Ma ricorda che un certo giorno sarà pieno e dovrai darlo a qualcuno che ne possa godere.
2.9. - L'Equilibrista sul Filo.
Altre bancarelle destarono la mia attenzione, altri numeri mi incuriosirono, altre attrazioni fermarono il mio cammino, ma mai come nel caso dell'Equilibrista sul Filo rimasi arricchito di nuovi spunti ed illuminato nella via da seguire.
Il numero dell'Equilibrista era abbastanza pubblicizzato lungo tutta la fiera per mezzo di cartelli indicatori che riportavano anche gli orari in cui si svolgeva l'esibizione. Guardando l'orologio: mi accorsi di non averlo. Chiesta l'ora, decisi di assistere allo spettacolo che si sarebbe tenuto di lì a poco. La corda era tesa tra due spunzoni naturali di roccia a ridosso di una parete che incombeva sul piazzale dove si era riunita la folla degli spettatori, quasi la natura avesse realizzato per sé quel palcoscenico. Su di un spunzone vi era lui: l'Equilibrista, in attesa di salire sul Filo. In mano teneva un asta che stava pulendo con uno straccetto. Quello doveva certo essere lo strumento più importante per il buon esito dell'attraversamento. La folla si era ormai radunata e l'afflusso di persone era quasi interrotto. Un presentatore, dalla voce ormai consumata dalla monotonia, scandiva l'attesa fornendo spiegazioni tecniche e notizie storiche sull'Equilibrista ed il suo Filo. "Lo hanno chiamato" diceva "a far parte dei più celebri giochi... a venti metri da terra... vincerà tutte le leggi della Natura..." Tutti, io compreso, eravamo ansiosi, non tanto di vederlo are, ma piuttosto di vedere quali varietà di acrobazie avrebbe compiuto in equilibrio sul vuoto. Un rullare di tamburi fece scendere un silenzio unanime sulla folla; l'Equilibrista afferrò l'asta con due mani e la portò in posizione orizzontale. Tutti tacevano.Fece alcuni movimenti di prova abbassando l'asta prima da un lato, poi dall'altro, infine mosse il primo piede verso il filo. Eravamo col fiato sospeso. Di seguito il secondo piede e avanti ancora per un o. Muoveva solo delicatamente l'asta a destra e a sinistra, sembrava perfettamente padrone delle proprie reazioni. Fatto ancora un o si portò col corpo in avanti tenendo l'asta
stretta all'altezza della pancia e ciò facendo alzava il piede destro dal filo rimanendo perfettamente in equilibrio. Il respiro degli spettatori sembrava più un singulto soffocato. Non aveva rete, sotto. Infine, come se non bastasse, portò l'asta a contatto col filo e, saltando sulle braccia e staccando anche l'altro piede dal filo, si portò in posizione verticale. Era fermissimo, adesso muoveva l'asta in tutte le otto direzioni possibili con piccoli movimenti circolari ed omogenei. Nessuno riusciva a staccare gli occhi da lui. All'improvviso, con uno scatto di reni, si slanciò ancora in avanti e, riappoggiando nuovamente i piedi sul filo, balzò dritto. Senza un'incertezza lui, terrorizzati ma affascinati noi. Poi cominciò a muovere le ginocchia oscillando in alto ed in basso così che la corda lo seguisse in quel movimento. La paura si impossessò di noi. "E' pazzo!" gridò qualcuno. Quando la corda prese ad ondeggiare enormemente fece un balzo in alto e, ruotando su se stesso nel vuoto senza spostare l'asta, ricadde sul Filo, ma questa volta, forse perché la corda si muoveva ancora, un piede non fece bene presa e, per non cadere, dovette dare un colpo di asta che però lo sbilanciò nell'altro senso e per non cadere dovette inginocchiarsi ed infine avanzare di un o. Il pubblico era sconvolto, qualcuno sudava freddo, altri si coprirono il volto con le mani, io lo immaginai spacciato. Fatti altri numeri di minor effetto, balzando sul filo raggiunse l'altro lato e trovò ad accoglierlo un applauso scrosciante e genuino come forse non si aspettava. Grida di encomio riempirono l'aria. Tutti ripresero a respirare. Lui salutava e ringraziava. Poi cominciarono a sfollare; io, come mio solito, rimasi ad aspettare e quando l'ultimo ragazzino ebbe chiesto il suo autografo mi avvicinai all'Equilibrista sul Filo. - Mi scusi - dissi formalmente - posso disturbarla, avrei da chiederle qualcosa? Lui mi guardò incuriosito per il mio esordio, ma mi fece cenno di parlare. - Be', sa, volevo dirle che lei mi ha molto affascinato con quei suoi equilibrismi, anche se per un momento ho temuto il peggio, e quindi volevo sapere se c'era un collegamento tra l'Equilibrista sul Filo e quello nella Vita. Rimase sconcertato da quella domanda, ma credo positivamente perché mi sorrise e mi volle rispondere. - In verità sì, - mi disse - esiste uno strettissimo legame tra le due cose, anzi, volendo si potrebbe fare un parallelo tra quello cui hai assistito stasera e ciò che normalmente si vive nella realtà.
- Ottima idea! - Bene, come ricorderai all'inizio si prende dimestichezza con le cose e con se stessi, ma non si ha nessuna precisa cognizione circa quello che ci aspetta. Possiamo aver saputo o vissuto qualcosa di simile prima, tuttavia ogni fattispecie ha le sue particolarità e tutto, alla fine, è sempre nuovo. Quando ci sentiamo pronti procediamo cautamente su quella che ci sembra (o ci hanno suggerito) essere la via giusta, mantenendoci su binari ristretti, concedendoci poche divagazioni per paura di sbagliare. Poi l'esperienza aumenta, il tempo a e ci sentiamo più padroni di noi stessi e delle cose. E' qui che ci lanciamo fuori dal cammino segnato e tentiamo (più o meno gradualmente) nuovi modi di vivere o nuove cose da conoscere. Se le cose vanno male, ma, cadendo, non perdiamo l'equilibrio, allora la nostra fiducia aumenta di pari o alla spavalderia e andiamo alla ricerca di nuovi ostacoli da superare. Gli strumenti che possediamo ci sembrano in nostro potere e crediamo di conoscerli meglio di noi stessi. Così ci lanciamo ancora in progetti ambiziosi, ma questa volta abbiamo osato troppo e la vita ci spaventa per farci capire che non dobbiamo strafare. Noi proviamo ad opporci con i nostri strumenti, ma essi si rivelano armi a doppio taglio ed aggravano la nostra situazione. Solo la disperazione o la fortuna ci riportano in una posizione di equilibrio. Ma adesso non siamo più eroi orgogliosi, bensì ci siamo dovuti piegare e abbiamo capito cosa vuol dire la morte (intesa in tutti i sensi). E' allora che diveniamo più maturi, più cauti, in cerca di minori piaceri ma di maggiore solidità. Infine, raggiunto un traguardo, ci aspetta il giudizio del nostro operato ed il verdetto sarà pronunciato nella vita, nella vecchiaia o nella morte. Era tardi ormai ed era necessario cercare un posto per dormire.
2.10. - La Locandiera Attraente.
Percorrendo le strade della Fiera questa volta cercavo l'insegna di una locanda e non già nuove attrazioni. Numerose insegne indicavano i possibili luoghi e l'individuo sembrava come spinto in mille direzioni, ansioso di raggiungere ogni luogo, senza poterne possedere nessuno. Quando non sai cosa cercare ti vengono offerte molte direzioni tra cui scegliere, ma tu non riesce a decidere; quando sai dove andare, invece, la direzione che cerchi non ti si mostra, mentre molte altre ti attraggono e ti confondono facendoti infine dubitare se quella che cerchi sia veramente la direzione giusta. Ma il sonno mi venne in aiuto e riuscii sempre a sfuggire da ogni tentazione, non dimenticando mai il mio obiettivo: la locanda. La determinazione mi fece trovare numerosi alberghi, ma tutti troppo costosi per le mie povere tasche. La pazienza non mi fece desistere dalla ricerca del posto giusto. La perseveranza mi portò nel luogo che cercavo. Era, da fuori, una locanda onesta e pulita; si chiamava:"Alla bella Kris - stanze per tutte le tasche - cucina nostrana". Nonostante non mi intendessi di architettura non mi fu difficile capire che, in precedenza, l'uso di quella costruzione era quello di un fienile o di una stalla, modificata e ristrutturata, poi, per ospitare un piccolo albergo. Prima di entrare, però, dovetti fare i conti con le mie tasche: vuote. Frugando trovai solo le chiavi della macchina, un fazzoletto, il biglietto del parcheggio, la mia patente e una piccola carta plastificata inserita in un astuccio di pelle. Cosa fosse lo ignoravo, ma la scritta "LaBancaConTe" mi suggeriva che serviva a qualcosa che, magari lontanamente, aveva a che fare con i soldi. Mi era stata regalata insieme alle altre cose quando uscii dal carcere e fino a quel momento non vi avevo dato peso. Come avrei pagato con pochi spiccioli in tasca? Il problema non mi angustiò più di tanto: qualcosa avrei inventato, entrai. Al bancone c'era un uomo anziano, ma elegante e curato, che mi salutò seccamente.
- Che desidera? - chiese. Non capendo perché usasse quel tono gli risposi stupito: - Una stanza, se possibile. - Umf, un momento che controllo - fece l'uomo. Tirò fuori un vecchio registro squinternato e, poggiati gli occhiali sul naso, cominciò a leggere. Mentre leggeva ò dietro il bancone una bellissima ragazza dai lunghi capelli ricci e dalla carnagione scura che, guardatomi negli occhi per un istante, scomparì nell'ufficiolo dietro il banco. Dopo un minuto l'uomo chiuse il registro e, rivolgendosi a me in tono ancora più irritato, disse: - No, non ci sono posti per giovanotti. - In che senso? - chiesi. - Non vogliamo squattrinati confusionari qui dentro - rispose stizzato il locandiere. Come fe a sapere che non avevo soldi, non riuscii a spiegarmelo, comunque gli dissi: - Ma posso sempre lavorare qui dentro, lavare le stanze o i piatti, oppure riparare qualcosa o cucinare... Visto che non reagiva negativamente, provai tutte le carte e proseguii: - ...oppure posso accompagnare i clienti in giro per la città... E ciò dicendo, per estrarre dalla tasca le chiavi della macchina, come a provare che dicevo il vero, mi cadde la tesserina plastificata. Non appena l'uomo la vide sembrò cambiare umore. Io la raccolsi e la poggiai sul banco insieme alle chiavi. - Insomma - proseguii indifferente - mi trovi lei un incarico da svolgere, ma io ho bisogno di dormire e di rifocillarmi. Mentre dicevo quelle parole mi accorsi che la splendida ragazza stava seguendo la discussione da dietro il bancone, ma non era il momento per simili distrazioni:
dovevo convincere quell'uomo. - Ma scusi - mi interrogò, questa volta con maggiore calma - ma la sua carta di credito versione oro per crediti speciali "LaBancaConTe" non va bene per pagare il conto? - e ciò detto un gruzzolo gli comparve al posto delle pupille. Io finalmente intuii la ridicolaggine dei miei discorsi: avevo da sempre in mano uno strumento di credito notevole ed ero andato sempre in giro sentendomi uno straccione. Beata l'ignoranza! Ma al locandiere tutto questo non volli farlo capire e, rocambolescamente, inventai lì per lì una risposta. - No, va benissimo, solo che sono abituato a guadagnare tutto con il sudore della mia fronte, senza intaccare i fondi che mi hanno donato in precedenza. L'uomo sorrise soddisfatto, come se avessi fatto un complimento a lui direttamente. Non ci furono problemi e mi diede la stanza con la vista migliore. Evidentemente questa carta color oro era indice di ottimi guadagni. E se il deposito in banca non fosse sufficiente? Non volli pensarci e mi distrassi volentieri quando il locandiere cominciò a farmi delle domande. - Si trattiene molto? - Non so, sto visitando la fiera: quando avrò terminato le cose interessanti andrò via. Ogni tanto scorgevo la ragazza che ava davanti alla porta del retro gettando un'occhiata su di me. - Ma è qui per ragioni di lavoro? - No, sono in cerca d'avventura - risposi senza pensare. La ragazza questa volta ò abbastanza lentamente per poterla guardare negli occhi. Le sorrisi, mi rispose timidamente. Era bruna e gli occhi sembravano scuri come la notte, ma non avevo ancora potuto osservarla attentamente com'era mio solito con le nuove conoscenze, anche se ancora non si poteva dire tale. - Ah, si? - riprese il locandiere mentre registrava i miei dati.
- Già, sono un viaggiatore in cerca di nuove storie da scrivere sul mio diario. - E poi vuol scrivere un romanzo? - e gli occhi ripresero quella luce nera di prima, ma un nero entusiasta. - Forse, chissà, perché no - dissi svogliatamente. - E come lo intitolerebbe? - insistette. Ci pensai sù, ma non mi venne in mente nulla. - Non so, ancora non ci ho pensato. - Be', potrebbe dargli un nome che dia l'idea del viaggio, che ne dice? - Sì, potrei. - Per esempio: "La Strada"? - Anche - conclusi freddamente. Finalmente mi lasciò salire in camera e disse alla ragazza di accompagnarmi. Che emozione, un brivido mi percorse prima la schiena poi ò per il cuore, accelerandone il battito, ed infine raggiunse le estremità delle dita gelandole. Quella ragazza doveva proprio avermi colpito per reagire in quel modo all'idea di salire insieme a lei le scale. Uscendo dal bancone mi guardò con quegli occhi notturni e sorrise, mostrando i denti bianchissimi per un attimo. Notai subito il labbro inferiore che, leggermente più carnoso dell'altro, sembrava essere come la cresta di un onda di un mare in tempesta. E di questo mare sembrava sprigionare la stessa forza. Quando fece per prendere il mio zaino, mi chinai prima di lei per impedirglielo trovandomi a pochi centimetri dal suo viso. Dovetti fare uno sforzo tremendo per non baciarla: era la pelle più liscia che avessi mai visto, e profumava quasi come solo certi fiori rari riescono. Mi sembrò che lei sapesse bene l'effetto che stava generando in me e che ne fosse estremamente lusingata. Presi io lo zaino e la feci andare avanti per
guidarmi alla stanza 208. Mi fu impossibile staccarle gli occhi da dosso mentre saliva gli scalini con una sensualità tale da far colpo persino su di un ingenuo diciottenne qual'ero io, le cui esperienze ammontavano sì e no ad un bacio sulle labbra. Eppure la lingua che parlava il suo corpo doveva essere universale perché la capivo come se la conoscessi da sempre. Aveva dei pantaloni attillati che seguivano fedelmente i contorni (perfetti) di gambe e sedere, non avrei saputo dire di che materiale fossero, su a Villaggio non ne avevo mai visti. Ora che ci penso, fatta eccezione per Kelemata, le ragazze da noi era come se non ci fossero. Nessuna di loro aveva il poter evocante della, come disse di chiamarsi, Locandiera Attraente. I miei movimenti dovevano essere molto impacciati perché salendo inciampai sullo zaino e sui miei i molte volte, e lei rideva tra i denti per non offendermi. Volevo parlarle per attaccare discorso, sapevo che quello era il momento buono, ma le parole mi si gelavano in gola. Fu lei a rompere il ghiaccio. - E così sei un viaggiatore in cerca d'avventura? - Già - feci io, tirando un sospiro di sollievo. - Ma che tipo di avventure? Intuii che la sua era una domanda equivoca che io avrei potuto sfruttare a mia volta per comunicarle le mie intenzioni senza rischiare troppo. Sorrisi in maniera che lei mi vedesse. - Ma, non ho nessun pregiudizio, sono pronto a qualsiasi prova, specialmente umane - speravo di essere stato abbastanza chiaro. - In che senso? - fece lei. - Intendevo semplicemente dire che mi piace conoscere le persone ed approfondire tale conoscenza. - Parli di donne - disse in tono affermativo. Sfoggiai un'inusitata espressione da completo ebete apparecchiando uno sguardo totalmente indifferente e dissi:
- Perché no? Visto che sono un ragazzo... Intanto la Locandiera Attraente stava aprendo le finestre della stanza per far uscire l'odore di chiuso e, guardandomi distrattamente negli occhi, disse: - Io vado, la cena è alle otto in punto. Auguri per le tue conoscenze... - e scese le scale senza voltarsi. Io rimasi con lo zaino in mano e la medesima espressione da scemo che prima avevo finto ed ora era reale. Mi accorsi di avere una grandissima voglia di inseguirla per spiegarle tutto, anzi, avrei voluto ricominciare tutto da capo e non dire quelle cose; avrei dovuto approcciarla diversamente, senza farmi vedere ansioso e desideroso di lei. Come mi sarei volentieri eliminato. L'espressione da imbecille adesso si era trasformata in rabbia verso me stesso. Potevo dirle che era bella, senza doppi sensi; potevo guardarla senza rivolgerle la parola, rispondendo cautamente alle sue domande o forse sarei potuto essere me stesso dicendole tutta la verità, con i rischi che questo avrebbe comportato. Mi accorsi che adesso lo sguardo non era più rabbia per ciò che avrei dovuto fare e non ho fatto, bensì coraggio per quello che avrei fatto. Dovevo recuperare la situazione, ridestare il suo interesse per me, rendermi attraente senza opprimerla, incuriosirla senza irritarla, affascinarla senza farle perdere la testa, esserle intimo senza invadere il suo spazio, coccolarla senza annoiarla, farmi desiderare senza urtarla, essere disponibile senza farmi sottomettere, mostrarmi amico senza essere tale, desiderarla senza dirglielo, parlarle senza sommergerla, ascoltarla senza capire tutto. Amarla. L'ultima parola mi lasciò in bocca una sensazione decisamente amara e spiacevole, come se avessi insultato un amico, e volli scacciarla dalla mia mente. Che vuol dire "amore", che senso ha parlarne riguardo ad una sconosciuta, e che ne sapevo io di questo sentimento? Forse lo desideravo, ma certo non ero pronto né per riceverne né per darne. Non sarebbe stato amore quello che avrebbe (speravo) legato me alla Locandiera Attraente; tuttavia sapevo che questo legame avrebbe avuto una forza notevole, capace di operare grandi cambiamenti in noi e nella nostra vita. La parola "Amore" fu rimossa dai miei pensieri, anche se poi scoprii che non lo era dalle mie parole.
Svuotai lo zaino per lavare alcuni vestiti e far prender aria ad altri, ricompilai l'inventario delle mie cose e, dopo una doccia ristoratrice, mi sdraiai sul letto, seminudo e ancora umido, per lasciare che il sonno prendesse il sopravvento sulle ansie della vita o almeno di quel momento. Pur essendo entrato nel dormiveglia riuscivo a mantenere qualche capacità; ero in grado, senza poter interagire, di osservare quello che accadeva nel mio cervello come se assistessi ad uno spettacolo a me estraneo. Infatti, come ho detto, non avevo nessun controllo sui pensieri e sui processi mentali in atto in quel momento; capivo bene, tuttavia, che qualcosa di sconvolgente stava avvenendo dentro di me. Il mio cervello sembrava seguire una sequenza di operazioni ben precisa: prima i pensieri venivano divisi tra sensazioni, idee creative e fatti reali; poi ognuno di questi era disposto, rispetto agli altri della stessa categoria, in ordine cronologico e crescente di importanza; successivamente, categoria per categoria, venivano effettuate le operazioni specifiche. Per quanto concerneva i fatti reali i procedimenti erano i seguenti: elencazione cronachistica, analisi dei fatti da un punto di vista idealmente oggettivo, collegamenti apparenti e/o evidenti dei fatti tra loro, ricerca delle cause possibili, supposizione della eventuale naturale evoluzione di ogni singola vicenda, studio sistematico e statistico delle varie supposizioni a riguardo. Tutto ciò costituiva il pacchetto conoscitivo cosiddetto "della realtà", al quale succedeva in ordine logico quello "delle sensazioni", che era così composto: individuazione e scomposizione delle idee per gruppi tipologici; distinzione tra sensazioni emotive semplici, esogenamente indotte, deduttive endogene e derivate generiche; analisi singola del rapporto causaeffetto-sviluppi; collegamenti della precedente analisi con i fatti realmente accaduti ed infine controllo generale delle corrispondenze emozioni-realtà. L' ultimo pacchetto conoscitivo consisteva nelle "idee creative" che a sua volta era così strutturato: confronto della base conoscitiva acquisita durante le operazioni precedenti con altre basi conoscitive frutto di altre acquisizioni; analisi delle idee creative adoperate nei casi ati; raccolta di idee creative costituite sia seguendo il ramo istintivo-emotivo che quello logico-razionale; analisi dell'eventuale conseguenza di ogni idea applicata ai fatti reali-emotivi già visti; collegamento generale e scelta finale. Questo era, più o meno a grandi linee, quello che stava accadendo nella mia testa durante la fase preliminare al sonno profondo. In concreto i miei ragionamenti si potrebbero riassumere in questo solilloquio: "Probabilmente il mio
comportamento nei confronti della Locandiera non è stato da lei particolarmente gradito, tuttavia ormai il fatto è compiuto e non serve lasciarsi andare a facili rimpianti. Urge, invece, cercare un rimedio tale che non faccia risultare falso ed artefatto né il comportamento tenuto in precedenza né quello successivo. In questo modo, infatti, le si farebbe chiaramente capire che mi sono reso conto di aver toccato la sua suscettibilità e che me ne dispiace, pur continuando ad essere me stesso. Insomma cercare di contenere quel comportamento in uno spazio abbastanza ristretto così che non possa nuocere, ma abbastanza grande da non indurre la ragazza a pensare che io lo voglia nascondere del tutto. In pratica la cosa migliore sarebbe scusarsi, ma al tempo stesso continuare ad essere spiritoso senza offendere o alludere troppo". Quando la sveglia suonò mi accorsi di aver dormito profondamente perché la bocca era amara e secca e gli occhi erano impastati di sonno. Mi lavai il viso e scesi a cenare. Mentre scendevo le scale feci uno sforzo di concentrazione per essere al meglio e comportarmi correttamente. La sala da pranzo ero piccola, ma accogliente e ben ventilata. I tavoli erano una decina in tutto, la metà dei quali già occupati dagli altri ospiti dell'albergo. Ad accogliermi c'era la Locandiera che, con un gran sorriso silenzioso, mi indicò quale fosse il mio tavolo. Salutai i presenti e mi sedetti ringraziandola in maniera cordiale, ma non confidenziale. L'apparecchiatura era buona e i bicchieri puliti. Aspettando il cameriere per le ordinazioni, mi misi ad osservare gli altri commensali. Alcuni di loro attrassero la mia attenzione: una coppia di stranieri che, più che di cibo, sembrava si nutrissero solo di carte, mappe, piantine, guide rapide e non. Macchina fotografica e zainetto attaccati alla sedia completavano il quadro. Erano entrambi biondi con la pelle chiara: probabilmente provenivano dalle regioni all'estremo Nord. ai, poi, ad osservare un signore anziano che sembrava intento a contare i granelli di pepe nella pepiera, tanto era l'intensità con cui la guardava. Pensai che fosse il suo modo per astrarsi dalla realtà. Ad un altro tavolo c'era una coppia di ragazzi (penso poco più grandi di me) che si sbaciucchiavano e accarezzavano noncuranti di ciò che avveniva loro intorno. Li invidiavo, perché loro erano felici ed assenti, mentre io, anche se non esattamente triste, ero comunque presente e partecipe di ciò che stavo e dovevo vivere. Mi accorsi poi, perché distratto dalle mie osservazioni, con grande piacere che il
cameriere era in realtà la Locandiera Attraente stessa. La cosa al tempo stesso mi entusiasmò, ma mi procurò il batticuore: sarebbe stata la prima prova. - Cosa ti posso portare: - mi chiese affettuosamente - ravioli, tortellini o lasagne? - Tu che mi consigli? - le restituii la domanda con aria professionale. - I ravioli sono freschissimi! - mi suggerì quasi fosse entusiasta della mia richiesta e orgogliosa per i ravioli stessi. - Va bene allora. - E di secondo? Bistecca, cotoletta, petti di tacchino... - Quello che meglio si intona al colore dei tuoi occhi - la interruppi. - Oooh! Grazie, infatti la cotoletta è la cosa migliore - rispose stando al gioco. Avevo osato fare una battuta adulativa, anche se ben filtrata dal paragone culinario. Le era veramente piaciuta? Non potevo saperlo, comunque decisi di non ripetere subito l'esperimento. - Prego, penso che vada bene così. - E da bere? Vino nostrano, acqua, JIK-JOK... - Acqua, grazie. Lei appuntò qualcosa sul blocchetto, poi si congedò con un breve sorriso e rientrò, credo, nella cucina da dove riuscì poco dopo per prendere le ordinazioni ad un altro tavolo. Più la guardavo mentre si muoveva nel suo ambiente e più desideravo vederla muovere insieme a me. Era del tutto insolito per me quel desiderio di possesso che, anche se non fisico, voleva certo esserlo mentale. I movimenti delle sue mani, le espressioni del volto mentre parlava, come si aggiustava i capelli quando era imbarazzata, tutto di lei mi attraeva e mi sembrava che ogni suo gesto fosse dedicato a me. Così certo non era. Presto fu pronto ciò che avevo ordinato e a portarmelo fu lei, con quel sorriso
disponibile, ma chiuso in se stesso, anche se non falso. Mangiai in silenzio, anche perché non avevo nessuno con cui parlare, sempre con la remota speranza che lei si accorgesse di me all'improvviso, capisse tutto e mi venisse incontro, buttandomi le braccia al collo. Ma lei non venne. E quel sorriso divenne sempre più frettoloso. Avevo sbagliato ancora? Pensavo di no, eppure i fatti sembravano contraddirmi. Alla fine decisi che i miei comportamenti non dovevano essere influenzati dalle aspettative altrui, che dovevo essere spontaneo nei sentimenti, controllato nei modi, senza però modificare scientemente o controllare razionalmente il mio agire. Creare quella giusta fusione tra sincera espressione ed oculata e rispettosa esplicazione di sé. Per cui abbassai gli occhi sul mio piatto e li rialzai su di una sala ristorante di un pensione di Paese Due: e nient'altro. Guardavo gli altri commensali e dentro di me capivo di desiderare che qualcuno di loro si alzasse e mi venisse a fare compagnia. Forse mi stavo pentendo di essere partito solo e di aver abbandonato Coniglio? Forse stavo provando nostalgia per i miei genitori o per la mia cara Kelemata? Non sapevo rispondermi, l'unica cosa certa era il mio desidero spasmodico di ricevere qualcosa dagli altri. Ero ormai giunto al momento del dolce. - Abbiamo soltanto dei bigné al cioccolato - disse "la ragazza che prendeva le ordinazioni". - Mi vanno bene - le risposi, subito distraendomi verso altre viste. Sapevo che lei non mi avrebbe potuto portare altro che quei bigné e non il nutrimento di cui realmente avevo bisogno: amore. Ancora una volta questa parola stonava nella mia mente, come fosse impropria ed inadatta alla situazione, come se in realtà non fosse amore ciò che volevo così intensamente. Ah, se ci fosse stato qui Coniglio!, pensai tra me, certamente lui avrebbe saputo spiegarmi tutto. Mi ero pentito quindi di averlo abbandonato, questo era certo.
Chissà dov'è adesso, continuai tra me, forse si è perduto o magari è stato ucciso da qualche contadino. Che crudeltà lasciarlo solo! Ma chi è Coniglio, riflettei, non è proprio la Coscienza? E se così è, questo mio pentimento somiglia proprio alla Coscienza che rimorde, e dunque è come se Coniglio fosse ancora qui con me. Questo mi rassicurò molto e ritornai alla realtà circostante con maggiore serenità e nuova voglia di scoprire e di lottare ancora. La ragazza portò il dolce e, siccome ero rimasto per ultimo, mi chiese se poteva sedersi accanto a me per farmi compagnia. Io, stupito più che entusiasta, acconsentii con garbo, senza scompormi, e presi a gustare gli ottimi bigné. - Be', che mi racconti? - fece la ragazza che, con quella frase ridiventò la Locandiera Attraente. - Quello che vuoi - le risposi pulendomi la bocca. - Parlami di te, dei tuoi desideri e delle tue paure, di ciò che ti rende felice e di ciò che ti rattrista. Quella domanda fu per me tanto inattesa quanto imbarazzante, tuttavia sentii che quello era il premio per il mio atteggiamento verso di lei e verso ciò che lei rappresentava. Se pensi e agisci seguendo la Tua Strada troverai presto un incrocio in cui attraverserai l'Altrui Strada, senza che queste due vie si confondano perdendo la rispettiva identità. Sentii la risposta nascere dal profondo della mia interiorità, come se fosse un premio doveroso alla sua domanda ed una traccia evidente della correttezza del mio atteggiamento. - Io sono un Viaggiatore Solitario che percorre una lunga Strada in cerca della propria crescita intellettuale, spirituale e conoscitiva; i miei sensi sono quelli di un bambino che scopre il mondo per la prima volta: egli non sa cosa cerca, ma si rende conto che lo sta facendo; non sa se qualcosa è buona o cattiva, però sperimenta se gli piace o meno. Io ascolto le storie di chi incontro e le trasformo in pagine per il mio diario, quando, e se, giungerò alla fine del Viaggio avrò il tempo per rileggere nella mia mente e sulla carta, le tappe della mia maturazione. Ciò che desidero è soltanto avere nei confronti di tutto e di tutti il migliore degli atteggiamenti possibili, che mi permetta di assaporare appieno il gusto di ciò con
cui entro in contatto, di fondermi con essa, senza tuttavia rinnegare la mia individualità. Quello che più temo è la solitudine, la sensazione di non avere nessuno a cui raccontare se stessi, la certezza di non avere più strade da percorrere. Ciò che mi rende felice è il sorriso delle persone, il sole che sorge, l'abbraccio sincero di qualcuno in cui credo. Le cose che mi rendono più triste sono: l'ingratitudine verso un mio gesto generoso, il pensiero dell'acqua che scorre nei torrenti mentre poco distante qualcuno soffre, le ingiustizie. Quando smisi di parlare mi accorsi che gli occhi della locandiera erano lucidi, che le sue mani stringevano le mie e che uno sguardo di profonda tenerezza riempì l'aria intorno. - Vieni con me - mi disse alzandosi. - Dove andiamo? - le chiesi. Mi fece cenno di star zitto e di seguirla. Mi accompagnò in camera, spense la luce e le sue braccia mi strinsero in un abbraccio dolcissimo. Poi dormimmo.
2.11. - La Sala dei Divertimenti.
L'indomani il sole sorse molto presto e fu piacevole svegliarsi per la luce che, filtrando attraverso gli infissi, mi scaldava la punta dei piedi. Mi accorsi di essere solo nel letto, lei si era già alzata, eppure questa sua assenza non mi dispiacque affatto, la trovavo normale, prevedibile, quasi giusta. Le cose belle durano poco, pensai, ed è assai meglio privarsene volontariamente piuttosto che vedersene privare in seguito. Non restava che fare colazione. La mia mente era talmente piena della gioia avuta la sera prima che non riuscii a trovare pensieri che io potessi individuare esattamente, ogni cosa sembrava viaggiare e roteare nella mia testa accompagnata da un'infinità di altre. Questo stato confusionale era di mio gradimento e ciò mi bastava. La mia compagna della notte era intenta a versare le bevande calde nelle tazze per la colazione degli ospiti. Entrando mi fermai ad osservare il vapore emanato dal thè, dal caffellatte e dal caffè d'orzo rinchiusi nelle rispettive teiere e bricchi di varia misura e forma. Mi piacque pensare che la differenza nelle forme non fosse motivata dalla semplice necessità di distinguere tra loro le diverse bevande con un semplice colpo d'occhio, bensì che la struttura di ogni bricco fosse il risultato di calcoli precisi e di studi accurati sulle dinamiche dell'evaporazione, sulla migrazione delle sostanze, sulla tensione superficiale e così via. Poi volli ancora immaginare che ogni vapore, oltre a portare diverse fragranze, fosse esso stesso diverso, come se l'intensità dei colori, l'evolversi delle forme, la facilità a disperdersi fossero propri di ogni sostanza e che si poteva quasi riconoscerle. Andai a sedermi al mio posto, sorridendo a tutti il cui sguardo incontravo, senza però salutare a voce: la mattina, più tardi parlavo meglio era. - Cosa le posso portare? - mi chiese lei fingendo di non avere con me la confidenza della notte trascorsa insieme. - Una buona indicazione per trascorrere una giornata interessante. La ragazza scrisse imibile sul blocchetto, poi, sorridendo di nascosto, mi
chiese se bastava così. - Anche un po' di caffè d'orzo con le brioches, grazie. - Prego - e andò via.
La colazione nutrì stomaco affamato e l'indicazione che la ragazza mi diede nutrì la mia mente ansiosa di conoscere. Il mio prossimo obiettivo sarebbe stato la Sala dei Divertimenti, luogo dove gioco, azzardo, sciagure e denaro si rincorrono in una micidiale acchiapparella contro il destino e la fortuna. Durante la strada, che mi era stata spiegata, per raggiungere la Sala lasciai che la mia fantasia precorresse i tempi, immaginando cosa sarebbe accaduto una volta dentro quel mondo seducente e sconosciuto. Sarei entrato e, colto da una irrefrenabile smania, avrei dilapidato il mio patrimonio; o piuttosto avrei fatto complessi calcoli per determinare il modo più oculato per giocare e, caso mai, vincere qualcosa. Mi solleticava le mani la possibilità di diventare ricchissimo, ma altrettanto intensa era la stretta che chiudeva i miei polmoni al pensiero di diventare povero. Non volli, tuttavia perseverare in quei ragionamenti per non degenerare in elucubrazioni esclusivamente dannose per il mio equilibrio psicofisico. Nel frattempo ero arrivato davanti al Palazzo dei Divertimenti, all'interno del quale, in un'ala separata, si trovava la Sala dei Divertimenti, dove oltre a giocare per divertirsi era consentito puntare denaro. La costruzione doveva essere in un qualche stile specifico ed essere stata costruita appositamente in quanto era del tutto separata dagli edifici che la circondavano, in distanza. Purtroppo la mia scarsa cultura in fatto d'arte ed architettura non mi permetteva di individuare correttamente quello stile, per cui optai per darne un giudizio estetico puramente personale: era piacevole a vedersi per l'eleganza delle forme, la sontuosità della struttura, la pulizia del rivestimento, tuttavia assai povero era il coinvolgimento emotivo che ne derivava; come se quella costruzione fosse fatta per attrarre più l'occhio distratto di un ante che quello riflessivo di un vecchio saggio di paese; ed il motivo di ciò, pensandoci, mi fu subito chiaro. Mi avvicinai all'ingresso.
Un uomo in divisa, probabilmente il custode, mi guardò torvo non appena si rese conto che non stavo osservando, ma che avrei voluto entrare. - Dove crede di andare? - mi chiese opponendo il suo corpo al mio aggio. Fui molto stupito di quel gesto, tuttavia, sicuro della mia posizione, non ebbi tema di comunicargli le mie intenzioni. - Non può farlo - rispose - non sa che occorre l'abito elegante per entrare? La prima reazione che mi venne spontanea fu quella di dire:"Già, avrei dovuto immaginarlo"; tuttavia la volgare brutalità di quell'uomo fece scattare dentro di me un meccanismo di sfida che mi portò a rispondere così diversamente: - Perché vorrebbe forse dire che non lo sono? Occorre tener presente che indossavo pantaloni di panno verde, camicia di flanella con un fazzoletto al collo ed un gilet. - Certamente non per entrare qui dentro - rispose il custode alzando un sopracciglio in segno di superiore stizza. - Dunque, se è lecito, chi sarebbe lei per opinare circa l'eleganza del mio abbigliamento? - Io so soltanto che lei vestito così non può entrare. - Perché non sono elegante o perché è previsto un'abito particolare? - Perché lei deve indossare un abito elegante. - E se è lecito, cos'è che definirebbe il mio abito elegante? - Ma, non so, una giacca per esempio, ed una cravatta. Ormai ero in gioco e volli proseguire fino in fondo. Accanto all'ingresso c'era un bidone della spazzatura appena svuotato, mi avvicinai, presi il sacco, lo bucai in tre punti e lo indossai, aprendo sul davanti una "V" così che si vedesse il fazzoletto che annodai a forma di cravatta. Poi mi riaccostai al custode che mi guardava terrorizzato e disgustato al tempo stesso.
- Bene, adesso posso entrare! - Ma lei è impazzito, non se ne parla nemmeno, sta peggio di prima. - Dunque lei insiste col dire che non sono elegante nemmeno con giacca e cravatta? - Ma quella non è una giacca e quel fazzoletto non è una cravatta, e lei lo sa benissimo, se vuole attaccare briga le consiglio di lasciar perdere. - Mi chiami il direttore - feci io in tono glaciale. - Non scherzi, guardi che chiamo la polizia. - Chiami il direttore o sarò io a denunciarvi per oltraggio, calunnia e per abuso di potere, o come si dice. Il custode si era visibilmente spazientito, sudava, nonostante non fe caldo e sapeva di dover prendere rapidamente una decisione. - Se proprio vuole chiamo il direttore. Ciò detto premette un pulsante su di una scatolina che aveva in tasca e si voltò verso il portone principale. Dopo pochi secondi uscì il direttore, vestito "elegante". - Buongirono - disse ad entrambi con deferenza - posso esservi utile? - Sì - disse il custode - questo signore vuole entrare nel Palazzo dicendo di essere vestito bene, ho cercato di spiegargli che deve mettersi un vestito elegante, ma lui insiste, dice che lo è e che io non posso giudicarlo. Il direttore si rivolse a me con un sorrisino ipocrita che, se esistesse un concorso l'avrebbe vinto di certo, dicendo: - Signore, mi dispiace, purtroppo ci sono delle regole precise che ci impongono di indossare abiti eleganti che si confacciano alla circostanza ed all'aspetto generale del Palazzo e della clientela. - Certo, sono d'accordo, non voglio criticare queste regole, infatti mi sono messo
la giacca e la cravatta - e mentre parlavo indicai i miei finti abiti con le mani. Il direttore sembrò imbarazzato questa volta, ma senza perdersi. - Capisco, tuttavia quello che lei indossa non corrisponde proprio al nostro concetto di eleganza. - Al vostro? - Intendo a quello comune a tutta la clientela di un certo livello. - Per esempio a quello di quel signore che sta arrivando adesso? - chiesi io, indicando un elegante gentiluomo che usciva dalla sua limousine. - Sì, per esempio - esultò il direttore credendomi sconfitto. - Bene, allora facciamocelo dire da lui - proposi. - O no, per carità, non possiamo, quello è il Giocatore d'Azzardo, il cliente più facoltoso del Palazzo. Ma non fece a tempo a dirlo che già mi ero precipitato su di lui per coinvolgerlo in quel pazzo gioco che stavo inventando. Lo fermai, educatamente, esponendogli la situazione e chiedendo la sua opinione a riguardo. Il Giocatore d'Azzardo mi guardò sghignazzando dietro un pizzetto molto ben curato, e, incrociando lo sguardo del custode tra il viscido e l'indignato, si rivolse al direttore per avere spiegazioni. - Mi scusi Signore, ho cercato di fermarlo, ma non ho potuto, deve essere uno squilibrato in cerca di guai. Il Lord non poté fare a meno di vedere che il direttore letteralmente sconvolto per l'accaduto, cosicché si rivolse a me e disse: - Lei vuol sapere quindi se secondo me è vestito elegante? - Esattamente - dissi sorridendo. - Be'... Direi proprio di sì: ha la giacca e la cravatta! - e detto questo scoppiò a ridere in una fragorosa risata.
Non mi dimenticherò mai gli sguardi esterrefatti del custode e del direttore quando il Giocatore d'Azzardo mi prese sotto braccio ed entrammo nel Palazzo singhiozzando per il troppo ridere.
2.12. - Il Giocatore d'Azzardo.
- Che simpatico che è lei! - mi disse il Giocatore dandomi una pacca sulle spalle piuttosto forte - Ma come le è saltato in mente di montar sù quel subbuglio? - Così, mi ha dato fastidio il tono arrogante e scortese di quel custode e non ho saputo resistere alla tentazione di metterlo in crisi; poi una volta in gioco... Il mio nuovo incontro mi accompagnò nel centro commerciale all'interno del Palazzo e mi aiutò a scegliere degli abiti che, realmente, si confero all'ambiente senza dare troppo nell'occhio. Si offrì di pagare lui, io rifiutai, ma alla fine l'ebbe vinta perché disse al commesso: "segni sul mio conto" e prima che potessi reagire questi aveva già obbedito. Non avevo mai indossato abiti così e ad annodare la cravatta mi feci aiutare da una graziosa commessa che indossava quasi un vestito, nel senso che erano più le parti scoperte che quelle coperte. La cosa era comunque piacevole e molto eccitante, visto che il suo corpo ben meritava di essere messo in mostra. Venne solo da chiedermi se non fosse una provocazione troppo forte per chi, magari per motivi validi, non era in grado di controllare il proprio istinto. L'uomo, pensai, non riesce ad avere tanto ascendente animale sulle donne che sembrano sempre molto padrone della loro componente istintiva. Il Giocatore d'Azzardo, una volta ripulitomi, mi chiese se avrei avuto piacere ad accompagnarlo per le varie sale gioco, raccontandogli nel frattempo la mia storia. Ovviamente acconsentii, visto che quello era esattamente il motivo per cui ero venuto e l'avere una guida era di certo un piacevole imprevisto. La prima stanza che visitammo si chiamava "Sala della Fortuna Meccanica"; era infatti piena delle più strane apparecchiature meccaniche ed elettroniche, con luci, suoni, meccanismi e leveraggi complessi. I corridoi consistevano in una struttura tubolare sospesa sulla quale erano state fissate delle grate metalliche ed ogni macchinario era attaccato alla struttura portante per mezzo di grandi tubi colorati di diametro proporzionale alla dimensione della macchina stessa. Il Giocatore ed io entrammo nella prima piattaforma sulla destra: "Fortuna Rotante" era il suo nome. Consisteva in una
sala circolare al centro della quale girava una gigantesca trottola giroscopica imperniata su di un cristallo su cui venivano proiettati raggi laser di diversi colori che, rifratti dal cristallo, andavano ad illuminare delle maschere sorridenti scolpite nel muro della stanza. Il moto era trasferito alla trottola (anch'essa a forma di diamante) da una coppia di ruote che, al termine di ogni gioco, scendeva dall'alto, si poggiava sulla testa del diamante, gli dava la velocità necessaria e poi rientrava nel suo alloggiamento. Il gioco, mi spiegò il Giocatore d'Azzardo, consisteva nel decidere un colore su cui puntare una certa cifra e per far questo si doveva aprire uno dei tanti scomparti (colorati in modo differente) di cui era composta la trottola stessa. Ogni giocatore quindi poneva la sua puntata in uno scomparto con il proprio cartellino indicante il numero di tessera, poi componeva un codice su di una tastiera per determinare i giri che la trottola avrebbe fatto. La somma di questi valori numerici avrebbe determinato la forza impressa alla trottola dalle ruote. Una volta terminate le puntate e avviata la rotazione il gestore del gioco accendeva un raggio laser che, casualmente secondo una sequenza sempre diversa, si spostava (per mezzo di un braccio meccanico) in alto e in basso. Prima che terminasse la rotazione della trottola il raggio si fermava ad una certa altezza e questo già scatenava le grida dei giocatori che avevano puntato sugli scomparti di quel livello ed i mormorii di chi non l'aveva fatto; poi, finito il movimento, si stabiliva il vincitore definitivo che raccoglieva la metà delle puntate complessive. A volte accadeva che il raggio non indicasse precisamente una casella ed in questo caso la vincita era divisa tra i due giocatori, ma altre capitava l'eventualità, assai più fortunata, che il raggio si fermasse esattamente al centro del coperchio dello scomparto e questo voleva dire aver diritto a tutte le puntate di quel giro. Giocammo anche noi, anzi, fu il Giocatore a mostrarmi il meccanismo puntando egli stesso. Io rimasi a guardarlo, invidioso per il suo coraggio e critico per la sua stoltezza. A che valeva giocare in quel modo contro il caso, dov'era la considerazione per l'individuo e le sue qualità? Questi furono i dubbi più immediati che vennero alla mia mente. Li riferii al Giocatore. - Vedi ragazzo - mi disse mentre aspettava che la ruota impartisse il moto - non fermarti a giudicare l'apparenza di quel che vedi, ma, prima di lasciare che la tua razionalità ponga quesiti, cerca di guardare meglio e di capire da te stesso le leggi che regolano le cose ed i ruoli che in queste hanno le qualità individuali. Non pensare che tutto debba essere a tua immagine e somiglianza. Fui ferito dalle sue parole, non perché avessi un orgoglio da difendere verso uno
sconosciuto, ma perché mi aveva dato del superficiale ed aveva ragione. Annuii col capo per fargli capire di aver incassato il colpo e mi sentii tremendamente triste con una gran voglia di scappar via da lì. Ma, pensandoci, era più da me stesso che volevo fuggire e così tramutai la mia vigliaccheria in sfida e, per dimostrare a me e a lui che stupido non ero, decisi di trovare prima delle risposte e poi, eventualmente, formulare delle domande laddove l'osservazione non risultasse sufficiente. Esaminai attentamente quanto avveniva davanti ai miei occhi. Notai subito che i giocatori che sopraggiungevano di volta in volta non iniziavano subito a giocare, ma per un po' osservavano la trottola multicolore e le puntate. Poi, piano piano, cominciavano a puntare piccole cifre, non impartendo alcun valore sulla tastiera. All'inizio non mi riuscì di capire, poi, piazzatomi silenziosamente in un buon posto di osservazione dietro ad un gruppo di giocatori, mi accorsi che tutti cercavano di introdurre numeri, che influissero positivamente sulla futura collocazione del raggio. In altre parole se un giocatore aveva puntato sul rosso della riga centrale (impartendo ad esempio il numero 10 sulla tastiera) ed era invece uscito il colore accanto della riga superiore, l'unico modo per sperare di vincere era di puntare nuovamente sul rosso della riga centrale, ma inserendo un numero inferiore di una unità (in questo caso 9). In questa maniera, mi sembrò di capire, ognuno cercava di portare il raggio sulla propria casella. Non mi fu difficile, invece, osservando tale meccanismo dall'esterno, rendermi conto che era perfettamente inutile il loro agire in quanto ad ogni giro vi era una compensazione tra interventi opposti con il risultato di rendere ogni giro realmente casuale. Guardando l'accanimento e la fatica che costava ai presenti quel gioco, non potei che sorridere e dire a me stesso che un gioco dovrebbe servire proprio a rilassarsi e divertirsi. Qualcuno, invero, sembrava provare piacere a sperperare moneta, altri (i vincitori) sembravano godere di un'estasi mistica quando cadevano nelle loro tasche tutti quei soldi; eppure mancava negli occhi di ognuno di loro la serenità. - Senta - dissi al Giocatore - ho cercato di andare un poco più a fondo nella questione, però non credo di aver maturato grossi risultati; perché non mi dice lei qual'è il motivo per cui gioca d'azzardo? Il Giocatore mi guardò con aria sorniona, mi sorrise e mi poggiò il suo pesante
braccio sulle spalle portandomi fuori dalla stanza. - Vedi ragazzo, non sempre c'è un motivo alle azioni umane. Molte volte ci troviamo a fare qualcosa semplicemente perché altri lo fanno o perché ci sentiamo insoddisfatti di quello che abbiamo e pensiamo di trovare nella scommessa e nel gioco una chiave di fuga o di svolta per i nostri problemi. Ma non siamo tutti uguali ed ognuno gioca per un motivo diverso. - E cioé? - Ma, ad esempio, ci sono persone che hanno troppi soldi e preferiscono perderli al gioco piuttosto che darli al fisco; dopotutto una eventuale vincita è vero che da un lato procurerebbe nuova inutile ricchezza, ma dall'altro è anche fonte di remoti godimenti interiori. L'uomo, pensandoci, è legato ad un filo ed ogni cosa che possiede, a partire dalla vita stessa, può essergli privata in un solo istante: perché quindi non tentare di riprendersi qualche rivincita contro il Fato? - Lei vuol dire che si gioca per compensare delle angherie della vita? - Anche. - E non crede che sia solo un desiderio di essere sempre più incommensurabilemente ricchi? - No, penso che l'incremento della ricchezza possa essere attraente per qualcuno che non la conosce davvero. Gli altri, i veri ricchi, preferiscono usare altri metodi per farlo: a vincere non c'è alcun merito personale, mentre a farla in barba a qualcun'altro sì. - E che ruolo hanno le rivalità con gli altri giocatori? - Fondamentale. Tutti, nell'intimo, siamo invidiosi di chi sta meglio di noi, per cui è prevedibile che il nostro inconscio tenti in tutti i modi di spingerci a compiere quelle azioni che ci portano a generare invidia negli altri verso di noi, e non viceversa. - Interessante - commentai. Continuammo a chiaccherare per un po', mentre avamo in rassegna le varie stanze; qualcuna (come "Il Ragno dalle zampe d'oro", "La Tavola dai buchi
magici", "La Musa dai Mille Volti") non mi stimolò molto, altre le visitai con maggior piacere, anche perché mi permisero di capire cosa fosse per me il gioco d'azzardo. "La Stanza dei Dadi Rotolanti" fu la prima in cui mi accorsi che anche io desideravo giocare. - Allora - disse col suo sguardo furbo - adesso tocca a te giocare. Bastò l'idea per sconvolgermi; non avevo mai scommesso su nulla se non con l'assoluta certezza di vincere. E poi avevo sempre disdegnato coloro che, sù al Villaggio, organizzavano partite di carte in cui qualcuno perse addirittura la casa e la moglie; perché avrei dovuto commettere il loro stesso errore, bruciando i soldi che avevo sulla mia carta di credito per il brivido di un momento? - No, grazie, ma non fa per me - gli risposi cercando di essere più convincente che convinto. - E perché mai? - Ho paura di gettare al vento i miei soldi. - Solo per questo? - Sì, credo. - Ebbene ho pronta la soluzione al tuo prolema: io ti affiderò cento gettoni e tu: se li perderai non mi ridarai nulla, se vincerai mi ridarai i mille gettoni più la metà di ciò che hai vinto. Ti sta bene? L'istinto, lì per lì, stava per farmi rifiutare, poi mi disse che ciò che non costa nulla non può essere rifiutato, e acconsentii. Il Giocatore mi affidò i suoi mille gettoni (divisi in diversi tagli) e mi domandò ancora se avessi preferito un aiuto da parte sua o avessi voluto fare tutto da solo. Optai per il suo aiuto. - Dunque, tanto per cominciare, è importante che tu conosca sempre bene il gioco su cui scommetti. Per far ciò è necessario che tu osservi gli altri giocatori e, nel frattempo, faccia delle piccole puntate per scoprire le strategie vincenti o
comunque meno rischiose. Vuoi cominciare? Annuii e mi misi silenziosamente ad osservare il funzionamento dei Dadi Rotolanti. La stanza stessa era a forma di dado e aveva una specie di vasca piena d'acqua in cui galleggiavano centinaia di dadi da gioco, rotolando su se stessi spinti da potenti getti d'acqua. I giocatori depositavano le loro puntate sul bordo della vasca in corrispondenza del valore su cui intendevano puntare. Quando l'attendente diceva:"Fine delle scommesse", l'acqua nella vasca diveniva ancora più agitata e l'agitazione cresceva nei giocatori. Poi, dopo qualche secondo, una specie di calice di cristallo fuoriusciva dalla vasca connesso ad un braccio meccanico. La demensione del calice era tale che ad un solo dado era consentito starvi dentro. Il braccio meccanico rivolgeva poi il calice all'attendente che annunciava a tutti il numero uscito. Chi aveva scommesso su quel numero prendeva il doppio di quanto aveva puntato, se veniva estratto il dado verde riscuoteva quattro volte la posta, se era giallo otto e se era nero dieci. Solo nel caso il dado fosse trasparente non vinceva nessuno, e quindi incassava il banco. Mi sembrava facile sia il meccanismo che le probabilità di vittoria, ed il vedere come il Giocatore avesse già raddoppiato il suo capitale in pochi turni fu di definitivo incoraggiamento affinché giocassi anche io. Il solo pensiero di poter entrare in quel turbinio già mi metteva in agitazione; sentivo che la mia mente mi spingeva a scommettere (dopotutto avrei puntato poco, tanto per provare), mentre le mie gambe e le mani erano come atrofizzate senza che riuscissi a muoverle. Dovevo dominarmi, che rischio c'è, pensai. Fu così che presi un gettone e lo puntai sul numero tre. La mano mi tremava, guardavo in continuazione i miei vicini di banco per capire se stavo facendo bene, ma come potevano saperlo loro? Così mi limitai a cercare almeno la conferma che il mio comportamento fosse regolare dal punto di vista del gioco. La vasca cominciò a mormorare, poi a sobbalzare ed infine a borbottare sbuffando qua e là piccoli spruzzi di vapore acqueo. Il cuore mi batteva velocemente ed il tempo sembrava lunghissimo ed interminabile. Il dado venne estratto. In quello stesso momento chiusi gli occhi e lasciai che fosse la voce dell'attendndente a darmi il risultato. Trascorse un tempo lunghissimo durante il quale non potei che sperare di aver vinto.
Così non fu. Puntai ancora, questa volta due gettoni: sempre sul tre. Non vinsi. Non c'è problema, pensai, dopotutto i numeri sono sei, basterà aspettare che esca il tre raddoppiando ogni volta. Così feci. Otto gettoni. Niente. Sedici. Sei. Trentadue. Uno. Ecco, pensai tra me assalito dal terrore, sto sperperando tutto, questo tre non uscirà più ed io andrò fallito! Decisi di tentare il "colpaccio": puntai tutto ciò che mi rimaneva. Questa volta guardai i dadi nella vasca con tanta intensità che se qualcuno avesse misurato la temperatura dell'acqua ne avrebbe di sicuro notato un innalzamento. Il dado che uscì era nero... - TRE! - gridò l'attendente. - Ho vinto! - gridai io. Non potevo crederci, ero stato premiato: 370 gettoni tutti per me. Be',veramente non tutti, pensai subito dopo. Avrei dovuto renderne cento al Giocatore, oppure incrementarli ancora. Optai per la seconda, ma questa volta volli cambiare gioco. Avevo letto nei libri gialli che si fa sempre così dopo aver vinto. - Bravo - commentò il Giocatore mentre mi accompagnava nella sala successiva - hai giocato molto bene, con metodo, anche se alla fine mi è sembrato che tu sia stato un po' troppo irruento ed emotivo. - E' vero - ammisi - ma era troppa la voglia di vincere. E poi ero disperato, se non avessi vinto sarebbe finito il mio divertimento e avrei fatto una pessima figura anche con lei. - Oh, no, non dirlo, sarebbe stato sufficiente l'averti visto giocare per la prima volta, è stato un po' come fare un salto nel tempo fino ai tempi in cui ho
cominciato io. E prese a raccontarmi la sua storia. - La mia famiglia - raccontò - era di stirpe nobile e ricca, tuttavia una sorte ria ci rese praticamente poveri. Rimanevano solo poche terre e qualche palazzo. I beni vennero divisi tra gli eredi rimasti in vita e a me toccò solo un palazzo con giardino, perché ero il più giovane. Ognuno seguì una strada diversa. Chi dilapidò tutto in breve tempo cadendo in miseria, chi vendette tutto e si trasferì in città in cerca di lavoro, chi si dedicò all'agricoltura, che trasformò il castello in un'attrazione turistica... - E lei? - lo interruppi. - Be', io... ho cercato nel mio piccolo di darmi da fare, ho vinto qualcosa al gioco ed ho attrezzato questo edificio a Palazzo dei Divertimenti. Rimasi agghiacciato da quella affermazione. - Vorreste dire che voi siete il proprietario di tutto questo? - Sì, esatto. - Ma perché allora venite a giocare qui, che biosgno avete? Il Giocatore d'Azzardo mi sorrise bonario. - Che domanda, ma vuoi mettere il gusto di giocare cifre spaventose e vedere gli altri che ti guardano invidiosi se vinci o ti biasimano se perdi e ti rattristi oppure si meravigliano se perdi e riamani indifferente? - Già - ammisi - non ci avevo pensato. Ma è solo questo il motivo? - No, in effetti no, è anche perché io adoro il gioco e non posso farne a meno. - Ma allora come mai il direttore prima non mi ha detto che lei era il proprietario? - E' semplice, perché non lo sa. Qui nessuno mi conosce come proprietario, questo Palazzo è gestito da una società di cui una mia società è la maggiore
azionista. - E come fa ad incassare i soldi? - Anche questo è semplice, mi basta che il Palazzo effettui delle spese acquistando beni o servizi fittizi dalla società di mia proprietà ed ecco che i soldi in realtà arrivano a me sotto varie forme. - E se io fossi un ispettore fiscale? - lo freddai. - Probabilemente ci metteremmo d'accordo sul tuo prezzo. Credo che alla fine ne uscii freddato io stesso. - Andiamoci a bere qualcosa - mi suggerì il Giocatore. - Mi pare una buona idea - approvai.
2.13. - Il Ricco Generoso ed il Povero Egoista.
Mentre stavamo ad un tavolino all'interno del punto di ristoro situato nel giardino pensile al centro del Palazzo, non potemmo fare a meno di ascoltare una conversazione che proveniva dalle nostre spalle. Vi erano due uomini più o meno coetanei, quello seduto a destra era biondo, alto e vestito con molto buon gusto; quello di sinistra, più basso e grassoccio era abbigliato con minore cure. - Tu che cosa fai nella vita? - chiese l'uomo di destra a quello di sinistra. - Possiedo un piccolo appezzamento di terra coltivabile e mi arrangio vendendone i prodotti ai Mercati Provinciali. Talvolta il raccolto è buono e questo basta per comprare le sementi per l'anno successivo, altre volte invece non basta neppure per mangiare noi stessi e sono costretto a lavorare la terra altrui come manovale. - Sei molto povero, quindi - concluse l'uomo di destra. - Sì, in effetti lo ero. E lei? - Be', intanto non darmi del lei che mi fai sentire vecchio; poi, per rispondere alla tua domanda, devo confessarti che io sono abbastanza ricco, e non mi posso lamentare. Il Povero sorrise con una vena di cattiveria sulle labbra. - Ma una cosa - riprese il Ricco - mi devi dire, perché hai detto che "eri" povero? Io ed il Giocatore d'Azzardo ascoltavamo senza farci scorgere con molta curiosità. - Già, hai ragione - rispose il Povero - ho detto così. Ebbene il motivo è che ora non lo sono più: ho vinto un miliardo di gettoni alle carte. Il Ricco lo guardò stupito e disse:
- Ma è il doppio di quello che guadagno io in un anno! - I ruoli sembrano invertirsi - commentai io. - Già... - fece eco il Giocatore. - Sì, forse è vero, - riprese a dire il Povero - ma devi tener presente che io ho vinto adesso e basta, mentre tu ricavi questa cifra ogni due anni. - D'accordo - rispose il Ricco - però è anche vero che il mio tenore di vita, gli obblighi della mia classe sociale, le spese necessarie per me sono anche cento volte superiori alle tue. - Vero, ma non dimenticare che se io vorrò elevare il mio livello di vita dovrò investire molti soldi e rimarrà ben poco da spendere nel lusso vero e proprio. - Non sono d'accordo. Nessuno ti costringe a are da un estremo all'altro, esistono moltissime e dignitose posizioni intermedie in cui puoi tranquillamente sopperire a tutte le esigenze, anche le più voluttuarie, senza per questo dover spendere tutto il tuo patrimonio. A che serve comprarti una barca a vela da 24 metri, un off-shore da 12000 cavalli, un elicottero ed un mini-jet executive soltanto perché ce l'hanno tutti i tuoi amici e conoscenti, quando ti basterebbe uno yatch da 12 metri ed un monomotore da turismo? - Già, è vero anche questo, però dove metti la soddisfazione che uno deve prendersi verso la vita per tutto quello che ha ato prima? Se io mi compro cose inutili è proprio perché mi sono mancate quelle essenziali. E quindi è comprensibile che io mi compri una villa con 24 stanze per la mia famiglia proprio perché abbiamo sempre vissuto in otto in una stanza. Esagerare per riequilibrare, direi. - Non sono d'accordo, non vorrei che questa ricchezza improvvisa ti desse alla testa e tu finissi per trovarti senza nulla in mano per aver osato troppo. - Io so di poter controllare le mie spese in relazione al mio patrimonio; investirò il capitale e comprando solo con gli interessi che ricaverò. Saprò fermarmi al momento giusto. - No, caro amico, non ci riuscirai, perché la ricchezza offusca gli occhi di chi non è abituato a vederla. Vedi, io che sono ricco e che lo sono sempre stato da
generazioni, posso dire di esserci abituato e per me le cifre con tanti zeri sono pane quotidiano. Anche il tuo miliardo è sì il doppio di quanto guadagno in un anno, ma è anche vero che le mie aziende fatturano decine di miliardi l'anno ed il movimento di denaro e di beni è enorme. Io, in queste condizioni, posso senz'altro dire di essere in grado di padroneggiare i miei patrimoni con molta più tranquillità, se non altro perché non sono legato ad essi da un rapporto tanto forte qual'è il tuo sentimento di rivalsa verso la vita. Io sono ricco, ma sereno. Tu eri povero e sarai infelice. Il Giocatore d'Azzardo mi diede un'occhiata ammiccante: a buon intenditor.... - Ma - rispose il Povero - fai presto tu a dire questo, dammi solo un'occasione e ti dimostrerò che ti sbagli. Fu allora che mi venne un'idea malsana nella mente. Ne accennai brevemente al Giocatore, che approvò. Per la perfetta riuscita del "piano" era opportuno che il Giocatore cambiasse tavolo, così da avere più credito in ciò che avrei raccontato. Ero sicuro, d'altronde, che non era stato visto dai due uomini in quanto i nostri tavoli erano separati da una pianta. - Scusate se mi intrometto - esordii, avvicinandomi a loro - non ho potuto fare a meno di udire la vostra conversazione e mi sono permesso di disturbarvi... Il Ricco mi guardò incuriosito, il Povero mi gettò un'occhiata di fastidio. - In che possiamo esserle utile? - chiese il Ricco prendendo in mano la situazione. - Be', in breve il fatto è che io sono un giovane viaggiatore, sto attraversando varie terre per raggiungere un'isola dove poter raccogliere alcune erbe necessarie per la preparazione di una bevanda terapeutica per mia madre che sta molto male. I due sembravano seguire incuriositi, ma anche impazienti di venire al dunque. - Vengo dalle montagne e sono arrivato sin qui lavorando un po' dovunque; poi ho trovato un portadenaro pieno di soldi e mi sono lasciato attrarre da questo Palazzo dei Divertimenti, sono entrato e ho perso tutto al gioco, anche i soldi che avevo guadagnato lavorando e quelli che la mamma mi aveva dato per il viaggio.
E' stato un errore, perché credevo di averli messi in un'altra tasca, invece li ho spesi tutti ed ora non so più che fare, ho sentito che lei è molto ricco e che lei ha vinto tanti soldi; potreste aiutarmi voi? Prometto che non giocherò mai più. La parte della vittima dovette essermi riuscita molto bene perché entrambi furono quantomeno scossi dalla mia confessione-richiesta. Intravvidi che il Giocatore d'Azzardo ascoltava divertito dal tavolo di fianco al nostro. - Ma scusa - disse il Ricco - cosa c'entriamo noi in tutto questo? - Già - si aggiunse il Povero - perché vieni a raccontarci tutto questo, perché dovremmo darti i nostri soldi? Non hai forse speso male i tuoi? Sei tu il responsabile, non ti abbiamo certo costretto noi a giocarti tutto. Chiani il capo per mostrarmi colpevole. - Lo so - dissi - avete ragione, ho fatto una sciocchezza, ma sono pentito e chiedo aiuto a voi perché ciò che a me potrebbe dare da sopravvivere per voi è solo una briciola. Cosa vi costerebbe spezzare il vostro pane e lasciarmi raccogliere le briciole? La ricchezza non è forse più appagante quando la si può gustare a poco a poco? Non credo che la gioia di essere ricchi consista nell'avere, ma nel sapere di poter possedere. Una volta comprata, la cosa perde valore: perché non svenderla? La mia dialettica ormai allenata sembrò funzionare. - Certo - cominciò il Ricco - quello che dici può essere vero, solo che tu capisci come possa essere in ogni caso faticoso far uscire del denaro dandolo ad uno sconosciuto. Se tu avessi un qualche collegamento con me o potessi tornarmi utile, di certo ti darei qualcosa con più facilità, ma in questo modo, così su due piedi, non so che fare. Il Povero sembrò stupirsi delle affermazioni del suo compagno di tavolo e, rivoltosi a me con rinnovata asprezza nel suo sguardo, disse: - Ma chi sei tu per venire qui a sindacare sul nostro operare, non sai forse che chi possiede denaro ama spenderlo solo per se stesso e che ogni altro uso, se non è finalizzato ad uno scopo proficuo, non produce null'altro che sofferenza? Vorresti forse che soffrissimo noi al posto tuo? Non penso che tu possa chiedercelo, quindi sparisci. E tu, caro il mio Ricco Generoso, non pensi che sia
dargli troppo anche il solo averlo ascoltato? Il Ricco Generoso rimase interdetto, non sapeva se tutelare il suo mero interesse o piuttosto assecondare il proprio istinto. - Ma sai - disse rivolgendosi al Povero Egoista - io non credo che quello che tu dici sia poi così vero. La ricchezza è bella anche perché ti permette di gioire nel dividerla con altri. Il denaro a che servirebbe se non per essere speso? Se io acquisto qualcosa è per migliorare il mio benessere, in qualsiasi modo inteso, ma al tempo stesso miglioro il benessere di colui al quale compro; in questo modo posso godere di due gioie al tempo stesso: la mia di avere l'oggetto dei miei desideri e l'altrui di poter fare altrettanto, come in una lunga catena. Per cui se questo ragazzo può disporre di una piccola fetta della mia ricchezza e questo può dare a lui una gioia, anche io dividerò la stessa felicità e quindi avrò in ogni caso acquistato qualcosa per migliorare il mio benessere. Il Povero Egoista sembrò irritarsi terribilmente, come se il suo compagno di tavolo avesse proclamato discorsi eretici di fronte ad un integralista religioso. E, prima di sputar fuori il suo pensiero, farfugliò tra i denti qualche imprecazione. - Come puoi muoverti a comione in questo modo e dire simili eresie? Forse che avrei lottato tutta una vita per conquistare un po' di ricchezza se avessi saputo che, non appena ottenuta, l'avrei dovuta dividere con qualsiasi sconosciuto si fosse presentato a me? La ricchezza è un fatto individuale: chi la produce è tenuto anche a consumarla e nessuna interferenza è ammessa. Per cui, una volta per tutte respingi costui e lascialo rodere nella sua stoltezza ed incapacità. Notai come il Povero Egoista non rivolgesse direttamente a me i suoi discorsi così violenti. Volli pensare che la causa di ciò fosse una sua paura a confrontarsi con chi, come nel mio caso, in realtà aveva conosciuto molto più la povertà che la ricchezza, e per questo temeva di scoprire nei miei occhi la stessa sua triste luce, capace di spegnere ogni suo egoistico proposito facendogli rinascere dentro quello spirito di fratellanza e sacrificio che c'è in ogni vero povero. Fu per questo che, dentro di me, perdonai entrambi: il Ricco perché quella di esserlo non era una colpa ed aveva dimostrato di essere Generoso; il Povero perché le grandi sofferenze patite e la nuova gioia della ricchezza unita alla paura di perderla, erano motivo sufficiente a compensare il fatto di essere
Egoista. Ciò nonostante non volli togliermi la soddisfazione di rispondere loro sostenendo altre tesi. - Cari signori, mi dispiace di aver generato tali reazioni in voi, tuttavia mi sento di concludere che, sebbene riprenderò a mani vuote il mio cammino, una cosa l'ho imparata di certo: non conta quanto uno realmente possieda, bensì il valore che a tale cose si attribuisce e le angosce che vi si trasferiscono; che non sempre la riduzione nella quantità di un bene porta necessariamente alla riduzione del benessere complessivo; e che quanto maggiore è la sofferenza patita, tanto maggiore è il rancore indiretto che si ritrasmette contro coloro i quali rappresentano ciò che si era prima e che si vuole rinnegare. Il Ricco alzò un sopracciglio e ne fui orgolioso. Il Povero abbassò lo sguardo e mi dispiacque per lui. Tutto era stato detto e nulla fatto: l'equilibrio era ristabilito. E così mi congedai. Preferii uscire dalla sala, così che il Giocatore mi potesse seguire in un secondo momento senza dare nell'occhio. Mi fermai in un salottino appena fuori la porta ed aspettai. Dopo qualche minuto mi raggiunse il Giocatore. - Mi è piaciuto molto il finale - commentò - ma credo che abbiamo sollevato un grosso problema perché, fino a quando sono venuto via, stavano ancora litigando tra loro per stabilire chi di loro avesse ragione. - L'eterno contrasto tra dare e avere? - domandai. - Già, l'eterno contrasto.
2.14. - La Scommessa con la Sorte.
eggiammo per le sale chiaccherando sul senso di tutto il nostro discutere e sui problemi che genera la ricchezza: la gioia effimera, le angosce di perderla, ma anche la possibilità di godere di piaceri nuovi o di spogliare i sogni del loro nome trasformandoli in realtà. Io non potei negare che mi sarebbe piaciuto tantissimo essere ricco per poter anche io sperimentare su me stesso il valore di tutte quelle parole che costituivano per ora soltanto uno sforzo di astrazione, ma non erano ate da una equa esperienza. - E che problema c'è? - mi chiese come per spronarmi il Giocatore - Hai 370 gettoni, puoi giocarli al gioco del Vinci o Perdi e diventare ricco anche tu. - O povero! - commentai immediatamente. - Sì, ovviamente. - Be' - conclusi - sa che le dico? Le restituisco i cento gettoni così siamo pari e poi deciderò il da farsi. - Oh, no, non mi servono quei soldi, puoi tenerli. Non volli sentir ragioni e lo costrinsi ad accettarli, non foss'altro per il principio che nessun compenso deve arrivare se non per un lavoro realmente svolto. Era una convinzione che mi aveva inculcato Coniglio con la sua morale assoluta e non mi sentivo di tradirlo anche in questo, dopotutto avevo ancora la mia carta oro e... Misi una mano nella tasca e mi accorsi di non averla più. - Accidenti! - esclamai per attrarre l'attenzione del Giocatore. - Che succede? - Ho perso la mia carta di credito, l'avevo qui in tasca quando sono entrato... oh, no! L'ho lasciata nei vecchi vestiti. - Ebbene, andiamo a prenderli, li abbiamo lasciati al guardaroba.
Così facemmo con quel o svelto che si prende quando l'ansia di raggiungere il luogo è equiparata alla paura di scoprire che sia troppo tardi. - Scusi signorina - disse il Giocatore alla commessa del guardaroba - potrebbe prendere i vestiti del n.37? Ecco il biglietto. La ragazza andò nel retro e tornò con i miei vestiti chiusi nella busta così come li avevamo lasciati. Li aprimmo, ma non c'era nulla. La signorina del guardaroba garantiva che il pacco era sigillato esattamente nello stesso modo come lo aveva lasciato. Che fare? Il Giocatore non si perse d'animo e mi fece telefonare ad un numero speciale per comunicare lo smarrimento della mia carta. Così feci, nella speranza di aver fatto in tempo. Per accertarcene verificammo il saldo da un terminale intelligente nella Sala delle Banche, ma l'orribile realtà del saldo nullo mi assalì in tutta la sua gravità: qualcuno aveva già approfittato. - Ed ora come farò a pagarmi l'albergo, il parcheggio, il mangiare e tutto il resto? Il Giocatore, forse mossosi a comione, mi offrì non una somma, che avrei rifiutato, bensì una possibile soluzione. - Caro ragazzo, forse ti dimentichi che hai 270 gettoni in tasca: giocali e ne vincerai mille volte di più. Ora hai una ragione in più per vincere le tue paure. L'ultima parola fece scattare in me una serie di pensieri che non potei arrestare, urgeva una riflessione. Mi congedai dal Giocatore dicendogli di aver bisogno di riflettere da solo e che l'avrei reincontrato più tardi davanti alla Sala dei Sorrisi. Fuori dalle vetrate potevo scorgere un bellissimo prato verde e cercai, nel groviglio di sale e corridoi, la via giusta per raggiungerlo. Mentre percorrevo i tappeti rossi, barcollante per il trauma subito, non potei fare a meno di accorgermi che vedevo in ogni persona che incrociavo il possibile ladro della mia carta e l'odio che scaturiva da quel pensiero era esso solo sufficiente a rendere violenta la mia rabbia. Fu l'aver trovato il prato ad impedirmi di gridare a qualcuno tutto ciò che mi ribolliva dentro. Il verde e la vegetazione avevano in me un effetto rilassante, forse perché i boschi di Montagna sembravano essere sempre attraversati da raggi di luce e
rallegrati dal canto della Natura con le sue creature libere. Il giardino era tanto ben curato che ebbi il sospetto di non poter accedere al prato, tuttavia non notai alcun cartello che lo vietasse e quindi mi sdraiai sull'erba ancora profumata per la recente tosatura. Imposi alla mia mente di analizzare con ordine le idee per poi decidere il da farsi. Non avevo più denaro, fatta eccezione per quello vinto ai dadi, e rimanevano da pagare le spese dell'auto, del garage e dell'albergo. Probabilmente i 270 gettoni sarebbero bastati allo scopo, ma l'idea di essere senza un soldo mi provocava un'ansia notevole. Eppure, pensai, fino ad ora ero sempre andato avanti con i pochi soldi guadagnati lavorando qui e la, e non avevo mai dovuto rinunciare a nulla; perché non avrei potuto fare lo stesso? Qualcosa evidentemente era cambiato in me, impedendomi di essere sereno verso un futuro (immediato) senza denaro. Rimaneva la possibilità di giocare ancora, sperando così di incrementare la mia fortuna, ma la paura di non vincere mi paralizzava. Perché barattare il denaro che già avevo con la semplice possibilità di una vincita? Non certo per il gusto del gioco, che tanto nutriva lo spirito del Giocatore d'Azzardo, né per una qualche sicurezza di vittoria; forse perché il veder consumare il mio patrimonio, seppur piccolo, era più doloroso che rischiarlo del tutto. Senza un soldo ero, pensai, e senza un soldo sarò; se la fortuna mi assisterà bene, altrimenti ritornerò così come ero partito. La decisione era presa: giocare tutto, tranne una piccola quota per pagarmi le spese che avrei sostenuto al mio ritorno in albergo. Questo non in deroga alla scelta fatta, ma per la materiale impossibilità di guadagnare in poco tempo i soldi sufficienti a pagare il dovuto. Era questa la mia Scommessa con La Sorte: vincere e cambiare vita, perdere e mantenerla uguale.
- Allora? - mi chiese il Giocatore vedendomi arrivare. - Ho deciso: gioco. - Molto bene, sono sicuro che sarai ricompensato. Vieni con me, ti insegno
qualche trucco.
La Sala del gioco "Vinci o Perdi" era gremita di persone e moltissimi ne uscivano con facce sconsolate; le coppie erano di solito oscurate da una lite imminente, più per la divergenza di opinioni sull'uso dei soldi che per la delusione della sconfitta. Ogni tanto però, in tutta quella "mogeria", si udiva un grido lacerante di gioia e due braccia ed una testa zampillavano dal muro umano che divideva l'ingresso dal tabellone di gioco. Non vi dico le facce invidiose degli altri, anche se, non si può negare, qualcuno riusciva a dimostrarsi contento e gli stringeva la mano per complimentarsi; magari poi gli avrebbe chiesto un prestito, ma questi non sono affari nostri. - Allora - cominciò a spiegarmi il Giocatore - il gioco consiste in questo: tu stabilisci la somma da giocare in multipli di cento gettoni, la associ ad una colonna di equiprobabilità in cui ogni numero indicato ha le stesse probabilità di essere estratto e, se vinci, la somma è calcolata in rapporto alla colonna su cui hai giocato. Ad esempio se giochi su di una colonna in cui il numero 345 ha una probabilità su 9700 di uscire, vuol dire che vincerai una somma pari alla tua puntata per 9700. E chiaro? - Sì, chiarissimo. Andiamo. Facendomi largo tra la folla riuscii a raggiungere il banco di gioco, misi 200 gettoni nella cassetta e presi il numero 1 dalla colonna di equiprobabilità più possibile: la uno su due. Attesi che tutti i giocatori finissero, poi il tabellone cominciò ad illuminarsi di mille colori e cifre ed alla fine il numero uscito fu: 1245430. - Non ho vinto - dissi deluso al Giocatore. - Ma che dici - mi bloccò lui - hai vinto eccome, tu hai puntato sulla prima colonna ed è uscito proprio uno; ogni colonna equivale ad una cifra del numero estratto più quelle che la precedono. La tua, essendo la prima, non è preceduta da nulla quindi hai vinto, e poi... Non lo feci nemmeno finire di spiegarmi il perché della mia vittoria che mi precipitai ad incassare la vincita.
- Adesso voglio giocare la più difficile; - dissi al Giocatore - che devo fare? - Scegli un numero a sette cifre e puntaci sopra. Scelsi il 1967510 e vi puntai tutti i gettoni. L'attesa fu snervante. Il cuore mi batteva nel petto come se mi avesse scambiato per la grancassa di una banda. Le mani sudavano come se fossero guantate di lana durante un torrido mezzoggiorno nel deserto. Gli occhi mi lacrimavano per lo sforzo di concentrazione operato sul tabellone. Una possibilità su 2000000: assurdo! Eppure dovevo vincere la mia Scommessa con la Sorte. - 1 - uscì il primo numero. - 9... 6... 7... 5... 1... 0... - gli altri. - Ho vintoooo! - gridai di gioia zompettando sulle gambe ed agitando le braccia per farmi vedere da tutti - Ho vinto nella colonna più difficile! Sono un magooo! In quel momento sentii la più forte emozione della mia vita. - Per l'esattezza - mi disse il Giocatore mentre mi inseguiva nelle mie corse forsennate di gioia - hai vinto 787'004'000 gettoni che equivalgono a 7 miliardi 870 milioni e 40 mila di valuta corrente. Sei ricchissimo! Sono orgoglioso di te. - Oh, sì grazie, amico mio, se non fosse stato per te sarei ancora un pezzente e puzzolente - e lo abbracciai baciandolo in fronte. Lui arrossì un attimo, poi mi strinse in un abbraccio fortissimo e piangemmo di gioia. Io per la vincita in denaro, lui per quella umana.
3. Il Piacere e la Ricchezza
3.1. - L'Autista della Ricchezza.
Paese Due non era più lo stesso adesso che ero divenuto ricco, o almeno così dovette sembrarmi, perché mi chiesi se potevo anche io dirmi diverso dopo un evento tanto sconvolgente. Cosa voleva dire essere ricchi se non poter avere praticamente ogni cosa che la mia mente potesse desiderare? Ebbene, chi può ottenere tutto ciò che vuole non è forse diverso? Conclusi che sicuramente la risposta era affermativa e decisi che, per avvalorare ulteriormente la mia tesi, avrei dovuto non solo essere diverso, ma anche sembrarlo. La mia vita sarà stupenda! Dissi tra me, pregustando già ciò che avrei fatto. In attesa di ciò, comunque, decisi di ricominciare il mio viaggio in modo tradizionale, per cercare un luogo ed una situazione adatta ad un inizio alla grande. Il Giocatore d'Azzardo, che mi stava accompagnando nella eggiata verso la locanda, mi prese sotto braccio infilandomi in tasca un piccolo libricino. - Cos'è? - gli chiesi incuriosito mentre prendevo il libro. - E' un manualetto su come gestire con saggezza ingenti somme di denaro... l'ho scritto io. - Davvero? - Già. E' stato un lavoro duro, ma ho venduto molte copie, questa è tua te la regalo perché ne avrai bisogno. - Oh, grazie. Ma come hai fatto, io non sarei mai capace di scrivere un libro; tutt'al più riesco a scrivere il diario del mio viaggio. - Ma non puoi dirlo, chissà che un giorno, ritrovando il tuo diario in un baule in soffitta, non ne caverai un romanzo. - No, no. Stai tranquillo che non succederà.
Il Giocatore annuì e vidi che un sorriso velava sottilmente le sue labbra. Allora non capii perché. Giunti alla Locanda, ci salutammo, questa volta per sempre. Guardandolo e stringendogli la mano sentii che la gratitudine dimostratagli per il coraggio che mi aveva infuso era del tutto insufficiente. Ma quel senso di impotenza e di incapacità di comunicare ad un uomo l'ampiezza e lo spessore dei miei sentimenti dovette sembrargli già un segno adeguato, perché vidi nei suoi occhi lo stesso sguardo di un padre che assiste al primo giorno di lavoro del figlio: orgoglio e gelosia insieme. - Adesso prosegui da solo, quindi? - disse il Giocatore quasi fosse impacciato. - Già... - feci io imitando il suo modo di fare. Scoppiammo a ridere. - Mi dispiace - interruppe lui - mi ero affezionato a te. - Anche io, però sento che il mio viaggio deve continuare; e poi ho il tuo manuale, con quello sarà come averti vicino nei momenti più importanti. - Grazie, troppo buono, ma guarda che lì dentro non c'è scritto mica niente di così grande. Parla solo degli aspetti economici della vita, e nemmeno di tutti. - Sembrerebbero molto importanti - dissi riferendomi chiaramente all'incontro col Povero Egoista. - Già... E scoppiammo ancora a ridere, più piano questa volta. - Chissà che un giorno non ci reincontreremo? - Chissà, magari un giorno. - Ciao, allora. - Ciao.
Mi voltò le spalle lentamente mentre io entrai nella Locanda: chissà se si era voltato verso di me. La Locandiera Attraente era intenta a scrivere sul registro i nomi di due clienti appena arrivati. Erano una coppia di giovani sposini all'inizio del viaggio di nozze. Giunti a Paese Due per cercare fortuna al Palazzo dei Divertimenti, avrebbero poi ripreso il viaggio verso Campagna, dove trascorrere il resto delle vacanze in un antico castello in cima ad una collina; un primo tentativo di voler vedere più avanti, pensai. Lei era abbastanza carina, anche se lo sguardo dimesso lasciava intuire le origini umili. Lui, non molto bello, andava fiero e gongolante di essere riuscito ad assicurarsi una ragazza così carina. Non dovevano essere molto più grandi di me, ed erano terribilmente imbarazzati, come se leggessero negli occhi di chi li guardava tutto quello che sarebbe avvenuto quella notte. - Buongiorno. - dissi alla Locandiera - Oggi parto, mi prepara il conto? - Sì signore. Mi fece un certo effetto vederla lì a svolgere il suo lavoro e a darle del lei con distacco. Dapprima pensai che il fastidio mi derivava dalla falsità della situazione e dal mio desiderio di abbracciarla, dopo mi accorsi che quel desiderio in realtà non c'era e che il fastidio era l'aver diviso la mia intimità con lei; sapere che un estraneo conosceva una parte di me e del mio corpo che non avevo permesso di conoscere a nessuno. Questo, di per sé, non avrebbe dovuto turbarmi, tuttavia era proprio la sensazione di averlo fatto con la persona sbagliata che mi procurava tale risentimento. E' un peccato, pensai, che spesso si cerchi o si creda di costruire qualcosa nella vita o di instaurare un rapporto profondo con le persone, e poi, quando semplicemente cambiano le circostanze, ci accorgiamo di non aver costruito nulla, che tutto cade giù al primo colpo di vento e che volevamo unirci con la persona più repellente mai conosciuta. Forse nel primo caso si tratta di nostra debolezza o di facile entusiasmo, ma sicuramente nel secondo la causa si trova nell'ansia della morte (che ci spinge a prendere tutto prima che sia tardi) e nella vigliacca paura di noi stessi che ci fa fuggire quando gli altri diventano specchio per le nostre immondizie interiori. Salii le scale in silenzio, stringendo nellla mano la chiave della stanza: quella stanza dove la notte prima mi sembrava di aver toccato il cielo ed ora era solo un
ricettacolo di ricordi angoscianti. Volevo andarmene da lì, ora che ero un "uomo nuovo". Feci le valige, pagai il conto e parlai per l'ultima volta alla Locandiera, dicendo: - Buona fortuna. - Buona fortuna a te - e fece per darmi un bacio, ma io la ignorai e me ne andai senza più guardarla. Se ci fosse stato Coniglio mi avrebbe severamente rimproverato, ma per fortuna...
La strada che portava da Campagna a Costa era molto più larga, anche se la Natura non pareva essere presente con la stessa intensità. Ero troppo abituato a Montagna, dove l'uomo aveva rispetto per la propria Madre, non come qui in basso dove la "civiltà" sembra spazzare fiori e valori con la stessa leggerezza. Porterò a Costa la mia tradizione montanara, pensai ad alta voce, e tutti mi prenderanno ad esempio per l'onestà e la morale. Che mi era successo? Forse sentivo il peso dell'assenza di Coniglio, non seppi dirlo; tuttavia di sicuro mi sentivo in grado di badare a me stesso e di aver interiorizzato i principii validi della morale, senza per questo essere schiacciato da scelte obbligatorie ed estreme. Sicuro di queste conquiste mi avvicinai a Metropoli, la città principale di Costa, con più fiducia in me stesso. Mentre le ruote rotolavano rapidamente schiacciando i granelli d'asfalto che erano rimasti liberi, la luce del sole, forse raffreddata dal cielo senza nubi, rendeva i colori della terra intensi come fosse appena piovuto. L'aria era fredda, ma non umida e questo lo capivo sempre dallo scivolare delle ruote: un suono frammentato, discontinuo, per nulla ovattato dall'umidità. E questo contrasto tra colori e luce mi parve rappresentare la terra che, chiamata a questo dal sole, gioca a restituire l'acqua che ha ricevuto, non attraverso la rugiada, ma nascondendola nelle zolle di terra sollevate dai trattori e nelle cortecce degli alberi piegati dal vento costante che porta sale e profumi dal mare verso le colline.
Cosa vuol dire viaggiare? Chiesi a me stesso per ingannare l'attesa in un momento in cui la guida non sembrava richiedere troppo impegno. E perché si viaggia? Volli dare una risposta prima generale, per quanto possibile, poi personale. Viaggiare vuol dire spostarsi da un luogo ad un altro osservando l'ambiente circostante, in cerca di elementi interessanti o semplicemente apprezzando panorami nuovi a cui non si è abituati. Il motivo può essere qualunque: raggiungere qualcuno o qualcosa, conoscere certi luoghi per motivi di studio o per semplice turismo, cercare mondi diversi con cui astrarsi dalla propria realtà e via dicendo. La risposta mi parve alquanto banale, tuttavia mi giustificai dicendo che forse, al di là proprio delle banalità, il viaggiare e le sue motivazioni sono un fatto meramente personale e non se ne può dare una definizione assoluta. Per qualcuno lo stesso albero di una strada può essere ricco di aspetti interessanti e per un altro rappresentare solo un elemento paesaggistico. C'è chi viaggia tanto da arrivare a desiderare solo la stasi e chi invece non riesce a godere che del movimento, anche se fine a se stesso. ando alla risposta personale mi resi conto che motivi e modi di viaggiare erano così intimamente connessi che non riuscivo a prescindere gli uni dagli altri. La Strada che stavo percorrendo, ovvero la ricerca della maturità, doveva per definizione essere percorsa viaggiando e quindi mi parve vitale vedere nel viaggiare lo scopo stesso della mia ricerca. Per me viaggiare voleva dire entrare in contatto con aspetti sempre diversi della realtà, viverli come se mi riguardassero personalmente ed infine trasferirne il senso ed il significato sulle pagine del mio diario. Viaggiare è un po' come lo stesso scrivere, pensai. La mente è il mezzo con cui si viaggia all'interno della fantasia e metterlo per iscritto rappresenta al tempo stesso il modo per vivere e raccontare il viaggio stesso. Ma quando è il corpo che si muove nello spazio reale, la mente diventa il mezzo con il quale si può descrivere ciò che si vive. A seguito di tali riflessioni mi accorsi che il paesaggio intorno a me, nonostante sembrasse identico, era in realtà modificato, come se mi fosse difficile distinguere tra fantasia e realtà. Questa sensazione, però, mi spaventò molto. Mi
dissi che non era possibile vedere concretamente i prodotti della fantasia e che solo quello che vedi e tocchi esiste davvero. Tutto sembrò tornare normale. Non ero ancora pronto per questo. Come accadde all'inizio del viaggio, la verdeggiante Campagna si tramutò in costruzioni umane all'insegna del progresso e della tecnologia. All'inizio ero troppo amante della Natura per poter apprezzare la tecnica, tuttavia adesso, a distanza di tempo, non mi sentivo più tanto sicuro di odiare le macchine e le grandi opere dell'uomo. Dopotutto, pensai, se non ci fosse la scienza che sarebbe della nostra salute? E se mancasse la tecnica, come faremmo ad affrontare le forze della natura? Tutto ciò mi parve essere ancor più vero quando, svoltato l'ultimo tornante prima di arrivare a Metropoli, mi trovai di fianco ad una gigantesca diga in cemento armato, dalla quale fuoriuscivano due enormi tubi che scendevano a valle in una ripidissima corsa. La strada adesso curvava più dolcemente, nonostante la pendenza fosse aumentata. Ai miei fianchi scorrevano case isolate, piccoli capannoni e molti impianti di lavorazione del legno. Già potevo scorgere le cime dei palazzi più alti di Metropoli e non potei evitare una esclamazione di stupore quando mi trovai di fronte all'immensità delle opere dell'uomo. La Natura sbalordisce con la maestosità delle montagne, spaventa con la ripidità delle cime; ma l'uomo affascina con la lucidità dei grattacieli e opprime con gli odori acri e velenosi. Un bilancio difficile e per questo scelsi di rimandarlo.
Ora che Metropoli era divenuta la mia nuova città, mi fermai in un bar per decidere il da farsi. Non avevo paura, oramai ero esperto, tuttavia sentivo che l'ansia mi mozzava il fiato, come avessi un peso sul petto ad opprimermi. Urgeva rilassarsi. Entrai nel "Kit'o'Tik - Ristoro e Affini", l'unico bar che sembrasse adeguato alla mia nuova posizione sociale, o meglio dire finanziaria. Già perché la ricchezza non porta la nobiltà, avrebbe detto Coniglio.
Il locale si presentava molto pretenzioso, ma, entrato dentro, non deludeva: ampie superfici specchiate, aria condizionata, tavolini di marmo e sedie imbottite, un bancone ampio e imbandito di ogni specialità, con una mano sempre pronta a raccogliere ogni briciola e a pulire ogni macchia. Il barista, in divisa bianca e nera, aveva uno sguardo affabile, di quelli che sembrano fatti apposta per invogliarti a mangiare e bere oltre ogni reale necessità, per il solo piacere di essere servito da lui. Al banco era seduto un signore distinto con lo sguardo affogato in un bicchiere di whiskey, ai tavolini gli altri avventori non attrassero la mia attenzione. Mi sedetti accanto al cliente al banco. Prima che gli occhi ed il sopracciglio interrogativo del barista mi toccassero, ordinai una Jipper Step: la mia bevanda preferita (analcolica, dietetica e dissetante). Anche io volli imitare il mio compagno di bancone e persi il mio sguardo nelle bollicine della bibita, in cerca di uno spunto per dare una svolta alla mia vita e, non dovevo dimenticarlo, al mio viaggio verso la maturità. - Cosa mi dicevi? - chiese il barista all'uomo seduto accanto a me, come per proseguire il discorso interrotto. L'uomo sospirò, mosse la bocca a papero e alzò lo sguardo che, notai, era molto triste. - Mi hanno licenziato - disse come se avesse ricevuto una condanna a morte. - Licenziato? - domandò il barista esterefatto. - Sì. - E perché? - Troppo vecchio e malandato, hanno detto, per essere degno rappresentante del Circolo degli Autisti Importanti (C.A.I.). "Se ne vada" mi hanno detto "lei ha il viso troppo triste per guidare le nostre auto". Capisci? Il barista rimase molto colpito da quella confessione, non come di solito si dimostrano le persone che, per lavoro o per necessità, si trovano a contatto con
gli altri per buona parte del loro tempo. Non c'era nel suo sguardo una recitazione intensa ma fredda, né nella sua voce si intuiva un disinteresse latente, come se quello che ascoltava lo interessasse formalmente, mentre in realtà la propria mente era attratta altrove. No, niente di tutto questo; una commozione profonda, invece, scorreva nel suo sangue facendo colorare le guance finora pallide di una partecipazione sincera per ciò che udiva e di rabbia per ciò che significava. - E' ingiusto! - non poté che esclamare. L'uomo sembrò accorgersi nche lui dell'onestà dei sentimenti che avevano dato vita a quella frase e sembrò un poco rincuorato. "Non essere soli nel dolore è una piccola consolazione che ti fa andare avanti" dovette aver pensato tra sé. La mia Jipper Step adesso non mi sembrava più tanto attraente, tant'era la mia partecipazione alla sofferenza di quell'uomo, e non potei fare a meno di sentire in me l'impulso, che poi scopersi irrefrenabile, di entrare in quella conversazione ed aiutare quell'uomo. - Mi scusi - gli dissi cercando di non imbarazzarlo troppo - ho inavvertitamente ascoltato la sua conversazione; volevo dirle che mi dispiace molto. Vedrà che troverà un altro lavoro! - aggiunsi per incoraggiarlo. L'uomo si voltò verso di me, dapprima infastidito, poi contento di aver letto anche nei miei occhi un segno che questa umanità non viaggia solo sui binari dell'egoismo e dell'individualismo, ma che esiste ancora qualcuno che partecipa alle gioie e ai dolori altrui per semplice umanità e non certo per curiosità o interesse. - Grazie. - rispose, sempre ad occhi bassi - Finché l'ingratitudine la temi o la immagini, è un conto; quando ti viene sbattuta in faccia posso assicurarle, signore, che fa molto male. Il fatto che mi desse del "signore" mi fece piacere, quantomeno era indice di un certo rispetto che pur scaturiva dalla mia modesta figura, o forse era solo abitudine, pensai. Già - feci io, contagiato ormai dal Giocatore d'Azzardo. - E poi - riprese l'uomo - la cosa peggiore è che quando proprio avresti bisogno
di un aiuto perché ti senti in crisi, gli altri non solo non ti danno nulla, ma addirittura ti sbattono in faccia la tua sofferenza quasi volessero rigirare il coltello nella piaga. Le parole semplici di quell'uomo erano indice di qualcosa di molto profondo che non veniva detto, ma che traspirava da ogni parte di lui e si spargeva nell'aria formando una nuvola di sofferenza e di pensieri che rendeva l'aria molto pesante. - Be' - dissi - non ci siamo nemmeno presentati: io sono un Viaggiatore in cerca della Maturità, e lei? - Io sono: l'Autista della Ricchezza: colui che guida chi possiede molto denaro attraverso i luoghi più lussuosi e raffinati che il mondo offre. O almeno lo ero. Ascoltando quelle parole capii immediatamente che avevo di fronte, non solo un nuovo incontro da descrivere sul mio diario, ma anche colui che mi avrebbe portato alla scoperta di Metropoli, città troppo grande e piena di insidie per un miliardario giovane ed inesperto come me. Era giunto il momento di invitarlo. - Senta - cominciai - ho da farle una proposta che, non dico risolverà del tutto, ma almeno compenserà il danno ricevuto. L'Autista mi guardò con la curiosità con cui un bambino guarda il papà quando gli dice: "In che mano sta la sorpresina?". Quell'ansia frenata mista a gioia molto prossima, senza nemmeno che la speranza o l'immaginazione possano avere il tempo di lavorare. - Che cosa? - domandò con foga forse eccessiva. - Ebbene: vorrebbe diventare il mio autista personale e farmi conoscere le gioie ed i piaceri del lusso di Metropoli? Non credo che credette alle mie parole, infatti disse subito: - Ma con che auto? Il barista seguiva il nostro dialogo come fosse una partita di Racchette, muovendo la testa e la bocca socchiusa dallo stupore. - Chi le dice che non ne abbia una?
Si accorse di essere stato affrettato, forse anche scortese. - Ha ragione, mi scusi. Ma lei capisce, per me... Ha problemi con quella là fuori? - e gli indicai la mia piccola fuoristrada decappottabile. L'Autista la guardò un po', alzandosi dallo sgabello, se la rigirò a piedi toccando qua e là come per saggiarne la robustezza; poi tornò dentro scuotendo il capo. - No, non va bene, non è adatta ad un Autista della Ricchezza, ex membro del C.A.I., quale io sono - e si leggeva ancora molto orgoglio nelle sue parole. - Ne compreremo un'altra - lo rassicurai, incoraggiato delle mie finanze. La mia risposta sembrò soddisfarlo e placare ogni altra curiosità. - Senta - feci io, anticipando una sua prossima domanda - per quanto riguarda il compenso qual'è il suo prezzo? L'Autista sembrò molto dispiaciuto per quella domanda ed infatti mi pentii subito d'averla fatta; il bar non era certo un luogo per parlare di queste cose. Prima che potesse rispondere avevo già pagato il conto ed eravamo fuori a eggiare, mentre il mondo ignaro delle sofferenze e delle gioie scorreva intatto. - Non voglio nemmeno sentirne parlare - disse indignato. - Ma di cosa? - Del compenso! Io non voglio nulla; tranne la limousine, ovviamente. - No, no, no. Non posso accettare io, le pagherò uno stipendio. - Non posso accettare più del vitto e dell'alloggio. - Affare fatto! - conclusi così il mio primo o nel mondo del Materialismo.
3.2. - L'Automobile della Distinzione.
Il mio, anzi il nostro, viaggio attraverso il benessere, l'opulenza, il lusso ed il piacere era cominciato. Il primo problema da risolvere era quello della nuova automobile: Gilda, come l'Autista chiamava di solito le sue limousine. Non ero ancora entrato nella logica (e come avrei potuto?) dell'abbondanza e fu l'Autista a dirmi che il concessionario di automobili doveva essere il più raffinato ed esclusivo, altrimenti non avrei avuto una macchina di vera classe. Mentre ci dirigevamo, sulla mia "piccola" auto, verso la "LUS.CAR. AUTO" notai un sontuoso salone di auto di prestigio in una piazza particolarmente curata nella composizione dei fiori e del giardino. - Lì ce ne uno! - dissi mentre mi accingevo a fermarmi. - No, non va bene - sentenziò scuotendo la testa - non è il posto giusto. - Ma almeno entriamo a chiedere - suggerii. - O no, vada lei se vuole, io non vengo. Anche se più anziano di me, nonostante non fosse nel mio carattere, mi venne in mente che dopotutto lui era al mio servizio e che avrebbe dovuto seguire le mie istruzioni. Gli chiesi, con autorità in modo che intuisse la differente posizione, di accompagnarmi e di essere disponibile ugualmente. Acconsentì, senza lamentarsi, come probabilmente gli avevano insegnato alla scuola del C.A.I.. In fin dei conti, pensai, ero io che pagavo e se adesso si prospettava per lui una possibilità di lavoro era solo per merito mio. Raccogliemmo tutte le informazioni ed i prezzi e ci congedammo. L'Autista della Ricchezza fu imibile, pur ponendo tutte le domande che, mi parve, erano opportune. Ripartimmo, finalmente diretti al concessionario che tanto stava a cuore al mio Autista.
L'edificio apparteneva interamente alla "LUS.CAR. AUTO", la cui insegna brillava luminosa da ogni facciata e dal tetto. Non vi erano, infatti, palazzi adiacenti, anzi era separato dalla strada da un viale alberato e da parecchi metri di prato basso. Dava l'idea di un antico castello ristrutturato e rinnovato nella costruzione che però conservava intatta la propria maestosa collocazione nello spazio circostante. A volte, riflettei, non sono tanto gli oggetti od i luoghi che hanno un valore di per sé, ma tutto quanto li criconda. Mi accorsi, poi, che questo discorso era valido anche per gli esseri umani e la cosa non mi fece piacere. Entrammo a piedi, lasciando il fuoristrada fuori dal cancello, perché Autista riteneva non fosse "il caso" di presentarsi con una macchina così popolare. - Il vero nobile se non può andare su mezzi adeguati preferisce i propri piedi sentenziò come fosse un docente di buone maniere. Io annuii in silenzio, per non contraddirlo;anche se pensai che la nobiltà non sta nelle forme esteriori. - Lo so a cosa pensa, Signore, - mi freddò - ma non creda che l'apparenza non abbia la sua grande importanza nella vita di tutti noi. Io ho capito che lei viene da lontano e non conosce Metropoli e le sue regole, tuttavia è il caso che lei le impari presto, se vuole godere della sua ricchezza. Come avesse fatto ad indovinare i miei pensieri non lo seppi mai, comunque decisi che da quel momento in poi sarebbe stato opportuno affidarsi interamente ad Autista che, di certo, sarebbe stato un giudice migliore di me in questa situazione. Credo che Coniglio sarebbe stato geloso dell'Autista della Ricchezza, ma per fortuna il problema non c'era. Il mio rapporto con la Coscienza adesso era risolto in una semplice immaginazione delle critiche che essa avrebbe fatto al mio operato, senza però lasciarmi condizionare in tal senso. In pratica era come se dicessi a me stesso: "Non dovrei, ma lo faccio lo stesso". Non era certo un atteggiamento moralmente dignitoso, tuttavia lo ritenni giusto, motivandolo essenzialmente con l'assioma secondo il quale solo sbagliando in prima persona si è in grado di rendersi conto delle situazioni e dei relativi errori, così da non ripeterli in seguito. Ma adesso tutto questo discorso non doveva interessarmi e mi volli piuttosto concentrare su quello che mi aspettava: la vita vera, non la
monotona pacificità di Villaggio. Entrammo dal portone principale che ci venne aperto da due ragazzi in divisa rossa. Mi ricordavano i camerieri che avevo visto per la prima volta a casa del Materialista Ubriaco; ed anche qui, infatti, avevano la brutta abitudine di toglierti il cappotto appena entrato. Autista mi spiegò in seguito che dovevo rispettare le regole del galateo, a meno di non diventare un miliardario eccentrico. L'idea di esserlo, a dire il vero, non mi dispiacque affatto, però nutrivo il sospetto che, se l'avessi fatto, avrei perso la collaborazione dell'Autista che invece mi era indispensabile. "Cinico!" avrebbe detto Coniglio. "Lo so" avrei risposto. Fummo condotti in una saletta d'aspetto arredata con eccesso di velluti e ori, dove poco dopo ci raggiunse un signore assai distinto e ben vestito. Si trattava di uno dei "consulenti" come si autodefinì, anche se io lo vedevo più come uno che se compri è contento e se non compri s'arrabbia; e che quando ti dice che il modello più adatto è il più costoso e tu cerchi di dimostrare che non è vero, lui ti prende sottobraccio e ti dice che sei il migliore e che non puoi andare in giro con un modello inadeguato. Le mie previsioni si dimostrarono esatte. Ci vendette il modello più lussuoso, lungo sette metri, dotato di ogni comodità ed accessorio che vi elencherò di volta in volta che ne farò uso. Le trattative le lasciai condurre ad Autista che, in quella situazione, si presentò come un amico esperto in automobili. Mi limitai a recitare la parte di quello che vuole spendere poco, però alla fine si fida e si fa convincere. In realtà non me ne importava nulla dell'auto, l'unica mia preoccupazione era quella di rimanere senza soldi per fare cose che mi avrebbero soddisfatto di più. Il fatto che non conoscessi cosa fosse a far divertire mi rendeva molto prudente e parsimonioso. - Ma si goda ciò che ha senza pensieri - mi suggeriva Autista.
L'auto era nera con i vetri scuri, sembrava un carro funebre. All'interno era rivestita di pelle, velluto, moquette e radica di noce, senza risparmio di pulsanti e lucette, quasi come nelle astronavi che vedevo nei film di fantascienza. Gilda, la limousine, ci venne consegnata il giorno dopo all'hotel Eccellent (il più prestigioso) dove Autista mi consigliò di affittare una suite per una settimana. La mia fuoristrada venne parcheggiata nel garage dell'albergo, nonostante Autista avesse cercato di convincermi che era meglio buttarla o venderla. Non acconsentii perché sapevo che mi sarebbe servita dinuovo, lo sentivo.
3.3. - La Radio Romantica.
L'appartamento in cui alloggiavo era decisamente di più di ciò che qualsiasi essere umano avrebbe potuto aver bisogno, ciò nonostante si era liberato proprio il giorno prima perché l'inquilino lo reputava non sufficientemente arredato; cosa che mi lasciò sconvolto quando il direttore me lo disse, quasi per cercare conferma della infondatezza delle critiche ricevute, nella mia soddisfazione. Io lo tranquillizzai dicendogli che piscina con idromassaggio, televisore con videoregistratore, aria condizionata e impianto stereo in ogni stanza, letto con materasso massaggiante e altro ancora erano sufficienti per un buon confort. In realtà ero quasi ferito da tanta abbondanza, e pensare al letto su tavole di legno della mia casa aggravò il mio stato d'animo. Poi, all'improvviso, qualcosa cambiò in me, quando mi resi conto che adesso ero ricco e che le sofferenze o la povertà del ato erano solo un ricordo. Presi a girare per tutta la casa attivando ogni marchingegno, saltando su divani e poltrone, rotolandomi sul letto (ci avrebbero dormito tre persone comodamente) ed impazzendo in tanta meraviglia. - Il sogno è realizzato! - urlai. Aprendo l'acqua della vasca mi venne in mente qualcosa a turbare tanta gioia: Kelemata, la mia più cara compagna di giochi, con cui facevo il bagno nei torrenti gelidi di Montagna e poi correvamo sui prati mezzi nudi per scaldarci al timido sole dell'estate. Chissà dov'era Kelemata adesso e che faceva. Era triste per non poter più giocare con me, oppure aveva capito il perché del mio viaggio? Non lo sapevo, né avrei potuto. Se ora fosse stata con me chissà come ci saremmo divertiti. La tristezza rese tutto quel lusso molto meno sfarzoso, poi, però, a vedere le bolle provocate dall'idromassaggio mi ò ogni pensiero e feci un bagno in tanta schiuma, come mai avevo neppure sognato.
Nella stanza, tra le tante meraviglie dell’arredamento, una cosa mi colpì più delle
altre. Se ne stava lì, facendo bella mostra di sé su di un tavolo di marmo: la Radio Romantica. Doveva essere antica, a giudicare dalla forma e dai materiali di cui era composta. La cassa di legno, i rivestimenti in radica di noce, i vetri appannati e consunti, i pomelli di bachelite: tutto mi riportava indietro nel tempo, nell’infanzia, quando avo i pomeriggi innevati d’inverno ad osservare ed ascoltare la radio del nonno. Erano assai simili, dovevano essere dello stesso periodo, pensai. L’accesi, per provare. Ma il suono che ne scaturì non corrispondeva affatto al gracchiante gorgheggiare di certe voci metalliche, né somigliava al mitragliante scoppiettio di scariche elettriche simile ai racconti che il nonno ci faceva della guerra. Anzi, per essere esatti, dalla Radio Romantica non uscì alcun suono. Provai allora a ruotare la manopola della sintonia, ma ottenendo un effetto tanto insolito quanto illogico. Ad ogni scatto del selettore, corrispondeva una diversa visione nella mia mente. Come se, lo scrissi pur sembrandomi assurdo, la Radio fosse direttamente collegata con il mio cervello. Spensi tutto e me ne scappai in balcone, per non pensare.
3.7. - L'Arrivista Pentito.
La Città era ormai lontana quando, percorrendo la strada attraverso la gola in fondo alla Valle, mi accorsi di una vettura che mi seguiva. Non me ne accorsi subito in quanto i veicoli che ci precedevano, che era impossibile superare, avevano provocato una colonna obbligatoria dietro di loro, poi cominciai a farci caso perché seguiva fedelmente tutti i miei ritmi di marcia, senza superarmi anche dov'era possibile. Stavo entrando a Campagna, la vasta zona collinare e verdeggiante che si estendeva a perdita d'occhio appena fuori dalle Montagne del gruppo Keller, dove si trovava anche il mio Villaggio. Mi fermai per consultare la carta stradale e mi accorsi che l'auto "inseguitrice" s'era fermata anch'essa. Istintivamente le dita si posarono sul calcio in legno della mia pistola, mentre il dito indice accarezzava delicatamente il selettore, in metallo brunito, della sicura. Avevo sempre amato le armi perché in televisione mi affascinavano certi spettacoli di guerra e di violenza capaci essi soli di farmi scaricare la carica di aggressività che altrimenti non avrei saputo esternare. Ogni tanto avevo bisogno di sfogarmi, ed il partecipare attivamente agli spettacoli di guerra ne era un modo, anzi, il mio modo. Nella macchina inseguitrice c'era un uomo, non ne distinguevo però la fisionomia, solo dai contorni potevo desumere che fosse di corporatura media, non molto anziano. Scesi dalla mia fuoristrada e, d'improvviso, come fulminato, mi accorsi di sentirmi solo: non c'erano più le zampettine paffute di Coniglio che mi seguivano silenziose. Fu così che, mentre il mio cervello ragionava sul da farsi circa il probabile inseguitore, mi trovai a rimpiangere Coniglio e tutto quanto era significato per me. Era la mia coscienza, quella presenza capace essa sola di darmi forza nell'affrontare le difficoltà o di farmi desistere dall'intraprendere vie pericolose o sbagliate. Mi vergognavo di come lo avevo liquidato, scacciato dalla mia vita e preso a calci in modo ignobile; dopotutto era stato per me un fedele compagno di
viaggio, oltre che un amico, e l'abbandonarlo era stato un errore imperdonabile. L'istinto mi spinse a tornare indietro, ma capii che non potevo: la vita stava riservando per me molti fatti nuovi che avrei dovuto affrontare da solo, senza l'ausilio di Coniglio. Vidi che c'era qualcosa di positivo in questo, qualcosa che aveva a che fare con il buon esito del mio viaggio verso la maturità. Assorto in queste riflessioni non mi accorsi che l'inseguitore era uscito dalla propria macchina e si stava dirigendo verso di me. Teneva una mano dentro la giacca. Guardandolo mi accorsi che era assai più giovane di quel che immaginassi. Aveva gli occhi ed i capelli molto scuri e si dirigeva verso di me a o lento ma deciso. L'istinto, anche questa volta, mi fece stringere il calcio della pistola. Avevo paura, l'unica mia esperienza in fatto di armi risaliva a quando si andava nei prati, col fucile dei Pitterjod, a tirare contro i bersagli di paglia che la zia di Kelemata aveva tessuto per noi. Ciò nonostante ero sicuro delle mie capacità: avevo buona mira, e più volte ne avevo dato prova. Rientrai in macchina. L'inseguitore accelerò il o. Seguivo le sue mosse nello specchietto retrovisore, la pistola la tenevo in mano, senza sicura e con il colpo in canna. Il cuore batteva selvaggiamente, ma non avrei perso il controllo, ne ero certo. Quando l'uomo fu abbastanza vicino notai che dalla giacca stava estraendo qualcosa. Allora non esitai, strinsi l'arma nella mano, posai il dito sul grilletto e mi catapultai fuori dell'auto rotolando a terra. Nel giro di un attimo mi trovai a cinque metri da lui con la mia pistola puntata dritto nella sua fronte. - Ehi, non spari! - urlò l'uomo lasciando cadere dalla mano un pacchetto di fazzoletti. Tirai un sospiro di sollievo. - Mi deve scusare - gli dissi - ma credevo che lei mi inseguisse e mi sono lasciato prendere un po' la mano. Mi tirai sù spolverando dai vestiti il terriccio, rimisi l'arma nella cintura e, con uno dei fazzoletti caduti a terra, mi asciugai la fronte imperlata di sudore. - Ero venuto - cominciò a dire l'uomo che si sentiva in dovere di spiegazioni per chiederle se poteva farmi un favore un poco particolare.
Detto questo rimase zitto a testa bassa, come se la coscienza gli bruciasse per qualcosa. Non era umiltà la sua, né incertezza, bensì doveva trattarsi di vergogna. - Mi dica - gli dissi. - Mi deve scusare - riprese - la mia è una lunga storia ed ho paura di non essere in diritto di narrarla. Esitava, ciò nonostante era evidente il suo desiderio di rendermi consapevole del suo dramma, cosicché lo incitai a proseguire. - Prima di tutto è bene che mi presenti: sono un uomo che, pur di ottenere ciò che vuole, viene a patti con la propria coscienza. Quella frase fece scattare subito in me una molla, quella della memoria. Ricordo ancora le parole di Montanaro: "Quando la sete di successo porterà un uomo a venire a patti con la propria coscienza, allora quell'uomo sarà il mio amico: digli che hai incontrato me, lui ti darà qualcosa." Non volli tuttavia confermare la mia reminiscenza e lo lasciai proseguire. - Vuol dire di essere un'Arrivista? - chiesi io. - Un tempo, forse, ma ora sto percorrendo un'altra strada; diciamo che potrei chiamarmi l'Arrivista Pentito. La sua correzione mi stimolò subito. - Che vuole dire con "Pentito", forse che non lo siete più? - Esatto - disse orgogliosamente - ho deciso di cambiare modo di vita; non sarò più cieco difronte alle cattiverie compiute per ottenere denaro e successo, non sarò più sordo ai richiami della coscienza e parlerò di me, del vero me stesso, ad ogni uomo che vorrà ascoltarmi. - Io sono solo un ragazzo, però. - Vai più che bene - mi rispose in tono più confidenziale - sei comunque qualcuno che sta ad ascoltarmi e questo è sufficiente. Ora ti racconterò la mia
storia, ascoltala con attenzione ed aiutami a decidere il meglio. Era strano, pensai, essere inseguito da un perfetto sconosciuto per poi trovarsi a dover ascoltare confidenze per dare consigli. In verità il mio carattere metteva chiunque a suo agio invogliandolo a parlare, ciò nonostante non avrei mai creduto che questa mia qualità potesse trasmettersi in questo modo. Tuttavia lo ascoltai con la massima serietà, come se a confidarsi fosse un vecchio amico. - Tutto è cominciato pochi anni fa, a Città Uno, quando la mia vita era vissuta in chiave "arrivistica" ed il potere era il mio unico obiettivo. Fu così che, ad un party d'alta classe, conobbi una ragazza, nota nell'ambiente per essere un po' lasciva nei costumi, nonostante fosse felicemente sposata. Decisi, privo di scrupoli com'ero, che l'avrei sedotta, fatta innamorare ed infine costretta a sposare me divorziandosi dal marito. Il mio piano riuscì molto bene ed ottenni quel che volevo. Un problema, però, stava nel fatto che il divorzio dal marito era, per motivi legali, impossibile e lei, se lo avesse lasciato, avrebbe perso ogni sorta di ricchezza. Questo ovviamente contrastava con i miei piani, per cui decidemmo di liquidare il marito una volta per tutte. A sentire quelle parole sgranai gli occhi. - Lo so - riprese - che può sembrare orribile, ma le nostre volontà, sebbene spinte da diverse motivazioni, erano in ciò sufficientemente ciniche e concordi. Lei per amore, io per denaro: entrambi volevamo la morte del povero marito. - E allora? - chiesi con gran curiosità, come se in qualche modo la storia non mi fosse nuova. - Allora - continuò l'Arrivista - mi organizzai per eliminarlo: lo avrei investito con un furgone. A quell'ultima parola mi fu tutto chiaro, ecco dove avevo già sentito quella storia: dalla Ragazza Facile e il Materialista Ubriaco. Volli però sentire la sua versione e non dissi nulla. - Il tentativo, purtroppo, fallì e non potemmo realizzare i nostri sogni. Qualcosa e qualcuno intervennero, però, a mutare la situazione. Il marito, soccorso da un ragazzo che ava di là, venne ricondotto a casa e gli furono curate le ferite. Accadde purtroppo, che la mia donna, spinta dalla forza dell'abitudine, tentò di sedurre quel ragazzo il quale, per ovvi motivi, si rifiutò facendole invece la
predica sul fatto che il suo comportamento non fosse onesto. - Che vuoi dire con la frase "per ovvi motivi" - domandai fingendomi ignaro di tutto. - Era evidente che si trattava di un pivello inesperto e sessualmente debole, altrimenti avrebbe percepito il trasporto che quella donna sapeva dare. - Capisco, continua - dissi, ormai dandoci entrambi del "tu". - Dunque - riprese - a seguito di quell'incontro accadde l'imprevisto di cui ti ho accennato: io decisi di aver superato i limiti e capii di amare la donna che inizialmente avevo ingannata; lei, Melenza si chiamava, a seguito di quell'incontro, smise di amare me decidendo di riavvicinarsi ad un marito che, annegato com'era nel vizio e nell'alcool, non avrebbe potuto più darle un bel nulla. Quando fece il nome di Melenza, la Ragazza Facile, non potei fare a meno di scoprirmi dichiarandomi espressamente. - Come hai detto che si chiamava quella donna? - gli domandai per fingermi ingenuo. - Melenza, perché? Scoppiai a ridere, in modo falso, ma ci riuscii bene. - Incredibile - dissi - fantastico, assurdo... Commentai la vicenda con il massimo del divertimento. Spiegai all'Arrivista Pentito che quel ragazzo impotente e pivello ero io, e che grazie a me il loro rapporto era così cambiato. - Devi scusarmi - gli dissi - ma non avrei mai immaginato una situazione del genere, io vorrei aiutarti davvero, mi sembri sincero nel tuo desiderio di nuova vita, tuttavia mi rendo conto che nutri per me un odio profondissimo, incurabile. L'Arrivista stette un attimo silenzioso, mi guardò serio, poi disse: - No, ti sbagli, non serbo verso di te il benché minimo rancore; ti sono grato,
invece perché, indirettamente, grazie al tuo intervento ho capito come nella vita l'unica cosa che conti per davvero sia l'affetto di una donna e che ogni bene materiale, difronte ad un sentimento vero, perde ogni valore. Grazie, grazie di avermi aiutato prima senza saperlo ed ora che lo sai. Non lo nascosi: ero contento di questo, anche se in qualche modo il mio orgoglio era mitigato della sensazione di aver commesso un errore intromettendomi negli affari di Melenza e dell'Arrivista. Il suo racconto proseguì ancora per analizzare gli svolgimenti successivi. Nella sostanza l'Arrivista avrebbe voluto operare la propria redenzione attraverso l'amore per Melenza che, grazie anche al mio intervento, non voleva più saperne di lui. L'Arrivista aveva il preciso sospetto che il Materialista non fe felice la moglie, ciò nonostante non si sentiva in diritto di rifarsi vivo con lei per non turbare il suo equilibrio qualora ci fosse: non sapeva come fare e, in sostanza, avrebbe voluto un consiglio da parte mia. La situazione era spinosa e risolverla non sarebbe stato affare da poco. Si trattava di tutelare due persone che, al momento, avevano desideri opposti: uno escludeva l'altro, come due mondi incompatibili incapaci di toccarsi. Come fare? Dovetti riflettere e questi furono, in linea di sintesi, i miei ragionamenti. Melenza aveva bisogno di trovare una dimensione in cui svolgere correttamente la propria personalità; l'Arrivista, in quanto Pentito, necessitava di una figura femminile a cui dedicare amore e onestà di sentimenti. In linea teorica non era impossibile che i due si unissero, lo era bensì praticamente: Melenza non voleva più vedere colui che rappresentava il periodo della propria vita che ora voleva dimenticare. D'altro canto non era affatto certo che il Materialista fosse la persona più adatta al recupero etico-morale di Melenza, forse lo era di più l'Arrivista che, a ben guardare, possedeva una forza di volontà ben superiore; come fare però ad appurarlo? Non potevo certo consigliargli di andare di persona a parlare con Melenza, tanto meno potevo suggerirgli di informarsi per vie traverse: le informazioni, com'è noto, subiscono continui adattamenti quando ano di bocca in bocca e quel che dapprincipio nasce come un gesto d'amore diventa, in poco tempo, la più infame delle carognate. Anche questa via era dunque preclusa. Una soluzione tuttavia esisteva e mi parve di trovarla in questo modo. L'Arrivista avrebbe scritto una lettera contenente la descrizione minuziosa del
problema, nonché la sua proposta di incontro per trovare una nuova intesa, questo solo nell'eventualità che i rapporti con Materialista non fossero ottimali; in caso contrario aveva il diritto di stracciare la lettera e lui sarebbe sparito nel nulla per sempre. In calce io avrei aggiunto una postilla raccontando brevemente il fatto e pregando Melenza di credere alla "conversione" dell'Arrivista Pentito. Non so se sia servito, fatto sta che al mio compagno di viaggio piacque moltissimo e volle in qualche modo sdebitarsi. Fu allora che gli raccontai del Montanaro Solitario e di quanto mi aveva detto. Parve commosso quando gli raccontai del mio incontro (vedi º 1), e mi chiese il perché non lo avessi raccontato subito. Gli risposi così: - Non ho necessità che i protagonisti del mio viaggio siano ben disposti verso di me grazie all'intercessione di altre persone, voglio invece meritarmi e conquistare con ognuno la mia fetta di stima e di rispetto. Gli piacque anche la mia risposta a tal punto che mi disse di chiedergli qualunque cosa. Fu così che domandai la cosa più ingiusta che potessi chiedergli: mi feci dire, in base alle sue conoscenze in un certo ambiente, il nome e il modo per contattare un killer professionista per operare una vendetta: quella contro il Guidatore Senza Meta, che mi aveva costretto a tanti mesi di prigione. Scrisse il nome su di un biglietto con qualche riga di presentazione, poi mi salutò rapidamente e riprese il suo viaggio verso Città Uno, nella direzione opposta alla mia. Sulla stessa strada viaggiavano due uomini che per un poco erano stati uniti, ora invece erano divisi perché in cerca dei due lati, opposti, della stessa medaglia: lui cercava il perdono, io la vendetta. Molte volte la vita unisce individui dai destini opposti, li fa procedere affiancati per un poco, infine li divide quando essi hanno assunto la consapevolezza di rappresentare due dimensioni incommensurabili di una stessa unità.
Le auto avano sulla strada a folle velocità, la mattina andava ormai scemando ed i primi languori della fame si facevano sentire. Decisi di sostare alla prima stazione di servizio lungo la strada per Paese Uno, la piccola cittadina ai margini della Campagna: il mio prossimo obiettivo.
4. Il Sentimento
4.1 La Vecchia Signora.
ai la notte alla "Locanda della Vecchia Signora", una graziosa pensioncina antistante il duomo, con la vista proprio sulla piazza principale di Paese Uno. Dormii sonni pensierosi, perché dovetti riflettere su quanto avevo vissuto durante il giorno, sulle follie degli uomini, delle donne e dei loro falsi amori. Furono le campane del duomo a svegliarmi il giorno dopo, il sole filtrava attraverso le imposte di legno e gli uccellini cinguettavano discorsetti brevi e senza valore: parlottavano, a modo loro. Presi in mano il diario e decisi che da quel momento in poi avrei affrontato il tema dei Falsi Amori. Caricato da questa nuova decisione, scesi di sotto per fare colazione insieme agli altri avventori e clienti della pensione. La Vecchia Signora aveva preparato delle profumatissime Jeberéns aux Alpes (una tipica specialità delle mie parti) che gradii moltissimo. La padrona della pensione era una grassa donnona di paese, con sempre addosso il grembiule da cucina quadrettato, unto di sughi e di olii, allacciato di malavoglia sul davanti, sempre pronto ad aprirsi e a mostrare le vesti logore e consunte; come tutte le proprietarie di pensioni e, per di più, di paese, era una grandissima pettegola, era sempre al corrente di tutto ed era in grado di raccontare mille storie leggendarie o realmente accadute. Ma, come spesso accade, fantasia e realtà fanno molto presto a confondersi e generano una metastoria semi-reale. Lasciai a bella posta bene aperto sul tavolino il mio diario in modo che si leggesse il nuovo argomento, scritto a caratteri cubitali col pennarello. Non ò molto tempo che, tra una portata e l'altra, la Vecchia Signora si accorse di quella scritta e, come previsto, mi venne ad infilare la pulce nell'orecchio. Ah, lei è nuovo di qui - esclamò mentre versava una strana bevanda marroncina nella tazza - non sa quante storie e quanti intrighi d'amore sono nascosti tra questa gente! La guardai sorridendo. Me ne racconti qualcuna - le proposi, gongolante per aver ottenuto quanto previsto - non mancherò di ascoltarla con vivo interesse, così che possa portare
novelle migliori al mio ritorno a casa. Non so perché mi espressi in quel modo così arcaico, tuttavia lo ritenni adatto alle circostanze. Ma non è luogo questo! - mi biasimò la donna - Venga da me piuttosto, non appena terminata la colazione; ho già in mente tre storie da raccontarle, ed in più anche una profezia che la riguarda. La Vecchia riprese il suo giro attraverso i tavoli, io richiusi il mio diario (che aveva assolto ai suoi compiti) e mi concentrai sulla colazione.
Il luogo scelto per la narrazione era un piccolo e ben decorato chiostro monacale, al lato del duomo, adesso adibito a parco pubblico. La Vecchia Signora sedeva sul bordo di un antico pozzo e col dito descriveva nell'aria volteggi acrobatici capaci, io credo, di darle lo spunto e la fantasia per le tre storie che doveva raccontarmi. Io, invece, mi sedetti nell'erba morbida e ben rasata, cercando di cogliere un timido raggio di sole che sembrava a tutti i costi volermi sfuggire. Tutto era pronto per la narrazione.
La Vecchia Signora infilò le sue grasse mani nelle tasche del grembiule e cominciò il racconto: La prima storia di cui le parlerò narra di un ragazzo, vissuto qualche anno fa, che si sentiva perseguitato da una maledizione: "Ogni donna che conosco si innamora di me," diceva agli amici "ma io non riesco a fare altrettanto; in ognuna trovo mille difetti e, prima o poi, finisco col rovinare tutto." Questa frase ne esprime la profonda sofferenza: un ragazzo che ha successo, ma che non riesce ad amare. Fu così - proseguì a dire la Vecchia Signora gingillandosi con l'edera che cadeva dal ballatoio del chiostro - che quel ragazzo non volle più accettare nessuna donna accanto a sé, preferendo chiudersi in solitario eremitaggio in una casupola in cima alla montagna. Di tanto in tanto gruppi di amici e di curiosi andavano a fargli visita, ma lui li cacciava sempre via, lasciando entrare solamente qualche ragazzino a cui raccontava le sue tristi avventure. Fu così che nel Paese, dopo gli ultimi disperati tentativi, tutti i saggi ed i luminari decisero di riunirsi per risolvere il problema: ci fu un'assemblea.
Ascoltavo con interesse il racconto e guardavo (con curiosità forse maggiore) tutti i movimenti che compiva la mia Vecchia narratrice nel torturare le povere foglie d'edera. Ci prendemmo una pausa per cambiare posto: il sole s'era fatto troppo caldo. Trovammo ombra, dopo una breve ricerca, sotto un ciliegio in fiore; era un timido riparo, ma ci bastò. L'assemblea fu riunita nella piazza centrale del paese. - riprese a dire la Vecchia Signora - Dapprima sembravano tutti d'accordo nel convincerlo a tornare giù, in seguito emersero voci che lo preferivano lì perché costituiva un'attrattiva per il turismo, inoltre alcune donne temevano di cadere sue vittime e non volevano aiutarlo; il Paese si divise in mille pezzi, ognuno aveva un'idea da mettere in pratica. Fu così che il vecchio saggio del paese prese in mano la situazione e si ritirò in privato per meditare la scelta più giusta. La decisione dell'assemblea - riprese a dire la Vecchia Signora - fu scritta su di un foglio e recapitata al Ragazzo che non sapeva amare (come era stato definito dai turisti di aggio) a mezzo di un ragazzino un po' monello, ma rapido e volenteroso. Eccotene il testo: " La cittadinanza riunita ha deciso che il tuo male può e deve essere curato. Esso è un male psicologico dovuto all'insicurezza, alla paura di donare alla persona sbagliata una parte di te che ritieni essere preziosa e irripetibile. Questo è il tuo errore; l'amore che tu regalerai alla donna che si innamorerà di te non sarà perduto, in qualsiasi modo procederà la vostra storia nessuno di voi avrà amato invano, perché amando si diventa più sensibili e maturi e si impara a rispettare l'altra persona, ma, innanzi tutto, a rispettare se stessi. Perché, ricordalo, non si può ricevere amore se non si ha una dignità individuale. Ed è per darti sicurezza e dignità che abbiamo deciso di eleggerti sindaco ad honorem della città. Da oggi il posto di sindaco è libero in attesa del tuo insediamento. Ti aspettiamo. Firmato: i tuoi concittadini." La mia prima reazione fu quella di sorridere commosso per aver trovato tanta saggezza ed equilibrio in una persona anziana, al di sopra degli screzi e degli interessi della gente comune che si affanna a prevaricare gli altri senza prendere minimamente in considerazione il fatto che, prima o poi, ad ognuno serve l'aiuto di chi lo circonda. E poi cosa accadde? - chiesi io, ansioso di conoscere la fine della storia. Il Ragazzo lesse la lettera, meditò un poco ed infine si convinse a tornare in città: è stato un sindaco amato e rispettato. Ha scelto una donna per la propria vita ed è
morto con lei. Terminato il racconto presi a camminare per il chiostro, annusando di tanto in tanto qualche rovo di rose, bacche odorose o fiori aromatici di origine esotica. La Vecchia Signora mi venne dietro, con lo sguardo però, in attesa che le riassi vicino per ricominciare la sua storia, la seconda. Finsi di non averlo intuito e rimasi col naso ficcato nei cespugli e nei vasi. Non vuole sapere nessun'altra storia? - mi invitò la Vecchia Signora - Ne ho altre due da raccontarle. Le accennai di sì col capo e tornai nei suoi pressi, nuovamente pronto ad ascoltarla, questa volta seduto sul ramo di un salice antico. Questa volta parlerò di una ragazza. Era una nobile signorinetta di campagna, bene educata e di discreta cultura, dal carattere ritroso e timido che le impediva di desiderare la compagnia dei suoi coetanei maschi. Questo fatto preoccupava non poco i genitori che, come spesso accade in questi casi, cercavano in tutti i modi di favorire incontri di ogni tipo con altri signorini delle casate vicine. La ragazza era assai vanitosa e superba, sempre pronta a storcere il naso per le debolezze altrui. Come conciliasse la timidezza col fare vanesio nessuno riusciva a spiegarselo. Accadde così che, dopo vani tentativi, la ragazza incontrò un gentil signore tutto angelico e galante. Se ne innamorò perdutamente e questo fece la gioia di parenti e genitori che, finalmente, vedevano un nobile futuro per la loro figliuola. Grandi festeggiamenti, viaggi, inviti, cene e feste di gala: il loro amore sembrava solidissimo ed imperituro. Presto furono annunciate le nozze per la nobile coppia. Fu così che, tra grandi sfarzi e lussi, si giunse al fatidico giorno del matrimonio. La chiesa era in pompa magna, gli inviti erano stati estesi a tutte le contee vicine e lontane, cavalieri del re erano giunti per rendere omaggio ai novelli sposi. Tutto sembrava andare per il meglio. E così fu; il matrimonio si svolse in un clima di euforia generale. La notizia si sparse velocissima in tutto il regno, tanto che vennero a trovare la giovane coppia principi e principesse di tutte le famiglie. I primi problemi sorsero quando la ragazza, forse spaventata dalla gioia che andava via via trasformandosi in quotidiana monotonia, decise (beata lei) di innamorarsi di nuovo, così, pensava, avrebbe generato nuova allegria per tutto il regno. La poverina non si rese conto del guaio che aveva provocato. Si annullò il matrimonio e se ne fece un altro, ci fu gioia per qualche tempo, poi non più. La ragazza, ormai donna, continuava ad innamorarsi ogni giorno di un nuovo uomo, senza nemmeno dare il tempo a
nessuno di fermarla o di assecondarla: era ossessionata ed inarrestabile. Un vecchio saggio disse che era vittima inconsapevole dello Spirito dell'Amore che l'aveva resa innamorata di se stessa innamorata, in altre parole ella era felice solo se viveva nel perenne stato dell'innamoramento, senza che questo sfociasse mai in un' unione vera. Forse per reazione all'infanzia così strana, forse per innato eccessivo amore per se stessa, era costretta ad innamorarsi senza poter amare. Brava! - dissi ad alta voce mentre applaudivo - Una storia bellissima e divertente, complimenti per la fantasia! La Vecchia Signora parve rimanere dapprima contenta per i complimenti, subito dopo fece il muso come se l'avessi offesa. Vorrebbe forse dire che non crede che le mie storie siano vere? - borbottò guardandomi in cagnesco. Mi accorsi dell'errore e decisi di porvi rimedio. Ma no, volevo solo dire che ci vuole molta fantasia per ricordarsi le storie vere: chi non possiede la capacità di inventare non possiede nemmeno la capacità di capire e ricordare quanto hanno inventato gli altri o, come in questo caso, quanto è realmente accaduto. Mi parve un aggiustamento sufficiente ad arginare l'errore commesso. La terza storia che mi fu raccontata era forse complementare e consequenziale alle altre due. Narrava di una donna, questa volta dei nostri giorni, che, pur essendo fedelmente sposata da molti anni, sembrava vivere un' esistenza inquieta perché afflitta da una irrefrenabile attrazione per gli altri uomini. Desiderava essere amata, corteggiata e coccolata, accusando il proprio marito di non volerle bene. Ciò nonostante non voleva porre fine all' unione con suo marito perché timorosa che l'amore che trovava negli altri non fosse serio e duraturo. Tutti gli amici della coppia ed il marito stesso erano convinti del fatto che lei, la moglie, in realtà amava esclusivamente suo marito, ma era incapace di ammetterlo perché spaventata dall'idea di accorgersi di aver sbagliato. Sembra quasi la storia del Ragazzo che non sapeva amare - feci osservare alla Vecchia Signora che, immediatamente, trasalì alzandosi in piedi. Eh no! - disse irritata - Allora non ha capito nulla. Non c'entra nulla, nella prima
storia lui non sapeva amare perché non credeva in se stesso; in questa storia invece lei crede in se stessa, ma non ha fiducia negli altri e non riesce a riconoscere chi l'ama veramente. Ammisi di aver giudicato in modo affrettato.
Tornammo nella pensione senza parlare, poi, poco prima di attraversare la piazza del duomo, la Vecchia Signora si fermò e mi disse: Ora siete pronto per affrontare il grande tema dell' Amore, i miei racconti hanno assolto il loro compito di metterla in guardia dai Falsi Amori, ora non le resta che scoprire dove si trova ed in cosa consiste quello vero. Condivisi il suo pensiero e cominciai a preparare le valigie.
L'Agguato.
La provinciale 128 era l'unica strada che collegava Paese Uno con Paese Due, situato, quest'ultimo, ai margini della Campagna e già molto vicino al Mare. La strada, affiancata da filari alberati, era decisamente rettilinea e divideva la Campagna in due parti. Questa fenditura non era esclusivamente di carattere fisico, bensì sembrava praticare una scissione molto più profonda sia a livello paesaggistico che geologico; come se il tempo e gli agenti atmosferici avessero operato mutamenti ed effetti diversi nei due lati della strada. Tuttavia non volli soffermarmi troppo su questi particolari, non era il momento: piuttosto dovevo trovare un mezzo di trasporto. Avevo in tasca ancora qualche spicciolo guadagnato qua e là nei mille lavoretti che avevo fatto, ma non mi andava di spendere tutto in autobus o altri mezzi di trasporto: rimpiangevo molto la mia piccola fuoristrada lasciata in quella maledetta stazione di servizio. Il mio viaggio, pensai tra me, è rivolto al presente ed al futuro e quindi non è corretto rimpiangere il ato: ogni cosa è perché ne ha il diritto. Le automobili, i trattori, i carri e le biciclette mi superavano ininterrottamente, non lasciando per nulla intendere odori e silenzi tipici della campagna.
All'improvviso ci fu silenzio, nessun movimento lungo la strada né ai margini, il sole all'orizzonte andava alzandosi molto lentamente, l'aria era ferma. Da lontano, provenienti dall'opposta direzione, comparvero due uomini a bordo di una fuoristrada scoperta, somigliava alla mia. Quando furono abbastanza vicini mi accorsi che procedevano a bassa velocità e gesticolavano indicando me: ebbi paura. Cosa volevano, perché mi indicavano? Quando mi arono accanto constatai con sollievo che non ero io l'oggetto del loro interesse, stavano invece animatamente discutendo tra loro; tuttavia la fuoristrada su cui viaggiavano sembrava proprio essere la mia. L'idea che fosse così mi spaventava e non volli pensarci: colui che avrebbe viaggiato sulla mia macchina sarebbe certamente stato un ladro perché chiavi e documenti erano ancora in mio possesso. Il mio cammino riprese serenamente quando non sentii più alcun rumore dietro di me. D'improvviso mi sentii afferrare per le spalle, una mano callosa mi chiuse la bocca con forza, altre due mi bloccavano le braccia, un sacco di tela ruvida mi oscurò la vista ed un colpo in testa misero fine ad ogni tentativo di resistenza.
4.2 La Ragazza Gentile.
Ehi, come si sente? Si svegli! Una voce femminile risuonò nella mia testa frastornata; era una voce delicata ma non acuta, l'accompagnava un timido scuotimento del mio volto messo in atto da una mano morbida, liscia ed efficacemente calda nella temperatura e nel movimento. Volli subito aprire gli occhi per vedere da quale persona provenissero quei gesti così gentili. Mi trovavo sdraiato sul bordo della strada, accanto a me c'era il sacco con cui mi avevano incappucciato, poco davanti la mia fuoristrada era parcheggiata sulla banchina in lieve pendenza, una Ragazza Gentile mi sorrideva tenendomi la nuca sollevata da terra. Come si sente? - mi disse, continuando a darmi del lei nonostante fossimo probabilmente coetanei. Bene, adesso. - le sorrisi anche io - Ma cosa mi è accaduto? Lo chiedo a lei - mi fece osservare. Lo chiedo a te, vuoi dire? - la corressi benevolmente. Sì, hai ragione, dopotutto siamo due ragazzi, - commentò la Ragazza Gentile - in ogni caso io non so nulla di cosa ti sia accaduto, avo di qui per caso, ho visto la macchina e ho pensato ad un incidente... Hai ragione - feci io - ora ricordo cosa è successo: due uomini mi hanno assalito mentre... Accidenti! - esclamai - ma dov'è il mio zaino? Non lo so - rispose lei guardandosi intorno - non l'ho visto affatto. Maledizione, sono stato derubato. Istintivamente misi le mani in tasca per controllarne il contenuto: avevo ancora le chiavi, il diario e la busta che mi aveva dato il Poeta Sensibile. Tirai un
sospiro di sollievo. Ma cosa importa - commentai ad alta voce - erano due stracci, quattro pentolini e qualche soldo; quello che conta è che non mi abbiano fatto del male e... rubato la macchina. Non ritenni importante raccontarle che l'auto era misteriosamente ricomparsa lì senza che ci fosse logica alcuna; tra l'altro non avrei saputo come spiegarlo. Accidenti, mi dispiace che tu abbia perso tutto - mi consolò la Ragazza, gentile. Be' - feci io - non ho perso un granché, invece ho incontrato te, e questo è più importante. Grazie - arrossì lei. Per la prima volta in vita mia avevo fatto un complimento non premeditato ad una ragazza (sconosciuta, per quanto gentile). Dov'eri diretto? - mi chiese lei mentre salivamo in macchina. Veramente... - esitai per un attimo - Verso il Mare - risposi poi. Lei sorrise, intuendo che le stavo nascondendo qualcosa. Per farmi perdonare le raccontai la verità. La storia di un ragazzo in viaggio alla ricerca della maturità le piacque moltissimo, mi strinse la mano per incoraggiarmi, poi se ne accorse e la tirò indietro: dopotutto eravamo ancora estranei. La piccola fuoristrada viaggiava a media velocità sulla carreggiata lievemente ondulata dalle radici degli alberi che si infilavano sotto l'asfalto facendolo sollevare, il sole era già basso: ero rimasto stordito e senza aiuto per ben sette ore! Per fortuna una graziosa e premurosa Ragazza Gentile mi aveva aiutato ed ora mi stava conducendo nella propria casa per offrirmi da bere e da mangiare. Era imbarazzante, ma eccitante, sentirmi così attratto da una ragazza, non mi era mai capitato. Con Kelemata giocavo serenamente senza mai provare quello che sentivo adesso; forse è la novità, pensai, ma subito esclusi questa spiegazione: di donne e ragazze ne avevo incontrate tante durante il viaggio e nessuna mi faceva
venire il "brividino" lungo la schiena; la Ragazza Gentile sì, e questo mi bastava per capire come lei mi pie più di ogni altra. Forse ero più affezionato a Kelemata, per tutto quel tempo trascorso insieme, ma con il mio nuovo incontro provavo sensazioni troppo diverse e nuove per essere paragonabili. Ad un certo punto, quando nessuno parlava e solo il rumore del motore nascondeva quello del vento, lei mi abbracciò, anzi poggiò la sua testa sulla mia spalla che poi circondò con un braccio. Ogni elemento del paesaggio e della realtà assumeva ora per me un significato diverso, vedevo da ogni cosa scaturire un sorriso e dovunque proiettarsi l'immagine di me e di lei: la mia nuova compagna di viaggio e d'avventura. E incredibile, pensai tra me quando la Ragazza prese a solleticarmi il collo con un dito, come di punto in bianco mi sia trovato coinvolto in un rapporto del tutto nuovo e a considerarlo come vissuto da millenni: ogni gesto sembrava il più giusto in quel momento, anche se trasportava con sé quella carica di dolcissimo imbarazzo che deve essere proprio di quello che si chiama "Amore". Dopo qualche ora giungemmo a Paese Due. La casa della Ragazza Gentile era un semplice villino ai margini del paese dove viveva tutta sola da quando aveva perduto i genitori in un incidente stradale. Finora, mi spiegò mentre preparava la cena, non ho mai voluto nessuno accanto a me perché non ho mai letto negli occhi altrui l'innocenza e la generosità che leggo nei tuoi: tu sei buono, animato da desideri di pace e serenità, in cerca sempre della giustizia, dell' ordine e dell'equilibrio. Mi lasciai cullare dalle sue parole per tutta la sera, davanti a me scorrevano manicaretti profumatissimi che, purtroppo, non ebbi modo di apprezzare perché troppo estasiato da quell'essere così diverso da me, ma anche tanto vicino al mio modo di vedere il mondo e di affrontarlo. Ero felice di quei momenti e di quella persona che aveva dato una finalità nuova al mio viaggio verso la maturità.
ammo giorni e notti indimenticabili, sempre insieme in ogni momento, dividendo esperienze ed emozioni, scambiandoci consigli, idee ed opinioni, affiatati per conquistare insieme quella felicità che unicamente si può avere nel
dividere la propria vita con un'altra persona.
Una sera accadde un fatto strano: la Ragazza Gentile cadde a terra svenuta, senza che ce ne fosse motivo apparente. Chiamai subito l'ambulanza non appena mi resi conto che non rinveniva. Fummo condotti entrambi all'ospedale sulla Riviera del Mare, a Città Tre.
Allora dottore ? - chiesi preoccupato al medico che aveva visitato la mia ragazza - Come sta? Il dottore mi prese sotto braccio, si preannunciavano brutte nuove. Mi dispiace - iniziò in tono funereo anche se con velleità di incoraggiamento doverle dire che la sua compagna è in coma profondo irreversibile... No! - gridai io bloccando il dottore con tutta la forza che avevo nelle braccia non è possibile. Purtroppo è ammalata di una gravissima forma di cancro al cervello che le sta distruggendo tutti i neuroni cerebrali: nel giro di pochi giorni non sarà più in grado di tenersi in vita da sola e dovremo provvedere noi con mezzi meccanici. Non può essere - feci io sconvolto dal dolore - non deve essere così, ci deve essere una soluzione: deve esserci. Ero terrorizzato e stravolto dal precipitare improvviso dei fatti, mi stavo trovando a perdere, così come l'avevo trovata, l'unica mia fonte di vita e di ricchezza: sarei morto con lei, se mi avesse lasciato.
Tutti i giorni successivi li trascorsi accanto al suo letto, carezzandole il corpo, raccontandole le mie avventure ed i miei viaggi, cambiandole le flebo non appena era il momento, strofinandole il viso, andole le mani tra i capelli o spazzolandoli. Cercai in tutti i modi di tenerla in vita, di farle capire che ero accanto a lei e che doveva ritornare in sé.
Così non fu, purtroppo, e le misero addosso mille schifosi marchingegni che la fecevano respirare, battere il cuore mangiare, bere, evacuare e tutto il resto. Io tuttavia rimasi sempre accanto a lei ansioso di cogliere anche la più piccola contrazione del suo corpo. Era viva, lo sapevo, ma viva dentro; la testa le funzionava benissimo, me lo sentivo, perché ogni tanto muoveva gli occhi, stringeva le labbra o tentava di prendermi la mano. Capivo tutti i suoi messaggi ormai, avevo imparato il suo linguaggio. Attraverso quei segni capii che era felice della mia presenza e che mi amava.
Ci fu un giorno in cui la sua mano si contrasse due volte, e poi un altra ancora. Tossì, aprì gli occhi e cominciò a vivere di nuovo. Sei viva! - gridai - Sei ancora viva! Io sono qui, amore mio, abbracciami. Lei mi guardò e mi sorrise, si strappò di dosso tutti i fili, i tubi e gli apparecchi e mi strinse nel suo abbraccio. Non ti dimenticherò mai: quello che hai fatto per me è stato sublime ed è grazie a te che posso ora riprendere vita per un attimo e dirti addio. Non c'è più nulla da fare, ormai, il cancro mi ha corroso la mente ed io sono finita. Non è vero - gridai io stringendola più forte, ma lei si accasciò sulle mie spalle. Non respirava più.
4.3 Il Monaco della Nuova Strada.
Avevo nuovamente incontrato la morte lungo la mia Strada, questa volta però a morire era stata una persona a cui stavo dedicando la mia vita, che era l'unica ragione per cui valesse vivere e l'unica forza capace di muovermi. La morte me l'aveva strappata con violenza, colpendola con una inspiegabile malattia, stroncandone l'esistenza privando lei e me di ogni possibilità di costruire qualcosa. Il nostro futuro ed il nostro presente: distrutti. Ero solo adesso, più solo e più incapace di reagire di quanto non fossi mai stato, non avevo più motivo per vivere perché non sarebbe più stata vita quella che avrei trascorso. Decisi così che solo la distruzione della mia vita fisica sarebbe stata la soluzione migliore: morire subito per non poter morire ancora. eggiavo lungo il Litorale al tramonto, il momento più adatto per porre fine a tutto. Vidi in lontananza un pontile sul mare, quello sarebbe stato il mio trampolino verso la morte. Mi avvicinai e vi eggiai sopra con gran calma; ogni volta che facevo dietro front andavo sempre più vicino al culmine del pontile. Il mare, col metodico risciacquo dei flutti, mi attirava bramoso. Mi gettai. Due forti mani mi afferrarono per le braccia e mi riportarono sul pontile prima che il mio peso si scaricasse in avanti nel vuoto. Era un monaco. Perché stavi compiendo questo gesto? - mi chiese mentre si asciugava la fronte con la larga manica della sua veste - Ti ho visto da lontano e ho capito le tue intenzioni: sei salvo per un pelo. Non parlava col tipico tono di voce dei monaci e fu per questo che mi ispirò fiducia e volli ascoltarlo. Gli esposi con freddezza i fatti più recenti, non volevo che le mie lacrime scorressero davanti ad un estraneo, per quanto benefattore (se poi lo era davvero). Durante la mia narrazione camminammo per il Litorale, diretti al suo monastero. La via saliva ripida verso una piccola altura su cui si ergeva il monastero, formato da una cripta a guglie e da un dormitorio con tetto spiovente. Il sole era
ormai tramontato ed era la luna a ritagliare le forme della costruzione sullo sfondo della notte. Poco prima che fossimo giunti dinnanzi al grande portone di legno (antica entrata al monastero), terminai il mio racconto con la frase: ... e il resto è storia. Il monaco mi guardò, rifletté, poi disse: Sarò io, adesso, ad indicarti la via da seguire per non lasciare la tua vita vissuta invano. Fu questa sua frase introduttiva, detta mentre ci accomodavamo ad una tavolata imbandita in modo sobrio e semplice, che gli fece meritare il nome di Monaco della Nuova Strada. Iniziò a parlare ed io caddi in estasi auditiva, mi astrassi dalla realtà e cercai di interiorizzare ogni frammento delle sue parole. La Strada, che hai coraggiosamente percorso fino a qui, è finita; La Strada che tu hai seguito attraverso gli uomini, le donne ed i loro errori è giunta al termine perché hai conosciuto e memorizzato la maggior parte dei modi di essere e di non essere; quelli che non hai vissuto ora, finalmente, sei in grado di dedurli. Il percorso tra i fatti dell'umanità ha già dato i suoi frutti, ma ti ha lasciato la bocca amara. Nel momento in cui la massima felicità ti derivava da un essere umano, questa felicità ti è venuta a mancare perché è scomparsa la persona capace di generarla. L'errore, positivo, che hai commesso è stato quello di credere concluso il tuo viaggio perché avevi trovato il fine della tua vita: così non era. Il fine del tuo viaggio era conoscere il mondo degli uomini, e lo hai fatto, ma hai trascurato il secondo, non meno importante, obiettivo a cui questa Strada doveva condurti: la conoscenza del mondo della Natura e delle cose. Sarà questa, ora, la nuova finalità che dovrai perseguire con tutte le tue forze; vai oltre l'essere umano ed i suoi valori effimeri, cerca piuttosto il solido ripetersi delle cose della Natura. Non usare più le parole come strumento di conoscenza, serviti piuttosto del pensiero e con esso entrerai in sintonia con ogni elemento esistente, materiale o immateriale. Le parole sono uno strumento difficile da governare e bisogna imparare a farne a meno. Hai conosciuto l'umanità, e questo è il primo o; ora dovrai conoscere le cose, e sarà il secondo o; infine conoscerai te stesso.
Da quelle parole avevo ricevuto una nuova forza vitale, capace di spingermi oltre la morte ed i suoi danni. Ero pronto per affrontare la Nuova Strada. Mi fu data una riva da cui partire ed una barca su cui navigare: il vento ed una vela mi avrebbero condotto alla scoperta del Mondo Delle Cose.
5 Non Umanità
5.1 La Barca.
Il mio nuovo viaggio era cominciato: ora solcavo le onde con uno scafo, diretto verso terre sconosciute dove avrei trovato mille cose da scoprire e su cui interrogarmi. Volli cominciare subito con lo sperimentare il nuovo modo di affrontare il viaggio. Decisi di iniziare con qualcosa di semplice: la Barca. La Barca è un mezzo di trasporto utile all'uomo per attraversare distese acquose... No, pensai, non mi sembra questo il modo giusto, forse il Monaco della Nuova Strada voleva dire qualcosa di diverso da questo. Provai di nuovo. I legni tenuti a pressione stridevano e si contorcevano su loro stessi mentre le centine sembravano sorreggere tutta la pressione del vento e delle onde. L'albero della vela si fletteva debolmente, ma ad ogni raffica sembrava essere prossimo a spezzarsi. Le cime e le corde tirate da tensioni incostanti a volte s'inzuppavano nell'acqua della stiva, a volte si strizzavano, sgrullandosi di dosso l'acqua in una nuvola di schizzi. Io ero un corpo, un peso a bilanciare il tutto. Volli provare ad entrare in contatto con questa struttura. Provai a tirare la scotta della randa (la corda che tiene in tensione la vela principale) e mi accorsi che la barca ne soffriva; si irrigidì un attimo, poi si avvicinò con la prua al vento ed aumentò l'inclinazione. Lasciai la scotta com'era prima; la barca sembrò rilassarsi. Volli provare a tirare il timone verso di me. La barca si allontanò subito dal vento e cominciò a conquistare indipendenza, come se il tenere la prua prossima al controvento fosse per la barca una sorta di ritenzione in catene, e l'allontanarla costituisse invece una via di fuga, un modo per dare alla barca il diritto di decidere lei dove andare. Avevo scoperto che la barca ha una sua volontà ed un suo istinto. Un primo o.
5.2 Il Delfino.
Il viaggio proseguiva tranquillo, il vento era tirato ma costante, la superficie marina solo lievemente increspata da onde basse e spumeggianti. L'aria, carica di salsedine, mi ava tra i capelli rendendoli sempre più pesanti. Dopo qualche ora di viaggio vidi una pinna in lontananza solcare l'acqua; uno squalo, pensai di primo istinto. Poi, quando fu vicina, mi accorsi che si trattava di un delfino solitario. Quando mi fu accanto e prese a nuotare accanto al mio scafo, saltando e tuffandosi come per giocare, gli chiesi (telepaticamente, come avevo imparato) come mai fosse solo e non col branco. Sentita la domanda, si tuffò in acqua e rimase in immersione per qualche secondo; infine uscì fuori spruzzando addosso il suo respiro di acqua e aria. Mi rispose che non aveva voglia di stare con gli altri: era un solitario. Ma sto seguendo la strada giusta? - chiesi a me stesso - E corretto dialogare con creature viventi ed intelligenti? Sì, ma è più facile - mi rispose il delfino tuffandosi in acqua - Il Monaco della Nuova Strada mi ha detto di dirti che è permesso, tuttavia cerca di evitarlo. Le mie esperienze sono molto simili a quelle umane e, come tali, possono esserti di minore aiuto. Ringraziai il delfino e non volli più sapere il perché del suo viaggiare solitario: sapevo già tutto di lui. La sua pinna a fior d'acqua scomparve rapidamente all'orizzonte ed il mio viaggio riprese sereno: adesso avevo un elemento in più per sapere cosa fare.
5.3 La Sabbia.
Due giorni di viaggio. Un isola all'orizzonte sarebbe stata la mia prossima destinazione. Guardai sulla carta nautica, si trattava di Isola Uno di Mare Uno un piccolo isolotto disabitato ai margini del Territorio. Avrei impiantato lì un campo base per due notti, sentivo che su quell'isola avrei trovato molti argomenti per il mio Diario.
Dopo un piccolo giro attorno all'Isola trovai il golfo più adatto per tirare in secca la barca. Alzai la deriva, lasciai le vele sbattere e, solo col timone ed un po' d'abbrivio, guidai l'imbarcazione fino a farla scivolare con la pancia sulla riva sabbiosa. Ero molto stanco, per impiantare la tenda mi bastarono appena le poche energie rimaste. Quando il tramonto era prossimo, mi distesi sulla riva lasciandomi cullare dallo scrosciare metodico delle onde tra di loro e sulla sabbia. Fu quest'ultimo elemento che catturò la mia attenzione, vi affondai le mani dentro, fino a sentire l'umido. La spiaggia conteneva un'enorme quantità di sabbia, miliardi di minuscoli granelli di ogni sorta di pietra, frammentati e ridotti a dimensioni infinitesimali dall' eterna erosione dei millenni; volli per un attimo riflettere su quale potesse essere la vita di uno di questi granelli. Ne presi una manciata a caso e poi, smuovendoli con le dita, andai in cerca di quello più simpatico. Quando in mano non mi furono rimasti che pochi granelli ne scorsi uno che gesticolava e si rotolava su se stesso per conquistarsi il ruolo di "più simpatico". Lo scelsi subito e mi raccontò la sua storia. Prima di nascere, cominciò a raccontare, ero energia pura, poi divenni materia allo stato gassoso. Vagavo in una enorme fornace sotterranea in cerca di uno sfogo per uscire, accadde che un giorno venne un grande freddo e mi condensai fino a raggiungere lo stato liquido. Rimasi così per millenni e, devo dirlo, mi ci trovavo bene; non avevo quel senso di vuoto che si ha allo stato gassoso, provavo invece un gran piacere nello scorrere e nel rifluire tra le rocce dei
torrenti di lava sotterranea. Un certo giorno, per una improvvisa eruzione, fui costretto ad uscire sulla superficie, fu spaventoso: all'improvviso la mia struttura molecolare si irrigidì, mi sentivo bloccato, incapace di muovermi. Insieme a me si aggregarono tantissime altre molecole e tutti insieme formammo la parete di una montagna. In poco tempo mi abituai anche a questo. Mi piaceva starmene al sole tutto il giorno a guardare il mondo intorno a me che cambiava di continuo, anche se, dopo qualche secolo, cominciai a provare invidia nel vedere come tutto scorresse ed io invece dovevo rimanere sempre lì appiccicato a centinaia di miei consimili puzzolenti. Decisi che avrei abbandonato quella roccia e mi staccai. Purtroppo alcuni di loro mi seguirono e divenimmo un macigno. La fortuna volle che cadessimo in un fiume. Perché, dirai tu? Il fiume era la mia unica speranza di riuscire, in pochi millenni, a staccarmi da quel macigno per andarmene in giro da solo. Fu così che, senza farmene accorgere, sgattaiolai ai margini della roccia, vicino al letto del fiume, così da potermi staccare il prima possibile. Una notte, sempre di soppiatto, grazie all'urto di un sassolino, mi staccai dal macigno. Per un attimo mi sentii libero, poi caddi nella bocca di un pesce e lì venni assimilato insieme al cibo: che disgusto! Dopo la morte del pesce (dovetti aspettare che fosse putrefatto) mi ritrovai in mezzo al mare finalmente libero e solo. Le onde mi spinsero fino a qui, più o meno dove mi hai preso tu. Mi diverto a fare un viaggetto ogni tanto qui nella baia, ma alla fine ritorno sempre sulla spiaggia. Qui mi sento bene, sono solo e allo stesso tempo attorno a me vivono miliardi di fratelli di ogni tipo; qualche volta nelle sere di luna piena qualcuno di noi racconta la propria storia. Che simpatico, pensai tra me, chi avrebbe mai detto di trovare un compagnone di questo tipo sulla spiaggia di un isolotto sperduto. Ringraziai molto il granello di sabbia per la sua gentilezza e mi appisolai sopra qualche milione di suoi consimili: sentivo addosso a me la pluralità di tutti i luoghi e di tutti i tempi del mondo.
5.4 Il Baobab Gigante.
L'indomani, quando il sole fu abbastanza alto da svegliarmi, decisi che avrei fatto una perlustrazione di tutta Isola Uno in cerca di un elemento con cui entrare in contatto. Mi inoltrai nella vegetazione sicuro di trovare qualcosa. Il suolo era cosparso di rami secchi, di foglioline umidicce, di humus aggrappato a tronchi caduti, di radici attorcigliate a loro stesse come un serpente sui rami; le pareti di questo corridoio di verde erano tronchi bianchi e lattiginosi, arbusti spogli, grasse piante rigogliose, frutti sconosciuti carichi di fluidi aromatici; il cielo di questa stanza vegetale erano foglie morbide e corte, esili e pendenti verso il basso, rigide e secche dalle punte acuminate, gonfie della poca acqua che riuscivano a catturare. In questa casa selvaggia e naturale, in questa buia strada di suoni e di rumori, di odori acri o appetitosi, d'improvviso scorsi un varco, una radura in cui la vegetazione si diradava fino a scomparire: solo un albero, un Baobab Gigante, si ergeva maestoso nel mezzo. Scelsi quell'albero come prossimo interlocutore. Mi avvicinai al tronco e lo sfiorai con una mano: la corteccia ebbe un fremito. Hai paura? - chiesi all'albero. Un pochino - rispose tremante - non puoi immaginare quanto sia doloroso venire scorticati. Lo immagino - dissi. Anche il Baobab mi raccontò la sua storia. Un tempo ero solo un seme nella terra. - iniziò - Mi sentivo oppresso in quel baccello chiuso ed il divenire un germoglio fu per me una liberazione, credevo che uscire dal guscio mi avrebbe procurato solo vantaggi. Così non fu, infatti, sin da quando ero arboscello, dovetti lottare contro il vento, sopportare la pioggia mentre logorava il mio tessuto con i suoi colpi, ripararmi dagli urti degli animali
in corsa. La più dolorosa delle esperienze fu quando le mie gemme germogliarono a loro volta; mi sembrava di impazzire, come se i tessuti si spezzassero per lasciar posto ad una massa pulsante in continua espansione: una tortura esasperante. Al di là di queste esperienze, tuttavia, la mia vita trascorse molto serena; pochi incontri con altri alberi, poco fastidio da parte degli uomini o degli animali. Questo territorio è tutto mio e l'ho conquistato con dure lotte sotterranee, combattute a colpi di radici e furti di sali minerali. Ma non ti senti solo? - domandai io ingenuamente. Il Baobab Gigante rifletté per un attimo portandosi un ramo sul nodo principale del proprio corpo, poi disse: La solitudine è un male inevitabile, è lo stato naturale per ogni essere vivente; nessuno infatti riesce mai ad essere veramente con qualcuno che non sia se stesso. Potresti pensare che in realtà la solitudine non esista in quanto si è sempre in compagnia di se stessi: ciò non è, infatti accade molte volte che anche il proprio io ci tradisco costringendoci ad essere veramente (e definitivamente) soli. Un ruolo molto importante nella solitudine è giocato dall'incomunicabilità che vale sia verso gli altri sia verso se stessi. L'incapacità di entrare in contatto con noi stessi viene interpretata come la continua smania del meglio, del diverso, del nuovo. E questa mania che produce i danni peggiori nell'ottica della solitudine: nessuno sarebbe solo se non sapesse di esserlo. E l'autocoscienza quindi che genera la solitudine. Io non mi conosco, non so chi sono né dove vado e non mi interessa; mi basta vedere ciò che accade intorno a me per capire che esisto, che sono la migliore delle forme viventi e che vivo nel migliore dei modi e dei luoghi. Compresi finalmente perché solo un albero dalla forma intricata e contorta riesca a giacere immobile nello stesso posto senza mai desiderare che il suo modo di essere sia diverso.
5.5 La Mongolfiera.
Fu quando decisi di partire che il fato mi divenne propizio e trovai, ancorata al suolo sulla spiaggia, una mongolfiera pronta al decollo. Convenni con me stesso che si trattava di un caso troppo favorevole perché fosse casuale e, mentre caricavo la mia poca roba sulla cesta della mongolfiera, presi a dialogare con quest'ultima. Non trovi - le dissi - che la fortuna sia solo un modo personale di chiamare la casualità? La mongolfiera ci pensò un attimo, ondeggiò un paio di volte al vento, tirò la corda che la teneva ferma, poi disse: Non credo, piuttosto è un modo per chiamare quella Volontà che sovrasta tutti noi. Non credo ci sia una volontà capace di imporsi sulla Natura. Ed io come sarei finita qui? Per caso. E quale caso? Il tuo proprietario è sceso qui per fare rifornimento e ti ha ancorata al suolo, io ti ho trovata e ti sto rubando. Non è così, io sono qui per la precisa volontà di Qualcuno che vuole che tu completi al più presto questa Nuova Strada. Non lo credetti, ma rimasi stupito dal fatto che sapesse della mia Strada. Giunsi alla conclusione che solamente gli oggetti ed il mondo naturale sono a conoscenze di tutto ciò che avviene in quanto la materia è tenuta insieme da una forza coesiva che, oltre a quella di aggregazione, svolge pure la funzione di far comunicare tra loro gli atomi e le molecole. Compresi finalmente il perché dei discorsi del Monaco Della Nuova Strada, egli mi spingeva a conoscere e a
dialogare con le cose per il semplice fatto che solo queste contengono in loro stesse tutta la conoscenza possibile. Mi basterebbe toccare un sassolino per sapere tutto. Decollai con la Mongolfiera, raggiunsi una quota intermedia dove non fe troppo freddo e mi lasciai trasportare dal Vento.
5.6 Il Vento.
Non avevo nulla da fare o da decidere, cosicché decisi di ascoltare il Vento, motore eterno. L'aria scorreva sul mio viso trascinando indietro i capelli, infilandosi nelle pieghe della giacca, insinuandosi nel collo e nei polsini, sollevando i baveri. Nelle orecchie cominciai a sentire il soffio del Vento, dapprima sembrava una sequenza di raffiche indistinguibile, poi, a poco a poco imparai a distinguere i soffi lunghi da quelli brevi, le esalazioni dagli afflati, i sospiri dai respiri; imparai ad ascoltare queste variazioni fino a comprenderne i significati, divenendo per me parole perfettamente intellegibili. Percepivo il pianto dei bambini (percossi o abbandonati da genitori incoscienti ed incapaci), il guaito dei cani (abbandonati dai padroni e costretti ad elemosinare il cibo per le strade), le promesse d'amore (che giovani innamorati lanciano nel vuoto, per costruire un ponte d'aria sul futuro), l'ululato dei lupi (che nelle foreste inseguono e braccano prede atterrite dall'idea di vedersi sbranate), il canto dei poeti (che nelle loro parole vorrebbero racchiudere la moltitudine dei sentimenti, senza intuire essi stessi il limite del linguaggio), le grida di sofferenza (che molta umanità lancia nel buio di se stessa), lo scrosciare delle acque nei fiumi (i cui sassi rotolano lentamente a valle levigandosi fino a scomparire), le esclamazioni esultanti (di coloro che hanno catturato un attimo di felicità e, consci di ciò che li aspetta, cercano di gustarlo in pieno), i sospiri di sconforto (che colpiscono coloro i quali hanno capito qualcosa più degli altri), i singulti di piacere (di chi si nutre del piacere fisico pur di trovare un senso per la propria esistenza), i rumori della strada (che si aggregano tra loro per formare il boato del progresso ed il caos della civiltà); le parole i pensieri i gesti dell'essere materiale, le energie gli spiriti gli ectoplasmi del non-essere immateriale: tutto questo e altro ancora è nel Vento ed io lo ascolto sempre. D'un tratto la Mongolfiera prese a scendere vertiginosamente verso un grande Lago che si sdraiava sulle colline sotto di me. Non feci nulla, mi lasciai condurre dall'amico Vento, ormai ero suo amico. La Mongolfiera ammarò (o allagò, trattandosi di un lago) poco distante ad un piccolo isolotto al centro del Lago, con l'aiuto di un remo (in dotazione con il pallone aerostatico) raggiunsi la riva
dell'Isolotto. Mi sdraiai sull'erba per asciugarmi i vestiti bagnatisi con la caduta.
5.7 Il Fuoco.
Il sole scaldava rapidamente i miei vestiti ed arrossava il mio viso, l'aria era frizzante ed odorosa, eppure avvertivo una leggera tensione in ciò che mi circondava, come se stesse accadendo un evento capace di sconvolgere l'intero Isolotto. D'improvviso vidi sbucare dal fitto sottobosco un gruppo di lepri in fuga; dietro di loro altri animali, piccoli rettili ed insetti di grosse dimensioni. Non ci feci caso e continuai il mio riposo, cercando di convincermi che non stava accadendo nulla. Furono una nuvola di fumo nero ed una vampa di calore a dimostrarmi il contrario: si era scatenato un tremendo incendio. In pochi secondi tutta la vegetazione intorno a me fu avvolta dalle fiamme, le foglie, bruciando in un attimo, producevano un fumo denso capace di soffocare ogni forma di vita che vivesse nel primo metro da terra. Io non mi sentivo affatto coinvolto dall'incendio, sicuro com'ero di poter dominare gli elementi semplicemente entrandone in contatto. Fermati Fuoco! - gridai dentro la mia mente. Le fiamme parvero arrestarsi ed infierire sulla medesima parte di bosco. Rimasi davanti al fronte del Fuoco a guardarlo. Le lingue di fuoco sembravano scaturire dalla stessa materia combusta, mentre s'intrecciavano tra loro il corpo dell'una si confondeva con quello di un altra fino a formare, insieme ad altre fiammelle, una vampa più grande. Il legno infuocato, che dapprima sembrava rimanere indifferente a quello che avveniva sulla sua corteccia, pian piano perdeva la sua forma ed il colore originale colorandosi di nero e gonfiandosi fino a scoppiare. I rami strepitavano nel rogo ed il fuoco vi si arrampicava come un serpente che mira al frutto. Per un bel po' rimasi fermo difronte a quel muro multiforme ed irrequieto, tuttavia non riuscii ad entrare in contatto col Fuoco, come se egli mi capisse ma non volesse rivolgermi la parola; eppure leggevo, nel fluttuare delle vampate, che un'antica saggezza era contenuta in quell'energia distruttiva in movimento e che non ero capace di apprenderla se non lasciando che il Fuoco compisse la sua
opera. Un improvviso calore destò la mia attenzione: la manica della mia giacca era in fiamme. Finalmente entrai in contatto col Fuoco. Fu un' esperienza molto eccitante; nel Fuoco era contenuta la saggezza delle esistenze ate, nel suo calore c'era il calore di tutti gli uomini, gli animali e le cose che il Fuoco ha incendiato e distrutto. Ed io le ho conosciute, ho vissuto addosso a me il dolore il terrore e la morte di tutte le cose. Un'altra esperienza era fatta: mi gettai nel Lago per spegnere la manica, mi riuscì. Una volta in salvo presi a salire verso la parte alta dell'isolotto, in cerca di un punto da cui raggiungere la riva del Lago.
5.8 L'Errore Fatale.
Raggiunta a nuoto la riva del Lago mi incamminai, ancora zuppo d'acqua, lasciandomi alle spalle un Isolotto in fiamme, per un sentiero che conduceva verso la più alte delle montagne della zona. Riflettei sulla Strada percorsa finora. Dapprima ero io a decidere percorsi e incontri, a stabilire o meno i rapporti con le persone; poi, con la Nuova Strada, ho potuto addirittura premeditare i miei incontri, senza però poter più decidere nulla sul percorso da seguire; come se una Volontà superiore mi desse un arbitrio, limitandolo nell'estensione. Non volli tuttavia accettare l'idea di una Volontà superiore, lo ritenevo incomprovabile e quindi inaccettabile. Mentre mi trovavo a riflettere su questi temi, che di importanza ne avevano relativa, mi accorsi che stavo per entrare in una nuova fase. Non erano più le cose ad attrarmi col loro esistere, la linfa col suo scorrere, i sassi col loro rotolare, gli uccelli col loro volo; bensì nella mia mente si presentavano sempre più in concreto quei concetti, cosiddetti astratti, con cui abbiamo sempre a che fare. Ce ne fu uno, il primo, che mi lasciò stupito. Buongiorno - mi disse nella mente - io sono l'Errore Fatale, quell'individuo doppio e meschino che si annida in ogni scelta e sta in agguato in attesa di prenderti alla sprovvista. I miei effetti sono disastrosi ed irrecuperabili ed avvio una catena di conseguenze negative difficilmente arrestabili. Quanto più si cerca di anticipare le mie mosse, di mettersi al riparo dai miei effetti o di vedere se mi nascondo in attesa, tanto più si è esposti al mio intervento. Coloro che credono di agire senza possibilità di errore, quelli che mettono a punto piani perfetti o pianificano al dettaglio la propria esistenza, sono la mia pietanza preferita, sono il condimento delle mie giornate. Io sono quell'elemento che scombussola tutti i piani, che distrugge i progetti più audaci e corrode quelli più cauti. Nessuno può fare a meno di incappare in me; io, l'Errore Fatale, sono il terrore della nuova umanità che si illude di potermi evitare invece di imparare a convivere e a prevedermi.
Lo ringraziai molto e ripresi a salire, in attesa di un altro concetto.
5.9 La Fedeltà verso il Rimorso.
Ad un bivio mi accorsi di aver sbagliato strada, poi mi ricordai che non conoscevo la strada da seguire e seguitai. Un altro concetto mi inondò la mente: Salve, sono la Fedeltà. Sono quella forza che tiene unite due persone tra loro, che vi fa rimanere attaccati ad una certa abitudine, che si trasforma in Rimorso quando capite che mi avete ingannata. Sono quel desiderio di serenità che dovrebbe animare ogni uomo, lotto contro ogni forma di conservatorismo delle abitudini e dei pensieri, propongo invece l'innovazione nella coerenza; nei rapporti umani dovrei essere sempre accettata e premiata, invece vengo vista come una vecchia signora seccatrice. Qualche volta mi diverto a trasformarmi in Rimorso e a perseguitare coloro che mi hanno tradita; li risveglio nel sonno, li perseguito in ogni momento della loro vita, fino a farli impazzire. Mi raccomando a te, sappimi rispettare. Le feci cenno di sì, lo promisi e ripresi a salire.
5.10 Il Tempo.
I sassi schioccolavano sotto le suole dei miei scarponcini (ancora umidi) ed il sentiero continuava a salire. Ciao - mi disse una vocina nella mente - io sono il Tempo. Sono quella creatura che giace in ogni cosa senza farsi vedere e la consuma lentamente od in fretta, portandole via splendore e bellezza. Io sono l'essere supremo contro cui non si può lottare, l'immortale non esiste perché tutto per merito mio si trasforma in qualcos'altro; io sono il motore del divenire, grazie a me tutto si muove e si consuma. Alla nascita della vita grazie a me le creature crescono e si fanno sempre più belle e robuste, poi divento per loro un temibile strumento che li trascina giù dall'acme raggiunto, fino alla decadenza, alla morte. Io sono l'eterna medicina che trasforma i malanni in salute e la salute in sofferenze; risolvo inghippi, ma ne scateno altri; faccio dimenticare, ma perseguito per sempre; sono l'essere più desiderato e temuto. Tutti mi vorrebbero o più lento o più veloce, c'è chi mi crede mutevole ed ambiguo; io invece sono immobile e costante e lascio che tutto giri intorno a me ai ritmi che solo io decido. Nessuno mi governa perché solo io governo. Il Tempo mi fece una gran paura e ripresi a salire a gran o, per arrivare prima.
5.11 Il Silenzio.
Mentre salivo per il sentiero, che mi pareva divenire molto familiare, notai che per il bosco non v'erano rumori ed i miei i non emettevano suoni, provai a parlare, ma le mie parole non avevano aria per udirsi. Cosa succede? - chiesi a me stesso. Sono io. - rispose una voce nella mia mente - Sono il Silenzio ed in mia presenza né rumori né suoni possono esistere. Io sono quella forza capace di ammutolire ogni voce, sono quella situazione che cercano i solitari, i pensatori, i poeti; vado d'accordo con la Tranquillità, ma sono più temibile di lei. Sono in grado di cadere all'improvviso in un discorso, così da provocare dolore in qualcuno; sono capace di divenire un modo di essere; sono l'oblio e la dimenticanza, sono la negazione della vita perché la vita è rumorosa, come è rumoroso il progresso e la civiltà. Ma alle volte è piacevole averti vicino - gli dissi. Ti sbagli - gli risposi - perché io sono il Silenzio Profondo e dove esisto io non può esistere altro: sono come la sabbia del deserto, come il ghiaccio sulla terra, come un muro lungo la strada: sono la fine di tutto, dentro di me si chiude ogni parola ed ogni azione; sono la morte e oltre la morte. Qui finisce il tuo viaggio, che si concluderà nel Silenzio, nessuno saprà né come né dove né quando. Ti sbagli tu - gli risposi irritato - non finisce qui il mio viaggio perché io urlerò e urlerò forte che il Silenzio non è la fine né la morte. Potrai anche urlare, ma ti toglierò il fiato dai polmoni. Iaaaaaaah! - gridai a gran voce e presi a salire di corsa, senza voltarmi indietro.
Il Ritorno di Coniglio.
Quando fui abbastanza lontano dal Silenzio presi a parlottare tra me, tanto per convincermi che non aveva ragione lui. Un movimento tra i cespugli attirò la mia attenzione. Ne uscì fuori un piccolo coniglio bianco, inseguito da un cane inferocito. Istintivamente tirai dei sassi al cane per metterlo in fuga e salvare il coniglietto. Grazie - mi disse il coniglietto avvicinandosi - ti sei riabilitato. Era Coniglio, la mia vecchia Coscienza. Come stai? - gli chiesi, felice di rivederlo - Che ci fai qui? Coniglio mi sorrise e arricciò il naso con i baffi, poi prese a dire: Il tuo viaggio è terminato, questa che stai percorrendo e la strada di casa tua. Hai compiuto un lungo viaggio per conquistare la maturità; hai conosciuto gli uomini e le loro debolezze; hai maltrattato la tua Coscienza, ma faceva parte della Strada da seguire; hai trovato l'amore per una donna, ma la Morte te l'ha strappata ingiustamente; hai desiderato il suicidio, ma una persona di fede ti ha salvato; hai conosciuto le cose materiali, gli elementi e quelle immateriali, ma anche esse non ti sono bastate; hai riscoperto la tua Coscienza, ed ora stai facendo autocritica. Il tempo che ti rimane dovrai arlo a conoscere te stesso e a capire come solo apprezzandosi e conoscendosi si riesca ad emanare verso l'esterno la giusta impressione per ben riuscire nel duro compito che è vivere. Ed ora puoi leggere la busta che ti ha dato il Poeta Sensibile all'inizio del viaggio. Non mi feci ripetere la cosa due volte, l'estrassi dalla tasca, anche se un po' umida e la scartai velocemente. "Caro il mio ragazzo viaggiatore, hai conosciuto il mondo e la vita e comprenderai come non occorra spostarsi nello spazio per essere migliori o più vasti, bensì capirai come non sia la quantità di strada percorsa ad arricchirti, ma
che il senso della vita e la risposta alle sue domande può essere trovato anche in un piccolo spazio e che esso consiste nel desiderare di vivere per qualcuno ed essere il senso della vita di questa persona, così da poter percorrere insieme la Strada della vita insieme. Buona Fortuna." Chiusi la lettera e sorrisi, non capivo bene, però intuii cosa mi sarebbe accaduto. Coniglio mi venne vicino e riprendemmo a salire.
L'Arrivo. La fine del viaggio.
Quando il sentiero si innestò sulla strada che conduceva dalla Valle al Villaggio, riconobbi la strada di casa mia. Di lontano vidi giungere Kelemata, la mia bella compagna di giochi. - Ciao! - mi dice - Sono ata da casa tua per farti gli auguri di buon compleanno, ma i tuoi genitori mi hanno detto che eri uscito un attimo... - Sì - le risposi, intuendo finalmente il senso delle parole del Poeta - ero andato a fare un giretto. Ci abbracciammo, lei mi tirò le orecchie e ci guardammo. Capii così che tutto il mio lungo Viaggio non era durato che pochi attimi ed ora ritornavo nello stesso luogo da cui ero partito, nello stesso momento, ma con una esperienza e maturità infinitamente superiori. A nulla serve muoversi nello spazio, perché in ogni luogo c'è la felicità e la risposta alle domande. Occorre imparare a saper guardare: dappertutto esiste tutto, anche nel paesino più piccolo di Montagna. Mi venne tuttavia un dubbio: ma questo viaggio l'avevo fatto veramente? Era stato il Tempo a fermarsi oppure si trattava solo di una fuga della mia mente che in pochi secondi aveva percorso tanta strada e tanto tempo? Volli una prova di tutto questo; misi una mano in tasca per sentire se c'era il diario, tutto quello che ne restava era solo una poltiglia di carta. Il diario l'avevo scritto nella mia mente, era ovvio; e poi come poteva esistere un coniglio parlante? Mi voltai indietro per confermare la mia idea, non c'era più nessuno, o forse non c'era mai stato? Non importava più nulla di come fosse avvenuto questo viaggio, avevo percorso la Strada della maggiore età fino in fondo senza perdere un giorno; il risultato era ciò che più importava. Io e Kelemata camminammo verso casa abbracciati, ci guardammo ancora e ci accorgemmo di non essere più bambini.
- Sai - mi disse lei - era un po' di tempo che volevo raccontarti di un certo sogno che ho fatto: immaginati un lungo viaggio in giro per il mondo in cerca dell'amore, in cui si scopre che l'amore tanto ricercato si trova invece nel posto da cui si è partiti... Le sorrisi e le diedi un bacio. Kelemata ed io sapevamo di aver vinto il Tempo, lo Spazio ed il Silenzio, stando fermi non si sviluppa la vista della nostra identità. Correndo troppo non si ha tempo per riconoscerla.