Quasi Noir 4y216u

Federico Montuschi

Quasi Noir

Cercando il Diesis fra il MI e il FA

Edizione digitale: giugno 2013

ISBN: 9788868550820

Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

Indice

Adesso

Dieci anni prima

Bridge

Adesso (reprise)

Una santa settimana

Mi diesis

Adesso

Einmal ist Keinmal.

Martedì 2 aprile 2013

Appoggiato allo stipite della porta finestra che dava su piazzale Loreto, Killer fumava la sua prima sigaretta giornaliera. Il grigio di Milano invadeva la mattina; faceva freddo, un freddo umido e pungente, erano le sei e quarantasette e lui era quasi pronto per uscire, ma aspettava che la ragazza asse per la piazza, fermandosi all’edicola per comprare il quotidiano, sfogliandolo poi rapidamente alla fermata dell’autobus, in attesa del aggio del cinquantasei, come ogni giorno. Ma quel giorno, per lei, il cinquantasei non sarebbe ato.

Qualche sera prima

La cena al ristorante era esattamente come lui se l’era prefigurata: un ambiente raffinato ma non troppo chic, cibo di ottima qualità, vino in abbondanza. Le luci soffuse e il sottofondo jazz, quasi swing, davano un tono da film anni Cinquanta alla scena, che lui si gustava, simulando un reale interesse per quella ragazza che gli sedeva di fronte, alticcia sì per i troppi brindisi, ma sufficientemente lucida per sostenere comunque una conversazione che andasse

oltre la normale chiacchiera da ufficio. Killer e Malika lavoravano insieme da quasi tre mesi ormai e la reciproca empatia li aveva portati in pochi giorni a condividere tutte le pause caffè, i pranzi e, soprattutto, i gossip da ufficio, di cui nel giro di poco erano diventati involontari protagonisti. “Allora, come ti sembra questo bianco?” – chiese Killer. “Ormai non distinguo più i sapori… ma versamene un altro bicchierino, ci sta…” Il cameriere arrivò in quel momento, servendo la grigliata di pesce fumante. Ci fu un attimo di silenzio, che Killer riempì versando il vino prima nel bicchiere di Malika, poi nel proprio. “Sei sicura di poter fare questa cosa che ti sto chiedendo? So che non è facile, ma se fosse stata facile probabilmente non mi sarei rivolto a te.” “Sì, voglio farlo, non preoccuparti. E poi decideremo insieme cosa fare, dopo…” Malika avvicinò dolcemente il calice alle labbra e bevve l’ennesimo sorso, senza staccare lo sguardo da Killer, che lo ricambiò, con un sorriso stretto.

Dieci anni prima

“ when you were young

you shone like the sun”.

Pazzo diamante.

Dieci anni prima – Killer

Paolo abitava a Rho, nell’hinterland milanese, un pasoliniano “ragazzo di strada”, riccio, con gli occhi scuri e furbi e la risposta sempre pronta, a fronte di qualsiasi domanda, anche a costo di improvvisare improbabili voli pindarici. Frequentava il quarto anno all’istituto tecnico del paese, una classe di soli maschi che raramente andavano d’accordo, tutti figli della classe operaia di prima periferia ed ereditari d’incazzature sociali contro politici che Paolo non conosceva e non voleva conoscere. A lui interessavano i libri e questo lo faceva vivere ai margini di quel microcosmo aculturato. I suoi pomeriggi al Bronx, come veniva chiamato in gergo quel quartiere così duro, avano ai margini delle partite di calcio dei suoi amici, accovacciato su libri di qualsiasi genere che lo apionavano e gli permettevano la completa evasione da un contesto che sentiva non appartenergli.

Cercava da tempo canali alternativi per conoscere nuova gente, persone più interessanti, ma senza successo. La vita in provincia non gli offriva situazioni stimolanti e anche per questo, poco a poco, si ritrovò sempre più coinvolto dalla ione dichiarata per le armi – ione che nel giro di poco tempo gli era valsa il soprannome di Killer da parte dei compagni di classe. Il “ferro”, come veniva chiamato dagli eroi dei suoi romanzi, era simbolo di potere e d’indipendenza, fonte di supremazia verso i coetanei e garanzia di successo con le coetanee. Un bigio pomeriggio d’autunno, più per vincere la noia quotidiana che non per reale convinzione, entrò al poligono di tiro del paese e provò a sparare alle sagome, con risultati decisamente scarsi in termini di mira, ma eccellenti in termini emotivi e di autostima. Concentrarsi sul bersaglio, respirare profondamente quasi in modo introspettivo, premere il grilletto della pistola furono azioni nuove che gli procurarono un’eccitazione mai provata prima, un senso di sollievo adrenalinico che si concretizzò in un sorriso ebete, che gli rimase stampato sul viso fino a sera. Fu l’inizio di un periodo di costante frequentazione del poligono che lo portò in breve tempo a conoscere gli assidui avventori di quella zona franca, che per Killer significava sicurezza e tranquillità.

Dieci anni prima – Malika

Ascoltava musica live in un locale alternativo milanese. Il gruppo spagnolo tocava pezzi rock, gli assoli del chitarrista sparavano note sublimi che sembravano penetrare la cortina di fumo che aleggiava all’interno del locale. La gente ondeggiava a ritmo, tutto creava un superiore senso di fratellanza che in quel momento sembrava indissolubile, ma che probabilmente sarebbe svanito nel

breve percorso fra l’uscita del locale e il piccolo parcheggio antistante circondato da siepi basse. Malika aveva sempre ammirato e spesso invidiato i musicisti. Gente che vive di creatività e che fa nascere emozioni. Il cantante Paco, bandana in testa, vestito di pelle nera e tatuaggi sui bicipiti, ruggiva nel microfono e la sua voce schiantava le viscere di Malika, seduta a un tavolino in compagnia di Betty, compagna d’università, con una pinta di chiara doppio malto in mano. “Cosa darei per poterlo conoscere!” – disse Malika, accarezzando il bicchiere prima di portarselo alla bocca per sorseggiare la birra. “Beh, aspettalo! Sai, qui al Pappagallo Matto i musicisti a fine concerto sono soliti fermarsi ai tavoli e conversare con la gente… e non sarebbe la prima volta che un cantante finisce a letto con una sua fan!” – rispose Betty, con un complice occhiolino accompagnato da un sorriso. “Magari! Ma sai che non sarà così… fra poco devo scappare, domani ho lezione alle otto e mezza e sono d’accordo con Ricky di andare a correre alle sette.” “Con questo freddo? Tu sei matta, ragazza mia, completamente matta!” “Beh, sai come sono fatta. Mi sono messa in testa di correre la mezza maratona di aprile, voglio arrivare ben preparata. Anzi, guarda, ti saluto, sono stanca e sarà meglio che mi riposi bene, sennò domani non mi reggerò in piedi dopo la corsa.” “Ciao, a domani! Magari ci vediamo in aula, a meno che Paco non si fermi a parlare proprio con me questa sera… In tal caso non garantisco per me stessa!” “Scema… ciao, a domani!” Malika si fece largo fra i tavolini, recuperò il cappotto e uscì dal locale. La notte era gelida.

Dieci anni prima – Killer

L’incontro fra Killer e Duke non fu del tutto casuale. Anche Duke amava le armi, anche Duke bazzicava il poligono. Era un ragazzone alto, biondo, con i capelli a spazzola. Vestiva sempre con jeans e anfibi e portava camicie dai colori sgargianti. Assomigliava a Duke Nukem, l’eroe del videogioco di guerra, e per questo gli amici gli avevano affibbiato quel soprannome così impegnativo, che molti – erroneamente – interpretavano come una forma di impegno politico con il partito di destra attivo nel paese. Ma a Duke, di politica, non fregava nulla. Amava dichiararsi con gli amici un capo ultras, anche se, data la giovane età, non era altro che un aggregato al gruppo di tifosi della zona che seguiva ogni domenica la Dinamo Basket nel proprio campionato regionale. La Dinamo era una nobile decaduta, vantava anni addietro anche un paio di stagioni in serie B, mentre ora galleggiava a metà classifica del campionato di serie D. Fu nel mezzo di una partita a carte pomeridiana al bar del poligono, durante la quale Killer stentava a pescare una sola briscola, che gli sguardi di Killer e Duke s’incrociarono per la prima volta. Killer incazzato nero per la sfortuna che quel giorno lo attanagliava, Duke seduto da solo a un tavolo, con la sigaretta accesa. Entrambi si alzarono per ordinare una birra, ritrovandosi spalla a spalla al bancone del bar e ordinando la stessa birra nello stesso istante. La situazione creò immediatamente complicità. “Ciao, sono Duke, ti ho visto gironzolare qui al poli nelle ultime settimane … da

dove vieni?” “Piacere. Sono Paolo. Gli amici mi chiamano Killer. Vengo dal Bronx, anzi… sto cercando di uscirne! Lascia, questo giro lo pago io.” “Ah ah, cerchi di uscirne? Manco fosse una droga! Lo conosco il Bronx, meglio starci alla larga… Grazie per la birra, ce la beviamo insieme al mio tavolo? Sto laggiù, vicino alla vetrata, così possiamo magari vedere anche qualche buon tiratore, invece di star qui a sentire le lagne dei giocatori di briscola.” “Volentieri, oggi poi non ne pesco una!” Afferrarono le due Ceres fredde che il barista aveva posato sul bancone e, con le birre in mano, attraversarono la sala del bar, Duke davanti, seguito da Killer. Il tavolino di Duke era occupato dalla Gazzetta dello Sport, che Duke ripiegò su stessa, prima di porgere una sedia a Killer. Erano quasi le sei di un pomeriggio già scuro, quando si sedettero per la prima volta uno di fronte all’altro. Quella scena, nel tempo, si sarebbe ripetuta. “Killer, soprannome impegnativo... ma sai sparare?” – chiese Duke. “Sto imparando. Diciamo che sulla parte teorica sono fortissimo, sul pratico ho ampi margini di miglioramento” – rispose Killer abbozzando un mezzo sorriso. “Ah ah, a me succede lo stesso con il sesso!” – esclamò Duke alzando la bottiglia in segno di brindisi, che Killer non si fece mancare. Sorseggiarono le birre poco a poco, rimanendo a parlare e bere, come due vecchi amici che non si vedono da tempo, fino a chiusura del poligono, incuranti delle sicure incazzature delle rispettive madri. Con l’incoscienza dei loro diciotto anni erano sicuri di poter spaccare il mondo ed erano forse in cerca di un buon pretesto per farlo.

Dieci anni prima – Malika

La sveglia alle sei e mezzo era suonata più dura del solito per Malika. Nonostante i suoi vent’anni, un’uscita serale extra con rientro dopo mezzanotte era sufficiente per crearle un arretrato di sonno che si tirava dietro per almeno una settimana. Alle sette Ricky le fece uno squillo sul cellulare, segno che la stava attendendo da basso e lei scese di corsa le scale. “Ciao ragazza! Che faccia stanca… di che marca era il Tir che ti ha investito ieri sera?” “Ciao Ricky! Lascia stare… ieri sera sono uscita con Betty, siamo state al Pappagallo Matto, ho bevuto un po’…” Iniziarono la corsa a o lento, una affianco all’altro. Un vento polare sembrava tagliare gli zigomi di entrambi, ma poco a poco, come sempre, il motore interno si sarebbe messo in moto, irrorando di calore il resto del corpo. “Come sta Betty? Saranno tre mesi che non la vedo… ma a che ora siete rientrate?” “Io verso l’una, lei è rimasta là. Sperava nel gancio con il cantante, sai com’è… e non sarebbe la prima volta per lei.” Un sorriso malizioso e complice apparve sul viso di entrambi, lasciando poi il posto al libero flusso di pensieri che accompagna ogni podista amatoriale dopo i primi dieci minuti di fatica. In quel periodo Malika s’interrogava spesso sul suo futuro e le corse mattutine non facevano altro che alimentare e amplificare i suoi “streams of consciousness” joyciani. Si era iscritta controvoglia alla facoltà di Economia e Commercio; al liceo e al

primo anno di Università non aveva mai avuto problemi, ma le mancava completamente la ione per quello che studiava. Sentiva, o – meglio – sperava che il suo futuro si sarebbe costruito su binari differenti, perché il treno del lavoro in banca, sbocco naturale del suo percorso di studi, era destinato a una stazione che non la attirava affatto e che non aveva intenzione di visitare. Il rumore dei i sulla brina mattutina del parco Lambro la fece tornare alla corsa; Ricky, sempre al suo fianco, sbuffava a ritmo sincopato, concentrato e madido di sudore, nonostante la temperatura di poco sopra lo zero. Quel ragazzo le piaceva, ma la sua regolarità galleggiava al confine con la noia e questo aveva sempre inibito Malika dall’idea di fare un o avanti con lui.

Dieci anni prima – Killer

Killer e Duke cominciarono a frequentarsi assiduamente. I pomeriggi al poligono scorrevano rapidi, fra conversazioni serie, libri scambiati, propositi di affermazione sociale, partite a briscola, bestemmie e, sempre più frequentemente, allenamenti di tiro. Killer tornava a casa la sera poco prima di cena, iniziava a fare i compiti, si metteva a tavola con sua madre, per poi tornare ai compiti. Suo padre, guardia notturna, non lo incrociava praticamente mai. Le serate in casa avano tristi e silenziose, da anni su qualsiasi tipo di conversazione in famiglia era scesa una cortina impenetrabile che aveva portato Killer, suo padre e sua madre a vivere tre universi paralleli. Non è vero che le rette parallele non s’incontrano: lo fanno, ma all’infinito e l’infinito non fa parte del mondo reale. Ricordare questo dettame scolastico lo faceva sentire solido, come gli piaceva

che gli altri lo vedessero. Killer non soffriva per la propria situazione familiare, anzi, ne apprezzava la libertà che la stessa gli garantiva e riteneva impagabile, per un diciottenne di paese, il non dover rendere conto di nulla ai propri genitori. Un pomeriggio più grigio del solito, Duke gli propose di aggregarsi al gruppo ultras per la trasferta della domenica successiva. La Dinamo Basket avrebbe giocato a Varese: le rispettive tifoserie non si erano mai amate più di tanto. “Dai vieni, ci si diverte! Partenza al mattino in pullman, sosta in autogrill, pranzo al sacco, partita, rientro… è una figata!” Killer non aveva mai amato il basket. Era quello forse l’unico argomento di cui non parlava con Duke, soprattutto perché non ne sapeva davvero nulla. Ma l’occasione della trasferta, per un assetato di nuovi rapporti sociali come lui, era veramente da sfruttare e l’idea di entrare in un gruppo ultras non gli dispiaceva affatto. Tornò a casa, come ogni sera, poco prima delle sette e incrociò sua madre in corridoio. “Mamma, domenica vado a Varese con Duke, andiamo a vederci la partita della Dinamo.” Non era una richiesta di autorizzazione, ma una mera comunicazione, un freddo comunicato stampa a beneficio della madre che, come da pronostico, non lo degnò di una risposta. In casa vigeva il principio del silenzio–assenso, con tutti i vantaggi del caso, per Killer.

Dieci anni prima – Malika

La vera ione di Malika era la musica. Da un paio di mesi si era unita a un gruppo musicale locale, come corista. Il gruppo era giovane, non aveva ancora debuttato dal vivo, ma l’assiduità con cui si trovavano in sala prove due volte a settimana faceva presagire che nel giro di poco tempo sarebbero stati pronti per l’esordio in pubblico. I locali con musica live, a Milano, non mancavano. Il genere che suonavano non le piaceva molto, una sorta di hip hop tecnologico che non permetteva alla sua voce di mettersi in evidenza, ma l’ambiente le piaceva e sperava che comunque quello sarebbe stato un primo o verso qualcosa di più importante e gratificante. La sala prove si trovava in centro città, proprio di fianco all’ingresso della Paris Records, una casa discografica che produceva musica alternativa underground, ma che vantava anche alcuni successi sul circuito radiofonico nazionale. Fu all’uscita di una prova particolarmente fiacca che Malika incrociò lo sguardo di un ragazzo abbronzato, sulla trentina, che stava entrando in giacca e cravatta alla Paris Records. “Mi sembra di averlo già visto…” – pensò e il suo cervello iniziò a scansionare le memorie degli ultimi anni, per associare un nome a un volto, o per trovare un appiglio cui aggrapparsi per far riaffiorare un ricordo sbiadito. Nulla. Ma la curiosità l’aveva ormai irretita. S’infilò in macchina, diretta verso casa, con stampata in testa l’immagine di una persona che non riusciva a individuare, ma che era sicura di conoscere. “Paris Records” – pensò fra sé e sé – “potrebbe essere un buon gancio per entrare finalmente nel mondo della musica della porta principale…” Doveva riuscire ad agganciare quel tipo.

ò la serata a scervellarsi, dividendo la propria vita in categorie e valutando in quali di ognuna avrebbe potuto conoscere quel ragazzo. Era sempre stata una metodica e anche in quella circostanza non fece eccezione. Categoria compagni di scuola, dalle elementari in poi: assolutamente no, si ricordava di tutti e con la maggior parte di loro era ancora in contatto. Categoria sport: impossibile, il suo giro era ristretto a Ricky e pochi suoi conoscenti – nessun ragazzo abbronzato della Paris Records. Categoria musica: era un mondo talmente recente per lei che era impossibile non ricordarsi delle poche persone che aveva conosciuto. Scartato anche questo. Categoria vacanze: era probabilmente questo l’ambito da approfondire. Qualche amico di amici, o fidanzato di amiche, volti figli di rapidi incontri, nei quali spesso dopo essersi presentati ci si era già scordati il nome di chi si aveva di fronte. Malika corse in camera a cercare le fotografie delle ultime vacanze.

Dieci anni prima – Malika

Non fu complicato mettere in ordine cronologico le svariate fotografie ammassate nel secondo cassetto, in camera sua. Malika amava, al rientro da ogni vacanza, selezionare le migliori venti istantanee scattate con la Nikon digitale che le avevano regalato le amiche per il compleanno e stamparle su carta. Solo così, diceva, le fotografie diventavano parte di lei, solo così riusciva a interiorizzare e scolpire nel proprio io le emozioni che le fotografie le trasmettevano. E sapeva che la faccia di quel ragazzo della Paris Records doveva per forza

essere in qualcuna di quelle fotografie, altrimenti non le avrebbe fatto accendere alcuna luce, quel pomeriggio, quando lo aveva visto. Iniziò l’analisi con la vacanza in Toscana: aveva appena compiuto diciotto anni, ma i suoi genitori non avevano acconsentito alla sua richiesta di are almeno una settimana in esclusiva compagnia di poche amiche, sulla riviera romagnola. Aveva speso tre settimane vicino a Forte dei Marmi, con la famiglia, senza conoscere alcun coetaneo, quasi per ripicca. La vacanza era stata di una noia mortale: giornate in spiaggia a base di Settimana Enigmistica e cene in casa, con il pesce cucinato da suo padre, che solo in quei momenti di lontananza dal lavoro d’ufficio si sbizzarriva ai fornelli. Le fotografie erano tutte concettualmente identiche: un soggetto in spiaggia – quasi sempre lei, ma a volte suo padre, più raramente sua madre – talvolta sorridente, con uno sguardo fisso verso l’obiettivo, una spiaggia dorata con infiniti ombrelloni blu e, alle spalle, il mare. “Se queste sono le venti migliori che ho selezionato, chissà le altre...” – pensò Malika, prima di archiviare il fascicolo “Toscana”, chiudendolo quasi con rabbia e spostandosi successivamente su quello “Croazia”. La vacanza in Croazia, nonostante la presenza dei genitori, era stata molto più dinamica della precedente, soprattutto perché si era svolta in campeggio. Malika, al tempo diciannovenne, aveva rapidamente conosciuto un gruppetto di ragazzi e ragazze che ogni estate si ritrovava a Parenzo da ormai più di cinque anni. Il gruppo era cementato dalle esperienze condivise, ma non per questo chiuso a nuovi inserimenti; insieme, avevano attraversato l’adolescenza, creandosi un riparo comune dalle tempeste emotive tipiche di quell’età. Lei aveva legato particolarmente con Marin, un ragazzo croato gentile, con gli occhi scuri e profondi. Le fotografie della Croazia spaziavano dagli eventi sportivi organizzati dal campeggio alle serate in spiaggia intorno all’immancabile falò.

“Come nei film...” – pensava Malika. La rapida analisi delle immagini non diede gli esiti sperati; pur aiutandosi per certe fotografie con una lente d’ingrandimento, non riuscì a individuare il volto del ragazzo della Paris Records. E nemmeno l’indagine sulle fotografie dell’ultimo viaggio, nei Paesi Baschi, diede esiti migliori: nonostante quella fosse stata di gran lunga la migliore vacanza di Malika – probabilmente perché fu la prima ata senza i genitori – i numerosi volti catturati nelle venti fotografie di San Sebastian, Bilbao e delle altre perle basche non corrispondevano al biondino. Malika si coricò, decisamente stanca, ma più che mai determinata a non interrompere la ricerca.

Dieci anni prima – Killer

Killer si presentò puntuale all’appuntamento di quella domenica mattina con Duke. Insieme avrebbero raggiunto, a piedi, il piazzale da cui sarebbe partito il pullman dei tifosi della Dinamo Basket, destinazione Varese. Un pallido sole tentava con tutte le sue forze di avere il sopravvento sull’aria fresca d’inizio novembre, senza peraltro riuscirci; Killer si sollevò il colletto della felpa dei Los Angeles Lakers, accendendosi poco dopo una sigaretta che dovette interrompere a metà, all’arrivo del pullman. Duke presentò Killer al chiassoso gruppo di amici, che per tutto il viaggio intonò canzoni ultras; Killer si lasciò coinvolgere senza opporre alcuna resistenza, sentendo anzi crescere in sé una carica effervescente che avrebbe liberato a partita iniziata. “Il potere della musica, la forza del gruppo...” – i pensieri di Killer fluivano rapidi, forse perché banali, ma per lui l’importante era quella sensazione di sicurezza e protezione che la nuova situazione gli stava creando.

L’arrivo al palazzetto dello sport di Varese avvenne un’ora prima dell’incontro, giusto il tempo di mangiarsi in piedi nel piazzale un panino con wurstel e peperoni, bevendo una birra ormai calda portata da casa e rollandosi una canna, gentilmente offerta dagli amici di Duke. “Wow Duke, questa sì che è roba buona!” – sentenziò Killer, millantando una solida esperienza nel mondo del cannabis, che in realtà fino a quel momento gli era noto solo per le poche raccomandazioni di sua mamma in merito allo “stare alla larga dagli spinelli, che sono il primo o verso la droga, quella vera…” Era il suo primo spinello ed era il perfetto corollario alla nuova avventura da ultras. L’ingresso lo lasciò con l’amaro in bocca: si attendeva una bolgia infernale, con cori, tamburi e pompom girls, non trovò altro che un centinaio di spettatori stancamente seduti e disposti a macchia di leopardo sulle gradinate del palazzetto. No, non era l’NBA americana. Killer osservò attentamente i comportamenti degli amici di Duke, con l’idea di replicare quelli di suo gradimento, ma non trovò ispirazione. “Ehi, Duke, ma cos’è ’sto mortorio?” “Pare ci stiano prendendo per il culo... normalmente qui a Varese tutta quell’area è occupata dagli ultras di casa” – rispose Duke, indicando la zona retrostante a uno dei canestri – “ma oggi sembra che non ci sia nessuno. Chissà cos’hanno in testa, dopo quello che è successo l’anno scorso...” “Perché, cos’è successo l’anno scorso, Duke?” L’effetto della canna si fece sentire poco dopo questa domanda e il cervello di Killer iniziò a rallentare poco a poco. Duke, comunque, non lo degnò di una risposta. La partita iniziò, ma per Killer fu un vero problema riuscire a seguirla. Il cervello non riusciva a star dietro alla velocità del gioco; nella sua testa

rimbombavano pesantemente i rimbalzi della palla sul parquet, mentre ogni cambio di direzione dei giocatori era una stilettata nelle tempie, per quel rumore delle suole striscianti che gli provocava i brividi. “Duke… cos’è successo l’anno scorso?” – insistette Killer, sperando che un po’ di conversazione lo avrebbe aiutato a riprendersi. “Tranquillo Killer, niente di serio…” – rispose l’amico, girandosi rapidamente verso di lui e aggiungendo: “Ehi ragazzo, sei palliduccio sai? Dai canta con noi, vedrai che ti a tutto…” Killer provò a unirsi ai cori, ma non ce la fece. Aveva la fronte imperlata di sudore e sentiva un peso sullo stomaco che lo obbligava a stare seduto. “Cazzo, quella canna mi ha ucciso, devo uscire a prendere un po’ d’aria…” – sussurrò fra sé e sé, senza che nessuno lo potesse sentire. “Duke… esco un attimo, ok?” – disse a voce più alta, avviandosi verso l’uscita. Duke non rispose e continuò il canto ultras. Fuori c’era il sole, ma i brividi non lo abbandonarono. Si sedette sul marciapiede, massaggiandosi le tempie con i polpastrelli di indice e medio, con movimento circolare. Aveva spesso visto sua madre, che soffriva di emicrania, fare quel gesto. Provò a respirare con la bocca, inspirando ed espirando aria fresca, senza però trarne particolari benefici. Un furgoncino in fondo al parcheggio antistante attirò la sua attenzione; un gruppo di ragazzi stava trafficando con qualcosa, che Killer non riusciva ad individuare. Sembrava un cilindro cavo, in due lo stavano scaricando dal retro del furgoncino, mentre altri tre si guardavano intorno con aria furtiva.

Incuriosito, ma un po’ spaventato, s’infilò gli occhiali da sole, girando la testa da un’altra parte, per riuscire a sbirciare la scena senza essere visto. Li vedeva indaffarati a scaricare quell’aggeggio, ma non riusciva a sentire le voci dei ragazzi, coperte dai cori che provenivano dall’interno del palazzetto. Era sicuramente qualcosa di pesante, perché in breve tempo anche due dei “pali” abbandonarono la posizione per aiutare gli altri due nelle operazioni di scarico. Il quinto ragazzo rimase invece a controllare la situazione e quando si rese conto che il cilindro era stato scaricato dal furgone ed era adagiato – tipo bara – sulle spalle dei quattro, fece un cenno con la mano agli amici, indicando loro di portarlo nella zona retrostante al palazzetto. Loro obbedirono e non senza fatica, ondeggiando un po’ nel breve tragitto, si avvicinarono al punto di destinazione, dove Killer scorse un ragazzo con una sigaretta in mano. Fumava con gli occhi stretti, tenendo la sigaretta fra pollice e indice; si avvicinò agli altri, che sorreggevano il cilindro e ne estrasse qualcosa, scambiandosi un’occhiata d’intesa con il resto del gruppo. Nello stato di annebbiamento in cui versava, Killer trovò quella situazione particolarmente stimolante, decidendo immediatamente che doveva capire di cosa si trattasse. Si avvicinò con indifferenza, sforzandosi di superare il momento di poca lucidità, lottando contro il mal di testa che sembrava uno schiaccianoci in azione sul cranio. Arrivò in un punto del piazzale nel quale finalmente la visuale era completa: solo allora si accorse che il ragazzo con la sigaretta in mano aveva estratto dal cilindro un bastone di ferro, uno di quelli che Killer ricordava di aver usato alla scuola media, durante quelle lezioni di ginnastica in cui il professore voleva punire con esercizi spacca muscoli gli studenti per qualche malefatta. Il cilindro era carico di bastoni di ferro. “Merda!” – fu il pensiero quasi istantaneo.

Killer capì immediatamente che era il caso di parlarne a Duke. Ritornò di corsa nel palazzetto, dove la partita proseguiva stancamente; anche Duke e gli altri avevano ormai smesso di cantare, delusi per la mancanza degli avversari. “Duke… Duke!” “Checc’è, Killer, dove cazzo eri finito?” “Sono uscito a prendere un po’ d’aria… ho visto una cosa strana.” “Dai spara.” “Beh… qui fuori, nel piazzale, ho visto un gruppo di ragazzi scaricare dei bastoni di ferro, in modo furtivo. Sembrava non volessero farsi vedere… sembrava qualcosa di losco.” “Quanti erano, Killer?” “I ragazzi erano sei… i bastoni molti di più.” “Mmm” – mugugnò Duke – “non mi piace … stai a vedere che veramente vogliono vendicarsi per l’anno scorso…” “Ma perché, Duke, cos’è successo l’anno scorso?” – chiese per la terza volta Killer, senza ricevere, per la terza volta, una risposta dall’amico.

Dieci anni prima – Malika

La notte trascorse tranquilla, accompagnata da sogni dimenticati al mattino, ma Malika si risvegliò più intorpidita del solito, forse a causa della corsa della mattina precedente con Ricky. Aveva leggermente forzato il ritmo e i suoi muscoli glielo stavano ricordando. S’infilò le ciabatte che la attendevano calde ai piedi del letto, si alzò e prese la

giacca della tuta da ginnastica per andare in cucina, dove la attendeva il caffè fumante preparato da sua madre. Dopo un rapido scambio di saluti e un caffè buttato giù quasi senza assaporarlo, Malika si preparò per uscire; l’attendeva alle dieci e mezza una lezione di Economia Industriale, quanto di meno apionante per lei in quella fredda mattina. Attese l’autobus per una decina di minuti e per tutto il tragitto non fece altro che pensare al biondino della Paris Records. Arrivata in università, si fiondò in sala computer, dove la ricerca di “Déjà vu” su Wikipedia dal primo posto libero trovato le restituì una definizione forse un po’ pomposa: “Fenomeno psichico rientrante nelle forme di alterazione dei ricordi (paramnesie): esso consiste nella sensazione erronea di aver già visto un’immagine o di aver già vissuto precedentemente un avvenimento o una situazione che si sta verificando (déjà–vécu). Seppur impropriamente, viene anche chiamato falso riconoscimento.” Falso riconoscimento. Eppure lei era sicura di averlo visto da qualche parte, quel tipo. Doveva solo riuscire ad aprire il giusto cassetto della memoria. La lezione di Economia Industriale durò circa quaranta minuti per Malika. Il tempo di prendere un paio di appunti sui concetti di catena del valore di Porter e matrice di Boston, di realizzare fra sé e sé che non avrebbe mai e poi mai voluto utilizzare quelle nozioni nel corso della sua carriera e di decidere di andarsene da quell’aula. La Paris Records non era distante e una bella eggiata era quello che ci voleva per rinfrescarsi un po’ le idee. Arrivò a destinazione prima di mezzogiorno, si sedette su una panchina circondata da mucchietti di foglie secche di un vicino acero e in quell’immagine classicamente autunnale rimase ad aspettare. Era in circostanze come queste che le piaceva farsi forza ispirandosi al Siddartha

di Hesse, che aveva letto nell’estate della maturità. ”Per poter raggiungere i propri obiettivi è necessario sapere pensare, digiunare, aspettare” o qualcosa di simile, insomma. In questo caso, avendo piena visibilità su ogni tipo di movimento in ingresso e in uscita dalla Paris Records, avrebbe aspettato tutto il tempo necessario, pur mantenendosi coscientemente ben lungi dalla volontà di digiunare. E così, già prima di mezzogiorno e mezzo aveva sotto i denti un panino allo speck acquistato per quattro euro nel baretto lì a fianco. Nell’attesa, il flusso dei pensieri partì liberamente, come un sogno ad occhi aperti, senza quindi alcuna logica o connessione causa/effetto fra le diverse sequenze. Si lasciò trasportare, senza opporre resistenza a quella deriva coscientemente incontrollata, fino a quando il biondino apparve in fondo alla strada. Flash. Malika, sbattendo le palpebre con forza un paio di volta, ebbe immediatamente l’illuminazione che cercava ostinatamente dal giorno precedente.

Dieci anni prima – Malika

La Croazia. Il biondino c’entrava con la Croazia… ma in che modo? Dove? Il viaggio in autobus di ritorno a casa fu frettoloso e carico di pensieri. Perché, nell’istante stesso in cui lo aveva visto svoltare l’angolo della strada, le si era accesa una lampadina sulla vacanza in Croazia?

Eppure le fotografie le aveva analizzate a fondo… “Ma forse” – si disse – “ieri sera ero stanca, non sarò stata sufficientemente attenta…” Non appena rientrata a casa, si fiondò in camera. Il giorno prima aveva analizzato le venti fotografie migliori della vacanza, ma restavano le altre, archiviate nel computer di casa. Iniziò il processo di scannerizzazione mentale, analizzando le fotografie lentamente, sfruttando talvolta gli zoom di Photoshop. I pensieri scorrevano veloci, alimentati dall’adrenalina crescente e una goccia di sudore comparve sulla tempia destra, scivolando rapidamente lungo il viso, fino al collo. Si sforzò di concentrarsi anche sulle figure secondarie, su tutti i particolari che la sera prima aveva forse troppo rapidamente trascurato, finché non lo scovò, in una fotografia di gruppo scattata l’unica sera in cui tutti, con il permesso dei genitori, erano andati a una festa nell’unica discoteca del posto. Nella foto, Malika e due amiche sorridevano all’obbiettivo, abbracciate e felici, stingendo un bicchiere che – a memoria – doveva essere Gin Lemon. Lo sfondo mostrava a sinistra i divanetti in pelle nera della discoteca, vuota, a destra il deejay, che parlava con un ragazzo magro, che gli stava porgendo un disco. Il ragazzo aveva un paio di occhiali con la montatura bianca e un orecchino pendente, a forma di croce. Portava pantaloni bianchi di velluto e una giacca rosso fuoco, con dei bottoni dorati sulle maniche. Malika ricordò in quel preciso istante che quel tipo stravagante le aveva attirato l’attenzione anche la prima volta che aveva tenuto in mano quella fotografia, qualche anno prima. Ma solo ora si rese conto che nella sua memoria, oltre che al look, era rimasto

nitido il ricordo del volto del ragazzo. Il suo cuore accelerò ulteriormente, quando con un sorriso constatò che il ragazzo era – senza alcun dubbio – il biondino della Paris Records.

Dieci anni prima – Malika

Malika decise di tornare alla Paris Records, poco prima dell’orario di uscita serale, nella speranza di incrociare il suo bersaglio in tempo utile per un aperitivo. Questa volta prese la bicicletta, per evitare il traffico e perché sapeva che una bella pedalata l’avrebbe tranquillizzata e le avrebbe permesso di trovare la giusta ispirazione per approcciare il biondino. La panchina con le foglie d’acero della mattina era ancora vuota e lei ne prese possesso, dopo aver legato la bicicletta a un vicino palo della luce. Le prime persone iniziavano a uscire dagli uffici della Paris Records, alcuni a gruppi, altri da soli, quasi tutti attaccati al cellulare. Malika si alzò dalla panchina per vedere e controllare meglio la situazione e poco dopo lo vide uscire. Era solo e ciondolava sul marciapiede dall’altra parte della strada. Portava un lungo impermeabile nero, si era una sigaretta e eggiava lentamente, andosi di tanto in tanto una mano fra il folto ciuffo dei capelli. Malika si avvicinò camminando, fino a trovarsi di fatto di fronte a lui, che fece per spostarsi, con l’idea di non interrompere la eggiata. Ma quando lei gli illuminò la strada con un sorriso, ebbe un attimo d’incertezza, che Malika sfruttò per attaccare bottone. “Ciao!” – disse fissandolo dritto negli occhi – “Io ti conosco, sai?”

Approccio diretto da una donna. Certi uomini lo adorano, in quanto sgretola le montagne di convenevoli, altri non lo sopportano, in quanto non permette loro di tenere il timone della nave. Il biondino decise di lasciarsi guidare. “Bene!” – rispose – “Mi fa piacere essere famoso…” Sorriso. “In realtà non so neanche come ti chiami” – incalzò Malika – “ma so per certo che due anni fa sei stato in vacanza in Croazia.” Sguardo interrogativo del biondino, al limite dell’esplorativo. “Mmm... parzialmente vero… diciamo che hai indovinato al cinquanta per cento...” “So anche che in Croazia hai dato un disco al dj del Byblos.” “Niente di più probabile! Effettivamente ero in Croazia, ma non in vacanza. Adoro distribuire vinili… stavo sicuramente alimentando il mio network di public relations, e…” Malika non lo lascò finire. “Quella sera avevi dei pantaloni bianchi e una giacca rossa, con dei bottoni dorati… sembravi Lupin Terzo, altro che network di public relations… eri inguardabile!” “La giacca rossa! Mitica! Da allora, deve essere rimasta in fondo all’armadio… la mettevo nelle occasioni speciali e quella del Byblos in effetti lo era! Ma sentiamo, signorina Sherlock Holmes, lei come è entrata in possesso di tutte queste informazioni altamente riservate e strettamente confidenziali? La potrei querelare, sa?” Risata di entrambi. Ghiaccio completamente sciolto.

Malika vide il proprio cammino in discesa. “Beh, se te lo dico stenterai a crederci… compari in secondo piano in una foto della mia vacanza in Croazia di due anni fa… non ci avevo mai fatto caso, davvero, ma poi ieri ti ho visto mentre entravi alla Paris Records, io stavo uscendo dalla sala prove, ed ho avuto come un flash… ah, canto in un gruppo, sai.” Malika si rese subito conto di aver corso troppo. Quell’ultima frase pronunciata non c’entrava nulla con il resto, in quel momento. Non avrebbe dovuto rivelare subito l’appartenenza al gruppo, questo avrebbe inevitabilmente abbassato la tensione di quell’incontro che doveva sembrare quasi casuale, ma che casuale proprio non era. In effetti il biondino fece una strana smorfia, ma contrariamente a quanto Malika si sarebbe aspettata, fu lui a darle corda, chiedendole di proseguire con la storia. “E quindi? Come hai reagito al flash?” “Mi sono scervellata per tutta la notte alla ricerca di un particolare che mi permettesse di risalire a te!” – riprese Malika, con tono volutamente autoironico – “Credevo che l’unico modo per abbordarti sarebbe stato quello di tirar fuori dal cilindro un episodio comune, ma prima dovevo risalire al motivo del flash! E così, per colpa tua, ho ribaltato tutti i cassetti della mia camera, rovistando fra le vecchie fotografie, fino a che ti ho trovato in discoteca in Croazia, mentre consegnavi un disco al dj del Byblos!” “Beh, sappi che non mi formalizzo tanto, sarebbe bastato un approccio molto più banale, tipo “Ciao, sono…” – a proposito, sai che non mi hai ancora detto come ti chiami?” “Che stupida, è vero! Mi chiamo Malika, ciao, piacere.” “Ciao, sono Oscar; piacere mio.” Si strinsero le mani guardandosi negli occhi, mantenendo la stretta un po’ più del dovuto, secondo gli standard di Malika – dettaglio che le fece piacere.

Dieci anni prima – Killer

Mancavano ormai pochi minuti al termine della partita, la Dinamo era avanti di più di venti punti, il palazzetto era un mortorio. La poca lucidità rimasta nella testa di Killer si era convertita in una strana preoccupazione, dettata sia da ciò che aveva visto nel parcheggio, sia dalla mancanza di risposte dell’amico Duke a fronte della reiterata domanda su cosa fosse successo l’anno precedente. Sentiva che fra le due cose esisteva un nesso e non si aspettava nulla di positivo. Killer vide Duke confabulare con gli amici, guardando più volte l’orologio. D’improvviso arrivò l’ordine del capo ultras di lasciare il palazzetto. La partita non aveva più nulla da dire, meglio uscire e godersi tutti insieme un po’ dell’ultimo sole autunnale, prima di tornare a casa, bevendosi una buona birra. Il deflusso fu rapido e l’attesa del pullman nel parcheggio scaldata dal tiepido sole che illuminava la scena. I presupposti per un rientro tranquillo c’erano tutti, ma la tensione serpeggiava nel gruppo e Killer, benché stanco e ancora stonato dalla canna, percepiva un generale malessere che non gli faceva presagire nulla di piacevole. Duke, sigaretta in mano, gli si avvicinò socchiudendo gli occhi e soffiando lontano la nuvoletta del proprio fumo. “Allora ragazzo, com’è stata la prima volta? Mi spiace solo che quei conigli non si siano fatti vedere…” Pacca sulla spalla, sorriso tirato. “Sai, speravamo di trovarli al palazzetto, ci saremmo divertiti a far andare un po’

le mani…” In quel momento da dietro i pioppi antistanti al parcheggio uscirono cinque ragazzi con cinque bottiglie di vetro, che gridando e correndo verso di loro lanciarono due molotov contro il gruppo di Killer. In un attimo altri venti ragazzi sbucarono dall’angolo opposto a quello dei pioppi, tutti armati di spranghe e iniziarono a correre verso il centro del parcheggio. “Eccoli quei maledetti bastoni di ferro!” – pensò Killer, mentre l’adrenalina gli montava rapida nel corpo, aiutandolo a recuperare la lucidità necessaria per affrontare la situazione. Quasi senza accorgersene, si mise a correre, alla ricerca di possibili vie di fuga che non trovò, visto che tutte le uscite del parcheggio erano presidiate dai nemici con le spranghe. Killer si rese conto di essere rimasto solo. Si guardò intorno, cercando una soluzione a quello che stava diventando un problema molto serio: i primi capannelli di ultras se le stavano suonando in mezzo al parcheggio, dove le molotov avevano prodotto un fumo nero e denso che saliva al cielo dal centro del parcheggio e il pullman non era ancora arrivato, ma probabilmente non sarebbe mai entrato in quel parcheggio dimenticato da Dio, teatro di violenza estemporanea e completamente fuori controllo. A qualche metro da sé, Killer vide Duke a terra, accucciato e circondato da due ragazzi che lo scalciavano nella pancia e nella schiena. Avevano entrambi il volto coperto, uno da un bandana nero, l’altro da un amontagna rosso. Sentì un tornado salire dalle viscere ed esplodere nelle tempie e si gettò gridando su uno dei due, che perse la spranga che teneva in mano, cadendo a sua volta in terra. Killer non poteva immaginare di poter sprigionare tanta forza, figlia di una rabbia incontrollata che era per lui una sensazione completamente nuova e che tutto sommato gli piaceva: lo faceva sentire invincibile.

Si rese conto che i due lo guardavano sospettosi, immobili e intimoriti dal suo aspetto aggressivo, che rivelava in maniera lampante quella sua feroce determinazione che in quel momento lo rendeva completamente padrone della situazione. Raccolse la spranga in terra, avvicinandosi a Duke, che giaceva poco distante. “Duke, come stai?” – gli chiese, mantenendo gli occhi inchiodati sui due e spostando a intervalli regolari lo sguardo dall’uno all’altro. Duke, che perdeva sangue dalla bocca e si stringeva la pancia con le mani, non rispose. L’aumento di calore nelle tempie di Killer fu inversamente proporzionale al suo livello di autocontrollo. La prima sprangata partì con un colpo secco all’altezza del ginocchio di quello con il bandana nero, che cadde a terra, poco distante da Duke, tenendosi la gamba con entrambe le mane e gridando di dolore. “Bastardo, mi hai rotto la gamba, cane!” Lacrime di dolore e di rabbia gli solcavano le guance. Quello con il amontagna rosso, come rivitalizzato dalla visione dell’amico a terra, tentò l’attacco. La sprangata di Killer fu tremenda, portata con tutta la forza che aveva in corpo e raggiunse il ragazzo sulla tempia destra. Per un attimo il tempo sembrò fermarsi e Killer scolpì nella sua testa il quadro che aveva davanti ai suoi occhi. Un amico a terra, rantolante, con il sangue che gli esce dalla bocca. Un nemico a terra, poco distante dall’amico, che grida e bestemmia il suo dolore, con un ginocchio rotto. Un altro nemico immobile in piedi, con una strana smorfia sul viso e con le gambe pronte a cedere, in una curiosa posa statica, ma carica di molle

dinamicità potenziale. Sullo sfondo, del fumo nero. Odore di combustibile. Le tempie che pulsano. Una sirena.

Dieci anni prima – Malika

Erano ati solo venti giorni dall’incontro con Oscar, ma Malika già fantasticava sulle sue nuove prospettive. Oscar era una persona brillante, di quelle che fin dal primo momento abbattono le barriere interpersonali, riuscendo ad entrare in empatia col prossimo pressoché immediatamente. Malika sapeva, o forse sperava, che lui ci avrebbe provato nel giro di poco; già un paio di volte, durante i loro aperitivi serali che stavano diventando un must all’uscita della Paris Records, le aveva anticipato che era single e stava cercando la persona giusta per iniziare una storia seria, visto che ormai aveva trent’anni, una posizione economica stabile e la voglia di mettere la testa a posto. Lei si lasciava trasportare nelle lunghe conversazioni di fronte all’immancabile Gin Tonic e aspettava lucidamente l’occasione giusta per sfruttare quel contatto importante al fine di entrare por la puerta grande – come diceva la sua amica catalana Arantxa – nel tanto agognato mondo della musica. Ma non voleva accelerare troppo i tempi, sapeva che Oscar di ragazze come lei ne aveva sicuramente conosciute a bizzeffe e non voleva proporsi come la velina di turno in cerca di facile successo, in cambio magari di un po’ di sesso. E poi, tutto sommato, il sesso con Oscar lei lo avrebbe fatto a prescindere.

Lasciò quindi che fosse lui a scoprire poco a poco il suo ato di ragazza per bene e quella sera rimarcò durante la conversazione i suoi principali interessi – roba “sana”, sport e canto, ovviamente senza nulla rubare allo studio. Si sentì tremendamente pesante, insipida, soprattutto nei confronti di una persona che lavorava nel mondo dello spettacolo e a trent’anni aveva già girato il mondo, ma decise di proseguire sul cammino intrapreso. Sottolineò più volte il suo amore per la musica, spiegando per filo e per segno le dinamiche del suo gruppo (“dopo mesi di prove sento che siamo pronti per il debutto dal vivo… verrai a sentirmi, vero?”), ma lamentandosi allo stesso tempo per la scarsa valorizzazione delle proprie doti vocali (“questa musica hip hop tira in certi tipi di feste, ma bisogna cantarla tutta allo stesso modo e la voce è sempre in secondo piano rispetto alla batteria elettronica…”). Oscar ascoltava, sorseggiava il Gin Tonic, sorrideva, appoggiava il Gin Tonic sul tavolo, si ava una mano fra i capelli, si infilava un sigaro spento in bocca, dava un’occhiata al BlackBerry per controllare la mail, risorseggiava il Gin Tonic. In certi momenti sembrava un robot, tanto le sequenze di certi suoi gesti erano ripetitive. Non si sbilanciava, ma sentiva che quella ragazza aveva qualcosa d’interessante. E l’interesse crebbe rapidamente, di aperitivo in aperitivo, fra un sorriso e l’altro, un ammiccamento e mille pensieri, a volte dubbi, a volte certezze, fino a che una sera, al momento del saluto, lui la invitò a casa (“vedrai finalmente la mia collezione di dischi biparetale… nel senso che occupa tutta la parete nord della casa e sono già a metà della ovest”). Malika finse un attimo di titubanza, così, tanto per non dimostrarsi subito troppo disponibile, ma il lasso temporale fra il suo “OK, dai, andiamo” e il momento in cui si trovò a stretto contatto con il sesso di Oscar, inginocchiata di fronte a lui, con alle spalle la parete ovest – già riempita a metà di dischi, come lui aveva effettivamente anticipato – la smentì inesorabilmente.

Dieci anni prima – Malika

La serata trascorsa insieme fu l’inizio di una vera e propria storia che inondò la quotidianità di Malika come uno tsunami. La rottura con lo stile di vita precedente fu radicale, le corse mattutine e le uscite serali con le amiche scomparvero e anche la vita universitaria si fece sempre più leggera, principalmente a causa della totale distanza con cui Malika approcciava le noiosissime lezioni. Ogni sera andava a cena a casa di Oscar, ogni sera in attesa del giusto gancio per farsi lanciare nel mondo della musica, ogni sera finivano inevitabilmente a letto e la cosa cominciava quasi a preoccuparla. Lui si stava innamorando e questo lei non lo voleva. Le piaceva ripetersi che stava solo cercando una via preferenziale per entrare in un ambiente nel quale, altrimenti, non sarebbe mai riuscita ad intrufolarsi… e se questo per di più voleva dire approfondire la conoscenza di un ragazzo interessante, beh, tanto meglio. La proposta di Oscar di farle cantare un pezzo di un amico compositore le arrivò fra capo e collo, completamente inaspettata. “Sai, Nicola Bregic è un mio caro amico, è lui che ha scritto “Wednesday on holiday”, te la ricordi?” E come avrebbe potuto scordarsela, Malika, quella canzone. Era stato il tormentone dell’estate precedente, la cantava una ragazzina sprovvista di voce, ma fornita di un seno sproporzionato e il video era stato girato in piscina. Malika questa volta non tentò neanche di simulare quell’atteggiamento di distacco che tanto le piaceva immaginare quando ragionava a freddo sulle sue possibili reazioni a fronte delle più disparate situazioni. Il suo fu un “sì” chiaro, inconfutabile, accompagnato da un abbraccio al collo di Oscar e il pensiero che, in quel momento, una porticina si stava aprendo anche per lei.

Bridge

Homo faber fortunae suae.

Sometimes.

Otto anni prima – Malika

La canzone di Nicola Bregic non era niente di particolare, ma si rivelò un ottimo viatico per agganciare nel giro di qualche mese una serie di persone importanti nel mondo della musica. Una di queste, vecchio amico del presidente della Paris Records, propose a Malika di cantare in vista dell’estate successiva una canzoncina dalla melodia banale, un classico Sol – Re – Mi minore – Do, che aveva però – anche alle orecchie esperte di Oscar – qualcosa di originale. Presentava un cambio di ritmo prima del ritornello, ando dai tre quarti ai sette ottavi e poteva essere una scommessa interessante. Il successo di Tulsa Beat fu clamoroso. Il pezzo rimase in classifica per trentuno settimane, otto delle quali in testa. Malika, sapientemente guidata da Oscar, partecipò a tutti i principali programmi televisivi musicali italiani e la Paris Records, che mai prima di allora aveva avuto per le mani un successo musicale di quelle dimensioni, trovò importanti sponsor per finanziare un’intensa tournee estiva.

Un sogno, per lei. Oscar era perfettamente conscio del fatto che Malika era entrata in una dimensione che non le poteva appartenere – era bravina, ma non aveva un vero e proprio talento musicale – ma proprio per questo sapeva che il momento contingente andava sfruttato al massimo, senza farsi troppe domande sul futuro. E, soprattutto, si era innamorato di lei. Malika si era buttata anima e corpo in quella nuova realtà, abbandonando completamente il resto. Interrotti gli esami universitari, interrotte le corse con gli amici, interrotte le uscite serali se non finalizzate a promuovere il disco. Analizzandolo bene, il suo nuovo mondo, che si era sempre immaginata come il centro di un universo di esperienze e conoscenze pressoché infinito, era in realtà ben più piccolo del precedente, ma lei aveva comunque toccato il cielo con un dito. Amava cantare e la gratificazione che le dava la notorietà mediatica era per lei impagabile, bilanciando di gran lunga le invidie delle amiche, che non tardarono ad arrivare – anche Betty, da sempre sua confidente oltre che storica compagna delle uscite serali, le aveva voltato le spalle, scocciata per il suo successo. Poi il dito si era rotto, o il cielo era caduto – da piccola era stata una fan di Asterix e il fatto che il cielo potesse cadere sulla testa dei Galli l’aveva sempre intrigata. Ma non se lo sarebbe mai aspettato così devastante, provato su se stessa. Tutto cambiò, all’improvviso, la sera in cui Oscar morì. La macchina correva veloce, Oscar al volante, lei semiaddormentata al suo fianco, alla ricerca della giusta concentrazione per il concerto di quella sera, a Trieste. Era una delle ultime tappe della tournee, la stanchezza si faceva sentire, ma Oscar e Malika volevano tenere duro, ancora per una sera, prima di staccare la spina – dopo Trieste, sarebbero rimaste solo due date, a Napoli e Messina e poi

niente e nessuno avrebbe potuto impedire loro di godersi il giro della Sicilia, già programmato nei minimi dettagli. Ma Oscar, senza preavviso, si era addormentato. La macchina era uscita di strada a più di centotrenta all’ora, sbattendo contro il guard rail senza il minimo tentativo di frenata. Malika non aveva sentito nulla. Era stata trasportata d’urgenza in ospedale, in coma, ed era rimasta per più di due anni in stato vegetativo. Oscar era morto sul colpo. Il cielo era caduto sulla testa Malika, lungo una grigia autostrada, in una tiepida sera d’estate.

Cinque anni prima – Killer

La vita in cella nel carcere di Opera era psicologicamente massacrante, nella sua monotonia, nonostante il tempo per leggere gli adorati libri non mancasse. In effetti, in quei cinque anni Killer era anche riuscito a prendersi una laurea in lettere, guadagnandosi così i peggiori epiteti da parte dei compagni di carcere. No, sicuramente la cultura non era fra le cose più apprezzate in quell’ambiente. La novità interessante era che quella mattina sarebbe arrivato il nuovo compagno di cella di Killer. Il Pirata, con cui aveva condiviso i nove metri quadrati per cinque anni, era uscito quattro giorni prima, grazie a un po’ di buona condotta e, soprattutto, uno zio vescovo che finalmente si era ricordato di lui, dopo l’incarcerazione per traffico internazionale di droga.

Lui, Killer, di santi in paradiso invece non ne aveva e men che meno sulla terra. Dalla conclusione del processo per omicidio preterintenzionale, cinque anni prima – processo dal quale era uscito con dieci anni di galera – i contatti con la sua famiglia si erano completamente azzerati. Nessuna visita della madre, nessuna telefonata dal padre. Messaggio non inviato. Messaggio non trasmesso. Messaggio non ricevuto. Linea assente. Killer era rimasto completamente indifferente alla situazione, anche se, durante certe notti insonni, la freddezza del suo cuore lo faceva tremare; in quei momenti il Pirata si svegliava e iniziava a raccontargli le sue storie di vecchio marinaio, sempre cariche di whisky, puttane e giri loschi. Chissà quanto c’era di autobiografico in quei racconti, si domandava spesso Killer, senza però avere il fegato di chiederlo direttamente a lui. Killer ascoltava, rifletteva, pensava. Era un amico, il Pirata. O, meglio, era l’unico amico, considerato che anche Duke non aveva più fatto avere proprie notizie. L’ultima volta che l’aveva visto giaceva immobile a terra, in un piazzale, con un rivolo di sangue dalla bocca… chissà che ne era stato di lui. Erano ati già cinque anni e ogni volta che Killer ripensava a quella scena sentiva una pericolosa rabbia crescente che, progressivamente, aveva perso il carattere originale di estemporaneità, convertendosi in un pericoloso sedimento strutturale che poco a poco stava completamente avvolgendo le sue fondamenta personali.

Stava diventando cattivo e ne era perfettamente consapevole. Verso le undici della mattina due secondini si avvicinarono alla sua cella, la centosette, accompagnati da uno che probabilmente si stava ancora chiedendo come fosse potuto finire il quel postaccio. Di media statura, abbronzato, con un paio di occhiali rotondi fashion e una pettinatura a spazzola, con i capelli biondi ossigenati, anni Ottanta. Gli occhi furbi, lo sguardo attento. “Ehi, Killer, ti presento il tuo nuovo coinquilino!” – disse il più alto dei secondini, aprendo la porta e spingendo dentro con forza il tipo, che entrò nella cella barcollando, ma senza perdere il controllo. La porta della cella fu sbattuta con un fastidioso rumore metallico e i secondini la chio a chiave, girandosi poi di spalle e incamminandosi lungo il corridoio. I loro i si fecero sempre più lontani; nella cella ci fu un attimo di silenzio e di sguardi incrociati. “Ciao Killer” – abbozzò il nuovo arrivato – “mi chiamo Peter. Bel soprannome ti porti dietro, complimenti… non mi viene neanche la voglia di chiederti perché tu stia qui! È come leggere un libro giallo sapendo già il finale…” Killer rimase muto per un attimo, poi si rese conto che, dovendo are ancora qualche anno in quello spazio angusto con quello sconosciuto, tutto sommato era meglio provare ad andare d’accordo fin da subito. “Ciao, ben arrivato,” – rispose, tendendogli la mano e ricevendo in cambio una stretta d’acciaio – “io ho un bel soprannome, che mi porto dietro da ben prima di entrare qui, ma anche tu hai un nome strano, no?” “Sono figlio di un irlandese e di un’italiana. O questo, almeno, è quello che mi ha raccontato mia mamma di mio padre. Non l’ho mai conosciuto, ma dagli aneddoti di famiglia posso dire con certezza che era un bel figlio di puttana!” “Quindi tu sei un nipote di puttana…” – rispose Killer, soddisfatto per la propria battuta e attendendo la reazione di Peter, per valutarne da subito il grado di permalosità.

La reazione fu positiva: Peter sorrise, sistemò la sua valigia sotto il letto che doveva essere il suo, considerato che sull’altro regnava sovrana la confusione più totale e si avvicinò alla finestrella della stanza, afferrando le griglie con entrambe le mani. “Allora, lasciami vedere il panorama… Figo! E con questo bel tempo ancora meglio!” – disse con un tono sarcastico che fece sorridere Killer. Il cielo era completamente grigio e il piazzale antistante alla cella non faceva altro che aumentarne il colore plumbeo. Il tipo sembrava simpatico, di primo acchito. Killer riprese il discorso. “Quindi? Qual buon vento ti porta?” “Mah, una cosuccia da niente… pare che abbia riciclato un po’ di soldi di provenienza dubbia, ma ti garantisco che non lo sapevo!” – rispose Peter, gettandosi con gesto teatrale sulle ginocchia, unendo le mani a mo’ di preghiera, salvo poi lasciarle per fingere di strapparsi i capelli. “Lavoro, anzi lavoravo, in una finanziaria, diciamo che l’azienda non brillava dal punto di vista dei controlli interni… insomma, nessuno controllava un cazzo, business is business e certe operazioni non potevo non farle… ‘fanculo, l’avessi saputo prima… e ora starò qui per tre annetti, mica male, vero? E tu, invece, che ci fai qui… tu sei giovane per stare in galera!” Killer prese fiato un attimo, si avvicinò al lavandino della cella e sorseggiò un po’ d’acqua direttamente dal rubinetto. Nessuno prima di quel momento gli aveva fatto quella banale considerazione. “Tu sei giovane per stare in galera.” Quanto tempo perso. Quante esperienze mancate. Quante persone non conosciute.

Deglutì, prima di trovare dal fondo della pancia il filo di voce che gli permise di riprendere a parlare. “Io sono rimasto incastrato in una rissa fra ultras. Che sfiga, era la mia prima trasferta. Un mio amico è rimasto a terra, incosciente. Due bastardi continuavano a picchiarlo. Non ci ho più visto. Avevo una spranga in mano, ho picchiato forte. Uno è morto, dopo qualche ora, per la botta in testa che gli ho dato. Tutto qui. Mi hanno beccato subito. Non sapevo ancora di essere un assassino, quando mi hanno processato per direttissima.”

Adesso (reprise)

Gennaio 2013.

In tempo di pace, il guerriero combatte con se stesso,

o con gli amici.

I

Il lavoro in banca faceva schifo. Ma era l’unico modo per provare a uscire dalla depressione, che la attanagliava ormai da quasi un anno. Malika era entrata da pochi mesi in quella filiale dimenticata da Dio, ma si sentiva sulle spalle un’acredine verso il lavoro degna di un sessantenne prossimo alla pensione. “Ma il lavoro è solo una parte della vita...” – cercava di ripetersi per farsi forza, salvo poi rendersi conto che l’acredine era rivolta in modo generalizzato a tutto e tutti, in quel periodo. Non ava giorno senza ricordare in maniera quasi ossessionante quella magica estate del suo Tulsa Beat, le presenze in radio, i concerti all’aperto, la gente che la fermava per strada… e Oscar, con il suo sorriso così caldo, così

protettivo. Il ricordo non la aiutava a superare la depressione. Dal risveglio dal coma, si era progressivamente chiusa in se stessa, terminando controvoglia e faticosamente il percorso di laurea e arrivando poco a poco a rifiutare ogni tipo di contatto con la società. Il lavoro le era stato imposto dalla psicologa, che aveva buoni agganci nel mondo delle risorse umane di diverse aziende e società finanziarie milanesi e le aveva trovato un posto tranquillo, in banca; i suoi genitori avevano caldeggiato questa soluzione, speranzosi di vederla rifiorire, ma il primo periodo non era stato incoraggiante: tutte le sere, Malika rientrava a casa in lacrime e fuggiva in camera, dove si chiudeva a chiave, esattamente come faceva a quindici anni. Ma, di anni, ne aveva ormai trenta. Grande fu quindi lo stupore la sera in cui Malika chiamò a casa per annunciare che non sarebbe rientrata a cena, perché era stata invitata per un aperitivo da un nuovo collega.

II

Killer era entrato in banca in punta di piedi. Un po’ per insicurezza, un po’ per sua naturale indole, preferiva tenere un profilo molto basso nella gestione delle nuove esperienze, soprattutto dopo gli anni di carcere. La presenza in televisione non lo aveva facilitato, da questo punto di vista. Era stato il direttore del carcere di Opera, alla ricerca di un improbabile recupero di credibilità nei confronti dell’opinione pubblica dopo i due suicidi degli ultimi sei mesi, a individuare in Killer il proprio spot. I buoni contatti con alcuni funzionari di Mediaset e la frequentazione dei salotti

bene della finanza italiana avevano fatto il resto. Pur con un contratto di lavoro a tempo determinato, Killer poteva incarnare il modello vincente di riabilitazione delle carceri italiane (“un giovane di meno di vent’anni condannato per essersi trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato, con delle persone sbagliate, che ha scontato in modo irreprensibile la sua pena nei confronti della società, può redimersi, laurearsi e trovare un primo lavoro in una seria banca italiana”) – sembrava davvero un manifesto politico il suo caso. Killer sapeva di essere diventato un burattino in mano al direttore del carcere, facendo soprattutto i suoi interessi personali, ma le cose gli andavano bene così per il momento e di un lavoro, quale che fosse, ne aveva bisogno sul serio, considerato che l’uscita dal carcere aveva sancito il definitivo distacco dai genitori e che, conseguentemente, non poteva più contare neanche su un tetto gratis sotto cui per lo meno dormire. A convivere con la solitudine si era abituato già prima del carcere e gli anni in cella non avevano fatto altro che aumentare la sua tendenza all’isolamento. Il primo giorno di lavoro fu strano. La giornata era grigia, con un’umidità fastidiosa che penetrava nelle ossa. Si era presentato al parcheggio antistante all’ingresso alle otto meno un quarto, puntuale, come gli avevano detto. Il direttore della filiale, con cui si era sentito la sera prima, gli aveva promesso che gli avrebbe offerto la colazione (“È il nostro benvenuto per le nuove leve!” – aveva affermato con voce gioviale al telefono). C’erano solo due macchine parcheggiate. Lo scenario era molto simile a quello in cui, anni prima, lui era diventato un assassino e questo non lo faceva sentire a suo agio. Gli squillò il cellulare poco prima delle otto: era il direttore, che gli comunicava di aver avuto un imprevisto con la macchina e che quella mattina non si sarebbe quindi presentato.

“Non temere, entra e presentati da solo, vedrai che è tutta gente alla mano…” – gli aveva detto prima di riattaccare – “e per la colazione facciamo domani, eh?” Killer non fece in tempo a rispondere, che l’altro già aveva riattaccato. Non si perse d’animo, tirò le ultime due boccate di sigaretta, la gettò in una grata poco distante ed entrò in filiale, presentandosi alla prima cassiera come “il nuovo arrivato”. La risposta fu molto fredda. “Io non ne so nulla” – pausa, con successiva aggiunta acida – “e non ne voglio sapere nulla.” Bang. Primo tentativo andato male. Si guardò intorno. L’unica persona che vide fu Malika. Aveva i capelli raccolti e sul naso un paio di occhiali con montatura di tartaruga. Stava china sul computer, l’aria concentrata, sul tavolo un tabulato che spuntava con una Bic. Uno sguardo al monitor, uno al tabulato e – zac! – una spunta a penna. “Che lavoro di merda!”– pensò immediatamente Killer. Un cliente gli si avvicinò. “Scusi, lei è in coda?” “No, no, mi scusi, è il mio primo giorno di lavoro, diciamo che sto cercando di capire a chi indirizzarmi…” “In tal caso, mentre lei pensa, mi lasci per favore versare questo assegno…” – riprese il signore, in un modo brusco, probabilmente dettato dalla fretta, avvicinandosi alla prima cassiera, che lo ricevette senza sorridere.

Killer si spostò e decise di chiedere informazioni a Malika. “Ciao, sono Paolo. Sono il nuovo assunto...” – le disse sorridendo e porgendole la mano. Lei, senza distogliere lo sguardo dal tabulato, allungò verso di lui la mano aperta in segno di “alt”, continuando a sussurrare fra i denti la somma che stava effettuando a mente, contando i valori che leggeva a video. Chiuse gli occhi per cinque o sei secondi, portò entrambe le mani vicino alla bocca e finalmente li riaprì, esclamando con soddisfazione: “Dodicimila cinquecento otto” – pausa scenica – “virgola quattro. Quadra al centesimo. Ciao, sono Malika. Ben arrivato.”

III

Killer e Malika legarono subito. Erano i due più giovani della filiale, la reciproca frequentazione significava per entrambi un’ancora di salvataggio in quel microuniverso nel quale i rapporti sociali erano di una freddezza glaciale. Anche il direttore, che al telefono era sembrato uno alla mano, si era invece rapidamente rivelato un vero stronzo. Lavoro, lavoro, lavoro, mai un sorriso, mai un ringraziamento, mai un complimento. Il tutto non tangeva particolarmente né Killer, né Malika e contribuiva anzi a cementare il loro rapporto. In breve tempo, iniziarono a condividere pause caffè e pranzi. Spesso, all’uscita serale, Killer accompagnava Malika alla fermata dell’autobus.

Per entrambi, quella era la prima conoscenza dopo un periodo di completa assenza di amicizie; entrambi sentivano una sorta di risveglio adrenalinico che li faceva tornare a momenti piacevoli del loro ato, che stavano poco a poco vicendevolmente scoprendo.

IV

Duke era diventato un uomo, ormai. Erano ati dieci anni da quella dannata rissa in cui, rimasto a terra durante la fuga dopo essere banalmente inciampato in una radice che sporgeva in modo anomalo dall’asfalto, si era risvegliato in ospedale con una commozione cerebrale causata dai calci in testa che gli ultras del Varese gli avevano scaricato con una rabbia sconsiderata. Gli esami tossicologici avevano dimostrato che erano tutti imbottiti di cocaina, di cui erano consumatori abituali. Solo questo poteva spiegare la furia con cui avevano aggredito il gruppo di Duke, reo di aver rubato loro uno striscione, l’anno precedente, al termine della partita. Probabilmente, se non fosse arrivato in tempo Killer, Duke sarebbe morto. Il suo intervento aveva invece dato una svolta al futuro di entrambi: uno era diventato un assassino, l’altro un invalido. “Sempre meglio che un cadavere” – pensava comunque Duke. Duke era uscito dalla rissa vivo, ma con danni cerebrali gravi, dei quali solo parzialmente si rendeva conto. Come certi anziani, ricordava perfettamente episodi di dieci o vent’anni prima, ma aveva delle impenetrabili zone d’ombra nel suo vissuto dei dieci – venti giorni precedenti, che in certi momenti ricordava, in altri assolutamente no.

Era una sorta di perdita della memoria a breve, ma senza alcuna logica di definizione delle aree dimenticate. O, almeno, senza alcuna logica individuata dai medici, che si erano ormai da tempo rassegnati alla situazione di Duke, definendola informalmente “memoria casuale”. Per questo motivo, una volta uscito dall’ospedale, non era riuscito a trovare alcun tipo d’impiego e poco a poco era andato alla deriva, vivendo alla giornata anche grazie a piccoli furti e, saltuariamente, allo spaccio di droga leggera al dettaglio. L’unica costante nella sua vita era rimasto il poligono, che aveva continuato a frequentare, nonostante il fatto che, da dieci anni senza Killer, non avesse più nessuno con cui bersi una birra in compagnia.

V

Killer esitava a tornare al poligono. Era stato il suo rifugio negli anni in cui ne aveva bisogno, lì aveva conosciuto il suo unico vero amico della sua breve giovinezza in libertà, lì aveva imparato a utilizzare pistole e fucili, coltivando l’innata ione per le armi, ma non ci tornava da più di dieci anni ed era sicuro che dei vecchi conoscenti non ci sarebbe più stato nessuno. Sapeva che la maggior parte delle persone della sua età aveva già messo radici, chi con la famiglia, chi con il lavoro, chi – la maggior parte – con entrambe le cose. Lui era rimasto un po’ indietro, per colpa di quel maledetto pomeriggio di guerriglia, ma sentiva la necessità di recuperare il tempo perduto. L’uscita dal carcere era stata più dura del previsto dal punto di vista sociale: nessun amico, nessun conoscente, i ponti con la famiglia tagliati, anche il cellulare del Pirata – uno dei pochi possibili contatti “freschi” nel mondo dei

liberi – rispondeva costantemente “Il numero da lei selezionato è inesistente”. Non poteva sapere, Killer, che all’uscita dal carcere il Pirata aveva mollato tutto ed era andato a vivere in Nuova Zelanda, in una comune dove l’età media era di vent’anni. Lavorava la terra, ne condivideva i frutti con gli altri occupanti della comune, leggeva tanti libri, suonava la chitarra. Viveva felice, ora. Killer aveva una dannata voglia di ricominciare a sparare – era uno dei pochi momenti in cui si rilassava completamente, isolandosi del tutto dal mondo esterno e tutto sommato poteva anche vantarsi di avere una buona mira. Fu questo il vero motivo che lo riportò, un pomeriggio di gennaio, sulla soglia del bar del poligono. Prima di valutare se entrare o meno, si diede un rapido sguardo intorno, ancorato in quella posizione di limbo che per un attimo ancora gli avrebbe permesso di girarsi sui due piedi e tornare da dove era venuto, senza ulteriori traumi. Ma il suo spirito d’osservazione ebbe la meglio e si ritrovò immediatamente, quasi senza rendersene conto, a scrutare la situazione che gli si presentava davanti. I muri erano stati ritinteggiati e il vecchio grigio aveva lasciato spazio a un più vivace arancione. La gestione era ata dai due proprietari storici a una giovane coppia di ragazzi sorridenti. “Probabilmente gay...” – ipotizzò immediatamente Killer, salvo poi pentirsi per la banalità e la superficialità di tale deduzione, peraltro errata. Gli odori erano completamente diversi, ma non per questo migliori; la nuova legge aveva bandito il fumo dal locale e così al vecchio aroma figlio del mix fra sigarette, sigari e pipe, era subentrato un anonimo profumo posticcio di gelsomino, che malamente cercava di coprire la puzza di sudore degli avventori e l’intenso odore della vernice dei muri.

“La mano di arancione deve essere recente” – pensò Killer. I rumori di fondo erano invece gli stessi di dieci anni prima: un incrocio di bestemmie, risate, urla da scherno o da incazzatura, una radio sempre accesa su un’emittente locale, il tutto amplificato dal rimbombo dell’alto soffitto. Killer restò per qualche istante sulla soglia dell’ingresso per metabolizzare il tutto; tirò un respiro profondo, chiuse per un attimo gli occhi alzando leggermente la testa e decise di non tornare indietro. In quel momento, gli sembrava la decisione più difficile della sua vita. Entrò a o svelto, guardandosi quasi furtivamente intorno e dirigendosi verso il bancone del bar. Ordinò un caffè macchiato e solo in quel momento si accorse che in un tavolo d’angolo, solo, davanti a una Ceres, sedeva Duke. Il cuore di Killer batté un paio di colpi più violenti del normale. Killer gli si avvicinò, questa volta camminando lentamente, sforzandosi di non farsi vedere dall’amico, per non rovinargli la sorpresa. Non fu complicato riuscirci: Duke sembrava perso in un altro mondo. “Ehi, capitano, ti ricordi di me?” – disse Killer, fermandosi di scatto e restando in piedi poco distante dall’amico. Duke si voltò lentamente, alzando poco a poco lo sguardo un po’ spento, senza mollare la presa dalla bottiglia di birra. La prima occhiata fu interrogativa. La seconda affermativa. Lo sguardo si era ri. “Killer, fratello, quanto tempo… come stai?” – disse alzandosi, rifiutando la mano aperta di Killer per are direttamente a un ben più caldo abbraccio, che Killer ricambiò, provando una sensazione che credeva di aver dimenticato negli

anni di carcere: la commozione. Si risedettero uno di fronte all’altro, come tanti anni prima, entrambi senza parole, entrambi sopraffatti dall’emozione. Killer notò che la mano sinistra di Duke tremava, mentre la destra restava serrata sulla bottiglia, ormai quasi alla fine. I suoi occhi alternavano scintille di lucidità a momenti di vacuità; dalla sua bocca leggermente aperta sembrava dovesse uscire una frase da un momento all’altro, ma il perdurare del momento d’ime portò Killer a fare il primo o. “Cosa ti offro?” – chiese per rompere il ghiaccio. “Da dieci anni bevo solo Ceres seduto a questo tavolo. Ma l’occasione odierna è talmente speciale che oggi prenderò una Menabrea, sana birra italiana!” Duke fece seguire a quest’ultima frase una risata la cui intensità risultò assolutamente sproporzionata rispetto al contesto. Killer superò il conseguente momento d’imbarazzo venutosi a creare facendo un cenno al ragazzo che serviva ai tavoli e ordinando le birre. C’era qualcosa nello sguardo di Duke che non lo convinceva. Certo, a distanza di dieci anni le persone cambiano, le situazioni cambiano, ma i sordi momenti di sguardo assente da parte di Duke erano di difficile interpretazione. Killer reputò che il modo migliore per sbarazzarsi dei dubbi fosse la domanda diretta. “Duke, che ne è stato della tua vita in questi dieci anni?” I susseguenti venti secondi di silenzio, accompagnati da occhiate furtive e casuali di Duke che si alternavano fra soffitto e pavimento, significarono per Killer molto più della stringata risposta dell’amico. “Nulla d’importante. Nulla d’interessante. Nulla, ecco qui.”

Duke riuscì a sostenere la risposta con uno sguardo fermo che s’inchiodò negli occhi di Killer. “Ma come nulla? – riprese Killer – “Sono io quello che è stato dentro in questi anni, che cazzo, raccontami un po’, dai!” La testa di Duke iniziò a ciondolare mollemente, come se fosse sul punto di subire un knock out. Killer lo prese per il braccio, quasi spazientito per la difficoltà di comunicare con il suo unico amico ritrovato a distanza di dieci anni. Non lo aveva preventivato, quello scenario. “Duke, tutto bene?” – chiese, sapendo però che un’eventuale risposta positiva sarebbe stata una menzogna. “No Killer, decisamente no.” Questa volta l’apertura dello sguardo di Duke verso la vetrata del bar fu voluta, quasi alla ricerca di aria fresca, prima di proseguire con la risposta. “Le botte che ho preso il giorno della rissa mi hanno fatto male, molto male. Vivo come un invalido, anche se fisicamente tutto sommato non sto male. I dottori hanno provato a curarmi per un anno, poi basta. Mutua del cazzo. E io mica me la potevo permettere una clinica privata. Non lavoro. Abito da solo. Non ho amici. Vuoi sapere la verità? Credo che qui al paese nessuno sappia il mio nome, ormai. La gente mi evita, forse per paura, ma io me ne sbatto. Vivo al poligono le mie giornate, a casa ci dormo e basta. Faccio una vita di merda, Killer, faccio una vita di merda.” Ancora una volta il silenzio riempì pesantemente lo spazio comunicazionale fra i due vecchi amici. Duke era partito per uno dei suoi trip mentali incontrollati, estraniandosi completamente dal contesto che lo circondava. A Killer, osservando l’amico e il suo sguardo vuoto, era tornato in mente il concetto di equilibrio strutturale instabile, studiato all’istituto tecnico: in condizioni di carico critico, tale equilibrio può degenerare verso la rottura.

Ma a che distanza dal carico critico si trovava Duke? Rimasto senza parole, Killer reputò che fosse già arrivato il momento di andarsene. Salutò Duke con un abbraccio e con la testa ancora farcita di riflessioni sulla situazione appena vissuta, fece ritorno a casa, valutando che, tutto sommato, non avrebbe scambiato i suoi dieci di prigione con la condizione psichica di Duke.

VI

Malika e Killer arrivarono al McDonald’s verso le otto di sera. Per entrambi era la prima uscita “a due”, dopo anni di luce spenta ed entrambi sentivano che, in certe situazioni, la luce va riaccesa poco a poco, per lasciar abituare le pupille, evitando di restare flashati. Per questo avevano scelto un posto così semplice. Sapevano che la sera non era focalizzata sulla qualità della cena, ma sulla qualità della persona con la quale avrebbero condiviso la cena. Ordinarono due menu standard, pagarono ognuno il proprio ed evitando gli spigoli dei tavoli, facendo attenzione a non far cadere il vassoio, presero posto vicino alla vetrata d’ingresso del locale. Le luci erano alte, ma guardando fuori si poteva vedere una splendida luna piena, che Killer utilizzò come primo appiglio per rompere il ghiaccio – presente, benché sottile – della prima uscita. “Hai visto oggi quel tipo stralunato che ha chiesto di cambiare dieci assegni? Secondo me questa notte ce lo ritroviamo in versione mannara qui dietro la collinetta!” “Mamma mia, quando me lo sono trovato allo sportello ho avuto i brividi! Ma alla fine si è rivelato innocuo, dai, tutto sommato ho avuto di peggio nella mia

lunga carriera di bancaria” – rispose Malika, con tono palesemente ironico. “Ma scusa, da quanto tempo lavori in banca?” – riprese Killer, rendendosi subito conto che l’argomento lavoro andava chiuso quanto prima: era quanto di meno interessante si potesse discutere alla prima uscita serale con una ragazza. “Ormai quasi tre mesi, sai? E prima del tuo arrivo non avevo praticamente mai parlato con nessuno. In quella maledetta filiale sembra che lo scopo della giornata di ognuno sia di farsi i cazzi propri, in attesa delle cinque… che vita orribile, eh? Ma io non voglio finire così, no davvero!” – le gote di Malika cominciarono a prendere colore – “Io voglio ritornare a cantare, voglio viaggiare, io voglio sentirmi viva, cazzo, voglio sentirmi viva!” Questa volta fu lei a rendersi conto di aver esagerato. Erano seduti da meno di cinque minuti e già si era alterata. Non che volesse restare in posizione di difesa, ma di sicuro la serata andava affrontata con maggiore calma. Ci fu un attimo di silenzio fra i due, che si guardarono, scoppiando in un’eclatante risata risolutoria che azzerò il momento di imbarazzo che si era creato. “’Cavolo Malika, che caratterino!” – fu Killer a riprendere le redini della discussione, addentando il cheeseburger – “Ma cosa ti è successo? Cantavi?” “No, scusa, è una lunga storia, una vecchia storia. Fra l’altro è da un po’ che te lo volevo chiedere: ricordi la canzone Tulsa Beat?” “No. Cos’è?” Lo sguardo di Malika si fece interrogativo, figlio di uno stupore inaspettato. “Qualche anno fa ho ato l’estate più bella e intensa della mia vita. Avevo conosciuto un ragazzo che lavorava alla Paris Records, la casa discografica… la conosci?” “No.”

“Beh fatto sta che otto anni fa la mia Tulsa Beat fu il successo dell’estate e tu probabilmente sei l’unico in Italia a non averla mai sentita!” “Otto anni fa ero già in carcere. Non avevo né radio né televisione in camera.” Malika sbiancò e sentì un brivido lungo la colonna vertebrale che da anni non provava. L’adrenalina iniziò a farsi largo, dopo anni di letargo. “Ma come? Sei un ex carcerato?” “Beh guarda, io sarò l’unico a non conoscere la tua Tulsa Beat,” – rispose Killer sottolineando il “tua” con tono quasi canzonatorio – “ma tu sei l’unica a non sapere che sono un povero ex galeotto cui la società ha proposto un’occasione di redenzione… in realtà, ho sfruttato la necessità di redenzione del direttore del carcere, che aveva dei buoni ganci, sennò credo che mai e poi mai la banca mi avrebbe preso con questi due anni di contratto… ma tu non li guardi i telegiornali? Sono stato anche su Mediaset un paio di volte, sai?” “Sinceramente no, non guardo la televisione. Da anni preferisco isolarmi dal mondo. Alla sera a casa ceno con i miei, poi mi chiudo in camera e leggo. Ogni tanto ascolto musica, al massimo al terzo brano mi viene il magone pensando ai bei tempi ati… e così spengo tutto e mi metto a leggere.” Malika si rese conto a questo punto di non avere molto altro da dire; la sua vita dopo l’uscita dal coma, effettivamente, era stata priva di qualsiasi evento degno di nota, eccezion fatta per la laurea, che non le dava comunque spunti interessanti da raccontare. Decise di are al contrattacco. “Ma tu, piuttosto, cos’hai fatto per andare in carcere? Non sarai mica pericoloso vero?” – socchiuse innocentemente gli occhi e le parve di cogliere una risposta complice nello sguardo di Killer. “Io ho ucciso un ragazzo.” Lo sguardo di Malika si fece cupo e Killer ritenne opportuno non darle il tempo per elaborare in autonomia quell’informazione pesante.

Raccontò rapidamente i fatti di quel maledetto pomeriggio di dieci anni prima, rendendosi conto che da allora ne aveva parlato solo con il Pirata e con Peter, i suoi compagni di cella. Finì tirando un sospiro liberatorio di sollievo e attese la reazione di Malika. “Come hai detto che si chiamava il bancario che stava con te in cella? Peter Cometti?” – gli occhi di Malika si riaccesero, improvvisamente.

VII

Sorprendentemente, Malika sembrò molto più interessata a Peter che al resto della vicenda. “Credo di conoscerlo. Non ci dovrebbero essere molti Peter Cometti in Italia.” Questa volta Killer sembrò davvero sorpreso. Con Peter aveva condiviso la cella per tre anni e le cose erano andate bene. Peter aveva un senso dell’umorismo molto raffinato – segno di un’intelligenza superiore alla media – una cultura sterminata, una capacità di ascoltare che Killer non aveva mai trovato in nessuno prima e la completa indifferenza verso il pensiero che la gente si poteva fare di lui. Anche per questo aveva sempre un aspetto trasandato. Killer era molto affascinato dal mix di queste caratteristiche e nei tre anni di convivenza fra i due si era creato un legame molto stretto. Ciò nonostante, dall’uscita di cella di Peter, Killer non aveva fatto nulla per mantenere i contatti con lui. Era sempre stato il suo punto debole – non riusciva ad alimentare i rapporti creati – e questo lo aveva inesorabilmente portato alla condizione di solitudine nella quale si trovava ora.

Non che la cosa gli desse particolarmente fastidio, ma la coincidenza della conoscenza comune fra due dei suoi quattro amici – il terzo era il buon Duke, il quarto il Pirata, ormai un ex amico – era più unica che rara. “Dove l’hai conosciuto?” – chiese dopo un attimo di pausa, riempito dal frastuono di un vassoio fatto cadere a terra da un bimbo poco distante, seguito dal rimprovero della madre, imbarazzata. “Ci siamo conosciuti durante una riunione di lavoro, ero da poco entrata in banca. È un nostro collega, sai? Lavora negli uffici di sede centrale.” “Ah … e di che si occupa?” “Ufficio Antiriciclaggio, mi sembra. Di quella riunione ricordo poco, fu di una noia mortale…” Durante i tre anni di convivenza, Peter aveva più volte spiegato a Killer il concetto di nemesi, di giustizia riparatrice, di compensazione dei torti… Peter all’ufficio Antiriciclaggio era l’esatto contrario di tutto ciò. Killer si spinse con le spalle sullo schienale della sedia, come se fosse stato colpito da un pugno, ma non mollò la presa. “E poi? Siete rimasti in contatto?” “Ci siamo scambiati qualche mail, ci siamo fatti gli auguri di Natale. Mi fa ridere, quel tipo…” “Mmm… sì, in effetti anche a me ha sempre affascinato… e il fatto che sia una nostra conoscenza comune è una bella coincidenza! Noi due non siamo proprio l’antonomasia della socialità, vero?” – disse Killer, sorseggiando la Coca che aveva ordinato con il cheeseburger. “L’antonomasia della socialità? Paolo, ma come cacchio parli?” – rispose sorridendo Malika, andosi una mano fra i capelli e scoprendosi un po’ di più il volto. Iniziava finalmente a sentirsi a proprio agio e Killer lo notò, non senza una certa soddisfazione.

“Volevo semplicemente dire che siamo due lupi nella steppa. Hai mai letto Hermann Hesse?” “SteppenWolf! Lo lessi una decina d’anni fa, ricordo solo che alla fine di un gran casino di romanzo lui ammazza la tipa di cui si è innamorato.” “Wow, hai decisamente il dono della sintesi, ragazza mia…” “Ricordo anche che la lettura di quel romanzo mi diede i brividi. Un po’ come certe sfumature del nostro comune amico Peter Cometti…” “Perché, Malika, che sfumature ha Peter Cometti?” L’espressione reticente di Malika ricordò a Killer quella di Duke, dieci anni prima, a fronte della sua domanda su cosa fosse successo a Varese l’anno precedente. Lo scomodo silenzio che si venne a creare suggerì a Killer di tentare di forzare la risposta all’amica. “Malika, sei ancora qui?” Lei si alzò di scatto, invitando Killer a seguirla. “Andiamo a farci un giretto a piedi per smaltire il cheeseburger, che ne dici?” Killer obbedì senza fiatare, alzandosi e bevendo l’ultimo sorso di Coca Cola in piedi, prima di posare il bicchiere vuoto sul vassoio e gettare il tutto nella spazzatura. Usciti dal McDonald’s, Malika riprese la conversazione interrotta all’interno del locale, eggiando a fianco di Killer, che rimase in religioso silenzio. “In diverse circostanze, Cometti al telefono mi ha fatto battute strane sulla sua capacità di ammazzare o di far ammazzare chiunque… ma la sua costante ironia non mi ha mai permesso di capire fino a che punto stesse scherzando e quanto invece fe sul serio. Sapere che è stato in galera non fa che alimentare i miei dubbi… Sai, si parlava spesso di quanto fossero incapaci i nostri capi e la soluzione finale era sempre la frase a effetto di Peter, che mi lasciava intendere che dall’oggi al domani avrebbe potuto far uccidere chiunque, o addirittura

pensarci lui in prima persona.” Il pensiero di Killer iniziò ad accelerare rispetto ai suoi ritmi standard. Era la sua tipica reazione a fronte di situazioni nelle quali l’eccitazione gli montava in fretta e si sentiva come in un tunnel senz’aria, nel quale vedeva l’uscita, in fondo, lontana ma raggiungibile. Fiutava l’opportunità e non voleva farsela sfuggire. “Hai per caso il suo cellulare, che lo chiamiamo al volo? Ho voglia di salutarlo, non lo sento da una vita!” Malika porse il proprio cellulare a Killer ma lui declinò. La sua testa era già oltre la telefonata e sapeva che avere il numero di Peter nella memoria del suo cellulare gli avrebbe fatto comodo. “Non voglio farti spendere soldi… dimmi il numero che lo chiamo dal mio, dai…” – disse abbassando leggermente lo sguardo, com’era solito fare quando mentiva. “Eccolo” – rispose Malika, leggendo a voce alta dalla rubrica del proprio telefono il numero di Cometti. Killer fece partire la chiamata e riattaccò subito, prestando particolare attenzione al fatto che Malika non potesse notare il suo gesto, cosa che in effetti non fece. Il suo primo obiettivo era già stato raggiunto e ora non voleva parlare con Cometti alla presenza di Malika. “Cavolo, non risponde… lo richiamerò domani, dai…” Nonostante il freddo pungente, eggiarono per quasi un’ora, parlando del più e del meno, Malika sforzandosi di mantenere sempre una distanza fisica in linea con le regole della prima uscita con un ragazzo, Killer con la testa che vagava palesemente in un altro posto, nebuloso ma intrigante, quasi onirico. Nemmeno l’incontro con un ubriaco innocuo, che allegramente ondeggiava da un lato all’altro della strada, riuscì a stemperare completamente la patina di

pseudo imbarazzo della prima uscita a due. Tornati al parcheggio del McDonald’s, dove avevano lasciato le macchine, si salutarono con un casto bacio sulla guancia, che lasciò un sapore d’incompiuto a entrambi.

VIII

La giornata seguente al lavoro ò rapida, Malika impegnata con la scarsa clientela allo sportello, Killer poco distante da lei a sistemare alcune pratiche che avrebbe poi smistato verso la sede centrale. Non si parlarono molto, più per stanchezza che non per reale volontà: la sera prima erano tornati più tardi del solito e nessuno dei due era più abituato a fare le ore piccole. Questo non impedì a Killer di chiamare Peter, al rientro verso casa, attraversando i giardini di Porta Venezia. L’aria era frizzante e il buio dell’inverno era già calato nel parco, ovattandone i rumori. Un gruppo di ragazzi giocava a calcio nel prato; due alberi non distanti fra loro fungevano da pali di una delle porte, mentre per l’altra uno zaino e il giubbino di una tuta appoggiati in terra creavano di fatto una porta immaginaria. Killer si fermò un attimo a guardare la partita, ricordando come, fin da piccolo, in tali situazioni avesse amato restare ai margini del campo, accovacciato sui libri. Era sempre stato un solitario e in quel momento si rese conto di non avere ricordi di esperienze particolari della propria infanzia e della propria adolescenza. Probabilmente, pensò, ciò era dovuto alla monotonia della vita in provincia e alla completa mancanza di stimoli nei suoi confronti da parte dei suoi genitori.

Guardandosi indietro, gli sembrava che sui propri ricordi precedenti all’ingresso in prigione fosse scesa una nebbia autunnale che impediva di vedere con nitidezza anche i pochi eventi che gli erano capitati. L’unico momento che ricordava con piacere era la gara giovanile di tiro, alla quale aveva partecipato a diciotto anni, arrivando a vincere il titolo regionale di categoria, giusto qualche mese prima di entrare in carcere. Che sfiga. Aveva il braccio fermo e un’ottima capacità di concentrazione in gara e solo ora, con una leggera fitta allo stomaco, si rese conto di quanto gli fosse mancata la presenza dei genitori in quell’occasione. Nella sua vita, non era mai riuscito a condividere i propri pochi momenti di felicità con quelle che dovevano essere le persone a lui care. Questa era stata la base per il progressivo allontanamento dalla famiglia, culminato nella completa assenza di rapporti nella quale si era ritrovato già nel periodo in cella. Un litigio fra i ragazzi per un gol che, a detta di alcuni, era in realtà palo – ma la porta immaginaria non poteva confermare questa tesi – lo riportò di colpo alla realtà. Riprese a camminare verso casa, affrettando il o, recuperò il numero di Peter nell’elenco delle chiamate effettuate il giorno precedente e premette il tasto verde. Uno squillo, due squilli, tre squilli. “Magari non risponde, se non riconosce il numero” – pensò, non senza disappunto, mordicchiandosi la punta del pollice e restando nervosamente in attesa. Dopo sette squilli a vuoto, dall’altro capo del telefono arrivò una fredda risposta. “Chi è?” Quasi colto di sorpresa, a Killer non venne nulla di meglio che una

controdomanda. “Ehm… Cometti?” “Chi parla?” La voce nasale di Peter era un marchio di fabbrica. “Peter ciao… sono Killer, come stai?” La freddezza iniziale di Peter si tramutò immediatamente in un’accogliente giovialità. Era una sua caratteristica, quella di riuscire a are nel giro di pochi istanti da un umore all’altro. “Killer! Grandissimo figlio di buona donna, qual buon vento? Non ci sentiamo da una vita… non vorrai mica dirmi che sei uscito di prigione?” “Sì… ma c’è di più…” “Dai spara…” “Indovina.” “Ti sposi?” “Ma ti sembro il tipo?” “Sei latitante?” “Magari!” “Bazzichi per il centro di Milano?” “Mmm… fuocherello…” “Dai cazzo dimmi in fretta, che fra un quarto d’ora devo uscire con una tipa orientale che mi costa un occhio della testa!” “Ah ah, vecchio puttaniere, non sei cambiato eh? Beh sappi che ti sto tenendo

controllato, soprattutto ora che siamo colleghi!” “Che dici? E da quando?” “Ormai un mesetto… ma devo vederti per spiegarti tutto, non voglio parlarne al telefono. Ci vediamo sabato pomeriggio?” “Va bene, sabato alle quattro al Duomo, di fronte all’ingresso, in mezzo ai turisti… vediamo se ci riconosciamo ancora, dopo tanto tempo!” “Perfetto, a sabato allora. E vai piano con la tipa questa sera, mi raccomando, che hai una certa età…” “Non preoccuparti. Sono talmente allenato che potrei andare a occhi chiusi… a sabato!” Click. Click. Killer proseguì fino a casa con o volutamente lento per godersi la eggiata e con la testa già all’incontro di sabato. Chissà com’era cambiato, Peter.

IX

Malika ripensava alla bella serata ata con Paolo. Da tempo non aveva avuto un appuntamento con un ragazzo e quell’uscita aveva avuto l’effetto di una finestra spalancata in una stanza con l’aria viziata. Con un sorriso sul volto, le tornò in mente l’espressione in spagnolo che le aveva insegnato dieci anni prima Betty, dopo una notte ata con un chitarrista del Costarica conosciuto al Pappagallo Matto: pura vida. Dal giorno dell’incidente di Oscar, era la prima volta che si era ricordata di

quelle due semplici parole, che, affiancate, trasmettevano un senso di assoluta tranquillità e soddisfazione a fronte di qualsiasi situazione. O questo era quello che le sembrava, almeno. Seduta sulla poltrona di camera sua, come sempre chiusa a chiave, l’ossigeno fresco era tornato a riempirle violentemente i polmoni e uno strano pizzicorino le abbracciava l’ombelico quando mentalmente ripercorreva la eggiata dopo cena con Paolo. Sì, pura vida. Non era stato nulla di particolare, ma la storia del carcere la intrigava, come la intrigava il racconto del suo intervento eroico per salvare l’amico dalle sprangate degli ultras. Per questo il buon Paolo era finito dentro, per salvare l’unico amico che aveva in quell’adolescenza difficile e ora, per di più, questo amico – come aveva detto che si chiamava? Duke, nome bizzarro – era impazzito. Malika se lo immaginava come un novello Syd Barrett, perso nella sua solitudine, ai confini dell’autismo. Il treno dei pensieri di Malika entrò in un tunnel senza illuminazione e la colonna sonora dei Pink Floyd non la aiutò di certo a trovare una via d’uscita. Ma quando dal CD di “The Wall” partì “Run Like Hell”, il riff iniziale della chitarra di David Gilmour fu per Malika come uno schiaffo, un chiaro stimolo di cambiamento per provare a dare una mano a entrambi. Sentì che poteva fare qualcosa per Paolo, voleva fare qualcosa per Paolo, addirittura doveva fare qualcosa per Paolo e sentiva che il tutto doveva are da Duke, perché di una sua ripresa avrebbe beneficiato in primis anche Paolo. Si concentrò sui dettagli delle recenti conversazioni con Paolo; solo saltuariamente lui parlava di Duke, ma quando lo faceva ci metteva una tale enfasi che le parole restavano scolpite nella memoria di Malika, affascinata dall’affetto e dal calore umano che una persona come Paolo sapeva inaspettatamente emanare, parlando di un amico.

Duke frequentava il poligono del paese d’infanzia di Paolo. Di poligono, in quel paese, ce n’era uno, solo uno. La ricerca non sarebbe stata difficile.

X

Il vero vantaggio dell’assemblea sindacale pomeridiana convocata presso gli uffici della sede di Milano era che, di fatto, la filiale chiudeva all’una, per non riaprire più nel pomeriggio. Era un venerdì di febbraio e l’idea del week end lungo trasmetteva a Malika un senso di relax che da tempo non provava. Malika pensò che sarebbe stata l’occasione ideale per tentare di incontrare Duke che, dai racconti di Paolo, difficilmente si allontanava dal poligono. La mattinata in banca ò abbastanza veloce, principalmente con clientela la cui età avanzata era inversamente proporzionale alle esigenze di prodotti strani – prodotti che per Malika significavano sempre mal di pancia, perché sapeva che non erano concepiti per soddisfare i clienti, ma unicamente per rimpinguare il conto economico della filiale, alla faccia dei bei concetti di customer satisfaction più volte studiati all’Università. Arrivò la pausa pranzo e Malika salutò frettolosamente i colleghi, infilandosi il cappotto e uscendo con o spedito verso la propria auto. Paolo era in ferie, quel venerdì – gliel’aveva detto il giorno prima che avrebbe fatto una camminata in montagna, perché era un periodo in cui il suo cervello aveva bisogno di ossigeno fresco. Lei gli aveva risposto con un cenno del capo e un mezzo sorriso, pensando fra sé e sé che quel ragazzo aveva ancora angoli oscuri che probabilmente nemmeno lui stesso sapeva interpretare, ma realizzando al contempo che quell’informazione le dava la certezza che Paolo non sarebbe stato al poligono

nel pomeriggio. Doveva approfittare dell’occasione, voleva cercare Duke senza di lui, per conoscerlo senza influenze esterne. E poi, questa esperienza di ricerca le dava una carica crescente di emozioni che assecondava con piacere. Salì sulla Punto, girò la chiave e accese la radio. Eric Clapton, Tulsa Time. Niente di meglio, come colonna sonora per un viaggetto. “Well, I left Oklahoma, Driving in a Pontiac, Just about to lose my mind. I was going to Arizona, Maybe on to California, Where people all live so fine.” Quel titolo le ricordava il suo successo di tanti anni prima, un tempo che ormai le sembrava talmente lontano da poterlo associare alla vita di un’altra Malika. Quando era uscita con Paolo, qualche sera prima, aveva dichiarato di voler tornare al top, di volere ancora fare musica e avere successo… ma guardandosi bene dentro, Malika sentiva che quella parentesi era chiusa, dopo aver portato nella sua vita le emozioni più intense, positive e negative e ora era suo compito trovarsi una nuova via per potersi realizzare come donna. Clapton era già all’assolo finale quando Malika vide in lontananza il cartello di Rho. “Bene” – pensò – “direi che ci siamo. E ora, alla ricerca del poligono.” Alla prima rotonda dopo il cartello Malika proseguì dritta, direzione centro.

In strada non c’era nessuno, il sole era tiepido e le permetteva di viaggiare con il finestrino leggermente abbassato, cosa alquanto rara, in febbraio. Le piaceva respirare l’aria fresca di quella zona ai bordi della metropoli asfissiata dai gas. Sul lato della statale, un fosso di campagna separava dall’asfalto della strada i campi, che attendevano la fioritura primaverile delle pannocchie. Malika scorse, poco dopo una curva a sinistra, il campanile della chiesa e decise di puntare in quella direzione. “In quasi tutti i paesi d’Italia” – pensò – “vicino alla chiesa sorge il campo sportivo e probabilmente in quella zona ci sarà anche il poligono.” Non si era sbagliata. A fianco del campanile, un campo da calcio in erba sintetica, con una partitella fra ragazzi in corso e un numero decisamente esagerato di bestemmie, considerata la vicinanza alla chiesa. Dietro alla chiesa, il poligono, con un grande parcheggio semivuoto proprio di fronte all’ingresso. Malika arrestò la Punto e scese, incamminandosi verso il bar. Si sentiva stranamente tranquilla, nonostante sapesse che in un paesino come quello, la presenza di una forestiera al poligono di tiro, posto di quasi soli maschi, non sarebbe ata inosservata. Aprì con decisione la porta del bar e non ebbe difficoltà a individuare Duke. Era l’unico a occupare un tavolo in perfetta solitudine, la barba incolta, lo sguardo fisso verso il basso, una bottiglia di Ceres in mano. Era esattamente come se l’era aspettato. Ciò che non si aspettava fu invece che, all’improvviso, lui si alzasse e, guardandola un po’ di traverso, le dicesse, tendendole la mano e bevendo un sorso di birra:

“Ciao Malika. Forse ti stavo aspettando. Piacere, Duke.”

XI

Nella frazione di secondo successiva alla stretta di mano con Duke, Malika ebbe un attimo di esitazione, durante il quale il suo cervello fu assediato da una quantità pazzesca di dubbi e pensieri, tutti figli di un misto di paura e curiosità per quella situazione inaspettata. Fu Duke a rompere il ghiaccio, risedendosi e indicandole con il dito la sedia libera di fronte alla sua. “Cosa credi, non sono tante le donne di cui mi parla Killer…” Malika pensò di ribattere, ma non ne ebbe il tempo. Era la prima volta che sentiva qualcuno chiamare Paolo con il nome di Killer. Duke proseguì: “Lui è tornato qui qualche giorno fa, credo siano ati dieci anni dall’incidente, ti ha raccontato, vero?” “Sì. So tutto.” “Beh sappi che per me è stato come riabbracciare un fratello. Abbiamo parlato per tutto il pomeriggio e lui ti ha descritta per filo e per segno. Sei l’unico raggio di sole nella sua vita di lupo solitario, sai? Cazzo, quanto mi è mancato in questo periodo… non me lo perdonerò mai, sarò eternamente in debito con Killer per i suoi dieci anni di carcere. L’ho portato io, quella fottuta domenica, al palazzetto di Varese. Sono stato io a cadere come un coglione nel mezzo del piazzale – e la regola numero uno in qualsiasi rissa è di non cadere…” Gli occhi di Duke si inumidirono. Malika rimase ferma, fissandolo.

“Quando mi ha visto a terra, gli è scattato qualcosa in testa. Non avevo mai visto in vita mia una reazione così fredda e determinata in una situazione del genere. Ho ricordi annebbiati, ma non potrò mai dimenticare il rumore della sprangata di Killer sulla tempia di quel povero cristo che ci ha lasciato le penne e la smorfia di Killer vedendolo cadere a terra…” “E poi cos’è successo?” “Poi sono arrivate quasi simultaneamente la polizia e l’ambulanza, chiamate dai custodi del palazzetto. Un casino pazzesco. Io non sono riuscito a rialzarmi, ricordo che sentivo tutti i rumori ma non potevo parlare, avevo due costole rotte e il setto nasale incrinato. Pensavo di essere in coma, o addirittura in un’esperienza pre–morte. Killer non mi ha mai lasciato, è sempre rimasto accucciato alle mie spalle, tenendomi la testa fra le mani, fino a quando gli infermieri mi hanno caricato sull’ambulanza. Non sono neanche riuscito a ringraziarlo, a salutarlo... cazzo, è scomparso dalla mia vita per dieci anni e si è rovinato la sua.” Duke entrò in modalità “stand by”. Lo sguardo fisso su una mattonella del pavimento, la mano chiusa sulla bottiglia vuota, la bocca semiaperta, una lacrima che, lenta, solcava la ruga a lato della bocca, quasi – come lui – cercando di fuggire da un mondo indefinito e lontano. Malika esitò prima di parlare. Non era sicura che lui fosse ancora lì. Paolo – o doveva forse chiamarlo Killer anche lei, ora? – le aveva detto che Duke faticava a reggere una conversazione e aveva momenti di black out durante i quali si estraniava completamente dal mondo circostante, per precipitare nella profondità dei propri meandri introspettivi. Il dottore gli aveva spiegato che erano reazioni a picchi di emotività e che bastava lasciarlo stare per un po’. Malika attese qualche minuto, in un’atmosfera che sembrava surreale, prima di raccontare a Duke del suo incontro con Paolo. “Sai, noi ci siamo conosciuti in banca. Facciamo un lavoro di merda. Tutto il

giorno a spuntare tabulati, smistare carte e sentire lagne di clienti incazzati. Ti giuro che prima che arrivasse Paolo stavo seriamente pensando di licenziarmi, pur non avendo alternative. Ma darei qualsiasi cosa per cambiare vita, per tornare a vivere, per…” Si accorse che Duke non la stava ascoltando, perso nei propri pensieri. Pensò che potesse bastare, come primo incontro. Si alzò lentamente dalla sedia, accarezzò la nuca di Duke e lo salutò con un semplice “ciao”, al quale non ebbe risposta.

XII

Killer uscì di casa a o svelto verso le tre e mezzo del pomeriggio, chiudendosi alle spalle la porta del monolocale di piazzale Loreto con doppia mandata, visti i ceffi loschi che giravano nella zona. Quegli scarsi trenta metri quadri, trovati tramite un annuncio su Seconda Mano, erano il massimo che si poteva permettere, con il suo stipendio da neoassunto. Appartamento vecchio, intonaco con crepe, un affitto in nero, comprese le utenze intestate al proprietario, con pagamento trimestrale anticipato in contanti, consegnando una busta contenente i soldi a un padrone di casa di cui non conosceva il nome – e che non conosceva il suo – che abitava dall’altra parte della città. L’aveva visto una sola volta, per il pagamento del primo trimestre di quel suo primo anno da uomo libero, per il quale aveva chiesto alla banca un anticipo sullo stipendio del primo mese di lavoro. In cambio di tutto ciò, la completa garanzia di anonimato. Non male, tutto sommato. Scese in metropolitana e attese il treno.

La linea verde era il solito cesso, ma il pomeriggio almeno non c’era il problema dell’atroce calca mattutina, calda e puzzolente. I pensieri fluivano rapidamente, coccolati dalle rotaie e dall’indifferenza dei milanesi in metropolitana. Chissà perché gli era scattata quella molla interna al sapere dell’amicizia fra Malika e Peter. Sentiva che il ruolo di Peter nella sua vita non si era esaurito con la condivisione degli anni di cella, ma non riusciva a indirizzare il suo pensiero sulla possibile destinazione di quel nuovo viaggio che sentiva avrebbe a breve intrapreso in compagnia dell’amico. Scese in stazione centrale, attese un paio di minuti la linea gialla e poco dopo si ritrovò ai piedi della scalinata di uscita della metropolitana, accerchiato da teen– ager di ogni nazionalità. Il Duomo gli si presentò maestoso e affascinante, come sempre. Vederlo dal basso, salendo le scale in uscita dalla metropolitana, era una sensazione davvero speciale, che ogni volta gli dava un brivido diverso. Si avvicinò all’ingresso, guardando l’ora. Erano le tre e cinquantacinque. Sapeva che Peter sarebbe arrivato con cinque minuti di anticipo rispetto all’orario stabilito (“Mio padre mi ha insegnato che bisogna arrivare cinque minuti prima agli appuntamenti, non cinque minuti dopo!” – quante volte aveva sentito quella frase… e da quanti figli diversi!). Sollevandosi sulle punte, diede uno sguardo panoramico alla zona antistante all’ingresso del Duomo. Venditori di bibite, di sciarpe neroazzurre e rossonere, ragazzi seduti sui gradini delle scale, turisti con la macchina fotografica puntata verso il cielo per immortalare le guglie, ambulanti africani con capigliature rasta e braccialetti fluorescenti, un artista di strada immobile al centro della piazza, con la faccia truccata da improbabile Pierrot sorridente.

Milano era viva. Di fianco a lui, mani in tasca e sigaretta in bocca, Peter. Era notevolmente ingrassato dall’ultima volta che lo aveva visto. I capelli biondi ossigenati avevano lasciato spazio a due ciuffi unti, scuri, tenuti in sommario ordine sulla testa da una quantità spropositata di gel. Peter non si accorse immediatamente della presenza di Killer, annegata nella moltitudine di gente del sabato pomeriggio e fu colto di soprassalto quando quest’ultimo gli si avvicinò e, abbracciandolo, gli battè forte il palmo della mano destra sulla schiena. “Peter, cazzarola, ma quanto sei invecchiato!” – disse Killer. “Tu invece sei rimasto lo stesso…” – pausa scenica – “stronzo di una volta!” Peter ricambiò l’abbraccio con la medesima intensità dell’amico, incurante degli sguardi incuriositi di alcuni anti. “Facciamo due i o preferisci sederti a bere qualcosa?” – riprese Killer. “Camminiamo, dai, che è una bella giornata e da tempo non venivo in centro il sabato pomeriggio.” Imboccarono via Mazzini, accompagnati dal rumore delle macchine. Il cielo era stranamente terso per gli standard di Milano, ma lo smog si faceva sentire come sempre. “Chi l’avrebbe mai detto che saremmo diventati colleghi, Peter?” “Ma sai che non l’ho ancora capita ‘sta storia? Credevo mi stessi prendendo per il culo, l’altra sera, al telefono. Ieri al lavoro ho pensato di cercarti nella rubrica aziendale, salvo poi rendermi conto del fatto che ti ho sempre chiamato Killer… non ho idea del tuo vero nome! Ti rendi conto? E abbiamo vissuto per tre anni come due fidanzatini, anzi peggio di due fidanzatini, perché quelli almeno una scappatella con qualcun altro ogni tanto se vogliono se la possono fare, noi invece siamo stati costretti a pestarci i piedi per tre anni e non so come ti chiami!

E pensa che quando sono uscito…” Killer si fermò. Peter fece altri cinque o sei i prima di accorgersene. “Cazzo fai? Dai cammina!” “Peter, avevo rimosso la tua logorrea. Forse è per questo che quando sono uscito di prigione non ti ho chiamato… non ho mai avuto credito sufficiente per gestire una sola telefonata con te!” Peter allargò le braccia in segno di resa, illuminandosi di un sorriso radioso. Era un uomo brutto, ma l’innata simpatia, abbinata alla mimica facciale, lo rendeva gradevole per gli uomini e interessante per le donne. Killer riprese il discorso. “Peter, fammi capire. Per assumere me a tempo determinato, la banca è andata in deroga a tutte le procedure interne. Nessuna banca assume un ex carcerato, lo sai meglio di me, io avevo però la raccomandazione del direttore del carcere di Opera, un pezzo grosso. Tu come sei finito qui?” Peter rispose con molta calma, quasi con sufficienza. “Poco dopo essere uscito di cella, tramite vecchi amici ho ricominciato a lavorare, sempre in ambito finanziario, come consulente. Ambito Antiriciclaggio, il mio pane. Un po’ come quando le società d’informatica assumono gli hacker che sono riusciti a infiltrarsi nei loro software, via…” Killer sorrise. “E poi?” “E poi la tua banca ha chiesto alla mia società di consulenza una persona proprio in ambito Antiriciclaggio. Eccomi qui. Hanno fatto un contratto body rental di due anni. Quindi, di fatto lavoro a tempo pieno per voi e quasi tutti credono che sia assunto da voi. Ma non è così, sono un consulente. Ah, nessuno in banca sa del mio ato, ovviamente.” Avevano ripreso a eggiare sul marciapiede, fianco a fianco, al medesimo

ritmo. “Che storia, Peter! Chi l’avrebbe mai detto… beh, sono contento per te, comunque. E anche per me. Ho bisogno di amici sani, in questo periodo…” Peter non lo lasciò terminare, interrompendolo bruscamente. “Senti Killer, il fatto che, dopo anni, ci ritroviamo in questo periodo della mia vita probabilmente non è casuale. Lo sai bene che io credo nelle coincidenze e sono convinto che le situazioni non si creino mai per caso, o per niente.” Il tono di voce di Peter era cambiato. “Da un paio di mesi sto seguendo un affaruccio che potrebbe cambiarmi definitivamente la vita, ma ho bisogno di qualcuno che mi aiuti. Qualcuno di cui mi possa fidare, ovviamente.” Le tempie di Killer iniziarono a pulsare. Allarme. Prima che Killer potesse proferire parola, Peter riprese a menare le danze di quello che ormai stava diventando un monologo. “Sono stato ricontattato da un ex collega, un tipo più anziano di me, con cui lavoravo qualche anno fa. Era lui che mi aveva chiesto di far girare un po’ di liquidità, ai tempi del mio primo impiego presso la finanziaria di cui ti ho parlato quando stavamo in carcere. Lavorava al commerciale, di fatto era un agente finanziario e girava tutto il nord Italia, ma ogni lunedì si presentava in sede con pacchi di contanti e mi chiedeva di dargli una mano a piazzarli. Io ero uno sbarbatello alle prime armi, lavoravo ai sistemi informativi e per me era un gioco da ragazzi far crescere i saldi di alcuni conti intestati a clienti complici. Ovviamente parte del tutto mi restava in mano e il poter disporre di così tanto denaro facile mi sembrava un sogno e mi portava a non pensare alle implicazioni giuridiche del mio operato. Vivevo in uno stato di estasi che non avevo mai provato e per nulla al mondo avrei voluto cambiare quella sensazione di leggerezza, figlia della totale ignoranza su leggi e relativi controlli. Poi un lunedì il collega non si presentò. Parlando di lui alla macchinetta del caffè, sentii da altri colleghi concetti che fino ad allora credevo esistessero solo nei telegiornali… concorso esterno in associazione mafiosa, riciclaggio, iniezioni di

liquidità sporca nel sistema finanziario… venni a sapere che lui era stato arrestato la sera prima e me la feci addosso, letteralmente...” Solo a questo punto Killer riuscì a intervenire, interrompendo il flusso di parole dell’amico. “Minchia Peter, ti rendi conto che in più di tre anni di convivenza carceraria non mi avevi mai raccontato ‘sta storia?” Peter riprese il pallino della conversazione, come se Killer non avesse parlato, “Lascia stare… non mi piace proprio parlare del mio ato. Anzi, non mi piace il mio ato, per meglio dire.” “Peter, quelli come noi non possono cancellarlo il proprio ato…” “Belle parole, Killer…” – rispose Peter con una punta di sarcasmo, quasi millantando interesse per quel concetto, salvo poi riprendere il proprio monologo, grattandosi la nuca e infilandosi le mani in tasca. “Comunque, ‘sto tipo mi ha ricontattato un paio di mesi fa. Non so come abbia fatto a ripescarmi, non so neanche quando sia uscito di prigione. Non so neanche se sappia che anche io sono stato dentro. So solo che un venerdì sera mi è squillato il cellulare, da un numero sconosciuto, ho risposto quasi senza pensarci ed era lui.” “Quindi?” “Quindi un cazzo.” L’espressione di Peter si era fatta improvvisamente cupa. “Questo sta in un giro di armi che vale milioni di euro e mi ha chiesto un aiuto.” “Del tipo?” Killer sentì le prime gocce di sudore imperlargli la fronte. Non avvertiva più né il rumore delle macchine, né l’odore dello smog del centro di Milano.

Era come se una campana di vetro lo avesse avvolto, isolandolo dal mondo circostante. “Serve qualcuno che vada in Croazia, faccia un carico di armi e le porti in Italia. Il tipo fornisce il mezzo di trasporto, una specie di Doblò taroccato, se non ho capito male, con un doppio fondo ricavato nel vano posteriore. Solo che io, con la mia faccia, la mia fedina penale e la mia sfiga, non me lo posso permettere. Tutto qui. Tu forse hai qualche possibilità in più.” Killer rimase titubante. Ancora una volta fu Peter a riprendere il bandolo della matassa. “Dimenticavo. Cinquantamila euro prima di partire, cinquantamila al ritorno, più il dieci per cento del valore di vendita delle armi.” L’effetto delle sue parole su Killer fu quello di un knock out da pesi massimi. Devastante.

Una santa settimana

You can lead a horse to water, you can’t make it drink.

Voglio un cavallo più veloce!

Lunedì 25 marzo 2013

Il responsabile della filiale convocò tutto il personale per una riunione. Era un fatto più unico che raro, considerato che, a detta dei colleghi più anziani, solo una volta erano stati convocati tutti insieme. Allora si era trattato della presentazione del nuovo responsabile, questa volta nessuno aveva idea dell’oggetto dell’incontro, ma in molti speravano che sarebbe stata la sua comunicazione di cambio di destinazione: l’indice di gradimento di quell’uomo era decisamente basso. Non fu così: per un’ora abbondante, li tenne tutti in uno stanzone per presentare freddamente i valori di budget che erano stati assegnati alla filiale, suddivisi per prodotto. Malika e Killer se ne stettero per tutto il tempo in ultima fila, ascoltando poco e scambiandosi molti commenti ironici sul carisma di quel tipo, che rasentava lo zero assoluto. Il lato emotivo di Malika la spingeva a parlargli del suo incontro di venerdì con Duke, ma quello razionale le diceva di aspettare.

Killer invece si trovava nella stessa situazione della eggiata serale della settimana precedente: fisicamente vicino a Malika, ma con la testa in un posto differente. Gli sembrava che lui e Malika stessero andando a velocità differenti dopo quella prima uscita e la cosa non gli piaceva. In aggiunta a ciò, la conversazione con Peter gli aveva lasciato una montagna di pensieri che faticava a focalizzare. Si sentiva come quando, studente in prigione, leggeva per la prima volta un libro di testo troppo velocemente, arrivando alla fine senza avere punti di riferimento su cui focalizzare memoria e attenzione. In quei casi ripartiva da zero, spesso cambiando anche il colore dell’evidenziatore rispetto alla prima lettura. Con Peter non poteva ripartire da zero, anzi, sapeva che il treno era in corsa e le possibilità di salirci erano da sfruttare subito, senza guardarsi indietro. Ma la portata della situazione esigeva una valutazione ben ponderata e di errori per mancate riflessioni Killer ne aveva già fatti a sufficienza, nel corso della sua vita. “E ora, tutti al lavoro, per raggiungere i target che vi ho appena presentato!” – fu questo il massimo dell’enfasi cui il direttore di filiale seppe ricorrere per incentivare e motivare i colleghi al raggiungimento degli obiettivi appena presentati. La fine della riunione riportò Killer e i colleghi alla realtà; l’effetto fu simile a quello della camla di ricreazione per i bambini delle elementari. Tutti si alzarono rapidamente, senza badare a risistemare le sedie e tornando stancamente verso le proprie postazioni di lavoro. Killer e Malika uscirono per ultimi e si diressero quasi automaticamente alla macchinetta del caffè. “Hai ato un bel week end? Mi avevi detto che saresti andato a camminare.”

“Sono andato venerdì, avevo una mezza idea di fermarmi al rifugio a dormire, ma quando ho visto le previsioni del tempo ho preferito rientrare.” “Cioè?” “Davano neve a partire dalla tarda serata. Non avevo voglia di ghiacciarmi le chiappe lassù… sono rientrato con calma, alle otto ero a casa.” Il racconto di Killer si fermò qui. Non voleva, per il momento, andare sul tema Peter, non lo aveva ancora elaborato e preferiva che Malika ne rimanesse fuori. “E tu, hai ato un buon week end?” Come sempre, la sfera emotiva di Malika ebbe il sopravvento su quella razionale. Non riuscì a nascondere a Killer il suo incontro con Duke. “Sai, dopo tutte le storie che mi hai raccontato su Duke…” “Cosa…” “Beh, venerdì pomeriggio ho fatto un salto al poligono del tuo paese. L’ho voluto conoscere, questo Duke, dai tuoi racconti era un personaggio troppo intrigante…” “Quindi? L’hai trovato?” “Sì, sì… stava seduto, da solo, al tavolo del bar del poligono. Abbiamo parlato un po’, mi ha raccontato della rissa, io gli ho raccontato un po’ di noi, poi si è spento.” Malika indirizzò un fugace sguardo verso Killer per verificare le sue eventuali reazioni. Lui rimase imibile. L’idea che Malika e Duke si fossero conosciuti non gli dispiaceva, tutto sommato erano le sole persone con cui aveva confidenza… e la recente

conversazione con Peter poteva dare un’ulteriore valenza positiva a quell’incontro. Sì, più ci pensava e più si convinceva del fatto che quell’evento poteva avere sviluppi decisamente interessanti. Finì di sorseggiare il caffè macchiato dopo aver condiviso con Malika un paio di banali commenti sull’instabilità di Duke e tornò al suo posto di lavoro, assorto in mille pensieri.

Lunedì 25 marzo, sera

Killer ò la serata in casa, con la testa completamente focalizzata sulla conversazione con Peter. “Cinquantamila euro prima di partire, cinquantamila al ritorno, più il dieci per cento del valore di vendita delle armi...” – così aveva detto. Quanto poteva valere un furgone carico di armi? Killer voleva farsi un’idea e si buttò in Internet, riuscendo in meno di mezz’ora a trovare le informazioni di massima per stimare il possibile guadagno per quell’avventura. Il traffico di armi clandestine dall’ex Jugoslavia riguardava principalmente i Kalashnikov, ma non mancavano anche vecchie pistole e fucili, materiale bellico residuo della guerra dei Balcani degli anni Novanta. Il prezzo di un Kalashnikov sul mercato nero poteva arrivare a duemila euro. In un furgone di medie dimensioni, con una portata di circa mille chili, ci potevano stare anche più di duecento Kalashnikov, lasciando addirittura anche un po’ di spazio per pistole e altri tipi di fucile. A conti fatti, quel carico valeva almeno quattrocentomila euro e il dieci per cento del valore di vendita significava poter contare su altri quarantamila o

cinquantamila euro di commissioni, circa, da aggiungere ai centomila che Peter avrebbe pagato per il viaggio. Bei soldini, per un viaggio in Croazia. Sprofondò nella poltrona posizionata di fronte alla televisione, inutilmente accesa – della tribuna politica non gliene poteva fregare di meno – chiuse gli occhi, abbandonando le braccia sui braccioli e iniziò a valutare i diversi scenari per raggiungere il suo unico, vero obiettivo. Centocinquantamila euro, forse di più, valevano sicuramente un’attenta analisi di tutte le possibilità per realizzare il piano. Il primo pensiero fu di muoversi da solo. Viaggio in furgone, superamento della frontiera, incontro con gli slavi, carico, rientro in Italia, consegna delle armi a Peter. Tutto fattibile in un paio di giorni, senza necessità di spartire il malloppo con nessuno e senza necessità di parlarne con chicchessia. Ma rischi non indifferenti, per un pregiudicato come lui: in primis, la dogana croata, fuori dall’accordo di Schengen, con i controlli che proprio in quel periodo si erano intensificati. Era di qualche settimana prima la notizia di un camion carico di cocaina intercettato alla frontiera spagnola, proveniente dal Marocco. L’idea di farsi beccare con un carico di armi clandestine non lo allettava affatto. E poi, la paura: chi li conosce gli slavi che trafficano armi? Presentarsi da solo per l’affare, senza sapere nulla sui termini del pagamento, senza conoscere le logiche di un’associazione criminale e senza esserne in alcun modo coinvolto, poteva essere pericoloso. In tutti i film che aveva visto, gli scambi di merce clandestina erano zeppi di spie, controlli incrociati, agenti segreti, gruppi organizzati che pianificavano ogni evenienza a priori, sparatorie.

Lui, al confronto, era un dilettante, su tutta la linea. No, la missione solitaria non era sostenibile, non se la sentiva. Riaprì gli occhi per un attimo, tirando un sospiro. Forse era sollievo, per aver razionalmente scartato uno scenario che gli provocava mal di pancia. O forse era panico, perché capiva che le complicazioni per arrivare al bottino erano decisamente superiori alle sue aspettative iniziali. Spense il televisore con il telecomando, si alzò, facendo leva sui braccioli consunti della vecchia poltrona e si avvicinò alla porta finestra. La stanza era buia, la finestra socchiusa lasciava entrare una brezza notturna che gli accarezzava le gambe. Chiuse la finestra. Si rese conto di avere una fottuta paura di non farcela. Appoggiò la testa contro il vetro e per un attimo pensò di mollare. Tutto sommato, la sua nuova vita non era malaccio e per quei due anni di contratto di lavoro la comodità dello stipendio fisso, benché decisamente basso rispetto alle sue esigenze, non era da buttar via. Ma in cuor suo sapeva che la sua essenza era differente: non era un personaggio da attesa, non sapeva accontentarsi di così poco e la sua natura non era quella di un lago di montagna, ma di un torrente in piena, turbolento, vivo, non controllabile e i soldi erano la condizione necessaria ma non sufficiente per poter solo immaginare di cambiare la vita piatta che temeva di avere davanti. Serrò i pugni per un attimo, si girò e tornò a sedersi. La soluzione del problema gli si materializzò chiara in testa, con il volto sorridente di Malika e lo sguardo un po’ spento di Duke. L’amicizia fra i due, come aveva immaginato, gli offriva una fantastica

opportunità, un’alternativa che gli provocò istantaneamente un mezzo sorriso solitario, ma carico di speranza. Riuscì ad andare a letto tranquillo, dopo essersi masturbato nel buio. La città, nell’oscurità della notte, era piacevolmente silenziosa.

Martedì 26 marzo 2013, mattina

Il telefono fisso posizionato poco distante dal monitor del computer di Killer squillò all’improvviso. Diede una rapida occhiata al display e vide che era un numero interno. “Sarà il solito rompicoglioni della sede…” – pensò quasi senza rendersene conto. Pensiero inerziale. Prese la cornetta e rispose con il massimo della cortesia che aveva in quel momento disponibile. “Filiale quattordici, buongiorno.” La voce di Peter squillò tonica come sempre dall’altro capo del telefono. “Ah ah! Qualche anno fa avresti risposto “Cella centosette, buongiorno” – come a il tempo eh?” Il buonumore tornò ad assalire piacevolmente Killer. L’energia di Peter era sempre stata contagiosa. “Cazzo vuoi, Peter, qui c’è gente che lavora…” – non riuscì a terminare la frase, incalzato da Peter. “Salutameli tutti! Senti, ci vediamo a pranzo oggi? Io sarò lì in zona, potrei

arti a prendere, che ne dici? Ci dobbiamo parlare, giusto?” “Direi proprio di sì… dai, ti aspetto. Fammi uno squillo al cellulare quando arrivi, nel giro di tre minuti io esco.” “Perfetto. A più tardi, allora, ciao.” “Ciao.” Click. Click. Killer rimase qualche secondo a guardare il telefono, pensieroso. La decisione sul viaggio in Croazia l’aveva presa la sera prima – ci sarebbero andati Malika e Duke, secondo il suo piano – ma non l’aveva ancora elaborata definitivamente e faticava a immaginarsi la modalità con la quale l’avrebbe comunicata a Peter. Malika intercettò quasi in tempo reale il suo momento di sbigottimento. “Ehi Paolo, tutto bene?” – chiese sorridendo. Domanda diretta, semplice. “Sì. Tutto bene. Tranquilla.” Risposta scontata, accompagnata da una leggera torsione del collo verso il monitor, simulando concentrazione su un documento aperto dalla mattina. Una porta chiusa verso l’esterno, in altre parole. Il sorriso dolce di Malika rafforzò la sua convinzione di aver preso la giusta decisione per il viaggio in Croazia: un angelo che accompagna un demente in vacanza non può destare sospetti, alla dogana. ò la mattina fingendo di archiviare vecchie pratiche, cercando in realtà nella sua testa le giuste parole per convincere Peter del fatto che, per un’operazione così delicata, era il caso di fidarsi di Malika e del suo amico Duke, che Peter non conosceva, se non di fama – e non era una buona fama.

Sapeva che Peter avrebbe storto il naso, più volte gli aveva detto di mantenere assoluto riserbo e confidenzialità sul tema: aveva più esperienza di lui in giri loschi e sapeva benissimo che, in questi casi, meno gente è coinvolta, meno problemi si hanno. Quando poco prima dell’una il clacson della Corvette di Peter strombazzò due volte proprio all’ingresso della filiale, per Killer fu una vera e propria liberazione. S’infilò di corsa la giacca e uscì, salutando frettolosamente i colleghi. Il fisico rotondo di Peter al volante della decapottabile gialla faceva un certo effetto. Non c’entrava nulla con quella macchina sportiva, ma, in qualche modo, il suo carisma dava comunque un senso a quella fotografia che sarebbe stata altrimenti grottesca. “Dai, sali, bancario dei miei stivali!” – gridò senza alcun ritegno, sgommando in partenza non appena Killer allacciò la cintura. “Dove andiamo?” – chiese Killer. “Conosco una trattoria poco distante da qui, è un posto di camionisti, si mangia da dio, non si paga praticamente un cazzo e, soprattutto, c’è un tale baccano in sala che per parlarsi bisogna stare a non più di cinquanta centimetri uno dall’altro. Lì non rischiamo che orecchie indiscrete ci possano sentire, non temere...” Killer annuì e la Corvette sfrecciò fra le stradine di campagna illuminate dal sole. Dopo meno di dieci minuti stavano già seduti a tavola, uno di fronte all’altro. Peter aveva ragione: un frastuono tale, in un ristorante, Killer non l’aveva mai sentito. Il soffitto alto della sala contribuiva al rimbombo assordante e solo all’arrivo della pasta e fagioli Killer capì perché così tante persone rischiavano di rovinarsi l’udito per mangiare in un posto come quello: le pietanze erano semplicemente

fantastiche. Fu Peter, come sempre, ad aprire le danze. “Ci hai pensato?” Approccio diretto, senza fronzoli. Non amava i preliminari, Peter. “Sì.” Risposta categorica, puntuale. Killer non voleva essere da meno. “Bene.” Pausa. Pensieri. Rumori di posate sui piatti. La situazione portò nella testa di Killer l’immagine di due cani che si annusano il didietro, prima di decidere se giocare insieme nel parco o se, invece, azzannarsi ferocemente. Lui voleva giocare. “Ci ho pensato.” Lo sguardo fisso negli occhi Peter, che intanto masticava. Killer percepì un momento di silenzio in quel frastuono infernale. Uno squarcio bianco sotto un telone nero. Una parentesi di mimo all’interno di un monologo teatrale. Si fece forza.

“Senti Peter, ci ho pensato. Io non me la sento. Mi sono già fatto dieci anni di galera e per nulla al mondo ci tornerei. Ho troppa vita da recuperare per pensare di perderne ancora.” “Mmm...” – lo sguardo di Peter incuteva timore, in quel momento. Era la prima volta che Killer gli vedeva quell’espressione sul volto. “Ma ci tengo a darti una mano. E non ti nascondo che ho bisogno di quei soldi. Quindi, fra le ipotesi di andare io o non andare del tutto, ho cercato una soluzione alternativa. Ci mando due amici, in Croazia e…” Peter non lo lasciò finire. “’Fanculo, Killer. Io contavo su di te. Lo sai che non voglio altra gente tra i piedi per questo genere di affari, te l’ho già detto. Non voglio soluzioni alternative… puoi cercare finché vuoi, ma non esiste il diesis fra il mi e il fa.” Picchiò il pugno sul tavolo, scattando in piedi e dirigendosi a lunghe falcate verso l’uscita del ristorante. Un cameriere si avvicinò a Killer. “Tutto bene, signore?” “No. Decisamente no. La pasta è ottima, comunque” – fu la risposta laconica.

Martedì 26 marzo, pomeriggio

Killer finì di mangiare in silenzio la pasta e fagioli, pagò anche il conto di Peter, riaccese il cellulare – aveva l’abitudine di spegnerlo, in pausa pranzo – e telefonò in ufficio per dire che non si sentiva bene e che sarebbe conseguentemente rimasto a casa nel pomeriggio. Fu Malika a rispondere alla telefonata, riferendogli che, poco prima, lo aveva cercato Peter.

Non aveva lasciato detto nulla, ma prima di riattaccare aveva sottolineato, con un tono inaspettatamente aggressivo per Malika, che il cellulare di Killer era irraggiungibile. Malika aveva aggiunto che Peter era stato, diversamente dal solito, particolarmente scortese. “Chissà che cazzo ha in testa quello lì…” – fu il primo pensiero di Killer. Malika riattaccò il telefono dopo essersi sincerata che il malessere dell’amico non fosse nulla di grave e Killer, accendendosi una sigaretta, fece due i uscendo dal ristorante. Gli alberi iniziavano a fiorire e l’arrivo della primavera inondava con i suoi profumi intensi i campi antistanti al piccolo parcheggio del locale. Aspirando la Gauloise, iniziò a riflettere su quanto accaduto poco prima. La replica di Peter era stata brutale, decisamente peggio di quanto si sarebbe potuto immaginare, ma il fatto che poco dopo essersene andato lo avesse cercato poteva significare che forse la porta non era del tutto chiusa. Probabilmente, lo stesso Peter si era reso conto di aver avuto una reazione eccessiva, completamente incontrollata. In più, forse, di alternative valide non ne aveva neanche lui. Incerto sul da farsi, Killer si chiese per un attimo se fosse il caso di richiamarlo, esitando sulla risposta, ma il cellulare scarico gli diede il motivo migliore per non farlo. Tutto sommato, era meglio così. Sia lui, sia Peter avrebbero avuto il tempo di riflettere a freddo sull’accaduto. Attese una decina di minuti un autobus di linea, che ava poco distante da lì e decise che la mezza giornata libera sarebbe stata ben impegnata con una sana rimpatriata al poligono. Aveva voglia di sparare, aveva voglia di vedere Duke e soprattutto non aveva

ancora sentito le sue reazioni all’incontro con Malika. Quel rapporto fra i due andava coltivato, Killer ne era ormai certo. In meno di mezz’ora arrivò al poligono e trovò, come sempre, Duke seduto all’angolo, sigaretta spenta in bocca, bottiglia di Ceres in mano. Killer ordinò due caffè e si sedette di fronte all’amico, come sempre. “Ehi Duke, come stai?” L’originalità nei saluti iniziali non era mai stato il suo forte. “Ciao Killer! Che sorpresa… stavo cazzeggiando in santa pace, sono appena stato a vedere la gara internazionale di tiro, ha vinto un croato…” La vita, in determinate situazioni, sembra offrire opportunità che andrebbero colte al volo, nel momento stesso in cui si manifestano – Killer aveva letto questa frase da qualche parte, qualche mese prima e l’aveva trovata particolarmente buffa, convinto che, nella sua vita, l’unica volta che aveva intravisto un’opportunità da cogliere al volo era poi finito in carcere per dieci anni. Ma l’assist di Duke era veramente splendido per non essere finalizzato al giusto scopo. Non ci pensò due volte. Carpe diem. “Ha vinto un croato, Duke? Ma tu ci sei mai stato in Croazia?” Duke si raddrizzò un po’ sulla sedia, socchiudendo gli occhi quasi con rassegnazione, prima di rispondere. “Mi prendi per il culo? Killer, io dal giorno dell’incidente non ho più vissuto, non ricordo se e quante volte ho cagato ieri, non ho un soldo in tasca, mi vergogno dell’assegno d’invalidità sociale che mi paga lo Stato e sai bene che lo arrotondo arrangiandomi come posso… porca puttana, Killer, io non ho neanche trent’anni e sono già morto, la Croazia non so neanche da che parte stia nel

mondo…” Killer rimase a fissare l’amico per qualche istante. Duke iniziò a tremare. Dall’incidente, non era ancora riuscito a imparare come dominare i propri picchi di emotività. Prendendogli dolcemente la mano sul tavolo, Killer gli sussurrò che, probabilmente, aveva la soluzione a tutti i suoi problemi. L’assenza di reazioni immediate da parte di Duke diede a Killer il tempo di rendersi conto del livello di cinismo al quale, dopo l’uscita di cella, era arrivato. Non si sarebbe mai sognato, da ragazzo, di poter essere così falso con un amico, per di più in difficoltà. Ma riuscì ad autogiustificarsi, interpretando il proprio comportamento come un segno di maturità, soprattutto ora che aveva a che fare con la malavita. Visto che con Peter non era arrivato ad un accordo sicuro, decise comunque di aspettare a presentare il suo piano a Duke, che smise in quel momento di tremare. Killer si alzò, accarezzandolo sulla nuca e, dopo averlo abbracciato, uscì dal bar del poligono, incamminandosi fischiettando verso la fermata del bus che lo avrebbe riportato a Milano.

Martedì 26 marzo, sera

La telefonata di Peter arrivò puntuale dopo cena. Killer non era uscito quella sera e navigava freneticamente in Internet alla ricerca dei prezzi aggiornati dei Kalashnikov sul mercato dell’usato.

Era convinto che, nonostante la prima reazione di Peter, l’affare si sarebbe fatto. Rispose chinando il capo su un lato, portandosi il telefono fra l’orecchio e la spalla, per continuare a navigare avendo le mani libere. “Ciao. ate le mestruazioni?” La risposta di Peter fu glaciale. “Senti, non so cosa mi sia preso. In realtà, lo so, ma non doveva prendermi in quel modo. Ero unicamente preparato a sentirmi dire va bene, ci penso io, affare fatto. E invece no, porca puttana!” Peter fece una pausa, inaspettata. Killer non era abituato a non sentirlo parlare. Forse si era reso conto che alterarsi un’altra volta non lo avrebbe portato da nessuna parte. Killer non fece una piega, restando in silenzio. Per la prima volta, da quando conosceva Peter, si sentiva in condizione psicologica di superiorità, o perlomeno di vantaggio. “Qual è il tuo piano alternativo?” – riprese seccamente Peter. “Senti, Peter. Sarei più tranquillo anch’io se potessi occuparmi di questa faccenda in prima persona. Ma ti ho già detto che non posso più permettermi sbagli, nella vita.” “Ti capisco. Vai avanti.” “Ho due persone che fanno al caso nostro. Ci ho pensato e sono convinto che possano farcela. Una la conosci. È Malika. L’altro è Duke, il mio amico di cui ti ho parlato in carcere, quello dell’incidente.” “Quello svitato?” “No, quello disperato. Quello che non ha niente da perdere. Conosci Bob Dylan, vero? When you got nothing, you got nothing to lose…”

“Lo sai che normalmente non tollero il coinvolgimento di terzi in operazioni di questo tipo. Ma non ho alternative e se vogliamo procedere, entro domani devo dare l’ok al mio contatto. Killer, devi garantirmi che questi due sono affidabili. Se l’operazione non va bene, prima che i croati facciano il culo a me, ti garantisco che lo faccio io a te e ai tuoi amici.” “Affare fatto. Domani sera ti aspetto da me per avere tutti i dettagli logistici, ok?” Peter sembrò prendere fiato prima di rispondere. “Ok. o da te domani. Ciao.” Killer chiuse gli occhi stringendo il pugno, in segno di vittoria, prima di salutare l’amico, abbandonandosi poco dopo a un sonno ristoratore che da giorni attendeva.

Mercoledì 27 marzo 2013, mattina

“Buongiorno Malika!” – il saluto di Killer fu particolarmente caldo, quella mattina. Sapeva che a breve le avrebbe dovuto parlare del viaggio in Croazia e voleva prepararsi il terreno nel miglior modo possibile. “Senti, oggi pranziamo insieme, eh? È da qualche giorno che ti trascuro, ma sai che sei sempre al centro dei miei pensieri!” Killer si rendeva conto di come, dopo la sera del McDonald’s, in Malika fosse cambiato qualcosa nei suoi confronti; sentiva che aveva un debole per lui e questa era probabilmente l’occasione giusta per approfittarne. Ancora una volta, come durante la recente conversazione con Duke, per un attimo si stupì del freddo cinismo di cui si era accorto di essere dotato. Effettivamente, la risposta di Malika fu entusiasta.

“Volentieri e andiamo alla pizzeria in fondo al paese, dai, che non ho voglia di avere colleghi intorno a noi.” “Perfetto,” – pensò Killer – “là saremo ancora più tranquilli.” ò la mattinata su emozioni altalenanti e ragionamenti divergenti. Era totalmente focalizzato sull’obiettivo di riuscire a convincere Malika a buttarsi in un’esperienza che probabilmente figurava, nel suo elenco di nobili quanto velleitarie aspirazioni, all’ultimo posto – o al primo di quello delle cose da non fare – ma faticava a definire quale sarebbe stata la migliore strategia per raggiungere il suo scopo. Da un lato, la tenerezza mista a innocenza che lei gli aveva sempre ispirato lo spingeva a parlarle in totale franchezza; dall’altro, percepiva che probabilmente avrebbe fatto bene a mantenere a proprio beneficio una zona d’ombra, evitandole qualche dettaglio: sapeva che la simmetria informativa non sempre è il presupposto migliore per le negoziazioni. Puntuale, all’una, Malika si presentò da lui, già pronta per uscire. “Prendiamo la macchina?” – chiese lui. “Certo. Non ho voglia di camminare e dover poi pranzare di corsa. Mi piacerebbe andare con la mia, ma ormai vengo quasi sempre in autobus. Mi scoccia, lo sai che mi piace guidare… è uno dei pochi momenti in cui sono davvero in pace con me stessa.” Flash. Come durante la recente conversazione con Duke, Killer intuì che il momento contingente andava sfruttato. “Sai, Malika, ti volevo giusto parlare di un viaggio…” – disse, entrando nella Panda. “E di che viaggio?” “Ti spiego quando arriviamo…” – rispose Killer, appoggiando la mano sul poggiatesta del sedile di Malika per fare retromarcia.

Il suo improvviso cambio di tono sorprese Malika, che avvertì uno strano brivido lungo la schiena. Accese la radio, alla ricerca di un riempitivo per quel momento divenuto improvvisamente imbarazzante. Money for Nothing, cantava Mark Knopfler, sostenuto dalla sua magica chitarra, con la seconda voce di Sting in sottofondo. Killer sorrise, pensando a quanto i soldi della missione croata avrebbero cambiato il corso della sua vita – altro che Money for Nothing, il titolo corretto della canzone sarebbe stato Money for Something, come colonna sonora di quel momento particolare. Il ristorante era semivuoto. Presero posto in un tavolo poco distante dal forno dal quale un energumeno con i baffi sfornava pizze sbuffando per il caldo. Killer non ci pensò tanto e ruppe il ghiaccio nel modo più banale possibile. “Croazia.” “Croazia?” Malika non era pronta a un approccio di quel genere. “Cosa vuol dire? Andiamo in Croazia?” “In realtà andate in Croazia… io vi aspetterò qui, al rientro, insieme a Peter Cometti.” “Ma che stai dicendo?” Malika iniziò a innervosirsi. Non riusciva a capire quel nuovo e secco approccio di Killer alla conversazione e questo non faceva altro che agitarla: Croazia, Peter Cometti, un viaggio da sola… tanti elementi di un unico puzzle, di cui però non riusciva a cogliere l’immagine complessiva.

Si sforzò di mantenere la calma, aiutata dalla sua razionalità. “Vuoi spiegarmi dall’inizio? Non ci sto capendo nulla.” “Ho incontrato Peter recentemente. Mi ha fatto piacere vederlo, era da una vita che non ci sentivamo. Abbiamo parlato di noi, del lavoro, del presente e del futuro. Lui mi ha chiesto una mano per un affare che sta seguendo in Croazia.” Killer decise in quel preciso istante di non dire tutta la verità. E in quel preciso istante iniziò a crescere nella sua mente il germoglio di un pensiero che fino a quel momento non aveva neanche lontanamente ipotizzato: tenersi tutto il ricavato della missione. “Ha bisogno di qualcuno che vada in Croazia per recuperare del materiale. Lui non può farlo, dopo l’uscita dal carcere gli è rimasto il divieto all’espatrio per cinque anni, che non sono ancora ati.” Killer non sapeva se fosse possibile avere un divieto all’espatrio dopo aver scontato la pena in carcere, ma in quel momento non gli venne nulla di meglio per giustificare il fatto che Peter non si volesse muovere in autonomia. E, soprattutto, era certo dell’assoluta ignoranza di Malika in materia. Lei, in effetti, non sembrò dare importanza al particolare, proseguendo in un’altra direzione, con il battito del cuore che iniziava ad aumentare. “Ma di che materiale si tratta? E cosa c’entro io, soprattutto? Ma tu verrai con me, vero?” “Calma! Stai calma. Sappiamo tutti e due che non vogliamo continuare con questa vita di merda in banca. E questa è un’occasione pazzesca per entrambi.” Malika allungò le mani sul tavolo, a cercare quelle di Killer. “Di che si tratta, Paolo, parlami chiaro.” “Si tratta di armi. Devi andare in Croazia a recuperare un carico di fucili, credo, o qualcosa di simile. Vai, carichi, torni. Una paccata di soldi. Io non posso venire, ma ci sarà Duke con te.”

Il boccone di capricciosa sembrò piantarsi nella gola di Malika. “Duke? Duke il tuo amico? Duke quello della rissa di dieci anni fa? Quello che vive al poligono? Quello che…” Killer la interruppe. Sapeva dove stava arrivando Malika e non voleva che la discussione prendesse quella piega. “Esatto. Proprio lui. Devi stare tranquilla, ti spiegherò tutto nei prossimi giorni. Questa sera ho appuntamento con Peter per i dettagli logistici, tu intanto inizia a pensarci. Sappi che i soldi sono tanti e i rischi pochi, per una come te.” Pronunciando quella frase, Killer fissò con fermezza Malika, cercando in qualche modo di trasmettere un senso di controllo della situazione, ma lei non aprì bocca. I suoi occhi dicevano molto più di qualsiasi risposta verbale. Ciò nonostante, a Killer sembrò di scorgere, in fondo al mare di sgomento e incertezza del suo sguardo, una luce di curiosità. Lavorandola ai fianchi, con calma, era convinto che sarebbe riuscito a convincerla. La campana del paese suonò le due: il tempo era volato, nella tensione della conversazione. Malika e Killer finirono in fretta di pranzare e rientrarono in ufficio, ognuno assorto nei propri pensieri.

Mercoledì 27 marzo 2013, sera

Peter suonò il camlo di casa di Killer alle nove, puntuale, per due volte.

Era un suo vezzo, quella della doppia suonata; gli piaceva pensare che la seconda coprisse gli improperi del proprietario di casa a seguito della prima. Non amava ritardare agli appuntamenti, soprattutto a quelli importanti. E quello lo era. Si presentò con due pizze, come gli aveva chiesto Killer, che aveva anticipato di non aver voglia di cucinare. Il menu, d’altronde, era l’ultimo dei problemi per una cena come quella. Il tavolino di cristallo di fronte al televisore spento era apparecchiato unicamente con due calici da birra vuoti e una bottiglia di whisky da supermercato. La luce soffusa invogliava ad accendersi una sigaretta, solo per il gusto di rivivere l’atmosfera dei film americani dei primi anni Cinquanta. Si sedettero uno di fronte all’altro, stappando le birre che Killer aveva appena tolto dal frigo. “Ho parlato con Malika,” – esordì Killer, versandosi la birra, e allungandola con un goccio di whisky – “è tutto a posto. Domani sentirò Duke, ma con lui sono tranquillo, me lo lavoro come voglio.” “Bene. Questo fine settimana i croati aspettano il furgone per caricarlo. Chi lo guiderà?” “Lo guiderà Malika.” “È affidabile?” Killer sentì una vampata di calore salirgli verso il collo. “Senti Peter, mettiamo le cose in chiaro subito. Io mi fido di te, tu devi fidarti di me, sennò qui salta tutto ancora prima di partire. Ho pensato ai minimi dettagli e se ho scelto questi due soggetti ho le mie ragioni. Malika guiderà il furgone sia all’andata, sia al ritorno.” “Mmm. Parla inglese? Il capo dei croati parla un po’ di italiano, ma se

succedesse qualcosa durante il viaggio in Croazia o in Slovenia, potrebbe servire.” “Sì, parla inglese. E lo parla bene. Stai tranquillo. Ora beviamoci ‘sta birra e intanto dammi tutti i dettagli logistici. Salute!” – disse sollevando il calice e guardando negli occhi Peter, che ricambiò. “Alla tua. Alla nostra. Cazzo hai ragione, devo rilassarmi un attimo perché questa storia mi sta prendendo male. Ci fumiamo una canna? Ti scoccia?” Killer si ricordò dell’ultima – unica volta che aveva fumato erba. La trasferta in pullman con gli amici, la partita di basket… no, non era poi finita bene. “Lascia stare, io non fumo più. Ma tu sentiti libero, davvero, non mi dà fastidio.” Peter iniziò a rollare, chinandosi in avanti. “Allora, come ti dicevo, questo fine settimana i croati ci aspettano. È la settimana di Pasqua, l’aumento del via vai alla dogana affievolisce un po’ i controlli. Loro hanno già tutto pronto, le armi sono stoccate in un magazzino, al sicuro. Il nostro furgone deve arrivare sabato pomeriggio, sul presto. Il prima possibile. Loro caricano le armi, normalmente ci mettono al massimo un paio d’ore. I nostri è meglio che si fermino là a dormire. Non voglio che ino la dogana di notte, ci sono più controlli. La mattina della domenica ripartono e portano il furgone a casa mia. Poi ci penso io.” “Pagamenti?” “Non dovete pensare a nulla. I croati li pago io. I tuoi primi cinquanta te li do Sabato, prima della partenza, cash. Gli altri la settimana successiva, dopo che il furgone sarà parcheggiato a casa mia.” “Sta bene. E il dieci per cento sulla vendita?” “Su quello ci dobbiamo mettere d’accordo. Ho già un potenziale acquirente per metà del carico, mi ha fatto una proposta ma sono convinto di riuscire ad alzare il prezzo. Se ti fidi di me, entro un mese dalla ricezione della roba ho già rivenduto tutto, poi facciamo i conti insieme.”

Killer annuì. Peter si versò un bicchiere di whisky, aspirando avidamente fumo dallo spinello appena iniziato. “Dove ci troviamo sabato mattina per la partenza?” “A casa mia. Il furgone sarà già là. Vi spiegherò dove caricare le armi, anche se i croati lo dovrebbero già sapere. Nel vano posteriore c’è un doppio fondo capiente. I croati mimetizzeranno le armi con dei vasi di fiori. Io seguirò o a o tutto il tragitto grazie a un localizzatore satellitare installato sul furgone e collegato al mio computer di casa. Dì a Malika di tenere sempre il cellulare a portata di mano, comunque. Dillo anche all’altro tipo, non mi ricordo mai il suo nome, porca vacca. L’indirizzo esatto della destinazione è già impostato sul Tom Tom. Ci vogliono circa cinque ore per arrivare. Bisogna partire al massimo alle nove.” “Nessun problema. Ma che tipi sono i croati? Li conosci di persona?” Ancora una volta, prima di rispondere Peter fece un tiro di canna, accompagnato da un sorso di birra e whisky. “Ti dico la verità. È la prima volta che tratto direttamente con loro. Fino al mese scorso, ero sempre intermediato da uno che purtroppo è uscito dal giro…” “E cioè?” – chiese Killer, quasi impaurito. “Beato lui… diciamo che è andato a stare meglio…” “Dai cazzo dimmi cos’è successo!” – gridò Killer, iniziando a spazientirsi e sentendo montare una tensione che si sarebbe risparmiato volentieri. “Stai tranquillo, piccolo. È una fiaba a lieto fine. Dopo l’ultimo affare con i croati, questo tipo ha mollato tutto ed è andato a vivere in Brasile. Cazzo ti rendi conto? Da Cinisello Balsamo a Copacabana! È uscito dal giro, così, dalla mattina alla sera. Io punto allo stesso risultato, con questa operazione. E con i soldi che ti darò, ci puoi puntare anche tu. Ci sono zone del mondo in cui con meno di centomila euro si vive per tutta la vita come un re, credimi.” Il germoglio del pensiero nato nella testa di Killer durante il pranzo con Malika

si tramutò in quel momento in un giovane ramoscello: tenersi tutto il malloppo gli avrebbe davvero cambiato definitivamente la vita e gli avrebbe permesso di svoltare pagina, andando a vivere lontano. Il giovane ramoscello sembrava voglioso di crescere ulteriormente, ma Killer esitava a esporlo al sole dei suoi pensieri per farlo maturare, insicuro di se stesso e agitato per lo scenario che poco a poco si veniva delineando: l’unico modo sicuro per tenersi tutti i soldi era eliminare i due amici e lui non era certo di avere le palle per farlo. In fin dei conti, Malika e Duke erano le persone che più gli erano vicine, in quel momento. Ma Killer stava cambiando, o forse era già cambiato e le recenti riflessioni sulla propria freddezza – nonostante la fitta allo stomaco che accompagnava ogni sua manifestazione – non facevano che confermare questo fatto, dandogli forze aggiuntive per prendere una decisione difficile, ma necessaria per raggiungere i propri scopi. Peter lo riportò bruscamente alla realtà. “È quasi mezzanotte, io me ne vado. Quello che dovevo dire te l’ho detto. Mi raccomando, curati bene i tuoi polli, non voglio casini. Buona notte.” Killer lo accompagnò alla porta, chiudendola a doppia mandata dopo che l’amico fu uscito e si preparò quasi con rassegnazione all’ennesima notte agitata.

Giovedì 28 marzo 2013, sera

Killer telefonò a Duke appena uscito dal lavoro. Mancavano tre giorni alla domenica di Pasqua e necessitava ancora di alcune informazioni importanti per poter chiudere il cerchio sull’affare Croazia. “Pronto.”

La voce di Duke sembrava spenta. “Ciao, sono io. Ho bisogno di parlarti. Come stai?” “Sto bene. Sono stanco. Sto bene. Cosa vuoi?” Aveva ripetuto due volte “sto bene”. Forse voleva convincersene anche lui. Tutto sommato, la debolezza di Duke era un’arma nelle mani di Killer: convincerlo non sarebbe stato complicato. “Duke, amico mio, devo proporti un affare. Un viaggio di lavoro, chiamiamolo così. Ti ricordi che l’altro giorno, quando mi parlavi della Croazia, ti ho detto che forse avevo la soluzione ai tuoi problemi?” “No.” Killer fece finta di non sentire. “Devi accompagnare la mia amica Malika in Croazia, per una commissione. Te la senti? Non devi far altro che starle vicino, tutto qui. Al rientro sarai ben ricompensato, credimi.” “Mmm.” “Malika è entusiasta del viaggio, ne abbiamo già parlato. Partite il sabato, starete una notte in hotel, tornate la domenica. Facile. Tu devi solo starle vicino.” “Me l’hai già detto.” “Sì scusa, hai ragione… è che sto cercando di chiudere il cerchio e a volte ho paura di dimenticarmi dei pezzi.” “Di cosa si tratta? Non posso pensare che mi paghi per accompagnare una bella ragazza all’estero, dormire in hotel con lei e rientrare.” “Duke, ti fidi di me?” “Certo che mi fido. Sei il mio unico amico.”

“Allora fai quello che ti dico, senza ulteriori domande. Ti prometto che al rientro la tua vita cambierà. Fidati. Mi conosci, per un amico come te farei qualsiasi cosa. E credo di avertelo dimostrato, dieci anni di carcere non sono pochi.” Avrebbe voluto evitare di andare su quel tema, ma sapeva che era l’unico che gli avrebbe garantito l’incondizionato assenso dell’amico. “Hai ragione. Va bene. Conta su di me.” “Bene. Ti chiamo presto, allora. Ciao.” “Aspetta, Killer. Ho solo un problema: io non ho il aporto e la mia carta d’identità non è valida per l’espatrio.” “Credo si possa risolvere. Lasciami verificare con Cometti, ma sono praticamente certo che lui ha dei aporti falsi, con i giri strani in cui sta. Fammi solo trovare domani al poligono due fototessere, ok? Se poi non mi senti prima, ti o a prendere sabato mattina, con i documenti, capito?” “Va bene. Perfetto. Ciao, Killer.” “Ciao, Duke. E grazie, amico mio.” La fitta allo stomaco di Killer si ripresentò puntuale. “Di niente. Ci vediamo…” – rispose Duke. Killer non poté vedere che, dopo aver riattaccato il telefono, sulla faccia dell’amico era comparso uno strano sorriso.

Giovedì 28 marzo 2013, notte

“Li faccio partire e tornare insieme domani devo parlarne con Malika mi sono messo in questo casino

però poi sarà tutto diverso finalmente cazzo se ce l’ha fatta un povero pirla di Cinisello Balsamo e se non pagassi Malika e Duke ma perché li devo pagare perché potrei tenermi tutto il malloppo, chissenefrega di quei due con lui faccio quello che voglio con lei è diverso devo stare attento mancano pochi giorni devo parlare con Malika ma lei non se lo merita chissenefrega cazzo chissenefrega posso trovare il modo devo trovare il modo Malika scusa prima le lascio completare il lavoro poi l’unico modo è eliminarla

e come la elimino forse non ne ho la forza la trovo la trovo la trovo non ne sono sicuro io lo voglio trovare il diesis fra il MI e il FA io voglio cambiare vita io devo andare via da qui.” Buio. Freddo.

Venerdì 29 marzo 2013, mattina

“Paolo ciao. Ho bisogno di parlarti. Non ho dormito tutta la notte pensando a quello che mi hai detto l’altro ieri.” Malika aveva un’aria devastata e Killer non stentava a credere a quanto lei gli aveva appena detto. “Dai, usciamo a prendere un caffè. Lascia che faccio io…” – rispose Killer, infilandosi il portafoglio nella tasca interna della giacca e avviandosi a o veloce verso l’uscita, verificando che il responsabile della filiale, impegnato in ufficio con un cliente, non li vedesse uscire. L’aria mattutina era piacevolmente fresca; Killer e Malika si sedettero a un tavolino all’aperto di un baretto poco distante, una di fronte all’altro.

“Ci hai pensato?” “Sì Paolo, ci ho pensato. Ho paura” – rispose Malika, senza alzare lo sguardo dalle proprie mani, che teneva ferme sul tavolo – “ma sono stanca di avere paura.” Killer si accese una sigaretta, coprendo la fiamma dell’accendino con la mano, per evitare che la brezza la spegnesse. “Malika…” Non riuscì a finire la frase, perché lei riprese in mano la conversazione. “Paolo, io mi fido di te. Lo sai. L’adrenalina che mi ha provocato questa tua proposta non la provavo da anni. E mi piace. Ho bisogno di sentirmi viva, voglio avere l’opportunità di cambiare questo schifo di vita e lo voglio fare… insieme a te, Paolo, lo voglio fare insieme te. Sei la sola persona con la quale io stia bene, lo sai?” Lo sguardo di Malika si alzò dalle proprie mani, per piantarsi sul volto di Killer, che vide i suoi occhi inumidirsi. Realizzò istantaneamente che non si sarebbe potuto attendere uno scenario migliore: lei che accettava l’incarico, dichiarandogli un sentimento che, se non era amore, era qualcosa che gli andava comunque molto vicino. Un’arma in più, per lui. Le prese le mani, stringendole e sussurrandole: “Anche io sto bene con te. Sono felice della tua decisione e orgoglioso di te.” Gocce di lacrime iniziarono a solcare il viso di Malika, che tuttavia, contemporaneamente, sorrideva. Killer non mollò la presa. “E se questa sera uscissimo a cena, per festeggiare? Così ti spiego tutti i dettagli. Con Duke ho già parlato, è tutto a posto. Che ne dici?”

La risposta di Malika fu immediata. “Volentieri, Paolo.” Gli si avvicinò e gli diede un bacio sulle labbra, felice come una teenager al suo primo innamoramento. Era da dieci anni che attendeva di sentire battere il proprio cuore per un’altra persona.

Venerdì 29 marzo 2013, sera (reprise)

La cena al ristorante era esattamente come lui se l’era prefigurata: un ambiente raffinato ma non troppo chic, cibo di ottima qualità, vino in abbondanza. Le luci soffuse e il sottofondo jazz, quasi swing, davano un tono da film anni Cinquanta alla scena, che lui si gustava, simulando un reale interesse per quella ragazza che gli sedeva di fronte, alticcia sì per i troppi brindisi, ma sufficientemente lucida per sostenere comunque una conversazione che andasse oltre la normale chiacchiera da ufficio. Killer e Malika lavoravano insieme da quasi tre mesi, ormai e la reciproca empatia li aveva portati in pochi giorni a condividere tutte le pause caffè, i pranzi, e, soprattutto, i gossip da ufficio, di cui nel giro di poco erano diventati involontari protagonisti. “Allora, come ti sembra questo bianco?” – chiese Killer. “Ormai non distinguo più i sapori… ma versamene un altro bicchierino, ci sta…” . Il cameriere arrivò in quel momento, servendo la grigliata di pesce fumante. Ci fu un attimo di silenzio, che Killer riempì versando il vino prima nel bicchiere di Malika, poi nel proprio.

“Sei sicura di poter fare questa cosa che ti sto chiedendo? So che non è facile, ma se fosse stata facile probabilmente non mi sarei rivolto a te… “ “Sì, voglio farlo, non preoccuparti… e poi decideremo insieme cosa fare, dopo…” Malika avvicinò dolcemente il calice alle labbra e bevve l’ennesimo bicchiere, senza staccare lo sguardo da Killer, che lo ricambiò, con un sorriso stretto. “Malika, il piano è chiaro, ok? Domani mattina alle otto ti o a prendere con Duke, andiamo da Peter, che ci aspetta con il furgone. Partite entro le nove, telefoni accesi e batterie ben cariche. Seguite le istruzioni del navigatore, mi raccomando, abbiamo già impostato le soste seguendo i consigli dei croati. Dovreste arrivare là verso metà pomeriggio. Il nostro contatto si chiama Goran, il suo numero te l’ho appena mandato via SMS, memorizzalo subito nella rubrica del cellulare. Quando arrivate, non allontanatevi dal furgone. I croati non vogliono italiani in giro a zonzo. State con loro, così magari controllate anche che la stiva del furgone sia riempita completamente. Peter ha detto che ci vogliono circa due o tre ore per il carico. Quando il tutto sarà finito, lasciate il furgone nel garage dei croati e andate a dormire nell’Hotel che v’indicheranno loro. Avrete due camere separate, mi raccomando, verifica solo che prima di dormire Duke non faccia cazzate. Il mattino, partite per le dieci e tirate dritto fino a casa. Nessuna sosta non programmata, mi raccomando. Io ti aspetterò da Peter.” Killer prese fiato, preoccupandosi che qualcuno lo potesse aver sentito. Ma non c’erano altri avventori lì vicino. Malika, con le emozioni amplificate dal leggero stato di ebbrezza causato dall’ottimo vino ordinato da Killer, si lasciò andare un o oltre rispetto a quanto si fosse imposta prima di uscire. “Credo di amarti, Paolo. Ed è una bella sensazione.” Dopo anni di completa apatia emotiva, era finalmente tornata a sentire energia positiva fluirle in tutto il corpo. Killer fu preso alla sprovvista.

Nessuno, nella sua vita, gli aveva dichiarato il proprio amore in quel modo. Si prese qualche istante per pensare, prima di rispondere. “Anch’io ti voglio bene, Malika.” Deglutì. La fitta allo stomaco si ripresentò, puntuale. Ma Killer s’impose, riuscendoci, di concentrarsi a fondo sul bersaglio grosso: millantare interesse sincero per Malika era il primo o verso il raggiungimento del proprio obiettivo finale. Terminarono la cena tenendosi quasi costantemente mano nella mano sul tavolo. Malika si sentiva sulla cima del mondo. Killer stava molto più in basso.

Sabato 30 marzo 2013, mattina

“Duke, cazzo, Duke! Svegliati!” Da quasi tre minuti Killer era attaccato al camlo dell’abitazione di Duke. L’appuntamento era per le sette e mezzo ed erano già le sette e quaranta. Provò a chiamarlo sul cellulare, trovandolo però spento. Se Duke stava ancora dormendo, non sarebbero mai arrivati alle otto da Malika: il piano partiva già in ritardo e questo faceva tremendamente incazzare Killer. Ma all’improvviso la porta si aprì e Duke uscì fresco di doccia, barba e colazione. Da tempo Killer non lo vedeva così in forma.

“Duke, ti sei messo a nuovo per il viaggio in Croazia!” “Sì amico, voglio viverla al meglio quest’occasione. E pensa che non so ancora cosa sto andando a fare!” – rispose ammiccando. “Lo saprai quando sarà il momento di saperlo. Dai, sali in macchina, non possiamo arrivare in ritardo da Malika. Ah, non scordarti questo, mi raccomando…” – disse Killer, porgendogli il aporto falso recuperato da Peter il giorno precedente. Duke gli diede un’occhiata, sfogliandolo rapidamente, prima di fermarsi sulla pagina dei suoi dati personali e della sua fotografia. “Bello! Mi chiamo Davor Karic, sono nato in Slovenia e ho trent’anni. Anzi, fra poco è il mio compleanno, il 7 aprile…mi farete il regalo, vero?” La sua ilarità cadde nel vuoto e Duke montò in macchina, seguito dal profumo fresco del suo nuovo dopobarba. In pochi minuti arrivarono da Malika, che stava già aspettando sotto casa, con uno zaino sulle spalle. “Ciao amore! Ciao Duke!” Sembrava che stesse partendo per una gita scolastica e Killer non seppe spiegarsi questa sua nuova leggerezza d’animo, così inaspettata per una ragazza che riduceva qualsiasi esperienza esistenziale a un fardello spirituale insostenibile. Lui invece era teso, come da tempo non gli succedeva. “Dai sali, siamo già in ritardo, Peter sarà incazzato come una bestia!” “Vedrai che gli a. Tanto alla fine siamo noi che andiamo a prendere le armi, lui se ne resta tranquillo qui ad aspettare, comodo eh?” Killer lanciò un’occhiataccia a Malika. Non aveva previsto che Duke fosse messo a conoscenza dell’obiettivo del viaggio così presto.

Ma, fortunatamente, Duke era già entrato in uno dei suoi tunnel senza luce e non colse l’affermazione di Malika, restando mollemente appoggiato allo schienale dell’auto, con la bocca leggermente aperta e lo sguardo perso nel vuoto dell’orizzonte fuori dal finestrino. In meno di venti minuti furono da Peter, che attendeva fremente di fianco al garage nel quale era parcheggiato il furgone, come da accordi. “Ciao ragazzi. Tutto pronto? Siamo tutto sommato in orario, forza, è ora di partire!” Killer, Malika e Duke scesero dalla macchina; Killer si affrettò a salutare Duke con una pacca sulle spalle, che lui ricambiò con un sorriso montando sul furgone, lato eggero e abbracciò Malika, prima di baciarla sulle labbra sussurrandole: “Ti ricordi cosa mi hai detto ieri sera a cena... Ti aspetto domani, poi decideremo cosa fare, insieme...” Killer sentì la solita fitta d’ipocrisia allo stomaco, dopo aver pronunciato quelle parole. La decisione su Malika era stata presa, con mille dubbi, ma questo non gli permetteva di mettersi alle spalle il senso di colpa. In più, sapeva che i dettagli operativi del suo piano per liberarsi di Malika e Duke erano ben lungi dall’essere stabiliti, ma si era dato l’obiettivo di definirli fra sabato e domenica pomeriggio, durante il viaggio dei due in Croazia, parlandone anche con Peter. Lui, in quanto a determinazione, non era secondo a nessuno e la determinazione era esattamente ciò di cui necessitava Killer. Malika annuì sorridendogli e senza indugi si girò, caricò il proprio zaino nel vano del furgone, inserì la chiave nel cruscotto e partì. Killer e Peter rimasero per qualche istante immobili, seguendo con lo sguardo il furgone fino a che rimase a vista, come due genitori che salutano i figli adolescenti in partenza per la prima vacanza da soli. “Speriamo che vada tutto bene” – disse laconico Killer.

“Speriamo di sì” – fu tutto quello che riuscì a rispondere Peter, rientrando in casa, seguito da Killer. “Peter?” “Dimmi.” “I soldi. Cinquantamila euro alla partenza, erano i patti.” Il cuore di Killer iniziò a tambureggiare. “Sì, hai ragione.” Peter si chinò vicino al tappeto del soggiorno, ne alzò un lembo e spostò due tasselli adiacenti del parquet. Infilò repentinamente una mano nella cavità che si era creata, estraendo due pacchi di banconote da cinquecento euro. Killer tentò di deglutire, prima di parlare. La gola gli si era completamente seccata. “Cazzo Peter. Tu lavori all’Antiriciclaggio... come cacchio li porto ‘sti soldi a casa? E dove li metto?” “Non preoccuparti. Adesso te li metti nella tasca interna della giacca, qui, guarda. A casa li nascondi dove preferisci, vedi un po’ tu. L’importante è che questi soldi non vengano mai depositati in banca. Mai, capito? Falli andare poco a poco, meglio se in zone geografiche diverse. A proposito: quanto dai ai tuoi scagnozzi? E come li paghi?” Bella domanda, pensò Killer, prima di rispondere, mentendo, che non ci aveva ancora riflettuto, ma sottolineando che non ci sarebbero stati problemi. Ci teneva a trasmettere tranquillità a Peter in quel momento e, tutto sommato, quello sforzo serviva anche a se stesso per stemperare la tensione.

Sabato 30 marzo 2013, in viaggio

La giornata primaverile permetteva a Duke di viaggiare con il finestrino abbassato e il braccio fuori. Dalla partenza non aveva aperto bocca. Malika, al volante, canticchiava seguendo i brani della radio, pensando di tanto in tanto che mai e poi mai si sarebbe immaginata di are una Pasqua in Croazia, per un traffico clandestino di armi. Più ci pensava, più era felice di aver accettato. Fu lei a rompere il silenzio, dopo circa due ore di viaggio. “Duke, ci sei?” “Chiaro ragazza. Dove vuoi che sia?” “Non so... è che non ti sento parlare, mi sto quasi preoccupando.” “Sto pensando.” Le auto veloci sfrecciavano sulla sinistra del furgone, che prudentemente procedeva in prima corsia, senza superare i centodieci all’ora. Peter era stato chiaro: era necessario minimizzare i rischi d’incidente, guidare con calma, con le soste indicate dal navigatore, soprattutto nel viaggio di ritorno, quello con il carico in saccoccia. Malika eseguiva gli ordini, da brava scolaretta qual era sempre stata. “A cosa pensi?” – chiese a Duke per provare a scuoterlo un po’ dall’apparente stato di apatia in cui riversava. “A Killer. Gli voglio bene.” “Anche io gli voglio bene, sai? Ma non lo chiamerò mai Killer. Lui è il mio Paolo, grazie a lui fra poco cambierò vita, insieme a lui fra poco cambierò vita!” Sul volto dell’amico comparve il sorriso enigmatico che Malika aveva già

conosciuto, che per Duke significava l’anticamera dei momenti d’introspezione, durante i quali il mondo esterno cessava di esistere. In effetti, Malika riuscì a guidare indisturbata per altre tre ore, arrivando alla dogana croata in perfetto orario. A Milano, il rilevatore di posizione satellitare di Peter emise il beep di allarme: era stato impostato per dare un segnale all’arrivo alla frontiera fra Slovenia e Croazia, calcolando i chilometri percorsi da Milano. Peter chiamò Killer, che in cucina stava preparando un caffè, per monitorare insieme a lui la situazione. “Sono appena arrivati alla frontiera” – disse Peter. “Ah bene. Ma sono ati?” “Li vedo fermi. Probabilmente sono in coda. Aspetta… ancora qualche istante, li vedo avanzare lentamente…” “Ma Duke cosa fa?” “E che ne so? Io vedo solo un puntino su uno schermo, è la posizione del furgone. Vieni a vedere anche tu. Ecco, ora sembra aver superato la dogana, dovrebbero essere in Croazia. E vai! Ma tu cosa stai facendo?” “Sto servendo il caffè, ora vengo di lì” – rispose Killer, che, sedendosi nella poltrona di fronte al tavolino poco distante dal monitor di Peter, non si accorse di far partire involontariamente una telefonata all’ultimo numero chiamato dal suo cellulare, quello di Duke. A centinaia di chilometri di distanza, Malika, presa dall’euforia del superamento del confine, cantava a squarciagola. Duke, semiaddormentato al suo fianco, sentì il telefono vibrare nella tasca destra dei pantaloni. Guardò il display e avvicinò mollemente il telefono all’orecchio destro, quasi senza muoversi.

“Killer?” – sussurrò. Sentì un rumore di sottofondo, coperto poi dalla voce di Peter. “La prima parte è andata. Ora non resta che seguire le indicazioni del navigatore. Speriamo che quei due rincoglioniti non facciano casino. Ma hai poi pensato come pagarli? Sai che i soldi che ti darò devono girare con molta cautela. Fossi in te, ci penserei bene prima di darli ai tuoi amici. In ogni caso, mi raccomando, almeno per la prima settimana tieniti tutto tu, in un posto sicuro e non farli girare, ok?” Duke finse di continuare a sonnecchiare, sistemandosi meglio il telefono fra la spalla e l’orecchio e coprendosi il volto con un cappellino da baseball. Sapeva che quella conversazione avrebbe potuto avere risvolti interessanti, per lui. Malika, alla guida, non smetteva di cantare ma la voce di Killer arrivò comunque chiara all’orecchio di Duke. “Stai tranquillo, Peter. Ho una piccola cassaforte a muro, in casa, dietro il televisore. All’inizio li terrò lì. Sul resto, ci sto pensando. Peter, io ho bisogno di tutti i soldi che mi hai promesso, non posso permettermi di darne una parte a Malika. A Duke manco ci penso, per il momento. Può anche darsi che lui si dimentichi di tutto al rientro e quando gli si tornerà ad accendere la lampadina io sarò già partito, lontano. Di lui non mi preoccupo, davvero. È lei che devo invece gestire, cazzo. Si è creata una situazione complicata, si è anche innamorata di me, porca puttana, cosa devo fare? L’unica cosa che mi è venuta in mente è di ucciderla, ma non so se ne ho la forza, cazzo, te lo dico sinceramente…” Le mani di Killer iniziarono a tremare e lui abbassò lo sguardo, restando seduto con la testa incassata fra le spalle. L’impeto nella risposta di Peter e il tono di voce che utilizzò furono per Killer come una scarica di corrente elettrica. “Sfrutta la situazione, idiota! Lascia che prenda le armi, poi dille che l’ami e che utilizzerete i soldi per costruire un futuro insieme, no? Una bella casa, un giardino, puoi anche spingerti sui figli e sulle scuole vip, se vuoi proprio andare

sul sicuro! Le donne ci credono a queste fregnacce, glielo insegnano all’asilo, con le fiabe zeppe di principi azzurri!” “E poi?” “E poi porti a termine il tuo piano, la ammazzi, Killer, la ammazzi, lo sai anche tu che è l’unico modo sicuro che hai per togliertela dai piedi e non avere casini con i soldi. Io ti posso fornire un alibi, se vuoi, basta che tu mi dica come pensi di farlo e quando.” A centinaia di chilometri di distanza, Duke guardò di sottecchi Malika, constatando che permaneva nel suo fantastico, imperturbabile mondo di canzoni. Gli fece quasi tenerezza, sapendo che il suo destino era stato qualche istante prima determinato proprio dall’uomo di cui si era da poco innamorata. Duke si rimise in ascolto, mantenendo la sua postura di uomo addormentato in macchina. “Credo che l’unico momento sicuro sia al mattino, presto. Malika a in piazzale Loreto prima delle sette per prendere l’autobus, spesso la vedo. Aspetta il cinquantasei, leggendo il giornale. Dalla mia finestra, ho una buona visuale. Lunedì è Pasquetta, non si lavora: credo che Martedì mattina potrebbe essere un buon momento. Anzi, sono convinto che sarà il miglior momento.” Peter annuì, prima di girarsi verso il monitor del localizzatore satellitare e pronunciare la sua sentenza. “Fallo, non fare minchiate. Se veramente vuoi fare il botto, falli fuori tutti e due. Senza di loro, spariscono tutti i vincoli per il tuo futuro, lo capisci? Anch’io sarò più tranquillo, perché voglio che quei soldi siano gestiti solo da gente di cui mi fido…” Duke decise che aveva sentito abbastanza. Con freddezza glaciale, riattaccò rimettendosi delicatamente il telefono in tasca e fingendo di svegliarsi proprio in quel momento. Una goccia di sudore freddo gli scese dalla fronte, ma si sforzò di non far notare nulla a Malika, che effettivamente continuò a cantare, ignara.

Sabato 30 marzo 2013, pomeriggio

“Mi vuole fottere? Mi vuole fottere! Perché ieri ha piovuto? O forse non era ieri Io ci sono il poligono era sporco dov’è la Croazia? Avevo fame e pranzavo sempre da solo Ero solo e non avevo voglia di mangiare Malika è gentile Killer mi vuole fottere Killer ci vuole fottere Era un bel viaggio Killer ‘Fanculo Killer silenzio? silenzio!” Duke spense la radio, interrompendo la canzone che Malika stava cantando.

Lei si girò verso di lui, sorpresa. “Allora sei vivo!” – disse. Lui rispose stiracchiandosi e, al contempo, sbadigliando. “Quanto manca per arrivare? Mi scappa la pipì.” Malika non poté trattenere un sorriso, che illuminò il suo volto stanco per il viaggio, ma paradossalmente sereno. Duke non potè non notare che i cambiamenti di espressione di Malika erano tanto repentini quanto affascinanti. “Duke, viaggiare con te è come viaggiare con un bambino di tre anni! O dormi, o rompi per fare la pipì, dopo aver chiesto quanto manca per arrivare!” Duke si risistemò sul sedile, togliendosi il cappellino da baseball e sistemandosi i capelli alla bell’e meglio. Malika, abbassando il volume della radio, riprese a parlare. “Il navigatore dice che dovremmo quasi esserci. Meno di dieci chilometri all’arrivo. Che ora abbiamo fatto?” “Sono quasi le quattro” – rispose Duke. “Bene, così abbiamo un po’ di tempo per riposarci prima di cena. Speriamo non ci siano problemi. Senti Duke, ma tu sai perché siamo qui?” “L’hai detto tu questa mattina, no? Armi. Di più, non so...” – il pensiero di Duke corse immediatamente alla conversazione sentita poco prima fra Killer e Peter, ma decise di non dire nulla a Malika, almeno per il momento. “Ma non hai paura?” – riprese lei – “Io ho ato la notte in bianco, pensando a questo viaggio. Ma poi, probabilmente, se oggi sono così rilassata è perché tutta la carica emotiva me la sono esaurita rigirandomi nel letto!” Duke non rispose, come spesso gli capitava, ma Malika non diede troppa importanza alla cosa: il navigatore indicava che mancavano due chilometri alla

destinazione e nella campagna circostante non si vedevano centri abitati. La strada correva dritta e sui lati della carreggiata cresceva il granoturco; il paesaggio collinare incantava Malika, con i suoi colori verde e ocra, incendiati dalla luce del pomeriggio croato. Le sembrava davvero di essere in vacanza ma si rendeva conto dell’assurdità di tale sensazione, visto il contesto della situazione. Poi, dopo una curva a gomito sulla sinistra, apparve un casolare in fondo a una stradina sterrata in discesa e vide un capannello di persone in piedi nella corte antistante all’ingresso. Sembrava stessero discutendo animatamente, ma Malika si tranquillizzò al ricordo che, già ai tempi della vacanza in Croazia, aveva notato che gli slavi sembrano sempre arrabbiati, anche nelle situazioni più normali. Sorrise, rendendosi conto dell’innocente razzismo che sottostava a quel pensiero consolatorio. “Destinazione raggiunta” – dichiarò il navigatore, giusto nel momento in cui il furgone si fermò nel centro della corte. Quasi inconsapevolmente, Malika strinse per un attimo la mano di Duke, prima di aprire la porta e scendere. Lui rimase immobile, seduto al posto eggero, con il braccio mollemente appoggiato sul finestrino semi abbassato. I croati si avvicinarono a Malika e Goran, il loro capo – un uomo tarchiato, sui quarant’anni, con uno stuzzicadenti fra le labbra – le porse la mano. Lei ricambiò la stretta, guardandolo negli occhi. Nessuno parlava. Duke scese con un balzo dal furgone e interruppe il momento di stallo che si era creato. “Ciao ragazzi, siamo puntuali, vero?” – disse togliendosi il cappellino di testa, in

segno di saluto. Goran rispose di sì, con un cenno del capo. I suoi uomini rimasero poco dietro di lui, zitti e immobili. Fu Malika a riprendere la conversazione, stemperando la tensione che iniziava a salire. “Allora, potete cominciare, se volete vi diamo una mano.” “No. Facciamo noi. Andate vostre camere...” – rispose Goran. “Come preferite,” – rispose Malika – “dove sono le nostre camere?” “Lassù,” – disse Goran, indicando le stanze del secondo piano della cascina, sopra il pagliaio – “troverete anche bagno e doccia. Noi carichiamo armi, ci metteremo meno di due ore, poi ce ne andiamo. Sposteremo furgone nel garage di fianco al pagliaio e chiuderemo porta con chiave, dall’esterno. In cascina troverete chiave sul comodino di camera più piccola, utilizzatela domani per uscire da garage e ricordatevi di richiudere tutto dall’esterno, prima di partire. Con Cometti già d’accordo su tutto, quindi noi ci possiamo salutare qui.” Goran non attese neanche una risposta dai due, si girò repentinamente e ordinò qualcosa in croato ai suoi compagni, che accerchiarono il furgone e scoperchiarono immediatamente il vano nascosto, nel quale di lì a poco avrebbero caricato le armi. Malika e Duke si guardarono per un attimo, prima di avviarsi uno di fianco all’altra verso l’ingresso aperto della cascina. Salendo le scale, Malika chiese a Duke se avesse preferenze per la camera. “No, tranquilla, prendi tu quella grande, senza problemi. Ci vediamo dopo, dai...” – fu la risposta di Duke, che attraversando uno stretto corridoio in fondo alle scale si trovò in uno stanzino, ricavato dal sottotetto della cascina, con un materasso gettato al suolo, ai cui piedi giacevano due coperte di lana infeltrita, piegate su se stesse. “’Sti cazzi, sarà dura senza un lenzuolo con queste coperte” – pensò Duke.

In quel momento arrivò la telefonata di Killer. “Duke ciao, come sta procedendo? Ho provato a chiamare Malika ma non risponde…” “Ciao Killer. Tutto bene. Viaggio tranquillo, Malika in gran forma, è di là che fa la doccia, credo. I croati non hanno fatto storie, hanno solo chiesto di poter lavorare da soli. Adesso stanno caricando il camion.” “E voi cosa fate?” “Noi ci stiamo sistemando nelle camere… a proposito, avevi parlato di un hotel, ma credo che la tua concezione di hotel sia alquanto bizzarra!” “E cioè? Non state bene?” “Ma no, dai, siamo in una cascina nel mezzo della campagna croata. Ci hanno dato due camere nel sottotetto, ma tutto sommato non si sta male. Non so cosa faremo questa sera, visto che il furgone non si può usare per fare un giretto, ma in fondo anche l’idea di restare qui, cenare e dormire non mi fa schifo. Sono davvero stanco.” “Bene, fai come preferisci. Mi raccomando, per domani, andate piano e non rischiate nulla, ok? Poi la settimana prossima ci mettiamo d’accordo, tu ed io, per la tua ricompensa, mi capisci?” Duke non poté non pensare alla conversazione che aveva ascoltato fra Killer e Peter, poco prima, durante il viaggio. Killer aveva detto che Duke non era un problema, che addirittura forse si sarebbe dimenticato tutto, al rientro. Aveva parlato di lampadina accesa o spenta. Gli aveva dato, indirettamente, del demente. “Sì Killer, ti capisco. Non preoccuparti, ne parliamo al ritorno. Ciao, buona serata.” “Buona serata, Duke… ora riprovo a chiamare Malika” – rispose Killer, vedendo

la prima parte del suo piano concretizzarsi – o, perlomeno, credendolo – e riuscendo addirittura ad accompagnare la solita fitta allo stomaco con una bozza di sorriso. Non appena terminò la telefonata con Duke, richiamò Malika. “Ciao amore!” – rispose lei, fresca di doccia e con tono di voce cinguettante – “ho visto ora la chiamata persa, ma mi stavo lavando, sai com’è… non si sa mai che Duke m’inviti in discoteca questa sera!” “Ciao Malika. Mi fa piacere sentirti tranquilla. Mi raccomando, niente idee strane per la serata, eh? Tieni sotto controllo Duke, non voglio che sputtani tutto, ok?” Malika percepì una distanza inattesa nella risposta di Killer, che andava ben oltre la lontananza fisica fra i due in quel momento, ma attribuì la cosa alla tensione del momento. Si salutarono velocemente dandosi appuntamento al giorno dopo, al rientro del viaggio. I croati, nel frattempo, finirono di caricare gli scatoloni con pistole, fucili, kalashnikov e relative munizioni. Il furgone, come da accordi, fu sistemato nel garage di fianco al pagliaio, pronto per il viaggio di ritorno del giorno successivo. A lavoro ultimato, piantato nella corte antistante all’ingresso e circondato dai suoi scagnozzi, Goran si mise due dita in bocca ed emise un fischio acutissimo per richiamare l’attenzione di Malika e Duke. Quando i due si affacciarono al lungo balcone che dava sul cortile, Goran si congedò senza giri di parole. “Finito. Noi andiamo. Buona notte.” Malika e Duke salutarono e scesero al piano terra dove, sul tavolo della cucina, i croati avevano lasciato del pane, delle uova e del formaggio. “Wow, siamo in mezza pensione in questo agriturismo!” – esclamò Malika, con

un tono palesemente sarcastico. La cena con Duke fu rapida e silenziosa; lui sembrava entrato in uno dei suoi momenti di assenza e lei accusava la stanchezza del viaggio. Si salutarono poco prima delle nove e nel giro di dieci minuti si addormentarono entrambi, nel buio della cascina e nel silenzio della notte di campagna.

Domenica 31 marzo 2013, mattina

Nel suo appartamento di piazzale Loreto, Killer fu risvegliato dalle campane della domenica di Pasqua. Aveva trascorso una notte agitata, girandosi nel letto alla ricerca di un sonno sfuggente e pensando alla modalità più sicura con cui eliminare Malika, al ritorno dalla Croazia. Gli girava per la testa l’idea di avvelenarla, semplicemente perché qualche sera prima aveva visto un film in cui il protagonista – un serial killer americano – ammazzava tutte le sue vittime obbligandole a bere veleno per topi. Ma aveva troppo poca esperienza in quel campo, e, ripensandoci, si fidava di più della sua abilità con i fucili: la mira non gli mancava e ne sapeva maneggiare diversi tipi. In più, l’assiduità nella frequentazione del poligono e i costanti allenamenti serali gli davano la sicurezza di cui aveva bisogno per portare a termine il suo piano. Certo, mancava un tassello fondamentale: con quale arma sparare a Malika? Inizialmente pensò di rubare un fucile dal magazzino del poligono. Il custode, suo amico, si ritrovava regolarmente verso le sei e mezzo di sera con un tasso alcolico sicuramente incompatibile con il suo ruolo.

Sarebbe stato un gioco da ragazzi sottrarre un fucile, ma pensò che in questo modo l’arma del delitto sarebbe stata facilmente rintracciabile da parte della polizia, che sarebbe risalita immediatamente al poligono di tiro, con tutte le complicazioni del caso. Troppo rischioso. Non dovette scervellarsi troppo per individuare la soluzione che aveva, di fatto, già a portata di mano: dalla Croazia stava arrivando un carico di armi clandestine, non tracciabili e non correlabili in alcun modo a lui. Ne avrebbe preso una in prestito – un lavoretto quick and dirty, per dirla all’anglosassone, restituendo il tutto a Peter prima di Martedì sera. Chiamò immediatamente Peter, per chiedere aggiornamenti sulla situazione, oltre che per comunicargli la sua decisione. “Ciao Peter, hai notizie?” “Sì, sono partiti da poco, verso le undici, un po’ in ritardo rispetto a quanto previsto. Ma non fa niente. Tu hai parlato con qualcuno?” “Ieri sera, con entrambi. Mi sembrava tutto a posto. I croati stavano caricando, Duke mi ha detto che non c’erano problemi. A che ora arriveranno questa sera?” “Verso le cinque, se non ci sono intoppi. Tu vieni da me un po’ prima, così li aspettiamo insieme, ok?” “Va bene. Così poi ti dico anche cosa ho intenzione di fare con Malika. Ci tengo ad avere la tua opinione.” “D’accordo. Ti aspetto nel pomeriggio allora, quando vuoi. Ciao.” “Ciao.” Nello stesso istante Malika e Duke viaggiavano già sulla via del ritorno. Avevano evitato l’autostrada, come da indicazioni del navigatore programmato da Peter, che riteneva che le strade secondarie fossero più sicure per il furgone carico di armi.

Malika si sforzava di mantenere la concentrazione sul volante, sentendosi addosso la stanchezza del viaggio del giorno precedente e la notte trascorsa in un letto non suo. Duke sonnecchiava in silenzio, ascoltando di quando in quando la radio, ma perdendosi nella maggior parte dei casi nei meandri della propria psiche. Sentiva la presenza di una pistola nella tasca interna della giacca, ma non riusciva a ricordare perché fosse lì. Conoscendosi, sapeva che gli sarebbe tornato in mente al momento giusto; per questo, decise di non parlarne con Malika.

Domenica 31 marzo 2013, pomeriggio

Killer arrivò a casa di Peter nel primo pomeriggio, giusto in tempo per bere un caffè insieme. Pioveva e faceva un freddo inconsueto per il periodo pasquale. “Buona Pasqua, criminale!” – fu il suo saluto. “Buona Pasqua a te, assassino...” – rispose Peter. Entrambi si resero conto che in quel momento quel senso dell’umorismo era forzato e la conversazione rientrò immediatamente su binari più consoni al contesto. “Allora, mi volevi dire che hai deciso come sbarazzarti di Malika?” – come sempre fu Peter a riprendere in mano il pallino della conversazione. “Sì, Peter. Martedì mattina si rientra al lavoro. Malika aspetterà l’autobus in piazzale Loreto, come sempre. Prima delle sette, dalla finestra del mio appartamento partirà un proiettile che…” Peter non gli lasciò terminare la frase.

“Ma sei scemo? E pensi di farcela con un colpo? Ma a che distanza sarai da Malika?” “Non preoccuparti. Ho fatto bene i conti. Dalla finestra alla fermata dell’autobus dove lei si ferma sempre sono circa venti metri. Una bazzecola. Al poligono, centro i bersagli anche a cinquanta metri. Non preoccuparti per questo, davvero.” “Boh, se sei sicuro tu… l’importante è che non metti nei casini me. Io la seconda metà dei soldi te li do domani sera, dopo che abbiamo controllato le armi, poi per almeno un mese non ci vediamo e non ci sentiamo più, ok?” “Tranquillo. Solo una cosa: domani prenderò un fucile dal carico nel furgone, mi serve per completare il lavoretto. Avevo pensato di fregarne uno al poligono, ma se poi la Polizia risale all’arma da fuoco analizzando i proiettili, non si sa mai che riesca in qualche modo a risalire anche a me… troppo rischioso. Con un fucile clandestino sarà tutto più semplice, giusto?” “Direi proprio di sì” – rispose Peter, accendendosi una sigaretta e aspirando con forza la prima boccata di fumo. “Dimmi se vuoi che poi te lo riporti, a cose fatte…” – aggiunse Killer. “Col cazzo, Killer, ma come ti vengono certe idee? Vuoi riportarmi l’arma del delitto? Te la gestisci tu, sbarazzatene come vuoi, io non voglio saperne nulla. Ti ripeto un concetto, se non sono stato chiaro la prima volta: noi per almeno un mese non ci vediamo e non ci sentiamo più, ok?” Killer annuì, accese il televisore e si piazzò nella poltrona di pelle, iniziando uno zapping frenetico, in attesa dell’arrivo di Malika e Duke. Si addormentò in breve tempo, abbandonandosi a sogni frammentati, cullati dal sottofondo della telecronaca di una gara ciclistica regionale trasmessa da un’emittente locale. La voce squillante di Peter lo risvegliò poco prima delle cinque. “Stanno arrivando! Dai muoviti, ha telefonato poco fa Malika, hanno già superato la barriera di Milano, fra un niente saranno qui.” Killer si svegliò particolarmente stropicciato, ma questo non gli impedì di tirarsi

su dalla poltrona con un balzo improvviso, spinto dall’adrenalina causatagli dell’idea dell’incontro con Malika. In momenti come quelli era solito ricordarsi che, da qualche parte, aveva letto che il tempo di reazione dei guerrieri Masai per are dallo stato di “persona profondamente addormentata” a quello di “guerriero pronto per la battaglia” dura meno di tre secondi. Sorrise, fra sé e sé, in modo quasi isterico e sentì la necessità di respirare aria fresca. “Dai Peter, usciamo ad aspettarli.” Dal fondo della strada, poco dopo apparve il furgone blu. Malika salutò i due con un colpo di clacson, Duke rimase immobile nella sua posizione standard di viaggio, con un piede appoggiato sul cruscotto e un ginocchio piegato sul petto. Killer, togliendosi le mani di tasca, ricambiò il saluto, levando il braccio sinistro. All’incrocio di sguardi con Malika, un brivido gli percorse la spina dorsale, dall’alto al basso. Peter si affrettò ad aprire il cancello per lasciar entrare il furgone, raccomandandosi con Malika di parcheggiare nel garage, in fondo, facendo attenzione all’ingresso stretto. Malika eseguì pedissequamente gli ordini, come sempre, prima di scendere dal furgone e correre ad abbracciare Killer. “Amore, ce l’abbiamo fatta!” – esclamò raggiante. Peter intervenne a gamba tesa, non permettendo a Killer alcuna risposta. “Fatemi controllare e poi vi chiedo di lasciarmi, per favore.” La temperatura sembrò abbassarsi ulteriormente, nella già fredda serata primaverile.

Il tono glaciale di Peter non ammetteva repliche. Si avvicinò al furgone, fece scendere Duke, aprì il vano posteriore, verificò rapidamente il carico e, con un semplice cenno del capo, congedò tutti. Missione compiuta. “Andiamo, dai…” – disse Killer, avvicinandosi a Malika e Duke e incamminandosi insieme a loro verso la macchina parcheggiata nello spiazzo antistante al cancello della casa di Peter. Il buio era già sceso sulle strade. Accompagnò prima Duke che, seduto dietro Malika, non proferì parola durante il breve viaggio. Killer gli diede un paio d’occhiate furtive nello specchietto retrovisore, trovandolo sempre distrattamente perso nei propri pensieri, con lo sguardo vagante fuori dal finestrino. Non si preoccupò minimamente della cosa: sapeva che la psiche di Duke era particolarmente labile e probabilmente la stanchezza del viaggio in Croazia non faceva che acuire la sua emotività. La pioggia nel frattempo era diventata battente e anche per questo motivo il momento del saluto, arrivati sotto casa di Duke, fu particolarmente rapido: un “cinque” con il palmo della mano e un generico appuntamento “a presto”. Duke uscì di corsa dall’auto, proteggendosi dall’acquazzone con il giubbino alzato sopra la testa e salì rapidamente i cinque gradini che portavano al suo ingresso. Prese le chiavi dalla tasca destra dei pantaloni ed entrò in casa, senza girarsi per un ultimo saluto agli amici. “Che tipo strano…” – commentò Malika. “Già. Che tipo strano,” – fu il meglio che Killer seppe rispondere, senza riuscire a guardarla in faccia e riavviando il motore dell’auto – “ma raccontami un po’, dai, com’è andata?”

“Beh, diciamo che nei film questi viaggi hanno sempre qualche inconveniente. A noi è andato tutto liscio, guarda, ci pensavo proprio sulla via del ritorno… L’unica cosa è che ora sono tremendamente stanca, da anni non guidavo per così tanto tempo e poi ieri notte ho dormito in un letto indecente, in quella cascina…” “Peter aveva detto che avreste avuto una stanza in un hotel, fai tu…” – disse Killer con una punta di ironia. “Alla fine comunque la cascina non era così male. Pensa che i croati ci hanno anche lasciato da mangiare. Il carico delle armi lo hanno fatto in fretta, io quasi non me ne sono accorta, ero in doccia. Poi ho cenato di corsa con Duke, che per tutta la cena non ha aperto bocca e mi sono infilata nel letto a molle, che ovviamente cigolavano. Non vedo l’ora di ritrovare il mio lettino, questa notte, a casa mia. A proposito, che ne dici se domani vieni da noi a pranzo? Credo che da dieci anni a questa parte sia stata la prima Pasqua che non ho ato con i miei… non posso bucare anche la Pasquetta!” L’entusiasmo che Malika metteva in quelle proposte era spiazzante, in certe situazioni. Ma Killer sapeva di non poter accettare l’invito, perché il giorno dopo era dedicato alla verifica del carico, alla seconda metà del pagamento e, soprattutto, alla scelta dell’arma per attuare il piano di Martedì. “Malika, ti ringrazio, ma domani ho un appuntamento con Peter per chiudere definitivamente questo affare. Lasciami sigillare il tutto, davvero, preferisco farlo ora, a caldo... dobbiamo negoziare gli ultimi dettagli economici, poi anche Peter mi ha chiesto di non vederci più per almeno un mese, per evitare casini. Preferisco, davvero.” Il silenzio di Malika fece capire a Killer che era necessario calcare ulteriormente la mano. “E poi decideremo il nostro futuro, insieme…” – aggiunse. La solita fitta alla pancia non tardò a ripresentarsi, puntuale. Malika, vinta dalla stanchezza, prese atto senza entusiasmo della risposta di Killer.

“Capisco, Paolo. Beh, ne approfitterò allora per riposarmi in santa pace, dai.” Il breve viaggio proseguì nel silenzio, fino a che la macchina arrivò sotto il portone della casa di Malika. Si baciarono, senza particolare trasporto, ognuno sopraffatto dalle tensioni accumulate in quei due giorni. “Allora a Martedì, Paolo.” “A Martedì, Malika.”

Lunedì 1 aprile 2013

Killer si presentò a casa di Peter alle undici della mattina, puntuale. La giornata era grigia come quella precedente e un vento fastidioso spazzava le strade di Milano. Suonò il camlo e attese qualche istante, prima che Peter si presentasse alla porta, in pigiama, con gli occhi gonfi dal sonno. “Che cazzo hai fatto?” – chiese Killer, entrando e togliendosi la giacca di dosso. “Shhh… parla piano, c’è di là Yarina che dorme…” – rispose Peter con un mezzo sorriso sul volto, richiudendo la porta di casa e avviandosi verso la cucina per prepararsi la colazione. “Yarina? E chi è?” – riprese Killer. “Un’amica…” – abbozzò senza convinzione Peter, infilandosi al volo una vestaglia rossa rimasta appoggiata sullo schienale del divano dalla sera prima. “Un’amica a pagamento, immagino…” – incalzò Killer. “Minchia Killer, mica sarai venuto a fare il moralista, eh? Ieri sera ero talmente carico per il mix di tensione e soddisfazione accumulati durante il week end che

ho pensato fosse il caso di rilassarmi un po’, no?” “Figurati, libero di decidere… ma veniamo a noi, dai, non voglio perdere tempo.” “Non lo vuoi il caffè?” – chiese Peter, indeciso se preparare la Moka singola o quella da due. “No Peter. Voglio prima di tutto i miei soldi, poi vado a scegliere l’arma per domani e poi ti saluto.” “Come preferisci. Mi piaci in questa versione coglionuta, sai? Non eri così, prima…” Senza voltarsi verso Killer, Peter pigiò con un cucchiaino il caffè macinato nella Moka singola, la richiuse e la mise sul fuoco. “Allora?” – riprese Killer con un tono deciso e un po’ spazientito. Peter si girò verso di lui, quasi sorpreso per la fermezza dell’amico. Ancora una volta, si chinò vicino al tappeto del soggiorno, ne alzò un lembo e spostò due tasselli adiacenti del parquet, estraendone due pacchi di banconote da cinquecento euro, che porse all’amico. “E con questo, per il momento, siamo a posto” – sentenziò Killer, senza staccare lo sguardo da Peter, che tornò in cucina, bevve con calma il caffè amaro e sciacquò la tazzina nel lavello. “Ora portami al garage, devo prendere in prestito un’arma, lo sai…” – aggiunse, infilando il pacco di soldi nella tasca interna della giacca che poco prima aveva appoggiato sul divano e mettendosela addosso. Peter annuì, ma prima di accompagnare Killer al garage andò in camera per verificare che la prostituta ucraina non si fosse svegliata. Ne uscì in punta di piedi, sussurrando a Killer: “Dorme come un angioletto. D’altronde, con il trattamento che le ho riservato questa notte…” Killer sembrò rilassarsi un po’ e riuscì ad ammiccare all’amico, prima di

rispondergli. “Certo che ora i soldi per il Viagra non ti mancheranno, eh?” Entrambi trattennero la risata per non rischiare di svegliare Yarina e uscirono nel giardino di casa, aggio obbligato per entrare in garage. Killer dovette stringersi nelle spalle per ripararsi un po’ dal vento, che non si era abbassato, nell’attesa che la basculante del box azionata dal telecomando di Peter si alzasse completamente, lasciando are i due. Peter accese la luce e aprì il bagagliaio del furgone, spostando rapidamente i vasi di fiori di copertura e indicando a Killer il vano segreto nel quale erano riposte le armi. “Io resto qui fuori a controllare, fai in fretta, che c’è un vento maledetto e sono in vestaglia…” – disse Peter, accendendosi una sigaretta e posizionandosi poco distante dall’ingresso del garage, di modo da poter controllare sia la strada antistante, sia la propria casa, dove Yarina poteva svegliarsi da un momento all’altro. Killer si avvicinò al furgone e iniziò a spostare i Kalashnikov che erano posizionati sopra il pacco delle altre armi. Aprì delicatamente il pacco con un taglierino e iniziò a estrarre i fucili, analizzandoli rapidamente, in certi casi anche imbracciandoli e simulando di prendere la mira per colpire un ipotetico bersaglio posizionato poco distante. Aveva il vantaggio di sapere esattamente cosa voleva e non tardò quindi troppo tempo per trovare una carabina simile all’Anschutz, il modello che usava sempre al poligono. Quel fucile gli dava la sicurezza di cui aveva bisogno. Con quel fucile sentiva di non poter mancare alcun bersaglio. E, dettaglio non secondario, per quel modello aveva a casa un vecchio silenziatore, rubato quasi per gioco anni prima dal magazzino del poligono approfittando della solita sbornia del custode, già al tempo dedito all’alcool.

Chiuse gli occhi per un attimo e, per la prima volta da quando aveva faticosamente ideato il piano, riuscì a figurarsi mentalmente la scena dell’omicidio. Piazzale Loreto, la finestra del monolocale semiaperta, il fucile puntato. Malika che arriva alla fermata dell’autobus. La strada deserta e, in lontananza, il sole che sorge. Lui che prende la mira, trattenendo il fiato. Fu riportato violentemente alla realtà dalla voce di Peter. “Muoviti, che voglio chiudere tutto qui. E mi si stanno gelando le palle.” Killer ripiegò la canna dell’Anschutz, ripose il fucile nello zaino che si era portato da casa e uscì dal garage. Gli venne quasi da ridere, pensando che con lo zaino sulle spalle sembrava uno scolaretto delle elementari. “Ciao Peter. Ci sentiamo fra un mese, o forse più tardi…” – disse abbracciando l’amico. “Ciao Killer. In bocca al lupo, ragazzo. Anche se adesso sei diventato un uomo, in realtà…” – rispose Peter, contraccambiando l’abbraccio. Killer s’incamminò verso il cancelletto del giardino e si girò per dare un’ultima occhiata a Peter, prima di uscire. Si sentiva stranamente tranquillo, come da giorni non gli succedeva. Non riuscì a incrociare lo sguardo di Peter, che nel frattempo era rientrato in casa ed era già affondato nel seno di silicone di Yarina, che nel frattempo si era svegliata.

Martedì 2 aprile 2013 (reprise)

Appoggiato allo stipite della porta finestra che dava su piazzale Loreto, Killer fumava la sua prima sigaretta giornaliera. Il grigio di Milano invadeva la mattina; faceva freddo, un freddo umido e pungente, erano le sei e quarantasette e lui era quasi pronto per uscire, ma aspettava che la ragazza asse per la piazza, fermandosi all’edicola per comprare il quotidiano, sfogliandolo poi rapidamente alla fermata dell’autobus, in attesa del aggio del cinquantasei, come ogni giorno. Ma quel giorno, per lei, il cinquantasei non sarebbe ato. Killer si infilò con cura i guanti di lattice e montò con freddezza il cavalletto poco lontano dallo stipite della finestra, appoggiandovi la carabina, già puntata nella giusta direzione e attrezzata con il silenziatore. Pesava maledettamente, quell’aggeggio, ma l’adrenalina che aveva in corpo glielo faceva sembrare leggero come un bastone da eggio. Aspirò con forza dal mozzicone che gli pendeva dall’angolo della bocca, soffiando il fumo contro il vetro della finestra aperta. Le ante semichiuse non gli permettevano una visuale completa dello scenario sottostante, ma gli facilitavano la focalizzazione sull’obiettivo, nella zona della fermata dell’autobus. Il cuore gli batteva a mille. “Dove sto andando Devo farcela Ho paura Non ho paura Un solo colpo Poi parto

I soldi La nuova vita Devo farcela Devo farcela Non ho paura Non ho paura!” Malika spuntò da Corso Buenos Aires, entrando a o veloce in piazzale Loreto. Si fermò all’edicola, dove comprò il giornale. Si diresse alla vicina fermata dell’autobus, sola. Si fermò, leggendo i titoli della prima pagina. Killer premette il grilletto. Malika cadde a terra, morta.

Martedì 2 aprile 2013, mattina

Duke arrivò in piazzale Loreto evitando di are di fronte alle finestre di Killer. Erano le sei del mattino e Milano a quell’ora non aveva ancora riaperto completamente gli occhi: per un forestiero come lui, sembrava addirittura vivibile, in assenza del frenetico brulichio di automobili. Duke guardò il cielo, coperto dalla consueta coltre grigiastra della metropoli. Gli sembrò che le spesse nubi fossero pronte a scaricare da un momento all’altro

una pioggia primaverile sporca, che si sarebbe risparmiato volentieri. Si diresse rapidamente nei pressi del portone della palazzina di Killer e attese, in piedi, poco distante dall’ingresso della metropolitana. Era stanco, dopo una notte agitata durante la quale la sua mente lo aveva riportato al viaggio in Croazia quando, nella cascina, si era risvegliato alle tre del mattino, terrorizzato dall’incubo ricorrente che, dal giorno della rissa di dieci anni prima, lo attanagliava nei suoi crepuscoli solitari. In quell’incubo si rivedeva rantolante a terra, con le mani sulla pancia, accerchiato dai nemici in quel maledetto parcheggio di fronte al palazzetto dello sport di Varese e riviveva la scena dell’aggressione subita, ma da una prospettiva esterna che lo angosciava terribilmente. Temeva, ogni volta, di vedersi morto. Solitamente, in quel momento si risvegliava in apnea, con il cuore a mille e, piangendo per lo stress del sogno, impiegava più di un’ora per riaddormentarsi. Ma quella notte, nella campagna croata, non era stato così. Nel silenzioso risveglio in cascina, non aveva cercato di riaddormentarsi. Era invece riuscito ad alzarsi quasi delicatamente dal materasso, gettando con soddisfazione al suolo le fastidiose coperte di lana. Aveva preso dal comodino la chiave della porta del garage e, camminando sulle punte, cercando di far scricchiolare il meno possibile le assi di legno della mansarda, si era fermato un attimo di fronte alla camera di Malika. Aveva sentito il suo respiro regolare e profondo ed era sceso dalle scale, attraversando la cucina, sul cui tavolo erano rimasti i piatti sporchi della cena frugale consumata qualche ora prima. Era entrato nel garage, illuminato dalla luna piena che dominava il cielo stellato. Il vano del furgone era aperto e per lui non fu complicato aprire uno scatolone, tastarne nella semioscurità il contenuto, prendere una pistola con le relative munizioni, infilarsi il tutto nella tasca del pigiama e rimettere in ordine, prima di

risalire in camera, con lo stesso o da sonnambulo mancato. Si era coricato e i pensieri, dopo anni di viaggi a vuoto, erano partiti per una destinazione nota. “Killer mi vuole fottere Ma il ferro ce l’ho io ora ciao Malika te ne andrai Bum Bum Spari Battito cardiaco? Un o avanti Mi ha portato all’abbeveratoio Ma non mi può obbligare a bere Voglio un cavallo più veloce!” Si era riaddormentato in breve tempo – senza le coperte, questa volta – e la notte croata lo aveva abbracciato. Fu riportato alla realtà milanese dal clacson di un tassista, che strombazzò nell’esatto istante in cui un inquilino uscì dal palazzo di Killer, dirigendosi a o svelto verso la metropolitana. Ne approfittò per entrare nell’androne delle scale, salendo fino al secondo piano, quello di Killer. La porta era chiusa e non si udivano rumori provenienti dall’interno. Ma, avvicinando il volto alla porta di compensato dell’appartamento, Duke sentì l’odore del fumo delle sigarette di Killer. Gauloises Blondes rosse, inconfondibili.

Attese pazientemente, nel buio taciturno della scalinata, con la mano serrata sul calcio della pistola, pronto a sparare. Killer aprì la porta del proprio appartamento, pronto per andare al lavoro, poco dopo le sette. Non ebbe il tempo di rendersi conto della presenza di Duke. Il proiettile partì dritto in direzione del cuore, mancandolo di poco. Killer cadde all’indietro, avendo appena il tempo di chiedersi cosa stesse succedendo. Batté violentemente la testa sul pavimento, ma capì subito che non sarebbe stato un problema avere la testa rotta, perché stava comunque per morire. Un fiotto di sangue gli usciva dalla nuca, dietro al cervelletto, un altro dal costato, dove si era conficcata la pallottola. Un flusso di calore insopportabile gli martellava le tempie, mentre guardava il soffitto del suo squallido monolocale, che era l’ultimo dei posti nei quale avrebbe voluto morire. Duke gli saltò di peso sul torace e in quel momento Killer credette di morire per il dolore. Ma non era ancora la sua ora, probabilmente. Sprecò le sue ultime forze pensando che gli sarebbe piaciuto essere in chiesa, per bestemmiare la sua rabbia. Riuscì solo a chiedere, con un filo di voce: “Perché?” Duke lo fissò negli occhi per qualche istante, prima di rispondere. “Perché sei talmente stronzo che non ti sei accorto di aver fatto partire involontariamente una telefonata, mentre con Malika andavo in Croazia. Ti ho sentito dire tante, troppe cose che mi hanno fatto male. Non mi fido più di te, l’unico di cui mi sia mai fidato in vita mia. Cazzo Killer, ma perché hai rovinato tutto? So che hai ucciso Malika e che avresti fatto lo stesso con me. Ho più

bisogno di te di quei soldi che Peter ti ha dato e che tieni nascosti in questo buco di appartamento. Vaffanculo, non volevo che finisse così, ma non mi hai dato alternative. Ora mi fotto il malloppo, Killer. E con la tua morte scompaiono tutti quelli che potrebbero cercarmi.” Gli occhi di Killer rimasero fissi sul volto di Duke per qualche secondo, prima di spegnersi, poco a poco, restando socchiusi. Per Duke fu un gioco da ragazzi trovare la piccola cassaforte dietro la televisione, infilarsela nello zaino e uscire di soppiatto dall’appartamento, evitando di are da piazzale Loreto, dove gli infermieri di un’ambulanza arrivata da poco avevano già coperto il corpo di Malika con un lenzuolo e confabulavano con due poliziotti che avrebbero preferito finire il turno di notte in qualsiasi altro modo. Le lacrime solcavano il viso di Duke, mescolandosi alla pioggia che, da qualche minuto, aveva iniziato a battere su una Milano che ai suoi occhi era ancora più grigia del solito.

Mi diesis

È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati?

Sarebbe stato meglio non esserci mai incontrati.

13 dicembre 2013

L’aereo decollò nel primo pomeriggio. Duke, con il suo posto di prima classe, biglietto di sola andata, si godeva il volo intercontinentale con la gentilezza di plastica delle hostess, sorseggiando un Daiquiri e ammirando, da dietro i suoi Ray–Ban comprati in aeroporto, la luce del sole sopra le nuvole. Ripensò per un solo attimo al viaggio in Croazia di qualche mese prima. Quel week end, nato in modo quasi casuale, gli aveva cambiato la vita. Un nuovo aporto, una nuova identità, un portafogli pieno. Anche le cure intensive della clinica privata milanese avevano già avuto l’effetto sperato e le zone d’ombra nella sua memoria sembravano davvero dissolte. Un sorriso comparve sul volto di Duke che, girandosi verso la hostess bionda, chiese un altro Daiquiri.

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Ringraziamenti

Christelle, Iris e Emma, senza bisogno di trovare un perché. Edy, che con un SMS mi ha dato la forza di finire (inconsciamente). Fratellone e Giovy, in generale e a prescindere. Albert, Mano, Mauro, George, Eli, Lino, maestro Pellegrini (in ordine di ricezione) per i preziosi consigli sulla prima lettura - qualcosa ho anche ascoltato. Forse. Los españoles (Manuel, te lo debo, aunque no te vas a enterar de nada) y los catalanes (Albert, amic, t estimo molt). Grazie, di cuore.

A tutti quelli che ci provano, anche senza la certezza di riuscirci.

Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale.

Alcuni luoghi citati nel romanzo sono frutto di pura fantasia.