Adriano Vecchiarelli
Mammina
Il mestiere più difficile del mondo: quello di figlio
© 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma www.gruppoalbatros.com -
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ISBN 978-88-306-2588-4 I edizione novembre 2020
Finito di stampare nel mese di novembre 2020 presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Mammina Il mestiere più difficile del mondo: quello di figlio
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana. È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere. Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro per portarci in terre lontane né corsieri come una pagina di poesia che s’impenna. Questa traversata la può fare anche un povero, tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno. Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi. Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: “Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov”.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo. Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire. Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Uno
L’agguato perfetto
Ore 22 circa: DRIIN! Il telefono, abbandonato nell’altra stanza, squilla lontano. Telefonata perfettamente inattesa, ma con quella sensazione paperiniana di riconoscere lo squillo dello zio Paperone. Il display illuminato mi guida attraverso il buio, infine rivela e conferma: Mammina. – Pronto, Mammina? – Sì…
– Tutto bene? – Io… non ho il riscaldamento. Ho freddo. – Oh Gesù. Ma… è come l’altra volta? Deve venire l’addetto a risolvere? – Sì. Adesso come faccio? (Detto flebilmente.) – Ok. Allora domani lo chiamiamo. Adesso potresti mettere una pentola d’acqua sul fuoco, così il vapore…
Mentre lo dico mi a davanti agli occhi la scena della pentola abbandonata sul fuoco, dell’incendio del palazzo, di Kurt Russell vestito da pompiere che si fa in quarantotto per salvarla senza riuscire, poi scoppia in un pianto a dirotto. – No, meglio della pentola è la vasca. Tu riempi la vasca… – Quale vasca? (Detto quasi impercettibilmente.) – Ok. Mi vesto, vengo e ti porto la stufetta elettrica. – No, ma quella ce l’ho. È in terrazzo. L’avevano detto che sarebbe mancato il riscaldamento per alcuni giorni. – … l’avevano detto? – Sì, c’è un cartello in portineria. – E quindi non ti hanno colto di sorpresa, tu sapevi… – Sì. – E la stufetta funziona? – Sì, ma… – Non la prendi perché è troppo lontana? È scomoda da prendere?
– Non mi va… e poi mi secca l’aria. – Mammina, per quello si mette un barattolo d’acqua sulla stufa…
Mentre lo dico mi a davanti agli occhi la scena dell’acqua che si rovescia sulla stufetta e del cortocircuito tipo fulmine della tempesta perfetta che folgora mia madre e tutti gli abitanti del palazzo, il corpo esile di mia madre attraversato da lampi rosa tipo quelli che hanno spacciato Dart Fener. – Non sopra, basta vicino. – No, ma ci sarebbe… come si chiama? La vaschetta sua. – La stufetta ha una vaschetta apposita? – Sì. – E allora scusa, se hai freddo e hai la stufetta con la vaschetta per l’acqua, e sapevi che sarebbe mancato il riscaldamento… – Ma non credevo che fe così freddo. – Va bene. Ma ora che lo sai, prendi la stufetta e accendila. Hai paura che consumi troppo? – No. – Ma scusa, se non ti hanno colto di sorpresa, e sapevi e hai la stufetta che funziona con la vaschetta per l’acqua e non hai paura che consumi troppo… – Vabbè, io con qualcuno devo pur parlare. Ora scusa, mi suona l’altro telefono. – Buonanotte, Mammina. (Detto flebilmente.) – Ciao.
Due
La visita dermatologica
– Per te sarebbe un problema riaccompagnarmi a casa, martedì? Ho una visita medica in Viale Angelico, proprio sotto casa tua. Se tu mi riaccompagni vengo con l’autobus, così non devo spostare la macchina dal parcheggio sotto casa. (Il parcheggio è uno dei miti di mia madre.) – Mammina, che visita? – Una visita. – Ma a che ora? – Alle settemmezza. – Non c’è problema, me lo segno. Lunedì sera, ore 19,00. – Dove sei? (Questo è un incipit classico delle telefonate di Mammina.) – Mammina, perché me lo chiedi? – Sono sotto casa tua. – Come mai? (Brivido.) – Sono andata dal medico. – Ma non era domani? – Sì. – Va bene, scendo e ti accompagno. – O’kei. (Il suo modo di dire ok: Mammina ci tiene ad avere un suo modo di fare quasi tutte le cose.)
Dopo poco, in auto. – Com’è andata la visita? – Bene. – E che visita era? – Dermatologica. – E che ti ha detto il medico? – Eh. Che per togliermi queste rughe qui e qua… – Ma scusa, era un dermatologo o un chirurgo estetico? – Tutt’e due. Però mi ha chiesto seimila Euro. Ha detto che è un intervento semplicissimo. – Seimila per un intervento semplicissimo. Fico. – Tanto non lo faccio. Per fare proprio tutto, sarebbero diecimila e cinque (il suo modo di dire diecimilacinquecento), ma mi farebbe lo sconto a ottomila e cinque. – Mammina, a me fanno senso le bambolone. Tu sei bella. Che ti metti a fare? E poi, seimila? – Infatti non lo faccio. Ma guarda, mica mi metterebbe i labbroni o le guancione! È che ormai ho i complessi.
“I complessi” per i genitori della generazione di Mammina erano una categoria dell’anima, l’insieme che racchiudeva praticamente tutti i disturbi e le problematiche di salute più indefinite – ma non meno gravi – della pertosse e del braccio rotto. Chi aveva i complessi, come minimo, era figlio di cattivi genitori. Si è giocata la carta dei complessi per farmi intendere che questa vicenda per lei è molto importante.
– Mammina, perché invece non smetti di fumare e ti iscrivi in palestra? – Infatti me l’ha detto anche il medico, di andare in palestra. – E del fumo, non ti ha detto? – Eh? – Sono cinquant’anni che fumi, poi ti lamenti delle rughe.
Il vero fumatore, quando si parla di smettere, accende una sigaretta. Mammina è un vero fumatore, ma sa che se accendesse quella sigaretta io mi trasformerei nel Punitore dei fumetti Marvel. Anch’io sono un vero fumatore, e sto parlando di smettere. In una sola utilitaria, due fumatori non possono accendere la loro sigaretta per ragioni squisitamente politiche. La tensione sale. – Ma quali cinquant’anni? (Alzando la voce.) – Vabbè, quarantacinque. – E che sono così vecchia? Scusa, ho cominciato a venticinque/ventisei… (Ci sta provando: Mammina fuma da quando ne aveva precisamente venticinque.) – Quarantatré. – Madonna mia come so’ vecchia. Settimana scorsa avevo deciso di smettere. – Eh, e poi? – Non ce l’ho fatta. Ma quest’anno in palestra mi iscrivo. Assolutamente.
I dialoghi con Mammina – identici nei secoli – mi fanno sentire immortale. Questa cosa della chirurgia estetica, invece, è relativamente nuova. Se ne parla da quando un amico di famiglia si è rifatto gli occhi e le braccia, cinque o sei anni fa. “Un cretino”, dapprincipio; ora, una sorta di profeta contemporaneo.
Tre
I consigli di mammà
Mammina dà consigli. Molti. A tutti. Nessuno escluso. Al portiere, al primario, al portantino, al pedone, al postino, al politico; ma soprattutto, si capisce, ai figli. I figli per Mammina sono il paradiso perduto, Shangri-La, Atlantide. Mammina, infatti, ignora religiosamente il presente. Ama invece il ato, e il futuro che sogna è identico, appunto, al ato. Il suo ato preferito, in particolare, è quello in cui noi figli andavamo alle scuole elementari. Se fosse per lei, riporterebbe indietro il tempo e ripeterebbe all’infinito ogni rito, ogni gesto, ogni frammento di quella personale età dell’oro, per sempre. Mammina ci pettinerebbe, ci sceglierebbe i vestiti, ci accompagnerebbe a scuola, a nuoto e a judo, eccetera. Tanto, secondo Mammina, nessuno di noi oggi fa le cose bene come le faceva allora, guidato da lei. Naturalmente, anche il contenuto medio dei consigli di Mammina è rimasto fermo a quel preciso momento storico. “Vai a tagliarti i capelli”, “mangia piano”, “ma come ti sei vestito”, “fai la pipì”, ecc. Proprio non resiste. DEVE dare consigli in continuazione. I consigli di Mammina, oltretutto, non hanno mai forma dubitativa, e sono sempre erogati in forma di imperativo presente. Sono ordini, insomma. Io perdo la calma quasi esclusivamente con Mammina, quasi sempre per la faccenda dei consigli non richiesti. Le attacco dei bottoni allucinanti per spiegarle che non è pensabile che lei pretenda – ad esempio – di poter insegnare a un primario ottuagenario come deve fare il suo mestiere (storico). Mammina, d’altra parte, è del tutto irremovibile. Si tiene – malvolentieri – il cazziatone, interrompendolo solo per dare dei consigli. D’altra parte, so bene che la battaglia non può essere vinta, inoltre da qualche parte ho letto che i consigli sono forme di nostalgia, e Mammina è il campione del mondo di nostalgia; questa lettura, in qualche modo discolpandola, mi ha intenerito nei confronti di Mammina. In questo perfetto disequilibrio, Mammina teme abbastanza i miei panegirici, io per contro ho imparato a essere più tollerante. Di solito, lo scontro si prefigura verso il settimo consiglio, e inizia col mio elencarli tutti e sette in fila. Così Mammina sa che sono pronto alla pugna. Se continua, mi scateno. Di solito continua. L’altra sera, le ho riferito che a giorni avrei avuto un incontro di lavoro piuttosto importante, accendendo i suoi temibili sensi di madre (simili a quelli di ragno, ma più irrefrenabili). Le ho chiesto, anche, di stirarmi una camicia (Mammina
vorrebbe sempre poter stirare le mie camicie, ma io preferisco di no; piuttosto, le indosso non stirate: le lavo, le appendo bene e le metto così). Naturalmente, mi aspettavo che – ricevuta una simile informazione, seguita oltretutto dalla richiesta della camicia – Mammina si tramutasse in “Zerozeromamma – Licenza di consigliare”; ma Mammina sa, in particolare quando si tratta del mio lavoro, che le sue intromissioni non sono benvenute. È così iniziato un gioco sulle uova, con un suo SMS la sera prima dell’incontro di lavoro: “La camicia è pronta”. Dopo dieci minuti, in assenza di mia immediata risposta, mi ha telefonato. Le ho detto che avrei fatto una scappata al volo a prendere la camicia. Sulla soglia di casa sua, ritirata la camicia: – Vabbè. Poi mi farai sapere. – Ok. – Ma tu hai capito di cosa parlo? – Mammina, secondo te ho capito di cosa parli? – Mh.
Scendendo le scale, sentivo i rintocchi delle mie scarpe di cuoio sui gradini e sul pavimento dei pianerottoli: “clop, clop”. Ero incredulo: “Ha resistito”, pensavo. Dovevo riconoscere dei meriti a Mammina, a dispetto di ogni probabilità. “È incredibile. Non mi ha dato consigli”, continuavo a rimuginare attraversando l’ingresso del palazzo. “Brava Mammina”. Varcato il portone, ho sentito una voce che mi chiamava dal citofono. – Arturo? Arturo? – Sì, Mammina? – All’incontro di lavoro devi parlare len-ta-men-te! – …
Clop, clop, clop.
Quattro
No!
“No”. È così che iniziano quasi tutte le risposte di Mammina. Hai voglia a ribadirle che in questo modo finisce per contraddire ogni proprio interlocutore. – No. Perché io poi mi spiego. – Mammina tu dici sempre di no. Anche quando sei d’accordo col tuo interlocutore. – No. – In quel caso dici “No. Cioè sì” (ride). – Mammina, guarda che non è gradevole sentirsi contraddire sempre. In Inghilterra, piuttosto che contraddire il prossimo, si farebbero arrotare da un tir. – Ma tanto qui mica stiamo in Inghilterra, no? – E meno male, altrimenti probabilmente ti avrebbero già rimpatriata a forza. – Uff!
A Mammina piace molto che si parli di lei, ma non dei suoi difetti. – Potresti provare a iniziare le tue risposte con “Sì, ma…”. Oppure inserendo nel discorso qualche forma dubitativa come “forse” o “è possibile che”, tanto per dimostrare almeno un po’ di rispetto per il punto di vista altrui. Già non sarebbe male se dessi almeno a vedere che per te ogni tanto gli altri possono, magari per sbaglio, dire qualcosa di giusto. – No. Perché se io la penso in modo diverso… Aòh, e poi io so’ fatta così, va bene? – No.
Riflettevo che Mammina fa più largo uso proprio delle tre o quattro parole che generalmente vengono pronunciate per prime da chi si affaccia alla vita: “mamma”, “mio” e – per l’appunto – “no”. Con questo non voglio dire che Mammina ragioni come un poppante, ma solo che probabilmente è riuscita a conservare integra, negli anni, una certa sua innata spontaneità. In effetti, Mammina non è tanto incline ai mutamenti di carattere. Chiacchierando con mio fratello Boeing, a volte capita di soffermarsi su alcuni comportamenti – o stravaganze – di Mammina, che si ripetono identici nel tempo. – Se non altro, è coerente. – Molto coerente, sì.
Mi domando da chi l’avremo mai imparata, la parola “sì”.
Cinque
L’eterno dilemma: attico o villa?
Mammina ha uno strano conto aperto col Padreterno. Le ha dato tanto, le ha tolto tanto. In realtà continua a darle tanto (per cominciare – ad esempio e salvo ogni scongiuro – è sana e ha figli sani), ma Mammina è una che la torta l’ha annusata eccome. Valle ora a spiegare i corsi e ricorsi storici, o le teorie macrobiotiche. Nel primo atto della sua vita, Mammina è nata bella, in un quartiere popolare, in tempo di guerra, quarta di sei figli. Strade sterrate, niente allacci fognari, andirivieni dai rifugi anti bombardamento, per intenderci. Nel secondo atto si è fidanzata e sposata con un uomo intelligente, elegante, colto, di successo, innamorato della vita, che l’ha portata in palmo di mano, l’ha resa Mammina, l’ha protetta e coccolata, le ha fatto vivere la sua favola, nella sua casa bellissima, ecc. Poi il solito Padreterno si è portato via suo marito, e Mammina ha fatto il bagno. Il terzo atto della sua vita lo ha ato combattendo per non perdere quello che aveva visto costruire e crescere nel secondo, e non ce l’ha fatta. Ora si sente in colpa (stiamo lavorando, con scarso successo, per fargliela are e far entrare l’idea del magico quarto atto) e rifiuta alcuni aspetti della realtà. Per esempio, quando decide di “guardarsi intorno” per trovare una nuova casa dove andare ad abitare (a Mammina nessuna casa va bene, non perché non sia bella come quella che aveva nell’età aurea, ma poiché non è esattamente quella). – Oggi ho visto un attichetto… – Mammina, un altro attico? – Cento metri quadri, con un terrazzo che gira tutto intorno e una vista da perdere la testa. – Mh. Ma da comprare o affittare? – Comprare. – E quanto chiedono? Un milione? – Unmilioneddue. Ma è una cosa…
– Mammina e perché invece non una bella villa? – Uff! Con te non si può parlare. – Una grossa villa sull’Appia, con un attico sopra. Così in un colpo solo prendiamo l’attico e la villa. – Se andassimo a viverci tutti insieme, forse…
Questo è un altro tema sacro a Mammina: il ritorno. Il suo scopo dichiarato è di tornare indietro nel tempo. Io e mio fratello viviamo fuori di casa – mi pare – dal 1996. Per Mammina dunque, da allora, semplicemente non ci troviamo al nostro posto, latitanti. Il suo desiderio più grande è che “la famiglia” torni unita. Io e mio fratello – noti pacifisti – piuttosto che tornare a vivere con Mammina preferiremmo arruolarci nella legione straniera e affrontare l’Afghanistan, e non ne facciamo mistero. Mammina, d’altra parte, ad abbandonare il suo progetto non ci pensa proprio. – Mammina, ma di che parli? Io, te e Boeing in cento metri quadri? Un milione e duecentomila Euro? Ma che dovrei dirti? E – per curiosità – chi ce li dovrebbe dare due miliardi e quattrocento milioni? – Uff. Va bene, ma neanche così, per parlare?
Per parlare. Per gioco, insomma.
Sei
Maria Dolores
Mammina è il tipo che sa soffrire ma preferisce non farlo in silenzio. Per cui si lamenta. Continuamente. E poi negli anni ha imparato che per la riuscita di una conversazione è molto importante il ruolo del contraddittore, tanto più tra persone della sua età, che lei stessa definisce “babbioni”. Per cui non si lamenta solo di ciò che la riguarda strettamente, ma – per amore della conversazione – anche di ciò che non la riguarda affatto. E poi ci sono i tormentoni, le fisse del periodo, che possono essere di due tipi: cronici-intermittenti, cioè quelli che tornano a presentarsi invariabilmente nei secoli, o occasionali-acuti, generalmente legati a cambiamenti di ambiente o abitudini. Per esempio, Mammina ha cambiato casa da poco. I traslochi di Mammina naturalmente sono epici, costituiscono colossali e gustosissime occasioni di lamento, e sono fonte di tormentoni di primo ma soprattutto di secondo tipo. – Hai visto, Mammina? La tua nuova casetta è quasi finita. Carina, vero? – No. Non ho il tavolo. (Uno dei tormentoni di secondo tipo dell’ultimo periodo.) – E quello che è? – Il tavolo, ma è rotto. E poi io voglio l’altro. (Parla di un tavolo monumentale.) – Vabbè. La cucina, la tua stanza e il bagno sono a posto, il salotto è a posto e bisogna solo aggiustare il tavolo. Direi che ci siamo. L’altro tavolo qui non c’entrerà mai. – Ma io lo voglio. – Va bene, abbattiamo una parete, invadiamo casa dei vicini e ce lo mettiamo. Ai vicini il tavolo sicuramente piacerà. Allora ti piace o no questa casa? – A me il tavolo mi serve.
Io e Boeing siamo più o meno organizzati così: i lamenti ordinari generalmente li ignoriamo, i tormentoni del primo tipo li combattiamo, quelli di secondo tipo invece li prendiamo in immediata considerazione. Ma questo Mammina lo sa. Per cui si sospetta l’esistenza di un terzo tipo di tormentoni, quelli dolosi. In ogni caso, il tavolo è stato prontamente accomodato. A seguito del pericoloso e sospettissimo aumento delle lamentazioni, nell’ultimo periodo io e Boeing abbiamo coniato un nuovo soprannome per Mammina: “Maria Dolores”. Quando Mammina prende a lamentarsi senza controllo, iniziamo a chiamarla così e a canticchiarle le prime battute della canzone Baila Me dei Gipsy King: “Cuando sei Maria Dolores/cuando sei quei mal d’amore/cuando sei quei mal a su vera/cuando sei me va al dottore”. Così a Mammina viene da ridere, ci manda al diavolo e per un po’ si calma.
Sette
Nonna Fiorellina e altre parentesse
V’è un paese nel Lazio, dalle parti di Castel Madama, in cui si concentra la maggior parte del parentame materno, inclusa la nonna Fiorellina, una coppia di zie, un cugino con moglie e un po’ di bellissimi figli, e altri. Inutile a dirsi, da quelle parti non ci capito praticamente mai, pure se l’aria è buona e la nonna è vecchiarella assai. Dell’aria non m’importa tanto, perché sono abituato all’apnea metropolitana, anzi ci fiorisco; ma di trascurare la nonna mi dispiace un sacco. È la donna più intelligente della famiglia (anche l’uomo, se fosse uomo) ed è tosta come una catasta di fascine, ma ha novantadue anni e – anche se non si lamenta più del solito, cioè tanto – li sente. È ata attraverso due guerre e cento tempeste e non è mai sembrata giovane, ma ora s’è fatta proprio vecchia. Ancora s’arrampica da sola sui due gradoni di casa sua per salire sul balconcino, è magra, sostanzialmente sana e abbastanza attiva, e tenace come un collante industriale, ma è sorda come la campana maggiore di San Pietro, e non ci vede un tubo, anzi manco un oleodotto, e ora per camminare s’appoggia a un bastone. Quel che più mi ha colpito è che nonna Fiorellina ha recentemente accettato di avere al proprio fianco una badante (e poveretta la badante). In altri tempi – solo l’anno scorso – Fiorellina avrebbe scavato una trincea, avrebbe messo sacchi di sabbia vicino alla finestra e pentole d’olio a bollire per scacciare l’invasore: invece ora si tiene la badante, e la tratta quasi bene. Stamattina avevo una commissione da svolgere a Palestrina, quindi ho chiamato nonna Fiorellina e le ho chiesto d’essere invitato a pranzo. Da Palestrina ho guidato su per le montagne, su una bellissima strada, e poi sono risceso dall’altra parte, a coprire di baci nonna Fiorellina. La quale, tutta contenta, ha pensato bene di dire a TUTTO il parentame che – indovina un po’? – oggi Arturo bello stava arrivando lì. – Facciamo affacciare zia Tortina? (La zia che cucina benissimo, e che ha il balcone proprio di fronte a quello di nonna Fiorellina.) – Va bene, nonna, facciamola affacciare.
Allora abbiamo fatto uno squillo a zia Tortina, che s’è affacciata subito.
– Ciao zia Tortina! – Ciao Arturo bellissimo! – Prendo il caffè con nonna, poi o a salutarti. – Allora ti aspetto. Le donne di questa famiglia, per fatti loro che non so spiegare, sono tutte in competizione tra loro anche per le cose che a me sembrano più effimere. Viene fuori che nonna Fiorellina ha detto della mia visita anche a zia Bonissima, che – figurati! – se scopre che sono andato a trovare zia Tortina senza are pure da lei, se la prende per centotrent’anni. – Allora questa volta vai a trovare zia Tortina e la prossima volta zia Bonissima. – Nonna manipolatrice, chiamiamo anche zia Bonissima, così o pure da lei.
Quando sono arrivato da lei, zia Tortina – guarda il caso proprio strano – stava preparando quattro torte rustiche (quattro!) e un’ottantina di crocchette. Ci siamo fatti un sacco di chiacchiere di cucina e di risate, ci siamo scambiati un po’ di segreti e mi ha fatto vedere la sua montagna di provviste, tra quelle fresche, quelle conservate e quelle surgelate. “Sono contenta quando vengono a trovarmi a pranzo, così posso rifare la spesa” mi ha confidato. – È che mi piace proprio. Se mi dicono “Andiamo a fare la spesa?”, io rispondo subito di sì. – Lo dici a me, zia Tortina?
Poi, giustappunto, sono arrivati per pranzare un po’ di parenti (una cognata e due nipoti, i figli di mio cugino Scipione), e dopo poco ho salutato e me ne sono andato dall’altra zia, Bonissima. La zia Bonissima, frattanto, stava facendo dentro e fuori dal balcone, per vedere se arrivavo. – Bèèèllo, de zia!
– Bella sei tu, zia Bonissima!
A zia Bonissima non piace cucinare: a lei piace essere bonissima e avere la casa bella. Infatti tutto era uno specchio, ci siamo riati il matrimonio del cugino Elegantone, con tutte le foto e la spiegazione degli addobbi e pure dei piedini delle sedie e delle peonie e del Marchese che – figurati quant’è amico – ha fatto questo e ha fatto quello. – Che bello il tuo cagnetto, zia Bonissima. Come si chiama?
Alla mia domanda, la zia Bonissima s’è messa a ridere. – Si chiama: “Ndo sei?”, perché è piccolo, allora me lo perdo e lo cerco sempre.
Sono andato a trovarle in ordine d’età, come si conviene. Manco a Natale, mi sono masticato tutto ’sto parentame. Ma mi ha fatto piacere. Tutte e tre mi hanno salutato dal balcone, e ci sono restate finché hanno potuto vedermi.
Otto
Il Magazzino
C’è un magazzino dove, come ambra, colano e si stratificano nel tempo i residui dei vari traslochi di noialtri Bandini. Ecco, quel magazzino è il santuario di Mammina, anzi il padre di tutti i santuari di Mammina. Perché Mammina è fermamente convinta che tutto quello che è stato meraviglioso e non è più, tutto quel che è smarrito tra i ricordi, tutto quanto di cui ci sarebbe strettissimo bisogno ma di cui ci si trova privi, di sicuro, sia lì: nel Magazzino. Di là Mammina pesca tutto il necessario per stipare irragionevolmente ogni casa dove abita. Mai contenta, vede di cavarci fuori anche il necessario per stipare irragionevolmente le case dove abitiamo io e mio fratello Boeing, che naturalmente le opponiamo fiera resistenza. Capita tuttavia, a volte, di avere bisogno di un capo d’abbigliamento o di una suppellettile, di un mobile o di una cianfrusaglia, e viene naturale chiederlo a Mammina, che fattasi ormai furba, approfitta di quei rari momenti per appioppare al malcapitato di turno una mezza dozzina di cimeli, in tal modo sottratti al Tempio-Magazzino e dunque riportati in vita. Stavolta a me serviva un impermeabile. Mammina mi ha appioppato due impermeabili (di cui uno della sua taglia), una polo acquamarina (a occhio l’ho stimata Think Pink annata 1988), una camiciola a maniche corte a fondo bianco con scacchettoni marrone e turchese e una camicia bianca a righine, molto corta (quasi un toppino). Allora ho indossato l’impermeabile della sua taglia, l’ho ringraziata, e ho fatto per uscire. Ha riso molto.
Nove
Sogni
L’afa e la domenica mischiate insieme possono generare un infido miscuglio di malinconia e romanticismo. In effetti, ieri, per la seconda domenica di fila mi è capitato di sentire freddo dove avrei voluto sentire caldo, e caldo dove avrei voluto sentire freddo. Così – conscio di non poter sfuggire alla domenica – ho pensato di cercare riparo almeno dalla canicola, andando a farmi una bella gita in scooter. Prima della eggiata, mi ha telefonato Mammina. Di nuovo – come l’altro ieri – ha fatto fare pochi squilli, e di nuovo non appena sono riuscito ad afferrare il telefono che si trovava in fondo alla borsa, Mammina ha messo giù. Già snervato, l’ho richiamata, trovandola in pieno acme da sceneggiata napoletana: – Figlio mio! – Mammina, che c’è? – Stanotte ti ho sognato! – Eh, e che mi capitava?
Mentre le chiedevo così, stavo allacciando il casco e assicurando una piccola borsa allo scooter, già . – Ti eri rotto una gamba! – Ommadonna. – Mi ha detto Rosy – che se ne intende – che vuol dire che io penso sempre a voi (a me e a mio fratello Boeing) e mi preoccupo.
Quale miglior viatico, prima di un’uscita in moto?
Dieci
La gita coi vecchietti
Oggi sono stato a pranzo con mio fratello Boeing e Mammina, noi tre. Boeing ci ha preparato la pasta con le zucchine e l’insalata greca. Dopo pranzo Mammina ha tirato fuori un dvd. – Possiamo vedere questo? – Certo Mammina, cos’è? – È il filmino di una gita che abbiamo fatto coi vecchietti.
Mammina da un po’ di tempo è associata a un circolo di anziani. A quanto ho potuto vedere, è la più sprint di tutti, e la bonazza della situazione. ano il tempo ballando e giocando a carte, e ogni tanto organizzano eventi sociali, tra cui evidentemente questa gita. Ho caricato il dischetto nel lettore dvd di Boeing, e ho avviato. Si vedono un pullman, un fiorire di vecchietti muniti di bandiere e di striscioni, e il Circo Massimo. – Mammina, ma dove siete andati? – Al Circo Massimo. – Mammina, ma quella è una manifestazione della CGIL. – Sì. Te lo avevo detto che andavamo alla manifestazione. (Naturalmente non è vero.) – Ma quindi siete vecchietti compañeri? – Noi sì.
Si vede Mammina con gli occhiali da sole, ben ingioiellata e vestita da piccocktail che dice a tutti i vecchietti come devono camminare, sedersi, parlare,
mangiare, vivere. In effetti alcuni di loro sul prato del Circo Massimo sembrano cavarsela maluccio, tra incespichi e scivoloni. – Mi hanno pure intervistata. – E tu che hai detto? – Che di quello che hanno detto e fatto in questi anni non mi sta bene niente. – Di quello che chi ha fatto quando? – Boh!
Poi mio fratello le ha chiesto se c’erano quando ha parlato Epifani. – No, ci hanno fatto andare via prima. – Ma perché? – Eh, c’erano quelli che dovevano fare la pipì, quelli che avevano fame, quelli che non ce la facevano più…
Undici
La quasi opinionista
Mammina, all’alba dei suoi settanta, si annoia e dice sempre che vuole lavorare, ed essendo energica e apionata, soprattutto sulle brevi distanze, sarebbe effettivamente in grado di svolgere un lavoro. Solo che si addormenta tardissimo e la mattina è un po’ rimbambita. E poi non può assolutamente uscire senza avere preso il cappuccino, essere rimasta in bagno un’oretta buona ed essersi vestita da matinée. In pratica, Mammina non può assolutamente uscire prima delle undici e mezza. E poi non le piace tornare a casa col buio (“Da sola!”) anche perché diventa più difficile trovare il parcheggio (tormentone di tipo due, tendente al tipo uno). E poi non sa usare il computer, anche se praticamente non parla d’altro che di corsi di informatica per anziani. In pratica, tra le 11,30 e le 16,00 – tempi di trasporto esclusi – Mammina può svolgere qualunque lavoro che non richieda competenze informatiche né troppa diplomazia. In questa sua perenne ricerca di confacente occupazione, da qualche anno uno degli impegni più ricorrenti di Mammina è prendere parte a programmi televisivi, nel pubblico (“Faccio l’opinionista. Beh, quasi”). Nei primi periodi, mi informava di tutte le sue partecipazioni, pretendendo che la guardassi ogni volta che ava in TV. Naturalmente, col suo carattere aveva buon gioco a farsi intervistare ogni volta possibile. Quando parlava Mammina, io mi vergognavo come se mi avessero beccato a saccheggiare tombe etrusche. Quindi guardavo i programmi, ma senza volume. Tanto poi la sera Mammina mi aggiornava su tutto quello che era stata capace di farsi uscire dalla bocca. Ormai è abbastanza navigata da esentarmi dalla visione, così oltretutto la sera ha la scusa buona per raccontarmi tutto. La cosa della televisione le piace e addirittura per andare a volte esce fuori orario (cioè prima delle 11,30 e dopo le 16,00), ma – strano a dirsi – se ne lamenta continuamente. – Oggi mi sono am-maz-za-ta. Siamo stati sei ore seduti al freddo con l’aria condizionata altissima e senza schienali. Per …/00 Euro! (due soldi) E poi sono stata due ore a cercare il parcheggio. – Mammina, ma chi te lo fa fare?
– No. (Le risposte di Mammina iniziano quasi sempre con la parola “no”, ti ricordi?) Io mi sono organizzata. Mi porto il maglione e le scarpe basse, quindi sto bene. Ma vedessi le altre! Oggi una si è raffreddata. Le ho dato l’altro golf che mi ero portata, ma ormai era tardi.
Dodici
A me gli occhi
Ogni tanto mi capita di chiedermi se una tale persona ha più cuore, più cervello, o più coraggio (le tre “c” di Dino De Laurentiis, anche se in realtà lui non diceva esattamente “coraggio”). Mammina è praticamente tutta cuore, il che non le impedisce a tratti di essere intelligente o coraggiosa. È che nell’approccio di cuore lei ci si trova proprio. Naturalmente, si manifesta anche come una persona di cuore, quindi non ci ha mai fatto mancare baci e abbracci, e gemiti, e urletti i più vari. In effetti, quando ci salutiamo tra noi, non dobbiamo sembrare perfettamente a posto. Quando poi Mammina si sente chiamata a fornire una quantificazione dei propri sentimenti, in particolare di quelli per i figli, oppure quando deve descrivere un dolore provato, anche fisico, viene fuori il meglio. Mammina non ama il cinema horror, ma quando deve raccontare certi suoi sentimenti o descrivere un qualche accidente, il suo repertorio non ha nulla da invidiare a quello dell’Esorcista. – Io per i miei figli mi farei strappare l’intestino e poi camminare sopra fino a ridurlo… – Mammina, ma che schifo, basta! Lo sappiamo che ci vuoi bene, non c’è bisogno di tanto. Oppure: – Oggi mi sono scarnificata il braccio col ferro da stiro rovente. – Mi dev’essere sfuggito il tuo moncherino. – Tu ci scherzi, ma guarda!
E – così dicendo – prende a esibire le sue ferite di battaglia, che a onor del vero non sono poche: infatti Mammina ci vede male, e vivendo praticamente al buio sbatte continuamente da tutte le parti. Quando a da una stanza all’altra, spesso si annuncia con tonfi e gemiti di vario genere, che noi figli abbiamo imparato a riconoscere:
– Mammina questa volta era la testa, vero? – No. Cioè, sì. (È il suo modo di dire “sì”, ti ricordi?) – Ma perché non accendi la luce? – Non è la luce, è che con questi occhiali non ci vedo. – E perché non li rifai? – Quat-trocento-cinquanta Euro! – Per un paio di occhiali da vista quattrocentocinquanta Euro? – Eh, per quelli multifocali sì. – E non li puoi prendere normali? – Tanto non ci vedo lo stesso. Ormai mi si è abbassata troppo la palpebra, vedi?
E qui si leva gli occhiali, avvicina il viso al mio e mi guarda con gli occhi normalmente aperti. – Vedi? – Ma cosa devo vedere? – Gli occhi. Sono chiusi. – Ma non sono chiusi! – Vabbè, intanto io me li devo rifare.
Afferrato il funambolismo? Deve ricorrere al chirurgo estetico per non sciupare i soldi degli occhiali multifocali.
Tredici
Il nuovo Dario
Mio fratello Boeing è, tra le altre cose, una persona piuttosto schiva. Quando la sua compagna Musa è rimasta incinta, ha cercato in ogni possibile modo di procrastinare la diffusione della notizia, poi di dribblare ogni possibile domanda, prima sul sesso del nascituro, poi a maggior ragione sul nome. Quando non è stato più possibile fare diversamente, ci ha confidato che sarebbe stato un maschio. Normalmente, si sarebbe scatenata la frenesia collettiva alla ricerca di un nome, ma Boeing non ha voluto saperne. Da quel giorno e fino a pochi giorni prima della nascita, il nascituro s’è dunque sentito chiamare “Er pischello”. Ora, come già detto, la storia della nostra famiglia si è incagliata sulla prematura scomparsa di mio padre, alla quale è conseguita una serie di eventi di molto difficile gestione, probabilmente più per Mammina ma senz’altro anche per noi, e da allora prima che il nostro sangue si rinnovasse sono ati più di vent’anni. Peraltro, il nome di mio padre – Dario, per Mammina Dariosuo – era semplice, virile e tutto sommato perfino bello. Insomma, c’era una certa generale aspettativa intorno alla scelta di quel preciso nome, peraltro Musa non aveva niente in contrario a chiamare così “Er pischello”. Alla fine, poche ore prima della nascita, Boeing si è deciso a intervistarmi. – Ma insomma, che ne dici di questa cosa del nome? – Guarda, io posso dirti questo: a me anche se mi nasce femmina, la chiamo Dario. – Mh.
Mi sembrava di essere stato sufficientemente incisivo e avevo la sensazione che si fosse convinto, quindi ho ritenuto di non insistere oltre. Mammina naturalmente non era stata consultata, aveva lo stesso espresso il proprio parere (meglio: cercato di imporre il proprio punto di vista) ed era in agitazione. Mi ha chiamato. – Ma insomma, dice che non vuole chiamarlo “così”.
– Guarda Mammina, penso che invece potrebbe chiamarcelo. Però tu devi promettermi una cosa. – Che cosa? – Che – nel caso – terrai a mente che il bambino non è tuo marito reincarnato, che è un altro Dario, e che non ti commuoverai ogni volta che farai o sentirai fare il suo nome. – Beh, ma certo.
Come a dire: “È scontato”. Naturalmente, ora lo chiama “Dariù”, proprio come chiamava Dariosuo, e mio fratello Boeing ci si fa il sangue in poltiglia. D’altra parte, più spesso fa confusione, e lo chiama Arturo o Boeing, o tutti e due, e Dariù ci chiama noi.
Quattordici
Il dramma della 616
Mio fratello Boeing, fresco di riproduzione e quindi giustificato alla fonte, quest’estate mi ha appioppato Mammina per entrambe le mie settimane di vacanza. È cominciata con “una settimana per uno per non farla stare sola”, è finita che dove sarebbe andato lui non c’era più posto e dove sarei andato io sì, così, semplicemente, a mia perfetta insaputa, la prenotazione per Mammina è stata effettuata. Quindi – urla a parte – mi sono trovato a partire per le agognate vacanze in Egitto con la mia ragazza Luna e Mammina. È stata abbastanza buona. Non fosse che nel posto dove abbiamo trascorso le vacanze si trovano due strutture, una lussuosa e una più lussuosa ancora. Tutti avevamo prenotato la struttura lussuosa, ma all’arrivo a Mammina è stata assegnata, a mero titolo di cortesia, una stanza in quella più lussuosa. Dopo sette giorni, in altissima stagione, Mammina è stata spostata in una bellissima stanza nella struttura meno lussuosa. È iniziato così il dramma della stanza 616. Allo scadere della prima settimana, alle 19 circa – Ulululù! Ulululù! – è suonato il telefono della stanza in cui io e Luna ci sentivamo in paradiso. Mammina era in lacrime. – Come va? – MALE!! – Mammina, cosa ti è successo? – Mi hanno TOLTO la stanza!
E tu giù a immaginare tua madre in mezzo alla via col suo valigione rosso tipo frigorifero americano e il panama teso a chiedere l’elemosina a beduini sprezzanti, e il tuo cervello a ricordarti che le mamme dopo una certa età non hanno mai ragione e non dicono mai la verità, ma intanto povere le tue
coronarie. – E dove ti hanno sistemata? – Mi hanno buttata allo sprofondo! (Singhiozzi) Qui non c’è nessuno e io ho paura! Va beh, vieni? – E dove sarebbe lo sprofondo? – Qui alla fine della struttura, dove c’è la fossa dove sono morti quelli! Io qui da sola ho paura! Ho già parlato sei volte col direttore dell’albergo, e appena becco quella della reception… Allora vieni.
In effetti, alcuni poveri manutentori diversi anni fa hanno trovato la morte in una fossa che si trova all’esterno della struttura, in un posto di cui Mammina ignora l’ubicazione. – Non vengo. Sto studiando. Ci vediamo per la cena. Cerca di non fare tragedie. – Io me ne vado domani! Da qui non posso più andare in piscina, non posso più fare niente, e ho paura! – Ok, allora domani vai. Ci vediamo alle 20,30.
Mammina non è tipo da indurre sensi di colpa in maniera sottile: “sola” e “paura” sono due capisaldi del suo linguaggio. Ho chiuso il telefono mangiato, per l’appunto, dai sensi di colpa e dalla rabbia. Sensi di colpa per le ovvie ragioni, rabbia per l’assurdità di Mammina. Dopo poco, naturalmente, ho deciso di andare, ma non senza un mio piano. La stanza 616 si trova subito sotto la bella piscina e il ristorante – sempre meno affollato dell’altro – della struttura meno lussuosa e subito sopra la spiaggia comune alle due strutture, in fondo a un vialetto di un centinaio di metri, inondato di rigogliose buganvillee di quattro colori. Quando sono sceso Mammina vagava per il vialetto chiedendo a giardinieri e addetti alle pulizie egiziani (che non conoscevano una parola d’italiano) dove si trovasse.
– Mammina, ti trovi allo sprofondo, dove altro? – Mh. Tu ci scherzi, ma io… – Hai paura, si capisce. Hai ragione. Queste buganvillee sono tetre e minacciose. Andiamo a vedere la stanza?
A metà del vialetto, un patio con quattro stanze, due sul mare e due verso l’interno. La stanza di Mammina, naturalmente, era una di quelle sul mare. – Certo, questo patio sembra parecchio malfamato. – Tu capisci che io qui da sola… – Certo. Anche la vista sulla baia mette un po’ di paura. – Sì, qui scavalcano ed entrano subito. (Sotto la stanza c’è un terrapieno con una parete verticale di circa quindici metri e la recinzione, guardiani a parte.)
Nella stanza c’è un salottino con una cupola, poi la zona notte e il bagno con una vasca che non finisce più. – La cupola secondo me porta male. (Mammina è molto superstiziosa.) E nella vasca potresti scivolare e farti male. Senti, non voglio che tu rimanga qui. – Oh! Infatti domani devi parlare con il direttore e quella del planning e… – Guarda, facciamo prima e meglio. La stanza mia e di Luna è sul retro, sulla strada principale, e c’è sempre una macchina della polizia davanti. Vieni a vederla e se ti va bene domani facciamo lo scambio. Siamo così andati in visita al nido di Luna e mio, una stanza ordinaria senza salottini né patii né cupole, senza affaccio sulla baia (se ne vedeva un pezzettino), con una bella doccia, un balconcino su una zona di aggio e, dietro, la strada principale e la famosa auto della polizia. – Molto più importante la sicurezza di una vasca da bagno, ti pare? Allora tu
vieni qui, stai tranquilla, c’è sempre la polizia e sei vicina alla hall della struttura principale. Poi, chi se ne importa della vicinanza alla spiaggia e al ristorante, della baia e del patio, della stanza grande e del resto. L’importante è che tu stia bene e ti senta sicura. Noi, d’altra parte, ci sacrifichiamo volentieri. – No, vabbè, magari resto lì. Ma stasera se becco il direttore… – Guarda che io ho già parlato col portabagagli e già gli ho dato i soldi, quello domattina alle 9,00 viene a scambiare le valige. – No, oh! Io VOGLIO restare dove sto!
Quindici
Matrimonio
Ho chiesto a Luna di sposarmi, e mi ha detto di sì (in realtà ha detto “Sì, sì, sì, sì, sì, sì!”). Mi sono tenuto però diciotto mesi di tempo (“Da qui a diciotto mesi”), per non trovarmi con Mammina, mia suocera Camelia – tutti, insomma – scatenati, a privarmi della gioia di un momento che – per quanto pubblico – riguardava in primo luogo il mio privato e quello di Luna. In realtà, dieci mesi dopo la fatidica salva di sì, ci siamo sposati. Nella preparazione, io e Luna abbiamo fatto in modo di tenere a bada le reciproche mamme: a Camelia abbiamo dato in pasto il ricevimento per i parenti e gli amici dei genitori, una settimana prima del matrimonio vero e proprio, che ha organizzato perfettamente e soprattutto come piace a lei, con tutti i tovaglioli chiusi da un nastrino, coi segnaposto, con le tovaglie e i pizzi e i lazzi tutti perfettamente sistemati, eccetera. Quella sera non mi sono sottratto a nessun obbligo, ho portato cachet alle vecchie zie – alle quali non ho mancato di fare tutti i complimenti più verosimili – ho raccolto tovaglioli caduti, sigarette, accomodato gli ospiti mediamente piuttosto anziani in ogni possibile modo, sempre col sorriso. Il giorno della celebrazione, invece, circondato di amici e coetanei, contavo di concentrarmi sul matrimonio, come poi sono effettivamente riuscito a fare. Per neutralizzare Mammina, invece, l’abbiamo semplicemente tenuta ai margini della vicenda. Mi sono reso conto che l’avevamo coinvolta troppo poco quando, a tre settimane circa dal matrimonio, mi ha chiesto: “Ma voi, precisamente, quando vi sposate?”. Allora le ho chiesto di aiutare Luna nella scelta delle scarpe da sposa, salvo farmi venire una crisi quando ho scoperto – dalla descrizione che me ne aveva fatto Luna – che non avevano la punta tonda. Sono stato un cretino, le scarpe erano bellissime. Ero soggetto a un filino di sindrome da ipercontrollo, temo: d’altra parte l’organizzazione di tutto era ricaduta su di me, giacché Luna era emotivamente un po’ troppo esposta; e comunque, me ne sono fatto carico volentieri. Il giorno del matrimonio, tutto è andato perfettamente. Soprattutto, Mammina era tremendamente raffreddata, dunque non ha potuto cantare Roma nun fa’ la
stupida stasera. Tuttavia, da Mammin non c’è salvezza. Avevo in effetti predisposto, nell’alveo della cerimonia civile celebrata da un caro amico per delega del Sindaco, alcune letture spaziando dal sacro al profano – da Sant’Agostino a Homer Simpson, per intenderci – affidandole ad alcuni amici. Due di queste letture erano in lingua inglese, e precisamente: una strofa di Love of my life di Frank Zappa, la cui lettura ho affidato a un amico perfettamente anglofono (che pure se l’è cavata così così) e la prima strofa di I Just Can’t Stop Loving You, che ho assegnato al mio amico Piercicci, poiché – da fan sfegatato di Michael Jackson – ritenevo che sarebbe stato facilitato nella lettura in inglese, conoscendone il testo a memoria. Giunto il suo turno, Piercicci ha raggiunto la sua posizione di fronte ai nubendi, di fianco al tavolo della celebrazione, e ha attaccato – tra lo sbalordimento generale – a cantare a cappella: “Each time the wind blows/I hear your voice so/I call your name...” Lo sgomento è stato tale che c’è stato bisogno di fare un’interruzione, poi con rimarchevole coraggio ha ripreso, è arrivato in fondo alla strofa e addirittura le ultime parole sono state accompagnate dal coro di quasi tutti i presenti, e salutate da un applauso breve quanto intenso. Alla fine della cerimonia, gli ho fatto i miei complimenti, formulato i miei ringraziamenti, e chiesto come s’era deciso a cantare invece di leggere. – Beh, mi sono consultato con Mammina. (Brivido.) – E che t’ha detto? – Che, se era una canzone, andava senz’altro cantata.
Sedici
Scarpe, segreti e bugie
Nonna Fiorellina, come tutti i suoi contemporanei, è cresciuta in un regime in cui le apparenze contavano eccome, e la delazione poteva essere molto pericolosa. Questo, unito alla sua innata riservatezza, ha senz’altro influenzato le sue scelte educative: io stesso mi ricordo di averla sentita più volte incitare figli e nipoti alla riservatezza più assoluta e metterli in guardia dai cattivi pensieri della “gente”. Quale gente e annidata dove, non era dato sapere. Il movente era invece pacifico: invidia (“Ma nonna, invidia di cosa?” “L’invidia è brutta”). La realtà doveva essere nascosta, travisata e ammaestrata, con segreti e all’occorrenza bugie, per prudenza e buon senso (in realtà in onore al nutrito pantheon di paure di nonna Fiorellina). Naturalmente, Mammina ha ereditato l’impostazione materna, solo in maniera più disordinata – ai limiti del dadaismo – e leggera, e meno finalistica (cioè spesso senza alcuno scopo); d’altra parte, fino a prova contraria, Mammina non vive più in un regime da quando era in fasce. Dunque Mammina raccomanda sempre a tutti di non riferire a nessuno le proprie parole (“Mi raccomando, non dirgli che te l’ho detto!”), ammantandole di avventurosa segretezza, e mente ogni volta che le sembra conveniente o semplicemente le capita. Salvo poi dimenticare entrambe le circostanze. Quest’anno, come detto, io e Luna ci siamo sposati e abbiamo tardivamente coinvolto Mammina chiedendole di accompagnare mia suocera Camelia e Luna a scegliere le scarpe e io, un po’ travolto da sacra furia organizzatrice, saputo che le scarpe erano a punta e avevano il tacco di resina (‘plastica’, nella mia percezione), ho telefonato a Mammina per manifestarle il mio disappunto. So che non avrei dovuto, e a sera la furia mi era già ata. La ruota, tuttavia, aveva già preso a girare e non si sarebbe fermata. Il mattino seguente, Mammina ha chiamato Luna per dirle che aveva “notato che forse non era tanto convinta delle scarpe e che magari avrebbero potuto cercarne insieme un altro paio”. Poi anche Camelia – tutta contrita – ha chiamato Luna per dirle che aveva “notato che forse non era tanto convinta delle scarpe e che magari avrebbero potuto cercarne insieme un altro paio”. Le stesse identiche parole.
– Camelia, ma te lo ha detto Mammina, delle scarpe? – … no, no. – Perché io ieri mi sono lasciato andare a uno sfogo… ma le scarpe andranno benissimo, sono sicuramente belle. – Sì, ma possiamo anche prenderne un altro paio… (Sempre più contrita.)
Naturalmente, mi sono precipitato a chiamare Mammina. – Mammina, hai detto tu a Camelia delle scarpe? – No, no! (Bugia.) – Dì la verità. Avete usato esattamente le stesse parole. Gliele hai suggerite tu? – No. (Bugia.) – Non mi arrabbio, ma dì la verità. Confessa, ché tanto lo so già perfettamente. – Ma tu non dire che te l’ho detto. (Segreto.) Perché le ho detto che io non ti avrei detto nulla. (Bugia/segreto.) – Ma perché le hai detto di non dire che vi eravate sentite, si può sapere? – Boh! Io le ho detto così.
Camelia naturalmente era dispiaciuta per avere fallito nella scelta delle scarpe e imbarazzata per dover mentire a me e alla figlia. Tutto questo perché? Perché – boh! – lei le ha detto così. In alcuni casi, Mammina si raccomanda di non riferire niente delle sue parole al preciso scopo di raggiungere di sponda una specifica persona con quelle stesse parole. Di solito gli obbiettivi di questa strategia comunicativa siamo io o mio fratello Boeing. Quando tra loro ci sono attriti, dice a me qualcosa che è rivolto a Boeing, raccomandandosi di non dirgli niente, nella speranza che io chiuda il
telefono con lei e chiami immediatamente mio fratello per parlargli al suo posto, e viceversa. Quasi sempre funziona, anche perché nel tempo noi ci siamo assuefatti al paradosso. (“Naturalmente mi ha detto di non dirti niente” “Certo, si capisce”.) Un’altra bugia chiave di Mammina è “Non me l’avevi detto”. A questa riesce pure ad addentellare una serie paurosa di utilissimi sensi di colpa (“A me non mi dite mai niente”). Non si tratta di mero rimbambimento senile: lo faceva anche trent’anni fa, è proprio un suo topos. – Allora, Mammina, la settimana prossima io e Luna partiamo, ti ricordi? – Ah! Non me l’avevi detto. – Ma certo che te l’avevo detto… – No. E quando me l’avresti detto?
Qui talvolta ti frega, perché vatti a ricordare quando glielo hai detto, magari due o tre mesi prima. Altre volte fortunatamente riesco a ricordare l’episodio. In realtà, se fossi disposto a inventare, probabilmente funzionerebbe lo stesso: Mammina non tiene ordinatamente la sua agenda, e comunque negherebbe lo stesso. – Mammina, te l’ho detto quando siamo andati insieme a prendere Dario a nuoto. Siamo saliti per le scale e sul quinto scalino ti ho detto che io e Luna a Natale saremmo andati in viaggio di nozze. – A me non me lo hai detto. Vabbè, ma mamma non ce la porti?
In queste altre cose invece è sempre sincera: secondo lei, sul serio ce la saremmo dovuta portare in viaggio di nozze.
Diciassette
L’ecatombe
Com’è purtroppo nell’ordine delle cose, tra i vecchietti del circolo frequentato da Mammina, ogni tanto qualcuno viene a mancare. Lei rende la cosa con le consuete tinte tenui: – Artù, qua è un’ecatombe! – Ma dove? – I vecchietti. – Ah. Ne è mancato qualcun altro? – Avoglia. Qui quasi tutti i giorni… Oggi ho fatto una figuraccia. Sono arrivata e ho chiesto: “Ma Marisa dov’è, che non la vedo?”. Mi ha risposto Luciana, quella che giocava sempre a carte con lei: “Marisa? Ma Marisa è morta, non lo sai?”. E io “Ma se l’ho vista ieri e stava benissimo…” – Ieri? – Ma sai, “loro” organizzano anche cene, a me non va e non ci vado. Anche ieri. Meno male che non mi ha sentito Angela, la sorella di Marisa. – Insomma che è successo? – Dice (da intendersi nell’accezione romanesca “mi hanno raccontato che, si dice che”) che sono andati fuori a cena, che lei ha mangiato come una belva e si è sentita male a tavola. L’hanno portata al Gemelli, e non è uscita più.
Sento che le viene da ridere, e un po’ pure a me. Forse è sollevata dal fatto di mangiare pochissimo. – Ma era grassa, Marisa? – No, no.
– E perché ha mangiato così? – Boh! Tanto io alle cene non ci vado.
Diciotto
In morte di nonna Fiorellina
L’ultimo compleanno che abbiamo festeggiato insieme con nonna Fiorellina è stato il suo novantesimo, quando – con un giorno d’anticipo sulla ricorrenza – ce ne siamo andati in un bellissimo ristorante a mangiare il fritto di pesce che tanto le piaceva (“Ma non dirlo a nessuno, eh?”) e poi a eggiare su un prato in montagna. Non voleva che si sapesse del suo desiderio del fritto “del ristorante”, che per lei era “un’altra cosa”, poiché non voleva offendere zia Tortina che si vanta di friggere meglio di chiunque altro. Quel giorno nonna Fiorellina ha assaggiato una miriade di portate (“Poco ma di tutto”), incluse l’ostrica cruda, il filetto di merluzzo in pastella e le lumache di mare; e naturalmente il mitico fritto misto di pesce. La particolarità di quel ristorante è che si tratta di un casale settecentesco fresco di restauro, poco fuori la martoriata – di lì a poco – città dell’Aquila, incorniciato da una corona di montagne. Dopo pranzo, quindi, è venuto facile portare nonna Fiorellina in montagna, a eggiare. – Riportala in macchina, che me la fai raffreddare! – Mammina, abbi pazienza. Nonna Fiorellina è coperta bene, e una eggiata la farà digerire.
Intendevo sottintendere che a novant’anni suonati non si poteva sapere quante altre volte sarebbe stata in alta montagna, né per quanto tempo sarebbe rimasta abbastanza in forma da eggiare nei prati. In effetti, è rimasta lucida e abbastanza attiva ancora per un paio d’anni, poi è caduta in una sorta di semincoscienza per altri sei anni, infine – novantottenne – ha reso l’anima al suo Dio. Non so se sia stata la biologia o la sua palpabile paura di morire, a portarle via quelle facoltà intellettuali che sono sempre state la sua arma più affilata: mi auguro però che – nell’abbandonarla – si siano portate dietro le sue paure di donna pur forte. Per i primi anni di questo suo declino, sono riuscito a farle ricordare i nomi dei figli e dei nipoti, poi solo quelli di Mastodontico – il primo nipote – e del suo risorgimentale maestro delle scuole elementari, tale Alfredo Astancolle; poi nulla più. Lo stesso le ho presentato Luna, e Boing le ha presentato Musa e il piccolo Dario.
Mammina negli anni della decadenza fisica di nonna Fiorellina mi ha sorpreso per la sua latitanza. Più la madre stava male, e meno andava a trovarla. – Che ci vado a fare? Tanto c’è la badante, e zia Tortina, e zia Bonissima mi dà notizie tutti i giorni. È che mi mette una tristezza vederla così… manco mi riconosce.
All’approssimarsi del funerale di nonna Fiorellina mi sono ate davanti agli occhi le dure prove che ha affrontato nel suo tempo: le due guerre mondiali; i lutti della sua famiglia d’origine (a cominciare dal padre, scomparso tragicamente quando lei aveva – mi pare – nove anni); la perdita di tutti e quattro i mariti delle figlie e di un nipote; le sue malattie. Mi sono poi tornati alla mente vari ricordi: gli anelli di fumo della sua sigaretta quando lavorava la maglia, le nostre barzellette irriverenti, raccontate nel segreto che le era tanto caro, il suo bicchiere di vino con tanto ghiaccio (e soprattutto tanto vino), il suo ‘non scendere’ la sera, le sue infinite citazioni musicali (per la meraviglia di me bambino, per ogni parola conosceva una canzone), le nostre lunghe chiacchierate, il suo mitico pollo coi peperoni (unico piatto che le abbia mai visto cucinare, e che le veniva benissimo), le sue raccomandazioni, i suoi saluti dal balcone, i baci che le davo a profusione, i suoi “Dio ti benedica”. Il giorno del funerale, ho scoperto quanto sia vano il mio peregrinare in cerca di riti suggestivi, liturgie, processioni, ecc. In effetti, il rito funebre di nonna Fiorellina non ha avuto niente da invidiare alla processione dell’Addolorata di Trani, ai misteri di Taranto, o al Te Deum di Chieti; la Via Crucis del Papa, invece, esce letteralmente a pezzi dal paragone. A parte com’era composta la salma, che pareva la mummia di Seti, e le proporzioni sballate del carro funebre (una Mercedes classe S, la più grande di tutte, per trasportare una vecchina rimpicciolita da quasi cent’anni di vita), il corteo è innanzitutto partito contromano. In un paese di poche centinaia di anime, cinto da una strada perimetrale circolare, percorrere l’ordinario senso di marcia non avrebbe comportato alcun disagio; ma dinanzi a una morte importante (cioè tutte, visto che i paesani sono quattro gatti) il paese deve fermarsi. Quindi un paio di tizi si sono appostati in alto, a fermare il traffico (forse una o due macchine), il grosso carro funebre ha fatto manovra invertendo la direzione di marcia, e la processione è partita. Mammina, a manifestazione del suo pur comprensibile nervosismo, ha soffiato al mio indirizzo un paio di volte, come un gattaccio a cui
si minaccia una sassata. In chiesa, le formule che la liturgia conciliare affida alla voce dei fedeli non sono state pronunciate ma letteralmente urlate dai paesani (AMEN!! E CON IL TUO SPIRITO!! CONFESSO A DIO ONNIPOTENTE… ecc.), e per poter leggere alcuni pensieri di commiato, ho dovuto insistere lungamente col prete, giacché era sua opinione che in chiesa dovessero parlare solo i chierici. Poi, con un crucifero alla testa, tra nuvole d’incenso, è partito il corteo verso il cimitero, con tutti i paesani – anche dai balconi – e tutti i partecipanti alla processione che recitavano rosari alternati a requiem e de profundis vari, a un volume inedito. Al cimitero s’è infine celebrata un’altra messa, e giù ancora preghiere. Mi sono dunque trovato sotto gli occhi, dopo tanti anni, la famiglia Relitti al gran completo: un’autentica rarità, giacché i fratelli Relitti appena possono si danno addosso a vicenda senza ritegno. Mammina con Dariosuo se n’è andata lontano, ha viaggiato, s’è vestita bene, è andata a teatro, ha condotto una vita all’insegna della gioia, pur nel solco di una sorta di laicismo etico; ha sperimentato generosità, altruismo, vivacità intellettuale e tante altre cose che ai Relitti, temo, non si potrebbero utilmente spiegare. Poi è dovuta scendere a forza dalla carrozza, e anche lì ne ha viste di ogni colore. A parte l’indelebile impronta familiare, quel pacchetto che nonna Fiorellina ha propinato a tutti senza distinzioni (vedi segreti e bugie, ecc.), mi pare che con la sua famiglia d’origine Mammina c’entri ormai pochino. Forse c’è anche un pizzico di questo, nel suo continuo lamentarsi della propria solitudine. Siamo saliti in macchina, per tornare insieme a Roma. – Come ti senti? – E come vuoi che mi senta? Mamma mia è morta tanto tempo fa.
Diciannove
Tumore!
Mammina è una specie di iguana, nel senso che ama il sole sopra ogni altra cosa, e non si fa sfuggire occasione per prendere la tintarella. L’anno ato è tornata dal mare con una strana crosticina sulla schiena, una specie di ulcera rotonda grande più o meno come una moneta. – Mammina mi raccomando, fatti vedere da un medico. – Mh, sì.
Sei mesi dopo. – Mammina, ti sei poi fatta vedere quella crosticina sulla schiena? – No, cioè sì. – E che ti hanno detto? – Niente. (Prova a cambiare discorso.) – Me la fai rivedere?
La formazione non è migliorata affatto, sembra identica a prima se non più brutta. – Non ti sei fatta vedere, vero? – No, cioè sì, da Gianandrea. (Il suo amico oculista.) – E che ti ha detto? – Eh, che la devo far vedere a un dermatologo.
– E quando ci vai? – Vabbè, prima o poi ci andrò. (‘Prima o poi’ è un altro suo grande classico, vuol dire ‘giammai’.)
Ho poi scoperto che Mammina, pur avendo un gran numero di medici tra i suoi amici, in veste di paziente teme i camici bianchi più del diavolo; in particolare i dentisti, perché una volta da bambina si è rotta un dente e tanto ha fatto il diavolo a quattro per non farsi fare la puntura di anestesia in bocca, che alla fine le hanno estratto il dente senza prima addormentarglielo. Quindi, quando si tratta di recarsi dai medici in qualità di paziente, si mette fifa e si dilegua. Per quanto il dettaglio sia poco gradevole, io ho una cisti sulla schiena che ciclicamente s’infetta e si gonfia, arrossandosi e recandomi una serie di fastidi. – Mammina, finalmente mi incidono la cisti. – Ah, bene. – Mi accompagni, ché forse al ritorno non potrò appoggiare la schiena al sedile della macchina, né quindi guidare? – Mh, va bene. Ma quando?
Mammina ama accompagnare noi figli, come faceva quando eravamo piccoli. Così, mi ha accompagnato da Andrea, un amico dermatologo. – Mi accompagni dentro? – Se ti incidono però io esco. – Certo, Mammina.
La visita si è svolta in due fasi: prima l’assistente di Andrea mi ha visitato e ha formulato la sua diagnosi, poi è entrato lui e ha emesso il verdetto conclusivo,
confermando e precisando il precedente. – No Artù, non te la incido. Ora è troppo infiammata. – Vabbè, quando non è infiammata perché non è infiammata, quando è infiammata perché è troppo infiammata… – Infatti, te la tieni. – L’avevo intuito. Senti, ti spiace dare un momento anche un’occhiata a Mammina? (Mammina trasecola.) – A me-e?? – Sì, a te. Giacché siamo qui, perché non fai vedere ad Andrea quella specie di pizza margherita che ti è sbucata sulla schiena? – Bleah! (Quando Mammina non gradisce qualcosa o se ne schifa, fa spesso dei versacci.) – Pizza margherita? Faccia vedere, signora.
Agguato riuscito. – Ecco, a suo figlio niente incisione, lei invece questo lo deve levare immediatamente. – Ce l’ha da quest’estate.
Mammina mi fulmina con uno sguardo che vuol dire “Spione!”. – Dobbiamo fare gli esami istologici, ma con ogni probabilità si tratta di un carcinoma basocellulare.
Emessa la diagnosi, Andrea mostra quell’orrendo arnese al suo discepolo, che lo
rimira con aria di meraviglia. Io, invece, sono atterrito. – Un… carcinoma? – Sì, è la forma più diffusa di tumore alla pelle. Va levato immediatamente, e ci sono basse possibilità di recidiva.
Mentre io intervisto Andrea, Mammina fa la vaga, chiede se può rivestirsi e si sposta in fondo alla stanza. – Ma… dovrà fare raggi o altre cure? – No. Quasi sicuramente no.
Alla fine ci accordiamo per iniziare gli esami e le cure, ci salutiamo e io e Mammina ci avviamo verso casa. In macchina, incredibilmente, sembra tutta contenta. – Mammina, ma… sembri contenta.
Annuisce, e le viene da ridere. – Ma… perché?
Stringe la punta delle dita nell’inconfondibile gesto internazionale della strizza. È contenta perché siamo venuti via dallo studio del medico.
Alla fine, la diagnosi è stata confermata, Mammina si è organizzata per conto suo, e si è fatta togliere il carcinoma basocellulare. Come aveva detto Andrea, non c’è stato bisogno di raggi né di altre cure. Naturalmente, ora deve usare una serie di cautele specifiche, non può più prendere il sole come prima e rimpiange
in maniera vibrante i tempi in cui poteva esporsi liberamente agli amati raggi solari. In compenso, vanta una nuova potente freccia all’arco del suo repertorio di avventure e lamentazioni horror (“Oh, io ci ho avuto il tu-mo-re!” ma anche “Ah, mi ricordo di quando potevo prendere il sole!”). La vicenda, tuttavia, pare averla toccata. Ora non prende più il sole, scrupolosamente, ed è diventata bianca in modo che mi riesce impressionante. Qualche giorno fa ha provato a piazzare un’autocommiserazione in forma di dubbio. – Mi sa che me ne è venuto un altro, di quei ‘cosi’. Ce l’ho da qualche mese. – Mammina di quali cosi? – Il TUMORE. – Mh. E dove? – Mah, sulla gamba mi è comparsa una cosa strana, simile a ‘quello’. – Mammina, che vuol dire simile a ‘quello’? Tu l’hai visto bene e dovresti saperlo riconoscere: o è lui o non è lui. – Aòh! Per me, è lui. (Qui si innervosisce perché messa alle strette.) – Va bene, al ritorno dalle vacanze me lo fai vedere e poi andiamo da Andrea a fare un controllo. (Il suo scopo di parlare di fantasticherie, a questo punto, le sembra raggiunto.) – Da Andrea o forse meglio all’IDI… – Non lo so, è inutile parlarne ora, andremo dove vuoi. (Il suo scopo di parlare di fantasticherie, a questo punto, le sembra sfuggire, ed è così.)
Qualche giorno più tardi l’ho vista, e mi sono ricordato della sua doglianza a sfondo oncologico. – Mammina, mi fai vedere quella cosa sulla gamba?
– Ah! Sì.
Sulla pelle ha una macchiolina bianca che si perde tra le numerose altre macchioline bianche che, vista la sua età, si manifestano con fin troppa moderazione. Non ha nulla di nulla in comune con la precedente affezione cutanea. – Sarebbe questo? – Sì. (Cerca di metterlo in luce, di dargli importanza, anche con confacenti espressioni facciali.) – Non mi pare molto preoccupante. – No, eh? (Ci manca solo che aggiunga: “Peccato!”.)
Venti
Colonizzazioni private
Alla tenera età di quarant’anni, ho deciso di intraprendere un percorso di analisi, e di affidarmi a una psicologa. Mammina, naturalmente, non l’ha presa bene: nella sua visione del mondo, dagli psicologi ci vanno i matti. – Mah, se vuoi un consiglio… – No, grazie. – Vabbè, io comunque te lo dico: secondo me fai male ad andarci. (Neanche la nomina.) – Grazie, Mammina, del tuo sostegno.
Teme, io credo, che la psicologa possa rivelarmi cose del ato tali da mettere in discussione la sua bontà di madre. Più ancora, ne teme gli influssi, come si trattasse di una fattucchiera e non di una donna con due lauree – la prima in filosofia, la seconda in psicologia –, una penna favolosa e una testa così. La scorsa seduta abbiamo parlato di come Mammina tentasse di impedirmi di chiudere a chiave la porta del bagno, del suo terrore che le nascondessi qualcosa di pericoloso, o comunque di perdere il controllo. La strategia che aveva elaborato era il perdono preventivo, di cui io tuttavia mi avvalevo solo quando le cose si mettevano male, ad esempio quando qualcuno, contrariato dai miei comportamenti vivaci, si spingeva fin sulla soglia di casa per levare le proprie comprensibili rimostranze. “Racconta tutto a mamma, ti perdono tutto, basta che mi racconti ogni cosa per filo e per segno”, mi diceva sempre. Mammina si vantava, in ogni possibile occasione, che io non le mentivo mai, e non aveva torto. A quanto pare, questo non andava tanto bene. In effetti, a tutt’oggi ho una certa difficoltà a mantenere tale il mio privato. Così la mia psicologa: “In un certo senso, in quel modo sua madre operava una sorta di colonizzazione del suo privato”.
Colonizzato da Mammina, mi ci mancava.
Ventuno
Il Tasso
Mio nipote Dario, senza giri di parole, è un bellissimo bambino benedetto da un carattere meraviglioso. Socievole, aperto, curioso, sempre pronto al gioco e a prendersi cura del suo prossimo, è prudente, fluido e ricco nel linguaggio: insomma, non si riesce a trovargli un difetto, a parte forse un po’ di pigrizia e dispersività (come suo zio), ed è uno dei bambini più piacevoli che si conoscano. Da neonato ha pianto pochissimo, ed è stato, anche a detta dei genitori, un bambino buonissimo e di facile gestione. Tant’è che in famiglia lo chiamiamo il Dalai Dario. Oltretutto, per il mio orgoglio, quasi tutti i nostri conoscenti sostengono che mi rassomigli parecchio. Una delle notti più belle della mia vita è stata quando mi è stato affidato in occasione della nascita della sua sorellina. Era emozionatissimo e mi ha fatto cento domande su me e suo padre quando eravamo piccoli come lui e la sua sorellina, e fantasticava su quello che avrebbero fatto insieme nella vita. Dal canto mio, gli ho regalato quattro bellissimi modellini di leoni, un maschio e una femmina adulti, un cucciolo più grandicello e un cuccioletto, e abbiamo giocato a dare loro i nomi di Boeing, Musa, Dario e… basta. Ho cercato di rispondere con onestà alle salve delle sue domande. Poi è ato a trovarmi un amico e Dario – che lo conosceva – ha voluto salutarlo. Alla fine si è addormentato, stanco e felice. Nel frattempo, su Kripton – ossia in clinica – vedeva la luce quel singolare concentrato di energia stellare che – a detta di tutti, a partire da sua madre – è tutta sua nonna: il Tasso. A meno di un mese di vita, il Tasso assumeva a volte un’espressione, più che corrucciata, furiosa: a Dario una faccia simile non l’ho ancora mai vista fare. A tre mesi circa manifestava la propria rabbia vibrando, a pugni stretti, e digrignando denti che ancora non aveva. A tutt’oggi, manifesta una determinazione sconosciuta in qualsiasi altro bambino, e nella gran parte degli adulti. La sua parola preferita è ‘no’ e, com’è vero il cielo, quando dice no è no. Caparbia oltre ogni immaginazione - anzi cocciuta - e lunatica, eppure a tratti dolcissima: è la bimba che può alternativamente ignorarti – se ad esempio si sente offesa, o semplicemente le gira così – o correrti incontro a braccia aperte
gridando il tuo nome illuminata da un sorriso senza eguali, facendoti sciogliere in un’amorosa pozza. Big Mama, la babysitter etiope dei bambini, sintetizza la vicenda così: “Dalai Dario piùù bòno. Tasso carattere piùù forte”. In effetti, una delle prime cose che ho pensato alla nascita del Tasso è stata che quel dolce dispersivo vagabondo del Dalai Dario col nuovo acquisto della famiglia probabilmente aveva guadagnato un personalissimo scudo antiatomico. Bisogna qui tener presente che: Mammina è sempre stata un po’ maschilista, nel senso che ha sempre affermato di non avere desiderato che figli maschi, perché le femmine le stanno antipatiche e sarebbero più cattive e maliziose; che a lei non potevano venire che figli maschi, eccetera, eccetera; e che è molto coinvolta nell’accudimento dei nipotini, giacché Boeing e Musa lavorano entrambi, e Big Mama non guida e la sera se ne torna a casa sua. Quindi Mammina accompagna, va a riprendere, rimane coi bambini la sera quando Boeing e Musa escono, assiste a recite e gare di nuoto, ecc. Ora il destino l’ha posta al cospetto di questo curioso specchio che la chiama nonna Mimmina. – Mammina, pensano tutti che la bambina ti rassomigli molto. – No! – Tasso, tu che ne dici, non rassomigli tutta a tua nonna Mimmina? – No!
Ventidue
Nonna-sitter
Casa di mio fratello Boeing, mattina. Boeing è al telefono con Mammina. – No. Me li fai vedere troppo poco. (Mammina, alternativamente, si lamenta di non avere più tempo per sé perché deve sempre stare coi bambini, o di stare troppo poco con loro: il punto è evidentemente il potersi lamentare di qualcosa.) – Mammina, guarda che se qualche sera ti vieni a tenere i nipotini e mi lasci libera uscita con Musa mi fai solo piacere, sai? – Ah, per me va bene.
Musa è una ragazza proprio in gamba. Lavora fuori città, quindi esce presto di casa e la sera torna stanca, solitamente verso le 20.00. A preparare la cena pertanto in genere pensa Boeing, che ha orari meno stringenti e peraltro è un cuoco provetto. Quella sera Musa è tornata a casa – non senza una certa coerenza – giustappunto verso le 20.00, trovando Mammina che si aggirava con Teddy (assiduo pretendente di Mammina) dalle parti del portone. – Ciao Mammina, ciao Teddy, che fate? – Uh, Boeing non t’ha detto niente? Si vede che vuole farti una sorpresa (Mammina adora i piani ben riusciti). Allora adesso che sali non dirgli niente, che sennò gli rovini la sorpresa! (Segreto.)
Gli rovini cioè la sorpresa già vanificata dall’incontro appena avvenuto. A Mammina non bisogna dare retta in generale, ma soprattutto – più che mai – quando cerca di tirarti dentro la sua spirale di segreti e bugie, come visto. Lasciarsi abbindolare significa, da un lato, finire immersi in una specie di atmosfera salgariana (e questa è la parte migliore), dall’altro, certamente trovarsi in qualche imbarazzo, a volte serio.
Musa è in gamba, ma caderci è facile. È salita facendo finta di nulla, Boeing l’attendeva in grembiule e ciabattine infradito, canticchiando, tra i fornelli e il diffondersi degli aromi della salsa di calamari e i profumi delle erbette del balcone (Boeing e il Dalai Dario ne coltivano una discreta selezione), coi filetti di pesce crudo e pronto per essere scottato in padella, una delle migliori bottiglie della riservetta di casa sul tavolo. “Eccomi qui”, ha gongolato Musa senza togliersi il soprabito. – Ciao amore, bentornata. Non ti levi la giacca? – Dai, su. – Dai su cosa? – Ora non farmi spogliare per farmi rivestire, fammi la sorpresa, dai, ho incontrato qui sotto tua madre e Teddy…
Mio fratello Boeing racconta di avere provato la sensazione di Neo di Matrix quando comincia a leggere la Matrice, collegando tutti i puntini dalla telefonata della mattina (“qualche sera” frainteso in “stasera”, “per me va bene” inteso come appuntamento con orario a propria scelta) a quell’istante (la cena romantica che salta, lui che deve vestirsi per uscire, il campo invaso a sorpresa nientemeno che da Mammina accompagnata), e che gli si è gelato il sangue al pensiero di essersi segnato un simile autogol. Alla fine Mammina e Teddy hanno fatto una cenetta coi fiocchi, bevendo birra calda (mio fratello ha ritirato la bottiglia che aveva preparato per sé e Musa), mentre Boeing e Musa sono usciti, romanticamente, per un’oretta. Normalmente, quando Boeing e Musa rientrano a casa nelle sere in cui fa da nonna-sitter, Mammina protesta, di solito urlando che sono tornati troppo tardi (in realtà perché – messi a letto i piccoli – si abbiocca, e appena sveglia è nervosa). L’altra sera no. – Già siete tornati? E che mi avete chiamato a fare?
Ventitré
Mamminocentrismo
Qualsiasi umana aggregazione per Mammina è un potenziale pubblico. Da stupire, stordire, ammaliare, commuovere, violentare. Datele un microfono e canterà Roma nun fa’ la stupida stasera. Azzardatevi a mettere un disco, e vi beccherete una lezione di ballo. Datele insomma una qualsiasi occasione, e vi farà vedere lei come si cavalca una moltitudine. Di sicuro non le difetta una certa capacità di sorprendere; a maggior ragione, se non sa bene come regolarsi, se ne esce con il colpo di teatro più solenne che ha in canna. Remore, zero. L’ultima volta è accaduto lo scorso Natale, a casa di mio fratello Boeing, con tutte le famiglie riunite, quella di origine di mia cognata Musa, la nostra, e quella di mia moglie Luna, più il mio amico Ansiolò e la sua amica Nunzia: una platea più che appetibile per Mammina. Pochi giorni prima, avevo affrontato con Mammina un tema scabroso dell’infanzia – quello dei suoi ceffoni – venuto fuori prepotentemente nelle più recenti sedute dalla mia analista. Sbollita la furia iniziale – non pensavo all’argomento da vent’anni buoni – ho pensato di parlarne con Mammina, nel corso di una lunga telefonata. – Ma quali botte? Io mica ve le davo. – Mammina, so che quello delle punizioni corporali era un metodo educativo diffuso (in Italia pare che tutt’oggi il 25% dei genitori lo adotti), e che nonna Fiorellina non vi ha certo risparmiati, ma insomma addirittura negare… io che le prendevo, credimi, me ne ricordo benissimo. – Ma parlane con tuo fratello e senti che dice! – Mammina, ne ho già parlato con Boeing, e si ricorda benissimo che le prendevamo. – Ma… mi dispiace. Ecco, ora mi sento malissimo.
La telefonata si è conclusa con Mammina rammaricata e io un po’ depresso, sospeso tra la sensazione di inutilità di intavolare un simile dialogo con lei a distanza di tanti anni, il senso di colpa per averla fatta dispiacere, l’idea che dopotutto meritasse anche un po’ di rimanerci male, e la convinzione che il confronto non sia mai sbagliato. I picchi del nostro dialogo sono stati la sua difesa di mio padre quando le ho espresso il rammarico di non capire perché le avesse consentito simili comportamenti (“Lui non voleva!”), e una sua spiegazione un po’ più introspettiva di quei fatti (“Io non sapevo come comportarmi, tu eri un bravo bambino ma tanto vivace e io spesso non sapevo come prenderti, come reagire. Non conoscevo tante parole che ora so…”). Poi, in brevissimo tempo e naturalmente, le è ata, e anche a me. Tuttavia, pochi giorni dopo, il 23 dicembre, sono ato a casa di Boeing – dove Mammina era impegnata a fare la nonna-sitter – a ritirare del pesce e alcune altre cose che mi servivano per cucinare un piatto per la cena di vigilia. Quel pomeriggio, come da tradizione, mi ero concesso una mezza dozzina di brindisi con alcuni amici, e andavo di fretta, quindi – un po’ per non farle capire che ero brillo e un po’ per sbrigarmi – sono stato un po’ spiccio. E ho caricato la bomba. Mammina, infatti, si è convinta che io ce l’avessi con lei. E – non sapendo come altro meglio comportarsi – si è messa sul chi esplode. Mammina è mamminocentrica. Qualsiasi cosa accada al di fuori dei suoi schemi, è contro di lei. Figuriamoci dopo essere stata allertata su un tema scottante. La sera della vigilia ci siamo trovati tutti insieme a tavola, e io ho preso in braccio il Tasso. Dall’altra parte del tavolo, Mammina mi ha urlato alcune istruzioni (“Falle fare questo, chiedile quello!”), e io le ho risposto distrattamente che col suo permesso il mio minuto con lo bambina lo avrei trascorso come meglio ritenevo. All’esito, Mammina si è alzata da tavola, si è vestita, ha imboccato la porta e se n’è andata, al grido di: “Io dove non mi vogliono non ci resto!”. Ho dovuto prometterle che non ce l’avevo con lei. Dopo cena, sotto casa, quando tutto sembrava volgere a una sufficientemente pacata conclusione, si è ingelosita dei miei suoceri, ed è partita sgommando (sul serio) senza salutare né me né loro, coi quali mi stavo intrattenendo troppo a lungo e ai suoi danni. Ci siamo spiegati via sms. Le ho dato della maleducata e mi ha risposto “sfogati pure”. Ho rilevato che a sfogarsi fin qui era stata lei, e alla grande, e per il pranzo di Natale le ho fatto promettere che avremmo almeno fatto finta di essere
adulti e beneducati. Più o meno ci siamo riusciti. Ma dove sono finiti i “vecchi saggi” dell’archetipo? E quelle vecchiette tutte torta, focolare e uncinetto, sempre pronte a elargire e ad accogliere, serene e felici nella loro casetta di marzapane?
Ventiquattro
Cinema!
Nella storia, non trovo antecedenti che calzino abbastanza precisamente a Mammina. Certo, non le vedo l’astuzia di Agrippina, ma solo in certa misura la sua teatralità, quando la morente madre di Nerone indica ai suoi sicari il proprio ventre, per farsi colpire a morte nel punto in cui ha generato l’imperatore matricida. Non le vedo la capacità politica di Luisa di Savoia, ma solo in certa misura la sua invadenza. Di Giocasta, le vedo la disposizione a sposare i propri figli, solo che Mammina – a differenza della triste regina di Tebe – lo farebbe deliberatamente. Nemmeno le vedo la cultura e la fortezza d’animo di Cornelia, anche se si è sempre dichiarata altrettanto orgogliosa dei propri figli-gioielli. Insomma, coi classici non ci siamo, a parte forse una Penelope che la sera disfi più di quanto il giorno non tessa. Non è d’altra parte la madre umile e forte di Ungaretti, non ha l’ironia mite della madre di Quasimodo, ha di Sophie Portnoy la capacità di ingenerare continua ansietà e di brandire il senso di colpa come un’arma formidabile, ma non le sue capacità domestiche né la straordinaria concretezza. Insomma, Mammina non la vedo tanto neppure come figura letteraria. In pittura, forse giusto la Madonna di Munch, con la sua bellezza sensuale e quel fetino rattrappito dabbasso. Sul punto, ci tengo a precisare che il mio complesso di Edipo ha avuto uno sviluppo da manuale: i sentimenti di amore che provavo per Mammina li manifestavo apertamente (da bambino le ho chiesto varie volte di sposarmi e lei ha sempre accettato), ma non erano accompagnati da grandi sentimenti di rivalità nei confronti di mio padre (per me lui poteva rimanere suo marito). In pratica, ho avuto un Edipo poligamo. In realtà, il personaggio di Mammina è stato secondo me catturato e reso con la migliore efficacia dalla settima arte. Sì, direi che Mammina potrebbe essere definita come una figura cinematografica: ma bicomponente, come il cemento del dentista. In lei infatti c’è qualcosa della Jasmine-Jeanette di Blue Jasmine di Woody Allen, e molto della madre della Belva Umana. Se fosse un’attrice mora sarebbe la Magnani, ma essendo bionda (tintissima,
come d’uso tra signore e signoruzze della sua generazione e denominazione geografica) si vanta di somigliare alla Vitti. Se fosse un animale, invece sarebbe una cicala, carnivora. Questo giochino – a parte forse per la Magnani e la Vitti – non le piacerebbe.
Venticinque
La cataratta
Mammina ha sempre avuto buone orecchie ma cattivi occhi, nel senso che ci vede pochino. Qualche tempo fa siamo andati insieme a Tivoli, di sera, con la sua macchina. Guidava lei, e alcuni indizi dicevano che vedeva forse meno del solito, ad esempio il grande fastidio che le procuravano i fari delle macchine provenienti dalla corsia opposta, le continue domande che mi rivolgeva sulla direzione da prendere, ecc. Quando però mi ha chiesto “Dove dobbiamo andare?” nel preciso momento in cui stavamo ando sotto l’enorme cartello con scritto “A1 – Roma-Napoli” a caratteri cubitali bianchi su sfondo verde ho capito che era allarme rosso. Quella sera naturalmente abbiamo litigato, perché le ho fatto notare che non ci vedeva un tubo e ho preteso di guidare. Alla fine ha ammesso di non vederci bene e di doversi togliere la cataratta. – Me lo ha già detto Gianandrea (il suo amico eccellente oculista) che la devo fare. Ma non mi ha ancora dato appuntamento, dice che dobbiamo aspettare perché ancora non è il momento. – E quando te lo ha detto? – Boh, tre anni fa. – Magari abbiamo aspettato abbastanza, non ti pare?
Dopo appena un anno e mezzo dall’episodio della “A1 – Roma-Napoli”, siamo andati in ospedale per la cataratta di Mammina. Sono andato a prenderla alle 7,00 di mattina, e in macchina non l’ho lasciata fumare. Quando siamo arrivati nel parcheggio del nosocomio, è scesa dell’auto e ha cominciato a camminare verso l’ingresso mentre io ancora stavo facendo manovra; l’ho quindi raggiunta a o spedito e nell’avvicinarmi mi sono accorto che sacramentava tra sé e sé. Così, da sola: camminava, fumava e diceva parolacce in quantità. Ha protestato per l’ascensore che non funzionava, per le scale che non ce la faceva a fare, e perché quel giorno non hanno potuto operarla giacché aveva una congiuntivite in corso.
Un paio di settimane dopo, siamo tornati alla carica. Dopo l’accettazione, donne e uomini sono stati collocati in due stanze diverse a sei letti, dove hanno potuto cambiarsi e attendere il proprio turno in sala operatoria, coi loro accompagnatori che in linea generale erano figli, o meglio figlie, a parte me. Sono quindi uscito dalla stanza ogni volta che una signoruzza si è dovuta cambiare – per quanto ci fosse un bagno dove farlo – e ho trascorso del tempo con Mammina, le altre degenti e le loro accompagnatrici. Manco a dirlo, tutte erano più mansuete di Mammina. Alcune hanno perfino gradito il pasto leggero – una fetta di pane, un’insalatina, un po’ di prosciutto e una mela – che è stato servito loro nell’attesa. “Puah! Io questa non la mangio”, ha esordito Mammina scartando l’insalata, mentre la signoruzza nel letto di fronte al suo ne stava decantando le lodi alla figlia. Ha poi largamente protestato per il protrarsi dell’attesa, infine sono venuti a prenderla e l’hanno portata in sala operatoria. Mentre era dentro, ho avuto occasione di osservare queste figlie, con le loro mamme buone. Dopo un’oretta buona, si è sentito del chiasso provenire dal corridoio. – Ma signora, lei protesta per tutto!
“È la mia”, ho comunicato laconico ai presenti. Era infatti lei. Dopo un’oretta, ci hanno dimessi, e ci siamo congedati salutando i degenti con cortesia. – Arrivederci signore, auguri. – Tanti auguri, signora! – E a me, scusate? – Eh, anche a lei.
Ventisei
Gli occhiali nuovi
Dopo l’operazione, è iniziata la tarantella degli occhiali nuovi. Per quindici giorni filati, non è stato possibile parlare d’altro che di prezzi degli occhiali, di ottici che sbagliavano a farle gli occhiali, di andare a ritirare, riportare e riprendere gli occhiali, delle lenti multifocali (altra fissa di Mammina), eccetera. A un certo punto, il diluvio è cessato, ma la luce non è tornata. Qualche sera fa, siamo incappati in uno dei soliti equivoci di Mammina, del tipo appuntamento auto-dato. – Ci dobbiamo vedere. Mi serve questo, quello e quell’altro. – Bene, Mammina. Con Luna pensavamo di are da te a cena. Ti citofoniamo, scendi e andiamo a mangiare una pizza da Daria.
Si chiama Daria la pizzeria sotto casa sua, gestita da due fratelli che conosciamo dall’infanzia. C’è però che Mammina cucina poco e fa poco la spesa, e quindi a casa sua andiamo pochissimo, e siamo sempre preoccupati che lei mangi troppo poco e male. – Altrimenti, se hai fatto la spesa, potresti prepararci qualcosa tu a casa tua. – Ma… da me? – Dai, non ti preoccupare. Al limite ci sentiamo dopo e decidiamo.
Dopo non ci siamo sentiti, quindi con Luna siamo arrivati lì sotto, io sono entrato da Daria a prenotare il tavolo, poi siamo andati a citofonare a Mammina. – Vi apro. – Ma… non scendi?
– No, avevamo detto che mangiavate qui. (Brivido.) – Ma veramente avevamo detto che avremmo deciso in seguito, io ora ho prenotato il tavolo da Daria. – Vabbè, io ormai ho preparato.
Naturalmente, ho disdetto il tavolo e abbiamo imboccato il vialetto di casa sua, non senza un po’ d’inquietudine, giacché mi sono reso conto in quel momento che nella relativamente nuova casa di Mammina, di sera, non eravamo mai stati. La cena è andata piuttosto bene, ha cucinato il coniglio alla cacciatora e le patatine al forno, e io mi sono auto-ibernato secondo un antico schema che applico solo con Mammina, e che consiste nel dire solo ‘sì’ e avere sempre la bocca piena. Malgrado l’auto-ibernazione, a un certo punto mi sono reso conto che Mammina a tavola indossava occhiali verdi da sole. – Mammina, ma ancora non li hai ritirati gli occhiali? – Sì, sono questi. – Ma questi sono da sole! – Sì, me li sono fatti fare così. Così non mi si vedono le borse sotto gli occhi e queste rughe qui.
Ventisette
L’appuntamento
Se c’è una cosa di cui mi pregio, è di essere una persona sincera. A maggior ragione amo essere sincero col Dalai Dario, perché credo che ai bambini possibilmente vada detta sempre la verità, sia pure nel modo migliore possibile e a tempo debito. Ciò anche perché le bugie, sia pure dette “a fin di bene” (schermo pericolosissimo), mi sembrano più difficili da perdonare, in retrospettiva, anche di una verità poco piacevole. Certo una verità mal confezionata e malamente assestata può essere devastante (“Tua madre mi mette le corna con quel verme dell’idraulico”), ma non si parla di quello bensì semplicemente di instaurare col bambino un rapporto di fiducia, basato sull’onestà reciproca. Mi piace molto pensare che il Dalai Dario possa fidarsi di me e un domani all’occorrenza trovare, nel nostro comune percorso, tutte le conferme del caso. Allo stesso modo, ci tengo – particolarmente con lui – a mantenere la parola data, a rispettare gli appuntamenti, eccetera. Da alcuni anni la gestione di Mammina è ata a me. Da allora mi chiama, in prevalenza, quando le serve qualcosa. A qualsiasi ora, anche durante i week-end. L’altra domenica, alle 9,00 di mattina, è squillato il mio telefono, ed era naturalmente lei. – Pronto, Mammina? – Ciao, ti volevo dire: mi è arrivata questa cartella per il pagamento di… – E mi ci chiami di domenica mattina alle 9,00? Allora, stabiliamo una regola: durante il week-end niente più beghe, sono interdette. – E che vuol dire? – Che mi puoi chiamare per chiedermi come sto, per dirmi che fai di bello, per invitarmi a pranzo: quello che vuoi, ma niente rogne. – Ma questa cartella dice… – Dice che è domenica e ne riparliamo non prima di domani.
Così, ha praticamente smesso di chiamarmi nei week-end. Un paio di mesi dopo, si è scordata della regola, mi ha richiamato durante il fine settimana per una bega, e ho tenuto il punto. Il lunedì mattina mi ha richiamato. – Allora dovrei are da te per “quella cosa”. – Va bene, oggi è lunedì che per me è la giornata più complicata della settimana, sentiamoci in tarda mattinata per vederci in caso nel primo pomeriggio da me.
La mia giornata è poi andata per il suo verso, e a pranzo sono dovuto andare fuori Roma per lavoro, cosa che ho fatto con lo scooter. Mammina d’altra parte non s’era sentita. Tornato in città, ho trovato nel cellulare i messaggi di due telefonate, di Luna e di Mammina. Ho richiamato prima Luna. – Amore, ti cercava Mammina. – Sì, ho visto. – Poi ha chiamato me per dirmi di cercarti. – Ero in scooter e non sentivo il telefono, ormai è tardi, la vedrò domani.
L’indomani mattina, mi ha chiamato Musa. – Come stai, Artù? – Bene e tu Musa bella? Quando ci vediamo? – Quando vuoi, ma ti ho chiamato perché Dario si era preoccupato. Lui voleva chiamarti stamattina presto, prima di andare a scuola, ma gli ho detto che a quell’ora non si telefona. – Preoccupato di cosa? – Per te. Dice che ieri con Mammina sono venuti a un appuntamento da te ma tu
non c’eri, ti hanno telefonato e non hai risposto, e non rispondevi nemmeno a zia Luna. Voleva sapere se stai bene e perché non c’eri. – Sono venuti da me? Ma io avevo detto a Mammina che ci saremmo dovuti sentire in tarda mattinata per fissare eventualmente un appuntamento per il primo pomeriggio, poi non ci siamo sentiti e io sono dovuto andare a fare una commissione fuori Roma. – Ah, ah! Sì, m’ero immaginata qualcosa del genere. Dario ha detto che gli hai dato la sòla.
Lo zio sòla. Grazie, Mammina.
Ventotto
Il piccolo avvocato
Nonna Fiorellina, vai a capire il perché, ha insegnato ai suoi figli a essere orgogliosi; non si tramanda tuttavia che abbia mai suggerito loro di comportarsi in modo di cui andare orgogliosi a buon diritto. Poi spiegava loro che “la gente” è cattiva, ma soprattutto invidiosa (ma poi di che?), e che ha orecchie dappertutto. In effetti i suoi figli – a parte il godere di buona salute e l’aver tirato su dei bravi ragazzi – non sembrano essersi realizzati poi tanto, nella vita; ma tutti sono molto orgogliosi di non si sa bene cosa, e sospettosi e guardinghi, pronti a diffidare e a offendersi a ogni piè sospinto, e ad attaccare briga se non si sentono rispettati. Anche Mammina partiva così, poi mi pare che con un certo senso pratico si sia trovata qualcosa di concreto di cui poter essere orgogliosa: innanzi tutto la propria avvenenza e il proprio marito. È poi fiera dei propri figli, e non perde l’occasione di presentarci a chicchessia: Boeing come “il grande” e io come “il piccolo”. Mi sono sempre chiesto che effetto faccia alle persone vedere me, col mio quintale di peso, la mia barba e l’andatura ursina, e sentirmi presentare come “il piccolo”. Chissà come si figurano Boeing, “il grande”: un irsuto Colosso di Rodi, posso immaginare. Per fiera che Mammina sia di noi, tuttavia io e Boeing usciamo schiacciati dal confronto con Dariosuo, nostro padre. Era più elegante, più in gamba e attivo, ma più di tutto aveva molto più successo di noi: nel tempo era arrivato a collaborare con grandi designer, e aveva perfino visto inserire nella collezione del design del MoMA (il Museum of Modern Art di New York) un pezzo prodotto dalla sua azienda. Soprattutto – quel che più rileva per Mammina –, guadagnava molti più soldi di noi. Credo che Mammina abbia accarezzato la speranza che io e Boeing, conseguito il successo, avremmo potuto restituirle quello che aveva perduto, o meglio che ciò che la vita le avrebbe sottratto (un’altra declinazione del grande tema mamminico del ‘ritorno’). La sua speranza è però rimasta delusa: il tempo è ato e io e Boeing siamo diventati grandi, ma non anche ricchi. Abbiamo raggiunto entrambi dei traguardi – lavorativi e non solo – anche significativi, questo sì, ma non lo status che
interessava a Mammina. Naturalmente, tutto questo lei non lo dice, ma si capisce benissimo. Ad esempio, quando mio fratello Boeing dopo essere partito da un minuscolo centro diving, ha messo su la prima – per fatturato, e risultati a vari livelli – società italiana nel settore dei servizi per la subacquea, che in alta stagione impegnava oltre cinquanta addetti, molto specializzati e ben formati internamente all’azienda, lei continuava a chiedergli perché fe “il subacqueo”. Guarda obliquamente anche me, si capisce, perché non ho un mio studio, la mia segretaria, ecc.: le mie medaglie, insomma. Non fa tanto caso, Mammina, alle differenti motivazioni che sospingevano mio padre e noi, al fatto che siamo persone diverse ma non per questo necessariamente meno valide, ai tempi che più diversi non potrebbero essere (l’Italia del “boom” e l’Italia della “crisi”, per intenderci). La mia analista definisce questo insieme di comportamenti come il “farci precipitare addosso la propria ata grandezza”. C’è però una cosa che ancora oggi rende Mammina tronfia e probabilmente la fa sentire protetta, ed è il mio titolo di avvocato. Quindi non perde occasione di dire ai quattro venti che suo figlio è un avvocato, ormai credo non più solo in funzione difensiva ma anche obliquamente minacciosa, come a dire: “Guarda che ti sguinzaglio alle calcagna mio figlio avvocato, sai?”. Tanto ne va fiera che perfino sul suo citofono, senza peraltro chiedermene assolutamente il permesso, ha affisso un cartellino a forma di mezzaluna col mio nome preceduto dal titolo, in ameni caratteri azzurrini; al centro di questa iconcina pop, campeggia il suo nome, e neanche quello vero: quello da battaglia, senza cognome. Quando ho visto quell’accrocco, ho provato a immaginare cosa l’avesse animata nel comporlo, e non mi sono sentito di dirle nulla. Mi sono limitato a citofonarle, per farla scendere com’eravamo d’accordo: – Chi è? – Il piccolo avvocato.
Ventinove
La saga dell’anello
Mammina è immortale, nella misura in cui tanto venera il ato quanto schifa il domani, così in un certo senso vivendo in un eterno presente di cicala molto malinconica. Gestisce in questo solco anche le sue sostanze, o meglio le gestiva. La penultima che ha fatto riguarda una massa di quadri, vasi e piatti antichi, piccole sculture, e altri oggetti di valore, che – collezionati in una vita da mio padre – custodiva nella sua casa. Era nell’aria l’ennesimo trasloco, sicché Mammina ha deciso, senza consultare né me né Boeing, che pure avevamo tentato di ammansirla, di portarsi avanti con il lavoro. Ha così trasportato, con il suo spasimante Teddy, tutti quegli oggetti in un garage sito in una ghignante borgata di Roma. Provo a immaginare lo stupore e l’incredula esultanza dei ladri che hanno assistito alla scena di quei due ultrasettantenni che stipavano un box di ogni ben di Dio. Certo, si saranno trovati costretti a un lavoraccio, ma come si dice, la fortuna è donna e chi se la lascia sfuggire oggi, non deve credere di ritrovarla domani. Purtroppo, quei ladri conoscevano questo detto, e la notte stessa in cui Mammina e Teddy hanno ultimato la loro fatica, con solerzia hanno svaligiato il box da cima a fondo. Da allora, Mammina è stata interdetta dalla gestione dei suoi e nostri (pochi) residui beni familiari. Un po’ le va bene, giacché le fa sempre piacere trovarsi sollevata da compiti e responsabilità; d’altra parte, non manca ogni tanto di prodursi in qualche vibrata protesta e di assestare qualcuna delle sue unghiate qui e là. – Mi hai portato via i gioielli! – Non ti ho portato via niente, sono stati messi al sicuro e serviranno per il tuo futuro.
Naturalmente parlare di ‘futuro’ con Mammina è una pretesa naïf, quasi una provocazione.
– Ma io li rivoglio! – Mammina, in casa ne hai già troppi, e sai che sono contrario a che li indossi. Potrebbero scipparti, e farti cadere…
Alcuni di quei gioielli nel tempo sono stati venduti, e le somme ricavate sono state destinate esclusivamente al mantenimento di Mammina. Mammina rivuole soprattutto quelli. – Io rivoglio questo e quello! (Proprio quelli che – come sa benissimo – sono stati venduti.) – Certo, e io rivoglio i miei giocattoli, assolutamente.
L’ultima che ha fatto riguarda proprio uno dei gioielli rimasti nella sua custodia, un anello in oro con una pietra cabochon centrale e due piccole baguette laterali, che indossa spessissimo. Un paio di mesi fa Mammina ha organizzato – dietro varie insistenze mie e di Boeing – il secondo pranzo in casa sua. Insieme a me, Luna, Boeing, Musa e i piccoli Tasso e Dalai Dario, erano presenti anche il mio amico Ansiolò e sua figlia Winston. In quell’occasione, i bambini giocando hanno fatto cadere il cassetto del comodino di Mammina, che – serafica come sempre – ha preso a urlare come un’aquila. Un paio di giorni dopo, si è resa conto che non trovava più il suo anello. In prima istanza, se l’è presa con me. – Me lo hai preso tu! Ridammelo, lo scherzo è durato abbastanza.
Ormai io sono quello che le ruba i gioielli. Chiaramente, sentitomi accusare, le ho risposto con fermezza. Si è allora convinta che lo avesse preso il Dalai Dario e ha cominciato a circuirlo dicendogli all’incirca che ‘forse poteva darle una mano a ritrovare quell’anello poiché voleva regalarlo a Musa’. Un paio di mesi dopo, presente il Dalai Dario, ha ritrovato l’anello, sul comodino. Me lo ha detto lui, sullo scooter, mentre andavamo a vedere una mostra.
– Sai, zio, quell’anello di nonna che io avevo perso e che lei voleva regalare a mia mamma? Nonna lo ha ritrovato, era dietro la lampadina, sul comodino. – Amore, se era sul comodino, allora non lo avevi perso tu, e non avevi nessuna colpa.
La sera, tutta contenta, Mammina mi ha scritto un sms: “Anello ritrovato!”. Risposta: “Ora, come promesso a Dario, dovrai regalarlo a Musa”. Silenzio. Dopo qualche ora, infine mi ha scritto: “Quando morirò”.
Trenta
Anniversario di matrimonio
A onor del vero, l’anniversario di matrimonio dei miei genitori non è mai entrato a far parte dell’epica familiare: è sempre stata più che altro una festa della coppia, una cosa tra loro. Mammina tuttavia ci tiene che le si facciano gli auguri, ma con due figli maschi la cosa più o meno funziona che lei ce li chiede e poi noi glieli facciamo. Quest’anno si è sbagliata, e me li ha chiesti per messaggio il giorno prima. Così, il giorno dopo – quello giusto – mi sono ricordato, e l’ho chiamata. – Mammina, buon quarantasettesimo! – Perché? – Come perché, oggi sarebbero quarantasette anni di matrimonio. – Certo.
Questa dei dialoghi surreali non è una cosa tipica solo di Mammina: col tempo ho capito che è così che ti spiazzano più o meno tutte, alla sua età. – Va bene, mi racconti? – Ma cosa? – Ma del giorno del tuo matrimonio, no? – Eh, ci siamo sposati nella porcunziola ad Assisi. Non si dice così? – Mammina, “porziuncola” (ride), ma non è di questo che ti sto chiedendo. – E che vuoi sapere? – Voglio sapere per filo e per segno com’è andata. Quel giorno ti sei svegliata, e poi? Dove ti sei svegliata, innanzi tutto?
– Eh? A casa, a Roma, con tuo padre, dove altro volevi che mi svegliassi? – La notte prima non avete dormito ad Assisi? – Noi no. Tuo padre ha pagato l’albergo a tutti, ma a lui non gli piacevano queste ammucchiate. – A tutti chi? – C’era solo la mia famiglia, mia madre e mio padre. – Mammina scusa, ma nelle foto ci stanno zia Tortina con zio Vanni, che mi sa che era pure testimone. – Sì, è vero, il mio. – Ecco, nelle foto poi ci stanno zia Desaparecida con zio Varo, zia Bonissima con zio Giangiacomo, i tuoi fratelli e Alfonso. – Infatti, Alfonso era l’unico invitato di tuo padre, e gli ha fatto da testimone. – Va bene, loro hanno dormito ad Assisi e voi no. – No, noi siamo arrivati con lo spider di tuo padre. – E chi ti ha aiutato a vestirti, nonna Fiorellina? – No. Nessuno. – Ma come? E il trucco, e tutto il resto? – Ma vedi, a parte che io mi sono messa un vestito semplice, e poi ero già incinta e loro non lo sapevano. Quindi mentre mi cambiavo non ho fatto entrare nessuno.
Mio fratello Boeing sarebbe nato, in lieve anticipo, alla fine di dicembre. Il matrimonio si è celebrato alla fine di giugno, quindi Mammina poteva essere al massimo incinta di tre mesi. Non credo che si vedesse nulla, ma mia nonna non dormiva certo in piedi. È proprio che questa vaghezza un po’ maldestra
appartiene a Mammina: è fatta così. – E il trucco, hai fatto tutto da sola? – Sì. Anzi, non trovavo l’acetone e neanche mi sono potuta togliere lo smalto. Sai, allora non stava bene andare a sposarsi con lo smalto.
In effetti, Mammina nelle foto ha un bellissimo smalto rosso, che risalta sulle sue mani affusolate. – Pensa che tuo padre non ha voluto neanche fare la comunione. Però poi lo abbiamo fatto benedire.
Mi figuro i parenti di mia madre che tengono fermo a forza mio padre, mentre il prete lo benedice contro la sua volontà. – E poi? – E poi c’è stato il rinfresco. – Dove? – In albergo. Un bellissimo rinfresco. Sai, questi grandi alberghi lo facevano. Neanche le dico che a occhio e croce lo fanno ancora. – Non ti ricordi quale albergo? – No. – Va beh. La macchina con cui vi hanno prelevati e riportati di chi era? – Era la spider di tuo padre. – Ma no, era una berlina. Ci sono le foto di voi due seduti dietro, tu tutta commossa e felice.
– Ah. Allora era la macchina di zio Vanni, mi sa, o di zio Varo. O di Alfonso? – Andiamo bene. – No, mi sa che era la macchina di zio Vanni, e che guidava lui. – Va bene, quindi vi hanno prelevato e riportato in albergo, dove c’è stato il rinfresco. E poi? – Tuo padre ha pagato a tutti un giro in carrozza per tutta Assisi. – Ah, siete andati in trionfo per tutta Assisi in carrozza? – Noi no. Ce ne siamo tornati a Roma, con lo spider.
In pratica, lo schema è stato questo: nonna Fiorellina e nonno Pomodoro volevano che Mammina rimanesse a casa – vergine – fino al giorno del matrimonio, invece lei è andata a vivere con mio padre Dariosuo ed è rimasta incinta. Mio padre non intendeva sposarsi, ma – giacché per Mammina era importante – a cose fatte (ossia quando era incinta di mio fratello Boeing) l’ha sposata. Mio padre non era credente, ma – presumo per la soddisfazione del suo senso estetico, per non avere troppa gente intorno, e per fare contenta in primo luogo mia nonna che era molto devota – ha finito con lo sposarsi in un tempio della cristianità; per contrapo, è stato benedetto a forza. Ad Assisi hanno dormito tutti, tranne gli sposi, i quali mentre gli invitati facevano il giro della cittadina in carrozza, se la sono battuta sulla spider. E benvenuti nella famiglia Bandini.
Trentuno
Le cose importanti
Per una cicalona come Mammina, alcune cose contano più di altre, ad esempio le festicciole dei nipotini. Certo, anche la scuola, lo sport, ecc.: ma le festicciole di più. Per i sei anni del Dalai Dario, mio fratello Boeing aveva pensato di organizzare una festicciola per bambini al “parchetto”. Nel bel quartiere di Roma dove vive la famiglia di Boeing, non mancano tracce di verde e perfino alcune linee di urbanistica, cosa che per la nostra città deve considerarsi un’eccezione quasi perfetta. Tuttavia, il quartiere non appare pensato per i bambini, essendo quasi del tutto privo di strutture dedicate, o anche solo di recinzioni atte a mettere in sicurezza quegli spazi verdi che con poco sforzo ben potrebbero essere destinati ai piccoli. Il “parchetto” è una minuscola eccezione, una stravagante isoletta forse di una sessantina di metri per quindici, ricavata tra i palazzi umbertini, recintata e dotata di qualche giostrina, un tappeto morbido e poche altre amenità, dove si ritrovano in discreto numero i bambini del quartiere. A Mammina il parchetto non piace granché – giacché manca di grandeur – ma le è comodo, perché vicino a casa e poi proprio per le sue limitate dimensioni, che le consentono di badare ai nipotini senza sforzi soverchi. L’idea di Boeing deve averla mandata in crisi, ma ha anche suscitato una sua – come sempre imprevedibile – reazione. – Lo sai che ho fatto? (Brivido.) – No, Mammina. – Ho chiamato il servizio giardini e gli ho detto che il giardinetto è sporco e che fa schifo. – Addirittura? Comunque brava, è così che bisogna fare.
– Poi siccome non sono venuti li ho richiamati. – Ah. (Ri-brivido.) – Al signore che mi ha risposto gli ho chiesto se era un padre e mi ha detto di sì. Allora gli ho detto che se era un padre doveva capire che non si poteva fare una festicciola per bambini in un posto pieno di cartacce, rifiuti e lattine. – Brava, e sono venuti? – No. Infatti poi li ho richiamati e ho detto che io non l’avevo vista, ma mi avevano detto che c’era una siringa. (Bugia.) – Mh. Va beh. E alla fine? – Non sono venuti lo stesso, ma tanto tuo fratello aveva deciso di farla a casa, la festa. – Quindi è finita così? – No. Perché io comunque poi ho chiamato pure il 113. – …
Trentadue
La prima volta di Mammina!
Andando a sistemare le carte della pensione di Mammina, Luna ha scoperto che in tutto ha versato contributi per ben quindici giorni, nel giugno 1965. Si tratta del mese in cui ha conosciuto mio padre. – Pronto, Mammina, ti disturbo? – Figlio mio! Tu non mi disturbi mai, neanche se mi tiri una cannonata… – Ma non ci penso proprio, a tirartela. Mi racconti di quella volta che eri partita con papà e nonna è venuta a cercarti sulla spiaggia? – Uh! Ma che stai scrivendo un libro? (Il suo istinto non va mai sottovalutato.) – Che anno era? – Ci eravamo conosciuti da poco con tuo padre, era il 1965, credo. – E come vi siete conosciuti? (Naturalmente me lo ricordo, ma mi fa piacere sentirmelo raccontare di nuovo.) – Era in giugno, e io stavo nel negozio di una mia amica, sulla Prenestina, una cliente di tuo padre. Stavo andando a casa, ché tua nonna se no mi faceva una testa… e lei mi ha detto: “Aspetta, ché sta per are il signor Bandini, devi vedere che bell’uomo elegante”. E quindi ho aspettato e dopo poco è arrivato questo signor Bandini, con un pantalone blu di lino, la camicia di lino bianca a maniche corte col taschino e le iniziali, tutto pettinato bene. Allora tuo padre aveva la Giulia Super. E poi era già abbronzato. – E tu? – E io niente, me ne sono andata a casa ché tua nonna se no chi la sentiva. – E lui? – E lui mi ha chiesto il numero. Anzi no, lo ha chiesto alla mia amica quando me n’ero già andata.
– E poi? – E poi ha chiamato a casa per dirmi se volevo andare a lavorare in ufficio da lui. – E tu? – Tua nonna non voleva che andassi, e neanche Rinaldo (il fidanzato di Mammina all’epoca): dicevano che non dovevo lavorare, che non stava bene; al che io tra me e me ho detto: “Ah sì? E io ci vado lo stesso”. E quindi uscivo di casa di nascosto, prendevo il tram e andavo a lavorare. Poi la sera tuo padre mi riaccompagnava, ma non fin sotto casa: a duecento metri di distanza, così non ci vedevano. Capito che saggezza familiare? Mia madre doveva andare a lavorare di nascosto. – E insomma, questa partenza? – Eh, a un certo punto in macchina ci siamo baciati, e lì è successo tutto. – Tutto che? – Niente, che ci siamo innamorati. – E poi? – E poi a un certo punto tuo padre mi ha chiesto se – anzi, mi ha detto che – ci andavamo a fare un week end a Positano. – E tu? – Ci sono andata. – E a nonna cosa hai detto? – Niente! – Come niente, sei uscita di casa con la valigia senza dirle niente? – No, no, macché valigia, non avevo niente. Tuo padre mi ha dovuto comprare tutto.
– Ma quando sei partita avevate già fatto l’amore? – No, no! – E sei andata a farti il week end con lui? – Sì. Anzi, avevamo appuntamento a Piazza Ungheria, e quando ci siamo incontrati lui mi ha detto che quel giorno aveva ancora da fare per lavoro e quindi saremmo partiti l’indomani e quella sera avremmo dormito da lui. – Tu come l’hai presa? – A me mi è preso un colpo! Gli ho chiesto: “Ma io dove dormo?”. Allora lui mi ha detto che anche in albergo non avremmo mica dormito in camere separate. – E tu? – Mi sono fatta certi pianti! – In macchina? – No, a casa. In macchina ero tutta silenziosa, poi ho pianto dopo. – E quella sera avete dormito insieme? – Sì. – Ed è successo qualcosa? – Niente! – Ma almeno avete dormito abbracciati? – No! (Ridiamo.) Ero proprio una bambaciona, ma capirai: con quell’altro c’ero stata tre anni senza fare niente! E poi tua nonna mi faceva una testa, mi diceva che si faceva peccato, che bisognava arrivare vergini al matrimonio, che sennò si andava all’inferno… – Ma insomma, fammi capire: tu sei uscita di casa, senza valigia, senza dire niente a nonna, e senza neanche telefonarle?
– Le ho telefonato dopo! – Dopo quando? – Eh, eravamo già a Capri. – Scusa, non dovevate andare a Positano? – Sì ma tuo padre quando siamo arrivati a Napoli mi ha detto che ci saremmo andati dopo. Infatti siamo andati prima a Capri, poi a Ischia, e poi a Positano. – Ma come avete fatto ad andare in tutti questi posti in un week end? – Eh, il week end poi è diventata una settimana. (Ridiamo ancora.) – Va beh, quindi siete arrivati a Capri, e lì? – Eh, e lì è successo il fattaccio.
Mi fa ridere che lo chiami così, ma non voglio violare oltre la sua intimità (né la mia), quindi non le chiedo dettagli sul punto. – E a nonna hai telefonato da Capri, quando tutto era già successo? – Sì. – E che le hai detto? – Eh, che stavo a Sabaudia con delle amiche mie. – E quali amiche mai avevi che potevano are il week end per i fatti loro a Sabaudia? – Nessuna! Le ho detto che stavo con una collega di lavoro e altre amiche… – E lei? – Lei con zia Tortina e zio Vanni sono venuti a cercarmi a Sabaudia.
– Ma a cercarti dove, scusa, se non avevano un indirizzo? – Sulla spiaggia. Tutta la spiaggia si sono battuti a piedi a cercarmi… Avoja a cercà! (Questa storia mi fa proprio ridere.) – E nonna che ti aveva detto al telefono? – Che le avevo fatto prendere un colpo, che c’era Rinaldo che le dava il tormento e lei si vergognava, che lui le chiedeva dov’ero, le diceva che non mi avrebbe cercata ma voleva sapere se almeno stavo bene, e lei gli giurava che non lo sapeva. – E nonno Pomodoro, in tutto questo? – Tuo nonno in queste cose non s’impicciava. – Le hai più telefonato? – No, dopo la prima volta non le ho più telefonato, perché mi faceva una testa come un pallone. – E poi com’è finita? – Quando sono tornata a casa ho lasciato Rinaldo… – E lui come l’ha presa? (Bella domanda.) – Male! Non ci voleva stare. E poi dopo un po’ sono andata a vivere a casa di tuo padre. – Scusa, se ho capito bene: vi siete conosciuti a giugno, tu sei andata a lavorare da lui… – Sì, ma la cosa del lavoro è durata poco. (Lo so bene, visti i quindici giorni di contributi versati in una vita.) – Il mese dopo siete partiti per il “week end”, e poi sei andata a vivere da lui? – Sì. – Avete fatto presto!
– Presto, e anche di più.
Trentatré
Le età di Mammina
Carte alla mano, Mammina ha conosciuto mio padre a venticinque anni, si è sposata a ventotto, ha partorito mio fratello a pochi giorni dai suoi ventinove, e me a trentatré. Trentatré è un numero chiave: si tratta infatti dell’età che Mammina ha dichiarato per tutta la durata della mia infanzia. Poi è ata direttamente ai trentasei e ai trentanove, che pure sono durati parecchio. Fare i conti era un disastro: quando le chiedevamo ad esempio la differenza d’età con mio padre tendeva a dire la verità, ma quando le chiedevamo quanti anni avesse – evidentemente non eravamo dei gentilbambini – no. Dai suoi quarantasette in poi, la sua vera età ci è stata nota (“Ma non azzardatevi a dirlo a nessuno!”). Ha continuato, come nel suo diritto, a dichiarare numeri a caso per molti anni. Oggi, col prevalere della necessità di lamentazione, tende invece a farsi scudo con la sua vera età. Credo che accada anche perché i numeri, che si sono fatti abbastanza imponenti, le fanno una certa impressione. E poi, meglio essere una settantenne che sembra più giovane, che una cinquantenne che sembra più vecchia. D’altra parte, come noto, a Mammina piace fare colpo. A maggior ragione quando le toccano incombenti faticosi, fa vibrare la sua (vera) età. – Aòh, io ci ho set-tta-nta-cinque anni!
Poi ci riflette. – Madonna, come so’ vecchia.
D’altra parte, sia quando mente che quando è sincera sulla propria età, è a mio modo di vedere nel suo pieno diritto. E poi, forse è vero quel che diceva l’abusato Oscar Wilde: “Non bisognerebbe mai avere fiducia di una donna che non mente sulla sua reale età”.
Trentaquattro
La signora Drago
A completamento del suo variegato CV di partecipazioni televisive e pubblicitarie, Mammina può vantare ben due partecipazioni cinematografiche, e in una di queste ha anche avuto un paio di battute da recitare (ma alla fine fu doppiata). È stata scelta, guarda il caso, per interpretare la severa proprietaria di un appartamento signorile – la signora Drago – presso cui lavorava la mamma della giovane protagonista. Alla poverina cadeva a terra il ferro da stiro, proprio perché aveva visto rientrare in casa a sorpresa Mammina, cioè la signora Drago. La prima battuta di Mammina era: “Hai scheggiato la maiolica, Franca?”. Poi Franca, raccolto il ferro e scuotendo la testa, ricominciava a stirare. Seconda battuta della signora Drago: “Vedremo. (Pausa.) Comunque la tua disattenzione mi sta cominciando a stancare”. Qui il colpo di scena: Franca spegne la radio, piega la tavola da stiro, afferra il proprio cappotto, si avvicina alla signora Drago, e le dice: “Ha telefonato suo marito e mi ha detto di dirle che non tornerà mai più”. La signora Drago sgrana gli occhi incredula, poi Franca continua: “Sì, mi ha detto che si è stancato di dormire accanto a una suora secca che gli ha sempre fatto schifo e che se l’è sposata per i soldi e basta”. A quel punto la signora Drago si toglie di scatto il cappello e tutto d’un fiato sibila contro Franca (terza e ultima battuta di Mammina): “Vattene e non farti mai più vedere!”. Poi Franca si infila il cappotto lentamente, stringe in vita la cinta e chiosa: “Sono io che qua non ci torno”. Fine della scena.
Capito per che genere di personaggio hanno scelto Mammina? Non per Biancaneve, una suffragetta, una bibliotecaria o una bonacciona: per la signora Drago. L’altro film invece era un neo-peplum, ma qui non parlava.
Trentacinque
La più bella prima pagina
La più bella prima pagina – anzi le prime righe – di romanzo che mi pare di aver mai letto, è quella del Lamento di Portnoy di Philip Roth. La riporto dall’edizione Einaudi del 2005, nella traduzione di Roberto C. Sonaglia: Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la camla dell’ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti. Invece di spingermi a lasciar perdere le mie fantasie, il fenomeno non faceva che aumentare il mio rispetto per i suoi poteri. Ed era sempre un sollievo non averla sorpresa nell’atto dell’incarnazione, anche se non smettevo mai di provarci; sapevo che mio padre e mia sorella ignoravano la vera natura di mia madre, e il peso del tradimento, che immaginavo avrei dovuto affrontare se l’avessi colta sul fatto, era più di quanto intendessi sopportare all’età di cinque anni. Credo addirittura di aver temuto che, qualora l’avessi vista rientrare in volo da scuola attraverso la finestra della camera o materializzarsi nel grembiule, membro dopo membro, da uno stato d’invisibilità, avrei dovuto per questo morire. Non che io abbia mai creduto che il Maestro Boschetti, con la sua pappagorgia da pellicano, i capelli canuti e spinosi, i baffetti da italiano del Sud (chissà poi se lo era) e gli occhiali a fondo di bottiglia, fosse mia madre travestita; né che Mammina avesse poteri magici. Al più mi sembrava la più bella tra le mamme e forte come un uomo, e non mi pare che ci fosse qualcosa che più di forza e bellezza contasse per me. Ciò che il Maestro Boschetti faceva meglio di Mammina era raccontare le storie, in particolare quelle della scimmietta Rosina. Mammina invece era brava a pettinarci appena alzati: a me piaceva al punto che, prima che arrivasse, mi arruffavo i capelli con le mani, in modo che dovesse starci più tempo; Boeing invece dopo un po’ s’imbarazzava, coerentemente col suo carattere. E poi era bello quando si cantava insieme in macchina al ritorno a casa, dal secondo anno di elementari in avanti, quando – cambiata scuola, da
quella privata per fare la prima da anticipatario, in favore di quella pubblica vicino a casa – il posto del Maestro Boschetti fu preso dalla bella Maestra Marisa. Neppure la Maestra Marisa, in realtà, aveva granché in comune con Mammina: era alta e mora, aveva gli occhi azzurri, ed era più buona di lei. Quando ci sgridava, faceva gli occhiacci e urlava forte, iniziando sempre i suoi rimproveri con la formula: “Ma come?! Un bambino carino come te…?!” Anche Mammina urlava ma non a schema fisso, e poi ava presto alle vie di fatto, e piovevano scapaccioni. Insomma, non saprei spiegare bene perché l’incipit del Lamento di Portnoy mi piaccia tanto. Di certo, ho avuto difficoltà a proseguire nella lettura, perché mi veniva sempre da tirarlo al muro per via di quel periodare così geniale, ad esempio quando dice che un ebreo di trentatré anni davanti ai suoi genitori è come se avesse sempre quindici, dieci, cinque, zero anni, e che sono tremende le mamme ebree con i loro visoni e i loro capelli ossigenati a sessant’anni, e i loro discorsi. Allora è ebrea anche la mia, Alex! Solo che di anni ne ha settantacinque e io quarantadue e – malgrado gli anni Sessanta siano ati da un pezzo – stiamo ancora qui, al palo, a replicare pari pari le vostre dinamiche di allora. Se solo avessi conosciuto le mamme italiane, caro Portnoy!
Trentasei
Boccheggio!
I romani sono, anche dialetticamente, pigri. Perciò sono maestri nel troncare parole e nomi (ma’ per mamma, Lu’ per Luca, perfino zi’ per zio o zia, sebbene la parola di partenza non sia propriamente lunga); e tendono a emettere sentenze atte a chiudere in maniera tombale alcuni dialoghi, perché il proseguirli fa fatica. Così la sparano grossa, e sperano di chiuderla lì. Mammina è romana, e come già visto aggiunge a questi tratti un gusto particolare per le dichiarazioni a effetto, iperboliche. Mammina in effetti non dice “oggi ho fatto fatica”, bensì “oggi mi sono ammazzata”, e così via. Quest’anno è stato particolarmente afoso, e Mammina – pur soffrendo maggiormente il freddo – non è tipo da accontentarsi di dire “ho caldo”. – Ciao Mammina, come stai? – Ho caldo, ho caldo, ho caldo! (Sottotesto: e la colpa è tua!) – Mammina, per caso hai caldo? – No! Boccheggio!
Mio fratello Boeing ha prevenuto la necessità, e le ha portato un colossale ventilatore, che in precedenza utilizzava con soddisfazione per arieggiare l’intero suo ufficio, con quattro scrivanie e altrettanti addetti. – Mammina, ma scusa, Boeing non ti ha portato il ventilatore? – No. Perché non lo uso.
Il suo punto di vista è che siccome lei non lo usa, lui non glielo ha portato, anche
se il ventilatore fisicamente si trova a casa sua. – E perché non lo usi? – Perché mi fa male. – Allora, Mammina, prova a fare così: tu lo punti verso l’alto, contro la parete, e non direttamente addosso a te. Così muove l’aria nella stanza e tu ti rinfreschi, senza prenderti un colpo d’aria. – Mh.
Il giorno dopo. – Ciao Mammina, come va oggi? – Sono MORTA di caldo! – Ma scusa, e il ventilatore? – Non lo uso. – Ma come? – Vuoi sapere perché non lo uso? – Vorrei, sì. – Perché consuma! – Mammina ma quei cosi non consumano niente! Venti centesimi al giorno! Se vuoi la bolletta te la pago io, ma credi: il ventilatore non fa alcuna differenza in termini di consumi. – Mh.
Il giorno dopo, ero curioso di sapere perché di nuovo non stesse utilizzando il
ventilatore, invece mi ha spiazzato, dicendomi che lo aveva e che le cose andavano meglio. Così, ha cominciato a lamentarsi di altro, innanzi tutto del fatto che ancora non sapeva se e dove sarebbe andata in vacanza.
Trentasette
La religione di Mammà
Quando Mammina era piccola, prima di dormire, nonna Fiorellina le faceva recitare – e con lei ai suoi numerosi fratelli – quattro preghiere: Padre Nostro, Ave Maria, Gloria e Pater. Le recitavano in latinorum, ossia ripetendo a orecchio formule latine che comprendevano solo in parte. Poi, dopo il Concilio Vaticano Secondo, quando fu disposta “la traduzione del testo latino in lingua nazionale”, Mammina si è fidanzata, e addio preghiere. Ha continuato a tenerci però a certi gesti direi di superficie, primo tra i quali il segno della croce, che si fa prima di andare a dormire, ai funerali, e in alcune altre sporadiche occasioni. Agli antipodi, il Dalai Dario e il Tasso non hanno ricevuto un’educazione religiosa e non sono stati battezzati, secondo il volere dei genitori: sceglieranno loro in futuro. Così, capitano buffi nodi dialettici nelle eggiate col Dalai Dario: ando sul lungotevere davanti alla Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, gli ho riferito che sua nonna è stata battezzata proprio lì. – Che vuol dire? – Ehm, il battesimo è una cerimonia che ha un senso religioso ma anche civile, di accoglienza di un nuovo nato nella comunità. – … – Capito?
Qui di solito il Dalai Dario dice di sì per compiacermi, ma gli si legge sulla testa un punto interrogativo grande come un affresco. Nella spirale del battesimo ricadiamo con una certa frequenza, ad esempio quando ci imbattiamo in un fonte battesimale. Un’altra volta, stavamo andando a visitare la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. C’era messa, e – secondo liturgia – a un certo punto i fedeli
si sono alzati in piedi tutti insieme. Il Dalai Dario si è allarmato: – Zio, che fanno quelli? – Amore, c’è la messa. – E che cos’è?
Rispondergli poteva significare andare contro il progetto educativo dei suoi genitori, e non volevo. D’altra parte, non potevo neanche dirgli che si trattava di una bicchierata. – Amore, le persone religiose tutte le settimane si riuniscono e pregano insieme, e quella è la messa.
Un’altra volta, siamo finiti a discutere se Giulio Cesare fosse più vecchio nientemeno che di Dio. Mammina, naturalmente, offre il suo generoso contributo nell’aumentare la già diffusa confusione sul tema. Infatti, ci tiene che il Dalai Dario si faccia il segno della croce prima di addormentarsi (“A me lo facevano fare, e io lo faccio fare a lui”). Naturalmente, non gli spiega granché del significato del gesto, quindi il bambino semplicemente fa – con piacere – come gli dice la nonna. Ci sono poi le attività scolastiche a sfondo religioso (la recita di Natale, ecc.) e l’epica del presepe, che nella nostra famiglia – napoletana da parte di padre – è molto sentita, ecc. In tutto ciò, il Dalai Dario nel suo cuore ha ricavato un posticino speciale per Gesù Bambino. Insomma, in tema di religione nella nostra famiglia regna una certa incoerenza. Se non altro, a quanto ne so, Mammina finora coi nipotini non ha tirato fuori quelle affermazioni categoriche alle quali nonna Fiorellina attingeva a profusione, e che anche lei non ci ha fatto mancare, quali: “peccato”, anche nella variante intuitivamente più grave di “peccato mortale”; “si va all’inferno”; “se a l’angelo e dice amen rimani così” (quest’ultima usata specificamente per far desistere i bambini dal fare le boccacce), ecc.
L’altro giorno le ho chiesto se rammentava qualcosa della sua comunione, e sorprendentemente le sono tornate alla mente molte cose: la comunione in coppia con la zia Desaparecida, i vestitini bianchi uguali per entrambe, il pranzo a casa con la famiglia in versione allargata, col mitico pollo coi peperoni di nonna Fiorellina, la preparazione con frate sco (coerentemente un scano), che faceva ruotare il nodo del cordone del saio per far rigare dritti i ragazzini; e la cresima, ricevuta dal vescovo il pomeriggio dello stesso giorno. La vera religione di Mammà, tuttavia, a voler dirla tutta, non è questa. – Mammina, e la superstizione da chi l’hai imparata? – La superstizione? Ma io non sono superstiziosa! (Super-bugia.) – Mammina, come non sei superstiziosa, che dici? – Vabbè, “ci ho” il gatto nero…
“Averci” il gatto nero significa temere come la peste che un gatto nero attraversi la strada mentre si sta ando, tanto a piedi quanto su un mezzo di locomozione. In Italia possono formarsi code, finché un temerario (in realtà un miscredente) non si azzarda a spezzare l’invisibile muro della malasorte, ando lui per primo. Rammento, su strade poco frequentate, sorprendenti guizzi di una Mammina altrimenti pigra, all’inseguimento del gatto nero di turno, per fargli riattraversare la strada in senso inverso, così risollevando il nefando e invisibile aggio a livello della sfiga. – Il gatto nero, ma anche il viola, are il sale… – Quello è stato Gigi Collini! (Un loro amico attore.) Sai, gli artisti… – E l’olio? – Pensa che se si versava l’olio tua bisnonna piangeva; ma non per la sfortuna, per lo spreco. Nonna me lo raccontava sempre. – Va bene. E il cappello sul letto, e i piedi verso la porta?
– Pensa che mi hanno detto che anche la borsa… io qualche volta però ce la metto. I piedi verso la porta perché di piedi dalla porta di casa ci escono i morti, quella era tua nonna. – Cioè te lo diceva nonna Fiorellina? – Sì.
Poi siamo finiti a parlare di come mio padre la viziasse, e del fatto che lo stile di vita che le ha consentito di condurre non avesse praticamente precedenti noti. – Ma infatti, poi l’invidia mi è arrivata.
Amen.
Trentotto
Quasi tutti mi viziano
Mammina mangia poco, da sempre. Da piccola non faceva colazione, come la torma dei suoi fratelli, col pane inzuppato nel latte: piuttosto non mangiava, ed era magrissima. Così nonna Fiorellina per lei faceva un’eccezione, e le comprava il prosciutto. Il pane col prosciutto lo mangiava. – A me mi viziavano. – Per via del pane col prosciutto? – Sì. Altrimenti non mangiavo.
Un racconto che Mammina fa volentieri è quello di un dialogo intercorso tra mio padre e il suo, nonno Pomodoro. A parte che non riesco a immaginare due persone più diverse, né cosa potessero avere da dirsi, l’uno iperattivo, democratico e progressista, e l’altro indolente, autoritario e fascista. Di nonno Pomodoro si racconta che da ragazzo s’imbarcò, clandestino, su una nave per l’America per inseguire una ballerina, e che – scoperto – fu rispedito a casa. In pratica, vide l’America dalla nave, ma non fu fatto sbarcare. Ebbe poi un figlio illegittimo, del quale nonna Fiorellina proibiva di parlare. Poi si sposò, trentenne, con una diciassettenne, che gli fu devota per tutta la vita e gli diede sei figli. Nonno Pomodoro aveva lavorato nel pastificio Buitoni, e lì aveva perso l’uso del braccio destro, che gli rimase incastrato in un’impastatrice. Ebbe un risarcimento dall’assicurazione – col quale poté comprare casa e perfino un’automobile che non poteva guidare – e una pensione da grande invalido civile, con cui campava la famiglia. Me lo ricordo sempre a letto, con la camla dorata sul comodino, che suonava chiamando mia nonna con le ‘o’ aperte del suo accento siciliano: “Fiòòòre! Fiòòòre!”. Si faceva accudire in ogni possibile modo, e poi amava restar solo coi suoi canarini e pappagallini, oppure a riposare sulla sua sedia a dondolo, di cui andava gelosissimo. Con nonna Fiorellina parlavo, forse unico tra i familiari, in maniera piuttosto
diretta di quasi ogni argomento. Talvolta, intendendo lusingarla un po’, e dando per scontato che per fare sei figli lei e nonno dovessero essere molto focosi, richiamavo i suoi anni ruggenti. – Nonna, dì la verità, tu e nonno Pomodoro eravate molto focosi, da giovani. – Ma no! Era lui che voleva… io facevo solo il ‘dovere mio’.
Così lo chiamava, il ‘dovere suo’. – Nonna, non ti credo. Un po’ ti sarà piaciuto, mica c’è da vergognarsi. Eravate marito e moglie. – Io lo amavo, ma a me mi piacevano gli abbracci. (Mentre dice così, mima un romantico abbraccio.) – Sì, vabbè, solo gli abbracci? – Artù: a me non mi piaceva. (Sottinteso: fare certe cose.)
Questo per dire che nonno Pomodoro era il tipo che in quarantaquattro anni di matrimonio, allietati da sei figli, molto probabilmente non ha mai fatto provare piacere alla sua donna. Mammina mi ha raccontato che nonno Pomodoro diceva: “Mi so’ fatte le molle, per non mi scotta’”. – Le molle? – Sì, noi eravamo le molle. Noi figli.
Nonno Pomodoro si faceva perfino accendere la sigaretta, da nonna Fiorellina, così lei ha cominciato a fumare. Di nascosto da lui. Così i due, quello col fuoco al culo (mio padre) e quello con le molle e i
pappagallini (mio nonno), un giorno si sarebbero parlati. Argomento: Mammina. – Mia figlia lascia una casa in cui è stata molto viziata. – E nella mia lo sarà ancor di più.
Mio padre ha mantenuto la sua promessa, e – col senno di poi – mal ce ne incolse. Le cose dopo la sua scomparsa sarebbero probabilmente andate un po’ meglio, se Mammina non fosse stata tanto viziata. Credo in ogni caso di capire perché Mammina ami raccontare questo episodio; per il suo sottotesto, riferito a me e a mio fratello: ‘Voi, invece, non mi viziate per niente’.
Trentanove
Tette!
Non senza una certa riluttanza, devo riconoscermi prono al fascino delle femminili mammelle. Meglio grandi, ma anche medie e piccole, purché in qualche modo armoniose e – con rare eccezioni – naturali: secondo me le tette hanno un’espressione propria, e possono raccontare molte cose del proprio ospite, quasi quanto il suo viso. Le prime tette di cui – neonato – mi sono innamorato, naturalmente, sono state quelle di Mammina; ma, a quanto pare, il mio allattamento fu di breve durata, poiché Mammina, poco dopo la mia nascita, soffrì il lutto dello zio Vanni – il marito di zia Tortina – e a quanto mi racconta “perse il latte”. Mammina – col tempo se ne sono purtroppo avute varie conferme – maneggia particolarmente male i propri lutti, e di zio Vanni dice sempre che ‘le voleva’ veramente bene. Lui a lei: questo è molto mamminico. A me verrebbe meglio dire che a zio Vanni ‘volevo’ molto bene; Mammina invece opera una sorta di inversione dei termini: giacché lui le voleva bene, è sottinteso che lei gliene volesse altrettanto. Comunque a zio Vanni volevano bene tutti, e la sua dipartita così prematura è stata un grande lutto familiare, e ha preconizzato il fato delle quattro sorelle Relitti, oggi – e da un pezzo – tutte vedove. Il mio personalissimo tributo al lutto per la dipartita dello zio Vanni fu dunque la forzata rinuncia al latte di Mammina a pochi giorni dalla mia nascita. Iniziò così il minuetto dei biberon ai quali bisognava allargare i buchi di erogazione per via della mia innata voracità. Di questo ho avuto riscontro, giacché uno di questi biberon era conservato nella cantina della casa aurea. E non si trattava di uno di quei biberon di oggi, con la tettarella: era un autentico bottiglione di plastica anni Settanta, quasi certamente a base di toluene o veleni simili, e sopra c’era una specie di bocchino da flauto con una serie di tre o quattro buchi, che erano stati visibilmente allargati con un ago caldo perché quel coso era talmente tirchio da non dare abbastanza latte a un poppante di pochi mesi. Per vorace che potessi essere, certo non sarò stato un cucciolo di leone marino. Insomma, col cambio tette/biberon ci rimisi. Delle tette di Mammina, da bambino, avevo la netta sensazione di essere l’unico a interessarsi. Mio fratello Boeing le rifuggiva, credo soprattutto a livello simbolico, e mio padre ci si relazionava con il consueto decoro, almeno al nostro cospetto. Quindi, pur riconoscendo a mio padre lo ius primae tectis, in quanto
marito di Mammina, le consideravo usucapite, cosa mia. A lei sono quasi sicuro che la cosa pie, come tutte le manifestazioni di possessività e più in generale di attenzione rivolte alla sua persona. È capitato, direi nei primi anni Ottanta, che in barca con amici dei miei genitori, le signore – Mammina inclusa – si siano messe in topless. Tra loro c’era anche la famosa annunciatrice televisiva Carla Caroletti, una bella donna coetanea di Mammina, che aveva il viso simile alla mia maestra Marisa e un bel seno. Guardavo volentieri le sue tette, ma mi disperavo della nudità di Mammina. Mio padre una volta provò a calmarmi. – Vedi, tua madre ha un bellissimo seno, e da ragazza non ha potuto fare molte cose, incluso esporsi al sole come meglio le piaceva. Ora ci sono qui io, loro stanno sul flying bridge, siamo tra amici. – Ma io NON VO-GLIO!
Come facevo a spiegargli che se qualcuno guardava le tette di Mammina come io guardavo quelle della Caroletti non andava bene, che insomma non era una cosa pulita fino in fondo? Poi Mammina, che io sappia, non si è messa più in topless; d’altro canto, il mio legame con le sue tette è andato in dissolvenza non appena è cominciato quello, ben più avvincente, con quelle di femmine terze.
Quaranta
Se piangi, se ridi
A Mammina non piace il cinema di Fellini, né di Pasolini, né di Rosi, ecc.; in generale, non le piace il cinema d’autore. Andava a vedere quei film per stare con mio padre, che invece li amava. Poi a darle il cambio siamo arrivati noi figli: al cinema andavamo il sabato pomeriggio, e lei volentieri se ne restava a casa. La domenica pomeriggio invece si andava a teatro (mio padre era socio sostenitore di tre teatri cittadini). Credo che a Mammina non pie granché neanche il teatro; più probabilmente, le piaceva uscire di sera con suo marito e farsi bella per lui per andare alle prime. Per come la conosco, il meglio per lei veniva prima che si aprisse e dopo che era calato il sipario. I film che invece piacevano a lei erano i “polpettoni”, quelli d’amore, coi grandi divi di Hollywood. Il migliore giudizio che Mammina potesse concepire per un film era: “Mi so’ fatta certi pianti!”. ‘Farsi i pianti’ era il massimo, voleva dire che il film toccava le corde giuste. Naturalmente, non piangeva solo per la commozione. La prima volta che ricordo di averla sentita disperarsi fu per la tragica morte di zio Varo, io potevo avere sei o sette anni (dalla morte di nonno Pomodoro, nel ’77, fui invece quasi completamente schermato; non fui portato neanche al funerale). Me la ricordo chiusa in camera sua durante la festicciola in maschera del mio compleanno. Entrai in camera sua vestito da Sandokan e la trovai che singhiozzava, col trucco che le colava sul viso. Mi mandò via, e mi disse che zio Varo “aveva avuto un incidente” e “stava molto male”. In realtà l’aveva fatta finita, morendo sul colpo. Ricordo che alcuni giorni dopo invitammo il cugino Morando – uno dei figli di zio Varo – a pranzo a casa, e io gli chiesi un paio di volte come stava lo zio; lui mi guardò severamente e intanto Mammina mi dava dei gran calci sotto il tavolo. Io non capivo, e le chiesi perché mi desse quei calci. Naturalmente, quella fatta col cugino Morando è una figura che ancora mi brucia. La risata di Mammina aveva un suono tipico: “Ah-ah-ah-ah-ah-ah-hiin!”. Col senno di poi, quella era la risata della sua sicurezza, infatti dopo la morte di Dariosuo non l’ho più sentita. Oggi ride in modo diverso, e molto meno. Soprattutto, ride per performance del Dalai Dario e del Tasso. Quel suo singhiozzare, invece, l’ho risentito tante volte, e ogni volta mi spezza il
cuore. La volta che l’ho sentita ridere di più, mi pare, è stata quando mi aveva portato alcuni vestiti dal “magazzino” dei ricordi. Aveva riesumato per me una specie di spolverino, taglia a dir tanto 48. L’ho infilato a forza, senza farmi vedere, e ho sfilato per lei. Non potevo chiudere le braccia, e lei moriva dal ridere.
Quarantuno
Viaggi di nozze
– Pronto? – Vabbè, non mi racconti perché non ti ricordi. (Ogni tanto qualche agguato glielo tendo anch’io, più che altro per iper-stimolarla al volo, quando meno se lo aspetta. Di solito ne escono siparietti divertenti.) – Ma che cosa?? – Del tuo viaggio di nozze. – Ma quale? – Mammina come “quale”, il tuo. – Ah, noi non l’abbiamo fatto. – Ma come!? E il viaggio a Venezia? – Ah, sì. Ma noi l’avevamo fatto anche prima.
Prendo fiato. Si vede che a volte gli agguati mi vengono troppo bene. – Allora, il viaggio di nozze di solito è uno, e si fa dopo il matrimonio, e mi ricordo che in famiglia si raccontava che il vostro fosse stato a Venezia. Giusto? – No. – … – Perché noi siamo andati a Parigi. – Ma quando? – Eh, poteva essere il ’66, ’67…
Ancora difende la tesi di non essersi sposata incinta, di default, come se io fossi sua madre. – Mammina, scusa, ma tu ti sei sposata che eri incinta, giusto? – Mh. No, cioè sì. – Quindi poteva essere massimo il ’67, ma più probabilmente il ’68. – Sì, perché a Parigi sono rimasta incinta di tuo fratello. – Oh, vedi? Boeing è nato in leggero anticipo a dicembre ’68, quindi andando a ritroso Parigi poteva essere nell’aprile ’68. – Sì, infatti. Ma prima siamo stati a Londra. – A Londra? – E in Jugoslavia. – In Jugoslavia? Neanche lo sapevo… ma io volevo sapere precisamente del viaggio di nozze. – Sì, in Jugoslavia. Sai, con tuo padre spesso viaggiavamo in macchina, lui allora aveva la Giulia Super. Siamo andati a Trieste e poi a Dubrovnik, e lì abbiamo conosciuto una famigliola che aveva una bambina… – Va bene. Ma io volevo sapere di Venezia e di Parigi. A Parigi non sarete andati in macchina, immagino. – No. Ma noi ne abbiamo fatti tanti di viaggi di nozze! È chiaramente in salita. – Senti, proviamo così: tu quando hai preso l’aereo la prima volta? – … – Mammina?
– Ma stiamo parlando di quasi cinquant’anni fa! Come faccio a ricordarmi tutto? – Va bene, ma ti ricorderai della prima volta che hai preso l’aereo, no? Che ne so, magari avrai avuto paura… (faccio leva su una delle sue parole chiave) – Io? Avoglia, te lo immagini? Io non avevo neanche mai preso il treno. – Il treno? – Sì, tua nonna non voleva neanche che prendessi l’autobus. – E quindi ti ricorderai del tuo primo volo. – Sì, ti puoi immaginare che paura avevo, sono stata tutto il viaggio mano nella mano con tuo padre. – E il tuo primo volo era stato quello per Londra o quello per Parigi? – A Londra sono stata anche nell’87, quando tuo padre stava male. Per quello non ci voglio tornare. – Madonna, Mammina, che confusione! – Aoh, ma io ci ho se-tta-nta-sei anni! Vabbè, allora ho capito, devo prendere appunti e poi ti posso dire. Così al volo come faccio a ricordarmi tutto? – Va bene. Quindi ora di Parigi non ti ricordi niente. – Certo che mi ricordo! Allora, siamo andati in taxi da Orly a Parigi… (qui quasi vengo meno: si ricorda di Orly!) – Mammina, ti ricordi il nome dell’aeroporto! – Si chiama così? – Beh, a Parigi c’è un aeroporto che si chiama Orly. – Ah, lo vedi che non sono rimbambita del tutto? – Veramente io questo non l’ho mai detto.
– Eh, mi hai detto che in testa ci ho una confusione! – Va bene, insomma siete andati in macchina da Parigi a Orly, e…? – Da Orly a Parigi! – Hai ragione; e dove dormivate? In un ostello? (Provocazione.) – Che ostello?! Tuo padre mi portava nei migliori alberghi, non mi avrebbe MAI portata in un ostello! (Provocazione raccolta.) – E che albergo era? – Un albergo a cinque stelle proprio dietro a Place Vendôme, l’Hotel de Paris. – Ma quello non è a Montecarlo? – Boh! – Insomma, che avete fatto? – Eh, siamo andati in giro per ristorantini stupendi, a fare shopping… e poi è successo il fattaccio. – Addirittura “fattaccio”! Se già stavate insieme e convivevate da anni, non lo definirei proprio “fattaccio”. – No, vabbè, io dico così per dire ma… è che tua nonna mi aveva riempito la testa di storie, che bisognava arrivare vergini al matrimonio… Insomma sono rimasta incinta di tuo fratello, perché tuo padre mi aveva detto che voleva un figlio, e la prima volta che non si è sacrificato io sono rimasta in stato interessante. Lui mi aveva detto: “Ma tutto quello che ho fatto per chi l’ho fatto…” (Questo è uno dei racconti preferiti di Mammina.) – Sì Mammina, questa parte me la ricordo. Ma lui questo discorso te lo ha fatto a Parigi? – No, prima. E poi dopo ha detto che allora ci saremmo dovuti sposare, e io – capirai! – mi sono precipitata a chiamare sua sorella Venere a Napoli per fare tutti i documenti.
– Ma questo dopo Parigi, quando ti sei accorta di essere incinta. – Sì, dopo. – E Venezia? (Dopotutto, ero partito per farmi raccontare di Venezia.) – Eh, a Venezia siamo andati in quella piazza… Come si chiama? – … San Marco? – Sì.
Abbiamo continuato a chiacchierare per un altro po’, ma su Piazza San Marco ho mollato la presa. Abbiamo parlato delle loro vacanze pasquali in costiera amalfitana, dove la leggenda familiare vuole che Mammina sia rimasta incinta di me; dei vari viaggi in Africa dall’81 in avanti (andarci le piaceva) e di quello nelle Filippine nell’82 (andarci non le è piaciuto, soprattutto per via della pioggia incessante); mi ha raccontato della sua avventura in Repubblica Dominicana, quando per via della pioggia ha avuto freddo e non aveva di che coprirsi adeguatamente; e di altri viaggi. In effetti, soprattutto grazie a Boeing che le organizzava i soggiorni, Mammina ha continuato a viaggiare per molti anni dopo la scomparsa di Dariosuo, e nel suo modo sapeva organizzarsi – ad esempio, legava una bandana rossa alla propria valigia per ritrovarla velocemente tra quelle degli altri turisti – e se la cavava piuttosto bene. Parlarne e ricordarlo mi ha fatto un certo effetto, soprattutto considerando che poco prima Mammina mi aveva raccontato di nonna Fiorellina che non le lasciava prendere nemmeno l’autobus.
Quarantadue
Il mestiere più difficile del mondo
L’Italia è – forse più ancora di altri paesi “meridionali” del mondo – clamorosamente mammocentrica, in particolare per quanto attiene ai figli maschi. Senz’altro è vero che – come diceva De Crescenzo – “si è sempre i meridionali di qualcun altro” ma il mezzogiorno latino e cristiano forse è un po’ più meridione degli altri. Canto qui le mamme greche, spagnole, centro-sud americane ma soprattutto italiane, che ingozzano i figli come tacchini fin dai primi vagiti; che li pettinano e li vestono fino a che questi glielo lasciano fare; che allacciano loro le scarpe e tagliano loro le unghie (anche dei piedi) a oltranza; che li allatterebbero fino alla pubertà e li tengono a casa senza limiti di tempo, anche oltre i quarant’anni; quelle che alle figlie femmine insegnano a rassettare e pulire la casa e ai maschi no; quelle che alle figlie femmine insegnano a cucinare e ai maschi no; le mamme maschiliste, che diffidano delle fidanzate dei figli e ne sono gelose, entrando in competizione con loro ogni volta che è possibile. Io parlo – e forse solo chi ne ha avuta una può capirmi – della mamma terrona doc. Peraltro, non c’è un solo tipo di mamma terrona. Non so se questo valga, ad esempio, per la Spagna, la Grecia e l’Argentina: ma in Italia ci sono un Nord e un Sud, eccome. Tra una mamma di Milano e una di Palermo ano differenze che senza sforzo definirei ‘antropologiche’. Venendo a noi, Mammina è romana – e Roma prima che dell’Italia stessa è stata capitale dello Stato Pontificio – e vanta origini siciliane. Per un paragone visivo, consiglio la visione del film Fracchia La belva umana, prestando particolare attenzione alla figura della mamma della belva umana. In Italia va per la maggiore la convinzione che “il mestiere più difficile del mondo” sia quello della mamma, per le ovvie ragioni: i figli vanno partoriti, con i rischi, le paure e le sofferenze del parto, e quando un bambino nasce – soprattutto i primogeniti – il genitore medio vive nella preoccupazione, si sveglia di notte per verificare che il figlio respiri, almeno per i primi anni della vita del figlio dorme pochissimo, e poi si fa poco l’amore, ci si sacrifica come matti (ma – a onor del vero – questo vale assai di più per le nuove generazioni che per quella di Mammina, o almeno per Mammina in particolare, visto che è stata
ininterrottamente aiutata fin dai primi vagiti di Boeing da tate a tempo pieno). I figli peraltro comportano notevolissimo dispiego di mezzi finanziari, e le soddisfazioni affettive cessano presto (direi tra gli otto e i tredici anni d’età dell’erede) mentre le beghe non finiscono mai. Nomino con ripugnanza la paura che intossica di più la vita di un genitore, quella della tragedia senza pari della perdita di un figlio. È tutto vero. Proviamo però a vederla anche da un altro punto di vista. A fronte di quattordici, massimo diciotto, in Italia magari anche venti anni di stretta necessità della presenza costante dei genitori (ma in Cambogia, per dirne una, ho visto bambini che a tre anni d’età guidavano carri trainati da bufali coi fratellini piccoli in braccio), i figli: scontano la presenza di queste figure emotivamente e fisicamente incontenibili, con ogni ricaduta in termini di formazione e sviluppo della personalità; pagano nei loro rapporti interpersonali le terrificanti e continue ingerenze di queste attempate spose; devono badare a dei vecchi bizzosi vita natural durante; devono occuparsi di pensione, affitti, tasse, improbabile rapporto con le nuove tecnologie, riparazione dei danni provocati, salute e affini; in numerosi casi devono farsene carico – a volte naturalmente vale il contrario – anche economicamente; devono scontare il profluvio di sensi di colpa che i genitori del tipo di Mammina ingenerano senza remore; devono accompagnarli alla tomba. Non vorrei qui sembrare troppo cinico: ma vuoi mettere accompagnare uno che si affaccia alla vita o uno che si appropinqua all’aldilà? Chi sceglierebbe la seconda? Il vero nodo è proprio questo: secondo umana natura, ai figli spetta l’intollerabile compito di assistere al decadimento dei genitori, e poi di lasciarli andare. Quel che è peggio, Mammina di recente è diventata social. Il suo media preferito è Facebook, il quale pertanto ha fatto il suo tempo. Naturalmente, la vive a modo suo. Nei primi mesi, ha imparato quasi solo la funzione del “condividere”, quindi ha semplicemente condiviso di tutto. A vedere la sua bacheca, si sarebbe potuto dirla ambiental-fascio-catto-ateo-comunista militante. Condividere era il suo modo di dire “Io sono ata di qui”, “Io ho letto questo”. Naturalmente, non è vero: più che i titoli, sono quasi certo che non legga quasi niente di quel che poi finisce sulla sua bacheca. Ha un po’ di difficoltà a capire la differenza tra “pubblicare” e “inviare a lei”, e quindi è convinta che tutto ciò che può leggere su Fb sia stato inviato proprio a lei. Per cui, si sente in obbligo di rispondere a tutti. Questo impegno colossale l’ha trasformata in una specie di nuovo adolescente, sempre con lo smartphone
in mano, anche a tavola, anche a Natale. – Mammina, che fai, col telefono in mano a tavola? – Mi hanno mandato una foto dell’Argentario. Devo rispondere. – L’hanno mandata a te? O l’hanno pubblicata sulla loro bacheca? – No, no. Me l’hanno mandata.
Nel mio particolare caso, naturalmente, non si accontenta di rispondermi. In aggiunta, tenta di incoraggiarmi. Ha tempo ed è sempre on-line, quindi risponde immediatamente. E non si accontenta di un solo commento. Quindi tu pubblichi un contenuto e dopo un secondo sotto compare una salva di penosi commenti di incoraggiamento di tua madre, tali che gli altri scappano tutti. Trovarsi da soli con la propria mamma che ti impallina pubblicamente come un San Sebastiano su Fb non ha prezzo. C’è di buono che grazie a lei ho scoperto i segreti della funzione “prenditi una pausa”. Ora è sbarcata anche su Instagram. Pertanto, questa che il “mestiere di mamma” sia più difficile del “mestiere di figlio”, anzi addirittura il più difficile del mondo, a me sembra una voce falsa e tendenziosa, probabilmente messa in circolazione da Mammina in persona. In realtà, il mestiere più difficile del mondo è senz’altro quello di figlio di una Social-Mammina. Al più – a essere proprio buoni ed equanimi ai limiti della stucchevolezza – potrebbe trattarsi di un pareggio.
Quarantatré
Che voglia di trippa!
Quand’ero ragazzino, apprendevo con stupore che zia Tortina amava andare per campi a raccogliere, ad esempio, la cicoria. Non capivo perché alla sua età, potendo comprarne a prezzo vile dal fruttivendolo, andasse a spezzarsi la schiena per prati. “È più buona!”, mi spiegava; ma io non capivo lo stesso, per un paio di buone ragioni: la prima è che Mammina non ci sarebbe mai andata; la seconda, che non mi piaceva per niente la cicoria. Ora le cose sono cambiate, e Mammina va col suo spasimante Teddy – che credo possegga una casa in campagna – a raccogliere vari frutti ed erbe, che riporta con soddisfazione ora a me ora a Boeing. Quest’estate, ad esempio, si è presentata al mare con una buona quantità di more, e tra me e il Dalai Dario è cominciata una specie di gara a chi ne mangiava di più; poi le ha riportate a fine estate, e mi ha chiesto come doveva procedere per fare la marmellata. – Ma dev’essere senza semi, ché altrimenti i bambini non la mangiano. L’anno scorso il padre gliel’ha fatta, e dopo tutta quella fatica non se la sono mangiata. E sai perché? – Per via dei semi? – No, cioè sì. – Allora puoi procedere così: prendi le more, le lavi e le asciughi; poi le frulli nel minipimer e le i con lo chinois per togliere i semi; a parte metti a bollire i barattoli e i coperchi, poi li asciughi e li riponi su un panno di bucato; lavi alcuni limoni, li asciughi e li peli, per ricavarne cinquanta grammi di scorza, ma attenta a non portare via il bianco, ché è amaro… – No, no! Troppa fatica. Io non la faccio. Ti porto le more e la marmellata la fai tu.
Non riesco mai a dire di no, quando si tratta dei piccoli, a maggior ragione se si tratta di cucinare per loro. Così ho preparato loro una buona marmellata di more con scorze di limoni di Sicilia semi-caramellate, e stevia rebaudiana – un dolcificante naturale privo di calorie – al posto dello zucchero. “Sai zio, è davvero molto buona”, mi ha detto il Dalai Dario, per la mia soddisfazione. Poi è stata la volta delle nocciole, ma ancora non ho deciso cosa farci. Il Dalai Dario si è interessato anche a quelle, quando alcuni giorni fa si trovava in visita da me e non avevo nulla per fargli fare merenda. – Zio, non ce l’hai un biscotto? – No, dobbiamo fare la spesa e sono rimasto quasi senza niente. Però se vuoi posso sgusciarti qualche nocciola.
Mi ha detto un “Mh” che significava “No, grazie”, però poi mi ha chiesto cosa c’è nella Nutella. – Cacao e nocciole.
Allora mi ha detto un altro “Mh”, che significava “Ora ci rifletto”. Poi Mammina – c’era anche lei – mi ha detto di avere un buco allo stomaco e che doveva assolutamente mangiare qualcosa. Alla fine sono sceso in pizzeria e ho organizzato una merenda per nonna, nipote e zio. Pizza e film per tutti, ed è ata la paura. Da ultimo, stasera Mammina mi ha detto di avere raccolto della menta romana. – Ieri con Teddy siamo andati a raccogliere la menta romana. Sai, proprio quella che ci vuole per fare la trippa. – Ah, brava. – E poi sono andata dai Vecchietti (il circolo ricreativo che frequenta). Sono entrata con questo bel mazzetto di menta romana e tutti hanno cominciato a dire: “Uh, che voglia di trippa!”.
Mi fa morire questo riflesso di Pavlov dei vecchietti romani: tu gli fai sentire odore di mentuccia, e a quelli immediatamente viene voglia di trippa al sugo.
Quarantaquattro
Cose che le piacciono
A Mammina piace il pane col prosciutto, la pizza calda con la mortadella, il sole, il mare e dormire; ma dormire come si deve: non – ad esempio – schiacciare una pennichella sul divano. Le piace il buio, il lettone pieno di coperte, il silenzio. Prima dei telefonini, nell’accingersi al riposo pomeridiano staccava anche la presa del telefono dalla rete. Quando ero piccolo, ricordo il diffuso timore casalingo pomeridiano che il suo sonno fosse disturbato da rumori molesti: “Ssssh! Ché poi si sveglia tua madre!” oppure “Ecco, adesso l’hai sicuramente svegliata!” o “Se si sveglia mamma, adesso…”, con promessa sottintesa di guai inenarrabili se si fosse destata anzitempo. Le conseguenze di un suo risveglio brusco potevano andare dal singolo urlo di Tarzan alla pugna più fosca; il risveglio “naturale” invece prevedeva una liturgia piuttosto articolata: sul suo comodino c’era un camlo elettrico – un quadratino di marmo verdognolo, con il pulsante al centro – che al risveglio lei suonava; era però ancora assonnata, quindi non si poteva semplicemente piombarle in stanza. Bisognava invece entrare piano, al buio, e alzare di un palmo la tapparella. Soprattutto, bisognava presentarsi col caffè. A lei sarebbe bastato un piccolo vassoio con piattino, tazzina, bricchetto del latte, dolcificante e cucchiaino, poverina; ma io ci tenevo a rendere ancor più barocco il momento, quindi armavo un vassoio colossale, con piattini di biscotti diversi, una fetta di torta se ce n’era (di solito, solo la domenica in casa c’era il dolce), e ogni genere di ben di Dio, che lei però non sfiorava. Un sonno tutelato come quello di un neonato e un risveglio da Marchese del Grillo, si potrebbe dire. Le piace poi viaggiare, soprattutto – per chi ha capito il personaggio, le parole che seguono sono superflue – per andare al caldo e al mare, naturalmente tutti e due insieme. Le piace la spiaggia, la barca, mangiare poco e bere uno o due bicchieri di vino a cena. Le piace molto essere magra e vestire bene, e soprattutto le piacciono da pazzi i gioielli. Ama – forse amava – guidare, macchine quanto più possibilmente grosse e sportive. Le piace fumare, parlare del più e del meno, ed essere al centro dell’attenzione. Le piace cantare e più ancora ballare, le piacciono i film romantici (il suo preferito è Ghost, in cui Patrick Swayze/Dariosuo torna dall’aldilà per salvare la sua amata/lei), le canzoni di Mina e di Aznavour, e quelle romane. I miei amici – senza scostarsi troppo dal vero – hanno sempre detto: “Tua madre è una di noi”.
Da buona cicalona, in linea generale le piace la vita – anche se non perde occasione per lamentarsene – o meglio, come dicevano sia lei che Dariosuo, le piace “campare”. Naturalmente, quel che le piace di più sono i suoi affetti, in particolare – figurarsi – i suoi figli. L’affetto di Mammina è un frangente che ti irrompe addosso: ancora oggi capita che quando ci incontriamo – soprattutto se per caso – emetta alti gridolini (“Bellodellamadrinettinattinettina!!!) ridendo, stringendo i pugni e battendo leggermente i piedi a terra; e poi giù baci, e abbracci. È un fare le feste, l’apoteosi dell’affetto. A parte le varie volte in cui queste manifestazioni ci hanno creato imbarazzo, c’è da dire che un affetto così scalda il cuore, anche adesso che ha imparato a contenersi un po’. Ora le piacciono moltissimo i suoi nipoti. Il Dalai Dario perché è il primo, è maschio, si chiama come Dariosuo, e somiglia anche di carattere a me e mio fratello da piccoli. È un Bandini fatto e finito, gioioso, chiacchierone, distratto, proprio come noialtri. Col Tasso invece dapprima è stata più circospetta, innanzi tutto perché è femmina, e poi perché è bisbetica come lei; ora le cose vanno meglio perché la piccola è indipendente e soprattutto le tiene (quasi) testa, e anche questa è una cosa – apparentemente incredibile a dirsi – che a Mammina piace.
Quarantacinque
Cose che non le piacciono
Mi pare che non si contino le cose che non piacciono a Mammina. Nel tentativo di enumerarne utilmente almeno una parte, mi sembra opportuno predisporre alcuni sottoinsiemi, quali ad esempio: “Cose che detesta”, “Cose che le fanno schifo”, “Cose che le fanno torcere le budella”, “Cose che la fanno saltare per aria”. Detesta in primo luogo alzarsi presto, dover uscire di primo mattino (eccetto se deve partire: in quel caso tira fuori un pochino di decoro e si lamenta un po’ meno), i “bambini maleducati”, dover cercare parcheggio, prendere multe, sentirsi sola, i monologhi altrui, le filippiche, le cose seriose e le incombenze quotidiane, il suo spasimante Teddy quando si fa troppo appiccicoso o possessivo. Detesta la vecchiaia. Le fanno schifo gli insetti, nonché aracnidi, lombrichi, lumache, ma anche topi, ecc. (“le bestie”), molti cibi, gli uomini con la pancia (sic!), il caffè riscaldato fino a farlo bollire. Quando una cosa le fa schifo, di solito dice “Bleah!” o “Puah!”. Le fanno torcere le budella i sensi di colpa per il parzialmente disastroso terzo atto della sua vita (in cui dopo il marito ha perso il suo patrimonio), non avere molti soldi a disposizione, in linea generale non avere più cose che aveva e le piacevano (innanzi tutto suo marito, poi la sua casa, la sua Maserati, ecc.). La fanno letteralmente saltare per aria i rumori che superano una certa soglia e chi la insulta, ad esempio nel traffico. La lista potrebbe essere generosamente rimpolpata, ma a questo punto mi rendo conto che non è tanto rimarchevole la quantità delle cose che non le piacciono, ma quanto non le piacciono e se ne lamenta: su questo, è imbattibile.
Quarantasei
Il futuro e altre amenità
Ho provato a fare il Marzullo della situazione con Mammina. Dopo alcune chiacchiere e cincischiamenti, le ho chiesto: – Mammina, ma tu come lo vedi il futuro, e cosa gli chiedi? – Eh?? – Il futuro. – Come lo vedi, e…? Mi hai chiesto anche un’altra cosa. – Cosa chiederesti al futuro. – Beh, come lo vedo… Io il futuro non lo vedo.
Toppa. È chiaro che la mia era una domanda cretina. Poi però ha ripreso a parlare. – Sai, all’età mia… diciamo che io già non posso lamentarmi della salute, non prendo mai medicine. (Ha davvero detto “non posso lamentarmi”? Quasi mi commuovo.) – Se vedi i vecchietti del circolo, sono pieni di acciacchi: e questo si prende mille pillole, quello a farsi le radiografie, quell’altro che si lamenta. Perché io non mi faccio mai visitare. – Il tuo segreto di salute è questo, non farsi mai visitare? – Sì. – Vabbè, questo non mi pare che vada tanto bene. E quindi non hai nessuna aspettativa per il futuro – non so – tuo, nostro, dei bambini?
– Beh, salute e benessere. – Mh. E la pace nel mondo?
La punzecchio perché detesto quando scadiamo nel qualunquismo, soprattutto se accade per colpa mia. – Sì, anche la pace nel mondo! Sai che io ho gli incubi, perché tuo fratello abita vicino a San Pietro, e con questa storia degli attentati, della bomba, io non ci dormo la notte! – Tu non dormi la notte per via della bomba a San Pietro? – No, cioè sì.
Provo a cambiare piano. – Che lavoro li vedi a fare i bambini da grandi? – Il Dalai Dario l’avvocato. – Perché? – Perché è uguale a te. – E il Tasso? – Mah, forse l’architetto. – E perché? – Perché le piace tanto giocare con le casette, e poi è ordinata.
Abbiamo continuato a parlare un po’. Era allegra, contenta di chiacchierare con me. Alla fine è venuto fuori che il futuro è un pensiero che non la occupa
minimamente, semmai la preoccupa. Ha detto che in caso di malattia non vuole essere operata, e ci ho messo poco – data la sua età – a trovarmi, in linea di massima, d’accordo con lei. Naturalmente non parlava di piccoli interventi – vedi il neo, o la cataratta – ma di eventuali grandi operazioni. La mia sensazione è che – inevitabili mestizie a parte – sia attualmente concentrata in prevalenza sul presente reale: e dal tempo in cui era esclusivamente dedita alla celebrazione malinconica del ato, o comunque a sognare un futuro identico al ato, questo è un cambiamento. D’altra parte, ha in certo senso riavuto quel che più le mancava: dei bambini suoi da pettinare, a cui scegliere i vestiti, da accompagnare e riprendere a scuola, a nuoto, eccetera. Mi pare che oggi il futuro sia per lei solo una potenziale fonte di preoccupazioni, un’ombrosa promessa di cambiamenti che – alla sua età – difficilmente potranno essere in meglio. Il suo pensiero sul presente mi pare molto concentrato sui bambini; il che equivale, in certo senso, a uno sguardo (quasi) speranzoso sul futuro. Boeing aveva in qualche modo predetto che con l’arrivo dei bambini la sua vita sarebbe migliorata, e ha lavorato in quella direzione a prezzo – ma lui sapeva anche questo – di dosi massicce di pazienza con Mammina, d’altra parte ottenendone un valido aiuto nella gestione quotidiana dei piccoli. È possibile, credo, riassumere così la saggezza della maturità in salsa mamminica: lasciare andare un po’ di ato per fare posto al presente, e pernacchie al futuro.
Quarantasette
Dariosuo
Talvolta mi chiedo se, penetrando oltre il fitto dell’amore filiale, della riconoscenza, della nostalgia e della pena infinite, e valicata la muraglia delle sue qualità (il cuore generoso, la sensibilità, la comione, l’intelligenza, l’acume, l’ironia, la capacità pratica, la volontà di ferro, la precisione, la costanza, il senso estetico, l’impeto di coltivarsi, la cortesia, l’eleganza, la pulizia e la cura della persona, ecc.), il mio sguardo riuscirà mai a coglierlo semplicemente come un uomo, Dariosuo. Se solo potessi rivederlo, mi domando se riuscirei a sostenere quel suo sguardo, insieme grintoso, penetrante e intelligente, eppure dolce. – Credi che non abbia capito che di certo tuo ato provavi imbarazzo? Ma non dovevi! Non era colpa tua, no? Certo, non ti faceva piacere parlarne, ti veniva più naturale pensare all’oggi e coltivavi l’idea di dare a noi un presente senza ombre, perfetto, diverso dal tuo di allora, senza sofferenze né zone oscure. Così tanto ti erano pesati i tuoi stenti di ragazzino, da volere vivere a Versailles? Posso soltanto tentare di capirlo, il solo pensiero dei duecento raid aerei su Napoli tra il ’40 e il ’43 – di cui pure non mi hai mai parlato – mi fa accapponare la pelle. Ma io, che nella tua Versailles ci sono nato e ho conosciuto tardi e solo in parte quel mondo in cui tu sei stato immerso presto e dove ti sei temprato come l’acciaio al cromovanadio, con tutto quel che poi è seguito, cosa dovevo fare, come potevo ritrovarti, me lo dici? Eppure ci ho provato, anche unendo i puntini dei tuoi ati indirizzi, da quello signorile che segnavi sui libri di scuola – della via dove pretese di ridere Scarpetta – a quello della viuzza tra la terra dei Quartieri e il cielo di Toledo (ma poi quale cielo, gremito com’era di bombardieri?): ho costretto Gennarone a portarmici, lui sudava di paura, oppure sudava come sempre ma aveva una paura matta. Ho cercato tutti gli scorci dove hai alimentato la tua fame di bellezza – i palazzi, le chiese, gli squarci panoramici – e annusato i profumi dei cibi che ripreparavi con meticolosità e talento, e i fetori (come li chiamavi tu) che hai continuato a rifuggire per tutta la vita. Non sei riuscito a salvare nessuno: né tua madre dalla leucemia (ma avevi nove anni, Napoli era in macerie, chi volevi salvare?), né te stesso dall’egoismo di tuo
padre, ma – anche qui – come avresti potuto fare? Avevi solo undici anni, quando quel borghese piccolo e cattivo con le unghie laccate di nonno Aridario vi ha scaricati e sbattuti fuori di casa – tu con indosso il tuo pigiamino che hai conservato, con la consueta meticolosità, per renderglielo sul letto di morte – e se n’è andato via da Napoli sulla sua Fiat 1100 di cui andava tanto orgoglioso, a rifarsi una vita e una famiglia ad Alessandria, mentre per te cominciavano quei nuovi guai da cui ti saresti risollevato solo con tutto il tuo impegno. Tutte queste cose le so perché me le ha dette Gennarone, cosa credi? Non sei riuscito a salvare neanche zio Sole da quell’incidente mortale che forse era la tua ferita più profonda, ma il potere di resuscitare i defunti non ci è dato. E non sei riuscito a salvare nemmeno zia Venere, che più di ogni altro ha condiviso il tuo destino di allora: ma se uno non si salva da solo, o non vuole davvero salvarsi, o non ti chiede una mano, o non prende quella che gli porgi, tu non puoi fare niente per lui. Ti sei rifatto nel tuo modo, cedendole per un boccone di pane il tuo appartamento di Napoli (“Tanto io che me ne faccio?”), e stavolta lo so perché me lo ha detto Piccolo, nel giorno del funerale di Gennarone. Non sei riuscito neanche a salvare la tua azienda e i tuoi dipendenti, perché quando hai saputo della tua malattia, you didn’t set up your business (non è così che dicono di fare ai pazienti incurabili, i medici anglosassoni?). Veramente pensavi che Mammina potesse prendere in mano le redini di un’azienda ed eseguire il tuo ordine di “vendere tutto e campare di rendita”, dopo che per tutta la vita non le hai fatto fare un cazzo, col camlo di marmo sul comodino e il caffè portato sul vassoio d’argento dalla cameriera in livrea? Hai avuto da luglio a dicembre, cinque mesi, per mettere a posto i tuoi affari, per chiudere o vendere l’azienda. Non ce l’ho con te perché non volessi morire o fossi convinto di farcela, ma il rischio era concreto, bisognava che ci pensassi, anche se non eri più in te al 100%, anche se – lo so – cinque mesi sono un minuto e tu stavi morendo. Soprattutto, non sei riuscito a salvare neanche noi, che stiamo cominciando a venirne fuori e a ricostruire solo oggi, a più di quarant’anni d’età: e non hai idea, di che fatica sia stata venire fuori dalle macerie della tua e vostra acropoli. Perfino i granelli di polvere pesavano come macigni, giacché si trattava della tua polvere, e di quella del senso di colpa – non lo vedi il cane che si morde la coda? – di non essere riusciti a salvare te, né l’impero delle tue fatiche. Sei spirato convinto che ce ne fosse “abbastanza per tre generazioni”, come hai
detto all’amico Maio; invece in quattro anni ci si sono mangiati vivi. Quattro anni! Tutta la tua vita di lavoro, tutta la tua fortuna! Non volevo vederti smentito così. So che hai fatto come sempre del tuo meglio, ma questo è un disastro almeno sotto due aspetti: che il meglio del mio eroe non è bastato, e che io non faccio sempre del mio meglio, e per questo il mio senso di colpa è perenne. Non si è salvato nessuno e niente: ecco, te l’ho detto. Una volta ho sognato che tornavi qui e dovevamo spiegartelo. Alla fine ci riuscivamo, anzi tu ci facevi poche domande e lo capivi, e non te la prendevi ma ti preparavi, inforcavi la tua valigetta di Louis Vuitton e ripartivi alla carica come sempre, sia pure un po’ avvilito. Mi chiedo se, forse, anche noi non avremmo potuto fare diversamente. Dopotutto, anche io avevo solo quattordici anni, Boeing diciotto, e Mammina quarantasette che – in certo senso – ne valevano tredici.
Mio padre è stato uno degli uomini più soli che abbia conosciuto, malgrado la piacevolezza della sua persona, l’ammirazione che suscitava per il suo successo nel prossimo e in quella incoerente teoria di amici buffi e strampalati per i quali si spendeva volentieri, e nonostante la cultura personale dovuta ai suoi buoni studi classici e al non avere mai cessato di coltivarsi per tutta la vita. Dariosuo parlava poco dei suoi affari e pochissimo del proprio ato, si era allontanato dai parenti indecenti, per gli uomini della sua azienda era un capo, per noi un capofamiglia, un marito e un padre: ecco come si costruisce una grande solitudine. Nel tenere Mammina fuori dagli affari e dal mondo del lavoro, ha mantenuto la parola data a quel primate di mio nonno Pomodoro di viziarla vita natural durante. – Ho capito che ti bruciava come il fuoco, non aver potuto completare gli studi, nel mondo pieno di ing. e arch. e avv. nel quale ti eri conquistato il tuo spazio. “Pecunia non olet”, confidavi a Gennarone: per quello credevi di avere diritto al tuo posto al sole, e non per le qualità della tua persona? Non vedevi che eri più colto, apionato, elegante e signore perfino di loro? E per quello avevi il fuoco fisso sul fatto che Boeing e io dovessimo innanzi tutto laurearci, tanto ci saresti stato tu, ad aprirci lo studio, o comunque a garantirci una partenza di slancio? Altro che slancio, amore mio. Boeing non si è laureato – questa fa male al cuore, eh? – e io sì, ma sono ancora nel limbo di quelli che lo studio non gliel’ha aperto nessuno. Quelli erano i tuoi sogni, non i miei o i nostri. Dicevi:
“Voi potete fare quello che volete: l’avvocato, il dentista…”. Ma non l’hai visto Boeing che tipo è? Ce lo vedi davvero a mettere le mani in bocca alla gente? E poi, ti pare che qualcuno possa davvero sognare di diventare un avvocato o un dentista, peraltro in un paese nel quale – come te – tutti hanno sognato di avere il figlio avvocato o dentista, e ci sono anche riusciti, giacché ai vostri tempi i sogni si realizzavano? Figurati che quando mi chiedono che lavoro faccio e dico che sono un avvocato, capita che mi rispondano “Spero di non avere mai bisogno”, neanche fossi un monatto. È una buona professione, mi dà modo di spaziare e le devo molto, ma davvero ti sembra un lavoro da sogno? Per i soldi, certo; ma soldi in giro non ce ne stanno più come prima, gli avvocati e i dentisti sono una miriade e quelli che guadagnano bene sono una minoranza, gli altri se va bene galleggiano. Almeno però poi ti chiamano “dottor” Arturo e vai al circolo e stai con gli altri dott. ing. avv. arch., dici? Ma i circoli chi se li può permettere? A parte che non mi sono mai piaciuti. Bel sogno, bellissimo. Forse, di sogni, ognuno dovrebbe farsi i propri. Ho sentito dire che gli Etruschi talvolta seppellivano le vedove col cadavere del marito defunto, e che i ghepardi, se si feriscono, uccidono o abbandonano i propri piccoli, perché non c’è speranza di salvarli: tu hai finito per fare qualcosa di simile, con tutto il tuo cuore, la tua intelligenza, la tua conoscenza del mondo. Ti sei lasciato alle spalle una Crudelia De Mon e due mezzi Lord Fauntleroy, una donna viziata e due progetti di principi, tutti incapaci di tutto. Sai invece com’è mia moglie? Sa fare tutto. Lavora, anzi è la più brava di tutto l’ufficio, parla tre lingue, gestisce impeccabilmente la nostra casa, e non è mica tutta pregi e niente bellezza: è bella come il sole, e io l’aiuto a crescere, a migliorarsi, temprarsi e affilarsi, e lei aiuta me, in ogni possibile modo. Se mai dovesse capitarmi di crepare intempestivamente, c’è qualche possibilità che non mi lasci alle spalle un presepe che va in pezzi, io.
Ha saputo nel luglio del 1986 di essere gravemente ammalato. È morto nell’aprile dell’87. Dal gennaio all’aprile dell’87 è stato tutto un dentro e fuori dagli ospedali, un’infilata di encefalopatie (“precoma epatico”, era l’altra definizione) e litri, letteralmente, di flebo di albumina, e diuretici a scatole. Era finito nella situazione che un bravo dottore d’altri tempi – non senza un certo pragmatismo – sintetizzava così: “Chi non caca, cacherà; chi non piscia, muore”. Lui doveva pisciare per forza, se no moriva.
Quando qualcuno ci dà tanto, quando se ne va, si porta via tanto, ma – paradossalmente – ciò che lascia rischia di pesare perfino di più. Mio padre si è lasciato alle spalle un tempio vuoto, una piazza-labirinto in cui hanno avuto il migliore modo di esprimersi la nostra incapacità, i buchi nella nostra incompleta formazione e i nostri difetti caratteriali, ma fortunatamente non solo quello. – In realtà, ciò che durerà forse per più di tre generazioni, il tuo lascito più grande, il vero patrimonio che ti sei lasciato dietro, sono i semi che hai gettato, l’educazione che ci hai impartito, i valori che ci hai infuso, la curiosità che ci hai instillato, l’esempio che ci hai dato. Hai fatto talmente tanto! Ora però c’è bisogno di te una volta di più, devi fare per noi una cosa ancora: devi provare a perdonarti e a perdonarci, così forse ci riusciremo anche noi.
Dariosuo non si raccontava quasi mai, ma aveva distillato per noi la sua esperienza in una serie di frasi tematiche, ad esempio sullo studio: “Il vostro dovere è andare bene a scuola, è l’unica cosa che vi viene richiesta”; “Voi dovete conoscere bene l’italiano”, “Lo studio è ricerca!”, “Dovete scrivere bene”; “Dovete imparare l’inglese”. Anche sull’igiene personale (“A fare una doccia ci vogliono cinque minuti!”), e in altri campi (“Dovete parlare poco e ascoltare tanto”) aveva i suoi topos ricorrenti: in sintesi, ci teneva che andassimo bene a scuola, che fossimo sempre puliti e ben vestiti, che fossimo degli ottimi ascoltatori e dei buoni e tempestivi oratori, che fossimo colti e cortesi, che conoscessimo il mondo, che ci sentissimo liberi e protetti, che ci godessimo la vita… ci teneva a un sacco di cose. Oggi la sua malattia guarisce, nella gran parte dei casi, con una cura di interferone di tre settimane. Da quella di Mammina, invece, ancora adesso si rischia di non guarire mai.
Quarantotto
La generazione silenziosa e quella invisibile
Gli americani, si sa, sono fissati col dare un nome a tutte le cose, generazioni incluse. La generazione di Mammima e di Dariosuo – dei nati tra il ’29 e il ’45 – l’hanno chiamata “Silent Generation” o “Lucky Few”, i “pochi fortunati”. Pochi almeno in USA, giacché con la tremenda crisi del ’29 e la depressione degli anni Trenta in America nacquero meno figli del consueto; in Italia direi di no, giacché Dariosuo era il quarto di otto fratelli e Mammina la quarta di sei. È stato detto della loro generazione che sia scivolata tra le pieghe della storia, e che sia stata la più fortunata di sempre, perché da bambini sperimentarono le famiglie parentali più intatte e stabili nella storia, e perché – quanto alle donne – si sposarono prima, dettero vita al cosiddetto “Baby Boom”, e ricevettero un’educazione migliore di qualunque precedente generazione. Quanto agli uomini, beneficiarono di migliore istruzione, non servirono la patria in tempo di guerra, arrivarono al pieno impiego nonché al pieno – e anticipato, rispetto alle precedenti e successive generazioni – pensionamento, ecc. In poche parole, si trovarono al posto giusto nel momento giusto, e vi rimasero sempre. Vi furono alcune eccezioni, si capisce: ad esempio i Lucky Few americani non si videro piombare in capo oltre centoquaranta bombardamenti in un anno quando ne avevano tra gli otto e i nove, come invece toccò a Dariosuo; non fecero da bimbetti su e giù per i rifugi antibombardamento, come invece toccò a Mammina, ecc.; ma l’impianto è grossomodo quello. In Italia vennero la ricostruzione, i soldi a palate del Piano Marshall, c’era tutto il debito pubblico del mondo da accumulare, ci fu il “Boom” economico negli anni tra il ’57 e il ’63. C’era il cosiddetto ascensore sociale, per cui se eri veramente in gamba potevi partire da una viuzza di Napoli a Toledo e arrivare al MoMA di New York, e trovarti con un tuo piccolo regno. Dariosuo l’ha fatto. Però – ma queste sono variabili che con la vicenda generazionale c’entrano pochino – potevi ad esempio morire troppo presto, proprio come è toccato a Dariosuo. C’era poi che questa generazione di così grande successo non ha avuto bisogno che lavorassero anche tutte le donne, e in effetti la gran parte non lavoravano se non in ambito domestico. Nel caso specifico, Mammina non dovette occuparsi, se non marginalmente, nemmeno della casa, ma solo dell’educazione di noi figli. Quindi Mammina in una sola vita non soltanto ha vissuto la più straordinaria corsa in avanti storicamente immaginabile (forse, una mobilità sociale paragonabile, s’era vista solo sotto Napoleone), ma ha anche ripercorso a ritroso
tutta la strada, trovandosi a sessantacinque anni messa peggio di sua madre e suo padre, che almeno avevano una casa in libera e piena proprietà e una buona pensione. Già, perché Dariosuo è morto troppo presto anche per poter maturare una buona pensione, quindi a Mammina è toccata la minima, che è perfino più bassa di quella sociale. Un bel Luna Park. Io e Boeing, invece, rientreremmo in piena “Generazione X”, quella dei nati tra il 1960 e il 1980, inquadrata nel periodo di transizione tra il declino del colonialismo, la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, quella della riduzione delle nascite che si è avuta tra il 1964 e il 1979, conseguente al Baby Boom del periodo tra il 1946 e il 1963. Anche la nostra, come quella di Mammina e di Dariosuo, è stata una generazione ‘piccola’, solo che non fu definita “silenziosa” bensì “invisibile”, poiché marcata dalla mancanza di un’identità sociale definita, con reputazione stereotipata di essere composta di individui apatici, cinici, e privi di valori o affetti. Siamo cresciuti durante la guerra fredda e negli anni di Ronald Reagan, abbiamo assistito al collasso dell’Unione Sovietica e alla consacrazione degli USA come unica superpotenza mondiale; siamo stati quelli dell’espansione di Internet, oggi surclassati in quest’ambito dalle nuove generazioni. Saremmo quelli della mancanza di ottimismo nel futuro, dello scetticismo, della sfiducia nei valori tradizionali e nelle istituzioni; quelli che con la religione hanno un rapporto complesso, alcuni indifferenti, altri atei, altri religiosi ma spesso in modi non convenzionali. La corona sulla testa della nostra generazione sarebbe l’assoluta assenza di dogmatismo. Magari un po’ è vero. Più ancora di essere gli apatici figli dei fortunati, è singolare la sensazione di essere una piccola generazione figlia di un’altra piccola generazione: una cosa da reduci. I reduci di Mammina.
Quarantanove
I suoi primi settantacinque anni
Ho iniziato a prendere questi appunti circa otto anni fa. Rendendomi conto che Mammina era portatrice naturale di un’aneddotica piuttosto ricca, ho pensato che sarebbe stato interessante – pur con discontinuità, a volte anche con salti di anni – seguitare a raccoglierne. Questa sporadica attività ha sortito su di me effetti a vari livelli: da un lato, mi ha aiutato a tenere a mente che Mammina, oltre che dannatamente problematica, è anche molto buffa, con addentellati anche relativi alla tollerabilità del rapporto; da un altro, mi ha fatto piacere raccogliere istantanee della sua e nostra piccola storia, nella peggiore delle ipotesi a buon uso di figli e nipoti. Ancora, mi ha consentito di omaggiare Mammina della mia attenzione, e poiché verso la fine di questa (prima) raccolta è aumentata la metodicità delle mie interviste, credo che Mammina abbia intuito che qualcosa stava bollendo nella mia pentola, e mi pare che le abbia fatto piacere. Da ultimo ma – come si dice – non per ultimo, un po’ come certi sogni, mi pare che raccogliere queste note mi abbia aiutato a far pace con la nostra, piuttosto travagliata, storia personale. Naturalmente, ci sono vicende ben più drammatiche che ogni minuto colpiscono altri esseri umani, e non è assolutamente mia intenzione collocare le nostre avventure e disavventure su alcun podio; d’altra parte, ognuno deve fare i conti con la propria storia, e quella raccontata a sprazzi in queste poche pagine è innanzi tutto quella di Mammina e poi giustappunto la nostra. Pensavo anche a un’altra possibile funzione, per queste note: consolatoria e lenitiva per i miei perenni sensi di colpa. Ciò perché mi sembrava naturale che questa raccolta si concludesse con la sua – speriamo più lontana possibile nel tempo – dipartita. Poi però ho cambiato idea, perché mi pare che questa (ecco perché più sopra ho scritto “prima” tra parentesi) sorta di antologia sia giunta a un punto sufficiente di maturazione, e perché spero vivamente che Mammina resti a tormentarci, a volerci bene e divertirci il più a lungo possibile. Al limite, continuerò a raccogliere aneddoti, così questi potranno a buon diritto essere considerati meramente quelli dei suoi primi settantacinque anni, quasi settantasei. Ciò anche perché, per il finale che ho immaginato, Mammina mi serve viva e
vegeta.
Cinquanta
Mammina legge Mammina
– Pazienza (nome della mia analista), pensi che Mammina dovrebbe leggere Mammina? – Sì… no… non lo so, perché?
L’ho chiesto anche a Luna. – Amore, dici che Mammina dovrebbe leggere Mammina? – Sì… no… non lo so, perché?
Me lo sono chiesto anch’io, e la risposta è sempre “Sì… no… non lo so, perché?”. Così ho provato a soffermarmi sui possibili ‘perché’. In primo luogo, perché mi pare che ne abbia diritto. In secondo luogo, penso che potrebbe farle piacere. Sono certo, d’altra parte, che alcuni aggi le spiaceranno, e che addirittura potranno causarle dolore. È una specie di scommessa alchemica, sulla prevalenza di uno o dell’altro elemento (piacere/dispiacere): d’altra parte, non è così anche la vita? Nel tempo mi sono convinto che non può essere scritto – e non solo – nulla di buono in assenza di verità o verosimiglianza (la seconda più difficile da conseguire della prima), e nella raccolta di queste note ho cercato di essere quanto più onesto possibile. C’è poi che nel libro di narrativa della prima media la portiera saggia diceva sempre: “Male non fare, paura non avere!”; questo detto me lo sono portato dietro per tutta la vita, a prezzo spesso salato, e nelle mie intenzioni non c’è alcuna malizia, nessun intento di ledere. E poi a rincuorarmi c’è il aggio molto divertente di un’intervista televisiva in cui quel super-genio di Philip Roth racconta di quando ha dovuto spiegare ai suoi genitori dell’avvenuta pubblicazione del Lamento di Portnoy: un compito ben più arduo del mio. D’altra parte, se andrà male, proverò a farmi perdonare. Se però andrà bene,
chissà che finale potrebbe uscirne! Così, ho deciso di stampare tutto e di portare le bozze a Mammina. Poi, riprendendo il filo di questo stesso capitolo, intenderei riportare qui le sue impressioni, o almeno alcuni stralci di esse. In verità, non sono nemmeno sicuro che Mammina arriverà fino in fondo alla lettura. Speriamo bene. Ho fatto alla lettera come detto: ho stampato, le ho telefonato, e sono andato a portarle le bozze. Ha risposto al citofono prima che suonassi. L’ho fatta scendere, si è presentata in jeans e maglione rosso, pettinata bene, coi suoi nuovi occhiali multifocali verdi antirughe. Dopo averci brevemente girato intorno, le ho consegnato il volumetto. – Dai, tanto l’avevi già capito, è inutile che ti stia a spiegare. – Mh. Devo leggerlo? – Sì, e mi farebbe comodo se tu prendessi degli appunti a bordo pagina, ci tengo molto a sapere cosa ne pensi. – Ma a matita? – Anche a penna, come ti pare. Oh, non voglio farti fretta, ma io non sto nella pelle. – A chi lo dici!
Dopo averle consegnato le bozze, mi sono reso conto che, in certo senso, in quel modo le stavo chiedendo il permesso di provare ad andare avanti con questo progetto che la riguarda tanto da vicino. Stamattina mi ha telefonato in orario insolito, verso le dieci. Ha fatto le tre e mezza di notte a leggere, è arrivata al ventisettesimo capitolo. Ha detto che si è fatta molte risate, e che le sono piaciuti i nomi che ho affibbiato ai personaggi. Ha protestato per gli accenni agli scapaccioni e mi ha nuovamente sconsigliato l’analisi. È contenta perché sente Mammina come una dedica a lei, e in questo non ha torto.
Un paio di giorni dopo, è arrivata al capitolo quarantuno. Mi ha colpito che non se la sia presa per come tratto suo padre, nonno Pomodoro, col quale lei è sempre stata indulgente. Anzi, ha aggiunto: “Certo, non faceva proprio niente, non muoveva un dito. Ma era anche tua nonna che voleva così”. Ora sono preoccupato per la lettura degli ultimi capitoli. Ha finito di leggere il giorno dell’ottantunesimo compleanno di Dariosuo (“Non me li fai, gli auguri?”). – Ma anche la parte finale? – … – Ti sei fatta certi pianti? – Sì.
Me lo immaginavo, ma l’ho trovata ancora molto commossa, e me ne sono dispiaciuto. Siamo rimasti un po’ a chiacchierare e si è calmata, poi siamo riusciti anche a farci qualche risata. Note a bordo pagina non ne ha scritte, ma non le spiacerebbe che il progetto Mammina andasse avanti: abbiamo il placet. Poi però mi ha consigliato di inserire all’inizio le cose scritte alla fine, e viceversa: in pratica, di stravolgere tutto. – E comunque, Artù… – Dimmi, Mammina, cosa? – Il mestiere più difficile è quello di madre.
Mammina (ottanta primavere) raccoglie le ciliegie.
Mammina e Dariosuo, 1967.
A Franchina, Amelia, Lisa, Lavinia, Olga, Marta ed Elena, le donne della mia famiglia, mamme di ieri, di oggi e – mi auguro – di domani
C’è una storiella ebraica che racconta di tre mamme che si vantano dei propri figli. La prima, inglese, dice: “Sapete, mio figlio ha studiato a Eton”. La seconda, se: “Figuratevi che il mio è primario, a Parigi”. La terza, ebrea: “Non c’è paragone. Pensate, il mio va in analisi da dieci anni, e parla solo di me”.