L'imbalsamatore Enrique Laso
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Traduzione di Maria Paola Fortuna
“L'imbalsamatore” Autore Enrique Laso Copyright © 2014 Enrique Laso Tutti i diritti riservati Distribuito da Babelcube, Inc. www.babelcube.com Traduzione di Maria Paola Fortuna “Babelcube Books” e “Babelcube” sono marchi registrati Babelcube Inc.
Sommario
Titolo Pagina Copyright Pagina L'imbalsamatore I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV
Non ho la minima idea di che cosa possa spingere un ragazzo di oggi a desiderare di diventare un imbalsamatore. L’unica cosa certa è che io, fin dall’infanzia, avevo manifestato una ione travolgente per la conservazione dei corpi degli insetti più comuni. Immagino che una spiegazione poetica potrebbe essere quella che una volta mi diede la persona a cui è dedicato questo racconto: “noi siamo semplicemente anime destinate a preservare la bellezza di questo mondo, inevitabilmente condannato alla decadenza e, infine, allo squallore”. Può essere una spiegazione, indubbiamente, anche se la mia interpretazione antepone, come vera motivazione, una curiosità irrefrenabile di conoscere a fondo la parte interiore dei corpi e, oltre a questo, la sensazione un po’ infantile di immenso potere, di dominio quasi divino, che ti conferisce il poter fermare il processo di putrefazione che la natura riserva a tutti gli esseri viventi. L’origine di questa vocazione inizia quando avevo appena cinque o sei anni, a quando mi dedicavo con coraggiosa devozione alla caccia alle libellule che, allegramente e innocentemente, si posavano sulla sponda del fiume dove ero solito bagnarmi ogni estate per le vacanze. Mi ricordo di una retina per farfalle fatta a mano, mentre aspettavo, senza il minimo accenno di comione, che uno di quei poveri insetti avesse la sfortuna di cadere vicino al mio piccolo spazio di manovra. Dopo, ritornavo orgoglioso con i miei tesori, tre o quattro libellule, e trascorrevo il resto del pomeriggio, fino a sera, ad analizzarli con pazienza, a classificarli e, infine, a ficcare loro un ago nel torace per fissarli saldamente in un grande asse di sughero bianco. Ma non sono io il soggetto di questa narrazione. In realtà, desidero parlare del mio mentore, maestro, precettore o come si voglia chiamarlo. È solo ora ci ha lasciato che posso parlarne di lui, che mi vedo costretto a parlarne. Avrei potuto farlo in un modo semplice e breve, ma sarebbe assolutamente ingiusto nei confronti di una persona che mi ha dato tanto e che ha sicuramente forgiato in modo definitivo il mio spirito per il resto della mia vita. Ed è necessario che tu, lettore, legga queste pagine prima di conoscere la vera ragione che mi ha indotto a scriverle, perché altrimenti potresti farti un’idea del tutto sbagliata circa l’uomo più affascinante che abbia mai incontrato e probabilmente conosciuto.
I
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La prima volta che arrivai a casa sua avevo sedici o diciassette anni e lui doveva averne sui settanta. Per me era un vero onore che un uomo del suo prestigio avesse accettato la mia proposta di fargli una breve intervista che mi serviva per completare un lavoro al liceo, incentrata intenzionalmente sulla tassidermia. Gli avevo telefonato una settimana prima e lui, in breve, mi aveva convocato il sabato seguente a mezzogiorno, mostrando un certo interesse. Immagino che non doveva nemmeno essere comune che dei ragazzi lo chiamassero per sapere qualcosa sul suo lavoro, e forse questo suscitò la sua curiosità. Ricordo che erano i primi di novembre e, anche se la settimana precedente aveva piovuto quasi ogni giorno, quel sabato il mattino era splendente, con un sole caldo e brillante, di quelli che tanto si apprezzano in autunno. Dovetti prendere un autobus, dato che la sua casa era situata a circa dieci chilometri dalla città. Quando arrivai all’ultima fermata, l’autista mi indicò che dovevo salire il ripido pendio che conduceva al cimitero, dove avevano origine le montagne, e che la casa che cercavo era la penultima contando dal cimitero. Salii la rampa a piedi, con fatica, cercando di scegliere le prime parole da dire per suscitare una buona impressione e sbirciando dentro le case, sparse su entrambi i lati della strada asfaltata male. Rimasi sorpreso di non vedere nessuno e, per alcuni istanti, ebbi la sensazione di addentrarmi in un terreno abbandonato, dove gli uomini avevano smesso di esistere. A poco a poco l’agitazione mi invase e solo la vista di una targa lucida, con delle belle lettere incise, fece dissolvere le mie paure in un istante. José Vaquerizo Yepes Imbalsamatore La targa era fermamente saldata a una recinzione dipinta di verde che circondava la casa: una costruzione solida, probabilmente vecchia di una quarantina di anni,
le cui pareti spesse mostravano una certa trascuratezza, ad esempio la calce che le intonacava si era screpolata in alcune aree, per via dell’umidità. Non trovai il camlo per suonare e così ai un po’ di tempo davanti alla porta recintata fino a quando scoprii che non era chiusa a chiave, né vi era posto alcun lucchetto. Provai ad aprirla con la massima attenzione, ma i cardini erano un po’ arrugginiti e la porta non si muoveva se non con spintoni in avanti o strattoni all’indietro. Fu allora che potei verificare il precario meccanismo che era stato progettato per avvisare della presenza di un estraneo: un filo spesso e lungo collegava la porta a una camla nella parte superiore, che cominciava a suonare, costretta dai movimenti improvvisi che qualcuno doveva fare per are la parte recintata. Spaventato dallo stridore di quel segnalatore rudimentale, rimasi pietrificato, con un solo piede dentro a quella proprietà estranea che avevo invaso senza autorizzazione. Non tardò ad apparire una donna di statura media, grossa, dai movimenti un po’ goffi e meccanici, la quale, un po’ infastidita, scattò dalle scale che conducevano all’appartamento: -Che cosa vuoi? Sei venuto a dare fastidio? Tardai a rispondere, ammutolito dalla sorpresa e dispiaciuto che la prima impressione che stavo dando fosse quella. Ero tentato di scappare via correndo per la discesa e di non tornare mai più, inventando una serie di risposte per il questionario che dovevo presentare la settimana seguente, ma poi, quella grande donna, che inizialmente mi era sembrata severa e rude, mi lanciò un sorriso caloroso. -Avevo dimenticato! Tu devi essere il giovane studente che aspetta il signor José, giusto? –mi disse ammorbidendo notevolmente il tono della sua voce. -Sì, sono io... –dissi balbettando. -Allora entra e non stare lì come un idiota. Seguii la donna, la quale che fiancheggiò la casa seguendo un percorso di ciottoli affiancato alla destra da una parete della casa e alla sinistra da un giardino piuttosto selvatico nel quale crescevano alberi da frutta come arance, limoni, cachi e anche un alto fico che adagiava la sua generosa ombra su una piccola piscina di acqua verdastra in cui galleggiavano innumerevoli foglie secche.
-La piscina la puliamo solo in estate. Io vorrei svuotarla, ma il signor José dice che la preferisce così... –commentò la donna che aveva soddisfatto le mie richieste. Raggiungemmo la parte estrema della casa e poi girammo leggermente a destra, sempre costeggiandola. Rimasi sorpreso perché il lotto si apriva in uno spazio di circa mille metri quadrati, nascosto dietro la casa, in cui diversi piccoli sentieri di ciottoli si addentravano nel terreno, fino al fondo della recinzione, circondando arbusti e pini torreggianti. Sembrava come se avessero desiderato portare un pezzo del monte, che nasceva pochi metri sopra o, al contrario, come se avessero sollevato la casa dentro di lui, essendo l’unico elemento discordante tra la natura selvaggia.
-Che bello! –dissi quasi senza pensare.
La donna mi lanciò uno sguardo inclassificabile, come se fosse sorpresa dal mio commento, e continuò a camminare con quell’andatura meccanica che dava l’impressione che non fosse capace di piegare correttamente le ginocchia. Potei vedere allora che gli alberi circondavano una zona aperta, pavimentata con piastrelle in ceramica e nel cui centro avevano ubicato una bella fontana di marmo dalla quale scorreva un discreto getto di acqua. Accanto ad essa, c’erano ammucchiate alcune sedie a sdraio e un paio di tavolini in ferro battuto. Su una di quelle sedie sedeva un uomo che, anche se teneva un giornale davanti ai suoi occhi, sembrava sonnecchiare. Ci fermammo a circa cinque metri da lui.
-Signor José, signor José, è arrivato il giovane che aspettava.
L’uomo alzò la testa, coperta da un semplice cappello di velluto a coste marrone chiaro, che a malapena lasciava intravedere i capelli grigi e in disordine, folti nonostante la sua età. Appoggiò lentamente il giornale su uno dei tavolini e mi rivolse uno sguardo cordiale e pieno di curiosità. Aveva gli occhi piccoli, ma di un blu così intenso che sembravano inondare il resto del suo viso, rugoso e
abbronzato. -Sei Enrique? -Sì, signore – annuii laconico e nervoso. -Va bene, siediti, per favore. Avevo voglia di conoscerti. –disse facendo una lunga pausa. Poi guardò il cielo, come se stesse cercando di ricordare qualcosa.– Di sicuro vuoi qualcosa da bere? Caffè, tè, limonata? -Non vorrei disturbare... –risposi mentre mi accomodavo. -Oh no, ti prego, nessun disturbo. -Allora una limonata andrà bene. -Adela, ti prego preparaci una buona limonata e portaci anche alcune paste. Adela si ritirò, non senza prima strizzarmi un occhio in un gesto amichevole di fiducia che, anche se non seppi interpretare, riconosco che mi diede conforto. -È curioso vero? -disse il signor Josè, quando già Adela era scomparsa all’interno della casa. -Mi scusi, che cosa è curioso? -Che ti interessi la tassidermia. Avevo la sensazione che non interessasse a nessuno, figuriamoci a una persona così giovane come te. -Beh, signore, ad essere onesti...
-No, no, no. –mi interruppe, agitando le mani in aria. –Per favore, nessuna formalità. Chiamami José, lo preferisco. Io ti chiamerò Enrique. Penso che sarà più comodo per entrambi.
José aveva una voce leggermente cavernosa e vocalizzava perfettamente, come se si trattasse di un annunciatore radiofonico che aveva fumato per anni.
Lanciava sorrisi furtivi, in cerca della complicità immediata del suo interlocutore, me in questo caso.
-Va bene, José.
-Scusami, mi stavi dicendo? -Beh, ad essere onesti, –continuai, senza molta sicurezza, perché il darsi del tu mi sembrava un po’ forzato –non solo mi piace, ma sono anche apionato. In realtà, non trovo una spiegazione molto chiara, ed è anche vero che si tratta di una ione che svolgo segretamente. -Capisco. Immagino che non è facile essere diverso –disse José, inclinandosi leggermente verso di me.
-No, non lo è.
José era vestito in modo informale: un pantalone bianco con delle pieghe, un maglione di lana color crema e una camicia beige dalla quale appena fuoriuscivano dei risvolti, al di sopra del collo a v. Sembrava un tennista degli anni venti e questo vestito, insieme ai suoi movimenti lenti e concisi, gli davano un’aria aristocratica che penso lui accentuasse, per sentirsi a proprio agio con esso. -Tranquillo. Siamo tutti diversi, in qualche modo. Fai della differenza la tua forza. Quello strano uomo mi aveva sopraffatto in appena pochi minuti. Sentivo verso di lui una confusa ammirazione e non avevo ancora chiaro se sarebbe stata temporanea o sarebbe durata nel tempo. -Puoi iniziare quando vuoi. –aggiunse, indicando il piccolo notebook che avevo
con me e al quale la mia mano destra si afferrava con forza, così tanta che aveva lasciato il segno del filo a spirale sulla mia carne. -Certo! –esclamai come chi si sveglia da un sonno breve. José mi lanciava sguardi lunghi, scrutatori e penetranti, come se attraverso i suoi occhi azzurri riuscisse a vedere oltre i miei e a trovare una parte della mia anima, o dei miei pensieri, sullo sfondo nascosto degli stessi. -Erano molti anni che non parlavo con un giovane. Inoltre, da mesi non parlavo con un estraneo. –disse inarcando misteriosamente un sopracciglio e sorridendo a se stesso, come stupefatto. Optai per lasciare il notebook sul tavolino in ferro battuto, perché capii che voleva approfondire quello che aveva appena detto, prima di dare il via al questionario. Non farlo sarebbe potuto essere interpretato come un segno di egoismo puro e mi parve molto più cortese allungare la premessa che andare direttamente al punto. Inoltre, era sabato e non avevo alcuna fretta. In quell’istante Adela tornò con un vassoio con due bicchieri, una grande brocca di vetro con la limonata e un piattino pieno di dolci fatti in casa che risvegliò il mio appetito, quanto l’ingordigia. -Qui c’è tutto signor José. –disse la donna di buon umore. E per te, giovanotto, un bel po’ di paste, che ti vedo molto magro. -Adela, ti prego non importunare il nostro ospite. -Va bene signor José, vi lascio da soli. –borbottò Adela prima di tornare in casa. -È una brava donna, anche se un po’ prepotente. È con me da più di quaranta anni e, a volte, penso che la mia vita sarebbe stata un completo disastro senza di lei. Come puoi vedere siamo quasi della stessa età e, tuttavia, io mi avvicino più all’immagine di un cadavere mentre lei è ancora fresca e vivace. Ed era vero che Adela non dimostrava la sua età. Le si potevano dare cinquanta lunghi anni ben portati. Il suo volto senza rughe, teso e un po’ rossastro, e quegli occhi sporgenti e un po’ impertinenti, le davano un’aria giovanile che veniva meno solo a causa della sua andatura goffa. -Mi sembra molto simpatica.
José riempì i bicchieri di limonata e me ne porse uno. Poi fece un gesto tra sé e sé, come brindando a distanza, a cui io risposi immediatamente. -Alla bellezza! Rimasi qualche secondo con il bicchiere davanti alle labbra, cercando di svelare il significato di quella dedica, che aveva voluto essere un po’ intima e particolare, quasi come una chiave segreta detta ad alta voce e che solo coloro che condividono la chiave di possono capire. Infine, optai per dare un lungo sorso al bicchiere. -Questa limonata è buonissima. -Penso che Adela prepari la migliore limonata di tutto il Mediterraneo. E la fa anche con i limoni che vengono raccolti proprio qui. Ricordai fugacemente gli alberi da frutto che mi avevano dato il benvenuto e il cui aroma pungente si poteva quasi percepire da lontano, anche se un po’ confuso per via della resina dei pini e della lavanda che cresceva ovunque. -E il fico? -Ti ha colpito, eh? Un capriccio. Mi piacciono molto i fichi e in estate le loro foglie lanciano un’ombra oscura sulla piscina che rende molto piacevole starci sotto. Ora già non vi è alcun frutto perché i pochi rimasti li hanno divorati gli uccelli, ma se vieni il prossimo agosto possiamo dare una festa. Disse tutte quelle cose con semplicità e, ne sono convinto, con tutte le intenzioni. C’eravamo appena conosciuti e già sentivo che gli stavo dando una buona impressione, così come lui a me. Mi sentivo bene in quel luogo, lontano dalla città, senza alcun rumore e in compagnia di un uomo che aveva raggiunto la vetta più alta in un lavoro che adoravo. Ciò nonostante, quell’invito, che si sarebbe esteso quasi dieci mesi nel tempo, mi colse completamente alla sprovvista. -José, come mai era molto tempo che non parlavi con un estraneo? E perché hai accettato la mia proposta?
Lanciò uno di quei brevi sorrisi, che a malapena sfioravano l’apertura dell’angolo della bocca, ma la cui soddisfazione tradiva gli occhietti azzurri che si illuminavano con una certa aria di sufficienza. Poi si guardò intorno e aprì le braccia lentamente, con un’eleganza misurata e controllata, come se quel gesto fosse stato provato centinaia di volte, alla perfezione. -Molti anni fa ho smesso di interagire con le persone. Non è che sia mai stato troppo gioviale, ma il mio lavoro mi costringeva alla solitudine estrema e le poche relazioni che avevo erano altrettanto inquiete. Ho sempre preferito la solitudine. -Allora, hai scelto di stare solo? –chiesi ingenuamente. -Beh, diciamo di sì. Anche se, in questo, c’è come una sorta di condanna. Una meritata condanna! Ho accettato che venissi perché volevo parlare con qualcuno e anche perché avevo la sensazione che realmente fossi apionato di tassidermia. Ero curioso... Si alzò di nuovo e prese il piattino con le paste, che mi offrì strizzando un occhio. -Sono deliziose. –mi disse scuotendo il piattino. Ne scelsi una a caso e le diedi un piccolo morso. Il gusto della farina del posto, dell’essenza di vanillina, delle uova della fattoria e dello zucchero di canna inondarono il mio palato e quasi mi fece perdere i sensi per qualche istante. Ero convinto oramai che non sarebbe stata l’ultima volta che sarei stato in quel luogo e qualsiasi scusa sarebbe stata buona per tornarci. -Sono le migliori paste che abbia mai mangiato in vita mia. –affermai in tutta onestà.
-Beh, dovrai congratularti di nuovo con Adela.
José tacque, come se la frase potesse avere continuità ma fosse morta tra labbra, senza poterla mai finire. Le sue pupille azzurre si spensero fugacemente e fissarono un tronco di uno dei pini che erano più vicini a noi. Rimase in silenzio per un po’ e io rispettai il suo silenzio, anche se mi sentii a disagio in quella la situazione. -Scusa... perdonami Enrique. –disse quando tornò dalle sue fantasticherie, mentre si massaggiava le tempie con le dita. –Ogni tanto mi sembra come se il ato mi assalisse e mi tirasse verso di sé. È qualcosa che voi giovani non potete a capire, perché il vostro ato è troppo recente. -Se vuoi posso tornare un altro giorno. –mi avventurai. -No, no, ti prego... è solo che... la verità è che, a sentirti parlare di quelle paste, con quell’emozione, improvvisamente mi ha fatto ricordare di quando avevo la tua età, quindici o sedici anni, e allora ... Beh, non farci caso. –concluse, anche se la sua voce era diventata depressa e malinconica e i suoi occhi conservavano ancora l’impronta di alcune immagini riservate solo alla sua immaginazione. -Sì, –dissi, cercando di riportare la conversazione al suo corso normale –amo la tassidermia, ma il fatto è che non ho esperienza. Sono una specie di autodidatta. Il volto di José si illuminò di nuovo e cominciò a strofinarsi le mani, come qualcuno che sta per cominciare un compito arduo. -Bei tempi quelli! Anche io sono stato un autodidatta, ma la verità è che mi ha fatto perdere un sacco di tempo... e ho rovinato un po’ di pezzi... -Il nostro mestiere non si insegna in una facoltà qualunque. –manifestai, spiritoso, e cercando di stare in combutta con il mio compagno. -Ma guardati, già ti consideri un vero imbalsamatore. Che coraggio! –esclamò un po’arrabbiato. Non sapevo cosa dire e mi morsi la lingua mentre stringevo le palpebre per contenere la vergogna che mi attanagliava. Abbassai la testa per un attimo, come uno struzzo che cerca di sfuggire alla realtà, come se quello stratagemma puerile evitasse alla stessa di continuare a esistere. -Non ci fare caso! Era solo uno scherzo! –disse José mentre rideva a crepapelle
come un bambino dispettoso dopo uno dei suoi scherzi. La sua risata era pulita e fluttuava in aria con un’aura di purezza innocente che rivelava un’anima giovanile racchiusa in un corpo rovinato dallo scorrere del tempo. -Mi hai spaventato. –dissi rosso come un pomodoro e cercando di riprendermi dallo scherzo inoffensivo. -Per farmi perdonare mi offro di essere il tuo maestro. Che ne dici? Tutto stava accadendo a una velocità vertiginosa e mi ci vollero alcuni secondi per rispondere. In realtà avevo programmato questo incontro con l’intento ultimo di ricevere alcuni suggerimenti e sembrava che i miei desideri sarebbero potuti essere più che soddisfatti. -Sarebbe un onore, José. Non so cosa dire... Forse per te sarà una seccatura. -Sciocchezze! Mi annoio, davvero. Trascorro la maggior parte della giornata eggiando per la montagna e a ricordare. È arrivato il tempo di tornare al mondo reale e di approfittare di quel poco che mi rimane della mia vita guardando avanti, invece di bruciare le mie ore intrappolato in un tempo che non tornerà mai più. Con il mio modesto contributo sicuramente eviterai un percorso tortuoso verso la perfezione e ti farà risparmiare almeno un paio di anni di lavoro buttati via. -Ma come potrò ripagarti? -Vieni ogni sabato mattina. Trova un paio d’ore per stare con questo vecchio. – disse, mentre si alzava per colpirmi amichevolmente sulla spalla. –Il conversare con te mi ripagherà di tutto.
II
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Alla fine presentai un lavoro standard, con poco contenuto e con la maggior parte delle informazioni copiate da una vecchia enciclopedia di mio padre. Nonostante tutto presi un dieci. Il tema era così singolare che il professore si sentì un po’ perso e ogni dato, per quanto fosse insignificante, dovette sembrargli straordinario e degno dei più grandi studiosi in materia. Trascorsi la settimana inquieto, desiderando che arrivasse presto il sabato e temendo una chiamata in cui José, con una scusa qualsiasi, annullasse l’appuntamento, rimandandolo a un momento migliore. Per fortuna non successe. Ora sentivo rafforzare la mia ione che, fino ad allora, per le persone che mi circondavano, non era altro che il capriccio di un adolescente. Avrei ricevuto delle lezioni da un talento, da un genio che aveva esposto i suoi pezzi nei migliori musei del mondo, che aveva tenuto conferenze negli Stati Uniti, in Francia, in Germania o in Inghilterra e che aveva pubblicato due trattati e numerosi articoli. E ora era il mio maestro. Mi sentivo fortunato per quella gentilezza che aveva avuto nei miei confronti e che sicuramente per lui non era nient’altro che un atempo, ma che mi avvicinava al migliore in quella professione che volevo esercitare in futuro. Era come se un pianista avesse preso lezioni da Chopin o un pittore da Picasso. Mi ricordo orgoglioso, quasi altezzoso, che mi davo delle arie che nessuno riusciva a capire mentre camminavo per i corridoi della scuola. Il breve incontro con José mi aveva dato la fiducia di cui un giovane ha bisogno a quell’età così delicata e aveva aumentato il mio entusiasmo verso l’arte della dissezione degli esseri viventi. Io, che fino ad allora avevo investito a stento il mio tempo nella conservazione di insetti e di un paio di topolini, ora sarei stato in grado di ascendere dalla mano di un fenomeno verso le sfere più alte di quella professione. Il venerdì non andai ai corsi serali perché i nervi mi consumavano talmente tanto
che avevo bisogno di rilassarmi facendo delle lunghe eggiate, leggendo o guardando vetrine nel centro della città, tutto pur di evitare quei terribili bruciori allo stomaco, simili a quelli che si provano per l’agitazione del primo amore. Quella notte riuscii a malapena a dormire e la ai quasi interamente a guardare le ombre che il poco traffico proiettava sul soffitto della mia stanza. Quasi nulla aveva importanza oramai e sentivo che la mia vita avrebbe avuto senso solo da sabato a sabato, un paio di ore alla settimana, essendo il resto dei giorni un eccipiente insignificante ma purtroppo indispensabile. Presi di nuovo lo stesso autobus e l’autista mi riconobbe all’istante. Il giorno era iniziato molto diversamente da quello della settimana precedente: il cielo era denso, coperto, e una pioggia leggera, quasi impercettibile, inumidiva i vetri della vettura, bagnandoli da dentro. Mi sembrò romantica la vista annebbiata e grigia della città dalla cui mi allontanavo in cerca di una mia identità per la quale dovevo combattere. Scalai vivace la ripida salita che portava alla casa dell’imbalsamatore, anche se le case, da un lato all’altro della carreggiata, erano deserte e sottomesse a un acerrimo silenzio che solo il rumore dei miei i rompeva. Dovevo sbattere le ciglia frequentemente perché, anche se la pioggia era soave, imperversava in quella zona alimentata dal vento che scendeva dalle montagne e colpiva la mia faccia, come un’infinità di inoffensivi ma fastidiosi sassolini. In cima alla collina, dove sradicavano gli alberi, proprio accanto al cimitero, una fitta nebbia si era diffusa con forza, creando uno spettacolo bellissimo e, allo stesso tempo, carico di mistero. Affrettai il o, temendo che quel manto plumbeo mi inghiottisse da un momento all’altro. Quando oramai ero di fronte alla porta recintata che con il tempo mi sarebbe diventata tanto familiare quanto il riflesso del mio viso nello specchio; mi limitai a scuotere la recinzione, in modo tale da attivare il funzionamento del povero sistema di allarme che disponeva la casa: la camla attaccata ad un filo. Non tardò a comparire Adela dall’interno della casa, mentre si copriva precariamente dalla noiosa pioggia con un recipiente di plastica.
-Enrique, su entra ragazzo, ti prenderai una polmonite lì fuori! – mi spiattellò dalle scale.
Mi riunii ad Adela in cima alle scale e le feci un ampio sorriso, mostrando la mia indifferenza di fronte alle intemperie. -Non è poi così grave. Sono salito camminando senza problemi. -Voi giovani di oggi siete degli incoscienti! –disse scuotendo il recipiente con una mano, mentre con l’altra mi spingeva dentro casa. Mi accolse una sala ampia e oscura, dalle cui pareti spuntavano, in una disputa senza pari, teste naturalizzate di cervi e cinghiali, teschi puliti e splendenti con i loro corni e zanne varie, lussuosamente incorniciati. Rimasi affascinato all’istante e per la prima volta sentii la grandezza senza precedenti della persona da cui stavo per prendere lezioni. -Incredibile! –riuscii ad articolare a stento. Adela rivolse lo sguardo annoiato e stanco alle pareti e poi scosse la testa con un disprezzo vigoroso. -Beh, a me fa un po’ paura e schifo, a dire la verità. Li metterei tutti in soffitta. Ignorai le parole della brava donna e continuai a fissare con attenzione quei pezzi senza eguali, sezionati in modo eccezionale e che sembrava potessero prendere vita in un qualsiasi momento. Mi colpì in particolare una testa di cervo, situata a pochi metri dal suolo, ma che sembrava guardare verso il basso con una certa disinvoltura e arroganza, in modo che chiunque avesse l’impressione che il cervo lo stesse minacciando dalla sua posizione privilegiata. Di certo in vita era stato un magnifico esemplare. -Questo animale... non lo so... –manifestai soggiogato dalla forza di quella impareggiabile ricreazione artistica. -Sono anni che non incrocio il suo sguardo. Mi ricorda uno dei miei nonni che aveva un brutto caratteraccio. Seguii l’andatura meccanica di Adela attraverso un lungo e stretto corridoio, dalle cui pareti sorgevano porte oscure in mogano chiuse a mandate. Sul fondo, si intravedeva una luce tremolante e accogliente che sembrava voler ipnotizzare nonostante la distanza.
-Da novembre a febbraio abbiamo chiuso tutto perché così si trattiene meglio il calore. Quando arriverà la primavera vedrai che la casa avrà un altro aspetto. – disse la donna, come intuendo i miei pensieri sull’aspetto lugubre che trasudava il corridoio. -Sarò felice di poter venire a vederla. Il lungo corridoio culminava in una sala vastissima, di più di quaranta metri quadrati. A sinistra c’era un lungo tavolo da pranzo rettangolare con otto sedie intorno e un’enorme credenza piena di utensili da cucina, stoviglie e posate. Proprio di fronte a noi avevamo una doppia porta, che dedussi dovesse collegare il soggiorno con la cucina. A destra c’era un generoso camino, fiancheggiato da due scaffali altissimi pieni di libri disposti in due file, come si intuiva da alcuni piccoli spazi lasciati vuoti; accanto al focolare era collocato un tavolino basso, circondato da tre comode poltrone in pelle. In una di esse mi aspettava José. -Enrique, che piacere rivederti! –esclamò l’imbalsamatore. Mi fece piacere quell’espressione sincera e spontanea di gioia, e mi sentii indubbiamente pieno di felicità per quelle sue semplici parole.
-José, in realtà è un onore per me...
-Enrique, ti ho già detto niente formalismi. Siediti, che oggi è una bruttissima giornata e devi aver preso freddo. Il fuoco ti toglierà presto l’umidità di dosso. -Vuoi una cioccolata bella calda? –chiese Adela inclinandosi leggermente. Ero un po’ stordito di fronte a tutte quelle attenzioni. Non ero abituato a quel tipo di trattamento e tanto meno proveniente da una persona che ammiravo. -Sì, a dire il vero una cioccolata ci starebbe bene. –risposi in maniera spiritosa. Adela lanciò in aria una risata e scomparve dietro le doppie porte, mentre io mi sedevo accanto al camino, giusto di fronte a José. Presto sentii come il calore delle fiamme invadeva il mio corpo e una sensazione gradevole di piacere mi
afferrava con una forza insolita ai braccioli della poltrona. -Mi piacciono queste giornate grigie e melanconiche. –disse José mentre agitava la legna ardente con l’attizzatoio. -Anche a me... Anche se, ora, mentre stavo arrivando... -La nebbia. –disse l’imbalsamatore, quasi in un alone di mistero. Rimasi sorpreso che avesse svelato con molto tatto la ragione della mia apprensione e credetti di intuire in lui una sorta di curiosa facilità nella chiaroveggenza, che sicuramente aveva più a che fare con l’intuizione che con un dono soprannaturale. -Sì, sì. Ho avuto una strana sensazione, quasi paura. Molto strano. -È comprensibile. Le montagne che si trovano un poco più su intrappolano le nuvole e non le lasciano andare per ore, rimangono lì, giusto sopra il cimitero. La tua immaginazione ti avrà giocato un brutto scherzo. - Forse. –azzardai, nuovamente a disagio nel ricordare il manto scuro che pendeva sul cimitero, minacciando tutto quello che fosse a portata di mano. José mi guardò in modo fisso e i suoi occhi azzurri, così chiari la settimana precedente, ora mi sembravano un po’ opachi e di una tonalità violacea incredibile. -Oggi non è proprio il tempo più adatto, ma uno di questi giorni potremmo fare una eggiata per il cimitero. Ne rimarresti affascinato. Nell’ascoltare quell’ultima parola, mi ricordai della testa di cervo all’ingresso che mi aveva colpito tanto. Pensai che sarebbe stata una buona idea lodare quel bel lavoro. -Sono rimasto affascinato dal cervo all’entrata. -Quale di quelli? –chiese l’imbalsamatore che si era appoggiato allo schienale della sedia e osservava compiaciuto la danza delle fiamme nel camino. -Il più formidabile, quello posto più in alto a sinistra. Sembra quasi vivo.
José espirò silenziosamente come qualcuno che, abituato alle lusinghe, non è facile da compiacere. Attese in silenzio, meditando qualche risposta, frugando nel suo stomaco, come se nel fondo dello stesso potesse trovare una frase lapidaria, la consegna perfetta con cui rispondermi. -La verità è che non è male. ma di certo si tratta di un pezzo rozzo. Il migliore tra quelli che ho lì esposti all’entrata, ma un lavoro che non merita affatto un’attenzione particolare. -Allora, perché occupa un posto così privilegiato? –chiesi un po’ offeso dal suo commento che in qualche modo aveva denigrato la mia lode. L’imbalsamatore mi guardò di nuovo a lungo con i suoi occhi color malva che riflettevano la luce che riscaldava la stanza confortevole. In loro c’era un gesto di muta supplica, come se avesse timore che io fossi in grado di capire, senza che lui pronunciasse una parola. -Non essere arrabbiato. Sei troppo giovane per irritarti per qualsiasi sciocchezza e, a maggior ragione, se è detta da questo vecchio decrepito. –la sua voce suonava arrugginita, logorata e vinta dagli anni. –È ancora presto, ma se resisti e continui a venire qui, non avere il minimo dubbio che ti mostrerò opere alla cui vista dovrai strofinarti gli occhi perché davvero ti sarà impossibile discernere ciò che è morto dalla vita. Adela spuntò prontamente fuori dal nulla e, con gesti meccanici, lasciò due grandi tazze di cioccolato fumanti sul tavolino. Percepì il silenzio che si era generato tra noi. -Vi lascio soli con i vostri pensieri, anche se non sarebbe male che assaggiaste subito il cioccolato perché così caldo si può gustare meglio. –pronunciò con tono quasi di rimprovero. La donna scomparve con la stessa rapidità con cui era apparsa, e io approfittai dell’interludio per afferrare una di quelle tazze enormi cui aroma già sarebbe stato sufficiente a sfamarmi per giorni. José si disinteressò di quelle parole e continuò attonito a tenere le pupille fisse sul camino. -Ti riferisci alla soffitta? –abbozzai cercando di mostrarmi perspicace e cercando di recuperare l’orgoglio perduto dopo il suo commento.
L’imbalsamatore si agitò nella sua poltrona anche e non distolse lo sguardo da dove lo teneva. Sembrava avessi fatto centro e che la mia frase avesse causato una specie di effetto, ma non era molto chiaro quale. In ogni caso, mi sentii soddisfatto per quella piccola vittoria. -Quell’Adela non riesce a tenere la bocca chiusa! –sussurrò rassegnato. -Non è colpa sua. Ha fatto un commento senza cattiveria che io ora ho saputo associare. –dissi un po’ petulante. -Sì, mi riferivo alla soffitta. Ma è troppo presto per poter salire a vedere. Dovrai guadagnartelo. Sarà una sorta di ricompensa, una volta raggiunta una certa abilità. José aveva parlato con un tono distante e il ghigno del suo viso era diventato stranamente oscuro. Una malinconia, che proveniva da un qualche ricordo molto remoto nel tempo, lo teneva lontano da me, anche se fisicamente restava lì, a un paio di metri dal mio corpo. -Spero davvero di meritare presto questa ricompensa. Mi piacerebbe vedere i tuoi lavori migliori... -Sei impaziente, Enrique. Un imbalsamatore deve avere il controllo assoluto sul tempo, deve imparare a padroneggiarlo, dimenticare definitivamente che esiste, per aggirarlo. -Non capisco... L’imbalsamatore distolse per un po’ lo sguardo dal fuoco e fece un cenno con la testa, con quella eleganza che sembrava innata in lui, cercando di trasmettere calma e serenità. Intenzionalmente, rimase in silenzio per alcuni secondi che mi parvero eterni e infiniti. -Immagina di sezionare uno dei pezzi che hai visto all’ingresso in un’ora ... -Non è possibile. - Forse... O forse è possibile, ma è anche sicuro che rimarrebbe un pugno nell’occhio, un disastro che nel corso degli anni finirebbe per consumarsi. Di quanto tempo pensi abbia avuto bisogno per completare il cervo che tanto ti ha
sedotto? –chiese con la sua voce affilata. Mi sentii un po’ imbarazzato, perché non mi vedevo in grado di dare una risposta plausibile alla domanda. Per la mia mente arono diverse opzioni e alla fine optai di sceglierne una a caso e buttarla lì, in attesa di un sicuro rimprovero. -Tre settimane... -Potrebbe essere. Enrique, la verità è che non mi ricordo. Potrebbero essere state tre settimane, due, sei... non lo so. La misura non era il tempo, la misura era il pezzo in sé, il risultato finale che volevo ottenere. Ci sono lavori ai quali continuo ancora a dedicarmi dopo anni e anni, e ancora oggi continuo ancora a non raggiungere lo scopo che mi sono fissato, continuo a non essere soddisfatto. Capisci? Il tempo deve rimanere al di fuori dei parametri di un vero imbalsamatore. José fu di nuovo immerso in un silenzio assordante. Io, da parte mia, cercai di riflettere sulle sue ultime parole. Che il tempo diventasse qualcosa di prescindibile mi sembrava quasi magico e, al momento, irraggiungibile. Tutto il mio mondo ruotava attorno al tempo e misuravo le mie possibilità future in minuti, ore, giorni o anni. Pianificavo il futuro sulla base di un piano prestabilito in cui ogni atto, evento o raggiungimento dell’obiettivo erano perfettamente determinati. -In tal caso, in che modo ci impegniamo con un cliente? Gli diciamo di lasciarci il suo trofeo e che lo chiameremo un giorno? –appuntai un po’ sarcastico. -Quando iniziai a lavorare e divenni indipendente quello che mi preoccupava di più erano i soldi. Avevo affittato un laboratorio, dovevo pagare il mutuo, dovevo mangiare. Ero logico che lavorassi a cottimo, dimenticando i miei sogni di artista, sacrificando pezzi a cui riuscivo a dare a malapena a una minima porzione di bellezza. Dopo un po’ caddi in depressione. Avevo un lavoro così comune, mi irritava e mi causava la stessa apatia che avrei avuto se avessi distribuito il pesce congelato in un ipermercato. -Ma anche io avrò bisogno di soldi. La tassidermia è un’arte, ma dovrà anche servirmi per il sostentamento. -È per questo che ho deciso di insegnarti. Voglio risparmiarti anni di sofferenza e vorrei che in via preliminare potessi permetterti lussi a cui io per accedervi ho
impiegato troppo tempo. -Anche se il tempo è irrilevante... –manifestai di nuovo in maniera mordace. -Hai il coraggio stupido degli adolescenti. –replicò l’imbalsamatore senza rancore o malizia, semplicemente constatando un fatto. –Certo che il tempo conta! Non vedi il mio corpo martoriato e senile? –chiese mostrando le sue mani rugose e afflitte da macchie scure. –Ti ho solo chiesto di dimenticarlo quando stai lavorando su un pezzo, ogni volta inizi un nuovo incarico. Le tue opere saranno il tuo aporto per l’immortalità, Enrique, non lo dimenticare mai. José mi aveva dato una lezione, e anche se non l’avevo ancora capito in quel momento, la mia mente avrebbe fatto tesoro con attenzione di quella saggezza che era stata forgiata nel corso degli anni. Sentii palpitare la premura di chi ha ancora molte cose da scoprire, con la certezza che un mondo affascinante mi attendeva proprio dietro l’angolo. -Quando inizierai a darmi delle lezioni? –chiesi ansioso. -Già te le sto dando. –senteziò l’imbalsamatore.
III
––––––––
arono cinque settimane senza che succedesse niente di rilevante. José si stava impegnando a farmi capire il vero significato della parola pazienza. C’erano giorni in cui rimanevamo in silenzio per un’ora, contemplando gli uccellini che innocentemente si posavano per bere l’acqua dalla fonte che si trovava alle spalle della casa. -Magari fossi stato capace di catturare quei movimenti. –appuntava l’imbalsamatore, senza staccare gi occhi dai semplici eri che coraggiosi si ubicavano ad appena pochi centimetri da noi. -Ma questo è impossibile. La nostra missione è cercare di ottenere quell’efffetto ma in nessun modo un pezzo inanimato potrà mai essere uguale a uno in vita. – replicai cercando di essere ragionevole. -Un artista non deve imporsi dei limiti. Questo metterebbe fine alla sua immaginazione.
-Ma potrebbe anche condurlo alla frustrazione.
José si alzò e tutti gli uccellini fuggirono spaventati. Camminò piano intorno alla piccola fontana. Potei apprezzare il suo corpo stilizzato e asciutto, i suoi gesti raffinati in maniera calcolata, i suoi capelli bianchi e folti che si ammassavano graziosamente sulla nuca. -Enrique non essere così cretino da metterti delle barriere da solo. Lascia che il tuo ingegno si eriga libero da impedimenti. La realtà già si incaricherà di metterti un limite ma non essere tu che sin dal principio le dai una mano nel suo compito
infame. –mi disse quasi disgustato. Ogni sabato, quando tornavo a mangiare a casa, i miei genitori mi riempivano di domande, principalmente perché non capivano che diavolo potessi fare tante ore con un anziano signore che non fosse mio nonno. -Mi insegna la tassidermia. –rispondevo sincero anche se infastidito. -Tassidermia? Chissà quando ti toglierai questa stupida idea dalla testa. Non conosco nessuna persona normale che si dedichi a questo lavoro. -Papà è solo che non conosci a nessun imbalsamatore, né normale, né anormale. Nessuno! –esclamai profondamente irritato. -Non parlarmi così, intesi? Dimmi solo una cosa: è una persona comune, una persona tipo i nostri vicini, questo José che tanto adori? –chiese mio padre diventando serio. Mi scombussolò la domanda. Era evidente che non era una persona proprio comune, e questo dovevo ammetterlo. Mio padre, con le sue migliori intenzioni, cercava di proteggermi e, soprattutto, cercava di indirizzare la mia vita verso un sentiero con il minor numero di ostacoli. Ma trovai una risposta che, anche se non lo lasciò soddisfatto, almeno mi servì per sbarazzarmi del terzo grado per mesi. -È qui che sta il problema, papà. Devi capire che io non voglio sembrare a uno dei nostri vicini. E José mi sta aiutando a riuscire in questo intento. Mi ricordo di quel natale con gli occhi allucinati, mentre cercavano di catturare la bellezza che mi circondava e di trascinarla con me per sempre, che in fin dei conti è l’obiettivo ultimo di un qualsiasi imbalsamatore: perpetuare la perfezione della natura. Anche se in quei giorni trovavo belli non solo gli animali, ma anche le luci delle strade, le vetrine strapiene di articoli da regalo, le persone per le vie adornate e perfino le macchine che rilasciavano il loro unto vapore. José mi aveva insegnato a osservare il mondo con occhi nuovi, e ogni istante cercava di tirar fuori la bellezza, anche quando non era troppo evidente, di ogni oggetto, di ogni gesto, di ogni parola pronunciata. Come è tipico degli adolescenti, avevo la sensibilità a fior di pelle e pertanto non era difficile che una volta tirata fuori la bellezza di un qualsiasi fatto o cosa banale mi scoprisse con gli occhi arrossati, sul punto di piangere, con il petto e le labbra che tremavano per l’emozione.
-Stai facendo progressi. Presto sarai pronto per iniziare il tuo primo progetto. – mi diceva José, cercando di tranquillizzarmi e di darmi coraggio. -È che mi vergogno un po’. A volte devo andarmene dal cinema con una scusa qualsiasi per non farmi vedere piangere dai miei amici, commosso da una qualche scena in particolare. Mi prenderebbero in giro fino alla morte! -Enrique, purtroppo sin da piccoli ci insegnano a reprimere i nostri sentimenti. Ora mi tocca educarti al contrario perché, senza la sensibilità, l’artista si trasforma in un operaio. Compatisci i tuoi amici perché si burlerebbero di te per due motivi: o stanno così repressi da invidiare la tua naturalità o, nel peggiore dei casi, hanno così poca capacità di emozionarsi che lo farebbero solo di fronte a stimoli selvaggi e, in tal caso, sarebbero condannati all’apatia, alla tristezza più nera, a una condizione che non riuscirebbero nemmeno a immaginare. Quei discorsi non facevano altro che rafforzare un carattere che avevo da sempre annidato dentro di me, ma che mi ero ostinato a mantenere chiuso e senza capacità alcuna di manifestarsi. L’imbalsamatore mi stava aiutando a poco a poco a tirarlo fuori perché sarebbe stata una mancanza nel mio apprendimento. Fu allora quando compresi quello che pretendeva e quando vidi con chiarezza che, nonostante la mia insistenza a iniziare la preparazione propria del lavoro, quindi nonostante fossi ansioso di lavorare a un pezzo guidato da cotanto insigne maestro, era assolutamente necessario perfezionare prima la mia anima, dato che solo così avrei ottenuto poi profitti dalle lezioni. Ogni giorno che ava mi allontanavo di più dalla realtà che mi circondava o forse vedevo ridotto il mio mondo a tre o quattro interessi precisi. Continuavo ad andare a scuola, ma lo facevo con malavoglia, senza entusiasmo. La voce dei professori veniva da qualche luogo distante e mi giungeva spenta, senza forza ed era a malapena stimolante, sempre più calante. Di tanto in tanto, mi ritrovavo con gli occhi fissi sulla lavagna, il cui intenso verde oscuro mi restituiva l’immagine dei pini che circondavano la fonte vicino alla quale ogni sabato mi sedevo a chiacchierare con José. Era molto difficile staccarmi da quei pensieri e mi era insopportabile l’idea di stare lì a perdere tempo inoculando nel mio cervello materie e conoscenze che potevano servirmi a nulla, o comunque a ben poco, per lo sviluppo della mia vera vocazione. Nonostante tutto, grazie a una formidabile memoria, che ancora conservo, i miei voti ne risentirono poco e i miei genitori non arono dal terzo grado allo scherno o, perfino peggio, alla proibizione.
Il lettore comprenderà presto il perché di quella incuranza, se qualche volta ha coltivato dentro di sé una qualche ione sfrenata e sincera. Come dimenticare la tiepida mattina di gennaio in cui l’imbalsamatore mi mostrò volontariamente con orgoglio per la prima volta un pezzo conservato, con la timidezza di un bambino, con la stessa emozione di un tenore che interpreta la sua aria favorita. -Enrique, credo che oramai abbiamo la fiducia reciproca sufficiente a poterti mostrare qualcosa. –mi disse José che con il viso diretto al cielo cercava di catturare il soave calore invernale del sole in quel giorno limpido. -La cosa certa è che io ti ho confidato già alcuni segreti importanti. –replicai desideroso che mi rivelasse qualche dettaglio significativo riguardo l’arte della tassidermia, della quale, per il mio dispiacere, parlammo a stento. José si allungò e lentamente mi porse un piccolo libro dalla copertina di cuoio consumata, con le scritte laminate in oro. Si fermò a guardarmi con un mezzo sorriso enigmatico disegnato sul suo gradevole viso. -La bellezza può diventare eterna nel tempo. Dobbiamo solo darle una mano. Lessi la copertina del libro: Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij. Mi suonava vagamente quel titolo, anche se ovviamente non era una delle migliori opere dell’autore. Cercai di svelare le intenzioni dell’imbalsamatore, dato che mi era difficile comprendere quello che pretendeva nel consegnarmi quell’opera difficile da ubicare nel contesto della nostra relazione. -È un’edizione eccellente, molto curata. –avventurai, credendo che la bellezza alla quale si riferiva si trovava nel piccolo esemplare che mi aveva offerto. José trattenne un sorriso modesto e gesticolò con le sue mani, indicandomi di cercare all’interno del libricino. -L’edizione non è male ma non è quello che voglio che ti veda. Presta attenzione. Diedi un’occhiata all’esemplare con delicatezza, in cerca di non so bene che. Forse si trattava di un’annotazione, di una frase sottolineata... non ne avevo la minima idea. Fu allora quando, all’incirca nella metà, il libro cedette con facilità e si aprì in due. Lì c’era un minuto bocciolo di rosa secco, schiacciato, di un colore marrone molto oscuro, afferrato fortemente al suo stelo con una sola spina. I petali erano un po’ deteriorati e un leggero pulviscolo si accumulava nel
punto di unione delle due pagine, lasciando una presenza di quello che in ato aveva formato parte della corolla. Il fiore era fermamente attaccato a una delle due foglie mentre l’altra conservava un’impronta porpora della stessa, come se si trattasse di un negativo. -Qui hai una vera opera d’arte della conservazione. Semplice e bella. Non è mia, io non mi sono mai dedicato alle piante. –precisò l’imbalsamatore, la cui voce si estingueva lentamente mentre mi parlava. –È qui da quasi cinquanta anni e continua ad essere così bella come quando me la diedero. Vedi? Guarda, Enrique. Le mie mani tremavano dall’emozione mentre sostenevo il libro e la mia immaginazione dotava di un contenuto la rosa che sembrava dormire nel suo letto di parole. Un nodo mi stingeva la gola, e per quanto cercassi di sbarazzarmi di esso non ci riuscivo. Nessuno dei due parlò più per il resto della mattinata e quando salutai José con un gesto lui non mi guardò e credetti di riuscire a intravedere nelle sue pupille andate le fantasticherie di un ragazzo di appena venti anni.
IV
––––––––
Quando quella volta Adela mi ricevette dalle scale come sempre, il suo volto mostrava una profonda preoccupazione. Era la prima volta che la vedevo così, perché di solito era allegra e ottimista, con uno strano senso dell’umorismo che a me risultava particolarmente gradevole.
-È successo qualcosa? –le chiesi preoccupato.
-Non è niente di grave, ma ora vedrai... Ti ho telefonato quando me ne sono accorta... Quell’uomo è un incosciente! –esclamò Adela portandosi le mani al viso in preda alla disperazione.
-Mi dispiace, ma non sto capendo nulla.
-Certo, certo... è che oggi, il signor José... Mi imbarazza raccontartelo, capisci? Respirai profondamente dato che la donna era davvero sconvolta e non riuscivo a capire di cosa stesse parlando e di cosa le asse per la sua testa. Le presi una mano per rassicurarla.
-Ora sono qui e forse posso essere d’aiuto.
-Enrique, il signor Jose si droga, lo fa da anni. In questo momento è drogato e per questo non volevo che venissi. Non volevo che lo vedessi in questo stato... – mi trafisse di punto in bianco, in un impeto di forza e sincerità.
-Si droga? –chiesi un po’ incredulo e sospettoso. -Proprio così, alla sua età! È insensato ma che cosa ci posso fare io?
Cercai di assimilare le informazioni che Adela mi aveva dato. Ero assolutamente perplesso e mi sembrava difficile immaginare non solo un uomo della sua età che si drogava, ma José in particolare: era qualcosa di completamente insolito.
-Dov’è? -Dove è sempre, a prendere il sole vicino alla fontana. -Vado a vederlo. –dissi con determinazione.
-Aspetta ,–disse Adela, prendendomi per un braccio. –Sei ancora in tempo per scendere la collina, prendere un autobus e tornartene a casa. La prossima settimana tornerà tutto come sempre. È molto strano che si sia iniettato di morfina questa mattina, di solito non lo fa nel fine settimana, e ancora meno da quando vieni a visitarlo. Meditai per alcuni secondi. Negli occhi della donna c’era una supplica silenziosa e la speranza che c’era ancora la possibilità di evitare il disastro che lei immaginava enorme. Ma mi frenavano la curiosità e l’incoscienza tipica della gioventù. -Mi dispiace, Adela, ma preferisco vederlo. Ho bisogno che mi spieghi il motivo
per cui fa questa stupidaggine. –manifestai giudiziosamente. La donna lanciò un breve lamento, mentre allentava le sue mani dal mio braccio. Non volle accompagnarmi e si lasciò superare sulla scalinata. I suoi abituali movimenti meccanici erano scomparsi e ora il suo corpo sembrava un oggetto inerte e blando, leggero e facilmente malleabile. Sentii la sua profonda tristezza scorrere nelle mie vene mentre facevo il giro della casa alla ricerca dell’imbalsamatore. Quella mattina i pini filtravano il sole, spargendolo in fasci di luce che formavano curiosi disegni sul pavimento, sui ciottoli e sulle piante. L’immagine di José mi apparve come quella di un uomo sconfitto, stanco, chiuso in un’immaginaria prigione dalle sbarre luminose e vestito allo stesso modo di quando lo avevo incontrato, anche se quel giorno il bagliore dei pantaloni bianchi quasi mi accecò. La visione, nel suo complesso, sembrava irreale, come se, involontariamente, avesse attraversato le barriere della vigilia e mi avesse immerso in un dolce sogno. Ricordo che era l’inizio di marzo, in quel periodo in cui l’inverno si confonde goffamente con la primavera e, anche se faceva caldo, di tanto in tanto un leggero venticello scendeva dalle montagne tirando un’aria umida e fredda che mi scosse le viscere. -José, stai dormendo? –chiesi, stupidamente, mentre ero seduto accanto a lui. Sul tavolino in ferro battuto c’era un ago ipodermico, una ciotola con un liquido che sembrava acqua, un bicchiere di limonata e un contenitore con su scritto Astramorph®. -Enrique... –sussurrò José, alzando leggermente una mano. Teneva gli occhi chiusi e anche se si notava che cercava di muoversi, gli risultava molto difficile. Lentamente ruotò il busto verso di me, rimanendo sbilenco, in una strana posizione storta sul suo posto.
-Sì, sono io. –risposi tristemente.
Rimasi in silenzio per qualche minuto. Guardai con attenzione il volto dell’imbalsamatore che di tanto in tanto emetteva un soave gemito, come se stesse sognando. Teneva la bocca leggermente aperta e ciò permetteva di
scoprire una dentatura ben curata e sana, eccezionalmente sana per la sua età. Non si era rasato e la barba di pochi giorni guastava il suo abituale aspetto da dandy inglese. Aveva le palpebre serrate e delle rughe profonde distinte partivano da quelle fino ad arrivare alle tempie. -Non capisco come puoi farti questo. –sussurrai quasi parlando con me stesso. José sembrò svegliarsi e si mosse molto lentamente, come sgranchendo i muscoli molto forzati nella posizione che manteneva. Aprì un po’ gli occhi, ma li richiuse di colpo, come se una strana forza potesse danneggiargli la retina e si vedesse costretto a tenerli chiusi. -Sei mai stato innamorato qualche volta? –mi chiese. La sua voce era roca, distante e stanca.
-No, credo di no. –risposi perplesso.
-Certamente no. Se lo fossi stato non esiteresti...
-Ma che cosa ha a che fare questo con il fatto che ti sei drogato? -chiesi veramente arrabbiato.
-In realtà, non ha assolutamente niente a che fare. Ho solo voluto mettere alla prova fino a che punto puoi capirmi. Quando qualcuno comprende un’altra persona è molto più facile che arrivi a perdonarla, mi spiego? Parlava lentamente, sbiascicando la lingua e vocalizzando pesantemente. La sua voce mi arrivava a stento ai timpani e si perdeva nel breve tragitto di pochi metri tra di noi, confondendosi con il canto degli uccelli o con il debole suono di rami agitati dalla brezza. Un torpore malinconico avvolgeva l’imbalsamatore, trasformandolo in uomo grigio e cupo.
-José, non ho nulla da perdonarti. Sono solo deluso. –dissi sapendo che rischiavo, contrariandolo, di perdere per sempre la possibilità di ricevere le sue lezioni.
-Che cosa ti ha fatto capire che volevi diventare un imbalsamatore?
Quel modo di cambiare argomento senza indugio, quasi con aria di sfida, mi irritava profondamente, ma pensavo che dovevo continuare a stare al suo fianco, di far are quel frangente di quella mattina, in modo tale da poterlo conoscere meglio, e forse aiutarlo a separarsi dalla morfina.
-Non lo so, credo le libellule. –risposi svogliato. -Libellule... è la parola più bella che esiste, non è vero?
Era difficile capirlo. Le frasi uscivano dalle sue labbra come un dolce mormorio e dovevo sforzarmi per capire quello che stava dicendo. Lui si sforzava di rimanere sveglio e loquace, anche se ci riusciva a malapena.
-Sì, può essere. –indicai laconico.
-È curioso, Enrique. Quasi tutti noi imbalsamatori abbiamo in comune un primo amore per gli insetti. Immagino che deve essere per via della facilità di poter arrivare a loro e all’attrazione irrefrenabile che ci suscitano i loro bei colori... -Io trascorrevo ato le estati vicino ad un fiume. Mi facevo il bagno la mattina e le libellule si posavano sulla riva a rinfrescarsi e a bere acqua. Ce n’erano centinaia: rosse, viola, verdi e le mie preferite, quelle azzurre.
Anche se continuavo arrabbiato, l’incespicata conversazione che tenevamo andava a calmare a poco a poco il mio temperamento. José ora si lasciava trasportare da alcuni pensieri che sicuramente la morfina rendeva liberi e fluttuanti e mi parlava maldestramente con la lingua e le labbra anestetizzate, mantenendo in ogni momento le palpebre ben chiuse e cercando il sole con il suo viso, come una lumaca disperata. -Ti sembrerà stupido, ma credo di vederti. Sì, ti vedo. Vedo l’acqua brillante del fiume, gli eucalipto che crescono liberi sull’altra sponda e decine di libellule che si muovono attorno a te.
-Deve essere la morfina. –tagliai con improvvisa secchezza.
L’imbalsamatore tentò nuovamente di aprire gli occhi e questa volta ci riuscì in parte, mantenendo anche uno spazio minimo tra le palpebre, per cui dedussi che avrebbe potuto vedere qualcosa a stento, ma io potevo vedere l’azzurro intenso della sua iride, che comprimeva le sue pupille in maniera smisurata. Mi resi conto allora che era la morfina che provocava quell’intensa miosi, che gli impediva di spiegare le palpebre senza sentirsi completamente accecato. -Non mi giudicare così duramente, Enrique. È facile osservare i comportamenti degli altri e mostrarsi severo e inflessibile, ma molto più complicato fare esattamente la stessa cosa con i propri. Per le azioni che ci riguardano abbiamo sempre una spiegazione plausibile, una successione di eventi che giustificano il nostro modo di agire, quasi sempre nella ragione, perché quasi nessuno fa niente per capriccio o senza un motivo che lo anima, solo coloro che hanno perso la ragione. Ti chiedo solo di usare con me lo stesso metro di misura che utilizzeresti per te. José sembrava recuperare l’acutezza mentale man mano che parlavamo. Nelle sue riflessioni non mancano argomenti di un certo peso, ma quella mattina non era facile da gestire, figuriamoci se si considera il radicalismo spietato che ci forgia nell’adolescenza. -Tutto quello che dici va bene, ma mi è difficile trovare una giustificazione al fatto che ti droghi. Inoltre, così non sei un buon esempio. –dissi pensando più a
mio padre di ogni altra cosa. –Non penso che sia qualcosa di cui tu possa sentirti orgoglioso. L’imbalsamatore pensò un attimo prima di rispondere. Ero orgoglioso perché le mie parole sembravano averlo ferito, anche se non tanto come lui aveva fatto con me dopo che lo avevo trovato in quello stato di degrado. -Come posso essere soddisfatto? La morfina rappresenta la mia sconfitta più grande, capisci? Questo farmaco –disse prendendo goffamente con la sua mano destra il contenitore di Astramorph® –serve per alleviare il dolore, non solo fisico, ma anche dell’anima. Questo corpo fossile che vedi nasconde delle ferite che solo la memoria contempla ed è la mia testa che si impegna a non cicatrizzarle. Ti prego solo di perdonare questa sciocchezza, questo peccato senile, che, anche nel corso degli anni non giustificherai, forse un giorno arriverai a comprendere. José si mostrava così umiliato che non trovavo il modo di negargli il perdono che con tanta sottomissione sollecitava. Sentii rilassarsi dentro di me la rabbia, e la tristezza di Adela, che non aveva fatto altro che aumentare, stava lentamente diluendo nella corrente palpitante delle mie vene. -Spero solo che questo non si ripeta. Lo desidero di cuore, più per te che per me. –manifestai condiscendente. -Non posso promettere nulla, perché non mi sento padrone delle mie azioni. Ma sì, cercherò di non iniettarmi nessuna droga quando vieni a trovarmi. È stata una terribile mancanza di rispetto verso la tua persona.
-E Adela? –chiesi categoricamente.
-Adela? Penso che oramai lei sia abituata. Mi conosce molto bene, meglio di me.
-Non sottovalutare i suoi sentimenti.
-Non lo faccio, stanne certo.
-Questo mi basta, per ora. –dissi lasciando una porta aperta a nuove ingiunzioni. Essendo studente, era una bella sensazione avere ragione dato che mi dava un vantaggio o un’autorità morale di fronte al mio istruttore. -Quello che conta ora è che tu non fugga, che non scappi dalla mia vita per un piccolo scivolone. Ho bisogno di darti lezioni, di istruirti per diventare un vero e proprio imbalsamatore. Sono orgoglioso di farlo e lo faccio per egoismo puro, lo ammetto. È per me un piacere e forse un ultimo gesto che dia alla mia vita una seconda possibilità di gloria: insegnare a te. Rimasi senza parole. Un calore intenso e ridicolo si diffuse rapidamente per tutto il mio corpo fino ad inondare, infine, le mie guance. Sentivo vergogna e vanità in parti uguali e in maniera incontrollata. Per un momento ricordo di aver pensato che forse la morfina, dopo tutto, non era così nociva o una droga così pregiudizievole. -José... – riuscii a mormorare. -Enrique, cercare di essere felice ora, prova a realizzare i tuoi sogni e non fare nulla che possa rimpiangere dopo. Quando uno arriva alla mia età, l’infanzia e l’adolescenza assalgono la tua mente senza pietà, in maniera implacabile. A volte mi sorprendo qui, seduto su questa stessa sedia e circondato da questi stessi alberi, confuso e sconvolto, quando credevo invece di trovarmi altrove, lontano nello spazio e nel tempo. Il cervello umano è così perverso e meraviglioso. Devo riconoscere che quei pensieri mi colsero di sorpresa e mi ci sono voluti molti anni per arrivare a svelare parte del loro significato, anche se non la totalità. Tuttavia, le parole dell’imbalsamatore mi accompagnavano nelle notti, quando nel letto chiudevo gli occhi per dormire. Echeggiava l’eco spento della sua voce e, in qualche modo, interpretavo che i suoi pensieri avevano una qualche verità suprema, indiscussa, che la mia precoce comprensione ancora non riusciva a svelare.
V
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José non tornò mai più a ripetere uno spettacolo come quello di quel giorno anche se, segretamente, Adela mi informava che continuava a iniettarsi la morfina tre volte a settimana. -Ogni volta gli fa più effetto. Ci sono volte in cui rimane assopito per ore, e, naturalmente, dopo non c’è nessuno che riesca a farlo addormentare la notte. – disse la donna sconvolta. Mi ero documentato sulla morfina e, curiosamente, uno dei suoi effetti era l’enorme tolleranza che generava ai dipendenti da essa. Con il are del tempo, una dose letale per una persona normale e che mai se l’era iniettata prima veniva tollerata proprio come se fosse stata assunta da un tossico. Questo non faceva altro che accrescere la mia preoccupazione, perché immaginavo che l’imbalsamatore aumentasse gradualmente le dosi che si somministrava. Ma non trovai un modo per affrontare la questione e aveva sempre una comoda scusa per dirmi che non era il giorno giusto e che più in là sarebbe stato meglio. Il mese di aprile arrivò, come indica un detto, rendendo la città come un barile per via delle piogge consecutive, anche se in fin dei conti piacevoli, e che spegnevano e accorciavano i giorni e li rattristavano un po’. Uscivo a stento di casa, perché in questa città quattro gocce sembrano un diluvio e a tutti noi abitanti ci spaventa un po’ bagnarci, per questo preferiamo il riparo secco e coperto delle nostre case. Quella mattina di metà aprile Adela mi lasciò solo nel lungo corridoio della casa, di cui conoscevo già le porte oscure quell’unica volta che ero stato all’interno della casa, attorno al mese di novembre. Il aggio era immerso nel buio più scuro, così come lo ricordavo. -Aspettalo qui, scenderà presto, io devo continuare a preparare il pranzo. –mi disse la donna, alla quale mi univa un rapporto cordiale, con naturalezza.
-Aspetta, Adela! –risposi in fretta. –Non mi piace questo posto.
Lei mi rivolse uno sguardo attonito, anche se carico di comprensione. Fece un gesto per colpirmi con entrambe le mani strette. -No, non ci posso credere! Che razza di uomo sei? Sarà solo un minuto, ho già avvisato il signor José. -Ma, perché non c’è nessuna lampadina nel corridoio? Qualcuno potrebbe inciampare. –dissi cercando di nascondere la mia paura dietro a una tendina di asettico criterio pratico. -Perché il signor José vuole così. –rispose Adela sarcasticamente, mentre si allontanava da me dirigendosi verso la cucina. Rimasi solo, terrorizzato. Dopo pochi minuti le mie orecchie si abituarono al silenzio apparente, finché non furono sempre più acute. Allora percepii che qualcuno camminava lentamente sulla mia testa da un lato all’altro. Era come se cercasse qualcosa con attenzione, conoscitore della zona, ma senza ricordare il luogo esatto. Più tardi pensai che in realtà non stava cercando nulla, ma che sicuramente osservava qualcosa con calma e diletto, girando attorno a essa. Tutte queste analisi le realizzavo automaticamente, come se una parte della mia mente cercasse di intrattenere la paura insensata che la attanagliava con artifici da detective dilettante. Improvvisamente, mentre il mio corpo era pietrificato dalla paura, sentii come i i si allontanavano, producendo uno scricchiolio agghiacciante sul soffitto in legno a cassettoni. Dopo pochi secondi apparve l’imbalsamatore da dietro a una delle porte del corridoio, con il viso spento e cupo. Io continuavo a essere paralizzato, incapace di parlare. José, nel vedermi, mutò l’espressione del suo viso, ripristinando l’aspetto elegante e accogliente che lo caratterizzava. -Enrique, che sorpresa! Scusami, hai dovuto aspettare a lungo? Adela mi ha avvertito che era suonata la camla e che sicuramente eri tu... ma ero così impegnato... mi hai preso un po’ alla sprovvista. –disse l’imbalsamatore mentre si avvicinava con un ampio sorriso sulle labbra.
-Sì... Beh, in realtà... –balbettai.
-Che hai? Stai tremando e sei freddo come un iceberg. –disse José, prendendomi per le spalle e accigliandosi in un finto dispiacere.
-È solo che... non mi piace troppo questo corridoio.
L’imbalsamatore guardò entrambi i lati del corridoio, come soppesando qualcosa, poi lanciò di nuovo uno di quei sorrisi seducenti e caldi che gli riuscivano tanto bene. -Hai ragione, ora che me lo dici, è raccapricciante. La verità è che lo tengo così per proteggere dalla luce e dall’umidità la mia biblioteca e le cose che ho in soffitta.
-Certo, certo.
-Se ti va che oggi potremmo fare una eggiata per la montagna, ci farà bene uscire un po’ di casa e chiacchierare all’aperto.
-Sta piovendo.
-Andiamo, amico! Quattro gocce non ci faranno male.
-Comunque, ho portato un ombrello. –dissi non molto entusiasta dell’idea, anche
se volevo fuggire da quel corridoio al più presto.
-Lascia, lascia... Ti presterò uno dei miei impermeabili così starai più comodo. Inoltre, abbiamo del lavoro da fare sulla montagna e avrai bisogno delle mani libere. Seguii José fino all’ingresso della casa, che continuava a essere presieduta dalla testa di cervo che tanto mi aveva colpito, e lì mi diede un impermeabile. Lo misi al momento, ma me ne pentii, perché mi stava un po’ grande e mi dava un aspetto ridicolo. -Sono orribile! –esclamai stendendo le braccia con una certa negligenza. L’imbalsamatore mi guardò e cercò, senza molto successo, di soffocare una risata spontanea. Poi si avvicinò e mi agitò leggermente, prendendomi per la vita. -Nessuno ci vedrà, non credo che qualche ragazza eggi per i boschi con questo tempo. Che razza di pazzo va a farsi un giro con questo tempo da cani? – chiese rasentando il cinismo beffardo.
-Noi due ...
-Vado a dire ad Adela che usciamo e che torneremo tra un’ora o giù di lì. Non c’è bisogno che mi accompagni così ti eviterai la brutta figura che ti veda conciato così. –disse ammiccando maliziosamente. Uscii all’esterno della casa e mi dedicai a studiare più a fondo la facciata che avevo visto a malapena la prima volta che arrivai davanti a essa. Le pareti erano state intonacate in diverse occasioni, e questo era evidente, perché nelle zone in cui la vernice era crepata apparivano vari livelli di diverse tonalità. Nonostante le numerose crepe e le scrostature, le pareti avevano un aspetto sano e robusto e quella decadenza della pittura non faceva altro che conferire loro un aspetto romantico, come quello che possiedono alcune dimore vittoriane abbandonate al
loro destino. Su entrambi i lati dell’ingresso c’erano due grandi finestre, che dovevano corrispondere alle prime due stanze, alle quali si accedeva dalle prime porte che si trovavano di faccia al corridoio che mi procurava tanta avversione. Le finestre erano protette da un reticolato verde, lo stesso colore del recinto che circondava la piccola proprietà. Sicuramente era stata Adela che aveva collocato in esse alcuni vasi di gerani, garofani e altri fiori tipici della regione che sopportavano abbastanza bene il clima. Il secondo piano era stato costruito in seguito al primo, o almeno questo si deduceva dalla sua differente tonalità e disposizione, un po’ più stretta. Non aveva finestre e solo un piccolo lucernario poteva consentire che l’aria all’interno non fosse viziata. Per qualche strana ragione mi tornarono alla mia mente i i di José in soffitta e rabbrividì di nuovo. Ricordai il suo viso lugubre e un po’ circospetto appena comparve nel corridoio e pensai a dove diavolo erano dirette le sue strane peregrinazioni in soffitta. -Andiamo, non c’è tempo da perdere, se vuoi tornare in tempo a casa tua per pranzo! –esclamò l’imbalsamatore con animosità, spuntando dal nulla e spaventandomi a morte. -Stavo guardando le piante. –mentii in maniera spontanea. -Se vuoi Adela può tagliarti alcune talee in modo da poterle piantare nella tua camera. Uscimmo insieme per la strada asfaltata male che continuava a salire dalla casa prima verso il cimitero e poi verso la montagna. Mi sorprese il modo di camminare agile e leggero di José, il quale sembrava abituato al pendio e saliva con sufficienza. -Vai spesso a eggio sulla montagna? –chiesi intuendo una risposta affermativa. -In effetti, almeno due volte a settimana. È l’unico esercizio che faccio, perché o la maggior parte del tempo seduto accanto alla fontana o a leggere un buon libro davanti al caminetto. Di solito esco il mercoledì e la domenica, ma oggi ho ritenuto opportuno fare un’eccezione. Notai che l’imbalsamatore si aiutava con un grosso bastone da montagna molto moderno, che conferiva un aspetto moderno e giovanile alla sua aria normale sfasata degli inizi del XX secolo. Aveva anche un piccolo zaino che indossava
come una borsa a tracolla e che sembrava essere vuoto.
-Cos’è quello zainetto?
-L’hai notato... Il nostro cammino non sarà invano. Raccoglieremo alcuni fiori commestibili. –disse José, un po’ altisonante. Rimasi perplesso, ma non volli aggiungere nulla e soppesai che la cosa migliore era aspettare di vedere con cosa mi avrebbe sorpreso perché non ricordavo di aver mai mangiato dei fiori nella mia vita. Improvvisamente, sentii uno strano brivido e in quel momento mi resi conto che eravamo arrivati all’altezza del cimitero. Attraverso il cancello, potei distinguere alcune tombe e lapidi e, sullo sfondo, quasi impercettibili a causa della nebbia, dei loculi. -Non ti piacciono i cimiteri? –mi chiese José indicando il cimitero con il suo bastone. -A dire il vero non troppo. E in giorni come questo ancora meno. -Beh, mi piacerebbe visitarlo un giorno in tua compagnia. Ce l’ho così vicino che ho quasi perso il rispetto. Mi siedo accanto alle tombe e mi diverto a leggere le iscrizioni. Alcune di esse sono autentici manifesti, altri comuni vendette e la maggior parte semplici punti e finali di vite insignificanti. Superato il cimitero, la strada smise di essere asfaltata e divenne più stretta e sassosa. Poi, sembrava arrivare a un bivio che si separava in tre stretti sentieri, ma facili da identificare. L’imbalsamatore, sicuro, ne scelse uno che divenne più ripido e sembrava cercare la cima della montagna. Dovetti seguirlo in fila indiana, in quanto non era più possibile camminare uno affianco all’altro. Gli alberi, soprattutto i pini, anche se accompagnati da querce, si concentravano in quella zona, proteggendoci dalla leggera pioggia. -Ho pensato alle libellule. –disse l’imbalsamatore girando la testa per poter contemplare il mio andamento stanco.
-A cosa ti riferisci?
-Non te l’ho detto, ma anche io ho iniziato la mia ione per conservare un insetto dal nome meraviglioso: le farfalle. A dire il vero sono sempre stato affascinato da farfalle, ma non sono mai stato spinto a cacciarle. Mi sembrava molto complicato conservare le loro ali o poterle catturare senza rovinarle selvaggiamente.
-E le catturavi su questa montagna?
-No, impossibile. Quelle che ci sono molto piccole e, inoltre, non ce ne sono molte. Erano altri tempi e vivevo in un altro posto. Ho trascorso la mia infanzia lontano da qui, anche se questa terra mi ha visto nascere e questa terra mi vedrà morire. Aveva pronunciato quelle ultime parole con un certo orgoglio, ma anche con una notevole malinconia che chiunque identificava immediatamente con un vago senso di immediatezza. -Per quello manca molto. –dissi con l’ingenua facilità e distacco dei giovani. José smise di camminare e mi guardò con compiacenza. Si scostò il cappuccio dell’impermeabile e diresse il suo volto verso le chiome degli alberi. -Non è così lontano quel giorno. A dire il vero, devo sbrigarmi con la tua formazione. Ma nemmeno dobbiamo precipitarci. –disse con freddezza e senza sentimentalismi.
-Non mi piace quando parli così, né che parli di questo tema. -Hai paura della morte?
-Non lo so. –risposi anche se era un problema che, data la mia età, non rientrava tra le mie principali preoccupazioni. -Che sciocchezze sto dicendo, non è vero? Continuiamo che ci rimane ancora un tratto per raggiungere il luogo indicato. Camminammo per una decina di minuti in assoluto silenzio. Il percorso, che sembrava in un primo momento giungere alla cima della collina, in realtà la delimitava e conduceva a una piccola depressione, nella quale crescevano cespugli e altri diversi arbusti come il rosmarino e la lavanda. L’imbalsamatore si fermò davanti a una serie di rocce molto levigate, tra le cui crepe erano cresciuti abbondantemente una serie di arbusti a stelo lungo e folto. -Ci siamo. Il nostro compito di oggi è quello di raccogliere fiori di cappero, li conosci?
-Ne ho sentito parlare. –risposi senza troppa convinzione.
José mi insegnò a sradicare i capperi con attenzione, scegliendo i più piccoli e quelli che erano ubicati nella parte superiore dell’arbusto, sempre attento a non pungermi con le spine che, anche se poche, provocavano un dolore intenso. -Raccogliere fiori di cappero fa anche parte della mia formazione? –chiesi a mo’ di battuta. -Naturalmente! Inoltre, presto potrai anche assaggiarli. Vedrai come sono buoni con l’insalata. Anche se tutto sommato mi stavo divertendo, con la schiena ricurva, facendo le veci di un contadino medievale, mi sembrava quanto meno insolita quella esperienza. José era molto vivace, raccoglieva i boccioli di fiori in erba con insolita abilità e velocità. Quando riempimmo lo zaino fu soddisfatto e decise che era arrivato il momento di tornare.
-Siamo stati più veloci di quanto mi aspettassi. Sei un assistente fantastico. Fui soddisfatto del complimento e seguii l’imbalsamatore che accelerò il o. In meno di un quarto d’ora eravamo di nuovo in casa. Anche se aveva smesso di piovigginare, il cielo era molto imbronciato e aveva tinto di grigio l’ambiente scagliandosi sugli alberi da frutto che circondavano la piscina una luce fioca e languida, quasi più propria del crepuscolo più che del mezzogiorno. -Ora non ci resta che finire il lavoro. Andiamo a, diciamo così, a imbalsamare questi fiori. Dopo aver fatto questo, li potremo degustare per mesi, senza paura di rischiare un’intossicazione. –disse José, pieno di orgoglio. Distribuì i capperi in due grandi vasi di vetro, che poi riempì fino a tre quarti di acqua . Poi gettò un paio di manciate di sale in ognuno di essi, e li chiuse per agitarli. Infine, aggiunse l’aceto quasi fino a straripare la capacità dei vasi e li chiuse definitivamente con forza, lasciandoli sul bordo della piscina.
-Li lasciamo qui? –chiesi un po’ perplesso.
-Sì. Il sole finirà il lavoro. Cambierò loro l’acqua per due settimane e rimarranno così per altre due. Poi dividerò i capperi in bottiglie più piccole con acqua, sale e aceto e ne avremo abbastanza per usarne tutta l’estate. –rispose l’imbalsamatore con un ampio sorriso.
-Devo tornare a casa. –dissi indicando l’orologio.
-Un giorno, quando vorrai, puoi rimanere qui a mangiare. Sia Adela che io ne saremo felici. Salutai José e scesi giù per la collina alla ricerca del bus che mi avrebbe portato a casa con una strana sensazione nel corpo. C’era qualcosa nella mia testa che mi tormentava, ma non riuscivo a capire cosa, come quando uno cerca di dare un
nome a una cosa che vede nella sua mente in modo chiaro, ma per la quale non trova il sostantivo esatto. Rimasi sorpreso di trovare alcune persone nelle case disseminate lungo la strada. Era la prima volta che erano lì, o almeno che si lasciavano vedere. Per un secondo credetti di essere entrato in un mondo fittizio, irreale, dove niente era come i miei occhi lo percepivano. La strada sembrò allungarsi, diventare eterna e il cielo divenne plumbeo fino a tal punto che sentivo il suo peso sulla mia testa, al punto di sentirsi schiacciata. Arrivai esausto alla fermata del bus, con l’esaurimento proprio di un maratoneta, dopo aver eseguito la prova a tempo di record. In cinque minuti arrivò l’autobus e salutai il conducente, al quale mi legava una certa fiducia, con la stessa gioia con cui un naufrago accoglierebbe i suoi soccorritori.
-Hai l’aria stanca. Oggi sicuro hai fatto una lunga eggiata. -A dire la verità, mi sono stancato solo di scendere la collina. -Allora la fatica non è fisica, ma mentale.
L’autista aveva buttato lì quella frase casualmente, quasi per scherzo, eppure l’effetto che ebbe su di me fu devastante. L’autobus era completamente vuoto, c’eravamo solo io e lui. Mi resi conto che la realtà intorno a me svaniva, cadendo dallo scivolo imprevedibile della più fervida immaginazione. Come era possibile che mi stava accadendo tutto questo? Che cosa diavolo lo stava causando? Improvvisamente smisi di essere sul bus, smisi di guardare fuori dal finestrino, smisi di vedere la nuca del conducente. Improvvisamente mi trovai nel corridoio della casa dell’imbalsamatore, al buio, e sentii i suoi i su di me, in soffitta, camminare furtivamente, inseguendo un pezzo. Io ero pietrificato e spaventato a morte. Un grande terrore mi afferrò e aveva una sola origine, una causa che ora potevo rivelare con estrema precisione: José.
VI
––––––––
Trascorsi due settimane senza ritornare a casa dall’imbalsamatore. Telefonavo e parlavo solo con Adela, che in qualche modo giustificava le mie mancate visite, pur dando una spiegazione molto diversa da quella vera. -Ti capisco. Ci sono volte in cui quell’uomo si sbaglia. Io oramai mi sono abituata, ma è intollerabile che un uomo della sua età... te lo dissi quel giorno che era meglio che tornavi a casa, far finta che non fosse successo nulla. – argomentava la povera donna, mentre io annuivo in silenzio all’altro capo della linea, come un codardo. La paura è un fenomeno strano e spesso del tutto irrazionale. Esiste la teoria per cui tutto ciò che ci provoca paura è dovuto al fatto che il nostro cervello, in un modo saggio, ci avverte su tale atto, cosa o persona che comporta un pericolo al di là del nostro discernimento cosciente. Il fatto è che io non riuscivo a capire perché era nata in me quella paura ingiustificata verso José. Curiosamente, man mano che avano i giorni mi mancava, ogni volta con un’intensità maggiore. Era come se mi avessero strappato una parte della mia anima, i miei pensieri più nascosti e affascinanti, e non ero in grado di divagare con qualche ambizione o di sognare senza la compagnia dell’uomo che doveva mostrarmi i segreti più alti del lavoro che amavo. Cercai invano di scoprire che cosa aveva causato quella sensazione di soggezione di fronte al suo ricordo e, infine, scelsi di attribuirlo a uno strano legame tra il corridoio buio e la sua figura. Anche lui aveva avuto le sue colpe: il suo volto truce e cupo, non appena avevo girato la testa mentre ritornava dalla soffitta, evidenziava un sentimento di rabbia o di odio, o almeno così avevo creduto di percepirlo io. Era un giovedì quando ricevetti una chiamata disperata di Adela, che quasi mi supplicava al telefono: -Ti prego, vieni a trovarlo questo sabato. Questa settimana si sta iniettando la
morfina tutti i giorni, sta molto male. Nei sogni pronuncia il tuo nome. Penso che si senta in colpa e che creda che non meriti più di essere perdonato. Ti preparerò una buona limonata e mi assicurerò che sia in perfette condizioni. Verrai?
-Verrò, Adela, certo che verrò. –risposi senza alcuna scelta.
Quel sabato mattina, all’inizio di maggio, era sorto con un calore umido e soffocante, più proprio di luglio. Mi armai di coraggio e andai a casa dell’imbalsamatore. Mi accolse come se non fosse successo nulla, come se non fossi mai mancato agli appuntamenti del sabato o come se quell’affronto non avesse la minima importanza. Almeno questa fu l’impressione che ebbi. -Oggi Adela ha preparato una limonata meravigliosa. Sono sempre buone, ma quella di oggi è eccezionale. José aveva recuperato la sua aria aristocratica. Indossava una polo bianca a manica corta, ornata da alcune sottilissime linee blu scuro sul collo. L’aveva abbinata a un pantalone di lino colorato e sandali con cinturini in pelle alla moda. Se prima mi era sempre sembrato un giocatore di tennis inglese, quel giorno mi sembrava un opulento capitano di nave americana seduto sulla prua della sua lussuosa imbarcazione. -Questi giorni sono stato molto occupato con gli esami di fine anno. Mi gioco tutto l’anno in un paio di mesi, e naturalmente... –mentii senza che nessuno mi avesse chiesto alcuna spiegazione. -Certo, Enrique. Non ti rimprovero di nulla. Ma vorrei farti una domanda: stai ancora pensando di diventare un imbalsamatore? La domanda mi colse alla sprovvista e non seppi subito che cosa rispondere. Il sangue si ammassò con velocità sulle mie guance e sentii il suo calore scomodo, quello che rivela agli occhi degli altri che ci troviamo in un momento di difficoltà. Circolava solo un’idea per la mia mente: certo che continuavo a pensarci, era la mia ione!
-Ci puoi contare. –sentenziai.
-Forse sono stato un po’ lento di riflessi e ti ho annoiato con circonlocuzioni soporifere. Oggi cambierà tutto.
-Non capisco.
-Ritenevo opportuno per la tua formazione andare piano, affrontare questioni più filosofiche per arrivare al cuore delle questioni sulla tassidermia e lezioni pratiche alla fine, mi spiego?
-Perfettamente.
-Ma ho commesso un errore. Forse era un buon metodo anni fa, ma i giovani di oggi apprendono in fretta e hanno bisogno di stimoli costanti. Mi stavo soffermando troppo in pensieri che per te, al momento, sono inutili.
-Beh, detto così...
José agitò la mano, zittendomi. Prima di continuare con il suo discorso diede un lento sorso al suo bicchiere di limonata. Il succo di limone, mescolato con acqua e zucchero, brillava dietro il vetro, emettendo soavi bagliori che mi ricordavano quelli che vedevo sulla riva del fiume dove andavo a bagnarmi quando ero bambino. Per un breve periodo mi sentii in profonda comunione con l’uomo che cercava con ogni mezzo di attirare la mia attenzione.
-Oggi ti mostrerò la biblioteca. Lì potrai consultare alcuni libri interessanti e te ne presterò anche qualcuno affinché tu possa studiarli a casa tua con tranquillità. Di sicuro ti affascineranno. Mi ricordai che per accedere alla biblioteca dovevo ritornare al corridoio dei miei incubi, la vera causa per cui ero rimasto a casa per due settimane consecutive.
-Fantastico. –dissi, ma la mia voce suonò tremante e spenta.
-Ti preoccupa qualcosa? –chiese José che mi guardava in maniera fissa con i suoi incredibili occhi azzurri.
-No, niente. -mentii.
-Abbiamo messo una luce nel corridoio. È molto leggera, ma almeno non si dovrà più sopportare quel buio cupo. –disse girando la testa dall’altra parte, come per fare una battuta senza importanza. Abbastanza sollevato, seguii i i dell’imbalsamatore verso l’interno della casa. Entrammo per la cucina che aveva una piccola porta che conduce al retro della casa. Quando arrivammo al corridoio José premette un interruttore e una lampadina di bassa intensità diffuse una luce color pastello, soave e gradevole.
-Così va meglio. –disse l’imbalsamatore senza guardarmi. -E i libri? Non si rovineranno?
-No, non succederà. Questa è una luce adatta, come quella che ho dentro per
leggere. Aprì una delle porte centrali con attenzione, come se potessero diventare cenere in un qualsiasi istante. Mi invitò a are verso l’interno con un gesto contenuto. -In questa sala ci sono i libri più antichi. Ne ho alcuni del XVII secolo, abbastanza ben conservati. Nella sala di fronte ho quelli più attuali. ai e lì, sotto la luce fioca di una lampada ricoperta da carta vegetale, scoprii una grande sala di circa venti metri quadrati, le cui pareti erano state foderate fino al soffitto con belle mensole di un mogano spesso. Di tanto in tanto c’erano delle sporgenze sormontate da lettere di un metallo che sembrava d’oro e che servivano per identificare le opere in ordine alfabetico. Calcolai, senza riflettere molto, che potevano esserci circa quattromila volumi, anche se gli scaffali erano così affollati che risultava abbastanza difficile avere un’idea approssimativa. Alcuni esemplari erano rilegati in pelle di ottima qualità, con quattro o cinque bordi sul dorso, anche se altri erano più modesti e un po’ deteriorati.
-Ti piace? –chiese con nervosismo infantile José. -È incredibile! –risposi con altrettanta sincerità.
-Quando ero più giovane avo le ore nelle librerie di mezzo mondo: Parigi, Madrid, Berlino, Roma, Boston. Dovevo viaggiare spesso per visitare un museo o un cliente o per partecipare a una conferenza e trovavo sempre tempo per andare a caccia di qualche nuovo esemplare interessante. Qui c’è lo sforzo di tutti quegli anni... L’imbalsamatore cercò tra i volumi e me ne porse uno abbastanza ben conservato. Non c’erano iscrizioni sulla copertina e solo sul dorso c’era inciso a lettere d’oro: Manuel du Naturaliste Préparateur di Pierre Boitard. -È considerato il primo manuale di tassidermia. –disse con orgoglio José-. È del 1825, l’originale se. Dagli un’occhiata. Ho un’altra edizione in castigliano, traduzione di Santiago Alvarado e di la Peña del 1833.
Rimasi un po’ a sfogliare le pagine con una strana emozione. Constatai che quasi duecento anni prima già c’erano uomini nel mondo che condividevano la mia ione, ed era confortante. Studiai con attenzione le incisioni curiose e dettagliate del libro, abbastanza esplicite.
-Non mi sembra vero... –manifestai, quasi in un sussurro. -Che cosa?
-Che due secoli fa qualcuno abbia scritto sulla conservazione di animali e piante. -Beh, in realtà è così. Già Erodoto parlava di imbalsamazione più di duemila anni fa, e che dire degli Egiziani, le cui mummie sono famose nel mondo per aver resistito con grande dignità tre millenni. Nel profondo del mio essere non consideravo realmente gli egiziani come imbalsamatori. Le mummie, anche se erano un esercizio sensazionale di conservazione di un cadavere, avevano poco o nulla a che fare con l’arte per cui ho professavo una devozione estrema. Mi sentivo più legato a un qualsiasi orso, cervo o volpe esposta in un museo di storia naturale che con quei resti di pelle nei quali si poteva a malapena intuire un essere umano. -È qualcosa di sensazionale. –dissi restituendo il libro a José che a sua volta lo lasciò sullo scaffale. -Anche i libri sono opere di conservazione. A ritroso nel tempo sono stati realizzati con materiali nobili come il cuoio di qualità o la pergamena, in grado di resistere in perfette condizioni per secoli e secoli. Tuttavia, qualsiasi esemplare di quelli che prendi oggi in libreria a malapena resisteranno un centinaio di anni prima di disintegrarsi. L’imbalsamatore scorreva le sue mani stilizzate lungo i dorsi dei volumi della sua biblioteca mentre parlava. Lo faceva molto lentamente, come per accarezzare il busto delicato di un bellissimo animale selvatico. Notavo nel tocco delle mie dita un tatto diverso da quello di José.
-Tutti questi libri parlano di tassidermia o dissezione? –chiesi.
-Affatto. Molti sì, ma non la maggior parte. C’è di tutto: enciclopedie, poesie, romanzi, racconti, innumerevoli studi su materiali, diversi manuali. Qualsiasi cosa mi abbia interessato per tutta la vita. José fissò un punto indefinito. I suoi occhi diventarono cristallini, quasi trasparenti e divennero fissi, con le pupille enormemente dilatate. Improvvisamente, i suoi muscoli si allentarono e cadde privo di sensi, anche se non perse coscienza.
-José! –esclamai spaventato.
L’imbalsamatore riacquistò lentamente la compostezza, mentre io lo aiutavo a rimettersi in piedi. Si portò la mano destra alle tempie e si strofinò delicatamente la pelle, come per cercare di far riprendere quella zona, massaggiando il flusso sanguigno.
-Grazie. –sussurrò. -Che cosa è successo? -Non lo so, era tutto così strano.
-Devi smettere di iniettarti la morfina. –scattai con rigorosa severità, ricordando le informazioni che Adela mi dava sull’imbalsamatore. -Oggi non mi sono iniettato nulla. Niente... –sussurrò in un sospiro di voce che andava perdendosi.
-Sarà meglio che usciamo a prendere una boccata d’aria.
José si appoggiò a me, avvolgendo il braccio intorno al mio collo e così lasciammo la biblioteca uscendo all’esterno della casa. Ci sedemmo vicino al bordo della piscina e lui stava gradualmente recuperando fiato. -Non dire nulla ad Adela, non voglio spaventarla. Anche tu non ti devi preoccupare. È stato una sorta di flash back, improvvisamente ero in un altro luogo, avevo la tua età e contemplavo una biblioteca molto simile alla mia.
-Mi hai spaventato a morte...
-Non è stato niente, davvero. Mi capita di tanto in tanto. Sono ricordi, frammenti della mia vita che mi assillano inaspettatamente, solo questo. Anche se oggi... – sussurrò, e le sue pupille si dilatarono di nuovo, nonostante stessimo fuori e il sole primaverile splendeva con forza.
-José! –gridai cercando di evitare un altro svenimento.
L’imbalsamatore mi guardò con gli occhi stupiti e mi accarezzò il viso dolcemente, proprio come faceva solamente mia madre. Sentii il suo tocco freddo e uno spasmo mi attraversò il corpo. -Tranquillo, Enrique. È solo che... mi sento così debole, ci sono tante cose che avrei potuto fare...
-Vado a chiamare Adela. –risposi con determinazione.
-No, ti prego. Vai, ma non dimenticare di tornare il prossimo sabato. Ora voglio solo dormire un po’, è quello di cui ho bisogno, riposare. A malincuore, lo lasciai come mi chiedeva, anche se aspettai prima che si rilassasse e poi andai in cucina ad avvertire Adela che me ne andavo e che José si era addormentato accanto alla piscina. -Credo che sia stata la tua visita. È stato molto eccitato per tutta la mattina, voleva che tutto andasse bene, eppure... –disse la povera donna, scuotendo la testa negativamente. -No, no, è andato tutto bene. La prossima settimana verrò, te lo assicuro. -Grazie, Enrique. Tu sei l’unica sua ragione di vita, ma non voglio che tu ti senta in dovere, capito?
-Per me è un onore venire in questa casa.
Adela mi strinse con forza contro il suo corpo paffuto, che profumava di fiori di campo e acqua di zagara. -Tu sei speciale e il signor José lo sa. Credo che gli ricordi molto lui quando era giovane. La parola speciale aveva una connotazione positiva che in nessun modo associavo alla mia persona. Più precisamente consideravo l’aggettivo diverso o distinto, senza molte sfumature, lasciando aperto un campo alla speculazione su ciò che stabiliva effettivamente le differenze con la generalità e se tali differenze sarebbero state eventualmente redditizie o, al contrario, negative.
-Grazie, Adela, ma non penso che sia così. Ci vediamo sabato.
Andai via ando vicino al bordo piscina e potei accertarmi che José già sonnecchiava, aiutato dal primo caldo di mezzogiorno. Il suo corpo era disteso sull’amaca in una posizione un po’ grottesca, con una gamba piegata in una posizione impossibile e una delle braccia incrociate sul petto. Mi avvicinai per cercare di collocarlo in una posizione migliore, pensai che fosse il minimo da fare prima di andare, ma così facendo l’imbalsamatore si mosse sulla sedia, come avvertendo la mia presenza nei sogni, e balbettò un nome di donna: -Elena...
VII
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Trascorsi quella settimana agitato. Un incubo ricorreva nella mia testa costantemente: mi trovavo nel corridoio della casa dell’imbalsamatore e sentivo i suoi i sulla mia testa, nella soffitta. Incredibilmente, mi armavo di coraggio e aprivo la porta del corridoio che portava in soffitta. La porta dava a una piccola scala di legno che si perdeva al piano superiore, nella profonda oscurità. Salivo le scale terrorizzato, ma con la determinazione implacabile di un detective. Sentivo le mie gambe tremanti e vacillanti dubitare a ogni o, mentre la mia mente costringeva con crudeltà infinita il mio sistema locomotore per sottometterlo alle sue intenzioni. Quando raggiungevo la soffitta non riuscivo a vedere nulla perché il buio era totale, e dovevo aspettare fino a quando i miei occhi si sarebbero abituati ad esso. Sentivo i i leggeri di José, a pochi metri di distanza dal mio corpo. Finalmente, aiutato dal lucernario che avevo visto da fuori quando avevo analizzato la facciata, cominciavo a intravedere la luce che filtrava nella soffitta. Proprio di fronte a me c’era l’imbalsamatore, che non si era reso conto della mia presenza, curvo su uno dei suoi pezzi, forse proprio mentre lo stava lavorando. Avanzavo verso di lui, con la massima circospezione possibile. Sentivo le mie mani umide per il sudore, sentivo il battito martellante del sangue sulle tempie e sul collo. Un minuto fascio di luce permetteva di individuare migliaia di particelle sospese nell’aria rarefatta del soppalco. Purtroppo, all’improvviso, inciampava rumorosamente su qualcosa che si trovava sul pavimento, qualche strumento metallico, spaventandomi. Allora José si voltava di scatto e io mi svegliavo urlando, terrorizzato. Tutti gli incubi si concludevano allo stesso modo, sempre uguali. Non finivo mai per vedere il volto dell’imbalsamatore, né che cosa fosse la cosa contro cui sbatteva, né che altre cose c’erano in soffitta o su quale pezzo lavorasse. Ci volevano ore per riprendermi e dovevo far entrare la luce per assicurarmi che ero nella mia stanza. «Perché questa paura atroce? Continuo a comportarmi ancora come un
bambino?», mi chiedevo dopo lo spavento iniziale. Sentivo un’ammirazione indiscussa verso il mio maestro, ma anche una paura irrazionale per la quale non trovavo alcuna spiegazione. Era qualcosa al limite del paranormale, come se la mia mente avesse la capacità di scorgere una parte buia dell’anima di José che il resto dei miei sensi non erano in grado di percepire. Non ho mai parlato con nessuno di quegli incubi, né dei miei presentimenti sull’imbalsamatore. Nemmeno con i miei genitori. Temevo che, se lo avessi fatto, avrebbero trovato il pretesto giusto per allontanarmi da lui definitivamente, e questo era qualcosa di più terribile degli incubi che mi tormentavano. Era meglio custodirli in segreto e aspettare nella speranza che un giorno, così come erano venuti, sarebbero andati via. Il venerdì pomeriggio marinai la scuola e lo trascorsi al cinema a guardare solo un film. Ero nervoso per la visita del giorno seguente e, allo stesso tempo, ero ansioso di tornare a stare con José, ora che sembrava determinato ad agire, a mostrare una volta per tutti i suoi segreti nell’arte della tassidermia. Quella notte mi addormentai tranquillo e non sognai nulla, una novità per me. Quando mi svegliai tutte le paure erano scomparse e volevo solo tornare quanto prima a casa dell’imbalsamatore. Adela era uscita a comprare qualcosa quella mattina e mi aprì la porta José. Ero molto emozionato. -Ho preparato tutto per la nostra prima lezione pratica. –disse entusiasta. Lo seguii fino al retro della casa. Aveva disposto un tavolo pieghevole, sul quale aveva messo una tavoletta di marmo per lavorare e diversi utensili: vari bisturi, forbici, pinze, fili di diverso spessore, due paia di occhi minuscoli, alcune lime, cotone, martello in gomma, punzoni. Sul pavimento c’era una scatola aperta con più strumenti. Tutto era perfettamente ordinato, come se si trattasse di un tavolo di una sala operatoria all’aperto. Rimasi basito. -Grazie, José, grazie mille. -Non è niente, non fare il bambino. Hai saputo mantenere la speranza, hai avuto una pazienza infinita con me e penso che oramai sei pronto per iniziare davvero con le lezioni. Anche se non devi dimenticare nulla di quello che ti ho detto
finora. –manifestò mettendo molta enfasi nell’ultima frase. -Lo farò. L’imbalsamatore rimase un momento pensieroso, guardando con aria distratta il tavolo, come se cercasse qualcosa di concreto. Poi mi fissò con i suoi penetranti occhi azzurri. -Ricorda che abbiamo solo una possibilità in ogni cosa della vita. La nostra esistenza è lunga, ma ogni momento, ogni istante è unico e irrepetibile. Ricordatelo sempre. Annuii, ma non capivo di cosa mi stesse parlando. In realtà sembrava parlare con se stesso, recitare ad alta voce una lezione che aveva appreso in settanta anni. Forse voleva con tutte le sue forze che a me non capitasse esattamente la stessa cosa. -Inizieremo con un pezzo relativamente semplice. –disse mentre tirava fuori dalla busta di plastica un oggetto avvolto in alcuni fogli di un giornale. –È di ieri, quindi è in perfette condizioni per iniziare la dissezione. –aggiunse mentre rimuoveva la carta e svelava a poco a poco il cadavere di una quaglia di medie dimensioni. -Non avrei voluto di certo iniziare con un orso. –risposi di buon umore. -Anche nelle piccole cose bisogna metterci tutto l’impegno, tutto il cuore, tutta la concentrazione possibile. Questa quaglia, se facciamo il nostro lavoro correttamente, sopravvivrà e lascerà un segno del nostro lavoro e di questo giorno per sempre. –disse agitando l’uccello tra le mani. L’imbalsamatore parlava con il tono di un professore di filosofia e la sua dizione quella mattina era corretta in maniera eccezionale. Modulava la voce con sapienza, attirando la mia attenzione e seducendomi con i diversi toni. Si muoveva con l’eleganza che lo caratterizzava, ma forse ora con un punto di distinzione maggiore. Si notava che tra i suoi attrezzi si sentiva come un pesce nell’acqua. -Normalmente bisogna lavorare all’interno e non all’esterno. Ho una sala pronta per questo scopo in casa, ma oggi mi è sembrato più bello farlo qui fuori. Che ne pensi? –mi chiese, ammiccando un occhio con una certa complicità.
-Fantastico. –risposi intuendo che José sapeva molto di più delle mie paure di ciò che realmente diceva. -Bene, allora finiamola con i preamboli. –concluse distribuendomi guanti in lattice mentre se ne metteva un altro paio. In un silenzio monastico finì di mettere alcuni strumenti sul tavolo. Poi mise l’uccello sul tavolo di marmo e gli fece una lunga incisione perpendicolare all’addome. Dopo di che si fermò, come se avesse commesso un errore irreparabile. -Che stupido! Sono così abituato che... e tuttavia... -Che è successo? –chiesi nonostante fosse abbastanza chiaro che aveva perso qualcosa. -È molto tempo che non lavoro. In realtà, aveva deciso da tempo di non farlo mai più. Fino a quando mi hai telefonato. Ho dimenticato di menzionarti le fasi preliminari che io stesso ho svolto ieri. Questa quaglia non è stato cacciata, è stata uccisa ventiquattro ore fa rompendole il collo. Anche così, ogni volta che si riceve un uccello bisogna pulirlo accuratamente con un batuffolo di cotone imbevuto di ammoniaca. –prese un tampone di cotone e molto dolcemente lo fece scivolare sulle piume dell’uccello. –Se ci sono tracce di sangue devi pulirle a fondo, a nessuno piace avere un pezzo che, invece che sembrare vivo, sembri ucciso da poco! -Nemmeno a me piacerebbe. –dissi turbato dalla sola idea. - Dopo lo lasci asciugare, aiutandoti con il borotalco. Lo rimuovi rapidamente, evitando che si formino grumi, con un pennello o una spazzola per capelli fini. Poi viene la fase cruciale delle misure da prendere al pezzo. Puoi farlo servendoti di un metro o anche copiando il contorno su un foglio. Anche scattare alcune fotografie potrebbe essere utile. Dopo di che, avvolgi l’uccello con dei fogli di giornale e lo metti in un sacchetto di plastica, che conserverai in frigo. In questo modo avrai sempre due o tre giorni di tempo per iniziare a lavorare. José torno a chinarsi sul pezzo. Parlava con sicurezza, ma rispettando la mia attenzione e la mia voglia di imparare, come mai nella mia vita aveva fatto nessun insegnante che avevo avuto. Mi lasciava spazio a sufficienza per apprezzare comodamente i suoi movimenti, anche se questo supponeva
maneggiarlo con qualche disagio. -Un artista deve agire con fiducia e sicurezza. Osserva bene i seguenti aggi che sto per fare con attenzione. Devi essere diligente, perché questo tipo di pelli si seccano e si raggrinziscono molto rapidamente una volta che sono stati scuoiati. -Capisco. –dissi estasiato. L’imbalsamatore si servì dell’incisione iniziale per separare delicatamente la pelle dell’uccello dal resto del suo corpo, aiutandosi con un bisturi e una piccola forbice obliqua. Realizzò dei piccoli tagli qua e là, tirando delicatamente la pelle, lasciando in bella vista la spaventosa visione del torso dell’animale scorticato. Non potei trattenere un sussulto di sgomento. -Ti ci abituerai. –disse José, mentre continuava con il suo compito. –È difficile all’inizio e molto peggio quanto più grande è il pezzo. La cosa buona è che non sanguinano, perché i loro cuori hanno smesso di battere. Sono certamente d’accordo con te che questa è la parte che mi piace di meno della nostra professione. Continuò a separare la pelle mettendo un’attenzione straordinaria, cercando in ogni momento di evitare di danneggiare il fragile piumaggio della quaglia. Quando raggiunse lo scorticamento del cranio divenne davvero brutto, perché era costoso separare la pelle dalla testa, e bisognava svuotare l’interno, tagliare il becco, estrarre gli occhi. Di tanto in tanto mi vedevo costretto a distogliere lo sguardo e, anche così, una terribile nausea piegava il mio stomaco. -Ora devi prestare molta attenzione. Ci sono altri conservanti meno tossici, ma non sono altrettanto efficaci. –disse prendendo dalla cassetta degli strumenti una piccola bottiglietta con una sorta di estremità biancastra e avvicinandomela -. Questo è il sapone arsenicale che, come suggerisce il nome, contiene arsenico, per questo motivo dovrai sempre maneggiarlo con estrema cautela. Qui fuori è meno pericoloso. Osservai come apriva il contenitore e, aiutandosi con un pennello dalla punta fine, stendeva l’unguento sulla pelle interna del uccello, insistendo sulle zampe e sulla testa. -Questo sapone è ciò che impedisce che la natura continui il suo normale corso.
Senza di esso in pochi giorni ci sarebbe solo un mucchio di orribili vermi al posto dell’uccello immortale che vogliamo creare. –disse José, mentre si dedicava con incrollabile serenità a ungere con il balsamo ogni centimetro di pelle. -E questo sapone, dove lo prendo? L’imbalsamatore lanciò un sorriso enigmatico in aria e mi guardò, mettendo le braccia sui fianchi. -Ti insegnerò a creare il tuo proprio arsenale. In ogni formula si nasconde un grande segreto, dato che ogni animale, ogni pelle, richiede elementi diversi. Non pensare che potrai andare al supermercato e chiederli. Il nostro lavoro ha qualcosa di enigmatico e misterioso, e gran parte della colpa è dovuta a questi preparati. L’altra grande colpevole la conosci... –concluse agitando il pennello in aria. -Scusa, ma non capisco... A cosa ti riferisci? –chiesi piuttosto perplesso. -Alla morte, naturalmente. Lavoriamo con i cadaveri, per caso non ti sembra sufficientemente oscuro e sinistro? La gente ci immagina come mostri, veramente strani e forse, in fondo, non hanno tutti i torti. Tornarono alla mia mente le immagini che mi assediavano nei sogni. Forse erano solo questo, una rappresentazione del timore assurdo che ogni comune mortale aveva per questa professione. Una paura atavica, collegata all’ultimo momento che ci attende tutti e del quale vogliamo parlare poco o nulla per non sfidare il destino. -Già ti ho detto che la morte era un tema che nemmeno a me piaceva. -Lo so. Noi non lavoriamo con la morte, al contrario! La nostra missione è vincerla, aggirarla con la nostra arte. Dobbiamo essere in grado di confonderla al punto da renderla causa della sua sconfitta. Per questo non devi mai porti dei limiti, perché solo la vita dovrebbe lasciarci soddisfatti del nostro lavoro. –disse José commosso. -Ma è impossibile restituire la vita... –precisai con buon senso, entrando in una diatriba che mi sembrava totalmente assurda.
-È impossibile dipingere un bicchiere di vetro, è impossibile andare sulla luna, è impossibile vincere questa partita. –l’imbalsamatore replicò con tono stanco e un po’ in maniera ironica. Poi si fermò un paio di secondi. –O ancora: è impossibile superare questo esame o prendere un dieci... Che cosa vuoi diventare? José rimase immobile, puntando un dito accusatore racchiuso nel lattice. L’immagine era quasi comica, anche se accidenti che voglia che avevo di ridere in quel momento! Sapevo che la risposta che dovevo dare comportava quasi un posizionamento esistenziale che mi avrebbe accompagnato per sempre. -Un imbalsamatore... -Quindi non hai bisogno di me. Chiunque può riuscirci. –disse iniziando a raccogliere gli utensili e sicuramente dando per terminata non solo la lezione ma l’intero corso. -Aspetta. Voglio essere qualcosa di più. Voglio andare oltre, non solo aspirare ad essere un imbalsamatore qualsiasi, voglio essere un genio, un maestro in questa arte. Per questo ho deciso di chiamarti, perché per fare questo ho bisogno di imparare dal migliore. –dissi con convinzione, anche se le mie parole suonavano titubanti. José prese di nuovo la quaglia e finì di separare completamente la pelle dal resto del corpo. Poi si tolse i guanti di lattice e mi mise un braccio intorno al collo, come farebbe qualsiasi collega in un bar. -Ora dobbiamo lasciar riposare un po’. Lasciamo che il sapone agisca prima di procedere. –disse dimenticando la tensione degli ultimi istanti. Ci sedemmo vicino alla piscina, cui aspetto era peggiorato abbastanza. L’acqua era molto sporca e sulla sua superficie galleggiavano insetti morti, petali di fiori e foglie secche, alcune delle quali putrefatte. Il fondo era diventato molto verde e si intravedevano piccole alghe che si erano formate liberamente e arbitrariamente, senza alcun tipo di impedimento. -Quando pulirai la piscina? –chiesi ricordando che durante la mia prima visita Adela mi aveva detto che a lui piaceva così. -Non ti piace? –chiese in un sussurro.
-Beh, ha un aspetto deplorevole. -Se la vedessi su una copertina di una rivista alla moda, in bianco e nero, ti sembrerebbe perfino bella, non credi? Feci uno sforzo e cercai di visualizzare in mente quell’immagine che José mi aveva descritto. Quando ci riuscii, dovetti riconoscere che mi produsse una strana sensazione piacevole. E sì, era davvero bella. -Detto così potrebbe essere vero, ma in realtà... –dissi indicando la sporcizia che rimaneva sull’acqua. -Hai letto Oscar Wilde? -Il nome mi suona. –risposi senza molto interesse. -Sicuramente conoscerai, anche solo di nome, una delle sue opere, in realtà il suo unico romanzo: Il ritratto di Dorian Gray. –dichiarò pomposamente. -Sì, credo che alcune volte lo hanno menzionato durante le lezioni di letteratura. Ma non ne sono così sicuro, di solito ci parlano solo di autori spagnoli. L’imbalsamatore abbassò la testa, un po’ sconsolato e lanciò una breve sbuffata. Quando la rialzò, aveva recuperato l’animosità. -In quel romanzo Wilde parla di un uomo molto bello al quale fanno un ritratto. A partire da quel momento l’uomo smette di invecchiare e al suo posto, invece, invecchia il ritratto. Dopo alcuni anni continuò a sfoggiare un volto giovane e bello, mentre il quadro che teneva nascosto, rivelava il volto di una persona brutalmente sbiadita, uno spauracchio deformato dal tempo, ma anche dal male che si era annidato nella figura. –disse José, deformando la voce in modo cupo, cercando di farmi rabbrividire. -Ma che diavolo c’entra il romanzo con la sporcizia della piscina? –indagai un po’ irritato, chiedendomi come ero finito in quel giardino senza che nessuno me lo avesse chiesto. -Enrique, tutti abbiamo il nostro ritratto. Alcuni in un quadro, come Dorian Gray, altri in un ricordo, in un oggetto, in un ripostiglio o, come me, in una piscina.
Non potei evitare, anche se ci provai, di pensare alla soffitta. Ritornava ancora una volta il rumore dei miei incubi: quei i enigmatici sul soffitto a cassettoni. Mi dissi che il suo ritratto non era la piscina, ma la soffitta. -Penso che stai solo cercando di spaventarmi, niente di più. L’imbalsamatore scoppiò in una risata limpida e lunga, come quella di un bambino. Si alzò e mi diede un paio di pacche fraterne sulla spalla. -Hai assolutamente ragione. Non far caso alle stupidaggini di questo povero vecchio. Segui solo i miei consigli nell’arte della dissezione, perché per il resto, della vita, non ci ho capito assolutamente nulla. –disse con sincera tristezza. Tornammo al tavolo di lavoro. Scoprire nuovamente il corpo scorticato mi inquietò. Era lì, abbandonato e indifeso, piccolo, rattrappito, come se in nostra assenza fosse stato capace di ritirarsi, intorpidito da una leggera brezza fredda che veniva dalla montagna. Era lì, morto e nudo, che rimpiangeva la pelle perduta recentemente, giacendo a pochi centimetri di distanza. -Mi fa pena vedere come è diventato il corpo della quaglia. –dissi senza pensare. José guardò l’uccello distrattamente, come se cercasse di capirmi. Prese il corpo e lo portò in casa. Tornò con un lieve sorriso disegnato sul suo volto. -Ecco fatto. Ora dobbiamo preoccuparci di restituire la vita a ciò che era solo un cadavere. Comincia davvero la funzione, la fase più delicata e cruciale del nostro lavoro di oggi. L’imbalsamatore cominciò ad arrotolare in del filo grosso trucioli di legno, fino a quando ottenne una forma arrotondata, di dimensioni simili, anche se leggermente inferiore, al busto dell’uccello. Poi lo fece attraversare da diversi fili, di spessore variabile, che compresi corrispondessero alla testa, alle zampe e alle ali. Diede forma ai fili e poi introdusse quella specie di manichino spartano dentro la pelle della quaglia. -Enrique, ora dobbiamo lavorare con i fili fino a quando otterremo la dimensione e la posizione desiderata, la più naturale possibile. –disse porgendomi alcune carte con dei numeri e fotografie di quaglie all’aperto. –In queste annotazioni ci sono le proporzioni dell’animale ed esempi delle loro controparti viventi e in libertà. Sono la tua guida per assemblare un puzzle. Io oramai lo faccio quasi
senza pensarci. -Capisco. –dissi gettando un rapido sguardo alle foto e pensando che fosse completamente impossibile che quella pelle sdraiata sul marmo freddo potesse assomigliare vagamente alle quaglie ritratte. José continuò a lavorare, ignorando l’espressione incredula che aveva sicuramente rivelato il mio volto. Continuò a modellare l’uccello con l’ausilio dei fili, riempiendo il nuovo corpo con del cotone. Attaccava spille di qua e di là e con lo spago grosso terminava di fissare le ali e le piume. Riempì anche il cranio con il cotone e le orbite degli occhi con l’argilla, prima di mettere degli occhi artificiali. Si muoveva con una destrezza incredibile. Anche se si trattava di un pezzo piccolo, per la prima volta sentivo che stavo guardando dal vivo un genio al lavoro, assistendo al miracolo della creazione di un artista che produceva il suo lavoro con la stessa facilità con cui io divoravo un gelato. -Resta solo da metterla su un piedistallo e attendere che si asciughi. Non appena lo sarà, potremo rimuovere tutte le spille e il filo grosso e nessuno più potrà smuoverla dalla sua posizione. –disse l’imbalsamatore che aveva preso una piccola base di legno della cassetta degli strumenti. -Fatto da te sembra tutto così facile. –commentai cercando di adularlo. José mi rispose con un breve sorriso e continuò il suo lavoro. Riuscivo a malapena a vedere quello che stava facendo perché era completamente piegato sopra il pezzo, cercando di fissarlo correttamente alla base. Ora si muoveva lentamente, quasi parsimoniosamente. Ci fu silenzio e si poteva solo sentire il suono dolce del vento che agitava le chiome degli alberi di pino. In quella tranquillità mi giunsero gli odori di alberi da frutto, in particolare degli aranci, che disperdevano il profumo leggero di fiori d’arancio. Dimenticai tutte le paure ed ero orgoglioso di essere lì, accanto all’uomo che ammiravo e che stava sprecando il suo tempo cercando di insegnarmi il suo talento prezioso, dopo anni di lavoro. Lo guardai a lungo, osservando i suoi capelli d’argento, vinti fino alla fronte, e le sue braccia stilizzate e agili nonostante l’età che si muovevano come accompagnati da una melodia invisibile. Sembrava aver dimenticato la sua vecchiaia, aver sotterrato i suoi incubi, sembrava anche che la morfina non fe assolutamente parte della sua quotidianità. Quando si fece da parte e mi lasciò contemplare la quaglia, una sensazione elettrizzante attraversò il mio corpo, dalle estremità fino a esplodere nel mio cervello: lì c’era l’uccello, forte,
rigido, con le ali attaccate ai lati, leggermente rialzato, la testa leggermente alzata e girata, le zampette consistenti, come se mantenessero la loro forza originale e gli occhi vivaci, frizzanti, attenti e vigili come quelli di un ero. Nonostante il filo grosso e le spille, avevo davanti a me l’immagine pura di un uccellino così sveglio e spigliato come me. -Beh, che ti sembra? –chiese l’imbalsamatore con semplicità, senza un minimo accenno di vanità. -José ... è incredibile, davvero incredibile! –dissi sbalordito. -Non esagerare. Era da molto tempo che non lavoravo e si vede. Mi avvicinai alla quaglia e accarezzai le sue piume, leggere e setose. Quell’uccello mi ricordava perché volevo diventare un imbalsamatore, cosa mi aveva spinto da bambino a sviluppare una ione che praticamente nessuno, compresi i miei genitori, condividevano o capivano. Notavo come i miei occhi erano umidi e come la mano, con la quale accarezzavo appena le piume, cominciò a tremare involontariamente. -Grazie, moltissime grazie, Jose. –dissi tra i singhiozzi trattenuti. L’imbalsamatore mi si avvicinò e mi alzò il viso con il palmo della mano. Mi guardò come avrebbe fatto con un compagno di avventure di tutta una vita, come se fosse l’unica persona al mondo in grado di capire cosa stava ando per la mia mente in quell’istante magico, quali emozioni percorrevano il mio cuore in violente scosse incontrollabili. -Tranquillo, Enrique. Ricorda che con me puoi piangere, non c’è bisogno che trattieni il pianto. Ricorda anche che un giorno sarai in grado di fare questo. Arriverà il giorno in cui sarai in grado di fare molto di più, ne sono sicuro. E quel giorno sarò l’uomo più felice dell’universo, ovunque io sarò.
VIII
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Con il mese di giugno giunsero gli esami e la fine dei corsi. A priori mi giocavo molto, dato che da quelle prove dipendeva il voto finale che mi permetteva di accedere alle varie facoltà universitarie. Anche se io in quel momento avevo ben chiaro che cosa volevo diventare, non volevo nemmeno deludere i miei genitori e non mi dispiaceva nemmeno l’idea di are altri quattro anni a studiare una professione di quelle considerate normali, con le quali tutti inizialmente pensano che si possa arrivare a vivere senza troppe gioie, ma nemmeno senza molte oppressioni. Questo fu il motivo per cui, in tutto il mese, andai solo un sabato a trovare l’imbalsamatore. Mi mancava costantemente: i suoi consigli, la sua capacità ad incitarmi a realizzare i miei sogni, la sua maestria nell’arte della dissezione, le chiacchiere interminabili vicino alla piccola fontana... Nelle sere calde e umide, mentre cercavo di memorizzare nella mia testa formule matematiche o citazioni filosofiche, avevo anche nostalgia dell’animosità di Adela e le sue fantastiche limonate. José mi aveva insegnato a dissezionare correttamente uccelli, insetti e piccoli mammiferi come conigli, scoiattoli o volpi. Le sue lezioni, eminentemente pratiche, erano divertenti, molto lontane dalle noiose tiritere dei miei professori di liceo. Ogni tanto arricchiva le sue spiegazioni con dettagli teorici, dei quali io prendevo nota. Sentivo che dissezionare un animale era quasi sempre uguale e che, in poco o niente, differivano una quaglia e un porcellino d’india. Ma l’imbalsamatore mi riprendeva sempre, un po’ infastidito: «Se affronterai nello stesso modo ogni pezzo, fallirai sempre. Ogni pezzo ha le sue particolarità e ancora di più quando sono di specie differenti. Gli uccelli e i roditori si assomigliano nella meccanica, nient’altro. Immagina che sarebbe conservare uno scoiattolo con le stesse tecniche che utilizzo in una farfalla». Mi mancava ancora affrontare la grande sfida: un grande mammifero. Sognavo il
giorno in cui sarebbe successo, anche se implicava diverse difficoltà di grande importanza. La prima e più importante: procurarsi il pezzo. Inoltre, dovevo essere preparato perché una simile impresa richiedeva una solida formazione da parte mia. «Il prossimo autunno possiamo provarci, non prima. Nel frattempo, devi continuare a impegnarti». José mi lasciava di tanto in tanto qualche libro sulla tassidermia o appunti e fotografie in bianco e nero per lavorare nel suo studio. Mi emozionavo a pensarlo giovane, con gli occhi pieni di vita, mentre lavorava nei pezzi che io sapevo che ora giacevano in alcuni dei migliori musei di storia naturale del pianeta. Lui era lì, mentre tagliava delle pelli alcune volte, maneggiando con qualche preparato altre o lavorando con gesso e legno il manichino degli esemplari più voluminosi. Si distingueva, in quelle immagini estetiche e carenti di colori, tutta la magia che custodiva, tutta l’arte che era capace di trasmettere alle sue opere, tutta la grandiosità che un uomo magro e semplice poteva arrivare a trasferire al resto dell’umanità. Ogni istantanea sembrava voler trattenere il tempo, come se in un impossibile esercizio di dissezione avessero desiderato catturare in due dimensioni il genio in piena esecuzione del suo lavoro creativo. E ci erano riuscite. In uno dei manuali che mi prestò trovai una fotografia che richiamò molto la mia attenzione. C’era José in una specie di spiazzo limitato da un muro sporco e pieno di scritte. Era molto giovane, poteva avere circa venti anni. La carta della fotografia era molto deteriorata e il bianco e nero si era ingiallito, forse anche tinto dai fogli del manuale. L’imbalsamatore prendeva per la vita una bellissima ragazza della sua stessa età e altezza. La ragazza aveva i capelli lisci, castani, corti fino all’altezza del collo, gli occhi molto grandi e oscuri e sorrideva allegramente alla camera, felice. Girai la foto e scoprii un’annotazione scritta a mano: «José ed Elena, estate 1943». Trascorsi alcuni giorni ossessionato dall’immagine sorridente della ragazza, perché ricordavo che José aveva pronunciato quel nome una volta, mentre era in dormiveglia. Si trattava della stessa persona? Mentre studiavo, di tanto in tanto, mi appariva davanti agli occhi il volto di Elena, in soavi tonalità color seppia. -Chi è lei? –chiesi all’imbalsamatore non appena lo vidi, quell’unica mattina di giugno in cui lo visitai. José si fermò a guardare la fotografia che gli avevo restituito, confuso e direi quasi un po’ taciturno. I suoi occhi azzurri diventarono oscuri e un leggero
tremore si impossessò della mano con la quale teneva la fotografia. -Dove l’hai presa? –chiese distrattamente come se fosse impossibile che fosse arrivata nelle mie mani. -Era tra i fogli di uno dei manuali che mi hai lasciato. –risposi molto attento alla sua reazione. –Chi è? -Elena... L’unica donna che ho amato e l’unica che capì prima di tutti che ero un genio. Lei lo sapeva anche se allora i miei pezzi non erano altro che un insieme di pelli senza vita, che a volta finivano per essere vittima facile della putrefazione. L’imbalsamatore parlava quasi senza fiato, come se gli costasse fatica respirare. Non riusciva a distogliere le pupille dalla fotografia, come se ci fosse un fantasma invisibile in essa, nascosto a tutti eccetto al suo sguardo. Percepii che con il pollice accarezzava sottilmente la fotografia, proprio nella zona occupata dalla ragazza che sorrideva. -Che ne è stato di lei? -Non lo so. Alla fine si è stancata di me, delle mie stranezze, suppongo... Un bel giorno è scomparsa, senza dare più notizie di sé. José era realmente abbattuto. Aveva lo sguardo offuscato dal ato. In una delle sue mani riposava un frammento della sua vita del quale sicuramente avrebbe preferito non saperne più. Mi pentii di avergli dato la fotografia. Avrei potuto dissimulare, comportarmi come se non l’avessi vista e rimetterla a posto nel manuale. Ma la mia curiosità aveva vinto ancora una volta. -E non ti sei mai più innamorato? –chiesi cercando di prendere tempo e dandogli un’opportunità per cambiare argomento. -No, mai più. Compresi che avevo perso per sempre la donna dei miei sogni, così per nulla, e che l’avevo persa per colpa mia. –disse José conservando la fotografia all’interno di uno dei manuali. –Non avevo più voglia e più le forze per innamorarmi di altre donne. Pensai che il mio maestro avesse preso una decisione troppo radicale e che sicuramente, se si fosse impegnato, sarebbe stato capace di incontrare un’altra
ragazza uguale a quella. Credetti che nell’abbandono di Elena avesse trovato la scusa perfetta per chiudersi definitivamente in se stesso. -Era molto bella. Forse potresti cercarla e chiederle perdono. Non è tardi. – manifestai con l’ingenuità che mi caratterizzava. L’imbalsamatore mi lanciò uno dei suoi enigmatici sorrisi. Fece alcuni i, si avvicinò fino alla piscina e poi si portò le mani alla vita con decisione. -La prossima settimana puliremo la piscina, così potrai farti il bagno. Cerca di are tutti gli esami così potrai trascorrere una buona estate. Vedrai che bello poter fare un tuffo dopo le lezioni. Mi sentivo offeso. Era chiaro che non voleva continuare a parlare della questione ma considerai che c’erano modi migliori per farmelo sapere. Ignorare le mie parole era una mancanza di rispetto, mentre io cercavo di essere cortese e di aiutarlo. La mia reazione di ragazzino fu continuare ad insistere. -José, non è tardi. Lui si girò bruscamente. Il suo volto era diventato oscuro e sembrava tremendamente irritato con me. -Ci ho già provato una volta ed è stato uno sbaglio, capito? Un tremendo errore! –disse coprendosi il volto con le mani. Compresi che la sua ira non era rivolta alla mia persona, ma contro se stesso. L’imbalsamatore sembrava voler cancellare il ato con i palmi delle sue mani ma il ricordo era indelebile e rimaneva dietro le palpebre, le pupille, lì nel luogo più recondito del cervello. Mi avvicinai a lui e gli presi un braccio soavemente. -Scusa. Spero che potrai perdonarmi. –bisbigliai. José si alzò e cominciammo a camminare insieme in direzione della parte posteriore della casa, verso la nostra aula speciale. Si era ripreso e già non c’era più traccia di tristezza o dispiacere. Il suo volto tornava a brillare e si mostrava speranzoso e allegro come un bambino. -Oggi ti insegnerò a maneggiare due elementi importantissimi nel nostro lavoro ma devi maneggiarli con molta attenzione. Se li utilizzi con saggezza, le tue
opere dureranno e si manterranno belle come il giorno in cui le avrai create. -E che elementi sono? –chiesi curioso. -Il cianuro e l’arsenico.
IX
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Gli esami finirono e fortunatamente non solo riuscii a superarli tutti ma, oltretutto, ottenni una media voti eccellente, il che mi permetteva di scegliere con tranquillità la facoltà che desideravo. Quando finii mi sentii esausto e desideravo riposare e trascorrere un’estate gradevole, tre mesi in cui poter riflettere con calma riguardo il mio imminente futuro. Nonostante ciò, i miei genitori mi assillavano costantemente facendomi raccomandazioni riguardo a quali studi erano più adatti a me o invitandomi a far visita a dei buoni amici medici, avvocati o architetti che mi avrebbero dato dei buoni consigli. Io, tuttavia, preferivo continuare ad andare, quasi in segreto, a casa dell’imbalsamatore e continuare con la mia formazione di lusso. Il mese di luglio trascorse quasi in un istante. José mi seguiva dandomi lezioni, non solo di tassidermia, ma di vita, di sogni e mi invitava a godere al massimo del tempo che ci è stato dato. Filosofeggiava con la malinconia propria di quelli che intuiscono che non gli resta ancora molto da vivere. Io cercavo di tirarlo su, ma lui mi diceva che anche solo la mia presenza e i miei sforzi per apprendere già gli bastavano. Nonostante tutto, sapevo che un grande dispiacere lo tormentava e si notava nel languore dei suoi gesti o nel tono spento della sua voce in alcuni momenti. Di tanto in tanto, ritornavano gli episodi nei quali sembrava lasciare questo mondo, immergendosi in un ato lontano e, probabilmente, inventato. Quando tornava in sé, mi guardava stranito e confuso, anche se alla fine mi regalava un sorriso amabile che io ricevevo come una carezza. In quei giorni sereni lo visitavo con maggior frequenza e, a volte, in modo improvviso, senza previo avviso. Prendevo l’autobus e mi avvicinavo a casa sua. Mi riceveva sempre con allegria e, alcune volte, rimanevo a mangiare con lui e con Adela, che era una cuoca fantastica. In estate la casa si tingeva di nuovi colori: il verde e l’indaco del fico, l’azzurro
dell’acqua della piscina, il bianco brillante della parte bassa della facciata, i rossi, i gialli e i rosati dei papaveri coltivati in infiniti vasi. Ero solito farmi il bagno e mi stendevo al sole, con gli occhi chiusi, sentendo il gradevole calore dell’estate sulle palpebre e la leggera brezza della montagna che mi accarezzava la pelle umida. L’imbalsamatore leggeva su una poltrona di tela; ogni tanto si addormentava con un libro tra le mani. Credo sia stato il periodo più felice della mia vita. Uno di quei giorni, agli inizi di agosto, mi avvicinai alla casa dell’imbalsamatore senza avvisare. Quando arrivai al cancello recintato, lo agitai con forza, per suonare la camla. Non tardò molto ad apparire la sagoma di Adela da dietro la casa, con i suoi movimenti meccanici e forzati. Mi rallegrava vedere il viso sano e affabile della donna, per la quale provavo un affetto profondo e sincero. -Enrique come mai qui oggi? Il signor José è in città. Dovevano fargli un controllo medico. Tutti gli anni lo fa in questo periodo. –disse Adela un po’ in difficoltà.
Credetti di ricordare che, il fine settimana precedente, l’imbalsamatore mi aveva detto qualcosa a riguardo ma non gli avevo prestato troppa attenzione. Negai con la testa, facendomi un rimprovero in silenzio.
-Allora sarà meglio che torni a casa. –manifestai rassegnato. -Beh, se vuoi, dato che sei qui, puoi entrare e fare un tuffo. Poi, se vuoi te ne vai oppure rimani qui ad aspettare il signor José.
Accettai di buon grado l’invito perché non volevo assolutamente tornare a scendere il lungo pendio così presto. Ero accaldato e sudato ed ero sicuro che farsi un bagno non sarebbe stata una cattiva idea.
-Puoi cambiarti dentro, la prima stanza a destra. È aperta. –disse Adela, mentre si perdeva in un lato della casa per continuare a fare ciò che stava facendo.
Entrai in casa un po’ diffidente. Era da molto che non entravo dentro e le paure che tanto mi avevano tormentato in ato tornarono come se in realtà non mi fossi mai sbarazzato di esse. Mi accolse la testa di cervo che tanto mi piaceva. Continuava a stare lì, signorile, imperterrita, dall’alto della sua posizione ubicata, a due metri dal suolo. Quando arrivai nel corridoio, la prima cosa che feci fu accendere l’interruttore che lo inondò di una tenue luce giallognola. Non era gran cosa, davvero, ma almeno mitigava la lugubre oscurità che tanto stimolava la mia immaginazione. La prima porta a destra era effettivamente aperta. Scoprii con mio stupore che si trattava della camera dell’imbalsamatore. Lì c’era il suo letto disfatto, un grande armadio con le ante aperte in cui vi erano i suoi vestiti, un comò, un grande specchio che doveva misurare più di un metro e mezzo di altezza, un attaccapanni e due comodini da notte con rispettive lampade. Tutto in un elegante legno di mogano. Le pareti erano piene di fotografie e diplomi. Sulle prime non c’era mai José, solamente i suoi migliori pezzi, esposti nei musei e in collezioni speciali; sui secondi venivano raccolti riconoscimenti di indole diversa e figurava sempre lo stesso nome scritto con caratteri tipografici ostentosi: José Vaquirizo Yepes. Mi intrattenni un bel po’ ad analizzare tanto le foto quanto i diplomi, fastosamente incorniciati. Poi mi misi il costume che portavo in una borsa insieme a un manuale che mi aveva prestato l’imbalsamatore giorni prima e che, come al solito, avevo divorato in appena poche ore. Decisi che, prima di mettermi in piscina, la cosa migliore era rimetterlo al suo posto e, vincendo le mie paure, mi diressi verso la biblioteca. Non ci misi molto a trovare il buco che aveva lasciato il manuale e, con somma attenzione, lo restituii al suo posto. Allora, quasi di sfuggita, mi imbattei nell’esemplare più prezioso di tutto quelli che possedeva José: “Manuel du Naturaliste Préparateur”, di Pierre Boitard. Lo presi tra le mie mani con tutta la delicatezza che potevo, sentendo che avevo tra esse un’opera eccezionale, così come un pezzo qualsiasi dei tanti eccezionali che l’imbalsamatore aveva creato nel corso della sua vita. Un foglio scivolò subito tra gli altri, cadendo a terra. Ci misi un po’ a reagire, pensavo si trattasse di qualche pagina del libro che si era staccata nonostante la cura con la quale stavo trattando l’esemplare. Dopo aver recuperato il fiato scoprii, per mia gioia, che si trattava di una fotografia in bianco e nero: era un ritratto in primo piano del volto di una donna, la stessa che sorrideva insieme a José in quella lontana estate del 1943: Elena. Mi sembrò ancora più bella e non mi sembrava affatto strano che l’imbalsamatore si fosse innamorato di lei. Ma, tuttavia, se nella fotografia antecedente il suo volto risplendeva di felicità, in questa rifletteva una profonda tristezza. Quella
afflizione mi contagiò in una maniera vertiginosa e sorprendente. Guidato da un’assurda intuizione, girai la fotografia e mi imbattei con ciò che speravo: alcune parole scritte a mano.
«José, vado via. Ci ho provato in tutti i modi ma oramai mi sono resa conto che tra di noi non può funzionare. Ti amo molto ma non voglio che mi distruggi, che mi trascini, nella tua carriera smisurata, verso il precipizio che tanto sembra suggestionarti. Sei un uomo eccezionale, ti prego con tutto il mio cuore di non mandare a monte le virtù che la natura ti ha concesso. Addio, amore mio.»
Girai di nuovo il ritratto e la ragazza mi guardava questa volta con una maggiore intensità e sicuramente più afflitta. Quelle parole nascondevano una storia d’amore e incontri falliti che io sapevo che vivevano ancora nel presente. Gli occhi offuscati dell’imbalsamatore lo facevano trapelare di tanto in tanto. Pensai che la volta successiva che sarei stato con lui, gli avrei chiesto qualcosa a riguardo, ma immediatamente abbandonai l’idea. Non erano affari miei. Inoltre, era ato mezzo secolo e io non ero nessuno per accendere ora di nuovo la fiamma. Ad ogni modo, e sicuramente guidato da uno spirito investigatore da poco inaugurato, decisi che era il giorno più adatto per chiudermi in soffitta, approfittando dell’assenza di José e del fatto che Adela era impegnata nelle sue faccende. Afferrato con forza al libro di Boitard del 1825, tra le cui pagine avevo riposto di nuovo la fotografia di Elena, uscii nel corridoio in cerca dell’ultima porta della sinistra, giusto prima di are all’immenso salone. Ricordai il volto oscuro dell’imbalsamatore l’unica volta che lo avevo visto spuntare da lì e sentii una leggera inquietudine che non impedì ai miei piedi di continuare ad avanzare. Aprii la porta molto lentamente, come se qualcuno nella casa potesse ascoltarmi e recriminare il mio comportamento o come se dall’altra parte della porta potesse esserci una persona che dormiva, la quale, per nessuna ragione al mondo, avrei voluto svegliare. Non trovai nessun interruttore in quella stanza e dovetti mantenere la porta aperta affinché la debole luce del corridoio inondasse piano la stanza. Quando le mie pupille si abituarono alla penombra, scorsi quattro pareti lisce, spoglie e niente di più. Non c’erano né mobili, né altre cose, salvo una finestra doppiamente chiusa da una persiana prima e poi da delle tende. In fondo a destra si apriva un’apertura che conduceva a un soppalco. Quasi a tentoni, arrivai verso il primo scalino. Lì l’oscurità era totale e dovetti salire gli scalini
quasi a tentoni, agitando in modo goffo le mani davanti a me. Salii molto lentamente, ricordando che, nel mio incubo, in un momento ben preciso, si formava un po’ di luce, grazie al lucernario della facciata. Anche se non ero troppo spaventato, un leggero tremore si impossessò delle gambe e, in più di un’occasione, stetti sul punto di cadere rotolando dalle scale per colpa della mia andatura titubante. Sentivo anche un po’ di ansia dato che, in alcun modo, sospettavo di essere così vicino a rivelare qualche strano segreto dell’imbalsamatore. Mi immaginavo la soffitta popolata di animali dissezionati in un museo zoologico pietrificato e defunto e, allo stesso tempo, inondato di vita. Volevo scoprire che pezzi aveva conservato per sé il genio che, con tanta abilità, aveva inondato il mondo con la sua arte. Presagivo anche che i migliori libri, e forse i suoi stessi appunti, sarebbero stati lì nascosti, nel fondo di qualche baule, o dissimulati tra altri esemplari di minore importanza. Ma tutte quelle speranze e congetture si videro troncate di colpo: alla fine della scala c’era una porta chiusa a chiave. Dovetti tornare giù con il morale a terra e in fretta. Sfortunatamente non appena raggiunsi il corridoio incontrai Adela, molto stranita.
-Che stavi facendo Enrique? –chiese senza cattiveria o voglia di rimprovero alcuno. -Stavo... mi sono confuso, volevo entrare nella biblioteca e per errore mi sono trovato in questa stanza. –balbettai. -La biblioteca di libri antichi è quella. –disse Adela con naturalezza, segnalando la porta che io sapevo che conduceva a libri e manuali più di valore dell’imbalsamatore. –e quella dei più moderni è lì. –annotò indicandomi la porta di fronte. -Che... che svista la mia. -Sono venuta perché sono ata vicino alla piscina e mi sembrava strano non vederti. Inoltre, siccome so che non ti piace molto l’interno della casa ho pensato che nella peggiore delle ipotesi ti eri preso qualche spavento. –disse la donna, sorniona, strizzandomi un occhio e dandomi una spintarella. -No, stavo per andare in piscina, ma prima volevo restituire a José questo manuale che mi prestò. –replicai mettendo in mostra il libro di Boitard.
-Allora, se è tutto apposto, continuo con le mie cose. Non tutti abbiamo la fortuna di poter godere di vacanze di tre mesi. –replicò Adela a mo’ di rimprovero con una certa velata censura.
Aspettai che la donna si fosse persa in direzione della cucina e, in un nuovo impeto di furia, corsi verso la stanza e nascosi il libro di Boitard tra le mie cose. Dopo andai a farmi un breve bagno e presi il sole alcuni minuti, giusto il tempo di asciugarmi. Ritornai nuovamente nella camera di José, mi misi i vestiti il più rapidamente possibile e salutai Adela. Lei cercò di convincermi per restare a pranzo, ma inventai una scusa bizzarra e scappai come un ladruncolo da quattro soldi, come un truffatore di vecchiette. Mi trascinai la vergogna fino a casa e non potei guardare negli occhi i miei genitori, quindi ai davanti a loro come un fulmine, abbozzando appena un saluto. Ma nella confortante sicurezza della mia stanza, chiusa la porta con un chiavistello, mi dedicai con piacere a godere dei due bottini che avevo ottenuto con il mio orrendo crimine: il manuale di tassidermia di Boitard nella sua prima edizione se e la fotografia di Elena con le sue drammatiche parole di addio. Analizzai entrambi per cinque ore, fino a quando la sera cominciò a scendere e i miei genitori vennero a bussare preoccupati alla mia porta. Allora cominciai a piangere e compresi che avevo appena ucciso per sempre il bambino innocente che fino ad allora era vissuto dentro di me.
X
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Il rimorso ha un’ombra allungata e oscura che finisce per trasformare in rifiuti tutto quello che tocca. Mai avevo immaginato fino ad allora come un atto irriflessivo e spontaneo potesse impossessarsi della nostra mente e sottometterla alla tortura più crudele. Forse ci saranno alcuni che considereranno il mio crimine un fatto banale, messo a confronto ad altri delitti di gravità maggiore, ma credo che la condanna interiore, alla quale si vede sottomessa una persona che ha trasgredito l’ordine morale, ha più a che fare con la sua interpretazione del fatto commesso che con la valutazione generale che può fare la società di esso. Nella solitudine intima di una persona, della mente subordinata al silenzio, i pensieri fluiscono in forma libera e involontaria, ed è in quel momento in cui sorge il vero io che portiamo dentro. Il mio vero io mi tormentava costantemente, ma il mio orgoglio adolescente mi impediva di finire con quello correttivo in modo netto. Mi sentivo incapace di andare a casa dell’imbalsamatore, di chiedere scusa e di restituirgli le sue proprietà. Era preferibile mantenere lo scherno interno e sostenere invece una puerile onestà di facciata agli altri, dietro a un manto invisibile di menzogne e apparenze. Qualcuno penserà anche che questo è il processo che si chiama maturità e senza dubbio io preferisco qualificarlo come una specie di abbrutimento.
Ci misi tre settimane prima di tornare a casa dell’imbalsamatore, dopo l’infame episodio del libro. Quando lo feci cercai, con molto successo, di simulare una cordiale normalità, che avevo provato per giorni.
-Mi sei mancato. –mi disse José non appena mi vide. Era vicino al fico mentre raccoglieva alcuni frutti. -Sono stato in viaggio con i miei genitori. –mentii perché, anche se era vero che i
miei genitori erano andati alcuni giorni a Parigi, io avevo optato per rimanere solo a casa. -Spero che non hai dimenticato nulla di quello che ti ho insegnato. Ora dovrai affrontare delle sfide più ambiziose. –espose l’imbalsamatore che parlava senza guardarmi, distratto dalla sua attività di raccolta. -Sono impresse nella mia mente più che mai. Ho avuto tempo per riflettere. – appuntai cercando di sembrare amabile.
José si girò e mi rivolse lo sguardo per la prima volta. I suoi occhi nascondevano una parola che voleva venire fuori, un pensiero che gli girava per la testa ma che tratteneva con forza per non abbandonare i confini sicuri della sua mente. Mi tese con gentilezza un cestino pieno di fichi maturi.
-Mesi fa ti dissi che in agosto sarebbero stati pronti. Prendine uno, sono magnifici.
Per non infastidirlo e per non sembrare scortese, presi uno dei fichi e me lo mangiai anche se non mi andava assolutamente. Mi sentivo come Biancaneve nella fiaba, anche se forse in una curiosa versione dislessica: anche se José mi offriva il frutto lui era il personaggio buono, travestito da anziano, e io la strega, rinchiuso nel corpo di un adolescente con la faccia di uno che non aveva mai rotto un piatto nella sua vita.
-Sono deliziosi. –dissi sinceramente dopo aver dato il primo morso. -Te l’ho detto. –sussurrò l’imbalsamatore incamminandosi in direzione della parte posteriore della casa, luogo in cui si trovava la nostra aula speciale.
Quella mattina trattammo argomenti come le moderne tecniche di conservazione che, anche se non erano apprezzate da José, riteneva che io dovessi conoscerle. Lui era più per le tradizionali, molte utilizzate da più di cento anni, anche se presupponevano un certo pericolo in quanto si usavano determinati elementi di elevata tossicità. Così l’arsenico, i solfuri e il cianuro lasciarono il o al borace, ai sali di cromo o ai solfati di alluminio. Nel giro di un’ora, proprio quando mi ero rilassato completamente e i miei sensi erano completamente consegnati allo studio della tassidermia, José cominciò la sua diatriba e mi fissò negli occhi.
-Sai, venti giorni fa qualcuno mi ha rubato il manuale di Boitard della mia biblioteca. –mi disse accigliandosi. -Non può essere... –cercai di articolare, preso alla sprovvista e sbalordito.
-È terribile...
-Come è potuto succedere? –chiesi con un cinismo che sfociava nell’insultante. L’imbalsamatore continuava a guardarmi negli occhi e io quasi non potevo sbattere le ciglia. Sentivo il sangue che si accumulava sulle mie guance e il polso che accelerava, colpendo la mia testa con ondate ogni volta più forti. Nonostante tutto, credo che la mia immagine esterna non rivelasse troppo la mia colpa. Ero diventato freddo e calcolatore fino a quel punto.
-Non ne ho la minima idea. Credo che sia stato il giorno che sono andato in città per un controllo medico di routine. Quel giorno Adela era sola e chissà...
I pensieri si confondevano nella mia mente e quasi era impossibile metterli in ordine. Dopo quella supposizione, dovevo reagire con rapidità, essere capace di
adattarmi alla situazione come lo avrebbe fatto un qualsiasi innocente. La cosa terribile era che il cervello che si sa colpevole non reagirà mai come quello di un innocente e il delinquente deve contare sulla complicità del suo interlocutore o almeno sulla sua mancanza di perizia. Io confidavo nell’inesperienza di José nell’ambito dell’investigazione come espediente principale per salvarmi.
-Già... credo che quello sia stato l’ultimo giorno che sono venuto, proprio prima di iniziare le vacanze con i miei. Non c’eri, ricordo. Mi feci un bagno, presi un po’ di sole e poi me ne andai. –dissi non sapendo se Adela lo avesse informato della mia visita. -Ed è successo qualcosa di strano?
-In che senso? –chiesi stordito.
-Non so, è suonata la camla, per esempio? Hai visto qualcuno entrare in casa? -No. Poi, come ti ho detto, sono stato qui appena un’oretta. Non c’eri ma, dato che ero venuto e stavo sudando, mi sono dato una rinfrescata.
José smise di guardami per mio sollievo. Si sedette sulla sedia, tirandosi i cappelli mentre buttava la testa all’indietro.
-Sarà entrato qualcuno. Adela dalla cucina può ascoltare a stento la camla e di sicuro avranno approfittato della mia assenza per commettere il furto. Ma è così strano...
-Strano?
-Sì. Quasi nessuno sa che ho una biblioteca e tanto meno che possiedo il manuale di Boitard. È un libro che non ha grande valore commerciale. Tuttavia, per chi è amante dell’arte della dissezione è un gioiello. Perché il ladro mi avrebbe portato via solo quell’esemplare? Ce ne sono altri più costosi ma... credo che si tratti di una persona a me molto vicina, qualcuno che vuole ferirmi o che ammira tanto quel libro come lo ammiro io.
L’imbalsamatore continuò a contemplare il cielo, di un azzurro quasi etereo in quella mattina estiva. Parlava come lo avrebbe potuto fare Poirot nel commentare i dettagli di un’indagine con il suo buon amico Hastings, cioè, escludendomi assolutamente e chiaramente dal gruppo dei possibili sospettati. Ma io sapevo che ero di fronte a un uomo estremamente intelligente e che, per questo motivo, quell’apparente cordialità poteva essere dovuta a una strategia calcolata per smascherarmi.
-In questi casi credo che si meglio fare una lista con i nomi dei possibili colpevoli e poi cominciare a scartarli uno a uno. –riflettei a voce alta. -Hai ragione. –disse José alzandosi e camminando verso di me. -Ho letto molto Agata Christie. –dissi attanagliato dai nervi.
L’imbalsamatore si fermò alla mia altezza e mi diede un paio di colpetti sul braccio come soppesando qualcosa. Poi continuò a camminare in direzione della porta posteriore della casa che portava alla cucina.
-Ma sai una cosa? –chiese dandomi le spalle.
-No. –risposi considerando ogni possibilità e temendo alcune di queste possibilità in particolare. -Non farò nulla. Sono vecchio per mettermi nei casini. Credo che aspetterò, e sicuramente un giorno il libro tornerà nello scaffale, così come è sparito. In modo naturale.
Pensai che in quel momento sì che stava parlando con me, che si rivolgeva a me in maniera velata e che lui sapeva che io avrei captato immediatamente. Anzi, ero assolutamente sicuro che quelle parole avevano un solo scopo: darmi la possibilità di restituire quello che non era mio senza la necessità di dare spiegazioni o di affrontare situazioni imbarazzanti.
-Ma la maggior parte delle volte la vita non è così semplice. –dissi sulla stessa linea di messaggi criptici. -Sono molto stanco e credo che riposerò un po’. Torna la prossima settimana e continuiamo con le lezioni. Credo che per oggi abbiamo già fatto abbastanza. – disse prima di sparire.
I giorni seguenti ebbi appena il tempo di fare luce su quello che era il mio futuro accademico. Dovevo decidere tra le facoltà che meno mi dispiacevano e iscrivermi all’università corrispondente. Chiunque penserà che si tratti di una frivolezza intollerabile, ma fu il metodo più plausibile che mi venne in mente in quel momento: decisi il mio futuro tirando in aria un dado a sei facce. Tre facoltà aveva un paio di numeri assegnati per ogni faccia: architettura, diritto ed economia. Quest’ultima fu quella che il caso mi assegnò e io, di conseguenza, obbedii al suo volere.
-È una decisione magnifica. –mi disse mio padre non appena lo resi partecipe della notizia.
-Bene. –replicai io senza troppo sforzo. -Su, su. Andiamo a festeggiare con tua madre. Scegli un buon ristorante, quello che preferisci. Si vede che hai riflettuto duramente. –sentenziò mio padre, pieno di orgoglio.
Ancora ricordo il volto disincantato e taciturno di José quando gli comunicai il metodo che avevo adottato. A partire da quell’istante il tempo si deformò, si fece elastico e i secondi divennero lunghi fino a diventare minuti. Qualsiasi movimento che si creava intorno a me, avevo la capacità di analizzarlo con calma.
-Hai un’età in cui ogni decisione è importante e credo che sei sufficientemente maturo per soppesare le cose da solo, senza aver bisogno di un aiuto esterno. – disse l’imbalsamatore con la voce spenta e stanca. -Non ti è piaciuto vero? -Non lo so. Solo il tempo lo dirà. Sinceramente, oggi sono solo infastidito per puro egoismo, una sorta di egoismo sciocco e negativo che mi ha accompagnato dai miei primi giorni. Quindi non farci troppo caso...
Arrivò settembre e con esso tornarono le piogge e le brezze umide e fredde del levante. I giorni si accorciavano e sembrava come se quelle tormente di fine estate minacciassero non la città, ma concretamente me e tutta la mia esistenza futura. Invece di godermi le mie ultime ore di vacanza prima di affrontare la sfida di entrare all’università, mi chiudevo a casa e dalla finestra della mia stanza contemplavo l’agonia dell’estate e i primi i dell’autunno embrionario. Ogni tanto piangevo, incapace di sostenere con forza gli ormeggi della nave nella quale dovevano viaggiare i miei sogni e che la marea allontanava verso l’oceano senza di me.
-Non sono un esempio per nessuno, Enrique. Ma almeno posso dire che non mi sono lasciato trascinare sai? Lasciarsi trasportare dalla vita è qualcosa di così umano come respirare, bisogna essere coscienti di chi siamo e di cosa ci vuole per evitarlo. –mi disse José seduto al bordo di una tomba, una sera imbronciata di fine settembre. -Capisco. –dissi io con una certa rassegnazione. -Questo è quello che non mi è chiaro. Credo che in realtà non lo capisci e forse ci vorranno anni per farlo. Ed è un peccato... L’imbalsamatore mi portò una mattina al cimitero. Io dovevo vincere le mie paure e a dire il vero una volta arrivati al camposanto sparirono subito. Eravamo solo noi due nel piccolo cimitero di un paesino situato a dieci chilometri da una città mediocre. Era arrivato l’autunno e le nuvole oscure si ammucchiavano sulle nostre teste minacciando pioggia.
-Sarei ancora in tempo per tornare sui miei i. Quattro anni non sono nulla e sono molto giovane. Posso sbagliarmi. –dissi io con sufficienza e avendo ben chiaro che José mi rimproverava di iniziare gli studi di economia mettendo da parte l’arte della tassidermia per il futuro. -Quest’uomo qui pensava le stesse cose tue. –disse José colpendo con il palmo della sua mano il sepolcro di marmo sul quale giaceva. Io ero in piedi dato che mi sembrava poco rispettoso nei confronti dei morti toccare le sepolture. –forse fino all’ultimo sospiro. Solo allora comprese.
L’imbalsamatore parlava con difficoltà, pesantemente e, come in altre circostanze, gli risultava difficile guardarmi. Il vento era diventato più forte, minacciava pioggia e agitava la sua capigliatura bianca.
-Voglio fare studi che mi diano una sicurezza. Quando li avrò finiti potrò
dedicarmi a ciò che voglio. –spiegai e quasi credetti di percepire la voce dei miei genitori nella mia. -Io le conosco a memoria ma ti suggerisco di farti un giro qui intorno –disse lui, indicando, con il suo dito indice, verso tutte le direzioni –e di dedicare un momento a leggere con attenzione le lapidi. Se lo farai, scoprirai centinaia di sogni infranti. Enrique, per me sarebbe più facile incoraggiarti nei tuoi studi, ma non starei facendo la cosa giusta. Sei così giovane e hai molte possibilità. Ho voglia di rivedere in te il me di cinquanta anni fa... -E non ci riesci. –sentenziai un po’ irritato. -Non ti arrabbiare. Penso che se rimandi i tuoi sogni, sarà molto difficile che un giorno li realizzerai. I sogni non ci aspettano, dobbiamo rincorrerli noi. Poi sarà troppo tardi e forse ti pentirai. Notavo come dentro di me stava crescendo una pietra incandescente che agglutinava la rabbia e il malessere che provavo di fronte al mio futuro immediato. José non faceva altro che mettermi davanti allo specchio e mostrarmi senza sotterfugi e senza ambagi la mia codardia, la mia resa e, infine, la mia sconfitta. Io stavo cominciando ad odiarlo per quello. -Quali sogni? –dissi iracondo. –Pensi forse che voglio essere come te? Non ti è ato per la testa che forse mi piacerebbe studiare economia? Non hai pensato che la tassidermia possa essere per me solo un hobby a cui mi potrò dedicare sempre e solo nel mio tempo libero? L’imbalsamatore non replicò. Si alzò lentamente e diresse lo sguardo verso il cielo mentre si puliva i pantaloni con le mani. -Sarà meglio che torniamo. Verrà a piovere da un momento all’altro. -Sì. –dissi laconico guardando anche io il cielo. Mentre camminavamo, di ritorno a casa, sentii un profondo sollievo. Volevo chiedere scusa a José per essermi mostrato così tassativo e coleroso ma non trovavo il momento giusto. Desideravo spiegargli che non era così semplice dire ai miei genitori che non volevo studiare in alcuna facoltà, né economia, né altro, e che quello che volevo davvero con tutte le mie forze, con tutto il mio cuore, era dedicarmi a dissezionare gli animali. Non glielo dissi mai.
Quando tornammo Adela ci stava aspettando sulla porta, nervosa e un po’ arrabbiata. Entrambi capimmo che doveva essere lì da almeno mezzora ad aspettare il nostro ritorno. -Ma è impazzito signor José? Stare fuori con questo tempo! E con la sua salute! -Ti prego Adela non trattarmi come un bambino. –disse l’imbalsamatore quasi sospirando. -Allora non si comporti come tale. –continuò la brava donna rimproverandolo. Non appena entrammo in casa cominciò a piovere violentemente. Ci rifugiammo nell’ampio salone dove Adela aveva già il camino affinché la stanza fosse a una temperatura gradevole. -Sarà meglio che chiami a casa e avvisi che ti fermi a mangiare qui. Non pensare minimamente che ti lascerò uscire con questo tempo. –mi disse la donna. Io mi limitai ad assentire mentre sorridevo con complicità a José che aveva già preso posto vicino al fuoco. Adela andò a prepararci qualcosa di caldo prima di pranzo. -Hai ragione. Né io posso sopportare queste fatiche, né tu puoi ritornare a casa con questo diluvio. -Che cos’è questa storia della tua salute? Hai la salute di una quercia. -Non è così. Sto morendo Enrique. –disse l’imbalsamatore con secchezza, ipnotizzato dalle fiamme che danzavano. Ci misi un po’ ad assimilare quella notizia, spiattellata in un modo così aspro. Mi era impossibile accettare che l’uomo verso cui sentivo una così profonda ammirazione sarebbe morto. Ad un tratto scomparve il mio recente fastidio. -Ma non può essere. -Sì, ho il cancro. Mi hanno dato, come si dice, un anno di vita, due al massimo. Devi allontanarti da me. Sinceramente penso che potrei essere una cattiva influenza.
Nelle parole di José non c’era né risentimento, né autocomione. Semplicemente era arrivato a una conclusione e condivideva con me le sue riflessioni senza pensarci. La cosa terribile era che lo faceva con una tale freddezza che, in fondo in fondo, uno arrivava a dubitare se stesse scherzando o meno. -Io non mi allontanerò da te. –dissi cercando di sciogliere il nodo che minacciava di rompersi e scatenare un pianto sfrenato e infantile. -Lo avresti fatto comunque. Diciamo che preferisco sembrare io come il colpevole. Concedimi questa licenza. –manifestò l’imbalsamatore, in un tono che era a metà tra la supplica e il cinismo. Mi avvicinai a lui e lo presi dolcemente per il braccio. Sentii il suo polso stanco e spento e il calore del camino che mi soffocava le guance. -Lo sai che questo non è vero. -Per favore, non voglio la tua pietà. Stiamo parlando da adulti. Guarda questo mio corpo decrepito, appena una vaga falsificazione di quello che sono stato. È giusto che arrivi alla fine dei miei giorni, non credi? -No! –gridai con tutte le mie forze, con tutta la rabbia accumulata in quel pomeriggio funesto, con tutto il risentimento verso i miei genitori e con tutto il dolore di venire a conoscenza che davvero l’uomo che era davanti a me, e che idolatravo, sarebbe morto. Uscii correndo come un rapace e raggiunsi in un istante la strada male asfaltata. Scesi il pendio alla velocità della luce, sentendo la pioggia sul viso e le lacrime che mi inondavano gli occhi. Volevo sparire, fondermi con la tormenta e non dover far fronte alla vita mai più. Ripetevo nella mia testa una e più volte una sola parola: no. No, no e no. Ed era un no infinito, cui significato non riguardava solo la negazione della morte, ma quasi tutto quello che circondava la mia esistenza. Non rividi mai più l’imbalsamatore.
XI
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Per giorni rimasi chiuso in camera mia. Non avevo voglia di parlare di niente e con nessuno. I miei genitori erano preoccupati anche se, in fondo, credevano che mi stavo preparando a iniziare l’università concentrato e motivato. Cercavo di leggere, ma non riuscivo a mantenere l’attenzione più di cinque minuti consecutivi. Nella mia testa si accumulavano pensieri a palate e sembrava impossibile metterli in ordine o, peggio ancora, eliminare quelli che mi facevano più male. Ero solito fermarmi a guardare un pezzo di sughero consumato con il are del tempo, di circa un metro e sessanta, nel quale avevo conficcato con degli spilli venti bellissime libellule di colore azzurro. Erano anni che non ne cacciavo una. Provenivano tutte dal periodo in cui lo facevo: l’adolescenza. Era arrivato ad averne quasi un centinaio, anche se mia madre mi aveva obbligato alla fine a fare una crudele selezione che mi costò un lavoro enorme. Rimasi solo con le azzurre. Erano lì, immobili, costrette artificialmente ad un volo senza destinazione. Continuavano ad essere belle nonostante fossero morte. Almeno avevo la possibilità di poterle contemplare. Ero stato capace di vincere la natura, che le avrebbe distrutte per sempre confondendole in un modo infame con la terra e le piante. Quando uscivo lo facevo per fare delle eggiate brevi, camminando pesantemente, trascinando un dolore incerto che mi distruggeva e che, anche se invisibile, occupava tutto lo spazio che lasciavo alle mie spalle. Ero ansioso di controllare il mio tempo allo stesso modo in cui ero stato capace di farlo con il tempo di quelle libellule. All’improvviso il mondo scompariva e mi vedevo mentre avanzavo per una via lunga. A un lato e all’altro della strada c’erano cento pezzi dissezionati in esposizione. Erano le opere che intuivo che non avrei mai realizzato e che arrivavano in aria per assediare la mia immaginazione. Alla fine del mese di ottobre, quando già avevo iniziato i corsi accademici,
ricevetti la chiamata di Adela: -Enrique non verrai più? -Perché dici questo? –replicai io con una sfacciataggine che ancora oggi non so spiegarmi. -Sono molti giorni che non vieni e la verità è che ci manchi. La donna non voleva che la compatissi e cercava di parlarmi senza sentimentalismi, anche se le costava molto. Io sentivo le mie interiora fredde come l’acciaio e desideravo solo essere gentile e smettere di sentire la sua voce. -È che ora sono molto occupato. Ho iniziato a seguire le lezioni all’università e mi sta costando fatica. –mentii. -Il signor José dice che non tornerai mai più e lui preferisce così... Sentii dall’altra parte della linea un singhiozzo soffocato, quasi impercettibile. Immediatamente seguì uno schiarimento di voce che cercava di annullare qualsiasi interpretazione che io potevo fare del precedente piagnucolio. -Adela ti assicuro che ci rivedremo. –sentenziai. -Ti aspettiamo qui. –replicò lei prima di riattaccare. Rimasi circa dieci minuti con la cornetta in mano, con il suono della linea staccata di sottofondo. Confuso dal ripetitivo stridio, credetti si continuare ad ascoltare il breve lamento di Adela. L’acciaio che si era impossessato delle mie interiora svanì lentamente e così sorsero la paura, la comione e l’affetto. Non sapevo perché, ma era chiaro che mi stavo trasformando in un mostro. Assistevo come uno spettatore a quella trasformazione, come se non potessi fare nulla per evitarlo. Due settimane dopo la chiamata, in un attacco di malinconia e rabbia, presi l’autobus che mi lasciava vicino alla salita che conduceva alla casa dell’imbalsamatore. L’autista mi riconobbe immediatamente. -Da quanto tempo! –esclamò cercando di sembrare gentile.
-Sono stato impegnato. –gli dissi senza troppa convinzione. -Impegnato, impegnato... Uno sceglie sempre come occupare il suo tempo. – disse l’autista, senza fatica, anche se le sue parole mi suonarono particolarmente filosofiche e trascendentali. Salii il pendio ed ebbi quasi la sensazione di percorrere lo stesso spazio di quando lo avevo fatto la prima volta. Sentivo il mio corpo che prendeva il posto del corpo che un anno prima era sceso con un certo cruccio in direzione del cimitero e delle alte montagne. Le case ai lati della strada male asfaltata continuavano ad essere misteriosamente vuote, senza vita, dissezionate per i posteri in una silenziosa armonia. Arrivai alla porta recintata e sentii i miei piedi tremanti e la mia respirazione agitata. Trascorsi un’ora ad osservare, attento a qualsiasi dettaglio o movimento. Cadde una foglia dal fico sull’acqua della piscina, della quale potevo appena intravedere un angolo, dato che la casa me la nascondeva. Mi immaginai la sua superficie già tinta di sporco, che sosteneva la decadenza che l’autunno stava generando su di essa. In quel momento potei capire l’imbalsamatore e cosa lo spingesse a non pulire mai la piscina, se non in estate. Lì poteva vedere la parte più oscura della sua anima, quella che tutti cerchiamo di nascondere al resto dell’umanità. Io, senza saperlo, avevo cominciato a dipingere il mio ritratto, come Dorian Gray. In quell’istante mi resi perfettamente conto di quello. Non sapevo dove, ma in qualche luogo c’era il quadro nel quale il trascorrere del tempo avrebbe lasciato tracce delle brutte azioni che il mio comportamento stava originando. Mi appartai con somma attenzione dal cancello, per evitare di far suonare il camlo e tornai in città con la sensazione di aver ricevuto la mia ultima lezione, senza che l’imbalsamatore avesse avuto modo di pronunciare una sola parola.
XII
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Bisogna far are degli anni per sapere fino a che punto una persona ha lasciato un sedimento nella nostra anima. Bisogna anche, sicuramente, allontanarsi da questa persona per apprezzarla e per trovarla nel posto più profondo e nascosto del nostro essere. Per dieci anni non ricevetti notizie dell’imbalsamatore. Non feci nemmeno lo sforzo di contattarlo. Quando terminai brillantemente i miei studi universitari, accettai un’offerta in un’altra città più grande, lontana quasi cinquecento chilometri dalla mia. Ogni tanto ritornavo a casa per vedere gli amici e la famiglia, anche se solitamente per natale e le vacanze estive. Avevo preso l’abitudine di seppellire le mie origini, in tutti i sensi, sotto tonnellate e tonnellate di menzogne. Avevo adattato un ato ai miei interessi e mi ero talmente sforzato in quel compito che confondevo oramai la finzione con la realtà. -Non siamo mai stati a New York tutti e tre insieme. –diceva mia madre quando dicevo a lei alcune delle mie sciocchezze inventate. -No? –chiedevo, sorpreso, ma ricordando che lei e mio padre erano gli unici che non potevo ingannare. -Ti confondi. Siamo andati solo noi due e tu sei rimasto con la nonna. Come non ricordi? Eri già abbastanza grande... E sì che mi ricordavo, mi ricordavo tutto perfettamente. Il problema era che io desideravo che il mio ato fosse diverso e cambiare città mi aveva permesso di crearne uno che, sebbene non fosse falso nella sua totalità, era convenientemente modificato. Dentro quelle distorsioni volontarie c’era José: non lo avevo mai conosciuto, non ero mai stato a casa di un imbalsamatore e tanto meno avevo sentito ione per un lavoro così strambo e peculiare. Nel fondo non era José che mi faceva vergognare, né la mia ata devozione per la
dissezione degli animali; quello che non sopportavo era accettare la sconfitta, la mia sottomissione senza lotta, né resistenza, di fronte ai convenzionalismi che impone la società. Ciò che desideravo era negare con tutto il mio cuore era che avevo tradito i miei sogni. L’imbalsamatore li rappresentava, anche se non solo quello; era anche la personificazione del fatto che realizzarli era possibile, che la società non è così determinante e c’è un ampio margine di azione che rimane nelle nostre mani. Se davvero siamo disposti a lottare. Ero diventato un famoso economista e svolgevo un incarico importante in una famosa società finanziaria. Inoltre, scrivevo libri sulla finanza e tenevo lezioni e conferenze nelle più prestigiose scuole di business del paese. Ero un uomo di profitto, guadagnavo molti soldi e i miei genitori si sentivano orgogliosi, anche se colpevoli. E anche se non era qualcosa dettata da motu proprio, n alcune occasioni mio padre ebbe l’umiltà di affrontare l’argomento. -E non hai pensato a dedicarti alla tassidermia ora che hai una buona posizione? Puoi prenderti un anno sabbatico. –mi chiese, con un filo di voce, quasi come se non volesse quella cosa. Io rimasi a guardarlo molto sorpreso. Non mi sarei mai aspettato quella domanda, tanto meno anni dopo. La mia mano destra cominciò a tremare e dovetti fermarla con forza con la sinistra per non denunciare il mio nervosismo. Mio padre, tuttavia, aveva gli occhi inchiodati al pavimento e sembrava afflitto e triste. -Per favore, papà! Quelle erano sciocchezze da adolescente. Era tanto tempo fa... Credimi, mi ero perfino dimenticato che una volta sarei voluto diventare un imbalsamatore. Che razza di idea, vero? –risposi schivo, meschino, bugiardo, vinto... Mio padre alzò lo sguardo e mi osservò. Aveva le pupille contratte, come quelle di José quando si iniettava la morfina, e acquose. Si colpì le ginocchia come per darsi coraggio. -Ho sempre voluto il meglio per te. Te lo giuro. Anche se ora, non lo so... Credo che ci sono state delle cose che non ho fatto bene. Enrique, voglio che mi perdoni. Voglio che abbracci tuo padre e sappia perdonarlo. –disse mio padre, raccolto nella sua vecchia poltrona come un bambino indifeso e impacciato. -Non dire sciocchezze, non ho nulla da perdonarti, capito? Sei sempre stato un
padre magnifico. –gli dissi mentre lo abbracciavo e sentivo sulle mie braccia l’umidità delle sue lacrime. Quando cominciamo a negarci smettiamo di essere bambini, abbandoniamo la nostra essenza e ci confondiamo con una muta uniforme a quella che chiamiamo società moderna. Io ero uno dei suoi primi sciacalli. Di tanto in tanto visitavo qualche museo di storia naturale ubicato in alcune delle grandi capitali del mondo e sentivo che mi soprassaliva una profonda malinconia. Ritornavo al mio hotel con l’immagine fissa di qualsiasi pezzo dissezionato che avevo contemplato e mi immaginavo José mentre lavorava nella sua casa su di esso, all’aria aperta, come il giorno che mi aveva mostrato come preservare una piccola quaglia. Durante la notte non potei evitare di sognare i suoi profondi occhi azzurri e il suo sorriso enigmatico e ingannatore. Mi parlava nei sogni, ma io non potevo ascoltare la sua voce e assistevo impotente al movimento sordo delle sue labbra. Una sera alla fine di settembre ricevetti una chiamata. Era una voce amica, anche se non la riconobbi subito. Suonava invecchiata e rotta dal tempo che a. -Enrique scusa se ti disturbo. I tuoi genitori mi hanno dato questo numero... Era Adela, resuscitata dai resti di un immenso naufragio chiamato ato. Nell’anestetizzata tranquillità della mia nuova vita le sue parole risuonarono come lo scoppio di un tuono, nonostante parlava quasi sospirando, quasi senza forze. -Adela! –esclamai, davvero contento ed emozionato. –che bella sorpresa! Da quanto tempo non parlavo con te... Dall’altra parte della linea non si ascoltò assolutamente nulla e per un istante pensai che si fosse interrotta la comunicazione. -Enrique, avevi detto che saresti venuto... ti abbiamo aspettato per tanto tempo... Non era più la donna travolgente e dai modi un po’ rudi che avevo conosciuto. Anche se non era davanti ai miei occhi, potevo percepire che gli anni l’avevano consumata e ora doveva essere una di quelle vecchiette che si muovono con difficoltà e che possono appena contare su loro stesse. Mi sentii molto in colpa e vile.
-Lo so, e non ho scuse plausibili. Mi spiace, Adela, davvero mi dispiace. -Non sentirti in colpa. Non fa niente, oramai. Avrai avuto di sicuro le tue ragioni. –disse lei senza un apice di risentimento, rivolgendosi a me allo stesso modo di una madre che perdona tutto a un figlio. -Come mai mi hai chiamato? –chiesi in modo arguto, cercando di recuperare la complicità che ci aveva unito dieci anni prima. Ancora una volta si aprì un silenzio tra noi. Forse più prolungato, sicuramente più scomodo e mogio. Era una silenzio che permetteva di unire nel suo seno milioni di speculazioni. -Devo darti una cosa. Ho qualcosa che ti appartiene e sono stata incaricata di farlo arrivare nelle tue mani. –disse Adela ora un po’ più decisa anche se criptica. -Non ti capisco. –replicai sentendo un abisso che si apriva sotto i miei piedi. Ora ero in aria, sul punto di cadere senza remissione in un vuoto che non aveva niente di fisico anche se molto di spirituale, un precipizio emozionale che poteva solo condurre al disordine di tutte le cose. -Enrique –sussurrò lei, parlandomi con un affetto infinito –il signor José è morto.
XIII
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La morte è imprevedibile. È un avvenimento che non conosce date, né opportunità, che fa orecchie da mercante alle particolari circostanze di ognuno. La morte non aspetta, né fa concessioni e nemmeno si adatta al gusto particolare degli esseri viventi che popolano questo pianeta. Anche se la morte può essere citata prima del tempo e chissà si mostra comionevole e accede alle nostre pretese. Forse. Ritornai alla mia città in treno, dato che non volevo stancarmi alla guida. Lo ricordo perfettamente perché fu un viaggio infinito nel quale ebbi il tempo di pensare a milioni di cose. Pensai soprattutto all’imbalsamatore ma anche alla mia esistenza, a quello che era diventata la mia vita e a quanto fossero lontani i sogni dell’adolescenza. Viaggiai seduto vicino al finestrino, con la guancia appoggiata al vetro freddo. A una velocità trepidante, arono davanti ai miei occhi città, paesi e paesaggi tutti diversi, tutti uguali. Credetti di riconoscermi negli occhi di un bambino che aspettava il suo treno sulla banchina di una stazione. Sì, ero esattamente quel bambino e mi osservavo con attenzione e quasi un po’ di spavento: ero capace di scoprire, attraverso le mie pupille, che avevo assassinato il mio sogno. Venne a prendermi mio padre che sembrava più vecchio che mai. Come io ero cresciuto, lui si era contratto, fino a diventare un’amabile essenza dell’uomo che era prima. -È morto di cancro, vero? –chiese mio padre al quale parlare di morte sembrava sempre più comune. -No. Era malato da molti anni, ma non è morto per colpa del cancro. Lo hanno trovato vicino alla piscina. È stata una dose eccessiva di morfina. -Morfina?
-Sì, gliela prescrivevano per alleviare il dolore. –mentii eludendo di dover dare un’infinità di scomode spiegazioni. -Sicuramente sarà stato stanco di vivere in quelle condizioni. Povero uomo... Quando ci sono i funerali? A me e tua madre ci piacerebbe accompagnarti. In fin dei conti, anche se non lo abbiamo conosciuto, quell’uomo ha fatto parte delle nostre vite per un anno intero. Non vogliamo lasciarti solo. Mi morsi il labbro inferiore. Lasciai are volontariamente alcuni secondi, meditando su cosa fosse più appropriato da dire. -Il funerale è stato già celebrato. -Come? –mio padre mi guardò molto sorpreso. –Allora perché sei venuto? -Mi ha lasciato alcune cose in eredità. –risposi seccato. Mio padre assentì con la testa. Mi portava a casa guidando molto piano, come fanno solo gli uomini che hanno dimenticato il significato della parola fretta e che sicuramente si rendono conto di quanto sono stati maledetti gli anni della loro vita durante i quali si sono visti sottomessi a essa. -Beh, interessante. E sai cosa? -Non ne ho idea. Domani mi vedo con la donna che lo assisteva che me le darà. -Vuoi che ti accompagniamo? –insistette mio padre che non sapeva come starmi affianco ora che l’ultimo pezzo di brace di quello che era stato il fuoco delle mie aspirazioni era andato via per sempre. -No, preferisco andare solo. Grazie papà. Quella notte non potei chiudere occhio. Steso nello stesso letto che mi aveva visto crescere, circondato dagli stessi mobili, quadri e poster della mia adolescenza, credevo di aver viaggiato improvvisamente nel tempo. In verità non era il tramonto di un mercoledì ma quello di un venerdì di dieci anni prima. Il mattino seguente sarebbe stato sabato e io avrei preso un autobus alla dodici che mi avrebbe portato a casa dell’imbalsamatore. Una foschia leggermente luminosa invase la mia stanza come la nebbia che si afferrava alle montagne, vicino al cimitero, nei giorni di pioggia. Quando fece giorno io non ero un uomo,
ma un ragazzo di appena sedici anni. Mio padre mi lasciò la sua auto e ricordo quanto mi sentii strano a salire il pendio che mi era così familiare all’interno di un veicolo. Lo avevo sempre percorso a piedi. Il tempo aveva trasformato anche esso. Ora la strada era perfettamente asfaltata, lussuosa e animate urbanizzazioni di villette a schiera si prolungavano da un lato all’altro. Rimanevano solo alcuni chalet indipendenti, vetusti e con una certa ascendenza nella zona più alta, vicino al camposanto. Parcheggiai di fronte alla porta recintata, che continuava a conservare la pittura verde anche se si apprezzavano numerose scrostature nelle quali era cresciuta la ruggine, come un’erba cattiva. La facciata della casa era diventata più oscura e spenta come una fotografia che il tempo si era incaricato di eclissare. Per mia tristezza, non c’era traccia né del camlo, né della targa dell’imbalsamatore. Potei solo abbozzare un sorriso quando apparve Adela da un lato della casa mentre mi tendeva le braccia. -Enrique che gioia vederti di nuovo. Ti sei fatto un uomo. Sono ati tanti anni... Abbracciai la donna e sentii il suo corpo spigoloso e duro. Era dimagrita molto e le si era incurvato leggermente il collo. Il suo volto era stato invaso da un esercito di rughe e macchie che, anche se non la imbruttivano, trasmettevano una certa sensazione di tacita sconfitta. -Adela ti avevo detto che ci saremmo rivisti. –dissi stupidamente. La donna non mi rispose. Frugò lentamente in una borsetta che portava a un braccio e poi mi consegno una busta azzurra che aveva preso dalla stessa. -Questa è la tua eredità. –manifestò con un’asprezza che mi sconcertò. Il suo sguardo era diventato subito duro e freddo. Anche se non me l’aspettavo, il suo comportamento era del tutto giustificabile. Presi la busta tra le mie mani e la aprii con delicatezza. Dentro trovai solo tre cose: un assegno con una notevole somma a mio nome firmato dall’imbalsamatore (ciò indicava una premeditazione assoluta), una lettera e una piccola chiave. -Che significa tutto questo? –chiesi, insicuro e nervoso.
-Non lo so. Non ho letto la lettera. A me non ha scritto nulla. –disse Adela un po’ triste. –Siamo gli unici eredi, io e te. Tutto il resto lo ha lasciato a me. –aggiunse anche se nella sua voce potei percepire che questa era una cosa che la lasciava indifferente. -Venderai la casa o continuerai a viverci? -Né l’uno, né l’altro. –rispose senza aggiungere un solo dettaglio. Estrassi la chiave dalla busta e gliela mostrai, alzando le spalle. La Adela che avevo di fronte era appena un riflesso deformato della donna che vagava nei ricordi della mia mente. -Sai che cosa apre questa chiave? Lei tornò ad avere dopo alcuni secondi l’espressione dolce con la quale era solita guardarmi quando ero solo un bambino. Fu appena un miraggio. -Lo so, anche se preferirei non dirtelo. –replicò con una certa cautela. -Non capisco. -A me ha lasciato la casa ma non tutto quello che c’è qui dentro. Sono tuoi i libri della sua biblioteca e ... Adela si girò verso la facciata senza finire la frase. Di spalle a me, con il vestito nero che copriva il suo corpo esile, sembrava una di quelle vedove che ano il giorno a fare il rosario, rinunciando a un presente ancora adoperabile per un ato impossibile da recuperare. -E? –sussurrai in un tono rispettoso. La donna mi guardò di nuovo. Il suo visto mostrava una profonda preoccupazione e un lieve cruccio. -Quella chiave apre la porta della soffitta. Ti ha lasciato anche tutto quello che c’è lì dentro. Mi sentii pieno di orgoglio e colpevole al tempo stesso. L’uomo che avevo abbandonato e dimenticato, dopo avergli professato una profonda ammirazione e
aver ricevuto le sue generose lezioni, non solo si era ricordato di me nel suo testamento, ma mi aveva donato i suoi beni più adorati: i suoi libri e i suoi pezzi migliori. Un’ansia quasi golosa mi scosse il corpo. -Mi sento molto onorato, Adela. –dissi con un po’ di vanteria. -Oramai non potrai ringraziarlo. –sottolineò lei dandomi un colpo basso, per il quale non ero preparato. –Ma fa lo stesso ora. Enrique, voglio chiederti un favore. Ti prego di farmi un favore personale. –supplicò prendendomi le mani e piegandosi. -Quale favore? –chiesi perplesso e un po’ a disagio in quella situazione. -Butta quella chiave lontano, vai al monte e lanciala dall’alto di una montagna e dimenticati per sempre di essa. Non capii. Adela era in ginocchio di fronte a me, i suoi occhi oramai apiti mi osservavano come lo avrebbero fatto quelli di un reo condannato a morte al suo carnefice, ancora afferrato a un filo di speranza. -Ma questo è impossibile. Sarebbe come voler disobbedire al suo volere. Perché mi chiedi una cosa del genere? -Te lo supplico... Tirai le braccia di Adela per aiutarla ad alzarsi. Sentii il suo corpo leggero, quasi senza peso, cedere tranquillamente alla mia volontà. -Almeno dammi un motivo valido per farlo. –dissi cercando di essere ragionevole, anche se per nulla disposto a cedere. La donna si allontanò da me e cominciò ad andare verso il cancello. Lo fece stanca e taciturna. -La casa è aperta e continuerà ad esserlo per una settimana. Hai tempo a sufficienza per prendere tutto quello che ti appartiene. Dopo di che non potrai entrare mai più. –mi disse prima di perdersi per il pendio, scendendo la strada. -Adela! –esclamai in un ultimo e vago intento di ragionare con lei.
Ancora un po’ turbato, estrassi la lettera dalla busta che conteneva l’assegno e la chiave e andai a leggerla vicino alla piscina. Quello era il luogo in cui l’imbalsamatore aveva trovato volontariamente la morte e io volevo ricevere le sue ultime parole nello stesso luogo che lui aveva scelto per morire. «Enrique, quando leggerai questa lettera probabilmente io già avrò raggiunto il mio ultimo obiettivo e non avremo più la opportunità di parlarci ancora. Ti ho lasciato del denaro perché non ho la minima idea di come te la i e forse ti potrà servire, al massimo, grazie a esso, arriverai a riconsiderare quello che davvero importa in questa nostra finita esistenza. Ti lascio in eredità anche tutti i miei libri e la mia collezione di pezzi, quella che non ho mai avuto modo di mostrarti. So che saprai prendertene cura e apprezzarla come nessuno. Ti prego di completare la mia biblioteca, mi piacerebbe che la conservi con tutti i suoi esemplari insieme, così come la tenevo io. Enrique, per favore, non giudicarmi mai con durezza. Mi sono dedicato per tutta la vita a una ione, a un’arte che mi ha preso molto e grazie alla quale trascenderò oltre i limiti di questo corpo tarlato dagli anni. Ma rimarrà solo il mio nome. Presto non sarò altro che polvere che il vento farà volare via. Adela è oramai vecchia e solo tu nel mondo potrai conservare memoria dell’uomo che sono stato, delle cose che ho detto, di cosa mi spingeva a vivere... Sei un essere eccezionale e sono contento di aver avuto l’onore di conoscerti. Non dimenticare mai i tuoi sogni. Non dimenticarti nemmeno di me. José Vaquerizo Yepes». La lettera scivolò tra le mie mani pallide e tremanti e rimase sulla superficie dell’acqua che rapidamente bagnò la lettera e sbiadì l’inchiostro. Quella piscina sembrava voler inghiottire e far sparire per sempre qualsiasi traccia dell’imbalsamatore, prima troncando la sua vita e poi cancellando le sue ultime parole. Cercai di afferrare la lettera e stetti sul punto di cadere nell’acqua per farlo, ma era già fuori dalla mia portata e si confondeva con la sporcizia che cominciava ad accumularsi e che probabilmente oramai nessuno si sarebbe occupato di pulire. Conservai la piccola chiave e l’assegno in una delle tasche della mia giacca e
uscii di casa in cerca dell’auto. Camminai lento, sentendo la voce dell’imbalsamatore che risuonava nel mio cervello, ricordandomi ancora una volta che non lo mettessi nel dimenticatoio, ora che quasi nessuno lo avrebbe potuto mantenere soggetto alla memoria diffusa e capricciosa dei vivi. Prima di chiudere il cancello mi girai per contemplare la facciata della casa. La vista si annebbiò subito, le lacrime si ostinavano a creare una foschia offuscata e triste tra le mie pupille e la facciata avvizzita. Sarei ritornato il giorno seguente per contemplarla di nuovo perché, prima di entrare nuovamente nella casa, dovevo realizzare il desiderio che aveva espresso l’imbalsamatore nella sua ultima missiva.
XIV
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Ero lì, nella biblioteca, tra i numerosi libri che l’imbalsamatore mi aveva lasciato, sostenendo tra le mani l’ultimo che mancava per completarla: l’edizione originale del 1825 del manuale di Boitard. José aveva sempre saputo che ero stato io ad usurparlo e, nonostante tutto, non mi aveva mai rimproverato apertamente. Depositai il tomo piano, nel posto che aveva sempre occupato, gettai un’occhiata a quella che ora era diventata la mia collezione e uscii nuovamente nel corridoio. Mi sentivo catturato dall’emozione. Alla fine ero riuscito ad avere accesso ai migliori pezzi dell’imbalsamatore e, inoltre, ora mi appartenevano per volontà propria e ultima del suo creatore. Avevo in mente i suoi commenti circa le adulazioni che avevo fatto alla testa di cervo dell’entrata, avvertendomi che quella si avvicinava pochissimo alla purezza e alla grandezza di quelli che aveva nella soffitta. Ricordavo, inoltre, che permettermi di accedere al soppalco era una specie di ricompensa, di riconoscimento massimo che io dovevo guadagnarmi. In quell’istante dubitai dei meriti che mi attribuiva per farmi meritevole di tale privilegio. Entrai nella stanza che già conoscevo, quell’unica volta che avevo cercato invano di visitare il soppalco e che continuava ad essere così desolata e oscura come in ato. Con una lentezza parsimoniosa, cominciai a salire gli scalini che conducevano al piano superiore. Afferrai con forza la piccola chiave, temendo che mi potesse scappare e perdersi in quell’istante magico e tanto atteso. La profonda oscurità mi costringeva ad andare scalino dopo scalino, sondando con la punta delle mie scarpe ognuno di essi, fino a quando finalmente urtai la porta. Introdussi in modo impacciato la chiave nella serratura che cedette in modo brusco e repentino, come spinta da una molla. Una boccata di aria umida e viziata, proveniente dal soppalco, mi scosse il volto. Sentii l’odore penetrante di canfora e di altri conservanti che il mio olfatto non riuscì a identificare.
Improvvisamente, ritornarono alla mia mente gli inquietanti incubi che mi avevano tormentato circa quel luogo durante l’adolescenza. Nonostante fossi sicuro che mi trovavo solo in casa, credetti di sentire dei i molto leggeri sul soffitto a cassettoni. Immediatamente una paura irrazionale e infantile si impossessò di tutto me stesso, paralizzandomi. Alzai lentamente gli occhi che fino a quel momento avevo tenuto fissi sulla serratura della porta e, a poco a poco, le mie pupille si abituarono alla penombra lievemente strappata da un fascio di luce che sapevo proveniva dalla piccola finestra che avevo visto tante volte sulla facciata. Di fronte a me si apriva un aggio stretto, nel quale si confondevano ombre di differente forma o dimensione. Al principio le percepii come una minaccia e stetti sul punto di tornare indietro e uscire correndo per le scale di sotto, dimenticando per sempre il desiderio che mi aveva guidato fino a lì. Fortunatamente, seppi vincere la paura e l’istinto e, lentamente, quelle ombre si trasformarono in una spettacolare esposizione di animali meravigliosamente dissezionati, disposti uno sull’altro, senza armonia, lasciati al caso, formando uno strano insieme di fauna apparentemente viva e selvaggia, anche se statica. C’erano aquile reali, avvoltoi cani, civette, gipeti, lupi, scoiattoli, un eccezionale orso bruno... Percorsi il aggio con gli occhi allucinati, meravigliato e attanagliato di fronte a tanta bellezza. A ognuno degli innumerevoli pezzi dedicai almeno un paio di minuti di piacevole contemplazione: li accarezzavo, scrutavo l’aspetto che l’imbalsamatore aveva scelto per immortalarle nel tempo, ammiravo i loro sguardi penetranti e in agguato. Affascinato, quasi credevo di svenire, inondati i miei sensi da una collezione così straordinaria che, certamente, avrebbe risvegliato le invidie dei migliori musei di scienze naturali del mondo. Immaginavo José piegato su di essi, dedicando loro innumerevoli ore, mostrando la sua arte ineguagliabile, la somma perfezione che solo i geni sono capaci di ungere sulle sue creazioni. Il aggio si incurvava a destra addentrandosi in un nuovo corridoio nel quale si infeltrivano nuovi pezzi. Credetti di perdere i sensi nello scoprire un magnifico esemplare di lince iberica che giaceva prostrato in un atteggiamento sereno, come riposando dopo una lunga giornata di caccia. Aveva la testa inclinata e sembrava guardarmi con languore e indifferenza, come se la sua fatica fosse sotto la sicura minaccia di un essere umano. Mi avvicinai ad essa e sfiorai la sua pelliccia con rispetto. Altri mammiferi singolari si contendevano l’angusto spazio: genette, mufloni, cinghiali, donnole, toporagni, faine, ghiri, lontre, volpi... Era uno spettacolo incredibile e meraviglioso che inondava le mie pupille di una bellezza così straordinaria che ancora oggi continuano a catturare e che penso continueranno a farlo fino alla fine dei miei giorni.
Quando arrivai alla fine del corridoio, ebbi la sensazione di ascoltare di nuovo uno dei i, non molto lontani da dove mi trovavo, dall’altro lato della parete, che si adeguavano agli animali disposti uno accanto all’altro, dal pavimento fino al soffitto. Girai verso destra con il cuore che mi batteva nel petto, come un pezzo di motore sfrenato. Il nuovo corridoio finiva giusto nella zona della facciata nella quale era ubicato il lucernaio. La luce mi accecò momentaneamente lo sguardo e avanzai spaventato con la testa abbassata e le palpebre semichiuse. In entrambi i lati del corridoio, non c’era nemmeno un pezzo; al loro posto l’imbalsamatore aveva collocato cento boccioli di rosa secchi. Infine, alzai lo sguardo e quello che scoprii mi lasciò inorridito e sbalordito. Una donna era seduta su una sedia con l’aria distratta, in pace con se stessa. Era vestita con un magnifico vestito nero, semplice ed elegante che risaltava il colore pallido della sua pelle bianca e apparentemente liscia. Leggeva un libro, che teneva in maniera indolente con la mano destra. Appoggiava il mento lievemente a sinistra, mostrando delle dita stilizzate e curate, rimarcate da unghie color madreperla. Uno non sapeva se stesse leggendo davvero o se guardasse di sbieco, simulando un disinteresse forzato e perfettamente studiato. Aveva i capelli neri, raccolti in una coda infantile che cadeva su una delle spalle. La scollatura del vestito, anche se discreta, permetteva di ammirare il collo allungato, la pelle fine e tesa e le ossa della clavicola, lievemente voluttuose. Gli occhi, di un profondo colore castano, avevano la vivacità di una bella ragazza di appena venti anni. Un calore intenso e inquietante crebbe dentro di me. Riconobbi immediatamente quel bel viso, addormentato per sempre dalla morte. Anche se il bianco e nero delle foto di mezzo secolo fa non rendevano giustizia al delicato incanto della ragazza che avevo di fronte a me, sapevo perfettamente di chi si trattava. Era l’opera più abominevole e geniale che avessi mai visto e che mai avrei potuto contemplare. Era la creazione di un maestro senza eguali e di un mostro senza paragoni. Senza dubbio, quello che avevo davanti ai miei occhi, che era lì a guardarmi era il corpo dissezionato di Elena, un anticipo dei miei incubi più terribili, per i successivi dieci lunghi anni.
XV
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Uscii correndo dalla casa, dimenticando i libri, dimenticando quei pezzi meravigliosi che oramai mi appartenevano, cercando di dimenticare che più volte nella mia vita avevo ammirato e venerato l’uomo che era stato capace di commettere un’azione così orrenda. Nella mia mente una sola immagine: il volto di Elena. Nella mia testa solo alcune parole: l’ultima e inutile supplica della buona Adela. Arrivai a casa dei miei genitori sudato e scomposto. Cercai invano di occultare la mia profonda preoccupazione e il mio stato di inquietudine. Anche se i miei genitori avvertirono che qualcosa non andava, non rivelai la terribile causa che provocava il mio disagio. ai tre giorni chiuso nella mia stanza, assediato da mille domande che mi provocavano i brividi e che non avevano una risposta: come era stato possibile? José aveva ucciso Elena o semplicemente l’aveva imbalsamata una volta morta in modo naturale? Perché si era allontanata? Che cosa si nascondeva realmente dietro l’addio che Elena aveva scritto dietro la fotografia che trovai nel manuale di Boitard? Mi angosciavano anche abbastanza altre questioni, di carattere quasi tecnico: in che modo aveva dissezionato un essere umano in un modo così perfetto? Come era riuscito a conservare la fine e delicata pelle della ragazza? Che voleva comunicarmi consegnandomi la chiave? In varie occasioni cercai di contattare Adela, di scambiare con lei delle impressioni e di decidere cosa fare insieme. Ma alla fine optai per non fare nulla. arono i giorni e immaginai la casa di José chiusa per sempre: Senza nessuno che si prendesse cura degli alberi e dei fiori, senza che nessuno pulisse l’acqua della piscina, con i libri dimenticati per sempre negli scaffali, con i pezzi dissezionati che si consumavano lentamente per via dei vermi e degli insetti, con il corpo di Elena che si decomponeva senza rimedio. Immaginai tutto l’universo personale dell’imbalsamatore che si imputridiva oltre i confini segnati da una staccionata di colore verde, come un prolungamento effimero del cimitero che giaceva a soli pochi metri di distanza. Non ritornai mai a casa, cercando di
scappare dalla sicura decadenza di quel mondo che presto non sarebbe stato più che uno schizzo nel tempo. Abbandonai il mio lavoro e ripresi la mia ione per la tassidermia. La somma che José mi aveva lasciato in eredità mi permise di vivere comodamente e di dedicarmi a quello che è stato il mio unico sogno nella vita. Lo faccio in un modo tranquillo, senza oppressioni, dilettandomi con ogni incarico, senza alcuna fretta. Lo faccio nel modo che sarebbe piaciuto all’imbalsamatore. Ogni volta che finisco un pezzo penso che lui mi guarda orgoglioso da qualche posto. Ora che Adela è morta mi sono deciso a scrivere questo racconto. Ne avevo bisogno. Sono ati solo tre anni ma ho raggiunto una meritevole reputazione in questa arte quasi dimenticata e singolare che pochi comprendono, e che ancora meno condividono. Di tanto in tanto assisto in incognito ad alcune esposizioni nelle quali si espongono i miei pezzi e osservo i visitatori che li ammirano allucinati. Questo mi conforta e sento che sto facendo qualcosa di importante. Forse alcuni di questi animali presto saranno estinti e questo è sì terribile, ma almeno ci sarà la mia opera a farli perdurare nel tempo, affinché i postumi li vedranno e sapranno che esisteva, che ebbero una vita e che inondarono con la loro bellezza questo pianeta. Questo racconto è sicuramente il mio modo di imbalsamare per i posteri José Vaquerizo Yepes, oltre che una forma di espiazione dei suoi peccati e dei miei. Ho conosciuto molte persone dalla sua morte, ma nessuno così eccezionale e brillante. Nemmeno che mi abbia trattato con tanta generosità e profondo rispetto. A pochi mesi dalla morte dell’imbalsamatore ero sul punto di dimenticare tutto, di ritornare nella città che aveva fatto di me un uomo d’affari e tornare a scalare posizioni in quel campo. Ero sul punto di dimenticare me stesso per essere nuovamente soppiantato da un altro me creato artificialmente. Ricordo la sera che cambiò tutto. Ero nella mia stanza a tormentarmi con il volto dissezionato di Elena, fisso nella mente. Allora guardai il sughero nel quale erano conficcate le libellule azzurre dall’infanzia: lo presi e lo lanciai con rabbia dal balcone. Poi stetti quasi un’ora a piangere. Quando infine mi decisi a uscire e a prendere un po’ di aria per schiarirmi le idee, mi imbattei in strada, vicino alla porta, con le libellule secche, morte, che si erano staccate dal sughero e dalle spille. Provai nausea e un odio infinito verso la mia stessa persona. All’improvviso si alzò un leggero vento che alzò le libellule e le trascinò verso il cielo. Per alcuni secondi
mi sembrò quasi di vederle volare nuovamente, di allontanarsi verso la libertà, fino a perderle di vista. In quell’istante capii l’imbalsamatore, in quel momento decisi che nessuno deve mai rinunciare ai sogni che, con speranza, ci spingono a continuare a vivere.
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