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Massimiliano Sermi

LA TELA DEL DESTINO

Youcanprint Self-Publishing

Titolo | La tela del destino Autore | Massimiliano Sermi ISBN | 9788891162564

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CAPITOLO PRIMO

“Che cazzo fai? Siamo già partiti da dieci minuti e hai ancora in mano tutta la pastura, se la facevo io ʾsta canna facevo prima, puttana galera.”

“Stai calmo, siamo appena partiti e tra poco arriveremo, per allora avrai la tua canna.”

“Cazzo, parli come se stessimo andando a morire e dobbiamo ancora andare a prendere Simone.”

“Simone mi ha telefonato cinque minuti fa, ha detto che non viene, quindi vai pure dove dobbiamo andare.”

“A me non ha detto niente quel codardo, ma cosa ti puoi aspettare da uno come lui...”

“Forse più di quello che ti potresti aspettare da quelli come noi” disse il ragazzo mentre, con aria assorta, guardava fuori dal finestrino il cielo terso che andava a oscurarsi in un triste pomeriggio invernale.

“Oggi sei più allegro del solito vedo” disse ironico Gabriele, “magari se ogni tanto ti vestissi con qualche colore, invece che sempre di nero, saresti un po’ più allegro.”

Il ragazzo rise mentre ava la lingua sulla cartina inumidendola e chiudendola.

“Ne dubito, sarà il tempo. Ecco qua la tua canna. Gustatela fino in fondo.” “Perché, te non la fumi?”

“Sì due tiri li faccio, ma lasciameli in fondo e ora fammi ascoltare un po’ di musica.”

Gabriele si chetò.

Prese la canna e se la portò alla bocca dando una lunga inspirata.

Sentì il fumo che gli scendeva nei polmoni lasciandogli quel sapore dolciastro in bocca che ben conosceva.

Lo trattenne dentro ancora un po’, poi espirò riempiendo la golf grigia. Tossì leggermente mentre la ava al suo amico.

Lo stereo suonava in tutta la sua potenza e la voce di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil esplodeva intutta la sua potenza e sensualità in Heaven’s a lie.

“Visto, oggi ho portato la musica che piace a te, niente musica da discoteca o roba del genere, solo Lacuna Coil, il tuo gruppo preferito; sono o non sono un amico?” disse Gabriele mentre lo osservava.

Con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino l’altro sorrise e tirò una boccata dalla canna.

“Effettivamente oggi, ci sta bene.”

Gabriele guidava la golf per stradine interne come fosse in un rally, mosso dal tempo della musica.

“Certo che oggi non c’è proprio un’anima in giro, peggio del solito, le strade sono deserte.”

“Già, oggi è come se tutto fosse immobile, dà come l’impressione che sia tutto sfumato, è come se non riuscissi a vedere bene le cose.”

“Che filosofo mancato che sei” rise, “però, effettivamente, è così, ora che mi ci fai pensare e poi adesso che sta salendo anche la nebbia è pure peggio. Che posto assurdo, non vedo l’ora di potermene andare e vaffanculo tutto, ʾsto posto non lo sopporto più.”

“Effettivamente fa schifo anche a me, me lo sarei aspettato almeno un po’ migliore. Ma, tra l’altro, dove è che stiamo andando?”

“Ma che sei scemo?!” rispose Gabriele mentre lo guardava di traverso, “te l’ho già detto prima quando eravamo a bere l’americano senza soda. Cosa sei già ubriaco?”

“No, non direi, è solo che se mi ripeti le cose due volte è meglio.”

“Stiamo andando in quel posto dove ci aspettano queste persone con cui dobbiamo fare l’affare. Ti ricordi la roba che abbiamo trovato o oggi sei totalmente fatto?”

“Sì, questo l’ho capito, ma dove è questo posto?”

“Qua vicino.”

“Se è qua vicino, perché siamo in macchina da più di mezz’ora?” chiese con calma e quasi sorridendo fra sé.

“È che...” balbettò Gabriele, “ero sicuro di sapere dove fosse, te lo giuro, ma non riesco a trovarlo, mi sembra di fare sempre la stessa strada e la nebbia non aiuta.”

“Prova a girare lì” indicò una piccolo sentiero sterrato che si allungava in mezzo alla nebbia.

Gabriele prese la strada.”Ok, ma non vedo un cazzo, troppa nebbia.”

Curvò seguendo la direzione della strada, sterzando seccamente la macchina per

poi dover frenare subito dopo, di colpo.

Davanti a lui la strada finiva.

“Perfetto, mi hai fatto prendere un vicolo cieco, ora devo fare retromarcia con questa nebbia, sperando di non cadere in qualche fosso.”

Mise a posto lo specchietto retrovisore per vedere meglio. Innestò la retromarcia e diede gas. La macchina andò su di giri ma non si mosse.

“Ma puttana galera” imprecò.

“Che succede?”

“Non c’è più la strada.”

“Come non c’è più la strada? Siamo proprio venuti da lì adesso.”

“No cazzo, mi sa che senza accorgercene, siamo finiti in qualche campo.”

“Prova a dare gas nuovamente.”

Gabriele iniziò ad accelerare ma la macchina non si mosse, era come se fosse incollata al suolo.

“Ma che cazzo, non si muove. Vaffanculo” urlò “che cazzo succede? Vai a vedere fuori e dimmi perché non si muove ʾsto cesso che con la nebbia non vedo nulla dagli specchietti retrovisori.”

La portiera si aprì e si richiuse.

Gabriele guardò il suo amico uscire e dirigersi sul retro della macchina, poi lo vide inghiottito dalle nebbie, dallo specchietto retrovisore.

Sussultò.

Tirò giù il finestrino e iniziò a chiamarlo, urlando.

“Michele, Michele dove cazzo sei. Michele!”

“Cosa urli, sono qua” disse il ragazzo uscendo da dietro la macchina.” Abbiamo un problema. Vieni a vedere.”

Gabriele aprì la portiera e uscì.

Si sentiva a disagio, era come se la nebbia fosse tutto intorno a lui, come se lo avvolgesse e lo soffocasse, non riusciva a vedere a un palmo dal naso.

Sotto i suoi piedi sentiva non il terreno duro e solido ma qualcosa di molle che gli si appiccicava alle scarpe.

Aveva paura, una paura folle, era come se fosse cieco e nello stesso tempo non lo fosse, era come se non vedesse che i contorni.

“Michele” balbettò “che sta succedendo qua!”

“Niente, che cavolo dici, dai vieni.”

Gabriele mosse la mano sul freddo metallo della macchina, appoggiandosi per non perdere l’equilibrio e, a fatica, iniziò a seguirne la sagoma. Camminava piano cercando di strappare i piedi dal suolo che erano pesanti e quasi come incollati.

Arrivò alla parte posteriore della macchina con gli occhi chiusi, come per tenere la concentrazione.

“Hey, tutto a posto, ti vedo strano” chiese all’amico appoggiandogli una mano sulla spalla che lo fece sussultare. “Abbiamo un problema, guarda” e indicò verso le ruote della macchina.

Gabriele aprì lentamente gli occhi, felice di trovarsi al fianco del suo amico di sempre, vestito col suo cappotto lungo di pelle nera, che lo guardava indicandogli il terreno.

Prima di indirizzare lo sguardo verso il posto indicato scosse la testa come a svegliarsi e, piano piano, guardò tutto intorno a lui. Rimase sollevato. Ora la nebbia era sparita e c’era solo la pioggia che batteva sul tetto della macchina e sulle loro teste. Si sentiva di nuovo rilassato e più sicuro di sé, respirava di nuovo bene. Guardò le ruote dell’auto che erano sprofondate, per dieci centimetri, nel fango fresco.

Erano finiti nella boscaglia e la macchina era impantanata nel terreno fangoso, per questo girava a vuoto.

“Merda” disse Gabriele, “e ora come facciamo?”

“Chiamiamo un carro attrezzi” rispose Michele “però io non ho soldi nel cellulare.”

“Come al solito! Che l’hai comprato a fare se non lo usi mai, nemmeno rispondi a volte! Dai prendo il mio nel cruscotto.”

Tornato in macchina, aprì il cruscotto e si mise a cercare il telefono. Niente, c’era solo la pistola.

Una Berretta di contrabbando con il numero di matricola cancellato che aveva

comprato al porto qualche tempo prima per fare l’affare. “Non c’è” disse fra sé “eppure ero sicuro di averlo portato. Oggi nemmeno una dritta, che giornata di merda e mi sento pure mezzo strano.”

“Non mi sembri più strano del solito” rise l’amico che gli si era fatto vicino “comunque non te la prendere perché, sicuramente, non avrebbe preso come il mio; siamo spersi nel nulla e qua il cellulare prende solo per le emergenze e non penso sia cosa saggia chiamare la polizia per venirci a tirare fuori di qua.”

“Direi proprio di no, siamo pieni di roba nel bagagliaio e poi ho anche questa” e sventolò in alto la pistola “ma almeno non siamo inermi.”

“Sì, ma il problema rimane comunque e inizia a fare pure freddo.”

“Io per adesso sto bene, te invece sei sempre freddo come un morto quindi che ti cambia?” Sorrise beffardamente e continuò. “Più che altro se non riusciamo ad arrivare in quel posto in tempo perdiamo la nostra opportunità, quindi fatti venire un’idea.”

“Che palle” sospirò il ragazzo vestito di nero, “tocca sempre a me tirarti fuori dai casini.”

Gabriele rise mentre guardava il suo amico sotto la pioggia e alla nebbiolina, avvolto nel suo sudario di pelle nera che faceva risaltare la sua carnagione chiara e lo faceva sembrare quasi un fantasma.

“Dai ho trovato, vado a cercare un bastone abbastanza grosso da poter fare leva sotto le ruote ed evitare che la macchina scivoli nel pantano quando acceleri.”

“Sei un fottuto genio.” Sorrise.

Lo guardò mentre si addentrava nella boscaglia più fitta dove la nebbia era già alta e avvolgeva tutto. Lì dentro sparì dalla sua vista lasciandolo nel silenzio e solo.

Gabriele non era mai stato un fifone ma, in quel momento, quando il suo amico sparì fra la nebbia sentì un brivido lungo la schiena.

Diede uno scossone al suo corpo, dalle spalle in giù, per far andar via quella sensazione, chiuse la portiera della macchina per stare un po’al caldo mentre aspettava il ritorno del suo compare.

Si rilassò un attimo chiudendo gli occhi e quando li riaprì, dopo pochi istanti, tutto era sparito e non riusciva più a vedere a un palmo dal naso. La nebbia aveva avvolto tutto, anche la sua vettura. Accese i fanali ma la situazione non migliorò; la luce non filtrava nella nebbia.

“Da quanto tempo era via il suo amico” si chiese. “Come mai non tornava?!”

Tutte queste domande iniziavano a preoccuparlo e ad assillarlo, facendogli, sempre di più, mancare il respiro come sotto l’effetto di un attacco di panico di cui non aveva mai sofferto, fino a quel momento.

Aprì la portiera per respirare meglio, a pieni polmoni, e poi, in preda al panico, iniziò a chiamare Michele...

Niente.

Sentì un rumore dietro di sé che lo fece sobbalzare, si girò di scatto ma non vide nulla, fece per tornare in auto, ma, un’altra volta, i piedi erano incollati al suolo.

Il panico si impossessò completamente di lui.

Guardò per terra e incredulo vide che il fango era sparito.

Adesso si trovava invischiato in una ragnatela gigante. Era nel suo centro, perfetto, da cui si diramavano tutti i filamenti della tela che si estendevano all’infinito fino a perdersi nella nebbia, molto lontano da lì.

La macchina era scomparsa e sotto di lui vi era solo il vuoto di uno spaventoso nulla.

Iniziò a sudare nonostante il freddo.

“Cazzo, cazzo, cazzo” ripeté più volte “cosa sta succedendo?!” si chiese. “Deve essere la droga, per forza. Forse sto sognando o forse sono troppo fatto. Sì, sì, è

sicuramente la droga, troppo forte, troppo buona; e poi l’alcool, sì deve essere quello, sì, una sorta di collasso. Sto sragionando. Tutto questo non può essere vero. No. Sono in un bosco e c’è la mia macchina anche se ora non la vedo, è qui accanto a me. Devo solo stare calmo. Devo concentrarmi e respirare. Sì, devo respirare. Ora chiudo gli occhi e quando li riapro sarà tutto come prima, con la macchina e tutto il resto.”

Mentre pensava questo chiuse gli occhi e iniziò a respirare profondamente. L’aria fredda, che sentiva scendere nei polmoni come qualcosa di reale, lo tranquillizzò.

Diede tre boccate di ossigeno profonde per tranquillizzarsi. Ma un ululato, improvviso, gli fece aprire gli occhi di colpo.

Gli sembrò così forte che gli parve di essere accanto a un lupo.

Spaventato si guardò intorno. Vide di nuovo la boscaglia poco lontana da lui.

La macchina era lì, ancora al suo posto e la nebbia si era alzata intorno alla boscaglia.

Però gli ululati non erano cessati, anzi, aumentavano.

Uno, poi dieci, poi cento.

Sembravano provenire da tutto intorno a lui. Fece un balzo verso la macchina. Cadde per terra.

Con orrore vide che i piedi erano ancora ancorati al centro della ragnatela che si estendeva, infinita, sotto di lui e per tutto il terreno.

Si guardò intorno terrorizzato. Cercò di mettersi in piedi ma riuscì solo a girarsi sulla schiena.

Gli ululati aumentavano.

Dalla boscaglia, nascosta ormai dalla nebbie, vide materializzarsi occhi rossi che parevano di fiamma. A coppie di due, uno vicino all’altro, gli si paravano davanti, poi a destra e poi a sinistra. Sembravano venissero avanti verso di lui insieme alla nebbia per inghiottirlo.

“Aiuto!” urlò “qualcuno mi aiuti cazzo!”

In preda al panico sentì del metallo freddo che gli toccava la schiena e si ricordò di avere addosso la pistola. Freneticamente la prese in mano e puntò.

Sparò dei colpi verso qualcosa alla sua destra, verso degli occhi rossi che si stavano avvicinando

“Vaffanculo, vi ammazzo tutti” urlava isterico “Michele dove sei? Michele aiuto,

scappa!”

“Che cavolo urli idiota?” la voce dell’amico lo tranquillizzò un attimo, mentre la mano tremante impugnava ancora l’arma fumante.

“Dove sei? Aiutami, corri, sto male!”

“Arrivo, ho trovato il bastone.”

“Chi cazzo se ne frega del bastone!”

“Arrivo, arrivo, calma.”

Altri ululati, sempre più potenti e vicini, entravano nella testa di Gabriele, rimbombando come un’eco. Stava impazzendo. Sparò altri colpi nella nebbia terrorizzato.

Davanti a lui gli occhi rossi si facevano sempre più vicini e minacciosi.

Urlò mentre scaricava tutto il caricatore.

Un click del tamburo lo avvertì che la pistola era scarica. “Vaffanculo” sospirò quasi piangente, poi si buttò per terra.

“Gabriele…” sentì una voce flebile in lontananza che lo chiamava.

Con le sue ultime forze si alzò e aprì gli occhi piangenti, la macchina era di nuovo lì, la nebbia era scomparsa e il terreno era di nuovo fangoso sotto di lui.

Tirò un sospiro di sollievo.

“Gabriele…” sentì di nuovo la voce flebile che lo chiamava. Si schiarì la vista e subito corse verso la figura nera stesa per terra, in una pozza di sangue, a pochi metri da lui.

“Michele, merda, Michele!”

Si buttò in ginocchio sul corpo. Lo girò delicatamente e gli alzò la testa prendendolo fra le sue braccia “Cosa è successo?” chiese mentre iniziava a piangere “sono stati i lupi?”

Lentamente l’amico spostò il giubbotto di pelle lasciando in bella mostra una ferita d’arma da fuoco all’addome.

“Mi hai sparato” disse con un filo di voce.

“No! Io ho sparato ai lupi, ho sparato nel buio, verso gli occhi di fuoco. Oddio

scusami, scusami. Ora ti carico sulla macchina, chiamo anche la polizia, non me ne frega un cazzo, io...”

“Lascia stare ormai sono andato. Guarda, ora i contorni sono tutti nitidi, ora non c’è più nulla di annebbiato e di sfumato, tutto è come dovrebbe essere, mi dispiace, per tutto.”

Gabriele, sebbene stesse piangendo come non faceva ormai da anni, si accorse che tutto era al proprio posto, che il sole risplendeva in cielo e che, dopo le parole del suo amico, il peso che portava nel petto e nella mente si era sciolto come neve al sole. Riguardò il suo amico, i cui occhi ormai erano vitrei, e sorrise.

Nemmeno ebbe il tempo di accorgersi degli occhi di fuoco del lupo che gli saltava addosso, dilaniandolo con le sue fauci.

Altrove

“Dunque è così che funziona” chiese la figura mascherata mentre fissava il soffitto verso l’angolo più buio della casa.

“Non c’è nessuna partita a scacchi, nessun uomo vestito di nero con la faccia bianca e scheletrica, nessuna schiera di angeli bellissimi e incazzati pronti a purificarti col l’unto del signore. Peccato!” disse una figura con la maschera viola senza lineamenti mentre si alzava dal divano.” Mi piaceva l’idea di avere a che fare con qualcosa di cui non avevo che una vaga idea, invece... “So che ci sei!” urlò improvvisamente con lo sguardo sempre rivolto all’angolo più oscuro della casa in cui si era svegliato.

Nessuna risposta.

Si guardò in giro, il luogo era vagamente famigliare, sicuramente era una casa o qualcosa di simile, un posto in cui comunque era già stato perché ricordava alcune cose.

Sapeva dove erano le candele e sapeva che dietro di lui vi era un grosso specchio attaccato alla parete.

Andò verso il tavolino delle candele, si frugò in tasca e trovò una scatola di fiammiferi e ne accese uno al primo colpo, nonostante l’umidità che permeava quel posto.

Accese le candele che poggiavano su un candelabro a sei punte. La stanza si illuminò un poco sebbene il buio continuasse a permeare gli angoli del perimetro. Era come se la luce non riuscisse a inondare quello spazio completamente, come se si disperdesse.

L’uomo si guardò intorno. Si ricordava alcune cose ma non sapeva il perché. Aveva come la sensazione di essere stato lì ma, di fatto, non vi era mai stato. Si girò verso lo specchio come per prendere coscienza della realtà del suo essere, più che di dove fosse.

Lo specchio rischiarava un’immagine di un uomo.

Questo uomo portava sul volto una maschera viola con al centro lo stemma del giglio bianco.

La maschera era completamente priva di lineamenti se non fosse stato per dei leggeri buchi all’altezza degli occhi.

Un mantello di velluto color porpora copriva le spalle abbastanza ampie. Un grembiule da lavoro, bianco anch’esso, si vedeva sotto il mantello e sul panciotto.

L’uomo provò a togliersi la maschera ma, sebbene non avesse lacci, non si muoveva dal suo viso. La maschera era il suo viso.

Tutti si sarebbero fatti prendere dal panico ma non lui perché sentiva la maschera come parte del suo corpo, come se fosse il suo vero viso.

Toccò l’immagine che lo specchio rifletteva con le mani coperte dai guanti bianchi.

Sospirò.

Si assestò bene il mantello sulle spalle e si girò verso l’angolo buio.

“So che ci sei, non so come, ma so che ci sei.”

L’aria era fredda e sentiva l’umido di quel luogo entrargli nelle ossa o almeno così gli pareva, dato che le sue sensazioni percettive gli sembravano completamente alterate.

Si guardò intorno, un attimo, indeciso sul da farsi.

Poi vide un movimento.

Qualcosa si era mosso, ando da un angolo di una parete a un altro, nella parte meno illuminata, velocemente.

Prese il candelabro in mano e, con la debole luce che si perdeva nello spazio distorto di quel luogo, si mosse verso l’angolo più buio.

Camminava e camminava, mentre o lui si rimpiccioliva o l’angolo si ingrandiva poiché non riusciva mai a raggiungere la meta e, mano a mano che proseguiva, tutto era sempre più buio e più freddo. Era come se stesse entrando in un antro di una grotta. Una grotta oscura e umida che incuteva terrore.

Dei rumori incomprensibili gli giungevano alle orecchie mentre la sua voce, di contro, andava e veniva perdendosi in quella oscurità che sembrava inghiottire il suono come la luce.

Era come se il suo vociare andasse a intermittenza, mentre i rumori, che provenivano da davanti, potevano essere uditi perfettamente.

Erano come piccoli ticchettii di orologio, come se il tempo, incessante, volesse avvertirlo della sua presenza continua e martellante, quasi a mettergli fretta.

Si accorse di avere freddo.

Si coprì allora la testa con il cappuccio della mantella e, fermatosi un istante, si girò per vedere la strada che aveva percorso.

Mise il candelabro in alto davanti al suo volto mascherato e, con sua sorpresa, vide che dietro di sé non vi era più il luogo che aveva lasciato e che gli sembrava di conoscere, ma un luogo buio e desolato con un mosaico di lettere e figure sfuocate come terreno.

Sorrise.

Un po’di strada l’aveva fatta e non se ne era nemmeno accorto.

Si ricordò invece, come un lampo che attraversa il cielo scuro, che molte volte in precedenza, senza però sapere né dove né come, aveva camminato senza sosta e senza guardare la strada che si era lasciato alle spalle. Molte volte non aveva ricordato le parole e le immagini che lo avevano accompagnato lungo il suo pellegrinaggio.

Questa volta no.

Questa volta lui era quelle parole, era quel viaggio, era quelle esperienze e grazie a esse, adesso, poteva guardare avanti e affrontare la strada che ancora gli si parava innanzi. Adesso poteva iniziare a tracciare un percorso. Si girò per riprendere la strada.

Davanti a lui mille occhi rossi lo guardavano dall’alto, emersi dall’angolo buio della parete.

Rimase immobile, mentre gli occhi lo scrutavano in silenzio con bramosia, per nulla intimorito.

Tutto durò un istante, l’attimo di un ticchettio infinito in un luogo senza spazio e senza tempo, poi l’uomo mascherato parlò: “Dunque sei tu.”

Una voce gli rispose senza bisogno di pronunciare alcuna parola, alcuna sillaba, direttamente nel suo cervello, dove si manifestò il suo significato e nesso logico: “Io sono il tuo psicopompo, la tua anima, la tua guida, il tuo essere. Tu sei me e io sono te.”

L’uomo rimase in silenzio fissando gli occhi rossi. Tutto era immobile.

Allora l’uomo, con un gesto repentino, protese il candelabro verso l’angolo buio dove gli occhi lo fissavano per vedere meglio che creatura fosse lui stesso, ma la luce sembrava non filtrare nel buio profondo di quell’antro. Quindi si fece ancora più avanti, allungando il braccio, fino a che, in un istante, tutto sparì.

Il buio lo aveva avvolto.

All’improvviso, come era stato avvolto dall’oscurità, fu illuminato dalla luce della luna e delle stelle che si stagliavano nel cielo sopra le punte del candelabro che ancora si trovava innanzi a lui, nella sua mano, ma le cui fiammelle ormai si erano estinte.

Il freddo si era fatto più intenso, più pungente.

L’uomo si guardò intorno non capendo più dove fosse.

Un brivido freddo e il corpo che si irrigidiva furono le reazioni che ebbe quando si accorse che intorno a lui vi era solo il vuoto, non più pareti, non più pavimenti, nulla. Il candelabro gli cadde dalle mani inguantate ma non vi fu rumore, nulla attutì la caduta.

L’uomo rimase fermo, immobile, timoroso per ciò che vedeva sotto i suoi piedi.

Solo una grossa ragnatela si frapponeva fra lui e il vuoto.

Sotto non riusciva a vedere il terreno e quindi reputò che doveva trovarsi molto in alto.

La ragnatela era sospesa in cielo e sembrava che ogni estremità fosse retta da una stella, lontana anni luce, che si perdeva all’infinito nell’universo.

“Ecco dove sei.” La voce gli penetrò nella mente come al solito e, sebbene non producesse suono, l’uomo capì subito che proveniva da dietro di lui.

Si girò tenendosi in equilibrio con le braccia aperte. Il mantello porpora fluttuava nell’aria, mosso dal vento che rendeva l’equilibrio ancora più precario.

Appena si fu girato quello che vide quasi lo fece cadere per lo spavento.

Un ragno gigante, tutto nero e dai mille occhi rossi, era a pochi i da lui, mentre, sicuro, si muoveva sulla sua tela che continuava a tessere senza sosta.

Le fauci colavano una strana saliva appiccicosa mentre muoveva la testa come per scrutarlo.

“Mi ricordo di te” sussurrò l’uomo, “so che non mi farai alcun male, non ti ho mai visto, ma sentivo la tua presenza tutto intorno a me soprattutto quando dormivo, nei miei sogni.”

“Esatto, io vivo dentro di te, esco dalla tua bocca quando dormi e rientro poco prima che tu ti risvegli. Tu sei il mio mondo, tu sei la mia esistenza e il sogno e la realtà non sono per me che la stessa faccia di una essenza che condivido con te.”

“Dunque mi stai dicendo che sono io che ho creato tutto questo e che adesso sto solamente dormendo? Mi stai dicendo che tutto questo è solamente un sogno?”

“Non ho menzionato il qui e l’adesso” rispose il ragno mentre senza sosta tesseva. “Per me non hanno lo stesso significato che hanno per la tua percezione. L’unica cosa che posso dirti è che il luogo dove sei, con la tua essenza, con la tua ragion pura è il mio. Tu sei nel mio mondo. Un mondo tessuto fin dall’albore del tempo, un mondo su cui adesso tu stai camminando.”

L’uomo si guardò intorno come se, all’improvviso, pensandolo, dovesse comparire qualcosa di particolare, come una strada su cui camminare o dei palazzi a cui aggrapparsi, ma nulla si palesò; quindi con tono un po’sarcastico disse: “Io qua vedo solo una ragnatela, bella grossa, ma sempre una ragnatela e non un mondo come dici tu.”

“Questo perché cerchi di vedere la sostanza, il costrutto e non il significato. Una ragnatela rappresenta il tutto, è il significato della vita. Quando la si inizia a tessere si parte da un centro e poi, piano piano, si continua creando delle linee che si incrociano tra loro per renderla più stabile ma, nello stesso tempo, più varia e più bella; proprio come nella vita alcuni seguono un cammino già predisposto, altri amano camminare al buio con come guida solo la luna e le stelle, altri sotto il sole, altri ancora cercano di camminare il meno possibile, alcuni tornano sui loro i, alcuni fanno sempre la stessa strada ogni volta.”

L’uomo fissò la ragnatela cercando di seguire il filo del discorso e poi chiese: “E io dove dovrei andare?”

“Io non sono qua per indicarti la strada, io sono qua per vedere dove vai, niente di più e niente di meno.”

“Io ho già camminato ragno, ne sono sicuro, ma non chiedermi il motivo di tale sicurezza perché, in questo momento, non mi ricordo nemmeno chi sono, ma so che posso camminare e che ho sempre camminato, come sapevo di averti già visto. Praticamente il fatto che tu sia qui, nel suo paradosso, mi dice che io esisto in quanto tu esisti.”

“Vedo che hai già iniziato il tuo cammino e spero di poterti traghettare nuovamente, ma ora devi proseguire per questa strada.”

L’uomo non fece in tempo a pronunciare una sillaba che il ragno era già scomparso nel nulla. Sospeso fra spazio e terra, lo aveva lasciato lì, da solo, non dicendogli cosa avrebbe dovuto fare. Si sentiva come un moscerino caduto in trappola e in procinto di essere divorato.

Rifletté un istante, poi decise che la cosa migliore da fare era provare a camminare lungo la tela. Si chinò in equilibrio precario cercando di mantenere al meglio la posizione per strisciare lungo i filamenti. Fece qualche metro ma poi si fermò poiché udiva uno strano rumore.

Si guardò intorno pensando che il ragno fosse tornato ma di lui non vi era traccia. Tutto era immobile, eppure il rumore si faceva sempre più vicino. Un rumore come di qualcosa che si stava sfilacciando. Così, mentre ancora stava cercando di capire la provenienza del brusio, a un tratto le stelle si spensero, come candele finite, una a una; la luna cadde dall’alto del cielo giù nel baratro più oscuro come un quadro che si sgancia dal chiodo che lo tiene appeso al muro e il buio calò profondo e improvviso. Solo la ragnatela continuava a vedersi rifulgere argentea sotto il sudario nero del cielo che aveva iniziato a cantare neve che scendeva a fiocchi fitti e spessi.

L’uomo guardò il meraviglioso scenario argenteo che gli si parava davanti con occhi meravigliati di bambino.

La tela rifulgeva e la neve cadeva ancora più bianca nel buio profondo.

Avrebbe voluto alzare la testa e sentire i fiocchi sul volto e in bocca ma non poteva, la maschera glielo impediva.

Poi qualcosa colpì la sua attenzione.

Molto lontano i fili argentei della ragnatela si stavano consumando come una miccia. Quello, capì, era il rumore che aveva attirato la sua attenzione in precedenza.

Sotto i suoi piedi sentì la ragnatela cedere facendogli perdere l’equilibrio. Fece appena in tempo ad afferrare un filamento con le mani. Sotto di lui l’oblio.

Voleva urlare mentre la ragnatela cedeva trasformandosi in una liana ma la voce gli si ruppe in gola. Sotto la maschera le labbra erano congelate. Il suo cervello pensava mentre la miccia correva inesorabile e la tela cedeva sempre più verso il basso.

Il cervello dell’uomo elaborava come non aveva mai fatto prima, cercando una soluzione per salvarsi la vita, un punto d’appoggio, qualsiasi cosa. Ma non trovava niente. C’era solo lui, il nulla e la ragnatela che si stava sfilacciando.

“Pensa maledetto stupido, non focalizzarti sul problema, ma sulla soluzione. Cosa ha detto il ragno? Questa è la sua realtà, la tela, il suo mondo. Ciò vuol dire che se rimango ancorato a una realtà che sta morendo, una realtà che non è la mia, morirò con lei come tutto ciò che è in lei. Però è anche vero che cadendo da questa altezza, nel nulla, la morte sarebbe sicura.

Ma, di fatto, la morte è l’unica cosa che non si conosce quindi non si può sapere cosa essa sia, che realtà sia e come funziona e ciò che non si conosce non vuol dire che non esista.

Beh, alla fine, non so neanche adesso se sono vivo o morto, quindi...” detto ciò lasciò la tela cadendo nel vuoto.

Il buio, rovinando, lo aveva completamente avviluppato, la ragnatela era scomparsa, solo la neve continuava a scendere con lui come in una danza, come se fosse uno di quei fiocchi. Cadeva dolcemente portato dal vento.

Un tonfo, sulla schiena, lo fece riavere. Il suo corpo si scosse mentre le mani arrancavano tra la neve che lo stava ricoprendo, neve fresca, profonda. Lottava per uscire e per non essere soffocato. Spostava la neve annaspando, ma più ne muoveva più altra si accumulava.

Aveva freddo, era tutto inzuppato, era stanco e le forze gli stavano venendo meno. Era sul punto di rinunciare a lottare, di abbandonarsi all’oblio riposante, ma, invece, quasi contro il suo volere, in un impeto di lotta per la sopravvivenza fece un ultimo sforzo; allungò la mano, ma senza pietà, altra neve lo sommerse. Aveva fallito ancora prima di iniziare.

Stava per chiudere gli occhi, arrendendosi, quando sentì una stretta lungo l’avambraccio, calda, umana.

Una stretta sicura che lo stava trascinando fuori verso l’aria, verso la vita. Fece un ultimo sforzo per smuovere, anche con l’altro braccio, la neve e finalmente vide la luce assaporando l’aria fresca di montagna.

Sentì delle mani forti che lo spostavano di peso, poi, senza forze, svenne.

Quando riaprì gli occhi era buio, un buio molto profondo che non gli permetteva di distinguere nulla.

Il corpo gli faceva male e ad ogni movimento sussultava.

Provò ad allungare le braccia tastando il terreno intorno a lui, a tentoni, ma senza trovare nessun punto di appoggio, nessuna parete su cui potersi sostenere per avere una guida in quel buio profondo.

Subito ritrasse le braccia, colpite dal freddo pungente nel momento che le aveva allungate fuori dalla coperta che lo avvolgeva e lo teneva al caldo e all’asciutto; con stupore si accorse di essere nudo. Sospirò sentendosi impotente e impaurito come un bambino la prima volta che viene lasciato solo a dormire nella sua stanza, timoroso che, se non avesse le coperte a modo di protezione, tutti i mostri, che si aggirano nell’oscurità della stanza, gli sarebbero saltati addosso.

Quindi rimase così, in uno stato quasi di dormiveglia, fino a che non vide una

flebile luce venire verso di lui. La fiamma sembrava crepitare a mezz’aria illuminando un poco sia l’ambiente circostante, che valutò essere una grotta, sia la figura che la reggeva, una figura umana, sebbene il gioco di ombre rendesse tutto più sinistro non permettendogli di vedere bene. Decise dunque di rimanere sdraiato facendo finta di dormire, coricato su un fianco, tenendo un occhio aperto per controllare la situazione.

Quando la fiamma gli fu vicina iniziò a sentire il calore del fuoco sulla pelle che gli dava piacere, un calore flebile, appena percettibile, ma comunque ristoratore.

Aprì gli occhi mentre cercava di mettere a fuoco il volto dell’uomo chinato vicino a lui mentre stava accendendo un fuoco con la torcia che aveva in mano su dei bastoncini di legno e foglie secche precedentemente disposte lì. Quando, finalmente, il fuoco prese, la grotta fu illuminata e il viso dell’uomo ben rischiarato, una parola gli affiorò spontanea sulle labbra: “Babbo” sussurrò.

Lo disse senza nemmeno pensarci, di istinto, di fatto non sapeva nemmeno se avesse un padre o meno.

“No, mi spiace, non sono tuo padre” disse l’uomo mentre si rialzava in piedi e gli porgeva la mano per presentarsi. “Mi chiamo Herne, sono un cacciatore.” L’altro gli strinse la mano mentre la vista si faceva più nitida. Poi Herne si mise nuovamente al piccolo fuoco cercando di ravvivare la fiamma, gettandovi dentro un nuovo ciocco di legna che vi era a poca distanza.

Il fuoco prese subito e una vampata di calore arrivò dritta sull’uomo mascherato mentre cercava di mettersi a sedere.

“Ti ho solo visto ruzzolare giù dalla montagna, fin dentro la neve fresca a pochi i dal burrone.” Continuò il cacciatore rompendo il silenzio che si era creato. “Eri sprofondato nella neve fresca che ti si era richiusa sopra, fortunatamente il mio segugio ti ha trovato subito. Devi più la vita a lui che a me” disse l’uomo mentre indicava un grosso lupo accovacciato nella semi oscurità della grotta, nel punto in cui la grotta rientrava con una curva e dove l’uomo mascherato suppose esserci l’entrata, poiché il fumo del fuoco tirava verso quella parte. “Si chiama Apuat, è un lupo selvatico delle nevi, ma non ti preoccupare è addomesticato, vive con me da quando era un cucciolo.”

L’uomo mascherato guardò il lupo col suo manto bianco come la neve, raggomitolato, all’entrata della grotta dove dormiva beatamente.

“Io non ho fatto altro che tirarti fuori dalla neve e portarti qua dentro, in questa grotta, per riscaldarti e curarti il corpo dalle ferite.”

“Non mi sembra cosa da poco” rispose l’uomo mascherato “ti devo la vita.”

“Ho dovuto anche spogliarti per controllare che tu non fossi uno degli altri.”

“Altri?”

“Sì gli Altri, i Piagati... pensavo stessi scappando da loro quando sei precipitato giù dalla montagna.”

“No, direi di no, e non ho la minima idea di cosa tu stia parlando.”

“Beh, sei fortunato a non averli incontrati. I piagati sono degli strani e pericolosi esseri che invadono queste lande gelate. Sembrano uomini a tutti gli effetti, se non che camminano nudi per queste terre e hanno il dorso della schiena, delle braccia e della testa completamente rovinate dalle piaghe, da cui perdono sangue. Si muovono da soli o in gruppo e quando ti toccano ti contagiano, come fosse peste; La tua pelle inizia ad aprirsi e a perdere sangue ma, soprattutto, si perdono i ricordi, tutti i ricordi che uno ha.”

Questa ultima frase colpì l’uomo mascherato come un maglio, distolse lo sguardo da Herne mentre scavava nei suoi ricordi affinché riaffiorasse un nome, il suo nome, ma non gli venne nulla. Rimase in silenzio per un tempo indefinito fino a che sussurrò quasi più a sé stesso che all’altro: “Non ricordo il mio nome.”

“Non ti preoccupare” disse sorridente Herne, “ti ho controllato, non hai nessuna piaga e Apuat non salva i piagati, anzi di solito li attacca, li manda all’altro mondo quando non ci sono altre possibilità. Sembra che abbia un odio viscerale per quelle creature o forse è solo pietà, non saprei.”

“Pietà?” ripeté l’uomo mascherato con stupore “Sì, pietà. Quelle creature vagano senza metà e non hanno ricordi, vivono come in un sogno che si affievolisce ogni giorno di più, blindati in quei corpi ormai distrutti, piagati, inutili, che li ancorano contro la loro volontà, sempre più deboli, sempre più afflitti. Sicuramente bramano la morte, la libertà da quel simulacro che è ormai il loro corpo.”

“Ma nessuno è mai guarito?”

“Sì, alcuni sono guariti, da soli, ma erano da così tanto tempo in quelle condizioni che il corpo era distrutto, storpio, immobile. Giacevano su letti senza potersi muovere, parlavano a malapena, una condizione peggiore della morte stessa poiché erano come intrappolati tra il ricordo di chi erano e di cosa facevano e l’immobilità di non poter fare nulla. Alla fine, se ci pensi, il nostro corpo non è altro che la manifestazione dei nostri poteri, la gente sogna di avere la telecinesi, ma, di fatto, noi l’abbiamo già. Quando il mio cervello dà un impulso al mio braccio per prendere una cosa, per portarla a me, a quel punto il mio braccio è il mio mezzo, la mia forza telecinetica per prendere un oggetto o semplicemente per spostarlo; così, quando il tuo cervello non ha più la forza di manifestare i suoi poteri attraverso il suo mezzo, in questo caso il corpo, l’unica cosa che si può bramare e che è un sacrosanto diritto avere, è una morte dignitosa. Per questo lascio che Apuat attacchi quelli che ormai sono da molto tempo in quello stato e che li traghetti a una morte dignitosa, perché so che se tornassero indietro soffrirebbero e comunque sarebbero loro stessi a chiederla. Ma non ti preoccupare, è vero che il tuo corpo aveva delle ferite, ma erano ferite provocate dalla caduta e per quanto riguarda la memoria può succedere, a volte, di avere dei vuoti se si fanno cadute del genere, magari hai battuto la testa. Vedrai che di qua a poco ti ritornerà in mente. Per ora ti chiamerò Straniero. Intanto bevi questa, ti rimetterà in sesto.”

L’uomo mascherato prese la borraccia dalle mani di Herne, la guardò un attimo, poi la ridiede indietro: “No grazie.”

“Come vuoi Straniero” disse Herne mentre se la portava alla bocca e ne dava una lunga sorsata.

L’uomo mascherato lo guardò con attenzione. Era un uomo sulla trentina, braccia forti e di tronco robusto. Aveva un volto solare nonostante la pelle fosse screpolata e rovinata per il freddo. Gli occhi erano azzurri e contrastavano un po’coi lineamenti forti del volto e del naso corvino. I capelli erano biondi e gli cadevano a trecce lungo la schiena.

Finito di bere proruppe in un forte rutto e continuò: “Comunque Straniero, ormai è un paio di giorni che riposi, il tuo corpo è stato curato e i tuoi vestiti sono asciutti e siccome non è prudente rimanere fermi nello stesso luogo per molto tempo, domani mattina dovremo rimetterci in cammino.”

“E dove andremo?”

“Beh, ma a casa, dove vivo io, alla città-tempio. Là è sicuro, i piagati non entrano e le sacerdotesse ti potranno aiutare a ritrovare la memoria. Come ti ho detto prima, il corpo è nulla senza la mente e siccome mi sembra che adesso il tuo corpo sia a posto, dobbiamo assicurarci che anche la tua mente lo sia.”

L’uomo mascherato si mise a sedere e si vestì, il caldo del fuoco lo stava facendo ritornare in sé.

I vestiti erano asciutti e nella grotta il clima era temperato. Aveva mille domande in testa ma, stranamente, non sentiva il bisogno di sviscerarle.

Quando ebbe finito di vestirsi si strinse nel mantello e si alzò in piedi.

ò accanto a Herne, che intanto si era accomodato per gustarsi qualche tiro di pipa e, senza dire una parola, si diresse verso l’uscita della grotta.

Il Lupo spostò appena la testa quando gli ò accanto.

Si fermò ad ammirare il paesaggio guardando fuori dalla caverna il bianco che imperversava da tutte le parti. Il freddo era intenso e pungente.

L’uomo mascherato avvertì l’odore del forte tabacco di Herne e capì che il cacciatore si era spostato accanto a lui.

“Spettacolo strano” sospirò il cacciatore con malinconia “da una parte lo odio, perché rende la vita difficile, ma, allo stesso tempo, ne sono comunque affascinato. Ogni mattina mi piace sedermi, con la mia pipa in bocca, dare qualche tiro e rimanere lì a contemplarlo. È splendido e mi dà delle sensazioni incredibili.”

“Sì, è molto bello e terrificante allo stesso tempo.” Assentì l’uomo mascherato. Poi continuò, più rivolto a sé stesso che al cacciatore. “Ho un sacco di domande che mi frullano nella testa, ci sono un sacco di cose che non mi tornano, dei vuoti così profondi che posso sentire l’eco nel mio cervello, cose così strane che i miei occhi hanno stentato a crederci quando le hanno viste, eppure...” fece una lunga pausa. “Eppure?” lo incalzò Herne. “Eppure non sento il bisogno di sviscerare queste domande, non sento il bisogno di sapere il perché non mi tornano delle cose, non sento il bisogno di pormi domande su di me, su chi io sia, e del perché sono qua, insomma mi sento completamente spaesato, ma questo spaesamento mi rilassa, mi tempra, come se non sentissi gli affanni di una vita, come se non avessi un ato.”

“O un futuro” completò il cacciatore per lui.

“Esatto, vivo in un continuo presente, lineare, lindo, tutto da scrivere. Ma come fai tu a saperlo?” chiese l’uomo mascherato girandosi verso il cacciatore che contemplava, anche lui assorto, il bianco della neve, “chi sei tu?”

Herne sorrise mentre aspirava un po’di fumo dalla pipa lunga e sottile di legno: “Sono un cacciatore, niente di più, niente di meno, ogni tanto esco per cercare un po’di selvaggina con Apuat, poi, quando abbiamo abbastanza scorte di cibo, ritorniamo al Tempio affinché le sacerdotesse purifichino le nostre prede per potercene cibare. E poi, ovviamente, caccio i piagati, come ti ho già detto, affinché si compia il loro destino. Apuat è il loro traghettatore, è lui che decide se hanno speranze oppure no, è lui che si scaglia su di loro, per maciullarli o per salvarli, è il suo fiuto che decide. Io mi limito o ad aiutarli nel trao una volta attaccati, o a curarli e portarli al tempio per vedere se possono ritornare a essere.”

“Continui a parlare di questo tempio, ma che cosa è in sostanza?” chiese l’uomo mascherato girandosi verso Herne che continuava a fissare l’orizzonte con la pipa in bocca.

“In sostanza nulla, in essenza tutto.”

“Non capisco.”

Herne sorrise: “Nessuno può capire fino a che non vi è entrato. È un luogo sacro, dove tutta l’energia caotica del cosmo confluisce in un punto, in un marasma di energie invisibili ma potentissime. Là vivono le sacerdotesse, le guaritrici, esse sono le uniche che riescono a gestire quelle energie e a ripristinarne il giusto equilibro nell’essenza di chi ne ha bisogno. Comunque non ti crucciare” continuò, mettendo una mano sulla spalla dell’uomo mascherato, “lo vedrai con i tuoi occhi, è là che siamo diretti.”

“Pensi che le sacerdotesse mi potranno aiutare a ricordare?”

“Penso che tutto dipenderà da te, non da loro, poiché non tutti possono accedere al tempio. Io ti potrò portare sulla soglia e indicarti la direzione, ma, da quel momento in poi, solo tu sarai la guida dei tuoi i e non sarà facile te lo posso assicurare. Ne ho visti molti entrare, ma pochi uscire.” Finì la frase con un sospiro intriso di fumo.

“Comunque non ci pensare” disse rientrando nella grotta con lo straniero sotto braccio “domani ci attende un bella scarpinata, quindi sarebbe meglio tu ti riposassi.”

L’uomo mascherato assentì con la testa e si andò a coricare al suo posto, vicino al fuoco; il cacciatore fece lo stesso e, di lì a poco, entrambi si addormentarono sotto gli occhi vigili di Apuat.

All’alba fu svegliato da Herne.

Apuat era già fuori dalla grotta che annusava l’aria.

“Meglio metterci subito in cammino, ora che ha smesso di nevicare” disse Herne mettendosi lo zaino sulle spalle, “potrebbe ricominciare nuovamente da un momento all’altro, qua è così. Alzati e andiamo.”

L’uomo mascherato si mise in piedi, si toccò la maschera come a vedere se fosse ancora lì, poi si stirò la schiena che scricchiolò.

L’aria fredda che giungeva da fuori e che aveva permeato la grotta, ora che il fuoco si era ridotto a misere braci, lo aveva svegliato completamente. Si stupì per il fatto di sentirsi così ristorato e energico.

Non aveva nulla e aveva dormito vestito quindi era già pronto.

“Mettiti le ciaspole” disse Herne indicando due racchettoni con dei lacci accatastati ai suoi piedi.

“Fortunatamente ne porto sempre un paio di riserva, sai, se mi si dovessero rompere le altre mentre sono a caccia” sorrise.

L’uomo Mascherato si legò le ciaspole ai piedi. Herne fece lo stesso con le sue. Poi, appena furono pronti, iniziarono a incamminarsi fuori dalla grotta dove Apuat li aspettava, in mezzo alla neve alta e fresca.

Il sole era alto in cielo e la giornata sembrava promettere bene, ma Herne teneva comunque il o svelto, spronato anche da Apuat che batteva la strada precedendoli.

L’uomo mascherato guardava il paesaggio selvaggio e innevato.

Le ciaspole impedivano di affondare nella neve fresca e altissima, ma non rendevano meno faticosa la camminata.

Grandi burroni coperti di neve fresca correvano accanto a loro. Ogni tanto Herne glieli mostrava, indicando con il dito un luogo dove era stato o un posto dove aveva cacciato un qualche particolare animale.

Sarebbe bastato mettere il piede nel posto sbagliato e sarebbero caduti nel vuoto, ma né Herne né Apuat sembravano preoccuparsene e battevano i sentieri coperti di nevi senza problemi.

L’aria era fresca e gli filtrava sotto la maschera dandogli la sensazione di essere rinato a nuova vita. Sentiva i polmoni gonfiarsi sotto la tunica e i muscoli tirare nello sforzo della camminata, ma senza dolergli, resistenti e potenti.

Il fresco, l’aria pulita e il fisico tonificato, lo facevano sentire come una fenice appena rinata dalle proprie ceneri.

Non aveva idea di quanto tempo fosse ato dall’ultima volta che aveva mangiato o bevuto qualcosa, ma non ne sentiva il bisogno. Tutto quello che desiderava era lì, era nella natura intorno a lui, in quel mondo così strano e così affascinante, così leggero.

Herne era silenzioso e si muoveva rapido.

Scendeva lungo le montagne con sicurezza, attraversava foreste innevate dove vi erano alberi segnati con accuratezza per non perdere la strada, sembrava lui stesso un lupo come Apuat mentre batteva il percorso senza sosta.

Si rilassò solo quando si arrestarono sulle sponde di un torrente che correva veloce fino a valle. Era ormai ata l’intera mattinata e aveva iniziato nuovamente a nevicare, ma la neve scendeva dolcemente e il tempo non auspicava un suo peggioramento.

Rimasero seduti per ristorarsi dalla fatica per un po’di tempo mentre Herne si godeva la solita tirata di pipa e Apuat si dissetava con l’acqua fresca del fiume. Il Lupo sembrava completamente a suo agio in quell’ambiente. Uno spirito della foresta che si muoveva veloce e silenzioso da una parte all’altra, tra il fogliame e i manti di neve, leggero come un fantasma e quasi senza lasciare tracce, un’ombra di morte, silenziosa e letale per qualsiasi piagato avesse incontrato.

“Il più è fatto” disse Herne con un sorriso, allontanandosi la pipa fumante dalle labbra “ho tenuto un o veloce perché volevo arrivare qua il prima possibile, senza essere colto da qualche bufera che mi avrebbe potuto far perdere il senso dell’orientamento e i segni che avevo messo lungo il cammino. Da qua invece basterà seguire il corso del fiume e presto saremo a casa.”

L’uomo mascherato si voltò a vedere, fin dove l’occhio dava accesso, il corso del torrente. Il fiume scorreva placido e limpido e alcuni salmoni spuntavano dalla cresta dell’acqua, zampillando nell’aria, per risalirne il corso.

L’uomo mascherato era perso nei suoi pensieri mentre cercava di capire il da farsi. Non aveva dimenticato le parole del ragno, ma, nello stesso tempo, notò come in quel luogo si sentisse a suo agio, rilassato, senza nessuna preoccupazione, nemmeno la prova di cui aveva parlato Herne sembrava impensierirlo più di tanto.

“In marcia” disse il cacciatore alzandosi e riportando l’uomo mascherato alla realtà, “ci siamo riposati anche troppo, è ora di andare per essere alle porte del

tempio prima che faccia notte.”

L’uomo mascherato si alzò e lo seguì.

Camminarono per quasi un pomeriggio intero, ma il viaggio fu piuttosto piacevole e tranquillo poiché, a dispetto dei timori di Herne, non furono colti da nessuna tempesta. Il terreno andava sempre più ripianando e ciò rese la camminata più fluida e meno stancante. Anche la neve era diminuita e i due si poterono togliere le ciaspole per andare a o più svelto.

“Eccoci” disse Herne indicando davanti a lui il punto dove il fiume spariva trasformandosi in profonde cascate da cui proveniva un forte rumore e vapori sulfurei, “siamo arrivati.”

L’uomo Mascherato alzò lo sguardo, ma non vide niente a parte molto vapore e un odore di zolfo.

“Dove?” chiese cercando di aguzzare la vista sul terreno “io vedo solo un burrone con delle cascate.”

Herne rise di gusto puntando il dito proprio davanti agli occhi dello Straniero per fargli vedere la direzione giusta. L’uomo Mascherato aguzzò la vista puntando la direzione del dito di Herne. Rimase così per qualche istante, senza distinguere bene nulla, fino a che, una folata di vento, con delicatezza, spostò il vapore facendogli osservare bene in mezzo al dirupo. Là, sospesi nell’aria, vi erano giganteschi pezzi di terra a forma di cono legati uno all’altro con delle scalette di fune e legno. Sopra vi erano piccole costruzioni che sembravano case ed edifici, ma la cosa che colpiva l’occhio era la struttura monolitica che si ergeva al

centro, sul pezzo di terra più grande, dove vi era un titanico tempio di granito con guglie altissime e aguzze.

Le terre fluttuavano dolcemente in aria in un ritmico girotondo, sollevate solamente dal vapore che scaturiva dal gigantesco baratro scavato nella terra stessa dove andava a cadere il fiume trasformandosi in cascata.

Herne guardò l’uomo mascherato e, sebbene non ne potesse vedere le espressioni, dai suoi occhi capì che ne era rimasto colpito e meravigliato. Allora lo prese sottobraccio e gli fece segno di seguirlo verso il burrone dove l’acqua si perdeva in una roboante discesa.

L’uomo mascherato lo seguì come un automa.

Arrivati sul ciglio del burrone Herne gli fece cenno di guardare in basso.

L’uomo mascherato, affascinato, abbassò lo sguardo.

Il fiume, trasformato in cascata, toccando terra si immergeva nel terreno sparendo. Poi, dopo qualche metro, riusciva sotto forma di grande lago da cui esalavano vapori caldi, come geyser.

Nel lago vi erano piccole isolette di terra e vegetazione, alberi e fiori. Tutto il paesaggio era incorniciato da un leggero manto di neve che lo rendeva fantastico.

Nel lago caldo, pieno di fumi e rocce su cui poggiava la neve, vi erano alcune figure che si muovevano.

L’uomo Mascherato deglutì.

Grandi esseri umanoidi, simili a giganti, giravano avanti e indietro sorvegliando il lago con le lunghe braccia che strusciavano nell’acqua. Li vide chiaramente, data la loro mole, sebbene il vapore oscurasse un po’ la vista. Vi erano anche giovinetti in brachette che portavano grossi orsi ad abbeverarsi e a giocare mentre li tenevano per un guinzaglio di pelle.

Ma non fu quello che lo sorprese maggiormente; la cosa che lo fece sobbalzare furono le donne dalla pelle a tratti verde e squamata che si stavano lavando nel lago caldo.

Era ancora lì, imbambolato e incredulo, quando sentì degli occhi su di lui. Focalizzò e, in un istante, si ritrovò a vedere la donna come se fosse lì a pochi i da lei, come se anche lui fosse nel lago.

Era girata di spalle, la schiena era nuda, la pelle a tratti rosea e verde, squamosa in alcuni punti simile a quella di un serpente. Quando si girò, lentamente, l’uomo mascherato fu colto dalla bellezza di quel volto, lineamenti delicati del viso che ricordavano le antiche dee indù con però la fierezza dello sguardo dei serpenti, occhi stretti dalla pupilla verticale, intensi e fieri.

Guardava come ipnotizzato nei suoi occhi truccati dall’henné che lo scrutavano profondi, mentre gli sorrideva penetrando sempre di più nella sua mente ammagliata.

Per l’uomo Mascherato fu come essere lì, a due i da lei, poteva quasi sentirne l’odore delicato, il sapore della sua pelle sulle sue labbra; si allungò per toccarla, accarezzarle la pelle, pulirla con delicatezza e rispetto col fango con cui si stava pulendo sulla schiena tonica, dove era tatuato un bellissimo e colorato serpente che le arrivava fino al collo avvolgendola nelle sue spire.

I capelli neri, quasi corvini, le scendevano bagnati e intrecciati sul petto nudo e roseo.

L’uomo mascherato sentiva che quella donna avrebbe potuto lenire ogni suo dolore, avrebbe potuto conoscere ogni suo pensiero, avrebbe potuto mettere a fuoco la sua testa, la sua memoria, poiché lui nulla le avrebbe nascosto, volente o nolente.

Fece un o in avanti per afferrarla ma una sensazione di vuoto lo colpì improvvisamente, sentì il terreno che friava sotto i suoi piedi, una forte sensazione di essere caduto strappò il suo legame con la donna serpente, mentre, appena in tempo, una mano forte lo afferrò per un braccio sorreggendolo prima che cadesse nel dirupo davanti a lui.

L’uomo Mascherato si scosse mentre Herne lo teneva saldo. Fecero alcuni i indietro per allontanarsi dal burrone poi l’uomo mascherato si lasciò cadere, per terra, come debilitato da quell’incontro mentale. “Chi era quella donna?” chiese con un filo di voce.

“Quella è la nostra sacerdotessa madre, colei che ti dovrebbe curare.”

“È bellissima” sussurrò l’uomo Mascherato come incantato.

“Sì, lo è” confermò Herne, “ha questo effetto su tutti la prima volta che la vedono. Lei ti ha sentito, ha sentito il tuo vuoto, ti ha scrutato dentro, si è fusa con te, ti ha dato il suo permesso per poter provare ad accedere alla città sacra. Sempre che tu ne abbia ancora intenzione.”

“Non ti preoccupare” rispose l’uomo mascherato alzandosi, “ora che ho un nuovo motivo per sapere chi sono, ora che ho una strada da percorrere, sono molto motivato. Dimmi dove è la porta e non perdiamo altro tempo.” Si scosse la neve dal mantello e si sistemò i suoi guanti bianchi di velluto.

“Bene” rispose Herne mentre accarezzava Apuat che ora si era avvicinato alla sua gamba. “Vedi quelle rocce laggiù?” disse indicando alcuni ammassi rocciosi poco distanti dalle cascate, “aggirale e troverai l’entrata senza problemi.”

“Tu non verrai con me?”

“No, né io, né Apuat, questa prova spetta solo a te, ma non temere, ci rivedremo” poi gli strinse la mano con vigore e gli augurò buona fortuna. L’uomo Mascherato si incamminò.

Aggirò l’ammasso roccioso abbastanza velocemente, tanto che era già uscito dalla visuale del cacciatore. Camminò ancora un po’quando, intarsiate nella stessa roccia, vide due statue: avevano l’aspetto di uomini ma portavano delle maschere di cane sul volto, le braccia erano conserte e in mezzo tenevano un bastone con un serpente arrotolato.

L’entrata era tra di loro e scendeva dentro la montagna, oscura e minacciosa. Si avvicinò, con prudenza e con calma e coraggio entrò dentro l’antro.

Fece alcuni i lungo il corridoio che scendeva verso il basso, staccò una delle flebili torce appese alle pareti per cercare di vedere meglio il cammino che si faceva sempre più buio man mano che si addentrava in quel meandro. L’oscurità si faceva più oppressiva e uno strano sentimento di paura lo colpì al petto facendo battere il suo cuore a un ritmo più serrato e imponendogli di rallentare il o.

Tutto era sfuocato e la flebile luce della torcia che aveva in mano bastava solo a rischiarare uno spazio molto concentrato, vicino alla sua figura, ora che le torce sulla parete avevano cessato di rischiarare il cammino.

Fece ancora pochi i quando sentì dei rumori che lo fecero arrestare di colpo, sembrava come che qualcuno, in fondo al corridoio, più in basso dove l’oscurità era più fitta si muovesse portandosi il peso di catene che cigolavano nell’aria, seguiti da paurosi versi gutturali.

Automaticamente la mano andò alla cintura, come alla ricerca di un’arma qualunque, una pistola o una spada, ma si ricordò di essere disarmato e inerme.

“Chi va là?!” urlò allungando in avanti la torcia per vedere meglio fra l’oscurità.

L’unica risposta che ebbe furono urla più forti, atroci, mentre il cigolare del metallo sembrava farsi sempre più vicino. Ora era immobilizzato, agghiacciato,

da quelle urla disumane che portavano con loro dolore e disperazione.

La sua sicurezza iniziale andava scemando e l’insicurezza lo assaliva non sapendo ciò che lo avrebbe aspettato.

La paura lo afferrava come non gli era mai successo prima. Le gambe erano piantate al suolo, ma soprattutto il cervello non riusciva a pensare con chiarezza.

Chiuse gli occhi un istante cercando di ritrovare la calma, con poco successo. Con la coda dell’occhio vide qualcosa che gli strusciava alle spalle velocemente, si girò di scatto, buttando in avanti la torcia per difendersi, ma questa sibilò nel vuoto.

Si rigirò, sentendo come una strana presenza alle sue spalle, ma nulla.

Stava sudando. L’aria della grotta sembrava farsi sempre più pesante, calda e umida.

Tirò un lungo respiro ed espirò con forza.

Poi, di colpo, qualcosa lo afferrò alle caviglie, facendolo sbattere violentemente sul suolo col volto, trascinandolo con forza, verso il buio, verso l’oscurità, verso i lamenti.

Torcendosi su se stesso, con la forza dell’adrenalina, sventolò la torcia nell’aria

davanti a lui, verso i suoi piedi. Vide qualcosa scivolare nell’ombra dopo aver lasciato la presa. Strusciando, freneticamente, sul terreno, si accostò alla parete ansimando. Si mise in piedi.

Cercò di non focalizzare sulle ombre e sui rumori, cercando di controllare la paura che sentiva lungo il suo corpo.

Non sapeva se era l’aria pesante e il caldo intenso dei fumi, che esalavano dal fondo della caverna, che lo stavano stordendo; sapeva solo che il concentrarsi gli era quasi impossibile e ogni cosa che vedeva o udiva gli sembrava amplificata e distorta.

In questo stato non si accorse, ancora una volta, dell’ombra che si stava muovendo dietro di lui. Ebbe solo il tempo di sentire una stretta di ghiaccio al polso che gli fece contorcere tutto il braccio, pervaso da un brivido dolorosissimo, e avvertì cadere la torcia che rotolò distante a causa del suolo in discesa. Nello stesso istante sentì una stretta lungo il suo collo. Provò a divincolarsi, ma la fredda morsa lo colse alla sprovvista solo per un istante, poi fu di nuovo bloccato con la nuca contro la parete. Fece solo in tempo a vedere un’ombra, la sua ombra, con vita propria che, adagiata sulla parete, con forza, lo serrava in una morsa di ghiaccio.

La sua stessa ombra lo obbligava, con lo sguardo, nella direzione dove era caduta la torcia, che ancora emanava una flebile luce, e là vide altre ombre venire avanti e ammassarsi, minacciose e terrificanti.

Le riusciva solamente a intravedere tra i fumi esalati dal fondo del corridoio e i riflessi della torcia, quando strusciavano, veloci e silenziose, sulle pareti, verso la parte più buia del corridoio, verso di lui.

Le sentì entrare nella sua testa, dalle sue orecchie, dalle sue narici. Sentiva il loro freddo, il loro dolore, il loro risentimento, i loro dubbi. Tutte queste sensazioni lo fecero crollare, perché quelle sensazioni erano anche le sue, quelle insicurezze erano quelle che viveva in ogni istante, quei dubbi e quelle paure erano i dubbi e le paure di ogni Piagato. Lui era uno di loro.

Si sentì soffocare, si sentì trascinare in un limbo di paure e dubbi, in un limbo di dimenticanza.

Il terrore di essere stato preso in giro, dal Ragno, da Herne, da lui stesso, lo sopraffece dando spazio alla paura che, come un coltello rovente, gli si avvicinava sempre di più verso il cuore palpitante, per dargli il colpo di grazia.

Sentiva i lamenti dei Piagati che lo pregavano, lo invitavano a rimanere lì, con loro, in quel mondo senza dolore, in quella prigione d’avorio, in cui ogni cosa era possibile. Doveva abbandonare quel viaggio, quel doloroso e pauroso viaggio, inesplorato e terrificante; quel suo corpo, così estraneo a lui stesso, solo un vettore della sua vera essenza, del suo vero essere. Il suo limite, la sua paura.

Era al limite del dolore, al limite della pazzia, avrebbe ceduto se avesse avuto anche un solo ricordo a cui attaccarsi, un solo ricordo per creare quel suo mondo, perfetto, stabile, sicuro. Ma lui non aveva niente di tutto questo, aveva solo una sicurezza, non aveva paura di quello a cui andava incontro, non aveva paura di conoscere le ombre della sua vita, le avrebbe affrontate come un bambino che si affaccia, inconsapevole e ignaro, sul mondo, per la prima volta. E così fece.

Si buttò sulle ginocchia e piantò le mani nel terreno mentre abbassava il capo e iniziava a piangere.

Fu una cosa naturale, come il bambino appena nato sa che deve piangere per respirare e vivere, così fece l’uomo Mascherato, pianse per vivere, per respirare.

Le lacrime gli scendevano copiose lungo la maschera inespressiva che era la sua pelle, calde e umide lacrime. La paura era scomparsa, le ombre se ne erano andate.

Riuscì a iniziare a pensare.

Si alzò. Le gambe corsero veloce alla torcia per raccoglierla. Quando la ebbe nuovamente in mano fece un giro su se stesso per guardarsi attorno, tutto era calmo e silenzioso, la sua ombra era al suo posto, come sempre, che lo seguiva a ogni suo movimento.

L’aria era calda e umida mentre aveva ripreso a scendere, con circospezione, lungo il corridoio.

Durante il restante cammino non incontrò più nessuno e non udì nessun rumore, questo lo tranquillizzò un po’.

Il percorso, a un certo punto, iniziò a scendere repentinamente, tanto che dovette puntare i piedi e utilizzare la parete come appiglio con la mano libera per non ruzzolare giù.

Non avrebbe saputo dire da quanto stesse camminando, ma gli sembrò che

un’infinità di tempo fosse ata.

Proprio mentre pensava questa cosa inciampò su un ciottolo, perse la presa sulla parete, e iniziò a ruzzolare giù. Fece alcuni metri così, poi, fortunatamente, il corridoio si riassestò piano e la sua corsa fu interrotta. Stordito cercò di rimettersi in piedi.

Vide con chiarezza la torcia poco distante da lui che illuminava un gigantesco specchio, tondeggiante, intarsiato nella roccia. All’altezza dei quattro punti cardinali vi erano quattro clessidre, in oro, che ruotavano su loro stesse automaticamente ogni volta che la sabbia colava nell’altro lato, producendo un ticchettio continuo, come di orologio, poiché i giri delle clessidre non erano sincronizzati. Il corridoio finiva in quel punto, in quello spazio, come in un vicolo cieco.

Si avvicinò allo specchio rischiarato.

Per la prima volta si vide completamente. Guardò la sua fisionomia.

Le spalle erano grandi e massicce, il corpo, sebbene non possente, era slanciato e alto. Il mantello gli cadeva lungo la schiena fino ai polpacci, coperti da stivali di pelle nera. I capelli erano corti e mori e gli occhi erano verdi sotto la maschera viola. Una tunica bianca con ricamato sopra un giglio in filigrana d’oro, sul petto, gli copriva i jeans sdruciti e la felpa verde.

Ma la sua attenzione cadde, principalmente, sulla maschera. Non riusciva a capire come potesse stare attaccata al suo volto senza nessun laccio. Si accarezzò il volto e sentì la sua pelle sopra la maschera, come se quella maschera fosse il

suo vero viso.

Tolse le mani inorridito e fece un o indietro.

La sua immagine, riflessa nello specchio, invece continuò a toccarsi il volto e più lo toccava più la maschera si rimpiccioliva. L’uomo Mascherato rimase a contemplare quella scena impietrito.

Prima spuntarono le labbra carnose e rosee, poi piano piano il naso, ma, ancora, non riusciva a vedere bene la sua fisionomia.

Allora, combattendo il dubbio e la paura, si avvicinò, non sapeva perché ma aveva il bisogno di sapere chi fosse.

Il suo riflesso sorrise, poi parlò: “Vuoi vedere chi sei?”

L’uomo mascherato fece cenno di sì con la testa.

“Sei sicuro? Spesso non ci piace ciò che scopriamo di noi stessi, a volte è meglio portare questa maschera per essere imibili davanti al mondo e a se stessi.”

“Io devo sapere” rispose senza esitazione.

L’immagine dell’uomo mascherato sorrise.

“Così sia.” Due mani uscirono dallo specchio. L’uomo mascherato si sentì afferrato per il collo e trascinato dentro lo specchio, la cui superficie si deformò come acqua colpita da un sasso.

Sentì una strana sensazione quando varcò l’essenza stessa dello specchio, come se una lama di coltello lo asse da parte a parte, urlò disperato, un urlo atroce simile a quelli che aveva sentito fino a poco prima.

Una voce lo scosse: “Alzati adesso.”

Aprì gli occhi, lentamente, e si alzò in piedi con le gambe tremolanti, una luce densa lo colpì accecandolo, come se avesse vissuto per sempre al buio. Gli occhi iniziarono a lacrimare come se non fossero mai stati abituati prima a quella sensazione. Si muoveva come un cieco, con le mani protese, per cercare un appiglio, ma senza fortuna. Rimase così per alcuni istanti poi iniziò a scorgere i contorni.

Tutto era bianco intorno a lui, un bianco accecante che veniva riflesso dalle miriadi di specchi che lo circondavano. Sopra, sotto e intorno a lui.

Uno accanto all’altro, di varie forme e dimensioni ciascuno con le quattro clessidre che si muovevano su e giù ticchettando disgiuntamente.

Si stropicciò con veemenza gli occhi per cercare di vedere meglio. Sentì

qualcosa di strano sul suo volto.

Piano piano si tastò.

Non sentiva più lo strato della maschera sulla pelle del suo volto.

Guardò subito in tutti gli specchi per vedere la sua immagine, per vedere chi egli fosse, ma nessuno specchio lo rifletteva.

Guardò sopra, sotto, ovunque, correndo da una parte all’altra, ma la sua immagine non compariva da nessuna parte.

Urlò frustrato.

Si accasciò coi pugni chiusi contro uno specchio imprecando.

“Mi hai ingannato, ora non so nemmeno chi sono e non sono nemmeno più ciò che ero.”

“Non ti ho ingannato” replicò una voce del tutto simile alla sua ma che si perdeva intorno a tutto, in quel luogo. “Devi solo avere la volontà di voler guardare veramente. Non sapere chi si è, e, nemmeno, chi si è stati è il punto perfetto per poter rinascere, per poter diventare qualcosa di nuovo, di diverso. Non a molti è data questa possibilità.

Spesso cerchiamo e ci focalizziamo solo su quello che vediamo di noi stessi, la nostra immagine, il ricordo che fissiamo nella nostra mente, come se fossimo un osservatore esterno di noi stessi. Ci poniamo le nostre scuse, i nostri limiti, i nostri pregi, ma, di fatto, se potessimo vederci come osservatori interni, senza auto limitarci o senza crederci migliori di quello che effettivamente siamo, riusciremmo a capire ciò che veramente possiamo.”

L’uomo, che un tempo era mascherato, si allontanò dallo specchio e guardò di nuovo.

Concentrò la sua mente non su ciò che voleva vedere, ma su ciò che avrebbe desiderato essere.

La superficie degli specchi iniziò a contorcersi, a tremolare, a sfumare e, in un istante, il silenzio diventò rumore, il vuoto degli specchi si tramutò in colori e immagini, vivide, reali.

In ognuno vi era una ambientazione, un mondo, una scena, delle vite.

Lo specchio che gli era di fronte mostrò, improvvisamente, una immensa gradinata che si alzava verso il cielo stellato, cosmico.

I gradini erano molto grandi, titanici. Una fila di gente formava una lunga scia che si allungava fino ai piedi della grande piramide di cristallo che si ergeva alla fine della gradinata. Sulla sommità rifulgeva una sfera illuminata, gigantesca, dentro cui roteavano milioni di altre sfere più piccole e luminescenti, piene di

vita e di storia, frammenti cosmici di ciascun essere che porta in sé tale energia.

L’uomo focalizzò un’immagine all’inizio della fila e, sebbene non capisse il perché, gli parve di vedersi vecchio, sotto il peso della sfera, mentre la contemplava ammirato, desideroso di ricongiungersi con esso.

Poi l’immagine sfocò.

Si girò immediatamente verso un altro specchio.

Due figure, un uomo e una donna, giacevano su un carro di fieno, davanti a una stalla.

La luna era alta in cielo, tonda, perfetta.

Un gatto miagolava nelle vicinanze.

I due corpi si contorcevano nell’atto dell’amplesso.

Vide il volto della fanciulla e vide il volto del ragazzo che era lo stesso di prima, sebbene ora più giovane.

Il corpo era forte, ma non muscoloso e la pelle era bianca. Gli occhi erano verde

smeraldo e la bocca sorridente.

La donna aveva i capelli rosso mogano, la pelle abbronzata e il petto le saliva e scendeva, esausta, per lo sforzo d’amore, mentre le loro bocche si sfioravano tra un bacio e l’altro consumando parole sussurrate.

Lentamente anche quell’immagine svanì.

Alzò lo sguardo sopra di lui, verso un altro specchio.

Era inebriato ed eccitato, come se tutte le sensazioni viste nelle immagini lo invadessero, entrando in lui, come se le loro esperienze fossero esattamente le sue.

Sentì un dolore lancinante allo stomaco mentre si girava per guardare un’altra scena. Un volto, a lui famigliare, si contorceva in un’espressione di dolore e paura mentre si teneva lo stomaco con le mani insanguinate, supplicante di aiutarlo.

La scena si dissolse.

Iniziò ad annaspare col respiro, mentre un nome gli affiorava in mente, il suo nome: Michele. Sapeva chi era.

Si spostò velocemente davanti a un altro specchio dalla forma ovale poco

distante da lui, dove gli si mostrava un’altra scena con lui protagonista.

Era appena tornato da qualche viaggio d’affari, aveva delle valige in mano, ed era vestito di tutto punto in giacca e cravatta. Si avvicinava al portone di una casa, una bella casa con giardino, una bambina dai capelli rossi gli stava venendo incontro, lungo il vialetto che portava al cancello, felice.

Appena aperto gli si buttò al collo e lo coprì di baci mentre anche una donna, sorridente, li guardava dall’uscio della casa…

Rimase stranito perché questa volta non era la donna dai capelli rossi a guardarlo.

I lineamenti erano diversi, più spigolosi. I capelli erano castani, a caschetto, gli occhi marroni e un po’a mandorla. Il suo sorriso lo colpì al cuore facendolo pompare alla massima potenza, quasi poteva sentire i suoi battiti sopra il ticchettio delle clessidre. Non capì il perché ma si sentiva combattuto tra il ricordo dell’altra figura femminile, quella vista in precedenza e ancora così forte nella sua mente e nel suo cuore, e la figura che invece gli si poneva davanti, così viva e così reale.

Gli occhi gli si riempirono di lacrime mente la scena si consumava.

“Cosa sta succedendo qua?” urlò con la voce rotta, “cosa sto vedendo? Come è possibile che mi rifletta in ogni specchio, diverso, ma sia sempre io?”

“Stai solo guardando te stesso davanti allo specchio. Niente di più, niente di meno.

E non sei solo tu che guardi loro, ma anche loro stanno guardano te. Ognuno di voi sta compiendo il suo viaggio, verso la propria metempsicosi” replicò la voce.

“Metempsicosi?” chiese stupito” e cosa sarebbe?”

“Una sorta di viaggio dell’anima.”

“Dunque sarei morto?” chiese Michele senza muoversi dallo specchio che, nel mentre, era sfumato in una superficie grigia.

“Potresti esserlo e, da qualche parte lo sarai, ma l’anima non ha bisogno di un corpo morto per reincarnarsi, evolversi e migliorarsi. La metempsicosi è un viaggio che l’anima fa quando ne sente la necessità. A volte si muove da sola, da un corpo all’altro, altre volte riparte da un corpo vuoto senza esperienze per ricordarsi e capire chi è e dove andare, muovendosi all’interno di quel cosmo che già conosce, traghettata dalla stessa essenza dell’io stesso. Tu sei il traghettatore di te stesso, tu solo puoi decidere quando e dove la tua metempsicosi sarà completa. Solo il tuo volere deciderà dove sarai destinato ad andare. Quando in questo viaggio riuscirai a capire chi sei stato e cosa vorrai essere, fondendo le tue esperienze, solo allora avrai la possibilità di progredire, in un modo o nell’altro, altrimenti sarai imprigionato qua, tra le ombre della tua vita, per lungo tempo.”

Michele tacque alcuni istanti, poi, come ridestatosi da un sogno, chiese: “E questi specchi cosa c’entrano?”

“Gli specchi sono porte, ogni volta che qualcuno si ferma davanti a uno specchio è l’unico momento in cui anche gli altri suoi Essere si ritrovano nel medesimo punto, a fare la stessa cosa. È il momento in cui le realtà collimano, in cui tutte le esperienze si fermano, in cui tutti sono uno.

Le vostre anime ricercano uno stato di purezza nel guardare che non è possibile ottenere quando si è i giudici di se stessi, dall’interno, ma vedere in maniera distaccata le varie fasi dei suoi possibili Essere rende la visione più pura, meno falsata.”

Michele fece segno di sì con la testa, aveva compreso. Si eresse raddrizzando la schiena. “Ora so chi sono.” Si portò le mani al volto, pose le dita nel punto in cui la sua pelle si incontrava con la maschera viola, tirò con forza. La pelle oppose un po’di resistenza, come quando si toglie un medicamento dalla ferita ormai guarita, poi cedette. Rimase lì un istante a contemplare la sua maschera viola, senza lineamenti, tra le sue mani, rotta in alcuni punti per la veemenza con cui l’aveva tirata. La lasciò cadere ai suoi piedi e la calpestò fino a che non si ruppe in mille pezzi, poi si allontanò di qualche o lasciandola lì, frantumata.

Si guardò allo specchio che finalmente lo rifletteva.

Tutte le altre immagini stavano facendo lo stesso.

Si contemplò con attenzione, andosi anche le mani sui suoi lineamenti, come fanno i non vedenti. Gli occhi erano verdi, affusolati, la fronte ampia e, i capelli castani e mossi ne incorniciavano i lineamenti delicati.

Sul mento aveva una leggera barbetta incolta come di chi non se la fa da alcuni giorni.

La bocca era carnosa e ben delineata.

Sorrise mentre si ava la mano sul mento.

I denti bianchi erano ben allineati.

Finalmente si sentiva bene e sicuro di sé e aveva negli occhi uno sguardo profondo e rilassato.

“Bene” sussurrò più a se stesso che a qualcuno in particolare “ora so cosa devo fare.”

Caricò un calcio e si scagliò contro lo specchio che aveva davanti, per distruggerlo. Non voleva rimanere imprigionato da quelle immagini, da quelle ombre di vita, vero o fasulle che fossero, voleva la sua vita, quella di sempre, con i suoi lati negativi e positivi, coi suoi dolori e le sue gioie.

Quando però il piede colpì la superficie dello specchio non la mandò in frantumi, ma anzi prima il piede, poi tutta la gamba e infine tutto il corpo furono inglobati nella superficie dello stesso.

Michele non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo che fu catapultato

fuori da un altro specchio, disposto a mezz’aria, con un grande tonfo. Non si diede per vinto e tentò nuovamente, e ancora una volta entrò da una parte e uscì da un’altra.

Iniziò a muoversi tra gli specchi imperterrito.

Entrava in uno e ne usciva da un altro.

Non riusciva a trovare l’uscita, non aveva punti di riferimento. Lì dentro, non vi era niente, solo specchi, ormai anneriti con i loro ticchettii di clessidra fastidiosi, e un vuoto freddo e nebbioso.

Era come stare in un labirinto, ma senza pareti, un labirinto infinito, pieno di possibilità.

Non poteva rompere gli specchi, perché di fatto non erano di vetro, e non poteva aprirsi un varco in nessun modo non sapendo dove andare. Era prigioniero di mille realtà vuote.

Ebbe un momento di panico, colpito dalla paura del vuoto e di quegli spazi immensi. Iniziò a respirare con fatica, come se l’ossigeno gli venisse improvvisamente a mancare, ma non voleva arrendersi, non voleva smettere di lottare, non voleva farsi sopraffare dal vuoto e dalle ombre.

Mentre annaspava terrorizzato sentì una voce. Subito capì che proveniva da dietro, veniva da lui, si aggrappò a quella sicurezza, a quella voce famigliare. Si

girò e aspettò di vedere chi fosse. Nel vuoto di uno specchio una figura gli si fece incontro, avvolta nella nebbia e in un ampio sudario che la copriva totalmente rendendola irriconoscibile. Si fermò sul limitare dello specchio, dietro di lei una forte luce la illuminava definendo i contorni della sua figura e dello specchio stesso. “Vieni, torna da noi” gli sussurrava la figura allungando le braccia per invitarlo a procedere.

Michele non ci pensò due volte e corse a rotta di collo verso quell’incognita, che in quel momento, era la sua presenza concreta, il suo unico appiglio.

Si buttò dentro lo specchio a braccia protese, per cingere nel suo abbraccio la figura per aggrapparsi alla sua realtà, ma quando fu lì lì per raggiungerla essa si dissolse come nebbia, facendolo precipitare in un vuoto di buio e disperazione. La caduta non fu lunga e non fu violenta e

Michele si ritrovò sopra una erella di roccia, stretta, senza paramenti di protezione, che si apriva sopra un abisso. Si allungava davanti e dietro di lui senza che si potesse vedere la fine, come una muraglia cinese ma infinita, andava su e giù, girando ora a destra ora a sinistra e perdendosi al di là dello spazio visibile.

Sospirò.

“Così ti arrendi già” bofonchiò una voce gracchiante “tutti uguali questi giovini d’oggi.”

Michele si girò, sopra la sua testa, appollaiato su una nuvoletta bianca, vi era un vecchio corvo dallo sguardo arcigno che lo fissava con la testa piegata sulla

destra.

“Pascal?” chiese più fra sé e sé che all’animale.

“Sì, sono io, sono il vecchio Pascal, almeno mi riconosci” sbuffò spazientito.

“Ma tu non esisti, sei un’invenzione letteraria, una mia invenzione, mia e di mio nonno.”

“Bah” disse il vecchio corvo raddrizzando la testa e girando lo sguardo altrove” blateri di cose senza senso, sono qua e ti sto parlando no? Allora esisto, altrimenti se io non esistessi e tu stessi parlando con me vorrebbe dire che anche tu non esisti, ma siccome il tuo cervello pensa e sembra anche ragionare ogni tanto, questo ti dovrebbe rassicurare sul fatto che tu esisti e che quindi dirimpetto esisto anche io.”

“Ma…” provò a ribattere Michele, ma il vecchio corvo non lo fece finire

“Ma cosa? Reputi che tutto quello che hai visto e vissuto finora sia logico e articolato, reale magari... suvvia giovanotto, non lo puoi pensare veramente, voglio dire guarda dove ti trovi” e con l’ala indicò il grande spazio vuoto che avevano attorno “e guarda dove mi trovo io, ma soprattutto guarda dove ti trovavi... sei partito che eri nel futuro, ti sei trovato nel ato, ora sembrerebbe che tu sia nel presente, certo, a parlare con un uccello e già la cosa non tornerebbe di per sé, ma fatto sta che sei qua e non mi sembra tu sia nella posizione di poter mettere in dubbio le mie parole”

Michele lo guardò ancora più perplesso “come fai a sapere che...”, ma ancora una volta il corvo lo precedette spazientito, “come faccio a sapere che eri in una specie di prigione aliena o come faccio a sapere che hai già scritto e raccontato una storia che avevi sentito quando eri bambino... beh la domanda che dovrebbe stupirti non è come io lo sappia, ma come tu fino ad ora non te lo ricordassi e non fossi sicuro che fosse finzione o realtà.”

“Difatti non lo so ancora.”

“Ovvio che non lo sai, non puoi saperlo”

“Ma se hai appena detto che...”

“Ho detto quello che ho detto, lo so cosa ho detto, cosa credi, non sono mica un vecchio rimbambito, ho detto che non avevi e non hai coscienza di quello che ti sta accadendo attorno, ma dopotutto come potresti, sei morto…”

“Sono morto?” chiese con un sussulto Michele.

“Beh potresti esserlo, che differenza farebbe per te, tanto ora sei qua, questa sarebbe la tua realtà, la tua vita... ma non ti preoccupare, probabilmente sei solo impazzito.”

“Impazzito...”

“Sì, cioè voglio dire sei qua che parli a un uccello di un tuo romanzo, tanto normale non devi essere.”

“Ma se avevi appena detto...” disse Michele alzando la voce arrabbiato ed esausto.

“ti ho già detto che...”questa volta fu Michele a interrompere il corvo e a tagliare corto, “sì, lo so, sai quello che hai detto, bene, benone, sai anche per caso come faccio ad andarmene di qua o sei venuto solo a blaterare scemenze, cristo santo se avessi saputo che eri così petulante nemmeno ti avrei inventato.”

Il Corvo non si scompose più di tanto: “Non chiedere a me di trovarti una soluzione, questa è la tua realtà, sei tu che mi hai portato qua.”

“Vuoi dire che basti che io pensi di uscire da questo posto per uscirci effettivamente?” chiese speranzoso.

“Non ho detto questo, ho detto solo che questa è la tua realtà, se fosse stato possibile solo pensare di uscire di qua per farlo probabilmente lo avresti già fatto, invece sei ancora esattamente nello stesso posto di prima, quindi mi sembra che la tua teoria non sia molto valida, anche perché dove dovresti tornare esattamente se mi è lecito chiederlo?”

Michele ci pensò un attimo, poi guardò il corvo scuotendo la testa: “Non ne ho la più pallida idea, ora che mi ci fai pensare sono stato invaso da immagini, ma nulla che mi potesse indicare a quale di quelle immagini appartenessi, l’unica che sapevo mia è stata quella sullo specchio, il mio riflesso che mi ha fatto ricordare chi ero, qua adesso, in questa realtà, in questo tempo.”

“Esatto” disse il vecchio corvo, “questo è un limite di molti, vedere le cose solo a tre dimensioni, ma, di fatto, noi tutti ci muoviamo in molte più dimensioni, alcune temporali altre spaziali, solo che non le percepiamo, non percepiamo la loro armonia. Tutta la materia ci avvolge in piccole stringhe invisibili, come se fossero accordi melodiosi, armonie perfette di uno stradivari che si attorcigliano senza mai toccarsi ma creando un filo robusto e spesso, come quello della ragnatela, piccoli segmenti che diventano un segmento unico e resistente, come se tutta la materia, noi compresi, fossimo un tutt’uno di una spessa membrana energetica e ordinata.”

“Però qua di ordinato non ‘c’è nulla” urlò Michele girando su se stesso come a mostrare la veridicità delle sue parole.

“No, lo so, qua è tutto diverso, qua le regole non hanno valore, almeno quelle che pensi di conoscere tu, che il tuo cervello ricorda e il tuo corpo ha immagazzinato come esperienze. Non ti so dire se questo sia un bene o un male, se tu meriti di continuare questo viaggio, ti posso solo dire che la decisione spetta a te e solo a te, forse fermandoti qua potresti evitarti molti dolori o perderti molte gioie, non so sinceramente. So solamente che la ragnatela della tua materia si sta sfilacciando, non è più omogenea, non è più armoniosa, sta a te decidere se ti vuoi godere lo spettacolo della materia pura e diventare un tutt’uno con essa o vuoi cercare di ricreare nuovamente la melodia.”

Il vento soffiava forte. Michele guardò il vuoto sotto di lui. Non si ricordava la melodia della sua vita e quel poco che ricordava non era per nulla armonioso, tuttavia, il ricordo delle ombre erranti, pura materia che vagava in questa realtà senza uno scopo, lo fece rabbrividire; non riusciva ad abbracciare l’idea della mancanza di uno scopo, di un’immagine che lo rappresentasse e poi vi era quella sensazione strana, quel dover esistere, quel dover essere affinché altri fossero ed esistessero, in una connettività quasi globale con le figure, i volti e le immagini che aveva visto al di là degli specchi.

“Voglio ascoltare la melodia” disse.

“Perfetto.” Sorrise Pascal. “Tendimi la mano.”

Michele allungò la mano inguantata verso il vecchio corvo che, nel mentre, si era strappato una piuma dal suo piumaggio d’ebano. Presa la mano di Michele nella propria ala gli fece aprire il palmo, rivolto verso l’alto “la via che tutti noi dobbiamo seguire è la via del sangue, perché nel sangue c’è scritto chi siamo stati, chi siamo e chi saremo. È l’unica via che non mente sebbene sia una via dura da percorrere, è l’unica che ci è consentito seguire per imparare e capire.”

Detto questo appoggiò la piuma su una delle dita di Michele e spinse. Subito il sangue iniziò a uscire dal piccolo foro colorando il bianco guanto. Il Corvo lasciò la mano mentre Michele guardava meravigliato il sangue raggrumarsi in piccole gocce che invece di cadere verso il basso si alzavano una dietro l’altra verso il cielo per fermarsi a mezz’aria sopra la sua testa dove andavano a creare una superficie rossa simile a quella di uno specchio di acqua dove Michele riusciva a specchiarsi chiaramente. Rimase ad ammirare quello scenario fino a che non vide la sua immagine scomparire e disgregarsi mentre il sangue gli mostrava un’altra immagine. L’immagine era quella della sala del tempio in cui vi erano le sacerdotesse che precedentemente aveva visto nel lago. Erano messe in cerchio vicino a una vasca e guardavano verso di lui con i loro volti coi tratti simili a quelli dei serpenti.

Si scosse guardando verso Pascal ma il vecchio corvo stava già volando via, verso il cielo. “Grazie” riuscì a urlare Michele. Il vecchio corvo si fermò a mezz’aria sbattendo le ali, gli sorrise: “A questo servono i nonni” e così lo salutò sparendo fra le nuvole del cielo.

Quando Michele riguardò verso lo specchio di sangue sussultò poiché si trovò faccia a faccia con una delle donne serpente. Non ebbe il tempo di capire cosa stesse succedendo. Vide solo le braccia insanguinate della sacerdotessa che, uscendo dalla pozza di sangue, lo presero per la cappa del mantello trascinandolo dentro la pozza stessa.

Sentiva il sapore ferroso del sangue che gli entrava nella bocca. Chiuse gli occhi. Tutte le immagini che aveva visto negli specchi gli roteavano davanti agli occhi. Qualcuno continuava a trascinarlo in quel liquame. Poi tutto d’un tratto sentì la dura pietra sotto la sua schiena, tirò un respiro profondo mentre i polmoni si riempivano di nuovo di ossigeno.

Udì una dolce melodia mentre iniziava ad aprire gli occhi.

Due cavalli alati, uno nero come la pece, con un corno d’avorio al centro della testa, che scalpitava senza posa e uno, bianco, lucente, con due grosse corna d’ebano simili a quelle di un ariete, si stagliavano sulla riva del lago, a poca distanza dalle pietre dove era stato adagiato Michele, scalpitanti e felici. Dietro di loro trascinavano una biga d’oro e sulla biga Michele riconobbe il volto rassicurante di Herne, che gli sembrava sempre più simile a quello di suo padre.

“Vedo che sei riuscito a trovare la strada che conduce al lago, sono orgoglioso di te, ora che hai trovato il tuo giusto equilibrio puoi salire sulla biga e lasciare che i cavalli ci conducano al sacro tempio” disse indicando verso il cielo il pezzo di roccia gigante che galleggiava come sorretto dai venti.

Michele si guardò intorno. Riconobbe subito il lago dove aveva visto le sacerdotesse e le altre strane creature. Ora il lago era deserto vi erano solo lui e Herne sulla riva, mentre i vapori continuavano a salire creando un’oasi di calore protettiva dalla neve circostante.

“Sali” lo incitò Herne “la gran sacerdotessa ti sta aspettando al tempio per curare le tue ferite e purificare il tuo corpo.”

Michele si alzò in piedi ma vari dolori, sparsi per tutto il corpo, lo attanagliarono all’istante. Ogni punto del suo corpo gli doleva. Era ato da non sentire nulla a essere tutto un dolore. Si guardò, alzandosi la maglia e scoprì di essere pieno di ematomi.

Herne andò ad aiutarlo sorreggendolo.

Michele riusciva a camminare a stento e in maniera claudicante anche con l’aiuto del cacciatore. Ogni movimento era un dolore lancinante e quei pochi metri che lo divisero dalla biga furono i più duri di tutto quel viaggio.

Quando la raggiunse, con un gesto automatico, afferrò le briglie e sebbene non avesse mai né cavalcato né guidato una biga, non se ne preoccupò più di tanto. L’unica cosa che in quel momento desiderava era arrivare al tempio, poter parlare con la sacerdotessa e magari riposarsi un po’.

I grandi cavalli alati, come se gli avessero letto nella mente iniziarono a sbattere le immense ali, sempre con più forza, fino a che in un istante non si librarono in cielo.

Il cavallo bianco tendeva a lanciarsi verso l’alto, mentre il nero verso il basso.

Le due forze che si equivalevano facevano sì che entrambi tenessero la biga sulla giusta strada senza troppi scossoni.

Cavalcarono tra le nubi e le correnti d’aria per un lasso di tempo indefinito. Ma alla fine, esausti, planarono sulla grande roccia fluttuante, proprio all’interno dei giardini del grande tempio, dove vi era un’ampia fontana zampillante che rifletteva la luce della luna, ormai sorta, sul suo specchio d’acqua.

Michele scese dalla biga per bere. Adesso aveva sete e sentiva la gola riarsa come non provava da molto tempo. Bevve con ingordigia, quell’acqua che aveva il sapore del miele e poi, stremato, si buttò supino a guardare le stelle. Una dolce melodia gli invase le orecchie. Proveniva dall’interno del tempio. La musica lo cullava alleviando il dolore delle ferite.

Sentì le forti braccia di Herne che lo sollevavano, per portarlo all’interno del tempio, aiutandolo a fare quell’ultimo o che il suo corpo si rifiutava di eseguire.

Gli tornò alla mente quando, bambino, si addormentava e suo padre lo portava teneramente nella sua stanza, a letto, al sicuro. Ora provava nuovamente quella sensazione.

Fu adagiato, con dolcezza, dal cacciatore su un morbido talamo. Le lenzuola erano fresche e profumavano di lavanda. Tutto intorno al letto vi erano tende di seta bianca che sfumavano la visuale. Herne sparì dietro una di queste, mentre la musica cessava.

Michele rimase così, in silenzio, solo, a respirare, come se il suo corpo,

immobile, non rispondesse più ai suoi voleri, come se non avesse più un corpo che lo imprigionasse. Non era spaventato, anzi si sentiva sereno.

La tenda si scostò mentre la figura della sacerdotessa si avvicinava al bianco talamo, sedendosi accanto a Michele, sul bordo del letto.

Gli occhi erano affusolati e risaltavano per l’henné che li contornava. Le pupille erano verticali di un verde come quelle dei serpenti, e ammagliavano e quasi ipnotizzavano da tanto erano strane e belle. Il volto si sarebbe potuto definire umano e dai lineamenti delicati e orientaleggianti se non fosse stato per il piccolo naso che quasi mancava sul suo volto.

Aveva lunghi capelli rossi che le cadevano lungo la schiena, coperta, come il resto del corpo, da una tunica di raso bianco che ben poco lasciava all’immaginazione. Il suo corpo era flessuoso e tonico, con un grande tatuaggio di un serpente nero, o di un drago orientale, che le scendeva dal collo lungo tutta la schiena e sembrava avvolgere tutto il suo corpo tra le sue spire. Le pelle era di un colore verdognolo e leggermente scagliata, ma questo la rendeva ancora più bella e affascinante. Michele notò che fra le mani, dalle lunghe unghie, teneva un urna dorata che emanava un forte odore misto di miele, zolfo e incenso.

Le sorrise.

Lei, gli si accostò e lo baciò sulla bocca. Un bacio delicato.

Poi posò l’urna sul letto e lentamente iniziò a spogliarlo di tutti i suoi vestiti e ornamenti.

Quando fu completamente nudo iniziò a massaggiargli il corpo con lo strano unguento che teneva nell’urna. Poi si tolse la veste di lino e inizio a frizionarlo strusciandovisi col suo, in un movimento sinuoso e avvolgente. Lo massaggiava con i suoi seni, con le sue mani, con la sua bocca, come se un serpente lo stesse avvinghiando nella sua morsa, sensuale e delicata. Michele sentiva l’unguento entrargli nella pelle, bruciare i suoi pori mentre il calore si sprigionava per tutto il suo corpo, in una dilatazione di sensi che gli formicolava lungo tutti gli arti, tornati a vivere.

Fu come essere tornato a galla dopo essere stato immerso nel nulla, pulito e lavato. Si sentiva un uomo nuovo.

“Ora sei pronto” gli sibilo all’orecchio la sacerdotessa mentre si allontanava dal suo corpo “il rituale di purificazione per cui hai camminato tanto è concluso, adesso sei pronto per lui” si mise la tunica e sparì dietro le tende. Michele, preso dal torpore che l’unguento gli procurava, poco si curò delle parole della sacerdotessa e lentamente si addormentò senza vedere la strana ombra che immobile lo vegliava appesa al soffitto.

Il ragno lo guardava.

Un moltitudine di occhi rossi lo scrutavano incessantemente.

In un istante il ragno gli si buttò addosso sbavando e famelico. Gli imprigionò le braccia e le gambe e piano piano gli si avvicinò alla bocca.

Silenzioso iniziò a tessere la sua tela su tutto il suo corpo, avvolgendolo in un bozzolo bianco e resistente.

Michele ebbe un sussulto solo all’ultimo istante mentre la tela lo avviluppava totalmente all’altezza del volto. Provò a muoversi ma ormai il corpo era completamente sigillato all’interno del bozzolo di ragnatela.

Quindi sentì i filamenti entrargli negli occhi, nelle orecchie e nella bocca. Non riusciva a respirare. Avvertì uno spasmo all’altezza del torace, nei polmoni mentre la bocca gli si riempiva di tela e il ragno terminava la sua opera suggellandolo dentro la sua spirale di fili appiccicosi.

Nuovamente prima.

La sveglia era suonata già da venti minuti e lui non aveva per nulla voglia di alzarsi.

Era sabato. Sabato mattina, ed era presto.

Dopo una settimana di lavoro si era concesso una serata con gli amici.

Si sentiva vuoto e ogni tanto ne aveva bisogno. Il lavoro non gli dava soddisfazione e men che meno guadagno.

Lui era un figlio di un dio minore, non aveva una famiglia benestante, non aveva

amicizie altolocate e quindi nella vita non aveva avuto spinte.

Aveva lavorato per mantenersi agli studi che, però, non aveva finito. Lavoretti sporadici, niente di che.

Era finito, di nuovo, a vivere con sua madre non potendosi permettere una casa o un appartamento.

Però, questa mattina, tutto sarebbe potuto cambiare.

Lui, Simone e Massimiliano erano incappati in una circostanza fortunata che avrebbe potuto fruttargli molti soldi, ovviamente non in maniera lecita, ma tanto, ormai, funzionava solo così.

Si sarebbe messo a posto per un po’, avrebbe pagato qualche rata della macchina e magari sarebbe riuscito a pagare un cena a una ragazza in un posto diverso che non fosse Mc Donald. Almeno, per una volta, non avrebbe dovuto sopportare la vista di quello stupido pagliaccio dallo sguardo sadico.

Si alzò e si buttò sotto la doccia bollente.

La casa era vuota. Sua madre era al lavoro, come sempre, anche per lui. Questa era la cosa che gli pesava di più.

Il vapore aveva permeato la stanza mentre Michele sentiva le gocce, calde,

colargli lungo il corpo.

La doccia lo rilassava.

Uscì avvolgendosi negli asciugamani. Si diede una asciugata veloce e si mise addosso una comoda tuta nera.

Andò al piano di sotto, aprì il frigo e si attaccò al cartone del latte. Una buona sorsata e la colazione era fatta.

Si lavò i denti e accese il suo cellulare.

Distrattamente guardò la data, 24 settembre. Odiava quella data quanto odiava i cellulari, infatti il suo lo teneva perennemente scarico, almeno aveva la scusa per non chiamare le persone o rispondere a stupidi messaggi anche quando non ne aveva voglia.

Guardò il display. Nessuna chiamata.

Guardò l’orologio. Erano le dieci. A quest’ora sarebbero già dovuti essere davanti casa sua per arlo a prendere.

Scosse le spalle e si buttò sul divano dove si ritrovò a ridere, da solo, come uno scemo.

Pensò che, se qualcuno da bambino gli avesse detto come sarebbe diventato, mai vi avrebbe creduto. E ancora meno avrebbe creduto che ogni cosa sarebbe successa il 24 settembre.

Suonò il telefono.

Era Gabriele.

“Sei pronto?”

“Non so.”

“Cosa non sai?”

“Non so se voglio fare questa cosa e soprattutto non so se voglio farla proprio oggi.”

“Oh già è quel giorno...”

“Già è quel giorno...”

“Certo che è fantastico vedere come anni di terapia non ti siano serviti a un cazzo”

“Cioè?”

“Beh sai, il fatto che oggi sia quel giorno dovrebbe essere un motivo a spronarti, per cambiare la tua vita, invece che stare a casa a commiserarti come faceva lui, forse e dico forse, se facciamo questa cosa riesci a evitare di fare la sua fine.”

“Che stronzo.”

“Sarò anche stronzo ma è la verità, dai io ti conosco, non te ne è mai fregato un cazzo di niente e nessuno, tanto meno di tuo padre. Se tu e tua madre siete ridotti così è anche per colpa sua, invece che darsi una smossa ha preferito compiangersi per anni, stando davanti alla televisione o andando a caccia, di voi non gli importava un niente e tu lo sai.”

A quelle parole lo sguardo di Michele andò direttamente sul fucile da caccia di suo padre, che ancora stava nella piccola vetrinetta, accanto alla sua piccola carabina, più un giocattolo che altro, che suo padre gli aveva comprato per quando lo portava a caccia con lui, nel periodo in cui stava ancora bene, nel periodo in cui tutto andava bene. I ricordi di quelle giornate gli riaffiorarono violentemente nella testa, ma riaffiorarono non più come immagini sfuocate dal rancore, ma come immagini nitide, chiare.

Si ricordò di come adorasse quelle giornate nella natura con suo padre e i loro cani, ormai morti anche loro, della sua voglia di sparare con la piccola carabina. Voglia esaudita dal padre, ma solo contro delle lattine. Ora che ci pensava bene

si rese conto che non lo aveva mai fatto sparare a nessun animale, e il suo stessa padre non sparava mai agli animali quando era con lui, anzi spesso gli indicava uccelli, volpi e cinghiali ma solo affinché li ammirasse, li contemplasse, gustandosi il fascino della natura. Michele si ricordò con nitidezza il padre che imbracciava il fucile solo quando qualche animale pericoloso si avvicinava troppo a loro, allora caricava e puntava tenendo il dito sul grilletto, ma se l’animale scappava via subito lo abbassava e tornava a godersi il paesaggio col figlio con un grande sorriso stampato sul volto.

Anche quando andava da solo, non tornava mai con della selvaggina, e lui stesso vi scherzava su dicendo che era il peggior cacciatore del mondo. Forse semplicemente andava nei boschi perché voleva stare a contatto con la natura e portava il fucile solo per difesa personale se fosse successo qualcosa. Probabilmente l’unica volta che aveva sparato a qualcosa era stato a lui stesso.

Dopo tutti questi anni di rancore adesso si rendeva conto che suo padre era un brav’uomo e che forse non si era riuscito a rialzare perché non voleva scendere a compromessi con un mondo troppo crudele per lui, un mondo ancora più crudele di quelli della natura che ritrovava nei boschi dove tendeva rifugiarsi. Ed ora Michele sarebbe diventato parte di quel mondo che il padre riteneva peggiore del mondo animale.

“Quindi che fai?”

“Non vengo.”

“Non vieni... Stai dicendo sul serio?”

“Sì, non vengo e faresti bene a non andare neanche te, quella è gente pericolosa, hai visto quanta roba commercia?”

“Ma che pericolosa e pericolosa, appena hanno saputo che avevamo la loro roba sono scesi subito a compromessi e hanno accettato subito la nostra richiesta.”

“Solo perché la vogliono indietro, vale un sacco di soldi, ma una volta che gliela avrai consegnata, in quel luogo desolato, in mezzo ai campi chi ti dice che ti daranno quello che ti hanno promesso?”

“Chi me lo dice?”

“Sì, chi te lo dice?”

“Me lo dice la mia nuova amica, si chiama Beretta, ed è già nel cruscotto della macchina.”

“Non lo fare, ti farai del male.”

“Mi farò del male solo se non verrai ad aiutarmi, potresti prendere il fucile.”

“No, non se ne parla nemmeno.”

“Bell’amico che sei.”

“Proprio perché sono tuo amico ti dico di non andare, sotterragli la roba in un posto e digli dove è, che se la vadano a prendere da soli.”

“Non ci penso nemmeno a perdere tutti quei soldi”

“Cazzo! lo capisci che è gente pericolosa?”

“Ho la pistola.”

“Loro ne avranno di più e tu non hai mai sparato.”

“Non ci vuole molto a puntare una pistola e a premere il fottuto grilletto... certo che se fossimo in due...”

“Ho detto che non vengo.”

“Sì, bene, sai che ti dico allora? Vaffanculo, un vero amico mi guarderebbe le spalle!”

Michele scosse la testa.

“Qua l’unica persona che non è un buon amico sei tu, sei così ossessionato da qui soldi facili che mi faresti anche prendere una pallottola nello stomaco pur di averli. Io non sono un criminale... è vero sono un povero disperato ma non sono un criminale... e non lo sei nemmeno tu.”

“Questa è la tua ultima parola?”

“Sì.”

“Allora vaffanculo, spero che la prossima volta che ti vedrò sarai come tuo padre, perdente del cazzo.”

La telefonata si chiuse.

Michele tirò un sospiro mentre appoggiava il cellulare sul tavolo davanti a lui.

Prese il giubbetto di pelle e uscì di casa.

L’aria era fresca e pungente. La sentì mentre gli entrava nei polmoni. Il sole, sebbene flebile, si faceva sentire.

Controllò di avere il suo piccolo taccuino di pelle e la matita dentro la tasca interna del giubbetto.

Una volta accertatosi di averlo si lasciò alle spalle il portone di casa e si incamminò.

Sentiva il bisogno di andare verso la spiaggia.

Non capiva bene cosa gli stesse succedendo. Erano giorni che si sentiva diverso, meno disilluso, più sicuro di sé. Quasi tranquillo.

Arrivò alla spiaggia e si diresse verso alcuni scogli.

Il mare era grosso e le onde vi si increspavano spruzzando nell’aria un forte odore di salmastro che veniva trascinato lontano dal vento.

Michele aprì il suo taccuino in pelle e tirò fuori la matita.

Erano anni che non scriveva, da quando la vita non gli aveva più lasciato spazio per sognare.

Appoggiò delicatamente la mina sul foglio bianco.

“Scusa, ti disturbo se mi metto qua anche io?” chiese una voce gentile che proveniva da dietro di lui, “è il posto migliore dove godersi il mare senza rischiare di finire travolti dalle onde.”

Michele si girò, scocciato da quell’intrusione, per vedere chi fosse.

Davanti ai suoi occhi vi era una ragazza dai capelli rosso mogano a caschetto. Gli occhi verdi incorniciati da un simpatico cappello di lana rossa che le pendeva delicatamente di lato come ai pittori della Francia di fine ottocento.

Un bellissimo sorriso le incorniciava il volto.

Era vestita con semplici jeans e scarpe da tennis e portava un maglione verde sgargiante a collo alto. Accanto a lei vi era un cane nero, un pastore belga, con la lingua penzolante.

“No, figurati, siediti pure” balbettò Michele imbarazzato.

“Grazie, io sono Ileana,” sorrise la ragazza mentre gli allungava la mano.

“Io sono Michele.”

“Capito.” Sorrise lei... Poi dopo un attimo continuò: “E cosa ci fai qua di mattina, solo soletto, con un taccuino bianco in mano?”

“Stavo provando a scrivere qualcosa.”

“Sei uno scrittore?”

“No, non direi. Forse lo ero alcuni anni fa.”

“Se lo sei stato, lo sei, sicuramente, anche adesso,” puntualizzò lei sempre sorridendo mentre lo fissava, “altrimenti perché staresti qua, con questo freddo a fissare il mare con una matita in mano?”

Michele abbozzò un sorriso.

“Qua ci vengo spesso anche quando non scrivo. Mi piace stare ad ascoltare il rumore del mare e guardare il cielo a oriente, così, per sognare un po’. Ultimamente riesco a farlo poco e male anche quando dormo.”

“Mi dispiace, magari è solo stanchezza da stress per qualcosa…”

“Non penso,” rispose lui scuotendo la testa e battendo la matita ritmicamente sul piccolo quaderno di pelle “è più come se fosse... lascia perdere, non te lo saprei spiegare in maniera normale... diciamo solo che ultimamente ci sono molte cose che non percepisco come al solito, compreso me stesso. É come se contemplassi tutto quello che mi converge intorno in maniera differente dal solito, come se guardassi le immagini di un fumetto che conosco; conosco la storia, conosco i personaggi, conosco l’ambientazione, ma quando giro le pagine la storia non procede, invece mi si ripresentano le stesse figure, solo con colori diversi o con piccoli particolari differenti, non percepibili se non vi si fa attenzione. Alcuni particolari cambiati mi piacciono, altri invece mi spaventano, ma la cosa più

sconfortante è che non so più come andrà avanti la storia, perché la percezione e il cambiamento di anche un piccolo particolare nel disegno o nei dialoghi, potrebbe portare a cambiare tutta la linea narrativa. Questo mi fa paura, ma nello stesso tempo mi stimola a continuare, a voltare pagina. E, stranamente, questa cosa si ripercuote anche sulle sensazioni del mio corpo; per esempio, ieri sono andato a letto stanco, spossato e triste, come al solito, ma la mattina seguente, quando ho riaperto gli occhi, ero totalmente rinfrancato senza averne motivo, come se tutto quello fatto prima, che sembrava grigio e piatto, ora lo percepissi con un colore diverso, più vivace.... ma non mi chiedere il perché, poiché non te lo saprei spiegare, soprattutto considerando che alla fine dei conti la mia vita è schifosa come sempre... forse sto solo impazzendo... e, ovviamente, spaventandoti” sorrise mentre sollevava la testa dal quaderno e smetteva di battere la matita.

“Sai cosa,” intervenne Ileana, guardando il mare e accarezzando il cane che le si era accoccolato accanto “forse non c’è nulla di strano... forse, e sottolineo forse, questa sensazione è dovuta al fatto che dentro di te, senza accorgetene, hai reagito. Forse nonostante i dubbi e le difficoltà non ti sei arreso e ogni volta, ogni mattina, ti sei rialzato, come i supereroi dei fumetti, stile Spiderman per intenderci.”

“Non ti facevo un’esperta di supereroi a fumetti, mi sorprendi.”

“Figurati tigrotto con me fai sempre centro” sorrise “adoro i fumetti e se ti sorprendo per così poco, quando mi conoscerai meglio rimarrai esterrefatto.”

Sorrisero entrambi mentre guardavano il mare.

“Sai oggi non sarei dovuto nemmeno essere qua, ma, ora, sono felice di esserlo, altrimenti non ti avrei mai conosciuta.”

“Forse sono il tuo particolare differente di oggi” sorrise lei

“Penso di sì” disse Michele mentre lanciava un sasso in mare, raccolto ai suoi piedi, che si andava a perdere sotto le onde.

“Ma insomma, pensi di stare lì, con la matita in mano, tutta la mattina o mi farai leggere qualcosa?”

“Vorrei, veramente credimi” disse mostrando le mani e ridendo “ma le ho tutte intorpidite non penso che riuscirei a tenere la matita in mano.”

Ileana sbuffò: “Tutte scuse, tutte scuse, e comunque se è solo per questo il problema te lo risolvo io al volo!” Frugò nella grossa borsa a tracolla che portava e tirò fuori un paio di guanti bianchi e glieli porse. “Sei fortunato oggi” disse sghignazzando, “oltre a essere un’amante dei fumetti, mi diletto pure nel teatro amatoriale e, guarda caso, ho con me un po’di roba di scena visto che più tardi devo andare alle prove. Certo, non sono guanti di lana ma, un po’ ti dovrebbero scaldare, o almeno dovrebbero mettere un freno alle tue scuse.”

Michele prese i guanti. “Che cosa rappresentate?”

“Un’opera surreale, non te la saprei nemmeno spiegare tanto è strana, l’autore ha voluto provare a fare una rappresentazione occidentalizzata e surreale dei No teatrali giapponesi. Io e altre ragazze facciamo la parte di esseri demoniaci o divinità che danzano con maschere, grembiuli e guanti avvolte in un grande mantello porpora in maniera libera, cercando di mostrare i sentimenti che ci

percorrono e interagendo con gli attori che recitano... ogni nostra azione può obbligare a cambiare l’interpretazione degli attori in corso, anche se poi alla fine la trama di fondo si conclude sempre in maniera uguale.”

“Interessante” esclamò Michele, “un po’strano, ma interessante. Mi piacerebbe davvero venirlo a vedere quando lo rappresenterete... se non ti dà fastidio si intende.”

“No, anzi, mi farebbe piacere. Di solito la platea è sempre vuota a parte qualche conoscente.”

“Comunque, io, di maschere non ne ho bisogno e i mantelli e i grembiuli ormai sono fuori moda” le strizzò l’occhio.

I due si misero a ridere di gusto.

Michele mise la matita sulla pagina e iniziò a scrivere.

Stettero lì tutta la mattina a parlare e a ridere, tra un frase e l’altra, ancora una volta, per un’altra vita ancora.

Nuovamente altrove

“Si sta schiudendo” disse una voce profonda e sibilante “dunque ce l’ha fatta.”

Il tempio era buio ora e solo poche luci fatue schiarivano le stanze dandogli un aspetto sinistro e cupo.

Vi erano lunghe ragnatele che arrivavano da una parete all’altra. Tele filate in maniera perfetta e resistente.

Sopra queste tele un’infinità di bozzoli fremevano.

Biliku, la sacerdotessa del tempio, si muoveva lentamente girando per la stanza, accarezzando le ragnatele con delicatezza. Il letto al centro era illuminato da un circolo di candele che creavano zone d’ombra lungo le pareti. In quei giochi d’ombra i suoi lineamenti orientali e i tatuaggi risaltavano ancora di più e sembravano si muovessero sulla sua pelle, anzi sembrava che lei si muovesse tra le spire del serpente che aveva tatuato, come fosse stretta in un abbraccio amoroso. Vestiva con abiti indiani che le coprivano il corpo ma che lasciavano intravedere le sue forme morbide e sinuose. Si fermò davanti alla grande finestra, esaminò ancora un attimo la stanza poi rinfrancata sussurrò: “Bene, è tutto pronto per il loro ritorno, lui sta già giungendo, lo sento.”

Un riverbero scuro, che prosciugò per qualche istante tutta la luce delle candele, eruppe nel centro della stanza facendo rimanere Biliku immobile come se si trovasse in un quadro filtrato da una pellicola per vecchie macchine fotografiche.

Quando il bagliore ò e lo scorrere del tempo tornò normale Biliku si piegò in un inchino davanti alla figura di un uomo che portava una maschera senza volto: “Bentornato mio signore.”

Il corpo era slanciato, avvolto in un grande mantello porpora di velluto che gli cadeva lungo le spalle e gli copriva tutta la figura. Alle mani portava dei guanti bianchi come l’avorio e sul davanti, sopra il mantello porpora, un grembiule da lavoro, anch’esso bianco.

La figura, senza dire una parola, si diresse verso il letto che si trovava al centro della stanza, mosse le tende di seta che lo paravano ed esaminò il grosso bozzolo di tela che vi era sopra.

“Eccolo” disse Biliku indicando il bozzolo da dove una mano era improvvisamente uscita distruggendo la ragnatela. Di lì a poco la forma totale di un uomo ne uscì e si guardò intorno esterrefatto.

“Bentornato” disse suadente Biliku mentre gli si avvicinava con il suo bellissimo sorriso, porgendogli una bacinella di acqua bollente con sali aromatici e una spugna “lascia che ti pulisca, sei al sicuro qua, come lo eri prima.”

L’uomo, quasi incantato dalla voce della bellissima donna serpente, si lasciò avvicinare e pulire. Mentre sentiva la spugna calda sul suo corpo si guardava intorno non capendo dove si trovasse.

Intorno a lui, quasi invisibili, si allungavano ragnatele da una parte all’altra creando un completo sudario che li avvolgeva.

Alcuni bozzoli grandi e frementi erano poco distanti da lui e ammassati come una covata di uova.

Sapeva che avrebbe dovuto essere terrorizzato ma non lo era. Il canto della donna, sibilante ma profondo, mentre lo lavava e l’odore dei sali profumati lo tranquillizzavano.

Davanti a lui vedeva la figura di un uomo che lo guardava dal buio della stanza.

“Dove ci troviamo?” chiese rivolto alla sacerdotessa “e tu chi sei?”

“Due domande a cui non è facile rispondere. Iniziamo dalla più semplice. Io mi chiamo Biliku, sono la sacerdotessa del tempio in cui tu sei arrivato quando hai deciso di giungerci. Tu hai deciso di giungere qua per intraprendere il tuo viaggio, questo luogo non è nulla, non è la fine e non è l’inizio, è solo una stringa unica, immobile, all’interno di molte altre stringhe di una tela più complessa. Il tuo fisico è stato messo a dura prova, ma ora è stato ristorato. In ogni caso, questa era la parte più facile, infatti adesso dovrai curare le ferite della tua mente, che sono le più profonde e le più dolorose. Dal primo viaggio fino all’ultimo.”

L’uomo accennò con la testa che aveva compreso. Biliku finì di pulirlo e poi si allontanò lasciandolo seduto sul letto. L’uomo fissava l’uomo mascherato, immobili entrambi come due statue di cera. Una maschera inespressiva lo guardava silente e antico.

“Chi sei tu?” chiese l’uomo.

“Chi sei tu?” gli fece eco l’altro con una voce profonda che sembrava venire dall’alba dei tempi e rimbombava tutta intorno a loro.

“Io” balbettò l’uomo “Io, non mi ricordo. Non ricordo chi sono, ma ero sicuro di saperlo fino a poco fa.” Per la prima volta percepì la paura dovuta allo smarrimento.

“Non spaventarti, è normale che sia così, qua non importa chi si è o chi si è stati e, nemmeno, chi si sarà... qua l’importante è essere.”

“Cosa intendi?” chiese l’uomo scuotendo la testa.

“Continua a dirmi cosa ti ricordi” insistette l’essere mascherato.

“Ricordo, alcune cose e nulla. Ricordo di essere stato molte persone, di aver fatto molte cose. Ricordo di aver vissuto e ricordo di essere morto. Sono morto?” chiese buttandosi in ginocchio con le mani sul volto “sono morto.”

L’uomo mascherato lo guardava imibile, senza mostrare un minimo di pietà.

“Chi sei tu” chiese nuovamente l’uomo alzando il volto.

“Se vuoi sapere chi io sia, puoi vederlo coi tuoi stessi occhi. Alzati e levami la maschera. Sempre che tu lo voglia.”

L’uomo si alzò e gli si fece dappresso fino a trovarsi faccia a faccia.

Allungò la mano verso la maschera, mise le dita nei fori per gli occhi per fare presa e tirò.

La maschera, come fosse parte del corpo dell’uomo, faceva resistenza e, mentre tirava, sembrava che la pelle dovesse strapparsi, staccandosi con quella.

L’uomo mascherato non emise un gemito, mentre la faccia gli veniva tirata con forza e la pelle cedeva la presa.

L’uomo guardò sgomento negli occhi dell’essere che era lui stesso.

In quegli occhi vide tutto ciò che era stato e in quale modo fu. Il dolore che aveva portato e le gioie. Un marasma cosmico e caotico di sensazioni e di visioni di stringhe infinite tessute nell’universo e oltre, dipanate come una ragnatela disegnata su un foglio infinito chiamato universo.

Mentre assaporava tutto questo, l’uomo mascherato, come un fantoccio gli si afflosciò tra le mani, fino a rimanere un involucro vuoto, per poi scomparire come filamenti di ragnatela bruciati.

L’uomo alzò gli occhi e vide il mostruoso ragno sopra di lui. Enorme e sbavante era appollaiato sulla ragnatela, mentre come una madre amorevole tesseva i suoi bozzoli. I suoi molti occhi rossi sembravano fissare ogni cosa, anche al di là di quello che effettivamente si trovava davanti a lui.

“Finalmente sono pronto. Ora ho capito cosa era questa sensazione che mi ha spinto a mettermi in cammino, ora ricordo il mio scopo, la promessa” esclamò l’uomo. “Ti ringrazio.”

“Non devi ringraziare me” parlò il ragno. “Non ricorderai nulla di tutto ciò. Sarai tu a scegliere la tua strada e potrai sempre decidere di tornare indietro. Ve ne saranno moltissime davanti a te, alcune già tessute, altre no, ma la scelta finale spetterà a te e solo a te. Potrai tornare a essere ciò per cui hai camminato, ma potrai essere anche qualcosa di diverso. Ciò che sceglierai sarà ciò che sarai. Ora è tempo che tu vada, questo è solo un luogo di aggio. Biliku ti mostrerà la strada.”

La sacerdotessa gli fece cenno di seguirlo nell’altra stanza. Subito si incamminò senza voltarsi indietro. L’uomo la seguì.

Entrarono in una stanza tutta in marmo bianco. Appese alle pareti vi erano delle grosse torce che la illuminavano, facendo risaltare il suo colore; la stanza era completamente senza finestre e al centro spiccava una mastodontica statua di un serpente, simile a un cobra che dal soffitto si allungava verso il pavimento, nel suo centro, a fauci spalancate, fermandosi a mezz’aria. Sotto la sua bocca vi era tracciato un pentacolo al cui interno vi era un vaso chiuso. L’uomo notò che sulle fauci inferiori, nella bocca del serpente, vi erano due torce spente.

La sacerdotessa gli fece cenno di entrare nel pentacolo e prendere il vaso. L’uomo eseguì il compito rimanendo in piedi nudo al centro e tenendo il vaso sotto il braccio sinistro.

La sacerdotessa gli si avvicinò, staccò una delle torce spente dal dente del serpente e gliela ò nella mano liberà. “Ora hai tutto quello che necessiti di avere. L’unica cosa che ti posso ancora dire è di riflettere bene prima di ogni

decisione. Le scelte spettano sempre e unicamente a te,” disse guardandolo profondamente negli occhi. Lei gli si avvicinò, gli fece scivolare la mano sul torace seguendone le linee del corpo, fino al viso, ammirandone la compattezza e la forma. L’uomo, sentì i suoi occhi in tutto il suo essere, occhi di serpente, bellissimi e ammagliatori. Odorò il suo corpo profumato con gli stessi oli con cui lo aveva curato, mentre il volto della sacerdotessa si faceva sempre più vicino al suo. Le sue labbra sfiorarono quelle di lei, soffermandosi per qualche istante in un bacio profondo. Poi la bocca della sacerdotessa scese verso il suo petto, poi su verso la sua spalla fino a che l’uomo non sentì un bruciore lungo tutto il corpo quando lei lo morse. Sentì il bruciore del veleno che si espandeva lungo le sue vene, fino al suo cervello. Era un bruciore fitto e intenso ma non doloroso. Era come un’esplosione di sensazioni che facevano vibrare il suo corpo e soprattutto la sua mente.

La torcia nella sua mano si accese, per l’energia che sprigionava il suo corpo. Lo stesso fece la torcia rimasta nella bocca del serpente.

Entrambi iniziarono a bruciare, insieme, come un’unica cosa. L’uomo rimase immobile, non si scompose, non si spaventò, solo aprì gli occhi che ora erano sbiancati totalmente, come quelli di un cieco. Ma lui vedeva lo stesso, solo che il suo sguardo era al di la della sua conoscenza, era persa fra le stesse stringhe del suo essere infinito, era persa in tutte le diramazione della sua tela del destino. Poi tutto divenne solo spazio, nero e infinito, nessun suono, nessuna immagine. Solo vuoto.

Ma in quel vuoto scorse una luce, lontana. La luce sembrava ingrossarsi sempre di più sebbene non illuminasse nulla. Vide che gli si faceva sempre più dappresso, gigantesca, potente. Lo stava per investire. Avrebbe voluto scansarla, correre nella direzione opposta, ma niente di tutto questo era possibile poiché non aveva più un corpo.

La luce lo investì come una folgore. Sentì un dolore lancinante, mentre la sua

essenza sembrava esplodere.

L’unica cosa che gli venne in mente in quel momento fu il suo nome.

Nuovamente adesso

Ileana mugolò nel buio della stanza mentre si muoveva fra le coperte assonnata. “Amore vai tu? Io domani ho il turno alle sei.”

Michele le sorrise e la baciò sulla fronte mentre lentamente si alzava.

La guardò grazie alla luce che filtrava dalla finestra. A Ileana piaceva dormire con la luce della luna che entrava dalla finestra. Non chiudeva mai le persiane.

Erano ati anni da quando quel giorno in spiaggia si erano conosciuti e da quel giorno non si erano mai più lasciati.

Non erano sposati ma vivevano come una famiglia ormai. Michele la guardava come fosse sempre la prima volta. Amava il suo sorriso e adorava sentire il suo corpo addosso e il suo profumo.

Avevano due cani e un gatto e, soprattutto, avevano una bambina che adesso stava piangendo, come al solito, nel cuore della notte.

Aveva preso dal padre, come lui, la notte, riusciva a dormire poco.

Michele entrò nella stanza e accese la luce.

Sorrise alla bambina che adesso lo guardava silenziosa, nuovamente tranquilla.

Aveva gli occhi di un verde intenso come quelli di sua madre.

La chiamò sorridendo mentre la tirava fuori dalla culla per prenderla in braccio.

“Silvia”

Silvia era il suo nome.

Michele la cullò fino a che la bimba non si fu totalmente addormentata fra le sue braccia. Poi, con delicatezza, la mise nel suo lettino.

La coprì con le coperte e spense la luce.

Uscì sorridente.

Silvia dormiva beatamente. Lo faceva sempre quando suo padre la prendeva in braccio.

Il ragno la vegliò comunque. Aveva un lavoro da fare.

Piano piano gli si avvicinò silenzioso e iniziò a tessere nuovamente la sua tela immaginaria, irreale e invisibile a occhio nudo.

Da quel momento avrebbe iniziato a percorrerla. Da quel momento sarebbe stata una sua figlia. Con le sue gioie e i suoi dolori, come era la tela della vita.

Michele si svegliò di soprassalto nel buio della stanza da letto dei nonni di lei. Erano nella casa di villeggiatura dei genitori di Ileana, dove andavano sempre per poter avere un po’di intimità.

Era sudato e ansimava. Con calma cercò di rilassarsi. Mosse la mano accanto a sé e sentì il corpo di Ileana.

Accese la lampada sul comodino per illuminare un poco la stanza. Ileana non si svegliò. Lui rimase a contemplarla mentre dormiva imperturbabile.

Era addormentata profondamente.

Guardò la sua schiena sinuosa che non era coperta dalle lenzuola e sorrise. Ma, improvvisamente, si rese conto come di aver già vissuto quella scena, tutto era

nel posto in cui doveva essere; loro, la lampada sul comodino, le lenzuola e ogni cosa intorno a lui nella stanza.

Come in un déjà-vu si alzò dal letto e andò davanti allo specchio del bagno nella stanza accanto. Accese la luce e si guardò il volto.

Stanco per la nottata di amore ma ancora giovane e senza rughe fissò la sua immagine allo specchio.

Si guardò negli occhi, nei suoi occhi riflessi e piano piano gli sembrò come se stessero diventando più vecchi e più tristi. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda. Si schiarì lo sguardo strofinandosi gli occhi con le dita bagnate e tutto tornò normale.

Poi sentì la voce di Ileana che lo chiamava. Tornò nella stanza da letto e le sorrise.

“Mi sei mancato” disse lei in tono amorevole “stavi male?”

“No” rispose lui mentre si sedeva sul letto e si accendeva una sigaretta che aveva sul comodino lì vicino, “ho solo fatto un sogno strano.”

“Che sogno?” chiese lei incuriosita mentre con la mano lo invitava a dargli un tiro di sigaretta.

“Avevamo una figlia.”

Il fumò le andò di traverso e scoppiò a ridere mentre gli riava la sigaretta.

Michele la guardò stranito.

“Scusa” disse lei “è che doveva essere veramente un sogno. Te padre non ti ci vedo proprio.”

“E perché mai?” chiese lui con noncuranza.

“Via Michele, perché ti dovrei volere come padre dei miei figli... sì sei intelligente, mi piace come scrivi e scopi e io ti voglio bene ma...”

“Ma…” continuò Michele

“Ma sei inaffidabile... non hai finito di studiare, non hai un lavoro sicuro... che futuro gli potresti dare?”

Michele, diede una tirata alla sigaretta e buttò fuori il fumo con gli occhi persi nel vuoto: “Forse hai ragione.”

“Scusa non volevo...”

“Non importa, non mi sono offeso, è la verità... sono un egocentrico menefreghista, ma lo sono diventato dopo quello che ho ato...”

“E che non mi vuoi raccontare” finì la frase Ileana.

“Esatto, almeno per adesso...”

“Esatto...” ripeté lei.

“Però” continuò Michele “non è detto che sarò così per tutta la vita. Un giorno scoprirò chi sono veramente.”

Ileana sorrise, “vieni qua” e lo tirò a sé.

I due rimasero abbracciati in silenzio, stretti nei loro pensieri e nei loro dubbi, come delle mosche cadute nella tela del ragno che, appiccicate, non riescono più a muoversi; timorose che il ragno esca dalla sua tana e correndo lungo la tela venga a divorarle togliendole al filo del loro destino.

CAPITOLO SECONDO

C’era un tempo che rimanevo per ore ed ore con l’orecchio teso per sentirli, sentire le loro urla, sentire i loro bisticci. In quel momento lasciavo quello che stavo facendo e correvo alla finestra della mia camera che dava direttamente sulla strada.

Li osservavo mentre giocavano, correvano, litigavano. Sudati, affaticati e accaldati.

Spesso qualcuno finiva per terra e le ginocchia iniziavano a sanguinare strusciando sul terreno, ma, senza problemi, si rialzavano e continuavano a giocare come se nulla fosse.

Li invidiavo molto perché anch’io avrei voluto essere là. Essere tra loro a correre, giocare, sporcarmi, urlare e sanguinare, ma non potevo.

L’unica cosa che potevo fare era osservarli, come se fossi stato io stesso a divertirmi con loro.

Così la loro giornata diventava la mia, i loro amici erano i miei, la loro vita era la mia.

Come a un appuntamento prefissato aprivo la finestra e li guardavo. Ridevo con loro quando qualcuno cadeva in modo rocambolesco, parteggiavo per una squadra o per un’altra, avevo i miei preferiti e quando l’ora della giornata

giungeva al termine e tutti si salutavano per rientrare nelle proprie case, anche io li salutavo. Poi, lentamente, richiudevo la finestra e mi gettavo sul letto ripensando alla bella giornata appena trascorsa con il sorriso che mi solcava il viso.

Feci così per molto tempo. Non so perché ma non provai mai ad avvicinarmi o a presentarmi a loro; forse fu solo per timidezza o forse, semplicemente, perché mi ritenevo diverso e pensavo che loro non mi avrebbero accettato per quello che ero veramente. Ma forse, alla fine, la ragione portante era che li invidiavo. Invidiavo il loro modo di essere, allegro e spensierato. Di essere una cosa sola tra loro. Di essere così completi gli uni insieme agli altri.

Almeno questo era quello che vedevo dalla mia piccola stanza dalla quale li scrutavo e intanto imparavo guardando il loro modo di comportarsi, affinché, forse, un giorno anch’io avrei avuto la speranza di poter giocare ed essere accettato. Ero sicuro che un giorno la mia occasione sarebbe giunta e sarei riuscito a uscire da quel luogo in cui mi nascondevo per diventare il loro amico.

Intanto, però, facevo sogni strani. Sempre che fossero sogni. Alcune volte, infatti, non ne ero sicuro nemmeno io. E allora mi spaventavo, tutte le volte che sentivo il dolore attanagliarmi il corpo. E proprio in quei momenti avrei voluto avere qualcuno al mio fianco che potesse condividere con me quelle sensazioni, che potesse aiutarmi e completarmi per farmi capire il mio essere. Dove ero stato, cosa avevo fatto e dove mi trovavo in quel momento. Ero sveglio o non mi ero svegliato affatto, o non mi svegliavo perché ero già sveglio, ma chiuso in qualche recesso di chissà dove. Spesso non capivo se ero ancora addormentato e vivevo o se vivevo addormentato. L’unica mia ancora alla realtà erano loro con le loro voci, coi loro caratteri molto più forti e sicuri del mio.

La prima volta che mi successe mi trovavo nel giardino di casa, precisamente nel vialetto che collegava il portone al garage, dove mio padre era solito entrare con la macchina per parcheggiarla e dove io ero solito fermarmi a giocare in mezzo

all’erba.

Giocavo sotto al sole, seduto nel mezzo del vialetto, con delle macchinine della hot wheels.

A un certo punto mi sentii molto stanco e la testa mi girava, chiusi un attimo gli occhi e mi ritrovai nel medesimo punto, sempre con le miei macchinine in mano, solo che adesso il sole non c’era più e un temporale si stava avvicinando con dei lampi minacciosi. Rimasi a guardare le nuvole che, portate dal vento, andavano a coprire il sole. Sentii le prime gocce cadermi sul volto.

Vidi mio babbo uscire da casa sotto il temporale con un ombrello rosso che il vento faceva accartocciare a ogni folata. Immaginavo fosse uscito per riportarmi in casa, ma nemmeno mi vide. Corse in macchina e l’accese. Vidi i fari bianchi della retromarcia innestarsi e la macchina partire. Partire verso di me.

Mi scossi e provai ad alzarmi, mentre la Mercedes si avvicinava minacciosa. Provai a mettermi in piedi ma le mie gambe non si muovevano, erano come paralizzate all’altezza dell’inguine. Riprovai, ma nulla. Sentii solo un dolore lancinante allo stomaco. Iniziai a piangere mentre la macchina mi veniva incontro.

Lì, per la prima volta, avvertii qualcosa, come un ombra dietro di me. Non riuscii a vederla, ma ricordai che mi sussurrò che se avessi voluto salvarla avrei dovuto affrontare il dolore. Lo supplicai di aiutarmi ma non si mosse da dietro di me continuando a esortarmi ad alzarmi. Così smisi di frignare e iniziai a trascinarmi con le mani piantandole nell’erba e tirando come fossero artigli. Il dolore era lancinante, sembrava che le gambe mi si staccassero dal corpo a ogni movimento.

La macchina mi era arrivata quasi addosso. Mi trascinai di lato fino al muro che delimitava il vialetto, mi aggrappai con tutte le miei forze e mi tirai su rimanendo appeso come uno stoccafisso, appena un istante prima che la Mercedes mi asse accanto mancandomi di pochissimi centimetri.

Mi appoggiai esausto al muretto mentre i lampi saettavano in cielo facendo sembrare il paesaggio come una diapositiva consumata e vecchia.

Ero zuppo.

Tirai su col naso e guardai dove mi trovavo prima; lì, dove ero seduto, adesso c’erano solo le macchine giocattolo squassate per il aggio della Mercedes. Intorno a me nulla e nessuno.

Appoggiandomi al muretto mi trascinai fino in casa. Chiamai mia madre ma, stranamente, non vi era nessuno e di solito mia madre era sempre in casa a quell’ora. Le gambe ormai non le sentivo più, lo stomaco invece mi doleva come non mai, come se mi ci avessero conficcato una lama rovente. Feci le scale sempre trascinandomi con le mani e arrivato alla mia cameretta mi buttai sul letto piangente. Di lì a poco chiusi gli occhi e mi addormentai. Quando li riaprii ero di nuovo in mezzo al vialetto a giocare, mentre alcune nuvole minacciose si addensavano in lontananza. Subito mi alzai, senza problemi, ed entrai in casa prima che iniziasse a piovere. Quando vidi mio padre uscire di fretta e furia salendo in macchina e ingranando la retromarcia sentii una strana sensazione che mi corse dentro.

Quella fu la prima volta che mi successe ma in seguito ce ne furono altre e altre ancora.

Fedra.

In mezzo a quegli strani episodi vi erano però alcuni punti fermi, uno di questi era vedere i bambini giocare, soprattutto uno di loro.

Fra tutti, mentre li osservavo dalla finestra, a colpirmi fu una ragazzetta. Lei, sebbene fosse la classica figlia unica con una bella famiglia e due genitori che non le facevano mai mancare niente, dalle attenzioni più piccole ai regali più grandi, amava solo una cosa, stare fuori per strada a giocare coi suoi amichetti. Giocava a calcio, si picchiava e si vestiva come loro. Un piccolo maschiaccio che si sapeva far rispettare in quel gruppo dove lei era la diversa e la particolare. Certo, qualche volta c’erano degli screzi, ma erano screzi di bambini, duravano pochi minuti e poi amici come prima. Un’amicizia spensierata, non legata da vincoli sociali insomma.

Di questa ragazzetta mi colpì particolarmente il suo nome, Fedra. Questo fu sempre un qualcosa a cui mi potei appigliare, fino alla fine.

I suoi lineamenti mi ricordavano quelli di mia madre. Un viso tondeggiante e non spigoloso con un bel sorriso che espandeva felicità. Gli occhi, marroni scuri e un po’a mandorla, erano profondi e penetranti e incorniciavano perfettamente il suo viso, insieme ai lunghi capelli castani che le cadevano senza un taglio, selvaggi, lungo la schiena.

Alcune sere la sognavo. Erano sogni quasi tutti uguali, sogni in cui la inseguivo ma non riuscivo mai a raggiungerla per poi ritrovarmi solo e impaurito in mezzo al vuoto.

Solo una volta il sogno fu diverso, sebbene iniziasse allo stesso modo. Io la inseguivo e come al solito non riuscivo a prenderla, ma invece che ritrovarmi in uno spazio vuoto mi ritrovai in un lungo corridoio di una casa. Il corridoio sembrava non finire mai man a mano che procedevo.

Lungo la parete bianca vi erano delle porte ma senza i battenti. Ogni tanto mi fermavo e cercavo di vedere dentro ma non vi riuscivo. Vi erano solo ombre indistinte che si muovevano lungo le pareti, sul soffitto e sul pavimento che mi mettevano paura. La flebile luce del corridoio non riusciva a illuminare nulla lì dentro. Continuai ad avanzare, prima camminando, poi correndo.

Avevo il fiatone ma non mi volevo fermare.

Alla fine, esausto, vidi al termine del corridoio una scala a chiocciola.

Sopra quella scala, seduta dietro una vecchia macchina da cucire Singer, una di quelle che funzionava muovendola col piede sul pedale, vi era la mia bisnonna che era morta ormai da alcuni anni.

Mi sorrise e mi fece cenno di avvicinarmi.

Presi coraggio e mi ci feci dappresso. Lei continuava a sorridermi ma non smise mai di muovere il piede e cucire la tela che aveva appoggiata sulla macchina per cucire e sul grembo e che tesseva e tesseva andola velocemente fra le dita e il punto croce.

“Nonna” dissi incredulo.

Non mi rispose.

La guardai meglio per assicurarmi che fosse proprio lei. E mi resi conto che quella era la mia bisnonna. Aveva lo stesso aspetto dei giorni prima che la morte la prendesse vicina ai suoi cento anni. La testa non aveva quasi capelli, portava degli occhiali minuti e dalle lenti spessissime. La pelle era rugosa sebbene il sorriso fosse sempre radioso.

Le mani, nodose e consumate dal diabete che l’aveva divorata, si muovevano comunque con perizia e sicure mentre tessevano.

Poi c’era il suo odore, l’odore inconfondibile che aveva sempre addosso e che vi era nella sua stanza anche il giorno in cui era morta. Un odore fortissimo di lavanda misto a un profumo di gelsomino che usava sempre.

“Nonna, sei veramente tu?” chiesi nuovamente

Lei, lentamente, smise di tessere e fermò il piede.

“Come ti sei fatto grande” mi disse sorridendo, poi allungò la mano consumata dal diabete e mi accarezzò il volto.

“Sei fredda” dissi.

Come se non mi avesse sentito continuò, “cosa ci fai da queste parti?”

“Stavo inseguendo una mia amica. Non è che tu l’hai vista are?... è grande quanto me, capelli lunghi castani, occhi marroni... un bel sorriso.”

Mia nonna scosse la testa.

“Sai, non dovresti essere qua, potresti perderti.”

“Penso di essermi già perso, nonna.”

“No, non ti sei ancora perso.”

“E la mia amica... se si fosse persa lei?” chiesi.

“Non si è persa nemmeno lei, si sta solo nascondendo da qualche parte e prima o poi la troverai lei fa parte di te.”

Mi sentii sollevato.

“Ma dove siamo qua, nonna?”

“Secondo te dove siamo” mi chiese dirimpetto.

“Non saprei... in paradiso forse, visto che tu dovresti essere morta o qualcosa del genere.”

“Oh, tesoro, su quello non c’è dubbio, come non c’è dubbio che questo non sia il paradiso” sorrise.

“E allora dove siamo?” chiesi guardandomi intorno, “cosa sono tutte queste porte senza battenti?”

“Domande giuste, tempo sbagliato” sentenziò con noncuranza.

“Cosa?”

“Quando ti rifarai queste domande nel momento opportuno avrai già le risposte o almeno lo spero. Comunque ora devi andare” disse indicandomi la scala a chiocciola.

Mi risvegliai.

Non prendete le mie parole come il delirio di un folle, ma io già sapevo, sebbene ancora non ci conoscessimo, che le nostre vite erano legate e che senza di lei io non sarei potuto essere niente.

E, se sono arrivato a questo punto, non è stato solo merito mio. Infatti benché la mia indole sia di non arrendermi mai, alcune volte si ha bisogno di un o che sappia tirare fuori quella parte di te che tieni nascosta nell’angolo più recondito del tuo cervello. Molte volte sono state la sua razionalità e tranquillità a salvarmi da situazioni in cui difficilmente da solo avrei trovato una via d’uscita.

Dunque il sogno fu il prologo della nostra conoscenza. L’attimo in cui, per la prima volta, sebbene lei lo ignorasse, noi ci sfiorammo.

Da quel momento aspettai che le nostre essenze sentissero il richiamo l’una dell’altra e che inevitabilmente venissero a contatto.

Non dovetti aspettare molto. Il fatto accadde quando iniziammo a frequentare le scuole elementari del luogo in cui abitavamo in quel momento.

Io e lei eravamo nella stessa classe, ma, come in tutte le classi, vi sono dei ragazzi che fanno gruppo e dei ragazzi che sono esclusi. Io ero tra quelli che guardavano gli altri, da lontano, mentre a ricreazione si divertivano a rincorrersi, picchiarsi, tirare su le gonne alle ragazze o semplicemente a fare battute tra loro.

Io purtroppo ero uno di quei bambini che viveva nel suo mondo, isolato da tutti, che stava a guardare.

Fedra invece, grazie al suo essere un maschiaccio, era diventata piano piano accettata dal gruppo dei ragazzi come loro pari. Infatti benché di buona famiglia era comunque una selvaggia nell’anima e, forse, fu questo che in seguito l’ha avvicinata a me. Anche lei, all’inizio, fu esclusa e fatta oggetto di scherno per il fatto di essere una ragazza, ma, invece di mettersi a piangere come facevano molte bambine, taceva e si buttava nella mischia lottando con chi l’aveva insultata. Grazie a questa sua esuberanza di lì a poco sarebbe divenuta la leader del gruppo.

Inventava giochi che tutti facevano benché fossero sempre un po’violenti e faticosi. Adesso era lei a schernire e isolare chi si dimostrava più debole. Iniziò a tenere sempre il berretto da baseball in testa per sembrare più simile ai maschi nascondendo così i lunghi capelli che sua madre non voleva farle tagliare.

Io avrei pagato oro, e lo pagherei ancora, per correre con loro ridere e picchiarmi ma così non fu, perché ancora io dovevo capire chi fossi. Non mi sentivo ancora pronto ancora forgiato e, soprattutto, ero sempre perso a pensare a quello che le ombre mi mostravano quando mi trovavo solo a casa.

Accadeva sempre più spesso.

Un giorno, ero seduto in salotto, sul divano marrone di tela. Mio padre era al lavoro mentre mia madre era al piano di sopra a fare alcune faccende di casa. Fuori pioveva e cercavo di inventarmi qualcosa da fare di divertente. Alla televisione non c’era nulla di interessante e di studiare non ne avevo voglia. Fuori l’acqua scrosciava violenta e lampi e fulmini illuminavano il cielo seguiti dal boato dei tuoni. A un certo punto mi cadde l’occhio sul vecchio accendino d’oro di mia madre che giaceva sul tavolo. I miei genitori avevano smesso di fumare da qualche anno ma in giro, sparse per casa, rimanevano alcuni cimeli del periodo da fumatori dei miei, più come trofei da ricordo che altro. C’era il

pacchetto bianco di Muratti di mia madre e il portasigari toscani di mio padre e, appunto, l’accendino d’oro, di Cartier, di mia madre.

Lo presi in mano e iniziai ad accenderlo e spegnerlo. Guardavo la fiamma e le sue sfumature, il giallo, l’arancione e, proprio al suo interno, il blu. La fissavo per minuti e minuti, mi piaceva quel fuoco, aveva un che di magico nel misto dei suoi colori, sapeva di conoscenza e mi dava delle sensazioni piacevoli come se avessi un legame stretto con quell’oggetto.

Ero come ipnotizzato da quella fiamma e da quella luce, tanto che non mi accorsi che tutto intorno a me sbiadiva e diventava silenzioso, come quando sei a guardare un programma in TV e per il maltempo lo schermo diventa tutto a piccolissime chiazze intermittenti di grigio e nero.

L’unica cosa ancora che aveva colore era la fiamma dell’accendino.

Poi sentii accanto a me, indefinita come al solito, una presenza. Una presenza che mi guardava senza volto, senza lineamenti. Un’ombra nelle ombre, come un ricordo antico.

Spensi l’accendino richiudendo il coperchio sopra la fiamma.

L’ombra allora si mosse verso di me. Io la fissai mentre si avvicinava. Si fermò a pochi centimetri dal mio naso. Prese le sembianze della mia figura. Schioccò le dita, ma nessun rumore ne scaturì, solo una fiammella nera ma senza colore si propagò dal palmo della mano.

La guardai ammagliato mentre lentamente chiudeva la mano e la fiamma si spegneva come se non fosse mai esistita.

Lentamente alzai la mano sinistra, quella in cui non avevo l’accendino, la guardai sbigottito poi, come se sapessi cosa dovevo fare, schioccai le dita, pollice e medio assieme. Sentii un suono sordo mentre una leggere fiammella, colorata come quella dell’accendino, mi divampò sul pollice.

Rimasi a fissarla sbigottito mentre la fiamma bruciava, ma senza bruciare la mia pelle, nessun dolore, nessuna sensazione. Era lì, ma era come se non ci fosse. Muovevo il dito e la fiamma seguiva il movimento, incollata e viva.

Ero sempre stato attratto dal fuoco dei fornelli, degli accendini, e mia madre, più e più volte, mi aveva sgridato e ammonito di non avvicinarmi e di non scherzarci, che mi avrebbe potuto fare molto male, che non si scherza col fuoco, e ora ero lì con una fiamma in mano ed ero io il fuoco, io avevo il fuoco, avevo la scintilla e nessuno lo sapeva, nessuno avrebbe potuto togliermela.

Sorrisi.

Ma, il piacere e quella strana sensazione durarono poco. Questa volta fu il mio cervello a divampare, colto da un flusso continuo di immagini.

Immagini che mi coglievano ando nella mia testa. Immagini di ombre, ma così reali da farmi tremare. Grigie e nere anch’esse. Bruciavano, bruciavano con tutto quello che ero, con tutto quello che sarei potuto essere, con tutto quello che mi era intorno, il salotto, la casa, una donna, un uomo e io stesso, bruciavano e bruciando soffrivamo. Visi famigliari, sebbene dai contorni sfuocati, ma così vivi

nella mia testa, come un ricordo. Alla fine rimaneva solo cenere e io, illeso ma sofferente, di un dolore tale che era come se mille corvi mi strapero il fegato a morsi all’infinito.

Chiusi gli occhi, ma continuavo a vedere tutto nella mia mente, senza tregua, all’infinito, mentre il mondo bruciava.

Aprii gli occhi e vidi la fiamma che ancora ardeva sul mio pollice. Strinsi il pollice nella mia mano e tutto sparì, immagini, sensazioni, dolore e le ombre. Mi ritrovai a fissare l’accendino di mia madre che tenevo in mano, aperto. Tutto era tornato normale, fuori pioveva e tuoni e fulmini squarciavano il silenzio della casa.

In quel momento nella mia testa la sensazione di divampare sparì nel nulla così come era venuta.

Ce ne furono altre di esperienze simili, a volte dolorose, a volte piacevoli, sebbene, man a mano che crescevo, si fero sempre più rade fino a diventare solo piccole sensazioni di ricordi mai avvenuti, come sogni a occhi aperti.

Tutto ciò mi rese un po’schivo e sempre con la testa fra le nuvole; fino a che non la conobbi.

Alla fine il momento venne. Fu un giorno di scuola, mentre stava per iniziare la lezione dopo la ricreazione. L’atmosfera era ancora calda, infatti tutti gli altri miei compagni erano ancora sudati e col fiatone per le lunghe corse nel cortile della scuola e ancora ignoravano gli strilli della maestra continuando a ridere e chiacchierare intorno ai banchi.

Alla fine, quando la maestra riuscì a far calmare gli animi e spinse, chi di qua chi di là, nei banchi in malo modo, io, come per magia, mi ritrovai vicino Fedra. Dico per magia perché lei, nonostante andasse discretamente bene a scuola, stava sempre nelle ultime file dove sono soliti sedersi i bambini un po’più vivaci e chiacchieroni. Io, di contro, stavo in un angolo accanto al muro, lontano da tutti. In quel momento, invece, mi trovai al centro dell’aula nel banco accanto a lei e al suo amico Claudio.

Questo Claudio non era il suo migliore amico ma Fedra vi si trovava bene perché la idolatrava e l’aveva eletta come una sorta di capo, visto che era stato uno dei primi maschi ad accettarla nel loro gruppo. Infatti, anche adesso, i due continuavano, imperterriti, a ridere e scherzare senza curarsi di tutto quello che gli accadeva intorno.

La maestra dal canto suo era una persona che non mi piacque mai molto e nemmeno a Fedra. Era una donna che si stava avvicinando alla soglia della vecchiaia ma, invece che farla diventare più saggia, la faceva diventare più immatura. Era una sorta di personaggio pirandelliano, una di quelle vecchie che si vestono da giovani quasi rasentando il ridicolo e facendoti scoppiare a ridere sebbene da ridere non ci sia nulla, poiché lo fanno per estrema insicurezza verso il tempo che a. Truccatissima, coi capelli cotonati tinti di biondo lucente, con alle mani e al collo anelli e collane pacchiani che mettevano ancora di più in ridicolo il suo corpo grassoccio e cadente, stretto da lunghi vestiti dai colori più sgargianti.

Comunque, come dicevo, questa donna spesso e volentieri si metteva in competizione coi bambini che aveva nella sua classe, regredendo allo stato infantile lei stessa, urlando a sua volta contro di loro come una forsennata, conscia e gaudente del suo potere. Era come se sui bambini prendesse la sua rivincita contro la società per una vita vuota e senza gratificazioni. Spesso si accaniva, coscienziosamente, su un bersaglio, umiliandolo a parole per terrorizzare anche gli altri e mostrare il suo fantomatico potere. In quel caso la

preda designata era sempre Fedra.

Ma Fedra non era tipa da farsi impressionare per così poco e i grossi paroloni della maestra non fecero altro che suscitare in lei maggiore astio e senso di ribellione. Quel senso di ribellione che la rendeva agli occhi degli altri bambini un capo da seguire e da imitare.

Fedra aveva un unico punto debole, il non voler deludere i suoi genitori. La maestra lo aveva intuito e lo usava per atterrirla e spaventarla, minacciandola di note se non si fosse comportata bene, anche quando non era lei la diretta responsabile del comportamento agitato degli altri bambini. Questo fu uno di quei casi. Infatti, alla minaccia di nota, Fedra si calmò e si sedette subito al banco, appunto accanto a me, ma di contro gli altri bambini continuarono incuranti a divertirsi con grida e urla, non considerando minimamente le urla della maestra che, a quel punto, si incattivì nuovamente su Fedra, che fu buttata fuori dall’aula e le venne fatta la nota. Io la guardavo, sola, accovacciata nel corridoio, seduta per terra. Adesso era triste e vicina al pianto e mostrava il suo lato di ragazza. Ma quando fu richiamata in classe per porgere le proprie scuse, davanti a tutti, per la sua maleducazione, non la vidi piangere nemmeno per un istante. Forse sarà stata la sua ispirazione, ma fu in quel momento che sentì, per la prima volta, la voglia di ribellione crescermi dentro, incontenibile, alla vista di quella ingiustizia. E fu di nuovo per questo che, per la prima volta, lasciai l’angolo protettivo in cui mi ero nascosto per tutto quel tempo e mi alzai in piedi, andai davanti alla cattedra e dissi, a voce alta, che quella era un’ingiustizia, che Fedra non le doveva nessuna scusa per quello che non aveva fatto e che lei era solo una tricheca balorda e vestita male.

A quelle parole la classe scoppiò a ridere mentre gli occhi del tricheco divamparono e le gote le diventarono paonazze. Ovviamente ci fece la nota ad entrambi ma quando tornammo ai banche io e lei camminammo assieme uno accanto all’altra, mano nella mano, chiacchierando per la prima volta, come non avevamo mai fatto. Lei non si sedette più accanto a nessun altro che non fossi io.

Eravamo diventati amici.

Io fui assorbito dal suo mondo e lei dal mio.

Fedra diventava sempre più bella ogni anno che ava. Meno selvaggia, più educata, più femminile.

Ogni giorno ci trovavamo il pomeriggio per giocare assieme o semplicemente parlare.

Io spesso le raccontavo dei miei sogni e lei allora, gentilmente, si accostava a me e mi abbracciava. Poi mi faceva poggiare la testa sulle sue gambe e iniziava a leggermi qualche storia.

Più stavo con lei più le ombre diventavano un ricordo lontano.

Alcune volte io suonavo per lei, che mi ascoltava come rapita sulle note di Beethoven.

Crescevamo insieme.

Fedra non era più il maschiaccio di una volta, anzi adesso era una perfetta signorina, vestiva abiti eleganti, teneva i capelli sempre curati e acconciati. Leggeva ed era una studentessa modello. I suoi genitori erano talmente orgogliosi di lei da trattarla come una principessa viziata.

Dal canto mio anche io ero cresciuto. Ero meno asociale e più sicuro di me. Ma, nonostante tutto, il mio animo era però più irrequieto. Ero felice di aver ato la mia infanzia con Fedra, avevo imparato molto da lei; come comportarmi, come stare al mondo. Ma, dentro di me, sentivo che avevo bisogno di altro. Mi mancava qualcosa. Avevamo quasi quattordici anni ormai e un altro periodo della nostra vita, finite le scuole medie, si stava per aprire. Io ero lì a guardare dal buco della serratura di quel portone, cercando di intravedere cosa vi fosse al di là, bramando di trovare chissà cosa, forse un nuovo mondo, un nuovo me stesso.

Probabilmente se ne accorse anche lei visto che, una calda notte d’estate, mi prese da parte con gli occhi lucidi.

Alla luce della luna piena, estiva, era ancora più bella. I suoi lineamenti si erano affusolati sempre di più e la pelle abbronzata la rendeva simile alle donne descritte nei racconti delle mille e una notte. Più cresceva più sembrava simile a mia madre.

Il suo sorriso mi rincuorava e anche quella sera quando mi prese le mani nelle sue, sentii il cuore sobbalzare.

“Sento che ti stai allontanando da me.”

“Non mi sto allontanando” risposi senza riuscire a guardarla negli occhi, alzando lo sguardo alla luna, “è solo che siamo cresciuti.”

“Lo so” sospirò lei.

“Non è che…” balbettai “non ti voglia più accanto a me, sei il mio punto di riferimento, la mia sicurezza... ho imparato molto da te e ti porterò sempre con me ma...”

“Ma...” continuò lei.

“Ma sento la necessità di staccarmi, cercare cose nuove, riempire i bisogni che ho dentro... altrimenti temo che mi divoreranno quando crescerò.”

“Lo capisco, solo...” disse asciugandosi una lacrima e avvicinandosi a me per abbracciarmi, “cerca di non dimenticarmi, portami sempre con te e sappi che, se mi cercherai, io ci sarò sempre... se non mi troverai subito cercami ancora... e ancora...”

“Non ti dimenticherò” le bisbigliai, ma anche a me quelle parole risultarono poco credibili.

“Sei sempre stato con me... il mio cavaliere... devi farmi una promessa” mi disse costringendomi a guardarla negli occhi “quando avverrà non lasciare che ti faccia del male, non lasciare che ti porti via tutto quello che sei e che sarai...”

“Non lo permetterò” risposi, anche se non comprendevo bene a cosa si riferisse.

Ci abbracciammo e ci tenemmo stretti per tutta la notte, fermi, ad ammirare le stelle.

Da quella sera non la rividi più per molto tempo.

All’inizio mi trovai un po’spaesato, di nuovo solo, ma fu un momento eggero perché quando il portone della mia nuova vita si spalancò, subito, ebbi la fortuna di trovare un nuovo amico fidato.

Esopo.

Mi viene da sorridere quando la gente mi chiede di Esopo.

Ma, badate bene, non perché sia buffo parlare di lui o perché voglia offenderlo, ma solo perché fino all’età in cui iniziai a frequentare il liceo non sapevo nemmeno che esistesse.

Lui, invece, sosteneva di sapere chi io fossi e addirittura che alle medie avessimo iniziato a parlarci.

Forse, non lo riconobbi, per il fatto che era cambiato moltissimo da quando era alle elementari e alle medie. Infatti mi raccontò che prima era stato un ragazzo grasso e molto introverso, che si faceva valere solo con la forza e con le angherie verso gli altri compagni o, forse, era solamente perché io ero troppo preso da Fedra.

Comunque alle superiori me lo ricordo chiaramente. Alto, capelli lunghi e biondi, occhi di un azzurro profondo che lo facevano sembrare quasi un guerriero nordico. Fisico asciutto con un look un po’ grunge, stile Kurt Cobain dei Nirvana che poi erano il suo gruppo preferito.

La prima volta che lo notai eravamo all’entrata del liceo classico, sul portone, il primo giorno della nostra nuova avventura.

Io vestivo una camicia bianca allacciata fino al colletto, un maglione a gilet quadrettato giallo girocollo e portavo dei mocassini lucidi e puliti coi capelli ben pettinati.

Lui, invece, arrivò con jeans strappati, scarpe slacciate da tennis, un maglione verde aperto molto largo e capelli lunghi e spettinati che gli cadevano più sul volto che lungo le spalle.

Ci guardammo un secondo mentre stavamo per varcare la soglia della nostra nuova scuola.

Il portone si ergeva davanti a noi aperto e anche un po’minaccioso. Dopotutto sarebbe stata la nostra nuova vita.

La camla era già suonata da qualche minuto e gli altri erano tutti entrati.

“Andiamo” mi disse facendomi cenno con la testa e allargandomi un sorriso bianco e perfetto, vedendomi titubante.

Non risposi, feci solo cenno di sì con la testa ed entrammo.

Fummo fortunati poiché ci misero nella stessa classe.

Da quel momento vivemmo i nostri anni di liceo sempre assieme, sebbene fossimo differenti l’uno dall’altro. Ci compensavamo. Anche se, forse, a dirla tutta, ero più io che vedevo lui come modello da seguire. Totalmente diverso da quello che io e Fedra eravamo stati fino ad allora.

Mi affascinava il suo modo di fare, così libero, scanzonato, ribelle. Mi faceva gola.

Adoravo il suo menefreghismo, il suo modo di essere indipendente e anticonformista. Così diverso dall’educazione che mi era stata imposta come lo stile di vita giusto fino a quel momento.

Così gli stavo vicino e imparavo.

Ascoltavo i gruppi che ascoltava lui, grunge, rock, metal, punk. avo ore ad ascoltarli, a cantarli. Quei ringhi così potenti, come uno sfogo urlato al cielo, come un volere imporre che la gente ascoltasse un monito su una società che stava cambiando, mi entusiasmavano.

Lasciai la musica da pianoforte e i libri con storie dal sicuro lieto fine per buttarmi su racconti crudi, basati sulla società, dove tutto era il contrario di tutto

e dove bene e male spesso si fondevano senza che si potessero ben delineare.

Iniziai a vestire come lui, a farmi crescere i capelli e di lì a poco divenimmo pressoché identici.

Leggevamo gli stessi libri, gli stessi poeti che ci consumavano l’anima con le loro parole.

Uscivamo insieme, bevevamo birra, alcool e poi rimanevamo ore a raccontarci le nostre opinioni dietro il fumo di una sigaretta.

Ci piaceva vivere la vita dei poeti maledetti. Avevamo il nostro bistrot, avevamo le nostre muse, avevamo questo stile di vita nel sangue che ci pulsava nelle vene fino al cuore, ampliando il nostro battito fino al punto che sembrava come se dovesse esplodere da un momento all’altro. Pompava il nostro sangue come una droga, come un anfetamina, rendendoci liberi.

Quante volte si tornava a casa puzzando di vomito da alcool, fumo e sesso. Ed era l’odore più bello del mondo, un odore che mai ritrovai da altra parte. Esopo mi fece conoscere anche quello.

Il suo menefreghismo faceva colpo sulle ragazze e spesso io ne approfittavo.

Uscivamo in quattro.

E la cosa buffa era che, ad essere più attratte da noi, erano le ragazze che erano come io ero un tempo, come era anche Fedra, ben curate, perfettine, dai vestiti impeccabili, che, quando uscivano con noi, si trasformavano. Era come se la nostra essenza le corrompesse facendole diventare una piccola parte di quello che eravamo e che si completava nell’atto sessuale forte e protratto.

E questo non succedeva solo con le ragazze, ma anche coi nostri amici che diventavano per una notte nostri compagni di bevute. Li sentivamo bestemmiare verso il loro modo di vivere e verso i loro genitori. Li sentivamo, per la prima volta, divertirsi come non avevano mai fatto in vita loro, tra droghe, alcool, ben sapendo che, quella sera, tutto sarebbe potuto succedere e tutto sarebbe successo. Il divertimento era assicurato.

In quel periodo non vidi più Fedra, non sapevo che fine avesse fatto e non mi interessava.

Alle medie c’eravamo allontanati, piano piano, senza mai guardarsi indietro. Lei ferma sul suo stile di vita, forse un po’ bambinesco, io che invece iniziavo a sentire la necessità del cambiamento. E adesso capivo perché non riuscivo più a vedere le cose come lei, col suo sguardo da bambina, sempre felice, sempre giocoso.

Io stavo diventando disilluso perché iniziavo a crescere e quindi iniziavo a vedere le potenzialità della vita in tutti i suoi angoli sia quelli più bui che quelli più illuminati.

Una volta provai a parlare di Fedra a Esopo.

Lui mi stette ad ascoltare mentre raccontavo di questa mia amica, di come era fatta, di come c’eravamo divisi. Mi ascoltava in silenzio dietro la sua Guinness nera che piano piano calava, tra una sigaretta e l’altra.

Alla fine della storia, mi guardò per un po’ fisso negli occhi, senza dire nulla, poi distolse lo sguardo, si appoggiò con la schiena alla sedia, diede una tirata alla sigaretta e fece uscire il fumo con una boccata mentre lo guardava andare verso l’alto e sentenziò: “Era solo una stupida bambinetta viziata... è stata la tua fortuna essertela levata dai coglioni.”

Rimasi fermo, imibile, né arrabbiato né stranito.

Poi continuò: “Cazzo era solo una stronza figlia di papà che credeva di poter fare il cazzo che gli pareva con te... eri il suo peluche in carne e ossa. Ovvio poi che una che vive una vita del genere, una favola, rimarrà sempre ancorata alla sua vita del cazzo, sempre felice. Non avendo problemi perché dovrebbe cercare altre cose... ovviamente finché dura. Ripeto, è stata la tua fortuna essertela levata dai coglioni, saresti divenuto uno stronzo come lei e al primo problema che la vita ti avesse messo davanti ti saresti tagliato le vene.”

Le parole per quanto semplici, colpirono come un maglio la mia mente, ando al setaccio quello che forse in quel momento sarei potuto essere se fossi stato ancora solo con Fedra.

La schiena fu scossa da un brivido, finii in un colpo la birra e ordinai un rum per me e uno per Esopo.

Brindammo alla perdita di Fedra e al fatto che ormai lei era solo un ricordo e

nemmeno tanto vivido e che, di lì a poco, sarebbe sparito nel nulla.

Esopo era così, menefreghista dei suoi sentimenti, di quelli degli altri e delle persone.

Non mi sarei stupito se un giorno fosse sparito e non lo avessi più sentito, ma già sapevo che non sarebbe mai successo perché anche lui, a modo suo, aveva bisogno di me come io di lui.

Però quando lo guardavo, dentro quei suoi occhi verdi, riuscivo a vedere un mondo, un mondo che mi aveva assorbito, un mondo che capivo ma che a volte mi faceva paura.

Esopo aveva dentro di sé una rabbia insana, ma che, come diceva lui, era quella che gli dava la forza per andare avanti.

La rabbia lo teneva vivo e lo distruggeva allo stesso tempo consumandolo.

Le ragazze che andavano con lui erano quelle che di più venivano mangiate dalla sua vita.

Tutte credevano di poter penetrare nel suo mondo, o, comunque, che lui gli aprisse le porte per poterlo almeno vivere, ma il problema era che non era lui ad avere le chiavi per il suo mondo, lui vi era solo imprigionato dentro e non riusciva a uscirne e, dunque, lo poteva solo vivere da spettatore solitario.

Nessuno poteva entrare in quel luogo.

Quante ne vidi piangere mentre venivano abbandonate davanti a quei cancelli, con durezza e in malo modo.

Era come un re seduto sul suo scranno che dall’alta torre regnava su una città di cadaveri.

Un tiranno iracondo che sapevo, un giorno o l’altro, avrebbe potuto chiedere anche la mia testa, poiché io ero l’unico ad aver la chiave per accedere, a mio rischio e pericolo, in quel luogo tetro.

Spesso guardavo queste ragazze da lontano che piangevano e mi si stringeva un nodo in gola, allora mi giravo verso di lui sperando che mi dicesse di andare a consolarle ma, invece, imibile, mi faceva solo segno di allontanarci.

Non me la sentivo di condannarlo, mi aveva insegnato troppo ed era come il padre che non avevo mai avuto. Mi proteggeva e mi insegnava le regole della strada. Inoltre sapevo della sua famiglia e quindi tendevo a scusarlo. All’ultimo anno delle medie suo padre aveva perso il lavoro ed era partito di testa.

Tutto era diventato difficile.

I vecchi amici erano spariti e le voci sulla sua famiglia si rincorrevano di bocca in bocca. Erano ati dal fare una vita normale a sopravvivere a stento.

La madre aveva fatto il meglio che aveva potuto, sobbarcandosi ogni sorta di lavoro, faticoso e con un basso stipendio, intanto che aspettava che il marito si riprendesse.

Ma il padre di Esopo non faceva altro che are le giornate davanti alla televisione e sua madre, ogni anno, non faceva che sfiorire ed essere sempre più assente in casa a causa dei lavori e della stanchezza.

Esopo mi raccontava che, spesso, ava dal salotto dove era perennemente seduto suo padre e questo nemmeno lo salutava, come fosse in trance, distaccato da tutta la realtà che lo circondava, come quando si è in coma, imprigionati dentro un corpo, immobile, ma la nostra essenza cosciente all’interno, solo focalizzata chissà dove; solo che in quel caso era il corpo a essere imprigionato nei recessi della mente che non voleva più avere nulla a che fare con tutto ciò che gli girava intorno, lui compreso.

Questo era continuato anche negli anni successivi, senza tregua, ma solo con l’aggiunta di scatti d’ira dovuti alla frustrazione per quella situazione. Esopo, però, in quegli occhi non vedeva solo odio ma anche tristezza e commiserazione, per questo non riusciva ad odiarlo, sebbene il padre sfogasse le sue frustrazioni principalmente su di lui, umiliandolo e denigrandolo in ogni modo possibile.

Per questo motivo era spesso fuori di casa, battendo le strade per imparare la vita. Tutto quello che gli avrebbe dovuto insegnare il padre glielo aveva insegnato la strada.

Un giorno era rientrato e aveva trovato suo padre con la testa spappolata e il fucile in bocca.

Mi raccontò, da ubriaco, che quello fu il giorno più felice della sua vita. Perché, per una volta, suo padre non era stato egoista né verso di loro né verso se stesso e aveva messo a posto quella situazione che ormai era insostenibile e li stava devastando. Lì, in quell’attimo, aveva provato orgoglio dopo tanti anni di vergogna. Vergogna non per la situazione, ma nel vedere l’eroe e l’esempio della sua vita da bambino ridotto in quello stato, un mostro che riconosceva a stento e che non riusciva a reagire per ritornare a essere almeno simile a ciò che era prima.

Quindi stette ad ammirare il cadavere per qualche minuto e le uniche parole che gli vennero alla bocca furono: “Grazie babbo.”

Poi chiamò la polizia.

Aspettò in silenzio accanto al corpo di suo padre, tenendogli la mano, senza mai versare una lacrima. Non avvertì nemmeno sua madre. Si volle godere quell’istante da solo con l’uomo che era stato suo padre, che ammirava e che aveva ritrovato forte e sicuro di sé come un tempo. Aiutandolo nel trao, tenendolo per mano, come tante volte aveva fatto lui quando lo portava nelle sue battute di caccia nei boschi.

Quando arrivarono i carabinieri e i paramedici lo trovarono lì seduto, appoggiato al divano, ancora con la mano nella mano del padre, che fissava il vuoto senza espressione.

Poi raccontò come aveva trovato il corpo. Chiamò sua madre e gli disse l’accaduto.

Non pianse nemmeno quando la madre tornò a casa in lacrime, mentre, davanti al portone, si era creato già un capannello di curiosi, soprattutto vicini, che li guardavano e bisbigliavano.

Quando il corpo fu portato via e i parenti, che si facevano vedere solo in quei momenti topici, avevano preso possesso della casa con i loro abbracci e le loro parole finte, sicuro che sua madre fosse tranquilla con loro, prese la moto e se ne andò a sbronzarsi e a divertirsi tutta la notte.

Quella notte non parlò molto. Si limitò invece a bere e a fumare ando da un posto all’altro.

Il Silenzio era la sua parola e la sua preghiera.

In quel periodo le ombre non mi assalirono più, solo i sogni erano più frequenti. Spesso la mattina mi alzavo madido di sudore perché sognavo un ragno gigantesco. Era sempre intorno a me e mi guardava coi suoi mille occhi. Erano terrificanti, stavano lì senza muoversi, limitandosi a fissarmi, come se si aspettassero qualcosa da me. E io, in preda al terrore, restavo fermo o al massimo provavo a scappare sebbene intorno non vi fosse nulla se non un grande portone spalancato che dava su una rocca medioevale cinta da mura sui cui bastioni vedevo ergersi solo corvi e teschi infilati in delle picche. E, se quel ragno era terrificante, quella cittadella lo era ancora di più.

Quindi mi fermavo, indeciso e pauroso sul da farsi, poi l’angoscia mi assaliva e mi destavo sudato e col fiato corto.

Non diedi mai molta importanza a quei sogni, reputandoli solo il giusto risultato

di alcool, fumo e qualche droga che contornavano la mia vita. Almeno mi davano ispirazione e le sensazioni che provavo iniziai a metterle per iscritto rendendole o poesia o racconti. Insomma iniziai a scrivere.

La scrittura mi isolava ed Esopo sembrò accorgersene. Era come se qualcosa si fosse rotto. Lui non era più il mio punto di riferimento. Ora lo era la scrittura.

Capii subito che il nostro rapporto era destinato a incrinarsi e così infatti successe.

Solitamente la mattina arrivavo davanti al portone della scuola e lo trovavo lì a ridere e scherzare, infischiandosene dei professori che lo vedevano.

Poi, quando suonava la camla, gli bastava farmi un cenno con la testa e insieme ci incamminavamo al bar davanti alla nostra scuola.

Colazione e poi in giro a bivaccare per le città limitrofe, nei bar, nei parchi, nelle librerie o nelle sale giochi, per poi tornare all’ora della fine della scuola a salutare i nostri amici e tornare a casa.

Fu così la nostra vita per quegli anni, solitaria, divertente e menefreghista. Ma quando scoprii la scrittura sentii il bisogno di altro e mi tornò alla mente l’immagine di Fedra. Iniziai a farmi delle domande su dove fosse, se si sarebbe ricordata di me, se mai sarei riuscito a ritrovarla.

Alla fine decisi che l’avrei cercata. Dopotutto fu proprio lei a dirmi che se

l’avessi fatto prima o poi l’avrei ritrovata e, così fu.

Era un pomeriggio, ed era inverno. Faceva freddo, ma nonostante questo ero fuori a godermi la giornata soleggiata.

Ero seduto su una panchina in fondo a un parco dove solitamente non veniva nessuno, probabilmente perché non era un parco vero e proprio; Infatti aveva l’erba alta e non era curato, il classico parco in cui non porteresti tuo figlio a giocare insomma. Quindi era perfetto, un posto solitario con una panchina dove poter scrivere in santa pace.

Ne venni a conoscenza l’anno prima con Esopo, entrammo giusto per curiosità. Ci piacque subito quella pineta e quando volevamo stare un po’ tra noi per bere, fumare e pensare andavamo lì. Sempre seduti sulla solita panchina, l’ultima, la più nascosta in fondo al parco.

Ora, questa, era diventata la mia postazione dove ero solito andare a rilassarmi quando volevo trovare l’ispirazione per scrivere. Mi sedevo sulla panchina e tiravo fuori il mio taccuino e la matita, il pacchetto di Marlboro rosse e iniziavo a pensare.

Accanto a me c’era sempre Esopo, anche a lui piaceva quel posto, gli piaceva sedersi per terra con la schiena appoggiata alla panchina, a contatto con l’erba. Si metteva lì, beveva qualcosa che si era portato stando seduto a guardare tra il verde e a rimuginare fra sé.

Ma non era l’unico che trovavo in quel luogo. Anche Fedra era solita venirci e proprio lì l’avevo ritrovata. Quando la rividi era come se non ci fossimo mai

allontanati. Anche lei era ammagliata da quel posto e le era piaciuto subito. Le avevo presentato Esopo, che, nonostante i suoi modi burberi, sembrò totalmente preso da Fedra e viceversa. avamo le giornate lì, insieme, tutti e tre, finalmente in pace con noi stessi.

Fedra, a differenza di Esopo, era solita sedersi accanto a me e leggere tutto quello che scrivevo, aiutandomi a migliorare delle parti con la sua spiccata sensibilità.

Esopo invece era un compagno silenzioso, stava seduto osservando tutto quello che c’era intorno a lui, godendosi i raggi flebili del sole, che filtravano fra le fronde degli alberi, e gli scalfivano la pelle. Una presenza che infondeva sicurezza.

Ero lì da un’ora quando sentii qualcuno che mi chiamava, alzai la testa dal taccuino e vidi, quasi incredulo, una figura che si stava avvicinando, una figura di ragazza. Era la prima volta che vi trovavo qualcuno all’infuori di me.

“Hey!”

“Hey” salutai cercando di far are il taccuino senza essere notato dietro di me “ci conosciamo?”

“Sì, ci siamo visti ai corsi di recupero, non so se ti ricordi... siamo nella stessa scuola ma in sezioni diverse. Hai fatto quella battuta idiota sul mio cognome.”

“Ah” dissi mentre mi tornava alla mente la scena.

Sorrise: “Allora ti ricordi.”

“Più che altro, mi ricordo della battuta, non faceva nemmeno ridere e chissà in quanti te l’hanno già fatta.”

“Effettivamente.”

“Solitamente non faccio battute così penose ma durante i corsi di recupero non ero al meglio. Odio quei corsi, li trovo stupidi e inutili, mi piacevano molto di più gli esami di riparazione a settembre.”

“E perché?” chiese lei incuriosita

“Perché all’inizio dell’anno mi potevo scegliere le tre materie che non volevo fare e fregarmene totalmente, venivo rimandato di quelle tre materie e a settembre in un giorno, o al massimo due, facevo l’esame, se lo avo bene, altrimenti amen. Adesso invece mi devo sorbire dei corsi insulsi, con gente insulsa, nel pomeriggio quando avrei di meglio da fare. Dimmi te se non è una tortura.”

Lei rise di gusto: “Grazie per avermi dato dell’insulsa.”

“Di nulla, per così poco” risposi.

“Vedi, quando vuoi le battute ti riescono meglio” disse di rimando. “Sei quasi simpatico. Comunque, effettivamente, non posso darti torto, li ho provati solo una volta ma mi è bastato.”

“Come è che ti chiami?” chiesi, “non mi ricordo, a parte il cognome, voglio dire.”

“Milena” rispose.

“Io sono...” ma non mi lasciò finire la frase.

“Michele” disse prontamente.

“Ah, ho capito, mi conosci...” sospirai.

“Beh circolano un bel po’di voci su di te.”

“Sicuramente sono tutte sbagliate, io sono ben peggiore di come mi raccontano.”

Lei scoppiò a ridere di gusto: “Non ne avevo dubbi.”

“Comunque che ci fai da queste parti?” dicemmo quasi all’unisono.

Feci cenno con la mano che parlasse lei per prima.

“Abito qua vicino però di solito non ci vengo mai, ma oggi la situazione in casa era pesante e quindi non sapendo dove andare sono venuta a fare una eggiata.”

“Problemi famigliari” sospirai “un classico.”

“Sì, mia madre e mio padre. Lui la tradisce... penso abbia un’altra. Immagino che mia madre lo sappia ma credo stiano cercando di recuperare il rapporto per noi, me e mia sorella, ma senza successo a quanto sembra, visto che non fanno che litigare.”

“Capisco” le dissi mentre mi frugavo nella tasca interna della giacca per tirare fuori una bottiglia da taschino. La stappai, diedi un sorso digrignando i denti mentre sentivo il Jack Daniels che vi avevo messo dentro scendermi lungo lo stomaco scaldandolo. Poi gliela porsi: “Un po’di whisky in certe situazioni aiuta.”

“No grazie. Comunque, bella la bottiglietta da alcolizzato, l’avevo vista solo nei film per adesso, non pensavo che qualcuno la usasse veramente” disse con ironia.

Sorrisi compiaciuto per la risposta mentre riponevo la bottiglia nel taschino. La

guardai con interesse. Era difficile che qualcuno mi colpisse con una risposta cosi tagliente.

Era alta, sicuramente sopra il metro e settanta. Aveva i capelli neri e lisci a caschetto che le ricadevano fin sopra le spalle. Una simpatica frangetta le andava a finire quasi sopra gli occhi marroni e intensi. Il naso era un po’adunco e leggermente sproporzionato rispetto alle labbra ben delineate e sottili. Molto filiforme di fisico e slanciata con poco seno, come piaceva a me. I jeans stretti che indossava le delineavano perfettamente i fianchi e il sedere.

“E tu che ci fai qua?” chiese “a parte per bere, questo è palese.”

Sorrisi di nuovo, presi il pacchetto di sigarette e gliene offrii una. Questa volta la prese di buon grado. Accesi la mia sigaretta e poi la sua. Mi piaceva come fumava. Teneva la sigaretta fra l’indice e il medio con il resto della mano chiusa, la portava alla bocca lentamente, ne dava una bella boccata e poi con le labbra semiaperte si girava o a destra o a sinistra, con il volto leggermente reclinato verso l’alto per far uscire il fumo e intanto incrociava le gambe e si stringeva con le braccia al petto.

“A parte bere e fumare nulla direi... mi godo il paesaggio, questo posto mi rilassa e solitamente non c’è nessuno a disturbare.”

“Se vuoi me ne vado.”

“Come ti pare” dissi più per sfida che per il fatto che volessi che se ne andasse veramente.

“Ti piacerebbe” disse mentre si sedeva sulla panchina “ma oggi ho deciso di dare noia a qualcuno e, sfortunatamente, sei capitato tu.”

“Che uomo fortunato sono” dissi tra una boccata di sigaretta e l’altra.

“Fortunato e anche bugiardo.”

“Scusa” replicai “in che senso?”

“Quando sono arrivata ti ho visto che avevi in mano un taccuino e una matita.”

“Non è vero” negai mestamente.

“Sì è vero! Quando mi hai visto l’hai gettata dietro di te e, se ti sposti, sono sicura che è ancora lì.”

“Cristo, cosa ho fatto di male oggi” sospirai tirando fuori da dietro la schiena il taccuino.

“Visto” disse lei tutta compiaciuta “cosa scrivi?”

“Niente di interessante, robaccia per lo più.”

“Fammi leggere” disse tendendo la mano.

Sorrisi e scossi la testa in segno di diniego: “Non ci pensare nemmeno.”

“E perché?” chiese lei.

“Non scrivo per gli altri, scrivo solo per me stesso. Non ho interesse che qualcuno mi dia un giudizio o roba del genere.”

“Quindi non me lo vuoi far leggere.”

“Mai.”

“Staremo a vedere” disse lei alzandosi.

“Cosa fai?” chiesi.

“Me ne torno a casa, inizia a fare freddo e devo ancora studiare per domani. Quest’anno abbiamo l’esame faresti meglio a studiare anche te.”

Sorrisi: “Lo farò mamma.”

“Fanculo” e alzò il dito medio.

Mi misi a ridere.

“E comunque sappi” rincarò, “che un giorno leggerò le tue poesie, anzi me le farai leggere tu stesso. Ormai ti ho capito mascherina. Ciao, ciao” sorrise e si mise a correre.

Alzai la mano e la salutai senza accorgermi che avevo un sorriso ebete sul volto mentre la guardavo andare via.

“Mi piace” disse Fedra dolcemente mentre mi si avvicinava “e secondo me le piaci.”

Non risposi, mi limitai a fissare il punto dove era sparita.

“Sì, non c’è che dire è una bella trombata. Ha un culo che parla” sentenziò Esopo mentre trangugiava un po’di whisky dalla bottiglietta.

Nemmeno mi girai. Presi le mie cose, mi alzai e mi avviai: “È tardi.”

Mentre tornavo a casa non facevo che pensarla, un chiodo fisso nel cervello come non mi succedeva da una vita.

Per la prima volta dopo lungo tempo mi sentivo felice.

Fu una sensazione che durò poco, perché, quella notte, le ombre tornarono a farmi visita nei sogni. In ogni sogno c’era lei, nitida e sorridente. E in ogni sogno ci amavamo ma, alla fine, ogni volta in un modo o nell’altro l’ombra me la portava via. Alcune volte in malo modo, altre volte le nostre strade, semplicemente, si dividevano.

La mattina mi svegliai eccitato nonostante i sogni.

Corsi a scuola e arrivai in orario.

Vidi Esopo sulla porta che mi fece gesto in direzione del bar. Feci solo cenno di no col capo e mi precipitai nel portone. Quella mattina nessuno mi avrebbe tenuto fuori dalla scuola.

A ricreazione andai a cercarla per i corridoi, ma senza successo. Alla fine qualcuno della sua classe mi disse che era nel bagno a fumare.

Senza troppi discorsi entrai. La vidi alla finestra. Si girò e mi sorrise: “Guarda un po’chi si rivede.”

Sorrisi mentre tiravo fuori il pacchetto e mi accendevo una sigaretta appoggiandomi accanto a lei alla finestra.

“Sapevo saresti venuto.”

“Ah sì” dissi con sarcasmo.

“Sì, anche se non mi sarei aspettata di incontrarti qua.”

Diedi un’occhiata in giro mentre le altre ragazze mi guardavano un po’ con gli occhi torvi, come se avessi profanato chissà quale tempio.

“Beh” dissi “alla fine non c’è nulla qua dentro che non abbia già visto.”

Gli sguardi cessarono tranne quello di Milena.

“Allora che ci fai qua?” chiese impettita.

“Volevo vederti.”

“Perché?”

“Beh” dissi un po’a disagio, era la prima volta che venivo messo alle strette, “volevo chiederti di uscire uno di questi giorni.”

“Non saprei... non esco con gli alcolizzati di solito.”

“Non sono alcolizzato” borbottai.

“Allora che ci fai qua?” chiese.

“Vedremo” mi prese la mano e mi portò fino alla sua aula, strappò un foglio e mi scrisse il suo numero di casa.

La camla suonò e io tornai nella mia classe felice come un idiota per avere un foglio di carta in mano con dei numeri scritti sopra.

Iniziammo a frequentarci e a conoscerci. avamo le giornate insieme a parlare, a baciarci e senza nemmeno accorgercene finimmo col cercarci ogni giorno. Iniziammo a fare tutte le cose che facevano le coppie. Colazione insieme al bar. eggiate mano per la mano. Sbronze e sigarette fumate nei pub insieme.

Spesso mi piaceva osservarla mentre con Fedra leggeva le poesie, parlava di libri, magari davanti a una tazza di caffè fumante. Altre volte la osservavo un po’ingelosito mentre guardava Esopo che esternava le sue teorie con veemenza. Era affascinata da entrambi sebbene la parte oscura di Esopo era quasi magnetica su di lei, come lo era stata anche per altre ragazze. Ma Esopo non era più lo

stesso di prima, sembrava quasi felice, meno burbero; anche grazie a Fedra che gli si era avvicinata molto era riuscito a controllarsi. Sempre lui ma meno distruttivo. Non lo sentii mai dire qualcosa di buono nei confronti di Fedra ma sono sicuro, più di una volta, di averli visti tenersi la mano sotto il tavolo mentre io e Milena eravamo a bere. Lei frenava lui e lui stimolava lei, erano in perfetto equilibrio, le facce opposte della stessa medaglia.

E io ero affascinato da come Milena riusciva a capirci come fossimo un’unica persona.

Fu l’anno più bello delle nostre vite, l’ultimo anno di liceo.

Alcuni giorni prima di Natale facemmo l’amore per la prima volta. Fuori faceva freddo e mia madre era via. La invitai a casa mia con una scusa.

Allestii le candele e preparai dello spumante in dei calici di cristallo che mia madre lasciava a marcire nei mobili. Misi un po’di musica di sottofondo.

Quando suonò il camlo la andai a prendere al portone. Era infreddolita. La strinsi fra le braccia.

Andammo in casa.

Ci sedemmo sul divano e iniziammo a brindare a noi, occhi negli occhi.

Ci baciammo e ci avvicinammo sempre di più mentre fuori iniziava a piovere.

Gentilmente, come avrebbe fatto Fedra, la baciai e la accarezzai, sfiorandole la pelle, baciandole il collo. Lentamente la svestii.

Lei fece lo stesso con me. Le sue mani tremavano dall’eccitazione e dalla paura. Non le chiesi mai se quella fu la sua prima volta, non mi importava.

Ci strusciammo uno all’altro, nonostante il freddo i nostri corpi erano accaldati.

Le salii sopra e la presi. La presi come avrebbe fatto Esopo, con vigore, da amante focoso e spietato.

La guardai negli occhi mentre ero dentro di lei. La sua pelle aveva un colore più roseo e il suo cuore palpitava sotto il suo petto eccitato.

Ci baciammo più volte. Sempre uniti come un corpo solo.

E lì sentii, per la prima volta, la presenza di Freda ed Esopo, abbraccianti come teneri amanti, accanto a noi, stretti nell’amplesso, ognuno con la sua esperienza che mi aveva reso quello che ero. Finalmente conscio di me stesso.

Alla fine esausti rimanemmo abbracciati.

Milena piangeva. Era felice nonostante le lacrime. ò un’ora o forse più mentre stavamo immersi uno accanto all’altra nel divano, nel silenzio delle nostre voci, cullati dalla musica e dalla pioggia.

Da quel giorno l’anno nuovo corse veloce. Sempre insieme, sempre affiatati. Arrivammo a festeggiare la maturità una sera di agosto sulla spiaggia.

Per la prima volta, quella sera le lessi una mia poesia, una poesia per lei.

Tutto quello che avevo scritto quella sera mi sembrava nulla in confronto.

Gliela lessi sotto la luce della luna e dell’accendino.

“Hai visto” rise felice “te l’avevo detto che prima o poi me le avresti fatte leggere.”

Sorrisi.

“Che ne pensi?” chiesi.

“Mi piacciono” rispose, “ma dovresti scriverle per farle leggere e dovresti migliorarti magari ti potresti iscrivere a lettere.”

“Non saprei” sospirai “io non le vedo così buone le cose che scrivo.”

“Nessuno vede il buono che c’è in sé, dopotutto è molto più facile vedere il marcio che c’è in ognuno di noi”

“E poi io ora scrivo per te” sorrisi, “inoltre se mi iscrivessi a lettere avrei paura di diventare troppo meccanico, troppo condizionato.”

“Promettimi solo che ci penserai.”

“Ci penserò” risposi “o prometto.”

Lei tacque e mi baciò.

Ci buttammo sulla sabbia, poi iniziammo a bere delle bottiglie di vino che avevamo fregato a casa dei suoi genitori. Facemmo il bagno, facemmo l’amore lasciando andare l’ombra del futuro su di noi disinteressati.

Fu un errore.

Mentre tornavo a casa in auto con Milena feci appena in tempo a vedere i fari di una macchina che ci tagliava la strada. Sterzai ma la macchina non tenne e andammo a sbattere contro un platano che era sul ciglio della strada. Quando riaprii gli occhi ero solo. Davanti a me si ergeva una cittadella di teschi e corvi. Potevo sentirli gracchiare con ferocia mentre sorvolavano le mura.

Tutto era distorto e surreale, come in un quadro di Dalì. Le proporzioni si andavano a frantumare alla vista di quello che l’occhio scorgeva.

Mi chiesi dove fosse Milena. La chiamai con tutta la voce che avevo ma non ottenni risposta, a parte il gracchiare dei corvi.

Ma la risposta era ovvia, sapevo dove era. Era nell’unico posto dove poteva essere, in quella cittadella di ossa e corpi.

Il portone si ergeva gigantesco davanti a me. Entrai incurante, nonostante ogni parte del mio corpo mi avvertisse di non farlo.

Non sapevo che cosa avrei trovato ma ero pronto ad affrontarlo. Avrei portato via Milena da quel posto a tutti i costi.

Appena varcai la soglia fui sopraffatto da un odore nauseabondo di morte e putrefazione.

Non mi fermai.

Varcai il cancello che si richiuse con un tonfo alle miei spalle. I corpi e gli scheletri erano ovunque, ci camminavo in cima cercando di farmi strada, scacciando i corvi famelici che tentavano di divorarmi lo stomaco.

Poi la vidi. Era sotto uno scranno che si alzava al cielo. Lì giaceva il corpo di Milena già straziato dai corvi. Corsi verso di lei per scacciarli, mentre il cielo si oscurava e, sopra il trono di ossa, lampi e fulmini mi ammonivano che non ero il benvenuto.

Non mi importava. Arrivai al corpo che giaceva prono sulla terra. Provai a sollevarlo ma era pesantissimo, solo con tutte le mie forze riuscii a girarla supina. La guardai in volto e rimasi pietrificato. Quel volto non era il suo. Vidi un altro volto di donna, gli occhi verdi profondissimi che mi ispiravano un sentimento di amore e dolore come non avevo mai provato prima, sebbene non l’avessi mai vista. Le mossi i lunghi capelli rossi dal viso mentre la accarezzavo. Iniziai a piangere mentre le urlavo che doveva vivere perché io la amavo. Mi sentivo straziato dal dolore che provavo nei più profondi recessi della mia anima e sentivo la mia mente vacillare colpita da un profondo senso di stordimento dovuto a quella realtà così alterata.

Spossato mi lasciai cadere accanto a lei aspettando il mio fato. Felice di poterla finire lì, in quel momento, in quell’istante con la persona che non conoscevo ma che amavo dal profondo di tutto il mio essere.

Poi, improvvisamente, sentii delle mani sollevarmi.

Guardai Fedra ed Esopo che mi cingevano il corpo e mi trascinavano via verso il portone. Esopo si slegò una chiave dal collo e lo aprì.

“Come fai ad avere la chiave” riuscii a malapena a bisbigliare

Lui mi guardò dritto negli occhi mentre mi adagiava sulla sua spalla. “Me l’ha

data lei” rispose indicando quella che sarebbe dovuta essere Milena ma che di fatto non aveva il suo volto, “mi ha fatto uscire da questo posto dove ero imprigionato.”

“E qua non è ancora tempo per noi” mi sussurrò Fedra mentre solcavamo il grande cancello di ossa.

Aprii gli occhi. Sentivo dolore anche a respirare. Vidi il volto di mia madre accanto a me. La stanza era buia, ma riconobbi subito l’odore di ospedale. Cercai di muovermi ma tutto il corpo mi doleva.

“Ti sei spaccato delle costole” disse mia madre dolcemente mentre cercava di farmi stare sdraiato. “Sei fortunato a essere vivo. Una ti ha colpito il polmone quasi bucandolo mentre l’altra è ata vicino alle vene del cuore senza reciderle.”

Non mi importava.

“Ileana” chiesi timoroso.

Silenzio.

“Mamma” insistetti.

“Chi è Ileana?” mi chiese stranita mentre mi ava una mano sulla fronte.

”Milena vuoi dire, in macchina c’eravate solo voi due.”

Le lacrime mi sgorgarono come non mai.

Mi sgorgarono come non avevano fatto quando la maestra mi aveva punito, come non avevano fatto quando avevo trovato il corpo di mio padre privo di testa sul divano e come non avevano fatto mai in nessuna occasione.

“Non ti preoccupare” mi sorrise mia madre, “Milena sta bene, aveva la cintura di sicurezza, a differenza tua, non si è fatta nemmeno un graffio, ma dubito che la rivedrai per un po’.”

“Perché?” chiesi.

“Perché non puoi continuare a farti così del male, e rischiare di fare del male anche agli altri. Oggi è andata bene, ma un domani potresti non essere così fortunato, né te né le persone che ti stanno accanto. Hai bisogno di curarti, figlio mio. Forse ho sottovalutato l’effetto che tutta la storia del babbo può aver avuto su di te, ma non è troppo tardi per rimediare.”

Di lì a poco, nonostante avessi ritrovato me stesso, fui dichiarato pazzo.

CAPITOLO TERZO

Ileana era ferma, appoggiata alla ringhiera del pontile, mentre il suo sguardo, perso, cadeva vuoto sulle increspature del mare.

Il vento le muoveva i lunghi capelli rossi che sembravano una cometa infuocata che si dibatteva nell’aria fresca del mattino.

Gli spruzzi di spuma marina, dovuti alle onde che si infrangevano sui piloni del pontile, le sferzavano il viso bagnandolo.

Il mare era in tempesta e le onde infrangendosi con violenza sul vecchio pontile profumavano l’aria col sapore del salmastro.

Ileana ascoltava il ruggito del mare mentre le lacrime, che le scorrevano copiose sulle gote, si mischiavano agli spruzzi delle onde.

Ileana amava ascoltare le parole che il mare le sussurrava. Il mare spesso le dava dei buoni consigli e delle buone risposte alle domande che la vita le poneva davanti.

Ma oggi no.

Oggi il mare non aveva parole da offrirle. Oggi il suo cuore era così in tumulto

che anche il suono del mare la infastidiva.

“Zitto” urlò mentre singhiozzava per il pianto.

La mattina era appena iniziata e il sole era appena sorto, lentamente, dietro le nuvole tempestose che lo coprivano.

Sul pontile nessun pescatore sedeva al suo posto poiché il tempo sembrava mettersi al peggio.

Solo Ileana era sul pontile. Solo lei sfidava il mare.

“Zitto, taci” urlò. Ma questa volta il mare, in risposta, mandò onde sempre più forti ad abbattersi sui pilastri del pontile facendo perdere le sue urla nel boato delle onde e facendola zittire.

Anche il mare ce l’aveva con lei.

Anche il mare oggi la faceva sentire piccola.

Si sporse dal parapetto tirandosi su il lungo cappotto nero e lo scavalcò.

Il mare in tutta la sua potenza le si parava davanti ululando e ringhiando come

un lupo affamato.

Guardò il mare ancora una volta, poi lasciò la presa e cadde.

La discesa fu breve, l’impatto fu improvviso.

Subito fu avvolta dal freddo abbraccio delle onde che la trascinarono giù, nel mare gelido di gennaio.

Le correnti fredde la portarono ancora più a fondo. Sentì il respiro che iniziava a mancarle. Annaspò cercando di nuotare verso la superficie ma il lungo cappotto le impediva i movimenti.

L’acqua iniziò a entrarle nella bocca e nel naso e di lì a poco sentì i polmoni che iniziavano a riempirsi di acqua salata del mare.

Di lì a poco fu il buio.

Ma, dopo alcuni istanti, quando aprì gli occhi le si riempirono della luce del sole quasi abbagliandola.

Si schiarì meglio la vista e notò la luce che filtrava tenue dall’acqua del mare.

L’acqua del mare che era tutta intorno a lei e la avvolgeva cullandola, come si culla una bambina piccola.

Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, sapeva solo che si sentiva leggera e felice.

Pensò di essere morta o sul punto di morire e che quelle fossero allucinazioni.

Poi una voce la scrollò da questi pensieri.

“Perché vuoi mettere fine alla tua esistenza ragazza?”

La voce era profonda, come se provenisse da un antro di una caverna. Ileana cercò di capire chi avesse parlato ma la voce proveniva da tutto intorno a lei.

Ileana cercò di guardare ancora, ma l’acqua del mare non le permetteva di mettere a fuoco bene.

“Allora?” tuonò nuovamente la voce.

Ileana avrebbe voluto parlare, poiché la voce, benché profonda, aveva per lei un suono famigliare e rassicurante, ma temeva che, se avesse aperto nuovamente la bocca, l’acqua le avrebbe invaso i polmoni e avrebbe provato di nuovo la sensazione di terrore e paura di pochi istanti prima quando il suo petto si era gonfiato e aveva iniziato a soffocare.

“Non aver paura ragazza, tu puoi parlare liberamente in questo luogo, con me” disse la voce come a leggerle nel pensiero, “l’acqua non ti farà più nessun male, poiché l’acqua è me e io sono lei. Io sono il Mare e qua tutto sono io.”

Ileana aprì le labbra rosacee con timore, piano piano.

Con stupore vide che l’acqua salata non le entrava nella bocca.

Allora rispose con voce tremolante, “perché sono una fallita.”

“Per questa sciocchezza tu sprecheresti il tuo bene più prezioso?”

“Tu non puoi capire. Tu non vivi lassù. Io vivo in mezzo a persone che hanno la mia stessa età e sono già arrivate. Hanno buoni stipendi. Una vita bella e realizzata, mentre io, io non ho nulla. E tutto ciò mi fa sentire piccola e schiacciata davanti a loro e davanti a tutti.”

Un onda ò sopra la testa di Ileana crepitando, come la risata di un titano, profonda e terribile.

“Ed è solo per questo che tu vuoi porre fine alla tua vita? Dimmi piccola, quanti anni hai?”

“Ne ho già ventisette” rispose Ileana tremante.

“E ti sembrano molti, io sono qua dalla notte dei tempi e ho sentito promesse cantate davanti alle mie onde che già sapevo non sarebbero state mantenute dagli amanti che le recitavano. Ho sentito preghiere per persone malate che già non avevano speranze. Ho sentito urla di rabbia di gente disperata che non aveva un tetto sopra la testa in una fredda notte di tempesta. Ho sentito le preghiere dei marinai per tornare sani e salvi a casa quando le mie onde si schiantavano contro i loro pescherecci che erano dovuti uscire in mare per poter dare da mangiare alle loro famiglie a fine giornata. Ho sentito qualsiasi tipo di preghiera o scusa ma, sinceramente figlia mia, è la prima volta che sento qualcuno voler morire per una cosa del genere.”

“Cosa ne vuoi sapere tu, se il mio motivo è valido o meno. È vero che tu sei qua dalla notte dei tempi, ma tu vivi quaggiù, non lassù sulla terraferma dove tutto è diverso. Un tempo, forse, una persona riusciva a essere felice, ad accontentarsi, a vivere del poco che aveva, ma ora non è più così; la gente ti giudica, è competitiva e se non arrivi alla meta, se non dimostri di valere qualcosa in più, sei bollata come una perdente. Se non hai la macchina ben tenuta, se non puoi permetterti una vacanza o semplicemente se non puoi permetterti di fare ciò che tutti gli altri fanno, sei condannata all’isolamento, alla morte sociale.”

“Invece so benissimo di cosa stai parlando ragazza mia, nonostante i tempi cambino, gli uomini e le donne sempre vengono al mio cospetto, al mio capezzale, a esprimere i loro pensieri, i loro turbamenti, la loro rabbia. Questo perché, molte volte, le persone sentono il bisogno che qualcuno le ascolti e basta senza dirgli se ciò che fanno o pensano sia giusto o sbagliato. Quindi ti posso assicurare che tu non sei l’unica che ho ascoltato su questo pontile; però, sicuramente, sei l’unica che, oltre a essere ascoltata, ha ricevuto anche una risposta chiara da me.”

“Perché? Perché non hai fatto come con gli altri e mi hai lasciata libera al mio

destino?”

“Io non ti ho tolta alla tela del tuo destino, non sono così potente; io ti sto solo parlando e rispondendo come un padre farebbe con la propria figlia.”

“Ma perché?” chiese con gli occhi sempre più gonfi Ileana.

“Te lo dovevo, mio piccolo fiore marino. Ti ho vista concepire, tu sei una figlia dell’acqua.

Ognuno è figlio di qualcuno e tu sei figlia mia. Tua madre e tuo padre ti concepirono una notte d’estate su una spiaggia poco lontana da qua. Appena nata ti riportarono su quella stessa battigia che era stata il letto del tuo concepimento e ti fecero ascoltare il mare per la prima volta. Durante la tua vita sei sempre venuta sulle mie rive per tranquillizzarti e per cercare conforto. Ascoltavi le mie parole sussurrate sulle onde e mi tenevi compagnia raccontandomi ogni tuo pensiero, ogni tua speranza, ogni tuo amore.

Tutti raccontano, davanti al mare, i loro più reconditi segreti perché sanno che nessuno potrà mai giudicarli e perché sanno che andranno persi per sempre tra le correnti marine.

Ma tu sei stata diversa, tu non hai mai voluto solo parlare, tu hai sempre voluto una risposta. L’hai sempre desiderata e sperata dentro il tuo cuore. Tu sei come il naufrago disperato che lascia il suo messaggio di aiuto dentro una bottiglia in balia dei fluttui marini affinché qualcuno, prima o poi, trovi la bottiglia e venga in suo soccorso.

In questo raro caso sono io colui che ha trovato la tua bottiglia e ha letto il tuo biglietto.”

Ileana rise sarcastica. “Tu pensi di sapere tutto e di arrivare qua dicendomi che ciò che ho fatto è sbagliato, ma tu sai solamente ciò che io sono venuta a raccontarti, tu non sei in tutti i luoghi e quindi non puoi sapere tutto ciò che mi è accaduto; hai solo una visione parziale di ciò che io ti ho fatto conoscere.”

“Ciò che dici” rispose il mare “sarebbe verissimo se io fossi una entità unica come la tua mente mi disegna, ma io non sono solo questo. Io ho molti amici come i fiumi e i ruscelli che scorrono in mezzo alle città e ai paesi portandomi notizia di tutto ciò che vedono e odono.

Poi vi è la pioggia che cade dal cielo per poi colare fino alle fogne e la stessa acqua con cui ti lavi il viso la mattina.

Tutti alla fine giungono a me e con me parlano e mi raccontano ciò che io non posso udire o vedere.”

Ileana lo guardò in modo ancora più sarcastico e una smorfia le si disegnò sul viso.

“Tu non mi credi ma io posso provare che non sto mentendo. Tu piangi perché ti reputi più piccola e misera dei tuoi amici, della loro vita o almeno rispetto alla vita che loro ti raccontano e che ti vogliono mostrare e proprio come tu hai prima detto di me, loro fanno con te.

Per esempio, ieri, la tua amica Lorenza che tu invidi tanto piangeva, sul bordo del fiume Arno, dopo che si era svegliata nuovamente sola nel proprio letto del suo bellissimo appartamento.

Essa ti dice che è il suo modo di vivere, che non le frega nulla di avere qualcuno con cui condividere la propria vita e i propri dolori, ma poi, quando la mattina si ritrova sola, si sente sempre più avvilita e si deve dedicare a feste e discoteche per colmare un vuoto di affetti che non riesce a trovare.

Tu invidi Alberto perché guida una di quelle macchine che la gente normale può solo vedere sulle riviste e che per i più resterà sempre e solo un sogno. Lo invidi anche per il suo lavoro, poiché ha seguito le tradizioni di famiglia, suo padre gli ha lasciato il suo posto, già avviato, un posto da capo in cui non deve rendere conto a nessuno. Lui sembra sempre splendido, pieno di vita e felice, ma ieri notte era sulle sponde del lago di Como, con la sua bella macchina e il portafoglio pieno di carte di credito, con l’unico pensiero di togliersi la vita annegando nel lago perché si sentiva un fallito; in quanto sa benissimo che dovrà sempre vivere con la consapevolezza di non essere riuscito a seguire il suo sogno, quello di diventare uno scrittore, ma di aver dovuto fare un lavoro che odia e in cui non ha nessun merito.

E potrei continuare all’infinito raccontandoti la storia di ciascuno delle persone che reputi più fortunate di te.”

Ileana era rimasta a bocca aperta, gli occhi spalancati, nel silenzio che solo il mare sa generare.

I capelli di Ileana ondulavano accarezzati dalle correnti marine che li facevano

sembrare una rossa e grande medusa, bellissima e terrificante al tempo stesso.

Un dolore triste le strinse il cuore mentre vedeva, per la prima volta, i suoi amici per quello che erano veramente.

Un dolore ancora maggiore la strinse al petto pensando a se stessa e al gesto che aveva compiuto poc’anzi.

Tutti ciò che aveva sempre dato per scontato ora le veniva alla mente come il bene più prezioso che potesse desiderare.

Si reputò la persona più fortunata del mondo pensando alla sua famiglia che era a casa e che le voleva bene. Una famiglia su cui aveva sempre potuto contare, anche quando le decisioni che aveva preso erano totalmente in contrasto con quelle dei suoi genitori.

Si rese conto di come avesse perso di vista ciò che veramente contava, facendosi trascinare lontano da quelle regole sociali che gli altri avevano predisposto e a cui lei sembrava dovesse ubbidire ciecamente per sentirsi felice.

Poi, tutto a un tratto, il suo corpo ebbe uno spasmo e si contrasse.

In mente, come una folgore che squarcia il cielo, gli era balenato il caldo abbraccio del suo ragazzo,

Michele.

Si ricordò come pochi giorni prima lo aveva lasciato perché lo reputava senza un futuro, senza una meta, solo perché non si vestiva in giacca e cravatta come tutti i suoi amici ambiziosi.

Pianse.

“Fai bene a piangere pensando a Michele” rombò il mare, “forse era la cosa più preziosa che avevi.

Nonostante tu lo reputassi una persona senza mete nella vita, un debole, è l’unico che non è mai venuto sulle mie sponde per lamentarsi di qualcosa. Egli è uno che balla sotto la pioggia ed è felice.”

Pianse ancora di più.

Sebbene fosse circondata dal mare salato poté sentire le lacrime che le colavano dagli occhi sulle guance, per poi scendere fino alle labbra. Poté sentire come le lacrime fossero più amare e salate della stessa acqua che la circondava.

Avevano il sapore della vita.

Il corpo si contrasse, ancora, in uno spasmo che sembrò squassare il suo delicato essere.

Ora Ileana voleva solo una cosa, voleva stringere Michele a sé e chiedergli scusa per ciò che gli aveva detto pochi giorni prima.

Voleva abbracciare i propri genitori e dirgli quanto li ringraziava per essere stati sempre al suo fianco, anche quando non avrebbe meritato nulla.

Voleva riempirsi i polmoni di aria fresca.

Voleva sentire di nuovo la pioggia sulla pelle e i brividi che le correvano lungo la schiena quando il vestito bagnato le si appiccicava addosso.

Voleva ridere, semplicemente, ridere e parlare.

Avrebbe voluto urlare tutte le cose che, per paura o per convenzioni sociale, non era riuscita dire.

Voleva assaporare nuovamente la Vita, quella vera, sia amara che dolce. Voleva riprendere la tela del proprio destino.

Voleva vivere.

Il mare rise, una risata profonda e piena di trionfo che sembrava provenire dai suoi abissi più remoti.

Poi tutto tacque.

Ileana stava perdendo lucidità sentiva che le forze la stavano abbandonando anche se non avrebbe voluto.

Il buio era quasi calato su di lei quando udì delle voci così melodiose che mai aveva sentito prima.

Si fece forza e provò a tenere aperti gli occhi che, lentamente, le si stavano chiudendo.

Sfuocate, vide intorno a sé figure femminili con capelli bianchissimi e code da pesce al posto delle gambe che le sorridevano rassicurandola. Poi si sentì sollevata, mentre un grande tritone dalla pelle squamosa e bianca la portava sempre con più dolore verso la luce del sole.

Ileana aprì gli occhi e vide i suoi capelli che allungandosi formavano, ondulati dal mare, una tela; una tela fitta e precisa che, piano piano, stava creando un volto, un volto di bambina. Ma non era il suo viso che stava osservando, era un viso sconosciuto ma allo stesso tempo famigliare, che lei stessa stava dipingendo. Le sorrise e allungò una mano per accarezzare quel viso, così sperduto e bellissimo, ma la mano non raggiungeva mai i capelli e quando le sembrò di poter finalmente toccarlo, la tela, come una ragnatela strappata, si dissolse nel nulla, cancellando, a mano a mano, tutto quello che era intorno a lui, fino alla stessa Ileana e, davanti ai suoi occhi, rimase solo il bianco, come di una tela mai dipinta. Il mare era sparito e Ileana con lui.

Accanto a sé sentiva il ticchettio dei macchinari medici. Due infermiere con camice bianco e un dottore la guardavano. Si girò e vide Michele che dormiva nel letto accanto al suo, provato per la notte di veglia.

I suoi genitori erano in piedi di fronte a lei, ai piedi del letto che si stringevano l’uno con l’altra piangenti.

“Sta bene?” stavano chiedendo al dottore.

“Sì tutto è andato alla perfezione, vostra figlia è stata molto forte” rispose il dottore con un sorriso.

“Quindi adesso possiamo spegnere i macchinari” chiese il padre, con un nodo alla gola mentre la madre scoppiava in lacrime.

“Sì” fece cenno con la testa il medico.

Ileana avrebbe voluto parlargli, ma non aveva le forze, era stremata, ma felice come non lo era mai stata in tutta la sua vita. Si girò verso la finestra e guardò il cielo azzurro.

“Grazie” sussurrò.

Poco distante il Mare rispose infrangendosi sugli scogli come in una danza senza fine.

Ileana chiuse gli occhi e, finalmente, quando l’infermiera spense i macchinari e il loro insopportabile ticchettare, chiuse gli occhi e si addormentò.

In quello stesso momento un piccolo ragno che era rimasto immobile nell’angolo più remoto del soffitto, aggrappato alla sua ragnatela, smise di filare e quando la stanza fu vuota, a parte per la presenza di Michele, scese con calma dal soffitto fino al letto dove lui giaceva e iniziò a filare la sua tela tutto intorno a lui.

CAPITOLO QUARTO

Michele si svegliò nel letto d’ospedale su cui si era coricato per riposarsi un attimo. Si strofinò gli occhi con le mani e iniziò a mettere a fuoco la stanza. Notò subito che vi era qualcosa che non tornava. Ileana non c’era più. “Sarà stata dimessa” pensò.

“Non è stata dimessa” disse una voce dietro di lui. Michele si girò di scatto, colto di sorpresa. Accanto al suo letto, accovacciata per terra mentre teneva stretta un anfora verde che sembrava antica tanto era rovinata, vi era una bambina, magrolina, coi capelli a caschetto neri e lisci. “Lei non è qua... è andata, mi è dispiaciuto per lei, ma è stata coraggiosa” continuò mentre si cullava l’anfora come fosse una bambola, “io ero qua, sono sempre stata accanto a te, sai ti ho riconosciuto subito quando ti ho visto, anche se era ato molto tempo.”

Michele la squadrò non capendo quello che diceva. “Dove sono i tuoi genitori?” chiese cercando di tenere la voce più calma e rassicurante che avesse.

Ma lei non gli rispose.

“Ti sei persa?” chiese nuovamente Michele.

La bambina fece cenno di no con la testa, poi con la manina gli fece cenno di avvicinarsi e di stare zitto. Michele le si avvicinò accostando il suo orecchio alla sua bocca: “Sono esattamente nel luogo in cui dovrei essere” gli disse tenendo la voce bassissima.

“Perché tieni così stretto quel vaso?” gli chiese Michele

“Perché non voglio che tu ti perda, non voglio perderti nuovamente” bisbigliò la bambina ancora più piano.

“Non mi perderai” replicò Michele per rassicurarla “ma mi diresti il tuo nome?”

“Milena” bisbigliò la bambina iniziando a piangere.

Michele la fissò un istante, mise a fuoco quel volto così infantile e nei suoi tratti riconobbe la sua Milena.

“Non mi abbandonare” pianse la bambina, “non mi abbandonare di nuovo, non andare con lui quando verrà.”

“Verrà chi?” chiese Michele con sospetto.

“Lui, il ragno” rispose la bambina tremante. Poi, con calma, gli ò l’anfora.

Michele la prese e la soppesò con lo sguardo, una strana sensazione di pesantezza gli aveva invaso il corpo appena ne era venuto a contatto, facendolo sentire più vecchio e più stanco. “Cosa c’è qua dentro?” chiese rivolto alla bambina.

“Te stesso” disse lei con un sorriso e dileguandosi come carta straccia davanti ai suoi occhi.

Era un’estate calda in una piccola cittadina costiera.

Una piccola città che in estate era piena di gente, colorata, viva e splendente, ma in inverno diventava spoglia e in letargo. Con i soliti volti che si aggirano un po’annoiati alla ricerca di qualcuno con cui scambiare le solite frasi.

Anche coi suoi lati positivi, come il buon cibo, l’aria pulita, il cielo limpido che permette di guardare le stelle in cielo e di esprimere desideri, magari sulla spiaggia, abbracciati alla compagna del momento, innalzando promesse alla luna, mentre di sottofondo si estende il dolce suono delle onde che si infrangono sulla battigia come colonna sonora.

Ed è proprio in un momento come questo, in una simile cornice, che parte la nostra storia.

Quattro amici su una spiaggia.

Quattro amici che brindano, con birre scadenti, alla fine del loro ciclo scolastico superiore.

Quattro amici che brindano al futuro, a ciò che il destino avrà in serbo per loro.

Amici che brindano alla libertà finalmente raggiunta senza però sapere cosa effettivamente essa sia.

Libertà.

Bella parola, io che narro questo racconto, dopo ciò che ho ato, posso dire che mi sono sempre chiesto come avrei fatto a ottenerla. Ho sentito di persone che l’hanno rincorsa viaggiando all’infinito per lasciarsi dietro i problemi. Altri l’hanno cercata stando fermi, aspettando che fosse lei a trovarli. Altri ancora hanno provato ad appropriarsi di quella degli altri con ogni mezzo.

Chi l’ha ottenuta? Quale è il giusto mezzo per ottenerla?

Io invero non lo so.

L’unica cosa che posso fare è raccontarvi una storia. Una storia come erano soliti raccontare i nonni e che adesso non fanno più.

Ma badate bene, questa storia non vuole descrivervi un modo assoluto per ottenerla o dirvi che questa è la via da seguire. Assolutamente no.

Questo vuole solo essere un racconto, cioè un qualcosa che può dire tutto e non può dire nulla. Un qualcosa che può essere preso in considerazione o no, creduto o meno.

Insomma, non un assioma ma semplicemente una storia reale o irreale che sia.

L’unica cosa che ci interessa è il contesto e come si sono svolti i fatti.

Dunque eravamo sulla spiaggia, dove quattro amici ubriachi erano a straparlare sul loro futuro, sui loro sogni e sulle loro aspirazioni, quando furono attratti da una strana luce che proveniva dal mare. Non da sopra, ma proprio da dentro il mare. Era una luce rossa, quasi vermiglia.

Si guardarono senza parlare, paralizzati, come per chiedersi se la stavamo vedendo tutti; nessuno rispose.

Piano piano si alzarono dalle sdraio su cui erano seduti, con le bottiglie di birra in mano come armi, e si mossero verso la strana luce sulla riva della spiaggia.

La luce intanto andava sempre di più dissipandosi. Come una lampadina quando è a pochi istanti dalla sua fine.

Quindi si fermarono sulla battigia, a pochi i dalle onde che risalivano la sabbia.

Si guardarono nuovamente gli uni con gli altri.

La luce proveniva da pochi metri davanti a loro, ma non riuscivano a vedere cosa la emettesse.

Uno di loro si fece coraggio e iniziò a camminare verso la luce. Rifletté che l’acqua sarebbe dovuta essere bassa e che di lì a poco sarebbe stato accanto al punto da cui proveniva. Quindi avanzò.

Ma, mano a mano che continuava, sentì l’acqua del mare che gli bagnava i pantaloni, prima all’altezza delle caviglie poi, a ogni o, sempre più su fino al ginocchio.

Quasi a cercare appoggio morale si girò indietro verso i suoi amici che lo stavano guardando.

Diede un tiro alla sigaretta e bevve un sorso di birra che si era portato dietro. I suoi amici intanto lo intimavano di tornare indietro ma ormai la curiosità lo aveva preso insieme al desiderio di capire da dove venisse quella flebile luce rossa.

Si incamminò nuovamente.

Per sua fortuna era alto e ancora toccava bene nonostante l’acqua ora fosse all’altezza del suo bacino. Buttò via la sigaretta e la birra e si fece largo nell’acqua con le mani.

L’acqua era calda sul corpo e la luna era alta in cielo; la sua immagine si

allungava sul mare come uno specchio. La voce dei suoi amici era ormai solo un fastidioso rumore sempre più lontano.

Piano piano, per non sentire quelle voci che lo disturbavano si immerse nell’acqua.

La luce non doveva essere molto lontana visto che era sempre più forte.

Sott’acqua sentì i suoi capelli fluttuare mentre le urla dei suoi amici erano scomparse.

Tutto era calmo e rilassante. I suoi occhi erano velati dall’acqua e dal buio, ma, nonostante ciò, riusciva bene a distinguere i colori.

Non so per quanto non respirò o nuotò. So solo che ad un certo punto udì una dolce melodia, come un coro che cantasse un aria di Bach o Beethoven ma oltre che con l’udito sentiva la musica intorno a tutto il corpo portata dai fluttui dell’acqua e dalle correnti del mare. Era come essere pervaso totalmente da delle note vive e colorate.

Capì cosa stava succedendo quando le vide.

Bellissime sotto il riflesso della luna, sei sirene cantavano.

Il loro canto era la cosa più dolce che avesse mai sentito. Era ammagliato. Il

mare sembrava un arcobaleno gigante in continuo movimento grazie ai colori dei suoni che sprigionavano dalle loro bocche.

Metà donne metà pesce.

Capelli lunghi, perfetti, che il mare non muoveva. Seni rosei e delicati. Una grande e lunga coda di pesce squamosa che finiva con una grande pinna. Erano mostruose e bellissime allo stesso tempo.

La loro voce, il loro canto lo accompagnava cullandolo come una dolce altalena, sempre più in fondo al mare.

Poi finalmente vide il rosso da cosa era prodotto.

Vi era un fuoco, un fuoco rubino, sott’acqua che ardeva intono a un vaso verde in stile orientale.

Si avvicinò con prudenza temendo di scottarsi, ma, la fiamma, non provocava calore.

Piano piano vi ò una mano vicina, poi sopra, ma non accadde nulla.

Le sirene cantavano.

Lo afferrò e poi tutto tacque.

Vomitava acqua salata mentre si strusciava sulla sabbia e sentiva poco distante le voci dei suoi amici che lo chiamavano disperati.

Era stremato.

Si buttò supino.

L’aria era fantastica; aveva i vestiti totalmente zuppi e sentiva l’aria della notte scorrergli addosso appiccicandosi i vestiti alla pelle e procurandogli qualche brivido.

Stese le braccia.

“Sono qui,” urlò con la voce stremata.

Udì subito i suoi amici che inveendo contro di lui correvano nella sua direzione.

“Sei un idiota” disse Gabriele mentre gli tirava addosso il suo giubbetto di jeans “pensavamo fossi annegato.”

“Esagerati” rispose con noncuranza mentre si metteva a sedere “come se ve ne

fregasse qualcosa se vivo o muoio”.

“Se non te ne frega nulla della tua vita almeno non rovinare le nostre con le tue pazzie. Sei partito come un razzo verso il mare.”

“Ho visto una luce. Ma poi, scusa, non l’avete vista anche voi? Vi ho visto alzarvi.”

“Idiota ci siamo alzati” urlò Milena “perché sei partito e ti sei buttato in mare! Stupido. Guarda che c’è anche gente a cui importa di te. Ogni volta mi fai morire.”

“Rilassati, non sei mica mia madre, la vita è mia e ci faccio quello che mi pare.”

“Stronzo” disse Milena mentre se ne andava in lacrime. Un altro stronzo seguì a quello di Milena, era Vanessa, la sua migliore amica che la inseguiva. “Non capisci proprio niente”.

Gabriele scosse la testa: “Grazie per averci rovinato la serata.”

“Di niente, quando vuoi” rispose.

“Vaffanculo, coglione” disse Gabriele mentre se ne andava. “Ci sentiamo domani.”

Rimasto solo si mise il giubbetto, tirò fuori il pacchetto di Marlboro rosso stropicciato e si mise in bocca la sigaretta.

Lo rilassava tenerla in bocca e sentire il sapore di tabacco sulla lingua, in solitudine, quando doveva pensare e, questa notte, di cose strane a cui pensare ne erano accadute.

Ogni giorno sperava che qualcosa cambiasse, che qualcosa di strano accadesse poiché ora che era finita la scuola superiore la sua sensazione di vuoto era aumentata.

Tutti che facevano gli stessi discorsi. Avrebbe potuto mettere un registratore con le risposte in sequenza ed era sicuro che non ne avrebbe sbagliata una.

Di lì a poco tutti i suoi amici sarebbero partiti per il loro viaggio premio e dopo sarebbero andati all’università, forse in qualche città lontana che gli poteva offrire delle reali possibilità ed esperienze. Lui non avrebbe fatto nulla di tutto questo. Sarebbe rimasto qua, forse si sarebbe iscritto all’università del luogo e avrebbe continuato la sua vita monotona.

Anche Milena in un modo o nell’altro se ne sarebbe andata, lo sentiva.

Però stranamente aveva sempre reputato che, nonostante tutto, anche in lui vi fosse qualcosa di speciale e che un giorno gli sarebbe stata data l’occasione per cambiare le cose. Quindi, stasera, quando vide quella strana luce si era fiondato come se fosse stata la sua ultima speranza per rimettere le cose della sua realtà

sulla linea giusta. Ma sicuramente tutto era stato solo il frutto di un’allucinazione.

Mise le mani in tasca e cercò l’accendino. Un bic fregato a qualcuno.

“Stupido vento” imprecò. Non gli faceva accendere la sigaretta.

Intanto le scintille illuminavano la spiaggia.

Finalmente l’accendino prese. Diede due o tre tiri in rapida successione per far prendere la sigaretta. La fiamma illuminò la spiaggia completamente avvolta nel buio e con la coda dell’occhio vide un oggetto famigliare. Dietro un tronco bagnato portato del mare vi era il vaso.

Si alzò di scatto e con un sorriso ebete sulla faccia. Sapeva che c’era qualcosa, dentro di lui sapeva che qualcosa era successo.

Si calmò un attimo e poi si diresse verso il tronco di legno con tranquillità. Come se il suo destino fosse lì ad aspettarlo.

Il vaso era per terra ai suoi piedi. Lo illuminò con l’accendino per esserne certo. Sembrava più vecchio e rovinato di come lo aveva visto poco fa. Era verde con la ceramica un po’ lacerata. I disegni che vi erano sopra non erano comprensibili. Non luccicava più.

Storse la bocca mentre espirava il fumo della sigaretta. Si sentì stupido.

Raccolse comunque l’anfora, la tastò a destra e a sinistra e provò a stapparla, ma era sigillata.

“La solita fortuna” sussurrò “e sto pure impazzendo.”

“Non stai impazzendo” disse una voce poco distante.

Si girò di scatto e vide una figura che si stagliava, nascosta nel buio della spiaggia.

“Ma, forse, sarebbe meglio se lo fossi.”

L’unica cosa che vide chiaramente era la canna della pistola che gli puntava addosso.

Ora. Presente relativo.

Era autunno inoltrato quando Michele si fermò davanti alla costruzione che stava per essere demolita.

Fermò la macchina, una Mercedes nera, nel parcheggio della chiesa che era

adiacente alla costruzione.

Aprì la portiera e uscì richiudendola con calma dietro di sé, schiacciò il tasto sulle chiavi e chiuse la macchina, che lampeggiò.

Si incamminò a o lento verso l’entrata dell’edificio.

Guardò il cielo, era nuvoloso e tirava un po’di vento ma, stimò, non sarebbe andato a piovere.

Questo lo rassicurò perché voleva essere sicuro che i lavori di demolizione sarebbero finalmente giunti al termine, senza altri intoppi.

Arrivò davanti all’entrata del grosso cancello ormai arrugginito. Lo aprì con una mano. Il cancello cigolò con un rumore freddo e stridente.

Michele andò verso il manipolo di operai che si accalcavano intono alle gru per la demolizione.

Uno degli uomini, che vestiva una giacca grigia e che portava dei grossi fogli arrotolati sotto il braccio sinistro, lo salutò quando si accorse della sua presenza.

“Salve, anche oggi qua” sorrise “ci stavamo preoccupando non vedendola arrivare.”

Michele sorrise a sua volta: “Sono stato trattenuto al lavoro oggi, ogni tanto tocca anche a me.”

“Ah, quindi anche lei lavora ogni tanto, meno male” rise l’altro ammiccando ai suoi operai lì intorno, “con il fatto che la trovavo sempre qua, avevo iniziato a pensare di assumerla, sa come operaio.”

“Grazie dell’offerta, ma non si deve preoccupare” rispose Michele con noncuranza, “volevo solo vedere l’edificio per un’ultima volta prima che fosse raso al suolo.”

Michele alzò lo sguardo per vedere il grosso edificio ancora imponente nonostante gli anni e l’usura del tempo. Infatti la vecchia colonia Handerson aveva più di 50 anni.

Le sue grosse mura, anche se rovinate, erano ancora imponenti e le molte finestre, benché alcune fossero rotte, erano sempre ornate e provviste di grate di ferro.

“Certo che se ci tiene così tanto a vedere questo rudere andare giù, ci deve essere molto affezionato?” continuò l’ingegnere.

“Tutt’altro” rispose Michele sempre con lo sguardo rivolto all’edificio e stringendosi nel lungo cappotto nero, “se sono qua è solo per essere sicuro che il lavoro sia portato a termine. Ormai sono anni che si rimanda la demolizione.”

“Se è solo per questo, stia sicuro che oggi raderemo al suolo la costruzione.”

“Lo avete detto anche una settimana fa” sottolineò Michele.

“Vero, lo ammetto” disse serio l’ingegnere “ma ci sono stati alcuni contrattempi non previsti, come la tempesta che ci ha obbligati a sospendere i lavori l’ultima volta o quando il nostro macchinista si è infortunato gravemente la volta prima. Ma non si preoccupi, oggi finiremo il lavoro.”

“Lo spero davvero” sospirò.

“Cosa ha detto?” chiese l’ingegnere.

“Ho detto che lo spero” alzò la voce Michele mentre la gru per la demolizione si metteva in moto con un rumore assordante.

Mentre la gru si avvicinava all’edificio, con la sua gigantesca palla di ferro, Michele si allontanò facendosi da parte.

Il muletto iniziò a colpire violentemente la struttura e le mura della vecchia colonia iniziarono a sbriciolarsi mentre la sfera metallica impattava facendoli cadere in mille pezzi.

Michele, ancora con lo sguardo rivolto verso l’alto, concentrò la vista su una piccola finestra sopra l’ultimo piano della colonia. Una piccola finestra appannata e sporca.

Continuò a fissarla come se si aspettasse di vedere qualcosa, ma non accadde nulla.

Distolse lo sguardo quasi avvilito. Poi, come per non darsi per vinto, la sollevò nuovamente per un istante e sussultò. Ora vi era una figura che si contorceva con le mani che graffiavano alla piccola finestra, come se volesse uscire ma non ci riuscisse.

Diede un’occhiata intorno per assicurarsi che nessuno degli operai e l’ingegnere si fosse accorto della figura. Quando fu sicuro che nessuno vi stava ponendo attenzione rialzò lo sguardo per gustarsi la scena, con compiacimento.

Quasi come se la figura si fosse accorta di lui, sentendo su di sé gli occhi di Michele, smise di contorcersi e sparì.

Michele storse la bocca e si guardò intorno come se si aspettasse che sarebbe successo qualcosa, ma nulla di strano accadde.

La palla ferrata colpì il centro della colonia distruggendo i muri portanti e le mura iniziarono ad accartocciarsi su loro stesse facendo crollare tutta la struttura.

Fu solo un attimo, un secondo, mentre la piccola finestra si squassava per

seguire le mura della colonia che stavano cedendo. Vide un volto vecchio e rugoso dai denti marci, ma che conosceva molto bene, che gli sorrideva, come per sfida, sbeffeggiandolo. Michele continuò a guardare stringendo, quasi a sbiancare le nocche, la mano destra.

Il vecchio palazzo, finalmente, si accartocciò su se stesso con un grande frastuono, lasciando solo macerie sul terreno.

Michele continuò a fissare le macerie quasi in trance.

La voce dell’ingegnere lo riportò alla realtà, “soddisfatto?”

Michele non rispose ma fece cenno di sì con la testa.

Si girò e si incammino in silenzio verso la macchina. Aprì la portiera, salì e accese il motore dopo aver infilato la chiave.

Mise la prima e si avviò verso casa con l’animo in pace come non aveva da molto tempo.

Ora. ato relativo.

“Chi diavolo sei?” chiese mentre era immobilizzato dalla paura.

“Non ti deve importare chi sono” rispose l’uomo con calma “devi solamente darmi il vaso e andartene, fidati, farai del bene a te e a un sacco di altre persone.”

“Sinceramente non sono mai stato un grande altruista, ma se tu mi spiegassi meglio a cosa ti riferisci e se ne posso trarre un profitto di sorta, potrei prendere in considerazione l’idea.”

Cercò di prendere tempo, sperando di capire cosa fare. Dopotutto non si era mai trovato con una pistola puntata addosso. Guardò la figura che aveva davanti, o meglio, i suoi contorni.

Sembrava un uomo, era abbastanza alto, quanto lui più o meno, portava un impermeabile o una sorta di cappotto lungo e un cappello. Sembrava uscito da un film anni ’60, stile Casablanca.

“Non essere stupido, non ti deve interessare il perché e il per come della faccenda.”

“Ma ormai mi hai messo la pulce nell’orecchio, e io sono un tipo curioso” controbatté.

“La curiosità può essere dannosa a volte e comunque ho una soluzione anche per quello, qua ho delle pasticche, prendile, ti faranno dimenticare tutta questa faccenda e ti daranno un benessere incredibile.”

“Questa scena è scontata, anche per te, e poi la mamma mi ha sempre detto di

non prendere caramelle dagli sconosciuti, quindi penso che rifiuterò, soprattutto se uno mi punta addosso una pistola.”

“Quindi vuoi dire che ancora non ricordi.”

“Non ricordo cosa? Dovresti essere un po’ più preciso nelle tue frasi.”

“Cosa ricordi del tuo ato... magari della tua famiglia, di tua madre, di tuo padre per esempio... ma anche di te stesso.”

“Non ti seguo.”

“Non mi segui” ripeté sarcastico “ti renderò il percorso più facile. Tu non ricordi nulla del tuo ato, stai vivendo solo un presente fisso continuo, ma di tutto quello che hai vissuto prima non ricordi nulla ancora. Tu ricordi solo una parte della tua vita. Quella che stai vivendo in questo momento, ma ne esistono molte altre che il tuo cervello non vuole ricordare. Non sai nemmeno in che anno siamo. Ti vedo frastornato, sono sicuro che stai pensando all’anno e non lo ricordi, hai solo immagini sfuocate, nulla di concreto, le tue stringhe della realtà sono sovrapposte, la tua tela del destino si sta sfilacciando, lentamente, ma progressivamente”

“Taci” urlò.

“Cosa succederebbe se io ti dicessi che tutto quello che stai soffrendo ora è dovuto a un fatto molto semplice e cioè che i tuoi genitori non sono i tuoi veri

genitori... potresti confutare questa mia frase, questa mia realtà?”

Rifletté alcuni istanti poi scoraggiato disse: “Non posso.”

“La verità è che hai ato la tua prima parte dell’infanzia in un orfanotrofio, con altri bambini simili a te.”

“Stai mentendo.”

“Non sto mentendo e tu, in cuor tuo, lo sai. Il tuo cervello ha come creato un muro, un muro in cui ti ha rinchiuso, una fortezza dove tutte le cose che ti farebbero soffrire sono state rimosse. Ma, adesso, se tu non mi consegnerai quel vaso, tutta la tua realtà ti crollerà addosso e ti ricorderai una parte della tua vita che ti assicuro sarà solo piena di dolore.”

Lo guardò senza muovere un muscolo, nonostante avesse il corpo in trazione. La testa gli doleva mentre cercava di spaccare con il ricordo il muro di immagini che gli si accavallavano nel cervello. Immagini del suo ato, immagini di lui stesso. E più ci provava più la testa gli doleva. Era come se la sua mente si rifiutasse di sfondare quel muro.

Comprese che forse quella strana figura non stava mentendo del tutto.

Ma se fosse stato vero, avrebbe voluto are il resto della sua vita in quel maniero... in quella fortezza sì protettiva, ma limitata, in quella menzogna però sicura e senza dolore o avrebbe voluto comunque avere la possibilità di

scegliere. Dopotutto, anche adesso, non si sentiva completamente felice, ma alla fine non aveva nulla da recriminare alla sua vita; aveva una ragazza che gli voleva bene, che forse lo amava, i suoi genitori erano vivi e in salute e il suo futuro sebbene non roseo era comunque aperto a nuove possibilità e poteva cambiare. Eppure... eppure vi era nel suo cervello qualcosa che gli diceva che stava dimenticando qualcosa di importante, qualcosa che avrebbe dovuto fare. Vi era un vuoto nella sua vita che non riusciva a spiegare, lo aveva sempre con lui, in ogni istante, era come un tarlo che gli scavava nella mente in continuazione. Sentiva dentro di sé che quel tarlo poteva essere qualcosa di importante, quasi fosse collegato a un istinto di sopravvivenza primordiale, e quell’istinto era collegato a quel vaso. Era stato quell’istinto a farlo lanciare alla ricerca della luce quando l’aveva vista e sempre quell’istinto adesso gli diceva di non fidarsi di quello strano tizio e di proteggere il vaso.

“Sì, ma alla fine cosa centra il vaso in tutto questo?” chiese.

“Non sei nella posizione per fare delle domande” replicò senza mezzi termini.

“Dici... io invece penso il contrario, tieni troppo a questa anfora e se non mi dici quello che voglio sapere posso romperla in un istante, guarda come è corrosa, lasciata cadere sul tronco, con forza, andrebbe in mille pezzi.”

Una risata profonda echeggiò dalla sua bocca.

“Pensi davvero che sia così semplice... dai, distruggila” disse facendo un o indietro.

Guardò il vaso, poi senza pensare lo sbatté con forza contro il tronco d’albero. Il

vaso rimbalzò come se nulla fosse e andò ad appoggiarsi, integro, sulla sabbia.

“Al diavolo” urlò.

“Come ho detto, non sei nella posizione di fare nulla... ora vieni qua e lascia che ti riporti dove devi essere.”

L’uomo si avvicinò di un o.

Era impietrito e non riusciva a muoversi.

Per la prima volta nella sua vita aveva paura, paura di non farcela, di perdere se stesso, di dimenticare tutto.

Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella figura. Gli occhi puntati, non sulla pistola, ma sul suo volto che non riusciva a distinguere a causa del buio intenso.

Fortunatamente, la luna, alla fine riuscì a farsi spazio tra le nuvole del cielo e a illuminarlo, prima la pistola, poi il suo volto.

Era un volto rugoso e vecchio, sembrava millenario. E sebbene i lineamenti fossero deturpati e raggrinziti per l’età, avevano un che di famigliare.

Sorrise coi suoi denti marci e spaccati. La bocca era marrone. Sentì la flatulenza della sua risata da metri di distanza. Gli occhi erano bianchi e senza pupilla.

“Addio” disse “è giusto che tu stia qua per sempre, questo è il tuo posto e comunque non ti avrei lasciato andare.”

Gli premette la pistola alla fronte e iniziò a premere il grilletto. Poi sentì un tonfo e vide il suo corpo accasciarsi per terra. Dietro di lui una figura che ben conosceva, Milena.

Sotto la luna era bellissima. I capelli lisci e neri le incorniciavano il volto come in un dipinto. La sua visione fu per lui come un richiamò alla realtà, come un’esortazione a non mollare.

Si rese conto che lei lo stava chiamando, urlando il suo nome, esortandolo a muoversi, a scappare, a correre via. Indugiò quasi immobilizzato, come se le gambe non funzionassero. Allora lei lo prese per mano e, appena sentì il suo calore, si scosse. Raccolse l’anfora che ancora era sulla sabbia accanto all’uomo e iniziò a correre trascinandosela dietro.

Corsero senza dire una parola, più veloce che poterono, senza mai guardarsi indietro.

Arrivarono alla strada mentre le macchine sfrecciavano con le luci accese. Si fermarono ansimando.

Lui si girò verso di lei che adesso, sotto la luce dei lampioni, mostrava la sua bellissima pelle abbronzata. Gli occhi marroni, lucidi per lo spavento.

“Chi era quel tipo?!” urlò.

“Non lo so” rispose più volte scuotendo la testa.

“Mi faceva paura. Cosa voleva da te?”

“L’anfora” rispose mentre gliela mostrava “quella per cui mi ero buttato in mare.”

“Allora non sei del tutto pazzo, c’era veramente.”

“Sì” sorrisi, “e tu sei tornata per me...”

“Lo so, è sempre così.”

La prese tra le braccia e la baciò.

Il bacio durò pochi secondi ma sembrò, sia per lui che per lei, un momento lunghissimo, eterno, come se per un istante il loro essere si fosse trovato nuovamente nella giusta posizione, nella sua giusta linea. Tutto il resto non

contava.

Ora. Presente relativo.

Iniziò a piovere mentre Michele tornava a casa.

Guardava fisso il parabrezza per non perdere d’occhio la strada, la violenza della pioggia rendeva difficile vedere.

Parcheggiò su un ghiaino davanti a una vecchia casa coloniale.

Il cancello appuntito e marrone era illuminato da piccoli fari da giardino.

Si riparò la testa con un giornale che aveva in macchina mentre scendeva per raggiungere il citofono.

Suonò. La lucetta del videocitofono si illuminò e subito il cancello si aprì. Entrò di corsa cercando di evitare al meglio le pozzanghere che si andavano già formando sotto quel diluvio.

Arrivò sotto la veranda interamente zuppo dalla testa ai piedi.

Si scrollò l’acqua di dosso.

Una vocina lo salutò mentre la porta si apriva: “Ciao babbo.”

Michele alzò lo sguardo verso la piccola figura, “ciao Silvia, vieni a dare un bacione al babbo.” Prese in braccio la bambina e si lasciò baciare sulla guancia che schioccò forte due o tre volte.

“La mamma?” chiese, guardandosi intorno.

“Dentro” indicò la bimba verso la casa. La appoggiò nuovamente a terra. Lei lo prese per mano e lo trascinò in casa.

Michele notò come la bambina stesse crescendo in fretta. Ogni volta che la vedeva notava come diventasse sempre più simile a sua madre.

Aveva i capelli ricci e rossi. Il viso dolce, sotto una folta chioma di capelli ribelli. Gli occhi verdi, dolcissimi. Aveva anche qualcosa di suo, il sorriso e la bocca.

Michele si tolse subito il cappotto bagnato e lo mise su un termosifone dell’anticamera che portava al salotto.

Poi, sempre trascinato dalla bimba, che non gli lasciava la mano, entrò nel salotto dove una donna era seduta sul divano di pelle nera. La televisione accesa su una di quelle fiction che ultimamente spopolavano, accoccolata sotto un piumone, si godeva il crepitio del camino sonnecchiando.

Michele guardò la vecchia casa colonica dove aveva vissuto finora. L’aveva comprata coi primi soldi guadagnati dai suoi libri per bambini, le avventure di Serge e Pascal. Vide I vecchi quadri astratti appesi alle pareti, al loro solito posto. I candelabri e i mobili antichi per i quali aveva sempre avuto un debole. Notò come la casa, sebbene illuminata dal fuoco del camino e da luci soffuse, serbasse sempre una oscura tranquillità che adorava e che gli faceva sembrare di essere in un luogo magico, quasi di culto.

I suoi pensieri furono interrotti dalla donna che, sentendolo, si era svegliata dal sonno in cui era caduta davanti alla televisione. “Amore” bisbigliò “finalmente sei arrivato.”

Michele si avvicinò e baciò Ileana sulla bocca. Adorava le sue labbra e lei era sempre bellissima e viva come quando era una ragazza.

“È fatta” disse.

Ileana lo strinse a sé ancora più forte.

Ora. ato relativo.

Erano ate alcune settimane dalla sera dell’incontro con lo strano personaggio sulla spiaggia.

Erano state settimane lunghe e difficili. Fortunatamente Milena era sempre

accanto a lui.

Aveva ato quel tempo chiuso in casa, impaurito all’idea che quell’essere potesse cercarlo di nuovo. Ogni tanto gli sembrava di vederlo affacciandosi dalla finestra in giardino, che lo guardava da dietro qualche albero o dietro qualche muro del vicino.

Nello stesso tempo scoprì quella verità che non avrebbe mai voluto sapere: era stato adottato.

Quel tizio gli aveva detto la verità e questo lo lasciava interdetto, perché, se quella parte del racconto fosse stata vera, sarebbe potuto essere vero anche il resto e forse avrebbe dunque fatto bene a sbarazzarsi dell’anfora.

Iniziava a non fidarsi più di nessuno.

Aveva smesso di parlare con tutti e ava le sue giornate a fissare quel vaso decrepito che aveva appoggiato su una mensola davanti al suo letto.

Non riusciva a capire cosa avesse di speciale.

Lo ossessionava e non riusciva a pensare ad altro.

L’unica particolarità che aveva era che non si riusciva ad aprire. Era come sigillato, forse per colpa del salmastro, ma non si smuoveva di un millimetro.

Tutto gli sembrava complottasse contro di lui. Ogni giorno si chiudeva sempre di più allontanando tutti. Restava in camera da solo, tenendo il vaso in mano, cercando di spezzare il velo dei suoi ricordi sbiaditi. Tutto inutile. Solo una sera, quando ormai erano settimane che non usciva più di casa, successe qualcosa.

Era esausto, sebbene non fe nulla.

La stanchezza lo prendeva sempre di più e non era estraneo a cadere spesso addormentato.

In quei momenti sognava come non avevo mai sognato prima.

Il cervello senza blocchi riusciva ad aprirsi ai suoi pensieri che iniziavano a turbinargli in testa come un tornado. Era come trovarsi in mezzo a una tromba d’aria nel vuoto completo, senza un riparo, senza una metà, con una miriade di oggetti che ti si fanno incontro cercando di colpirti.

Ed era lì che si trovava. Perso in uno spazio vuoto, solo. Vagava per difendersi dalla tromba d’aria che si avvicinava.

Urlava a volte, in cerca di aiuto, ma era come se nessun suono uscisse dalla sua bocca, nessuno riusciva a sentirlo.

Però, a un certo punto, vide una struttura. Era alta, con le mura gialle. Grossi cancelli chiudevano il suo recinto. La tromba d’aria si faceva sempre più vicina.

I cancelli erano aperti, così vi entrava per cercare rifugio.

Solo che, una volta dentro, chiusa la porta alle sue spalle, si ritrovò bambino, in corridoi bui che non riconosceva.

Vedeva solo gente in camice bianco che gli ava davanti, come fantasmi, senza poterli vedere né sentire.

In quel momento tutto si accavallava nella sua mente.

Tutt’intorno vedeva solo bambini, bambini piangenti, tutti con il suo volto, tutti con la sua stessa paura.

Erano vestiti con camici bianchi, con le maniche legate dietro di loro. Indossavano camice di forza. Sbavavano mentre lo guardavano con le loro facce bianche e stanche e lo imploravano di liberarli da quella tortura che gli impediva ogni movimento, ogni gioco.

Provò a fuggire, terrorizzato, ma ogni corridoio, ogni stanza da cui ava lo portava a un’altra uguale, con gli stessi disegni sulle pareti, sui vetri.

Si ritrovò in una stanza tutta bianca e imbottita. Si chiuse la porta dietro per non sentire più i pianti e le grida di aiuto. Per stare al sicuro da quello che c’era fuori.

“Te lo avevo detto” disse una voce che riconobbe subito.

Il volto grinzoso lo guardava con un sorriso marcio di compiacimento.

“Avevo provato ad avvertirti, ma non mi hai voluto ascoltare e questo è il risultato” disse mentre la stanza intorno a lui scomparve buttandolo nuovamente in mezzo a tutti gli altri bambini con la camicia di forza intorno al corpo. Adesso la camicia di forza stringeva anche lui.

L’uomo si accese una sigaretta che puzzava di muffa come se fosse vecchia di mille anni.

“Ora starai meglio, in mezzo a tutto questo dolore, in mezzo a questa follia” disse mentre indicava tutto quello che vi era intorno a lui.

Non riuscì a rispondergli poiché iniziò a sbavare anche lui. Riuscì solo a emettere degli strani grugniti.

“Sai quanti ne ho visti come te. Migliaia. E ti posso assicurare che siete tutti uguali. Non mi date mai retta. Ma, ad ogni modo, siete tutti miei figli e io cerco di proteggervi ad ogni costo. Vi do dei doni, ma voi non li accettate, sentite il bisogno di tradirmi, non vi va mai bene quello che vi viene offerto e consigliato, volete sempre fare di testa vostra” aspirò la sigaretta “volete soffrire.”

“Voglio dire” riprese il discorso dandogli le spalle “vi regalo un mondo, un mondo che pochi possono vedere, un mondo per pochi eletti. Un mondo diverso da quello a cui sareste destinati, pieno di dolore, di dispiaceri e insoddisfazioni. Io vi dono l’utopia di un paradiso terrestre che vi è stato negato. Sì, forse un po’

solitario, ma poi anche questo non è vero, poiché vi concedo di poter volere e immaginare tutto ciò che volete, come lo volete. Vi lascio la possibilità di pensare. Il libero arbitrio che nemmeno vi sognereste d’avere. E in cambio cosa vi chiedo?... Nulla. Solo di darmi una vecchia e consunta anfora, uno stupido vaso che per voi è il male, che vi succhierebbe via il sangue, che vi farebbe cadere tutte le vostre illusioni, tutti i vostri sogni. Vi proteggo da coloro che vi vorrebbero far annegare nei dispiaceri di una vita triste.”

Ormai era lanciato nel discorso, aveva alzato la voce e sbatteva spesso il pugno sul tavolo, tra un aspirata di sigaretta e l’altra, per dare enfasi alla frase.

“Perché non mi hai voluto ascoltare, ti avevo dato un dono che poeti, musicisti e artisti pagherebbero col cuore di loro madre per averlo. Ti avevo dato un pezzo di me.

Ma tu hai rifiutato il mio dono per quella stupida anfora e adesso forse dovrai andare incontro a un futuro peggiore che ti strapperà via il tuo amore e tutto il tuo essere”

“Anfora” biascicò.

“Sì, sì, anfora, maledetta anfora. Cerca sempre di portarsi via i miei figli. Fortunatamente spesso non ce la fa” disse riacquistando la calma.

“Comunque” continuò girandosi verso di lui, “tu, figlio mio, hai ancora una possibilità per salvarti da una vita come questa” disse mentre gli si era avvicinato e gli aveva messo una mano sotto il mento sbavato, tirandogli su la testa che gli ciondolava verso il basso. Sentì il tanfo del suo fiato addosso a tutto

il suo corpo che rabbrividì.

“Sì, hai ancora una possibilità. Ora ti riporterò sano e salvo nella tua stanza, lì prenderai l’anfora, correrai in giardino e la sotterrerai più in fondo che potrai. Poi la ricoprirai e prenderai queste” sentenziò mettendogli in tasca un flacone di pasticche, “al risveglio non ricorderai nulla e potrai continuare la tua bella vita.”

Si svegliò di soprassalto, completamente madido di sudore. Non riusciva a capire quanto avesse dormito.

Era nella sua stanza.

L’anfora era sempre lì.

Il ricordo del sogno era sempre vivido nella sua testa. Si frugò nella tasca ma non trovò nessun flacone, nulla di nulla.

Allora prese l’anfora in mano, la guardò ancora un attimo poi corse in giardino.

Afferrò la pala e iniziò a scavare una buca profonda.

Ora. Presente relativo.

“Dunque è finita” sussurrò Ileana all’orecchio di Michele mentre lo baciava. “Penso proprio di sì” rispose Michele allontanandola da sé per guardarla meglio.

Era la donna che amava. Era bellissima e lui l’amava più della sua vita. I capelli rosso mogano le cadevano sempre ribelli sul volto come quella volta sulla spiaggia e, nonostante l’età avanzata, lei li curava sempre per tenerli lucenti come quando era giovane. Gli occhi verdi erano leggermente lucidi ma emanavano sempre lo stesso sguardo pieno d’amore per lui.

“Lo sai che ti amo” disse Michele.

“Lo so. Anche io” lei distolse lo sguardo, stava per piangere, “vado a mettere la bimba a letto.”

“Va bene ti aspetto qua.”

Mentre Ileana accompagnava la bambina al piano di sopra per metterla a letto, Michele si avvicinò al piccolo tavolo da scrittura vicino al camino. Il suo tavolo da scrittura. Sopra vi erano alcuni fogli di appunti e un computer accesso con un abbozzo di una storia. Michele fece scorrere le dita sulla tastiera. Poi prese un foglio e se lo portò al naso per sentire l’odore di inchiostro che gli piaceva molto.

Non si accorse nemmeno della presenza di Ileana fino a che non lo abbracciò da dietro.

Stette fermo mentre sentiva il suo volto e il corpo di lei sulla sua schiena che si contraevano in un pianto a dirotto.

Lentamente si girò e la strinse a sé. Baciandola nuovamente.

“Smettila di piangere, ti prego” le sussurrò lui “altrimenti non penso di riuscire a trattenermi nemmeno io.”

“Come potrei non piangere, te ne stai andando.”

Michele rimase in silenzio per un istante, poi disse:

“Lo so, ma è giunto il momento, l’ho capito quando sono arrivato qua, ho capito cosa era quella sensazione di vuoto che mi straziava. Ricordo la promessa.”

“Lo so” singhiozzò lei “sapevo sarebbe arrivato questo momento. Non ci dimenticare” le disse mentre gli prendeva il volto e lo baciava.

“Non lo farò, non potrei. Se posso andare è solo grazie a voi... grazie a te... sei stata la mia forza... la mia ragione.”

Ileana sorrise. “Io vi amo, tu e la bambina, e vi cercherò e vi troverò per amarvi ancora, e ancora ovunque sarà possibile trovarvi.”

Piano piano si staccò da Michele tenendogli solo la mano: “Vai adesso.”

Michele iniziò a piangere mentre sentiva la mano di lei sparire fra la sua.

Guardò la casa mentre si dissolveva, lasciandolo solo al centro di una tempesta, con l’acqua che gli cadeva addosso inzuppandolo e mischiando le lacrime alla pioggia che bagnavano la terra. Come una ragnatela che, nonostante tessuta forte e solida, sotto un acquazzone si scioglie e piano piano svanisce nel terreno sfilacciata.

Si vede che ogni rinascita per l’uomo deve iniziare con un pianto, pensò Michele, come quando uno viene al mondo.

Ora. ato relativo.

Era spossato quando finì di scavare la buca.

Prese l’anfora in mano per gettarla, quando si sentì chiamare dal cancello. Riconobbe subito quella voce, era Milena.

Non aveva più risposto alle sue chiamate e ai suoi messaggi sul cellulare per tutta la giornata e quindi era ata da casa per vedere come stava.

Le andò incontro e aprì il cancello.

“Ciao”

“Ciao, sempre con quello stupido vaso in mano” disse indicando l’anfora che avevo tra le mani.

“Lo stavo per buttare.”

“Perché?”

“Ho fatto un sogno, c’era quel tizio, quello della spiaggia e io stavo male. E sembra che tutto il mio dolore che ho adesso e che probabilmente avrò in futuro dipende da questo dannato vaso. Quindi è meglio che me ne liberi.” “Però” disse Milena mentre lo vide dirigersi verso la buca, “chi ti dice che dal dolore non possa nascere qualcosa di buono, le sofferenze aiutano a crescere.”

Si bloccò sul posto e rimase in silenzio ad ascoltare.

“Dopotutto” continuò lei, “la vita è fatta di dolore Michele, ormai dovresti averlo capito, non si può scappare dal dolore, è parte integrante della vita, senza di quello non sapremmo riconoscere le gioie e non ce le potremmo gustare.”

Michele sorrise tra sé, forse Milena aveva ragione pensò, era giusto che iniziasse a crescere, a prendersi le sue responsabilità e ad apprezzare la vita per quella che era.

“Hai ragione, penso che senza...” non fece in tempo a finire la frase poiché vide Milena accasciarsi davanti a lui in una pozza di sangue.

Dietro di lei si stagliava la figura del vecchio dal volto grinzoso che puntava la sua pistola ancora fumante verso il suo corpo.

“Lurida puttana sensibile, le odio.”

“Cosa hai fatto” urlò Michele mentre si buttava sul corpo di lei cercando di tamponarle, invano, la ferita con le mani.

“Ti ho fatto un altro favore, mai ascoltare una donna troppo sensibile, ti porterebbe solo alla inevitabile rovina” disse con noncuranza mentre si accendeva una sigaretta.

“Tu sei folle” urlò Michele con tutta la sua voce “maledetto folle!”

“Ragazzo, non sai quanto mi fa piacere quando i miei figli mi riconoscono” rise, “il problema qua è che tu sei folle quanto me. E ora sbrigati, butta quella maledetta anfora nel buco prima che sia troppo tardi e vedrai che potrai avere di nuovo tutto come lo desideri, pure lei, una volta fatto.”

A quelle parole Michele afferrò l’anfora con le mani insanguinate e subito iniziò a brillare, come quella notte nel mare quando la trovò.

Guardò l’anfora. Il sangue aveva come liberato il coperchio che ora si stava aprendo leggermente lasciando filtrare una luce rossa.

“Che cosa è questo vaso?” urlò verso il vecchio, la cui espressione adesso era distorta in un ghigno di paura.

“È la tua maledizione, la maledizione di tutto il genere umano” sibilò. “Dimmi cosa è, altrimenti lo lascio aprire” insistette.

La faccia grinzosa del vecchio si contrasse più in un’espressione di disgusto. Buttò la sigaretta.

“Al diavolo ragazzo, quello è il vaso di pandora, tutti i mali sono rinchiusi là dentro. Tutti i mali che io evito di farti provare qua, tutti i mali della vita, tutta la ragione malsana dei perché e dei per come che vi sono nella vita. Se aprirai l’anfora non potrai più tornare indietro, non potrò più proteggerti, dovrai andare incontro ai tuoi fallimenti, ai tuoi dolori alle tue perdite, anche quelle del tuo amore. Non avrai più scuse per non affrontare la vita. Ti umilieranno, ti daranno del pazzo e sarai un reietto della società perché diverso, storpio. E non avrai più lei” disse indicando Milena.

Lo sguardo di Michele ò veloce dal vaso al corpo sanguinante.

“Sarai come quei bambini, rinchiuso, rovinato dalle medicine.”

“Come fai a sapere queste cose?” chiese rabbioso.

“Perché io sono te e tu sei me” sorrise il vecchio.

Michele guardò fissando il volto rugoso del vecchio sotto la pioggia che gli colava sul viso. Guardò al di là del tempo e dello spazio e riconobbe per un istante, sotto la luce del fulmine, un viso che conosceva; Il suo viso invecchiato e consumato, roso dalla follia. Poi tutto tornò a quell’istante in cui si trovava.

L’anfora sembrava stesse per esplodere.

Guardò ancora Milena, “grazie” le sussurrò.

Poi si girò verso il vecchio dal volto rugoso: “Io non so se sto per fare la cosa giusta, ma mi ricordo che nel vaso di pandora vi era anche un’altra cosa, una cosa molto importante, la speranza. Ho avuto paura di affrontare i mali della vita finora, perché vivevo senza speranza. Ora ho una speranza, ho una promessa da mantenere. Vivere immerso nella follia, senza dolore, senza scuse non è più ciò che voglio. Voglio affrontare la vita, perdere o vincere, ma sempre combattendo, o almeno provandoci. Porterò sicuramente un pezzo di te e di questo luogo per tutta la vita, ma lo saprò gestire, saprò come usarlo. Ora però è tempo di tornare.

Detto ciò aprì il coperchio dell’anfora e la scagliò contro il vecchio dal volto rugoso. Ci fu un boato che lo assordò per qualche istante. La luce rossa dell’anfora iniziò a vorticare nell’aria come un tornado risucchiando tutta la folla realtà che fino adesso aveva permeato quel mondo, lui compreso.

I cancelli dell’ospedale psichiatrico, colonia Handerson, si aprirono.

Erano ati alcuni anni da quando mia madre aveva avuto la felice idea di mettermi in cura per evitare che mi fi del male e ne fi agli altri. Questo non aveva fatto altro che farmi chiudere in me stesso per non provare dolore. Milena se ne era andata. I suoi avevano divorziato e lei si era dovuta trasferire in un’altra città con la madre e la sorella. Forse mi aveva anche cercato, ma il dottore e mia madre sostenevano che per il mio bene dovessi staccare, per un po’, con tutti i miei vecchi contatti. Era stato un periodo veramente duro però alla fine avevo battuto il mio demone della follia, o almeno speravo che così fosse.

Non prendevo più pasticche da mesi e l’ultima scatola che mi trovai nella tasca della giacca che indossavo la buttai via appena fuori dalla struttura sanitaria.

Il dolore non mi faceva più paura. Ora avevo una speranza. Una speranza e una promessa.

Mentre salivo in macchina di mia madre, la mia vera madre quella di sempre, guardai la colonia Handerson, fisso sull’ultima finestra al piano più alto, dove c’era la mia stanza.

Lì mi parve di vedere una faccia rugosa che mi guardava. Ma fu solo un attimo. La frazione di un secondo, forse solo una sensazione. Nulla esisteva più di quello spazio, quella ragnatela era svanita, andata, insieme a lui. Sentii bussare al finestrino.

“Dolcetto o scherzetto” due bambini in costume mi sorridevano. Era Halloween.

Tirai giù il finestrino.

“Dolcetto o scherzetto” ripeté il bambino che portava una maschera viola sul volto.

“Non ho dolcetti” gli risposi mentre li fissavo. Erano un bambino e una bambina.

Il bambino vestiva una strana maschera viola, inespressiva, con un giglio bianco disegnato sopra, fatta con del cartone ritagliato e un mantello porpora che sembrava cucito con dei tessuti da tenda riciclati. Sul petto portava un simbolo colorato a pennarello di una clessidra fatta a forma di otto, il simbolo dell’infinito.

La bambina invece era vestita tutta di nero con un cappello da strega a punta con disegnato sopra un serpente. Anche sul volto portava una maschera da serpente. Sul vestito vi erano ben ricamati dei fili che sembravano ragnatele che le finivano tutte legate alle dita delle mani, con cui teneva un cestino con dentro le caramelle e i dolciumi presi finora. Era sorridente.

“E comunque da cosa sareste vestiti?” chiesi.

I bambini si guardarono un secondo tra loro e sorrisero. Poi la bambina con voce tremolante disse, indicando il bambino nel centro con la maschera viola, “lui è il signore del tempo e dello spazio.” Il ragazzo fece un inchino. “È il viaggiatore che porta un ricordo di ogni epoca, luogo e vita che ha visitato.”

“E tu cosa saresti?” chiesi sorridendole.

“Io sono la sacerdotessa serpente del destino, colei che muove i fili di tutti con le sue dita aprendo la mente delle persone con la sua magia e, ovviamente, quella che tiene le caramelle altrimenti lui se le mangia tutte prima che arriviamo a casa.”

“Interessante” dissi “però, purtroppo, non ho dolcetti da darvi, sono appena uscito dall’ospedale” dissi indicando la struttura dietro di me, dall’altro lato della strada.

I bambini si girarono a guardarla. “Stai male” chiese la bambina.

“No, non più” sorrisi.

“Cosa avevi?” chiese il bambino mascherato.

“Non lo so nemmeno io, forse avevo solo paura.”

“Paura di cosa?”

Riflettei un attimo, poi risposi: “Di me stesso probabilmente.”

I bambini si guardarono come se non avessero capito.

“Comunque” continuai “quale dispetto volete farmi visto che non ho niente da darvi?”

I due bambini si guardarono e scossero la testa. Poi il bambino con la maschera viola frugò nel sacchetto dei dolciumi e tirò fuori una caramella gelatinosa, disse qualcosa nell’orecchio della bambina e gliela porse facendole il gesto di prenderla.

Lui l’afferrò e il bambino con un cenno della mano lo salutò correndo in mezzo alla calca della strada dove altri bambini mascherati si trovavano a festeggiare quella giornata. Solo la bambina rimase a fissarlo sorridendogli. “Cosa ti ha detto?” chiesi sorridendole.

“Ha detto” sorrise la bambina di rimando “che questo non è il luogo e il tempo in cui dovete parlare, ma che il giorno in cui vi direte tante cose sta giungendo” e indicò la mano dove tenevo la caramella.

Abbassai lo sguardo sulla mano e guardai la caramella che aveva la forma di un ragno, precisa in ogni dettaglio.

Alzai nuovamente lo sguardo ma la bambina era sparita.

Allora li cercai tra la folla che imperversava nelle strade ma non riuscii a scorgerli.

Guardai ancora la grossa caramella gommosa nera a forma di ragno. “Sarà alla liquirizia” pensai e gli diedi un morso.

Mi piaceva la liquirizia.

CAPITOLO QUINTO

C’era una volta, sotto una ragnatela lucente di stelle tessuta sul telo oscuro dello spazio infinito, un coniglio, uno di quei conigli molto simpatici di cui i bambini vanno matti e le mamme si innamorano.

Serge era il suo nome e aveva grandi occhi verdi e una pelliccia bianca e folta come la neve appena caduta sui monti. Le zampette invece erano nere come il carbone.

Ora, Serge aveva sempre vissuto in un boschetto molto tranquillo. Qua, prima di lui, ci avevano vissuto i suoi nonni e i suoi genitori senza avere mai problemi.

Ma, ultimamente, per lui le cose erano un po’ cambiate.

Infatti nonostante Serge fosse un coniglietto educato e quindi ben voluto da tutta la comunità di animali che viveva nel boschetto, spesso, era diventato il bersaglio degli scherzi di alcuni giovani animali.

Questo perché viaggiava con la fantasia e si metteva a raccontare delle storie avventurose mimandole minuziosamente. Non era raro infatti vederlo raccogliere un rametto da terra per usarlo come se fosse una spada vera mentre gesticolava e parlava come se stesse duellando con un nemico immaginario.

Altre volte raccoglieva le foglie cadute e se le metteva in testa, muovendosi da cespuglio a cespuglio, per mostrare come fosse bravo a mimetizzarsi e a seguire

le tracce.

Ora, spesso e volentieri, molti animali del bosco si fermavano per vedere le sue interpretazioni o per sentire le sue storie, ridendosela di gusto prima di ritornarsene alle loro faccende.

Altri invece, soprattutto i giovani del bosco, non erano così clementi e spesso facevano scherzi crudeli a Serge per metterlo in imbarazzo; infatti era risaputo che Serge, in vero, fosse molto pauroso.

A volte di notte si era spaventato perfino della sua stessa ombra, riflessa dalla luna nella boscaglia.

Anche i sui genitori lo avevano sgridato e gli avevano ordinato di smettere di fare quelle figure in giro e di iniziare a fare il coniglio serio e adulto.

I suoi genitori lo rimproveravano perché gli volevano bene e si preoccupavano per lui, infatti, non di rado, capitava che vedessero tornare a casa il loro giovane coniglietto di corsa, terrorizzato per lo scherzo che qualche giovane bulletto gli aveva fatto.

Soprattutto era bersaglio di tre ragazzacci, la Volpe che lo faceva sempre sobbalzare avvicinandosi di soppiatto e ringhiando così forte che il povero Serge tremava per due giorni di fila; la Serpe che quando lo trovava addormentato gli strisciava vicino in silenzio circondandolo con le sue spire per poi svegliarlo con un sibilo all’orecchio; e l’Avvoltoio che si divertiva a scendere in picchiata dal cielo, fin sopra la sua testa, mentre fendeva l’aria coi suoi artigli aguzzi.

Loro tre erano quelli che se ne approfittavano di più.

Gli altri giovani, di contro, si limitavano a ridergli dietro quando vedevano queste scene senza muovere una zampa per aiutarlo.

Serge cercava di prendere di buon grado quegli scherzi anche se non li amava molto e anche perché non avrebbe potuto fare altrimenti, temendo che, se avesse reagito, gli scherzi sarebbero diventati ancora più crudeli.

Inoltre non poteva fare molto affidamento, per queste cose, sui suoi genitori in quanto questi erano ormai vecchi e, spesso e volentieri, erano loro stessi a sgridarlo perché ritenevano che fosse lui medesimo la causa di quel trattamento, andandosene in giro a raccontare quelle strane e ridicole storie. Così quando tornava a casa terrorizzato, invece che cercare di tranquillizzarlo, suo padre andava da lui e gli faceva la ramanzina, sul fatto che ormai era grande e doveva smettere di perdersi in frivolezze e buttarsi su cose più concrete.

Di fatto l’unico amico di Serge era un vecchio Corvo brontolone e mezzo sordo con cui ava spesso le sue giornate.

Il vecchio Corvo, di nome Pascal, aveva ato la vita come Serge si immaginava nelle sue storie e spesso era il Corvo che gli raccontava le peripezie della sua giovinezza.

Serge ascoltava come se le storie di Pascal fossero dei racconti incredibili e fantastici.

Il vecchio Pascal, che tutti schivavano in quanto ritenevano un po’ strambo, era molto contento che il giovane coniglio venisse a fargli compagnia tutti i giorni e ascoltasse le sue storie.

Ma, di contro, spesso gli brontolava poiché avrebbe preferito vedere Serge spendere il suo tempo con i suoi coetanei.

Ma a Serge non importava; l’unica cosa che voleva fare era sentire le storie del Corvo.

Ascoltava, senza perdersi una parola, di quando aveva attraversato gli oceani, in volo, sfidando le correnti d’aria fredda; le storie su tutti i luoghi lontani che aveva visitato, su tutti gli strani animali che aveva conosciuto e su tutte le cose meravigliose che aveva visto.

Ma, soprattutto, il giovane coniglio era assai interessato alle storie in cui il Corvo raccontava dei mostri che aveva visto e da cui era dovuto scappare per aver salva la vita.

Infatti per Serge, che non era mai uscito dal suo tranquillo boschetto, quei racconti erano pura fantascienza e quindi ascoltava rapito quelle storie, che poi la sera, mentre trotterellava a casa, riviveva con lui come protagonista, aggiungendo particolari di sua invenzione.

Il vecchio corvo era, di fatto, il suo unico vero amico, l’unico con cui condivideva dei momenti felici.

Lo stesso valeva per Pascal, poiché, da quando gli era morta la sua compagna, spesso lo si scorgeva triste su un albero a borbottare chissà quale frase incupito, ma da quando Serge lo aveva iniziato a frequentare, il vecchio corvo era diventato meno scontroso e meno triste, anche grazie alle buffe espressioni di Serge ogni volta che ascoltava un suo racconto. Questo lo faceva cambiare subito d’umore e ritornare felice.

Però Pascal si accorgeva che Serge, all’infuori di lui, non aveva altri amici e viveva le sue esperienze solo attraverso i racconti del corvo, quindi, spesso e volentieri, egli stesso lo esortava a non aver paura degli altri ragazzi e a non farsi mettere i piedi in testa da nessuno. Cercava di farlo reagire a volte anche arrabbiandosi e trattandolo un po’ in malo modo.

Ma Serge non vi badava, interessato solo alle storie che il vecchio Corvo raccontava.

Quelle che ascoltava più volentieri parlavano dei suoi viaggi per il mondo e le strane creature che aveva incontrato e di come, alla fine, il suo spirito da vagabondo si fosse rasserenato solo quando aveva trovato ciò per cui viaggiava da sempre, cioè la sua compagna.

Allora il vecchio corvo iniziava a raccontare di come la cosa più bella per lui fosse ritornare al suo boschetto ogni sera dove lei lo aspettava, quieta, tra le splendide ombre delle fronde degli alberi.

Si cimentava in descrizioni così belle e particolari del piccolo bosco che a Serge sembrava, per un breve istante, che quel luogo, che lui aveva sempre considerato una gabbia dove i suoi coetanei lo torturavano in continuazione con scherzi

crudeli, fosse la cosa più bella e fantastica che avesse mai visto.

Spesso, mentre il vecchio Corvo gli raccontava le sue storie, si immaginava come sarebbe stato per lui eggiare qua e là sull’erba fresca, ruzzolandosi coi suoi amici nel prato ancora umido del mattino e giocare e giocare senza aver paura di niente e nessuno.

Purtroppo però, alcune volte, il sogno finiva prima del previsto perché Pascal, colto da un improvviso attacco di stanchezza, si addormentava mentre era nel bel mezzo di una storia rocambolesca. Quindi a Serge non rimaneva che andarsene in silenzio, lasciando il vecchio Pascal a godersi il meritato riposo.

La vita di Serge continuò in questo modo per molto tempo, fino a che, un giorno, la foresta fu scossa da un boato tremendo e la terra iniziò a tremare. Serge si svegliò subito e, con un balzo felino inconsueto per lui, fu, in attimo, fuori dalla sua tana, all’aperto.

Lì si accorse che tutti gli animali erano assai spaventati e si stringevano l’uno all’altro a ogni potente boato che faceva tremare la terra, terrorizzati e indecisi sul da farsi; rimanendo fermi e immobili come se si aspettassero l’irreparabile fine. Serge si strinse ai sui genitori come non aveva mai fatto prima.

L’alba era appena sorta e col sorgere del sole erano cominciati i boati e la terra aveva iniziato a tremare, benché il cielo fosse limpido e i raggi del sole filtrassero tra le fronde.

Nessun tuono, né lampo, squarciava il cielo, solo la terra sembrava tremare ogni volta che uno spaventoso rumore rompeva il silenzio della foresta. Furono

momenti terribili per tutti.

Nessuno si mosse fino a che i rumori, come erano giunti, cessarono sul far della sera.

Purtroppo per gli abitanti della foresta, per tutti i giorni a seguire il terreno continuò a tremare a intervalli non regolari e ogni volta che la terra tremava, un rombo spaccava la quiete della foresta come per annunciare l’imminente arrivo di una tempesta.

Solo quando calava la notte tutto ritornava normale, silenzioso.

Fu proprio durante una di queste notti che gli animali, non sapendo dare una spiegazione all’evento, si radunarono tutti intorno alla grande quercia per discutere sul da farsi, visto che, ogni giorno che ava, il rumore e il movimento della terra si facevano sempre più forti e più vicini, come se un grosso mostro, abitante nel sottosuolo, si stesse avvicinando sempre di più. Intorno alla grande quercia si erano ritrovate tutte le famiglie che abitavano quella parte di boschetto.

Gli scoiattoli, le serpi, i lupi e i conigli, insomma proprio tutti, tranne gli uccelli che, appena avevano sentito il primo boato, erano partiti ad ali levate per aver salva la vita e ancora non erano tornati.

Gli unici pennuti che erano rimasti erano quelli troppo vecchi per volare, come la signora Ursula, una vecchia e grassa civetta che non si muoveva mai dal suo albero e, ovviamente, il buon vecchio Pascal.

La riunione non fu molto fruttuosa perché tutti volevano dire la propria teoria sul mostro che strusciava sotto terra e che stava venendo a braccarli. Molti erano spaventati e consigliarono solo di fuggire.

Altri, invece, volevano affrontare il nemico sebbene non sapessero nulla di lui.

Insomma, già dopo pochi minuti, non si riusciva più a capire chi stesse dicendo cosa.

Fu nel parapiglia più totale, mentre il russare della Signora Ursula si alzava addirittura sopra le voci dei litiganti, che il fischio acuto del vecchio corvo Pascal mise tutti a tacere. Tutti si girarono verso di lui che li guardava incredulo e un po’stizzito da sopra il suo ramo scuotendo il suo capo nero.

Rare volte gli abitanti della foresta avevano visto il corvo Pascal interessarsi a qualcosa che non fossero i suoi racconti, quindi si chetarono aspettando che proferisse parola.

Lo stesso Serge rimase di stucco quando sentì il fischio e ora era quasi terrorizzato che il vecchio corvo cadesse addormentato, come spesso accadeva, lasciando tutti sconcertati.

Ma ciò non accadde.

Pascal infatti, dopo aver scosso la testa, aveva iniziato a parlare: “Così non

arriverete a niente stupidi zucconi, dovete imparare ad ascoltare prima di parlare. Non arriverete a capo di nulla, nessuna soluzione, solo a un sacco di sciocchezze e supposizioni.” Fece una pausa, poi continuò: “Fortunatamente per voi io conosco una storia che potrebbe fare un po’ di luce su quello che sta accadendo, anche se vi metterà molta paura in più in cuore; infatti non avete torto nel dire che ciò che ci dà la caccia è un mostro, ma, purtroppo per noi, non è un bruco gigante che vive nel sottosuolo, è qualcosa di ben peggiore e se avrete pazienza di ascoltare vi racconterò a cosa dobbiamo prepararci. Abbiamo tutta la notte visto che il mostro di notte non si muove.”

Tutti rimasero zitti guardandosi l’uno con l’altro, indecisi su cosa rispondere, visto che, spesso e volentieri, il vecchio corvo Pascal veniva preso per matto e i suoi racconti presi solo per favole.

Ma in questo frangente, poiché nessuno aveva la benché minima idea di cosa si sarebbero dovuti aspettare, anche il racconto di Pascal sembrava una speranza per capire meglio cosa stesse accadendo nel loro piccolo villaggio.

“Ero un giovane corvo quando decisi di andare a vivere in una foresta che era assai distante da questa.

Lì aveva sempre vissuto una mia vecchia conoscenza che in quel periodo non stava molto bene, visto che si era appena rimesso da una ferita all’ala ma non riusciva ancora a volare e quindi a procurarsi il cibo, sia per lui che per sua sorella che aveva più o meno la mia età. Quindi, siccome in quel periodo il mio cuore era in continuo fermento per il viaggiare, decisi che mi sarei trasferito là per un po’ e li avrei aiutati, per poi ripartire appena il mio amico si fosse rimesso totalmente in sesto.

Quando arrivai riconobbi subito il grande bosco, poiché si stagliava verde e

maestoso sotto di me per una lunghezza incredibile. Avevo girato molto, ma, in vita mia, non avevo mai visto un bosco tanto vasto e popolato di ogni specie.

Mi fermai un attimo per assaporare l’aria fresca e l’odore della foresta, poi ripartii alla ricerca del nido del mio amico.

Fortunatamente era conosciuto in quel grande bosco, poiché la sua famiglia aveva vissuto lì per molte generazioni, quindi, dopo varie indicazioni riuscii ad arrivare subito al posto designato.

La sorella del mio ospite mi accolse e quando la vidi negli occhi capii che da quel posto non me ne sarei mai più andato. Infatti, quella corva dagli occhi di brace, divenne poi la mia unica e adorata moglie. Ancora mi ricordo il suo manto piumato, liscio, perfetto e nero come la pece.

Così aiutai il mio vecchio amico a rimettersi, mentre il nostro amore cresceva e si consumava giorno dopo giorno.

Alla fine, quando il fratello della mia amata si fu rimesso del tutto, chiesi la mano di sua sorella e con la sua benedizione la sposai.

Ora quel posto mi sembrava il luogo migliore della terra, quello che avevo sempre cercato nel mio girovagare, benché, alla fine, non avesse nulla di più e nulla di meno di molti altri posti dove ero stato, solo che quello era il posto giusto, gli altri semplicemente non lo erano.

E fu proprio lì, quando ormai erano ati alcuni anni, che sopraggiunsero le bestie. Sì, avete capito bene, non una, ma molte, tutte simili come le api.

Sì, e proprio come ora, furono accompagnate da rumori assordanti e da scuotimenti della terra.

Questi si cibano degli alberi, li sradicano dal terreno, distruggendo ogni cosa che gli si frappone.”

Tutte le persone che ascoltavano la storia del vecchio Pascal sobbalzarono. Poi la Volpe chiese: “Va’ avanti con la storia vecchio e spiegaci come siete riusciti a sconfiggerle quella volta.”

Pascal scosse la testa con scoramento: “Purtroppo non riuscimmo, poiché, se è vero che la notte esse dormono e sono vulnerabili, la loro scorza è così dura che nemmeno il più forte di noi riuscì a fargli male, nemmeno quando riposavano.”

“E quindi cosa avete fatto?” chiese la volpe.

“Semplicemente ce ne siamo andati, chi poteva farlo, come gli uccelli volando via, altri correndo lontano, altri ancora, i più incoscienti, hanno provato ad aspettare sperando che le bestie non avessero più fame e gli lasciassero anche solo qualche metro di foresta, ma non fu così, abbatterono e si cibarono di tutti gli alberi e i pochi che furono così folli da provare ad affrontarli morirono tra le loro fauci fameliche.”

“Quindi non abbiamo che un’unica possibilità” chiese la Volpe che aveva già capito quale fosse l’unica alternativa, “se non andarcene.”

“Esatto” sospirò il vecchio Pascal, “ho voluto raccontarvi questa storia perché non volevo che altri morissero in qualche pazza prova senza risultato.

Non avete che una possibilità, quella di fuggire dalla parte opposta a loro, sperando che non vi raggiungano mai.”

“Perché hai detto avete?” chiese la volpe

“Perché io ormai sono vecchio, la mia casa è in questo luogo e non potrei reggere un altro lungo viaggio, quindi aspetterò il mio destino qua, dove ho abitato con gioia per tutti questi lunghi anni.”

A Serge, a quelle parole, gli si strinse il cuore e corse ad abbracciare il vecchio corvo.

Intanto la riunione procedeva nella più grande confusione, ognuno voleva dire la sua e la paura serpeggiava fra tutti.

Alla fine la decisione fu presa; si sarebbero messi tutti in cammino verso la parte opposta del bosco e se nei giorni a venire avessero continuato a sentire le bestie avvicinarsi sarebbero fuggiti e avrebbero trovato un’altra casa, sebbene non avessero la minima idea di dove poterla cercare.

Poi si ritirarono a preparare le loro cose.

L’indomani mattina erano già tutti pronti, a parte alcuni vecchi del villaggio, tra cui Pascal, che avevano deciso di rimanere lì per non rallentare il o degli altri o semplicemente perché non volevano andarsene.

Serge corse a stringere in lacrime, per l’ultima volta, il vecchio Pascal e a supplicarlo di andare con lui, che, se fosse stato necessario, lo avrebbe portato in spalla per tutto il tragitto.

Il vecchio corvo lo strinse a sé e poi, allontanandolo, gli asciugò le lacrime con le sue piume, che, nonostante l’età, erano sempre morbide e profumate e gli disse: “Vedi Serge, il mio viaggio finisce qua, ogni persona nella vita deve intraprendere dei viaggi, alcune volte ti portano lontano, altre volte ti portano in posti più vicini, altre volte ancora non ti fanno muovere perché sono le opportunità e le esperienze che viaggiano verso di te, altri ti riportano in posti dove eri già stato in precedenza ma che non erano giusti in quel momento. Immagina la ragnatela del nostro amico ragno, lui la fila muovendosi dal centro, dove tutto ha inizio, per spostarsi a destra e a sinistra, su e giù, avanti e indietro, alcune volte ritorna sui suoi i, altre volte continua a ingrandirla muovendosi tra i fili resistenti che già ha tessuto, poi quando reputa di aver fatto un buon lavoro e di essere arrivato al punto che voleva si ferma.

Io ho viaggiato veramente tanto, ho girato il mondo e visto tante cose, mi piaceva essere un vagabondo del cielo ed è stato bello esserlo, però non mi sono mai sentito pienamente completo, solo quando ho trovato la mia metà e il mio viaggio mi ha condotto qua ho capito che questo era il posto dove sarei dovuto stare e infatti qua sono rimasto per molti soli e molte lune, insieme alla mia compagna. Qua il mio viaggio si è completato, qua la mia ragnatela del destino è giunta a compimento.

Quindi non ho più nessun motivo per riprendere la strada, perché ogni cosa che la strada mi porterà a vedere e trovare io l’ho già avuta qua.

Ma per te non è così, per questo tu devi andare, tu hai ancora un sacco di sentieri da percorrere e di cose da vedere lungo il tragitto, la tua ragnatela non è ancora tessuta completamente.

So che ora la vita ti sembra un po’ frustrante e ingiusta, per gli scherzi che subisci e per molte altre cose, ma è solo perché ancora non hai imparato a viverla, non hai camminato ancora molto per poterla gestire, è un aggio obbligato e questo viaggio che stai per intraprendere ti farà capire e ti inizierà a gestire la tua vita, ne sono sicuro. Quindi va e impara, come è giusto che sia.”

Il vecchio corvo si staccò una delle sue penne e la consegnò al piccolo Serge ancora in lacrime.

“Questo è un ricordo di me, spero che ti porterà fortuna. Ora va’.”

Serge prese la piuma, abbracciò ancora una volta il vecchio corvo e poi, piangendo a dirotto, si mise a correre verso i suoi genitori che lo stavano aspettando per andare. Si girò ancora una volta, mentre Pascal lo salutava da sotto l’albero che molte volte gli aveva fatto da cornice per i loro racconti. Serge pianse tutta la giornata come non aveva mai fatto prima e come non avrebbe fatto mai in seguito.

Aveva iniziato il suo cammino.

Camminarono per vari giorni allontanandosi sempre di più dai boati delle bestie, fino a che sembrò li avessero lasciati completamente alle spalle.

Erano ormai al limitare del bosco e i terrificanti rumori non si sentivano più. Tutti si erano sistemati alla bene e meglio e speravano che le bestie, ormai sazie, se ne fossero andate o che non arrivassero fin lì.

Intanto Serge, che aveva parlato ben poco durante il viaggio, adesso si dava molto da fare; coi suoi racconti teneva su di morale i più piccoli e spesso non solo loro. Infatti, anche i suoi ex persecutori, quelli che gli facevano gli scherzi, di notte, si avvicinavano per ascoltare le sue storie.

Lo stesso Serge era diventato meno pauroso e quando aveva un po’ di paura toccava, con la sua zampina, la penna del vecchio Pascal, che, come nel suo racconto, vedeva ergersi da solo contro le bestie e sconfiggerle.

Tutto sembrò tranquillo per un po’, ma poi la terra iniziò nuovamente a tremare sotto i piedi di tutti e non ci volle molto per capire che la fame delle bestie non era ancora stata saziata.

Di lì a poco anche gli ultimi alberi e loro stessi sarebbero divenuti cibo per quelle bestie immonde.

Fu così che gli animali presero la decisione che, da lì a pochi giorni, per salvarsi, avrebbero abbandonato il bosco.

A Serge però questa idea non andava assolutamente giù e gli venne in mente un piano.

Sarebbe andato di notte, mentre la bestia dormiva, a vederla. Voleva vedere cosa fosse e se ci fosse stato un mezzo per neutralizzarla e, come nei suoi racconti, sarebbe stato un eroe.

Di nascosto da tutti, di notte, si incamminò.

Sentiva le zampe tremargli ad ogni o che faceva, ma si fece forza e strisciando da un cespuglio all’altro, dopo un po’, si trovò davanti a una delle bestie.

La guardò da lontano alla luce della luna.

Era ferma, immobile, non sembrava nemmeno respirasse.

Dietro, sparpagliate nella terra ormai senza nemmeno un albero, ve ne erano molte altre, tutte identiche, di colore giallognolo come le api.

Non avevano delle zampe per muoversi ma delle ruote cingolate che entravano nel terreno squarciandolo. Grossi denti metallici sul davanti.

Lo scempio che si portavano dietro era immenso. Tutti gli alberi del loro amato bosco erano a terra, tagliati e sezionati come scorta di cibo.

Dietro di loro, quella che era una rigogliosa foresta, ora era solamente un deserto morente.

Serge, quasi con le lacrime agli occhi, al colmo dell’ira, raccolse un ramo come arma e decise di avvicinarsi alla bestia.

Si mosse nel modo più silenzioso che conosceva, strisciando come faceva il serpente quando si avvicinava a lui per terrorizzarlo. Non sembrava più un coniglio ma una serpe vera e propria da tanto che strisciava rasente la terra. Sfiorò la bestia e sentì la sua pelle freddissima. Si ritrasse spaventato da quel tocco gelido che sapeva di morte. Decise allora che l’avrebbe colpita con tutta la sua forza e si sarebbe preparato al peggio se si fosse svegliata.

Trasse un profondo respiro e colpì. Il ramoscello gli si ruppe fra le zampe e la bestia nemmeno si mosse.

Stava per colpire nuovamente quando qualcosa attirò la sua attenzione, una luce in lontananza che si avvicinava, seguita da delle voci.

“Dove hai detto che hai lasciato il fucile?”

“È sull’ultimo caterpillar laggiù.”

Serge si nascose indeciso sul da farsi.

Poi...

Poi entrò l’infermiera

“Tuo nonno deve riposare e tu sei qua ogni giorno, quindi è ora che vai a casa.”

“Oh la prego signora, la storia non è ancora finita e domani inizia la scuola e io non potrò venire più così spesso, la prego.”

“Mi dispiace e poi c’è tua madre fuori che ti aspetta.”

“Ma…” provai a obbiettare verso quella vecchia infermiera.

“Non ti preoccupare” rispose mio nonno “te la racconterò domani la fine della storia di Serge, tanto non manca molto.”

“Va bene nonno” gli diedi un bacio e me ne andai.

Nella notte mio nonno morì, non seppi mai la fine della storia di Serge.

“Ma allora perché ne stai facendo il tuo nuovo libro, amore?”

“Perché alcune volte le storie sono complete solo quando non lo sono. O almeno a me piace pensarla così.”

“Non ti seguo…”

“Quello che voglio dire è che, per ognuno che la ascolta, la storia di Serge può finire nel modo che quella persona ritiene giusto, io l’ho capito dopo molti anni che mi era stata raccontata.”

“E per te come finisce?”

“Non lo so ancora, sinceramente, l’ho sempre tenuta in un cassetto cercando di immaginare come mio nonno me l’avrebbe voluta raccontare, che insegnamento mi volesse trasmettere. Per me era una cosa importante, ma, come mi sono reso conto, completamente sbagliata. Come la racconto oggi, o meglio, come mi è piaciuta raccontarla in questo libro è già forse il modo in cui a lui sarebbe piaciuta concluderla e il messaggio era, semplicemente, farmi riflettere, indicarmi una via, la strada dello scrivere, per esempio. Forse voleva dirmi che non era importante come finiva la storia ma che un giorno qualcuno la finisse.” Sorrise.

“Hmm ormai sei peggio di Pascal, ma ti amo lo stesso. Vuol dire che scoprirò la fine da sola, magari davanti al camino con un buon bicchiere di porto rosso, quando il libro sarà pubblicato.”

Ileana prese due bicchieri e li riempì con il dolce nettare rosso portoghese. Poi

uno lo ò a Michele che la guardava come rapito con i fogli del suo ultimo scritto in mano.

Prese il bicchiere di cristallo e brindò con la moglie, sorseggiando piano piano il porto, come avevano fatto la prima volta che si erano conosciuti in spiaggia.

Prese una sigaretta dal pacchetto rosso accanto a lui appoggiato sul tavolo, l’accese e diede una lunga boccata. “Devo smettere, questa sarà l’ultima.” “Bravo” lei gli sorrise mentre si sedeva sulle sue ginocchia e gli rubava la sigaretta di mano.

Diede un tiro e gliela poggiò nuovamente sulle labbra.

“Sei tu quello che veniva picchiato quando eri piccolo?” chiese dolcemente mentre lo guardava negli occhi.

Lui la fissò per alcuni istanti.

Si perdeva dentro i suoi occhi.

Poi sorrise: “No era peggio, io ero quello che picchiava. Non ne vado fiero ma ero piccolo e non distinguevo ancora bene cosa era giusto e cosa sbagliato, l’ho compreso solo col tempo, più avanti e anche grazie a questo racconto.”

Diede un altro tiro alla sigaretta.

“Sai una cosa.”

“Cosa?” chiese lui.

“Anche quando ti ho conosciuto eri cosi riflessivo, quel giorno sulla spiaggia.”

“Sembra ato un secolo.”

“Non siamo così vecchi” sorrise lei e lo baciò.

“No direi di no. Certo ne è ata di acqua sotto i ponti. Siamo sempre noi ma sembriamo due persone differenti da quelle che eravamo quel giorno in spiaggia sugli scogli.”

“È vero siamo cresciuti, soprattutto dopo il tuo incidente.”

Lei rise: “Puoi chiamarlo con il suo nome, tentato suicidio.”

“Vada per tentato suicidio allora” sorrise.

“Eravamo proprio dei giovani strambi, chi per un verso chi per un altro” disse lei

con lo sguardo perso, “mi ricordo che tu, quando ci siamo conosciuti, eri una persona assolutamente non affidabile, almeno per me. Non avevi finito gli studi, con le tue aspirazioni da sognatore, ti vedevo senza un futuro e infatti quella sera nel letto della casa estiva dei miei genitori, mi ricordo che ti chiesi per quale motivo saresti dovuto essere il padre dei miei figli.”

Michele guardò il pacchetto di sigarette sul tavolo.

Avvicinò la mano e lo scosse per vedere quante ne restavano.

Solo una.

Ritrasse la mano, quasi allontanando il pacchetto.

“Ma” continuò Ileana “mi sbagliavo. Volevo che tu mi fi vedere il tuo futuro, perché io non riuscivo nemmeno a vedere il mio, ero come spaventata, come se qualcosa dentro di me mi mettesse sul chi va là, come se non riuscissi a vedere il disegno della ragnatela del mio destino, per dirla alla Pascal.

Ma non avevo capito. Non avevo capito che il futuro si costruisce insieme giorno per giorno, con coraggio senza arrendersi alle difficoltà. Come stiamo facendo noi.”

Bevve un sorso di porto.

“Non c’è bisogno che tu...” non riuscii a finire la frase.

“No, lo so” proseguì lei interrompendolo, “ma fammi finire, voglio dirti una cosa importante.”

Michele la guardava, la mano era ritornata sul pacchetto di sigarette che adesso tamburellava sul tavolo.

“Non avrei mai dovuto chiederti per quale motivo saresti dovuto essere tu il padre dei miei figli, perché non ci deve essere un motivo per questo, poiché quando ti guardo ho già la risposta. Quando guardo nei tuoi occhi ti vedo, vi vedo, che la tieni in braccio con amore e la proteggi. Vedo il disegno della nostra ragnatela.”

Michele sorrise, prese il pacchetto di sigarette in mano e disse: “È il momento di smettere di fumare, c’è solo una sigaretta, la terrò per un qualche evento particolare.” Mise in tasca il pacchetto stropicciandolo e pose la mano sul ventre di Ileana.

Lentamente la tirò a sé e la baciò.

Lei aveva gli occhi lucidi e lo guardava.

“Quando sarà il momento” disse lui sorridendo, sempre con la mano sul ventre, “la chiameremo Silvia.”

“Mi piace il nome Silvia, mi ricorda la natura e le foreste.”

I due si alzarono mano nella mano e si accoccolarono davanti al camino che crepitava, consumando il loro amore.

CAPITOLO SESTO

Erano ormai anni che la terra non vedeva un giorno così. Un giorno in cui le piogge erano cessate e il sole si ergeva in tutta la sua luminosità alto in cielo.

L’aria sembrava limpida e pulita come un tempo.

Ormai eravamo alla fine.

Non sono in molti quelli che oggi possono vedere questo spettacolo dalla cima del palazzo, solo pochi fortunati. Solo chi, come me, ha avuto la fortuna di essere ammesso ai piani alti.

Da questa altezza riesco a vedere lo specchio d’acqua che ha sommerso ormai gran parte della terra e che fra poco sommergerà anche noi.

L’acqua che è sempre stata la nostra fonte di vita è diventata la nostra morte e la terra che conoscevamo sta rendendo mito una triste realtà, poiché noi, ormai, stiamo diventando la nuova Atlantide.

Purtroppo non abbiamo le branchie come sembra avessero gli Atlantidei per sopravvivere sotto l’acqua, quindi potete immaginare che fine faranno coloro che rimarranno qua.

Nonostante il divieto salgo fino in cima al palazzo, apro la porta ed esco. Non dovrei, non è prudente, potrebbe iniziare nuovamente a piovere da un momento all’altro, ma d’altro canto, non ho mai rispettato le regole e non intendo cambiare il mio carattere adesso.

La porta cigola quando la apro, nonostante l’aria sembri limpida, posso sentire ancora l’odore nauseabondo che le piogge acide hanno creato, che ano attraverso il mio respiratore mentre la filtra.

Resisto.

Lo spettacolo è troppo bello e probabilmente non lo rivedrò più.

La tuta isotermica mi tiene vivo e mi protegge dai raggi ultravioletti del sole. Ma la sento che comunque si scalda come un wurstel su un barbecue. Mi gusto lo spettacolo, come se non udissi gli allarmi che hanno iniziato a suonare appena ho aperto la porta, per qualche momento, poi vengo invitato a rientrare. Non posso disobbedire, quindi rientro nel palazzo un po’più rinfrancato per quello che dovrò fare.

Mi tolgo la tuta e mi metto i miei vestiti, un paio di jeans, una felpa con su scritto Guinness e il mio giubbotto corto di pelle. Mi allaccio le scarpe da ginnastica e sono pronto per fare ciò che devo prima della partenza.

Sì, stiamo partendo, sebbene non sappia per dove.

Stiamo abbandonando il Pianeta che ci ha fatti nascere, che ci ha allevati e che ora tenta di ucciderci, come ripicca per il fatto che, come sanguisughe, lo abbiamo sfruttato fino allo stremo delle sue forze, adagiandoci sugli allori del fatto che ci fosse molto di tutto e senza cercare alternative.

Prima di andare alla navetta o all’ascensore, come lo chiamo io, o dal mio posto letto.

La camerata è vuota. Tutti i miei compagni di stanza sono già andati via, tutti. Sono già sulla Nave, il nostro autobus per la salvezza, visto che manca poco alla partenza.

Hanno lasciato dietro di loro alcune cose, foto soprattutto, buttate per terra o accartocciate in cestini dell’immondizia, lasciate lì insieme alla loro umanità.

Non so come facciano a essere così distaccati, a fare finta che loro non ci siano già più.

Mi sciacquo la faccia con acqua che sa di amuchina e mentre mi guardo allo specchio, gocciolante, mi vedo invecchiato più dei miei quaranta anni. Mi sembra di dimostrarne almeno cinquanta.

I capelli sono ancora castani ma iniziano a essere un po’ radi sulle tempie. Le rughe intorno agli occhi si sono accentuate e anche quelle sulla fronte. Ma la cosa che più mi è invecchiata è lo sguardo.

Gli occhi, sebbene verdi come un tempo, hanno come un velo di stanchezza. Come se non avessero più voglia di vivere o semplicemente di vedere cosa li circonda.

Come dargli torto.

D’altronde è la pura e semplice verità. Anche se stiamo andando verso una nuova speranza io non riesco a vederla, sono come morto.

Preferirei rimanere qua, ma nemmeno questo mi è concesso. Non mi è concesso nemmeno di scegliere dove morire.

Il tempo stringe, frugo fra le cose della mia valigia già pronta da giorni ormai e trovo i due oggetti che cercavo.

Un pacchetto di sigarette che avevo tenuto nascosto per l’occasione, quelle che fumavo da ragazzo, un pacchetto morbido di Marlboro rosse tutto stropicciato, sigarette alla Gijen come le chiamavamo io e i miei amici, che facevano molto figo ai tempi.

Leggo la scritta sul pacchetto, “nuoce gravemente alla salute.”

Sorrido.

Magari avessero fatto il loro dovere.

L’altro oggetto è una piccola catenella d’oro.

Metto entrambe le cose in tasca, richiudo la valigia ed esco diretto all’ascensore.

Nonostante sia ormai nel Palazzo da vari anni non mi sono ancora abituato a questo luogo.

Il Palazzo è stata la nostra salvezza e la nostra prigione.

Una struttura imponente che all’inizio è stato il nostro rifugio e piano piano è diventato per alcuni la morte stessa, senza via di fuga.

Ricordo ancora quando tutto accadde dieci anni fa.

Il buco dell’ozono era ormai diventato una voragine.

Il sole iniziava a bruciare e a scaldare veramente. I ghiacci si iniziarono a sciogliere e iniziò a piovere.

Pioveva sempre e pioveva veleno.

La natura si era ribellata a tutta la nostra ingordigia, all’ingordigia dei nostri governi, all’ingordigia delle multinazionali. Ma anche all’ingordigia dell’uomo semplice, me compreso, che nella sua ignoranza, si reputava libero di sporcare, inquinare nel suo piccolo universo, nelle proprie case, con la propria macchina, pensando che questa malsana ora non sarebbe mai giunta.

Purtroppo non fu così.

Lo scanner dell’ascensore a sulla mia retina tre volte mentre i guardiani mi osservano dalle telecamere poste sopra il visore.

La porta della navetta si solleva con un sibilo, entro dentro la capsula, il vetro si richiude sopra di me. La navetta parte verso il basso come se la forza di gravità non esistesse. L’ho fatto molte volte ma ogni volta il movimento mi lascia senza fiato e con un sobbalzo al petto.

Sto andando verso il basso, verso le fondamenta, dove vorrei stare ma non posso, agli inferi, come vengono chiamati i piani inferiori del Palazzo.

o veloce come un missile da un livello all’altro, da un piano superiore a quello inferiore.

La struttura fu costruita apposta affinché ogni piano fosse diviso dall’altro e l’ascensore fosse l’unico mezzo controllato per muoversi su e giù.

Non tutti possono andare liberamente da un piano all’altro.

Solo alcuni fortunati, tra cui me e solo grazie al mio epartout naturale, il mio DNA che permette tramite la scansione della retina di evitare che i laser, posti ad ogni piano, mi brucino all’istante. Sono infallibili e servono a mantenere l’ordine senza eccezioni.

Quando o per ogni livello, al centro del piano, posso vedere la gente che si ammassa ai grossi cancelli di ferro che portano all’ascensore, dove i laser si muovono incessantemente in direzione della gente, pronti, se qualcuno dovesse forzare i cancelli, a entrare in azione.

È il momento, tiro fuori il pacchetto morbido, lo batto sulla mano e appena esce mi metto la sigaretta tutta storta in bocca.

Certe volte il destino è bizzarro.

Come in un vecchio film di serie Z la sigaretta è l’ultima del pacchetto, come questo sarà il mio ultimo viaggio verso i piani bassi del Palazzo.

Mi frugo nella tasca del giubbetto, tiro fuori il mio vecchio accendino della smoking filter. Un ricordo dei bei tempi che furono. Accendo la sigaretta e do una profonda aspirata. Mi godo il sapore di questo veleno mentre la navetta si riempie di fumo. Mi godo il momento come non facevo da molto tempo ormai. Forse è vero che l’istinto di sopravvivenza sente il pericolo prima della mente, poiché più vado giù, più il mio cuore accelera.

Mi giro, non voglio più vedere la gente ammassata ai cancelli, facce sconosciute,

ma anche facce che conosco, facce con cui ho diviso esperienze, gioie e dolori. Noto che anche il loro istinto deve averli messi sull’avviso che qualcosa stava per succedere perché non ne avevo mai visti così tanti ammassati e così agitati.

La mia mente corre ai ricordi, mentre il volto di quei disperati mi si fissa davanti come un chiodo al muro, facendomi capire come ci siamo ridotti.

Quando ero bambino, sentivo tutti e da tutte le parti parlare dell’inquinamento, dell’effetto serra e dello scioglimento dei ghiacciai, ma tutti sostenevano che la cosa era sotto controllo e che non bisognava preoccuparsi. Ogni tanto sentivo nei telegiornali che qualche nazione aveva firmato dei protocolli internazionali per salvaguardare l’ambiente, ma per una che firmava ve ne erano altre che non accettavano e continuavano a inquinare anche per loro. Per ogni limitazione sottoscritta in un inutile pezzo di carta, vi era una petroliera che nel mondo reale affondava e inquinava il mare, una industria che smaltiva le proprie scorie in modo non consono.

Tutti pensavano che l’importante fosse mostrarsi interessati e cercare di tenere la cosa sotto controllo senza però trovare soluzioni efficaci, perché i soldi in ballo erano troppi, troppi interessi. Però non avevano tenuto conto che la natura non poteva essere tenuta sotto controllo, ma si doveva solamente rispettare.

Ricordo come il sole smise di svegliarci al mattino, coperto sempre dalle nuvole e le poche volte che vi era come bruciasse la pelle.

Ricordo le prime piogge acide che bucavano le persone, i fiumi che iniziarono a straripare e i mari che si avvicinavano e si ingrandivano sempre di più annegando qualunque cosa trovassero sul loro cammino.

Ricordo le onde anomale che seppellirono le prime città della costa e gli smottamenti che fecero franare, oltre che i palazzi, anche tutte le nostre sicurezze. Ricordo la gente che fuggiva.

Fuggiva sui monti per cercare scampo dall’acqua.

Ricordo come la razza umana stava per essere annientata.

Poi arrivarono. I nostri salvatori. I nostri tiranni.

Loro ci osservavano da lontano, lo avevano sempre fatto da epoche remote.

Avevano osservato il nostro evolversi, sperando che non fallissimo, non nuovamente.

Noi pensavamo fossero solo leggenda.

Non lo erano.

Eravamo una loro colonia, una colonia lontana, in un altro pianeta. Alcuni di loro abitavano tra noi per monitorarci, poiché ci avevano dato una possibilità molto tempo addietro di redimerci.

Non l’abbiamo colta.

Vennero giù dai cieli. Pensammo che la salvezza fosse arrivata. Costruirono i Palazzi all’interno delle più alte montagne del mondo, su fino alla loro cima e lì fecero andare a vivere ciò che rimaneva del genere umano. Coloro che erano sopravvissuti al cataclisma.

I Palazzi non sono altro che grosse caserme che offrono posti per dormire all’asciutto, del cibo commestibile e dell’acqua potabile.

Sono ammassi ferrosi, costruiti con delle meccaniche sconosciute al genere umano, con fili e ferro intrecciati come se fossero di gomma, ma resistenti e impermeabili a qualsiasi fenomeno esterno.

Sono dotati di un’ingegneria che noi non avremmo raggiunto nemmeno tra mille anni. Sensori rilevano il camminare delle persone per i corridoi, monitor riprendono tutto quello che succede ventiquattro ore su ventiquattro, sia fuori che all’interno.

Guardie meccaniche di sicurezza dotate di laser infallibili si muovono strusciando da parete a parete come se fossero dotate di vita propria. I Palazzi stessi sembrano avere una vita propria, come se un grande fratello meccanico e intelligente ti guardasse con occhio critico. Ma alla fine sono loro che lo manovrano. Sono loro gli artefici di tutto quello che credevamo essere la nostra unica speranza di sopravvivenza.

Nessuno di noi li vide mai in volto, ci guardavano dietro spessi caschi coi visori oscurati. Portavano spesse tute, come se avessero paura di venire in contatto con

noi. Nessuno li sentì mai parlare, ma tutti poterono udire i loro pensieri, mentre ci dicevano quello che avremmo dovuto fare se volevamo salvarci e in che modo farlo.

Ubbidimmo come cani impauriti senza chiederci il perché e il per come.

Ci scannerizzarono con strani aggeggi, ci prelevarono campioni di sangue e di DNA, ci iniettarono delle sostanze a noi sconosciute e poi ci assegnarono ciascuno al proprio piano.

Dissero che avrebbero costruito delle navette affinché potessimo abbandonare questo pianeta ormai condannato e che per noi vi era ancora una possibilità.

Però i piani del “Palazzo” non erano tutti uguali, ma questo, lo scoprimmo solo in seguito.

All’inizio fummo messi tutti mescolati gli uni con gli altri e ognuno poteva andare e venire da un piano all’altro senza problemi, ma poi, man mano che il tempo ava, senza che nemmeno ce ne accorgessimo, i vari piani diventarono irraggiungibili per alcune persone.

Quindi chi ebbe la sfortuna di trovarsi in basso e non avere l’appropriato DNA, lì rimase, mentre di contro, chi si trovava ai piani alti, ma non aveva il diritto di starci, veniva sedato e riportato giù.

Il Palazzo non era altro, per loro, che il metodo più veloce per catalogarci e

suddividerci in classi. Ma non in classi sociali, come eravamo abituati, quindi tenendo riguardo alla ricchezza, alla fama o al nome che uno aveva, ma riguardo alla possibilità genetica di sopravvivenza.

Questa struttura altro non è che una sorta di ospedale meccanico di selezione, dove, ai livelli inferiori, vivono coloro che sono stati ritenuti l’anello debole della genetica umana.

Lì vivono persone disadattate per problemi fisici anche semplici, malattie mentali naturali o dovute a problemi di droga o di qualsiasi dipendenza non superata che li rendono psicologicamente instabili. Problemi genetici ereditari e qualsiasi altra causa che possa essere un ostacolo a una futura evoluzione.

I piani alti invece raccolgono la gente che è stata valutata geneticamente affidabile per poter progredire e non ricadere negli stessi errori e quindi dare vita a una società futura migliore. Ed è sopra quei piani che da anni ormai stanno costruendo le ultime speranze per la razza umana, cioè le navette spaziali che porteranno via da qua coloro che sono stati ritenuti adatti a migliorare il genere umano.

Tutte hanno nomi biblici. La nostra, ironia della sorte, è chiamata Noè. Come se non fossimo altro che bestie scelte per non estinguere la razza.

La cosa buffa è che è proprio così.

All’inizio, tutti pensavano che se ne sarebbero andati, alcuni lo pensano tutt’ora. Solo chi ha potuto accedere ai piani alti ha conosciuto subito la triste verità.

Gli altri l’hanno saputa col tempo, altri l’hanno addirittura intuita da soli, ato un certo periodo. Come ho detto prima, alcune volte, l’istinto di sopravvivenza ci fa capire e comprendere delle cose che il cervello e la ragione tendono a voler ignorare come difesa.

All’iniziò scoppiò il panico.

I primi corrosi dalla paura furono coloro che nella vecchia vita erano persone importanti e potenti, ma che, per un motivo o per l’altro, erano stati buttati laggiù. Lì il potere non contava, contava solo la genetica. Essi furono i primi che conobbero l’infallibilità dei laser quando provarono a forzare i cancelli per arrivare all’ascensore. La loro fine fu di esempio a tutti gli altri. Nessuno provò più un’insurrezione.

Così la gente che viveva ai piani bassi ebbe due scelte, cercare di vivere al meglio fino a che la fine non fosse arrivata o lasciarsi andare. La maggior parte scelse la seconda ipotesi. Aiutati anche dalle medicine che vennero, fin dall’inizio, largamente offerte dai nostri ospiti.

Poiché più la gente è fatta, più è calma e manipolabile. Poiché basta dargli quello di cui necessitano, o meglio sentono la necessità, per tenerli buoni. Questa è l’unica cosa, simile al loro modo di pensare, che i nostri governi avevano capito.

Le turbine dell’ascensore stridono quando la navetta raggiunge la sua meta. Il vetro si apre con un sibilo mentre il fumo che avevo accumulato si espande al di fuori di essa. Do l’ultimo tiro alla cicca e poi la butto con noncuranza per terra insieme al pacchetto. Ormai è tardi per fare l’ambientalista.

Guardo il lungo corridoio che porta ai cancelli.

Sono qua per mantenere una promessa.

Una promessa fatta all’inizio di tutto questo. Sono qua per incontrare il mio ato e il mio futuro. Prego solo di essere abbastanza forte per farlo.

Mi incammino.

Le sentinelle meccaniche scorrono lungo i muri inseguendomi e non perdendomi mai d’occhio, mi scannerizzano la retina molte volte. Quello è il mio aporto. Se non fosse per il mio DNA a quest’ora sarei già cenere, soprattutto in questa ultima ora quando tutte le sentinelle sono all’erta. Si teme che il panico possa crescere visto che ormai tutti sanno dell’imminente partenza.

Mi fermo davanti ai cancelli.

La gente si accalca. I pochi che non sono fatti mi chiedono di aiutarli, di portarli via. Faccio finta di non vederli. Di non ascoltarli. Sebbene le loro voci mi rimbombino nella testa. Sebbene scambierei volentieri il mio posto con il loro. Ma non posso.

Mi giro verso un lato del cancello dove vi è una gabbia isolata. Dentro vedo una bambina che mi guarda con gli occhi lucidi, in lacrime. Vedo che è stata lavata, disinfettata e abbigliata dalle sentinelle.

Le faccio un sorriso sperando di calmarla, ma niente.

Alzo lo sguardo verso i cancelli e la vedo.

Mia moglie.

È invecchiata sì, ma è sempre bellissima. Il suo viso, nonostante le lacrime che le scorrono copiose, è sempre perfetto. Gli occhi, benché gonfi per il pianto, sono sempre marroni come il mogano bagnato. I suoi capelli rossi sempre fluenti e, anche se non ben curati, le incorniciano il viso.

Il mio cuore sta per cedere e anche la mia volontà. Faccio un o verso di lei, la voglio abbracciare, la voglio stringere, voglio morire con lei, qua, ma con lei.

Faccio per allungare una mano per toccarla ma il sibilo al mio fianco mi ferma, due sentinelle sono lì, accanto a noi, che ci osservano e ci mirano.

Mi fermo.

Forse a me non sparerebbero ma a lei sicuramente sì.

Non che questo cambierebbe qualcosa, lei è condannata comunque. Forse riuscirei ad abbracciarla, un attimo prima che le sentinelle ci fulminino col laser,

forse riuscirei a morire come voglio fra le sue braccia, con l’odore della sua pelle nelle mie narici.

Faccio ancora un o.

Alzo lo sguardo nuovamente e il suo sorriso mi blocca, lei si ritira dal cancello.

Scuote la testa.

Sa che sono qua per mantenere fede a una promessa.

Seguo il suo sguardo verso la bambina che piange e mi ricordo. Ricordo nuovamente perché la amo così tanto. È sempre stata più forte di me, più perfetta ed è sempre stata il mio sostegno. Sarei dovuto essere io lì e lei qua, al mio posto, salva, al sicuro.

Mi frugo velocemente nella tasca. Tiro fuori la catenella e velocemente ci faccio are il mio anello. Poi gliela lancio. Lei riesce ad afferrarla al volo. Per sempre tuo vi è scritto nella fede e così sarà.

La guardo mentre se la mette al collo e si fa spazio verso la gabbia, mentre saluta la bambina piangente, mandandole baci. Lentamente la gabbia isolante viene verso di me. Si apre. La bambina piange ancora, ha gli stessi lineamenti di sua madre, forti e bellissimi, gli occhi però sono di suo padre, verdi come i miei.

Afferro mia figlia, la prendo in braccio.

È la prima volta che la posso toccare, che la posso abbracciare. Ha lo stesso odore di sua madre, ma la mia struttura genetica. Purtroppo sua madre non fu ritenuta idonea, per un soffio al cuore congenito, fortunatamente il feto che portava in grembo non aveva questi problemi.

Fui io a volere che la figlia restasse con la madre fino all’ultimo. Sapevo che sarebbe arrivato questo giorno e volevo che portasse sempre un ricordo di lei nel cuore e nella mente, che asse dei giorni con lei, che fosse felice con lei.

Lei fu d’accordo, ma mi fece promettere che un giorno sarei venuto a riprenderla, per portarla in salvo affinché avesse un futuro per cui vivere e un posto sano in cui crescere, non distrutto dall’uomo. Lo promisi nonostante sapessi che sarebbe stato difficile. E anche oggi ce l’ho fatta solo grazie alla sua forza, alla forza del suo sorriso.

Mi giro ancora un attimo.

La guardo e le mando un bacio per ringraziarla di tutto quello che ha fatto per noi e per farle capire quanto la amo e che l’amerò sempre. Che per me quella perfetta è lei. Lo è sempre stata. Lo sarà sempre.

Salgo nuovamente sull’ascensore con mia figlia in braccio. Ora si è un po’calmata. Sarà dura recuperare il tempo che abbiamo ato lontani, ma ce la faremo perché so che, nonostante abbia la mia struttura genetica, l’animo di mia figlia è forte e perfetto come quello di sua madre.

Prendo la valigia e ci dirigiamo verso la Noè. Saliamo e prendiamo posto insieme a tutti gli altri. A tutti i geneticamente perfetti. Nessuno piange, nessuno guarda dall’oblò ciò che si sta lasciando dietro.

Mi vergogno.

Mi vergogno a essere tra loro, perché se la perfezione equivale a un’anima vuota, non sono quello perfetto, non voglio esserlo.

Sorrido, un sorriso amaro, mentre le stelle si stendono davanti a me come una ragnatela lucente tessuta sul telo oscuro dello spazio infinito.

CAPITOLO SETTIMO

Molte volte mi sono chiesto se qualcosa si poteva evitare o semplicemente non poteva accadere, ma ciò che ho capito dopo alcuni anni di vita e che alcune cose accadono per alcuni e solo per loro. Non importa quanto ci possiamo affannare a cercare di cambiarle, non dipende da noi, ma dipende da loro e basta. Sono loro che devono tessere la loro tela ed evitare che questa si sfilacci e si disfi.

E adesso, mentre le parole rimbombano nella mia testa, cerco di chiudermi nel sudario del mio stesso abbraccio, chinando la testa e stringendomi le braccia incrociate sul petto. Chiedendomi se tutti quelli intorno a me stiano vivendo la cosa come la sto vivendo io.

Ma guardandomi intorno non penso che sia così.

Vedo molti volti, persone conosciute e sconosciute che dovrebbero essere abbracciate, in un momento di dolore, insieme con il loro sentimento, ma purtroppo, come accade molte volte in certe situazioni, percepisco più che altro sensazioni discordanti.

Dolore, paura, intolleranza, amore, disperazione, fretta che la veglia finisca, pregiudizio, odio e invidia.

Sensazioni che aleggiano intorno a tutti noi, mostrando esteriormente la stessa realtà, condensando ciò che l’ombra della loro vita gli ha lasciato dentro.

Vorrei dire qualcosa che riesca a mettere fine al loro tormento ma non posso.

Ho paura di sbagliare, di non capire come essi stiano vivendo questa realtà. Non posso esserne certo perché nessuno conosce interamente la vita delle altre persone. A volte non si riesce nemmeno a scorgere bene la propria e altre volte le tele sono così intricate che ci spaventa solo l’idea di scegliere un percorso.

Distolgo lo sguardo e cerco di cancellare quelle sensazioni. Mi volgo verso il letto, dove un corpo freddo e bianco giace spento e indifferente a tutto quello che lo circonda e, superiore, non degna nessuno di uno sguardo.

Un corpo che ho conosciuto e visto da quando sono nato, un corpo che, quando sono arrivato qua, ho stentato a riconoscere, un corpo cambiato mancante di ciò che lo aveva sempre caratterizzato, la sua anima.

Riconosco il posto, sono già stato qua, molte volte mi sembra, sebbene non mi ricordi mai come o perché.

Riconosco lo scranno ergersi imperioso al centro della cittadella, più alto delle mura stesse. Distorto nella sua salita come una riga ondulata, ma saldo sulle fondamenta di corpi e teschi contorti.

Da lassù l’oscuro sudario ci guarda apatico. Guarda il suo lavoro infinito e continuo, immobile e inespressivo. Lui è solo il boia di questa landa sperduta, è solo l’osservatore, il faro che ci fa capire dove siamo e dove dobbiamo andare, appoggiato allo scranno ci guarda dal suo buio volto mentre sorregge la falce.

La veglia continua.

Lentamente fisso la gente intorno al mio corpo. Lo vedo come sfumato. Tutto è sfumato intorno a me. Io ormai sono l’ombra di me stesso. Tutto ciò che mi circonda è di colore grigio e nero.

Come un velo lacerato sulla realtà divento la porta, l’amo che collega noi a loro, ma è solo un attimo.

Un attimo che mi permette di distaccarmi da ciò che ero e mi mostra ciò che sono. Travolgendomi con ricordi, visi ed emozioni che mi premono sul petto come un grosso macigno.

Durante la veglia il mio corpo rimane lì, immobile e solitario, come ancorato fra le realtà.

Stento a riconoscermi mentre già sento il gracchiare dei corvi che si avvicinano. Girano vorticosamente sul corpo famelici mentre li osservo ancora più neri dello stesso cielo.

Poi voraci si buttano sul corpo. Iniziando a picchiettarlo con il loro duro becco.

Li guardo immobile. Quasi contento che facciano sparire quell’involucro da davanti ai miei occhi e sento il peso sul petto alleggerirsi.

Intanto i corvi fanno il loro dovere e si cibano famelici, fino a che uno squarcio di artigli non si apre e mi dilania lo stomaco all’altezza del fegato e il corvo il più grande di tutti vi si appoggia. Gli altri aprono le ali e volano via lasciando il loro signore a gustarsi il banchetto più succulento.

Vedo il becco immergersi nello squarcio aperto sul mio fegato. Frugare senza nessun riguardo e strappare con forza il piatto portante. Gli penzola sanguinante e pulsante nel grosso e ingordo becco. Posso ancora vederlo pulsare sebbene dovrebbe essere solo un ammasso di carne immobile.

Il corvo mi guarda poi. tenendolo sempre a penzoloni in bocca, si invola verso il grande trono di teschi per poggiare il fegato delicatamente sotto il cappuccio affinché l’oscuro sudario se ne possa cibare. Per un attimo da sotto il cappuccio due occhi rubini risplendono e mi fissano come una fiera fissa la propria preda, ingorda, dopo che ha già assaggiato un pezzo di lei e ancora ha il suo sapore in bocca. Ma è solo un attimo, poi tutto torna immobile.

Il corvo gracchiante prende nuovamente il volo, buttandosi a capofitto su un altro corpo per poter sfamare il suo ingordo e famelico signore.

Distolsi lo sguardo e continuai a vagare senza una metà precisa in quel grigiore immobile.

Non so quanto tempo ò ma tutto a un tratto vidi una piccola fontana scolpita in una roccia, lì sgorgava un acqua densa e strana. Improvvisamente sentii il bisogno di bere da quella fonte.

Mi feci spazio tra i teschi e le ossa.

Presi il liquido fra le mani e me lo portai alla bocca.

Lo sentivo pesante per la sua consistenza. Inghiottii.

Ne bevvi varie sorsate poi, quando fui sazio, alzai la testa e vidi che tutto intorno a me aveva di nuovo una parvenza di colore, sebbene sfuocato.

Mi guardai le mani. Erano ricoperte di sangue. Guardai la fontana da cui il sangue zampillava senza sosta e lessi la scritta in latino incisa sopra: “il sangue è vita.” Alzai lo sguardo al di là della fontana e davanti a me vidi un alto monte che fino al quel momento non avevo scorto. Si estendeva al di là della cittadella. Sopra, nella sua sommità più alta, vi era un bellissimo tempio che rifulgeva bianco e splendente nella notte scura.

Una fiamma vi era all’interno che ne illuminava le stanze.

Iniziai il mio cammino lungo la salita che portava a quel monte.

Non ero solo. Accanto a me, come in pellegrinaggio, altre ombre percorrevano quella strada. Ma nessuno si curava dell’altro. Solerti ci arrampicavamo lungo la salita senza voltarci indietro e senza guardarci. Eravamo soli, ognuno perso nel suo cammino.

Mi fermai spesso, ma non per la fatica, ma solo perché ad ogni o un ricordo mi affiorava alla mente. Un ricordo che come un fulmine mi balenava e poi se ne

andava. Un ricordo che mi diceva chi ero stato mostrandomi scorci delle miei vite. Mi faceva vedere come dietro una diapositiva dei mondi che avevo vissuto o che ancora dovevo vivere.

Lungo quel cammino vivevo fra il ato e il futuro. Era come stare in un bellissimo sogno, ma sveglio mentre vedevo me stesso come a uno specchio che rifletteva delle immagine che erano le mie ma che al tempo stesso non riconoscevo appieno.

Più mi avvicinavo a quel tempio bianco più prendevo coscienza di me. Sia nel bene che nel male. Scelte sbagliate, cari rimpianti, gioie e dolori mi attraversavano come sangue granuloso nelle mie vene, quasi le potevo scorgere sottopelle.

Quando mi trovai davanti alla porta del tempio tutte queste sensazioni sparirono nel nulla come se non vi fossero mai state.

Il tempio era grande, bianco e rifulgeva della luce dei candelabri che erano posti tutto intorno al suo recinto. Candelabri a sei punte che illuminavano il bianco marmo delle sue pareti.

Due colonne con dei fini capitelli si ergevano davanti alla sua entrata quasi minacciosi. Sopra vi erano incisi due simboli greci; su quella di sinistra il simbolo dell’alfa, su quello di destra il simbolo dell’omega, il principio e la fine di ogni cosa.

Entrai.

Mi trovai subito dinanzi a un grande salone al centro del quale vi era una immensa vasca da cui zampillava acqua calda e fumante.

Lì tra i fumi vidi delle sagome. Dolci Ninfee e Fauni che mi invitavano a entrare.

Entrai mentre sentivo l’acqua inebriarmi i sensi come non mi era più capitato da quando ero giunto in quel luogo.

Sentivo di nuovo il calore sulla mia pelle e dentro il mio corpo.

Non so quanto durò la camminata lungo la montagna e non so quanto vagai nella cittadella, ma mi sembrava una vita che non sentivo quelle sensazioni lungo il mio corpo.

Mi lasciai cullare in quel bagno caldo e avvolgente. Ascoltai il suono dei fauni mentre si dilettavano nelle loro composizioni. Mi lasciai pulire dalle Ninfee, delicatamente, con oli profumati che affinavano nuovamente i miei sensi.

Riscoprivo l’odore.

Riscoprivo il sapore e il gusto mentre bevevo dalle coppe che mi venivano offerte. Un nettare delizioso che sentivo scorrermi lungo il corpo, inondandolo e scaldandolo. Sentivo il gusto dell’uva che mi veniva imboccata. Sentivo il calore dei corpi e il piacere che davano.

Non mi resi conto quanto durò quel bagno, poiché sembrava che in quel luogo, nemmeno il tempo potesse fare il suo corso.

Mi resi solo conto che quando uscii dalla vasca e venni asciugato e coperto con un telo profumato, mi sentivo l’anima come se fosse stata mondata da tutti i ricordi che l’avevano attanagliata lungo il cammino. Non sentivo più il peso che la opprimeva sebbene fossi rimasto conscio del mio stesso essere.

Una volta asciutto, fui vestito in maniera elegante. Mi misero addosso una tunica bianca con sopra un grembiule decorato da lavoro, mi diedero dei guanti bianchi e mi misero addosso un grande e caldo mantello di velluto rosso. Mi impomatarono i capelli con olii profumati. Poi mi portarono in una stanza dove riposai.

Non mi sembrò di dormire molto, ma quando aprii gli occhi mi ritrovai nel buio più profondo.

Dal tempio non proveniva più nessun rumore, nessun dolce suono. Vi era solo silenzio e una flebile luce davanti a me.

Mi ci diressi cauto.

Era una semplice torcia, ma adesso vi era solo quella che rischiarava, flebile, la mia immagine su uno specchio inghiottito dal buio. La presi e mi incamminai fuori dalla stanza.

Uscito cercai di illuminare intorno per capire dove fossi. Ma della grossa sala con vasca da bagno non vi era traccia. Davanti a me si allungavano solo due pareti.

Un corridoio lungo e buio che sembrava procedere all’infinito.

Mi incamminai.

Mentre procedevo vedevo dei lampi grigi squarciare le pareti. Provai a illuminare in quella direzione ma vedevo solo delle porte senza battenti delimitate da degli specchi che impedivano l’accesso e che non riflettevano la mia immagine, ma solo l’immagine e il rumore di strane folgori e visioni rotte. Ombre di un qualcosa che rimaneva nell’oscurità. Me ne allontanai e proseguii nel mio cammino cercando di farci il meno caso possibile. Sembrava avessi camminato per giorni quando lo vidi.

Vidi i suoi occhi rossi scrutarmi dal buio del corridoio. Fissi su di me inespressivi.

Sapevo chi fosse, non ricordavo né il perché né il luogo dove lo avevo incontrato ma sapevo chi fosse e non ne avevo paura.

Lo fissai a mia volta e procedetti saldo sulle gambe tenendo in alto il candelabro la cui luce sembrava inghiottita dalle tenebre che, più mi avvicinavano, più sembravano avvolgenti.

Lui non si mosse quando lo illuminai. Il gigantesco ragno rimase al suo posto con le sue zampe pelose ben salde sulla gigantesca ragnatela che aveva tessuto intorno al corridoio.

Lo guardai. Era come me lo ricordavo. Nero come la pece, peloso e con delle chele grosse come lunghi coltelli affilati. Sembrava respirare affannosamente mentre la sua grande mole si contraeva ad ogni suo respiro. Sotto di lui vi erano tre donne.

Una dall’aspetto molto giovane, mi guardava coi suoi occhi completamente bianchi. Il suo sguardo, sebbene fosse inesistente, lo sentii scavarmi dentro l’anima mentre mi fissava.

Quella al centro aveva un età media e il fisico era più prosperoso, da donna matura. Gli occhi erano neri come la pece, i capelli raccolti in una lunga treccia. Era seduta comodamente su uno scranno e aveva le mani affilate come lunghi artigli.

La giovane iniziò a cantare una nenia di cui non capivo le parole, poi si avvicinò a me mentre una piaga le andava consumando la fronte, come un taglio orizzontale che la faceva sanguinare. Da lì apparve un terzo occhio dall’iride verde come lo smeraldo. Appena incontrai la vista di quell’occhio mi ritrovai come pietrificato al centro del nulla, soli io e lei, uno di fronte all’altra. Lei mi girava intorno, scrutandomi e studiandomi. Poi mi si fece incontro. Lentamente, avvicinò le sue carnose e rosse labbra alle mie e mi baciò. Un bacio caldo e sensuale che mi avvolse completamente.

In un attimo tutto cambiò, sentii un freddo intenso e qualcosa che dalla mia

bocca scendeva lungo il mio corpo. Cercai di allontanarla da me ma ero debole e mi sentivo il petto oppresso. Sentivo un freddo gelido per tutto il mio corpo mentre gli occhi mi si ribaltavano all’indietro. La sentivo scavare dentro di me, dentro tutto il mio essere, senza pietà, senza delicatezza. Il dolore era lancinante e mi stava per sopr. La torcia mi cadde dalle mani andando a cozzare per terra, illuminando il pavimento per un istante prima di spegnersi lasciandoci completamente avvolti nelle tenebre.

Caddi in ginocchio sempre attaccato a lei. Distintamente sentii che staccava la presa dalla mia bocca. Mi prese il volto tra le sue mani e mi allontanò mentre, attaccata alla sua bocca, vi era un filo che usciva dal mio stesso corpo. Il filo risplendeva inghiottendo le tenebre con la sua luminescenza. Era la cosa più bella che avessi mai visto, sapeva di vita. La mia vita.

La Ragazza prese il filo fra le sue dolci mani e ritornò al suo posto. ò il filo che ormai era fuoriuscito del tutto dal mio corpo, alla donna con gli occhi d’ebano accanto a lei.

L’occhio sulla fronte le si chiuse come se non fosse mai esistito e in un baleno fu sopra la fronte dell’altra.

La ragazza giovane smise di cantare contraendo il volto sporco di sangue a causa delle lacrime, che adesso, le sgorgavano copiose dagli occhi bianchi.

La seconda donna si avviluppò il filo, che ancora risplendeva come la luna, sui suoi artigli. Con cura e delicatezza, attenta ad ogni minimo movimento.

Una volta che lo ebbe arrotolato alla sua mano destra, con la sinistra iniziò a

prendere fili di ragnatela che giacevano tutto intorno a loro e a tesserli insieme al filo splendente. La ragnatela che veniva filata assieme al filo diventava splendente come quello e si allungava sempre di più.

Da un filo la donna ne filava altri come se stesse dipingendo una tela luccicante di stelle sulla cornice del buio. Era velocissima nonostante gli occhi fossero chiusi e il terzo occhio fosse fissato su di me come un pittore che scruta il suo modello per coglierne ogni sfaccettatura.

La terza donna una vecchia grinzosa dagli occhi celesti come il mare, ricurva su se stessa, sembrava aspettare con ansia il lavoro completato della sorella, mentre un ghigno sdentato gli si allargava sul volto.

Dietro di loro, quasi coperta del tutto dalla gigantesca ragnatela su cui giaceva l’immenso aracnide, vi era una porta chiusa. Sopra quella porta vi era impresso un volto rovinato a due facce, un uomo barbuto da una parte e una donna dai lunghi capelli dall’altra. Sopra vi era scritto in latino Janus. Quando vidi il terzo occhio chiudersi capii che la donna aveva finito il suo lavoro.

Si rimise a posto i capelli corvini che aveva tutti scompigliata per lo sforzo e si pulì il sudore che le imperlava la pelle con il logoro vestito nero che tutte portavano.

Sul suo grembo adesso vi era una lunga tela.

Su quella tela vi erano stati filati con una maestria unica fili di ragnatela intrecciati con il filo splendente che li rendeva lucenti quasi come il fuoco e le descrizioni delle ali dell’araba fenice.

I fili si diramavano senza quella che poteva sembrare una sequenza logica. Alcuni erano tronchi e corti, altri erano lunghi e si biforcavano, come una ragnatela, in varie direzione.

Alcuni erano più curati, altri di meno. Alcuni splendevano di più altri erano più opachi.

Era come se sentissi me stesso su quella tela. Era la cosa più bella che avessi mai visto.

Poi vidi la fronte della vecchia donna aprirsi e uscire l’occhio smeraldo.

Quasi automaticamente la vecchia donna chiuse i suoi occhi azzurri e prese il telo tessuto dalle mani dell’altra.

Si alzò in piedi, gobba e ricurva, mentre lo teneva steso davanti a lei.

Non faceva niente lo guardava e basta, imibile.

Dopo quella che mi sembrò un’eternità si avvicinò a me. Me lo ò e io lo ressi nello stesso modo in cui lo teneva lei. Eravamo a pochi i l’uno dall’altra e sentivo il fetore del suo corpo e del suo alito, nulla a che vedere con la dolcezza e il profumo della ragazza giovane.

Fissai la tela che adesso tenevo fra le mani e senza motivo iniziai a piangere, come se in ogni filo vedessi un pezzo di me stesso, ricordi, dolori, gioie, vecchi amori, scelte sbagliate e delusioni. Ogni filo era un pezzo della mia vita. Un pezzo delle mie esperienze. Ero un tutt’uno con l’universo e con il mio essere.

Non feci caso al ghigno della vecchia mentre, da sotto la sua tunica nera, impugnava un coltello e lo infilava nella tela squarciandola.

Fu come se il coltello fosse affondato nelle miei carni. Come se mi stesse squartando l’anima.

Fu un attimo e la tela si dissolse in cenere mentre la luce andava scemando lasciandomi nel buio più completo. In mano non mi rimasero altro che ragnatele sfilacciate.

Vidi l’occhio che brillava smeraldo sulla fronte della vecchia chiudersi e in un lampo le tre giovani sparirono come se non fossero mai state lì, lasciando solo un oggetto per terra a testimonianza della loro esistenza.

Il ragno mi fissava.

“Chi erano?” chiesi con un filo di voce mentre continuavo a guardare con gli occhi umidi le ragnatele che mi coprivano le mani.

Una voce profonda che sembrava provenire dal nulla e da ogni tempo rispose: “Hanno molti nomi, alcuni le chiamano le oscure tessitrici, altri le moire, altri

ancora le hanno conosciute col nome di Parche, io, semplicemente, le chiamo figlie.”

“Perché hanno distrutto la tela?”

“Hanno fatto solo ciò che devono. Come lo fanno ogni volta. Hanno aggiunto un altro filo della tua vita alla tela e lo hanno tessuto con le ragnatele affinché tu possa riprendere il tuo ciclo. Hanno guardato se eri pronto per attraversare la porta” disse indicando il vecchio uscio dietro di lui, “ma purtroppo non sei ancora pronto. Quindi hanno dovuto squarciare il velo perché non era ancora completo.”

“Tu chi saresti, quale sarebbe il tuo ruolo in tutto questo?” chiesi.

Il ragno si mosse leggermente sulla sua tela cercando di sistemare la sua mole in posizione diversa.

“Tu ormai sai benissimo chi sono. Sono il traghettatore tra queste realtà, sono fatto della tua stessa essenza cosmica. Io tesso la tela della tua vita, scrivo il tuo destino coi miei fili che tu mi detti con le tue scelte. Io semplicemente sono te e tu semplicemente sei me. Abbiamo lo stesso destino, solo che lo condividiamo in posizioni e luoghi diversi.”

“Questo è il motivo per cui non ho mai avuto paura di te.”

“Sì, è per questo. All’inizio tutti hanno paura di me, ma è solo perché non

conoscono se stessi, poi, col tempo, tutto cambia e più una persona migliora più la linea sottile fra me e lui tende a sovrapporsi. Come se le realtà, le moltissime realtà in cui vivo si fondessero in un’unica perfetta stringa cosmica.”

“E questo luogo cosa rappresenta... cosa sono quelle porte da cui non si vede nulla e dai cui provengono solo lampi?”

“Questo è solo un luogo di aggio. Niente di più e niente di meno. Un tempio dove purificarti e prepararti al aggio, qualunque sia la porta che sceglierai” disse indicando sia la porta dietro di lui con il bicefalo impresso sopra, sia le altre che erano tutte intorno a noi lungo il corridoio.”

“Ma perché non posso vederci dentro?”

“Non si può scegliere la vita che si vuole, si può solo viverla dopo aver fatto la scelta. Quelle porte rappresentano le infinite vite e realtà a tua disposizione ma non ci puoi vedere attraverso perché sono solo ombre di vita. Le infinite possibilità che ci sono concesse, diventano chiare e reali solamente quando hai deciso di viverle.

A volte scegliamo la stessa porta più di una volta, altre volte ne scegliamo di nuove. Ma, in ogni caso, non le viviamo mai uguali, sebbene qualche sprazzo di reminiscenza ci rimanga dentro. Sono le scelte, il nostro libero arbitrio, che ci permette di viverle in maniera diversa. Per questo ogni volta la tela che tesso non è mai uguale alle precedenti.”

“Quindi adesso dovrei scegliere una di quelle porte” chiesi mentre mi guardavo intorno.

“Qua non hai nessuna fretta e nessun obbligo, qua Crono, signore del Tempo, non è nemmeno nostro ospite. Quando sarai pronto dovrai prendere una porta, ma nessuno ti obbliga a farlo in un particolare momento”

“E tu che farai?”

“Io sarò con te. Tesserò le tue scelte, come ho sempre fatto.” Fece una pausa, “ma prima di andare avanti devo darti il tuo ultimo dono. Prendi la torcia e illumina l’oggetto lasciato dalle mie figlie.”

Presi la torcia e mi diressi verso l’oggetto che giaceva sotto la grande mole del ragno.

Mi chinai e la raccolsi.

Era una maschera, una maschera di ceramica completamente viola se non per un giglio bianco disegnato sopra.

Guardai il ragno che si trovava sopra di me.

“Quella è la tua chiave per entrare nelle porte. Indossala e potrai are. Il giglio è il simbolo della purezza ed è la purezza che serve per iniziare una nuova vita. L’anima deve essere pura e sicura della scelta altrimenti non riuscirebbe a sopportare di essere mondata da più vite. La sensazione del ricordo la farebbe impazzire.”

Misi per terra la torcia. La sua luce mi illuminava da sotto dandomi un aspetto quasi tetro.

Presi la maschera con le due mani inguantate e lentamente me la portai al volto.

La sentii aderire alla mia pelle, fondersi con essa. Sentii una sensazione di benessere che univa il mio corpo alla mia anima.

Ora la maschera era il mio volto e il mio volto era la maschera. Liscia senza nessuna imperfezione come una pietra levigata e perfetta. Era così che mi sentivo.

Rilassato raccolsi nuovamente la torcia e mi allontanai dal ragno.

Esso rimase immobile coi suoi occhi rossi che mi scrutavano nel buio, senza fare un rumore. Mi osservava.

Mi mossi lungo il corridoio. Guardavo le porte fremere di energia scura.

Mi fermai davanti a una.

Alzai la mano in direzione del gigantesco ragno e mi buttai.

Sentii il vuoto avvolgermi, l’ombra della vita entrare in me e riempirmi di energia. Sentii come se il mio corpo esplodesse e si disgregasse. Poi nulla, solo silenzio.

Erano ormai cinque ore che la donna era in travaglio.

Il marito era nella sala d’attesa che aspettava, fra una sigaretta spenta e l’altra accesa mentre faceva su e giù innervosendo perfino le infermiere.

Aveva un aspetto trasandato e stanco che mal rispecchiava la sua età di venticinquenne e la sua posizione.

Ogni volta che un’infermiera usciva dalla sala la fermava e le chiedeva come andava. Questa lo guardava e gli ripeteva sempre la stessa frase: “Tra un po’ci siamo, non si preoccupi, a volte ci sono travagli molto più lunghi.” Lui si sedeva per un attimo, tirava un sospiro, poi si accendeva un’altra sigaretta, si rialzava e si metteva nuovamente a camminare su e giù per la stanza.

Ogni tanto si fermava alla finestra. L’apriva un attimo, prendeva una boccata d’aria e poi la richiudeva veloce sferzato dal vento gelido che proveniva da fuori.

Ormai era notte ed era una notte di gennaio freddissima. E sebbene abitasse in un posto di mare, quel giorno aveva pure nevicato.

La donna urlava. Erano cinque ore che urlava, era stanca e dolorante perché il

bambino non voleva saperne di uscire e i bisticci fra l’ostetrica e il dottore sul fatto se dovessero farle o no un cesareo non la aiutava.

Aveva solo ventitré anni, ma era una donna forte e voleva il suo bambino, per cui cesareo o non cesareo per cinque ore non aveva fatto altro che spingere e urlare per il dolore e per la paura che il bambino potesse stare male o avere qualcosa.

Ora era esausta e si stava riposando un attimo mentre cercava di non ascoltare quegli stupidi discorsi. Improvvisamente le prese una fitta così forte da farla urlare dal dolore come non era mai successo prima.

I dottori si precipitarono da lei. La fecero mettere nella posizione giusta e la invitarono a spingere.

La donna esausta, con le ultime forze, si tirò su mettendosi in posizione e spinse.

Spinse e spinse ancora, sempre più forte, con tutte le sue forze fino a che non sentì il dottore dire: “Vedo la testa!”

Allora, anche se avrebbe voluto buttarsi giù e dormire, distrutta come era, si resse al letto e spinse nuovamente urlando.

Quando sentì il gemito del pianto si stese nel letto esausta.

Vide l’infermiera che teneva quel piccolo essere grinzoso davanti a lei, ancora

sporco di sangue.

“È un maschietto” disse l’infermiera sorridendo, “e sta bene.”

La madre sorrise.

“Sapete già come chiamarlo?” chiese.

“Michele” sussurrò la madre, “Michele.”

In quell’istante il Ragno iniziò a tessere la sua tela nuovamente.

La prima cosa che udì Michele furono i ticchettii delle macchine a cui era attaccato. Poi le urla delle infermiere.

Aprì gli occhi di scatto e tirò un profondo respiro.

Era uscito dal coma.

CAPITOLO OTTAVO

Michele guardò dalla sala-studio della sua casa il sole sorgere e la natura risvegliarsi. Sentì sua moglie che gentilmente svegliava la sua bambina per prepararla ad andare a scuola.

Il parquet scricchiolò sotto il peso della sua sedia a rotelle che si allontanava dallo scrittoio.

Guardò la sala dove era solito scrivere i suoi racconti. Vi era un piccolo divano al centro della stanza, proprio davanti al caminetto. La grossa scrivania di mogano si trovava di fronte alla finestra che dava sul giardino. Sopra le varie mensole, fra i libri, vi erano molti candelabri a sei punte con candele profumate. Molti specchi erano attaccati alle pareti insieme ad alcuni quadri che lui e Ileana avevano scelto. Ileana adorava gli specchi e le piaceva averli sempre intorno, come anche i quadri. Il suo preferito era quello di un anonimo artista di strada che raffigurava un grande ragno che, con la sua tela, disegnava l’universo. Quello di Ileana invece raffigurava il mare con tutta la sua fauna e flora. Ileana adorava il mare. Tutta la sua vita era collegata al mare.

A pochi i dal divano vi era la poltrona dove lui li aveva aspettati quella notte.

Fu come essere lì nonostante ormai fossero ati sei anni.

Michele ricordava tutto, in maniera così nitida e viva che era come se fosse successo pochi istanti prima. Sapeva che quello sarebbe stato un ricordo che

avrebbe portato con lui durante tutta la sua vita. Ma gli stava bene così poiché era giusto ricordare.

Per quel motivo non aveva voluto cambiare casa, per quel motivo, nulla nel suo studio-salotto era stato cambiato, a parte il vecchio fucile da caccia di suo padre che ora teneva inchiodato e in bella mostra sopra il camino. Quella casa era la casa che avevano scelto loro, lui e Ileana, ed era giusto che vi fosse una parte di lei che ancora aleggiasse, che la ricordasse.

Sentì i i di sua moglie e della sua bambina che scendevano le scale per andare in cucina a preparare la colazione.

Oggi era il primo giorno di scuola per la sua bambina, era un giorno speciale che lo rendeva orgoglioso come padre e genitore.

Ma non era per quello che si era alzato così presto. Era per un altro motivo. Infatti oggi sarebbe stato un giorno importante anche per lui; per la prima volta avrebbe rilasciato un’intervista. Era stata più una scelta del suo editore che sua, ma non aveva potuto rifiutarsi ora che i suoi libri per bambini di stampo ambientalista Le avventure di Serge e Pascal avevano scalato le classifiche di vendita. Certo non erano un caso letterario come Harry Potter, ma tant’è, lo avevano reso uno scrittore affermato. Quel piccolo regalo di suo nonno, quelle storie che gli raccontava quando era sul letto dell’ospedale avevano fatto la sua fortuna.

La mente tornò subito a quella notte, la notte della premiazione, di sei anni fa.

Ileana era incinta di sette mesi ormai. Le avventure del coniglio Serge e del

vecchio corvo Pascal stavano iniziando a diventare un caso letterario. Con i primi soldi guadagnati dal lavoro di Ileana e dai suoi libri avevano finalmente potuto ottenere un mutuo e comprarsi una casa. La stessa casa in cui si trovava adesso. Non una casa gigantesca ma sempre la loro casa, con alcuni lavoretti da fare, alcune cose da sistemare ma, nel complesso, accogliente e con quell’aria antica che piaceva molto a loro due.

Quindi avevano deciso che era giunta l’ora di completare la famiglia e Ileana era rimasta incinta poco tempo dopo.

Fu il periodo più bello perché Ileana viveva la sua gravidanza come fosse la cosa più naturale di questo mondo, come se fosse stata quella la cosa per cui era nata. Nonostante sentisse il suo corpo cambiare, si svegliava ogni giorno più felice, più completa, come qualcuno che sta per raggiungere un obbiettivo prefissato e agognato da tempo.

Per questo motivo, anche quella sera, nonostante la gravidanza fosse in stato avanzato e il dottore le avesse suggerito di riposarsi un po’di più, volle venire lo stesso alla premiazione del libro.

Le vendite andavano bene e la premiazione fu la ciliegina sulla torta, il riconoscimento necessario, per l’inizio della carriera di scrittore.

Era un premio letterario molto ambito e quella sera, inaspettatamente, vi fu anche la proposta di acquisto dei diritti dell’opera per farne un film animato per bambini.

Mentre tornavano a casa erano al settimo cielo.

Michele fu come scosso da un brivido, che lo riportò alla realtà. Spinse la sedia a rotella di nuovo verso il tavolo da scrittura, esaminò il quaderno aperto che vi era sopra, controllò che tutto fosse in ordine. Rilesse alcune domande che si era immaginato gli avrebbero potuto fare.

Si era preparato già su alcune domande che sicuramente sarebbero venute fuori e sul tipo di comportamento che avrebbe tenuto. Si aspettava sicuramente la domanda sul suicidio di suo padre, su come si fosse sentito e se quello fu il motivo che lo spinse a scrivere storie per bambini.

Inoltre decise che avrebbe risposto senza problemi a tutte le domande riguardanti il suo periodo di cura nella Colonia Handerson. Su tutto questo non avrebbe avuto nessun problema a parlare, anzi, si era preparato a fare una forte invettiva contro l’uso smodato degli psicofarmaci nella società moderna, soprattutto sui bambini, che trovava una aberrazione in quanto limitante dello stato creativo. Avrebbe risposto senza riserva su ogni cosa del suo ato che gli avessero chiesto; quando aveva iniziato a scrivere, come era stata la sua vita da ragazzo etc. Avrebbe, insomma, risposto a tutte quelle domande che lo avessero riguardato in prima persona.

Sospirò.

Purtroppo sapeva già che la maggior parte delle domande sarebbe andata a cadere su quella notte.

Su quello, la sua condotta sarebbe stata univoca, non avrebbe risposto. Aveva già parlato con l’editore riguardo tutta la faccenda e alla fine, probabilmente per strategia di marketing, anche lui si era trovato concorde sul fatto che fosse

meglio non parlare troppo di quella vicenda. Ogni cosa era già stata detta dai giornali e dai telegiornali e non vi era altro da aggiungere, inoltre il caso era già stato archiviato come legittima difesa. Guardò nuovamente la poltrona e tornò a quella sera.

Vide il volto del suo vecchio amico Gabriele che li aspettava.

Era seduto a gambe incrociate, sulla poltrona, lo sguardo allucinato sotto l’effetto di qualche droga, probabilmente cocaina o anfetamina. La pistola appoggiata sul bracciolo della poltrona, stretta nella sua mano tremante. Erano anni che non lo aveva più rivisto, da quando quella mattina le loro strade si erano divise in malo modo; lui aveva preso in mano la matita ed era diventato uno scrittore, lui aveva preso in mano la pistola ed era diventato un delinquente a tutti gli effetti.

Non lo aveva più incontrato ma aveva sentito storie in giro.

Da quel giorno Gabriele era diventato uno del giro. Lo avevano comprato con la droga e i soldi, meno di quelli promessi, ma con la prospettiva di una bella e facile vita e in cambio non lo avevano ucciso. Inutile dire che lui aveva accettato la proposta di buon grado.

All’inizio lo avevano usato come corriere e piccolo delinquente sulla strada, in seguito gli avevano dato la sua zona.

Ma a parte quello, la sua carriera come delinquente non era volata poiché il suo comportamento sconsiderato e l’uso delle droghe lo rendeva, anche ai loro occhi, non affidabile.

E proprio per quel modo di fare sconsiderato che adesso era lì.

Biascicò alcune parole sul fatto di essere stato fregato dalla donna che amava, una ragazza dell’est europeo. Lei gli aveva fatto conoscere delle persone con cui fare affari per smerciare la roba. Era la sua occasione per fare il colpaccio, avviare il suo giro, espandersi. Quindi aveva preso più roba di quella che poteva permettersi dicendo che aveva un grosso affare per le mani.

Diede la roba alla sua ragazza che sarebbe dovuta essere il suo corriere e sarebbe dovuta ritornare con i soldi. L’aspettò per tutta la notte nel posto stabilito, fino al mattino, ma lei non tornò. Venne fuori che altro non era che una prostituta che lavorava per altri e che lo aveva raggirato a dovere per riuscire a fare quel colpo.

L’aveva cercata da tutte le parti ma era irrintracciabile. Di lì a poco lo sarebbero venuti a cercare gli altri, quelli a cui aveva preso la roba lasciando un “pagherò” come promessa. Era un uomo morto.

Mentre parlava e raccontava la sua storia, singhiozzando come un bambino e sventolava la pistola di qua e di là incurante.

Gabriele sapeva che le cose a Michele giravano bene e voleva una parte del suo denaro per andarsene in Brasile, scomparire e cambiare vita.

“Dammi i soldi Michele” disse senza mezzi termini “so che li hai, non mi prendere per il culo” e si alzò di scatto puntando la pistola contro di lui. Era sudato, gli occhi erano rossi e tremava vistosamente dall’agitazione, “quella è

gente che non scherza, se non trovo i soldi e me ne vado mi fanno fuori... quindi dammi quei cazzo di soldi.”

“Ti troverebbero comunque Gabriele, guarda come sei ridotto, ce la fai a malapena a stare in piedi, te l’avevo detto quel giorno di lasciar perdere, questo è il risultato.”

Michele sentì il boato del colpo della pistola rimbombare nella casa.

Si guardò come se si aspettasse di vedersi sanguinare ma il colpo non era diretto verso di lui. Ileana giaceva a terra colpita al petto dalla pallottola. “Ora” disse Gabriele, sempre più agitato “puoi fare due cazzo di cose... darmi i soldi, ovunque tu cazzo li tenga, e chiamare un’ambulanza per tentare di salvarla... o stare qua e aspettare la prossima pallottola e guardarla mentre muore dissanguata.”

Michele indicò un mobile: “È lì la cassaforte, dentro il mobile, dietro i libri.”

“Aprila” ordinò Gabriele facendogli il gesto con la pistola e tirando su col naso, “e tira fuori tutto quello che c’è dentro, soldi, oro qualsiasi cosa.” Michele aprì l’anta del mobile che dava su Gabriele impedendogli la vista all’interno, fece scattare la combinazione.

Gabriele lo guardava soddisfatto e impaziente puntandogli sempre addosso la pistola, iniziò a ridere di gusto quando sentì il click, “lo sapevo.” Michele, non gli prestò attenzione. Afferrò in un lampo il fucile da caccia di suo padre che teneva dentro il mobile, fece scattare il colpo in canna e lo puntò verso Gabriele.

Due colpi echeggiarono riempiendo il silenzio della casa.

Michele sentì un dolore lancinante all’altezza dello stomaco, non sentì più le gambe e cadde sul pavimento. Gabriele si tenne la gola lacerata dal proiettile, con le mani, mentre il sangue fluiva a fiotti sul pavimento. Esalò un rantolo e si accasciò.

Michele vide la sua camicia tingersi di rosso, ma non si diede per vinto. Guardò Ileana per terra e la vide respirare ancora nonostante il sangue, quindi con le ultime forze rimaste, usando solo la forza delle braccia, strusciando sul pavimento, arrivò al telefonò. Compose il numero del pronto soccorso, chiese aiuto e poi supino ed esausto svenne.

Quando aprì gli occhi di nuovo era in ospedale. Erano ati cinque mesi, cinque lunghi mesi in cui era stato in coma. Aveva perso l’uso delle gambe. Ma aveva perso anche molto altro.

Il primo nome che pronunciò fu quello di Ileana, il primo volto che vide fu quello di Milena.

Spinse la carrozzella lungo il corridoio che portava in cucina.

Si affacciò dalla porta mentre sua figlia era intenta a mangiare la colazione che Milena le aveva preparato.

Milena era una madre perfetta, sebbene Silvia non fosse la sua figlia naturale. Per lei non vi era differenza, era come se lo fosse stata.

L’aveva vista venire al mondo.

Michele tornò a quel momento quando aprì gli occhi.

Sentì le infermiere che urlavano e il ticchettio dei macchinari. Non riusciva a muoversi, vedeva solo il soffitto bianco dell’ospedale. Poi vide il suo volto. Non la riconobbe subito, dopotutto erano ati molti anni, dai tempi del liceo quando era una ragazzina; ora invece era una donna matura.

Lei di contro l’aveva riconosciuto subito quando quella notte li avevano portati d’urgenza in ospedale. Lei era di turno.

I dottori si erano concentrati su Ileana, inizialmente, poiché era incinta. Provarono in ogni modo a stabilizzarla e per qualche giorno ci riuscirono, ma in seguito le sue condizioni non migliorarono e l’unica cosa che si poté fare fu salvare la bambina. Il cuore di Ileana cessò di battere pochi minuti dopo che la bambina fu fatta venire al mondo settimina con parto cesareo, come se Ileana non aspettasse che quello per potersene andare. La bimba fu messa in incubatrice giusto per sicurezza, ma era forte e non aveva nessun problema, il colpo non l’aveva nemmeno sfiorata, Ileana l’aveva protetta col suo corpo in un ultimo istintivo movimento.

Milena andava ogni giorno a vederla e a controllarla. L’aveva vista nascere. Era in sala parto con Ileana quando i dottori le praticarono il cesareo, le teneva la mano mentre si spegneva. Fu lei a lavarla e porla nell’incubatrice, a sentire il suo

primo vagito quando venne al mondo.

Per Gabriele non c’era stato nulla da fare, era già morto quando l’ambulanza era arrivata sul posto.

Milena, ogni volta che aveva un po’di tempo o che finiva il turno, faceva la spola tra la bambina e Michele. Si sedeva accanto al letto di lui e gli parlava della sua bambina, dei vecchi tempi e di tutto quello che le veniva in mente sperando che lui la sentisse e tornasse indietro. Sperando che rimasse ancorato a quella realtà in cui aveva sempre una figlia che lo aspettava. Aveva ancora una speranza di un futuro pieno.

Erano ati sei anni da quel giorno. Milena gli era sempre stata accanto, prima come amica ritrovata, poi di nuovo come amante. Aveva attutito quel dolore lacerante che lo dilaniava ogni giorno. Era diventata la madre di Silvia e la sua nuova famiglia.

L’anno precedente si erano sposati.

Michele sorrise mentre Milena puliva la faccia a Silvia che si era sporcata con il latte al cacao.

Le sistemava il grembiule e le intimava di comportarsi da brava signorina. Silvia era uguale a sua madre, capelli rossi riccioli, occhi verdi e spirito selvaggio, ma adorava Milena lo stesso e lei ricambiava quell’amore. Sembrava quasi che capisse il legame che le aveva unite quel giorno quando si era spenta la vita della sua madre biologica.

Un giorno Michele gli avrebbe dovuto raccontare di Ileana, ma non lo spaventava quel momento poiché il legame fra Milena e Silvia era così vero e forte che niente lo avrebbe potuto spezzare.

“Babbo” urlò Silvia mentre si divincolava da Milena per gettarglisi al collo e baciarlo.

Michele ricambiò l’abbraccio e se la mise sulle ginocchia, poi sorrise a Milena che gli si faceva incontro per baciarlo. Milena era ancora una bella donna nonostante il lavoro duro da infermiera e oggi, vestita di gran lustro per accompagnare Silvia al suo primo giorno di scuola, era ancora più bella. Il suo corpo era sempre magro e i tacchi lo facevano risaltare ancora di più. I capelli a caschetto le incorniciavano sempre il viso che, nonostante l’età, era sempre giovanile con due occhi marroni profondi. Con la sua dolcezza e amore in questi anni era riuscita a colmare un vuoto che Michele non pensava si sarebbe mai ricolmato. Aveva riempito nuovamente quel vaso con la speranza di una vita futura.

“Sai babbo” disse Silvia interrompendo i suoi pensieri, “questa notte ti ho sognato.”

“Ah sì?” sorrise lui, “e cosa facevo?”

“Eri come un super eroe, come quello dei fumetti, avevi una maschera e un mantello e camminavi.”

“Camminavo” rise lui ammiccando a Milena, “speriamo sia di buon auspicio allora.”

“Sì” continuò la bambina tutta eccitata, “non ti devi preoccupare, ha detto il signor ragno che se anche non puoi camminare qua puoi sempre camminare nei sogni e là c’è sempre qualcosa da fare... non dimenticarlo mai.”

“Va bene” rise Michele, “appena rivedi il signor ragno digli che lo ringrazio e lo terrò di conto, ma ora vai a prendere lo zainetto che sennò fai tardi per il tuo primo giorno di scuola.”

Silvia si precipitò lungo le scale per prendere il suo zaino.

Michele abbracciò Milena. Lei gli sorrise: “Sta crescendo velocemente, ormai è già una piccola donna, tra qualche anno dovremmo dirglielo.” “Non vi è fretta” replicò Michele guardandola con amore, “so che andrà fatto, ma voglio farlo nel modo migliore, preparandomi per tempo e senza rovinarle l’infanzia con un ricordo triste... avrà tutta la vita per capire cosa è il dolore e inoltre per lei sei tu la sua mamma, ti vuole molto bene.”

“Anche io ne voglio a lei, per me è come se fosse mia figlia, la mia vera figlia intendo, non potrei avere un legame più forte di così nemmeno se l’avessi partorita io...”

Silvia tornò di corsa con lo zaino in spalla. Michele le salutò entrambe accompagnandole alla porta e rimase lì a guardarle mentre si allontanavano. Poi chiuse il battente e si diresse con la sua sedia a rotelle nuovamente nel suo studio.

Facendo forza con le braccia sui braccioli della sedia a rotelle riuscì a are sul divano. Si stese supino guardandosi nello specchio che era appeso al soffitto, piano piano il sonno lo colse e iniziò, nuovamente, a camminare tra le tele del destino.

INDICE

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO