ISSN 1121-9238
ATTI DELLA
ACCADEMIA PONTANIANA NUOVA SERIE
- VOLUME LXI - SUPPLEMENTO
A N N O A C C A D E M I C O 2012 DLXXI DALLA FONDAZIONE
GIANNINI EDITORE NAPOLI 2013
ISBN: 978-88-7431-688-5 ISSN: 1121-9238
Renaissances de la tragédie. La Poétique d’Aristote et le genre tragique, de l’Antiquité à l’époque contemporaine sous la direction de Florence Malhomme, Lorenzo Miletti, Gioia Maria Rispoli, Mary-Anne Zagdoun avec la collaboration de Valentina Caruso
Ces travaux ont été réalisés avec le soutien du Conseil Scientifique de l’Université Paris-Sorbonne (Paris IV), de l’École Doctorale V Concepts et Langages (ED 433), de l’Équipe de recherche Patrimoines et Langages Musicaux (EA 4087) ; du CNRS, Centre Lenain de Tillemont (UMR 8167 Orient et Méditerranée) et Centre Jean Pépin (UPR 76) THETA ; et de l’Institut Universitaire de (Laurence Boulègue). Ils ont reçu le patronage de l’UNESCO, Section Philosophie et Sciences humaines.
Table des matières pag. 7
Premessa Lorenzo Miletti, Gioia Maria Rispoli Préface Mary-Anne Zagdoun, Florence Malhomme
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9
Unity of Art without Unity of Life? A Question about Aristotle’s Theory of Tragedy Stephen Halliwell
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25
Le plaisir « propre » de la tragédie est-il intellectuel ? Pierre Destrée
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41
La nozione di mimesis tragica in Platone Lidia Palumbo
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55
Pourquoi la tragédie Claudio William Veloso
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69
Peinture et tragédie dans la Poétique d’Aristote Mary-Anne Zagdoun
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89
La spécificité du concept aristotélicien de muthos Une relecture de la Poétique Françoise Frazier
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103
Aristote et la praxis poétique : Homère, un modèle pour la tragédie ? Sylvie Perceau
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The Social Significance of the «Unity of Time» Edith Hall
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145
Aristotele, Poetica 18, 1456 a 2-3 e il quarto tipo di tragedia Maria Pia Pattoni
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Il dialogo tragico e il ruolo della gestualità Giovanni Cerri
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189
Euripide tra poetica e retorica. Aristotele e lo Pseudo Dionigi sulla rhesis di Melanippe Lorenzo Miletti
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205
6 La maschera di Eracle nell’Alcesti Giuseppe Zanetto
pag. 223
L’Aristotele ercolanese. Aristotele e aristotelismo sulla tragedia nei papiri di Ercolano Gioia Maria Rispoli
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239
Pselliana V: Mimesi tragica nella Chronographia Ugo Criscuolo
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271
Les larmes de Procné, ou les traces possibles d’une influence de la Poétique d’Aristote aux Trecento et Quattrocento Jean-Frédéric Chevalier
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287
Tragique et tragédie : la réception de l’héritage aristotélicien dans les poétiques néo-latines de la Renaissance Virginie Leroux
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309
Aristotele e la tragedia nell’opera di Antonio Sebastiano Minturno Mario Lamagna
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337
Tragédie et musique dans l’aristotélisme poétique du Cinquecento Florence Malhomme
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361
D’Aubignac et Nicole devant la Poétique d’Aristote Daniel Dauvois
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399
La Poétique mise en perspective : Corneille, lecteur d’Aristote Catherine Fricheau
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413
« Mais il ne s’agit plus de vivre, il faut régner » ou de la formalité tragique à l’âge classique Pierre Caye
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431
Lessing contre Corneille : enjeu d’une traduction et d’une lecture d’Aristote dans la Dramaturgie de Hambourg Nicolas Rialland
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437
Tra biografia e tragedia: la Fedra di Marina Cvetaeva Paola Volpe Cacciatore
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453
Atti Accademia Pontaniana, Napoli - Supplemento N.S.,Vol. LXI (2012), pp. 155-188
Aristotele, Poetica 18, 1456 a 2-3 e il quarto tipo di tragedia
MARIA PIA PATTONI
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Quattro sono i tipi di tragedia (tante infatti sono le parti di cui si è parlato): quella d’intreccio, che consiste tutta in rovesciamento e riconoscimento; quella di eventi, come per esempio gli Aiaci e gli Issioni; quella di caratteri, come le Ftiotidi e il Peleo, e la quarta […] come le Forcidi, il Prometeo e tutte quelle collocate nell’Ade. Bisogna tentare di possedere tutti questi elementi, o per lo meno i più importanti e in maggior numero, tra l’altro perché oggi si criticano i poeti: poiché per ogni parte ci sono stati buoni poeti, si pretende che uno solo superi ciascuno di quelli nella sua peculiare bravura1.
I. L’elenco degli İįȘIJȡĮȖįĮȢ nel capitolo 18 della Poetica, qui sopra riportato
Questa traduzione, come le successive se non diversamente segnalato, sono tratte da D. Lanza, Aristotele. Poetica, Milano 1987. 1
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secondo l’edizione di Kassel2, pone una serie di problemi molto dibattuti, a partire dall’inciso parentetico iniziale IJȠıĮ૨IJĮȖȡțĮIJȝȡȘਥȜȤșȘ, che non trova puntuale corrispondenza altrove3: né con le sei parti della tragedia variamente e ripetutamente elencate nel capitolo 6 (ȝ૨șȠȢ, șȠȢ, įȚȞȠȚĮ, ȜȟȚȢ, ȝȜȠȢe ȥȚȢ), né con le tre parti del racconto al capitolo 11 (ʌİȡȚʌIJİȚĮ, ਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢ e ʌșȠȢ), né con i quattro İįȘ dell’epica al capitolo 24, che sono detti coincidere con quelli della tragedia, ovvero ʌİʌȜİȖȝȞȘ, ਖʌȜો, șȚțe ʌĮșȘIJȚț. Del primo eidos tragico, la tragedia ʌİʌȜİȖȝȞȘ o d’intreccio, che consiste tutta in peripezia e riconoscimento, Aristotele non riporta alcuna attestazione, in quanto s’è già lungamente soffermato sull’intreccio nei capitoli precedenti, dove adduceva come esempi di ʌİȡȚʌIJİȚĮ l’Edipo re sofocleo e il Liceo di Teodette, e come esempio di ਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢ l’Ifigenia in Tauride. Come esempi di tragedia ʌĮșȘIJȚț vengono citati i vari drammi su Aiace e Issione, accomunati dal dato luttuoso, che ne costituiva l’elemento caratterizzante ed ineliminabile. Si tratta di miti in effetti molto frequentati: su Issione scrissero drammi Eschilo, Euripide, Callistrato e Timesiteo; su Aiace Eschilo, che vi dedicò
R. Kassel (ed.), Aristotelis De Arte poetica liber, Oxford 1965. L’atteggiamento della critica è stato al riguardo divergente. C’è chi ha considerato spuria questa osservazione parentetica sulla corrispondenza İįȘ/ȝȡȘ tragici, ritenedola un’aggiunta ad opera di un lettore influenzato dall’enumerazione dei quattro generi dell’epopea nel capitolo 24: su questa linea, F. Susemihl ne proponeva l’atetesi, che S. H. Butcher approvava e G. F. Else giudicava «tempting: it looks like the remark of a well-meaning but inept reader, influenced no doubt by 24, 59 b 9-10» (cfr. G. F. Else, Aristotle’s Poetics: the Argument, Leiden 1957, p. 533). Altri hanno pensato a un rimando a trattazione esterna alla Poetica, contenuta in un’opera precedente e ben nota al pubblico, su esempio del caso più esplicito in 15, 1454 b 17-18, dove compare l’unica allusione all’interno della Poetica a un’opera pubblicata (cfr. D. J. Allan, «ǼǿǻǾ ȉȇǹīȍǿǻǿǹȈin Aristotle’s Poetics», in Classical Quarterly 22, 1972, pp. 81-88, il quale, partendo dalla testimonianza di Diogene Laerzio sulle tre opere di Aristotele ȃțĮȚǻȚȠȞȣıȚĮțĮĮ’, ȆİȡIJȡĮȖįȚȞĮ’, ǻȚįĮıțĮȜĮȚĮ’, ipotizzava che la seconda di queste contenesse una suddivisione empirica delle tragedie in tipologie, che avrebbe costituito una sorta di ponte fra le sue opere storiche e la Poetica stessa). L’atteggiamento attualmente più diffuso è tuttavia di non dare eccessivo peso a questa autocitazione, in considerazione della tensione interna che caratterizza il trattato, in cui ogni affermazione o classificazione costituisce la premessa per uno sviluppo ulteriore, con un procedere a scarti progressivi che costituisce una delle peculiarità di quest’opera in fieri. Peraltro, la stessa sezione dei quattro İįȘ appare alquanto scollegata dall’immediato contesto (ma, più in generale, l’intero capitolo 18 presenta alcune discontinuità al suo interno, che si è cercato di risolvere con vari tentativi di trasposizione, senza tuttavia risolvere in maniera definitiva il problema: cfr. per esempio D. J. Allan, «Some ages in Aristotle’s Poetics», in Classical Quarterly 21, 1971, pp. 84-86). Evidentemente si tratta di una sezione in cui i materiali sono stati lasciati allo stato di abbozzo: ne è prova anche lo stile accentuatamente brachilogico del o, rivolto a destinatari in grado di afferrare immediatamente le allusioni (su di una linea analoga, cfr. ad esempio a 11, 1452 a 25 l’omissione del soggetto di ਥȜșઆȞ, in riferimento al pastore corinzio che raccolse Edipo neonato portandolo al re Polibo e che ora giunge da Corinto con la notizia della sua morte). 2
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ARISTOTELE, POETICA 18, 1456 A 2-3 E IL QUARTO TIPO DI TRAGEDIA
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un’intera trilogia4, Carcino, Teodette, Astidamante e naturalmente Sofocle, il cui ǹĮȢ ȝĮıIJȚȖȠijંȡȠȢ ben corrisponde alla definizione di ʌșȠȢ data da Aristotele nel capitolo 11: ʌșȠȢįਥıIJȚʌȡ઼ȟȚȢijșĮȡIJȚțਲ਼ੑįȣȞȘȡ, ȠੈȠȞȠIJİਥȞIJijĮȞİȡșȞĮIJȠȚțĮĮੂ ʌİȡȦįȣȞĮȚțĮIJȡઆıİȚȢțĮıĮIJȠȚĮ૨IJĮ5. Al terzo posto segue la tragedia di carattere. A prescindere dall’esatta interpretazione da dare al discusso aggettivo șȚțંȢ6, la mia ipotesi è che qui Aristotele si stia riferendo a una tipologia di drammi in cui si era segnalato Sofocle, almeno in una fase della sua produzione drammatica. Subito dopo l’enumerazione dei quattro eide della tragedia, a 1456 a 5-6, Aristotele sostiene che in ato per ogni meros (e quindi eidos) tragico ci furono validi poeti che si distinsero (ȖİȖȠȞંIJȦȞȖȡ țĮș¶ਪțĮıIJȠȞȝȡȠȢਕȖĮșȞʌȠȚȘIJȞ), ciascuno nella sua peculiare bravura (ਦțıIJȠȣ IJȠ૨ੁįȠȣਕȖĮșȠ૨). Ebbene, le fonti antiche, a partire dalle numerose testimonianze scoliastiche, raccolte nel vecchio ma ancora utile lavoro di A. Trendelenburg7, sono concordi nell’attribuire a Sofocle una particolare abilità nell’ethopoiìa; la Vita di Sofocle, che attinge a fonti peripatetiche, insiste in più occasioni su questo aspetto, elogiando l’abilità del drammaturgo nel tratteggiare un carattere anche con un emistichio o un solo vocabolo: La trilogia eschilea era costituita dai drammi ੜʌȜȦȞțȡıȚȢĬȡૌııĮȚȈĮȜĮȝȞȚĮȚ(l’ ੜʌȜȦȞ țȡıȚȢ è citato in Poetica 23, 1459 b 5 in un elenco di tragedie che drammatizzano altrettanti episodi della Piccola Iliade, in un o di cui G. F. Else, seguito da R. Kassel e altri editori moderni, ha proposto l’espunzione). 5 Aristot., Poet. 11, 1452 b 11-13: «L’evento traumatico è un’azione che reca danno o dolore, come per esempio le morti manifeste, le gravi sofferenze, i ferimenti, ecc.». 6 Personalmente sono orientata a condividere l’opinione di D. W. Lucas, Aristotle. Poetics, Oxford 1968, p. 186 (e già prima di I. Bywater-A. Rostagni-J. Sykutris-W. J. Verdenius, «The Meaning of șȠȢ and șȚțંȢ in Aristotle’s Poetics», in Mnemosyne 12, 1945, p. 241), che si tratti della tragedia «concerned with the expression of character» nel senso già chiarito al capitolo 15, così come la ૧ોıȚȢșȚț è quella che esprime compiutamente l’ethos del personaggio. D. W. Lucas cita a questo proposito Rhet. 3, 12, 13 b 8: ıIJȚįȜȟȚȢȖȡĮijȚțȝȞਲਕțȡȚȕİıIJIJȘ, ਕȖȦȞȚıIJȚțįਲਫ਼ʌȠțȡȚIJȚțȦIJIJȘ(IJĮIJȘȢįįȠİįȘ· ਲȝȞȖȡșȚțਲįʌĮșȘIJȚț)· įȚઁțĮȠੂਫ਼ʌȠțȡȚIJĮ IJIJȠȚĮ૨IJĮIJȞįȡĮȝIJȦȞįȚઆțȠȣıȚ, țĮȠੂʌȠȚȘIJĮIJȠઃȢIJȠȚȠIJȠȣȢ [«lo stile della composizione scritta è più preciso, quello del discorso pronunciato più basato sulla recitazione (di quest’ultimo esistono due specie: la prima esprime caratteri, la seconda emozioni), e per questa ragione gli attori sono sempre alla ricerca di opere di questo genere, e i poeti di attori adatti »]. Un diverso approccio interpretativo è quello che fa capo a T. Heine (Studia aristotelica, I, Aristoteles über die Arten der Tragödie, in Programm des Gymnasiums zu Kreuzburg (O.-S.), Kreuzburg 1887), il quale riteneva che la tragedia ʌĮșȘIJȚț fosse quella in cui l’eroe, per effetto di una dura necessità, subisce una sorte avversa e ostile, mentre la șȚț sarebbe la tragedia in cui l’eroe determina liberamente il proprio destino, sulla scorta di Plato, Resp. 10, 603 e ʌȡIJIJȠȞIJĮȢ… ਕȞșȡઆʌȠȣȢ ȝȚȝİIJĮȚਲȝȚȝȘIJȚțȕȚĮȠȣȢ(«pathetisch») ਲ਼ਦțȠȣıĮȢ(«ethisch») ʌȡȟİȚȢ. Secondo la variante interpretativa di A. Gudeman (Aristoteles ȆǼȇǿȆȅǿǾȉǿȀǾȈBerlin-Leipzig 1934, p. 317), accolta da G. F. Else, la tragedia ʌĮșȘIJȚț è quella che contiene una ȝİIJȕĮıȚȢਥȟİIJȣȤĮȢİੁȢįȣıIJȣȤĮȞ, mentre la șȚț è caratterizzata dal lieto fine. 7 Cfr. A. Trendelenburg, Grammaticorum Graecorum de arte tragica iudiciorum reliquiae, Bonn 1867. 4
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șȠʌȠȚİIJİțĮʌȠȚțȜȜİȚțĮIJȠȢਥʌȚȞȠȝĮıȚIJİȤȞȚțȢȤȡોIJĮȚȠੇįİįțĮȚȡઁȞıȣȝȝİIJȡોıĮȚ țĮʌȡȖȝĮIJĮ੮ıIJİਥțȝȚțȡȠ૨ਲȝȚıIJȚȤȠȣਲ਼ȜȟİȦȢȝȚ઼ȢȜȠȞșȠʌȠȚİȞʌȡંıȦʌȠȞıIJȚįIJȠ૨IJȠ ȝȖȚıIJȠȞ ਥȞ ʌȠȚȘIJȚțૌ įȘȜȠ૨Ȟ șȠȢ ਲ਼ ʌșȠȢ (Vita Sophoclis, in Tragicorum Graecorum Fragmenta, IV, T 1, 85 Radt).
Sulla stessa linea si pone anche la celebre testimonanza plutarchea sulle tre fasi dello stile sofocleo: le prime due influenzate da Eschilo e la terza, quella della piena maturità, in cui mutò l’İੇįȠȢdella sua ȜȟȚȢ; e questo terzo İੇįȠȢstilistico è, per l’appunto, șȚțઆIJĮIJȠȞ … țĮ ȕȜIJȚıIJȠȞ, «molto accurato nella caratterizzazione dei personaggi e il migliore»: … ȈȠijȠțȜોȢȜİȖİIJઁȞǹੁıȤȜȠȣįȚĮʌİʌĮȚȤઅȢȖțȠȞ,İੇIJĮIJઁʌȚțȡઁȞțĮțĮIJIJİȤȞȠȞIJોȢĮIJȠ૨ țĮIJĮıțİȣોȢ, IJȡIJȠȞ ਵįȘ IJઁ IJોȢ ȜȟİȦȢ ȝİIJĮȕȜȜİȚȞ İੇįȠȢ, ʌİȡ șȚțઆIJĮIJંȞ ਥıIJȚ țĮ ȕȜIJȚıIJȠȞ (Plut., De Profect. in virtute 7, 79 B (1, 157, 23 Paton-Wegenhaupt) = Tragicorum Graecorum Fragmenta, IV, T 100 Radt).
Non a caso, come primo esempio di tragedia șȚț, Aristotele cita le Ftiotidi, un dramma perduto di Sofocle, l’unico a noi noto con questo titolo. Subito dopo è menzionato il Peleo. Sia Sofocle che Euripide scrissero un dramma così intitolato, ma è molto probabile che qui Aristotele intendesse alludere alla versione sofoclea, dato che il riferimento vien subito dopo la citazione delle Ftiotidi sofoclee e tratta di un segmento della stessa saga familiare (Ftia è per l’appunto la patria di Peleo)8. Alcuni frammenti superstiti delle Ftiotidi vertono sul tema della paideia e sembrano attestare un interesse di Sofocle sulla formazione del giovane9: una tematica che vediamo comparire anche nel Filottete sofocleo in relazione al giovane Neottolemo, pure appartenente alla stessa dinastia familiare10. La menzione brachilogica, per di più in riferimento a una tipologia di situazione drammatica in cui Sofocle era considerato eccellere, comporta che gli auditori si aspettino che dalle Ftiotidi al Peleo non vari l’autore (altrimenti Aristotele lo avrebbe presumibilmente specificato). Sulla scorta di F. G. Welcker (Griechische Tragödien mit Rücksicht auf den epischen Cyclus, Bonn 1839-1841, I 210), A. Gudeman («Aristoteles ȆǼȇǿȆȅǿǾȉǿȀǾȈ»op. cit., p. 317 s.) proponeva di identificare le Ftiotidi con il Peleo, correggendo il țĮin ਲ਼: ma si vedano le obiezioni di G. F. Else, Aristotle’s Poetics: the Argument, op. cit., pp. 532-533, nota 58, che richiamava l’attenzione sul fatto che per il secondo e quarto eidos vengono menzionati almeno due titoli (e per di più Aristotele non sembra citare per doppi titoli). 9 Cfr. Soph., frr. 487 e 488 Radt. Quanto all’ethos tragico di Peleo in generale, cfr. Horat., Ars poet. 95-98: «et tragicus plerumque dolet sermone pedestri, / Telephus et Peleus cum pauper et exsul uterque / proicit ampullas et sesquipedalia verba, / si curat cor spectantis tetigisse querella». 10 A sua volta il Filottete, nell’ambito dei drammi sofoclei a noi pervenuti, mi pare possa costituire un plausibile esempio di quel che Aristotele intendeva per tragedia șȚț: al personaggio di Neottolemo si potrebbero infatti applicare i quattro tratti che vengono prescritti nel cap. 15 a proposito degli ਵșȘ tragici, essendo egli infatti nel contempo ȤȡȘıIJંȢ«di valore» ਖȡȝંIJIJȦȞ, «adatto»ȝȠȚȠȢ, «somigliante» e ȝĮȜંȢ, «coerente». 8
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II. Del quarto İੇįȠȢ tragico (IJઁ į IJIJĮȡIJȠȞ) manca, com’è noto, la definizione: i codici poziori A e B riportano la vox nihili (ȠȘȢB, ȘȢA )11, che è stata corretta secondo svariate prospettive critiche e metodologiche12. Tra le numerose proposte congetturali, quella che ha forse goduto di maggiore fortuna è IJઁ į IJIJĮȡIJȠȞ ਲਖʌȜો> di P. Bursian13, già anticipata dal G. Morelius14 nel 1555 (IJઁįIJIJĮȡIJȠȞ ਖʌȜȠ૨Ȟ!), ovvero la tragedia «semplice», desunta dal catalogo dei quattro eide epici del capitolo 2415. Nonostante la sua evidenza quasi palmare, l’emendamento, oltre a non fornire compiuta spiegazione, dal punto di vista paleografico, dell’origine materiale della corruzione ȠȘȢpresenta alcuni elementi dubbi che gli hanno impedito di imporsi diffusamente nelle edizioni. Un rilievo critico più volte sollevato è il fatto che l’aggettivo ਖʌȜોsia sganciato dal riferimento a uno specifico meros, come invece ci si aspetterebbe qui, dopo l’inciso iniziale IJȠıĮ૨IJĮ țĮ IJ ȝȡȘ ਥȜȤșȘ. Secondo Aristotele ȝ૨șȠȚ e ʌȡȟİȚȢ sono ਖʌȜĮ quando la ȝİIJĮȕȠȜ si realizza senza peripeteia e anagnorisis16: ਖʌȜો, indicando assenza, appare dunque come una definizione «in
Il Laurenziano XXXI 14 legge ȠੁțİȠȞ, che è evidentemente lezione congetturale e interpretatrice del non comprensibile ȅǾȈȅǿȅȃ La traduzione latina di Guglielmo di Morbeca e la versione araba non ci sono qui di alcun aiuto: la prima presenta uno spazio bianco in corrispondenza del luogo corrotto, la seconda fraintende profondamente l’intero o e non presenta comunque un riferimento specifico a questo eidos. 12 Tra i più fecondi congetturatori vi fu L. A. Post, che propose dapprima IJઁįIJIJĮȡIJȠȞ ਲıȤȚȠȢ ȝ૨șȠȢ țĮ ਥʌİȚıȠįȚઆįȘȢ! che presuppone evidentemente la caduta di un rigo di scrittura (Transactions of the American Philological Association 69, 1938, p. 17; su di una linea interpretativa simile si pone anche [IJઁ į IJIJĮȡIJȠȞ] <ਲ į ਥʌİȚıȠįȚઆ>įȘȢ di G. F. Else), successivamente abbandonato a favore di IJઁįIJIJĮȡIJȠȞȖțȠȢ (cfr. L. A. Post, «Aeschylean onkos in Sophocles and Aristotle», in Transactions of the American Philological Association 78, 1947, p. 247); tra gli emendamenti più improbabili mi limito a ricordare IJઁ į IJIJĮȡIJȠȞ ʌIJંȘıȚȢ di K. D. Georgoulis («ȉȅȉǼȉǹȇȉȅ1 ǼǿǻȅȈȉǾȈȉȇǹī2ǻǿǹȈ», in Platon 4, 1952, pp. 334-340). Altre proposte congetturali più significative (come ad esempio IJİȡĮIJįİȢ di Schrader oppure IJઁ į IJIJĮȡIJȠȞ ȞંȘıȚȢ di Gilbert, recentemente ripresa da Schmitt), saranno menzionate più avanti (cfr. infra § V e nota 50, e § IX, 1). 13 Jahrbuch für classische Philolologie 5, 1859, p. 757. 14 Aristotelis De Arte poetica liber, Parisiis 1555, p. 83. 15 Cfr. Aristot., Poet. 24, 1459 b 8-9: IJȚįIJİįȘIJĮIJįİȤİȚȞIJȞਥʌȠʌȠȚĮȞIJૌIJȡĮȖįਲ਼ Ȗȡ ਖʌȜોȞ ਲ਼ ʌİʌȜİȖȝȞȘȞ ਲ਼ șȚțȞ ਲ਼ ʌĮșȘIJȚțȞ țĮ IJ ȝȡȘ ȟȦ ȝİȜȠʌȠȚĮȢțĮ ȥİȦȢ IJĮIJǜ țĮ Ȗȡ ʌİȡȚʌİIJİȚȞįİțĮਕȞĮȖȞȦȡıİȦȞțĮʌĮșȘȝIJȦȞǜIJȚIJȢįȚĮȞȠĮȢțĮIJȞȜȟȚȞȤİȚȞțĮȜȢ [«L’epica deve avere le stesse forme della tragedia: essere semplice o complessa o di caratteri o di evento. Anche le parti, eccetto la musica e la vista, sono le stesse. C’è bisogno infatti dei rovesciamenti, dei riconoscimenti e delle emozioni, e inoltre deve possedere ben disposti i pensieri e il linguaggio»]. La correzione di Bursian è stata accettata, tra i vari, da A. Gudeman, Aristoteles ȆǼȇǿȆȅǿǾȉǿȀǾȈop. cit., p. 317; in direzione simile si muoveva anche la proposta di Zeller ਲȝȞਖʌȜોਲį!ʌİʌȜİȖȝȞȘ(Poet. 18, 1455 a 38), mentre Matthiessen preferiva leggere IJઁIJોȢ ਖʌȜોȢ(cfr. Gnomon 38, 1966, p. 132). 16 Cfr. Aristot., Poet. 10, 1452 a 12-17: «Chiamo semplice (ਖʌȜોȞ) un’azione (ʌȡȟȚȞ) nel cui svolgimento, come si è definito, continuo e unitario, ha luogo il mutamento senza rove11
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negativo», in sottrarre, rispetto al suo opposto ʌİʌȜİȖȝȞȘ; ਖʌȜĮ dovrebbero dunque essere a rigore tutte le tragedie non ʌİʌȜİȖȝȞĮȚ, e dunque anche le ʌĮșȘIJȚțĮ e le șȚțĮ. Ma soprattutto non risulta del tutto perspicuo perché i drammi ambientati nell’Ade (ıĮਥȞઌįȠȣ) dovrebbero essere tout court ਖʌȜ઼17: la formulazione, impostata su un complemento di luogo, sembra raggruppare un sottoinsieme di drammi accomunati dall’ambientazione scenica e semmai dalla tipologia di personaggi, più che dalla forma del racconto. Quanto poi alla necessità di ripristinare una totale aderenza con l’elenco degli eide epici del capitolo 24, già D. J. Allan qualche decennio fa18 aveva segnalato esempi di scarti analoghi in altre opere come l’Etica Eudemia o i Metereologica, a conferma di quella sorta di tensione interna nell’argomentare aristotelico, su cui varia parte della critica ha più volte posto l’accento19. La correzione ਖʌȜો, insomma, pur avendo dalla propria parte l’indubbio elemento positivo della corrispondenza con le tipologie dell’epica, non riesce tuttavia a convincere pienamente. Il mio punto di vista sulla questione è che tra le proposte emendative finora avanzate meriti di essere rivalutata la vecchia congettura ȥȚȢ di I. Bywater, anche alla luce degli studi che negli ultimi decenni hanno ricostruito in modo più articolato la posizione di Aristotele in relazione alla messinscena, correggendo impostazioni critiche troppo semplicistiche o riduttive nei confronti di questo meros, l’unico oltre al ȝ૨șȠȢ al quale venga riconosciuta la prerogativa dello ȥȣȤĮȖȦȖİȞ20
sciamento o riconoscimento (ਙȞİȣ ʌİȡȚʌİIJİĮȢ ਲ਼ ਕȞĮȖȞȦȡȚıȝȠ૨ ਲ ȝİIJȕĮıȚȢ ȖȖȞİIJĮȚ); complessa (ʌİʌȜİȖȝȞȘȞ) invece quella dalla quale il mutamento ha luogo insieme con riconoscimento, rovesciamento o entrambi». 17 Entrambi questi motivi inducevano J. Vahlen (Aristotelis De Arte poetica liber, tertiis curis recognovit et adnotatione critica auxit Iohannes J. Vahlen, Lipsiae 1885, pp. 41 e 193) a sospettare, subito prima della tragedia ʌĮșȘIJȚț, la caduta del nesso <ਲįਖʌȜો> seguito dalla rispettiva definizione, con la conseguenza di lasciare però in sospeso il segmento testuale IJઁį IJIJĮȡIJȠȞ, a proposito del quale egli seguiva la soluzione di W. Schrader (ZfA 5, 1847, p. 548 s.) di correggere in IJઁįIJİȡĮIJįİȢ in riferimento a una tipologia deteriore ed esterna ai quattro tipi principali (sulla linea di J. Vahlen si pose anche J. Hardy, Aristote, Poétique, Paris 1932, p. 56: cfr. infra, nota 50). 18 Cfr. D. J. Allan, «ǼǿǻǾȉȇǹīȍǿǻǿǹȈin Aristotle’s Poetics», op. cit., pp. 81-88 (in particolare p. 84). 19 Cfr., tra i vari, D. W. Lucas e, in Italia, in particolare D. Lanza, che ha parlato di «coesistenza nell’opera di Aristotele di approcci e soluzioni diverse» e della «presenza di una tensione teorica viva e operante» (Aristotele, Poetica, op. cit., p. 14). 20 Si vedano in particolare i lavori di F. Donadi, «Opsis e lexis: per un’interpretazione aristotelica del dramma», in L. Renzi (Ed.), Poetica e stile, Padova 1976, pp. 1-21; id., «Nota al cap. VI della Poetica: il problema dell’opsis», in Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere e Arti 83, parte III, 1970-1971, pp. 413-451; S. Halliwell, Aristotle’s Poetics, London 1986 (in particolare Appendix 3, pp. 337-343); M. Di Marco, «Opsis nella Poetica di Aristotele e nel Tractatus Coislianus», in L. De Finis (Ed.), Scena e spettacolo nell’antichità, Trento 1989, pp. 129-148; M. G. Bonanno, «Sull’opsis aristotelica: dalla Poetica al Tractatus Coislinianus e ritorno», in L. Belloni-V. Citti-L. De Finis (Edd.), Dalla lirica al teatro: nel ricordo
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Com’è noto, I. Bywater21 fondò la sua proposta soprattutto sull’evidenza paleografica, ovvero il confronto con 21, 58 a 5, dove, all’interno di una citazione di Empedocle («ȝĮȖȞİIJĮȚਕȝijȠIJȡȦȞȥ»), i codici AB riportano nuovamente ȠȘȢ per ȥ, nome-radice corrispondente a ȥȚȢ, che è qui lezione certa, trasmessa da Strabone VIII, 5, 3 (ʌĮȡ’ ਫȝʌİįȠțȜİį«ȝĮȖȞİIJĮȚਕȝijȠIJȡȦȞȥ» ਲȥȚȢ)22. Quanto alla variatio del costrutto IJઁįIJIJĮȡIJȠȞȥȚȢ, Bywater ne individuava la spiegazione nel fatto che Aristototele non aveva a disposizione un aggettivo corrispondente a ȥȚȢ, che potesse porsi sulla linea di ʌİʌȜİȖȝȞȘda ʌȜંțȠȢ23 șȚțda șȠȢ, o ʌĮșȘIJȚțda ʌșȠȢ, e dunque avrebbe sostituito alla formulazione con l’aggettivo qualificativo ad indicare l’eidos direttamente il meros stesso24. A favore di ȥȚȢ si sono espressi anche A. Rostagni, M. Valgimigli, C. Gallavotti, R. Janko, R. Dupont-Roc e J. Lallot25, che hanno cercato di conciliare questa interpretazione con gli altri elenchi classificatori, ovvero i sei ȝȡȘqualitativi del sesto capitolo e i soprattutto i quattro ȝȡȘdell’epopea nel ventiquattresimo, dimostrando come in realtà non ci sia una sostanziale contraddizione fra il tipo di tragedia ȥȚȢe il tipo di epopea ਖʌȜો26L’ ȥȚȢ è un ȝȡȠȢ che manca all’epica, come Aristotele puntualizza nel capitolo 24, subito dopo la classificazione dei quattro ȝȡȘ. Quindi, sia la tragedia che l’epos, se prevalgono ʌİȡȚʌIJİȚĮ e ਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢ, sono entrambe di Mario Untersteiner (1899-1999), Trento 1999, pp. 251-278; id., «Opsis e opseis nella Poetica di Aristotele», in G. Arrighetti (Ed.), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica, Pisa 1999, pp. 401-411. 21 I. Bywater, «Aristotelia II», in Journal of Philology 14-27, 1885, pp. 40-52 (in particolare pp. 50-52). 22 Con ogni probabilità in Poetica 21, 1458 a 5 l’ȠȘȢdei manoscritti non rappresenta direttamente ȥ, bensì ȥȚȢ, avendo lo scriba sostituito la forma più comune del termine, proprio come Strabone osserva, aggiungendo ਲȥȚȢ allo scopo di spiegare il raro termine usato da Empedocle (cfr. anche Hesych. Ƞ2062: ȥǜȥȚȢੑijșĮȜȝંȢ). Si tratterebbe insomma, sia in 18, 1456 a 2-3 che in 21, 1458 a 5, di un errore da onciale (ȅȌǿȈ/ȅǾȈ). 23 Del ʌȜંțȠȢ Aristotele parla appena dopo in 1456 a 9, dove egli riprende il discorso, interrotto dall’elenco dei quattro mere, su intreccio e scioglimento: įțĮȚȠȞįțĮIJȡĮȖįĮȞਙȜȜȘȞțĮ IJȞĮIJȞȜȖİȚȞȠįİȞ੪ȢIJȝșāIJȠ૨IJȠįੰȞਲĮIJʌȜȠțțĮȜıȚȢʌȠȜȜȠįʌȜȟĮȞIJİȢİȜȠȣıȚ țĮțȢįİįਕȝijંIJİȡĮਕȡIJȚțȡȠIJİıșĮȚ 24 Oltre agli argomenti paleografici e linguistici, Bywater non fece tuttavia alcun tentativo di spiegare la plausibilità di un riferimento alla dimensione visiva in questo contesto; anzi, la sua interpretazione riduttiva dell’opsis come limitata al «visible make-up» dell’attore (cfr. infra, § IX, 2) — finì per rappresentare un limite all’accoglimento della proposta. 25 Cfr. A. Rostagni, La «Poetica» di Aristotele, con introduzione, commento e appendice critica, Torino 1927, p. 72; M. Valgimigli, Aristotele. Poetica, Bari 1934, pp. 131-132; C. Gallavotti, Aristotele. Dell’arte poetica, Milano 1974, pp. 64-65 e 165; R. Dupont-Roc-J. Lallot, Aristote, La Poétique, Paris 1980, pp. 96-97 e 292 ss.; R. Janko, Aristotle, «Poetics I» with the «Tractatus Coislinianus», a Hypothetical Recostruction of «Poetics II», the Fragments of the «On the Poets», Indianapolis-Cambridge 1987, pp. 24 e 121; a favore di ȥȚȢ si è espresso anche V. Wróbel, «Aristotelis de epopoeae et tragoediae generibus quae fuerit doctrina», in Eos 17, 1911, pp. 14-35. 26 Il problema del supposto contrasto tra un quarto eidos basato sull’opsis e l’elenco degli eide epici del capitolo 24 è segnalato anche da R. Kassel nel suo apparto critico.
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ʌİʌȜİȖȝȞĮȚ; se prevale il ʌșȠȢ, l’una e l’altra sono ʌĮșȘIJȚțĮ; se prevale l’șȠȢ, sono ambedue șȚțĮ. Ma se non prevalgono né ʌșȠȢ né șȠȢ, e mancano addirittura ʌİȡȚʌșİȚĮ e ਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢ, la tragedia si distingue principalmente per lo spettacolo scenico, che le rimane come suo elemento in positivo e prevalente, ed è quindi tragedia che punta alla ȥȚȢ, ovvero alla dimensione visiva nel suo complesso (in questo senso credo che si debba intendere l’uso del termine di opsis nella Poetica, secondo un’accezione semantica che è anche presupposta da gran parte dell’esegesi antica)27: l’epopea è semplicemente, né altro può essere, che epopea ਖʌȜો. In definitiva, tolto il punto di vista specifico di ciascuna, l’una definizione risulta compatibile con l’altra, e i due elenchi sono nella sostanza equipollenti. Con la precisazione, tuttavia, che nel capitolo 18, rispetto al 24, l’enumerazione è di tipo tassonomico: eccellente su tutte la tragedia complessa, subito dopo viene la ʌĮșȘIJȚțȒ28, quindi la tragedia di carattere (sulla minore importanza di questo elemento nella tragedia in rapporto al ȝ૨șȠȢ Aristotele si era con chiarezza espresso al capitolo 6, 1450 a 24 ss.)29; all’ultimo posto si colloca la tragedia in cui l’elemento spettacolare costituisce il dato prevalente, perché l’ȥȚȢ, ancorché ȝȡȠȢ di fatto ineliminabile del dramma e per di più ȥȣȤĮȖȦȖȚțcome lo è il ȝ૨șȠȢ, è ritenuto qualitativamente in subordine30. Del resto, già a 14, 1453 b 1-11, in un o su cui avremo modo di ritornare, Aristotele aveva riconosciuto l’esistenza di situazioni drammatiche in cui pietà e terrore si producono per mezzo dell’opsis, e precisamente in quell’occasione egli considerava questa tipologia inferiore al raggiungimento dello stesso scopo attraverso l’intreccio31. III. A parte questi rilievi interni alla Poetica, credo che a favore di opsis possa essere aggiunto un ulteriore ordine di considerazioni, che combina gli esempi citati da Aristotele per questo quarto eidos con alcune testimonianze antiche — posteriori ad Aristotele ma di comprovata ascendenza peripatetica — che ci consentono, Sul problema cfr. infra, § IX, 2. Com’è noto, peripeteia, anagnorisis e pathos sono le tre parti del muthos (11, 1452 b 9-10), e il muthos è a sua volta il meros più importante della tragedia (6, 1450 a 22-23). 29 Cfr. Aristot., Poet. 6, 1450 a 24 ss.: «Senza azione non può esserci tragedia, senza caratteri può esserci; le tragedie della maggior parte dei moderni sono in effetti prive di caratteri, e in generale sono molti i poeti di questo genere […]. Inoltre, se si dispongono di seguito discorsi morali ben costruiti per linguaggio e pensiero, non si realizzerà quello che è l’effetto della tragedia, mentre lo realizzerà molto più la tragedia che ne adoperi di più scadenti ma sia fornita di racconto, cioè di composizione di fatti». 30 Credo che abbia ragione A. Rostagni ad osservare che Aristotele usa qui la parola ȝȡȘ con una certa libertà, riferendosi non alla lettera, non a un paragrafo determinato, ma al succo della propria trattazione. Se si accetta ȥȚȢ, si avrebbe una corrispondenza dei quattro İįȘ tragici al trinomio ȝ૨șȠȢ (a sua volta diviso in ʌİȡȚʌIJİȚĮ+ਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢ e ʌșȠȢ), șȠȢ e ȥȚȢ. Ovvero i quattro İįȘ corrispondono a due ȝȡȘ della classificazione del capitolo 6 e a due dei tre ȝȡȘ della classificazione del capitolo 11 (con il ȝ૨șȠȢ che fa per entrambi da elemento di congiunzione). 31 Cfr. infra, § V e nota 51. 27
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integrando a posteriori i suoi ellittici riferimenti, di ricostruire la cultura del suo pubblico e dunque il suo orizzonte di attese, dato che la brachilogica esposizione aristotelica fa pensare che il filosofo di questi temi avesse parlato altrove. Il primo esempio citato sono le Forcidi, da identificare, al di là di ogni ragionevole dubbio, con il dramma eschileo che compare nel catalogo del Mediceo32. Possiamo avere un’idea del contenuto della vicenda da sei testimonianze, fra loro concordi, raccolte da Radt nel fr. 262, delle quali, per ragioni di brevità, riporto qui soltanto la prima33: įȠțİį(sc. Perseus) țĮਚȡʌȘȞʌĮȡ¶ਹijĮıIJȠȣȜĮȕİȞਥȟਕįȝĮȞIJȠȢā੪ȢįǹੁıȤȜȠȢijȘıȞ IJȞ IJȡĮȖįȚȞ ʌȠȚȘIJȢ ਥȞ ĭȠȡțıȚȞ īȡĮ!ĮȢ İੇȤȠȞ ʌȡȠijȜĮțĮȢ Įੂ īȠȡȖંȞİȢ ĮIJĮȚ į ਪȞĮ İੇȤȠȞ ੑijșĮȜȝઁȞ țĮ IJȠ૨IJȠȞ ਕȜȜȜĮȚȢ ʌĮȡİįįȠıĮȞ țĮIJ ijȣȜĮțȞ IJȘȡıĮȢ į¶ ȆİȡıİઃȢ ਥȞ IJૌ ʌĮȡĮįંıİȚ ȜĮȕઅȞ ȡȡȚȥİȞ ĮIJઁȞ İੁȢ IJȞ ȉȡȚIJȦȞįĮȁȝȞȘȞ țĮ ȠIJȦȢ ਥȜșઅȞ ਥʌ IJȢ īȠȡȖંȞĮȢ ਫ਼ʌȞȦțȣĮȢਕijİȜİIJȠIJોȢȂİįȠıȘȢIJȞțİijĮȜȞ… (Aeschylus, fr. 262, 1-13 Radt [Eratosth., Catasterismi 22, p. 25, 17, Olivieri]).
Scrive dunque Eratostene, citando espressamente le Forcidi eschilee, che Perseo, ricevuta da Efesto una scure adamantina, si sarebbe recato dalle Graie, le tre vecchie custodi delle Gorgoni, si sarebbe impossessato dell’unico occhio che esse avevano in comune palleggiandoselo l’un l’altra, e lo avrebbe gettato nella palude Tritonide; quindi, sorprese nel sonno le Gorgoni, avrebbe tagliato la testa a Medusa. Non sappiamo come nel dramma eschileo fosse costruita l’azione drammatica, in particolare quanto fosse affidato al racconto e quanto venisse invece rappresentato sulla scena, ma è comunque plausibile che in virtù di questa ambientazione remota e fantastica l’opsis vi ricevesse un certo rilievo. Una descrizione dell’aspetto delle Forcidi è offerta da Prometeo ai vv. 792-800 del Desmotes: oltre all’unico
Cfr. T 78, 17 d Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 59): ĭȠȡțįİȢ. F. G. Welcker e H. J. Mette, seguiti da molti, ne hanno ipotizzato l’appartenenza alla tetralogia della Perseide, insieme al Polidette e a una terza tragedia ignota, con i Diktoulci come dramma satiresco (cfr. F. G. Welcker, Die Aeschyleische Trilogie Prometheus und die Kabirenweihe zu Lemnos nebst Winken über die Trilogie des Aeschylus überhaupt, Darmstadt 1824, pp. 378 ss.; H. J. Mette, Die Fragmente der Tragödien des Aischylos, Berlin 1959, pp. 167 ss., e, dello stesso, Der verlorene Aeschylos, Berlin 1963, pp. 155 ss.). Non ci sono plausibili ragioni per identificare questa tragedia con l’anonimo dramma satiresco registrato in Corpus Inscriptionum Atticarum, II, 973, 11 (Tragicorum Graecorum Fragmenta, I, DID A 2 a 31 = Tragicorum Graecorum Fragmenta, II, adesp. F 10 b) e rappresentato nel 339 a. C., come propose V. Steffen, Satyrographorum Graecorum reliquiae, Posnaniae 1935, p. 27 s.). A. Gudeman, seguito da molti, scrive erroneamente che l’iscrizione attribuisce il dramma a Eschilo: la svista è probabilmente nata da misinterpretazione dell’affermazione di A. Nauck (in N2, p. 83), secondo cui «Phorcides fuisse satyricam fabulam docet titulus Corpus Inscriptionum Atticorum, II, 973, 11»; in realtà, A. Nauck non intendeva affatto riferirsi alle Forcidi eschilee, ma solo ricordare che esisteva anche un dramma satiresco con questo titolo. 33 Cfr. Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 362-364. 32
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occhio in comune le tre vecchie vergini hanno un solo dente e l’aspetto di cigni (įȘȞĮȚĮ țંȡĮȚ IJȡİȢ țȣțȞંȝȠȡijȠȚ țȠȚȞઁȞ ȝȝ¶ ਥțIJȘȝȞĮȚ, vv. 794-795), forse per il loro pallore, dato che nel loro antro non penetra mai né luce del sole né raggio di luna (ਘȢ Ƞș¶ ਸ਼ȜȚȠȢ ʌȡȠıįȡțİIJĮȚ ਕțIJıȚȞ Ƞș¶ ਲ ȞțIJİȡȠȢ ȝȞȘ ʌȠIJ, vv. 796797); vicino a loro stanno le Gorgoni, mostri alati e anguicriniti, orrore dei mortali (ʌȜĮȢ į¶ ਕįİȜijĮ IJȞįİ IJȡİȢ țĮIJʌIJİȡȠȚ įȡĮțȠȞIJંȝĮȜȜȠȚ īȠȡȖંȞİȢ ȕȡȠIJȠıIJȣȖİȢ, vv. 798-799), che nessun essere umano può guardare serbando il respiro di vita (ਘȢ șȞȘIJઁȢ ȠįİȢ İੁıȚįઅȞ ਪȟİȚ ʌȞȠȢ v. 800). Alcuni elementi della descrizione di questi gruppi di mostruose sorelle richiamano alla mente l’aspetto repellente che nelle Eumenidi il dio Apollo attribuisce alle Erinni, le figlie della Notte, come in particolare l’ossimorico contrasto fra verginità e vecchiezza (cfr. Eumenides 68-69 Įੂ țĮIJʌIJȣıIJȠȚ țંȡĮȚ ȖȡĮĮȚ ʌĮȜĮȚĮ ʌĮįİȢ con Prometheus 794 įȘȞĮȚĮ țંȡĮȚ), oppure il fatto di essere aborrite dai mortali (cfr. Eumenides 73 ȝȚıȝĮIJ¶ਕȞįȡȞcon Prometheus, 799 ȕȡȠIJȠıIJȣȖİȢ); del resto, la stessa Pizia, nel tentativo di ricondurre il loro atipico aspetto a forme meglio conosciute, aveva provvisoriamente paragonato le Erinni a Gorgoni (Eumenides 48-49 ȠIJȠȚ ȖȣȞĮțĮȢ ਕȜȜ īȠȡȖંȞĮȢ ȜȖȦ), per poi tentare un ulteriore confronto con l’iconografia delle Arpie, a lei nota da rappresentazioni pittoriche (Eumenides 50 s.). Non è difficile immaginare che nelle Forcidi costumi, gestualità degli attori, coreografie, forse anche arredi scenici, dovessero in qualche misura riflettere l’ambientazione remota e favolosa di questo dramma34, che forse costituiva una sorta di antenato teatrale (se mi è consentito il confronto) dei contemporanei film fantasy del genere del «Signore degli anelli», oppure, per citare un parallelo un po’ più pertinente, la tetralogia di Wagner, e in particolare Das Rheingold, nell’ambito del teatro d’opera. Subito dopo le Forcidi è citato come esempio il Prometeo. È molto probabile che Aristotele intendesse qui riferirsi a un secondo dramma anch’esso eschileo35, giacché Eschilo è stato, per quel che sappiamo, l’unico tragediografo antico a drammatizSi vedano, a conferma, le rappresentazioni vascolari su questo soggetto mitico, che alcuni hanno voluto collegare con la rappresentazione delle Forcidi eschilee (cfr. L. Séchan, Études sur la tragédie grecque dans ses rapports avec la céramique, Paris 1926, pp. 107113; T. P. Howe, «Illustrations to Aeschylos’ Tetralogy on the Perseus Theme», in American Journal of Archaeology 57, 1953, pp. 269-275; T. B. L. Webster, Monuments Illustrating Tragedy and Satyr Play, London 19672, p. 144). 35 E questo anche a prescindere — si badi bene — dal problema della reale paternità del dramma. Secondo l’ipotesi di M. L. West, Studies in Aeschylus, Stuttgart 1990, pp. 65-72, l’unica tra quelle favorevoli all’atetesi che non si scontri con l’evidenza delle testimonianze esterne, l’attuale Prometeo, insieme con il Lyomenos e il Pyrphoros, sarebbe infatti stato scritto da un parente o epigono di Eschilo — probabilmente il figlio Euforione — tra il 440 e il 430 e rappresentato come opera di Eschilo: il che spiegherebbe sia, da un lato, la vasta eco del dramma, dimostrata dalle numerose allusioni rintracciabili nei drammi attici degli ultimi decenni del V secolo sia, dall’altro, la concorde attribuzione della trilogia ad Eschilo da parte di tutte le fonti antiche, dato che la trilogia sarebbe stata registrata come eschilea già negli archivi di stato ateniesi. In definitiva, secondo Aristotele, il Prometeo era un dramma eschileo. 34
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zare questo mito. L’hypothesis del Desmotes, che con ogni probabilità risale allo stesso Aristofane di Bisanzio e quindi, in definitiva, alle Didaskaliai di Aristotele, a loro volta compilate sulla base del materiale documentario contenuto negli archivi di stato ateniesi36, ci informa che Euripide non affrontò mai il mito di Prometeo, e Sofocle ne trattò soltanto in forma di digressione all’interno delle sue Colchidi (țİIJĮȚਲȝȣ șȠʌȠȚĮ ਥȞ ʌĮȡİțȕıİȚ ʌĮȡ ȈȠijȠțȜİ ਥȞ ȀંȜȤȚıȚ ʌĮȡ į¶ǼȡȚʌįૉ ȜȦȢ Ƞ țİIJĮȚ). Per nessuno dei tragici minori, sia del V che dei secoli successivi, abbiamo notizia di un dramma su questo soggetto mitico37. La trilogia eschilea costituisce dunque, a nostra conoscenza, l’unica drammatizzazione del mito di Prometeo. Ma a quale dramma su Prometeo si farebbe qui riferimento, per quel che possiamo desumere dai dati in nostro possesso? Aristofane non fa mai cenno al sistema trilogico eschileo: pertanto non stupisce in questo contesto la mancata menzione di una Prometheia. Quanto alle testimonianze antiche, con il solo titolo ȆȡȠȝȘșİȢ si intende per lo più il Desmotes (è il caso, ad esempio, di Scho., Aeschylus, Septem adversus Thebas 24 a IJȚįțĮȝĮȞIJİĮȢਥȝʌȡȠȣȢȠੇįİȞʌȠȚȘIJȢ, ਥȞIJȆȡȠȝȘșİਥȝșȠȝİȞ (= Prometheus 496) o di Scho., Aristophanes, Ranae 814 ǹੁıȤȜȠȢʌȡઁȢIJઁȕȡȠȞIJįİȢ IJȞ૧ȘȝIJȦȞțĮțȠȝʌįİȢ· ȠੈਥıIJȚțਕțİȞĮਥȞਕȡȤૌIJȠ૨ȆȡȠȝȘșȦȢ: «ȤșȠȞઁȢȝȞਥȢIJȘȜȠȣȡઁȞ ਸ਼țȠȝİȞʌįȠȞ, țIJȜ» (= Prometheus 1). In una minore percentuale di casi il generico ȆȡȠȝȘșİȢ indica anche uno degli altri drammi della trilogia, come nel caso del de re metrica dell’Anonimo di Ossirinco (Papyrus Oxyrhinchus 220): ʌȠȠȞਥȞIJȆȡȠȝȘșİ IJșȘıȚʌȜȚȞǹੁıȤ>ȜȠȢȠ@IJȦȢā©«@ȦȞįȣıțİȜįȦȞ¶«ª (= Aeschylus, fr. 188a Radt). Peraltro, si danno anche alcuni casi in cui il testimone antico attribuisce al Desmotes versi che in realtà appartengono a un altro dramma della trilogia, per lo più il Lyomenos (come nel caso della citazione di Galeno in Hippocratis Epidemiorum lib. VI, comm. 1, 29: ǹੁıȤȜȠȢįਥȞȆȡȠȝȘșİįİıȝઆIJૉāİșİĮȞਪȡʌİIJȞįİāțĮʌȡઆIJȚıIJĮȝȞ ȕȠȡİįĮਸ਼ȟİȚʌȡઁȢʌȞȠȢȞ¶İȜĮȕȠ૨ȕȡંȝȠȞțĮIJĮȚȖȗȠȞIJĮȝı¶ਕȞĮȡʌıૉįȣıȤİȚȝȡ ʌȝijȚȖȚıȣıIJȡȥĮȢਙijȞȦ(= Aeschylus, fr.·195 Radt) oppure dell’anonimo commentatore in ȈȂBD Aristides, Oratio 3 (46), 97 Lenz-Behr, ǹੁıȤȜȠȢįਥȞȆȡȠȝȘșİǻİıȝઆIJૉ· «ʌȠȜȜȠȢȖȡਥıIJȚțȡįȠȢਲıȚȖȕȡȠIJȞ» (= Aeschylus, fr. 188 Radt). Queste inesattezze
Il fatto che il contenuto della hypothesis al Prometeo risalga, attraverso l’intermediario delle Didaskaliai di Aristotele, agli archivi ateniesi è ammesso dallo stesso M. L. West, Studies in Aeschylus, op. cit., pp. 67-68. 37 Il che — a ben vedere — non sorprende più di tanto: per le più giovani generazioni di drammaturghi non era facile trovare elementi d’interesse in un mito epico di colpa-punizioneespiazione-reintegrazione, ambientato all’epoca delle lotte dinastiche tra gli dèi e agli albori dell’umanità: un mito arcaico, da Teogonia esiodea, in cui gli esseri umani sono in posizione di assoluta marginalità e il punto di vista adottato è prevalentemente quello divino (la peculiarità di drammi in cui i personaggi sono solo dèi o semidei — e per di più di generazioni antichissime — era evidente anche alla critica antica: cfr. T 129 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta III, 97-98): țĮIJȚȞİȢਵįȘIJȞIJȡĮȖįȚȞĮIJȠ૨[scil. Aeschyli] įȚȝંȞȦȞȠੁțȠȞȠȝȠ૨ȞIJĮȚșİȞțĮșʌİȡ ȠੂȆȡȠȝȘșİȢāIJȖȡįȡȝĮIJĮıȣȝʌȜȘȡȠ૨ıȚȞȠੂʌȡİıȕIJĮIJȠȚIJȞșİȞțĮıIJȚIJਕʌઁIJોȢıțȘȞોȢțĮIJોȢ ੑȡȤıIJȡĮȢșİĮʌȞIJĮʌȡંıȦʌĮ. 36
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sono naturalmente da attribuire alla fallosa consuetudine di citare a memoria propria delle nostre fonti, ma al contempo forniscono anche un prezioso segnale circa la posizione di centralità che il Desmotes assumeva nell’immaginario degli antichi. Quindi, applicando retroattivamente ad Aristotele le modalità di citazione delle nostre fonti antiche, dovremmo concludere che, se il riferimento è qui a un dramma specifico e non alla trilogia in generale, è più probabile che si trattasse del Desmotes, benché non si possa escludere un concomitante riferimento al Lyomenos, dato che questi due drammi, come rivelano le confusioni nelle citazioni, costituivano in insieme unitario nella mente degli antichi38. IV. Dopo il Prometeo Aristotele menziona un sottogruppo di drammi accomunati dall’ambientazione scenica nell’Ade39, ad opera evidentemente di più autori (forse ancora Eschilo — tra i suoi drammi ambientati nell’oltretomba vi erano i Psychagogoi e probabilmente il Sisifo — ma certamente, data la genericità della citazione, anche altri drammaturghi: un Piritoo fu composto da Acheo e un altro ancora da Crizia, attribuito nell’antichità da Satiro a Euripide). Di questo filone teatrale non conosciamo pressocché nulla. Molti commentatori riportano a questo proposito due i di Aristofane, in cui andrebbe colta un’allusione parodica a poeti che amavano ambientare i loro drammi nell’Ade, ma tali riferimenti non sono di univoca interpretazione40. Più pertinente mi pare un o di Luciano dal ʌİȡੑȡȤıİȦȢdove l’autore fa la difesa della pantomima, equiparandola alle nobili forme teatrali del ato e alla tragedia in particolare. Al suo contraddittore, il filosofo Cratone laudator temporis acti, che lo rimprovera di essersi dimenticato degli insegnamenti di Platone, Crisippo e dello stesso Aristotele, Luciano replica sottolineando la profonda cultura che il pantomimo deve possedere. Per poterli compiutamente imitare, egli dovrà conoscere tutte le vicende mitiche, che vengono minuziosamente elencate, a partire dal Caos fino a concludere per l’appunto con tutta quanta la tragedia ambientata nell’Ade (IJȞਥȞਢȚįȠȣਚʌĮıĮȞIJȡĮȖįĮȞDe Saltatione 59-61), come in particolare i castighi e le cause di ciascuno di essi, e il cameratismo di Piritoo e Teseo, che li accompagnò
Alla luce di tutto ciò, appare inutile la correzione di T. Bergk di ȆȡȠȝȘșİȢ nel plurale ȆȡȠȝȘșİȢ(cfr. T. Bergk, «Philologische Thesen», in Philologus 30, 1870, p. 679 [= Kleine philologische Schriften, Halle 1884-1886, II, 753]), la cui proposta è accolta da A. Gudeman, «Aristoteles ȆǼȇǿȆȅǿǾȉǿȀǾȈ», op. cit., p. 318, che vi trova conferma nella versione araba. 39 Peraltro, non solo tragedie, ma anche vari drammi satireschi erano ambientati nell’Ade, data la predilezione di questo genere drammatico per vicende di tipo fiabesco in cui il nucleo dell’azione drammatica era spesso rappresentato dalla lotta di un eroe positivo contro un mostro o un orco. 40 Si tratta precisamente di Aristophanes, Acharnenses 388-392 e Ger., fr. 156, in particolare vv. 4 e 6 K.-A. (ઈįȠijȠIJĮȚ); tuttavia, in relazione a questi i (già segnalati da A. Rostagni, La Poetica di Aristotele, op. cit., p. 73) si vedano le obiezioni di G. F. Else, Aristotle’s Poetics, op. cit., p. 529, nota 41. 38
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fin nell’Ade (IJȢțȠȜıİȚȢțĮIJȢਥij¶ਦțıIJૉĮੁIJĮȢțĮIJȞȆİȚȡșȠȣțĮĬȘıȦȢਙȤȡȚIJȠ૨ ਢȚįȠȣਦIJĮȚȡİĮȞ). In breve, al pantomimo è richiesta una profonda conoscenza delle opere dei migliori poeti, e soprattutto dei tragediografi (ȠįȞ«IJȞਕȡıIJȦȞʌȠȚȘIJȞ țĮȝȜȚıIJĮIJોȢIJȡĮȖįĮȢȜİȖȠȝȞȦȞਕȖȞȠıİȚ). Già Aristotele aveva istituito un implicito collegamento tra le due arti mimetiche della danza e della tragedia, attribuendo alla danza una triplice classificazione che riproduce, decurtata, quella della tragedia: si dice nel primo capitolo della Poetica che la danza imita, per mezzo di ritmi figurati (ovvero dell’opsis), caratteri, ioni e azioni (șȘʌșȘe ʌȡȟİȚȢ : țĮȖȡȠIJȠȚ !
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ȠੂੑȡȤȘıIJĮ įȚIJȞıȤȘȝĮIJȚȗȠȝȞȦȞ૧ȣșȝȞȝȚȝȠ૨ȞIJĮȚțĮਵșȘțĮʌșȘțĮ
ʌȡȟİȚȢ (Aristoteles, Poetica 1, 1447 a 27-28).
Luciano quindi aveva come precursore lo stesso Aristotele nello stabilire una corrispondenza tra pantomima e tragedia, anche se ne serviva polemicamente a favore della pantomima, il nuovo genere d’età imperiale che soppiantò i generi teatrali tradizionali ormai in piena decadenza41. Ancora più significativa mi pare la testimonianza del Philopseudes sive incredulitate 342, dove Luciano, a scopo detrattorio, fa un elenco di «mituncoli del tutto strani e mirabolanti» (ʌȞȣਕȜȜંțȠIJĮțĮIJİȡıIJȚĮȝȣșįȚĮ), nel quale figurano, oltre a «tutta quanta la tragedia ambientata nell’Ade» (IJȞਥȞਢȚįȠȣʌ઼ıĮȞIJȡĮȖįĮȞ), anche altre favolose storie che per buona parte coincidono con gli argomenti mitici oggetto dei drammi citati da Aristotele come esempi del quarto eidos tragico: Luciano cita infatti i ȆȡȠȝȘșȦȢįİıȝ (l’incatenamento di Prometeo), la īȚȖȞIJȦȞਥʌĮȞıIJĮıȚȞ (la sollevazione dei Giganti, di cui parla diffusamente Prometeo nel primo episodio dell’omonimo dramma, ai vv. 197 ss.), storie di metamorfosi di dèi (Zeus che per amore diventa toro) e di donne in animali (un tema anche questo presente nel Prometeo per il personaggio di Io, il cui insolito costume scenico doveva riflettere la sua
Sull’accostamento della ȝȝȘıȚȢੑȡȤȘıIJȚțalla ȝȝȘıȚȢʌȠȚȘIJȚț cfr. anche Plut., Symp. quaest. 9, 15, discusso, insieme ad altre testimonianze antiche, da G. Capone, L’Arte scenica degli attori tragici greci, Padova 1935, pp. 32 ss. 42 Luc., Philopseudes sive incredulitate 3: ਥȝȠ ȖȠ૨Ȟ ʌȠȜȜțȚȢ ĮੁįİıșĮȚ ਫ਼ʌȡ ĮIJȞ ʌİȚıȚȞ ʌંIJĮȞȅȡĮȞȠ૨IJȠȝȞțĮȆȡȠȝȘșȦȢįİıȝįȚȘȖȞIJĮȚțĮīȚȖȞIJȦȞਥʌĮȞıIJĮıȚȞțĮIJȞਥȞਢȚįȠȣʌ઼ıĮȞ IJȡĮȖįĮȞțĮ੪ȢįȚૅȡȦIJĮǽİઃȢIJĮ૨ȡȠȢਲ਼țțȞȠȢਥȖȞİIJȠțĮ੪ȢਥțȖȣȞĮȚțંȢIJȚȢİੁȢȡȞİȠȞਲ਼İੁȢਙȡțIJȠȞ ȝİIJʌİıİȞIJȚįȆȘȖıȠȣȢțĮȋȚȝĮȡĮȢțĮīȠȡȖંȞĮȢțĮȀțȜȦʌĮȢțĮıĮIJȠȚĮ૨IJĮʌȞȣਕȜȜંțȠIJĮțĮ IJİȡıIJȚĮȝȣșįȚĮʌĮįȦȞȥȣȤȢțȘȜİȞįȣȞȝİȞĮIJȚIJȞȂȠȡȝઅțĮIJȞȁȝȚĮȞįİįȚંIJȦȞ(«A me càpita spesso di vergognarmi per loro [scil. dei poeti che narrano favole menzognere], quando raccontano dell’evirazione di Urano, dell’incatenamento di Prometeo, della sollevazione dei Giganti e di tutta la tragedia dell’Ade, e poi che Zeus per amore diventò un toro o un cigno, che qualcuno da donna si trasformò in uccello o in orsa e inoltre di Pègasi, di Chimere, di Gòrgoni, di Ciclopi, e quante altre favolette del genere, stranissime e mirabolanti, sono in grado di incantare anime di fanciulli, che temono ancora la Mormò e la Lamia» (trad. V. Longo). 41
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trasformazione in giovenca)43. Quindi si fa menzione di Pegasi (IJȚįȆȘȖıȠȣȢ: di Pegaso forse si parlava nelle Forcidi eschilee in relazione a Perseo, e comunque su un IJİIJȡʌȠȣȢȠੁȦȞંȢ, un quadrupede uccello, è introdotto il dio Oceano nel Prometeo). Conclude l’elenco una triplice serie di mitici mostri (ȋȚȝĮȡĮȢțĮīȠȡȖંȞĮȢțĮ ȀȪțȜȦʌĮȢ) tra cui le immancabili Gorgoni, delle quali si parla più o meno diffusamente non solo nelle Forcidi e nel Prometeo, ma anche nelle Eumenidi (alle Gorgoni, come si è poco sopra ricordato, la Pizia paragona le Erinni per la terribilità del loro aspetto (ʌȡઁȢIJઁijȠȕİȡઁȞIJોȢȥİȦȢ commenta lo scolio relativo)44. Il o di Luciano è dunque in grado di confermare che la serie di tre esempi citati da Aristotele ha una sua coerenza interna, che va rintracciata nel fatto che si tratta — per l’appunto — di vicende mitiche ਕȜȜંțȠIJĮțĮIJİȡıIJȚĮ, che sono ambientate agli estremi confini del mondo (come la Scizia nel Prometeo Incatenato o l’antro delle Gorgoni), o addirittura nel regno dell’oltretomba, e che hanno come protagonisti dèi — spesso antichissimi — e semidèi. Si tratta di soggetti mitici che Eschilo amava frequentare, come ci documenta l’anonimo esegeta in Vita Aeschyli supplementum (d) [= T 129, 3-6 Radt]: țĮIJȚȞİȢਵįȘIJȞIJȡĮȖįȚȞĮIJȠ૨ $HVFK\ OL įȚȝંȞȦȞȠੁțȠȞȠȝȠ૨ȞIJĮȚșİȞțĮșʌİȡȠੂȆȡȠȝȘșİȢāIJȖȡįȡȝĮIJĮıȣȝʌȜȘȡȠ૨ıȚȞȠੂ ʌȡİıȕIJĮIJȠȚIJȞșİȞțĮıIJȚIJਕʌઁIJોȢıțȘȞોȢțĮIJોȢੑȡȤıIJȡĮȢșİĮʌȞIJĮʌȡંıȦʌĮ45. È plausibile che questo genere tragico ambientato nell’Ade46, la cui conoscenza Luciano inserisce nel curriculum del pantomimo, forse per il fatto di prestarsi a una mimica particolarmente espressiva o a coreografie d’effetto fosse avvertito dagli antichi come caratterizzato da elementi di spettacolarità: di ȥȚȢ per l’appunto. !
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Come ȕȠțİȡȦʌĮȡșȞȠȣIo si definisce in Prom. 588. Cfr. Schol., Aeschylus, Eumenides 48: <īȠȡȖંȞĮȢ>] ʌȡઁȢIJઁijȠȕİȡઁȞIJોȢȥİȦȢ. M … ʌȡઁȢIJઁ ijȠȕİȡઁȞIJોȢȥİઆȢijȘıȚIJઁīȠȡȖİȠȚıȚ.țĮȖȡIJȢīȠȡȖંȞĮȢȜȖȠȣıȚįİȝĮIJĮijȡİȚȞIJȠȢਕȞșȡઆʌȠȚȢțIJȜE. 45 «Alcune tragedie di Eschilo sono popolate esclusivamente da divinità, come i Prometei; infatti, i più antichi degli dèi riempiono i suoi drammi, e sulla scena come nell’orchestra tutti quanti i personaggi sono divini». C. Bigg, «Notes upon the Poetics of Aristotle», in Journal of Philolology 12, 1883, pp. 106-107, sulla scorta anche della versione araba (a lui nota attraverso le traduzioni latine di Hermanus [«tertia ionalis prout dicitur de illis qui sunt in inferno»] e Jacob Mantinus [«ut cum sit sermo de iis qui apud inferos sunt ut Ajaces Ixionesque»]) propose l’anticipazione di ıĮਥȞઌįȠȣ a 1456 a 1, subito dopo la menzione degli ࡑ ǿȟȠȞİȢ , per il fatto che il supplizio di Issione si svolgeva nell’Ade. L’osservazione non è affatto decisiva: l’accostamento di questa categoria di drammi alle Forcidi e al Prometeo, anche sulla base della testimonianza di Luciano che abbiamo citato sopra, appare assai più pertinente. 46 I due riferimenti di Luciano, tra l’altro, portano ad escludere che si potesse trattare di tragedie a sfondo intellettuale, il cui ȝȡȠȢ di riferimento fosse la įȚȞȠȚĮ (come ha recentemente proposto Schmitt: cfr. infra, § IX, 1); in particolare, la prima citazione è in riferimento alla cultura che compete a un ballerino, la cui professione ha molto più in comune con la sfera della gestualità (e dunque dell’opsis) che con l’ambito intellettuale o dianoietico, che in teatro si esprime in discorsi più che in movimenti del corpo. Del resto, quale potesse essere l’opinione di un filosofo sui miti ambientati nell’Ade emerge con chiarezza da quanto Platone scriveva in Resp. 1, 330 d: ȠIJİȖȡȜİȖંȝİȞȠȚȝ૨șȠȚʌİȡIJȞਥȞਢȚįȠȣ੪ȢIJઁȞਥȞșįİਕįȚțıĮȞIJĮįİਥțİįȚįંȞĮȚ įțȘȞ,țĮIJĮȖİȜઆȝİȞȠȚIJȦȢ,IJંIJİįıIJȡijȠȣıȚȞĮIJȠ૨IJȞȥȣȤȞȝਕȜȘșİȢ੯ıȚȞ. 43 44
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V. L’esegesi antica tradizionalmente associava la valorizzazione dell’opsis con il teatro eschileo, tanto quanto attribuiva l’ethopoiía a Sofocle. Significativa a questo proposito è la testimonianza della Vita di Eschilo, la cui ascendenza peripatetica è un dato critico ormai acquisito47. Al § 2 l’anonimo autore menziona cinque ambiti nei quali Eschilo avrebbe sopravanzato nell’arte tragica i suoi predecessori. È significativo che almeno tre di questi siano sicuramente relativi all’opsis: IJȞįȚșİıȚȞIJોȢ ıțȘȞોȢ(la disposizione scenica), IJȞIJİȜĮȝʌȡંIJȘIJĮIJોȢȤȠȡȘȖĮȢ(lo splendore dell’allestimento teatrale) țĮ IJȞıțİȣȞIJȞਫ਼ʌȠțȡȚIJȞ(l’abbigliamento degli attori)48. Poco più sotto, al § 7, la specificità del teatro eschileo viene individuata nel fatto che egli non mira alla verbosità sentenziosa né alla mozione del pathos né ad altri espedienti strappalacrime: preferisce alla seduzione del pubblico l’impatto straniante, l’țʌȜȘȟȚȞIJİȡĮIJઆįȘ, lo straordinario sbalordimento realizzato con ȥİȚȢ e ȝ૨șȠȚ: [7] įȚઁਥțȜȠȖĮȝȞʌĮȡ¶ĮIJIJૌțĮIJĮıțİȣૌįȚĮijȡȠȣıĮȚʌȝʌȠȜȜĮȚਗȞİਫ਼ȡİșİİȞȖȞȝĮȚįਲ਼ ıȣȝʌșİȚĮȚਲ਼ਙȜȜȠIJȚIJȞįȣȞĮȝȞȦȞİੁȢįțȡȣȠȞਕʌĮȖĮȖİȞȠʌȞȣIJĮȢIJİȖȡȥİıȚțĮIJȠȢ ȝșȠȚȢʌȡઁȢțʌȜȘȟȚȞIJİȡĮIJઆįȘȝ઼ȜȜȠȞਲ਼ʌȡઁȢਕʌIJȘȞțȤȡȘIJĮȚ49.
Già nel 1847 Schrader, che fu poi seguito, tra i vari, da J. Vahlen e J. Hardy50, si servì di questa testimonianza per sostenere la correzione di IJઁįIJIJĮȡIJȠȞ in IJઁį IJİȡĮIJįİȢnel o aristotelico in questione. In realtà, il IJİȡĮIJįİȢ (lo stupefacente, il mostruoso) appartiene allo stesso ambito semantico di ȥȚȢ, ma ne costituisce per Aristotele un aspetto parziale, in quanto degenerazione del ijȠȕİȡંȞ È detto con chiarezza al capitolo 14, dove viene istituita una triplice gerarchia in cui il primo posto spetta alla tragedia che consegue paura e pietà attraverso il ȝ૨șȠȢ; il secondo posto, quando il ijȠȕİȡંȞè ottenuto attraverso l’ȥȚȢ; il terzo, quando attraverso l’opVid. M. R. Lefkowitz, The Lives of the Greek Poets, Baltimora 1981; e cfr. infra nota 49. Cfr. T 1, 3-5 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 31-32): [2] ȞȠȢįਵȡȟĮIJȠIJȞ IJȡĮȖįȚȞ țĮ ʌȠȜઃ IJȠઃȢ ʌȡઁ ਦĮȣIJȠ૨ ਫ਼ʌİȡોȡİȞ țĮIJ IJȞ ʌȠȘıȚȞ țĮ IJȞ įȚșİıȚȞ IJોȢ ıțȘȞોȢ IJȞ IJİ ȜĮȝʌȡંIJȘIJĮ IJોȢ ȤȠȡȘȖĮȢ țĮ IJȞ ıțİȣȞ IJȞ ਫ਼ʌȠțȡȚIJȞ IJȞ IJİ IJȠ૨ ȤȠȡȠ૨ ıİȝȞંIJȘIJĮ. Il primo riconoscimento dell’elenco è piuttosto aspecifico (la ʌȠȘıȚȢ è la capacità creatrice in generale), e così anche l’ultimo (IJȞIJİIJȠ૨ȤȠȡȠ૨ıİȝȞંIJȘIJĮ), che a mio parere comprende un riferimento sia alla solennità dei costumi che alla gravitas del linguaggio del Coro, sulla base di quanto osserva Aristofane, Rane, 1060 s. (țਙȜȜȦȢİੁțઁȢIJȠઃȢਲȝȚșȠȣȢIJȠȢ૧ȝĮıȚȝİȗȠıȚȤȡોıșĮȚāțĮȖȡIJȠȢ ੂȝĮIJȠȚȢਲȝȞȤȡȞIJĮȚʌȠȜઃıİȝȞȠIJȡȠȚıȚȞ), dove parola e abbigliamento sono strettamente connessi nel creare l’effetto di semnotes. Sulla solennità dei costumi del Coro eschileo cfr. anche T 101 e T 103 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 66-67). 49 Cfr. T 1, 23-26 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 33): «Perciò si potranno trovare in lui moltissimi i che si distinguono per il valore artistico ma per nulla affatto sentenze o situazioni commuoventi o qualcos’altro di ciò che può muovere alle lacrime: egli ha fatto uso degli effetti spettacolari e dei racconti più per provocare uno straordinario sbalordimento che per ammaliare il pubblico». Sulla derivazione peripatetica del o, cfr. D. W. Lucas, Aristotle. Poetics, op. cit., p. 151 (commentario a 14, 1453 b 9). 50 Cfr. supra nota 17. A favore di IJઁ į IJİȡĮIJįİȢ si è espresso anche D. J. Allan, «ǼǿǻǾ ȉȇǹīȍǿǻǿǹȈin Aristotle’s Poetics», op. cit., pp. 81-88. 47
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sis non si ottiene non più il ijȠȕİȡંȞ bensì, per l’appunto, il IJİȡĮIJįİȢ: ਯıIJȚȞ ȝȞ ȠȞ IJઁ ijȠȕİȡઁȞ țĮ ਥȜİİȚȞઁȞ ਥț IJોȢ ȥİȦȢ ȖȖȞİıșĮȚ ıIJȚȞ į țĮ ਥȟ ĮIJોȢ IJોȢ ıȣıIJıİȦȢIJȞʌȡĮȖȝIJȦȞʌİȡਥıIJʌȡંIJİȡȠȞțĮʌȠȚȘIJȠ૨ਕȝİȞȠȞȠȢįİȖȡțĮਙȞİȣIJȠ૨ȡ઼Ȟ ȠIJȦ ıȣȞİıIJȞĮȚ IJઁȞ ȝ૨șȠȞ ੮ıIJİ IJઁȞ ਕțȠȠȞIJĮ IJ ʌȡȖȝĮIJĮ ȖȚȞંȝİȞĮ țĮ ijȡIJIJİȚȞ țĮ ਥȜİİȞ ਥț IJȞ ıȣȝȕĮȚȞંȞIJȦȞ ਚʌİȡ ਗȞ ʌșȠȚ IJȚȢ ਕțȠȦȞ IJઁȞ IJȠ૨ ȅੁįʌȠȣ ȝ૨șȠȞ IJઁ į įȚ IJોȢ ȥİȦȢ IJȠ૨IJȠʌĮȡĮıțİȣȗİȚȞਕIJİȤȞંIJİȡȠȞțĮȤȠȡȘȖĮȢįİંȝİȞંȞਥıIJȚȞȠੂįȝIJઁijȠȕİȡઁȞįȚIJોȢȥİȦȢ ਕȜȜIJઁIJİȡĮIJįİȢȝંȞȠȞʌĮȡĮıțİȣȗȠȞIJİȢȠįȞIJȡĮȖįțȠȚȞȦȞȠ૨ıȚȞȠȖȡʌ઼ıĮȞįİȗȘIJİȞ ਲįȠȞȞਕʌઁIJȡĮȖįĮȢਕȜȜIJȞȠੁțİĮȞਥʌİįIJȞਕʌઁਥȜȠȣțĮijંȕȠȣįȚȝȚȝıİȦȢįİਲįȠȞȞ ʌĮȡĮıțİȣȗİȚȞIJઁȞʌȠȚȘIJȞijĮȞİȡઁȞ੪ȢIJȠ૨IJȠਥȞIJȠȢʌȡȖȝĮıȚȞਥȝʌȠȚȘIJȠȞ51.
Appare improbabile che Aristotele abbia definito una quarta categoria di tragedia con il termine che caratterizzava la variante peggiorativa del meros di riferimento, l’opsis52. Meglio pensare a una definizione omnicomprensiva — quale è appunto il termine stesso ȥȚȢ — che ingloba in sé, sia pure come sua degradazione, il IJİȡĮIJįİȢ e che nel contempo, come si è detto, è compatibile con la definizione di ਖʌȜોche compare nel catalogo degli İįȘdell’epica al capitolo 24. A proposito dei termini chiave țʌȜȘȟȚȢ e IJİȡĮIJįİȢ, già O. Taplin ha mostrato quanto essi siano frequenti nel vocabolario dell’antica critica retorico-poetica in riferimento alle peculiari soluzioni drammatiche eschilee, e nello specifico alla messa in scena, già a partire da Aristofane53. Ai vv. 833-834 delle Rane Euripide attribuisce l’arcigno silenzio di Eschilo al suo consueto intento di impressionare (IJİȡĮIJİİȚȞ) lo spettatore (ਕʌȠıİȝȞȣȞİIJĮȚ ʌȡIJȠȞ ਚʌİȡ ਦțıIJȠIJİ ਥȞ IJĮȢ IJȡĮȖįĮȚıȚȞ ਥIJİȡĮIJİİIJȠ) e poco dopo, ai vv. 959-963, si difende dicendo di aver drammatizzato
Aristot., Poet. 14, 1453 b 1-14: «È possibile che quel che muove paura e pietà si produca per mezzo della vista, ed è anche possibile che si produca per mezzo della stessa composizione dei fatti, il che è preferibile e proprio del poeta migliore. Anche senza il vedere, il racconto deve essere composto in modo tale che chi ascolta i fatti che si svolgono, per effetto degli avvenimenti, sia colto da tremore e pianga, cosa che si può produrre udendo il racconto di Edipo. Procurare questo effetto attraverso la vista è invece piuttosto estrinseco all’arte e legato alla messinscena. Coloro poi che, per mezzo della vista, non procurano il pauroso, ma soltanto il mostruoso, non hanno nulla in comune con la tragedia, perché nella tragedia non si deve cercare un piacere qualsiasi, ma quello suo proprio. Poiché il poeta deve produrre il piacere che si dà grazie all’imitazione da pietà e paura, è chiaro che ciò deve essere realizzato nei fatti». Su questo o, e in particolare sulla distinzione tra il piacere proveniente dal «mostruoso» e il piacere autenticamente tragico, prodotto da pietà e paura, si vedano le giuste considerazioni di P. Destrée, «Tragic Fear and Pity, and Happiness between Plato and Aristotle», Northwestern University, Sawyer Seminar: «Plato and Aristotle go to the theater», 16 January 2009, in attesa di pubblicazione. 52 Non a caso J. Vahlen, che pure accettava IJİȡĮIJįİȢ, ne faceva una categoria a parte, staccata dalle altre quattro. 53 O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus: the Dramatic Use of Exits and Entrances in Greek Tragedy, Oxford 1977, pp. 44 ss.; e cfr. ora anche C. Pace, «Tragedia, țʌȜȘȟȚȢHਕʌȐIJȘnell’anonima ‘Vita di Eschilo’», in «Seminari romani di cultura greca» 11.2, 2008, pp. 229-254. 51
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vicende quotidiane e di non aver colpito il pubblico (ਥțʌȜIJIJİȚȞ) mettendo in scena Cicni e Memnoni bardati di sonagli, come ha invece fatto il suo avversario (Ƞț ਥțȠȝʌȠȜțȠȣȞ ਕʌઁ IJȠ૨ ijȡȠȞİȞ ਕʌȠıʌıĮȢ Ƞį¶ ਥȟʌȜȘIJIJȠȞ ĮIJȠȢ ȀțȞȠȣȢ ʌȠȚȞ țĮ ȂȝȞȠȞĮȢțȦįȦȞȠijĮȜĮȡȠʌઆȜȠȣȢ)54. L’associazione di țʌȜȘȟȚȢ alla dimensione visiva dello spettacolo compare ancora al § 9 della Vita, a proposito dell’ingresso delle Erinni durante la rappresentazione delle Eumenidi (ਥȞ IJૌ ਥʌȚįİȟİȚ IJȞ ǼȝİȞįȦȞ), un aneddoto rimasto celebre nella storia del teatro di Dioniso, ricordato da svariate altre fonti55 nonché, da ultimo, nel paragrafo 14, dove, poco prima della conclusione, in una sorta di struttura anulare56, l’anonimo autore ritorna a ribadire che ad Eschilo spetta il merito di avere per primo abbellito la scena (ʌȡIJȠȢ ǹੁıȤȜȠȢ … IJȞ IJİ ıțȘȞȞ ਥțંıȝȘıİ) e di aver colpito la vista degli spettatori (țĮ IJȞ ȥȚȞ IJȞ șİȦȝȞȦȞ țĮIJʌȜȘȟİ) con la magnificenza (IJૌȜĮȝʌȡંIJȘIJȚ), con scene dipinte e macchine teatrali, altari, sepolcri, trombe, spettri, Erinni, ecc. (ȖȡĮijĮȢ țĮ ȝȘȤĮȞĮȢ ȕȦȝȠȢ IJİ țĮ IJijȠȚȢ ıȜʌȚȖȟȚȞ İੁįઆȜȠȚȢࡑ ǼȡȚȞȞıȚțIJȜ)57. Anche gli scoliasti antichi registrano questo dato dell’ ਥțʌȜIJIJİȚȞ realizzato attraverso lo spettacolo come caratteristico del teatro di Eschilo58. Nell’ipotesi all’AA questo proposito mi permetto di rimandare a quanto ho scritto in «La fastosa entrata del guerriero come modulo teatrale eschileo: il caso di Cicno, Memnone e Reso», in Studium atque urbanitas. Miscellanea in onore di Sergio Daris, [Papyrologica Lupiensia 9/2000], Lecce 2001, pp. 312-331, dove ho cercato di dimostrare, con un’analisi lessicale del verbo ʌȠȚȦ, con l’apporto di varie testimonianze scoliastiche antiche e soprattutto con l’analisi incrociata dei frammenti dei Poimenes sofoclei e della scena d’ingresso del re tracio Reso nell’omonimo dramma, che rielabora palesemente temi e nessi espressivi eschilei, che ad Eschilo per l’appunto va fatto risalire il modulo drammaturgico del solenne ingresso in scena di un guerriero per lo più barbaro, fastosamente armato, ma che poi finisce miseramente ucciso nella sua prima battaglia (un modulo di cui c’è traccia, sia pure a livello puramente tematico-narrativo, già nell’Iliade con il personaggio di Naste in II 871-875). 55 Cfr. T 1, 30-32 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 34): [9] IJȚȞȢįijĮıȚȞਥȞIJૌ ਥʌȚįİȟİȚIJȞǼȝİȞįȦȞıʌȠȡįȘȞİੁıĮȖĮȖંȞIJĮIJઁȞȤȠȡઁȞIJȠıȠ૨IJȠȞਥțʌȜોȟĮȚIJઁȞįોȝȠȞ੮ıIJİIJȝȞȞʌȚĮ ਥțȥ૨ȟĮȚ,IJįȝȕȡȣĮਥȟĮȝȕȜȦșોȞĮȚ («Alcuni dicono che nella rappresentazione delle Eumenidi, poiché fece entrare il Coro con un’irruzione tumultosa, sconvolse a tal punto il pubblico che i bambini svennero e le gestanti abortirono». Sulla celebrità dell’episodio, a proposito del quale le fonti antiche parlano addirittura di un processo intentato a Eschilo, cfr. ad esemplum in T 95 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 64). 56 Non c’è dubbio che per l’esegeta antico il termine ȥȚȢ abbracciava qui l’intero apparato visivo che cadeva sotto gli occhi dello spettatore: dunque non solo l’apparenza fisica dei personaggi e degli attori (come è stato riduttivamente inteso l’uso del termine in Aristotele, cfr. infra, § IX, 1), ma anche gli arredi scenici. Sulla stessa linea si pone l’osservazione dell’antico commentatore nell’ipotesi delle Fenicie euripidee: IJઁįȡ઼ȝਥıIJȚȝȞIJĮȢıțȘȞȚțĮȢȥİıȚțĮȜંȞ. 57 Dopo ȜĮȝʌȡંIJȘIJȚ O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus, op. cit., p. 46, nota 2, per confronto con il nesso IJȞIJİȜĮȝʌȡંIJȘIJĮIJોȢȤȠȡȘȖĮȢal paragrafo 2, ha suggerito di integrare IJોȢ ȤȠȡȘȖĮȢ. 58 Naturalmente non ha importanza ai fini del nostro discorso l’origine di tali notazioni scoliastiche: se esse presuppongano un’esperienza diretta delle rappresentazioni teatrali, op54
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gamennone, in riferimento alla scena di Cassandra, che inscena un delirio profetico e poi si strappa le bende sacre, si legge il commento: IJȠ૨IJȠįIJઁȝȡȠȢIJȠ૨įȡȝĮIJȠȢ șĮȣȝȗİIJĮȚ੪ȢțʌȜȘȟȚȞȤȠȞțĮȠੇțIJȠȞੂțĮȞંȞ. Sulla stessa linea si pone lo scolio che nelle Eumenidi commenta l’uscita della Pizia dal tempio, mentre cammina carponi per il terrore: Eschilo non fa ricorso, come avrebbero fatto i neoteroi ed Euripide nella fattispecie, a un monologo informativo, ma riferisce con immediatezza allo spettatore ciò che l’ha atterrita (ਫ਼ʌઁįIJોȢਥțʌȜȟİȦȢIJșȠȡȣȕıĮȞIJĮĮIJȒȞ)59. In particolare, fra i drammi eschilei, quelli in cui l’azione scenica è con maggiore continuità commentata dagli esegeti antichi sono le Eumenidi e il Prometeo. Significativo è in particolare lo scolio a Eumenides 63, dove, subito dopo l’uscita di scena della Pizia nel prologo, viene portato alla vista degli spettatori l’interno del tempio di Apollo. Il commentatore osserva che si ha a questo punto dell’azione drammatica un secondo quadro scenico (įİȣIJȡĮįȖȞİIJĮȚijĮȞIJĮıĮ)60, in quanto i ıIJȡĮijȞIJĮ ȝȘȤĮȞȝĮIJĮ (evidentemente si presuppone qui il ricorso all’ekkyklema) rendono visibile l’interno del tempio. Si verifica così una ȥȚȢIJȡĮȖȚț, una «visione tragica», con Oreste che tiene in mano la spada ancora insanguinata e le Erinni che tutt’attorno lo sorvegliano: țĮįİȣIJȡĮįȖȞİIJĮȚijĮȞIJĮıĮǜıIJȡĮijȞIJĮȖȡȝȘȤĮȞȝĮIJĮȞįȘȜĮʌȠȚİIJțĮIJIJઁȝĮȞIJİȠȞ ੪Ȣ ȤİȚ țĮ ȖȞİIJĮȚ ȥȚȢ IJȡĮȖȚțǜ IJઁ ȝȞ ȟijȠȢ ઘȝĮȖȝȞȠȞ IJȚ țĮIJȤȦȞ ȡȑıIJȘȢ Įੂ į țțȜ ijȡȠȣȡȠ૨ıĮȚĮIJંȞ(M) Scho., Aeschylus, Eumenides 63.
Il successivo scolio al v. 94 registra un altro mutamento di quadro: Oreste, dopo il colloquio con Apollo, fugge ad Atene, eludendo le Erinni addormentate. Lo scoliasta è qui attirato dalla realizzazione drammatica del loro risveglio: le Coreute si depure se, più probabilmente, si tratti di notazioni d’origine letteraria ricavate dal testo stesso; in questa sede ci interessa semplicemente rilevare l’interesse che l’esegesi antica dimostra nei riguardi di questo aspetto del teatro eschileo: interesse che è a mio parere da ricondurre ad influsso della critica aristotelica, sia che quest’ultima fosse a sua volta dipendente da informazioni più antiche in merito alle messe in scena eschilee, sia che Aristotele avesse presente una certa modalità di messa in scena «ad effetto» nelle rappresentazioni a lui contemporanee di drammi eschilei, secondo l’uso invalso in età ellenistica. 59 Cfr. Scho., Aeschylus, Eumenides 1 a : ijĮȞİIJĮȚ ਥʌ ıțȘȞોȢ IJઁ ȝĮȞIJİȠȞ ਲ į ʌȡȠijોIJȚȢ « ੁįȠ૨ıĮIJȢࡑ ǼȡȚȞĮȢ«ʌȞIJĮȝȘȞİȚIJȠȢșİĮIJĮȢȠȤ੪ȢįȚȘȖȠȣȝȞȘIJਫ਼ʌઁIJȞıțȘȞȞ²IJȠ૨IJȠȖȡ ȞİȦIJİȡȚțઁȞțĮ!ǼȡȚʌįİȚȠȞ²ਫ਼ʌઁįIJોȢਥțʌȜȟİȦȢIJșȠȡȣȕıĮȞIJĮĮIJȞțĮIJĮȝȘȞȠȣıĮijȚȜȠIJȤȞȦȢ (M). 60 Con il concetto di «quadro scenico» Romagnoli traduceva (credo a ragione) il termine ijĮȞIJĮıĮ, distinguendolo da ȥȚȢche sembra invece indicare la visione in senso più generale. Si tratterebbe di un’applicazione all’ambito teatrale del senso generale che l’Anonimo del Sublime (XV, 1) attribuisce al sostantivo ijĮȞIJĮıĮ (IJĮȞਘȜȖİȚȢਫ਼ʌ¶ਥȞșȠȣıȚĮıȝȠ૨țĮʌșȠȣȢȕȜʌİȚȞ įȠțૌȢțĮਫ਼ʌ¶ȥȚȞIJȚșૌȢIJȠȢਕțȠȠȣıȚȞ), ovvero «a capacità eidetica» o «di visualizzazione verbale» (cfr. M. Di Marco, «ਜ਼ȥȚȢnella Poetica», op. cit., p. 140). Cfr. anche IX, 13 con il nesso IJĮȢਥț IJોȢਕȜȘșİĮȢijĮȞIJĮıĮȚȢțĮIJĮʌİʌȣțȞȦȝȞȠȞ, che ricorda l’espressione ʌȠȚțȜĮȚȢijĮȞIJĮıĮȚȢʌİʌțȞȦIJĮȚ dello scolio a Eumenides 94.
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stano dal sonno — egli osserva — non per opera di Apollo, e nemmeno da sole, ma in un altro quadro scenico (ਕȜȜ¶ਥȞਙȜȜૌijĮȞIJĮı); sopraggiunge infatti il fantasma di Clitemestra che, rimproverandole, le scuote dal loro torpore, cosicché si assiste in questa parte del dramma a un infittirsi di molteplici phantasiai (ʌȠȚțȜĮȚȢijĮȞIJĮıĮȚȢ ʌİʌțȞȦIJĮȚ). Ecco dunque come appariva il prologo delle Eumenidi all’antico commentatore: una variegata sequela di immagini61. Anche il Prometeo, come le Eumenidi, presenta un ricco corredo di scoli interessati all’aspetto scenico, che ricostruiscono con minuzia di dettagli i complessi movimenti del Coro di Oceanine, a partire dal loro ingresso aereo con la mechanè fino alle manovre di sbarco in concomitanza con l’arrivo di Oceano, anch’esso sopraggiunto con la macchina del volo, a cavallo di un Ȗȡ૨ȥColpisce in particolare l’attenzione con cui vengono descritti i movimenti degli attori e del Coro. Esemplificativo è a questo proposito lo scolio al v. 128 b, in riferimento all’arrivo aereo del Coro62: le Oceanine giungono a volo, e, mentre sono sospese in aria, danno inizio al loro dialogo con Prometeo. Rimangono così fino all’arrivo di Oceano; e solo mentre questi parla con il Titano scendono a terra (ਥȞıįੱțİĮȞʌȡȠıȜĮȜİȆȡȠȝȘșİȢ țĮIJĮıȚȞĮIJĮȚਥʌIJોȢȖોȢ), e qui a terra, come puntualmente segnala lo scolio al v. 397 b, esse cantano lo stasimo (IJઁ ıIJıȚȝȠȞ ઋįİȚ ȤȠȡઁȢ ਥʌ IJોȢ ȖોȢ țĮIJİȜȘȜȣșઆȢ). Anche l’ingresso aereo di Oceano, sospeso sulla mechanè, è segnalato dallo scolio al v. 284 b: il vecchio dio sopraggiunge su un quadrupede grifone, ed offre così al Coro l’occasione di scendere dalla mechanè63. Naturalmente non è il grado di attendibilità di tali ricostruzioni sceniche a interessarci in questa sede64, quanto invece la sensibilità che gli scoliasti manifestano nei confronti di questo aspetto della drammaturgia eschilea65, il che confermerebbe,
Il motivo che avrebbe indotto Eschilo a questa ʌȠȚțȚȜĮera da Romagnoli individuato in una nota del Mediceo a Prometeo, 631 b, all’interno dell’episodio di Io: sarebbe stata la necessità di evitare la monotonia, di rinfrescare l’attenzione del pubblico (ȞİĮȡȠʌȠȚıİȚ IJȠઃȢ ਕțȠȠȞIJĮȢ). Si può forse a questo proposito individuare nella notazione critica dell’antico commentatore un’applicazione del precetto aristotelico che invitava il drammaturgo a guardarsi dal rischio della monotonia, in quanto l’ȝȠȚȠȞ ingenera sazietà nello spettatore ed ਥțʌʌIJİȚȞ ʌȠȚİIJȢIJȡĮȖįĮȢ(24, 1459 b 30-31). 62 Scho., Aeschylus, Prometheus, 128 b: IJĮ૨IJ ijĮıȚȞ ਕİȡȠįȡȠȝȠ૨ıĮȚā ਙIJȠʌȠȞ Ȗȡ țIJȦșİȞ įȚĮȜȖİıșĮȚ IJ ȆȡȠȝȘșİ ਥij¶ ȥȠȣȢ țȡİȝĮȝȞ ਥȞ ı į ੱțİĮȞ ʌȡȠıȜĮȜİ ȆȡȠȝȘșİȢ țĮIJĮıȚȞ ĮIJĮȚਥʌIJોȢȖોȢ (M). 63 Scho., Aeschylus, Prometheus, 284 b: țĮȚȡઁȞįįȦıȚIJȤȠȡțĮșțĮıșĮȚIJોȢȝȘȤĮȞોȢ ੱțİĮȞઁȢ ਥȜșઆȞ« ਥʌȖȡȣʌઁȢįIJİIJȡĮıțİȜȠ૨ȢੑȤİIJĮȚ (M). 64 Non sappiamo, nello specifico, se essi semplicemente fero, come noi, ipotesi sulla base della lettura del testo — come appare più probabile nella maggior parte dei casi — o se fossero influenzati da recenti messe in scene cui avevano assistito, o se potessero in alcuni casi attingere a testimonianze più antiche andate per noi perdute. Per una discussione del problema, tragedia per tragedia, cfr. G. Capone, L’Arte scenica degli attori tragici greci, op. cit., cap. IV, pp. 51-91. 65 Diversamente da quel che avviene per esempio negli scoli di Sofocle che non sono affat61
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da parte degli esegeti antichi, la consapevolezza dell’importanza della dimensione visiva nel Prometeo. È plausibile che sia stato proprio l’insegnamento di Aristotele a influenzare sotto questo riguardo la critica successiva. VI. La valorizzazione dell’elemento visivo è in effetti nel Prometeo un dato di assoluta evidenza, che la sola lettura del testo è in grado di far emergere66: dal prologo, che inscena una crocifissione come punizione esemplare che si svolge sotto gli occhi degli spettatori, per il reato di furto da parte del protagonista (definito all’inizio del dramma ȜİȦȡȖંȢ, «malfattore», ovvero țȜʌIJȘȢ)67, alle entrate aeree del Coro e di Oceano, comunque fossero realizzate68, alla scena di Io, con la scomposta gestualità della sua danza sfrenata, e con un adobbo scenico che doveva esprimere in qualche forma il suo aspetto teriomorfico di ȕȠțİȡȦȢʌĮȡșȞȠȢ (v. 588). L’impatto visivo che la vista di tale personaggio poteva produrre sugli spettatori è suggerito dalla reazione che ai vv. 565 ss. delle Supplici le Danaidi attribuiscono agli abitanti del Nilo al aggio di Io: questi ultimi, colti da spavento (ȤȜȦȡįİȝĮIJȚ) all’insolita vista (ȥȚȞ ਕșȘ) di quella creatura ibrida, mezza giovenca e mezza donna, sbigottiscono di fronte a quel prodigio (IJȡĮȢį¶ਥșȝȕȠȣȞ)69. to interessati alla visualizzazione del dramma, ma sono invece assai più propensi a registrare l’abilità sofoclea nell’ șȠʌȠȚĮ. 66 Rimando a questo riguardo a quanto ho scritto in L’Autenticità del Prometeo Incatenato di Eschilo, Pisa 1987, pp. 162-167. 67 Come ha scritto G. Cerri («Il dio incatenato come spettacolo, il Coro come pubblico: tragedia e rapsodia nella dimensione metateatrale del “Prometeo”», in Lexis 24, 2006, pp. 265281), al quale si rimanda anche per i ricchi riferimenti bibliografici sul problema, la situazione scenica del prologo, in cui Prometeo subisce la pena dell’esposizione a cui erano condannati malfattori e ladri, «concretava prassi ben note del diritto penale greco, che avevano per definizione tratti marcatamente spettacolari» (p. 266). L’obiettivo primario della punizione di Prometeo, l’esposizione del condannato alla vista infamante di tutti, è stato ben sottolineato da Luciano in Prometheus vel Caucasus 1: «țĮȠIJȠȢਚʌĮıȚʌİȡȚijĮȞȢİȘțȡİȝȝİȞȠȢ«ȠIJİȝȞ țĮIJIJઁਙțȡȠȞਕijĮȞȢȖȡਗȞİȘIJȠȢțIJȦ. 68 Credo che il «quadrupede uccello» prometeico vada identificato con il favoloso ippogallo, che nelle pitture vascolari dagli inizi del VI secolo fino a metà del V appare come mezzo di locomozione elettivamente associato a divinità marine (anche le testimonianze letterarie confermano l’associazione dell’ibrido con l’elemento marino): rimando in proposito alle mie considerazioni in «La cavalcatura di Oceano (Aeschylus, Prometheus, 284 ss.)», in Aevum antiquum 11, 1998, pp. 179-216. 69 Cfr. Aeschylus, Suppl., vv. 565-570: ȕȡȠIJȠį¶ȠȖ઼ȢIJંIJ¶ıĮȞȞȞȠȝȠȚ ȤȜȦȡįİȝĮIJȚșȣȝઁȞ ʌȜȜȠȞIJ¶ȥȚȞਕșȘ ȕȠIJઁȞਥıȠȡȞIJİȢįȣıȤİȡȢȝİȚȟંȝȕȡȠIJȠȞ IJȞȝȞȕȠંȢ IJȞį¶ĮȖȣȞĮȚțંȢāIJȡĮȢį¶ਥșȝȕȠȣȞ. L’epiteto įȣıȤİȡȢ(v. 568), che lo scoliasta antico glossava con IJİȡĮIJįİȢ (un aggettivo spesso ricorrente, come si è detto, nell’esegesi antica di Eschilo), compare anche in Prome-
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Coerente con questa linea di valorizzazione dell’aspetto visivo è il finale del dramma, con la puntuale descrizione del cataclisma, già evocato a parole ai vv. 1043109070: «Nei fatti e non più a parole (ȡȖ țȠțIJȚ ȝș) — esclama Prometeo — la terra si scuote; un’eco profonda di tuono muggisce (ȕȡȣȤĮ į¶ Ȥઅ ʌĮȡĮȝȣț઼IJĮȚ ȕȡȠȞIJોȢ), spire infuocate di folgore lampeggiano (ਪȜȚțİȢ į¶ ਥțȜȝʌȠȣıȚ ıIJİȡȠʌોȢ ȗʌȣȡȠȚ), turbini fanno roteare la polvere, i soffi di tutti i venti balzano urtandosi l’un l’altro in opposta rivolta: e il cielo si mesce con il mare. Ecco la furia che da Zeus manifestamente (ijĮȞİȡȢ) s’abbatte su di me per incutermi spavento». Il riferimento esplicito a tuoni e fulmini, non più invocati ma ora manifesti (ȡȖțȠțIJȚ ȝș v. 1080 e ijĮȞİȡȢ v. 1090), ha fatto pensare alle macchine del ȕȡȠȞIJİȠȞ e al țİȡĮȣȞȠıțȠʌİȠȞ71, ovvero all’intervento di quei tecnici dello spettacolo il cui contributo Aristotele nella Poetica considerava come ben distinto dall’opera del ʌȠȚȘIJȢ (6, 50 b 20 e 14, 53 b 8)72. Ma anche senza necessariamente arrivare ad immaginare una resa realistica del volo o degli effetti acustici e visivi descritti dal protagonista nel finale, è indubbio che il linguaggio qui è di pura ȥȚȢ, di rappresentazione visiva attraverso la parola, mentre i ʌȡȖȝĮIJĮ sono in questa tragedia assai scarsi. L’intera azione del Prometeo può essere infatti efficacemente sintetizzata dalla felice definizione di W. Schadewaldt «Trotzhandlung mit einer retardierten
theus 802 a proposito della reazione prodotta dalla vista di un’altra tipologia di esseri ibridi, i grifi (įȣıȤİȡોșİȦȡĮȞ). 70 Cfr. Prometheus, 1043 ss.: «Si scagli pure contro di me la freccia di fuoco a doppio taglio; il cielo sia sconvolto da tuoni e dall’urto di selvaggi venti; un soffio tempestoso scuota la terra dal profondo con le sue stesse radici, e l’onda del mare con aspro fragore ostruisca le orbite degli astri celesti; e in fondo al nero Tartaro Zeus faccia precipitare il mio corpo, nei duri vortici del destino». 71 Per una raccolta e discussione delle testimonianze antiche relative alle modalità con cui nel teatro di Dioniso si producevano tuoni e fulmini e sulla natura delle rispettive mechanai, si veda A. E. Haigh, The Attic Theatre. A Description of the Stage and Theatre of the Athenians, and of the Dramatic Performances at Athens (1907), third edition revised and in part re-written by A. W. Pickard-Cambridge, New York 1969, p. 218 s.; sull’uso del bronteion e del keraunoskopeion specificamente nel finale del Prometeo cfr. M. Griffith (Ed.), Aeschylus. Prometheus Bound, Cambridge 1983, p. 276 s. 72 Aristotele, com’è noto, menziona (io credo a scopo esemplificativo per indicarne l’insieme più vasto) due di questi tecnici di scena: lo ıțİȣȠʌȠȚંȢ (propriamente l’addetto alle maschere e ai costumi) e il ȤȠȡȘȖંȢ, che nel IV secolo non è più il «classico» finanziatore dello spettacolo, bensì l’addetto al coro, come pure agli attori e ai rispettivi movimenti, con funzioni analoghe all’attuale regista: cfr. Phryn., PS 126, 3-4 de Borries ȤȠȡȘȖİȠȞIJંʌȠȢȞșĮȤȠȡȘȖઁȢ țĮIJȠઃȢਫ਼ʌȠțȡȚIJȢıȣȞȖȦȞıȣȞİțȡંIJİȚ, con il commento di M. G. Bonanno, «ȅȌǿȈe ȅȌǼǿȈ», op. cit., pp. 406-407. Aristotele registra qui la separazione, nella realtà drammaturgica a lui contemporanea, fra autore e regista. Altri tecnici dello spettacolo ricordati nelle fonti antiche erano il ȝȘȤĮȞȠʌȠȚંȢ, responsabile delle macchine teatrali, chiamato anche ıțȘȞȠʌȠȚંȢ dalla ʌĮȜĮȚ țȦȝįĮ, secondo Poll. 7, 189 (Com. ad fr. 806 PCG).
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Entscheidung»73: decisione ritardata che si realizza però soltanto nella tragedia successiva, il Lyomenos, dove l’ostinazione del Titano finalmente si sblocca. L’assenza di ʌİȡȚʌIJİȚĮ e ਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢ è nel Desmotes sostituita da un’accentuata tendenza alla rapsodia (molti discorsi del protagonista sono racconti epici: di eventi ati (Titanomachie, la storia del progresso del genere umano per il dono delle technai da parte di Prometeo, le vicissitudini di Io) e futuri, a metà strada tra il racconto fantastico e il mito eziologico (le peripezie di Io fino alla generazione di Epafo e alla nascita della stirpe egizia), con la differenza che, rispetto al racconto epico, le rheseis di Prometeo presuppongono la rappresentazione in un teatro, e richiamano in continuazione l’attenzione dello spettatore su quanto viene in quel momento visualizzato (o lo spettatore deve immaginarsi che venga visualizzato) sulla scena74. VII. La valorizzazione della dimensione visiva che registriamo negli scoli al Prometeo trova infatti conferma, nel testo stesso, nei frequenti inviti da parte del protagonista a vedere l’insolito tableau scenico, inviti ai quali i personaggi o il Coro puntualmente rispondono, facendo riferimento ai sentimenti di eleos e phobos che l’opsis ingenera in loro. Quest’operazione, che è sistematica in tutto il dramma, ha inizio nel prologo con il personaggio di Efesto, che al v. 69 giustifica davanti a Kratos il suo ıIJȞİȚȞ e il suo ȠੇțIJȠȢ con la vista di quel miserando spettacolo: ȡઽȢșĮȝĮįȣıșĮIJȠȞȝȝĮıȚȞ, («vedi con gli occhi uno spettacolo difficile da guardare»), un trimetro formato da quattro termini organizzati in una ricercata struttura chiastica e tutti riconducibili all’ambito semantico della vista. Rimasto solo, Prometeo rivolge il suo invito a vedere dapprima agli elementi naturali (vv. 92 ss. įİıșİ«įȡȤİıșİ), quindi al Coro che in quel momento fa il suo ingresso come șİȦȡંȢ75 (vv. 118 ȡ઼IJİ e ancora al v. 141 įȡȤșȘIJ¶ਥıįİıșİ). Il Coro asseconda l’invito (ȜİııȦ v. 144) e reagisce con sentimenti di ȜİȠȢ e ijંȕȠȢ, che si esprimono nell’ardita immagine della nube che ha assalito gli occhi del Coro (ਥȝȠıȚȞııȠȚȢ…ʌȡȠıૌȟİ) al vedere (İੁıȚįȠıૉ) il corpo di Prometeo incatenato alla roccia: nube che è al contempo «paurosa» e «piena di lacrime» (ijȠȕİȡȝȤȜĮ ʌȜȡȘȢįĮțȡȦȞ v. 145 ss.). Poco dopo, ai vv. 181 ss. la paura da parte del Coro si precisa nell’acuto timore (įȚIJȠȡȠȢijંȕȠȢįįȚĮ vv. 181-182) di non vedere (ਥıȚįİȞv. 184) un termine alle pene di Prometeo.
W. Schadewaldt, «Ursprung und frühe Entwicklung der attischen Tragödie», in H. Hommel (Ed.), Wege zu Aischylos, Darmstadt 1974, I 131. 74 Sul fine e significato ultimo di tale valorizzazione dell’opsis nel Prometeo, cfr. infra, § VIII e nota 83. 75 Cfr. Prometheus 114: ʌંȞȦȞਥȝȞșİȦȡંȢSul ruolo del Coro di «spettatore sulla scena» della punizione del ladro Prometeo, si vedano le osservazioni di G. Cerri, «Il dio incatenato come spettacolo, il Coro come pubblico…», art. cit., che vi vede un elemento a conferma della sua lettura in chiave metateatrale del dramma. 73
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Il motivo della pietà associato alla vista si ripropone al v. 238. In riferimento alle proprie sofferenze (ʌȘȝȠȞĮ) Prometeo constata che esse sono ʌıȤİȚȞȝȞਕȜȖİȚȞĮıȚȞ ȠੁțIJȡĮıȚȞį¶ੁįİȞ(«dolorose a subirsi e comionevoli a vedersi»). L’azione di tali ʌȘȝȠȞĮ si esercita dunque in due distinti campi: l’uno è relativo allo stesso individuo sofferente, ed è espresso con un epiteto riconducibile all’ambito semantico dell’ਙȜȖȠȢ; l’altro coinvolge quanti vedono (ੁįİȞ) le sue sofferenze, nei quali si produce l’ȠੇțIJȠȢ (il significato del termine oscilla fra «lamento» e «pietà»). In questo caso, coloro che vedono sono le Oceanine, le quali nella loro risposta confermano le parole di Prometeo e anzi si spingono ancora oltre: è significativo infatti che al v. 254 per esprimere la loro reazione emotiva esse ricorrano al termine ਕȜȖȞȦ anziché a ȠੁțIJȗȦ o derivati con cui Prometeo aveva qualificato il comportamento degli spettatori: l’immedesimazione con l’infelicità del Titano è così profonda da far sentire anche per loro direttamente come ਙȜȖȠȢ le sofferenze dell’altro. E Prometeo commenta rimanendo fedele alla sua distinzione tra eleos di chi vede e algos di chi soffre: «Sì, per gli amici io sono davvero oggetto di eleos a vedersi (ਥȜİȚȞઁȢİੁıȠȡ઼Ȟ)». Naturalmente tutte queste proclamazioni del Coro hanno qui lo scopo di guidare la risposta emotiva degli spettatori: come se il tragediografo, in un dramma in cui il coinvolgimento del pubblico rischiava di essere ridotto dal fatto che i protagonisti erano in gran parte divini e la vicenda ambientata nella lontana epoca delle lotte dinastiche fra dèi, tentasse di attivare l’eleos negli spettatori anche attraverso l’opsis, e non solo attraverso il muthos. Con il proseguio dell’azione drammatica, l’eleos e il phobos delle Oceanine subiscono un processo d’intensificazione, rispettivamente nel I e nel II stasimo. Nel primo stasimo la nebbia di lacrime che nella parodo era detta velare gli occhi delle ninfe s’intensifica in un ruscello che sgorga giù dai loro occhi (v. 399 ss.): «io piango (ıIJȞȦ), o Prometeo, per la tua sorte sventurata, e stillando giù dai molli occhi (ਕʌ¶ııȦȞ૧ĮįȚȞȞ) un flusso di lacrime (įĮțȡȣııIJĮțIJȠȞȜİȚȕȠȝȞĮ૧ȠȢ) ho bagnato di umide fonti la mia guancia (ʌĮȡİȚȞȞȠIJȠȚȢIJİȖȟĮʌĮȖĮȢ)». Oltre a intensificarsi, il compianto delle Oceanine subisce anche un processo di estensione, trasmettendosi agli altri esseri dell’orbe terrestre: dapprima al genere umano (i vari popoli coinvolti nel processo di pietà sono enumerati dal vv. 406 al v. 424) e poi agli elementi naturali e persino al regno dell’oltretomba, che vengono tutti quanti coinvolti nella pietà per Prometeo: lo stasimo, scandito dall’ossessiva ricorrenza del Leitmotiv del compianto76, termina con l’immagine dello ıIJȞİȚȞ del-
Cfr. ıIJȞȦ v. 397,ʌȡંʌĮıĮį¶ ਵįȘıIJȠȞંİȞȜȜĮțİȤઆȡĮ v. 406 s., ıIJȞȠȣıȚ v. 409,ȝİȖĮȜȠıIJંȞȠȚıȚ ıȠȢʌȝĮıȚıȣȖțȝȞȠȣıȚșȞĮIJȠ v. 413, ȕȠઽįʌંȞIJȚȠȢțȜįȦȞ v. 431, ıIJȞİȚȕȣșંȢv. 432, , țİȜĮȚȞઁȢ[į¶] ਡȚįȠȢਫ਼ʌȠȕȡȝİȚȝȣȤઁȢȖ઼Ȣ v. 433, ʌĮȖĮș¶ ਖȖȞȠȡIJȦȞʌȠIJĮȝȞıIJȞȠȣıȚȞਙȜȖȠȢȠੁțIJȡંȞ v. 435A sua volta, il Coro dà qui compiuto sviluppo lirico a un motivo che affiorava fin dal prologo in relazione ad altri personaggi del dramma: in riferimento a Efesto, cfr. țĮIJȠȚțIJȗૉ v. 36, șȡȘȞİıșĮȚ v. 43, ĮੁĮȆȡȠȝȘșİ૨ıȞʌİȡıIJȞȦʌંȞȦȞ v. 66, ıઃį¶ĮțĮIJȠțȞİȢIJȞǻȚંȢIJ¶ਥȤșȡȞʌİȡıIJȞİȚȢ ʌȦȢȝıĮȣIJઁȞȠੁțIJȚİȢʌȠIJİvv. 67-68; in riferimento a Prometeo stesso, cfr. v. 98 s. ijİ૨ijİ૨IJઁ 76
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le ʌĮȖĮʌȠIJĮȝȞ, le sorgenti fluviali, in cui va a sua volta colta un’intensificazione dell’immagine delle ʌĮȖĮ — i ruscellanti fiotti di lacrime — che all’inizio dello stasimo bagnavano le gote delle Oceanine (cfr. vv. 434-435 ʌĮȖĮș¶ਖȖȞȠȡIJȦȞʌȠIJĮȝȞ ıIJȞȠȣıȚȞਙȜȖȠȢȠੁțIJȡંȞcon v. 401 ȞȠIJȠȚȢ« ʌĮȖĮȢ); d’altra parte, il nesso clausolare ਙȜȖȠȢȠੁțIJȡંȞ con cui si conclude il canto delle Oceanine ribadisce il nucleo tematico dello scambio dialogico tra Coro e Prometeo ai vv. 238 e 244-245. L’intero universo prova dunque pietà al vedere la pena di Prometeo, e la esprime in una sorta di pianto collettivo. Se nel primo stasimo si dilata l’eleos del Coro, nel successivo canto corale a subire un processo d’intensificazione è a sua volta il phobos, sempre in corrispondenza della vista delle sofferenze di Prometeo: «io rabbrividisco al vederti morso da infinite sofferenze» (ijȡııȦ į ıİ įİȡțȠȝȞĮ ȝȣȡȠȚȢ ȝંȤșȠȚȢ įȚĮțȞĮȚંȝİȞȠȞ, vv. 540-541), cantano le Oceanine, con un’accentuazione dell’immagine già formulata nella parodo (cfr. ijȠȕİȡ઼ v. 144, ਥȝȢįijȡȞĮȢȡșȚıİįȚIJȠȡȠȢijંȕȠȢįįȚĮį¶ਕȝijıĮȢIJȤĮȚȢ v. 181 s.). Nella scena di Io il focusing si sposta da Prometeo a un’altra vittima di Zeus, che con i suoi scomposti movimenti scenici doveva fare da efficace contrasto con l’immobilità di Prometeo. Anche a questo proposito le Oceanine fanno di nuovo riferimento alla reazione di paura quasi fisica che la vista della fanciulla ha provocato in loro: sofferenze įȣıșĮIJĮțĮįıȠȚıIJĮ(v. 690, dove il Coro riprende il termine įȣıșĮIJĮgià utilizzato da Efesto al v. 69 a proposito dei patimenti di Prometeo), tali da raggelare il loro animo (ȥȤİȚȞȥȣȤȞਥȝȞ v. 692). Il Coro è dunque preso da tremore al vedere la situazione di Io: ʌijȡȚț¶İੁıȚįȠ૨ıĮʌȡ઼ȟȚȞࡑ ǿȠ૨Ȣ(v. 695). Nel successivo intervento corale, il terzo e ultimo stasimo, nella loro riflessione sugli eventi scenici a cui hanno appena assistito, le Oceanine nuovamente riprendono l’associazione fra vedere e temere: IJĮȡȕ«ʌĮȡșİȞĮȞİੁıȠȡıĮࡑ ǿȠ૨Ȣ(v. 899). Anche gli scarsi frammenti del Lyomenos mostrano un analogo interesse per l’aspetto della visualizzazione scenica. È il caso del frammento 190 Radt, in cui il Coro di Titani motiva la propria entrata con l’intento di «venire a vedere» (ਸ਼țȠȝİȞ … ਥʌȠȥંȝİȞȠȚ) le sofferenze di Prometeo77. Appelli al vedere erano contenuti anche nel discorso che il Titano pronunciava una volta riemerso sul Caucaso, parzialmente conservatoci attraverso la traduzione di Cicerone nelle Tusculanae Disputationes78: ȆȇȅȂTitanum suboles, socia nostri sanguinis,
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generata Coelo, aspicite religatum asperis
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vinctumque saxis […]
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namque, ut videtis, vinclis constrictus Iovis
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arcere neque diram volucrem a pectore.
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ʌĮȡઁȞIJંIJ¶ਥʌİȡȤંȝİȞȠȞʌોȝĮıIJİȞȤȦ. 77 Aeschylus, fr. 190 Radt: ȋȅȇȅȈā«ਸ਼țȠȝİȞ«IJȠઃȢıȠઃȢਙșȜȠȣȢIJȠıįİȆȡȠȝȘșİ૨įİıȝȠ૨ IJİʌșȠȢIJંįࡑ ਥʌȠȥȩȝİȞȠȚ . 78 Cfr. Cic., Tusc. 2, 22 = Aeschylus, fr. 193 Radt.
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Il testo del Prometeo Incatenato (ma forse, per quel che possiamo desumere dai frammenti conservati, anche del Liberato), registra dunque puntualmente quel fenomeno di suscitare pietà e paura attraverso la vista, che doveva avvenire a livello di rappresentazione scenica e al quale fa esplicito riferimento Aristotele nel già menzionato capitolo 14 della Poetica in relazione a una certa tipologia di situazioni drammatiche (ıIJȚȞȝȞȠȞIJઁijȠȕİȡઁȞțĮਥȜİİȚȞઁȞਥțIJોȢȥİȦȢȖȖȞİıșĮȚțIJȜ)79. All’interno della gerarchia qui individuata da Aristotele, che pone al primo posto la tragedia che si avvale del muthos per suscitare pietà e paura, a un livello inferiore la tragedia che per questi stessi fini si serve invece dell’opsis, e, infine, all’ultimo posto, la tragedia che si serve dell’opsis non per conseguire il ijȠȕİȡંȞ bensì per l’effetto di IJİȡĮIJįİȢ, il Prometeo sembra collocarsi al secondo livello, dato che gli effetti di eleos e phobos vengono raggiunti attraverso la vista diretta delle sofferenze del protagonista e del personaggio di Io piuttosto che con l’intreccio80. Tra l’altro il verbo ijȡIJIJİȚȞ, utilizzato in questo stesso capitolo da Aristotele in coppia con ਥȜİİȞ e in sostituzione del più comune ijȠȕİȞ(țĮijȡIJIJİȚȞțĮਥȜİİȞ14, 53 b 5), è termine tipicamente eschileo: compare nel Prometeo in due i fra loro simmetrici, in riferimento alla vista da parte del Coro-spettatore rispettivamente delle sofferenze di Prometeo e di Io (v. 540 ijȡııȦįıİįİȡțȠȝȞĮ e v. 694 ʌijȡȚț¶ İੁıȚįȠ૨ıĮʌȡ઼ȟȚȞ ࡑ ǿȠ૨Ȣ ): due spettacoli entrambi, per opposti motivi, di forte impatto scenico81. Cfr. supra, nota 51. Nella terza categoria, che costituisce una forma di degenerazione della seconda alla quale risulta tuttavia strettamente legata per il fatto di preferire l’opsis al muthos, forse Aristotele comprendeva i drammi ambientati nell’Ade e più in generale la produzione tragica del IV secolo, che egli, come è noto, valutava negativamente (cfr. S. Halliwell, Aristotle’s Poetics, op. cit., p. 343). Nel Prometeo la componente del IJİȡĮIJįİȢ, che a livello scenico poteva essere percepita nell’ibrido animale cavalcato da Oceano (cfr. supra, § VI e nota 68) e nell’aspetto semianimalesco di Io (cfr. supra, § VI e nota 69), ha un rilievo maggiore all’interno delle narrazioni, soprattutto nel racconto delle peregrinazioni di Io nel terzo episodio (cfr. ad esempio i già citati vv. 795-807); espliciti riferimenti testuali alla categoria del IJİȡĮIJįİȢ sono al v. 352, a proposito di Tifeo (įȚȠȞIJȡĮȢ ਦțĮIJȠȖțȡĮȞȠȞʌȡઁȢȕĮȞȤİȚȡȠȝİȞȠȞ), e al v. 921, in relazione a un altro ancor più formidabile avversario di Zeus (ʌĮȜĮȚıIJȞ«įȣıȝĮȤઆIJĮIJȠȞIJȡĮȢ), che secondo la profezia di Prometeo dovrebbe riuscire a sgominare gli Olimpi là dove Tifeo e i Titani avevano fallito. In entrambi i casi, trattandosi di situazioni evocate all’interno di un racconto e non visibili sulla scena, il phobos nasce in conseguenza dell’ascolto e non dell’opsis, secondo una modalità che Aristotele riteneva valida (cfr. 14, 1453 b įİȖȡțĮਙȞİȣIJȠ૨ȡ઼ȞȠIJȦıȣȞİıIJȞĮȚIJઁȞȝ૨șȠȞ੮ıIJİIJઁȞਕțȠȠȞIJĮIJʌȡȖȝĮIJĮ ȖȚȞંȝİȞĮțĮijȡIJIJİȚȞțĮਥȜİİȞਥțIJȞıȣȝȕĮȚȞંȞIJȦȞāਚʌİȡਗȞʌșȠȚIJȚȢਕțȠȦȞIJઁȞIJȠ૨ȅੁįʌȠȣȝ૨șȠȞ). È interessante, a proposito di Prometheus 352, la notazione dello scolio, che coglieva nella descrizione del mostruoso Tifeo un tipico contrassegno eschileo: cfr. Schol., Prometheus, 355 b: ȠȝȞ ਥȜİȘIJઁȢIJȠȚȠ૨IJȠȢāਕȜȜ¶ʌȠȚȘIJȢijıİȚIJȠȢIJİȡĮıIJȠȚȢਥȟĮȚȡંȝİȞȠȢȠȜİʌIJȠȜȠȖİIJĮȚIJʌȡȖȝĮIJĮ. (Ȃ). 81 D. W. Lucas (Aristotle. Poetics, op. cit., p. 149 s.) ha ipotizzato che il contingente uso di ijȡIJIJİȚȞin luogo di ijȠȕİıșĮȚ alluda a una tradizione risalente a Gorgia: cfr. in particolare Helena 9 ਸȢIJȠઃȢਕțȠȠȞIJĮȢİੁıોȜșİțĮijȡțȘʌİȡijȠȕȠȢțĮȜİȠȢʌȠȜįĮțȡȣȢ (con il commento di M.G. Bonanno, «Sull’opsis aristotelica», op. cit., p. 272). Ma Gorgia a sua volta sta rielaborando concetti che già avevano trovato consolidata espressione nel teatro eschileo, dove i personaggi e il Coro, ponendosi come mediatori tra la vicenda rappresentata in scena e il pubblico, 79 80
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VIII. Mi pare dunque che dall’esame comparativo delle testimonianze in nostro possesso si ricavi un quadro coerente: per gli antichi la visual dimension costituiva un aspetto importante del teatro eschileo82; non sorprende pertanto che Aristotele, si esprimono in modo da guidare la risposta emotiva degli spettatori. Al verbo ijȡIJIJİȚȞ, «rabbrividire», allo scopo d’esprimere la reazione fisiologica alla paura, fa ricorso anche Pelasgo nelle Supplici alla vista dell’insolito tableau scenico: l’area sacra della città ombreggiata dai supplici rami delle Danaidi (v. 346 ʌijȡȚțĮȜİııȦȞIJıį¶ ਪįȡĮȢțĮIJĮıțȠȣȢ); ai vv. 784-786, alla vista degli Egizi che stanno sopraggiungendo, anche il Coro è colto da profondo timore (ਙijȡȚțIJȠȞį¶ ȠțIJ¶ ਗȞʌȜȠȚțĮȡ· țİȜĮȚȞંȤȡȦȢįʌȜȜİIJĮȝȠȣțĮȡįĮ. ʌĮIJȡઁȢıțȠʌĮįȝ¶ İੈȜȠȞ· ȠȤȠȝĮȚijંȕ). Diversamente, in Agamemnon 1242-1244 (IJȞȝȞĬȣıIJȠȣįĮIJĮʌĮȚįİȦȞțȡİȞȟȣȞોțĮțĮʌijȡȚțĮțĮ ijંȕȠȢȝ¶ȤİȚțȜȠȞIJ¶ਕȜȘșȢȠįȞਥȟૉțĮıȝȞĮIJį¶ਙȜȜ¶ਕțȠıĮȢਥțįȡંȝȠȣʌİıઅȞIJȡȤȦ) il verbo ijȡııȦ è utilizzato in riferimento a sentimenti di paura che insorgono nel Coro in seguito non alla vista bensì all’ascolto delle raccapriccianti vicende della casa degli Atridi, in linea dunque con i precetti di Aristotele (cfr. Poet. 14, 1456 b 5-7 ਕțȠȠȞIJĮIJʌȡȖȝĮIJĮȖȚȞંȝİȞĮțĮijȡIJIJİȚȞ țĮਥȜİİȞਥțIJȞıȣȝȕĮȚȞંȞIJȦȞ· ਚʌİȡਗȞʌșȠȚIJȚȢਕțȠȦȞIJઁȞIJȠ૨ȅੁįʌȠȣȝ૨șȠȞ). Eschilo, del resto, è stato uno dei massimi poeti della paura: si ricordi in particolare il grandioso terzo stasimo dell’Agamemnon, in cui il Coro dà voce al proprio stato d’animo di angoscia (Agamemnon 975 ss. IJʌIJİȝȠȚIJંį¶ ਥȝʌįȦȢįİȝĮʌȡȠıIJĮIJȡȚȠȞțĮȡįĮȢIJİȡĮıțંʌȠȣʌȦIJ઼IJĮȚțIJȜ.), dopo aver assistito al ritorno del suo re e all’ambigua accoglienza di Clitemestra (vv. 988-989 ʌİșȠȝĮȚį¶ ਕʌ¶ ੑȝȝIJȦȞ ȞંıIJȠȞ ĮIJંȝĮȡIJȣȢ੭Ȟ): cfr. in proposito le osservazioni di V. Di Benedetto in Eschilo, Orestea, traduzioni di E. Medda, L. Battezzato, M. P. Pattoni, Milano 1995, pp. 81-94. 82 Che Eschilo fosse sentito, tradizionalmente, come autore di drammi dal forte impatto visivo emerge anche da altri elementi. È un dato critico ormai acquisito che in Poetica 1450 b 16 ss., nell’affermare il potere psicagogico dell’ ȥȚȢ, obiettivo critico-polemico di Aristotele fosse Gorgia, i cui scritti sono frequentemente citati e criticati nella Poetica e nel terzo libro della Retorica, e precisamente i capitoli 14-15 dell’Encomio a Elena: al capitolo 15, nell’individuare nella vista, secondo un noto topos, l’origine dell’amore per Paride, Gorgia osserva: įȚįIJોȢȥİȦȢਲ ȥȣȤțਕȞIJȠȢIJȡંʌȠȚȢIJȣʌȠ૨IJĮȚ, e, come esempio per illustrare la forza trascinante dell’opsis, cita una situazione in cui a buona ragione F. Donadi ha ravvisato un’eco dei Sette eschilei, sulla base sia di alcuni echi testuali sia della celebre testimonianza di Plutarco, Quaest. conv. VII, 10, 2, p. 715 e (24 b): īİੇʌİȞਨȞIJȞįȡĮȝIJȦȞĮIJȠ૨[Aeschylus] ȝİıIJઁȞਡȡİȦȢIJȠઃȢ ਬʌIJਥʌĬȒȕĮȢ, testimonianza che documenterebbe la conoscenza della tragedia eschilea da parte del retore di Lentini Gorgia, cioè, per esemplificare la įȞĮȝȚȢ della vista avrebbe tratto spunto da una tragedia eschilea. Che Gorgia grande importanza assegnasse alla ricezione della tragedia, e nello specifico alla sua visual dimension, è ancora documentato da Plutarco, de gloria Athenensium 5, 348 c (= fr. 23 B Diels, Vorsokr. 76 B 23) ਵȞșȘıİį¶ਲIJȡĮȖįĮțĮįȚİȕȠșȘșĮȣȝĮıIJઁȞਕțȡંĮȝĮțĮșĮȝĮIJȞIJંIJ¶ ਕȞșȡઆʌȦȞȖİȞȠȝȞȘțĮʌĮȡĮıȤȠ૨ıĮIJȠȢȝșȠȚȢțĮIJȠȢʌșİıȚȞਕʌIJȘȞ੪ȢīȠȡȖĮȢijȘıȞ, dove il termine șĮȝĮ esprime una delle valenze implicite nel termine aristotelico ȥȚȢ. Del resto, i poteri che Gorgia attribuisce alla poesia e in particolare il nesso ਸȢIJȠઃȢਕțȠȠȞIJĮȢİੁıોȜșİțĮijȡțȘʌİȡijȠȕȠȢ țĮȜİȠȢʌȠȜįĮțȡȣȢtrova una puntuale corrispondenza con la reazione che le Oceanine (un coro tutto pietà e paura, come lo definiva W. Jaeger) riferiscono dopo l’ascolto delle peregrinazioni di Io (cfr. Prometheus, vv. 697-695). Gorgia insomma, «in calcolato crescendo» (F. Donadi, «Opsis e lexis», op. cit., p. 10), subito dopo il logos, capace di ammaliare l’ascoltatore con il suo potere seducente, annovera il potere della vista, che trascina con forza veemente. Aristotele, in definitiva, riconosce il potere psicagogico della vista, ma le contrappone il potere di un altro meros, il muthos: non è un caso che l’unica altra attestazione del termine non solo nella Poetica ma in generale in Aristotele è a proposito per l’appunto del muthos, in Poetica 6, 1450 a 33-35: ʌȡઁȢį IJȠIJȠȚȢIJȝȖȚıIJĮȠੈȢȥȣȤĮȖȦȖİਲIJȡĮȖįĮIJȠ૨ȝșȠȣȝȡȘਥıIJȞĮIJİʌİȡȚʌIJİȚĮȚțĮਕȞĮȖȞȦȡıİȚȢ.
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in riferimento alla tipologia di tragedia-spettacolo, traesse i suoi esempi da drammi eschilei, così come appena prima, a proposito della tragedia șȚț, aveva citato drammi di Sofocle, considerato dagli antichi come maestro nell’ethopoiía. Nello specifico, l’analisi del Prometeo, un dramma in cui la dimensione visiva è molto importante e in cui il testo registra puntualmente il procedimento di provocare eleos e phobos mediante la vista, dimostra che si tratta di un esempio che poteva efficacemente esemplificare, nelle intenzioni di Aristotele, questo quarto tipo di tragedia-spettacolo Oggi noi della produzione drammatica di Eschilo abbiamo un’opinione ben diversa, in quanto siamo portati a evidenziarne le valenze ideologico-politiche, le tematiche religiose, la forte tensione etico-didattica con cui egli cerca di interpretare il mito (e attraverso la chiave di lettura del mito la realtà contemporanea). La stessa valorizzazione dell’opsis nel Prometeo non è fine a se stessa, ma ho lo scopo di avviare il processo del pathei mathos, con la peculiarità che qui il ȝșȠȢ si realizza non attraverso le proprie sofferenze, bensì «vedendo» i ʌșȘdi altri (in questo caso del protagonista e di Io, con il Coro che, da autentico «spettatore in scena», suggerisce al pubblico la risposta prima emotiva e poi «didattica» all’azione rappresentata)83. Ma Aristotele, che non era come noi sensibile a tutti questi aspetti, aveva del Prometeo (come pure di almeno una parte del teatro eschileo) un’opinione sostanzialmente differente. Vorrei aggiungere in conclusione che la nostra proposta interpretativa della tragediaspettacolo come tipologia che trova in Eschilo un suo significativo rappresentante è perfettamente coerente con la valutazione dell’opera di questo tragediografo emerge dalla Poetica. Aristotele in effetti non dimostra un’altissima considerazione del teatro eschileo84. Innanzi tutto, quantitativamente, nella Poetica Aristotele menziona tragedie eschilee in numero assai inferiore rispetto ai drammi di Sofocle ed Euripide85, e, al di fuori della Poetica, solo tre volte (in Historia animalium 633 a 19 ss., Ethica Nicomachea 1111 a 10 e Rhetorica 1388 a 8). Eschilo è insomma, nell’ambito dei tre grandi tragici, il meno citato dal filosofo. Inoltre, quando Aristotele istituisce — esplicitamente o implicitamente — un confronto con Sofocle ed Euripide, Eschilo ha quasi sempre la peggio. In 16, 1455 a 4, a proposito dell’ਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢ delle Coefore che avviene ਥțıȣȜȜȠȖȚıȝȠ૨(per deduzione), Aristotele la pone al secondo posto in graduatoria in quanto le preferisce il riconosciUn’importante spia per comprendere l’intento di Eschilo a questo riguardo è la proclamazione del Coro ai v. 553 s., dove il motivo del «vedere» viene strettamente associato a quello del ȝĮșİȞ: «ho imparato queste cose vedendo la tua sorte funesta, o Prometeo» (ȝĮșȠȞIJįİ ıȢ ʌȡȠıȚįȠ૨ı¶ ੑȜȠȢ IJȤĮȢ ȆȡȠȝȘșİ૨), dove il IJįİ consiste nell’apprendimento di una regola comportamentale improntata a moderazione; su tutto questo vid. V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, Torino 1978, pp. 44 ss., e M. P. Pattoni, L’Autenticità del Prometeo, op. cit., pp. 165 ss. e nota 402. 84 Cfr. in proposito W. Söffing, Deskriptive und Normative Bestimmungen in der Poetik des Aristoteles, Amsterdam 1981, pp. 195-204 e S. Halliwell, Aristotle’s Poetics, op. cit., p. 95, nota 20. 85 Le citazioni di opere letterarie nella Poetica sono state raccolte da R. V. Schroder, «Literary Sources cited by Aristotle in the Poetics», in Classical Journal 65, 1969, p. 75. 83
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mento che procede dai fatti stessi, che è il migliore in assoluto (1455 a 16-17 ʌĮıȞį ȕİȜIJıIJȘਕȞĮȖȞઆȡȚıȚȢਲਥȟĮIJȞIJȞʌȡĮȖȝIJȦȞIJોȢਥțʌȜȟİȦȢȖȚȖȞȠȝȞȘȢįȚ¶İੁțંIJȦȞ), come si verifica nell’Edipo re e nella Ifigenia Taurica. Ancora peggiore è la valutazione di Eschilo in 22, 1458 b 21-22, dove il filosofo pone a confronto un verso del Filottete di Eschilo con un verso del Filottete di Euripide, concludendo che Euripide ha migliorato Eschilo sostituendo un verbo d’uso comune (ਥıșİȚ) con una glossa (șȠȚȞ઼IJĮȚ). Il risultato è che il verso di Euripide appare “bello”, mentre quello di Eschilo “non vale un gran che” (IJઁȝȞijĮȞİIJĮȚțĮȜઁȞIJઁį¶İIJİȜȢǹੁıȤȜȠȢȝȞȖȡਥȞIJĭȚȜȠțIJIJૉਥʌȠȘıİ, 22, 58 b 21-22). Ancora negativo appare il giudizio di Aristotele a 22, 1458 b 22, a proposito dei Misi (24, 1460 a 32), citati come esempio di illogicità. Le ragioni del minor interesse di Aristotele nei confronti dell’arte drammatica eschilea sono evidenti. Aristotele applicava al genere teatrale lo stesso concetto di progresso evolutivo, in senso biologico-teleologico, che attribuiva allo sviluppo degli esseri viventi: nascita, sviluppo con raggiungimento del telos, declino. E il telos, la perfezione, è a suo parere costituita dai drammi in cui viene valorizzato il muthos, che è per Aristotele il telos della forma tragica: ovvero alcuni drammi di Sofocle (Edipo re in primis) e di Euripide. Eschilo si pone a monte di questo processo, pur avendo avuto indubbi meriti che nel capitolo 4 della Poetica gli vengono riconosciuti all’interno dell’evoluzione del teatro, come in particolare l’aver portato da uno a due il numero degli attori, l’aver ridotto le parti del Coro e l’aver conferito un ruolo rilevante alla parola (cfr. 4, 1449 a 15-18 țĮIJંIJİIJȞਫ਼ʌȠțȡȚIJȞʌȜોșȠȢਥȟਦȞઁȢİੁȢįȠʌȡIJȠȢǹੁıȤȜȠȢ ਵȖĮȖİțĮIJIJȠ૨ȤȠȡȠ૨ȜIJIJȦıİțĮIJઁȞȜંȖȠȞʌȡȦIJĮȖȦȞȚıIJİȞʌĮȡİıțİĮıİȞ). W. Söffing86, che ha svolto un’accurata analisi delle tragedie di Eschilo alla luce dei parametri aristotelici, ha riscontrato come esse — con la parziale eccezione dei Persiani — non rispettino i canoni fissati da Aristotele per la tragedia perfetta o ideale. Anche la Vita di Eschilo conserva fedelmente traccia della valutazione aristotelica del teatro eschileo come a un gradino antecedente rispetto alla teleiotes dei due tragediografi più giovani, dato che gli svolgimenti dei suoi drammi non presentano ancora peripezie e intrecci come nei poeti delle successive generazioni (significativo è a questo proposito il ricorso ai termini squisitamente aristotelici ʌİȡȚʌIJİȚĮȚeʌȜȠțĮ : !
Gli svolgimenti dei drammi non presentano molti avvenimenti imprevisti e complicazioni dell’azione scenica, come negli autori più recenti (Į IJİ įȚĮșıİȚȢ IJȞ įȡĮȝIJȦȞȠʌȠȜȜȢĮIJʌİȡȚʌİIJİĮȢțĮʌȜȠțȢȤȠȣıȚȞ੪ȢʌĮȡIJȠȢȞİȦIJȡȠȚȢ); egli cerca solamente di conferire gravità ai personaggi, pensando che la solennità sia propria del periodo arcaico ed eroico, reputando d’altronde estranea alla tragedia l’eleganza artificiosa e sentenziosa; cosicché, per aver ecceduto nella gravità dei personaggi, viene deriso da Aristofane87.
86 87
Cfr. W. Söffing, Deskriptive und Normative Bestimmungen, op. cit., pp. 195-204. Cfr. T 1, 15-19 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 32-33).
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Ebbene, in Poetica 10, 1452 a 12-17, Aristotele aveva affermato che le praxeis e quindi i muthoi senza peripeteia e anagnorismos sono semplici, ਖʌȜĮ; l’epiteto ਖʌȜĮ ricorre non a caso nelle riflessioni conclusive della Vita di Eschilo, dove, di nuovo in contesto di confronto con i tragici neoteroi e con la teleiotes di Sofocle nella fattispecie, viene data la seguente spiegazione in termini storico-cronologici della minor perfezione di Eschilo: IJઁįਖʌȜȠ૨ȞIJોȢįȡĮȝĮIJȠʌȠȚĮȢİੁȝȞIJȚȢʌȡઁȢIJȠઃȢȝİIJ¶ĮIJઁȞȜȠȖȗȠȚIJȠijĮ૨ȜȠȞਗȞਥțȜĮȝȕȞȠȚ țĮਕʌȡĮȖȝIJİȣIJȠȞİੁįʌȡઁȢIJȠઃȢਕȞȦIJȡȦșĮȣȝıİȚİIJોȢਥʌȚȞȠĮȢIJઁȞʌȠȚȘIJȞțĮIJોȢİਫ਼ȡıİȦȢ IJįįȠțİIJİȜİઆIJİȡRȢIJȡĮȖįĮȢʌȠȚȘIJȢȈȠijȠțȜોȢȖİȖȠȞȞĮȚੑȡșȢȝȞįȠțİȜȠȖȚȗıșȦ į IJȚ ʌȠȜȜ ȤĮȜİʌઆIJİȡȠȞ Ȟ ਥʌ ĬıʌȚįȚ ĭȡȣȞȤ IJİ țĮ ȋȠȚȡȜ ਥȢ IJȠıંȞįİ ȝİȖșȠȣȢ IJȞ IJȡĮȖįĮȞʌȡȠıĮȖĮȖİȞਲ਼ਥʌǹੁıȤȜİੁıȚંȞIJĮਥȢIJȞIJȠ૨ȈȠijȠțȜȠȣȢਥȜșİȞIJİȜİȚંIJȘIJĮ Quanto alla semplicità della creazione drammatica, se si ragionasse in confronto agli autori successivi la si giudicherebbe modesta e di poco conto; se invece in confronto con i precedessori, si ammirerebbe la creatività e capacità inventiva del poeta. Chi pensa che Sofocle sia stato un poeta tragico di maggior perfezione, pensa rettamente, ma consideri che era molto più difficile partendo da Tespi, Frinico e Cherilo portare la tragedia a tanta grandezza piuttosto, partendo da Eschilo, giungere alla perfezione di Sofocle88.
L’anonimo autore della Vita cerca qui di valorizzare il contributo dato da Eschilo allo sviluppo della forma tragica: è vero che i suoi drammi sono più semplici, per il fatto di mancare di peripeteia e di intreccio, rispetto ai successivi poeti, e in particolare rispetto alla perfezione di Sofocle; tuttavia, l’evoluzione impressa da Eschilo alla neonata forma tragica ereditata dai suoi predecessori (Tespi, Frinico e Cherilo) ha comportato uno scarto maggiore rispetto all’ulteriore grado evolutivo segnato da Sofocle, cui spetta comunque il merito di aver portato il genere tragico al suo compiuto sviluppo. In conclusione, il nostro Anonimo, che recepisce evidentemente l’influsso peripatetico, valorizza da una parte l’opsis di Eschilo, che sarebbe stato anzi al riguardo una sorta di ʌȡIJȠȢİਫ਼ȡİIJȢ (si ricordino il § 2 e il § 4 che insistono sul fatto che Eschilo fu il primo, superando i suoi predecessori, a dare rilievo all’elemento spettacolare). Dall’altra, egli ritiene che, pur con tutti i suoi meriti, per ragioni storicoevolutive la tragedia eschilea non rappresenti ancora il telos, che si può raggiungere solo con il perfezionamento dell’intreccio (il plot, o muthos), mentre i drammi eschilei sono di una semplicità ਕʌȡĮȖȝIJİȣIJȠȞ (ovvero priva dei ʌȡȖȝĮIJĮ, che sono gli elementi costitutivi del muthos): la mancanza di ʌȡȖȝĮIJĮ e la relativa semplicità del muthos viene così sostituita nei suoi drammi da una valorizzazione della visual dimension. Il che è quanto ho cercato di dimostrare sopra con la mia breve analisi del Prometeo.
88
Cfr. T 1, 59-65 Radt (Tragicorum Graecorum Fragmenta, III, 34).
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In conclusione, io credo che queste valutazioni l’autore della Vita le abbia mutuate dall’insegnamento aristotelico, e che fosse stato precisamente Aristotele a diffondere la vulgata di un Eschilo come autore sensibile all’opsis. Se questa ricostruzione coglie nel segno, ne risulterebbe avvalorata nel o aristotelico l’ipotesi di un quarto eidos di tragedia-spettacolo, di grado inferiore rispetto ai precedenti, nel quale si sarebbe distinto Eschilo.
Due Postille IX. 1. Il quarto eidos tragico come įȚޠȞȠȚĮ? Alcuni critici hanno ritenuto che il quarto İੇįȠȢ tragico debba far riferimento al ȝȡȠȢ della įȚȞȠȚĮ, benché di įȚȞȠȚĮAristotele a questo punto della Poetica non abbia ancora trattato (si è in precedenza parlato di ȝ૨șȠȢʌșȠȢ, șȠȢ e anche di ȥȚȢ, ma non ancora di įȚȞȠȚĮ né di ȜȟȚȢ: alla įȚȞȠȚĮ in stretta connessione con la ȜȟȚȢ si accennerà molto brevemente poco dopo, al capitolo 19, 1456 a 33-37). In questa prospettiva, a Poetica 18, 1456 a 2, A. H. Gilbert («Aristotle’s Four Species of Tragedy (Poetics 18) and Their Importance for Dramatic Criticism», in The American Journal of Philology 68, 1947, pp. 363-381), facendo proprio un suggerimento di R. Nash (secondo quanto è dichiarato a p. 379, nota 40), proponeva di correggere in IJઁ įIJIJĮȡIJȠȞȞંȘıȚȢ (ma, come giustamente osservava Else, Aristotle’s Poetics, op. cit., p. 525, nota 20, Aristotele non avrebbe mai utilizzato qui il termine ȞંȘıȚȢ, bensì, semmai, įȚĮȞȠȘIJȚț). Questa ipotesi è stata riproposta recentemente anche da A. Schmitt, Aristoteles. Poetik, Berlin 2008, che nella sua traduzione integra e parafrasa nel modo seguente: «viertens diejenige, bei der das Moment der Denkweise dominiert und in Reden und Handlung zum Ausdruck gebracht wird, wie die Phorkiden und der Prometheus und die Tragödien, die im Hades spielen» (p. 25). Non si è tuttavia certi dell’esatta lezione qui presupposta dallo studioso nel testo greco, dato che nel commento non si trova citato alcun precedente e nemmeno viene segnala, a p. XXVII, la deviazione rispetto al testo di R. Kassel che egli di norma segue. Una conferma alla validità di questa proposta è individuata da Schmitt nella citazione, da parte di Aristotele, del Prometeo, che egli senz’altro identifica con il Desmotes. Sennonché, a parte il fatto che la definizione del protagonista di questo dramma come «der intellektuelle Gegenspieler des Zeus» (p. 561) è una superfetazione moderna che non trova riscontro alcuno nell’opinione degli antichi, Schmitt non spiega quale dimensione dianoetica potessero avere gli altri esempi citati, ovvero una tragedia imperniata sul mito delle uccisioni di mostri da parte di Perseo, oppure l’intera sottospecie di azioni sceniche ambientate nell’Ade. In genere, chi ritiene la dianoia come meros di riferimento della quarta specie
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tragica, lo fa soprattutto per omogeneità con gli altri elementi dell’elenco: siccome i primi tre elementi rientrano tutti tra gli oggetti della mimesis (la tragedia ʌİʌȜİȖȝȞȘ e la ʌĮșȘIJȚț attengono infatti al muthos, e la terza specie all’ethos, che sono per l’appunto oggetti: cfr. Poetica 6, 1450 a 11 ਘįȝȚȝȠ૨ȞIJĮȚ), si reputa che anche il quarto eidos debba fare riferimento a un meros-oggetto, e dunque alla dianoia. In realtà, come Aristotele più volte scrive, ciò che i poeti imitano sono di fatto uomini che agiscono ıʌȠȣįĮȦȢ o ijĮȜȦȢ: termini che costituiscono dunque una specificazione dell’ethos. Naturalmente i personaggi della tragedia, come gli esseri umani nella realtà, posseggono oltre all’ethos anche una dianoia, attraverso la quale ȜȖȠȞIJİȢ ਕʌȠįİȚțĮıIJȚਲ਼țĮĮʌȠijĮȞȠȞIJĮȚȖȞઆȝȘȞ (6, 1450 a 6-7). Tuttavia, mentre l’ethos dei personaggi si rivela attraverso le loro azioni (ʌȡȟİȚȢ) delle quali è composto il ȝ૨șȠȢ (ȜȖȦȖȡȝ૨șȠȞIJȠ૨IJȠȞIJȞııIJĮıȚȞIJȞʌȡĮȖȝIJȦȞ 6, 1450 a 4-5), ed è quindi naturale che l’ethos rientri tra gli eide tragici al terzo posto, la dianoia si rivela soprattutto attraverso la lexiscon la quale è sempre strettamente collegata: si veda infatti 6, 1450 a 29 IJȚਥȞIJȚȢਥijİȟોȢșૌ૧ıİȚȢșȚțȢțĮȜȟİȚțĮįȚĮȞȠİʌİʌȠȚȘȝȞĮȢ (dove la dianoia è posta sullo stesso piano della lexis attraverso una congiunzione coordinativa) e soprattutto 19, 1466 a 34-35, dove Aristotele rimanda per la trattazione della dianoia direttamente agli scritti di retorica. E come la lexis non può dar vita a una tipologia a parte perché è egualmente presente in tutte in quanto mezzo, così c’è da aspettarsi che anche la dianoia attraversi tutte le tipologie, ma non abbia forza autonoma per contrassegnarne una specifica: semmai potrebbe entrare come importante ingrediente nella specie șȚț, dato che — in questo tipo di dramma che noi moderni potremmo forse definire psicologico — è plausibile che l’elemento della lexis, e quindi della dianoia, abbia una sua rilevanza (sulla stretta relazione della dianoia con la lexis e l’ethos cfr., tra i vari, A. M. Dale, «Ethos and dianoia: “Character” and “Thought” in Aristotle’s Poetics», in AUMLA, Journal of the Australasian Universities Language & Literature Association 11, 1959, pp. 3-16). 2. Appunti sulla valenza sematica di ݻȥȚȢ nella «Poetica» Sembra eccessivamente riduttiva l’interpretazione secondo cui ȥȚȢ nella Poetica denoterebbe unicamente l’apparenza fisica dei personaggi o degli attori (cfr. I. Bywater, «On Certain Technical in Aristotle’s “Poetics”», in Festschrift für Th. Gomperz, Wien 1902, pp. 166-167: «the visible appearance of the dramatic personages, the visible make-up […] of the actors on the stage», e cfr. anche Aristotle on the Art of Poetry, Oxford 1909, pp. 17 e 162), interpretazione condivisa, tra gli altri, da Else, Aristotle’s Poetics: the Argument, op. cit, p. 233, il quale traduce il termine con «visualisation» ma nel senso di «visible manifestation of characters», e da J. Jones, «On Aristotle and Greek Tragedy», London 1962, p. 28, nota 4 (per una nitida esposizione del problema si rimanda a S. Halliwell, Aristotle’s Poetics, London 1986, pp. 337-339). È vero che quando parla dello spettacolo come meros del dramma
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Aristotele pensa soprattutto agli attori, ovvero ai corpi dei personaggi che agiscono (ʌȡIJIJȠȞIJİȢțĮਥȞİȡȖȠ૨ȞIJİȢ Poetica 1448 a 23-24); tuttavia, come ha scritto F. Donadi («Opsis e lexis: per un’interpretazione aristotelica del dramma», in L. Renzi (Ed.), Poetica e Stile, Padova 1976, p. 12) «opsis è per Aristotele (e per noi) ciò che cade sotto gli occhi dello spettatore», ovvero, prima di tutto, «corpi che ritagliano lo spazio nella loro precaria ed effimera fisicità (ed è proprio la presenza corporea degli attori che scava fra teatro e cinema una distanza incommensurabile)», ma anche tutto ciò che circonda o fa da sfondo ai corpi e al movimento dei corpi degli attori e del Coro, contribuendo in modo unitario alla dimensione visiva dello spettacolo. Di qui il primo significato comunemente assegnato al termine opsis in Aristotele: «parte visiva della tragedia, ciò che si vede, vista»: così in particolare O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus, Oxford 1977, p. 478, «what is seen, i. e. the entire visual aspect of the play in performance», e cfr. anche, dello stesso, la fortunata espressione «the visual dimension of tragedy», che costituisce il titolo del primo capitolo della sua monografia Greek Tragedy in Action, London 1978, pp. 1-9, espressione accettata, tra gli altri, da B. Marzullo, «Die visuelle Dimension des Theatres bei Aristoteles», in Philologus 124, 1980, pp. 189 ss., da M. Walton, The Greek Sense of Theatre, London 1984, (p. 20: «the entire visual dimension»), e da A. M. Mesturini, «ȅȌǿȈ: modo della ȂǿȂǾȈǿȈ tragica nella Poetica di Aristotele e il suo retaggio nel Tractatus Coislinianus», in Orpheus 13, 1992, pp. 1-25 (in particolare pp. 11 e 21: «dimensione visuale»). Da qui al significato di «spettacolo», oggi invalso negli ultimi traduttori, il o è breve: hanno tradotto con «spettacolo» («spectacle»), tra i vari, A. Rostagni, E. Valgimigli, C. Gallavotti, R. Janko, R. Dupont-Roc e J. Lallot (e vid. ora anche A. Kanaris de Juan, «Reflexiones sobre la opsis aristotélica», in C. Morenilla-B. Zimmermann (Edd.), Das Tragische, [Drama. Beiträge zum antiken Drama und seiner Rezeption, 9], Stuttgart 2000, pp. 109-121: «elemento espectacular o espectáculo»), mentre D. Lanza, Aristotele. Poetica, op. cit., p. 135 preferisce invece rendere il termine con «ciò che si vede», oppure «vista», conservando l’originaria ambiguità del termine, in equilibrio tra il valore di parte «materiale» del dramma e di funzione (visual dimension per l’appunto)89. Per un’interpretazione non restrittiva del termine propende anche Lucas, Aristotle, Poetics, op. cit., p. 99); e cfr. anche A. Martina, «La Poetica di Aristotele e l’Edipo re di Sofocle: ਖȝĮȡIJĮ e ȥȚȢ», in Cultura e lingue classiche, III Convegno di aggiornamento e di didattica, Palermo, 29 ottobre-1 novembre 1989, Roma 1993, pp. 118 ss.). In effetti, limitare il termine opsis all’aspetto attoriale appare eccessivamente restrittivo, tanto più che la tragedia, per suscitare l’eleos e il phobos di cui Aristotele parla al capitolo 17, si avvaleva notoriamente Come si ricava dalla rassegna delle svariate versioni del termine ad opera di traduttori e interpreti riportata in F. Donadi, «Opsis e lexis», op. cit., p. 5 s., sarebbe stato per primo Castelvetro a tradurre «vista» (termine che «contiene in sé le persone, gli habiti, e il palco»); il Pazzi a sua volta inaugurò il termine apparatus, destinato a grande fortuna in età rinascimentale. 89
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anche di altri stratagemmi visivi, quali țȦij ʌȡંıȦʌĮ (supplici, bambini), oggetti di scena (il tappeto rosso del terzo episodio dell’Agamennnone, il drappo insanguinato in cui è stato ucciso Agamennone, esibito da Oreste nell’esodo delle Coefore), scene d’insieme di forte impatto visivo (l’ingresso delle Erinni nell’epiparodo delle Eumenidi, scene di ikesia come il grandioso tableau scenico delle Supplici eschilee, l’evocazione dell’ombra di Dario nei Persiani; l’incatenamento di Prometeo alla rupe scitica, la raccolta e la ricomposizione delle membra di Penteo nelle Baccanti), ecc. Una conferma all’interpretazione in senso lato di opsis credo provenga anche dalle testimonianze antiche, che spesso da Aristotele più o meno direttamente dipendono: oltre ai casi già notati della Vita Aeschyli, 14 (IJȞIJİıțȘȞȞਥțંıȝȘıİțĮ IJȞȥȚȞIJȞșİȦȝȞȦȞțĮIJʌȜȘȟİIJૌȜĮȝʌȡંIJȘIJȚȖȡĮijĮȢțĮȝȘȤĮȞĮȢȕȦȝȠȢIJİțĮIJijȠȚȢ ıȜʌȚȖȟȚȞ İੁįઆȜȠȚȢ ࡑ ǼȡȚȞȞıȚ) e dello scolio a Eumenides, 63 (țĮ įİȣIJȡĮ į ȖȞİIJĮȚ ijĮȞIJĮıĮāıIJȡĮijȞIJĮȖȡȝȘȤĮȞȝĮIJĮȞįȘȜĮʌȠȚİIJțĮIJIJઁȝĮȞIJİȠȞ੪ȢȤİȚțĮȖȞİIJĮȚ ȥȚȢIJȡĮȖȚțāIJઁȝȞȟijȠȢઘȝĮȖȝȞȠȞIJȚțĮIJȤȦȞࡑ ȅȡıIJȘȢĮੂįț țȜijȡȠȣȡȠ૨ıĮȚĮIJંȞ), si veda anche il Tractatus Coislinianus X, 8 Kaibel ਲȥȚȢȝİȖȜȘȞȤȡİĮȞIJȠȢįȡȝĮıȚIJȞ ıȣȝijȦȞĮȞʌĮȡȤİȚ(con il commento di M. Di Marco, Opsis nella Poetica di Aristotele, op. cit., pp. 144-148). Tale interpretazione, tra l’altro, consente una più plausibile spiegazione del plurale ȥİȚȢ attestato in Poetica 6, 1450 b 20 nonché — in forma probabilmente di glossa intrusiva — in 26, 1462 a 16: I. Bywater («On Certain Technical », op. cit., p. 167), lo interpretava come «the ȥİȚȢIJȞʌȡĮIJIJંȞIJȦȞ, in other words, the stage-appearance of the various characters», ma non v’è dubbio che i commentatori antichi intendevano il termine al plurale anche in riferimento all’aspetto scenico: così, ad esempio, l’ipotesi delle Fenicie (IJઁįȡ઼ȝਥıIJȚȝȞIJĮȢ ıțȘȞȚțĮȢȥİıȚțĮȜંȞ), nonché l’anonimo compilatore bizantino, memore della Poetica, del ʌİȡ IJȡĮȖįĮȢ 1-6 Perusino (ਲIJȡĮȖįĮʌİȡਸȢȡઆIJȘıĮȢਫ਼ʌȠțİȝİȞĮȝȞȤİȚਘ įȝȚȝİIJĮȚʌșȘIJİțĮʌȡȟİȚȢʌȠĮIJਦțIJİȡĮȠੈȢįȝȚȝİIJĮȚȝ૨șȠȢįȚȞȠȚĮȜȟȚȢȝIJȡȠȞ ૧ȣșȝંȢȝȜȠȢțĮIJȚʌȡઁȢIJȠIJȠȚȢĮੂȥİȚȢĮੂıțȘȞĮȠੂIJંʌȠȚĮੂțȚȞıİȚȢǜIJȠIJȦȞįIJȝȞ ıțȘȞȠʌȠȚંȢ IJ į ȤȠȡȘȖંȢ IJ į ! ਫ਼ʌȠțȡȚIJȢ ਕʌȠįįȦıȚ). Quest’ultimo, soprattutto, offrendo una concreta esemplificazione delle ȥİȚȢ con ıțȘȞĮIJંʌȠȚțȚȞıİȚȢrispettiva cura dello ıțȘȞȠʌȠȚંȢdel ȤȠȡȘȖંȢdell’ ਫ਼ʌȠțȡȚIJȢ, aiuta a chiarire il significato materiale di ਕʌİȚȡȖĮıĮIJȞȥİȦȞnella Poetica, in riferimento all’insieme di aspetti che contribuiscono a realizzare l’ ȥȚȢ nel suo complesso. Indicativo in tal senso sembra anche il nesso IJોȢ ȥİȦȢ țંıȝȠȢ in Poetica 6, 1449 b 32-33, dove țંıȝȠȢ indica — come ben vide S. Melchinger, Das Theater der Tragödie. Aischylos, Sophocles, Euripides auf der Bühne ihrer Zeit, München 1974, p. 220 — «nicht “Schmuck”, sodern “Ordnung”», ovvero la sfera dell’ ȥȚȢ, la struttura visiva della tragedia, in riferimento al fatto che ciò che si vede sulla scena deve essere ordinato armonicamente: in proposito si vedano anche le osservazioni di M. Di Marco, «Opsis nella Poetica di Aristotele», op. cit., di M. G. Bonanno, «Opsis e opseis», op. cit., pp. 408410, e di D. Galeotti Papi, «IJોȢȥİȦȢțંıȝȠȢ(Aristotele, Poetica 1449 b 32)», RPL 6, 1993, pp. 15-22.
Regist. Tribunale di Napoli n. 1629 del 2 aprile 1963 Officine grafiche napoletane SCO GIANNINI & FIGLI S.P.A. Proprietà della testata: Accademia Pontaniana, via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli Direttore responsabile: accademico Antonio Vincenzo Nazzaro Finito di stampare nel mese di ottobre 2013