La Chiave Bianca 614y3k

erica stori mezzacqui

la chiave bianca

Youcanprint Self – Publishing

Titolo | La chiave Bianca

Autore | Erica Stori Mezzacqui

Immagine di copertina | © Mangojuicy – Fotolia.com

ISBN | 9788891151155

Prima edizione digitale: 2015

© Tutti i diritti riservati all’Autore

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A Edoardo, tvb

IL FATTO

—Che cosa hai preso, deficiente? — gridò Eva nell'orecchio di Luisa, sfidando la musica che saturava l'aria della spiaggia.

—Niente.

—Niente? Ma se hai due occhi che sembri la bambina dell'esorcista! Dimmi cosa hai preso. Avanti!

—Che cosa ho preso?

Eva strattonò l'amica per il braccio, continuando a sostenerla.

—Aaah... Mi hanno dato una pasticca... piccola picco-li-nis-si-ma...

—Ci voleva anche questa, chi è stato, quel delinquente?

—Eh, chi lo sa.

—Adesso andiamo via, muoviti — le fece Eva; — guarda te lo dico per l'ultima volta: se continui così, farai una brutta fine. Finisci male, idiota! — E gridando,

la strattonò ancora più forte. In quel modo riuscì a farla camminare per la spiaggia che, abbandonata la festa, diventava sempre più buia.

—Eva, vai già via? — le gridò Brando da lontano.

—Devo andare! — rispose lei senza fermarsi.

—Aspetta Eva, vi accompagno — strillò Brando cominciando a correre.

La ragazza si fermò; Luisa barcollava, sudando e tremando.

—Cos'ha Luisa? — chiese subito Brando appena le ebbe raggiunte — sembra che le sia ato addosso un camion, ma sta male? —

Eva lasciò volentieri che Brando l'aiutasse a sostenere l'amica, e si asciugò la fronte.

—Qualche drogato le ha dato una pasticca. Questa qui poi, già di suo non capisce niente. Guarda com‘è ridotta!

—Bel guaio. Il meglio che possiamo fare è portarla a letto immediatamente. Domattina vedrai che starà meglio. L'effetto di quella roba non dura più di una notte.

—Andiamo Brando, per favore, dobbiamo farle fare il dosso — tagliò corto Eva.

I tre si avviarono, con Luisa in mezzo, a peso morto. Giunti all'altura di sabbia, Brando cominciò a tirare su la ragazza per le braccia, mentre Eva la spingeva da dietro, schiena contro schiena. Attraversarono, col fiatone dovuto allo sforzo, quasi tutto il pioppeto oltre la spiaggia e finalmente riuscirono a intravedere la strada sterrata, illuminata dal soffuso biancore della luna, quando rade nuvole non la nascondevano, e dal vago chiarore dei lampioni e delle luci del paese, ancora distanti. Eva sentiva sulla pelle come delle punture d'ago; aveva un malessere aspro, la mente vuota di pensieri: come il silenzio d'un bosco all'arrivo di predatori. D'un tratto ci fu un botto in lontananza e la terra prese a tremare.

—Il terremoto! — esclamò Eva d'istinto.

—Accidenti, Luisa muoviti, corri! — gridò Brando cercando di tirarsi dietro la donna.

Dopo alcuni secondi un altro botto, più secco e ancora più forte: una sorta di grande deflagrazione.

—Ma questo non è il terremoto — osservò Eva angosciata.

—Forse è scoppiata la centrale termoelettrica di là dal Po — disse Brando. — L'avevo detto che sarebbe stata la nostra rovina! —

Eva si girò per vedere se arrivasse qualcuno dei festaioli. Gli alberi tremavano

con le fronde agitate da un vento fortissimo. Il buio aveva inghiottito tutto; non si vedeva più la strada, non si scorgevano più i lampioni dell'illuminazione comunale in lontananza, né la casa del pastore che abitava nella golena a pochi metri dal pioppeto. Eva e Brando facevano fatica a vedersi in faccia. Trascinando Luisa che non si era accorta di niente, si precipitarono attraverso quella che, nella loro memoria, doveva essere l'ultima striscia di bosco. Erano terrorizzati. A ogni o l'eco delle due esplosioni rimbombava nelle loro teste; avevano l'impressione che il sibilo del vento dietro di loro si mescolasse a grida di ragazzi in fuga, rumore di i frenetici, arboscelli spezzati, cadute e richieste d'aiuto. Riuscirono a saltar fuori dall'ultima fila degli alberi e si arrestarono. Non si vedeva niente. Brando avrebbe voluto continuare la corsa, ma con Eva che respirava a fatica e Luisa addosso, pronta a cadere se abbandonava la presa, non sapeva che fare. Aveva paura e basta.

Buuummm!

Il terzo scoppio. E questa volta così vicino da spaccare quasi i timpani. Luisa spalancò gli occhi e svenne, richiudendoli subito.

Il terreno davanti a loro cominciò a sollevarsi, la sabbia nera volava, sferzandoli. Continuando a gonfiarsi, il terreno aveva ormai formato una montagnola alta quanto loro, di quattro, forse cinque metri di diametro. Adesso erano impietriti, incapaci di qualsiasi cosa: non riuscivano neanche a urlare. La sommità della montagnola si aprì come un vulcano, lasciando uscire una luce abbagliante, subito accompagnata da una sostanza vischiosa e schiumosa d'un verde acido, traslucido, che prese a scorrere in rivoli lenti. E a quel punto, d'improvviso, dal cratere uscì un piccolo essere tutto rugoso, alto non più di ottanta centimetri, la pelle verde scuro e capelli bianchi lunghi fino alle spalle, tutti spettinati. Eva e Brando riuscirono a lanciare l'urlo trattenuto fino a quel momento. Brando, senza accorgersene, lasciò anche andare la presa su Luisa la quale cadde giù, tornò in sé, vide la scena e rimase agghiacciata.

L'essere, con un gesto ieratico, creò un cerchio di fuoco intorno ai tre, mentre il vento si placava. Luisa mossa dalla paura tentò di fuggire, ma il fuoco si alzò e lei ricadde all'indietro priva di sensi. L'essere cominciò a muoversi verso Eva, entrando nel cerchio. Quando le fu davanti, lei poté vedere i suoi occhi, tondi e completamente neri: non ostili ma profondi e enigmatici, un universo insondabile. La piccola creatura allungò il braccio, aprì la sua mano verde e rugosa e nel palmo aperto apparve, splendente nella luce che circondava la scena, un oggetto bianco simile a una chiave.

—Eva, non fidarti — disse Brando accanto a lei, senza muoversi.

Eva non lo sentì. Era tornata al momento di tutte le possibilità, prima della sua nascita: guardò il cielo e vide galassie lontane; si sentì come un atomo disperso nelle correnti del tempo. D'istinto sentì d'essere legata all'oggetto che il piccolo essere misterioso le porgeva. E lo prese. Subito l'avvolse un caloroso senso di felicità: ma sentì anche una fitta dolorosa nel profondo del cuore, una ferita aspra e dolcissima, un'incisione nella carne, come se la chiave l'avesse aperto per la prima volta. Era nato il suo occhio del cuore.

Tre giorni prima.

—Luisa, sto arrivando a Mezzocampo — annunciò Eva al cellulare.

—Tesoro mio, che piacere sentirti... a che ora arrivi? — rispose l'amica con voce stranamente mesta.

—Tra mezzora. Visto che è lunedì mattina e tu non lavori, o a trovarti.

A quel tempo Eva abitava a Mezzocampo, piccolo paese della campagna mantovana. Spesso gli impegni d'artista, ossia le sue mostre d'arte, la portavano altrove. Adesso stava tornando da un'assenza piuttosto lunga, anche se non si era allontanata molto: due mesi a Milano per preparare e seguire una sua esposizione. Da lì era partita quel mattino per tornare a casa. Il suo talento artistico, irregolare e un po' selvaggio, si era sviluppato nella solitudine di quei luoghi sperduti in riva al Po. Era un'inclinazione radicata in ogni cellula del suo essere, forza oscura e perfetta che traspariva dal suo sguardo elettrico, duro, dolcissimo. Una volta un mago le aveva disegnato il quadro astrale e alla fine aveva concluso: sei un caterpillar travestito da margherita. Lei era scoppiata a ridere. Sembrava spesso che gli accadimenti del mondo la attraversassero senza toccarla: invece era capace di scomporre e ricomporre un avvenimento come un puzzle, afferrava situazioni diverse al volo, pareva azzannare e digerire la realtà in un colpo, anche la più difficile, e sapeva dominarla. Era stata allevata da persone semplici, quasi illetterate, lontanissime da quella cultura, o quell'istinto, che insegnano come arrampicarsi nella scalata della vita. Proprio quando la piccola Eva faceva il suo ingresso nel mondo, il padre se n'era andato via di casa, lasciando la madre a cavarsela da sola. Un bel fardello per Elena, la giovane mamma, anche perché la figlia si era rivelata il suo opposto naturale: intelligente, difficile, battagliera e irriducibile, fino alla violenza.

La bambina era così cresciuta in una piccola proprietà agricola alle porte di Mezzocampo, con la madre e la nonna Elvira. Non era stata un'infanzia facile. L'educazione era spartana e la piccola una ribelle per vocazione. Dominavano in lei i geni del padre, con la sua arroganza borghese, e senza averlo mai visto gli somigliava in tutto, temeraria, non voleva mai cedere; prendeva in giro la madre fino a farsene beffe, nella sua altera bellezza infantile. Elena subiva il dominio e il disprezzo della figlia, chinandosi alla forza di quello sguardo fiero, a quei lampi di sussiego sfolgoranti come un emblema sul volto della bambina. Nonna Elvira provava a riprenderla quando nei contrasti con la madre toccava punte di autentica malvagità, ma la piccola non aveva timori reverenziali per nessuno, e fu questa testarda volontà di sfida a permetterle in seguito di raggiungere il suo grande scopo. Buona educazione, begli ideali, convenienze, rispetto: per lei, come le capitò di affermare più tardi, erano tutte stupidaggini e non permise mai che le "bacassero la testa".

Mentre guidava verso casa, Eva osservava il paesaggio che dall'uscita dell'autostrada andava gradualmente mutando. Campi di grano che cominciavano a prendere il colore dell'oro, frutteti pronti a donare i loro frutti maturi, filari di viti con l'uva ancora acerba e le prime balle di fieno profumato disseminate come boe nel mare di grandi piane verdi. Aveva girato il mondo, ma sapeva che nulla era più prezioso di quanto aveva imparato da questa terra. Vivere con la natura le aveva insegnato che un seme, una volta piantato, deve essere poi innaffiato, protetto, curato. Instancabilmente. Senza possibilità di sotterfugi o di inganni. O si seguono le regole della terra o niente. Niente frutti, niente cibo.

Nel sapore dell'aria di Mezzocampo Eva ritrovava la propria anima, tanti momenti del ato; e quel ritmo giusto, segreto, segnato dal Po nel suo scorrere maestoso. Mille volte era ata per quegli argini e aveva osservato le isole che periodicamente si formano nel grande fiume, a seconda della quantità d'acqua che gli scorre dentro. La più vasta era l'Isola Boscosa, tutta coperta da noci secolari, per un certo periodo di proprietà di Maria Callas e del marito di allora: anni Settanta più o meno.

Il nastro grigio della strada era l'unica nota discordante in quella distesa di giallo e verde che sfumavano l'uno nell'altro, in perfetta armonia. Tutto il paesaggio era come immerso nel silenzio, in un misterioso ascolto. La casa di Luisa si trovava in fondo al paese, guardata da due platani, pronti a proteggerla dalla calura pomeridiana. Eva ripensò alla voce dell'amica al cellulare; avvertì ancora quella insolita venatura di cupezza: l'assedio dei problemi pratici, e il crescente autoisolamento, dovevano ormai serrarla in un vero labirinto di solitudine.

Luisa era sulla porta, col suo dobermann Gabri, quando Eva arrivò con la nuova Mercedes SLK, lo sfizio lussuoso che aveva assorbito i guadagni delle ultime mostre, nonostante tutte le esortazioni della madre al risparmio.

—Carissima, quanto tempo è ato! — esclamò Luisa abbracciando l'amica — sei bellissima.

Gabri mulinava la coda, leccando le mani della nuova arrivata.

—Sono come due mesi fa. Tu invece mi sembri strana, mi nascondi qualcosa, non stai bene?— la incalzò subito Eva che i problemi li intuiva subito e li affrontava di petto.

—Non sto bene, dici? Mi sento in formissima. Vieni, andiamo in casa a farci un caffè.

Una voce insistente ripeteva, come una vecchia canzone, nella mente di Eva, mentre entravano in casa: qui c'è aria di menzogna, la bugia è intorno a te...

All'interno tutto era asettico, perfetto: troppo per una che dice di sentirsi così bene, pensò con una punta di acidità. Avvertiva una tensione gelida e bollente insieme, pronta a scoppiare. E Luisa evidentemente era decisa a resistere, nella corazza della dissimulazione. Eva scelse l'approccio dolce.

—Come va qui a Mezzocampo, allora? Dimmi un po' di novità... — Adesso aveva un tono più leggero, esplorativo — Sai cara, non vorrei che magari ci fosse qualche guaio che non so...

—Oh, i guai. Ti svegli una mattina e trovi tutto cambiato. I guai ti si sono piazzati in casa, e sono ospiti difficili da cacciar via — rispose Luisa in tono

frivolo.

Ma contraddetto da un pallore così sofferente del volto che Eva ebbe istantaneamente la certezza che le fosse successo qualcosa di grave.

—E a Milano com'è andata?— riprese Luisa mentre l'odore del caffè cominciava a spargersi nell'aria.

Eva alzò lo sguardo come stesse seguendo il filo d'un pensiero nascosto:

—Andare per il mondo in cerca di chi è simile a te è un'idea bella e romantica: ma per questa ricerca bisogna prima conoscere bene se stessi.

—Rifletté qualche secondo. — Io a Mezzocampo non ci sto bene; le persone qui mi giudicano una solitaria, una piantagrane, superba, pessimo carattere, ma se m'avessi visto in mezzo a gente diversa, gente con un certo gusto, gente capace di una conversazione colta, persone alle quali si illuminano gli occhi quando si discute di arte, di economia, magari di come cambiare il mondo, che possano farlo o no.

Eva si stava accalorando troppo e s'interruppe. Dopo una pausa riprese fissando l'amica:—È un'altra aria, e io posso respirare, sono diversa quando mi trovo lontano. Lo vedresti anche tu, e quelli che qui vogliono giudicarmi. Ma dicevi prima dei guai.

—Cosa?—disse Luisa, che non la stava seguendo.

—I guai che ti sono entrati in casa, l'hai detto tu, vuoi dirmi cosa significa?

—Ma niente, Eva... — rispose l'altra con finta noncuranza.

—Luisa, a me non puoi rifilare una bugia: avanti, guardami negli occhi e dimmi tutto.

Il proposito di penetrare dolcemente nei pensieri di Luisa, di sondarla con pazienza, fu abbandonato di colpo: Eva non era capace di fingere o di seguire una trama, sapeva solo dipingere e vivere d'istinto.

Luisa appoggiò il vassoio del caffè sul tavolo da pranzo, si sedette di fronte all'amica quasi sprofondando nell'indolenza che l'avvolgeva.

—Provo a spiegarti. — cominciò, versando due cucchiaini di zucchero nella tazzina di Eva —È un uomo. Mi è capitato di incontrarlo qualche tempo fa; oh Dio, ce l'ho ancora stampato qui in mente, Eva, era stupendo, come un fotomodello.

—Capirai quanto è bello un fotomodello!

—Tipo Brad Pitt ti dico, non mi credi?

—Ti credo, ma fa niente: vai avanti con la storia.

—L'ho incontrato di fronte al mio negozio, a Mantova, un po' di tempo fa.

—Cosa vuol dire un po' di tempo? Sono stata via solo due mesi. Quando l'hai incontrato? Mi fai innervosire con questo stillicidio.

—Figurati come m'innervosisco io. Mi sono lasciata abbindolare dai suoi occhi color ghiaccio, dai suoi capelli biondi, dalla sua bellezza. Però aveva una cosa strana, un indizio, un particolare da paura. L'ho notato subito, ma ho preferito non dargli importanza.

—E cos'era ?

—Le pinces nei pantaloni. — scandì con espressione disgustata Luisa.

— Avrebbero dovuto tenermi alla larga da lui.

—Le pinces? — Eva scoppiò a ridere.

Luisa era una donna gradevolmente superficiale, non più giovanissima, ma portava bene i suoi quarantadue anni. Viso di un bell'ovale, con una fossetta tonda proprio al centro del mento; occhi marrone chiaro, appena sporgenti a causa d'una disfunzione della tiroide. Aveva avuto molti uomini, più come antidoto per la solitudine che per altro. Si lasciava condurre dalle emozioni del

momento, senza chiedersi se quello che stava facendo fosse giusto. Giusto in generale, o giusto per lei. Lavorava in un negozio di abbigliamento nel centro di Mantova; impazziva per i vestiti, il look, le scarpe firmate. L'unica cosa che accomunava le due amiche era la simpatia reciproca: forse per attrazione degli opposti, o forse per puro e semplice affetto.

—Quelle grosse pinces dicevano chiaramente che era un cretino — continuò Luisa.— Ecco cosa mi scoccia di più: aver avuto sotto il naso il segnale di pericolo e non avergli dato retta. Maledetti occhi di ghiaccio!

—Ci sono anche altri criteri di valutazione, sai — la interruppe Eva che mille volte aveva messo in guardia l'amica dai giudizi generosi con se stessa, per vanità, e sommari per gli altri.

—La sera che ci siamo incontrati: magari sì, mi ero fatta un bicchierino e stavo cantando in strada, per tirarmi su. D'accordo, avrò le mie colpe, ma quello che è successo dopo… Lo guardai negli occhi: mai visto nulla di simile, un mare ghiacciato. Dio sì, un meraviglioso mare ghiacciato; e gambe da atleta, un sedere scolpito nel marmo! Eva, non guardarmi così, lo so che a te queste cose non fanno effetto, ma a me sì, eccome. «Allora» dice dopo un po' che lo fissavo «facciamo un giro al lago di Garda? È sabato sera e prometto che ci divertiremo.» Io dovevo avere proprio un'aria da fessa, della gallina da spennare. E così è andata: dopo la serata al lago è venuto qui; siamo stati insieme tutta la notte e tutta la domenica. Non mi capitava un uomo così da vent'anni e mi sentivo una ragazzina; poi però la favola è finita e addio ragazzina.— Luisa tacque di colpo, mentre una lacrima scura di rimmel le rigava una guancia.

—Tutto qui?— fece Eva.

—Eh, fosse solo questo, cara mia, il peggio deve venire. Le settimane successive

mi racconta di sé. «Faccio l'assicuratore» dice, «e sono pure consulente finanziario». Si vanta di guadagnare diecimila euro al mese. Mi venga un accidente, penso io, finalmente ho trovato l'uomo giusto! E mi lascio convincere su quanto sia importante mettere al sicuro il proprio futuro. Mi fa assicurare la casa; gli do retta perfino per la kasko sull'auto.

—Cosa? La kasko su una Fiesta vecchia di dieci anni e più? — si arrabbiò Eva — Ma come ti è saltato in mente: ti costava meno pagare un gigolo.—

—Adesso lo so anch'io, ma senti il resto. Una sera mi porta a cena in un ristorante da mille e una notte, e al momento del dolce tira fuori una scatolina. L'apro. Ed è proprio quel che penso, anzi di più: anello con diamante da tre carati; devo farmi forza per non svenire. Come in un film il minuto dopo mi chiede: « Vuoi sposarmi?» Ho appena il fiato per rispondergli: «Puoi scommetterci!» Mi sembra un sogno. Qualche giorno dopo mi confida di un investimento favoloso, di certe azioni sicure che vorrebbero dire la ricchezza per tutti e due: peccato che gli manchino solo cinquantamila euro, e che per una sciocchezza simile l'affare debba sfuggirgli. Io allora cerco di riflettere con calma: ho il dovere di fidarmi del mio futuro marito, del suo fiuto da investitore. E corro a cercare quei soldi, chiedo alle conoscenti, chiedo alla banca, mi indebito. Pochi giorni e gli metto in mano i cinquantamila euro.

—Ti ha dato una ricevuta?

—Sai cosa? Non gliel’ho chiesta. Da quel momento lui ha cominciato a cercare ogni scusa per non vedermi. La sera perché era stanco, la domenica per la partita, il pomeriggio perché aveva un impegno. E presto non l'ho più visto — concluse Luisa tra le lacrime.

Eva si avvicinò all'amica e l'abbracciò con energia.

—Coraggio. Questa è una truffa. Mia cara, chiamiamo le cose con il loro nome. Non sei certo la prima. Ma poi, scusami, ti saresti sposata davvero senza dirmi niente?

—Non l'avrei fatto: volevo farti una sorpresa, invitarti a cena e presentartelo. Aspettavo che tornassi. — Luisa aveva smesso di piangere e Eva le porse un fazzolettino di carta.

—Neanche un cenno per telefono. Hai chiesto soldi a destra e a sinistra e a me non hai detto niente?

—Io me lo sentivo che finiva così, sai — continuò Luisa soffocando un singhiozzo.

—Lascia stare, Luisa. Non sentirti in colpa: se uno ti fa qualcosa di male è lui che si deve vergognare. Tu sei solo la vittima. Il tuo orgoglio è ferito, ma il tuo nome è salvo: sei stata ingenua e hai peccato di generosità. Quel bandito invece. Ma come si chiama?

—Alfredo Carrisi.

—Ecco, quello lo riduciamo in briciole. Domani andiamo dai carabinieri, hai una foto? Potrebbe esserci utile, magari è schedato, magari ti ha dato un nome falso, ma la faccia, quella brutta faccia di ladro, non se la può cambiare.

—Non ho foto; non si è mai fatto fotografare perché diceva che di non essere fotogenico — disse Luisa sconsolata.

—Un cretino furbo! — fu il commento di Eva.

Risero tutt'e due, e per Luisa fu come stare sotto una cascata d'acqua pura, dopo tanti giorni di buio vischioso, una liberazione da quel terribile odore di inganno che la perseguitava. L'amica le aveva riportato la luce.

—Ma Luisa, cosa sono quei segni sul parquet? Sembra che sia ata una mandria di buoi — disse Eva, notando solo ora un particolare che stonava con l'insolito ordine dell'ambiente.

—È stato Vito. — rispose timidamente Luisa.

—Vito?

—Vieni, ti faccio vedere — disse Luisa — sono sicura che non ti piacerà, ma non aver timore. —

Aprì la porta di una stanza dove, in un angolo, si trovava una grossa gabbia con un'iguana.

—Mamma mia! — esclamò l'altra fermandosi di botto.

—No, se ti abitui non è brutto come sembra. Guardalo bene: a me con quella cresta pare addirittura bello. E la coda a strisce bianche e nere non trovi che assomigli a un tessuto di Armani?

—Proprio No. Ma come ti è saltato in mente di prendere un lucertolone così?

—Non l'ho preso io: è di Alfredo, me l'ha portato prima di scappare, e mi è rimasto sul groppone. Un giorno, che non avevo chiuso bene la gabbia è andato in giro per casa. Quando me ne sono accorta ho tentato di catturarlo. Sai non è facile, mi scivolava tra le mani e sbatteva la coda come un ossesso, è allora che ha fatto i segni sul parquet. Un casino, con Gabri che abbaiava e gli saltava intorno: me la sono vista brutta, dico davvero, e ho dovuto chiamare Sergio, il mio vicino. In due alla fine l'abbiamo rimesso in gabbia. Ma Sergio aveva tutte le braccia graffiate e, poveretto, ho saputo dopo che ha pure qualcosa che non gli fa coagulare bene il sangue... Mi è dispiaciuto: io combino solo disastri.

—Lascia perdere! Se non fosse che rispetto tutte le forme di vita su questa terra, io quel lucertolone lo butterei giù dalla finestra — esclamò Eva uscendo dalla stanza.

—Ma no! Cosa c'entra Vito? — replicò Luisa — Non ha colpa se il suo padrone è un disgraziato.

—Sei ancora innamorata di Alfredo?

Luisa non rispose. Abbassò lo sguardo con un misto tra indecisione e vergogna.

Eva capì allora una cosa che a lei non sarebbe mai accaduta: alcune donne hanno una vocazione speciale per soccorrere uomini debosciati e ingannatori; e quel desiderio, o bisogno, di aiutare e salvare mostri simili sarà sempre più forte di ogni giudizio razionale o amore per se stesse. Provò pena per l'amica, e non insistette.

Si accordò per recarsi insieme l'indomani alla caserma dei carabinieri; quindi si rimise al volante per una destinazione vicina: ma guidò piano, perché non era impaziente di arrivare.

Andava a Corte Stella, casa sua.

Nella piccola proprietà era tutto come sempre: il lavoro nei campi, galline che scorrazzavano nell'aia, maiali che grugnivano staccando di scatto il muso da terra. Eva non amava quell'aia, quella casa, quegli animali: o almeno trovava il quadretto troppo angusto. Amava la natura, il paesaggio, la grande pianura in tutta la sua estensione: perché nella loro grande dimensione possedevano la bellezza, il senso giusto, lo stile. Era una donna concreta, ma odiava la grettezza e soffriva per ogni mancanza di stile. Evitò le galline, scocciata; non le compiangeva, però considerava squallido, o macabro, allevare degli animali per poi tirargli il collo o sgozzarli. Sarebbe stato meglio non tornare, pensò.

Ma ormai c'era. Non cercò le chiavi nella borsetta; suonò il camlo e la madre venne ad aprire.

—Eva?! — esclamò la donna sorpresa — perché non mi hai detto che saresti tornata oggi?

—Perché volevo farti venire un infarto! — rispose Eva — riprenditi, sembra che abbia visto un fantasma.

—È solo che non t'aspettavo oggi — precisò Elena — tutto qui. —

—La nonna dov'è?— chiese Eva brusca, con un'enfasi che doveva far capire alla madre quanto più importante considerasse l'assente.

—È nel frutteto; dei parassiti stanno rovinando tutte le pere, ma la valigia dov'è? Dove l'hai lasciata?

—In macchina. Vado a prenderla dopo— rispose Eva con fastidio.

—Te la faccio portare da Gianni? — fu la timida offerta della madre, alludendo al più anziano dei contadini.

—Con quelle manacce! Non scherzare: la prendo io più tardi.

Davanti alla madre, Eva non poteva trattenersi dal manifestare tutta la contundente asprezza del suo carattere. Capiva di esagerare, ma la sfrontatezza e la sfida si erano da tempo trasformate in un astio profondo, come la lebbra verde che corrode i relitti nei fondali degli oceani, come la ruggine su una vecchia cancellata, come una malattia. Per le stanze della casa aleggiava un odore di vaniglia e cioccolato, addolcendo un poco l'atmosfera creata dall'atteggiamento della ragazza. Elena tuttavia si era abituata da tempo a non reagire, e a tacere; conosceva sua figlia ed evitava domande sulla sua vita privata: domande che Eva

odiava, da vegetariana convinta, quasi più della carne.

—Cosa vuoi mangiare? — chiese dopo un po' — ho già preparato qualcosa, ma se avessi saputo che tornavi avrei fatto di meglio.

—Non preoccuparti, mangio quelle zucchine che ho visto sul tavolo, e un po' di riso in bianco. Non c'è bisogno che ti dai tanta pena per me.

—Nessuna pena, lo faccio volentieri. Anche tu, quando avrai dei figli, forse capirai. Ah, poi nel forno ho una torta di mele: la facevo per don Luca, sai che è andato in Perù.

—E quando è pronta, cara la mia mammina, la mandi in Perù?

—Ma no, domenica don Luca torna e sta qui una settimana. Viene per la festa. Lo sai che l'abbiamo organizzata per raccogliere i soldi da dare ai bambini che lui aiuta laggiù.

—Ah già, è vero. Va bene: la torta è sua.

—Gliene faccio un'altra.

Alle undici e trenta rincasò la nonna, tutta preoccupata per i parassiti che attaccavano le pere del frutteto.

—Elena! — esclamò dalla soglia — Bisogna chiamare gli operai per dare il veleno sui peri: sono pieni di bestie. Per tutti i diavoli, ce n'è sempre una da sistemare! Quand'è che potrò riposarmi?

—Mamma, vieni in cucina che c'è Eva — le gridò Elena di rimando.

—Vedrai che piagnistei — osservò la ragazza — scommetto che piange già prima di vedermi.

Nonna Elvira entrò in cucina col suo o un po' claudicante e un largo sorriso sulla faccia ovale e rugosa. Eva le andò incontro.

—Ma cara la mia bella Eva, quando sei arrivata? —

Abbracciando la nipote, non riuscì a trattenere le lacrime.

—Non piangere, nonna: mi dà fastidio che piangi per niente.

—Ma lo sai che è stata la guerra, mi hanno fatto dodici operazioni: un niente mi fa piangere, non è colpa mia.

—Sì nonna, ho capito. Dai, asciugati gli occhi. — disse Eva prendendo un tovagliolo piegato dalla credenza lì accanto e porgendoglielo.

—Mamma, basta piangere — intervenne Elena.

—Ve', guarda che questa l'ho tirata su io, mentre tu andavi a lavorare: è come fosse figlia mia — si impuntò a questo punto la nonna. — Ricordo quand'è nata: c'ero io a tenerla in braccio. Io per prima, tra le mie braccia. Elena, sai bene che c'ero solo io là fuori quando hai partorito!

E giù a piangere. Elena non fece caso a quel c'ero solo io là fuori quando hai partorito, e appena la vecchia si fu calmata si mise a preparare il pranzo. A tavola, Eva ritrovò i sapori conosciuti, con ricordi agrodolci e qualche pettegolezzo.

—In paese girano strane voci sulla tua amica Luisa — buttò lì Elena.

—Anche su di noi ci sono state chiacchiere: ti ricordi? — rispose Eva — Lo sai anche che metà erano balle. —

—Ti dirò quel che ho sentito io direttamente dalla signora Taddei, che anche lei poi è parte in causa. Quel fidanzato di Luisa, insomma l'uomo che frequentava... Un bell'uomo, anzi un bel ragazzo non c'è che dire, sembra un attore: beh, la signora Taddei dice che ha mangiato a Luisa cinquantamila euro: ed è sicura perché una parte glieli aveva prestati proprio lei. Hai capito? — disse Elena a voce bassa come stesse tradendo un segreto.

—Mangiato... speriamo gli sia venuta l'ulcera! — sbottò Eva e continuò incalzandola — Ma tu credi che Luisa abbia colpa anche lei? Non devi

biasimarla per essersi fatta ingannare; tu sai bene cosa son capaci di farti gli uomini, anche senza la minima colpa da parte tua!

—Tu lo sapevi già?

—Lo sapevo

—Gli uomini, mai fidarsi di loro: sono tutti dei mascalzoni. Ne lasci uno, ne prendi un altro e sono tutti dei gran bugiardi — le interruppe la nonna.

—Sì, nonna, è vero: forse hanno un gene storto — consentì Eva.

—Vuoi dire che Luisa ha fatto bene? — chiese con tono incredulo Elena alla figlia — Gli ha mollato i soldi che si conoscevano da neanche un mese!

—È stata avventata, lo riconosco. Ma è stata in-gan-na-ta! — tagliò corto Eva addentando un trancio della torta di mele appena sfornata.

Era infastidita, come sempre, dalla facilità con la quale sua madre sparava giudizi su tutto e tutti senza sapere bene fatti e particolari: perché non le interessavano i dettagli veri, ma solo lo spunto buono per un pettegolezzo. Proprio com'era successo al momento suo parto solitario: ma con lei nella parte di vittima e la gente del paese protagonista di tutti i chiacchiericci e i mormorii crudeli. La triste esperienza non le aveva smussato questo difetto del carattere: a parte questo, era tuttavia una donna vigorosa, semplice e solida di fronte alle tempeste che la vita ci scarica addosso. Una donna incapace di comprendere il

sentimentalismo e la superficialità di Luisa, una donna che mai in vita sua aveva blandito o assecondato un uomo per proprio vantaggio. Eva le riconosceva il merito e la dignità di saper stare da sola piuttosto che frequentare degli spostati; di far tacere, ormai, desideri o inquietudini sessuali. E soprattutto ne apprezzava la risolutezza nel non piangersi mai addosso, anche se i motivi non le sarebbero mancati: primo fra tutti l'essere stata abbandonata dall'uomo che amava. Ignorava però che in quell'occasione l'istinto di sopravvivenza della madre fosse stato sul punto di soccombere allo sconforto e alla disillusione che nel profondo le pesavano come piombo.

Ma come spesso succede, la terribile prova invece di ucciderla l'aveva fortificata.

Dopo pranzo Eva andò nel suo studio, che tanto le era mancato in quei mesi. L'ampia stanza con le pareti di pietra a vista, che vedeva nascere, e custodiva i suoi quadri nel giusto disordine, era il nido sicuro dove ritrovare forza per spiccare il volo. Entrando le tornò in mente il momento in cui, quindici anni prima, i colori avevano fatto irruzione nella sua vita: erano venuti a prenderla, avevano trasformato la sua sofferenza in allegria, la tristezza in forza, lo sconforto in esultanza. Ora, in mezzo ai suoi dipinti, si sentiva al sicuro. Mise su Toys in the attic a tutto volume, prese a ballare come una matta e alla fine si buttò sul divano ridendo. Prima di ricominciare a dipingere, però, voleva far visita a un amico: fra' Giacomo.

Il pomeriggio era caldo; l'umidità pesante della pianura faceva percepire una temperatura di quaranta gradi. Ma Eva si recò lo stesso al vicino santuario per incontrare colui che, in tante occasioni della sua vita, l'aveva aiutata a tornare sulla via diritta dei principi che portiamo inscritti nel profondo dei nostri cuori. Erano le tre e il sole picchiava al suo massimo, ma nel santuario il caldo leonino sembrava placarsi, tutto era pace: qui Eva dimenticava la sua frenesia d'azione e avvertiva un bisogno di meditare per lei insolito. Era il silenzio a fare il miracolo: un silenzio pulito e fresco, vero, vivo, felice, bianchissimo. In chiesa, sul confessionale, un povero cartello di faesite recava incisi i nomi dei frati e come suonare il camlo a seconda del frate da chiamare. Per fra' Giacomo

un suono lungo e uno corto. Così fece. Il frate si presentò nel giro di un minuto.

—Ciao Giacomo!— lo salutò Eva.

—Che sorpresa! — fece lui con un bel sorriso sul volto.

Giacomo era un ragazzo, avrà avuto a quel tempo massimo trent'anni; l'incarnato chiaro del volto risaltava nella cornice dei capelli neri, cortissimi, e della lunga barba che gli arrivava quasi allo sterno. Si costringeva a una ferrea disciplina morale, più severamente di altri frati anziani con i quali la ragazza aveva parlato in precedenza. Proprio quella fermezza attirava Eva: perché corrispondeva al suo carattere, retto e saldo. Egli era il faro e la guida: attraverso le sue parole e il suo esempio lei trovava la forza per vivere in accordo con la propria essenza più intima. Fugava le paure nel suo cuore perché potesse fare scelte obiettive: non condizionate, come a molti succede, dalla oppressiva necessità di assecondare le proprie ansie.

Eva e il frate si spostarono nel parlatorio del convento e sedettero a due lati opposti d'un vecchio tavolo sul quale stava solo un centrino di cotone a ricamo, regalo di qualche devota del santuario.

—Raccontami un po' della tua mostra di Milano — cominciò il frate.

—Per me è una grande avventura, la mia arte dico: come una nave che deve portarmi lontano. Sono stati due mesi veramente belli, ero circondata da persone simili a me, gente che mi sono scelta io. È stato fruttuoso; abbiamo concluso tanto, anche economicamente e questo è importante per il mio lavoro. Per continuare.

—Il Signore metterà presto sulla tua strada un giovane giusto per te.— disse il frate.

—Niente uomini, non mi servono: voglio camminare da sola.

—Non pensarlo neanche: il Signore vuole che trovi un compagno, e che sia felice, la famiglia è la prima cellula della società. — la corresse il frate.

—Non stare con la bocca spalancata, non ho detto poi una gran cosa!

—Eva, tu avrai bisogno di un marito! — tagliò corto il frate.

—È una nuova legge?

—Va bene, hai ragione: nessuno ti obbliga. Ma capisci che è conveniente. È la cosa giusta, la soluzione pratica: tu non hai fatto voto di castità.

—Certo che non l'ho fatto, ci mancherebbe anche quello!

—E allora che progetto hai, cercarti degli amici, diciamo così, volta per volta? — incalzò sdegnato il frate — Mi sembrerebbe una pessima idea.

—Segui il tuo cuore…

—No, mia cara, no. Tu non puoi andare con un uomo solo perché ti piace! Guarda che è una cosa importante: tu puoi avere questo tipo di rapporto solo con tuo marito, nel progetto bellissimo della famiglia e dei figli, ossia nel progetto condiviso del vero amore.

—Ma sei sicuro? — disse Eva, alleggerendo il tono della discussione.

—Sono sicuro.

Risero tutti e due.

Tra il frate e la ragazza s'era stabilita una nobile intesa, una confidenza basata sulla stima e il rispetto. Fra' Giacomo era convinto che Eva avesse possibilità fuori del comune, la riteneva destinata a qualcosa di importante e voleva aiutarla a realizzarlo.

Eva non era per niente convinta dalla dottrina di Fra’ Giacomo, ma la calmava, anche se non le dava alcuna pace.

—Cos’è tutta quest’acqua, qui a terra? — chiese Eva.

—Ieri è scoppiato un tubo o una cosa del genere.

—Un bell’allagamento, però.

—Le fedeli stamattina dicevano che è colpa del tunnel nero. Fra’ Gianni si è arrabbiato ‘è ora di smetterla con questa superstizione’ ha gridato.

—E’ ridicolo, un tunnel sotto il Po. E’ una storia che raccontano ai bambini per spaventarli. Sai quante volte me l’hanno detto: se ti comporti male finirai nel tunnel nero. Ma io sono ancora qui!

I due risero poiché sapevano che i comportamenti di Eva erano spesso esagerati, cattivi, sfacciati. Non vi era dubbio, a Eva spesso piaceva fare la cosa sbagliata.

Alle otto e mezza di sera a Corte Stella si cenava. Una candida tovaglia copriva la grande tavola di noce, ricadendo abbondantemente ai lati. Elena aveva apparecchiato con molta attenzione, conoscendo la pignoleria della figlia. Doppia forchetta, doppi bicchieri, se no dava di matto. Eva aveva un innato senso borghese che Elena aveva cercato di estirpare, ma con scarso successo. Alla madre dava fastidio. Una volta nonna Elvira l'aveva difesa: «non è colpa sua, Elena, è il sangue dei Campogrande», riferendosi alla famiglia dell'uomo che aveva messo incinta Elena per poi abbandonarla. E quella fu l'unica volta che la piccola Eva sentì nominare il padre o la famiglia paterna.

Elena aveva preparato peperoni e zucchine grigliate, che facevano da letto, su un piatto blu, a una grossa mozzarella di bufala. Poi aveva cotto del riso al vapore e del seytan alla piastra. Nonna Elvira invece si era fatta portare una pizza dal Pronto pizza perché rifiutava per principio quella «roba vegetariana». Mangiarono in raccolta tranquillità, accompagnate in sottofondo dalle note di ballo liscio che giungevano da una festa popolare organizzata nel campo

sportivo. L'insolito quadretto familiare, tutto serenità, vide Eva conversare in modo disteso e pacato, nessuna puntata offensiva, neanche uno dei suoi scatti polemici. Le parole di fra' Giacomo, prima, e la comunione nella messa al santuario, le avevano fatto bene, come sempre: balsamo per le ferite e sprone a migliorarsi. Intuiva, dalle parole del frate, che era necessario essere in pace con sé e con gli altri, anzitutto con le persone a lei più vicine, perché un giorno fosse esaudito il suo oscuro desiderio di amare in modo puro, dolcissimo e forte.

—Faccio il caffè — annunciò la nonna alzandosi.

Eva volle essere gentile: —E io ti aiuto a sparecchiare, mamma — disse alzandosi anche lei.

—Allora si metterà a nevicare! — esclamò Elena con finta rudezza, con un eloquente sorriso di gratitudine e felicità.

Eva considerò, nell'osservare il volto della madre, che forse era venuto il momento di una tregua: che era ora di liberarsi dalle recriminazioni e dal rancore. Ormai non sapeva neanche più come fosse cominciata quella sua guerra ostinata e perché, ma d'un tratto capì di avere sempre considerato sua madre colpevole dell'assenza del padre, di non averle neanche mai parlato di lui. Capì d'un tratto quanto fosse abietta la sua accusa; vide con improvvisa chiarezza tutto il dolore creato dalla sua voglia di distruggere, di assoggettare, di dominare.

Si sentì invadere da una serenità mai provata, e ricambiò il sorriso della madre. Bevve il caffè e, una volta sistemati i piatti nella lavastoviglie, l'abbracciò. Elena, abituata alla freddezza ipercritica e crudele della figlia, rimase dapprima immobile come un baccalà e poi ricambiò l'abbraccio, un po' goffamente.

Più tardi, nella quiete della sua camera, Eva osservava dalla finestra aperta i grandi pioppi e le fronde appena agitate da un vento leggero; le stelle che sparivano e riapparivano col moto lento di poche nuvole, il buio fondo e brillante di un cielo per nulla minaccioso. Sprofondò lentamente in quella quiete e quando si addormentò era svanita in lei, con ogni tensione e pensiero, anche la malinconia che sempre l'accompagnava. Una nuova convinzione l'avrebbe guidata d'ora in poi: esiste una via, semplice e diritta, per essere felici.

I preparativi per la festa in onore di don Luca avevano portato, quel mattino, un'animazione insolita a Mezzocampo. Operai e elettricisti montavano le luminarie nella piazza; il falegname preparava, nel cortile del palazzo ducale, la lunga tavolata dove i paesani avrebbero mangiato insieme. Donne anziane, uscite a curiosare, aiutavano come potevano mormorando frammenti di rosario per scongiurare una improbabile pioggia. Il grande palazzo quattrocentesco, che ospitava un'esposizione permanente d'arte contemporanea, era pronto per accogliere i visitatori che d'estate arrivavano con le navi fluviali, tutto addobbato di stendardi e bandiere. I ciceroni riavano fantasiose lezioni da propinare ai turisti creduloni, per sbalordirli con la storia di affreschi di scuola caravaggesca portati in luce da una ristrutturazione recente, affreschi che risalivano invece a mani assai più moderne, e maldestre. Altre guide istruivano, intanto, i primi villeggianti sulle tradizioni locali, come quella di strusciarsi la schiena a una certa colonna per propiziarsi la fortuna o chissà quali grazie divine. All'interno mostravano loro con orgoglio le antiche sale e i monumentali camini, tacendo però delle più prosaiche canne fumarie in cemento.

Una festa così non capitava spesso nel piccolo paese sulla riva destra del Po. Tutti volevano bene al missionario, e volevano dimostrarglielo. O quasi tutti, perché i carabinieri avevano dovuto abbandonare il loro sonnolento tran tran a causa di certi scalmanati che avevano imbrattato i muri del comune con la scritta in vernice rossa: cloro al clero, firmandosi con la croce nera anarchica.

Fu così che, quando Eva e Luisa si recarono in caserma come avevano stabilito il giorno prima, furono fatte accomodare in una saletta e abbandonate lì per

un'attesa interminabile, in un silenzio rotto solamente, ogni tanto, dalle grida provenienti da qualche stanza più in là. Le pareti erano d'un bianco cadaverico; le poltrone di pelle avevano più buchi di una fetta di emmental e l'odore di chiuso ristagnava su tutto. L'ufficio nel quale furono alla fine introdotte non era molto diverso, tranne che per il grande dipinto raffigurante una battaglia, sulla parete dietro la scrivania centrale, una riproduzione senza valore, in armonia con lo squallore del resto.

Luisa raccontò tutta la storia, di Alfredo e della somma che si era fatto consegnare con l'inganno, mentre un sottoposto scriveva al computer. L'aria di commiserazione un po' divertita che il maresciallo Salvaterra dissimulò a stento nel raccogliere la denuncia, fece capire a Luisa che difficilmente avrebbe rivisto quei soldi.

—Dunque, Alfredo Carrisi dopo aver circuito la signora... averle chiesto del denaro, proponendole false motivazioni, e ricevuto il medesimo nell'ammontare di euro cinquantamila, si rendeva irreperibile. Giusto così, signora? —chiese il sottoposto.

—Sì, è così — rispose sconsolata.

All'uscita della caserma Luisa fece un gesto di rabbia, trattenendo a stento il pianto. «Limitiamoci ai fatti» le aveva detto il maresciallo, cui poco interessavano il fascino di Alfredo da una parte, e le sue speranze, i sentimenti traditi, la sua disperazione dall'altra. Davanti ai fatti nudi e crudi, doveva ammetterlo, lei aveva fatto la figura della stupida.

—Non preoccuparti, noi andremo avanti — la confortò Eva.

—Oh, Eva, mi sento così sola; a nessuno interessa di me! Prima che tu arrivassi avevo pensato perfino di andare al santuario, accendere un cero, chiedere la grazia. Poi mi sono detta, cosa ci vado a fare io? E mi sono sfogata con un giro sull'argine in bici...

—Scusa Luisa cosa c'entra la preghiera con il giro in bici?

—Io credo in Dio, ma lo sai che non vado in chiesa.

Eva avvertì nettamente la responsabilità di mettere un po' d'ordine nelle idee confuse dell'amica.

—Credere in Dio non vuol dire essere cristiani, Luisa. Essere cristiani significa credere in Cristo, camminare sulla sua via di Verità. Ma come fai se non lo conosci? La fede è conoscenza. Altrimenti in chi credi? Non è come le donne d'estate che siedono fuori a spettegolare e guardano chi a: toh, guarda quello, è il figlio del tale, è tanto bravo... e quell'altro, sai chi è? Un vero diavolo. Eh no! Cristo bisogna conoscerlo a tu per tu, bisogna frequentarlo, seguire i suoi insegnamenti, amarlo. Questa è la fede.

—Ma tante cose che dicono i preti mi sembrano vecchie, fuori del mondo.

—Ma non c’entrano niente i preti! Comunque andiamo a rinfrescarci con una Cocacola che questa predica mi ha messo sete.

—Io un cappuccino.

—Con 'sto caldo?

—Già — fece laconica Luisa che odiava l'amica quando la costringeva a riflettere.

O meglio, odiava il riflettere, non l'amica; pensare la faceva sentire in imbarazzo con se stessa, la faceva quasi star male.

Appoggiato al bancone del bar c'era Brando, con l'inseparabile Beck's. Eva lo conosceva da una vita, avevano frequentato insieme la scuola dell'obbligo. Corse ad abbracciarlo.

— Brando, come stai?

—Si campa — rispose lui illuminandosi. — Ma certo, ora che ti ho vista sto meglio. Hai sempre degli occhi bellissimi.

—Piantala Brando, ne abbiam già parlato mi sembra. Tu sei un fratello.

—Grazie, sorellina. Comunque stasera c'è raduno alla spiaggia, facciamo un falò e mangiamo qualcosa, se vuoi venire con Luisa. — fece, accennando col capo al tavolino dove l'amica si era seduta col suo cappuccino.

—Luisa, vuoi venire stasera alla spiaggia del Po? — chiese Eva.

—A fare che?

—C'è una festa, ci invita Brando.

Luisa era ancora amareggiata e depressa, e pensò subito: non ci vado. Siccome, però, le ci voleva davvero poco per are dalla depressione all'allegria, e viceversa; e siccome ciò che davvero desiderava nel profondo era di poter dimenticare tutto quello che la faceva soffrire, guardò Brando e, sfoderando il più smagliante dei sorrisi, domandò: —a che ora?

—Alle otto e mezza. Voglio dire, inizia alle otto e mezza, ma potete venire quando volete, tanto staremo lì tutta la notte.

Brando Barbagallo era un ragazzo dalla pelle scura, i capelli neri, le folte sopracciglia che davano risalto a profondi occhi verdi; aveva il fisico di un nuotatore, con addominali scolpiti e lunghe gambe, leggermente curve. Era il terzo di tre figli, i due fratelli, di statura inferiore e molto sovrappeso, nutrivano per lui tanta ammirazione quanta invidia; i genitori lavoravano come operai nella vetreria vicina a casa, e non avevano grilli per la testa. Il ragazzo era stato a lungo un solitario, di carattere riflessivo e mite. L'aveva cambiato, sul finire dell'adolescenza, un'esperienza dolorosa: il suo primo contatto con l'amore. Colpa di una ragazza dalla quale Eva lo aveva messo inutilmente in guardia. Dopo qualche anno di alti e bassi quella l'aveva lasciato d'improvviso, senza neanche salutarlo, per inseguire il miraggio di una carriera nello spettacolo. A Londra.

Per Brando era stata una botta tremenda, come togliere di colpo l'acqua a una pianta in piena fioritura. Una specie di morte interiore. Cominciò a star fuori la notte; prese a ubriacarsi, lui che non aveva mai bevuto. Sempre pieno di rabbia, peggiorò gradualmente, si impasticcava, tirava di coca e si perdeva con donne di tutti i tipi. Per anni continuò a vivere ai margini e alla giornata, buttandosi via. Finché in un’alba gelida, davanti a una vetrina vide riflesso un estraneo devastato, ed ebbe pietà di sé. Così muoio pensò, e nel ribrezzo per la sua cedevolezza e vigliaccheria, troncò di colpo con ogni droga. Riprese l'università, rinnovando l'iscrizione fuori corso a Matematica: e cominciò a presentarsi agli esami, invece di falsificare il libretto come aveva fatto tante volte per ingannare i genitori. Si dette una regolata con le donne, che tuttavia continuavano a cadergli ai piedi. La sera però continuava a uscire, perché ormai non gli piaceva più stare da solo ma si divertiva unicamente nel movimento e nella confusione, al contrario di quand'era più giovane. Ecco perché aveva invitato Eva e Luisa alla spiaggia.

Il Po era straordinario nell'immobile cammino del tempo. Il suo fluire aveva attraversato anni e secoli, aveva visto battaglie e amori sfrenati sulle sue rive, aveva conosciuto piene devastanti e secche così dure da scoprire i piloni del ponte lì vicino. Era una misteriosa entità, solida e liquida insieme, pietrificata e fluida: potentissima, sembrava raccogliere in sé tutta l'energia del mondo per ridistribuirla, generosamente, tra la gente di Mezzocampo. Emanava forza e vigore. Parlava in un mormorio sommesso ma deciso che pochi sapevano decifrare; come ripetesse una parola segreta.

Quando Eva e Luisa arrivarono nei pressi del pioppeto vicino alla spiaggia, il grande disco rosso del sole era già scivolato per metà sotto la linea netta dell'orizzonte. Le due amiche si fermarono, cercando dove fossero gli altri, e videro i falò in lontananza.

—Che bella voce ha il fiume, alfabeto di vento e labbra d'acqua fanno così dolci i sui discorsi — sussurrò Eva con espressione incantata, persa in pensieri lontani.

—Cosa hai detto?

—Niente, niente, andiamo Luisa.

—Aspetta, quando guardo una pace così, mi torna sempre in mente come sarebbe bello sposarsi...— fece Luisa dalla piccola duna dov'era salita, col primo filare di pioppi alle spalle e il fiume di fronte.

Eva era impaziente: —Ancora il matrimonio, ma è una fissazione!

—Io credo che mi potrei realizzare se mi sposo. Tu non ce l'hai un sogno nella vita?

—Sì, certo. Il mio è essere vuota come un vaso vuoto, farmi più nulla del nulla. Senza nome — scandì Eva con un sorriso tagliente, perché sapeva che Luisa non avrebbe capito.

—Cosa vorresti essere? — Domandò infatti Luisa, confusa.

—Niente. Dai, adesso andiamo davvero.

Luisa discese il piccolo dosso di sabbia, evitando i bassi cespugli selvaggi, poi si incamminò con l'amica in direzione dei fuochi e del confuso, ma allegro, vociare.

Eva fu presto colpita da un odore inconfondibile.

—Carne bruciata, che schifo! — esclamò fermandosi.

—È solo una grigliata! — la rimproverò Luisa.

—Oddio, mi viene da vomitare.

—Ma è un profumo appetitoso!

—Quel cretino di Brando doveva avvertirmi... E poi, senti, queste sono costine ai ferri.

—Hai ragione: costine.

—Per me è troppo! Io rimango solo un quarto d'ora.

La sabbia entrava nei sandali di Eva e, solleticandole i piedi in un rudimentale massaggio, le toglieva un po' di tensione, le alleviava il fastidio di quell'odore odioso.

Luisa, per la prima volta da molti mesi, si sentiva leggera, riposata, nuova: tensioni e crucci di tanti giorni gravosi erano svaniti in quella serena aria estiva. Era contenta di aver indossato i pantaloni bianchi che valorizzavano il suo bel culo ancora sodo, e il top di paillettes azzurre, appena acquistati nel negozio di Mantova dove lavorava come commessa.

Mettiti un vestito un po' scollato aveva detto a Eva, fai un po' di pubblicità a quelle due tette che hai. Ma Eva non concedeva niente; sempre serrata come una fortezza, disprezzava le piccole vanità femminili e non cercava di farsi ammirare, bastava a se stessa e, dopo il colloquio col frate, figurarsi se aveva voglia di flirtare con qualche ragazzotto.

Quando furono sul luogo della festa, Eva cercò con lo sguardo Brando tra i giovani che chiacchieravano e scherzavano in piccoli crocchi, bottiglia di birra in mano o bicchiere di vino; poi tra le coppie che ballavano al ritmo di una musica ad alto volume. Lo vide infine, un po' distante, trafficare al barbecue e si diresse verso di lui, mentre qualcuno la fermava, complimentandosi per la recensione della sua mostra, apparsa sulla Gazzetta di Mantova.

—Basta così, che si monta la testa! — fece Brando raggiungendola.

Eva lo abbracciò e avvertì in quell'abbraccio qualcosa di intrigante, ma non erotico o sensuale: un calore stregato che le provocò come una scossa elettrica appena sopra lo sterno, tra i seni. Luisa era già in mezzo alla confusione, saltava e ballava senza un attimo di respiro, dopo un primo brindisi di riscaldamento. Si muoveva con energia e concentrazione sulle note reggae che inondavano l'aria, le ciocche sfuggite al nodo dietro la nuca che raccoglieva i capelli biondi e lucidi, svolazzavano di qua e di là ed Eva, guardando l'amica, sperò che quel volontario rintronarsi le servisse almeno a dimenticare.

Brando la teneva ancora, amichevolmente, per le spalle.

—Tu non balli, Eva? — le chiese ritirando le braccia e indicando il gruppo che si agitava ritmicamente.

Lei scosse il capo con forza: —No, io in mezzo a quei discotecari non ci vado. Non mi va e non sono adatta, lo sai. Preferirei stare a letto con la febbre, non ci posso far niente.

Brando sorrise.

—Vieni, buttiamo giù un goccetto. Ci farà bene.

—Io solo Cocacola.

—Perbacco! Niente ballo, solo Cocacola, beh, tu sai quel che vuoi e come averlo, mi pare. Ti ricordi cosa diceva tua nonna Elvira quando eri piccola? Che non eri una vera bambina, ma un incrocio con un mulo. Ricordi?

—Certo che ricordo — rise Eva.

Si diressero verso i tavoli delle bevande, uno coperto di bicchieri, tovaglioli di carta e una pila di piatti di plastica; l'altro pieno di bottiglie e lattine in grossi secchi col ghiaccio. A prima vista, niente Coca. Intanto il sole era scomparso sotto l'orizzonte e i fuochi scintillavano nel buio della spiaggia.

—Mi trovi un bicchiere di Coca per la mia amica Eva? — chiese Brando al ragazzo dei rifornimenti.

Il quale tirò subito fuori da un catino sotto il tavolo una bottiglia grossa e versò con foga la scura bevanda nel bicchiere che Brando gli porgeva, facendolo traboccare.

—Voilà — disse gentile Brando porgendolo alla ragazza, e accompagnò il gesto con uno sguardo tenero e ammirato, senza neanche accorgersi della mano bagnata di Coca.

Tutta la notte andò avanti così con Eva in disparte a parlare con qualcuno di arte e di letteratura, Brando attorniato di ragazze che gli sbavavano addosso e Luisa tra gli agitati a sballarsi con vino e pasticche di ecstasy. Alle tre Eva, la cui giornata finiva di solito alle nove e mezza di sera, prese Luisa per un braccio con l'intenzione di riportarla a casa, ma quando l'afferrò sentì i muscoli del suo avambraccio innaturalmente rigidi e guardandola negli occhi si accorse che non si trattava di una semplice ebbrezza alcolica, ma che l'amica era proprio partita, in una trance spaventosa.

Poi successe il fatto.

Il sole portò un nuovo giorno a Mezzocampo. Spazzò via la nebbia leggera che la notte crea sopra i campi anche in estate fatta. Il calore lambiva dal basso le colture pronte al generoso dono dei diversi raccolti. Il grande fiume era calmo e l'aria immota si rompeva ogni tanto in aliti di vento che increspavano appena la liquida superficie. I paesani erano sempre impegnati nella preparazione della festa ormai vicina.

Elena si era alzata prima del solito perché era il giorno della disinfestazione dei peri. Dopo una colazione frugale e consumata in piedi, si era diretta con nonna Elvira al lato sud della piccola proprietà, dove si trovava il frutteto con le piccole pere verdi in attesa d'aiuto contro i parassiti. Poi però s'era recata in paese, al mercato in piazza per fare la spesa e raccogliere qualche chiacchiera, lasciando nonna Elvira ai peri e alla disinfestazione. In casa Stella squillò il telefono. Eva dormiva ancora; si svegliò, tardando a rispondere perché pensava che la madre fosse in casa.

—Pronto? — mormorò poi con un filo di voce nella cornetta.

—Eva, sono Brando: scusa se ti ho svegliata.

—Brando, ma che ore sono?

—Sono le undici. Sai, ti ho chiamato per sapere come sta Luisa.

Eva, ancora confusa e assonnata, non capì di cosa parlava: —Non lo so come sta, perché lo chiedi a me? Ah, forse dovevamo portarla a casa... Ma ce l'abbiamo portata?

—Purtroppo quella pasticca di ieri sera che le hanno fatto prendere, credo proprio che fosse un mix bestiale di acidi. Ho paura, maledetti loro, che ne abbiano messa una anche nel mio bicchiere. Ma so chi è stato e faremo i conti più tardi. Una nottataccia così non mi capitava da anni, con gli incubi addirittura! Senti che sogno strano, mi sembrava d'essere un nano verde tutto

grinzoso e venivo fuori dalla terra con un gran botto.

Eva, che aveva ascoltato come ipnotizzata il fiotto di parole, si riscosse e finì di svegliarsi del tutto: —Ma è il sogno che ho fatto io, il mio sogno!

—Il tuo sogno?

—Un esserino verde e grinzoso. Uguale.

Tacquero entrambi. Un silenzio pesante, imbarazzato e pieno di interrogativi.

—Forse è stata un'allucinazione — avanzò timidamente Brando a un certo punto.

—Non esistono allucinazioni collettive! — esclamò Eva alzandosi dal letto.

Quando fu in piedi, lo sguardo le cadde sul comodino e vide l'oggetto che l'essere le aveva donato la sera prima. Un oggetto bianco, sette centimetri più o meno, simile a una chiave. Le tornò il dolore nel petto e l'emozione nel cuore. Il legno del comodino era tutto bruciato. Lasciò cadere la cornetta; con un grido soffocato fece un o indietro, urtando nel letto, e vi ricadde lunga distesa.

—Eva, che succede? Rispondi, rispondi! — continuava a ripetere la cornetta a terra.

Le ci volle un poco a vincere lo spavento e lo stupore, poi si scosse, raccolse il telefono e con voce ferma scandì: —Vieni subito qui, c'è un problema. Grosso.

Nell'attesa che Brando arrivasse, raccolse i jeans, la maglietta e i sandali che erano sparsi ai quattro angoli della stanza. Si vestì in fretta e finalmente cercò di afferrare l'oggetto misterioso, ma si scottò i polpastrelli: allora prese una federa, ne tagliò la metà e la nascose sotto il materasso; con l'altra metà entrò nel piccolo bagno annesso alla camera e cominciò a bagnarla. Mentre scorreva l'acqua nel lavandino, si guardò allo specchio, il bel viso era tirato, gli zigomi prominenti e sensuali erano rossi per la tensione, gli occhi lievemente irritati. Si sentiva come un fuggiasco, perso nei boschi di un paese straniero. Prese la mezza federa e la strizzò; la piegò in due e con essa afferrò l'oggetto misterioso, poi la ripiegò ancora su di esso, riponendola infine nel cassetto del comodino. Udì i i della madre che saliva le scale; doveva inventarsi qualcosa per il comodino bruciacchiato.

—Ah, sei sveglia — disse la madre entrando.

—Non si bussa?

—La porta era aperta. Ma cos'è quest'acqua per terra? E questa puzza? Sembra che hai bruciato una gallina spennata... Il comodino! Guarda lì: che è successo?

—Ho solo uno zampirone, mamma. Con le zanzare non dormivo.

—Ma ci sono le zanzariere! Qui poteva bruciare tutto.

Elena fissò la figlia con sguardo indagatore, ed Eva si disse che non doveva raccontarle niente perché non avrebbe capito. Meno male, pensò, che la madre aveva accettato l'impegno di preparare dei dolci per la festa, così non aveva tempo per starle addosso a indagare.

—Tu non me la racconti giusta. Ti sarai mica messa a fumare?

—Fumare io? Neanche sotto tortura.

—Ti va bene che devo andare a preparare i biscotti per don Luca.

—Sì, vai mamma. Tra biscotti e torte finisce che don Luca sulle montagne del Perù non ci salirà più.

Elena rise e s'avviò verso la cucina. Eva si buttò sul letto; era esausta per lo sforzo di fingere e non avrebbe sopportato un minuto di più la presenza della madre, respirava con difficoltà e pensò d'avere l'asma; le faceva male la testa. Si alzò a guardare fuori dalla finestra. Si dovette appoggiare al davanzale perché le gambe le cedevano. La finestra era esposta a est e il sole l'abbagliava. Ebbe d'improvviso la visione, sullo sfondo del cielo, di Brando con una maglietta rossa e pantaloni blu, e subito dopo, come stessero scorrendo delle diapositive, lo vide in boxer azzurri con pesciolini colorati. Si coprì gli occhi, piena di confusione e fastidio. In quel momento si sentì suonare il camlo. Pregò per avere la forza di arrivare alla scrivania.

—Eva, — gridò la madre dalle scale — c'è Brando. —

Nessuna risposta; ma Brando disse alla signora Elena che Eva lo stava aspettando e lei lo fece salire. Trovò la ragazza seduta alla scrivania con lo sguardo assente, la fronte sudata e così pallida che si spaventò. Brando indossava una maglietta rossa e pantaloni blu.

—Fammi vedere le tue mutande — gli intimò brutalmente Eva, come risvegliandosi.

—Con tutto il tempo che ho aspettato, proprio adesso le vuoi vedere? — le rispose d'impeto, pentendosi subito e ancora più sicuro che qualcosa di terribile doveva averle sconvolto il corpo e la mente.

—Braaando, fai quello che ti ho detto!

Il ragazzo aveva dei boxer azzurri con piccoli pesci colorati.

—Oh, Dio! — fece Eva, con un filo di voce, coprendosi il volto con le mani.

—Beh, non esagerare. Ma se non ti piacciono li tolgo: magari ti potresti divertire.

—Ah, è così, mi dovrei divertire! Vorrei proprio dirti qualcosa sull'argomento, ma ora non c'è tempo. Qui succedono cose folli, da impazzire. Prima percepivo eventi futuri in modo vago, e poteva anche essere un caso, un'intuizione. Ma sai cosa è appena successo? Che io ti ho visto prima che arrivassi, visto esattamente, fino alle mutande.

—E adesso cosa vedi? Perché stare qui con i pantaloni giù, insomma non sono mica di marmo! — fece Brando con un tocco d'umorismo maschile un po' greve, ma stavolta per sdrammatizzare.

—Tirateli su!

Brando, dopo essersi allacciato la cintura, si avvicinò a Eva e l'abbracciò fraternamente. Sentì che la ragazza tremava, la osservò meglio e vide che era davvero sofferente. Cercò di tranquillizzarla; le domandò cosa poteva fare per lei e cosa aveva provocato quello stato di alterazione quasi isterica. Lei tentò di spiegargli, ma riuscì solo ad accavallare tra loro frasi senza molta logica. Così si decise: —Brando apri il cassetto del comodino. Egli fece come diceva; notò la vistosa bruciatura sul legno, e mentre apriva lentamente il cassetto ne vide uscire un filo di fumo, o di vapore.

—Cos'è? — chiese ritraendosi.

—Prendi quel panno ripiegato che c'è dentro.

Brando prese la federa ripiegata e la sentì umida e calda tra le mani, aprì i lembi uno alla volta e, vista la piccola chiave bianca, emise un sibilo dalla bocca contratta in un'espressione di meraviglia.

—Cosa sta succedendo? — chiese poi spaventato. — La cosa che ti ha dato quel piccolo mostro... ma questo era il mio sogno di ieri notte, accidenti! Questo è uno scherzo da schifo!

—Nessuno scherzo, Brando, è tutto vero! — lo interruppe Eva piangendo.

Dai grandi occhi scuri lasciava fluire ormai, senza più trattenerle, lacrime disperate; la mente che non riusciva più a pensare, il corpo rigido.

—Ma come? Eva, guarda che non siamo in X-Files. — Brando volle provare ancora, ostinatamente, a sfuggire l'evidenza; posò la federa bagnata e quel che custodiva sul comodino: — A me non interessa il mistero, non sono fatto per queste cose e non ci credo.

—Brando, per favore, così non mi aiuti.

—Ma che dovrei fare? Magari ti stai burlando di me...

—No. — lo interruppe Eva più calma, smettendo di piangere — Se non vuoi credere a me, padronissimo. Ma guarda quella cosa lì, la chiave, quella la vedi? A quella puoi credere.

Brando la guardò negli occhi e vide la sua fede, il suo sconcerto, per lui però sarebbe stato troppo difficile rinunciare improvvisamente alla confortevole certezza che deriva dalla razionalità delle dimostrazioni, dalle prove logiche o sperimentali.

Tutti e due fissarono l'oggetto e il filo di vapore dovuto al calore che emanava, poi incrociarono gli sguardi cercando una risposta l'uno dall'altro.

—Eva, ascolta. Esaminiamo i fatti: qui c'è questo oggetto strano; sembra un pezzo di onice.

—Non è onice. Non vedi che è un osso?

—Un osso? Minerale, è un minerale ... comunque riordiniamo i dati. Abbiamo un oggetto, e adesso dobbiamo sapere che cosa è, a cosa serve, se possiede un'utilità pratica. Insomma dobbiamo farlo analizzare. — concluse Brando.

—Analizzare da chi? — Eva sobbalzò. — Non posso separarmene. —

—Non vuoi sapere di cosa è fatto?

—Vorrei. Ma a pensare che me lo porti via… ieri sera, quando quell'essere verde ha posto questa cosa misteriosa nelle mie mani, ho provato un'emozione indescrivibile.

—Ho trovato! Posso portarlo a sco Martoni, un mio amico che fa chimica all'università di Verona. Lui ha accesso ai laboratori — continuò Brando ignorando le resistenze di Eva.

—E cosa gli dici? Sai sco, ieri sera abbiamo incontrato un omino verde che usciva da sotto terra.

—Ma non gli dico proprio niente, solo il minimo indispensabile che ho trovato un oggetto per terra, e per la sua capacità di emettere un calore costante mi sono incuriosito parecchio.

—Forse mi hai convinto. Non c'è altro da fare, purtroppo. Vengo con te?

—Meglio che vada solo.

—Va bene. Ma non farti vedere da nessuno, e assicurati che anche il tuo amico mantenga il segreto. Che tratti quella cosa come una creatura appena nata. Con delicatezza, diglielo! E comunque non voglio starne separata più di due giorni.

Uscito Brando, Eva non provò alcun sollievo. Un brutto presagio, al contrario, la teneva in allarme. Si chiedeva se fosse quella la strada giusta per scoprire natura e fine della chiave misteriosa.

DOPPIO INCONTRO CON TOMMY KILPATRICK

Verona era calda come una ciambella appena sfornata. Davanti all'università alcuni studenti, zaini in spalla e libri sottobraccio, formavano piccoli gruppi, scambiandosi appunti e informazioni per gli ultimi esami della sessione. Brando, scuro in volto, e stringendo in mano il pacchetto con l'oggetto misterioso, li scansò per entrare dalla porta principale fatta ad arco. Oltreò i portici e il cortile con la piccola fontana; entrò nello stabile, percorse il corridoio con le finestrelle a oblò, chiamò l'ascensore per il secondo piano.

Le lezioni non erano ancora finite. Attese l'amico fuori dall'aula, appoggiandosi al muro e cercando di scaricare la tensione. Il sole faceva rilucere granelli di polvere nell'aria; il chiacchiericcio di due ragazze davanti a una bacheca rompeva un silenzio altrimenti assoluto. Finalmente la porta dell'aula si aprì e gli studenti cominciarono a uscire. sco era tra i primi; vide Brando e gli si avvicinò, salutandolo con una pacca sulla spalla.

—Che ci fai qui a Chimica?

—Ti devo chiedere un favore — disse Brando con circospezione.

—È successo qualcos... Ehi, guarda c'è Linda Diaz!

La ragazza, un tipino da erella con i lunghi capelli ossigenati che arrivavano a sfiorare un culetto bomba, si girò di scatto. Era infatuata di Brando come molte altre, e vedendoselo davanti così inaspettatamente si emozionò talmente da lasciar cadere tutti i libri per terra.

—Scusate — disse arrossendo, mentre Brando correva ad aiutarla.

Linda aveva il fisico di una Barbie, e purtroppo non molta più intelligenza. Dedicava molto tempo a jogging, judo, pilates e altri sport veri o presunti, secondo moda e predilezioni del momento. Preferiva la cura del fisico allo studio, ma gli esami non ne risentivano e marciava a colpi di trenta. Naturalmente il segreto di così bel rendimento era noto a tutti: si trattava del padre, uno dei politici di maggior potere in città.

Brando stringeva con forza la scatola contenente la chiave, mentre con la mano libera aiutava la ragazza a raccogliere i libri, e dei fogli sparsi. I loro sguardi s'incrociarono. Negli occhi azzurro chiaro di Linda c'era un messaggio diretto: «invitami a uscire con te Brando, non te ne pentirai!* E magari lui l'avrebbe anche fatto, perché quell' attimo di vicinanza gli aveva già fatto un effetto più che notevole, considerate le circostanze: ma arrivò proprio in quel punto preciso il fidanzato di lei. Il dottor Tommy Kilpatrick.

Il dottore si era laureato in medicina due anni prima e faceva il tirocinio in ospedale, conservando però il legame con l'università: dirigeva il giornale interno, ma soprattutto teneva d'occhio la fidanzata. Oltre le pose da timida ragazza per bene, Linda nascondeva difatti una forte irrequietudine, e la propensione a non negarsi nulla tra capricci, infatuazioni e piaceri anche troppo arditi. Diverse volte il dottore aveva visto Linda parlare con Brando: e aveva notato come le brillassero gli occhi.

Kilpatrick non poteva perdere Linda perché con lei gli sarebbe venuto meno il grande alleato che in prospettiva vedeva nel futuro suocero, colui che gli avrebbe assicurato promozioni, carriera e finanziamenti. L'iniziale avversione per Brando si stava tramutando in odio. Doveva farlo buttar fuori dall'università, ma gli serviva un pretesto. Così quando lo vide allontanarsi con l'amico sco

Martoni, decise istintivamente di seguirli. Guardò dal buco della serratura dopo che i due si erano chiusi dentro un'aula vuota. Vide Brando aprire un pacchetto, estrarre da una piccola scatola un fagottino fumante, appoggiarlo sul tavolo. C'era qualcosa, qualcosa che non riuscì a capire cosa fosse perché sco si chinò per osservarlo.

—Sembra un reperto archeologico, ci sono particelle di…

Di scatto Brando corse alla porta e la spalancò. Aveva avvertito, come un malessere fisico, la sensazione d'una presenza ostile e l'impulso violento a fare quello che aveva appena fatto. Trovò Kilpatrick che stava arretrando.

—Cosa fai qui? — lo investì Brando.

—È proprietà tua?

—Uno come te si abbassa a origliare a una porta? Vergogna. Lascia perdere le cose che non ti riguardano e fila via.

—Cose, quali cose? Ma fammi il piacere signor campagna. Vai a casa e fatti una pasticca per calmarti!

Il dottore cercava di colpire Brando nei suoi punti più deboli, ma la risposta chiuse la questione.

—Meglio che a casa ci vai tu, a sistemare le cose tue, cornuto!

Kilpatrick ebbe un sussulto, l'orgoglio ferito gli procurò quasi un attacco di bile e una voglia rabbiosa di scagliarsi sull'altro. Si consolò pensando che la sua vendetta, al momento giusto, sarebbe stata tanto più terribile. Si trattenne, e ostentando un sorriso di disprezzo s'allontanò.

—Non c'è da mettersi contro Kilpatrick — disse sco che non si era mosso dall'interno della stanza.

—Non mi fa paura — ribatté Brando.

Egli non biasimava sco, che con il suo aspetto gracile, la statura modesta, la pelle bianca e sottile, non poteva certo competere con l'aitante dottore. Avrebbe voluto tuttavia spiegare all'amico che l'audacia paga sempre, e non bisogna mai piegarsi. Ma sapeva che sarebbe stato inutile e lasciò perdere.

—sco, torniamo a noi. Cos'è quell'affare secondo te?

—Di preciso non lo so — rispose Martoni, chinandosi ancora sul tavolo.

—Potrebbe essere un pezzo di onice?

—Niente onice. Ma non capisco questo calore: ha una temperatura anomala; dove l'hai tenuto?

—Scotta di suo. L'ho messo nella stoffa bagnata, se no brucia la superficie dove lo metti.

—Questo è strano davvero! Comunque bisogna prima stabilire una datazione, se fosse un reperto archeologico non potremmo tenerlo. Dovremmo denunciarne il ritrovamento.

—Non adesso sco, prima scopriamo cos'è, da dove viene e a cosa può servire.

—Dove l'hai trovato?

—In spiaggia, alla riva del Po.

—Ascolta, non vorrei mettermi nei guai, ma ti aiuto per la nostra amicizia. Non è semplice, qui ci vogliono esami sofisticati: carbonio 14, spettrografo di massa.

—Grazie, amico mio! Solo una cosa, te lo posso lasciare soltanto due giorni.

—Farò il possibile.

sco riavvolse l'oggetto, rimettendolo nella scatola.

In parte per la situazione strana in cui era capitato e in parte per lo screzio con Tommy Kilpatrick, Brando era in piena agitazione. Tornando a Mezzocampo cercò di dominarsi, perché doveva vedere Eva per raccontarle com'era andata, e non voleva aggravare il suo stato ansioso.

Mentre suonava il camlo di casa Stella fu preso dalla tentazione di fuggire, tornarsene subito alla sua vita, una birra al bar, una ragazza, lo studio, la tesi da cominciare. Ma Elena stava già aprendo la porta, seccata di aver dovuto interrompere la preparazione dei tortellini di marmellata e amaretti per la festa di Don Luca.

—Ancora qui?

—Signora Elena, scusi se disturbo, ma devo vedere Eva.

—Ragazzi, ma cosa state combinando? Perché io non sono mica nata ieri — fece lei con aria battagliera.

—Combinando? Non sentivo questa parola dal millenovecentosettantatre. Non si preoccupi, non ha niente da temere — rispose cortesemente Brando.

—Quando qualcuno mi dice di non preoccuparmi è giusto l'ora che mi viene in mente come a pensar male si fa peccato ma ci si prende sempre.

—Liberissima di pensare bene o male. Eva è nel suo studio? — tagliò corto il

giovane.

—No è in camera sua. Oggi mi sembra un po' depressa, ha bevuto un caffè e poi è tornata su, muta come un pesce.

—Posso salire allora?

—Vai, giovanotto, ma non fare sciocchezze! — concluse Elena tornando in cucina.

Lo fece salire controvoglia, perché era un bel ragazzo e lei non poteva vincere il sospetto, o il timore, che sotto il suo tetto si accendessero ioni proibite, e si consumassero chissà quali peccati. Brando invece raccontò a Eva il suo incontro con sco Martoni, e stava per dirle di Kilpatrick quando squillò di nuovo il camlo.

Elena andò ad aprire, ripulendosi le mani dalla pastella per i biscotti, sempre più sospettosa che stesse succedendo qualcosa a sua insaputa.

—Luisa?

—Proprio io, buongiorno! C'è Eva?

—Sì, per esserci c'è. Ma non si sente molto bene, e poi c'è Brando con lei.

—Bene — fece la nuova venuta mentre legava l'inseparabile Gabri a un paletto fuori della porta. — L'importante è che ci sia. Posso entrare? —

—Eva è di sopra, vai pure — rispose Elena, mandandola mentalmente a quel paese.

Luisa bussò alla camera da letto dell'amica.

—Mamma cosa c'è? — La voce di Eva era chiaramente scocciata.

—Sono Luisa.

—Luisa, vieni! — esclamò Brando.

La ragazza aveva due occhiaie ripugnanti, un colorito giallastro e l'umore d'un condannato all'ergastolo. Guardò i due e il vederli insieme la prostrò ancora di più.

—Ragazzi che incubo ho avuto stanotte. E c'eravate anche voi...

—Lo sappiamo — la interruppe Brando.

Silenzio generale, pieno d'imbarazzo. Alla fine fu Luisa a romperlo con un fiume di parole.

—Sei stato male anche tu? Io non sono neanche andata al negozio. Ieri ho preso un giorno per andare dai carabinieri, va a finire che mi licenziano. Dev'essere stata quella roba che mi hanno dato ieri sera; non volevo, ma alla fine una pasticca o due. Poi mi sono sentita male e non ricordo più niente. Niente tranne l'incubo: un terremoto, una strana creatura verde che usciva…

—Da un cratere sulla strada — continuò Brando.

—Come lo sai: era mica un film?

—No Luisa, era la realtà! — disse Eva.

Ci volle mezzora buona per spiegare all'amica quanto era successo, con tutti i particolari. Alla fine Luisa, sbalordita, si ricordò del motivo che l'aveva portata a Corte Stella.

—Ragazzi, se credete che quel che avete visto finora sia il massimo dell'horror, allora non avete visto questo.

Tirò su i pantaloni fino al ginocchio.

Eva scattò in piedi: —Madonna santissima!

—Andiamo subito al pronto soccorso — le fece eco Brando.

Scesero le scale a valanga e uscirono, inseguiti dalle domande preoccupate di Elena.

—Mamma, un piccolo incidente, Luisa si è tagliata! — le gridò Eva mentre i tre salivano con Gabri nell'auto di Brando.

Porca puttana continuava a ripetersi Brando al volante del suo Grand Cherokee bianco. Non voleva guidare ancora fino a Verona, con tutte quelle tensioni temeva di uscirne pazzo. Ma la prudenza gli consigliava un pronto soccorso lontano da casa, perché le ferite di Luisa sembravano provocate da un alieno. Scartò a malincuore l'idea dell'ospedale di Mantova e si diresse verso il pronto soccorso di Borgo Trento a Verona.

—Chi vuoi che ci conosca là — si giustificò con Eva.

—Guarda Brando, parlo per esperienza — gli ribatté lei; — se vuoi fare una cosa di nascosto e scegli anche il posto più lontano, va sempre storta. Io suggerisco di andare in un ospedale più piccolo, come Bussolengo. Non mi piace questo Borgo Trento...

—Perché?

—Non lo so, è una sensazione. Mi sembra che andiamo a ficcarci in una

trappola.

—Esagerata! Tu Luisa che dici?

—Per me è lo stesso, un pronto soccorso vale l'altro.

Eva non disse più una parola. Fino a Verona. Quando arrivarono erano ormai le sei del pomeriggio e l'afa toglieva il fiato. La saletta d'attesa del pronto soccorso era affollata d'un campionario quasi completo di sofferenze. Eva e Luisa furono fatte are in una stanza disadorna, con pochi armadietti e una scrivania, per la registrazione.

—Cognome e nome! — intimò l'infermiere seduto dietro la scrivania.

—Torrisi Luisa.

—Numero di tessera sanitaria?

Luisa estrasse il cartellino ocra chiaro dal portafogli.

—Allora, che problema ha?

—La mia amica si è fatta male alle gambe — rispose Eva per lei.

—Male come?

—Si è tagliata.

—Va bene. Possiamo vedere?

Luisa sollevò i pantaloni; l'infermiere si chinò e, anche se abituato a tutto, sbarrò gli occhi e si rialzò subito, dicendo secco: —Codice rosso!

Vennero accompagnate in una stanzetta piastrellata di bianco; Luisa, tolti i pantaloni, fu fatta sdraiare su un lettino. Le chiesero se sentiva dolore, e lei rispose confusamente che forse sì, forse no. Venne fuori che aveva preso un Aulin e due pastiglie di Tavor poche ore prima. Finalmente arrivò il medico, un giovane moro con piccoli occhiali da intellettuale che contrastavano col suo metro e ottanta e l'aspetto atletico. Sul camice il cartellino col nome: dottor Tommy Kilpatrick.

—Vediamo un po' questa bella signora — disse mentre dava un'occhiata alla cartella che gli aveva preparato l'addetto all'accettazione. — Mi spieghi cosa è successo. —

—Luisa si è tagliata! — intervenne Eva.

Il medico sollevò il lenzuolo e rimase sconcertato. Le ferite presentavano un colore verdastro, ripugnante: all'aspetto più flemmoni che bolle, ma in realtà solo

superficiali, con un liquido vischioso di suppurazione su tutta la lunghezza, che arrivava ai trenta centimetri per ogni gamba.

—Ma come si è procurata queste lesioni? — chiese dissimulando appena un'espressione schifata.

—Mi sono scottata — rispose Luisa socchiudendo gli occhi.

—Non si era tagliata? — fece dubbioso il medico rivolgendosi a Eva.

—Vede, è stato un attimo, non sappiamo bene come è potuto succedere. Stavamo preparando dei fuochi d'artificio. — improvvisò Eva.

—Aspettatemi qui.

Uscendo nel corridoio per andare a cercare qualche dottore più anziano, il dottor Kilpatrick intravide Brando nella saletta delle registrazioni. Si accostò alla porta, senza farsi vedere, e lo sentì chiedere informazioni riguardo due ragazze, una delle quali con ferite alle gambe. Capì subito che c'era qualcosa di poco chiaro e che gli si stava presentando un'occasione da sfruttare, anche se per ora non aveva un quadro completo della situazione. Tornò subito dalle ragazze. Per sua fortuna infermieri e medici erano tutti occupati coi nuovi arrivi: un coma diabetico, un infarto in corso e un pluritraumatizzato da incidente stradale. Fece finta di cercare qualcosa in un armadietto, poi chiamò spazientito: — Alice, qui non trovo il Rifocin!

Nessuno rispose, perché nessuna Alice lavorava al pronto soccorso.

—Quando hai bisogno di un'infermiera non c'è mai! — commentò con rabbia, quindi rivolto a Eva: — Signorina, mi farebbe la cortesia di cercarmi un'infermiera?

Eva uscì subito. Kilpatrick aspirò velocemente con una siringa un po' del viscoso fluido verde, eseguì un regolare prelievo di sangue, poi si mise le due provette in una tasca del camice. Pulì le ferite, ed ebbe la conferma che non si trattava di flemmoni, erano decisamente superficiali, come ustioni lievi ma d'aspetto diverso, mai visto. Pensò che poteva azzardarsi a dimettere la donna senza ricovero e tenere il caso per sé, vedendo cosa poteva cavarne. Pulì con accuratezza, usò il Rifocin che era lì in bellavista e applicò delle garze con accuratezza.

—Mi brucia! — disse Luisa che non si era accorta del prelievo.

—Ho finito signora.

Luisa sospirò mentre Eva tornava annunciando che l'infermiera era in arrivo.

—Beh, ce la siamo cavata lo stesso — fece allegramente il dottore. — Ora le prescrivo un antibiotico e il necessario per le medicazioni. Le faccia con scrupolo due volte al giorno; niente bagni, un po' d'attenzione e vedrà che in pochi giorni è tutto risolto. Comunque le segno anche il mio telefono: mi chiami subito se c'è qualcosa. —

Questo ci sta ingannando sussurrò una voce nella testa di Eva. E la ragazza fu ancora più turbata dall'ombra che, come in un'allucinazione, indovinò dietro il dottore, una sorta di gnomo danzante con una provetta in ognuna delle due mani.

Il dottor Kilpatrick salutò con un largo sorriso e Eva notò per la prima volta i suoi denti da roditore. Proprio in quel momento arrivò Brando il quale, preoccupato di non vederle ancora di ritorno, aveva trovato via libera.

—Kilpatrick! Mi venga un colpo — esclamò con stupore.

Il dottore rimase immobile per un istante.

—Olà Barbagallo, due volte in un giorno è un po' troppo. Che fai, mi vieni dietro?

—Ma voi due vi conoscete? — chiese Eva piena d'inquietudine.

—Sì, purtroppo ci conosciamo io e il signore — ironizzò il giovane, trattenendo la rabbia.

—Beh, adesso devo proprio andare. Signore care, signor Barbagallo, a presto.

Una brutta sorpresa attendeva i tre amici nel parcheggio. Gabri, che avevano lasciato nell'abitacolo per tutto quel tempo, aveva completamente sbranato i sedili del Grand Cherokee. Dagli enormi sbreghi fuoriusciva un'imbottitura

chiara e soffice come schiuma. Luisa scoppiò in pianto; Brando cominciò a prendersela col cielo saltando come un invasato e tirando pugni sul vetro dalla parte dove si trovava il dobermann, il quale cominciò ad abbaiare, seccato da quel casino. Soltanto Eva mantenne la calma, pensando a come uscire dalla situazione.

—Basta! — disse alla fine. — Saliamo in macchina, che a casa dobbiamo tornarci comunque. —

—Brava, — sbottò Brando. — Io apro e quello ci sbrana tutti. Non vedete che è impazzito? E se non lo fa lui lo faccio io, lo strangolo, lo riduco a spezzatino! —

Luisa si slanciò verso la portiera: —Nooo! È buono, non ti preoccupare. Solo un po' vivace; aprimi ti prego, che provo io.

Brando aprì. Il cane, appena la padrona lo toccò, cominciò a fare lo svenevole, leccandola tutta e scodinzolando come il più innocente dei cuccioli.

—Hai fatto il cattivo, piccolino! — lo rimproverò Luisa carezzandogli il muso.

L'idillio stava facendo infuriare Brando ancora di più, Eva fu abile a distrarlo indicandogli l'ora tarda e la necessità di partire subito. Luisa teneva Gabri vicino a sé e gli accarezzava il pelo lucido, cercando di capire dalla sua espressione il motivo di quell'atto, tanto violento quanto per lui insolito. Cane e padrona si guardavano con complicità quando, a un tratto, Luisa si accorse che una pupilla di Gabri era spostata nell'angolo esterno dell'occhio sinistro.

—Eva, guarda, Gabri è diventato strabico!

—Sì, buonanotte — la investì Brando. — È la cancrena che dalle gambe ti sta salendo in testa piuttosto.

Luisa non rispose. Eva vide l'occhio del cane che aveva davvero qualcosa di strano; si slacciò la cintura di sicurezza e si mise giù per osservarlo meglio, alzandogli il muso. C'era lo strabismo, e intorno alla pupilla si vedeva un cerchietto verde.

Si risistemò sul sedile, allacciandosi la cintura.

—È tornato normale! — esclamò Luisa.

—Adesso, forse — disse calma Eva. — Ma io ho visto che era strabico e aveva la pupilla cerchiata di verde. Dobbiamo riflettere, questi sono tutti segni; è come un puzzle da ricomporre.

—Io devo riflettere a come ricomporre i sedili della mia macchina — l'interruppe polemico Brando. — Sai quanto costano? —

Eva lo seguì nella nuova piega della conversazione e chiese a Luisa: — Il tuo Alfredo non ti ha per caso assicurato il cane?

—Non posso dirlo con esattezza, io gli ho dato i soldi per le assicurazioni, ma

ora ho paura che li abbia usati per sé.

Scoppiò a piangere.

Non accadde altro fino a Mezzocampo. Erano stanchi e presto svanì sia il pianto di Luisa, sia l'ira di Brando. Le due ragazze furono vinte dalla sonnolenza e Brando guidò finalmente privo di pensieri.

ANCORA A MEZZOCAMPO

Il profumo dolce di biscotti appena sfornati svegliò Eva che scese dabbasso per assaggiarne qualcuno. Il grande orologio della cucina segnava appena le sette e trenta, ma dalla finestra aperta si vedeva già il mondo fervente d'attività e di lavori della campagna.

La proprietà presentava un leggero avvallamento al lato ovest proprio dove, in fondo, sorgeva la porcilaia. Lì si dirigevano ora un paio di contadini con dei secchi colmi di pastone; e tutti i giorni controllavano che i maiali fossero in buona salute, l'allevamento era prezioso per la piccola azienda agricola. Nonna Elvira era in mezzo all'aia a curare galline e tacchini, mentre il pavone correva, attratto da qualcosa, verso la strada statale.

—Prendi il pavone! — gridò nonna Elvira a un contadino.

Appena si accorse d'essere rincorso, il pavone cambiò velocemente direzione, lanciando il suo stridulo e fastidioso verso acuto. Eva si chiedeva dove si trovasse la madre. Sul piano della cucina la placca dei biscottoni caldi e la moka piena di caffè: non doveva essere lontana. La ragazza si mise ad apparecchiare la tavola con tovaglia bianca, piattini, tazze e posate scelte tra le più belle; colse in giardino delle roselline fucsia e le compose in un bel mazzetto dentro un piccolo vaso al centro del tavolo.

—Ma cosa hai tirato fuori? Eva, poi è tutta roba da lavare! — si lamentò Elena rientrando con una grossa cesta di panni.

—Mamma, devi imparare a trattarti bene, è più bello mangiare su una tavola preparata con cura.

La donna guardò la figlia, con la frangetta spettinata sembrava ancora una bambina. Le invidiava quella forza prossima alla testardaggine che si trova nell'infanzia innocente; e quel vigore dell'immaginazione che gli anni non le avevano affievolito.

—Per me è tempo sprecato. Ma se va bene a te fai pure. E ora siediti dai che ti verso il caffè — concluse troncando ogni possibile discussione.

Eva sedette a gustare i biscotti fatti con la pasta frolla e le uvette; sorseggiò come una principessa il buon caffè che sapeva fare sua madre. Elena colse subito l'occasione per poter finalmente sfogare la sua curiosità.

—Puoi dirmi adesso cosa è successo ieri a Luisa, quando siete corsi via come degli indiavolati?

—Si era tagliata con una bottiglia.

—Una bottiglia, ma cosa dici?

—Una bottiglia. Che c'è di strano?

—Eva, se tu hai un pregio è quello di essere sincera. Le bugie non ti riescono

bene.

—Mamma, va bene. Mettiamola così, non posso dirti cose che riguardano qualcun altro. Lo capisci vero?

—Sei sicura che non riguardino anche te? Sei strana. Più strana del solito voglio dire. Mi sembri confusa. Se soffri, dimmi cos'è.

—Basta mamma. Se non posso, non posso. Non preoccuparti.

—Sono tua madre, certo che mi preoccupo. Stamani ho trovato sul parquet e sulla scala un'infinità di pezzettini di spugna bianca. A parte che ho dovuto pulire tutto, mi domando che diavolo sta succedendo.

—Siamo andati al pronto soccorso. E la spugna veniva dai sedili della macchina di Brando che il cane di Luisa ha praticamente distrutto. Sei contenta?— fece Eva con il tono di chi considera chiusa una conversazione.

—Povero Brando, lo compatisco. Quando c'è di mezzo quella Luisa...— Elena tirò un lungo sospiro.

—Vado a vestirmi — disse Eva alzandosi.

Mezzora dopo Eva era pronta per uscire. Aveva fatto la doccia, come ogni mattina, il contatto con l'acqua calda la rigenerava; e si era velocemente data un

filo di trucco. La sua bellezza, naturale e vigorosa, non aveva bisogno d'altro. E lei lo sapeva.

—Dove vai alle otto e mezza di mattina? — le chiese la madre con fare inquisitorio.

Dicendosi mentalmente, se dice di farmi gli affari miei va bene, altrimenti dovrò andare a rovistare nella sua roba.

—Sai, vado a fare un giro, credo di essere stanca delle tue domande da Sherlock Holmes. Anzi, ne sono sicura: farò un giro sull'argine. Voglio vedere il Po. — rispose Eva distrattamente.

Allora dovrò rovistare nella sua roba pensò Elena.

Quando era in difficoltà, quando soffriva, quando non sapeva cosa decidere Eva aveva sempre una medicina infallibile e un grande consolatore: il Po. Considerava il fiume un'entità benefica e viva, capace di modificare la vita e la mente delle persone che gli abitano vicino. Non è possibile bagnarsi nella stessa acqua, si diceva. Noi dobbiamo avere la stessa forza del fiume, non cedere al ato e non guardare al futuro. Vivere solo l'istante eterno dell'acqua in movimento.

La ragazza era lì, osservava il fiume dall'alto dell'argine pieno di erba fresca. Nel cuore un miscuglio di sensazioni miti e opache insieme. L'acqua era azzurra nella parte centrale, ma rimaneva scura verso le sponde, dove gli enormi pioppi spandevano la propria ombra. Un impulso improvviso la spinse a scendere verso la spiaggia cosparsa di cespugli selvatici, poco lontano da dove due sere prima

era stata la festa. Inspirò l'inconfondibile odore della verità mescolato a quello dei pioppi e dell'acqua. Avvertì, come la sera dell'evento misterioso, un intenso bruciore nel petto, la stessa fitta nella parte sinistra. Il suo occhio del cuore cominciava a rivelarsi. Allora si spostò verso lo scuro dei pioppi, seguendo il leggero refolo. Come in un gioco di prestigio apparve al suo fianco il piccolo essere rugoso. Eva ebbe paura, ma poi si tranquillizzò perché il cuore le diceva chiaramente che nulla doveva temere. L'essere allora la guardò e cominciò a parlare.

—Custodisci ciò che ti è stato donato. — disse con aria misteriosa.

—Sì, ma che cos’è? E a cosa serve? E perché ha bruciato il mio comodino? E…

—Così è stato deciso. — disse dileguandosi lungo i filari dei pioppi.

—Aspetta…

Intanto l'acqua del Po si andava tutta increspando per l'arrivo di una grossa nave fluviale.

Il dottor Kilpatrick, smontato dal turno di notte al pronto soccorso, si era messo ad analizzare i campioni prelevati a Luisa. Il laboratorio di analisi dell'ospedale era attrezzato, modernissimo e soprattutto, a quell'ora, tutto a sua disposizione. I primi test del sangue, i più veloci, dettero risultati complessivamente normali. Già sul vetrino al miscroscopio invece il liquido essudativo delle ferite si rivelò un enigma: nessun segno di uno stato infiammatorio o infezione, niente batteri, niente necrosi niente elementi di globuli bianchi in disfacimento. Provò allora a ripetere dei test ematici sul liquido verde, dopo averlo separato, con una

centrifugazione, in più parti.

Per Kilpatrick, abituato al tutto e subito, anche quella breve attesa di un test impostato su una macchina efficiente e rapida risultava insopportabile. L'arrogante dottore, infatti, era il rampollo di una delle più ricche famiglie di Verona. Era nato quando il padre, l'industriale Antony Kilpatrick, re dei bulloni, aveva appena acquistato villa Silvia sulle colline veronesi. La dimora contava venticinque stanze, con cinque domestici a tenerla in ordine: la cuoca, due cameriere, il maggiordomo, il giardiniere. Quest'ultimo aveva il suo da fare con il grande parco, e le sue siepi di bosso disciplinate in belle geometrie, i teneri fiori colorati che la signora Anna Kilpatrick amava tanto, le piante da frutto dietro la casa, le due lunghe file di pini torniti come cipressi ai lati del grande viale d'ingresso. Il maggiordomo organizzava, con la vita quotidiana, anche le sfarzose feste del venerdì sera, quando i Kilpatrick ricevevano i loro importanti ospiti. In quei party si concludevano affari di livello nazionale; industriali e politici vi si ritrovavano per spartirsi fette di potere secondo le alleanze del momento. Signore abbondanti di curve e di peso, che gli abiti costosi non rendevano più attraenti, fingevano armonia con mariti che tutti sapevano cornuti.

Il piccolo Tommy crebbe in una casa piena di apparenza e di sfarzo, ma gelida e incapace di impartirgli una vera educazione. Imparò la finzione. Perché la verità è quella materia dura che si trova nel profondo di se stessi, scavando nella costrizione del dolore e dell'indigenza, o con una disciplina che sappia evitare scorciatoie e facili autoinganni. Tommy riuscì comunque diverso dai suoi genitori, se non nei difetti almeno negli scopi. Avvertiva fastidio e noia per quel mondo dorato ma non sapeva ancora dove l'avrebbero portato la sua prepotenza e il suo cinismo. Per arrivare a una meta, non basta avere una chiave in mano. Bisogna anche trovare la porta.

Quando vide finalmente i risultati dei test, Kilpatrick rimase sconvolto. I valori erano del tutto incomprensibili. Mentre il sangue prelevato a Luisa presentava una composizione normale, il fluido verde non mostrava le alterazioni di uno stato infiammatorio, ma un'abnorme concentrazione di globuli bianchi e relativi

elementi, una completa assenza di eritrociti e un'alta concentrazione di glucosio. Era impossibile che il corpo della donna potesse aver prodotto quella roba. Nello sforzo di risolvere il rompicapo, gli tornò in mente il misterioso pacchetto che aveva visto are dalle mani di Brando a quelle di sco Martoni. Mentre ava ad altri test, deciso freddamente a sfruttare il tempo che gli rimaneva, vide sulla parete un ragno dalla grossa testa verde. Sapeva perfettamente che non era reale. Questa sostanza è allucinogena… disse tra sé e rimessa ogni cosa al suo posto, lasciò il laboratorio, un momento prima che comparissero i primi tecnici, pronti a un nuovo giorno di lavoro.

Mezzocampo era sempre più in fermento per l'arrivo imminente di don Luca. Elena era sempre più lanciata a testa bassa nella sua crociata culinaria.

—Mamma, mi sembra proprio che esageri con tutti questi biscotti, torte, tortellini fritti. Sembra di vivere in pasticceria!

Eva era tornata dalla sua eggiata sugli argini del Po.

—Lo so che ti dà fastidio quest'odore di dolce, ma la conosci la virtù della pazienza? Mi sono presa un impegno e lo devo mantenere. Sai in quanti siamo al pranzo? Saremo in mille!

—Già, è tornato Garibaldi — fece Eva, che certe volte non sapeva trattenersi.

—Cosa?

—Niente, scusa. È solo che se io avessi bisogno di te adesso, dovrei mettermi in fila dietro i biscotti o la torta di carote.

—Ecco! La piccola Eva non è al centro dell'attenzione! Se hai qualcosa da chiedere, non girarci tanto intorno. Dimmelo.

—Va bene. Nel tornare a casa, mi è venuta in mente la bisnonna Lucia, sai che una volta era lei che armeggiava in cucina. Mi chiedevo se volessi venire con me a farle una visitina all'ospizio.

Elena sbarrò gli occhi. Decisamente a sua figlia doveva esser capitato qualcosa di sconvolgente, perché non s'era mai curata dei parenti. Era sempre e solo ossessionata dalla pittura. In effetti da quando era tornata da Milano non l'aveva ancora vista in studio a lavorare. Che si fosse innamorata di quel Brando? Possibile ma improbabile, pensò. E si rammaricò di non aver trovato il tempo di rovistare nelle cose della figlia.

—Dovrei infornare la torta di carote, quella là che hai detto che viene prima di te, ma la lascio lievitare ancora un po', abbiamo una mezzora buona di tempo, andiamoci subito.

—Sono pronta. Pensi che dobbiamo chiamare anche nonna

Elvira? È sua mamma. Se poi viene a sapere che siamo andate...

—Lasciamo stare. Fa casino con le infermiere, critica tutto. E poi è ancora

impegnata con quelli delle pere in campagna, per la disinfestazione.

Mentre parlava, Elena si era già infilata le scarpe nere fuori moda, leggermente consumate nel lato esterno dei tacchi quadrati.

Nel gerontocomio di Mezzocampo il più sano aveva l'Alzheimer, l'odore nei corridoi ricordava disinfettanti, carte da gioco e cibo. Seduti su vecchi divanetti vegetavano anziani dallo sguardo perso, alcuni immobili come larve, altri con tic e tremolii più o meno accentuati. Eva era colpita nel profondo dalla fredda realtà della vita che fugge e dall'afflizione, dall'amarezza, dal dolore che regnavano in quel luogo. Trovò la bisnonna Lucia seduta su una sedia a rotelle, presente e assente, con una mente che non dominava più, il corpo di gesso, gli occhi vitrei, una vita non più vita. Fu una visione che la colpì come una pugnalata. Si avvicinò alla bisnonna, le si inginocchiò a lato. Capì che era ato troppo tempo dall'ultima volta che era andata a trovarla.

—Nonna, hai visto chi è venuta a trovarti? — scandì Elena abbassandosi.

La vecchia girò il capo.

—Nonna, è Eva, la riconosci?

Allora l'anziana signora prese la mano della pronipote, e due lacrime tiepide scivolarono dagli occhi lisi, di colore indefinito, velati dalla patina che il tempo inevitabilmente v'aveva steso sopra: la patina che cancella il colore della giovinezza. In occhi così non si leggono più le colpe, quelle che tutti abbiamo, né la tenerezza dei ricordi più dolci. Eva si avvicinò e la baciò sulla guancia; l'anziana ricambiò con un gesto rigido e maldestro.

—Come sta la mia nonnina? — disse la ragazza con la pena nel cuore.

La vecchia sollevò piano le spalle e scosse la testa, non era in grado di parlare. Emanava una rassegnazione, uno sfinimento senza speranza, che per Eva erano sconvolgenti. La ragazza sedette per terra accanto alla sedia a rotelle. Parlò alla nonna, le ricordò momenti vissuti insieme, particolari della propria infanzia, finché non si accorse che lei non l'ascoltava, tutta presa dalle pellicine delle unghie, con un sorriso vuoto. La nonna sembrava conversare con gli spiriti. Forse era stanca di quel loro volerla riportare a una vita che per lei era morta e sepolta.

Eva e la madre la salutarono con affetto e s'incamminarono verso l'uscita. Nel corridoio un'anziana ospite dell'istituto, enorme ed evidentemente fuori di testa, afferrò Eva per un braccio apostrofandola con un ghigno da iena grassa: — Ha vist cà bela culana?

Eva rimase di sasso.

—La collana, Eva. Dille che è bella — la pregò sua madre.

—Ah, sì. La collana è molto bella — ripeté, persa in un disagio che la paralizzava.

Sentiva nel petto il bruciore dell'alcol su una ferita aperta. Tutto il giorno continuò a pensare alla visita della mattina. Adesso so come può finire il viaggio si diceva mentre stava riflettendo, sdraiata sul letto. Ecco dove si nasconde la

verità che invano cerchiamo…

In quel momento preciso, una penna cominciò a muoversi in aria tracciando una scritta tremolante sul soffitto, come a interrompere, o concludere, il suo pensiero: niente è perfetto, appena trovato! Eva la vide; sentì nella testa un sibilo acuto come una trafittura; un dolore nel cuore da toglierle i sensi. E svenne.

IL TRADIMENTO DI LUISA

Il dottor Kilpatrick era tormentato dall'enigma del fluido verde. Si sentiva come una biscia in un sacco, anche se un'immagine così, rudemente campagnola, non gli sarebbe mai venuta in mente. Sarebbero state necessarie altre analisi, più specifiche e sofisticate. Ma non si azzardava a mettere altri a parte del suo segreto. Allora decise di affrontare il problema da un altro lato.

Si trovava ancora all'ospedale di Borgo Trento. Tornò al Pronto Soccorso, dove lavorava, e su un terminale libero richiamò la scheda di registrazione di Luisa. Vi lesse: Torrisi Luisa, via dei Poeti 37. 40001 Mezzocampo (Mn). Ora sapeva dove andare.

Con un'ora di strada fu al piccolo borgo. Lo accolse una piazza a forma di ellisse, dominata dalla statua in bronzo di Don Luigi, il parroco eroe della lotta partigiana. Più avanti c'erano le prime rustiche abitazioni del paese, circondate da ettari di campi coltivati a frumento, mais, erba medica. Non era il tipo di posto che il dottor era solito frequentare, eppure qualcosa l'attraeva in quella spoglia semplicità. Vi avvertiva una logica coerente e piena di forza. Certo la gente che vedeva era vestita alla buona; mostrava la fretta di chi si deve agitare molto per avere poco, ma nell'insieme avvertiva l'armonia di un progetto ben riuscito, la generosità della natura assecondata e domata.

Proseguì fino al centro di Mezzocampo, fin sotto il grande orologio che batteva implacabile tutte le ore del giorno e della notte. Scese dalla Maserati blu; chiese a un vecchio seduto al bar dell'angolo come raggiungere via dei Poeti. Kilpatrick aveva intenzione di spaventare Luisa, di farle credere che le sue ferite fossero altamente infettive e convincerla a seguirlo. Ma la donna non era in casa. Si affacciò una vicina con aria interrogativa. Quando Kilpatrick vide il semplice abito azzurro a disegnini marrone della donna rilucere per il troppo poliestere della stoffa, provò disagio e fastidio, consapevole dei propri Jeckerson e della

Lacoste rosa.

—Cerca Luisa per caso? — l'apostrofò quella con voce squillante.

—Sì, signora — rispose Kilpatrick sorpreso.

—Luisa è al lavoro. Brutte notizie? Lei sarà mica l'ufficiale giudiziario? — continuò la donna sporgendosi ancora un poco dalla finestra.

—Io ufficiale giudiziario? No, guardi, semmai il contrario — fece il dottore prendendo la palla al balzo. — Lei è la sorella? — proseguì con fare ruffiano, dato che l'interlocutrice, anche da lontano dimostrava trent'anni più di Luisa.

—No, sono la vicina — rispose compiaciuta per il tacito complimento.

—Peccato, avevo proprio bisogno.

—Di cosa? Magari posso riferire — disse lei gentile, esaminando attentamente la bella figura, gli abiti eleganti e la Maserati del giovane.

Il dottore stette in silenzio un attimo. Poi, considerando lo stato della casa e la situazione economica di Luisa appena rivelatagli dalla vicina, mentì: —Dovevo consegnarle un pacchetto... Una cosa un po' delicata, insomma sono dei soldi.

La donna, che aspettava da Luisa la restituzione di un prestito di mille euro dai tempi di Alfredo, lo interruppe subito.

—Se vuole lasciarli a me. Sarebbero in buone mani, io sono una persona seria e vivo nel rispetto di Dio. Glieli do appena la vedo.

—Sulla sua onestà non ho dubbi, signora, ma ho l'obbligo di far la consegna di persona, e ci tengo. Lei di certo sa dove la posso trovare.

—È al lavoro, gliel’ho detto. A Mantova.

—E dove?

—Questo di preciso non lo so. È un negozio di abbigliamento. Mi ha detto, credo, che sta vicino alla chiesa di Sant'Andrea.

Il dottor Kilpatrick risalì in macchina salutando con la mano dal finestrino.

Direzione Mantova centro.

Brando aveva ato la notte col pensiero di Eva fisso in testa, rivedendone il volto chiaro come un cielo vergine di fine settembre, gli occhi grandi, dallo sguardo tutto forza e dolcezza. Avrebbe voluto stringerla tra le braccia, rassicurarla con i mille baci innocenti che una madre dà al bambino per consolarlo. Provava per la ragazza l'affetto di un fratello e insieme il desiderio

impaziente di un innamorato. Esitava a dichiararsi perché non la capiva fino in fondo, la sentiva così diversa rispetto alle ragazze che conosceva, e così vincente in confronto a se stesso che non trovava il coraggio di immaginarsi al suo fianco. Comunque, eccolo ancora davanti a casa sua, pronto a suonare il camlo.

—Buongiorno signora Elena, come sta? Sono venuto a trovare Eva, è in casa?

—Sì, è in camera sua.

—Grazie, allora salgo — s'affrettò a concludere Brando, sgattaiolando via per evitare le domande della donna.

Brando bussò all'uscio della camera da letto. Niente. Aspettò, provò ancora; poi aprì piano la porta e mise dentro la testa. Eva era sul letto in una posa strana, a bocca aperta, come morta. Brando si catapultò dentro.

—Eva, Eva!

La scrollava, la chiamava senza alzare la voce, per non correre il rischio che Elena salisse. Le sentì il polso: batteva, ma con ritmo molto rallentato. Le sollevò le palpebre e vide che l'iride sinistra era verde, la pupilla ridotta a una punta di spillo. Era sconvolto. Prese Eva tra le braccia e la sollevò di peso. Sentì il seno prominente della ragazza premere contro i suoi addominali tesi e duri; e avvertì un'eccitazione imbarazzante in quel momento terribile.

—Eva, Eva — continuava a ripeterle con forza, a voce bassa.

Lei si svegliò di colpo. Prese una grossa boccata d'aria, come chi esca dall'acqua dopo aver creduto di affogare. Pianse come una bambina. Brando la trattenne accanto a sé accarezzandole i capelli. Sapeva che non poteva farle domande in quel momento, perché lei non aveva la forza di parlare. Eva si accucciò nel senso di protezione che l'amico le infondeva col suo sguardo amorevole, poi gli fece segno di guardare il soffitto. Lui guardò in alto.

—Non capisco, tesoro — le disse affettuosamente.

Anche Eva alzò lo sguardo, ma non vide più la scritta. —È apparsa una penna, mi sembra di impazzire.

—Una penna?

La ragazza gli raccontò quel che era successo; lui commentò, per allentare un po' la tensione: —Sarà stato il fantasma di un poeta!

—Brando, altro che poesia. Era una specie di sogno. Mentre dormivo, scavavo in una terra durissima, con le mani scorticate, piene di sangue. E una forza sconosciuta mi obbligava a continuare; poi ho sentito qualcosa in fondo, sotto la terra.

Il ragazzo l'ascoltava e intanto si scervellava sul modo giusto di dirle dell'iride sinistra che era diventata verde. L'interruppe: —Che cosa c'era sotto? E poi sotto dove, di cosa stai parlando?

—Non lo so. Ho percepito qualcosa di vivo e luminoso che si muoveva come un'onda.

Brando decise di dirglielo: —Eva ascoltami, devo dirti una cosa.

—Parla!

—Vieni davanti allo specchio.

L'accompagnò di fronte al comò.

—Cosa devo guardare? Oddio, l'occhio! È come quello di Gabri: lui aveva assorbito l'energia misteriosa. E ora anch'io come lui. Ho qualcosa di animale dentro? Non hai paura con una bestia come me?

Si girò verso Brando con una risata.

Stupito dal repentino cambiamento d'umore, egli le chiese: — Non sei preoccupata? Tu sei bellissima, ma un occhio verde uno marrone...

—Oh, erà, come è ato a Gabri. Per ora mi basteranno un paio di occhiali da sole. Voilà i miei bei Rayban da Top Gun: che ne dici?

Avevano deciso di andare a trovare Luisa per fare il punto della situazione. Erano sicuri che fosse ancora in malattia e non persero tempo a telefonarle. Invece non la trovarono. C'era la grassa vicina, intenta a spazzare il marciapiede e incuriosita da quel viavai. Fu lei a interrogarli subito, poi descrisse con precisione il visitatore di poco prima. Riconobbero immediatamente Kilpatrick nel suo ritratto. Conclo che quasi sicuramente era andato a cercare Luisa anche al negozio. E così anche loro risalirono in macchina e si diressero verso Mantova.

La città era straordinariamente bella, abbracciata dall'acqua. Apparvero subito, prima del ponte, la cupola di Santa Barbara, il Castello di San Giorgio e parte del Palazzo Ducale, nel perfetto profilo stagliato all'orizzonte. Parcheggiarono l'auto in Piazza Sordello e proseguirono a piedi fino ai portici del centro.

—Meno male che mi sono messa le scarpe da ginnastica, altrimenti con questi ciottoli. —disse Eva.

—Beh, per Luisa dev'esser peggio, con le gambe conciate a quel modo!

—Poverina, non è neanche il problema più grosso. Sai quel fidanzato che aveva? Le ha fatto fuori cinquantamila euro.

—È lei che attira i vampiri. Dovrebbe farsi tatuare una croce e una treccia d'aglio dove dico io!

—Ehi, vacci piano ! Magari l'ho già fatto io. Per paura di te, naturalmente.

Brandola bloccò di scatto e la morse leggermente sul collo, scoppiando a ridere.

—Vedi che hai detto una bugia: tu non hai nessun tatuaggio!

Anche Eva rise. Brando la guardava con quella sua espressione irresistibile da palloncini colorati e night-club insieme. Lui non sapeva se fosse per i denti bianchissimi nella bocca sensuale, o per lo spirito fertile, la naturale forza carismatica, lo sguardo dolce con lampi d'efferatezza: ma quando lei lo guardava così sentiva sciogliersi qualcosa dentro, si sentiva felice, con la mente libera.

Ripresero a camminare tranquilli fino a che Brando non vide, da lontano, Kilpatrick.

—Eccolo là lo spione! — esclamò affrettando il o.

—Lo spione? — fece Eva.

—Sì. Credo che abbia visto la cosa che m'hai dato, quando la stavo consegnando a Martoni, in Università.

—Non me l'avevi detto! Ma sei pazzo? E io che l'ho lasciato solo con Luisa all'ospedale.

—Come solo?

—Ha trovato una scusa per mandarmi via ed è rimasto con lei, mezza addormentata, per diversi minuti.

—Anche mezza addormentata potrebbe avergli detto qualcosa. È chiaro che ormai quel disgraziato ha un piano in mente. Prima l'ha mandata via in gran fretta dall'ospedale, e ora va a cercarla fino al negozio!

Eva provò una grande rabbia. Ma appena giunti in vista del negozio fece come diceva Brando e si acquattò con lui dietro l'angolo dell'enoteca di George, soprannominata così per via del proprietario, sosia quasi perfetto di George Clooney. Da quel punto potevano tener d'occhio Kilpatrick, impalato davanti al negozio dove lavorava Luisa, in attesa che uscissero le tre o quattro clienti visibili dalle vetrine.

Alla fine quelle non uscivano e Kilpatrick entrò. Salutò con cortesia e fece un cenno a Luisa, ritirandosi ad aspettare in un angolo. Aveva scartato l'idea di spaventarla con la falsa notizia della malattia infettiva, e deciso di affidarsi alla sua sperimentata capacità di seduzione, ossia ai mezzucci del playboy. Non sarebbe stato difficile perché intuito ed esperienza gli dicevano che la donna era proprio una di quelle che chiedono solo d'essere accalappiate.

Il potere magnetico del dottore fece effetto, a dire il vero, anche sulle altre donne del negozio: commesse, e frivole signore più o meno attempate, le quali avrebbero volentieri abbandonato il loro shopping ammazzatempo per trascorrere qualche ora bollente col nuovo venuto.

Ma Kilpatrick attese con pazienza che Luisa avesse finito con la sua cliente, poi la prese in disparte, le disse che era ato per vedere come stava; la lusingò, l'affascinò e infine le domandò, o meglio le ordinò, di chiedere un permesso con qualche scusa e seguirlo. Luisa, come ipnotizzata, fece quello che diceva.

Quando Eva vide i due uscire dal negozio parlando amichevolmente, e lui le cinse le spalle con gesto d'intima confidenza e insieme protettivo, Eva non riuscì a trattenersi e corse verso di loro, prendendo Brando alla sprovvista. Li raggiunse e, da dietro, strattonò il dottore per il braccio libero: —Che diavolo ci fa lei con Luisa?

—Ma Eva cosa dici? Sarà mica amico tuo Tommy, che sei gelosa... — intervenne Luisa.

—Non dire fesserie, e piantala di farti girar dagli uomini come un calzino; sai che questo bell'imbusto...

—Lascia perdere, cara, andiamo. Questa dev'essere pazza. Magari è pericolosa — disse con calma il dottore, cercando di condurla via.

Intanto era arrivato Brando. Anche lui cercò di convincere Luisa: —Dai, vieni con noi, abbi un po' di cervello; ti prego.

—Ma che cavolo volete? — lo interruppe lei, con aria offesa.

Il dottor Kilpatrick sorrise beffardo, circondò ancora le spalle di Luisa col

braccio destro e ricominciò a muoversi, tirandosela dietro. Eva rimase immobile, in un ribollire d'ira; poi scattò e da dietro colpì con violenza il braccio del dottore all'altezza del bicipite. Kilpatrick lanciò un «ahi» stridulo e pieno di collera, voltandosi minaccioso, mentre stringeva il braccio colpito con la mano sinistra. Il colpo era doloroso, perché Eva aveva colpito col taglio della mano in una mossa di Karate, ma era stato portato verso l'alto, data la statura del dottore, e perciò con minore efficacia. Gli fece male, ma senza toccare il muscolo e procurare danni all'osso: sarebbe stata necessaria molta più forza. Gli lasciava tuttavia un bel livido. E con quello Kilpatrick s'affrettò ad andarsene trascinando Luisa, perché nel frattempo si stavano avvicinando alcuni anti, incuriositi.

Anche Brando trascinò via Eva, arrabbiatissimo, verso piazza delle Erbe. Dovevano tornare alla macchina posteggiata in piazza Sordello, ed era inutile seguire Kilpatrick che s'era allontanato in direzione contraria, verso Piazza d'Arco. Evidentemente aveva lasciato la Maserati da quelle parti e li aveva fregati. Eva era terribilmente confusa, stava tornando in sé e non si capacitava di quel che aveva fatto. Era stato un impulso invincibile, ma ora se ne vergognava e aspettava lo scoppio di collera di Brando, che vedeva scurissimo. Tuttavia avvertiva, nel profondo, una segreta soddisfazione. E il suo occhio era tornato perfettamente normale.

sco Martoni aveva ato quasi tutta la giornata nel suo studio-bunker, ricavato nello scantinato di casa, cercando una risposta al grande enigma che gli avevano ato come una patata bollente. Ore e ore tra libri, computer e macchine varie, come uno strano folletto dai biondi capelli ricciuti e spessi occhiali dalla montatura nera. Era salito in casa solo per prepararsi un panino con il prosciutto crudo e bere un bicchiere di aranciata.

Da ragazzo, sco era stato bersaglio continuo di prese in giro e soprusi da parte di coetanei più forti. Sempre su di lui finiva per ricadere la colpa di quanto succedeva di sgradevole e sbagliato, a scuola, a casa, in parrocchia. Le orecchie a sventola gli avevano guadagnato il soprannome di "Parabolico spaziale". Era un secchione, e questo non lo rendeva certo popolare tra i bulli di quartiere. Si

fece schivo e diffidente. Questo isolamento, doloroso e non certo spontaneo, lo portò però ad apionarsi a materie difficili, come matematica, fisica e chimica. ava tutti i pomeriggi in casa, da solo, a studiare e sfinirsi di parole, formule, teoremi. Acquistò la pazienza, la mentalità e le capacità del ricercatore. E coll'avanzare dell'età e degli studi lo divenne realmente.

Aveva inventato già diversi aggeggi, macchine, test analitici, specialmente in campo biomedico, utili e forse brevettabili alcuni, altri solo curiosi o bizzarri. Un giorno però, quasi per caso, mentre lavorava su Dna e Rna di una piccola specie animale scoprì la possibilità di individuare una traccia di conformazioni anteriori: una sorta di memoria della materia vivente e delle sue trasformazioni. Non capiva bene neanche come funzionasse e c'era qualcosa di magico, o stregonesco, nella strana macchina che mise a punto modificando un costoso apparecchio di analisi biomedicali. Il fatto è che lui era in grado, o così almeno fermamente credeva, di poter affermare, con straordinaria precisione, che sua madre era stata un pino, un ero, parte d'una certa roccia; suo padre una tegola, una margherita, una sciarpa. Tra gli altri che erano stati sottoposti al suo test senza saperlo, qualcuno era stato, in vite o stati precedenti: una capra, un fungo, un cavo di plastica. Lui stesso sapeva di esser fatto d'una materia che prima aveva costituito una lumaca e un rottweiler. Era così innamorato della sua invenzione che non ne parlò con nessuno e la chiamò Marilyn.

Adesso però, nel segreto del suo studio, si trovava, esasperato, a un punto morto. Aveva analizzato più volte i risultati degli esami a cui aveva sottoposto l'oggetto misterioso; li aveva vagliati e soppesati: rimaneva il mistero. La datazione col radiocarbonio non aveva dato risultati. Ma sco sapeva, dalle altre analisi, come il test del Dna e il processo di racemizzazione degli aminoacidi, che l'oggetto era fatto di osso umano. Ma così compromesso nella struttura da non riuscire a stabilire la datazione che approssimativamente poteva indicare il radiocarbonio? Per accertarsene aveva allertato un tecnico, suo amico, del laboratorio all'università. Avevano tentato una datazione con lo stronzio, dall'isotopo radioattivo rubidio-87, ma avevano fatto un buco nell'acqua. sco si era scusato con l'amico, pregandolo di lasciar perdere: — ho sbagliato io a insistere, questo spettrometro di massa non va bene per una prova così; non fa niente, sai quando mi prende il trip.

Ciò che lo sconcertava di più non erano i limiti di datazione sfidati dall'oggetto, ma l'incapacità di Marilyn a risalire all'origine della sua storia. Il calore dell'osso intanto non si esauriva e continuava a bruciacchiare la superficie dov' era appoggiato. Il caldo nella stanza stava diventando insopportabile, sco si sentì venir meno. Alzò lo sguardo al soffitto per vedere se il ventilatore funzionasse, e scoprì che era fermo, o meglio bloccato. Tra le pale vide il muso del suo cane morto tre anni prima e ne fu sconcertato; per poco non gli venne un colpo. Ma subito l'apparizione scomparve e le pale ricominciarono a girare normalmente.

—Eva... Evaa... La voce acutissima continuava a chiamarla. La ragazza si rigirava nel letto ma non riusciva a svegliarsi. Si trovava lungo un sentiero stretto e buio; camminava silenziosa verso la voce che scandiva il suo nome. I i della ragazza erano leggeri anche se la sua anima era profondamente inquieta. Franava il terreno sotto i suoi piedi, sempre più inclinato. Si ritrovò nel punto esatto dove qualche giorno prima, sempre in sogno, aveva scavato con le mani, e le era sembrato di aver toccato, nel fondo, qualcosa di vivo. Per istinto prese di nuovo a scavare. Aveva le mani intirizzite dal freddo, le unghie rotte dal terriccio umido e duro. Avvertì di nuovo, a un certo punto un'onda fluida, quasi un blob, un magma. Si sentiva in perfetta sintonia col fluire di quella materia liquida, energia pura, come avesse toccato le sorgenti del tempo e di ogni cosa. Si immerse nella spaccatura che aveva aperto e testardamente continuò a scavare. I suoi muscoli presero a tremare sotto lo sforzo immane finché, sprofondando, non riuscì a rompere un ultimo strato. Allora le si rivelò di colpo uno scenario che la lasciò esterrefatta. Brutti ceffi che scavavano con le mani, sfiniti dalla fatica.

Un'atmosfera con screziature rossastre che dall'orizzonte si infittivano gradualmente fino a compattarsi nello scarlatto profondo della sommità del cielo. Il suolo aveva l'aspetto di terra appena arata, con grosse zolle scure e irregolari. Con orrore, Eva riconobbe nel terreno, fitti filamenti del colore verdastro che era comparso sulle gambe di Luisa, nell'occhio di Gabri e nel suo stesso occhio sinistro.

Tommy Kilpatrick aveva portato Luisa nel suo appartamento di Verona. L'appartamento era in stile minimal-chic, bianco con mobili bianchi e neri, asettico come un laboratorio. Alla prima impressione Luisa ne era stata respinta; ma quando lui le fece notare il marmo pregiato di pavimenti e cornici, i vasi di cristallo firmati, i tavoli in commesso di pietre dure, i lampadari di Murano e le lampade di modernissimo design, il prezzo dei quadri scelti per fare squadra col resto, si ricredette e si convinse che l'appartamento, pieno di cose costose, doveva per forza essere bello. E che era colpa sua se non lo capiva. Con un uomo molto più giovane, e così affascinante, che la desiderava e la voleva nella propria casa, non c'era che da ringraziare la sorte, lasciarsi andare ed esser felice. E lo era, infatti. Ma non completamente, da qualche parte in lei, e nonostante la sua superficialità, un timore sordo e un rimorso inespresso, continuavano a tormentarla.

Kilpatrick, dopo aver controllato la contusione al braccio, le fece una carezza sensuale e prosaicamente le chiese di preparare qualcosa da mangiare. Lei obbedì, come faceva sempre con gli uomini. Fu veloce, perché voleva fargli trovare tutto pronto quando fosse uscito dalla doccia. Il frigo era ben fornito. In meno di mezzora aveva finito: risotto con i piselli, filetto ai ferri, fagiolini lessi, purè di patate, fragoline al limone. In quel momento il dottore entrò in cucina con i capelli ancora bagnati, e l'accappatoio che lasciava intravedere pettorali gonfi e lisci, perfettamente depilati. Luisa rimase senza fiato. Quando l'attirò a sé e la baciò, lei avvertì il tepore profumato e umido della doccia appena fatta, e del costoso shower gel Quercus che riconobbe e approvò, perché aveva lavorato anche in profumeria. Il seguito fu tutto in discesa per Kilpatrick che si liberò dell'accappatoio e la spogliò lentamente, facendo attenzione coi pantaloni per le ferite alle gambe. La fece sedere sul vicino divano e si inginocchiò di fronte a lei con soffocate esclamazioni di eccitazione, baciandola dappertutto. In realtà era attento a impedire che si stendesse sui preziosi cuscini damascati, col pericolo di rovinarglieli con le piaghe verdastre, seppur protette dalla fasciatura.

—Cosa abbiamo da mangiare, gattina? — le chiese un secondo dopo essersi ricomposto.

—Avevo preparato un risotto con i piselli, ma adesso credo che sia una colla — fece lei a fatica, tutta languida. — Lo rifaccio. Oppure riscaldo il filetto. —

—Lascia stare; andiamo a mangiar qualcosa fuori più tardi — disse lui con disinteresse. — Senti un po' invece, ma come mai quella tua amica è così fuori di testa?

—Ah, dici di Eva. Senza dubbio è spaventata. Mi vuole proteggere, perché sono successe così tante cose in un paio di giorni — rispose Luisa, un po' frastornata dalla domanda.

—Quali cose?

—Per esempio, le mie ferite alle gambe.

—Ma come te le sei fatte? Non mi dire ancora che ti sei tagliata, per favore.

—Oh, Tommy caro, non mi crederesti mai.

—Certo che ti credo. Prova a raccontarmelo, gattina.

Luisa era completamente in balia del dottore. E raccontò tutto.

Kilpatrick ripensò a quel che aveva visto all'Università e si congratulò con se stesso per la propria intuizione. Sapeva dell'oggetto misterioso e aveva un'idea precisa di dove cercarlo. Telefonò all'amico Vito Garrone, dei servizi segreti italiani, che da tempo si occupava di traffici segreti e del recupero di materiali pericolosi per la sicurezza nazionale. Garrone era perfetto. Il dottore conosceva bene la sua fissazione per la fantascienza, che l'aveva portato a credere negli alieni e negli ufo, e che alla fine l'aveva trasformato in facile bersaglio di commenti e chiacchiere divertite, stoppandogli la carriera. Comunque contava ancora qualcosa se, quando i due tornarono dalla cena, in un ristorante vicino, arono solo pochi minuti prima del suo arrivo. Era venuto da Roma con un elicottero e la scorta. Il dottore l'aveva informato degli strani avvenimenti e della donna che poteva aiutarli a penetrare nella cittadella del mistero come un cavallo di Troia. Gli aveva esposto la sua idea e quello si era detto d'accordo.

Suonò il camlo; Kilpatrick aprì e accolse Garrone con un abbraccio. Il funzionario era solo; gli agenti della scorta erano rimasti nella loro auto, per non insospettire Luisa.

—Tesoro, vieni. Ti presento il professor Federico Iori. Sai, è un grande psichiatra e vorrei che ci parlassi un po', ti aiuterà a superare il tuo trauma. Ed è anche simpatico — Il dottore ò dal tono leggero a una finta preoccupazione: — Dopo quello che mi hai raccontato, ero davvero in pena per te, l'ho fatto venire apposta.

La donna guardò Tommy con infinita dolcezza, non si sentiva così da quando le avevano regalato la prima bambola.

Kilpatrick li condusse nel suo studio, accese una lampada da tavolo e li lasciò in un'atmosfera intima e confortevole. Luisa, piena di gratitudine per quello che credeva un gesto d'amore, iniziò il suo racconto un'altra volta, ancora più

dettagliatamente.

RIVELAZIONI

sco Martoni non vedeva l'ora di riferire a Brando quello che aveva scoperto.

—Brando, — gli annunciò al telefono — mi hai portato un coso davvero strano, ma neanche immagini quanto sia strano quello che dicono i test.

—Non faccio fatica a immaginarlo, ci ha rovinato la vita.

—Sì, ma non puoi arrivare a immaginarlo. È un osso umano!

—Un osso umano! Ma è sconvolgente, siamo finiti in qualcosa di terribile. Un delitto?

—Aspetta, non è come credi. È peggio! Questo è un osso che potrebbe anche essere antico, è senza datazione; non è materia normale: ha dietro il vuoto, non corrisponde. Sembra fatto di nulla.

—Un reperto archeologico? Non capisco cosa vuoi dire esattamente.

—Archeologia, può darsi, Brando. Il fatto è che non lo so proprio. Ma quello che importa davvero è che quell'osso non ha niente prima. Come spiegartelo? Brando, vieni a casa da me. Lo riprendi e posso spiegarti meglio.

Brando voleva riprendere l'oggetto misterioso quanto sco voleva liberarsene. Uscì subito; inforcò la bicicletta imprecando contro il cane di Luisa per colpa del quale il suo Grand Cherokee era dal carrozziere, e si diresse verso Corte Stella.

Quando vi giunse vide la signora Elena che gesticolava sotto un ciliegio, gridando.

—Eva, scendi giù, non sei più una bambina, la sfondi quella casetta.

—Mamma, vai via! — gridava la figlia dall'interno di una sorta di cuccia fissata sui rami dell'albero.

—Cosa succede? —chiese Brando avvicinandosi.

—Brando, diglielo tu a Eva di scendere giù, per carità, che sfonda tutto.

—Ma cosa ci fa lassù?

Eva scosse con forza due rami carichi di ciliegie e ne fece cadere una gragnola sopra i due.

—Eva, mi ha telefonato sco Martoni — fece Brando con calma voluta,

per nascondere tutta la sua apprensione.

Eva, che s'era rifugiata lassù per stemperare l'emozione insopportabile del sogno tornato a visitarla, percepì immediatamente l'emozione di Brando, ne vibrò con lui. Nel suo petto l'occhio del cuore prese a ballare una samba di felicità.

—Eccomi, Brando! — esclamò.

Rendendo finalmente la tranquillità alla madre che si allontanò mentre lei cominciava a scendere, aggrappata a un scaletta di corda.

—Dimmi subito, Brando. Dimmi!

—È un osso umano!

—Non può essere!

—È così.

Eva avvertì la fitta che ormai conosceva, la gioia del suo occhio del cuore, razionalmente inspiegabile.

—Cosa facciamo adesso?

—Intanto andiamo da sco a riprenderlo. E poi non mi ha spiegato bene, ma c'è qualcos'altro. Molto. E ce lo dirà.

Don Luca doveva arrivare alle cinque del pomeriggio. Il paese era al massimo della confusione e dell'attesa. Elena aveva portato a termine la sua impresa dolciaria. La signora Ida Medici stava ancora confezionando i tortelli di zucca insieme a venti altre pie donne, la signora Teresa Cappati doveva occuparsi di polli e galline, metà provenienti dall'allevamento di Corte Stella e metà dalla macelleria Gutti; la moglie del dentista coordinava le operazioni. Animazione e viavai rallentarono da principio la Mercedes di Eva che poi marciò spedita, anche troppo veloce, verso la periferia di Verona, dove abitava sco.

—Non puoi andare un po' più piano? — le fece Brando a un certo punto.

—Hai paura? Non ti fidi d'una donna al volante?

—Qui c'è il limite di settanta e tu sei a centotrenta. Mi sa che la patente l'hai trovata nelle patatine.

—Fifone! No, dai non ti offendere. È un'emergenza. Sento che non abbiamo tempo e dobbiamo far presto. È una sensazione, ma fidati. È importante.

Brando cominciava a stancarsi di tutto quel mistero, delle stranezze che accadevano una dietro l'altra. Ed era sbalordito dal comportamento di Eva. Non l'aveva mai vista attaccata ad altro che alla sua pittura, scettica, distaccata per tutto il resto: inavvicinabile.

—Brando, dobbiamo riavere quell'oggetto e andare fino in fondo. Sento che sono in gioco il mio futuro, la mia felicità.

—Addirittura! È così vitale per te?

—Da quella notte, ho incubi continui, dei sogni che sembrano veri. Non so che mi succede, o dove sto andando. Ma se c'è una meta, quando arriverò saremo tutti più felici. Ne sono sicura.

Brando rimase in silenzio.

La potente Mercedes della ragazza si fermò infine davanti alla casa di sco. Parcheggiarono, scesero e suonarono alla porta.

—Ecco il nostro sco. Felicissima di conoscerti! — esclamò Eva.

—Ciao, — rispose lui timido — la tua faccia non mi è nuova. Ti ho già vista da qualche parte, sono sicuro. —

—Può darsi — disse Eva sorridendo.

—Forse la mostra a Verona l'anno scorso — intervenne Brando. — Avrai letto una recensione sull''Arena', mi ricordo che c'era un bell'articolo. Può essere? —

—Proprio così. Sono andato anche alla mostra. Ho ancora l'impressione di quei colori: emozionante!

—Così mi farai arrossire, grazie.

Era sempre contenta dei complimenti, come tutti lo sono. Ma per lei erano anche il risarcimento per qualcosa che la vita in mezzo ai maiali e le galline le aveva negato per molto tempo.

—Venite allora — disse sco — vi faccio vedere. —

Scesero nel suo laboratorio.

—Questa è Marilyn — annunciò con solennità accarezzando una macchina grande quanto una lavatrice, con uno sportello dotato d'una massiccia maniglia, un display, diversi indicatori a led, pulsanti e un tastierino con lettere e numeri. —È come una figlia, ci ho lavorato anni. È capace di risalire alla struttura atomica di un oggetto, una sostanza, e rifarne la storia. Insomma ci dice cos'era prima dello stato attuale. Il problema è che con l'oggetto che mi hai dato, caro Brando, ha confermato che si tratta d'osso umano, come sapevamo già. Ma non dice altro. È come se la materia di quest'osso non avesse data, e venisse direttamente dal nulla.—

—Ma non è possibile! — esclamò Eva.

—Infatti, è assurdo anche per me. La prova del Dna ci dice che è osso umano; E infine Marilyn va in bianco, come se gli atomi che lo costituiscono non fossero mai esistiti prima. Il calore continuo è inspiegabile. Ma che cavolo significa?

Brando ascoltava allibito. Ma Eva interruppe lo sfogo di sco.

—Magari l'osso non è davvero umano, voglio dire del nostro mondo. Può essere qualcosa di più. Ci manca un tassello e quando manca un tassello e non si riesce a spiegare qualcosa, può darsi che quel qualcosa sia più grande delle nostre little minds...

—Beh, facile a dirsi — l'interruppe a sua volta sco. — E poi sentite questa, secondo me quel coso deve anche avere poteri allucinogeni, oltre la stranezza dello stato termico. Stavo scrivendo i dati dei test quando la temperatura nella stanza, appunto è salita di colpo, un caldo da pazzi, guardo il ventilatore, che s'era bloccato, e vedo tra le pale il muso del mio povero cane! —

—E’ una magia di quel mostriciattolo verde…— disse Eva, subito bloccata da Brando con un calcetto sullo stinco.

—Che cosa? — s'incuriosì sco.

—Dev'essere, come hai detto tu, un'allucinazione ... non lo so. Ma dobbiamo andare, adesso — farfugliò Eva.

— Sì, andiamo adesso — le fece eco Brando.

—Prendete su il vostro osso. — li salutò sco, porgendo a Brando il pacchetto col misterioso contenuto.

—Grazie, sco. Sei stato grande. Non parlarne a nessuno, mi raccomando. In qualche modo il mistero si risolverà.

—O magari non è un mistero, solo un banale errore. E finisce tutto in niente — aggiunse sco per tranquillizzare l'amico mentre uscivano dal laboratorio.

Vito Garrone era commosso fino alle lacrime mentre Luisa gli raccontava la storia del cratere e dell'apparizione dell'omino verde. Finalmente una rivincita, poteva dimostrare che sugli alieni aveva sempre avuto ragione. Allungò una mano e la pose sulla spalla di Luisa, con simpatia e comprensione. Lei continuò nel racconto surreale di cerchi di fuoco, esseri verdi e terremoti di cui nessuno s'era accorto, per arrivare infine alle ferite che le deturpavano le gambe.

—Penso che sia stato il contatto col cerchio di fuoco. Io ho cercato di uscire. Chi non l'avrebbe fatto? — spiegò.

Quando si tolse le garze, Garrone dichiarò di non avere mai visto nulla di simile. Chiamò Kilpatrick e finse una specie di consulto professionale.

—È più l'aspetto credimi — cominciò solennemente il dottore. — Non c'è flogosi, assenti infezioni batteriche. Infatti le ho subito sospeso il Rifocin che avevo prescritto; non ha fatto neanche un milligrammo. C'è come una dermatite estesa, ma è atipica e del tutto superficiale; non raggiunge neanche il derma.

Certo quel fluido essudativo, il colore strano... è una diagnosi difficile, ma io credo che siano manifestazioni momentanee e innocue. Sai a che penso? A una reazione psicosomatica, per questo ho voluto sentire anche te.

—È ciò che ho subito pensato, tranquilla, signora cara. Vede che non c'è da preoccuparsi? Cerchiamo di rimuovere la causa e tutto scompare — tenne bordone il falso psichiatra.

—Luisa, tesoro, hai parlato al professor Iori dell'oggetto misterioso? — disse Kilpatrick.

—Ma io non l'ho visto, a dir la verità, ne ho solo sentito parlare.

—Quale oggetto? — la interruppe subito il falso professore.

—Quel che ho visto è un comodino tutto bruciacchiato dove la cosa era stata posata. Un qualcosa che il piccolo mostro uscito dalla terra ha dato a Eva. Un oggetto che poi loro hanno portato ad analizzare. Ma questo che c'entra con il mio trauma?

—Cara, c'entra perché ogni particolare influisce sulla sua psiche profonda, se ne sta lì nascosto e fa i suoi danni. Dobbiamo tirare fuori tutto, per liberarla!

—Ma io ho detto tutto!

Garrone era convinto che Luisa sapesse di più, ma che non volesse dirlo o non potesse, magari per qualche resistenza inconscia.

—Adesso le darò un lieve sedativo, cara, per farla stare bene, per tranquillizzarla.

—Sono tranquilla — protestò Luisa timidamente.

—Certo che è tranquilla. Ma con queste forme psicosomatiche non si sa mai, ci sono cose che rimangono nascoste nella psiche profonda, stanno lì e fanno i loro disastri. Noi le affrontiamo subito, le mandiamo via e lei, in un lampo è guarita. — Garrone si rivolse a Kilpatrick con un cenno d'intesa: — Mi porteresti, per favore, la borsa che ho lasciato all'ingresso?

Il dottore capì al volo le intenzioni dell'altro, che era venuto senza alcuna borsa, e tornò in un minuto con una siringa di Valium e un laccio emostatico.

—Cosa fai? — si ribellò Luisa. — Non ho bisogno di un tranquillante.

—Abbi fiducia nel professore, cara. Lui sa quello che fa. Non è niente; ti farà bene, vedrai.

Vinta dal tono dolce dell'uomo e dalla rosea visione d'una vita accanto a lui, Luisa accettò docilmente l'iniezione. Mentre si addormentava, il falso professore la tempestò di domande, ma non riuscì a ottenere altre informazioni.

—Abbiamo bisogno di quell'oggetto, Tommy. È esplosivo. Sai cosa lo pagherebbero gli americani se fosse veramente la prova di una presenza extraterrestre? — disse Garrone esaltandosi. — Dobbiamo averlo a ogni costo! — concluse andosi freneticamente una mano tra i capelli a spazzola folti e brizzolati.

—Credo di sapere dove si trova, o per lo meno lo spero! — gli rispose Kilpatrick, mentre gettava la siringa nel cestino.

—Lo sai?

—Lo so. Adesso posso collegare tutto. Ho trovato il filo logico. Ti dirò dov'è il nostro tesoro!

In due sollevarono Luisa, ormai pesantemente addormentata, la portarono in camera del dottore, sdraiandola sul letto e coprendola col lenzuolo di seta rossa. Kilpatrick le lasciò un biglietto sul comodino: «Micina adorata, sono dovuto uscire per un po'. Mi raccomando, non ti muovere dal letto, hai bisogno di assoluto riposo.» Garrone, alla vista del biglietto e anche perché sentiva già l'eccitazione della caccia, scoppiò in una risata fragorosa e liberatoria. Subito dopo si mossero veloci per raggiungere la casa di sco Martoni alla periferia della città.

Giunsero non più di mezzora dopo che Eva e Brando se n'erano andati.

—Kilpatrick? — disse sorpreso sco quando venne ad aprire.

—Facci entrare, per favore, è molto importante.

Il ragazzo fece entrare il dottore e il suo compagno in completo scuro. Era intimorito, e non si aspettava niente di buono.

—Dai, veniamo subito al sodo! — esordì Kilpatrick brusco.

—Per... per cosa? — balbettò sco sempre più impaurito.

—Ieri mattina ho visto Barbagallo portarti un pacchetto. Lo sai che era un reperto rubato? Il mio amico qui è un funzionario della Finanza e sta sulle sue tracce da tempo. Se non lo consegni subito sei davvero nei guai.

—Impossibile! — fece il ragazzo con un filo di voce.

—Impossibile cosa?

—Sono venuti a riprenderselo.

—sco, ci prendi per i fondelli? Ti piacerebbe finire al fresco?

Mentre Kilpatrick parlava, Garrone aveva afferrato il giovane per la maglietta gialla e lo fissava dritto negli occhi.

—Barbagallo e la sua amica, mezzora fa. Lo giuro.

—Perché te l'avevano portato? — chiese Garrone lasciando la presa sulla maglietta.

—L'ho tenuto solo un giorno e mezzo. Dovevo fare dei test, sottoporlo a qualche analisi. Barbagallo voleva sapere che roba era: un reperto archeologico o cosa, a prima vista non si capiva. Mi ha chiesto un favore.

—E ci vorresti gentilmente rendere partecipi delle tue scoperte? — fece sarcastico Garrone alzando la voce.

—Ma voi avevate detto che è un reperto, che è stato rubato...

—Rispondi alla mia domanda!

—L'ho sottoposto a diversi esami, e l'unica cosa chiara che è uscita alla fine è che si tratta d'osso umano.

—Osso umano. Di chi, dove, quando?

—Non lo so. Qui è la stranezza. Ci sono... punti oscuri. — sco sembrava l'emblema dell'infelicità.

—Quali punti? — incalzò Garrone sempre più agitato.

—Ecco, devo dirvi che io ho inventato una specie di scatola nera degli atomi del nostro mondo. Una macchina capace di risalire con precisione alla storia e origine di ogni materia, oggetto, organismo: come è nato e cos'era prima di formarsi. Ma purtroppo, in questo caso, niente.

—Gli atomi, l'origine. Parla chiaro, cosa vuoi dire?

—Nulla. L'osso sembra essere comparso dal nulla, e questo sappiamo che non è possibile a questo mondo — rispose sco, esausto.

—Bene ragazzo. Adesso potremmo portarti sia in galera che al manicomio. Ma soprassediamo. E ti teniamo d'occhio, ricordati. Non ti deve uscire una parola su di noi e sull'oggetto. Con nessuno! E idem sulla tua macchina, di quella ne parleremo con calma un'altra volta. Stai attento a te, silenzio assoluto con Barbagallo. Ci rivedrai presto.

Garrone gli gettò un'ultima occhiata truce e si girò per andarsene. Mentre lo seguiva, anche Kilpatrick lo ammonì con un gesto di minaccia.

sco annuiva ancora quando erano già usciti. Si lasciò cadere a terra, come uno straccio. Si sentiva umiliato, avvilito, derubato. Schiacciato dalla vergogna d'aver tradito un amico.

Garrone e Kilpatrick erano già sulla statale per Mezzocampo.

LO SCIAMANO

Nonna Elvira stava istruendo i contadini che dovevano tirare il collo a un bel numero di polli e galline, per il pranzo dell'indomani al Palazzo Ducale.

Don Luca era appena arrivato in paese. Era stato parroco di Mezzocampo per cinque anni prima di partire missionario, e in molti erano venuti in canonica a salutarlo. Con sorpresa videro che non era tornato solo. Aveva con sé uno strano personaggio: un indio vestito di colori sgargianti, un curandero, ossia uno sciamano.

Don Luca era magro come sempre nella sua tonaca nera. Anche l'espressione del volto era immutata, severa e conciliante insieme; con quello sguardo vivo e pieno di comprensione, dove si leggevano la miseria e le sofferenze contro le quali aveva dovuto lottare gli ultimi anni. Di nuovo aveva la barba, che gli cresceva ispida e rossiccia, senza alcuna cura. Aveva altro cui pensare, evidentemente. Il motivo del suo ritorno, infatti, erano i bambini di cui si prendeva cura in Perù: stavano morendo di fame. Era tornato per raccogliere fondi e a questo scopo il paese aveva organizzato la grande festa.

Lo sciamano sedeva tranquillo in canonica, mentre il missionario ava da un gruppetto di persone all'altro, salutava tutti, aveva una parola per ciascuno. L'indio rimaneva imperturbabile nel suo poncho variopinto, i capelli raccolti sulle spalle, l'incarnato olivastro, il naso aquilino. Il sacerdote cattolico e l'uomomago, tramite delle oscure forze della Natura, erano diventati buoni amici e collaboratori da quando il figlio del pastore di Huaraz si era ammalato. Il ragazzo era andato a pascolare il gregge, e accortosi che il cielo si stava oscurando, aveva messo in salvo le pecore, ma era stato sorpreso allo scoperto dall'acqua scrosciante. Un fulmine improvviso aveva scaricato la sua immensa energia a pochi metri da lui. Il ragazzo dal giorno dell'incidente stava sempre peggio. Non mangiava, non dormiva, era pallido e madido di freddo sudore. Il

padre lo portò a Juan Seypa, lo sciamano. Questi scrutò il cereo giovinetto, gli scostò amorevolmente i capelli dalla fronte e disse: —Il giovane è stato rapito dalla terra e alla terra dobbiamo chiedere la sua restituzione.

Venne la notte, custodita dalle montagne e dal silenzio. Don Juan apparecchiò la tavola di legno massiccio e scuro con una tovaglia verde, poi vi pose sopra incenso, sigarette, grasso di lama, foglie di coca, la chicha e candele. Pose sul fuoco una pignatta d'acqua sulla cui superficie galleggiavano fiori e vegetali; fece un fantoccio con i vestiti del ragazzo. Dopodiché intonò una litania segreta; tolse la pignatta dal fuoco, la sollevò più volte sul corpo del ragazzo e sul pupazzo. In quel momento s'allontanò e nel punto che scelse accuratamente scavò una buca e vi seppellì il fantoccio, carico degli spiriti negativi del malato. Infine il solenne ringraziamento.

—Ora preghiamo la Madre Terra e gli Spiriti delle montagne — fu l'invito di don Seypa a coloro che avevano assistito alla cerimonia e atteso il suo ritorno.

Padre Luca era appena arrivato dall'Italia. Fu presente al rito e vide il sorriso del giovane tornato alla vita, mentre l'aria riprendeva colore dal giorno che stava per nascere. Il prete capì la potenza della tradizione e la forza straordinaria dello sciamano; imparò a collaborare con lui per la soluzione dei problemi locali. In fondo la loro missione del mondo non era molto diversa.

Padre Luca e lo sciamano, dopo che i parrocchiani ebbero portato il loro saluto, uscirono per dare un'occhiata al paese. Attraversarono il centro, videro altra gente, il Palazzo Ducale, la piazza; ricambiarono saluti, suscitarono curiosità. Quindi eggiarono lungo gli argini del Po, l'uno nel suo abito nero, l'altro col poncho tutto colore, con l'inseparabile bastone-sonaglio in mano: un cranio animale sigillato con resina e pieno di sassolini, in cima a un'asta di legno decorata di piume, disegni e altri elementi bizzarri. Don Juan era impressionato dal grande fiume e ne poteva udire il suono segreto, la vita impercettibile che vi scorreva dentro, la potenza. Arrivarono al boschetto presso la spiaggia dove

qualche giorno prima c'era stata la festa all'origine di tutte le peripezie successive. I sassolini all'interno del teschio si agitarono senza che don Juan muovesse il bastone.

—Segni strani — disse lo sciamano.

—Segni strani qui a Mezzocampo? — rispose scettico padre Luca, con un sorriso.

Ma sorrideva a metà, perché sapeva che don Juan non parlava mai a caso.

—Gli animali hanno abbandonato le loro tane; i nidi sono vuoti, vedo alberi con la testa piegata; il silenzio è grave. — insistette don Juan.

—Cosa significa? — chiese padre Luca.

—Quando ciò che sta in terra di sotto sale sopra, sulla terra dove camminiamo, porta malattia; più contagiosa di una malaria. Chiunque viene in contatto può vedere: ma se è non pronto diverrà come pazzo. Qualcuno ha visto e non era pronto. Malato! — esclamò.

Padre Luca cercò di interpretare le parole dello strano compagno, senza riuscirci. Una metafora un po' contorta, pensò. Il sole, rosso nel cielo, colorava il grande fiume.

Eva e Brando stavano tornando a Mezzocampo con il loro carico di domande senza risposta. La ragazza aveva infilato il panno contenente l'osso, nella tasca porta oggetti della portiera, per averlo a portata di sguardo.

—Cosa facciamo con Luisa? — disse Eva come le fosse venuto in mente di colpo dell'amica.

—Credo che non abbia proprio voglia di vederci. Soprattutto te.

—Forse ho sbagliato a comportarmi in quel modo. Però quando so di essere nel giusto, non riesco a trattenermi.

—Ho capito. Ma se vai giù a colpi di karate ogni volta che hai ragione.

—L'ho fatto per lei, per proteggerla da quel Kilpatrick. Lo sai che perde subito la testa e sceglie sempre i più stronzi. Sai che facciamo? Andiamo a casa sua. Sono le otto e mezza, deve esserci per forza.

Trovarono Gabri legato alla catena che abbaiava come un ossesso, e la vicina che dalla finestra lo sgridava tra le maledizioni.

—Non c'è Luisa? — le gridò Eva.

—Macché, quella zingara non si fa vedere da ieri mattina. E quel cagnaccio ha abbaiato tutta notte. Ma ieri non l'avete trovata?

—Sì, l'abbiamo trovata, grazie — tagliò corto Brando.

I due amici si guardarono in faccia silenziosi.

—È successo qualcosa, me lo sento — mormorò alla fine Eva, come parlando a se stessa.

S'avvicinò al cane con l'intenzione di controllargli l'occhio. Gabri era davvero inferocito e non le fu possibile toccarlo. Non poté vedere così che il povero cane aveva tutte e due le iridi di colore verde. Stanchi e frustrati decisero di fare una camminata sull'argine del Po. E si ritrovarono faccia a faccia con il missionario e lo sciamano. I sassolini nel bastone-sonaglio di don Juan sbattevano l'uno contro l'altro con un suono che trovò un'eco misteriosa nel petto di Eva: la fitta di premonizione cui era ormai abituata, il segnale del suo occhio del cuore. Lo sciamano si fermò e scandì, guardando Eva negli occhi, una frase in quechua che Padre Luca, abituato alle stranezze dell'amico, tradusse subito: —Quello che è nascosto si paleserà, quello che è chiaro si oscurerà!

I quattro stettero immobili ad ascoltare la melodia dei sassolini nel cranio agitato dallo strano veggente.

—Non ritornare alla propria casa è saggio — continuò poi lo sciamano. — Se il nemico è in agguato, viaggia veloce e sa dove trovarti.

Eva e Brando chiesero allora se alludeva a loro, e cosa voleva dire, quando la tasca dove Eva aveva infilato la stoffa con l'oggetto cominciò a emanare un forte

calore e un filo di vapore, o fumo. La ragazza lo tirò fuori dalla tasca, allarmata. Nello stesso istante il bastone con il cranio-sonaglio prese il volo, s'alzò sulla testa dello sciamano, vorticò come in un'esibizione di majorettes, e ritornò nelle mani del santone. Stavolta rimase stupito anche lui, e chiese cosa ci fosse in quella stoffa avvoltolata. Eva gliela srotolò davanti. Entrambi si stupirono.

Lo sciamano si rivolse a padre Luca, che era rimasto senza parole, pregandolo di chiedere ospitalità per i due ragazzi in canonica, perché non dovevano essere lasciati in balia del nemico che stringeva il cerchio attorno a loro, come un leone in cerca della sua preda.

Vito Garrone e Kilpatrick erano a pochi chilometri da Mezzocampo. Sarebbero arrivati in alcuni minuti se un incidente non li avesse fermati. Un chiodo dritto e preciso in una gomma della Maserati. L'auto sbandò; il dottore riuscì a evitare il testacoda, ma non una serie di zigzag che finì con un botto contro un platano.

Quando alcuni contadini che abitavano nei pressi arrivarono sul posto, trovarono Kilpatrick e Garrone, senza cinture, conciati abbastanza male dalla botta sul parabrezza, e la Maserati mezza distrutta. Ma ancora peggio stavano i due della scorta, finiti nel fosso che costeggiava la strada dalla parte opposta, senza neanche il tempo di tentare la frenata.

L'ambulanza giunse abbastanza in fretta, e i quattro feriti furono portati al Pronto Soccorso di un paese lì vicino. Sia per Garrone, sia per Kilpatrick risultarono solo ferite superficiali, piccoli tagli, contusioni, ecchimosi. Non furono necessarie suture, solo medicazioni che gli infermieri dovettero eseguire tra le imprecazioni e le incitazioni a far presto dei due insopportabili pazienti, i quali rifiutarono antidolorifici, esami per accertare eventuali lesioni interne, inviti a rimanere in osservazione almeno fino al mattino. Firmarono per essere dimessi e uscirono sulla strada ad aspettare il taxi che avevano fatto venire da Verona. A quell'ora non avevano altra scelta che tornare nell'appartamento dal quale erano partiti, lasciando in ospedale gli agenti della scorta, che non sarebbero potuti

uscire prima d'una settimana.

A Corte Stella, Eva stava giusto uscendo per andare a are la notte in canonica, come aveva suggerito lo sciamano. La fermò la madre quand'era già oltre la porta.

—Dove vai con quel borsone? Ti sembra l'ora di andare a so?

—Mamma, non te l'avevo detto della gita al lago di Garda?

—Proprio no! Ma con chi ci andresti, poi?

—Con Brando, mamma. Mi aspetta in paese.

—Gesù santissimo, Eva, ma non dovresti stare fuori a dormire con un uomo. È un'imprudenza. E quel Brando non fa proprio per te, credimi. È un ragazzo, ossia non è un uomo.

—Mamma…

—Vai, vai. Poi te ne penti, tutti quelli che si comportano male finiscono nel tunnel nero sotto il Po.

—Ancora? Ma non esiste questo tunnel nero. E’ solo una leggenda.

—Non è una leggenda, — intervenne nonna Elvira – l’hanno costruito i soldati durante la seconda guerra mondiale. Inizia sotto la casa di Gino il salumiere. –

—Mmmmm, come mai nessuno l’ha mai visto? –

—Perché è una cosa segreta! – disse nonna Elvira.

—Ah, beh allora… ciao, io vado. –

—Non dimenticare che domani c'è il pranzo di don Luca e quel suo amico lì, lo siamano!— le gridò dietro la madre.

—Sciamano, mamma si dice sciamano.

—Mi fa una paura — intervenne nonna Elvira. — Sono andata in canonica per salutare il prete e c'era anche questo stregone. Con un bastone e un teschio sopra che mi ha fatto venire in mente la guerra. —

Eva s'incamminò. Le parole dello sciamano continuavano a risuonarle in testa. Si chiedeva ancora chi fosse il nemico nascosto e come guardarsene; ma ora una profonda fiducia aveva sostituito la paura. Quando incontrò Brando per la strada che portava alla chiesa era quasi di buon umore.

—Ciao! Finalmente una notte di fuoco insieme — fu il saluto scherzoso del ragazzo.

—Tu credi?

—Vuoi una demo?

—Buono Brando, non ti scaldare.

Erano alla porta della canonica.

—Pachamama è inquieta — osservò tranquillo lo sciamano guardando il soffitto, nell'austero salotto del parroco.

—Pachamama è la Madre Terra — spiegò don Luca, rivolto ai due ragazzi sul divano. Don Juan estrasse dalla chuspa appesa al collo delle foglie di coca, le liberò con cura delle nervature e se le mise in bocca. Mentre le masticava estrasse da uno scatolino di legno, con una bacchetta, un po' di llipta e l'unì al bolo che gli gonfiava un po' la guancia destra, continuando a masticare con calma. Subito dopo pose un libro sul tavolo e lo aprì. Era un libretto consumato dalla lettura e rimaneva ben squadernato alla pagina scelta, non come certi libri appena comprati o mai letti che fanno i ritrosi come le finte verginelle. Don Juan seguiva le parole scritte sulle pagine con le dita lunghe e scure. Senza fermarsi e senza alzare la testa, dopo un poco disse con voce piana: —Raccontate cosa è successo.

Eva obbedì. Disse della festa sulla spiaggia e di tutto il resto, proprio come aveva fatto Luisa con Kilpatrick e poi con Garrone. Brando non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Padre Luca aveva ascoltato sempre più incredulo, e alla fine non riuscì a trattenersi.

— Ragazzi, siete sicuri di non aver esagerato con birre e vino quella sera, o peggio ancora avete preso qualche droga?

—Niente don Luca, noi niente. Solo Luisa, perché era depressa. E poi se vuole una prova, abbiamo l'osso. — rispose Eva.

—Lo metti qui il tuo osso, sul tavolo — intervenne lo sciamano con la stessa voce piana di prima.

—Lo poso sul vassoio, perché altrimenti brucia il tavolo.

E liberato un vassoio in alpacca dalla zuccheriera e dai cioccolatini che erano stati usati per servire il caffè, trasse di tasca il rotolo di stoffa e ne lasciò cadere il contenuto in mezzo alla lucida superficie. Il rumore della caduta si confuse col crepitare dei sassolini nel cranio-sonaglio dello sciamano.

—Questo osso non è di uomo — sentenziò l'indio.

—Sì che è osso di uomo: abbiamo fatto l'esame del Dna! — esclamò Brando.

—Brando, i test erano tutti in contraddizione, se ti ricordi. Sembra un osso umano, però non ha data e viene dal nulla ha detto sco.

—Questo non è osso di uomo — disse un’altra volta lo sciamano.

Quattro ore dopo erano ancora lì, ma Brando si era addormentato sulla sedia. Intanto lo sciamano aveva parlato a Eva di come lo spirito della Pachamama chiami i propri figli, e di come un seme possa germogliare solo in un terreno fertile.

Eva provò a sondarlo su Luisa.

—Vedi don Juan, anche la nostra amica Luisa era presente quando quell'essere mi ha dato l'osso, ma ora non sappiamo più dove sia, non è nemmeno tornata a casa a dormire ieri notte.

Lo sciamano scrutò il suo libretto. Poi alzò la testa: —Una mente debole soccombe all'urlo dei sensi; la strada buia porta sempre alla morte.

Eva pensò che la frase pronunciata dall’uomo non fosse diversa da quelle nei dolcetti cinesi o nei Baci Perugina. E’ ovvio che una mente debole soccombe e che una strada buia porta alla rovina… diceva tra sé.

Era tardissimo e tutti si ritirarono a dormire. Sul vassoio, dov'era stato posato l'osso misterioso, rimase la sua impronta nerastra come per una forte bruciatura.

Alle sette di domenica mattina Mezzocampo era deserta. I pochi anziani che frequentavano abitualmente la prima messa erano già in chiesa. Nessuno vide perciò la strana coppia che, con fare furtivo, si appostò nel cortile della vetreria, vicino alla casa di Barbagallo. Erano Kilpatrick e Garrone, appena arrivati da Verona con la grossa moto BMW del dottore. I completi scuri e costosi che indossavano, con camicia e cravatta, aumentavano il contrasto con le facce piene di cerotti e l'aria rabbiosa di chi è uscito malconcio da una rissa e cerca di rifarsi con l'agguato e il colpo alle spalle.

Dopo un'attesa non troppo lunga la porta della casa che tenevano d'occhio si aprì e ne uscirono quattro persone. La famiglia Barbagallo si accingeva ad andare alla partita di calcio allo stadio di Mantova.

—Qual è il nostro uomo? — chiese Garrone.

—Nessuno. È ancora dentro. O forse non è proprio tornato — rispose Kilpatrick.

—Entriamo — fece deciso Garrone quando i quattro ebbero girato l'angolo in fondo alla strada.

Forzarono la serratura della porta di cucina, nella parte posteriore ed entrarono. Garrone tirò fuori una pistola da sotto la giacca e andò avanti con circospezione. Controllarono le stanze al pianoterra, poi salirono alle camere da letto. La casa era vuota. Cercarono in ogni angolo, dentro tutti cassetti, materassi, cuscini, barattoli, ripostigli. Misero tutto sottosopra, ma dell'oggetto che cercavano nessuna traccia.

—Niente! — si sfogò alla fine Garrone lacerando con la canna della pistola la tela di un quadro che raffigurava Mezzocampo, con il Po alle spalle.

—Ce l'ha con sé Barbagallo; oppure quella squilibrata che m'ha aggredito. La pittrice assassina — ragionò Kilpatrick.

L'altro assentì con un cenno del capo, rimise la pistola sotto la giacca e si ricompose.

—Bene, calmiamoci e riflettiamo. Barbagallo non sappiamo dov'è. Invece la casa di quella lì, artista o non artista e che Dio fulmini tutti i cosiddetti artisti, la possiamo trovare come abbiamo trovato questa. Andiamoci.

Si fermarono a un piccolo bar sulla strada, con tre tavoli fuori e due vecchi seduti davanti a un mazzo di carte, senza giocare. La ragazza al bancone osservò ostentatamente i loro cerotti, ma non osò fare la battuta spiritosa che aveva sulla punta della lingua. Garrone se ne accorse e prese la palla al balzo. — Le piacciono i nostri cerotti? Effettivamente non ci stanno male: noi siamo artisti, gente strana. Abbiamo avuto una discussione su Van Gogh, e ci scaldiamo facile. Qui da voi ci sono artisti?

—C'è Tonino Spilam...

— Donne artiste, pittrici ne avete di sicuro.

—Beh, la più famosa è Eva Stella, non so che pittrice sia, però va in giro

dappertutto a fare mostre. Guadagna un sacco. Ogni giorno un paio di scarpe nuove…

—Eva Stella — ripeté Kilpatrick.

—La conosce? —fece la barista con invidia.

—Ho avuto occasione. Ma non sapevo che fosse di Mezzocampo.

—È proprio di qui. L'ho vista are in questi giorni. Era sul suo Mercedes SLK con uno di qui, Brando Barbagallo, voleva farsi vedere. Se la tira un po' troppo.

—E dove abita la signorina? — chiese Garrone.

—A Corte Stella! Dopo la chiesa a destra.

Corte Stella, come ogni mattina, domenica compresa, era in piena attività. Elena stava per salire, finalmente, nella camera della figlia e rovistare nella sua roba per trovare un indizio, una spiegazione del suo comportamento sempre più enigmatico. Ma vide entrare nel cortile la Panda rossa, col portapacchi scassato, del falegname. Lo aveva chiamato perché venisse ad aggiustare il comodino che la figlia aveva bruciato.

—Non vi aspettavo di domenica — disse dopo averlo salutato.

—Ero in giro per sistemare le tavole del pranzo, e son ato anche di qua, già che c'ero.

In realtà era venuto apposta, perché da tempo aveva messo gli occhi sulla signora di Corte Stella, vinto dal suo fascino casereccio. E lei lo sapeva.

Una volta nella camera con la valigetta degli attrezzi, vide che il comodino aveva bisogno di una ripiano nuovo e che al momento non poteva far niente. Si misero d'accordo sulla riparazione e, mentre usciva di casa, Elena gli chiese se il danno poteva essere stato causato da uno zampirone.

—Zampirone per elefanti, forse. L'ho fatto io quel comodino, è noce di prima scelta. Neanche un ferro da stiro lo bruciava così.

Elena si ritirò in cucina in preda alla preoccupazione, con un presentimento cupo che per lei, sempre attiva e orientata verso il lato positivo delle cose, era nuovo e insopportabile. Vide una grossa moto, con due tipi in abito scuro, rallentare in prossimità del cancello, e la sua inquietudine s'accrebbe. Erano Kilpatrick e Garrone.

—Impossibile entrare: troppa gente — disse Garrone.

—Dovremo aspettare la notte — aggiunse Kilpatrick. — Però guarda là, una Mercedes SLK. La barista non ha detto che Eva aveva una SLK? —

Squillò il telefonino di Garrone che rispose rabbuiandosi e imprecando.

—Era il mio contatto con gli americani. Vogliono l'osso a tutti i costi, e se li conosco un po' li avremo presto tra i piedi. Questa, mannaggia, non ci voleva.

IL VIAGGIO

A metà mattina della domenica di festa il cortile, il giardino e alcune sale e salette a pianoterra del Palazzo Ducale s'erano trasformati in una infernale officina culinaria. Spiedi e griglie, fiamme e carbonelle spedivano in cielo robusti aromi d'arrosto; pentoloni e paioli annebbiavano l'aria di vapori; padelle grosse come ruote di bicicletta sfrigolavano nel trionfo delle più varie fritture. E intanto tra esortazioni, richiami e imprecazioni piene d'allegria non si fermava il frenetico viavai di seggiole, fiori, tovaglie, vassoi, ceste di pane appena sfornato, verdura, frutta e tante altre leccornie.

In canonica don Juan appena sveglio, ma ancora frastornato per il cambio di fuso orario, andò a bussare alla stanza di Eva.

—Avanti — fece una voce impastata di sonno.

—Noi abbiamo un grande giorno da vivere oggi — disse don Juan.

Lo sciamano poi andò in salotto dove trovò la tavola apparecchiata per la colazione con piatti decorati, posate della festa e le tazzine che la sera prima si trovavano sul vassoio accidentalmente rovinato. Arrivarono subito dopo Eva e Brando, che la ragazza era andata a svegliare.

—Eccoli, finalmente alzati! La sera leoni e la mattina... — li salutò la perpetua con fare brusco. — Vi porto il caffè, sul mio bel vassoio. — E scandì le ultime parole con intenzione, lasciando intendere d'avere in gola un rospo che prima o poi doveva sputare. I tre si sedettero intorno al tavolo, mentre arrivavano padre

Luca e l'attuale parroco, don Gianfranco, che avevano già celebrato le prime messe domenicali.

—Dormito bene? — salutò don Gianfranco.

Tutti assentirono; anche lo sciamano, che aggiunse: — la tua casa è molto positiva!

—Arriva il caffè — annunciò la perpetua ancora sulla porta. — Può bere il caffè il signor Giovanni? — continuò indicando lo sciamano.

—Don Juan — la corresse don Gianfranco.

—Juan, Juan: mi sembra un nome nostro, in dialetto ...

Don Gianfranco rise, imbarazzato. Ma la donna non si fermò: — Volevo dire, guardate il mio vassoio: è tutto annerito. Qualcuno forse saprebbe la spiegazione? —

I quattro, che la sera prima si erano trattenuti in conversazione fino a tardi si guardarono in faccia, stupiti. Padre Luca stava per risponderle, ma don Gianfranco intimò alla perpetua di andare in cucina e non mancare di cortesia agli ospiti. Lei obbedì, congedandosi con una gran brutta occhiata verso tutti e quattro.

—Credo che più tardi dobbiamo parlare della vostra situazione, ragazzi miei — disse padre Luca. — Don Gianfranco vi ospita volentieri, ma se aveste voluto vivere in una canonica credo che avreste fatto i religiosi. Non è così? Statemi a sentire adesso. Io e don Gianfranco abbiamo da concelebrare la messa solenne. È festa e la chiesa è già piena: questa brava gente ha risposto in un modo meraviglioso all'invito per aiutare i miei piccoli peruviani. Finita la messa ci ritroviamo qui per andare al pranzo tutti insieme. Secondo me dovreste venire anche voi, sarebbe peggio se vi lasciassimo nascosti qui, ma soli. Che ne dici don Juan, ti sta bene?

—Io devo pensare —rispose evasivo lo sciamano.

Don Juan, Eva e Brando, rimasero soli nella stanza, continuando ognuno a interrogarsi sulla soluzione migliore. Fu Eva a rompere il silenzio: — Don Juan, cosa intendevi quando hai detto che il nemico è vicino, intendi qui a Mezzocampo?

—Sì.

—Come fai a saperlo? — disse Brando.

—Ho interrogato il libro. E la risposta è che a meno di due chilometri si trova il nemico — disse lo sciamano. — Un nemico veloce e pericoloso. Hanno armi. —

—Cosa, cosa, armati? E perché armati? — fece allarmato Brando.

—La situazione si sta facendo complicata — osservò Eva, più pacata. — Questi sono delinquenti decisi a tutto evidentemente, e sono sicura che c'è di mezzo Kirpatrick. Penso che se vogliono combattere, noi combatteremo. Ma non capisco perché siano disposti a tanto per un pezzettino d'osso che neanche hanno visto né sanno cosa sia. Comunque, il mio piccolo tesoro, non lo avranno mai.

Don Juan li interruppe.

—Forse ragazzi, non sapete quanto denaro può girare intorno a un mistero. –

—La storia, se c’entra Kilpatrick, gliel'ha sicuramente raccontata Luisa: ecco svelato l'arcano maggiore! Lei non riesce a tenere la lingua a freno, in nessun senso. Mi fa una rabbia! — si sfogò Eva.

—Chi può credere a una storia del genere? — chiese Brando a entrambi gli interlocutori.

Don Juan lo guardò con ironia: —Ci sono dipartimenti in ogni governo del mondo che si occupano di queste storie, come le chiami tu, perché sono più serie di quanto si immagina. La conoscenza è l'arma più forte oggi. Ogni paese vuole acquisire più tecnologia possibile. e in molti pensano che gli extraterrestri esistono e sono più evoluti di noi. Ma qui io ripeto che non si tratta di extraterrestri e presto avrete la rivelazione.

—Non puoi dircelo subito? — disse Eva — ci risparmieresti lo spavento, e comunque saremmo più preparati. Non credi?

—Neppure io so cosa deve accadere, ma qualcosa di terribile accadrà. Il libro non mente.

La messa solenne era finita, don Gianfranco e Padre Luca rientrarono in canonica felici per il grande afflusso di fedeli che aveva riempito la chiesa duecentesca.

— Ci vediamo tra poco. — aveva salutato don Gianfranco — Tutti a tavola per festeggiare il nostro don Luca. —

L'intero paese, infatti, aveva prenotato per il grande pranzo, e i cittadini cominciarono a muoversi in ordine sparso verso il Palazzo Ducale.

Garrone e Kilpatrick erano appostati in una stradina di fianco a Corte Stella nell'attesa che Eva tornasse o uscisse di casa. Videro un gran viavai di gente che si dirigeva tutta in una direzione, chi a piedi, chi in auto, chi in bicicletta come la signora Elena e la madre Elvira, le quali già di mattina presto avevano portato a Palazzo Ducale i dolci e le provviste preparati con cura.

—Ma che succede qui? — chiese Garrone.

—Sarà una festa di paese... — disse Kilpatrick — Quelle con vino, risotto e salamelle fritte per tutti.

—E allora i nostri desaparecidos li troviamo là — concluse Garrone con un sorriso maligno.

Mentre si dirigevano, mescolati alla gente del luogo, verso il paese, squillò il cellulare di Garrone. Erano gli agenti della scorta che senza sentire ragioni avevano lasciato l'ospedale ed erano appena arrivati, con un aggio, a Mezzocampo. Nel tempo che occorse ai quattro malintenzionati per coordinarsi e ritrovarsi, i due giovani, insieme con don Juan, padre Luca e don Gianfranco, si erano uniti agli altri parrocchiani per raggiungere il luogo del pranzo. Eva aveva nel cuore un rodimento come ci camminasse dentro un corteo di formiche rosse, un'ansia nel petto che l'opprimeva. Si aiutava espirando di tanto in tanto un po' d'aria con forza, come nella respirazione ritmata degli atleti. Quanto a Brando, era come si trovasse in montagna ad alta quota, completamente spaesato, impaurito dall'allusione di don Juan a un nemico ancora invisibile, e soprattutto armato. Si malediceva per essersi fatto incastrare in una situazione tanto pericolosa. E giurava a se stesso che se fosse riuscito a tirarsene fuori, non avrebbe mai più voluto neanche sentir parlare dell'osso misterioso, dello sciamano, di Eva e di tutto il resto. Basta, se ne esco basta, continuava a ripetersi.

Tre quarti dei commensali erano già sistemati nella lunga tavolata a tre lati, ben apparecchiata e colorita con i fiori, le bottiglie di vino rosso, l'acqua e i cestini del pane sfornato poche ore prima, nonostante fosse domenica. Kilpatrick vide Eva e Brando in mezzo ai parrocchiani.

—Eccoli! — esclamò.

Garrone trasalì e lo guardò con aria interrogativa.

—Là! — indicò Kilpatrick — Lei è vestita di blu e lui è quello con la maglietta azzurra.

—Andiamo, per tutti i diavoli! — disse Garrone incapace di trattenersi. — Li prendiamo e ce li portiamo a fare una chiacchierata noi e loro.

—Troppa gente, troppa gente. È impossibile. Dobbiamo aspettare — fece Kilpatrick cercando di farlo ragionare.

—Siamo in quattro no? —insistette Garrone girandosi verso i due agenti della scorta, uno con un braccio al collo, ma senza gesso, l'altro con una vistosa chiazza rasata e una medicazione in testa. — Dobbiamo farlo adesso e proprio la confusione ci aiuterà. Forza!—

Con l'occhio del cuore Eva vide il pericolo, lo presentì. Sentì come muoversi l’aria intorno. Guardò Brando e don Juan per cercare una conferma dell'ansia che aveva dentro. Nella piega immobile della bocca dello sciamano lesse: fai quello che il tuo cuore ti impone. Subito, senza guardare indietro come l'animale selvatico quando fiuta il pericolo, iniziò a correre gridando: — Brando, don Juan, venite, correte!

Garrone e Kilpatrick, con i due della scorta che avevano estratto le pistole, presero a rincorrerli. Tra la gente, qualcuno li vide e cominciò a gridare; altri tentarono di fermarli e altri ancora fuggirono. Eva, entrando di corsa nel cortile di Palazzo Ducale, si trovò davanti la tavolata di gente, e la fila di chi non s'era ancora seduto. Era una barriera insuperabile. Allora, senza fermarsi, saltò sulla tovaglia bianca, per correre lungo il tavolo. Brando e don Juan fecero lo stesso. A valanga si aggiunsero gli inseguitori e fu il disastro: bottiglie rovesciate, vino e acqua ovunque, pane, posate e cestini per aria e per terra. I commensali già al loro posto si tirarono indietro facendo cadere diverse seggiole; molti, tra proteste e imprecazioni, si ritrovarono innaffiati di lambrusco.

—Eva! — gridò Elena, appena arrivata, che non credeva ai suoi occhi.

Ma la figlia non la sentì nemmeno: era già nel centro della tavolata e con un balzo saltò giù, raggiungendo subito l'entrata del palazzo, seguita da Brando e don Juan. Proprio davanti a loro trovarono l'ascensore con le porte aperte, e vi si infilarono. L’avevano considerata una grande fortuna, allora.

Eva voleva schiacciare il tasto numero quattro, per andare al piano del museo che conosceva bene e dove sapeva nascondersi. Pose maldestramente il palmo sul display e senza accorgersene premette più volte i pulsanti. I tre presero fiato, appoggiati alla pareti della cabina. Fu Brando il primo ad avvertire qualcosa di strano: — Non vi sembra che stiamo scendendo?

Guardarono istintivamente in alto e poi giù. D'un tratto le pareti dell'ascensore divennero trasparenti e la velocità di discesa aumentò enormemente. Videro la terra nuda, la roccia e gli strati argillosi.

—Moriamo, stavolta è finita! — gridò Eva — Dio protegga le nostre anime. —

—Maledetto il giorno che ti ho invitato alla festa sulla spiaggia! — recriminò Brando a voce bassa, rannicchiato sul pavimento dell'ascensore, senza preoccuparsi che l'amica lo sentisse.

A questo punto don Juan, seppure provato dalla velocità, cercò di rianimare i due giovani: —Coraggio, che la vita non ama chi ha paura!

Dopo qualche secondo l'ascensore toccò il fondo, con un contraccolpo attutito e concluso da un clic metallico. Dalle pareti trasparenti si indovinava un luogo

grigio, simile a una caverna di metallo. La porta si aprì. I tre si guardarono in faccia.

—Ma… ma… dove…? —disse Eva.

—I sotterranei del palazzo? — disse Brando

Lo sciamano stava in silenzio, si limitava a guardarsi intorno.

—Cosa facciamo? Stiamo nascosti qui? — disse Eva.

—No! — rispose Brando con tono glaciale.

Il ragazzo si mise a spingere il tasto numero uno, con l’intento di ritornare in superficie. Sembrava impazzito, il suo dito pareva il becco di un picchio che batte su un albero.

—Arrivo, grandi capi! Sbitter arriva!

Una voce stridula proveniva da dietro una roccia.

—Chi è? — disse Eva abbracciando Brando.

Spuntò correndo una piccola creatura verde. Alla vista dei tre nell’ascensore urlò come se avesse visto il demonio.

—Oh grande Feller! Ma voi cosa ci fate qui? — si mise a gridare.

—E’ lui, quello che ci ha dato l’osso… Prendiamolo. — disse Eva.

Brando uscì dall’ascensore per acciuffare la creatura, Eva e Don Juan lo seguirono correndo, fino a quando Brando si lanciò di peso sulla creatura verde, non senza una profonda repulsione per quell’essere.

—No, no, fermo. — disse l’omino — Sbitter è buono, non fate del male a Sbitter. —

—Ma chi diavolo sei? — disse Brando con il fiatone.

—E’ Sbitter — disse Eva

—E chi è Sbitter?

—Non lo so, ma l’ha detto tre volte che si chiama così.

In quel momento si sentì a qualche metro di distanza un clic, tutti guardarono indietro in direzione del rumore. Le porte dell’ascensore si erano chiuse.

Brando, con l’omino tenuto per il collo, corse verso le porte dell’ascensore, che erano sparite e al loro posto vi era della roccia. Nessun segno che lì vi fosse stato un ascensore.

—Dove sono le porte? — gridò Brando rivolgendosi all’omino verde.

La creatura non rispondeva, Brando le strinse le mani intono al collo con l’intenzione di strozzarla.

—Soffocheremo qui giù! — disse Eva pulendosi il viso dalle lacrime.

—Ossigeno…— disse a fatica l’omino verde.

—Ha detto ossigeno… lascialo parlare. — disse lo sciamano.

Sbitter prese una gran boccata d’aria e poi cominciò a tossire forte.

—Parla! — gli intimò Brando.

—C’è ossigeno per venti minuti. I grandi capi l’hanno voluto, se non si conosce

la strada non si può arrivare in venti minuti al laboratorio.— disse Sbitter tra i colpi di tosse fortissima.

—Ho un attacco di panico! — sbraitò Eva. — Gli ultimi venti minuti della mia vita… oh! —

—Facci uscire! Fai ritornare giù l’ascensore!— gridò Brando.

Lo sciamano era concentrato su se stesso e non diceva alcunché.

—Non si può. Nessuno può far tornare giù l’ascensore prima di un’ora esatta da quando è salito. Sbitter vi porterà in salvo. — disse dopo aver ripreso a respirare normalmente, — Sbitter non farà morire Eva e i suoi amici. —

—Tu sai il mio nome?

—Sbitter conosce Eva, il professor Feller ha detto di portare la chiave bianca a Eva.

—Chiave….?

—Avete finito con le presentazioni? Qui stiamo per morire, ci diamo una mossa? — disse Brando con tono agitato.

—Bisogna arrivare alla porta rossa e entrare nella Grande Cappa. Là c’è ossigeno sempre. Dobbiamo stare attenti, è sorvegliata dagli uomini d’oro. Ma dorme uomo con bastone?”

—Don Juan? — lo chiamò, Eva.

Lui si ridestò di colpo.

—Andiamo, dobbiamo arrivare alla porta rossa entro quindici minuti.— disse Sbitter.

—Quanto siamo distanti? — chiese Eva con tono preoccupato.

—Un chilometro più o meno…— rispose con calma Sbitter.

—E’ meglio che ci mettiamo a correre allora! — tuonò Brando.

—Quando Sbitter dice giù vi dovete abbassare, ci sono telecamere.

L’angoscia nel cuore di Eva la stava stritolando, Brando correva appesantito da un dolore alla bocca dello stomaco, lo sciamano si muoveva con agilità, aveva tolto il teschio con i sassolini dalla punta del bastone e l’aveva riposto nella bisaccia che teneva a tracolla.

—Siamo nei sotterranei del palazzo? — chiese Eva correndo.

—Eh… non proprio. Attenzione a ore dieci telecamera. Giù! —disse Sbitter.

I tre si abbassarono come un’onda con una coordinazione perfetta.

—A ore tre, pericolo. Giù!

La corsa era estenuante.

Sbitter si fermò d’improvviso. Rigido come una statua di sale.

—Cosa c’è? — chiese Brando con tono apprensivo.

—Sì, certo. Sbitter esegue con piacere.

—Con chi stai parlando? — chiese Brando.

—Con dottor Feller, naturalmente.

I tre si guardarono, poi cercarono intorno con occhiate furtive. Non c’era

nessuno. Eva fece il segno internazionale della pazzia, ossia un movimento circolare del dito indice in corrispondenza della tempia. Tutti e tre provarono la sensazione di essere perduti.

—Questa entrata è fuori uso. — disse Sbitter con tono calmo — La seconda entrata è più avanti. Tutto questo non era previsto, dovremo fare più in fretta e sarà più difficile. —

—Dannazione! — disse lo sciamano che aveva perso una buona parte della sua naturale tranquillità.

—Là ci sono le griglie laser, ma Sbitter e dottor Feller disattiveranno per otto secondi. Prima dobbiamo distrarre i cani dal muso lungo.

—Oh mio Dio, aiutaci! — disse Eva.

—I cani non scherzano, Sbitter una volta è stato morso e stava per morire, ma dottor Feller ha aggiustato Sbitter. Fermi!

—Sono già ati diciotto minuti. —disse lo sciamano con tono cupo.

—Sì, sì, Sbitter lo sa! Non ci sono i cani oggi a fare la guardia. Ci sono gli uomini d’oro che erano alla prima entrata. Sì, dottor Feller noi colpiremo tra la schiena e la testa. Non guardatemi così, vedete ho auricolare per parlare con dottor Feller, lui dice…

—Dobbiamo agire adesso! — intervenne lo sciamano.

—Sì — disse Brando.

—Hey — disse Don Juan all’uomo d’oro che aveva davanti.

Subito dopo gli sferrò un colpo al collo con il bastone, l’uomo d’oro non era così forte come sembrava, era anzi molliccio e cadde a terra privo di sensi.

—C’avrei pensato io! —disse Brando con tono stizzito.

—Tranquillo. — disse lo sciamano.

Brando sbuffò.

Cominciavano a respirare a fatica. L’ossigeno stava terminando.

Sbitter prese una pietra e la lanciò verso il secondo guardiano che cadde a terra, ma aveva fatto in tempo a dare l’allarme.

—Ci troveranno presto. — disse Sbitter — La lepre è ata, stiamo arrivando. — aggiunse.

A Mezzocampo, nel frattempo, il paese intero era sottosopra per il movimentato contrattempo che aveva turbato la festa. I commensali già seduti al momento della scorribanda di Eva e i suoi amici sopra la tavolata si stavano ripulendo, mentre i giovani del servizio facevano un po' d'ordine, riapparecchiando. Erano arrivati i carabinieri e, mitra alla mano, avevano intimato a Kilpatrick, a Garrone e ai due della scorta, di buttare a terra le pistole e alzare le mani.

—Sono dei servizi segreti — si difese Garrone.

—Intanto posa giù la pistola — gli intimò ancora il maresciallo Salvaterra.

Garrone, come gli altri, dovette eseguire. I militari ammanettarono i quattro forestieri. Mentre si muovevano con le gazzelle per portarli in caserma, la gente continuava a inveire contro i fermati, responsabili di aver guastato la festa.

Tirarono loro dietro insulti, maledizioni e anche qualche pezzo di pane inzuppato di vino. Elena era in preda a vergogna e paura insieme: una forte preoccupazione la spingeva a cercare la figlia dentro il palazzo, dove l'aveva vista entrare, ma doveva prendersi cura di nonna Elvira, ancora scioccata.

—Forza mamma cerca di reagire.

—Elena, lo sai che sono stata spaventata dalla guerra, che ho fatto dodici…

—Dodici operazioni! — l'anticipò Elena sospirando — lo so mamma. —

Alcune signore si avvicinarono premurose: — Serve aiuto? Elvira stai male?

—Ma no, grazie. Adesso si riprende — disse Elena.

—Coraggio, Elvira! — Una delle conoscenti accorse a confortarla, colse l'occasione per allargare il discorso: — Ma non era tua nipote quella che correva sulla tavola?

—Ma sì poverina, e dov'è adesso? E quelli dietro con le pistole? Oddio, mi sento ancora male.

—Tutto a posto, tranquilla. Certo che ne hai ate tante con tua nipote, è così strana! — insinuò un'altra. Nonna Elvira si drizzò, guardò dritto negli occhi la comare che aveva parlato e le ribatté in tono fermo: — Mia nipote non è strana, è un'artista, una grande artista. Se cerchi davvero una un po' strana, forse ci sarebbe tua figlia, quella sposata s'intende, che all'una di notte viene con qualcuno che sa lei a fare delle porcherie vicino a Corte Stella. E tutti lo sanno!

Le donne si guardarono imbarazzate e poi, senza che nessuno rispondesse, il gruppetto si sparpagliò nel giardino del palazzo. Alcuni carabinieri erano rimasti a verbalizzare il racconto dei commensali, i quali ovviamente riferirono della corsa sui tavoli di Eva & C. Cosicché i militari si precipitarono a cercare i tre che mancavano alla conta. Dapprima, controllarono l'ascensore che era al piano terra come se nessuno vi fosse salito, contrariamente a quanto dichiarato dai testimoni. I militari ispezionarono ogni piano: nessuna traccia dei tre.

Don Luca cercava disperatamente lo sciamano e don Gianfranco provava a rasserenare i cuori dei suoi parrocchiani. Il mistero s'infittiva. Sotto i portici del palazzo ducale alle ore tredici e venti rimanevano un milione di domande e nemmeno una risposta.

IL LABORATORIO SEGRETO

Non era la prima volta che tra Eva e Brando scoppiava un litigio. Sbitter, pressato dalle domande dei due, aveva appena rivelato che si trovavano nel tunnel nero e aveva aggiunto:— Non dovrete mai rivelarlo a nessuno, altrimenti qualcuno morirà! Quelle parole ebbero un effetto incredibile sui ragazzi. Eva si buttò all’indietro dallo spavento, Brando le lanciò un’occhiata raggelante. Don Juan non sapeva cosa pensare, ma le parole ‘tunnel nero’ nella stessa frase risvegliarono in lui un sentimento che non sentiva da tanto tempo: l’ansia.

La testa di Eva era finita contro la parete metallica producendo un suono sinistro e lei si era messa a boccheggiare. Brando si alzò in piedi con le vene delle tempie tutte gonfie.

—Cosa ti avevo detto? — tuonò contro Eva.

—Sssh, ci farai scoprire. — disse Sbitter.

—Non fidarti! Non prendere l’oggetto! Ma lei niente... fa sempre quello che le pare! E guarda in che guaio siamo finiti!— disse Brando ignorando Sbitter. — Perché l’hai fatto? — aggiunse rabbioso.

—Non lo so perché l’ho fatto! — disse Eva stizzita, — non lo so perché mi è piaciuto farlo e nemmeno perché lo rifarei. —

—Ammetti almeno che è stata una sciocchezza.

—Perché dovrei? Ho seguito il mio istinto.

—Perché stiamo per morire e tutto per colpa tua e di quel maledetto oggetto dal quale non ti vuoi più separare! Pazza!

—Non avrai la chiave bianca con te? — chiese Sbitter d’un tratto.

—Ma certo che ce l’ho!

—Oh grande Feller! Siamo spacciati, spacciati vi dico! — disse Sbitter strappandosi i capelli.

—Smettila. Piuttosto dicci che cos’è questo oggetto e a cosa serve. E perché l’hai portato a me?

—Sbitter non sa certe cose. Solo dottor Feller sa, io ho eseguito ordini di dottor Feller… Spacciati… spacciati.

Per la prima volta Brando aveva paura di morire o forse temeva di essere già morto, e il momento in cui se ne fosse accorto. Pallido in viso, scambiava occhiate con lo sciamano, cercando nei suoi occhi anche il minimo segnale. Ma niente, l’uomo sembrava calmo. Eva si sentiva come spiata da maschere dall’espressione maligna e continuava a lanciare occhiate a ogni lato di quell’angolo nel quale si erano nascosti. Era terrorizzata dall’immensa cupola, sopra le loro teste, d'aspetto metallico con quattro o cinque sorgenti luminose

equidistanti tra loro. Era un’illuminazione azzurrognola che rendeva il luogo ancora più inquietante. Cercava disperatamente di tenere a mente tutte le istruzioni del piano di Sbitter per arrivare vivi dall’unica persona che avrebbe potuto aiutarli: il dottor Feller.

—Cosa facciamo adesso? — disse Eva.

—Spacciati, spacciati… — ripeteva Sbitter.

—Abbiamo un piano, se non sbaglio. Facciamo qualcosa, non possiamo stare qui. — disse lei.

Sbitter cercava di riprendersi.

—Eh, certo. Eva braveheart! Eva non ha mai paura. E lo sai perché?

—Il coraggio non è la mancanza di paura, ma la forza di superarla.

—Incosciente!

—Spacciati…

—L’hai già detto mille volte — disse Eva —Cosa vuol dire? —

—Dottor Feller ha mandato Sbitter in terra con sole per nascondere la chiave bianca dai grandi capi. Dottor Feller punirà Sbitter, farà pulire tutti i vetri del laboratorio… — mugugnò.

—Vuoi spiegarti? — disse Brando.

—Sbitter non sa di più! Ma dottor Feller ha detto che i grandi capi non dovevano avere la chiave. Questione di vita o di morte!

Lo sciamano era stanco e confuso: prese a masticare le sue foglie di coca. Sbitter cominciò ad annusare l’aria nel tentativo di capire da dove venisse lo strano odore che l’aveva travolto.

—No, no, non si può mangiare qui sotto. — disse Sbitter rivolto allo sciamano.

—Mastico foglie di coca, non sto mangiando.

—Quella roba ti farà male! — disse Eva.

—Io sono più lucido con le foglie di coca — ribatté lo sciamano deciso a non cedere su questo punto.

—No, no, ascolta Sbitter! Non si può portare sostanze qui giù. Un sistema ti farà

esplodere fuori dal tunnel.

—Sì può uscire? E lo dici adesso? — gridò Brando.

—Sparato fuori, si può uscire nel fiume e si può annegare. Molti son morti. Un disastro, quella volta che hanno portato qui sotto … morti in centotrenta, mangiati dai siluri del fiume. Sai quei brutti pesci con i denti lunghi… li hanno mangiati in un momento…

—Abbiamo capito. — disse Eva immaginando la scena.

—Riiamo il piano. — disse Brando. — Eva, tu dovrai…—

—Al segnale dovrò distrarre i guardiani all’entrata.

—Bene. E don Juan?

—Colpirli con il bastone.

—Sbitter intanto apre la grande porta, con forcina di ferro…— disse l’omino.

—E io dovrò entrare in fretta e mettere KO le guardie all’interno. — disse Brando

Eva non riusciva a scacciare fuori dalla testa l’immagine dei siluri che masticavano carne umana. Brando aveva assunto un colorito carminio, l’agitazione era ormai padrona della sua mente. Lo sciamano ancora intontito dal masticare si alzò e, quasi barcollando, si portò vicino a Sbitter. Eva sorrise, ma avvertì l'inquietudine nel segreto dell'occhio del cuore. I quattro si misero in cammino.

Imboccarono un sentiero così stretto che dovettero allinearsi in fila indiana. Sbitter davanti, poi Eva e Brando, per ultimo lo sciamano. Il cunicolo si faceva sempre più stretto, ed Eva cominciava a sentirsi soffocare. La ragazza odiava gli spazi ristretti, pur non soffrendo di claustrofobia, perché provava fastidio per ogni limitazione, anche nella libertà di movimento. I quattro dovettero rallentare l'andatura perché lo spazio tra le pareti non superava ormai i quaranta centimetri, e potevano procedere solo di lato.

La situazione ricordava a Brando la prigionia della droga che lui stesso si era inflitto, e accresceva sempre più il suo stato d'ansia. Ricordava le tante sere in cui si faceva due volte in sei ore, le notti desolanti in comunità, il grande dolore che aveva cercato di soffocare con l'eroina e che si ritrovava ora addosso più vivo che mai, un tormento che gli si era gonfiato nel cuore come una pasta lievitata per dieci anni. Rivide il viso della donna che aveva tanto amato, la vide bellissima, e lacrime buie cominciarono a scorrergli copiose sul viso.

—Cosa c'è? — gli chiese Eva spaventata.

Egli non rispose; forse non sentì nemmeno e continuò a piangere con la testa bassa, procedendo a piccoli i laterali.

I sassolini nel teschio dello sciamano sbatacchiavano in un ritmo tribale e allegro. Ma don Juan tremava e sudava. Era tornato, nella sua immaginazione, il piccolo apprendista del curandero che gli aveva insegnato tutto quello che sapeva delle arti sciamaniche. Per seguirlo aveva abbandonato la vecchia madre, che era morta di crepacuore a vederlo andare via per non tornare mai più. Adesso vedeva il viso sorridente della mamma da giovane, mentre gli soffiava il naso di bambino, mentre lo vestiva per le danze annuali nella piazza del villaggio tra le montagne. Poi, d'un tratto, ecco il volto della madre morta e i suoi occhi ancora aperti che lo guardano e lo scrutano. Vuole forse dirgli qualcosa, ma non ha più voce, anche se il rimprovero dello sguardo di quegli occhi morti è terribile. Gli occhi della vecchia madre si fanno sempre più grandi e severi, fino a occupare tutto il volto. Era una vista tremenda e lo sciamano crollò contro una parete, scivolando poi sulle ginocchia. Gli altri non se ne accorsero. Ebbe la sensazione di essere risucchiato da un’enorme turbina. Gli sembrò di girare vorticosamente e di sentire delle mani gelate toccargli la testa. Il rombo nelle orecchie era assordante. Chiuse gli occhi, desiderando di fermarsi. In un attimo, venne sputato fuori dalla terra a un metro di altezza e ricadde a faccia in giù. Era completamente solo e non aveva la più pallida idea di dove fosse.

L'INTERROGATORIO

Il piccolo paese di Mezzocampo sembrava trasformato in un centro di igiene mentale; o meglio in un vecchio manicomio. L'ottanta per cento degli abitanti era radunato di fronte alla caserma dei carabinieri, e urlava contro i forestieri che avevano rovinato la festa di don Luca. Quest'ultimo si trovava all'interno dell'edificio con don Gianfranco, e tentava disperatamente di far capire ai carabinieri che, con Eva e Brando, era scomparso anche lo sciamano. Ma si guardava bene dal raccontare la storia della chiave bianca.

In un piccolo e squallido ufficio stavano ammassati, seduti o in piedi, i due sacerdoti, i militari, Garrone infuriato e spettinato, le guardie del corpo, Kilpatrick, sudato spaurito e anche un po' menomato senza gli occhiali persi al momento dell'arresto, e tre avvocati di grido accorsi alla chiamata dei due fermati. La presenza dei professionisti del foro incuteva in tutti una certa soggezione se non proprio timore, con i loro abiti da migliaia di euro e le espressioni dure, sprizzavano potere da tutti i pori. Garrone si inventò sui due piedi di essersi trovato nella spiacevole situazione che aveva portato al suo arresto per recuperare l'oggetto che i due ragazzi avevano trafugato, un oggetto, assicurò, di valore inestimabile, protetto dalla sovrintendenza competente e dalle leggi dello Stato.

—Le leggi devono essere rispettate da tutti! — sbottò il comandante Salvaterra. — E voi non mi sembra che le abbiate rispettate rincorrendo con le armi in pugno due ragazzi.

—E don Juan! — aggiunse don Luca.

—Va bene... e questo don Juan, minacciandoli con armi da fuoco. Scrivi

brigadiere Galli. scrivi — precisò il maresciallo. — Il signor Garrone dichiara di essere membro dei servizi segreti italiani e ci presenta questo documento di riconoscimento. Galli hai scritto? Bene, di' a Bianchi di chiamare questo numero e poi amelo.

Il militare guardava quei quattro forestieri con diffidenza, sia per l'espressione vagamente losca, lividi e cerotti non li miglioravano di certo, sia per l'ansia che visibilmente li divorava e che non li faceva stare fermi sulle sedie. Delle nefandezze di Kilpatrick, demolendogli una immagine già abbastanza compromessa, avrebbe riferito presto una certa signora che aveva avuto modo di conoscerlo intimamente e che stava giusto in quel momento tornando a Mezzocampo.

Luisa ignorava gli ultimi avvenimenti e, prima ancora di andare a casa sua, ò a Corte Stella. Voleva parlare con Eva, dirle quanto avesse ragione riguardo a Kilpatrick. Voleva raccontarle l'incontro spiacevole, quella stessa mattina, con una certa Linda, fidanzata del dottore. Ma Corte Stella era deserta, e Luisa si ricordò di non aver visto nessuno, arrivando, in tutta quella parte del paese. Rimase perplessa finché, come una folgorazione, le tornò in mente che era il giorno della grande festa. Guardò l'orologio: erano le cinque e mezza e faceva ancora caldo. Pensò che i suoi compaesani si stessero davvero divertendo, per prolungare il pranzo fino a quell'ora. Si mosse con la sua Fiesta, sicura di trovare gran parte della gente seduta in allegria a chiacchierare e brindare, Eva compresa. Arrivò prestissimo a Palazzo Ducale ma, con somma delusione, lo trovò silenzioso e deserto. Cominciò a chiedersi se non fosse successo qualcosa di grave. Entrò nel cortile. C'erano solo pochi volontari indaffarati a ripulire. Luisa si avvicinò a due che stavano lavando le piastrelle di cotto dei portici, macchiate di lambrusco.

—È già finita la festa? — chiese loro.

I volontari alzarono lo sguardo con aria di sfida mista a rancore. Per fortuna lì

vicino c'era la Claudia, la figlia del falegname, che stava ammucchiando le sedie. Riconobbe Luisa e si accorse che non li voleva certo prendere in giro con quella domanda, a dir poco inopportuna.

—Luisa, non sai niente del disastro che è capitato oggi? Una vera Caporetto, credimi, una cosa del genere non l'avevo mai vista in vita mia! — Ebbe poi l'accortezza di spiegarle l'accaduto con la precisione di un investigatore. —E il peggio — aggiunse alla fine — è che Eva e Brando non si trovano.

Luisa fu percorsa da un brivido lungo la schiena. Si mise una mano davanti alla bocca e chiuse forte gli occhi.

—La mia piccola Eva — disse piano.

Aveva paura che le fosse successo qualcosa di grave.

—Ma dove sono tutti? — chiese poi, con un nodo in gola.

—Sono davanti alla caserma dei carabinieri perché quei delinquenti sono ancora là. Li devono torchiare per bene, poi ficcarli in galera e buttar via la chiave — disse Claudia con piglio severo.

—E Elena, la mamma di Eva, dov'è? — chiese ancora Luisa.

—Non so di preciso, perché l'Elvira si è sentita male. Forse al pronto soccorso...

O forse in caserma anche loro. Non lo so proprio — rispose la Claudia, preoccupata anche lei.

Luisa ringraziò e si avviò per tornare alla Fiesta. All'altezza della fontanella vicina al porticato vide con suo grande orrore, a terra davanti ai suoi piedi, gli occhiali di metallo di Kilpatrick, la lente destra rotta e la montatura tutta deformata. Provò un tale sgomento che dimenticò la macchina e si diresse di corsa verso la caserma con la furia nelle gambe; dal nervoso che aveva addosso non percepiva nemmeno il dolore per le ferite, sfregate dalla garza nei bruschi movimenti della corsa. Pensava d'essere responsabile di quanto era successo e sentiva addosso la vergogna per non aver taciuto con Kilpatrick. Raggiunse in due minuti la caserma dei carabinieri impaziente di dire tutto quello che sapeva e, se possibile, riparare; decisa ad affondare il dottore. Si fece strada a fatica tra la folla urlante; chiese di Elena e di Elvira e qualcuno le disse che si trovavano all'interno dello stabile. Così Luisa si fece coraggio e suonò il camlo.

—Cosa è successo ancora? — sbraitò un sottoposto aprendo la porta a due metri dal cancello dove si trovava Luisa.

—Scusate io forse ho delle informazioni su Eva Stella.— fece Luisa improvvisamente intimidita e incerta su cosa dire.

—Aspetti lì — le rispose il giovane carabiniere che tornò quasi subito e la fece entrare.

Nella sala d'aspetto trovò Elena e nonna Elvira, scure e abbattute come cani malconci. Non erano donne abituate a parlare oltre la cerchia familiare e subivano la supremazia verbale di chi può usare un linguaggio burocratico e ufficiale: niente come questa apparente inferiorità linguistica può rendere insicure e remissive persone umili e con pochi mezzi.

—Si accomodi e attenda che il maresciallo la chiami — disse il militare alla donna.

Alla vista di Luisa, Elena balzò in piedi e le andò incontro. Si abbracciarono, anche se non erano mai state davvero amiche.

—Luisa, sai qualcosa di questa faccenda? Là dentro ci sono due delinquenti che dicono che la mia Eva e Brando hanno rubato un oggetto di valore inestimabile — disse Elena piangendo.

—Rubato? — Luisa cadde dalle nuvole. — Ma di che oggetto si tratta?

—Non ho capito bene cosa sia, ma dicono che sono dei ladri, capisci? — Elena era sconvolta.

Luisa si chiedeva come aiutare i suoi amici. Come faccio a raccontare la storia della spiaggia? si tormentava. Con il pasticcio che ho combinato raccontandola a Kilpatrick, adesso è meglio che tenga la bocca chiusa. Sapeva anche di non potersela cavare così. Adesso dipendeva tutto da lei, e doveva fare ciò che era giusto. Ma cosa?

—Credo di dover andare là dentro, signora Elena — disse alla fine; — ma lei quei delinquenti li ha visti in faccia? Ha mica visto, e il cielo solo sa quanto sono stupida, se c'era un ragazzo, diciamo sui trentacinque, elegante, alto, moro e belloccio?

—Credo proprio di sì. Era uno di quei mascalzoni incalliti che rincorrevano la mia bambina con le pistole. Mi prende un infarto se ci ripenso, Luisa. Mi sembra di impazzire, ma non dispero perché Eva è furba, io la conosco, sa badare a se stessa e poi quelli sono tutti in quella stanza legati come salsicce — concluse Elena per farsi coraggio. —Lì dentro, già. Devo andarci anch'io. —

Luisa spalancò la porta dell'ufficio senza essere stata chiamata.

—Cosa fa lei qui? — gridò il maresciallo rosso di rabbia. — Vada subito fuori, come si permette, non vede che qui è in corso un interrogatorio!

Kilpatrick divenne pallido come un morto, si sentì raggelare. La vista di Luisa finì di demolire in lui ogni sicurezza e iattanza. Garrone dal canto suo abbassò lo sguardo e per la prima volta in vita sua si sentì perduto.

—Tu? — gridò furiosa Luisa indicando Kilpatrick con un gesto melodrammatico.

Il commissario divenne ancora più rosso e gridò ancora più forte: — Cosa fa ancora qui?

Luisa continuò, indicando Garrone. — E tu? Anche tu! Ma voi due siete dei banditi! Siete voi che avete inseguito Eva e Brando con le pistole? Voi, lo sapevo!

—Non tollero queste intromissioni! — ribadì il maresciallo, con un tono meno perentorio. Aveva ormai capito d'avere nella donna una testimone cruciale per la sua indagine, tuttavia era anche offeso per il suo comportamento isterico e irrispettoso. Si alzò, con fare severo, prese Luisa per un braccio cercando di accompagnarla fuori, con l'intenzione di interrogarla più tardi. Lei si divincolò e disse: — No maresciallo, io ho qualcosa di importante da dire su questa vicenda, perché sono parte in causa. So come sono andate le cose. Tutto parte dalla mia linguaccia, sono io che ho avuto la brutta idea di raccontare una storia a questi due signori; sono io che ho parlato loro di quell'oggetto che sono venuti a cercare armati di pistole. Io ho detto loro che si trattava di un oggetto strano e loro chissà cosa hanno pensato. L'essenziale però, mio caro maresciallo, è questo: questi due malviventi si sono finti medici e mi hanno anche fatto una puntura di Valium, per avere il tempo di correre qui.

Il militare guardò la donna con attenzione. Era sul punto di esplodere, perché la sua modesta e ben ordinata intelligenza non aveva ricevuto tante diverse e contraddittorie sollecitazioni in quarant'anni di onorata carriera. Alla fine cedette e la fece sedere nella stanza insieme agli altri.

—Questa donna non la conosco — disse Kilpatrick.

—Zitto! — intimò il militare, — parli quando è interrogato!

—Ah, non mi conosci? Forse potresti chiedere a Linda — esplose Luisa; —forse ti potrebbe istruire in merito, cosa dici?

Kilpatrick era livido di rabbia, dentro di sé ribolliva come un vulcano in eruzione.

—La regola di parlare solo quando si è interrogati, vale anche per lei, sa? —fece il maresciallo rivolto a Luisa. — In ogni modo, signora, pare che lei sia ben informata su questo misterioso oggetto che sembra la causa di tutto. E allora, prego, ci metta al corrente di che cosa si tratta.

Luisa si calmò. L'invito a parlare la liberò da ogni remora e le parole le uscirono con facilità.

—Allora, questo oggetto l'ha trovato Eva sulla spiaggia, vicino al pioppeto, dove c'è la draga. Era due sere fa in occasione della festa sul Po. Eva ha deciso di tenerlo, tutto qui. Poi ho incontrato il signor Kilpatrick al negozio dove lavoro, siamo andati insieme al suo appartamento di Verona per are qualche ora insieme, dato che lo credevo un bravo ragazzo. In quell'occasione lui mi ha chiesto spiegazioni riguardo le mie ferite alle gambe. Vede maresciallo che fasciature? Allora io gli ho raccontato quello che era successo la sera della festa e cioè che sono caduta e mi sono tagliata. Nel chinarsi per soccorrermi, Eva aveva raccolto un oggetto che io non ho visto, ma mi ha raccontato che era un sasso. Creda maresciallo, un sasso o poco più, che magari a Eva ricordava qualcosa, e per lei aveva un valore inestimabile. Lei ci trovava, voglio dire, un valore simbolico, non so perché, un valore del cuore, non economico. Mi dispiace, ho combinato un guaio. Mi capisca: venivo da una grande delusione... Si ricorda di Alfredo Carrisi, maresciallo?

Luisa, nel suo fiotto di parole, aveva esposto la meccanica degli avvenimenti, ma nascosto con abilità ogni indizio sul mistero legato all’oggetto. Il maresciallo, anche se la questione s'ingarbugliava, cominciava ad avere dei punti chiari di riferimento.

—Eh, ma anche lei signora se li cerca con il lanternino! — esclamò, quasi divertito.

—È che sono sfortunata con gli uomini. Comunque dicevo che il signore qui, mi ha presentato il dottor Federico lori...

—E chi è questo lori? — si incuriosì il maresciallo.

—È lui! —

Luisa indicò Garrone.

—No guarda, sballata, che io mi chiamo Garrone! — disse l'agente segreto con fare da sbruffone.

—Lei stia calmo! — lo redarguì il maresciallo. — Vuole aggravare ancora di più la sua posizione?

Garrone sollevò le sopracciglia, con un sorriso di scherno che somigliava a un ghigno.

—Insomma, Tommy mi ha fatto raccontare anche in presenza del dottor Iori, cioè questo Garrone, la storia della festa sulla spiaggia e soprattutto i particolari del ritrovamento dell'oggetto. Pensavo che lo volessero sapere per divertimento, per la curiosità verso una storia di paese. Poi mi hanno fatto una puntura in vena di Valium e suppongo siano venuti qui a cercare quello che credevano, chissà perché, un tesoro. — Luisa si rivolse a Kilpatrick alzando il tono di voce. — Nel frattempo questa mattina è ata dal tuo appartamento la tua fidanzata Linda, che non è stata molto contenta di trovarmi nel tuo letto.—

Kilpatrick cercò di dissimulare il profondo turbamento per le parole di lei, soprattutto quelle riguardanti Linda. Garrone prese la palla al balzo e la interruppe: — Maresciallo, capisce adesso: questa è solo la vendetta di una donna gelosa.

—Le ho detto di parlare quando è interrogato! — lo zittì il maresciallo.

Il militare credeva alla storia di Luisa perché convinto che la donna non fosse tanto intelligente da poterla inventare.

Tutti in paese erano provati e delusi, a soffrire di più era senza dubbio Elena. La prima notte senza la figlia era ata. Una notte diversa dalle tante notti d'assenza consolate dal pensiero che Eva era in giro per studiare, affermarsi, o raccogliere i frutti del suo lavoro d'artista.

Una notte buia e senza sonno, ata a piangere in una squallida stanzuccia della caserma di Mezzocampo.

IL RITORNO DI DON JUAN

Don Juan era stato sparato fuori dal tunnel e ora era sulle rive del Po. Non dovevano essere più delle sei; il sole era già sorto per tre quarti. Lo sciamano era stato via un giorno soltanto, ma lui non lo sapeva e neppure sapeva cosa stesse facendo lì, seduto sulla sabbia umida. Si appoggiò al suo bastone-sonaglio, guardò la natura intorno, il grande fiume e le piante selvatiche. Poi si incamminò verso l'argine e fece al contrario la strada che Eva e Luisa avevano percorso la sera della festa sulla spiaggia. Lungo la via incontrò alcune persone che lo riconobbero.

—Sciamano! — lo salutò la moglie del pastore che abitava lì vicino.

Lui proseguì il suo cammino senza rispondere.

—C'è quello stregone, vieni fuori. — disse la donna al marito.

—Ma chi? Uno stregone alle sei del mattino, sei già ubriaca?

—È quello scomparso con il figlio dei Barbagallo e la figlia della Stella.

—Ah, quello lì? —

—Sì. L'ho chiamato ma non mi ha risposto, vedi, sembra sordo. Sciamano! —

gridò di nuovo la donna senza ottenere risposta.

—Da dove viene a quest'ora? — borbottò il marito mentre lo guardava allontanarsi.

La moglie scosse la testa.

—Io non so come padre Luca abbia potuto portasi dietro uno così. Per me tutto quello che è successo al palazzo è colpa sua. Ma guarda come è vestito, per Dio, e quel teschio che ha sul bastone, mamma santa... è proprio strano. Vado subito a telefonare in canonica per avvertire don Gianfranco e padre Luca che lo stregone è qui sull'argine.

Don Juan avanzava con fare incerto lungo la salita. Non aveva risposto alla moglie del pastore perché la sua mente era sconvolta, non per deficienza d'udito. E comunque una voce come quella l'avrebbe udita anche un sordo. Trafelati per la corsa, non tardarono ad arrivare don Gianfranco e padre Luca. Una volta raggiunto, quest'ultimo abbracciò lo sciamano con le lacrime agli occhi.

—Cosa ti è capitato? — gli chiese.

Lo sciamano guardava con espressione assente.

—Cosa è successo? — ripeté nella sua lingua.

Finalmente il vecchio parlò.

—Guardare le cose con spirito rinnovato e con cuore nuovo. are indenne lungo le linee del proprio ato. Vedere e non dormire!

I due parroci si guardarono con disappunto. Era come se don Juan non avesse capito la semplice domanda di don Luca.

—I ragazzi dove sono? — provò a chiedergli don Gianfranco.

—La forza accompagna, la debolezza ferma! — proclamò lo sciamano.

Il suo sguardo era vuoto, il perenne sorriso delle sue labbra si smorzava, trasformandosi in espressione intensamente dolorosa. I due religiosi si guardarono ancora. Erano ammutoliti e smarriti.

—Andiamo dal dottor Netti — suggerì don Gianfranco. — Sono sicuro che don Juan ha bisogno immediato di aiuto. —

—Unica malattia è il rimorso — disse lo sciamano, dimostrando d'aver finalmente colto il significato delle parole di don Gianfranco.

Padre Luca lo osservò ancora e scosse il capo: — Per ora andiamo a casa. Non è abituato ai medicinali e il dottor Netti non saprebbe neanche cosa prescrivergli.

I tre s'incamminarono verso la canonica. Lo sciamano si appoggiava al bastonesonaglio ed era sostenuto dai due sacerdoti. Nel cortile li aspettava, preoccupata, la domestica che venne mandata a preparare il caffè.

Don Juan fu fatto accomodare al tavolo dove due sere prima aveva così amabilmente e profondamente conversato con i ragazzi. Quasi subito li raggiunse la perpetua col caffè fumante e una generosa fetta di torta alle mandorle per lo sciamano.

—Don Giovanni sta bene? — domandò piena d'apprensione mentre gli riempiva la tazzina.

—Non credo — fece padre Luca preoccupato.

Don Gianfranco congedò la donna, che si ritirò in cucina mentre l'altro sacerdote provava ancora a interrogare lo sciamano.

—Ci vuoi dire cosa è successo? Dove sei stato? Dove sono Eva e Brando?

—Dove non lo so.

—Non sai dove sono o non sai dove sei stato?

—Il posto non lo ricordo. So che sono tornato indietro nel dolore dentro me stesso. Ricordo tutto, l'esperienza terribile, non il luogo.

—Puoi raccontarci qualcosa di più preciso? Tutti a Mezzocampo si chiedono cosa è successo l'altro ieri a Palazzo Ducale e tu c'eri, con i due ragazzi, don Juan. Non puoi spiegarci?

—Ho poco da raccontare. Perché non so. Ci siamo trovati, noi tre, in un posto misterioso che non ho mai visto. In un tunnel, ma vi prego non lo rivelate a nessuno altrimenti qualcuno morirà!

—Cosa? Don Juan, credo che tu abbia bisogno di riposo! — Padre Luca si preoccupò ancora di più. — Non sei in condizioni di parlare. Ora riposi e mi raccomando, se qualcuno ti dovesse chiedere qualcosa, non dire niente. Mi raccomando!

—Solo un'ultima cosa — disse don Gianfranco — i ragazzi erano con te?

—Sì, i ragazzi erano con me.

—E come mai non sono tornati?

—I ragazzi continuano il viaggio.

—Ah, di un viaggio si tratta! — esplose padre Luca. — Un viaggio dove? Si

potrà sapere alla fine?

—Viaggio molto crudo — fece don Juan serio.

Addentò la grossa fetta di torta e bevve il suo caffè, ancora fumante. Nel frattempo suonarono alla porta, e la perpetua andò ad aprire brontolando.

—Chi può essere alle sei e mezza di mattina?

Quando chiese chi è? la risposta fu perentoria: — Carabinieri!

Aprì prontamente e si trovò di fronte il maresciallo che le chiese subito, avanzando un piede oltre la soglia: — C'è don Gianfranco? — La donna cercò di temporeggiare evasiva, perché non sapeva se il parroco avrebbe gradito l'incontro. Il militare ripeté spazientito la domanda, e lei dovette accompagnarlo insieme al brigadiere Serra, in sala da pranzo, dove si trovavano i sacerdoti e lo sciamano.

—Mi scusi don Gianfranco, qui c'è il maresciallo. — annunciò la donna.

—Fallo entrare. Me l'aspettavo, qui le notizie fresche durano meno del latte.

Il maresciallo entrò.

—Chiedo scusa dell'ora. Ma vedo che siete tutti svegli. Bene, è questo il signore che era scomparso con Brando Barbagallo e Eva Stella?

—Sissignore, proprio lui — rispose don Gianfranco.

—Allora ho bisogno che mi segua in caserma, devo fargli qualche domanda.

— Adesso non si sente molto bene. Si potrebbe rimandare? —chiese padre Luca.

—Vede, mio caro padre Luca, il mio lavoro è molto diverso dal suo: il mio padrone è il tempo. Ho in caserma quattro persone in stato di fermo che ho interrogato tutta la notte. Più una donna che dice di essere stata riempita di Valium, e i parenti dei ragazzi scomparsi. È sufficiente per darle un'idea dello stato di caos in cui ci troviamo?

—Innanzitutto, mio caro maresciallo, anche nel mio lavoro il padrone è il tempo, perché, vede se i bambini non mangiano in tempo muoiono di fame. Se vuole interrogare subito il mio amico sciamano, faccia come crede. Don Juan avrebbe bisogno di cure, di riprendere fiato. Portandolo in caserma farà un buco nell'acqua nel migliore dei casi, ma con tutta probabilità peggiorerà la situazione.

Padre Luca si alzò, e prese don Juan sottobraccio per accompagnarlo al suo interrogatorio.

Lo sciamano, perso nel suo stato semiconfusionale, non aveva capito bene cosa volessero da lui i due carabinieri. Era troppo intento a tenere a bada dentro di sé

il segreto risvegliato che non gli dava tregua. La freccia della sconfitta gli si era conficcata nel cuore; pentimento e impotenza, in una miscela esplosiva, continuavano a scavare la sua ferita. L'insensibilità colpevole verso la madre, il ripudio della propria responsabilità verso chi l'aveva amato: ecco i demoni che, tornati alla luce dalle profondità del suo essere, lo tormentavano. Lui e la sua vita erano sottosopra. Ma per stabilire un ordine nuovo bisogna prima distruggere quello vecchio, e per sanare una ferita bisogna prima pulirla, e medicarla. L'anziano e affaticato sciamano in verità non pensava a ristabilire alcunché, pregava solamente di non soccombere, schiacciato dalla propria colpa.

Don Gianfranco era rimasto in canonica per prepararsi alla messa delle sette e trenta. In caserma i quattro fermati, Garrone, Kilpatrick e le due guardie del corpo, si trovavano in una stanza con i loro avvocati, mentre don Juan con padre Luca, il maresciallo e quattro severi signori erano in un'altra. Si erano difatti presentati, per controllare la situazione ed esercitare le necessarie pressioni sul maresciallo, il pm Donegani, il sostituto procuratore di Mantova Finzi, da Roma il pm Gallo e un alto funzionario dei Servizi, tutti rigorosamente in incognita, allertati da un potere ancora più in alto per assistere fin dove possibile, l'incauto Garrone.

Il maresciallo dette inizio all'interrogatorio di don Juan, in qualità di persona informata dei fatti.

—In questo rapporto stilato ieri secondo il racconto dei testimoni, possiamo leggere che i tre soggetti, Brando Barbagallo, Eva Stella e lei stesso don Juan qui presente. È lei don Juan, vero? — chiese, interrompendo la lettura e rivolgendosi allo sciamano.

—Sì, sono io — rispose il vecchio con l'abituale rispetto.

—Ecco, proseguendo. Ah certo, sempre secondo il racconto dei testimoni si precisa che i tre suddetti sono saliti su un ascensore ed essendo entrati dal piano terra non potevano che salire. Da allora si sono perse le loro tracce. La domanda che le rivolgo è questa: dove siete andati quando siete usciti dall'ascensore?

Interrogò se stesso sul da farsi. Ricordava tutto, ma non aveva intenzione di squadernare davanti a quei malfidati inquisitori la verità. Il soffice caos in cui ancora versava la sua mente gli permise di dare quell'impressione di fragilità che non mancò di suscitare il giusto effetto negli uomini che aveva di fronte. I quali, nonostante la comione e lo scetticismo sull'utilità dell'interrogatorio, andarono avanti con le domande.

—Ha capito cosa le ha chiesto il maresciallo? Capisce bene la nostra lingua? — intervenne il pm Gallo.

—Sì, io capisco.

—E allora? — insistette il militare.

—Siamo andati al primo piano, ci siamo nascosti e abbiamo aspettato che tutti se ne andassero. Avevamo paura di quelli che ci seguivano con le pistole.

—È stata fatta un'ispezione... di voi non è stata trovata traccia — obiettò il maresciallo che aveva paura di essere accusato di inefficienza.

—Eravamo lì. Verso mezzanotte siamo usciti e siamo andati a nasconderci al

grande fiume.

—Gli altri due dove sono?

—Scappati via perché avevano paura.

—Paura di cosa?

—Di uomini armati. L'ho già detto.

—E lei no? Le è ata la paura così di colpo? Lo sa che questi uomini armati accusano i ragazzi di aver trafugato un oggetto di milioni di anni fa, un pezzo archeologico di valore inestimabile?

—Quale oggetto? — Lo sciamano era determinato a mantenere il segreto.

—Dica la verità! — gridò il maresciallo.

—Loro possiedono una chiave bianca che non è oggetto di valore in denaro ma solo un simbolo.

Lo sciamano si bloccò e capì d'aver detto troppo senza volerlo.

—Cos'è questa chiave bianca? — sbottò il pm Gallo.

La veemenza della domanda dipendeva dal semplice fatto che il contatto con gli americani di Garrone era proprio lui. I due si guardarono negli occhi: lo sciamano era confuso ma non aveva perso il suo istinto e sapeva di dover rimediare, mettendoli fuori strada.

—È una pietra che viene chiamato così perché assomiglia un poco a una chiave.

Padre Luca decise di dare una mano all'amico, e intervenne: — Quello è un sasso che non vale un euro.

—Lei l'ha visto? — continuò il pm sempre più interessato.

—Per caso. Eva lo tiene in tasca come amuleto. Secondo me i signori che inseguivano i ragazzi hanno tirato fuori una storia inverosimile per coprire la loro bricconata. — disse Padre Luca.

—Il punto rimane il movente. Perché i signori che sono nell'altra stanza si sono presi la briga di fare un inseguimento armato in pieno giorno, con migliaia di persone in giro? Qui i conti non tornano. — ragionò il maresciallo. — Badate bene che quelli non sono dei ragazzini, e se hanno agito così ci deve essere un motivo serio.

—Forse hanno creduto veramente che quella pietra fosse un reperto archeologico

— ipotizzò padre Luca, sperando di sciogliere la tensione e di far finire tutto in un equivoco.

—Mah, comunque ci restano sul tavolo dei reati e dei ragazzi scomparsi — concluse duro il maresciallo. — E io non penso che debba finire tutto in una bolla di sapone. Questo non succederà! —

Il giallo si faceva sempre più intricato e inesplicabile per le menti burocratiche dei militari, che dovevano risolverlo senza averne in mano i veri elementi. Non tutti erano completamente all'oscuro della verità. Il pm Gallo conosceva in ogni particolare la storia della festa sulla spiaggia, delle ferite di Luisa e dell’oggetto misterioso. Stava vagliando la situazione e aspettava il momento più opportuno per agire.

Agire, ovviamente senza esporsi, spingendosi fin dove possibile.

—Ti devi calmare, d’accordo? — disse Eva appoggiata a una parete del tunnel.

—Era qui dietro di me, poi… —disse Brando con tono agitato.

—Beh, non so cosa vi aspettaste. Sbitter aveva detto di non mangiare.

—Adesso non dire che se lo meritava. — disse Brando.

—Può essere stato sparato nell’acqua del Po e esser annegato. — disse Eva.

—Gli effetti sono molto simili a quelli… no, no, non c’è niente di simile — disse Sbitter.

—Mi sento sempre più in pericolo. — disse Brando —Da un momento all’altro si può venir catapultati chissà dove come Don Juan e restarci secchi. —

Sbitter scrollò le spalle.

—Ehi, cos’è quello? — disse Eva.

—Devo chiedervi di stare calmi, — disse Sbitter — e cercare di non avere paura. I cani l’annusano la paura e vi troverebbero in un batter d’occhio. —

—Ebbene? — disse Brando impaziente.

—È un… gioco per cani dal muso lungo. — disse Sbitter.

—Sembra un braccio di… — disse Eva.

—Sbranare i manichini è il loro gioco preferito. Fanno pratica, dicono i grandi capi. —

Ci fu un silenzio pesantissimo.

—Ci siamo persi? — chiese Eva.

—A cosa ci servirà tutto questo? Siamo qui come vagabondi. — disse Brando gelido.

—Dottor Feller dice che vagabondo è chi si è perso nella vita. Andiamo da questa parte. — disse Sbitter prendendo la direzione opposta a dove era stato abbandonato il braccio del manichino.

Il tunnel era cupo e angosciante, solo piccole luci ai bordi lo illuminavano.

—Dobbiamo uscire al più presto di qui! — disse Brando con tono perentorio.

Eva percepì l’odore della terra umida. Il suo animo era vigile e aperto, seppur la situazione fosse incerta e confusa.

—Solo chi non ha paura di perdersi può arrivare lontano. — disse Eva.

—Ti prego, non ho voglia di fare questi discorsi introspettivi. Penso che stiamo perdendo di vista il dettaglio più importante: perché siamo qui? E come faremo ad uscire?— replicò Brando.

—Avete mandato all’aria il piano del dottor Feller.— disse Sbitter.

—Perché continui a guardarmi così? — disse Brando rivolto ad Eva.

—Perché…—

—Il nano nasconde qualcosa, — disse sottovoce Brando— mi fa impazzire.—

Eva lo trafisse con uno sguardo gelido e Brando si ritrovò inquieto, stranito, solo.

—Ho fame. — disse lei mentre il suo stomaco brontolava.

—Niente mangiare nel tunnel, solo in cucina del dottor Feller. — disse Sbitter.

—Ha fame… non capisco come fai a fregartene di quello che ci sta succedendo e pensare a mangiare. — disse Brando.

—Ahi! — fece Eva, estraendo il panno avvoltolato dalla tasca.

—Cosa è successo? — le chiese Brando.

Eva, senza rispondere, aprì il panno. La chiave bianca fumava e lei faceva fatica a trattenerla nelle mani. Se la ava da un palmo all'altro, era bollente come quando l’aveva trovata, nemmeno per un attimo ebbe la tentazione di appoggiarla a terra, oppure darla a Brando, il quale a dire il vero si guardava bene dall'aiutarla.

—Siamo vicini alla porta del laboratorio. La chiave reagisce…— disse Sbitter.

Dopodiché ci fu un pandemonio.

I cani dal muso lungo spuntarono da dietro una parete del tunnel abbaiando come indemoniati, Eva li vide correrle incontro e ne fu terrorizzata. Brando si mise davanti alla ragazza per proteggerla.

—Temo che non sia una buona idea. — gli gridò Sbitter.

A Eva venne un crampo allo stomaco, credeva che i cani l’avrebbero ammazzato. Brando non pensava ad altro che a proteggere Eva e questo gli dava coraggio per affrontare quei bestioni dai denti aguzzi, ma fu Sbitter a salvare la situazione: sparò ad essi con un taser e i cani caddero a terra.

—Staranno a terra solo per pochi secondi. — disse Sbitter.

Un rumore assordante annunciò l’arrivo delle guardie, lo scalpiccio sempre più vicino era come un conto alla rovescia che segnava l’inizio della fine.

—Andiamocene via — disse Sbitter — non ci conviene farci trovare qui.—

Intanto a Mezzocampo qualcosa di molto pericoloso stava accadendo.

—Si era detto diecimila! — disse il militare.

—In questi tempi di crisi bisogna accontentarsi. — disse l’avvocato in completo scuro.

Il militare non disse alcunché.

—Ricordatevi, venti minuti di tempo per entrare nel laboratorio. Questa è la mappa con segnalate le telecamere.— disse l’avvocato porgendo un foglio a Garrone, mentre fuggiva dalla cella insieme a Kilpatrick.

—Sono stanco! — disse Brando guardando le pareti scure del tunnel.

—Ah dimenticavo di dirvi che anche l’insofferenza fa sparare fuori le persone. Quando si è ostili e maldisposti si sprigionano delle sostanze che…—

—Balle! — disse il ragazzo.

Brando si appoggiò a una roccia e stette a guardare in modo asettico, negligente,

disinteressato.

—Non so proprio come fai a non voler affrontare la situazione. —disse Eva.

—È molto strano, sai. Trovarsi sotto il tuo controllo è difficilissimo; vivere al tuo livello di attenzione e di azione è quasi impossibile: ma perdere il tuo controllo è devastante! — le confidò Brando, carezzandole i capelli.

Eva, con estrema dolcezza gli prese il viso tra le mani e pose le sue belle labbra su quelle di lui. Brando sentì il dolce tepore dell'affetto invaderlo completamente. Il suo spirito si fece energico, il suo sguardo divenne fermo. Ma non per molto.

—Uno da solo non può far niente, ma chi ha qualcuno che lo ama, lo stima e lo segue con ione, può anche fare una rivoluzione. — affermò il giovane.

—Brando, ma questa è una canzone. Non mi viene in mente di chi… — disse Eva ridendo.

—Non sono mica un poeta, faccio quello che posso. — E rise finalmente anche lui, ma con un’espressione amara sul volto.

Era sempre più disorientato, aveva i brividi e sudava.

—Non mi sento bene, devo avere la febbre, non sto in piedi, e non riesco più a

star sveglio. Guardami! I miei occhi si chiudono da soli senza che abbassi le palpebre, non riesco a tenerli aperti! Io non sono adatto a stare qui.

Sentiva il buio del tunnel in ogni centimetro del proprio corpo. D'un tratto avvertì la stretta d'una mano nera che gli serrava il collo.

—So.ffo.co — disse a fatica, mentre la voce gli andava via e si inginocchiava a terra.

Eva si girò e cercò di sostenerlo. Poi cercò di sollevargli la testa.

—Non mollare. Fatti forza! — disse lei con tono ansioso.

Dopo qualche secondo, un rumore fortissimo invase il tunnel, si aprì uno spazio sul soffitto che risucchiò Brando. Per una frazione di secondo Eva rimase lì, poi si lanciò sul ragazzo afferrandolo per una caviglia con tutta la forza possibile. Sbitter cercava di aiutarla, ma era troppo basso. A Eva sembrava che dall’altra parte ci fosse una mandria di buoi a tirare, la strana forza diede come uno strattone violentissimo e la gamba di Brando sfuggì dalla presa di Eva.

Poi il silenzio. Le pareti sembravano girare intorno alla ragazza impietrita, si lasciò cadere a terra con il viso tra le mani. Vagava sola e spaventata in quella sensazione di perdita e abbandono. Era in uno stato pietoso e quell’agitazione aveva finito per procurarle un forte senso di nausea.

—Brando! È morto! — ripeteva con il viso rigato di lacrime.

—Non è morto! È solo risalito. — disse Sbitter.

—Tu hai detto che c’è il pericolo di essere sparati nell’acqua del fiume e annegare! — gridò Eva paonazza in volto.

—No, no, Sbitter l’ha detto solo per far paura… nessuno è mai stato sparato nell’acqua, solo sulla spiaggia. —

—E allora, perché…—

—Dottor Feller dice che con paura si può dominare il mondo. — disse calmo.

—Tu, brutto mostro! Io ti ammazzo!

—Ah! Ammazzare Sbitter! Il dottor Feller aggiusterebbe Sbitter. Eccolo lì!

La porta del laboratorio si aprì.

—Vieni cara, presto. Sbitter mi ha avvertito che stavate arrivando. Ma ci sei solo tu? Suppongo tu abbia sete e forse anche fame. — disse Feller agitato.

La cucina era grande e piena di cibo stipato sulle mensole di una scaffalatura di metallo convertita a dispensa. Nel mezzo vi era un tavolo con un lungo piano di legno. Il dottor Feller si muoveva rumorosamente nella stanza, mentre prendeva gli ingredienti, per poco non gli cadde l’enorme vaso di riso nel quale erano nascosti una ventina di grossi tartufi. Di tanto in tanto sbuffava e diceva sottovoce: ‘Chi fa per sé… dovevo andarci io lassù’ e continuava ‘L’ultima cosa che ci serviva era il ritorno della chiave bianca…’

—Non ce l’ho con te, cara — disse controllando la cottura del riso.

Sbitter guardava in basso, ansioso.

—Pensavo di morire — disse Eva poco dopo, prendendo una forchettata di risotto.

Le sembrava il piatto più buono che avesse mai mangiato. Adesso che ci pensava, non era mai stata più di cinque ore senza mangiare in tutta la sua vita.

—Anch’io mi vedevo già morto. —disse Sbitter che nel frattempo si era seduto a tavola. —E’ stata una cosa pazzesca, dottor Feller, cani di qua, guardie di là, sangue dappertutto…— disse con tono drammatico.

—Smettila di esagerare le cose, Sbitter. — disse il dottor Feller.

—Perché, dottore, ha fatto portare proprio a me la chiave bianca? — gli chiese Eva.

—Dovevi essere tu, non so altro. —

—Ma… come? —

—Veniamo a cose più importanti. Qui ci sono tanti tartufi, sai cara, te lo saresti immaginata?—

—Dottor Feller, la prego… —

—Va bene, va bene. Sei stata l’unica che si è fidata di Sbitter e ha accettato la chiave. Non fraintendermi cara, non sei stata la nostra ultima spiaggia, ma sapevamo che solo un cuore puro e uno spirito coraggioso avrebbe accettato.

—Eh, la linea tra coraggio e incoscienza… chi la conosce? Ma io cosa dovrei farci con questo oggetto? A cosa serve?—

Sbitter s’immobilizzò ancora una volta, stava in ascolto e cominciò ad innervosirsi. Anche Eva sentì. Era un rumore di i che si avvicinavano.

—Nasconditi, cara. Ci hanno convocati tutti, e dico tutti, per una riunione.— disse il dottor Feller uscendo.

Poco dopo dalla stanza accanto si sentì urlare.

—Qualcuno si è introdotto qui dentro sotto il nostro naso!

—E’ il generale Lattuada. — disse sottovoce Sbitter a Eva accovacciata dietro una cassettiera.

—E non possono averlo fatto senza un aiuto dall’interno. — tuonò il generale. — Ci sono delle spie tra noi. La mia specialità è scovarle e quella dei miei uomini è di farle soffrire! Finché non le prendiamo nessuno esce da qui! Non abbiamo nessuna pietà per i traditori, chiunque li abbia fatti entrare morirà con loro! E adesso portatemi questi due — gridò, — questa è la fotografia scattata dalla telecamera. Sono stati avvistati tre minuti fa nella zona rossa. Andate a prenderli! — strillò.

Subito dopo si udì lo scalpiccio di centinaia di suole pesanti che si disperdevano nel tunnel.

—Non avevi detto che erano stati sparati fuori? — disse il dottor Feller tornato nella stanza dove lo attendevano Eva e Sbitter.

—Sì, è così! Bum bum bum, sparati in aria! — rispose Sbitter.

—E come hanno fatto le telecamere a fotografarli tre minuti fa? Aspetta… potrebbero essere altri intrusi… — disse il dottore increspando le labbra.

—Non è possibile! — disse Sbitter.

—Ma chi può essere? Di solito avete così tante visite? — disse Eva.

—Finora tre in cento anni e non hanno avuto modo di raccontare. Lo sai cosa accadrebbe se la chiave bianca andasse a finire nelle mani sbagliate? —disse il dottor Feller.

—È venuto il momento di darmi delle spiegazioni, dottore. — disse Eva.

—Certo, cara. Non ho mai dubitato del progetto F16. —

—Cioè?

—Le sue applicazioni potrebbero distruggere milioni di vite.

—Ascolto.

—Il processo di scoprire la natura umana è stata la parte più interessante degli studi riguardo la creazione di androidi. Sono partito dal concetto di cosa voglia dire ‘essere umano’ per poterlo riprodurre.

—Ingegneria genetica?

—All’inizio era così. Stampi in silicone per la forma, muscoli artificiali, espressioni umane. Ma a loro non bastava e sono cominciati i primi esperimenti sulla creazione di comportamenti autonomi gestiti da un’unica fonte.

—Di chi stiamo parlando? Loro chi?

—Piani militari molto pericolosi si stanno impossessando del mondo e… mia cara, lo distruggeranno.

—Ma tutto questo cosa c’entra con l’oggetto? E io cosa posso fare?

—Il confine tra umano e umanoide è stato superato. Durante un esperimento di programmazione del comportamento mi sono imbattuto in una fonte energetica che, plasmata, poteva riprodurre i sentimenti umani e il ragionamento autonomo. Si autoalimentava e emanava calore. C’era sul tavolo un frammento di femore di un cadavere, sì cara, faccio anche le autopsie. Del resto, se non le faccio io chi le fa? Ho detto mille volte che mi serve un aiuto quaggiù, ma niente. Ehm, ritorniamo al punto: l’osso ha completamente assorbito l’energia autoalimentante. Sbalorditivo! L’ho subito detto ai grandi capi che erano decisi a sfruttare i suoi effetti come un’arma. Hanno preteso che utilizzassi un cuore strappato a un prigioniero vivo.

—Avete dei prigionieri?

—Chi pensi che abbia costruito il tunnel, cara? Gli scarti della società… quelli sono stati.

—Ora capisco da dove nasce la leggenda dei cattivi che vanno a finire nel tunnel nero.

Uno sbuffo di vapore uscì dall’attrezzo con il quale il dottor Feller stava armeggiando. Subito dopo, un odore acre di plastica bruciata saturò l’aria.

IL RITORNO DI BRANDO BARBAGALLO

Brando ricomparve sulla riva del Po, come don Juan il giorno prima. Anche lui si alzò dalla sabbia un po' stordito e prese la strada per il paese. La moglie del pastore lo vide che era ancora lontano, perché dopo l'apparizione dello sciamano guardava spesso in direzione del grande fiume.

—C'è il figlio di Barbagallo — gridò la donna.

Il marito accorse sulla porta.

—È proprio lui — disse l'uomo.

Vedendo che il ragazzo barcollava gli andò incontro, prendendolo sottobraccio.

— Stai bene? — gli chiese. — Ragazzo mio, ma cosa ti è successo?

— No, non sto per niente bene. — rispose.

Il pastore lo portò nella propria casa, e lo fece sedere. — Bevi un po' d'acqua? — gli chiese.

—Quanto l’ho desiderata! — disse lui prendendo il bicchiere.

Il pastore provava un sentimento di pena per il ragazzo che vedeva sofferente e confuso. La moglie, come aveva fatto il giorno prima, chiamò al telefono don Gianfranco. Non lo trovò perché era ancora in caserma con padre Luca e don Juan. Il pastore allora mise il ragazzo in macchina e lo portò dai carabinieri. Quando giunsero alla caserma trovarono caos e urla.

—Signor Barbagallo — lo salutò il maresciallo. — Lei è un dono del cielo! Ora, dovrà spiegarci molte cose.

—Sono ancora stordito. — rispose il giovane.

—Venga con me.

Il maresciallo rimase colpito dalla fragilità del ragazzo, identica a quella che aveva già notato nello sciamano. Lo condusse nella stanza dove si trovavano padre Luca, don Gianfranco e don Juan. I tre, appena lo videro, si alzarono in piedi e gli si corsero incontro. Lo abbracciarono forte. Don Juan gli toccò il volto e lo fissò con sguardo dolorosamente consapevole. Brando capì che lo sciamano conosceva il travaglio intimo che lo tormentava, perché ne stava provando uno simile.

—Signori, di là ho quattro persone molto importanti che mi stanno col fiato sul collo, — esordì il maresciallo tentando la strada della collaborazione. — Vi pregherei di dirmi la verità riguardo questa faccenda, altrimenti non so come andrà a finire.

Tutti e quattro tacevano.

—Non mi volete aiutare. Non è vero? — disse il maresciallo.

Parlò Brando, ma non come voleva il militare.

— Io ora ho bisogno, Maresciallo Salvaterra, di andare a casa, farmi un bagno, mangiare qualcosa.

—Spiacente, signor Barbagallo, deve essere interrogato come persona informata sui fatti. O vuole che la metta in stato di fermo? Non credo che potrà lasciare questa caserma prima di aver risposto alle domande che intendo farle.

—In stato di fermo? Dovrei chiamare un avvocato?

—Per ora sono solo due chiacchiere.

—E se mi è concesso di saperlo, qual è il reato che mi verrebbe contestato?

—Il furto di un ritrovamento archeologico.

—Archeologico? Di cosa sta parlando?

—Di un oggetto denominato chiave bianca.

—La chiave bianca non è un reperto. — Brando stava ritrovando un po' di lucidità e di sicurezza. — Inoltre la differenza tra trovare e rubare la conosciamo tutti. Non è vero? —

—In una stanza di questa caserma ci sono in stato di fermo, che è stato prolungato e non commutato in arresto a causa di certi interventi dall'alto, quattro persone tra le quali un appartenente ai servizi segreti.

Il maresciallo gli puntò un dito sul petto.

— E tutti accusano lei, la signorina Eva Stella e il signor don Juan di esservi appropriati di un reperto di valore incalcolabile.

—Chi sarebbero questi signori? Mi creda maresciallo: io non conosco nessuno dei servizi segreti; e nessuno è mai venuto a bussare alla mia porta per chiedermi informazioni riguardo a qualsiasi oggetto.

—Alla sua porta non hanno bussato, ma l'hanno scassinata — gli rivelò il maresciallo con una punta di sadismo. — Non lo sapeva? Come non bastasse, i quattro fermati hanno messo sottosopra la sua casa peggio di una mandria di bufali. E mi vuol dire che lei non ne sapeva niente? Non è fuggito in seguito a questi fatti?

—Per carità, la mia casa sottosopra? Non lo sapevo nemmeno, e mia madre? I miei fratelli? Stanno tutti bene?

—Sì, tutti bene — lo rassicurò secco il maresciallo.

—Ah, maledetto Kilpatrick! — esclamò improvvisamente il giovane. — L'ho riconosciuto mentre ci inseguiva. Può essere stato solo lui ad avvertire i servizi segreti, è solo per crearmi dei problemi. Maresciallo, non creda una parola, quello ha montato tutta una macchinazione perché mi odia e vuole togliermi di mezzo, mi vuol far cacciare dall'università.

—Un po' eccessivo mi pare. Che rapporti ci sarebbero tra voi?

—Rapporti, per così dire, indiretti. Frequentavamo l'università a Verona tutti e due, prima che lui si laureasse, è più vecchio di due anni, poi si è messo in testa che io e la sua fidanzata Linda siamo amanti. Ecco perché non mi può vedere. Quello, maresciallo, è un tipo vendicativo all'inverosimile. non ha limiti, non si ferma.

—E invece la tradita è proprio la signorina Linda. — intervenne padre Luca, per dare una mano a Brando nel ritratto poco lusinghiero di Kilpatrick.

—Come lo sa? — chiese il maresciallo.

—Lo sanno tutti, Luisa non è capace di tacere. Ha detto chiaramente quello che è

successo.

—Luisa è tornata? — chiese Brando.

—Sì, è sbucata all'improvviso e ha rilasciato la sua testimonianza — lo informò il maresciallo. — E adesso sia bravo, signor Barbagallo. Ci spieghi cosa c'entra la signora Luisa in questa storia. — Il maresciallo voleva appurare se le versioni collimassero.

—Maresciallo, Luisa era presente quando abbiamo trovato l’oggetto sulla spiaggia. Eva poi se l'è portato a casa. Le piaceva così tanto da dire che era una cosa preziosissima, per lei di valore inestimabile. Purtroppo Luisa ha quel difetto che ha appena detto padre Luca, e cioè che non riesce a stare zitta. Così è andata a raccontare, penso, di questo sasso alle persone sbagliate. E quelli hanno capito che fosse inestimabile nel senso dei soldoni.

—E perché ha chiesto se era tornata? Dove le risulta si fosse recata?

—Dove non lo so, ma con chi sì — rispose prontamente Brando. — Sabato, o venerdì. Beh ho perso il conto dei giorni, verso le dodici e trenta, l'ho vista uscire dal negozio di Mantova dove lavora accompagnata da Kilpatrick, e questo lo posso sottoscrivere, li ho visti con i miei occhi. Poi non ne ho saputo più niente.

Il maresciallo stette in silenzio qualche istante. Almeno due delle versioni raccolte coincidevano parzialmente, ma era ancora troppo poco.

—E ci dica signor Barbagallo, dove è stato lei in questi due giorni? Non sa che tutti qui a Mezzocampo vi cercavano? Non sa nemmeno questo?

—Vede, maresciallo, se lei avesse alle costole degli uomini armati, io penso che se ne starebbe ben nascosto, chiunque l'avrebbe fatto. O era meglio lasciarsi accoppare da quei delinquenti? Se non fossimo stati nascosti, magari lei oggi indagherebbe su tre omicidi. Non è meglio così?

—È senz'altro meglio così, non v'è dubbio. Ma dove siete stati? Dove? E dov'è la signorina Stella che manca ancora all'appello?

—Nei boschi. Eravamo andati nei boschi. Quando io sono tornato Eva si trovava ancora là. Suppongo che ci voglia rimanere ancora un po', col suo sasso che ha creato tanto scompiglio.

C'è qualcosa sotto. Non me la canta tutta, si ripeteva il maresciallo. Allora gli venne in mente di fare un ultimo tentativo.

—Seguitemi — disse perentorio.

Dopo aver attraversato un lungo corridoio, il maresciallo spalancò una porta.

—Entrate — disse.

Brando, padre Luca, don Gianfranco e don Juan entrarono, e il militare li seguì.

All'interno si trovavano solo due dei fermati. I quali rimasero imibili.

—Dove sono Garrone e Kilpatrick? — urlò il maresciallo alla guardia che doveva sorvegliarli.

Nessuno parlò. Fuori cominciava a piovere forte.

L’EPILOGO

—Abbiamo due opzioni, o prenderli di sorpresa e ammazzarne più che possiamo prima che tirino fuori le armi… — disse Garrone da dentro un cunicolo del tunnel nero.

—Opzione due? — chiese Kilpatrick con tono fermo.

—Nasconderci ed entrare nel laboratorio con meno casino possibile, la pittrice, il ragazzo e lo stregone non possono essere che là e l’oggetto con loro. Dovremmo farcela, e se si mette male facciamo esplodere tutto; non ho nessuna intenzione di farmi torturare. Porca miseria… arriva qualcuno!

—E io non ho nessuna intenzione di morire, piuttosto di uccidere chi so io. — disse Kilpatrick sparendo con Garrone in un’insenatura buia.

Dalla mappa che avevano in mano, quella che vedevano doveva essere la porta del laboratorio. C’era un viavai di militari e due uomini d’oro che la sorvegliavano.

—Leggi nelle istruzioni come si fa a mettere al tappeto quei pagliacci d’oro. — sussurrò Garrone.

—Aspetta… c’è poca luce e non ho neanche gli occhiali.

—Dammi qui! — disse secco Garrone — Vediamo… eccolo: infliggere un forte colpo alla schiena, più sarà vicino alla nuca più avrà efficacia.

Intanto nel laboratorio Eva sentiva un disagio che non sapeva interpretare.

—No, cara. Qui sotto tranne io, te e il generale con la sua scorta non ci sono persone vive. Sì, e poi ci sono gli intrusi… — disse il dottor Feller.

—E Sbitter?

—Sssh, è molto suscettibile a questo. — disse Feller — Lui è un mio esperimento genetico, roulette di dna l’ho chiamato. — disse il dottore soddisfatto.

—Ma…

—Qualche problemino ce l’ha, ad esempio quando sale in superficie comincia a perdere da tutti i pori una sostanza verde.

—Ma certo, adesso capisco.

—E ha degli effetti raccapriccianti su chi ne respira gli effluvi. Alcuni sono diventati tutti verdi, ma colpisce soprattutto gli occhi, e non parliamo se viene a contatto con sangue umano… escono certe bolle…

—Ne sono perfettamente al corrente, anzi testimone e vittima.

—Anche tu, cara?

—Quel che importa…

—Volevamo ricreare la vita, cara. Non giudicarci. Ci siamo spinti troppo oltre e quando ho trovato l’energia che generava calore costante pensavamo di poter mettere un fermo finanche alla morte. Questo era quello che credevo, il merito non è stato tutto mio, però. In realtà ho attinto dai vecchi progetti originali degli studi del professor Giller che era qui durante la seconda guerra mondiale. Con le scoperte di cui andavo tanto fiero, i grandi capi hanno voluto costruire umanoidi da poter manovrare come volevano, immettendoli nelle società del mondo per i loro sporchi affari.

—Che tipo di affari?

—Io penso che sarebbe meglio distruggerla per sempre, è una cosa che avrei dovuto fare da molto tempo.

—A cosa serve la chiave?

—Gli umanoidi sono lo specchio degli umani. Mi segui, cara? Usando la chiave bianca si possono attivare e rendere autonomi, dalla loro programmazione dipenderanno le azioni. Possono diventare cittadini modello, buoni e

comionevoli o spietati mercenari.

—E gli umanoidi finora costruiti?

—Nessuno è stato attivato per il pensiero autonomo, per ora sono tutti gestiti da un computer. Quando ho capito i progetti dei grandi capi ho mandato Sbitter in superficie perché potesse portare via da qui la chiave bianca. Non mi importava di morire. Ma voi l’avete riportata. La situazione sfuggirà loro di mano. Dobbiamo agire in fretta.

—Quel che mi importa adesso è uscire da questo maledetto tunnel con la chiave bianca, ma poi cosa ci devo fare?

—Non ci ho pensato, volevo solo che qualcuno la custodisse lontano da qui.

—Mettendo in pericolo la mia vita?

—Se avranno la chiave distruggeranno il mondo, moriremo tutti lo stesso. Pian piano, ma moriremo.

Eva non ebbe il tempo di replicare. In quel preciso istante, si udì un gran trambusto e la porta del laboratorio si spalancò. La ragazza rimase agghiacciata: Garrone e Kilpatrick erano davanti a lei.

—Ma com’è possibile? Dottore, sono quelli che ci volevano rubare la chiave! —

gridò Eva, stringendola dentro il palmo destro.

Kilpatrick la raggiunse e le contorse il polso per fargli aprire la mano, lei tentò di centrargli il naso con un fendente, ma con uno scatto lui si abbassò prontamente per schivarlo e la spinse a terra. Eva era terrorizzata e nauseata dal contatto con Kilpatrick. La ragazza chiuse fortissimo la mano nel tentativo disperato di trattenere la chiave, ma sentì le dita aprirsi sollecitate dalla forza di Kilpatrick. La chiave era in possesso dell’uomo, ora. Fece un cenno di esultanza e disse:— Barbagallo sei fottuto!

Il dottor Feller si era gettato su Garrone, cercando di disarmarlo. Nella colluttazione, Garrone esplose un colpo di pistola nello stomaco del dottore che cadde a terra cercando disperatamente di non perdere conoscenza. Inebetito dal dolore, udì un urlo di Sbitter che si lanciò a capofitto sopra Kilpatrick, nel tentativo di riprendere la chiave bianca.

Garrone li raggiunse in fretta.

Il dottor Feller, con le poche forze che gli rimanevano, chiamò Eva:— vieni, cara. Presto! — ansimò dolorante.

Mentre la ragazza si spostava nella direzione del dottore, sentì un altro sparo. Si voltò e vide Sbitter cadere sul pavimento, esanime. Ne rimase scioccata.

—Prendi quel fazzoletto, cara e copriti il naso. Non devi respirare quest’aria. — disse.

—Cosa diavolo…— disse Garrone un attimo prima di perdere i sensi insieme a Kilpatrick.

—Cosa è successo? — disse Eva con il fazzoletto premuto sulla bocca.

—E’ una sostanza che fuoriesce da Sbitter quando il suo corpo si ferisce… ma l’effetto durerà poco.

Eva, con il fazzoletto premuto sulla bocca corse verso Kilpatrick per riprendersi la chiave bianca.

—Le porte si sono appena chiuse — disse il dottor Feller.

—Siamo bloccati qui dentro?

—Le porte tra il tunnel e il laboratorio si sono chiuse, guarda nel monitor, — disse Feller — Le uscite di sicurezza sono bloccate, gli stabilizzatori di tensione sono andati. Sbitter ha azionato il comando che inonda il tunnel. Fuori da qui rimarrà ben poco, e forse anche qui dentro.—

—Siamo in trappola… — ansimò Eva spostandosi di qualche o.

Andò a controllare che Sbitter respirasse, ma non sentiva niente.

—Povero Sbitter, non se lo meritava di certo. — disse il dottor Feller.

—Ma lei lo può aggiustare!

—Io aggiustare?

—Ma Sbitter ha detto…

—Sì, cara. Quella è una bugia che gli ho raccontato perché potesse vivere senza paura.

—Che cos’altro deve accadere... — disse Eva con tono cupo.

—Non è detto che sia morto, sentigli il polso.

—Sento qualcosa…

Dall'espressione del dottore traspariva una sincera apprensione per l'amico a terra.

Kilpatrick e Garrone si stavano riprendendo.

—Ci occuperemo di lui più tardi, cara. Adesso, corri nel caveau. Dietro la seconda porta a destra, premi cinque volte il terzo mattone dallo stipite, esci e rientra subito qui.

—Ma che strada devo fare per ritornare? Loro mi seguiranno!

—E’ proprio quello che devono fare. La porta segreta si richiuderà immediatamente e loro non la vedranno mai. Devi fare tutto in pochi secondi. Vedrai che saprai dove andare. Fidati di me.

—Vado! — disse Eva con addosso un’ansia che la soffocava.

Garrone e Kilpatrick la videro addentrarsi nel caveau a una velocità simile a quella della luce. Subito le corsero appresso con le facce come leoni pronti a dilaniare la preda, ma di Eva nessuna traccia.

—Non è qui! Guarda nella mappa se c’è qualche uscita. — disse Garrone.

—Non ce l’ho! — disse nervosamente Kilpatrick, mentre ispezionava tutte le tasche.

—Sei un... ma dove…? — disse Garrone sul punto di aggredirlo.

—Non lo so, non lo so. Sarà stato durante la colluttazione con i guardiani! Aspetta un attimo, l’avevi tu l’ultima volta che l’abbiamo guardata.— disse con

tono cupo.

—Dannazione! Devo averla lasciata… prima… vabbè adesso non conta niente. Dobbiamo fare da soli.

Kilpatrick lo guardò con uno sguardo di sfida.

Eva ricomparve nella stanza dove Sbitter e il dottore giacevano a terra, l’uno a faccia in giù in una pozza di sostanza verdastra, l’altro seduto goffamente con la testa appoggiata a un mobile color cuoio. Si premeva le mani contro lo stomaco, mentre il suo camice chiaro si colorava di rosso; le fece segno di avvicinarsi. Con lo sguardo Eva cercava di capire dove fossero Garrone e Kilpatrick, il dottore la rassicurò facendole un ulteriore gesto di via libera. Eva respirava a fatica e non riusciva più a trattenere l’agitazione dentro di sé, stava per crollare. ‘Non adesso…’ si diceva ‘Non adesso…’

Corse velocemente dalla parte del dottore, come un soldato in guerra e si accovacciò dietro il mobile color cuoio.

—Come sta dottore?

—Non importa, cara. Vai a chiudere dentro il caveau quei due farabutti.

—Cosa? Ma io…

—Dovrai fare in fretta. Vai! Subito!

Lo sguardo di Eva rifletteva la luce fredda di quel luogo, le sue vene pulsavano a velocità parossistica. Si alzò di scatto, facendo traballare il dottor Feller che sentì una fitta vicino alla ferita sanguinante. I due si scambiarono un'occhiata fulminea e poi Eva corse verso caveau con l’intenzione di chiuderne la porta. Sapeva benissimo che, se Garrone e Kilpatrick si fossero voltati e l’avessero vista, l’avrebbero ammazzata. La ragazza tremava come una foglia e dovette lottare con se stessa per non essere immobilizzata dalla paura. Con tutta la forza che aveva si slanciò verso la porta e la chiuse, mentre i due da dentro sembravano bestie inferocite che le correvano incontro. Un rumore metallico le disse che la porta era chiusa. Vi si appoggiò con tutto il corpo per esserne davvero sicura. Vide, dall’oblò di vetro spesso Garrone e Kilpatrick che tentavano di aprire. Dopodiché scoppiò a piangere.

—Non è finita, cara. Adesso devi occuparti della chiave. — disse Feller con un filo di voce, mentre le forze lo stavano abbandonando.

—Romperanno il vetro! — gridò Eva.

—Neanche con un bazooka. — disse il dottore.

Eva gli si avvicinò con una sincera apprensione.

—Cosa devo fare adesso?

—Distruggere la chiave.

—Suppongo che i grandi capi, quando lo sapranno avranno una gran paura che qualcun altro arrivi prima di loro a costruire i loro umanoidi cattivi…

—No cara, non hanno paura di questo, ma del contrario.

—Cosa?

—Hanno paura della felicità.

—Dottor Feller, la prego non mi lasci proprio adesso!

—So ancora quello che dico, cara. Non temono il male, ma il bene! Se l’uomo sapesse come essere felice, i loro affari andrebbero completamente distrutti. – disse con voce rotta da colpi di tosse —Ti sei mai accorta, cara — tossì di nuovo — quando sei felice non hai bisogno di molto è quando sei vuoto e infelice che vuoi comprare oggetti sempre più costosi, unici. Ecco cara — ebbe un conato di vomito dallo sforzo di parlare — vendere oggetti di tutti i tipi è il business dei grandi capi ed è senza fine, basta che gli uomini siano abbastanza tristi — prese una grossa boccata d’aria — da cadere nella trappola, — tossì più forte — se le persone fossero felici, loro sarebbero rovinati. Intanto il cuore degli uomini sta marcendo.

—E’ così inquietante e così vero!

—Sarebbe così facile…

Seppur turbata, Eva non stava più nella pelle per la voglia di sapere.

—Adesso devi essere le mie braccia e le mie mani. Ecco questo chip va inserito in quello spazio vuoto.

—In questa fessura?

—Esatto.

—E’ fatta? È tutto sistemato? — disse Eva con tono agitato.

—Adesso devi collegare i fili.

—Questo qui?

—No, no, no, no, santo cielo; quello accanto!

—A sinistra?

—A destra.

Ci fu un’enorme scintilla e si sentì odore di peli bruciati. Eva si toccò le sopracciglia dimezzate dalla fiammata.

—Presto, cara.

—È pazzesco!

Vide la faccia ansiosa del dottore scrutare all’interno del contenitore che stava per aprire. Fu distratta da dei colpi dentro il caveau, si girò e vide che Garrone e Kilpatrick tentavano disperatamente di uscire.

—Quello spara! — disse Eva allarmata.

—Per carità, per carità! — disse il dottor Feller agitato — fagli segno di non sparare, il caveau è pressurizzato. Se lo fa bruceranno tutti e due lì dentro.

Eva si sbracciò tentando di far capire a Garrone che doveva fermarsi, incrociò per un attimo lo sguardo di Kilpatrick che sembrava aver compreso il pericolo. Il ragazzo cercò di fermare la mano di Garrone, ma era troppo tardi. Il grilletto era stato premuto. Si udì uno scoppio soffocato e in pochi istanti tutto il caveau fu invaso dal fuoco. Parve ad Eva che dentro vi ardessero colori scuri e malvagi. Un’ansia nera la scuoteva nell’intimo.

—Ho ato cinque mesi in un campo di prigionia nemico, ma questa situazione mi fa rimpiangere quei giorni. — disse il dottor Feller.

—E’ stato in un campo?

—Dobbiamo andare avanti, cara. L’inondazione dura solo mezzora, fra poco arriverà qualcuno da fuori e non dovranno trovarti qui per nessun motivo.

—Va bene. — disse con gli occhi rossi.

Aprì il portello del contenitore che le stava di fronte. Quello che vide, le provocò una tale sensazione di ribrezzo, un disgusto tanto forte e profondo da farle storcere il volto in una smorfia di raccapriccio. Non aveva ancora capito esattamente di cosa si trattasse, ma subiva la cupa suggestione di quella vista, l’oscuro fascino di quella diavoleria. Un cuore aperto pulsava davanti a lei.

—Naturalmente ti provoca disagio… mia cara. — disse il dottor Feller — ma non distrarti proprio adesso. — aggiunse tenendosi il palmo della mano premuto sulla ferita.

—E’ sicuro di voler distruggere tutto il suo lavoro, dottore? — chiese Eva.

—È necessario! Non possiamo permettere che i grandi capi creino squadre di umanoidi mercenari per distruggere i sentimenti degli uomini e solo per accrescere i loro business. Svuotare i cuori e spingere le persone a colmare il vuoto con ciò che mai lo colmerà.

—E di lei che ne sarà?

—Me la caverò.

Con la mano che le tremava, avvicinò la chiave al cuore pulsante e collegò i fili secondo le istruzioni del dottor Feller. Per una frazione di secondo rimase con il braccio a mezzaria, mentre stava per inserirla si fermò di colpo.

—Adesso, cara, l’ultimo chip.

—Aspetti, dottor Feller. So dove potremmo nasconderla.

—Dove?

—Lo vede Sbitter, là a terra? Se funziona lui vivrà, facciamo un tentativo.

Il dottore fece cenno di portare Sbitter vicino a lui.

—Corriamo un grande rischio a lasciarla in circolazione, del resto il povero Sbitter merita un’altra occasione.

—Non la troveranno! Dove sono celate le verità più nascoste del mondo? — aggiunse Eva agitata. — Dove nessuno cerca mai: dentro se stesso. Ce la faremo dottore e lì sarà al sicuro!

La chiave nel suo palmo emanava sempre una temperatura impossibile, ma lei la tratteneva come gemma preziosa. Devo riuscire a nasconderla in Sbitter — diceva tra sé. — Fosse l'ultima cosa che faccio nella mia vita, lo farò. Le forze si raccolsero in lei come richiamate dall'effetto catalizzatore della volontà interiore. Il respiro aumentò di ritmo; lo sguardo si fece duro. Il dottore con grande fatica tagliò il torace di Sbitter. I muscoli di Eva erano rigidi e tesi e tremavano come stessero compiendo uno sforzo singolare e barbaro. Aveva gli occhi irritati dalla stanchezza e dalla tensione. Il cuore della piccola creatura verde, ora aperto, era lì davanti a lei. Con apprensione spostò tutti i fili dal cuore all’interno del contenitore a quello di Sbitter, come le aveva detto di fare il dottor Feller, e finalmente infilò la chiave bianca nell’ultimo chip. Non sapeva ancora se avrebbe funzionato, ma sapeva di volerlo disperatamente. Guardava ora il dottore ora la piccola creatura verde con aria terrorizzata. Ad un tratto, vide un muscolo muoversi sul muso di Sbitter.

—Dottore, guardi!

Feller, ormai troppo indebolito, fu in grado di accennare solo un sorriso. Eva sentiva il sangue ribollirle nelle vene, il ventre fremere, le gambe tremare, gli occhi riempirsi di lacrime, il respiro affannarsi, l'occhio del cuore spalancarsi, la mente riempirsi di calore, il naso saturarsi di gioia.

Sbitter tirò alcuni respiri profondi.

Eva chinò il capo. La gioia di quel momento, mite e perfetta, le riempiva la mente. Il suo occhio del cuore le premeva nel petto e si muoveva come in un

sorriso segreto.

Il mattino a Mezzocampo era sorto sereno dopo il temporale della sera avanti. Il cielo era pulito, innocente, integro. La signora Elena aveva saputo che don Juan e Brando erano ricomparsi lungo le rive del Po. Così aveva deciso di recarsi al grande fiume per aspettare la figlia. Nella speranza che tornasse come avevano fatto i suoi amici. I due giorni precedenti li aveva ati a piangere, con lo spavento nel cuore, ricordando la figlia bambina, i suoi irresistibili occhioni scuri. Perfino le sue intemperanze le sembravano adesso adorabili, adesso che l'aveva persa. Aveva dovuto confortare nonna Elvira, smarrita dal dispiacere e persa in lunghi pianti e lamenti, alternati a impenetrabili silenzi. Nel frattempo il maresciallo Salvaterra aveva tramutato in arresto il fermo degli scagnozzi di Garrone e Kilpatrick. Gli altri li avrebbe mandati a casa entro poche ore, ma disse chiaramente che li avrebbe tenuti sotto controllo. Come si può immaginare non era affatto contento e, infatti, aveva anche detto a Brando, don Juan e Luisa che la sua indagine non si sarebbe di certo chiusa lì. All'appello mancava sempre una persona.

Gli alberi del pioppeto vicino alla spiaggia erano di un verde tutto nuovo, la parte argentea delle loro foglie risplendeva ai raggi del sole, e il leggero vento, agitandole appena, le tramutava in tante piccole luci. Così le vedeva Eva, ricomparsa sulla sabbia fresca. Era stanca e provata. Il suo temperamento volitivo le fece superare l'enorme stanchezza. Si alzò e intravide da dietro i pioppi la madre che stava raggiungendo la spiaggia. Si scambiarono uno sguardo attraverso i tronchi degli alberi.

—Eva! — gridò la madre correndo incontro alla figlia.

—Mamma — sussurrò Eva abbracciandola.

L'emozione del momento era come una preghiera di pace.

—Stai bene? Eva cara, stai bene?

—Sì. Sto bene.

—Dove sei stata? Mi farai morire! Dove sei stata?

—Nel fondo delle cose sta la vera vita, mamma. Il dove sono stata non è importante, adesso sono qui, e questo deve bastare a tutt'e due.

La forza di Eva era aumentata a dismisura. Il tono della sua voce era calmo e forte, la sua postura eretta, le spalle dritte, i suoi gesti flessibili. Lo sguardo assolutamente saldo. Proprio in quel momento arrivò la jeep dei carabinieri che perlustrava, ormai da giorni, la zona.

—Tutti ti stanno cercando, Eva — le raccomandò la madre. — Stai attenta a quello che dici, perché quei mascalzoni che vi hanno inseguito il giorno del pranzo, accusano te e Brando di aver rubato un oggetto di valore inestimabi...

—Signorina Stella! — le interruppe uno dei carabinieri, quando la jeep si fermò davanti alle due donne.

—Buongiorno — disse Eva.

—Buongiorno a lei, come sta? Bentornata! Vuole, per favore, seguirci in caserma?

—Per quale motivo?

—Glielo spiego quando arriviamo. La prego, non opponga resistenza. Venga.

—Posso venire anch'io? — chiese la madre.

—Sì, salga dietro — rispose il militare.

Eva avrebbe voluto fare altro. Come camminare lungo l'argine e guardare il fiume dall'alto, osservare le piccole onde che si creano con la corrente, i giochi di luce dell'acqua e del sole. Ma eccola ancora nella squallida caserma in cui s'era recata con Luisa la settimana prima. Gli arrestati, all'interno, stavano aspettando un cellulare che li portasse al carcere di Mantova, mentre don Juan, Luisa e Brando stavano per tornare a casa. Eva scese dalla jeep con la sua naturale eleganza, e uno dei carabinieri l'accompagnò all'entrata dell'edificio.

Il maresciallo, già avvertito, stava aspettando la ragazza. Forse non aveva mai aspettato nessuno con tanta ansia in tutta la sua vita. Era agitatissimo. Quando Eva entrò erano tutti nella sala d'attesa. Lo sguardo di lei era duro, e incontrò gli occhi di amici e nemici senza flettersi né scomporsi. Brando la guardò con dolcezza, e nell'incrocio degli sguardi si saldò una conoscenza profonda, un legame unico e la più forte solidarietà possibile tra persone tanto diverse. Don Juan percepì la forza rinnovata di Eva e ne fu invaso, come da una folata di

profumo di fiori o d'erbe della sua terra. Luisa non sapeva niente del viaggio, e la sua superficialità le impedì di accorgersi del profondo cambiamento dell'amica. Provò tuttavia un sincero moto di gioia e le corse incontro abbracciandola intensamente. — La mia Eva! la mia piccola!— ripeteva piangendo nel generale silenzio.

Lei, Eva, era quasi imibile.

—Signorina Stella, — la invitò il maresciallo, — mi segua. Anzi signori, seguitemi tutti. —

Il gruppetto, con gli arrestati ammanettati dietro, si diresse verso una grande stanza.

—Sedete pure. Ora faremo due chiacchiere, e caschi il cielo, non usciremo di qua senza aver trovato il bandolo della matassa.

Le sedie erano disposte a semicerchio, e tutti potevano guardarsi in faccia. L'aria aveva la consistenza di un budino.

—Bene, bene, — continuò il maresciallo. — Signorina Stella, è stato dichiarato da più persone, qui presenti, che lei detiene la cosiddetta e ormai celebre, chiave bianca, fonte di tanto trambusto e causa di alcuni reati. E forse proprio il detenerla è un reato. Può mostrarci l'oggetto?

—Non ce l'ho.

—Ah, e come sarebbe? E dove si trova adesso la chiave bianca? Ci sono persone che sostengono sia un ritrovato archeologico. Se non è più in suo possesso è grave! Molto grave!

—Sì? E chi sarebbero i nostri accusatori, a parte me, Brando Barbagallo e don Juan, nessuno dei presenti ha mai visto la chiave bianca. Mi chiedo come possano sostenere che si tratti di un ritrovato archeologico. Qui c'è un grande equivoco. Credo che si sia trattato di questo: la chiave bianca è un simbolo e il valore sacro che possiede la rende, o meglio la rendeva, di valore immenso, ma se andassimo a venderla credo proprio che sarebbe una bella delusione economicamente.

—Ah, è così? E dove è stata lei in questi tre giorni? Perché scappare?

—Scappare? Oh, no mio caro maresciallo, io non scappo da nessuno. Mi è capitato di trovarmi lungo una strada che ho dovuto percorrere, abbandonarla sarebbe stato da vili. Ma credo di essere libera di muovermi come voglio, non sapevo che qualcuno mi stesse cercando. Immaginavo che mia madre fosse in pensiero, magari. Ma nient'altro.

Tutti ascoltavano. Zitti come tombe.

Tutti sapevano che un solo battito di ciglia, al momento sbagliato, avrebbe mandato a catafascio l'opera di convincimento che Eva stava compiendo con tanta abilità nella mente del militare.

—Va bene, signore e signori, lo spettacolo è finito! Qui non si cava un ragno dal buco, volete che tutto sia archiviato come un equivoco, un qui-pro-quo? Ebbene il vostro maresciallo vi accontenta! A parte le incriminazioni per tentato omicidio e violazione di domicilio a carico degli arrestati, o meglio di quelli che mi sono rimasti, il resto finisce qui. Il vostro maresciallo vi dice che va bene, facciamo dissolvere tutto in una bolla di sapone.

Intanto il cellulare era arrivato nel cortile in attesa dei malviventi.

—A casa, andate tutti a casa! E tranquilli che vi tengo d’occhio.

Il maresciallo in fondo era contento di liberarsi da quel pasticcio che gli aveva messo sottosopra il paese e la caserma. Eva, Brando, don Juan, Elena e Luisa uscirono fuori e respirarono di sollievo come fossero sortiti da un incubo. Si sentivano leggeri e liberi come mai nella loro vita. Eva poi, salutati gli altri, s'incamminò verso l'argine per guardare il grande fiume, da sola. L'acqua era di una bellezza straordinaria e si specchiava negli occhi neri di lei, quegli occhi che, ora, avrebbero potuto sciogliere il più duro nucleo di male dell'universo. Guardò in alto. Il cielo era terso, limpido come uno specchio. Godeva del leggero vento sulla pelle come di una carezza mattutina; aspirava l'odore dei pioppi, ascoltava la voce del fiume. Respirava lentamente, mentre la sua mente si conformava al suono fine delle foglie scosse dall'aria.

Il tenero e il selvaggio che aveva in sé si accordavano in perfetta sintonia con la natura nella quale era immersa.

Nessun pensiero penetrava la sua mente, non un nome o una associazione di idee. Assente il lavorio della costruzione di immagini, il turbolento travaglio del pensare era cessato. Il desiderio bruciante e sfrenato di possedere era sparito. Finalmente libera, si accorgeva di quanto ciò fosse straordinario, fonte di piacere

profondo.

Vide Brando arrivare verso di lei. Quando le fu dinanzi, si scrutarono nel fondo dell’anima e senza dirsi niente s’incamminarono insieme stretti l’uno all’altra.

Eva, nel guardare l'azzurro effimero del mondo sorrise con quel suo sorriso, più chiaro di un ghiacciaio, più trasparente di un ruscello che nasce.

Quel sorriso inconsistente e bellissimo, segno di purezza invincibile.

INDICE

Il Fatto

Doppio Incontro Con Tommy Kilpatrick

Ancora A Mezzocampo

Il Tradimento Di Luisa

Rivelazioni

Lo Sciamano

Il Viaggio

Il Laboratorio Segreto

L'interrogatorio

Il Ritorno Di Don Juan

Il Ritorno Di Brando Barbagallo

L’epilogo