Il Pesce Rosso: Sul Luogo Del Delitto Un Solo E Unico Indizio 6d53q

Autori Vari

Il pesce rosso

Prima Edizione Ebook 2013 © Damster Edizioni, Modena

ISBN: 9788868100551

Damster Edizioni

Via Galeno, 90 - 41126 Modena

http://www.damster.it e-mail: [email protected]

Autori Vari

Unico indizio

Il pesce rosso

INDICE

HAI VISTO TU QUEL LUCCIO? di Maria Silvia Avanzato

LA BOUTIQUE DI LIA di Laura Bassutti

AL PESCE ROSSO di Beatrice Beraldo

POLLY di Sara Bosi

TETRADOTOSSINA di Giulia Depentor

IL NICK NAME DELL’ASSASSINO di Cristian Fabbi

SE MI GIRA AMMAZZO LA PORTINAIA di Emanuele Finardi

IL VICOLO di Adriano Frazzoni

IL MARCHIO DEL SOPRUSO di Sabrina Grappeggia Bernard

LA VINCITA di Massimiliano Lopresti

ULTIMO GIRO AL LUNA PARK di Luca Marchioro

A ME GLI OCCHI di Alessia e Michela Orlando

LA DELICATEZZA DEL PESCE ROSSO di Guido Pacitto

GEDEONE, DI NOME WANDA Roberto Parrelli

NON GUARDARMI MORIRE di Fulvio Pera

GIUSTIZIA È FATTA di Domenico Verde

GLI AUTORI

Catalogo

I racconti

HAI VISTO TU QUEL LUCCIO? di Maria Silvia Avanzato

Per l’onore di Carlotta

la signora della Rocca

giù nel mare come un fuso

la sua tasca, lesta, ha chiuso.

Hai visto tu quel luccio?

Dolce dolce e maledetto,

ti trascina giù a dispetto.

Questo paese ha in tutto una trentina di abitanti: dieci vivono a ridosso della chiesa, come una comunità mormona, pregando buona parte del giorno.

Altri dieci lavorano come muli fra i bocconi di terra che il sole ha frantumato e

lottano contro i capricci del mare invernale e il parapiglia delle reti a maglia fitta.

I restanti abitanti hanno meno di quindici anni, ravvivano i vicoli del vecchio borgo con un frinire allegro di biciclette e cantano a squarciagola la canzone di Carlotta. Riecheggia ovunque, specie al mercato del pesce, in quelle domeniche dove la schiuma di mare si rapprende sulle squame rosate dei lucci freschi: questi otto, forse nove, acciaccati pescatori si portano appresso i figli, bruniti e scalzi come abitanti di un altro continente, inchiodano un paio di tavole e hanno un banchetto. Se hai un banchetto, hai di cosa campare: la bici può aspettare e la scuola non serve.

Mentre scaricano casse e brandiscono a mani nude quei polpi che paiono grossi fiori smaltati di lilla, cantano Per l’onore di Carlotta. Occorrono mani dure e ugola forte, per fare i pescatori, il resto viene da sé.

Carlotta appartiene al paese, più di queste case di tufo dalle fondamenta di zucchero filato e di queste chiese povere, con la croce di legno ficcata sul tetto, di traverso.

Carlotta è in mare, dal giorno in cui suo padre ce l’ha buttata.

Nessuno conosce bene la storia come la sarta Edgarda, che mi riceve dopo pranzo per cucire gli orli e bere un limoncello sulla panca mezza sfondata che lei chiama il suo giardino.

Edgarda racconta senza fretta, si interrompe per bere, trattiene il liquore fra le labbra come fosse un tonico.

All’epoca di Carlotta le donne calcavano un fazzoletto sulla testa, le gonne frusciavano a terra, non esistevano atempi che esulassero dalla Messa domenicale. Nessuno avrebbe immaginato che due anni dopo, nel 1915, manciate di cannonate avrebbero ridotto il villaggio a un fico d’india dalla polpa squarciata: si pensava alla pesca, alla Messa, a maritarsi. Buona parte del pescato ava per le mani di Don Alviero Santalemme, le sardine dalla coda lesta finivano in scatolette di latta assieme a gustosi filetti d’acciuga, spinosi e piccantini al palato. Don Alviero, preceduto dalla sua fama di grande industriale, dedicava tutte le sue attenzioni alle scatolette di latta, intascava tre quarti dei proventi delle sudate fatiche della brava gente di mare e aveva un unico amore, ossia sua figlia.

Carlotta Santalemme, pallido giglio di salute fragile, eterea come uno spettro, donna del sud nata bionda, diafana, con occhi di un turchese miracoloso. Sua padre aveva pianificato per lei il più glorioso dei destini, promettendola a un cugino bolognese, un professorino arricchito, con la testa ottusa e un paio di ridicoli baffetti.

Nell’attesa che il gentiluomo scendesse col treno per fidanzarsi ufficialmente, Carlotta si era invaghita di un pescatore: questi, la incontrava sull’imbarcadero quasi tutte le sere e si diceva che non avesse riguardo, se si trattava di strapazzarla un poco sotto gli occhi di tutti. In un paese tanto piccolo e pieno di sussurri, era bastato un attimo perché Don Alviero lo venisse a sapere: ecco perché una notte, in preda a un delirio, dopo aver costretto la figlia a una mesta prigionia di tre giorni nella cantina, l’aveva tirata fuori per i capelli e trascinata lungo il sentiero che collegava il loro palazzo alla spianata candida della spiaggia. Un buon numero di pescatori del posto, ricordava di aver visto l’omaccione barbuto tirarsi appresso la figlia sui massi, come fosse stata un bagaglio di rafia. L’aveva caricata sulla sua barca a remi che usava per supervisionare il lavoro dei suoi sottoposti e lì, a metà di un piatto mare estivo, aveva dapprima strozzato poi gettato a mare la sfortunata fanciulla.

Nell’immaginario leggendario del villaggio, era rimasta la filastrocca legata allo spettacolo ripugnante che svegliò tutti, all’alba. I pesci erano accorsi nel punto in cui galleggiava la camicia di notte da Carlotta e si erano gettati su di lei, banchettando: guizzavano fuori e dentro le onde, come un mulinello di creature fantastiche, l’acqua si scuriva d’una nota di rosso e i pescatori coprivano gli occhi ai figli, col berretto, facendosi un segno di croce.

– Da allora noi crediamo che ci porti la buona ventura per la pesca.

Edgarda accende una delle sue tozze sigarette, dopo averla arrotolata da sé sul ginocchio puntuto.

– Certuni vanno a pescare con l’immaginina di Carlotta sulla barca. Anche nelle botteghe, si vendono stampe con l’immagine della poverella circondata da lunghi pesci d’argento. Si dice che lei chiami i pesci a sé. Se in punto la rete torna su bella gonfia, allora noi si usa dire che Carlotta è lì sotto e li chiama tutti.

Mi rimetto in marcia verso la casa che mi ospita, boccheggiando per questo caldo di metà agosto e lottando contro l’arsura. A metà strada, mi fermo e sbottono il colletto, sciogliendo il sigillo che mi chiude la gola, il mio giuramento. A Edgarda piace parlare di quella vecchia storia, ogni tanto. Per me, che ne ho viste tante, sono prete da trent’anni e vengo qui soltanto qualche mese all’anno, questa gente di mare fa alquanto sorridere.

Considerata la mia posizione in materia, mi pare piuttosto ridicolo pensare che abbiano fatto di una povera reietta, quasi una santa protettrice.

Il motivo per cui mi trovo a scrivere di questa arida punta di corno della nostra

penisola, tuttavia, è un altro. Dopo sei anni di permanenze piacevoli, ate presso Maria Bocanera, devota parrocchiana che mi ospita con amore dal giorno del mio arrivo, qualcosa di macabro e sgradevole si è insinuato fra i pomeriggi placidi: ho la crescente impressione che qualcosa stia per tornare a galla, al pari di un fantasma rigettato dal ato.

La faccenda ha avuto inizio sette giorni or sono, dopo una marcetta fascista che si è tenuta in piazza: qui i fascisti non sono visti di buon’occhio e i comunisti ancora meno, ma a nessuno spiace se un po’ di propaganda politica porta nuovi avventori al bar centrale o clienti voraci ai banchi del pesce. Per l’occasione, era stata allestita anche una piccola sagra coi premi e una riffa parrocchiale per cui s’erano prestate molte pie donne della zona. Dopo aver fatto la consueta camminata fino alla bottega cadente di Edgarda, che sacramentava contro Mussolini con l’animo di una fervente rivoluzionaria, mi ritrovai sulle ripide scale di pietra che conducono a casa Bocanera, un cunicolo stretto dove il sole filtra a malapena e la frescura diviene un dono della Provvidenza. Fu lì, arrivato in prossimità della porta di casa, che notai a terra uno strano involucro luccicante: era un barattolo di vetro e conteneva un piccolo pesciolino rosso, di quelli che si vincevano alla sagra sparando con lo schioppino a pallini contro il bersaglio. Mi sembrò strano che uno dei ragazzi del paese avesse scordato il proprio premio in quel punto impervio, ad ogni modo lo raccolsi: Maria lo mise in un vaso di vetro e parve felice del mio ritrovamento.

Ebbene trascorsero due giorni e trovai un secondo dono di quel tipo, questa volta sul davanzale della finestra. Ancora una volta sorridemmo dell’accaduto, Maria lo mise in un vaso più grande.

Ieri sera, invece, è comparso un presente ben più macabro e proprio dentro la camera da letto di Maria, che si trova al piano terra: il pesce è stato gettato all’interno attraverso una finestra aperta e si trattava di un buon numero di lucci morti, da chissà quanti giorni, frammisti a pesci rossi appena sottratti all’acqua e ancora guizzanti di un pulpito finale. Era la più lugubre composizione che avessi mai visto, il contenuto marcio di un secchiello svuotato in tutta furia, superfluo

dire non rintracciammo nemmeno l’ombra dell’autore dello scherzo.

Il puzzo ammorbò l’aria e Maria ebbe una reazione furibonda: disse che era merito di qualche ragazzaccio, azzardò anche ipotesi concrete e fece i nomi di un gruppo di monelli che girano nei paraggi, dicendo che avrebbe fatto fuoco con un vecchio fucile d’ordinanza che tiene in cantina, se anche solo avesse visto muovere una siepe, sotto la sua finestra. Sostiene sia per via della storia di Oreste Bocanera, suo parente. Il poveretto, quando Carlotta fu ritrovata nel fiume, lavorava per Santalemme e fu mandato a recuperare il corpo dalle acque con la sua stessa barca, accompagnato dal Brigadiere locale.

– Madonna, incubi per sei anni! – singhiozzò Maria. Pare che Bocanera ci avesse perso il sonno. Si vedeva sempre davanti quei pesci maledetti e la faccia bianca della morta.

– E non parliamo della faccia... ne era rimasta tanta poca da voltare lo stomaco. – Mi prende accoratamente le mani. – Quel mio cugino disgraziato per me è morto il giorno che se n’è andato dal paese. Non sopporto che insultino il nome dei Bocanera con quei pesci morti, è uno scherzo crudele!

Tuttavia, se dapprima ho pensato a una burla sconsiderata, ora capisco che grande smarrimento arrechi nel cuore di Maria, una brava donna cristiana, dalla mente talvolta labile e infantile.

La leggenda che perseguita Oreste Bocanera ha corroso la nostra pace e ho ragione di credere che qualche buontempone, in paese, voglia attentare alla vita di questa povera donna.

Mimmo Chioda gestisce il bar centrale. Grande lavoratore, non vanta vasta cultura, ma è tipo vispo e leale. Mentre attendo il mio caffè nero al bancone, voglio indurlo a chiacchierare: gli chiedo se sa nulla circa alcuni pesci rossi che circolano di questi tempi, per le case del villaggio.

– Ah, come no! – ride lui. – Dopo la festa di domenica ne hanno sparsi dappertutto, di quei cosetti! Pure mia moglie se n’è vinta uno ed è più felice lei che il nostro Ciro di otto anni.

Un gruppo di bambini lì accanto riconosce la mia veste talare scura e interrompe i giochi per uscire dal locale: crescono come selvaggi e non tollerano la chiesa, ogni volta che mi vedono si dileguano.

Mimmo approfitta allora della solitudine, per rivelarmi un succoso pettegolezzo.

– Detto fra noi, Padre Ferruccio, ho saputo che girano regali strani a casa della Maria. La storia di quella notte è venuta a noia, non si può scagliarsi contro un povero ragazzo che non può aver fatto... beh, quello che ha fatto! Maria è tanto fragile, se ne prenda cura o finiranno col farla morire di crepacuore.

Pare sia stato trovato strano che, quella notte, Oreste fosse già sul luogo, a sistemare la rimessa di fronte al punto in cui fu rinvenuta Carlotta. Fu il primo a raggiungerla con la barca.

L’arrivo di nuovi clienti nel bar interrompe la nostra conversazione e torno verso la chiesa deciso a riprenderla appena possibile.

Proprio a metà del sentiero, vengo avvicinato da un rudere di donna, una vecchia abbruttita dall’alcool scadente, che ciondola per il paese e che si vede spesso confabulare coi pescatori.

Nina La Roccia, è detta. Gran bevitrice, forte come un uomo e rude come carta vetrata. Rimase un po’ tocca dopo la grande guerra e finì a svendersi in giro per il porto: una donna segnata dal brutto mestiere del porto notturno, non gode di buona fama in paesi così piccoli. Il rosso ostentato sulle labbra storte e l’asfissiante odore di zagare promanato dalla veste, testimoniano la sua deplorevole professione.

– Voi, di chiesa, non vi fate un girettino, eh? – commenta lei, squadrandomi con gli occhi meschini sul muso da tartaruga. Emana zaffate alcoliche e sbanda pericolosamente. – Che me l’offrite da bere?

Cerco di aggirarla, camminando più spedito.

– Misericordia, che male di gambe! – sbuffa lei, arrancandomi dietro. – Fa un caldo magrebino, di questi giorni! Sapete, di notte non si dorme dal caldo, così giro per queste vie, con un gran mal di gambe. E una notte ho visto una strana poltiglia davanti alla porta della Maria. Metà schifezze dentro casa e metà sotto la finestra. – Mi arresto di colpo e la guardo, incapace di interromperla.

– Pesci rossi, li ho riconosciuti! – prosegue. – Sapevate che io ne avevo una vasca, in casa? Beh, me li hanno portati via tutti, non ce n’è rimasto uno! Non dovrebbero fare questo a me, che sono rispettabile, non vi credete! Avevo la compagnia di quei pescini e me li hanno tolti!

– Ma chi credete sia stato?

– Ah, scommetto qualcuno che voleva farmi dispetto! – sputa a terra. – C’è tanta gentaccia, in paese. Io sono l’unica che gira, io vedo tutto! Non ho niente da perdere, sicché prima o poi racconto tutto quello che so a qualcuno di importante! Ve lo giuro su Dio! Me l’offrite da bere?

Capisco che la confusione di questa vecchia amante della bottiglia mi farà solo perdere tempo. Ci diamo appuntamento l’indomani: andrò a confessarla e la aiuterò a ricongiungersi a Dio, inutile tentativo che metto in atto in casi come questo. Resto a guardare il greve dondolio dei suoi fianchi sciancati, poi mi metto in marcia verso la chiesa. Ho un’altra confessione, oggi.

Questa storia di Carlotta, talvolta, torna a galla e infervora oltremodo i paesani.

Per sicurezza, non voglio lasciare a lungo Maria in casa da sola.

Sono avvezzo a fare di questi favori: i locali colgono ogni occasione per rinchiudermi nel freddo di un confessionale, raccontandomi i loro esigui e innocenti peccati. Oggi, al consueto appuntamento, si presenta proprio Edgarda, colei che reputo il mio personale traguardo: questa donna ha perso memoria della fede, quando ha iniziato a tagliare e cucire giorno e notte pur di campare, perdendo la vista e la fertilità delle idee.

L’intreccio della parete di legno mi permette di vedere il suo vecchio volto a scacchi. Dopo il segno di croce, unisco le mani sul ventre e aspetto che sia lei, a scucirsi.

– Niente, Padre, io... – è a disagio. – … sarà un anno che non mi confesso. Diciamo pure due! Se non era per voi, non mi sarei mai decisa. – Ridacchia sommessamente, vergognosa. – Comunque il groppo in gola che c’ho... è bene che ve lo dica. Ho rubato dei pesci. Pesci rossi e pesci morti.

– Vorreste dire che proprio voi... quindi, i pesci ritrovati a casa di Maria sono frutto di una vostra pensata? Ma perché mai?

– Penserete che ’sta povera vecchia suonata si mette a fare gli scherzi! Mi spiace, non potete capire che avvilimento! Però, quando si avvicina ferragosto, con la storia di tutte queste feste fasciste... ai bambini è richiesto l’abito apposta, nero, a doppia fascia. C’è molto da lavorare, quei giorni lì. Questo ragazzetto che stavo servendo si era messo a cantare la solita... di Carlotta, mentre gli prendevo le misure. Ha detto che ha sentito correre voce che Oreste Bocanera sia un ladro. La vecchia storia di Carlotta ripescata. Pare che, quando Santalemme la rinchiuse in cantina, la poveretta avesse deciso di fuggire col suo amante e si fosse riempita le tasche di monete d’oro. Così, quando Bocanera la ripescò, il peso delle monete la faceva fuoriuscire dall’acqua per metà. Lui capì che aveva le tasche piene e, mentre la sollevava, gliele svuotò. Si tenne tutti i soldi. Una fortuna! Non sapete che rabbia ho provato, quando ho saputo di questa diceria! – si ferma a riprendere fiato. – Mio fratello lavorava per Carlotta, come giardiniere e avrebbe dovuto ereditare un buon vitalizio dalla sua morte. Invece, i soldi della paga non furono mai trovati e Santalemme, quell’orco, non si fece problemi a metterlo alla porta! Poveraccio! – Gli occhi le lacrimano attraverso l’inferriata di legno. – Morì solo e povero in canna, distrutto dal vino. Aveva lavorato tutta la vita, aspettando quel momento e non ebbe un soldo in cambio.

– Ma che c’entra questo con i pesci rossi? – domando.

– Ecco li ho presi... perché da noi si dice che portino soldi. La vecchia Nina li

teneva in una vasca, in casa. Ho preso i lucci morti al mercato del porto, volevo che ricordassero Carlotta. Poi ci ho messo i pesci rossi, che vogliono dire soldi. Volevo che si capisse. Che si pensasse che io so qualcosa ed è bene che non ne parli! Magari una somma modesta potrebbe aiutarmi a tenere il segreto, non credete? La Maria deve avere molti risparmi, da parte.

– Non dovete azzardare pensieri così gravi, Edgarda! – la rimprovero, assegnandole una penitenza. – Voi cercate di arricchirvi sulle sciagure del prossimo. Bisogna cercare rimedio, un divino provvedimento a questi cattivi propositi!

– Chiedo scusa, Padre. – Recita obbediente la sua penitenza, seduta sulla panca. Poi la aiuto ad alzarsi sulle gambe malferme e la conduco verso l’altare, con delicatezza.

Ai piedi di una Madonna dalle labbra coralline, c’è una cassetta delle offerte. Con pazienza la sollevo dal treppiede e socchiudo la fessura d’apertura, sul retro: monetine dorate luccicano nel buio.

– Vi basta il quintuplo di queste? – domando.

La folla si riunisce attorno a una sagoma nera, sulla spiaggia. Il tempo pare mutato, da qualche minuto e raggiungo il triste corteo, con i lenti.

Nina La Roccia è stata restituita dalle onde, gonfia e verde come una grande squama, con i capelli impiastricciati di alghe nere.

– Per Dio! – tuona Mimmo Chioda. – Io dico che questo paese è maledetto! Non è possibile che ogni due anni, qualcuno si butta a mare nel punto in cui è morta Carlotta! Non ne posso più! Fortuna che voi, Padre, avete fatto in tempo a confessarla, prima che si accope! – e torna con i pesanti a rintanarsi nel suo Bar.

Edgarda arriva barcollando sulle gambe malferme e si copre gli occhi, terrorizzata: le cingo le spalle con un braccio, allontanandola. Ordiniamo qualcosa al banco di Chioda.

Da quando vivo qui, sei anni in tutto fra una capatina e l’altra, mi sono ambientato: questi personaggi locali sono come una famiglia, ma la storia dei pesci comincia a stancare.

Credevo che Don Ferruccio sarebbe tornato al paese, accolto nella reverenza della gente. E invece, talvolta, qualcuno ricorda un giovane dalla pelle scura che rispondeva al nome di Oreste Bocanera e che entrò in seminario subito dopo aver ripescato un cadavere dal mare.

Non è sufficiente, il mio voto di povertà?

Ma perché questi pescatori senza istruzione impiegano il tempo a are al setaccio le leggende sepolte di questo luogo? Perché non lasciano in pace il ricordo di un uomo che fuggì in seminario per sottrarsi alle voci del paese? Non li ho forse ricompensati tutti con messe, battesimi ed estreme unzioni? Non è forse nell’indole di un ragazzo, riempirsi le tasche?

Invece, ogni due anni, salta fuori qualcuno che aveva a che spartire con quella

poco di buono di Carlotta Santalemme. L’amica dal credito mai rifuso, il cugino che aspettava versamenti per opere di carità, il falegname dalla parcella non saldata. Nessuno ebbe mai i suoi soldi, allora vengono a sapere che il pescatore che la trovò quella notte è tornato in paese dopo trent’anni ed è a capo di una piccola parrocchia.

Chiedono soldi e, nel caso di Edgarda, fanno trovare impensati ammonimenti. Quest’anno i pesci rossi, ma come le sarà venuto in mente?

Un gruppo di ragazzini mi vede e gira al largo, mentre mi allontano con Edgarda, granite alla mano: lei non minaccia, non parla di denunce. Confessa lo stesso peccato ogni due anni e ottiene quanto basta per pagarsi un televisore nuovo. Con lei le maniere forti non servono, ma con Nina mi sono spezzato la schiena oggi pomeriggio. Mi ha ricordato un gatto che avevo da bambino, non voleva saperne di affogare.

Edgarda lecca avidamente gli ultimi granelli di ghiaccio dal bicchiere e mi sorride.

– Bene, allora ci vediamo a Messa, Padre.

Il sole spacca in due il paese, mentre trasportano via il cadavere fradicio. Un nugolo di ragazzini traccia caselle di gesso sui pietrini della piazza e improvvisa uno zoppo galletto: al mio aggio ammutoliscono. Qualche metro dopo, mentre salgo a vedere come sta la mia povera cugina Maria tanto malata, mi sembra di sentirli cantilenare fra loro.

Hai visto tu quel luccio?

Hai visto tu quel luccio?

Le monete, lesto, ha prese,

va a dir messa per le chiese.

Hai visto tu quel luccio

che chiamano Ferruccio?

LA BOUTIQUE DI LIA di Laura Bassutti

Rosa sospirò mentre saliva le scale diretta all’appartamento del secondo piano, quello occupato da Palmi il produttore cinematografico o televisivo o quello che era. Per lei, un cafone disordinato, lui e quelle sue amichette di una sola notte.

Gentuccia.

Il paese stava diventando di moda, sembrava che la gente si fosse stancata delle località della costa più rinomate e avesse scoperto quel paesotto sul mare frequentato fino a pochi anni prima solo da famiglie dei dintorni che alloggiavano nei due alberghi abbastanza modesti o nei pochi appartamenti che si affittavano.

Aveva cominciato col venirci un regista piuttosto noto e lo avevano seguito personaggi più o meno in vista. Gli alberghi erano stati rinnovati, tante case ristrutturate, erano stati aperti negozi, ristoranti, caffé e in luglio e agosto c’era ormai il tutto esaurito.

Ma ora si era solo a fine maggio e non c’erano molti turisti.

Il periodo migliore per godersi il posto: giornate lunghe, poca gente pensava Rosa mentre apriva la porta dell’appartamento ed entrava nella stanza ampia e mal arredata che faceva da salotto e da cucina.

Ebbe immediatamente, e chissà perché, una sensazione strana, come se ci fosse qualcosa che non andava, di sbagliato.

Fu un attimo e poi lo vide.

Il corpo di Bruno Palmi giaceva a terra, riverso sulla schiena in un bagno di sangue. Una ferita orribile nel dorso.

Rosa soffocò il grido e la nausea che le erano saliti alla gola. Chiuse gli occhi un istante e con un’improvvisa grande fatica, come se ogni movimento le costasse uno sforzo infinito, si volse verso la porta che lasciò socchiusa e tornò sul pianerottolo.

Sedette su un gradino della scala, con mani tremanti cercò il cellulare nella borsa e chiamò la polizia.

L’ispettore Prati si allontanò dal cadavere per lasciare are il dottor Pini, il medico legale. Intorno a lui, gli uomini della Scientifica si davano da fare con le macchine fotografiche, le lampade e altri strumenti.

I protagonisti immancabili della morte violenta, pensava Prati mentre faceva vagare lo sguardo lungo la stanza.

Bruno Palmi lo aveva visto spesso in giro con una Porsche solo o in compagnia, sempre ragazze... Gran bella vita, o almeno cosí sembrava.

– Sí? – fece quasi di soprassalto, rendendosi conto che l’agente Cori gli stava dicendo qualcosa.

– Abbiamo trovato una cosa vicino al tappeto, se vuole venire…

La seguì e raggiunsero Rizzo, della Scientifica che teneva con le mani guantate un paio di pinze dalle quali pendeva un oggettino. Un pesce rosso di smalto, lungo un due centimetri più o meno. Ben intagliato, grazioso, particolare.

– Ma che diavolo è? – sbottò Prati, mentre Rizzo faceva scivolare il pesce in una busta di plastica trasparente.

– E che ne so io? – gli rispose flemmatico. – In ogni caso ci può essere utile.

L’agente Cori fece un cenno, come se volesse dire qualcosa. Prati la incitò a parlare.

– Credo che sia un charm, un pendente di un bracciale o qualcosa del genere – si affrettò a spiegare visto che sembrava che gli altri due non la capissero.

Si avvicinò e guardò meglio il contenuto della busta che Rizzo reggeva ancora.

– Potrebbe essere una delle creazioni di Lia Linzi.

– Di chi? – fece Rizzo. Veniva dalla città e non conosceva quasi nulla del paese.

– Una ragazza di qui. Ha aperto una boutique di bigiotteria che disegna e crea lei. Tutti pezzi unici – spiegò compunta Monica Cori. – Fa delle cose fantastiche.

Prima che gli altri due potessero dire qualcosa, vennero raggiunti da Pini: – A me sembra abbastanza chiaro. Emorragia, un colpo all’arteria succlavia. L’arma potrebbe essere un coltello, un pugnale, una spada corta... A quanto pare non si trova. Il colpo deve averlo colto di sorpresa e può averlo inflitto chiunque uomo, donna, giovane o no... Credo che la morte possa farsi risalire fra le dieci e la mezzanotte di ieri. In ogni caso, dovremo aspettare l’autopsia.

Quasi meccanicamente lo sguardo di Prati si diresse all’angolo cottura, sul fondo della stanza.

Su una credenza, accanto al gas, stava un ceppo con dei coltelli da cucina. Uno spazio vuoto indicava chiaramente che uno mancava.

Rizzo annuì: – Potrebbe essere... in ogni caso, posso già dirti che non c’è segno di effrazione e che sembra che non manchi niente.

Palmi aveva fatto volontariamente entrare in casa il suo assassino. O almeno così sembrava. Lo conosceva e non aveva avuto il minimo sospetto, la minima paura…

La voce della Cori lo riscosse dai suoi pensieri: – Magari il coltello manca da

prima o è andato perso.

Forse. O forse era effettivamente l’arma del delitto che l’omicida aveva estratto dal cadavere e gettato via, magari in mare.

– Dove è Rosa? – domandò Prati che conosceva da tempo la donna.

– Di sotto.

– Che venga subito.

Arrivò dopo qualche minuto. Aveva l’aria stordita, incredula.

– Mi spiace farla tornare qui, ma abbiamo bisogno di parlarle sul… – esitò un momento e poi disse, sentendosi un poco ridicolo – sul luogo del delitto.

Lei non replicò e Prati le indicò il ceppo dei coltelli.

Rosa si fece ancora più pallida: – Oddio, manca uno... c’era fino a ieri... o almeno credo, sa con la cosa che sono abituata a vederli tutti lí non ci ho fatto gran caso... ma… – si interruppe e parve improvvisamente rendersi conto di qualcosa – non penserete che… – disse con voce malferma.

Lui la prese sottobraccio : – Venga, andiamo a farci un caffé.

Raggiunsero un bar poco lontano.

Rosa gli raccontò delle visite che Palmi riceveva: sempre ragazze che scomparivano nel giro di una mattinata, tutte giovani, belle, con biancheria minuscola addosso... era lei che provava imbarazzo e vergogna, non loro di certo. Non conosceva i loro nomi, a malapena scambiavano un saluto.

Per il resto, si limitava ai lavori di casa: giusto due ore ogni mattina, così come aveva concordato con l’agenzia che affittava.

– Il signor Palmi non mangiava a casa, si faceva un caffé e beveva qualcosa – spiegò. – Io lo vedevo appena, il tempo di dirgli buongiorno. Venivo alle undici perché lui preferiva dormire. – Rivolse a Prati uno sguardo eloquente.

– Quando lo ha visto l’ultima volta?

– Ieri mattina. Era solo – aggiunse.

– Come le è sembrato?

– Come sempre.

– Quando era arrivato?

– Una settimana fa. Doveva fermarsi un’altra.

– E l’appartamento sotto?

– Vuoto.

Prati si alzò: – Per il momento è tutto. La ringrazio.

A piedi, schivando gli inevitabili curiosi che dovevano essere già a conoscenza dell’omicidio, si diresse verso la piazza principale, dove Lia Linzi aveva il suo negozio.

Un locale piccolo, stipato di scrigni che contenevano bracciali, orecchini, catene. Le creazioni esclusive... A giudicare dai prezzi decisamente sì, pensò accantonando l’idea di regalare a sua moglie una collana di pietre variopinte.

Gli si avvicinò la commessa.

– Ispettore, buongiorno. Che posso…

– Vorrei parlare con Lia.

– È in laboratorio, la chiamo.

Lia comparve dopo un momento.

L’ispettore le mostrò la foto del piccolo pesce rosso che la Cori aveva scattato con la sua macchina digitale.

Lei la osservò e quindi disse: – Naturalmente se lo vedessi di persona sarebbe meglio, ma mi pare un charm di un bracciale che ho realizzato io. Catena in argento bagnato in oro intrecciato a un cordoncino damascato rosso e charms con piccolo pesciolini rossi smaltati e lavorati in rilievo per dare un effetto…

Prati si affrettò a interromperla: – Pezzo unico?

– Chiaro – rispose lei.

– E chi lo ha comprato e quando?

– Ma ispettore... io…

– C’è un omicido di mezzo – fece gelido lui.

Lia impallidì: – Dio mio! E chi... Non crederà che…

– A chi lo ha venduto e quando – ripeté Prati.

– Tre giorni fa a una ragazza che sta al Riviera. Carol Riva, lo ricordo dalla carta di credito. Ma…

– Domande di routine – replicò l’ispettore ponendo fine alla loro conversazione.

Lasciò il negozio e chiamo l’agente Cori.

– Raggiungimi al Riviera.

L’hotel Riviera non aveva ormai nulla a che vedere con l’alberghetto malconcio di qualche anno prima: grazie a un’accurata ristrutturazione era diventato un posto elegante, con arredi raffinati e poche stanze che andavano a ruba in alta stagione.

Prati si avvicinò al banco della reception: – Cerco la signorina Riva. È urgente.

Dato il tono, l’impiegata si limitò a replicare: – L’ho vista poco fa sulla terrazza, ispettore.

– Mi faccia accompagnare.

Lei fece un cenno a un giovane che portava l’uniforme dell’hotel e gli sussurrò qualcosa.

– Prego – disse quello con un accento straniero.

Prati e la Cori, che era appena arrivata, si ritrovarono su una terrazza ampia e ben curata che dava al mare.

Il ragazzo indicò una giovane seduta a un tavolo: – La signorina Riva.

La raggiunsero. Gran bella ragazza, pensò immediatamente Prati. Mora, jeans attillatissimi, top scollato, tacchi alti regolamentari... un istante dopo non poté evitare di trovarla in fondo banale. Fin troppo vista, così simile a quelle... come diavolo si chiamavano... veline, letterine…

Alzò lo sguardo stupita non appena l’ispettore, senza essere invitato, sedette insieme alla Cori al suo tavolo.

– Mi scusi ma...

– Carol Riva?

– Sí, ma…

– Ispettore Prati. È stato commesso un omicidio ieri sera, signorina. Non so se ne è al corrente.

Lei lo guardò attonita: – Io? E perché dovrei…

– La vittima è Bruno Palmi.

La Riva si coprì il viso con le mani: – Dio mio... ma è sicuro…

– Lo conosceva?

– Abbastanza. Lavoro in televisione. Faccio Vaudeville, è uno spettacolo serale di un certo successo, Bruno è... era uno dei produttori.

– Eravate venuti qui in vacanza insieme?

Esitò un istante prima di rispondere: – Non proprio. A lui il posto piaceva e me lo ha consigliato. Io avevo qualche giorno libero.

– E vi vedevate spesso?

– Sono qui da tre giorni, ho visto Bruno l’altro ieri, a casa sua per il caffé.

– E non vi siete più incontrati?

– No – replicò lei ora decisamente allarmata.

– Dove si trovava ieri sera, Carol?

– Qui. Ma perché mi domanda... sono fatti miei in fondo.

– Ci risulta che possiede un bracciale con dei pendenti a forma di pesce rosso.

– Sì, l’ho preso il giorno che sono arrivata… ma che c’entra, scusi.

– Uno dei pendenti lo abbiamo ritrovato in casa di Palmi, non lontano dal cadavere.

Carol Riva si fece pallidissima.

– E che vuol dire… mi sarà caduto quando sono stata da lui a bere il caffé… – disse con una voce un poco affannata. – Non me ne sono nemmeno accorta.

– Quindi lei ieri sera non é andata da Palmi – fece Prati. – E che ha fatto?

Lei rimase in silenzio qualche momento, quindi rispose: – Ero qui in hotel... non ero sola.

– Molto bene, con chi era, allora.

– Con un… amico. – Il tono ora era incerto.

– E chi è questo suo amico? Non mi faccia perdere tempo o sono costretto a portarla con me con un’accusa di omicidio…

Quelle parole produssero il loro effetto: – Io... ero qui con Enzo Velda, è un imprenditore di Como, è venuto ieri... ma non dovrebbe essere qui... ufficialmente…

Carol Riva era in paese con l’amante, sposato o impegnato che fosse, concluse Prati.

– È in albergo adesso?

Lei fece un cenno di assenso.

– Lo chiami immediatamente.

La Riva prese il cellulare che aveva dinanzi a sé sul tavolo.

Pochi minuti dopo furono raggiunti da un uomo sulla cinquantina.

– Che succede? – fece.

Prati lo informò in poche parole dei fatti.

– Un furto? – chiese Velda.

– Credo si possa escludere.

– E allora? – il tono si era fatto teso. Alla fine si sarebbe venuto a sapere dove si trovava e con chi, pensò Prati.

– Vagliamo tutte le possibilità. La signorina Riva conosceva la vittima. Ci ha riferito che avete trascorso insieme la serata di ieri – disse.

Di malavoglia lui fece un cenno d’assenso: – Abbiamo cenato qui al ristorante e

siamo rimasti in albergo. Era brutto tempo, non ci andava di uscire.

Mentre lo ascoltava, l’ispettore guardava di sottecchi la Riva: non gli sfuggì l’espressione quasi di terrore che attraversò per un istante il suo viso.

– Vuole dire qualcosa? – le domandò immediatamente.

Lei scosse il capo: – No. Che cosa?

– Riguardo a quello che è successo. Un’idea, un’impressione... – suggerì.

– No. Bruno dall’altro ieri non l’ho più visto né sentito.

– Non sa se avesse un appuntamento ieri sera... – tentò Prati, immaginando già la risposta.

– No.

– Era sposato? Aveva una relazione?

– No.

Non avrebbe detto altro.

L’ispettore si alzò: – Per ora è tutto. Fino a quando vi trattenete?

– Ancora tre giorni – rispose Velda.

– Ci dovrà consegnare il bracciale – continuò Prati – e venire in commissariato per il verbale, Cori, occupatene tu.

Prati si alzò e tornò alla reception.

L’impiegata gli riferì che Velda e la Riva la sera prima dopo aver cenato al ristorante erano rimasti al bar dell’albergo e si erano ritirati ate le undici: – Io stessa li ho visti salire.

Chiamò il portiere di notte.

– No, ispettore. non sono usciti dall’hotel. Io inizio alle nove e trenta e non mi muovo dalla reception.

Il barman a sua volta confermò le parole dell’impiegata.

Prati lasciò l’albergo e si incamminò per il lungomare. Aveva bisogno di

riflettere, di schiarirsi le idee.

Sembrava chiaro che l’alibi della Riva fosse inattaccabile. Ma aveva la quasi certezza che lei non gli avesse detto tutto quello che sapeva.

Cosa nascondeva Carol Riva? E perché? Perché voleva proteggere qualcuno? L’assassino? O lei stessa aveva qualcosa a che fare con la morte di Palmi?

Rientrò in ufficio, ordinò che gli fero avere ogni dato possibile relativo a Palmi, la Riva e Velda.

Rimasto solo, si abbandonò contro lo schienale della poltrona.

L’immagine di Bruno Palmi gli tornò alla mente. Vestiti firmati, macchina costosa, perennemente appeso al cellulare…

Si scosse e pescò nel cassetto la sua agenda. Fra note caotiche e ormai incomprensibili cercò un numero di telefono.

Quello dell’ingegner Grandi, un pezzo grosso della più importante società telefonica. Aveva comprato una villa in paese dove ava due settimane ad agosto e gli doveva un favore, da quando la figlia ventenne era stata pescata in un locale con in borsa troppe bustine di coca che aveva sostenuto di “regalare” agli amici. Prati aveva sistemato in qualche modo.

Compose il numero che Grandi gli aveva dato.

L’ingegnere lo ascoltò attentamente, quindi disse: – In un’ora più o meno credo di poter farle avere tutto.

Non era un procedere corretto, certo, ma da qualche parte doveva cominciare, pensò, mentre abbassava il ricevitore.

Chiamò la Cori: – Trattieni la Riva qui fino a nuovo ordine, con una scusa qualsiasi.

– L’ha riconosciuta, ispettore?

– No.

– Io Vaudeville ogni tanto lo guardo... Non è male, lei però è meglio di persona.

Lui fece un gesto: – Andiamo Cori, lasciamo perdere la star…

Mentre aspettava una comunicazione di Grandi, lesse il rapporto dell’agente Cuomo.

Nessuno aveva visto o udito qualcosa la sera prima: pioveva e faceva quasi

freddo, in giro non c’era nessuno, la villetta dove stava l’appartamento di Palmi era abbastanza isolata dal resto delle altre case... Palmi lo si conosceva appena, giusto di vista, due parole al bar dove beveva il caffé, al ristorante...

Sospirò e chiuse il rapporto.

Grandi fu di parola: dopo meno di un’ora, la Cori depositò sulla scrivania dell’ispettore un fax abbastanza voluminoso.

I tabulati delle telefonate di Palmi e della Riva.

Prati si concentrò sugli ultimi giorni: scorrendo numeri e nomi notò un numero che aveva chiamato la Riva e Palmi nei giorni precedenti l’assassinio e il giorno stesso della morte di lui.

Corrispondeva al cellulare di una certa Tina Ferri.

Esaminò ancor più attentamente gli stampati: la Ferri aveva letteralmente tempestato di telefonate la vittima.

Perché era innamorata di lui? Per motivi di lavoro? Perché erano amici e lei gli raccontava la sua vita? A giudicare dalla durata delle chiamate si sarebbe detto di no... Erano per lo più telefonate brevi, a volte si ripetevano nell’arco di una stessa giornata... una sorta di persecuzione? E perché?

Carol Riva poteva forse dare una qualche risposta.

Prati chiamò la Cori: – È ancora qui la Riva, vero?

– Certo, come aveva detto lei.

– La faccia are.

Carol, evidentemente a disagio, sedette dinnanzi all’ispettore.

– Io veramente non capisco cosa… – nervosa o no, non poté evitare quel tono un poco arrogante, che sembrava prerogativa di ogni personaggio che si ritenesse anche solo minimamente importante.

– Solo qualche chiarimento, signorina.

– Le ho già detto tutto…

– Non mi ha detto che il giorno dell’omicidio una certa Tina Ferri ha chiamato prima lei e poi Palmi...

Non aggiunse altro, ma alle sue parole il viso di lei si fece cereo.

– Peraltro questa Ferri doveva aver una sorta di ossessione nei confronti di Palmi, a giudicare dalle volte che gli telefonava... la avverto, signorina, o mi racconta lei quello che sa o ci metto un momento ad avere tutte le informazioni che mi interessano. E nel frattempo la trattengo qui, per ostruzione alle indagini e sospetto omicidio. Che ne pensa?

Negli occhi della ragazza c’era il panico, adesso.

Rimasero in silenzio per qualche istante.

Fu Carol a parlare per prima: – Conosco Tina perché abbiamo lavorato insieme in uno show, due anni fa. Era brava ma ha avuto qualche problema... non la voleva più nessuno, era diventata inaffidabile, sempre in ritardo, sempre… – fece un gesto. – Capisce, no?

Come no, pensò Prati. Droga, alcol o qualcosa di simile.

– A me faceva anche pena, ci sentivamo ogni tanto... cercava un lavoro, qualcosa... aveva avuto una storia con Bruno, voleva a ogni costo che lui la aiutasse.

– E lui?

– Lui.. – esitò qualche istante. – Lui non credo che... diceva che prima doveva risolvere i suoi problemi.

– E la Ferri a tempestarlo di chiamate… e Palmi se ne fregava – osservò Prati. – Non muoveva un dito, lei non era più interessante, proponibile, vendibile o mi sbaglio?

La Riva rimase nuovamente in silenzio.

– Tina le ha telefonato pochi giorni prima che lei Carol venisse qui. Le ha parlato della sua vacanza?

– Sì. Perché non avrei dovuto?

– E che qui c’era anche Palmi?

– Lo sapeva già, mi pare che glielo avesse detto un amico comune.

– E Tina le ha detto che sarebbe venuta a trovarlo. E ieri mattina le ha telefonato nuovamente per raccontarle che aveva un appuntamento con Palmi, qui. Che aveva appena parlato anche con lui, che l’aspettava a casa sua la sera di ieri... non è così? Lo ha raggiunto, ha avuto una discussione con lui, ha perso la testa e lo ha ammazzato... non è esattamente quello che ha pensato, Carol, quando le ho dato la notizia della morte di Palmi? Non ha pensato che lei sapeva chi era stato, che lei conosceva l’assassina?

La Riva nascose il viso fra le mani ma non rispose nulla.

– Non deve essere stato complicato... la Ferri arriva facciamo verso le otto di sera. Parcheggia nei pressi della villetta, è una serataccia, piove, è tutto deserto, nessuno la vede... raggiunge la casa di Palmi, discutono nuovamente, per l’ennesima volta... lei non ce la fa più, mettiamo che non sia del tutto in sé o semplicemente che perda la testa... il coltello sta lì, lo prende e colpisce Palmi che non si era accorto di nulla... poi si rende conto di quello che ha fatto, ha paura, estrae il coltello, esce e lo getta da qualche parte, in mare forse…

Fece un gesto per impedirle di parlare: – Lei lo ha sempre saputo, Carol – ripeté.

Compose un numero di telefono e sotto lo sguardo spento della Riva disse al commissario Neri, della Squadra Mobile di Milano, di mettersi sulle tracce di una certa Tina Ferri, 29 anni, sospettata dell’omicidio di Bruno Palmi.

Carol Riva era stata raggiunta in caserma da Velda, fin troppo nervoso per essere capace di tranquillizzarla. Sedevano l’uno accanto all’altra nella brutta sala d’attesa, in silenzio, distanti e ormai estranei.

Fu la Cori a chiamarli: – L’ispettore vuole parlarvi.

– Ha appena telefonato la polizia di Milano – annunciò Prati. – Tina Ferri è stata ritrovata morta a casa sua. Non dovrebbero esserci dubbi che si tratti di suicidio: hanno trovato una flacone di barbiturici vuoto. Ha lasciato una nota.

Attese un attimo quindi disse: – Ha scritto Palmi era solo un bastardo. Il mondo è fin troppo pieno di gente come lui.

Calò un silenzio carico di incredulità e orrore, rotto soltanto dai singhiozzi di Carol.

– Per il momento è tutto – disse Prati e dopo un istante, Carol e Velda si alzarono.

Lei uscì, lui si trattenne un momento: – Ispettore... se si potesse evitare che il mio nome… – era quasi una supplica.

Ipocrita e vile, anche di fronte a quelle due morti, nonostante quelle due morti... Prati non gli rispose nemmeno, si limitò a un cenno di assenso e lo congedò con un gesto stanco.

AL PESCE ROSSO di Beatrice Beraldo

Margherita sbucò come previsto di fronte al rio di San Girolamo, i piedi che parevano volare sulle pietre consunte del sestiere di Cannaregio, una brezza salmastra e livida che le accarezzava il viso in un augurio di bentornato.

In effetti erano anni che non si sentiva così rilassata, era come se l’aria di Venezia le avesse trasmesso la sua essenza vitale. Un singolare sortilegio le faceva immaginare di essere seduta nel salotto di casa, infagottata nella tuta preferita, la coperta sulle gambe.

Le pareva addirittura di avere il capo mollemente appoggiato sulla spalla del proprio uomo, un silenzio complice dopo la giornata snervante, il suo film preferito alla televisione. Il borbottio cupo dei vaporetti si era trasformato nella sua ninna nanna, il sussurro della brezza notturna nel respiro regolare di chi le sedeva accanto, il parlottare svogliato di un gruppetto di ragazzotti nella voce soffusa della televisione.

Attorno i palazzi, il mobilio elegante di sempre, i soprammobili di vetro luccicante. Anche a occhi chiusi Margherita avrebbe riconosciuto lo sciabordìo dell’acqua sulle pietre della riva, il cupo lamentarsi delle navi ormeggiate in bacino di San Marco, il profumo di resina delle bricole{1} appena piantate lungo il canale de le Fondamente Nove.

Tutto questo era casa, era la meravigliosa sensazione di vivere un’inimitabile realtà. Il solo pensiero che per miliardi d’occhi Venezia era un sogno irreale, l’esaltava. L’esaltava perché per lei quella città così unica era la normalità che finora aveva agognato senza capirlo.

Valicato il ponte de le Capuzzine proseguì lungo la fondamenta degli Ormesini ed ecco, all’orizzonte, materializzarsi le finestre del giornale…

Nella vita farai molta strada, erano state pressappoco queste le parole che il nonno di Andrea e Marco le aveva rivolto la prima volta in cui aveva messo piede nella redazione di Verso est.

Margherita ridacchiò tra sé.

In qualche modo il vecchio direttore aveva visto giusto, di strada n’aveva percorsa tanta, soprattutto di quella fisica.

Rinchiusa in istituto finché quel giorno maledetto un richiamo violento era giunto al suo cuore, un ladro in una notte senza luna. Così aveva riempito lo zaino e se n’era fuggita percorrendo le vie misteriose dello stivale. Niente radici, niente legami, niente voglia di guardarsi alle spalle per esaminare che cosa si era lasciata dietro. In verità, che cosa? Troppi brutti ricordi, troppo dolore nel suo ato.

Nella sacca Margherita aveva messo i suoi pochi vestiti, una macchina fotografica tenuta insieme con lo spago, un block notes dove fissare i propri pensieri e per espiazione una voglia irrazionale di svelare misteri irrisolti.

Il primo anno era stato veramente duro, la fame e le privazioni tantissime, ma l’idea di tornare a Venezia non l’aveva sfiorata nemmeno per un istante. Un giorno più brutto degli altri, tuttavia, la disperazione l’aveva spinta a spedire a

Geremia un articolo tratto dal suo diario di viaggio nella cronaca nera.

I lettori, contro ogni previsione, erano impazziti per quel suo modo aspro di vedere la realtà e così il vecchio direttore le aveva proposto una rubrica tutta sua sulle pagine di Verso est.

E ora erano ati dieci anni, dieci anni da quando se n’era andata sbattendo la porta in faccia a tutti; nella valigia l’immagine di un pesce rosso e nel cuore la speranza di ritrovare finalmente la propria madre.

Stropicciandosi le mani per il freddo, sbuffò cercando di scacciare tutti i dubbi che le affollavano la mente. Doveva forse andare a palazzo Vendramin dell’Orio da Marco e Andrea? No, anche loro stavano con ogni probabilità lottando contro i propri fantasmi, meglio non coinvolgerli in quella faccenda…

L’ultima volta che si erano visti, non poteva scordarlo, era stato in quella notte d’autunno in cui - in sacca della Misericordia - si erano specchiati in una torbida storia di morti che aveva avuto inizio da un’innocente battuta di pesca alla seppia. In quella notte maledetta in cui avevano ripescato la valigia con lo scheletro della sconosciuta.

– Al Pesce Rosso, – scandì a voce alta, asciugando con stizza la lacrima che le era tracimata da un occhio, forse per il freddo o forse per quel ricordo sconvolgente che aveva segnato gli ultimi dieci anni della loro vita.

– Accidenti Margherita, suona a quello stramaledetto camlo! – ringhiò esasperata da se stessa, grattando con il tacco dello stivale sulle pietre di dura trachite.

Era una notte d’inverno come tante altre a Venezia, i campi e le calli immersi nella nebbia, le pietre bagnate e scivolose. Allora perché nelle ossa quel lugubre presagio di novità?

Imbacuccati nella tenuta da pesca, i berretti calati sugli occhi, Andrea e Marco stavano sistemando l’attrezzatura.

Una goccia di sudore, pensieri liquidi di noia, scivolò lungo le vie tortuose del volto di Marco e cadde a terra dal bordo sconnesso di una mandibola. Un gesto indispettito della mano, una ciocca di capelli appiccicati alla pelle, le labbra sottili contratte in una smorfia di disappunto.

Accidenti, faceva persino fatica a scorgere il fratello, i muscoli contratti allo spasimo, un timore sordo che gli rimbombava nel cuore e nel cervello; che cosa stava succedendo?

Tese le orecchie cercando di captare il respiro spesso di Andrea, ma la coltre giallognola e lattiginosa ostacolava la missione delle consumate sicofanti. Persino lo scalpiccìo degli stivali contro i maségni{2} della pavimentazione sembrava provenire da un’altra dimensione.

Marco alzò gli occhi verso il canale, spinto da un impulso altrui.

– Andrea, le hai viste anche tu? – sibilò in un respiro strozzato.

– Cosa?

Il vento gelido della notte sembrava stesse aspettando solo il risveglio dei morti per restituirgli il respiro, una nuova vita che prendeva vigore con i sogni della notte.

– Le luci nel mezzo del canale.

– Un barchino?

– No, sembravano delle candele galleggianti…

Andrea strabuzzò gli occhi divertito. – Sarà stata la bara della piccola Giuseppina.

Quand’erano ancora due bambini il nonno gli aveva raccontato che in una sera nebbiosa del 1904, stracolme di Muranesi, due gondole-traghetto stavano lasciando Venezia quando il capitano di un vaporetto - giunto all’isola di San Michele - decise di invertire la rotta e tornarsene in città. Una delle due gondole fu travolta dal battello e affondò trascinando con sé cinque donne: solo il corpo della piccola Giuseppina non fu mai ritrovato.

Negli anni successivi, manco a dirlo, in città nacque la leggenda secondo cui nelle notti di nebbia - lo spirito della ragazzina vagasse galleggiando per il canale in una bara illuminata da ceri, questo perché i vaporetti non le sbattessero contro.

– Anche quella notte Margherita vide le candele… – biascicò Marco mordendosi con energia un labbro, il profilo dell’isola dei morti che sonnecchiava imibile di fronte all’eternità.

Quella memoria devastante assalì Andrea come un’ondata violenta, tanto che l’uomo assestò un calcio rabbioso alle vecchie bricole accatastate lungo la fondamenta, provocando un cupo smottamento. – Ocio!

Marco balzò di lato, salvandosi per miracolo dallo scarto di uno dei pali. – Accidenti a te, volevi uccidermi?

– Io non… la maledizione della piccola Giuseppina… – borbogliò indicando una bricola al fratello.

Gli occhi spauriti di Marco si posarono su un’incisione dalle linee familiari. Un piccolo pesce marchiato a fuoco, sormontato da una freccia sbiadita, riportò a galla ogni istante di quella notte maledetta.

– Bacaro{3} Al Pesce Rosso, fondamenta della Misericordia…

Il vento sembrò raddoppiare la sua violenza, tanto che i due fratelli ebbero l’impressione che il tempo fosse spazzato via dalle folate rabbiose, quasi potesse rotolare assieme ai fogli di giornale lungo i binari immaginari dei maségni.

– Sul fazzoletto della sconosciuta c’era un pesce rosso come quello.

Andrea strinse il barattolo delle esche con una tale forza che per poco non lo ridusse in frantumi.

– Dobbiamo trovare quel bacaro!

– È chiuso da cinque anni, da quando il proprietario è morto.

Margherita si voltò e vide un vecchio con un fagotto stretto tra le braccia, l’espressione più triste che avesse potuto osservare in un uomo.

– E gli eredi?

– Nessun erede, il poveretto è morto solo, ha lasciato qualcosa alla chiesa della Misericordia… ma a una condizione…

Margherita sospirò affranta. – Quale condizione?

– Per entrare in possesso dei suoi beni i sacerdoti dovranno prima ritrovare la figlia di una cameriera che molti anni fa lavorava nel suo bacaro, una povera ragazza sola al mondo.

– Perché?

– La cameriera scomparve in una notte nebbiosa come questa lasciandogli la figlia neonata e lui, preso dal panico, abbandonò la piccola sulla porta della chiesa della Misericordia. Quando molti anni più tardi l’uomo scoprì che gli restavano solo pochi mesi di vita, fu assalito dai rimorsi e cercò di ritrovare la ragazzina per lasciarle tutti i suoi beni, ma la ricerca fu vana.

– Come giustificò la scomparsa della cameriera?

– Mise in giro la diceria che fosse scappata con l’amante, l’uomo sposato con cui aveva avuto la bambina.

Udendo un sordo riecheggiare di i, il vecchio si zittì e abbassando il capo si sciolse come per magia nella nebbia.

– Margherita… sei tu?

Nel punto esatto in cui era scomparso l’uomo, riemergendo come un vascello fantasma dalle volute lattiginose, si materializzarono i corpi dei fratelli Loredan: dieci anni in più ad appesantirne i lineamenti ma lo stesso sguardo limpido di quand’erano ragazzini.

– Andrea, Marco…

I tre amici, spinti da un impulso irrefrenabile, si strinsero in un abbraccio vigoroso, i cuori che ricominciarono a battere la stessa melodia di sempre.

– Anche tu Al Pesce Rosso?

Margherita sorrise esitante. – Sì, è una lunga storia… forse c’entra mia madre e forse anche la sconosciuta della valigia.

In effetti il vecchio Geremia Loredan, prima di morire, aveva svolto qualche ricerca sul conto della piccola Margherita. La scoperta più interessante era stato un sottobicchiere del bacaro Al Pesce Rosso sul quale, chi l’aveva abbandonata, aveva scritto il suo nome. Quando era venuta in possesso dell’informazione, si era ricordata del fazzoletto che avevano ritrovato nella valigia che conteneva la sconosciuta. Il nonno, però, era morto prima che Margherita potesse metterlo a conoscenza dei propri dubbi.

– Anche noi siamo venuti qui per la sconosciuta… – Marco sembrò pietrificarsi di fronte a quel frantume di coincidenza, un fantasma fuggito all’imbrunire dal cimitero di San Michele.

– Peccato, il bacaro è stato abbandonato cinque anni fa e non so dove cercare le chiavi.

I due fratelli si scambiarono un cenno d’intesa. – Questo non è un problema, dovresti saperlo…

Il racconto del vecchio scomparso per magia nella nebbia, intanto, non dava tregua alla mente angustiata di Margherita. E se la sconosciuta della valigia si fosse rivelata la cameriera? E se la cameriera fosse stata in realtà sua madre e lei

la neonata abbandonata? In effetti anche lei era stata lasciata sulla porta della chiesa della Misericordia…

Due colpi secchi e metallici rigettarono Margherita nel presente, proprio mentre i due fratelli Loredan stavano aprendo la porta del bacaro.

– Entra, svelta! – sibilò Marco sospingendola con gentilezza oltre la soglia.

Margherita sobbalzò all’indietro, pestando i piedi dell’amico: un afrore opprimente l’aveva ricacciata all’esterno senza pietà, una mistura nauseabonda di muffa, grasso emulsionato e polvere.

I due Loredan, allarmati da un sibilo improvviso, la sospinsero in avanti con veemenza, chiudendo la porta alle loro spalle.

– Andrea, non si vede nulla!

L’uomo estrasse una piccola torcia da una tasca dei pantaloni e cominciò a roteare il cono di luce per la stanza.

Grovigli di polvere e ragnatele pendevano come bandiere lacere dagli angoli del soffitto, le pareti scrostate dalla salsedine che lasciavano intravedere i mattoni, il pavimento ricoperto da una patina collosa.

In fondo al locale un bancone con le vetrinette vuote, alle sue spalle uno scaffale

dove erano stati allineati una serie di bicchieri da osteria e di brocche per il vino.

Sopra i tavolacci consunti dei posacenere di plastica scura, delle candele squagliate e delle tovagliette di carta con le posate arrotolate in tovaglioli della medesima fantasia.

Quando Margherita vide i sottobicchieri di cartone con il logo del pesce rosso, però, si sentì strangolare: li avrebbe riconosciuti tra mille!

– Guardate là, c’è una scala, – indicò Marco con un cenno del capo.

La rampa sembrava un angusto sentiero che metteva in comunicazione con l’aldilà e il terrore di percorrerlo provocava un brivido così freddo da cristallizzare le ossa.

– Dobbiamo salire? – la voce di Margherita era diventata acuta come il pigolìo di un pulcino spaurito.

– Se vogliamo scoprire la verità sulla donna misteriosa non abbiamo altra scelta.

Appoggiato un piede sui gradini, il cuore di Margherita sembrò esploderle nel petto, una vampa di piombo fuso che le incendiò le viscere. Cosa l’aspettava alla fine di quella ascesa infernale? Sarebbe riuscita perlomeno a scoprire le fattezze di sua madre? Le sarebbe bastato solo quello per ricominciare a vivere…

Un leggero scalpiccìo interruppe i pensieri della donna. Marco stava salendo a sua volta le scale, Margherita poteva sentire le sue giunture che urlavano frastornate come quelle di una marionetta traballante. Volgendosi di lato notò che le loro ombre deformi stavano cercando di fuggire dalla parete, pavide codarde!

Andrea, frattanto, si bloccò sulla sommità della rampa e aprì una prima porta. Dietro di essa un piccolo vestibolo e altri due portoni.

– Quale devo aprire?

Margherita non ebbe dubbi: – Rosso!

La stanza era un pozzo d’ombra vischiosa che puzzava maledettamente di solitudine. Andrea strinse i denti e cercò di definire i suoi contorni con la luce della torcia.

Sembrava una camera da letto… in un angolo una culla e una scrivania, sul lato opposto un armadio, sul pavimento un materasso ammuffito. Ciò che attirò l’attenzione dell’uomo, però, fu un enorme baule collocato senza un apparente motivo al centro della stanza.

– Marco.

Il fratello comprese il segnale implicito di Andrea e scassinò il lucchetto del baule.

– Margherita, aprilo tu, – mormorò ponendosi di lato nel tentativo di proteggere l’amica dai fantasmi che sarebbero stati liberati di lì a poco.

La donna fece due i incerti verso la cassapanca, sospirò piano e aprì il coperchio. Andrea ne illuminò il contenuto.

Sopra di tutto c’era una busta rosa, pareva una carezza appena sussurrata di una madre al proprio figlio, su di essa un solo nome: Margherita.

– Credo sia per te… – Marco lasciò la frase sospesa a mezz’aria come se non fosse in grado di chiuderla in modo appropriato.

Margherita sfiorò la busta con la punta delle dita, consapevole che da quel momento preciso la sua vita sarebbe cambiata in un senso o nell’altro. La lettera, però, come se fosse animata da una volontà propria, scivolò di lato lasciando intravedere lo spigolo di una cornice.

Andrea si sporse in avanti e liberò la fotografia dalla sua prigione dimenticata. – Accid… – si strozzò in un rigurgito affannoso.

Marco tolse la polvere dal viso della donna che sembrava sorridergli malinconica. – Tua madre? Siete due gocce d’acqua…

Margherita osservò il ritratto come se fosse stato un qualcosa di magico, una sorta d’amuleto che l’avrebbe riportata indietro nel tempo. Perlomeno ora

conosceva i contorni del volto di sua madre: la prossima volta che sarebbe stata assalita dalla nostalgia si sarebbe guardata nello specchio riflettendosi nei suoi occhi malinconici.

– Guardate là, quel fazzoletto è uguale a quello dello sconosciuta… purtroppo non ci possono essere più dubbi sulla sua identità: Margherita, la sconosciuta era tua madre.

Marco le accarezzò la mano congelata, un buffetto affettuoso per farle percepire di nuovo il calore della vita.

L’amica lo fissò rivolgendogli un sorriso vacuo che non riusciva a rapprendersi. Lo scheletro che avevano ripescato nella valigia, quel fantasma che aveva segnato tutta la sua vita alla fine aveva trovato una sua identità… per poco Margherita non vomitò.

– Leggi la lettera, è indirizzata a te, – la spronò Andrea vedendo le lacrime che le devastavano i lineamenti delicati.

Margherita aprì la busta e cercò di ritrovare almeno un briciolo di lucidità.

– Amore mio, se ora stai leggendo questa lettera significa che tuo padre ha mantenuto la sua promessa… Perdonalo, piccola mia, e ricordati sempre che la tua mamma non ti ha mai abbandonata, che la tua povera mamma ti amava più della sua stessa vita.

Andrea strinse i denti, le parole angoscianti del ato che gli si conficcavano nel cuore come frecce acuminate.

– Chi è tuo padre? Sì, è giusto che tu conosca almeno il suo nome… Si chiama Alvise Zordan e io un maledetto giorno ho perso la testa per lui, ma…

La lettera si fermava all’improvviso, dopo solo poche righe, perché?

– Hai detto Alvise Zordan? – la interrogò Marco con voce incerta.

– Sì, lo conosci?

– Non proprio… era un collega dello zio, un noto avvocato che non si sa come cadde nella spirale dell’alcol. La moglie, esasperata da quella vita infernale, lo lasciò; qualche mese più tardi lo trovarono annegato nel canale de le Fondamente Nove.

Andrea si grattò il mento a disagio. – I carabinieri pensarono che per colpa della nebbia e della sbornia fosse scivolato sulla riva e fosse caduto accidentalmente in acqua. In realtà si trattò di un suicidio.

– Suicidio? – Margherita si strinse le braccia al petto per trattenere i battiti impazziti del proprio cuore.

– Lo zio trovò nell’appartamento del collega un biglietto in cui tuo padre

confessava di aver ucciso l’amante e di essersi liberato del suo corpo gettandolo in mare.

– Perché quell’uomo uccise mia madre? – chiese piano Margherita, le spalle ricurve e le sembianze avvilite di un salice piangente.

Andrea si sentì braccato dall’angoscia dell’amica. – Per difendere il buon nome della famiglia, credo… ma alla fine perse tutto, pure la vita.

– E vostro zio? Tacque anche lui per salvaguardare la famiglia di mio padre?

– No, lo zio non riferì ai carabinieri del biglietto per non mettere nei guai la vedova e poi in quei giorni non ci furono denunce di scomparsa, tanto che lo zio pensò a una squallida fantasia alcolica. Se avesse saputo della tua esistenza, però, scommetto che non avrebbe…

Margherita si precipitò giù dalle scale aggrappandosi al corrimano per non cadere, i fratelli Loredan la inseguirono affannati.

Fuori, sotto lo stigma di un lampione, i tre amici si strinsero in un abbraccio silenzioso, le lacrime di Margherita che facevano da collante ad anni di sofferenza.

Nessuno aveva difeso sua madre e la piccola Margherita, ma forse era stato più giusto così, sarebbe cambiato qualcosa se si fosse conosciuta la verità? No… però ora nella sua vita ci sarebbe stata la tomba di sua madre per piangere e ci

sarebbero stati Andrea e Marco per sorridere, e poi la famiglia Loredan l’avrebbe protetta come aveva sempre fatto in tutti quegli anni di solitudine…

Sì, ora poteva ricominciare nonostante tutto a vivere!

POLLY di Sara Bosi

23 settembre. Ora del the.

– Un pesce rosso.

– Carassius Auratus.

– … mi hai regalato un pesce rosso.

Giulia mette il broncio e appoggia la boccia sul mobile, proprio accanto allo stereo e alla mia preziosissima collezione di cd.

Una boccia di cristallo con il fondo coperto di sassolini bianchi, una piccola anfora di terracotta e un’orrenda alga di plastica. E, al centro esatto, sguazzante, un pesce rosso.

– Guardala è carinissima!

– Come fai a sapere che è femmina?

– Ma si vede! Guarda che coda lunga ed elegante che ha! Può essere solo una pesciolina!

Oggi compio trent’anni e la mia fidanzata mi ha appena regalato un pesce rosso. Pardon. Una pescia rossa.

– Guarda che per fargli venire quella coda lì gli allevatori versano trementina sulle uova. – Mi avvicino solo un po’ per vedere che magari il pesce non abbia tre occhi. In quel caso forse acquisterebbe più punti nella mia scala d’interesse.

– Sei sempre da solo in questo appartamento grigio… ho pensato che avere un po’ di compagnia ti avrebbe fatto piacere. – Il sorriso che Giulia mi rivolge vorrebbe essere incoraggiante, sta anche annuendo leggermente con la testa. Se si mette a sbattere le ciglia giuro che le mollo un ceffone.

– Io sto bene da solo. E poi non sono da solo… ho le mie piante.

– Bof, le tue piante! Vuoi mettere un animale a confronto con una pianta? E poi le tue… piante sono cactus!

– E che adesso i cactus non sono più piante? – Le rivolgo un’occhiata velenosa, la mia pazienza sta raggiungendo il limite. E poi nessuno, dico, nessuno può permettersi di dire qualcosa contro le mie piante.

Giulia deglutisce mandando giù quello che stava per dire sui miei cactus. Ragazza giudiziosa.

– Beh adesso… si è… si è fatto tardi, devo tornare in negozio, ci vediamo questa a sera a cena ok? Ho prenotato in un bel posticino, così possiamo festeggiare come si deve il tuo compleanno solo noi due… – Si avvicina a me, i suoi capelli mi sfiorano la guancia mentre mi schiocca un bacio veloce sulle labbra; sono morbidi, profumano di shampoo.

– Nel frattempo cerca di fare amicizia con Polly! – cinguetta prima di chiudersi la porta alle spalle e sparire dalla mia vista.

– Polly?

24 settembre. Alba.

Rientro in casa e mi butto sul divano con la precisa intenzione di arci quel che resta della notte e buona parte della giornata di domani. La festa a sorpresa è stata massacrante. Io odio le feste a sorpresa e a casa di Giulia c’erano tutti. Ma proprio tutti eh? Io che mi ero già immaginato una bella serata di sesso sfrenato come vero regalo per il mio compleanno ho dovuto are le ore a stringere mani e a ricevere pacche sulle spalle. Meno male che l’alcool abbondava.

Ma in definitiva adesso sono messo da buttare.

– Bella festa eh?

– Io odio le feste, soprattutto quelle a sorpresa, soprattutto le mie feste a sorpresa

– biascico a occhi chiusi.

Il mio cervello impiega qualche secondo a tornare in superficie. Chi ha parlato?

Mi tiro in piedi di scatto guardandomi intorno, una brutta ondata di vertigini mi costringe a ricrollare a sedere sul divano.

– Chi... chi è là? Chi ha parlato?

– Rilassati, sono solo io.

– Io chi? Fatti vedere!

– Non fare l’idiota, mi stai già vedendo, sono qui davanti a te.

Non può essere. Polly mi sta guardando.

E muove la bocca mentre la voce continua a parlare.

– Si, ci puoi credere, sono proprio io.

Polly ha la voce identica a quella dello speaker dei documentari di Quark.

– P... Polly?

– Sì. Beh, diciamo che io non avrei scelto proprio quel nome ma non importa, puoi continuare a chiamarmi anche così.

È troppo. Devo decisamente aver esagerato con i drink. Adesso me ne vado a letto e tutto questo domani sarà solo una stupida vecchia allucinazione.

– Buonanotte Andrea, a domani!

Solo una stupida, vecchia, ata, allucinazione del cazzo.

24 settembre. Ora del the.

Lascio ciondolare la testa proprio sopra alla tazza fumante. Il the ha sempre un effetto miracoloso su di me. Anche solo respirarne il vapore mi fa stare meglio.

– Ti sei ripreso? Adesso possiamo parlare?

Non l’ho sentito. Non ho sentito proprio niente.

– Ehilà? C’è nessuno in casa? Sto parlando con te!

Bevo una lunga, lenta sorsata di the che mi brucia piacevolmente la gola. Tengo gli occhi chiusi, e non sento niente.

– Ah vuoi fare il furbo eh? Credi che basti ignorarmi, è così? Detesto doverlo dire, ma tu non sai proprio con chi hai a che fare, ragazzo!

Apro gli occhi, Polly si dimena furiosamente all’interno della boccia, è circondato da una nube di bollicine stizzose.

Ora basta.

– Ma davvero? Io dico che ho a che fare con un effeminato pesce rosso parlante.

Polly si ferma di colpo. Non credevo che i pesci potessero stare così immobili e rigidi da vivi.

Poi la voce ricomincia calma, ma gelida.

– Per tua informazione io sono l’indiscusso Signore delle Tenebre.

– Nientemeno – mi è scappato, mi spiace, non sono riuscito proprio a trattenermi.

– Il Principe del Male, il Sovrano degli Inferi Regni, l’Astro Caduto, Lucifero, Satana, Belzebù! Scegli pure tu come chiamarmi, non mi formalizzo.

Il the mi va di traverso mentre continuo a ingollarne lunghe sorsate, tossisco, sbatto la tazza sul tavolino nel tentativo di non affogare, poi, riacquistato il respiro, mi metto a ridere. Ma di gusto.

– Non sfidarmi, misero umano.

Rido più forte.

– D’accordo. L’hai voluto tu. Poi non lamentarti con me.

Gelo.

All’improvviso la temperatura nel mio salotto è caduta in picchiata di diverse manciate di gradi.

Smetto di sorridere. Polly guarda con aria soddisfatta verso la finestra. Verso…

– I miei cactus!

Mi fiondo verso la fila di vasi in cui vive la mia preziosa collezione di piante grasse.

In modo orribile, proprio davanti ai miei occhi, le paffute piantine a poco a poco si asciugano, le spine non più sostenute dai corpi carnosi si staccano, i fiori ingrigiscono e le mie amate creature muoiono letteralmente fra le mie braccia.

Le guardo ad una ad una apire, impotente, poi i miei occhi cadono su Wilbur, il mio Echinocactus grusonii, ma neppure il tempo di raggiungerlo che il suo cuscino si sgonfia e ingiallisce, improvvisamente senza vita.

25 settembre. Alba.

Due notti di sbornie consecutive non mi hanno fatto bene.

Non ho davvero più l’età.

Però dovevo uscire; per dirla tutta dovevo assolutamente scappare dopo quello che è successo ieri.

Apro piano la porta dell’appartamento. Se dicessi che non ho paura mentirei spudoratamente.

Però ormai ho deciso. Mi libererò di quel dannato pesce. E forse quest’incubo assurdo finirà.

Faccio un respiro profondo e assumo un’espressione di sicurezza. Fallo velocemente e in un minuto sarà tutto finito.

A grandi i avanzo fino al mobile, afferro la boccia di Polly con due mani e sempre a grandi i vado dritto verso il bagno.

L’acqua versata nel water scroscia come una cascata. Tutta, fino all’ultima goccia, vedo la macchia rossa del pesce tuffarsi nella tazza. Presto.

Schiaccio il pulsante della cassetta e un gorgo ingoia tutto, sassi, anfora… e Polly. Un fugace pensiero si domanda se l’alga di plastica non mi intaserà per caso lo scarico.

Quando l’acqua torna immobile il fondo del water è candido e vuoto. Non è rimasto neppure un sassolino. Appoggio la boccia vuota e tiro un sospiro. Di quella me ne libererò più tardi.

È finita.

Me ne vado a letto.

25 settembre. Ora del the.

– Non credevo che fossi così stupido. Mi sa che ti ho sopravvalutato.

Neanche il tempo di uscire dalla camera e lavarmi la faccia.

Il mio sguardo ancora appannato va dalla finestra illuminata dalla luce rosata del tramonto, ai cui piedi giacciono i cadaveri dei miei poveri cactus, al mobile dello stereo su cui troneggia, minacciosa, la boccia di vetro di nuovo piena d’acqua, di nuovo piena di sassolini bianchi, anfora e alga di plastica… ma soprattutto, di nuovo occupata da Polly.

Che ora mi guarda spudoratamente con aria di superiorità.

– No, no, no!

Mi lascio trascinare dalla rabbia. Afferro la boccia incurante dell’acqua che esce andando a bagnare mobile e tappeto e mi butto in cucina.

Reggendo la palla di vetro con una mano apro lo sportello del microonde e ce la infilo dentro. Massima potenza, cinque minuti. Anzi, dieci, stiamo sul sicuro.

Dopo aver avviato il forno prendo fiato e mi accorgo solo adesso di aver trattenuto il respiro in tutto questo tempo.

Sono talmente nervoso che le mani mi tremano, non riesco a stare fermo, e per quei dieci infiniti minuti continuo a fare su e giù dal forno al tavolo, dal tavolo al forno.

Scorgo il lento movimento rotatorio del piatto dentro al microonde ma non riesco a trovare il coraggio di guardare dentro al vetro. Deve solo sparire. Solo sparire. Che cazzo ho mai fatto di male per meritarmi una cosa del genere? Se sparisce giuro che smetto di bere, lo giuro solennemente. E magari riprendo anche a studiare, tolgo le ragnatele dal libretto dell’università, chiamo mamma per dirle che sto bene e che mi manca, lo giuro, lo giuro, tutto, basta che quel cazzo di pesce sparisca dalla mia vita.

Bip bip biip.

Il microonde si è spento. Solo un filo di vapore bianco esce dalla guarnizione dello sportello.

Non ho il coraggio di aprire.

Il solo pensiero di trovare ancora la boccia e Polly intatti dentro al forno mi fa rabbrividire.

Vaffanculo. Non fare il coniglio Andrea, apri!

Uno strappo, come per togliere un dente, tiro la maniglia talmente forte che il

forno si mette di traverso sul piano della cucina. Dentro tutto è nascosto da una nube di fumo.

Allungo la mano per prendere la boccia ma poi una vocina nella mia testa mi ferma ricordandomi l’ustione del mese scorso.

Prendo due presine.

L’acqua nella boccia è diminuita, in parte evaporata, in parte traboccata dentro al microonde. Ma comunque non è più acqua ma una sorta di blob dal colore disgustoso in cui galleggiano pezzi di… cose.

Trattengo un conato di vomito e butto tutto nella spazzatura, boccia e contenuto. Dio benedica gli inventori dei sacchi doppia forza con maniglie. Annodo le maniglie del sacco nero e, tenendolo ben scostato da me, esco di corsa e lo vado a buttare in strada, nel cassonetto.

Quando rientro ho il fiatone, anche se ho usato l’ascensore.

È finita. Chiudo la porta con tre mandate di chiave e con la catena anti-intrusione che non uso mai.

– Proprio stupido – la voce dello speaker di Quark infrange il mio sollievo.

26 Settembre. Alba.

– Ma non ha senso…

– Smettila di tormentarti ragazzo, è tutta la notte che te stai qui davanti a cercare di convincermi. Io sono il Diavolo, io faccio quello che mi pare quando mi pare. E come mi pare.

Non devi pensare che debba per forza esserci un disegno, una profezia. E neppure che esistano quelli che ti ostini a chiamare “Prescelti” o “Dannati”. Per me siete tutti uguali, per me è indifferente entrare nella vita di uno o di un altro di voi.

Continuo a fissare il tappeto, sono seduto con la schiena appoggiata al tavolino, le ginocchia strette al petto, la testa alla stessa altezza di Polly che nuota davanti a me e nel frattempo distrugge quella che era la mia vita e quella che era la mia idea del mondo e dell’universo e di… tutto.

– Io sono il caos, non puoi pretendere che mi pieghi a un qualsiasi disegno. Sarebbe una contraddizione in termini, non ti pare?

– Quindi tu mi ucciderai solo perché sono stato “sfortunato?

Questa idea mi sta facendo impazzire, non riesco ad accettarla in nessun modo.

Polly sospira, emettendo uno sbuffo di bollicine dalla bocca.

– Si, io sono qui ora solo ed esclusivamente perché Giulia quel giorno mi ha scelto fra altri venti pesci rossi nell’acquario del negozio di animali, perché era il tuo compleanno e perché lei è la tua ragazza. Coincidenze, ragazzo, solo coincidenze.

Scuoto la testa come per respingere di nuovo quella terribile idea di casualità.

– Però io non ho mai detto che ti ucciderò.

Rialzo la testa di scatto. Ho sentito bene?

Come se mi stesse bellamente leggendo nel pensiero Polly continua.

– Questa è un’altra delle fisse che ti vengono dall’aver visto troppa tv e troppi film scadenti. Tu credi che l’unica cosa di cui è capace uno come me è arrivare e fare a pezzi la gente, bere sangue a litri e rubare anime per arricchire la sua collezione di schiavi all’inferno.

Annuisco stupidamente.

Polly scuote la testa, demoralizzato, le pinne penzolanti che sfiorano la piccola anfora appoggiata sul fondo.

– Quindi… se non hai intenzione di uccidermi… cosa… cosa mi farai?

Polly mi fissa con i suoi occhi sporgenti. Io lo fisso a mia volta, pieno di speranza davanti a questa nuova opportunità di salvezza.

– Proprio non riesci ad immaginarlo?

Non voglio illudermi, non devo illudermi e mostrarmi a lui come uno stupido che crede solo negli happy end. Mi mordo la lingua per resistere alla tentazione di suggerirgli proposte accomodanti per me. Mi limito a fare di no con la testa.

Polly inizia a volteggiare per la boccia muovendo le pinne con enfasi.

– Mio caro. Tu sarai il mio strumento! Grazie a te finalmente potrò riprendere il potere sul mondo da cui fui bandito a causa del potere della Luce!

– In… in che modo?

– Ma è semplice! Io prenderò possesso del tuo corpo e della tua mente e una volta riottenuto di potermi muovere e agire liberamente per il mondo, seminerò la distruzione e la morte ovunque i miei piedi, pardon, i tuoi, si poseranno! Ah ah ah ah ah!

– Ma… se sei stato bandito dalla terra… come hai fatto a tornare qui?

– Perché finalmente, grazie alla stupidità umana e alla vecchiaia del mio Nemico le barriere si sono indebolite e sono riuscito a creare una falla attraverso cui are.

Devo riuscire a pensare. In fretta. Deve esserci una soluzione.

La speranza accesa prima mi ha liberato il cervello da quella specie di coma di ovatta in cui era caduto e ora sono di nuovo qui. Di nuovo padrone di me stesso. Per il momento.

Devo fare qualcosa.

Polly è il Diavolo. Me l’ha dimostrato e ogni volta che l’ho sfottuto lui m’ha fregato, quindi non posso far altro che credere a quello che dice.

Però questo significa che io fra poco diventerò la causa della distruzione del mondo. Che diventerò una specie di Anticristo. E questo non mi va. Non voglio che la mia faccia venga collegata a stragi e distruzioni. Non esiste. E poi i miei non lo sopporterebbero.

La risposta mi fulmina, chiara come la luce.

– Peccato che tu abbia fatto male i calcoli. – Ostento una sicurezza che non sono convinto di provare, ma sono deciso ad andare fino in fondo.

Polly, finite le sue evoluzioni è tornato fermo a fissarmi, immobile tranne che per la coda che muove voluttuosamente da una parte e dall’altra.

– Non ti permetterò mai di usare il mio corpo per i tuoi disgustosi piani di morte e distruzione!

Eroico, devo mantenere il tono eroico.

– E come intenderesti impedirmelo?

La corsa verso la cucina è breve, torno davanti a Polly brandendo il coltello più tagliente che ho, ironia, proprio quello per sfilettare il pesce.

– Mi ucciderò prima che tu possa entrare in me così tu rimarrai confinato in quella stupida boccia e in quello stupido corpo da pesce! – Sono raggiante. Sto per morire, ma un’incredibile euforia mi scorre nelle vene. Sto da Dio.

Polly mi fissa mentre la sua coda rallenta i movimenti fino a fermarsi. L’ho stupito, sono riuscito a lasciare di sasso il Diavolo in persona.

– Dì un po’… stai parlando sul serio?

– C… certo! Sono serissimo! Sono disposto a uccidermi pur di far fallire il tuo

piano!

A quel punto Polly fa una cosa che avevo visto fare solo ai pesci di Walt Disney. Si siede sull’anfora incrociando le due punte della coda come se avesse accavallato le gambe.

– Torna a sederti per favore.

– Non ci casco, tu vuoi impedirmi di uccidermi con qualcuno dei tuoi trucchi, ma ti avverto, non te ne darò il tempo io…

– Vuoi tacere un secondo per favore? – La voce da speaker sembra stranamente grave.

Io continuo a stringere in mano il coltello e per essere più convincente me lo punto sul collo. Sento la lama fredda sulla pelle.

– Ma cosa abbiamo parlato tutta la notte a fare, dico? Ma possibile che tu non abbia capito proprio nulla di quello che ti ho detto?

Il tono di Polly è cambiato all’improvviso, sono spiazzato, adesso è al limite dell’esasperazione.

– Ma davvero ti sei bevuto la storia del piano-malefico-per-la-distruzione-delmondo? Dopo che ti ho detto che il nostro incontro è stato solo un caso, che per

me siete tutti uguali e che io faccio le cose a caso perché questa è la mia natura?

Sono confuso. Però tengo ancora il coltello sulla gola, anche se il braccio inizia a farmi male.

– Cosa… intendi?

– Intendo che mi è capitato davvero il più stupido imbecille figlio della stirpe umana e che quasi mi dispiace fare un favore al mondo intero ponendo fine alla tua insulsa vita.

– Ma tu hai detto…

– Pronto? Ma fai sul serio? Io mento, hai capito? Di continuo, con chiunque, mescolo verità e falsità per diletto, per turbare, per provocare danni, per accendere liti.

– Quindi… mi ucciderai comunque?

– Certo! E per nessun altro motivo che non sia il mio capriccio del momento, ficcatelo in testa e piantala con la tua farsa dell’eroe immolato sul coltello da cucina!

Il mio braccio cala lentamente, formicolante per lo sforzo.

– Bella collezione, posso scegliere?

Mi limito ad annuire. Mi sento malissimo e la nausea mi assale.

Polly mi ha girato le spalle e sta esaminando la fila di cd.

Una delle custodie si solleva e si apre, il disco esce ed inizia a girare su se stesso, sospeso nell’aria. E nella stanza si diffondono le note di My heart will go on di Celine Dion.

– Quel cd non è mio – pur sull’orlo della morte ci tengo a precisarlo. Quello era un cd di Giulia, e io lo mettevo su quando avevo voglia di fare sesso perché la predisponeva.

Polly canta il ritornello a gran voce insieme a Celine.

Il cd continua a girare su se stesso, poi schizza verso di me.

26 Settembre. Ore 17:00.

– Cosa sappiamo della vittima?

– Trent’anni appena compiuti, maschio, Andrea Fortunato, figlio dell’industriale Fortunato, il re dei materassi a molle. Fortunato di nome ma non di fatto, se mi è permesso.

– Mi risparmi il suo macabro sarcasmo, Pivelli, vada avanti, causa del decesso?

– Il compact disc di Celine Dion, uscendo accidentalmente dallo stereo mentre ancora girava a velocità sostenuta, lo ha letteralmente sgozzato. Un incidente davvero singolare.

L’agente più anziano si avvicina allo stereo con fare circospetto, preme il pulsante con scritto Open e con un ronzio l’alloggiamento dei cd si apre.

– E questo come lo spiega, Pivelli?

Comodamente adagiato nello scomparto occhieggia un disco di Jeff Buckley.

Pivelli rimane a bocca aperta, sopra al nodo della cravatta il suo collo si imporpora.

– Se… ehm… beh, se il cd non è schizz… uscito accidentalmente dallo stereo… come pare evidente da questa nuova scoperta beh… ehm… a questo punto io propenderei per l’ipotesi di… un omicidio, signore.

– Escludi il suicidio Pivelli?

– Signore, il ragazzo aveva in mano un coltello affilato. Credo che avrebbe trovato più… ehm… agevole, compiere l’atto definitivo con quello piuttosto che scegliere… ehm, sì, insomma, un compact disc…

– Omicidio… Pivelli, e chi l’avrebbe commesso? Si guardi attorno. La porta era chiusa dall’interno e l’appartamento si trova al decimo piano; la fidanzata della vittima ha chiamato noi perché neppure lei è riuscita ad entrare e qui dentro non c’è nessuno tranne me, lei e questo pesce rosso.

TETRADOTOSSINA di Giulia Depentor

Se non fosse stato per le labbra bluastre, non avreste detto che era morto. Il viso non era segnato o contratto ma liscio e rilassato nell’oblio, e le palpebre socchiuse lasciavano intuire che gli occhi si erano congelati nell’ultimo istante di vita.

Il medico scosse la testa di fronte a quel corpo giovane e sprecato, indossò lentamente i guanti di lattice e avvicinò il carrello degli strumenti chirurgici che scintillarono sotto la luce impietosa, come sorridendo d’impazienza.

Spesso, dopo operazioni ingrate come quella che stava per fare, i suoi colleghi sedevano a lungo con la testa tra le mani e gli sguardi vuoti di chi si sta chiedendo il perché di un destino tanto bastardo.

Lui aveva superato quella fase. Giovani, malati, bambini, squartati, decapitati. Erano sempre morti. E doveva solo capire che cosa era successo. Quei corpi avevano già chi piangeva per loro.

Non in questo caso.

Il cadavere di quell’uomo era stato ritrovato poche ore prima in una specie di albergo. Una storia già sentita: il cliente deve liberare la camera ma non si fa vedere, non risponde al telefono e, il più delle volte, sta dondolando appeso ad una trave del soffitto.

Era venuto fuori che il proprietario di quella pensione casalinga affittava una manciata di stanze a persone che non volevano lasciare traccia: non chiedeva documenti, si faceva pagare in anticipo e amici come prima. Certo non poteva immaginare che ci sarebbe scappato il morto e che avrebbe ato un pessimo guaio.

Quando avevano forzato la porta, il ragazzo giaceva supino sul pavimento, un sottile filo di bava al lato della bocca. Nessun segno di colluttazione, nessun documento, nessuna identità, nessun parente da chiamare.

Un fottuto mistero.

– Vediamo che cos’hai da dirci.

Il vestito che indossava, uno smoking di ottima fattura, stonava terribilmente con lo squallore della camera in cui aveva trascorso le sue ultime ore, le mani erano nervose e curate e le unghie non nascondevano nessun reperto da analizzare. Il collo candido e intatto non mostrava niente di decisivo. Niente di niente.

Apparentemente si trattava di morte naturale, ma c’era da stabilire che cosa avesse potuto provocarla in un giovane palesemente in forze come quello.

Con la forbice, cominciò a smembrare i vestiti che lentamente abbandonarono le sue gambe e il suo torace. Quando fu completamente nudo, ammirò nuovamente la prestanza fisica dello sconosciuto. Avrà avuto massimo trent’anni e il fisico asciutto di chi ci tiene ad essere in forma.

Rimase per qualche secondo ad osservarlo, per un attimo toccato da una sensazione metallica che assomigliava allo sconforto. Proprio un bel ragazzo.

Peccato dover aprire.

Impugnò il bisturi con mano ferma ed iniziò a sezionare profondamente la pelle, fino a creare un grande taglio a forma di Y, che permetteva di leggere dall’interno la storia di quei poveri corpi. Spostò i lembi, coprendo, con quello superiore, il bel viso del giovane. Davanti a quell’enorme pezzo di carne, cominciò. Si attenne scrupolosamente alla procedura che aveva ripetuto innumerevoli volte, estraendo gli organi uno per uno, pesandoli, e scandendo a voce alta le riflessioni che venivano da un dispositivo apposito.

La sua voce rimbalzava cupa da una parete all’altra di quella stanza impregnata dell’odore dolciastro della tragedia. Ogni tanto si udivano i tonfi umidi del cuore o dei polmoni che venivano spostati dal corpo alla bilancia, e dalla bilancia a dai contenitori d’acciaio. Ordinaria amministrazione.

Ma quando venne il turno dello stomaco, un’espressione a metà tra lo stupore e la tenerezza distese i suoi tratti calcificati da anni di noia.

All’interno della sacca, come una barca alla deriva, agonizzava un pesciolino rosso, minuscolo ma meraviglioso e screziato. Le branchie ancora palpitavano, anelando inutilmente all’ossigeno assente in quell’acquario riempito di succhi gastrici. Il dottore, quasi commosso, afferrò l’animaletto con una pinzetta e, tenendolo per la coda, lo liberò in un piccolo recipiente pieno, questa volta, di acqua limpida e ristoratrice.

Ne contemplò il dorso leggermente maculato, la fronte bombata e gli occhietti sporgenti ancora un po’ velati. Non se ne intendeva di pesci, ma certamente quello non era il classico esemplare che si vinceva ai banchetti delle fiere di paese.

Proprio quando nella sua mente si stava insinuando il sospetto che fosse proprio quell’esserino lungo due dita il colpevole della dipartita del giovane, il pesce ebbe un guizzo, si gonfiò terribilmente diventando più del doppio del suo volume e lentamente scivolò verso la superficie dell’acqua.

°°°

Una carriera che stentava a decollare. Un campo difficile, dove non c’era posto per nessuno se non per i fenomeni, per quelli che facevano la storia e la differenza. La dolorosa consapevolezza di dover lottare per diventare unico ed entrare nella leggenda. I grandi del ato idolatrati come dei di una personale religione.

Mister Deep, nome d’arte di Carlo R., era bravo, aveva uno stile originale, lavorava sodo, era fedele alla sua causa. Ma mancava qualcosa.

Il mondo dell’illusionismo era popolato da leoni famelici pronti a sbranarsi l’un l’altro, da personaggi senza scrupoli, con le maniche piene di assi e di colpi bassi, alla continua ricerca di novità e di migliorare questo o quel numero di magia.

E lui, un novellino di ventotto anni, certamente spiccava per la sua tecnica pulita e priva di sbavature, eppure, come mille altri prima di lui, non riusciva ad

inventare nulla per cui valesse la pena farlo emergere da quella massa anonima. Era sempre immobile nella sua eccelsa mediocrità.

Un pomeriggio in cui aveva deciso di sopire la sua frustrazione con una bottiglia di vino scadente, finalmente l’idea che stava aspettando da anni era arrivata, grazie a un vecchio film americano che guardava distrattamente, il cui protagonista inghiottiva pesci rossi vivi di fronte allo sguardo inorridito della sua compagna. Aveva assistito più volte a quel numero da quattro soldi e aveva sentito parlare di persone che erano in grado addirittura di rigettare l’animaletto vivo e vegeto nella sua vasca.

Era rimasto per qualche minuto in silenzio, assorto. La sua mente lavorava frenetica, nutrita dall’ambizione e dalla vanità, creava idee, costumi, frasi, movimenti.

Carlo non lo sapeva, ma ne era già schiavo.

Fu così che scelse di personalizzare quella sciocca esibizione. E capì che per rendere sensazionale il suo numero, l’ingrediente che mancava era il pericolo.

Questo è quello che il pubblico vuole: trattenere il fiato, fingere partecipazione, guardare il dolore con occhi di sciacallo. Vedere sangue, rabbrividire, schifarsi, inorridire, raccontare, dire che c’era.

Carlo sarebbe ato alla storia come Mister Deep, l’illusionista che mangiava i pesci velenosi e li sputava prima che la loro pozione mortale potesse fare effetto nel suo stomaco. E dopo i pesci, ragni, serpenti, insetti. Forse avrebbe dovuto cambiare nome, cercare qualcosa di più aggressivo, confezionare un costume a

tema, trovare una valletta disposta a maneggiare le aggressive bestioline.

Si allenò prima con i classici pesci rossi, cercando inizialmente di superare i conati di vomito che non mancavano ogni volta di squassargli la pancia; poi dovette imparare a rigettare senza infilarsi le dita in gola, con dei precisi movimenti che impartiva al suo esofago. Talvolta ci metteva troppo tempo e il pesciolino ne usciva morto e già intaccato dai succhi gastrici, oppure ancora agonizzante.

Lavorò duramente, per mesi, senza uscire di casa e senza dover dare spiegazioni a nessuno, dato che non aveva parenti e che non aveva tempo per amici, concentrato com’era nella sua carriera.

Quando fu sicuro di aver perfezionato la sua tecnica, si concentrò sulla ricerca degli animali velenosi e scoprì l’esistenza di una particolare varietà di pesce palla, di dimensioni ridotte e simile esteticamente ad un normale esemplare di pesce rosso. L’unica differenza: il pesce palloncino conteneva, in proporzione, una quantità ancora più elevata di siero mortale, in grado di uccidere in minor tempo e anche attraverso un contatto di qualche minuto.

Era l’ideale. Se il pesciolino fosse rimasto nel suo stomaco per un solo secondo di troppo, il veleno sarebbe stato irrimediabilmente assorbito dalle pareti, provocandogli inizialmente difficoltà respiratorie, poi paralisi e infine la morte. Gli spettatori avrebbero trattenuto il fiato fino all’ultimo, chiedendosi quali sarebbero state le sorti dello spericolato mago. Chissà, forse qualche convulsione fittizia avrebbe dato dei brividi in più.

Sarebbe stato un successo.

Prima dell’esibizione avrebbe potuto proiettare dei video dell’animaletto in azione. Che si rendessero conto del pericolo che correva!

Il veleno era talmente concentrato nelle carni del pesciolino, che non era assolutamente possibile cibarsene, come invece avveniva per il fugu, il fratello maggiore, le cui carni dovevano essere preparate da cuochi espertissimi in grado di riconoscere le parti con quantità di veleno minori. Per questo motivo, fu relativamente facile procurarsi un paio di dozzine di pesci palloncini, che arrivarono puntuali dal Giappone dopo un paio di settimane.

Carlo cominciò ad allenarsi subito, prima un po’ titubante, poi sempre più sicuro di se stesso. Calcolò che aveva circa cinque minuti prima che la bestiola cominciasse a rilasciare la sua pozione e allungò sempre di più i tempi, aggiungendo una decina di secondi ogni volta. Durante lo spettacolo sarebbe stato presente un grosso cronometro attraverso il quale gli spettatori avrebbero potuto contare i secondi che lo separavano da una morte cosciente e dolorosa, che sarebbe sopraggiunta per soffocamento.

Se la vide brutta, in un paio di occasioni. In entrambi i casi aveva avvertito un senso di gonfiore alla gola e alla lingua che era durato per qualche minuto e che aveva reso difficile la respirazione. Se era vivo, lo doveva solo al suo sangue freddo e al fatto che non si era fatto prendere dal panico. E poteva dirsi contento, perché gli episodi lo avevano reso più forte e determinato.

Dopo all’incirca sei mesi, si sentì infallibile: presentò la propria candidatura ad un concorso internazionale di magia, un eccezionale palcoscenico dove ogni anno venivano consacrati i nuovi Houdini.

Riuscì a prenotare una camera a poco prezzo, nella periferia della città dove si svolgeva la manifestazione, da un tizio che pretese di essere pagato in anticipo,

non chiese i documenti e non obiettò alla vista della grande vasca piena di “innocui” pesciolini rossi, necessari a Carlo per gli ultimi allenamenti.

Il giovane si chiuse la porta alle spalle e sospirò soddisfatto: stava per nascere la leggenda di Mister Deep.

IL NICK NAME DELL’ASSASSINO di Cristian Fabbi

– E con questa fanno tre – disse il vice commissario Isidora Malloy, a tutti e a nessuno. Poi con un gesto di stizza coprì il cadavere della ragazza.

– Anche questa con gli stessi segni: un ovale e un triangolo al vertice – la incalzò Bronzoni, della scientifica.

– Ho visto, non sono cieca – ringhiò. Poi cercò con gli occhi l’ispettore Perna. Giacomo Perna, trentanove anni, era il suo collaboratore più stretto. Come uomo era decisamente uno stronzo, ma come sbirro non era male, vuoi per il suo metro e novanta, vuoi per una certa intelligenza. E poi, infine, le voleva bene, anche se in modo discreto. Isidora lo vide avvicinarsi a grandi falcate.

– Dottoressa, possiamo fare il sopralluogo a casa della vittima. Marani ha recuperato le chiavi da un’amica.

Isidora lo guardò come a dire “Tanto so già cosa troveremo”.

– Tanto sappiamo già cosa troveremo – disse appunto l’ispettore.

– Un computer formattato – disse Isidora, scoraggiata.

– Esattamente.

La casa della vittima, che si chiamava Casimira, era il tipico appartamento di una trentaquattrenne in carriera, un po’ fashion e un po’ tana-di-cucciola. Casimira Maioli era una giovane commercialista. Lavorava da due anni e mezzo in uno studio rinomato della città, e il suo stipendio non doveva essere male.

Perna cercò immediatamente il computer e lo trovò sulla scrivania Ikea color betulla in camera.

Lo accese in barba alle precauzioni di Bronzoni, e immancabilmente, come per le altre due vittime, lo schermo nero fece apparire quella maledetta sigla. Il prompt del DOS. Il segno inequivocabile del computer svuotato di ogni file.

C:/

Perna ebbe un moto di stizza.

– Cosa ti aspettavi? – le chiese Isidora.

Pochi minuti dopo giunse anche il commissario Valente. Era stanco. Valente era una brava persona. Un po’ troppo vicino alla pensione, forse. I suoi radi capelli grigi avevano una forma impresentabile, e i suoi baffi, folti, un colore indefinibile. Si slacciò il soprabito e si mise a girare come a caccia di indizi. In realtà, chi lo conosceva bene, sapeva che quella danza sgraziata accompagnava i suoi pensieri.

– Qui ci vuole un esperto di computer – disse.

– Bronzoni li fa analizzare dài... – provò ad intervenire Perna.

– Ci vuole uno bravo. Quelli della scientifica stanno sottovalutando questo caso – lo interruppe stizzito il commissario Valente. – Ci vuole uno bravo, un figlio di puttana.

Perna sgranò gli occhi. Aveva capito perfettamente dove voleva arrivare il commissario. Isidora intanto era sprofondata in un divano dai tessuti blu elettrico.

– Commissario, non penserà a...

– Sì – lo interruppe di nuovo Valente, al quale la voce di Perna a quell’ora della notte dava fastidio. – Sì, penso proprio a lui.

– Ma è un infame. Ha denunciato un collega all’Interna e lo ha fatto condannare. E poi è un emerito fannullone, un cazzaro. È svogliato, cinico e incapace.

– Sono d’accordo su tutto, Perna, tranne che sull’incapace. Di computer se ne intende più di chiunque altro. E siccome da quando è stato trasferito al magazzino della Polizia non ha più un cazzo da fare, sarà sicuramente libero da impegni.

– Mi permetto di oppormi, commissario – insistette Perna.

– Permesso non concesso, ispettore – chiuse la questione Valente.

Isidora Malloy seguì la discussione in silenzio. Lei, questo Paranza, non lo conosceva perché era arrivata nel commissariato solo da un anno. Guardò Perna, che di lei aveva una stima superiore ai meriti reali, e gli disse:

– Perché non proviamo, se è davvero così bravo?

– Perché è un essere immondo, spregevole.

Se Calogero Paranza non era ancora stato cacciato dalla Polizia di Stato, lo si doveva soltanto al fatto che suo padre Salvatore era considerato un eroe, morto nella scorta di un giudice assassinato dalla mafia.

La dottoressa Malloy lo trovò in un ufficio senza finestre illuminato dalla luce di un neon leggermente intermittente, sprofondato in una poltroncina girevole dietro al monitor di un computer, intento ad inserire delle fatture, mentre sorseggiava un bicchiere di coca cola di un fast food. Era grasso, Paranza. Ed era un peccato, pensò Isidora, perché sarebbe stato anche un bel ragazzo. Puzzava del fritto dei fast food chiusi, poco areati. Altezza media, capelli nerissimi leggermente impomatati, orecchino, barba di qualche giorno, e almeno quindici chili in più del necessario, probabilmente a causa dell’inattività protratta.

– Paranza?

– Chi lo cerca? – rispose inespressivo.

– Isidora Malloy, vice commissario.

– Ah, la collega di quello stronzo di Perna – rispose lui. Isidora non ribatté.

– Mi hanno detto che sei bravo col computer.

– Sono certo che le hanno detto anche altro sul mio conto, dottoressa.

– Sì. Che sei un essere spregevole – le disse, sorridendo.

– Cosa vuole? – disse lui.

– Ho bisogno che mi dai una occhiata al computer dell’ultima vittima di quel bastardo che uccide le ragazze e poi gli formatta il computer.

– Se è formattato, non c’è un cazzo da fare – disse lui, distraendosi al monitor, probabilmente con internet.

– Modera il linguaggio, Paranza, e seguimi. Ho il permesso del tuo superiore – concluse lei risoluta.

Paranza si alzò lentamente e per la prima volta mise a fuoco questa giovane collega dai capelli rossi, legati da due code sbarazzine. Era carina, Isidora Malloy. Che cazzo di cognome era? Prese una borsa blu con scritto qualcosa in inglese, che doveva essersi scolorito col tempo, e seguì la vice commissaria.

Attraversarono il labirinto del magazzino e finalmente uscirono all’aperto. Al volante della Croma c’era Perna, il quale, appena vide Paranza, grugnì invece di salutarlo. Paranza non si diede nemmeno la pena di rispondere al verso.

Giunsero in commissariato verso le dieci.

– Quello è il computer, Paranza – disse Isidora. – Vedi di recuperare qualcosa di utile.

Paranza estrasse un Cd e una chiavetta USB, poi accese il computer.

Dopo qualche secondo sacramentò, e poi iniziò a digitare con la tastiera.

Mentre Malloy e Perna rilessero i dati della scientifica, sentirono la voce di Paranza.

– Avete fatto più danno voi a riaccenderlo che l’assassino a formattare.

Ad Isidora vennero in mente le raccomandazioni di Bronzoni e si morse il labbro, mentre Perna si alzò ed uscì, irritato dalle considerazioni di Paranza.

– Quindi non c’è nulla?

– Al momento solo un file proveniente dall’agenda digitale della vittima. C’è scritto “23 marzo, ore 23, incontro con #FFFF0000 < [ ] > <”. Un file difettoso.

– Il 23 marzo era ieri sera – esclamò Isidora.

– Esatto.

– E perché non c’è il nome?

– Perché come le ho detto, l’accensione ha cancellato tutti i dati e anche il recupero è impossibile.

Aveva l’occhio sveglio Paranza, ed Isidora se ne accorse.

Si era fatta l’una e la vice commissaria aveva fame.

– Andiamo a pranzo al bar qui sotto – gli propose.

– Dottoressa, non le conviene. È un bar pieno di poliziotti – le ricordò Paranza.

– Anche noi lo siamo – disse lei, senza capire.

– Dottoressa, io non ho una buona reputazione tra i colleghi – le spiegò lui, – e se la vedono in mia compagnia, rischia di perdere dei punti anche lei.

– Sciocchezze, Paranza. Sei un collega. Punto. Andiamo a pranzo.

Paranza non si sbagliava. I colleghi, quando la videro in sua compagnia, sgranarono gli occhi. Nessuno rivolse loro la parola.

Si sedettero e ordinarono da mangiare.

– Allora, secondo te quelle sigle nell’agenda digitale cosa vogliono dire? – gli chiese.

– Secondo me sono il nome, o meglio, il nick name, del probabile assassino. Ma il file si è sputtanato e non riusciremo più a recuperarlo.

– Che idea ti sei fatto, Paranza? – le chiese lei in tono cospirativo.

Dovevano essere anni che un poliziotto non chiedeva un parere da collega a Paranza.

– Questo bastardo le adesca on line, poi dà loro un appuntamento, accertandosi prima che abitino sole. Le sbudella, con rispetto parlando, e poi gli si infila in casa per cancellare le prove digitali. E questa sta diventando la sua firma.

– È quello che penso anche io. Solo che se non lo troviamo, questo continua ad uccidere – disse Isidora, preoccupata. – Come potremmo fare?

– Forse l’unica è tentare di tendergli una trappola on line, e sperare di avere fortuna.

– Si, una lotteria.

Paranza si fece pensieroso. Isidora lo lasciò solo per qualche minuto, che utilizzò per andare a fare una telefonata, e lui si avviò solitario alla cassa del bar. Pagò la propria consumazione. Sei euro.

E mentre pagò, ebbe una folgorazione.

Sei. Sei. Esa. Esadecimale.

Raggiunse di corsa Isidora, che ancora stava discutendo animatamente al telefono, la prese per un braccio che quasi la travolse.

– Venga, dottoressa. Ho un’idea.

Rientrarono in ufficio. Isidora non amava essere strattonata, e provò a farlo presente a Calogero Paranza, il quale, però, era preso da una specie di raptus.

Riaccese il computer.

Cominciò a digitare qualche tasto e a mormorare – Come pensavo... come pensavo.

– Come pensavo cosa? Paranza, fammi capire anche a me.

– Vede, dottoressa, non sapremo mai se Casimira, l’ultima vittima, lo abbia fatto apposta per lasciare un indizio, o se invece sia stato un caso. Ma il file dell’agenda con l’appuntamento della sera è stato salvato in un’area che non viene formattata. Io credo di proposito.

Isidora si fece seria.

– Ok. Ti seguo.

– Bene. Ha messo la data, altrimenti non ci avremmo capito nulla, ma non ha messo altro. Tuttavia, io ho pagato sei euro il panino e la coca. Sei mi ha richiamato l’esadecimale. In realtà ci stavo pensando da un po’. E il bar me lo ha reso soltanto più chiaro.

– Cosa, Paranza? Non ti seguo più, ora.

– Quella sequenza di lettere e numeri – e indicò il monitor – è in realtà un codice esadecimale ASCII: un modo di gestire i caratteri del computer attraverso una tabella unificata.

– Non ci ho capito niente. E cosa ci dice, questo codice?

– Il nome dell’assassino, dottoressa.

– Cioè?

– #FFFF0000 < [ ] > < produce una specie di disegno. Le prime lettere, #FFFF0000, indicano un colore. Il rosso. Gli altri codici vanno a comporre un disegno. Questo: <[]><

– Sembra un pesce.

– Rosso.

– Un pesce rosso? – fece Isidora. – Cosa può voler dire?

– Dottore’, è il nick name della persona che stiamo cercando. Mi ci gioco i...

– Piantala con le parolacce, Calogero. – Era la prima volta che lo chiamava per nome. E aggiunse, tra sé: – Ecco il significato di quel segno che lascia col coltello sulle sue vittime.

La casa di Isidora era molto più umile, e decisamente meno fashion di quella dell’ultima vittima. Isidora era disordinatissima, anche se ci si ritrovava, nel proprio caos. Sul tavolo, Paranza aveva piazzato un portatile, con tanto di connessione internet wi-fi, e stava smanettando con il PC. Isidora stava raccogliendo i cartoni della pizza mentre Perna si stava bevendo una birra slovena, seduto sul sofà fuori moda.

– Speriamo di trovarlo.

– Lo troviamo, dottorè. Lo troviamo. Il più è essere bravi e non insospettirlo.

Isidora sparì in cucina a preparare il caffè. Perna osservava il collega pestare sui tasti con un impegno che non si sarebbe aspettato da lui. Prese a sfogliare una rivista di recensioni letterarie di qualche mese prima, nella quale Isidora si era segnata alcuni libri da comprare. Per la verità li aveva segnati praticamente tutti, e del resto la sua casa era stipata fino all’inverosimile di libri. Le scaffalature erano piene, e ne aveva piazzati in pila nei corridoi e sotto i tavoli. Isidora sembrava ossessionata dai libri.

A un certo punto, Paranza emise un urlo che aveva poco dell’umano. Una specie di “oè”, fatto da una belva feroce.

– Che succede – chiese Isidora, comparendo con un vassoio contenente tre tazzine di caffè fumanti.

– L’ho trovato. Ho trovato quel bastardo.

I due colleghi lo raggiunsero a monitor. Era pieno di messaggi di tante persone.

– Cos’è questo casino? – chiese Perna.

– È una chat line. Si clicca sulla persona che ti interessa, ed inizi a chattare – rispose Paranza, con tono di scherno.

– Te ne intendi, tu, eh? Con tutto il tempo che hai da far are – lo attaccò. Calogero non rispose e si concentrò sul monitor.

– Eccolo qua. Pesce rosso. Mo’ gli scrivo.

Luna82> ciao...

Pescerosso> ciao bella

– Dottorè, ci provo, a farmi adescare?

– Provaci, certo.

Pescerosso> che fai?

Luna82> mi annoio :)

Pescerosso> posso farti compagnia???

Luna82> certo. Virtualmente

Pescerosso> come ti chiami, bella? Luna è il tuo nome?

Luna82> sì. Il tuo?

Pescerosso> Luca. 34 anni... tu 28?

Luna82> 27... li devo ancora compiere

Paranza andò avanti un po’ con chiacchiere a vuoto.

– Lo stai agganciando, dài, Calogero – disse Isidora, che aveva anche tirato fuori la bottiglia di porto e stava versando nei bicchierini l’ammazzacaffè.

– Forza – grugnì Perna. – Fatti dare questo maledetto appuntamento.

– Stai calmo, collega. A fare a modo tuo questo si insospettisce. Calmati. Il pesce deve abboccare all’amo e dobbiamo fargli desiderare l’esca.

– Lascialo fare – disse Isidora a Perna, andogli il bicchiere.

Pescerosso> che fai nella vita, Luna stellina?

Luna82> la cubista

Pescerosso> wow davvero?

Luna82> no... ma a voi uomini basta dirlo che vi eccitate

Pescerosso> vero. Hai ragione :()

Luna82> faccio la restauratrice

– Che cazzo di fantasia – disse Perna.

– Vaffanculo – gli rispose Paranza, approfittando per sgranchirsi il dito medio della mano destra.

Pescerosso> bello, un’artista

Luna82> preferisco sentirmi un’artigiana. E tu che fai?

Pescerosso> mi occupo di import export. Ho una piccola azienda

Luna82> avrai un sacco di soldi

Pescerosso> ma lavoro anche un sacco. Da mattina a sera

Luna82> see vabbeeee

Pescerosso> che tipo sei?

– Dottorè, che faccio?

– Vai, procedi – disse Isidora deglutendo. Qui iniziava il loro piano.

Luna82> sono carina, se è questo che vuoi sapere

Pescerosso> carina come?

Luna82> ho i capelli rossi, le codine...

Pescerosso> quanto sei alta?

Luna82> uno e settanta...

Pescerosso> e non mi dici altro di te?

Luna82> no basta. Non sarai come tutti i maiali che ci sono qui?

Pescerosso> sono solo curioso, dài...

Paranza continuò per una mezzora. Poi decise di piazzare il colpo.

Luna82> sono stanca, sai? Vado a letto...

Pescerosso> di già?

Luna82> certo. Sono una che lavora, io...

Pescerosso> gne gne gne

Luna82> :) mi sei simpatico, Luca

Pescerosso> anche tu... luna. Mi piacerebbe conoscerti...

Luna82> va bene

Pescerosso> va bene? Hai detto va bene? Wooow grazie

Luna82> ehi calma. Non ti ho mica detto che mi fidanzo ;)

Pescerosso> ok ok... domani sera sei libera?

Luna82> sì

Pescerosso> possiamo vederci?

Luna82> sì ma...

Pescerosso> ma? Cosa c’è?

Luna82> vorrei vederti in un luogo piuttosto riservato...

Pescerosso> eh eh eh ho capito... sei fidanzata vero?

Luna82> già.. :(

Pescerosso> no problem. Conosco un posto

Le diede appuntamento in un parcheggio poco lontano dall’uscita di Modena Sud, in aperta campagna.

– Bravo Paranza. Ottimo lavoro – disse Isidora.

A notte fonda se ne andarono e si diedero appuntamento per la serata successiva.

– Paura? – le chiese Paranza.

– No. So che ci siete voi due. Non mi può fare nulla. E poi ho il bustino. Se dovesse provare ad accoltellarmi, sono protetta.

– Non fare l’eroe, Isidora – le disse Perna. – Appena ti adesca, saltiamo fuori.

– Così quello non fa nulla e rimaniamo senza prove.

– Non è vero. Una volta arrestato potremmo controllare l’alibi per le serate in cui sono state uccise le altre vittime.

– Meglio non rischiare. Lasciamolo abboccare per bene, il nostro pesce rosso. Voi state attenti.

La serata era buia. La luna sembrava essere in sciopero. Isidora indossava un vestitino rosso, stivali scuri, alti, e un cappotto scozzese. Oltre ai codini d’ordinanza. Paranza e Perna si erano nascosti nell’Alfa Romeo, tra le piante. Vedevano bene Isidora che aspettava seduta su una panchina.

L’animale comparve dopo un po’. Si avvicinò a bordo di un fuoristrada. La

scena, loro, la videro da lontano. Lui tirò giù il finestrino. Parlottarono un poco. Ma il Pesce Rosso non scendeva dalla macchina.

– Che cazzo succede – disse Perna. Paranza osservava la scena mordendosi il labbro.

– La vuol far salire sul fuoristrada.

– Perché?

– Che ne so? Gli avrà raccontato che possono stare comodi, che fa freddo.

– Non lo farà. Non salirà. Il vice commissario è una furba – disse Perna, poco convinto.

– Per quel poco che l’ho conosciuta, è una determinata.

Isidora si guardò attorno come a chiedere un suggerimento. Poi aprì la portiera e salì sull’auto.

– Merda – disse Perna.

– Aspetta a partire. Se ci vede, quello è capace di perdere la testa. Lo devi

seguire da lontano a fari spenti. Fin che sta in movimento, ad Isidora non può succedere nulla.

– Non mi dare ordini, Paranza – disse, indispettito, Perna.

– Muoviti, e fai come ti dico.

Partirono dietro il fuoristrada. Il Pesce Rosso si diresse verso la collina. A un certo punto svoltò per una strada di campagna, e proseguì spegnendo i fari.

– Merda – disse Paranza. E accelerò, in direzione del nulla, perché la macchina del Pesce Rosso era sparita.

– Cosa fai?

– Nulla, Luna, tesoro. Mi fermo qui. Chiacchieriamo un po’. Che c’è, sei nervosa?

– Non mi piace stare al buio.

– Accendiamo la luce dell’abitacolo, se vuoi. Così posso guardarti.

Isidora si controllò, ma il suo viso tradiva, ora, il nervoso.

– Posso accendermi una sigaretta – chiese il Pesce Rosso.

– Fai pure...

– Sei molto carina.

Isidora gli sorrise. O almeno ci provò, ma le uscì un ghigno contratto. Sentiva il cuore pulsare a mille. Aveva sui quarant’anni, il Pesce Rosso. I capelli impomatati. Leggermente più grasso del normale, la barba mal fatta. Guardò meglio. Mani grandi, curate ma abituate al lavoro. Occhi stanchi, faccia depressa. Muscoloso. Le braccia enormi. La testa china in una postura innaturale, tipica di chi a un certo punto della propria vita, ha dovuto cambiare il modo di camminare. E vide, là in fondo, che al Pesce Rosso mancava una gamba. Fu l’ultima cosa che vide chiaramente, perché la luce dell’abitacolo lentamente si spense.

Poi sentì una presa fortissima al collo. Il fiato le venne meno. Sentì il fumo della sigaretta vicino, vicinissimo, e le parve di sentire qualcosa di umido, vicino alla guancia, e poi qualcosa che la pungeva. Quella barba maledetta. Sentì un’altra mano frugare attorno alla pancia, sotto al bustino. E svenne.

La vide perdere i sensi, e pensò: “Meglio così. Diventa tutto più facile”. Tirò fuori il coltello e iniziò a trafficare attorno a quel vestitino rosso. Si accorse che la donna sotto il vestito portava qualcosa. Una specie di busto. Era svenuta. Rimise il coltello a serramanico in tasca. Aprì la portiera, recuperò la stampella dal sedile posteriore e scese, claudicando. Girò attorno alla macchina. Aprì la portiera e trascinò Isidora per un braccio.

Si riprese, Isidora, battendo la testa contro il parafango. Sentì tirare il braccio con così tanta forza che il corpo andò subito dietro. Un male pazzesco. Forse si era anche slogata una spalla. L’uomo barcollava, ma si muoveva con una perizia e un’agilità incredibile per essere senza una gamba. La trascinò tra gli alberi. Sentì un ceffone sul viso, e di nuovo perse i sensi.

Estrasse il coltello, il Pesce Rosso. Strappò il vestitino rosso ad Isidora. Si chinò. Iniziò ad armeggiare con il bustino, per liberare il corpo della ragazza. Finalmente vide la pancia, con la pelle bianca. Estrasse il coltello.

Isidora sentiva il freddo della terra, umida, bagnata. Non sentiva più il proprio corpo. La paura l’aveva paralizzata. Era quella la morte?

Poi sentì una voce, vicina, molto vicina.

– Cazzo, Paranza, lo hai ammazzato.

– Ma no. Guarda che respira, ’sto stronzo.

– C’era bisogno di usare una pietra così pesante?

– Quella che ho trovato. E per fortuna che siamo arrivati in tempo.

Sentì la puzza di fritto di Paranza vicino, ed ebbe la certezza di averla scampata bella. Il suo corpo riprese immediatamente vigore. Sentì fame.

Lo aveva letto, da qualche parte, in qualche manuale. Era una delle possibili reazioni ad uno shock. O a uno scampato pericolo.

SE MI GIRA AMMAZZO LA PORTINAIA di Emanuele Finardi

Si dice spesso che il pesce rosso abbia una memoria limitata a pochi secondi, ma questo non è completamente vero. La memoria dei pesci rossi può essere definita selettiva, vale a dire hanno una qualche coscienza di ciò che è accaduto in precedenza, ma non sanno esattamente che cosa. Possono essere addestrati a svolgere compiti semplici, come a mangiare solo in un’area della loro boccia o acquario. In questo caso sanno istintivamente che in quell’area c’è qualcosa di buono, ma non ricordano cosa. Se appare un predatore nella loro zona, il pesce rosso si nasconderà per diverso tempo per istinto, ma senza sapere da cosa si nasconde: sa solo che è meglio nascondersi. Il modo in cui i pesci rossi si raggruppano nuotando suggerisce che siano in qualche modo consci del proprio colore o forma, ma non è detto: probabilmente per questa specie l’autocoscienza è un asintoto.

Luca Villani amava i pesci rossi. Anzi, viveva e pensava come un pesce rosso. La sua vita si svolgeva dentro un acquario rotondo. Troppo piccolo e sempre uguale.

Luca era un personaggio strano: aveva sempre torto.

Aveva torto ogni mattina appena si svegliava. Ogni mezzogiorno quando usciva di casa. Ogni sera quando rientrava verso le otto dal lavoro. Ogni notte quando guardava fuori dalla finestra. E aveva torto perché non possedeva la tv.

Sembrerà strano, ma Luca Villani non aveva la tele e aveva invece un sacco di pesci rossi: tutti allineati nelle loro bocce trasparenti su diversi scaffali della

cucina. Tutti pesci rossi rigorosamente comuni, da luna park. Ad una certa ora della sera parlavano tutti insieme: per attirare le rosse nella propria tana emettevano un ronzio basso e continuato, vagamente ipnotico, simile al rumore di un frigorifero. Nonostante non vi fossero femmine in giro, era loro rimasta questa abitudine ancestrale che a Luca serviva per sentirsi un po’ più normale, visto che non aveva il frigorifero.

Luca Villani era in torto pieno anche per un’altra grave questione: diceva grazie e prego. Sempre. Dunque, anche a volerlo, come dargli ragione?

E, non contento, spesso sorrideva alla gente. Senza motivo, per pura cortesia. Questo poi dava agli altri un fastidio terribile, perché si sentivano sempre presi in giro.

Si era ripromesso varie volte di sorridere con discrezione ma poi sul più bello se ne dimenticava, e così si beccava le peggiori reazioni, nonostante le migliori intenzioni. L’apice di questa catastrofe lo toccava con la portinaia. Una donna bassa e torva, malamente flaccida, che usava la scopa come un’arma letale e il cui hobby preferito era spazzare le scale tutto il dì a mo’ di copertura per intercettare i pettegolezzi più freschi da pianerottolo. Custodiva così le tavole della Legge del Condominio: a lei spettavano le indagini più accurate e le sentenze inappellabili.

Quando la incontrava, a Luca tornava in mente una frase di Camus: “per diventare famosi basta ammazzare la portinaia”.

Avrebbe voluto tanto diventare famoso, ma il suo problema era stato sempre confrontarsi con la realtà senza il giusto tempismo, sin dalla nascita quando il medico chiamò il prete a benedirlo credendo che da lì a poco sarebbe deceduto. Invece non successe, e dentro gli rimase pertanto l’idea che non sarebbe in fondo

mai morto, oppure che se questo fosse successo sarebbe finito comunque dritto dritto in paradiso.

Per estensione arbitraria gli rimase anche attaccata l’impressione che nessuno poteva veramente morire. Nemmeno ad ucciderlo. Oppure - come accade al pesce rosso - se proprio fosse accaduto il fatto si poteva cancellare in un attimo dalla memoria.

Così ingenuo, emotivamente ed intellettualmente, aveva sviluppato una educazione e un contegno eccessivi per la società cui era contemporaneo: amava le enormi inezie del momento, la banalità del quotidiano, e le trasformava in miracolo. Tutto da solo. Tutto dentro il suo acquario. Senza sufficiente ossigeno.

Questa ingenuità divenne un problema vero quando iniziarono ad ammazzare ragazze belle in città. Tutte annegate nella vasca. Morte asfissiate.

Come firma l’assassino lasciava sempre un pesce rosso a nuotare attorno al corpo inerme. E la boccia vuota per terra sul pavimento con a fianco un tubetto di mangime, per evitare che l’animale potesse avere disagi nell’arco di tempo che avrebbe preceduto l’arrivo della polizia.

L’assassino, era chiaro, si preoccupava più della salute del pesce che di quella della povera vittima. Amava i pesci rossi più delle belle donne in carne ed ossa.

Molte ne vennero ammazzate. E in poco tempo. Per cui la Polizia - e in primis il suo ispettore capo - divenne molto nervosa.

Lo interrogarono subito: perché le sue abitudini strane erano conosciute nel quartiere, e perché i poliziotti non sapevano che pesci prendere.

A Luca avevano insegnato ad aspettarsi molto dal prossimo, ma rimaneva sempre molto deluso. Nell’ultimo periodo a ben vedere sempre di più. Nonostante l’impegno che ci metteva, in giro non trovava traccia di regole di convivenza, nemmeno un brandello di morale.

Continuava comunque a fare del suo meglio, al meglio che poteva, dentro il suo mondo; solo che non appena tentava di affacciarsi fuori questa sua bontà veniva sempre meno riconosciuta, quasi che tutti lo lo decodificassero immediatamente, con certezza assoluta, come un avversario o un menagramo. Da scansare.

L’ispettore capo - di prassi meno fantasioso - lo individuò invece subito come un sospetto e, vista la veemenza dei suoi interrogatori, Luca presto avrebbe rimpianto il ruolo di menagramo. Venne spremuto per una notte intera, senza successo. Anzi, il fatto di comportarsi come un pesce - di rare parole e inudibili ai più - rese gli inquirenti ancor più nervosi: si sentivano sbeffeggiati, e in loro cresceva la convinzione di avere tra le mani il vero colpevole. Nonostante questo parere, ormai comune dentro il commissariato, lo fecero tornare a casa. Almeno per il momento. Per studiarne le mosse...

Il punto di vista condiviso era da sempre il suo nemico: pubblico e rispettato.

Probabilmente era un problema di faccia. E di pelle. Non nel senso del colore, ma riguardo la sua ipersensibilità. Luca si accorgeva di questo soprattutto la notte quando era nella fase di dormiveglia dentro il suo acquario: la sua cute pensava!

In particolare, a seconda della parte del corpo che veniva stimolata dall’esterno ad occhi chiusi si manifestavano delle visioni diverse: luci ad intermittenza, oggetti in movimento, alimenti e bevande, strade terrestri e iperuraniche, figure geometriche molto simili a bellissime robocop oniriche fluttuati sott’acqua. Era come se la scorpacciata di vite immaginate nell’insonnia precedente, al momento di coricarsi iniziasse a vorticare di fronte a lui nell’attimo in cui iniziava a dormire.

La questione spinosa era che poi alla mattina non era più in grado di riconoscere il sonno dalla veglia e, visti i magri successi della sua esistenza vigile, tendeva a preferire la sua identità e le sue compagnie notturne.

Dentro questa dimensione dilatata infatti poteva chiudere gli occhi e camminare un pochino in pace senza che nessuno lo ammazzasse con lo sguardo. Poteva ricostruire gli ambienti come si faceva con le costruzioni Lego: partendo da elementi di base di una semplicità disarmante, otteneva un risultato finale stupefacente ed incredibilmente elaborato. Le possibilità di combinazione di mosse, rotazioni e trasferimenti di peso erano pressocché infinite. Gli sembrava una cosa intima, quella che stava realmente abbracciando era la musica dell’onirico. Fluida e liquida.

Si sentiva libero e senza doveri, poteva evitare di pensare a ciò che stava per fare. Si sentiva un pittore, in un cosmo ove l’unico aporto necessario era l’emozione. Ogni notte la tela era diversa e diversi erano pennelli e tinte, perché i pigmenti erano umori. Col tempo era diventato un mago a dipingere il silenzio. Al buio aveva imparato a sentire segnali impercettibili come il ronzio dei pesci rossi in amore, a trovare una intesa in un lieve contatto, a proporre i movimenti alle mani senza invadenza e ad adattarsi alla natura di chi aveva davanti. Avendo imparato il gusto morbido della varietà, cercava equilibri e scambi sempre differenti; per caso o per scelta, sorteggiava pertanto come muse donne sempre diverse. Poco importa se questa intesa avesse avuto o no a che vedere con il sesso. Fatto sta che molto di quello che aveva conosciuto del mondo femminile, gli era stato trasmesso in sogno a tempo di pittura.

Certo, delle volte al mattino gli capitava di pensare che fosse come fare l’amore, perché si sentiva esule dall’unico posto dove avrebbe voluto stare. Ma in verità quel dipingere coi sensi nel dormiveglia gli aveva regalato una nuova, scintillante, dote: la capacità di sentirsi in sintonia con gli estranei. Un adattamento darwiniano: quindi un nuovo senso d’abbandono positivo mai sperimentato prima, con il corpo che pare conosca a memoria persino i mai fatti, trova sincronie sue, accelera o rallenta a seconda di chi incontra.

Non ha alcuna importanza il luogo dove tutto questo avviene, perché oltre il bordo del quadro tutto rimane sfocato, coi toni attutiti, e il cuore è leggero. Praticamente le sue opere erano diventate come le camere degli amanti, che sembrano anonime ma non lo sono. Descrivevano non solo l’armonia di due corpi bensì di due mondi differenti: il maschile con la sua necessità ed attesa di attenzione verso i risultati conseguiti, e il femminile, col richiamo verso se stesso e le sue cose. Dentro quel luogo l’uomo s’aspetta la lusinga della donna; la donna s’aspetta un buona intesa, un buon abbraccio, d’essere tenuta in considerazione, e che non le si pestino le scarpe nuove o le si stropicci il vestito di seta: preferisce un uomo che compia pochi movimenti, eseguiti bene e con sentimento, ad un uomo che vuol mostrare solo destrezza col suo repertorio di maschere da seduttore.

Rinfrancato da queste sicurezze, Luca decise dunque di accettare le regole della recita che gli sembrava il mondo attorno a lui avesse edificato con implacabile dedizione. Decise di farlo perché gli sembrava di riconoscere in sé la qualità più importante non solo del pittore ma anche dell’attore: la pazienza.

Avrebbe così dato in pasto a tutti la sua malinconia e la sua flemma, che aveva sino ad allora tenuto in serbo misteriosamente in se stesso come doti assolute. Come ogni artista - e come ogni assassino - aveva anche lui il suo buco di dolore ancestrale, e da quello sarebbe partito - affrontandolo finalmente senza timore e deferenza - per interpretare la sua parte.

La parte che gli chiedeva la gente. E la polizia.

A convincerlo definitivamente che quello era lo scatto giusto - che doveva are ad un ruolo più attivo nella rappresentazione - fu uno sguardo sorprendente ricevuto dalla portinaia mentre varcava l’atrio del palazzo. Essendo la iena flaccida portavoce dell’opinione prevalente del condominio, per osmosi quella mattina tutto il giro scale lo stava guardando per la prima volta con un misto di odio e timore. Non più la solita, noiosa, brodaglia espressiva fatta di noncuranza e fastidio: il presente era una nitida occhiata con dentro una scintilla di orrore.

Ma il bello è che questo stigma non sarebbe durato un attimo, e non si sarebbe limitato alla portinaia: in poco tempo tutti gli inquilini, uniti a tutti gli abitanti del quartiere, e della città intera, avrebbero iniziato a guardarlo in un altro modo. E a portargli rispetto.

Questo generò in lui piano piano un furtivo senso di potenza, come se avvertisse di essere portatore insano di una forza distintiva, prometeica. Di un ascendente quasi divino. Vedeva quindi rispecchiato nella realtà diurna - che finalmente abitava senza ricevere insulti - un nuovo insospettato carisma, e la cosa splendida era sentire che questo afflato di devozione aumentava di giorno in giorno senza alcuna fatica, senza calcoli, senza strategie complicate. Bastava fare in modo di essere convocato al commissariato almeno due, tre volte la settimana, e uscire ogni tanto da casa con un pesce rosso sotto il braccio, invece che col cane come fanno le persone normali.

Ebbro di tale superiorità, si permise il vezzo di dare un piccolo aggiustamento alla fisiognomica, così, tanto per compiacere ulteriormente il suo pubblico: si accorciò i capelli e si fece crescere un bel pizzetto di barba curata. Il tutto gli dava un tono generale più deciso e convinto. Senza esagerare, era diventato

quasi un bell’uomo.

Per festeggiare, uscito dal barbiere decise quella mattina di are dal bar a fare colazione, invece che recarsi direttamente al lavoro. Mentre si gustava il suo caffè e la sua brioche venne attirato da uno schermo dove veniva trasmesso un servizio su un famoso serial killer ancora in libertà. Che ammazzava le donne nella vasca. Che amava i pesci rossi più delle belle donne. Che gli assomigliava. Non del tutto, ma ancora di più dopo la cura dal barbiere.

Tanto bastava... ed era evidentemente bastato a tutti.

Avreste dovuto vedere le pupille accese dell’ispettore capo, mancava poco che si commuovesse quando lo rivide quello stesso pomeriggio. Era perfetto. Il perfetto colpevole muto come un pesce: da vestire a piacimento di congetture, indizi, ricostruzioni della scientifica, spiegazioni, deduzioni e moventi.

A volte la memoria si impiglia da sola dentro momenti o figure; in altri casi bisogna un po’ aiutarla con piccoli ritocchi di stile. Ma il revival è un doping immortale, non serve molto per rigenerarlo: basta essere un po’ vampiri e un po’ mummie, perché ogni ritorno si attende proprio perché contiene storia ed enigma. Il conosciuto e il mai completamente svelato.

Decise di non incriminarlo ufficialmente per godersi ancora un po’ il gusto del successo certo, delle prime pagine strillate a nove colonne. Lo avrebbe fatto da lì a pochi giorni, appena tornava il Questore dal ponte di Pasqua. Tanto ormai era assolutamente sicuro di avere vinto. L’Ispettore Capo.

Luca uscì dunque dal commissariato con la tracotanza bonaria dell’attore che

torna in scena a sipario chiuso, come se stesse donando un bis ai suoi fan disseminati sul marciapiede del quartiere. Nel frattempo, il fruttivendolo sussurrava ad una cliente che la portinaia la sera stessa avrebbe organizzato una cena con amici per attenderlo sul momento di rincasare, e allargare la visione dello spettacolo a nuove platee incuriosite e vocianti. E voraci.

A Luca questa attenzione ex novo faceva bene: gli sembrava improvvisamente di riconoscersi come qualcuno nel mondo fuori, lontano dalla sua camera e dal suo oblò di vetro, come se avesse ritrovato per strada il pezzo di specchio che gli era sempre mancato. Il frammento disperso di una felicità non compiuta. Dentro un guscio di etica qualunque. Terribile ma efficace.

Come il pesce rosso si sentiva padrone di una qualche memoria, si riconosceva vagamente di qualche colore e forma, percepiva incidentalmente i suoi nemici e amici, si sentiva adatto a svolgere un compito semplice e sempre uguale legato a qualcosa che lo avrebbe soddisfatto e saziato.

In altri termini, seppur in un cosmo piccolissimo e claustrofobico, si era abituato ad una vita da protagonista. Si era affezionato a ricevere attenzione e riverenza e ad essere additato come una piccola star locale. Gli pareva dunque di aver completato i suoi decenni di clausura e poteva perciò finalmente rilassarsi anche a casa, godendosi con nuova emozione le voci dei vicini dalla finestra della camera. Poteva ora sentire quello che c’era intorno, senza modificarlo con la plastilina della fantasia come l’aveva costretto il ato.

Riusciva ad udire il rumore di una vita più normale. Il profumo di cucine con odori capaci di nutrirlo. Era ormai primavera (appena iniziata) e - imbizzarrito di lievità - prese dunque addirittura possesso con baldanzosa tracotanza del suo piccolo balcone per respirare a pieni polmoni queste nuove fragranze nell’aria.

Il continuo ritorno di questo rituale benefico gli permetteva di allontanare il suo demone: lo metteva infatti definitivamente al riparo dal futuro. Era dentro una vita che non gli apparteneva del tutto, ma esisteva, c’era, era tangibile. E tanto gli bastava, anzi gliene avanzava pure. Sapeva quanto le parole attorno a lui col tempo lo avevano reso per il popolo cattivo, iroso, instabile, accanito, pericoloso. Sapeva che ogni giorno veniva meno ai suoi vecchi propositi. Sapeva di aver perso la educazione. Ma sapeva anche che se il buono è scontato, l’orrore invece sa farsi perdonare.

Grazie ad un piccolo soffio provvidenziale di brezza, mentre era appollaiato beatamente sulla ringhiera sentì la sigla familiare del TG e con quella gli sembrò di toccare persino l’allegria di una famiglia che non aveva. Si immaginò la tovaglia imbandita con la pasta fumante a troneggiare, il vino rosso nel bottiglione, la soave tranquillità venata appena di caldo che solo la fine estrema di marzo dopo il tramonto talvolta riesce a dare.

Decise di fermarsi fuori e ascoltare da parassita l’audio del telegiornale proveniente dalla famiglia intorno alla tavola: nonostante la notorietà accumulata non aveva infatti ancora comprato per sé una tv. Il frigo sì, perché aveva letto sui libri di criminologia che faceva tanto serial killer...

Erano le otto in punto. Era giunto il momento. Sapeva che sarebbero venuto a prenderlo da lì a poco, in lontananza aveva sentito poco prima le sirene della polizia e sicuramente il suo amico Ispettore Capo stava organizzando una azione coordinata e sufficientemente sceneggiata in maniera da dare alla stampa il tempo per piazzarsi davanti al suo portone.

Ci sarebbe stata sicuramente anche la portinaia a guardare da vicino e a farsi intervistare. E il fruttivendolo. E il barbiere. Tutti. Una folla. Che bello. Proprio un bel finale da film. Degno della sua nuova vita.

Attraverso il cortile gli arrivarono le parole del mezzobusto incravattato, rese progressivamente chiare dal silenzio di chi era seduto a cena e si stava ammutolendo di leccornie preparate dalle mamme, dalle mogli, dalle nonne, da se stessi, da cuochi con consegna a domicilio. Decise di dare una ultima occhiata alla sua collezione di pesci rossi e di godersi il suo ultimo scampolo sonoro di telegiornale da uomo libero.

Dopo il sommario, che ascoltò distrattamente, la notizia di apertura - una ultima ora appena arrivata in redazione a scompaginare la scaletta - lo sorprese e lo fece vacillare come preso da violenta vertigine: pochi istanti prima avevano arrestato il serial killer. Nella sua stessa città, nel suo stesso quartiere.

Gli si aprì sotto i piedi una vera voragine. Si sentì sul punto di morire e stavolta privo dell’estrema unzione che lo avrebbe spedito in cielo tra i buoni. Stavolta morto per sempre. E con la memoria indelebile del fatto.

Possibile che fosse successo davvero?

Come mai lui era ancora pacifico sul balcone senza manette?

Possibile che la città non l’avesse avvisato? Che gli angoli e i muri che hanno visto il suo successo montante avessero mantenuto il segreto?

Infine - e soprattutto - possibile che la portinaia non l’avesse fermato per dirglielo quando l’aveva visto salire?

In effetti gli sovvenne che non l’aveva degnato di uno sguardo, quella sera maledetta, persa com’era con la faccia nella televisione.

La mattina dopo quando si svegliò come da un incubo ebbe la conferma: avevano arrestato il serial killer. E non era lui.

Gli dispiacque. Molto.

Doveva fare qualcosa. Doveva uscire. Doveva riprendersi la sua identità presunta.

Mentre faceva le scale di corsa ripensò per un attimo alla frase di Camus: chissà, magari avrebbe potuto recuperare con una nuova impresa delittuosa il suo status di idolo...

– Se mi gira ammazzo la portinaia – masticò tra i denti mentre girava l’ultima rampa.

Ma non ebbe il tempo di completare il suo piano criminoso interamente cerebrale...

Qualche attimo dopo la portinaia avrebbe tentato di fargli lo sgambetto con la scopa. E ci sarebbe riuscita.

Era il primo di aprile: il giorno del pesce.

IL VICOLO di Adriano Frazzoni

Il vicolo puzzava di cavolo marcio e urina.

Una nebbia untuosa saliva dalle grate dello scantinato di una cucina cinese.

Un gatto si allontanava miagolando da una piccola carcassa.

Strani liquami giacevano sull’asfalto formando pozzanghere che il maldestro cadavere non aveva avuto l’accortezza di evitare. La sporca luce del solitario lampione era aiutata dalle torce dei poliziotti.

La voce mi aveva svegliato nel pieno della notte, gonfia di fredda sensualità:

– C’è un cadavere a pochi i da casa sua: scopra chi lo ha ucciso. La pagherò bene. Non cerchi di contattarmi, mi farò viva io. Dimenticavo: il morto è una sua vecchia conoscenza – clic.

Un investigatore privato riceve decine di telefonate simili, fortunatamente non a quest’ora di notte. Di solito finiscono in una bolla di sapone, ma questa voce aveva una sincerità tagliente che subito mi incuriosì.

Il sonno era scomparso.

Mi districai a fatica e a malincuore da favolose gambe. Frettolosamente accatastai un po’ di vestiti su di me e uscii di casa.

L’indirizzo che mi aveva dato non era lontano, mi incamminai.

Scelsi di non prendere l’auto, ammesso che il rottame si fosse deciso a partire.

L’aria gelida di quell’aprile bastardo e volubile mi svegliò completamente. Infilai inutilmente la mano nella giacca per una sigaretta: maledizione, mai che mi ricordi di avere smesso. Che investigatore sei, senza una sigaretta?

E anche senza clienti da diverso tempo, mi risposi, altrimenti col cavolo che mi sarei staccato da Mary: avevo ancora due o tre cosette da verificare.

Camminavo in una città che se ne fregava di me, del morto, del corpo di Mary, e continuava la sua maledetta vita notturna fatta di annoiati silenzi, interrotti dal rumore dei disperati che a questa ora lavorano, godono, soffrono, vivono, muoiono su queste dannate strade.

Giungo nel vicolo pieno di agenti, alcuni tizi della scientifica, qualche inutile medico. Luci di ambulanze, macchine della polizia: sembra una festa di paese, peccato per quello steso sull’asfalto che non può apprezzare lo spettacolo.

– Salve Tom – salutai il tenente che stava parlando con un agente – sempre con le mani nelle fogne.

– Guarda che brutte facce si trovano a quest’ora! Non dirmi che soffri di insonnia! O stavi forse cercando qualche puttanella per tirar mattino?

– La tua gentilezza mi commuove, ma devo deluderti: sono qui per lavoro. Dammi qualche notizia.

– Vedi quell’uomo in tuta? È stato lui a trovarlo, ma non ha visto assolutamente nulla che possa aiutarci. L’unica cosa che posso dirti è che ha trovato l’uomo ancora in vita. Quando si è avvicinato chiedendogli se serviva aiuto gli ha detto: purtroppo temo di no... e pensare che stavo per rompere il ghiaccio. Tutto qui. Toglimi una curiosità: come hai fatto a sapere che qui c’era lavoro per un privato?

– Un uccellino si è posato sul davanzale e mi ha mandato un messaggio picchiettando sul vetro: non ci crederai, ma mi ha subito convinto! Ah, dimenticavo, mi ha anche detto che conosco il morto: posso vederlo?

– Lo conosci certamente, è il tuo amico pescivendolo, quello che hai preso a pugni la settimana scorsa perché ha allungato le mani su Mary: vedi come siamo bravi noi poliziotti? Ho un morto, un movente, l’assassino che si lascia guidare dal proverbio e torna sul luogo del delitto: ti arresto e vado a dormire!

– I bravi poliziotti sono quelli che fanno alzare quelli scadenti a quest’ora di notte, spedendoli in vicoli puzzolenti. Come è stato ucciso?

– Un colpo a bruciapelo. Arma di piccolo calibro. A prima vista l’opera di uno

specialista o di qualcuno che il morto conosceva bene. Forse stavano discutendo nel vicolo. Ti saprò dare maggiori notizie domani, dopo il rapporto della scientifica: allora, posso arrestarti?

Mi avvicinai al cadavere con alcune cosine che mi frullavano per la testa: un morto che non faceva alcuna fatica a mettere le mani addosso a qualunque sottana gli capitasse a tiro, una voce femminile che mi annuncia un omicidio e quella frase del morto, sicuramente rivolta ad una donna, conoscendo il tipo.

Stavano spostando il cadavere e prima che chiudessero il sacco feci a tempo a vedere il foro bruciacchiato sulla sinistra del giubbotto.

– Ancora una cosa – disse Tom – e una cosa strana. Il morto aveva tra le mani un sacchetto di plastica rotto, rotto probabilmente dal proiettile. Rimane da spiegare cosa contenesse. Pensaci. Ciao!

Salutai Tom e rimasi a gironzolare.

Il sole si stava alzando, disturbato dal viavai della piccola folla, dalle sirene. Si intrufolò nel vicolo illuminando le poche macchie di sangue, altro tassello nel lurido mosaico composto sul pavimento della piccola strada.

Un piccolo bagliore attrasse la mia attenzione: a pochi i dal disegno che ricordava un omino di Haring, giaceva un piccolo pesce rosso, risparmiato dal gatto, ma non dalla mancanza di acqua. Era forse quello il contenuto del sacchetto del morto? Forse. Inutile avvisare la polizia della scoperta, se ne stavano andando: meglio non fargli perdere ulteriore tempo, vista la levataccia.

Mi avviai verso l’ufficio.

Le vie della città mi accolsero vomitandomi addosso volti assonnati, litigiosi, delusi da un nuovo, piatto risveglio. Automi che salivano sugli autobus o scendevano le scale della metropolitana. Potenziali assassini solo per la rabbia di dover vivere.

Lungo la strada entrai in un anonimo bar. Alla seconda tazza di nero, qualche rotella cominciò a girare per il verso giusto: quella voce, quella della telefonata, la conoscevo. C’era qualcosa di famigliare, peccato non ricordassi cosa! Non mi restava che rivolgermi a Tom chiedendogli di rintracciare la chiamata. Gli telefonai, raccontandogli il meno possibile – sto andando in ufficio, chiamami quando hai notizie – terminai, per sentirmi rispondere:

– Bravo, rimani reperibile: se non trovo altro, o ad arrestarti più tardi.

Mi accolse il malsano, confortevole disordine di una stanza che con una scrivania e poche sedie avevo elevato al rango di ufficio.

L’altro locale era momentaneamente vuoto e solo tra qualche ora Susan l’avrebbe riempito di sana carne e inutili chiacchiere di segretaria.

Mi giunse la chiamata di Tom:

– Furba l’amica, ha chiamato da un telefono pubblico. Potrei rintracciare la

scheda, ma è un lungo lavoro: ti dice nulla la zona di...? – e nominò uno dei quartieri più granosi della città. Pensai a quel nome e cercai di collegarlo con quella zona buia del cervello in cui vagava la mezza idea che la seconda tazza di caffè aveva fatto sorgere, ma nulla da fare.

– Al momento nulla, ma ho una cosa da controllare, scusa se mi rendo irreperibile per qualche ora. Bye.

L’intuizione era giunta improvvisa: non era ancora il collegamento che cercavo, ma era una pista su cui lavorare. Stavo prendendo il cappello quando qualcosa di grosso si abbatté contro la porta. Mi girai per guardare, ma qualcosa di ancora più grosso mi raggiunse al volto. Non persi subito i sensi e questo mi permise di soffrire parecchio, ma anche di vedere due volti e un naso che avrei riconosciuto tra mille. Poi qualcosa si ruppe e fu buio.

Mi risvegliai con la testa appoggiata a qualcosa di dolcemente tenero: – Ciao Susan – volevo dire, ma il lavoro che mi avevano fatto era da veri specialisti, avevo la bocca a pezzi e sicuramente anche qualche costola: ogni respiro era una pugnalata.

– Ti serve un medico – disse premurosamente Susan.

In qualche modo gli feci cenno di no e cercai faticosamente di alzarmi.

Mi avvicinai alla scrivania e disinfettai la bocca sanguinante con due bicchieri di rum: il dolore intenso dell’alcool sulle ferite mi aiutò a schiarire le idee. Bel lavoro senza dubbio. Dolore tanto, ma mi avevano lasciato in circolazione: forse questo è stato un errore, bella signora. Avevo associato alcuni particolari e già

qualche tessera aveva trovato il posto giusto.

Chiesi l’auto a Susan, tranquillizzandola sul mio stato:

– Non temere, vado a fare un giretto nel parco per rilassarmi. – Dallo sguardo compresi che l’interpretazione non era stata sicuramente da oscar, ma mi allungò comunque le chiavi.

Guidavo con attenzione per i continui reclami delle costole, ma non ci volle molto ad arrivare nei pressi di una lussuosa abitazione. Feci una telefonata:

– Buongiorno, è in casa la signora... sono il sarto dovrei chiederle un chiarimento... certo, certo, attendo in linea.

Dopo diversi minuti risentii quella sensuale, gelida voce. Quando dissi chi ero, mi interruppe, arrogante:

– Bella l’idea del sarto, ma pensavo di essere stata chiara quando ho detto di non contattarmi!

– Molto chiara, ma sono stati ancora più chiari i due ragazzi che ha mandato per portarmi la colazione – sentii stupore dall’altra parte, ma continuai – ha fatto presto a pentirti di avermi dato l’incarico, ma bastava una telefonata, non doveva disturbarsi e spaccarmi un po’ di ossa.

– Le giuro che non ne so’ nulla... non posso parlare ora. C’è un bar in fondo alla strada, il Black Ice, ci vediamo lì tra venti minuti.

Andai, scelsi un tavolo in tranquilla penombra e aspettai.

La conoscevo solo da foto su giornali e apparizioni televisive, ma la riconobbi immediatamente: era un animale di un altro pianeta. Quando si sedette, togliendosi gli ampi occhiali neri, dimenticai per un attimo la mascella e le costole a pezzi, ma un piccolo movimento mi fece ricordare tutto, con rabbia.

– Non mi piace farmi picchiare, soprattutto all’alba e soprattutto da qualcuno che ha chiesto il mio aiuto.

– Non c’entro in tutto questo, che mi creda o meno.

– Allora perché la telefonata di questa notte? Soprattutto, come ha saputo dell’omicidio e dei rapporti che avevo con il morto? – Fissai occhi che non si abbassarono minimamente: era abituata a tenere testa a qualcosa di meglio di un privato dal volto malconcio.

– La telefonata è un consiglio di un caro amico e da lui ho saputo tutto.

La guardai sorridendo. – Per telefonarle a quell’ora l’amico deve essere veramente caro e deve essere anche decisamente nei guai. Vuole la mia versione? L’amico ha beccato il pescivendolo che le usava un po’ troppe cortesie, hanno litigato: più tardi si sono rivisti e il suo amico ha sparato. Per lo

stesso prezzo le offro una seconda ipotesi: la prima parte è uguale, ma cambia il finale poiché in questo è la donna che spara. Poi mi spiegherà anche se suo marito ha una parte in tutto questo, perché lei rimane la moglie di uno boss, anzi del boss!

La guardai, questa volta senza sorridere e vidi che avevo colto nel segno. Attesi la sua risposta, sperai nella sua discolpa. Quando riprese a parlare il tono era molto meno sicuro e deciso:

– Per la prima parte ha ragione lei. Ho commesso l’errore di rimanere da sola con il pescivendolo, ha cercato di baciarmi, di mettermi le mani addosso, ho reagito e in quel momento è arrivato... è arrivato l’amico. Lo ha afferrato e sbattuto fuori dalla stanza. Se ne è andato promettendo vendetta, ma è finito tutto lì, mi deve credere.

– Era quasi alle lacrime: odio vedere piangere una donna.

– Posso crederle, ma chi mi assicura che uno di voi due non sia uscito e abbia raggiunto il futuro morto: cosa direbbero i domestici se io o la polizia fimo qualche domanda?

– Che siamo usciti entrambi, ma non per uccidere: siamo andati a casa di... dell’amico – si fermò, titubante, ma le bastò un:

– Continui se vuole veramente che cerchi di levarvi dai guai...

– Appena giunti ha chiamato uno sconosciuto avvisando che il pescivendolo lo aspettava nel vicolo. Temendo un ricatto è andato, ma lo ha trovato disteso a terra ed è fuggito. È la verità mi deve credere!

– Quello che posso pensare non ha molta importanza se non troviamo il colpevole. Cosa ci faceva il pescivendolo a casa sua?

– È da anni in affari con mio marito. Credo che da lui acquisti buona parte del pesce che vende in negozio.

– Il commercio ittico è una delle tante attività “legali” di suo marito, che servono per coprire attività un pochino meno “legali”.

– In casa non parla mai di affari... non lo ha mai fatto.

E tu eviti tutto quanto possa danneggiare questa bolla d’oro che è la tua vita, a parte l’amico. Mi hai deluso ragazza.

– Ultima domanda. Cosa ci faceva quell’omone dal grosso naso nel mio ufficio, con l’evidente ordine di spaccarmi un po’ di ossa? Quando lei appare in televisione è sempre al suo fianco e sembra comandarlo a bacchetta.

– Non so assolutamente nulla di questo. Peter è solo una guardia del corpo. Lavora per chiunque lo paghi. Oggi potrebbe averlo fatto per chissà chi... – anche il tuo amico, pensai, ma lo tenni per me.

Avevo avuto nuove informazioni, ma al momento non servivano ancora a chiarire tutto.

Ci accordammo per risentirci l’indomani e uscimmo, dividendoci, anche se gli occhi, senza alcun permesso da parte mia, la seguirono a lungo.

Cercai rifugio e qualcosa da mettere sotto i denti rimasti, entrando nel bar dove ero solito andare, zittendo Ben che stava per fare commenti sulla faccia che mi ritrovavo.

Tra le bottiglie di liquore notai un rotondo vaso di vetro. All’interno un vivace pesce rosso, guizzante come un’intuizione, ma dal vaso imprigionato come embrionale idea che non vuole crescere.

Mangiai qualcosa, tra le litigate al biliardo e il russare di qualche ubriaco.

Il locale di Ben sopravviveva alternando un comatoso torpore a improvvise zuffe, come la città, dove solo la violenza dava sussulti ad un piatto elettroencefalogramma.

Nella calma rissosa del locale, cominciai a metter giù il mio personale schema per le indagini.

Nel mezzo la birra (il morto), a destra sale e pepe (la moglie e l’amico), a sinistra l’aceto (il boss, nonché marito), sotto, tra birra e aceto, il pane (il pesce).

Guardai a lungo lo schema spostando i vari elementi solo per condire un misero uovo e poche foglie di una stanca insalata. Sopra alla birra aggiunsi gli stuzzicadenti (il testimone), l’olio (la polizia) mentre tra le mani tenevo una bottiglietta di salsa ammuffita (i bastardi dal pugno facile) ancora indeciso sulla sua posizione.

Osservavo lo schema e la boccia del pesce rosso, con lo sguardo che camminava ansioso, avanti e indietro, sull’immaginario corridoio che dal tavolo portava allo scaffale dei liquori.

Impiegai diverso tempo e feci alcune modifiche, ma quando posizionai la bottiglietta della salsa qualcosa cominciò a girare per il verso giusto, gli oggetti prendevano vita e stavano raccontandomi una storia davvero interessante.

Ascoltai con attenzione il racconto e decisi di agire, ma questa volta era necessario l’aiuto della polizia: non ero nelle condizioni di fare l’eroe.

Chiamai Tom spiegandogli solo lo stretto necessario per invogliarlo ad aiutarmi e per procurarsi un mandato di perquisizione.

Ci accordammo per trovarci davanti al locale, ma come al solito arrivai per primo, anche se non è un gran vanto battere la polizia.

Parcheggiai poco distante e attesi.

Improvviso, un furgone mi superò, frenò violentemente davanti al magazzino

che stavo controllando. Scese un uomo, aprì il portone e sparì all’interno assieme all’automezzo. Mi guardai attorno: di Tom e dei suoi scagnozzi nemmeno l’ombra. Parlai un attimo con le ossicine ancora intatte e decidemmo di entrare in azione. Conoscevo il posto e cercai l’ingresso secondario, armeggia con la carta di credito, scaduta ma efficace, ed entrai.

Buio, puzza, freddo: bella accoglienza! Più avanti rumori, il furgone con il motore . Mi avvicinai lentamente, sfiorando centinaia di cadaveri. I due del furgone stavano velocemente finendo di caricare il mezzo con decine di bianche “bare”.

– Riposatevi un attimo ragazzi, non fa bene sudare con questo freddo, potreste prendervi un colpo – e misi ben in mostra la pistola. – Sto aspettando amici desiderosi di vedervi.

I due del furgone ubbidirono senza parlare, i due del furgone. Anche il terzo non parlò, ma quando mi accorsi della sua presenza, il braccio, ma soprattutto la mazza, stavano già calando sulla mia testa.

Questa volta al risveglio non trovai il dolce viso di Susan, ma il ghigno di Tom:

– Salve. Voi privati vi addormentate sempre sul più bello e vi perdete il finale!

Avrei voluto offenderlo tanto, ma senza di lui forse ora seri in un buio frigorifero assieme a tanti piccoli cadaveri.

Sforzandomi di sorridere:

– Hai lavorato bene anche senza di me?

– Senza di te tra i piedi ho lavorato meglio. Comunque avevi visto bene: la droga era in piccoli sacchetti dentro ai blocchi di ghiaccio che usavano per refrigerare il pesce. Il pescivendolo se ne era accorto, probabilmente una partita è giunta per errore al negozio. Ieri sera era sicuramente in casa del boss per ricattarlo o comunque per ricavarci dei soldi, ma ne ha guadagnato solo un buco nel cuore.

– Sai chi è stato a sparare? Vorrei fosse stato quel nasone schiacciato di Peter, ho un conto in sospeso con lui.

– No, quello è solo una guardia del corpo e un picchiatore. Uno dei tre del furgone ha fatto il nome di uno scagnozzo del boss. Dobbiamo verificare. Ma tu, come hai fatto a scoprire tutto?

– Ho uno schema matematico che mi aiuta nelle indagini: è infallibile.

– Dovrai insegnarmelo prima o poi.

– Sì, quando andiamo a mangiare da Ben. Ah, ricordami di regalarti un pesce rosso a Natale! – gli dissi, sorridendo.

Mi guardò senza capire e si allontanò, chiamato dagli agenti.

Mi alzai, muovendo lentamente il capo: per fortuna questa volta nulla di rotto. Ripensai a tutta la storia, allontanandomi lentamente.

Il Boss tra le sbarre, ammesso si fosse trovato un giudice abbastanza coraggioso, la moglie libera di frequentare l’amico, con discrezione perché le sbarre sono comunque larghe e la vendetta può uscirne con estrema facilità. Un poliziotto privato restituito quasi integro al suo lavoro e, importante, con un piccolo gruzzoletto che lo aspettava: anche Mary speravo mi aspettasse, ma non puoi esserne mai sicuro con una che possiede due gambe come le sue.

Volete una morale? Eccola: anche uno del mestiere può non conoscere la storia del pesce grande che mangia il piccolo.

Scesi in strada, era già buio. Le vie della città mi accolsero vomitandomi addosso volti frenetici, litigiosi, delusi da un nuovo risveglio che li avrebbe attesi solo tra poche ore. Automi fuori controllo che precipitavano dagli autobus o spuntavano le scale della metropolitana. Potenziali assassini solo per la rabbia di dover vivere.

IL MARCHIO DEL SOPRUSO di Sabrina Grappeggia Bernard

– Guardi signor Commissario che io sono stata STUPRATA! – urlò la signora storcendo la bocca in una specie di spiacevole smorfia.

– Signora Della Valle, si calmi, capisco il suo stato d’animo, lo shock e tutto il resto, ma non parlerei proprio di stupro, lei sta esagerando!

– Ma cosa ne sa lei, caro Commissario Monteverde, lei che se ne sta seduto tutto il giorno tranquillo dietro alla sua mediocre scrivania in laminato!

– Si calmi, non dica spropositi...

Il commissario si stava innervosendo. Sentiva in lui bollire la collera. Avrebbe voluto reagire. Ma non poteva. L’insopportabile signora era la nipote di un rinomato ministro.

Impossibile arrabbiarsi. Impossibile farlo come avrebbe dovuto.

Respirò una lunga boccata d’aria inzuppata di profumo e sudore. Il profumo era quello della signora, forte, dolciastro e nauseabondo. Il sudore probabilmente era il suo. Avvicinò discretamente il suo lungo naso alle ascelle per cercare di verificarne il sospetto. Sì, il sudore era proprio il suo.

Pazienza.

– Ma... mi sta ascoltando signor Commissario? Guardi che questo reato è inaccettabile!

– Sì, lo so signora, il suo non è un caso isolato...

– E dovrei rallegrarmene? – lo interruppe lei stizzita.

– No, certo che no...

– Allora conto su di lei. Spero che questo ignobile criminale sarà arrestato al più presto!

Si alzò di scatto, dirigendosi verso la porta. Si aggiustò l’ampia pelliccia di visone lanciando uno sguardo glaciale al commissario.

– Guardi come sono conciata adesso, – ruggì lei, mostrando all’uomo il suo polpaccio martoriato.

Le calze color carne erano lacerate.

Sollevò la gamba di qualche centimetro offrendola per un istante alla vista del suo interlocutore.

Poi uscì sbattendo la porta.

Il Commissario fece un sospiro di sollievo, ripensò al polpaccio della signora e senza riflettere scoppiò a ridere.

Il Commissario Nicola Monteverde era stato trasferito da poco a Piacenza. Aveva lasciato a malincuore Ascoli ed aveva cercato di adattarsi al grigiore del nord. Nonostante la sua iniziale reticenza si era facilmente adattato alla sua nuova città e alle sue dolci colline circostanti.

Ci sono delle inspiegabili sensazioni che a volte ti fanno amare un posto a prima vista senza un perché, o forse con mille perché che però non hai voglia di cercare o analizzare.

Un po’ come quando incontri una persona e ti piace subito.

Insomma, a Piacenza Nicola ci stava bene.

Quando aveva un po’ di tempo se ne andava in collina, nel Val di Nure, percorreva chilometri e chilometri in macchina lasciandosi cullare dal paesaggio ondulato di quelle belle e verdi alture.

Ogni tanto Irene lo accompagnava.

Si fermavano in un agriturismo isolato.

Mangiavano allegramente buoni e abbondanti piatti genuini accompagnati da un vino rosso leggero e frizzante che bevevano in una scodella di ceramica come si usa fare da quelle parti.

Ridevano, parlavano, si stuzzicavano. Poi allegri e ubriachi se ne andavano in camera lasciandosi trasportare dal voluttuoso piacere dei sensi.

Peccato che Irene fosse sposata.

Nicola sapeva che dalla vita non si può sempre avere tutto.

Irene lavorava a Libertà. Era giornalista e si occupava di cronaca nera.

Si erano incontrati in un tiepido giorno di marzo. Irene aveva preso appuntamento per incontrare il nuovo commissario.

Appena era entrata in ufficio, Nicola si era sentito travolto da quel suo odore di donna, di femmina.

Lei si era avvicinata disinvolta con un sorriso leggero.

Si erano stretti la mano.

A Nicola quella donna era piaciuta subito. Un po’come Piacenza.

Un mese dopo erano diventati amanti.

– Dunque ricapitoliamo: cinque vittime, tutte donne. Età dai venti ai sessanta. Nessuna ha visto l’aggressore. Sono state tutte attaccate di spalle.

Irene se ne stava nuda, a cavalcioni su Nicola. Gli stava massaggiando la schiena. Una bella schiena. Muscolosa e asciutta. Aveva però i muscoli della zona cervicale piuttosto tesi.

Il letto era sfatto, disordinato. Le lenzuola sembravano tante piccole onde impregnate d’odore di sesso e piacere.

– Irene... basta con questa storia per favore, ma non hai altro a cui pensare?

– Signor Commissario, potrebbe mostrare un po’ di spirito collaborazione... – rispose lei in tono scherzoso.

Nicola si girò bruscamente. Afferrò la donna per le spalle e la rigirò agilmente buttandola sulla schiena tra i cuscini.

Rideva. Era bella.

Avrebbe voluto dirglielo, ma non lo fece.

– Nick-Nick... per favore dai... lo sai che questo caso mi interessa, per una volta che succede qualcosa di bizzarro su cui scrivere... – miagolò lei.

– Non chiamarmi Nick-Nick!

– Va bene Nick.

– No, non va bene nemmeno Nick!

– Uffa!

Adesso faceva la faccia da bambina imbronciata.

Impossibile resisterle.

La baciò. Chissà come sarebbe stato se non fosse stata sposata chissà se...

– Nicola ?

– Sì?

– Sto aspettando.

– Cosa?

– Grrrr...

– Va bene, va bene mi arrendo.

Si allungò al suo fianco.

– Comincia tu – propose Nicola.

– Va bene. Dunque, cinque donne in sette mesi. La prima è stata aggredita a Ponte dell’Olio il tre di luglio poco lontano dalla gelateria, l’unica del paese credo, la seconda nel borgo di Castel Arquato, a due i dal Torrione, la terza a San Giorgio Piacentino di ritorno da una visita di preghiere alla Madonna delle Rose, la quarta a Bettola in una strada laterale a Piazza Cristoforo Colombo

vicino alla chiesa e la quinta a Piacenza. Ieri. La Signora Della Valle. La tua simpatica amica impellicciata!

Irene fece una pausa, lo guardò divertita poi continuò:

– Tutte le vittime sono state attaccate di spalle, immobilizzate e addormentate con un fazzoletto imbevuto di cloroformio. Poi il malfattore ha proceduto...

– Brava, vai avanti...

– Il nostro misterioso aggressore, attrezzato di aghi e colori ha tatuato le sue vittime.

Un pesce rosso, sul polpaccio destro. Disegnato in modo rudimentale aggiungerei!

La voce di Irene scivolò in una graziosa risata.

– Ma Nicola... te la vedi la Della Valle con un tatuaggio sul polpaccio?

Anche Nicola rideva.

– Infatti era incazzata nera.

– Un pesce rosso poi...

– Chissà cosa significa?

– Sicuramente si tratta di un simbolo-feticcio. Il nostro aggressore pur non avendo commesso nessun omicidio, sembra veramente avere un comportamento da serial killer.

– Forse dovremmo chiamarlo serial tatooer...

– Le vittime, a parte il tatuaggio, non hanno subito nessun altro tipo di violenza vero?

– Nessuna.

– Sono state immobilizzate, addormentate, tatuate manualmente in modo grossolano, con aghi ed inchiostro rosso. Il serial non ha utilizzato nessun apparecchio elettrico.

Il disegno è piccolo e basilare. I tratti del disegno semplici. Potrebbe essere stato eseguito in circa dieci minuti. Il criminale non è mai stato avvistato. Le aggressioni hanno sempre avuto luogo di notte. Le vittime, fortunatamente non hanno contratto nessuna malattia, né Aids, né epatite. Gli aghi non erano infetti.

– Magari erano pure sterili.

– Dici?

– Non so... un professionista del settore avrebbe usato degli aghi monouso, per praticità o semplicemente per deformazione professionale.

– Quindi pensi che si tratti di qualcuno che lavora nel settore?

– Non è escluso.

– Ma il tatuaggio è stato fatto in modo estremamente elementare...

– Sì, ma lo scopo non era quello di fare un bel tatuaggio... poi c’era il problema del tempo, dello stress.

– Cosa ha detto la tua bellissima Psicologa Criminale, la dottoressa Angelica Caio?

La voce di Irene si era fatta pungente. Lo sguardo era acre.

– Piantala di fare quella faccia da gelosa!

– Non faccio la faccia da gelosa!

– Che faccia è allora?

– La faccia di quella che è pronta ad ascoltare l’analisi della tua psicologa preferita!

– Sinceramente non ne conosco altre di psicologhe.

– E non conosci nemmeno nessun altra donna con delle gambe così lunghe e belle come le sue...

– Beh insomma, anche le tue non sono male...

– Sì, ma le sue sono magnifiche!

– Irene, non capisco, ma sei gelosa di me, che guardo le gambe della psicologa o sei gelosa della psicologa perché vorresti avere le sue gambe?

– Tutte e due!

Nicola si mise a ridere. Irene pure.

– Allora vuoi sapere cosa mi ha detto?

– Sì.

– Allora, la psicologa mi ha detto che il pesce rosso potrebbe essere il simbolo di un uomo che ha paura delle donne. Un uomo, probabilmente traumatizzato da un infanzia difficile. Un’infanzia dominata da una figura materna autoritaria o violenta che avrebbe influito sulla sua personalità.

Il pesce rosso è un animale innocuo, muto. Caratteristiche che probabilmente si accomunano al nostro criminale e che ci fanno inevitabilmente pensare all’impotenza sessuale. Il colore rosso evoca il sangue. Qui ci sono due teorie. La prima è che il colore rosso rappresenti il sangue che il nostro serial tatooer vorrebbe veder sgorgare dal corpo delle sue vittime. La seconda invece è che il colore rosso simbolizzi il sangue del mestruo della donna, quello di sua madre, o forse più semplicemente il sangue che scorre nelle sue proprie vene e che viene riprodotto e concretizzato attraverso la simbologia del pesce rosso. Il serial tatooer con il disegno del pesce vuole rappresentare se stesso, con il colore rosso invece vuole mettere in evidenza l’eredità del sangue trasmesso con la filiazione. Contrapposizione del bene e del male, dell’innocuo e del malefico.

– Ma scusa, ma il nostro serial non potrebbe essere una donna?

– Certo che sì. Una donna con un complicato rapporto madre-figlia. Una donna che teme e odia le altre donne. Tutte queste ipotesi sono valide anche al femminile.

– Interessante... è davvero un peccato che questa psicologa sia pure intelligente! Per fortuna che in questo momento, il mio commissario si trova tra le mie cosce...

Irene lo baciò.

– Vedo che non hai più voglia di parlare di questo “caso” che poco fa ti interessava così tanto...

– No infatti, adesso ho voglia di qualcos’altro!

C’erano due laboratori di tatuaggi a Piacenza, due a Parma e uno a Salsomaggiore. Il commissario Monteverde li aveva già visitati tutti. Decise però di effettuare una seconda visita. Mandò due dei suoi agenti a Parma e a Salsomaggiore.

Lui e il suo vice, il dott. Eugenio Granelli, avrebbero rivisitato quelli di Piacenza.

– Eugenio tu vai in quello di corso Garibaldi, io invece mi faccio quello di Via Cittadella, ok?

– Ok capo.

I due uomini si separarono.

Il Commissario entrò nel negozio.

Un ragazza biondissima con lunghe dreadloks lo accolse. Non ricordava di averla interrogata prima.

– Buongiorno, posso aiutarla?

– Buongiorno, sono il commissario Monteverde vorrei parlare con il proprietario, il Sig. Carlo Stutti.

– Mi dispiace oggi non c’è.

– Posso farle qualche domanda? Da quanto tempo lavora qui?

– Solo due settimane, ma conosco Carlo da un sacco di tempo.

Il commissario posò le foto delle donne tatuate sul banco.

– Cosa ne pensa di questi tatuaggi?

La ragazza guardò le foto attentamente.

– Sono tatuaggi molto spartani, piuttosto brutti. Il pesce rosso è appena accennato, suggerito dai contorni.

– Sì, in effetti...

– Ci sono molte persone che si fanno tatuare dei pesci?

– In genere sono delfini, non pesci rossi!

La ragazza si stiracchiò alzando le braccia. La maglietta corta si alzò. Nicola notò sull’ombelico della ragazza un piccolo percing contornato da un tatuaggio a mezzaluna rappresentante un pesce rosso.

– Mi scusi... ma vedo che lei ha un tatuaggio di un pesce rosso intorno all’ombelico!

– Certo, ma il mio è bello. È un pesce Giapponese. Un tatuaggio elaborato, ha un sacco di dettagli, guardi che belle tutte le squame. Carlo ci ha messo quasi un pomeriggio intero per farmelo.

– E cosa rappresenta?

– In Oriente la carpa, insomma il pesce rosso, rappresenta la perseveranza, il coraggio, il superamento degli ostacoli e il raggiungimento delle mete...

– Un simbolo interessate...

– Concordo.

– Lei lavora qui tutti i giorni?

– No, lavoro a part-time, come Giacomo. Giacomooo vieni qui!

Un ragazzo sui vent’anni si avvicinò serio. Aveva i capelli rasati. Era slanciato e muscoloso. Indossava una maglietta aderente senza maniche, sorprendentemente leggera per un mese di gennaio. Nessun tatuaggio era visibile sul suo corpo.

– Buongiorno, – disse il commissario.

Il ragazzo fece un leggero cenno con il capo.

– Ci siamo già incontrati un mese fa – disse Monteverdi.

Poi si rivolse di nuovo alla ragazza.

– Lei invece come si chiama?

– Mi chiamo Mikka, diminutivo di Michela. Mikka è il mio soprannome e nome d’arte.

– Bene Mikka, lei che cosa ne pensa di questi tatuaggi forzati?

La ragazza rise.

– Penso, che il mio punto di vista non abbia grande importanza... ma ciò che posso dire è che non mi dispiace che alla Della Valle sia successa una cosa del genere.

– La conosce?

– Sì, è una gran stronza, ho lavorato per lei qualche mese. Le portavo a eggio i cani.

– E perché è stronza, come dice lei?

– Perché tratta la gente come merda.

– … e per caso conosce qualcun’altra delle vittime?

Mikka esitò. Nicola la vide impallidire.

– Allora?

– Ecco... veramente... sì.

– Chi?

– La signora Grandi aggredita a Ponte dell’Olio... era la mia prof d’inglese al Liceo.

– Interessante, e...

– La signora Vanini tatuata a San Giorgio Piacentino era la... la mia... prof d’Italiano alle medie.

– E...?

– La ragazza di Castel Arquato, Milena Farri era una mia ex compagna di classe.

– E magari conosce anche la signora aggredita a Bettola?

Mikka fece un gran sospiro. Sembrava sollevata.

– No, quella invece non la conosco.

Mikka era davvero scocciata.

Adesso si trovava in commissariato, nell’ufficio di questo Monteverde, attorniata da due agenti dallo sguardo scuro per un interrogatorio. Ma, cavolo, proprio a lei doveva succedere una cosa del genere?... Eh che cazzo!

Era davvero arrabbiata. Ma perché poi aveva parlato? Parlava sempre troppo.

– Dunque signorina, due delle signore tatuate, erano sue professoresse. La Grandi al liceo artistico Bruno Ci e la Vanini incece alla Scuola Media Statale Italo Calvino...

– Esatto, – rispose la ragazza.

– Ha lavorato per la Della Valle come accompagnatrice di cani?

– In effetti...

– Conosce la Signorina Milena Farri di Castel Arcuato?

– Sì, prima viveva a Piacenza, si è trasferita l’anno scorso.

– Lei frequenta ancora il liceo?

– No, ho finito a giugno. Adesso sono iscritta al Politecnico di Milano alla facoltà di architettura.

– Brava! – Mikka fece una smorfia.

– Ma non le sembra strano che tutte le vittime facciano parte delle sue conoscenze?

– Guardi che nella mia classe al liceo eravamo ventisette e tutti conoscevano la Grandi e la Ferri!

– E quanti conoscevano la Vanini, la sua prof d’italiano delle medie? Quanti suoi compagni di liceo erano in classe con lei anche alle medie?

Mikka rifletté un attimo prima di rispondere.

– Solo uno, – annunciò la ragazza.

Sembrava spiaciuta di aver parlato.

Giacomo, se ne stava seduto immobile nell’ufficio del Dott Eugenio Granelli. Il Vice di Monteverde.

Guardava per terra.

Aveva indossato un giubbotto di pelle marrone sopra alla maglietta sbracciata.

Sembrava una statua.

– Il suo nome è Giacomo Rossi?

Il ragazzo annuì.

– Conosci la Signora della Valle?

Giacomo assentì.

– Conosci la signora Grandi, e la Signora Vanini, vero?

Giacomo non rispose.

– Conosci quindi per conseguenza anche la Ferri, poiché frequentavate la stessa classe al Ci!

Nicola non aspettò nessun segno di conferma da parte di Giacomo.

– Ma dimmi, la signora aggredita a Bettola, la Signora Sara Morri, la conosci?

Giacomo mosse impercettibilmente la testa in avanti.

– Cosa vuoi dire? La conosci? Chi è?

Giacomo respirò profondamente, poi con un soffio di voce disse: – È mia madre.

Nicola ritornò come una furia nel suo ufficio.

Mikka stava ancora seduta su una sedia di fronte alla sua scrivania. Stava bevendo un caffé.

– Ho bisogno di te! – vociferò il commissario.

– Cosa è successo? – chiese lei preoccupata.

– Giacomo ha confessato.

– Ha confessato?

– Sì e no.

– Sì o no?

– Quando gli ho chiesto se conosceva le vittime, ha assentito. Quando gli ho chiesto se era lui il misterioso tatuatore di pesci rossi ha confermato con un leggero segno di testa. In seguito non ha voluto più dire niente. Non parla ed io voglio capire.

– Giacomo è bravo ragazzo non posso credere che sia stato lui!

– Invece credo proprio di sì.

– Dimmi tutto ciò che sai di Giacomo...

– Giacomo è... un ragazzo poco loquace, ma buono e semplice. Non ha avuto una vita semplice. Sua madre è rimasta incinta giovanissima e non ha mai voluto dire chi fosse il padre del bambino. All’epoca era una ragazzina, faceva uso di molte droghe. Sola per qualche anno, si è quindi occupata di Giacomo sfogando su di lui la sua rabbia e la sua follia. Un giorno per esempio dopo aver ingurgitato diverse droghe mischiate ad una buona dose di alcool si è scaraventata su di lui picchiandolo come una forsennata. Giacomo rischiò di rimetterci le penne. Lo ritrovarono con diverse costole rotte e un trauma cranico importante. Ancor oggi, diverse cicatrici testimoniano di tutta la violenza subita in quella e in altre molteplici occasioni. Sua madre lo torturava spesso con vetri di bottiglie rotte. Si divertiva a intagliargli il corpo mentre dormiva. Allora lui si svegliava piangendo mentre lei inerte guardava il sangue del bambinello sgorgare dalle ferite che gli aveva inflitto. La sua cicatrice più profonda, quella sulla quale, questa sadica donna si è più volte accanita, riaprendola ripetutamente, si trova sul polpaccio destro ed ha una strana forma.Una forma di...

– Di...?

– Di pesce – rispose la ragazza.

Mikka fece una pausa.

– E poi?

– In seguito Giacomo venne affidato ai servizi sociali e sua madre fu incarcerata. La notizia fece clamore. Una “famiglia bene” di Piacenza ottenne la possibilità di adottare il bambino.

Per questo Giacomo di cognome fa Rossi.

– Ah capisco meglio...

– Ma è sempre stato così silenzioso?

– Giacomo parla pochissimo. Ogni tanto dice qualche parola a bassa voce. In genere risponde a monosillabi.

– Ho notato. È quasi muto come un pesce – mormorò tra sé e sé Nicola. – Ma tutte queste cose come le hai sapute?

– Me le ha raccontate Giacomo per chat.

– Capisco... Cosa ne pensano di lui le altre persone?

– Dipende, per me e per Carlo Stutti, il mio capo, Giacomo è un ragazzo eccezionale, un vero artista.

– Su questo non ho dubbi. Ma cosa pensavano di lui i suoi professori. Cosa pensavano di lui la Grandi e la Vanini?

– Per loro Giacomo era un idiota, lo umiliavano in continuazione.

– … e La Milena Farri la vostra ex compagna di liceo, cosa mi dici di lei?

– Una gran troia.

– Cioè?

– Si è fatta prestare dei soldi da Giacomo, lo ha sedotto, lo ha spennato e poi è andata in giro a dire a mezzo liceo che Giacomo era impotente.

– Lo è?

– Non mi chiamo Milena Farri... io!

– Ok, lasciamo perdere!

– E la Della Valle cosa c’entra in tutto ciò? Anche lei lo ha trattato come un idiota?

– No, ha trattato me come un’idiota!

– Ah, e tu cosa sei per Giacomo?

– Io sono io. Mikka, la sua amica, la sua confidente, la sua voce, forse qualcosa di più.

– Penso proprio di sì.

– Grazie Mikka adesso puoi andare.

– Ma cosa farete di Giacomo?

Mikka aveva le lacrime agli occhi.

Mi dispiace Mikka. Gli troveremo un buon avvocato.

La ragazza si alzò lenta e si diresse verso la porta.

Nicola la guardò allontanarsi con quella sua chiara chioma da leonessa africana e quei pantaloni troppo larghi che celavano il suo gracile e minuscolo corpo.

Nicola era solo adesso.

Dalla finestra del suo ufficio guardava il cielo grigio imbevuto di nubi e di foschia. C’era gente per strada. Sembravano tutti affrettati.

Erano quasi le tredici. Forse correvano a pranzo in un ristorante del centro o forse a casa per mangiare un bel piatto di pasta preparato da una moglie premurosa.

Si mise il cappotto ed uscì.

L’aria fuori era fredda e il suo fiato formava tante piccole tiepide nuvole opache.

Non aveva di voglia pensare, voleva solo dimenticare.

Dimenticare il suo lavoro.

Dimenticare la vita di quei poveri cristi che ogni tanto incrociavano la sua.

Dimenticare Giacomo, i suoi occhi seri, quella sua voce soppressa nella gola e quel suo giovane corpo segnato per sempre dal sopruso.

Nicola si accese una sigaretta.

I suoi i erano lenti e stanchi. La sua sagoma a poco a poco si sciolse nella

leggera nebbia di quel giorno.

LA VINCITA di Massimiliano Lopresti

Aveva guardato e riguardato decine di volte nel vaso argentato convinto che la sua piccola vincita non poteva, prima o poi, che materializzarsi di nuovo. Milleduecentoventiquattro euro equivalevano più o meno ad uno stipendio mensile di insegnante e lui non poteva capacitarsi del fatto che quella cifra, quelle banconote miste ai pochi spiccioli, fosse scomparsa nel nulla. L’aveva incassata appena due giorni prima nella ricevitoria in cui aveva tentato la fortuna, nemmeno troppo vicino a casa sua.

L’unico sospetto era caduto sulla colf peruviana che due volte a settimana andava a fare pulizia nella sua abitazione. Arrivava alle tre del pomeriggio e se ne andava alle cinque: egli, il professore, si accomodava in salotto e leggeva il giornale in vestaglia, senza mai muoversi dal divano. Proprio davanti al vaso argentato. Un pensiero gli sussurrava insistentemente che la signora peruviana era l’unica che negli ultimi due giorni aveva varcato la porta della sua casa e che quindi non poteva che essere lei la ladra; poi, però, un’altra voce lo spingeva a ripercorrere le due ore in cui la colf aveva lavorato per lui e così si convinceva di non essersi mai mosso dalla sua poltrona. Ricordava perfettamente di aver letto un lungo articolo sulla condizione femminile in Cina e di aver pensato per almeno mezzora alla crisi della sua squadra del cuore, cercando di realizzare quali potessero essere le soluzioni adatte per venirne fuori: concluse che la vecchia guardia, più che il cambio dell’allenatore, potesse risolvere la situazione. Era tra l’altro sicuro di non essersi mai addormentato per il semplice fatto che non dormiva mai, nemmeno per un secondo, di pomeriggio.

Quando, comunque, aveva dei dubbi atroci riguardo a qualsiasi situazione avvenuta nel salotto usava, per vecchia abitudine, piazzarsi davanti a Jack, il suo pesce rosso, e rivolgergli le sue domande, alle quali il pesce puntualmente rispondeva. Anche stavolta fece così e chiese a Jack se si fosse addormentato anche solo un minuto dalle tre alle cinque del pomeriggio del giorno prima; se Jack avesse sostenuto la sua tesi avrebbe girato, come faceva di solito, tre volte

su se stesso. E il vecchio Jack confermò al professore che non aveva chiuso gli occhi.

Dato che c’era, per sicurezza, il professore chiese al suo vecchio e fedele pesce se avesse riposto la sua piccola e preziosa vincita nel vaso argentato e Jack, che condivideva l’idea del suo padrone, girò tre volte su se stesso: dunque il professore aveva nascosto la vincita nel vaso posato in uno dei nove riquadri della libreria nera agganciata al muro del suo salotto in stile moderno.

Il professore percorse nella sua mente tutti i movimenti fatti negli ultimi due giorni. Il mattino precedente si era recato a scuola dalle otto e mezza alle undici e mezza, poi si era fermato nella ricevitoria di via Formilla per ritirare la cifra vinta e se ne era andato a casa; si era guardato intorno ed aveva deciso che il posto sicuro per i soldi fosse il vaso argentato nella libreria nera, aveva mangiato un panino riscaldato nella piastra, con lattuga, formaggio e salame, ed aveva guardato i Tg regionale e nazionale in attesa che arrivasse la peruviana; Mara, questo il nome della colf, fu puntuale e subito, dopo l’abituale caffè preso insieme in cucina, si mise a stirare le camicie, sempre in cucina, per circa mezzora e poi, nel tempo rimanente, ò lo straccio in bagno e in cucina, come era stato stabilito per quel giorno della settimana. Alle cinque in punto il professore, come sempre, presso la porta dell’ingresso dette il dovuto e congedò l’educatissima peruviana. Fino a quel momento non poteva essere successo nulla, come gli aveva pure confermato Jack. Guardò la televisione mezzora. Ricordava benissimo di aver chiuso la porta a tre mandate, alle cinque e mezza, ora in cui abitualmente andava a fare una breve eggiata sotto i portici della sua città: lì incontrava il suo vecchio amico Campanetta, un professore di Scienze e Matematica ormai in pensione e, di tanto in tanto, il preside Arena, persona amabilissima e per niente noiosa. Campanetta e il professore, quel giorno il preside non c’era, eggiarono per un’ora e poi come sempre si salutarono; discorsero di argomenti non scolastici, come erano soliti fare, ma non fu svelata dal professore la vincita fatta il giorno prima. Lo considerava un segreto anche perché, superstizioso com’era, pensava che gli altri potessero in qualche modo danneggiarlo. La giornata del nostro, alle sei e mezza, non era finita, perché per abitudine ava al circolo della Juventus, intitolato al glorioso terzino Cabrini, per parlare un po’ di calcio e raramente fare una partita

a carte; ai suoi amici juventini illustrò tutti i pensieri fatti nel pomeriggio e quindi propose un ritorno della vecchia guardia, al momento accantonata dall’allenatore, che lui stimava molto e che quindi non andava per nessun motivo esonerato; tutti i presenti gli dettero addosso perché sostenevano che l’allenatore avesse idee troppo vecchie e che ci fosse l’esigenza di ingaggiare un mister innovativo: naturalmente ognuno avanzò il proprio candidato, ottenendo il biasimo degli altri. Verso le sette e un quarto il professore caricò, come sempre, sulla sua vecchia macchina utilitaria suoi tre amici del circolo Cabrini e li lasciò, nel tragitto verso casa sua, davanti alle loro abitazioni: anche quella sera Mario detto il putto, Chiarino e Peretti salirono sulla sua macchina; il putto fu fatto scendere dopo circa 500 metri, Chiarino dopo altri 200 metri circa e Peretti continuò la corsa, come d’abitudine, fin sotto casa del professore (poiché abitava in un palazzo vicino). Ci fu, però, rispetto al solito, un piccolo cambiamento di programma: Peretti chiese la macchina all’amico professore per dieci minuti perché doveva andare a comprare in un negozio sito a circa un chilometro due lampadine da sostituire a quelle che si erano fulminate la sera precedente; il professore non ebbe alcuna obiezione da fare e prestò la macchina, come già due volte in ato, all’amico Peretti. Intanto per lui c’era l’ultimo impegno prima di rientrare a casa: doveva comprare il pane e il latte alla signora del piano di sotto, una vecchina che ormai non usciva da casa da parecchi anni; il professore, proprio nel negozio di generi alimentari dirimpetto il suo palazzo, comprò il pane, che ogni giorno gli veniva conservato, e il solito mezzo litro di latte portato direttamente da alcuni allevatori di montagna. Prima di entrare nel negozio quasi all’orario di chiusura guardò l’orologio, e vide proprio con i suoi occhi il Peretti dirigersi nella direzione prestabilita; poi salì dalla vecchina che stava al piano sottostante al suo e si intrattenne con lei per ascoltare qualche vecchia storia di cui lui non poteva fare a meno; amava, in particolare, sapere degli anni della seconda guerra e della ripresa degli anni cinquanta: gli piacevano le storie legate ai primi elettrodomestici e a come questi cambiavano la vita e il modo di vedere le cose delle persone: sognava addirittura di scrivere un libro su tale argomento, quando avrebbe acquisito tutto il sapere che era necessario. Si affacciò un paio di volte per vedere se il Peretti fosse ritornato e finalmente alle 19 e 31 l’utilitaria guidata dall’amico comparve; salutò la vecchina dandole appuntamento alla sera successiva e scese velocemente le scale per prelevare le chiavi della macchina dal Peretti, che lo ringraziò mille volte per il favore accordatogli e che si dilungò un paio di minuti per spiegare come la moglie gli aveva portato via tutto, compreso la macchina. Il professore ascoltò pazientemente e finalmente fece ritorno a casa, dove si adagiò sul divano per qualche minuto e poi si preparò una cena frugale, a base di verdura amara, di cui

lui era golosissimo. Lavò velocemente il piatto, la forchetta e la padella e si mise davanti al televisore per godersi l’ottavo di finale di Coppa Italia, GenoaCagliari; trovò la partita avvincente e nella sua mente memorizzò le caratteristiche di qualche calciatore che sarebbe stato utile alla Juventus del futuro. Finita la partita andò a letto. Il mattino seguente si alzò appena in tempo per vestirsi, farsi la barba e arrivare alle otto e mezza a scuola. Anche stavolta, se lo ricordava bene, chiuse a tre mandate la porta. A scuola rimase fino alle dodici e mezza con sua grande soddisfazione perché nell’ultima classe ebbe l’occasione di parlare dei tanto amati elettrodomestici e del cambiamento che essi procurarono nella vita degli uomini. Tra sé e sé pensò al giorno in cui avrebbe pubblicato il suo libro e allo stupore che avrebbero avuto gli alunni che gli stavano davanti quando avrebbero letto il suo nome sulle copertine dei giornali. Al termine dell’orario scolastico si era intrattenuto solo pochi minuti con la bidella, curioso del lavoro all’uncinetto che essa stava facendo: i due concordarono che la scuola aveva il compito di tramandare alle generazioni future quei saperi che si stavano irrimediabilmente perdendo e che, quindi, sarebbe valsa la pena di organizzare un corso serale di uncinetto. Si diresse verso casa con l’idea fissa del corso, così concentrato da non accorgersi nemmeno degli automobilisti che si lamentavano, in qualche modo, dei suoi abbaglianti accesi. Accompagnò con un bicchiere di vino rosato la cotoletta impanata che conservava in frigorifero e poi, con il giornale preso a scuola, si spostò in salotto. Dopo pranzo era sua buona abitudine leggere un quotidiano. Davanti alla poltrona luccicava più che mai il vaso con la foglia d’argento che gli era stato regalato da una sua lontana zia tanti anni prima, forse in occasione del suo quarantesimo compleanno. Dentro c’erano i soldi della vincita. Come guidato da una forza superiore posò il giornale per terra e si alzò, afferrò il vaso e sentì con sua somma soddisfazione lo scroscio delle monete; si cullò per qualche secondo prima di guardare dentro il vaso per provare la bellissima sensazione che quei soldi gli fossero stati regalati da chissà quale spirito benigno.

Ma dentro, a parte le monete, non v’era nulla. Stropicciò gli occhi più di una volta quando realizzò quel terribile vuoto e sentì uno scoramento mai provato prima quando la sua mano non afferrò che un’aria viziata. Vuotò il vaso e gli spiccioli caddero per terra.

Con una mossa disperata agitò con forza il vaso come se dalle sue pareti potessero resuscitare le banconote. Ma ancora nulla. Fece qualche o indietro e sbigottito sprofondò nella poltrona. Aveva ancora il vaso in mano, sempre più vuoto. Con uno scatto d’ira graffiò la foglia d’argento e poi, con la stessa mano, si grattò fortemente la testa. Pensò a chi poteva avergli fatto una cosa del genere, a chi gli poteva aver rubato i soldi. Lui solo aveva le chiavi della sua casa e nella porta non c’era alcun segno di forzatura. Anzi, al suo ritorno da scuola, aveva contato le mandate (Uno, due, tre!) come faceva di solito.

Istintivamente pensò alla colf peruviana. Si chiese se al prossimo appuntamento si sarebbe presentata, già nella speranza di darle una lezione che non avrebbe dimenticata facilmente. Era troppo presto per fare ragionamenti compiuti e, anche se sapeva di non aver abbandonato un attimo la poltrona e di non essersi addormentato su di essa, le colpe caddero sull’unica persona che negli ultimi due giorni poteva aver varcato la porta di casa sua. Ripercorse secondo per secondo le due ore ate con la colf, e soprattutto i momenti iniziali e il saluto finale. Delle due voci che lo assalivano abbiamo già raccontato. Di come il pesce Jack avesse scagionato la peruviana pure.

E allora chi se non la colf? Credette di avere un’illuminazione quando pensò alla vecchina che poteva avergli sfilato le chiavi durante una delle loro conversazioni serali, forse approfittando del suo entusiasmo verso un racconto, magari inventato, sugli elettrodomestici negli anni sessanta, ma poi si rese conto che quella supposizione era del tutto sconclusionata. Poi gli venne in mente che qualcuno aveva potuto duplicare le sue chiavi per introdursi in casa sua quando lui era assente. Le opzioni erano tante e davanti ai suoi occhi arono molti visi. Pensò con infinita tenerezza a Sara, la donna con la quale aveva avuto una relazione molti anni prima e che mai era riuscito a dimenticare: per un attimo sperò che fosse lei la ladra e che tale evenienza potesse farli incontrare di nuovo. Ma questa era pura follia. Si rese conto che quel gioco l’avrebbe fatto impazzire e convenne che la cosa migliore sarebbe stata quella di assumere un comportamento normale, almeno per come poteva. Per prima cosa decise di uscire di casa e di fare il suo solito giro.

Alle cinque e mezza incontrò l’amico Campanetta e il preside Arena e camminò sotto i portici sforzandosi di ascoltare i loro discorsi e di dire qualcosa di non troppo scontato. Alla fine gli chiesero se stesse bene e lui, sorpreso dalla domanda, se la prese. Si capiva che qualcosa lo disturbava perché non era bravo a simulare. Comunque decise di non rinunciare alla rituale visita al club intitolato al campione del mondo Antonio Cabrini, perché qualche parola sulla sua amata squadra del cuore gli avrebbe permesso di tirarsi su di morale.

Dopo poco meno di tre quarti d’ora fece salire Mario, Chiarino e Peretti sulla sua macchina e fece scendere i primi due alle distanze prestabilite; notò che Peretti, quella sera, aveva cambiato parere su come risolvere la crisi della Juventus, perché aveva sposato la sua idea di dare fiducia all’allenatore; al club Peretti era famoso per la sua testardaggine e per il fatto che voleva sempre avere l’ultima parola su qualsiasi argomento riguardante la Juve. Sotto casa il professore salutò Peretti, quasi sovrapensiero, comprò il pane e il latte al negozio quasi in chiusura e salì dalla vecchia per l’abituale incontro serale.

Stavolta non si parlò di elettrodomestici, come se finanche l’idea del libro fosse svanita, e il professore rimase affacciato dalla finestra più di quanto fe di solito; pensò fugacemente al Peretti e al suo comportamento insolito. Augurò la buonanotte alla vecchina e salì le scale molto lentamente. Contò fino a tre e la porta si aprì. Entrò in salotto e guardò il vaso argentato: non riuscì a resistere alla tentazione di guardarci dentro per vedere di nuovo il vuoto. Si affacciò dalla finestra del suo salotto sulla strada deserta e dondolò la testa per qualche secondo. Poi si piazzò davanti al pesce rosso e gli chiese se corrispondesse a verità la storia che gli era appena venuta in mente. Peretti, che era andato in ricevitoria insieme al professore e che si era allontanato dopo la sua giocata, grazie al suo ottimo udito era riuscito a sentire i numeri che il professore aveva dettato e sapeva, quindi, della sua piccola vincita; il giorno dopo si inventò la storia delle lampadine fulminate e chiese la macchina in prestito al professore sapendo che questi lasciava le chiavi di casa in un borsellino nel vano portaoggetti laterale; Peretti, ottenuta la macchina in prestito, girò l’angolo, parcheggiò ed attese tre minuti circa, il tempo necessario per comprare il pane e il latte e per salire dalla vecchina, e poi velocemente entrò nel palazzo dalla porta sempre socchiusa, salì le scale e aprì la porta dell’appartamento del professore;

andò in salotto e, ricordando la volta in cui il professore aveva detto che lo scadente vaso regalato dalla zia avrebbe potuto prendere valore solo con qualcosa dentro, a colpo sicuro mise le mani nel vaso e prelevò la vincita. Poi chiuse la porta a tre mandate, scese le scale con o felpato, uscì dal palazzo con l’argento vivo addosso, raggiunse la macchina, si schiarì la voce e tornò con fare tranquillo sotto lo sguardo del professore affacciato sulla strada. Dieci minuti esatti.

Il professore guardò il pesce e quasi sperò che non girasse tre volte su se stesso. Jack rimase fermo venti secondi, poi girò tre volte su se stesso.

ULTIMO GIRO AL LUNA PARK di Luca Marchioro

– Ditemi tutto quello che sapete – chiese il commissario Eugenio Bui, ai suoi uomini che erano giunti prima di lui, sul luogo dell’omicidio.

– Comandi commissario – intervenne l’ispettore Floris. – Si chiamava Giovanna Renzi, 29 anni, proprietaria di una tintoria in centro, non aveva legami sentimentali e viveva da sola. È stata accoltellata al cuore. I colleghi della scientifica stanno facendo i dovuti rilievi.

– Segni di scasso? – chiese ancora Eugenio.

– No commissario, nessun scasso. L’hanno trovata questa mattina due amiche che sono venute a prenderla alle sette, dovevano andare in montagna, e avendo le chiavi, sono entrate come sempre, trovando però questa volta, un macabro diversivo.

– La porta era chiusa a chiave?

– La porta era chiusa regolarmente, ma non a chiave. Almeno così ha affermato Daniela, quella che ha aperto.

– Bene Floris, convoca le due ragazze in commissariato, che le voglio interrogare personalmente. – Il commissario si diede un’occhiata in giro e poi se ne andò.

L’interrogatorio effettuato con le due ragazze, non diede nessun risultato, loro avevano un alibi di ferro e nessuno, a loro saputa, poteva avere dei risentimenti tali con Giovanna, da poterla uccidere. La povera vittima, conduceva una vita tranquilla, quasi monotona, non aveva molti amici e la sua maggiore compagnia, era la solitudine. Non sembrava comunque preoccuparsi eccessivamente di ciò, col tempo aveva trovato il giusto equilibrio e ci si trovava pure bene.

Il commissario, era immerso nei suoi pensieri, seduto comodamente nel suo ufficio e quando controllò l’ora, mezzogiorno meno cinque, ebbe un tuffo al cuore ed esclamò:

– Chiara!

Chiara era sua figlia di sei anni, quella domenica doveva are a prenderla, a casa della sua ex, per trascorrerci un giorno assieme. Un giorno spensierato.

Quando suonò alla porta dell’appartamento di Marina, la sua ex, era ormai mezzogiorno e dieci. Aprì lei, Marina, la quale non disse nemmeno una parola, ma l’espressione del viso che aveva, parlava da sé. Eugenio, entrò e vide che erano seduti a tavola. C’era Ivano, l’attuale compagno di Marina e la piccola Chiara seduta a testa bassa. Stavano per cominciare a pranzare.

– Ma mangiate a quest’ora? – chiese Eugenio, per cercare di scusarsi. – E poi Chiara, non dovevamo pranzare insieme?

– Sì! – rispose acida la ex. – Hai usato il termine giusto: dovevate mangiare

insieme. Ma sicuramente tu non lo sai, non lo puoi sapere! Ma le famiglie normali, con bambini piccoli, hanno degli orari umani per mangiare: mezzogiorno e diciannove e trenta.

– Io non lo so? Io non lo posso sapere Marina! Perché non mi hai mai dato la possibilità di saperlo. Te ne sei andata ancora prima che io lo scoprissi! Invece lui lo sa vero? – chiese Eugenio, indicando Ivano.

– Sì! – esclamò lei. – Lui lo sa, perché lui ha il rispetto necessario, che ogni persona dovrebbe avere, prima di fare una famiglia.

– Ma lui la famiglia non se l’è fatta, si è intromesso nella mia! È questo lo chiami rispetto?

Poi si girò verso Chiara e disse:

– Dai amore mio, andiamo a mangiare da Salvatore, che ci sta aspettando.

– Sì... pizza! – esclamò entusiasta lei, poi si rivolse verso la madre e chiese: – Posso andare mamma?

La donna la guardò con gli occhi dell’amore e rispose:

– Sì tesoro, vai pure. – Poi si girò verso Eugenio e gli lanciò uno sguardo fulminante.

Pizzeria Ristorante da Totò diceva l’insegna fuori dal locale di Salvatore. Specialità: Pizza Napoletana e Pesce Fresco.

Quando entrarono, Salvatore prese in braccio la piccola Chiara, la baciò in fronte e disse:

– Cosa vuole questa principessa, la solita pizza?

– Sì – rispose lei. – Prosciutto e peperoni, abbondante mozzarella.

– E per me – s’intromise il commissario – Spaghetti con sugo agli scampi. Finché aspettiamo, magari portaci un po’ di frittura di gamberetti, che a Chiara piace tanto. – E la piccola annuì sorridendo. Si accomodarono al solito tavolo, appoggiato ad una vetrata che dava sul lato opposto dell’entrata, dove si trovava una laterale che portava in piazza Dante.

– Guarda papà, guarda... – disse la piccola, indicando dei bambini che avevano dei palloncini in mano.

– Sì! – esclamò Salvatore, che nel frattempo era arrivato con la frittura di gamberetti. – In piazza, c’è il luna park, venerdì sono arrivate le giostre.

– Davvero? – chiese entusiasta la piccola. Poi si voltò verso il padre e chiese: – Mi porti dopo papino? Per favore...

Dopo alcuni istanti di esitazione, Eugenio rispose: – Certo amore mio, dopo ci andiamo.

– Evviva!– esclamò Chiara, mentre il commissario si girò verso il gestore, lanciandogli un sorriso velenoso.

Finito il pranzo, andarono al luna park. Chiara volle salire su più giostre possibili, sembrava inesauribile. Stavano finalmente lasciando il luna park, Chiara stava gustando lo zucchero filato, quando vide il chiosco dei pesci rossi.

– Papà, papà, guarda... voglio un pesciolino. Me lo prendi?

I due si avvicinarono al chiosco, Eugenio prese tre palline e al secondo colpo fece centro. Il giostraio, un bel ragazzo sui trentanni, prese un pesce rosso, che era sistemato in un piccolo vaso di plastica trasparente, e lo diede alla bambina.

– Mettetelo in un acquario, o comunque in un vaso più capiente, quanto prima e dategli da mangiare. – Il giostraio, diede loro una scatoletta, contenente del mangime per pesci rossi. Tale contenitore, portava il logo del luna park, stampato sulla facciata.

Il commissario, riaccompagnò la figlia a casa. Poi una volta rimasto solo, chiamò l’ispettore Floris al cellulare.

– Floris, l’appartamento di Giovanna è ancora sotto sequestro?

– Si commissario, sono venuti a consegnare le chiavi i colleghi della scientifica, ce le ho io.

– Bene, ci vediamo tra una decina di minuti all’appartamento, devo controllare una cosa.

Quando il commissario arrivò, Floris lo stava già attendendo sul posto, e chiese:

– Che succede commissario, qualche idea?

– Indizi Floris, forse banali e insignificanti, ma vale la pena approfondire. Entriamo dài.

Il commissario, si diresse immediatamente verso il tavolino del salotto, dove sopra, giaceva un piccolo vaso di plastica trasparente, pieno d’acqua e contenente un pesce rosso. Il pesce galleggiava, era morto. Accanto al vaso, c’era una scatola di mangime, con impresso il logo del luna park. Il commissario, con dei fazzoletti di carta per non lasciare impronte, svuotò acqua e pesce nel water e tirò lo sciacquone. Quindi, in una borsa della spesa, ci mise dentro vaso di plastica e scatola di mangime, e disse all’ispettore:

– Floris, porta pure questi alla scientifica e fanne controllare le impronte digitali. – Il commissario uscì dall’appartamento e se ne andò.

Dopo un quarto d’ora, Eugenio era nuovamente al luna park. Si avvicinò al

chiosco dei pesci rossi, e il giostraio quando lo vide, chiese:

– Salve, le è già morto il pesce?

– No – rispose l’uomo. – Il mio no. Ma quello di questa signorina sì. – Eugenio estrasse la foto di Giovanna e la fece vedere al giostraio. Il giovane, la guardò un po’ stupito e chiese:

– Non capisco, cosa vuole?

– La conosceva? – chiese il commissario.

– Ma lei chi è? – Eugenio estrasse il tesserino e disse:

– Commissario Eugenio Bui, dell’investigativa. Allora, la conosceva?

– Si, l’ho vista ieri, è venuta qui a tarda serata, ha giocato un po’, ha vinto un pesciolino, ci siamo scambiati due parole e poi se n’è andata.

– Tutto qui?

– Tutto qui. Ci dovrebbe essere dell’altro?

– Potrebbe... ed era sola?

– Solissima.

– Non le sembra strano una bella ragazza tutta sola di sabato sera al luna park?

– Penso che il mio giudizio non possa che essere ininfluente al suo punto di vista, comunque no, non mi sembra strano. Anzi, ultimamente ne vedo parecchie di ragazze che vengono da sole. Ma perché tutte queste domande? State indagando sulla morte del pesce rosso?

Il giostraio rise, ma la sua ilarità, durò pochissimo, infatti fu bloccata dalle parole del commissario, che disse:

– No, stiamo indagando sulla morte della ragazza, che si chiamava Giovanna Renzi.

Il giovane, rimase disorientato, e balbuziente chiese: – Ma com’è successo?

– È stata accoltellata questa notte a casa sua. Ma non le posso dire di più.

– Non serve che mi dica di più. Ho già capito – disse il ragazzo, quasi rassegnato.

– Ha già capito cosa? – Il giostraio si prese un lungo momento di silenzio, poi disse:

– Niente commissario, ho capito ch’è morta e questo mi basta.

Il commissario, dopo quel breve colloquio, se ne andò a casa a riposare.

Il mattino seguente, Eugenio si alzò di buonora, e si recò nel laboratorio della scientifica. Lo accolse il comandante Bellini.

– Buongiorno commissario, dormito bene?

– Tutt’altro Bellini... dormito poco e male. Non riuscivo a prendere sonno.

– Hai provato a contare le pecore?

– Si, ma a un certo punto, loro si sono addormentate ed io no.

– Andiamo, ti offro un caffè – disse il comandante ridendo. Quando furono davanti al distributore automatico di bevande calde, Eugenio chiese: – Trovato qualcosa?

– Niente di significante. Impronte, molte impronte, ma nessuna di esse è schedata nei nostri archivi.

– E sul vaso di plastica che ti ha portato ieri sera Floris, hai trovato delle impronte?

– Sì, di due tipi. Della vittima e di un’altra persona, naturalmente sconosciuta. Le stesse impronte, sono state trovate anche sul maniglione della porta d’entrata.

– Di quelle che c’erano sul vaso? – chiese il commissario.

– Sì, quelle sconosciute che c’erano sul vaso. – Eugenio si fece pensieroso, poi estrasse dalla tasca dell’inseparabile giacca in pelle nera, un pacchetto di Marlboro vuoto, avvolto in un fazzoletto di carta e chiese: – Bellini, mi puoi controllare le impronte che ci sono qui sopra?

– Certo, dammelo e ti faccio sapere.

– Scusa Bellini, ma avrei fretta...

– Ok ho capito. Finisco il caffè ed entriamo in laboratorio.

Il comandante, si mise personalmente all’opera, e dopo alcune operazioni misteriose agli occhi del commissario, disse:

– Sono sempre della stessa persona.

– Stessa persona? Spiegati meglio – chiese smanioso Eugenio.

– Le impronte trovate sul pacchetto di sigarette, sono le stesse trovate: sia sul vaso di plastica, che sul maniglione della porta d’entrata della vittima.

– Cazzo! – esclamò il commissario. Bellini lo guardò e chiese:

– Ha un nome adesso, l’appartenente a queste impronte?

– Il nome non lo so, ma so dove trovarlo: lavora al luna park, al chiosco dei pesci rossi.

Eugenio, ò in commissariato, prese due uomini e andò a prelevare il giostraio.

– Di cosa mi accusate? – chiese altezzoso il ragazzo, mentre veniva allontanato dal luna park.

– Nessuna accusa – rispose il commissario. – La vogliamo solamente interrogare.

– Per un semplice interrogatorio, normalmente si viene gentilmente invitati e non bruscamente prelevati! – puntualizzò il giostraio, con fare saccente.

– Evidentemente, questo non è un semplice interrogatorio. Quindi la smetta di rompere i coglioni e chiuda quella cazzo di bocca – esplose Eugenio.

– Complimenti per lo stile commissario. Ha studiato a Cambridge? – ironizzò il giovane. Al commissario, usciva il fumo dagli orecchi, ma optò per il non rispondere. Una volta giunti in commissariato, cominciarono l’interrogatorio, assieme anche al procuratore.

– Allora, – chiese Eugenio – lei mi ha detto che ha conosciuto Giovanna Renzi, sabato sera al chiosco, che ha scambiato due parole e che poi se n’è andata.

– Giusto – rispose il giostraio.

– Se n’è andata da sola?

– Sì.

– Quindi per lei, è stata la prima e l’ultima volta che l’ha vista.

– Esatto.

– Non è mai stato a casa sua?

– Commissario, ma mi capisce quando parlo? – chiese con il suo solito fare il giovane. Eugenio balzò in piedi e battendo i pugni sul tavolo urlò:

– Allora me lo spiega che cazzo ci facevano le sue impronte digitali appiccicate alla porta d’entrata della povera vittima?! Me lo spiega per cortesia?

Il giovane sbiancò, e disse:

– Che gioco state facendo? Voi mi volete incastrare... – Il giovane porse le mani in avanti a palmo all’insù e aggiunse: – Guardate voi stessi, ho i polpastrelli di tutte le dita bruciate, non lascio impronte. Quand’ero ragazzino, mio zio, prima me li bruciò tutti e poi mi obbligò ad andare a ripulire le ville. Era senza cuore.

Il procuratore, si alzò e disse: – Venga con me commissario, le devo parlare.

Eugenio, lo seguì ed ascoltò senza dire una parola: – Commissario, rilasci immediatamente il ragazzo, con tanto di scuse da parte sua, e scopra al più presto a chi appartengono quelle impronte, se si vuole rifare dalla pessima figura che ci ha fatto fare a tutti.

Nel tardo pomeriggio, Eugenio si ripresentò al luna park. Il giostraio, non fu del tutto entusiasta nel rivederlo, infatti lo accolse dicendo:

– Tenente Colombo, la giustizia Italiana è nelle sue mani... infatti, ultimamente incontro solo delinquenti, dove sono le persone oneste? Le ha arrestate tutte?

– Le persone oneste ci sono, non si preoccupi... solo che frequentano luoghi decisamente meno malfamati dai suoi.

– Dove l’ha trovata questa battuta, nel manuale dello sbirro cazzuto?

– Adesso la smetta per cortesia, le ricordo che sta parlando con un pubblico ufficiale. Posso farle alcune domande?

– Ancora? Ma sospettate ancora di me?!

– No. Allora, posso procedere?

– Mi dica.

– Lei fuma? – Il ragazzo, indicò un pacchetto di Marlboro, che stava sul piano inferiore ed interno del bancone e disse:

– Sì, ecco lì il pacchetto. Perché?

– Scusi, ma le domande preferirei farle io. Oltre a lei, chi lavora all’interno di questo chiosco?

– Nessuno, solo ed esclusivamente io. Perché? Ah già... niente domande.

– Esatto – rispose il commissario, poi si accese una sigaretta e si allontanò. Aveva esaurito le domande, oltreché il suo sistema nervoso. Stava uscendo dal luna park, decisamente afflitto, quando vide una donna, con dei vasi di plastica trasparenti in mano. Erano quelli dei pesci rossi. Il commissario la seguì e ne studiò i minimi movimenti. Si avvicinò al chiosco, consegnò i vasi al giovane dai polpastrelli bruciati, prese una sigaretta dal suo pacchetto di Marlboro e se ne andò. Il commissario, piombò dal giovane e chiese: – Chi è quella ragazza?

– Una povera illusa – rispose. – Lavora qui con noi, un giorno me la sono scopata ed è stato l’errore più grande della mia vita. Non posso civettare con nessuna, che lei interviene a farmi le scenate di gelosia.

– L’altra sera lei, ha civettato con Giovanna?

– Certo, era una ragazza bella e sola, perché non avrei dovuto farlo. Ma le ripeto che mi sono limitato a quello.

– Certo, stia tranquillo. Mi potrebbe per cortesia dare il suo pacchetto di sigarette? Lo svuoti pure.

Il commissario corse da Bellini, e dall’esame scientifico effettuato nel pacchetto,

risultarono esserci le impronte di una persona sola. Ed erano sempre, quelle trovate in precedenza nell’altro pacchetto di sigarette e sul resto. Il commissario, andò dal procuratore e gli spiegò la sua teoria:

– La ragazza, accecata dalla gelosia, non sopporta l’ennesima flirtata del suo amato, nei confronti di Giovanna, quindi la segue fino a casa, entra, la uccide ed esce lasciando un’impronta sul maniglione. Mentre le altre due impronte, le aveva lasciate in precedenza, visto che il giovane giostraio, mi ha confermato che tutti i giorni, lei va da lui a portargli dei vasi e come per abitudine, si prende una sigaretta.

Il procuratore si complimentò con il commissario ed emise l’ordine di carcerazione. La ragazza, tale Cristina Gigli, negò la sua colpevolezza, ma era palese che fosse l’ennesima arrampicata sugli specchi. La sera stessa, il titolare del luna park, entrò nel caravan di Vladimiro, il giovane dei pesci rossi, e disse:

– Eccoti i tuoi centomila euro e grazie. Ma toglimi solo una curiosità, come hai fatto a far trovare un’impronta di Cristina sul maniglione a casa della vittima?

– Semplice, dopo averla uccisa, ho smontato il maniglione, sono andato da Cristina, l’ho narcotizzata e una volta addormentata, ho stampato le sue dita sull’ottone lucido del maniglione. Sono tornato a casa della vittima e l’ho rimesso al suo posto.

– Diabolico! – esclamò ridendo, il ricco proprietario del luna park, mentre se ne andava. Cristina, era la sua amante, ma negli ultimi tempi era diventata troppo esigente e pericolosa per il suo equilibrio famigliare, quindi chiese aiuto a Vladimiro, per poterla mettere in qualche modo fuori gioco.

Il mattino seguente, Vladimiro era all’aeroporto, si stava concedendo l’ultimo caffè Italiano, prima di partire per i Caraibi. Appoggiò la tazzina, e fu quando fece per prendere la valigia, che si sentì stringere in una morsa il polso della mano destra. Lo ammanettarono. Alzò gli occhi, e vide il commissario Eugenio Bui, che disse: – Cerchiamo di evitare che i delinquenti rimangano serenamente in libertà... e soprattutto che gli innocenti marciscano in galera... Manuale dello sbirro attento e scrupoloso!

A ME GLI OCCHI di Alessia e Michela Orlando

Bologna. 6 dicembre 2009. Ore 18. Micaela Kimberly Nicoletti osservava la propria mano rimestare velocemente una polvere biancastra in una tazza nera, con un cucchiaio che intuiva essere minuscolo.

Non vedeva altro che le nocche e delle dita chiuse a pugno intravedeva solo l’indice, illuminato a tratti da una sottile luce proveniente da uno spiraglio di finestra chiusa, traendo una sensazione bruciante, come fosse colpita da una successione di proiettili incandescenti, sparati da distanza ravvicinata. L’insopportabile sensazione l’induceva a dirottare l’attenzione sul suono provocato, con la conseguenza di sentire un brivido percorrere la schiena ogni volta che il metallo strisciava contro la ceramica. Era un rumore sinistro simile allo stridere del gesso sulla lavagna. Pertanto tentava invano di arrestare il movimento; ogni tentativo si trasformava nell’angoscioso amplificarsi del malessere. Tentava di controllare il fenomeno, respirava profondamente e ripeteva il tentativo di arrestare l’arto. Avvertiva l’accelerazione del sangue; lo immaginava percorrere le zone interessate, giungere al polso e ai polpastrelli. L’attesa si trasformava solo in una contrazione dolorosa per il rattrappirsi delle dita. All’improvviso, nell’apparente casuale rallentare del moto, le sensazioni sparivano. Il suono, virando verso vibrazioni meno oltraggianti, sino a farsi quasi gradevoli e toccare profondità bronzee, cominciava a ricordarle qualcosa d’inafferrabile. Ora il suono era gradevole; le sensazioni si trasformavano per divenire un fiume di benessere. La luce sembrava essere velata da un drappo; tutto era più suggestivo. Ogni oggetto assumeva tonalità pastello e la mano appariva bella come non mai. Finalmente poteva vedere il cucchiaio, con il suo disegno rosso, un bassorilievo tenue, tremolante e senza ombre, non ben identificabile. Come condotta da una forza irresistibile, si avvicinava al rosso, vedeva ingigantire la forma, vi penetrava, con la sensazione di sfiorare qualcosa di viscido, senza capire cosa fosse. Inebetita, prestava nuovamente attenzione ai suoni, avvertendo un soffuso rumore di sottofondo, come di una barca schiaffeggiata da una ondata. E finalmente una voce: – Ecco, sì. Respira profondamente. Sette. Tu sei distesa e abbandonata, dolcemente rilassata. Respiriamo a fondo. Il sonno si fa ancora più profondo. Sette, sei, sei, scendi

sempre più nel fondo della coscienza. Vedi tutto ciò che ti circonda lucidamente. Vedi un cucchiaino, una forma rossa, certamente la conosci. Sai dirmi cosa vedi?

– No. Vedo solo una forma rossa guizzare convulsamente, disegna un cerchio. Sento nuovamente freddo, sono bagnata.

Micaela Kimberly Nicoletti tremava. Le palpebre vibravano come accade nel sonno, nella fase rem, con le mani contratte, le gambe distese, i piedi leggermente divaricati. Accanto a lei solo l’ipnotista. Al di là del vetro mascherato da specchio, la gemella Alexis Kimberly Nicoletti, osservava entrambi, prendendo appunti sul palmare senza guardare la tastiera. Ogni tanto lanciava uno sguardo al turbato ispettore Di Donato.

E io da dietro, con l’avv. De Martino e due guardie carcerarie, guardavo tutti.

Le voci dei due provenivano nitidamente e ogni volta che l’ipnotista impartiva comandi ipnotici, dovevo distogliere l’attenzione per non lasciarmi influenzare. L’espediente che trovai più efficace era rappresentato dal rumore secco del vetro sul cranio, il rosso del sangue che vidi schizzare in un improvviso fiotto verso il mio volto, la sensazione dolciastra in bocca. Ero sorpreso dalla perizia dell’ipnotizzatore. Avevo osservato vari esperimenti clinici, ma ogni volta il medico aveva iniziato proponendo veloci test di suggestionabilità. La scelta del soggetto ricadeva su quello più suggestionabile e ogni volta c’era stata la fase della ilarità, la spiegazione della tecnica, la solita frase “Stia tranquillo, non posso farle fare ciò che la sua coscienza non accetta”, una lunga strategia di avvicinamento che implicava la descrizione di una scena tranquillizzante, una serie di numeri pronunciati spesso a ritroso, l’approfondimento della trance con altre tecniche, qualche volta un comando post-ipnotico, l’induzione al risveglio con suggerimento di sensazioni di benessere. Altre volte avevo visto esibirsi ipnotizzatori cialtroni e tanto di vittime condiscendenti, se non accoliti prezzolati, oltre la massa di spettatori propensa a ridere sguaiatamente delle disgrazie altrui: grattate a sangue, pantaloni tirati giù, confessione dei propri

peccati. Mi ero convinto che le ipotesi possibili fossero estreme: c’era l’ipnosi seria e quella da baraccone. Ma in entrambi i casi occorreva la collaborazione del paziente o della vittima. La mia intuizione si era fatta certezza, quando un docente universitario di Torino, autore di un manuale adottato in mezzo mondo, mi spiegò che l’ipnosi era un fenomeno naturale e che con il ripetersi delle sedute si potevano risolvere molti problemi, addirittura procedere a ritroso nel tempo, mettendo meglio a fuoco fatti accaduti.

Ed era ciò che mi accadeva davanti agli occhi: l’ispettrice Micaela Kimberly Nicoletti si prestava volontariamente a una seduta di ipnosi, ritornando sulla scena di un delitto efferato, come fu definito dalla stampa. Lei stessa lo aveva scoperto e non poteva immaginare che da lì a qualche secondo sarebbe stata anche vittima. Aveva deciso che occorresse procedere all’abbattimento di quella maledetta porta, dove di certo era trattenuta contro la propria volontà una bambina di sei anni: Birgit.

Tutto era iniziato tre giorni prima.

Bologna. 3 dicembre. Sul Resto del Carlino compare un annuncio a pagamento: Abbiamo trovato una giovane femmina di pastore tedesco, dal pelo in ottima salute, dallo sguardo vivace e dalla perfetta dentatura, presumibilmente di sei anni, chi l’avesse smarrita potrà rispondere qui, descrivendola e lasciando un proprio recapito. Che si faccia in fretta date le difficoltà a trattenerla in un angusto appartamento buio, senza un proprio materassino e senza giardino.

L’ispettrice Micaela Kimberly Nicoletti entra canticchiando nel suo ufficio ridipinto mentre era a Torino, dalla gemella che svolge lo stesso lavoro. Trova che il rosso pompeiano sia sempre bello e che renda tutto più suggestivo, anche il computer perennemente e meno indigesti gli incessanti, odiati, maledetti trilli dei telefoni. Sfoglia distrattamente il giornale e appunta lo sguardo sull’annuncio, attratta da una minuscola freccia chissà da chi realizzata con inchiostro rosso. Compone un numero e attende che rispondano. Dopo

quattro squilli si espande nella stanza la voce affabile di Alexis: – Ho letto il tuo numero, altrimenti non avrei risposto, neppure sotto la minaccia di un cannone puntato al petto. Che c’è? Non dirmi che ti manco, tanto lo so.

– No, mi manca qualcosa ma non il tuo grugno. E non dirmi che è uguale al mio, quindi bello. Tanto lo so già. Ti immaginavo stravaccata sul divano, in favore di luce e specchio, intenta a rimirarti i capelli. Stai bene con il tuo castano naturale, ma stavi bene anche con il biondo che ti differenziava da me e…

– Tu divaghi sempre. Dimmi cosa ti manca.

– C’è qualcosa che mi turba e mi sfugge. Non so cosa sia e ciò mi angoscia. Eppure ho trovato ogni cosa a suo posto. I colleghi stanno bene; non ci sono nuovi casi da affrontare; il tempo è buono; mi sono pesata e il peso forma è confermato; mi aspetta un bel pranzetto con un giovane collega arrivato da Palermo. Ho anche trovato un messaggio dell’ispettore Di Donato nella casella di posta…

– Come? Hai già il pc prima di telefonarmi?

– No, l’ho letto a casa tua. Mi comunica che si è conclusa l’autopsia del mago Pratt. Ricordi? Il prestigiatore omicida di cui ci siamo occupate. È confermata la morte per l’impatto con il suolo e pare sia già certo che non ha assunto sostanze psicotrope; si attendono le analisi dei capelli.

– Pratt! Che scena. Vederlo spiaccicato sull’asfalto è stato un cazzotto nello stomaco. Un uomo così affascinante…

– Alexis, era un criminale. La pietà la eviterei. Limitati a dire che era uno a cui una botta gliela avresti data.

– Eccola, la scaricatrice di porto. Ci tieni ad apparire impeccabile, ti trucchi come una verginella, ti dedichi alle buone letture, ami il teatro e le belle arti in genere, e poi tiri fuori cose da maniaci sessuali pronti a saltare addosso pure alle ottuagenarie. A proposito, mi dicevi di un giovane collega. A prescindere dal fatto che noi ne abbiamo soli ventiquattro, quanti anni ha?

– Non lo so.

– Come? Non lo sai? Eppure sarà la tua prossima vittima.

– Per la verità me ne aveva parlato il comandante prima che partissi: un giovane affascinante, amante del mare, grande conoscitore delle scienze applicate ai computer, quelle che vanno dai mezzi di comunicazione veloce, ando per internet e diavolerie connesse, per approdare alle nuove metodologie di indagine sperimentate in America. Pare abbia tenuto lezioni in una università oltre oceano, trattando delle varie sostanze utilizzabili per ricostruire le scene dei crimini. Ah, pare sia anche un formidabile tiratore e grande conoscitore di sostanze velenose.

– Se così fosse di certo non sarebbe vecchio, ma non potrebbe avere meno di trentacinque anni. Altrimenti dove avrebbe trovato il tempo per approfondire fino al punto di insegnare in americano? Insomma, ci potrebbe quasi essere padre. Caso mai ha pure una caterva di figli.

– No, dalla voce non gli darei più di ventisei anni. Per quanto attiene all’americano, è figlio di una americana e di un avvocato italiano. Lui stesso è avvocato con tanto di esame di stato già superato.

– Scusami, Micaela, ma non proviene da Palermo?

– Non ho detto che vi sia nato e cresciuto.

– Va bene. Ti faccio notare che ci siamo perse in questo discorso, che mi è venuta contemporaneamente fame e sonno e che ancora non hai detto né della tua mancanza né della angoscia che ti opprime.

– Si, hai ragione. Beh, mi sono ricordata di Fritz…

– Fritz! Non dirmelo: io lo sogno ancora quel cane. Ricordo pure il suo odore e riconoscerei ancora, dopo una quindicina di anni, il suo abbaiare. Solo una cosa non mi piaceva…

– Pure in Fritz, quando ancora non avevi le tette, riuscisti a trovare dei difetti?

– Prescindendo dal fatto a te noto che neanche adesso le ho, quelle, che peraltro neppure tu hai, non ero così stronza! Comunque, mi riferivo al nome: mi ricordava il sibilo di una pallottola spuntata.

– Hai ragione, anche se io direi somigliasse di più al taglio violento di una carota

centrata al volo.

– Bella questa immagine. Dunque, arrivi da Torino, dopo sette giorni trascorsi con me; confermi che sei stata bene e che fai? Ti metti a piangere la morte del nostro cane? Mi pare tardi, che dici? Non bastano tanti anni per ricordarlo solo con un po’ di nostalgia?

– Hai ragione, ma al cuore non si comanda. E al cervello neppure. Non saprei perché, ma mi è anche venuto di chiederti se ricordi quanti anni avesse quando morì. Vorrei proprio verificare se i ricordi coincidono.

– Tu che età ricordi?

– Cazzo! Ma fai sempre cosi? La smetti di rispondere con un’altra domanda alle mie?

– Io? Ma è un tuo difetto. Comunque, ricordo fosse vecchio. Era un cucciolo e noi avevamo quasi quattro anni. Morì che ne aveva sette.

– Non era poi così vecchio da morire.

– Fu colpa nostra. Era ingrassato per la vita sedentaria e il troppo cibo. Si faceva a gara a dargliene, non ricordi? In ogni caso era adulto.

– Uhm, è vero, aveva più di sette anni e fu colpa nostra se morì. Tuttavia hai

ragione, meglio non pensarci. Fatto sta che l’angoscia anziché andare via mi aumenta. Alexis, la prossima volta verrai tu a stare un po’ da me. Ho scoperto un’ottima trattoria in via Delle Belle Arti.

– Aspetta, un attimo, ci andrai con il siculo? Palermitano-Americano! Non sarà mica un po’ mafioso...

– Accipicchia, che collegamento! Comunque stai tranquilla: la risposta è no, ci andrò con te. Sono invitata a casa sua.

– Ma scherzi? Neppure lo conosci e hai accettato?

– Cosa temi mi accada? Si tratta di un collega, non del mostro di Firenze! Comunque, ci vado con il capitano. Inoltre ti confesso che la sua voce non è molto virile. Ho addirittura inizialmente pensato fosse femmina, poi effeminato, poi gentile, poi troppo gentile per le cose che ha detto.

– E dillo su, che aspetti…

– Mi ha fatto capire che ama i fiori, le lenzuola ricamate, la biancheria fine, la fotografia, cucinare.

– E tutto ciò ti pare strano? Scusa, io amo i martelli, dormire sotto le coperte senza lenzuola, preferisco se cucini tu, i profumi per maschi sulla mia pelle e per questo sarei mascolina?

– No, ma…

– Oltretutto ama sparare! Non mi dirai che pure questo avalla la tua tesi e che la pistola sarebbe solo il prolungamento o un totem del pene!

– Alexis, propongo una tregua: ci andrò, lo vedrò e ti farò sapere. Piuttosto, so che il capitano gli farà avere una pianta carnivora in regalo. Cosa mi consigli di regalargli evitando libri, musica, biancheria intima? Sai, non conosco i suoi gusti…

– Non li conosci? Io neppure. Mi farai sapere. Ciao, Micaela.

– Pronto? Si, sono Micaela Kimberly Nicoletti, può anche evitare il dottoressa. Lei chi è?

– Sono il dott… ehm, scusi, sono Ernesto Schillaci. Collega, disturbo perché…

– Collega, che piacere! Che ne dice se iamo al tu, considerato che fra due giorni sarò ospite a cena…

– Dico sì. Disturbavo giacché ho un po’ di contrattempi a casa: idraulico che ha voluto stranamente anticipare un intervento, il falegname in ritardo con la consegna della cucina, due lampadari da montare. Ho telefonato al capitano: avrei proposto di andare a cena fuori. Sareste in ogni caso ospiti miei e appena sarà tutto in ordine vi inviterò nuovamente a casa.

– Non c’è problema, Ernesto. Hai già scelto dove?

– Si. Andiamo in una trattoria, Dal Biassanot, so che è gestita da un lucano e vi si mangia bene. Pure il nome è bello anche se non so cosa significhi.

– Lo conosco, si mangia bene. Però non è più gestito da un lucano. Biassanot è uno che mastica la notte…

– Ah, ho capito; uno che se ne va in giro per i meandri della città alla ricerca del luogo dove attendere l’alba, combinando chissà quali pasticci…

– Non so se significhi tutto quello, però rappresenta le radici del popolo bolognese.

– Micaela, è interessante ciò che dici. Dall’accento deduco le tue origini meridionali. Fai bene a non occultarle. Peccato non averti conosciuto prima, quando eri piccola.

– In che senso?

– Ehm, intendevo dire che avremmo potuto essere buoni compagni d’infanzia. Comunque, pare che qui trovino sensuali i nostri accenti…

– Certo: evviva la differenza, come dicono i si.

– Bene, ci vediamo alle ventuno dopodomani in trattoria.

Bologna. 5 dicembre 2009. Ore 24. I tre si salutano.

Micaela Kimberly Nicoletti cammina a o spedito e cinque minuti dopo transita davanti al cinema Odeon in via Mascarella, tra giovani con bottiglie e bicchieri in mano. Entra nel portone del civico numero sei; respira l’odore di pesce arrostito proveniente dal ristorante attiguo; si dirige per il viale interno verso il portone di casa sua; s’inerpica con o agile sulla scala dai gradini esageratamente alti e a metà scala si arresta di colpo: rivede l’annuncio letto sul Resto del Carlino, la freccia rossa, il cellulare di Ernesto. Accelera l’andatura, apre la porta sveltamente e corre verso il bagno. Il giornale è lì, poggiato in bilico sulla vasca da bagno. Lo apre, legge e scuote la testa. Si dirige verso l’armadio; si denuda tirando via d’un colpo la maglietta blu e la canottiera; con la punta del piede destro scalza via la scarpa sinistra facendo leva sul tallone e ripete l’operazione con l’altro piede; si sfila i jeans, il tanga e le calze. Arraffa una gonna blu e la indossa dall’alto, infilando la testa e le braccia insieme; infila allo stesso modo una polo bordeaux e si dirige scalza verso la scarpiera. Infila le scarpe da barca senza calze. Cerca la pistola nel cassetto. Compone il numero della sorella.

– Alexis, devi venire di corsa a Bologna.

– Intendi dire che devo vestirmi, scendere, mettere in moto e partire? O dovrei indossare la tuta e le scarpe da corsa e…

– C’è poca da scherzare. Sta per succedere un casino. Lo sai che mi fido di pochi e vorrei averti vicino. Sono certa che avrò bisogno di te.

– Non sei stata più a cena? Com’è quel tipo? Cosa gli hai regalato?

– Sono stata a cena, eccome se ci sono stata. Un tipo strano, nasconde qualcosa. Il regalo? Già, il regalo: gli mandato una boccia di vetro con un delizioso pesce rosso e un bigliettino con cui mi impegnavo a regalargli un acquario se gradiva il genere…

– Bella idea. Come mai dicevi che è strano?

– Non posso esserne certa, ma prima che spegnesse il cellulare ha inavvertitamente azionato l’archivio di fotografie e mi è sembrato di vedere una foto che mi ha allertato.

– Partirò tra cinque minuti. Fra due ore e mezza sarò in via Mascarella.

– No, meglio se mi raggiungi in via Borghi Mamo, n.8. Abita lì quel tipo…

L’ispettrice Nicoletti compone un altro numero.

– Capitano, mi scusi per l’ora. Mi perdoni se mi permetto, ho urgenza di porle tre domande. La prima: le risulta che si stia indagando su un sequestro di persona? Infatti, la stampa non ne parla, lo so. Da questo ho dedotto che è stato ordinato immediatamente il silenzio. Si è stati tempestivi, una volta tanto. Seconda domanda: è per caso stata sequestrata una bimba, figlia di tedeschi? Sì: ho letto un annuncio sul Resto del Carlino, in ufficio, ne ho trovato una copia

con quell’annuncio segnalato da una piccola freccia in rosso. Dobbiamo correre a casa di Ernesto Schillaci. Giurerei di aver visto la foto di una bimba legata a una sedia sul suo cellulare. Occorre allertare anche la squadra speciale. Dice? Soli quattro uomini, più lei e io? Beh, meglio di niente.

Bologna. 6 dicembre 2009. Ore 9. Sul Resto del Carlino Alexis Kimberly Nicoletti legge: In via di soluzione il caso di Birgit S.: nella zona dei Giardini Margherita è stata trovata un’auto, rubata, trasformata in mattatoio. Vi è stato rinvenuto il corpo senza vita della bimba di origini tedesche, violentata e avvelenata da un insieme di sostanze ancora non individuate, oltre cinque corpi di poliziotti in borghese trucidati da centinaia di proiettili. Tra questi anche quello del capitano P.T.. È stata trovata in vita l’ispettrice M.K.N. Purtroppo non ricorda nulla. Alla soluzione della vicenda si è giunti grazie a un’altra poliziotta che ha individuato l’auto, malamente parcheggiata. L’abbiamo intervistata; ha dichiarato: “Grazie alla prontezza di M.K.N ho potuto fornire indizi per individuare il colpevole: nella mano destra stringeva un pesciolino rosso. Sapendo che ne aveva fatto regalo a persona che non posso svelare, ho dedotto che l’eccidio fosse accaduto in casa del ricercato. La collega sarà sottoposta a una seduta di ipnosi per avere conferme e per tirarla fuori dallo stato di amnesia. È stato individuato il luogo dove è stata tenuta sequestrata Birgit. Immagino che il luminol lascerà emergere le tracce di sangue”.

Bologna. 6 dicembre 2009. Ore 18. Sembrava trascorsa una vita. L’ispettrice Micaela Kimberly che, a quel che sentii, era già abituata alle esperienze di ipnosi, anche se non poteva aggiungere molto a quanto accertato, stava per ricordare tutto; io mi sentivo ormai definitivamente incastrato: era chiaro che avevo fatto in tempo a sparare a tutti, che i colpi erano finiti quando mi restava solo da ammazzare l’ispettrice, che l’unica soluzione era afferrare la prima cosa a portata di mano, spaccarle la testa, e far sparire i corpi e le tracce. A cosa poteva servirmi l’avvocato di ufficio? C’era una via di fuga? Non l’ho saputo, non lo so; non so neppure quanto tempo sia ato, se tutto stia accadendo davanti ai miei occhi o se sia accaduto tanto tempo fa.

LA DELICATEZZA DEL PESCE ROSSO di Guido Pacitto

Martedì 26 gennaio 2010, ore 11.25

Era lì, sul pavimento, e in un primo momento riuscì a mimetizzarsi alla perfezione col sangue sparso ovunque.

– E questo cosa cazzo ci fa qui? – chiese all’improvviso uno degli uomini all’interno della stanza, calandosi per osservare meglio il pesce rosso tra i rivoli di sangue.

– Cos’è?

– Un pesce rosso, capo... – rispose l’uomo in tuta bianca e guanti di lattice.

– Si vede che nella colluttazione sarà caduto, che so, dall’acquario. Povera bestia.

– Acquario? Un acquario in una stanza d’albergo?

– Cazzo Vincè, di situazioni ne ho viste pure di più strane, eh...

– Non c’è nessun acquario in questa stanza d’albergo, capo – intervenne subito un uomo in giacca nera e cravatta rossa.

– Ah no?

Il cadavere dell’uomo era appoggiato al letto singolo al centro della stanza. Sembrava essere lì seduto, con la schiena appoggiata al letto e la testa sul lenzuolo; questo era diventato rosso scuro, grazie al sangue sgorgato dalla gola sgozzata. Anche il pavimento era pieno di sangue, e il pesce rosso era a pochi centimetri dal piede fermo dell’uomo morto. Un telecomando aperto in due e con le pile sparse e inzuppate di sangue andava a corredare il tutto.

– Che culo il padrone dell’albergo...

– Eh sì, un gran culo ritrovarsi un cadavere sgozzato in una delle stanze, giusto Vincè?

– Non intendevo questo, capo...

– È per il pesce? È morto, e anche se fosse, non costano tanto i pesci rossi...

Il capo rise alla battuta dell’uomo in giacca e cravatta.

– Per il sangue. Di solito gli alberghi che ho frequentato avevano la moquette. Questo un semplice pavimento. Ecco perché: sarà semplice pulire...

– Ti intendi di pulizia di moquette o pavimenti sporchi di sangue?

– Fottiti Lazzari. A proposito... gran bella cravatta, fa pendant con il sangue.

L’uomo in giacca e cravatta sorrise.

– Hey, hey, vediamo di riordinare le idee e ricostruire questo cazzo di delitto. Allora, secondo me le cose sono andate così: il pesce rosso ha ammazzato il tipo, magari, che ne so... – il capo osservò il telecomando a terra. – Magari dopo una colluttazione per un programma tv. Poi si è tolto la vita, decidendo di non rientrare nel bicchiere che vedete qui sul comodino...

– Mi dispiace contraddirti, capo, ma il bicchiere è vuoto...

– Sempre pessimista tu, eh Vincè?

– Infatti io lo vedo mezzo pieno – intervenne Lazzari.

Il capo rise di nuovo.

Vincenzo Scudiero, della polizia scientifica, raccolse il pesce rosso e lo ficcò in un sacchetto con chiusura ermetica.

– Giurami di non fartelo in padella...

– Coglione... – esclamò Scudiero alzandosi, mostrando il dito medio “latticizzato” a Lazzari.

– Rapporto protetto, come vedi...

– Bene, bene. Dobbiamo stendere un cazzo di rapporto. Il direttore dell’albergo mi ha riferito che non ci sono state visite al tizio, un certo Giulio Alberoni, nessun precedente. Qualcuno dev’essere entrato dalla finestra, visto che è abbastanza semplice entrare qui al piano terra...

– Sì capo, infatti la finestra era leggermente aperta.

– Bravo Lazzari. Probabilmente ci sarà stato anche uno scontro tra i due, visto il telecomando a terra. Allora, impronte digitali e...

– Ci sarà autopsia? – chiese Vincenzo.

– Al pesce rosso?

Il capo rise sonoramente.

Martedì 26 gennaio 2010, ore 0.22

La notte prima Giulio era intento a capire come fare per attivare il televideo a quella piccola televisione che si trovava in quella stanza d’albergo.

– Tv digitale del cazzo! – esclamò buttando il telecomando sul letto. Questo rimbalzò e rovinò a terra, aprendosi in due. Le due pile rotolarono sul pavimento. – Maledizione...

Stava per alzarsi dal letto per raccogliere il telecomando, quando all’improvviso udì un ticchettio sul vetro della finestra. Si diresse allora verso di essa e cercò di osservare fuori. Una figura scura sembrò muoversi. Aprì la finestra.

– Si gela qua fuori...

– Dài entra...

Rosario Di Rosa entrò dalla finestra nella stanza che Giulio aveva prenotato per quella notte.

– Allora? – chiese Rosario appena dentro.

– Allora cosa?

– Cazzo, mi hai fatto venire qui per una questione importante. E poi non capisco perché in un albergo!

Giulio sorrise, poi: – Beh, a casa stasera c’era mia madre. E poi questi scambi preferisco farli in posti anonimi. Ti avviso però: non ho soldi.

– Cazzi tuoi. Io la roba gratis non l’ho mai data.

Giulio sorrise ancora.

– Perché ridi? – chiese Rosario, perplesso.

– Sono stato a casa tua oggi...

– Hai ancora le chiavi, allora. Beh, comunque la roba non la tengo lì, quindi...

– Ma questo sì... – disse Giulio indicando un fazzoletto bianco che copriva qualcosa sul comodino della stanza.

– Cos’è?

– Facciamo così. Tu mi dai tutta la roba che hai in questo momento, e io ti do quello che è contenuto sotto questo fazzoletto. Non solo; ti darò anche la compagna...

– Ma cosa cazzo stai dicendo? Tu sei fuori, amico... cosa c’è lì sotto?

– Marino.

– Marino? Marino chi?

– Dài Rosario, a volte mi sembri più rincoglionito di quanto pensi. Quanti “Marino” che possano stare lì sotto conosci?

Rosario diventò all’improvviso più serio, e la sua faccia sbiancò.

– Brutto stronzo... – esclamò avvicinandosi a Giulio.

– Hey, hey... calmo. Siamo in una stanza d’albergo, non vorrai farti sentire...

– Chi se ne frega. Fammi vedere cosa hai davvero lì sotto!

– E tu fammi vedere la roba...

– Ce l’ho, imbecille. Altrimenti perché sarei venuto fin qui? Tu fammi vedere se lì sotto c’è davvero Marino, e poi ne parliamo. Comunque sia chiaro, dopo questa tra noi è finita. Non ti voglio più vedere!

Giulio sorrise. – Cazzo Rosario, mi sembri una checca isterica...

– Fanculo! Fammi vedere cosa c’è sotto quel cazzo di fazzoletto!

Giulio si avvicinò con calma al fazzoletto, come un mago che si avvicina al proprio cilindro sul tavolo. Prese il fazzoletto tra l’indice e il pollice della mano destra e si fermò.

– Marina è invece a casa mia. Te la darò a patti conclusi.

Giulio, con un rapido movimento, tirò su il fazzoletto, e scoprì un bicchiere pieno d’acqua con all’interno un pesce rosso. Galleggiante.

– Cazzo! – esclamò Rosario con gli occhi sgranati. – Cazzo! L’hai ucciso!

Giulio osservò sorpreso il pesce rosso galleggiante nel bicchiere d’acqua. – Hey aspetta un attimo, era vivo...

– Vivo un cazzo! Hai ucciso Marino!

Giulio, in un momento di frenetica follia, prese il bicchiere con un mano tremante. Pescò con le dita il pesce rosso, facendo cadere tutta l’acqua dal bicchiere, che poi riappoggiò sul comodino. Provò allora a rianimare in qualche maniera il pesce, facendogli un massaggio col pollice sul piccolo corpo.

– Lascia stare Marino! Lurido coglione! – urlò Rosario piangendo. Sfilò dalla sua tasca un coltello e, senza pensarci su nemmeno un secondo, lo sferrò violentemente alla gola di quello che col tempo era diventato il suo miglior cliente. Giulio farfugliò qualcosa, senza senso. Il pesce rosso gli scivolò dalle dita, finendo a terra. Cercò di portarsi le mani al collo, da cui sgorgava sangue come da un rubinetto aperto. Poi si accasciò di fianco al letto.

Rosario restò immobile, col coltello insanguinato nella mano e gli occhi sgranati a osservare l’amico agonizzante.

– Cristo... – sussurrò poco dopo, avvicinandosi alla finestra. L’aprì con la mano sinistra, quella pulita. Diede un ultimo sguardo a Giulio, ormai fermo accanto al letto, e uscì dalla finestra, sperando di non essere visto da nessuno. La richiuse da fuori.

Fuggì piangendo, forse più per Marino che per Giulio.

Martedì 26 gennaio 2010, ore 1.14

Rosario riuscì ad arrivare a casa, barcollante e col coltello insanguinato nella tasca. Non l’aveva buttato: c’erano le sue impronte sopra, e pensava che sicuramente qualche sbirro l’avrebbe trovato, in un modo o nell’altro.

Piangendo, si diresse subito verso la piccola boccia-acquario che aveva in camera sua. Accese la luce.

Marino e Marina erano lì, fermi ma vivi. Dopo qualche secondo cominciarono a girare nella boccia, l’uno rincorrendo l’altra.

– Ma che cazzo...

Rosario ebbe un sussulto, non credendo ai suoi occhi. Poi tutto cominciò a girargli intorno, fino a quando, barcollando, cadde con un tonfo a terra. Svenuto.

Lunedì 25 gennaio 2010, ore 17.20

Giulio entrò nel negozio di animali chiamato Pet Shop, dirigendosi subito verso uno degli acquari al suo interno. Fissò più volte i pesci rossi che a decine si muovevano in esso. Dopo qualche minuto chiamò il proprietario.

– Posso sceglierne uno?

– Certo che può. Mi dica quale e glielo prendo subito.

– Questo... – esclamò subito Giulio, indicando un pesce rosso che gli sembrava simile, anzi identico a Marino, uno degli amatissimi pesci rossi di Rosario, l’amico spacciatore. In verità sembrava identico a entrambi i pesci rossi di Rosario.

Il proprietario, armato di retina verde, prese così il pesce. Giulio fu attento nel vedere se l’uomo avesse effettivamente pescato quello che aveva individuato come sosia di Marino. Non fu sicuro, visto il movimento caotico degli altri, che si trattasse effettivamente di quello indicato, ma dopo un attento sguardo constatò che quel pesce rosso era identico a Marino. E a Marina.

– Sono tutti uguali, ’sti pesci rossi eh? – disse al proprietario del negozio, intento a battergli lo scontrino.

– Beh, a parte la grandezza, direi di sì. Lo tenga in un acquario grande, e vedrà come crescerà...

– Oh certo! – rispose Giulio sorridendo. – Ma sono delicati?

– Ma no. A meno che lei non sia proprio sfigato, le assicuro che questo pesciolino camperà per un bel po’, stia tranquillo.

Una volta uscito, sacchetto di plastica con pesce rosso nella mano, si diresse a casa e studiò gli ultimi particolari del suo geniale piano: prendere una stanza d’albergo a buon prezzo (la sua era piena di scatoloni per il trasloco), montare una scena da Rapimento dell’amato pesce rosso, e prendere per il culo l’amico

spacciatore Rosario, per scroccare - tramite credibile riscatto - centinaia di euro di coca, mollandogli un pesce rosso qualsiasi prima di partire per il suo nuovo lavoro in città.

Peccato che il “qualsiasi pesce rosso” in questione si era rivelato alquanto delicato.

E Giulio Alberoni, in fatto di pesci rossi, alquanto sfigato…

GEDEONE, DI NOME WANDA Roberto Parrelli

– Sì, l’ho visto due volte, ispetto’. – La signora riprese a tossire nel fazzoletto ricamato.

Gentiletti si voltò per chiamare Zumbini, che stava finendo il suo ennesimo toscanello.

– Proprio così. Non ricordo l’ora… forse le nove, sì, le nove e dieci, che ne so, ispetto’. – Adesso lo afferrava per la manica della giacca marrone, visibilmente lisa ai gomiti.

– È sicura che fosse il Vitali?

– Caspita! Lo conosco da quando se pisciava sotto. Era alto quanto un…

Gentiletti si stava spazientendo. La signora Euselli era troppo loquace per i suoi gusti.

– Beh, adesso devo andare a controllare il brasato che sta sul fuoco da stamattina, ispetto’. – Si alzò con inatteso vigore per dirigersi verso la porta. – Con me deve essere paziente, sa, c’ho più de ottant’anni. L’ho fatto solo perché viene quella creatura de mi’ nipote, pe’ pranzo…

Zumbini ridacchiava osservando fuori della finestra aperta. Qualcosa non quadrava, si ripeteva Gentiletti. Sembrava troppo lineare.

Prima di uscire, la signora Euselli picchiettò il bastone contro l’avambraccio di Zumbini.

– La vedesse, mi’ nipote! È proprio ’na bella ragazza. Alta, bionda, capello corto, decisamente carina… Se chiama Eleonora, come la su’ povera nonna, mia sorella, che Iddio l’abbia in sempiterna gloria…

Si segnò proseguendo verso l’uscita.

Non aveva mai messo piede nella casa del Nossi ma ci si orientava bene. Senza neppure accorgersene, colpì un vaso in precario equilibrio sul mobiletto dell’ingresso, cadde e si ruppe in mille pezzi.

Dal cellulare del Nossi, la vittima, era stato rilevato che l’ultima chiamata era stata da lui ricevuta alle 8.05 da parte di un tale Giovanni, presente in rubrica. Rintracciato in tempi record, fu interrogato da un collega toscano, poiché nel frattempo aveva già raggiunto un sobborgo di Firenze. Si appurò che Giovanni Calabroni era amico del Nossi dai tempi del liceo, che entrambi avevano frequentato con scarsissimi risultati. Sembravo già allora fondamentalmente dediti ad attività seduttive e tossiche.

Il Calabroni sosteneva di aver incontrato il Nossi dopo la telefonata. Era ato a casa della vittima intorno alle 9. Contrariamente alle sue abitudini, lo aveva trovato ben vestito e rasato, e supponeva che avesse preso dei tranquillanti.

Zante Zumbini continuava a fissare i soldi sul tavolo. Tanti, erano tanti. E poi lui, con la storia del mutuo e la casa troppo grande che sua moglie si era ostinata a voler comprare…

– Saranno dodici, quindici mila… – disse Gentiletti, intuendo i pensieri dell’altro.

– Capo, non me lo dica. – Si tolse lo stuzzicadenti che teneva costantemente adagiato in un angolo della bocca e tirò fuori la limetta delle unghie. – Bah…

Il medico li avvertì che la Busco si sentiva meglio. Era alto quasi due metri, completamente calvo da una decina di anni, e pareva la controfigura dell’antipatia. I colleghi lo avevano soprannominato Van Helsing.

Gentiletti era invece noto per la sua rudezza maschile ma anche per una attenzione discreta verso i dolori degli umani. Si sincerò subito dello stato della ragazza. Capì subito che avrebbe amato accarezzare quei capelli rossi molto mossi. Il viso era delicato ma con alcuni tratti decisi, e le efelidi la rendevano eterea e distaccata.

– Era un ragazzo molto fragile. – Piangeva con compostezza.

Avrebbe voluto metterle una mano sulla spalla, ma si fermò in tempo. Zumbini si affacciò appena, sempre alle prese con la sua immancabile limetta dall’impugnatura viola, ma si ritirò con un sorriso sornione.

– Gli amici lo sapevano… e si approfittavano di lui.

Potrebbe essere mia figlia, pensò lui. Beh, forse non proprio. Indossava una blusa leggera e una gonna di maglia blu con piccoli disegni geometrici. Cercò di non concentrarsi su quelle ginocchia minute.

– È vero che litigavamo spesso, però gli volevo bene, ispettore. Anche ieri sera mi ha fatto una scenata per una cosa senza importanza. Mi ha scaraventato addosso diversi piatti e una bottiglia di vino.

– Lo so, la signora dell’appartamento a fianco vi ha sentito gridare.

– Già, la Euselli – sospirò alzando le spalle. – È una specialista nell’ascoltare i nostri litigi.

Valentina Busco accavallò le gambe con eleganza.

– Lei non abita qui, vero?

– No, sono ancora dai miei, a Monteverde.

Non avrà più di venticinque anni, si disse. Ne ho solo tredici di più. Non molti, in fin dei conti.

– E del Vitali, cosa mi sa dire?

– Non lo conosco bene. È un tipo chiuso, schivo. Non credo sia cattivo…

– Però ha minacciato diverse volte il suo… – gli riusciva difficile pronunciare quella parola – … fidanzato, l’Ernesto.

– Sì, è vero. Per questioni di condominio, credo, per la cantina e il posto auto. Più volte Vitali ha bucato le gomme della moto di Ernesto…

– Per ora è l’indiziato principale.

Quando tornò nella stanza dove era avvenuto il crimine, il suo sguardo fu catturato dal tavolo al centro, sotto il quale la stessa Valentina aveva rinvenuto il corpo del Nossi. Le mazzette col denaro, in banconote da 100 euro, una scatola di sigari, una stecca di sigarette americane, un orecchino di platino con un piccolo smeraldo, una carta di credito intestata a tale Mariadelaide Eugenia Giacomini, in realtà rinvenuta per terra, e una sfera di vetro con dentro un semplice pesce rosso che dava evidenti segni di irrequietezza.

In quel periodo il pesciolino si sentiva in effetti particolarmente turbato, forse perché aveva presagito i tragici accadimenti o per via della sua netta sensibilità alle violente tempeste solari.

Gentiletti capì che non aveva mangiato da molto. Da ragazzino aveva avuto

molte volte quel tipo di pesce. Quando morivano il suo cruccio era sempre stato notevole.

Zumbini decretò: – Alla data di oggi il Nossi ha scritto “pacco da G.” – Aveva un alito insopportabile, come sempre. Sempre presso la finestra, agitava la sua limetta sopra l’agendina della vittima.

Gentiletti era assorto e non sentì neppure la suoneria. Era un brano di 50cent che non sopportava; proveniva dall’iPhone che Zumbini lasciava squillare con placida ostentazione. L’ispettore continuava a fissare l’orecchino sul tavolo; poi spostò pigramente lo sguardo sul soldi e infine sul pesce.

Lasciò scorrere un polpastrello sul bordo di vetro. Si sentiva nervoso, ma la presenza del pesciolino lo rasserenava.

– Zanardelli dall’archivio informatico ha scoperto che Calabroni Giovanni è noto per furti in appartamenti, zona Parioli e Balduina.

Percorreva sempre lo stesso cerchio immaginario, si arrestava, annusava il vetro, sembrava scuotere la testa e proseguiva alla stessa velocità. Faceva delle bolle piccole e regolari. Aveva chiamato i suoi col nome di Gedeone, tutti, complessivamente una dozzina.

Zumbini riprese ad armeggiare anche con lo stuzzicadenti.

– Ah, e inoltre Nossi Ernesto rivendeva a un orafo di Centocelle, tale Venturelli

Clelio.

Adesso gli sarebbe piaciuto averne uno in casa, anche per far piacere a suo figlio Gigi.

– Mi ha sentito, ispettore?

Pareva assente, attratto da quel piccolo essere rosso.

Si era convinto che il colpevole non poteva che essere il Vitali, come ipotizzato da subito. Cercò di riassumere gli eventi.

Alle 8.45, per una ennesima questione condominiale, Terenzio Vitali suona il camlo del Nossi, che non risponde. Alle 9 circa il Calabroni arriva e consegna il suo pacco, probabilmente refurtiva, gioielli e carte di credito. Alle 9.10 di nuovo il Vitali si avvicina, non suona perché sente delle voci dentro l’appartamento, certamente Nossi e Calabroni. La Euselli riferisce di aver visto a quell’ora il Vitali tentennare per un po’ di fronte alla porta della vittima.

Nuovamente alle 10.20 circa l’anziana signora dallo spioncino vede il Vitali indeciso di fronte all’uscio socchiuso del Nossi, dove rimane un paio di minuti e poi si ritira in casa. Alle 11 la bella Valentina entra in casa del fidanzato e lo trova cadavere.

Di certo qualcosa sarà sfuggito alla temibile Euselli, nei momenti in cui si dedicava alla cottura del suo benedetto brasato. In quel frangente il Vitali avrà

avuto il tempo di entrare nella casa del suo nemico e compiere l’atto criminoso.

– Eppure… – si sente dire lo stesso Gentiletti.

– Ispettore, sempre Zanardelli mi comunica che la contessa Giacomini ha denunciato un furto in casa, zona Parioli. Questa notte, intorno alle 2 e 45. Due filippini tramortiti.

Non pensava neppure più a Valentina. Si limitava ad ascoltare distrattamente il fido Zumbini.

– Ah, la contessa afferma che tra l’altro le è stato rubato anche un paio di orecchini in platino con smeraldi.

– Già…

Con aria di compiacimento Zumbini alzò le spalle, e si diresse in cucina per cercare del caffè.

Gentiletti prese una sedia, si sedette a cavalcioni, poggiando i gomiti sullo schienale. Osservava il presunto Gedeone nella regolarità del suo moto.

Si guardò in giro nella stanza per assicurarsi di essere solo. Avvicinò la sua faccia solare alla sfera un po’ impolverata.

– Se tu potessi parlare…

I ricordi si affollavano: la madre mentre gli porgeva il mangime, che lui lasciava cadere sulla superficie dell’acqua, come fosse neve. Un inverno la sfera cadde sul pavimento della cucina, e a nulla valsero gli sforzi di suo padre carabiniere per salvare il Gedeone di turno. Pianse per tutta la notte, e non mangiò per il dispiacere.

– Che devo fare con il Venturelli Clelio?

– Chi?

Zumbini esibì una smorfia epocale. – L’orafo di Centocelle, ispetto’!

– Non so… chiamalo!

Zumbini non gli era simpatico, anche perché si vantava di conoscere il questore, ma tutti sapevano che non era vero. Lui sosteneva da anni che sua moglie era cugina di secondo grado della seconda moglie del questore, un uomo austero con tanto di nonni dalle remote origini austroungariche che mal si sarebbe assortito con un tipo rozzo quale Zumbini.

– Non è che sarebbe meglio che ci assi di persona, ispetto’? Lì vicino ci sta mia cugina - e fece un gesto eclatante come per dire “sì, mia cugina, ci siamo capiti!” - che non vedo da mesi…

– Vai, vai, Zumbi’.

Non sembrava neppure soddisfatto. Ancora una volta roteò con maestria lo stesso stuzzicadenti del primo mattino e fece per uscire.

Gentiletti sospirò e tornò a concentrarsi sul pesciolino. I suoi occhi erano diventati teneri come a dire “lo devi capire, è fatto così”. Ma in fondo era ancora nervoso. E poi, tutti quei remoti ricordi d’infanzia… Quasi lo infastidivano.

Zumbini rientrò: – Ma che sta a fissa’ il pesce rosso?

– Vaaaaiiii!

Ridacchiava, il bifolco.

L’ispettore lasciava fluttuare la sua stanchezza all’interno di quella boccia d’acqua, dove gli eventi cruenti del mondo non sembravano contaminare una pace naturale.

L’acqua era il suo elemento. Amava il mare ma anche i bagni al fiume o in piscina. Cominciava a mettere su una pancetta decorosa che sua moglie criticava invece con ostinata amarezza. Lui era convinto che il nuoto fosse per lui l’attività più piacevole e congeniale per mantenere la forma. Gigi gli aveva regalato un bel costume a grandi righe che indossava con orgoglio, nonostante l’ironia plateale rivoltagli degli altri nuotatori maschi della piscina.

Il pesce si era fermato. Sembrava fissarlo. Boccheggiava.

Gentiletti pareva intuire delle parole in quei movimenti silenziosi. Poi si disse che forse non si sentiva troppo bene. Visto di profilo era identico a Jean Reno, anche senza gli occhiali, ma questo Gedeone non poteva saperlo perché non conosceva l’attore se.

– Avrei bisogno di riposo.

E poi, questo lavoro! Lui, che voleva fare il violista come suo zio Alberto, che era morto giovane sotto un tram a Porta Maggiore. O anche il ballerino classico o un taciturno poeta di haiku.

– Ciao, Gedeone.

Muoveva il dito vicino quegli occhietti vitrei, giustamente acquosi.

– Io vado, ispettore.

Probabilmente l’appuntato Polifroni l’aveva sentito, ma per fortuna era un tipo semplice che si faceva i fatti suoi e uscì senza ulteriori commenti.

Sospirò.

Il pesce lo guardava con simpatia.

Aveva visto.

Aveva visto tutto.

Giovanni Calabroni era entrato in casa del Nossi poco prima delle 9.00, trovando l’amico disteso e sereno, non nel suo stato abitualmente depressivo. Il Calabroni aveva deposto sul tavolo un pacco che aveva subito aperto. Le sei carte di credito della contessa, diverse collane d’oro, una ventina di anelli, e altrettanti orecchini.

Ernesto era stato attratto dagli orecchini con gli smeraldi che avrebbe volentieri regalato alla sua Valentina, per farsi perdonare i violenti litigi e altri più trascurabili tradimenti. Li aveva osservati con attenzione, e poi nella confusione goliardica che seguì li aveva lasciati sul tavolo.

Da una tasca il Calabroni estrasse i mazzetti di banconote che mise all’ombra delle sfera di vetro. Gedeone registrò un riflesso colorato che ancora non conosceva. Gli occhi del Nossi brillarono per la sorpresa di tanto denaro. Mai colpo aveva reso meglio.

– Il tutto era conservato in una cassaforte scamuffa. – Avrebbe sentito il pesce, se l’acqua non lo avesse isolato anche da un punto di vista acustico. – Facile come un gioco da mocciosi.

Il Nossi rideva.

– Peccato per i due filippini che abbiamo dovuto imbavagliare – avrebbe anche detto. – Ma peggio per loro. La contessa dormiva com’un cavallo.

I due si abbandonarono a salti puerili e abbracci colmi di eccitata esaltazione.

– Conserva tu il malloppo. Devo andare in quel di Firenze a trovare la mia Ginetta. Prendo solo 300 euro per le spese.

Si salutarono con affetto. Il pesce avrebbe anche notato il calore con cui il Nossi congedò l’amico.

Avrebbe anche sentito il Vitali bussare alla porta, cosa che non fu registrata dai due furfantelli perché presi dalle loro esaltazioni.

Mezz’ora dopo l’uscita di Giovanni Calabroni, entrò in scena la bella Eleonora Brusellini, impetuosa fidanzata dello stesso Calabroni e nipote dell’inossidabile signora Euselli. Una vera furia, questo Gedeone lo percepì subito. Tanto che si arrestò per afferrare meglio la scena. Tuttavia non avrebbe certo sospettato i fatti che stavano per compiersi in quella casa.

Davanti allo stupore dell’Ernesto, la donna si fermò a contemplare la notevole refurtiva. Emise dapprima una parolaccia colorita. Poi:

– Ero certa che ’sta robba fosse qui da te, bastardo! – avrebbe esclamato.

Lei toccava il fagotto con avidità. Guardava le tre mazzette di denaro con altrettanta attenzione. Ne prese una e la mise nella sua borsa di tela verde.

– Questi mi spettano. Sono io che vi ho dato le indicazioni e l’indirizzo per spennare la contessa – e qui giù la stessa parolaccia. – Ho lavorato da lei per mesi, ve lo siete dimenticato? – e qui seguì una variazione ennesima della medesima volgarità.

Il pesciolino rosso avrebbe anche raccontato all’ispettore Gentiletti quella frase pronunciata successivamente dalla Brusellini in suo favore.

– Ma gli dai da mangiare alla povera Wanda? Sembra smodatamente inquieta…

Quello di cui Gedeone, all’anagrafe Wanda, non si sarebbe reso conto era il fatto che la Brusellini pronunciava il suo vero nome col suono falsamente sofisticato di “Uanda”, anche perché quello fu il momento che il Nossi aspettava per accoltellare la Brusellini.

Lei aveva immerso le mani in mezzo ai gioielli, tra collane d’oro e gli anelli con diamanti, zaffiri tailandesi e rubini birmani. Richiuse il pacco, afferrò gli orecchini destinati alla Busco, e avrebbe voluto dire: “E questi? Te li volevi inguattare o sono tuoi personali, bello mio?”

Fu allora che l’affilato coltello giapponese percorse la traiettoria impostagli dal Nossi. Ma la Brusellini fece uno scarto improvviso e la lama si conficcò nel tavolo. Wanda ebbe un soprassalto ittico e iniziò un periplo circolare a mo’ di atto sciamanico e propiziatorio. In quel frangente uno degli orecchini dalla mano sinistra della Brusellini atterrò sul tavolo e l’altro planò sulla superficie liquida contenuta all’interno della sfera di vetro, rallentò il suo moto gravitazionale a causa del maggiore attrito dell’acqua, sfiorò l’estremità della pinna caudale della spaventata Wanda e si adagiò mollemente sul fondo con aristocratica mestizia.

La Brusellini conosceva le qualità del Nossi, che a suo tempo le era stato compagno di letto, ma anche le sue debolezze. Da anni nutriva per lui una sorta di rancore per alcuni sgarbi che l’Ernesto le aveva inflitto con scarso onore maschile. In ultimo, anni prima, le aveva preferito una brunetta dall’aspetto malaticcio.

Nutriva un malanimo che un nulla avrebbe fatto sfociare nell’odio e nella possibilità di vendetta. Si trovò un coltello ben affilato a portata di mano. Lo sfilò quindi dal tenero legno del tavolo.

Gedeone avrebbe parafrasato Lin-Chi: “Quando incontri un assassino, non mostrargli il tuo coltello”.

Nossi impallidì, conscio del grave pericolo. Lei percepiva la vigliaccheria e l’indecisione di lui.

Wanda si arrestò perché aveva percepito nell’aria, o meglio nella sua acqua che ahimè iniziava a odorare di stagno, un inequivocabile sentore di pericolo.

Cercò di dilatare l’occhietto che pose di profilo rispetto alla concavità del vetro, ma non poté scorgere granché. Il Nossi era già sotto il tavolo, agonizzante.

Lì lo lasciò la Brusellini, che afferrò prontamente il pacco dei gioielli e le carte di credito. Una cadde per rimbalzare sulla testa appuntita della vittima. Non se ne accorse e non indugiò ulteriormente, perché aveva già fissato un appuntamento col Venturelli Clelio nel suo triste negozio di Centocelle. E poi sarebbe dovuta andare a pranzo dalla zia Eufemia, la signora Euselli, che abitava proprio sullo stesso pianerottolo di quella scamorza lessa dell’Ernesto, buon’anima.

Avrebbe potuto benissimo inventare una scusa alla zia un po’ rincoglionita, ad esempio un ciclo mestruale copioso come un torrente himalayano, e così avrebbe anche evitato l’invasione della polizia che ben presto avrebbe preso possesso di tutto l’immobile, con domande insistenti e inutili.

Wanda non vide il o svelto della donna che imboccava le scale nelle quali si spandeva già il profumo intenso del brasato, unito a un tremendo fetore di broccoletti cucinati dalla portiera con solerzia ogni santo giovedì. Neppure questi olezzi poteva sentire la povera Wanda, rattristata sommamente per la misera sorte del suo caro Ernesto.

Tutto questo avrebbe potuto confessare il pacifico pesce rosso. Lo guardava e, anche se non aveva mai amato gli sbirri delle molteplice incursioni nell’appartamento del Nossi, sentiva che l’uomo che le era davanti, poco oltre il vetro della boccia, era diverso, e che di lui si sarebbe potuta fidare. E arrivava anche a immaginarsi di nuotare in casa dell’ispettore Gentiletti, serena in una bella sfera lucidata, con sul fondo una rara tridacna gigas, ben accudito nel salotto ordinato e preciso della signora Luisella e coccolato dal piccolo Gigi.

Le note di Mozart fecero vibrare il cellulare dell’ispettore; era un vecchio modello che nessuno in città aveva più ma di cui lui era quasi orgoglioso. La voce fessa del Zumbini:

– Ispettore, qui dal Venturelli Clelio ho trovato una ragazza, tale Brusellini Eleonora, alta, bionda, capello corto, decisamente carina, che stava cercando di vendere un pacco di gioielli, refurtiva probabilmente.

Gentiletti sorrise. Sullo scaffale vicino la finestra aveva visto una scatola di mangime per pesci, della stessa marca che usava lui quand’era un ragazzetto impacciato. Si alzò per prenderla.

Wanda riprese a compiere i suoi giri regolari. Intuì che le cose per lei stavano per mettersi al meglio.

Sul fondo della boccia l’orecchino di smeraldi luccicava debolmente.

NON GUARDARMI MORIRE di Fulvio Pera

Leila guardò il pesce rosso in fondo all’acquario a sfera. Si tirò su la manica del braccio destro e immerse la mano nell’acqua. Per estrarlo dovette svitarlo da un piedistallo a forma di alga.

– Lo sapevo che non era un vero pesce.

Sull’addome c’era un piccolo interruttore spostato su off e una porta di connessione per trasferimento dati con il PC, protetta da una chiusura in gomma.

Spostando l’interruttore il pesce iniziò a vibrare e muovere le pinne. Leila lo rimise nell’acquario e restò qualche istante a guardarlo girare in tondo lungo le pareti ricurve. Lo riprese, lo spense e andò a sedersi sul letto.

Il materasso era molto molle. Non ricordava minimamente quello di casa sua, o meglio quello di casa dei suoi genitori, in cui aveva abitato fino alla settimana prima.

– Chissà se il mio vero letto è già stato disfatto. Quel letto mi ha vista crescere. Spero che mia mamma si ricordi di lavare presto le mie lenzuola rosa, le adoro, le voglio qui. – Sorrise al pensiero, poi si chiese: – A casa sentiranno già la mia mancanza?

Il giorno dopo Leila avrebbe iniziato a lavorare in un laboratorio farmaceutico.

Negli ultimi scatoloni ancora accatastati vicino alla parete d’ingresso si trovava quasi tutta la sua personale biblioteca di medicina.

Aveva ato il pomeriggio a pulire vetri, pavimenti e spolverare il possibile. Rimanevano da svuotare gli scaffali della libreria su cui troneggiava l’acquario, circondato da libri e riviste non sue.

Si mise sulle ginocchia il portatile e collegò il pesce tramite lo stesso cavetto che utilizzava per la macchina fotografica. Dopo pochi secondi, sul monitor del PC, comparve una finestra con una lista di file video contenuti nella memoria del pesce. Li mise in ordine per data di creazione e fece partire il più recente, creato quello stesso giorno.

Vide se stessa all’incontrario, con espressione stupita, poi sorridente. Il pesce era una telecamera giocattolo. Il quadro diventò nero, oscurato nel momento in cui aveva chiuso la mano. L’immagine tornò dopo poco, adesso vedeva se stessa da dentro l’acquario, con una leggera distorsione dell’immagine dovuta all’acqua e al vetro. Il pesce, in movimento, aveva iniziato a girare in tondo quindi Leila si vedeva solo in quei brevi istanti in cui gli occhi del pesce puntavano su di lei.

Gli altri video risultavano registrati l’anno precedente. Fece doppio click sul più vecchio. Apparve la stanza in cui si trovava, arredata diversamente. In piedi, scalza su un tappeto giallo e arancione a forma di stella, c’era una ragazza dai capelli biondi, lunghi, tenuti sciolti.

Dondolava a destra e a sinistra, ferma sui piedi. Aveva lo sguardo perso fisso su un punto invisibile davanti a lei. Sollevò le braccia, continuando a dondolare. Iniziò a muovere i piedi, roteando su se stessa, seguendo cerchi immaginari che si andavano allargando. Poi spezzò i cerchi e iniziò a ballare disperatamente, correndo per la stanza, saltando sul letto. Le immagini erano accompagnate da

suoni indecifrabili, ovattati, come venivano percepiti da dentro l’acquario. Doveva essere una qualche canzone, durò qualche minuto e terminò con la ragazza al centro della stanza, china su se stessa.

Leila guardò il pavimento vicino al letto, non c’era più nessun tappeto a stella. Quella ragazza doveva essere l’inquilina che abitava lì prima di lei, “prima di me, prima di me”, queste parole le facevano eco nella testa.

Quella stanza non le apparteneva realmente.

Per tutta la settimana aveva fatto avanti e indietro dalla macchina del padre parcheggiata con le quattro frecce davanti al portone del condominio al terzo piano senza ascensore dove si trovava l’appartamento, carica di valigie e scatoloni. Sin dall’inizio aveva deciso che avrebbe smantellato per ultima la libreria a muro, “magari c’è qualche libro interessante che posso tenere”. Ma anche ora che l’armadio era stato riempito coi suoi vestiti, che aveva cambiato le tende alle finestre, messo i trucchi sulle mensole in bagno, quella stanza non era sua.

Cosa accadeva lì dentro mentre lei stava dando l’esame di Biologia l’estate precedente o il giorno in cui lei aveva organizzato la festa di laurea? Solo quel pesce aveva memoria?

Leila tornò coi pensieri a ciò che aveva davanti, altri video da esaminare. Non poteva farne a meno, sapeva che li avrebbe guardati tutti. Fece partire il secondo.

La ragazza era sdraiata sul letto, con i piedi tenuti in alto. Teneva in equilibrio un cuscino, tentava di farlo ruotare come un’elica. Il cuscino cadde, la ragazza si

mise a sedere e sembrò dire qualcosa, la bocca si muoveva. Mise una mano in tasca e ne estrasse un pacchetto di sigarette, ne accese una e si mise a fumare, soffiando il fumo in alto, lasciando che si disperdesse sopra la sua testa. arono un paio di minuti, si voltò, spense la sigaretta sul davanzale della finestra vicino al letto. Adesso stava sorridendo, non guardava la telecamera, guardava altrove. Si alzò, camminò fino al centro del tappeto, restò immobile per un’altra manciata di secondi, poi iniziò a ruotare su se stessa, sempre più veloce, velocissima. Aprì la bocca, forse gridava.

Il video si fermò.

Nel terzo video la ragazza era di schiena, seduta alla scrivania. Sembrava stesse scrivendo qualcosa. Si fermò, girò di lato la testa, come distratta da un rumore alle sue spalle. Riprese a scrivere. Quando si alzò dalla scrivania aveva in mano un foglio, lo piegò e lo mise in uno dei cassetti di destra. Il video finì.

Leila si alzò di scatto e saltò vicino alla scrivania. Nei giorni precedenti l’aveva spostata contro la parete opposta rispetto al letto ma non ricordava di averci trovato nulla dentro. Ispezionò ogni suo cassetto, non solo quelli di destra. Non trovò niente. “Sono una sciocca anche solo ad averlo pensato”. Tornò sul letto e fece partire il video successivo.

Il quarto video non mostrava niente se non uno schermo nero. Eppure il tempo scorreva. Leila guardò dentro quella oscurità. Non vedeva niente, nemmeno riusciva ad immaginare, la sua mente era vuota, assetata di immagini.

Avviò impaziente il quinto. La ragazza era seduta sul pavimento, si stava leccando le mani, tirava fuori la lingua e leccava ogni singolo dito. Rideva. Continuando a ridere si guardò rapidamente intorno, si alzò di scatto e andò alla scrivania, scrisse qualcosa e si voltò tenendo il foglio tra le mani, non rideva più.

Sul foglio si leggeva NON GUARDARMI, la ragazza lo stracciò frettolosamente, in piccoli pezzi, se ne riempì le mani e ingoiò con foga. Tornò sul pavimento. Rideva.

– Per chi era quella scritta ? Non può essere per me, non può. Io devo guardare...

L’ultimo video iniziò con la ragazza che stava già ballando. Dopo poco si fermò, si portò le mani al viso e iniziò a piangere. Smise. Riprese a ballare. Ballava e saltava per la stanza. Spesso usciva dall’inquadratura per poi tornarvi correndo.

Ad un tratto il suo corpo si bloccò, come se il video fosse stato messo in pausa. Restò immobile per alcuni secondi poi cadde malamente a terra.

– È morta? – si chiese Leila ad alta voce, tanto alta che sentire se stessa la fece sobbalzare.

La ragazza si rialzò lentamente, uscì dall’inquadratura e ricomparve più tardi con un coltello in mano. Riprese la sua macabra danza facendo roteare da una mano all’altra il lungo coltello da cucina. Leila era pietrificata davanti allo schermo, quella scena era ancora più inquietante delle precedenti. Non conosceva quella ragazza ma qualcosa la spaventava e temeva per lei.

La ragazza si spogliò, completamente. Aveva una pelle bianchissima, un corpo magro. Si puntò il coltello sul petto nudo e con un colpo secco fece penetrare dentro tutta la lama. Il sangue sgorgava dalla ferita. Copioso. Inondò il tappeto a forma di stella.

Leila chiuse il monitor del portatile di scatto. Come se quel gesto potesse cancellare dalla mente ciò che aveva appena visto. Ma non poteva. Si alzò tremante. Un forte calore le nacque nelle viscere e salì impetuoso verso l’alto. Corse in bagno a vomitare.

Tornata in sé cercò il cellulare e chiamò suo padre. Non rispondeva, era ata la mezzanotte, doveva essere a dormire. Chiamò la padrona di casa. Rispose dopo svariati squilli.

– Si? – rispose sbadigliando una voce assonnata

– Signora sono Leila, la nuova inquilina. Oddio non so come dirlo ho trovato una registrazione che…

La linea era molto disturbata.

– Leila? … quest’ora? Non sento bene... linea…

– No signora è importante, devo sapere, la ragazza che abitava qui prima di me, dov’è adesso?

– Ragazza? Non… ragazza… c’era quel ragazzo… capelli rossi… cieco… andato via mesi fa. Senti ne parliamo domani...

La linea cadde. Leila richiamò subito, ma il numero adesso era irraggiungibile.

“Un ragazzo?”, fino a quel momento nei video si era vista sempre e solo una ragazza, la stessa ragazza bionda. Ma questo, pensandoci bene, non significava che la ragazza fosse sola nella stanza. In un punto non inquadrato dalla registrazione c’era qualcuno e quel qualcuno era un ragazzo cieco. Leila non capiva. – Perché lui non si vede? Non si accorgeva che lei si stava uccidendo? Era lui che la obbligava? E perché registrare se non poteva riguardare quei video?

Leila era in preda al panico. Doveva chiamare la polizia, voleva gridare.

Il portatile era ancora sul letto, nell’esatta posizione in cui l’aveva lasciato.

– Devo chiamare immediatamente la polizia – si ripeteva mentre si riavvicinava al letto. Toccò il portatile con un dito, subito ritrasse la mano, come se si fosse scottata. Infine lo riaprì.

La scena riprese da dove l’aveva lasciata, la ragazza era sdraiata a terra, immersa nel suo stesso sangue. Da un angolo dello schermo si vedeva del movimento. Una figura nera emerse da sotto l’inquadratura ed aiutandosi con un bastone si avvicinò al corpo. Si chinò, tastò il collo del cadavere. Poi come se la scena stesse andando a rallentatore si girò verso la videocamera, con gli occhi spalancati, ricoperti da una patina grigia. Aveva i capelli di fuoco e quegli occhi senza pupilla non battevano mai ciglio. Leila rimase a fissarli, si avvicinò al monitor del portatile per immergersi in quello sguardo grigio.

“È lui, è lui l’assassino. Perché ha lasciato qui l’acquario? È una prova schiacciante della sua colpevolezza.” Leila si sentì come avvolta da quello sguardo, le faceva venire freddo e sentire freddo è come sentirsi nudi, nudi

davanti a ciò che non si conosce. “No, no, lei si è uccisa da sola. Io l’ho vista morire, si è uccisa da sola”. Leila non sapeva niente di quell’uomo né della ragazza morta sul pavimento. La casa in cui si trovava era a centinaia di chilometri da quella dei suoi genitori. Là, dai suoi genitori, non si era mai sentita così nuda, mai, era protetta, non aveva mai visto laghi di sangue, non era ancora pronta a sostenere quel tipo di orrore, perché non l’aveva mai conosciuto. Sentì che dagli occhi le stavano scendendo delle lacrime, ma non riusciva a battere ciglio. Continuava a guardare ed essere guardata da quell’uomo nel video, fin quando la mano di lui non premette un pulsante su un piccolo telecomando a distanza e il video terminò.

Leila era immobile. E lo rimase a lungo.

La sua mano destra riprese il controllo del mouse collegato al PC portatile. Selezionò tutti i filmati e con un paio di click li cancellò dalla memoria del pesce.

Si mise sotto le coperte e si addormentò.

La mattina dopo Leila si alzò dal letto che il traffico già si faceva sentire sotto la finestra della sua nuova camera. Si rese conto di aver dormito vestita. Si mise a ridere. Sulla sedia vicina al letto c’era il suo portatile e il pesce rosso ancora collegato. Pensò che non sarebbe stata una cattiva idea rimetterlo nell’acquario e lasciarlo sullo scaffale della libreria a muro.

Erano le 7 e mezza. Doveva prepararsi per il suo primo giorno di lavoro. Fuori da quella camera l’aspettava un mondo ancora inesplorato.

GIUSTIZIA È FATTA di Domenico Verde

Il sorriso della bellissima infermiera fu come un lampo di luce in una notte buia e tempestosa.

– Lei mi ricorda una persona che ho conosciuto anni fa.

– Spero per me che questa persona non l’abbia fatta soffrire.

– No, lui no. – Il lampo di luce sparì in un attimo. – Suo padre sta migliorando, ma non è ancora in grado di ricevere visite. È tardi, forse è il caso che vada a riposare in un letto vero. Le sedie di quest’ospedale sono scomode.

– Grazie, è davvero un angelo. Credo sia meglio che vada. Buona notte.

Marco Ferro si avviò verso l’uscita con o stanco. La salute del suo vecchio lo preoccupava in maniera seria. S’infilò nell’auto e anziché prendere la direzione del suo appartamento si diresse verso il porto: aveva bisogno di sentire il rumore e l’odore del mare. Il cielo era senza nuvole e le stelle brillavano come luci su un albero di natale. Seduto su una sgangherata panchina, si mise a fissare quel paesaggio, solo con i suoi pensieri, finché il sonno non s’impadronì di lui. Era trascorsa quasi un’ora, quando lo squillo del cellulare lo fece sobbalzare.

– Sì, sono l’ispettore Ferro. Può ripetere, per favore? Non la sento bene. Via dei Ciclamini, 23. Sì, ho capito. Va bene.

L’indirizzo che gli avevano fornito dalla centrale operativa si trovava dall’altra parte della città e si riferiva ad una zona costituita da anonimi villini, uno uguale all’altro. Parcheggiò alla bene e meglio sul marciapiede davanti al civico 23; sul posto c’era già un auto di servizio della polizia e un’autoambulanza. Mostrò il tesserino all’agente che si trovava davanti al piccolo cancello d’ingresso, che lo lasciò are salutandolo militarmente.

– È stata una telefonata anonima ad avvisarci – disse il poliziotto che si trovava vicino alla vittima.

– Come è stato ucciso?

– Soffocato. Con una busta. L’abbiamo trovata ancora intorno al collo, quando siamo entrati. Nessun segno di colluttazione. È stato legato alla sedia ed è stato torturato.

– Torturato?

– Sì, con una sigaretta: ci sono i segni delle bruciature in quasi tutto il corpo. Della sigaretta sono rimaste solo le bruciature, nessuna traccia del mozzicone. A quanto pare, prima di legarlo, lo hanno tramortito con un colpo alla testa. Si notano ancora i segni della botta.

Marco Ferro si avvicinò al corpo del malcapitato: era un uomo sui quarant’anni, vestito con abiti firmati ed un Rolex al polso, dove si poteva notare una vistosa rosa tatuata.

– Beh, possiamo escludere il furto come movente – disse l’ispettore, mentre la sua attenzione venne colpita da un particolare: dalla tasca destra del pantalone spuntava qualcosa che somigliava… no, non poteva essere… ed invece sì! Si trattava proprio di una coda. La coda di un pesce rosso, di quelli che fanno tanto la gioia dei bambini.

Aiutandosi con un fazzoletto tirò fuori il pesce e lo osservò con curiosità.

– Cosa diavolo ci facevi nella tasca di questo tizio?

Il tizio, Alberto De Santis, incensurato, era un antiquario che aveva un negozio nel centro storico. I vicini di casa, che al momento della morte - risalente a 24 ore prima - non avevano sentito grida o particolari rumori, affermarono di non aver notato nulla di strano nel suo stile di vita: la vittima viveva da sola e riceveva, di rado, la visita di qualche amico o della sorella, che abitava nella stessa città.

I giornali del mattino dopo riportarono la notizia, dando risalto al ritrovamento del pesce rosso nella tasca del morto. La “scientifica”, dopo aver messo a soqquadro l’intero villino, non era riuscita a trovare una sola traccia. L’unico indizio rimaneva, dunque, quel pesce.

Marco Ferro, mentre attendeva di ricevere notizie di suo padre, provò a formulare alcune teorie. L’apparizione dell’angelo vestito da infermiera, con il suo sorriso luminoso, lo distrasse dai suoi pensieri.

– Suo padre è in una situazione stazionaria. In ogni caso, tra qualche minuto potrà parlare con il medico di turno.

– Grazie. Lei è sempre così gentile?

– Non con tutti. Solo con chi mi è simpatico.

– Ed io lo sono?

– Il mio nome è Lucia.

– Marco.

– Signor Ferro, mi hanno detto che voleva parlarmi. – Le parole del medico di turno interruppero bruscamente il loro dialogo.

Dopo aver parlato con il sanitario, l’ispettore lasciò l’ospedale. La giornata era stata faticosa. Quella notte avrebbe dormito nel suo letto per almeno otto ore di fila.

La mattina successiva si sentiva in splendida forma. Si recò nel suo ufficio con rinnovato vigore e mentre sorseggiava una fumante tazza di caffè gli diedero la notizia.

– Uomo. Quarantadue anni. Ucciso con un colpo di pistola in pieno petto. Hanno trovato il corpo, dopo aver ricevuto una telefonata anonima, nel parcheggio pubblico di una zona poco frequentata, appena fuori città. Unico indizio: un pesce rosso infilato nella tasca del pantalone.

“Ancora un pesce rosso!” pensò l’ispettore. “Questo caso è collegato senza ombra di dubbio con quello di via dei Ciclamini. Adesso siamo di fronte a qualcosa di più complicato.”

Mentre le indagini facevano il loro corso, i giornalisti si erano avventati sulla notizia come avvoltoi su una carogna. Anche questa volta, la polizia brancolava nelle tenebre più fitte: la vittima, un certo Michele Dattilo, era incensurata e svolgeva un normale lavoro di rappresentanza per una ditta di articoli per il giardinaggio. L’unico legame che lo legava ad Alberto De Santis era quello di aver frequentato la stessa classe ai tempi del Liceo.

“È una storia maledettamente intricata!” pensò per la quarta volta in dieci minuti, l’ispettore Ferro, mentre ingurgitava il Martini che il barman gli aveva appena versato.

– Piano con quella roba. Se ne bevi troppo può fare male! – La voce apparteneva ad una femmina da sogno, di quelle che lasciano a bocca aperta.

– Ci conosciamo? – fece lui, sicuro di aver già visto quel “sogno” chissà dove.

– Sono Lucia, l’infermiera. Non mi riconosci?

Rimase stupito da quella trasformazione: il suo abito da sera, attillato - troppo attillato - la rendeva ancora più bella. Richiuse la bocca, dandosi un tono. – Scusami, sarà il Martini… anche tu frequenti questo locale? Non ti avevo mai visto prima d’ora.

Rimasero insieme a chiacchierare fino alla chiusura del locale e, mentre tornavano a casa, lei fece una proposta che lui non poteva rifiutare: – Vuoi salire da me?

Fecero l’amore tutta la notte, con una ione travolgente.

Al suo risveglio Marco trovò un biglietto di Lucia: È stato bellissimo. Mi dispiace lasciarti da solo, ma il mio turno inizia presto.

Si guardò intorno, ancora intontito dal sonno: solo in quel momento si rese conto di dove fosse. L’appartamento era piccolo, ma ben arredato. Su una mensola, una foto attirò la sua attenzione. Una ragazzina - Lucia da piccola - insieme ad un ragazzo più grande di lei, sorridente.

– Marco, abbiamo fatto come ci hai detto di fare e pare che la cosa abbia funzionato. – Il poliziotto non vedeva l’ora di dare la notizia al suo superiore. – Forse siamo sulla buona strada, perché di tutti i compagni del Liceo frequentato dalle due vittime, uno in particolare - Paolo D’Agostino - desta i nostri sospetti: la fidanzata ci ha appena riferito che si è allontanato dalla città, improvvisamente. Come se scape da qualcosa. Abbiamo già diffuso foto e dati anagrafici ai commissariati di tutto il Paese.

Marco osservò la foto segnaletica con attenzione, prima di recarsi all’ospedale

dove era ricoverato suo padre. Non vedeva l’ora di rivedere Lucia.

– Ho visto quella fotografia, a casa tua… chi è quel ragazzo insieme a te?

– Mio fratello. È morto.

– Scusa… io… non potevo… non avevo capito. Quando è successo?

– Tanti anni fa, ma non ho voglia di parlarne. Tuo padre sta migliorando parecchio. Entra, ti sta aspettando.

– Ci vediamo questa sera?

– Sì, ho voglia anch’io di stare con te.

Trascorsero una nuova notte d’amore. Mentre dormivano abbracciati l’uno all’altra, il cellulare di Marco iniziò a squillare. Maledicendo lo sconosciuto interlocutore, rispose alla chiamata.

– Sì. Ripeti. Aspetta che prendo carta e penna. – Lucia andò in suo soccorso porgendogli un taccuino e una penna.

– Vai avanti. Sono pronto. OK, ho segnato tutto. Possiamo agire con calma, tanto

D’Agostino non sospetta nulla. Agiremo alle prime luci dell’alba. Ciao.

Appoggiò il taccuino sul comodino e baciò Lucia, stringendo forte il petto sui seni di lei.

– Scusami. Il mio maledetto lavoro mi perseguita.

Lei ricambiò il suo bacio con ardore e dopo pochi attimi la ione li travolse ancora.

Il rifugio di D’Agostino era una casupola in aperta campagna, a pochi chilometri dalla città. La soffiata era pervenuta grazie ad un avvistamento del tutto fortuito da parte di un poliziotto che nel tempo libero amava cacciare proprio in quelle zone. Cinque persone armate di tutto punto, di cui due in uniforme, si erano avvicinate all’abitazione in cui era nascosto il sospettato n° 1 del caso che ormai tutti chiamavano “del pesce rosso”. All’interno della casa si notava una tenue luce, quasi sicuramente una lampada ancora accesa. L’irruzione fu fulminea. Tutto doveva concentrarsi in pochi secondi, per evitare che l’uomo potesse scappare.

Ma Paolo D’Agostino non era in condizioni di farlo.

Lo trovarono con quattro proiettili conficcati nella schiena, in una pozza di sangue. Sul tavolo, in bella vista, un biglietto scritto a stampatello: GIUSTIZIA È FATTA. Questa volta il pesciolino rosso era solo disegnato, sotto la scritta.

Diciotto mesi dopo, Marco Ferro e Lucia Solis si trovarono nel pieno del rush finale del loro matrimonio.

Tutto era stato pianificato nei minimi particolari: le ferie, la chiesa, il ristorante, il viaggio, la nuova casa e quel giorno Lucia, in uno splendido abito nuziale, era più bella che mai. Marco sorrise compiaciuto, quando la vide entrare nella chiesa, con il suo o elegante e sicuro. – Ti amo – le sussurrò all’orecchio, prima che il prete desse inizio alla cerimonia.

Durante il party, organizzato in grande stile, Marco fece conoscenza con Alicia Monelli, quella che sua moglie gli presentò come “la sua migliore amica”.

– Sono contenta di essere qui, così posso finalmente conoscere l’uomo che è riuscito a conquistare il cuore della “mia Lucia!”

– Esame superato?

– A pieni voti. Siete una coppia meravigliosa.

– Lei deve essere veramente una persona importante per Lucia.

– Dammi del tu, Marco, altrimenti mi fai sentire ancora più vecchia di quello che sono. Tua moglie ed io siamo più che amiche… – disse, prendendo una mano della ragazza tra le sue – siamo come sorelle.

– Sono fortunata ad aver conosciuto una persona come te – aggiunse la sposa.

Il viaggio di nozze lo trascorsero a Parigi. Furono momenti indimenticabili.

Ma poi le vacanze terminarono ed ognuno si tuffò nel proprio lavoro.

Il caso del “pesce rosso”, insoluto, ancora aleggiava negli ambienti del commissariato. L’ispettore Ferro provava un senso di frustrazione e di rabbia. Aveva più volte montato e rimontato i pezzi di quell’intricato mosaico, ma non riusciva a trovare la chiave del mistero che circondava l’assassinio di quelle tre persone. Erano stati ipotizzati vari scenari, arrivando perfino ad indagare su una setta religiosa che aveva nel pesce il proprio simbolo, ma senza risultati concreti. Rimaneva in sospeso l’unico filo conduttore possibile, quello dell’ambiente delle scommesse, perché risultava che le tre vittime fossero dedite al gioco d’azzardo. Null’altro.

Nel sorseggiare il liquido nero erogato dal distributore automatico del commissariato, che tutti si ostinavano a chiamare caffè, Marco diede uno sguardo al giornale. La data del 1° aprile si prestava a qualche notizia creata ad arte per ingannare i lettori, in un classico “pesce d’aprile”.

Era già partita la gara a chi l’avrebbe scoperta, nascosta tra quelle vere.

Tornò a casa alla solita ora. Lucia era ancora in ospedale. Andò in cucina e trovò un suo biglietto attaccato al frigorifero, un grosso post-it.

Lo prese ed iniziò a leggere: Amore mio, non aprire il frigo. Dentro c’è il mio “pesce d’aprile”, una sorpresa preparata apposta per te. Sotto la scritta, il disegno di un pesciolino. Sorrise, mentre rimetteva il post-it dove l’aveva trovato.

Accese il televisore e si sdraiò sul divano, in attesa che lei tornasse. I programmi erano di una noia mortale. Guardò l’orologio: mancavano pochi minuti alle ventuno. Poi, improvvisamente, come se il cervello fosse stato attraversato da una potente scarica elettrica, si alzò di scatto per prendere il cellulare. Compose un numero che conosceva a memoria.

– Michele, sono Marco. Devi farmi un favore. Sì, adesso.

Dopo mezz’ora la moglie tornò a casa.

– Tesoro, sono tornata! – esclamò, mentre poggiava la borsa su una sedia. Marco apparve nella stanza con una strana espressione dipinta sul volto. Era pallido.

– Che c’è? – chiese lei, preoccupata.

– Dobbiamo parlare.

Rimase a fissarla per qualche istante, prima di mostrarle un’immagine memorizzata sul suo cellulare, inviata tramite MMS dal commissariato.

– Sei stata tu, vero?

L’immagine ritraeva il biglietto trovato nella casupola dove era stato ucciso D’Agostino.

Lucia chiuse gli occhi per qualche secondo. Poi, mentre li riapriva, rispose con un tono di voce privo di emozioni.

– Come lo hai capito?

– Il disegno del pesce è esattamente uguale a quello che hai lasciato sul frigo: stessa linea continua, stessi particolari, direi unico nel suo genere! Questo particolare, come un grimaldello, mi ha aperto la strada ad altre conclusioni. Che stupido sono stato! Come ho fatto a non capire prima! Sei riuscita ad arrivare a D’Agostino perché quando hanno scoperto dove fosse nascosto eravamo insieme ed ho pronunciato il suo nome; poi hai atteso che mi addormentassi ed hai letto le indicazioni che avevo annotato sul block notes. Ci hai preceduto di qualche ora, mentre ero convinto che tu fossi andata in ospedale!

La moglie, con lo sguardo perso nel vuoto, non disse una parola.

– Lucia, per amor del cielo! Mi spieghi?

Lei, con calma, versò Martini per due.

– Marco, vuoi veramente ascoltarmi? Perché, a questo punto, sono disposta a parlare solo con mio marito, non con il poliziotto.

Lui bevve in un colpo solo il contenuto del suo bicchiere. Si sedette sul divano ed annuì.

– A patto che mi racconti la verità.

– Avevo appena dieci anni, quella maledetta sera. Ero con Endrigo, mio fratello, e stavamo uscendo dal luna park dove mi aveva portato. Avevo in mano una busta piena d’acqua con un pesce rosso che mio fratello aveva vinto al tiro a segno. Ad un certo punto tre ragazzi ubriachi iniziano inspiegabilmente a prenderci in giro. Endrigo non gli dà spago e ci allontaniamo, ma i tre ci seguono. Uno di loro si fissa con il mio pesciolino rosso e grida che è suo, che glielo avevamo rubato! Poi, improvvisamente, l’inferno. Mio fratello, aggredito, cerca di difendersi come meglio può e mi urla di fuggire. Io, invece, rimango lì a guardare.

Lucia sospirò, riprendendo fiato.

– Lo percossero con tanta violenza che lo ammazzarono. Prima di scappare uno di loro mi strappa il pesciolino dalle mani: aveva un tatuaggio sul polso sinistro. Una rosa. Per anni ho vissuto nell’odio verso quei tre uomini. La polizia non è mai riuscita a risalire alla loro identità. C’è voluto parecchio tempo per superare lo shock. Due anni fa un tizio con una rosa tatuata si presentò in ospedale per sottoporsi a degli esami clinici. Riconobbi immediatamente il tatuaggio e, dopo varie peripezie, riuscii a sedurlo. Tramite uno stratagemma riuscii a farmi raccontare di quel fatto accaduto al luna park: era lui! Finalmente lo avevo trovato! Lo torturai fino a fargli confessare i nomi dei suoi complici. Il pesciolino nella tasca doveva servire a dare un chiaro messaggio agli altri: Vi ho trovato! Adesso tremate! Il resto della storia la conosci, non c’è bisogno che dica altro.

Dopo il racconto di Lucia, nella stanza piombò un pesante silenzio.

– Cos’hai intenzione di fare, adesso? – chiese lei, osservando la faccia, senza espressione, del marito.

– Non lo so.

– Non aspettarti che mi costituisca. Non lo farò mai.

– A questo punto dovrò arrestarti.

– Non hai altra scelta.

Marco la guardò negli occhi per alcuni interminabili secondi. Poi la sua espressione cambiò.

– Cosa stai cercando di fare, perché mi stai nascondendo la verità?

– Cosa… cosa vuoi dire?

– Sul luogo dove venne ucciso D’Agostino, furono riscontrate le tracce di due

persone. Quella notte non eri sola. Chi c’era insieme a te?

– Sono stata io ad uccidere quegli uomini. Non c’era nessuno con me, quella notte.

Ma quello che affermava sua moglie non lo convinceva: il suo intuito da poliziotto gli diceva che qualcosa non quadrava.

– Va a riposare, adesso… – le disse con voce calma – rimandiamo ogni decisione a domani.

Alle otto di mattina, mentre la moglie dormiva sotto l’effetto di un sonnifero che lei stessa si era somministrato, Marco parlava al telefono con un suo superiore.

– È importante, dottore. Lo so che c’è bisogno dell’autorizzazione del giudice. Ma quest’informazione può riaprire il caso del “pesce rosso”, glielo assicuro.

Poche ore dopo ebbe l’informazione tanto attesa. Nel frattempo Lucia si era svegliata, anche se con un terribile mal di testa.

– Cosa hai deciso di fare? – chiese al marito.

Le mostrò un foglio sul quale aveva scritto un numero di telefono.

– È il numero che hai chiamato più volte. Tre chiamate risalgono a poche ore prima della morte di quegli uomini, che TU dici d’aver ucciso.

A quelle parole la donna cambiò espressione.

– Mi dici a chi appartiene questo numero di cellulare?

Lei non rispose.

– Va bene, vuol dire che lo scoprirò da solo.

Compose il numero, poi attivò il viva voce. Dall’altra parte, dopo alcuni squilli, rispose una voce femminile.

– Sì? Chi parla?

– Alicia! Scappa! Ti hanno scoperto! Mettiti in salvo! – gridò Lucia, con tutta la forza che aveva. La comunicazione s’interruppe. Marco chiamò la centrale operativa. La fuga della donna durò poche ore e, in serata, il caso del “pesce rosso” fu risolto: l’esecutrice materiale dei tre delitti era Alicia Monelli. Lucia le aveva chiesto aiuto - dato che era incapace di uccidere - e lei ne era stata ben lieta, giacché Endrigo Solis, all’epoca della sua assurda morte, era la persona che Alicia avrebbe dovuto sposare due mesi dopo.

Quando Marco ebbe il permesso di parlare con la moglie, in carcere, si ritrovò

davanti una donna distrutta.

– Perché ti sei spinta a tanto? – le chiese con il cuore a pezzi.

– Perché non avevo via d’uscita. Il desiderio di vendicarmi è stato più forte di qualsiasi ragionamento…

Il rumore della porta d’ingresso che si richiudeva lo fece svegliare di colpo.

Il televisore, ancora , stava trasmettendo pubblicità.

Guardò l’orologio: erano trascorse le ventuno da dieci minuti.

– Tesoro, sono tornata! – esclamò Lucia mentre poggiava la borsa su una sedia.

Lui si alzò dal divano e le andò incontro. Non le diede il tempo di fare nulla, la baciò ardentemente e, senza staccare la bocca dalla sua, iniziò a svestirla.

Pochi minuti dopo una scia di vestiti, scarpe, indumenti intimi, formavano una sorta di sentiero che portava dritto in camera da letto.

Il mattino dopo lui inondò la stanza con il buon odore di caffè.

– Ti amo – mormorò la moglie ancora assonnata.

– Tesoro, devo farti una domanda.

– Cosa?

– La morte di tuo fratello, sì, insomma, quello che è gli è successo… non me lo hai mai raccontato…

Lo guardò incuriosita. – Non è una bella storia.

– Sono abituato alle brutte storie. È il mio lavoro.

Bevve le ultime gocce di caffè, insieme allo zucchero che si trovava in fondo alla tazza e, dopo averla riposta sul comodino, appoggiò la testa sulla spalla del marito.

– Avevo appena dieci anni, quella maledetta sera. Ero con Endrigo, mio fratello, e stavamo uscendo dal luna park dove mi aveva portato. Avevo in mano una busta piena d’acqua con un pesce rosso che mio fratello aveva vinto al tiro a segno. Ad un certo punto tre ragazzi ubriachi iniziano inspiegabilmente a prenderci in giro…

GLI AUTORI

Maria Silvia Avanzato vince il Premio Panchina 2009 come paroliere con la canzone Scrittore, musicata dal bolognese Daniele Dall’Olmo, chitarrista di Paolo Conte. Molti dei suoi racconti gialli e noir hanno trovato collocazione in una decina di diverse antologie edite da Il Foglio letterario, La Penna Blu edizioni, Delos Book, Edit@ e altri. Vincitrice di numerosi premi riguardanti la poesia. Autrice dei romanzi per ragazzi Ratafià per l’assassino (edizioni Forme Libere, 2010) e Banana in polvere on the rocks (Edigiò, di prossima pubblicazione). Compare su Carmillaonline con alcuni racconti introdotti da Valerio Evangelisti. Quando non scrive di guerra e di brutali omicidi, non resiste al richiamo della narrativa per l’infanzia: si presta volentieri come “fabbrica” di favole per i piccoli, prediligendo il tema storico della memoria e la difesa dei diritti umani.

Laura Bassutti. Dalla piovosa Udine natìa all’assolata e gloriosa Toledo dove l’ha portata l’amore. Ex avvocato, ha abbandonato senza rimpianti il diritto per la fantasia e la scrittura, reinventandosi la vita. Vicini suo marito e tanti libri. Per lei presenze essenziali e insostituibili. Menzione speciale della Giuria di Delitto d’Autore 2008 per il romanzo La ragazza della Televisione, due suoi racconti sono stati inseriti nelle antologie Unico Indizio La sciarpa Gialla e Racconti in Forma della Damster Edizioni.Ha in preparazione alcuni racconti a sfondo noir.

Beatrice Beraldo è nata nell’aprile del 1974 a Este (Pd), cittadina ai piedi dei Colli Euganei dove vive tuttora. Da trent’anni fa parte attiva di una nota associazione giovanile. Grazie al contatto con i ragazzi è riuscita a coltivare la propria fantasia e il proprio spirito d’osservazione, soprattutto per quanto concerne la psicologia delle persone (comportamento, affettività, relazioni). Per sfogare la propria creatività scrive racconti, qualcuno pubblicato per diletto personale.

Sara Bosi è nata nell’agosto 1978 e vive sulle prime colline dell’Appennino modenese. Fa parte del gruppo di autori denominato “Xomegap” (www.xomegap.net) con cui ha pubblicato l’antologia Xomegap – 18 racconti di sogni e d’ombra (Edizioni Il Foglio) e i due e-book “Hopeless night – Volti e Hopeless night – Presenze. Ha partecipato con altri racconti alle antologie: Mutazioni (Giulio Perrone Editore – LAB), Le fleurs du mal – Ghiaccio nero (Ducas – Nicola Pesce editore) e Inattesi spazi di vista (Marchio Giallo). Sul web lascia saltuariamente tracce in qualche sito e di tanto in tanto aggiorna il suo blog www.creaturaincostante.splinder.com.

Giulia Depentor nasce nel 1983 a San Donà di Piave, nebbiosa località nei pressi di Venezia, dove frequenta il liceo classico. Dopo essersi dedicata allo studio delle Scienze Politiche ed aver conseguito una laurea difficile da sfruttare, decide di intraprendere la carriera di scrittrice squattrinata e vola prima a Parigi e poi a Barcellona, alla ricerca di nuove ispirazioni per i suoi personaggi. Attualmente è praticante giornalista presso una televisione locale e non smette mai di scrivere.

Cristian Fabbi è nato in provincia di Reggio Emilia nel 1973. Ha vinto lo Sherlock Magazine Award 2009 con l’apocrifo La presa del sangue. Finalista al Gran Giallo Città di Cattolica 2009, con La Pallottola Benedetta, ha pubblicato anche La strategia di Ismail nell’antologia Unico Indizio La Sciarpa Gialla (Damster, 2009), La Besa nell’antologia Incipit (Altromondo editore 2009) e Pupël in Lama e Trama 2010 (Perdisa Pop). Ha pubblicato nel 2010 il suo primo romanzo, Ognibene e le Tracce del Mulo, Forme libere edizioni, terzo classificato al premio i nel buio. Sito web: www.cristianfabbi.com

Emanuele Finardi ha quasi quarant’anni e lavora da dodici a Milano per la televisione e la pubblicità. Considera, da sentimentale, il noir come l’altra faccia dell’amore; per questo ama ritrarre più le persone in primo piano che gli ambienti e le trame. Usando la penna come se scattasse delle foto: spesso

sfuocate ma, spera, intense. Dopo aver partecipato a varie antologie (tra cui Racconti Frizzanti - Damster Edizioni) da poco è uscita la sua raccolta di racconti Bassa Macelleria Sentimentale (Coniglio Editore).

Adriano Frazzoni è nato il Primo Maggio del 1949. Impiegato di una ditta privata, nel 2004 ha raggiunto il traguardo della pensione. Da diversi anni aveva iniziato a mettere qualche idea su carta: la collaborazione ad un periodico locale e il maggior tempo a disposizione dopo il pensionamento, gli hanno dato lo stimolo per trasformare queste idee in racconti. Dal 2005 ha iniziato la partecipazione a concorsi letterari.

Sabrina Grappeggia Bernard nasce nella provincia di Milano il 17 giugno 1965, si laurea in Scienze Politiche e nel 1992 lascia l’Italia per andare a vivere e lavorare in diversi paesi d’Europa. Oggi vive a Parigi con la sua famiglia e lavora in un Ente Pubblico Italiano. Ogni estate torna nel suo paese natale e trascorre le sue vacanze nella provincia di Piacenza nel cuore del Val di Nure, regione che ama e dalla quale ogni tanto trae l’ispirazione per i suoi racconti. Nel 2001 ha pubblicato, privatamente, un libro di fiabe Vanilla e i cinque folletti della spazzola incantata. Nel 2009 ha iniziato a partecipare a numerosi concorsi letterari ed ha ottenuto diversi riconoscimenti. Tra questi, il premio come migliore autore italiano all’estero nell’ambito del concorso Internazionale Villeg Novella dal Judri con il racconto intitolato Un bacio d’aria.

Massimiliano Lopresti è nato a Vibo Valentia nel 1971. Insegna Italiano, Storia e Geografia nella scuola secondaria di I grado.

Luca Marchioro nasce nella “calda“ estate del ‘68, a Malo, in provincia di Vicenza. Si apiona della lettura, preferisce in esclusiva i giallisti italiani, che ambientano i loro romanzi nel nostro Belpaese. Vive a Thiene, dedica il suo tempo al lavoro e alle donne (moglie e figlia), e quando trova spazio, scrive. Scrive per ione e per gioco, ogni tanto trova qualche editore che

per gioco e per comione lo pubblica. È presente tra i finalisti anche della prima edizione di Unico Indizio: La Sciarpa Gialla ed è fiero di esserci anche quest’anno. Mail: [email protected]

Alessia e Michela Orlando, 24 anni, gemelle di origini salernitane, trapiantate a Bologna dal 2008, dove con altri hanno fondato l’associazione Meltin’Bo. Si occupano di letteratura, fotografia, teatro. Nell’ultimo anno hanno prodotto individualmente molti racconti, poesie, testi per il teatro e sceneggiato fumetti realizzati poi da giovani illustratori. Da alcuni mesi firmano insieme la produzione letteraria. Vari racconti sono risultati vincitori di concorsi nazionali e internazionali: 1001 Storie di italiani nel mondo (ed. Pragmata); Il primo giorno di lavoro e La notte in cui fu clonato Silvio Berlusconi (Edizioni Noubs). Altro è stato pubblicato da Bookland, Aletti Editore, Bohumil Bologna, Arte e Parte. Da ultimo Edizioni Scudo ha pubblicato il loro e-book di genere fantastico Senza macchie, con la copertina di Luca Oleastri e altre immagini di Giorgio Sangiorgi. Per lo stesso Sangiorgi stanno traducendo dall’italiano allo spagnolo-castigliano il suo Le magnifiche, che è in forma di e-book gratuito nel sito di Edizioni Scudo. Per la stessa casa editrice hanno tradotto un racconto della giovane colombiana di Bogotà Maryury Useche, che concorre per la saga di Mahayavan, un Universo in formazione dove stanno giungendo racconti degli scrittori fantasy italiani.

Guido Pacitto nasce a Teano (CE) nell’ottobre 1980. Vive tra Roccamonfina (CE) e Roma, dove studia Scienze e Tecnologie della Comunicazione a “La Sapienza”. Nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, La notte della neve sporca (Aletti). Altri suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato il breve saggio Il CineBanale Ovvero il Cinema che t’aspetti... e cerchi di evitare (GDS). I suoi generi preferiti sono l’horror, il noir e la fantascienza, ma ama spaziare e sperimentare anche in altri generi. Sito Web: www.guidopacitto.com

Roberto Urios Parrelli ha sempre considerato, e sentito, lo scrivere come un

mezzo molto importante per esprimere se stessi al mondo, per condividere e comunicare quello che si è, nella propria interezza e verità; in tal modo la scrittura può costituire una ottima modalità per arrivare a conoscersi e per crescere creando. Ha iniziato scrivendo poesie all’età di 12 anni, zigzagando poi attraverso varie forme dello scrivere e del creare (racconti, poesie haiku, diari, collages, impressioni di viaggio).Fin da giovanissimo ha assaporato la bellezza dei viaggi e le loro potenziali scoperte, l’insegnamento e la crescita. Ammira i viaggiatori, quelli del ato soprattutto, che per mezzo del loro coraggio hanno permesso lo svelarsi del Nuovo. Nulla può essere immaginato di più affascinante del poter partire con un taccuino in mano, e la libertà nella testa. Nato nel 1958, ingegnere meccanico (pentito), ora informatico.

Fulvio Pera è nato nel Marzo 1981 a Viareggio, in Toscana. Fin da tenera età ha prediletto letture e cinema di genere horror e fantascienza. Laureato in Ingegneria Informatica ha intrapreso la carriera di Consulente IT non abbandonando il desiderio di dar vita su carta e in video sia ai propri sogni che ai propri incubi. Mail: [email protected]

Domenico Verde nasce a Sant’Antimo (NA) il 20 Settembre 1960. Sposato, due figli, vive e lavora a Roma. Perdutamente innamorato dell’Aeronautica Militare Italiana, riesce a realizzare il suo sogno nel 1981 quando vince il concorso di arruolamento nell’Arma Azzurra, che lo proietta in una meravigliosa avventura lunga 29 anni. L’altra grande ione, la letteratura, si manifesta dapprima come vera e propria dipendenza dalla narrativa in genere, per divenire, poi, una sorta di “pulsione verbale” che lo porta a cimentarsi nel genere a lui più caro, il “poliziesco”.

Catalogo

Questi volumi sono pubblicati su carta e in formato ebook. Visita il tuo store preferito e inserisci il titolo nella casella di ricerca o semplicemente “damster”

Collana Il Diavolo probabilmente...

L’ombra della stella di Lorena Lusetti romanzo, (ebook e cartaceo) 2012 - 228 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-76-4 L’ultimo tatuaggio di Marco Lugli, romanzo, (ebook e cartaceo) 2012 - 306 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-84-9 CipriaVaniglia di Maria Silvia Avanzato e Gaia Conventi, romanzo, (ebook e cartaceo) 2011 - 220 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-48-1 L’uomo tatuato di Marco Lugli, romanzo, (ebook e cartaceo) 2011 - 309 pagine - 16,00 euro ISBN: 978-88-95412-30-6 Il sacrificio della lepre di sca Ferreri Luna, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 221 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-12-2 Avrei voluto parlare d’amore di sca Tombari, romanzo, (ebook e cartaceo)

2010 - 186 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-10-8 Lazzaro, sdraiati e crepa! di DrFullG & ISP, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 188 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-18-4 Tortelli & Porcelli di Dr FullG e ISP, romanzo, (ebook e cartaceo) Il giallo più godereccio del XXI secolo 2007 - 311 pagine - 16,00 euro ISBN: 978-88-95412-02-3

Collana Eroxè Blu, le forti ioni

Blues, della piccola Città di Provincia di Dr Fullg, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 152 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-19-1 Gli anni confusi di Marco Rossi Lecce, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 167 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-17-7

Collana Unico indizio

La chitarra blu di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 - 180 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-32-0 Il pesce rosso di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 175 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-27-6

La sciarpa gialla di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2009 - 160 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-07-8

Collana Degustibus

Racconti in Forma di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 188 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-21-4 Racconti della notte di San Giovanni di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 194 pagine - 14,00 euro ISBN 978-88-95412-31-3 Racconti Frizzanti di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2009 - 212 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-04-7 Racconti Balsamici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2008 - 181 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-05-4

Collana Scriptor, lascia il segno!

A che ora ti chiamo? di Carloalberto Vezzani (ebook e cartaceo) 2012 - 160 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-92-4 Piccolo trattato di Patologia Mini.Male di Andreji Salvato Perora (solo cartaceo) 2012 - 160 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-64-1

Il vento d’ottobre di Domenico Verde, romanzo, (ebook e cartaceo) 2011 - 269 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-59-7 Ti stavo aspettando di Martina Podestà, romanzo, (ebook e cartaceo) 2011 - 224 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-67-2 La spiaggia senza mare di Ludovico del Vecchio (ebook e cartaceo) 2011 - 296 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-35-1 Presenze di spirito di Semi Neri, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 - 180 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-66-5 Bestiario Stravagante di Massimiliano Prandini, racconti, (solo cartaceo) 2010 - 140 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-29-0 Emilia, la via Maestra di Semi Neri, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 173 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-18-4

Collana Eroxè, dove l’eros si fa parola Centoeuno racconti erotici, di AAVV., racconti, (Ebook gratuito) Il sergente, di Heathcliff. (Solo ebook ) Il libraio, di Mayadesnuda. (Solo ebook ) La sorella dello sposo, di sca Maria Limentani. (Solo ebook ) La compagnia delle orchidee, di Fabiola D’Amico. (Solo ebook ) Storia di Aaron, di Marco Rossi Lecce. (Solo ebook ) Religiosi amori, di Marco Rossi Lecce. (Solo ebook )

John Cross, il giorno più lungo, di Ashara. (Solo ebook ) Ma non prenderci gusto, di Xlater. (Solo ebook ) La notte dei lunghi porcelli, di dr Full G & Isp. (Ebook gratuito ) Soavi feticismi, di Artaemide B., racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 140 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-85-6 Oxè awards duemiladodici, racconti erotici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 230 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-81-8 Fino in fondo, Paola Thy, romanzo (ebook e cartaceo) 2012 - 199 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-63-4 I sensi di Guen, racconti erotici di Alemar, racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 190 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-53-5 The Erotic Drabbles, di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 180 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-52-8 Cominciò per gioco, fra di noi..., racconti erotici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 - 270 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-70-2 Lenzuola rosse in un pomeriggio d’estate, di Liviana Rose, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 -160 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-60-3 Oxè awards duemiladieci, racconti erotici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 210 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-25-2

Carsex, disavventure comico-erotiche in auto di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2009 - 165 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-13-9 ioni in coda di AAVV, romanzo corale, (ebook e cartaceo) 2009 - 165 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-15-3 Darsi & ritrarsi di sca Ferreri Luna, romanzo, (ebook e cartaceo) 2009 - 160 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-11-5 Fucsia di Mad Fem, romanzo, (ebook e cartaceo) 2007 - 107 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-00-9 Amore contuso di Alessandra Nassuato, romanzo, (ebook e cartaceo) 2007 - 134 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-03-0

Collana Musica&Parole

Voglio un racconto spericolato (ebook e cartaceo) i racconti ispirati alle (e dalle) canzoni di Vasco Rossi 2011 - 200 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-72-6 Faber: la rabbia, l’amore e le nuvole senza tempo (ebook e cartaceo) i racconti ispirati alle (e dalle) canzoni di De Andrè 2010 - 240 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-23-8

I Quaderni del Loggione

Ricette Fatali 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-97-9 (ebook e cartaceo) Facciamoci una pera! 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-77-1 (ebook e cartaceo) Inzuppiamoci! 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-83-2 (ebook e cartaceo) Finferli, Galletti e Gallinacci 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-74-0 (ebook e cartaceo) Ti do una noce! 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-73-3 (ebook e cartaceo) Le ricette di... (Quaderno) 2012 - Pag 96 - 5,00 euro - ISBN 978-88-95412-69-6 (solo cartaceo) Cuor di Castagna 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 71-9 (ebook e cartaceo) Ricette Balsamiche 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 33-7 (ebook e cartaceo) Cucinare con erbe, fiori e bacche dell’Appennino 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 24-5 (ebook e cartaceo) Bologna la dolce. Curiosando sotto i portici fra antichi sapori

2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 26-9 (ebook e cartaceo)

Fuori collana

Le pillole del prof. Bingo 2000-2010 di Vittorio Vandelli (solo cartaceo) dieci anni vissuti pericolosamente nella scuola italiana 2010 - 275 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-14-6 La pizza è rotonda, l’amore no di sca Ferreri Luna (ebook e cartaceo) Come trovare il maschio ideale facendosi invitare a mangiare una pizza. 2009 - 96 pagine - 8,00 euro ISBN: 978-88-95412-08-5 Penne alla bolognese di AAVV (solo cartaceo) 2009 - 126 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-06-1 Radio Bellei, conversazioni con Riccardo Bellei di Alessandro Greggia (solo cartaceo) 2007 - 123 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-09-2

Autori Vari

Il pesce rosso

Prima Edizione Ebook 2013 © Damster Edizioni, Modena

ISBN: 9788868100551

Damster Edizioni

Via Galeno, 90 - 41126 Modena

http://www.damster.it e-mail: [email protected]

{1} I pali piantati in mezzo alla laguna o ai lati dei canali per indicare la strada alle barche.

{2} Il maségno è un blocco di pietra spianato nella faccia superiore e rozzamente sbozzato a semisfera in quella inferiore, viene usato per pavimentare le vie di Venezia.

{3} Il bacaro è un tipo di osteria veneziana semplice, dove si trova una vasta scelta di vini in calice e piccoli cibi e spuntini.