Autori Vari
La sciarpa gialla
Prima Edizione Ebook 2013 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868100513
Damster Edizioni
Via Galeno, 90 - 41126 Modena
http://www.damster.it e-mail:
[email protected]
Autori Vari
Unico indizio
La sciarpa gialla
INDICE
UN CAFFÈ AL GRAND HOTEL di Laura Bassutti
DÉJA VU di Katia Brentani
CENA CON SORPRESA di Mariangela Ciceri
LA SINAGRA NON S’È PRESENTATA di Andrea Cioni
UNA SOMIGLIANZA ALLARMANTE di Gabriella Cuscinà
LA STRATEGIA DI ISMAIL di Cristian Fabbi
LA VENDETTA DI ISACCO di Manuela Fiorini
IL PUNTO DI VISTA CON CUI GUARDI LE COSE di Fabrizio Leonardi
L’OSCURA VERITÁ di Luca Marchioro
DOMANI È UN ALTRO GIORNO di Jacopo Mariani
BINARIO 7 di Simone Marzini
L’ULTIMA REGATA di Manuela Mazzi
DESTINO A TRE di Rita Mazzon
UN’EMOZIONE SENZA FINE di Gianna Messori
IL PRIMO DONO di sca Panzacchi
UN AMICO NON È PER SEMPRE di Andrea Paolucci
MILÙ di Luigi Maurizio Paternò
LA GIOCATRICE di Cristian Poppi
GLI AUTORI
I racconti
UN CAFFÈ AL GRAND HOTEL di Laura Bassutti
L’americana si presentó puntuale. Avvolta nella pelliccia di martora sontuosa e lunga, che si tolse non appena entrata e che lasció negligente sulla sedia.
“La sciarpa la tengo, ho qualche problema di cervicale e con questo umido...” disse, drappeggiandosi al collo una sciarpa di cachemire gialla.
Lieve e pregiata, come quella che lui possedeva un tempo e le aveva regalato un pomeriggio di un’estate lontana. Un pensiero, un ricordo attraversarono rapidi la mente dell’uomo. Un’immagine venuta dal ato e che si fece piú netta, definita, mentre una paura sottile si impadroniva di lui. Adesso che iniziava a comprendere.
Lo sparo, dritto al cuore, pose fine per sempre ai suoi pensieri.
Dora lasció scivolare la sciarpa che andó a posarsi leggera accanto a quel corpo senza vita e che lei non degnó di uno sguardo.
Indossó nuovamente la pelliccia e si allontanó, silenziosa e sicura com’era venuta.
Il commissario Tancredi osservò ancora una volta il corpo di Giuseppe Taschi, il foro del proiettile che spiccava sulla camicia bianca di buon taglio ma dalla stoffa un poco lisa.
Con precauzione, indossati dei guanti, raccolse la sciarpa che qualcuno, l’assassino chissà, aveva lasciato accanto al cadavere. Una dimenticanza tanto irreale e assurda da apparirgli impossibile, piú una beffa che una confessione.
L’etichetta riportava il nome di un negozio di New York.
La sua mente andó immediatamente all’americana che alloggiava al Grand Hotel con seguito di cameriera e autista.
Era venuta perché interessata a comprare Villa Taschi: le piacevano il posto e il lago, che aveva visitato anni prima con il marito. Cosí aveva raccontato lo stesso Taschi, che forse lei aveva ucciso... Per divergenze d’affari, il prezzo richiesto forse troppo elevato… Tancredi scosse il capo. Non si ammazza per questo.
Quelli che avevano scambiato qualche parola con lei, dicevano che parlava un ottimo italiano, appena venato dall’accento straniero. Sembrava che fosse nata a Milano e che i suoi fossero emigrati in America quando era bambina.
Gli impiegati del Grand Hotel, discreti e gelosi dell’intimitá dei loro clienti, non avevano né confermato né negato e l’americana aveva continuato a eggiare per le strade del paese ormai vuote, unico mistero e attrazione di quella stagione morta e tediosa.
Tancredi diede qualche disposizione all’agente che lo accompagnava e si allontanó in direzione del Grand Hotel.
Tante domande incessanti a tormentarlo mentre avanzava rapido nella nebbia che iniziava a sorgere dal lago.
Salutó il portiere gallonato all’ingresso dell’albergo e oltreó la porta girevole. Lo accolse la grande hall con i suoi marmi e velluti, le morbide poltrone e i tavoli intagliati, le vetrate che davano sul lago, le statue e i mazzi di fiori rinnovati ogni giorno, anche ora che i clienti erano cosí pochi.
Si diresse al banco, dove il segretario, una volta udita la sua richiesta, rimase un momento in silenzio quindi disse:
“Mi permetta, commissario”.
Non aggiunse altro se non un inchino impeccabile e silenzioso, si volse per allontanarsi verso l’ufficio dal quale fece ritorno, dopo un istante, in compagnia di un uomo piú anziano che Tancredi riconobbe come il direttore dell’albergo.
Cortese e imibile come sempre, pronto a proteggere l’albergo e i suoi clienti. Almeno sino a dove avrebbe potuto.
Il commissario si limitó a dire che aveva necessità di parlare con un ospite. Una questione urgente. Il suo tono dovette scoraggiare ogni replica che il direttore si fosse preparato:
“Vedo se la signora è in hotel” si limitó a dire, mentre sollevava il ricevitore del
telefono e componeva frettoloso un numero.
Un breve scambio di parole in inglese e quindi si rivolse nuovamente a Tancredi:
“La signora la attende, dottore. La faccio accompagnare”.
Fece appena un cenno a un giovane in livrea che stazionava accanto al bureau e che, ossequioso, guidó Tancredi fino all’ascensore; il ragazzo del lift aprí le porte e all’ordine dell’altro premette un tasto.
La cabina inizió a salire silenziosa.
Il giovane della reception uscí per primo e quindi disse al commissario:
“Faccio strada. Prego”.
Percorsero un ampio corridoio. Alle pareti appliques elaborate e quadri pregiati che spezzavano la successione delle pesanti porte di legno. Regnava un grande silenzio.
Si fermarono davanti a una porta più ampia delle altre.
“La signora occupa la suite Azzurra” lo informó il ragazzo con un tono che non
nascondeva una grande ammirazione. Per il lusso della suite o per i soldi della cliente che la occupava... non poté evitare di domandarsi Tancredi.
Probabilmente per entrambe le cose, si rispose.
Il giovane premette il pulsante dorato accanto alla porta che si aprí dopo un momento.
L’americana stava in piedi davanti a loro. Il ragazzo si congedó e scomparve, rapido come un soffio di vento.
“i commissario, prego. La stavo aspettando”.
La seguí fino a un salone, i cui ampi balconi guardavano sul lago grigio e immobile. Il caminetto era .
Gli fece cenno di accomodarsi indicando una morbida poltrona dinanzi al fuoco.
“Prende qualcosa? Un caffè, un liquore...”.
Accettó un caffè che quella serví da una caffettiera argentata che si trovava su un tavolino basso accanto al sofá.
Lei si versó una tazza di tè, prese posto sul divano vicino e quindi osservò:
“Sembrerebbe una conversazione fra amici che si rifugiano davanti al fuoco per farsi confidenze o chiacchierare del piú e del meno”.
Tancredi non disse nulla, in attesa.
La guardó attentamente. Non poteva definirne esattamente l’etá, forse sulla quarantina. Bella ed elegante, con quella padronanza di sé che solo il denaro, moltissimo denaro, puó concedere.
Non tradiva nessuna emozione dietro i gesti sapienti di ospite impeccabile. Il volto rimaneva cortese, quasi inespressivo.
Tancredi sentí il dubbio affiorare, le domande, le ipotesi e le supposizioni affollargli la mente… Certo aveva trovato una sciarpa accanto al cadavere, e quasi sicuramente apparteneva a quella donna… Ma questo, solo questo, che valore poteva avere? La trasformava forse in assassina? Non poteva essere che inavvertitamente, sbadatamente, avesse perduto quella sciarpa e che il vero omicida si fosse ben guardato dal toccarla, consapevole e sicuro che la polizia l’avrebbe ritenuta un indizio sul quale indagare e indugiare facendogli cosí guadagnare del tempo prezioso…
“La attendevo, commissario” ripeté la signora Van Aarlen, appoggiando su un tavolo la sua tazza di porcellana.
“È stato commesso un omicidio. Stamani abbiamo ritrovato il cadavere di Giuseppe Taschi. Ci ha avvertiti la donna che una volta ogni due settimane va alla villa a fare le pulizie. Accanto al corpo c’era un oggetto che forse le appartiene”. Tancredi parlava con la piena consapevolezza di dirle cose che lei giá sapeva.
L’americana non abbassó lo sguardo. Rimase un istante, che gli parve eterno, in silenzio e quindi commentó:
“Una volta ogni quindici giorni. Come cambiano i tempi, dottore”.
La guardó perplesso, ma prima che potesse dire nulla, lei, che continuava a sorridere, aggiunse:
“Una volta a Villa Taschi durante l’inverno rimanevano la governante, il giardiniere, il custode e una domestica. E la cuoca. D’estate i signori, quando venivano a are il mese di agosto, portavano con sé altra servitú dalla cittá”.
Tancredi fece un gesto, la sua ospite gli pose la mano leggera e sottile sul braccio:
“Non si spazientisca, commissario. Non voglio annoiarla con dettagli che non la interessano. Con abitudini ate che non la riguardano. Apparentemente almeno. Mi permetta solo di dirle una cosa. Io ero fra quelli che d’estate dalla cittá venivano al lago”.
Il commissario sollevó lo sguardo, stupito e quasi irritato dalle sue parole che gli davano la sensazione che avrebbe assistito a una sorta di danza, che lei avrebbe condotto e alla quale avrebbe imposto un ritmo fin troppo pacato e lento, tanto da estenuarlo.
“Si spieghi meglio signora Van Aarlen”. La sua voce assunse ora il tono secco del comando.
Gli sorrise ironica:
“Preferirebbe forse interrogarmi lei?” replicó freddamente.
Lui fece un gesto.
“Un uomo è stato ucciso. Vorrei sapere la veritá” replicó non trovando di meglio che frasi che gli parvero solamente retoriche. Dora Van Aarlen si accese una sigaretta.
“Andiamo con ordine. Chissà lo preferisca. Non so se ancora ne è venuto a conoscenza, ma da ragazza il mio nome era Maria Linzi. Nulla a che vedere con Dora, vero? Apparentemente, almeno. Dora è il mio secondo nome, il mio talismano per una nuova opportunitá. Si serva dell’altro caffè, dottore”.
Obbedí quasi meccanicamente, lei attese che terminasse e quindi proseguí:
“Mia madre lavorava dai Taschi. Aveva poco piú di vent’anni, era giá vedova e aveva due figlie. Vivevamo in una stanza minuscola dell’ala della servitú del palazzo di Milano. Una stanza stretta e buia. Mia madre lavorava fino a sfiancarsi, commissario. Lavava, lucidava i pavimenti, sbatteva i tappeti, faceva le pulizie… Mia sorella Ada e io quasi non andavamo a scuola, non avevamo nient’altro se non da mangiare e da vestire. Un posto dove stare a quei tempi era abbastanza”.
Fece una pausa, si alzó e si diresse verso la grande vetrata che dava sul lago, che rimase a osservare attenta e in un silenzio che lui non interruppe.
Si volse appena verso di lui, rimanendo in piedi vicino alla finestra, confusa e quasi protetta dal grigiore che penetrava nella stanza. E riprese a parlare.
“La vita era semplice, una successione precisa di stagioni e di fatti: l’inverno in cittá, l’estate qui. D’inverno mia sorella e io cominciavamo a imparare a far qualcosa. L’estate era quasi vacanza. Per questo credo che ci pie tanto venire qui. Si poteva correre, godere del sole, degli spazi aperti. Il parco, l’imbarcadero, la spiaggetta… sempre senza farsi notare, senza svelare la nostra presenza ai signori e ai loro tanti ospiti. Mia sorella Ada aveva tre anni meno di me. Era una bambina timida, in cittá sembrava cosí fragile e infelice. Qui si trasformava. Diventava allegra, vivace. Cantava, correva in giro, permetteva ai figli degli altri domestici di avvicinarla, trovava addirittura il coraggio di scambiare con loro qualche parola. Iniziava ad attendere da mesi di venire qui, alla villa sul lago che disegnava precisa durante l’inverno. Disegni bellissimi che mi pento di non aver conservato. Pieni di sole, di vigore… Fino all’estate quando Ada aveva appena compiuto dieci anni. Un’estate brutta, con tanta angoscia anche se noi non lo potevamo comprendere. Si avvicinava la guerra, dottore. Mia madre era piú seria e quieta del solito, la gente sussurrava domande che io non capivo. Continuavo a scorrazzare felice come solo i bambini sanno e possono essere. Ada no. Si era fatta cupa, malinconica e stranita. Di nuovo muta con noi e con quei ragazzetti che tanto le piacevano, che durante l’inverno ricordava e rimpiangeva. Mia madre non dette molto peso, pensó che il cambio
d’aria quell’anno non le aveva giovato, le somministró qualcuno di quei rimedi che i poveracci di allora erano soliti dare con poca speranza nell’effetto e si affidó soprattutto alle preghiere alla Madonna che essendo Madre doveva sapere e capire... Fino a un pomeriggio di fine agosto, quando mia madre livida e pallida come non l’avevo mai vista e come non la vidi piú, mi disse con una voce terribile che saremmo tornate in cittá. Molto prima del consueto. Non rientrammo a Palazzo Taschi, ma finimmo in una pensione triste e povera, piú misera di noi. Ada non stava bene, iniziava a mangiar poco, sempre meno, di quel poco che c’era. Non duró a lungo, commissario. Alcuni mesi, prima che il male la prendesse e che la morte se la portasse via”.
La sua voce era divenuta fredda, meccanica. Come se raccontasse ora fatti accaduti ad altri o vicende che conosceva fin troppo bene e che fin troppo la facevano soffrire, dalle quali doveva in qualche modo prendere le distanze.
“Mia madre aveva una lontana parente emigrata in America. Si mise in contatto con lei, racimoló i soldi per il viaggio e ce ne andammo. Questa cugina lavorava come domestica a Boston, il padrone era il figlio di un emigrante olandese che aveva fatto fortuna. Un industriale dell’acciaio, dottor Tancredi. La nuova aristocrazia. Il figlio era deciso e spregiudicato quanto il padre, piú del padre. Non aveva paura di niente, tantomeno dello scandalo enorme che gli cadde addosso quando decise di sposare la giovane figlia di una sguattera. Un’italiana senza né arte né parte, senza null’altro che la sua bellezza. Quel matrimonio trasformó la mia vita, commissario. Ma non creda solo nella favola a lieto fine. Perché portavo con me una veritá terribile, un’ombra sottile, che non mi avrebbe mai abbandonato, che si sarebbe sempre proiettata su di me, su ogni istante della mia vita. Mia madre, commissario, mi aveva raccontato tutto. Anni prima, quando ero stata in grado di capire e quando lei non poteva piú sopportare, sola, il peso di quanto sapeva.
Ada durante quell’estate maledetta e strana aveva subito violenza, dottor Tancredi. Piú volte. In quella villa sul lago che aveva amato e rimpianto. Attirata in una soffitta polverosa e nascosta con il miraggio del dono di una sciarpa gialla
che tanto ammirava e che Giuseppe Taschi portava nelle sere umide e fresche. Di cachemire, comprata a Londra, diceva la governante con aria di importanza. Carissima, piú di quanto potevamo immaginare di possedere mai. E che mia sorella guardava con occhi pieni di sogni e desiderio quando la cameriera la riponeva. Che Giuseppe indossava un pomeriggio estivo ma fresco, quando aveva incontrato Ada giú all’imbarcadero. L’aveva fermata e interpellata con gentilezza, vincendo la sua timidezza e la sua paura. Promettendole di insegnarle i tesori della villa che nessun altro conosceva e facendole giurare di mantenere il segreto, suggellando quel patto infernale con un dono che cancelló tutte le paure e risveglió tutti i sogni di una bambina povera. La sciarpa gialla di cachemire, quell’oggetto da regina venuto da lontano… Ada subí e soffrí il peggiore dei mali, sopportó, sola, la paura e la vergogna che sentiva di dover provare senza davvero poterne capire la ragione reale. Fino a che mia madre non venne a sapere qualcosa. Insinuazioni, chiacchiere di domestici… una storia ata da qualche anno e poco chiara, Giuseppe accusato di molestare la figlia di un impiegato del padre, le cose messe a tacere, l’impiegato allontanato... e altre voci ancora. Un sospetto orrendo che per mia madre divenne una certezza ancora piú terribile che la sua stessa figlia le diede. Una notte nel delirio di una febbre misteriosa e improvvisa Ada parlava di una sciarpa gialla che mia madre ritrovó dove lei l’aveva nascosta. E poi le parole sommesse di una bambina che appena capiva il male che le era stato fatto ma che pure lo soffriva tutto. L’impotenza, che poteva fare mia madre? Una sguattera accusare il figlio di Taschi per la fantasia malata di una bambina che avrebbero detto precoce e giá smaliziata… Non poteva difenderci in altro modo se non scappando come fece. Carica di vergogna e di odio. Di un odio che non si è mai spento e che mi ha trasmesso. Forte e intenso, perentorio, come un dovere da compiere, un ordine da eseguire. Dora Van Aarlen poteva fare quello che Maria Linzi non avrebbe nemmeno osato pensare. Ho iniziato a seguire con attenzione e interesse le vicende della famiglia Taschi. Il declino, la morte del primogenito Umberto e la fine di ogni speranza. Giuseppe non sapeva far altro che alimentare le sue ioni viziate, i suoi capricci. Un detective privato, uno dei migliori che si possano trovare in America, mi informava di ogni cosa. Relazioni dettagliate, precise. Mio marito me l’aveva insegnato e gliene saró grata per tutta la vita. L’importante è la conoscenza, significa potere. E finalmente ero piú forte, molto piú forte di Taschi. E un’altra lezione mi ha dato mio marito: saper aspettare quando è necessario. Da lui, che ava per un giocatore d’azzardo, imparai ad attendere. Che l’avversario si indebolisca da solo, che non veda via d’uscita, che non abbia la possibilitá di trovare una risposta se non mettendosi nelle tue mani… Mi capisce, dottor Tancredi, vero? E io aspettai anni, fino a che mi sentii capace di
vincere ogni scrupolo, ogni rimorso, ogni incertezza e ognuna di quelle paure e domande che mi avevano tormentata. E sono venuta qui, con una scusa che mi parve perversa e geniale… Potevo essere proprio io a fornire l’ultimo aiuto possibile a quell’uomo che odiavo tanto, potevo illuderlo che con i miei soldi lo avrei salvato da una rovina ormai certa. Mi accolse con la cortesia e il rispetto che un tempo i suoi tributavano ai gerarchi in divisa e agli amici che scendevano da auto eleganti, con le signore ingioiellate. Umile quasi. Non mi riconobbe, certo che no. Come poteva? Dora Van Aarlen non ricordava in nulla Maria Linzi. Mi mostrava quelle stanze che odiavo e ogni volta il mio dolore si rinnovava e mi rendeva piú forte. L’ho ucciso io, commissario. Non me ne pento”.
Rimasero in silenzio, guardandosi, misurandosi.
Rivedendo, Tancredi, quel giovane arrogante e fatuo che era stato Giuseppe Taschi. Quell’uomo inetto che era divenuto. Riudendo le storie che la famiglia aveva potuto coprire, potente e boriosa. E che nessuno aveva voluto credere mai fino in fondo anche se si sapeva essere vere. Una ragazzina che si era gettata nel lago e che si sussurrava che qualcuno avesse visto con Giuseppe Taschi, le parole disperate e mai ascoltate di una madre tanti anni fa, la rabbia impotente di un padre che si diceva il Brigadiere avesse quasi cacciato con la minaccia della denuncia per calunnia. Voci, dicerie mai del tutto dimenticate e che Giuseppe Taschi aveva sempre potuto sfidare, accantonare con un gesto altero e prepotente come seccature inopportune e senza importanza.
“Dov’è la pistola?” domandó, stupito lui stesso dal tono basso e forzato della sua voce.
“Qui, nella mia borsa”.
“Me la dia”.
Lei obbedí macchinalmente.
Era un’arma comune: “Come l’ha avuta?”.
“Me l’ha procurata un amico fidato”.
“Ufficialmente?”.
Dora scosse il capo impaziente.
“Mi preparavo ad affrontare un’accusa per omicidio, commissario, crede che mi potesse interessare il fatto di possedere illegalmente un’arma?” replicó quasi sarcastica.
Tancredi con un gesto frettoloso e stanco fece scivolare l’arma in una delle tasche del suo soprabito.
“Resterá qui fino a quando io non glielo diró. È arrivata a casa di Taschi ieri per discutere della vendita della villa. Ha trovato la porta aperta, è entrata pensando che Taschi si fosse dimenticato di chiuderla o fosse uscito un momento. Siamo in un posto dove ci si conosce tutti, certe precauzioni non sono necessarie. Ha chiamato ma nessuno le ha risposto. È andata al salottino, dove di solito lui la riceveva, aveva intravisto la luce accesa. Ha visto il corpo a terra, la ferita… Ha avuto paura, non ha pensato a nulla solo a scappare via da lí... La sciarpa gialla che portava le è caduta. La portava sulla pelliccia direttamente, le deve essere
scivolata via, lei non se ne è nemmeno resa conto. Voleva solo andare via, era terrorizzata. Quando è rientrata all’albergo si è accorta di non avere la sciarpa, ha capito che poteva essere a casa di Taschi ma non se l’è sentita di tornare. Non poteva farlo, era troppo l’orrore. Del resto non sa nulla, non ha visto nulla che possa aiutarci nelle indagini”.
Aveva parlato con un tono irato. Ora tacque e la guardó, quasi sfidandola.
“Ripeterá questa versione ogni volta che le verrá chiesto di ripeterla. Se sará necessario, dovrá muovere qualcuno di quegli amici potenti che sicuramente ha. Ora puó farlo”.
Dora era rimasta a guardarlo mentre parlava, senza abbassare mai lo sguardo, il volto, impenetrabile, che non esprimeva nulla, né paura né stupore. Nulla.
Si avvicinó lieve a Tancredi, gli sorrise appena e gli tese la mano.
Che lui strinse con forza e intensità, a suggellare un segreto che avrebbero condiviso per sempre e mai tradito.
DÉJA VU di Katia Brentani
Il corpo della ragazza, abbandonato privo di vita sulla sedia, assomigliava a un burattino senza fili.
Illuminato dalla luce sfacciata del neon, il pube si intravedeva fra le pieghe della vestaglia aperta, i seni prorompenti avevano una rigidità innaturale, forse dovuta a un’operazione per aumentarne il volume.
Il dettaglio che colpiva era quella sciarpa gialla attorcigliata attorno al collo, gli occhi azzurri spalancati, la bocca aperta come quella di un pesce sul bancone del mercato.
Il commissario Cattani si rivolse al medico della scientifica che stava esaminando il corpo.
“Si è difesa?” domandò, osservando il mobiletto scrostato per il trucco ricolmo di ombretti e rossetti.
“Non si aspettava di essere aggredita” rispose il medico “non si voltano le spalle a qualcuno che temiamo possa farci del male, è un istinto naturale”.
“Quindi conosceva il suo aggressore?”.
“Direi di sì, anche se ha provato a difendersi” mostrò la mano sinistra con le unghie finte spezzate “ma era troppo tardi, sarò più preciso dopo l’autopsia”.
Il commissario osservò i piedi nudi della ragazza e le scarpe dal tacco alto abbandonate sotto il mobiletto per il trucco.
Doveva aver provato ad alzarsi in piedi, senza riuscirci e il panico l’aveva assalita sentendo l’aria mancare. Una morte orribile.
Dai documenti risultava si chiamasse Inga Popeski, nata a Saratov, in Russia, vent’anni e forse troppi sogni.
Cattani uscì dall’angusto camerino per avvicinarsi alle due ragazze, avvolte in vestaglie multicolori. Il trucco disfatto, i volti cerei di tristi pierrot.
Il locale, chiuso per l’omicidio di Inga, un club priveé, si chiamava Tag Club.
Un luogo dove uomini frustrati dimenticavano per qualche ora mogli nevrotiche, lavori snervanti, illudendosi di possedere il controllo delle loro vite.
Il commissario si avvicinò alle due ragazze. Dovevano avere l’età della giovane uccisa e non riuscivano a nascondere l’orrore di quanto era accaduto.
“Avete trovato voi il corpo di Inga?”.
Le ragazze annuirono, senza riuscire a trattenere le lacrime.
“Si era esibita prima di noi” mormorò la ragazza bionda, mentre quella mora annuiva.
“Come vi chiamate?” domandò il commissario.
“Svletana” rispose la bionda “e lei è Violeta” aggiunse, indicando l’altra ragazza.
“Dopo l’esibizione che faceva di solito Inga?” chiese Cattani.
“Si struccava con calma e aspettava che noi finissimo il numero per tornare a casa insieme”.
“Attendeva qualcuno questa sera nel camerino?”.
Svletana e Violeta scossero la testa, decise.
“Inga era una brava ragazza, non si appartava mai con i clienti”. Una nota di orgoglio trasparì nella voce di Violeta “lavorava qui solo per guadagnare in fretta i soldi necessari per comprare casa. Sul palco eseguiva tutto quello che le veniva richiesto, ma uscita dal locale la sua vita era semplice”.
“Frequentava qualcuno?”.
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo complice.
“Da quasi un anno usciva con Ludovico, il meccanico del paese, quello che vive con la madre vedova, era una storia seria”.
“E lui era contento che Inga lavorasse al Tag Club?”.
Svletana alzò le spalle.
“Contento non lo so, ma l’accettava anche se non veniva mai a vederla”.
“Inga era molto orgogliosa e non prendeva mai soldi da lui, solo regali come quella sciarpa gialla con cui è stata strangolata”. La voce di Violeta si incrinò.
Poteva la gelosia aver portato Ludovico ad uccidere la sua fidanzata? Il commissario si appuntò di are dal meccanico.
“Quindi niente prestazioni extra per Inga?” insisté.
“Era stata chiara con Anatoly” confermò Svletana “niente prestazioni con i clienti, anche se era molto richiesta”.
“Chi è Anatoly?” domandò il commissario, notando un lampo di paura are negli occhi della ragazza.
“Un nostro amico che ci aiuta con buoni consigli” si affrettò a precisare Violeta, lanciando un’occhiataccia all’ amica.
“Il magnaccia, il protettore, l’adulatore che gli ha promesso facili guadagni” pensò il commissario.
“Dove posso trovare Anatoly?” chiese, offrendo alle ragazze delle sigarette.
Con mani tremanti le avvicinarono alla bocca e attesero che lui le accendesse.
“Non sappiamo dove abita”, Svletana aspirò avidamente il fumo. “a lui dal locale, mai lo stesso giorno”.
“Cognome di Anatoly?”.
Le ragazze scossero la testa.
Cattani lasciò l’appuntato Sarti a trascrivere i dati delle ragazze e si avvicinò al bancone del bar dove il proprietario del locale, Gaetano Caputo, sedeva su uno degli alti sgabelli. Essendo piccolo di statura le sue gambe dondolavano come quelle di un bambino sull’altalena.
“Salve”. Il commissario osservò il barista riporre i bicchieri su uno dei ripiani alle spalle.
“Gilberto, offri qualcosa da bere al commissario” disse Caputo.
“In servizio non bevo” precisò Cattani “vorrei solo rivolgerle alcune domande”.
“Prego”.
“Inga si è comportata in maniera strana in questi giorni?”.
“Era la solita ragazza di sempre”. Caputo ingollò il bicchiere di vodka in un sol colpo “ allegra, e professionale, quello che faceva con quella sciarpa gialla…”.
“L’ha vista parlare o appartarsi con qualcuno?”.
Caputo rise.
“Inga non si appartava mai, non obblighiamo le ragazze a frequentare i clienti fuori dall’orario di lavoro”. Caputo si alzò dallo sgabello e con un saltello elastico per la sua mole si mise verticale “Mi spiace ma non posso aiutarla”.
“E Anatoly che ne pensava?”.
Sul volto di Caputo ò un moto di sorpresa subito mascherato da un sorriso mellifluo.
Dalle notizie raccolte dalla polizia il locale era gestito da Caputo, vicino alla camorra, e dalla nuova mafia russa interessata ad allargare i suoi orizzonti.
Nessuna prova concreta fino a quel momento per poterli incriminare.
“Deve chiederlo a lui” rispose Caputo.
“Quando posso trovarlo?”.
“Non ha un giorno fisso…”.
“Vorrà dire che erò ogni sera o manderò i miei colleghi”.
L’idea della polizia fra i piedi fece inorridire Caputo.
“Provi giovedì, ma venga da solo e in borghese”.
“E lei i dal commissariato a rilasciare la sua dichiarazione” gli ricordò Cattani, mentre l’uomo si allontanava.
Il barista stava lucidando il bancone con energia.
“Come si chiama?”.
“Gilberto Prandi”.
“Conosceva Inga?”.
“Come conoscevo le altre ragazze, due chiacchiere nella pausa fra le prove di un’esibizione e l’altra” il barista continuava a strofinare con vigore “anche se lei era diversa”.
“Diversa in che senso?”.
“Le ragazze finiscono in questi posti attirate da facili guadagni e restano immischiate in giri di prostituzione” spiegò Gilberto “ho visto tante fare questa fine: troppo giovani, ingenue e belle”.
“Inga?”.
“Bella era bella, anzi bellissima” continuò il barista “ma possedeva anche cervello, carattere, istruzione e non si faceva mai mettere i piedi in testa da nessuno”.
“Le ha mai parlato di Ludovico, il meccanico?”.
Il barista sorrise.
“Qualche volta” ammise “credo fosse molto innamorata, sognava di sposarlo”.
Una ragazza piena di vita e con progetti da realizzare.
“Commissario devo parlarle” il tono autoritario fece voltare Cattani che riconobbe subito l’imprenditore Gavotti per avere visto il suo volto immortalato spesso sulle pagine dei giornali.
L’uomo l’invitò ad allontanarsi dal bancone, non gradiva orecchie indiscrete ad ascoltare il loro colloquio.
“Sono l’ing. Gavotti” si presentò “esigo che i miei dati personali non siano resi di dominio pubblico”.
Gavotti, il costruttore di orridi palazzi alveare tanto in voga in quegli anni: residence Mimosa, Betulla, Glicine… frequentatore del Club Tag. Non un bel biglietto da visita.
Per non parlare della moglie, che dalle foto sui giornali, doveva avere almeno venti anni di meno.
Un’eventuale richiesta di divorzio, se fosse venuta a conoscenza delle abitudini del marito, l’avrebbero trasformata in un pericoloso barracuda.
Chissà perché Gavotti frequentava simili locali.
Quasi leggendogli nel pensiero l’ing. Gavotti precisò:
“Ai clienti piacciono questo genere di locali e io li accontento, si rilassano e concludo buoni affari. Questa sera ero con due clienti giapponesi”. Indicò due signori dall’aspetto decisamente orientale seduti composti sulle poltroncine di velluto rosso.
“Una specie di benefit” ironizzò il commissario.
L’ing. Gavotti trattenne l’istinto di mandarlo a quel paese.
“Le sto solo chiedendo di rivolgermi le domande ora e non in commissariato, le prometto che sarò sincero”.
Cattani valutò la proposta: Gavotti in una simile circostanza poteva fornire indizi utili all’inchiesta? Forse…
“Conosceva Inga Popeski?”.
“No” rispose deciso Gavotti “non personalmente, sapevo che si chiamava Inga perché la presentavano prima dell’esibizione, anche se credevo che il nome fosse un nome d’arte”.
“Tutto qui?” ironizzò il commissario.
“Un mio cliente una sera chiese se era possibile appartarsi con lei in una saletta privata per chiacchierare, ma gli furono forniti nomi di altre ragazze”.
La dichiarazione dell’imprenditore avvaloravano le parole di Svletana e Violeta.
“Lei questa sera è sempre rimasto in questa sala?”.
Gavotti annuì.
“Non mi sono mosso dal tavolo. Può confermarglielo il barista e anche i miei clienti giapponesi, se parla inglese”.
“Non si preoccupi del mio inglese” ribatté Cattani “piuttosto rimanga a disposizione”.
Gavotti infilò il cappotto. “Non conoscevo Inga, nulla mi legava a lei e a casa ho una moglie di venticinque anni”.
“Il gusto del proibito, la trasgressione?” ribatté Cattani.
“Perché non interroga il geom. Marotti” si spazientì Gavotti “lui sì avrebbe fatto pazzie per quella ragazza”.
L’imprenditore si allontanò facendo cenno ai giapponesi, seduti composti sulle poltroncine rosse, di seguirlo.
Rimaneva solo un uomo nel locale: un ometto calvo, che si tergeva il sudore dalla fronte con un fazzolettino di carta.
“Ha caldo?” il commissario si avvicinò porgendogli un pacchetto di fazzolettini di carta nuovo di zecca.
“Sono sconvolto” ammise l’uomo “quella povera ragazza morta…”.
“La conosceva?”.
“Ho scambiato qualche parola con lei al bar, niente di più, ma era così giovane...”.
“Lei è il geom. Marotti?”.
L’ometto calvo assentì.
“Ho già rilasciato una dichiarazione a un suo collega” si difese.
“Solo qualche domanda e la lascio andare” promise Cattani.
“Dove si trovava mentre Inga veniva uccisa?”.
“Sono andato in bagno un attimo per rinfrescarmi”.
“Finita l’esibizione della ragazza?”.
Il geometra assentì.
“E quando è tornato?”.
“Mentre Svletana e Violeta stavano esibendosi”.
“Bene, vada pure a casa credo abbia bisogno di una bella dormita”.
Morotti, bianco come un cencio, si allontanò correndo come una lepre scappata a una battuta di caccia.
“Quell’uomo era attratto da Inga in modo ossessivo” disse il barista iniziando a spegnere le luci dietro al bancone.
“La importunava?”.
“No, ma ogni scusa era buona per rivolgerle la parola, Inga era sempre gentile con lui, diceva che troppa solitudine fa male”.
“Il geom. Marotti non è sposato?”.
“Scapolo” confermò il barista “e con strane fissazioni, sa in paese nessuno si fa i fatti propri”.
“Fissazioni di che genere?”.
“Sedeva sempre allo stesso tavolo, sia qui che al bar. Comprava sempre il giornale alla stessa ora, cose così”.
Questo faceva di lui un assassino?
“Commissario” Caputo ossequioso stava avvicinandosi “Anatoly è arrivato al locale appena appresa la notizia, se vuole parlargli lo trova nel mio ufficio”.
“Che fortuna, così non sarò costretto a riare” il commissario seguì Caputo fino al suo ufficio “naturalmente se le sue risposte saranno soddisfacenti”.
L’uomo che si trovò davanti era distinto, nulla a che vedere con i mafiosi russi rappresentati nei film.
“Anatoly Popesky” si presentò, porgendo una mano curata.
Stesso cognome della ragazza morta.
“Inga era mia cugina, figli di fratelli” lo informò Anatoly facendogli cenno di accomodarsi sulla poltroncina in pelle di fronte alla sua.
Questo spiegava la libertà di cui godeva la ragazza.
“Condoglianze”.
“Inga era una brava ragazza e tutti le volevano bene, adesso dovrò dire a sua madre che è morta”.
Parlava italiano con un forte accento russo.
“Ha qualche idea di chi può averla uccisa?”.
L’uomo scosse la testa.
Se aveva dei sospetti non sarebbe venuto a raccontarlo a lui, vendicarsi personalmente rientrava nel suo codice di comportamento.
“Sapeva che frequentava un ragazzo italiano, Ludovico Garri, meccanico del paese?”.
“Inga era giovane, ribelle, rifiutava gli aiuti della famiglia” disse Anatoly “ma alla fine avrebbe sposato bravo ragazzo russo”.
In caso contrario l’avrebbero convinta loro. Lo strangolamento però strideva con
i metodi in uso nel loro ambiente, richiamava l’attenzione sul locale e sui loro affari. Una bella sparizione forse…
Il commissario si alzò.
“Per ora è tutto, ma non si allontani dall’Italia”.
“Desidero quanto lei conoscere chi ha ucciso Inga” gli occhi freddi di Anatoly e il tono di voce mettevano i brividi.
L’assassino doveva augurarsi che a trovarlo fosse la polizia.
La mattina dopo il commissario si recò all’officina di Garri per trovarla chiusa. Sulla saracinesca campeggiava un cartello scritto a mano: chiuso per lutto.
L’abitazione del meccanico era di fianco all’officina, così Cattani suonò il camlo del portone. Sapeva che Ludovico viveva con la madre vedova.
Fu proprio lei ad aprire.
“Buongiono Maria” disse il commissario “posso parlare con Ludovico?”.
Tutti conoscevano Maria, faceva le pulizie per una grossa ditta “L’Ape Maia”.
Cattani la incontrava spesso in banca o in posta mentre puliva vetri o vuotava cestini.
Lei fece cenno di entrare.
“Ludovico non è in casa si sta occupando del funerale di quella” la sua voce suonò aspra.
Dalle parole pronunciate si capiva che la madre di Ludovico non approvava il rapporto del figlio con Inga.
“Non era contenta che Ludovico fosse fidanzato con la ragazza russa?”.
“Con una che si mostrava nuda davanti a tutti?” disse sprezzante “anche se alla fine doveva andare bene a lui” aggiunse in fretta.
“Sa dove si trovava Ludovico quella sera?”.
“Qui, abbiamo guardato la televisione insieme” rispose Maria “se aspetta un po’ dovrebbe tornare”.
Un rumore di chiavi confermò le previsioni della donna.
“Ciao mamma, buongiorno commissario”. Ludovico Garri entrò in casa reggendo in mano un grosso mazzo di fiori che appoggiò sul tavolo “sarei ato al commissariato oggi per sapere se ci sono novità”.
Il suo volto era cereo, ma appariva calmo.
Maria si alzò “vado a preparare un caffè” e si allontanò ciabattando.
“A sua madre, Inga non piaceva” affermò il commissario.
Ludovico sorrise “a lei non piace nessuna ragazza, è vedova, sono il suo unico figlio e qualunque persona di genere femminile per lei non è abbastanza bella, intelligente, brava...”.
“Mi ha detto che la sera dell’omicidio di Inga lei si trovava qui con sua madre a guardare un programma televisivo”.
Un moto di sorpresa ò sul volto di Garri, ma fu talmente veloce che Cattani pensò di averlo immaginato.
Ludovico annuì.
“La sciarpa gialla era un suo regalo?”.
Ludovico arrossì violentemente.
“Inga sosteneva che in questo modo mi aveva accanto anche mentre…. ballava” balbettò “chiudeva gli occhi e pensava a me”.
Rimasero in silenzio per un po’.
“Ci sono novità nell’indagine?” chiese Garri, ravviandosi i capelli.
“Per il momento no” ammise il commissario “ma la terrò informata, ora devo andare, mi scusi con sua madre per il caffè”.
Uscendo ebbe la netta sensazione che Ludovico e la madre avessero mentito.
Forse lui era stanco di vederla esibirsi tutta nuda davanti a uomini lascivi e la collera l’aveva portato a compiere quel delitto efferato. La sciarpa gialla, pegno del suo amore, usata come arma del delitto.
Altre persone però avevano moventi validi: Anatoly con un matrimonio combinato fra potenti famiglie russe, il geom. Marotti, con quell’aria mite e pavida, stanco di essere respinto.
Il commissario decise di tornare in commissariato a rileggersi i dati dell’autopsia e i verbali in suo possesso per tentare di collegare i pezzi del puzzle.
Alcune ore dopo l’appuntato Sarti entrò portando delle carte da firmare.
“Che ci fai qui?” si stupì Cattani “non era di turno Morrone?”.
“Sì, ma ha chiesto un cambio, suo figlio ha la febbre” lo informò Sarti.
La parola cambio fece scattare un clic nella testa di Cattani.
Il commissario cercò febbrilmente fra le carte sparse sulla scrivania.
L’Ape Maia gli aveva procurato gli orari e i luoghi di lavoro di Maria Garri. Quel giorno era di riposo, però una vocina dispettosa gli suggeriva di telefonare ad Elvira Tommassini, la signora che copriva l’orario dell’omicidio di Inga. L’Ape Maia si occupava delle pulizie al Tag Club.
La signora Elvira rispose al primo squillo di cellulare.
“Signora Elvira sono il commissario Cattani”.
“È capitato qualcosa a mio marito?” si spaventò la donna.
“No” la tranquillizzò il commissario “ho solo bisogno di sapere se giovedì scorso ha lavorato”.
“Il giorno dell’omicidio di quella povera ragazza?”.
“Quello”.
“Dovevo, ma Maria Garri mi ha chiesto un cambio così sono rimasta a casa volentieri”.
“I posti da pulire?”.
“La banca nel pomeriggio e il Tag Club alla sera” rispose la donna pronta. “Non penserà che Maria abbia ucciso quella povera ragazza, non la conosceva ed era la prima volta che si recava al locale, lei non era mai andata a pulire in quel posto, si rifiutava, non le piaceva…” aggiunse concitata.
“La ringrazio signora Elvira” tagliò corto il commissario, mettendo fine alla conversazione.
Un quarto d’ora dopo era di nuovo davanti alla casa dei Garri.
Prima che suonasse il camlo la porta si aprì.
“Venga commissario l’aspettavo” Maria ciabattando lo precedette in cucina. Cattani occupò la stessa sedia della mattina.
“Lei si trovava al Tag Club quella sera”.
Maria non negò, tormentava le mani ruvide e tozze.
“Ludovico è sempre stato un bambino buono e fiducioso, il sogno di ogni madre” disse “è rimasto così anche da adulto, animali o persone da aiutare per lui sono una missione”.
“Anche Inga?”.
“Di lei si era innamorato” sputò sprezzante “di una vacca russa che apriva le gambe ogni sera davanti a un branco di depravati che poi venivano alla sua officina ad aggiustare la macchina e si prendevano gioco di lui”.
Lei alzò gli occhi: uno sguardo allucinato galleggiava sul suo volto stanco.
“Voleva sposarla” scosse la testa, l’idea continuava ad apparirle assurda “vendere l’officina e ricominciare la vita lontano da qui dove nessuno conosceva il ato di quella troia”.
E tu saresti rimasta sola, pensò Cattani.
“Gli avrebbe rovinato la vita, speso tutti i risparmi, fatto allevare figli non suoi”.
“Quindi ha deciso di agire”.
“Ho chiesto ad Elvira di fare cambio turno e mi sono recata al locale” sorrise al ricordo. “Ha notato che nessuno fa mai caso alle donne delle pulizie?”.
Esisteva un fondo di verità, le divise, i camici rendevano le persone anonime.
“Ho seguito l’esibizione di Inga attraverso uno spiraglio fra le tende” serrò le labbra fino a ridurle a una fessura. “La sciarpa gialla che Ludovico aveva scelto come regalo con tanto amore” chiuse gli occhi e lacrime iniziarono a scorrere sulle sue guance “doveva vedere come se la ava sul corpo, dava il voltastomaco. Ho deciso di aspettarla in camerino fingendo di fare le pulizie”.
“Voleva convincerla a lasciare Ludovico?”.
“L’idea era quella” ammise Maria “consegnarle soldi, anche tutti i miei risparmi, bastava che si allontanasse da mio figlio”.
“Lei però non ha accettato”.
“No, lo amava e i soldi voleva guadagnarli da sola”.
“Così l’ha strangolata”.
“Aveva ancora la sciarpa gialla attorcigliata attorno al collo...” Maria chiuse le mani a pugno, quelle mani abituate a strizzare stracci, sollevare pesi, rese forti dalla fatica “e ho stretto con tutta la mia forza fino a quando ha smesso di muoversi”.
Il commissario pensò alla sorpresa sul viso di Ludovico quando la madre aveva detto che erano rimasti tutta sera insieme a guardare un programma televisivo. Sapeva che mentiva: lui era davvero in casa, ma la madre dove si trovava? Il germe del dubbio era germogliato in lui.
“Ludovico ha riempito una valigia ed è sparito” confessò angosciata “e tutto per colpa di quella puttana”.
Cattani l’aiutò ad alzarsi dalla sedia e insieme uscirono di casa.
“Può restare in silenzio. Tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei…” cantilenò.
Un déjà vu a cui non riusciva ad abituarsi.
CENA CON SORPRESA di Mariangela Ciceri
A Pontecorvo quella situazione non piace per niente. Quando ha accettato di accompagnare Arrisi in montagna dai suoi, per le vacanze di Natale, non aveva certo previsto di rimanere bloccato dalla neve e adesso, infreddolito e con due abbondanti porzioni di polenta e formaggio sullo stomaco, vaga senza meta tra le strade di un paese semi-diroccato dell’Appennino umbro. Odia l’aspetto del suo carattere che gli impedisce di dire di no ad Arrisi. Eppure lei, giovane e brillante medico legale, in caso di rifiuto, di accompagnatori ne avrebbe trovati altri e senza fatica, e questo lo fa sentire un idiota, un imbecille, “vittima” di una situazione in cui si è ficcato con le proprie mani. È talmente preso dai suoi pensieri da non essersi reso conto di quanto si sia allontanato. Si ferma, ruota su se stesso e prende con mani fredde e intorpidite il cellulare per tranquillizzare Arrisi ed avvertirla che sta tornando indietro, ma qualcosa sulla siepe di fronte attira la sua attenzione. Si avvicina e vede affiorare tra la neve una frangia. L’afferra e scopre una lunga sciarpa di raso gialla, con ricamato da un lato e in tonalità più scura, un vassoio su cui spicca una grossa stella. Si guarda attorno, perché è quasi fuori dal paese e non vi sono molte case da quelle parti. Solo un cascinale ad almeno 800 metri che potrebbe anche non essere abitato. Così, senza una ragione, la infila in tasca e torna verso il paese, ma poco prima della chiesa un nuovo fatto attira il suo interesse: un gruppetto di persone che corre verso l’unica tabaccheria del paese.
“Deve essere successo qualcosa” pensa tra sé e prende il telefono per dirlo ad Arrisi.
Per Marta è strano non dover prendere la macchina per raggiungere un scena del crimine, e ancor più strano è arrivare sul luogo a piedi, sprofondando fino alle caviglie in una neve soffice. Pontecorvo le ha parlato di un cadavere, quello di Nicodemo Facoceri, trovato da una vicina, preoccupata perché l’uomo non rispondeva al camlo. Quando arriva sul posto ha l’impressione che tutte le cento anime che ancora abitano il paese abbiano lasciato le loro case e si siano
riversate in strada, per appagare una curiosità che ben conosce. Davanti al palazzo, Pontecorvo. Ha il viso accigliato e sta dando ordini a tre uomini, probabilmente scelti tra la folla, di età compresa tra i cinquanta e i sessant’anni.
“Ho detto loro di fare un cordone” spiega l’ispettore ad Arrisi non appena lei si avvicina. “E di impedire a chiunque di superarlo”. Poi la invita a seguirlo e le fa strada verso l’unica rampa di scale che li separa dalla porta dell’appartamento.
“Deve essere morto da diverse ore, forse per il colpo che ha ricevuto alla testa. È stata la bottegaia a trovare il cadavere, tal Camilla. Ha bussato e non ottenendo risposta è entrata con una copia delle chiavi che le aveva dato il Facoceri, perché in sua assenza si occue delle pulizie. Dice di essere entrata, aver posato una borsa col pane sul tavolo della cucina e di essersi accorta del corpo solo quando è tornata verso l’ingresso”.
Arrisi, prima di entrare, prende due paia di guanti dalla borsa e gliene porge uno.
“Il problema, è un altro” riprende lui indossandoli.
“Guarda come nevica! Ho chiamato i carabinieri e mi hanno detto che non sono in grado di raggiungerci a breve, che dovremmo aggiustarci in qualche modo. La vittima era un commercialista” continua poi prendendo un biglietto da visita da una mensola “Nicodemo Facoceri: dottore commercialista, ragioniere commercialista, revisore ufficiale dei conti. Lavorava ed abitava a Perugia, in Piazza Amleto”.
Arrisi non fa commenti e si avvicina all’uomo. Nicodemo giace supino, con le braccia lungo i fianchi. Ha un viso duro e spigoloso, i capelli scuri sono sporchi
di sangue. L’unica lesione visibile è una frattura estesa alla fronte, inferta probabilmente con un oggetto metallico e pesante di forma arrotondata.
“Sono d’accordo. È morto da diverse ore. Dobbiamo spegnere il riscaldamento. Il freddo trasformerà la stanza in una cella frigorifera. E scattate qualche foto, del corpo e dell’appartamento”.
Pontecorvo prende il cellulare e si prepara a fare quello che Arrisi gli ha chiesto mentre lei da un’occhiata alle altre stanze. Quando torna stacca da un bloc-notes che ha in borsa un foglio, prende una penna e scrive: “Locale sottoposto a sequestro giudiziario” poi prende un rotolo di cerotto, ne taglia quattro strisce e attacca l’avviso alla porta di ingresso.
Anche Pontecorvo ha finito. Raggiunge Arrisi ed escono insieme lasciando le luci accese ma chiudendo la porta a chiave.
“Le strade sono tutte bloccate. I mezzi stradali stanno liberando quelle principali ma è chiaro che ci vorrà del tempo” spiega l’ispettore soffiando su una tazza di cioccolata bollente.
“Ho parlato con il brigadiere Russo, che mi ha messo in contatto con il maresciallo Del Vecchio, che sentito il capitano… vattela a pesca, ci ha chiesto, vista la situazione, di fare tutto quello che riteniamo il caso di fare”.
“L’assassino potrebbe essere ancora in paese” fa notare Arrisi, seduta con le braccia conserte sul divano della casa che i genitori hanno affittato per le vacanze di Natale.
“Credo che sarebbe il caso di interrogare tutti quelli che hanno avuto a che fare con Facoceri nelle ore precedenti il delitto e con la donna che lo ha trovato, visto che aveva una copia della chiavi”.
Pontecorvo posa la tazza su un piattino di ceramica e si pulisce la bocca con un tovagliolo di carta.
“Dovremo dire chi siamo, dove lavoriamo”.
“La maggior parte di loro neanche sa cosa sia l’Uacv”. L’acronimo sta per Unità Analisi Crimine Violento, una squadra creata allo scopo di are gli organismi investigativi nel caso di crimini particolarmente efferati, senza movente, seriali e a sfondo sessuale. Lei lavora presso la Divisione di Medicina Legale, lui invece è un investigatore.
Pontecorvo contrae i muscoli della mascella. Quello che Arrisi ha detto è vero. Commissario di una questura di zona o ispettore di una squadra antimostro, non fa alcuna differenza. Si alza e aspetta che lei sia pronta per uscire.
“Cominciamo dalla bottegaia” dice aprendo la porta.
Ed Arrisi non ha nulla da obbiettare.
La notizia della morte di Nicodemo Facoceri ha ormai fatto il giro del paese. Quando Arrisi e Pontecorvo arrivano davanti alla casa, la strada principale, che
dalla chiesa conduce alla Bottega di Camilla, unico negozio di commestibili del luogo, è, nonostante la neve, ancora piantonata dai curiosi. Camilla Violante, la donna che ha trovato Facoceri morto, è con loro. L’ispettore, che l’ha già incontrata e a cui ha già detto di essere un poliziotto, le si avvicina, le chiede come si sente e le presenta Arrisi, dicendo che avrebbero bisogno di farle qualche domanda, possibilmente in un luogo più discreto e più caldo.
“Ci sarebbe il negozio” risponde lei prendendo dalla tasca un mazzo di chiavi.
“Vi faccio strada, ma state attenti a non scivolare perché con tutto quello che è successo non ho avuto testa per togliere la neve e fare un sentiero”.
La stanza in cui li fa accomodare è un piccolo retrobottega con pareti di mattoni a vista e un grosso camino spento tra due finestre che danno sulla strada.
“Veniva spesso Facoceri qui in montagna?” è la prima domanda di Pontecorvo.
“Spesso non direi. Qualche volta e sempre da solo, per riposarsi... a parte ieri che ha avuto gente a cena. Amici che sono ripartiti poco prima che cominciasse a nevicare. Erano in quattro tutti a bordo di una Mercedes scura. Sono arrivati verso le sette ma non sono state le uniche persone che Nicodemo ha ricevuto. Ho notato un’altra macchina” dice sotto voce, come a voler tenere l’informazione segreta, “una Volvo grigia, vecchia e sporca che è rimasta parcheggiata dietro casa tutto il giorno e chi la guidava è stato ben attento a non farsi vedere, né sentire. Un anno fa, circa” continua “ci fu un principio di incendio, per una stufetta mal funzionante. Facoceri si era spaventato al punto che, oltre a far rifare l’impianto di riscaldamento, aveva anche voluto una scala antincendio che collega direttamente la cucina con la piazzola posteriore. Credo che l’ospite misterioso sia salito e sceso sempre da quella scala, altrimenti lo avrei visto”.
“E questa mattina?” chiede Pontecorvo riferendosi alla macchina.
“Non c’era più?”.
“No. Ma ho sentito dire a Scanzeri, che abita in quella cascina poco prima del bivio per la statale, che alle due era parcheggiata sulla strada”.
Arrisi si appoggia allo schienale riflettendo sul fatto che l’ora in cui la macchina è stata notata è anche la stessa in cui Facoceri potrebbe essere stato ucciso, sta per dirlo ma i suoi occhi cadono su Pontecorvo che si è portato la mano in tasca ed ora fissa pensieroso il vuoto davanti a sé.
L’ispettore ha sempre ammirato il modo in cui Arrisi lavora. Con decisione, accuratezza, rigore, professionalità e... razionalità. Per questo si sente un po’ imbarazzo all’idea che lei possa leggergli nel pensiero e scoprire quello che ingenuamente le ha tenuto nascosto. Aspetta di essere soli, poi prende la sciarpa di raso dalla tasca e gliela mostra.
“Dove l’hai presa?” chiede lei.
“Era sepolta nella neve a pochi metri dal bivio della statale. Sai quando ho fatto quella eggiata appena mangiato...”.
“Se era sepolta dalla neve, come hai fatto vederla?” gli obbietta ignorando il rossore sulle sue guance.
“Perché era sepolta tutta tranne che un po’ di frangia. Non so perché l’abbia presa, è stato un gesto istintivo” ruota la sciarpa in modo che anche lei riesca a vedere il ricamo.
“Credi che possa averla persa l’autista della Volvo?”.
“Non so. Se la vittima ha avuto ospiti a cena e se tra loro c’erano delle donne, forse appartiene a una di loro”.
“Sì, ma come mai l’avrebbe persa proprio in quel punto? E poi se quello che ha detto la bottegaia è vero, e non vedo ragioni per cui ci dovrebbe mentire, gli ospiti di Facoceri sono partiti prima che iniziasse a nevicare, mentre questa, tu l’hai vista per caso proprio perché era nascosta dalla neve. Mettila sul tavolo, per favore in modo che il ricamo sia ben visibile” gli chiede Arrisi prendendo il cellulare dalla tasca e impostando la fotocamera pronta allo scatto.
Pontecorvo ubbidisce ma le chiede il perché.
“Voglio mandare una foto a Guidi”.
Guidi è un collega dell’Uacv, uno dei periti dell’ERT la squadra esperta nel rilevamento delle tracce.
“Non ne sono sicura, ma quel ricamo, mi ricorda qualcosa”.
“Che cosa?”.
“Se lo sapessi, non chiederei a Guidi di indagare”.
Alle sei di quello stesso pomeriggio Arrisi e Pontecorvo, a casa dei genitori di lei, ricevono la visita di don Palermi, parroco del paese. È un uomo avanti negli anni, ossuto e cordiale che accetta l’invito della signora Arrisi ad accomodarsi nell’accogliente salotto e a bere un punch caldo.
“Conoscevo Nicodemo e conosco Roberto Marini, il suo ex socio, e la persona che assieme ad altre due donne e un uomo, ieri sera, hanno cenato con lui. Sono stato io ad avvertirlo della morte dell’amico. È sconvolto, ma ha pensato che forse volete fargli delle domande e così mi ha chiesto di venire qui in modo da potervi parlare”. Prende il cellulare dalla tonaca.
È Pontecorvo ad occuparsi della cosa. Si fa dare il numero, lo compone, inserisce il viva voce e dopo i convenevoli di circostanza, chiede al commercialista qualcosa sulla serata che ha preceduto il delitto.
“Nicodemo voleva festeggiare i quindici anni di professione. Oltre a me ha invitato Rosaria Picelli, una farmacista, Alessia e Daniele Piscopo. Siamo amici dai tempi del liceo. La cena è stata ottima, la serata riuscitissima. Siamo ripartiti attorno alla mezzanotte”.
Pontecorvo che ha dato un’occhiata all’appartamento ha trovato la cucina ordinata e pulita e la lavastoviglie vuota, getta un’occhiata ad Arrisi che si
avvicina al cellulare e chiede:
“Avete mangiato su stoviglie di carta?”.
Marini esita un po’ a rispondere, forse stupito dalla domanda.
“Sì. Tovaglia, piatti, bicchieri... tutto di carta. Ma perché me lo chiede?”.
Arrisi evita la risposta e formula una nuova domanda.
“Cosa avete mangiato?”.
Altro silenzio prima della replica.
“Antipasti vari, affettati, tartine, insalata russa, salmone, caviale... poi riso allo champagne, arrosto al melograno, patate al forno e panettone”.
“Si è occupato Facoceri di tutto o c’era qualcuno che lo aiutava in cucina?” vuole sapere Pontecorvo.
“Se c’era non lo abbiamo visto e Nicodemo ha tenuto a precisare che aveva fatto tutto da solo. Sa, lui era un perfezionista. Non credo che a questo mondo ci fosse qualcosa che non fosse in grado di fare compreso organizzare un cena elegante
come quella di ieri sera”.
“Ancora una domanda” dice Arrisi.
“Qualcuna delle signore vestiva di giallo?”.
Marini esita nuovamente e Pontecorvo è sicuro che starà pensando a qualcosa di pessimo nei loro confronti.
“Rosaria aveva un abito nero, Alessia un completo gonna e maglia rosse. Io e Nicodemo eravamo vestiti di blu”.
Un uomo di settant’anni, vigile municipale in pensione, ha deciso di montare di guardia davanti all’appartamento della vittima. Quando Pontecorvo e Arrisi si accorgono di lui, seduto su uno scalino davanti alla porta, Matteo Biangolla, questo è il suo nome, scatta sull’attenti e spiega ai due come il profondo senso del dovere che per anni gli ha permesso di svolgere in modo corretto la sua professione, adesso gli impone di vegliare sulla casa in modo che nessuno possa occultare prove importanti. Pontecorvo gli posa una mano sulla spalla e dice di apprezzare la sua iniziativa, poi apre la porta e assieme ad Arrisi entra nella ghiacciaia.
“Adesso che vuoi che faccia?” chiede alla donna.
“Che controlli bene in cucina se ci sono sacchi dell’immondizia che non ho notato, magari sistemati sul balcone. In caso negativo, dovresti scendere usando
la scala esterna, e controllare i cassonetti, perché dubito che quelli della nettezza urbana siano saliti fin qui per svuotarli. E poi il cellulare”.
“Quale cellulare?” chiede Pontecorvo.
“Quello della vittima. Possibile che non ne avesse uno?”.
“Possibile invece che l’assassino lo abbia fatto sparire per evitare che risalissimo a lui. Chissà forse si erano sentiti di recente” risponde osservando il medico legale mentre indossa i guanti e con una lente di ingrandimento osserva la lesione alla testa di Facoceri.
“È una ferita profonda” la sente dire. “Inferta con forza da un oggetto che ha provocato dei fori puntiformi”.
“È stato colpito più volte?”.
“Direi di no, non vedo segni di ferite sovrapposte”.
Pontecorvo si allontana scrollando il capo.
“Niente immondizia e niente telefonino” annuncia mezz’ora dopo.
“Quindi l’assassino l’ha portata con sé”.
“Ma per quale motivo?”.
Arrisi non ha il tempo di soddisfare la sua curiosità perché è il suo cellulare a protestare dalla tasca. Risponde. È Guidi e dall’espressione soddisfatta della donna, l’ispettore intuisce che deve avere scoperto qualcosa di interessante, qualcosa che ha a che fare con la sciarpa e con il suo ricamo.
“Forse so chi è stato” annuncia Arrisi alla fine della chiacchierata con il collega della Scientifica. “E forse ho anche un movente. Dobbiamo farci aiutare”. Libera le mani dai guanti e va verso la porta.
“E da chi?” chiede Pontecorvo.
“Da tutti. Dobbiamo trovare la macchina e sperare che l’assassino non si sia liberato dell’arma del delitto, perché altrimenti sarà molto difficile incastrarlo”.
L’unica pensione del paese ha il suo ingresso proprio di fronte alla chiesa. La padrona, Svetlana Mihor una donna giovane, di origine slave che si è trasferita in Italia da qualche anno, si occupa della pulizia e della cucina. È in regola con il permesso di soggiorno e paga regolarmente le tasse, per questo quando quell’uomo di bell’aspetto, in compagnia di una donna con il viso grazioso, le dice di essere un poliziotto, la notizia la lascia del tutto indifferente. Quando però scopre che sono lì per un suo ospite, allora qualcosa alla bocca dello stomaco le dice che i suoi presentimenti non erano sbagliati.
“ È arrivato nella prima mattina di ieri e mi ha chiesto una stanza, dicendo che probabilmente avrebbe trascorso la notte qui e sarebbe ripartito il giorno successivo”.
Prende da sotto il bancone il registro, lo ruota verso l’uomo che adesso sa chiamarsi Pontecorvo e gli indica il punto in cui ha registrato le generalità del cliente.
“Aveva con sé una borsa da viaggio, piccola. Mi ha lasciato la carta di identità, è uscito e da allora non l’ho più rivisto fino a questa mattina”.
“A che ora chiude la pensione?” chiede Arrisi.
“Alle 22 ma gli ospiti hanno la chiave e possono rientrare a qualunque ora”.
“Il numero della stanza?”.
Svetlana fissa Pontecorvo e risponde. Poi rimette sotto il bancone il registro e si augura di non avere grane.
Simone Greppi è seduto sul letto e fissa il vuoto. Quando sente bussare alla porta, pensa alla padrona della pensione. Si alza e apre.
“Salve” dice l’uomo che ha di fronte. “Sono l’ispettore Pontecorvo della Polizia e lei è la dottoressa Arrisi. Possiamo entrare?”.
Greppi si fa da parte. Sul suo viso, nessuna emozione.
“Signor Greppi” attacca Pontecorvo. “Lei fa il cuoco a domicilio?”.
“Sì”.
“E ieri sera ha organizzato una cena a casa di Facoceri?”.
Greppi non risponde e guarda Arrisi mentre cerca qualcosa nella stanza e nel bagno.
“Dove ha la macchina?” gli chiede poi, non avendo probabilmente trovato ciò che cercava.
“Sul retro”.
Arrisi si fa dare le chiavi e scende, mentre Pontecorvo rimane in stanza con l’uomo. Il sedile posteriore è pieno di borse con pentole, coltelli, utensili di lavoro che la donna esamina uno ad uno perché ha un’idea ben precisa sull’arma usata contro la vittima: è certa che ad uccidere quell’uomo sia stato un batticarne con franginervi, del tipo a martello, pesante. Delusa richiude la macchina e si concentra sul portabagagli. Il vano posteriore dell’auto contiene due sacchi per l’immondizia e in uno, assieme a una camicia sporca di sangue, trova quel che cercava. Mette entrambi i reperti in sacchetti separati e chiama Pontecorvo.
Il caso, se gli esami di laboratorio confermeranno le sue teorie, è chiuso.
“Se non avessi trovato quella sciarpa...” dice Pontecorvo caricando l’ultimo bagaglio in macchina.
“Per fortuna lo hai fatto, anche se più che la sciarpa è stato il ricamo a permettere a Guidi di capire che c’era Greppi dietro a tutto. È un riconoscimento. Un premio per chef che il padre di Greppi aveva vinto poco prima di suicidarsi per colpa di Facoceri, che aveva scoperto delle irregolarità nel ristorante in cui l’uomo lavorava”.
“Credi si tratti di omicidio premeditato?”.
“No, non lo è stato. Ho parlato con Marini, prima, voleva sapere delle indagini. E mi ha detto qualcosa a proposito dell’assassino. Nel periodo in cui Facoceri aveva scoperto le irregolarità, lui era ancora suo socio. Fu proprio quel suicidio a farli separare professionalmente. L’altra sera ne hanno parlato ignorando che l’uomo nascosto in cucina fosse proprio il figlio del cuoco che si era ucciso. Greppi deve aver sentito dire qualcosa che gli ha ricordato la tragedia e forse è stato il suo bisogno di vendetta a spingerlo ad uccidere...”
LA SINAGRA NON S’È PRESENTATA di Andrea Cioni
“Perché l’ho fatto?”.
Claudio si voltò verso di lei.
“Fatto cosa?”.
“Non hai visto? Quando ho voltato mi sono buttata in mezzo all’incrocio… non ho dato la precedenza a… cos’è che abbiamo dietro? Una Twingo?”.
Lui diede un’occhiata distratta allo specchietto.
“Una Matiz… Lucia, non mi pare la fine del mondo. Con questo casino mica ti fanno are, altrimenti”.
Perché gli uomini non capiscono mai?
“Non aveva nessuno dietro… siamo pure in anticipo…”.
“Se non lo facevi tu ti sorava qualcun altro. E magari tagliava la strada pure a noi”.
“Eeeeh…”.
“Perché, non ti è mai capitato?”.
“Vabbè, però...”.
L’auto davanti rallentò fino a fermarsi. Lucia frenò e si mise in fila.
“Lo odio, il traffico”.
All’improvviso, mentre erano ancora fermi, una macchina nera li sorò.
“Ma guarda questo!” fece Claudio.
“Se arriva qualcuno dall’altra parte l’ammazza… Vedi? Fanno tutti così, e s’aspettano pure che tu faccia altrettanto. Alla fine ti adegui”. Tornò a guardare fuori dal finestrino.
“A stare nella giungla si diventa delle belve”.
La coda cominciò lentamente a rimettersi in moto.
Ma che cos’è che hai? Perché con te non si capisce mai niente?
“C’è qualcosa che non va, Claudio?”.
“Come?”.
E adesso cadi dalle nuvole.
“Sei silenzioso, c’è qualcosa che non va?”.
“Ma no, niente. Un po’ di casini col lavoro”.
“Giornata dura?”.
“Come al solito… occhio che siamo arrivati…”.
Lucia mise la freccia e accostò, un po’ bruscamente. Quello della Matiz le suonò dietro e la sorò.
“Ciao amore” le disse lui. “Ci vediamo stasera”.
La baciò sulle labbra, in fretta, poi scese dalla macchina. La portiera si richiuse.
Ciao amore.
Lucia rallentò. Il semaforo era diventato giallo.
Lo odia il giallo. Ha tutto marrone, grigio, beige. Se volevo vestirmi da pagliaccio andavo a lavorare al circo, dice. E allora cosa ci fa con una sciarpa gialla?
Tornò verde. Cazzo, mi sto facendo sanguinare un dito.
Riprese in mano il volante. Da quant’è che non mi mangiavo le unghie?
“Cos’è ‘sta sciarpa da fighettino?”.
Claudio s’era girato di scatto. Quando scattava era sempre un brutto segno. Era in uno dei suoi periodi no. L’aveva già capito a letto, che era uno dei suoi periodi no. Ma quando cominciava a scattare c’era proprio la sicurezza.
Si era alzato, con addosso solo la maglietta.
“Me l’ha lasciata in macchina Valerio. È lui che si veste sempre come uno sfigato”.
“E copriti, che ci sono le tende aperte! Sei uscito con Valerio? Non me l’hai detto…”.
“L’altra sera”.
“Avevo capito che non vi vedevate più…”.
Lui le aveva sfilato la sciarpa di mano. Piano, mica bruscamente. Ma gliel’aveva sfilata.
“Mi ha mandato un messaggio. Forse non sapeva cosa fare”. Aveva detto cacciandola in un cassetto.
Qualcosa di gelido le si era mosso in fondo al petto. Lucia l’aveva abbracciato, languida, e gli aveva accarezzato il petto.
“Si vede che non riesce a starci, senza di te”.
Lui era rimasto immobile. Le aveva solo preso la mano, stancamente.
“No Lucia, dai. Per favore”.
Il clacson la fece saltare sul seggiolino. Lucia si ritrovò in mezzo alla strada. I fari del camion si avvicinavano lampeggiando.
Spinse sul gas e corse dentro al parcheggio. Inchiodò, col cuore che le martellava il petto. Il clacson continuò a suonare alle sue spalle, poi si perse lontano.
Si lasciò andare sul sedile. Rimase lì qualche minuto, senza riuscire a pensare a niente. Poi parcheggiò e scese dalla macchina. Salì le scale dell’ufficio boccheggiando.
“Ciao Lucia” le fece asciutta Marisa.
Lei guardò la portineria. “Ciao… Novità? Chiamate?”.
“No, no, per te nulla… ma stai bene?”.
“Sì… sono solo un po’ stanca…”.
Timbrò il cartellino e andò in ufficio. Alessia era già al telefono.
“Ah, ho capito. Vabbè. Sì, sì. Sì, anzi ti ringrazio. No, ci mancherebbe… grazie ancora eh? Ciao Alessandra, ciao. Ciao Lucia, buongiorno. Come… ma cos’hai fatto?”.
Pazzesco. Per are a un’altra conversazione le basta appenderci la cornetta in mezzo.
“Tra un po’ un corriere mi portava via con lui”.
“Come?”.
“Sono entrata senza guardare e gli ho tagliato la strada”.
“Oddio! Vi siete scontrati?”.
“No, no. Solo un po’ di paura…”.
“Un po’? Sei bianca come…”.
“Adesso mi a”. Si sedette sulla sedia, sospirando. “Novità?”.
“Quella del colloquio di oggi… la La Torre… ho sentito la Work On Wellness, l’agenzia interinale…”.
“Beh?”.
“Ha lavorato in un locale servito da loro… hanno detto che questa è una disperazione, la mattina arriva quando le pare…”.
“Cazzo… e adesso?”.
“Qualcuno che lava i piatti lo troviamo. Magari, provvisoriamente, prendiamo un’agenzia”.
“E il colloquio?”.
“Ormai… tu faglielo, poi non la richiamiamo”.
“Mmh. Altro?” disse accendendo il computer.
“La Sinagra stamattina non si è presentata”.
“E non ha avvertito?”.
“Ancora no”.
“Ma non sono le nove?! Quella stronza cominciava alle sette e mezza!”.
Alessia allargò le braccia.
“Vabbè, aspetta, la chiamo io”.
Lucia aprì l’anagrafica sul PC. Eccola. Si prese la cornetta tra la spalla e l’orecchio.
Zeroperuscire, tre tre due sei due…
- Tim, messaggio gratuito: l’utente da lei selezionato non è al momento raggiungibile… -
Il telefono di Lucia squillò.
“C’è la signorina La Torre per un colloquio…”.
“Arrivo Marisa, grazie”.
Prese il suo curricula e uscì. La trovò seduta nella saletta degli ospiti.
Mica tanto acqua e sapone. Truccata male, vistosa. Maglietta scollata, jeans, stivali, cellulare in mano. Sei bella, però. Devi piacere, agli uomini.
“Doriana?” le disse allungandole la mano.
“Sì, piacere…”.
“Ciao, io sono Lucia”. Chiuse la porta e le si sedette di fronte. “Hai avuto problemi a trovare l’ufficio?”.
“No, sono andata bene, grazie”.
“Allora, raccontami qualcosa di te. Cos’hai fatto, che lavoro stai cercando…”.
“Oh, va bene un po’ tutto. Faccio anche le pulizie...”.
Quante volte me l’avranno già detto?
“Noi, però, siamo un’azienda che si occupa di ristorazione”.
“Sì, sì, lo so”.
“Hai esperienza in questo settore?”.
“Ho fatto la barista, la cameriera, anche l’aiuto cuoca”.
“Davvero? Hai frequentato qualche corso? Sei diplomata?”.
“No… non ho fatto nessun corso…”.
Le fece un sorriso conciliante.
“Hai lavorato solo così… sul campo diciamo…”.
“Sì, me la sono sempre cavata”.
“I tuoi datori di lavoro erano contenti?”.
“Direi di sì”.
Bugiarda.
“Hai cominciato a lavorare molto giovane, vedo” disse fingendo di leggere il curricula.
“Dai quindici ai diciotto ho sempre lavorato. Poi per un paio d’anni ho dovuto smettere…”.
Ti sei messa in buca da sola.
“Posso chiederti come mai?”.
“Dopo è nata mia figlia… sai, con una bambina…”.
Lucia sentì improvvisamente freddo. Solo il viso era caldo, anzi, bruciava. Cercò di sorridere, ma gli angoli della bocca pesavano come il piombo.
“Capisco…”.
“Voi state cercando?”.
“In cucina no, al momento siamo… siamo completi. Potremmo aver bisogno ai lavaggi. Le stoviglie, i vassoi… tu hai problemi a stare in piedi?”.
“No, nessun problema, te l’ho detto…”.
“Tendenzialmente in questi ruoli assumiamo a full time… tu saresti disponibile?”.
“Si, anzi…”.
“Pensavo… sai, con una bimba…”.
Ma che stai dicendo, Lucia?
“Oh, non è un problema, me la tengono un po’ i miei… e poi, sinceramente… preferirei un tempo pieno…”.
“Ah…”.
“Con gli alimenti… sai, i soldi…”.
Lucia smise di ascoltare, anche le sue stesse parole. La congedò in fretta, dicendole qualcosa sul non poterle garantire nulla, ma che nel caso l’avrebbero
richiamata senz’altro. Le diede una mano gelata; poi Doriana uscì e lei si ritrovò sola, nel corridoio.
Rientrò in ufficio. Alessia era sempre al telefono. Non parlava.
“Ma dov’è finita questa?” riagganciò. “Oh, la Sinagra non si trova ancora… ma cos’hai?”.
Lucia si sedette e la guardò.
“La La Torre…”.
“Beh?”.
“Ha una bimba di cinque anni”.
“Alla sua età?”.
“E suo marito…” l’ha lasciata.
“È pure separata, insomma”.
Alessia si alzò, andò verso la porta e la chiuse. Poi tornò da lei e si sedette sulla sua scrivania.
“Hai un po’ di magone?”.
“Ce l’avresti anche tu”.
“Lucia, non possiamo prenderla in prova. Quella ci combina dei casini. Poi Micaela ci spella vive e alla fine dobbiamo lasciarla a casa comunque…”.
“Lo so, lo so…”.
Alessia le fece una carezza sulla testa.
“Non siamo noi che decidiamo, Lucia”.
“Pronto? Ciao amore…”.
Lucia spense sotto la padella e si appoggiò al tavolo della cucina.
“Ciao”.
“Ho visto la tua chiamata”.
Le mie chiamate.
“Sì… eri al lavoro?”.
“Sì, scusa, non ho neanche guardato il telefono… una giornata…”.
“Ti capisco…”.
“Va tutto bene?”.
“Sì… perché?”.
“Hai una voce…”.
“È stata un po’… un po’ così…”.
“In ufficio?”.
“Sì… un colloquio… una ragazza giovane, da sola con una figlia…”.
“E il padre? Della bimba intendo…”.
“È separata”.
“Cazzo… e col lavoro, come fa?”.
Sospirò.
“Non fa. Non l’abbiamo presa”.
“Come mai?”.
“Ha delle brutte referenze, ce ne hanno parlato male”.
“Ah. Ho capito. Tu cosa stai facendo?”.
“Una lavatrice, intanto preparo. Tu, dove sei?”.
“In macchina, sono appena uscito…”.
“Ce l’hai l’auricolare?”.
“Sì...”.
“Vieni qui dopo? Mangiamo assieme…”.
“Sto andando all’allenamento. Domenica ho l’incontro…”.
“Ma… esci tardi anche stasera?”.
“Sì… per forza…”.
“È da un mese ormai… Non l’hai mai fatto”.
“Cosa?”.
“Di allenarti così tanto”.
“Non è vero, prima dei match…”.
“Claudio, non volevi smettere?”.
“Lucia, dai, non al telefono…”.
“Guarda che non è facile parlarti di persona, ultimamente”.
“Cosa vorresti dire, scusa?”.
“Quello che ho detto: che è un mese che quasi non ti vedo”.
“Cos’è, la prima volta che mi vedi preparare per un incontro?”.
“Non ti ha mai portato via tanto tempo”.
“Non è tempo portato via. È una mia scelta”.
“Che ti porta via da me”.
“Lucia…”.
“L’hai ridata a Valerio, la sua sciarpa?”.
Ci fu un attimo di silenzio.
Perché non rispondi?
“Che c’entra adesso?”.
“Così, per sapere… l’hai rivisto Valerio?”.
“No, non ancora”.
“E hai ancora la sua sciarpa in casa?”.
“Cos’è questo tono?”.
“Quale tono?”.
“Vabbè, ho capito. È meglio che parliamo di persona, eh?”.
Da chi stai andando, Claudio?
“Sì. Forse sì”.
Dall’altra parte Claudio disse qualcosa, ma lei aveva già riagganciato.
Si coprì le labbra con una mano e chiuse gli occhi.
Chi è, Claudio? Chi è che ti sta portando via?
Lucia sbadigliò. Incrociò le dita dietro la schiena, si stiracchiò e si sistemò sulla sedia. Cercò di rimettersi al lavoro.
Perché sei così stupida, Lucia?
Non aveva chiuso occhio. La notte era ata lentissima: si alzava, beveva un bicchier d’acqua, poi tornava a letto e ricominciava a immaginare Claudio. Stava sfilando quella sciarpa dal collo di una donna. Bella, giovane, una ragazzina. Lui era ancora fradicio di sudore, solo in pantaloncini. La baciava, la toccava, la stringeva.
Lucia trasalì. Le si stavano di nuovo chiudendo gli occhi.
Chi sei? Cosa ci trova in te?
Si alzò e uscì dall’ufficio. “Vado a prendere un caffé” disse più per sé che per Alessia.
Cos’hai che io non riesco a dargli? Sei così brava a letto? Sei così dolce? Crede che tu lo capisca?
La macchina fece il suo solito fischio acuto. Lucia prese il bicchiere bollente e si mise a mescolare lo zucchero con la paletta di plastica.
Lo sai che guarda la tua sciarpa anche quando è con me?
Qualcuno entrò e le fece alzare lo sguardo dall’espresso. Era Micaela.
“Buongiorno, Lucia” le disse la direttrice. Era seria.
“Ciao Micaela”.
“Hai notizie della Sinagra?”.
“No, perché?”.
“Non si è presentata neanche oggi”.
“Ah. Non ci hai detto niente…”.
“Al locale sono riuscita a cavarmela, ho pensato di non disturbarvi. La mattina siete sempre oberate…”.
“Qui non è arrivato niente, né certificati di malattia, nulla… non mi risulta abbia telefonato… vieni” e buttò il caffé ancora a metà, “proviamo a sentire da Alessia”.
Il rumore dei tacchi la seguì lungo il corridoio, fin davanti all’ufficio. Quando furono sulla porta Alessia alzò gli occhi dal PC.
“Buongiorno...”.
“Ciao Alessia”.
“Micaela mi diceva che la Sinagra non è venuta neanche oggi. Tu ne sai qualcosa?”.
Scosse la testa. “No…”.
“Provo a chiamarla”.
Lucia prese la cornetta del telefono e fece il numero a memoria. Rimase in attesa per qualche squillo, con le altre due che la guardavano.
“No, niente” fece riagganciando “suona libero ma non risponde”.
“Io questo atteggiamento non lo capisco” sbottò Micaela. “Non ha mai fatto neanche cinque minuti di ritardo. Cosa le salta in mente tutto in una volta?”.
“Magari le è capitato qualcosa…”.
“Avrebbe fatto avvertire, Lucia. Le regole le conosce, e comunque almeno un colpo di telefono…”.
“Ormai sono ati quasi due giorni…” aggiunse Alessia.
“Al locale non ha delle amiche? Nessuna che riesce a contattarla, così, per via informale?”.
“Macchè, sta sempre per i fatti suoi...”.
“E allora? Che si fa?”.
“Qualche provvedimento lo devo pur prendere”.
“Prima è meglio sentire l’associazione di categoria. Sai mai… Lucia, mi tiri fuori i suoi documenti?”.
“Subito…”.
Aprì l’armadio e cominciò a scorrere le cartelle, allineate in ordine alfabetico.
Sinagra Donatella.
La sfilò fuori da in mezzo alle altre. Non c’era molto: i moduli per l’assunzione, il contratto. Alla fine anche il curricula. Con foto.
A Lucia girò la testa. Si appoggiò con la schiena all’armadio e cominciò a leggere.
Ce l’hai anche nella foto, la tua sciarpa. Forse ci tieni. Magari è un ricordo. E gliel’hai lasciata in casa.
Lucia guardava fissa fuori dal parabrezza. Teneva le braccia strette attorno al petto, per scaldarsi. Si sentì le mani di Claudio addosso, sulla pelle nuda, che le carezzavano piano il sedere, il suo odore di appena uscito dalla doccia. Si strinse più forte.
Scherza anche con te per farti capire che vuole fare l’amore? Cerca sempre di far bere anche te quando mangiate assieme?
Vide are la macchina di Claudio. Mise in moto e partì.
Mi dispiace, amore. Devo saperlo.
Guidò con calma. Ogni tanto qualcuno si infilava tra di loro, ma lei non lo sorava. Gli stava dietro e aspettava.
Claudio non correva, si fermava anche ai gialli.
Strano.
Poi prese lo svincolo della tangenziale.
Non stai andando in palestra. La Sinagra abita ancora fuori Bologna, vero?
Continuò a seguirlo, tranquillamente.
All’uscita sette Claudio andò dritto. Non mise fuori la freccia nemmeno alla otto e neanche alla nove. Alla dieci erano già troppo fuori strada.
Lucia cominciò a sentir caldo.
Oddio, dove stai andando? Cosa sto facendo? Non è che quella non c’entra niente?
Uscirono appena prima del casello dell’autostrada. Claudio svoltò un paio di volte, poi imboccò una strada larga, a due corsie, che si perdeva in mezzo alla campagna. C’erano sempre meno macchine.
Lei rallentò, lo lasciò andare avanti.
Così finisce che se ne accorge.
Presero per l’interno e cominciarono a salire verso la collina, per una via tutta a tornanti. Claudio accelerò all’improvviso e sparì dietro a una curva. L’ho perso. Spinse anche lei sul gas e provò a riguadagnare terreno, ma non era abituata alla montagna, le svolte strette le facevano paura. Continuò a guidare, col fiato sempre più grosso.
Non ci sono laterali, devi essere ancora qui.
Lucia si ritrovò a non sapere quanto tempo fosse ato. Sentì il cuore farsi pesante. L’ho perso. La strada era deserta. Ai lati si alternavano i burroni e le sagome nere degli alberi.
Poi, all’improvviso, la trovò. La macchina di Claudio era accostata sulla destra, spenta. Lucia si fermò: non c’era nessuno.
Eppure è la sua.
Scese. Guardò il bosco. Non riesco neanche a distinguere gli alberi. C’era qualcosa che si muoveva tra i rami. Fa un freddo cane. Se mi faccio male non mi trovano fino a domattina.
Fece un respiro e si addentrò nel buio. Il primo o cadde nel vuoto. Perse l’equilibrio, si ritrovò aggrappata a qualcosa, un tronco, o un ramo. A tentoni cercò il terreno col piede. Era molto più in basso di dove se l’aspettava. Lentamente si lasciò scivolare e, finalmente, trovò terra.
Il bosco era uno strapiombo. Andò avanti alla cieca, mezzo centimetro alla volta, per un’eternità. Poi i rami tornarono a diradarsi.
La luna illuminava freddamente un campo. Qualche metro più in basso, sull’erba bruciata dalla brina, c’era una grossa macchia nera.
Lucia cominciò ad avvicinarsi. È un animale? È morto di freddo? Arrivò a un o e ancora non riusciva a distinguerne la forma. E se sta dormendo? Se mi salta addosso? Lo toccò con la punta di una scarpa. Era molle e pesante. Non si muoveva. Cercò il telefono e l’accese, per farsi un po’ di luce.
La pelle della donna era bianca, coperta di tagli incrostati dal sangue. Non aveva né bocca, né occhi, ma solo tre grandi buchi scuri. Al collo portava una sciarpa gialla.
Il telefono le cadde di mano. Fece un o indietro; qualcosa di freddo le premette contro la nuca.
“Chi sei?” le chiese qualcuno.
“Claudio?”.
Sentì un click metallico. Quella cosa gelida si staccò dalla sua pelle.
“Lucia…”.
Si voltò. Era lui. Aveva in mano una pistola, la teneva puntata a terra.
Lucia aveva le vertigini.
“Ma quella è…”.
“Un’arma”.
“La Sinagra…”.
“Sì. Lo so”.
“Sei stato tu…”.
Lui la fissava inespressivo.
Lucia indietreggiò. “Ma perché… cosa le…”.
“Ho dovuto. L’ho uccisa prima… di farle questo”.
“Hai… dovuto? Cosa vuol dire…”.
“È il mio lavoro. Devo farla trovare così, sono gli ordini”.
A Lucia venne il vomito. Diede due colpi di una tosse secca.
“Tu…?” biascicò.
“Il lavoro… è solo per non farti insospettire. I soldi veri me li danno per ammazzare la gente”.
“Chi? Chi è che…”.
“Non te lo posso dire”.
“La mafia?”.
“In un certo senso”.
“Lei… cos’ha fatto?”.
“Niente”.
“Niente?!”.
“C’è una casa, là in fondo. Ci abita suo zio. È un pentito, sotto protezione”.
Qualcosa le fece stringere i pugni, sentì le unghie penetrarle nei palmi.
Cristo, sto battendo i denti.
“Avevate una storia?”.
Lui non disse nulla.
“Allora?!”.
“Sì. Aveva paura, non si faceva avvicinare. È stato l’unico modo”.
“E ci sei andato a letto?”.
“Non sono io che decido”.
“Hai… hai fatto l’amore con lei…”.
…e poi le hai cavato gli occhi?
Ma la frase le morì in gola. Quella stessa cosa che le teneva serrati i pugni le scese lentamente addosso, come la nebbia gelata sull’erba del campo. Per un attimo, assurdamente, ripensò a Doriana e alla sua bimba senza padre. Senza smettere di tremare, fece un o. Continuò barcollando, finché non gli fu davanti.
“Se non decidi tu” gli disse “allora chi è che lo fa?”.
Poi gli ò accanto e proseguì, verso il bosco.
“Lucia, dove stai andando?”.
Non rispose.
“Lucia, cazzo, non capisci…”.
Chiuse gli occhi e continuò a camminare, dritto davanti a lei.
Claudio alzò la pistola e tolse la sicura.
UNA SOMIGLIANZA ALLARMANTE di Gabriella Cuscinà
Sara era una ragazza attraente e socievole. Era nata a Milano dove abitava e s’era laureata. Aveva deciso di seguire un master e per questo si era recata all’università di Madrid. Qui, aveva conosciuto tanti ragazzi che ammiravano i suoi occhi di un azzurro intenso, i lunghi capelli castani e la sua figura snella ed elegante. Aveva gusti difficili, motivo per il quale ancora non aveva trovato il ragazzo del cuore.
La sua amicizia con Andrea era nata per caso su un autobus di Madrid. Avevano scambiato qualche parola rendendosi conto d’essere entrambi italiani.
“Oh scusa!” aveva detto dopo averlo urtato ad una frenata.
“Prego” aveva risposto lui “mi pare che sei italiana o sbaglio?”.
“Sì, sono italiana, di Milano” aveva risposto “ma anche tu sei italiano”.
“E guarda caso, sono anch’io di Milano. Cosa fai a Madrid?”.
“Sto seguendo un master all’università. E tu?”.
“Anch’io seguo un master all’università”.
Si erano scambiati i numeri dei cellulari e da quel momento erano diventati grandi amici. Tra i due non era scattata la scintilla dell’amore e infatti si trattavano fraternamente, confidandosi segreti e facendosi scherzi da veri burloni. Sapevano di essere concittadini e conoscevano tutto di Milano, ne parlavano ricordando luoghi e tradizioni. Dicevano che era un peccato che non si fossero incontrati prima nella loro città.
Andrea era pure un bel ragazzo, alto, bruno, con occhi neri da arabo, ma non aveva fatto battere il cuore di Sara.
Abitavano in quartieri diversi di Madrid e i luoghi dove seguivano i masters erano distanti, ma si davano appuntamento e uscivano insieme la sera dopo aver studiato.
Una sera invece Andrea non poté uscire perché doveva terminare una tesina, e Sara si recò fuori in compagnia di una collega. Andarono in uno dei tanti pub madrileni e ordinarono da bere mentre continuavano a chiacchierare. Poi a un certo punto girandosi, Sara intravide da lontano Andrea. La cosa le sembrò strana, ma comunque si avvicinò al tavolo dove era seduto il ragazzo.
“Hai già finito di studiare, imbroglione?” disse ponendogli le mani sulle spalle con fare confidenziale.
Il giovane in questione si girò sorpreso e la scrutò assumendo l’atteggiamento di un punto interrogativo.
A questo punto, Sara si accorse che non era Andrea ma che gli somigliava in modo sorprendente. Era bello, con gli stessi capelli neri e corti, gli stessi identici lineamenti, ma gli occhi non avevano lo sguardo del suo amico Andrea. Anzi la guardavano sbalordito. Poi disse: “Ci conosciamo? Perché mi dai dell’imbroglione?”.
Sara restò a bocca aperta a guardarlo. Non credeva potesse esistere una somiglianza così incredibile. Andrea e quel ragazzo non sarebbero potuti essere più eguali!
“Oh! Scusa! Conosco un ragazzo che è la tua copia vivente. Credevo fossi lui. Sono Sara, come ti chiami?”.
“Sono Klaus, ciao, siediti e mi spieghi meglio”.
“Il tuo sosia mi ha detto di dover studiare, quindi vedendolo qua, cioè vedendo te, mi sono meravigliata. Non puoi credere quanto ti somigli!”.
“Allora dovrò conoscerlo. Sono svizzero, di Zurigo. Ci sei mai stata?”.
“No. Ma come mai parli così bene l’italiano?”.
“Perché ho sempre studiato e mi sono laureato a Milano”.
“Pure tu! Sei sicuro di non essere parente di un tale Andrea Cipriani?”.
“No. Mai sentito nominare; non sai che curiosità ho di conoscerlo”.
Trascorsero tutta la sera a conversare e Klaus raccontò d’aver fatto sempre il pendolare tra Milano e Zurigo dove viveva con i nonni, poiché i genitori erano morti quando aveva quindici anni.
Sara parlò di sé e alla fine della serata, si scambiarono i numeri dei cellulari ripromettendosi d’incontrarsi quanto prima in compagnia di Andrea.
L’indomani, appena sveglia, Sara si premurò di telefonare ad Andrea per informarlo dell’esistenza di qualcuno che era la sua copia vivente.
“Ma davvero?” esclamò l’amico “E l’hai scambiato per me?”.
“Dovevi vedere la scena! L’ho visto da dietro e l’ho raggiunto. Ero arrabbiata. Gli ho messo le mani sulle spalle e gli ho dato dell’imbroglione. Mi ha guardato come se fossi un extraterrestre” e aggiunse ridendo “allora ho capito che non eri tu, anche perché non aveva i tuoi occhi. Per il resto era identico. Lo devi assolutamente conoscere”.
“Sì certo, lo voglio conoscere. Quando vi rivedrete?”.
“Ma, non so, mi ha dato il numero del cellulare e, se vuoi, lo richiamo e gli do
appuntamento per stasera. O devi ancora studiare?”.
“No, no, stasera potremo uscire”.
“OK. Allora gli dico di trovarsi allo stesso pub”.
“A stasera d’accordo. Ciao Sara”.
Telefonò a Klaus che fu lieto di risentirla così presto.
“Ho già parlato con il tuo sosia e siamo d’accordo di vederci stasera allo stesso pub. Andrea è curioso di conoscerti. Verrai?”.
“Ci puoi giurare. Potrebbe fermarmi solo il terremoto”.
Quella sera quando Klaus entrò nel pub, vide Sara seduta accanto a un ragazzo il cui viso lo lasciò di stucco. Era un’altra copia di sé stesso. Si avvicinò e si accorse chiaramente che era identico a lui. Gli stessi capelli, la stessa forma del viso, le stesse spalle larghe e la medesima corporatura.
“Ciao Klaus, questo è Andrea” fece Sara.
I due ragazzi si strinsero la mano e Andrea era strabiliato.
“Dicono che siamo in sette a somigliarci nel mondo. Ma qui non si tratta di somigliarsi, credo, ma di essere identici, di una somiglianza allarmante. È logico che Sara ti abbia scambiato per me”.
Cominciarono a chiacchierare per conoscersi meglio e Andrea raccontò d’essere figlio unico e che suo padre era morto.
“Siete mai stati in piscina a Madrid?” chiese a un certo punto. “Io a Milano faccio parte di una squadra di pallanuoto e anche qui ogni tanto vado a nuotare. Volete venire domani con me?”.
“In piscina?” fece Sara. “Sì, sì. Mi sono portata un costume e mi piacerebbe andare a nuotare”.
“Io invece dovrò comprarlo” disse Klaus. “Però d’accordo, domani verrò con voi”.
Continuarono per tutta la sera a scherzare e conversare e, alla fine, si diedero appuntamento per l’indomani mattina.
S’incontrarono davanti l’ingresso principale di una piscina che era abbastanza affollata. Si cambiarono e indossarono i costumi sotto un accappatoio. I due ragazzi se lo tolsero contemporaneamente per tuffarsi e, a quel punto, Sara emise un’esclamazione di sgomento. Infatti s’era accorta che entrambi avevano la medesima, identica voglia sulla spalla destra. Era una macchia cutanea di color rossastro a forma di foglia.
Klaus si girò e vide Sara che gli indicava la spalla di Andrea. Trasalì e non credeva ai propri occhi. Era rimasto a bocca aperta e quando Andrea lo guardò interrogativamente, si girò per mostrargli ciò che aveva anche lui sulla spalla. L’espressione di Andrea non fu diversa dalla sua, dopodiché cominciò a scuotere la testa e disse: “Ma non è possibile! No! Non è possibile!”.
Klaus aggiunse: “Pare impossibile e intanto è così. Hai la mia medesima voglia sulla spalla. Non solo ci somigliamo come due gocce d’acqua, ma per giunta abbiamo un segno di riconoscimento perfettamente identico. Tutto questo mi pare surreale!”.
“Calma” disse Sara, “calma, non lasciamoci impressionare. Nella vita c’è una spiegazione a tutto. Voi siete propri sicuri di non essere gemelli? Forse non sapevate d’avere un fratello gemello?”.
“Ma che gemello!” disse Klaus. “I miei nonni me ne avrebbero parlato. Invece sono sempre cresciuto da solo. Anche quando erano vivi i miei genitori non mi hanno mai parlato di un fratello gemello”.
“Anche i miei” intervenne Andrea. “Mi avrebbero detto qualcosa e invece niente, assolutamente nulla”.
“Eppure ci deve essere una spiegazione” disse Sara “perché convenite che è stranissimo! Se fosse stata la sola somiglianza, non ci avremmo più fatto caso, ma una voglia identica mi pare troppo!”.
“Dovremmo fare delle ricerche” disse Andrea con aria pensierosa. “Credo che l’unica persona cui potrei chiedere qualcosa sia mia madre. Domani le telefonerò e vi riferirò la sua reazione”.
Si tuffarono, nuotarono e si divertirono, cercando di non pensare a quello che sembrava un vero mistero.
Ma l’indomani, quando si rividero, Andrea aveva un’aria stralunata e preoccupata.
“Ehi Andrea che c’è? Che novità?” si affrettò a chiedere Sara.
“Quando ho detto a mia madre di Klaus, è rimasta taciturna, imbarazzata, poi lentamente mi ha rivelato che io sono nato in provetta, grazie alla procreazione assistita che le ha praticato proprio un medico di Zurigo. Era dispiaciuta per non avermelo mai detto; credeva che non ce ne sarebbe mai stato bisogno. Comunque non sa spiegare la nostra somiglianza. Ha detto che potremmo andare a chiedere al dottore che le ha praticato la fecondazione, ma di cui non ricorda bene il cognome, perché era un cognome tedesco un po’ strano. L’unica cosa che ricorda con certezza è che portava sempre una sciarpa gialla”.
“A Zurigo!” esclamò Klaus. “La mia città! Allora credo che dovremo cercare là quel dottore. Una sciarpa gialla. Beh, è sempre un indizio, anzi credo, l’unico indizio”.
“Verrò anch’io. Non crederete di lasciarmi fuori da questo mistero d’ora in poi...” disse Sara.
I tre ragazzi, oltre a frequentare i masters, trascorsero i rimanenti giorni a Madrid uscendo sempre insieme. Continuarono ognuno a raccontare la propria vita ata, le proprie esperienze, i propri gusti musicali; andarono in tanti pub e visitarono i vari musei di quella splendida capitale. Parlarono delle proprie letture e Andrea e Klaus si accorsero che le loro preferenze erano identiche, infatti preferivano entrambi i romanzi e i racconti gialli.
“Sono convinto che portiamo lo stesso tipo di mutande...” ironizzò Andrea.
La prima a partire fu Sara e Klaus l’invitò a Zurigo non appena anche lui fosse tornato: “Vi farò dormire a casa mia; i nonni ne saranno ben felici”.
Così, circa quindici giorni dopo, Sara udì una voce da Zurigo che le diceva: “Ehi, bellissima ragazza, quando mi vieni a trovare? Andrea tornerà tra due giorni e la prossima settimana sarà qui da me”.
“Klaus! Ciao! Come va? Hai saputo nient’altro? Sì certo, verrò anch’io con Andrea”.
“Qui tutto bene e ho continuato a studiare. No, non ho fatto nessuna ricerca. Aspetto voi. Come prevedevo quando ho detto ai nonni che sarete miei ospiti, si sono mostrati contenti di conoscervi”.
“D’accordo, mi sentirò con Andrea e arriveremo insieme”.
La settimana successiva infatti, Klaus era alla stazione di Zurigo ad attendere gli amici. Li condusse nella propria casa e conobbero i suoi nonni, gente affabile e gentile. La casa era ampia e spaziosa, con varie camere da letto. Non ebbero neppure l’inconveniente della lingua tedesca poiché anche i signori Dolff parlavano un po’ l’italiano.
“Potrete restare quanto vorrete” disse la nonna, “a me fa piacere che mio nipote abbia dei nuovi amici e cucinerò volentieri per tutti” disse con il suo accento teutonico.
Sara ringraziò e volle affrontare subito il problema della somiglianza: “Signora, si sarà accorta di quanto si somiglino Andrea e Klaus e saprà che hanno la medesima voglia sulla spalla destra. Come è possibile, secondo lei, un fatto del genere?”.
“Cara Sara, mio nipote m’ha detto pure che sono nati lo stesso anno e lo stesso mese con qualche giorno di differenza. La cosa mi ha impressionato. Voglio dirvi a questo punto che mia nuora, la mamma di Klaus, è ricorsa alla procreazione assistita, ma non so altro. Dovreste cercare il suo ginecologo credo, solo lui potrà darvi qualche spiegazione”.
“Sì, mettiamoci alla ricerca di quel dottore” disse Andrea, “dai Klaus, a chi possiamo rivolgerci per avere informazioni su un ginecologo che porta sempre una sciarpa gialla?”.
“Secondo me” rispose l’amico “potremmo chiedere all’Ordine dei medici di Zurigo”.
“È vero! Sicuramente lì qualcuno lo conosce”.
Si recarono quindi all’ufficio dell’Ordine dove si ricordavano del dottor Gutthartad il cui particolare vezzo era quello d’indossare sempre una sciarpa gialla. Dissero che purtroppo era deceduto. Fornirono comunque ai ragazzi il suo indirizzo civico e il suo vecchio numero telefonico.
I ragazzi furono molto delusi, ma Klaus non volle abbandonare le ricerche e provò lo stesso a telefonare. Gli rispose la moglie del medico. Lui parlò in tedesco presentandosi e spiegando il motivo della sua telefonata. Quella l’informò della morte del marito, ma il ragazzo non si perse d’animo e insistette: “Signora, mi scusi, potrei venire a trovarla per chiederle delle informazioni? Sa, si tratta di vecchie notizie che potrebbero ancora esistere negli archivi di suo marito o di cui lei potrebbe essere al corrente”.
“Io? No, non credo. Non credo di poterle essere d’aiuto signor Dolff”.
“La prego signora, lei rappresenta l’unico legame che mi resta con suo marito”.
“No signor Dolff. Non insista”.
“Voglio insistere invece. Di che si preoccupa? Non sono un malfattore, glielo assicuro. Non mi dica di no, la prego, mi riceva”.
“E invece no, glielo ripeto. Vivo sola e non ricevo mai nessuno. Buon giorno signor Dolff”.
Klaus era rimasto interdetto e aveva guardato gli amici lasciando capire il suo fallimento.
Sara disse: “Non fa niente, coraggio, andremo lo stesso in quella casa”.
“Ma come? Se non l’hai capito, ha detto che non mi riceve!” replicò.
“Proviamoci! Tanto provare non nuoce e non abbiamo nulla da perdere. Andremo a bussare e può darsi che, vedendo una ragazza, la signora abbassi la guardia e ci riceva”.
Quel pomeriggio si recarono a casa della signora Gutthartad. Allorché l’anziana signora aprì la porta d’ingresso, non s’aspettava di vedere tre giovani: “Chi siete?” chiese spaventata e facendo l’atto di richiudere.
“Sono Klaus Dolff, signora, mi perdoni se mi presento da lei, ma vede, la cosa è troppo importante e riguarda anche questo mio amico. È Andrea Ferretti. La signorina invece è qui perché... perché... è la mia fidanzata”. Non trovò di meglio per giustificare la presenza di Sara.
La signora continuava a sembrare spaventata, ma guardava incuriosita prima Klaus e poi Andrea. Finalmente si decise a farli entrare, sempre con fare guardingo.
“Ma voi due siete identici! Siete gemelli? Mi ricordate tanto una persona!” disse
a un certo punto facendoli accomodare.
“No, non siamo gemelli” disse Klaus “ed è proprio questo il motivo che ci ha portato da lei. Non solo ci somigliamo in modo impressionante, ma guardi un po’ qui”. Così dicendo scoprì la spalla destra, facendo segno ad Andrea di fare altrettanto.
La signora restò esterrefatta, con gli occhi sgranati. Dopo un po’ esclamò:
“Avete la stessa voglia! Ho già visto qualcosa del genere!”.
“Consideri” aggiunse Klaus “che mia madre si sottopose alla fecondazione in vitro per farmi nascere e che quell’intervento lo eseguì suo marito”.
La signora Gutthartad stava annuendo, ormai tranquillizzata sulle intenzioni dei tre. Parlava in tedesco e Sara e Andrea dovevano sforzarsi di capirla.
“Io non sono la prima moglie del dottore, ero la sua infermiera...” disse “lui s’era ammalato di depressione dopo la perdita della moglie. Sono stata sua assistente per vent’anni e dopo volle sposarmi, credo, per avere anche chi l’assistesse in casa. Ma la cosa che mi ha sconvolto appena vi ho visto è che somigliate proprio alla prima signora Gutthartad”.
“Cosa!? Somigliamo alla prima moglie?” esclamò Klaus in italiano.
“Non solo, ma lei aveva la stessa voglia sulla spalla destra”.
“Aveva la stessa voglia?” ripeté il ragazzo.
A questo punto i tre erano impalliditi. Klaus strabiliato disse: “Ma come si può spiegare un fatto del genere? Allora è come fossimo figli di quella signora!”.
“Ricordo” continuò la Gutthartad “che rovistando tra le carte di mio marito, una volta trovai una busta sulla quale era raffigurato qualcosa a forma di foglia. Dentro vi era uno scritto che conteneva delle strane rivelazioni”.
Klaus continuava a tradurre nel timore che gli amici non capissero ciò che lei raccontava. Poi disse in tedesco: “Signora, ci potrebbe mostrare una foto della prima moglie? E, per favore, potrebbe cercare quella busta?”.
“Sì certo, lo posso fare, ma dovrei guardare in cantina fra i suoi vecchi archivi”.
“È noioso, lo so, e le chiedo troppo, ma si tratta solo di una foto e di una busta. La prego le cerchi. Noi aspetteremo pazientemente”.
Volle accontentarli e si assentò per qualche tempo. Ritornò con una foto e una busta in mano. Le mostrò ai ragazzi che, appena videro la fotografia, rimasero allibiti. Infatti mostrava una bella donna a mezzo busto i cui lineamenti erano molto simili ai loro. Aveva capelli neri e folti, occhi neri da orientale e un sorriso dolce che metteva in evidenza una dentatura perfetta.
Sara esclamò: “Porca miseria! Somigliate a questa donna!”.
Era un momento particolare e un silenzio carico di tensione era sceso nella stanza. I due ragazzi avevano la sensazione di vedere per la prima volta la loro madre naturale. Ma com’era possibile? Come era potuto accadere tutto ciò? Erano venuti a conoscenza di un mistero inspiegabile, ma quella nuova consapevolezza li sconvolgeva. Come diceva Sofocle: Tante cose è meglio che restino nascoste, poiché la conoscenza è terribile quando non giova a chi la possiede.
Andrea e Klaus continuavano a guardare la foto e poi si guardavano a vicenda.
La busta recava un disegno che riproduceva proprio la loro stessa voglia. Non mancava che leggere il foglio contenuto che forse avrebbe potuto svelare il mistero.
Klaus e Andrea lo svolsero con la massima cautela e fu Klaus a leggere e tradurre simultaneamente:
“Sono disperato da quando mia moglie è morta. Avevamo tanto desiderato un figlio. Lei avrebbe fatto di tutto per averlo. L’amavo da morire, è sempre stata l’unico, grande amore della mia vita. L’avevo sottoposta al prelievo degli ovociti dalle ovaie e li tenevo conservati in laboratorio. Ora che il cancro me l’ha portata via, ho deciso di utilizzarli. Proprio in questi giorni si sono presentate da me due signore, una di Zurigo e un’altra di Milano. Hanno detto di avere difficoltà di concepimento e quindi hanno voluto che intervenissi con la fecondazione in provetta. L’ho fatto, è stato un altro dei miei tanti interventi di procreazione assistita. Ma questa volta ho fatto una specie di scherzo alla natura. Sì, mi sento furioso contro il mondo intero per aver perso la mia adorata moglie. La farò sopravvivere grazie a quegli ovuli. Il liquido seminale mi appartiene, sono io il
donatore. Così i figli nati saranno anche miei. Le signore non ne sapranno mai nulla. D’altronde saranno loro che per nove mesi porteranno avanti la gravidanza e saranno ben felici di avere i loro bambini. Lo so che è un’idea pazza e disonesta. Ma ormai è cosa fatta e tutto è andato bene, il concepimento in vitro è avvenuto e gli ovuli si sono perfettamente impiantati.
Comincio talora a provare vergogna per ciò che ho fatto. Ma adesso mi sono vendicato del destino! Chissà se quelle creature somiglieranno a lei! Spero di sì. Mi piacerebbe che avessero la sua stessa voglia sulla spalla, i suoi stessi occhi dolci e il suo medesimo sorriso. Siamo stati tanti anni felici insieme e adesso quel ricordo genera e acuisce la mia infelicità. Solo il pensiero che lei potrà sopravvivere in due esseri nati dai suoi ovuli mi consola”.
Il mistero era risolto. L’amore di un uomo aveva vinto sul tempo, ma aveva lasciato dietro sé un senso di sconcerto, d’amarezza e d’incertezza. I ragazzi erano stati generati da persone ignote. Nessuno avrebbe mai saputo se il dottor Gutthartad avesse più conosciuto i suoi figli.
Adesso l’unica consolazione per Andrea e Klaus era quella di sapersi fratelli.
LA STRATEGIA DI ISMAIL di Cristian Fabbi
Levraze, montagne dell’Albania settentrionale,
autunno 1940
Giovanni Ognibene stava scrivendo nel registro gli eventi dell’ultima settimana, compito noioso di ogni carabiniere capo distaccamento. Lo faceva davvero malvolentieri. Il carabiniere Donato Scantanburlo, invece, stava mettendo in ordine l’orto, sul retro della kulla, la costruzione a forma di torre, a pianta quadrata, tipica dell’altipiano albanese. La loro kulla aveva scritto sul muro Carab. Scantanburlo, quando iniziò il lavoro, a marzo, avrebbe voluto scrivere carabinieri col nero, ma il colore era finito e nel villaggio avevano trovato soltanto il blu. Ognibene aveva deciso che il bicolore non faceva per loro e da allora non ne avevano più parlato. L’altro carabiniere del distaccamento, Saverio Ferretti, era sceso a Scutari con la moto Guzzi per portare alcuni incartamenti e recuperare un po’ di vettovaglie.
Toc Toc Toc. Si sentì bussare concitatamente.
Ognibene fu felice di posare il pennino e di alzarsi. La sala al piano terra che fungeva da caserma era piena di polvere, resa ancora più visibile dalla lama di luce che filtrava dalle finestre. Aprì la porta e si trovò davanti Basqim, il maestro del villaggio, che parlava benissimo l’italiano perché era stato, ai tempi di Re Zog, a studiare a Roma. Ognibene e Basqim erano diventati buoni amici. Il maestro trascorreva molte serate a tavola con i carabinieri.
Basqim era trafelato. Parlava a fatica. Aveva corso. “Oh, Basqim, come va? Che succede?” gli chiese Ognibene.
“Un guaio. Hanno trovato morto Domenico Murdas”.
“Murdas? Quello della Gioventù del Littorio?”.
“Sì, lui”.
“Oh, cazzo”. Si voltò verso la finestra che guardava a valle. “Scanta, pianta lì l’orto. Di corsa”.
I due arrivarono nella casa bianca che fungeva da scuola, dove si era formata una folla di curiosi. Scantanburlo, dall’alto del suo metro e novanta, fece strada a forza ad Ognibene. Basqim era andato a chiamare il medico del villaggio.
Domenico Murdas era sdraiato su un fianco, sull’assito, vicino a una panca. Un coltello fuoriusciva dalla pancia. Si riconoscevano due ferite.
Domenico Murdas era uno dei Giovani del Littorio che gravitavano attorno a Levraze. La gioventù del Littorio era l’organizzazione di italiani che aveva il compito di fascistizzare le giovani generazioni albanesi, a seguito dell’annessione all’Italia nell’aprile del trentanove. In quella zona dell’altipiano, i Giovani del Littorio erano tre, e ruotavano su una decina di villaggi. Facevano corsi, lezioni, organizzavano iniziative per i bambini e i ragazzi. In realtà, il loro lavoro era poco seguito, soprattutto a Levraze. Oltre a Murdas, gli altri due erano
Gianluca Parlasia e Massimo Fiorini, entrambi romani. I Giovani del Littorio vivevano nel villaggio vicino, Oshtr.
Ognibene si guardò attorno. Basqim era arrivato con il medico, il quale iniziò ad analizzare il cadavere. Era un omino piccolo, ostile agli italiani. Ognibene lo rispettava perché si era sempre mostrato leale nel suo lavoro. Poco dopo periziò che l’italiano era stato ucciso dalle due coltellate, una mezzora prima. Poteva essere sopravvissuto alle coltellate per dieci minuti al massimo, ma non ne era certo.
Ognibene si grattò la chioma corvina, i capelli scompigliati. Dalla piazzetta antistante la scuola giunse un rombo di moto. Ognibene si voltò e vide, fuori dalla porta, Ferretti togliersi il casco e mettere in mostra la testa di riccioli biondi.
“Giovanni, che cosa è successo? Non ho trovato nessuno alla caserma e il vecchio Shehu mi ha spiegato che eravate corsi a scuola”.
“Hanno ammazzato Murdas. Una coltellata nella schiena”.
Ferretti raggiunse il gruppo. Guardò il cadavere. Scosse la testa. Guardò Ognibene. “Io l’ho sempre detto che sono degli invasati, questi qua della Gioventù, e che prima o poi sarebbe successo qualcosa, neh? Dì che non lo avevo detto”. Ferretti era refrattario al potere e non faceva nulla per nasconderlo, pur essendo in divisa.
“Non è il momento per le polemiche, Saverio. Vediamo piuttosto di risolvere la questione alla veloce”. Poi si guardò attorno. “Chi lo ha trovato?”.
Basqim prese la parola: “Ismail Bashqa, quel ragazzo là. Doveva venire a una lezione”.
“Chiamalo”.
Basqim fece cenno a un giovane di avvicinarsi. I i sul tavolato rimbombarono. C’era bisogno di manutenzione in quella scuola. Ad Ognibene non sfuggì che mancavano completamente le finestre. Il ragazzo, moro, curato, vestito di bianco, fece qualche o verso il gruppo. Sembrava piuttosto spaventato.
“Avanti, avanti. Parli italiano, ragazzo?” e così dicendo, Ognibene gli fece segno di sedersi.
“Sì, signore”.
“Lo hai imparato frequentando la Gioventù del Littorio?”.
“No. Me lo ha insegnato il maestro, Basqim” e lo segnò con il dito indice. Un gesto quasi infantile. Il maestro annuì al carabiniere. Ognibene si grattò la chioma scura e si ò le mani sulla barba di cinque giorni. Si sentiva in imbarazzo ad interrogare quel ragazzo.
“Quanti anni hai?”.
“Tredici, signore. Quasi”.
“Cosa dovevi fare qui?”.
“Dovevamo fare una lettura di alcuni discorsi del Duce”.
Ferretti scosse visibilmente la testa e guardò fuori dalla finestra. Ognibene lo udì sacramentare.
“Dovevamo? Dovevamo chi?” lo incalzò Ognibene.
“Io, Fatos Lavej e Spartak Gjona”.
Ognibene si rivolse a Basqim. “Dove sono?”.
“Sono là fuori. Non erano ancora arrivati quando sono venuto a chiamarvi. Dicono che l’appuntamento per la lezione era più tardi, ma si sono precipitati qui quando hanno sentito della notizia in paese.”
Ognibene si volse di nuovo verso il ragazzo, lentamente. Faceva fatica a condurre un interrogatorio. Le domande gli venivano sempre in mente dopo, mai durante. Riprese.
“E tu perché eri già qui?”.
“Io ero in anticipo”. Il ragazzo fece un sospiro che tradì la sua apprensione.
“Come mai?”.
“Non avevo nulla da fare, signore, e così...”.
“Come hai trovato il cadavere?”.
“Così come lo vedete. Non era ancora morto, ma era già in quella posizione”.
“Ci hai parlato?”.
“Ho chiesto al signor Murdas come stava. Ma mi ha dato una risposta strana”.
“Cosa ha detto?”.
“Una sciarpa gialla”.
“Una sciarpa gialla?”.
“Sì signore. Ha detto proprio così. Poi sono corso subito dal signor Basqim”.
Basqim annuì di nuovo con la testa. Ognibene guardò Ferretti che si stava agitando. Poi fissò il ragazzo vestito di bianco.
“Va bene, va bene. Per il momento vai a casa ma rimani a disposizione. Ferretti, tu interroga gli altri due e verifica la cosa”.
Ognibene si appartò con Basqim.
“Che mi dici del ragazzo?”.
“Che è un genio. Il più bravo che io abbia mai conosciuto da quando insegno a Levraze. Ha un talento naturale per la logica. Frequenta la Gioventù solo per poter sperare di avere una borsa di studio. Vuole venire in Italia. Ha la testa per diventare un ingegnere, credimi” .
“Va bene”. Ognibene diede un’altra occhiata al cadavere. Effettivamente le due coltellate nella pancia sembravano gli unici segni. Guardò il manico del coltello sporco di sangue.
“Poi mi fate avere l’arma del delitto” disse, chissà a chi. Diedero mandato a Basqim e al medico di prendersi cura del corpo, in attesa di un pronunciamento
del Tribunale municipale di Scutari. Poi fecero ritorno alla kulla-caserma.
Ferretti scaricò dalla Guzzi un po’ di vettovaglie e buttò sul tavolo un fascio di carte. Si rivolse a Ognibene.
“Giovanni, qui ci sono i documenti dal comando. Burocrazia. Vanno firmati senza balle. Poi ho recuperato tre copie, vecchie di almeno una settimana, del Popolo d’Italia e una Settimana Enigmistica”.
“Fai una cosa, Ferretti. Fin che sei in movimento, prendi la Guzzi e vai a Oshtr. Bisogna che risolviamo questa faccenda. Lo sai che questi invasati sono protetti dalle camice nere? Senti un po’ gli altri due Giovani del Littorio, vediamo di capire come funziona il loro lavoro, dove si trovavano, eccetera”.
“Bòn. Ci vediamo a ora di cena”.
“E mi raccomando: non attaccar lite con i Giovani”.
“Io? E quando mai?” disse Ferretti scomparendo oltre l’uscio. “Quando mai?”.
Scantanburlo uscì nell’orto. Era uno dei suoi rifugi dallo sradicamento. Sentiva la mancanza dell’amata valle del vicentino. L’altro rifugio era la fattoria dei Barashi, dove andava ogni mattina a mungere e a fare i lavori pesanti. Aiutava così la famiglia Barashi, e si manteneva in contatto con la sua parte contadina. Ne guadagnava uova e formaggio per la caserma.
Ognibene invece si sedette a tavola. Cominciò a scartabellare tra i documenti provenienti dal comando di Scutari. Avvisi, ordini, circolari sulla disciplina da tenere nei distaccamenti, informazioni da Roma circa la campagna di Grecia, che ancora non era cominciata. Avrebbe dovuto leggere e firmare. Ma come al solito non ne aveva voglia. Era preoccupato. Non erano abituati a fare indagini, e sapeva che, per evitare guai peggiori, sarebbe stato utile trovare l’assassino alla svelta. Provò a distrarsi un poco. Prese allora il Popolo d’Italia. C’erano comunicati roboanti del Duce sulle mire espansionistiche della patria. C’era anche un articolo nel quale si descriveva come il popolo d’Albania fosse grato al Re e al Duce di averli liberati da Re Zog e di quanto gli italiani fossero stati ben accolti nel paese delle aquile. Pensò a due amici d’infanzia del suo paese nella bassa reggiana che erano stati uccisi durante lo sbarco, a Durazzo, e di come i fieri albanesi avessero resistito, in quella città. Pensò anche alla resistenza che da mesi si stava organizzando, proprio su quell’altipiano. Preso da un moto di fastidio accartocciò i giornali e li sbatté nel camino spento.
“Buoni per quest’inverno, per il fuoco”.
Poi prese a sfogliare la settimana enigmistica. Era vecchia di un mese. Ferretti doveva averla rubata al comando a Scutari, come spesso gli capitava di fare, perché il cruciverba della prima pagina era stato iniziato. Sfogliò le pagine. Lesse le vignette con piacere. Si fermò nella pagina degli enigmi. Il suo cervello, automaticamente, iniziò a giocare con le lettere e con le parole. ò dieci piacevoli minuti a risolvere rebus ed anagrammi, poi si alzò, sparì in cucina e tornò al tavolo con un bicchiere di raki. Tirò fuori il taccuino coi pochi appunti che aveva preso durante il ritrovamento del cadavere di Murdas e durante l’interrogatorio del ragazzino albanese. Lesse una sciarpa gialla. E di nuovo, con la magia che solo il cervello umano accende, automaticamente, riprese a giocare con le lettere.
Scantanburlo, la zappa in mano, stava pulendo attorno ai fagiolini. Sperava di riuscire a fare una nuova semina con relativo raccolto prima dell’inverno. Si era appoggiato al corbezzolo e si stava grattando la testa bagnata di sudore quando
sentì un urlo terrificante venire dalla caserma. La voce era quella di Ognibene. Prese la zappa a mo’ di arma e si precipitò dentro. Vide Ognibene in piedi che indicava un giornaletto sul tavolo. Si guardò attorno. Niente pericoli. Giovanni Ognibene lo guardava fisso. Lo vide bersi un bicchiere di raki.
“Scanta, ecco la soluzione, ecco l’assassino”.
Scantanburlo lo guardò storto. Seguì il dito di Ognibene che indicava il giornaletto. Pensò che si fosse ubriacato di raki ed uscì senza dire altro. Due ore dopo, all’imbrunire, Scantanburlo stava finendo di seminare quando sentì il rombo della Guzzi. Alzò la testa e riconobbe il commilitone.
Ferretti entrò nella sala al pian terreno. Ognibene stava ancora trafficando con la pila di carte sul tavolo.
“Oh, bravo Giovanni, ti sei messo a firmare i documenti. Verrà sicuramente a nevicare anche se siamo in settembre. Già che ci sei, ce n’è un’altra pila di sopra, di carte”.
“Carte?” chiese Ognibene, alzando la testa dal tavolo. Dallo sguardo sembrava in trance. Ferretti lo guardò perplesso. Si avvicinò al tavolo. Ognibene gli fece segno di sedersi.
“Allora, Saverio, ho l’assassino. Mi manca il movente”.
Ferretti strabuzzò gli occhi. “Assassino? Chi è? Ha confessato?”.
“Calma. Calma. Al momento sono supposizioni. Ma fondate”.
“Bene, anche io ho delle novità interessanti” disse Ferretti, con fare complice, e apprestandosi a raccontare delle indagini del pomeriggio.
“Zitto, prima io” disse Ognibene, eccitato. “Una sciarpa gialla. Cosa ti dice?”.
“Una sciarpa gialla? Quello che Murdas ha detto prima di morire”.
“Sì, ma cosa ti dice?” chiese Ognibene, sogghignando.
“Cosa mi dice, Giovanni? Niente. Dimmi quello che mi devi dire. Non fare gli indovinelli che mi girano...” si inquietò Ferretti.
“Guarda, guarda” continuò Ognibene, come nulla fosse, e gli mostrò un foglio pieno di lettere.
“Una sciarpa gialla è l’anagramma di Gianluca Parlasia!”.
“Cazzo. U-n-a-s-c-i-a-r-p-a-g-i-a-l-l-a. Gianluca Parlasia!”. Ferretti guardava Ognibene come fosse un alieno.
“Merito della settimana enigmistica” aggiunse, sollevando il giornaletto per aria e sbattendovi il palmo della mano sinistra sopra.
“Torna. Tutto torna” disse Ferretti.
“Torna? In che senso?” chiese Ognibene.
“Nel senso che ho interrogato Parlasia, Fiorini e un paio di anziani del villaggio a cui ho aggiustato una credenza il mese scorso. Due brave persone. I vecchi, neh, mica i Giovani”. Ognibene benedisse mentalmente l’abilità di Ferretti come falegname. Per molti anziani era diventato un valido aiuto per riparare mobili, infissi, scale. Ferretti si prestava sempre con piacere.
“E cosa hai scoperto?” chiese Ognibene, interessato.
“Prima cosa, che a Levraze, oggi, avrebbe dovuto esserci Parlasia a fare lezione. Non Murdas. Murdas era nel suo giorno libero. Fiorini, l’altro del Littorio, invece, era a Davlaxhi, il paesino sulla strada per Scutari”.
“E quindi Parlasia era, o avrebbe dovuto essere, a Levraze”.
“Già. Secondo: ho imparato che Parlasia è uno stronzo. Me lo ha fatto capire uno dei due vecchi. Un bullo, un prepotente”.
“Questo non penso sia rilevante ai fini dell’indagine”.
“No, ma aiuta. Aiuta, neh, ad andare avanti. E terzo, me lo ha detto l’altro vecchio, si mormora che Gianluca Parlasia abbia una ione per i ragazzetti giovani. Si mormora che sia stato cacciato da Tirana e mandato qui, sull’altipiano, proprio per evitare guai peggiori. Si dice che lo abbiano beccato diverse volte con dei ragazzini”.
“Il che spiegherebbe l’atteggiamento timoroso di Ismail Bashqa. Ora viene il difficile, Saverio. Dobbiamo rispondere a questa domanda: perché Murdas ha detto “una sciarpa gialla” invece di Gianluca Parlasia? Che motivo aveva di parlare per anagrammi?”.
I due assunsero un tono confabulatorio, e più che carabinieri, sembravano due bucanieri.
“Deve essere andata così: Murdas sospettava di Parlasia. Forse ne aveva le prove” disse Ferretti.
“Mi hanno parlato di Murdas come di un fascista invasato, ma onesto” e Ferretti fece un sospiro.
“Bene,” continuò Ognibene, “Murdas si deve essere presentato prima degli altri alla lezione, certo di beccare Parlasia con Ismail. Ma è arrivato prima del ragazzo albanese. Deve aver accusato Parlasia. Forse aveva anche delle prove. Parlasia si è visto perduto e lo ha ammazzato.
“Già” disse Ferretti. “Ma quando Parlasia è fuggito, Murdas non era ancora
morto. E ha voluto darci un indizio per scoprire l’assassino”.
“Aspetta, Saverio. Non è andata così. Secondo me l’anagramma se lo è inventato il ragazzo. Ragiona: lui non sa se fidarsi di noi, e nel dubbio ci offre un indizio, ma non denuncia direttamente Parlasia, per paura che noi ci schierassimo dalla sua parte. Mette l’indizio in bocca a Murdas morente. Ci mette alla prova. Se ci mettiamo ad indagare, allora si potrà fidare. Altrimenti, lui è comunque al sicuro, e l’anagramma muore con Murdas”.
“Sì, ci sta. Inoltre, magari ha paura. È confuso. Capita spesso alle persone che hanno subito violenze di sentirsi in qualche modo colpevoli”.
“Che schifo di storia! Ora non ci resta che tranquillizzare il ragazzo, metterlo alle strette, farlo confessare, e poi inchiodare quel bastardo di Parlasia” concluse Ognibene.
In serata, Scantanburlo prelevò Ismail, il quale dopo neanche mezzora di interrogatorio delicato ma serrato con i tre carabinieri, alla presenza di Basqim, crollò, pianse, si disperò. Raccontò di almeno una decina di incontri nei quali era stato praticamente obbligato da Parlasia ad avere rapporti. Parlasia lo teneva sotto controllo minacciandolo di far arrestare suo padre. Confermò anche la strategia dell’anagramma. I carabinieri raccolsero dettagli di particolari anatomici che inchiodarono il Giovane del Littorio, il quale fu arrestato con l’accusa di pedofilia, a notte inoltrata. Scantanburlo, che aveva un fratello di tredici anni, durante l’arresto gli ruppe inavvertitamente tre denti.
I carabinieri si ritrovarono nella sala al pian terreno della kulla.
“Beh, niente male per dei dilettanti, no?” disse Ferretti.
“Dilettanti? Parla per te, Saverio”.
“Scusa, Sherlock. Comunque mi fanno ridere questi Giovani del Littorio. Italiani!” e si mise ad imitare il duce, “Popolo di giovani vigorosi, uomini energici e fieri. E si faceva i ragazzini”.
“Sarà punito duramente. Il podestà di Scutari non vuole dare l’idea che gli italiani possano delinquere impunemente nei confronti degli albanesi”.
“Ne sono felice. Il ragazzino erà dei guai?”.
“Non credo. È minorenne. Nel rapporto chiariremo che è stato vittima di Parlasia, e che questi lo ricattava e minacciava”.
“Bene. Alla salute allora”.
E fecero un brindisi con l’ennesimo bicchiere di raki della giornata. Scantanburlo si era già addormentato sulla sua solita poltrona. Gli altri due crollarono ubriachi con la testa sul tavolo.
LA VENDETTA DI ISACCO di Manuela Fiorini
Alessandro Levi Manenti, impiegato di banca, pedalava veloce lungo la Via Emilia. Era una serata particolarmente fredda e umida. Modena era avvolta nella nebbia, di quelle nebbie dense, simili a fumo, che, attraverso il respiro, penetrano fino ai polmoni, per poi raffreddare tutto il resto del corpo. All’altezza di piazza Mazzini, l’uomo guidò il manubrio verso sinistra, costringendo la bicicletta ad una brusca virata. Aveva fretta di tornare a casa. Aveva trascorso la serata presso una palestra cittadina, tra esercizi di pesistica, cyclette e tapis roulant. Ci teneva all’aspetto esteriore, restare in forma era un modo per volere bene a se stessi. Il momento più spiacevole, tuttavia, era quando, dopo una rilassante doccia calda, doveva abbandonare l’abbraccio ovattato del vapore e rivestirsi per rincasare, fronteggiando i capricci del clima padano.
Attraversò la piazza in sella al suo velocipede; giunto davanti alla Sinagoga, smontò dalla sella e proseguì a piedi. Si fermò davanti al portone della sua abitazione, un palazzo imponente e dal fascino antico, stretto tra mura altrettanto vetuste. Estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca laterale del borsone sportivo, sistemato sul portapacchi posteriore della bicicletta, e iniziò ad armeggiare al buio per trovare quella giusta. Ad un tratto, la sua attenzione venne attratta da un rumore, simile ad un colpo di tosse. Dalla nebbia emerse una figura umana. Avanzava verso di lui. Non appena fu abbastanza vicino da poterne distinguere i dettagli, Alessandro scorse un uomo di mezza età, piccolo di statura e dalla corporatura esile, parzialmente nascosta da un pesante tabarro nero. Si fermò a pochi i dal giovane. Aveva un volto segnato dalle rughe, un naso imponente e due occhi neri e pungenti. Non gli sembrava di averlo mai visto prima di allora. O, forse, sì. Nel suo aspetto, infatti, c’era qualcosa di familiare, anche se non riusciva a distinguere bene che cosa. Era un ricordo indistinto, ma nitido al tempo stesso, un’immagine ancestrale, che si faceva strada sempre più precisa, nel momento stesso in cui i suoi occhi incontrarono quelli dell’uomo.
“Buonasera…” farfugliò Alessandro “ci conosciamo?”.
L’uomo lo fissò con uno sguardo maligno. Poi, sul suo viso scarno ed emaciato, comparve un sorriso sardonico.
“Oh, sì… certo che ci conosciamo. Forse, tu non ne hai memoria, ma io mi ricordo molto bene di te… Non so il tuo nome, ma conosco la tua anima… è nera… e stupida…”.
La morte arrivò alle sue spalle, silenziosa come un alito di vento. Davanti ai suoi occhi, come un lampo, ò fulmineo un bagliore giallastro. Alessandro percepì il freddo della seta che gli cingeva il collo, mentre la stretta si faceva sempre più forte. Istintivamente, si portò le mani alla gola. Ma la forza che lo stava soffocando non accennava a lasciare la presa. L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento: cominciò a scalciare con tutte le energie che aveva in corpo, nel tentativo di divincolarsi. Una forza spaventosa lo sollevò da terra, mentre, di fronte a lui, l’uomo con il tabarro lo guardava, quasi compiaciuto. L’ultima cosa che vide, prima che tutto diventasse nero e la morte lo accogliesse, soddisfatta, tra le proprie braccia, fu il lampo luciferino nello sguardo della persona che stava assistendo alla sua agonia.
****
L’ispettore Gabriele Galante della Sezione Omicidi della Polizia di Stato arrivò davanti alla Sinagoga, mentre i colleghi della Scientifica stavano effettuando gli ultimi rilievi. La zona attorno a Piazza Mazzini era stata isolata con il nastro di nylon, che tratteneva a fatica una folla di curiosi, sempre più numerosa. L’ispettore Galante si fece largo tra la gente e raggiunse il sagrato della Sinagoga. Steso in posizione perpendicolare alla facciata dell’edificio c’era il corpo di un uomo. Il suo volto era coperto da una stola di colore giallo .
“Lo hanno trovato, così, questa mattina, un paio di vecchiette che stavano andando a fare la spesa al mercato” gli disse uno dei colleghi della Scientifica, dopo avergli rivolto un cenno di saluto.
“Chi era?”.
“Un certo… Alessandro Levi Manenti, trent’anni, impiegato di banca” continuò il poliziotto, consultando i documenti della vittima. “Abitava proprio dietro l’angolo. L’assassino deve averlo aspettato sotto casa, per poi aggredirlo, approfittando del buio e della nebbia. Pare, infatti, che nessuno, nel quartiere, abbia visto o sentito niente”.
“Una rapina finita male?”.
“No, era appena tornato dalla palestra, aveva con sé quel borsone da ginnastica laggiù e non gli sono stati portati via né i soldi, né il cellulare, né la catenina d’oro”.
L’ispettore Galante fece un giro attorno al corpo della vittima.
“Modalità della morte?” domandò.
“Strangolamento. Riteniamo che sia stato soffocato dalla stessa sciarpa gialla, con la quale gli è stato coperto il volto”.
“Forse, l’assassino ha voluto lanciare un messaggio ben preciso. Quella sciarpa potrebbe non essere solo l’arma del delitto. Quando avete finito qui, fatela analizzare. Voglio sapere se ci sono impronte digitali, tracce biologiche estranee alla vittima, la composizione del tessuto e tutto quanto può essere utile per risalire all’assassino”.
Il poliziotto della Scientifica tornò a posare lo sguardo sul corpo, ormai inerte, steso ai suoi piedi.
“Certo che, chi lo ha strangolato, deve avere avuto davvero una forza sovrumana. Questo qui era alto almeno un metro e novanta ed era anche uno sportivo…”.
****
Erano ati dieci giorni dall’omicidio di Alessandro Levi Manenti. I giornali ne avevano parlato ampiamente, insistendo sulla questione sicurezza e sul fatto che Modena non fosse più un’isola felice. Quello che sapevano i giornalisti, fino a quel momento, lo sapeva anche l’ispettore Galante: nella vita di Levi Manenti non c’erano lati oscuri. Il giovane apparteneva ad una delle famiglie più benestanti della città. Aveva un tranquillo lavoro presso l’Ufficio Personale di una banca cittadina, era stimato da amici e colleghi. Non aveva una relazione sentimentale che potesse fare pensare ad una vendetta per motivi ionali, gli esami necroscopici non avevano rilevato alcuna assunzione di sostanze stupefacenti. Gli unici suoi hobby erano la lettura e la palestra. Insomma, una persona completamente pulita. E allora? Chi mai poteva avere avuto interesse ad ucciderlo? Galante ripensò alla posizione del cadavere, a quella sciarpa gialla stesa a coprirgli il volto. Che cosa poteva significare? Mentre era immerso nei suoi pensieri, il centralino gli ò una telefonata.
“Galante”.
“Buongiorno, ispettore, sono Salvatore Silvestri della Scientifica. Sono pronti i risultati delle analisi sulla sciarpa gialla trovata sul volto di Levi Manenti”.
“Scoperto qualcosa di interessante?”.
“Se devo essere sincero, mi aspettavo di trovare qualcosa di più significativo sui campioni biologici. Però, ci sono almeno un paio di elementi che troverà, per lo meno, singolari. Le mando un fax con i referti. Se ha qualche dubbio, mi può chiamare quando vuole”.
“Grazie. Li attendo qui”.
***
L’ispettore Galante rilesse con attenzione il fascicolo con le analisi che la Scientifica aveva effettuato sulla sciarpa gialla. Tutte le tracce biologiche, saliva e qualche goccia di sangue, appartenevano alla vittima, così come le impronte digitali. Manenti, probabilmente, si era portato le mani al collo nel tentativo di liberarsi dal cappio che lo stava uccidendo.
“Che modalità strana…” pensò “di solito si uccide con il coltello o con un’arma da fuoco. Nessuno, oggi, ammazza servendosi di una sciarpa di seta…”.
Le anomalie che gli aveva segnalato il dottor Salvatore Silvestri della Scientifica gli balzarono subito all’occhio. Anche perché il collega aveva provveduto ad aggiungere qualche sua annotazione. Primo: sulla sciarpa erano state rilevate tracce di argilla. Secondo: la seta con la quale era intessuta era molto antica. Di almeno trecento anni.
***
“Ispettore Galante? Sono l’agente Lucia De Bianco dell’Ufficio Denunce. Credo che dovrebbe scendere un momento…”.
“Di che cosa si tratta?”.
“C’è un testimone del delitto Levi Manenti”.
Gabriele Galante lanciò il cordless sulla scrivania, precipitandosi fuori dall’ufficio, per guadagnare le scale. Arrivò alla porta dell’Ufficio Denunce con il cuore in gola. La corsa non aveva certo giovato al suo stato di agitazione, già alterato dalla notizia. Un testimone. Qualcuno aveva visto qualcosa. Forse, l’unico indizio non era più solo quella misteriosa sciarpa gialla, tessuta da chissà chi, secoli or sono. Attese qualche minuto, per riprendere fiato, si sistemò la divisa, poi entrò nella stanza. Il viso gentile dell’agente De Bianco lo accolse con un sorriso. Di fronte a lei, c’era un ragazzino di circa sedici anni, pallido in volto, lo sguardo basso e le mani strette tra le gambe. Accanto a lui c’era un uomo altrettanto pallido, con gli occhi cerchiati di viola ed una leggera stempiatura. Non gli fu difficile capire la situazione. Il ragazzino aveva visto qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere, si era spaventato e si era tenuto tutto dentro, finché la paura non gli aveva fatto confessare tutto ai genitori. Una breve introduzione dell’agente De Bianco gli confermò che le cose erano andate proprio così.
“Mattia, questo è l’ispettore Galante. Vorresti raccontare anche a lui quello che hai appena detto a me?”.
Il padre mise una mano sulla spalla del ragazzo, come per incoraggiarlo a ricominciare il suo racconto.
“Ero… ero alla finestra della mansarda della nostra casa. Mi rifugio lì, ogni tanto, per giocare al computer e per fumare qualche sigaretta… i miei non sanno, almeno, fino all’altro giorno, non sapevano, che fumo e non volevo che lo capissero dall’odore… per questo tenevo la finestra aperta, anche se era una sera fredda. Ad un certo punto, ho visto il signor Alessandro scendere dalla bicicletta e cercare le chiavi di casa. Poi, gli si è avvicinato un uomo. È spuntato dalla nebbia, all’improvviso. Indossava una specie di mantello nero. Si sono scambiati qualche parola ma, da lassù, non sono riuscito a distinguere che cosa si dicevano. Mentre parlavano, alle spalle di Alessandro è spuntato una specie di gigante. Era davvero grosso, sarà stato più alto di due metri. Aveva in mano una stola gialla. Con un gesto velocissimo l’ha stretta al collo del signor Manenti. A quel punto, mi sono spaventato e sono scappato in casa. Il giorno dopo, ho saputo dai giornali che Alessandro era stato ucciso…”.
“Grazie, Mattia, la tua testimonianza ci sarà di grandissimo aiuto. Sei stato molto coraggioso”.
Il racconto del ragazzo era stato messo a verbale. Lucia De Bianco accompagnò padre e figlio alla porta, regalando un sorriso ad entrambi.
“Mi raccomando” disse, rivolgendosi al padre “abbia cura del suo ragazzo, ha avuto una brutta esperienza…”.
***
Quella sera, l’ispettore Galante non aveva voglia di starsene chiuso in casa. Durante il giorno, aveva ato in rassegna l’archivio per verificare se esistesse qualcuno, già schedato, che corrispondesse alla descrizione dei due individui fatta dal giovane Mattia. Anche in città, sembrava che nessuno li avesse visti. Eppure, un gigante di più di due metri non poteva are inosservato.
Decise di salire su un’auto di pattuglia e di accompagnare un paio di colleghi di ronda in centro storico. Voleva tornare sul luogo del delitto. Dentro di sé, sperava di trovare qualche ulteriore indizio, un segno, anche impercettibile, che gli potesse servire da illuminazione per venire a capo di quella che, per lui, cominciava a diventare un’ossessione. Fino a quel momento, gli unici indizi che aveva a disposizione erano una sciarpa gialla, tessuta secoli prima, e la testimonianza di un adolescente spaventato. Giunto in piazza Mazzini, si impose di ripercorrere la stessa strada che, supponeva, Alessandro Levi Manenti aveva fatto la sera in cui era stato ucciso. Per uno strano scherzo del destino, su Modena era calata una nebbia fitta e fumosa, colorata, in alcuni punti, dalla pallida ed inefficace luce dei lampioni. L’ispettore Galante costeggiò la Sinagoga e si incamminò lungo una piccola via laterale. Tuttavia, c’era qualcosa di strano, quella sera. Mentre calpestava i ciottoli, gli parve che la pavimentazione stesse cambiando sotto i suoi occhi. Si fermò un attimo e si appoggiò ad un muro. Forse, era solo stanco. Eppure, era sicuro che, a quel punto, di fronte a lui avrebbero dovuto trovarsi un negozio di abbigliamento ed un piccolo albergo. Conosceva bene Modena e, altrettanto bene, conosceva la sua nebbia ma, quella di quella sera, non era la sua città. Non un’insegna, non un negozio. Non c’era nemmeno più un lampione, solo buio e nebbia. Anche gli edifici non sembravano più gli stessi. Fece un giro su sé stesso e, all’improvviso, si trovò di fronte ad un enorme cancello. No, questo non c’era mai stato, non nella sua Modena. Allora, dove diavolo era finito? Ad un tratto, nel silenzio, udì un rumore di i. Dalla nebbia, affiorò la sagoma di un uomo. Era piccolo, gracile, con addosso un tabarro nero. Alle sue spalle, spuntò un’altra figura, enorme, imponente. Gabriele Galante sentì un brivido corrergli lungo la schiena.
Allora, era così che era morto Alessandro Levi Manenti? D’istinto, portò la mano alla pistola d’ordinanza, tastandone la presenza rassicurante. L’uomo più basso si fermò di fronte a lui e gli piantò in faccia due occhi neri e luciferini; sembrava che ardessero di una fiamma perenne.
“Un poliziotto… del XXI secolo!” esclamò, come sorpreso. Il suo volto assunse un’espressione di genuina meraviglia. Galante riacquistò un po’ di sicurezza in sé stesso.
“Posso… vedere i vostri documenti?” intimò loro, cercando di essere il più convincente possibile. Riuscì ad ottenere solo una sonora risata.
“Documenti, prego. Alcune sere fa, qui è stato commesso un omicidio e… un testimone ha dato una descrizione degli assassini, che potrebbe corrispondere alla vostra…”.
Ecco, lo aveva detto. Le parole gli erano uscite di bocca senza che lo volesse veramente. Lanciò un’occhiata al gigante, che continuava a rimanere silenzioso. Che diamine! Sul suo viso c’era una maschera di legno, fissa in un’espressione eterna ed inquietante. L’uomo più basso, ad un tratto, parlò, sottraendolo alla sua inquietudine.
“Mi dispiace, ma noi non abbiamo documenti. Ma, visto come stanno le cose, non voglio lasciare un giovane volonteroso senza risposte. Se qualcuno ci ha visto commettere un omicidio, ebbene, egli ha detto il vero…”.
Galante rivolse nuovamente lo sguardo al gigante.
“Lui non può parlare, può solo fare quello che gli dico io. Non ha anima, né volontà. È un Golem, è fatto di argilla... Ma, prego, mi accompagni per un tratto... ho ancora un po’ di tempo, prima di ritornare nella mia epoca... sa come vanno queste cose, mica si può tornare quando si vuole...”.
L’ispettore Galante, incapace di qualsiasi reazione, assecondò la strana richiesta.
“Che stupido, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Isacco, Isacco da Modena, vengo dal 1776, quando, su questa città, governavano i duchi d’Este. Noi ebrei vivevamo proprio qui, rinchiusi nel ghetto e costretti a sottostare ad assurde limitazioni. Come quella di dover andare in giro con un segno distintivo, il segno giudaico, che rendesse nota a tutti la nostra diversità. Questo distintivo della vergogna era un cappello giallo per gli uomini ed un velo dello stesso colore per le donne, alla stregua delle meretrici”.
A quelle parole, Galante trasalì.
“Il drappo giallo… sì, quello che hai trovato sul volto di quell’uomo… è il segno della vergogna… è il velo che mia figlia Ester era costretta a portare e per il quale è morta…”.
Gli occhi si inumidirono, la voce subì un’inflessione triste, ma continuò.
“Noi ebrei modenesi siamo costretti a vivere nel ghetto. Di giorno, possiamo uscire solo con il segno giudaico, ma dobbiamo rincasare al tramonto, quando i cancelli di via Blasia e via Coltellini vengono chiusi e sorvegliati da guardiani
cristiani. Nonostante tutto, siamo riusciti a perpetuare i nostri interessi e la nostra vita sociale anche all’interno del ghetto. Alcuni di noi, si sono dedicati allo studio della Cabala, per trovare modi alternativi per proteggere il nostro popolo. Ed è così che sono nati quelli come lui” disse, lanciando un’occhiata benevola ed affettuosa al gigante silenzioso.
“Nel 1775, Pio VI ha peggiorato ulteriormente la nostra vita. Il suo Editto sopra gli Ebrei è quanto di più mostruoso e stupido la storia dell’umanità ricordi. Tra le sue ventiquattro clausole vessatorie, vi era quella che recita: L’ebreo che i una notte fuori dal ghetto è condannato a morte. Mia figlia Ester si innamorò, ricambiata, di un cristiano, Martino. Ma per ogni cuore colmo di gioia, ne esiste un altro pieno di rancore. L’amore di Ester per Martino generò l’odio nella mente e nel cuore di Shlomo, così si chiamava l’uomo che lei aveva respinto. Egli scoprì che Ester e Martino, che non potevano amarsi alla luce del sole, si incontravano di nascosto, la notte. Mia figlia usciva dal ghetto, sfruttando una breccia nel muro, nota a lei sola, spinta dall’amore per il suo uomo e dall’incoscienza della sua età. Shlomo la denunciò alle autorità. Le tesero un’imboscata. Una notte, lei uscì per andare da Martino e si trovò di fronte i gendarmi. In nome dell’Editto di Pio VI, venne arrestata e condannata a morte. Mia figlia fu impiccata. Attorno al capo le misero il velo giallo della vergogna, che poi mi consegnarono, affinché lo conservassi come suo ricordo. Io, su quel velo, pronunciai la mia vendetta. Giurai che mai, in nessuna vita, in nessuna epoca, Shlomo avrebbe trovato la pace. In qualsiasi tempo fosse rinato, la sua esistenza sarebbe stata accompagnata dalla paura, la paura della morte, che sarebbe arrivata per mano mia. Per mantenere fede alla mia promessa, ho studiato a fondo i segreti della Cabala, sono diventato esperto nelle arti magiche ed ho imparato a sfruttare i varchi spazio temporali per viaggiare nel tempo. In questo modo, io attraverso le epoche, alla ricerca dell’assassino di mia figlia. Quando lui rinasce, conduce un’esistenza pressoché normale, finché non raggiunge l’età che aveva quando ha fatto quello che ha fatto. È allora che lo privo della vita, lasciando su di lui il segno della vergogna. Mi ha sempre riconosciuto, quando mi ha visto. Allo stesso modo, nei secoli, io riconosco lui…”.
Poi, l’uomo fece una pausa e si guardò attorno, come se fosse in attesa di
qualcosa.
“Spero, amico mio, che tu sia soddisfatto della mia confessione… dopotutto, voglio evitare che, per la vendetta di Isacco, sia accusato un innocente. Ora è tempo che io vada, il varco sta per aprirsi...”.
Fece un leggero inchino e si incamminò dalla parte opposta dalla quale era venuto. Il Golem, silenzioso ed imponente, lo seguì. L’ispettore Gabriele Galante, ancora esterrefatto per quanto aveva udito, sentì la mente riempirsi di pensieri contrastanti: la sciarpa gialla antica di trecento anni, le impronte di argilla… tutto poteva avere un senso.
Un pensiero razionale lo fece tornare alla realtà.
“Ehi, non si aspetterà che io creda a tutto quello che mi ha raccontato?!”.
Si apprestò a raggiungere le due figure, che camminavano lente nella nebbia. All’improvviso, la vide diradarsi in un punto preciso, fino a formare un arco. Vide Isacco ed il suo Golem attraversare il aggio e sparire nel nulla. Tentò di seguirli, ma si scontrò con un muro di nebbia, diventata, all’improvviso, dura e solida. Il contraccolpo lo fece rimbalzare, fino a farlo cadere a terra. Quando si rialzò, Modena era tornata com’era, con i negozi al loro posto e Piazza Mazzini umida e silenziosa, avvolta dalla timida luce dei lampioni.
IL PUNTO DI VISTA CON CUI GUARDI LE COSE di Fabrizio Leonardi
Quello che rimane di tutta questa storia è una sciarpa gialla. L’accarezzo. È nuova. L’ho comprata questa mattina in un negozio del centro. Ne ho sentito il bisogno... Sapete quando una forza misteriosa vi guida e vi obbliga a fare una cosa che mai avreste fatto? Beh, è quello che mi è accaduto questa mattina. Ho letto il giornale e ho appreso una bruttissima notizia. Poi sono stato seduto sul divano a fissare il televisore per un tempo indefinito. Il televisore era spento.
E alla fine sono andato a comprare una sciarpa gialla. Non di un giallo qualsiasi, ma del giallo del Verona, la grande squadra che nel 1985 vinse lo scudetto, battendo altre squadre che di nome facevano Juventus, Milan, Inter e Napoli.
Solo dopo aver comprato quella sciarpa sono scoppiato a piangere.
Finalmente.
Tutto è accaduto ventitré anni fa. Nel 1985 mentre ero militare sono accadute due cose allora impensabili: la prima è il Verona campione d’Italia; la seconda adesso ve la racconto. Come ho anticipato, anch’essa è abbastanza impensabile, o meglio, non avrei mai detto che sarei stato coinvolto in un omicidio. La sola idea, nel 1985, mi faceva ridere.
Oggi non più.
Oggi piango e basta.
Leggere il giornale mi ha fatto tornare ad allora, quando tutto è accaduto. Quando ero un ragazzino e non un uomo; quando non avevo figli da coccolare; quando la scuola mi annoiava ma se avessi immaginato com’era realmente il mondo del lavoro non mi sarei più lamentato di niente. Quando i sogni valevano più dell’oro, mentre oggi non hai l’oro e non puoi più nemmeno nutrirti dei sogni.
Ricordo allora come se stesse accadendo tutto nel presente. Noi, gli amici, la spensieratezza. E poi il brutto, l’inimmaginabile.
L’orrore.
Guardo il televisore spento e penso ad allora.
Siamo nel 1985.
La vita in caserma è molto simile a quella di un bibliotecario: non succede nulla. Guardie, marce, pranzi in una mensa orribile e poi le uscite con i commilitoni. Anche queste ultime sono terribilmente monotone: i soliti due temi, l’esaltazione della vita militare e le donne-prostitute conosciute o che si conosceranno.
Volevo parlare con Alessio, il mio miglior amico. Ieri sera deve essere successo qualcosa di strano. Forse qualcosa di grave, non ho capito bene. Comunque la
voce sta circolando nella nostra piccola caserma di Terni. Arriveranno molti fatti, molte versioni: si tratta solo di distinguere la realtà dall’interpretazione. Non è una cosa così facile come potrebbe sembrare. Alessio, Valle e altri tre ragazzi sono andati a Roma. Una toccata e fuga, una notte brava. Ma deve essere successo qualcosa di anomalo; probabilmente hanno fatto un gioco che è andato oltre la normale sbronza e la normale rissa con ragazzotti romani.
Le voci che circolano sono confuse e contraddittorie, tranne su un particolare: c’è stata una rissa a causa di una ragazza e forse un giovane ragazzo romano si è fatto male. Molto male. Si dice che sia finito in ospedale.
Cosa sarà successo? Questa è la domanda che rimbomba nella mia testa e che mi aiuta, come un veleno benefico, a cacciare il pensiero di Lidia, la mia ex. Questa è una grande verità: esistono anche dei veleni che calmano il dolore, se solo riuscissimo tutti noi ad accettare questo dato di fatto come appartenente alla nostra natura, forse potremmo fondare una società migliore.
In camera siamo io, Alessio e Giuliano, gli altri sono di turno o in licenza. Si parla, perché non si ha sonno. Fa troppo freddo e si è troppo nervosi in questo recinto.
“C’è stata una rissa l’altra sera a Roma fuori da una discoteca. Un ragazzo è al Gemelli, dicono in coma. Voi eravate là, se non sbaglio, avete visto qualcosa?” dice Giuliano, rivolgendosi ad Alessio.
Alessio è cupo. Non parla e non dice una parola da ieri sera. Sembra molto stanco, la mente lontana chilometri e chilometri da lì. Ha due occhiaie blu in volto e il freddo gli ha reso la pelle ancora più grigia.
“No”. La voce piatta e monotona come un grammofono rotto.
“Sicuro?”.
“Sì, cosa vuoi che ti dica, c’erano almeno duemila persone! Saranno scoppiate cento risse!” sbotta il mio amico. La voce carica di rabbia. Si vede che c’è qualcosa che non va.
Giuliano non lo capisce o fa finta di non capire e va avanti. “Certo... però nelle altre novantanove non è successo nulla. Qui c’è un ragazzo in fin di vita all’ospedale. I testimoni dicono che è stato a causa di un apprezzamento di troppo fatto ad una ragazza. Gli amici del giovane dicono si tratti di ragazzi in licenza. Così è scritto sul giornale”.
“I giornali dicono un sacco di stupidaggini”.
“È stato un calcio violento alla testa, quando era per terra. La punta dell’anfibio deve avergli rotto il cranio” continua Giuliano nel suo monologo.
Io avevo la mente altrove, poco interessato a quel fatto di cronaca. Quando Giuliano riprese a parlare disse una cosa che alle sue orecchie suonò semplice e innocente, ma alla mie fece un effetto devastante perché le sue parole cambiarono per sempre la mia vita.
“La polizia ha trovato vicino al ragazzo una sciarpa del Verona che apparteneva probabilmente all’aggressore. Era sporca di terra e di sangue. Probabilmente un
tifoso del Verona venuto in trasferta. Pare che sia la pista più accreditata”.
Lo stomaco mi si chiude.
“Magari lo conoscete, visto che siete anche voi tifosi del Verona” dice Giuliano.
Si dissero altre parole quella sera; ma tutto quello che contava era stato detto.
Ricordo quella volta che affrontai Alessio.
Stavamo tornando a casa in licenza.
Sarebbe stato l’ultimo viaggio prima del congedo: cambiò completamente la mia vita. Da allora vedo il mondo con occhi diversi, non vedo più solo il bello delle persone, ma riesco a vedere anche i loro segreti, il nero che c’è in ognuno di noi.
Alessio era meno taciturno e non dava più l’impressione di essere soffocato da un macigno sul petto.
“Devi raccontarmi qualcosa?” gli chiedo.
“Cosa?” risponde lui sulla difensiva. Il suo sguardo mi ricorda quello di un gatto braccato.
“Cosa è successo in quella discoteca?”.
“Vuoi proprio saperlo?”.
È riluttante. Sopratutto, sento che non ha voglia di raccontarmi di quella sera. Non so cosa sia successo, ma la curiosità è più forte di qualunque ragione. Ti si insinua nel sangue e arriva al cervello e lì si deposita, come mucillagine in fondo al lago. È una scoria di cui non puoi liberarti. Potevo in effetti glissare, rinunciare a proseguire, smetterla, cambiare argomento. Potevo fare questo e tante altre cose di buon senso. Potevo rispettare il mio amico e il suo turbamento. Invece... invece quella mucillagine mi spinse ad andare avanti, imperterrito e insensibile come un Panzer.
“Siamo amici da più di un decennio. Pensavo che a me lo avresti detto”.
Fui subdolo e meschino. Adesso me ne rendo conto. Rinfacciargli la nostra amicizia fu un colpo basso. Dovrei chiedere scusa, ma non c’è stata mai l’occasione. No, la verità è che non ho mai avuto il coraggio di ricordare quell’incidente.
“Siamo andati a farci una birra. Le birre sono diventate tre”. Il suo respiro è corto, affannato, tira fuori le parole con riluttanza. Imbarazzato, come uno che sta per vomitare ed è bloccato su un bus che non fa fermate.
“Dopo siamo andati a ballare. Non avevo molta voglia, ero stanco, ma ero anche su di giri. Valle e Lanzi hanno insistito. Così siamo andati giù nella via delle
discoteche all’aperto. Abbiamo bevuto. Poi Lanzi attacca bottone con una, la stronza sembra che ci stia ma si fa solamente offrire da bere e poi va via con le sue amiche. Michele era incazzato, le ha detto che era una stronza. Allora un amico della ragazza ha affrontato Lanzi ed io sono intervenuto per dividerli. C’era molto alcool in tutti ma la cosa è finita subito. Tutto qui. Della rissa e di quello che è successo dopo non ne sappiamo niente. Noi eravamo già sulla strada del ritorno”.
Tra di noi cade il silenzio.
Sapete quando l’evidenza e l’istinto vi dicono che quella persona è colpevole, ma lui continua a professarsi innocente? Quando la pancia vi dice che i conti non tornano, nonostante sia tutto in ordine? Ecco, questo era un caso del genere. Chissà perché ma qualcosa mi diceva che Alessio non mi stava dicendo tutto. Ci viene così facile credere nella colpevolezza di un innocente, mentre è così difficile accettare l’idea che un innocente possa essere stato incriminato per puro errore. Non crediamo che il sistema possa sbagliare, a meno che non sbagli con noi. Però volevo credergli. Eravamo amici.
“Mi credi?”.
Ci pensai a lungo. “Sì, ti credo”.
“E allora cosa non ti convince?”.
“Non ti ho più visto indossare la sciarpa del Verona”.
Altra pausa. Il silenzio che piomba tra di noi ha un non so che di fatalità. Come il mito greco: vai incontro al tuo destino, ma sai bene che saranno degli dei annoiati a decidere la tua sorte. E questa sensazione di impotenza scardina il mito dell’eroe indomito che governa le nostre vite.
“Ho deciso di indossarla solo quando vado allo stadio”.
Non aggiunge altro. In effetti non c’era bisogno di aggiungere nulla. Da fuori le cose appaiono sempre più semplici da dire e più facili da fare.
Però io da fuori continuavo a vedere Alessio invischiato in quella storia del ragazzo in coma. Vedevo una situazione in cui tutti i fatti coincidevano come un puzzle e i pezzi formavano un disegno con dei visi dai tratti ben delineati. Un volto era quello che avevo di fronte.
Aveva mentito ma aveva paura. Potevo capirlo.
“Pensi che se esca dal coma possa ricordare?” mi chiese.
“Ne dubito”.
“Quindi ritieni che sia improbabile?”.
“È raro che il post comatoso ricordi l’episodio specifico legato al trauma. Diciamo che il 20% ha qualche ricordo dell’evento. Ma non ricordi precisi”.
“Il 20% mi sembra una percentuale elevata”.
“Sì, ma prima deve uscire dal coma. E questo è molto improbabile, visto il colpo preso alla testa. Tutto dipende sempre dal punto in cui guardi le cose”.
“Chiaro, dottore”.
Sì, tutto dipende sempre dal punto di vista con cui guardi le cose. Adesso lo so.
Ad un certo punto Alessio dice una cosa che cambierà per sempre la nostra amicizia, trasformando l’innocenza della gioventù con l’ambiguità dell’età adulta e la conseguente colpevolezza di dover convivere insieme a segreti nascosti e mai capiti o accettati.
“Valle è venuto alle mani con un amico della ragazza insultata da Lanzi. Li ho divisi e poi ce ne siamo andati”.
Pausa di silenzio. Quel silenzio so che mi era pesato più di un macigno sul costato. Volevo aprire la bocca, ma per dire cosa?
“Volevo solo dirtelo. È stato un incidente, Valle è il solito attaccabrighe. Però sono intervenuto a dividerli e la cosa è finita lì. Ed è lì che ho perso la sciarpa”.
Queste parole rimbombano nella mia testa ancora oggi. Rivedo noi due dall’esterno: il treno, la campagna lodigiana, il silenzio e quella confessione.
Per me il concetto di amicizia è finito allora. O meglio, si è evoluto, ha subito un cambiamento semantico. atemi il concetto. Provo a spiegare cosa intendo, anche se so che è molto difficile.
Fino ad allora pensavo che tra amici si potesse dire e raccontare tutto. Questo concetto di amicizia appartiene all’adolescenza e alla gioventù. Dopo quell’episodio capii che l’amicizia tra persone adulte è ben diversa: si possono dire molte cose, ma non tutte.
Su quel treno, alle porte di Lodi, cominciava una nuova fase della nostra amicizia.
Non ne parlammo più. Il resto della strada lo ammo in silenzio. Arrivati a Brescia ci separammo, ognuno carico dei suoi fardelli fisici e non solo. Prima di lasciarci, Alessio mi disse:
“Sai, secondo me la verità non esiste. Esiste solo la fiducia nelle persone. Ed è questo quello che fa la differenza in una vita”.
Poi se ne andò.
Ricordo ancora oggi questa frase. Sono ati più di ventitré anni, ma è ancora nitida nella mia mente, scolpita come nella roccia. Allora come oggi non sono
riuscito a capirla.
Ripenso alle nostre scelte. Non è vero che esistono delle scelte banali. Anzi, le scelte più insignificanti sono quelle che cambiano completamente una vita. E te ne accorgi solo alla fine.
In caserma avevo deciso di non uscire con Lanzi e Valle perché erano troppo aggressivi. Alessio invece li trovò simpatici fin da subito ed entrò nel loro giro.
Io uscivo con gente più tranquilla, o sfigata, secondo l’opinione di Valle & C., e lui aveva preferito loro. Cosa poteva cambiare? Me lo ripeto ancora oggi in modo ossessivo, quando esco di casa e mi reco in un luogo dove voglio restare da solo.
Cosa poteva cambiare? Niente, mi rispondo nella testa.
Ed invece quella banale scelta di frequentare persone diverse cambiò tutto.
Da allora le nostre strade si divisero, anche se ci scambiavamo sempre gli auguri di rito e riuscivamo a vederci almeno tre o quattro volte l’anno con le rispettive famiglie.
Questi fatti della mia vita da milite vennero chiusi in un cassetto della memoria e sigillati. La polvere di ventitré anni creò una specie di strato impermeabile su quell’evento ed io me ne dimenticai completamente.
Finché un giorno quel ato ha bussato alla mia porta.
Ero a casa a giocare con la mia piccola. Mentre lei cade ed io la rialzo per l’ennesima volta, il telefono comincia a squillare.
Sollevo la cornetta. “Pronto?”.
“Sono Monica”.
La voce strozzata, come se provenisse da una caverna dell’Ade. Sembra una voce annacquata, nasale, straziata dal dolore e dalle troppe urla che l’hanno ridotta quasi al silenzio.
“Cosa c’è?”.
Una serie di parole sconnesse che non riesco a comprendere; frasi smozzicate; parole prive di senso ma cariche di dolore.
“È morto... è caduto sotto un treno della metro... parlano di suicidio... non ci credo... questa mattina... linea Gialla... ma lui prende la Rossa. Ha sempre preso... preso... la Rossa. Il suo ufficio è sulla Rossa. Rossa, vero? Alessio andava... in ufficio con... prendeva la Rossa!”.
Poi le sue parole sono diventate un gorgoglio di dolore dove l’unica cosa che ristagnava era la sua sofferenza: una sensazione di nausea mista ad impotenza,
che al mio stomaco e alla mia pelle risultavano molto fastidiosi.
Alessio era morto. Si era buttato sotto un treno metropolitano a Milano, dove lavorava.
Lui? Una persona così solare e felice, una persona così allegra e buona. Una persona così buona poteva suicidarsi? No. E se sì, per quale motivo? C’è sempre un motivo che spinge l’animo umano al baratro. Cosa era successo al mio amico?
Attaccai la cornetta con una lentezza incredibile. La pesantezza della mano rispecchiava la pesantezza del cuore. Come uno zombie mi dirigo verso il divano e mi siedo in un angolo. Poi comincio a tremare. Non riesco ad elaborare questa notizia. Il mio amico morto suicida? È impossibile. Continuo a dirmi che è impossibile, continuo incessantemente a ripetere questa frase, come una nenia ipnotica fatta per stordirmi il cervello.
Il funerale fu straziante. Vedere dei figli piccoli piangere è la cosa più brutta che possa capitare ad un essere umano. I figli di Alessio piangevano. La moglie piangeva. La sua pelle era un unico ammasso devastato dalla sofferenza.
Non ascoltai nulla della cerimonia funebre.
Una semplice domanda era in grado di distrarmi e togliermi la concentrazione: che cosa può sapere un ragazzo in coma di così grave da spingere un uomo a suicidarsi?
Ora lo so.
Scusate se il racconto è stato sconnesso ma la vita non è mai lineare.
Tre giorni dopo il funerale ricevetti una sua lettera. Una lettera di Alessio. È l’ultima cosa che ha fatto: imbucare una lettera indirizzata a me.
“Buona sera”, dico a mia moglie, rientrando in casa e dandole un bacio sulle labbra. Questo è il momento più bello della giornata: le labbra di mia moglie, i suoi occhi e il sorriso di mia figlia. Giocare con la piccola mi riscalda il cuore.
Riflettendoci, ho avuto tutto dalla vita e non ho nulla di cui lamentarmi: una bella famiglia, un buon lavoro, tanta serenità e, perché no, esageriamo, tanta felicità. Non cambierei nulla, non baratterei un briciolo della mia stabilità per un istante di eccesso.
“C’è una lettera per te” dice Barbara porgendomi la busta.
L’appoggiai sul comò e poi me ne dimenticai, in testa solamente l’idea di giocare con mia figlia, unica consolazione, insieme a mia moglie, in quei momenti di dolore. Siamo tutti così presi dai nostri piccoli o grandi problemi quotidiani che a volte ci dimentichiamo degli altri e delle loro piccole o grandi richieste.
Il caso volle che quella busta mi ricapitò tra le mani il mattino dopo. Era sabato; mamma e figlia erano dai suoceri ed ero solo a casa.
L’ho aperta senza alcun interesse.
Quando la leggerai sarò morto. Mi sarò buttato sotto un treno. Dovrei andare in farmacia, prendere degli psicofarmaci e ingoiarne una quantità industriale e morire per avvelenamento ma non ce la faccio ad aspettare. Devo. Devo farla finita subito. Però voglio che tu sappia, perché altrimenti potresti fraintendere tutto e vivere male, male come ho vissuto io. Da quella notte dormo pochissimo. L’oppressione mi ha reso triste, depresso e malinconico. Mi ha svuotato di ogni energia e di ogni voglia di vivere, relegandomi in un cantuccio della vita.
Poi stamattina ho letto il giornale. Ti lascio qua dentro il ritaglio, così capirai.
Era lui.
Quel ragazzo.
Al Tartaruga, ventitré anni fa ci fu una rissa. Io cercai di dividere Valle da lui e la cosa doveva finire lì. Doveva finire lì ed invece lì è finita la mia vita. Mentalmente intendo.
Ti ho mentito ma credo che tu lo abbia sempre sospettato. Cosa dicevi? Tutto dipende dal punto di vista con cui guardi le cose.
Io ero in bagno, quel ragazzo mi si avvicina e dice qualcosa. Non ho capito bene. Avevo bevuto un po’ ma non troppo e poi la musica era assordante. Comunque avevo sentito che era un apprezzamento su mia madre, non troppo lusinghiero.
Riguardava la sua fica. Io non c’ho visto. Ho finito di lavarmi le mani e poi di scatto l’ho colpito al viso. Lui è andato giù per terra e nel cadere mi si è aggrappato, sfilandomi la sciarpa gialla. Ricordo di aver sentito la sua testa picchiare violentemente contro il pavimento. Poi gli ho dato un calcio in testa. Non so perché. Sono sempre stato una brava persona, non credi?
Quando ho visto il bianco dei suoi occhi sono scappato via.
Non pensavo che quell’episodio mi avrebbe mangiato per il resto della mia vita. Il pugno è stato frutto di una reazione animalesca. Il calcio no.
Ho cercato di sapere se era stato l’urto o il calcio a mandarlo in coma però non ho mai trovato una risposta alle mie domande.
Ed è stato terribile. Almeno mi fossi potuto permettere di dubitare, questo mi avrebbe concesso l’opportunità di guardarmi allo specchio provando un briciolo in meno di rimorso. E quel briciolo, credimi, sarebbe bastato.
Non chiedevo nient’altro che un briciolo.
Poi questa mattina ho letto il giornale. Il ragazzo è uscito dal coma. Non so come sarà la sua vita; non so se ricorderà (ti ricordi le domande che ti avevo fatto sul treno? Avevi avvertito anche tu come erano interessate, vero?). Non ha importanza. Non sopporto più l’idea di vivere nella menzogna di pensare di essere un brav’uomo.
Sentii qualcosa salirmi dallo stomaco e bloccarsi in gola. Qualcosa di umido che preludeva all’espiazione della sofferenza. Il dolore sarebbe uscito dagli occhi e dai pori della pelle di lì a poco.
Lessi il trafiletto sgualcito che c’era nella busta: un ragazzo era uscito dal coma dopo ventitré anni. Quel ragazzo era lo stesso che si era scontrato con Alessio, Valle e Lanzi. I medici si dichiaravano ottimisti. Avrebbe recuperato. E forse avrebbe ricordato, questo fu il mio unico pensiero. E penso che sia stato anche quello del mio amico.
Alessio era sempre vissuto con il peso della colpa. Non avevo capito niente ma adesso che so è troppo tardi.
Piango, stringendo tra le mani una sciarpa gialla con i colori di quel magico Verona. Piango perché finalmente ho compreso il male che si stava portando dentro da troppo tempo Alessio.
L’OSCURA VERITÁ di Luca Marchioro
Gina e Davide stavano chattando con la web cam accesa, il loro era un appuntamento fisso. Non si erano mai incontrati. Lei al computer in una casa e lui in un’altra. Un rapporto ambiguo, fatto di amore e sesso virtuale, e tante ingenue bugie…
Gina: Sono le 21, tra un po’ ti devo lasciare, lo sai che devo studiare.
Davide: Ok. Ma prima puoi aprire un po’ la camicetta? Dai fammi vedere il tuo seno, ho voglia di te, sono molto eccitato amore…
Gina: OH DIO DAVIDE, C’È QUALCUNO DIETRO DI TE!!!
Lui si girò, ai suoi occhi si presentò in primo piano una pistola sorretta da una misteriosa ombra. Ne vide uscire il proiettile dalla canna… avanzava lento e sembrava non arrivare mai. In quel frangente, si vide proiettata nella sua mente tutta la sua vita: l’infanzia in competizione con il fratello maggiore, le scuole abbandonate, le botte dal padre alcolizzato, la droga, la galera e la dura risalita… poi il proiettile si fece prepotentemente spazio, frantumandogli la scatola cranica. E arrivò il silenzio infinito…
Marco entrò alla locanda dalla Luisa, ai piedi dei Colli Berici a Vicenza. Da quando si era separato cenava tutte le sere da lei. L’ambiente era accogliente e la cucina casalinga gli dava un senso familiare. Poi loro, Luisa e il marito Mariano, lo trattavano come il figlio che non hanno mai avuto.
“Ciao Marco” lo accolse l’uomo “accomodati al tuo tavolo, stasera la Luisa ha preparato un risottino col tartufo, dovrebbe essere pronto a minuti. Mi siedo a farti compagnia, apro un Merlot e arrivo”.
Lì il calore familiare si poteva toccare con mano. Marco che era cresciuto in un ambiente frivolo e privo di affetti, si sentiva coccolato dai due gestori. Mariano, alto 1,80 capelli e baffi neri, mani tozze e piene di forza, ma di una bontà unica. Lei, Luisa, media statura e tondeggiante, capelli neri ed occhi verdi.
“Eccomi qua” disse Mariano preparando per due. Marco arrivava sempre verso le 22 a mangiare.
“Grazie Mariano. Ma mi hai aspettato anche questa sera? posso mangiare anche da solo…”.
“Ma figurati, ho avuto da fare pure io, adesso ci rilassiamo insieme”.
Marco sorrise, ma a rompere quel relax fu lo squillo del suo cellulare.
“Pronto”.
“Commissario Martini?”.
“Sì. Chi parla?”.
“Scientifica, le o il comandante”.
“Marco, sono Giacomo, è successo un omicidio, dovresti venire”.
“Ci siete già voi, raccogliete tutto il possibile e poi ci vediamo domani mattina in commissariato. Chi è la vittima?”.
“Ti prego Marco, vieni! Viale Verona 157”.
Il commissario si sentì gelare il sangue e disse:
“In quel condominio ci abita mio fratello!”.
“Sì Marco, e l’appartamento è proprio il suo. Dovresti venire per il riconoscimento”.
A quell’ora non c’era traffico, impiegò una decina di minuti ad arrivare.
“Sì è Davide” disse il commissario chiudendo gli occhi e contraendo tutti i muscoli del viso. Poi chiese:
“Com’è successo?”.
“Alle 21 circa hanno chiamato il 113 dicendo che avevano udito uno sparo. Sono intervenuti i colleghi di pattuglia e una volta individuato il cadavere hanno chiamato subito noi della scientifica. Nessuno ha visto niente. Ma stiamo facendo tutti i rilievi dovuti, sembra che tuo fratello stesse chattando, ora cerchiamo di individuare con chi e poi ti facciamo sapere. Ora è meglio che te ne vai Marco, se ci sono novità ti chiamo, altrimenti ci vediamo domani mattina”.
Marco tornò alla locanda.
“Hanno ammazzato Davide” disse ai due gestori.
Luisa scoppiò a piangere e lo abbracciò forte, mentre Mariano nascose il suo pianto dando loro le spalle. Poi versò tre bicchieri di prugna.
Si sedettero a bere e Marco si rese conto che avvisati loro due, aveva avvisato tutti. I genitori erano morti entrambi, gli zii persi di vista ancora da bambini, praticamente non aveva più nessuno.
“Hai qualche idea Marco?” chiesero.
“Non saprei. Si è fatto 6 anni dentro per non fare i nomi degli spacciatori, quindi loro li escluderei. Speriamo solo in qualche errore da parte dell’assassino, quelli della scientifica ci stanno lavorando”.
Luisa se ne andò a letto, mentre i due uomini rimasero fino all’ultima goccia di prugna.
Il mattino seguente arrivò in commissariato il comandante della scientifica.
“Ciao Marco, nessuna traccia. L’assassino è stato molto attento. C’è però questo”.
Giacomo fece leggere una copia del dialogo intrapreso dai due in chat. E dopo aver letto disse:
“Ma questa ha visto l’assassino! Si sa chi è?”.
“Luigina Lunardon, abita a Limena, in provincia di Padova. Divide l’appartamento con altre due colleghe. Prostitute. Questo è l’indirizzo”.
“Ecco dove andava alle 21, altro che studiare. Vado da lei” disse Marco e partì immediatamente.
Suonò alla porta, e aprì una bella ragazza, esile, bionda con occhi azzurri.
“Polizia” disse esibendo il distintivo “la signorina Luigina Lunardon?”.
“Sì” rispose lei “sono io, cosa vuole?”.
“Le devo parlare di Davide. Lei deve aver visto qualcosa ieri sera”.
“Ci sono le mie coinquiline che dormono, infilo un paio di scarpe e scendo al bar, mi aspetti lì”.
Pochi minuti dopo lo raggiunse.
“Allora, mi dica cosa ha visto”.
“Sempre gentili voi sbirri… si parlava del più e del meno. Ad un certo punto rimasi stupita nel vedere qualcuno alle sue spalle, so che tranne un fratello che meno lo vede meglio sta, non ha nessuno”.
Marco accusò il colpo senza far intravedere nessuna emozione.
“Ma a proposito commissario, Davide è vivo?”.
“No, è morto. Ma tu hai visto l’assassino?”.
“No, non l’ho visto, la telecamera era bassa, sono riuscita a vedere solamente la parte centrale del busto”.
“E com’era?”.
“Indossava un giaccone nero. Non so dirle altro”.
“Tutto qui? Corporatura, magro, grasso, alto, basso”.
“L’altezza era impossibile da calcolare. Non so nemmeno se fosse grasso o magro, il giaccone nascondeva il corpo. C’è però un particolare che mi è venuto in mente, indossava una sciarpa gialla”.
“Bene” prese nota Marco “questo è già qualcosa”.
S’intrattennero ancora per un po’, ma non uscì niente di più. Così Marco decise di andarsene.
“Questo è il mio biglietto da visita, se ti venisse in mente qualsiasi cosa, chiamami”.
“Commissario Marco Martini” lesse a voce alta Gina “parente di Davide?”.
Il commissario pagò il conto e uscendo le rivolse l’ultimo sguardo esclamando:
“Il fratello”.
Marco rientrò in caserma, l’ispettore Mauro Neri lo stava aspettando, quindi gli raccontò di quello che era emerso parlando con Gina.
Poi andò nel suo ufficio, si chiuse la porta alle spalle e si diresse verso l’attaccapanni per appendere il suo giaccone. Ma nel alzare lo sguardo, gli si gelò il sangue e si paralizzò.
Dopo qualche istante gridò.
“Neriii!!!”.
L’ispettore entrò di corsa nell’ufficio. Si schierarono entrambi ammutoliti a guardare l’appendiabiti. Attorcigliata ad un pomolo, c’era una sciarpa gialla.
“Chi cazzo è entrato nel mio ufficio?!” chiese in piena crisi isterica Marco.
“Non ne ho la minima idea commissario, c’è stato un po’ di viavai di persone, ma non ho visto nessuno entrare. Chiediamolo agli altri”.
“Sì, ma usciamo di qui e fai venire immediatamente Giacomo con i suoi”.
Quelli della scientifica fecero il sopralluogo, ma non trovarono niente di rilevante. Poi Giacomo si rivolse a Marco:
“Ora faremo analizzare la sciarpa, speriamo di trovare qualcosa almeno lì”.
“Questo mi sta sfidando, non troverete niente”.
In quel preciso istante entrò un uomo di Giacomo.
“Comandante, c’è un capello sulla sciarpa, procederemo immediatamente con l’esame del DNA”.
“Visto?” replicò gongolante Giacomo “bisogna essere ottimisti, adesso speriamo solo che questo DNA sia schedato, così potremmo dare un nome al proprietario della sciarpa e il caso è chiuso!”.
Marco lo guardò sconcertato, sapeva che non era così.
Il giorno dopo, Giacomo arrivò ed entrò nel suo ufficio.
“Ti devo parlare Marco” disse in modo serioso “sappiamo a chi appartiene il
capello trovato sulla sciarpa”.
Marco sgranò gli occhi, e avvolto dalla curiosità chiese ansiosamente:
“A chi! lo conosciamo?!”.
“Sì… Il capello era tuo Marco”.
“Cosa?! Mio?!”.
Ci fu un attimo di riflessione da parte del commissario e poi rassicurò dicendo:
“Allora si deve essere attaccato quando è stata appoggiata la sciarpa al pomolo, il capello era sicuramente lì”.
“Impossibile” rispose Giacomo “era conficcato per bene in mezzo alla lana. Qualcuno ti vuole incastrare”.
“Ma no!.. Ho un alibi di ferro, fino alle 21,45 eravamo in riunione con il questore”.
“Sì, lo so, c’ero anch’io… ma l’assassino non lo sa”.
Giacomo lasciò tutti gli incartamenti sulla scrivania e se ne andò.
“Vedi Neri” disse Marco all’ispettore che chiamò nel suo ufficio “non capisco il motivo, il rischio che ha corso per mettere la sciarpa nel mio ufficio. Quello è un segnale chiaro di sfida, vuole dirmi che è più forte di me! Aiutami a incastrarlo. Vuoi vedere che non ha commesso nessun errore?!”.
“Tranquillo commissario, lo prenderemo sicuramente, daremo giustizia a Davide”.
“È morto senza perdonarmi” si confessò Marco “pure a Gina raccontò di avere solo un fratello al mondo, ma che meno lo vedeva, meglio stava. Ha trascorso la sua vita a confrontarsi con me. Mi odiava”.
“No, non sono convinto che provasse dell’odio nei suoi confronti commissario”.
Neri uscì, e Marco controllò gli incartamenti della scientifica.
L’analisi balistica sul proiettile calibro 9x21, risultò negativa. Quell’arma non era schedata, quindi non era mai stata usata in altri reati. E il capello? Dove lo aveva trovato?
Marco si concentrò su quel particolare ma vagava in un vicolo cieco, c’era qualcosa che la sua mente aveva recepito, ma gli sfuggiva.
Andò a mangiare alla locanda dalla Gina, decise di distrarsi un po’.
“Non ho molta fame” disse a Mariano “sono venuto più che altro per stare un po’ in compagnia”.
“Immagino. Luisa ha preparato questa mattina del Baccalà alla Vicentina, ne gradisci?”.
“Un assaggio, niente di più”.
Si sedette a mangiare pure Mariano, ma il silenzio faceva da padrone. Marco non aveva voglia di parlare, mentre l’oste non parlava per rispetto, rispetto della morte.
Poi arrivò Luisa, e ci pensò lei a rompere quel silenzio angosciante.
“Allora Marco, come vanno le cose, sapete chi è stato?”.
“No, qualcuno che penso di conoscere, o meglio… qualcuno che conosce sicuramente me, ma non ho la minima idea di chi sia. È uno furbo, non ha lasciato la minima traccia. Ho paura che questo, sia uno di quei casi che vengono archiviati con il timbro IRRISOLTO”.
Fece una breve pausa per bere un sorso di Vespaiolo, poi proseguì:
“Stiamo indagando anche sulla vita privata di Davide, sul suo ex giro di spaccio, ma nulla sembra essere rilevante. E non credo centri tanto, l’obiettivo ero io, l’assassino voleva colpire me”.
Poi si fece sfuggire una frase:
“Questo lo abbiamo capito da una sciarpa che ha lasciato nel mio ufficio”.
Dopo questa frase, Luisa si girò verso il marito e chiese:
“A proposito, si sono venuti a prendere la sciarpa che hanno dimenticato?”.
“No” rispose il marito “non ho ancora visto nessuno, l’ho appesa in sala dispensa”.
“Di cosa state parlando?” chiese incuriosito il commissario.
“Niente d’importante” rispose Luisa “oggi dopo pranzo, quando se ne sono andati tutti, ci siamo accorti che qualcuno aveva dimenticato una sciarpa, proprio in questo tavolo”.
“Gialla?” chiese Marco.
“Sì, proprio una sciarpa gialla. Come fai a saperlo? È tua?!”.
Marco tese i muscoli del viso e cercò di mantenere l’imibilità più totale.
“No, non è mia, ma forse è per me. Luisa, avrei bisogno che prendessi un rotolo di pellicola trasparente da cucina, e avvolgessi la sciarpa senza scuoterla tanto. La voglio fare analizzare, per curiosità”.
Marco chiamò immediatamente il comandante della scientifica.
“Pronto Giacomo, sono io. Sono qui alla locanda dalla Luisa, ho un’altra bella sciarpa gialla da farti analizzare”.
“Cosa?! E com’è successo?”.
“Se non ti disturbo, faccio un salto a casa tua e ti spiego”.
“Ti aspetto”.
Marco consegnò la sciarpa a Giacomo e poi cominciarono a fare supposizioni. Rimasero fino alle prime ore della notte, a bere prugna.
Il mattino seguente il commissario fece entrare Neri nel suo ufficio e raccontò del nuovo ritrovamento.
“Un’altra!” disse l’ispettore.
“Già! Cosa ne pensi Neri?”.
“Non saprei commissario, mi sembra tutto così contro le regole. Cosa serve insistere e mettere a rischio il suo anonimato?”.
“Si sta divertendo a prendermi in giro, si sente al sicuro. Ma alle volte troppa sicurezza porta a commettere errori. Lasciamolo giocare”.
Entrò il comandante della scientifica.
“Buongiorno Signori. Nella sciarpa c’era un tuo capello anche questa volta Marco”.
“Immaginavo. Non capisco il gioco che sta facendo”.
Neri uscì e rimasero soli i due comandanti, e Giacomo prese la parola.
“L’assassino ha preso i capelli nello stesso momento. In entrambi i casi ho trovato una forte presenza di fuliggine. Hai un caminetto o una stufa a legna a casa?”.
“No, tutto a metano. Fuliggine, legna bruciata… ci devo pensare”.
“Beato te che ci riesci, io ho ancora le prugne in circolo”.
“Giacomo! Ti ricordi che qualche mese fa, ti ho detto che io e Neri, siamo andati a casa di un suo zio e gli abbiamo dato una mano a pulire il camino”.
“Sì, me lo ricordo”.
“Beh, in quell’occasione, Neri prese dalla sua macchina un berretto nuovo, e me lo diede perché non mi sporcassi tanto i capelli”.
“E poi che ne hai fatto del berretto?”.
“L’ho restituito a Neri. Sicuramente con qualche capello attaccato”.
“E sporco di fuliggine…” concluse Giacomo.
C’era un imbarazzo pesante nell’aria, poi Giacomo aggiunse:
“Neri non c’era alla riunione con il questore, vero?”.
“No” rispose Marco “era a casa che stava male. E vive solo”.
“Quindi non ha un alibi. Marco, andiamo a casa sua, proviamo a curiosare un po’”.
“Non me la sento di chiedere un mandato, per dei sospetti casuali”.
“Allora togliamoci ‘sto tarlo entrando di nascosto”.
“Ma sei pazzo Giacomo?!”.
“Fai tenere occupato Neri per un paio d’ore e andiamo. Fidati!”.
Dopo mezz’ora erano dentro l’appartamento. Marco, con lunga esperienza nelle perquisizioni, guardò quasi subito dietro l’armadio. Con dei chiodetti, c’era attaccata una busta e con molta sorpresa, dentro ci trovò una Beretta 98FS calibro 9x21, avvolta in una sciarpa gialla. L’automatica, aveva i numeri di matricola smerigliati.
“Scommetto” disse Giacomo “che se facciamo un’analisi balistica a quella pistola, la troviamo compatibile con il proiettile estratto dalla testa di Davide”.
“Non ci posso credere” disse con un filo di voce tremolante Marco.
Si fecero firmare dal Procuratore, un mandato di perquisizione. L’esame balistico sulla compatibilità tra proiettile e pistola, risultò positivo. Era la pistola che aveva ucciso Davide. Il Procuratore emise un ordine di arresto nei confronti dell’ispettore Mauro Neri.
La sera, Marco non andò alla locanda, ma volle rimanere a casa da solo e trascorse sera e buona parte della notte, in compagnia dei suoi pensieri.
Al mattino seguente ò alla locanda dalla Luisa, i due gestori stavano leggendo Il Giornale di Vicenza, che parlava dell’arresto dell’ispettore. Quando alzarono gli occhi dal giornale e lo videro entrare, lo salutarono con grande affetto.
“Ti abbiamo aspettato ieri sera”.
“Mi dispiace” si scusò Marco “ma non ero dell’umore giusto. Voi lo conoscete Neri, vero?”.
“Certo!” puntualizzò Mariano.
“Bene, e ricordate di averlo visto entrare il giorno del ritrovamento della sciarpa?”.
I due si guardarono e poi fecero un segno negativo con la testa.
“Sai Marco” aggiunse l’uomo “a quell’ora c’è un bel po’ di gente. Avrebbe potuto anche entrare e depositarla senza essere notato”.
Marco salutò e se ne uscì. Entrò nella banca di fronte alla locanda e chiese del direttore. Si presentò un giovane scaltro e Marco porgendoli la mano disse.
“Buongiorno, sono il commissario Martini e vorrei alcune informazioni”.
“Piacere Carli, si accomodi e mi dica”.
“Ho visto che avete delle telecamere fuori, ce n’è qualcuna che punta verso l’entrata della locanda?”.
“Controlli lei stesso”.
Il Direttore fece vedere un monitor a Marco, era diviso in quattro parti. Quattro telecamere. In una esterna che riprendeva il bancomat, si vedeva in lontananza l’entrata della locanda. Si fece consegnare la cassetta interessata e con l’aiuto di un tecnico, un mago del mestiere… si fece fare una cassetta ingrandita e messa a fuoco, sull’entrata della locanda, della fascia oraria che gli serviva.
Il Commissario era nuovamente seduto nel suo ufficio, e telefonò alla scientifica.
“Ciao Giacomo, sono io. Ci sono delle novità, puoi are?”.
Dopo una mezz’oretta erano seduti in sala colloqui, Marco, Giacomo e due ispettori.
“Ho pensato e ripensato al caso di mio fratello” iniziò Marco “non riuscivo a capire il senso di farmi ritrovare le sciarpe. In un primo pensiero pensavo ad una sfida, ma poi ho capito il vero motivo. Serviva per depistarci. Neri è innocente”.
Ci fu uno stupore generale e poi Giacomo intervenne:
“Ma cosa dici Marco, abbiamo trovato noi l’arma del delitto a casa sua!”.
“Sì” riprese il commissario “ma quella l’aveva messa il vero assassino, quella l’avevi messa tu. Giacomo, tu hai ucciso mio fratello!”.
“Ma che cazzo dici” esclamò l’uomo balzando in piedi “ti sei fottuto il cervello? Quella sera eravamo tutti in riunione dal questore, c’eri tu e c’ero anch’io!”.
“Sì, è vero, dalle 20,15 alle 20,45 siete entrati voi della scientifica dal questore, dalle 20,45 alle 21,15 noi dell’investigativa e dalle 21, 15 alle 21,45 tutti insieme. Nel lasso di tempo che eravamo dentro noi, (che fra l’altro coincide con l’orario dell’assassinio successo a 2 minuti d’auto da lì) l’ispettore Berti, qui
presente in questa stanza e tuo collega, mi ha confermato che ti sei allontanato per andare a comprare le sigarette, anche se ne avevi presi tre pacchetti solo un paio d’ore prima, al bar con me”.
“E queste sarebbero prove?! Marco! Non sai quello che dici, la tua logica non sta in piedi! Prenditi un po’ di ferie, ne hai bisogno. Credimi!”.
“Giacomo! Tu eri l’unico che era a conoscenza di quella volta che io e Neri siamo andati a ripulire il camino dello zio. E sempre tu hai analizzato i capelli ritrovati nella sciarpa. Miei e con tracce di fuliggine. Hai le analisi di questi capelli?”.
“Sì” rispose Giacomo “te ne ho lasciato anche una copia”.
“No! Quello era un rapporto scritto da te, ma io vorrei vedere i risultati veri. Dove sono?”.
“Non lo so, dovrei controllare…” disse a disagio il comandante. Poi Marco schiacciò il tasto play sul videoregistratore che aveva precedentemente preparato e disse:
“Vedi Giacomo, quello sei tu, sono le ore 12,42 del giorno in cui è stata ritrovata la seconda sciarpa alla Locanda dalla Luisa, è una ripresa fatta dalla telecamera della banca di fronte alla locanda. Tu stai entrando proprio lì con un sacchetto in mano” arono pochi secondi “eccolo, stai nuovamente uscendo. Si nota chiaramente che il sacchetto è vuoto”.
“Sì, ho portato una cosa a una persona” disse ancora più a disagio di prima.
“Bene Giacomo” continuò allora il commissario “tu portami gli esami esatti dei miei capelli e dicci adesso chi era la persona alla quale hai portato questa misteriosa cosa, che noi la andiamo a interrogare subito. Se sarà come dici tu, vuol dire che il mio intuito è finito, quindi darò le dimissioni chiedendoti umilmente scusa. Allora? Nome e prove. Adesso Giacomo!”.
“Il registratore l’hai già ?” chiese il comandante della scientifica.
“Sì, è dietro allo specchio c’è il questore che ci sta ascoltando”.
“Bene” riprese Giacomo “Davide Martini mi stava ricattando, lui voleva dei soldi, molti soldi. Disse che si era fatto diversi anni di galera senza mettere nella merda nessuno, ma adesso voleva essere risarcito. Il nome che Davide al processo non ha mai voluto fare, era il mio. Ero coinvolto nello spaccio. Ma io non volevo dargli tutti quei soldi e quindi l’ho ammazzato. Servono altre spiegazioni?”.
Marco rabbrividì e disse:
“Fottiti figlio di puttana!”.
Alla sera, Marco e Mauro Neri, andarono a festeggiare il rilascio alla locanda.
“Scusami” disse a Neri. “Ho dubitato di te e ti ho fatto sbattere dentro”.
“Non si preoccupi Commissario, non solo la scuso, ma la ringrazio di cuore per aver risolto il caso e avermi tirato fuori”.
I due si abbracciarono forte.
“Neri, forse è arrivato il momento che cominci a darmi del tu e chiamarmi per nome…”.
“Come vuole commissario…”.
DOMANI È UN ALTRO GIORNO di Jacopo Mariani
Oggi è stata una giornata dura. L’ultima prima di trasferirti è sempre più lunga.
Senti ancora tutto l’olezzo della città che ti striscia addosso. Tutto il peso di un giorno di lavoro che si insinua sotto i vestiti, sotto la pelle, va ad infilarsi proprio lì, nello stomaco.
Specialmente se fai un lavoro come il mio.
Tutto è iniziato oggi con una telefonata anonima in centrale. Voce femminile, spaventata. Chiamata da una cabina, dice il centralinista che ha risposto. L’origine è una piccola via vicino al buco dove abito. Tutto questo il capo me lo sta dicendo mentre già sono in viaggio verso la centrale. Aggiunge un “muoviti”. Gli dico che sto arrivando, che sto parcheggiando, mentendo. Aggiunge un “sbrigati”. Sono da lui mezz’ora dopo, il tempo di sistemare alcune faccende.
Abbiamo finalmente un indizio sul bastardo. Siamo a quota dodici in due anni. È ora che la gente abbia un po’ di giustizia.
Non troppa. Se dai troppa corda alla massa, si sentirà saziata, si sentirà tranquilla. Non avrà più paura. Non conviene.
La tizia della cabina ci dà un nome.
Bene! Alfio Quagliano. Via Socrate 19. Milano.
Rapina a mano armata... stupro... spaccio... ecc... ecc... Ti ho arrestato io! So tutto di te.
È sufficiente per un giretto e due chiacchere.
Arriva il mio secondo. Sempre in ritardo ma per fortuna aggiornato su tutto. Non mi piace ripetere le cose che mi hanno appena detto. Non ho il tempo per elaborarle e potrei sbagliare. Potrei cadere in errore.
Lascio guidare lui. Mentre siamo in macchina verso il nostro uomo, riiamo quello che sappiamo sullo stronzo.
Tutto quello che abbiamo è che ha una macchina verde scuro.
Uccide tra le 23 e le 4.
Uccide con un coltello.
Uccide con rabbia.
Rimuove parti del corpo, ogni volta diverse. L’ultima volta solo il dito indice.
Nessuno lo ha mai visto in viso.
Adora le prostitute e i trans.
È un serial killer.
Porta sempre una sciarpa gialla.
Nel frattempo il mio secondo fantastica su come lo prenderemo, su chi dei due sfonderà la porta per entrare, su chi coprirà chi. Io non rispondo, lo fa sempre, anche se dovessimo arrestare Pamela Anderson per atti osceni in luogo pubblico. È esagerato. In questo lavoro quelli come lui finiscono trivellati prima che raggiungano i trentacinque anni, da qualche tossico che non ha niente da perdere se non il suo momento di estasi rovinato dalla tua irruzione. Glielo hai già detto una volta, non ti piace ripetere le cose.
Eccoci all’indirizzo, si vede la sua Fiesta color verdone.
Non facciamo in tempo ad arrivare alla porta del suo condominio che già Secondo ha la mano sulla pistola. Ti guardi in giro e vedi i poliziotti in borghese che presidiano la zona da quando abbiamo avuto la soffiata. Uno di questi ti urta e ti lascia un biglietto in mano:
“È appena rientrato”.
Lo mostri al tuo pistolero.
Lui sorride, si mette in bocca una cicca e ti fa l’occhiolino.
Le scale ti sono molto familiari. Le hai fatte talmente tante volte, anche di recente, per svariati motivi: arresto, perquisizioni, informazioni... e altro.
Il rumore della cicca accompagna i tuoi i fino davanti alla porta.
Bussi.
Dici di aprire, dici il tuo nome, dici di stare tranquillo, lo rassicuri.
Ma senti un rumore di sedie spostate e di finestre che si aprono. Classico. Ci ha provato anche durante un altro arresto. Con il risultato che si è fratturato un femore cadendo da un balcone.
Stai per dire qualcosa a Charles Bronson con l’alito di mentolo, che lui ha già sfondato la porta e sta puntando a casaccio la pistola.
Entro con calma. Odore di sporco e di chesterfield. Il caro Alfio sa cosa succede
in prigione a quelli che uccidono gli sbirri e non ha mai tentato di fare quella fine. Non sparerà. Anche perché è già su un cornicione che salta da un palazzo ad un altro inseguito da Secondo che urla frasi da film americano. Io esco dalla finestra e faccio un cenno alle pattuglie di controllare il perimetro dove è scappato.
Poi guardo l’inseguimento sui tetti.
Ma Alfio riesce a scappare e il mio secondo si realizza sparando un colpo mentre scivola su delle tegole che hanno ceduto.
Lo sapevo. Niente di preoccupante. Solo una perdita di tempo. So già dove trovarlo. È un tipo metodico Alfio. Frequenta gli stessi luoghi e scappa negli stessi posti.
Quasi troppo facile.
Arrivano i rinforzi.
Alcuni vanno ad aiutare lo Spazzacamino con la pistola, altri cominciano a perquisire e trovano quello che volevano trovare.
Una sciarpa. Con un dito avvolto dentro.
Ah, gialla, ovviamente!
Un tipo piccoletto, con occhiali enormi mi fa notare come il dito sia particolarmente freddo. Come se fosse stato conservato fino a poco tempo fa in un frigorifero o qualcosa del genere. Come se fosse stato lì per essere trovato. Come se...
Lo fermo. Non siamo qui per conclusioni ma solo per rilevare indizi. E ricordo a tutti che non siamo sul set di CSI e che le perquisizioni spesso sono banali e noiose. Soprattutto se si trova quello che ci si aspetta.
Sorrido. Mi fanno ridere tutti. Con i loro atteggiamenti da grandi attori. A cominciare dal cretino che urla e sbraita rientrando dalla finestra ancora con la pistola in mano e sputa la cicca in strada con disgusto e rabbia, quasi come se fosse colpevole della fuga.
Dice che era ad un o dal prenderlo, quel fottuto killer, quella merda ambulante.
Fai finta di calmarlo e avviso tutti di chiamarmi sul cellulare per eventuali aggiornamenti. Io e Grilletto facile andiamo dove probabilmente si nasconde l’indagato.
Ci mettiamo in macchina.
È quasi ora di pranzo quando il cappotto comincia a essere troppo per quella temperatura di un autunno troppo caldo. Anche la cintura ti dà fastidio.
Forse è la situazione che ti dà fastidio.
Billy the Kid che guida fra una bestemmia e una frenata.
Tutta questa fatica, proprio l’ultimo giorno di lavoro in questa merdosissima città.
La probabilità che stavolta Alfio si fosse fatto più furbo ti turbava.
O forse al contrario era la frenesia di vincere, di risolvere e chiudere questo benedetto caso.
Il cognato del nostro amico fuggiasco aveva una fabbrica di lampadari che ovviamente copriva dei giri sporchi. È proprio minacciandolo di mandare delle squadre nel suo magazzino che facevo leva ogni volta che volevo prendere il “latitante”. In realtà il suo traffico illegale era protetto da persone in alto. È per questo che non avevo mai neanche tentato di farlo arrestare.
Sta chiudendo quando lo raggiungiamo e chiediamo di scambiare due parole nel suo ufficio. Il cognatino mi riconosce e parte con la solita farsa.
Spara qualche “non so dove sia”, ripete un “stavolta non è qui”.
Faccio finta di credere a tutte queste stronzate, poi con un pugno spacco il suo setto nasale. Secondo ride di gusto. Di solito sono un po’ più diplomatico. Ma oggi voglio finire questa storia. Voglio aggiungere una tacca alla mia pistola, oggi.
E parla. Cazzo, se parla.
Dice che è stato qui ma che stavolta non si è fermato, perché sapeva che sarei venuto.
Può essere. Stavolta sembra dire la verità e ciò mi porta a pensare alla prossima meta.
La ragazza di Alfio.
Parolacce, stronzate e inchiodate colorano il viaggio verso casa di Marzia.
Secondo mi riesce a strappare addirittura un sorriso insultando una ragazza in una smart che a suo dire ci ha tagliato la strada.
Marzia: ex-puttana, ora centralinista pentita. Probabilmente qualche cliente lo riceve ancora in casa. Per tirare avanti, dice lei. Perché in fondo le piace, dico io.
Bionda, forse. Chi può dirlo.
Mi arriva una chiamata. Il capo mi aggiorna: trovato un coltello che potrebbe essere l’arma del delitto, il dito corrisponde con la parte mancante dell’ultimo corpo, hanno trovato due chili di droghe di vario genere e mi chiede dove cazzo sono finito.
Gli dico tutto. E chiedo rinforzi. Rinforzi svegli stavolta, per non farci scappare di nuovo Alfio. Dò l’indirizzo e chiudo la chiamata.
Questa volta aspettiamo noi gli agenti in borghese. Ci danno l’ok e noi entriamo. Solito copione con relativo sfondamento con calcio di Steven Seagal dei poveri.
La porta era aperta... comunque. E porca puttana!
Siamo a 13.
Marzia è riversa sul letto senza un orecchio e senza parecchi litri di sangue che ha gentilmente donato alle lenzuola e alle fughe del pavimento. Ti scappa da ridere. E Secondo si lamenta dei poliziotti che hanno fatto scappare Alfio da casa sua. Stiamo attenti a non entrare nella pozza rossa che a causa delle piastrelle sconnesse si è accumulata proprio nei pressi della porta.
Mi chiedo in quante finestre dovrò ancora fare, in questo maledetto giorno, cenni ad agenti in strada per fare rilievi su scene del crimine.
Mentre aspetto, Secondo mi fa notare delle impronte di scarpa, fatte con il
sangue della vittima.
E penso.
Sono di nuovo punto a capo.
Comincio a preoccuparmi che questa storia si prolunghi. Di solito sono più tranquillo. Ma non stavolta. Prima che nasca un nuovo giorno, deve finire questa dannata situazione.
Ma ho finito i posti dove andare a cercare Alfio.
Per un attimo guardo Secondo frugare in giro, lui si gira, incrociamo gli sguardi e le preoccupazioni.
Di nuovo agenti per la stanza con i loro guanti.
Di nuovo armadi svuotati.
Di nuovo droga trovata.
Di nuovo.
Hai un’illuminazione, ringrazi tutti e trascini il tuo compagno fuori.
Dici che sai dove si nasconde Alfio. Secondo dice che sei pazzo e ride.
Guidi tu ora. Senti che hai ragione e non vuoi rovinare la sorpresa al cretino che ti affianca.
È tutto spento al capannone di lampadari quando ci ritornate.
Tutto tranne una piccola luce in fondo al magazzino, che si nota anche da fuori, visto che la zona industriale è completamente nell’oscurità.
Chuck Norris al tuo fianco dice che se si trova veramente lì dentro ti offre una cena. E si mette in bocca un altra cicca.
Non rispondo nemmeno. Non ho tempo da perdere. È quasi sera. Il tuo tempo sta per finire.
Stavolta impugni anche tu la pistola, quando scivolando verso la porta sul retro senti litigare il proprietario dell’azienda con una voce che riconosci: Alfio.
Ripeti a Secondo che lo vogliamo vivo. E lui risponde che farà il possibile.
Che stronzo.
Il resto è confuso... entriamo insieme e poi il resto succede d’istinto.
Ho urlato, ho sparato, chi può dirlo.
Secondo ha sparato, è stato colpito. Non ne sono certo.
Forse il caro parente di Alfio, non sa cosa fanno in gattabuia a quelli che ammazzano gli sbirri, perché ci è sempre stato alla larga da quei posti.
Quando i contorni cominciano a delinearsi, mi ritrovo con due cadaveri e un uomo piagnucolante che mi getta la pistola ai piedi e io lo ammanetto per bene ad una colonna.
Alfio e Gianni sono a terra, rispettivamente con un proiettile in testa e uno al petto.
Per essere precisi e chiari, Gianni è il mio secondo. E la sua cicca stavolta non ha colpa di quello che è successo.
Povero stronzo. E comunque mi doveva una cena visto che abbiamo trovato il nostro uomo.
E povero anche Luca Faci. Il cognatino.
I miei cari colleghi lo portano via già bello impacchettato e pronto per le botte. Non preoccupatevi non lo ammazzeranno. Ne deve rimanere un po’ anche per i secondini.
Ricevi una chiamata dal capo. Congratulazioni e insulti.
Mi chiede come cazzo faccio a far morire tutti i miei colleghi. Aggiunge che ringrazia nostro signore che è il tuo ultimo giorno e che sparirai per fortuna in qualche fottutissimo paese di montagna.
Signore un cazzo. Si chiama pensione e me la sono meritata, penso fra me, soprattutto dopo oggi.
Riattacco. Ci sono il triplo di sbirri che c’erano nelle altre perquisizioni. Ti viene quasi la nausea.
Prima di andare ti fanno delle domande e tu dai risposte vaghe. Farai rapporto, dici.
Guardi i cadaveri che vengono portati fuori. Fermi la barella del tuo compare, stai per togliere il lenzuolo quando ti accorgi che stai facendo proprio quello che uno sceneggiatore di hollywood vorrebbe per il finale del suo film.
Fai cenno di continuare e ti allontani verso casa.
Vuoi finire al più presto il rapporto e fare gli ultimi bagagli.
Domani è un altro giorno.
2 MESI DOPO
Non c’è niente da fare. È tutta un’altra vita. La pensione.
La mia defunta moglie diceva che non ci sarei mai arrivato.
E invece sono qui a godermi il freddo pungente montano della notte. Fra poco sarà inverno e cadrà la neve. E non sarà più possibile scendere a valle per un po’.
È meglio muovermi ora.
Non puoi rimanere senza i viveri e altri beni di prima necessità. E poi l’orecchio, anche se nel frigorifero, comincia a marcire.
A questa altezza, in questo paese sperduto le puttane non salgono.
Va bene. Vi darò qualche delucidazione ora.
Sì, la voce al telefono che ha chiamato in centrale era proprio di Marzia.
E sì, ho messo io le prove in casa di Alfio quella mattina mentre era fuori. Conoscevo a memoria i suoi spostamenti.
Il resto provate ad immaginarlo.
Probabilmente ho fatto fuori persino il mio caro collega. Ma su questo non posso metterci la mano sul fuoco.
Così mi vesto e mi preparo ad uscire.
Raccatto le chiavi della mia punto verde.
Sono le 23 e 40.
E ho preso anche il coltello.
Ah, dimenticavo.
La sciarpa gialla.
Fuori fa freddo.
BINARIO 7 di Simone Marzini
La telefonata alla centrale di polizia arriva alle 5 e mezza di mattina da un telefono pubblico della stazione centrale di Milano.
“Il responsabile della morte della Signora Fabrizi si trova nella stazione dei treni di Milano, vicino alla tabaccheria. Lo riconoscerete subito, indossa una sciarpa gialla”.
“Chi parla? Mi dia le sue generalità” chiede il poliziotto al telefono: ma è troppo tardi, dall’altro capo del filo la chiamata è già stata terminata.
Questa è la fine della storia: riavvolgiamo il nastro per tornare indietro e vediamo come si è svolta.
Immagina una stazione dei treni, è notte. Una stazione di una grande città del nord Italia, con tanti binari, un numero tale da andare in doppia cifra. Immagina la desolazione, la sporcizia, i senzatetto che dormono sui cartoni, alcuni abbracciando una bottiglia vuota, altri con dei cani meticci, sporchi e pulciosi. Ti avvicini con lo sguardo, e noti che non sono tutti barboni.
C’è un giovane, un ragazzo forse maggiorenne forse non ancora, con le guance rosa macchiate da una rada peluria, tiene in mano una bottiglia di whisky. Ha una sciarpa gialla al collo, è vestito alla moda. Sta parlando con un senzatetto di circa cinquant’anni che potrebbero anche essere quaranta portati male, con i capillari del naso scoppiati tipici dall’abuso di alcol e dalla vita all’adiaccio.
“Tieni amico, bevine un po’” dice il giovane rivolgendosi al senzatetto.
“Grazie amico... roba di lusso” risponde il barbone ammirando la bottiglia di Jack Daniel’s. Non gli capita spesso di bere quella marca di whisky, di solito compra le sottomarche del discount o del vino scadente in cartone. Gli anni di vita sulla strada l’hanno reso alcolizzato.
“Come mai me lo offri?” aggiunge. Gli anni di vita sulla strada l’hanno reso anche diffidente.
“In questi giorni mi sono successe delle cose sconvolgenti, ho bisogno di parlarne con qualcuno e non sapevo con chi farlo” dice il giovane.
“Ma non hai una famiglia? Una casa? Che ci fai qui?” chiede il senzatetto, bevendo avidamente dalla bottiglia.
“Io? È una storia lunga, ma se hai tempo te la voglio raccontare”.
“Il tempo non mi manca di certo” risponde il vecchio, tracannando l’ennesima lunga sorsata dalla bottiglia, prima di riarla al ragazzo.
Il giovane riprende la bottiglia, ne pulisce il collo con la manica della giacca e beve un altro sorso, come per darsi coraggio.
“Posso fidarmi di te?” chiede.
Il barbone inizia a ridere, finché la risata si trasforma in una tosse grassa, mucosa. Terminata la tosse dice:
“Racconta, vedrai che poi ti sentirai meglio”.
Il giovane si accende una sigaretta senza filtro, tira due boccate profonde e inizia a narrare.
“Ho compiuto 18 anni da poco, e la mia vita, beh... mi piaceva molto. Avevo una bella ragazza, con cui stavo bene, suonavo in un gruppo che aveva successo, ovviamente nell’ambiente scolastico ma era pur sempre un inizio, a scuola non avevo problemi anche se non studiavo un cazzo, la mia famiglia era benestante e non mi faceva mancare niente... una vita tranquilla insomma”.
“E poi che è successo?”.
“E poi.. tutto è crollato”.
“In che modo?”.
“Mio padre è stato arrestato per tangenti... una mattina stavamo facendo colazione, un giorno come tanti, e sono venuti a prenderlo i caramba. Era ancora in pigiama...”.
Il barbone ride di gusto.
“Che cazzo ridi?”.
“Niente niente... è il karma che ti manda”.
“Perché?”.
“Io sono finito a fare questa vita per gente così, che mi ha truffato e lasciato senza una lira... ma mi è servito di lezione. ami la bottiglia”.
“Va bene”. Il ragazzo getta la sigaretta per terra, e la schiaccia col tacco della scarpa. Indossa anfibi, neri, che avrebbero bisogno di una lucidata.
Beve un piccolo sorso dalla bottiglia, e la porge al senzatetto.
“Quel giorno con quello che mi era accaduto non potevo andare a scuola, non me la sentivo proprio, così sono ato a casa della mia fidanzata, che da un paio di giorni era a casa malata. Intossicazione alimentare, mi aveva detto al telefono. Sì, proprio... l’ho trovata col batterista del mio gruppo”.
“E immagino non stessero parlando di musica”.
“Infatti, ma non è ancora finita. Col tipo abbiamo iniziato a litigare e lui mi ha preso a calci in culo. Sono scappato in cucina, ho afferrato un coltello e ho minacciato di tagliargli l’uccello e allora lui si è chiuso in cesso e ha chiamato la polizia: mi sono dileguato prima che mi prendessero e sono scappato qui a Milano”.
“Che storia... dovresti scriverne un libro” dice il barbone bevendo un altro sorso dalla bottiglia. Poi guarda il ragazzo, e aggiunge, come per giustificarsi:
“Fa freddo stasera, ho bisogno di bere per scaldarmi. Ne vuoi?”.
Il ragazzo scuote la testa in segno di diniego, e riprende:
“Il bello deve ancora arrivare. Sono venuto qui a Milano: in una grande città è più facile far perdere le tracce, anche se in realtà non so se qualcuno mi sta cercando. Scappato da casa in fretta e furia non ho preparato neanche una borsa, avevo solo il mio zaino della scuola, senza un cambio di vestiti e senza conoscere nessuno mi sono arrangiato a vivere coi pochi soldi che avevo in tasca. Poi anche quelli sono finiti, e non sapevo come fare. Chiedere l’elemosina come una barbone del cazzo? Non esiste!”. Si rende conto dell’uscita infelice e aggiunge: “Ah, senza offesa si intende”.
Il senzatetto lo guarda di sbieco, come si guarda un ragazzetto viziato che crede di conoscere tutto della vita ma che non sa niente.
“Non preoccuparti non sono permaloso... e quindi che hai fatto?”.
“Visto che bazzicavo sempre nei pressi della stazione, mi sono venute delle idee. Vedevo tutta questa gente, pendolari perlopiù, arrivare di corsa, sempre in ritardo sempre di fretta, che dimenticava un sacco di cose in giro: io aspettavo che il treno arrivasse in stazione e la gente corresse verso l’uscita e poi salivo e arraffavo tutto quello che trovavo: telefoni, computer, libri, borse, ombrelli... di tutto. Non hai idea di quante cose si trovino nei vagoni dei treni”.
“Si lo so bene, ma c’è già parecchia concorrenza”. Beve un altro sorso dalla bottiglia, ormai l’ha quasi finita.
“Infatti, dei balordi mi hanno minacciato e me ne sono andato via”.
“Sei proprio un cuor di leone tu, eh?” dice ridendo.
“Fottiti, mica voglio finire in ospedale”.
“E quindi sei venuto qui, in mezzo a noi, agli invisibili, per nasconderti?”.
“No macché... ne manca ancora prima di arrivare al presente”.
“Sei un novello Ulisse insomma” dice il barbone biascicando le parole. Inizia a essere ubriaco.
Il ragazzo cambia posizione e si siede con le gambe incrociate, la schiena appoggiata a una serranda, e si accende un’altra sigaretta.
“Scappato dalla stazione mi sono messo a vagare per la città... sono arrivato in questo piccolo parco dove c’erano dei ragazzi che si stavano rollando una canna, molto alternativi ma sembravano tranquilli. Mi sono unito a loro, e ci siamo fatti quattro chiacchiere, mi prendevano in giro un po’ per il mio accento veneto, e io li insultavo chiamandoli con termini dialettali offensivi ma che chi non conosce non immaginerebbe mai il significato. Erano in cinque, tre tipi abbastanza sfigati e due tipette, una di queste col piercing alla lingua e un taglio di capelli punk mi attizzava parecchio. Aveva delle spille da balia al posto degli orecchini, due per orecchio, e una canotta da muratore, indossata senza reggiseno sotto, e degli short blu corti. Era molto sexy. Mi han raccontato che insieme ad altre persone avevano occupato una ex scuola e abitavano lì in una sorta di comune, mi hanno invitato ad andare, era gratis e mi sono unito a loro”.
“Il figlio delle tangenti in mezzo ai centri sociali... ha quasi un significato profondo che però mi sfugge” ribatte il senzatetto, fra l’ironico e il divertito.
“E insomma la sera siamo lì, due personaggi tipo che sembravano l’anello mancante fra l’uomo e l’immondizia stavano preparando un pentolone di sbobba, guarda una cosa che non ti puoi immaginare neanche il mio cane la mangerebbe, ma quando c’è fame c’è fame e me la sono magnata. Dopocena hanno iniziato con discorsi assurdi sul potere e l’oppressione e la giustizia proletaria e lazzi e mazzi e stracazzi, avevo la digestione che mi stava mandando in coma così sono uscito a prendere un po’ d’aria e fare quattro i e subito la ragazza col piercing mi ha seguito. Ci siamo fumati una cannetta insieme, quattro chiacchere e poi mi ha portato in una camera, penso fosse la sua ma lì non si sa mai, c’erano delle cassette della frutta vuote usate come mobili e dei materassi buttati per terra, a completare l’arredamento lampadine nude appese ai soffitti. Un postaccio. Lì ci abbiamo dato dentro di brutto, mi sembrava di sentire pure gli acari giganti applaudire la mie performance. Una cosa devo ammettere: il piercing sulla lingua apre delle nuove prospettive ai preliminari”.
“Insomma te la sei fatta. Io sono anni che non vado con una donna”.
“E vuoi paragonare me a te scusa?” ribatte il giovane, piccato.
Il barbone sghignazza. “Non arrabbiarti, dai continua a raccontare che mi sto apionando” gli dice.
Il ragazzo riprende: “La mattina mi sveglio e non so, mi trovo sta qui a fianco che alla luce della mattina non è che mi attizzi più di tanto, coi tatuaggi e sti capelli tagliati a caso... e poi nel sonno cerca di abbracciarmi. È troppo, mi alzo di scatto, lei dorme ancora. Mi rivesto velocemente e noto il suo portafoglio sul comodino, vicino alla borsa. Lo apro e prendo in prestito i soldi che trovo”.
“Ah ah le hai rubato i soldi”.
“No, glieli ridarò prima o poi... dovevo fare colazione no? E quella pezzentona aveva venti euro, che ti credi, che abbia fatto la rapina del secolo?”
“Io con venti euro vivo una settimana”.
“Sì, sì e io se avessi le ruote sarei una carriola”.
“Una cariola, ah ah, buona questa. Dai, continua la storia”.
“ami da bere prima, che ho la gola secca”.
Il ragazzo prende la bottiglia, ed è ormai quasi finita. Si bagna le labbra senza bere e si accende un’altra sigaretta. Ria la bottiglia al barbone e riprende a raccontare.
“Fuggito da quella casa sono andato a fare colazione al bar... cappuccio e bombolone con la crema, orgasmica come cosa. Poi me ne sono andato in piscina, giusto per fare una doccia calda e qualche vasca a nuoto. Mi sentivo bene, potente, ma affamato. Uscito dalla piscina stavo camminando e mi a a fianco questa vecchia, la classica nonnetta coi capelli permanentati dai riflessi turchesi e la puzza di naftalina. Incrociandola con molta nonchalance le ho strappato la borsa dal braccio, scappando poi via di corsa. Lei è caduta per terra, ma non me ne sono curato, non paghiamo le ambulanze e i medici per questo? Nella borsa c’era un portafoglio con un po’ di soldi, niente carte di credito purtroppo, poi una serie di medicine che neanche in una farmacia ne hanno così tante, fazzoletti in pizzo, caramelle golia alla liquirizia e qualche santino. E l’immancabile reliquia di padre Pio, probabilmente aveva più vestiti lui di Paris Hilton visto che ogni nonnetta vivente ne ha un pezzo in borsa. Ho messo in tasca il portafoglio e buttato la borsa nel primo cassonetto delle immondizie che ho trovato. E poi sono andato a pranzo... avevo una fame... un pollo arrosto intero con le patate e una birra media, e mi sentivo un altro uomo”.
“La tua storia è lunghissima” dice il senzatetto. La testa inizia a ondeggiargli.
“Aspetta, ormai è quasi finita. Ti annoio per caso? Questo è accaduto ieri. Oggi o davanti all’edicola e vedo la foto della vecchia che ho scippato il giorno prima, nelle locandine che pubblicizzano la stampa locale”.
“Offriva una ricompensa a chi ti trovava?”.
“No, era morta perché nella borsa c’erano delle medicine che le occorrevano, era gravemente malata, ha fatto un colpo e i soccorsi non sono arrivati in tempo. Quelle medicine potevano salvarle la vita, e io le ho rubate”.
“Oddio” esclama il senzatetto.
“Eh già... è morta per un pollo arrosto con le patate”.
Il ragazzo si prende la testa fra le mani, e si raggomitola su se stesso. Sussulta.
“Puoi sempre costituirti... sei giovane, lei era malata, ci sono tante attenuanti. Sconterai pochi anni... magari solo un paio, ma poi avrai saldato il tuo debito con la giustizia e potrai ricominciare a vivere”.
Il ragazzo alza la testa di scatto, ha un sorriso sbieco dipinto sul viso. Ormai il senzatetto è bello ubriaco.
“Ricominciare a vivere, hai ragione. Adesso vado in bagno, quando torno finiamo di parlarne. Intanto tieni la mia sciarpa, voglio regalartela come ringraziamento per avermi ascoltato”.
“Grazie”.
Il ragazzo si alza, e mentre si allontana si può notare che ha lasciato un portafoglio per terra, un osservatore sobrio se ne accorgerebbe, ma il troppo alcol sta sortendo il suo effetto e il barbone non si accorge di niente. È il portafoglio coi documenti della vecchia deceduta. Una cosa il ragazzo non ha raccontato al senzatetto: i testimoni oculari dello scippo come segno particolare del rapinatore avevano notato che indossava una sciarpa gialla, molto vistosa. Il ragazzo sora i bagni, guarda l’orologio appeso alla parete, segna le cinque e mezza di mattina, si avvicina alle cabine del telefono e solleva la cornetta.
Cerca una scheda telefonica poi gli viene in mente che per i numeri di emergenza non occorre, e compone il 113.
Finita la chiamata va al binario 7 dove fra poco partirà il suo treno. È ora di tornare a casa, il suo piano per salvarsi ha avuto successo.
L’ULTIMA REGATA di Manuela Mazzi
Rimescola i pensieri e le parole di mille dialetti e sogni diversi. Culture e abitudini agitati in un mare di aria in burrasca. Dove vagano occhi serrati e sorrisi rassegnati ad affrontare la vita avvolti in un abbraccio freddo e scostante. Sono gli occhi e i sorrisi dei triestini occupati a tenere i propri segreti e quel pizzico di paura misto a rispetto, stretti sotto il soprabito per non lasciarseli soffiar via.
Al di fuori della città, il suo nome era noto soprattutto ai velisti da regata, che una volta l’anno si riunivano per fargli omaggio. E lui, il vento di Bora, come un re superbo sposo della bella vecchia signora sdraiata ai piedi del monte Carso, non mancava mai all’appuntamento.
Ottobre è sempre stato il periodo migliore per lasciarsi incantare dalla bellezza del Golfo di Trieste. L’aria purificata da folate improvvise accentua i colori ed evidenzia i contorni di colline e mare. Una meraviglia da godere avvinghiati alla cima di uno scafo, foss’anche solo da diporto.
Quella del 2008 rimarrà però nei ricordi come un anno speciale. Ricorrevano, infatti, i festeggiamenti del quarantesimo della Barcolana, la regata più affollata d’Europa. A Trieste si erano radunati venticinquemila velisti a bordo di duemila barche, osservate dalla riva da trecentomila amanti delle storie di mare. Mentre un po’ più in là, l’ultimo alito di vita di un marinaio aveva preso… il largo.
Era il giorno dopo la regata maestra, la notte del 13 ottobre; un numero a volte fortunato, a volte funesto, come fu in quell’occasione.
“Ti dico che mi sembra di vedere un cadavere in acqua” ripeté Jack Tompson a sua moglie Lady Lucy, velisti per tradizione, in vacanza a Trieste per partecipare alla Barcolana.
“Siamo alle solite, Jack. Non sei più un agente del controspionaggio e non siamo più in Medioriente. Qui i morti non galleggiano ovunque, e non si trovano cadaveri per caso…”
Mister Jack Tompson, figlio di una relazione di guerra fra una friulana e un soldato americano, era nato e cresciuto a Trieste. Lady Lucy Tompson, nata Hamington, invece, era una londinese di rango elevato. Si erano conosciuti nel 1967, durante una missione ad Aden, nello Yemen. Lucy, al tempo diplomatica, rappresentava il Regno Unito, in nome della regina. Mentre Jack, l’italoamericano affascinante e solare, con polso, ma anche stile e savoir faire, era stato incaricato dall’Onu di operare per conto dei servizi di sicurezza internazionali. S’innamorarono all’istante e da allora non si erano più lasciati.
Jack aveva poi scalato i vertici dei servizi di sicurezza dell’Onu, e aveva vissuto così tante avventure che soffrì parecchio quando entrambi dovettero andare in pensione. Mister e Lady Tompson salirono quindi a bordo della loro barca e da New York salparono per un lungo viaggio che portò i loro pensieri distanti dalla loro nuova condizione sociale. Poi arrivò il momento di trovare un porto sicuro. A Trieste, Jack decise di tenere solo un pied à terre, anzi, una barca in mare. Mentre d’accordo con Lucy decisero di mettere le radici sulle rive del Verbano, acquistando una casa sulla collina che si rispecchiava nel golfo del Lago Maggiore, a Orselina sopra Locarno, in Svizzera.
A Jack capitò ancora di fare qualche lavoretto per la polizia internazionale, ma ormai aveva superato i settant’anni, e per Lucy, era giunta l’ora di gettare l’ancora. Forse, quella del 2008, poteva essere addirittura l’ultima Barcolana
della loro vita.
La Newyorkina dei Tompson, così battezzata per ricordare i vecchi tempi, ormeggiava proprio in quel porticciolo, da anni ancoraggio di famiglia. Fu per caso che, guardando con un po’ di malinconia attraverso il suo vecchio cannocchiale notturno a infrarossi, Jack vide un uomo in piedi su uno scoglio. Era solo, al cospetto del mare: alle quattro di una mattina ancora avvolta nelle tenebre. Immobile, ma inquieto, fissava l’acqua con insistenza. Quando Jack lo riferì a Lucy, si sentì accusare di essere il solito sospettoso.
“Non sei l’unico a soffrire d’insonnia. Tu giochi con i vecchi strumenti di guerra, perché gli altri non possono rimanere a guardare il mare?”.
“Ti dico che c’è un cadavere” insistette Jack.
“Ecco… guarda, guarda tu stessa: che cosa vedi là, incastrato al palo più alto, quello più illuminato dal lampione?”.
Lucy prese con aria scettica il binocolo tra le mani portandoselo davanti agli occhi. Poi guardò con sufficienza e…
“Mammamiasantissima: quella sembra una sciarpa sporca… sì, sporca di sangue. Possibile? A parte l’orribile colore giallo fluorescente…”.
“Oh, ti prego Lucy. Ti sembra questo il momento? Dobbiamo capire se siamo davvero davanti a un delitto. Andiamo a prendere quella sciarpa: sembra essere
il nostro unico indizio”.
Lucy e Jack recuperarono il lungo drappo giallo vistosamente ancora sporco di sangue, ma non sgorgato o schizzato. No, a giudicare dalle impronte sembrava piuttosto che qualcuno avesse pensato bene di utilizzare la sciarpa per pulirsi le mani. Ciò che portò i due avventurieri barcaioli a dubitare dei loro sospetti, facendoli decidere di lasciar trascorrere la notte per ragionarci a mente fresca.
Il sole era già alto quando Jack uscì da sottocoperta per stiracchiare le sue vecchie ossa, che si irrigidirono quando i suoi occhi caddero sulla sciarpa gialla.
“Oh, diamine. Possibile? Lucy, corri a vedere!”. Davanti ai loro sguardi increduli la macchia di sangue era completamente svanita.
“Non è possibile” pensò Jack a voce alta “a meno che…”.
“A meno che…” lo pappagallò Lucy per incalzare la fine della frase. “A meno che” continuò l’uomo “questa sciarpa non sia un prototipo dei cosiddetti indumenti autopulenti. Non sono ancora in vendita salvo in alcune zone australiane. Nazione in cui è stata fatta la recente scoperta, secondo la quale se una stoffa viene trattata con diossido di titanio, essa al contatto con i raggi solari riesce ad autopulirsi completamente”.
“Fantastico: quindi abbiamo una piccola possibilità di riuscire a scoprire se il proprietario della sciarpa è morto”.
“Esatto, ma chéri: ci basterà individuare un’imbarcazione che annovera tra il suo equipaggio un australiano che portava una sciarpa gialla”.
La ricerca risultò più facile del previsto, giacché a riva, Jack incontrò una sua vecchia conoscenza. Era il vice capo della polizia di stato di Trieste, con il quale bastò uno sguardo d’intesa per aggiornarsi vicendevolmente sulla scomparsa di un uomo: scoprirono così che il proprietario di quella sciarpa era George Furlin, della StasySailly, una splendida barca a vela giunta tra i primi posti della mitica regata di due giorni prima.
Il sailing team di cui faceva parte George era al servizio di un armatore australiano. Ed è proprio in Australia che il magnate aveva ingaggiato Furlin: un trimmer, cioè un regolatore di vele, decisamente capace e reattivo. Per festeggiare il successo, la sera della regata, avevano tutti alzato un po’ il gomito, e George più degli altri perché aveva deciso di scendere dalla barca.
“Pare che avesse un appuntamento in Città. Ci raccontò che doveva sbrigare una cosa in sospeso da anni, ma per me aveva solo voglia di una sveltina con una prostituta” disse il timoniere quando venne interrogato. E si sa, chi sta molto in mare, alla fine soffre il mal di terra. Ma in Australia hanno un sistema imbattibile per cloroformizzare quella brutta sensazione: si ubriacano per bilanciare il giramento di testa con l’intorpidimento dell’alcol.
Forse, però, George non raggiunse mai riva. Almeno così si pensò inizialmente, quando venne rinvenuto anche il corpo, recuperato dalle acque del golfo di Trieste dai soccorritori allarmati da alcuni turisti: il cadavere di George Furlin era stato ritrovato tra gli scogli della riva fra i “topolini” e il porticciolo di Barcola.
Il vice capo della polizia di stato di Trieste cercò di convincere anche l’ex agente
ONU, che doveva trattarsi di un incidente:
“Un marinaio ubriaco castigato dal vento di Bora prima che toccasse terra. Davvero Jack” proseguì “non mi sembra il caso di farne una questione di stato. Credo sia meglio mettere a tacere questa tragica faccenda, prima che i giornalisti mettano a soqquadro mesi di organizzazione spesi per dar lustro alla Barcolana. Sai bene che è una manifestazione storica, tanto da non poter permettersi di venir macchiata dalla stupidaggine di un ubriacone che ha deciso di morire proprio il giorno dei grandi festeggiamenti. È stata una disgrazia, Jack”.
“No, impossibile, credimi. Mi è rimasto ancora un po’ di fiuto… Ti dico che questo è un omicidio: fidati! Su quella sciarpa c’erano tracce di sangue, mentre sul corpo non si vede nessuna ferita insanguinata: da dove arrivava quel sangue? E l’uomo che ho visto in piedi sulla riva?”.
Il vice capo rimase un attimo in silenzio, poi si rassegnò.
“D’accordo. Facciamo così. Ti recluto come ai vecchi tempi. Ti do carta bianca e l’appoggio dei miei uomini. Ma hai solo trentasei ore e… devi lavorare in sordina: intesi?”.
“Tranquillo, Capo: te la risolvo io questa faccenda”. A Jack sembrava d’aver preso una scossa d’alta tensione. A un tratto sentì che il vento di Bora aveva iniziato a riscorrergli nelle vene con impeto e gioia.
“Un alleato non guasterà!” pensò il triestino rimpatriato.
Quando a bordo della Newyorkina squillò l’iPhone, Lucy aveva già capito che Jack sarebbe rimasto a terra per proseguire l’indagine.
“Zuccone che non sei altro. Ora arrivo. No!... Ho detto che vengo anch’io… La risolveremo insieme, anche questa volta. Aspettami lì, al molo, che voglio vedere anch’io quel poveraccio”.
Il vice capo se n’era già andato quando Lucy arrivò con tutta calma.
“Quindi? Che cosa abbiamo di bello?” chiese Lady Lucy a suo marito, attirando sguardi d’ammirazione dagli agenti, per quel suo fare avvezzo a simili situazioni.
“George Furlin, mezz’età, trimmer della StasySailly, come è scritto sul retro della giacca a vento e come ha confermato lo skipper. Secondo un primo accertamento delle autorità, George, dopo aver bevuto sulla barca per festeggiare un buon piazzamento, avrebbe preso la zattera di salvataggio autogonfiabile – quella là, nel mare – per portarsi a riva, dove si pensa che non sia mai arrivato. Dev’essere caduto in acqua, forse mentre cercava di scendere a terra, urtando poi contro gli scogli”.
“Aspetta: mi stai dicendo che tutti sono convinti che un marinaio italoaustraliano, per colpa di un po’ d’alcol, sarebbe finito in mare lasciandoci la pelle?” anche Lucy non poteva credere a una morte così banale.
“Esatto!” confermò Jack.
“D’accordo: abbiamo davvero un problema da risolvere. Hai già esaminato il corpo? La causa del decesso? Ha davvero urtato contro gli scogli?”.
“Nient’affatto. Non ha segni di colluttazioni di nessun genere. Non uno. Neppure un bernoccolo. Secondo la polizia è morto per congelamento o annegamento. Ovviamente dovranno poi eseguire l’autopsia. Ma se non ci sarà un sospetto reale e nessuno autorizzerà o richiederà una verifica più approfondita, potrebbero anche lasciar correre. Il sospetto che abbia urtato gli scogli nasce solo dalla presenza di due tagli sulla schiena: guarda, qui, vicino alla scapola sinistra”.
Jack mostrò i due segni, vicini l’uno all’altro: il taglio aveva attraversato giacca e vestiti, formando due ferite profonde però solo un paio di centimetri.
“Strano” osservò Lucy “due ferite nette e neppure una goccia di sangue!”
“Beh! Il corpo era in acqua, quindi forse il sangue è stato disperso… però è un particolare che ha colpito anche me: soprattutto dopo quello ritrovato sulla sciarpa. Ma, in ogni caso, non si può morire per un paio di taglietti…”
“Già! Altri indizi?”.
Chiamati a rapporto, i carabinieri che avevano finito di scandagliare la zona, mostrarono i reperti rinvenuti: cartacce, bottiglie di birra, mozziconi e, isolato dagli agenti in una busta di plastica, c’era anche uno strano cilindro di metallo: la miniatura di una bombola d’ossigeno, ma troppo piccola per contenerne abbastanza per un’immersione anche di pochi minuti. La sua circonferenza non misurava più di due centimetri, ed era lunga quattro dita.
“Questo sacchettino lo tengo io se non vi dispiace” disse Jack congedandosi dagli uomini delle forze di sicurezza cittadine per permettergli di finire il loro lavoro.
I Tompson tornarono a bordo della Newyorkina in attesa che si fe notte. Pianificando le ricerche per il giorno seguente, avevano già tratto diverse conclusioni, che richiedevano però verifiche e prove.
L’indomani Lucy seguì la pista italiana dei rapporti che George aveva intrattenuto a Trieste, in cerca del motivo che lo aveva portato a scendere dalla StasySailly nel bel mezzo di una festa.
Mentre Jack tallonò la traccia della bomboletta sulla quale si leggeva il nome del produttore: C – Maniago.
A metà giornata, marito e moglie, fecero un briefing per aggiornarsi prima di mettere in campo la loro tesi definitiva.
Jack, riferì a Lucy che C era l’acronimo di Coltellerie per Pesca e Caccia. In effetti, quella bomboletta apparteneva a un’arma bianca di ultima generazione e già in dotazione alle forze dell’ordine inglesi, e all’esercito americano. In Italia era in vendita solo per motivi sportivi: il Wasp Knife, infatti, serviva a cacciatori e pescatori per difendersi da… squali e orsi. Il suo manico conteneva cartucce di gas ricambiabili. Gas che, con una forte propulsione fuoriusciva da un foro situato sulla costa della lama a un paio di centimetri dalla punta. Iniettato nel corpo di un essere vivente congelava tutti gli organi, compresi quelli vitali, presenti nel raggio di un diametro largo come un pallone da basket. Lucy, dal canto suo, informò Jack che George Furlin, cognome tipicamente veneto, aveva
un parente ancora vivo in quella regione: il fratello Stefano Furlin di Montereale Valcellina, guarda caso cacciatore e proprietario di un rustico e un vasto parco, in zona di Maniago.
A quel punto fu una facile pescata riuscire a trovare la prova schiacciante.
Jack tornò alla C di Maniago per riconsultare il registro delle vendite che, per legge, doveva riportare il nome di tutti gli acquirenti di quell’arma tanto micidiale. Con un po’ di presunzione, infatti, alla sua prima visita Jack controllò solo la lista dei pescatori, poiché aveva ritenuto più probabile – considerato l’ambiente di mare – che l’assassino fosse uno di loro. Ma dopo la notizia dell’esistenza del fratello di George, i tasselli cominciavano a fornire un quadro della situazione molto più chiaro.
In netto anticipo dallo scadere delle 36 ore, Jack e Lucy avevano infine risolto il giallo del marinaio morto… ammazzato. Per il pregevole lavoro svolto dai due investigatori pensionati, il vice capo gli permise di assistere all’arresto dell’assassino. Un uomo già distrutto dal rimorso, che si rassegnò senza far resistenza, quando venne messo alle strette davanti a una prova inconfutabile: la bomboletta dell’arma del delitto di sua proprietà e la mancata giustificazione del taglio riportato alla mano destra. Confessò così quel che era capitato quella sera, confermando l’intera tesi dei Tompson, ai quali sfuggiva solo il movente.
“Sì, è vero. George, il mio ormai defunto fratello, era tornato per portarmi via tutto. Quel fannullone aveva preso il mare molti anni fa ed era emigrato in Australia: perché non c’è rimasto?! Comunque aveva deciso di venire a riscuotere la sua parte di eredità. Si fosse accontentato dei soldi che volevo offrirgli per liquidare la questione a quest’ora sarebbe ancora vivo. Ma, no! Lui voleva di più: metà della mia cascina di montagna, e metà del bosco e del laghetto. Voleva trasformare la mia terra in un parco avventura alla Disneyland. E solo per fare soldi”.
Proprio così, Stefano avrebbe dovuto dire addio per sempre alla serenità e alla tranquillità inseguita per tanti anni.
“Ma questa casa è mia, lo capite? Sono io quello che è rimasto a occuparsi dei nostri genitori, e quello che ha rinunciato a una famiglia tutta mia perché non avevo tempo di cercarmi una donna, mentre lui ne aveva una in ogni porto. Io ho dedicato tutta la mia vita a questo posto e… non potevo permettergli di portarmelo via. Così, quando ci siamo incontrati, giù al porticciolo, io l’ho abbracciato: sì, ho abbracciato per l’ultima volta mio fratello con tutta la forza che avevo, conficcandogli nella schiena, quanto bastava, la punta della lama. Non gli lasciai il tempo di gridare: strinsi il manico del coltello e gli iniettai il gas che gli congelò il cuore all’istante. Poi cambiai la cartuccia di gas, per una seconda iniezione. Volevo essere certo d’averlo ucciso. Purtroppo però mi tagliai con la lama del coltello. Così presi la sciarpa di mio fratello per pulirmi e non lasciare tracce, ma, mentre gettavo il corpo di Giorgio nel mare, se l’è voluta portare con sé… Inoltre, avvicinandomi alla riva fingendo di trascinare un ubriaco, dev’essermi scivolata dalla tasca la cartuccia vuota…”
Ancora una volta l’uomo si era rivelato più selvaggio della natura, che portò invece un soffio di pura energia nei due pensionati. A riempire le vele della Newyorkina ci pensò il loro nuovo alleato: il vento di Bora, amico degli audaci, nemico degli irriverenti.
DESTINO A TRE di Rita Mazzon
Marco stava cercando un posto di lavoro. Aveva spedito svariati curriculum. Si era presentato in diverse società, ma niente. Ora la telefonata gli era arrivata all’improvviso.
Sarebbe stato un lavoro a tempo determinato e, frequentando l’università, era quello che si aspettava. Doveva fare il pony express. Recapitare buste e pacchetti in giro per la città.
La sua risposta affermativa arrivò subito all’altro capo del filo.
“Certo. Quando devo venire? Grazie. OK”. Quando mise giù il telefono, si mise a fischiettare.
Alberto aveva gli occhi rossi. Una piccola vena batteva sulla palpebra destra. Gli sembrava che da un momento all’altro dovesse esplodere. Un timer pulsava nei pensieri, che sovraccaricavano la mente di una tensione superiore a quella che la sua testa potesse contenere.
“Gliel’aveva detto che l’avrebbe perdonata una volta sola. E si ripeteva che non doveva caderci ancora”. Non sarebbe dovuto starci con quella.
Sentiva la bocca senza saliva. Non era un uomo da essere preso in giro lui.
Il suo orgoglio tradito. La sua virilità tranciata da un essere che, con quattro moine, anche questa volta, gli avrebbe chiesto scusa per un vizio, che era nella sua indole.
“Puttana!” Sussurrò piano questa parola. Poi, come se nell’averlo proferito, qualcosa fosse scattato dal di dentro, come una molla compressa, esplose. “Puttana!” Gridò forte.
“Puttana! È solo una puttana!”.
Si erano incontrati mesi prima nel bar Dell’Ancora. Lui si era perso in un labirinto di emozioni. Sebbene non l’avesse mai vista, una sensazione strana, mai provata, gli era uscita dalla pelle. Un corpo che avrebbe voluto accarezzare e possedere. Già dalla prima volta che l’aveva vista, aveva proiettato verso di lei un desiderio senza limiti.
Ora, solo adesso, comprendeva l’insito messaggio di quella femmina bastarda. Lei lo aveva stregato. “Arpia schifosa!”.
Se aveva provocato in lui una voglia oscena già quella prima volta, come avrebbe potuto pensare che lei potesse soccombere al suo limitante, unico possesso? Le movenze sinuose erano l’emblema della sua seduzione da strega. Una vampira assetata di sesso.
Si morse le labbra livide di rabbia e gli scivolò ancora quella parola: “Puttana!”.
Sembrava un ritornello di un disco rotto. Altre parole non avrebbero espresso meglio il suo disprezzo. Un fremito gli scuoteva il petto. Le mani erano serrate a pugno. Aveva voglia di spaccare tutto. La mente era altrove. Accecata da una gelosia morbosa. Eppure lui si sentiva nel giusto. Se si erano giurati amore. Se si erano concessi l’uno all’altra, certo lei non poteva ora cadere nelle braccia di un altro. La prima volta aveva messo a tacere. E ora? Doveva reagire. Lui era un uomo normale, ionale, virile, non certo accomodante. Glielo avevano detto le donne, con cui era stato assieme.
“Tu sei un bel tipo. Sei veramente maschio”.
Ripercorse la storia. Lo stringersi dei loro corpi. La mano che affondava le dita sul suo petto. I baci. Il caldo sapore delle lingue che rovistavano il gusto di due sensibilità diverse.
Si toccò il membro. Come mai al solo pensiero di lei sentì un eccitamento? Scacciò la tentazione di masturbarsi. Doveva concentrarsi su quello che aveva visto: lei abbracciata all’altro.
L’orgasmo si trasformò di nuovo in rabbia.
Un pugno batté sulla tavola che fece risuonare la stanza di un rumore cupo.
Luisa era eccitata. Aveva lavorato diversi giorni per preparare il regalo ed ora pensava a quando Alberto avrebbe ricevuto il suo dono. Lui avrebbe compreso da quel gesto, quanto lei lo amasse.
C’erano state delle incomprensioni dovute al suo carattere forse un po’ espansivo, ma aveva capito, doveva trattenersi, non lasciarsi andare.
Lui l’aveva vista mesi prima dare un bacio sulla guancia ad un collega che l’aveva aiutata a svolgere un difficile lavoro. Alberto aveva fatto un putiferio. Aveva interpretato male un suo atto dettato dal momento. Le sembrava naturale ringraziare in quel modo un compagno che si era prodigato per lei.
Alla fine gli aveva chiesto scusa. Se voleva in qualche modo continuare quella storia doveva contenere la sua esuberanza. Infatti era considerata dai colleghi, che fossero uomini, o donne, la compagnona di tutti.
Le amiche le avevano fatto notare che Alberto aveva un carattere irascibile, che poco si addiceva al suo temperamento. Lei lo amava e non le importava niente. Anzi spesso ci scherzava su quella gelosia morbosa.
Marco aveva iniziato il suo lavoro già da una settimana. All’aria aperta percorreva le strade della città in mezzo il traffico, con il motorino rosso e giallo. Conosceva nuove vie, nuovi quartieri. Suonava ai camli, le porte si aprivano. La faccia da bravo ragazzo, il suo sorriso mettevano di buon umore. Le ore all’università, intervallate dalle corse in motorino, avevano dato un ritmo dinamico alla sua vita.
Alberto era sdraiato sul divano. Si stava mangiando le unghie. Si ripeteva che doveva fargliela pagare. In che modo? Lei l’aveva cercato al cellulare. Lui non aveva risposto. Il sangue ribolliva. Non si sentiva padrone delle proprie azioni. Doveva calmarsi ed architettare un piano. Un discorso. Un bel discorsetto le avrebbe fatto. Se l’avesse vista adesso sicuramente sarebbe partito un sonoro
ceffone.
E sempre gli compariva davanti gli occhi la scena di lei che abbracciava il ragazzo sul ponte della Giulia. Che lo baciava e quello che contraccambiava. E come ridevano i due. Avrebbe dovuto agire in quel preciso istante in cui li aveva scorti. Ma non se la sentiva di fare una scenata in mezzo a tutta quella gente.
Luisa aveva preparato il pacchetto.
Sapeva che in quei giorni Alberto era a casa. Aveva provato a chiamarlo, ma lui non aveva risposto.
Non era la prima volta che gli spediva una lettera, un regalo. Certamente gli avrebbe fatto piacere. Si sentiva una bambina alla vigilia di un bel giorno. Chissà la sua faccia!
Il giorno prima aveva trovato suo fratello Alfredo sul ponte della Giulia e aveva raccontato anche a lui la storia del pacchetto. Alfredo le voleva bene. L’aveva incoraggiata e poi avevano riso assieme.
Uscì di casa, in fretta. Andò all’agenzia di spedizioni. Sempre più convinta di aver escogitato una bella sorpresa.
L’indomani Marco avrebbe avuto un esame importante. Doveva far presto con le consegne. Si ripeteva mentalmente le nozioni. Aveva dei vuoti. Non vedeva l’ora di ritornare a casa a studiare.
Aveva da recapitare un ultimo pacchetto.
Il viale era poco illuminato. La strada si stava biforcando. Era indeciso se dovesse seguire la sopraelevata. Osservò la cartina e si immise verso la rampa.
Teneva il pacchetto davanti, appoggiato al manubrio.
Cominciò a salire.
Fece un movimento brusco, forse causato da un sasso sull’asfalto. Perse il controllo del motorino, che diede una svirgolata e si distese sulla carreggiata.
Marco teneva ancora stretto il pacco tra le mani. Il cartone si era rotto e da un lato fuoriusciva qualcosa di morbido. Lui era stato disarcionato e stava scivolando giù lungo la scarpata.
Quel qualcosa di morbido si uncinò ad una barra di ferro che usciva dal terreno. Marco si aggrappò a quella corda improvvisata. Si issò con fatica. Era salvo. Si guardò attorno. Non c’era nessuno. Si toccò. Aveva solo una leggera escoriazione. Raggiunse il motorino, lo tirò su. Lo mise in moto. Meno male che ripartiva. C’era una scrostatura dello smalto sulla parte destra, ma il motore era intatto e rombò nel buio.
Marco raccolse il pacchetto vuoto, mentre annodò intorno il collo la sciarpa che l’aveva salvato. Guardò di sotto ed ebbe paura. L’aveva scampata proprio bella!
Ritornò piano verso l’agenzia, pensando cosa raccontare al capo. Decise di spiegargli che era scivolato sull’asfalto umido, ma non disse nulla di quella sciarpa di colore giallo.
Domani sarebbe andato dal mittente, scusandosi con lui. Ora voleva solo tornarsene a casa.
Alberto più ci pensava, più era convinto di farla finita con Luisa. Domani sarebbe andato da lei e le avrebbe detto che l’aveva vista. Non poteva continuare quella storia.
Era rimasto a casa dall’ufficio per un principio di influenza. Mise il termometro sotto l’ascella. Squillò il telefono. Nella segreteria sentì la vocina di Luisa: “Stai dormendo, tesoro? Ti ho lasciato diversi messaggi. Come stai?”.
Avrebbe volentieri scaraventato il telefono fuori dalla finestra. Guardò il termometro. “Accidenti! Per colpa sua, la febbre è salita a più di trentotto”.
Si addormentò tra incubi orrendi. Un branco di lupi correvano dietro di lui e lo volevano sbranare.
Luisa era in pensiero. Se non fosse stato che Alberto abitava dall’altro capo della città, che quella sera era stanca, perché aveva fatto tardi in ufficio, sarebbe andata a trovarlo. Gli aveva dato le sue chiavi di casa. Gli aveva proposto di venire a dormire a casa sua. L’avrebbe curato lei. Gli avrebbe preparato il brodino caldo. Alberto non aveva voluto.
Come mai poi lui non le aveva telefonato, ringraziandola per la sciarpa? Era bella, morbida. L’aveva fatto con la lana gialla. Certo con una punta di malizia. Si sa che il giallo è il colore della gelosia.
Vedeva il suo Alberto con la sciarpa gialla al collo. Come avrebbe voluto essere tra le sue braccia!
Si addormentò, sognando di volare tra morbide nuvole gialle.
L’indomani Marco fece l’esame. Prese un ventisette. Era soddisfatto.
Il pomeriggio andò all’agenzia per fare il consueto giro. Portò con sé il pacchetto con la sciarpa. Sarebbe andato alla fine delle consegne dal mittente. Si sarebbe scusato e gli avrebbe spiegato quanto era accaduto.
Poi, vedendo che il nome scritto era quello di una donna, pensando che le sole scuse non fossero sufficienti, comprò dal fioraio un mazzetto di roselline gialle.
Gli sembrò una buona idea, visto che voleva in qualche modo ringraziare quella signora che gli aveva salvato la vita.
Arrivato alla casa, suonò il camlo. Gli aprì Luisa.
Marco si scusò per la consegna mancata e le porse i fiori. Le spiegò infine quello che era successo.
Lei ascoltò con interesse e stupore e, viste la buone maniere del giovane, lo fece entrare.
Quando la chiave girò nella toppa Luisa e Marco erano seduti sul divano. Parlavano e ridevano.
Alberto, sentendo quelle voci, non capì più nulla.
Li vide. Vicini, troppo vicini che scherzavano.
Si precipitò verso il ragazzo e gli diede un pugno così forte che lo fece cadere.
Marco batté violentemente la testa sul tavolino.
Luisa non ebbe il tempo di pensare.
Le rose gialle erano appoggiate sulla sedia, la sciarpa gialla era sullo schienale.
Alberto afferrò la sciarpa e la strinse forte, più forte intorno al collo di Luisa.
Quando il Capitano entrò nella casa, vide i due corpi nella sala. Erano molti anni che svolgeva quel lavoro, ma ogni volta si sentiva emotivamente coinvolto.
Osservò attentamente la scena.
Certamente l’uomo aveva strangolato la donna e lei, nel tentativo vano di divincolarsi l’aveva sbattuto addosso al tavolino.
Qualcosa però non gli tornava…
Si domandò come mai il ragazzo avesse proteso le braccia verso un capo della sciarpa stretta al collo della donna.
Sembrava avesse cercato di aggrapparsi, per non precipitare nel vuoto.
UN’EMOZIONE SENZA FINE di Gianna Messori
Carlo Dantona salì in macchina. Si sentiva tranquillo, nessuno l’aveva visto. Era stato furbo nel convincere la ragazza a raggiungerlo, con la sua auto, in quel canneto lontano dalla città! Lei, in verità, aveva cercato di tergiversare; non le andava di seguirlo in un posto così isolato. Ma quando lui le aveva fatto vedere tutti quei soldi, non ci aveva pensato sopra due volte. Anche perché lo conosceva e sapeva che, essendo un uomo importante e per di più sposato, non voleva farsi notare con una prostituta. Il suo smisurato desiderio di denaro e soprattutto la sua fiducia le erano state fatali. Ma era inutile pensarci. Ora riposava là, sotto quel cielo stellato che tanto amava. Però valle a capire le donne! Aveva sempre dimostrato di credere in lui. Accidenti a lei; non voleva morire. Ma cosa c’è di più dolce che morire facendo l’amore? Perché lui l’aveva amata quella ragazza ed era stato soltanto mentre la baciava che le aveva messo le mani intorno al collo ed aveva cominciato a stringere sempre più forte godendo del suo divincolarsi, dei suoi tentativi di graffiarlo. E, per la miseria! C’era pure riuscita. Un lungo doloroso graffio sul viso che però gli aveva procurato un piacere immenso.
Questa era la quinta, su e giù per l’Italia, in città dove lui si recava per affari. Pochi giorni, durante i quali si dedicava a cercare la ragazza giusta in attesa del gran finale che avveniva puntualmente il giorno prima della sua partenza. Ora sarebbe tranquillamente tornato in albergo, avrebbe cenato, si sarebbe intrattenuto un’oretta al bar a chiacchierare del più e del meno col barman, e poi sarebbe salito in camera. Tutto come sempre. L’unico neo era quel graffio sul viso. Avrebbe dovuto trovare qualche scusa. Sì forse avrebbe potuto dire che un gatto randagio, che aveva raccolto per strada, l’aveva graffiato. Una scusa davvero banale, però plausibile. Chi avrebbe potuto dubitarne? Guidava sicuro, lentamente, per non farsi fermare dalla polizia che comunque, vista la strada di campagna che stava percorrendo, era del tutto assente. Chissà quando avrebbero trovato la ragazza? Forse il giorno dopo o forse dopo un mese. Chi poteva are per quei posti isolati? Contadini o, nella peggiore delle ipotesi, cacciatori. Quelli, purtroppo, avevano i cani e se all’uomo poteva sfuggire di notare una ragazza stesa a terra in un canneto, non altrettanto sarebbe stato per
un cane. Maledetti animali. Non ci aveva pensato!
Seguì le indicazioni per l’autostrada e ben presto si trovò nella corsia a scorrimento veloce.
Davanti all’albergo parcheggiò la macchina, scese mettendosi il cappotto. Poi si mise il cappello e cercò la sciarpa. Non c’era. Maledizione dov’era finita? Il ragazzo dell’albergo si avvicinò.
“Posso aiutarla signore?”.
Si trattenne dal mollargli un pugno. Che cavolo voleva quello scimunito? “No, grazie” rispose invece. “Cercavo la mia borsa”.
Il ragazzo che guardava verso il vetro posteriore la vide.
“È lì signore, sul sedile”.
“Grazie, vai pure, faccio da solo”. Gli diede la mancia e il giovane si allontanò.
“Maledetto ficcanaso. Per poco non mi tradivo. Ma dove sarà finita quella maledetta sciarpa gialla?”. Un brivido gli corse lungo la schiena. Quando nel canneto era sceso dalla macchina l’aveva tenuta, perché faceva freddo ed aveva un leggero mal di gola. Accidenti a lui. E adesso? L’avrebbe pagata cara questa sua imprudenza! Perché ormai era sicuro che l’aveva persa lì. Forse la donna,
lottando, gliel’aveva tolta e forse la teneva ancora fra le mani. Ma come non se n’era accorto? Eppure aveva ben guardato, prima di andarsene, di non aver lasciato tracce. No, forse l’aveva persa mentre andava alla macchina. Per un attimo fu tentato di tornare indietro, ma scartò subito l’idea. Mai tornare sul luogo del delitto! Punto primo: c’era la possibilità che l’avessero trovata. Punto secondo: sarebbero potuti arrivare quando lui era lì. E allora? Niente. Doveva solo accelerare la partenza. Anzi no, doveva comportarsi come al solito, e poi andarsene lasciando buone mance. Proprio come un gran signore, un signore insospettabile. E la sciarpa gialla? Ebbe un altro brivido. Ma cercò di tranquillizzarsi. Probabilmente nessuno se la ricordava. E poi bastava comprarne un’altra. Più che altro per non sollevare i sospetti di sua moglie. Appena tornato a casa sarebbe andato nello stesso negozio dove era stato con lei. E senza dirle niente, avrebbe acquistato un’altra sciarpa dello stesso colore. Ammesso naturalmente che ce ne fosse stata un’altra!
Il capitano Morelli, stava guardando la sciarpa gialla, leggermente sporca di terra bagnata, chiusa in un involucro di plastica trasparente.
“Che colore forte” disse “è piuttosto insolito per una sciarpa da uomo...”.
“E chi dice che sia da uomo?” fece di rimando il maresciallo Mannini, “potrebbe essere da donna. E poi non fa niente. Le sciarpe vanno bene per tutti”.
“Perché tu la metteresti una sciarpa di un colore così vivace?”.
“Bè non lo so. Forse su un cappotto nero, elegante… Certo che è un giallo molto intenso. La persona che la portava doveva avere dei gusti ben definiti”.
“Oppure è stata regalata da una donna a un uomo. Si sa che le donne fanno sempre i regali più impensabili. Come quando ti regalano le cravatte. Tu cerchi sempre di non metterle, e se ne sei costretto vai in giro con una sciarpa che la ricopre”.
“Proprio come questa?” disse Mannini ridendo.
“Già. Ma qui purtroppo c’è una ragazza che ci ha rimesso la vita. E vuoi il mio parere? La sciarpa è stata trovata sotto il suo corpo. Proprio come se lei avesse voluto proteggerla dal suo assassino per farcela ritrovare. Una specie di denuncia, intendo. Come se fosse semplice! Per prima cosa bisogna vedere se è stata acquistata in città. L’assassino potrebbe essere straniero, un viaggiatore, un turista. Secondariamente chissà quante persone indossano una sciarpa gialla”.
“Bè questo non lo direi. È difficile che una persona normale indossi una sciarpa come questa”.
Bussarono alla porta ed entrò il medico legale.
“Buon giorno dottore” fece il capitano Morelli. “Mi porta qualche novità?”.
“In effetti non molto. La giovane non è stata violentata. Deve essere scesa dalla sua macchina, visto che sappiamo, che è andata sul posto con la sua auto. Forse l’assassino era già lì o forse è arrivato dopo poco. In effetti quella povera giovane sapeva che avrebbe dovuto incontrarlo. Quello che non sapeva era che di lì a poco sarebbe morta. Comunque devono aver camminato per qualche metro per cercare un posto asciutto e libero dalle canne. E deve essere stato a quel punto che l’uomo ha cominciato a baciarla. Poi, come in un raptus di follia,
le ha messo le mani sul collo e l’ha strangolata. La poveretta avrà tentato di difendersi, l’ha graffiato, come si può dedurre dai piccoli frammenti di pelle che le sono stati trovati sotto le unghie, ma tutto è stato inutile. Il suo assassino non ha avuto pietà. In quanto alla sciarpa gialla possiamo, per deduzione, pensare che fosse dell’uomo, che gli sia caduta nella lotta con la giovane e che, quando lei è crollata a terra l’abbia ricoperta col suo corpo”.
“Ma come è possibile? Un uomo che uccide e che lascia cadere la sciarpa sotto il corpo della vittima?”.
“Non dobbiamo dimenticare che la morte risale alle 17,30 circa del pomeriggio e che nel canneto fa buio prima. Inoltre la ragazza aveva un cappotto piuttosto lungo che nella caduta si è allargato. Quindi l’uomo non si è accorto della sciarpa”.
“Ma perché pensa che la sciarpa fosse dell’assassino?”.
“Semplice è una sciarpa da uomo, e la giovane aveva già la sua legata, forse per non perderla, al manico della borsetta. Inoltre le impronte rilevate sulla stessa, non sono quelle della ragazza. Comunque dobbiamo attendere i risultati delle analisi della saliva e delle numerose impronte lasciate dall’uomo che non si è curato di cancellare niente; proprio come fosse sicuro della sua immunità!”
“E invece si sbaglia! Lo troveremo!” proruppe con rabbia il maresciallo Mannini.
Carlo Dantona era tornato a casa, ed aveva ripreso con solerzia l’importante lavoro di coordinatore d’affari della sua società. Dopo il clamore suscitato
dall’omicidio della giovane prostituta, tutto sembrava tornato nel silenzio. Lui da parte sua, quando pensava a lei provava un’emozione indicibile. La risentiva tremare sotto le sue mani nello spasimo della morte, risentiva le unghie di lei che cercavano il suo viso, fino a riuscire a graffiarlo. Ora non si notava più niente e quasi gli dispiaceva. Aveva acquistato un’altra sciarpa gialla, e l’aveva messa nel cassetto con ancora il cartellino attaccato come se non l’avesse mai messa. Ogni tanto la guardava e si rivedeva con quella sciarpa nel momento del crimine. Con le altre ragazze non era stato così. Quasi non si ricordava nemmeno di loro; non erano così belle e così sensuali. Ma lei… lei… no, non l’avrebbe dimenticata.
Stava ascoltando il telegiornale. Quella sera doveva presiedere, in qualità di maggiore benefattore di un’associazione internazionale, che si occupava del recupero di giovani prostitute provenienti dall’Est, una riunione piuttosto impegnativa presenti autorità laiche e religiose. Per l’occasione aveva preparato un caloroso discorso, tanto più commovente perché dettato dal ricordo della giovane uccisa pochi giorni prima. Aveva quasi le lacrime agli occhi e si sentiva tremare.
“Non ti senti bene?” chiese la moglie, osservandolo preoccupata.
“Ma no” rispose lui “mi commuovo pensando a quante giovani vengano forzate da dei criminali a battere il marciapiede, senza che nessuno possa far niente per loro”.
“Non è vero” rispose lei. “Ci sono persone che fanno di tutto per salvarle. Tu, ad esempio, che dedichi a loro tanto del tuo tempo, e che provvedi ad aiutarle, anche finanziariamente, a redimersi”.
“Una sciarpa gialla!” disse in quel momento la voce del giornalista. “Ormai è certo che l’assassino della giovane prostituta di 18 anni uccisa in questi giorni,
portasse al collo una sciarpa gialla. Gli inquirenti continuano le indagini e sono sicuri che l’omicida con questa imperdonabile dimenticanza abbia lasciato la sua firma anche sugli altri delitti che, tranne che per la sciarpa, hanno tutti le stesse modalità”.
“Hai sentito?” fece la moglie. “L’assassino aveva una sciarpa gialla. Proprio come quella che ti ho regalato io”.
“E allora? Cosa vuoi dire? Che sono stato io?” rispose lui nascondendo un tremito. Ora sì che la realtà diventava interessante. Mio Dio com’era felice. Questa sensazione di paura lo portava alle stelle.
“Ma cosa dici! Sei diventato matto? Ho solo detto che la sciarpa gialla è come quella che ti ho regalato io. Una coincidenza come tante. Ci mancherebbe anche che dubitassi di te”.
Lui la guardava attentamente mentre parlava. La conosceva fin troppo bene purtroppo. Un matrimonio infelice. Ecco cos’era stato. Forse era venuto il momento di separarsi.
“Va bene cara” le disse dandole un buffetto sulla guancia. “Ora però dobbiamo andare a prepararci. Non dimenticare che devo presiedere alla riunione che stabilirà aiuti finanziari per quelle poverette”.
“Sostenuti integralmente da te!” disse lei.
Andarono a vestirsi. Quando uscirono dalla loro stanza erano elegantissimi. Lui su un abito scuro di ottima fattura indossava una sfolgorante sciarpa gialla.
Dopo il discorso seguito da un caloroso battimani iniziarono le danze. Tutto intorno al salone c’erano dei banchetti con ragazze in costume, per la raccolta di fondi. Carlo Dantona camminava fra la gente, stringendo le mani e ringraziando per le lodi ricevute. Ma ad un tratto si fermò. Aveva visto un gruppo di carabinieri fermi vicino ad una delle porte principali del salone. Si diresse verso di loro.
“I carabinieri alla nostra manifestazione. Quale onore!”. Il capitano Morelli sorrise.
“Ho sentito parlare di questo encomiabile progetto e dal momento che sono interessato anch’io a risolvere i problemi delle giovani ragazze che vengono avviate, spesso dai loro connazionali sulla strada, sono venuto, con il collega, per parlare con lei. Sempre che ne abbia il tempo”.
“Per un ufficiale dei carabinieri che vuole contribuire a salvare delle giovani sfortunate il tempo si trova sempre. Inoltre conosco personalmente il capitano Donati. Venite nel mio ufficio, potremo parlare meglio”.
Si avviarono seguiti dal maresciallo Mannini.
“Noto con piacere che lei indossa una sciarpa gialla. È molto bella”, disse il Capitano Donati, comandandante della nostra Compagnia.
Carlo Dantona lo guardò sorridendo. “So cosa intende. Ho sentito il telegiornale. L’assassino di quella prostituta aveva una sciarpa gialla. È un caso davvero sorprendente. Io infatti non volevo nemmeno metterla questa sera. Ma mia moglie ci teneva tanto… Capirà, me l’ha regalata lei. Io non so se è sposato capitano, ma quando le donne si mettono in testa una cosa… Spero comunque che non ci siano equivoci. Io le prostitute le aiuto, non le uccido”.
“Scherza? Non c’era nessuna allusione” proferì il capitano a voce bassa, “comunque la ringrazio per le sue precisazioni. Perché vede, dopo il ritrovamento della sciarpa sono cominciate le indagini presso le ditte italiane che esponevano il marchio di quel manufatto. È stato fatto un lavoro arduo con un impegno enorme di uomini ma alla fine abbiamo avuto dei risultati. Essendo un colore piuttosto insolito se ne sono vendute pochissime di queste, solo due qui a Milano”.
“Solo due?” esplose l’uomo. “Ma è impossibile. E lei avrebbe anche il nome del negozio?”.
Cominciava a tremare: ora non era più soltanto emozione, era paura!
“Cos’è presidente, non si sente bene?”.
“Sa come succede. Tutto questo lavoro! Viaggi, pensieri… Ma ora comincio a essere stanco e forse ho bisogno di riposo. Anche mia moglie è preoccupata”.
“Bene, signor Dantona. Se sapevamo non l’avremmo importunata. Ce ne andiamo. Ci scusiamo per il disturbo che le abbiamo arrecato. Ma se permette domani vorremmo parlare anche con la sua signora. Mi dica lei quale orario le
aggrada”.
“Con mia moglie? Per quale motivo? Non dubiterete di lei, spero”.
“Ma no… Cosa va pensando? Ci potrebbero essere d’aiuto alcune informazioni circa il lavoro che state svolgendo per il recupero di quelle giovani. Per risalire a chi le porta in Italia e le fa prostituire e…”.
Lui pensò celermente.
“Va bene capitano, mi scusi. In verità domani volevo andare a caccia. Ma verso sera, circa alle sei, sarò tornato. Dirò a Magda di farsi trovare a casa per quell’ora. Lei è sempre così impegnata!”. Sorrise, porgendo la mano in segno di commiato. Quando uscirono, si lasciò cadere su una poltrona asciugandosi con una mano il sudore che ora gli scorreva copioso sulla fronte. “Maledizione. Proprio questi imbecilli mi dovevano capitare. Sanno tutto. Sono sicuro che sanno tutto”. Rimase seduto anche quando sentì ripetutamente bussare alla porta.
“Che vuoi Magda?” disse sgarbato alla moglie che era entrata in compagnia di una signora alta ed elegante. “Non vedi che mi sto riposando? Un attimo solo e torno in sala”.
“Va bene caro, ti avevo visto entrare qui con quei carabinieri. Ma cosa volevano?”.
“Niente. Hanno sentito parlare della nostra organizzazione e sono interessati al
progetto di recupero delle ragazze”.
Si fermò di scatto, notando la signora che era con Magda e che prima, tutto preso dai suoi pensieri, non aveva visto. Si alzò in piedi con galanteria e si avvicinò alle due donne.
“Caro ti ricordi la signora Sullivan? La proprietaria di quel bel negozio sul Naviglio dove noi abbiamo acquistato la tua sciarpa gialla?”.
Se gli avessero dato un pugno, avrebbe incassato meglio il colpo. Che diavolo ci faceva lì quella donna?
“È venuta a chiedermi di poter parlare con te. È anche lei interessata ai nostri progetti e vuole entrare a far parte della nostra associazione. Come consociata intendo”.
Lui guardava le due donne come se vedesse due spettri. Doveva scacciare quella visione, doveva rimanere solo con i suoi ricordi con il suo giovane amore.
Fece un cenno d’assenso e assicurò che ne avrebbero parlato un altro giorno.
“Veramente signore preferirei parlarne ora. Tanto bastano due minuti”.
“Accontentala caro. Penserò io agli ospiti. Anzi già che ci sono vorrei dirti che abbiamo la stessa ione per la montagna e che domani vorremmo andare
insieme a sciare. Naturalmente potresti venire anche tu, ma so che preferisci andare a caccia”.
“Sì” rispose lui ormai stanco di tutta quella tiritera “vai pure dai nostri ospiti. La signora Sullivan ti seguirà fra poco”.
Quando la moglie uscì lui si versò un bicchiere di gin “Mi dica subito cosa vuole”, le disse.
“Non è poi galante come sembra. Questa mattina sono venuti nel mio negozio i carabinieri. Io non ho detto niente, nemmeno a sua moglie, ma ho pensato che è piuttosto strano che una persona compri due volte una sciarpa così inusuale, specie se una simile sciarpa è stata ritrovata accanto al cadavere di una giovanissima prostituta”.
Gli tremavano le mani. Chissà che sensazione avrebbe provato se le avesse usate per circondare il collo di quella stupida. Di ribrezzo, certo.
“E allora?” disse, senza guardarla, ingollando il suo gin.
“Il mio negozio ha bisogno di essere migliorato. Devo ingrandirlo, fare nuovi acquisti, renderlo più elegante”.
“Ho capito. E quanto dovrebbe costare tutto questo?”.
“O non molto! Circa 200000 euro”. Lui sobbalzò.
“Per cominciare naturalmente. Quando si iniziano questi lavori, non si sa mai dove si va a finire”.
Si versò, un altro bicchiere di gin.
“Domani vada pure a sciare con Magda, ma non le dica niente mi raccomando. Noi ci vediamo lunedì alle 16,30 nel mio ufficio”.
“Attento a quello che fa. Non amo chi mi vuole raggirare. E tanto per cominciare porti 50000 euro”.
Uscì seguita dal tonfo del bicchiere che lui le aveva scagliato dietro.
La festa era ormai al termine. Con la scusa di non sentirsi bene invitò Magda ad andare a casa. In macchina non parlava. Pensava alacremente a quello che doveva fare. Magda preoccupata non voleva più andare in montagna.
“Suvvia, non sono moribondo. Voglio solo riposarmi . E tu sai che se rimani io non ci riesco. C’è la servitù per qualunque cosa e se avrò bisogno ti telefonerò. Anzi per stare più tranquillo desidero che tu prenda la mia macchina; è più potente e più sicura”.
A casa riuscì finalmente a mandare la donna a dormire. Attese un po’ sulla
poltrona del salotto. Stava al buio per poter pensare meglio. Quando non sentì più nessun rumore scese nell’autorimessa. La sua macchina era proprio davanti alla porta del garage. La guardò a lungo. Era un peccato sacrificarla, ma era necessario. Rovistò un po’ nel motore e allentò la leva del freno. Per molti chilometri avrebbe tenuto, tanto da permettere a Magda di raggiungere i campi da sci. L’incidente sarebbe avvenuto la sera: Magda guidava forte. Gliel’aveva detto tante volte, anche davanti a testimoni, di andare più piano, specie in discesa sulle strade alpine spesso ghiacciate. Ma lei era fatta così. Pazienza, tanto prima o poi la morte viene per tutti. Anche per quell’insulsa della signora Sullivan.
Era quasi l’alba quando andò a dormire ed era ancora sveglio quando Magda entrò nella sua camera per salutarlo.
Finalmente si addormentò. Fu risvegliato dal maggiordomo.
“Signore, ci sono i carabinieri, vogliono parlare con lei!”.
“Ma che ore sono?” disse vedendo che il sole filtrava tra le persiane.
“Le dieci signore”.
Per poco non imprecò. Si mise la vestaglia. Qualcosa doveva essere andato storto. Era troppo presto. Quale errore aveva commesso? Stava uscendo quando entrò sua moglie. Attraverso la porta aperta poteva vedere i carabinieri e il giudice Guarnieri, suo ottimo amico.
La donna piangeva.
“Perché Carlo? Io ti amavo. Perché volevi uccidermi?”.
“Sei sempre stata così noiosa!” rispose lui con un cenno della mano.
“Ho chiamato io i carabinieri” disse lei con un filo di voce. “Questa notte ti avevo visto mentre armeggiavi intorno al freno!”.
Finalmente era finita. Ora avrebbe avuto tutto il tempo per poter pensare al suo giovane amore e provare quell’emozione senza fine che solo lei aveva saputo dargli.
IL PRIMO DONO di sca Panzacchi
Due bicchieri rotti, un vaso rovesciato, molto sangue, una sciarpa gialla e nessuna impronta. Ecco gli indizi a mia disposizione sulla scena dell’omicidio.
L’arma del delitto è un oggetto affilato di lunghezza non inferiore ai dieci centimetri. Un solo colpo mortale al cuore: chi ha ucciso aveva le idee molto chiare. La vittima deve essere rimasta come paralizzata perché non ha tentato di fuggire.
Quasi sempre la vittima conosce bene il proprio carnefice.
Il vaso e i bicchieri sono stati colpiti dal corpo che cadeva all’indietro ormai inerme e agonizzante.
La sciarpa gialla è di un noto stilista che firma solo capi femminili… dunque la sciarpa non appartiene alla vittima. La domanda è: perché un assassino (o un’assassina) così meticoloso da cancellare tutte le impronte, lascia un indizio così vistoso? Non può essere un errore o una dimenticanza. Sono certo che si tratti di una sorta di messaggio.
La vittima è un commercialista di trentasei anni, apparentemente senza nemici, ucciso nel suo studio. Credo che questo non sarà un caso semplice. Appoggio la testa fra le mani e chiudo gli occhi. Tra poco dovrò interrogare la moglie della vittima e non è mai una cosa piacevole. Suona il telefono, mi avvisano che è già arrivata. Un attimo dopo varca la soglia del mio ufficio. È composta, controllata, mi guarda fisso negli occhi. È una donna minuta, poco appariscente. Ha gli occhi
di chi ha pianto molto. Dopo le solite frasi di circostanza inizio a porle le mie consuete domande.
“In che rapporti era con suo marito?” le chiedo con voce ferma.
“Civili, quasi cordiali. Eravamo ancora sposati ma conducevamo da tempo vite separate”.
“Capisco” le dico di rimando senza emozione.
“Ha idea di chi possa averlo ucciso?”.
Lei non risponde, si stringe nelle spalle e abbassa lo sguardo.
“Dove si trovava tra le 19.30 e le 21 di lunedì scorso?”.
“Mi auguro che questa sia una domanda di routine…” obbietta lei visibilmente contrariata.
“Signora la prego di limitarsi a rispondere”.
“Ero in casa a guardare un film”.
“Da sola?”.
“Sì, da sola. Da molti mesi trascorro così le mie serate”.
Federico Zarri era un uomo ricco, ben affermato professionalmente. Non aveva figli, né vizi particolari. Molte conoscenze, pochi amici e una moglie con la quale non viveva più. Nessun debito, nessuna vita segreta, almeno in apparenza. I miei sospetti si concentravano tutti sulla moglie abbandonata. Interrogando ripetutamente i colleghi e gli amici della vittima non era emerso nulla di inquietante, tuttavia sentivo che c’era qualcosa che mi sfuggiva.
Chi viene assassinato custodisce sempre un segreto, che io devo svelare.
La svolta arriva un giovedì mattina. L’analisi dei files cancellati dal computer della vittima evidenziano una fitta corrispondenza con una donna che sembra sbucare fuori dal nulla.
Non è stato difficile risalire all’identità di questa potenziale indiziata.
Non posso fare a meno di notare che abita a Ferrara, come me. Non che questo abbia importanza, s’intende. L’ho convocata in commissariato oggi stesso, alle quindici. Ho davvero molte cose da chiederle.
Ore quindici e dieci, non è ancora arrivata. Esco sul terrazzo a fumare. Bologna è avvolta da una nebbiolina leggera. Mi piace vederla così, mi rassicura.
Una voce di donna mi riporta alla realtà…
“Sono Ludovica Pallavicini… sono stata convocata in merito a…”
La interrompo “sì, sì, certo, si accomodi pure”.
Mi siedo di fronte a lei e la osservo. Non posso fare a meno di notare che è bellissima.
Deve avere una trentina d’anni, forse meno. Indossa vestiti eleganti, ma un pò troppo ricercati per un commissariato.
Troppo bella per non sembrare colpevole.
Scaccio questi pensieri dalla mente e comincio ad interrogarla.
“Chi era il Dott. Zarri per lei? Un amico? Un amante? Un semplice conoscente?”.
Lei si appoggia allo schienale e si scosta una ciocca di capelli dal viso.
“Lo conoscevo appena. L’ho incontrato per la prima volta ad una mostra d’arte. Mi chiese di rimanere in contatto e così gli lasciai il mio indirizzo di posta elettronica… ma non lo rividi più dopo la mostra, mai più”.
I suoi occhi scuri mi sfidavano con l’arroganza di chi è consapevole della propria bellezza.
“Perché secondo lei ha cancellato tutta la vostra corrispondenza? Nel computer di Zarri c’erano persino messaggi pubblicitari non eliminati mentre ogni singola e-mail ricevuta da lei è stata accuratamente cancellata…”.
“Che cosa vuole insinuare?”.
“Nulla, faccio soltanto il mio lavoro signorina”.
Sono ate quasi due ore dalla conversazione in commissariato, ma ancora fatico a distogliere il pensiero da quella giovane donna. Troppo bella per essere innocente continuo a ripetermi.
Di colpo me la ritrovo davanti.
“Commissario… c’è un maledetto sciopero dei treni…” mi confessa con disappunto.
Rimango un attimo in silenzio quasi interdetto da quella inaspettata visione.
“Se può aspettare mezz’ora la accompagno a casa, anch’io abito a Ferrara”.
“Gliene sarei davvero grata” mi risponde sfoderando un sorriso compiaciuto.
“Ne approfitterò per farle qualche ulteriore domanda” aggiungo sforzandomi di rimanere quanto più professionale possibile.
Quando esco dall’ufficio lei è lì che mi aspetta in anticamera con un libro aperto a metà e le lunghe gambe elegantemente accavallate.
Prendo l’impermeabile e l’ombrello ed usciamo l’uno a fianco all’altra. Le apro lo sportello dell’auto quasi fosse un appuntamento galante. È come se la sua bellezza mi costringesse a riservarle questo tipo di attenzioni.
Guido con prudenza perché la pioggia scende copiosa ed allaga l’asfalto.
“Amo la pioggia… è come se lavasse via tutto il male del mondo…” dice lei all’improvviso quasi sussurrando.
“Mentre si guida però non è il massimo…” replico io, pragmatico.
“Mi racconti di lei commissario…”.
“Cosa vuole sapere?”.
“Mi racconti un segreto… Una cosa di lei che non sa nessuno, una cosa che sia solo mia…”.
“Non ho segreti purtroppo” le rispondo con finta indifferenza.
“Tutti abbiamo qualche segreto”.
“Dunque lei ne ha?”.
“Certo commissario, ma a lei non posso svelarli…”.
Sorride maliziosa, mentre accende lo stereo.
Quando arriviamo sotto al suo portone mi chiede di salire per un aperitivo. So che non dovrei accettare, ma la tentazione è troppo forte. Mentre saliamo le scale sono già pentito di aver acconsentito. Butto l’impermeabile sul divano e rimango in piedi a studiare la stanza. Credo sia una deformazione professionale. Tutti quadri d’autore, arredi pregiati. La scrivania colpisce la mia attenzione in particolar modo. Gli oggetti posti sopra di essa sono in perfetto ordine. Fogli bianchi, varie riviste di moda, un portapenne, alcune buste e un tagliacarte d’argento. Il tagliacarte è prezioso, con l’impugnatura intarsiata. È lucentissimo, come se fosse stato appena lucidato. Non posso fare a meno di notare che sia molto appuntito. Sarà lungo almeno dodici centimetri.
Lei intanto mi porge un bicchiere e poi si siede sul divano di velluto blu.
Sorseggia il suo Martini e rimane in silenzio a fissarmi.
“Ha davvero una bella casa…” le dico con sincerità.
“Vuole fare un giro? Gliela mostro con piacere…”.
Acconsento volentieri. Mi mostra ogni stanza con fare compiaciuto. È una casa grande, ariosa, con i mobili dal design ultra moderno. Tutto è ordinato in maniera quasi ossessiva. La camera da letto ha le pareti azzurre, con i mobili in legno laccato. Sul comò molte fotografie incorniciate. L’armadio è enorme, con le ante trasparenti. Posso scorgere al suo interno gli indumenti perfettamente ripiegati. Nulla è messo a caso. I cappelli sono posizionati con attenzione l’uno a fianco all’altro. Il mio sguardo scivola prima sui guanti, disposti a seconda del colore, poi sulle sciarpe, anch’esse ordinate in base alla tonalità: la prima sciarpa è bianca, la seconda grigia, la terza nera e così via: rossa, arancione… blu, azzurra, celeste, viola, rosa… Sento un brivido. Qualcosa non va. Rossa, arancione… poi… riguardo con più attenzione. Nessuna sciarpa gialla. Devo stare calmo, questo non prova niente.
Mi volto di scatto. Lei è a pochi i da me. Nella mano sinistra ha una lettera, nell’altra il tagliacarte.
“Sa commissario… si pensa spesso che la bellezza ci preservi dalla sofferenza, ma non è così. Io, ad esempio, ho conosciuto quest’uomo infelice e l’ho fatto
sentire straordinario, mi sono innamorata di lui, perdutamente. Credevo che anche lui mi amasse, ma un giorno mi diede questa lettera. Disse che l’aveva scritta a mano perché mandarmi un e-mail sarebbe stato un brutto modo di chiudere. Dodici righe per dirmi che sarebbe tornato con sua moglie. Dodici righe che cancellano tutto…”.
“Perché non è riuscita ad accettarlo?” le chiedo con voce ferma.
“Perché con la bellezza ho sempre ottenuto tutto, con questa sola eccezione”.
“Mi dia il tagliacarte, subito” le intimo, ma lei continua:
“La moglie di Federico è una persona così mediocre… lui poteva avere me ma ha scelto lei! Questo proprio non ho potuto accettarlo. Lei non lo sa nemmeno che lui sarebbe tornato a casa… Gliel’avrebbe detto quella sera stessa, se io non l’avessi ucciso”.
I suoi occhi trattengono a malapena le lacrime.
“Perché ha lasciato la sciarpa sul luogo del delitto?” le chiedo indietreggiando di qualche o.
“È stato il suo primo dono. Con quella sciarpa gialla tutto ha avuto inizio ed è con essa che il cerchio si è chiuso, per sempre”.
Ora le lacrime le inondano il viso…
“Lei mi trova bella commissario?” mi sussurra mentre si avvicina lentamente.
“Lasci cadere a terra il tagliacarte!” le intimo di nuovo.
“Mi dica che lei non avrebbe mai rinunciato a me! Me lo dica!” mi grida mentre mi si scaglia contro con violenza inaudita. Riesco a bloccarle il polso proprio un attimo prima che il tagliacarte mi trafigga il cuore.
Guardo questa donna bellissima ben sapendo che dovrò rinunciare a lei.
La sciarpa gialla era la chiave di un mistero che non avrei mai voluto svelare.
UN AMICO NON È PER SEMPRE di Andrea Paolucci
Stavo tornando da un solitario week-end al mare quando mi squillò il cellulare, non ero uno di quelli che in auto rispondono come sul divano di casa e non ero neanche provvisto di auricolare, perciò accostai, senza però una freccia. Gli accidenti dell’auto dopo di me filarono via insieme alla sua velocità troppo elevata. Il ritorno da un week-end al mare, evidentemente, è il presagio della settimana che verrà. Il telefono continuava a chiedere attenzione tramite la mia suoneria gradevole e poco pedante: il Tuca-Tuca della Carrà. Il nome che lessi sul display, già puzzava di rogna però: Scabbia, l’amico che tutti vorrebbero non avere. Scorsi un attimo il panorama circostante, così, tanto per ricordarmi com’era prima dell’avvento di chissà quale catastrofe improvvisa e fulminante. Non era poi tanto interessante: una distesa di fabbriche e edifici abbandonati, adornata di tanto in tanto da qualche pino secolare. Alzai gli occhi al cielo sperando che il Tuca-Tuca smettesse di ballare ma incessante Scabbia lo faceva suonare e disprezzare. Il cielo era plumbeo e crepuscolare, poco rassicurante e in attesa di precipitare su di me. Come Scabbia, appunto.
“Faro, cazzo, hai deciso che devo scontare qualche fottuto screzio!” urlò Scabbia gorgogliando sul finale come una tromba marina.
Mi scappò una risatina nervosa mentre in automatico gli occhi notarono sul vetro le prime gocce di pioggia.
“Non trovavo il telefono, tutto qua” risposi con calma assennata respingendo l’attacco con maestria.
“Bravo, sei una merda” commentò Scabbia con affetto, “il tuo migliore amico sta nei casini e tu giochi a nascondino col telefono” terminò poi offeso.
Il fiato mi si bloccò in gola non per il guaio annunciato, ma per la premura di Scabbia verso la nostra amicizia. Cosa c’era d’aggiungere a quella dichiarazione falsa, gratuita e inaspettata?
Niente.
“Pronto… Faro… ci stai ancora, cazzo!” chiese Scabbia per sincerarsi che non fossi scappato in un posto sperduto e impervio.
“Ci sono… tranquillo” risposi dopo qualche tragico secondo introspettivo.
“Vuoi sapere o no, cosa cazzo è capitato al tuo fedele amico?” replicò Scabbia sempre più indispettito.
Io volevo chiedergli perché la parola ‘cazzo’ era sempre nella sua bocca o perché accostare la fedeltà a noi due, ma il disgusto cancellò ogni quesito lasciando spazio alla convinzione che l’eccessiva colorazione degli aggettivi derivasse da un accaduto verosimilmente rilevante. Guardai ancora il vetro in automatico, era pieno di gocce e la pioggia era diventata inesorabilmente battente.
“Insomma… cosa ti è successo?” chiesi rabbrividendo per l’ipocrisia della mia curiosità. Infatti, non solo non volevo saperlo e non volevo stare al telefono con lui, ma avrei voluto trovarmi ancora sdraiato sul lettino in spiaggia, coccolato dal
vento, rilassato dalla risacca marittima, confortato dall’orizzonte e rinfrescato da un Margarita, alcolico al punto giusto e con la cannuccia lunghissima.
“Ieri la solita festa del cazzo… con quattro sfigati del cazzo… due tipe mi fanno capire di venire dopo da me… io gli dico di sì ma si presentano le due tipe più i quattro sfigati del cazzo” si confida Scabbia partendo in quarta, “qualcosa va storto e li caccio a calci nel culo… poi mi accorgo che uno sfigato ha scordato una sciarpa gialla… penso che sia brutta mentre la guardo… ma invece di riderci sopra, ci scopro del sangue, fresco e tanto” aggiunge mentre rifletto che fino a qua potrebbe ancora trattarsi di normale amministrazione.
“Poi me ne vado a dormire stordito dallo sballo, dopo mi chiama una delle due tipe, mi fa che uno dei quattro sfigati è sparito e se ne so qualcosa”, finisce il racconto con un atteggiamento pauroso mai riscontrato prima d’allora. Cazzo, meditai con sarcastica ammirazione, il bastardo allora aveva anche dei sentimenti oltre a mille dipendenze e frustrazioni. Un domani rivelerà al mondo addirittura un’anima?
Il surreale si stava intrecciando con la fantascienza.
“Insomma io che c’entro?” chiesi con prontezza per intuire come salvaguardare il mio fondoschiena.
“Tu che c’entri?!” rispose Scabbia gridando più del dovuto.
“Eh” insistetti annuendo con la mia linea difensiva: il cinismo.
“Vuoi venire qua a darmi un cazzo di consiglio oppure devo uscire io dal telefono!” gridò ancora sfogando probabilmente la paranoia che lo attanagliava da ore: assassinio.
Ero incastrato.
Agganciai senza aggiungere altro, la risposta per me era chiara e sottintesa nel proverbio chi tace, acconsente. Scabbia non comprese il gesto però, e richiamò subito. Aspettai qualche squillo, non troppi perché più Raffaella cantava il TucaTuca e più la reazione di Scabbia sarebbe stata violenta.
Risposi.
“Adesso sparami la cazzata che è caduta la linea!” gridò Scabbia con il tono di un’amante tradita, mi provocò un conato e abbassai il vetro.
“Vuoi lasciare tuo fratello nei guai” sospirò poi addolorato.
Il mio sgomento esplose come una bomba organica e vomitai dal finestrino appena aperto. Ero diventato parente di Scabbia senza potermi difendere o giustificare, con l’unica colpa di averlo lasciato da solo in città per un week-end. Ero fregato: se rispondevo di sì, il maledetto mi avrebbe perseguitato per il resto dei miei giorni; viceversa, se rispondevo di no, avrei assecondato i diabolici piani consanguinei di un folle. Scelsi il male minore perché ancora avevo qualcosa da chiedere alla vita.
“Datti una tregua… sono in arrivo… era quello il messaggio dell’aggancio”, esalai come sul patibolo.
“Aggancio… non c’è niente d’afferrare… Faro… il mare ti ha fatto la bolla al cervello?” domandò Scabbia preoccupato e a me suggerì la scena di un primate che si chiede perché una banana è storta.
“Niente bolla o aggancio, solo una corsa diretta a casa tua” mi giustificai senza motivo con la stanchezza mentale di un esaurito.
“Beh… sbrigati” mi ordinò Scabbia con ritrovata serenità.
Percorsi il tragitto maledicendo quel giorno in cui una fatalità carogna aveva incrociato i nostri destini a una festa, rinnegando quell’attimo in cui avevo allungato la mano con educazione e, per colpa di un’affettuosità chimica, gli avevo irreparabilmente concesso il mio numero di telefono, ignaro che il giorno dopo avrebbe scelto come prima azione quotidiana, quella di svegliarmi. Troppo poche le difese per uno che non dormiva da ventiquattro ore rispetto all’attacco di uno scriteriato invadente con l’idea chiarissima di stringere un’amicizia solida e duratura. Quel giorno fraudolento di tre anni prima, cosa potevo mai aver combinato al destino per vendicarsi così brutalmente? Sotto casa del fratello, mai voluto, non avevo ancora trovato una risposta e nelle manovre del parcheggio provai una disarmante disperazione. In quell’attimo, insieme alle gocce sull’asfalto, caddero lacrime sulle mie guance. Sì, mi lasciai andare in un intimo pianto liberatorio. Adesso nulla mi separava più dall’incombenza dell’assurdo e i miei due giorni di riposo dopo tre anni di stress erano stati miseramente spazzati via da Scabbia, la fonte stessa del mio esaurimento. Senza che io potessi contrastarlo, come un subdolo uragano psicologico. Suonai al citofono con i sintomi di una sospetta lobotomia parietale.
“Era ora cazzo” commentò irritato Scabbia, poi aprì il cancello e un suono veemente del citofono m’informò che aveva chiuso la comunicazione e che aspettava nervoso dietro la porta di casa.
Feci i pochi scalini che dividevano il piano terra dal primo, tana del pazzo, come un innocente, condannato però al plotone di esecuzione. L’eco del pianerottolo avvisò il fratello, rinnegato, della mia comparsa all’uscio. Spalancò la porta talmente veloce che il risucchio mi avvicinò a quel buco fetido che era il suo covo. Una puzza orrenda, probabilmente il misto di fumo stantio e birra caduta chissà dove e chissà quando, rendeva l’accoglienza, già vana di solito, irreparabilmente pessima.
“Posso offrirti qualcosa da bere?” biascicò Scabbia per metterci una toppa poi traballando indicò il tavolo dell’unica stanza, zeppo di bottiglie da finire.
“No, grazie, piuttosto quant’è che non ti fai una dormita di tipo otto ore?” chiesi disincantato immaginando già la risposta.
“Da quando sei partito” rispose Scabbia cantando come L’anno che verrà, la canzone di Lucio Dalla, ma qua non c’era nessuna novità, anzi no c’era, poteva essere morto qualcuno.
Lo scrutai con freddezza. Aveva gli occhi a palla, si muoveva al tempo di un ritmo che andava solo nella sua testa, i vestiti erano completamente sporchi e puzzava come un barattolo di acciughe al sole. Osservandolo con lucido sdegno, incappai nella sciarpa gialla che giaceva abbandonata e misteriosa sul lavabo dell’angolo cottura. La raccolsi mentre Scabbia mi osservava con uno sguardo che cambiava all’improvviso tra spiritato e senza emozioni. Era di lino, leggera e come quelle che adagiate al collo andavano di moda quell’estate. Mi sporcai le mani, la maglietta e i pantaloni di sangue ma non mi pulii subito perché prima
andava lavato qualcun altro.
Abbandonai ancora lo scialle sul lavandino.
“Il massimo impegno con il minor sforzo” pensai prima di agire.
“Scabbia, ti serve immediatamente una doccia” proclamai convinto e di peso tirai la bestia verso il cesso contro la sua volontà. Emise solo qualche mugugno. L’animale era di stazza grande e servì una certa determinazione per trascinarlo in un metro quadrato di bagno. Com’è prassi in questi casi, lo buttai vestito sotto la doccia e aprii l’acqua con la manopola orientata verso il gelo. L’animale emise un rantolo demoniaco e gli arti scattarono come in un elettroshock, compreso un braccio che finì fatale sulla mia tempia. Un dolore incommensurabile, nulla però al confronto del risentimento che provai in quel momento che neanche un’ora prima avevo prospettato come un abbandono felice e duraturo sul letto della mia rassicurante dimora, criticando programmi scemi in tv, sgranocchiando qualche snack sfizioso e assaporando birra gelata e dolcemente inebriante.
“Ah!” urlò la parte sobria di Scabbia riportandomi tragicamente alla realtà dei fatti.
“Che è successo qua dentro!” chiesi come lo farebbe un prete a un indemoniato.
“Il solito casino!” gridò Scabbia cercando di divincolarsi dalla doccia gelata, ma io, afferrato lo spazzolone del cesso, lo bloccavo con il collo al muro.
“Non credo… lo conosco il solito casino… non ci scappa il sangue o peggio il morto” replicai alla dichiarazione del mezzo testimone.
“Il morto… oddio!” gridò ancora Scabbia ma la voce presagiva l’imminente depressione che stava per colpirlo, “ero con quelle brave ragazze e quei ragazzi così… gentili”, raccontò con una vocetta inquietante che mi fece riflettere che forse serviva proprio un’esorcista.
“Cosa vi eravate presi?!” domandai con teatrale insofferenza, tirando dritto per la risoluzione.
“Eh… di tutto, ma con rispetto” rispose Scabbia con mestiere e significava che ogni sostanza stupefacente ata vicino a mani e bocca era stata innaffiata d’alcol e dirottata verso una gola educata e competente.
“Bravo” lo gratificai come si fa a un cane diligente, senza biscottino però, “al telefono hai detto che qualcosa è andato storto e poi che li hai cacciati via!” urlai più forte avvicinandomi minaccioso.
“Sì” cinguettò Scabbia assumendo l’espressione di una bambina addolorata, “hanno cercato di convincermi a indossare quella brutta sciarpa ed io…” sospese il discorso con aria afflitta.
“E tu?” chiesi incalzandolo perché l’attesa poteva essere deleteria per i neuroni reduci dell’imputato.
“Ed io gli ho risposto che non seguo le mode del momento… ma i ragazzi insistevano” confessò Scabbia con un tono satanico sul finale.
“Cos’è successo dopo?” domandai togliendo la presa e tirandoci fuori dal cesso perché l’acqua scorreva da troppo tempo e stavamo congelando.
“Quello” aggiunse tranquillamente Scabbia indicando la sua branda.
L’orrore colorò di panico l’ambiente e corsi a vomitare nel water. Sotto il letto s’intravedeva la fine di una gamba con la pianta del piede rivolta verso l’alto. C’era qualcuno sdraiato ed era come minimo stordito per bene. Uscii dal cesso e una sensazione di morte s’impadronì delle mie emozioni. Restai impietrito per qualche secondo, poi mi avvicinai al corpo in silenzio mentre fuori la città continuava il suo lento viaggio verso la notte, senza di me, perché ormai ero invischiato del tutto. Una domanda mi balenò lucida tra gli spasmi di follia.
“Perché cazzo hai chiamato me e non una fottuta ambulanza?”.
“Perché è morto” rispose Scabbia come se gli avessi chiesto se l’acqua del mare è salata.
L’atmosfera divenne pesante come il piombo e l’aria ancor più irrespirabile. Quella puzza nauseante allora proveniva dalla disgraziata carcassa e non dal quieto vivere di uno squilibrato. Un trillo improvviso del citofono squarciò l’aria lasciando una scia nefasta dopo il taglio. L’inquietudine mi mandò in fibrillazione. Per fortuna seguirono le parole di Scabbia a confortarmi.
“Tu non vuoi che il tuo compagno di vita vada in galera, vero?” mi chiese con decisione mentre apriva il cancello.
“Sai che è molto sensibile e potrebbe farsi del male là dentro, vero?” terminò poi guardandomi negli occhi con una determinazione tale che mi fece fiutare una pericolosa schizofrenia.
Non pensai subito a un’irreale risposta ma piuttosto a come mi aveva chiamato: compagno di vita. Quale senso aveva quella lugubre direzione del nostro rapporto? E poi, di quale rapporto stavamo parlando? Bussarono alla porta. Il vigliacco mi sistemò con premurosa accortezza la sciarpa intorno al collo e si precipitò ad aprire. L’agghiacciante realtà dei fatti si scaraventò su di me insieme alle parole che seguirono dopo l’avvento dei due ospiti in divisa: le guardie.
“Agenti, eccolo, ma adesso è buono e mansueto, il mio caro amico ha imparato la lezione e non lo farà più, vero?” recitò Scabbia con falsa innocenza, prima rivolto ai poliziotti e poi a me.
“Lei sta bene?” chiese uno degli agenti con apprensione a Scabbia.
“Sì, ora che ci siete voi” rispose Scabbia imitando una vecchia signora in difficoltà.
“Ti metto le manette, ma è solo una precauzione” mi disse l’altro agente con studiata accortezza.
Ero sporco di sangue, contuso e con la sciarpa al collo, a una prima occhiata, potevo sembrare la prova lampante della mia colpevolezza. Avevo ripulito il bastardo, non solo fisicamente, ma anche dal punto di vista legale. Non opposi resistenza, ero talmente spaesato che non tentai neanche una giustificazione.
“Lei è zuppo dalla testa ai piedi, cos’è successo?” chiese ancora l’agente al vero assassino.
“Sono stato al gioco del birbante” rispose Scabbia regalandomi un disgustoso sorriso, “nell’attesa tra la mia chiamata e il vostro arrivo, dovevo tenerlo impegnato, giusto?” terminò poi imitando l’ingenuità di un sempliciotto.
“Giusto, è stato bravo e coraggioso” commentò l’agente mentre apriva la porta di casa.
“Grazie, adesso lo potrò dire a tutti: non è vero che tra la chiamata e il vostro arrivo a un sacco di tempo” aggiunse solenne quello sciacallo allisciandosi i poliziotti come una gatta in calore.
“È tempo di andare” mi disse l’agente custode scandendo le parole come a un incapace, “e lei non tocchi niente fino all’arrivo della Scientifica” ordinò poi allo psicopatico che annuì come un bravo bambino.
Sgranai gli occhi sul mentecatto e, spalle alla porta, iniziai a indietreggiare trascinato dalla guardia. Quel maledetto insano mi fissò per qualche istante poi tentò un ultimo futile conforto.
“Verrò a trovarti spesso… tutti i giorni... e cercherò un buon avvocato… vedrai che uscirai presto… fidati di me… del tuo unico vero amico!” recitò Scabbia dalla tromba delle scale mentre uscivamo dal palazzo.
Vomitai ancora.
Mi voleva rovinare la vita o me l’ero già rovinata da solo quel giorno marcio di tre anni prima, oppure, la permanenza in carcere mi avrebbe salvato dall’avvento improvviso e fulminante di chissà quale altra personalità malata di quel folle a piedi libero.
“Giudice, sono colpevole”.
MILÙ di Luigi Maurizio Paternò
Nel lettino bianco il volto pallido di Milù si perde tra le lenzuola e la federa, tra le pieghe di lana ruvida e la parete candida ornata d’un crocefisso ferreo. La flebo sgocciola lenta nel silenzio della piccola stanza.
Reparto cure intensive.
Fuori, immancabilmente, piove.
Mary, nata per essere Filomena ma diventata Mary per ferrea volontà della zia americana che l’ha tenuta a battesimo. Mary nata siciliana in un paesino che non conosce donne nei bar. Mary ispettrice aggiunta della Polizia di Stato. Mary donna e madre guarda Milù, la guarda e cerca un motivo per non piangere.
Gli occhi della ragazzina, gonfi di botte, chiusi alla luce, vagano nel buio del delirio. Sommessamente sussurra parole straniere, parole e pensieri rigati di lacrime.
Irina è serba, è bella, è colta e fa l’interprete. Parla tre lingue dell’est e il ceppo slavo è il suo cavallo di battaglia. Sommessamente Milù sussurra parole straniere e Mary aspetta: aspetta indizi, indizi concreti. Piccole, fragili dita artigliano il giallo spento d’una sciarpa di cachemire e la sciarpa, drappeggiata sulla coperta, accompagna il respiro spezzato di Milù, la ragazzina seviziata, la paziente numero sette del reparto cure intensive.
Irina è seduta accanto al letto, piegata sul volto di Milù e parla con calma, con cura terge le labbra pallide della ragazza. Minuti interminabili. Minuti che scorrono goccia a goccia nella flebo lungo il tubicino trasparente, nelle vene diafane della disperazione.
“ Non capisco...”.
Irina è stanca di provare dolore, stanca d’interrogare il dolore; ha occhi chiari offuscati di lacrime; Mary le posa una mano sulla spalla, istinto di donna, occhi negli occhi.
“Cosa dice?”.
“Non si capisce, potrebbe essere qualsiasi lingua, dal polacco al ceco al russo, poche parole, troppo poche”.
“Cosa dice?”.
Mary insiste, è il suo mestiere, è il suo dovere, è… è importante sapere, sapere per non soffocare.
“Poche parole, troppo poche… mamma, mamma e poi… oddanie… pietà”.
Fuori ha smesso di piovere ma Mary non s’è accorta dell’arcobaleno sbiadito, ha altro da fare, un’anima da tenere insieme coi denti, ad esempio.
“Ma Milù non è un nome slavo”.
Mary non parla mai del suo lavoro, ora però ha sentito il bisogno di raccontarlo a Giacomo, a letto, dopo aver lasciato Sofia, la sua piccola Sofia, addormentata e al sicuro nella sua cameretta allegra e colorata.
“Non aveva documenti, niente addosso a parte una felpa, scarpe da ginnastica e quella sciarpa gialla che non siamo riusciti a toglierle dalle mani”.
“Quindi?”.
“Quindi le infermiere le hanno dato un nome, giusto per non chiamarla ‘la numero sette’, il nome di una ragazzina dei cartoni animati, Milù”.
Giacomo non ha visto Milù, non capisce perché Mary ha spento la luce e s’è girata nel letto, cupa e silenziosa. Non sa che nel silenzio la moglie piange Milù, piange la piccola anima sospesa tra una vita senza nome e una morte senza senso.
Mary seduta al tavolo risicato d’un bar, sul suo volto gioca il primo sole di una primavera stentata. Percorre con le dita mille e mille volte il bordo della tazza; dentro, al fondo, resta ancora un po’ di tè verde, imbevibile, amaro.
La mattinata era iniziata malissimo. Giacomo era uscito presto per un lavoro che non si poteva rimandare, Sofia aveva la febbre e i suoceri stavano peggio. C’era
voluta della gran fortuna e più di qualche telefonata per trovare una baby-sitter. C’era voluta tutta la rabbia del giorno prima per sedare il senso di colpa nei confronti della figlia. C’era voluta ed era bastata una telefonata del suo capo per farle dimenticare, di colpo, tutto quanto e piombarla con violenza nella dannazione del suo mestiere.
Al commissariato poche parole. Armando è un uomo che ha conosciuto la fame del dopoguerra, uno che non gira intorno alle cose, che guarda in faccia la gente, che non piega la testa, eppure, eppure mentre le parlava, in quel momento, il suo sguardo seguiva pensieri disegnati sulla scrivania, in cerchi concentrici come bordi di tazza; mentre le parlava si sentiva nella sua voce una scheggia di dolore, un’ombra di stanchezza che trasmuta le cose e le colora di resa.
“Quando?”.
“Stanotte, verso le tre. Blocco renale, nessuno s’è accorto di niente, troppo rapido, improvviso, inaspettato”.
Mary ha voltato lo sguardo verso la finestra, i denti affondati nella labbra per trattenere la rabbia e il pianto. Professionale: ma che serve essere una professionista della giustizia se non si sente nel cuore, profonda e rovente, la lama dell’ingiustizia?
“Allora, cosa facciamo?”.
“Che vuoi fare? Qui finisce la corsa”.
Mary sapeva che era così; nessuno ha ucciso Milù, solo il caso. Il caso l’ha fatta nascere in un paese di poveri, il caso le ha regalato reni che non funzionavano, il caso ha voluto che fosse bastonata, violata, devastata nel corpo e nella mente, il caso ha voluto che morisse di notte, da sola, in ospedale, indossando un camice bianco e il nome d’un cartone animato.
“C’è sempre il reato di violenza su minore, forse omicidio colposo, forse rapimento…”.
“Deciderà il giudice, non sta a noi decidere...”.
Mary seduta al tavolo risicato d’un bar. A quest’ora nella sua terra, giù giù in fondo allo stivale, oltre Scilla e Cariddi c’è già caldo; in quella terra nessuno decideva mai, ecco perché, alla fine, hanno iniziato a decidere quelli con la lupara. In quella terra la gente diceva sempre non sta a noi decidere… e, alla fine, nessuno più ha potuto decidere nulla, nulla di niente.
Mary ha bisogno di pensare, ha bisogno di decidere, ha bisogno di capire e sapere. Seduta al tavolo risicato d’un bar ripercorre con le dita il bordo della tazza; dentro, al fondo, resta ancora un po’ di tè verde, imbevibile, amaro. Mary non vuole arrendersi e beve con rabbia, fino in fondo, il fondo della sua tazza.
Il giudice, alla fine, l’ha ascoltata. A dire il vero ha ascoltato Armando e il fascicolo è rimasto aperto ma solo al prezzo d’una promessa: lavorare con discrezione e senza agitare le acque.
Lavorare con discrezione. Senza agitare le acque.
Tre giorni dopo il funerale Mary convoca con discrezione, senza agitare le acque, Milo F. e lo interroga.
Milo ha una storia lunga come un treno merci alle spalle, denti sfasciati dalla carie e vestiti da migliaia d’euro addosso. Milo è un mercante di carne, un ruffiano, uno sfruttatore di ragazzine.
“Niet, mai vista, chi è?”.
La foto di Milù scivola indietro, sulla scrivania, da Milo a Mary. Impulso di pulirla, sterilizzarla dal lerciume che le dita sporche dell’uomo lasciano sul visino della piccola ritratta nel lettino bianco dell’ospedale.
“Sicuro? Sicuro che non fosse una delle sue ragazze?”.
Irina accenna a tradurre ma l’uomo la precede, alza di poco la voce, roca, distorta:
“Quali ragazze? Io non ho ragazze, io sono commerciante import-export, lei ha sbagliate informazioni signora”.
Molte domande ancora e poi Milo esce dall’ufficio senza salutare ma senza problemi. Il caso ha ucciso Milù.
È stanca, stanca e furiosa, stanca e avvilita, stanca e frustrata.
“Perché fai questo Mary?”.
Irina l’ha chiesto a mezza voce, mentre s’infilava l’impermeabile.
“Lo faccio per Milù”.
Ma non era sufficiente, non bastava.
“Lo faccio per Sofia, per mia figlia”.
Ma non era sufficiente, non bastava.
“Lo faccio per me”.
Un mese dopo ancora niente, ancora silenzio; silenzio e una sciarpa gialla come unico indizio. Una sciarpa setacciata dalla scientifica, analizzata e controanalizzata, muta a tutti gli interrogativi.
Quella sciarpa che Milù ha serrato tra le dita fino alla morte e oltre. Quella sciarpa le era tornata dalla scientifica in una busta marrone accompagnata da un referto frustrante: nessuna traccia riconoscibile, presenza di tessuti umani ma
nessuno riconducibile all’indiziato numero uno, Milo. Soprattutto sangue, tanto sangue, il sangue di Milù che, forse, aveva cancellato il DNA del proprietario. Scherzi del destino: se Milù era stata seviziata dall’uomo della sciarpa il suo stesso sangue aveva lavato le tracce del suo carnefice, assicurandogli l’impunità.
In un impeto di rabbia Mary aveva gettato la sciarpa nella busta ed era uscita dall’ufficio, dritta come un fuso verso il centro. C’erano negozi costosi da quelle parti e qualcuno, forse, poteva dirle qualcosa di più.
Un mese dopo, ancora silenzio e una sciarpa gialla come unico indizio. Una sciarpa costosa ma non rara, setacciata dalla scientifica, analizzata e controanalizzata, muta a tutti gli interrogativi.
Immaginava fin dall’inizio che non avrebbe cavato il classico ragno dal classico buco ma doveva provarci, doveva sapere, almeno per non pensarci più.
Prende la sciarpa ed esce dal commissariato, domani la riporterà all’archivio centrale prima d’andare in ufficio. Sera piovosa, sera fredda e stanca, sono le otto e ha voglia di caffè, l’unico bar aperto è quello della stazione. Decide che le fanno bene due i e s’avvia, sotto la pioggia, borsetta a tracolla e busta marrone sotto il braccio. Fumerà dopo il caffè, per ora le serve aria pulita e pioggia sulla faccia, silenzio e qualche idea.
Nel bar si siede al bancone e ordina. Posa la borsetta, posa la busta marrone semiaperta vicino alla borsetta. Aspetta e guarda il suo volto riflesso nello specchio del bar. Occhi chiari, carnagione chiara, capelli biondi. Potrebbe essere una delle ragazze sedute al tavolo dietro di lei, sì magari un po’ più avanti con gli anni, semmai. Che strana la genetica, una siciliana bionda e tre slave more, more come Milù, ma queste si vede che sono tinte, tinte giusto per non essere troppo appariscenti, tinte per non dare troppo nell’occhio.
Beve il caffè, caldo, amaro; dietro di lei le ragazze parlano fitto. Guarda la sua immagine riflessa e quel gruppetto di giovani dell’est, forse cameriere, forse badanti, forse prostitute, forse studentesse; sta per alzarsi, tra le mani il borsellino per pagare, ma qualcosa attira la sua attenzione, qualcosa di sfumato, d’impalpabile, forse il tono con cui le tre parlano, forse un’occhiata troppo intensa alla busta marrone semiaperta.
Paga ed esce ma qualcosa le si agita nella mente. Ora c’è solo d’aspettare e vedere. Un messaggio sms a Giacomo: “torno più tardi, scusami”.
Le aspetta fuori dal bar, le segue e l’indomani ha qualcosa da raccontare al commissario, qualcosa di nuovo, qualcosa di cui lei stessa non conosce ancora i contorni.
Armando, come al solito, è in ufficio già alle sette, ormai divide la sua vita tra la clinica dove la moglie è ricoverata e il suo lavoro. Ascolta l’ispettrice e la squadra con un’ombra di scetticismo.
“Guarda che questa è una possibilità remota, remotissima. Milo non parlerà mai e il giudice non ci crederà fino a quando non avrai le prove, quello non sposta un foglio se non è convinto”.
“Sì, sì, lo so ma secondo me vale la pena verificare, tentare almeno. Le ragazze non hanno mai visto Milù però ci sono troppe coincidenze e le coincidenze fanno indizi, anche per i giudici”.
“Va bene ma sei sicura? Sei sicura che non stessero mentendo?”
Ricorda la faccia pallida e terrorizzata delle ragazze quando aveva minacciato di portarle al commissariato.
“Sicurissima”.
“Va bene, se sei convinta tu. Fai così, prova da Don Marcello, se Milù era nel gruppo, magari ancora prima che arrivassero queste, lui per certo la ricorda, la sua associazione lavora alla parrocchia in riviera Santa Margherita. Male che vada conosci, comunque, una persona interessante”.
Lei va e Armando apre con astio una cartella: matta siciliana troppo presa dall’idea di giustizia, forse era meglio restasse a casa sua, nella sua isola di coppole e lupare, forse.
Dello stesso avviso, ma per diversi motivi, anche Don Marcello; Mary s’era presentata poco prima di mezzogiorno e non l’aveva mollato fino alle quattro: una specie di tortura cinese, pranzo compreso.
No, non l’aveva mai vista, ne era certo: Milo non aveva mentito. Le altre invece, comprese le tre che Mary aveva interrogato, erano tutte schedate nella sua memoria, nomi, età, volti, provenienza; un vero archivio vivente. Se vuoi salvare una ragazza dal marciapiede te la devi ricordare bene, molto bene.
“Vuoti a perdere”.
Ad un certo punto era venuta fuori questa frase.
Mary stava bevendo il caffè, appena dopo il pranzo offerto dal prete nella speranza di farla tacere, almeno per qualche minuto, almeno per qualche secondo.
“Vuoti a perdere?”.
“Si, le chiamano così. Se Milù era malata, di una malattia costosa, di quelle che nel suo paese si devono curare con tanti soldi è possibile che fosse diventata un vuoto a perdere”.
Stentava a capire, non voleva capire.
“In che senso?”.
“Proprio in questo senso, non servono più quindi si possono gettare o… ricavarci ancora dei soldi, magari vendendole a chi ne usa il corpo, fino a quando reggono. Quando il signore con la sciarpa gialla, o chi come lui, non si accontenta più di legarle per gioco, soffocarle per gioco, bendarle e imbavagliarle per gioco pagando un lauto compenso cerca il salto di qualità, compra la sua vittima, quella vera, tra i vuoti a perdere”.
Mary non dorme stanotte, pensa: vuoti a perdere. Domani non è più un altro giorno quando si aprono gli occhi sul mondo reale, sull’orrore che striscia nei
muri, dietro la sicurezza della tv a colori cento-canali.
Domani il commissario Roncato non vuole neanche ascoltarla.
“Mary tu farnetichi e quel prete con te! Queste cose non esistono qui, non c’è neanche da pensarle, hai capito?”
È in piedi, i pugni poggiati sulla scrivania del capo, testarda, decisa a seguire la sua strada.
“No, non ho capito. Spiegamelo come fossi una bambina di cinque anni, anzi no, facciamo di tredici anni, forse dodici, quanti doveva averne Milù. Spiegami com’è che un cialtrone pieno di soldi può comprare una ragazza malata, usarla come le pare, buttarla in mezzo alla strada e farla franca, in Italia, nel nostro paese, sotto i nostri occhi”.
Armando si alza, è arrabbiato, davvero arrabbiato:
“Te lo spiego in due parole, non può succedere e non succede. Nessuna prova, nessuno straccio di prova. Solo tre puttanelle spaventate che raccontano di giochini strani con una sciarpa gialla! Sei diventata matta o gli esami li hai ati per procura? Qui non hai niente e io non ti permetto d’andare avanti a sputtanarti e sputtanarci”.
“Che significa Armando? Che vuol dire?”.
“Vuol dire che il giudice ha saputo, direttamente da Milo, della tua uscita serale e c’è voluto del bello e del buono per non farti sospendere. Significa che il caso chiude i battenti per mancanza totale di ogni e qualsiasi indizio”.
“Non se ne parla, vado io dal giudice! Gli parlo io!”.
“Tu non vai da nessuna parte e intanto esci di qui. Fai quello che ti pare, mettiti in ferie, espatria, vai a casa ma non capitarmi tra i piedi oggi, domani, per mille anni!”.
Esce sbattendo la porta, è la prima volta che lo fa, la prima volta in anni di carriera.
Domani è un altro giorno e giorno per giorno Mary non molla, in minuti rubati continua a cercare tra corsie d’ospedale, tra le cartelle cliniche senza nome, tra i verbali del pronto soccorso, nelle farmacie della città. Vuoti a perdere: se Milù era malata qualcuno, forse, le ha comprato dei farmaci, qualcuno, forse, l’ha tenuta in vita per usarla, ancora un poco, ancora un altro poco, mentre lei, lentamente, si spegneva.
Cercando nei minuti mentre ano i giorni i minuti diventano ore e i giorni mesi. In una sera calda di prima estate esce dall’ennesima farmacia e s’appoggia al muro del palazzo. Le gira la testa. Non capisce, non capisce, non capisce più niente, eppure.
Eppure la farmacista le sembra una persona con la testa sulle spalle, una brava donna, una che non racconta frottole.
Mentre torna a casa una domanda le toglie il respiro: perché il suo capo non l’ha mandata prima da Don Marcello, perché Armando sempre preciso, metodico, minuzioso non l’ha mandata subito dal prete, magari prima ancora d’incontrare Milo? Perché le ha tagliato le gambe quando ha iniziato a parlare di vuoti a perdere?
“Methoxi polietilene glicol-epoetina beta, CERA. Conosci?”.
Armando l’ha guardata male, malissimo.
“Dovrei?”.
S’è seduta davanti a lui, lo guarda, lo interroga.
“Dovresti”.
“Perché?”.
“Perché qualche mese fa ne hai comprate due confezioni in una farmacia poco distante da qui”.
Armando s’è alzato, ha aperto la porta del suo ufficio, una sola parola:
“Fuori”.
Mary è uscita.
Methoxi polietilene glicol-epoetina beta, CERA. Una medicina per la cura dell’anemia, usata sempre di più nei casi d’insufficienza renale cronica ma non così tanto venduta da non richiedere una prenotazione. Armando vive da solo, praticamente, la moglie è ricoverata da mesi. Non c’è ragione per comprare medicine nella farmacia vicino all’ufficio per una moglie ricoverata, le somministra la clinica, no?
Lavorare con discrezione. Senza agitare le acque. Così ha detto il giudice. L’ha detto il giudice o l’ha detto Armando?
“Mary, posso disturbarti?”.
Irina, oltre la porta dell’ufficio con occhi gonfi di pianto impellente.
“Certo, entra, siediti, che succede?”.
Irina entra e si siede, composta, quasi sul bordo della sedia.
“Ho parlato con Armando. Mi ha chiamata ieri…”.
Irina inizia a parlare, parlare, parlare. Nell’ufficio in fondo al corridoio Armando guarda il fascicolo sulla sua scrivania e poi, con rabbia, lo getta a terra; non doveva finire così.
“… dopo la guerra ho iniziato a cercarla, l’ho cercata per anni…”.
Mary ascolta.
“… e, finalmente, l’ho trovata in un orfanotrofio di Belgrado, quasi morta. C’erano carte da riempire, troppe carte, non c’era tempo, non c’era più tempo, ho dovuto farlo, ho dovuto…”.
Fuori non piove ma, forse, sarebbe meglio piovesse.
“… ho dovuto praticamente comprarla, capisci Mary? Ho dovuto comprare mia figlia …”.
Mary capisce e pensa a Sofia. Pensa a Milù che cresceva malata e sola in orfanotrofio mentre Sofia, a pochi chilometri, dall’altra parte del mare, giocava con la sabbia e rideva. Ma non è così che dovrebbe essere per tutte le bambine del mondo, non è più giusto che sia così?
“Armando sapeva tutto, mi ha aiutata, fin dall’inizio; è un brav’uomo, credimi … è un brav’uomo davvero … s’è messo a rischio per me. Secondo lui neanche dovevo venire oggi”.
“Quando Ian ha scoperto la verità è iniziato un altro inferno. La piccola era mia, la piccola era una bastarda, la piccola era figlia di uno stupro etnico, di un croato; i croati gli hanno tolto la madre, i croati gli hanno tolto una gamba, gli hanno tolto tutto tranne l’odio per il mondo”.
Il sole tramonta dietro il telaio bianco della finestra.
“Armando veniva a trovarci, le portava qualche piccolo regalo, parlava con Ian, cercava di farlo ragionare. Lui stava cercando una soluzione, voleva trovare un modo per farla ricoverare”.
Mary ascolta, ascolta e subisce, ascolta e incassa.
“ Una sera mia figlia ha visto la sciarpa di Armando, era quella sciarpa gialla, l’ha vista e l’ha afferrata, l’ha presa e non l’ha più voluta mollare, chi sa cosa a per la testa d’una ragazzina malata? Chi lo sa? Forse le dava sicurezza, forse le ricordava Armando, forse Armando le sembrava il padre che non ha mai avuto. L’ha tenuta con sé sempre, ma non per molto…”.
“Ian?”.
Irina abbassa la testa, piange in silenzio, singhiozza, annuisce.
“Forse era pazzo, forse lo era fin dall’inizio e io non mi sono mai accorta di niente. Una notte, mentre dormivo, ha preso la piccola ed è sparito. Non l’ho più
visto, mai più, volatilizzato, dissolto”.
Mary disegna nella mente il dopo, rivede Irina china su Milù, ne rivede gli occhi, le lacrime trattenute, le poche parole scambiate con la piccola; Armando non poteva cercare Ian senza scoprire sé stesso, senza denunciare Irina: non poteva e non voleva farlo perché niente avrebbe, comunque, riportato in vita Milù.
“Grazie Irina, grazie. Te la senti di tornare a casa da sola? Vuoi un aggio?”.
Irina la guarda, stupore e perplessità.
“Non mi arresti?”.
“No, credo proprio di no. Semmai arresterei me stessa ma non si può fare”.
L’accompagna alla porta, la saluta poi la curiosità ha il sopravvento sulla discrezione:
“Come si chiamava, qual’era il suo vero nome?”.
Irina sorride amara; sul viso l’ombra del dolore, il desiderio di tenere per sé e solo per sé, di sua figlia, almeno questo ricordo.
“Milù, si chiamava Milù”.
LA GIOCATRICE di Cristian Poppi
Mancano cinque minuti alla fine della partita e siamo pari. Quando il numero sette della squadra avversaria, scende improvvisamente sulla fascia, scarta Tania che gli si era fatta incontro, e crossa al centro. In area le avversarie sono tutte marcate. Vedo la palla troppo alta e lontana per intervenire con i pugni; quindi attendo gli sviluppi un o avanti la linea di porta. La palla scende proprio sui piedi dell’undici avversario: una mora, tarchiata, non molto alta, ma dalle spalle larghe. Jessica gli è addosso, ma l’avversaria con una spallata la stende. È fallo!, penso; ma l’arbitro non fischia. Allora prendo l’iniziativa; scatto in avanti più veloce che posso e chiudo lo specchio della porta. L’avversaria si allarga, forse troppo e quindi con un tuffo cerco di togliergli la palla. Con i guanti aperti sfioro il pallone, prendo il tempo all’attaccante; ma lei astutamente rovina su di me. L’arbitro è beffato e fischia il penalty. Io prendo il rosso e finisco in anticipo negli spogliatoi con il sorriso beffardo dell’avversaria che mi accompagna fuori dal campo.
Cazzo! Penso, cazzo! E ignoro le parole di Marco, il mio allenatore che serio grida che stavolta ho fatto veramente una cazzata!
Accade tutto in pochi minuti, ma che sono un’eternità per me. Penalty realizzato e partita persa. Le squadra avversaria seconda in classifica ci raggiunge e ora appaiate, siamo entrambe al primo posto.
Negli spogliatoi non voglio sentire storie, sono incazzata con tutti e con tutto. Marco entra prima che noi ci spogliamo e dice: “Ragazze poco male; abbiamo perso una partita, ma non il campionato. Ci rifaremo”. Sento dalla sua voce che è molto irritato, ma si trattiene.
Poi Jessica esordisce e mi accusa: “È tutta colpa di Diana!”
“Ma che cazzo dici?” le grido contro, “se sei caduta come una pera cotta contro quella!”.
“E tu” ribatte Jessica “dovevi chiamare il fallo, invece di fare quella bella cazzata!”.
Non resisto più e scatto contro di lei, ma Marco al volo mi blocca e con forza m’inchioda alla panchina dello spogliatoio.
“Ha ragione Jessica” mi sussurra all’orecchio, “stai calma”.
Con uno strattone mi libero da lui e vado verso le docce.
Sotto la doccia, nessuna delle compagne mi rivolge la parola; solo Tania, prima di uscire, mi sfiora amichevolmente una spalla. Spaccherei tutto; odio tutti, nello stato in cui sono. E sotto l’acqua scrosciante della doccia, cerco di sbollire la rabbia; soppesando l’eventualità di un mio errore, ma che poi accantono immediatamente. Rimango ultima; perché non voglio vedere nessuno, almeno per un po’. Chiusa nel mio accappatoio, nella penombra degli spogliatoi, esco nel silenzio della notte che si è oramai fatta largo. Sullo sportello del mio armadietto, con un pennarello rosso, hanno simpaticamente scritto TROIA. Lo apro e per poco non mi viene un infarto. Qualche burlona delle mie compagne ha appeso per il collo con una sciarpa gialla della nostra tifoseria, una bambolina bionda del tutto simile a me. La osservo guardandomi attorno e penso che il colpevole, probabilmente, è nei paraggi a godersi lo spettacolo. Indosso una TShirt e la tuta da ginnastica ed esco gettando la bambolina nell’immondizia.
Marco aspetta fuori, con una sigaretta accesa tra le dita.
“Sei stato uno stronzo!” gli dico.
“Non potevo fare altrimenti” risponde lui, “stavolta hai sbagliato Diana”.
“Un cazzo!” gli grido.
La camera da letto è avvolta nel nel buio, mentre i due amanti sono stretti in un caldo abbraccio e spasimano, sotto le coperte. L’uomo stringe a sé la donna e con una mano cinge la folta coda bionda e la tira forte, costringendo la compagna a stringere i denti per il dolore, che nell’estasi è quasi impercettibile. L’uomo irrompe dentro la donna, incuneandosi tra le sue gambe; si muove violento e ad ogni colpo, stringe sempre più forte la chioma di capelli. La donna osserva il suo amante dal basso all’alto, mostrandosi allo stesso tempo sottomessa e lussuriosa. Poi in un secondo tutto muta. L’uomo estrae con la mano libera una sciarpa gialla da sotto il cuscino e con un gesto lento, perentorio e misurato; la gira intorno al collo della donna. La donna comprende il pericolo solo dopo che, compiuti due giri intorno alla sua gola, l’uomo con un colpo deciso di sciarpa le toglie il fiato. La donna si dimena, cercando di opporsi, ma è schiacciata dalla forza dell’uomo che si agita dentro di lei, tra le sue cosce e con forza stringe la sua morsa. La donna annaspa in cerca dell’aria, graffiando la schiena dell’uomo, cercando un ultimo appiglio alla vita. Ma il suo opporsi provoca solo l’ira del suo carnefice. L’uomo in un impeto di forza eccessiva, spezza il collo alla donna con un colpo secco. La testa di lei diviene come quella di una marionetta e solo dopo essersi appagato del desiderio assassino, l’uomo, riesce a raggiungere anche quello sessuale.
Non ho mai provato nulla di simile! Marco si muove sopra di me: smania, spasima e ansima di piacere, ma solo dopo che io raggiungo l’orgasmo, anche lui, devoto, gode. Poi cade su di me come un bambino indifeso e io gli accarezzo i morbidi capelli castani. I nostri respiri improvvisamente vanno all’unisono e mai come adesso mi sento così vicina a lui. Gli sussurro parole complici all’orecchio che lui, probabilmente, mal interpreta; infatti all’improvviso si solleva e cambia espressione e ordina perentorio: “Girati!”.
Io lo osservo stupita, come se non avessi udito parole e tono.
“Girati!” ripete lui imperioso.
Non vedendo nessuna mia reazione; Marco prende l’iniziativa e a forza mi mette supina, schiacciandomi il viso contro il cuscino.
A fatica respiro e penso di aver commesso un grave errore, quando con dolore e violenza, Marco mi penetra da dietro. Non ho mai provato tanta sofferenza mista a piacere.
Marco stenta a muoversi dentro me e io emetto gridolini animaleschi che mai, avrei pensato di poter pronunciare. Infine la nostra unione diviene sempre più fluida e quasi il dolore provato all’inizio, scompare, lasciando il posto ad un piacere immenso. Ci accoppiamo come due animali, ma è quello che vogliamo e quando il desiderio arriva all’apice, mi sento invasa da fuoco e lava.
Non esistono molti motel in Italia, ma quelli che vi sono, sono in tutto e per tutto uguali a quelli americani; e sono un luogo perfetto dove commettere un omicidio.
La stanza in cui io e Claudio entriamo è piantonata da due poliziotti: è in tutto e per tutto quella di uno squallido motel di periferia. Il portiere del turno di giorno ci ha segnalato che i dati prelevati dal collega del turno di notte, sono unicamente quelli della vittima. Il pavimento è di uno scadente parquet che scricchiola ad ogni o. I vestiti della vittima sono sparsi alla rinfusa a terra. La vittima, che è una giovane donna bionda, è nuda e distesa sul letto con attorno al collo una sciarpa gialla, simile a quelle che portano i tifosi di calcio.
“Bella puttana!” commenta Claudio, infilandosi una sigaretta tra le labbra.
Io gli faccio notare sul soffitto il sistema antincendio. Lui per tutta risposta alza le spalle e dice: “In questi posti è solo un abbellimento visivo per ingannare la legge, non funziona mai”.
“Pensi che sia stata soffocata?” chiedo al collega, girando intorno al letto.
“Così pare” risponde Claudio, accendendo la sigaretta.
Infilo i guanti in lattice e comincio l’analisi della vittima.
Claudio rimane in piedi davanti al letto, a fumarsi pacatamente la sigaretta con una mano infilata nella tasca dei pantaloni e domanda: “Se la sono scopata?”.
Io trovo del liquido tra le lenzuola sgualcite e lo saggio tra i polpastrelli delle dita. Poi imitando Claudio rispondo: “Così pare”.
“Vaffanculo!” ribatte lui sbuffando una nuvola azzurra di fumo contro di me.
Claudio finisce la sigaretta e per non inquinare la scena del crimine, esce fuori e la getta sul selciato; ordinando ai poliziotti di chiamare il medico legale.
Noto il cellulare sul comodino; probabilmente è quello della vittima. Lo afferro e l’osservo.
Claudio rientra e chiede: “Ultima chiamata ricevuta e fatta?”.
“Corrispondono allo stesso numero” rispondo.
Squilla il cellulare di Marco.
“Spegnilo” sussurro stretta tra le sue braccia con i fumi del sonno ancora fitti nella mente e il sapore di sesso tra le labbra.
Marco ignora il mio consiglio ed afferra il cellulare, ma non risponde.
Io capisco immediatamente che qualcosa non va; perché sembra indeciso, se rispondere oppure no.
“Chi è?” domando allungandomi per vedere il display.
Marco allontana il cellulare con un braccio per nasconderlo alla mia vista.
“Siamo appena stati a letto insieme e hai già dei segreti per me?!” esclamo sedendomi sul letto.
“Ma dai, non fare la stupida” risponde Marco, mentre il cellulare continua a squillare.
“Chi è?” domando nuovamente irritata.
Marco non risponde subito, poi dice supponente: “Nessuno”.
“Vuoi prendermi per il culo?!” esclamo tirandolo per i capelli per distogliere la sua attenzione dal cellulare.
Marco sorride e risponde: “L’ho già fatto”.
“Fan culo!” grido scendendo dal letto.
“Dove vai’?” chiede lui.
Io alzo il dito medio della mano destra ed indosso la tuta.
Il cellulare smette di squillare.
In una triste stanza dalle pareti scheggiate ed ingiallite dal tempo di una stazione di polizia, Marco Indovina è seduto davanti a me e Claudio. È il principale indiziato della morte della ragazza del motel che si chiamava Jessica Di Mauro. L’ultima chiamata fatta e ricevuta dal cellulare della vittima indica il suo numero di cellulare, e pare che tra lui la vittima ci fosse qualcosa di intimo; molto di più che tra giocatore e allenatore.
“Marco Indovina è un nome meridionale suppongo?” domanda Claudio sfogliando la carta d’identità del sospettato.
L’uomo di fronte a noi due è sulla quarantina, vestito con un abito casual. I suoi capelli castani sono brizzolati alla basette e tra le mani stringe occhiali griffati scuri. Guarda stupito alla domanda di Claudio e poi rivolto a me chiede: “Ma che cazzo di domande fa il suo collega?”.
“Piano con le parole” rispondo subito io “qui le domande le facciamo noi e poi il mio collega è calabrese e non c’è nulla di male ad essere terroni”.
Marco Indovina allarga le braccia ed esclama: “Ma chi siete Ciccio e Franco?!”.
Claudio alla battuta del sospettato, scatta in avanti sul tavolo e afferra Marco
Indovina per la gola; e con la sua brutta faccia lo guarda dritto negli occhi e dice: “Bello! Qui facciamo sul serio e se non ci tratti con il dovuto rispetto, ti facciamo sprofondare nella merda fino al collo”.
“Va bene” affermo rivolto al mio collega, allontanandolo dal sospettato; “forse ora abbiamo attirato finalmente la sua attenzione!”.
“Cosa volete sapere?” domanda l’uomo, ricomponendosi sulla sedia.
“Vogliamo solo sapere dov’era l’altra notte tra la mezzanotte e le tre?” domando gentilmente.
“A casa” risponde lui.
“Da solo?” chiede subito Claudio.
“Certo che no” risponde Marco Indovina, voltandosi verso il mio collega con sorriso beffardo.
“Ero insieme a Diana Amanda Solo, una delle ragazze della squadra di calcio che alleno”.
“Questo è una merda!” mi sussurra all’orecchio Claudio. “È un allenatore serio come la faccia di un clown”.
“Quindi” chiedo ignorando il commento di Claudio, ma sentendomi di condividerlo “se chiamassimo questa donna, confermerebbe il suo alibi?”.
“Certamente” risponde Marco Indovina, sicuro come su una Ferrari in curva.
Tuttavia, una Ferrari anche se è una Ferrari e viaggia ad alta velocità in curva, può uscire di strada; tutti lo sanno, tranne probabilmente Marco Indovina.
La ragazza che interroghiamo per confermare l’alibi del sospettato, ha la faccia seria come quella di un bulldog pronto a sbranarti: intendiamoci è carina, anche se per me è troppo muscolosa alle braccia e alle gambe. Indossa una T-Shirt bianca attillata con sopra la giacca e i pantaloni della tuta di allenamento. È bionda come la vittima, la sua compagna di squadra, e quasi mai incrocia lo sguardo mio e del mio collega.
“Signorina Solo” domando “può dirci se l’altra notte tra la mezzanotte e le tre era in compagnia del signor Marco Indovina?”.
“No” risponde lei.
“No!” esclama Claudio, quasi incredulo alla risposta della ragazza che ci consegnava su un piatto d’argento, quell’antipatico di Marco Indovina.
“E dov’era?” domando perplesso.
“A casa” risponde la ragazza.
“Da sola?” insisto io.
“Certamente”.
“Grazie molte signorina” il mio collega congeda immediatamente la ragazza, appagato dalle risposte che confermano i suoi sospetti. “È stato un vero piacere” le dice stringendole la mano.
Gli sguardi mio e della ragazza, prima di abbandonarsi, s’incrociano per una prima ed ultima volta; ma forse non sarà proprio l’ultima, penso io.
Fuori dalla stazione di polizia io e Claudio indugiamo e chiedo al collega: “Credi veramente a quello che ha detto la ragazza?”.
“Quanto quello che ha detto Marco Indovina” risponde, infilandosi una sigaretta tra le labbra.
“Lei, la ragazza” specifico io “ha mentito”.
Claudio accende la sigaretta e prima di rispondere fa un lungo tiro: “Forse”.
“Stiamo fermando probabilmente la persona sbagliata” dico, infilandomi le mani in tasca e fissando il marciapiede perplesso.
“Forse” sussurra nuovamente Claudio avvolto in una nuvola di fumo, “ma due mezze verità ne fanno una certa”.
“Ma che cazzo dici!” esclamo alterato.
Claudio mi osserva con sguardo feroce e risponde: “Un detective non deve vivere solo di prove, ma anche d’intuizioni; e qualcosa mi dice che Marco Indovina in tutta questa storia c’entra, eccome se c’entra!”
“Vaffanculo” gli dico allontanandomi.
L’appartamento di Diana Amanda Solo si trova in una zona residenziale della città, al secondo piano di un grande edificio di costruzione recente. Al citofono Diana non ha esitato ad aprirmi e farmi salire. Il suo piccolo appartamento bilocale è ordinato ed arredato con mobili moderni di colore bianco. Alle pareti e sulle mensole ci sono foto di lei da piccola, fino a quando, cresciuta, è immortalata insieme alle compagne della sua squadra di calcio femminile. La ragazza indossa una canottiera attillata e dei pantaloni di una tuta da ginnastica.
“Mi aspettavo di vederla prima detective?!” afferma la ragazza mostrando un bel sorriso.
“Perché?” domando io.
Diana non mi risponde, ma gentilmente chiede:
“Vuole un caffè?”.
“Sì” dico ficcanasando tra le sue cose con lo sguardo.
“Sta cercando forse l’arma del delitto?” chiede Diana avvicinandosi lentamente alle mie spalle e afferrandomi sotto braccio. M’invita ad entrare nella sua camera da letto.
La camera di Diana è semplicemente arredata con un grande armadio bianco, alcuni scaffali dove tiene i suoi trofei sportivi, un comodino ed un letto a due piazze in ferro battuto. Legata alla spalliera, vedo la sciarpa gialla. Diana la indica e dice: “Non è questa l’arma del delitto?”.
“Non scherziamo” le dico io “piuttosto com’erano i suoi rapporti con la vittima?”.
“Ottimi” sussurra la ragazza avvicinandosi fino quasi a strusciarsi contro di me.
Io gentilmente la allontano e ribatto: “Ho sentito il contrario”.
“Senta” afferma spazientita la ragazza “ho capito che la sua non è una visita di cortesia; quindi se ha altre insinuazioni come questa, conosce l’uscita!”.
“Bene” rispondo avviandomi alla porta e lasciando il mio biglietto da visita sul tavolo da pranzo.
“Comunque” conclude Diana “il bersaglio dell’assassino ero io; perché la sera dell’omicidio, dentro il mio armadietto, negli spogliatoi, ho trovato una bambolina impiccata con una sciarpa gialla”.
“E dov’è questa bambola?” domando io.
“L’ho gettata” risponde Diana.
“Bugiarda” dico prima di chiudermi la porta dell’appartamento alle spalle.
Nella solitudine degli spogliatoi io e Tania siamo le ultime dopo l’allenamento. Tania è mora ed ha i capelli corti e un po’ stopposi, e finisce prima di me di asciugarseli. Infila la tuta e chiede:
“Ti va una birra tra vecchie amiche?”.
“Certo” rispondo, dandomi l’ultimo colpo di phon.
“Ti aspetto fuori” afferma Tania, mettendosi la sacca sulle spalle. Poi si ferma sulla soglia degli spogliatoi e voltandosi indugia nel guardarmi e dice:
“Marco è uno stronzo; lo so bene che è uno stronzo e si merita solo la galera a vita!”. Infine esce.
Sospettavo che Marco si fosse fatto altre ragazze della squadra, oltre a Jessica, ma Tania proprio non lo immaginavo; perché non è il suo tipo: troppo robusta, troppo bassa, ma probabilmente la quinta di reggiseno fa effetto anche su un tipo come lui.
Tania aspetta nella penombra delle luci del campo, vicino all’uscita. Improvvisamente i riflettori si spengono. Tania caduta nel buio della notte rimane sorpresa, perché il cielo è senza luna, e non si vede a un palmo dal naso. Aspetta che i suoi occhi si abituino alle tenebre; ma nel silenzio, sente dei i.
Spaventata grida: “Diana sei tu?!”.
Non ricevendo risposta, la ragazza si allontana verso l’uscita a tentoni e sbatte contro la rete metallica che circonda il campo sportivo.
I i sono sempre più vicini alle sue spalle; si volta a vedere chi possa mai essere, ma dal nulla, improvvisamente, qualcosa le stringe il collo e la solleva, facendo perno come una leva sulla rete. Il peso di Tania piega la rete, ma l’aggressore non smette di tirare come un folle. Tania, sulle punte, afferra la sciarpa che le stringe il collo e con forza si oppone al suo avversario; tirando sia con il corpo che con le mani.
Tania è come una puledra impazzita ed il suo aggressore è come un cowboy che non riesce a domarla. Improvvisamente, due colpi ai fianchi, da dietro la rete, mozzano il fiato alla ragazza che perde in un istante tutto il terreno guadagnato prima e viene sollevata appena sopra le punte. Alcuni minuti in cui Tania sbatte i piedi in aria, cercando di gridare un aiuto che mai arriverà in tempo. Cinque, sei minuti, forse anche dieci e poi l’assassino accorgendosi dell’immobilità della vittima, ne getta pesantemente il corpo a terra.
“E adesso chi è stato?” domando a Claudio che gira intorno al corpo di Tania Griselli.
“Non è lo stesso assassino” risponde il mio collega accendendosi come sempre una sigaretta.
“Ma il modus operandi è lo stesso” sottolineo io.
“No” dissente nuovamente Claudio “qui la vittima è stata soffocata, invece nel primo omicidio le hanno spezzato il collo!”.
“Ma la sciarpa gialla?!” puntualizzo io.
“No c’entra un cazzo!” risponde Claudio, avvicinandosi a me e puntandomi contro le due dita che tengono la sigaretta.
“In questo caso” continua il collega “la vittima era più pesante dell’assassino;
ecco perché ha usato la rete come perno. Datemi una leva e vi solleverò il mondo, disse Aristotele!”.
“Archimede, ignorante” riprendo il collega.
“Fan culo” ribatte Claudio.
Entro nell’appartamento di Diana come un uragano, sbattendo la porta alle mie spalle.
“Ma che cazzo vuoi?” grida lei.
“Voglio la verità” dico io.
“Allora” sussurra Diana, sfiorandosi contro di me, “te la dovrai guadagnare”.
La prendo con violenza per i capelli e la bacio, mentre con il corpo la spingo verso la camera da letto.
Le tolgo la giacca della tuta e le bacio i seni, coperti ancora da un reggiseno di pizzo nero. La getto sul letto che sobbalza per il peso e con gesti forti la svesto fino a lasciarla in mutandine e reggiseno. Con occhi libidinosi mi osserva mentre mi spoglio e la mia roba finisce sul pavimento.
Salgo su di lei e con un gesto lento le sfilo le mutandine. Poi le apro le gambe e con violenza entro in lei. Risponde colpo su colpo come un avversario alla pari, mentre i suoi capezzoli sbirciano ad ogni movimento fuori del reggiseno. Lei mi accoglie dentro di sé, stringendomi con forza i glutei, incitandomi ad essere più duro, più “forte”. I miei occhi però non cadono mai sui di lei, mentre il letto cigola ed io fingo di essere completamente assorbito dal rapporto. Noto con la coda dell’occhio la mancanza della sciarpa gialla legata al letto. E quando infine Diana, mi strappa un lungo orgasmo pieno di piacere, io, immobile, piombo su di lei fingendomi una bambola di pezza; vedo dei lividi sospetti ai suoi polsi.
“Sei stato uno stronzo!” commenta Claudio, fumandosi pacificamente una sigaretta in piedi davanti alla stazione di Polizia.
“Sono stato stronzo, perché ho scopato con un’omicida?” domando io.
“No” risponde il collega immerso in una nuvola di fumo, “sei stronzo perché ti sei preso tutto il merito del caso, invece all’inizio non avevi capito un cazzo!”.
“All’inizio” sottolineo io “ma che Diana Solo mentiva fin dal principio l’avevo capito soltanto io e comunque ho una sua confessione firmata, e l’esame del DNA trovato sulla sciarpa gialla che ha ucciso Tania Griselli, confermerà la mia tesi”.
“Così come quello trovato sotto le unghie di Jessica di Mauro inchioda Indovina, senza contare poi dello sperma trovato sul letto del motel” afferma Claudio.
“Certamente” rispondo io “è stata la gelosia e la vendetta a spingere l’assassino. Diana Solo era gelosa delle compagne di spogliatoio che si era fatto Marco
Indovina e lo ha coinvolto prima nell’omicidio di Jessica di Mauro; poi lo ha sacrificato come una mantide assassina alla polizia, per salvarsi la pelle. Poi, scoperto che anche Tania Griselli era stata con il suo allenatore e amante, in un raptus di follia l’ha tolta di mezzo con le proprie mani”.
“Bravo” applaude Claudio.
“Hai una sigaretta?” domando al collega, “Voglio festeggiare”.
Claudio alza il dito medio e risponde: “Tu non fumi!”.
GLI AUTORI
Laura Bassutti. Dalla piovosa Udine natìa all’assolata e gloriosa Toledo dove l’ha portata l’amore. Ex avvocato, ha abbandonato senza rimpianti il diritto per la fantasia e la scrittura, reinventandossi la vita. Vicini suo marito e tanti libri. Per lei presenze essenziali e insostituibili.
Katia Brentani. Nasce e vive a Bologna, città di scrittori “noir” per antonomasia. Inizia, giovanissima, a pubblicare racconti e romanzi brevi sulle riviste “Confidenze” e “Donna Moderna”. Questa esperienza si protrae per una decina d’anni. Dopo una pausa meditativa esplora il mondo dei concorsi letterari e appare in diverse antologie. Nel frattempo inizia a collaborare con alcune riviste letterarie. Nel 2007 pubblica il suo primo romanzo “Confortatemi con il tè” con la casa editrice Il Filo. Nel 2008 esce la raccolta di racconti “Couscous & tortellini” edito da Edigiò. Nell’aprile dello stesso anno pubblica “Il Figlio del boia” con la casa editrice Runde Taarn. A dicembre si presenta il libreria con un libro di fiabe “Aiuto hanno rapito Babbo Natale!” edito da Edigiò e con una raccolta di racconti “noir” “L’uomo che rubava i sogni” edito dalla Ducas. Lettrice accanita fa parte del gruppo “Le Penne alla Bolognese”.
Mariangela Ciceri. Nata in Alessandria nel 61, dal 1999 scrive racconti e romanzi gialli. Nel 2001 arriva finalista al concorso Esperienze in Giallo e pubblica il racconto “Invito a Fossano”. Nel 2002 vince il premio Giallo Estate con “Il sospetto di Saverio”. Nel 2005 esce il primo romanzo “La maledizione della casa di Edna” edizioni Arpanet e nel 2007 “Prigioniera della paura” edizioni Anteprima-Lindau. È giornalista pubblicista e lavora per un giornale sportivo di Torino. Recentemente ha pubblicato due racconti gialli dai titoli “Soraya” nell’antologia Un diavolo per cappello ed. Robin e “Il farmacista di Cureggio” in Tutto il nero del Piemonte ed. Noubs.
Andrea Cioni. Forse per timidezza, non ama particolarmente parlare di sé; Nato nel 1978 a Bologna, città in cui vive e lavora ancora oggi. Da sempre lettore di fumetti, da qualche anno porta avanti il atempo della scrittura, nella convinzione che la letteratura di svago possa parlare anche di cose serie. Altri suoi lavori sono presenti nel blog http://andreacioni.wordpress.com.
Gabriella Cuscinà. Nasce a Trapani, ma da sempre vive a Palermo dove ha insegnato lettere per trentotto anni nella scuola media. Da quando il marito le ha regalato un computer portatile, ha scoperto l’amore per la scrittura e si diverte a inventare storie di pura fantasia. Ha pubblicato due romanzi: “ Elena a New York” – Edizione Solid 2002, “Le industrie del latte” – Edizione Cicorivolta 2006, Ha inoltre pubblicato il testo di narrativa per la scuola media: “Racconti per riflettere”- Edizione EdiGiò 2007
Cristian Fabbi. Vive in una casa di legno, adora la Gi, produce gattine, ama l’appennino e la bassa, scrive perché si diverte a farlo, pianta alberi, nuota male, risolve ogni tanto il Bartezzaghi (non da solo), ritiene che la parola più bella della lingua slava sia Mir. Il suo sito: www.viasoliani.eu.
Manuela Fiorini. Modenese di nascita (27 marzo 1975, Ariete), è cosmopolita d’origine, grazie alla consuetudine migratoria dei suoi antenati (la bisnonna è inglese, il nonno greco cipriota, la madre è nata ad Alessandria d’Egitto). Impenitente grafomane, è giornalista pubblicista; collabora con la rivista di turismo “Viaggiando, il mondo nelle mani”. Ha pubblicato il romanzo “Il crepuscolo dell’anima” (Giraldi Editore, Bologna, 2007) mentre, tra i racconti pubblicati in antologia, figurano “Amici di lunga data” nel volume “Inattesi Spazi di Vista” (Marchio Giallo Editore, Modena, 2008) “Alla vostra salute” in Racconti Frizzanti (Damster 2009), “Limbo” nella raccolta “Scrittori Inediti (Archeosofia, Modena, 2005). Lo stesso racconto si è classificato primo al concorso nazionale “Ten Yards” nel 2004.
Fabrizio Leonardi. Psicologo, si occupa di formazione dal 2001, soprattutto organizzando corsi relativi a tematiche come Comunicazione, Mobbing, Burn Out per cliniche private convenzionate. Scrive da diversi anni, perché lo rilassa. Esplora soprattutto il genere noir, dove l’idea, l’obiettivo, non è trovare il colpevole, non è costruire impianti in cui la soluzione è brillante, machiavellica, ma indagare sulle relazioni umane. Insomma, lontano dai manuali di psichiatria e psicologia, ma non troppo… Infatuato dalla scrittura di Thomas H. Cook e Durrennmatt, alla quale si inchina con sommo stupore, vorrebbe solo arrivare ad un centesimo del loro talento.
Luca Marchioro. Nasce a Malo, un paese in provincia di Vicenza nell’estate del ‘68. Trascorre alcuni anni della sua adolescenza in Germania per seguire i genitori nella loro attività. Rientra in Italia pochi anni dopo, lascia gli studi e decide di seguire le orme lavorative della sua famiglia. Si apiona alla lettura, specialmente del genere giallo/noir. Questa ione si concretizza presto anche nella scrittura, e la sfida inizia a farsi interessante… soprattutto con sé stesso. Ora vive a Thiene, sempre nel Vicentino con la moglie e la splendida figlia.
Jacopo Mariani. Nasce a Milano nel 1985, una città noir che lo abbraccia e lo respinge, ma che tuttavia lo ispira nei suoi racconti. La musica e la ione per il cinema fanno da scheletro alle sue storie. Storie scritte con l’inchiostro che viene direttamente da quella vena di violenza che scorre sotto ogni grande città, che di giorno si nasconde sotto i mercati e i bambini che popolano le strade di provincia, e che si risveglia nelle ore della “movida”. Si scrive per tanti motivi, lui lo fa per dare sfogo al lato oscuro che è dentro ognuno di noi. “Domani è un altro giorno” è il primo racconto che viene pubblicato, ma la sua ione ha già infestato pubblicazioni online, concorsi e molte pagine bianche.
Simone Marzini. Nasce a Padova nel 1975 dove attualmente vive con un cane, 14 tartarughe che pensano solo a mangiare e riprodursi, e una donna che lo impensierisce. Di giorno lavora come impiegato, di notte sceneggia
fumetti, scrive racconti e poesie. Nel mezzo beve spritz e confida, un giorno, di vincere al superenalotto.
Manuela Mazzi. “Esistono due tipi di persone: quelle che dicono: “No! Perché?” e quelle che dicono “Perché no?”. Ebbene Manuela Mazzi è una “Perché no?”. Nata a Locarno (Svizzera) nel 1971 (www.manuelamazzi.ch) si diverte a fare la giornalista, è apionata di fotografia e fuori dalla redazione si distrae scrivendo libri. Quattro sono quelli già pubblicati: L’angelo apprendista; Un caffè a Kathmandu; Un gigolo in doppiopetto; e l’ultimo, fresco di stampa, si intitola Guardie, ladri e tracciatori”.
Rita Mazzon. Nata a Padova. Diari segreti l’hanno sempre accompagnata fin dall’infanzia per fissare i propri pensieri. Da pochi anni vuole far partecipi anche gli altri delle sue emozioni. Volubile, scrive racconti di poche pagine, perché non ama affezionarsi ai suoi personaggi. Ha sempre in mente idee per altre storie. Viaggia con la valigia piena di quaderni bianchi, che con la sua fantasia colora di giallo, di malinconia, di umorismo, di favole e di amori. La vita è un’altalena di sensazioni diverse. E scrivere è il toccasana per tutti i mali.
Gianna Messori. Nata a Modena più o meno, come dice sua figlia, in quel lontano periodo in cui fu scoperta la ruota. Prima impiegata di concetto, poi insegnante elementare, apionata di storia medievale, ha trovato nello scrivere il sistema per rimanere giovane. Ha partecipato a molti concorsi con esiti, per lei, davvero sorprendenti essendo stata più volte classificata ai primi posti.
sca Panzacchi. Si è laureata in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Bologna, collabora come giornalista con la rivista Trendy allegato mensile del Resto del Carlino - con il magazine di letteratura e d’arte Liberaeva, con Sherlock Magazine, con Thriller Café e con Milano Nera. Ha pubblicato una silloge poetica intitolata “Liriche Sospese” (Vitale
Edizioni, 2008) e alcune poesie e racconti in varie antologie. Ha vinto diversi concorsi letterari fra i quali “Delitto in Libreria” indetto dalla Libreria Mondadori di Rimini (Prima Classificata). Nel 2009 i suoi Racconti Brevi sono stati recitati su Radio Emilia Romagna, all’interno della Rubrica “Racconti d’autore” a cura di Claudio Bacilieri. Sito personale: http://scap.altervista.org
Andrea Paolucci. Nato a Roma nell’agosto del 1974. Possiede una disordinata collezione di sorprese di ovetti Kinder che però spariscono per colpa del suo gatto (immaginario secondo quei pazzi dei medici) che le nasconde poi nella tana che, per una strana coincidenza, si trova esattamente dove è un cestino a uso e consumo della donna delle pulizie. Vede storie dappertutto. Non sa proprio come fare. Addirittura riesce a vedere qualcosa di creativo nel suo lavoro: l’assicuratore. Il water dell’ufficio è pericoloso, possono uscire dei topi subacquei provvisti di bombole, pinne e maschere e attaccare da sotto gli impiegati con le camicie maleodoranti. Invece dal soffitto possono calare i topi acrobati per prendere in ostaggio chi ha esagerato con profumi, deodoranti e gelatina. Andrea però non ha poi così paura perché ha sempre con sé il suo gatto.
Luigi Maurizio (Mauro) Paternò. Vive e lavora tra Milano e la sua Sicilia dove è nato e dove torna appena può per inseguire le curve solitarie dei paesaggi collinari, riposare in spiagge deserte o scalare aspri versanti vulcanici. Geologo per vocazione, scrittore per ione, vivo per necessità contingenti ha superato da poco la boa dei quarantacinque e tra poco deciderà, anche, cosa fare da grande. Per ora si limita ad osservare il mondo e raccontarlo dalle periferie della sua città e dagli spazi assolati della sua terra.
Catalogo
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Collana Il Diavolo probabilmente...
L’ombra della stella di Lorena Lusetti romanzo, (ebook e cartaceo) 2012 - 228 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-76-4 L’ultimo tatuaggio di Marco Lugli, romanzo, (ebook e cartaceo) 2012 - 306 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-84-9 CipriaVaniglia di Maria Silvia Avanzato e Gaia Conventi, romanzo, (ebook e cartaceo) 2011 - 220 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-48-1 L’uomo tatuato di Marco Lugli, romanzo, (ebook e cartaceo) 2011 - 309 pagine - 16,00 euro ISBN: 978-88-95412-30-6 Il sacrificio della lepre di sca Ferreri Luna, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 221 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-12-2 Avrei voluto parlare d’amore di sca Tombari, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 186 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-10-8
Lazzaro, sdraiati e crepa! di DrFullG & ISP, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 188 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-18-4 Tortelli & Porcelli di Dr FullG e ISP, romanzo, (ebook e cartaceo) Il giallo più godereccio del XXI secolo 2007 - 311 pagine - 16,00 euro ISBN: 978-88-95412-02-3
Collana Eroxè Blu, le forti ioni
Blues, della piccola Città di Provincia di Dr Fullg, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 152 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-19-1 Gli anni confusi di Marco Rossi Lecce, romanzo, (ebook e cartaceo) 2010 - 167 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-17-7
Collana Unico indizio
La chitarra blu di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 - 180 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-32-0 Il pesce rosso di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 175 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-27-6 La sciarpa gialla di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo)
2009 - 160 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-07-8
Collana Degustibus
Racconti in Forma di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 188 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-21-4 Racconti della notte di San Giovanni di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 194 pagine - 14,00 euro ISBN 978-88-95412-31-3 Racconti Frizzanti di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2009 - 212 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-04-7 Racconti Balsamici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2008 - 181 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-05-4
Collana Scriptor, lascia il segno!
A che ora ti chiamo? di Carloalberto Vezzani (ebook e cartaceo) 2012 - 160 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-92-4 Piccolo trattato di Patologia Mini.Male di Andreji Salvato Perora (solo cartaceo) 2012 - 160 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-64-1 Il vento d’ottobre di Domenico Verde, romanzo, (ebook e cartaceo)
2011 - 269 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-59-7 Ti stavo aspettando di Martina Podestà, romanzo, (ebook e cartaceo) 2011 - 224 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-67-2 La spiaggia senza mare di Ludovico del Vecchio (ebook e cartaceo) 2011 - 296 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-35-1 Presenze di spirito di Semi Neri, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 - 180 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-66-5 Bestiario Stravagante di Massimiliano Prandini, racconti, (solo cartaceo) 2010 - 140 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-29-0 Emilia, la via Maestra di Semi Neri, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 173 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-18-4
Collana Eroxè, dove l’eros si fa parola Centoeuno racconti erotici, di AAVV., racconti, (Ebook gratuito) Il sergente, di Heathcliff. (Solo ebook ) Il libraio, di Mayadesnuda. (Solo ebook ) La sorella dello sposo, di sca Maria Limentani. (Solo ebook ) La compagnia delle orchidee, di Fabiola D’Amico. (Solo ebook ) Storia di Aaron, di Marco Rossi Lecce. (Solo ebook ) Religiosi amori, di Marco Rossi Lecce. (Solo ebook ) John Cross, il giorno più lungo, di Ashara. (Solo ebook )
Ma non prenderci gusto, di Xlater. (Solo ebook ) La notte dei lunghi porcelli, di dr Full G & Isp. (Ebook gratuito ) Soavi feticismi, di Artaemide B., racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 140 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-85-6 Oxè awards duemiladodici, racconti erotici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 230 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-81-8 Fino in fondo, Paola Thy, romanzo (ebook e cartaceo) 2012 - 199 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-63-4 I sensi di Guen, racconti erotici di Alemar, racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 190 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-53-5 The Erotic Drabbles, di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2012 - 180 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-52-8 Cominciò per gioco, fra di noi..., racconti erotici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 - 270 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-70-2 Lenzuola rosse in un pomeriggio d’estate, di Liviana Rose, racconti, (ebook e cartaceo) 2011 -160 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-60-3 Oxè awards duemiladieci, racconti erotici di AAVV, racconti, (ebook e cartaceo) 2010 - 210 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-25-2 Carsex, disavventure comico-erotiche in auto di AAVV, racconti, (ebook e
cartaceo) 2009 - 165 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-13-9 ioni in coda di AAVV, romanzo corale, (ebook e cartaceo) 2009 - 165 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-15-3 Darsi & ritrarsi di sca Ferreri Luna, romanzo, (ebook e cartaceo) 2009 - 160 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-11-5 Fucsia di Mad Fem, romanzo, (ebook e cartaceo) 2007 - 107 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-00-9 Amore contuso di Alessandra Nassuato, romanzo, (ebook e cartaceo) 2007 - 134 pagine - 10,00 euro ISBN: 978-88-95412-03-0
Collana Musica&Parole
Voglio un racconto spericolato (ebook e cartaceo) i racconti ispirati alle (e dalle) canzoni di Vasco Rossi 2011 - 200 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-72-6 Faber: la rabbia, l’amore e le nuvole senza tempo (ebook e cartaceo) i racconti ispirati alle (e dalle) canzoni di De Andrè 2010 - 240 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-23-8
I Quaderni del Loggione
Ricette Fatali 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-97-9 (ebook e cartaceo) Facciamoci una pera! 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-77-1 (ebook e cartaceo) Inzuppiamoci! 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-83-2 (ebook e cartaceo) Finferli, Galletti e Gallinacci 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-74-0 (ebook e cartaceo) Ti do una noce! 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-73-3 (ebook e cartaceo) Le ricette di... (Quaderno) 2012 - Pag 96 - 5,00 euro - ISBN 978-88-95412-69-6 (solo cartaceo) Cuor di Castagna 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 71-9 (ebook e cartaceo) Ricette Balsamiche 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 33-7 (ebook e cartaceo) Cucinare con erbe, fiori e bacche dell’Appennino 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 24-5 (ebook e cartaceo) Bologna la dolce. Curiosando sotto i portici fra antichi sapori 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 26-9 (ebook e cartaceo)
Fuori collana
Le pillole del prof. Bingo 2000-2010 di Vittorio Vandelli (solo cartaceo) dieci anni vissuti pericolosamente nella scuola italiana 2010 - 275 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-14-6 La pizza è rotonda, l’amore no di sca Ferreri Luna (ebook e cartaceo) Come trovare il maschio ideale facendosi invitare a mangiare una pizza. 2009 - 96 pagine - 8,00 euro ISBN: 978-88-95412-08-5 Penne alla bolognese di AAVV (solo cartaceo) 2009 - 126 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-06-1 Radio Bellei, conversazioni con Riccardo Bellei di Alessandro Greggia (solo cartaceo) 2007 - 123 pagine - 12,00 euro ISBN: 978-88-95412-09-2
Autori Vari
La sciarpa gialla
Prima Edizione Ebook 2013 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868100513
Damster Edizioni
Via Galeno, 90 - 41126 Modena
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