Figlia Di Tanit 2b541c

DANIELA FOGAR

Figlia di Tanit Un viaggio alchemico tra Templari, Popoli del mare e culti italici della Dea Madre

Foto di: Daniela Fogar

ISBN: 978-88-97688-14-3 ©2012 Copyright by Venexia Viale dei Primati Sportivi 88 00144 Roma www.venexia.it Conversione ePub a cura di Ledigital

Dedico questo libro a Germano Di Mattia

Ringraziamenti

Grazie a Giorgio Pala, dell’associazione Su Furrighesu di Oschiri. A Sabina Marineo e Renzo Maggiore. A Giancarlo Pavat, autore dell’analisi dell’immaginario dott. Schmidt, e a Luoghi Misteriosi di Isabella Dalla Vecchia. A Robert Valčić, Ada Pieri e don Fabio La Gioia della parrocchia Villaggio del pescatore. Grazie a Lorella Klun per l’immagine di copertina. A Selene Ballerini, Mitja Gustin, Leonardo Melis, Luciana Percovich, Pier Paolo Saba e Paola Mastrorilli.

Prefazione di Sabina Marineo

Un breve romanzo tutto magico, questo di Daniela Fogar, un piatto da gustare con attenzione perché farcito da informazioni interessanti e scritto per gli amanti del mistero. L’autrice rievoca un mondo dimenticato, sconosciuto ai più, fatto di tradizioni antiche, simboli religioso-esoterici, credenze nate nella notte dei tempi. Terre di Tanit, divinità madre del mare nostrum. Le descrizioni e i dialoghi scorrono vivaci, semplici, privi di superfluo artificio, scevri da dotte pretese. I riferimenti al ato giungono alla mente del lettore come fossero suggeriti sottovoce, con gentilezza. Così riaffiorano archetipi assopiti da millenni eppure sempre presenti, memorie storiche sepolte sotto la polvere del tempo, l’odore sulfureo di culti nascosti. La storia di Fiamma propone enigmi affascinanti che la protagonista risolve poco a poco, concentrata e tenace, sollevando con amore il velo di Iside. La ricerca coinvolge il lettore soprattutto perché è un ritorno alle origini, quella via che ognuno di noi vorrebbe percorrere almeno una volta per ritrovare l’identità perduta; inizia con un fiore della vita e si snoda, ando attraverso le vicende dell’Ordine del Tempio, sino a raggiungere il cuore della tradizione sarda. L’iniziale solitudine di orfana svanisce, mano a mano che Fiamma si inoltra lungo il percorso segnato dalle orme degli avi. La sua esistenza acquista un senso. Abile interprete di messaggi, la ragazza riesce a scardinare la porta magica del mito: l’accesso all’orto del destino. E il destino, si sa, riserba sempre delle sorprese…

Monaco, 25 maggio 2011 Sabina Marineo

Introduzione

La ione per la ricerca permea questo saggio-romanzo di Daniela Fogar. Una continua riscoperta delle radici attorno alle proprie terre d’origine sul filo comune di un messaggio che scorre nei tempi, nascosto agli occhi dei più e forse riservato a pochi eletti; come “eletta” sembra essere la protagonista della storia, Fiamma, che si racconta in un incedere parallelo di biografia (la storia famigliare che si svela strada facendo, l’amicizia fraterna e l’amore). Un fiore insolito ritrovato in una chiesa moderna apre le porte a una serie di “rivelazioni” sulla presenza templare nelle zone giuliane, sulla probabile origine “argonautica”, su miscele alchemiche per la longevità che nessuno tra i potenti ha interesse a diffondere. Daniela ci tiene soprattutto a rimettere al centro dell’attenzione la donna, sia in termini spirituali, quale parte creativa e inscindibile dell’umanità, che di incidenza storica. Del romanzo colpisce e cattura soprattutto la parte saggistica, in molti tratti innovativa e foriera di possibili dibattiti sulle teorie esposte. L’autrice sottolinea a più riprese lo sfondo di umiltà che la contraddistingue nella ricerca: formalmente priva di qualifiche riconosciute, ella – spinta dalla sua profonda natura – si avventura attraverso Fiamma nei templi, nei paesaggi unici e affascinanti dell’Italia, sulle tracce di tesori che persino lo Stato sembra aver dimenticato o sottovalutato. E forse anche la Terra vuole così, gelosa dei segreti più reconditi della religiosità e spiritualità umana... La vita stessa della protagonista simboleggia l’esigenza di un equilibrio di Yin e di Yang: il lato femminile dell’uomo, terribilmente trascurato se non cancellato da una certa iconografia sacra, e quello maschile, così prevaricante e tante volte arrogante. La guerra probabilmente continuerà finché gli uomini non riconosceranno la propria componente femminile che tutto accoglie e tutto perdona. Non l’antico “matriarcato” dunque, né tanto meno il deleterio “patriarcato”, bensì l’Equilibrio del saggio, del ricercatore obiettivo e coraggioso che non si ferma davanti al male, a quelle “sette” che tentano di tenere l’uomo nell’oscurità

e che daranno forse il la all’ispirazione dell’autrice per un sequel di Figlia di Tanit...

Trieste, 9 marzo 2012 Renzo Maggiore

Battesimo alle bocche

La biondissima bambina dal sorriso stregato getta a fiotti nell’acqua petali di fiori rossi. Il magico gesto innocente rapisce lo sguardo in nuovi battesimi di luce, reali ninfee. Lievi correnti danno vita a costellazioni di loto i colori degli alberi riflettono su specchi di verde e silenzi. Il poeta appoggia lo spirito su antichissime pietre che conservano altre vite e femminili energie. Gli occhi aperti sulla pace si cullano nelle forme curiose di tronchi e rami sui voli fantasiosi e variegati di oche, tortore, scriccioli e falchi. I cigni riposano in luoghi appartati nelle insenature delle foci. La bambina corre attorno al pozzo segreto e al tempio che lo occulta poi affonda le mani nella fanghiglia delle risorgive per portarsi a casa l’essenza dorata del fiume sacro.

Renzo Maggiore

L’imbarcazione era attraccata nel piccolo porto delle foci. La giornata tersa donava agli occhi la splendida vista dei due fiumi al loro epilogo, con le montagne innevate che sembravano sorgere dal mare e il sole alto a scaldare la terra. Un falco dominava dal cielo lo straordinario panorama. I pellegrini provenienti dall’Asia furono accolti dalle giovani e bellissime guardie a cavallo. Deposero su un banco le loro offerte votive e si misero in coda. A tutti venne offerta una ciotola d’acqua pura del fiume sacro. Dodici alla volta avevano accesso al pozzo di pietra protetto dal tempietto di Tanit. Si immergevano nelle umide terre del mito, accompagnati dalle sacerdotesse della regina. Raggiunta la piccola cascata, si bagnarono completamente bevendo direttamente dagli scrosci. Asciugati dalle inservienti, proseguirono verso la sacra grotta. Lì, si avvicinarono di schiena alle rocce come a formare un cerchio, lasciandosi penetrare dall’energia della roccia e della terra in un silenzio completo. Poi, mantenendo la figura curva e seguendo i gesti di una sacerdotessa, si avvicinarono all’albero della vita che si ergeva al centro della caverna. A turno avanzarono di un o e toccarono il tronco mantenendo gli occhi chiusi e respirando profondamente. Quando tutti ebbero concluso l’esperienza di quello che chiamavano “il contatto con le acque”, iniziarono il canto e la danza delle sacerdotesse. Al ritorno in superficie furono accolti da alcune bambine che offrivano loro un ramoscello d’ulivo e un bicchiere di buon vino rosso. Sparse le risorgive di fiori rossi ed espresso un desiderio, raggiunsero un pozzo a forma di mezza luna, sito vicino al mare. La regina sarebbe convolata a nozze di lì a poco.

Capitolo 1 – Trieste, Solstizio d’estate

Non aveva fretta di uscire. Come ogni giorno, Fiamma avrebbe dovuto percorrere la solita strada, vedere le stesse noiosissime persone, quando avrebbe preferito restarsene a casa con il suo gatto a leggere. E poi sarebbe andata a trovare la zia, a fare spese, avrebbe rimesso in ordine la cucina. Invece l’aspettavano la terribile scrivania colma di carte e le scadenze dell’agenzia assicurativa presso cui lavorava. Ormai giugno stava per finire e il sole splendeva deciso da qualche giorno. Le giornate erano calde e luminose.

21 giugno

L’appuntamento con gli amici era fissato per le undici nella piazza di un paese a qualche chilometro dalla città. Fiamma era arrivata in anticipo, ma non abbastanza da poter fare qualcosa che non fosse restare nei paraggi. Sarebbe rimasta accanto all’automobile se, a un certo punto, non fossero arrivati due ceffi poco raccomandabili che avevano parcheggiato accanto a lei e non le toglievano gli occhi di dosso. A disagio e accorgendosi che l’unico bar vicino era chiuso, decise di superare il cancello della chiesa poco distante e si mise a sedere al fresco, su una panca di legno scuro. Entrando, lesse che si trovava nella Reliquia della Croce, un nome antico piuttosto in contrasto con quella chiesa all’apparenza modernissima, dove solo pochi dettagli del ato erano stati preservati dalla restaurazione. Guardandosi intorno, notò che un’intera parete era occupata dalla rappresentazione di un’Ultima cena, anch’essa recente. Mentre osservava le

fattezze femminili di san Giovanni, Fiamma si soffermò sulle sensazioni suscitate da quella struttura sacra moderna, così diverse rispetto alle emozioni provate nelle chiese storiche, come le pievi della Toscana. Erano i luoghi di culto più interessanti che lei avesse mai visitato in Italia, dove riusciva ad apprezzare la solitudine dopo l’improvvisa morte dei suoi genitori in un incidente stradale. Costruite tra il 1100 e il 1200, al loro interno conservavano segnacoli cristiani e simboli legati a culti dionisiaci, connessi alla divinità agreste Dioniso, ma anche agli antenati etruschi o a credenze ancora più antiche, come i culti dedicati alla Grande Madre, onorata tramite figure di donne danzanti e officianti, oltre a sirene con due code. Assorta nei suoi pensieri, Fiamma non si accorse del tempo che ava in fretta; gli amici dovevano essere già arrivati e probabilmente la stavano aspettando da un bel po’. Mentre usciva dalla chiesa, fu attratta da un insolito battistero dorato, che sembrava molto pregiato. Prestando maggior attenzione, si rese conto che, mezzo nascosto da una sedia, sul pavimento era scolpito un fiore a sei petali racchiuso in una scacchiera quadrata, formata da quattro piastrelle su ogni lato, circondato da un cerchio. Incuriosita, spostò la sedia e il tappeto per osservare meglio la figura: il fiore era bianco e nero come le piastrelle; sembrava corroso dal tempo, perciò doveva essere piuttosto antico. Le sembrò ovvio che il tappeto fosse stato messo lì per nascondere così tanta bellezza agli occhi dei più ed ebbe la sensazione di trovarsi dinanzi a qualcosa di profondamente misterioso. Dimentica del ritardo, toccò istintivamente il fiore con le mani. Un’energia la attraversò e sentì una scossa alla schiena. Lo toccò nuovamente e la scossa tornò, ancora più forte. Solitamente soffriva di un dolore alla spalla destra che non le dava tregua, probabilmente a causa della posizione sbagliata che assumeva sul lavoro: doveva stare molto tempo al computer, cosicché spalla e schiena ne risentivano; ma il dolore sparì come d’incanto al contatto con quella figura. L’impatto la lasciò attonita. Non riusciva a staccare le mani, come se fosse un tutt’uno con il fiore. Quando appoggiò i palmi sul cerchio, ebbe quasi un mancamento. Osservò attentamente le immagini e provò un misto di attenzione e abbandono.

Poi la ragione ebbe il sopravvento e la invitò a ritornare alla realtà: “Purtroppo devo andare”, si disse. Confusa, si fece strada verso la piazzetta, dove però non c’era nessuno. Allora chiamò un’amica del gruppo che venne a prenderla e assieme raggiunsero gli altri del gruppo. “Si può sapere dove ti eri cacciata,?”, le domandò Alessandra con tono seccato quando la vide arrivare. “Conoscendo la tua solita puntualità, eravamo in pensiero!” “Scusate, ho avuto un piccolo intoppo con la macchina”, rispose Fiamma omettendo il vero motivo del ritardo. “Ma ora bando alle ramanzine! Siamo qui per festeggiare il Solstizio e la giornata è incantevole. Godiamocela! Ho anche una certa fame...” La mattinata trascorse allegramente nel bosco, tra ottima carne cotta alla brace, del buon vino rosso e tante risate, ma Fiamma non smetteva di pensare al fiore misterioso e alla straordinaria energia che in qualche modo l’aveva cambiata. La sensazione era che l’avesse iniziata a un insolito ritorno alle origini. Da piccola, la nonna le raccontava che le donne di famiglia erano considerate da sempre delle maghe; lei aveva sempre ascoltato quei racconti con un misto di curiosità e leggerezza, come se si trattasse di favole. Ma quella mattina, distesa sull’erba fresca e profumata, con la terra in rinascita che le donava una gioia e una pace inattese, cominciò a considerare le parole della nonna sotto una nuova luce. Durante la giornata il desiderio di tornare alla chiesa e al fiore si fece sempre più insistente. Alla fine l’inquietudine la spinse a salutare la compagnia prima del previsto, con il sorriso di chi ha in serbo un segreto e con una scusa improvvisata ma plausibile. Sebbene il sole fosse ancora alto, non doveva mancare molto all’orario di chiusura della chiesa, perciò con la mente in subbuglio, ed emozionata come se stesse andando a un primo appuntamento, guidò fino al paese con il piede spinto sull’acceleratore. Giunta sul posto, si accorse che per fortuna la chiesa era ancora aperta. Avvicinandosi nuovamente al fiore dagli strani poteri, il suo primo pensiero fu

che doveva essere molto più antico dell’intera struttura in cui si trovava, e questa riflessione fu sufficiente a trasportarla nel ato. Come se stesse sognando, vide immagini di Templari in cui si mescolavano strani simboli e scene poco nitide, poi tornò improvvisamente alla realtà. La strana visione durò poco più di qualche minuto, ma la destabilizzò non poco. Ancora un po’ stordita, si accorse che si era fatto tardi e che a breve avrebbero chiuso la chiesa, così a malincuore decise di tornare in città. Fiamma era un’apionata di storia medievale ma aveva anche un sesto senso piuttosto sviluppato, che solitamente emergeva nell’attività onirica tramite numeri e date ricorrenti. Inoltre aveva un rapporto particolare con la natura e con gli animali, specialmente i felini. Queste sue inclinazioni fuori dal comune erano collegate alla Sardegna, la magica isola materna in cui Fiamma non era più tornata e dove aveva imparato a considerare la realtà come ben più vasta di quella che appare. Dal lato paterno discendeva invece da tre etnie diverse: austriaca, friulana e toscana. Ora la sua unica famiglia erano l’anziana zia Antonia, anche lei residente a Trieste, e il suo amato gatto, metà siamese e metà persiano. La lontananza fisica di Fiamma dalle sue origini si rispecchiava anche nella sua vita di relazione: a trentasei anni, fatta eccezione per storie poco importanti che non avevano portato a nulla di concreto, non si era mai innamorata veramente. Si sentiva refrattaria a qualsiasi tipo di legame…

Quella notte il sonno fu agitato e pieno di sogni, così la mattina dopo Fiamma decise di andare al mare per far decantare le emozioni. Il pensiero del fiore continuava a tormentarla, e alla fine decise di coinvolgere nella scoperta il suo amico Loris, un uomo avvenente dall’aspetto vichingo che conosceva dai tempi del liceo. Figlio anche lui di un incrocio di etnie, come quasi tutti gli abitanti di Trieste, nel tempo era diventato per lei come un fratello, con cui amava fare lunghe eggiate tra i cespugli e la vegetazione del Carso. Quando tornò dalla spiaggia, con la pelle ancora profumata di sale, lo chiamò e lo invitò a uscire per mostrargli la sua straordinaria scoperta. Per convincerlo a uscire, conoscendo bene la ione di Loris per gli Unni, gli raccontò con tono tra lo scherzoso e il serio di aver forse trovato la tanto cercata tomba di Attila.

Figura 1 - Esempio di croce patente, pieve di Lamula (Toscana)

Quel pomeriggio, mentre si trovavano assieme alla Reliquia della Croce, Fiamma riuscì a esaminare la chiesa con attenzione. Cercando simboli strani su tutte le pareti, notò altre due piccole croci incise: una patente e una forcuta, entrambe di origine templare. Inoltre, ben nascosta, su una pietra logorata dal tempo, era incisa una piccola croce con un fiore a cinque petali al suo interno. Sembrava il simbolo dei Rosacroce, un Ordine segreto associato ai simboli della “rosa e della croce” nato nel XV secolo. Fiamma ricordava che i Templari avevano adottato varie croci nel tempo: la più conosciuta era quella patente, di colore rosso e a braccia uguali che si allargavano verso l’esterno; mentre quella forcuta doveva il suo nome ai bracci, che alle estremità sembravano formare una specie di forca.

Figura 2 – Mandorla mistica

Le pietre con i tre simboli trovate da Fiamma potevano essere state prelevate in qualche altro luogo, com’era consuetudine nel ato. A Trieste e nei dintorni, ritrovamenti del genere non erano inusuali: ad esempio a Muggia Vecchia, una cittadina poco distante dal capoluogo, la presenza templare era stata confermata storicamente da graffiti di epoca medievale e altri simboli attribuibili ai combattenti di Cristo. Nella via del Ghetto, sempre a Muggia, si potevano notare strani disegni scolpiti nella pietra, attribuiti ai cavalieri Templari. Le due piccole croci incise nella Reliquia della Croce erano distanti l’una dall’altra, quasi impossibili da notare. Non molto lontana, era celata la lettera “M” in un carattere di tipo gotico antico. Fiamma pensò che potesse riferirsi a Maria, la madre di Cristo, ma poteva anche trattarsi della prima lettera di una sigla sconosciuta. Era azzardato ipotizzare che la chiesa fosse stata visitata precedentemente dall’Ordine dei Templari? Fiamma aveva visitato di recente la pieve di Santa Maria di Lamula, in provincia di Grosseto, nominata per la prima volta nell’853, che conservava tracce templari evidenti, come una mandorla mistica, un simbolo creato da due cerchi che si intersecavano, detta anche Vescica Piscis e usata dal Medioevo in poi anche dai cristiani. Gesù appariva dentro la mandorla, avvolto da una luce simile a un cristallino emanata dal frutto. La mandorla mistica rappresentava l’insieme di due mondi: i due cerchi simboleggiavano il maschile e il femminile, il buio e la luce. Per la forma particolare poteva essere associata a una vulva e quindi alla Grande Madre, nel suo ruolo di creatrice e apportatrice di fertilità. A Glastonbury, anche nota come l’antica isola di Avalon, in Inghilterra, la Vescica Piscis era diventata un simbolo di venerazione per molte donne, che si recavano in quel luogo in un vero e proprio pellegrinaggio. In Toscana, nel paese di Santa Fiora, poco distante dalla pieve di Lamula,

Fiamma aveva trovato anche un altro simbolo inconsueto: una croce di Caravaca, una particolare croce a tre braccia scolpita su un grande masso, un potente talismano apotropaico che prendeva il nome da Caravaca de la Cruz, luogo di pellegrinaggio sottratto ai Mori proprio dall’Ordine Templare. Sempre a Santa Fiora Fiamma aveva visitato la pieve della Madonna delle Nevi, in cui si trovava un affresco raffigurante san Girolamo, incredibilmente somigliante al volto di Leonardo da Vinci.

Figura 3 - San Girolamo, somigliante a Leonardo Da Vinci (Santa Fiora, Toscana)

Nei pressi di Pienza, nella pieve di Corsignano, aveva invece trovato un simbolo detto centro sacro: un quadrato regolare in cui erano inscritti otto raggi che formavano all’interno due croci greche. Il centro sacro era stato rinvenuto sui graffiti templari nella fortezza di Chinon, in Francia, dove erano stati imprigionati alcuni degli ultimi cavalieri del Tempio. Fiamma aveva letto che tutti quei simboli, legati alla geometria sacra, risalivano probabilmente all’epoca degli antichi Celti. Certo che ne aveva viste, nel tempo, di cose curiose! Aveva avuto persino la fortuna di scoprire delle triplici cinte, quadrati tagliati da linee disposte in croce: reperirne una significava trovarsi in un luogo dove le energie telluriche erano molto potenti, e perciò considerato sacro. I Templari usavano lasciare quei segni nei luoghi che reputavano particolarmente significativi. In seguito, la triplice cinta era divenuto un gioco chiamato Tris, abbastanza conosciuto.

Dopo la lunga immersione nelle associazioni tra fiori, croci e luoghi toccati dai Templari, Fiamma uscì finalmente dalla chiesa. Loris, nel frattempo, si era immedesimato nel ruolo di visitatore solitario godendosi il paesaggio circostante. Nella realtà teneva ben d’occhio che non entrasse nessuno nella chiesa affinché Fiamma potesse condurre la sua indagine senza interferenze. In fondo anche lui era curioso di saperne di più. “Ma chi erano questi Templari?”, le domandò con tono secco, come a voler ricordare all’amica da quanto tempo era ormai lì fuori ad aspettarla. Conscia di aver forse approfittato della pazienza di Loris, Fiamma decise di soddisfare la sua curiosità raccontandogli tutto quello che sapeva in merito: “Quello dei Poveri compagni d’armi di Cristo e del Tempio di re Salomone fu uno degli Ordini religiosi e cavallereschi più noti. Nacque nella Terra Santa a

causa delle guerre tra i cristiani e gli islamici, in seguito alla prima crociata nel 1096. La sua prima missione riguardava la difesa dei tanti pellegrini che si recavano al sepolcro del Cristo. Il pellegrinaggio rappresentava infatti un fenomeno usuale per i fedeli cristiani provenienti da tutta Europa. Fu verso il 1118 che alcuni cavalieri diedero avvio all’Ordine per difendere Gerusalemme, ufficializzato nel 1129 tramite una regola monastica con l’intervento autorevole di Bernardo di Chiaravalle. “La natura contrastante di quei monaci, che erano sia servi di Dio sia guerrieri, suscitò nel tempo perplessità, per non parlare delle fruttuose attività finanziarie cui in seguito si dedicarono, gestendo – a quel che si dice – i beni dei pellegrini e arrivando a costituire il più avanzato e capillare sistema bancario dell’epoca. Cresciuto nei secoli in potere e ricchezza, l’Ordine si fece nemico il re di Francia, Filippo il Bello, il quale, in accordo con il papa dell’epoca Clemente V, non aspettava altro che scagliarsi contro di esso per annientarlo. Fu così che tra il 1312 e il 1314 i cavalieri furono condotti alla prigionia e alla morte. Non restò vivo nessuno, a parte i pochi che riuscirono a fuggire. “I Templari erano identificabili per la loro sopravveste bianca, a cui in seguito si aggiunse una distinta croce rossa ricamata sulla spalla, che assunse infine grandi dimensioni sul torace o sulla schiena. Accanto alla croce rossa in campo bianco, fra i simboli templari c’era il beauceant, il loro vessillo, bianco e nero, come i colori di una scacchiera”.

Pur essendosi imbattuta per le sue ricerche in parecchi oggetti insoliti, Fiamma non si sarebbe mai aspettata di trovare un simbolo così importante come il “fiore nella scacchiera” proprio sotto casa. Dopo aver terminato il racconto, lei e Loris ripresero la strada del ritorno. Fiamma fremeva dalla voglia di tornare a casa per studiare il caso. Si mise a cercare in rete persone che fossero in grado di valutare adeguatamente il suo fiore e, tra i tanti, trovò i contatti di uno studioso di nome Schmidt, di origini triestine, che aveva appena concluso un libro sui Templari. La mattina seguente, dopo un sonno riparatore e un buon caffè, lo chiamò senza esitazioni. Il dott. Schmidt, un uomo dalla voce profonda ma giovane, sembrava disposto ad ascoltarla e valutare il simbolo da lei rinvenuto. Le domandò

soltanto di mandargli una foto per valutare il caso. Fiamma accettò e terminata la conversazione telefonica, contenta di sentirsi sulla buona strada per risolvere il mistero, si immerse nuovamente nella lettura. Su alcuni libri che le aveva procurato la sua amica Alessandra scoprì così che il fiore a sei petali era considerato una sorta di scaccia guai e aveva un grande potere evocativo delle forze del bene; per questo si poteva notarlo così frequentemente sui portali delle case carsiche. Verificò che quello che molti chiamavano “fiore della vita” (ma non era l’unico nome attribuitogli) era in realtà un simbolo adottato dai costruttori medievali e non quindi un’esclusiva templare; conosciuto in diverse culture, ad esempio presso i Celti, rappresentava l’energia solare. Simboleggiava la creazione e per due ragioni: da una parte era legato al mito della genesi avvenuta in sei giorni, dall’altra rappresentava Dio come il Grande architetto. Secondo l’interpretazione cristiana, Dio generava e ordinava il creato con il como, grazie al quale si poteva disegnare un fiore a sei petali, ottenuto dalla sovrapposizione di sei cerchi: la figura poteva quindi rappresentare la struttura del creato. Interpretato come simbolo della potenza vivificatrice e generatrice del sole, era diffuso nei luoghi più svariati del mondo: anche Leonardo da Vinci l’aveva studiato dal punto di vista matematico e aveva disegnato altre figure geometriche che prendevano forma dal fiore originario. La scacchiera era invece il simbolo delle contraddizioni umane ed era tipicamente usata sul pavimento del tempio massonico: la contrapposizione di bianco e nero nello stendardo templare nascondeva probabilmente lo stesso significato; rappresentava qualcosa di analogo al labirinto delle cattedrali gotiche in Francia, una via di purificazione dalle contraddizioni e dal dualismo umano. Fiamma si pose un altro problema: da dove era stato importato l’uso di scolpire il fiore sui portoni delle abitazioni? Esempi di fiori della vita a sei, otto o sedici petali troneggiavano sulle case carsiche, assieme a molti soli raggiati e, benché più rari, ai fiori dell’Apocalisse. Uno di questi spiccava proprio all’interno della scacchiera ritrovata da Fiamma. ando da un libro all’altro, quella mattina Fiamma ebbe modo di studiare a fondo tutti questi simboli. Il fiore dell’Apocalisse era un antico e potente

talismano contro le forze del male. Era presente in molte opere alchemiche e medievali e scaturiva dall’interazione di quattro porzioni di cerchi, a quattro petali, come i quattro elementi dell’universo: Fuoco, Acqua, Terra, Aria, integrati tra loro in un movimento armonico. Il simbolo rappresentava, con i suoi quattro petali, anche i quattro evangelisti. L’unico modo che avevano i prodi Templari per lasciare traccia del loro aggio ai tempi venturi era escogitare un sistema complicato di simboli. Con intelligenza acuta, avevano lasciato i loro segni misteriosi in vari luoghi, a testimonianza della loro presenza e del loro messaggio. Chissà quanti altri aspettavano ancora di essere svelati! Fiamma non poteva non pensare alla croce di Caravaca, a Santa Fiora: nessuno, pur avendola vista quotidianamente, aveva saputo riconoscerla. Era stata Isabella, una sua amica, dopo averla vista in fotografia, a dirle di cosa si trattava e ad attribuirle un nome. Rappresentazioni del fiore della vita facevano mostra di sé dovunque fin dall’antichità. Ad esempio, il simbolo compariva associato a Tanit, una dea venerata dai Fenici. In questo caso, il fiore, anch’esso a sei petali, era raffigurato in un cerchio, sopra la testa della dea.

Figura 4 - Fiore a sedici petali

Capitolo 2 – La scacchiera

Fiamma aveva ormai chiara l’importanza delle scacchiere, perché la particolarità del fiore stava appunto nella sua forma geometrica: si trovava in un cerchio, inscritto a sua volta in un quadrato, e la scacchiera ricordava il pavimento del Tempio di Gerusalemme. La presenza del bianco e del nero era interpretata generalmente come un simbolo della dualità che muove l’universo. A quanto sembrava, le rappresentazioni di scacchiere in Italia erano soltanto due, e si trovavano entrambe all’interno di una chiesa. Ma si trattava di scacchiere semplici, senza altri simboli di ornamento. La scacchiera scoperta da Fiamma, a questo punto, costituiva un’autentica rarità. Perlomeno in Italia. Con i due colori alternati, le riportava alla mente l’immagine del mandala della dea indiana Shakti, un disegno orientale assai particolare, caratterizzato da forme geometriche che predisponevano allo stato di meditazione. Shakti era una manifestazione della forza femminile e una delle spose di Shiva. La dualità del maschile e del femminile si manifestava alla perfezione nell’alternarsi dei due colori, come il giorno e la notte, il bene e il male. Era quel binomio che voleva essere evidenziato dai Templari? Essi, infatti, costruivano i loro templi con pavimenti a scacchiera; usanza poi ripresa dai massoni.

Squilli insistenti distolsero Fiamma dalle sue riflessioni. “Pronto?” Non rispose nessuno. Fiamma riappese la cornetta, ma seguirono altri tre squilli seguiti da altrettanto mutismo. Allora compose il numero di Loris ed ebbe la fortuna di trovarlo a casa.

“Sono preoccupata”, esordì, “la nostra scoperta potrebbe essere oggetto di attenzioni, in particolare ricercatori e occultisti”. “Tu credi?”, fece Loris. “Sì, non vorrei che qualcuno mi avesse vista nei pressi della chiesa mentre scattavo le foto e curiosavo dappertutto.” “Non penso”, rispose Loris con voce decisa, “ho fatto la guardia per tutto il tempo e non ho notato movimenti strani”. “Lo spero davvero. Però mi sembra impossibile che nessuno abbia notato il fiore prima di noi, data la sua particolarità.” Fiamma ricordò le strane coincidenze che il giorno della scoperta l’avevano portata sulle tracce del fiore. “Forse sto fantasticando, ma mi chiedevo se il giorno del Solstizio non sia stata guidata da qualche potere sconosciuto nella ricerca del simbolo. In tal caso, perché l’avrebbe fatto? Non capisco...” “Nemmeno io”, rispose Loris. “Non starai pensando a qualche strana setta con capacità telepatiche, voglio sperare! In questa storia ci manca solo il loro zampino.” “Non lo so… Ho parlato della mia scoperta con un esperto. Non potevo evitarlo, avevo bisogno di informazioni. Però gli ho riferito solo la metà di quello che credo di aver intuito, nessuno è al corrente di dove si trova il fiore, a parte te.” “Quindi possiamo stare tranquilli.” “Il problema è che ho ricevuto un paio di telefonate anonime stamattina, e sono sinceramente preoccupata.” “Ma dai, Fiamma, magari era qualcuno che aveva sbagliato numero.” “Sarà, ma non vorrei essermi messa nei guai”, rispose lei sforzandosi di sorridere per stemperare la tensione. “Credo che da oggi sarà meglio controllare di aver chiuso bene porte e finestre prima di andare a dormire.”

“Sei esagerata Fiamma, il tuo comportamento è completamente irrazionale”, sentenziò Loris. “Sai che sono tutto fuorché una persona ansiosa. È la prima volta nella mia vita che mi sento così, anche se devo ammettere che devo sembrare folle!” Lanciando un’occhiata al suo coinquilino che se ne stava beatamente acciambellato sul divano, Fiamma proseguì con rinnovata enfasi: “Ma se qualcuno entrasse in casa il gatto se ne accorgerebbe, no?”. “Certo”, scoppiò a ridere Loris. “Il tuo gatto, quello che dorme sempre e che venderebbe il suo silenzio in cambio di una scatoletta di carne. Fiamma, non è mica un cane da guardia!” “Ah, questi sono gli unici momenti in cui sento la mancanza di un compagno”, sospirò lei. “Peccato che non riesca proprio a pensare di poter condividere la vita con qualcuno. Sono terribilmente solitaria.” “Sei una donna speciale. Non tutti sanno stare da soli e lo sai bene, questa è una grande virtù, non una debolezza.” “Ma tant’è… Riguardo al fiore, resta il fatto che dovrò evitare di parlarne con altra gente in futuro.” “Fifi”, rispose Loris chiamandola con il solito nomignolo usato dagli amici, “hai fatto bene a chiedere consiglio, non devi rammaricartene. Volevi avere la certezza di aver trovato qualcosa di unico”. Fiamma lo sentì ridere con affetto per poi assumere un tono di paterna serietà: “Ascolta bene. Il dottor Schmidt ti darà suggerimenti certamente utili. Ti sei accorta che ha un cognome tedesco? Sarà tutto di un pezzo”. Risero di gusto entrambi. “Ovvio che l’ho notato. Il padre era triestino, il suo è un cognome tedesco che risale all’epoca dell’impero austro-ungarico, come molti cognomi della nostra città. È una delle ragioni per le quali mi ha ispirato subito simpatia.” “Ora quello che conta è andare avanti”, aggiunse Loris aggiustandosi la camicia dai colori sgargianti, dipinta dalle sue mani d’artista. “Non fermarsi. Questo è importante, come hai fatto sempre tutta la vita, amica cara. Sei stata brava, hai visto giusto. Non farti venire paranoie e prosegui la tua ricerca in tutta serenità.”

“Certo, hai ragione, maestro.” Fiamma si sentì leggermente sollevata. Chiamava Loris giocosamente “maestro” sin da quando si erano conosciuti. Lui ammutolì per alcuni istanti prima di concludere: “Anche se qualcuno avesse mostrato le tue foto, non penso sia così facile identificare la chiesa. Stai tranquilla, il fiore permetterà ogni cosa e ti proteggerà! Sembra inverosimile ma mi sento ispirato nel dirtelo”, e sornione aggiunse: “Testona che non sei altro, non ti accadrà nulla. Ci sono io, smettila di preoccuparti. Facciamo così, dammi qualche minuto e vengo a trovarti”. La proposta di Loris era tutto fuorché campata in aria. La sera prima, mentre saliva le scale della casa a due piani dell’amica, aveva notato due persone mai viste prima che parlavano sommessamente sul pianerottolo. Aveva ipotizzato fossero ospiti della vicina del piano di sotto, ma non appena i due si erano accorti della sua presenza erano andati via in tutta fretta. Sebbene non avesse parlato dell’accaduto con Fiamma per non alimentare le sue paure, sapeva di doverla proteggere. La sentiva insolitamente irrequieta. Era la sua migliore amica, l’unica donna che lo apprezzava per la sua intelligenza e non solo per l’aspetto fisico. Non le avrebbe confessato i suoi dubbi, ma non l’avrebbe lasciata da sola in quell’avventura per nulla al mondo.

Nell’attesa, Fiamma proseguì lo studio apionato. Non si dava pace. Doveva mettere su carta le prime righe di quel complesso puzzle che andava componendosi pian piano. “Dunque, vediamo un po’”, si disse, “nei quadranti d’angolo della scacchiera compaiono quattro simboli. Due sono sicuramente dei fiori a quattro petali, seppur diversi l’uno dall’altro. Uno è noto come fiore dell’Apocalisse e ha i petali scomposti rispetto all’altro, che invece indica solo le quattro direzioni o i punti cardinali. La scacchiera risulta composta da dodici piastrelle alternate e da una più grande, al centro, dove regna il fiore. Siamo perciò in presenza di un gruppo costituito dalla formula ‘uno più dodici’. È interessante il ripetersi di questa simbologia numerica: il sole e i dodici segni zodiacali, re Artù e i dodici cavalieri della Tavola Rotonda, per non parlare di Gesù e dei dodici apostoli. “L’essenza del numero, originariamente, è però connessa a Osiride, il cui corpo

fu smembrato in quattordici pezzi, di cui solo dodici più uno furono ritrovati...”. La storia di Osiride era una delle più belle che Fiamma avesse mai letto. L’amore infinito della dea Iside per il suo sposo fratello l’aveva fatta piangere di commozione. Abbandonate le riflessioni numerologiche, Fiamma viaggiò con il pensiero immaginando la dea Iside in cerca dei pezzi dell’amato Osiride ucciso a tradimento dall’invidioso fratello Seth. Poi, come cavalli imbizzarriti, i pensieri tornarono al presente e la struttura contenente il fiore occupò nuovamente tutto lo spazio della sua mente. A cosa serviva? Perché collocarlo proprio sotto un battistero? C’era forse un nesso con il battesimo? Erano domande che richiedevano risposte. La posizione del fiore presso un battistero poteva far pensare che in sua presenza avessero avuto luogo delle iniziazioni o quanto meno delle investiture, forse ad opera dei cavalieri-soldati. I battisteri erano spesso di forma ottagonale perché ricordavano l’ottavo giorno della creazione, quello della resurrezione di Cristo. Il numero otto... Fiamma non poté fare a meno di pensare a Castel del Monte, in Puglia, la costruzione ottagonale di Federico II di Svevia: ancora non era stato decifrato il suo vero uso. E quel fiore assomigliava ad alcuni mosaici del tempio di Gerusalemme, così inscritto in un cerchio, racchiuso a sua volta da un quadrato. La figura del fiore ricorreva spesso anche in Sardegna, si trovava in Cornovaglia e in Scozia. Fiamma ebbe una specie di intuizione, una di quelle che le giungevano all’improvviso sotto forma di flash. I Popoli del mare lo conoscevano? Furono loro i primi a esportarlo con i loro viaggi nel mondo?

I castellieri e i Popoli del mare

Nelle terre carsiche e nella vicina Istria si possono notare, abbastanza numerose, alcune costruzioni particolarissime di cui nessuno conosce l’esatta origine: i castellieri.

Comparvero a partire dall’Età del Bronzo. Si trattava di piccoli villaggi fortificati che di solito sorgevano sulle colline. Si suppone che le abitazioni interne fossero di legno, poiché non è mai stato rinvenuto alcun materiale a uso interno, quindi gli arredi dovevano essere fatti con qualcosa che si è consumato nel tempo. Fiamma era convinta che una delle ipotesi plausibili sulle origini di queste costruzioni rimandasse ai Popoli del mare. Erano stati viaggiatori instancabili che avevano esplorato tutte le coste conosciute e quelle ancora ignote, perché dunque a nessuno era mai ato per la mente che potessero avere colonizzato anche quelle terre? Secondo una teoria moderna dello studioso sardo Leonardo Melis, i Fenici erano parenti stretti dei Popoli del mare, menzionati forse la prima volta nel 1350 a.C., nelle lettere di Amarna, dove venivano descritti come razziatori del mare e mercenari. In Egitto, nella battaglia di Kadesh, avevano ricoperto il ruolo di guardie personali del faraone Ramses. Nel 2300-2000 a.C., durante l’impero dei Sargonidi, i Popoli del mare erano usciti dalla città di Ur, spinti da una carestia durata più di 300 anni, diretti verso nuovi luoghi più ospitali. Una parte si diresse verso il nord (Penisola Anatolica: Tjekker, Thursha, Likku) proseguendo verso l’Europa centrale; i Sher-Dan risalirono lungo il corso dei fiumi Danubio e Dniepr, fino al Baltico, e colonizzarono la Danimarca, la penisola scandinava e l’Irlanda. Un altro gruppo si diresse verso la Siria e il mar Morto, continuando fino alla Grecia (Akaisha) e a Creta (Pheleset); proseguendo in seguito verso le isole del Mediterraneo fino alla Sicilia (Shakalasha), la Corsica (Washasa) e la Sardegna (Shardana), si insediarono sulle coste settentrionali dell’Africa (Libu). Costruivano le loro città sulle colline. In Puglia si chiamavano Dauni, della tribù di Dan. I primi castellieri erano stati costruiti lungo le coste istriane; queste strutture, interamente di pietra, rappresentavano un megalitismo tipico delle zone greche e mediterranee. “Fenici, Shardana? Chissà”, pensò Fiamma. “Sembra naturale associare il nome alla Sardegna...”

Per quanto ne sapeva lei, i Popoli del mare amavano la libertà e non avevano un vero e proprio stato. Il loro dio maschile era Eracle o Ercole, o il dio Sandan o Sardan. Ma la divinità principale era una dea identificata come la Grande Madre. Veniva raffigurata in statuette di bronzo con le braccia aperte e alzate, come nella posizione di “prendere il cielo”, o anche con un figlio in grembo. In Sardegna se ne vedevano tante di queste fattezze. Fiamma aveva letto in merito un libro che, per la lungimiranza di idee, considerava sacro. Si trattava di un testo scritto dall’archeologa Marija Gimbutas, una donna intraprendente che aveva dedicato la vita, non senza problemi, alla ricerca di manufatti legati ai culti di un’era da lei denominata semplicemente “Matriarcato”, un sistema sociale molto equilibrato senza fratture tra i sessi. Per questi studi era stata osteggiata da diversi colleghi. Di fatto, con i suoi libri aveva tracciato una credibile verità sulla storia delle donne e dell’umanità intera. Come rievocata dai suoi lunghi studi, alla mente di Fiamma si affacciò l’immagine della dea cartaginese Tanit, quella della dea Reitia, venerata dagli antichi Veneti, e la figura stilizzata della “sirena bicaudata”. Tutte e tre si assomigliavano, così inneggianti alla fertilità e alla luna. Sia alle sirene bicaudate (ovvero con due code), chiamate anche melusine dal nome della famosa sirena se Melusina, che a quelle con una sola coda, Fiamma aveva dedicato mesi di ricerca presso alcune pievi toscane, dove le sirene facevano capolino tra le pietre. Aveva così scoperto che la sirena a due code si trovava in alcune sculture romaniche e spesso nei capitelli, come nella chiesa di San Leo in Romagna, o nei portali delle chiese, come nella pieve di Corsignano, nei pressi di Pienza. Di questa pieve, in particolare, Fiamma si era perdutamente innamorata e non vedeva l’ora di avere qualche giorno libero per scendere in Toscana a rivisitarla; adorava quella terra con le sue colline simili a tanti seni benedicenti, circondate dai cipressi. Sembrava un inno alla Dea!

Figura 5 - Sirene della pieve di Corsignano e di San Leo

Le sirene bicaudate erano rappresentate nell’atto di prendere tra le mani le due possenti code e sembravano quasi voler mostrare la vulva. Una dea irlandese, la Sheela-Na-Gig, in una forma anche un po’ più terrifica, raffigurava lo stesso movimento. Fiamma ricordò che nell’epoca della caccia alle eresie, molti dei luoghi preziosi per la cultura e l’arte, come le pievi, spesso visitati dai Templari, avevano visto i loro simboli distrutti assieme a quelli dei culti pagani precedenti. Chissà quante altre figure sacre legate alla Dea non erano sopravvissute. Anche i Templari non avevano fatto una fine migliore. Erano stati accusati dall’Inquisizione di blasfemia ed eresia per l’adorazione di un idolo detto Bafometto, nonché per l’adorazione del teschio di Giovanni Battista, una reliquia da loro probabilmente recuperata in Terra Santa. Lo sterminio dei Templari non poteva ridursi a una ragione prettamente economica, dovevano esserci motivazioni più profonde nella decisione di sciogliere l’Ordine. Avevano scoperto troppe cose scomode per la Chiesa? Una tesi sosteneva che i cavalieri vedessero in Giovanni Battista il Cristo stesso, ipotesi che avrebbe portato a negare la superiorità di Gesù, sulla quale la Chiesa aveva costruito le fondamenta della religione.

Capitolo 3 – I Popoli del mare e il fiume Timavo

Il culto di Ercole, dio venerato dai Popoli del mare, era diffuso nella zona delle foci del Timavo, il fiume misterioso che scorre tra la Slovenia e l’Italia. Per le popolazioni di quei luoghi Ercole era una divinità potentissima: in suo onore venivano offerti alle acque (sia che fossero stagnanti, di fiume o di mare) oggetti di vario tipo, incluse delle spade, legati a offerte votive effettivamente rinvenuti nel fiume. “Chissà quante di queste offerte sono rimaste sepolte e sono in attesa di essere recuperate”, pensò Fiamma mentre approfondiva le sue ricerche leggendo un interessante articolo. A dire del giornalista, secondo alcune ricerche genetiche il DNA degli abitanti delle zone istriane e triestine era, in altissima concentrazione, di origine punica, così come presso gli insediamenti stabili dei popoli fenici, quali ad esempio la Sardegna, la Sicilia, l’isola di Ibiza e, ovviamente, il Nord Africa. Già due elementi importanti accomunavano i Popoli del mare alla zona carsica e triestina. Spinta nella sua ricerca da una voce interiore insistente, Fiamma virò le sue ricerche su collegamenti anche con l’Ordine del Tempio. Decise così di raccogliere ulteriori informazioni sulla via Francigena, percorsa dai cavalieri per arrivare dall’Europa nella Terra Santa. Sembrava infatti che i monaci-guerrieri attraversassero l’intero stivale per giungere in Puglia, a Trani, diretti verso Gerusalemme. Fiamma aveva letto che anche a Osimo, vicino ad Ancona, c’era un loro importante distaccamento. Spesso tornavano nelle loro terre natali con importanti reliquie, come la Sacra Sindone, che si diceva recuperata e messa in salvo da loro. Era anche probabile che fero studi di tipo geomantico, poiché le loro chiese sorgevano su famose ley-line, formate dall’incrocio tra i meridiani e i paralleli energetici della terra, in grado di apportare energie salutari e un senso di pace profonda. Per questo gli antichi le usavano spesso per officiare i loro culti.

Mentre Fiamma pensava alle parole di Rilke, nelle sue famose Elegie duinesi, “Sarà il ato, il ricordo di ieri, a indicarci la strada”, il telefono squillò nuovamente. “Sì, pronto?” “Parlo con la signorina Langiano?” Fiamma sentì i muscoli tendersi. “Sì, sono io. Chi parla?” “Perdoni se la disturbo, mi chiamo Jurman. Ero amico di suo padre...” Fiamma si lasciò cadere sui cuscini del divano. Per troppo tempo non aveva sentito parlare di suo padre e ora, all’improvviso, quella voce sommessa, rispettosa ma carica di mistero, glielo nominava come un fulmine a ciel sereno. Il suo tentennamento non ò inosservato.

Figura 6 – Tanit e i suoi simboli

“Comprendo la sua sorpresa”, disse l’uomo. “Le confesso che sono emozionato anch’io. Sono ati dieci anni...” A quelle parole Fiamma sentì la morsa allo stomaco che l’attanagliava dall’inizio della telefonata allentarsi ed ebbe bisogno di un fazzoletto. “Di cosa vuole parlarmi?”, domandò. “Vede, oltre a essere stato amico intimo di suo padre, sono notaio presso lo studio Jurman & Sons.” “Cosa significa? Non la seguo.” “C’è la questione del plico...” “Quale plico?” L’uomo prese tempo. Non poteva spingersi oltre al telefono. “Guardi, sia gentile, preferirei parlargliene di persona”, aggiunse. Fiamma rimase per un istante in apnea, liberandosi poi in un sospiro. “Cosa vuole che faccia?” “Potremmo vederci nel mio studio sabato, verso il tardi.” “Sabato mattina?” “Sì. Non si allarmi, ma come le ho detto preferisco scegliere un luogo riservato.” Fiamma percepì chiaramente la solita vocina che le suggeriva di non fare domande e si limitò ad accogliere la richiesta dell’uomo. “Sarò da lei a mezzogiorno.”

“D’accordo. Signorina Langiano, la ringrazio. A presto.” “A presto, dottor Jurman.” Fiamma rimase col telefono in mano. Cercò di riordinare le idee, di capire come si sentisse. Solo quando il ticchettio dell’orologio sulla parete del salotto divenne un urlo nel silenzio di quella stanza, cominciò a prendere contatto con i suoi ricordi. Fu letteralmente trasportata un’altra volta nel ato. In un battibaleno i ricordi del padre, ancora vivi, fecero capolino nella sua mente. Le sembrava di risentire la sua voce. “Fiamma, amata, stai tranquilla. Ti prego, sorridi.” Questo e altro le diceva. Alternati a mille pensieri galoppanti, a Loris, alle telefonate mute, le vennero in mente i racconti della sua nonna sarda Agata. Per sette anni i genitori di Fiamma l’avevano portata dai nonni in Sardegna. Il padre adorava la terra della moglie. I più bei ricordi con i genitori erano rimasti lì, nel profondo e verde mare, sulle sue spiagge di quarzo. Una volta, assieme ad Agata, si erano recate nei pressi di Oschiri, il paese natale della madre, a visitare un tofet, il santuario feniciopunico in cui si diceva venissero sepolti i resti dei sacrifici fatti agli dèi. I tofet, dove erano state trovate molte sepolture di infanti, si trovavano nelle zone delle necropoli soprattutto in Sardegna. Al loro interno si praticava il culto di Tanit e del suo sposo Baal. La dea veniva infatti nominata anche “Volto di Baal”. In Sardegna si trovava sovente il suo glifo inciso nella roccia (un semplice triangolo con due braccia aperte). A volte aveva il busto privo di testa, e al posto del capo assente Tanit poteva avere un pesce, una luna, un fiore della vita a sei petali, un albero della vita, delle palme, o altro ancora. Aveva anche un caduceo simile a quello del dio Ermes o Mercurio. Una dea complessa, quindi, piena di attributi. Tra le sue tante peculiarità vi era senza dubbio quello della fecondità e le sue sacerdotesse erano famose astrologhe oppure custodi dei templi dell’amore, una sorta di prostitute sacre, usanza dei tempi antichi.

Per alcune caratteristiche Tanit era simile ad Afrodite, la dea greca dell’amore e della bellezza: includeva perciò diversi aspetti dell’eterno femminino. Il suo simbolismo, semplicissimo, aveva un significato profondo, e a prima vista faceva pensare a Orione, il cacciatore celeste. Ma a guardarlo bene, si capiva che si trattava soltanto di un’impressione. Tanit era una dea, mentre Orione era da sempre associato al dio Osiride. Nelle costellazioni, la dea era sicuramente più vicina alla stella Sirio; il geroglifico di Sirio aveva infatti qualcosa di analogo all’immagine di Tanit: in esso c’erano un triangolo e un altro simbolo simile a una mezza luna e a una stella che ricordava un fiore; uniti e composti, potevano raffigurare Tanit. Fiamma non ne era certa ma l’idea le piaceva. Adorava Sirio, la luminosissima stella che era utile alla navigazione e, guarda caso, secondo lo studioso Mario Pincherle, noto per le approfondite indagini nell’ambito dell’archeologia misterica, Tanit era associata proprio al sestante. Fiamma si soffermò a pensare che i possibili legami tra simboli e divinità, e le congetture in cui perdersi, erano davvero numerosi. Senza contare le ricerche di Abramelin, un mago che aveva raffigurato in molti dei suoi quadrati magici il simbolo di Tanit, forse a scopi alchemici. Insomma, era tutto da scoprire e lei sentiva di avere un contatto diretto con questa divinità, perché la conosceva fin da piccola. Ricordava il tofet vicino a casa della nonna, dove era stato trovato il simbolo della dea rovesciato: una cosa particolare e insolita, forse unica, che all’epoca aveva fatto discutere. Molti anni prima, in Francia, durante un viaggio a Saintes Maries de la Mer, nella Camargue della Provenza se, Fiamma aveva poi rintracciato lo stesso simbolo nell’ambito di una ricerca universitaria. Una zingara le aveva venduto un medaglione con la medesima, inconfondibile immagine. Quando lei aveva chiesto spiegazioni su quello strano oggetto, a suo parere insolito per il popolo di quel luogo, la zingara l’aveva contraddetta: “È la nostra divinità più ancestrale, la nostra amata dea. Rappresenta l’eterno movimento, la malinconia e l’allegria, è il viaggio del nostro spirito. Lei è come il mare. Per noi è assoluta protezione poiché la nostra razza è nomade e vive nel movimento.” “Perdoni”, le aveva risposto Fiamma, “ma questa divinità nei nostri libri viene chiamata Tanit: è una dea di Cartagine, una città nord-africana nell’attuale

Tunisia. Come mai è anche la vostra dea?”. “Noi non possediamo una tradizione scritta, la nostra è una cultura orale, perciò troverà poco o niente di ciò che le sto per dire. Il nome della nostra dea è Rheisia.” “Rheisia?”, chiese Fiamma, sbigottita. “Sì, dall’inizio dei tempi è la nostra dea protettrice; prima di ogni viaggio la invochiamo affinché ci protegga. Mi chiedo se lei sia venuta in questo luogo spinta da interesse personale o per celebrare assieme a noi la festività della nostra protettrice Sara e delle sue compagne di viaggio, le sorelle di Maria, la madre di Gesù.” “Veramente”, rispose Fiamma, “sono qui per uno studio universitario; sapevo poco o nulla di questa vostra cerimonia”. “Le sarà semplice intuire perché il mio popolo è collegato intimamente a Sara, che noi festeggiamo ogni anno il 24 maggio, e sappia anche che non tutte le tribù degli zingari la adorano, poiché siamo divisi in molti ceppi e ognuno ha le sue tradizioni e culti diversi. Il mio tiene in gran conto questa santa Sara.” La zingara era bellissima, vestita elegantemente nello stile tipico gitano; i suoi occhi luccicavano come diamanti nonostante non fosse più giovanissima e Fiamma percepiva che le stava svelando informazioni segrete della sua tradizione spirituale. “Ora le spiego meglio chi è Sara per noi: partì dalla Terra Santa assieme alle sorelle della mamma del Cristo; era la serva egiziana che si imbarcò con loro per approdare in queste terre si in cerca di salvezza dalle persecuzioni in atto contro Gesù e la sua famiglia. Sara è da noi nominata anche ‘Kalj la Nera’ o ‘Santa degli stracci’ perché usiamo vestirla di stracci prima di fare la processione e portare la sua statua, così addobbata, nel mare assieme alle altre due sante. Voi forse la chiamate Maria Maddalena o Madonna nera”, la zingara aveva sfoderato un sorriso di denti d’oro. Sembrava più colta di quanto volesse far credere. Fiamma comprese allora che gli zingari o Rom avevano creato un sincretismo tra la dea Kalj indiana e il culto cristiano; si diceva, infatti, che provenissero dalla lontana India. Ma che collegamento avevano con l’effige di Tanit, al punto di tenerla in così grande considerazione? E se viaggiando nei secoli avessero

importato e fatto loro il suo culto da Cartagine? Fiamma cercò di capirne di più, rielaborando quell’inaspettata conversazione. Considerando che Tanit era una dea dell’acqua, giunse alla conclusione che effettivamente poteva rappresentare una guida o una protezione per i naviganti e per le genti in continuo movimento, come i Rom. Fu allora che tornò con la mente ai racconti della nonna sugli strani riti officiati all’interno del tofet. Si narrava che in quel luogo di sacrificio, citato anche nella Bibbia, i fanciulli venissero sacrificati al dio Moloch, alla dea Tanit e al dio Baal. La nonna Agata era invece del parere che i tofet non avessero nulla a che fare con i sacrifici, e alcuni studiosi, dandole indirettamente ragione, avevano recentemente sollevato l’ipotesi che si trattasse piuttosto di aree di sepoltura vicine alle necropoli, separate in quanto a uso esclusivo delle tombe infantili. A conferma della tesi, anche in altre culture le sepolture dei bambini tendevano a essere separate da quelle degli adulti. Inoltre, Tanit e anche Baal sembravano avere caratteristiche di divinità benevole. La citazione biblica di un “aggio nel fuoco” poteva riferirsi a un rito incruento di iniziazione degli adolescenti, mentre le fonti classiche che sostenevano la storia dei sacrifici umani potevano essere parte di una demonizzazione dei Romani nei confronti dei nemici di Cartagine. La nonna Agata insisteva nel dire che si trattava di cimiteri o luoghi di culto e che fosse normale trovarvi delle ossa. Continuava a dire che quel popolo era troppo evoluto per compiere sacrifici umani, figuriamoci poi quelli di bambini: “La storia racconta”, le diceva, “che venivano sacrificati i primogeniti o altre diavolerie, ma non devi credere a tutto quello che dicono…”. A quel punto la narrazione della nonna si spostava magicamente su un altro argomento caro a Fiamma. “Mia cara, desidero raccontarti dei Fenici, o meglio di quello che viene tramandato su di loro. Venivano dall’Africa e navigarono nel mar Mediterraneo fino a giungere qui da noi. Erano esperti navigatori e commercianti rinomati; producevano la porpora, una sostanza con la quale tingevano ogni tipo di stoffa, dalla lana al lino, e inventarono il color rosso porpora.” Guarda caso, era il colore che Fiamma prediligeva e indossava più spesso; le piaceva alternarlo al turchese.

“I Fenici erano così esperti nelle arti tintorie che i loro manufatti erano richiesti da tutti i popoli del Mediterraneo ed erano oggetto di grande prestigio e ricchezza. Le ‘grandi firme’ dell’epoca, insomma. Lo stesso termine phoinix, ovvero porpora, dette il nome a questo grande popolo. La porpora era una tintura indelebile e quindi molto preziosa. Veniva estratta da un mollusco reperibile sulle coste del mar Mediterraneo. Solo loro, a quanto pare, sapevano estrarre e produrre la preziosa porpora.” Fiamma si perse in quei ricordi così vivi, provando commozione. Poi le tornarono inaspettatamente alla mente altri racconti di Agata. “Il tuo bisnonno sosteneva che l’altare di Santo Stefano, a Oschiri, nel suo insieme, fosse il più bel luogo della Sardegna. Secondo i suoi racconti vi avvenivano guarigioni incredibili. Una volta, una bambina ammalata fu lasciata in un punto preciso considerato ricco di energie telluriche, e straordinariamente guarì, senza più ammalarsi. Da allora vennero in tanti, nutrendo speranze. Sistemati sull’altare, spesso ottenevano la guarigione desiderata. Insomma, si tratta di un posto magico, nipote mia, ricco di straordinari poteri.” E ancora: “Fiamma, ogni tre generazioni nella nostra famiglia nasce una donna dotata di poteri, e tu sei una di loro, sei la predestinata! Sei ancora piccola, ma lo scoprirai col tempo...” Mentre Fiamma ricordava quelle parole profetiche, le sovvenne un’altra immagine: lei e la nonna, mano nella mano, stavano varcando l’entrata del tempio. Attraversando la porta semicircolare (forse un aggio dimensionale), si apriva un varco spazio-temporale verso il mondo delle energie sottili e nell’attraversarlo si provavano felicità e beatitudine. La nonna quel giorno aveva preso nelle mani un po’ d’acqua del pozzo e l’aveva versata in una specie di vaso; poi aveva bagnato la testa, le mani, i piedi e la pancia della piccola nipote. Da quel giorno Fiamma non era più tornata all’altare.

Capitolo 4 – Gli Argonauti

Dove risorge il fiume

Solo vicino alle foci come un argonauta ho viaggiato nell’età del bronzo abitando mondi protostorici. Finita la guerra (come Antenore e Diomede) riposo nella grotta del mitreo. Sull’epigrafe saturnina faccio voto di risorgere da queste rocce di ristagnanti correnti. Da Aquileia a Tergeste o solchi carrai esco dal mio neolitico e risorgiva d’amore

scalo il monte Ermada. Non ti vedo nemmeno dalla vetta ma ti amo fiume del mistero. Solo, vicino alla sorgente.

Renzo Maggiore

Antenor potuit mediis elapsus Achivis

Illyricos penetrare sinus atque intuma tutus

regna Liburnorum et fontem superare Timavi,

unde per ora novem vasto cum murmure montis

it mare proruptum et pelago premit arva sonanti.

(Eneide I, 242-246)

Figura 7 - Fenestrella confessionis

Era mattina e Fiamma aveva preso un giorno di ferie per dedicarsi alle sue ricerche. Quella notte il ricordo dei racconti della nonna le aveva portato sogni strani, di gente di mare che salpava su magnifiche navi antiche per giungere nelle terre carsiche e popolarle di misteriose tradizioni. Effettivamente a Trieste non mancavano leggende di eventi simili. Una famosa riguardava la vicenda degli Argonauti, una cinquantina di eroi greci alla ricerca del “Vello d’oro”, che viaggiavano con una nave di nome Argo, da cui il nome Argonauti. La leggenda diceva che fossero ripartiti verso la terra natia dal porto di San Giovanni in Tuba, presso le foci del fiume Timavo, in provincia di Trieste. Cosa sorprendente per Fiamma, secondo lo studioso sardo Pier Paolo Saba, Giasone e gli Argonauti facevano parte dei Popoli del mare. Forse appartenevano alla stirpe dei Danen o Danai, identificati con i Dauni, dei quali erano stati rinvenuti molti oggetti a loro appartenenti nelle terre carsiche. Questo popolo di provenienza anatolica era stato identificato con i Micenei di stirpe greca. Si narrava che Diomede, l’eroe greco da loro venerato, fosse tenuto in grande considerazione presso le foci del Timavo, al punto di dedicargli un tempio.

Figura 8 - Interno della chiesa di San Giovanni in Tuba

Fiamma scoprì che i numerosi castellieri trovati sul Carso e nell’Istria possedevano numerose similitudini con il megalitismo riscontrabile nello stesso periodo nel mondo miceneo: a dare vita ai castellieri era quindi stato un gruppo etnico sicuramente proveniente dal mare e non ancora identificato dagli studiosi. I Popoli del mare, o Shardana, in questo caso identificati con gli Argonauti, avevano percorso molte rotte per stringere alleanze commerciali. Secondo Saba, erano giunti fino alla Colchide, dove avevano incontrato una popolazione che conosceva i segreti per estrarre l’oro. Un esempio che confermava la teoria secondo la quale potessero appartenere al popolo Shardana era l’estrema similitudine della tomba di Atreo con alcuni “templi a pozzo” (riservati al culto delle acque) edificati dai nuragici sardi. Un pozzo simile si trovava presso le foci del fiume Timavo, all’interno della chiesa di San Giovanni in Tuba. Quando Fiamma ci era entrata per la prima volta aveva notato una somiglianza incredibile con i pozzi della Sardegna. Il fiume Timavo era famoso fin dall’antichità, nominato da storici e poeti, sia latini che greci, che si interrogavano sul suo corso misterioso. Tra questi Strabone, che citava la leggenda del greco Antenore giunto dal mare Adriatico per dedicare, presso il fiume, un tempio a Diomede. Lo citava poi Virgilio nel suo poema L’Eneide e anche Apollonio Rodio nelle Argonautiche, che narravano le vicende degli eroi greci, ripartiti da questo luogo per far ritorno alla patria, dopo la scoperta del “Vello d’oro”. Fiamma sapeva che la spettacolare chiesa in stile romanico-gotico di San Giovanni in Tuba, che sorgeva presso le foci del fiume, era stata costruita sui resti di una basilica paleocristiana. Le voci del luogo narravano che vi fossero custodite alcune reliquie di san Giovanni Battista. I numerosi tempietti votivi dedicati agli dèi pagani più antichi donavano grandi suggestioni ai visitatori del luogo ma dalle indagini fatte nel corso del tempo si era dedotto che la struttura era stata costruita in diverse fasi. Un primo stadio del culto risaliva al V secolo, in seguito erano stati aggiunti l’abside e il presbiterio, e verso il 610 vi era divampato un incendio a causa delle invasioni degli Avari, un popolo nomade imparentato con gli Unni che aveva fatto incursioni in Europa, giungendo fino in

Italia. Durante i restauri nell’anno 1113 erano state riscoperte alcune reliquie nascoste da un abate di nome Germano al tempo delle invasioni avare, e tra queste anche una tomba, lunga 1,70 m e larga 0,81 m, per una profondità di 0,75 m. L’iscrizione del 1113 ricordava che l’abate Germano aveva celato le reliquie, rimaste nascoste per cinque secoli, in una fossa scavata da lui stesso. L’interno della tomba (da cui forse il nome Tuba) era completamente affrescato con rami e fiori azzurri e rossi. Inizialmente Fiamma aveva pensato che fosse strano decorare con un motivo floreale dai colori così delicati la tomba di un uomo. Perciò aveva pensato a una donna, forse scambiata per san Giovanni. Sempre all’interno era stata rinvenuta una lastra con una croce fra quattro rosette; sembrava contenesse le ossa del santo o della santa. Si poteva poi notare la presenza di un foro: la fenestella confessionis, una sorta di piccolo aggio attraverso cui i fedeli in preghiera ponevano i loro oggetti a contatto. Fiamma aveva fatto alcune ricerche per scoprire l’identità precisa delle ossa e alla fine scoprì che quando avevano aperto la tomba, le ossa si erano trasformate immediatamente in cenere, ma era rimasto intatto un abito femminile azzurro che avvolgeva il cadavere. Fiamma sapeva bene che la divulgazione di quella notizia era stata proibita, altrimenti sarebbe stata ufficiale, e che alcune voci parlavano addirittura di Maria Maddalena. Due iscrizioni in latino raccontavano la storia dell’abate Germano. La prima:

Nell’anno 1113, dopo l’incarnazione di Cristo nella Vergine, il magnifico abate Giovanni [forse il secondo nome dell’abate Germano] conosciuto come forte e pio, pieno di ogni bontà, prostrato a letto e gravato da un pesante sonno, avendo avuto un sogno rivelatore in cui gli venne detto di nascondere le reliquie dei santi sotto una pietra, degnamente portò a termine tutte le cose ordinate e subitamente fatta una fossa vi mise le ossa dei beati. I nomi dei santi, lettore che leggerai questa iscrizione, li leggerai nelle note sottoscritte.

La seconda:

Qui sono custodite le ossa dei pii beati (Giovanni il battezzatore) insieme all’altro Giovanni. Ad essi sono congiunti – degni per i meriti e il valore – Stefano e Blasio e pure Giorgio Almo e a questi è aggiunto il forte Lorenzo. Una volta la grande solerzia di Germano, temendo il molto furibondo re degli Ungari, ordinò di nasconderli qui e di celarli con grande attenzione. Così per 500 e forse più anni non si poté sapere dove erano stati collocati.

Quel giorno le ricerche condussero Fiamma anche a una menzione del Timavo da parte di Varrone e Polibio, secondo i quali presso le foci del fiume un tempo era diffuso un antico culto. Sembrava che gli abitanti del luogo chiamassero il fiume “fonte e madre del mare”. Come non pensare a un culto della Dea ? Inoltre, secondo una leggenda, anche l’eroe Giasone e Medea, sorella della maga Circe, avevano visitato le risorgive del Timavo. Nel tempo, il boschetto di querce era stato consacrato alla dea Diana, sopravvissuto nel tempo; vi erano venerati anche Ercole e Saturno, oltre allo stesso dio del fiume: Timavo. Secondo un’altra leggenda, un certo Argonauta di nome Tergestum vi era approdato assieme a Giasone e aveva deciso di stabilirvisi dando vita al primo borgo di Tergeste (Trieste). Le foci delle risorgive, un tempo nove, erano per gli Argonauti la porta per il “paradiso degli eroi”; l’aveva riferito a Fiamma Ada, un’amica che aveva la fortuna di vivere a due i da lì. Secondo Fiamma doveva trattarsi di un enorme cimitero, dove gli eroi volevano essere seppelliti per risorgere come il fiume, nel pieno del loro vigore. Anche il Timavo moriva e risorgeva sacralmente e il suo percorso, nonostante innumerevoli ricerche, restava per gran parte sconosciuto. Il fiume assomigliava pertanto al dio Osiride: entrambi legati al concetto di morte e rinascita. Osiride, inoltre, era il dio egiziano non solo dell’oltretomba ma anche della fertilità e per questo era associato ai fiumi: dove scorre l’acqua nasce la vita. In Egitto infatti si considerava il Nilo come la rappresentazione in terra della Via Lattea; attraversarlo, era come percorrere la strada per il paradiso.

A questo punto, pensò Fiamma, come non pensare a un collegamento con gli Argonauti che entravano in una delle nove foci del fiume, convinti di varcare la porta per l’aldilà?

Le ore per Fiamma scorrevano veloci finché giunse il crepuscolo. Stremata, si accasciò sul divano. Le sue palpebre si stavano chiudendo, non sarebbe riuscita ad andare avanti, era tardi. Il gatto stava salendo sul letto e la luna cambiava il suo ciclo, da crescente stava diventando piena. Dalla finestra Fiamma poteva vederla riflettere sul mare i suoi lunghi raggi argentei. Le cose più belle che poteva ammirare dalla sua casa erano il blu scuro del mare e il cielo pieno di stelle: uno spettacolo straordinario. Le piaceva quell’abitazione, anche se satura di ricordi a volte pesanti da sostenere. Un tempo ci viveva con i genitori. Fiamma non aveva cambiato l’assetto dell’appartamento perché lasciarlo come un tempo la faceva sentire meno sola. Il giorno dopo sarebbe stato il quindici di agosto; ancora due giorni e avrebbe incontrato il notaio. Erano ati due mesi dalla scoperta del fiore, ma le sembravano un’eternità e spense la luce.

Capitolo 5 – Il tempio del dio Mitra, la maga Medea e la Gorgone

15 agosto Al risveglio Fiamma trovò una splendida giornata di sole, il tempo giusto per andare alla ricerca di altri segni. Chiamò Loris. “Ti va di andare al tempio di Mitra, nel pomeriggio? Sarebbe bello staccare un po’, ho deciso di allungare il mio giorno di ferie e vorrei rilassarmi cercando nuovi indizi.” “Va bene.” Loris si mostrava sempre disponibile. “Vediamoci intanto questo pomeriggio. Mi preparo e o da te, Lara Croft.” Avrebbe avuto voglia di far altro quel giorno, ma non riusciva proprio a dirle di no. La fortuna di Loris era poter vivere di rendita, e quindi disporre di una quantità smisurata di tempo libero. Si nutriva d’arte e partecipava come critico a mostre e presentazioni di libri, il tutto a scopo di puro piacere intellettuale. Era un uomo di cultura (si era laureato alle Belle Arti a Venezia) ma anche eccentrico. I suoi quadri erano surrealisti alla pari di quelli del suo pittore preferito, il genio Salvador Dalì. Negli ultimi tempi, però, aveva una nuova ione: la scultura. Componeva vari tipi di installazioni usando diversi elementi materici, che reperiva nei posti più impensati, spesso nei supermercati. Le sue opere erano quotate sul mercato e acquistate da persone facoltose. Fiamma ne aveva più d’una in casa. Quel pomeriggio Loris andò a prenderla con la sua Mini Minor fiammante. Con le macchine fotografiche alla mano, i due amici si avviarono verso il tempio, distante solo mezz’ora dalla casa di Fiamma. eggiando e annusando il profumo dei pini marittimi, Fiamma rifletté sulla presenza simbolica del numero sette. Un tempo erano sette i pianeti conosciuti e il numero ricorreva anche nella struttura della scacchiera del ritrovamento fatto il giorno del Solstizio d’estate: le

piastrelle erano esattamente quattro per quattro, quindi sedici (e la somma di sei più uno era sette). Sedici era un altro numero interessante, perché i Templari spesso usavano il simbolo del sole a sedici raggi. Se l’accostamento del sei e dell’uno all’interno del sedici rimandava al numero sette, quello della perfezione, come prodotto della moltiplicazione del quattro per se stesso era considerato il numero della realtà concreta e della terra. Che la scoperta di Fiamma rappresentasse la perfezione del creato? La numerologia la incuriosiva, ma si trattava di uno studio piuttosto complicato che portava via molto tempo, forse anni. Un’analogia con i pianeti conosciuti all’epoca templare, tuttavia, non era un’ipotesi da scartare. Inoltre la chiesa non si trovava in un luogo qualsiasi, ma esattamente sopra al fiume Timavo. Era stata dunque costruita secondo criteri geomantici? Fiamma si soffermò a pensare come la geomanzia considerasse la terra un vero e proprio essere vivente, attribuendole punti di entrata e uscita delle cosiddette energie telluriche. Come gli agopuntori guarivano il corpo dell’uomo, così esistevano un tempo i guaritori della terra. La teoria sulle particolari posizioni di alcune costruzioni, come i dolmen o le cattedrali gotiche, affermava che non solo queste venivano erette su punti specifici, ma anche tenendo conto delle costellazioni. E pensando al Cristo situato nei pressi della chiesa, vicino al cimitero, c’era qualcosa di inconsueto: sembrava deformato e, pur se realizzato in tempi recenti, mostrava un disegno sicuramente antico e atipico. Le braccia troppo grandi e sproporzionate rispetto al corpo e alle gambe corte ricordavano le similari rappresentazioni dei Catari, che erano soliti mostrare il Cristo con un corpo deforme per evidenziare la differenza tra il corpo materiale e lo spirito, di gran lunga migliore e perfetto rispetto alla grezza materia. Fiamma e Loris imboccarono il sentiero all’interno del bosco. “Loris, lo sapevi che in queste nostre terre abbiamo avuto di aggio dei Bogomili? Scommetto che non sai di cosa sto parlando.” “Effettivamente non ne ho mai sentito parlare. Il nome però mi fa pensare agli slavi, se non erro la parola Boga in lingua slava significa Dio. Erano forse dei seguaci di Dio? Una setta, magari.” “Fuoco! Ora ti spiego perbene cosa fu il Bogomilismo. Sei pronto?”

“Certamente.” “Il Bogomilismo fu un’eresia di fine I millennio, nata verso il 930 d.C. in Bulgaria da influenze dualiste. Tradizionalmente si fa risalire la sua fondazione a un prete, o pope, di nome Bogomil. Era una setta antecedente a quella dei Catari e sembra che questi ultimi avessero ereditato da loro le severe regole di purezza e castità. A Trieste ci sono tracce del loro aggio. Alcuni sostengono che la dolina (una conca chiusa che si riempirebbe d’acqua se le pareti e il fondo fossero impermeabili) nei pressi del paese di Basovizza fu costruita a fini religiosi proprio da loro. “Quella strana dolina, di cui nessuno conosce la vera natura, sembra un osservatorio stellare. Molti la ritenevano associata ai druidi, i sacerdoti dei Celti che pure vennero in queste terre. Una volta un indiano della tribù dei Navaho in visita a Trieste mi disse che la strana costruzione a terrazze (tutta in pietra) e la sua particolare entrata servivano a custodire la tomba di un grande guerriero vichingo.” Le teorie erano tante, la verità ancora misteriosa. “Ci siamo stati anni fa, Loris, ricordi? Quel giorno in cui l’anfiteatro di pietre era tutto coperto dalla neve. C’era un bel cerbiatto che quando ci vide si fermò e dalla paura rimase impietrito a fissarci. Non avevamo la macchina per scattare delle foto.” “Sì, certo, c’era il cerbiatto, ricordo!” “Che l’anfiteatro fu costruito da loro lo asserisce anche lo scrittore Paolo Susmel, un nostro concittadino e grande studioso.” “Fiamma ascolta, senti questo suono!”, esclamò Loris di colpo. “È forse il nostro fiume? Scorre sotto i nostri piedi, lo senti? Evidentemente, è nei pressi del mitreo.” Si incamminarono così sul sentiero ascoltando il respiro del fiume e arrivarono al tempio. Il mitreo era stato costruito durante il periodo romano dai militari persiani al seguito dell’esercito. Mitra era un dio solare e il rituale dei suoi sacerdoti prevedeva sette gradi di iniziazione. Ogni grado era connesso a un pianeta. Il

grado finale culminava nel raggiungimento dell’Illuminazione e nella congiunzione con il dio: l’iniziato diveniva dunque Mitra, combattente del male. Lo avevano rinvenuto intatto, uno dei più belli al mondo, situato in una grotta naturale a dir poco suggestiva. Attorno c’erano soltanto alberi e un paesaggio incantevole: la vista del mare che accoglieva nelle risorgive il fiume con il suo suono rimbombante era semplicemente sensazionale; le suggestioni visive si alternavano a un colore verde acqua che rendeva il posto ancora più incantato. Il Timavo-Osiride sfociava non molto distante, forse a dieci minuti con una camminata di media andatura. Scattarono alcune foto. La fotografia era un loro interesse in comune. A Fiamma vennero in mente le parole di Ada, che spesso si recava presso il mitreo con i suoi genitori. Un giorno le aveva raccontato di aver notato al suo interno la statua di una divinità femminile. “Aveva il capo ricoperto da molti serpenti e gli occhi di uno sguardo penetrante. Era un mezzo busto.” Forse rappresentava Medea o Medusa, la dea che non poteva essere vista pena la pietrificazione. Secondo il mito, era stato Perseo a reciderle la testa, che in seguito fu posta sullo scudo della dea Atena per scoraggiare i suoi nemici. In quanto al serpente, era considerato sacro per le donne a causa della mutazione ciclica della sua pelle, rappresentava la trasformazione e la rigenerazione e quindi l’astro argenteo: la luna. D’altronde, le sacerdotesse greche degli oracoli si chiamavano per l’appunto “pitonesse”. Il cambio della muta della pelle del serpente era in analogia con le quattro lunazioni della luna (crescente-pienacalante-nera), che a sua volta era connessa alla fertilità e alla mestruazione, in un ciclo di circa ventotto giorni. Fiamma ricordò che Medusa era associata alla fase della luna nera anche nel suo ruolo di “strega”, una figura che nelle fiabe dispensava la morte, spesso per generare nuova vita. Era triste, pensò Fiamma, che nel tempo le streghe fossero state associate al male e alla crudeltà, come la stessa dea Ecate che in origine era propiziatrice di vita ma alla fine era stata associata unicamente alla morte. E così Medusa, la Gorgone dai mille serpenti decapitata da Perseo, che segnava la triste fine del Matriarcato. La Gorgone diventava la dea Kalj in India: similmente, la si notava con la lingua di fuori. La leggenda diceva che dalle gocce di sangue della testa di Medusa, recisa da Perseo, nascessero dei serpenti. Ma se il sangue, per allegoria, fosse stato

simbolicamente quello del mestruo (considerato ignobile dagli ignoranti), allora i serpenti potevano trasformarsi in una fonte di guarigione, una sorta di farmaco? A Fiamma vennero in mente i riti delle dakini, le sacerdotesse della Shakti che, nella religione induista, rappresentavano l’energia sessuale femminile ed erano veicoli di guarigione, associate al ciclo mestruale: i loro erano rituali legati al Tantra, una forma di meditazione che includeva l’uso del corpo. Fiamma osservò che curiosamente i nomi Medusa e Medea avevano come radici le stesse due prime lettere, Me, da mens, ovvero “luna”, da cui il termine mensilità. Ada probabilmente aveva ragione: la statua al tempio era davvero Medusa, e nello stesso tempo era Medea, la sposa di Giasone, una figlia della dea Ecate (Signora della notte), che tra le ombre esercitava il suo terribile e violento dominio, mandando demoni (Empusa e le Lamie) a tormento degli uomini e vagando tra i trivi (da cui l’epiteto “Trivia”). Quale dea notturna dei fantasmi e delle malie era naturale che presiedesse alla magia, come maestra di incantesimi, scongiuri ed evocazioni dei morti. Circe e Medea avevano appreso da Ecate la loro arte? Di Ecate erano fedeli ministre? Fiamma non aveva dubbi: le dee serpente indicavano la trasmutazione del corpo femminile che segue il ciclo sole-luna-terra. Tutto coincideva perfettamente: Diana, Ecate, Medea, gli Argonauti e la loro ricerca del Vello d’oro. Tutto si intrecciava con un filo antico, ricco di simbologie. Nel luogo in cui si trovavano lei e Loris si respirava magia. Era una terra che aveva visto leggendari eroi e potenti divinità. “Loris, sai che grazie a scavi subacquei il sito è stato datato intorno al VIII secolo a.C.? Colpì persino la fantasia del poeta e scrittore Virgilio che lo citò ne L’Eneide, oltre a quella di Livio e Plinio. Il mito greco narra che proprio presso lo sbocco del Timavo si concluse il viaggio degli Argonauti, che da qui ripartirono verso casa.” Fiamma camminava alternando le parole ai gesti, mentre attorno si sprigionava l’odore della terra rossa del Carso; le pietre calcaree, gli arbusti e i colori del sommacco davano l’impressione di essere in quei luoghi dalla preistoria. Mentre eggiavano immersi in quella pace, Fiamma e Loris si soffermarono a guardare i muretti in pietra che sembravano dei labirinti, le doline che comparivano ai loro occhi da un momento all’altro e un capriolo che saltò fuori

all’improvviso. Il Carso aveva una vita straordinaria e l’altopiano, a dispetto dell’inquinamento cittadino provocato dalle fabbriche e dalle automobili, era ancora quasi del tutto incontaminato, tant’è che in inverno arrivavano i lupi affamati in assalto delle pecore. Di rado c’erano anche tracce di orso. Fiamma, dopo una pausa riflessiva, riprese la parola. “Un tempo la strada che stiamo percorrendo si chiamava Gemina. Fu costruita dai Romani e collegava molti luoghi: da Aquileia fino alla città di Lubiana. Una superstrada dei tempi ati, per intenderci. “Il nome Gemina, che in latino significa ‘gemelli’, è interessante. Non credi possa essere collegato ai Diòscuri, i divini gemelli figli di Zeus? Facevano anche loro parte della ciurma di Argo.” “Credo sia assolutamente plausibile. Ho letto che gli Argonauti si misero alla ricerca del vello d’oro perché si diceva portasse ricchezza a chi aveva la fortuna di trovarlo e che partirono in molti dalla Tessaglia, tra cui Giasone, Ercole, Teseo, Arianna, Orfeo di Euridice e i Diòscuri. Si dice che fu la maga Medea ad aiutare Giasone nell’impresa con i suoi poteri magici. “Secondo quanto scrive Plinio il Vecchio in Naturalis Historia, gli Argonauti dal mar Nero attraversarono il Danubio e la Sava fino ad arrivare alle Alpi Giulie, trasportando sulle spalle la nave Argo e giungendo nell’Alto Adriatico nei pressi delle foci del Timavo, un tempo porto, da dove ripartirono verso casa. Mi sembra davvero una storia fantastica.” Fiamma sorrise, come se avesse avuto un’intuizione. “Ma non pensi che gli Argonauti possano essere confusi con i Popoli del mare, quelli che un tempo erano chiamati anche Dauni, Shardana o con nomi simili? A casa ho un libro sugli scavi delle necropoli di San Canziano e indovina cosa vi hanno trovato? Numerosi vasi appartenenti al popolo dei Dauni, armi italiche simili a quelle usate dagli Etruschi, detti anche Tursha. Entrambi, i Dauni e i Tursha, avrebbero uno stretto collegamento con i guerrieri-navigatori della tribù di Dan, da cui il nome Shardana. “Mi piacerebbe tessere una trama perfetta del loro aggio, ma dovrei studiare

di più. Guardati attorno Loris, qui non c’è una cosa che sia stata conservata con cura e attenzione. Tutto è lasciato in piena rovina, eppure è un luogo che andrebbe valorizzato, quantomeno per il turismo. Siamo in perfetta decadenza: il tempio di Mitra, la chiesa delle foci e anche il boschetto di Diana... pare quasi che non interessino a nessuno. E vicino alle foci è stata costruita persino una cartiera! Questi posti restano sconosciuti ai più.” Ci pensò su: “Chissà, forse è meglio così!”. “Chissà”, rispose Loris, “forse la terra desidera silenzio per celare al profano la sua sacralità.”

Capitolo 6 – L’analisi del fiore

Man mano che avano i giorni, Fiamma ricordava le informazioni lette nei numerosi libri conservati nella biblioteca personale della zia Antonia, storica per ione come lei. Era sempre più assorbita dalla ricerca, ma cominciava a sentire il bisogno di riprendere la sua vita sociale. Desiderava uscire, vedere gente e distrarsi. Così telefonò a Nina, una cara amica da molti anni: “Ti va di uscire questa sera? Scendiamo in città per una breve eggiata e ci raccontiamo le novità delle ultime settimane”. Doveva staccare la spina, il pensiero del plico che il notaio doveva consegnarle non le dava tregua. Forse si trattava di soldi, e le sarebbero stati utili. Sul lavoro, poi, era sempre più insofferente, non sopportava la monotonia e le malelingue dei colleghi. Una donna sola genera sospetti, spesso invidia, e l’ultima stupida diceria la voleva amante del suo capo. D’altro canto Fiamma era davvero bella, aveva capelli rossi come il fuoco e una pelle che cambiava colore come le stagioni. La madre, quando aveva scelto il nome della figlia, non avrebbe mai immaginato che sarebbe calzato a pennello sulla sua criniera fulva, una particolarità di complesse alchimie genetiche. D’estate il suo colorito diventava tendente al bronzo, mentre d’inverno tornava bianchissimo, quasi spettrale. Fiamma si mise davanti allo specchio. C’era qualcosa di diverso in lei. “Dio mio, come ti sei ridotta!”, si disse dandosi una pettinata. Ultimamente Loris le aveva confessato di trovarla cambiata, aveva perfino scherzato sui suoi capelli consigliandole di prendersene più cura, e lei aveva deciso di accogliere il suggerimento. Nonostante i numerosi ammiratori, era poco interessata alle questioni sentimentali, al contrario dell’amica Nina, che basava la sua vita sulle conquiste

e ava da un uomo all’altro con estrema disinvoltura. Era, insomma, la compagnia giusta per non pensare e farsi qualche risata. La serata trascorse infatti tranquilla. Fiamma si distrasse un po’ e non pensò alla montagna di cose di cui avrebbe dovuto occuparsi al rientro lavorativo. Condivise poco o nulla delle sue ricerche con l’amica. Ritornò a casa in tempo per cominciare a leggere l’analisi del simbolo inviata dal dott. Schmidt:

Gentilissima sig.ra Langiano, spero lei si sia resa conto di aver recuperato qualcosa che ogni studioso di simbologie spera di trovare nella vita. Le informazioni vaghe che mi ha fornito fanno pensare alla presenza dei Templari, come da lei supposto, e le confermo la particolarità e unicità del fiore. Resto a sua disposizione. A seguire la mia interpretazione. Dott. Schmidt

Prima di procedere nella lettura, Fiamma si soffermò a pensare alle crociate in Terra Santa e alle vicende del capo dei Templari, Ugo de’ Paganis. Come aveva raccontato a Loris, i Templari e i Teutonici (i cavalieri di origine tedesca) percorrevano la via chiamata Gemina. La strada, che aveva contribuito a una rapida romanizzazione dell’Istria, partiva da Aquileia e attraversava Tergeste, il distretto delle Alpi Carniche, ando vicino alle moderne località di Matteria, Obrov e Clana da dove, nei pressi di Flumen (la moderna Rijeka), discendeva verso Tersatto per continuare lungo la costa della Dalmazia. Dettaglio interessante, l’itinerario toccava anche il primo tratto della via dell’ambra, che poi proseguiva fino al Danubio presso Carnuntum. Era quindi indicativo che la chiesa Reliquia della Croce si trovasse esattamente su quel percorso. Nel frattempo sul tavolo, in bella vista, una statuetta di Tanit osservava Fiamma intenta nello studio. Era saltata fuori qualche anno prima, durante alcuni scavi nel giardino della casa familiare di campagna, in Sardegna: la madre di Fiamma se n’era innamorata al punto da considerarla una sorta di portafortuna.

Figura 9 - Iscrizione collegata al fiore a sedici petali

A Fiamma piaceva osservarla: un cerchio perfetto e un triangolo isoscele, posti sotto una mezza luna; una bacchetta caducea con due serpenti che, uniti, formavano il numero otto. Per questo motivo la dea era anche chiamata Signora dei serpenti. Ne esistevano diverse rappresentazioni: a volte veniva raffigurata con una mano benedicente ai lati, un pesce o un albero della vita, a volte con le mani sui seni come sua sorella Astarte, e così diventava simbolo di fecondità. Spesso la si identificava con Astarte stessa, in quanto entrambe erano “dee del cielo”. Tanit era associata anche all’albero di palma, che si trovava spesso nelle sue steli. Era venerata a Roma con il nome di Giunone celeste: nella zona vecchia di Trieste, durante degli scavi, avevano rinvenuto una statuina che rappresentava Giunone nella versione di Tanit. Il suo culto era diffuso oltre le colonne d’Ercole (che qualche studioso di archeologia postulava si trovassero in Sardegna), ed era così famoso da dare fastidio alla chiese monoteiste: ne fu addirittura impedita la venerazione a Cartagine, la città di cui era protettrice. Distogliendo l’attenzione dalla statuetta, Fiamma tornò ai Templari e decise di chiamare la sua amica Alessandra, pregandola di informarsi sul aggio e sulle magioni a Trieste dei cavalieri. Poi riprese l’analisi del dott. Schmidt.

Lo splendido fiore della vita da lei scoperto mi lascia senza parole. Al di là della valenza artistica, l’intarsio emerge come un compendio allegorico che rimanda alla complessa simbologia utilizzata nel Medioevo, soprattutto dagli ordini monastico-cavallereschi, in particolar modo dai Templari. Non ci troviamo di fronte alla scacchiera canonica formata da otto per otto caselle, bensì a quella formata da quattro per quattro. Quindi certamente non fu concepita per essere utilizzata nel gioco degli scacchi. Come è noto, il gioco degli scacchi è arrivato in Europa dall’India, tramite i Persiani e gli Arabi. L’espressione “scacco matto” deriverebbe, infatti, dal persiano shah, “re”, e dall’arabo mat, “morto”. A prescindere dal numero delle caselle, la scacchiera può essere vista come un mandala, però di forma quadrata, invece che circolare. Un mandala bianco e

nero, equivalente al simbolo dello Yin e dello Yang, legato a significati connessi alla ciclicità senza fine e al principio degli opposti che si attraggono e si respingono: il maschio e la femmina, lo spirito e la materia, la luce e la tenebra. I due colori, o non colori come sarebbe corretto dire (il nero non è un colore, mentre il bianco è l’insieme dei colori), rimandano nella scacchiera all’eterna lotta tra le forze del bene e quelle del male; proprio come il vessillo bianco e nero dei cavalieri Templari: il beauceant in se, valcento in italiano. Le caselle quattro per quattro alludono, ovviamente, al sistema octale o ottonario. Il numero otto e i suoi multipli, oltre a tutte le figure geometriche a esso riconducibili, come ad esempio l’ottagono, rappresentano ciò che sta tra la terra (generalmente simboleggiata da un quadrato oppure da un cubo) e il cielo (rappresentato da figure circolari o sferiche). Riassume quindi il concetto di equilibrio perfetto tra le energie telluriche e quelle cosmiche, ma anche quello di rigenerazione e rinascita. L’otto rappresenta anche Cristo, Dio fattosi uomo, risultato quindi del divino unito all’umano. Non per nulla il sistema octale venne usato quale principio base per le costruzioni sacre, come la Moschea di Al-Aqsa, costruita dagli arabi sui resti del Tempio di Salomone, dopo la conquista di Gerusalemme nel VIII secolo d.C., e diventata successivamente quartier generale dei Templari. Ottagonale è pure la pianta della Cappella Palatina, della carolingia cattedrale di Aquisgrana, del federiciano Castel del Monte nelle Puglie e di moltissime chiese e battisteri cristiani. Ritornando alla nostra scacchiera, vediamo che al centro delle quattro caselle angolari ci sono alcuni fiori. Nelle caselle bianche troviamo due fiori bianchi a quattro petali inscritti in una circonferenza nera. Questi fiori derivano graficamente dallo stesso fiore della vita, o meglio ancora dal cosiddetto fiore o nodo dell’Apocalisse. I quattro petali indicano i quattro elementi (Fuoco, Acqua, Terra e Aria) e sono legati anche al tetramorfo, la figura che apparve a san Giovanni e che si ritrova nell’Antico Testamento nella visione del profeta Ezechiele, da cui poi furono mutuati i quattro simboli iconografici degli evangelisti: l’angelo di san Matteo, il leone di san Marco, il bue di san Luca e l’aquila di san Giovanni. Nelle caselle nere si osservano invece due rose quadrilobate di colore rosso. Rosso come il corallo, generato dalle gocce di sangue della testa recisa della Medusa. Il corallo rappresenta il fluire del sangue, quindi la vita. Ma pure l’amore. Ecco finalmente, nel grande quadrato centrale nero, il fiore della vita, bianco con una piccola circonferenza rossa al centro. Simbolo antichissimo, è stato rintracciato nei templi dell’Egitto e nelle civiltà dell’Asia centrale; nei siti

megalitici dei Celti, fin nelle necropoli etrusche e nei monumenti romani. Fu utilizzato durante il Medioevo nelle cattedrali, nelle chiese, nelle abbazie, nelle cripte, nelle mansiones dei Templari, sempre in luoghi sacri o legati a forme cultuali. Il fiore venne creato proprio dai primi cristiani, forse perché ricordava il “monogramma di Cristo”, combinazione di due lettere dell’alfabeto greco, la “chi” e la “rho”. Lo chiamarono “sesto giorno della Genesi” in quanto simboleggia il compiersi della creazione: graficamente è infatti il risultato della composizione di sei cerchi intersecati tra loro, con un settimo collocato centralmente, allegoria della “ruota del tempo”, dell’universo che gira implacabile. Richiamandosi alla ruota, e perciò alla circonferenza e alla sua simbologia, il fiore veniva visto come raffigurazione della perfezione divina. È un simbolo solare e pertanto portatore di vita: ma s’intende la “nuova vita”, quella eterna. Il fiore della vita costituisce pertanto un auspicio di resurrezione, ovunque si trovi. Nel Tempio di Osiride ad Abidos, in Egitto, come sulla porta di un sepolcro normanno a Canosa di Puglia, sulla stele etrusca di Vetulonia, a San Giovanni in Laterano, a Santa Maria in Trastevere, o nelle abbazie cistercensi di Valvisciolo e di Fossanova. In molti edifici templari, come la chiesa di Santa Maria del Campo in Istria, quella di San Bevignate presso Perugia, o di San Jacopo a San Gimignano. Oppure sulla facciata della cattedrale di Anagni.

Fiamma lesse quelle parole tutte d’un fiato. Aveva in mano tanti elementi interessanti, eppure sentiva che le restava ancora molto da scoprire. Si mise istintivamente a scrivere per non dimenticare, per dare un insieme logico alle cose. Fino a tarda notte fissò su carta i suoi appunti con le sue ultime considerazioni.

Capitolo 7 – Primi appunti

“Il fiore della vita è parte del pavimento della chiesa Reliquia della Croce, in un paese poco distante da Trieste. Si trova ai piedi di un battistero che sembra più antico dell’edificio attuale, probabilmente ricavato da una costruzione preesistente, del ’300 circa. Non è da escludere che possa provenire da altri siti, forse in seguito dismessi, e che quindi non appartenga nemmeno alla costruzione preesistente. Il simbolo è inserito in una scacchiera atipica, dove il numero quattro assume una rilevanza determinante e, per diversi motivi, ricorda il quadrato del Sator. Quest’ultimo è un quadrato che contiene un’iscrizione latina composta da cinque parole: SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS. La posizione delle parole in quest’ordine forma un palindromo, ovvero la frase resta identica se letta da sinistra a destra, o viceversa. L’iscrizione è stata rinvenuta in reperti archeologici, sia in epigrafi lapidee che in graffiti, e il suo significato, nonostante sia ibile di svariate interpretazioni, non è ancora ufficialmente chiaro: rimane dunque misterioso. “Il fiore della vita che ha sei petali è racchiuso da un cerchio (simbolo del cielo), che si trova a sua volta in un quadrato (simbolo della terra). Il movimento circolare è perfetto, immutabile, senza inizio né fine, né variazione: questo fa sì che possa simboleggiare il tempo, definito come una successione continua e invariabile di istanti, tutti identici gli uni agli altri. Il cerchio è soprattutto immagine dei cicli e delle rivoluzioni celesti, e pertanto dello Zodiaco. È quindi simbolo del cielo cosmico anche nei suoi rapporti con la terra. La ‘trasformazione’ dal quadrato al cerchio indica il aggio dalla condensazione alla rarefazione (dalla terra al cielo), come accade nelle immagini dei mandala.” Ancora: “Nelle zone triestine sono stati trovati riferimenti collegati ai cavalieri Teutonici. Non molto lontano, infatti, nel XII secolo sorse una loro fondazione, il cui scopo era dare ospitalità ai pellegrini tedeschi diretti in Terra Santa. “I cavalieri Teutonici rimasero fedeli fino alla fine a Federico II di Svevia, essendo di origine nordica come il sovrano. Svevi erano pure gli Asburgo, i quali

ebbero dominio su Trieste per molti anni; sappiamo inoltre che Maria Teresa d’Austria si mostrò interessata alla chiesa in oggetto”.

Fiamma rilesse con cura le notizie di Alessandra raccolte tempestivamente presso la biblioteca comunale e formulò le sue interessanti ipotesi. Uno dei simboli situati agli angoli della scacchiera era un piccolo fiore a quattro petali, simboleggiante i punti della croce, i quattro elementi, i quattro evangelisti e pertanto i segni zodiacali dell’Acquario, del Leone, del Toro e dello Scorpione. Nella chiesa il battistero (simbolo di rinascita e purificazione) sembrava essere una delle poche cose antiche e sorgeva sulla strada percorsa dal fiume sotterraneo (tanto simile al fiume infernale della Divina Commedia di Dante, l’Acheronte). San Giovanni, associato al misterioso segno dello Scorpione, era connesso all’Ordine dei Templari, custodi del Tempio di Gerusalemme, da cui avevano preso il nome di giovanniti. Giovanni in Terra Santa battezzò e insegnò il sacramento al Cristo… Fiamma immaginò i crociati che partivano da Trieste per seguire la via Francigena e recarsi nella meravigliosa Trani, e da lì salpare verso la Terra Santa; oppure prendevano la via del mare direttamente dalle foci del Timavo, che tornava alla luce dopo aver attraversato per diversi chilometri cavità e grotte oscure? Morte e rinascita, quindi, trasmutazione delle parti basse, istintuali, in altissime forze spirituali. Alchimia dell’essere, purificazione, battesimo, iniziazione... Le immagini nella mente di Fiamma si susseguivano velocemente: lo Scorpione che si trasformava in Aquila superando le tentazioni della materia per elevarsi allo Spirito (rappresentato dall’uccello che guardava il sole). Un tempo, la costellazione dello Scorpione era nominata Aquila. Nella chiesa c’era poi un altro elemento misterioso: una data che a prima vista sembrava “1766”, l’anno della costruzione della chiesa. In realtà il “7” era con ogni probabilità un “2”. Infatti da alcune ricerche risultava che l’anno di costruzione risaliva al 1266 d.C. circa. Ovviamente l’edificio originario doveva

essere molto più piccolo dell’attuale, quasi una cappella, e aveva, come tante chiese, il suo bel cimitero attiguo. Della chiesa antica restavano purtroppo poche tracce su cui nessuno aveva informazioni dettagliate. Riguardo al pavimento a scacchiera, era presente in molte chiese, secondo il gusto dell’epoca. Fiamma si soffermò sul suo valore simbolico: i due eserciti contrapposti rappresentavano la metafora del mondo nell’eterna lotta tra il bene e il male, ma la scacchiera stessa, con il bianco e il nero contrapposti, comprendeva in sé il concetto di dualismo. Negli scacchi il re era l’elemento maschile e solare con ridotte possibilità di azione, e rappresentava l’ordine e la legge. Al contrario la regina, collegata all’acqua, era libera di muoversi in ogni direzione, aveva libertà di movimento e rappresentava l’altro elemento femminile e lunare. La torre era Saturno, il potere temporale, che si muoveva definendo il quadrato. L’alfiere era Giove, il potere spirituale che definiva il triangolo. Marte era il cavallo, che si muoveva con un salto improvviso: quello intuitivo dell’iniziato. Il pedone, infine, era l’uomo comune che procedeva a piccoli i ma che poteva aspirare a raggiungere mete elevate, compiendo il suo personale percorso iniziatico. Non troppo lontano dalla chiesetta, rimaneva ben conservato il tempio del dio Mitra, la cui data di nascita (il 25 dicembre) era stata sovrapposta a quella di Gesù. I misteri di quel culto si articolavano in riti di iniziazione collegati ai sette pianeti allora conosciuti. E le sedici piastrelle della scacchiera erano appunto legate al numero sette: la perfezione. Mentre il sedici, come prodotto della moltiplicazione del quattro per se stesso, era il numero della realtà concreta e della terra. Come Fiamma sospettava, il fiore rappresentava dunque la perfezione, il cammino dell’iniziato che si rivolgeva agli elementi e ai movimenti del cielo e della terra?

Capitolo 8 – Il grande giorno

17 agosto

Fiamma si svegliò tutta sudata. L’appuntamento con il dottor Jurman incombeva. Si sistemò, cercando di vestirsi nel modo più adeguato: per l’occasione speciale indossò gli occhiali, che le davano un’aria abbastanza seria, acconciò i capelli fluenti e partì. Il notaio era all’apparenza un tipo cordiale, ma l’istinto di Fiamma suggeriva il contrario. Il suo studio era pieno di vecchi libri ingialliti e di polvere. Mentre Fiamma osservava il suo volto coperto di rughe e il lento gesticolare delle mani, si domandò cosa si celasse dietro al loro incontro. Sentiva che stava per accadere qualcosa di straordinario. “Accomodati, Fiamma. Ti do del tu, se non ti dispiace.” Le rivolse un sorriso che non pareva spontaneo. “Forse non ricordi, ma io ti conosco da quando eri piccola. Per questo il mio tono è confidenziale. Sai, ero molto amico di tuo padre, un uomo che rispettavo e per il quale provavo un profondo affetto”, sospirò. “Ah, quando seppi del tragico incidente in cui persero la vita i tuoi genitori provai un dolore immenso, pensando soprattutto a te, Fiamma. Devo ammettere che aspettavo con ansia di rivederti...” Un nuovo sorriso, un’occhiata in tralice. “A distanza di anni, scopro che ti sei fatta una bellissima donna. In effetti il tempo è volato e io sto diventando vecchio. Ora ti darò la busta che ho conservato con cura per te in questa cassetta di sicurezza. Tuo padre me la consegnò qualche mese prima di morire. Non ho mai capito se avesse avuto una sorta di presentimento. Io sono un illuminista, non accetto fatti al di fuori della

logica; ma a quel tempo, ricordo bene, fui colto da pensieri irrazionali.” L’uomo parlava lentamente, con tono intervallato qua e là da brevi pause riflessive. Con flemma, aprì la cassetta ed estrasse la busta. “Non riuscivo a non pensare a quella dolorosa coincidenza significativa. Jung ha studiato a lungo questi fenomeni, sai? Sembrano rari e invece… Ma non spaventarti.” “Dottor Jurman, mi sta spaventando invece. Lei sa bene quale tragedia sia stata per me la morte di mio padre. In questo preciso momento vorrei essere altrove. Non mi sarei mai aspettata, a distanza di tanti anni, una circostanza simile. Mi rincresce di non essere cortese con lei, ma preferirei non si toccassero più certi argomenti. Le chiedo di fare in fretta, sono costernata e un po’ in ansia. Penso sia comprensibile.” Il notaio, indifferente alla richiesta, proseguì. “A pensarci bene, il caro Paolo deve aver avuto proprio una premonizione. Mi lasciò la lettera e poi... Mi dispiace, Fiamma, mi dispiace. Non ti nego che mi sono sempre interrogato sul contenuto di questa busta, ma mi terrò la mia maleducata curiosità, del tutto illegittima, e non ti importunerò oltre. Permettimi soltanto di dirti che, come feci con tuo padre, sarò disponibile per qualsiasi tua richiesta. Non esitare a rivolgerti a me, se dovessi averne bisogno.” Indugiò. “Eccola. Prego, prendila. È stato un piacere averti rivista. Mi ricordavo una bella bambina dai capelli rossi e ora ho davanti una donna nel pieno della sua maturità. Toglimi una curiosità, ti sei sposata? Hai figli?” Fiamma accennò un sorriso. “No. Dopo la morte dei miei genitori ho lasciato gli studi”, aggiunse quasi a volersi giustificare, poi scosse il capo e ribadì: “Niente marito e niente figli”. “Ma di certo sarai molto corteggiata.” Fiamma si sentiva in imbarazzo. Non le piaceva la piega che la conversazione stava prendendo. Osservando meglio quell’uomo, capì che la irritava. La sua prima impressione stava divenendo una certezza: “È viscido”, pensò. Come a confermare i suoi pensieri, l’interlocutore insistette.

“Tuo padre sarebbe stato fiero della tua bellezza”, le garantì con un nuovo sorriso. “Era un grande uomo.” Stava rigirando il dito nella piaga. Per fortuna, quella sorta di monologo elogiativo volse presto al termine. “Abbi cura di te. Ecco, tieni anche il mio numero di telefono personale per ogni evenienza.” Glielo scrisse su un biglietto congedandosi. “Arrivederci, mia cara.” “Grazie e arrivederci”, rispose seccamente Fiamma.

Si fermò sul marciapiedi. Era disorientata, toccava la busta nell’attesa di aprirla e il cuore le batteva forte senza alcuna possibilità di fermarlo. Chiamò Loris al cellulare. “Loris, ti prego, vieni da me appena puoi. È urgente!” “Sei andata dal notaio?” “Sì. Sto rientrando ora con la busta di papà. Non ho il coraggio di aprirla da sola, ho paura. Ce la fai a essere da me tra un po’?” “Sì, tranquilla”, rispose l’amico. “Aspettami, cercherò di arrivare prima possibile.” “Grazie. Ti aspetto.” Salendo le scale, Fiamma ripensò al suo fiore: da quando lo aveva scoperto non c’era giorno che non fosse illuminante o sconvolgente. Jung? Le “coincidenze significative” non erano più un segreto per lei. Aprendo la porta, proprio in quel momento il telefono cominciò a squillare. “Pronto, sono Sebastiano Filangeri, cerco la signora Langiano.” “Sì sono io, chi parla?”

“Sono il figlio di un amico di suo padre, non so se ricorda il mio cognome.” “No, mi spiace.” Il nome le sembrava familiare ma non ricordava altro. “È una questione importante. Sono stato convocato questo pomeriggio dal dottor Jurman, lo stesso notaio che l’ha ricevuta stamane. Così almeno mi è stato riferito. Mi ha consegnato una lettera.” Lettera? Quella parola le sembrava insopportabile. “Ho saputo che la volontà dei nostri genitori era di farci conoscere in questo preciso momento della nostra vita. Mi scusi ancora, sono molto perplesso. Un po’ sconvolto, per dirla tutta. Vorrei leggere la mia lettera assieme a lei, se non le crea troppo disturbo e se me lo concede, ovviamente.” La voce di quello sconosciuto le piaceva e paradossalmente un po’ la rasserenò. Non voleva perdere tempo in chiacchiere e gli rispose di istinto: “Se desidera are da me, venga stasera, l’attendo, così ne parliamo a voce. Abito in via dei Bastioni, numero sei, nel rione di Gretta. È una casetta a due piani; la trova alla fine della salita. Sa come arrivare?” “Sì, non si preoccupi, grazie.” “Potrà cenare con me, se lo desidera.” “Allora sarò lì alle venti, puntuale.” Fiamma riordinò sommariamente la casa. Aveva qualcosa di pronto nel congelatore e non sarebbe stato un problema preparare una cena discreta. Aprì la lettera del padre. Nel frattempo, Loris accorse trafelato. “Mi dispiace, Fiamma, ho poco tempo da dedicarti; puoi raccontarmi tutto velocemente? Ho alcuni problemi urgenti insorti all’improvviso, cerca di capire...” Fiamma gli riassunse il possibile e ben presto si ritrovò sola con la lettera tra le mani, il suo ato, il presente e un pezzo di futuro. Loris non si era pronunciato e una lacrima le scese veloce nel vedere la scrittura del padre, poi pianse a dirotto.

Per Fiamma, l’amore della mia vita.

Amatissima figlia, innanzitutto devi sapere che il mio amore per te è stato e sarà per sempre immenso. Non sentirti mai sola, perché ti sarò vicino in eterno. Immagino che, al momento, la chiave che hai trovato nella busta e le mie parole ti sembreranno assurde. Sono entrambe legate al patto che io e Filangeri stringemmo un tempo. Avevamo un segreto che ora vogliamo rivelare a te e a Sebastiano. Prima ci era impossibile farlo. Si tratta di una ricerca per così dire storica, che facemmo quando tu eri ancora piccola. Non ne abbiamo mai parlato con nessuno. Cara Fiamma, la seconda parte, quella che lasciamo in sospeso, la dovrete scoprire voi. Questo per evitare pericoli, nel caso questa lettera fosse arrivata in altre mani. Siamo certi che la nostra ricerca vi apionerà. Tu e Sebastiano avrete le chiavi di un tesoro e sarà solo vostra la decisione se conservarlo per voi o meno. Non ti preoccupare, però. Ripeto, abbiamo aspettato tutto questo tempo per evitare che ciò vi potesse nuocere. A distanza di tanti anni siamo quasi certi che nessuno vi verrà mai a cercare, ma non si sa mai. Comunque sia, state attenti alla “setta dei Devoti”, così si fanno chiamare. Sono un gruppo di fanatici che si dichiarano seguaci di un certo Ferdinand von Hompesch (Gran Maestro dell’Ordine di Malta), che lasciò Malta dopo che fu conquistata da Napoleone Bonaparte. Assieme ad altri Cavalieri dell’Ordine trovò rifugio in Italia presso la nostra città, Trieste. Qui ricostituì con grande difficoltà il suo Ordine. Hompesch era una gran brava persona ma, a quanto sembra, non i suoi seguaci.

Fiamma ricordava quel personaggio, Alessandra aveva fatto delle ricerche e il suo nome era comparso tra i documenti come una figura di grande rilievo. Del resto niente di strano, a Trieste erano ati più o meno tutti. I “Devoti”, che strano nome, pensò.

Fiamma, devi sapere che questa setta è in guerra col mondo intero; gli affiliati aspirano ad accumulare grandi ricchezze, anche se in parte già ne hanno. Molti vivono in incognita e ricoprono ruoli di rilievo, sono individui spesso potenti all’interno della società. Vogliono governare il mondo e per farlo devono avere conoscenza, potere e tanto denaro così da poter corrompere più coscienze possibili.

Fiamma pensò alle coincidenze che volevano Trieste sede dell’Ordine Teutonico, soppresso anch’esso da Napoleone e ripristinato dagli Asburgo.

Quella dei Devoti è una setta che ha soprattutto interessi di carattere finanziario, contrari alla ricerca della verità nel caso questa intralci i loro affari. Sono spietati nell’eliminare qualsiasi prova dell’esistenza dei Templari, che considerano da sempre nemici. Avrai altre indicazioni che ti servono per scoprire dove si trova il tesoro collegando la tua lettera a quella in possesso di Sebastiano. Suo padre era come un fratello per me. Nel momento in cui leggi, anche lui come me sarà defunto. Per noi questa scoperta era così importante da celarla al mondo intero, ma non potevamo andarcene senza lasciare un’eredità del nostro lavoro. E a chi, se non a voi? Dovete cercare un luogo non lontano dalla nostra città: una chiesa molto antica, che a vederla ristrutturata sembrerebbe moderna. Al suo interno potrete notare un simbolo dorato con una piccola croce centrale, che sembra essere anch’esso piuttosto antico e proviene dall’edificio preesistente, come l’acquasantiera posta nel cimitero attiguo. Qui un tempo si trovava una preziosa reliquia portata dalla Terra Santa, un pezzo della Croce del Calvario. Abbiamo sempre saputo che la nostra chiesa era un importante punto d’accoglienza per i pellegrini intenzionati a percorrere il cammino di Santiago di Compostela, oltre che per chi si accingeva a partire da Trieste in direzione Terra Santa; a testimonianza di ciò, trovammo una conchiglia, detta “conchiglia di San Giacomo”, e un bastone da pellegrino, entrambi alquanto logorati dal tempo. Devi sapere che i pellegrini, che iniziavano il percorso verso il famoso cammino di Santiago, usavano come

simbolo proprio una conchiglia. Questa, oltre alla funzione figurativa, era utile per raccogliere l’acqua e dissetarsi durante il faticoso tragitto. Con una conchiglia venivano officiati anche i primi battesimi cristiani. Il bastone e la conchiglia non furono però le sole cose che trovammo... guardando bene una pietra nei dintorni, Filangeri notò un pilastro con sopra incisa la croce detta di San Giacomo, alquanto consunta. Giacomo è la figura che più ricorda il cammino dell’iniziato. Per arrivare a Santiago i pellegrini dovevano percorrere migliaia di chilometri e affrontare diversi pericoli; avevano dunque bisogno di protezione: per questo si costituì un Ordine di cavalieri incaricati di salvaguardare la sicurezza dei coraggiosi fedeli. Più o meno come accadeva per i pellegrini che si recavano in Terra Santa. Il culto di San Giacomo si diffuse enormemente. La sua croce presenta caratteristiche del tutto particolari: termina con una punta di freccia e, da quel che ci risulta, non ne hanno trovate di così antiche come la nostra. Tra i vari reperti, ai piedi di un crocifisso, trovammo il segno di un chiaro sincretismo gnostico-egiziano. L’immagine si riferisce a un gallo che sovrasta un serpente aggrovigliato a un caduceo piuttosto robusto. Saltò fuori, inoltre, una specie di anfora. Questi simboli riportano senza dubbio a Esculapio o Asclepio, dio della medicina. Il gallo che annuncia il nuovo giorno e il serpente che cambia la pelle sono simboli di rinnovamento e guarigione. Essi ci fecero intuire di essere nei pressi di un luogo sacro, dove qualcuno praticava l’antica arte della medicina o della farmacopea, nell’osservanza di un culto gnostico cristiano. Un luogo che scoprimmo avere effetti miracolosi, tant’è che Gianfranco Filangeri guarì di un disturbo cronico semplicemente stando seduto all’interno di quello che era l’antico chiostro. In seguito, trovammo un’iscrizione che nominava tre monaci templari che praticavano l’arte dell’alchimia: Guillelmus de Villel, Bertrandus de Aguaviva e Berallus de Mirabel. Erano tre nobili che facevano parte dell’Ordine dei Cavalieri di San Giacomo della Spada, e che nel loro monastero custodivano una reliquia che si pensava fosse andata persa: una spina della corona del Cristo. Furono accusati di eresia, di stregoneria, di omosessualità e di altre pratiche inverosimili e, dopo la persecuzione di Filippo il Bello, nel 1310 d.C. furono inquisiti e forse uccisi. Riuscirono però a nascondere “il mistero” più sacro, che costò loro la vita. Ora è in mano nostra! Non sappiamo ancora perché il destino abbia voluto metterci nelle mani una simile fortuna, ma se questo ha un senso, e deve averne uno, era doveroso lasciarlo a voi.

Le nostre ricerche però non finirono lì. Filangeri non si dette pace e continuò a cercare finché trovò un’altra pietra con inciso un rosone sulla parte destra e tre iscrizioni. La prima era praticamente impossibile da decifrare, mentre la seconda, con inscritta la frase Hoc opus magister Georgyus fecit, riporta delle cifre e sembra indicare la data di costruzione di un’altra domus. Filangeri trovò poi le immagini di due volatili, due ibis dalle chiare sembianze egizie, e un altro vaso simile a un’anfora. Comprese che si trattava di simboli alchemici di grande portata. Ricordi il libro che avevamo letto per il tuo esame sul simbolismo medievale? Fiamma, quante ore abbiamo trascorso a studiare assieme? Mentre scrivo ricordo con piacere quei momenti… Filangeri si era addentrato anima e corpo in questa ricerca e coinvolse anche me; una ricerca che divenne, oltre all’amore per voi figli, la nostra ragione di vita.

Mentre leggeva, tra la sorpresa e la tenerezza, Fiamma accennò un sorriso, pensando agli intrecci del destino: anche lei aveva coinvolto Loris nelle sue ricerche.

Cara, la cosa si faceva giorno per giorno sempre più avventurosa. Andammo casa per casa a controllare se ci fossero altri pezzi importanti da recuperare per comporre il puzzle. Tornando al paese in questione, sull’architrave di un’abitazione notai un tempietto in bassorilievo che, per diversi aspetti, viste le palmette, la mezzaluna e le mani sul seno, rimandava al culto della dea Tanit, che tu puoi ricordare poiché la conosci bene sin dall’infanzia.

Fiamma si accasciò nuovamente sul divano. Questo era davvero troppo!

Cercammo di capire se qualcuno avesse importato il suo tempietto devozionale da altrove. Ci è stato impossibile contattare la famiglia, perché la casa risultava

abbandonata e nessuno ne parlava volentieri; era chiusa da anni e il proprietario viveva probabilmente in Turchia. La presenza del fiume Timavo ha reso questa terra sacra a molte genti di stirpe diversa. I culti dedicati al fiume Nilo erano gli stessi officiati al Timavo! Devi sapere che il trasporto di un cadavere attraverso il Nilo era paragonabile al viaggio dell’anima nel cielo, ovvero lungo il sentiero della Via Lattea. Per poter incontrare Osiride, bisognava dunque percorrere questa via. Il “Timavo-Nilo” era il fiume dei morti che l’anima dei defunti doveva superare se voleva raggiungere l’aldilà ed elevarsi; come percorrerlo se non via terra, dal momento che il fiume è perlopiù sotterraneo? La funzione delle piramidi egizie, per quanto possiamo capire, era di assistere il faraone nell’ultimo viaggio sfruttando l’arte delle corrispondenze: come in cielo così in terra. Io e Filangeri abbiamo scoperto a San Canziano, in Slovenia, un culto alla Dea in forma di civetta, dell’Età del Bronzo, rivelatosi fondamentale per comprendere il ato della nostra terra. In seguito, nello stesso luogo, dopo due anni di ricerche piuttosto ardue, abbiamo appreso che i corpi di guerrieri rinvenuti in queste zone con i loro armamenti appartenevano in realtà a donne guerriere. Le Amazzoni seppellivano in questo luogo le loro regine o principesse! Qualcosa le aveva condotte fin qui dal Mar Nero e dalle steppe russe. Fiamma, non posso scrivere di più. Se le cose andranno come penso, avrai già trovato la lettera di Sebastiano e ulteriori indicazioni. Spero tanto che in lui tu possa trovare un grande amico. Mi raccomando, sii sempre serena e gioiosa. Non dimenticare mai i giorni ati assieme e abbi cura di te. Chissà se hai già finito i tuoi studi. Nel caso, dottoressa Fiamma, potresti scrivere un libro al riguardo. Ora ne sai di cose! Vai avanti, prosegui sempre. Ricorda il nostro motto: “Mente e cuore insieme, e resistere”. Amata figlia, che gli angeli del Paradiso ti proteggano. Ti abbraccio, papà.

Fiamma rilesse la lettera più volte, aveva bisogno di elaborarne il contenuto e sapeva che non sarebbe stato facile. Mentre era assorta nei suoi pensieri, sentì suonare il camlo. “Buonasera, Fiamma, sono Sebastiano”, le disse l’uomo sulla soglia. Fiamma d’improvviso sentì il ritmo del cuore accelerare. “Prego, accomodati.” Sebastiano era alto, magro, con occhi e capelli scuri. I riccioli gli davano un’aria sbarazzina. Fermò lo sguardo sul suo viso: le era familiare, le piacque subito. A sua volta Sebastiano le fissava i capelli, lei se ne accorse e con le mani cercò di sistemarseli, ma erano incredibilmente ribelli. “Ho preparato una cena veloce, spero non sia un disastro. Non ho avuto tempo per cucinare altro oggi.” “Va benissimo, grazie. Non dovevi disturbarti”, rispose lui entrando in casa e nel vivo dell’argomento. “Non so da dove iniziare, ho con me la lettera. Contiene un codice numerico e il nome di una banca, la Monte dei Paschi di Siena dove, secondo le indicazioni della lettera, dobbiamo recarci assieme. Pensavo di andarci lunedì, sempre che a te vada bene.” Guardandolo, Fiamma notò che aveva occhi magnetici e profondi. “Sebastiano, io ho una chiave oltre alla lettera di mio padre”, gli rivelò. “Hai trovato una chiave?” “Sì, era nella busta.” “Bene, è di una cassetta di sicurezza a nostro nome. Il codice è 29P639X.” “Dice altro la tua lettera?”, chiese Fiamma. “No, nient’altro.” Fiamma porse quella di suo padre a Sebastiano.

“Leggi e immagina come posso sentirmi dopo queste notizie”, gli confessò con un mezzo sorriso. Si guardarono in silenzio. Poi Sebastiano abbassò gli occhi sul contenuto del foglio che aveva in mano e lesse tutto d’un fiato. “Bene”, disse alla fine, “allora tutto coincide: i nostri genitori hanno studiato un piano per noi. Come in un film!”. Gli scappò una risata maliziosa. Fiamma a quel punto decise di raccontargli della sua scoperta e non si lasciò sfuggire alcun dettaglio. Gli descrisse per filo e per segno i suoi ragionamenti, che a lei sembravano incoerenti e bizzarri, mentre a Sebastiano apparivano più che sensati. Mangiarono velocemente, perché in quel momento era importante comunicare e creare un rapporto di totale fiducia. Le ore volarono in fretta e si fece tardi. Si salutarono promettendo di ritrovarsi il lunedì mattina per la visita alla banca.

Fiamma restò nuovamente sola, ma i pensieri ricercavano il volto nuovo e attraente di Sebastiano. Dirigeva una ditta di import-export a Trieste e, durante la loro conversazione, aveva dato spesso prova di una cultura molto vasta. Avrebbe potuto innamorarsi di quell’uomo, si disse mentre era di fronte allo specchio: i suoi occhi brillavano. L’indomani avrebbe ripreso con gli appunti e il lunedì mattina sarebbe andata alla banca e poi al lavoro. Chiuse la porta e accese la piccola luce che teneva sempre accanto al letto per la notte. Guardò alla finestra: la luna era alta, crescente. Si ripromise di iniziare a cercare tutte le notizie possibili sul aggio delle guerriere Amazzoni. La teoria sbalorditiva del padre doveva avere un fondamento; non era il tipo da inventarsi cose! Eppure nemmeno uno studioso aveva mai sospettato che alcuni dei corpi e delle armature rinvenuti in quei siti appartenessero a donne, per di più guerriere! Le Amazzoni e le loro strutture sociali simili a quelle delle api affascinavano Fiamma da sempre, ma ora doveva saperne di più. Su questo pensiero si addormentò serenamente.

Capitolo 9 – Le Amazzoni dell’Età del Bronzo e i culti della Dea Madre

I primi raggi del sole facevano capolino e filtrarono nella sua camera. Fiamma si svegliò baciata dalla luce del mattino, con il gatto che le faceva le fusa per comunicarle che era affamato. Gli preparò velocemente il pasto, bevve un caffè lungo e con gli occhi ancora chiusi per il sonno riprese in mano i vecchi testi universitari. Il primo a cui decise di dedicarsi quel giorno era una specie di vangelo per chi studiava l’archeologia dal punto di vista del Matriarcato, scritto dalla sua autrice preferita, la studiosa lituana Marija Gimbutas. Nel suo Linguaggio della Dea, Fiamma avrebbe trovato quello che cercava sulle Amazzoni e sui culti della Dea. Si trattava di un libro molto amato dalle donne sul cammino del femminino sacro e alla ricerca delle proprie radici.

La venerazione della Grande Madre risaliva al Paleolitico e al Neolitico ed era connotata dalle numerose Veneri rinvenute in Europa, testimoni di una religiosità che teneva in gran conto il femminino. Nelle culture matriarcali alle donne spettavano ruoli di governo e di gestione della sfera spirituale, mentre gli uomini erano incaricati di dedicarsi alla sussistenza del clan. La Gimbutas aveva dedicato una lunga parte del suo libro alla dea chiamata nelle aree balcaniche “Civetta”, “Dea Uccello” o “Dea Occhio”, di cui Fiamma aveva acquistato una statuina in un mercato della Croazia. Ricordava anche di aver visto alcune strane bambole in un museo, raffiguranti dee matriarcali classificate come “bambole da gioco per bambine”, rinvenute presso alcuni castellieri. Lei era invece convinta che dovesse trattarsi di statuette votive, create per ottenere grazie dalla Dea o per favorire la fertilità, oppure che fossero semplicemente raffigurazioni della Dea Madre. Erano infatti assai simili alle Veneri di Lascaux e alla Venere di Laussel, o “Venere con cornucopia”, con fianchi grandi e seno prosperoso, accompagnate da oggetti simbolici. La Venere di Laussel, ad

esempio, stringeva nella mano destra un corno sul quale erano presenti tredici tacche, indicanti le tredici lunazioni che compaiono nell’arco di un anno. Purtroppo le ricerche archeologiche tradizionali non sembravano indirizzate a studiare i sistemi antichi di stampo matriarcale, e quindi molti oggetti erano stati valutati in modo errato. Ma cosa intendeva esattamente suo padre parlando di culti della Dea a San Canziano? Doveva scoprirlo. In uno dei suoi libri Fiamma trovò una citazione di Sarah Nelson, un’antropologa dell’università di Denver, esperta in archeologia: “Archeologi di sesso maschile stanno scavando da anni sepolture militari di alte caste descrivendole come maschili ma, in effetti, sono spesso femminili”.

Le Amazzoni erano considerate dai Greci come un pericolo: il loro messaggio era decisamente sovversivo poiché libero e indipendente dall’egemonia maschile. Un motivo più che sufficiente per eliminarle. Eracle, Teseo, Achille e altri eroi si erano battuti contro di loro. Il potere della spada, simboleggiante “il maschile”, aveva iniziato purtroppo a infiltrarsi nei pacifici regni del Matriarcato. “E questo sopruso continua indisturbato anche ai giorni nostri”, rifletté Fiamma con amarezza. Trovò del materiale riguardo alle grotte di San Canziano e alle zone circostanti, definite il più grande canyon sotterraneo conosciuto al mondo, di una bellezza rara. Un tempo, narrava la leggenda, vi si era stabilita una sibilla che viaggiava con grandi cavalli neri che sputavano fuoco come draghi. In base agli scavi archeologici, sembrava che le grotte fossero state abitate fin dalla metà dell’Età della Pietra. In una di esse erano stati rinvenuti reperti unici in Europa: quasi mille oggetti che andavano dal XII al VIII secolo a.C., la maggior parte di carattere guerriero. Ciò aveva indotto gli studiosi a pensare che ci fossero collegamenti con i “culti del fuoco” o con gli “dèi dell’oltretomba”, o perlomeno con divinità legate alla guerra. Sempre dalle sue letture, Fiamma evinse che in un deposito già scavato in precedenza, oltre a frammenti di recipienti databili secondo gli esperti all’inizio dell’Età del Ferro, vi era stata rinvenuta anche una quantità eccezionale di resti ossei appartenenti ad animali domestici e selvatici, lì precipitati o sacrificati. L’interpretazione del luogo era stata problematica: restava l’idea che fosse una grotta votiva, utilizzata poi come

antro sepolcrale, dove venivano conservate spade e varie armi, o sacrificati animali. Nella necropoli di Brezec, sempre in quella zona, le tombe più antiche conservavano lame e asce di ferro, in anticipo di qualche centinaio d’anni rispetto alla diffusione del metallo nell’Europa centrale. La venerazione di Reitia, divinità degli antichi Veneti, era nata in seguito in questi stessi luoghi. La dea era considerata la fonte di ogni cosa; tesseva la tela della vita, come le tre Parche o le Moire, e presiedeva alle nascite e alle morti. Ogni creatura le apparteneva. Era Signora degli animali selvaggi, dei boschi (come Diana) e delle acque (come Tanit o Iside). Era anche venerata come la dea della scrittura. Il suo emblema era una chiave e in diverse raffigurazioni compariva assieme al lupo e all’anatra. Fiamma scoprì che perfino nella Grotta degli scheletri, nei pressi di San Canziano, era stata rinvenuta una situla di bronzo che sul bordo superiore presentava un’incisione in lettere paleovenete: un’iscrizione dedicata alla dea Reitia. La situla era un vaso utilizzato da molte antiche civiltà mediterranee, soprattutto in ambito cerimoniale: durante l’Età del Ferro ne facevano uso Veneti, Etruschi, Celti e Germani. A Fiamma vennero in mente le parole della zingara che aveva parlato di una divinità di nome Rheisia, molto simile a Reitia. Sempre nella zona attigua a San Canziano, in una necropoli definita “celtica”, in alcune tombe erano stati rinvenuti dei torque a nodi, che l’archeologo Gustin considerava femminili, a differenza della cuspide di giavellotto e dell’ascia, tipicamente maschili, trovati in altre sepolture del luogo. Il torque era effettivamente presente in corredi sia maschili che femminili. Era usato tradizionalmente dai Celti e aveva valore sia di connessione con il Divino sia di protezione in battaglia; veniva inoltre indossato come simbolo di libertà. Quindi, perché non supporre che nelle numerose tombe trovate nella zona di San Canziano, più di una cinquantina, gli arsenali appartenessero a capi clan di sesso femminile? Non sarebbe stato un fatto isolato: in Italia, precisamente a Oleggio, era stata rinvenuta una tomba femminile detta della Rikanas, nome femminile di Rigos, che non voleva dire esattamente re o regina, ma capo tribù. La tomba custodiva armi e, dai resti osteologici, si era confermato il sesso della persona a

cui apparteneva la sepoltura: una donna. Sempre a San Canziano, nel 1908, un contadino aveva scoperto sotto una grande lastra ai piedi del muro di un castelliere, a circa un metro di profondità, un tesoretto composto da 1170 frammenti, di cui 497 ambre di vario colore e forma, spesso non rifinite, che sembravano associate alla famosa via dell’ambra; erano inoltre stati ritrovati numerosi oggetti in bronzo (anelli, bottoni, pendagli, bracciali, fibule, un torque liscio con pendaglio a doppia spirale), una cinquantina di perle in pasta vitrea, alcune fusaiole in osso, anelli a nodi e a spirale. Secondo gli studi condotti sul materiale, tutto concorreva a far pensare che questo tesoretto appartenesse a una provvista di riserva, tipica dell’Età del Bronzo. Fiamma invece si domandava se non fosse piuttosto il tesoro delle guerriere della necropoli vicina.

Per quanto riguardava i Veneti, erano una tribù proveniente dalla Frigia, una regione storica dell’Asia Minore. Si erano stabiliti nella penisola anatolica che, fin dall’epoca preistorica, era stata un centro del culto mediterraneo della Grande Dea: a Çatal Hüyük erano infatti stati rinvenuti statuette e oggetti legati alla religione preistorica della Dea. Si ipotizzava che i Veneti fossero originariamente stanziati nell’Anatolia centrosettentrionale, una regione confinante con il paese delle Amazzoni. Fiamma ricordò inoltre una leggenda che circolava da tempo sul Carso triestino, secondo la quale da qualche parte era nascosta la tomba di Attila con il suo favoloso tesoro. Ma nessuno lo aveva mai trovato. D’altronde, dal II secolo d.C., il Carso era stato soggetto a continue invasioni barbariche: vi erano ati Alarico, Attila, Odoacre; Teodorico era entrato in Italia dal valico di Postumia e veva sconfitto gli Eruli di Odoacre nel 489 sulle rive dell’Isonzo, dando inizio al regno dei Goti. Sugli Unni Fiamma trovò indicazioni interessanti. Era una popolazione nomade nella quale le donne combattevano come gli uomini a cavallo, indossavano abiti maschili e non si sposavano prima di aver ucciso un nemico in battaglia. Dopo le terribili devastazioni degli Unni guidati da Attila in Italia, si erano rinvenuti cadaveri di guerriere completamente armate. L’archeologa Jeannine Davis Kimball aveva studiato a lungo questo popolo, concludendo che le donne a quel

tempo godevano di un’importanza e di un potere inimmaginabili ai nostri tempi. Scriveva la Kimball nel suo libro Donne guerriere, le sciamane della via della seta:

Mi accorsi che le fanciulle e le matrone nomadi delle steppe, che combattevano coraggiosamente a cavallo dei loro destrieri o che leggevano il futuro con l’ausilio dei loro specchi di bronzo, erano presenti nelle società arcaiche di tutto il mondo. Molte appartenevano a società guerriere, ad apparente predominanza maschile, che incrociarono in qualche modo i percorsi delle donne dei Sarmati. […] Ogni scoperta che facevo mi costringeva ad andare più a fondo per scoprire la storia nascosta di queste donne; alla fine la mia ricerca arrivò a includere la Grecia dell’età dell’oro, il regno di terrore dei Vichinghi, le regine guerriere dei Celti e le lottatrici alle corti dell’Impero Mongolo.

Tutto però aveva avuto inizio nelle pianure del Kazakistan, presso i tumuli sacri dove i nomadi dell’Età del Ferro un tempo seppellivano i loro morti.

Fiamma ripensò agli antichi culti delle acque celebrati alle foci del Timavo, diffusi anche in Sardegna attraverso la costruzione di pozzi a forma di utero o di mezzaluna. Il Popolo del mare che aveva risalito con le sue barche il mare Adriatico aveva costruito sulle sponde del fiume un pozzo sacro, simile a quello di Santa Cristina, in Sardegna. Questo straordinario luogo sacro era stato la meta di molti eroi in ricerca dell’immortalità e di benedizioni. I nomi illustri legati al Timavo, come quello del dio Saturno e di Ercole, nonché di san Giovanni Battista, infervorarono la fantasia di Fiamma, che correva a briglie sciolte come il cavallo bianco della leggenda cavalcato da Diomede e imbarcato sulla nave Argo in quelle terre. Che la leggenda avesse ispirato la benedizione dei cavalli officiata a San Giovanni in Tuba ogni 24 giugno? Fiamma ripensò a Ercole e ai bronzetti a lui associati, rinvenuti vicino a casa sua, nel rione di Gretta, che le ricordavano quelli degli eroi nuragici. Il giorno dopo avrebbe dovuto svegliarsi presto per andare con Sebastiano alla

banca. Fremeva, ma forse più per la voglia di rivedere lui. Socchiuse gli occhi, mentre il ricordo della voce del suo nuovo amico si mescolava a immagini di dee ed eroi.

Capitolo 10 – L’incontro

Banca, otto e trenta di lunedì mattina. Per l’occasione Fiamma aveva indossato un abito verde che metteva in risalto i suoi capelli rossi. Lui arrivò vestito in modo sportivo ma curato: giacca rigata bianca e nera con una camicia che poteva essere quella di un principe, lavorata sicuramente a mano, e un paio di jeans eleganti. “Entriamo”, la invitò. “Il direttore ci aspetta, gli ho già anticipato quello che ci serve per telefono.” “Bene”, rispose Fiamma. “Temevo di dover spiegare tutto e non sarei riuscita a spiccicare mezza parola.” Il codice apriva una cassetta di sicurezza che conteneva un’altra busta. Quando la aprirono, Fiamma e Sebastiano rimasero di stucco. Al suo interno si trovavano una lettera e gli estremi di un conto corrente intestato a entrambi, al quale riuscirono ad accedere anche grazie all’aiuto del direttore di banca, scoprendo che conteneva una somma ingente di danaro. Fiamma, commossa, non sapeva se ridere o piangere dalla gioia. In un istante il suo sogno di una vita si tramutava in realtà: grazie a quei soldi avrebbe potuto licenziarsi e dedicarsi alle sue nuove ricerche, in attesa di trovare un impiego più stimolante. Aprirono la lettera, che conteneva una riga concisa:

Carissimi, questo è il nostro ultimo pensiero per voi. Ora riposeremo in pace.

Sbrigate le ultime pratiche burocratiche, Fiamma corse in ufficio e chiese di parlare con il suo capo. La accolse nel suo studio dopo qualche minuto: “Ciao

Fiamma, dimmi tutto”. “Ecco, so di darle un dispiacere ma ho intenzione di dare le dimissioni. Vista la stima reciproca, ci tenevo ad avvertirla prima di inviarle la lettera di licenziamento.” Un’espressione di sorpresa si dipinse sul volto dell’uomo. “Come mai? Così, all’improvviso…” “Lo so, può sembrare tutto molto strano e, mi creda, se avessi potuto gliene avrei già parlato qualche tempo fa. Ma il destino non dà quasi mai il preavviso e in questi giorni ha deciso di portarmi su altre strade.” “Quindi è proprio decisa?” “Sì”, rispose Fiamma con un tono di voce nuovo che stentava perfino a riconoscere. “Va bene, quand’è così non posso certo trattenerla. Non le nascondo che mi dispiace di perdere una collaboratrice come lei, ha sempre dato il massimo.” “Anche a me rincresce”, rispose Fiamma ammorbidendo il tono di voce, “ma non sono più in grado di garantirle la professionalità con cui ho lavorato sino a oggi.” Quando uscì dalla stanza, ringraziò il suo ex capo per la comprensione e lo salutò, sapendo in cuor suo che quell’arrivederci detto a voce bassa per contenere la felicità era in realtà un addio.

“Sebastiano, l’ho fatto, mi sono licenziata!”, esclamò al telefono. “Ora sono una donna libera.” Si incontrarono nel primo pomeriggio per una gita fuori Trieste. La loro prima tappa fu Aquileia, poi si recarono a Grado e infine si fermarono a Ruda, dove trovarono una chiesetta deliziosa di accertata origine templare. Alla fine cenarono in un agriturismo, degustando il frico e altri prodotti tipici friulani. Fiamma era raggiante: Sebastiano era un compagno perfetto con cui poter

parlare di tutto. Lei detestava le persone banali, ancor meno gli uomini in cerca di avventure facili. Con lui invece non si annoiava mai e sentiva una sintonia perfetta. Avevano gli stessi gusti musicali, a entrambi piacevano i film gialli, specialmente se si. Amavano Parigi, il Louvre, Notre Dame, la cattedrale di Chartres e gli sketch comici di Mister Bean. “Buonasera, Fiamma, ti disturbo?” Una telefonata improvvisa interruppe la loro eggiata rilassante. “Sono il dottor Jurman, ricordi?” “Certo.” Fiamma non era affatto contenta di sentirlo. “Forse mi riterrai inopportuno, ma volevo sincerarmi che tu stessi bene dopo aver letto la lettera di tuo padre…” Il notaio lasciò la frase in sospeso, nella speranza che Fiamma la concludesse con qualche commento, ma lei rimase in silenzio. “Sì, insomma, spero che non ti abbia destabilizzata.” Fiamma non rispose. “Non volevo sembrarti invadente”, aggiunse, “ma sei la figlia di un caro vecchio amico e sentivo il dovere di informarmi. Non importa, se hai bisogno di me, per qualunque cosa, sai dove trovarmi.” “Me l’ha già detto, la ringrazio. Non esiterò a contattarla se dovessi aver bisogno di aiuto”, rispose Fiamma mettendo velocemente fine alla conversazione. Non le piaceva il tono di voce dell’uomo e confidò a Sebastiano la sua pessima sensazione a riguardo. Lui la rassicurò con poche parole, facendole dimenticare l’argomento nel giro di qualche minuto. Le sfiorò la mano e lei sentì un lungo brivido attraversarle la schiena. Poi la guardò a lungo e i loro occhi sembrarono non volersi più staccare. Stava iniziando un amore? Rientrarono stanchi ma soddisfatti della bella giornata trascorsa, dandosi appuntamento per il giorno dopo. Rimasta sola in casa, Fiamma si accostò alla finestra come faceva ogni sera e vide un uomo fermo sul marciapiede, appostato in ombra a qualche metro dal palo della luce; al momento pensò fosse Sebastiano, ma si sbagliava. Il volto era di uno sconosciuto.

Fece qualche veloce supposizione sulla possibile identità dell’uomo, ma poi si lasciò trasportare dall’emozione dei momenti magici appena trascorsi. Era serena e felice, per la prima volta nella sua vita sentiva di provare per un uomo qualcosa di più forte di una semplice sbandata. Chiuse la tenda e si diresse verso la camera da letto. Era stanchissima e aveva bisogno di dormire per elaborare nel sonno tutte le novità di quella giornata. Mentre lanciava un’occhiata alla luce sul comodino accanto al letto, pensò a Loris e si addormentò con la promessa di chiamarlo il mattino seguente.

“Come stai, carissimo?” “È successo un guaio stanotte”, la informò l’amico. “Sono entrati i ladri in casa. Cercavano qualcosa e mi hanno lasciato due righe stampate in cucina con un pennarello rosso. Hanno scritto: Ciò che non è vostro spetta a noi! Fiamma, credo siano per te queste parole...” Fiamma sentì il fiato mancare. “Non ci posso credere, mi sembra impossibile! Però… Loris, ieri notte ho visto uno strano tizio giù per strada. È rimasto a lungo sotto casa e tu... tu devi fare una denuncia. Immediatamente!” “Già fatta, mi sembrava il minimo. La cosa strana è che non ci sono segni di scasso. Sono entrati dalla porta di ingresso, come se avessero le chiavi di casa.” Sentiva Loris piuttosto turbato e rimasero entrambi in silenzio. Fiamma ripensò alla telefonata del notaio, all’avviso del padre di fare attenzione ad ogni o. I suoi sospetti non erano infondati. Qualcuno aveva cominciato a interessarsi un po’ troppo alle sue ricerche, forse la setta dei Devoti che Fiamma aveva completamente rimosso dalla memoria. Per agire in quel modo dovevano essere persone potenti, spinte dal desiderio di impossessarsi di qualcosa di unico. Suonò il camlo. Dopo aver provato a tranquillizzare Loris e averlo congedato, Fiamma corse alla porta e sentì la voce di Sebastiano. Lo accolse con un abbraccio e lo aggiornò subito sull’evento.

“Fiamma, non temere”, fu la prima cosa che le disse stringendola a sé. “Sono certo che in qualche modo abbiano saputo della lettera. Forse ci spiavano da tempo. Tuttavia non possiamo cedere davanti a queste minacce; oramai ci siamo dentro e dobbiamo continuare. Cosa stiamo cercando di tanto temibile e prezioso?” D’istinto Fiamma pensò alla reliquia dei tre monaci templari, i tre alchimisti vittime dell’Inquisizione. Forse avevano lasciato traccia dei loro studi da qualche parte. Era tutto così enigmatico. E se la sua scoperta avesse avuto qualcosa a che fare con quella del padre? Se a guidarla verso il fiore, quel ventuno giugno, fosse stato il padre stesso? Gliel’aveva detto: “Fiamma, ti sarò sempre vicino, in qualsiasi modo possibile”. Certo, il mistero si faceva fitto e la tela del ragno sembrava volere incastrare proprio lei. Forse allontanarsi un po’ dalla città le avrebbe fatto bene. Era stanca, in quei giorni le emozioni erano state davvero forti e il suo cuore reclamava un po’ di pace. Questo avrebbe significato allontanarsi anche da Sebastiano, ma doveva riordinare le idee anche nei suoi confronti. Si stava lasciando andare un po’ troppo alla fantasia dell’amore corrisposto. Che ne sapeva di lui? Magari aveva una fidanzata, non si erano mai confidati sulle loro vite. E poi si conoscevano da così poco tempo… Allontanarsi sì, ma per andare dove? L’unico posto che poteva proteggerla era la Sardegna, e precisamente la casa materna nel paese di Oschiri, in provincia di Olbia-Tempio. Lì abitavano i suoi parenti e i sardi erano un popolo ospitale, legato ai culti familiari, che l’avrebbe accolta con gioia. Non si soffermò a pensarci più di tanto. Aveva deciso.

Quel giorno stesso prenotò in fretta, dal cellulare di un’amica perché temeva che il suo potesse essere sotto controllo, il traghetto della Sardinia Ferries, la compagnia marittima che l’avrebbe traghettata a Olbia, dove avrebbe preso la corriera per raggiungere il paese. Era impaziente di rivedere le spiagge colorate della Sardegna, il mare e suo cugino. L’aereo le dava sempre una certa apprensione, meglio evitarlo se possibile. Non era il momento per altro stress. Oschiri l’aspettava con i suoi lunghi silenzi e la sua profonda quiete.

Salutò in fretta gli amici e avvisò i parenti del suo imminente arrivo. L’indomani si sarebbe svegliata nella sua terra, quella che tanto sentiva nel cuore e che non rivedeva da tempo immemorabile.

Capitolo 11 – Oschiri

L’aria era pulita e l’odore del mirto, ancora forte nonostante la stagione inoltrata, aveva riempito la stanza. Fiamma si svegliò con il canto degli uccelli e rimase incantata a guardare alla finestra le piantagioni degli alberi da sughero. Quegli alberi erano straordinari, alteri, benché fossero stati denudati della loro corteccia. Un sacrificio del “popolo in piedi”, come li chiamavano i Nativi americani, per il benessere dell’uomo. “Sei sveglia, Fifì, posso entrare?” Era Giorgio, suo cugino, che viveva per la terra e per portare avanti le tradizioni del popolo sardo. Quando non lavorava, dedicava il suo tempo a far da guida ai turisti. Pur essendo molto colto, era una delle persone più semplici e ospitali che Fiamma avesse mai conosciuto. La gente del posto lo considerava una sorta di sciamano: gli chiedevano consiglio per ogni cosa e lui aveva sempre una risposta per tutti. Oschiri, “un paese davvero insolito” come lo definiva la nonna, era per Giorgio e Fiamma un luogo sacro, una riserva di misteri archeologici unica al mondo. Di fronte alla chiesa di Santo Stefano, all’interno di un boschetto a nord dell’abitato, si ergeva una pietra dalle dimensioni particolari, composta da granito, di una lunghezza di circa dieci metri e segnata profondamente da alcune incisioni che riproducevano consecutivamente triangoli, quadrati e cerchi. Quelle figure geometriche erano ancora un mistero. Rimaneva un enigma soprattutto l’altare di Santo Stefano, posto di fronte alla chiesa: non era ancora dato sapere chi l’avesse creato e per quale scopo. Vicino alla struttura si percepiva di essere davanti a qualcosa che inneggiava alla vita. I riti più ancestrali convergevano in quel sasso, nelle sue ripetute coppelle. La gente che l’aveva costruito l’aveva fatto certamente prevedendo una sua funzione specifica, che Giorgio conosceva bene ma non voleva rivelare affinché gli altri ci arrivassero da soli. Studiosi di talento si erano cimentati nel tentativo di decifrare l’origine del sito, ma le loro speculazioni rimanevano ancora teorie senza un vero fondamento.

Oltre all’altare, nel luogo abbondavano parecchie domus de janas, le case delle fate sarde, mentre altre meraviglie attendevano di essere dissepolte. “Quasi quasi faccio le valigie e mi trasferisco qui”, esclamò Fiamma rivolgendosi a suo cugino. “Potrei comprare una casa e avviare un agriturismo o un bed and breakfast.” “Non dirlo cugina, fallo!”, la incoraggiò Giorgio. “Lo sai che sarebbe una gioia averti con noi. Potresti aiutarmi con l’associazione archeologica visto che di cose ne sai.”

Figura 10 - Altare di Santo Stefano (Oschiri)

“Ora vado a farmi una eggiata e ci medito su, ma sappi che al ritorno mi dovrai dedicare il tuo tempo. Ho tante cose da raccontarti.” “Ok. Mi raccomando, non perderti nelle radure! Mi sembra di sentire la nonna che ti suggeriva sempre di stare attenta alle jana, le streghe del bosco che nel migliore dei casi ti fanno smarrire la strada, ma può accaderti di peggio. Ricordi la storia di quella ragazza che andò a lavare i panni e tornò muta perché ne aveva incontrata una?” Si salutarono ridendo e Fiamma prese la strada conosciuta inoltrandosi verso quello che in paese chiamavano “il guardiano”. Si trattava di un enorme masso simile a un viso, che per assurdo era uguale a quelle maschere con la bocca storta diffuse in altre parti della Sardegna. Quella faccia era allo stesso tempo temibile e rassicurante, nessuno poteva avventurarsi nel bosco senza aver prima salutato il guardiano. La nonna gli portava delle offerte di latte e formaggio, e diceva che la sua bocca pareva sorridere senza il ghigno. “Ciao nonna! Ciao casa mia.” “Ben ritrovata, Fiamma”, rispose il guardiano. “Ti aspettavo. Felice sia il tuo cammino.”

Capitolo 12 – Riflessioni in terra magica

15 settembre

Fiamma si fermò per un caffè. Lo preferiva alla “turca” perché le lasciava in bocca un sapore intenso; anche se il procedimento richiedeva più tempo, ne valeva la pena in quanto considerava tale abitudine sana. Non a tutti piaceva il caffè turco, ma molti amici avevano cominciato ad apprezzarlo grazie a lei, chiedendoglielo sempre più spesso. Il libro degli appunti era la cosa più importante; mentre lo aggiornava gustandosi la bibita mattutina, squillò il telefono. “Fiamma, dove sei, tutto bene? Sono Sebastiano.” “Ciao, sono dai miei parenti. Sono serena ora che sono lontana dalla città. Ma tu? Dimmi, ci sono novità?” “Qui le cose vanno bene, ma vorrei raggiungerti in Sardegna, sempre che non ti sembri inopportuno.” “Certo, quando vuoi. Da noi posto ce n’è, saresti il benvenuto.” “Allora ti saprò dire nel pomeriggio.” Fiamma non poteva crederci, sarebbe stata un’occasione fantastica per stare in compagnia, fuori dai guai; provava una grande felicità all’idea di avere Sebastiano accanto. Sistemò le sue cose nello zainetto e cercò di raggiungere al più presto l’altare per le sue meditazioni; in quel posto si sentiva al sicuro perché nessuno l’avrebbe raggiunta e poteva riflettere sulla sua nuova vita. Si sentiva libera e il denaro che aveva era sufficiente per vivere un bel po’ senza problemi. Avrebbe dovuto trasportare il gatto e vendere la casa a Trieste, tutte cose fattibili. Un taglio

deciso al ato! Basta con le mattine grigie della città, con il rumore delle macchine e il tran tran quotidiano. Ancora qualche centinaio di metri e avrebbe trovato un luogo caro della sua infanzia. Oschiri manifestava la preistoria con le sue necropoli. Un territorio fantastico. Fiamma intravide la domus de janas e poi il cancello, l’ingresso per l’area sacra di Santo Stefano. Proseguì per la strada serrata e si sedette finalmente di fronte all’altare della strana costruzione. Era sola in mezzo a tanta magia, l’aria era fresca e un vento leggero le scompigliava gentilmente i capelli. In tutto quel silenzioso mistero, i suoi pensieri correvano ai ricordi: da piccola la nonna la portava spesso lì e sedevano su quel sasso. Non era cambiato niente, in tanto tempo. “Fiamma, lo vedi quel disco?” “Sì nonna, lo vedo.” “Siediti.”

Figura 11 - Domus de janas

Vicino all’altare c’era un disco solare e la nonna la faceva sedere proprio nel punto in cui si trovava in quel momento. “Fiamma, adesso sei come il sole al centro dell’universo. Lasciati trasportare da quello che senti...” La nonna ne sapeva di cose, ma voleva che ognuno le percepisse con i propri sensi. “Avvicinati all’altare e prova a emettere qualche suono.” Fiamma allora lanciava un urlo acuto e la terra lo rimandava con un’eco profonda. Com’era possibile? Provò a ripetere quell’esperienza con la sua voce di donna, sicura di sé e non più timida com’era da bambina. La terra le rispose, come allora. Fiamma stava recuperando le forze. Lo stress accumulato nei giorni precedenti sfumava come le nebbie al primo mattino. Il suo cuore straripava di gioia. Cercava di raccogliere il suono dalla pancia, come le era stato insegnato dalla nonna. “Dopo un profondo respiro, devo sentire la vibrazione ed emetterla senza forzare la gola, rilasciare i muscoli della mascella, rafforzare gli addominali e farla uscire come se nascesse nella pancia della terra, sentendo tutti i suoi armonici.” E la terra di Oschiri le rispondeva. La testa sprofondata nella roccia, le mani appoggiate al trono di pietra: un’esperienza che la portava in uno stato d’estasi. Giorgio era convinto che quel trono servisse alle donne per partorire e in effetti la sua forma era perfetta per favorire il concepimento. Gli antichi costruttori del luogo avevano eretto quell’altare per onorare la donna nell’atto sublime di donare la vita. La Gimbutas

sarebbe stata entusiasta di Oschiri, avrebbe potuto rivelare molte più cose sui riti che lì si officiavano e sui tre quadrati, simili alle piramidi egizie. Ora Fiamma si sentiva una regina, stava partorendo una nuova sé sull’altare di pietra. Era piena di voglia di vivere. Dopo quell’esperienza riconciliante, tornò a casa e si addormentò, preda della stanchezza che spesso si manifesta dopo un’indigestione di energia. Si aggrappò al cuscino, sentiva sua nonna molto vicina e capiva solo ora quale immensa eredità spirituale le avesse lasciato. Le aveva insegnato a sentire il battito del cuore della terra, a connettersi con gli alberi, con gli animali e le pietre.

Capitolo 13 – L’ Amore e il libro alchemico

Sebastiano la svegliò con una telefonata. “Fiamma buongiorno, come stai? Sto preparando le valige. Ho deciso, vengo da te in Sardegna. Ho prenotato un volo. Domani vieni a prendermi tu o ti raggiungo io?” “Che notizia fantastica di primo mattino, sono davvero felice! Ovviamente vengo io all’aeroporto. Chiedo a Giorgio di prestarmi la sua macchina.” “Allora a domani. Non vedo l’ora di rivederti”, confessò lui senza nascondere l’emozione.

Sebastiano atterrò in Sardegna e Fiamma lo accolse diversamente dal solito. Quell’uomo aveva fatto breccia nel suo cuore. Quando lo vide, gli mise le braccia intorno al collo in un forte e caloroso abbraccio. Lui restò sul momento perplesso, ricordando una donna estremamente riservata. “Fiamma così ionale?”, si domandò tra sé e sé. Dopo l’arrivo al piccolo paese e le doverose presentazioni ai parenti, si appartarono per discutere di alcune novità. Sebastiano aveva frugato tra le carte del padre, trovando ciò che mancava. “Dunque Fiamma, ascolta bene. I nostri tre monaci templari di Grignano praticavano il Rito massonico egiziano, lo stesso professato dal conte di Cagliostro; si occupavano inoltre di alchimia e sembra che avessero trovato il segreto della pietra filosofale: producevano oro. Alcuni studiosi hanno supposto che le immense ricchezze dei Templari, oltre ai loro affari, provenissero proprio dalla produzione dell’oro. I seguaci del Rito egiziano perseguivano la ricerca dell’immortalità. Il conte di Cagliostro prometteva ai suoi adepti la completa rigenerazione fisica e psichica a precisi intervalli di età; e non è un mistero

perché queste conoscenze sono comunque giunte fino a noi. Il culto dell’immortalità gli fu trasmesso dal maestro Althotas. Erano riti praticati dagli antichi sacerdoti egizi, devoti alla divinità di Osiride fin dall’inizio dei tempi.” “Ma allora erano davvero degli alchimisti?”, sussurrò Fiamma quasi per paura di farsi sentire. “Sì certo, e anche piuttosto esperti. Non esiste nessuna reliquia del Cristo. Non c’entra affatto! Eravamo fuori strada. I nostri padri trovarono queste informazioni in un libro, ma non sono riuscito a capire né dove l’avessero trovato né dove l’abbiano nascosto. È proprio questo che dobbiamo scoprire. Chiuderemo il cerchio solo quando troveremo il testo. Leggi qui”, le disse porgendole dei documenti, “leggi bene. Ecco, è spiegato tutto.” Fiamma prese le carte con le mani che tremavano per l’emozione, poi scorse velocemente le righe e, in apnea, sollevò lo sguardo verso Sebastiano. “Cielo, ma è sconvolgente, un libro di alchimia? Per noi...” “Sì, e dovrebbe esserci dell’altro” “Forse qualcosa sull’immortalità?”, domandò Fiamma. “Raccontami di Oschiri”, le rispose Sebastiano. “C’è un disegno in cui viene rappresentato il villaggio, guarda! Per questo sono sceso, ma non potevo dirtelo al telefono.” L’entusiasmo di Fiamma si smorzò all’improvviso. Quindi era venuto solo per proseguire le ricerche, non per lei. Era profondamente delusa ma anche consapevole che non poteva essere altrimenti. Era stato sciocco pensare ad altro, loro avevano un compito da portare avanti. Provando a celare lo sconforto, gli chiese: “Dobbiamo leggere con cura questi appunti, integrarli con i miei e valutarli alla luce di queste nuove informazioni. Pensi che abbiamo buone possibilità di ritrovare il libro?”. “Magari sì, ma dobbiamo armarci di pazienza e fare attenzione a ogni indizio. Abbiamo gente poco raccomandabile alle calcagna, e sanno che stiamo cercando qualcosa di importante a cui loro mirano; credo che il notaio faccia parte di questa cricca e che sia anche lui sulle tracce del manoscritto. Mi viene da

pensare che gli inquisitori non abbiano avuto fortuna con i nostri tre templari, i quali nascosero accuratamente il loro tesoro. A proposito del notaio, penso che dovremmo andarlo a trovare con qualche scusa e raccontargli un sacco di frottole per sviarlo. Solo così possiamo capire cosa sa veramente e qual è il suo ruolo in questo gioco. “Ascolta Fiamma, sembra che la tua Sardegna sia un riferimento importante. Ricordo bene che mio padre mi raccontò di essere stato da queste parti, e ora trovo questi disegni che non riesco a capire cosa rappresentino. A te dicono qualcosa?” “Eccome! Lo vedi? Il masso enorme è chiamato ‘il guardiano’, mentre questo è il tempio di Santo Stefano. È tutto così incredibile…” Fiamma rimase per un attimo sovrappensiero, poi aggiunse: “Ti ci porto domani”. Nel disegno il guardiano veniva raffigurato in tutta la sua magnificenza; sotto di lui c’erano altre immagini che lasciavano pensare a un antro custodito. Era ovvio: il libro era sepolto nei pressi del guardiano! “Sebastiano, osserva bene. Questi schizzi sembrano riferirsi a un punto esatto”, e Fiamma lo indicò con il dito sulla carta: “Questo!”. Avrebbero dovuto scavare esattamente in quel luogo, ma prima dovevano rivelare a Giorgio il loro segreto perché lui avrebbe reso possibile ogni operazione sul campo. Non solo era un esperto di scoperte strane, ma conosceva il linguaggio arcano per comunicare con la natura e farsene svelare i segreti più reconditi.

Figura 12 - Su Aldianu, il guardiano di Oschiri

“Sebastiano, stacchiamo un po’. Ho bisogno di distrarmi, mi sembra quasi di non riuscire più a pensare. Andiamo a bere qualcosa in paese, sono stravolta. Desidero che tu conosca meglio mio cugino. Ti piacerà, ne sono certa. Attraversiamo il bosco.” Imboccarono il sentiero ma si persero tra radici d’albero e radure incantate. “Ti piace l’aria della Sardegna?”, domandò Fiamma cercando le parole giuste per nascondere l’emozione di trovarsi da sola con l’uomo dei suoi sogni. Sebastiano le prese la mano. “Sì, è un posto fantastico”, rispose quasi a voler toglierla dall’imbarazzo, “e mi piace soprattutto perché ci sei tu. Ora siamo soli, lontani da tutto!”. Fiamma ebbe un fremito. Sebastiano strinse più forte la sua mano e poi le accarezzò il volto con gesto deciso. Sprofondò la mano nei suoi riccioli rossi, la avvicinò dolcemente a sé e la baciò. Fiamma si sciolse nel suo abbraccio e ricambiò il suo bacio con dolcezza e impeto al tempo stesso. Si trovavano in una strada boschiva, praticamente deserta, e stavano cominciando la loro storia d’amore nella natura selvaggia. Il profumo del mirto li avvolgeva. Fu un attimo e si ritrovarono a terra, travolti dalla ione, presi a toccarsi, a baciarsi, a conoscere ogni piega del loro corpo. Finirono col fare l’amore, quasi completamente nudi. Fiamma perse ogni pudore e si lasciò trasportare. Non ci fu tempo per pensare alla strana situazione, perché il tempo in realtà non esisteva più.

L’indomani mattina arrivò puntuale con il consueto e insistente canto del gallo, accompagnato dall’intenso vociare delle oche da cortile. Si risvegliarono ricchi di rinnovata energia e baciati dai primi raggi del sole. Certamente, non ancora da immortali. Quando raccontarono a Giorgio la loro storia, lui si mostrò impaziente di

cominciare le ricerche. Il guardiano li aspettava con il suo ghigno. Una volta i paesani lo avevano illuminato con tante luci e lui era sembrato vivo, imponente e severo. Si incamminarono subito dopo la colazione. Arrivati sul posto, scavarono seguendo la mappa per quasi sette ore di fila e infine la loro tenacia fu ripagata. “Guarda, c’è qualcosa in quel punto!”, urlò Fiamma che non riusciva più a contenere la sua gioia. Dalla terra emergeva un oggetto dalla forma insolita. Scavarono ancora e a fatica estrassero una cassa di ferro. Era molto pesante ma Giorgio aveva gli attrezzi necessari per sollevarla. La portarono infine alla luce e la aprirono. Avvolto in un tessuto scuro, vellutato, si trovava il loro tesoro, il libro prezioso che i padri avevano conservato per anni. Fiamma e Sebastiano si guardarono increduli, un po’ spaventati ma soddisfatti. Quel tempo era sacro! Le loro mani si toccarono e le braccia si intrecciarono in un abbraccio. Si sentivano uniti da sempre e per sempre. Sebastiano la baciò sulla bocca e Fiamma lo strinse forte a sé. Giorgio, intento a guardare la scena, capì che erano fatti l’uno per l’altra, come le due metà combacianti di una stessa medaglia. Con molta delicatezza, presero tra le mani il manoscritto dalle pagine ingiallite e lo riposero in un telo. Rimisero la terra al suo posto, curandosi di non lasciar traccia dello scavo. Sarebbero rientrati a casa e con calma lo avrebbero esaminato. La casa che li ospitava era pronta a custodire ogni segreto e i tre entrarono di fretta. Sembravano sconvolti dalle intense emozioni appena provate nel bosco. Giorgio era affamato e desiderava qualcosa di caldo, così Fiamma preparò un caffè. Sebastiano aveva un’espressione assorta. Non le staccava gli occhi di dosso, mentre il manoscritto stava riposto nel telo, appoggiato sul tavolo: era il protagonista assoluto eppure l’unico estraneo dell’intera faccenda. A un certo punto Fiamma prese la mano di Sebastiano, che continuava a fissarla come se la vedesse per la prima volta, e parlò a voce piuttosto alta, facendo svegliare Giorgio dal letargo emozionale. “Tutto questo vuol dire che la prima lettera di mio padre, quella del notaio

Jurman, era un trucco. I nostri genitori dovevano aver intuito che nelle mani del disonesto notaio la lettera serviva da specchietto per le allodole, così hanno mescolato sapientemente il vero e il falso, lasciando solo a noi la sorpresa finale. Erano certi che Sebastiano avrebbe curiosato tra le carte in suo possesso. Un piano perfetto.” Il manoscritto era di piccole dimensioni e sembrava che mancassero alcune pagine. La carta assomigliava a quella da papiro, ma avrebbe potuto essere anche di palma; all’interno vi erano raffigurate piante che a prima vista sembravano sconosciute. Le conoscenze di Fiamma di storia medievale le fecero ipotizzare che fosse databile attorno al 1300 d.C. e attribuibile proprio ai tre monaci che vivevano in quel di Grignano. Presentava tre sezioni: la prima di botanica; la seconda di astrologia, in cui erano elencate le piante astrali nella loro precisa signatura planetaria, ovvero la loro connessione con il pianeta di appartenenza; la terza e ultima parte conteneva disegni di alambicchi e altri oggetti in uso per la pratica alchemica. Sembrava un ricettario per creare qualcosa: forse l’elisir di lunga vita? Era davvero sorprendente la quantità di piante descritte, ma una in particolare doveva essere quella lavorata ad arte. Da quel poco che Giorgio era riuscito a decifrare, l’erba si chiamava “Cuore di sirena” ed era stata importata da lontano: la sua origine poteva essere nord-africana poiché nelle illustrazioni veniva raffigurata come appartenente a una zona verosimilmente desertica. Veniva poi indicato un luogo non ben identificato, in cui veniva coltivata in campi piuttosto estesi in prossimità di una zona costiera. Scorrendo il libro, la prima impressione di Fiamma e Sebastiano fu che dovesse trattarsi della terra di Grignano. Quando Giorgio notò un simbolo che ricorreva spesso nelle pagine, in cui comparivano un serpente, la mela e una freccia, non poté fare a meno di pensare al conte di Cagliostro e al suo sigillo. Prese così dallo scaffale più prezioso della sua biblioteca un libro del famoso esoterista, ma pur sfogliandolo nel dettaglio vi reperì soltanto risposte frammentarie. Una cosa sembrava però certa: il testo era davvero legato al rito della rigenerazione psichica e fisica di cui Cagliostro si proclamava iniziatore. Non c’era tempo da perdere: se quel testo era così importante da suscitare tanta attenzione, allora dovevano pensare a preservarlo. Ma come? Fiamma ebbe un’idea.

“Sentite, io diffonderei la notizia attraverso una pubblicazione. Decifriamo il manoscritto e cerchiamo di renderlo accessibile al mondo intero. È un rischio che dobbiamo correre. Occultarlo di nuovo non ci porterebbe che altro dolore.” “Un’idea rischiosa”, rispose Giorgio accigliandosi, “ma è l’unica soluzione per evitare che cada nelle mani sbagliate. Se i nostri nemici sanno che ne siamo in possesso e lo stanno cercando così affannosamente, allora dobbiamo tutelarci.” Non si sbagliava mai, sapeva le cose intuendole. “Fiamma ha ragione”, concluse alla fine. “Non abbiamo scelta. Servono almeno tre mesi per tradurre il testo e venirne a capo, ma lavorando sodo e mettendo assieme le nostre conoscenze ce la faremo.” Dopo essersi scambiati uno sguardo di intesa, i tre amici cambiarono discorso, quasi a voler esorcizzare il timore reverenziale che nutrivano nei confronti della scoperta fatta quel giorno. “Fiamma, ma tu vuoi restare a vivere a Oschiri?”, domandò Sebastiano accorgendosi di come Fiamma sembrasse diversa anche solo da qualche giorno prima. “Sì, lo vorrei. Le mie radici qui sono forti, mi fanno sentire viva, un albero rigoglioso costantemente nutrito da energie sottili e amorevoli. Vicino all’altare, mi sento a casa.” Sebastiano le strinse le mani. “Ti devo parlare. Usciamo un attimo.” Il magnetismo che li aveva uniti fin dal primo istante era sempre più palpabile. “Se tu lo desideri, io resterei con te. Ti amo, vuoi sposarmi?”, le disse quasi senza prendere fiato non appena furono soli. Fiamma ebbe un sussulto e la voce non cedette alle incertezze della mente. “Sì, lo voglio. Anch’io ti amo, ti ho amato da subito.”

Due giorni dopo si recarono all’altare. Come nei culti antichi, si bagnarono con l’acqua della sorgente, onorando tutti i pozzi sacri e le acque della fecondità e della guarigione. Vennero anche alcuni paesani, invitati da Giorgio, per inneggiare gli antichi canti sardi. Erano bellissimi, lei vestita di bianco e lui di blu, e mentre Giorgio officiava la cerimonia del loro matrimonio, Fiamma e Sebastiano, con le mani intrecciate, rivissero mille vite in un istante. Spiriti antichi, erano sempre stati assieme. Avvolti da quell’atmosfera magica, le loro anime volarono indietro nel tempo, quando in un ato ormai troppo lontano erano stati proprio loro a creare l’altare di Oschiri: erano il re e la regina di quel tempio, conoscevano i segreti delle coppelle e di ogni pezzo di quella terra prodigiosa. Fiamma sedette sull’antico trono, dove le donne del luogo secoli prima andavano a partorire. Il marito pose le offerte ai suoi piedi, composte da intrecci di fiori profumati. Infine la baciò. Soltanto pochi iniziati avrebbero capito il miracolo del loro incontro e quanto importante fosse per tutta la comunità. Le nozze sacre avevano avuto luogo: il Dio e la Dea erano tornati. L’Amore è la grande Alchimia dell’Universo.

Figura 13 - Coppelle

Il tempo per Fiamma e Sebastiano si era fermato a Oschiri, dove trascorsero ancora una settimana. La felicità per Fiamma aveva avuto il sopravvento sul destino, così segnato in precedenza dalla tragedia. Al ritorno avrebbe avvisato con grande piacere Loris e Alessandra delle novità. Sebastiano, per stare con lei, aveva lasciato il suo lavoro in sospeso ma doveva rientrare per sistemare alcune questioni importanti. Avrebbero dunque vissuto assieme a casa di Fiamma. Si apprestarono a salutare la Sardegna con la promessa di tornarci presto. Il manoscritto sarebbe rimasto lì, custodito da Giorgio; era in mani sicure, meglio che protetto da un feroce drago. Il ritorno a Trieste fu un pugno nello stomaco per entrambi: lasciare la pace della terra di Oschiri e tornare nel caos cittadino si rivelò, almeno nei primi momenti, un vero e proprio shock. Riecco le solite noiose faccende quotidiane: prendere il gatto dalla zia, leggere la posta, sistemare casa… Fiamma pensò di chiamare prima Loris e poi Alessandra, ma la telefonata serbava una piacevolissima sorpresa, quasi quanto la sua del matrimonio con Sebastiano, di cui non aveva ancora informato l’amico. “Fiamma, devo confessarti una cosa quasi impensabile, successa da poco”, le disse Loris al telefono. “Insomma, da non crederci… Io e Alessandra stiamo insieme.” “Ma è una notizia fantastica!”, rispose Fiamma con un sorriso sornione. Aveva sempre saputo che tra di loro c’era del tenero. “Beh”, aggiunse con voce soddisfatta, “anch’io ne avrei una formidabile.” “Ovvero?”, domandò l’amico incuriosito. “Io e Sebastiano ci siamo sposati. Non vedevo l’ora di dirtelo.” “Sposati? Quando? Fiamma, stai scherzando?” “No, affatto. È successo tutto molto in fretta, come nelle favole. Semplicemente

abbiamo perso la testa l’uno per l’altra. È stato Giorgio a suggerirci di sposarci come si usava una volta, e in un lampo ci ha organizzato una cerimonia, diciamo così, tradizionale.” “Fiamma, che bella notizia!” “Vi racconteremo la storia di persona. Per l’occasione pensavamo di organizzare una cena in modo da aggiornarvi su tutto, anche riguardo alle altre novità della nostra permanenza a Oschiri.” “Mi sono perso le ultime puntate del film e nel frattempo chissà cosa avete scoperto di nuovo. Quando ci troviamo allora?” “Dammi un giorno per rimettermi dal viaggio. Stasera sarò tutta vostra. E Nina, per favore, avvisala tu, va bene?” “Sarà fatto! Senti cara, c’è un’altra cosa che ti devo dire. L’ho letta sul giornale di ieri. Non so cosa pensare...”, la voce di Loris si era fatta seria. “Riguarda il dottor Jurman, il notaio.” Fiamma sospirò. “Cosa è successo?” “È morto qualche giorno fa. Era piuttosto noto e quindi il nostro quotidiano ha riservato un articolo dettagliato al triste evento.” Fiamma apprese la notizia tra lo sconcerto e uno strano senso di liberazione. “Certo era vecchio, ma come è morto?” “È questo il punto: sembra sia deceduto per una fuga di gas. Abitava solo, per fortuna.” “Oh mio Dio! Devo avvisare subito Sebastiano. Procurami il giornale, se riesci, voglio leggere l’articolo.” Sospettava che fosse stata la setta dei Devoti. Questa gente poteva dunque arrivare a uccidere? Quasi paralizzata dal terrore, chiamò Sebastiano, che riuscì a tranquillizzarla solo in parte. “Non è possibile che uno come lui si dimentichi il gas aperto. Ma cielo!”, fu la

sua prima reazione. Poi, percependo l’ansia di Fiamma crescere a dismisura, decise di distrarla facendo scivolare il discorso su cose più leggere. “Comunque ne parliamo a casa stasera. Ti sei già messa d’accordo con i tuoi amici? Verranno da noi, vero?” “Sì, l’ho fatto. Preparerò qualcosa di buono”, rispose lei sollevata. “Vado adesso a fare la spesa. Hai delle preferenze?” “Tutto fuorché carne di maiale.” In Sardegna ne avevano mangiata troppa, come da usanza locale. “E il tuo gatto, la zia? Stanno bene?” “Stanno bene entrambi. A lei ho accennato qualcosa su di noi. Sarà contenta di sapere che ho un marito meraviglioso.” “E Loris?” “Loris ha trovato una fidanzata, e sai chi è? Da non credere: la mia cara amica Alessandra, quella di cui ti ho parlato tanto in questi giorni. Si conoscevano da anni, ma l’amore a volte gioca strani scherzi! Sono felice per loro. Dobbiamo coinvolgerli nella ricerca, perché sono certa che Alessandra ci aiuterà a risolvere gli ultimi misteri. Lei conosce molto bene il latino e potrebbe aiutarci a tradurre il manoscritto.” Fiamma prese fiato, poi aggiunse velocemente: “Non vedo l’ora di tornare con te in Sardegna. Grazie al conto dei nostri genitori per un po’ potremo vivere di rendita, poi troveremo un lavoro. Non me la sento di restare in città a lungo.” “Fiamma abbi pazienza, faremo tutto. Per adesso, sistemiamo le cose qui. Prepara la cena, amore mio, non mi farò attendere troppo.” Fiamma era felice, ma la morte del notaio era sospetta e la turbava. Guardando tra la posta in arrivo, scorse una lettera. La aprì. Era del dottor Jurman! La scartò con movimenti concitati, quasi strappandola.

Gentile Fiamma,

le scrivo perché la mia coscienza di uomo, oramai vecchio, ha bisogno di liberarsi dai pesi. Non sono stato corretto con lei, e quando la penso da piccola, sapendo le traversie che ha vissuto, non posso che rammaricarmi. So di avere i giorni contati e non posso morire con questo fardello sul cuore. Deve sapere che in questi ultimi mesi ho raccolto per lei alcuni documenti che troverà utili per la sua protezione. Sono stati affidati a una persona di fiducia. I dati sono in fondo alla lettera. Questi documenti le torneranno indispensabili nel caso lei avesse trovato quello che io temevo. Se fosse venuta in possesso del manoscritto, allora dovrebbe assolutamente contattare questa persona! Poi, segua le sue istruzioni. Saprà come proteggerla. La saluto, Fiamma. Questa volta può fidarsi di me.

Fiamma ebbe un sussulto. Per fortuna Sebastiano sarebbe arrivato a breve. Qualcuno era al corrente dell’intenzione del notaio di avvisarla sul pericolo incombente a causa del manoscritto, ma evidentemente non sapevano dove si trovava il tesoro dei Templari perché era difficilmente ipotizzabile che si trovasse sepolto a Oschiri. Questo pensiero la sollevò un po’. “Riposa in pace”, disse tra sé e sé, “sono certa che ti abbiano ucciso, ma ti saranno aperte le porte del Paradiso, se è vero che il pentimento pulisce l’anima dal peccato”.

Una sera di qualche giorno dopo, mentre cucinava, prima di apparecchiare Fiamma ritrovò sulla scrivania un libro sul conte di Cagliostro che le aveva prestato suo cugino. Quasi sicuramente per un caso di telepatia, in quel momento Giorgio la chiamò sul nuovo numero di cellulare acquistato per sicurezza al ritorno dalla Sardegna. “Ciao cugina, come stai?”, le domandò con voce squillante. “Tutto bene, caro. Vorrei solo essere rimasta da voi un po’ più a lungo. La città ha ricominciato a starmi stretta fin da subito. Se poi ci aggiungi la tensione per tutta questa situazione…”

“Senti, Fiamma, sei a casa in questo momento?”, le chiese senza nemmeno farla finire di parlare. “Sì, perché?” “Tra qualche minuto sono da te.” Fiamma rimase in silenzio, perplessa. “Ho preso un volo nel pomeriggio. È stata una decisione dell’ultimo momento e non ho voluto avvertirti per evitare di farti stare in pensiero. Non posso dirti perché sono qui, devo parlarti di persona.” “Ok, ok. Allora ti aspetto”, rispose sentendo un brivido attraversarle la schiena. Stava per succedere qualcosa di grosso. Dopo nemmeno un’ora Giorgio era da lei. Entrò in casa trafelato e chiuse la porta solo dopo aver dato una rapida occhiata alle sue spalle. “Ho controllato che non mi seguisse nessuno. Dovremmo poter stare tranquilli.” Si accasciò sul divano, aprì una cartellina colorata che aveva con sé e cominciò un racconto che aveva dello straordinario. “Da quando siete partiti dalla Sardegna non ho mai smesso di fare ricerche, ma al contempo sono stato molto impegnato per alcuni scavi archeologici nella zona dell’altare di Santo Stefano. In realtà quei lavori li ho fatti cominciare io stesso. Non è stato facile ma, lo sai, sono un testone e quando mi metto in testa una cosa… La notte dopo la vostra partenza ho fatto un sogno strano, di cui ricordo poco e niente. So soltanto che per tutto il giorno dopo non ho fatto che avere sensazioni strane. L’idea che nei pressi della chiesa dovesse esserci un pozzo sacro continuava a martellarmi la testa.” Giorgio si fermò per osservare la reazione di sua cugina di fronte a quella dichiarazione. Fiamma era assorta. Una scoperta di quel tipo avrebbe dato ancora più lustro all’enigmatico luogo e alle loro ricerche. I pozzi sacri in Sardegna erano la testimonianza vivente del “culto delle acque”, il che legava quella regione alle terre carsiche attraverso un filo sottile. I templi a pozzo, le fonti sacre e i templi a megaron (edifici a pianta rettangolare) come Sa Domu de Orgìa a Esterzili, sul monte Cuccureddì, rappresentavano il culto nella

sua massima espressione. L’antica civiltà nuragica, nata e sviluppatasi in Sardegna dalla piena Età del Bronzo, dal 1700 a.C. circa al II secolo a.C., doveva il suo nome ai nuraghi, i megaliti più grandi e meglio conservati d’Europa che, al pari di Castel del Monte in Puglia, rappresentavano ancora un affascinante enigma da risolvere. Non era infatti chiaro il loro utilizzo, ma l’ipotesi più plausibile era che fossero sorti per un uso di tipo cultuale. Si poteva percepire la loro sacralità soffermandosi al loro interno per un tempo considerevole, provando un incredibile rilassamento emotivo e un rinvigorimento fisico. I pensieri di Fiamma volsero improvvisamente ad Avalon e al percorso sacro che aveva seguito in uno dei suoi viaggi a Glastonbury, visitando una serie di pozzi sacri noti fin dall’antichità: St. Cleer Well e St. Keyne Well, fino al Pozzo di Madron. Quei luoghi avevano parlato alla sua anima esattamente come succedeva in Sardegna e nel Carso. Sembrava che ognuno di essi fosse accomunato dallo stesso spirito antico che si era perso nei tempi moderni, pur riecheggiando nei cuori di chi era ancora pronto ad accoglierlo. Soddisfatto dell’espressione incuriosita della cugina, Giorgio proseguì. “I templi a pozzo, come quello di Santa Cristina in provincia di Oristano, sono edifici circolari, dotati di rampe che permettevano la raccolta delle acque e di un atrio esterno di forma trapezoidale o rettangolare, dove venivano appoggiate le offerte votive, costituite in gran parte da oggetti in bronzo. Sono stati trovati arnesi di guerra ma anche animali, oltre a varie ciotole e anfore, una varietà cospicua di cose dalle più svariate forme e funzioni votive. “Ora, devi sapere che il culto delle acque sotterranee era molto diffuso in Sardegna: con le acque si officiavano i riti di purificazione, inoltre esse venivano raccolte e utilizzate per le guarigioni. Le coppelle che si trovano nella nostra isola, scavate o naturali, simili a quelle delle zone carsiche, servivano alla raccolta dell’acqua sacra. Questi due elementi, l’Acqua e la Terra, a contatto erano in grado di apportare benefici di vario tipo, se non il recupero totale della salute. L’acqua non era quindi solo fonte di vita e di fertilità ma anche di vera e propria rigenerazione. “Hai mai pensato a come la forma dei pozzi sacri ricordi spesso quella dell’utero o della vulva? Al loro interno vi è un foro, dove in determinati momenti

dell’anno (i solstizi) entra la luce della luna. Attraverso l’acqua, la Madre Terra viene quindi fecondata dal Padre Cielo. Gli antichi onoravano in questo modo le leggi sacre dell’Universo e si sentivano un tutt’uno con la natura e i suoi elementi.” Come se avesse letto nel pensiero di Fiamma, Giorgio fece accenno a Glastonbury: “Il culto delle acque con i suoi pozzi sacri era diffuso in tutta la penisola italica e in Europa. In Inghilterra ci sono tracce di un percorso verso i pozzi sacri che parte da Glastonbury, la tua amata isola di Avalon. In questo luogo, ricco di leggende e di magia, ci sono due fonti sacre associate a due colori fondamentali in natura: quella dell’acqua rossa, ricca di ferro, e quella dell’acqua bianca, ricca di calcio. Il rosso richiama il sangue, e quindi il femminile. Il bianco rievoca il seme, e quindi il maschile. Il percorso delle acque prosegue in Cornovaglia, dove i pozzi sacri sorgono sulla linea geomantica detta di Maria o di San Michele Arcangelo, che secondo gli esperti raggiunge la Puglia, in corrispondenza di Castel del Monte. Come ben sai, luoghi di questo tipo sono da sempre sacri alla Grande Madre, Dea onorata dai pagani antichi e contemporanei, sostituita dalla Chiesa con la figura di Maria, la madre di Cristo. Anche lei, la Madonna, è associata all’elemento acquatico, basti pensare alla fonte di Lourdes o ad altre prossime alle chiese. A volte le acque vengono occultate, a volte santificate dalla Chiesa stessa”. Fiamma era letteralmente senza parole. Ascoltando le parole di Giorgio aveva viaggiato con la mente in luoghi ed ere, lontani nello spazio e nel tempo, trovando conferma in quanto da lei ipotizzato: era tutto unito sotto il segno di un’unica grande figura, la Dea, Colei che dava la vita e la morte, Colei a cui l’uomo aveva affidato le sue preghiere, le sue speranze, i suoi dubbi e le sue paure, prima che la storia prendesse una nuova piega con l’avvento del patriarcato. Nel grembo della Madre in molti avevano trovato ristoro e riparo, e sotto la sua egida erano riusciti a risanare quanto si era spezzato, come il contatto tra corpo e anima. Nella mente di Fiamma sorse spontaneo un confronto tra quei tempi ati e il suo, in cui l’essere umano sembrava perennemente alla ricerca di qualcosa di cui però ignorava l’esistenza. Che la malattia dell’uomo contemporaneo fosse proprio l’aver spezzato il legame con la Madre primordiale e il non riuscire più a sentire il suo richiamo?

Giorgio la distolse nuovamente dai suoi pensieri. “In attesa di scoprire l’effettiva localizzazione del pozzo sacro di Oschiri, non mi davo pace sulla vera natura del manoscritto in nostro possesso. Sentivo che dovevo contribuire a risolvere il mistero, soprattutto quello delle strane erbe disegnate nel libro. Così mi sono ricordato che tempo fa a un convegno conobbi un esperto di botanica, il professor Giampaolo Giantesi, che era venuto a visitare il territorio di Oschiri per una sua ricerca. “Giantesi è un famoso esperto di piante velenose e rare. È una persona piuttosto riservata che infonde fiducia a prima vista ed ero sicuro che mi avrebbe aiutato a capire qualcosa di più sulle erbe presenti nel manoscritto. Mi premeva scoprire soprattutto gli usi dell’erba Cuore di sirena, che sembra essere associata all’alchimia. Il suo nome mi sembrava piuttosto particolare: il riferimento al cuore mi sembrava bello e armonioso, mentre la parola sirena mi suonava come alquanto misterioso, perciò mi informai a tal proposito, per capirne di più. “Fu così, Fiamma, che venni a scoprire altre cose straordinarie: la sirena, la donna-pesce, spesso bellissima o mostro terrificante, è un’antica divinità collegata alla Madre Terra, con il compito di portare la fecondità.” Fiamma sorrise. Non le stava dicendo niente di nuovo. “Nella simbologia più occulta della strana creatura, l’anima si ricongiunge allo spirito in una sorta di matrimonio mistico tra l’aria e l’acqua”, continuò Giorgio. Fiamma intuiva ciò che il cugino voleva svelare, ma lo lasciò parlare fino alla fine; Giorgio era troppo emozionato per poterlo fermare con domande. “Secondo il medico, astrologo e alchimista svizzero Paracelso, nato nel 1493, la sirena era associata all’Opera alchemica e alla parte femminile di ogni pratica di questa Arte. Essa interviene al pari di una fata in aiuto agli esseri umani in difficoltà, assumendo sembianze di donna, e li aiuta a ritrovare la giusta via. La visione della sirena è un fenomeno temporaneo, al confine tra i due mondi, che può accadere solo in momenti psichici molto particolari, quasi sciamanici. Hai presente il fenomeno della fata Morgana, nel deserto?” Fiamma annuì, ne aveva sentito parlare… “Quanto mi piacerebbe vederne apparire una”, disse Giorgio sorridendo, “sarebbe straordinario. Non sono mai stato un poeta, né uno scrittore ma durante le mie ricerche ho buttato giù queste parole… Leggi, Fiamma:

Sono aria. Sono acqua. Sono una bollicina caduta dal cielo Ho perso le ali. Il canto io ho… – Fermatevi e ascoltate. La conoscenza io ho… – Complice di Eva, isterica, bagnata e unta: pesce da cui nasce la vita. Questo sono: una sirena! Bolla e bollicina. Acqua aria – Bollicina – Mercurio filosofale, congiunzione dei contrari. Colpi di coda per l’Anima Mundi, per toccar gli umani. Cento squame hanno toccato il mio seno e l’amore in un solo suono si è ricomposto.

“Dopo averlo contattato, nell’arco di qualche giorno il professor Giantesi è venuto a trovarmi a Oschiri. L’ho condotto presso l’altare megalitico e ho cominciato ad accennargli la questione. Ero piuttosto nervoso e non sapevo come iniziare il discorso senza rivelargli troppo, ma per fortuna lui mi ha messo a mio agio confessandomi di aver intuito che avevo tra le mani qualcosa di importante e che avrebbe rispettato la mia scelta di non dirgli tutto. Cara Fiamma, il mio sesto sento non si sbaglia mai, lo sai, e io in quel momento sentivo di potermi fidare, così gli ho parlato del manoscritto.” Fiamma abbozzò una smorfia di dissenso, ma sapeva che se Giorgio si era sentito libero di parlare apertamente con quel professore ne aveva tutte le ragioni. Così gli fece cenno di continuare. “Quando l’ho portato a casa e gli ho mostrato il nostro tesoro, il professore è sbiancato. Sfiorando appena la carta delle pagine si è subito reso conto di trovarsi di fronte a un’opera antica e preziosa, ma è stato quando ha cominciato a leggere il libro che si è mostrato entusiasta: conteneva informazioni importanti su alcune erbe tutto sommato comuni, sulle quali però giravano leggende poco chiare che ora lui poteva verificare. Quando gli ho domandato se conoscesse il Cuore di sirena, lui ha sorriso e mi ha risposto che ne aveva sentito parlare ma non aveva mai avuto la fortuna di toccarla con mano. Mi ha raccontato che non se ne trova più in giro da secoli e che anche le informazioni a riguardo sono piuttosto scarse, per questo mi ha chiesto di poter prendere con sé il manoscritto e studiarlo con altre fonti alla mano. Gli ho risposto che era impossibile, proponendogli però di restare da me: avrebbe avuto Wi-Fi, telefonate e ottimo cibo gratis per tutto il tempo necessario a terminare la sua ricerca. Ha accettato di buon grado e ha soggiornato per qualche giorno a casa mia. Adesso sono qui per parlarti delle sue scoperte. È roba grossa, per cui siediti e ascoltami attentamente”, esclamò strizzandole l’occhio. Fiamma sentiva la testa vuota, come se avesse appena finito di bere un paio di bicchieri di vino ad alto contenuto alcolico. Era rimasta in piedi, appoggiata con la schiena al mobile per tutto il racconto, ma adesso seguì il consiglio del cugino e si lasciò cadere sulla poltroncina di fronte a lui. “Allora, sembra che nell’antichità il Cuore di sirena crescesse in Sardegna. La sua coltivazione era affidata alle sacerdotesse del culto delle acque in prossimità dei pozzi sacri, che consideravano quell’attività come un dono alla Dea Madre da proteggere e perpetuare. Si dice che fino a non molti anni fa, in un villaggio

vicino a Oschiri, abitasse una herbara che conosceva l’erba e la utilizzava per guarire i malati. Il nostro manoscritto contiene una ricetta che utilizza il Cuore di sirena come ingrediente principale per creare alchenicamente una sorta di elisir di lunga vita che guarisce tutti i mali.” Fiamma guardò Giorgio con le mani che le tremavano e si accorse che anche nei suoi occhi si alternavano preoccupazione ed entusiasmo. “Non ho finito”, le disse lui con voce decisa. “Sebbene i tempi dell’Inquisizione siano ormai superati, Giantesi mi ha raccontato che la povera donna in possesso dell’erba fu vittima di diversi atti vandalici e di minacce. Come se non bastasse, una sua cara amica con cui condivideva il suo sapere magico tramandato di generazione in generazione perse la vita in uno strano incidente stradale. I giornali riportarono la notizia con toni velatamente ironici e al contempo favolistici, dichiarando che ‘la strega del paese aveva sbandato con la sua auto, finendo contro un albero, perché era ubriaca’, cosa strana visto che era piuttosto anziana e i suoi parenti abbiano testimoniato che era astemia. Da quel momento pare che l’herbara sia stata accusata da alcuni compaesani di fare fatture e gettare il malocchio, e che abbia perso il lume della ragione nel giro di pochi anni. Vedova e con un solo figlio, oggi dovrebbe essere quasi centenaria e sarebbe chiusa a Olbia, in una casa di riposo.” Fiamma non era poi così sorpresa da quella notizia. “La storia cambia i nomi, ma i fatti spesso restano gli stessi”, disse tra sé e sé. “Ancor oggi la parola ‘strega’ evoca arti oscure volte al Male.” Ma quello che aggiunse Giorgio mentre lei era sovrappensiero le fece cambiare immediatamente idea: il destino della povera donna poteva avere risvolti ancora più terribili ed essere stato architettato ad arte. “Fiamma, ti rendi conto di cosa voglia dire tutto questo?”, le aveva domandato Giorgio con gli occhi spalancati. “Siamo in possesso di qualcosa di straordinario ma allo stesso tempo estremamente pericoloso. Ci ho pensato a lungo e mi sono fatto un’idea. Credo che la setta dei Devoti miri a impossessarsi del manoscritto per toglierlo dalla circolazione.” Fiamma lo guardò con espressione interrogativa. “In che senso?” “Magari conoscono il segreto da secoli, ma hanno interesse che non si diffonda.

Ragiona, come mai l’erba non esiste più? Un tempo veniva coltivata estesamente ma in pochissimi potevano immaginare i suoi poteri. Poi, di punto in bianco, non ci sono più tracce del Cuore di sirena.” Lo sguardo di Fiamma si rischiarò, cominciava a capire dove Giorgio stava andando a parare. “Torniamo ai Devoti. È un gruppo molto potente di cui conosciamo troppo poco, mentre oggi le società iniziatiche non hanno più alcun problema a discutere pubblicamente delle loro attività, pur non rivelandone tutti gli aspetti più nascosti. Ti ricordo anche il secondo comma dell’articolo 18, che sancisce il divieto di costituire associazioni segrete perché contrarie alla democrazia. Nel nostro caso ci troviamo invece di fronte a persone che hanno lavorato a lungo per riuscire a coprire ogni informazione su di loro. Chi ne aveva mai sentito parlare prima della lettera di tuo padre? Parliamo quindi di una setta oscura molto potente.” Tra lei e Giorgio cadde il silenzio. Si fissavano senza guardarsi. Erano di fronte a un bivio: seppellire l’idea di pubblicare il manoscritto, cedendo alle minacce dei Devoti, oppure liberare il genere umano dall’ignoranza. Entrambi sapevano benissimo che direzione avrebbero preso, ma questo significava che avrebbero fatto la fine del povero Cagliostro? Distogliendo lo sguardo dal cugino, gli occhi di Fiamma si fermarono istintivamente sulla pagina aperta del libro posato sul tavolo:

Io sono colui che è, non appartengo a nessuna epoca e a nessun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza e, se mi immergo nel mio pensiero rifacendo il corso degli anni, se proietto il mio spirito verso un modo di vivere lontano da colui che voi percepite, io divento colui che desidero. Ma ecco: sono nobile e viandante, io parlo e le vostre anime attente riconosceranno le antiche parole, una voce che è in voi e che taceva da molto tempo risponde alla chiamata della mia. Io agisco e la pace rinviene nei vostri cuori, la salute nei vostri corpi, la speranza e il coraggio nelle vostre anime. Tutti gli uomini sono miei fratelli, tutti i paesi mi sono cari; io li percorro ovunque, affinché lo Spirito possa discendere da una strada e venire verso di noi. Io non domando ai Re, di cui rispetto la potenza, che

l’ospitalità sulle loro terre e, quando questa mi è accordata, o, facendo attorno a me il più bene possibile: ma non faccio che are... Cagliostro [Testo tratto da Carpi P., Cagliostro, Mediterranee, Roma 1997, N.d.R.]

Le parole di un uomo coraggioso. Sebastiano sarebbe arrivato a momenti e insieme avrebbero discusso sul da farsi. Una cosa era certa: se Fiamma pensava che la sua vita fosse cambiata drasticamente nel giro delle ultime settimane, adesso era prossima a una trasformazione radicale. Aveva paura, ma era altrettanto decisa a portare a termine il compito assegnatole dalla Dea. Sapeva che la Verità è una forza potentissima e che avrebbero vinto, in barba ai Devoti. Erano protetti, e ogni cosa si sarebbe messa a servizio loro e del manoscritto. Lei, Fiamma, era figlia di Tanit.

Figura 14 – Il fiore della vita (illustrazione di Robert Valčić)

Bibliografia

Gimbutas M., Il Linguaggio della Dea, Venexia, Roma 2008. Melis L., Shardana, i Popoli del mare, PTM, Mogoro 2004. La necropoli celtica di S. Canziano del Carso, Atti dei Civici Musei di Storia e Arte di Trieste. Saba P., Atlantide, PTM, Mogoro 2010. Davis-Kimball J., Donne guerriere, Venexia, Roma 2009. Noble V., La Dea doppia, Venexia, Roma 2005. Carpi P., Cagliostro, Mediterranee, Roma 1997.

Note biografiche

Daniela Fogar nasce a Trieste, dove vive e lavora come istruttore educativo. Si dedica per un periodo alla prosa poetica pubblicando con le edizioni Akkuaria la raccolta di poesie L’Artiglio della Luna (2008). Nel 2009 assieme a Graziella Atzori scrive un saggio sulle fiabe, Cacciatrici di Altrove. Luoghi dell’immaginario femminile, Edizioni il Murice. Da sempre affascinata dall’archeologia e dall’arte in genere, studia mitologia comparata e storia medievale, privilegiando le tematiche legate all’archetipo della Grande Madre che la portano a viaggiare nei luoghi sacri a Lei dedicati. Partecipa a congressi e incontri culturali, come il convegno Il Risveglio delle I-Dee – il Femminile dai mille nomi per un mondo diverso – assieme a Selene Ballerini, Clara Panascia e altre scrittrici impegnate nel recupero del pensiero al femminile. Si occupa inoltre di arti visive, quali la fotografia, di cui è possibile visualizzare alcune opere al seguente link: http://anforah.altervista.org/alberovita/alberovita.htm Attualmente collabora con il portale Luoghi Misteriosi, in qualità di ricercatrice: http://www.luoghimisteriosi.it/staff_danielafogar.html.

Indice

Ringraziamenti

Prefazione di Sabina Marineo

Introduzione

Capitolo 1 – Trieste, Solstizio d’estate

Capitolo 2 – La scacchiera

Capitolo 3 – I Popoli del mare e il fiume Timavo

Capitolo 4 – Gli Argonauti

Capitolo 5 – Il tempio del dio Mitra, la maga Medea e la Gorgone

Capitolo 6 – L’analisi del fiore

Capitolo 7 – Primi appunti

Capitolo 8 – Il grande giorno

Capitolo 9 – Le Amazzoni dell’Età del Bronzo e i culti della Dea Madre

Capitolo 10 – L’incontro

Capitolo 11 – Oschiri

Capitolo 12 – Riflessioni in terra magica

Capitolo 13 – L’ Amore e il libro alchemico

Bibliografia

Note biografiche

Indice