CRIMINI IN CAPSULE
Antologia di racconti ZeugmaPad
Published by ZeugmaPad at Smashwords
Copyright 2014 ZeugmaPad
Smashwords Edition, License Notes
Thank you for ing this free ebook. You are welcome to share it with your friends. This book may be reproduced, copied and distributed for noncommercial purposes, provided the book remains in its complete original form. If you enjoyed this book, please return to Smashwords.com to discover other works by this author. Thank you for your .
Indice
EMICRANIA di Luis Ariet
LA NOTTE NEL CUORE di Antonella Mattei (Keiko)
L’ULTIMO BICCHIERE DI VINO di Silvia Aprile
IL GATTO DAL MANTO DI VELLUTO di Malica Umeni
ASCESA PER IL PATIBOLO di Riccardo Alberto Quattrini
LA TRACCIA di Edoardo Caldarola
ALLA RADIO UN PEZZO DEGLI SMITHS di Nerio Vespertin
IL BAMBINO PERDUTO di Sandro Orlandi
MENO MALE CHE CI SONO LE BANCHE di Ivano Migliorucci
OMICIDIO A VILLA GLICINE di Rosita Antonietta
Prefazione
Un’idea semplice, nata per caso da una conversazione con Simone Marquez, uno dei nostri multitalentuosi collaboratori con il pallino della recitazione e del doppiaggio. Una gara per racconti brevi e neri, storie di crimini da incapsulare in cinque minuti di audio e dieci tracce realizzate con l’apporto di tante voci che interpretano i personaggi. La playlist del concorso è riuscita bene, il genere è stato declinato da ogni autore in un modo diverso e la rosa dei finalisti mette insieme ironia e malinconia, perfidia e vendetta, scherzi del destino e voglia riscatto.
Abbiamo scelto di pubblicare solo il sonoro, fino al termine del concorso, ma adesso le storie di Crimini in Capsule diventano un’antologia, una raccolta da leggere nello spazio di una pausa, tirando il fiato tra un racconto e l’altro.
Buona lettura.
ZeugmaPad è un sito ma anche una comunità, virtuale ma vivace e ospitale, per chi ha bisogno di esprimere il proprio talento. Diamo spazio a scrittori e speaker, offriamo o editoriale e un’opportunità per farli conoscere. Abbiamo messo insieme le nostre ioni, la scrittura, il doppiaggio e la recitazione, con l’idea di fornire un servizio di Qualità per gli autori e i lettori, senza tralasciare il piacere dell’ascolto.
http://www.zeugmapad.it
[email protected]
EMICRANIA di Luis Ariet
Il maresciallo capo Fossa se ne stava sbracato sulla poltrona dell’ufficio. Ancora mezzo addormentato, beveva distratto il pessimo caffè offerto come ogni mattina dall’appuntato leccaculo, mentre leggeva la cronaca locale. Già nervoso, fumava la prima sigaretta della giornata.
Chiamò l’interno dodici per farsi portare qualche scartoffia da compilare; il brigadiere Ennio Monteleone entrò nell’ufficio dopo pochi minuti.
«Riposo brigadiere,» ordinò il maresciallo «lascia pure tutto sulla scrivania.»
Il brigadiere appoggiò il materiale sul tavolo e fece per uscire dall’ufficio.
«Monteleone,» lo fermò il maresciallo «hai con te qualcosa per il mal di testa, per caso?»
«Nulla Maresciallo,» rispose il ragazzo «mi dispiace.»
«Se qualcuno mi cerca, digli che sono uscito per andare in farmacia» disse Fossa «la testa mi sta per scoppiare!»
«Agli ordini Signore!»
Una pioggerellina fastidiosa accompagnò l’ufficiale fin sulla soglia del negozio.
Ancora in strada ingoiò due pasticche.
Al ritorno la caserma era in preda a un andirivieni febbrile: tutti sbraitavano e correvano da una parte all’altra come se fosse successo il finimondo.
Rocca stava cercando di aprire la porta del suo ufficio.
«Rocca, cosa cazzo stai facendo?!»
«…»
«Si può sapere cos’è successo? Siete impazziti tutti quanti?» sbraitò irritato.
«Ero nella stanza qui accanto e, a un certo punto, ho sentito un colpo molto forte,» disse l’appuntato senza nemmeno guardarlo in faccia «mi è sembrato provenisse dall’ufficio del maresciallo!»
Fossa si tastò le tasche, le chiavi non c’erano; eppure era sicuro di aver chiuso la porta dell’ufficio prima di uscire.
«Sembra chiusa dall’interno!» continuò l’appuntato.
«Ma che chiusa dall’interno!» Non provava alcuna simpatia per quel lecchino
senza cervello.
Fu Monteleone a farsi largo tra gli altri e, con un’energica spallata, riuscì a scardinare la serratura e aprire la porta.
Sulla poltrona era seduto un uomo in posizione scomposta, il collo piegato con un’angolatura innaturale; istintivamente Fossa scrutò l’ambiente alla ricerca di particolari importanti.
«Che nessuno tocchi niente,» ordinò «e qualcuno chiami immediatamente la scientifica se ancora lo avete fatto!»
La pistola era a terra, la canna girata verso la finestra, una densa macchia di sangue scuro sporcava la scrivania e la documentazione che Monteleone gli aveva consegnato quella mattina. Non riusciva a scorgere il volto dell’uomo in divisa; il capo era reclinato in avanti e la fronte toccava il tavolo nel punto in cui aveva origine la pozza di sangue. Estrasse dalla tasca un fazzoletto per raccogliere l’arma senza contaminare le prove e il suo sguardo cadde sulla scatola, vuota, di antidolorifici appoggiati sulla scrivania: erano della stessa marca di quelli che aveva acquistato poco prima in farmacia.
Solo quando notò i tre nastrini argentati appuntati sulla divisa del cadavere capì.
La testa, ora, non gli faceva più male.
LA NOTTE NEL CUORE di Antonella Mattei (Keiko)
La falce di luna rischiara appena il cielo plumbeo, i sottili aghi di pioggia si riversano sul parabrezza dell’auto nera ferma sullo sterrato che costeggia la statale. I tuoni lontani preannunciano un temporale, lampi improvvisi rischiarano la notte e caricano di elettricità l’aria.
Non poteva desiderare altro: la notte perfetta. Il motore emette un sommesso borbottio, sembra aspettare il momento giusto.
Non conosce la macchina, se l’è procurata per l’occasione ma funziona bene, è questo l’importante. Sente la tensione crescere d’intensità come la pioggia che s’infrange sull’asfalto. Vorrebbe fumare ma la brace rossa tradirebbe la sua presenza. La mano non si stacca mai dal cambio, le nocche lo stringono fino a diventare esangui, il piede destro è tenuto a fatica lontano dal pedale. Ha aspettato, con pazienza, tenacia, disperazione; ha sempre saputo che sarebbe arrivato il momento giusto e ha manovrato il destino affinché tutto procedesse come immaginato mille e mille volte, nelle notti insonni, nelle giornate troppo vuote, nei gesti quotidiani dove nulla sembra allontanare ciò che è stato. Guarda l’orologio: i numeri fosforescenti indicano che è l’ora. La stessa di quattro anni fa.
Alza lo sguardo scuro verso lo specchietto e intravede la luce dei fanali: ci siamo. È il momento. Il motore aumenta i giri, i fari si avvicinano, il piede freme sul pedale, riesce ormai a distinguere il viso che troppo bene conosce, la mano ingrana la marcia, la macchina sconosciuta risponde alla perfezione: un rombo potente, un cozzare di metallo, l’altra auto carambola, investita in pieno: tre, quattro giri su se stessa e poi uno schianto sul muro della palestra attigua alla statale.
Scende dalla vettura. Il temporale è al suo apice, le saette anticipano di pochissimo i poderosi tuoni. Torna indietro, si avvicina alla macchina accartocciata: la donna alla guida è riversa in posizione scomposta, sangue denso cola da una profonda ferita alla testa, muove gli occhi e sussurra una richiesta di aiuto. Si china e le tocca le vene del collo con due sottili dita. La vita la sta abbandonando, così come aveva abbandonato il suo bambino quattro anni prima. Usciva dalla palestra, suo figlio quella sera, e lei lo aspettava, come stasera, col motore . Poi era arrivata l’altra, con la sua potente auto e il cellulare attaccato alle orecchie: un attimo e Loris era solo un corpo steso sull’asfalto. Mentre la vita lo abbandonava, la chiamava: “Mamma!”
Ora la mamma è lì. Per Loris. La donna la fissa per un’ultima volta: “Perdonami…”
La osserva con indifferenza, aspetta che cessi di respirare, controlla in lontananza che la sua auto sia stata portata via da chi gliel’ha procurata. Un sorriso leggero le increspa le labbra, allontana i capelli fradici dagli occhi e si allontana dentro la notte.
L’ULTIMO BICCHIERE DI VINO di Silvia Aprile
«Tu-Tu-Tu…»
Il 113 è occupato, dall’altra parte della cornetta non risponde nessuno ed io continuo a digitare compulsivamente questi tre numeri maledetti.
Mi devo calmare, devo inspirare ed espirare.
Non è facile placare l’ansia, più sono agitata e più ho fame; il panico spalanca il mio stomaco.
Mi sento mancare l’aria, questo salotto sta diventando sempre più stretto, la chiazza di sangue è una pozza scura che s’allarga sul tappeto persiano e il suo odore è via via più forte.
Mi precipito in cucina, la pentola con l’acqua sta bollendo ed è un rumore che mi dà serenità, il senso di una quotidianità che forse sto per perdere.
Apro il frigo e prendo una delle due fiorentine che ho comprato per la cena di stasera, mentre la cuocio il suo aroma si spande per tutta la casa e arriva fino al salotto, dove tu, ormai, non puoi più sentire niente.
Mi siedo al tavolo, davanti a me sistemo elegantemente la carne succulenta, cotta
alla perfezione, e la bottiglia di vino rosso.
Mi concedo un flessuoso e delicato calice di cristallo per bere questo liquido corposo e secco. Il suo colore rubino, che riempie i trasparenti intagli floreali, mi ricorda il tuo sangue, il tuo corpo inerte e solo, disteso sul mio tappeto, un corpo innocuo.
Adoro il gusto dolce-amaro che il boccone e il vino producono dentro di me; si allarga fino in fondo alle narici e apre uno spiraglio di luce nei miei pensieri assopiti da giorni di ansia e paura.
Lentamente, con il bicchiere in mano, torno nella stanza dove sei tu. Mi avvicino alla vetrina con i cristalli e brindo alla mia salute, perché finalmente sono riuscita a liberarmi. Questa cena me la godo tutta, fino all’ultimo istante.
In fin dei conti che fretta c’è di chiamare i Carabinieri? Invaderanno la mia casa, mi faranno mille domande, mi avvolgeranno i polsi con manette fredde e rigide e mi porteranno via da qui, da casa mia.
E allora mi godo la cena, quella che ti sei illuso volessi consumare con te.
Davvero l’hai creduto!
Veramente hai immaginato che, dopo averti denunciato due volte, io potessi invitarti a cena a casa mia? Davvero hai pensato che le tue minacce e la tua persecuzione potessero farmi innamorare di te?
Sono stata brava, però, a farti cadere nella trappola.
Dopo anni di angoscia e tensione, dopo giorni e giorni chiusa in casa, notti insonni terrorizzata dalle tue lettere folli, ho preso il sopravvento.
Mi sono detta: «Ora basta avere paura. Basta ascoltare terrorizzata le sue telefonate e i suoi vaneggiamenti. Non camminerò più per la strada temendo di essere seguita, aggredita.»
Ho deciso di liberare la mia vita da te e di risolvere la questione da sola, visto che le forze dell’ordine non sono state capaci d’altro, se non di ammonirti.
Ora sono calma, saziata dalla gustosa pietanza che ho assaporato lentamente, e scaldata dal vino corposo che ho bevuto. Posso affrontare il futuro, posso ricomporre quel maledetto numero: 1 1 3.
IL GATTO DAL MANTO DI VELLUTO di Malica Umeni
Alzò gli occhi dalla pagina, appoggiò sul cuscino il capo reclinato, avvertendo il non senso del tenere un libro in mano. Parole vuote, nessun interesse. Ma doveva pur lasciar are un’altra notte. Mise una mano sul cuore: batteva, sì. Le pareva di non respirare, di non essere neppure più abitata dalla vita. Il gatto dal manto di velluto balzò all’improvviso sul letto, ai suoi piedi, e sprofondò nelle morbide coltri. Emise un miagolio strascicato, dolente, come una rimostranza, un rimprovero, un richiamo. In un altro momento lei avrebbe speso paroline dolci, pronunciato lallazioni e fonemi infantili. Avrebbe attribuito a quel miagolio il valore di una comunicazione sensata, umanizzata: povero micio, soffri anche tu e, come me, aneli all’impossibile. Vieni qui, micio bello, tu mi capisci, vero? E simili sciocchezze. Ma questa volta no. Provava ormai un distacco freddo e irreversibile da ogni forma di vita.
Come può una persona entrare nella tua vita al punto da creare un filo tenace, e poi una matassa, un intrico di sensazioni che si fanno carne e sangue, diventano parte di te al punto da rendere impossibile reciderle senza tagliarti via brandelli di tessuto?
Il gatto nero, ritto sopra il lenzuolo bianco, la guardava ora minaccioso. Le pupille a fessura, incastonate in splendide iridi gialle, sembravano veicolare acutamente in lei una cupa sentenza di condanna. Con un rapido movimento delle gambe lo cacciò giù dal letto, maledicendolo a gran voce. Quello balzò sopra di nuovo. Si avvicinò. Puzzava. Puzzava di cadavere. Dio mio, come poteva essere? Lo spinse ancora fuori, con movimenti bruschi e alte grida e battere di mani. Lui era immerso nell’acqua, nella vasca da bagno, coperto di detergenti profumati. Non era certo suo, il cattivo odore. Lui. L’uomo che aveva amato più della sua stessa vita. E che le aveva detto all’improvviso di non amarla più. Il suo profumo… ah, con quanta cura era solito radersi, e profumarsi per lei! Annusò le lenzuola, che aveva cosparso di dopobarba. Riprese in mano meccanicamente le pagine noiose del suo libro. Il tempo doveva pur essere ingannato. Ma lo sconcio animale, salito ancora una volta, si avvicinava
lentamente, fissandola. Ed ecco che le balzò in viso, prese a graffiarla e strapparle lembi di pelle, mentre lei urlava e vomitava a causa dell’odore di morte. Le grida spezzarono il silenzio malato della notte. Quando arrivarono, i vicini si misero le mani e i fazzoletti alle narici per l’insopportabile fetore. Lei era a terra, biascicava parole incomprensibili, sporca di vomito e di urina, lo sguardo fisso nel vuoto, pallida e scarmigliata, come chi ha visto l’orrore e ne è stato contaminato.
In camera da letto, sopra il lenzuolo bianco, un gatto nero dal manto di velluto dormiva placido, avvolto da un delicato profumo di dopobarba.
ASCESA PER IL PATIBOLO di Riccardo Alberto Quattrini
Norman Aldrich fissava i bottoni all’interno della cabina nell’ascensore. Ne schiacciò uno a caso. Non sapeva bene a che piano doveva fermarsi. La cabina si staccò dal fondo con un rumore molesto e un leggero sussulto, poi iniziò a salire cigolando e vibrando. Il led luminoso del pannello sopra la porta cominciò a indicare i piani: tre, quattro, cinque… al decimo si udì un camlo. Norman pensò di essere arrivato al suo piano, fece per uscire… undici, dodici, tredici… venti. Plin, altro suono del camlo. Impossibile si disse, questo palazzo non può avere più di dieci piani. Plin, trentesimo piano… “Hei!” urlò e batté alcune manate sulla porta che rimase sempre chiusa. Cinquantesimo piano. “Non è possibile” poi stirò appena le labbra in un sorriso mal riuscito. “Ho capito, è un sogno. Sto sognando, tra poco mi sveglio”. Poi, per un inspiegabile motivo, gli venne in mente Denise, poi Linda, Janet e Sandra, Rebecca e le altre. Altri nomi e volti gli affollarono la mente in un vortice continuo. Ed ecco che le porte scorrevoli si aprirono con un fruscio simile a un sospiro. Norman Aldrich fece un o nel tentativo di uscire. Ma c’era una cortina di nebbia, compatta e densa come uova sode, e faticò a camminarci dentro. Gli sembrò anche che gli venisse meno il respiro. “Dove sono?” si domandò. Poi, da quella nuvola densa, sbucò il viso di Linda M. Keller, ora ne ricordava perfino il cognome. Il volto era bianco, terreo, come di cera. Gli occhi blu erano spalancati, lo fissavano con uno sguardo ossessivo. Ed ecco un'altra faccia, quella di Sandra J. White, anche lei lo fissava. E Denise G. Monroe, e così Janet A. Garner. Tutte, tutte quelle che lui aveva rapito, torturato, violentato e ucciso, ora lo fissavano. Erano solo sguardi vacui, non incutevano nessun timore. Figuriamoci! Lui, che veniva chiamato l’assassino del Green River. Lui, Norman Aldrich, che portava le sue vittime in riva al fiume per poi gettarle in acqua, dopo averle violentate e strangolate. Cosa mai potevano fargli quelle. Già, quelle nulla. Ma, quando la nebbia improvvisamente si diradò, quello che vide gli gelò il sangue. Una sedia elettrica aspettava l’odore della carne che sfrigolava, della sua carne, ora.
LA TRACCIA di Edoardo Caldarola
«I capelli. Vanno tirati con forza. Deve sentire lo strappo, una lama in mezzo alla fronte. Così gli fiacchi il collo. Conti fino a tre e gl’infili la testa sotto. Spingi: gli devi togliere la speranza di poter respirare anche solo un’ultima volta nella vita».
Figlio di puttana: riava la lezione e, intanto, si esercitava con me.
Quando arrivò lo schiaffo dell’acqua, serrai gli occhi per non vedere il fondo, anche se si trattava del culo piatto di una bacinella.
Il diaframma si contrasse, i polmoni si schiacciarono. In gola bruciò un conato acido.
Ebbi la tentazione di buttar fuori l’aria, ma non cedetti. Perché l’impulso successivo sarebbe stato quello di riprendermela tutta indietro.
«Lo capisci da solo quand’è ora: lo tiri su e lo tieni a faccia all’aria. Devi dargli l’illusione del respiro, mentre inghiotte acqua e muco dalla bocca e dal naso».
Due, tre, quattordici volte.
Finché non implorai pietà.
Ci ho messo tempo e pazienza a scovarlo. Ho dovuto risalire lungo la traccia del male fino al capannone dismesso in cui s’è rintanato. Perché il male lascia sempre una traccia.
Ricambierei volentieri la cortesia, ma non ho una bacinella con me e in questo buco lercio non c’è nemmeno l’allaccio per l’acqua.
Pazienza.
Mi limito a lasciargli un ricordo di piombo striato nella rotula destra: un proiettile è per sempre.
Adesso urla, strepita il figlio di puttana, ma sono stato previdente: ho portato le cuffie. Metto Vivaldi, “L’autunno”. I nervi si distendono e posso smettere di tenerlo sotto tiro, anzi gli getto il ferro accanto e gli porgo un auricolare: anch’io sono capace di pietà. E comunque so di essere spacciato, devo aver lasciato una traccia troppo marcata dietro di me.
Perciò si accomodi, se ne ha la forza, raccolga la pistola e spari. Altrimenti, fra poco, lo faranno i suoi compari.
Arrivano.
Fanno scorrere la porta. Un sole inaspettato, dietro le sagome scure, abbaglia i miei ultimi istanti.
Eccoli che entrano e sventagliano colpi ovunque.
Ne conto tre in una spalla, un paio nell’addome.
L’ultimo spacca uno zigomo.
Cado sulle ginocchia. Prima di accasciarmi, faccio in tempo a scorgere la traccia che il male lascerà anche questa volta: una pozza con il mio sangue in un capannone dismesso. Senza nemmeno l’allaccio per l’acqua.
ALLA RADIO UN PEZZO DEGLI SMITHS di Nerio Vespertin
Paola è ferma in autostrada; c'è stato un incidente, segnalati tre km di coda. Tormenta il bordo di una sigaretta, a sinistra, oltre il finestrino, una famiglia in camper con i bambini che fanno un chiasso insopportabile. Alza il volume della radio, infastidita: parte un pezzo degli Smiths. Con un sospiro Paola butta fuori fumo e tensione, è stata una giornata lunga e faticosa. Alla sua destra, dietro il guard rail, c'è un bel ritaglio di verde, prato, alberi e contorni morbidi di colline. Lascia vagare lo sguardo mentre pensa come sarebbe bello starsene in mezzo alla natura. Proprio lì, dove nessuno ti può trovare, in quel punto isolato. Sospira. E se davvero uscisse alla prossima? Ci pensa un poco e l'idea la incanta. Potrebbe arrivare in quella radura fra gli alberi e aspettare la sera. Ecco, proprio dove si trova quel furgoncino.
Sforzando lo sguardo, distingue una figura vicino al furgone. Appena una macchia grigia su sfondo verde.
Paola increspa le labbra, vorrebbe andare subito ma il traffico è fermo. Lentamente la macchia grigia si sposta ai piedi di un albero. Armeggia con un bastone, le pare.
Se si concedesse una fuga, che avrebbe da perdere? Al capo potrebbe sempre dire: “Scusi, ma sono bloccata in autostrada.” Sì, qualcosa del genere. E al diavolo la call-conference delle 17.
La macchia grigia adesso si è fermata. Paola vede una figura alta, dai capelli neri, tornare al furgone e aprire il portello sul retro.
Ma sì: lo faccio. Sorride. Me ne vado lì, finestrini aperti e musica a tutto volume e al diavolo il lavoro.
Dal furgone, la macchia grigia estrae lentamente qualcosa. Un'altra macchia, bianca e lunga.
Paola sente urlare i bambini del camper e si volta di scatto, stanno cantando una sigla dei cartoni animati.
Quando torna con lo sguardo verso il furgone, la macchia grigia è sotto l’albero, la macchia bianca distesa ai suoi piedi.
La sigaretta scappa dalle dita di Paola. Solo pochi secondi.
La macchia grigia solleva un bastone, lo cala con violenza: una, due volte. La macchia bianca si solleva appena e ricade.
L'urlo di un clacson la fa sobbalzare. Un uomo dentro un'utilitaria nera impreca dal retrovisore. La coda si è mossa. Paola ci mette un po' a capire di essere rimasta indietro. Tossisce. Parte.
Prima di allontanarsi, scorge la macchia grigia che armeggia ancora con il bastone. Solo dopo averla oltreata capisce che il bastone poteva essere una pala e che la macchia grigia stava scavando. La macchia bianca non si vede più.
Per un po’ si domanda se davvero ha visto qualcosa. Il traffico avanza indifferente. Prende il telefono. Esita. Compone un numero. Poi con voce febbrile: “Si, pronto?!” Pausa. Poi finalmente, con voce ferma: “Sì, sono
bloccata dal traffico ma sto per arrivare, aspettatemi per la call-conference.” All'uscita successiva prosegue diritto. Alla radio parte un pezzo degli Stones.
IL BAMBINO PERDUTO di Sandro Orlandi
Stava lì, a non più di un metro, e mi guardava fisso negli occhi, mentre mi puntava contro la pistola.
L’indice della mano destra premeva già sul grilletto dell’arma pronta a far fuoco. Era calmo, sicuro di sé. Unico piccolo indizio di tensione: una gocciolina di sudore sulla tempia sinistra.
Terrorizzato, cercavo di conservare, chissà perché, la mia dignità.
Scrutavo dentro quegli occhi, grigi come l’acciaio, alla ricerca disperata di un briciolo di umanità, ma mi fissavano spietati, incredibilmente belli e indifferenti.
Avevo tentato di parlare, di ragionare, di spiegare come non avesse senso quello che stava per fare. Ma non mi ascoltava. Gli avevo detto che il mondo avrebbe continuato a girare allo stesso modo, anche senza di me, e non sarebbe cambiato niente. Aggiunsi che, se mi considerava una persona da eliminare, ritenevo di aver diritto almeno a un’ultima chance. Niente. La pistola era sempre ferma nelle sue mani, inesorabilmente puntata contro il mio occhio sinistro.
Così mi ammutolii, mi rassegnai e, per così dire, mi spensi.
Osservando la sua barba, lunga di due o tre giorni, mi accorsi che aveva una piccola cicatrice accanto al sopracciglio sinistro. Mi chiesi come e quando se la fosse procurata e mi venne in mente che, forse, da bambino era caduto dal cavallo a dondolo, o dal seggiolone.
Fu così che, in un attimo, quel volto truce si trasformò ai miei occhi nel viso paffuto e dolce di un bambino di tre anni, con lo sguardo vivo e sorridente, felice e stupito, magari per il primo triciclo regalato dal papà e trovato infiocchettato sotto l’albero di Natale.
Già. Un bambino. Sembrava impossibile, ma quell’uomo che stava per uccidermi a suo tempo era stato un bambino. Me lo immaginavo nel suo lettino, mentre ascoltava dalla voce affettuosa della mamma la sua favola preferita, o quando, muovendo incerto i suoi primi i, contento si tuffava tra le braccia rassicuranti del padre. Chissà quanto avrà pianto la notte, sognando streghe, mostri e uomini cattivi. Proprio lui!
Magari anche il primo giorno di scuola aveva pianto, come me, e forse anche lui era stato sgridato perché s’infilava le dita nel naso per poi mettersele in bocca. Lo immaginavo mentre copiava un compito in classe dal suo compagno di banco. Lo vedevo ridere e scherzare con gli altri a una gita scolastica, o in un campo di calcio, o a una festa di compleanno. Sicuramente, se non tutte, almeno alcune di queste cose doveva averle vissute. Cosa mai poteva essere accaduto per ritrovarmelo di fronte ora, con la lucida determinazione di volermi uccidere?
Stavo per chiederglielo, ma non feci in tempo.
Un lampo e un tuono improvviso. Un tremendo e brevissimo dolore pose fine a tutto.
Quel bambino non esisteva più.
Era stato ucciso molto, molto tempo prima di me!
MENO MALE CHE CI SONO LE BANCHE di Ivano Migliorucci
«Mi spiace, signor Giulio, niente prestito. Ce l'ho messa tutta, ma il mio superiore ha espresso parere negativo, vede?» e gli mostrò il foglio con quel giudizio, firmato ben in chiaro.
Rimasto solo, il bancario telefonò al suo capo.
«Avresti dovuto vedergli la faccia, è troppo divertente, stava quasi per piangere, e tu?»
«Oggi esco con quella che ti ho detto, prima la scopo, e poi vediamo se darle qualcosa. Dopo te la o.»
E quel pomeriggio, Marco il funzionario usci con Carla la cliente, subito in motel.
«Ma tu mi ami? » chiese mentre lui la spogliava.
«Certo»
«In così poco tempo? »
«L'amore arriva all'improvviso.»
«E allora voglio una poesia, scrivimela.»
Prese dalla ventiquattrore un foglio, la sua penna stilo e la scrisse; lei lesse compiaciuta mentre lui le esplorava tutto il corpo finendo di spogliarla.
«Mi piace la violenza, almeno un po', e finta» gli sussurrò in un orecchio.
«Cosa vuoi che faccia?»
«Ti faccio vedere.»
Si alzò, prese dalla borsa un coltello affilatissimo e glielo porse.
«Ecco, devi strusciarmelo sul corpo, come fosse un rasoio.»
Preso il coltello, iniziò a arlo sulla pelle di lei che gemeva di piacere a ogni carezza della lama.
«Ora basta» comandò «ho voglia di essere tua.»
Cominciò a toccarlo ovunque, lui fece altrettanto, ma squillò il cellulare di Carla.
«Scusa devo rispondere.»
Ascoltò, poi chiuse il telefono, si alzò e, contrariata, cominciò a vestirsi, invitandolo a fare altrettanto.
«Devo andare, mi spiace, scoperemo un'altra volta. Magari stasera vengo a casa tua.»
«Stai scherzando, c'è mia moglie...»
«Perché, sei sposato?»
«Beh, sì, ma non andiamo d'accordo.»
«Volevo ben dire, ora ami me.»
Lo abbracciò toccandolo e facendolo eccitare. Gli sussurrò:
«E quel prestito?»
«La richiesta è in area.»
«Certo» concluse lei staccandosi «quando ci rivediamo?»
«Domani, stessa ora e stesso posto?» propose lui.
«Perfetto, e voglio un'altra poesia.»
Si lasciarono. Appena solo chiamò il collega.
«Tutto bene?» domandò l'altro.
«Quasi, concludo domani, falle negare il prestito, si attacca troppo.»
«E io?»
«Beh, potrai contattarla dopo, è romantica. Prepara qualche poesia, io gliel’ho scritta copiandola da Prevert. Ciao, scappo a casa.»
Arrivato, parcheggiò e salì.
In lontananza le sirene cominciarono a rompere il silenzio di quel tranquillo quartiere.
Marco entrò in sala mentre alla porta bussavano con frenesia.
«Polizia, aprite subito o sfondiamo la porta!»
La buttarono giù, lui non poteva aprire. Stava guardando sua moglie, massacrata col coltello che lui aveva usato come strumento d'amore. In una mano insanguinata, un foglio; riuscì a leggere qualche parola della poesia di Prevert.
Mentre lo portavano via sentì un poliziotto dire all’altro:
«La tradiva. Scoperto, l'ha uccisa con un coltello da cucina, un caso facile.»
Il giorno dopo, in un’altra banca, Giulio chiese un prestito, sicuro di non ottenerlo. Poi risalì in auto, diede un foglio con un nome a Carla e, baciandola, le disse:
«Vediamo come fregarlo, quest'altro bastardo, amore mio.»
OMICIDIO A VILLA GLICINE di Rosita Antonietta
Il corpo di Suor Anna era riverso a terra in una posizione innaturale, l’abito nero rendeva il cadavere simile all’Uomo Vitruviano di Leonardo; la piccola pozza di sangue rosso, coagulato intorno alla nuca, era l’unico elemento che non fe pensare a una rappresentazione teatrale.
Quella era la scena che si presentò all’ispettore Giacomo Ursilli la domenica notte di un anonimo marzo. La zia Gloria, ospite forzata della Casa di Riposo Villa Glicine, lo aveva chiamato al telefono. Era ancora agitato per quell’interruzione forzata alla sua Domenica Sportiva: «Giacomino corri! È successa una disgrazia.» La voce della zia novantunenne era più stridula del solito; la mancata richiesta di visita, accompagnata dalle usuali lamentele, aveva fatto scattare l’allarme nell’ispettore.
Gli ospiti della villa, una quindicina di persone sopra gli ottanta anni, erano riuniti nella sala hobby, così definita per un vecchio televisore con tubo catodico. Attendevano pazienti l’interrogatorio che Ursilli si accingeva a iniziare. «Qualcuno di voi ha sentito o visto qualcosa che possa essere utile alle indagini?» La voce dell’ispettore rimbombava nella camera spoglia, ma, a quella domanda, rispose solo silenzio. Volse lo sguardo verso gli interrogati: occhi annacquati dalla cataratta, mani devastate dal Parkinson, gambe adagiate sulle sedie a rotelle, orecchie in compagnia di apparecchi acustici. Da questi non è possibile cavare nulla, pensò. Scrutò zia Gloria come a chiedere aiuto, e colse un lampo nell’espressione e una smorfia sulle labbra che attribuì all’orgoglio, per il ruolo principale del suo unico nipote.
La mattina seguente ricominciò gli interrogatori con il personale della clinica, nessuno aveva scorto o udito nulla. Emerse un quadro inquietante di Suor Anna, la vittima; donna tormentata dalla fede e dagli sbalzi di umore, trattava duramente gli infermieri e i pensionanti della costosissima clinica. Non giustificava alcun errore, seppur futile, infliggendo pesanti punizioni ai vecchietti che, per paura di nuove ripercussioni, subivano in silenzio. Acquisite queste informazioni, all’ispettore fu chiara la reticenza degli ospiti e decise di
insistere con zia Gloria, donna acuta e indiscreta, per ottenere indiscrezioni utili all’indagine. Mentre percorreva il lungo corridoio per raggiungere la stanza della zia, dei risolini soffocati e un parlottare sommesso risvegliarono il suo ’istinto; si compresse contro la parete per origliare indisturbato.
«Pensi che ci scopriranno? Tuo nipote mi guarda in modo strano.»
«Non dire stupidaggini Augusto, Giacomino è un imbecille, non si accorgerebbe nemmeno se un uccello gli cagasse in testa!»
«Dobbiamo sostenere la parte dei vecchi invalidi ancora per poco.»
«L’asta della flebo l’ho sepolta in giardino, sotto le ortensie.»
«Finalmente avremo un bel televisore nuovo, a schermo piatto con dolby surround!»
Le voci degli assassini risuonarono nella testa dell’ispettore con ironica crudeltà.