Breve racconto del Risorgimento
Bruno Etzi
Dedico questo lavoro a mia moglie Ombretta e ai miei figli Beatrice e Gabriele
Ringrazio di cuore Maria Rosaria Todde e, in modo particolare, Rafaele Serafini per i preziosi suggerimenti
© Copyright 2014 by Bruno Etzi
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Edizione digitale: gennaio 2014
ISBN: 9788868855949
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presente in bibliografia.
SOMMARIO
Introduzione
IL PROGETTO DI UNIFICAZIONE
Cos’è il Risorgimento?
Genesi del Risorgimento Qual è l’origine del nome “Italia”? L’invenzione della nazione italiana Gli scrittori creano la nazione Mistica della nazione
L’Italia prima dell’unità
Utilità economica dell’unità L’Italia prima dell’Unità La Carboneria Pellico e Maroncelli
Le insurrezioni dal ’20 al ’31
Gli ideatori dell’Italia unita
Giuseppe Mazzini, il profeta dell’unità I fratelli Bandiera Intellettuali moderati e radicali Viva Pio IX! La Lega doganale italiana
SCOPPIA UN ’48
I moti rivoluzionari
Lo Statuto albertino L’Europa si infiamma Le cinque giornate di Milano e l’insurrezione di Venezia
Lo scoppio della prima guerra d’indipendenza e la nascita della Repubblica Romana
La prima guerra d’indipendenza La Repubblica Fiorentina La Repubblica Romana
La fine della prima guerra d’indipendenza e la resa di Venezia
La fine di Carlo Alberto Venezia si arrende La ribellione di Genova e la pace di Milano
IL DECENNIO DI PREPARAZIONE
Il conte di Cavour
Cavour prende l’iniziativa Il “connubio” Cavour-Rattazzi
La fine dell’isolamento del Regno di Sardegna
La crisi calabiana e il primato del Parlamento La guerra di Crimea
I patti di Plombières
Il fallimento di Pisacane e la Società Nazionale I patti con la Francia
IL COMPIMENTO DELL’UNITÀ
La seconda guerra d’indipendenza
La seconda guerra d’indipendenza Le insurrezioni nell’Italia centrale L’armistizio di Villafranca L’annessione della Toscana e dell’Emilia-Romagna
Garibaldi conquista la Sicilia
Garibaldi e i Mille La conquista della Sicilia L’episodio di Bronte e la battaglia di Milazzo
La battaglia del Volturno e la proclamazione dell’unità
Garibaldi entra a Napoli La battaglia del Volturno e l’incontro di Teano La proclamazione dell’unità
L’ITALIA DOPO L’UNITÀ
Il brigantaggio ed altri problemi
La morte di Cavour Destra e Sinistra Il brigantaggio Il problema finanziario
La conquista di Venezia e di Roma
La terza guerra d’indipendenza La questione di Roma capitale Garibaldi ferito sull’Aspromonte Firenze capitale e il Sillabo
La sconfitta di Mentana La breccia di Porta Pia
Sezione 3 - Conclusioni
L’Italia è fatta. Mancano gli italiani Uno Stato poco democratico Il futuro è legato al ato
Bibliografia
Introduzione
Alain Elkann: Quale domani per l’Italia secondo lei, Montanelli?
Indro Montanelli: Debbo proprio dirglielo? Per l’Italia nessuno. Perché un paese che ignora il proprio ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un domani.
Questo studio ha lo scopo di semplificare una vicenda molto complessa, quella dell’unificazione italiana. Semplificare non vuol dire però banalizzare, ma mirare alla sostanza lasciando perdere i fronzoli e gli artificiosi grovigli. Ha l’ambizione insomma di cercare una risposta sobria a una domanda precisa: come è avvenuta l’unità d’Italia? Le pagine che seguono vogliono dunque essere utili a chi non ha né il tempo, né la pazienza per avventurarsi in libroni straripanti di pagine zeppe di informazioni, e però non si accontenta delle scheletriche sintesi contenute nei manuali per il liceo.
È difficile stabilire con certezza una data d’inizio del Risorgimento. Per comodità, seguirò la periodizzazione più ricorrente, che lo fa iniziare nel 1815 al termine del Congresso di Vienna, e lo fa terminare nel 1870 con la presa di Roma.
Questo Breve racconto del Risorgimento rifugge sia dalle versioni edulcorate e celebrative che incontriamo, anche se con toni decisamente meno enfatici di un tempo, in alcuni manuali liceali, sia dal revisionismo della pura denigrazione che oggi vende molto bene. Vuol essere un giusto mezzo tra due opposti vizi. L’unificazione italiana non fu certo l’opera di eroi senza macchia, e qui lo si dice con chiarezza; ma non fu neanche un progetto criminoso, come un certo
revisionismo d’accatto, spesso professato da studiosi politicamente e ideologicamente schierati, vorrebbe darci a bere.
Ogni nazione ha i suoi miti fondatori, ma quello del Risorgimento è sempre stato problematico, e oggi lo è particolarmente. Il movimento risorgimentale fu condiviso dalla maggioranza degli italiani oppure fu il frutto delle mene di una minoranza? Possiamo considerare l’unità d’Italia come un’autentica rivoluzione? Unire gli stati preunitari è stato un bene e, se lo è stato, sino a che punto? Il sentimento di unità nazionale è profondo o superficiale? A queste domande si può provare a rispondere solo dopo aver studiato la genesi dell’Italia, pur consapevoli che la storia non è una scienza esatta e che ogni risposta si espone a critiche e, frequentemente, a revisioni.
Ogni storia assomiglia a un labirinto in cui ci si può perdere. Questo breve saggio non è che una base di partenza, un semplice e sottile filo di Arianna per iniziare ad orientarsi.
Bruno Etzi, 13 settembre 2013
Capitolo 1
Il progetto di unificazione
Il Risorgimento fu un’idea diffusa essenzialmente dai romanzieri che, assumendo l’esistenza di una lingua letteraria comune alla nostra penisola come segno indubitabile dell’esistenza della nazione italiana, diedero vita a un’autentica fede religiosa verso la patria. In verità, nel periodo risorgimentale, meno del 10% degli “italiani” parlava la lingua italiana. La nazione era un’assoluta novità.
Sezione 1
Cos’è il Risorgimento?
Genesi del Risorgimento
La sera del 19 settembre 1870 il papa Pio IX, ormai quasi settantanovenne, si era recato alla Scala Santa presso la Basilica di San Giovanni in Laterano e aveva risalito in ginocchio tutti i 28 gradini. Sapeva benissimo che solo un intervento divino avrebbe potuto impedire la fine del suo Regno millenario. La città era circondata da decine di migliaia di soldati dell’esercito italiano equipaggiati con un centinaio di cannoni.
L’ultimo atto del Risorgimento stava per compiersi e sul vecchio mondo stava per calare il sipario. Roma sarebbe stata la capitale di un giovane e grande stato. Si profilava un nuovo inizio, gravido di speranze.
Ma come era stato possibile un simile risultato?
Fu Vittorio Alfieri, nel Misogallo, a parlare per primo di Risorgimento nel senso in cui lo intendiamo oggi, quando descrisse l’Italia come «inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente». Il termine, a partire dagli anni ’20 del secolo XIX, iniziò a penetrare direttamente nella lingua del tempo poiché rievocava un senso di sacralità e collegava, più o meno coscientemente, la resurrezione della nazione a quella promessa dalla religione cattolica, condivisa dalla quasi totalità degli italiani di allora. Secondo i patrioti del tempo anche la nazione italiana, come Lazzaro di Betania, sarebbe fulgidamente risorta.
Parlare di Risorgimento, tuttavia, non sembra adeguato a descrivere la vicenda dell’unificazione, poiché per “risorgere” bisogna essere già esistiti. La nazione italiana era infatti un’autentica novità.
Qual è l’origine del nome “Italia”?
Anche il nome Italia, come tutto ciò che appartiene al nostro mondo caduco, ha una sua origine sulla quale gli studiosi sono tuttora discordi. I Greci dell’età arcaica chiamavano Esperia o Enotria la penisola italiana. Secondo una tesi antica, a cui si sono ricollegati anche gli autori risorgimentali, come ad esempio Vincenzo Gioberti, il nome Italia deriverebbe dal greco Italos, che significa toro. I greci chiamavano Italioi i Vituli, un popolo che abitava nell’attuale Calabria e che adoravano il simulacro di un vitello. Il nome indicava dunque gli abitanti della terra dei vitelli.
Secondo un’altra ipotesi deriverebbe da Aithale, l’antico nome greco dell’isola d’Elba. Aithale significa “fumosa” e avrebbe indicato l’esistenza di fornaci per la fusione dei metalli¹.
L’invenzione della nazione italiana
Agli albori della letteratura italiana troviamo di rado la parola italiani. Dante Alighieri nella Commedia parla qualche volta di Italia ma mai di italiani. Giovanni Boccaccio nel Decameron (seconda giornata, novella nona) narra di alcuni mercanti italiani che s’incontrano a Parigi. Questo suggerisce che se gli “italiani” erano divisi in Patria (dove nessuno si definiva italiano), all’estero tendevano a scoprire un tenue fondo comune di appartenenza.
Agli inizi del ’500, Niccolò Machiavelli fu il primo a lamentare la divisione e la debolezza politica dell’Italia. Per evitare che la penisola cadesse preda della brama di conquista dello straniero, egli invocava un principe capace di unificare politicamente la penisola.
Nel periodo illuminista, lo storico napoletano Pietro Giannone vide nel papa un formidabile ostacolo sulle vie del cambiamento e «denunciò quella che considerava un’eccessiva ingerenza della Chiesa nella politica» e Antonio Genovesi, professore di economia politica a Napoli, riconobbe nella frammentazione politica «un ostacolo al progresso economico italiano»². L’idea di unificare l’Italia però non venne in mente a nessun illuminista.
Un’influenza decisiva sulla nascita dell’idea di unità la ebbero le occupazioni napoleoniche. L’arrivo dei si in Italia aveva aperto le porte a nuove idee: l’uguaglianza tra gli uomini, la libertà di pensiero, la partecipazione al dibattito politico e alla vita pubblica. Fu Napoleone a distruggere ciò che restava del sistema feudale e a portare in Italia lo spirito della rivoluzione se. Egli creò prima una Repubblica Italiana e poi un Regno dell’Italia settentrionale che, in seguito, avrebbe funzionato da esempio per i progetti cavouriani di
allargamento del Regno di Sardegna. Napoleone, inoltre, all’apogeo del suo dominio, decretò la fine del potere temporale dei papi e cancellò lo Stato della Chiesa (1809) creando un precedente che avrebbe agevolato l’occupazione di Roma del 1870.³
Quando durante la rivoluzione se venne affrontato il problema della sovranità, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, si affermò solennemente che essa non risiedeva più nel re, ma in un soggetto collettivo, superiore agli individui: la “nazione”, appunto. Da allora il termine entrò prepotentemente nel vocabolario politico europeo. In Germania, più tardi, il concetto di “nazione tedesca” divenne il collante di una diffusa reazione all’occupazione se. Fu il filosofo Johann Fichte, nei Discorsi alla nazione tedesca del 1808, a indicare nella lingua, nel sangue, nella cultura, il nucleo fondante di una nazione. Più tardi, dopo il Congresso di Vienna e la Restaurazione, anche in Italia iniziarono a serpeggiare idee analoghe. Alessandro Manzoni, nell’ode Marzo 1821, immaginava la nazione italiana come: «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».
Negli anni successivi al crollo del sistema napoleonico, iniziò a diffondersi tra le classi più colte, tra gli studenti e l’alta borghesia delle città italiane, una crescente nostalgia per le idee osteggiate dalla Restaurazione. Comparve un desiderio di libertà e d’indipendenza che, nell’atmosfera romantica del tempo, si concretizzò nel sogno di una rinascita nazionale.
Gli scrittori creano la nazione
In Italia furono i letterati a concepire e diffondere il progetto dell’unità. Essi guardavano alla plurisecolare tradizione del volgare italiano come prova inequivocabile dell’esistenza della nazione italiana. In realtà solo una parte minima degli abitanti della penisola parlava regolarmente l’italiano, tra il 2,5 (secondo De Mauro) e il 9,5% (secondo Castellani). Quasi l’80% delle persone era analfabeta e capiva solo il dialetto locale. Il cattolicesimo, più che stringere assieme gli italiani, tendeva a considerarli come parte di una comunità sovranazionale. La stessa storia degli stati preunitari era stata segnata più da scontri e rivalità che da gesti di fraternità e collaborazione. Gli italiani, infine, non costituivano affatto un etnia distinta per i tratti fisici e psicologici, essendo il risultato della fusione di popoli differenti. Il progetto di costruzione di una nazione si scontrava quindi con ostacoli apparentemente insormontabili. Eppure, anche se in modi imprevedibili e rocamboleschi, sarebbe stato realizzato.
Come è stato evidenziato dallo storico Alberto Mario Banti, per propagandare l’idea della nazione occorreva parlare al cuore e al ventre della gente, usare un linguaggio che tutti potessero intendere. Solo così si potevano accendere le ioni necessarie ad avviare un azzardato piano di unificazione politica della penisola. Emerse dunque una letteratura patriottica che, attraverso poesie, saggi storici, romanzi, melodrammi e dipinti, si propose di raccontare urbi et orbi il mito della nazione italiana. In queste opere, afferma ancora Alberto Mario Banti, «la patria è madre, tutti i suoi figli (e figlie) sono fratelli (e sorelle), i leader sono padri della patria».⁴
Furono i romanzi storici di Walter Scott e le opere di autori come George Byron o Victor Hugo, che apionavano i lettori di allora, a fornire il modello che venne adottato da scrittori come Alessandro Manzoni, sco Domenico Guerrazzi, Massimo D’Azeglio e altri al fine di far sbocciare nei lettori una
coscienza storica e un’ambizione nazionalista. Questi autori aggiravano la censura ambientando i loro racconti in epoche lontane e facevano ricorso a frequenti metafore il cui significato sfuggiva ai rozzi poliziotti austriaci addetti alla censura. Nei loro racconti emergono regolarmente la figura dell’eroe, del traditore, della ragazza virtuosa e onesta che i cattivi violentano o cercano di violentare (come Ginevra nel romanzo Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta di D’Azeglio, oppure Lucia ne I Promessi Sposi di Manzoni). È ancora il Banti a sottolineare quest’aspetto: «Le eroine nazionali sono presentate come pure e caste, e spesso si dice anche esplicitamente che la loro virtù le fa somigliare a delle sante, se non addirittura a Maria Vergine».⁵
Per suscitare l’odio verso lo straniero occupante occorreva dipingerlo come un repellente criminale.
Mistica della nazione
La tradizione cattolica, così ben radicata in Italia, fu dunque ampiamente utilizzata dalla pedagogia nazionalista come una grande fonte a cui attingere a piene mani per costruire una mistica della Patria. Il “sacrificio” degli eroi avrebbe liberato tutti gli italiani come quello di Cristo l’intera umanità. Non stupisce quindi che Garibaldi fosse raffigurato con le sembianze di Gesù, e che Mazzini amasse definire la propaganda delle idee risorgimentali un’opera di “apostolato”. Solo la diffusione di un’autentica “fede religiosa”, di un senso sacrale della patria, poteva spingere migliaia di giovani a mettere a rischio la propria vita per un progetto che, agli occhi di qualsiasi persona con un po’ di senno, sarebbe apparso molto improbabile, per non dire pazzesco.
Sezione 2
L’Italia prima dell’unità
Utilità economica dell’unità
Nella propaganda risorgimentale fu ampiamente rimarcato che l’Italia unita avrebbe offerto ampi benefici economici a tutti. Giuseppe Mazzini, per esempio, in un opuscolo che conteneva alcune critiche nei confronti del ministro inglese Lord Aberdeen, aveva biasimato la divisione dell’Italia in otto stati, ciascuno con una costosa corte da mantenere, con monete differenti, con molteplici sistemi di pesi e misure, con esose barriere doganali, con differenti ordinamenti amministrativi e polizieschi. Le divisioni, lamentava Mazzini, soffocano i commerci e rendono gli italiani stranieri gli uni agli altri. Eppure alcuni sovrani del tempo, insoddisfatti dai vincoli doganali con gli stati confinanti, decisero di erigerne anche all’interno dei loro stessi stati. Nel piccolo Stato di Parma, ad esempio, chi avesse viaggiato da Guastalla alla capitale avrebbe incontrato sette caselli daziari! La grave miopia di alcuni governanti rendeva impossibile la percezione dei benefici che un mercato comune avrebbe offerto a tutti gli italiani e non soltanto alla borghesia.
L’Italia prima dell’Unità
Il Congresso di Vienna del 1815 aveva sancito il dominio austriaco sull’Italia, diretto nel caso del Lombardo-Veneto, indiretto nei casi della Toscana, di Modena e Reggio, di Parma e Piacenza, veri e propri stati satellite dell’impero. A sud governavano i Borboni, alleati degli austriaci. Il papa possedeva uno Stato ampio (Lazio, Umbria, Marche, le legazioni di Bologna, Ferrara e Modena e le enclavi di Benevento e Pontecorvo nel sud Italia) ma economicamente molto arretrato. Solo il Regno di Sardegna, ingrandito grazie al Congresso di Vienna con la popolosa Liguria e alcuni territori della Savoia, era realmente indipendente.
La popolazione italiana era di poco inferiore ai venti milioni di abitanti. Lo Stato più popolato era il Regno di Napoli (6.766.000 abitanti), quello con meno abitanti era la Repubblica di San Marino (7.000 abitanti). Il Trentino, il Sud Tirolo e la Venezia Giulia erano tornati a far parte dell’impero Austriaco.
L’eredità napoleonica era stata in gran parte abbandonata ma non fu possibile restaurare il feudalesimo senza scardinare i sistemi economici esistenti. La censura, la repressione e la restaurazione degli antichi privilegi suscitarono un forte malcontento tra i liberali.
Anche il Regno di Sardegna era caratterizzato da una politica fortemente conservatrice. Vittorio Emanuele I non era un reazionario, ma i timori suscitati dai moti napoletani del 1820 paralizzarono i suoi timidi progetti di riforma.
Il Lombardo-Veneto era governato nominalmente da un viceré, ma di fatto
dipendeva direttamente da Vienna. Anche se l’amministrazione napoleonica era stata in parte mantenuta e, soprattutto in Lombardia, sin dagli anni Quaranta, era stato avviato un forte sviluppo nei settori agricolo e industriale, il controllo esercitato da Vienna appariva intollerabile alle élite borghesi. Molti intellettuali milanesi, nonostante la censura, iniziarono ad orientarsi sin dal 1815 verso la prospettiva dell’indipendenza. Simbolo di questa tendenza fu il periodico Il Conciliatore, nato nel 1818 e soppresso dalla censura austriaca nell’ottobre del 1819.
sco IV d’Asburgo-Este regnava col pugno di ferro su Modena e Reggio, mentre i governi di Ferdinando III d’Asburgo-Lorena (fratello dell’imperatore d’Austria sco I) in Toscana e quello di Maria Luisa d’Asburgo (ex moglie di Napoleone I) a Parma e Piacenza erano più liberali.
Nello Stato Pontificio, sotto il pontificato di Pio VII furono ripristinati l’Indice dei libri proibiti e la Santa Inquisizione. Più tardi, sotto Leone XII (1823-1829), fu introdotto un pesante regime poliziesco. Tutte le cariche pubbliche erano affidate ai religiosi e la cittadinanza era accordata solo ai cattolici. Si poteva finire in galera per colpe minime ed era prevista la pena di morte per decapitazione o per sfondamento del cranio con un grosso martello (mazzolatura). In alcuni casi i corpi dei giustiziati venivano squartati ed esposti al pubblico.
Il Regno delle due Sicilie, che univa Napoli e Sicilia, era sotto la ferula di Ferdinando I di Borbone, che aveva fatto assumere alla Restaurazione forme fortemente repressive. Tutto ciò suscitò un forte risentimento sia tra la borghesia, sia negli ambienti militari, che provocò la diffusione di associazioni segrete rivoluzionarie, come la Carboneria.
La Carboneria
Il periodo delle associazioni segrete costituisce la fanciullezza del Risorgimento. Le speranze di libertà sorte nel periodo napoleonico e frustrate dalla Restaurazione furono il propellente che produsse, negli anni ’20, il decollo delle organizzazioni che miravano alla riunificazione e alla liberazione della nazione. Tra queste la più importante e meglio strutturata era la Carboneria, che si ispirava alla Massoneria per la segretezza e per l’uso di simboli e di riti esoterici. La Massoneria aveva come fine l’emancipazione dell’umanità ma, almeno ai suoi albori, intendeva realizzarla senza ricorrere alla violenza. La Carboneria, invece, riteneva irrinunciabile la lotta violenta al tiranno. Il nome Massoneria derivava dal mestiere dei muratori, mentre Carboneria veniva dai produttori di carbone di legna. È impossibile conoscere con certezza la genesi della Carboneria, ma sembra probabile che fosse nata come reazione all’imperialismo dispotico di Napoleone. In Italia l’associazione era presente nel Regno delle due Sicilie, dove intendeva creare una monarchia costituzionale adottando la carta approvata dalle Cortes spagnole nel 1812 (Costituzione di Cadice). I cospiratori erano generalmente aristocratici liberali, studenti universitari o ufficiali che avevano fatto carriera sotto Napoleone. La segretezza esigeva uno speciale codice linguistico che derivava dal modo di esprimersi dei produttori di carbone: gli iscritti si chiamavano «buoni cugini», i luoghi di riunione «baracche», le riunioni dei capi erano chiamate «vendite» e per indicare gli austriaci si diceva i «lupi». La Carboneria era organizzata in senso elitario e prevedeva tre gradi: Apprendista, Maestro e Gran Maestro. Ciascun iscritto era custode di una conoscenza degli obiettivi della setta commisurata al suo grado di appartenenza. Solo i Grandi Maestri conoscevano i fini ultimi dell’associazione che non era, peraltro, depositaria di un’idea univoca. Infatti al suo interno circolavano idee diverse e talvolta dissonanti (democrazia, socialismo, ecc.). Nel nord Italia i cospiratori intendevano lottare contro l’occupazione straniera, mentre nel sud volevano limitare i poteri dei re. Anche le donne accedevano alla Carboneria e avevano creato una loro associazione, la Società delle Giardiniere, che operava nel nord Italia e nel napoletano. Tra le patriote emerse, per amore dell’avventura, intelligenza e cultura, la figura della principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso. Vera e propria vestale del Risorgimento, transitò dalle simpatie carbonare a
quelle mazziniane e infine a quelle monarchiche. Negli anni ’30 fu costretta a rifugiarsi a Parigi, dove la sua casa divenne una specie di centro di gravitazione per esuli italiani come Niccolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti e il vecchio rivoluzionario Filippo Buonarroti.
Pellico e Maroncelli
In Moravia, vicino alla città di Brno, era situata la tetra fortezza medievale dello Spielberg. Oltre a ladri e assassini, negli anni ’20 dell’800, vi erano rinchiusi anche i detenuti politici. Tra gli “ospiti” più celebri ricordiamo Silvio Pellico e Piero Maroncelli. Arrestati a Milano per cospirazione, furono condannati a morte, ma poi la condanna fu commutata in carcere duro. Nel 1830, dopo dieci anni di gattabuia, arrivò la provvidenziale grazia dell’imperatore che permise a Pellico la pubblicazione del libro Le mie prigioni (1832), in cui descrisse le orribili condizioni dei prigionieri: freddi tuguri sotterranei come celle, catene ai piedi, isolamento, vitto scarso e ripugnante. Senza la generosità di alcuni carcerieri comionevoli, che di nascosto offrivano ai reclusi un frutto o un pezzo di pane in più del consentito, Pellico e Maroncelli sarebbero sicuramente morti di stenti, come era accaduto a tanti altri prigionieri. Maroncelli per di più, a causa di una cancrena, affrontò con straziante coraggio l’amputazione di una gamba eseguita senza anestesia. Per ammissione dello stesso cancelliere Metternich Le mie prigioni danneggiò l’Austria più di una battaglia perduta.
Le insurrezioni dal ’20 al ’31
Furono le società segrete, sorte in molti paesi europei, a dar vita a un ciclo rivoluzionario che iniziò in Spagna nel 1820 e, dopo essersi propagato a Portogallo e Grecia, terminò in Russia con il moto dei decabristi del 1825. La concessione della costituzione da parte del re spagnolo Ferdinando VII, in seguito alla ribellione di un esercito che si era rifiutato di recarsi in America per reprimere la rivolta di Simon Bolivar, indusse i carbonari italiani ad avviare alcuni moti rivoluzionari. A Napoli, nel luglio del 1820, i cospiratori erano riusciti a costringere il re Ferdinando a concedere una costituzione. La Santa Alleanza reagì e, nel marzo 1821, il moto fu soffocato nel sangue.
Nel Regno di Sardegna, tra il marzo e l’aprile del 1821, il malcontento dei borghesi e dei militari diede luogo a un progetto rivoluzionario. Dopo la proclamazione di una nuova costituzione, riconosciuta dall’erede al trono Carlo Alberto, il re Carlo Felice sconfessò ogni decisione. A quel punto Carlo Alberto abbandonò i rivoluzionari e i lealisti ripristinarono l’ordine.
Il moto di Modena, all’inizio del 1831, ebbe in Ciro Menotti il principale organizzatore. Egli chiese avventatamente o al duca sco IV che prima si disse favorevole e poi, intimorito dalle sommosse che stavano scoppiando in diverse città, fece arrestare e condannare a morte Menotti. I moti fallirono sia per l’intervento dell’Austria (come nel caso di Napoli e di Modena), sia per l’infiltrazione di spie, sia per l’isolamento e il pressappochismo dei rivoluzionari.
Le rivoluzioni degli anni ’20 non furono tutte fallimentari. Nel 1821 era esplosa in Grecia una guerra nazionale contro il dominio dell’Impero Ottomano. La
ferocia e la crudeltà con cui i turchi reagirono alla rivolta (è noto il massacro degli abitanti di Chio), spinse volontari di molti paesi europei, tra cui alcune centinaia di italiani, a combattere al fianco dei greci. Nel 1827 una flotta di navi inglesi, si e russe affondò molte navi egiziane giunte in aiuto dei turchi nel golfo di Navarino e la Grecia ottenne l’indipendenza.
Sezione 3
Gli ideatori dell’Italia unita
Giuseppe Mazzini, il profeta dell’unità
Negli anni Trenta in tutte le ambasciate austriache era stata diffusa la descrizione di un «individuo di statura media e di carnagione olivastra; aveva una bella fronte, portamento nobile ed energico, ed era un ottimo oratore dalla voce molto bella e sonora».⁷ Si trattava di un uomo temuto non soltanto dal Governo austriaco, ma anche da quelli dei vari staterelli italiani che cercavano di individuare i reagenti chimici capaci di far apparire i messaggi scritti con l’inchiostro simpatico e di decifrarne i codici segreti. Quest’uomo era Giuseppe Mazzini, il principale teorico della rivoluzione nazionale.
Anche Mazzini fu inizialmente Maestro della Carboneria, ma in seguito abbandonò la setta perché contrario alla segretezza e all’elitarietà dell’organizzazione. Come ha ben sintetizzato Giordano Bruno Guerri:
«La sua era una critica al pressapochismo, alla viltà, all’astrattezza dei patrioti italiani, ma soprattutto alla loro concezione aristocratica che emarginava il popolo, il quale, secondo lui, da tradizionale oggetto dei cambiamenti doveva diventarne soggetto, protagonista della storia nazionale».⁸
Nel 1830 una soffiata portò Mazzini nelle prigioni del Governo piemontese. Tre mesi dopo fu assolto per insufficienza di prove. Dopo la sentenza però fu invitato a scegliere tra il confino in qualche remota località del Regno e l’esilio. Scelse l’esilio e si trasferì a Marsiglia dove, per portar avanti il suo ideale, fondò la Giovine Italia, un’associazione che, a differenza della Carboneria, era segreta solo per quanto riguardava i nomi degli affiliati e non per i programmi. Il fine era quello di realizzare un’Italia unita, libera e repubblicana. Il sovvertimento politico doveva scaturire dall’azione di un popolo cosciente del proprio destino,
e non dalle macchinazioni di un’élite di oscuri cospiratori.
La Giovine Italia si chiamava così perché mirava soprattutto alla mobilitazione dei giovani. Nell’associazione non poteva entrare chi aveva più di quarant’anni, sia perché «a cose nuove si richiedono uomini nuovi, non sottomessi all’impero di vecchie abitudini o di antichi sistemi, vergini d’anima e di interessi», sia perché l’attività di rivoluzionario esige l’energia della giovinezza.
La Giovine Italia era anche il titolo del periodico clandestino attraverso cui i mazziniani diffo il loro programma e iniziarono a preparare insurrezioni armate. Mazzini reclutò migliaia di giovani che provenivano per la maggior parte dalla borghesia. Nelle campagne, dove quasi tutti i contadini erano analfabeti, la propaganda dei rivoluzionari non poteva arrivare. La Giovine Italia era concepita come una specie di associazione apostolica, simile a un movimento religioso con iniziati disposti a sacrificare tutto, compresa la vita, per un’Italia unita, democratica e libera dallo straniero. Gli esempi di popoli che avevano raggiunto l’indipendenza con la forza costituivano per Mazzini la prova che la liberazione è possibile se si lotta uniti. Nella lettera del 5 aprile 1853 a Visconti Venosta egli scrisse:
Noi ci affratelliamo per far quello che la Spagna ha fatto, che la Grecia ha fatto, che l’America ha fatto, che tutte le nazioni schiave hanno fatto: conquistarci con idee nostre, con armi nostre, con sacrifici nostri la patria.
Mazzini si era convinto di vedere «il dito di Dio nelle pagine della storia del mondo» che, come ha voluto liberare la Grecia dai turchi, libererà anche l’Italia.
Nonostante i roboanti proclami, anche i tentativi insurrezionali dei mazziniani erano destinati al fallimento. Nel 1833 un moto che avrebbe dovuto svilupparsi in Piemonte fu scoperto. Molti ufficiali furono fucilati e Jacopo Ruffini, amico di
Mazzini, si suicidò in carcere per non dover rivelare sotto tortura i nomi dei complici. Anche un altro tentativo di rivolta, organizzato in Savoia nel 1834, fallì miseramente. Fu allora che Giuseppe Garibaldi, che era tra i promotori, fu costretto alla fuga in America e condannato a morte in contumacia.
Mazzini nel 1834 aveva fondato, seppur con scarsi risultati, la Giovine Europa, che aveva lo scopo di radunare tutte le associazioni nazionali che lottavano per l’indipendenza. Negli anni successivi attraversò la cosiddetta “tempesta del dubbio”, vale a dire il rimorso per aver sacrificato inutilmente tante vite umane. Alla fine ne uscì convincendosi che il valore della causa italiana fosse superiore a quello delle singole vite. Dal 1837 visse a Londra, quasi in miseria.
I fratelli Bandiera
Un insuccesso che a Mazzini fu aspramente e ingiustamente rimproverato fu quello dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera nel 1844. I due fratelli erano ufficiali della marina austriaca e avevano aderito alle idee mazziniane. Partiti da Corfù, dopo aver ricevuto notizia di una ribellione scoppiata a Cosenza, quando giunsero in Calabria scoprirono che il moto era ormai spento. Attirati in un tranello furono catturati e fucilati con altri sette compagni. Mazzini aveva apprezzato il progetto solo in un primo momento, credendo che fosse meglio tentare di fare qualcosa e fallire piuttosto che non far nulla. Successivamente però, come è stato dimostrato da alcune lettere intercettate dal Governo di Vienna, aveva cambiato idea e cercato inutilmente di dissuadere i due fratelli dal loro proposito.
Intellettuali moderati e radicali
Gli insuccessi dei mazziniani aprirono uno spazio per le proposte alternative dei moderati, quei pensatori convinti che l’unità d’Italia fosse ottenibile senza ricorrere alla brutalità delle rivoluzioni. Tra i moderati una delle figure principali fu quella di Vincenzo Gioberti, un sacerdote piemontese costretto all’esilio, che nel 1843 pubblicò a Bruxelles il saggio Del primato morale e civile degli italiani in cui sosteneva che i sovrani italiani avrebbero dovuto accordarsi e creare una federazione di stati con a capo il papa. Per Gioberti gli italiani dovevano ritenersi un gran popolo, malgrado tutte le divisioni. Egli considerava la tradizione cattolica come il collante che avrebbe potuto unire l’Italia senza ricorrere alla violenza. Questa dottrina venne così classificata come “neoguelfismo”. Il pensiero di Gioberti era però illusorio, in quanto ignorava la rigidità della Chiesa del tempo, attribuendole forzatamente idee liberali e nazionalistiche che non le appartenevano.
Altra figura di spicco tra i moderati fu Cesare Balbo che sarebbe poi divenuto il primo presidente del Governo piemontese nel ’48. Nell’opera del 1844 Delle speranze d’Italia si disse convinto che gli italiani non avrebbero mai rinunciato ai loro capoluoghi di provincia per una capitale nazionale. Anch’egli, come Gioberti, vedeva nella confederazione la forma migliore di unificazione, attuabile soltanto dopo aver cacciato via gli austriaci. Ai Savoia sarebbe spettato il compito di strappare il Lombardo-Veneto all’Austria, preferibilmente per via diplomatica. L’Austria avrebbe dovuto cedere ai piemontesi i territori del nord Italia in cambio di possedimenti nell’Europa orientale sottratti al claudicante impero ottomano. L’ipotesi di Balbo, anche se eticamente discutibile, dato che si proponeva di sostituire la servitù italiana con quella di altri popoli, era certamente più concreta e realistica della fumosa utopia di Gioberti.
Tra i liberal-radicali a vocazione repubblicana che si ispiravano alla tradizione
illuminista milanese emerse la figura di Carlo Cattaneo, fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sul modello della Svizzera. Egli, tuttavia, considerava più importante l’esercizio delle libertà interne piuttosto che l’indipendenza da una potenza straniera. Diceva che è «meglio vivere da amici in dieci case che discordi in una sola». Cattaneo diffidava dei Savoia che governavano il Piemonte con metodi «aristocratici e preteschi». Le sue idee federaliste, sostenute nella rivista mensile Il Politecnico, erano improntate ad un liberalismo laico.
Nel 1845 fallì a Rimini, in Romagna, un’insurrezione di un centinaio di patrioti che, dopo aver colto di sorpresa la guarnigione pontificia, si erano impadroniti della città e avevano chiesto riforme politiche ed economiche. Privi del sostegno popolare, i rivoluzionari furono rapidamente sconfitti e il loro fallimento segnò la crisi del modello rivoluzionario, aprendo l’uscio a una proposta alternativa.
I moderati quindi iniziarono a riporre molte speranze nel re di Sardegna Carlo Alberto che, a partire dal 1845, sembrava intenzionato a condurre un programma di unificazione nazionale. Sostenitore del progetto di Carlo Alberto fu lo scrittore e pittore Massimo D’Azeglio che, nel saggio Degli ultimi casi di Romagna, pur attribuendone la responsabilità al regime oppressivo del papa, condannò i moti di Rimini «perché una protesta a quel modo, a volerla fare ora in Italia, occorrerebbe una buona posizione militare, 200 mila uomini e 200 pezzi di batteria; fatta invece con pochi fucili è cagione che l’Europa si burli di noi».¹
Viva Pio IX!
L’elezione al soglio pontificio di Pio IX dopo la morte del reazionario Gregorio XVI, nel 1846, sembrò coronare le speranze del neoguelfismo e dei riformatori moderati italiani. Lettore di Gioberti e di Balbo, di carattere aperto e sensibile alle manifestazioni di simpatia popolare, il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti si presentò nei primi diciotto mesi del suo pontificato con una serie di iniziative che apparvero realmente innovative e che incontrarono un fortissimo desiderio di cambiamento, dando origine a grandi e illusorie speranze. Il grido «viva Pio IX!» diventò di moda. Il papa aveva attenuato la censura sulla stampa, aveva liberato quattrocento prigionieri politici e circa altrettanti esuli erano stati perdonati, aveva istituito una guardia civica a Roma che, secondo i patrioti italiani, rappresentava il nucleo di un futuro esercito nazionale, e aveva creato una consulta civica (composta di soli laici) col compito di esprimere giudizi sulla politica pontificia.
Secondo Indro Montanelli il mito del papa liberale era «divampato per autocombustione, cioè dal desiderio ch’egli si mostrasse tale. Ma era così forte da suggestionare anche lui e tenerlo prigioniero».¹¹ La nomina del cardinale Gizzi, la cui vocazione liberale era nota, a segretario di Stato, fece apparire Pio IX come la personificazione del pontefice auspicato da Gioberti, pronto a unire l’Italia nel nome della Chiesa. L’illusione non avrebbe avuto vita lunga, ma ebbe il merito di creare un diffuso e vivace entusiasmo per l’idea di unificazione nazionale.
La Lega doganale italiana
Gli anni 1846-47, in gran parte dell’Europa e in quasi tutta l’Italia, furono caratterizzati da difficoltà economiche diffuse, dovute principalmente a cattivi raccolti, con conseguente aumento del prezzo del grano. Sin dagli anni Trenta, in alcuni stati italiani come il Regno di Sardegna, il Regno delle due Sicilie e il Lombardo-Veneto, il rigido protezionismo era stato abbandonato per far posto a una riduzione delle tariffe doganali più elevate. Per iniziativa di Pio IX vide la luce, sull’esempio della Zollverein tedesca del 1834, la «Lega Doganale Italiana», un accordo che avrebbe permesso la libertà di commercio e di navigazione, oltre a una serie di esenzioni fiscali, per i sudditi degli stati aderenti. L’accordo preliminare fu firmato a Torino il 3 novembre 1847 tra il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio. Pochi giorni dopo anche il duca di Modena sco V fu invitato ad aderire, dato che i suoi territori, che comprendevano Massa e Carrara, interrompevano la continuità tra la Toscana e il Regno di Sardegna. Il duca però, a causa delle pressioni del Governo austriaco, decise di non aderire al progetto che, anche per gli eventi rivoluzionari del 1848, fu definitivamente accantonato.
Capitolo 2
Scoppia un ’48
L’improvvisa esplosione delle rivoluzioni del 1848 segnò il momento di massima partecipazione popolare della storia risorgimentale. La prima guerra d’indipendenza e le vertiginose vicende rivoluzionarie di Roma, Firenze e Venezia furono eventi carichi di infuocate ioni ma incapaci di produrre durevoli novità politiche, ad eccezione dello Statuto albertino.
Sezione 1
I moti rivoluzionari
Lo Statuto albertino
Nei primi mesi del 1848 gran parte dell’Europa occidentale fu sconvolta da rabbiosi moti di piazza. In Italia non furono gli intellettuali ad accendere le polveri ma il popolo siciliano che, tormentato dalla fame e desideroso di rendersi indipendente da Napoli, mise in fuga le truppe borboniche e diede vita a un governo provvisorio. Le proteste si estesero poi al napoletano, dove i liberali chiesero la costituzione. Ferdinando II, risentito per il mancato aiuto degli altri sovrani italiani, decise di concederla il 29 gennaio. Il re in quell’occasione avrebbe detto: «Don Pio IX e Carlo Alberto hanno voluto gettarmi un bastone tra le gambe; e io gli rispedisco questa trave, tò! Così ci divertiamo tutti quanti!».¹² I siciliani però rifiutarono la costituzione di Ferdinando e ne adottarono una più avanzata in cui la sovranità non risiedeva più nel re ma nei cittadini e il potere legislativo spettava interamente al Parlamento.
Per evitare rivolte interne, altri sovrani italiani seguirono l’esempio napoletano e si affrettarono a concedere la costituzione nei propri territori: Leopoldo II di Toscana il 15 febbraio, Carlo Alberto il 4 marzo, Pio IX il 14 marzo e Carlo II di Parma il 29 marzo.
Carlo Alberto si servì di validi collaboratori nella formulazione dello Statuto. Si trattava di un’apertura al liberalismo e di un abile compromesso tra la monarchia e la borghesia in ascesa. Pur essendo una carta costretta dagli eventi e calata dall’alto, e non frutto della discussione di un’assemblea elettiva, lo Statuto fu in grado di reggere al are del tempo. Pensato per un piccolo Stato di 6 milioni di persone fu successivamente esteso a tutta l’Italia e rimase in vigore sino alla fine della seconda guerra mondiale. Introduceva l’uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge, garantiva la libertà individuale e quella di stampa. Il potere esecutivo era affidato al re che lo esercitava attraverso i ministri, quello legislativo spettava a un Parlamento bicamerale di cui solo la
Camera era elettiva, mentre i senatori venivano nominati dal re. Una delle lacune più gravi era l’assenza della divisione dei poteri auspicata da Montesquieu, dato che anche i giudici erano scelti dal re. La religione cattolica era considerata religione di Stato, mentre gli altri culti venivano tollerati. Le discriminazioni contro i valdesi erano già state abrogate con un decreto del 18 febbraio, quelle contro gli ebrei il 29 marzo. Il primo Parlamento, su base censitaria e maschile, fu eletto il 27 aprile 1848.
L’Europa si infiamma
Il fenomeno rivoluzionario assunse carattere europeo quando i si, esasperati per la grave crisi economica dovuta ad un lungo periodo di carestia iniziato nel ’46 a causa di cattivi raccolti granari e di una letale malattia della patata, costrinsero il re Filippo D’Orlèans a lasciare il trono e proclamarono la Repubblica. Il fungo che divorava le patate aveva causato danni in molte zone d’Europa, ma gli effetti più drammatici avvennero in Irlanda. Nell’isola infatti le malattie favorite dalla malnutrizione «avevano seppellito due milioni di irlandesi, spedendone altri due milioni oltremare».¹³
L’aumento dei prezzi alimentari aveva causato vaste proteste e l’Austria, che guardava con sospetto alla situazione italiana, decise l’invio di truppe a Ferrara, provocando le proteste del papa e di Carlo Alberto. In questo clima si ebbero molte manifestazioni popolari inneggianti a Pio IX. L’occupazione di Ferrara e l’annessione della città libera di Cracovia nel novembre del 1846 furono decisioni particolarmente infelici del Governo austriaco. Infatti, violando gli accordi internazionali, l’Austria aveva perso il diritto di appellarsi al «principio di legittimità» stabilito dal Congresso di Vienna.
A Milano il professor Giovanni Cantoni aveva distribuito un volantino in cui esortava i cittadini a iniziare uno sciopero del fumo, al fine di infliggere gravi perdite economiche all’Austria che deteneva il monopolio del tabacco. Lo sciopero iniziò il primo gennaio e fu subito imitato in altre città lombarde. I soldati austriaci reagirono fumando ostentatamente nelle strade. I milanesi iniziarono a fischiarli e a insultarli, ne nacque uno scontro con morti e feriti. L’odio verso gli austriaci causò un susseguirsi di zuffe fra studenti e polizia e un moltiplicarsi delle dimostrazioni a favore di Pio IX.
La notizia degli avvenimenti si spinse i contadini tedeschi a ribellarsi agli anacronistici residui di feudalesimo che ancora vigevano in molte parti della Germania. L’insurrezione si diffuse in numerose città, costringendo i principi a concessioni più o meno ampie. Il re di Prussia Federico Guglielmo IV fu costretto a concedere una costituzione, che sarebbe rimasta in vigore sino al 1918.
Le tensioni rivoluzionarie produssero inoltre la creazione di un Parlamento federale tedesco insediatosi a Francoforte allo scopo di unificare il paese. I deputati si divisero tra fautori di una Grande Germania (che comprendeva l’Austria) e di una Piccola Germania (senza l’Austria). Prevalsero questi ultimi e, nell’aprile 1849, offrirono la corona al re di Prussia che la rifiutò perché conferita da una assemblea popolare che lui, fortemente conservatore, non considerava legittima.
Anche a Vienna il popolo insorse e Metternich fu licenziato. Il nuovo imperatore sco Giuseppe concesse la costituzione (poi revocata nel 1851) e venne eletto un Parlamento privo di Camera alta. Anche in Boemia e in Ungheria scoppiarono rivolte, ma in entrambi i casi furono presto soffocate dalla Santa Alleanza.
Le cinque giornate di Milano e l’insurrezione di Venezia
Tra il 18 e il 22 Marzo, alla notizia delle insurrezioni di Vienna, Praga e Bucarest, esplose la rabbia dei milanesi che, dopo cinque giornate di lotta, costrinsero le truppe austriache a lasciare la città per ritirarsi nelle fortezze del cosiddetto “quadrilatero” (Peschiera, Mantova, Verona, Legnago). In seguito si formò un governo provvisorio con a capo Gabrio Casati che pose il Consiglio di Guerra guidato da Carlo Cattaneo sotto la sua autorità. A causa delle intenzioni di Casati di chiedere aiuto a Carlo Alberto per sconfiggere definitivamente gli austriaci, Cattaneo, contrario a questa manovra per paura di compromettere l’autonomia della Lombardia, abbandonò la sua carica. Anche a Venezia, insorta il 17 marzo, venne occupato l’Arsenale e restaurata la Repubblica. Fu istituito un governo provvisorio presieduto da Daniele Manin, un patriota che, assieme a Niccolò Tommaseo, era stato appena liberato dal carcere in cui si trovava per la sua attività cospirativa. Il ’48 diede dunque l’impressione che bastasse alzare la testa per mettere in fuga l’invasore. Un’impressione presto disillusa.
Sezione 2
Lo scoppio della prima guerra d’indipendenza e la nascita della Repubblica Romana
La prima guerra d’indipendenza
Il 23 marzo, convinto che Dio lo avesse chiamato a guidare la causa italiana e sotto pressione per le richieste di aiuto giunte da Milano, Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria. Era un atto di estremo coraggio da parte del re, che in Europa era diplomaticamente isolato. Forse l’audacia del sovrano era dettata dalle sue convinzioni religiose e dalle sue condizioni di salute, in rapido peggioramento. Come ha scritto Paolo Pinto:
La morte non poteva più fargli paura, anzi era forse la soluzione, l’inizio della vera vita. Perciò Carlo Alberto, contraddicendo la sua natura, si dispose a quella guerra senza esitare, come chi segua una linea tracciata dalla provvidenza.¹⁴
Carlo Alberto si recò in Lombardia dove stavano arrivando molti volontari, tra i quali molti studenti, da varie parti d’Italia. Subito dopo l’arrivo del re, a Milano si allargò la spaccatura tra gli aristocratici che desideravano una fusione tra Piemonte e Lombardia sotto Carlo Alberto e i democratici, appartenenti quasi tutti alla classe media, favorevoli alla Repubblica. Questa divisione non avrebbe certo giovato alla causa dell’unità.
Anche a Roma i liberali chiesero al papa di intervenire. Sotto la guida del generale piemontese Durando, il 24 marzo, truppe pontificie lasciarono la capitale per raggiungere i confini dello Stato. Pio IX, pur intimamente contrario alla guerra, aveva ancora una volta ceduto alle pressioni popolari e permesso la mobilitazione, ma col solo ordine di presidiare i confini al fine di evitare che soldati austriaci sconfinassero per sfuggire ai piemontesi. Pur simpatizzando per la causa italiana, il pontefice non poteva permettere che si aggredissero gli austriaci in suo nome. Da Vienna arrivavano rapporti sempre più allarmanti sulla
diffusione di opuscoli anti-romani nei quali si minacciava uno scisma. Il 29 aprile Pio IX prese la decisione, e davanti al concistoro dei cardinali pronunciò un’allocuzione in cui affermava di «non poter dichiarare guerra a una nazione i cui membri erano suoi figli spirituali».¹⁵ Egli si sentiva rappresentante di un Dio di pace e non intendeva schierarsi contro gli austriaci, protettori del cattolicesimo nell’Europa centrale. Il papa non poteva davvero desiderare l’unità d’Italia, che gli avrebbe tolto il potere temporale. Con l’allocuzione la favola del papa liberale si infranse per sempre. «Viva Pio IX!» divenne: «accidenti a Pio IX!». Con la rinuncia del papa anche gli altri sovrani richiamarono le loro truppe. L’ampia partecipazione popolare al processo risorgimentale era durata solo pochi mesi.
La guerra però continuò e il Regno di Sardegna ottenne alcuni parziali successi. La vittoria di Pastrengo (30 aprile) avrebbe potuto dar luogo all’occupazione di Verona, ma la mancata insurrezione della popolazione e la sostanziale sconfitta nella battaglia di Santa Lucia (6 maggio) fecero assumere al re un atteggiamento molto più cauto. La vittoria di Goito (30 maggio), favorita dal sacrificio dei volontari toscani e napoletani a Curtatone e Montanara che riuscirono a rallentare gli spostamenti degli austriaci, permise l’occupazione della città fortificata di Peschiera (31 maggio). Per il momento ci si poteva illudere che la guerra stesse volgendo a favore dei piemontesi. Carlo Alberto però, più che preoccuparsi di sconfiggere gli austriaci, parve interessato all’annessione di Milano mediante plebisciti. Questo atteggiamento produsse una lunga scia di sospetti e accuse che ruppero il clima di unità nazionale, e intanto gli austriaci stavano ricevendo importanti rinforzi.
Il 4 luglio Carlo Alberto si incontrò con Garibaldi che era tornato dall’America meridionale dopo l’esilio seguito agli eventi del 1834. Il re lo accolse con freddezza e lo rimandò al ministro della Guerra Franzini al quale scrisse che sarebbe stato disonorevole attribuire il grado di generale ad un simile elemento.¹
I piemontesi quindi non approfittarono del successo e concessero al nemico il tempo di riorganizzarsi. Anche a causa di un errore strategico di Carlo Alberto,
quello di non chiudere i i della Svizzera, gli austriaci riuscirono a are e con la battaglia di Custoza (presso Verona) del 25 luglio rovesciarono le sorti della guerra sconfiggendo pesantemente i piemontesi e costringendoli a chiedere un armistizio. Carlo Alberto dovette abbandonare Milano e riguadare il Ticino. Il 9 agosto, a Vigevano, il generale Carlo Carnera di Salasco firmò l’armistizio (armistizio di Salasco), valido per sei settimane trascorse le quali avrebbe potuto essere «prorogato di comune accordo o denunciato otto giorni prima della ripresa delle ostilità».
Visto il rifiuto di Carlo Alberto, Garibaldi si era rivolto al Governo milanese che gli offrì la nomina a generale. Pur sapendo dell’armistizio scelse di non rispettarlo e, dopo il successo nella battaglia di Luino (15 agosto), fu sconfitto e costretto a fuggire in Svizzera.¹⁷
La sconfitta di Custoza e l’improvvisa stipula dell’armistizio produssero nel 1848 una crisi dei moderati, che furono esautorati dal ruolo di guida del movimento indipendentista. L’alternativa mazziniana riprese vigore; era giunta l’ora delle Repubbliche.
La Repubblica Fiorentina
Nell’ottobre 1848, a causa di un minaccioso moto di protesta, il granduca Leopoldo II aveva abbandonato la Toscana. A Firenze, all’inizio del 1849, si era insediato un Governo rivoluzionario presieduto da Giuseppe Montanelli, sco Domenico Guerrazzi e Giuseppe Mazzoni che proposero la convocazione di un’Assemblea Costituente Italiana, rifiutando la fusione, inutilmente caldeggiata da Mazzini, con la neonata Repubblica Romana. Ancora una volta prevalsero i sospetti e le rivalità tra le città. L’atavico provincialismo italiano costituiva un potente ostacolo sulla via dell’unificazione. Ad ogni modo la Repubblica Fiorentina non durò a lungo. Nel mese di maggio gli austriaci occuparono Firenze e a luglio Leopoldo era di nuovo sul trono.
La Repubblica Romana
Il 24 novembre Pio IX, dopo aver pregato nella sua cappella privata al Quirinale, dismise l’abito papale e indossò un vestito più semplice. Una carrozza lo attendeva nei pressi di un’uscita secondaria per condurlo a Gaeta, dove sarebbe stato ospitato dal sovrano di Napoli Ferdinando II, al quale aveva chiesto asilo. Ma perché Pio IX aveva abbandonato lo Stato Pontificio?
A Roma, il 15 novembre, era stato assassinato il capo del Governo Pellegrino Rossi. Il giorno seguente le proteste e le intimidazioni della folla verso la curia erano divenute sempre più pesanti: nella piazza era apparso un cannone puntato contro il Quirinale e un prelato che si trovava nello stesso palazzo era stato ucciso da un colpo di fucile. Pio IX, temendo che la rivoluzione stesse per esplodere, pensò di lasciare Roma per chiedere aiuto alle potenze cattoliche.
In una situazione di così grave incertezza, la Camera provò ad inviare dei delegati a trattare, ma il papa non li volle ricevere. A quel punto i deputati nominarono una Giunta di Stato che sciolse il Parlamento e indisse le elezioni, a suffragio universale maschile, di un’Assemblea Costituente. Nel febbraio 1849 l’Assemblea dichiarò la fine del potere temporale del papa e proclamò la nascita della Repubblica Romana (9 febbraio). Mazzini fu invitato a guidare il processo rivoluzionario e, abbandonato il suo rifugio svizzero, giunse a Roma ai primi di marzo. Dopo la disfatta di Novara, al fine di salvare la Repubblica, l’Assemblea nominò un triumvirato per il governo della città composto, oltre che da Mazzini, da Carlo Armellini, e Aurelio Saffi. Naturalmente, visto il suo enorme prestigio, il vero e unico dittatore era Mazzini.
Al fine di finanziare la vita del nuovo Stato, l’Assemblea nazionalizzò tutti i beni
della Chiesa. Abolì inoltre la pena di morte e il tribunale dell’inquisizione; istituì il matrimonio civile e la libertà d’istruzione.
Intanto in Francia era stato eletto presidente della Repubblica un nipote di Napoleone I, Luigi Napoleone Bonaparte. Quest’ultimo, per mantenere l’appoggio delle gerarchie cattoliche che avevano favorito la sua elezione, aveva deciso di inviare in Italia 15 mila soldati guidati dal generale Oudinot per restaurare il potere del papa. Dopo aver occupato Civitavecchia, i si attaccarono Roma, ma vennero respinti dai legionari di Garibaldi, eletto anch’egli nell’Assemblea Costituente. Il Nizzardo, il cui valore emerse pienamente durante la difesa dell’Urbe, riuscì a mettere in fuga anche l’esercito del re di Napoli. Anche se può apparire strano, appena giunto a Roma l’Eroe era considerato da alcuni ufficiali, tra i quali Carlo Pisacane, un tattico mediocre, e quindi il comando supremo dell’esercito era stato affidato al romano Pietro Roselli. Questo creò sensibili difficoltà, poiché Garibaldi, che era la figura più prestigiosa dell’esercito della Repubblica, si mostrava restio ad obbedire agli ordini di Roselli.¹⁸
Nelle sue Memorie L’Eroe dei due mondi si lamentò anche di Mazzini, accusandolo di non saper dirigere la guerra, di non aver preso misure di salute pubblica contro i preti e di non aver condiviso alcune sue proposte, come quella di «invadere il regno napoletano, il di cui esercito sconfitto trovavasi nell’impossibilità di rifarsi e le di cui popolazioni ci aspettavano a braccia aperte».
Anche gli austriaci si erano mossi, occupando le Legazioni e Ancona. Era quindi fatale che Roma, con le sue diciotto miglia di mura da difendere non avrebbe resistito a lungo alle soverchianti forze nemiche. Nella difesa della città trovarono la morte alcune tra le figure più note del Risorgimento. L’impavido colonnello Luciano Manara, già eroe delle cinque giornate di Milano, fu colpito al petto da un proiettile durante la difesa di Villa Spada. Aveva 24 anni. Goffredo Mameli, autore della poesia «Il canto degli italiani» (più nota come Fratelli d’Italia) che, musicata da Michele Novaro, sarebbe divenuta l’inno nazionale
italiano nel 1946, fu ferito a una gamba durante un assalto alla baionetta all’inizio di giugno. La lesione non fu adeguatamente curata e in breve tempo sopraggiunse la cancrena che costrinse il medico Agostino Bertani, suo amico, ad amputargli l’arto. L’operazione non fu eseguita a regola d’arte e circa un mese dopo Mameli morì per un’infezione. Aveva 21 anni.
Per un giovane di oggi è difficile comprendere lo spirito di sacrificio che animava quei giovani di allora. Nel mondo attuale, dove i piaceri, i consumi e l’esigenza di benessere individuale sono le uniche res sacrae, dove la retorica dei diritti raggiunge livelli iperbolici, il sacrificio di sé in nome di un progetto collettivo non può apparire che una smunta chimera.
Ai primi di giugno giunse una grave sconfitta strategica per i difensori: la conquista di Villa Corsini da parte dei si. Infatti da quella posizione, sul Gianicolo, si poteva bombardare a piacimento la città. Solo un miracolo poteva salvare la Repubblica.
Il miracolo non avvenne, e nel luglio del ’49 l’Assemblea Repubblicana giudicò impossibile ogni resistenza e decise la capitolazione. Garibaldi invitò tutti coloro che volevano continuare a lottare a seguirlo nel tentativo di prestare aiuto a Venezia che non si era ancora arresa. I garibaldini però, dopo numerose defezioni (dai 4 mila iniziali si erano ridotti a poche centinaia) si fermarono a San Marino, dove Garibaldi sciolse il piccolo esercito. Nonostante tutto egli sperava ancora di giungere a Venezia e, con gli ultimi volontari rimasti, si imbarcò a Cesenatico. Per malasorte la luna piena rendeva ben visibili le barche e i garibaldini furono presto intercettati dagli austriaci che ne arrestarono la maggior parte. Garibaldi riuscì a toccare terra non lontano da Ravenna. Fu allora che, in preda a febbrili convulsioni, trovò la morte Anita Garibaldi, moglie dell’eroe. Figura quasi leggendaria del Risorgimento italiano, era l’immagine ideale di una guerriera tutrice dei diritti dei popoli. Indro Montanelli ha raccontato così l’episodio:
Fra canneti e canali, Garibaldi riuscì a sfuggire trascinando a braccio Anita, sempre più livida, sempre più gonfia. E con due fili di saliva ai margini della bocca: doveva portarsi nel ventre un bambino morto che la stava avvelenando. La povera donna spirò in una cascina presso Ravenna, dove avevano trovato rifugio, e Garibaldi non ebbe neanche il tempo di seppellirla: gli austriaci stavano per sopraggiungere.¹
Grazie all’aiuto di alcuni patrioti, tra cui possiamo ricordare il sacerdote di Modigliana Don Giovanni Verità che lo nascose a casa sua, Garibaldi riuscì a valicare gli Appennini e a raggiungere Porto Venere, in Liguria. Fu poi condotto a Genova dove venne arrestato e, dopo qualche giorno di carcere, costretto all’esilio.
Intanto, a Roma, i triumviri, prima di lasciare la città ai si, promulgarono la Costituzione Repubblicana più moderna, più laica e più democratica fra quelle elaborate fino ad allora. Sotto molti aspetti anticipava i contenuti della Costituzione Italiana attuale.
Sezione 3
La fine della prima guerra d’indipendenza e la resa di Venezia
La fine di Carlo Alberto
Pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica Romana, il 12 marzo 1849, il Governo sabaudo guidato dal generale Domenico Chiodo si trovava in una posizione molto critica. Il Parlamento, a maggioranza liberale, aveva esercitato forti pressioni sul re e sul capo del Governo al fine di riprendere la guerra. Chiodo, alla fine, cedette alle insistenti richieste e, in accordo col re, dichiarò rotto l’armistizio. La conquista di Milano avrebbe permesso un’annessione secca della città, senza discussioni e obiezioni da parte dei milanesi. Il 20 Marzo però, la guerra iniziò molto male con gli austriaci che sfondarono le difese piemontesi presso Mortara. Tre giorni dopo giunse la fatale sconfitta di Novara. Vedendo lo spalancarsi del disastro, Carlo Alberto si gettò nel tumulto della prima linea, combattendo con disperazione. Secondo alcuni che lo videro, cercava la morte, ma non la trovò.² La battaglia costò alcune migliaia di uomini per parte, tra morti, feriti, prigionieri e dispersi. Per giustificare la sconfitta si indicò nel generale Ramorino, che fu condannato a morte, il capro espiatorio. In verità le responsabilità erano molto più estese e coinvolgevano sia il generale polacco Wojciech Chrzanowski, troppo prudente e scarso conoscitore del territorio, sia l’intera struttura dell’esercito sardo, i cui quadri dirigenti erano stati scelti con criteri nepotistici e completo disprezzo del merito. Gravi responsabilità pesavano anche sulla maggioranza della Camera che aveva scioccamente preteso la ripresa della guerra, illudendosi che l’eroismo sarebbe bastato a generare la vittoria.
Del tutto inutile risultò il sacrificio di Brescia (10 giornate di Brescia) che, ribellatasi agli austriaci il 23 marzo, fu riconquistata e sottoposta a un atroce saccheggio.
Con la scienza del poi appare evidente che il Regno di Sardegna, coi suoi 6 milioni di abitanti e un esercito di 65 mila uomini (in tempo di pace) non poteva vincere una guerra contro un Impero di 37 milioni di abitanti e 360 mila soldati.
Solo la simultanea ribellione delle varie nazionalità che componevano il mosaico imperiale avrebbe potuto causare il crollo dell’Austria.
La sconfitta di Novara insegnava agli Italiani che per sgominare l’Impero asburgico, in mancanza di un’autentica e diffusa partecipazione popolare, era necessario conquistare il favore diplomatico delle grandi potenze europee e assicurarsi l’appoggio di un forte alleato militare.
La sera stessa della sconfitta, Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II, e si ritirò in esilio a Oporto in Portogallo dove, malato e spossato dalle fatiche della guerra, morì il 18 luglio. Vittorio Emanuele II firmò l’armistizio di Vignale. Si disse allora che il re avrebbe rifiutato sdegnosamente la proposta del maresciallo Radetzky di un ingrandimento del suo Stato in cambio dell’abrogazione dello Statuto albertino. Nacque così, abilmente diffusa da Massimo D’Azeglio, la leggenda del «re galantuomo». In verità, come ha chiarito Giorgio Candeloro, il progresso degli studi e i documenti austriaci relativi al colloquio di Vignale dimostrano che «Radetzky non propose al re un’abolizione dello Statuto, ma che invece consentì ad attenuare le condizioni dell’armistizio, perché volle incoraggiare il re a svolgere una politica rivolta a combattere il partito democratico, alla quale il re stesso si dichiarò propenso».²¹ L’armistizio impegnava Vittorio Emanuele a iniziare al più presto trattative di pace. Il 30 marzo fu pubblicato il decreto di scioglimento della Camera, senza annunciare la data delle nuove elezioni. Il 7 maggio Massimo D’Azeglio fu nominato capo del Governo.
Venezia si arrende
La Repubblica di Venezia era assediata per mare e per terra, sottoposta a più di due mesi di bombardamenti (allo scopo erano stati anche usati per la prima volta, anche se con scarso successo, dei palloni aerostatici), aveva resistito sino allo stremo delle forze. Difesa ormai solo da veneziani, ad eccezione di alcuni ufficiali napoletani e lombardi, flagellata dalla fame e dal colera, fu costretta alla resa il 22 agosto 1849.²² Fu allora che il poeta Arnaldo Fusinato scrisse i famosi versi: «Il morbo infuria, Il pan ci manca, Sul ponte sventola bandiera bianca!»
La ribellione di Genova e la pace di Milano
Il 27 marzo a Genova era giunta la notizia della grave sconfitta dell’esercito di Carlo Alberto e i repubblicani, numerosi in una città che era sempre stata repubblica sino al 1815 (eccettuata la parentesi del periodo napoleonico), organizzarono una rivolta nella speranza di ottenere l’indipendenza dal Regno di Sardegna. Tra il 4 e il 9 aprile l’esercito sardo-piemontese attaccò la città costringendola, anche col ricorso a brutali bombardamenti, alla resa. I soldati regi furono autori di violenze e saccheggi, mentre i capi della rivolta furono condannati a morte. Il generale La Marmora fu premiato per il successo dell’operazione con una medaglia d’oro al valor militare.
In Piemonte Vittorio Emanuele II sciolse il Parlamento rieletto pochi mesi prima perché, dominato dai democratici, non intendeva ratificare la pace di Milano (6 agosto 1849). Quest’ultima prevedeva 75 milioni di lire di indennizzo e una temporanea occupazione austriaca nelle sue province orientali (una specie di “zona cuscinetto”). Il re, inoltre, “invitò” i sudditi a eleggere parlamentari meno intransigenti (proclama di Moncalieri – 20 novembre), prefigurando, in caso contrario, gravi e pericolosi disordini. Il Governo riuscì, con metodi più o meno legali (chiusura di circoli politici, sospensione di giornali, deferimento giudiziario di alcuni giornalisti), a orientare nel senso desiderato dal re il voto degli elettori. Il nuovo Parlamento, eletto il 10 dicembre, ratificò finalmente la pace.
Capitolo 3
Il decennio di preparazione
Dopo la sconfitta nella prima guerra d’indipendenza entrò prepotentemente nella scena del Risorgimento il conte di Cavour, il più grande statista italiano dell’800. Egli avviò verso la modernità il Regno di Sardegna e ne sostenne un rapido progresso economico. Seppe anche favorire un graduale avvicinamento alla Francia che si concluse con un decisivo patto militare.
Sezione 1
Il conte di Cavour
Cavour prende l’iniziativa
Il ritorno dei legittimi sovrani dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48-49 bloccò ogni esperimento riformatore. Ben diversa da quella degli altri Stati Italiani era la situazione politica nel Piemonte sabaudo, dove sopravvisse lo Statuto albertino e con esso una forma di governo monarchico-costituzionale.
Agli inizi degli anni ’50 il Governo era presieduto da Massimo D’Azeglio che portò avanti, con l’appoggio della maggioranza parlamentare, un programma di modernizzazione dello Stato. Una tappa fondamentale in questo senso fu rappresentata dall’approvazione, nel Febbraio 1850, delle cosiddette leggi Siccardi (dal nome del ministro della Giustizia che le aveva proposte). Queste leggi riorganizzavano i rapporti fra Stato e Chiesa, ponendo fine agli anacronistici privilegi di cui il clero godeva: i tribunali riservati, il diritto d’asilo nelle chiese e nei conventi, la manomorta (beni fondiari inalienabili esenti da imposte) e la censura sui libri.
Circa due anni dopo, D’Azeglio dovette dimettersi poiché il re era contrario all’introduzione di una legge sul matrimonio civile. L’incarico di formare il nuovo Governo fu affidato a Camillo Benso conte di Cavour che era emerso come leader della maggioranza proprio durante l’approvazione delle leggi Siccardi e che aveva rinunciato, in attesa di un momento più propizio, alla legge sul matrimonio civile.
Cavour, nato il 10 agosto 1810, apparteneva a una famiglia di antichissima nobiltà ed era uomo d’affari, proprietario terriero e giornalista. Il suo ingresso nella vita politica fu segnato dalla fondazione del giornale moderato Il Risorgimento. Dotato di notevole intelligenza e di una spiccata propensione
all’azzardo, si era reso conto che sarebbe stato impossibile governare coi metodi della pura reazione. Ha scritto di lui lo storico Giuliano Procacci:
Egli possedeva al tempo stesso tutte le virtù del borghese e tutte le virtù dell’aristocratico: l’irrequietezza intellettuale e l’abitudine al comando, il gusto di far denaro e quello di spenderlo, la freschezza di energie di una nuova classe sociale e lo stile di una vecchia.²³
Dopo aver seguito i corsi dell’Accademia militare, Cavour lasciò l’esercito (1831) per dedicarsi a viaggi di studio in Francia, Belgio e Gran Bretagna, dove acquisì esperienza diretta della vita economica di quegli stati, più progrediti e culturalmente più aperti del Piemonte.
Dal 1835 si occupò della gestione della tenuta di famiglia e di attività bancarie. Nel 1848 decise di darsi al giornalismo e all’attività politica, schierandosi a favore di un liberalismo moderato. Sempre nel 1848 fu eletto deputato del Parlamento subalpino; nel 1850 divenne ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio e nel 1851 ministro delle Finanze. Così scriveva di se stesso: «Moderato d’opinioni, sono piuttosto favorevole ai mezzi estremi ed audaci».²⁴
Il “connubio” Cavour-Rattazzi
Prima di diventare presidente del Consiglio, Cavour aveva promosso un accordo parlamentare tra il centro-sinistra di Urbano Rattazzi e il centro-destra di cui lui stesso era il leader.
Con questo accordo, che fu chiamato col nome spregiativo di “connubio”, formò un unico raggruppamento di centro che gli dava l’opportunità sia di organizzare una propaganda patriottica anti-austriaca, sia di avviare il Piemonte alla modernità.
Cavour divenne presidente del Consiglio nel 1852, a 42 anni. Come capo del Governo si adoperò subito per sviluppare l’economia del suo paese e per integrarla nel contesto europeo. La sua fu una politica liberoscambista: i dazi sulle importazioni di oltre seicento articoli furono abbassati (1851) e furono stipulati trattati commerciali con dieci paesi tra cui Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna. La perdita dei diritti doganali fu sostituita da tassazioni dirette, in modo che il contribuente sapesse precisamente lo scopo per cui i soldi erano versati.
La riduzione dei dazi doganali favorì l’incremento del commercio e diede energia a tutta l’economia. Il Regno di Sardegna, come in generale tutta l’Italia, era povero di minerali e di carbone e la riduzione dei dazi ne facilitò l’importazione. Fu così possibile dar vita alle prime fabbriche nel settore metalmeccanico.
I primi anni del governo Cavour furono però funestati da una crisi economica di
difficile soluzione. Negli anni ’50 in gran parte d’Italia si registrò un’impennata dei prezzi, dovuta principalmente a malattie dell’uva e dei bachi da seta. In compenso il settore cotoniero, grazie alla crisi della seta e al basso costo del lavoro, realizzò una netta espansione.
Nonostante i periodi di crisi, nel complesso la guida di Cavour favorì il progresso economico del Piemonte. Già nel periodo napoleonico in tutta l’Italia del nord si era verificato un’evoluzione in senso capitalistico della produzione agricola. Il governo piemontese cercò di modernizzare ulteriormente il settore attraverso la costruzione di canali d’irrigazione e importanti opere di bonifica. Furono, inoltre, introdotte numerose innovazioni tecniche e create importanti infrastrutture: il telegrafo mise in collegamento Torino con Genova, con Parigi e con la Sardegna; il costo delle affrancature postali fu abbassato e le città di Torino, Genova e Milano vennero unite dalla ferrovia che giungeva sino alla frontiera se. Nel 1857 partì il lungo lavoro di realizzazione del traforo del Frejus, concluso poi nel 1870. Coi suoi oltre 13 kilometri era, in quei tempi, il tunnel ferroviario più lungo al mondo.
L’azione di Cavour però, anche se costantemente elogiata dalla maggioranza degli storici non era priva di difetti. Fu l’ex ministro delle finanze Thaon di Revel a rimproverargli l’abuso del credito nei bilanci dello Stato. Gli interessi sugli enormi prestiti che Il Conte aveva chiesto alle banche pesavano parecchio sulle casse statali, e il bilancio dello Stato, alla fine del decennio, era gravemente in rosso. Questo problema sarebbe rimasto in eredità al nuovo Stato italiano dopo la morte di Cavour.
Sezione 2
La fine dell’isolamento del Regno di Sardegna
La crisi calabiana e il primato del Parlamento
Nel dicembre 1854 Don Giovanni Bosco, il fondatore dei Salesiani, inviò una lettera a Vittorio Emanuele II per raccontargli che aveva sognato un valletto che gli diceva: «Triste notizia! Grande funerale alla reggia!». In effetti la regina madre, Maria Teresa, era malata. Pochi giorni dopo giunse un’altra lettera. Il valletto era ricomparso nei sogni di Don Bosco e aveva detto: «Due grandi funerali alla reggia!». Disgraziatamente le sventurate profezie si avverarono. Il 12 gennaio morì la regina madre; seguita, otto giorni più tardi, dalla regina Maria Adelaide che, dopo aver partorito il suo settimo figlio l’8 gennaio, aveva visto declinare la sua salute già precaria e non si era più ripresa. Il 10 febbraio, depresso per la morte della madre e colpito da una grave infiammazione al petto, moriva anche Ferdinando, il fratello minore di Vittorio Emanuele. Il re, che non possedeva una fede profonda ma era molto superstizioso, fu atterrito da questi lutti. Iniziò a temere la punizione divina minacciata dai preti.
Le disgrazie erano avvenute proprio mentre in Parlamento si discuteva una legge proposta da Cavour volta a sopprimere gli ordini religiosi contemplativi (quelli che non si occupavano di assistenza dei malati o d’istruzione) e a incamerare i relativi beni immobili. Lo scopo del Conte era quello di risolvere le difficoltà finanziarie del Regno. Il numero di religiosi in rapporto alla popolazione era troppo alto: «Il Piemonte contava diecimila preti, e quasi altrettanti tra monaci e frati, ossia uno per ogni duecento abitanti (in Sardegna il rapporto era di 1 a 127). Soltanto il 6 per cento dei membri del clero sardo era registrato come alfabeta; ma tutti reclamavano l’esenzione dal servizio militare» (Mack Smith, 1996, p.93). Secondo Cavour nel mondo moderno non poteva esserci spazio per le tipiche consuetudini degli ordini mendicanti: l’ozio e l’accattonaggio.
L’opposizione della Destra e dello stesso sovrano che, oltre l’ira divina, temeva anche una rottura con la Chiesa, provocò la cosiddetta crisi Calabiana, dal nome
del vescovo di Casale e senatore Luigi Nazari di Calabiana, che contestò strenuamente la legge. Cavour fu costretto a dimettersi il 26 aprile. Tuttavia vista l’impossibilità di costituire un governo alternativo, il 4 maggio il re dovette richiamarlo. La legge ò grazie a un emendamento che garantiva ai religiosi degli enti soppressi un alloggio e una pensione a vita. Fu proprio questa crisi politica a far prevalere la prassi del parlamentarismo. Infatti lo Statuto non vincolava la nascita dei governi ad una maggioranza parlamentare, ma soltanto al gradimento del re. Dopo la crisi del 1855 divenne normale agganciare la durata di ogni Governo al consenso del Parlamento.
La guerra di Crimea
La Russia mirava da tempo all’espansione della propria influenza sui Balcani e sul Mediterraneo a spese dell’Impero Ottomano. L’Inghilterra e la Francia però consideravano questo allargamento dannoso per i loro interessi economici. Quando la Russia decise di tentare la conquista degli stretti, Francia e Inghilterra, all’inizio del 1854, le dichiararono guerra. L’Austria, sulle prime, declinò l’invito a far fronte comune per gli antichi rapporti di amicizia con i russi, e si scusò affermando di non poter disarmare il territorio per non concedere l’opportunità al Piemonte di aggredirla. Così anche al Piemonte venne offerta l’occasione di partecipare alla guerra di Crimea. L’alleanza con Francia e Inghilterra era un’eccellente occasione per far uscire il Regno di Sardegna dall’isolamento internazionale, ma l’improvvisa decisione del governo austriaco di aderire al patto anti russo (dicembre 1854), complicava tutto. «Come spiegare al paese il motivo per cui si inviavano delle truppe piemontesi in un teatro di operazioni così lontano, senza che nessun interesse immediato del regno fosse stato leso, e per di più al fianco degli odiati Austriaci?».²⁵ Il ministro degli esteri Dabormida, contrario all’alleanza, rassegnò le dimissioni e la responsabilità della scelta ricadde in pieno su Cavour. Dato che il re era decisamente a favore dell’intervento, temendo una crisi delle istituzioni liberali, anche il Conte finì per convincersi. Il Parlamento ratificò l’alleanza e il Piemonte inviò 18 mila uomini in Crimea, senza pretendere ricompense. I piemontesi si distinsero nella battaglia della Cernaia, respingendo un tentativo russo di rompere l’assedio di Sebastopoli. Lo zar fu sconfitto senza il coinvolgimento diretto dell’esercito austriaco.
Tra la fine della guerra e la firma dei trattati, al fine di permettere la partecipazione del Regno di Sardegna come nazione vincitrice al Congresso di Parigi del 1856, Cavour si servì anche dell’aiuto della moglie di un suo cugino, la diciottenne Virginia Oldoini, contessa di Castiglione. Virginia fu inviata alla corte se e grazie alla bellezza, alle capacità seduttive e ad una perfetta conoscenza del se, riuscì ad attrarre nel suo letto Napoleone III. Era un
espediente gretto e non privo di effetti collaterali, come la gelosia dell’imperatrice Eugenia, molto influente a corte. Dopo uno strano attentato all’imperatore che avvenne nella casa della Contessa in Rue Montaigne, Virginia fu allontanata dalla corte. Il Piemonte fu infine accettato al tavolo di Parigi, ma è difficile dire se la ragazza fosse davvero riuscita a influenzare le decisioni di Napoleone III.
Al Congresso Cavour, pur non ottenendo aumenti territoriali, poté illustrare la situazione italiana, denunciare la presenza militare austriaca nel Regno Pontificio e il malgoverno dei Borboni a Napoli come cause di tensioni rivoluzionarie in tutta la penisola e come minacce alla pace e all’equilibrio europeo.
La refrattarietà di Ferdinando II ad attuare le riforme che le potenze del Congresso consigliavano aveva isolato in modo molto pericoloso il Regno delle due Sicilie.
Sezione 3
I patti di Plombières
Il fallimento di Pisacane e la Società Nazionale
Fra i democratici italiani, si venivano delineando nuovi orientamenti che, da diversi punti di vista tendevano a mettere in discussione la figura di Mazzini e a contestarne la strategia.
Giuseppe Ferrari, un avvocato milanese che insegnava filosofia all’università di Strasburgo, nel libello La Federazione Repubblicana sosteneva che prima della rivoluzione nazionale si dovesse realizzare quella sociale. Secondo lui la rivolta sarebbe partita ancora una volta da Parigi. Ferrari aveva fatto notare a Mazzini un’ovvia verità: il problema della fame precede qualsiasi altro problema.
Negli anni Cinquanta ci fu una ripresa dei moti repubblicani. Nel 1853 a Milano artigiani e operai assalirono le caserme austriache armati soltanto di coltelli e pugnali. Si trattava di un moto ispirato al mazzinianesimo e al socialismo che, per l’assoluta improvvisazione, fallì miseramente.
Nel giugno del 1857 Carlo Pisacane, un democratico italiano influenzato da Ferrari, ex ufficiale dell’esercito borbonico, guidò una spedizione con pochi compagni e oltre trecento galeotti che aveva liberato dal carcere di Ponza. Sbarcò a Sapri, nella Campania meridionale, per organizzare una rivoluzione contadina contro i Borboni. Tuttavia nessuna delle condizioni che avrebbero dovuto assicurare la riuscita del piano si verificò. I rivoltosi furono annientati dai contadini e dalle truppe borboniche. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero. I contadini erano sicuri che non sarebbe cambiato niente e sapevano che tra i rivoluzionari vi erano molti delinquenti. La speranza di un successo «non poteva venire da un manipolo di avventurieri esaltati dalla “patria”, quasi
disarmati e bene in carne».²
Il fallimento della spedizione di Sapri coincise con la nascita ufficiale del movimento indipendentista filo piemontese. Per iniziativa di uomini come Giuseppe La Farina e Daniele Manin, nel luglio 1857, il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il nome di Società nazionale. L’associazione, che ebbe tra i suoi soci anche Garibaldi, dichiarava di appoggiare la monarchia sabauda finché questa avesse sostenuto la causa italiana. Noncurante degli insuccessi, dato che per lui «nelle rivoluzioni ogni errore è gradino alla verità», Mazzini fondò il Partito d’Azione, un’organizzazione con l’obiettivo di creare piccole bande di rivoluzionari armati che avrebbero dovuto innescare una serie di insurrezioni a catena. Ma ormai la parabola di Mazzini aveva iniziato la sua fase discendente; il suo progetto repubblicano era destinato a rimanere a lungo irrealizzato.
I patti con la Francia
Paradossalmente fu proprio il gesto di un mazziniano ad affrettare l’alleanza franco-piemontese che doveva risolvere il problema italiano. Nel gennaio del 1858 un gruppo di congiurati, guidati da Felice Orsini, attentò alla vita dell’imperatore Napoleone III e di sua moglie Eugenia lanciando tre bombe contro la carrozza imperiale, ma fallì l’obiettivo provocando molti morti e feriti tra la folla che assisteva al aggio del corteo. Orsini, che fu subito arrestato con i suoi complici, aveva agito di propria iniziativa.
Cavour provò molto disagio alla notizia dell’attentato poiché Orsini, in quanto attivista non mazziniano, aveva ricevuto finanziamenti segreti anche dal Governo di Torino. Per ammansire Napoleone, che inizialmente aveva puntato il dito contro il Governo sardo, fece spedire in America alcuni presunti agitatori. Quindi utilizzò ogni strumento a sua disposizione per convincere Napoleone a sottoscrivere un accordo militare col Regno di Sardegna.
Orsini, prima di essere ghigliottinato, si dichiarò pentito del suo gesto e scrisse una lettera all’imperatore per pregarlo di trovare un rimedio alla situazione italiana, ricordandogli che: «sino a che l’Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella vostra non saranno che una chimera». Le parole di Orsini, pubblicate sulla Gazzetta Piemontese, ebbero un effetto sorprendente: agli occhi di molti italiani, l’assassino divenne un martire. Era stato lo stesso Napoleone III a inoltrare la lettera in Italia, poiché desiderava realizzare un’iniziativa se che soppiantasse l’egemonia austriaca, eliminando al tempo stesso un pericoloso focolaio di tensione rivoluzionaria.
L’alleanza franco-piemontese fu quindi combinata in un incontro segreto fra
l’imperatore e il capo del Governo piemontese svoltosi nel luglio del ’58 nella stazione termale di Plombieres, dove l’imperatore stava trascorrendo un periodo di vacanza. Gli accordi, per il momento soltanto verbali, ipotizzavano una nuova distribuzione dei territori della penisola italiana: al nord si sarebbe creato il Regno dell’Alta Italia comprendente oltre al Piemonte, il Lombardo-Veneto e l’Emilia Romagna sotto il potere dei Savoia (che in cambio avrebbero ceduto alla Francia la Savoia e, forse, Nizza); al centro il Regno dell’Italia centrale formato dalla Toscana e dai territori pontifici che, secondo Cavour, sarebbero dovuti andare, almeno temporaneamente, alla duchessa di Parma, una Borbone gradita a Napoleone III; il Regno meridionale liberato dai Borboni sarebbe stato posto sotto l’influenza se, mediante l’incoronamento di un figlio di Murat. AI papa, che avrebbe conservato lo Stato della Chiesa ridotto al Lazio, sarebbe stata offerta come consolazione la presidenza della futura Confederazione italiana.
L’accordo venne poi ratificato con un trattato in cui si affermava che per la guerra contro l’Austria la Francia avrebbe fornito 200 mila soldati e il Piemonte 100 mila. Vennero confermati l’ingrandimento del Regno di Sardegna e la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, ma non si fece menzione di altre modifiche territoriali nel resto d’Italia. Le spese di guerra sarebbero state rimborsate dai piemontesi.
Per suggellare l’alleanza fu anche organizzato il matrimonio tra Gerolamo Bonaparte, cugino dell’imperatore, e la figlia di Vittorio Emanuele II, Clotilde di Savoia, che all’epoca non aveva ancora compiuto sedici anni. Clotilde, fortemente ostile alle nozze, fu convinta con difficoltà. Il matrimonio, celebrato nel 1859, fu profondamente infelice e la coppia si separò presto. L’unione tra una quindicenne bigotta e un libertino di mezza età non poteva funzionare.
Premessa indispensabile per la riuscita dei progetti di Cavour era la guerra contro l’Austria, ma per rendere operante l’alleanza con la Francia era necessario che il conflitto apparisse provocato dall’Impero asburgico. In un primo momento il piano di Cavour prevedeva di promuovere la sottoscrizione di una richiesta di
annessione delle città di Massa e Carrara al Piemonte, che si trovavano sotto la sovranità del duca di Modena sco V, il quale non riconosceva Napoleone come imperatore di Francia. Questo avrebbe fornito il pretesto per l’invio da parte del re di Sardegna di «una nota altera e minacciosa» al duca, suscitando una reazione austriaca. Gli eventi successivi avrebbero presto reso del tutto inutile questo progetto.
Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele Il pronunciò un discorso alle camere dicendosi sensibile alle grida di dolore provenienti da più parti d’Italia. Parole che accesero forti speranze nei patrioti italiani, anche se erano state suggerite dallo stesso imperatore se.
Col are delle settimane però alla corte di Napoleone III il partito favorevole alla guerra si era alquanto affievolito. Il ministro degli Esteri Walewski era apertamente contrario. Un intervento in questo momento avrebbe suscitato il biasimo internazionale, tenuto anche conto che la Russia, col consenso di Francia e Inghilterra, aveva proposto di discutere la questione italiana in un Congresso internazionale. Inghilterra e Prussia chiesero al Piemonte di disarmare. Anche Vittorio Emanuele iniziò a convincersi che il Congresso avrebbe potuto produrre dei vantaggi territoriali per il Regno. Cavour invece restava ostinatamente contrario. Quando anche i si gli chiesero di accettare la proposta di disarmo, preso dallo sconforto per il dileguarsi del suo piano, pensò addirittura di suicidarsi. Più tardi, accantonati i propositi di suicidio, si preparò malvolentieri ad accettare la richiesta di disarmo. Il 19 aprile, quando l’eventualità del conflitto sembrava ormai svanita, giunse la sorpresa: il Governo austriaco, temendo le decisioni del Congresso e credendo di poter sconfiggere il Piemonte prima di un eventuale intervento se, reagì alle numerose provocazioni con un ultimatum che chiedeva il disarmo e il licenziamento dei volontari. Per gli austriaci era giunta l’ora di mettere a posto le cose. Fu una decisione avventata e arrogante, frutto di valutazioni sbagliate e per molti aspetti incomprensibile. Un vero colpo di fortuna per il conte di Cavour.
Capitolo 4
Il compimento dell’unità
Gli accordi di Plombières finirono per causare la seconda guerra d’indipendenza. La vittoria, anche se parziale, giunse grazie all’intervento se. Il Regno di Sardegna ottenne la Lombardia e, coi plebisciti del marzo 1860, anche la Toscana e l’Emilia-Romagna in cambio di Nizza e Savoia. Nello stesso anno la spedizione di Garibaldi provocò la fine del Regno delle due Sicilie. Il 17 marzo 1861 fu proclamata l’unità d’Italia.
Sezione 1
La seconda guerra d’indipendenza
La seconda guerra d’indipendenza
Il pomeriggio del 10 maggio 1859 in Austria iniziarono a levarsi al cielo i Te Deum di ringraziamento per la caduta di Torino. L’illusione durò giusto qualche ora. A cadere era stato Trino un paesino del vercellese e non la capitale del Regno.²⁷ La guerra era appena iniziata.
I primi giorni furono i più rischiosi per il Regno di Sardegna. L’esercito sardo contava circa 60 mila uomini, decisamente pochi rispetto ai 100 mila promessi da Cavour, e non era ancora affiancato da quello se. L’armata austriaca aveva 150 mila soldati, ma era guidata dal tronfio e irresoluto maresciallo Gyulai che non seppe sfruttare il vantaggio iniziale. Invece di puntare direttamente su Torino marciò su e giù nella pianura padana dando tempo ai piemontesi di organizzarsi. I si rispettarono i patti e, nell’arco di qualche settimana, portarono oltre 100 mila soldati al fronte. Durante il mese di maggio, nella zona dei laghi della Lombardia del nord, Garibaldi comandava i Cacciatori delle Alpi, una brigata di alcune migliaia di volontari che costituivano la parte più piccola dell’esercito franco-piemontese. Il loro incarico principale era quello di «penetrare nel territorio da liberarsi (...) per eccitare il sentimento patriottico delle popolazioni, mostrando all’Europa che la guerra era veramente di liberazione e per provocare l’afflusso di nuovi volontari».²⁸ Pur privi, almeno inizialmente, di cannoni e con sole 50 guide a cavallo, i Cacciatori riuscirono a occupare Varese e Como e a vincere la battaglia di San Fermo.
Il contingente se, comandato da Napoleone III e affiancato dai sardopiemontesi, vinse la battaglia di Magenta (4 giugno) e occupò Milano. Il 24 giugno avvenne lo scontro decisivo: mentre a Solferino i si conseguivano
una netta vittoria, l’esercito sardo stava combattendo nella zona di San Martino, pochi chilometri distante. Benché una lunga tradizione storiografica abbia parlato di vittoria, lo storico Roberto Martucci ha dimostrato, fonti alla mano, che per l’esercito piemontese lo scontro fu sostanzialmente una sconfitta. Vittorio Emanuele II, a cui il Parlamento aveva affidato la suprema guida dell’esercito, anziché individuare un’altura da cui condurre con cognizione di causa la battaglia, preferì correre a cavallo da un punto all’altro del fronte per incoraggiare i soldati. Gli austriaci, guidati dal maresciallo Benedek, respinsero agevolmente gli scoordinati attacchi piemontesi e liberarono la collina solo quando, concluso lo scontro di Solferino, giunse loro l’ordine di ritirarsi.² Come a Magenta il mancato inseguimento del nemico in rotta rese la vittoria incompleta. Negli scontri di Solferino e San Martino combatterono più soldati, circa 225 mila, che a Waterloo. Dobbiamo a Henri Dunant, il fondatore della Croce Rossa, un resoconto impressionante della battaglia:
Austriaci e alleati si schiacciano sotto i piedi, si ammazzano a vicenda sui cadaveri insanguinati, si accoppano a colpi di calcio di fucile, si sfondano il cranio, si sventrano con la sciabola o la baionetta; non c’è più quartiere, è un macello, un combattimento di bestie feroci; furiose ed ebbre di sangue; persino i feriti si difendono fino allo stremo; chi non ha più le armi afferra alla gola il suo avversario e lo riduce a brandelli con i denti.³
Malgrado la sconfitta, l’esercito austriaco aveva ancora molti proiettili nella giberna e attendeva gli eventi ben protetto dal quadrilatero. I si impegnati nella zona di Solferino patirono 1.622 morti e 8.530 feriti, i piemontesi 869 morti, 3.982 feriti e 774 dispersi o prigionieri. Le perdite austriache erano state di poco superiori a quelle di piemontesi e si messe assieme.³¹ Considerando che morì circa la metà dei feriti e che molti tra i dispersi erano morti, è chiaro che a Solferino la guerra aveva assunto i toni più crudeli.
Quando la conquista del Veneto sembrava ormai alla portata, l’8 luglio, Napoleone III propose un armistizio agli austriaci.
Le insurrezioni nell’Italia centrale
Ancor prima dell’alba, l’11 luglio del 1859, sco V di Modena stava per lasciare la sua città. In piazza d’armi c’erano funzionari, servitori e gente comune che era accorsa per salutarlo. I suoi soldati, la Brigata estense di 3.600 uomini gli rimasero fedeli, e partirono tutti con lui in Austria.³² Era accaduto che allo scoppio delle ostilità, e soprattutto dopo la vittoria di Magenta, la rivoluzione a lungo preparata dalla Società nazionale italiana (quindi non esattamente “spontanea”) era esplosa in modo incruento in Toscana, a Parma e a Modena, dove furono cacciati i principi regnanti. Anche a Bologna e nelle Legazioni erano avvenute delle sollevazioni e le autorità Pontificie erano state allontanate. Per raggiungere il risultato il Governo di Cavour aveva utilizzato ogni mezzo, compresa la corruzione di alti ufficiali. In tutti i territori liberati i comitati organizzati dai filo-piemontesi offrirono la corona a Vittorio Emanuele II.
L’armistizio di Villafranca
Per Napoleone III quella di Solferino fu una vittoria amara. Il gran numero di si morti e mutilati lo aveva profondamente scosso. La sua decisione di chiedere l’armistizio ebbe, tuttavia, altre profonde ragioni. Egli si era reso conto che, impegnandosi a suscitare le ribellioni dell’Italia centrale, Cavour aveva agito in dispregio dei patti. Ormai la guerra non rispondeva più ai suoi interessi, dato che la Francia non avrebbe potuto controllare l’Italia centrale. Le spese di guerra erano state ingenti e il Piemonte non sembrava in grado di pagarle. Napoleone temeva, inoltre, un intervento della Prussia, che aveva mobilitato un esercito di 300 mila soldati sulla linea del Reno. Dopo aver avvisato Vittorio Emanuele II, che si disse d’accordo senza consultare Cavour, l’imperatore dei si incontrò sco Giuseppe a Villafranca, vicino a Verona, per firmare un armistizio (11 luglio). La Lombardia (eccetto Mantova) sarebbe stata ceduta a Napoleone che l’avrebbe girata al Regno di Sardegna, mentre nell’Italia centrale sarebbero stati restaurati i vecchi sovrani (non era però previsto un ricorso alla forza). «Tutto pareva ridursi a un ingrandimento del Piemonte con la Lombardia, senza il naturale confine del Mincio».³³ Vittorio Emanuele Il era soddisfatto dell’estensione del suo Regno, mentre Cavour ebbe un violento scatto d’ira e rassegnò le dimissioni. Secondo Mack Smith, il Conte avrebbe voluto continuare la guerra anche senza l’aiuto della Francia.³⁴ Queste affermazioni trovano riscontro, ad esempio, nelle dichiarazioni del generale Della Rocca, capo di stato maggiore durante la guerra, fedelissimo di Vittorio Emanuele II. Sembra però più credibile l’interpretazione fornita da Paolo Pinto, secondo il quale Cavour non era affatto uscito di senno. Egli avrebbe suggerito a Vittorio Emanuele di ritirarsi dietro il Ticino e rifiutare il consenso all’accordo. Napoleone, dopo tutto il lavoro svolto, non avrebbe potuto lasciare la Lombardia all’Austria, ma neanche tenerla per sé senza suscitare il risentimento degli altri stati europei. Avrebbe dovuto comunque consegnarla ai piemontesi. Forse, con nuove alleanze, sarebbe stato ancora possibile conquistare il Veneto. Secondo Cavour, per riaffermare il carattere nazionale della guerra contro l’Austria, era necessario legare l’acquisizione della Lombardia a quella del Veneto.³⁵
L’annessione della Toscana e dell’Emilia-Romagna
Dopo l’armistizio di Villafranca, Vittorio Emanuele II aveva sostituito Cavour col generale Alfonso La Marmora, molto più disponibile ad assecondare le sue decisioni (un generale dell’esercito doveva obbedienza al re). Il sovrano era felice di essersi liberato di Cavour, dato che i rapporti tra i due si erano ormai deteriorati da quando il Conte aveva ostacolato il suo progetto di matrimonio con Rosina Vercellana, una popolana del tutto priva di cultura. Nei sei mesi successivi il Parlamento non fu mai convocato.
Come abbiamo già visto, l’armistizio di Villafranca prevedeva il rientro dei legittimi sovrani negli stati dell’Italia centrale, ma i governi provvisori filopiemontesi continuavano ad opporsi. La Marmora non sapeva come risolvere la situazione e il re fu quindi costretto, nel gennaio del 1860, a richiamare Cavour. Il Conte propose di cedere alla Francia la Savoia e Nizza così da poter ottenere in cambio l’annessione della Toscana e dell’Emilia. Alla fine di marzo si tennero dei plebisciti con i quali si chiedeva l’annessione alla Francia delle province sarde. Per capire quanto il voto fosse “libero” basta dire che a Nizza, poche settimane prima, si erano svolte le elezioni politiche ed erano stati eletti solo deputati contrari all’annessione se della città. Nel plebiscito, invece, i voti favorevoli all’annessione alla Francia furono 25.743 e appena 160 i contrari. Nella Savoia erano state stampate solo schede per il “sì”; chi intendeva votare “no” doveva scriverlo su un foglietto.³ La segretezza del voto era una farsa. Nel mese precedente, con gli stessi metodi, si era proceduto all’annessione di Toscana ed Emilia. Giuseppe Garibaldi, eletto nella circoscrizione di Nizza al Parlamento di Torino, sferrò in Parlamento un attacco violentissimo contro il primo ministro che «barattava uomini e popoli» e che per liberare l’Italia dallo straniero l’asserviva a un altro straniero.
Nell’aprile 1860 il Regno di Sardegna comprendeva dunque i territori di
Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia, Toscana e Sardegna, mentre il Veneto era ancora austriaco. A questo punto Cavour propose al giovane re di Napoli, sco II, un patto per la creazione di una federazione, mediante l’espropriazione di Marche e Abruzzi allo Stato Pontificio. Ma sco II, incondizionatamente devoto al papa, non poté accettare. La sua decisione sarebbe risultata fatale per la sopravvivenza del Regno.
Sezione 2
Garibaldi conquista la Sicilia
Garibaldi e i Mille
Il 24 gennaio del 1860 Giuseppe Garibaldi si sentiva felice. Si era appena sposato con la giovane e graziosa marchesina Giuseppina Raimondi di cui era innamorato come un ragazzino. Alla fine della cerimonia ricevette un biglietto che in un attimo annichilì la sua gioia. Tra la sorpresa generale mostrò alla sposa il biglietto che rivelava una tresca con un altro uomo. Giuseppina ne confermò il contenuto. Volarono parole grosse: «puttana...», «brutale soldato». Garibaldi avrebbe addirittura cercato di colpire la ragazza con una sedia. È probabile che le cose non siano andate proprio così, anche se alcuni tra i primi biografi così le hanno raccontate. Il biglietto giunse sicuramente qualche giorno dopo il matrimonio, ma si preferì fingere che l’eroe non avesse avuto il tempo di accorgersi di «aver conquistato una fortezza già espugnata da altri», in modo da rendere più semplice la richiesta di annullamento del matrimonio.³⁷
La marchesina era incinta di un altro uomo. L’onore dell’eroe era stato ferito gravemente. Se il matrimonio fosse stato felice, forse Garibaldi non si sarebbe buttato in un’avventura così gonfia di rischi come la spedizione dei Mille.
Nel 1860 la situazione internazionale era propizia ai disegni di espansione dei Savoia. Come abbiamo già visto, al tavolo delle trattative della guerra di Crimea, al fine di isolare diplomaticamente Ferdinando II, Cavour aveva biasimato l’assenza di libertà nel Regno delle due Sicilie. Il deputato liberale inglese William Gladstone, in un pamphlet del 1851, aveva denunciato le penose condizioni delle carceri del Regno del Sud, che egli definì «la negazione di Dio eretta a sistema di governo». In verità le prigioni napoletane, per quanto pessime, non erano peggiori di quelle piemontesi. «A 40 anni da quelle denunce, lo stesso sir Gladstone dovette ammettere di non aver mai visitato di persona le carceri borboniche».³⁸
Il Governo inglese, guidato dal liberale Lord Palmerston, era avverso ai Borboni di Napoli e favorevole alla creazione di uno Stato italiano schierato su posizioni liberali per bilanciare il potere se nell’area mediterranea. L’ostilità degli inglesi verso il Regno del Sud dipendeva in parte dal loro anti-cattolicesimo. C’erano però anche ragioni economiche e politiche. Ferdinando II, nel 1836, aveva deciso di cedere a società si, estromettendo gli inglesi, l’estrazione e la vendita dello zolfo siciliano. Il re inoltre non aveva partecipato alla guerra di Crimea in nome dei buoni rapporti con i russi e aveva impedito che le navi inglesi, nel corso del conflitto, fero scalo nei porti del Regno.
Nello stesso periodo in cui si erano svolti i plebisciti in Toscana ed Emilia, Garibaldi aveva dichiarato che sarebbe partito per conquistare la Sicilia se l’isola si fosse trovata in aperta ribellione. Il 4 aprile sco Riso, un uomo di umili origini, aveva diretto un moto insurrezionale a Palermo e, dopo essere stato ferito, era morto in ospedale. L’insurrezione fallì ma ferventi mazziniani, come Rosalino Pilo e Giovanni Corrao, avevano deciso di riaccendere questi focolai rivoluzionari per spronare l’Eroe dei due mondi a intervenire. Garibaldi, informato dell’andamento dei moti da emissari siciliani, tra cui sco Crispi, si risolse a intraprendere l’impresa. Cavour temeva gli esiti imprevedibili di una simile operazione ma conosceva anche i pericoli che sarebbero derivati dal soffocare il generale entusiasmo verso il progetto di Garibaldi. Egli s’incontrò con Vittorio Emanuele II a Bologna per prendere consiglio. Non si conoscono i particolari del colloquio, ma lo statista e il sovrano decisero di lasciar partire la spedizione.³
Garibaldi poté procedere con calma all’arruolamento di oltre mille uomini, quasi tutti Cacciatori delle Alpi, col tacito benestare del Governo di Torino. La massoneria raccolse soldi e armi; Cavour faceva il doppio gioco: ordinava la requisizione di armi e munizioni destinate ai garibaldini e poi ne faceva inviare altre. Come risulta dalla memorie dell’ammiraglio Persano, il Conte aprì a «Napoli presso il banchiere De Gas il credito di un milione di ducati» allo scopo di finanziare i suoi agenti segreti.⁴ La compagnia navale Rubattino, di cui il Governo sardo era azionista, si fece “rubare” due navi da Nino Bixio, il più
prestigioso tra gli ufficiali di Garibaldi. Questa volta non si andava allo sbaraglio come nel caso di Pisacane; c’erano amici potenti ad appoggiare l’impresa.
La conquista della Sicilia
Come è noto, il 6 maggio Garibaldi partì da Quarto (vicino a Genova). Non tutto era andato per il verso giusto, perché le barche che dovevano portare le munizioni erano sparite. Fu quindi necessario sbarcare a Talamone (in Toscana) per fare rifornimento. Garibaldi mandò un’ottantina di uomini verso l’Umbria per far credere di voler marciare su Roma, e riprese subito la navigazione verso la Sicilia. L’11 maggio sbarcò a Marsala vicino a Trapani, dove fu accolto, come testimoniato da Giuseppe Bandi⁴¹, con una certa freddezza dalla popolazione. Forse Garibaldi aveva ricevuto informazioni precise e sapeva che Marsala non era presidiata dalle navi borboniche, oppure fu semplicemente fortunato. I napoletani arrivarono troppo tardi ed esitarono a far fuoco per non colpire due navi da guerra inglesi che si trovavano ancorate nel porto. Si ebbe così il tempo di completare lo sbarco e i borbonici si accontentarono di catturare le due navi, il Piemonte e il Lombardo (che si era arenato) e di sparare un po’ di granate sul molo senza peraltro colpire neanche un volontario. Successivamente Garibaldi si recò a Salemi dove si proclamò dittatore della Sicilia (Proclama di Salemi, 14 maggio).
Il 15 maggio, si combatté la battaglia di Calatafimi, vicino al famoso tempio di Segeste: i garibaldini si scagliarono con impeto sul più numeroso esercito borbonico che fu costretto alla fuga. Fu proprio il mito della sua invincibilità, unito alla pavidità del generale borbonico Landi, nonché alle mille deficienze della macchina da guerra napoletana, a favorire il successo di Garibaldi. Secondo Giacinto de Sivo, uno storico filo borbonico dell’epoca, Landi era stato corrotto con la promessa di 14 mila ducati d’oro che non ricevette mai.⁴²
Quel che avvenne in Sicilia è stato ben riassunto da Giordano Bruno Guerri:
La popolazione aveva salutato Garibaldi, in ogni paese, come l’uomo del destino, che avrebbe fatto scomparire ingiustizia e povertà. Veniva a galla una mentalità italiana, incancrenita nel sud, formata da secoli di rassegnazione: la soluzione dei mali poteva arrivare solo dall’esterno, e quanto più appariva difficile e stravagante tanto più era miracolosa e meravigliosa, in grado di risolvere tutto in un momento.⁴³
La vittoria di Calatafimi, come anche Garibaldi riconobbe nelle sue Memorie, pur di scarso rilievo per quanto riguarda le perdite inflitte al nemico, ebbe sotto il profilo morale un valore immenso «incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito». A questo punto tra i mille e i duemila siciliani, credendo di perseguire la semplice indipendenza da Napoli e persuasi dalla promessa del dittatore di dividere i latifondi e distribuire le terre, si arruolarono nelle camicie rosse.
Il 27 maggio i garibaldini attaccarono Palermo. La città era ancora cinta dalle mura medioevali ed era difesa da almeno 15 mila uomini. Garibaldi, dopo aver attirato con alcuni stratagemmi gran parte dei soldati nemici lontano dalla città, facendogli credere di volersi dirigere verso Corleone, scatenò un violento conflitto a fuoco in cui le camicie rosse diedero una grande dimostrazione di valore. Alla fine Porta Termini fu sfondata a cannonate e i garibaldini entrarono in città. Dopo alcuni giorni di combattimento, i borbonici, anche a causa dell’insurrezione dei palermitani che avevano eretto numerose barricate, decisero di ritirarsi. I garibaldini si impadronirono di 5 milioni di ducati del Banco di Sicilia, appartenenti perlopiù a «depositi di privati cittadini che videro azzerate da un istante all’altro le proprie risorse patrimoniali».⁴⁴ Lo sviluppo della spedizione fu reso così molto più agevole.
Per conquistare il popolo siciliano, nonostante il suo violento anticattolicesimo, Garibaldi non esitò a celebrare la festa palermitana di Santa Rosalia e «al pontificale del Duomo giunse al punto di sedere sul trono reale in camicia rossa, rivendicando il legato apostolico tradizionalmente tenuto dai governanti di Sicilia».⁴⁵
Cavour allora capì che l’operazione poteva avere successo e non impedì più l’invio di armi (11 mila fucili) e la partenza di rinforzi: i Mille diventarono rapidamente 20 mila. Il Governo sardo inviò i nuovi soldati sistemandoli su navi di copertura.⁴ Per promuovere l’annessione dell’isola al Regno di Sardegna Cavour inviò in Sicilia Giuseppe La Farina che, come abbiamo già visto, era stato tra i fondatori della Società Nazionale. La Farina aveva favorito la spedizione dei garibaldini consegnando loro un migliaio di fucili prima della partenza da Quarto. Garibaldi però non voleva intromissioni e gli disse di esser venuto a combattere per l’Italia e non per la sola Sicilia. Così diede ordine di cacciarlo dall’isola senza complimenti. Era una dura risposta all’ingerenza di Cavour.
L’episodio di Bronte e la battaglia di Milazzo
In Sicilia erano i baroni a comandare e solo col loro aiuto l’operazione dei Mille sarebbe potuta riuscire. Essi avevano subito appoggiato Garibaldi nella speranza di «liberarsi dei Borbone, che avevano declassato la Sicilia, con tutti i privilegi che deteneva quando re Ferdinando IV, protetto dagli inglesi, si era rifugiato a Palermo» per sfuggire a Napoleone.⁴⁷ La leva obbligatoria istituita da Garibaldi, in una Sicilia abituata all’esenzione, era stata quasi un flop e senza l’intervento dei baroni che favorirono i reclutamenti, avrebbe prodotto risultati ancora più scarsi. Garibaldi aveva promesso la terra ai contadini, ma poi aveva mantenuto poco, limitandosi ad assegnare terre statali ai combattenti. Le masse però, di loro spontanea iniziativa, cominciarono a scagliarsi con feroce violenza contro i latifondisti. L’episodio più noto accadde tra il 29 luglio e il 4 agosto nel paesino di Bronte, ai piedi dell’Etna. Qui i contadini avevano ucciso 16 persone tra cui due bambini, mettendo in grave pericolo gli interessi dei latifondisti e degli inglesi (che possedevano le terre donate a Nelson nel 1799 da Ferdinando IV). Garibaldi non poteva deludere proprio coloro che avevano favorito la sua impresa. Il 6 agosto arrivò Nino Bixio con due battaglioni di bersaglieri e i moti furono repressi con arresti in massa e fucilazioni.
Circa due settimane prima, il 20 luglio, si era conclusa la battaglia di Milazzo. Alcune navi da guerra borboniche erano ate coi garibaldini e avevano aperto il fuoco contro la città.
La battaglia durò circa otto ore e il trionfo finale fu ottenuto a caro prezzo. La somma dei garibaldini morti e feriti è stimata tra i 1000 (secondo Garibaldi) e i 650 (secondo Bandi). Le perdite borboniche, invece, erano state di gran lunga minori. Ad ogni modo l’intera Sicilia, eccetto le fortezze di Messina, Augusta e Siracusa, giaceva sotto il controllo di Garibaldi. Era giunto il tempo di varcare lo stretto con un esercito molto più grande e potente.
Sezione 3
La battaglia del Volturno e la proclamazione dell’unità
Garibaldi entra a Napoli
Il 19 agosto, senza troppe difficoltà, i garibaldini sbarcarono nella spiaggia di Melito, nella punta più a sud della Calabria. Se in Sicilia l’incapacità degli ufficiali borbonici si era sommata a sospetti tradimenti, nel continente per l’esercito napoletano le cose andarono anche peggio. Almeno nell’isola si era combattuto. In Calabria invece il generale Fileno Briganti lasciò Reggio ai garibaldini quasi senza sparare un colpo. In seguito, secondo la testimonianza di Giuseppe Cesare Abba e di Giuseppe Bandi, sarebbe stato trucidato come traditore dai suoi stessi soldati. Molti ufficiali tradirono per pavidità, incompetenza o lusingati dalle promesse di carriera e dal denaro. Alcuni di questi, i più opportunisti, arono con l’esercito piemontese ma furono presto umiliati, «guardati con diffidenza e messi subito in pensione».⁴⁸
Napoli era allora la città più popolata d’Italia (terza in Europa) con quasi mezzo milione di abitanti. Il re sco II, salito al trono il 22 maggio 1859, aveva rispolverato inutilmente la costituzione che il padre aveva concesso 12 anni prima. Aveva anche nominato il liberale Liborio Romano capo della polizia e ministro dell’interno. Fu proprio costui a spingere il re a lasciare Napoli per Gaeta, onde evitare che un eventuale combattimento danneggiasse la città. Romano, già in contatto con Cavour, era un eccezionale esempio di trasformismo. Fu lui, il 7 settembre, a ricevere Garibaldi che giunse a Napoli in treno con pochi uomini e senza sparare un colpo tra il tripudio della piazza. Romano riportò l’ordine a Napoli servendosi anche della camorra. «Tra i nuovi gendarmi, c’erano ormai decine di camorristi, organizzati in compagnie e pattuglie, pronti a controllare tutti i quartieri della città».⁴ I delinquenti, esibendo un bel fiocco tricolore sul cappello, si erano trasformati in poliziotti.
La battaglia del Volturno e l’incontro di Teano
Quando Cavour seppe che Garibaldi avrebbe voluto occupare Roma e poi marciare su Venezia, chiese a Napoleone III l’assenso per un intervento piemontese teso a bloccare la strada alle camicie rosse. Ottenuto il via libera dall’imperatore se, egli inviò l’esercito che, senza dichiarazione di guerra, in barba ad ogni principio di diritto internazionale, invase lo Stato Pontificio e si scontrò con l’esercito del papa sconfiggendolo nella battaglia di Castelfidardo (18 settembre). Ormai si erano create le condizioni per ampliare il Regno di Sardegna con l’inglobamento del sud Italia. Il traguardo però richiedeva una guerra tra italiani.
sco II, visto lo sfaldamento di parte del suo esercito, aveva deciso di ritirare a Gaeta e a Capua le forze rimastegli per concentrarle e tentare il tutto per tutto. Il primo ottobre i borbonici scatenarono a nord di Napoli la battaglia del fiume Volturno, la più grande dell’intera campagna. Garibaldi comandava allora più di trentamila uomini che furono contrapposti a circa quarantamila napoletani. Il primo giorno, iniziato con un relativo successo dei napoletani, terminò con una sostanziale vittoria dei garibaldini che, grazie alle brillanti intuizioni di Garibaldi e a un abile gioco delle riserve, riuscirono a mantenere le posizioni di partenza. Il giorno seguente parte delle truppe piemontesi si unì alle camicie rosse nella zona di Casertavecchia, e l’esercito di sco II fu definitivamente respinto.
Il 26 ottobre, nei pressi di Teano (vicino a Caserta), Garibaldi incontrò Vittorio Emanuele II. Il re gli comunicò che da quel momento solo l’esercito regio avrebbe continuato la guerra. Garibaldi dovette quindi cedere le terre conquistate. Esortato da Cavour ad essere generoso, Vittorio Emanuele II gli offrì doni e onori, che in gran parte l’eroe rifiutò, accettando soltanto il grado di generale di corpo d’armata. Come ha ricordato Giuseppe Bandi «il re non degnò di una sola parola le povere camicie rosse, senza le quali non sarebbe entrato in
Napoli trionfando».⁵
L’incontro tra Vittorio Emanuele II e i napoletani non fu tra i più felici. Il re, comportandosi con poca cortesia e una certa freddezza, non fece nulla per rendersi amabile.
La guerra contro sco II non era però conclusa. Capua fu assediata anche con l’uso dei cannoni rigati, estremamente precisi, senza riguardo per i civili. Anche a Gaeta si utilizzarono gli stessi metodi e, a partire dal 21 gennaio, i bombardamenti furono intensificati. La popolazione di Gaeta fu decimata dai bombardamenti e dal tifo. I cannoni non risparmiarono neanche gli ospedali.⁵¹ Il 13 febbraio 1861 terminarono le ostilità e la città capitolò con l’onore delle armi. sco II e la regina Maria Sofia raggiunsero Roma, ospiti di Pio IX.
La proclamazione dell’unità
La conclusione dell’unità d’Italia fu favorita dall’Inghilterra, che impedì alla Francia e all’Austria di reagire all’annessione dei territori pontifici da parte del re di Sardegna. L’Inghilterra accettava con favore la nascita di un nuovo grande Stato che contrastasse le mire egemoniche dei si sull’Europa continentale. Le Marche e l’Umbria, così come Napoli e la Sicilia, divennero italiane attraverso plebisciti. Lo storico e scrittore Cesare Cantù (1804-1895) ci ha lasciato un’eloquente descrizione della “correttezza democratica” di quelli napoletani:
Qui il plebiscito giungea fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i “sì” ed i “no”, lo che rendeva manifesto il voto; e fischi e colpi e coltellate a chi lo desse contrario. Un villano gridò: Viva sco II! e fu ucciso all’istante.⁵²
Terminati gli scontati plebisciti e caduta la cittadella di Messina, ultima importante sacca di resistenza borbonica, il 17 marzo 1861 l’unità dell’Italia fu ufficialmente proclamata dal nuovo Parlamento. Il re mantenne il nome di Vittorio Emanuele II, e non quello di Vittorio Emanuele I, come sarebbe stato più logico. Era il segno che l’onore dei Savoia era più importante di quello dell’Italia intera, che veniva considerata come un estensione del Regno di Sardegna. La bandiera tricolore, nata ai tempi delle conquiste napoleoniche e simbolo dei repubblicani, divenne, con l’emblema dei Savoia nel bianco, la bandiera nazionale. Era un simbolo di conciliazione tra due visioni antagoniste dell’unità.
Cavour avrebbe voluto muovere un’ulteriore guerra contro l’Austria per ottenere il Veneto ma il Governo inglese, che temeva una pericolosa destabilizzazione politica nell’area balcanica, era ostile a questo progetto che fu così abbandonato. Per il Veneto e per Roma bisognava ancora attendere.
Capitolo 5
L’Italia dopo l’unità
Con l’improvvisa morte di Cavour, il 6 giugno 1861, si aprì un periodo di gravi difficoltà. Sin dal 1861 il fenomeno del brigantaggio meridionale assunse dimensioni senza precedenti. Nel frattempo i nuovi governanti si posero gli obiettivi di completare l’unità annettendo il Veneto (1866) e il Lazio (1870). Roma divenne finalmente capitale d’Italia.
Sezione 1
Il brigantaggio ed altri problemi
La morte di Cavour
La mattina del 5 giugno 1861 una lunga folla munita di torce si muoveva in processione verso palazzo Cavour. La gente seguiva fra Giacomo da Poirino, che aveva promesso di assistere spiritualmente il Conte nel caso si fosse trovato in pericolo di morte. Cavour infatti giaceva delirante per la febbre da alcuni giorni. I giornali parlarono di una malattia misteriosa, ma i sintomi ci fanno supporre che avesse contratto la malaria. I continui salassi che lo stesso paziente aveva chiesto contribuivano a debilitarne le forze. Il Conte era stato scomunicato da Pio IX nel 1855, ma fra Giacomo aveva ottenuto dal papa la facoltà di assolvere anche gli scomunicati. Il frate confessò e assolse lo statista senza pretendere che si pentisse del male fatto alla Chiesa.⁵³ Il giorno dopo, alla cinque e mezzo del mattino, fra Giacomo ritornò. Cavour, ormai morente, secondo il racconto della nipote Giuseppina Alfieri di Sostegno, gli avrebbe sospirato: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!». Per questa assoluzione il religioso sarebbe stato processato dall’Inquisizione romana e sospeso a divinis.
Cavour moriva proprio nel momento in cui il paese stava emettendo i primi vagiti e l’abilità del Conte sarebbe stata preziosa per affrontare con successo i gravi problemi della nazione.
La morte di Cavour consentì a Napoleone III di riconoscere il nuovo Stato di fronte all’opinione pubblica se. Egli giustificò la decisione come un omaggio a un grande statista europeo.⁵⁴
Destra e Sinistra
Il nuovo Parlamento italiano uscito dalle elezioni del febbraio 1861 aveva sede a Torino. La maggioranza dei parlamentari si riconosceva nella Destra storica guidata dagli uomini che avevano raccolto l’eredità di Cavour. Tra questi ricordiamo, ad esempio, Alfonso La Marmora, Urbano Rattazzi (che nel tempo era divenuto un autentico paladino del re, scostandosi dal centro-sinistra), Marco Minghetti e Bettino Ricasoli. La Destra, che avrebbe governato sino al 1876, era a favore di una società elitaria in cui il diritto di voto fosse concesso solo ai più ricchi e colti, e sosteneva una politica liberale e liberista.
All’opposizione sedeva la Sinistra, formata da liberali democratici come Agostino Depretis, sco Crispi e Benedetto Cairoli, favorevoli ad un allargamento della partecipazione popolare alla vita politica della nazione.
Al decentramento si preferì, per timore delle spinte eversive, l’accentramento amministrativo. I progetti di autonomia regionale elaborati da Farini e Minghetti furono presto abbandonati. Lo Statuto albertino e la legislazione piemontese furono estesi a tutto il Regno, senza alcuna considerazione delle leggi precedenti che erano talvolta migliori. L’Italia fu ripartita in 59 province, a capo delle quali fu posto un prefetto nominato dal re quale rappresentante del Governo. L’esercito fu riorganizzato sulla base della coscrizione obbligatoria: gli ex ufficiali borbonici e una parte di quelli garibaldini (appena un sesto) furono immessi nelle sue fila.
Il brigantaggio
All’indomani dell’unità il Governo dovette affrontare il grave fenomeno del brigantaggio. L’impietosa fiscalità (il sud era abituato a sole cinque imposte che con l’unificazione divennero ventidue), la leva obbligatoria (cinque anni per la fanteria, sei per i bersaglieri) e la mancata distribuzione di terre ai contadini avevano accresciuto l’impopolarità del Governo e del re. L’economia del sud era stata fortemente danneggiata dall’annessione. Le numerose aziende napoletane che vivevano in larga parte di commesse pubbliche non sopravvissero al regime liberista. I licenziamenti si moltiplicarono e molti lavoratori si ritrovarono disoccupati. La Banca Nazionale del Regno d’Italia, che aveva sede in Piemonte, poté aprire filiali al sud, mentre al Banco di Napoli fu vietato allargarsi al nord.⁵⁵ Il sud, considerato con disprezzo, fu trattato come una qualsiasi preda di guerra e completamente asservito agli interessi economici del nord. Ai soldati borbonici prigionieri di una guerra mai dichiarata venne chiesto di servire per l’esercito italiano. La rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica ci ha lasciato una scioccante testimonianza dei metodi di persuasione usati dai piemontesi:
Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e in Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua e sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi.⁵
Così, molti contadini si diedero alla macchia e iniziarono ad assalire fattorie e posti di polizia, a razziare bestiame, a rapire i possidenti borghesi per farsi pagare ingenti riscatti. Le bande si ingrossarono a tal punto da poter muovere una sanguinosa guerriglia contro reparti dell’esercito. A rimpolpare le fila dei briganti si erano aggiunti molti ex garibaldini che erano stati congedati
dall’esercito e giovani disertori o renitenti alla leva obbligatoria (solo un giovane su quattro aveva risposto alla chiamata di leva).
Il brigantaggio al sud non era un fenomeno nuovo, ma all’indomani dell’unità era diventato talmente grave e diffuso da spingere il Governo ad impiegare l’esercito per debellarlo. Si trattava di una ribellione sociale che però, almeno all’inizio, aveva assunto anche i caratteri di una rivendicazione politica e religiosa. I briganti provenivano in genere dal popolo, di cui condividevano la semplicità e una certa rozzezza di pensiero. Affezionati a una religiosità superstiziosa, amalgamavano la violenza più spietata al culto dei santi.
Molti nobili di diversa nazionalità partirono da Roma dopo aver promesso all’ex regina Maria Sofia che avrebbero fatto tutto il possibile per farle riavere il trono. Questo permise al Governo italiano di accusare sco II e Pio IX di aver causato la ribellione dei contadini per riavere i poteri perduti.
Negli anni 1861-65 il Governo scatenò contro i briganti una vera e propria campagna militare nella quale furono impiegati sino a 120 mila uomini. I più gravi episodi di rappresaglia avvennero nei paesi campani di Pontelandolfo e Casalduni. Qui, nell’agosto del 1861, l’esercito regio attaccò l’inerme popolazione civile per vendicare l’uccisione di 45 militari. Le case furono incendiate e chi cercava di fuggire veniva abbattuto a fucilate. Molti abitanti furono bruciati vivi e molte donne violentate. I soldati razziarono tutti i beni di valore.⁵⁷ Il numero dei morti causato dalla rappresaglia è tuttora incerto, ma dalle varie fonti e testimonianze dovrebbe situarsi tra alcune centinaia e un migliaio.
Il deputato napoletano Massari, dopo aver studiato il fenomeno, aveva fornito al Parlamento una relazione che indicava nella povertà e nell’arretratezza le cause profonde di questa ribellione violenta. Egli definì il brigantaggio come una «protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie». Ogni responsabilità del nuovo Stato era però taciuta. L’ipotesi della redistribuzione delle terre non fu nemmeno presa in considerazione, per non
inimicarsi la classe dei latifondisti. Con la legge Pica (1863) si affidarono i processi dei briganti alla corte marziale, con buona pace dello Statuto albertino che, all’art. 75, vietava la creazione di tribunali speciali. La repressione fu attuata nel modo più feroce. In molti casi vennero fucilati anche i ricercati che si consegnavano spontaneamente. Le condanne a morte erano pressoché quotidiane e non risparmiavano i minorenni:
Venivano spesso arrestati e giudicati interi nuclei famigliari, con motivazioni del tipo «madre del brigante» o «figlia del brigante», come la piccola Viola Scenna, incarcerata a soli sette anni perché figlia del brigante Vincenzo.⁵⁸
La violenza e la crudeltà dilagavano senza freni:
Fu una vera guerra, crudelissima da entrambe le parti, con episodi di ferocia che tradivano un vero odio: donne incinte squartate dai soldati, soldati crocifissi dai briganti. Molti episodi furono nascosti dai generali: La Marmora fece bruciare i documenti più compromettenti.⁵
Il bilancio dei morti fu pesantissimo: la vulgata tradizionale, confermata parzialmente anche dagli studi di Franco Molfese negli anni Sessanta, parla di 5.212 briganti fucilati tra il 1861 e il 1865, ma il numero reale è certamente molto maggiore. Secondo le stime di Roberto Martucci, che si fondano sul raffronto di numerose fonti e su calcoli di proiezione, tra il 1861 e il 1870 i briganti uccisi sarebbero stati tra i 20 e i 73 mila. Il fenomeno del brigantaggio si ridusse gradualmente dopo il 1865, e nel 1870 era quasi scomparso.
Il metodo colonialista con cui il sud era stato trattato avrebbe lasciato gravi strascichi. Era stata scavata una grave frattura tra il nord e il sud del paese e l’economia del mezzogiorno era stata scardinata. L’unica speranza per i poveri del meridione era l’emigrazione. Si calcola che tra il 1880 e la prima guerra
mondiale siano emigrati in America circa 8 milioni di italiani, di cui 5 milioni e mezzo meridionali.
Il problema finanziario
Poco prima dell’unificazione il bilancio di tutti gli stati italiani era in rosso e quindi, in seguito all’unificazione politica, anche il debito fu unificato. Il nuovo Stato voleva garantirsi la fedeltà dei creditori. Per colmare il disavanzo furono vendute grosse quantità di beni demaniali strappati alla Chiesa e furono istituite nuove imposte indirette, come quella sul macinato (approvata nel 1868 su proposta del ministro Quintino Sella). Quest’ultima colpiva le classi più povere perché veniva pagata direttamente al mugnaio che acquistava il grano. I mugnai cercavano di macinare più di quello che dichiaravano per scaricare i costi della tassa su una quantità maggiore di farina prodotta. Questo permetteva ai mulini più grandi di tenere i prezzi più bassi, ma spingeva al fallimento quelli più piccoli. La tassa provocò un forte aumento del prezzo del pane e suscitò in tutto il paese una lunga serie di tumulti che le forze dell’ordine repressero brutalmente. ¹ Il pareggio del bilancio, annunciato nel marzo 1876 dal presidente del Consiglio Marco Minghetti, permetteva allo Stato di ridurre l’entità del debito pubblico. I capitali, anziché venire investiti in titoli di Stato, potevano essere dirottati verso impieghi produttivi.
Purtroppo l’elevata tassazione costituiva un freno per lo sviluppo del mercato interno, che restò sostanzialmente asfittico.
Per comprendere l’arretratezza economica dell’Italia post-unitaria, Alessandro Frigerio ha realizzato un confronto con alcuni paesi europei:
Fatto uguale a 100 il prodotto lordo per abitante del nostro Paese, quello della Gran Bretagna appariva uguale a 230, quello della Svizzera a 200, dei Paesi Bassi e del Belgio a 180, della Francia a 170 e della Germania a 115. In Italia gli
addetti all’agricoltura sfioravano ancora il 70% della popolazione attiva, in Gran Bretagna superavano di poco il 20% e in Germania il 50%. Mentre la val padana riusciva a tenere il o dell’Europa, nel sud Italia prevaleva ancora il latifondo. ²
L’Italia era ancora un paese povero che cercava disperatamente di mettersi al o degli stati più avanzati.
Sezione 2
La conquista di Venezia e di Roma
La terza guerra d’indipendenza
Nel 1866 la Prussia, procuratasi la neutralità della Francia e l’alleanza militare dell’Italia, dichiarò guerra all’Austria, sua rivale per il predominio sugli stati tedeschi. Gli accordi militari prevedevano la cessione del Veneto all’Italia in caso di vittoria. Scoppiò quindi quella che chiamiamo la terza guerra d’indipendenza.
Il Governo austriaco propose la cessione del Veneto in cambio della neutralità italiana ma il generale La Marmora, sicuro della vittoria del suo esercito, molto più numeroso di quello austriaco, rifiutò l’offerta. In realtà le forze armate italiane, composte da soldati poco addestrati e comandate da generali litigiosi, avidi di carriera e ostinatamente divisi su ogni questione, erano potenti solo sulla carta. Il re non era riuscito a indicare un comandante supremo, creando una specie di gelosa diarchia tra i generali La Marmora e Cialdini. Le basi per la sconfitta erano state ben costruite.
Lo scontro con gli austriaci avvenne il 24 giugno, nei pressi di Custoza, come nella guerra del 1848. L’esercito italiano era stato disposto su un fronte troppo lungo, l’artiglieria era inadeguata e le informazioni sui movimenti dei nemici erano esigue. Così quando iniziarono i primi rovesci, La Marmora «si trovò in mezzo alla turba degli sbandati e dei fuggiaschi, ed ebbe la sensazione del tutto errata di un vero disastro, e non pensò che a salvare il ponte di Goito per la ritirata del III Corpo e delle 2 divisioni del II». ³ Anche il generale Cialdini, saputo della sconfitta del collega, iniziò ad arretrare. Un esercito che era almeno il doppio di quello austriaco era stato costretto inaspettatamente a indietreggiare. Per fortuna dell’Italia i prussiani, il 3 luglio, sconfissero nettamente gli austriaci nella battaglia di Sadowa (oggi nella Repubblica Ceca). Questo impedì a questi ultimi di organizzare una penetrazione nella Pianura Padana.
Anche in mare l’esitante ammiraglio Persano, costretto dal ministro della marina Depretis a ingaggiare battaglia, fu rovinosamente sconfitto nella battaglia di Lissa (20 luglio), un’isola vicina alle coste della Dalmazia. La marina italiana perse due corazzate e settecento marinai. Solo Garibaldi, alla guida di 38 mila volontari, riuscì, penetrando nel Trentino, a sconfiggere gli Austriaci nella battaglia di Bezzecca (21 luglio). Il 9 agosto, mentre si preparava a liberare Trento, al generale giunse l’ordine di La Marmora di sgomberare il Trentino, a cui rispose con un laconico telegramma: «obbedisco».
La grave sconfitta dell’esercito regolare e la vittoria di Garibaldi, come ha acutamente osservato Giordano Bruno Guerri, confermavano «negli italiani l’idea che le capacità individuali, l’arrangiarsi del singolo valgono più di qualsiasi cosa organizzata dallo Stato». ⁴
Il Governo prussiano mantenne la sua promessa e costrinse l’Austria a consegnare il Veneto a Napoleone III, dato che il governo austriaco si rifiutava di cederlo all’Italia che aveva perso la guerra. La Francia, come aveva fatto per la Lombardia, lo girò all’Italia. Mazzini scrisse che Napoleone buttò il Veneto all’Italia «così come si butta a un mendicante una moneta da un penny». ⁵ Il 21 ottobre, a seguito del solito plebiscito, il Veneto entrava ufficialmente a far parte dell’Italia. Ancora una volta gli italiani, miseramente sconfitti in guerra, si erano liberati grazie all’aiuto provvidenziale di una potenza straniera.
La questione di Roma capitale
La liberazione di Roma, che era stata già designata da Cavour come capitale del Regno, comportava la soluzione di delicati problemi internazionali e richiedeva il definitivo abbattimento del potere temporale del papa. Ovviamente un tale piano avrebbe suscitato la netta opposizione degli stati cattolici. In uno dei suoi discorsi Cavour aveva pronunciato il famoso slogan “libera Chiesa in libero stato”, intendendo che il papa avrebbe dovuto rinunciare spontaneamente al potere politico per occuparsi soltanto delle questioni spirituali. Pio IX tuttavia, quando era stato eletto, aveva giurato di difendere il potere temporale e quindi non poteva rinunciarvi. Cavour, con la sua solita disinvoltura, cercò allora di corrompere alcuni alti prelati affinché convincessero il papa. Come abbiamo già visto però la morte lo colse di sorpresa e i suoi successori, a cominciare dal toscano Bettino Ricasoli (detto il “barone di ferro”) non riuscirono, per mancanza di sagacia, tatto e diplomazia, a compiere alcun progresso verso l’ambita meta.
Garibaldi ferito sull’Aspromonte
Nel 1862 il nuovo capo del Governo Rattazzi fu protagonista di un goffo tentativo di utilizzare Garibaldi per la conquista di Roma. Il generale aveva organizzato una specie di “seconda spedizione dei Mille” e si era recato in Sicilia con l’intento di marciare sino a Roma per deporre il papa. “O Roma o morte” era il suo motto. Rattazzi non fece nulla per fermare i garibaldini. Di fronte alle minacciose rimostranze di Napoleone III però fu costretto ad inviare l’esercito nel sud Italia. Quando le truppe italiane incontrarono quelle dei garibaldini sulle alture dell’Aspromonte (29 agosto) Garibaldi ordinò di non sparare. L’unico reparto che reagì all’attacco dei soldati regi fu quello comandato da suo figlio Menotti. Il conflitto a fuoco durò circa dieci minuti; morirono cinque garibaldini e sette regolari. Garibaldi, che si era posizionato in evidenza sperando che il timore di colpirlo avrebbe trattenuto i bersaglieri dall’aprire il fuoco, fu ferito di striscio alla coscia sinistra e in modo grave al piede destro. Le truppe garibaldine si ritirarono nel bosco e fu la resa. Dopo un viaggio simile a un calvario per la profonda ferita al malleolo, Garibaldi fu sbarcato a La Spezia e imprigionato nel forte del Varignano. I primi tentativi di estrarre il proiettile furono fallimentari. Solo l’8 novembre, dopo molte settimane dal conflitto, un chirurgo fiorentino, il prof. Zanetti, riuscì a cavar fuori la palla che continuava a procurare atroci dolori all’eroe. La ferita cicatrizzò completamente solo dopo tredici mesi.
Garibaldi e i volontari furono poi amnistiati, ad eccezione di alcuni disertori del regio esercito che vennero fucilati senza pietà.
Firenze capitale e il Sillabo
Il successore di Urbano Rattazzi, Marco Minghetti, nel 1864 si accordò con la Francia e firmò la cosiddetta Convenzione di settembre: la Francia s’impegnava a ritirare le sue truppe da Roma entro due anni e il Governo italiano assicurava la protezione dello Stato da qualsiasi attacco esterno. A garanzia della sua rinuncia a Roma, la capitale fu portata da Torino a Firenze (1865). Questa decisione non fece molto piacere ai torinesi che ne temevano soprattutto le negative conseguenze economiche. Così espressero il loro dissenso con violente manifestazioni a cui la polizia rispose a fucilate, uccidendo, secondo le fonti ufficiali, 52 persone e ferendone 130.
Intanto Pio IX si era fatto sempre più intransigente e l’8 dicembre del 1864 aveva scritto un’enciclica intitolata Quanta Cura a cui era allegato Il Sillabo, un durissimo documento nel quale erano elencati e condannati gli “errori” della civiltà moderna come il razionalismo, il laicismo, il nazionalismo, la democrazia, il socialismo e l’intervento dello Stato nelle questioni morali e religiose. Il Sillabo isolava la Chiesa dal mondo e faceva dello Stato della Chiesa un fossile vivente. «Non era il tentativo di riportare la Chiesa e i cattolici alla purezza originaria, come molti vollero credere, ma una spinta all’assolutismo fanatico». ⁷
La sconfitta di Mentana
La sera del 14 ottobre 1867 una piccola barca a due posti si muoveva lentamente nello stretto di mare tra Caprera e La Maddalena. Il buio era molto fitto poiché la luna non era ancora sorta. La barca sporgeva di un palmo sulla superficie del mare e le piccole onde sollevate dal vento di scirocco la rendevano completamente invisibile ai marinai delle tre navi da guerra che pattugliavano la zona. All’interno vi era un uomo sdraiato con la barba tinta di nero: era Giuseppe Garibaldi che, dopo esser sbarcato su un isolotto, guadò a piedi gli ultimi metri che mancavano alla riva. Dopo aver trascorso la notte a casa di un’amica inglese, Emma Claire Collins, il giorno seguente s’imbarcò per la Sardegna con alcuni amici. Per ingannare i suoi sorveglianti, un suo amico che gli assomigliava si mostrava ogni tanto nel cortile della sua casa a Caprera.
Dopo essere sbarcato nella zona di Livorno, Garibaldi raggiunse il figlio Menotti al confine dello Stato Pontificio, a o Corese, il 23 ottobre e il giorno seguente si diresse verso Monterotondo. Il suo intento era, ancora una volta, strappare Roma a quello che lui chiamava «metro cubo di letame»: il papa Pio IX.
La vicenda era iniziata col clamoroso arresto dell’Eroe il 24 di settembre nelle vicinanze di Siena, mentre stava organizzando l’invasione dello Stato Pontificio. Garibaldi era stato internato per qualche giorno nell'orrido carcere di Alessandria, per poi venir nuovamente confinato a Caprera. Dato che nella Convenzione di settembre l’Italia si impegnava a difendere la città da attacchi esterni, ma non da quelli interni, il piano di Garibaldi e dei suoi collaboratori prevedeva l’accensione di un’insurrezione nel Lazio e nella città di Roma. La sollevazione avrebbe permesso di procedere all’occupazione dello Stato Pontificio senza violare la parola data. Il capo del Governo Rattazzi, dopo aver ricevuto esplicite minacce di intervento dalla Francia, aveva rinunciato
all’incarico ed era stato sostituito dal generale Luigi Menabrea. Anche il nuovo primo ministro ebbe un atteggiamento ipocrita, e si limitò a convincere il re a esprimere un giudizio di condanna dell’aggressione. Garibaldi e i suoi 8 mila volontari iniziarono ad avvicinarsi a Roma, mentre alcuni uomini si trovavano già in città con l’intento di incitare il popolo all’insurrezione. Agenti garibaldini realizzarono un attentato in una caserma compiendo una strage, ma nessun romano si mosse. I fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, giunti al ponte Milvio discendendo il Tevere, scoprirono che non c’era nessuno ad attenderli in armi. Non si diedero per vinti e con sciagurato coraggio si fermarono nella speranza di contattare i patrioti romani, ma vennero sopraffatti dagli zuavi del papa presso Villa Glori. Enrico fu ucciso e Giovanni fu gravemente ferito e preso prigioniero.
Nonostante questi fallimenti, Garibaldi e i suoi uomini riuscirono a conquistare la città fortificata di Monterotondo, poco distante da Roma. La conquista dell’Urbe sembrava ancora realizzabile quando la situazione si complicò all’improvviso. Napoleone III, informato del complotto, inviò in Italia nove mila soldati dotati di fucili Chassepot a retrocarica ad aiutare l’esercito del pontefice. La situazione dei volontari era ormai di netto svantaggio e molti disertarono. La presenza dell’esercito italiano, che aveva sconfinato nel territorio pontificio da nord, impediva a Garibaldi di ripiegare per far rifornimento di uomini e mezzi. Allora il generale comandò ai volontari di spostarsi verso Tivoli nel tentativo di raggiungere le province italiane più a sud. Durante la marcia i garibaldini furono attaccati e pesantemente sconfitti da un esercito di papalini rinforzato da alcune migliaia di si nella battaglia di Mentana (3 novembre 1867). Garibaldi, che riuscì a ritirarsi grazie al sacrificio della sua retroguardia, non avrebbe mai conquistato Roma. Il papa era riuscito a prendere tempo, ma nel giro di soli tre anni la storia avrebbe compiuto il suo inesorabile corso.
La breccia di Porta Pia
Nonostante la schiacciante vittoria nella guerra del 1866, la Prussia non aveva potuto riunire attorno a sé tutti gli stati tedeschi per l’opposizione di Napoleone III. Quattro anni dopo però scoppiò la guerra franco-prussiana. Fu Napoleone III, cadendo in un tranello del cancelliere Bismarck, a dichiarare aperte le ostilità. Lo scontro fu breve e per la Francia si rivelò un disastro. Napoleone, sconfitto a Sedan, fu catturato, e in Francia fu proclamata la Terza Repubblica. Il Governo italiano si ritenne sciolto dagli impegni assunti con la Convenzione di settembre e decise di risolvere la questione romana una volta per tutte. Vista l’impossibilità di ogni trattativa, il 20 settembre 1870, un corpo di bersaglieri, aprendo una breccia nelle mura presso Porta Pia, occupò rapidamente la città. Il papa, contrario ad ogni spargimento di sangue, aveva dato precise disposizioni al generale Kanzler: la difesa doveva essere poco più che simbolica. Egli intendeva semplicemente mostrare al mondo che stava subendo un abuso. ⁸ Nessuno poteva o voleva proteggere lo Stato Pontificio. Pio IX si rifugiò in Vaticano e, dopo aver sospeso il Concilio Vaticano I, scomunicò tutti i responsabili dell’occupazione di Roma. Nel 1871, proclamata Roma capitale, lo Stato Italiano regolò, con la cosiddetta legge delle guarentigie, i rapporti con la Santa Sede. L’Italia si impegnava a garantire l’inviolabilità e la libertà del papa e gli assegnava un’indennità annua di circa tre milioni di lire annui per le perdite subite. Pio IX però rifiutò con sdegno e non volle accettare compensi. In una disposizione del 1874 chiamata Non expedit proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana. L’Italia pagò l’annessione di Roma con un isolamento diplomatico che sarebbe durato sino al 1882, quando entrò a far parte della Triplice Alleanza con Germania e Austria.
Sezione 3 - Conclusioni
L’Italia è fatta. Mancano gli italiani
Il 10 marzo del 1872 moriva a Pisa il dottor George Brown. Gli studenti realizzarono manifestazioni in suo onore e alcuni medici tentarono di imbalsamarne il corpo. Il dottor Brown non era altri che Giuseppe Mazzini, rientrato in incognito in Italia il mese prima, ospite della famiglia NathanRosselli, ancora ricercato come un pericoloso criminale. Sino alla fine il grande cospiratore aveva rifiutato cordialmente l’Italia unita sotto i Savoia. Il Parlamento votò una dichiarazione di condoglianze, ma nessun deputato pronunciò una sola parola di omaggio. Padre e figlio, Mazzini e L’Italia unita, si erano ripudiati reciprocamente.
Dopo la presa di Roma gli artigli della morte avevano iniziato a ghermire gli ultimi grandi protagonisti del Risorgimento. Nel 1878 erano morti Pio IX e Vittorio Emanuele II; nel 1882 toccò a Garibaldi. La storia voltava pagina e una nuova epoca faceva capolino.
L’unità d’Italia non era del tutto completa, dato che Trento e Trieste sarebbero state annesse solo nel 1918. Il nuovo Stato nasceva fragile sia culturalmente, sia economicamente. La povertà era così diffusa e grave che oggi si fa fatica persino a immaginarla. Un operaio guadagnava circa 1,30 lire al giorno e un chilo di pane costava 0,25 lire!
L’Italia era, nella sostanza, un paese bisognoso e arretrato: le infrastrutture erano insufficienti, il sistema scolastico, quello sanitario e quello amministrativo erano inefficienti; 17 milioni di italiani su 23 erano analfabeti, solo 9 bambini su 1000 superavano le elementari e gli iscritti all’università erano appena 6500.⁷ L’agricoltura, soprattutto al sud, aveva caratteristiche semifeudali. «Lo scarsissimo potere d’acquisto delle larghe masse dei consumatori non favorì certamente lo sviluppo di quel tanto di industria manifatturiera esistente, la
quale, oltretutto, non era certo in grado di reggere la concorrenza dei prodotti stranieri cui la politica liberista della Destra lasciava aperte le frontiere».⁷¹
Tutto era stato uniformato: monete, pesi, misure, ma le antiche differenze non erano scomparse nel nulla. Nel nord erano diffusi il capitalismo agrario e l’industria tessile; nel centro la mezzadria (il contadino cedeva al proprietario della terra la metà dei prodotti coltivati); nel sud e nelle isole prevaleva il sistema latifondista, anche se esistevano sacche di agricoltura di pregio come, per esempio, quella degli agrumi, delle viti e delle olive. La piccola azienda a conduzione familiare volta all’autoconsumo era diffusa su tutto il territorio.
La nascita dei primi impianti nel settore metallurgico, meccanico e chimico non cambiò di molto la situazione generale. Negli anni ’70 l’arretratezza dell’agricoltura e l’esiguità della capacità industriale dell’Italia (su 28 milioni di lavoratori solo 380 mila operavano in questo settore) rese impossibile realizzare incrementi apprezzabili del prodotto interno lordo.
Uno Stato poco democratico
L’Italia unita era guidata da un’élite di notabili. Le masse erano escluse dalla partecipazione alle decisioni politiche. Il diritto di voto era ristretto a una minoranza di possidenti e di persone istruite. Nel 1861, era riconosciuto a meno del 2% dei quasi 22 milioni di italiani. Votavano i maschi che avevano compiuto 25 anni e che pagavano almeno 40 lire di imposte annue. Alcune categorie votavano indipendentemente dal reddito. Tra queste c’erano gli impiegati statali, gli insegnanti, i ragionieri e i farmacisti. Il voto era impedito, oltre che alle donne e ai minori, anche agli analfabeti, agli interdetti, ai falliti e a varie categorie di condannati. Anche considerando solo i capifamiglia (i minorenni sono esclusi dal voto in qualsiasi ordinamento politico e le donne lo erano altrettanto in quel tempo), la percentuale di chi veniva chiamato alle urne era appena dell’8,67%.⁷²
Anche la letteratura, che era stata il primo motore del Risorgimento, ora iniziava a denunciarne il sostanziale fallimento. Grandi autori come De Roberto, ne I Vicerè, o Pirandello, ne I vecchi e i giovani, svelarono la bruciante delusione, ovviamente molto diffusa, per come era avvenuta l’unificazione dello Stato. La retorica risorgimentale s’incrinò subito dopo l’unità. La coscienza identitaria andava costruita con fatica.
L’Italia unita manifestava una serie di difficoltà molto gravi che la Destra storica, per la sua formazione ideologica e per la sua freddezza verso i bisogni della società civile, non avrebbe potuto risolvere. L’onere di proporre le riforme necessarie ad affrontare alcuni dei problemi della nuova nazione sarebbe stato assunto dalla Sinistra, giunta al Governo nel 1876.
Il futuro è legato al ato
Alcune delle difficoltà incontrate dall’Italia nella sua infanzia persistono tuttora. La più grave è, ovviamente, la frattura tra il nord e il sud. Carlo Farini, quando giunse a Napoli come luogotenente generale della province meridionali, scrisse a Cavour una lettera in cui giudicava in questi termini il sud Italia: «Altro che Italia! Questa è Africa. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile!». Il sud è stato visto, dall’unità in poi, prima come una terra di conquista, poi come un malato da curare o come un barbaro da redimere. I pregiudizi razzisti della classe dirigente del nuovo Stato avrebbero impedito ogni coraggioso tentativo di avviare un processo di sviluppo nel sud Italia.
Il divario col nord si accrebbe rapidamente. Nei decenni successivi all’unità gli investimenti per le infrastrutture furono concentrati quasi essenzialmente al nord, dove nacquero le prime grandi industrie come la Pirelli (1880), la Montecatini (1888) e la Fiat (1899). Dal 1862 al 1897 lo Stato spese 458 milioni di lire, provenienti in gran parte dai contribuenti del sud, per la bonifica delle paludi. Per il centro-nord furono spesi 455 milioni e 3 al sud.⁷³
Come è noto, l’assistenzialismo pelosamente filantropico, quello dei finanziamenti a pioggia, non ha di certo risolto i problemi. L’ipotesi del federalismo, scartata all’inizio dell’unità, ha assunto oggi l’aspetto di un’imposizione voluta dalle regioni del nord. Le contrapposizioni continuano a persistere pericolosamente.
In un mondo sempre più concatenato e complesso, potrà l’Italia mantenere un suo specifico spazio e offrire un contributo positivo nei rapporti internazionali? Manterrà la sua identità, oppure l’egoismo locale prevarrà sulla concordia? I
difetti di una nascita faticosa giocheranno senz’altro un ruolo importante nel futuro incerto della nostra nazione.
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Nota
1 De Rosa, p.136
2 Mack Smith, 1973, p.XI
3 Guerri, 1997, p.193
4 Banti, p.46
5 Banti, p. 49
6 cit. in Mack Smith, 1994, p. 70
7 cit. in Mack Smith, 1994, p. 17
8 Guerri, 1997, p. 199
9 Mack Smith, 1994, p. 64
10 D’Azeglio, p. 96
11 Montanelli, p.106
12 La frase è stata riportata da Luigi Settembrini nelle Ricordanze della mia vita
13 Nikiforuk, p.127
14 Pinto, p. 124
15 Tornielli, p. 257
16 Pieri, p. 233
17 Scirocco, pp. 126-128
18 Mack Smith, 1994, pp. 103-104
19 Montanelli, p. 247
20 Bertoldi, p. 250
21 Candeloro, p. 405
22 Pieri, p. 414
23 Procacci, p. 373
24 Lettera a Rattazzi
25 Talamo, p. 625
26 Guerri, 1997, p. 212
27 Pieri, p. 594
28 Pieri, p. 621
29 Martucci, pp. 81- 88
30 cit. in Pinto, p. 301
31 Pieri, p. 619
32 Di Fiore, p. 69
33 Pieri, p. 624
34 Mack Smith, 1996, p.197
35 Pinto, pp. 309 - 310
36 Di Fiore, p. 39
37 Scirocco, p. 203
38 Di Fiore, p. 93
39 Pieri, p. 652
40 cit. in Fasanella - Grippo, p. 67
41 Bandi, parte prima, XVIII
42 cit. in Fasanella - Grippo, p. 81
43 Guerri, 1997, p.220
44 Martucci, p. 172
45 Mack Smith, 1993, p. 117
46 Martucci, pp. 173-174
47 Di Fiore, 2007, p. 122
48 Di Fiore, p.151
49 Di Fiore, p. 128
50 Bandi, parte terza, XVI
51 Di Fiore, pp. 154-155
52 cit. in Salvi, 1996, pp. 134-135
53 Mack Smith, 1996, pp. 302-303
54 Romano, 1998, p. 33
55 Di Fiore, pp. 186-187
56 cit. in Martucci, p. 219
57 Guerri, 2010, p. 147
58 Fasanella - Grippo, p. 207
59 Guerri, 2010, pp. 236-237
60 Martucci, p. 314
61 Viola, pp. 216 - 217
62 Frigerio, p. 116
63 Pieri, p.757
64 Guerri, 1997, p. 228
65 cit. in Mack Smith, 1994, p. 250
66 Martucci, p. 437
67 Guerri, 1997, p. 233
68 Di Fiore, p. 351
69 Mack Smith, 1994, pp. 316 - 317
70 Guerri, 1997, p. 225
71 Procacci, p. 400
72 Martucci, p. 382
73 Guerri, 2010, p. 249