9 Favole Sul Far Della Sera 4z21o

9 favole sul far della sera

di Fabrizio Trainito

Dicembre 2012

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Titolo | 9 favole sul far della sera Autore | Fabrizio Trainito Copertina a cura dell’autore ISBN | 978-88-91106-73-5 Prima edizione digitale: 2013

Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

La vera storia del lupo – gennaio 2012

Fame. Tanta fame! Di nuovo alla ricerca di qualcosa per riempire la pancia. Ieri mi sono dovuto accontentare di quelle viscide lumache che si rintanavano nel guscio appena le toccavi e lasciavano tutta quella bava. Ma con quei crampi allo stomaco avrei mangiato anche la corteccia degli alberi. Certo il loro guscio era duro e difficile da mandare giù, ma almeno riempiva lo stomaco e non faceva male come quei funghi maledetti della notte di luna piena. Quella notte me la ricorderò sempre, pensavo di morire dal dolore, lo stomaco pieno funghi stava scoppiando e mi sono rotolato per terra per ore. Mai più. Poi ho scoperto la via, quella percorsa dagli uomini per attraversare il bosco. Quelli a cavallo ano veloci ed è troppo rischioso tentare di fermarli. Una volta ci provai e per poco non venivo schiacciato dagli zoccoli del cavallo imbizzarrito. Dopo ho imparato cosa fare. Attaccavo all’improvviso, soprattutto persone sole, meglio se erano vecchi o donne. Bastava digrignare i denti e tutti fuggivano terrorizzati, urlando “Al lupo, al lupo”. Ma quale lupo! Non abbaiavo apposta, per non svelare a tutti la mia natura. Non avrebbero più temuto un semplice cane. Molto tempo fa lo imparai a mie spese. Mi ero avvicinato timoroso ad un viandante e avevo abbaiato per richiamare l’attenzione. Chiedevo solo un boccone per nutrirmi: un tozzo di pane, un avanzo, un osso. La risposta fu severa e ne porto ancora i segni sull’orecchio destro. Una bastonata fu quello che ne ricavai a chiedere con discrezione. Dovetti fuggire a rompicollo, con il sangue che colava sull’occhio e mi impediva anche la vista. Da allora avevo capito la lezione: non avrei più mostrato la mia vera natura. Da allora per tutti sono il lupo. E tutti devono tremare! …oppure non mangerò.

Eccomi sulla via, in cerca di prede. Chi ha deciso di sfidare la sorte oggi? Sento già l’odore del cibo e la fame mi fa volare. Proprio dietro la curva qualcuno stava percorrendo incauto il sentiero. Sembra portare con sé un gran cesto. Cosa ci sarà dentro? Adesso lo vedrò! Esco all’improvviso da dietro il cespuglio e, con l’abilità accumulata in centinaia di agguati, minaccio la vittima con tutto il repertorio: denti, ringhi, pelo dritto.

Sono pronto a saltare addosso… ma cosa è? Una fanciulla?! Lei mi vede e rimane impietrita, volta la testolina dall’altra parte lasciando cadere il cappuccio rosso, e si ripara con un’esile manina. Ma cosa fa adesso? Non scappa?... Forza! Urla e datti alla fuga! Niente. Rimaniamo fermi così per un una manciata di interminabili secondi. La scena ogni momento che a sembra farsi più comica e non so proprio cosa fare. E’ decisamente una situazione nuova, intanto il tempo a. Ormai non dovevo sembrare più tanto aggressivo, infatti quando lei si voltò sembrò rincuorarsi. Quel bel paniere sembrava allontanarsi sempre più da me e la caccia sfumare; quel buon profumino che si spandeva nell’aria mi ipnotizzava: mi faceva venire un’acquolina amara in bocca e rafforzava i crampi allo stomaco. Fu allora che successe una cosa molto strana. Lei si accorse che guardavo il cesto e capì tutto. Prese una fetta di torta da sotto il panno e me la mostrò. Poi piano piano, con timore si avvicinò a me. Non era più successo dopo la terribile bastonata, non facevo avvicinare nessuno, comunque non ce n’era bisogno perché tutti fuggivano. Senza volerlo mi ritrovai ad indietreggiare, poi mi riscossi. Ero io il lupo cattivo ed era lei che doveva avere paura! Ringhiai ancora e lei si fermò subito, ma non dovevo essere proprio così temibile, perché lei riprese ad avanzare, anche se con maggior prudenza. Intanto lo stomaco mi comandava di rimanere immobile e attendere il boccone. Quando fu vicina e me lo offrì tutte le mie forze erano venute meno, divorai in un attimo il piccolo pasto. Quando rialzai lo sguardo mi attendeva un’altra fetta e il mio aspetto adesso era molto più mansueto, mentre non riuscivo a trattenere la coda che si stava dimenando allegra. Dopo la terza fetta la bimba mi accarezzò e riscoprii una sensazione che da troppo tempo avevo dimenticato. Non ero un lupo e la mia natura mi diceva che era questo che volevo di più: avere un padrone che pensa a me e delle coccole. Rimasi al fianco della bimba dal cappuccio rosso e l’avrei difesa da ogni pericolo. Non sapevo come sarebbe finita, ma per la prima volta da molto tempo ero felice di essere un cane e le ero grato per questo. Procedevo per il sentiero ancora scosso dagli eventi, quando la vidi svoltare per

un viottolo che si addentrava tra la boscaglia e compresi subito la sua destinazione. Fu come una sferzata tornare ai tristi ricordi della mia precedente vita con la padrona. Ma perché voleva andare da lei, non sapeva che era pericolosa? Cosa le avrebbe fatto? Dovevo impedirlo. Le corsi dietro e le afferrai la mantella con i denti, tirai, senza farle male però, solo per fermarla. Cappuccetto rosso cercava di divincolarsi, ma mantenni la presa. Per liberarsi prese un’altra fetta di dolce, ma anche se avevo ancora fame non mi sarei lasciato convincere. L’avrei salvata dalla vecchia. La fanciulla allora si mise a piangere, ma avrei resistito se non avessi sentito una voce di vecchia che chiamava dal viottolo. La paura mi colse impreparato, lasciai la mantella e fuggii nella parte più fitta della foresta. Era lei, la mia padrona, quella che mi aveva frustato tante volte e che per averle fatto cadere una pozione, mi aveva quasi ucciso. Era furiosa perché quella pozione era molto rara e le serviva per ringiovanirsi ogni giorno. Da allora il suo aspetto sarebbe stato irrimediabilmente quello di una vecchia. Quando ormai aspettavo rassegnato il colpo di grazia, si era distratta. In quel momento infatti, attirato dai nostri rumori, era giunto un guardiacaccia e aveva assistito alla scena. Anche lui voleva fuggire, ma era stato meno fortunato: la strega non poteva lasciare libero un uomo che aveva visto i suoi poteri malefici. Sarebbe tornato con tanti altri, con i forconi, per cacciarla dal suo bosco o addirittura per bruciarla. E così lo aveva trasformato in un canarino e, mentre era ancora stordito, lo aveva imprigionato in una gabbietta d’oro. Ogni volta che mi capitava di are in questa parte del bosco, sentivo fin da lontano le sue grida di dolore, ormai trasformate in cinguettii strazianti. Sapevo che chiamava aiuto, come la prima volta, quando io fuggivo e lui veniva a poco a poco mutato. Erano mesi che non avo più in questa parte del bosco e a poco a poco avevo dimenticato, ma adesso tutto si era ripetuto e stavo fuggendo senza meta, abbandonando di nuovo qualcuno nelle sue mani. Quando fui abbastanza lontano mi fermai e nascosto in un cespuglio, ripresi fiato. Ero sicuro di aver sentito all’inizio le voci della bimba e della vecchia intrecciarsi con il grido del canarino, poi solo i fruscii del mio aggio nell’erba e l’affanno dei miei polmoni. Avevo corso a perdifiato e sicuramente ero lontano dal pericolo, ma i muscoli

non smettevano di tremare. Ma mentre me ne stavo nascosto il rimorso si impossessò dei miei pensieri, il tremore ò, ma giunse una sensazione peggiore: stavo pensando alla fanciulla che ora era sicuramente prigioniera della strega. Con questa sgradevole sensazione le forze vennero meno e, stremato, mi addormentai. La notte ristoratrice portò consiglio. Il giorno seguente uscii dal cespuglio dove mi ero rintanato con il pensiero rivolto alla bimba. Sentivo uno spirito nuovo che mi aveva riportato il coraggio ed ero deciso ad affrontare la vecchia padrona. La mia vita era terribile e adesso che avevo trovato qualcuno che poteva occuparsi di me, avrei lottato fino in fondo per non tornare alla vita selvatica. Questa volta non sarei scappato! Con circospezione mi avvicinai alla casetta nella foresta e attesi. Dall’interno si sentivano il cinguettio del guardiacaccia e la voce della bambina che implorava la vecchia, la quale rispondeva seccata. Mi avvicinai alla porta e abbaiai con tutto il fiato che avevo in gola, poi mi nascosi dietro la casa. Lei mi riconobbe e pronunciò il mio nome; non lo udivo da molto tempo e non ricordo se fosse stato sempre quello il mio. Non ricordavo niente di prima della casetta nella foresta, ma dubitavo di essere nato veramente là. Probabilmente era colpa della strega e della sua magia. La vecchia usci frettolosamente con la bacchetta per catturarmi, avanzò verso il bosco e mi chiamò più volte, ma non mi vide. Alle sue spalle uscii da dietro la casa e senza essere scorto entrai dalla porta, lasciata frettolosamente accostata. Al centro della stanza un grande pentolone ribolliva sul fuoco spandendo verso il soffitto folate di vapore. Su una mensola era appoggiata la gabbietta dorata del canarino, mentre la fanciulla era legata alla gamba del tavolo con una corda spessa. Aveva lo sguardo basso e spento, un piccolo taglio sulla guancia e un livido sulla fronte, ma sembrava stesse bene. Appena mi vide i suoi occhi si riempirono di speranza, ma questa risultò subito mal riposta, infatti la situazione era drammatica: non sarei mai riuscito a tagliare la corda … Ad ogni modo provai con tutta la forza che avevo nelle mie mascelle. Maciullai lo strato esterno, ma il danno era solo in superficie. Vistomi all’opera il canarino ebbe la cattiva idea di richiamare la mia attenzione con il cinguettio. Il risultato fu che la vecchia capì il mio inganno, tornò minacciosa in casa e sprangò la porta. Adesso anch’io ero in trappola, ma questa volta non avevo intenzione di fuggire!

Balzai in avanti verso la strega e il suo primo colpo mi sfiorò la zampa destra. Le afferrai il vestito con i denti e tirai con tutte le forze facendola inciampare. Nel movimento che ne seguì la gabbietta con il canarino andò in frantumi e il guardiacaccia ne approfittò per riconquistare la libertà attraverso la finestra. Lo sentimmo cinguettare allegro mentre si allontanava dalla prigione. La vecchia era furibonda e impugnò di nuovo la bacchetta per sferrare il secondo attacco. Feci appena in tempo a ripararmi sotto il tavolo quando il lampo si abbatté nella mia direzione. Fui sbalzato a terra e ricoperto delle schegge di legno della tavola. Anche cappuccetto rosso rotolò per terra per il colpo che aveva distrutto il tavolo, ma finalmente libera. La strega era furibonda ed incerta su chi colpire per primo, la bacchetta era incandescente e non sembrava rispondere agli ordini. Cappuccetto rosso si alzò e mi venne a liberare, ma quando fummo di nuovo in piedi la strega era di nuovo pronta a colpire. Decise che avrebbe colpito prima la bambina e la vidi voltarsi verso di lei, pronunciando le prime parole della formula.

Ed ecco a voi due finali differenti entrambi a lieti, come ci si aspetta da una favola. Immaginate anche voi un finale della storia, magari anche non lieto per confrontarlo con quelli formulati dallo schizofrenico autore.

Finale 1 Non indugiai oltre e con la forza della disperazione addentai il braccio della strega. Sorpresa dalla rapidità dell’azione, la vecchia lascio la presa e la bacchetta cadde sul pavimento. La bimba fu veloce ad impossessarsene e a gettarla nel fuoco facendo svanire tutti i poteri della strega e anche i suoi malefici. La casa scomparve e la strega stentava a rialzarsi per quanto adesso appariva più vecchia. Noi non ce ne preoccupammo perché stavamo correndo felici nel bosco. Da un ramo alto il guardiacaccia ci salutava allegro, tutto intento nella difficile discesa.

Da allora la mia vita cambiò e vissi con cappuccetto rosso, finalmente felice di essere un cane.

Cappuccetto rosso nel bosco

Finale 2 Non indugiai oltre e con la forza della disperazione balzai verso la fanciulla a farle scudo con il mio corpo. Fui percosso da un calore insopportabile e scaraventato contro la parete della casa. Ebbi solo un attimo per vedere ancora la bimba integra, e la strega scomparire in un urlo agghiacciante poi tutto ruotò vorticosamente intorno a me. Ero avvolto da una luce abbagliante e quando questa svanì mi ritrovai in piedi… insomma erano veramente piedi e non zampe! Stavo ricordando anche chi ero: un principe avaro tramutato in bestia e costretto a servire. Ricordai anche le parole dell’incantesimo: “… se ti sacrificherai volontariamente per qualcuno, potrai riacquistare la tua vita e le tue sembianze”. Oggi, mentre attraverso le stanze del castello, quegli anni trascorsi nel bosco tra mille stenti sembrano un ricordo lontano e quasi irreale. Poi scorgo la mia bella regina, avvolta nel suo magnifico mantello rosso, che si prende cura del canarino nella gabbietta dorata. Le sarò grato per tutta la vita.

I cartelli gemelli (ottobre 2011)

Lui, un non ben qualificato segnale di pericolo, misterioso e timido; lei, un po’ rotondetta, ma seria e severa, con la giusta misura ben evidenziata dal limite che imponeva: un cinquanta netto e perentorio. Giunti insieme in quel sito silenzioso e panoramico, si scrutavano fin dall’inizio con interesse, dai lati opposti della strada. Entrambi animati da una missione, impegnati a salvare vite, sempre là fuori, con il caldo e il freddo, con la pioggia e addirittura la neve, con il vento o con l’afa. Dopo qualche tempo lui era stato urtato da un furgone malandato che proseguiva a zig zag, sbandando per un colpo di sonno. Il tonfo aveva svegliato l’autista che era riuscito a mantenere in strada l’automezzo, ma lui aveva perso la sua vera identità, gli era stato portato via il cartello “Curva pericolosa”, che definiva il tipo di pericolo da scongiurare. Da allora viveva incompleto. Era come se avesse subito un’amnesia e per questo si sentiva impacciato e si vergognava. Lei in primavera aveva ospitato sulla sua schiena un alveare selvatico e tanto la avevano solleticata le mille api con le loro piccole ali laboriose, mente caldo cresceva il miele nelle celle. Era stata un’esperienza indimenticabile, come se le avesse cresciute tutte lei, quelle creature ammirevoli, come una grande mamma o magari una zia. E lo avrebbe rifatto volentieri, anche a scapito della lucentezza della sua vernice, che ora era un po’ opaca. Avevano condiviso momenti felici e sopportato situazioni tristi, sostenendosi a vicenda. Come quel giorno, avvolti nella nebbia, quando lui si sporgeva in avanti ad ogni suono per avvisare i anti del pericolo imminente e alla fine quello sbadato lo salvò… Arrivava veloce, tutto sicuro con la sua spider rossa fiammante, ma quando lo vide agitarsi preoccupato con il suo grande punto esclamativo al centro, ebbe il buon senso di frenare e alla fine se la cavò solo con qualche graffio. Quel giorno lei gli fece l’occhiolino e lui fu veramente orgoglioso di sé.

Invece per quel motociclista che correva sull’asfalto bagnato non ci fu niente da fare. A nulla servì il loro monito e insieme dovettero assistere alla drammatica scena, all’epilogo crudele e al triste rito dell’ambulanza. Giorni e notti trascorsero insieme in quella valle e mentre le stagioni si avvicendavano, cresceva in loro il desiderio di attraversare la strada e finalmente incontrarsi. Nulla però potevano fare o immaginare perché il loro sogno si avverasse. Rassegnati invecchiarono insieme, sempre divisi da quella lingua di asfalto scura, vedendo i loro colori sfiorire e la ruggine fare la comparsa qua e là. Un giorno, quando ormai entrambi mostravano i segni di una vita lunga, intensa e faticosa, giunsero sul posto enormi ruspe, macchinari mai visti da quelle parti. Il rumore era assordante e l’asfalto tremava tutto. Lei cercò il suo sguardo e lui subito ricambiò, tentando invano di tranquillizzarla. Alcuni operai si avvicinarono e con quattro colpi ben assestati lo scardinarono, poi attraversarono la strada tra le sue inutili proteste e con un sol colpo mieterono lei. I due cartelli gemelli, seppur terrorizzati, si trovarono insieme nel camioncino e finalmente, ancora increduli, poterono abbracciarsi. Nell’intimità del furgone la nuova sensazione che pervadeva le loro stanche membra li aveva rivitalizzati. Ora sentivano che una nuova vita era possibile, dopo una tale attesa. E così i cartelli gemelli mai si separarono, né nel buio del magazzino, né nella maleodorante discarica, né nello stretto compattatore, né infine nella fornace, che li accolse e riscaldò ancor di più i loro cuori, già incendiati dal primo abbraccio. Fu così che si fo insieme e nessuno poté più separarli.

Pensata e anche scritta in fila sul Grande Raccordo Anulare di Roma.

La gita scolastica (ottobre 2011)

Continuava a parlare senza sosta. “Non è sicuro…”, “…non è dignitoso..”, “… figuriamoci poi questa qua, è roba da straccioni…”, “…la quarta B ha organizzato tutto con l’agenzia Boss, pensate, è quella che ha curato il matrimonio di Givency!”. E un’altra subito a dar man forte “Non è possibile che dormano in una pensione!”, “Mica sono barboni!”. Molte mamme là nelle prime file annuivano. Il maestro di religione si arrampicava sugli specchi per indurre a scelte più morigerate. “La pensione è la stessa dove siamo stati l’anno scorso con la III C”, “Se cambiamo albergo ogni studente dovrà spendere almeno 30 euro in più a notte…”. Niente. Erano scatenate. Se lo pappano in un sol boccone, quello là. Poi fu il turno del treno. Era insicuro… Si potevano gettare dai finestrini… Erano preoccupazioni assurde, ma loro si mostravano sicure di quello che volevano: pretendevano il pullman. Il preside provò ancora a farle ragionare “Ma per andare a Firenze il pullman non serve; è troppo costoso per un viaggio così breve e poi con il treno ci si mette poco più di un’ora da Roma…”. Anche qui una sconfitta. Intanto mi guardavo intorno e cercavo lo sguardo delle altre mamme che come me dovevano fare bene i conti su ogni cosa per arrivare a fine mese. La mamma di Gabriela aveva detto di no “Perché proprio in quei giorni arrivavano i nonni dal Perù…”. Gabriela in fondo alla classe fissava una mattonella sbocconcellata. Sembrava non stessero parlando di lei e di certo non sembrava entusiasta di incontrare finalmente i nonni, dopo tanto tempo.

Era una scusa, probabilmente i nonni non sarebbero arrivati mai, con quello che costa il viaggio, ma le altre mamme accolsero l’annuncio con accondiscendenza, anzi quasi con sollievo. Karima invece era immobile e silenziosa. Come me non aveva il coraggio di parlare o forse non aveva ancora pensato ad una balla da raccontare. La capivo bene e quando vide che la fissavo, voltò subito lo sguardo dall’altra parte, chiaramente a disagio. I genitori di Andreas non erano neanche venuti. Lui non aveva mai partecipato a nulla. Tutti gli altri sarebbero andati in gita. Per loro non era un problema spendere cento o duecento euro per far partecipare i propri pargoli; discutevano solo sulle modalità. Per noi no. Non era questione di albergo, treno o agenzia. Per noi il problema era evitare che i nostri bimbi si sentissero umiliati, far loro capire le difficoltà, consolarli nelle privazioni. E poi nascondere tutto quanto gli altri per non peggiorare la situazione. Quella sì che sarebbe stata l’umiliazione peggiore. La difficoltà maggiore era nascondere la verità. Il lunedì precedente la maestra mi aveva preso da parte e si era offerta, sempre che ne avessi bisogno, di chiedere alle altre mamme, quelle più fortunate, se accettavano di accollarsi la quota di Buba. L’avevo ringraziata per il pensiero vergognandomi della mia situazione e le avevo risposto sicura che Buba avrebbe partecipato e non ci sarebbe stato bisogno di chiedere aiuto agli altri. Buba mi aveva sentito e, con gli occhi pieni di meraviglia e di entusiasmo, mi aveva abbracciato. Un abbraccio lungo che mi aveva spezzato il cuore. Non dicevo sul serio alla maestra, ma come facevo adesso a rimangiarmi quelle parole che tanto avevano reso felice Buba. “Tu non sai quanto ho dovuto lavorare questo mese per pagare l’affitto!” già sentivo risuonare nella testa la voce di mio marito. Già mi aveva picchiato, per molto meno, ma non è cattivo e su questo ha ragione. Non sono cose per noi. Non possiamo permettercele.

Studiare sì. I libri, usati, e a volte anche regalati da qualche amica. Ma queste cose no! Buba mi fissava con apprensione, le mani serrate una dentro l’altra e la testa incassata nelle spalle. Forse mi aveva visto preoccupata e aveva capito. Le sorrisi cercando di rassicurarla. Come era bella con le sue amiche tutte intorno, la mia piccola Buba! Non vuole che la chiami così davanti alle amiche, si vergogna, ma quando siamo sole mi abbraccia forte e quasi non riesco più a staccarmela di dosso. No. Questa volta Buba avrebbe partecipato! Ero andata a chiedere un anticipo della tredicesima alla famiglia dove sono a servizio. Si erano guardati dubbiosi e poi avevano detto di sì. Più tardi li avevo sentiti parlottare sottovoce in sala: “Uffa, è qui solo da tre mesi e già se ne approfitta?!”, “Zitto, vuoi che ci senta! Speriamo che anche questa non se ne vada. E’ così difficile trovarne una di fiducia. Che almeno non rubi l’argenteria…”. Avevano sentito che mi avvicinavo e subito si erano azzittiti; lui mi aveva anche elemosinato un sorriso forzato quando era uscito a comprare le sigarette. Non so se esserne felice, di certo non mi sento a mio agio, però l’importante è che i soldi me li abbiano dati e che Buba potrà partire con le sue amiche. Ormai ce l’avevo quasi fatta a raggranellare la quota, mancava poco alla cifra totale. Ventiquattro euro me li aveva dati la vecchia zia, che adora Buba perché ogni volta lei le fa la spesa e l’aiuta a camminare per non far addormentare quella gamba malandata. Ben quaranta euro li aveva mandati mia sorella dalla Francia. Le avevo raccomandato di mantenere il segreto, perché non volevo che mio marito Carlos venisse a saperlo. Ormai mancava proprio poco e pensavo di guadagnarmelo con i rammendi della settimana scorsa: avrei chiesto un euro in più per ogni lavoro e ce l’avrei fatta. Dicono che Firenze sia stupenda, ma a me non importa. Voglio solo che questa

volta ci sia anche lei. Ne ho già fatte tante io di rinunce… Mi ero distratta e avevo perso il filo del discorso. Quella falsa bionda in prima fila era adesso in piedi e sembrava prendere tutte le decisioni. Sulla lavagna non c’erano più i numeri di prima, erano tutti sbarrati. Il numero in basso, quello che con tanta fatica stavo racimolando, era stato sostituito da un altro ben più alto, irraggiungibile! Perché così tanto? Mi voltai e vidi gli occhi di Buba rossi. La mamma di Gabriela era andata via e anche Karima non era più in sala. Sentivo che il mondo mi stava crollando addosso: duecentoquarantacinque euro! Come facevo a trovarli?! Non volevo darlo a vedere, ma quasi non riuscivo più a respirare. Volevo intervenire, dire qualcosa per fermare quelle maledette stupide là davanti, ma non mi venivano le parole. E neanche la forza, perché non volevo far fare una brutta figura a Buba. Sentivo che le mani mi tremavano e non riuscivo a tenerle ferme. Mi succede sempre quando sono molto nervosa, è un tic che non posso controllare. Se fosse per me gliel’avrei già dette di tutti i colori a quelle là, ma Buba non doveva vergognarsi a stare con le sue amiche. Quando mi mise una mano sulla spalla, quasi feci un balzo dalla sedia, tanta era la tensione. Buba era là accanto a me, avvicinò il suo viso al mio e mi guardò con quei suoi grandi occhi verdi. Subito smisi di tremare. I suoi occhi erano lucidi, ma la voce ferma e serena. “Ma, questa gita non mi piace più. La stanno complicando troppo. Così diventa una noia” Ero senza parole e respiravo con affanno. Scrutavo i suoi occhi per capire cosa stava pensando, cosa voleva dire veramente. Solo il suo sorriso riuscì a calmarmi. “Senti mamma, possiamo organizzare qualcosa mentre gli altri sono in gita?” Ero ancora senza fiato e le feci cenno di sì. Cosa mi avrebbe chiesto?

“Che ne dici se facciamo un bel pic-nic a Villa Borghese con la tua favolosa cachupa e il bacalhao com natas? Potremo invitare anche Karima, Andreas e Gabriela e anche i loro genitori. Poi potremmo andare finalmente allo zoo … è da tanto che ci voglio andare! Ti prego, mami …” Riuscii a dire solo “Va bene”, con un filo di voce, quello che mi era rimasto, ma tutta la tensione venne meno. Quando Buba mi abbracciò crollai tra le sue braccia e a fatica riuscii a trattenere il pianto. “Ma adesso che diciamo alla maestra?” “Ci inventiamo anche noi una storia, come hanno fatto gli altri. Una qualunque, non importa. Diremo che vengono i parenti dalla Francia… anzi, tu dì quello che ti pare, io dirò alle mie amiche che non voglio far sprecare soldi preziosi alla mia famiglia per viaggiare comodi in pullman o dormire in un hotel di lusso”.

I neri (agosto 2010)

Lo vidi e subito mi piacque con quel suo fare giocoso e baldanzoso. Se ne andava con i suoi fratelli e sembrava che tutti lo seguissero e lo imitassero. Anche se piccolo, si vedeva già la stoffa del capo. Lo ammiravo. E lui a poco a poco si era accorto del mio interesse. Ogni volta che mi scorgeva, si inventava un gioco nuovo, un'acrobazia pericolosa, una corsa mozzafiato. E io lì, non mi perdevo nulla, occhi sgranati e bocca aperta. Probabilmente sembravo un po' tonta, ma non mi perdevo nulla di quello che faceva. Un giorno si avvicinò, da solo. Ero troppo emozionata per fare qualsiasi cosa. Scappare, andargli incontro, tenere le distanze? Non riuscivo a decidere. Poi lui mi raggiunse. Sicuro di sé mi girò intorno, sempre spavaldo. Io dovevo sembrare un mollusco, nessun muscolo rispondeva, ammesso che abbia ricevuto qualche minima indicazione da me. Girai intorno due volte per quel colpo di coda. Mi sentivo stordita e arrabbiata, ma vedendolo sorridere capii che era solo uno scherzo. Poi si gettò a capofitto verso il fondo e con la coda mi faceva segno di seguirlo. Senza riflettere subito lo seguii cercando di emulare le sue acrobazie. Tra una virata e l'altra ci trovammo a sfiorare i sassolini sul fondo. Mi portò in un posto speciale, dove i riflessi della luce erano di mille colori, un vero paradiso. Sul fondo c'erano degli specchi lucenti, che riflettevano la luce mandando tutto intorno dei bagliori verdi, arancioni e bianchi. Era il suo nascondiglio segreto. Mi disse che solo io conoscevo quel luogo. Ero veramente felice, mi sembrava di nuotare senza sforzo se ero con lui. Il suo nome era Giro ed era tutto per me. Poi, ritornando la mamma ci vide. Volevo raccontarle l'avventura, farle

conoscere Giro, mostrarle tutta la mia felicità... In un momento Giro fuggì lontano e da allora non lo vidi più. La mamma trota mi prese da parte e mi disse seriamente di non volermi più vedere in compagnia dei “neri”. I neri erano pericolosi, inaffidabili, bugiardi e facevano cose assurde. “Sono neri, sono diversi da noi. Fanno cose che non si devono fare: pensa che salgono anche nel mare alto senza acqua, il mare della morte!”. Ero terrorizzata. Nei giorni successivi non lo cercai. Ma mi aspettavo di vederlo scorrazzare in giro come al solito con i suoi fratelli. Invece niente. Se ne erano andati? Solo una volta pensavo di averlo visto da lontano, ma per troppo poco. Sembrava molto cambiato. Un giorno stavo ando vicino al nascondiglio di Giro. La curiosità fu più forte della paura e lo cercai nella sua tana. Che spavento! Giro non c'era e al suo posto un mostro verde con zampe lunghe e grandi occhi. Stavo già scappando quando con un balzo mi fu addosso. Cercai di scartare a destra, ma era troppo rapido, provai a girarmi, ma anticipava tutte le mie mosse. Ormai con tutte le squame tese e vibranti di paura, impietrita nell'attesa della morte, mi voltai a guardarlo e ... lo riconobbi. Era proprio lui, Giro. Era un rospo.

Giro era felice di vedermi. Era dovuto star via per un po', ma era tornato al suo nascondiglio e sperava di trovarmi. Aveva notato come era cresciuta la mia coda, cosa di cui ero molto fiera. E come

fossero lucenti le mie squame, con i loro riflessi verdi e azzurri. E quanto fossi snella e veloce. Subito mi aveva mostrato le sue nuove abilità: salti, balzi, scatti, uno strano modo di nuotare: goffo, ma molto efficace. Ma c'era una cosa veramente speciale che voleva mostrarmi. Fece un balzo e ... Non me lo sarei mai aspettato. Aveva ragione la mamma, questo era troppo! Era assurdo, era entrato nel “sopra”, dove non si deve andare. Nel sopra della morte. Non ci si poteva fidare dei neri. Era meglio evitare creature che facevano cose così raccapriccianti. Quando Giro era rientrato in acqua portando con se un fiore, non aveva trovato nessuno ad attenderlo. E se non fosse perché è immerso nell’acqua si direbbe che una lacrima le sia apparsa sotto i grandi occhi.

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La storia può finire qui oppure continuare. Leggi i due finali che seguono e scegli quello che preferisci. Poi inventane uno tu…

FINALE 2 – Lieto fine fantasy

Altri giorni arono ed evitai Giro ogni volta che lo vedevo da lontano, fino a quando non ce la feci più e lo dovetti affrontare. Mi aveva cercato dappertutto e non capiva il perché della mia fuga e per quale motivo lo evitassi. Mi disse che voleva portarmi con sé, mi voleva sposare. Non riuscivo a capire come fosse possibile.

Lui mi disse di essere un rospo speciale, che se avessi creduto in lui saremmo vissuti felici insieme per tutta vita. Dapprima non volevo credergli. Poi lentamente feci quel che mi chiese e lo baciai. Mi svegliai di colpo e sembrava di aver dormito un anno intero. Le mie nuove lunghe zampe erano formidabili, il salto che avevo fatto era spettacolare, ma niente a confronto di quando mi portò a scoprire il “sopra”.

FINALE 3 – Finale triste

Altri giorni arono ed evitai Giro ogni volta che lo vedevo da lontano, fino a quando non ce la feci più e lo dovetti affrontare. Mi aveva cercato dappertutto e non capiva il perché della mia fuga e per quale motivo lo evitassi. Mi disse che voleva portarmi con sé, mi voleva sposare. Non riuscivo a capire come fosse possibile. Lui mi disse di essere un rospo speciale, che se avessi creduto in lui saremmo vissuti felici insieme per tutta vita. Dapprima non volevo credergli. Poi lentamente feci quel che mi chiese e lo seguii. Giungemmo in vista della grotta ed ero spaventata, ma pronta a tutto. Mi accompagnava gentile e non mi accorsi di nulla. Quando compresi il pericolo era troppo tardi. “Eccone un altra. E con questa il mio debito è pagato”. La mia mamma aveva ragione.

Storia di una nuvola - giugno 2012

Nacqui nel Grande Golfo, ove correnti impetuose rimescolano i propri flutti e vortici aerei sconquassano ogni cosa. Lì vidi molte sorelle trascinate via dai venti loro malgrado o ingoiate da voraci tempeste. Mi salvai spinta da una brezza benevola che mi fece guadagnare di altitudine, allontanandomi da quel luogo infausto e violento. Volai verso sud, in climi più miti e sereni. Crebbi ai ritmi carioca, tra balli samba, colori vivaci, allegria e l’ossigeno della foresta più grande del globo. Una volta matura volsi la mia rotta oltre il Grande Oceano, percorsi miglia e miglia, fino agli infiniti deserti del Maghreb, il luogo del tramonto. Ovunque mille mani mi salutarono protese, in chiara supplica per il mio tesoro, la dolce acqua. Mi sforzai inutilmente, provai e riprovai, ma non una lacrima cadde sul suolo riarso e polveroso. Nulla potei, triste e scura me ne andai, spinta dai venti meridionali. Mentre viaggiavo verso nord, mi sorarono rapidi cirri, rincorrendosi allegri in gincane forsennate; poi, sfilacciati dalla furia del vento e ormai distesi per lunghi tratti, si disperdevano nel cielo, quasi trasparenti. Quella competizione non era nella mia sostanza, placida e serena, non sentivo di dover per forza dimostrare qualcosa o di voler primeggiare, per cui presto li dimenticai.

Proseguii verso nord e sul mio percorso incontrai uno stormo di anatre chiacchierone, il cui baccano prima mi infastidì, poi mi incuriosì, infine mi attrasse quasi come una calamita, abituata come ero a silenzi infiniti. Sembrava che le anatre avessero sempre qualcosa di nuovo e di importante da raccontarsi e così tanto e fitto parlavano, che nessuno poteva di certo seguire il filo dei loro discorsi contorti. Tutto ruotava attorno a loro e i pennuti sembravano godere dell’attenzione di volta in volta destata e poi tributata, pavoneggiandosi lungo il loro tragitto con schiamazzi e sollazzi. Le accompagnai, con discrezione, facendo loro ombra per un’intera giornata. Grate, ogni tanto mi degnavano di uno sguardo curioso o mi tributavano un richiamo incomprensibile con il loro starnazzare confuso. Tacquero solo quando due compagne, colpite a morte, piombarono a terra, tre le fauci dei cani solerti. Quel boato aveva azzittito lo stormo per il resto della giornata e forse più. Con la morte ancora negli occhi volsero a oriente e io scesi ad avvolgerle tra le mie nebbie, proteggendole per un po’ da altri predatori. Lasciata la compagnia in uno stagno per la notte, mi trovai a sorvolare terre fertili e leggiadre, attraversate da lenti fiumi, punteggiate da laghi e stagni, costeggiate da un mare sereno e accogliente. Ovunque colline e monti, solcati da ruscelli scoscesi, ornati di splendide cascate e irrigati da ripidi torrenti. Poi il panorama che tanto avevo ammirato, cambiò e apparvero fiumi grigi immobili e tante colline forate e illuminate. Erano tutte uguali per me e brulicavano di vita: gli uomini. Scesi di quota per meglio apprezzare i particolari del nuovo e originale paesaggio. Subito rimasi colpita dall’odore nauseante e inorridita da quanto fosse cambiata la natura: alberi monchi dei loro rami più belli e poderosi, fiumi oleosi imbrigliati nel cemento, prati disseminati di cartacce e rifiuti di ogni genere. Il puzzo infame mi tolse il respiro, mentre mi rendevo conto di quanto mi circondava: inquinamento ovunque, caos, rumori assordanti, immondizia e degrado dappertutto. Fumi invadenti mi cinsero e mi insozzarono, le polveri si insinuarono tra le mie pieghe, fin nel più profondo della mia essenza, senza che potessi fare nulla per scrollarle via. Quando, ormai grigia e pesante, mi resi conto che tutto stava per finire, scoraggiata, piansi amaramente e acide furono le mie lacrime. Mi consumai in

poco più di un’ora e di me nulla rimase se non poche gocce qua e là e tanto fango.

Decisi di scrivere una storia sulle nuvole durante un viaggio in Toscana (il 25 giugno), quando il cielo si riempì di splendidi cirri. La scrissi, come spesso faccio, tornando dal lavoro, durante le soste ai semafori.

Il salice piangente – gennaio 2012

Un giorno il salice era la pianta più alta di tutta la vallata. I suoi rami si ergevano alti, snelli e forti verso il cielo, sfidando vento, pioggia, grandine e neve. L’orgoglio con il quale mostrava a tutti i suoi enormi fiori di un rosso e li innalzava al Creatore era evidente. Allo stesso modo si pavoneggiava dei suoi frutti simili a quelli del melograno, ma di un color oro all’esterno e con chicchi di tutti i colori dell’arcobaleno. Nessun albero poteva competere con la sua grandiosità e tra l’altro la maggior parte di essi si teneva alla larga dallo scomodo collega. Ma a lui non interessava, anzi era contento di ciò, perché non voleva mischiarsi con gli altri, li considerava inferiori. Gli piaceva dominare dalla sua altezza un grande terreno senza che nessuno ne limitasse la vista con il proprio ingombro.

Un giorno di autunno freddo e ventoso un cardellino scorse dall’alto l’albero isolato e, quasi stremato dal lungo viaggio, decise di fermarsi a trascorrere la notte al riparo. Raccolse qualche rametto sul terreno, alcune foglie secche e per completare l’opera aggiunse anche un paio delle sue penne. Prima che il buio avvolgesse tutto, aveva realizzato un nido per la notte. Non era una casetta curata, bensì un semplice giaciglio che serviva solo per trascorrere al calduccio le ore notturne e riacquistare le forze per riprendere il viaggio il giorno successivo. Stava per adagiarsi e crollare nel sonno ristoratore, quando sentì l’albero scrollarsi e sbuffare. Dapprima pensò al vento, ma dopo due forti scossoni comprese che erano proprio per lui. “Insolente pennuto, cosa sei venuto a fare sui miei rami? Sono forse io ricovero per chiunque i di qui?”. L’uccellino stava quasi per precipitare giù per lo spavento. Appena si riprese riuscì solo a balbettare: “Ma tu sei un albero e io dormo sugli alberi”. “Ti sembro un albero normale?! Uno di quegli alberi ordinari che accolgono animali di ogni genere?” E ancora, rincarando la dose: “Non vedi come è maestoso il mio portamento e slanciati i miei rami?” L’uccellino ancora impaurito rispose: “Sei un albero fantastico. E non vorrei disturbarti, ma sono sfinito e vorrei riposare”. “Puoi riposare dove vuoi, ma non sui miei rami. Non voglio che me li pieghi perché domani potrebbero non elevarsi più al sole con la stessa altezza e bellezza”. “Ma adesso è notte e non ci sono altri alberi nei dintorni…”.

Non ci fu niente da fare, il salice era determinato e il cardellino dovette raccogliere le sue cose e ripartire. Mentre viaggiava nella notte un angelo di aggio gli chiese il motivo di questo rischioso volo notturno. Quando seppe dell’albero e dell’ospitalità negata tra i suoi rami, perse la sua calma, le sue ali diventarono rossicce e le mani incandescenti: il salice avrebbe pagato per il suo affronto alla natura e alle leggi dell’ospitalità! E così detto volò fino all’albero e da allora ne cambiò il destino. I suoi rami da forti e alti divennero molli e cadenti, non più protesi verso il cielo, ma inchinati fino ad impolverarsi nella terra. I fiori si rimpicciolirono per l’imbarazzo e i frutti si seccarono divenendo pelosi involucri per semi. Da allora il salice è costretto ad abbassare il capo in segno di rispetto verso tutti gli altri alberi, perciò piange tutto il giorno per la vergogna.

Un’altra storia nata dalle quotidiane dissertazioni con Luca sulla fantasia. Mio figlio è una fonte ormai certa di ispirazione e anche l’impianto di questa storia nasce da una sua idea, poi sviluppata con un finale di tipo “biblico”.

La favola dei bimbi infelici (luglio 2010)

Un giorno il re di un paese lontano e sereno chiamò i suoi servi e disse loro che intendeva compiere una buona azione. Quando furono tutti riuniti nella grande sala il re disse: “In tanti anni del mio regno abbiamo prosperato nella pace e nell’abbondanza. Siamo un popolo laborioso e ci piace fare bene tutto quello che cominciamo. Cosa posso volere di più per voi?” Nessuno interruppe il re e tutti erano curiosi di sapere dove volesse arrivare. Così continuò il discorso, proprio mentre i servi si guardavano con facce attonite: “Ho deciso di voler esaudire i sogni del bambino o della bambina più infelice del regno!”. “Andate quindi per le case e chiedete ai bimbi che troverete quanto sono felici e prendete nota dei loro desideri. Poi venite da me ed esaudiremo il desiderio del bimbo più infelice. Premierò con dieci monete d’oro chi di voi mi porterà il bambino o la bambina più infelici del mio regno”. Detto questo si ritirò e i servi si precipitarono fuori dal castello. Ogni servo aspirava a quel premio. Con dieci monete d’oro si potevano comprare armi e cavallo per conquistare gloria in battaglia e divenire cavaliere, oppure si poteva comprare una fattoria con gli animali, oppure si poteva aprire una bottega da artigiano con tutti gli strumenti oppure comprare un chiosco e vendere vino o tessuti. Si poteva cambiare vita e trovare una moglie e mettere su famiglia. Anche Giacomo ambiva a quel premio e si era messo in cerca del bimbo più infelice. Bussava a tutte le porte, interrogava i bambini che trovava in strada, era andato nei quartieri più poveri e là sperava di incontrare i bimbi più bisognosi e i

desideri più belli. Tuttavia… “Sono triste, non posso avere un cavallo tutto mio!”; “Io sono più triste, tutte le mie bambole sono vecchie, ne voglio una nuova”; “Voglio un castello e tanti servitori”… I bambini si disperavano, piangevano, si gettavano in terra, ma nessuno lo convinceva. C’era qualcosa che gli sfuggiva, ma non aveva capito cosa. Allora decise di ascoltare i bimbi ricchi. Si aspettava che si sarebbero comportati diversamente, mostrando i loro bei giocattoli, i loro animali e le loro case lussuose. Ma non fu così. Tutti piangevano e si disperavano perché i giocattoli dei loro amici erano più belli, le loro case più lussuose, i loro animali più numerosi. Giacomo era scoraggiato. Non avrebbe portato nessuno di quei lagnosi bambini dal re. Avrebbe perso il premio, ma non poteva portare quegli stupidi lamenti al cospetto del re. All’inizio aveva pensato di portare il bimbo che meglio avrebbe saputo piangere la sua disperazione, ma adesso se ne vergognava. Seduto su un muretto, mentre rimuginava i suoi pensieri vide una bambina sorridente che stava portando da mangiare a delle galline. Sconsolato decise di provare anche con lei. La bimba stava cantando e si muoveva dolcemente, a ritmo di musica. Sembrava a suo agio, nonostante i poveri vestiti rattoppati. Le galline le si accalcavano intorno, agitate dalla smania di nutrirsi. Si accorse di Giacomo e smise di cantare. “Dimmi fanciulla, come ti chiami?” “Serenella”

“Serenella, sei tu felice o infelice?” La bimba rimase stupita per la domanda e perché qualcuno si interessasse a lei. Non ci pensò e disse subito: “Sono felice.” “Hai dei desideri che il nostro amato re possa soddisfare?” La bimba disse che aveva tutto quello di cui aveva bisogno: una casa dove vivere, un lavoro, da mangiare e buoni padroni. Ma Giacomo, sorpreso da questo comportamento, insistette: “Possibile che tu non abbia un sogno da realizzare?” A questo punto alla bimba brillarono gli occhi. Rimase muta ancora un po’, poi disse: “Vorrei tanto avere una mamma e un papà” I suoi genitori si erano ammalati gravemente e lei era rimasta orfana. Viveva e lavorava ormai da anni nella casa dei ricchi padroni e non le mancava nulla, quasi nulla. Il re ascoltò lamenti e preghiere, pianti e suppliche, ascoltò paziente, ma sempre più deluso. Finalmente toccò a Serenella, che timida espresse il suo desiderio. Il re rimase stupefatto dalla richiesta e volle sapere tutto della bimba. Poi decise. Chiamò Giacomo accanto a sé e consegno il sacchetto con le monete, gli chiese di diventare suo consigliere, perché tra tutti era stato l’unico a valutare bene il suo volere. Poi chiamò la bimba e le disse dolcemente: “Serenella, io non posso esaudire il tuo desiderio. Tuttavia, noi siamo vecchi ed i

nostri figli sono grandi e ormai vivono lontani, quindi, se vorrai, io e la regina mia moglie ti faremo da papà e da mamma”. Ci fu un grande silenzio nella sala. Nessuno osava disturbare. Serenella allora con semplicità disse: “Certo, papà”…

…e tutti vissero felici e contenti.

L’antipatica (luglio 2010)

Era lei, sempre la solita antipatica, stava andando sicuramente a cercare la maestra. Non voleva mai giocare con noi, nell’intervallo, stava da sola oppure cercava la maestra per stupidi motivi. Non la sopporto, non la sopporta nessuno. Ma che cosa succede? In tre la circondano e la spingono per terra. Le vogliono prendere quel suo stupido diario delle Winx. Ecco Giorgio l’ha aperto e ha strappato una pagina. Simona piange. Vorrebbe riprendere il proprio diario. Non ce la fa: se lo stanno ando, facendo torello. Non è giusto. Anche se mi è antipatica e gli sta bene. Però non è giusto prendersela con lei, così… In tre contro uno, tre maschi contro una bambina... Perché non interviene nessuno? Non c’è nessuno, adesso ci sono solo io. Proprio io che non la posso vedere! Proprio non mi va di aiutarla.

Che faccio? Marco ha strappato altre due pagine. Con una ha anche fatto un aereo di carta, che adesso lo lancia nel cortile. Simona piange e gli altri la prendono in giro. Non è giusto! Basta così. Scatto e sono già su Giorgio. In un attimo il diario è nelle mie mani. Non ci credono. Mi dicono di lasciarli in pace. Che Simona se lo merita. Non gli do retta e aiuto Simona a rialzarsi. Poco dopo siamo sole. Simona si riprende, mi ringrazia, poi strappa un foglio nel diario e me lo da. E’ una poesia, bellissima. Rimango a bocca aperta. Possibile che una tale antipatica sia in grado di scrivere delle poesie così belle? Da allora tutti mi guardano in modo diverso, qualcuno ha provato a rimproverarmi, ma non gli ho dato retta. Tutti hanno saputo di quello che è successo e adesso, non so perché ho molti più amici e amiche. Mi cercano, vogliono giocare con me, vogliono sedere con me a mensa. Ogni volta chiamo Simona e anche le altre l’hanno accettata. In realtà, adesso che la conosciamo meglio, non è così antipatica!

La rivolta dei semafori – marzo 2012

Era un lunedì mattina a Milano e fino ad allora sembrava un comune giorno feriale d’inverno. Il cielo grigio sembrava filtrare la luce attraverso una retina con le maglie fitte, ma sottili, e non era neanche troppo freddo, per essere così a nord. Il sole aveva fatto la sua comparsa, pallido, tiepido, e incapace di portare l’energia necessaria al nuovo giorno. Ci aveva pensato un po’, offuscato da un fitto strato di pulviscolo, poi, chiedendosi cosa ci stesse a fare ignorato da tutti in quel panorama triste, aveva deciso di nascondersi dietro ad una nuvola nerastra. Nel parco una vecchina portava del becchime per gli uccelli, ma, inspiegabilmente, non ce ne erano più. Si erano forse “volatilizzati”? Di certo non se ne vedevano neanche in cielo, proprio da nessuna parte. E questo contribuiva a rendere più misero l’ambiente. Sembrava percepirlo Giovanni che anche quella mattina accompagnava il suo cagnolino nella consueta eggiata mattutina. C’era qualcosa di strano nell’aria e Buck sembrava risentirne: non era entusiasta come al solito, non scodinzolava, teneva basso il muso, non tirava il guinzaglio, ma, svogliato, si faceva quasi trascinare. Lungo la strada il lungo serpentone di auto saturava la carreggiata, mentre quelle ferme, ancora in attesa del proprio padrone ingombravano i marciapiedi. Tra carrozzerie di suv e monovolume poco spazio rimaneva per i pedoni, pochi, la maggior parte nascosti dietro le loro mascherine bianche, per proteggersi dai fumi della città. Il ronzio dei motori era l’unico suono udibile, nelle sue mille tonalità, punteggiato di tanto in tanto dai colpi di tosse di qualche anziano di aggio, quelli che ancora non si erano rassegnati a barricarsi in casa, o dei bambini più deboli. Vibrazioni, clacson, gas di scarico, lampeggianti e le persone rinchiuse all’interno delle loro automobili, al sicuro. Famiglie pigiate all’interno delle utilitarie con il loro bagaglio di preoccupazioni, rigidamente separate dagli estranei chiusi nelle loro vetture a meno di un metro di distanza, ma lontani con il pensiero come fossero in un altro paese. Perfino i vigili avevano rinunciato a dirigere il traffico al centro degli incroci e si erano rintanati sigillando per bene le loro garitte. Nessuna bicicletta movimentava i viali alberati o le piste ciclabili. Nel parco pochi podisti stralunati arrancavano senza più fiato e senza meta, molti di più se ne erano già tornati a casa. Non era aria.

Il pulviscolo avvolgeva ancora il cielo e ritardava il risveglio della città, nascondendo l’alba e prolungando l’oscurità. All’interno delle macchine gli umani, razza sociale per definizione scientifica, trascorrevano il tempo fissando lo spazio davanti a sé, chini a protezione della propria preziosa privacy e del meno meritevole egoismo. Avanzavano lentamente, meccanicamente, inesorabilmente. Se ne accorsero solo quando si ritrovarono tutti al centro della piazza, disposti in tutte le direzioni possibili e bloccati gli uni dagli altri. E gli ci volle un po’ a capire perché. Furono i vigili che per primi capirono la causa di tutto quel trambusto. Bastò alzare lo sguardo per accorgersi che i semafori avevano incominciato a comportarsi in modo bizzarro: tutti i semafori indicavano verde, in ogni direzione fosse possibile procedere e ormai ogni metro quadro di spazio era stato saturato e per muoversi bisognava saper volare. La cosa era particolarmente comica perché dopo un po’ di tempo da verde, tutti incominciarono a segnare rosso. Poi fu il turno dell’arancione e questo durò veramente a lungo, diffondendo il dubbio in tutti i guidatori. Furono subito chiamati i semaforisti, per risolvere la complicata situazione, ma il fenomeno andava rapidamente estendendosi in tutte le direzioni, di semaforo in semaforo, di quartiere in quartiere, con i segnalatori luminosi che sembravano magicamente accordarsi sul colore da mostrare. Anche i semaforisti rimasero intrappolati nell’enorme ingorgo stradale che ne seguì. In poco tempo l’intera città rimase paralizzata e a nulla servì il lavoro di quelle centinaia di vigili che si erano attivati per dirigere il traffico. I conducenti, risvegliatisi dal loro torpore e dalla monotonia delle loro azioni quotidiane, incominciarono a spegnere i motori e si rassegnarono ad uscire dai loro angusti abitacoli. All’aperto distesero le braccia, stiracchiarono le gambe e ripresero possesso della loro mente atrofizzata. Fu in quel momento che, davanti a tutto quel pubblico attento, tutti i semafori diventarono prima grigi e poi scurirono poco per volta fino al nero. Fu un messaggio chiaro che tristemente recepirono anche i più restii: non si poteva continuare così, la città stava morendo nello smog e le persone avevano rinunciato alla loro stessa vita utilizzando sempre e solo macchine.

Proprio in quel momento un vento fresco pulì l’aria e si portò via polvere, pulviscolo e anche quella nuvolaccia nera che oscurava il sole. I raggi riscaldarono la terra e illuminarono il cielo come mai prima. Sembrava che anche il sole volesse finalmente comunicare agli uomini tutta la sua ione. Fu quella l’alba di una nuova epoca, un’era di rinascita per l’uomo. Gli uomini si riscoprirono pesanti, con gambe molli, spalle incassate, schiene piegate e polmoni compressi per il troppo star seduti. E non si piacquero. I bambini pigri e obesi, intenti fino ad allora a pigiar tasti su consolle di giochi elettronici, per la prima volta uscirono dalla prigione digitale e si accorsero che fuori c’era una vita reale. E così nella città ormai immobilizzata dalle macchine bloccate, incominciarono a circolare le persone, prima quelle uscite dalle auto, poi anche quelle scese in strada dalle case. Tutti a piedi, vincendo il formicolio delle gambe e la scomodità delle scarpe. Tutta la folla riversatasi nelle strade si guardò, quasi fosse la prima volta, dapprima sorpresa, poi imbarazzata, infine addirittura divertita. La gente riscoprì il piacere di guardarsi in faccia, di osservare i movimenti, la posture, gli abiti e le tante sfumature diverse che prima non venivano notate. Il sorriso si diffuse: era contagioso, più della tosse, che prima era l’unico suono condiviso. Il vero punto di non ritorno poi fu raggiunto quando le persone iniziarono a salutarsi e a chiacchierare. Iniziarono per primi i bambini che trovarono subito nelle figurine un argomento comune, poi, con un po’ di imbarazzo, seguirono l’esempio anche gli adulti. Camminavano, parlavano e salutavano, sentendo di stare meglio sia nel fisico che nella mente. Ci vollero tre mesi per rimuovere tutte le auto, ma non ci fu più bisogno di utilizzarle tanto erano cambiate le abitudini delle persone. L’intera città fu dichiarata area pedonale e di auto lì dentro non se ne videro più. Anche i benefici furono immediati. L’aria era sempre più pulita, gli uccellini tornarono con i loro cinguettii, la gente camminava, correva, pedalava, ma soprattutto salutava, chiacchierava e sorrideva felice ogni mattina. E tutti dimagrirono soddisfatti, piacendosi anche molto di più.

Mio figlio Luca su mio stimolo ha inventato una storia sui semafori che impazziscono. Ho ripreso e sviluppato quel tema per creare questa specie di disaster story. Segue la storia di Luca.

Arcobaleno – maggio 2012

L’autore e le altre pubblicazioni

Fabrizio Trainito

Nato a Roma nel 1968, al termine degli studi in Economia e Commercio ha lavorato nel marketing in Johnson & Johnson, Nissan e Playtex prima di approdare in Telecom Italia. Ha insegnato Comunicazione e Project Management all’università LUMSA e Marketing alla Sapienza e alla LUISS di Roma. Nel campo editoriale, oltre a numerosi articoli di marketing, ha pubblicato i due saggi “Le mille face del marketing” e “Direct Marketing, Co-marketing e Internet Marketing” con Sperling & Kupfer Editori e due libri di testo per la scuola superiore: “Strategie di Marketing” e “Project management” con Mondadori Le Monnier. Nella narrativa tre sue storie sono state pubblicate nelle antologie della Giulio Perrone Editore: “La villetta”, “Pranzo a sorpresa” e “Questa volta sarà diverso”.

Dello stesso autore sono in fase di pubblicazione o già pubblicate e in vendita altre raccolte

Puoi trovare maggiori informazioni su http://gazzaladra.weebly.com/

“9 favole della buona notte” - fiabe Raccolta di brevi fiabe, dolci e spesso con un lieto fine e una morale. Una buona opportunità per trascorrere la sera in famiglia e accompagnare i figli a letto, scoprendo insieme un mondo fantastico nel quale convivere, fuori dagli schemi e dalla quotidianità. Storie brevi, ma ricche di valori: dall’amicizia al reciproco aiuto, dalla tolleranza al rispetto delle diversità, alla semplicità e alla morigeratezza. Un’occasione per riscoprire insieme le cose importanti e distinguerle dalle frivolezze.

“Writing Improvisation Jam 1.0 - Marmellata di scrittura improvvisata” – storie brevi “Writing Improvisation Jam 2.0 - Marmellata di scrittura improvvisata” – storie brevi Raccolte di brevi racconti legati dal concetto base di improvvisazione (anche definito dall’autore “Writing Improvisation Jam”). La storia viene definita in un atto creativo legato, nella sua immediatezza, ad un evento contingente, ad una situazione, una frase, un colore, un profumo… Così ogni storia ha dietro una sua storia… quella della sua creazione, dei momenti irripetibili che hanno prodotto

il contesto, la trama e il finale, o i molteplici finali. Una storia nella storia, una vicenda che ne racchiude un’altra e che la valorizza, la definisce meglio, la plasma e, infine, la colloca in un contesto. Le storie sono il racconto di un sogno ad occhi aperti che l'autore compie di fronte ad un accadimento, un disegno, un breve scambio di battute, un suono particolare, una fragranza non comune. Un modo per divertirsi a ridisegnare la realtà e gli oggetti comuni che ci accompagnano tutti i giorni, dando loro una nuova vita immaginaria e magari una speranza. Tutto ad un tratto come in una folgorazione si compone il puzzle narrativo e lo si vive fino in fondo, intensamente, nella sua folle composizione.

“Cronache di Ramor 7 - Parte I” – fantascienza “Cronache di Ramor 7 - Parte II” - fantascienza Jorge Pereira è un cercatore di metalli e minerali su un insignificante pianeta, Ramor 7, appena terra formato e ancora in fase di colonizzazione. Si cercano metalli preziosi per dare una svolta ad una vita ai margini della società, ma Jorge trova qualcosa di molto più prezioso: un essere, la Piovra, che produce la sostanza S-Mental dalle proprietà strabilianti. In breve Jorge si arricchisce e diventa famoso in tutto l’universo. Ma la ricchezza non gli basta e vive sempre nuove avventure ai margini dell’universo conosciuto e colonizzato dall’uomo.