Marco Ricca
Verso altrove
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Indice dei contenuti
I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII
Prefazione:
Non ho mai avuto il sentore o la vana speranza che sarebbe stato semplice. Certe cose si capiscono già da bambini in presentimenti che proiettano ombre rapide sul gioco. In principio, è come la distrazione istantanea di un brivido, soltanto una lama d'aria da uno spiffero, ma quando poi tutto accade, deflagra, sembra che un monito, latente, silenzioso, abbia finalmente preso corpo e spietato vigore per gridarti in faccia. Non una vita facile e lineare ho, pertanto, mai chiesto. Piuttosto, ho cercato di impregnare di tutta la mia presenza ogni istante, per individuare tracce, indizi cui dare nomi e profili da intrecciare in trame che portassero a un disegno. I momenti in cui ho perso lucidità li ho intesi come rincorse che precedono slanci. Capita, a volte, nel corso di una vita, d'intuire la direzione verso cui fugge il proprio senso dello stare al mondo ed è allora che, lasciando andare alla deriva il tentativo di fornire spiegazioni, ci si diletta a ingannare le coordinate di spazio e tempo e a usare le parole come forme da sbriciolare al vento.
Prologo:
1
Rinascere. “La primavera, qui in Sicilia, ha qualcosa di speciale”, si diceva Mattia, sollevando la visiera del casco. L’invasione dell’aria tiepida, satura di profumi, lo inebriava. Lontano era il giorno in cui, fuggito da Udine per ritrovare il mare, aveva invece subìto, sulla spiaggia di Grado, l’impatto di una profonda tristezza, condensata nell’immagine di una medusa il cui corpo di gelatina scurita, un sole pallido di ottobre non riusciva a squagliare. Ora, sul fare del tramonto, Mattia ritrovava, nella sua terra, la luce che incendia, trasfigura. Tornato da circa un mese con la promessa di un impiego, si recava, in sella a “Macchia Nera”, la sua moto, a casa dei genitori della ragazza che amava. Era la
prima volta e l’ufficialità dell’evento lo rendeva teso. Confidava, ad ogni modo, nel fatto che sarebbe riuscito a cavarsela. Uscito dalla congestione del traffico, percorreva la strada tortuosa che si arrampica sul colle dominante la città. La voce metallica, calda, del motore e un intrecciarsi di pensieri concitati lo avevano accompagnato fino al cancello della villa. Non poteva essersi sbagliato: tutto corrispondeva alle indicazioni dategli. L’abitazione della famiglia di Matilde era all’uscita dell’ultimo tornante, isolata rispetto alle altre, i muri esterni tinteggiati di un inconfondibile giallo . Due severe aquile di pietra, con spioventi sguardi dalle colonne ai lati del cancello, nonostante questo fosse stato lasciato aperto, sembravano sconsigliare di varcarne la soglia. Mattia ignorò il loro monito. Controllò in uno specchietto retrovisore che tutto, nella sua faccia, fosse in ordine e calpestò svelto la ghiaia del sentiero che tagliava il manto erboso ben rasato. Con in mente un paio di battute, da giocarsi casomai nella serata, ispirategli dalla sproporzione tra le statue dei nani e quella, minuscola, di Biancaneve che costellavano il giardino, salì a testa bassa la rampa di scale e suonò il camlo. Le mani, sentì, erano sudate. Dei i si avvicinarono; cercò di fissare sul viso un sorriso rassicurante. La porta fu aperta. Davanti al ragazzo, si materializzò una signora in ciabatte, dai lunghi e ondulati capelli rossi e gli occhi verdi, vestita di una sottana viola. Avrà avuto poco più di quarant'anni. Reggendo nella destra una scopa e avendolo squadrato dal basso verso l’alto, gli rivolse, inquieta, la secca domanda: “Lei chi è?”. Quella era la madre di Matilde: glielo disse il suo sangue un attimo prima di rallentare e gelarsi. A Mattia, non avendo ancora perso l'ultimo briciolo di disperata ironia, balenò in mente che avrebbe potuto rispondere di essere un venditore porta a porta e riconoscere, per strappare un sorriso, che era capitato lì nel momento meno opportuno, ma farlo, pensò, poteva anche aggravare la sua già svantaggiata posizione; si decise, quindi, ad ammettere la verità. Balbettò: “Sono Mattia, il ragazzo di Matilde. Le ha detto nulla? Che sarei venuto per prenderla e uscire insieme?”. Secondi eterni di silenzio. Poi la sorpresa cedette il o alla rassegnazione: la signora si vide costretta a fare accomodare il giovane. Non era ancora il momento, per Mattia, di rilassarsi e guardarsi attorno. La madre di Matilde, il cui nome sapeva essere Sara, si era accesa una sigaretta e camminava nervosamente su e giù per il salone mormorando tra sé qualcosa. A un tratto si fermò e disse con tono vibrato: “ veramente io e mio marito non saremmo molto propensi a fare uscire nostra figlia con lei, non la conosciamo nemmeno. Lei fuma?”. “No, signora, non ho mai fumato in vita mia”. “Ah, non so, allora cosa posso offrirle? Lo beve un whisky?”. “No, grazie: non bevo alcolici”. “Bene. Guardi, si accomodi che io intanto vado a chiamare mio marito così ne parliamo con lui” e sparì imboccando un corridoio. Rimasto solo, crollando su un
divanetto, Mattia si disse che aveva superato le prime domande inquisitorie sul fumo e sull’alcol e che si sarebbe vendicato su Matilde, che lo aveva spinto in quell’imboscata e privato del conforto della sua presenza. Ed ecco aprirsi una porta alla destra dell’ingresso. Mattia scattò in piedi. Dalla stanza venne fuori un uomo sulla cinquantina, alto e magro. Aveva carnagione olivastra, i capelli rasati, gli occhi piccoli e neri scintillavano dalle orbite infossate e la folta barba brizzolata nascondeva quasi per intero la bocca, lasciando scoperta solo la parte centrale del labbro inferiore. La cosa che più colpì Mattia fu il modo singolare col quale quello incedeva verso di lui: dopo essere uscito dalla stanza, aveva piegato ad angolo retto verso il ragazzo, fissandolo glaciale negli occhi. Sembrava che si muovesse non toccando il pavimento ma trasportato su un binario invisibile. Ciò richiamò alla memoria di Mattia un film sui vampiri visto al cinema. I duellanti, ora a pochi metri l’uno dall’altro, si guardarono in silenzio finché Mattia porse la destra e si lanciò in un goffo “salve!”. Per risposta, dall’uomo barbuto sfociò un torrente di parole il cui impeto non ammetteva interventi o repliche: “Dunque è sabato sera, lei è venuto in motocicletta, avrà sentito parlare delle stragi della strada, perché, vede, lei mi dirà di certo che non ama correre ma io so per esperienza che, specie quando si è in compagnia, si vuole dimostrare qualcosa agli altri e non si riesce proprio a farne a meno. Dove sareste diretti questa sera?”. Mattia scuoteva la testa per negare quelle che sentiva come ingiuste accuse; stava per dire: “No, io non sarei mai spericolato in moto, specie se ho Matilde come eggero”, quando vide ripresentarsi sul campo della disfida la madre, che aveva intanto rimediato una vestaglia, e, finalmente, la figlia, preda, anch’ella, di un evidente imbarazzo. Non proferendo Matilde alcuna parola che potesse venirgli in soccorso, si sentì accerchiato. Si convinse che di lì a poco sarebbe andato via solo e sconfitto, allargò le braccia e proruppe: “Non so che dire, credetemi: sono un bravo ragazzo!”. Forse la platealità di quel gesto di resa o la disperata sincerità, mossero a comione i "carcerieri" di Matilde. Il padre si decise per la concessione di una fiducia condizionata, rinunciò a dissertare oltre sui pericoli della strada e tagliò corto: “E va bene ma alle 22:00 ti voglio di nuovo a casa, signorina!”. Matilde riuscì solo a sgranare gli occhi e a dire: “Ma, papà!”. Per fortuna intervenne la signora Sara: “Dai, Carmelo, facciamo le 22:30 e non se ne parla più”. Il palasport, al quale i due innamorati dovevano recarsi per assistere a un concerto, si trovava dall’altra parte della città. L’inizio dello spettacolo era previsto per le 21:00 e si erano fatte già le 20:50. Sarebbe stata una vera impresa rispettare i limiti di velocità.
Al tempo in cui si svolse quanto ho tentato di narrare fedelmente, potevo dirmi il migliore amico di Mattia. Ero, poco più che ventenne, intenzionato ad assecondare le mie presunte velleità artistiche e m’illudevo ancora che sarei riuscito a scrivere per gli altri, non solo per me stesso. Mattia m’incoraggiava nella costruzione di una storia, per la quale mi forniva dei mattoni e della calce, come diceva, raccontandomi la sua vita. Né io né lui, credo, avremmo potuto immaginare allora le dimensioni che avrebbe assunto quell’edificio. Ho impiegato una vita per decidermi a scrivere questa storia e manterrò implicite le ragioni di ogni mia remora. Lo scopo ultimo del mio racconto, ammesso che riesca a farlo emergere, giace in una palude di sedimenti, di scorie del quotidiano. Torniamo ora a quella sera di vent’anni fa, a Matilde e Mattia che salgono sulla moto senza neanche rivolgersi una parola, senza quasi guardarsi, sotto gli occhi vigili dei genitori di lei. La chiave entra nel blocchetto di accensione al secondo tentativo, ed è un successo, dato il tremore delle mani di Mattia. Una cura meticolosa nell’indossare e allacciare il casco; potrebbero apparire dei gesti eccessivi, ostentati, ma è meglio correre il rischio. Il motore si accende, la partenza deve essere lenta, prudente. Un intervento rapido della sinistra sulla leva della frizione scongiura lo spegnersi del motore e quindi un disastro: Carmelo sarebbe accorso a riprendersi la figlia. La salvezza è dopo la prima curva, a pochi metri. Matilde si è mossa, sbilanciandosi lievemente: ha girato il busto per salutare con la mano i suoi, quindi torna dritta, lo abbraccia. La casa è sparita dietro di loro. Ecco la festa dell’aria nei polmoni. Inspirare, espirare; le membra si distendono, i pensieri riprendono a fluire. Di lì a poco, inaspettatamente, Mattia rallentò fino a fermarsi. Mise il cavalletto, fece scendere dalla moto Matilde e la guardò negli occhi. La ragazza, pensando che avrebbe subito uno sfogo di rabbia, lo anticipò: “Scusa amore, non pensavo che ti avrebbero trattato così e poi..”. “Mati, ascolta”, fece Mattia, “abbiamo quasi un’ora e mezza; non ce la faremo mai ad arrivare in tempo e del concerto non ci godremmo nulla”. Si guardò attorno e continuò: “Siamo ancora vicini a casa tua, qui è sicuro. Potremmo starcene tranquilli”. Gli sguardi dei due si attrassero e si mescolarono. Un sorriso. Non ci fu bisogno di altre parole. Matilde era così bella, pensò lui, e la luna accendeva sulla sua pelle, nei suoi occhi e tra le labbra un riflesso argenteo, una luminescenza limpida, quasi surreale.
Tarallo, un bastardino color miele dalle grandi orecchie a punta, zampettava nel frattempo sull’asfalto che annusava in cerca dell’angolo che avrebbe prediletto per svuotare la vescica. Quella notte, però, non aveva voglia di giocare come al solito. Il padrone lo tirava per il guinzaglio e non si curava di lui, che teneva la coda tra le zampe e lo osservava tra soffi e guaiti strozzati. L’uomo aspirava nervosamente il sigaro, preso a immaginare le insidie che avrebbero potuto minare la virtù della sua unica figlia. Accade che a volte ci sia dato un senso, provvidenziale o nefasto, secondo i casi, di preveggenza; un presentire, cioè, la sciagura che di lì a poco si abbatterà su noi. In tali frangenti può aversi la sensazione che il fato si diverta a beffarsi dell’impotenza e della miseria della condizione umana. Ed ebbe forse questo pensiero il buon Carmelo quando vide che Tarallo, strappatogli il guinzaglio di mano, correndo verso il bersaglio scelto, alzò finalmente la zampetta sulla gomma posteriore di una moto a lui nota, parcheggiata al limitare di un boschetto. La marmitta era ancora rovente: se ne accorse da alcune gocce che, a contatto con essa, furono vaporizzate. Il sigaro gli cadde dalle labbra, scosse da una sonora bestemmia. Un’ora dopo Mattia era sdraiato sul suo letto a guardare il soffitto. Non si era tolto i vestiti. Sperava che la porta della stanza non venisse aperta dalla madre. Questa, spesso, si svegliava nel cuore della notte e curiosava da uno spiraglio per accertarsi che il figlio stesse dormendo tranquillo. Se per caso vedeva che ancora non era rientrato, si metteva ad aspettarlo alla finestra. Mattia bruciava, si consumava di vergogna, di rabbia. Magari qualcun altro sarebbe riuscito a prendere la cosa alla leggera, a farsi are il pensiero in fretta, ma per lui quello fu un duro colpo. Le urla del padre di Matilde che la chiamava a sé, furibondo come un amante tradito, il tremore convulso di lei che non riusciva a rispondere. Tutto era accaduto in fretta. Lei si era rivestita senza cercare il suo sguardo e come un automa si era consegnata, vittima sacrificale, al proprio carnefice. Lo schiaffo del padre sul viso di lei, il silenzio allucinato rotto solo dalle parole di Mattia: “Guardi che non stavamo facendo niente di male”. La frase, disperata eppur ridicola, ignorata e lasciata spegnere in un deserto di sdegno. Matilde, Carmelo e Tarallo avevano ripreso di gran carriera la via di casa, senza voltarsi. Quella notte Mattia non dormì. Dalle pareti filtravano i rumori degli appartamenti attigui. Riconosceva voci di condomini lambire suoni sovrastanti di
televisori. Parole, commenti fagocitati da musichette, applausi, risate, slogan. Mattia era un alieno rintanato, schiacciato, escluso. Mentre tutto intorno, smorzandosi nella notte, si concludevano atti di tranquille quotidianità casalinghe, lui si struggeva in analisi spietate della propria condizione, concatenate le une alle altre in una nevrotica spirale. Sentendo chiara tutta in un sol colpo la precarietà dei propri i, si credeva sull’orlo di un baratro. Temeva che la storia con Matilde potesse essere irrimediabilmente compromessa da quanto accaduto e, inoltre, di aver fatto un errore tornando a vivere con la madre, di aver dato troppo credito a chi gli aveva promesso un lavoro, di non poter contare sulla maggior parte di quelli che si definivano amici. I rumori si andarono pian piano spegnendo; rimasero, di sottofondo, il canto intermittente, monotono e lamentoso, di un’autoclave, il rauco latrato di un cane o lo sfrecciare, di tanto in tanto, di un’automobile che fendeva l'aria notturna e che spariva a tratti, coperto dagli edifici lungo la strada, per poi perdersi lontano. Mattia ripensò alla morte improvvisa del padre. Ricordava che, appreso della tragedia, quella lontana sera d’estate, una pesante sonnolenza lo aveva presto stordito. Tra urla strazianti e plateali manifestazioni di dolore di chi gli stava intorno, si era come tirato fin sulla testa una coltre per sparire. Voleva buio e silenzio, illusioni d’oblio. Come allora, si sentiva annientato, inetto. Non riusciva a orientarsi e la fuga dal consorzio degli uomini gli tornava a mulinare nella testa, ad attrarlo e a farsi riconoscere come cifra della sua esistenza. Sentì il bisogno di piangere. Morse il cuscino per soffocare i singhiozzi. Dalle palpebre serrate, lacrime calde gli rigarono il viso. In quell’aria amara, spessa, provò pena per se stesso. Trascorsero dei giorni di cieca immobilità. La stretta che lo soffocava era resa più spietata dal fatto che Matilde si negava al telefono e non dava alcuna notizia di sé. La immaginava in punizione, segregata dai genitori. La loro storia, si disse, era finita. Per aggirare la curiosità della madre e restare il più possibile solo, finse di immergersi nello studio di un testo per un colloquio di lavoro. Approfittò anche di un’occasione di fuga, offertagli dalla nonna materna. Questa aveva espresso al telefono il desiderio di rivedere il nipote, invitandolo a trascorrere qualche giorno in sua compagnia. La mattina seguente partì in treno per recarsi al piccolo paese originario della sua famiglia, disteso sul crinale di un monte dei Nebrodi.
Al secondo giorno di permanenza capì, però, che essersi allontanato aveva solo accentuato il suo malessere. La casa dai tetti alti in cui da bambino trascorreva con i genitori le vacanze estive, l’odore pungente della polvere che velava oggetti di vetro e porcellana intrappolati su centrini lavorati all’uncinetto, incrostati nella dimenticanza del tempo. Le foto dei defunti incorniciate d’argento, l’affetto della nonna che lo viziava, i rapaci che di notte cantavano nel giardino accanto. La campana della chiesa madre, la cantilena del rosario delle anziane signore del vicinato che lo avevano visto crescere e non smettevano di complimentarsi con lui per quanto si era fatto grande e bello. Tutto questo attraversava, distratto da un’urgenza che lo chiamava altrove, e di Matilde ancora nessuna notizia. In quei giorni di auto esilio, Mattia mi scrisse una lettera in cui mi confessò di avere un dolore che non riusciva a lenire: avrebbe voluto distaccarsi da tutto, cercare un contatto col padre, ma non ci riusciva. Gli risposi di non provare a farlo: la presenza del padre non lo avrebbe raggiunto poiché era già in lui. Avrebbe dovuto soltanto aspettare che il dolore si esaurisse. Il varco, quindi, si sarebbe manifestato da sé. Non ricordo quanto tempo ò, ma accadde che, lasciato finalmente sfogare il parossismo dei moti discendenti dell’animo, Mattia ritrovò l’ostinazione di non darsi per vinto. Prese a sperimentare, nella scrittura, una possibilità di evasione, di salvezza. Inserirò di seguito, in corsivo, nel corso del mio racconto, dei brani delle sue memorie. Queste furono le sue prime pagine: “ In un tempo e in un luogo che non mi prenderò la briga di precisare, almeno per adesso, ebbi la chiara sensazione che qualcosa che mi aveva a lungo inseguito, mi avesse finalmente raggiunto. Quel qualcosa si era insinuato in me, di certo invisibile come un batterio, e dilagava indisturbato. Con tale coscienza adesso fisso il buio e in esso la danza di un sovrappensiero. Il vento soffia con raffiche impetuose e incontrando forse una grondaia, produce da ore un suono, come il fischio di un treno che solca una lontana pianura nella notte. La razionalità geme, digrigna i denti, ne scricchiolano le assi, prova a giocare rabbiosa le ultime carte, ma la ragione è un baro. Stanotte non dormirò, lo sospettavo e a ciò mi sto già rassegnando. Prigioniero tra le lenzuola, valuto, filtro un flusso di coscienza e lo traduco in voglia di dissolvermi, di beffare gli agenti corrosivi della mia identità e di
rinascere nutrendomi alla disciplina di un’altra esistenza. A questo punto non posso che alzarmi dal letto: devo scrivere. Osservo fiorire e raccolgo delle frasi che compongo in una lettera che potrei farle avere domani: Rallenta, lascia scorrere la tua attenzione facendola delirare per un intervallo breve, giusto il tempo di trovare l'ingresso accennato di una prospettiva che si svolge in diagonale. Le parole sono decisioni: recidono, e come tali hanno confini, sono imprecise, ma possono servire a sfiorare l'atmosfera che custodisce qualcosa di familiare. Ora sto immaginando queste parole che scrivo scomporsi e muoversi come una miriade di formichine. Ognuna di esse porta un granellino di sabbia che noi riusciamo, con un gioco alchemico, a moltiplicare. Le formichine corrono diligenti, infallibili e noi ci divertiamo già a modellare la sabbia, felici come bambini in riva al mare. Oggi ho vissuto la mia giornata riempiendo con gesti, atteggiamenti consueti, degli spazi segnati, orme da tornare a calpestare, ma nessuno avrebbe potuto accorgersi di un pensiero che mi scorreva dentro: Il mondo altro si è appena schiuso e posso finalmente tendermi verso di te. A dispetto dell'ora, del gelo mattutino che volgerebbe ad apprendersi alle mie tempie, a dispetto delle mie stesse membra avvinghiate al loro scheletro, lascio il mio intero corpo in custodia a un letto ondoso e varco la finestra. Prima di confluire nel silente traffico di anime lungo le vie scure del paese, saluto nel giardino il timido bosso e la terra che accolse gravida i semi di lucente desiderio dei girasoli. Mi accosto poi al petto rapido del mio cane; lui mi sente e fissando nei miei i suoi occhi di acqua scura, limpidi d’imperscrutabili vite ate, si dispiace ombroso di non potermi aprire il o. Lo accarezzo e sono già in strada. La ripida discesa di via del Monte mi trascina in veloci falcate ma qualcosa accade: sono raggiunto dal palpitare di un sipario di tenebra che mi chiama alla coscienza di una soglia, a una deriva. Comprendo di non esser solo, sento il respiro di chi mi attende. Alzo lo sguardo: una luna arancio, ape regina, scioglie dalla mia gola la foschia acida. Un sorriso fa eco in me a un pensiero semplice, pragmatico: il viaggio sta per cominciare, dovrò ricordare; lo farò in un diario”.
Di come ebbi il diario di Mattia, del perché ne riporterò qui dei brani e di quale sia, infine, il mio nome, scriverò in seguito. La scrittura è un esercizio di libertà in cui si attua una sorta di potere. Mi arrogherò, pertanto, il diritto di dare al mio racconto la struttura che ritengo più consona e nel farlo non seguirò tanto un progetto narrativo, un’idea, quanto l’impulso dell’emozione e il corso dei ricordi.
2
Di me posso scrivere di esser sempre stato una persona metodica. Pur vivendo le mie giornate nella scansione di attività incastrate in piani regolari, venne, però, un tempo in cui, ancora afflitto per la tragedia, avvenuta circa due anni prima, della morte dei miei genitori in un incidente stradale, fiaccato dall’impegno dello studio per preparare alcuni esami universitari, mi sentii invadere, oltre che dal dolore, da un fastidio frustrante, come se udissi un costante lavorio di roditori invisibili che non riuscivo a stanare. Per evitare che i miei schemi, fuori controllo, si sfaldassero, presi la briga di distrarmi e, per scaricare la tensione, di fare lunghe eggiate. In un bar della piazza centrale del mio paese, una domenica mattina, rividi un mio ex compagno di liceo che mi chiese da quanto tempo non andassi a trovare il nostro professore di Italiano e Latino, Aurelio Martorana. Sulla via di casa, mi tornò alla memoria un pensiero che il professore, in uno dei nostri ultimi incontri, mi aveva letto da un libro del filosofo e studioso di storia delle scienze Pascal Acot. Questi teorizzava un paradosso comune alle ondate di estinzioni susseguitesi nella storia della vita sulla Terra: “È sempre”, aveva ripetuto Martorana, “come se la catastrofe rappresentasse un’opportunità, una nuova partenza per la vita; tutte le grandi estinzioni sono seguite da rinascite della varietà biologica, come se tale arricchimento fosse la diretta conseguenza dell’intensità della catastrofe”. Terminata la lettura, aveva richiuso il libro e, toltisi gli occhiali, mi aveva fissato per qualche istante in silenzio, con un sorriso come di lieve malinconia. Non lo vedevo da settimane, ormai. Decisi che sarei andato a fargli visita, per ritrovare, magari, quel luogo sereno di ricerca e ascolto, che tante volte avevamo condiviso. La prima volta in cui mi ero recato a casa di Aurelio Martorana era stata in un caldo pomeriggio di luglio, circa una settimana dopo i miei esami di maturità. Il professore viveva con l’anziana madre, Adele Campisi. La vita brulicante del paese, le voci e gli odori forti delle strade sfioravano i miei sensi, costipati dalla sofferenza profonda e da mesi di studio claustrale. Arrivato al portone di casa Martorana, fissai la targhetta di ottone lucido sopra il camlo. Un timore quasi reverenziale mi rallentò. In fondo, i miei rapporti col professore, se pure cordiali, si erano limitati, fino allora, al consueto ambiente scolastico e l’invito a
fargli visita era stato rivolto a me solo: non avevo quindi alcun compagno con cui farmi coraggio. La signora Adele, avendo risposto al citofono, mi aprì la porta. Indovinato il mio imbarazzo, mi accolse con un rassicurante sorriso: “Aurelio ti aspettava, vieni da questa parte”. La sua voce era squillante, argentina, lo sguardo, appena velato, rivelava un’intelligenza vivace, acuta. “Mio figlio”, seguitò a dire la donna, “è nel suo studio: sta parlando al telefono, questione di pochi minuti ancora. Aspettiamolo in cucina”. Seguii quell’esile figura canuta, vestita di lino amaranto, che, lievemente curva, attraversava con o deciso un lungo corridoio tappezzato di carta cremisi screziata di fiori lavanda. Sul tavolo della cucina mi aspettava quella che identificai come la prima prova: a fianco a un vassoio d’argento ricolmo di cioccolatini alla menta, che detestavo, vidi tre oblunghe bottiglie di trasparente vetro colorato. Riconobbi, leggendo le relative etichette sulle bottiglie, l’orzata, il tamarindo e l’odiata menta, ma le altre due non mi disgustavano meno. La signora, indicandomi una sedia, mi fece raggiante: “Certo, alla mia età dovrei essere cauta con queste delizie ma semel in anno licet insanire! Via, figliolo, tu che puoi senza rimorso, prendi pure tutti i cioccolatini che vuoi, io ne assaggio un paio, e dimmi cosa ti verso per cominciare. Non farai mica complimenti, vero?”. Stavo per creare una sorta d’incidente diplomatico rispondendo: “Solo un bicchier d’acqua, per favore”, quando udii i i del professore lungo il corridoio. Mi alzai per salutarlo e, già sciogliendomi da quel tavolo, mi proiettavo idealmente nel suo studio, quando lui, comparendo serio ed energico sulla porta, mi puntò un dito al petto e proferì le fatidiche parole: “Menta! Se è vero, com’è vero, che ti conosco come fossi mio figlio, dico menta! O al massimo tamarindo. Versale entrambe, mamma, prendi un altro bicchiere!”. Mi risedetti sconfitto. Aurelio Martorana era un uomo di media statura, sulla cinquantina, dai capelli folti e brizzolati, spesso arruffati. Questo particolare, insieme al sovrappeso che conferiva alle sue camicie, all'altezza dell'addome, un prominente profilo curvo, rimandava ad una vita sedentaria, spesa per lo più a studiare, a rendere onore alla cucina della madre e a curarsi ben poco del proprio aspetto esteriore. Ingoiai, sotto lo sguardo attento e compiaciuto di madre e figlio, un paio di cioccolatini e trangugiai stoicamente, insieme a loro, un bicchiere di menta e uno di tamarindo. Pensai, ironizzando sulla mia sorte, che nulla ormai poteva intimorirmi se non l’eventualità di una fitta addominale. Il professore attese con malcelata impazienza, ma in silenzio, che la madre esaurisse una sequenza di domande rituali, mai comunque indiscrete, rivolte a me e m’invitò, quindi, a seguirlo nel suo studio. Quando vi entrammo, Martorana chiuse delicatamente alle mie spalle la porta laccata di bianco e, forse attendendo un mio commento, lasciò che esplorassi la stanza. Questa, ampia e
quadrata, aveva le pareti interamente coperte da scaffali che, dal pavimento al soffitto, si flettevano sotto il peso di centinaia di volumi. La variopinta trama delle costolette dei libri, come un tappeto persiano, fitta di brossure e rilegature di pelle o cartone, era interrotta solo dalla superficie di una porta finestra, oltre la quale, la nera ringhiera di ferro battuto del balcone dava sulla piazza centrale del paese. Al centro della stanza, una larga scrivania di metallo satinato, il cui piano in vetro s’intravedeva appena, invaso da altri libri impilati, risme di carta, quaderni, fogli sparsi, raccoglitori con alcune riviste e tre portapenne, ognuno dei quali, di grandezza e forma diversa ma di uguale colore rosso scuro, sembrava sul punto di esplodere. Poiché il mio commento non arrivava ancora, Martorana, poggiatami la destra sulla spalla, ruppe il silenzio: “Non pensare che li abbia letti tutti, alcuni sono solo da consultare”. Compiacendosi del mio sorriso, riprese: “Accomodati pure, facciamo due chiacchiere”. Ci eravamo appena seduti ai lati opposti della scrivania, quando lui, a braccia conserte, inclinò leggermente il busto verso me e fissando il suo sguardo nel mio, fece, improvvisamente solenne, recitativo: “Che cosa penseresti se ti dicessi che io fra qualche istante, mantenendo fermo il mio corpo, volgerò la mia attenzione oltre il balcone, verso un bosco che ondeggia al vento e mi aspetta impaziente, e che scartando dai binari del tempo e dello spazio in cui sosta il mio stesso corpo, varcherò l'accesso dell'altrove ed esplorerò quel bosco?”. Trascorsero secondi di vuoto prima che mi fosse chiara una cosa fondamentale: non dovevo cedere all’impulso di guardare fuori dalla finestra. Martorana continuava a fissarmi da dietro le lenti spesse e la sua immobilità mi diede il sospetto che avesse già intrapreso la trasmigrazione verso quel bosco fantasma. Quindi, ricordando un paio di frangenti in cui il professore, in aula, si era mostrato ben disposto a un sano umorismo, confidai in questa sua dote e pronunciai una frase della quale, ragionevolmente, avrei potuto pentirmi: “Non so, forse penserei che il miscuglio di tamarindo e menta possa avere effetti prodigiosi”. Dopo quelle parole, temetti in un attimo che il disappunto di Martorana potesse piombarmi sul viso come un bruciante schiaffone. Non fu così: il professore sbottò in una fragorosa risata. La nostra discussione ora poteva davvero cominciare. “Allora, ragazzo, qualche idea sul tuo futuro? Hai deciso quale corso di studi intraprendere dopo il diploma?”. “Pensavo di iscrivermi a ingegneria gestionale a Palermo: un mio zio materno ha un’impresa che produce materiale per l’edilizia e potrebbe avere necessità di una figura professionale come la mia in futuro; se lui non potesse darmi una mano, sarei pronto ad andar via dalla Sicilia: gli ingegneri sono richiesti, specie al nord”. Mentre parlavo, guardavo il professore per verificare sul suo volto se quelle parole lo convincessero della mia determinazione. Lui, poggiati i gomiti sui braccioli della sedia e poste le mani giunte a sorreggere il
mento, aveva socchiuso gli occhi. “Bene!”, esclamò, “ingegneria è un’ottima scelta e per le tendenze del mercato del lavoro, fai la cosa giusta. In questi anni di liceo …”, dischiuse le palpebre, “… osservandoti, valutando ciò che scrivi, ho sentito, però, un’impronta lontana dai solchi degli ingegneri. Non che con questo voglia dissuaderti, per carità. A questo punto potevo chiaramente sentire il sangue che mi saliva al viso ma Martorana parve non farci caso. “Non smettere di scrivere e soprattutto, ora che sei uscito dal grembo di quella scuola, non farti inaridire ma coltiva sempre una tensione vitale a elevarti”. Quindi, riprese: “Ti ho convocato qui per due motivi: il primo è per darti questo”. Mi porse un libro sottile foderato da una copertina di plastica grezza color nero opaco. “Consideralo come un anticipo sul tuo regalo di diploma”. Lo ringraziai calorosamente stringendogli la mano e presi ad analizzare la copertina del testo. Lui, prevenendo la mia curiosità, disse: “ Non levare la fodera finché non avrai finito di leggerlo. Dovrai, anzi, conoscerne autore e titolo solo dopo averlo riletto per due volte. Tolta la fodera, lo leggerai per la terza volta”. Annuii con la devozione di un discepolo verso il suo sensei. “Il secondo motivo è l’annunciarti che con la fine della scuola non smetterò certo di lasciarti dei compiti per casa”. A tali parole sentii fuggire via l’entusiasmo. Martorana si sciolse in una nuova risata. “Niente panico: non è quello che temi!”. Ora ascoltami con attenzione, ti do il primo compito: quando avrai letto il capitolo iniziale del libro, cerca di assimilarlo. Traine energia, movimento, determinazione e soprattutto leggi tra le righe, non fermarti a un’interpretazione letterale. Quando vorrai, ne parleremo insieme e mi dirai le tue impressioni”. Continuavo ad annuire, sforzandomi di cogliere il senso di quelle raccomandazioni. Uscii frastornato da casa del professore. Ripensavo alle sue parole, non comprendendone appieno il senso. Di certo, aveva dimostrato affetto e interesse per il mio futuro, ponendo le basi per una reciproca frequentazione e, vedendo forse in me uno studente diligente, si era preso a cuore la mia crescita intellettuale. Fin qui nulla di strano, ma c’erano il libro e quelle indicazioni, quasi rituali, sulla sua lettura. Ricordo, inoltre, che avevo trovato confortante il fatto che sia il professore che la madre non avessero fatto alcun riferimento alla morte dei miei genitori, forse non volendo mettermi a disagio. Giunto a casa, riposi il libro dimenticandomene, in realtà, per qualche tempo: in quel periodo, prendendo a reagire al lutto dell'anno precedente, sentivo finalmente affiorare un richiamo verso lo svago e la leggerezza. Di lì a pochi giorni, cedendo all'insistenza di alcuni miei ex compagni di liceo che tentavano di farmi svagare, sarei partito con loro alla volta di un campeggio sul mare in Calabria. Le lunghe giornate estive già deflagravano, infuocate d’inarrestabili infiorescenze.
Trascorsa l’estate della mia maturità classica, tornai a casa del professor Martorana. Questi, infatti, mi aveva invitato, una sera di metà settembre, ad ascoltare della musica a casa sua: ricordo “Omaggio a Joyce” di Luciano Berio e “La cattedrale sommersa” di Debussy, eseguita da Arturo Benedetti Michelangeli. Né quella sera, né negli incontri che si susseguirono nei mesi successivi, con mia sorpresa, il professore prese l’argomento del libro che mi aveva dato. Ben presto l’imbarazzo, che avevo provato alla prima visita, sparì e mi sentii sempre più a mio agio, arrivando a conquistare anche un diritto di libero accesso alla biblioteca dello studio. Il mio rapporto con Martorana, d’altra parte, si caratterizzava per una proporzionalità inversa: più lo frequentavo, meno percepivo di relazionarmi con una persona con cui avrei potuto stringere un rapporto di amicizia. Ero un discepolo e del mio maestro, della sua vita, a conti fatti, non sapevo quasi nulla. Di quell’uomo nulla traspariva circa il suo ato, i suoi affetti e la sua famiglia, della quale, ad eccezione della madre, non conoscevo alcun membro. All’ombra di questa riservatezza, entro le sue mura di fortilizio, le nostre lezioni si svolgevano comunque serene e sotto il segno dell’entusiasmo e comprendevo, anzi, che a garanzia della longevità e del buon rendimento del nostro rapporto, avevamo tacitamente suggellato un reciproco patto di non ingerenza. Grazie a Martorana, assorbivo un interesse vivo per la letteratura, la poesia e l’arte in genere. Ero affascinato dall’approccio, del tutto diverso rispetto al metodo d’apprendimento scolastico, con cui ero condotto all’analisi delle opere e della vita dei loro autori. Sentivo di essere guidato su vie alternative di conoscenza. La mia sensazione era che una prima fase dei nostri incontri poteva essere stata funzionale a creare una sorta di tabula rasa, sulla quale si era poi innestata un’opera di edificazione: liberare, bonificare il terreno per costruirvi sopra le fondamenta della vera ricerca. Di questa intuizione parlai a Martorana, chiedendogliene, indirettamente, conferma. Lui, citando un libro di Alejandro Jodorowsky, mi disse laconico: “La saggezza del maestro dipende dalla tua capacità di usarlo per trovare te stesso”. Un giorno, verso ora di pranzo, ricevetti una telefonata. Era Adele Campisi. Il suo tono, abitualmente sereno, gioviale, era sparito. Mi comunicò seccamente che il figlio non avrebbe potuto ricevermi: non stava bene; mi avrebbe avvertito lui circa la ripresa delle lezioni. Sentendola agitata, feci per chiederle di cosa soffrisse il professore, ma la signora aveva già messo giù il telefono. Quel comportamento insolito m’inquietò non poco ma non volli forzare il loro riserbo e lasciai correre. ato più di un mese, non avuta notizia alcuna del professore,
mi risolsi, quindi, dopo quella eggiata di domenica mattina, ad andarlo a trovare. Giunto di fronte al portone di casa Martorana, vidi accanto all’ingresso un’ambulanza in sosta con i lampeggianti accesi. Accelerai il o col cuore in allarme, senza pensare. Sul pianerottolo mi scontrai quasi con la barella. Il professore aveva un braccio sul petto e l’altro disteso lungo il corpo. La sua testa, sobbalzando ai i dei portantini, si volse a me. Martorana mi guardava fisso. Speravo mi sorridesse o pronunciasse qualche parola per rassicurarmi ma non disse nulla. Li fermai. “Professore!”, abbozzai con tono ironico sforzandomi di sdrammatizzare, “che le è capitato? Non mi faccia preoccupare!”. Uno dei barellieri mi fece, sbrigativo: “Guarda che è morto, non ti può rispondere”.
“Eccomi costretto nel letto da un male del quale, di certo per non agitarmi, non mi sono date che poche, evasive informazioni. Il medico di famiglia, ieri, aveva compiuto evidenti sforzi per tenere alto il mio morale, ricorrendo a un umorismo da cui trapelava, in realtà, la sua stessa tensione. Fingendomi assopito, sono poi riuscito a distinguere nel suo mormorio una parola, seguita dal singhiozzare sommesso di mia madre. La parola era “coma”. Adesso sono in camera, al buio. Sarà già mattino ma le imposte sono ancora chiuse. Fuori c’è un mondo che non mi serve, non adesso. Al mio fianco improvvisamente sento la voce di mia madre; sarà rimasta con me tutta la notte, penso. Mi parla come se fossi un bambino e prova a farmi superare la paura del buio: “Hai visto?”, ride, “non c’è nessun mostro!”. Sta mentendo. Ho paura ma cerco di non piangere. Nonostante la debolezza provo ad alzarmi dal letto. Mia madre non c’è più. Esco dalla stanza e da casa; ho l'impressione di stare meglio. Lungo la strada deserta, i muri delle case sembrano lasciar traspirare intimi brani d’esistenza, come se, per qualche ragione, approfittando del sonno di chi le abitava, volessero sussurrarli ai anti meno distratti. Tra poco, quelle esili note sussurrate si sarebbero dissolte nel giornaliero registro di un frenetico crescendo. Arrivo di fronte alla casa in cui abitava una mia compagna di classe. Il primo anno di ginnasio. Chiudo gli occhi e ascolto. Anni fa ci fu una festa in maschera; lei aveva un vestito fantastico, da principessa. Mi fa vedere la sua camera; sulla parete c’è una sua foto da ballerina di danza classica. Mi sorride, ha gli occhi lucidi. Mi racconta che il padre colleziona francobolli, come me. Ne ha uno che varrebbe un bel po’, ma gli manca un dentino ed è da buttare. Io
credo di amarla, credo di amare per la prima volta nella mia vita. Poi torniamo dagli altri: si balla un lento. Le poggio le mani sui fianchi, lei mette le sue sulle mie spalle. Mi guarda negli occhi; il cuore mi batte così forte che credo che anche lei lo senta. Ne ho pudore. Qualcuno tra i ragazzi commenta, ride e poi intona la marcia nuziale, ma lei non se ne cura. Io, invece, sono un ragazzino immaturo, me l’ha già detto più volte. Quello che provo è più grande di me, mi fa paura, e così sciupo tutto: prendo anch’io a fare il buffone, mi stacco da lei e rido a crepapelle. Non colgo il fiore, lo calpesto.”
3
I fari dell’auto, fendendo la cortina di pioggia, illuminarono un cane nero sul ciglio della strada, in un punto in cui il guardrail era interrotto. Protesosi da un cespuglio, stava per attraversare. Lo avrei investito, ma le gomme anteriori, impattando in una pozza, fecero schizzare sull’animale dell’acqua che lo mise in fuga dalla parte opposta. Rallentai, aguzzai la vista e strinsi il volante, come per prepararmi a un nuovo pericolo di cui ero stato avvisato. Poco dopo, davanti a me, brillarono, quasi fermi a un centinaio di metri, due larghi fari rossi di posizione. Il tir, con la sua enorme massa scura, slittava a tratti sulla sinistra e, oltreando la linea di mezzeria, restringeva paurosamente la corsia libera. Forse, pensai, il conducente non riusciva a tenere la giusta traiettoria per sonnolenza o perché ubriaco. Abbagliai e suonai il clacson. Il bestione si mise dritto e vi rimase, dandomi modo di sorarlo. Trattenni il fiato e m’imbucai nello stretto corridoio mentre i tergicristalli, nonostante si dibattessero strenuamente, annegavano in una cascata che si rovesciava dalla fila di enormi ruote. Mi lasciai finalmente alle spalle il camion e per il resto del tragitto non incontrai più anima viva. Ripensai al cane. Nel manifestarsi della sua immagine vidi la proiezione del timore e della solitudine che mi dominavano. Quella del professore era stata la seconda volta che la morte aveva fatto irruzione nella mia vita. I miei genitori, proprio in una notte di temporale, erano scomparsi in un incidente sulla statale Palermo - Messina. L’automobile, fuori controllo, aveva divelto un muretto ed era finita in mare. I loro corpi non erano stati ritrovati. Dopo la morte dei miei, ero andato a vivere con la sorella di mia madre e la sua famiglia. Già di carattere introverso, diventai un vero campione nell’arte del soliloquio e della rimozione, attraverso costanti esercizi di divagazioni e
masturbazioni mentali, letture febbrili, oziose osservazioni di formiche e ragni. Mi convinsi che al mondo siamo tutti irrimediabilmente soli. Avevo scelto Mattia, conosciuto al ginnasio, come unico vero amico con cui condividere la mia solitudine, forse perché pensavo che l’essere entrambi orfani ci avrebbe agevolato nel comunicare un sentire comune. Quel giorno, non avevo parlato con nessuno a casa della morte di Martorana. Camminando sulla strada del ritorno, profondamente scosso, avevo preso una decisione. Avevo, quindi, detto ai miei zii che sarei stato via una settimana per delle ricerche che dovevo svolgere in giro per la Sicilia: gli esami si avvicinavano e sarebbe stato necessario redigere una relazione su argomenti contemplati nel programma. Fatto il bagaglio, ero partito la sera stessa. Con me portai il libro dalla copertina nera che il professore mi aveva dato. Toltolo da una tasca laterale dello zaino, lo aprii a caso, leggendone alla luce di cortesia dell’abitacolo poche frasi, prima di mettermi in viaggio. Da allora, presi a trascrivere, di tanto in tanto, in un taccuino, alcuni periodi di quel libro che avevo particolarmente apprezzato, per farne una specie di mosaico. Avrò cura di inserire, nel tessuto di questa mia storia, anche tessere di questo mosaico, come la seguente: “Venivano in silenzio, con o lento, ovattato, come se il rumore potesse svegliare chi oramai non era più. Venivano assorti in chissà quali pensieri: c’era sui volti l’aria grave di chi soffre o fa finta di soffrire. Forse la morte, che aleggiava sul feretro, rammentando a tutti l’inderogabile scadenza, li induceva a meditare”. La pioggia, intanto, si era fatta più intensa. La visibilità non era delle migliori e, dato che l’impianto di climatizzazione non funzionava al meglio, mi toccava spesso rimuovere con la manica della camicia lo strato di condensa che si rinnovava sul parabrezza. Per fortuna non mancava tanto: tra una decina di chilometri avrei raggiunto Mattia. Qualche ora prima, al telefono, ci eravamo trovati subito d’accordo. Per entrambi il richiamo della strada si coniugava con l’esigenza di evadere. Non so se avrei parlato con lui dei miei fantasmi, ma potevo contare sul fatto che saremmo stati bene insieme anche in silenzio. La mattina seguente saremmo ripartiti, non importava sapere di preciso per dove. Lo avremmo deciso strada facendo.
PARTE PRIMA
I
La mia malinconia è un tessuto unico, omogeneo, che di per se stesso ha vita e ragion d'essere; essa, come sangue nelle vene, attende di riversarsi su chi occasionalmente si trovi accanto a me quando, per così dire, si danneggi il condotto di scorrimento della mia linfa vitale. Accade, inoltre, che anche qualora ogni macchia di malinconia possa essere ricondotta a un nome e, quindi, venire cancellata insieme ad esso, l'alone che rimane insiste sempre ed irrimediabilmente su uno stesso punto cruciale. La forza evocativa del senso di ineluttabilità che precede l’alba, che mi stava raggiungendo su un vecchio materasso a molle, mi svegliò e m’indusse alla riflessione riportata sopra. Avrei preferito dormire di più, visto che era il giorno della partenza. Contrariamente a quanto avevo supposto, sarebbe stata la moto il nostro mezzo: Mattia aveva così deciso e sentii di non avere motivo alcuno di oppormi. Come premio per non avere manifestato dissenso, ottenni dal mio amico, proprietario della moto, il primo turno di guida. Mi alzai dal letto che il sole era appena sorto. Non volendo svegliare Mattia, che dormiva nel letto accanto, m’impegnai a compiere movimenti leggeri e felpati come quelli di un gatto ma ebbi, nel farlo, quell’energia che percepiamo, con i nostri sensi appannati, come zelo ma che, in realtà, ci rende goffi e imprecisi. Urtai col gomito la lampada di metallo rosso sul comodino, facendola cadere; ne seguì un frastuono infernale. Ed eccolo lì, il mio povero amico dal cuore infranto che, strappato al dolce oblio del sonno, mi guarda con occhi sbarrati, volti a bersagliarmi d’odio animale. Farfugliò un chiaro “Fanculo, va” e mise la testa sotto al cuscino. Come avrei potuto farmi perdonare? Inutile chiedere scusa. Scartata l’idea di preparare la colazione, per mancanza assoluta di materie prime, pensai che sarei potuto scendere in garage per controllare la moto prima di metterci in marcia: gonfiare le gomme, ingrassare la catena e tutto quanto occorreva. Entrai in bagno, mi richiusi la porta alle spalle cercando di non farla cigolare, mi poggiai al lavandino di ceramica bianca e trovai nel piccolo specchio quadrato quella che, fugati i primi dubbi, non poteva che essere la mia faccia. Di tempo, ancora un po', ce n’era. Mi soffermai a scrutare me stesso. Non rinvenni alcun cenno di sorriso inebetito o sereno narcisismo mattutino, bensì le tracce scomposte di quell’inquietudine che mi aveva svegliato di buon’ora. Pensai alla motivazione adrenalinica del viaggio.
C’era dell’altro, però, e per raggiungerne la comprensione mi concentrai sugli occhi. Fissai la loro immagine riflessa e lasciai che la discesa in essi, dilatandosi come uno specchio d’acqua verde scura con al centro un magnetico buco nero, avesse inizio. La lieve vertigine che ne seguì era motivata, mi dissi, dalle poche ore di riposo, mentre un pressante senso di affanno scaturì dal ricordo ridestato di un incubo in cui, nella notte appena trascorsa, essendomi addentrato carponi in uno stretto tunnel buio, rimanevo incastrato in una sorta di imbuto nel quale, mentre cominciava a mancarmi il respiro, presagivo che avrebbero ritrovato i miei resti. In ultima analisi, provai a gettare nello stagno dei miei occhi le maglie di un setaccio: mi imposi, ancora, di pensare alla bellezza spensierata del viaggio in moto che stava per iniziare. Tirando su la rete di quel pensiero, ciò che vi rimase intrappolato, ciò che non restò giù sul fondo fu la sagoma o, per meglio dire, la presenza del libro dalla copertina nera. Questo, con ogni evidenza, m’inquietava come fonte di interrogativi irrisolti. Mi conoscevo abbastanza da sapere che, quasi insonne e a stomaco vuoto, sarei stato facile preda di pericolose associazioni mentali in cui quel vago senso di mistero si sarebbe congiunto alla superstizione. Interruppi, pertanto, quel circuito pernicioso con una bella sferzata di acqua fredda, che raccolsi a mani giunte, su un viso che non volli più analizzare. Finitomi di vestire nella stanza in cui Mattia aveva ripreso a dormire, scesi in garage. La moto era davanti a me. Sentivo che ogni gesto che avrei compiuto per prepararla avrebbe avuto in sé qualcosa di rituale. Mi soffermai, nello scorrerla con lo sguardo, su un particolare: la sella nera in alcuni punti era logorata dall’uso e s’intravedeva la gommapiuma dell’imbottitura. Questa cosa, non so bene perché, mi rilassava, rendendo forse ai miei occhi quel cavallo d’acciaio più docile e addomesticabile. Sistemai la moto sul cavalletto centrale, presi da una scaffalatura metallica la bomboletta spray del grasso e mi sedetti sul pavimento, vicino alla catena. Indossai i guanti e accarezzai la gomma posteriore. Su di essa i segni delle pieghe sull’asfalto. Lubrificata la catena, controllato il livello dell’olio nel motore, assemblai il compressore e lo collegai alla presa per verificare la pressione degli pneumatici. Mi accorsi che stavo canticchiando un motivo. Immaginai che il rumore del compressore avrebbe fatto aprire gli occhi di Mattia. Risalito per lavarmi le mani, vidi che il mio amico non era sul suo letto: lo sentii muoversi in bagno. Bussai alla porta: “Buongiorno, eh? Macchia Nera è pronta e ci aspetta!”. Mattia non mi rispose subito. Al suo silenzio, a quei secondi di vuoto, di voluta assenza di comunicazione, associai il peso specifico di un dubbio. Magari esageravo, ma persi per pochi istanti la convinzione che sarebbe stato liberatorio viaggiare insieme. Se c’era qualcosa di cui non avevo bisogno era proprio la sensazione di distanza tra noi. “Hai avvertito Macchia Nera che dovrà fare attenzione alla
guida di un imbranato?”. Il tono del mio amico era goliardico e mi scaricò quel peso dall’animo. La madre di Mattia, in visita al fratello, non era in casa e questo ci risparmiò raccomandazioni accorate e la spiacevole maschera di apprensione scolpita sul suo volto. Sistemammo il bagaglio in borse laterali di pelle. Indossammo con la dovuta meticolosità giubbotto, guanti, stivali e casco. Dietro la saracinesca c’era la strada: pochi chilometri ci avrebbero portati fuori da Palermo.
“Essere stanco ed insonne, come spaesato, stanotte; lo sconforto del sentire sotto i piedi la sabbia trascinata via dalla risacca, reclamata dal mare inquieto. Cercare, chiamare chi m'insegnò a rispettare e a non temere quel mare e a esser parte di esso, così come del buio. Ti accoglieranno il vento e poi la terra: ti mescolerai ad essa con l'illusione splendida di aver vissuto per fecondarla e tutto sarà stato un sogno che si distende da tempo immemorabile. Ti ricordi quel senso di circolarità, come domande che tornano sempre e trascinano via; tracce a cui ci chiamano maestri inconsapevoli, che ci indicano la scia di ciò che sfugge e non si lascia descrivere. Non esiste un troppo tardi o un troppo presto: per me c'è solo un "tra le righe" che si respira come polvere e nessuna, o poche risposte nette."
II
Vantaggi del viaggiare in due in moto, ospiti della stessa sella e senza interfono: ci si gode il panorama e la strada in un necessario, benedetto silenzio che spinge a volte a tentativi di telepatia; al limite, se proprio occorresse, si comunica con gesti. Se l’amico che ti porti dietro, poi, è un motociclista, ti aiuterà, bilanciando correttamente il proprio peso, a divertirti nella guida. Svantaggi del guidare la moto di un tuo amico che è anche tuo eggero: sentirsi costantemente all’esame per la patente di guida. Sarà utile, in quest’ultimo caso, concentrarsi su un pensiero che possa distrarre dal solerte controllo del proprietario del mezzo. Il pensiero, all’imbocco dell’autostrada per Messina, sciolti dal delirio del traffico, mi fu suggerito dalla visione di un distributore di carburante: sarebbero bastati i nostri soldi per l’intero viaggio? Le ultime case della città, palazzine basse e tristi, anonime, sbiadite scatole di cemento annerite dagli scarichi dei veicoli, avevano lasciato il posto agli oleandri colorati piantati ai lati delle corsie. L’orizzonte si apriva verso i piccoli centri abitati dei paesi limitrofi, sparpagliati sulle colline e sulle pianure che degradavano verso il blu del mare. Vento pressoché assente, grip dell’asfalto buono, velocità moderata e costante, flusso di pensieri smossi dall’aria. Non era ancora, decisi, il momento di confrontarsi con la questione dei dettagli dell’itinerario. Almeno fino a Cefalù ci saremmo goduti, senza pensieri, solo la strada. Unico punto fermo era la destinazione finale, ancora lontana, che ci avrebbe consentito di ammirare il faro di Capo ero, l’estremità a sud-est della nostra isola. Un giorno, forse, sarei tornato ai miei soliti affanni, ma ora volevo solo perdermi. Era una fuga in piena regola, la nostra. Dalla volta del cielo azzurro, screziato di nuvole morbide e cangianti, confluiva nel mio cuore la pace e il coraggio puro, animale, di abbandonare lungo la strada le chimere e i loro pericoli. Questa forza pioveva e scorreva sul profilo maestoso, nobile del paesaggio ed io la inalavo. Eccitato dalla possibilità di scaricare l'energia positiva di una consapevolezza sul manubrio della moto, ora sapevo, con l'ausilio dell'impatto trasparente e disinfettante del vento, che ero parte disintegrata di una società ottusa che mi vincolava sempre con minor vigore.
Il cartello autostradale dell'uscita di Cefalù arrivò presto, prima di quanto avessi immaginato, a destarmi da un mantra di pensieri. Lì ci fermammo per il pranzo e, poiché non avevamo alcuna fretta dettata da rigide tabelle di marcia, ci saremmo presentati al cospetto del mare. C'è sempre un momento preciso in cui si ha la coscienza dell'inizio vero del viaggio, del fatto che si è levata l'ancora, che dei nodi si sono allentati e ci hanno permesso di andar via e respirare un'aria diversa in cui chiedere ospitalità. Io quel momento lo sentii quella mattina di fronte al mare, nella sua voce. Ho sempre amato i vicoli della città vecchia di Cefalù, lungo le cui geometrie arabe si susseguono piccole case di pescatori. Gli odori forti e familiari, la vitalità brulicante che rimbalza da un muro all'altro, tra balconi di ferro battuto e finestre dai variopinti infissi in legno. Le voci, i rumori di stoviglie o le note di canzoni. Ogni vibrazione e attimo di vita è però lambito e avvolto dalla presenza vicina e dominante dell'immensa massa d'acqua che sembra invadere quelle strade e assorbirne le pulsazioni: tutto confluisce nella risacca e viene lentamente trascinato al largo; inevitabile è sentirne il richiamo, l'affacciarsi ad essa, attratti dalle spire di un gorgo. Quel giorno, ricordo, la danza del mare ebbe per me un effetto sedante. Spinsi ancora un po' più lontano il pensiero della morte di Martorana: ne avrei parlato dopo con Mattia, riuscendo, magari, a sfogare finalmente il dolore e un irrazionale timore che tenevo compresso. Accadde su quella spiaggia, per la prima volta, che io comprendessi davvero cosa volesse dire svuotare la propria mente. Nessun suono o parola usciva dalle mie labbra. Posati il casco, il giubbotto e i guanti sulla sabbia, mi sedetti a gambe incrociate, fissai con lo sguardo un punto a pochi metri dalla riva. Tolsi dal mio campo ciò che avevo intorno; neutralizzai la presenza del mio compagno di viaggio. Sentivo il percorso dell'aria pregna di salsedine in me, ne distinguevo il circuito. Il punto che avevo fissato, allora, slegandosi dalla mia volontà e manifestandomi il magnetismo della sua, si spostò, andò verso il largo, si immerse. Chiusi gli occhi, lo seguii. Tornai a quando mio padre mi portò tra le braccia sott'acqua per la prima volta. Non sapevo ancora nuotare, avevo pochi anni, cinque o sei; lui voleva che prendessi confidenza con il mondo sotto la superficie. Anche allora avevo serrato le palpebre. L'arcano di mondi sommersi si manifestava con suoni sconosciuti, ipnotici e con il freddo contatto che l'acqua faceva scorrere sui recettori della mia pelle. In quella dimensione sarei rimasto un bambino e lo ero
ancora quel mattino sulla spiaggia di Cefalù. Quante cose stanno in cielo, anche se il cielo non esiste. Andai col mio spirito, se così si può dire, verso il fondo sottomarino. La seduzione del vuoto, dello scomparire fu il primo vettore. Poi, dietro le mie spalle rimasero il consorzio degli uomini, il tempo, il ritmo sociale, gli affanni e persino la distanza da tutto questo. Ciò che era indietro non era neanche più, perché semplicemente non esisteva e forse non era mai esistito. A integrare il mio essere presente c'erano la pressione dell'acqua, il respiro in assenza d'aria, la corrente, messaggi da assorbire e decodificare con sconosciute regioni della mente. Nessuna apparente direzione. Non avevo un corpo, non compivo dei movimenti: ero brani di coscienza multiforme e indefinita tenuti insieme da pulsioni vitali. Non mi chiesi quanto questo sarebbe durato perché avevo smarrito il calcolo, la scansione. Fu l'approssimarsi di una massa scura a restituirmi, con sempre maggiore chiarezza, dei contorni, una presenza fisica. Lo riconobbi: era lo “scoglio della formica”. Mio padre, sempre lui, ci andava a stanare i polpi. Lo seguivo, ragazzino, aspettando in superficie che la sua figura risalisse vittoriosa dal blu profondo con una preda disperatamente avvinghiata al suo braccio. Man mano che mi avvicinavo allo scoglio, questo cambiò colore. Il nero iniziale, di sfumatura in sfumatura, divenne infine un rosso scuro. Nessuna forma di vita brulicava su di esso, neanche ad una osservazione attenta. L'acqua prese a produrre, infiltrandosi e turbinando nelle innumerevoli cavità dello scoglio, dei suoni lunghi e alti, fischi lamentosi che a tratti evocavano grida inquietanti. La mano vigorosa di Mattia stretta sulla spalla mi scosse dal torpore. Tornai a una coscienza vigile, svegliandomi del tutto. Mattia quasi urlava ripetendomi che mi usciva sangue dal naso. All'inizio mi allarmai, poi cercai di tranquillizzare anche Mattia con un sorriso abbozzato e mi sdraiai per fermare il sangue. “Niente di grave”, dissi in un sospiro. Il flusso s'interruppe presto. Ripensai a quello straordinario "incidente" del breve viaggio tra sogno e veglia e mi sentii stanco, come spossato. “Eri come svenuto! Te la senti adesso di andare a pranzo o aspettiamo ancora un po'?”, chiese Mattia. “Certo che me la sento”, risposi. “Sai che mi è venuto in mente?”, continuai, “un mio zio paterno stava scrivendo un libro, che non terminò mai, che io sappia. Un giorno mi diede da leggere qualche riga di una specie di monologo. Faceva più o meno così: “Pensi che esistano i sentimenti e ti rendi conto che esistono solo bisogni. Pensi di essere importante per tanta gente
e comprendi di contare, e non sempre, solo per chi ti ha messo al mondo. Pensi di avere molti amici e capisci di non essere in compagnia che di te stesso. Pensi che esista un dio che ti ascolta e ti rendi conto che non ti ascoltano neanche gli gnomi e le fate. Pensi di poter credere nell'infinito e capisci che l'infinito non può nemmeno essere pensato. Pensi di scrivere cose intelligenti e ti rendi conto di vomitare un mucchio di stupidaggini. Pensi di poter osservare la realtà e ti rendi conto che tutto è parvenza. Tranquillo: ogni cosa è al suo posto. Hai commesso un solo errore: hai pensato, e anche troppo. Continua a vivere dimenticandoti di te stesso. Oh quanta pura gioia in un semplice tubo digerente!” Mattia mi guardò fisso negli occhi. Conoscevo quell'espressione. “Ascolta”, fece, “basta! Prova a staccare la spina, non voglio più sentire discorsi del genere. Liberati da paranoie. Dobbiamo solo svagarci. Concentriamoci su cosa mangiare e poi riprendiamo la strada”. “Sono d'accordo con te”, risposi, “ma ad una condizione: che poi prendiamo una brioche con gelato”. Tornammo in paese dalla spiaggia. Osservavo la gente eggiare sul lungomare. La vita procedeva sulle spalle di persone che supponevo non temessero, come me allora, l'impatto col reale. L'esistenza si muoveva su gambe che possedevano una forza che non avevo. La piazza del duomo fu la nostra meta. Ci sedemmo ai tavolini di un bar e un cameriere che non si preoccupava neanche di apparire gentile ci portò il menù. Non sono mai stato un abile conversatore durante il pranzo. Speravo che fosse Mattia a rompere il silenzio e a reggere da solo un'impalcatura di argomenti da ascoltare. Ciò non accade e restammo muti mentre mangiavamo dei panini e seguivamo le traiettorie dei turisti. Accanto a noi, una coppia di giapponesi sorseggiava del cappuccino, dopo averlo fotografato con una macchina che costava di sicuro quanto la nostra moto. Quel latte e caffè fu la bevanda con cui accompagnarono le loro lasagne. Pensai che gli alieni esistono davvero e vivono tra noi. Terminato il pranzo, Mattia mi propose di tornare subito alla moto per ripartire. “E il gelato? Guarda che se non mangio il gelato ti faccio una descrizione del baratro esistenziale che..” - “Ok, ok mi hai convinto, niente minacce! Andiamo a mangiare questo gelato”. “Stasera, poi,", aggiunsi, " andiamo a dormire a Torrenova a casa di una mia zia che in questi giorni si trova a Roma e quindi non abbiamo nessuna fretta”. Mattia grugnì in segno di approvazione.
"Conosco diverse persone che, per necessità o per scelta, vivono da sole. Per loro, i primi tempi o a volte, la solitudine è come un morso che rapido, arrivando in profondità, dimostra che l'anima ha un corpo. Prima o poi, però, si abituano a tale condizione, fino al punto di avere difficoltà a separarsene o, addirittura, a desiderarla. La gente sola non disdegna la compagnia degli altri, la cerca anzi, a patto che però possa recuperare i propri spazi ogni volta che vuole. La gente sola non ama vivere in case grandi e ha fatto pace (quasi sempre) con i fantasmi che di notte si annidano negli angoli; sa il valore delle cose; è legata ai propri dischi, libri e oggetti vari che sceglie con cura e di cui si circonda. La gente sola cerca nella bellezza materiale un conforto che leda la malinconia dolce e lancinante che deriva loro dall'immergersi nella bellezza spirituale. Spesso la gente sola ha con sé uno o più animali e si ritrova anche a parlare con la propria moto o auto. A quest'ora madri e padri di famiglie dormono e al tempo stesso vegliano sui propri figli. Che il Cielo protegga le loro vite e dia loro forza e saggezza."
Ci rimettemmo in viaggio nel tardo pomeriggio e, poiché la tappa successiva era vicina, non riprendemmo l'autostrada ma optammo per la più lenta e panoramica strada statale. Alla guida, di comune accordo, c'ero ancora io. Dopo il primo tornante, ci fu chiaro che avremmo preso, con ogni probabilità, la prima abbondante razione d'acqua piovana del giro. Un vento deciso e costante ci spinse contro, come fosse arrabbiato con noi, una massa enorme e gravida di rapide nubi nere. Si fece buio. Decelerai, preparandomi a gestire la scarsa aderenza delle gomme all'asfalto scivoloso. Il eggero, esperto di simili manovre, si dispose meglio sulla sella per coadiuvarmi. Ciò che accadde dopo mi rimarrà sempre impresso con un'immagine che mi riportò sui banchi di scuola, quando apprendevamo dalla letteratura greca le gesta di divinità che sapevano essere tanto capricciose e vendicative quanto giuste e misericordiose. Il minaccioso agglomerato scaricò fragorosamente il suo carico, ma, quasi fosse dotato di un'intelligenza volta a noi, miseri, mortali motociclisti, ci risparmiò, dirigendo i suoi proiettili d'acqua lungo una linea che ci accompagnava senza però intersecare il nostro percorso. Il gigante ci seguiva e ci proteggeva. La strada, mia compagna, depositaria della mia anima. La strada, ancora per una volta, mi teneva ancorato a sé mentre, ora, un dolore sordo si faceva largo nel mio petto: proprio da uno di quei muriccioli bassi di pietra erano volati verso una tomba d'acqua. La linea dell'orizzonte attendeva che il morso si allentasse in me,
per darmi nuovo respiro. Quando mi capitava di stare male, da bambino, mio padre mi diceva di cercare di pensare a cose belle. Io lo sapevo che non serviva subito a farmi stare meglio, però mi ricordava che quando il malessere sarebbe diminuito ci sarebbero state quelle cose belle ad aspettarmi e le avrei apprezzate ancora di più. Anche allora cercai di fare così, e, appena ne fui capace, pensai a un certo tipo di viaggiatori, quelli che mettono l'essenziale in uno zaino e che consumano scarpe e pneumatici, che si commuovono perdendosi nei visi della gente che affolla le metro o al cospetto di monumenti dalle cui fondamenta arrivano sussurri o urla, che non sfuggono alla malinconia dei fiumi che attraversano le città e che spesso, esondando trasportata dalle acque, si raccoglie sotto i ponti; quelli che, rinascendo ogni volta che s' immergono in acqua, si mescolano alla salsedine fino a dopo il tramonto e che accostano il viso a alberi e piante chiudendo gli occhi, che decodificano messaggi nel vento, che incontrando animali si abbassano e si siedono per terra con un sorriso grato; quelli che sentono di avere davvero diritto di cittadinanza soltanto lungo la strada che li fa scorrere e li ammanta di polvere; quelli che, ogni volta che sono costretti a tornare in un luogo, che per convenzione chiamano casa, sentono di dovere ricominciare da zero e sanno di essere diversi da ciò che erano prima di partire e di assomigliare sempre più a sé stessi. Se mi ritrovassi a ridere o piangere, a sentirmi perso, disperato o traboccante di gioia, se avessi bisogno di raccontare o ascoltare, è la loro la compagnia che vorrei, perché alla loro famiglia appartengo. Presto fummo a Torrenova, cittadina di poche migliaia di abitanti, anch'essa costruita in riva al mare. Arrivammo che il tramonto si stava già facendo. Non eravamo per niente affaticati dal breve tragitto quindi, prima di sistemarci a casa di mia zia, tornammo sulla spiaggia a goderci una pace armoniosa accarezzata dagli ultimi raggi di luce. Ad accoglierci, la sagoma di vicini scogli scuri che emergevano dal mormorio placido dell'acqua color argento e rosa. Il lamento di un gabbiano, improvviso, mi fece trasalire. Accettai due o tre punture di zanzare come piccolo prezzo da pagare per ammirare quello spettacolo. Una barca di pescatori, spuntata da dietro un promontorio, prendeva lenta il largo, mentre una formica claudicante attraversava la stuoia che avevo srotolato sulla sabbia. Subito dopo esserci seduti, ricevemmo la visita di un cane randagio. Sulle prime timoroso, teneva la testa bassa, ondulandola lentamente e avvicinandosi per gradi, lungo un percorso a spirale che convergeva verso noi. Dopo la prima carezza sulla fronte, scodinzolando vigorosamente, si accucciò tra le mie ginocchia. In quel randagio ricevetti come il dono di un'illuminazione. La mia
anima era in pace. Ormai era sera: il sole era tramontato. Mattia avvertiva la stanchezza. Dopo uno sbadiglio, mi fece: "Mi sa che ho bisogno di sdraiarmi su un letto e poi la sabbia è umida. Si va via?" - "Si, andiamo. Prendiamo la pizza in una rosticceria che c'è nel Corso e ceniamo a casa. Domattina è meglio se partiamo presto." Mia zia aveva lasciato, attaccato alla porta della cucina, un bigliettino in cui mi esortava a vuotare il contenuto del frigo, a dare l'acqua alle piante in balcone e a prendere una busta lasciata per me sul mobile all'ingresso: cinquanta euro che, per noi, furono il più bel modo d'incoraggiarci a proseguire il viaggio. Finita la cena, così come per il pranzo, senza quasi scambiare parole, ognuno inseguendo i propri pensieri, andammo a dormire. Prima che il sonno mi ghermisse, riuscii a consultare la cartina per il percorso dell'indomani e a leggere ancora, qua e là, qualche frase dal misterioso libro datomi da Martorana: "Il lavoro dei campi era faticoso, le gelate lo rendevano un vero supplizio. Avevo inutilmente sperato nella clemenza del fattore, per avere un lavoro di riguardo: fui aggregato agli altri operai. Un giorno fui inviato con tre compagni al confine del podere, per bonificare un pezzo di terra dove allignava soltanto inutile erbaccia. Il limitare era segnato, in quel punto, da un grande argine, sulla cui sommità vidi luccicare qualcosa. Aguzzai lo sguardo e lontano distinsi una squadra di operai affaccendati a sistemare una strada ferrata. Doveva essere un tratto in cui il terreno cedeva facilmente e necessitava di continua manutenzione. Ciò spiegava il perché non avevo mai sentito il rumore del treno in corsa; infatti, quando più tardi arrivò il primo convoglio, constatai che avanzava a o d'uomo e che il rumore era insignificante."
III
Contrariamente a quanto avevo pensato la sera precedente, riuscimmo a svegliarci di buon'ora e, saltata la colazione, riprendemmo il nostro itinerario. A me il ruolo, stavolta, di eggero o, come preferisco definirmi in questi casi, di secondo pilota. Dopo qualche chilometro, ci fermammo a una stazione di servizio nei pressi della cittadina di Capo D'Orlando, per fare il pieno di benzina. Venne a servirci una ragazza che, per quei pochi minuti, da quando ne incrociai lo sguardo, fu il magnetico centro di gravità della mia attenzione. Aveva la carnagione chiara, di un rosa che pareva dipinto, i lunghi capelli castani legati in una treccia. Gli occhi verdi e grandi erano finestre cristalline di luce in un viso rotondo, dolce e felino al tempo stesso. Le labbra rosse, carnose, si schio in un sorriso lieve. Sarà stata l'aria frizzante, rinvigorente, del mattino, l'entusiasmo per la promessa di tante piacevoli emozioni legate al viaggio, fatto sta che, in contrasto col mio abituale modo di fare, mi presi di coraggio e, mentre la ragazza riempiva il serbatoio, attaccai discorso: "Lo sai che la nostra moto ha un nome?". Mattia si girò lentamente verso di me cercando, suppongo, di capire se chi gli sedeva dietro corrispondesse ancora alla persona che conosceva o, più probabilmente, di lanciarmi, in un'occhiata di sufficienza, il muto messaggio: "Cosa speri di ottenere?". Io, però, non badai lui e mi tenni fisso sulla ragazza che, nel frattempo, non aveva sollevato il viso dal livello del carburante nel serbatoio. Senza scoraggiarmi, continuai: "Si chiama Macchia Nera, come il personaggio cattivo nei fumetti di Topolino." Mattia si voltò, tornando alla sua posizione originaria. La mia seconda frase sortì, stavolta, un effetto positivo: la ragazza sorrise e scosse leggermente il capo. Si trattava di una forma di ilare commiserazione? Non importava; proseguii ardito: " Tu, invece, come ti chiami?". Eccoli, adesso, i suoi occhi levarsi dal tappo richiuso della tanica, e fissarsi nei miei. Ah, quei momenti in cui il tempo si ferma e si scioglie lungo un canale che unisce due sguardi! Alle mie orecchie, in trepidante attesa, giunse un suono che mi parve provenire da regioni celesti: "Chiara". Questo era il nome di quella creatura. Ormai in preda a un delirio, lasciai, dunque, partire la stoccata finale e dissi: "Sei così bella che mi ricordi le pupe di zucchero: quelle bambole meravigliose che si regalano ai bambini durante le feste..". Stavo per continuare ma l'atmosfera celestiale fu svilita da fastidiosi suoni di ben altro registro. Distolsi gli occhi da quelli della ragazza, che, intanto mi sembravano più lucidi,
e notai che Mattia, scoppiato in una risata fragorosa, si percuoteva coi pugni il casco. Gli avrei volentieri e con vigore dato una mano, ma mi decisi solo per una pacca sulla schiena. Pagato il pieno di benzina, senza aggiungere altro, partimmo. Andando via, ancora sul piazzale della stazione di sevizio, mi voltai. Ritrovai lo sguardo di Chiara e, sperando di imprimere un segno cavalleresco nella sua memoria, la salutai col tipico saluto dei motociclisti, aprendo indice e medio nella "V" di vittoria. Lei mi mandò un bacio con la mano. Mi girai, abbracciai Mattia. Ero già innamorato perso. La strada che cominciammo a percorrere di lì a poco, mi fece rimpiangere di non essere alla guida: continue curve e tornanti in salita lungo il fianco di una collina che, attraverso una strada poco trafficata e circondata da alberi da sughero, ci facevano danzare, introducendoci al maestoso Parco dei Nebrodi. Conoscevo bene quelle zone, teatro della mia infanzia e adolescenza. Per pranzo, ci fermammo in una piazzola alberata lungo la strada, che faceva anche da belvedere sullo scenario incantevole delle isole Eolie. Di quel pranzo, al sacco, la cosa che ricordo con più piacere è che mi servii, traendolo dalla tasca con orgoglio, di un coltello a serramanico per me speciale. Mattia, attirato dal bel manico in ulivo, che fissò per qualche istante, mi guardò poi in modo interrogativo. "Questo coltello", gli dissi, "appartenne al mio bisnonno Turi". Usarlo mi fece ripensare a quando, da bambino, lo vedevo tagliare il pane. Dopo cena, spesso, davanti al camino se d'inverno o in giardino, seduti di fronte a degli alberi di arance e limoni, nelle sere fresche d'estate, mi raccontava della guerra in Africa e della sua prigionia. Quello era l'ultimo coltello che aveva usato. Ricordo come fosse ieri quando mio padre glielo regalò; un piccolo gesto, ma segno di sincera stima e affetto. Lo aveva acquistato ad una fiera che si tiene nel paese di San Salvatore di Fitalia in occasione della festa del santo patrono, San Calogero. Quando mio padre comprò quel coltello io ero con lui. Quella mattina di tanti anni fa, ci eravamo svegliati alle quattro del mattino. Animati da spirito di avventura e complicità da veri compagni di viaggio, abbandonammo le strade di Mirto, il suo paese d'origine, e, inoltrandoci nella campagna mite e costellata di ulivi, discendemmo la collina per poi risalire, lungo sentieri ripidi, la montagna antistante. Arrivammo alla fiera per l'ora di pranzo. Ricordo ancora i sapori deliziosi e ristoratori di quel cibo come un premio, l'aria di festa e i nostri sorrisi vittoriosi e fieri. Parlare a Mattia di quei ricordi evocò in me, come in un "effetto domino",
un'altra immagine: Turi mi portò a dorso di mulo nella campagna che aveva lavorato come mezzadro e che ancora curava. Era la prima volta che salivo sul mulo. Fu semplicemente meraviglioso. Ci fermammo per il pranzo vicino all'orto. Lui raccolse due pomodori maturi che tagliammo coi nostri coltelli e mangiammo insieme a pane e formaggio. Mi parve di sentire ancora il profumo del pomodoro e del formaggio sulla lama. Vidi i semi di quell'ortaggio splendido sull'acciaio che brillava al sole che lo aveva fatto maturare. Dopo pranzo, il caldo spietato ci convinse a non rimetterci in viaggio e a trovare riparo sotto le fronde di un albero sempreverde. Mi addormentai sprofondando subito nel sonno. Fu allora che accade ciò che riconobbi, in seguito, come un primo, allarmante segnale. Appena sveglio, notai che si era fatto buio. L'inquietudine avrebbe dovuto impossessarsi di me per ciò che era successo e spingermi a cercare di capire come mai avevo dormito così tanto. Questo non si verificò e, preso da una sorta di stordimento, vagai tra gli alberi in cerca del mio amico. Percorsi alcuni metri, mi accorsi, voltandomi come richiamato da un presentimento, che Mattia, in realtà, non si era mai mosso dal suo posto e accettai il fatto che per lui fosse normale che avremmo dormito all'aperto in quella piazzola, come se lo avessimo già deciso di comune accordo. Mi sdraiai nuovamente nel punto dal quale mi ero alzato e, per conciliare il ritorno del sonno, cercai di leggere qualche altra pagina del libro dalla copertina nera. Mi sembrò, sfogliandolo, che alcune pagine fossero più sgualcite del solito, ma la sostanza di cui era composta quell'impressione evaporò presto. Non riuscivo a concentrarmi: la lettura mi risultava straordinariamente pesante. Gli occhi chiedevano l'intervento pietoso delle palpebre. Riposi il libro, incontrai lo sguardo di Mattia che mi fissava muto. Il vento diede per qualche istante voce agli alberi. Poi, d'un tratto, i suoni cessarono. Guardai ancora il mio compagno. Mi stava dicendo qualcosa ma io non lo sentivo. Gli sorrisi, gli feci cenno con una mano d'interrompersi, mi sistemai su un fianco e precipitai nuovamente nell'oblio. Al mattino mi svegliai di buon umore. Dato che Mattia mi sembrava imbronciato, dopo essermi stiracchiato con un sonoro sbadiglio, andai da lui, che puliva la visiera del casco assorto in non so quali pensieri, lo presi energicamente per le spalle e tentai di farlo sorridere con un'espressione ebete. Gli dissi: "Ti rendi conto di quanto ho dormito? Che mi è successo ieri? Perché non mi hai svegliato?" - "Ti ripeto la tipica frase che si dice in questi casi: dormivi così bene che non ho voluto disturbarti!" - "Sarà... comunque mi sento proprio alla grande stamattina!". Lui abbozzò un sorriso sardonico e rispose
seccamente: "Se sei contento è una cosa davvero molto bella, però devi anche fare i conti con la possibilità che alla gente non gliene importi nulla..". C'era di che sentire una secchiata di acqua gelida in pieno volto. Mattia, però, aveva un modo tutto suo di stemperare la tensione e farsi perdonare. Mi guardò e mi strizzò l'occhio. Pace fatta. "Va beh", suggellai, "Però ora guido io!". Proseguendo, senza alcuna fretta, lungo quella tortuosa strada di collina, godendoci ogni curva e il rassicurante baricentro della moto, arrivammo in un'ora scarsa, dopo aver attraversato un paio di placidi, silenti, centri abitati montani, nei pressi del bosco di Mangalaviti. Avevo insistito per fare una tappa in questo luogo per me speciale. Mi è capitato di visitare città, capitali, di trovarmi in piazze, in meravigliosi caleidoscopi di gente, di voci e colori. Ogni v olta, però, mi è stato chiaro, accantonando clamori, stupori, di avere vera cittadinanza solo tra il respiro di alberi, nell'incontro casuale con animali schivi o curiosi, in riva al mare o nell'abbandono solitario alla sua culla. In ognuno di questi casi, parte della mia felicità è stata data dal fatto quel diritto di asilo non richiedeva che specificassi le mie generalità. I paesaggi del Parco dei Nebrodi, frementi, palpitanti, di una varietà unica di vita e colori, di fauna e vegetazione, incantano, sorprendono con versanti sempre diversi. A rilievi dolci, dai fianchi morbidi e coperti da fitto verde, si alternano panorami dominati dalla nuda roccia calcarea, da pendii aspri in cui nidifica anche l'aquila reale. Poiché si era fatta ora di pranzo e dato che, a causa di quella sorta di collasso del giorno precedente, non avevo cenato, ci fermammo, prima di imboccare una delle entrate del bosco, in uno dei rustici locali, per lo più costruiti con mattoni di tufo o traforati in cemento, tipici di quei luoghi, che s'incontrano lungo la strada, le cosiddette barracche , per placare l'appetito che l'aria frizzante aveva moltiplicato. Una signora gioviale e robusta, dal viso rotondo e abbronzato, apparecchiò per noi un tavolo coperto da una tovaglia di carta a scacchi rossi e bianchi. Il menù era fisso: la signora, aiutata da un ragazzino anch'egli rubicondo che, con ogni probabilità, era il figlio, ci portò, senza perdersi in troppe chiacchiere, l'antipasto fatto di canestrato, pecorino, ricotta e salumi del locale suino nero: maiale di piccola taglia, simile al cinghiale, allevato in quei boschi allo stato semibrado. Sarebbe più corretto scrivere che l'antipasto non lo mangiai: lo divorai, inghiottendolo quasi senza masticare, abbeverandolo con l'ottimo vino rosso della casa. Stessa sorte capitò a degli involtini di maccheroni, in cui la pasta, rigorosamente fatta in casa, viene condita con sugo di pomodoro,
avvolta in fette di melanzane fritte e abbondantemente spolverata con ricotta salata al forno. Il dolce di miele, pistacchi e nocciole, concluse quella sosta in paradiso. Dopo pranzo, lasciammo la moto parcheggiata di fronte al locale e ci incamminammo in direzione di un punto, nel bosco, che volevo ritrovare e che, bambino, avevo battezzato come "l'angolo del silenzio". Non era lontano da dove avevamo pranzato, ma la strada era accidentata e poi sarebbe stato molto più suggestivo arrivarci a piedi, in silenzio, non fosse altro che per agevolare la digestione. Lungo il nostro cammino ammirammo agrifogli, querce, ginestre, corbezzoli, tassi, faggi, cerri e chissà quante altre varietà di alberi e piante cui non sapevo dare un nome. Incrociammo, inoltre, un'intera famigliola di suini neri che ci attraversò rapidamente il o e verso la quale, lo ammetto, non provai rimorso a causa del pranzo. Sulla destra, una staccionata lungo il sentiero, dalla quale ci si poteva affacciare su un torrente dal letto stretto e ripido, mi annunciò che eravamo quasi arrivati. Ancora un centinaio di metri. Avevo detto a Mattia che, poiché lo stimavo come persona sensibile, ero certo che avrebbe riconosciuto, senza mie indicazioni, il momento in cui avremmo raggiunto la meta. Così fu. Rallentammo fino a fermarci. Da qualche minuto avevamo smesso di parlare. Non ci guardammo neanche. In lontananza, il verso di un rapace, un battito d'ali tra rami frondosi, poi nulla: ogni rumore sembrava essere stato inghiottito. L' "angolo del silenzio" era lì, alla nostra sinistra, tenebrosa quinta di un teatro vecchio di secoli, viva di una bramosia magnetica dal pulsare lentissimo. In quel luogo, i cerri si facevano più fitti e, intrecciando i rami con quelli dei loro compagni dalla parte opposta del sentiero, formavano una cupola che quasi nascondeva il cielo. Una singolare casualità aveva disposto i tronchi di quegli alti alberi in modo da dar vita a una prospettiva che, scivolando lungo la favorevole inclinazione del terreno, creava una sorta di imbuto, la cui fuga risucchiava, come intrappolandolo, lo sguardo verso un punto buio, dalla distanza incerta. Mi resi conto del potere, del desiderio oscuro di quel buco nero, quando sentii che facevo forza sui tendini delle gambe e del dorso dei piedi per restare immobile, per ancorarmi al suolo. Chiusi gli occhi e gonfiai il petto, inspirando, per recuperare la coscienza del mio respiro. Espirando, lentamente, fui costretto a sollevare le palpebre: il non vedere mi dava una lieve nausea. Il tappeto variopinto di muschio, rami e terra alla base dei tronchi, data la resa della mia volontà, rapì il mio sguardo e prese a muoversi, quasi impercettibilmente, verso il centro di un gorgo. Un brivido, dalla nuca, si irradiò al cuoio capelluto. Avevo preso a camminare a i lenti verso il fitto del bosco. Mattia non disse una parola, restando fermo dov'era. Gli dissi di aspettarmi ché tra poco sarei tornato. Ricordo che, ando di fianco agli alberi,
ne sfioravo con le mani il fusto per darmi, in qualche modo, coraggio, sentendo dei punti fermi ai quali avrei potuto ancorarmi. Percorsi una ventina di metri e già non vedevo più il sentiero dal quale ero partito. Mi fermai. Rifiutai, come se fosse stata un'ammissione esplicita di debolezza, il proposito di lanciare una voce a Mattia per riceverne risposta. Tolsi il coltello dalla tasca e, stringendolo nella destra, mi sedetti su un largo sasso piatto. Una permanenza, anche breve, nella "pancia" di quel luogo avrebbe sancito la mia vittoria. Guardai verso il fondo buio della prospettiva, poi presi a osservare gli alberi, uno ad uno, finché fui attratto da un tronco, in particolare, a pochi metri di fronte a me. La corteccia di quel cerro mi sembrò avere qualcosa di diverso dagli altri. Aguzzai la vista: la luce filtrava a malapena nella enorme camera naturale. Rimasi un minuto buono a cercare di scovare e razionalizzare il motivo del mio interesse per il fusto di quell'albero tra tanti, poi accadde qualcosa. La mente umana è debole e facile a farsi condizionare. Forse era proprio frutto di suggestione ciò che mi stava accadendo, ma potrei ancora ora giurare che quella corteccia mutava continuamente colore e spessore. Questo fenomeno si verificava sotto i miei occhi come se, inoltre, seguisse il ritmo cadenzato di un respiro. Fui preso nuovamente da brividi, stavolta in tutto il corpo, mi alzai in piedi e sentii un gran desiderio di darmela a gambe levate e tornare sul sentiero. Mi voltai, e stavo per mettere in pratica il mio intento, quando scorsi, proprio dietro di me, un cerbiatto, dal cui nome greco, nebros, deriva quello del parco che gli arabi chiamarono "un'isola nell'isola". La vista di quell'animale mite, elegante, dei suoi grandi occhi neri e lucidi, insolitamente privi di timore, mi placò. Si affacciò e, quindi, dilagò in me un'ipotesi alternativa: e se il manifestarsi di tutti quei fenomeni, reali o immaginati, fosse scaturito, invece, da un desiderio? Se quello che io avrei voluto davvero, o che il bosco avrebbe voluto da me, fosse stato, in realtà una sorta di abbraccio? Non ci volle molto perché l'ipotesi divenisse in me certezza. Non dovevo più fuggire: ero in un santuario. Mi accostai al tronco cangiante e mi strinsi ad esso. Chiusi gli occhi e, a modo mio, pregai e ringraziai. Quando tornai da Mattia, voltandomi spesso indietro e fermandomi con un sorriso per salutare quegli abitanti del bosco, avevo acquisito una forza nuova. Il sentiero proseguiva con una salita lieve per poi sboccare, dopo un centinaio di metri, in una radura, presso la quale, una biforcazione conduceva a due opposti versanti del bosco. Mattia mi fece notare che non avevamo molto tempo prima che cominciasse a imbrunire: la radura sarebbe stata la nostra ultima tappa a Mangalaviti. Il posto, vasto e circondato da alberi e cespugli di agrifogli e ginestre, era un'arena creata dalla natura e mi mise subito tanta serenità. Ci
sedemmo entrambi quasi al centro di quella vasta piazza verde e ci allietò lo spettacolo di una numerosa mandria di cavalli locali, i cosiddetti Sanfratellani, che brucavano l'erba. "Che meraviglia", dissi a Mattia, "guardare quei cavalli mi rimette in pace col mondo!". Il mio amico sulle prime non commentò, poi, non senza tensione, fece: "Non sono sicuro che la cosa sia proprio reciproca" - "Non capisco, che vuoi dire?" - "Guarda un po'" e indicò col mento la scena alla quale, nel frattempo, non avevo fatto caso. Quello che, certamente, era lo stallone del gruppo, un possente cavallo color miele dalla lunga criniera, aveva preso a fissarci e, dopo aver soffiato con forza dalle froge dilatate, lanciò un nitrito dal tono inequivocabile, attirando l'attenzione degli altri cavalli che, sollevate le teste dal prato, diressero anch'essi i loro sguardi su di noi. "Non fare il minimo gesto, stai immobile", mi sussurrò Mattia. Dentro di me gli risposi "Va bene". In un istante mi fu chiaro che noi due, esploratori "della domenica", avevamo invaso allegramente il territorio di quegli animali e, per di più, ci eravamo collocati al centro del loro dominio. I Sanfratellani, abbandonando rapidi il desinare, assunsero una vera e propria formazione da battaglia e presero a galoppare, con in testa il capo mandria, verso di noi. Seguendo una linea curva, in pochi secondi, furono alla nostra sinistra e si arrestarono a una trentina di metri, mantenendo immutata quella formazione. Lo stallone, non perdendoci di vista un solo istante, scalpitò un paio di volte con lo zoccolo sinistro e, sempre più irrequieto, fece partire un altro inquietante nitrito, ancora più acuto e potente del precedente. "Ci siamo", pensai, "ci ha appena sfidato. Ora ci caricano. E' finita". Il mio compagno di viaggio ed io, rispondemmo all'invito bellicoso del capo con una immobilità corporea degna del migliore museo delle cere. Non riuscivo, davvero, a pensare a nulla, se non al fatto che, da quella distanza, se ci fossimo alzati improvvisamente per fuggire, ci avrebbero travolti in pochi istanti. Lo squadrone restava anch'esso immobile, forse, speravo, per osservarci e verificare che, in fondo, eravamo innocui, più o meno come un paio di lumache bavose. Il tempo sembrò arrestarsi. Finalmente i cavalli si mossero, ma non per caricarci. Piuttosto, presero a compiere un cerchio intorno a noi, la qual cosa, a dire il vero, non mi confortava un gran che. Quello, comunque, non doveva essere il giorno della nostra morte. Lo capimmo quando la mandria, rassicurata sul nostro conto, si risolse a interrompere il circuito e a tornare da dove era partita. Quale fu la grazia, l'eleganza dei movimenti con cui mi sollevai, leggero come una piuma, dal posto in cui già visualizzavo una croce e dei fiori di campo a futura memoria! C'era anche, quindi, di che essere fieri e di tale orgoglio volli esclusivamente riempirmi durante il ritorno: non era stata la paura a irrigidirmi ma la freddezza di chi sa mantenere i nervi saldi. Mattia, intuendo da qualche battuta scambiata lungo il cammino, questo mio meschino atteggiamento
mistificatorio, mise alla prova il mio velleitario atteggiamento da cuor di leone. Il caso volle, infatti, che, dopo una curva, ci trovassimo di fronte un paio di grosse mucche. Quando gli ai accanto, il mio amico mi fece, con tono repentino: "Occhio ché le vacche sono animali molto territoriali e si stanno già innervosendo!". A questa informazione reagii, facendo un balzo in avanti, con un "cacchio!" il cui allarme mi smascherò impietosamente.
IV
Il viaggio che avevamo programmato ci avrebbe portato sulla statale 116 che, ando per Floresta e Santa Domenica Vittoria, giungeva a Randazzo. Da lì, fatta una doverosa sosta nella caratteristica cittadina alle pendici dell'Etna, avremmo imboccato la statale 120 e, dopo una deviazione per la visita alla Gola del fiume Alcantara, saremmo finalmente arrivati sulla costa ionica per poi puntare verso sud. L'illuminazione notturna, pressoché assente, delle strade che, tra l'altro, presentavano non poche buche e tratti dissestati, ci convinse a non proseguire oltre e a fermarci per la notte in una locanda che si affacciava sulla strada dal fitto di un bosco e il cui nome mi aveva incuriosito: "La Via del damasco". Sulla facciata in assi di legno dell'edificio campeggiava, in alto, sopra la porta d'ingresso a vetri colorati, l'insegna arancio con la scritta rossa, dipinta a mano, del nome del locale. Parcheggiammo la moto sotto una tettoia nel piazzale a lato ed entrammo. Ci accolse il sorriso gentile di una ragazza, dai lunghi capelli scuri e dagli occhi verdi e grandi, alla reception. L'arredamento era semplice e aveva tonalità di colore calde. Le luci mettevano in risalto le venature dei mobili fatti a mano, in legno di noce, e le sfumature di variopinti tappeti di cotone grezzo. Due ampie vetrine mostravano minerali di vario genere e grandezza, strumenti da lavoro nelle botteghe di antichi mestieri, ossidati dal tempo ma ancora integri come cunei, piccole asce, martelli, coltelli da innesto, roncole e, inoltre, delle bottiglie di malvasia provenienti dall'isola di Salina. Sbrigate le poche formalità della registrazione, la ragazza, che si era presentata come Manuela, ci guidò alla nostra camera al piano di sopra. Avevo notato, nella sala d'aspetto, una foto, appesa alla parete, in cui dei ragazzi, tra cui la stessa Manuela, si tenevano sottobraccio, gli uni allineati a fianco agli altri. Alcuni, come nelle squadre sportive, erano accosciati davanti e reggevano uno striscione con scritto: "I Folgorati". Anche la camera era arredata in modo semplice e accogliente. L'armadio e la cassettiera in ciliegio, restaurati di fresco, mi ricordavano, nello stile, i mobili dei miei nonni. Degli animali finemente intagliati in profumato legno di ginepro, tra cui un cerbiatto, un cinghiale, un cavallo e tre agnellini, ci diedero il benvenuto dal piano dei nostri comodini, su cui pascolavano intorno alle due abat-jour in ferro battuto e vetro soffiato opaco, cui era stata data una forma che richiamava lo stile dell' art nouveau . L'osservazione di quegli oggetti artigianali mi riportò alla coscienza l'avere
imparato a distinguere due tipi di perfezione e di emozione legata ad essa: la perfezione simmetrica e quella asimmetrica. La seconda veicola, attraverso quelle che qualcuno chiamerebbe imperfezioni, caratteristiche in cui ci si può riconoscere; anche noi siamo, infatti, asimmetrici e imperfetti e quindi unici.
Una delle cose che ricordo con più piacere di quella stanza è il pavimento, interamente formato dalle tipiche piastrelle di ceramica bianca, impreziosite da motivi floreali dipinti a mano in un blu cobalto. Le lenzuola dei due letti, bianche con l'orlo beige ricamato, profumavano di bucato. Eravamo provati dalla camminata nel bosco e dal viaggio: non ci volle molto a decidere che ci saremmo messi a dormire dopo aver mangiato un paio di panini che avevamo con noi. Di solito, non sono una persona invadente e non amo sondare gli stati d'animo di chi ho accanto, ma già da un po' avevo fatto caso all'umore scuro di Mattia, alle sue risposte sfuggenti, al defilarsi per restare in silenzio con i propri pensieri. Intuivo quale potesse essere la causa della tristezza del mio amico ma non avevo voglia di affrontare direttamente con lui l'argomento, di verificare, prendendolo "di petto", se ancora pensasse a Matilde. Ho sempre ritenuto più utile un modo indiretto di alleviare certi pesi, a meno che non sia l'interessato a volere chiaramente uno sfogo. Mi buttai sul letto, fissai il soffitto con le mani dietro la nuca e, mentre Mattia disfaceva il suo bagaglio, dissi queste parole, come pensando ad alta voce: "Oggi, quando eravamo nel bosco e camminavamo lungo il sentiero, riflettevo. Qualcosa credo di averla capita: tutto ciò che conta davvero e' godere di buona salute, bere, mangiare, avere di che ripararsi dal caldo e dal freddo. Stop. Per quanto riguarda il resto, conosco diversa gente che e' invecchiata felice e molti di loro hanno in comune l'aver scelto quello che volevano. Se ci troviamo soli contro il mondo, dobbiamo fregarcene e fare ciò che sentiamo. Questo non perché la gente che ci si scaglia contro sia cattiva, ma il fatto è che se c'è una cosa che le persone non riescono proprio a fare e' immedesimarsi, andare a fondo alla ricerca della verità più vera, comprendere le ragioni di scelte e comportamenti. La gente ama sostituirsi agli Dei che crea, giudicare, sentenziare." Le ultime parole del monologo le avevo dette con un tono che chiedeva partecipazione, sperando divenisse un dialogo. Mi girai verso Mattia. Aveva disfatto il letto e sistemato su una sedia i vestiti, piegandoli accuratamente. Mi guardò e disse, senza guardarmi: "Vado un attimo in bagno, tu intanto tira fuori i panini" e sparì, chiudendosi dietro la porta, non concedendo
repliche. Una mosca era rimasta intrappolata dentro una plafoniera alla parete, attirata dalla luce che, ora, la stava lentamente bruciando. Il ronzio delle sue minuscole ali e i suoi movimenti fulminei erano folli, disperati. Non avrebbe resistito a lungo. Forse avrei potuto fare qualcosa per liberarla ma non mi mossi dal mio letto. Al mattino, svegliatomi ritemprato da un sonno di circa otto ore, proposi a Mattia di fare colazione al bar della locanda. Scesi alla sala da pranzo, vedemmo che a una lunga tavolata centrale sedeva una comitiva di ragazzi. Ci accolse un profumo di caffè e dolci. Voci e risate si mescolavano al tintinnio di posate e stoviglie. Riconobbi al tavolo alcune delle persone che avevo visto la sera precedente nella foto appesa al muro. Manuela, seduta a fianco del capotavola, che sembrava il più anziano del gruppo, ci notò e, con un gesto della mano, ci invitò ad unirci a loro. Presi posto all'altro capo del tavolo, Mattia si sedette accanto a me. Avevo la sensazione che fossimo capitati in una specie di riunione assembleare e, mentre sorseggiavo una tazza di latte freddo, cercai di intuire l'oggetto della discussione. Per qualche minuto, il gruppo continuò a discutere, non coinvolgendoci, come se, dovesse, prima di accoglierci, esaurire un argomento. Accennarono ad una mostra di coltelli artigianali da organizzare che, però, prevedesse anche l'esposizione di altri manufatti e, prendendo a turno la parola, alcuni di loro si confrontavano su questioni inerenti ceste di giunco e canna, ricami, oggetti in legno, in pietra o ferro battuto, e la forgiatura del cosiddetto acciaio damasco. Manuela parlò della necessità di riparare un antico telaio con cui stava realizzando una pizzarra, che scoprii essere un tappeto colorato. Un'altra ragazza sottolineò l'opportunità di apprendere e perfezionare le tecniche di lavorazione della ceramica. Mi sentivo un bambino al primo giorno di scuola. Scrutavo i volti nuovi delle persone e cercavo di apprendere il più possibile. Ripensai al liceo, ai sentimenti contrastanti che avevo vissuto nel sentirmi parte di un gruppo che non avevo scelto ma al quale avrei imparato ad integrarmi. Fu il capotavola di fronte a me, a un tratto, a rivolgermi la parola. Era, dall'apparenza, un quarantenne, di corporatura robusta e dai modi volitivi. Il suo tono di voce, per arrivare a me, era stato modulato a un volume maggiore. Questo, unito al suo sorriso sicuro, mi diedero la conferma: lui era il maestro della scolaresca. Fummo brevemente interrogati, tra gli sguardi silenziosi dei nuovi compagni, circa i nostri nomi e il motivo del nostro viaggio, ma ci fu facile intuire che lo scopo di Mario, questo era il nome del capogruppo, era soprattutto presentarci la comitiva e introdurci alle sue attività. Come avevo intuito, eravamo capitati in mezzo ai "Folgorati", una sorta di comunità di artigiani che aveva preso in gestione la locanda ed era dedita al commercio di
propri manufatti e di alcuni prodotti alimentari, tra cui conserve e confetture, derivati dalla coltivazione di un appezzamento di terra secondo i principi della biodinamica. Periodicamente, inoltre, i ragazzi organizzavano dei laboratori in cui, seguendo un'impostazione ludica, trasmettevano ai bambini il fascino e i segreti di antichi mestieri, servendosi anche dell'ausilio di persone della terza età che, per l'occasione, s'improvvisavano maestri. L'iniziale diffidenza che ho sempre avuto verso chi si dichiara, anche indirettamente, insegnante, e che mi porta a mantenere una certa distanza, venne presto diluita non solo da quanto Mario ci stava dicendo, ma anche dal suo tono affabile e, mi parve, sincero. Quelle parole richiamavano in me buoni sentimenti, rispondevano a un'esigenza sopita, incontravano un mio desiderio. Mi dicevo, mentre ascoltavo, che era dunque possibile realizzare tutto ciò, che creare un'isola felice non era utopia. L'entusiasmo crescente mi portò a proporre una considerazione. Approfittando di una pausa di Mario, dissi, anzi, quasi esclamai: "Una cosa che mi piace degli artigiani è che lavorano e producono "alla vecchia maniera". Per metterci al riparo da certi veleni del corpo, della mente e dello spirito, sarebbe utile tornare anche a vivere, per certe cose, " alla vecchia maniera!". Seguì quella classica manciata di secondi silenziosi in cui si è presi dallo sconforto e dal dubbio circa l'opportunità dell'aver aperto bocca. A confortarmi, non fu tanto il "giusto!" vigoroso che Mario, puntando l'indice verso di me, pronunciò, quanto ciò che mi sembrò brillare nello sguardo di Manuela, che avevo cercato. Mario continuò, rivolgendosi questa volta a tutto il gruppo: "Scegliete un coltellino artigianale a serramanico. Non importa che sia costoso, basta che non sia prodotto in serie. Usatelo a tavola, mangiate servendovene ogni giorno. Dopo il pasto, pulitelo, lavatelo, asciugatelo e riponetelo, meglio se in tasca. Concentratevi sul fatto che quello e' il vostro coltello personale, che vi accompagnerà, che ve ne prenderete cura. Fatelo, almeno una volta, e pensate alle sensazioni che avrete provato. Sono sicuro che comincerete a dimenticarvi degli oggetti fatti industrialmente, non tutti, certo, ma almeno quelli che vi appariranno ormai senza poesia." Quelle frasi sembravano dette per me! La sensazione di empatia galoppava e mi avrebbe spinto a prendere di nuovo la parola per raccontare del mio coltellino e del bisnonno Turi, se Mattia, presentendo tutto ciò, non mi avesse, sotto al tavolo, dato un colpetto sul ginocchio. Lo guardai. Con la testa mi fece cenno di no. Seguii il suo consiglio e tacqui. Ci fu ancora un breve scambio di battute e convenevoli, dopodiché, terminata la colazione, i "Folgorati" si dispersero ognuno per la strada delle proprie incombenze. Mattia mi disse che sarebbe andato a dare una controllata alla moto, io mi avvicinai a Manuela, che stava sparecchiando, e mi accorsi con piacere che era come se mi stesse aspettando. Appena le fui accanto, infatti, mi chiese se volessi andare con lei a vedere l'orto
e il giardino. Accettai manifestando un entusiasmo che, un attimo dopo, mi chiesi se fosse apparso eccessivo. Usciti all'aria frizzante del mattino soleggiato, percorremmo un sentiero in terra battuta delimitato da sassi di pietra lavica che si alternavano a vasi fioriti e piccole aiuole di erbe aromatiche. Per un breve tratto restammo in silenzio, poi Manuela prese a parlarmi. Voltatomi per ascoltarla, osservavo i contorni del suo viso illuminati dal sole. Mi sembrava di sentire il profumo della sua pelle e una morsa dolce, salendo dalla pancia al petto mi disse che avrei voluto sfiorarle i capelli e darle un bacio, sentire il sapore di quelle labbra rosse, morbide. Manuela a un tratto si fermò e tacque, facendo nascere in me l'idea insensata che avesse percepito i miei pensieri. Rimasi in silenzio anche io, col cuore in gola, aspettando un suo gesto. Lei, guardando fisso davanti a sé, come se io non esistessi, tolse dalla tasca un elastico e con un movimento aggraziato delle mani bianche ed eleganti, piegando un po' il collo, si raccolse i lunghi capelli neri e li legò a "coda di cavallo". Quindi, come riavutasi da un sogno, tornata nella stessa dimensione in cui io, bambino perduto, stavo palpitando al suo fianco, riprese il discorso di prima. Mi spiegò che iniziare a fare un orto biodinamico significa innanzitutto escludere prodotti chimici, in ogni fase di cura e preparazione, dal seme al frutto. Per nutrire terra, radici, piantine è, infatti, fondamentale impiegare fertilizzanti preparati in modo biodinamico. Arrivammo all'orto, o, meglio, in quello spazio che appariva come un monumento alla natura e in cui regnava l'armonia delle piante con la diligenza dell'uomo. Non era molto grande e attorno ad esso erano stati costruiti dei capanni di tronchi che ospitavano i vari laboratori. Manuela continuò la sua lezione, sottolineando, con la stessa grazia con cui si era legata i capelli, che è indispensabile, inoltre, conoscere l’origine e le specifiche necessità delle piante e assecondarle: sapere ad esempio che il pomodoro, originario dell’America del centro-sud, ha bisogno di quantità medie di acqua, che la cipolla ne ha bisogno meno ancora e che i porri vogliono tanta acqua, perché provengono dalle valli dell’Europa del sud, ricche di fiumi, calore e nutrimento. Al cospetto della sua eloquenza, al suono della sua voce calda, gentile anche io mi sentivo un porro, piccolo, insignificante e bisognoso delle sue cure. Mi chiesi: se le avessi svelato questo mio ultimo pensiero, ne avrebbe riso, ritenendomi simpatico, o si sarebbe gelata, catalogandomi tra gli imbecilli? La presenza, ora solo immaginata, dello sguardo intransigente di Mattia mi spinse, ancora una volta, a tacere. A questo punto, lei fissò i suoi occhi nei miei e con un sorriso disarmante mi disse: "Sai che in questo orto c'è tanta simpatia?". Sobbalzai. Cominciai a convincermi che davvero mi leggesse nella mente. Lei continuò: " Le piante si aiutano e c’è simpatia tra loro: per impostare un buon orto biodinamico, è necessario infatti associarle. Ogni pianta emette secrezioni
che possono avere influenze positive o negative sulle piante che si trovano loro accanto. Mai mettere vicino, ad esempio, piante della stessa famiglia: non accostare nella stessa aiuola zucche, cetrioli e zucchine, che attirerebbero miliardi di stessi parassiti e ne soffrirebbero il doppio!". Le zucche e i cetrioli avevano, in quei momenti, tutta la mia solidarietà: sentivo empaticamente la loro sofferenza. Attorno a noi erano stati piantati vari ortaggi, ognuno dei quali aveva accanto erbe aromatiche come erba cipollina, salvia, rosmarino, origano e timo che, come mi spiegò Manuela, sono dei preziosi guardiani, veri “regolatori” dell’orto. Così allo stesso modo i fiori, il garofano, la gerbera, il tagete, la rosa. "La rosa si ammala prima dell’uva e avvisa il contadino che è ora di intervenire! Lo sapevi?"- "No", risposi, "però so che per l’orto biodinamico si guardano la luna e le stelle"- "Bravo, è proprio così!", esclamò Manuela prendendomi d'istinto una mano nella sua. Sentii, di certo assumendo in volto una colorazione che attraversò lo spettro di varie tonalità di rosso, che io e lo spazio siderale, così prezioso per la coltivazione biodinamica, avevamo acquisito improvvisamente un'insperata familiarità. Manuela, accortasi della mia "alterazione", parve irrigidirsi, come se in lei fosse scattato un allarme che l'avesse richiamata a delle norme di prudenza. Mi lasciò la mano, ma non bruscamente, come se non volesse dispiacermi. Cercai di apparire indifferente a quel cambiamento di distanza tra noi, ma appena lei mi disse che saremmo tornati dentro, mi sentii, sempre per fare un parallelo con i tempi della scuola, come quando la maestra delle medie mi aveva intimato di cambiare banco, separandomi dalla compagna verso cui ero avevo mille attenzioni. Percorrendo il viale, per stemperare l'imbarazzo che si era creato, le chiesi di dirmi qualcosa di Mario. Manuela rispose che lui era il fondatore del gruppo, che lo considerava come un fratello maggiore e che le aveva fatto comprendere come l'artigianato possa essere un mezzo autentico per preservare e trasmettere valori senza tempo. Un artigiano vero, mi disse, plasma ciò che vede in sé, con l'estro, la fantasia ma anche col rigore di una tradizione che fa parte della storia della sua terra, per offrirlo ad altri.
Rientrati nella sala, salutai Manuela, dicendole che ci saremmo rivisti per il pranzo, al quale ci aveva invitati per le 12:00, e mi diressi verso la nostra camera. Giunto a qualche metro dalla porta della stanza, mi fermai. Dalla nostra camera arrivava quella che mi parve la voce di Mattia ma, e fu ciò a bloccarmi, il suo timbro era talmente alterato da farmi dubitare, appunto, che si trattasse di lui. Mi guardai attorno. Ero solo lungo il corridoio, quindi, senza il rischio di destare
sospetti in chi mi avesse notato, mossi con estrema cautela i miei i sulla moquette blu e mi accostai alla porta trattenendo il respiro. Non riuscivo a distinguere tutte le parole che venivano come esplose, veloci e confuse. Quelle di Mattia erano urla soffocate in cui si fondevano rabbia e terrore. Ero atterrito. Pensai che il mio amico potesse trovarsi in pericolo e mi risolsi ad entrare. Stavo per irrompere nella stanza quando una frase, stavolta chiara e pronunciata da Mattia con improvvisa, gelida calma, mi bloccò: "Venivano in silenzio, con o lento, ovattato, come se il rumore potesse svegliare chi oramai non era più". Mattia stava leggendo ad alta voce un o del libro dalla copertina nera che mi aveva dato Martorana, lo riconobbi subito. Ero disorientato, non sapevo che pensare e tanto meno cosa fare. A un tratto, vidi che la maniglia della porta si girava lentamente, feci un o indietro. La porta venne aperta. Mattia mi guardava fisso negli occhi, il suo viso era rigato di lacrime, il suo sguardo addolorato, cupo come una notte senza luna. "Vieni dentro", fece con un filo di voce, "parliamo". Entrai come un automa, mi sedetti sul mio letto. La testa mi martellava, nel petto un tamburo. Volevo solo sapere cosa stava accadendo. Mattia, restando in piedi, si portò le mani al volto e prese a singhiozzare ma presto si dominò e si decise a dirmi cosa lo angosciava. Sono certo che ricorderò per sempre le parole pronunciate dal mio amico. Guardandomi come volesse supplicarmi fece, tremando: "Ho parlato con tuo padre...mi ha detto che se proseguiremo questo viaggio accadrà qualcosa di tremendo, irreparabile". Un brivido, dalla schiena, mi serpeggiò fino alla nuca. I capelli mi si rizzarono in testa. Sentivo di perdere la ragione. Chiusi gli occhi e scossi la testa: dovevo tornare a pensare, e in fretta. Serrai i pugni per farmi forza e con tutta la fermezza e la calma di cui ero capace in quel momento, dissi: " Mattia ma che ti sta succedendo?...mio padre...come?..quando?...mio padre è morto!...e tu lo sai bene. Perché hai detto questa cosa? Siediti e spiegami, con calma. Prenditi il tempo che vuoi ma dimmi che ti prende!". Ora c'era in me anche il timore che il mio compagno di viaggio fosse uscito di senno e potesse farmi o farsi del male. Mattia rimase in silenzio per qualche secondo, distolse i suoi occhi dai miei e li fissò al pavimento. Era pallido, le labbra esangui e grondava sudore. Si portò una mano sulla fronte, chiuse gli occhi e si lasciò andare a sedere anche lui sul letto. Dopo un lungo sospiro, riprese fiato. Sembrava adesso più tranquillo, o forse è meglio dire rassegnato. "Ok", mi fece stanco, come avesse compiuto uno sforzo immane, "scusami...ti prego di scusarmi. Io non lo so perché ho detto quelle cose..o forse lo so, si: sono esaurito, è così. Tutto quello che mi è successo, i pensieri, le delusioni. Tutto mi fa sentire a disagio. Perdonami, ho perso la testa" - "Ho capito, Mattia, ma perché mio padre? Perché lo hai tirato in ballo con quella storia assurda?" - "Perché sono uno stupido", disse abbozzando un sorriso,
"uno stupido che voleva farti credere che tuo padre si fosse manifestato a me per dirmi quella cosa, che aveva un presagio di sventura. La mia mente voleva aggrapparsi a qualsiasi cosa pur di convincerti a tornare indietro. Forse allontanarmi dai miei problemi mi crea più ansia e disperazione che affrontarli" "Io penso invece", dissi, almeno in parte, rincuorato "che dovresti resistere ancora un po' prima di arrenderti: non siamo neanche a metà del viaggio. Vedremo dei posti splendidi, conosceremo gente nuova. Ti potrai distrarre, svagare". Mattia taceva. Cercai di trasmettergli fiducia: " Facciamo così: non pensiamoci più e guardiamo avanti. Domani vorrei proporre a questa comitiva di ragazzi di fare insieme una gita alle gole dell'Alcantara. Che ne dici?". Mattia non rispose. Mi fece capire a gesti che aveva voglia di vomitare. Si alzò in fretta e si chiuse in bagno. Mi sdraiai e, cercando egoisticamente di isolarmi, mi tappai le orecchie. Notai sul comodino di Mattia il mio libro dalla copertina nera e una bottiglia di brandy quasi vuota.
V
"Potrei ricevere il disprezzo degli schierati, di chi si conforma a dogmi cui non mi uniformo, ma di questo disprezzo non so che farmene perché non mi ha mai insegnato alcunché. Sono una città-stato e non ho paura di ritrovarmi nel deserto, né che la sabbia mi copra fino a farmi scomparire. Il mio cuore continuerà a battere sotto le coltri."
Mattia mi disse che non sarebbe venuto per il pranzo: sentiva solo il bisogno di riposare, né aveva appetito. Non insistetti e scesi a raggiungere gli altri. Ritrovare lo sguardo di Manuela cancellò in buona parte il ricordo penoso di quanto era accaduto prima in camera. C'erano quasi tutti. Mancava, però, Mario che, come mi disse Gianluca, un coltellinaio, era andato a Catania per affari. Oltre al nostro tavolo, ne erano stati apparecchiati altri tre per clienti della locanda che avevano prenotato e che sarebbero arrivati tra circa un'ora, dando il tempo, quindi, al gruppo di pranzare per poi prepararsi a riceverli. L'assenza del capogruppo, nonostante non potessi certo dire che questi mi fosse antipatico, mi dava un sottile sollievo, credo riconducibile al pensiero che mi sarei sentito più libero di interagire con gli altri. Volevo fare colpo su Manuela? Certamente si, ma non si trattava solo di quello: trovarmi in sintonia con quei ragazzi, guadagnarmi la loro stima. Questo volevo. Non provai a sedermi accanto a Manuela. Sarebbe stato maldestro: mi sarei praticamente dichiarato in pubblico e l'avrei magari messa in imbarazzo. Il pranzo si svolse in allegria. Chiacchierai con gli altri della comitiva, feci conoscenza con loro. Scambiai sguardi sorridenti con Manuela. Quando stavamo per finire di pranzare, prima che tutti cominciassero ad alzarsi dalla tavola, proposi: "Ragazzi che ne dite se nel pomeriggio facciamo un giro alle Gole dell'Alcantara?". Lo confesso: in cuor mio sperai che Mattia, che non si era ancora fatto vivo, non se la sentisse di venire, per avere Manuela in moto con me. La mia idea sembrò piacere al gruppo. Ci accordammo: terminato il pranzo dei clienti, ci saremmo ritrovati nel parcheggio per partire. Alzatomi da tavola, mi avvicinai a Manuela. Nel farlo, un o dopo l'altro, ebbi conferma che ormai tutto per me, in quelle ore, ruotava attorno a lei e al desiderio che potessimo essere sempre più vicini. Fu proprio
questo desiderio a far si che trovassi la sfrontatezza di metterle le mani sulle spalle, guardarla negli occhi e, per farla sorridere, dirle con tono cavalleresco: " Madamigella, vorrà farmi l'onore di accompagnarmi in groppa al mio destriero lungo la strada che ci attende?". Non so che faccia avessi mentre le dicevo così, però ricordo il batticuore e la certezza che se lei avesse fatto un movimento, anche lieve, per liberare le sue spalle dalla mia amorevole presa, avrei smesso una volta per tutte di farle la corte. Manuela mi sorrise e, con i suoi occhi nei miei, rispose: "Messere, lei mi confonde. Ebbene, ne sarei lieta". La guardai in silenzio, col viso che mi avvampava, ancora una volta rendendomi un libro aperto, in cui si raccontava di un ragazzo timido e impacciato che provava goffamente a fare il conquistatore. Ma che importava? Ero felice. Dissi: "Allora, adesso vado in camera, e ci troviamo qui tra un paio d'ore, ok? Prima di partire con gli altri, voglio parlarti di una cosa"- "Bene, a fra poco", rispose divertita. Ora avevo due compiti: obbligare Mattia con qualsiasi mezzo a lasciarmi usare la moto con Manuela e trovare l'argomento di cui avrei dovuto parlare con lei. Per rivederla da sola, prima della gita, avevo, infatti, bluffato. Mi avviai verso la stanza. In contrasto con il fervido affaccendarsi nei locali del piano terra, al primo piano la locanda pareva sonnecchiare, immersa nella calura estiva che favorisce la pigrizia postprandiale. L'aria tra il pavimento e il soffitto, era spessa, calda e sapeva di legno e detergenti aromatizzati al profumo di fiori. Pervaso dall'eccitazione, arrivai con ampie falcate alla porta. Mattia, vedendomi in questo stato di grazia, avrebbe acconsentito senza fare problemi, mi dissi. Immaginando che il mio amico potesse riposare, aprii delicatamente la porta ed entrai nella penombra. Mattia era lì, in mezzo alla stanza. Pendeva dal gancio del lampadario. Attorno al collo, reclinato su una spalla, aveva annodato le lenzuola intrecciate. Chiusi gli occhi. La parete fermò le mie spalle; scivolai lungo essa fino a sedermi per terra. I palmi delle mani protessero i miei occhi, le dita tennero la fronte. Non un filo di voce mi uscì dalla bocca. Divenni dominio di un tremore incontrollabile, violento. Il gelo prese a imperversare attraverso ossa, muscoli, nervi. Non so per quanto restai in quello stato. D'un tratto, mi si presentò, senza ragione apparente, un ricordo: ero bambino; degli amici di famiglia avevano portato loro figlio, che all'epoca era il mio migliore compagno di giochi, a casa nostra perché vi restasse un paio di giorni. Avremmo dormito insieme nel mio letto. La prima notte mi ero svegliato e, voltandomi verso di lui, nonostante fosse buio pesto, avevo visto che aveva il volto di un mostro terrificante. Ripensare a quella allucinazione infantile
produsse in me un effetto: ripresi la calma sufficiente per seguire un ragionamento. Tenendo sempre gli occhi chiusi, mi chiesi come aveva potuto Mattia appendersi al gancio senza usare un sostegno, che non avevo visto sotto ai suoi piedi o lì vicino. Trattenni il respiro, riaprii gli occhi. Mattia non c'era più. Al suo posto, era appeso, immobile, il lampadario. Mi guardai attorno, senza alzarmi da terra. Chiamai il nome del mio amico, pensando che magari potesse essere in bagno. Nessuna risposta. Mi alzai e mi precipitai in bagno. Di Mattia non vi era traccia. Acqua fredda sul viso, di questo avevo bisogno. "A proposito", pensai, "il mio viso...". Alzai di scatto la faccia verso lo specchio. Stravolto, tremante, con gli occhi sbarrati, ma ero io quello riflesso. Ero ancora, inconfutabilmente io. Scossi il capo, sorrisi. Il sorriso dilagò in una risata, forte, liberatoria. Che stupido che ero stato. Ma perché, poi, avevo visto quella scena così terribile? Mi asciugai la faccia. Ci voleva una boccata d'aria. Attraversai la stanza, non senza rincuorarmi della rinnovata constatazione dell'assenza di cadaveri appesi in luogo del lampadario, aprii la finestra e mi appoggiai pesantemente coi gomiti sul davanzale. Inspirai ed espirai profondamente per tre o quattro volte e lasciai che gli occhi si rasserenassero, immersi in un bagno di verde. Chiudevo le palpebre per poi riaprirle dopo qualche secondo e lasciare la vista planare su linee morbide, semplici, rassicuranti di vitalità consueta. Stavo recuperando rapidamente la calma, quando udii provenire dal giardino dei suoni che attrassero la mia curiosità. Si trattava del tipico bisbigliare convulso di chi litiga sottovoce. Mi sporsi, facendo però attenzione a non farmi notare. All'angolo dell'edificio alla mia destra, dietro un'alta siepe, intravidi le sagome di tre persone, due delle quali di fronte alla terza. Cercai di ascoltare con più attenzione ma non riuscii a decifrare neanche una parola. Poi ci fu di nuovo silenzio, quindi dei i: i due si erano separati dall'altro e, andando in direzione opposta alla sua, sparirono alla mia vista. Il terzo rimase per un po' fermo, quindi seguì il perimetro della siepe verso il centro del giardino. Presto lo avrei visto uscire allo scoperto. Chiusi in fretta la finestra, tirai le tendine di stoffa e ne scostai un lembo per spiare. Il terzo era Mattia. Una parte di me ammise che stavano accadendo cose strane, l'altra ebbe la certezza che, almeno, il mio amico esisteva ancora. Adesso avevo solo bisogno di sdraiarmi e provare a riposare, almeno per mezz'ora e, magari, pensare a cose piacevoli. Cercai di concentrarmi su Manuela, su cosa dirle. I suoi occhi sorridenti mi placarono mentre sprofondavo nel letto. Da un momento all'altro mi aspettavo che Mattia ritornasse in camera ma così non fu. Sonnecchiai per
circa un'ora, quindi mi alzai per l'appuntamento con Manuela. Prima di cadere in quel sonno leggero, avevo deciso che avrei parlato con lei del gruppo e dell'entusiasmo che provavo per la loro attività. C'erano delle immagini, però, che mi si erano presentate alla coscienza mentre riaprivo gli occhi: il sonno non era stato tanto flebile da impedirmi di sognare. La visione raccontava di me e Manuela che, insieme ad un'altra persona, ci trovavamo sula spiaggia, in inverno. Questa terza persona non aveva identità chiara nel sogno: ricordo solo che si trattava di una donna. Raccoglievo dalla spiaggia delle pietre per regalarle a Manuela. Ne trovavo una che secondo me era bellissima. Aveva tre colori. Al centro, come incastonata, una parte diafana, di un rosso chiaro trasparente che mi ricordava l'ambra. Tutt'intorno al centro, c'erano, inoltre, nella pietra, delle onde marmoree di color sabbia e verde intenso. Davo la pietra a Manuela, non sapendo quale sarebbe stata la sua reazione. Lei stava zitta per pochi secondi e poi si commuoveva, piangendo insieme a me di gioia. "Che sogno!", pensai. Tornai in bagno, mi sciacquai nuovamente il viso e mentre mi asciugavo, decisi che quel sogno, almeno per il momento, me lo sarei tenuto per me. Incontrai Manuela nel posto che avevamo stabilito. Ero in ritardo di circa dieci minuti. Mi parve imbronciata e attribuii il suo malumore all'attesa. "Perdonami ma mi sono addormentato e.." - "Non importa, sono qui da pochi minuti"- "Ah, va bene..che c'è che non va? Mi sembri pensierosa" - "No, niente che non va..ma il tuo amico" - "Cosa? Dimmi.." - " Mi sembra strano a volte. Prima l'ho incontrato in giardino, l'ho salutato ma lui ha tirato dritto senza neanche voltarsi. Anzi, ho avuto l'impressione che mormorasse qualcosa contro di me, come per mandarmi a quel paese" - "Hai visto per caso dove andava?" - " Sono quasi certa che uscisse per andare nel parcheggio o sulla strada" - "Spero non abbia preso la moto! Aspettami che corro a vedere. Torno subito; perdonami ma è importante." - "Vuoi che venga con te?". La sua domanda mi riscaldò il cuore e decisi di azzardare un "No grazie tesoro, ci metto solo due minuti" - " Va bene, allora ci vediamo sulla panchina vicino all'orto". Mentre mi precipitavo in direzione del parcheggio, notavo che la gioia per il fatto che Manuela avesse assimilato quel "tesoro" senza attrito, mi dava lo scatto di un centometrista. Arrivai alla moto. Sembrava tutto in ordine. Mattia non c'era e, poiché avevo una copia delle chiavi del nostro mezzo, per quanto mi riguardava, sino a quel momento andava tutto a meraviglia. Avevo una persona speciale che mi attendeva su una panchina. Ripresi a correre senza indugi verso la promessa di momenti piacevoli. L'orribile allucinazione, così vicina nel tempo, era già lontana negli anfratti della memoria.
VI
Manuela era lì, aspettava me seduta sulla panchina e questo semplice fatto, per un animo che già prende il volo, può valere a riempire il cuore di gioia, e che potenza evocativa ha anche solo una minuscola porzione di raggio di sole che illumina un viso che noi idealizziamo! Mi sedetti accanto a lei. "Ehi, sei stato velocissimo!" . Quindi continuò, facendosi improvvisamente seria: "Devo darti una brutta notizia". Il cuore rallentò di botto la folle corsa. "Purtroppo dobbiamo rinunciare, almeno per oggi, alla nostra gita" - "Oddio, perché?". Non avevo provato neanche per un istante ad essere superiore alla delusione, a dominare il disappunto. "Mi spiace, credimi, ma abbiamo avuto poco fa delle prenotazioni per la cena: verranno altri clienti e non possiamo dire di no". Avrei gridato: "Ma si fottano i clienti! Io e te ora ce ne andiamo per i fatti nostri". Volli, però, recuperare l'autocontrollo che poc'anzi avevo perso e, al solo scopo di apparire comprensivo, dissi: "Va bene, dai, vorrà dire che sarà per un'altra volta. Piuttosto, se vi serve una mano io.." - "Oh, grazie. Sei proprio un tesoro". Incisi nel mio segnapunti una tacca a mio favore. Le chiesi: "Dove sei stata fino a ora?" - " Qui in giardino; avevo un bel po' di cose da sistemare" - "Per caso, prima, hai visto il mio amico Mattia parlare con qualcuno?" - "Mattia? No, non l'ho visto". Mi parve, allora, di notare in lei un' improvvisa agitazione, ma non gli diedi chissà quale importanza. A quel punto, ritenni fosse arrivato il momento di incanalare la discussione sul sentiero individuato prima in camera. Cominciai, dopo un respiro profondo, il monologo che avevo preparato: "Sai, mentre ero in stanza, pensavo a voi, a questa struttura, a quello che avete realizzato. Costruire qualcosa e vederla funzionare è già di per sé una cosa meravigliosa. Esiste, però, un valore aggiunto. C i sono, cioè, oggetti che non si possono chiamare solo "cose", perché raccontano storie, tradizioni. Questo, per me è come un borgo ideale da cui partono percorsi emozionali, in cui trovare suggestioni". Mi fermai e la guardai per avere da lei un cenno che mi autorizzasse a proseguire. Manuela sorrideva e, senza dire parola, fece un cenno di assenso col capo. Continuai: " Stimo molto gli artigiani perché plasmano la realtà; voi usate intelletto e talento per diventare un canale..." - "Ehi", m'interruppe prendendomi una mano, "..ma tu sei un poeta, lo sai?". M'imposi l'autocontrollo sufficiente a non prenderle la mano e portarmela alle labbra per coprirla convulsamente di baci. Continuò: " Sei anche dolce.." - "Eccoti, settimo cielo: posso sfiorarti!", mi dissi" - "Ma..." -
"Ma?!" - "Ma, proprio perché sei un bravo ragazzo, diverso da molti altri, voglio metterti in guardia." - "Ah, bene. Ti ringrazio. Di cosa si tratta?"; avevo intanto recuperato la normale facoltà di respirare. "Si tratta dei ragazzi: non pensare che sia tutto rose e fiori e che l'incanto cui ti riferivi prevalga sulla natura della gente. Ho imparato, anche a mie spese, che qui niente è gratuito, che ognuno pensa per sé e che spesso riuscire a fare gruppo, ad avere e mantenere una sinergia, è un'impresa davvero difficile. Ma non voglio dilungarmi su questo. Magari avrai modo tu stesso di..ah, ecco il tuo amico". Nel frattempo, infatti, si era materializzata la figura, stavolta in carne ed ossa e, soprattutto, viva, di Mattia. Non potei non notare due cose: era molto teso e ed evitava sia il mio sguardo che quello di Manuela. "Scusate ragazzi", fece lui con una voce che sembrava provenire da una cripta, "Prendo la moto. Devo andare in un posto ma torno presto. Tanto a te non serve, giusto?" - "No, effettivamente non mi serve più. Ehi ma è tutto..". Non terminai la frase: Mattia aveva girato i tacchi ed era sparito da dove era venuto, come se fosse stato inseguito dal demonio. Mi rivolsi a Manuela: "Ecco, vedi, tutto ha un senso: se fossimo andati in gita, Mattia non avrebbe potuto affrontare questa misteriosa questione di vita o di morte". Il mio tono era scherzoso ma vidi che su Manuela era nuovamente sceso un velo di turbamento. Mi dissi che quella era la prova evidente che l'atteggiamento di Mattia la indisponeva. Le presi le mani. Quel velo sparì e il mio sorriso divenne anche il suo. A un tratto sentii una gocciolina sulla fronte. Il cielo si era annuvolato. Lei mi disse, quasi sussurrando: "Stiamo ancora un po' qui se ti va: la pioggia mi piace, mi da serenità". Quelle parole, che mi apparvero una dichiarazione di complicità, ebbero il potere di intenerirmi ulteriormente. Per lei mi sarei inzuppato fino al midollo. Manuela, guardandomi in un modo che cominciava ad avere inequivocabilmente qualcosa di diverso, mi fece: " Uffa, ho ancora un dolorino qui sul collo. Mi ci vorrebbe un massaggio". Oh, potenti Dei dell'Olimpo! Voi ascoltaste le mie preghiere! Eccone la prova. Chi sarei stato io per osare rifiutare il dono da voi concessomi? "Ma lo sai..", anche la mia voce, intanto, aveva assunto un timbro nuovo, "..che più di una persona mi ha confermato che dovrei fare il pranoterapeuta? Sembra che le mie mani sprigionino un calore curativo!" - " Ma quante sono le tue qualità?". La sua voce, la piega della bocca, tutto mi spingeva a rompere ogni indugio: le parole avevano fatto il loro tempo. Poggiai dolcemente le mie mani ai lati del suo collo, ne spostai, poi, una sulla nuca e una sulla spalla destra. Lei chiuse gli occhi e così feci io. Con tutto me stesso volevo che il mio calore s'irradiasse nella sua pelle, nel suo corpo, che fluisse in lei. Sentivo, attraverso il contatto, che il nostro respiro si armonizzava e diveniva più profondo. La mente si alleggerì. Persi la cognizione del tempo e ritrovai il piacere di perdermi. A un cero punto
avvertii in lei un tremito. Dischiusi gli occhi. Anche i suoi erano aperti ed ancora più chiari, limpidi. Un altro lieve sussulto, come un singhiozzo soffocato, mi giunse da lei attraverso le mie mani. Lo sguardo di Manuela filtrava dal fondo di un lago che prese a traboccare: stava piangendo. La strinsi forte a me. Le accarezzai il capo, i capelli morbidi. La baciai sulle labbra. Non sapevo bene il perché ma stavo piangendo anch'io. Restammo stretti ancora un po', senza dire una parola, con le teste poggiate l'una a fianco all'altra. Le accarezzai le spalle, la schiena, lei mi stringeva forte tra le braccia. Scostai il mio capo dal suo e le poggiai la fronte sul petto. Mi accarezzò i capelli. Sussurrai il suo nome. Prese a piovere più forte. La guardai e dissi: "Non può piovere per sempre, potrebbe anche grandinare". Abbozzò un sorriso ma mi parve un esile tentativo di sfuggire alla coltre di una malinconia infinita. Con un filo di voce mi disse: "Torniamo dentro. Ho tanto da fare. Ci vediamo stanotte dopo cena, vuoi?" - Se avessi dato retta all'impulso, le avrei risposto: "Si amore della mia vita, non vedo l'ora", ma, con relativa sobrietà, mi limitai a un "Certo che voglio!". Percorremmo, mano nella mano, il viale fino quasi all'ingresso della locanda. Il rumore, a pochi metri, del motore di un'automobile che si stava accostando alla siepe che separava il giardino dall'atrio ci fece trasalire e Manuela, d'istinto, ritrasse la mano dalla mia. Mario era rientrato.
Arrivato in camera, mi sdraiai sul letto. Ero felice per quanto accaduto con Manuela, per la prospettiva di un nostro rapporto. Al tempo stesso, più di un aspetto del suo atteggiamento e, soprattutto, del comportamento di Mattia, mi impensierivano. Magari, poi, mi sbagliavo. Forse con Manuela non ci sarebbe stata alcuna storia e dopo quella notte non ne avrebbe più voluto sapere di me. Pioveva sempre più forte. Le gocce, spinte dalle improvvise raffiche di vento di un temporale estivo, sembravano voler forzare gli infissi, attraversarne il legno da ogni possibile fessura. Un tuono, secco, squarciante, mi fece trasalire e, subito dopo, apprezzare di essere sotto un tetto, tra pareti che erano tornate a essere accoglienti. Mattia non rientrava ancora. Sperai che avesse trovato riparo dal temporale e che fosse tutto a posto per lui. Aprii, quindi, il cassetto del comodino, dove avevo riposto il libro dalla fodera nera e, senza guardare, trovatolo al tatto, lo presi per provare a leggere un po'. Già da un primo contatto con la sua superficie, avevo avuto l'impressione di toccare della carta, non la plastica grezza che ricopriva il libro. Lo portai davanti agli occhi. Non mi sbagliavo: la fodera non c'era più; qualcuno l'aveva tolta. Potei, quindi, leggere il titolo e il nome dell'autore. Quel libro era stato intitolato "Verso Altrove".
L'autore era mio padre.
VII
"Non lamentatevi della latitanza di Dio, perché se anche voi aveste creato il genere umano, la prima cosa che avreste fatto dopo aver visto il risultato, sarebbe stata cercare un documento falso. Scoprivo che qualsiasi cosa fi, ormai, pur scaturendo dal tentativo di inserirmi meglio nel mondo, mi portava, tuttavia, a lasciarlo ."
Col cuore in gola, mi sollevai di scatto a sedere sul letto. Sparì Manuela e la gioia della conquista. Sparirono la locanda e il gruppo di ragazzi artigiani. Come un pugno in pieno viso, diretto, inatteso, era arrivato il momento, per me, di fare un punto della situazione. Tra le mani avevo un libro scritto da mio padre. Questo testo mi era stato donato dal mio ex professore, Aurelio Martorana, morto poco tempo dopo. Ripensai a quelle parole strane con cui aveva accompagnato il suo regalo, alle raccomandazioni che avrebbe voluto io seguissi nella lettura. Perché "Verso Altrove" era in suo possesso? Perché io non ero a conoscenza del fatto che mio padre lo avesse scritto? A togliere la fodera era, con ogni probabilità, stato Mattia che, anche in altre occasioni, avevo notato, lo aveva preso e sfogliato. Era stato mosso da curiosità? C'era una relazione tra questa azione e il suo vaneggiare di qualche ora prima? C'era un legame tra tutto ciò e il suo comportamento insolito? Imparai in quell'occasione cos'è un cerchio alla testa. Troppi interrogativi e tanta emozione per l'avere recuperato un oggetto così importante. Provai a darmi una calmata e delle risposte provvisorie, in attesa di un eventuale chiarimento, anche parziale, con Mattia. Ecco come poteva essere andata: Martorana aveva avuto in serbo per me questa sorpresa, per lui, certo, preziosa e che lo rendeva anche fiero del fatto che mio padre si fosse rivolto a lui. Magari, prima di morire, aveva dato, per un parere, il testo a Martorana e questi aveva quindi voluto restituirlo al suo unico figlio, architettando quel rituale nel suo studio. Si: doveva essere quella l'unica, toccante, verità possibile. L'idea dell'affetto che per me avevano avuto quei due uomini m'invase. Appena Mattia sarebbe tornato, lo avrei ringraziato per essere stato causa indiretta di una simile emozione. Ricomparve nei pensieri Manuela: con lei avrei condiviso questa gioia. "Mi piace stare sotto la pioggia", aveva
detto. Andai alla finestra, l'aprii. Il vento, facendo pressione sui vetri, mi forzò le mani. Ispirai l'odore della pioggia che mi bagnava, che entrava nella stanza, ticchettando sul pavimento e sulle lenzuola. Le braccia scure, frondose, degli alberi mi salutarono ondeggiando. Le risposte di scienza e religione sul perché cerchiamo un contatto con chi non vive più tra noi non m'interessano. Io, semplicemente, udii la risposta di chi avevo interpellato. Poi, ricordo bene, pensai al suono del vento nei film di Federico Fellini. Richiusi la finestra. Tornai a sedere sul letto e aprii il libro. Presi a leggerlo e sentii il desiderio di terminarlo senza più indugi; ne trascrissi sul taccuino queste frasi: "...eppure in quella terra abbondavano miniere di preziosi, risorse naturali tali da assicurare benessere all'intero popolo. Potenti sanguisughe ne succhiavano la linfa, aggiungevano oppio al sonno secolare. Ma il seme della rivolta era alfine attecchito, gli animi esasperati si votavano alla morte per cercare di riavere una libertà che era con loro, col primo vagito." Quando tornai in sala per la cena, ricevetti un'altra bella notizia. Riccardo, un ragazzo che era di turno alla reception, mi disse che Mattia aveva telefonato lasciando un messaggio per me: avrebbe trascorso la notte insieme ad una certa Matilde, che io, sottolineò Riccardo, a dire di Mattia, conoscevo, e l'indomani mi avrebbero raggiunto entrambi per fare colazione insieme. Ecco spiegato un altro arcano. Il nervosismo del mio amico, il suo strano comportamento, l'idea che stesse covando un segreto. Tutto culminava nella bella sorpresa dell'incontro e della riappacificazione con Matilde. Le persone con cui lo avevo intravisto discutere, di certo, facevano parte dell'organizzazione del loro piano. Tutto è bene quel che finisce bene, pensai. L'intesa con Manuela, il libro ritrovato di mio padre, la felicità riconquistata di Mattia, fecero sì che quella sera, a cena, avessi l'impressione di vedere i ragazzi del gruppo per la prima volta. La disposizione allegra dell'animo mi portava ad osservarli meglio, a partecipare con maggiore entusiasmo ai loro scambi di battute. La mente più serena, inoltre, mi consentì di assaporare pienamente il cibo. Sulle prime, scambiando di quando in quando sguardi e sorrisi complici con Manuela, volli ascoltare senza intervenire, godendomi quella che mi appariva come la visione di un gruppo affiatato. Enzo, un ragazzo sulla ventina che lavorava il legno, creando soprattutto maschere, ciondoli e posate, stava raccontando un aneddoto capitatogli l'estate precedente. Le spalle da atleta, lo sguardo affilato, l'ovale del viso incorniciato da lunghi e curati capelli scuri, l'assenza di incertezze nel timbro di voce, facevano intuire, a una prima impressione, che non era abituato a scontare i patemi della timidezza nell'approccio alla socializzazione e al corteggiamento. Ciò si poteva desumere anche dall'elevato grado di attenzione che il suo racconto suscitava, specie nel
pubblico femminile della tavolata. Così, su richiesta dell'amico Riccardo, che già conosceva quella storia, nel bel mezzo di un discorso su certi superalcolici e sui loro effetti, riavviatosi i capelli, si spostò a sedere in punta di sedia e tirò indietro il busto poggiando le spalle sullo schienale; quindi, petto in fuori e avambracci sul bordo del tavolo, cominciò a narrare: " Vedevamo che i nostri vicini di tenda, dei ragazzi romani, tornavano, da un paio di giorni, a notte fonda che neanche si reggevano in piedi, facendo casino, ridendo come dei pazzi e svegliando tutto il campeggio. Al terzo giorno gli chiesi dove andavano la sera e com'è che si riducevano sempre in quello stato. Uno di loro ci chiamò in disparte, a me e ai miei amici, e ci disse di andare in un certo locale del paese e di ordinare un cocktail che si chiamava "l'invisibile". Figuratevi: non ce lo siamo fatti ripetere due volte e quella sera stessa andammo in quel locale. Il bello sapete qual'é? che quando ordinammo l'"invisibile", il cameriere disse che non esisteva niente con quel nome nel menù ed effettivamente, verificammo che aveva ragione!" "Ma scusa, com'è possibile?", interruppe Simona, una signora bionda alla quale avrei dato circa l'età di Mario e che si occupava di realizzare dei gioielli intrecciando dei fili d'argento. "Non vi dico", proseguì Enzo spostandosi in avanti, poggiando i gomiti sul tavolo e facendo roteare lentamente le mani, "quante storie ci fece quello lì: volle sapere chi ci aveva parlato del cocktail, quanti anni avevamo, da dove venivamo, se eravamo dei turisti e cose simili. Mi aspettavo o che ci mandasse via o che chiamasse i carabinieri. A un certo punto, non so come, si convinse e ci disse di aspettare che avrebbe visto col barman cosa si poteva fare e soprattutto di non parlarne con nessuno. Poi, dopo un po', torna e ci porta dei bicchieri che sembravano pieni d'acqua!" "Ah, si!", intervenne di nuovo Simona con un tono che voleva ridurre la portata epica dell'episodio, "in sostanza vi ha portato il "quattro bianchi", che è fatto tutto con liquori trasparenti, ma non capisco perché tutti quei problemi a servirvi!" Sistemandosi nuovamente indietro sullo schienale, Enzo protese il braccio sinistro in direzione dell'orefice e aprendo la mano per arrestarne le conclusioni precipitose, fece con espressione beffarda: "Ferma, Simona! Aspetta un attimo che continuo! Altro che "quattro bianchi"! Eravamo impazienti come se ci avessero dato da bere una pozione magica. Ci aspettavamo chissà quale rarità, quale bomba. Lo annusai. L'odore era buono ma non forte. Lo bevvi. Niente di
eccezionale, non mi sembrò neanche tanto alcolico!" A questo punto Enzo, come per immergersi in trascendentale meditazione, chiuse gli occhi e fece una pausa "da manuale". C'era del mestiere in quel prosatore di vent'anni. Lo ammetto: mi causò un sottile dispiacere il fatto che fu proprio Manuela a rompere gli indugi chiedendo: "E allora? Che successe dopo?". Avrei preferito che non avesse dimostrato tanto interesse per il racconto del ragazzo. "E allora, cara Manuela" , la destra mi si strinse d'impulso, "io non saprò mai cosa avevano messo là dentro, perché dopo i primi due sorsi sentii come una vampata di calore che mi salì per la spina dorsale e mi arrivò dritta sulla nuca! Dopodiché ricordo solo alcune cose, a sprazzi. Ad esempio, che, per fare tre scalini e uscire dal locale, ci impiegai mezz'ora! Nessuno di noi capì più niente. Eravamo completamente incapaci di fare anche le più piccole cose!" "Io sono convinto" , affermò Riccardo, "che hanno sciolto delle pasticche di acido nel cocktail!" "Eh, non sarebbe niente di strano", convenne Simona. "Ma il bello venne dopo", rise Enzo, richiamando a sé l'attenzione della platea, "pigliammo la macchina e tornammo in campeggio. Sulla spiaggia vedemmo che c'era un falò e ci unimmo al gruppo. Tutti erano fuori di testa. Addirittura dei ragazzi, per fare ancora più fuoco, avevano incendiato una barca!" "Roba da fargli dare una bella lezione dai pescatori e poi denunciarli!", esclamò con tono di rimprovero Mario, che fino ad allora era stato zitto e che mi era sembrato di cattivo umore per tutta la cena. Enzo annuì e continuò: "C'era questa ragazza. Mi guardava da quando ero arrivato sulla spiaggia. Bellissima, occhi azzurri e capelli neri. Io le sorrido e le faccio segno di seguirmi in riva al mare. Mi fa cenno di si. Ci alziamo. Mi spoglio. Per fortuna, avevo il costume a boxer sotto ai pantaloni. Ci sediamo sul bagnasciuga e, ancora stordito, le parlo a ruota libera di quasi tutta la mia vita. Lei mi dice che si chiama Maria e che è belga ma capisce l'italiano perché i suoi genitori sono lucani. Insomma, a un certo punto sento un peso in mezzo alle gambe..." "E ci credo!", rise forte Riccardo, seguito dagli altri.
"No, non è quello che pensi. Insomma, mentre parlavo, la risacca mi aveva riempito le mutande del costume zeppe di sassolini e siccome ero ancora sotto l'effetto dell'"invisibile", mi aveva preso la paranoia che quando ci saremmo dovuti alzare, con quella zavorra, avrei rischiato di restare nudo!". Ci fu una risata generale. "Allora sapete che faccio? Dico: Maria guarda un po' lì non ti sembra un delfino? E quando lei si volta, infilo una mano nelle mutande e svuoto il costume. Pensate se quella ragazza mi beccava a rovistarmi a quel modo accanto a lei!". "Magari ti aiutava a togliere i sassolini!", sbottò Riccardo, al quale, intanto, il vino aveva imporporato le guance. "Oppure", fece Ennio, un ragazzo coltellinaio che aveva ascoltato apparentemente in modo distratto la storia e che non era tra quelli che ne sembravano divertiti, "se era una brava ragazza, si alzava e ti piantava lì". A quel punto, incoraggiato dall'intervento di Ennio, dissonante rispetto al coro di sostenitori dell'oratore, feci a quest'ultimo una domanda che mi ero tenuto dentro: "Scusa Enzo, ma se dopo aver bevuto l'"invisibile" eravate tutti stravolti e non riuscivate neanche a muovervi, come avete fatto a guidare fino al campeggio?". Enzo se la cavò alzando le spalle e non rivolgendomi lo sguardo e, nonostante fosse a tutti chiara, anche dal tono, quasi di sfida, la mia intenzione di far scendere il gelo su quella discussione, ogni imbarazzo venne allontanato dalla tempestiva, squillante voce di Manuela che chiese chi tra noi volesse il dolce. Terminata la cena, il gruppo si apprestò, ancora una volta, a fare il necessario per ricevere i clienti che avevano prenotato i tavoli della sala. Mi accostai a Manuela con la scusa, agli occhi degli altri, di chiederle un'informazione. In cuor mio speravo che mi desse un appuntamento per la notte e un po' temevo che mi fe pesare di essere stato scortese con Enzo, perché avevo provato a metterlo in imbarazzo. Ho spesso sentito miei amici maschi esprimere il parere secondo cui le donne avrebbero il difetto di perdersi nei rivoli di mille discorsi e di complicarsi, pertanto, la vita. Mi trovo in disaccordo con questa opinione, ritenendo che, al contrario, il genere femminile sia spesso capace di una spiccata sintesi. A riprova di ciò, in quel frangente, Manuela, si limitò a dirmi sottovoce, girata di tre quarti e lanciandomi una rapida occhiata: "A mezzanotte nel capanno degli attrezzi da giardino." Come obbedendo a un ordine, feci dietro-
front e mi avviai in camera, con la sollecitudine di una diligente recluta, per attendere, indisturbato, che giungesse l'ora di recarmi al capanno. Sarebbe inutile soffermarsi su quanto, senza riuscirvi, provai a fare in stanza per ingannare il tempo e distrarmi nell'attesa. La memoria, pertanto, va ora diretta ai miei i circospetti lungo il sentiero buio che mi avrebbe condotto alla felicità, ai miei sensi acuiti dall'eccitazione, alla voce di insetti notturni che mi incitavano man mano che mi avvicinavo al capanno e al monito silenzioso degli alberi che mi facevano voltare di quando in quando per vedere se qualcuno mi avesse notato o mi stesse seguendo. Eccomi arrivato alla porta di quella casetta di assi di legno con un'unica piccola finestra. Il cuore che pompa veloce, l'odore della resina, di polvere e ruggine. Mi curo che la porta non cigoli troppo. Manuela è lì, alla luce di una lampadina tascabile, sdraiata a terra su un ampio plaid rosso scuro. Mi sorride ma sembra nervosa. Come la capisco: io tremo. Richiudo accuratamente la porta dietro di me. "Vieni qui, siedi..". Con una mano accarezza lo spazio di coperta accanto a lei su cui mi ha invitato. Spegne la lampadina. Poche nubi residue del temporale lasciano filtrare la luna crescente che le accende gli occhi di luce fredda. Guardo quei suoi stagni luminescenti e devo avere la faccia di un bambino in un negozio di giocattoli. Lei reclina il mento sul petto, mostrandomi le onde dei capelli neri, fluenti. Chiudo gli occhi e prendo a baciarle piano il capo, poi la fronte, il naso, il collo, le labbra. Ha nei capelli un odore meraviglioso, di vaniglia. La sua bocca sa di gelsomino. Le accarezzo le spalle; pian piano le mie dita si avventurano verso il suo seno ma lei è più audace di me. Le sue mani mi sorprendono, sono rapide, ansiose di raggiungere, di conoscere. Comincia a spogliarmi; faccio altrettanto. I nostri baci diventano morbosi, veicolano un desiderio che scende in profondità per raggiungere oasi segrete dell'altro e dissetarsene, nutrirsene. La sua pelle è calda, liscia. Le nostre mani esplorano l'intimità umida, pulsante. Siamo nudi. Lei con la destra mi prende alla nuca, mi attira su di sé e lascia che io scivoli nel tempio del suo calore, incrociando le gambe dietro me, serrandomi nel cerchio di quell'amplesso. La mia mente è lieve. Dalle labbra lascio sgorgare come in un mantra il suo nome mentre accompagno ogni movimento, ogni pulsare in lei, con un rosario di baci. Il tempo si sciolse ed evaporò: non potrei rammentarne una misurazione. Ciò che ricordo è che a un certo punto, tra i nostri sospiri, mi parve di udire il sottile gemito dei cardini della porta. L'aria dietro me si mosse rapida. Vidi gli occhi di Manuela serrarsi, il suo viso voltarsi di scatto da un lato, inorridito, e poi un colpo violento alla mia schiena e una fitta straziante che mi precipitò nel buio
più cupo.
PARTE SECONDA
VIII
" Non ho ancora voglia di alzarmi dal letto. Stanotte ho fatto un sogno, cerco di ricordare: era notte e mi ritrovavo a seguire delle bottiglie di vetro che rotolavano lentamente lungo il corridoio, come avessero vita propria, verso la cucina. Da lì giungeva una luce tremolante di candela, i cui bagliori incerti mi arrivavano da dietro l'angolo della parete che costeggiavo. A un certo punto mi fermavo: il terrore mi bloccava totalmente, come se presentissi che ciò che avrei visto in cucina sarebbe stato orribile e mi avrebbe messo in grande pericolo. Non ricordo altro. Ad ogni modo, ora mi alzerò dal letto e aprirò le imposte della finestra. Ed ecco ancora quell'amaro in bocca, quella serpe gelida che mi si avvinghia al cuore. La coscienza della verità, della mia condizione, torna rapida a trovarmi: nessun letto, nessuna casa. Sento l'umido pungere del amontagna sul viso, l'abbraccio della coperta spessa, ma non abbastanza da isolarmi dalle fredde lastre di marmo del pavimento. I lividi e il mal di schiena mi danno il buongiorno. Ogni frammento superfluo di pensiero s'incenerisce alle prime, filtranti, luci dell'alba, lasciandomi solo con l'urgenza di raccogliere le mie cose e di andare via prima che arrivi il custode."
"Proprio lì dove l'orizzonte era più rosso, si accendeva il mio tormento."
"Noi isolani non possiamo dirvi di preciso quand'è che abbiamo visto per la prima volta il mare."
A quei tempi, ero solito vivere, per la maggior parte della giornata, in riva al mare. Prediligevo la zona costiera di Sferracavallo, un borgo di pescatori ormai attaccato, senza soluzione di continuità, alla città di Palermo. Conducevo per lo più una vita solitaria e mi dedicavo a raccogliere oggetti che la gente aveva abbandonato, di plastica, legno o metallo. Ero ormai divenuto familiare agli
abitanti del luogo, che mi davano una mano a procurarmi da mangiare. Un signore, poi, che ormeggiava una barchetta da pesca in vetroresina al porticciolo del paese e col quale avevo scambiato inizialmente quattro chiacchiere e che, nel tempo, era diventato un mio abituale compagno di eggiate sul lungomare, mi aveva aiutato a trovare un letto, in una vicina struttura gestita da frati domenicani. A volte, per mia scelta quando il tempo lo consentiva o per necessità quando il posto letto non era disponibile, dormivo dove capitava. Alfredo, questo il nome del mio amico, era un pensionato di quasi settant'anni, dalla mente vivace e con la ione per il mare e la lettura, specie di racconti di viaggio. Viveva da solo, lontano dalla famiglia, ma nella sua piccola casa, il senso di solitudine gli veniva alleviato dalla presenza di Bettina, una splendida micia certosina. Come scrivevo, la raccolta di oggetti che per altri erano rifiuti, occupava gran parte del mio tempo. Mi animava la convinzione che un giorno avrei impiegato quelle bottiglie, quei barattoli e chissà cos'altro, per unirli in una specie di opera mirabile. Riciclando quei materiali, pensavo, avrei creato nuove forme e, magari, avrei dato nuova funzione a degli scarti. Ciò che alla fine riuscivo a fare, in realtà, era solo contemplare l'ingegno e la perizia di chi aveva progettato, creato quei singoli oggetti, il che faceva ancora più risaltare la mia incapacità. Mi arrendevo puntualmente alla mia mancanza di estro nell'inventare cose che avessero un minimo di valore artistico o anche solo una qualche bellezza o utilità apprezzabili. Poi, sfumata la frustrazione dell'inconcludenza, ricominciavo a impegnarmi in quell'impresa. Quando le forze me lo consentivano, facevo delle brevi escursioni in una vicina riserva naturale. Mi piaceva restare da solo fino a che faceva buio lungo i sentieri di terra battuta rischiarati dalla luna o sedermi sugli scogli a sentire la voce del mare e di animali nascosti nella fitta vegetazione. Qualche volta, approfittando di un aggio in automobile, o quando potevo permettermi il biglietto per i mezzi pubblici, andavo in città, a Palermo. Camminavo per ore. Evitando gli sguardi altrui, confidando nella possibilità di risultare invisibile, percorrevo in fretta le vie principali, commerciali, del centro. Tagliavo la folla vociante, ammaliata dai richiami delle vetrine, che ava da un negozio a un altro, per trovare rifugio nei vicoli dei quartieri popolari, dove potevo finalmente ritrovare, assimilare, l'incanto di vecchie case, piazze riparate e lastricati ancora, a volte, percorsi da qualche antica carrozza per turisti. Sentire odori forti e familiari di cucina, di panni stesi ad asciugare, udire voci dialettali, scorgere un tabernacolo, una chiesa dalla facciata di tufo annerito dal tempo, un'antica fontana, osservare i volti della gente del popolo. Tutto ciò mi rimandava a scene descritte in romanzi storici che il signor Alfredo mi aveva prestato e che lì erano ambientate. Respirare quell'aria, al tempo stesso intrisa di vitalità e decadenza, di fermento circondato
da abbandono, mi metteva a diretto contatto con l'essenza della mia condizione. Era uno struggersi e un trovare consolazione. Le zone che prediligevo erano quelle in cui si tenevano i mercati rionali. Mi mescolavo a quell'umanità, certo che in quel teatro unico, la cui impronta testimoniava di antichissime tradizioni arabe, non mi sarei sentito a disagio tra i mercanti che si sgolavano ad esaltare merce variopinta, fragranti generi alimentari, e compratori avvinti, incantati, venuti a valutare, osservare senza fretta e conversare. Scrutavo, esploravo anche io e poiché non ero nuovo, ormai, di quei luoghi, qualcuno tra i venditori, riconoscendomi, a volte mi dava qualcosa da mangiare con un sorriso o una strizzata d'occhio. Io rispondevo con gratitudine, cordialità. Nessuno, tra chi di loro mi rivolgeva la parola, si era mai mostrato insistente nel trattenermi per cercare di sapere, di avere informazioni su di me.
"Spinto da irrefrenabile voglia di correre, divorai distanze come volando rasente al suolo, pancia a terra. Il vento spazzava dal mio muso il tanfo della città. Giunsi in una piazza, mi accucciai in un angolo, dietro una bancarella di conserve. C'era un mercato, scatole di cartone vuote ammassate per terra. Effluvi di frutta e spezie, discussioni animate, gente che si accalcava. Un macellaio dal grembiule sporco di sangue mi vide e con un fischio mi lanciò un osso. Un bimbo, forzando la presa della madre, si allungò verso me provando a carezzarmi la testa con la manina, ma la donna lo tirò energicamente a sé, sgridandolo. Il bimbo prese a piangere, quindi, mentre andava via, trascinato dalla madre per la via del mercato, si girò verso me e mi guardò ancora per un istante, imbronciato, coi suoi occhi limpidi, lucidi. Poi il mercato svanì all'improvviso. Era tutto campagna intorno a me. Nembi scuri, pesanti, annunciavano un imminente temporale. Purtroppo avevo perso la capacità di correre a quel modo portentoso e mi rassegnai ad aspettare la pioggia. Quando questa arrivò, fredda, sferzante, torrenziale, mi rotolai. Frenesia, gioia pura, animale. "Ehi tu, fermati un attimo!" ..la voce, inattesa, mi arrivò alle spalle. Mi misi a sedere, avevo il fiatone; mi voltai. Un ragazzo e una ragazza, avvolti in mantelli inzuppati, si erano fermati ad osservarmi. Si tenevano per mano e sorridevano. Non una parola in più fu detta. Si voltarono e ripresero il cammino. Io ero sempre rimasto seduto al centro di una larga e crescente pozzanghera. D'un tratto un capogiro vorticoso. Uno sfinimento greve sbriciolò le mie ossa. Ecco che riprendeva la scansione del tempo d'attesa, segnato dal numero dei battiti che mi separavano dalla fine"
Nelle giornate in cui era sereno, restavo in città fino a sera, per ammirare il contrasto tra le facciate e i campanili dei monumenti barocchi o arabo-normanni, illuminati di arancio dai fari, e l'azzurro intenso del cielo che scuriva. Nei pressi di quei mercati storici, c'erano delle piazzette, dei vicoli in cui di notte si ritrovavano gruppi di ragazzi per bere qualcosa nelle antiche, caratteristiche taverne che avevano mantenuto per lo più i banconi, gli arredi e i pavimenti dei decenni ati, e mangiare quel cibo di strada che è uno dei vanti di quella città. In alcuni locali, c'era musica dal vivo e si ballava al ritmo di canzoni che invadevano le strade del circondario. Da un angolo, in disparte, osservavo quello che per me era un contrasto netto, stridente. Entro la cornice del fascino antico di quei rioni, dell'anima storica delle osterie in cui ogni angolo, ogni immagine sacra o profana, ogni fotografia di parenti o di amici di vecchia data, suggeriva, narrava, scampoli di un ato ancora vivo, di vita vissuta e ioni, campeggiava ciò che sentivo pervaso da un'aria di nichilismo, di alienazione. L'aleggiante senso di decadenza non era dato da povertà, dalla miseria che pure aveva imperato e, in parte, continuava a farlo, ma da una sorta di assenza. Il vuoto lo riconoscevo nelle espressioni inebetite, nei discorsi che udivo e ai quali non riuscivo a partecipare perché in essi non rinvenivo alcun elemento di contatto con la mia vita e ciò che poteva interessarmi. Ma a rendermi estraneo era soprattutto il riconoscere la non corrispondenza tra il vissuto, l'estrazione sociale di quella gente, che si palesava attraverso le loro abitudini, il loro comportamento, il loro modo di esprimersi, e ciò che volevano apparire. In quei vicoli storici, era come se a una certa ora si mettesse in scena una farsa in cui membri di famiglie benestanti della borghesia cittadina, recitavano maldestramente una parte, quella del bohèmien, che forse dava loro l'appagante sensazione di assomigliare ai loro eroi letterari, musicali o cinematografici. Ad attirare la mia simpatia e a darmi motivo di ritornare, erano invece gli autentici esponenti del popolo, che gestivano alcuni dei locali o si mescolavano alle comparse per vendere loro qualche genere di conforto che li aiutasse a meglio interpretare la loro parte di reietti e ribelli. Anche io, che non potevo permettermi neanche una birra, mi divertivo a volte, in quegli stessi vicoli, aiutato da una livrea che mostrava i chiari segni dell'usura, a recitare la parte dello sballato, a sostenere discussioni sul nulla con quei rivoluzionari da social network, omologati opinionisti, frequentatori di ambienti virtuali. In quelle occasioni, alla mia misantropia si mescolava, stemperandola, una certa dose di so; ma io, mi chiedevo, ero migliore di loro?
Un giorno volli ripetere un'esperienza che ero solito fare ai tempi del ginnasio, quando l'incapacità di darmi una disciplina e di aderire al senso di responsabilità che invano i miei professori tentavano di instillarmi, mi portava, all'insaputa dei miei genitori, lontano dalla classe in cui si svolgevano le ore di lezione. Ero riuscito ad accumulare i soldi per il biglietto e presi a piazza Indipendenza, come facevo da ragazzino, l'autobus che dal quartiere Acquasanta, sul mare, arrivava sino al paese di Monreale, sito in uno dei monti che circondano la città. Sulle prime, quell'idea mi aveva dato una strana eccitazione, quasi una gioia che presto, però, si rivelò effimera. Allora, come adesso, non riuscivo, infatti, a sottrarmi al senso di colpa e di tristezza che mi coprivano come un manto. Rintanato in uno dei posti in fondo all'autobus, osservavo la vita scorrere, una vita sociale alla quale non riuscivo a partecipare, alla quale non mi sentivo, in definitiva, adatto. Da un capolinea all'altro, restavo immobile, sfuggendo agli sguardi degli altri eggeri, dell'autista e di quanti, vedendomi lì mi avrebbero potuto giudicare per ciò che in realtà ero. Da adolescente, non ero stato uno studente diligente, adesso cos'ero? Chi ero diventato? Ero ciò che, in fondo, ero sempre stato. La differenza tra un ribelle anticonformista e un parassita è enorme e la percepivo in tutta la sua chiarezza. Il farmi trasportare per ore su quel mezzo pubblico, quello spreco assoluto di tempo, metteva in risalto l'assenza di un ruolo, nel vivere civile, che avrebbe dovuto coinvolgermi, inglobarmi, convogliare le mie energie e impiegarle in qualche modo. L' esser risalito su quell'autobus, l'aver voluto ripetere quel giro, mi dissi, poteva aver rappresentato o la celebrazione di una definitiva sconfitta, o il cercare di prendere coscienza e, quindi, spingersi ad una svolta. Lo studente negligente e l'uomo fallito si erano dati appuntamento e si guardavano negli occhi, riconoscendosi. Si sarebbero rassegnati a un destino imposto dalla loro vera natura o avrebbero reagito? E se avessi voluto contrastare il mio declino, da dove avrei potuto cominciare? Crearmi degli impegni, delle cose da fare, tenere attiva la mente, interagire con persone che avrebbero potuto veicolare occasioni di riscatto, erano stati sinora dei tentativi, dei possibili vettori di energia ed ottimismo, contro cui, tuttavia, giganteggiavano riflessioni sulla mia effettiva incapacità di stare al mondo o di chiedere vero aiuto, per orgoglio, per sfiducia, ma anche per un tipo di versante speculare su cui mi ero adagiato e che potrei chiamare l'accontentarsi del sopravvivere. E su tutto ciò, campeggiava sovrano un vuoto, come una voragine nel mio essere, nella memoria, che mai avevo davvero affrontato e provato a identificare. In fondo, quindi, che diritto avevo io di criticare chicchessia? Per quanto le persone che osservavo potessero essere o apparirmi false, incoerenti, esse avevano comunque un ruolo, un posto nella società che io non potevo che
scrutare da distanze incolmabili. I eggeri che affollavano l'autobus erano una cortina dietro cui mantenere il mio anonimato. Delle loro discussioni, raccoglievo qua e là frasi, parole sparse, ma il resto era per me un brusio indistinto che, insieme alle ondulazioni della vettura, ai rumori familiari del motore, dell'aprirsi e chiudersi delle porte, mi cullava fino a conciliarmi un pigro torpore, interrotto, a volte, dallo sbraitare di qualcuno o dalla fragorosa risata di altri. Quegli autobus avevano un odore particolare, unico, generato in un "brodo primordiale" in cui si mescolavano fragranze, olezzi, miasmi scaturenti dalle abitudini, civili o deplorevoli, degli esseri umani circa la loro igiene personale o la natura del loro bagaglio, dall'usura dei materiali di cui erano composti gli interni dei mezzi pubblici e dagli aromi, di quando in quando, dei detergenti impiegati dal personale di servizio per la pulizia degli stessi. Uno dei momenti più spiacevoli di quel mio tour, da ragazzo, sopraggiungeva quando, man mano che ci si avvicinava al capolinea, il gruppo dei eggeri si sfoltiva, lasciandomi sempre più allo scoperto e, a volte, solo. Più di una volta era accaduto che i conducenti o i controllori, notando che non scendevo all'ultima fermata e che attendevo che l'autobus riprendesse la corsa, mi guardassero con ironia o scuotessero lievemente il capo, tutti atteggiamenti, questi, che avevano il comune esito di farmi affondare in un cocente imbarazzo, di sentirmi giudicato. Ad evitare che ciò si verificasse anche adesso, arrivati nel paese di Monreale, all'ultima fermata, scesi anche io, senza indugio, dall'autobus e mi sedetti su una panchina lì vicino, nella piazza del duomo. Per tornare in città avrei atteso una corsa successiva. Di fronte a me, si ergeva la meravigliosa cattedrale normanna, fatta costruire da Re Guglielmo II. Osservando la grande porta d'ingresso rivestita di formelle bronzee, immaginai, dietro di essa, la luce emanata dalla vastissima superficie dorata dei suoi splendidi mosaici, sentii lo sguardo del Cristo Pantocratore che attraversava la soglia e mi raggiungeva dall'abside. Prima di assecondare il richiamo proveniente dal duomo, visitandolo, volli fare i conti, su quella panchina, con una riflessione ispiratami proprio dal giro in autobus. Ricorderò sempre quei momenti come l'inizio, la genesi, in me, di un processo di emersione in cui degli spiragli di luce presero a ritagliare degli angoli, porzioni crescenti in una superficie oscura. Esistono elementi della nostra esistenza, avvenimenti, stati d'animo, che nonostante una netta rimozione o lo schermo dell'amnesia, possono essere evocati da circostanze casuali o solo apparentemente tali.
Sull'autobus che avevo atteso e preso, avevo appunto ritrovato una parte di me adolescente e, in un effetto di risonanza, la vergogna, la pena per ciò che ero, per come mi ero ridotto, per l'incapacità di reagire. Avevo compiuto un o, il primo, per tornare a sapere davvero chi ero stato e chi ero allora. Mi chiesi se la miseria fosse stata, da sempre, un tema ricorrente, inesorabile, del mio destino ma non lasciai a questo interrogativo il fiato sufficiente: impedii a me stesso di continuare a pensare, mi alzai e mi diressi verso l'entrata del duomo.
IX
La cattedrale mi accolse nel fresco silenzio del suo immenso ventre. Il rumore attutito della porta che si era richiusa alle mie spalle, al tempo stesso tracciava un confine sonoro col mondo esterno e, con la sua eco, m'introduceva in una dimensione nuova, primigenia. Le rare parole sussurrate, i i attenti dei visitatori, invitavano ad armonizzarsi al rispetto per la sacralità di quel luogo, per il suo respiro senza tempo. L'estro, l'afflato, la devozione dell'uomo avevano mirabilmente modellato, animato, , la materia mutandola in capolavori innumerevoli, il cui valore anelava di elevarsi, di tendere al divino, per offrire tributi e celebrarne la supremazia. Mi diressi verso una delle due file di panche più vicine all'altare. Mi sedetti accanto al tappeto vermiglio che attraversava la navata centrale fino a ricoprire i gradini che portavano all'altare. Era stato celebrato da poco un matrimonio e due signore stavano finendo di rimuovere delle candide composizioni floreali allestite per l'occasione. Mi resi subito conto che non ero entrato per ammirare la magnificenza dell'arte di quel duomo. Trovai nello sguardo del Cristo, cui la superficie ricurva della conca absidale conferisce un effetto stereoscopico, un punto prospettico verso cui proiettare la tensione dei miei pensieri. Non potevo dirmi un cristiano praticante ma, a modo mio, mi raccolsi e pregai che avesse fondamento quella che i credenti ritengono un'incontestabile verità, che l'anima dei nostri cari defunti, cioè, venga accolta in un abbraccio divino e che ci accompagni nel nostro cammino terreno. Un sagrestano, venuto a dare istruzioni alle signore che toglievano gli addobbi, si accorse di me, mi fissò per qualche secondo, poi si mosse nella mia direzione. Si fermò ad ispezionare i bordi del tappeto accanto a me e d'un tratto, con tono affettato, mi comunicò che l'orario per le visite era terminato da dieci minuti. Lo rassicurai che stavo per andar via. Mentre mi alzavo dalla panca, vidi che a un paio di metri alla mia destra si era seduta una giovane donna, sulla trentina, dai corti capelli biondi che avevo già visto sull'autobus e che, come me, era scesa al capolinea. Anche lei sembrò riconoscermi e mi sorrise. "Ci cacciano via" , disse con ironia. "Già. Anche lei era sull'autobus, vero?" - "Si, e ogni volta che torno a Monreale non posso non visitare la cattedrale." Ci dirigemmo in silenzio verso l'uscita. Appena i rumori della strada ripresero a circondarci, la donna mi disse che se avessi voluto tornare a Palermo, non avrei dovuto attendere al solito
capolinea: quella su cui eravamo saliti era l'ultima vettura che per oggi sarebbe arrivata in piazza. Ci sarebbe stata, infatti, di lì a mezz'ora, una manifestazione organizzata dalla pro loco e il traffico, in quella zona, era interrotto. In definitiva, l'unico mezzo pubblico con cui sarei potuto tornare in città, faceva sosta in una piazzola che si trovava circa due chilometri più in giù, lungo la statale. Datami questa preziosa informazione, la donna mi salutò e andò via. C'era, inoltre, un'altra difficoltà da fronteggiare, in base a quanto rivelatomi: vista l'ora, avevo a disposizione circa venticinque minuti per raggiungere l'ultima corsa giornaliera. Dovevo scegliere in fretta se darmi ad una gara disperata contro il tempo, sperando in un provvidenziale ritardo dell'autobus in arrivo, o se trovare un modo alternativo per rientrare. Guardai il cielo sereno che, dopo gli ultimi bagliori rosei del tramonto, si scuriva per accogliere lo spettacolo luminoso della luna piena. Contai i soldi che avevo in tasca. Mi sarebbero bastati per un panino. Appena fuori del paese, c'era una fontana di acqua potabile. Avevo già deciso: quella notte mi attendeva una lunga eggiata sotto le stelle. Con mia sorpresa, quando mi guardai attorno per scegliere il posto in cui comprare la mia cena, vidi che la donna con cui avevo parlato era rimasta ad osservarmi dall'altra parte della piazza. Appena incrociai a distanza il suo sguardo, notai in lei un'aria di disappunto che però si mutò subito in un sorriso imbarazzato. Alzò una mano in segno di saluto, al quale risposi a mia volta agitando la destra, quindi sparì dietro la gente che cominciava a confluire per la manifestazione. Comprai un panino in una rosticceria, lo mangiai seduto su uno scalino in un vicolo semibuio. Raggiunsi quindi la fontanella di acqua potabile, mi sciacquai le mani, il viso e bevvi. L'acqua era fresca, mi diede animo e ne sentii il gorgoglio come una voce che m'incoraggiava, insieme al cielo stellato, ad affrontare quel lungo tratto di strada. M'incamminai. Le luci di Palermo, che dalla "conca d'oro" degradavano verso il mare, erano la mia meta. Erano così lontane da sembrare irraggiungibili. La città, dal basso, mandava un brusio sommesso, confuso, sul quale prevaleva a volte il rombo vicino di una motocicletta, un clacson o una sirena dal porto. Le auto che scendevano da Monreale divennero sempre più rare e presto mi sentii ancora più solitario su quel lungo rettilineo d'asfalto in discesa. Un cane randagio mi attraversò la strada a una decina di metri e, quando gli fischiai per chiamarlo a me, prese a correre e s'infilò nel bosco che costeggia la statale. Arrivai nei pressi di una piazzola nella quale sapevo che anni prima era morta una coppia di fidanzati. Un tizio, forse ubriaco, aveva perso il controllo della sua auto e aveva investito
violentemente l'utilitaria, ferma in quello slargo, nella quale c'erano i due amanti. Un vaso con dei fiori scarlatti era lì, fissato al muretto a ricordare quella tragedia. Mi fermai qualche istante. Mi avvicinai alla balaustra e guardai ancora la città sotto di me. Mi immersi nei miei pensieri. Il signor Alfredo, due giorni prima, mi aveva parlato di una cittadina siciliana, che aveva visitato di recente: Gibellina. Seppi da lui che la città vecchia, situata in un'altra zona, era stata devastata, molti anni prima, da un violento terremoto. Osservando il buio costellato delle luci di Palermo, ritrovai le parole del mio amico, con cui mi aveva confidato un acuto senso di desolazione: le luci al neon che aveva visto eggiando di notte per le strade deserte della Gibellina ricostruita erano state definite da lui come la muta colonna sonora di un funerale elettrico. Ripresi a camminare. I pensieri cominciarono a cambiare alveo, scorrendo in pendenza verso delle rapide. Riconobbi a me stesso che il motivo vero di quella peregrinazione notturna era il cercare la solitudine per continuare a disseppellire, ricordare, portare chiarezza su quanto di me giaceva sommerso. Erano, in quella giornata, affiorati sprazzi di luce che chiedevano adesso di essere seguiti verso accessi a verità, ma il buio nel quale procedevo, che, interrotto da pochi lampioni, aleggiava tra le due città, fu lo stesso che restò padrone della mia mente. Mi rassegnai, quindi, a ragionare sulla mia condizione attuale. In fondo sentivo che il mio umore era buono, lieve, e me ne volli giovare per farmi forza. Ero, a conti fatti, poco più che un barbone. Se avessi dovuto giudicarmi col metro imposto dalle convenzioni della società in cui vivevo, il fallimento sarebbe risultata la cifra della mia vita. Mi fermai ancora. Come il cane che avevo visto prima, abbandonai la strada. Scavalcai un muro basso che delimitava il bosco e, mossi a tentoni pochi i nell'oscurità, che lì era più fitta, mi sedetti sotto un albero. Dando le spalle al vicino manto stradale, ripresi il corso dei miei pensieri. Mi chiesi cosa fosse, in fondo, la felicità, da quali elementi fosse composta. Di certo, mi dissi, il centro della mia percezione della vita ero io stesso e in me solo dovevo cercare. L'essenziale doveva essere il mio approdo; mi concentrai su di esso. Al di fuori della sostanza dell'esistere, vedevo gravitare una congerie di falsi obbiettivi, di corse frenetiche, di affanni che ammorbano tanta gente. La mia condizione, per quanto potesse apparire deplorevole, poteva rivelarsi un'occasione, ad esempio, di contatto con la realtà più vera e semplice, basilare. Non possedevo che poche cose e nulla che avesse valore materiale, che assorbisse le mie energie e offuscasse la mia lucidità. Niente e nessuno, inoltre, poteva distogliermi dall'apprendere in modo autentico dalle esperienze della vita. Quanti, in quel momento, potevano permettersi, come me, il privilegio di quei pensieri scevri da contingenze del quotidiano, da ansie da circuito di produzione? Certo, non avevo un lavoro, una casa, una famiglia, ma, intanto, ero
in salute e avrei, giorno per giorno, in un modo o nell'altro, trovato di che nutrirmi e, soprattutto, si potevano aprire davanti a me strade, occasioni, che non potevo immaginare né, quindi, precludermi cadendo in trappole umorali o di pregiudizio. La luce sul mio ato, magari, un giorno sarebbe stata liberata, ma nel frattempo era il presente la sola superficie su cui il mio essere si poneva. Mi preparai a trascorrere la notte nel posto in cui mi ero seduto. Sgomberai da qualche sasso e ramoscello la superficie su cui mi sarei sdraiato, mi accucciai nei miei panni e rimasi immobile a sentire i suoni della notte, a fiutarne gli odori, in attesa che sopraggiungesse il sonno. Il canto di una civetta, fruscii tra foglie, uno sbattere d'ali. La terra, l'erba, la resina, il muschio riempivano delle loro essenze le mie narici, scorrevano in me come in un cerimoniale di benvenuto tra i loro domini. Un alito di aria fresca mi accarezzò le tempie.
X
La luce del mattino mi sembrò arrivare presto, a scovarmi per destarmi dal torpore profondo in cui ero scivolato e scuotermi di nuova coscienza. Il traffico di autovetture stava per riprendere la sua regolare intensità lungo il nastro d'asfalto che si svolgeva a pochi metri da me. Pensai che, forse, proprio perché avevo dormito ai piedi di un albero e udito la voce del bosco, esistevo ed ero più vivo di altri. Distesi e sgranchii le membra, quindi mi alzai e mi avvicinai alla strada, restando, però, ancora nascosto. Volevo rimettermi in cammino senza però far notare che venivo dal bosco. Non c'era una ragione fondata per questa mia prudenza, ma, come fossi clandestino, non intendevo attirare la curiosità di alcuno. Attesi che la via fosse libera e saltai, dal ciglio del muretto che delimitava la vegetazione, sul marciapiede. La mattina, nonostante l'ora, era già calda e una cappa d'afa ristagnava sulla città che si svegliava. Mi misi in cammino con l'intenzione di arrivare alla prima fermata dell'autobus per poi raggiungere il mare di Sferracavallo e tornare alle mie abitudini. Quando giunsi nei pressi del punto in cui la strada che stavo percorrendo s'interseca col lungo corso che conduce dritto a Porta Nuova, uno degli antichi varchi del centro storico della città, con mia sorpresa, mi sentii chiamare. Era Alfredo. Dalla sua utilitaria bianca, ferma dall'altra parte della via, mi fece cenno di salire a bordo: "Che ci fai qui? Vieni che ti do un aggio! " Accolsi con gioia il suo invito, che mi restituiva al conforto di un sano rapporto umano. Anche il signor Alfredo apparve contento di vedermi, nonostante un velo di stanchezza sul viso, come se avesse trascorso la notte insonne. Prima che potessi parlare, mi fece: "Oh, ma questa si che è una coincidenza! E poi trovarti proprio qui, dall'altra parte della città!" - "Coincidenza? In che senso?" - "Eh si, benedetto ragazzo! Ma, giustamente, tu non puoi saperne niente. Ora ti spiego: finalmente sono riuscito a mettermi in contatto con una persona che forse potrà darti una mano!" - "Ah, bene ma...in cosa mi potrebbe dare una mano?" "Incrociamo le dita perché, a quanto pare, potrebbe darti da lavorare. Però tu ora devi farmi un piacere, anzi due: non farmi domande, anche perché potrei dirti una cosa per un'altra, e, soprattutto, promettimi che verrai con me da lui, così ti dirà tutto quello che ti serve sapere. Anzi, dato che sei qui, ora lo chiamo e
sentiamo quando può riceverti!" La notizia, così importante ed inaspettata, mi aveva scosso. In me, gioia e prudenza, presero a darsi battaglia. La telefonata fu breve e fatta di poche parole, quasi uno scambio di locuzioni convenzionali. Alfredo, terminata la conversazione col suo conoscente, mi guardò soddisfatto e mi disse: "E' fatta: ci aspetta ora!" - "Ma io..non so se sono in condizioni di.." - "Tranquillo: gli ho già spiegato la tua situazione. Non ci sono problemi." Detto questo, mise in moto l'auto e s'infilò nel canale lento, snervante, del traffico cittadino. Chiesi dove sarebbe stato l'appuntamento. Alfredo mi rispose che il suo amico ci aspettava alla stazione centrale dei treni; mi chiese, poi, se volevo fare colazione. Dissi che non ne avevo voglia. Il tragitto per la stazione fu lungo e, per buona parte di esso, restammo in silenzio. Non dimenticherò mai il mio stato d'animo durante quel percorso in auto: ero pieno di speranza e la fiducia prendeva il sopravvento sulla cautela, insieme alla sensazione del trovarmi sul ciglio di un mutamento, di una nuova vita. Giunti nell'ampia piazza della stazione, Alfredo accostò l'auto davanti un porticato laterale, attraverso il quale si giunge ad uno degli ingressi del monumentale edificio, il cui stile architettonico eclettico è tipico della Palermo di fine ottocento. Senza spegnere il motore, il mio amico mi disse di scendere e di dirigermi di fronte all'edicola che si trovava davanti alle biglietterie. Il tizio con cui avrei dovuto parlare mi avrebbe incontrato lì e lo avrei riconosciuto da una valigetta rossa; lui, ad ogni modo, aveva già avuto una mia descrizione. Alfredo, quando aprii lo sportello ed uscii dalla vettura, mi comunicò che, purtroppo, doveva andar via per un impegno urgente. Non poteva, quindi, accompagnarmi fin dentro, tuttavia non c'era nulla da temere: dovevo far conto che Manlio, questo era il nome della persona che avrei incontrato, fosse un nostro comune amico. Cercai di protestare debolmente ma Alfredo, mentre mi chinavo verso l'abitacolo, attraverso il finestrino abbassato, m'interruppe con questa frase: "E' un peccato che tu non abbia fatto colazione con me: avrei potuto offrirti un bicchiere di menta o di tamarindo... ". Detto questo, mi guardò dritto negli occhi e sorrise. Il suo volto aveva assunto un'espressione, una mimica che mai, finora, avevo visto in lui. Mi sembrò, per qualche istante, una persona diversa. Non seppi cosa rispondere a quella strana affermazione. Alfredo non attese la mia replica: mi fece i suoi migliori auguri, mi salutò e andò via. Guardai la sua auto bianca sparire, fagocitata dal transito caotico che avviluppa e asfissia le vie del centro. Quindi mi voltai verso la stazione, trassi un respiro
profondo e, tra mille pensieri, mi avviai verso l'edicola. La stazione centrale di Palermo era pervasa da un turbinare di rumori. Lo stridere del metallo sulle rotaie sovrastava sovente il magma di voci, di strepiti, di gracchianti annunci amplificati, del cicalare di segnali acustici. Gente in fila alle biglietterie, in attesa con sguardi fissi su cartelloni luminosi, in corsa verso i binari, seduta ai tavolini del bar. La mia attenzione su queste scene di vita ordinaria era però fugace, distratto da riflessioni, interrogativi e dall'ansia per quell'incontro. Arrivai al luogo dell'appuntamento. Mi guardai attorno. Ancora nessun uomo con la valigetta rossa. Ad un tratto si accese in me un senso di malessere. Non ne conoscevo con certezza l'origine ma sentivo l'urgenza di allontanarmi, di sottrarmi all'abboccamento. Forse non era il momento giusto per me, non mi sentivo pronto, adatto a sostenere un colloquio di lavoro. Mi risolsi ad andare subito via. Ad Alfredo avrei raccontato che Manlio non si era presentato, o, quantomeno, non ci eravamo riconosciuti. Sarebbe stato fissato un altro appuntamento, per il quale mi sarei preparato meglio, con più animo. Era la cosa giusta da fare. Se fossi rimasto, mi dissi, avrei di certo rischiato di rovinare quell'opportunità. Mi mossi verso l'uscita senza neanche guardarmi attorno un'ultima volta, come se fuggissi. Dovevo evitare che l'uomo con la valigetta arrivasse in tempo per vedermi andar via. Avevo fatto una decina di i, quando sentii una mano prendermi energicamente alla spalla destra. Mi voltai di scatto, quasi preparandomi a ricevere un colpo. Serrai istintivamente i pugni. Il tizio che mi aveva bloccato mi fece con un tono che non ammetteva obiezioni: "Coraggio, Mattia, ho lavoro da proporti! E poi abbiamo un viaggio da riprendere...".
"Ora aveva dischiuso gli occhi per abituarli all'oscurità quasi piena della stanza. Seduto sul divano, poggiato col gomito destro su uno dei braccioli e pronto a immergersi in riflessioni, ebbe la certezza che il pensiero di poter raggiungere, con un breve movimento della mano, l'interruttore della lampada sul vicino tavolino, lo rassicurava. Ma cos'era, poi, si disse presto, questa stupida, infantile paura del buio? Scuotendo la testa, rise di se stesso. Decise, anzi, di aumentare la posta in gioco sul piatto dell'autostima: si allungò nello spazio tra il tavolino e la parete e, con un gesto quasi di stizza, afferratolo, staccò dalla presa di corrente il cavo di alimentazione della lampada gettandolo via, in un punto imprecisato sul pavimento. La prodezza ebbe, però, l'effetto di fargli urtare col braccio il tavolino, che cadde trascinando con sé la lampada.
Questa, comunque, a giudicare dal rumore dell'impatto del paralume con le piastrelle, non si era rotta, limitandosi a rotolare per un metro o due. L'avrebbe recuperata in seguito. Si portò, quindi, al centro del divano e si mise a braccia conserte, tirando un lungo sospiro. Era giunto il momento di concentrarsi su qualcosa di piacevole, per distendere i nervi; poi avrebbe ripreso il filo del suo complesso ragionamento. La memoria, senza una ragione apparente, mise a fuoco delle immagini che, con straordinaria nitidezza, raccontavano un episodio della sua adolescenza: una festa in casa, tra compagni di classe. Una festa in maschera. Chiuse gli occhi, reclinò il capo sullo schienale. Il suo respiro, inaspettatamente, si fece, però, d'un tratto affannoso, corto. Sentì stringersi la gola, battere forte il petto. Ansimava. Si raddrizzò, poggiando le mani sulle ginocchia. Per quale stregoneria aveva preso a sudare freddo? Convenne che ogni ulteriore considerazione sarebbe stata vana se non avesse prima ri la luce: doveva guardarsi attorno, osservare ciò che lo circondava in quella camera; Il panico, altrimenti, lo avrebbe ghermito presto. Aveva adesso, inoltre, il vivo bisogno di ritrovare qualcosa, in quella stanza, di cui avvertiva la presenza. L'agitazione non lo abbandonava ma riprese una maggiore, se pur ancora sottile, lucidità. Il battito nel petto rallentò. Questa nuova sensazione, il pensiero improvviso, inspiegabile, di un oggetto da rinvenire, lo portò a considerare la sua condizione. Era, difatti, come se nella sua coscienza fosse avvenuta una scissione tra la dimensione del presente e quella del tempo appena trascorso, e quel qualcosa fosse rimasto a cavallo del confine temporale. Si trattava, valutò, di un oggetto dai contorni indistinti, non ricordava bene, rimasto fuori dal suo campo visivo da quando si era seduto sul divano ma che, se si fosse messo a cercarlo, era sicuro di ritrovare e di riconoscere. Un oggetto che gli sembrava provenire da un ato recentissimo eppure nebuloso. Ammise che se così fosse stato, allora, non riuscendo a definire con chiarezza quanto aveva, magari, potuto interessarlo, coinvolgerlo, poco prima, era di certo stato vittima di un malessere che lo aveva reso incosciente e ne aveva offuscato la memoria. Crebbe in lui un timore che si convogliava e trasformava in azione, come la paura delle tenebre che spinge a correre verso un bagliore. Si mosse per ritrovare la lampada. L'impresa si preannunciava però non facile, dato che nel frattempo il buio era divenuto fitto e per di più, non essendoci altra fonte di luce, il lampadario era, appunto, guasto, non ci sarebbe
stato modo di inserire agevolmente il cavo di alimentazione, una volta recuperatolo, nella presa. Si alzò, risoluto, dal divano con la volontà di procedere tentoni, cautamente, fin quando non si sarebbe imbattuto nella lampada o nel vicino tavolino. Fece tre o quattro i. Accadde allora che niente, di ciò che gli veniva al tatto, sembrasse familiare. Era possibile che non ci fosse neanche una cosa al proprio posto? Si rese conto di stare perdendo rapidamente l'orientamento e, nel giro di pochi istanti, si sentì sperduto nella vacuità di un luogo ignoto. Provò a tornare al divano: avrebbe tentato, da lì, di uscire dalla stanza, seguendo il muro, ma nonostante avesse camminato per qualche metro e agitato le braccia tutto intorno a sé, non toccò che aria. Quella scarsa lucidità che gli restava lo abbandonò: cominciò a correre come un forsennato finché quella che gli parve una pozza lo fece slittare e stramazzare al suolo. Sbatté violentemente i gomiti e il ginocchio destro e urlò di dolore, rabbia e paura insieme. Maledisse a gran voce la propria stupidità, quindi si distese supino, ansimante. Trascorse un tempo incalcolabile, poi una calma glaciale lo invase togliendogli la necessità di ragionare oltre. Si mise carponi, strisciò fino alla pozza; vi intinse un dito e se lo portò alla lingua. Si mise in piedi, fece due i e inciampò in ciò che, oltre alla lampada, cercava. Vi s'inginocchiò accanto, prese ad esplorarne la superficie. Forme lisce e sinuose scorsero sotto il palmo tremante della mano, fin quando le dita avvertirono dei bordi frastagliati, umidi. Si raccolse in sé, si tappò le orecchie e un urlo gli esplose tra le ossa del cranio. Poi tutto si sciolse in pianto. Tutto divenne pena e sgomento"
XI
Manlio era un uomo cui avrei potuto dare la mia età; ben vestito, di corporatura snella ed atletica. Gli occhi erano di un azzurro-verde e i ricci capelli castani incorniciavano i lineamenti regolari del suo viso, contratti, però, in quel momento, da un'evidente tensione nervosa. Mentre camminavamo in fretta verso i treni, si guardava spesso in giro con fare circospetto. Notando, forse, che non avevo detto una parola, accennando un sorriso, come volesse stemperare l'apprensione che era certo di avermi trasmesso, mi spiegò che stavamo per prendere un treno diretto a Messina; da lì, poi, avremmo preso la prima coincidenza disponibile per Siracusa. Si scusò per avermi travolto con tutta quella agitazione e mi informò che non dovevo preoccuparmi per il biglietto di viaggio perché aveva già provveduto lui per me. Lo ringraziai e salimmo sul nostro vagone. Ci sedemmo nel primo scompartimento libero, l'uno di fronte all'altro. Non c'erano altri occupanti nella nostra cabina. I sedili, rivestiti di tessuto grigio scuro, avevano un'imbottitura comoda. Pensai che se fossi stato da solo, mi sarei di certo sdraiato e avrei dormito, cullato dal movimento della carrozza. Feci il punto della situazione: nel giro di un paio d'ore o poco più, dopo essermi risvegliato ai piedi di un albero, mi ritrovavo adesso insieme a uno sconosciuto, su un treno diretto dall'altra parte dell'isola. Per un attimo ebbi la speranza che qualche imprevisto interrompesse quella vertigine di eventi, ma la spinta in avanti, lenta e decisa, che avvertii sullo schienale, seguita da rumori metallici dal ritmo e dall'intensità crescente, mi dissero che il treno si muoveva già sulle rotaie, prendendo sempre maggiore velocità. Oltre i finestrini, scorse il profilo delle carrozze sui binari contigui, degli ultimi edifici della stazione, e infine delle case e dei palazzi cittadini, finché anche questi, sempre più rari, lasciarono prevalere il blu del mare, il verde delle campagne e il grigio dei monti. Guardai il mio compagno di viaggio. Era immerso in chissà quali riflessioni, lo sguardo fisso oltre il finestrino e la fronte corrugata. Accortosi che lo stavo osservando, si rivolse a me con un sorriso bonario. Prima ancora che aprisse bocca, gli dissi, non senza provarne vergogna, che mi dispiaceva essere in quello stato, che avrei preferito darmi una ripulita, cercare qualcosa di meglio con cui vestirmi. Lui m'interruppe con un gesto della mano e mi rassicurò che non c'era alcun problema. Presto, comunque, se lo desideravo, avrei potuto cambiarmi. Lui avrebbe pensato a tutto.
Il treno viaggiava ormai spedito. Gli elementi del paesaggio scorrevano veloci sullo schermo di vetro. Mi venne in mente di chiedere a Manlio qualche delucidazione sulla sua offerta di lavoro. Lui guardò ancora fuori, verso il mare, inspirò profondamente e poi prese a parlare, come se avesse atteso finora di esprimere un concetto complesso sul quale aveva meditato: "Il tuo lavoro, si..te ne parlerò presto. Però ora stavo pensando a una cosa e voglio sapere, intanto, se la condividi, se sei d'accordo con me. Ti sembrerà che non c'entri niente e invece per me è importante, anche per il compito che, se vorrai, andrai a svolgere." Feci un cenno di assenso col capo, lui proseguì: "Vedi, io amo la Sicilia, come si ama una madre di cui si hanno il sangue e i tratti del viso. Io voglio sperare che, un giorno, l'insieme delle persone oneste, qui, non sarà più un insieme di solitudini. Ci esaltiamo a volte con la parola "rivoluzione". Per fare le rivoluzioni, però, bisogna eliminare i capi famiglia, i "padri"; noi, invece, ci siamo sempre scannati tra fratelli. Quando un "capo" viene a proporci la speranza di un orticello, di un pezzo di pane, ci acquietiamo e perdiamo la memoria. Per cambiare le cose dobbiamo prima cambiare noi stessi. Sei d'accordo? Quante volte l'hai sentita questa frase?". Roteai piano la mano sinistra per fargli intendere che quelle parole, seppur giuste, le avevo sentite troppe volte. Sentivo, al tempo stesso, che il discorso del mio interlocutore aveva l'effetto di farmi sentire più a mio agio. Lui continuò con maggiore enfasi: "Certo! Tu vuoi dirmi che si parla, ci si riempie la bocca di buoni propositi, però al momento di agire, di scegliere, siamo tutti sovrani dentro le mura domestiche e ogni famiglia è una città-stato. Quello che si trova fuori dalla porta di casa nostra non ci riguarda. E qui sta il punto! Ora io non voglio certo farti preoccupare o immaginare chissà che, però avrò bisogno di sapere se posso contare su di te. Se, cioè, tu ti dimostrerai una persona capace di fare delle scelte coerenti". Credo che, allora, notò in me un certo smarrimento, per il fatto che, di punto in bianco, mi sentivo caricato dalla visione di responsabilità che, seppure ancora vaghe, si preannunciavano gravose. Per tale motivo, cercò di rasserenarmi: "Attenzione, non pensare che parli di crociate, di chissà quali imprese. A chi di noi non è capitato di are un periodo buio? Di toccare il fondo? In fasi come queste, se c'è una cosa che mi fa stare meglio è assistere allo spettacolo del talento o della buona volontà, della buona fede che la gente riesce a esprimere in qualsiasi attività, anche la più apparentemente umile. Sto meglio perché quello spettacolo, anche se ho la merda fino al collo, mi rinnova la speranza che forse siamo al mondo per brillare e non per strisciare. Avere a che fare con persone di buona volontà mi aiuta a scoprire il meglio di me e se c'è una cosa che mi piace fare è dare risonanza alla virtù, moltiplicarla. Per me, anche piccoli gesti quotidiani hanno il loro peso. E un buon collaboratore, per essere affidabile, deve incarnare un ideale condiviso
con la squadra." Ragionai: rispondere che mi trovavo d'accordo con lui non mi costava, in quel momento, nulla. D'altra parte, non avevo elementi per dirmi contrario e se lo avessi fatto mi sarei precluso stupidamente quella che poteva rivelarsi un'occasione importante. Mi dissi, quindi, pienamente in sintonia con quella etica, sia dal punto di vista civile che professionale. Manlio, battendo il pugno destro nel palmo della sinistra, si limitò a rispondere: "Ottimo!". Troncò, quindi, lì il suo discorso e riprese a concentrarsi con lo sguardo perso oltre il vetro. Dopo qualche minuto, come riavendosi da un torpore, si rivolse nuovamente a me, stavolta con un tono che aveva del confidenziale: "Non pensare che io non abbia mai sbagliato, che non sia mai uscito dal seminato, anzi. Ho fatto cose imperdonabili. Però, ormai, penso di avere capito, e se c'è una cosa meravigliosa, questa è la possibilità di rimediare...". Detto ciò, accostò la tempia sul poggiatesta, chiuse gli occhi e parve addormentarsi. Cercai, senza farmi tante domande, di seguire il suo esempio e ci riuscii perfettamente perché quando venni svegliato da Manlio, questi mi avvertiva, seguito subito dopo dall'annuncio dell'altoparlante della stazione, che eravamo arrivati a Messina. Mi disse che saremmo scesi per prendere una coincidenza per Catania, ma prima avremmo messo qualcosa sotto i denti. Consultato il tabellone degli orari delle partenze, ci accorgemmo però che il primo treno per Catania, in realtà, sarebbe partito tra poco meno di dieci minuti e per di più da un binario lontano da dove ci trovavamo. Il prossimo treno disponibile sarebbe stato tra due ore. Corremmo, dunque, al bar della stazione per portar via due panini che avremmo mangiato durante il viaggio e imboccammo di volata il sottoaggio. Nel vagone, trovammo posto in uno scompartimento occupato da una coppia di anziani, ben vestiti e oltremodo cortesi e cordiali che, come ci dissero subito dopo essersi presentati, andavano a Catania per la laurea del nipote. I due coniugi, i cui lineamenti mi ricordavano una cartolina raffigurante una coppia di pappagalli, mentre mangiavamo i nostri panini, presero, senza perder tempo, a narrarci le gesta accademiche del nipote e le loro fulgide speranze sul suo avvenire. Ricordo soprattutto il disagio che provai nel sentirmi quello vestito male, l'intruso in quel lindo quadretto medio borghese. Una fulminea occhiataccia, di sdegnata severità, lanciatami di traverso dalla signora pappagallo, me ne diede conferma. Manlio, in una pausa della vivace cronistoria dei nostri compagni di scompartimento, si piegò leggermente verso me per attrarre la mia attenzione e disse a mezza voce: "Hai presente quando nei sogni vediamo dei luoghi ricorrenti?" - "Si, a volte mi è capitato", risposi. "Bene, di questi luoghi, alcuni sono immaginari, altri esistono davvero. Una volta una mia amica mi raccontò di sognare spesso di trovarsi nella portineria di un condominio in cui aveva abitato fino all'età di tredici anni. Adesso, se vuoi, facciamo un patto: ti dirò tutto del
lavoro che ho da proporti e ti darò anche qualche dritta importante perché tu possa ottenerlo, se tu mi accompagnerai in questo luogo che da un po' di tempo ritorna nei miei sogni." Una tale proposta, proveniente da un individuo appena conosciuto, avrebbe potuto far insospettire o indisporre chiunque, ma, ancora una volta, mi resi conto di sentirmi a mio agio. Accettai il patto, anche perché, in realtà, non avevo alcuna intenzione di creare possibili attriti tra me e il mio compagno di viaggio e, speravo, mio prossimo datore di lavoro. Manlio m'informò che alla stazione di Catania ci avrebbe atteso l'ultima coincidenza per Siracusa, quindi, da lì, degli amici ci avrebbero accompagnato in automobile alla nostra meta. Da allora in poi, per il resto del viaggio, scambiammo poche parole. Ascoltai distrattamente le chiacchiere della gente che si avvicendava sui sedili accanto a noi. A volte mi alzavo per sgranchire le gambe, eggiavo nel corridoio, scrutavo gli scorci meravigliosi della costa ionica della Sicilia e la mia mente si apriva alle lusinghe di nuove speranze.
" Ricordo una serie infinita di giorni interminabili, opachi. Il tedio della convalescenza mi corrodeva. Divenni insofferente al punto da allontanare in malo modo chiunque mi si fe intorno per risollevarmi il morale. Fu una domenica di metà marzo che la febbre, contro ogni previsione, si riaccese, salendo rapidamente, fiaccando la scarsa volontà che mi era rimasta. I miei familiari non riuscivano a dissimulare il loro avvilimento. Di notte, dormivo poco e male, svegliandomi di frequente dolorante e madido di sudore. Spesso, invece, riuscivo a prender sonno, anche se per non più di due o tre ore, nel primo pomeriggio. Durante quelle poche ore di tregua, il giorno prima del mio compleanno, feci un sogno: vagavo, a tarda notte, per le strade della città, nel centro storico. Fui attratto da una porta, ricoperta di specchi, all'imbocco di un vicolo stretto, buio. Mi avvicinai ad essa. Dall'interno proveniva della musica distorta e morbida al tempo stesso. Spinsi la porta ed entrai. Il locale era accogliente. Alcune lampade accarezzavano con luci soffuse e colorate le pareti rivestite di legno. Le pale di due ventilatori al soffitto avevano un bel da fare per disperdere il fumo denso delle sigarette. Stavo osservando la foto sbiadita di una donna seduta di fronte a un mare color seppia, affissa ad un pannello sul muro, quando un cameriere, evidentemente ubriaco, mi afferrò il braccio come per sostenersi e m'indicò con un largo sorriso il tavolo al quale mi sarei accomodato. Lì, col viso nascosto dalla semioscurità, trovai, seduta in un angolo tra la parete e un pannello divisorio, una persona. Guardai meglio: sembrava un ragazzo e mi diede l'impressione che stesse aspettando proprio me. Il sospetto fu
confermato: quando mi sedetti, pronunciò, con un filo di voce il mio nome. Schiacciata, affievolita dal peso di un dolore, quella voce flebile si ruppe subito in singhiozzi. Chiesi al ragazzo cosa lo tormentasse e come faceva a conoscermi. Lui non rispose, continuando a piangere col capo chino. Allora provai, avvicinandomi con cautela, a distinguere i lineamenti del suo viso. Accortosi del mio tentativo, lui si celò con un brusco movimento del braccio che fece cadere sul pavimento la bottiglia vuota che aveva sul tavolo davanti a sé. Quel luogo era diventato improvvisamente opprimente per me. Mi alzai e mi diressi senza voltarmi verso l'uscita. Nel frattempo, però, il cameriere mi aveva raggiunto e mi trattenne con forza afferrandomi una mano. Mi voltai furioso. Avrei scaricato su di lui la tensione che dilagava in me, se quel tizio non si fosse prontamente scusato, facendo il gesto di proteggersi da un mio eventuale pugno sul suo volto. Poi biascicò: " prima di andare via, non vorresti sapere perché il tuo amico, al tavolo, stava piangendo? ". Annuii, nonostante non pochi sospetti. "Bene...", continuò avvicinandosi a me, " ...te lo dirò in un orecchio..." . Appresi, così, la notizia della mia morte imminente."
XII
"Posso abbassare il finestrino?", chiesi, sprofondato sul sedile posteriore, all'autista dell'automobile. A rispondermi fu Manlio, che occupava il posto accanto a quello di guida; si girò di tre quarti verso me e disse: "Certamente, fa pure, tanto adesso spegniamo il condizionatore, che da' fastidio anche a me". Dietro c'ero solo io: gli altri colleghi di Manlio ci avrebbero raggiunto nel luogo in cui eravamo diretti. Il traffico, lungo la panoramica strada statale, era pressoché assente e andavamo spediti. L' aria che mi arrivava sul viso, tra i capelli, portava con sé il profumo salmastro del vicino mare, togliendomi di dosso la stanchezza del viaggio in treno. Manlio sembrava euforico. Raccontava di continuo aneddoti sosi di quando, liceale, frequentava una comitiva di amici musicisti con cui, a volte, andava a cantare nei locali della provincia di Palermo. L'automobile rallentò. Lievi scosse e il sollevarsi, dietro noi, di polvere di terra bianca mi avvertirono che l'asfalto aveva lasciato il posto alla strada sterrata. " Ci siamo quasi", mi fece Manlio con una voce che mi parve tradire emozione. Tutto accresceva la mia curiosità. Mi sporsi dal finestrino. I bordi della strada erano disseminati di cespugli. Le poche case di campagna e gli appezzamenti di terra erano delimitati da bassi muri di pietra a secco che mi apparvero come fili di enormi ragnatele lattescenti nella degradante luce del tramonto. L'automobile arrivò a quello che mi parve un vicolo cieco ma, anziché fermarsi, il guidatore trovò un varco tra la vegetazione che io, forse perché seduto dietro, non avevo potuto scorgere. Rientrai del tutto nell'abitacolo. Subito dopo, sentii lo stridere di rametti e il frusciare di foglie sulla carrozzeria. Quindi l'automobile si arrestò. Ormai c'eravamo. Manlio mi disse che potevamo scendere e proseguire a piedi, poi disse all'autista di aspettarci lì, ma che se aveva degli impegni, in alternativa, poteva andare: ci saremmo rivisti nello stesso punto tra circa un'ora. L'auto, quindi, fece retromarcia, sparendo piano, inghiottita dal verde degli arbusti. La Spiaggia dell'Isola delle Correnti di Portopalo di Capo ero, situata nell'estrema punta a sud-est della Sicilia, prende il nome dall'isolotto che le è collegato tramite una sottile striscia di terra, solitamente allagata. La lunga distesa di sabbia dorata, che si estende ad est e ad ovest del promontorio, è orlata in certi tratti da suggestive formazioni di dune che si alternano, in certi tratti, alle
scogliere di colore bianco. La zona è una delle più ventose dell'isola, situata ove il canale di Sicilia e lo Ionio si incontrano, ed il mare, azzurro e limpido, è quasi sempre molto mosso. Proprio l'incontro dei due mari crea dei particolari giochi di correnti. La piccola Isola, di forma tondeggiante, si può facilmente raggiungere quando c'è bassa marea. Appena fummo sulla spiaggia, la mia attenzione venne subito catalizzata dal faro che si erge sull'isolotto: avvertivo il forte magnetismo della sua decadenza. Manlio, accortosi del mio interesse per quell'elemento affascinante e spettrale, mi disse che un tempo nel faro abitava il guardiano insieme alla sua famiglia, ma che ormai era in disuso da anni, quindi si sedette sulla sabbia e mi invitò a fare lo stesso. La sua espressione era mutata, assumendo un'aria grave, malinconica. Per qualche minuto, scrutammo il mare in silenzio. Ero ammaliato dalle evoluzioni delle onde che s'infrangevano e imperversavano fragorose sulla riva, ora propagandosi, ora ritirandosi sibilanti e rapide in un ciclo ipnotico, e dalla loro irosa danza bianca di schiuma sulle sponde dell'Isola delle Correnti. Il sole era tramontato poco prima che noi giungessimo sulla spiaggia. La luce andava svanendo e con essa il calore. Mi raccolsi per contrastare il fresco umido che prendeva a dilagare. Manlio ruppe il silenzio, e lo fece con una voce che mi parve provenire da versanti dell'anima diversi da quelli che finora mi aveva mostrato. Mentre parlava, continuava a rivolgere lo sguardo all'orizzonte: " Ti ho portato qui perché questo è il punto in cui s'incontrano due mari, lo Ionio e il Mediterraneo. Questo mare, vedi, è destinato a scomparire ancora. Sei milioni di anni fa le placche tettoniche di Africa e Spagna si scontrarono, lo stretto di Gibilterra si chiuse e l'intero Mediterraneo, nell'arco di duemila anni, evaporò divenendo un immenso deserto di sale. Una delle prove di ciò, sai, ce l'abbiamo qui in Sicilia, a mezzo chilometro sotto terra, nelle miniere di sale di Realmonte, vicino Agrigento. C'è così tanto sale lì che potrebbero estrarlo per milioni di anni. Tutto questo accadrà di nuovo. In questi ultimi tempi, mi sono concentrato su una cosa: se stai in riva al mare e senti il rumore della risacca, ti accorgi che è come un respiro. Io, allora, per svuotare la mente, chiudo gli occhi e penso che il mio, di respiro, è come il movimento del mare, come il ritorno dell'onda che trascina via i pensieri. L'ho fatto tante volte. Spesso ha funzionato, ma ci sono cose che non sono andate mai via dalla mia testa. Adesso è arrivato il momento che te ne parli." Quindi tacque e guardò verso l'alto, come per ritrovare il filo del discorso. Qualcosa in noi, nel contesto e, mi sembrò, anche nel paesaggio, era mutato repentinamente. L'allegra familiarità del nostro tragitto, la percezione di una sintonia ideale, la speranza di un futuro migliore, erano state sgretolate dal tono grave, drammatico di quelle parole. In un attimo mi si presentò alla
coscienza il dato di fatto che avevo attraversato la Sicilia in compagnia di un estraneo che mi aveva condotto in un luogo solitario e che ora, anziché illustrarmi la sua presunta offerta di lavoro, mi parlava di placche tettoniche, di catastrofi naturali e di ossessioni da cui non riusciva a liberarsi e che, finalmente, doveva confidare proprio a me. Come avevo potuto fidarmi di lui? Certo, il mio amico Alfredo, che in tante occasioni si era preso a cuore la mia salute e si era attivato affinché avessi di che sopravvivere, mi aveva parlato bene di Manlio accompagnandomi alla stazione: questo era bastato a non nutrire sospetti. Era evidente, comunque, che l'unica cosa sensata che avrei potuto fare, sarebbe stata ancora quella di ascoltare e, di conseguenza, determinarmi poi a qualsiasi azione possibile e necessaria, non facendomi cogliere di sorpresa: presto tutto sarebbe stato più chiaro. Manlio riprese: "Immagino come tu possa sentirti adesso. Cercherò di venire al dunque e di non tenerti ancora a lungo sulle spine. E' arrivato il momento che io ti dia delle spiegazioni. Comincio, intanto, dal farti delle doverose scuse per averti mentito sul mio nome. Non mi chiamo Manlio, come, insieme a qualcun altro, ti ho fatto credere." Il sangue mi si gelò nelle vene nel tempo di un brivido: quel "qualcun altro" non poteva che essere proprio chi mi aveva accompagnato all'appuntamento, ma dovevo ascoltare tutto, aspettare la fine di quel discorso. "C'è un'altra verità, fondamentale, da cui partire per comprendere a pieno cosa intendo farti sapere: la nostra conoscenza, in realtà, risale al ato, a un tempo di cui non hai memoria. Ho pensato spesso al modo in cui parlartene, per spiegarti chi sei, da dove vieni e, quindi, chi sono io. Ho deciso che avrei cominciato col dirti che tu provieni da un'altra vita, da un'esistenza che a un certo punto è stata interrotta. Quello che vivi adesso, da un tempo che, insieme ad altri elementi su te stesso, non sapresti determinare, è un nuovo ciclo". Feci meccanicamente per alzarmi, mosso da un impulso, ma lui mi bloccò dicendo: "Ora, ho una storia da raccontarti". Mi guardai attorno. I contorni delle cose, in quel luogo lontano dall'illuminazione pubblica, erano ormai resi incerti dal manto dell'oscurità. Guardai il mare. Oltre l'esiguo e mutevole confine della schiuma, si agitava senza sosta un'immensa massa di buio liquido. Tremavo, e non solo per il freddo della notte. Tirai un lungo respiro e mi disposi ad ascoltare, forzando un gesto di consenso col capo. "La nostra storia comincia con un uomo che aveva una moglie e un figlio e che, per motivi che non mi sarà mai dato sapere, si spinse, o si ritrovò, a valicare un confine. Questo uomo conduceva, qui in Sicilia, una vita apparentemente
normale, in cui riusciva a conciliare un lavoro da impiegato pubblico con la ione per la scrittura. Finché ogni onesto cittadino rimane preso, assorbito, dagli impegni, dalle attività disseminate lungo il proprio circuito consueto, non si accorge di quanto sia sottile la linea che lo separa da ciò che si trova oltre le mura della società, e da chi pressa contro quelle mura per abbatterle. Accade, invece, che a volte si smarrisca la strada segnata e, sia che si scelga, sia che non si possa avere altra scelta, ci si ritrovi a mescolarsi con chi vive e agisce oltre le mura. A un certo punto della nostra storia, le persone fuori dal circuito, cui si era mischiato il nostro uomo, vennero a sapere che questi, sapendo che un giorno non lontano avrebbe potuto trovarsi in grave pericolo, aveva inserito una serie di informazioni, di cui era venuto a conoscenza, in un libro che aveva scritto, occultandole, velandole nella narrazione romanzesca. In appendice al libro erano contenute le chiavi per interpretare il testo e rivelare luoghi, nomi, eventi. Come ogni buon padre, il protagonista di questa storia aveva a cuore le sorti del figlio. Pensò, allora, di recarsi presso una persona di fiducia, ma non appartenente alla propria famiglia: un professore di liceo del figlio, verso il quale nutriva grande stima. L'uomo decise, finché in tempo, di raccontare tutto e di affidare al professore quel romanzo perché lo custodisse segretamente. Un giorno, se le acque si fossero calmate, il professore avrebbe consegnato il libro al ragazzo, chiarendogli, con le dovute cautele e col metodo che avrebbe ritenuto opportuno, ogni elemento di quella vicenda. I timori del nostro uomo si rivelarono presto fondati: qualcuno venne a cercare il romanzo e, non avendolo trovato, fece in modo che lui e la moglie sparissero in un incidente stradale. Il depositario del libro, saputo della morte, apparentemente accidentale, dell'uomo e della moglie, sapendo che presto o tardi chi cercava quell'oggetto si sarebbe potuto mettere sulle sue tracce, elaborò un piano che, però, mirava non tanto a mantenere del tutto la promessa fatta, quanto, piuttosto, a mettersi in salvo. Lo stratagemma del professore prevedeva che lui, un giorno, dopo aver consegnato il libro nelle mani del ragazzo, avrebbe inscenato la propria morte per sfuggire ai sicari, intraprendendo una nuova vita, assumendo una nuova identità. Accadde, però, che chi voleva recuperare a tutti i costi quel libro, aveva nel frattempo, individuato un'altra pista da seguire: assumere informazioni sul figlio, unico erede dell'uomo, e arrivare a lui agendo sul suo migliore amico. A questo punto della storia, è necessario che io spenda qualche parola in più proprio su questo amico. Chi fa parte di certi ambienti sa aspettare, studiare le condizioni più favorevoli e approfittarne, senza pietà, per perseguire il proprio scopo. Nel periodo in cui il ragazzo, che ho definito come amico del figlio dello scrittore, venne avvicinato da quella gente, un insieme di eventi, come la perdita di una prospettiva di lavoro e le complicazioni in un rapporto amoroso, concorrevano a
minarne la serenità, a fiaccarne la volontà e la capacità di reagire, di ribellarsi. All'inizio tutto gli venne prospettato da quella gente come qualcosa che gli avrebbe fatto ottenere dei favori. Presto, però, la mostruosità dell'incubo in cui era stato risucchiato si svelò in tutto il suo orrore. Al ragazzo, infatti, venne chiesto sia di impossessarsi del libro, sia di eliminare il figlio dello scrittore e, con lui, chiunque avesse potuto leggere e decifrare quel testo. Alla fine di un'interminabile sequenza di minacce e pressioni, il sequestro, da parte di quei criminali, della fidanzatina del giovane, spinse questi ad agire in modo disperato e a colpire alle spalle il suo migliore amico, avendolo attirato in un agguato con l'inganno e la complicità di altre persone. La volontà degli aguzzini era stata compiuta ma poiché, per la ritrosia del ragazzo, dovuta ai suoi tremendi conflitti interiori, il delitto era avvenuto in ritardo rispetto a quanto preteso dai malviventi, questi, prima di riceverne notizia, avevano inteso di non poter più contare sul loro complice. Quando, la notte stessa dell'agguato al suo amico, fu fatto ritrovare al giovane il corpo senza vita della ragazza che amava, maturò in lui una determinazione feroce che gli fece concepire ciò di cui ti accennerò adesso." Avevo ascoltato con un tumulto nel petto quel racconto torrenziale, spaventoso, eppur lucido e non riuscivo ancora a comprendere le ragioni per cui ne fossi stato scelto come destinatario. La persona che avevo davanti riprese a parlare ma la sua voce adesso tremava ed era evidente lo sforzo con cui tentava di arginare un'emozione e una rabbia impetuose: "Il libro era ancora nelle sue mani e l'amico era agonizzante, ma non ancora morto, non ancora...forse non era tutto perduto. Se il demonio esisteva, ne avrebbe conosciuto il volto, gli avrebbe chiesto di accompagnarlo e ne avrebbe pagato volentieri il prezzo pur di vendicarsi. Trovò il professore, prese accordi con lui, fece l'impossibile perché il suo amico potesse restare in vita e, al tempo stesso, restasse protetto, celato agli occhi di chiunque altro...e, soprattutto, visse nell'ombra, sparì anch'egli, tramando, costruendo, gettando delle fondamenta. Ci fu chi pagò quanto doveva." A questo punto, l'uomo s'interruppe, chiuse gli occhi. Lo vedevo ansimare. Il suo petto era agitato da una forte emozione. Dopo qualche secondo, riprese a parlare, tenendo però sempre gli occhi chiusi. Il tono della sua voce era più alto ed animato: "Si narrano, nella nostra Sicilia, svariate leggende. Quelle che preferisco confinano con la storia e si nutrono del riverbero del sentimento popolare, della memoria reale impressa in luoghi. Ci sono vicoli, chiese, segrete, cunicoli, stanze sotterranee nella città di Palermo che sembrano riecheggiare delle voci che in questi anni mi hanno dato la forza di andare avanti. Si dice che un tempo lo spirito, l'ingegno e l'azione dei membri di una società segreta, confluissero in
una di quelle sale sotto terra, che aveva la funzione di ospitare il loro tribunale." Mentre ascoltavo queste parole, non mi ero reso conto, anche per il buio oramai fitto, che le figure scure di quattro individui, il cui volto era coperto da un cappuccio nero, si erano nel frattempo avvicinate a noi, senza fare rumore, circondandoci. Inutile provare ad assecondare il desiderio di fuggire. L'uomo sembrava attenderli. Riaprendo gli occhi, disse: "Adesso verremo accompagnati in un luogo in cui trascorreremo la notte. Tu, al mattino, avendo riflettuto su quanto ti ho raccontato, deciderai se accettare il lavoro che ti proporrò e per il quale ti ho condotto sin qui." Mentre venivamo scortati, sulla spiaggia, verso l'isolotto, sentii ancora la voce di quell'uomo, che mi precedeva: " E' tempo che tu conosca un'altra verità. Sapere cosa sto per dirti, potrà esserti di aiuto nel ricostruire e collocare le tessere del mosaico e, di conseguenza, potrà determinarti ad accettare o meno il mio invito: il nome col quale ti hanno chiamato, in questo tempo, in questo secondo ciclo di vita, non appartiene a te." Ricordo ancora i miei primi i incerti, le gambe tremanti, il fiato corto sulla breve lingua di terra allagata che porta dalla spiaggia all'Isola delle Correnti. Non riuscivo a pensare, preso da immagini turbinanti, mentre l'acqua fredda del mare mi ghermiva fino al ginocchio. A volte perdevo l'equilibrio ma braccia forti mi sorreggevano e spingevano in avanti. Attraversando un sentiero che tagliava la rada vegetazione, arrivammo al faro, dinanzi al quale si estendeva un grande piazzale di cemento. Fummo condotti all'alloggio abbandonato del guardiano. La porta venne richiusa e restammo soli, io e quell'uomo. La stanza in cui ci trovavamo era spoglia, le pareti scalcinate chiazzate di muffa, i vetri delle due finestre erano opachi di sporcizia e salsedine. In un angolo, sul pavimento, erano state ammassate delle coperte. Al centro, un tavolino e una sedia di metallo verniciati di verde chiaro. L'uomo poggiò sul tavolo la sua borsa, da cui non si era mai separato; la aprì e ne tolse un libro dalla copertina nera e un quaderno che, mi disse, conteneva delle memorie. Posò entrambi questi oggetti accanto alla borsa. Sotto al tavolo, notai un sacco di iuta pieno, chiuso con un laccio. Bussarono alla porta. Entrò quello che riconobbi come l'autista che dalla stazione di Siracusa ci aveva condotto alla spiaggia. Portava con sé due involti: la nostra cena. Scelse quello a me destinato e me lo porse con un modo di fare che non
ammetteva dinieghi, quindi uscì, sparendo nella notte che aveva inghiottito anche i quattro incappucciati . Non ci furono altre parole. Mangiammo in silenzio del pane e bevemmo quello che mi sembrò del tè, quindi mi venne fatto cenno di sdraiarmi sulle coperte su cui avrei trascorso la notte. Quell'uomo, invece, si sedette sulla sedia e s'immerse nella scrittura di qualcosa sul quaderno. Distesomi, presi a fissare il tetto grigio. Cominciai a provare a mettere in ordine i pensieri ma venni colto da un improvviso torpore che mi portò a crollare in un sonno abissale. La scena che mi si presentò agli occhi, al risveglio, resterà impressa a vita nella mia memoria. Le prime luci dell'alba rischiaravano appena la stanza. Di fronte a me si ergeva, verticale, una sagoma scura. Appena, ancora intontito, feci per alzarmi, mi resi conto di essere stato immobilizzato dalla vita in su con delle corde fissate a un gancio piantato nella parete dietro me. Potevo muovere solo le gambe, ma quando provai a spostarle di lato e usarle come contrappeso per torcere il busto e allentare la presa delle corde, udii un rumore metallico seguito immediatamente dalla sensazione di una morsa che mi stringeva le caviglie. Con uno sforzo, avvicinai, per quanto possibile, il mento al petto, cercando di non muovere gli arti inferiori, per vedere meglio cosa era accaduto. Tutto mi fu terribilmente chiaro: altre corde erano state legate alle mie caviglie e da esse ai piedi e allo schienale della sedia. Questa era stata messa lievemente in bilico, ponendo sotto due dei suoi piedi il libro dalla copertina nera e il quaderno. Sulla sedia, eretto, in posizione precaria, c'era l'uomo. Questi aveva un cappio al collo che era stato fermato al gancio del lampadario sul soffitto. Le braccia dell'uomo erano libere ma lui le teneva ferme, usandole, a volte, solo per tenersi in equilibrio con piccoli movimenti. Non provava a slegarsi. Mi guardava fisso negli occhi, con uno sguardo vitreo, assente. Provai a gridare per chiamare aiuto ma me ne mancò la forza e quel solo tentativo mi diede un forte capogiro. Pensai, inoltre, che sarebbe comunque stato pressoché impossibile richiamare l'attenzione di qualcuno da una stanza chiusa in un faro su un isolotto cinto da onde fragorose. Ributtai la testa all'indietro. Il sangue mi aveva inondato il viso per la forte emozione. Cercai di ragionare sul da farsi, sul come uscire da quella situazione e intanto, mentre cercavo di mantenere l'immobilità, sentivo le membra intorpidirsi. Era palese che, se non fosse venuto qualcuno a salvarci, l'unico modo che avevo per liberarmi era quello di usare il peso delle gambe per forzare le corde e il gancio che mi bloccavano il tronco. Questo avrebbe però comportato l'impiccagione di quell'uomo che, pur potendo usare le mani per allentarsi il cappio, non sembrava aspettare altro che una mia decisione. I minuti
avano e con essi diventava sempre più difficile restare fermo. Poi, pian piano, mi sentii invadere da una calma glaciale; trovai la capacità di ragionare su quanto mi era stato raccontato la notte precedente. ò ancora del tempo, non so dire quanto. Sentii un gorgoglio provenire dall'uomo sulla sedia. Forse cercava di dirmi qualcosa. Mi mossi. Chiusi gli occhi, cercai di divenire sordo a rumori, rantoli. Quei suoni gutturali, spaventosi, trovarono comunque il modo per insinuarsi e segnare a vita la mia mente. Poi tutto si spense, lasciando posto ad un'immobilità spettrale. arono, credo, delle ore prima che riuscissi a liberarmi. Con freddezza insperata raccolsi il libro e il diario. La porta della stanza era aperta. Mi precipitai fuori. Arrivai sulla scogliera oltre il piazzale di cemento. Tossii fino a sentire il sapore del sangue in gola. Il mare in tempesta fu poi l'unico spettatore dello straripare del mio pianto irruente. Fuggii dall'isolotto, attraversai come un invasato la spiaggia e la campagna e, arrivato alle porte del paese di Portopalo di Capo ero, esausto, caddi svenuto. Furono due pescatori, di ritorno dall'aver messo in sicurezza le loro barche, a raccogliermi e prendersi cura di me.
Postfazione:
Fra poco sarà giorno ed io, alzatomi da questa scrivania sulla quale mi accingo a terminare il mio racconto, serrata ogni imposta per impedire alla luce di filtrare, cercherò di riposare. Nel ripercorrere a ritroso il corso della storia narrata, ritrovo la promessa, fatta al lettore, di svelare il mio nome. Il non averla finora mantenuta rinnova in me la coscienza del senso ultimo di quanto ho provato a descrivere. Ad ognuno, pertanto, anche a chi, a ragione, mi rinfaccerà, deluso, di essere una persona poco affidabile, vorrei fornire un'indicazione circa l'unica risposta che a parer mio conta: quanto accadutomi, quanto vissuto, mi mostrò con crudele, irriducibile nettezza che, nel divenire maestro di me stesso, se avessi voluto continuare ad esistere in questa nostra dimensione, una parte di me, lascio a voi l'individuazione del suo nome e dei suoi tratti, avrebbe dovuto morire.