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Saša Stojanović

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Èchos

49

Il libro è stato pubblicato con il sostegno del

Ministero della Cultura della Repubblica di Serbia

Ova knjiga je objavljena uz podršku

Ministarstva kulture Republike Srbije

Traduzione:

Anita Vuco

Revisione testo:

Raffaele Magrone

Correzione bozze e realizzazione grafica:

Matteo Chiavarone & Cristina Loizzo

© 2015 Edizioni Ensemble, Roma

edizione digitale novembre 2015

ISBN 978-88-6881-119-8

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Edizioni Ensemble

ISBN: 978-88-6881-119-8

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Indice

MATTEO Amarcord L’avvento della ragione O sole mio Quo vadis Il sogno MARCO Nero e bianco Cosa? La grande apertura Guns & Roses Tombe la neige Voce fuori campo SULLA PAURA IN COMBATTIMENTO Una lezione di anatomia MARIA DI MÀGDALA

Sex, drugs and... Il cortile benedetto ovvero La fattoria degli animali e altri più o meno addomesticabili esemplari La montagna incantata La amo con le orecchie LUCA Sui et cidere Aut aut Tour de trans Viaggio al termine della notte Mangiare Dio Il maestro e Margherita Madre Courage e i suoi figli GIUDA Il sole ingannatore The showtime Tre personaggi in cerca d’autore Le relazioni pericolose GIOVANNI

Collana “Èchos” - ultimi titoli

Saša Stojanović VAR traduzione di Anita Vuco

ENSEMBLE

Così parla il Signore degli eserciti: «Ora va’, sconfiggi Amalec, vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene; non lo risparmiare, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini».

Primo libro di Samuele, 15; 2-3

MATTEO

Esiste una morte dopo la morte – Ti avevo chiesto mettendo nella valigia la mantella con l’angelo ricamato all’altezza del petto, che mi servirà per il viaggio di cui non conosciamo né l’origine né la fine. Esiste una fine del regno celeste – avevo chiesto nuovamente. Su quale orecchio posso strillare e dire che anche l’immortalità è solo una maledizione, se addirittura Tu non sei pronto ad ascoltarmi – sussurravo di continuo questa domanda alla quale non mi aspettavo di ricevere la minima risposta e spingevo il pane azzimo nelle bisacce. Lo stesso che avevamo avuto per la cena quella volta. In vista delle festività, oppure quando ormai erano ate, non lo rammento più. Giovanni di certo lo ricorderà meglio di me; lui almeno ha vissuto abbastanza a lungo da raggiungere la vecchiaia. La verità è troppo pesante per una schiena sola. Se la carichi tutta quanta su te stesso non troverai più nessuno disposto ad alleggerirti. Prima di regalarla a qualcuno devi essere cosciente del fardello che comporta il tuo dono. Proprio per questo, nella capacità di dimenticare, è insita la benedizione. Ogni cosa si dilegua nell’oblio: i monarchi ingrati e il mio corpo bruciato, persino il sarcofago di ferro in cui mi rinchio prima di buttarlo nel mare, dal cui fondo l’alta marea lo tirò fuori e lo fece risalire fino al tempio che un tempo avevo fatto costruire. Desidero che una volta per tutte venga saldata ogni parete della mia bara. Padre, io sono morto da tanto tempo ormai, che Tu voglia ammetterlo o continui a negarlo ancora! – Lo ripeto uscendo per strada e lascio che la luce mi guidi. Conosco ogni minuscolo pezzo di terra su cui cammino. Consegnavo all’imperatore e tutti versavano a me. Lo so quanto può fruttare ogni pianta e avverto quando una pecora sta per generare dei gemelli. Ricordo la quantità di grano che deve essermi consegnata come imposta da ogni singola casa di Capernaum. Riconosco la quantità di bugie con cui ogni commerciante cerca di ingannarmi quando sfogliamo i registri in aramaico, e comprendo ugualmente la profondità dell’odio radicato persino nel peggiore tra i farisei, mentre tacitamente riversa i suoi soldi nelle mie tasche, quelle di uno scomunicato con cui è proibito anche solo parlare. Come se le loro case non fossero abitate da avidità e da violenza, come se tra le portate dei loro banchetti non fossero serviti l’orgoglio e la menzogna. Il servo di Dio è pronto ad ammettere tutto, tranne d’essere ipocrita – così ragionavo con me stesso a voce alta e attraversavo, a i veloci, la polverosa strada gialla.

Avevo tutto, solo i sogni mi avevano abbandonato. Non hai mai dovuto ripetere due volte: vieni e seguimi! Ti ospitavo nella mia casa e ti sedevi allora assieme a noi disgraziati: con volgari gabellieri e arroganti esattori, con inappagabili strozzini e commercianti senz’anima, con i peccatori. Le mie strade – urlavo a voce alta il giorno della fiera, restituendo i soldi a tutti coloro che avevo ingannato, bruciando i libri con i nomi dei debitori e spargendo il vasto patrimonio tra gli infelici e i bisognosi – e il mio irrequieto cammino insonne deriva dalla visione di uno scenario che si prospetta senza via d’uscita. Sai molto bene che sono stato tra i primi a riconoscere in Te il Messia; che ci ho creduto in questo addirittura più di Te stesso. Ti biasimo di qualcosa, forse? Ah... Invece di visitare i villaggi di Galilea ti sei recato direttamente nella capitale; cavalcando un asino, proprio come aveva preannunciato Zaccaria nell’Antico Testamento dicendo che così un giorno sarebbe entrato il figlio di Dio a Gerusalemme. E non Ti turbava il vocio inebriante che esaltava la Tua fama, mentre la folla dei perdenti continuava ad acclamare “Osanna al Figlio di David”, augurando a Te, il Salvatore, il privilegio di assaporare al posto loro il piacere della vittoria. Credo di poter finalmente comprenderTi! Se anche Tu hai provato l’ebbrezza assaggiando il miele abbondantemente sgorgato dai petali dell’orgoglio, per quale motivo allora avresti dovuto confidare in noi? Perché credere a noi uomini che con tale leggerezza abbiamo adagiato i nostri timori blasfemi lungo il cammino lasciando cadere tutti i peccati di questo mondo solo su di Te? È difficilissimo, Padre, raccontare ciò di cui da tempo diffidi. Certo, sarà proprio questo il motivo per cui hai scelto di mandarci nuovamente lì, a osservare quello che succede e prenderne nota ancora una volta. Certo, sarà fatta la Tua volontà anche in queste circostanze. Per quanto questo pellegrinaggio possa sembrarmi inutile, noi saremmo lo stesso le Tue orecchie e i Tuoi occhi. Non credevo che sarei stato richiamato al Tuo cospetto; mi illudevo che la conversione del tiranno etiope e la costruzione del tempio in quel luogo sperduto fossero sufficienti per riscattare una pace eterna. Per quale motivo ci stai chiamando di nuovo tutt’e quattro, e come mai proprio lei dovrebbe unirsi a noi in quest’avventura, dov’è che intendi condurci – avrei voluto chiedere mentre avvolgevo i lacci consumati dei sandali rotti attorno ai polpacci. L’acqua, – pronunziai dissetandomi a piccoli sorsi dalla fonte accanto alla strada – solo l’acqua e il dubbio riescono sempre a trovare il aggio e infiltrarsi ovunque! In principio erat...

Sto arrivando... – Lasciai la parola spiccare dalla bocca e volare verso il sole mattutino che faceva risplendere quella casa in cui ero diretto – Arrivo…

Se credi che io sia diventato più saggio – dissi così forte da svegliare gli uccelli annidati nella corona dell’albero che avvolgeva il cancello d’ingresso – ti sei sbagliato di grosso, Infallibile! No, non ho saputo apprendere nulla dall’eternità. Eppure… Non sono stato io a perdere il tempo. Esso si disperdeva in me – sussurrai prima di appoggiare la testa sulla soglia della casa di Marco. Sono stanco, Padre…

Amarcord

Sogno cavalli che galoppano per larghe strade imperiali; dalle narici dilatate si sprigiona vapore bianco. Sento chiaramente, come fosse reale, le ferrature degli zoccoli da parata il cui battito sulla pietra scolpita riverbera lontano. Vedo un Ufficiale viennese dell’Imperiale Regio Esercito che sulla pelle nuda indossa solo una pelliccia di zibellino e scappa dal letto caldo della voluttuosa contessa ungherese, per la prima volta rimasta insoddisfatta. Eccezionalmente nitida si fa ora l’immagine e metto a fuoco persino i dettagli di quell’ingombrante carrozza, con lo stemma del conte, rubata, trascinata dai morelli imbizzarriti spronati in una frenetica corsa, delirante. L’uomo che selvaggiamente frusta i due stalloni si chiama Đura Horvatović ed è il mio antenato. Sulle eleganti e lunghe dita porta un patrimonio inestimabile: gli anelli d’oro con le preziose pietre incastonante, avuti in dono dalle nobili signore che facilmente perdevano i sensi alla sua vista. Con lui vi sono anche i due pointer inglesi che tempestivamente era riuscito a riprendere dalla stanza in affitto a Bezirk, il distretto delle caserme, il suo prezioso omaggio al regno degli Obrenović, la nuova dinastia che di lì a poco avrebbe chiesto a tutti gli ufficiali austro-ungarici di origini serbe di rinforzare l’armata del loro paese nativo. Con mano forte stringe sia la pistola appoggiata sul sedile accanto a sé sia la sciabola rinfoderata; attorno all’altra, invece, sono avvolte le redini che feriscono il morso e lo tengono sveglio. Mentre il vento invernale gli gela le guance, Đura ha una certezza sola: è finito il tempo del silenzio, per sempre. Il sogno si muove, scalpita, indietreggia davanti alle fiamme che Stojan Denin, il latifondista di Leskovac, fissa con assoluta indolenza mentre ingoiano tutti i suoi negozi e le varie stazioni di posta costruite accanto al fiumiciattolo chiamato Veternica. Una vita di sacrifici, fatiche e duro lavoro bruciata in pochi istanti, diventata cenere, fumo, niente, e in tutto ciò la meschinità all’opera di coloro che avrebbero dovuto contribuire a spegnere quell’incendio e invece continuavano ad attizzarlo di proposito, l’insufficienza della volontà, tradita da lentissime mosse pigre con cui pompavano l’acqua rivelando l’intera farsa di quel simulato salvataggio e la crudele tacita sentenza,

ben leggibile sui loro volti imibili: quel vecchiaccio se lo merita! Lo sapevo che sarebbe successo – pronuncia il padrone asciugandosi la fronte su cui il tempo aveva inciso una propria lista dei debitori, imprimendo accuratamente e senza lo sconto tutte le tacche di contrassegno – le disgrazie non vanno mai da sole: una tira l’altra. Lo sapevo che sarebbe andata così appena la botte da vino più grande si è allentata e diecimila litri si sono dispersi sul pavimento sterrato. Oppure quando avevano ceduto i cerchi di ferro dal diametro di quasi due pollici, lasciando all’improvviso le doghe disfarsi come fette di un cocomero tagliato e spappolato contro il tavolo con un colpo secco, il giorno della festa. Ero cosciente di quel che stava succedendo fin dal momento in cui ai carri che trasportavano l’uva da settanta villaggi di mia proprietà, e da altri settanta che tenevo a mezzadria, è stato impedito l’ingresso nei sotterranei, in quelle stesse cantine vinicole che si distendevano sotto una buona parte della cittadina e che ora sfortunatamente giacciono invece sommerse dal nettare divino. Per sua fortuna il mio avo ignorava però completamente alcune cose importanti: la dismisura a cui riescono a giungere l’invidia e la gelosia; non sapeva infatti quanta meschinità possa generare l’odio. In nessun caso avrebbe potuto prevedere le riforme apportate da lì a poco con cui la dinastia successiva toglieva il possesso delle terre a tutti gli agricoltori che simpatizzavano per gli Obrenović, per regalarle alla marmaglia che al lavoro dei campi non si sarebbe mai dedicata con la stessa devozione, gente di malaffare che avrebbe arato tutti i suoi vigneti e sradicato anche l’ultimo ceppo di vite. Tutto quanto potesse minimamente ricordare l’altezzoso Stojan doveva essere distrutto. Il mio sogno si sposta velocemente, mi soffoco quasi e vengo trascinato in un tribunale di Londra dove i barrister indossano parrucche e toghe, puntano l’indice verso il soffitto ornato con lo stemma reale e sventolano i fogli proprio davanti agli occhi del giudice. Mihajlo Bunić, presentato alla Corte suprema di Sua Maestà come Michael de Bon, un commerciante di Ragusa, sta cercando di recuperare i soldi dovutigli per un’intera nave piena di tessuti pregiati, che a sua volta aveva acquistato in Oriente, e in seguito scambiato per le grezze stoffe isolane con un negoziante inglese, senza, però, averle mai ricevute nel porto della città di San Biagio. Bunić parla un ottimo inglese, ma è completamente cosciente che solo un uomo sciocco può pensare di presentarsi senza un avvocato all’altezza di quella situazione. Seguendo i consigli di coloro che avevano già sperimentato sulla propria pelle il fair play imperiale, aveva visitato

qualche mese prima la City, il cuore pulsante di Londra, dove aveva bussato alla porta di uno dei giuristi più in vista, per sottoporgli i documenti con i quali intentare il processo. Sir Thomas More stava giusto terminando il suo scritto e ne ipotizzava un possibile titolo. Che tipo di lettere sono queste? – Aveva chiesto al suo futuro cliente, prendendogli di mano i fogli pieni di strani caratteri. Il cirillico, signore. E sareste in grado di insegnarmelo? – Fu la domanda successiva rivolta a Bunić. Con grande piacere, – aveva sorriso questa volta il cliente – spero soltanto che tra una lezione e l’altra di questa lingua che trovate così esotica e interessante riusciremo a trovare anche un momento da dedicare ai miei interessi finanziari, per i quali sono venuto da Voi! Sarà l’onorario per i miei servigi – aveva risposto il nobile, abbandonando all’improvviso il fare artistico a cui si era lasciato andare, per assumere nuovamente i panni dell’avvocato serio di sempre. – Posso conoscere ora il reale motivo della vostra visita? Mentre Mihajlo ricordava le date e gli altri dettagli di quell’infelice accordo commerciale basato in gran parte sulla sciocca parola d’onore tra due gentiluomini – parte inevitabile di ogni truffa degna di questo nome – il nobile inglese nel frattempo cercava un appiglio qualsiasi, analizzava scrupolosamente i contratti, scrutava e confrontava le firme sulle ricevute, e dopo un po’ ricominciava a esaminare tutto da capo, non lasciando nulla al caso. Sulla prima pagina dei fogli, per l’occasione spostati dalla sua scrivania, a grandi e orgogliose lettere ornamentali era scritta una parola sola: Utopia. Non sono più certo che il sogno sia stato così oscuro: una notte senza chiaro di luna; il nitrito dei cavalli mescolato al rumore di zoccoli ferrati che risuonano su quel terreno sassoso e arido tipico dell’Erzegovina; i fratelli Tanović che, armati fino ai denti, cavalcano ancora dal crepuscolo. Solo la stanchezza permane sui loro volti imbruttiti e, senza pietà, scava solchi più o meno profondi. Queste pietre non comprendono né il dolore, né la tristezza, né l’orgoglio, né l’onore. Resistono nel tempo, insensibili a tutto. Albeggiava quando finalmente si avvistò in lontananza la casa della famiglia

Hidović, meta finale della loro spedizione. Le malelingue riescono sempre nel momento giusto a gettare olio sul fuoco, come è accaduto informando otto uomini furibondi su dove si trovasse loro sorella e dove la dovessero andare a cercare. Se è andata via dalla casa paterna volontariamente, allora sarà sufficiente un proiettile solo, quello per lei. Altrimenti, la pagheranno cara gli insolenti che si sono azzardati a offendere il buon nome della più rinomata famiglia di Gacko e dell’Erzegovina. Se l’hanno rapita non resterà alcuna pietra della loro casa. Il rumore delle armi che vengono caricate taglia l’aria, si propaga l’agitazione degli animali che percepiscono il nervosismo dei loro cavalieri. In casa regna uno scompiglio totale, la gente corre e sistema i fucili nelle feritoie. Si attende il primo sparo. Ne abbiamo avuto abbastanza di sangue versato... – dice all’improvviso il maggiore tra i fratelli e si gira verso gli altri per ottenere il loro consenso – Abbastanza! Sorella... – mette le mani vicino alla bocca e strilla ancora più forte – Soreeellaaa mia! Parla, fratello! – risponde una voce femminile. Ti ha costretta lui a venir via oppure è un tuo desiderio? È il mio volere! Non mi muovo da qui! Il silenzio sembra durare un’eternità; i cavalli non si calmano né si abbassano i fucili puntati verso i nuovi venuti da tutte le finestre. Allora, buona fortuna! – pronunciano i cavalieri, svuotando le munizioni in aria prima di riprendere la strada di ritorno verso quella casa dei Tanovići che aveva appena imparato a perdonare. Vale la pena di inseguire i sogni – si chiedeva Kaja sistemando un mucchio di carte rimaste dal suo defunto marito Sima Bunić – oppure bisogna lasciare a loro il compito di venire dietro a noi? Dal momento in cui egli è stato sepolto, ogni piacevole legame con il teatro è andato in frantumi. Quanto poteva diventare noioso e insopportabile spostarsi continuamente tra piccoli e grandi villaggi, faticando sempre per ottenere un prezzo equo d’affitto per il locale in cui presentare lo spettacolo, trattando con il proprietario del caffè più grande, unico

luogo di ritrovo del paesino in cui si capitava. Riscrivere mille volte i manifesti, prepararli e incollarli su tutti i muri e le vetrine dei negozi, dal fornaio, dal barbiere e dal macellaio. Offrire mance e avere così dalla propria parte le voci delle simpatiche canaglie che senza tregua avrebbero attraversato la cittadina divulgando la notizia del “teatro in arrivo” anche negli angoli più nascosti. Ogni cosa è diventata priva di senso e insignificante ormai. Non si ricordava più quanto potesse essere piacevole la sensazione di sazietà, né cosa significasse avere un tetto sopra la testa. Che sapore avrebbe una vita vissuta fuori dal nostro carro e senza l’incessante pioggia che sbatte su quella arrangiata tettoia metallica. Lontana da quei variopinti sportelloni con la scritta “Teatro viaggiante”... Una volta credeva che calpestare le assi assemblate di un palcoscenico significasse vivere sul serio, ma ora che si sono trasformate in travi putride e marce, si rende conto che rimanerci ancora sopra, e tirare a campare in questa maniera, l’allontana sempre più inesorabilmente dalla vita vera. Qualunque cosa essa sia. Nella realtà di tutti i giorni, quella in cui i nostri ruoli ci vengono assegnati da altri, si tratta, per giunta, di dover sopravvivere a fatica. Tutto è un continuo spostare pesanti banchi e tavolacci, per improvvisare un palcoscenico d’occasione. Continuamente battere chiodi per fissare ancora una volta la corda, che serve a far scorrere la tenda appesantita dalla polvere della strada. Lavare e rammendare costumi prima e dopo la nuova drammatizzazione di Zona Zamfirova, un racconto di Stevan Sremac. Incollare baffi e barbe che si staccano sempre un istante prima di andare in scena. «Mascheratevi!» – pronunciava le parole di Shakespeare fissando un punto immaginario e stringendo con accanimento i pezzi di carta tenuti in mano – «Stanno arrivando mascherati!». Ora, dopo tutto, osserva con soddisfazione le fiamme mentre divorano ogni singolo foglio di carta ben accartocciato. Di certo non può sapere che uno dei nipoti del suo defunto marito, figlio di sua cognata Persida, ha rubato e nascosto nel cappottino il primo dei manoscritti, capitatogli casualmente sotto mano. In quest’ultima scena surreale, Kaja ride, credendo forse di poter nascondere così il proprio tormento, accompagnando ogni pagina in fiamme con una frase

assillante, «Sire, gli attori sono arrivati!», pensa veramente di star distruggendo tutta la sua eredità, ignara della copertina del Ča Jovan, Zio Jovan, lentamente accarezzata dalle dita del piccolo Voja, spaventato e ben nascosto. Voja, conosciuto come Beba, soprannome ereditato da sua moglie Sofija Horvatović, si sveglia di soprassalto. Un brutto sogno. Uno tra tanti. La camicia da notte che porta addosso è bagnata di sudore. Come al solito usa lo spruzzatore per l’asma, poi manda giù anche una zolletta di zucchero con alcune gocce di valeriana. Solo allora si alza, toglie la cuffia e le calze da notte ed esce nel portico di una delle case più belle della Manchester serba, come venne chiamata la città di Leskovac per via della sua solida industria tessile, seconda solo a quella inglese. Non era particolarmente preoccupato per l’atteggiamento scortese con cui sua madre Persida Bunić, donna di nobili origini, aveva accolto la nuora proveniente da Novi Sad. Quella sera al ballo degli ufficiali era andato per conoscere la nipote del grande Generale Đura Horvatović, Hristina, ma solo il caso volle che l’altra sorella, Beba, diventasse sua moglie. Il motivo del suo brusco risveglio non è da cercare nemmeno tra i ricordi di guerra, in quella fastidiosa presenza di pidocchi o nel ricordo di un paio di scarponi militari dalla suola di cartone, che durante la pesante traversata a piedi dell’Albania sono state le due principali ragioni di morte, e da cui miracolosamente era riuscito a scampare, seppur perdendo entrambi i talloni. Oltre al cattivo sapore delle dure gallette, masticate durante quella marcia, e agli spietati attacchi degli irregolari albanesi incontrati lungo il cammino, questi sono i suoi unici e quasi palpabili “ricordi” di quel calvario. Vojislav Stojanović, il capufficio delle poste, veniva regolarmente svegliato da un’altra cosa: la mano di Maria, quella stessa mano da cui è stato preso appena sbarcato a Solun; il caffè e lo tsipouro che con l’aggiunta di una goccia d’acqua diventa bianco come il latte; il formaggio di pecora, le olive e la moussaka per il pranzo domenicale; la bellissima donna dai capelli neri accanto a cui si svegliava ogni mattina del suo soggiorno in Grecia. Fino a quell’ultima sera, quando venne fermato uscendo dal campo militare – per andare appunto da lei che gli aveva cucinato il branzino fresco pescato la mattina stessa – con l’ordine di raduno immediato per la partenza delle truppe. Il momento del grande macello era giunto; un altro nella fila dei tanti a cui si è sopravvissuti per puro caso. La promessa fatta a se stesso – una di quelle che danno senso a una vita – di

ritornare alla fine della guerra a riprenderla, non l’ha mantenuta, ed è probabilmente per questo che ha continuato a sognare la costa greca fino alla fine dei suoi giorni. eggiare con i fratelli più grandi vicino al fiume e attraversare Kujundžiluk, la zona centrale della città nei pressi del vecchio ponte pieno di negozietti artigianali, è sempre stato un grande evento per Kika, settima di otto figli nella famiglia Hidović, che in quelle occasioni si sentiva di volare come un aquilone portato dal vento. Magari con uno dei vestitini che aveva adocchiato nella coloratissima vetrina di un rinomato negozio alla moda di Mostar. Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale e negli anni successivi, di moda andavano due sole cose: la sopravvivenza e le gonne larghe dai colori sgargianti. Immensa fu la sua gioia nel trovare sul letto il sogno tanto desiderato, superata forse solo dall’inaspettata partenza verso il mare la sera stessa. Il vestito sembrava fatto su misura: la gonna aperta sul sedile copriva abbondantemente ben dieci chili di pregiato tabacco dell’Erzegovina – dove škija era la qualità da fumare e flora invece serviva soltanto per mantenere l’aroma giusto – che suo padre andava a vendere sull’Adriatico ai pescatori. Si tornava da quei viaggi con altrettanta quantità di sale – l’oro puro di quei tempi – che a Mostar il padre scambiava con farina, olio o carne, o con quello che poteva servire in una casa dove c’erano ben dieci bocche da sfamare. Kika aveva imparato a fare bene la sua parte. Talvolta il dolce far niente può essere la cosa più importante da fare. Era sufficiente fingere di dormire mentre – dapprima i carabinieri o i soldati che indossavano elmi con piume di coda di fagiano, in seguito altra gente con una stella rossa sul berretto – ispezionavano il treno e le valigie dei eggeri. Per quanto poteva indossare un’uniforme, portare un’arma o avere il volto severo, nessun controllore avrebbe mai osato toccare la tenera bambina addormentata in un angolo sulla tipica panca di legno dei vagoni di seconda classe. Cos’altro desiderare: era circondata dal fumo di una locomotiva, inebriata dai colori primaverili incorporati per sempre nel suo vestitino e aveva la possibilità di godere tutto ciò rimanendo in silenzio con gli occhi ben serrati. Tomica avrebbe voluto credere che tutto fosse solo un sogno: le buche causate dalle bombe e le case in fiamme, gli animali squarciati e gli uomini spezzati in due, gli aerei che continuavano a sorvolare la città e a seminare la morte

ovunque, rendendo ogni cosa un’imponente rovina. Non essere più in grado di riconoscere la propria strada era di certo la cosa che maggiormente gli doleva ed è per questo che girovagava da ore, indossando un paio di pantaloni cuciti velocemente coi resti di una coperta militare e un paio di scarpe tenute insieme da un’equilibrata mistura di colla da calzolaio e pura fortuna, in cerca di qualunque segno riconducibile alla casa degli Stojanović. Aveva appena compiuto dodici anni, ma comprendeva cionostante la stranezza della situazione: quelli che aiutavano i cittadini a tirare fuori dalle macerie i feriti erano i soldati tedeschi, mentre gli aerei degli alleati inglesi cercavano di portare a termine il lavoro iniziato. Una delle tante assurdità della guerra, la cui spiegazione avrebbe voluto chiedere al padre, era, ad esempio, come mai, se ogni sera ascoltavano di nascosto con tanto entusiasmo Radio Londra, le prendeva invece di santa ragione se accettava del cioccolato dagli ufficiali che abitualmente, sul corso di Leskovac, si pavoneggiavano con signorine dal sorriso smagliante e dalla risata che echeggiava lontano. Se solo fosse stato in grado di ritrovare il punto in cui era piantato il nocciolo, dove stava il pozzo, oppure il porticato di casa... Stanco di camminare e di schivare a ogni o tutti quei corpi privi di vita, decise infine di fermarsi sotto un tetto non del tuttoceduto, vinto dal sonno in cui crollano solo i bambini e i giusti. A svegliarlo sono gli schiaffi e gli abbracci di sua madre Beba, in lacrime, che istericamente continuava a riempirlo di botte. Dopo due giorni di ricerca in una città rasa al suolo, irriconoscibile, aveva già pensato che non l’avrebbe ritrovato mai più. Ansia e paura accumulate ora si attenuavano, rendendo ogni schiaffo meno energico, ogni bacio più forte. Beba, la figlia di Aleksandar Horvatović, un commerciante all’ingrosso di Novi Sad, non riusciva a meravigliarsi abbastanza osservando la sua ex nuora fare le valigie. Il carro era pieno della roba più impensabile. Persino il vaso da notte della suocera, per qualche inspiegabile motivo, aveva deciso di portare via. In quel frangente anche l’atteggiamento di suo marito, Vojislav Stojanović, era fonte di continua sorpresa. Come se non vedesse l’ora di avere la casa svuotata, dava lui stesso una mano agli operai, preparava loro il caffè e di tanto in tanto offriva della grappa. Notando lo sguardo incredulo della moglie che lo rimproverava, aveva detto semplicemente: “Da quando mio figlio ha venduto tutte le pecore non mi importa un bel niente di tenere ancora dei cani in casa”, e senza scomodarsi troppo aveva continuato a servire da mangiare ai facchini, stanchi di smontare e trasportare tutti quei letti e gli armadi in legno massiccio.

Qualche giorno prima, quando Tomica gli aveva fatto vedere una foto della nuova eletta, il vecchio Voja aveva subito sostenuto il volere del figlio – Gran bella donna, portala subito a casa! Aveva detto a Toma Beba, che aveva trascorso gli ultimi dieci anni tentando inutilmente di avere figli e a cui non occorreva ripeterlo due volte. Anzi, gli bastava sentirsi dire una sola volta la verità in faccia – quando il suo amico medico l’aveva chiamato in disparte in un angolo della sala d’attesa per rivelargli a voce bassa che il problema della sterilità non dipendeva da lui; che non sopportava il silenzio dei suoi colleghi che in nome della galanteria avevano deciso di tenergli nascoste le sue perfette condizioni di salute, lasciandolo nell’illusione che le visite e i trattamenti a cui si sottoponeva sua moglie, le cure termali e i sortilegi avrebbero dato i risultati sperati. Aveva pianto e parlato con se stesso per tutto il tragitto di ritorno ma, una volta varcata la soglia di casa, la decisione presa era irremovibile: le aveva detto che si lasciavano, l’aveva aiutata a radunare le cose e a preparare una valigia per accompagnarla poi a casa dei suoi genitori. Non voleva rammentare nulla; mentre i carri pieni zeppi di roba uscivano dal cortile di casa, egli si sdraiava felice accanto al pancione della sua nuova sposa – Kika, discendente degli Hidović di Mostar – senza la minima intenzione di accompagnare nemmeno con uno sguardo le reliquie della sua vita ata. Davanti a Toma e Kika Stojanović si prospettava un’altra di quelle notti in cui non avrebbero chiuso occhio. Invece di dormire, eccoli, come ogni venerdì sera – era ormai già l’ottava volta in due mesi da quando era stato arrestato il loro primogenito – che preparano tutto per andarlo a trovare il mattino seguente: i pantaloni e le magliette; alcune stecche di sigarette di cui solo una verrà recapitata al destinatario; il latte, lo yogurt e i succhi di frutta che le guardie apriranno prima di darli al carcerato tenuto con le mani incrociate dietro la schiena, senza la cintura dei pantaloni né i lacci nelle scarpe. Mentre la madre prepara le borse, il padre con un coltello separa la carne dall’osso; il primo sabato – ah, come è triste dirlo ora – l’avevano costretto a riportare tutto indietro perché i detenuti non devono ricevere alcun oggetto potenzialmente tagliente. Anche il tentativo di avvicinare il direttore del carcere, che ben conosceva – questi un tempo era il factotum dei giocatori, portava loro dai palloni alle scarpe da ginnastica, mentre Toma, nel ruolo di centrale, conduceva la squadra di pallamano della sua città in serie A – si è dimostrato un buco nell’acqua. Quando, per ignorare la sua presenza, la testa del dirigente si

gira dall’altra parte, la mano del padre alzata in saluto resta come impacciata nell’aria. Avevano bevuto il caffè e solo allora la madre era scoppiata in quel tipo di pianto che scuote tutto il corpo ma lascia il viso asciutto e senza lacrime. Attendevano l’alba per caricare la macchina e partire verso il carcere, dal loro figlio scherzosamente soprannominato “Il nido per gli adulti”. Si sbrigavano nel prendere posto in quel tipo di fila che non ci si può augurare di dover fare per i propri cari. Un sogno dentro un sogno, dove mi porta – si domandava Kika appena addormentata e presa dallo spavento di non poter né preparare il caffè al figlio per augurargli il buongiorno, né versare il recipiente d’acqua alle sue spalle nel momento della partenza. Lasciava appena intuire, senza ammetterlo mai, quanta importanza rivestiva per lei questo rituale pagano con cui da tempi immemorabili gli uomini in casa Stojanović – di cui la maggior parte possedeva doti invidiabili nell’unire con maestria viaggi d’affari e la più pura filosofia epicurea – venivano salutati dalle loro madri. Questa volta le mani e le gambe di Kika l’avevano abbandonata: lo sconforto si era impadronito della donna che, immobile, restava a guardare il pancione della nuora alzarsi e abbassarsi ritmicamente a ogni nuovo respiro. Elementi alquanto strani di un sogno subentrano nell’altro: la gioia e la paura si susseguono, si danno il cambio, creano una sequenza curiosa. Il magnifico bouquet da sposa in stile Biedermeier sorvola i tetti delle case e illumina le vie oscurate per il coprifuoco; i suoni uniformi, discontinui delle sirene d’allarme accompagnano il canto nuziale; il primo pianto del bambino si confonde con il lamento delle donne vestite di nero. Le prime a svegliarsi sono state le gambe, i cui piedi sono scivolati nelle pantofole, appoggiate accanto al letto; seguirono poi le braccia, che avrebbero voluto tirarsi su aggrappandosi al tavolino da notte e a quella sedia tenuta vicino; solo la testa, a cui nessuno chiedeva ormai niente, aveva tenuto duro più a lungo. Uscendo dal letto le sembrava di vedere sia le abili dita magiche di Jeronim Bunić – il celebre diplomatico di Ragusa che in nome della pace aveva consegnato i regali al gran visir del Sangiaccato – grazie a cui il bricco da caffè prese da solo posto sui fornelli, sia la mano delicata della pittrice di Novi Sad, Hristina Horvatović, che li accese in un secondo momento. Jovan Bunić e Nikola

de Bono – il padrone della prima delle tredici case nella colonia ragusea a Leskovac, uno dei luoghi di loro proprietà lungo la strada per Istanbul, dove gli ambasciatori che recavano il tributo annuo all’Impero Ottomano per garantirsi l’indipendenza, potevano fermarsi con maggiore tranquillità evitando possibili imboscate – si aiutarono a vicenda a riempire d’acqua il grande bricco rosso a pois bianchi. Infine, mentre il padre raccoglieva le tazzine con i fondi depositati da un caffè bevuto troppo in fretta, Kika riusciva a osservare la nuvoletta di polvere lasciata dalla macchina che glielo portava via. I suoi cavalli moderni, nutriti da cilindrate – solo in parte simili agli stalloni del Generale Horvatović all’inizio di questa storia – si impennavano e caracollavano sulla strada accanto alla quale giacevano i resti dei sogni, come un cupo e inutile monumento, in onore dell’esperienza.

L’avvento della ragione

Ho distolto lo sguardo dalla strada che giù all’orizzonte finiva in un punto minuscolo. Per quanto imponessi alle mie palpebre di serrarsi immediatamente, la mia volontà non veniva rispettata e i miei ordini restavano completamente ignorati, condannandomi a un disagio prolungato causato dalla vista di tutte quelle cose. Lo sguardo implacabile su una delle due autostoppiste, ricurva su di lui: le labbra dipinte di un rosso baciano lentamente il buchetto roseo in cima e spingono la pelle in giù, trasformandolo in una cabriolet. La lingua umida si muove creandogli una spirale attorno e avvolge la lucida capoccia un momento prima di assorbirla completamente. La ingoia, la spinge dentro fin nella gola. Intanto le dita di una mano con lo smalto nero sulle unghie accarezzano i testicoli, mentre l’altra trova appoggio tra i peli crespi del petto. I folti capelli scuri di lei a tratti mi disturbano la vista. Il libidinoso prontamente ne sposta le ciocche dall’altra parte e acchiappa con la manaccia il sedere della ragazza. Cosa dire del dito? Ah, quel dito che si aggiudica la sorte! Lo osservo imboscarsi tra le natiche e scendere giù per il monte di Venere, privo del minimo cespuglio. Devo ammetterlo: il gonnellino bianco con negligenza tirato sulla schiena e le mutandine in una mossa abbassate fino alle ginocchia avevano dissuaso e scosso fortemente i miei più ferrei princìpi morali. Le ciglia grandi e fitte di lei si schiudono lentamente e incrocio allora uno sguardo ambiguo e intenzionato a tutto tranne che a fermarsi; in un lampo si trasforma in qualcosa di selvaggio, torbido, meraviglioso... Ecco, questo era l’inizio di tutta la faccenda! Ancora? Mi avevate promesso, insomma... E, va bene, va bene, se proprio dev’essere così... No, lui decisamente non è normale. La cosa è accertata ormai. Come prima cosa mi ha imbottito di C2H5OH, etanolo, fino a farmi torcere ogni spirale tanto che mi duole anche l’ultimo neurone, per costringermi poi ad assistere a quel bordello che si svolgeva sul sedile anteriore. Una vista che aveva infuocato il ponte dell’encefalo – lontano da me, Satana – pretendendo che io ricordassi per lui pure le date dei compleanni, spiegando ad altri questa sua estrosa fissazione,

come se a qualcuno ancora importasse. Talvolta mi assale davvero il desiderio di abbandonare con stile questa mia gabbia ossea in cui sono intrappolato e che da tempo ormai ha smesso di attendere il suo uccello, così da elevarmi sulle alture del Parnaso e poter osservare da quel palchetto accademico come se la cava il maniaco senza il mio aiuto. Le mie vedute, allora, non sarebbero più tanto bigotte né mi chiamerebbe più “santerello”. Il gusto di trattarmi come se fossi un maggiordomo di un qualche romanzo d’amore settecentesco sono certo che lo abbandonerebbe. Cosa mi resta da fare? Sopportare da vero uomo che stringe i denti e tace, quasi fosse una mignotta, e si ritira nelle meningi: come prima cosa bisogna indossare la canottiera e i pantaloni lunghi membranosi, simili a tela di ragno, poi il pigiama, i calzini e la cuffia da notte – pia madre – per finire con il piumino, il più pesante di tutti gli altri strati. Mentre il volgare e insistente portavoce della Camera Bassa con tenacia non solo avanza le sue assurde pretese ed esige d’essere mostrato, “in ogni luogo e situazione”, ma glielo rammenta persino con quelle ottuse canzoncine improvvisate ad hoc, io dal canto mio, dopo aver presenziato a tutte le lezioni e conseguito la laurea in Medicina veterinaria, dopo aver ereditato delle doti e acquisito delle capacità nuove, per non dire poi un’innata “modestia sotto ogni aspetto” – per citare quel cretino di un vermiciattolo inguinale che dubita delle mie qualità e mi crede limitato – ecco, io non mi permetto questo tipo di millanteria. Ahimè! Sento delle fitte acute in entrambi gli emisferi mentre Čarli cerca di ideare qualcosa di ingegnoso e quando si parla di lui si tratta sempre di una cosa sola: il sesso. In-out, infila-sfila, quelle mosse bizzarre che non portano ad alcunché di speciale, come se di un coito non fosse capace un qualunque animale. Comunque, nessun animale pennuto stridula dalla finestra di un’automobile come invece sono avvezzi a fare certi individui. Le bestie con la coda pelosa per lo meno non vomitano sulla tappezzeria quando la sinapsi è impegnata a resistere e fa di tutto per funzionare ancora. Posso dire in tutta sincerità che da lui mi potevo ancora aspettare quei suoni robusti e ordinari da tipico ubriacone addormentato, ma la signora leggermente in carne e svestita – che l’indecente chiamava “Cinghiala” – era una sorpresa assoluta. Aveva prodotto su di me un effetto sgradevole, lasciandomi letteralmente di stucco per via dei suoni di cui era capace, ben lontani da

qualunque idea di armonia. Facendo finta di non essere cacofonicamente torturato, avevo spostato la mia attenzione sull’autista e l’altra signorina, quella più snella. Ascoltavo di nascosto i loro progetti per un futuro radioso a Helsinki, quando il maniaco riaprì gli occhi e cominciò a bestemmiare: “Fottetevi tutti insieme voi due, Jarmusch e i suoi Tassisti di notte”, ruttando spudoratamente e attaccando un sermone senza fine. Le cospirazioni vanno sbaragliate sul nascere, do you Spartacus and Robespierre – si alza e con una forza micidiale prende a pizzicotti il gluteo della povera ragazza addormentata. O Signore, eccolo che strofinando gli occhi cisposi e sbadigliando ogni tanto continua senza ritegno il suo discorso sgangherato: Piccioncini miei, ditemelo voi, è la libertà in sé che comporta dei pericoli oppure sono le insidie che crescono man mano con essa? Cosaaaaa è cooorreeeetto – urla e sbava attaccandosi nuovamente alla bottiglia. Poi lo sguardo vitreo dell’ubriacone resta per qualche istante fisso, inchiodato alla superficie del mare che appare alla nostra vista, mentre chiede in inglese se l’immensità blu sarà mai in grado di cantare così bene come i continentali la cantano nelle loro poesie. Prende allora il bel seno grande della ragazza, lo appoggia sulla guancia sudicia non rasata da tre giorni e gira le palpebre socchiuse verso il sole. Devo ammetterlo: a volte riesce persino a risultarmi simpatico. A patto che si astenga dall’essere volgare, ubriaco o fumato, cosa che accade davvero di rado. La mia lotta eroica per contrastare i suoi scatti d’ira e colmare la rabbia pura, il mio tentativo di combattere le nuvole di nicotina con cui mi avvelena – per non parlare poi di quella battaglia spesso in atto con le ondate di etanolo che lo portano in alto mare, o degli sforzi compiuti per respingere le offensive di cannabis simili all’invasione tartara. Tutta fatica inutile e sprecata da parte mia, quanto la vittoria di Pirro – mi hanno semplicemente portato a non tollerare più le sue bravate, tanto da rinunciare ormai anche all’idea di poter fare di lui un uomo per bene. Questa volta proprio mi vergognavo di lui. Non solo dall’angolo della bocca gli pendeva un sottile filo di bava lungo circa 55-60 centimetri, ma sebbene svegliatosi così bruscamente, non ci aveva pensato due volte prima di precipitarsi verso la taverna. A torso nudo e con i pantaloni aperti è schizzato fuori dalla macchina, lo squilibrato, mentre le due signore, che in tutta questa

faccenda non avevano la minima colpa, cercavano di rifarsi velocemente il trucco e nascondere i lividi. ando accanto al vaso su cui era scolpito Eracle che affronta il leone di Nemea, era riuscito a inciampare e scivolare sulle piastrelle bagnate, decorate con figure a mosaico dell’antica storia greca. Con successo aveva tirato giù la tovaglia che recava stampata l’immagine di Afrodite, facendo finire sul pavimento anche il menage abbellito con l’immancabile volto del mai sobrio Dioniso. Si versarono l’olio d’oliva e l’aceto di vino, prese il volo senza autorizzazione alcuna l’Icaro dipinto sulle stoviglie in ceramica. Vennero giù anche il capriccioso Zeus attaccato sulla cesta del pane, nonché il Poseidone, che seppur abituato ai terremoti, qui navigava sui tovaglioli e avvolgeva le pesanti posate. Sì, anche un vaso blu e bianco con dei fiori variopinti finì ugualmente per terra. Non mi sono mai vergognato di lui così tanto come quel giorno. Invece di cacciarlo via, proprio come avrebbe meritato, senza neanche fargli oltreare la soglia di quella taverna, ecco invece che gli viene incontro il proprietario e lo accoglie a braccia aperte – πέντε χταπόδι, cinque polpi – pieno di riconoscimento, che Dio mi salvi, ricordando ancora l’ultimo pranzo di Čarli nel suo locale e apprezzando la caparbietà con cui si era battuto in duello con i cinque polipi. Devo farmi pure io il segno della croce o cosa? In pochi istanti quell’ambiente sereno e tranquillo aveva completamente mutato il suo aspetto. Non era più un piacevole ristorante greco, ma la più spregiudicata arena, pronta a ospitare antiche orge: il volume della musica sale al massimo e i camerieri cominciano le loro corse. Apparecchiano i tavoli uniti per l’occasione, sistemando sulle tovaglie nuove delle tovagliette di carta tenute da angoliere di metallo per non farle volare via. I menu svolazzano. Cadono fogli abbandonando la copertina in pelle. Ma non importa a nessuno. Όλα, φίλε μου, Tutto, amico mio – si rivolge al padrone baffuto suscitando in lui evidente simpatia. Arrivano i piatti e le posate, le ragazze saltano sui tavoli – Μαρία, με τα κίτρινα, Maria in giallo – canta a squarcia gola mentre le signorine sfilano le magliette e tolgono i reggicalze. I seni saltano su e giù, giù e su, poi prendono la direzione delle lancette sul Big Ben, solo i capezzoli restano orientati verso il cielo senza cambiare mai la loro posizione. Ed ecco che lo scemo di un impertinente, senza consultarmi, abbassa lo sguardo verso il pavimento e mi costringe a intromettermi – ehilà, gli dico, alza immediatamente su quella testaccia dura – ma che te lo dico a fare, non mi

ascolta, cambia velocemente il ritmo – Μη μου θυμώνεις Μάτια Μου, Non ora tesoro, non essere arrabbiata con me, non con meee – e crolla nella sedia. Perché vuoi riascoltare tutto da capo? Ogni inizio è difficile, cosa c’è da sapere? Va bene, va bene! Fammi prendere un sedativo e ti racconto tutto, d’accordo? Ecco, dunque, quel giorno quando avevamo incontrato le due autostoppiste stavo quasi per ringraziare il Signore ad alta voce mentre salivano nella nostra macchina. La loro presenza mi aveva indubbiamente fatto sentire sollevato. Imponendo fin da subito i loro gusti musicali con una cassetta inserita nel registratore avevano cancellato il rumore monotono del motore e il ricordo assillante di tutte quelle domande e del trattamento subito poco prima alla dogana: “Qual è il motivo del vostro viaggio?”, “Avete qualcosa da dichiarare?”, “Quanti soldi avete con voi?”, “Parcheggiate di lato”. Il fermarsi davanti alla polizia di confine; il silenzioso abbassarsi del finestrino anteriore della nostra macchina; l’aprirsi della finestrella del gabbiotto e il controllo di ogni singola pagina dei nostri aporti; il rumore della porta mentre l’autista esce fuori; l’apertura del portellone posteriore e una mano che fruga tra i bagagli, fino in fondo; il suono dei nostri i mentre raggiungiamo l’ufficio della guardia di turno; il fruscio delle banconote appoggiate sul tavolo dell’impiegato statale; il tintinnio delle chiavi e lo scuotere dell’accendino sulla scrivania; la perquisizione totale, i pantaloni che calano sulle caviglie – le mutande, le mutande pure – ancora addormentato sento insistere una voce e rispondo a cazzo dritto – di la verità, non ti è mai capitato di averlo così grosso – morditi sta linguaccia e stai zitto, idiota, porta via il tuo brutto culo e sparisci prima che cambi idea – stridula tra i denti la stessa voce il cui ringhiare fastidioso raggiunge i miei timpani; ne segue il rivestirsi, il tirare su i jeans, l’ardiglione che batte sulla fibbia, le scarpe che strusciano per terra mentre torniamo in macchina avvolti da un silenzio mortale. Fermo qui! Sento la voce di Čarli che sembra provenire dalla pancia – la mortificazione mi fa sempre venire una fame da lupo. Soddisfatti di questa digressione? Posso continuare ora il mio racconto da dove mi avevate interrotto poco fa? Dunque... Un indomabile e ferino appetito, che dubito abbiate mai potuto vedere altrove. In questa situazione, dove lui egoisticamente non avrebbe rinunciato a nessun boccone, persino al famoso detto non restava che adattarsi: “si levava il pane di bocca per darlo al suo stomaco”. Di certo non può essere di facile comprensione

l’elevato grado di avversione nei confronti di ogni innocuo ingrediente vegetale che per sbaglio avesse potuto finire nel suo piatto, né tantomeno il disprezzo per qualsiasi nozione di macrobiotica, a parte “la porchetta farcita a regola d’arte e allevata con il riso integrale, naturalmente”. In compenso il suo amore per l’Hatzimichalis, la quinta bottiglia in particolare, è sempre stato ed è rimasto immenso. Mi sono adoperato in tutti i modi per farlo smettere. Senza successo. Bastava che spuntasse dal nulla un suo amico, un certo Vangelis, perché partissero saluti e abbracci che dovevano essere irrorati con la bottiglia nuova arrivata al nostro tavolo, con l’augurio sincero di mandare a casa i saluti dall’antica Ellade. Ah, casa, dolce casa! Ed è a questo punto che ho rischiato di rimanere stecchito. Quel tale di cui voi vorreste conoscere i particolari della vita e il cui comportamento invece tocca gestire a me dall’alto della mansarda in cui sono rannicchiato con i miei tarli, era ubriaco perso e solo apparentemente rilassato. A tratti la coscienza si faceva sentire con una voce sempre più grossa mandando l’intero sistema a puttane. Giuro, aveva causato un cortocircuito così grosso tra la corteccia e il midollo – tra la forma e la sostanza – che a malapena sono riuscito a ristabilirmi. Con quale quantità di nozioni mi aveva sommerso: lui è una grande autentica merda (certo, lo so anche da me, da depositare senz’altro nell’area della memoria); la ragazza all’ottavo mese di gravidanza (però, anche questo bisogna segnarlo, che vergogna) che convive con lui in una relazione aperta e senza aver celebrato il santo matrimonio . Mi mancava solo questa... Con il dipartimento dei rimorsi ammetto di avere dei pessimi rapporti. Si alza, barcolla verso l’uscita, vede un telefono pubblico di fronte e cerca di raggiungerlo. A momenti una macchina quasi lo mette sotto. Il suono prolungato del clacson di un’altra che lo evitava con un’ampia curva lo fa trasalire. Bestemmia e impreca – Cosa c’è, vigliacchi sobri: un ubriacone per bene nemmeno può telefonare senza essere importunato? – Ma questo ovviamente non gli basta – Lasciatemi in pace una volta buona, insomma, aveteee rotto i coglioniii – aggiunge prontamente il cafone. Che figuraccia! Da sprofondare sotto terra dalla vergogna, anche solo a ripensarci. È visibilmente sorpreso perché l’apparecchio funziona – Dove cazzo sono nato io, ma porco di un cervello – dice offendendomi l’ennesima volta. Il midollo me l’ha succhiato in quell’istante, imbecille di un imbecille che non è altro, lasciando dei segni pericolosi anche sulla corteccia stessa per cui difficilmente riceverà il perdono. I numeri sulla tastiera del telefono riesce a beccarli con fatica. Dall’altra parte gli risponde la voce della madre. A tutt’oggi non riesco a non meravigliarmi

abbastanza per quello che è uscito fuori da genitori così splendidi come i suoi. Lo scapestrato si fa gli auguri di buon compleanno da solo, poi si congratula con Einstein per lasciare infine un po’ di spazio anche ad altri “comuni mortali” nati quello stesso giorno, liberi di unirsi a loro in festa. Al fratello, che nel frattempo aveva preso la cornetta, cerca di spiegare che non ci sono sostanziali differenze bensì indubbie similitudini tra la teoria della relatività generale di Albert, che prende in considerazione il fattore di contrazione delle lunghezze e la dilatazione dei tempi, e la teoria amatoriale di Čarli, dove la promiscuità sessuale può essere stimata in base al tempo impiegato e la lunghezza del cazzo raggiunta alla vista di una “gran gnocca” – che schifo, e la riduzione drastica di entrambi gli elementi quando si tratta di una “racchia” – due volte schifo... – Bla, bla, bla, eccetera, eccetera... Insomma il rimbambito osa sostenere quanto entrambe le teorie siano “geniali”. A pensarci bene è molto strano che anche la sua famiglia gli faccia are per buone queste stupidaggini. Non lo criticano, chiedono soltanto se il tono raffreddato che gli si sente dalla voce è per colpa dello iodio o meno, e lui lo conferma, che faccia tosta, senza battere ciglio. Con arroganza aggiunge pure – ahi, ahi– che gli viene difficile smaltire i disagi causati dal fuso orario –ehi, un’ora intera di jet lag ahi, ahi, ahi! – Allora viene al telefono suo padre di cui addirittura io riesco a percepire il finto entusiasmo con cui cerca di minimizzare il problema incombente. Finalmente lo dice. Al figlio è arrivata la chiamata militare. Lo stupido ubriacone non lo prende sul serio, continua a scherzarci sopra. Chiede al padre se l’hanno di nuovo lasciato a guardare il TG2per essere così uscito di senno, o se è felice davvero che a lui, un Capitano di riserva, finalmente si ripresenti l’opportunità di combattere davvero, visto che aveva inutilmente sprecato così tanti anni a mangiare arrosto di maiale e lottare contro la pediculosi pubica ricevuta in dono da “artiste locali”. Comunque sia, comincia a urlare nella cornetta, chiedendo al padre come sia possibile che sia vero e non si tratti di una notizia falsa, lo costringe a ripetere tutto, a rileggergli l’invito da capo, parola per parola. Qualcosa di indefinito tra la paura e l’orgoglio, lo opprime, qualcosa che confina con l’idiozia. Tu-tuuuu, interrompe la chiamata, colpisce l’apparecchio sempre più forte, lo riempie di calci, tra forti grida e lacrime invoca ancora il nome del padre –Ahi, mi senti, ahiii, mi senti padreee... Mi scusi tanto, avrei voluto chiederlo anche prima, ma poi non ho trovato il

momento giusto per farle la domanda. Perché si veste così strano? Mi incuriosiscono le sue ali, lo sa? Cosa ne fa di esse prima di coricarsi? Le toglie, le appoggia da qualche parte? D’accordo, ho capito, devo farmi gli affari miei. Mi attenda solo un attimo, prendo un antidepressivo e sono subito da lei. Eccomi, collego il nervo olfattivo con la banca dati in memoria e riesco a ricordare per lei ogni stimolo giunto da me all’inizio di questa storia: l’odore di diesel che riempie la cabina per tutta la durata del viaggio, quello dell’asfalto caldo e quello delle gomme che leccano il catrame. Il profumo di erica e di oleandri che incorniciano la strada e ci accompagnano dalla frontiera greca fino al mare. L’odore della salsedine e della macchia mediterranea. Le fragranze femminili che seducono l’anima, sebbene brevemente; gli aromi delle loro bocche e dei bisbigli all’orecchio; dei capezzoli e delle punta delle dita; il sapore del sudore che gocciola lungo il collo della dolcezza prima che la punta della lingua lo assorba e si realizzi un cocktail aromatico perfetto, shakerando con vigore la trippa del pancione contro la schiena e il sedere sensuale della donna. Devo farla finita con questi particolari? D’accordo, come desidera lei... Saltellava per tornare dalla cabina telefonica alla taverna, rideva, piangeva e urlava allo stesso tempo, cadeva. Si era sbucciato il ginocchio e strappato la pelle da entrambi i gomiti cercando di mettersi in piedi. Infine era riuscito a trascinarsi fino al tavolo. Cosa gli abbiano chiesto le rispettabili signorine davvero non lo ricordo più, “le galline”, come le chiamava lui, ignorando di proposito la discendenza diretta di tutti i volatili da quegli imponenti esseri massicci che un tempo dominarono la terra. L’autista taceva. Probabilmente non aveva il coraggio di chiedere nulla. Intanto il coscritto dichiarava l’apertura ufficiale dei giochi edonistici, autodenominandosi il Capitano della Rappresentazione nazionale. Per il programma base proponeva certe discipline non olimpiche che è meglio dimenticare. Mi sono nuovamente vergognato di lui e meravigliato della frivolezza delle due donne, fino a quel momento almeno verbalmente contenute, che presero atto di tutto e approvarono il programma all’unanimità. Una volta tanto mi aveva stupito anche la saggezza dell’autista, deciso a spegnere quel braciere; senza seguire le specialità proposte, prese il portafoglio dalla mano di Čarli per pagare il conto senza troppe storie. Non l’avesse mai fatto. L’idiota si era pur scordato di lui, ma ora pensava seriamente a come usare tutto il sarcasmo di cui era capace contro quel bersaglio. L’autista nel tempo libero si dilettava a fare il filosofo e l’umanista, ma era l’intolleranza politica che, come una scintilla, da un momento all’altro poteva portare all’eccesso e all’uso della forza tra i due. Avevo cercato di farlo

ragionare e ammetto che mi sono mostrato un eccellente diplomatico, indirizzandogli delle domande pragmatiche che persino uno sbronzo non poteva ignorare: chi l’avrebbe riportato a casa visto che lui non aveva la patente; dove avrebbe seppellito il corpo o trovato una stella abbastanza grande da mettere sulla tomba dell’autista, e in fin dei conti – se l’avesse trovata – quanto gli sarebbe venuto a costare tutto il servizio funebre; poi riattaccavo con la domanda iniziale premendo sul punto debole che i tempi per tornare a casa si sarebbero inevitabilmente allungati se fosse venuto a mancare proprio l’autista. Fortunatamente ho avuto un vantaggio tattico geniale dalla mia parte. Le belle signorine avevano intuito che stava succedendo qualcosa di grave: avevano smesso di ridere, si erano alzate e l’avevano salutato con il bacio della buonanotte. L’autista, invece, circondato e tenuto per i gioielli di famiglia era stato avidamente trascinato nella loro stanza. La solitudine, piuttosto che essergli d’aiuto per meditare, era diventata il peggiore dei veleni. La scossa maggiore l’ho vissuta nell’istante in cui la sua testa ha colpito il tavolo – situazioni critiche per noi cervelli. E il maniaco mica smetteva di urtare contro quel brutto pezzo di legno! Ancora, ancora si accaniva con un vigore inaudito. Mi meraviglio tutt’ora come sia sopravvissuto a quella eggiata forzata da un lato all’altro della scatola cranica. A ogni impatto pregavo il Signore di risparmiarmi il contraccolpo e all’improvviso non trovavo più molto divertente la comparazione burlesca in uso nel linguaggio di tutti i giorni che dice “come i Valacchi sulla giostra”. Il liquor fluiva oltre misura rendendo i ventricoli zuppi e insufficienti a trattenere tutta quell’acqua di rocca, il che, assolutamente, non prometteva nulla di buono. La sofferenza prendeva possesso di tutto il corpo ricordando che la vita non è altro che un brutto scherzo, in cui un giorno ti capita di “parlare con tuo padre che finge di essere orgoglioso perché mandano il suo figlio al macello”, perché tu nonostante il visto valido per altri sei mesi tornerai a casa per essere rispedito, chissà perché, in un luogo lontano dove solo i folli vanno a cacciare le anatre, perché... Dormi – gli avevo imposto molto egoisticamente – Dormi... Lo sa che lei è un medico davvero strano, impossibile non notarlo! Con quei sandali e quella tunica erebbe pure per uno normale, ma quel continuo congiungere le mani nel segno della preghiera mentre parlo lascia pensare! No, non punisca la mia sincerità, la prego! Non mi costringa! Non mi faccia del male, ne ho avuto fin troppo quella volta! Sul carosello non ci salgo più, qualche

cellula sana per il post lauream bisogna pur conservarla! Prometto che non sollevo più discussioni, non faccio domande, mi limito a rispondere e sto zitto. Lo giuro! Dunque, la situazione era questa: pure io credevo di dormire, quando all’improvviso comprendo di trovarmi parcheggiato in un tunnel con le quattro frecce accese. Il lussurioso sta tastando il sedere della gentile ospite in ricerca di qualcosa; le punte delle dita scoprono l’anello magico in cui, aiutato da una goccia di saliva, entra per primo l’indice, seguito da quel farabutto prepotente con un occhio solo; l’altra mano accarezza teneramente le labbra, le apre delicatamente e sprofonda di tanto in tanto. Sento che il corpo sottostante trema, febbrilmente, senza voler smettere mai, mentre i fari ci illuminano e i clacson suonano all’impazzata raggiungendo i limiti della sopportabilità. Come dice, fermarmi? Ecco, mi fermo! Ho capito. Ah, lei è un altro di quelli che cerca la verità, ma non vuole sentire proprio tutto! La turba, non è vero? D’accordo, sto zitto che è meglio, ma mi raccomando mantenga la promessa! Sia clemente con me, come Dio la prego! Non permetta che mi montino di nuovo quell’aggeggio in testa e mi colleghino con tutti quei cavi! Per carità, non lo sopporterei, l’EEG mi stordisce completamente! Da oggi, glielo prometto, farò pure io il segno della croce! La prego! Ho detto tutto! Bene, La ringrazio. Devo ammetterlo: le assurdità erano troppe per una vita sola. Per questo l’avevo lasciato in pace e avevo taciuto quando si era alzato. Quando aveva afferrato la bottiglia che stava sul tavolo e preso una coperta dalla macchina prima di scendere in spiaggia. Quando si era sdraiato sulla sabbia fissando il cielo. Sono rimasto in silenzio persino quando aveva bestemmiato assai la madre di Pascal perché non gli lasciava neanche una buona ragione per cui, almeno da ubriaco avrebbe potuto ignorare ancora l’esistenza del “vuoto” al posto dell’orrore dinanzi “a quegli spazi che lo terrorizzano”; quando irritato dal “cielo stellato sopra di noi” intimidiva Kant recitando con esaltazione i versi di Miljković, in cui la notte diventa “immensa per la mia fronte stellata”. Quando diceva che se ne sarebbe andato per sempre, oltre le sette cime più alte, là dove la vita inizia, oltre i sette mari, dove l’ardore del cerchio si spegne nell’oceano. Nel vaffanculo, praticamente.

O sole mio

Tu certo che hai trovato proprio il coso giusto a cui chiedere le informazioni! Bah, contento te, vuoi davvero capire qual è la verità, quel fantomatico nesso tra “la sembianza e il desiderio”, alla stregua di Bierce, il famoso soldato e giornalista statunitense? Basta che non mi svolazzi più attorno! Giù le ali! Hai capito bene? Non ti avvicinare troppo a me, e metti via quel profilattico. Che non ti venga in mente di infilarmi quella robaccia! Non la sopporto! Se vuoi vedere com’è, mettitelo tu e vai in giro ricoperto di talco a fare il mugnaio, soffocando a ogni movimento per tutto quel lattice che c’è dentro. A me non serve. Adesso decidi tu, se vuoi fare due chiacchiere oneste con un coso in gamba allora ascoltami bene, perché come posso io, il suo attributo più prezioso, raccontarti di Čarli difficilmente riuscirà a farlo qualcun altro. Chiedi e ti sarà dato, ma non fare mai più la cazzata di prima pensando di ottenere qualcosa da me minacciandomi. Sono stato abbastanza chiaro? Ora, se ti sei dato una calmata, dimmi pure cosa vuoi sapere, e togliti quell’abbigliamento ridicolo che mi sembri uno scemo pronto da un momento all’altro a scendere a pulire le fogne. Finisci per innervosirmi con quella tunica e quelle ali, e se mi prendono i nervi non si sa come ti rispondo! Velocemente, togli questa roba di torno e ascolta... Che dirti di Čarli? Quella volta aveva veramente esagerato. Avrà pure avuto ragione, giusto, non lo nego. Non lo ascoltavo minimamente, urlavo a squarciagola dal desidero e non mi facevo azzittire facilmente. I suoi rimproveri non li sentivo, ma questo non giustifica la brutalità con cui mi ha infilato nello scarico di quella autostoppista. Posso perdonarglielo, ma non dimenticare; venivo stretto da tutte le parti: un salto nel buio praticamente. Il silenzio assoluto. Terribile! Pensavo di restare ucciso per via di tutte quelle pressioni laterali e dell’incertezza frontale che incombeva su di me. Quando finalmente mi ero convinto che nulla di peggio avrebbe potuto capitarmi con quel maniaco, ecco il momento in cui la canaglia riuscì a stupirmi un’altra volta ancora. Si spoglia tutto nudo, – e siamo a marzo io dico! – fa un freddo cane, ma lui senza pietà mi imbuca la testolina nella sabbia vicino al mare. Inutili e sprecate sono state allora le mie preghiere. Lui non sente l’eco del mio lamento, né prova la sofferenza che mi causa ogni sua mossa. Lacerazioni e graffi penosi, ecco a cosa

mi aveva condannato. Certo, chiedere a un imbecille ubriaco di prendere in considerazione l’umidità e il freddo sarebbe stato come abbaiare alla luna. Chi ce l’avrebbe fatta a spiegargli che da quella sera era riuscito a modificare il significato del comune detto si è sciupato come una fica secca promuovendo l’organo maschile al ruolo del protagonista principale. Lontano da ogni romanticismo che possa esserci dell’attendere l’aurora sulla spiaggia, il suo risveglio la mattina successiva è stata la parte più dolorosa di quell’avventura. Il naso e le orecchie piene di sabbia, il solco intergluteo pure, tra me e il prepuzio troppi granuli fastidiosi, di cui ne era colma anche la vescica, il che mi tendeva ben alto ed eretto alle sei del mattino come fossi una recluta in fanteria d’assalto; mancava soltanto di intonare l’inno dell’alzabandiera per completare il quadro. Che sollievo vederlo finalmente alzarsi in piedi e tirare fuori dalla sabbia me, il suo povero membro stremato da una sosta forzata in quella posizione scomoda che solo la mente di un matematico pazzo può giudicare normale. Ritrovarsi in parallelo con la terra ha i suoi indiscutibili pregi. Si respira meglio, lo ammetto, e il benessere ti invade tutto il corpo fino alla radice. Nemmeno il flusso di urina che mi attraversava avrebbe potuto ostacolare tale gioia; un caldo getto minzionale di vigore ridotto, lungo e discontinuo. Il balordo barcollando riesce a trascinarsi fino alla stanza e strada facendo senza pietà mi fa sbattere tra le cosce quasi fossi un pendolo di un orologio a cucù. Ometto, sta’ un po’ attento a cosa fai! Il freddo mi aveva tonificato, e ritrovando di nuovo il mio tonus, situs e habitus ero evidentemente pronto a riprendere la polemica con lui e a protestare per i maltrattamenti subiti. La porta non la trova chiusa a chiave, entra e nota subito nell’autista l’assoluta mancanza di preoccupazione per le notizie ricevute la sera prima, per l’invito arrivato dal Ministero della Difesa, per la sua imminente partenza e le “manovre militari” che lo attendono. Cazzo, altro che manovre, ecco cosa lo attende! Da vent’anni ormai sono il fedele attrezzo delle sue scopate e nessuno può sapere meglio di me come si sentiva e cosa pensava in quel momento. L’atteggiamento dell’autista lo faceva incazzare fortemente. Ah, quanto lo irritavano i tipi lagnosi, con il loro miserabile pensiero sintetizzabile in poche parole: “uffa, proprio a me doveva toccare”, quasi dovesse andare a combattere con la NATO lui da solo. La filosofia di vita che il tontolone teneva spesso a illustrare ad alta voce equivaleva alla più assurda tra le favole per i bambini: “speriamo bene e che non colpiscano proprio me” oppure “non ogni colpo riesce a colpire il bersaglio”. Čarli si limita a lanciargli un’altra occhiata feroce ben notando che l’autista la notte scorsa sembrava aver smentito la spropositata strategia militare di Bismarck in caso di una guerra su due fronti: una gli dorme

sullo stomaco, l’altra è posizionata un po’ più a sud... Tira fuori dalla borsa un asciugamano pulito, apre lentamente la porta del bagno ed entra sotto la doccia. Finalmente, che goduria! Era la mossa migliore di quella mattina, inutile negarlo, tirarmi giù il cappuccetto, stendere bene la pelle e lavarmi accuratamente, togliere tutto quel quarzo, farmi riaprire quel mio unico occhio per sorridere di nuovo al mondo. Ero rinato, rinato! Giusto in tempo per accogliere onorevolmente quelle due artiste della fellatio, una delle quali senza pensarci due volte mi prende subito in bocca. Sì, ricciuto, non ti scandalizzare, è andata proprio così! Ma se vuoi sentire il resto della storia falla finita con il pudore e smettila di farfugliare fra i denti in segno di protesta! Che dolce tocco di lingua, che sorprendente palato! Mi ero appena accomodato quando la flautista generosamente decide di condividermi con l’amica e mi introduce nel suo ampio salone dove ripartono le presentazioni e tutto il resto come si conviene. Ah, però, sta attenta ai denti, padrona di casa! Lo sai come si dice dalle mie parti? Se fossi d’acciaio ormai sarei consumato. Delicatezza ci vuole con gli ospiti, e smettila di mordicchiarmi! Ma cosa fa, mi butta fuori così presto? Ah, che tempismo! Che bello trovarsi in mani sicure che sanno come prendersi cura di te! Due staffettiste allenate a arsi il testimone senza rallentare! Non mi lasciano scivolare via per un attimo. Non posso chiedere aiuto a nessuno. L’incosciente intanto è preso dal cantare O Sole mio e non sente ragioni. Non mi resta altro che infischiarmene delle ferite riportate dal giorno prima e combattere valorosamente come un leone contro 63 zanne dell’elefantessa a cui manca il molare. La impiombatura fatta da qualche dilettante ogni tanto mi colpisce di striscio, ma non mi ritiro. Il piacere ormai è vicino. Rischio di prendere fuoco in quel tie-break tra due lingue quando il cretino cambia il disco e comincia a canticchiare un’altra cosa. E che cosa? Roba da non credere, una filastrocca! Cappuccetto rosa vieni, vieni qua, se ti trova la signora poi ti mangerà... A quel punto capisco che sta per rovinare tutto. Esplodo e colpisco la più pienotta in pieno nella narice, quella secca non aveva fatto in tempo a chiudere l’occhio. Colpo secco, yeees, gimme five! Ma lui continua a strillare quasi non fosse successo nulla, Dammi un bacio dove vuoi tu, dove vuoi tu, dove vuoi tu! Da tanto tempo sospettavo fosse un maniaco, ma quel giorno aveva confermato tutti i miei dubbi. Il manuale moderno di psicopatologia dovrebbe dedicare un capitolo intero alle sue uscite. Umiliazioni e stupidaggini, ecco cosa seguiva sotto la doccia. Senza lasciarmi il tempo per riprendermi avrebbe già voluto dimostrare empiricamente alle signore che la più grande menzogna maschile non

è affatto irrealizzabile: “scopo una e l’altra me lo ciuccia”. Come intendeva metterlo in atto lo sapeva solo lui, a me non aveva chiesto niente. Lanuginoso angelo mio, te lo spiego in due parole: voleva semplicemente fare acqua e zammú perché viva la trombata fine a se stessa. Dixi! Sai bene come si presenta la situazione: mi irrigidisco dalla testa fino alla radice, prima mi fermo un po’ a fare la conoscenza sulla porta grande, dopo mi avvio verso il vicolo più piccolo e quando incontro la clitoride scoppia sempre l’amore a prima vista, lo giuro. Oppure non te lo ricordi più? Ma non mi dire! Mi sa che ho toccato il tasto giusto! D’accordo, sto zitto, ma una bella scopata ogni tanto dovresti fartela! È un grosso errore astenerti, credimi! Su, fammi vedere le foto che hai, con me puoi stare tranquillo! Però! Hai capito che gusti raffinati! È solo amica, dici, ma a chi vuoi raccontar frottole? Se insisti dammi pure il suo numero di telefono e ci penso io! Ah! Guarda un po’ come diventa taccagno quando si tratta di condividere la bellezza! Ammettilo! Ecco, torno subito a raccontarti di Čarli. Vediamo un po’; il sesso anale e l’appagamento che ne deriva, le perle di saggezza orientale tramandate da uomini sapienti che da millenni insieme ad altre apprezzabili discipline raccomandano l’alitare regolarmente i chakra – sì, questo era il seguito della sua tragica cantilena sotto la doccia mentre ignorava, o faceva finta di non notare, i sorrisi acidi e la perplessità sui volti delle donne. Poverine, povero me d’altronde, questo e quell’altro abbiamo dovuto sentire, un elenco interminabile di riflessioni sofisticate e argomenti complessi, spiegazioni lunghe per un pene e due cervelli di gallina; l’immancabile riferimento all’antica tradizione greca, a Zeus che era solito non solo far accomodare Ganimede sulle sue ginocchia, ma anche lo posava volentieri più su; quello alle scuole filosofiche, dove abitualmente i Maestri si prendevano cura dei loro studenti più meritevoli e promettenti sgomberando ogni tanto le loro marmitte affinché i succhi vitali potessero scorrere liberamente. Tutto sommato questo non era ancora niente! Ci attendeva la dimostrazione della nuova teoria del Dr Čarli, l’ingegnosa scoperta di cui la scienza era completamente all’oscuro, ma che da lì a poco avrebbe dovuto essere pubblicata. Decisamente il colmo! L’imbroglione aveva superato se stesso con descrizioni dettagliate dell’orgasmo auricolare. Con tenacia illustrava tutti i benefici impensabili che il prezioso fluido magico avrebbe apportato all’intero condotto uditivo e al timpano in particolare. Ci costringeva a immaginare di metterci nei panni dei migliaia di spermatozoi che lavorano sodo per ammorbidire il labirinto permettendo alle fortunate prescelte l’amnistia da stupidaggini per sempre. In vita loro non avrebbero più sentito da nessuno

nemmeno un’idiozia. E questo non è tutto, mie care signore, – diceva convinto – partecipare all’esperimento è come vincere un biglietto d’ingresso gratuito per i posti d’onore in tutti i più importanti manuali di medicina, dove i vostri nomi potranno vivere per l’eternità. Naturalmente non si è scordato di accennare all’importanza delle precauzioni indispensabili per una buona riuscita del trattamento: rivolgersi esclusivamente a personale esperto ed extra qualificato. E chi meglio di lui, l’ideatore, poteva metterlo in atto? Approfittate, dunque, gentili signore di questa rara, imperdibile occasione! Avevo provato ad attirare la sua attenzione, dirgli qualcosa, avvisarlo che stava esagerando, che con tutte queste balle mandava a monte anche una semplice e sana scopata che è sempre meglio di niente, che sapevo come andava a finire o dove andavo a finire, svenire in mano sua quando non restava altro. Niente. Il cretino è troppo preso dalla scienza, dal suo ruolo in essa, declama, parla ancora, non si ferma nemmeno per un attimo. Loro due approfittano del primo momento utile per uscire dalla doccia, acchiappare nel panico le loro cose, e così gocciolando avvolte soltanto nell’asciugamano correre mezze nude per il corridoio, scappando come se avessero appena incontrato il diavolo in persona. La sua reazione riesce sempre a stupirmi. Invece di far qualcosa per rimediare e convincerle a tornare da noi, chiude la porta del bagno, apre l’acqua calda al massimo – Ringrazio Dio che mi ha donato quella tettoia del suo stomaco abbastanza sporgente per mettermi al sicuro, dove solo di rado arrivava qualche goccia bollente – e smarrito com’era comincia a parlare con se stesso. Procede con una serie di eroiche marce partigiane, ritorna poi sulla canzone italiana, invoca l’illuminazione – Siddharta, torna, tutto ti è stato perdonato – parla di Übermensch, superuomo, e di Leni Riefenstahl, per concludere con un’interessante tesi sul Weltschmerz, il dolore cosmico, e l’amore per l’umanità intera. L’acqua bollente intanto scorre sui suoi capelli, cade sulle spalle e la pancia, ma lui gesticola comunque e si strofina fortemente, con un accanimento inaudito finché la pelle non gli diventa tutta rossa. Stringe i denti, chiude gli occhi, alza il viso verso la doccia. Borbotta qualcosa di incomprensibile mentre l’acqua scende lungo il naso, bagna le guance, il mento. Stringe bene i pomelli. Tiene gli occhi socchiusi ancora. Angelo mio, che non ti venga in mente qualche stupidaggine di nuovo! Prima mi minacci con il profilattico, ora credi di spaventarmi con manu propria? Si può sapere cosa ti prende? Piantala una buona volta! Immagina un po’ come sarebbe se io in continuazione ti tirassi su e giù quella tunica sopra la testa, costringendoti come niente fosse a sputacchiare sul mondo circostante! Non

sarebbe carino, ammettilo! Però se vuoi farmi assaggiare quella che porti in fotografia allora è tutta un’altra storia! Ah, ecco vedi come sai essere ragionevole! Rilassati e ascolta il resto in pace! Di solito, quando perde l’occasione di una buona scopata, il cretino è abituato a farmi svenire per mano sua, tanto per tenermi in allenamento, ma quella volta invece, per tutte le cose non andate per il verso giusto, aveva pagato l’autista. L’aveva tirato fuori dal letto brutalmente, quasi fosse un nemico, gridandogli in faccia il detto che “per meritarsi l’indennità in valuta estera occorreva russare in lingua straniera”. Il poveraccio appena svegliato non comprendeva ancora nulla, ma io sì che capivo bene la situazione. Il problema essenziale del nostro comunicare è che per lo più non vengo interpellato, né a qualcuno interessa la mia opinione. Mi rincresceva per lui. Per lui, non per l’autista. In quel momento avevo riconosciuto in lui sia l’invidia che la gelosia, l’ira e tutti i possibili comandamenti della legge eterna. Sentirgli pronunciare che non l’aveva portato con sé in qualità di consigliere per gli investimenti capitali, bensì per pensare unicamente al volante e alla frizione, aveva solo confermato la mia pungente analisi. Gli ricordava che sarebbe stato molto meglio sbrigarsi con le valigie per il ritorno a casa, anziché affrettarsi a prendere appuntamento per un colloquio. Sì, in quei momenti provava una soddisfazione morbosa nel tormentarlo. Ma siccome ogni notizia nasconde sempre un suo lato positivo, se uno sa dove guardare, anche questo cambiamento di tono mi aveva reso felice; grazie a Dio cominciavo a riconoscere in lui di nuovo il mio Čarli, il folle. Durante la colazione ha confermato le sue stranezze servendosi solo di carne, carne e ancora carne di primo mattino. Fin dalla pubertà coltivava con molta cura un particolare tipo di cinismo, che ora però non si conteneva, per cui il più delle volte provocava brutalmente la gente che gli capitava a tiro: le persone sono come la pasta, mosce e inutili oppure al dente – è sempre stato il suo credo. Che l’autista fosse un fervente sostenitore del regime e, in più, un fottuto idiota lo sapevo già. Quel che non potevo prevedere, invece, era fin dove poteva giungere la stupidità, cazzarola! Nel momento meno opportuno, infatti, questi se ne esce con le domande sulla guerra, senza rendersi conto che della prigione a Čarli è rimasta ben stampata in testa una delle lezioni più importanti della vita: non fare il coglione parlando sinceramente nemmeno davanti a tuo padre. Sento, dunque, le sue risposte e non riesco a meravigliarmi abbastanza, come, “la politica saggia del nostro Presidente”. Incredulo, tiro giù il cappuccetto per sentire meglio, apro questo mio povero occhio spaventato e stanco dalla nottata, e lo ascolto dire così tante scemenze, come se stesse rilasciando la dichiarazione

direttamente per il verbale dei servizi segreti o peggio, evidentemente convinto che oltre a lavorare per lui, l’autista abbia anche un secondo lavoro, quello del delatore. Illuminato o impazzito totalmente: chi può saperlo? Una delle due sarà di certo vera. A questo punto il nostro convinto operaio senza saperlo pronuncia la domanda fatale: cosa faccio se vengono a chiamare anche me? Ne segue un momento di silenzio assoluto. Percepisco la bestia controllarsi pericolosamente per non dargliele di santa ragione. Respira con fatica e cerca di mantenere la calma, altrimenti gli avrebbe cinicamente sbuffato in faccia, ribadendo che lui di certo non corre alcun rischio d’essere mandato da nessuna parte, che può stare tranquillo perché la preservazione del trust dei cervelli da autista è la cosa che più preme al Presidente e alla sua camarilla. Invece ad alta voce scandiva parole inverosimili, il cui significato faticavo a comprendere: «La difesa della patria è il sacro dovere di ogni cittadino. Anche Dante ha voluto punire i traditori mettendoli nell’ultimo cerchio». Pensavo ai suoi poveri familiari, che se avessero potuto udire quello che stavo sentendo io l’avrebbero rinnegato pubblicamente tramite i giornali per tanta vergogna. Non volevo ascoltare più come metteva altra legna sul fuoco, mentre quell’asino di un autista ignorava la beffa. Di mettermi in mezzo non ci pensavo nemmeno; inoltre, chi mai avrebbe dato ragione a una voce proveniente da un coso così piccolo e con un occhio solo? Condivido pienamente la tua opinione – spara in fretta l’autista, facendomi all’improvviso mancare l’aria in attesa del finimondo che da lì a poco ci avrebbe travolti tutti. La voce pacata di Čarli mi sorprende un’altra volta – Sono felice che andiamo d’accordo nonostante le divergenze politiche tra noi. – Non oso crederci che riesca a fare il tonto fino a questo punto, mi arrabbio io al posto suo, balzo fuori dal prepuzio, si rizzano i peli sui testicoli e i corpi spugnosi iniziano a pulsare senza tregua. Ma lui niente, non reagisce, presta ancora attenzione a quel deficiente abbagliato dalla sua parvenza tranquilla che gli risponde – Anche a me fa piacere, davvero. Eeeeh, quello aspettavo! La vocina della ragione credeva di poterlo tenere ancora con la muola sulla bocca, ma la rabbia che gli bolliva dentro non poteva più essere trattenuta a lungo. Sento allora dire Čarli, con un timbro di voce che conosco fin troppo bene, quella enigmatica, misteriosa, piena di follia, oscura... Certo che ti fa piacere. Io al macello e tu nella cantina. Io nella trincea e tu a farti fotografare mentre canti sui ponti. Tu nei posti di comando provvisoriamente ubicati nei sotterranei degli ospedali e io nel vaffanculo. Probabilmente ti tengono per la riproduzione! Di dottori ne abbiamo troppi, ma gli idioti ci mancano sempre! Questo credi? La marmaglia è la nostra ricchezza

maggiore ed è nostro dovere custodirla come se fosse la pupilla dei nostri occhi, quando già degli altri non ci siamo presi la minima briga. Parla con la voce sempre più bassa, sommessa quasi. Ecco, ti ho raccontato tutto. Ma dove stai andando così di fretta? Aspetta un po’! Ehi, con te parlo commediante da circo! Ti ricordi del nostro accordo? Avevi detto che mi avresti presentato quella gnocca! Sì, quella delle tue fotografie, non fare il cretino ora con me! Ah, così dunque! Non se ne parla, dici? Ricordati però una cosa: chi promette in fretta, può pentirsi adagio. Mi hai sentito, commediante? Chi la dura, la vince! Con noi succhielli non c’è da cazzeggiare, ti si può ritorcere contro da un momento all’altro...

Quo vadis

Mentre li rincorrevo, i sogni sembravano irraggiungibili. Da quando ho abbandonato le ricerche percepisco che sono diventati loro a inseguire me; il sogno erotico accanto al sognare la morte, i sogni fasulli sulle ali della verità, il nero e il bianco. Angelo mio, ti giuro che sono identici a tutti gli effetti, proprio come i peli pubici, e che somigliano a quei mucchi di carta che ti ho consegnato sperando di guadagnare il perdono dei miei peccati in cambio delle informazioni che andavi cercando. Stop! Ehi, tu! Alza un po’ quella gamba, così, ancora, non è una scopata di piacere questa, stiamo costruendo un’opera d’arte, sì, così già va meglio – sentivo urlare il regista mentre raccoglievo la mia roba e altri colleghi cominciavano le riprese di una nuova scena – e tu, ma guarda te, solo un Yeti mi mancava oggi, scendi dall’Himalaya bello, puoi essere peloso quanto ti pare, ma fuori dall’orario di lavoro. La prossima volta non saltare la depilazione se intendi rimanere sul mio set! Karenjina – la stessa voce odiosa mi cercava per fottermi con Tolstoj e la letteratura, per sbattermi in faccia tutto lo squallore insopportabile della mia situazione – là nel corridoio c’è un idiota che ti aspetta! Ah, non si fa più così cara mia! Ve lo proibisco io, di giocare a Madame Bovary e Lady Chatterley per la valuta estera, mentre vi presentate poi a lavorare con me svogliate come se neanche aveste fatto colazione! Vai via ora – si atteggia mentre mi dà la mia paga – e non ti far vedere fino a domani alla stessa ora! L’entusiasmo voglio – urla girandosi di nuovo verso il lettone su cui la fabula divampava assai – il desiderio deve schizzare fuori dagli occhi e le labbra esprimere la ione. In principio erat Verbum! Sì, angelo mio, sono laureata in Filologia. Poi è venuto il momento dei concorsi. Dappertutto avevo mandato la domanda di partecipazione ai bandi. Dappertutto, inutilmente. Capisco. Ti interessa Čarli? E va bene, mi concentro solo su di lui, certo. Quando l’ho incontrato di nuovo ero convinta che stesse solo fingendo di non ricordare la notte in cui mi aveva buttata fuori dal suo appartamento. Credevo che avrebbe almeno commentato il modo in cui avevo sbattuto la porta facendone saltare i cardini. Niente. Si comportava come un perfetto estraneo.

Aveva un’aria piuttosto strana, ora che ci penso meglio; un aspetto trascurato, i capelli spettinati e quegli occhi penetranti, accesi per qualche motivo a me sconosciuto, le mosse troppo brusche e goffe mentre senza successo cercava di accendersi una sigaretta e mi chiedeva continuamente dov’è che stessimo andando. L’avevo portato a casa mia e gli preparai un caffè come si deve: amaro, bollente, forte. Lo prendevamo in silenzio. Poi all’improvviso aveva iniziato il suo monologo – continuato a più riprese – che ora ti riferisco più fedelmente possibile, inclusi i suoi commenti che in qualche caso possono coincidere con i miei punti di vista. Se c’è qualcuno bravo a fare rapporto ti sei rivolto alla persona giusta. Ma questo lo sai già. Quante persone state controllando grazie alle mie informazioni? Non lo sai? Non lo so neanch’io. Certi conti meglio non tenerli. La relazione sul cliente precedente l’avete già ritirata. Come dici? Non è sufficiente, ora devo presentarle in quattro copie? Mi fate quasi ridere voi poliziotti, cos’altro vi verrà in mente? Spero che questa volta basterà per mettere finalmente un punto su quella spiacevole situazione con gli stranieri, la retata e i soldi esteri in circolazione... Vedrete, dici? Vedete allora pure per quella festa organizzata dal tuo collega dove sono stata a disposizione dell’intero dipartimento e alcuni, inutile che lo neghino, se ne sono approfittati anche in seguito, chiedendo spudoratamente il bis ogni volta che gli scoppiavano i pantaloni. Nessuno ha mai cacciato fuori un soldo, bastardi! Vuoi che ti parlo delle riprese? Della mia partecipazione sul set di quel film? Non c’è molto da dire, mano sul cuore quello è stato il più strambo tra tutti le gang-bang in cui abbia mai preso la parte, probabilmente perché una bella scopata non è stata fatta, solo seghe su seghe e infinite riprese, spostamenti di scena, altre seghe ancora, una noia mortale. Le pistole, le uniformi, i baffi e le barbe lunghe che si staccavano a ogni o e rovinavano l’inquadratura. Tutto da capo allora. Ma, io dico, un’ambientazione più folle non potevano trovarla! A un certo punto non ho capito più niente. Svolazzava attorno un tizio con le ali e quale fosse il suo ruolo in tutto quel caos non mi è mai stato chiaro. Verso l’alba avrei giurato che il Capo voleva stupirci con la messinscena iperrealista, misera e squallida come tutto attorno, anche con un fondo di allucinazione grazie a quei costumi surreali che completavano perfettamente il nonsense. Sfioravo i limiti dell’astrazione, angelo mio, quando ti sei preso la briga di me e mi avevi accompagnata a casa con la macchina di servizio... Ma tu? Chi sei tu? L’angelo dei miei sogni con cui mi confido per la salvezza dell’anima, oppure un uomo di legge che può proteggere il mio corpo dalla prigione certa? Forse un angelo caduto che non

scorda facilmente la sua natura umana e anni vissuti da esattore su questa terra? Non sono in grado seguire le tue metamorfosi e mi dirai che non importa avere certezze, tu sei esattamente chi io voglia che tu sia. Il loro viaggio di ritorno dalla Grecia non è minimamente interessante e mi meraviglio che vuoi parlarne ancora. Conosci i fatti, comprendi l’urgenza di rientrare in Serbia e l’atmosfera in macchina mentre viaggiavano la puoi immaginare. Che altro vuoi che ti dica? Quanto a tratti era teso il silenzio tra i due, oppure vuoi misurare il grado di offesa dell’autista per tutte le battute che Čarli aveva lanciato contro la sua amata classe operaia tanto per rompergli i coglioni? I suoi nervi tesi da un lato e l’autista della cui opinione, cito testualmente – non gliene fregava un benamato cazzo – all’altro. E così per circa 400chilometri. Vedi un po’ tu se c’è qualcosa che mi è sfuggito. Come a parastos, una commemorazione funebre – direbbe Čarli – quando la gente ti a accanto o ti attraversa senza notarti, con il peso del silenzio da portare. Alla frontiera il colpo di scena, rischiano di finire in diretta televisiva e beccarsi la più diffusa tra le malattie virali odierne: la celebrità. In un primo momento entrambi sono convinti che si tratta di un banale errore, ma poi comprendono che i giornalisti sono solo i giornalisti, un branco di curiosi pronti a svolgere scrupolosamente il loro dovere anche in mancanza di informazioni serie. Scavano, attaccano, mordono e graffiano dove riescono pur di avere una storia da raccontare e da gonfiare enormemente, tanto che anche il ritorno di due idioti in patria, due imbecilli che abbandonano le distese di sabbia delle spiagge greche in compagnia di belle donne, buon cibo, musica e vino, diventa un atto eroico d’importanza mondiale. Chi nasce stupido ha la vita facile, direbbero gli anziani e resta ottusamente ingenuo anche di fronte a ciò che è palese. Vuoi vedere – cercava di spiegare la situazione l’autista dalla sua prospettiva fondamentalmente fiduciosa sull’umanità, ignorando l’assunto secondo cui gli ottimisti sono solo dei pessimisti mal informati – che ci hanno scambiato per qualche delegazione importante? Čarli impazzisce letteralmente e a momenti lo mangia vivo. Un flusso di bestemmie, bava e schiuma sgorga dalla sua bocca, ma non puoi pretendere da me che riesca a riferirle fedelmente. Sì, il verbo “fottere” sovrastava tutti gli altri, insomma, un intero fiume di fottimenti vari che esprimevano il principale tormento di Čarli, la tremenda indecisione su chi tra l’autista e le troupe televisive vinceva il titolo di canaglia della peggior speci: “coloro che sono venuti finqui per prenderci per i fondelli, o gli scemi come te che gli permettono di farlo”.

Chi sono io? Non me lo chiedere per favore. Fammi qualche domanda più facile a cui posso rispondere. Sono una puttana che pedina la gente o una spia che si lascia sbattere per soldi? Questo è il punto! Restare in fila davanti all’ufficio di collocamento come una qualsiasi disoccupata sfigata con il diploma di letterature comparate in mano valido solo per pulirsi il sedere mentre elemosina in giro, oppure trovare un qualcosa di cui vivere? That’s the question, my flying Shakespeare e non quell’Essere o non essere! L’aria sazia poco e non disseta. La fila davanti alla mia donzella d’oro che concede molto di più dei tre soliti desideri è preferibile alla realtà che mi si prospetta altrimenti. Ma tu, angelo mio, preferisci soffrire? Non mi vuoi forse così come un uomo quando prende il corpo di una donna? Non attendere così a lungo, avvicinati, non rinunciare a me. Il giorno seguente durante le riprese il regista era più nervoso del solito. Se la prendeva con tutti: gli attori, gli operatori, le nostre sorelle. Se la prendeva con le nostre madri e i nostri padri per averci messo al mondo così insignificanti e incapaci a dare il tono giusto alla scena che andava girando. Vi fotto tutti – strillava a squarciagola – uno per uno, alzate la voce, per la miseria, non siete in chiesa! E tu, carogna incapace di un artista del cazzo... Ah, mi scusi Maestà non l’ho riconosciuta – si incolla dietro il collo del povero ragazzo che cercava di posizionare meglio i riflettori per sfruttare le potenzialità della scarsa luce che aveva a disposizione, e che aveva osato peccare di presunzione quel giorno, chiedendo al grande Capo di menzionarlo nei titoli di coda come direttore della fotografia – ogni tanto, giusto per cambiare, potrebbe gentilmente direzionare un filo di luce sul soggetto di questa ripresa? Sulla gnocca, idiota, è li che devi puntare! Voglio la pura anatomia sul grande schermo, fanculo l’erotica, questo è un film serio! Una sonda dentro la voglio che esamina la solidità delle pareti, se serve, che mi faccia vedere le ovaie. Tutto chiaro? Professoressa – si rivolge a me – prendi i tuoi soldi e vai via, fai qualcosa per quel disgraziato che di nuovo ti attende in corridoio, levamelo dai coglioni. E voialtri niente pausa, action, su, su, un branco di imbranati. Attraversando la Macedonia s’imbattono in una lunga colonna militare di carri armati, cisterne e veicoli blindati. Guarda, stiamo andando tutti allo stesso ballo in maschera – ride Čarli come impazzito – e indovina un po’ dov’è il raduno? Vogliamo offrire ai signori un cocktail di Molotov per l’aperitivo, lo gradiscono? L’autista, con le mani tese sul volante e gli occhi fissi sulla strada pronuncia qualcosa di incomprensibile a bassa voce, più per sollevare se stesso e scrollarsi di dosso quell’umore di merda che pian piano invadeva tutto il veicolo che in risposta alle provocazioni di Čarli. Cosa bisbigli mollusco – gli urla

nell’orecchio il folle – parla da uomo, così che il mondo riesca a sentirti! Indeciso su quale maschera indossare? Prova con quella antigas, ci sarà utile fra poco! Manovre – sospira l’altro – saranno solo le esercitazioni per il peggio, Dio ce ne salvi. Aaahhh, certo, le esercitazioni dici – per un istante la voce di Čarli crolla e sembra quasi calmarsi, ma poi ci ripensa, salta come un diavolo, apre il finestrino e declama con tutta la forza che aveva: egregi signori, chi di voi abbia saltato le lezioni di protezione civile è gentilmente pregato di riaprire la pagina venticinque e ripetere a voce alta che il fucile M-48 serve per sopprimere la potenza nemica e i suoi mezzi, i veleni bellici si distinguono in..., un ostacolo non è un ostacolo se non viene ben vigilatooooo... Il delirio ha sempre lo stesso volto, luogo e tempo sono solo invenzioni. Il mio, il suo, che differenza fa? Si assomigliano tutti, la demenza è una sola. Quella che mi prende mentre sbottono uno qualunque. Uno, nessuno e centomila, e rido dentro me prendendolo in bocca, e continuo a ridere al tatto del suo serpente, non mi fermo, la risata è la mia salvezza, l’unica. I denti strappano la bustina e le labbra gli infilano il profilattico sino alla base, spingendo con la lingua anche l’ultima bollicina d’aria rimasta sulla punta. Non c’è spazio per le favole, per il “vissero felici e contenti”. Il principe è stanco, ha perso il cavallo. Continuo a vagare, angelo mio, spinto dall’eco della risata. Una bolla di sapone sono, soffiata in alto, e comunque vada fa lo stesso, le bolle di sapone muoiono da sé. Partigiani, non ci capisco più niente, la gente oggi è perversa – protesta il Capo distribuendo le uniformi che ci avrebbe fatto indossare nemmeno un’ora più tardi – a che cazzo serve la guerra in un film hard? Si vede che non l’hanno testata sulla propria pelle se gli viene in mente di recitarla. Mah, sapranno loro cosa si vende, loro sono i produttori e noi la manifattura. Attenzione, dunque, ascoltatemi bene – gira attorno al lettone e distribuisce le parti – questo è il nuovo copione di cui ci hanno onorato, ve lo ficcate bene nella capoccia, curate i dettagli, non permetterò d’essere inculato per i vostri errori. Ah, perché non sono nato tedesco, halt, Lili Marleen, e quando grido Seig – accompagna l’esclamazione con la mano destra in aria – che mi raggiunga un bel Heil dalla folla convinta, “vittoria”, sì, cazzo altroché la vittoria, ja, ich spritze, das ist fantastische, una goduria, perdere la guerra! Che vivano le fottute parti, – strilla fino a perdere le forze – qui bisogna istituzionalizzare un saluto personalizzato degli sconfitti! Lehrerin, komm schon – mi chiama senza cercarmi con lo sguardo – vai pure a prenderti cura di quel tuo Werther che di nuovo giace davanti alla porta, appena abbiamo terminato con i costumi sei libera, non sarò un uomo raffinato e colto, ma so riconoscere i dolori.

E la disperazione dove la mettiamo? Quell’insaziabile mostro perfido che si nutre di personalità in silenzio, dietro le quinte. Appena aveva percepito la paura dell’autista, Čarli non si era più staccata dalle sue calcagna, come un cane rabbioso non molla l’osso. Lo provocava in tutti i modi possibili e immaginabili fino all’esaurimento totale del poverino, che non credo abbia scordato quelle ore lunghe, lunghissime. Tuttavia, dubito fortemente che sia possibile comprendere ora il ragionamento di Čarli in quella situazione, pur ammettendo che ci sia un nesso tra tutte le cose dette per alimentare e giocare con l’angoscia altrui. Lo giudicheremo dal nostro punto di vista, ma se è questo che vuoi allora sappi che l’ha costretto a immaginare la sublime bellezza del momento in cui le mie due colleghe greche stavano inginocchiate sopra il Capitale; l’ha supplicato di contare i carri armati che stavano sorando, come se fossero pecore, perché un sonno liberatore avrebbe magari potuto salvarli dall’incubo che la realtà riservava loro; gli proponeva di tirare fuori le palle una volta tanto, come fanno tutti i veri patrioti quando decidono di incidere il proprio nome sulla lista degli eroi. Insomma, l’idea era quella di gettarsi come un kamikaze contro il bersaglio di metallo – almeno a uno facciamo qualche graffio laterale, facciamolo spazientire, almeno qualcosa, ti dico, così puoi scegliere se vuoi un ospedale o una scuola che porti il tuo glorioso nome! Scegli subito, scrivi e firma sotto la richiesta, l’urgenza della situazione ti permette di saltare il protocollo. Sei fortunato, ehi, uomo, capisci? Sei fortunato! Dopo ci saranno troppi eroi, file e procedure burocratiche da seguire, concorrenza forte e sleale, forse non potrai più scegliere e ti toccherà una cooperativa agricola oppure un deposito rifiuti! T’immagini all’ingresso la grande scritta in tuo onore? – si interessa poi dei dettagli grafici, del carattere delle lettere, del colore del fondo; del rapporto tra la sua “professionalità e il comunismo”, che magari oltre alla classica falce e martello richiede anche il simbolo del volante e del freno a mano sulla sua tomba; gli ricorda che i monumenti sono importanti, i turisti di tutto il mondo un giorno si faranno scattare le fotografie davanti ai suoi resti, deve venire bene in esse, rappresentato al massimo. Il poveraccio in tutto ciò non apriva bocca, ma non lo biasimo. Cosa avrebbe potuto dire? Lo scuote allora per le spalle, non gli dà tregua, tira fuori il cacciavite e cerca il palmo della sua mano per realizzare all’istante un remake di Kozara, credendo forse di poter realizzare la famosa scena anche meglio dello stesso Bulajić. Lo costringe a cantare le canzoni partigiane e a intonare la terza minore, a fare un intervallo per l’emergenza urinaria per poi ricominciare. – Cosa c’è, cosa guardi, non mi trovi spiritoso come sempre? Ti sei convinto finalmente quanto posso essere folle? Certo, taci come una statua, non rispondi, ma sappi che anche

se fossi normale, ciò che ammetto non mi riguarda più, diventerei comunque scemo a causa dei pezzi di merda come te! Avete chiuso gli occhi, avete finto di non capire dove stavamo andando, ora è tardi, siamo fottuti tutti. Io insieme a voi! L’autista trema ormai visibilmente, le mani e il mento, così come il pomo d’Adamo saltella mentre deglutisce nervosamente. Čarli lo osserva con attenzione, lo scruta come se fosse un’interessante pittura dei vecchi maestri, esposta in qualche museo. Si sofferma sui particolari che la paura mette sotto la lente: un neo sulla guancia e le narici con alcuni peluzzi sporgenti leggermente piegati indietro, i segni di una rasatura fatta in fretta e male dopo la sbornia, le gocce di sudore sulla fronte. Nota tutto quello che noto pure io mentre mi sbavano sulle spalle, sul collo, sul volto, quando mi stringono brutalmente i seni e mordono i capezzoli. La visione si allarga. La luce fioca del lampione stradale illumina appena il letto, le nostre gambe, le ginocchia piegate, la lucida testa pelata dell’uomo che si muove e gode, ansima, ricomincia, mi lecca come un principiante cieco ai bisogni del corpo che penetra. Con Čarli è diverso, si distingue dagli altri, riesce a sorprendere me che ormai sono avvezza a tutto. Vuole che sollevo la gonna per vedere meglio le calze a rete e intuire appena il reggicalze nero, mi tira su la maglietta e per qualche istante con lo sguardo accarezza l’ombelico, poi mi apre i primi bottoni della camicia, ma quando mi alzo per togliere tutto mi ferma con determinazione. Va bene così, dice, non mi serve altro, bisogna pur sapere quando basta. La frontiera con la Serbia era deserta, in quella direzione naturalmente, solo loro con due facce da cani bastonati chiedevano di entrare. L’autista aveva ripreso un po’ di colore e scambiato qualche parola con il doganiere, informandosi sull’ora e sulle condizioni della strada da fare. Bene, – si era rallegrato subito Čarli – sono felice di vederti in grado di riportarmi a casa sano e salvo. Sulla corsia opposta, invece, un esodo di massa, il caos, la gente che non vuole far da cavia a scienziati pazzi pronti a conquistare il mondo. L’arrivo in città è un’esperienza ancor più assurda del viaggio stesso. Un cliente mi disse una volta mentre si rivestiva in fretta, e per quella tipica vergogna postcoitale così comune a tutti girava la testa dall’altra parte evitando di guardarmi sudata e scompigliata com’ero in mezzo a infiniti peli pubici caduti, che è importante il tragitto e non il traguardo. Non sono riuscita a trattenermi. Avevo perso la pazienza e chiudendo a fatica le gambe scosciate, snervata e stanca gli ho urlato dietro – fottiti tu e il tuo viaggio, ciò che conta è il bivio e

l’insegna stradale ben saldata che ti indica la direzione giusta. Proprio come il cartello arrugginito col nome della città che i fari della loro macchina avevano illuminato appena prima di uscire dall’autostrada piena di buche e ritrovarsi nel buio. Ma è possibile – sbuffa il Capo ansimando per la fatica, mentre con il cameraman ci costringe a correre nel bosco avanti e indietro indossando le pesanti uniformi cetniche richieste per quell’occasione – che stasera solo l’operatore di ripresa ce l’ha bello dritto l’orgoglio nazionale? Cerca di non mettere male a fuoco ora che sei in calore! E tu, generalissimo – si rivolge intanto all’attore principale – reggi ’sta fregna di maschera! Te l’ho detto mille volte, idiota, che la tua unica preoccupazione sono la barba attaccata, il cazzo alzato e la coccarda al suo posto. Cammina ora, e tutto da capo, da capooo, sì, avete capito bene, niente moscerie, fate vedere al mondo che artigiani che siamo! Non si rinuncia ai pagamenti esteri, exportimport, all’attenzione pubblica internazionale – urla ancora fissando il ben dotato Ufficiale dell’esercito patrio con una parrucca in testa e il coso stremato tra le mani – non permetto che in diaspora ridano di noi perché il signorino perde il vigore quando scende il crepuscolo! Una pillola e via. Il buon nome va difeso! Altrimenti studia teologia, diventa prete, vescovo, quello che ti pare, che così ti baciano la mano e non il cazzo! E voi – si gira verso il resto della troupe evidentemente esausta e priva di ogni stimolo – che state guardando, allenatevi con la canzone, voglio sentirvi come una voce sola. Chi lo diceeeeee! Chi sparge menzogneeee! – attacchiamo subito in coro, che come un tuono rimbomba attraverso i viali oscuri, i boschi e i giardini di ciliegio intorno a noi, evocando in quel contesto solitario nella mia assurda testa i tre grandi maestri della letteratura russa. Londra e Dresda non sono state avvolte da un tale buio – diceva Čarli mentre la macchina rallentava davanti al cancello di casa sua. Appena entrato non vide l’ora di svegliare tutti, aprire il suo borsone e tirare fuori whisky e sigarette acquistati nella zona franca, i profumi e i souvenir vari: le olive per la madre, la fragranza preferita della sua donna, un toblerone gigantesco che da sempre piace a suo padre. Parla e ride. Abbraccia e bacia tutti. Racconta loro la bellezza della spiaggia nelle prime ore del mattino, il suo odore, il sapore di sale sulla pelle e il suono di schiuma marina mentre si ritira. Avrebbe voluto far loro delle domande per capire meglio la situazione, esigeva notizie dettagliate su quello che lungo la strada di ritorno aveva già visto in prima persona, ma si trattenne. Capiva che ne sapevano meno di lui, che non si

immaginavano nemmeno cosa li avrebbe aspettati. There is no point, my angel! Trust me! Rinuncia ai tuoi sogni oppure saranno loro che cominceranno a evitarti, proprio come fossi uno che non abbia mai sognato né voluto niente. Mezz’ora sessanta, un’ora intera cento: i prezzi sono validi per una volta sola ed è molto meglio per te che non incontri più i tuoi desideri, che non ci pensi. Ti costerebbe caro vedere da spettatore la vita che avresti potuto fare. Sono qualcuno io, lo sai angelo mio? Ho fatto carriera da sola, il miglior gemito dei Balcani, ah! Vuoi conoscere il segreto del mio successo? La voce. Il timbro della mia voce rilassa sempre tutti quanti. Mi credono, si fidano di me. «Sìii, così, lo amo così, grande e forte, così duro quando mi prende da dietro, mi strappa, mi riempie di caldo... Il prossimo!». La falsa estasi portata alla perfezione, l’apparenza che come sempre è più importante della verità. Ognuno di noi fa il finto tonto, – mi aveva detto Čarli poggiando le banconote sul tavolo – ognuno a modo suo. Il prossimo! – Urlavo anche nel sonno quando la fila degli uomini era finita e solo tu rimanevi ancora in attesa davanti alla mia porta. Entravi adagio, angelo mio, premuroso come sei, non respiravi quasi. Asciugavi con le ali il sudore freddo delle mie mani, mi volevi, sì, lo so bene quanto mi volevi e quanto comunque era inutile ogni mio tentativo di avvicinarti. Irremovibile sei rimasto, ogni volta. Hai rinnegato il tuo fascino serafino. Sarebbe stato bellissimo, lo so. Sarebbe stato... Perché ?– Aveva aggiunto quella volta Čarli prima di uscire dalla mia stanza dove all’improvviso la prostrazione subentrava di già – Perché solo con la follia e con la morte non si è mai sicuri se rappresentano una sconfitta oppure se sono lì a offrire una via d’uscita.

Il sogno

Hai diritto a esprimere un altro desiderio – disse Capa a Martiello, il fedele accompagnatore del veliero. Però, che la tua scelta non cada sui frutti di mare – ci fu un’immediata sommossa di polipi attaccati sulla fiancata sinistra della nave e di alcune ostriche alate pronte a sostenere la giusta causa. Che non siano di tua preferenza nemmeno le creature di allevamento – si preoccupano gli yorkshire, teneri suini accomodati sul ponte. Sono stato troppo preso da quella brusca manovra che stavo effettuando nell’intento di girare la nave e dirigerla da Veles verso Skopje per accorgermi dello scompiglio dietro le mie spalle. Un raduno di animali mai visto prima e tutti quanti desiderosi di farmela pagare in qualche modo. Eccolo davanti a noi, il megalomane più grande dei nostri tempi, che non si vergogna a chiederci di trasferire il mare per accompagnarlo fino a casa sua! – Doveva svelare la sua natura aggressiva un dentice spocchioso, iniziando il dibattito per inchiodarmi. Il panciuto non piange per tutte le vigne sommerse sulla sua strada – si intromette drosophila senza chiedere il permesso – verrai ricordato per il più grande genocidio di moscerini nella storia, assassino che non sei altro! Avevate appena detto che potevo esprimere un desiderio qualunque – per quanto sorpreso dagli sviluppi, cercavo di riprendere in mano la situazione. Qualunque, hai detto bene, ma non quanti ne vuoi – si agitarono dei simpatici esemplari maschi di mangalica. – L’unica stella che ti guida è l’abbuffarsi, un abbuffarsi senza fine. Hai mangiato tutte le nostre femmine idiota, rischiamo l’estinzione. E ora non ci resta che accoppiarci tra noi! Mi hai risparmiato giusto per la costola in più che posso vantare, per quella

cotoletta che ti attende gratis – si fece sentire anche un landrace danese. – Ci avevi promesso il viaggio attorno al mondo, e non di ruotare attorno al suo asse. Altri della famiglia da tempo sono finiti sul tuo spiedo, razzista di merda! Ora vorreste attribuire la colpa a me – avevo tentato di scagionarmi – perché mi hanno consegnato un’arca al posto dello yacht attrezzato su misura. Se non sbaglio, è stato solo il mio secondo desiderio... E che cosa, invece, ho avuto? Dei pennoni per tenere gli occhi ben aperti! Non sono stato io a chiedere voi, calmatevi... Senti chi parla, chi sparge menzogne, – rimbomba la voce profonda del terribile pesce cane che ben volentieri mi avrebbe ingoiato tutto intero – colui che da tre giorni ormai mi tiene ubriaco. Credi forse che riuscirai ad ammorbidire i miei filetti con una banale marinatura? Scordatelo, nemmeno per sogno! Così è capitato, cosa ci posso fare ora – avevo risposto. – Ho chiesto di mettere nel ghiaccio lo champagne secco, di servire in cabina canapè al caviale e burro aromatizzato, di avere una piscina a bordo, quello specchio d’acqua perfetto che si fonde col blu del cielo e del mare, ma per chissà quale motivo ho ricevuto invece il timone e la chiglia, controfiòcco, fiocco e gran fiocco... Se non fosse per gli alberi di questa nave nessun volatile si sarebbe salvato da te, grassone di un avvoltoio che spazzi in basso senza azzardare il volo. Vigliacco! – echeggia stridula la voce di un pappagallo appoggiato sull’albero maestro. Fragorosi applausi d’ala affievoliti da tutte quelle piume mi raggiungevano dalla gabbia fissa e da quella volante. Controvento addirittura! Ero circondato, ormai. Meno male che soffri di vertigini, zuccone, la tua paura dell’altezza è la nostra salvezza! – rimbecca un’oca rimpinzata e dal ventre gonfio e invitante. Al mio occhio da gran intenditore non è sfuggita di certo la sua morbidissima coscia nata per esser cucinata al forno con le patate novelle. Da ornare assolutamente a fine cottura con un rametto di rosmarino fresco, la cui mancata fragranza sarebbe un imperdonabile errore di stile per qualsiasi cucina gustosa. E qualche foglia di immancabile alloro affinché il benessere del mio glorioso stomaco imperiale sia assicurato. Per alcuni di noi è troppo tardi, – commuove tutti i presenti il pianto amoroso di un fagiano – è stato breve il nostro lungo viaggio, terminato nella zuppa di

questo carnivoro insensibile. Taccio ora, non dico altro. Aspettate un attimo! – ho tentato di spiegare. Siamo noi che dobbiamo aspettare? – inizia in un belare interrogativo una timida pecora piacevolmente formosa, accomodata sulla randa. – Cretino, sei l’unico Capitano di una nave a cui dagli alberi e dai pennoni pendono i ruminanti. I piccoli su quelli maggiori e i perissodattili agganciati sulla mezzana. Ma che razza di nave è questa? A condizione che non siano stati già attaccati a dei ganci da macellaio. In sottocoperta! Carogna maledetta, sarai ricordato nella storia della marina come il Capitano della nave a cui l’equipaggio fugge dal ponte. Guarda! – con lo zoccolo puntato verso l’alto indica un agnellino merino ben tornito. – E toglimi di dosso quel tuo sguardo analitico, non ti azzardare! – mi rimprovera severamente. All’inizio ingenuamente credevamo che la chiamata “venite, il pranzo è servito” fosse un pasto pronto per sfamare tutti noi – sospira faticosamente e dolce, un piccolo piétrain, suino pigmentato e rotondeggiante. Finché non abbiamo capito che ti stai solo divertendo a parafrasare Sofocle e Shakespeare, il mio illustre connazionale – conclude il suo pensiero la larghe white, succosa scrofa inglese. “Non dove lui mangia, ma dove si viene mangiati” – si lagnavano della loro triste sorte i bovini holstein, armonici e vigorosi, ormai decimati. Un pranzo è pur sempre un pranzo, – ho pronunciato con voce dispiaciuta e stringendo le spalle – sinceramente mi duole che le mie parole siano state fraintese. Magari fosse il tuo unico peccato da confessare – avevano sentenziato alcune civette misteriose e affascinanti, sorvolando a pochi centimetri dalla mia testa. Nemmeno un’autostoppista è sfuggita al tuo radar, maniaco, sei riuscito a dare un aggio a tutte quelle che sono capitate sulla tua strada – si permette l’osservazione la puttana di una piccola otarda panciabianca. Scusi, non direi sulla strada bensì nel flusso d’acqua mentre nuotava

controcorrente, giusto per essere semanticamente esatti – la corregge all’istante la grande, otis tarda. Per nostra sfortuna sei sempre capitato con donne insaziabili, da sfamare a nostre spese – belavano inconsolabili capretti rimasti orfani da poco. Nutrire anche loro, certo che hai una bella faccia tosta a presentarti! – Inizia a starnazzare un’ultima anatra rimasta, a cui, con tutta la ione di cui sono capace ho riservato un laccato futuro alla pechinese. O forse sarebbe più appropriato affogare la sua carne nel succo d’arancia? Papero alla melarancia, per l’amore del palato... Sì, così sia! Le dimissioni, vogliamo le dimissioni – si sprigiona nell’aria il rumore fortissimo di mille becchi che battono accompagnati dal fragoroso grido delle migliaia e migliaia di musi e gole che si uniscono all’unanime protesta. Urlano senza pietà, mi beffano e stringono il cerchio senza lasciare una minima via d’uscita. Tengo duro al momento, resisto, solo grosse gocce di sudore colano traditrici e bagnano completamente la camicia dal tessuto grezzo. Morte al tiranno – aumenta il furore della folla. L’eccitazione sale di brutto e per il colpevole di scorpacciate accumulate in una vita intera giunge il momento di pagare il conto. Con tranquillità inaspettata osservo un gruppetto di cinghiali sistemare il trampolino da cui offrirmi in pasto ai pesci. Dei picchi rossi e verdi picchiettando lo fissano ben sporgente oltre il parapetto. Da lì a poco mi avrebbero tolto i vestiti, costretto a salire e camminare sull’asse di legno in attesa di quel tonfo finale, sordo. La calma svanisce allora come se non ci fosse mai stata. Comincio a preoccuparmi seriamente e tirarmi indietro. – Avanti fifone! Cammina! Sei un buono a nulla senza il tovagliolo e la forchetta in mano! – gli animali in delirio non mi danno un attimo di tregua. Le merende volanti attendono con ansia la mia caduta mentre la nave intera diventa troppo stretta per l’appetito improvviso che mi assale a dismisura. Intanto, giù negli abissi, delle stupende creature marine sempre pronte a far amicizia si preparano per darmi il benvenuto. Anche quella notte vaneggiavo. Non ho la minima idea di quale fosse il tema della mia esibizione sonnambula, ma una cosa è certa. Sono riuscito a radunare accanto al mio letto tutta la famiglia che sospirava rumorosamente con i fazzoletti in mano come davanti a una telenovela spagnola – di quelle, per intenderci, dove una lacrimuccia scappa fuori facilmente. Qualcuno di loro mi

chiede se conosco un certo Barnes e io, certamente, – dico – Julian e Una storia del mondo, il capitolo primo. Mi fissano con gli occhi spalancati, chi per lo sbalordimento e la preoccupazione per la mia salute mentale probabilmente, chi per altri motivi che a questo punto non sono in grado di spiegare. Seguono altre domande, la volontà quasi di assicurarsi che l’incubo notturno sia finito senza danni collaterali. Ma appena pronuncio la parola “fattoria”, una fattoria marina alla maniera orwelliana, e tento di rassicurarli spiegando che l’isola popolata da pinguini è bretone, che Anatole e io... capisco che sto solo peggiorando la mia posizione. In qualche modo le cose semplici difficilmente riescono a essere capite. Figlio mio – la voce inquieta di mia madre mi fa ravvedere – forse non capisco perfettamente tutto quello che dici e non sono in grado di seguire i tuoi pensieri, ma quella posizione strana che avevi assunto dormendo, la testa bassa e le mani bloccate dietro la schiena... e qui la voce si spezza senza finire la domanda e spezzata resta, la mia, mentre sussurro abbracciandola che è una storia troppo lunga. Quando tutti quanti diventano fin troppo seri, capisco pure io d’aver esagerato e questo non promette bene. Bisogna fare marcia indietro, occuparsi delle cose pratiche, darsi da fare. Così li coinvolgo nei preparativi e mi faccio aiutare con l’uniforme, gli stivali e la cinghia. Mi assistono come se dovessi sistemarmi per le nozze e non partire per la guerra, la cui presenza nonostante le prove tangibili ancora sembra non riguardarci. Sì, gli stivali sono stati i primi a farsi sentire, premere e annunciare i guai, chiedo scusa – le scarpe con la punta rialzata – che si fottano con la loro terminologia ipocrita ideata da qualche scimmione per far sembrare che il rispetto delle norme sull’equipaggiamento nei mesi estivi, quando l’uso dei pesanti anfibi è vietato, sia garantito. Senza pensarci due volte mi metto un vecchio paio di scarpe da ginnastica quasi distrutte, ma comode, di un orrendo e ridicolo color giallo visibile persino da alta quota e divento deliberatamente il bersaglio perfetto alla faccia di chi volevo tener testa. Infilo una tuta di ricambio nello zaino e comincio con la classica buffonata riconoscibile da chi almeno per una volta è stato obbligato a indossare l’abito tanto stretto fino a soffocare. I pantaloni e la camicia mi entravano a malapena, e dopo tre profondi respiri riuscivo a chiudere solo i primi bottoni che gridavano vendetta. Mi avrebbero piantato in asso alla prima occasione, quei traditori bastardi, se non li avessi preceduti stringendo forte la cintura della giubba. E uno, due, tre, soffocato come un salame ero finalmente pronto a sfilare per la Fashion Week balcanica, dove la polvere da sparo e il piombo ogni cinquant’anni all’incirca diventano un’orrenda moda obbligatoria. – We will we will rock you, e vai maestro! – Dicevo a me stesso e canticchiavo, per impedire

allo sconforto di sommergermi. Al momento meno opportuno spuntano fuori quei due di cui assolutamente non ne avevo bisogno. – Madreee non lo fare, non accompagnarmiii – e il mio personalissimo pene astuto prese a saltellare e a muoversi al ritmo di una terribile canzone, tra le peggiori mai sentite, lo giuro, così, giusto per irritarmi, il che prevedeva una mia inevitabile reazione in basso. La auspicava quel mascalzone, e non feci in tempo a mandarlo a farsi fottere come si deve che già venivo contrattaccato dall’alto – non bestemmiare, oh, tu misero peccatore, pentiti subito delle tue spudorate parole. E questo era solo l’inizio o sarebbe meglio dire la fine, la mia fine da uomo strapazzato tra i suoi due organi ammattiti che non tardano a utilizzare qualunque pretesto pur di manifestare la loro eterna competizione. In guerra si sa, la sopravvivenza di un infermiere durante la battaglia non supera i quattro minuti. Nei giorni di tregua, quando c’è solo qualche scaramuccia, le prospettive di vita salgono addirittura a quattro giorni, ma nessuna statistica si preoccupa di te se finisci come vittima delle elucubrazioni incrociate del tuo cervello col tuo pene. Riesci a zittirli oppure ne subisci le conseguenze, e vista la situazione mi ritenevo fortunato se fossi uscito da quell’agguato con meno danni possibili, o perlomeno senza diventare scemo più di quanto già non fossi. Perciò quando l’attaccabrighe cerca di aggiungere dell’altro olio sul fuoco con l’ennesima canzone inopportuna – la madre non deve piangereee, non deve piangereee quando il figlio va a fare il soldatoooo – e scatena l’ira dell’altro che gli promette di bruciare nell’inferno per la sua perfidia, decido di non farmi trascinare nuovamente nella stessa trappola di parole vane, spiegazioni, bestemmie e imprecazioni inutili, insufficienti in ogni caso ad attenuare il mio tormento. Opto per una saggia ritirata. Il silenzio. Il mio volto cadaverico sufficientemente bianco bacia velocemente tutti i familiari presenti ed esce fuori di casa. Fa in tempo a notare la sospesa figura della madre che si gira dall’altra parte e finge di cercare qualcosa, senza sapere però cosa fosse. Restavano da sbrigare le ultime faccende, e pure di fretta. Il tempo stringeva come mai prima. Il disordine ci mette un attimo a spargersi e stravolgere la città. Il punto d’incontro per la mobilitazione è la ex fabbrica tessile, il gigante del suo settore, sventrato e sfasciato, in agonia. Nulla che ricordasse l’edificio di una volta, solo decadenza nei corridoi, individui curiosi sdraiati per terra, ubriachi o fatti, o entrambe le cose. Per chiedere informazioni sposto uno di loro con il piede. Non mi risponde. Provo con un calcio all’altro che gli sta accanto. Mi mandano a quel paese e girano le spalle per troncare ogni discorso. Infine vengo

a sapere dove andare e a chi rivolgermi. Trovo il Maggiore in questione e riconosco la malattia di cui è afflitto, senza speranze poveraccio, perché la cura per chi non vede l’ora di trovarsi in battaglia non è conosciuta. –Vedo che va di fretta signore, ha già tolto i suoi gradi? –chiedo, tanto per iniziare la conversazione. –Non c’è tempo da perdere giovanotto, quando bisogna combattere vanno messi in vista i segni sostitutivi, è il regolamento che lo prevede – mi risponde il tizio convinto senza distogliere lo sguardo dalle sue pratiche sparse sulla scrivania. –Davveeero??? – fingo stupore – Dunque, bisogna dipingersi la faccia come gli indiani fin da ora, oppure è meglio che tutti quanti indossiamo la maglia della squadra di pallacanestro perché è solo lì che ancora possiamo vincere, e nemmeno quello sempre? Oppure vuoi farci mettere il costume da bagno e la cuffietta per allenarci a pallanuoto, allenarci e ancora allenarci, fino alla vittoria? –Basta. – mi interrompe – Non ho tempo da sprecare con quelli inutili come te. Sputa il rospo: cosa vuoi? Le cose serie da sbrigare sono fin troppe! –Sì, certo, capisco, il lavoro serio attende – dico, e quasi lo lascio in pace. Non ha senso manifestare disprezzo per ogni imbecille che si incontra, sono decisamente troppi, ma poi non resisto e lo fotto con ogni parola, fino a farlo sentire affaticato e bisognoso del bicchiere d’acqua e zucchero – l’elemento inutile toglie il disturbo, signore, non appena gli concedete qualche giorno libero! –E cosa ti fa credere, pidocchioso, che tu possa parlarmi in questo modo e pretendere alcunché? – degna la mia faccia tosta di uno sguardo minaccioso, quasi dovesse farmi pentire per aver osato tanto. –La mia ragazza è all’ottavo mese di gravidanza… –Congratulazioni e figli maschi, sa come si dice, ma che vuoi che me ne importi? – abbaia quasi ormai visibilmente alterato. –Certo che a quelli come te non vale proprio la pena di parlare! Mi dai il tempo per sposarmi oppure di cazzate ne combinerò così tante che in confronto cascare nella merda pura ti sembrerà un’alternativa felice!

–Tre giorni – decide di liberarsi della mia sgradevole presenza, avrà capito quanto sono folle – non un minuto in più. Fino al ventidue di marzo e verrai avvisato della partenza. –Ma certo che verrò avvisato, non c’è mica bisogno di ricordarmelo, a meno che non decidete di partire senza la mia persona, non le pare? La sagacia del pensiero le illumina il viso, complimenti! Sembra quasi che a voi Maggiori e Generali vi formino in qualche scuola speciale! –Chiudi il becco, altrimenti … –Altrimenti cosa, guarda come tremo dalla paura! Lo sai per quale motivo l’accademia per addestrare voi ufficiali è rimasta a Belgrado, mentre la scuola per l’allenamento dei cani militari l’hanno dovuta spostare a Niš? Indovina, dai, è facile! –Non mi interessa, e togliti di mezzo. –Te lo dico lo stesso, così ti è più chiaro. Credevano che 230 km di distanza fossero sufficienti per evitarvi di copiare da loro! –Chiudi la boccaccia, soldato, e mostra rispetto. Te lo ripeto per l’ultima volta! –Non vorrai espellermi per punizione, spero! Sarebbe terribile non avvalervi di cotanta esperienza militare! – dico aprendo la porta. –Ci vedremo ancora noi due – vuole riacquistare il controllo, il tontolone, minacciandomi. –Solo in caso di necessità, quando vuole, sono sempre a sua disposizione, mia stimata ammiragli essa, per fotterla da dietro e non sprecare inutili sguardi! Esco fuori da quel bordello, inciampo sui fucili messi in fila contro il muro, saltello per non pestare le maschere antigas e le baionette lasciate qua e là in giro, schiaccio delle fette biscottate e il tè in polvere sparso sul pavimento. Scivolo quasi su una macchia d’olio scolata da una scatola di pesce sottolio, abbandonata così, con dentro solo teste e lische. Basta. La sopportazione ha un limite. Devo scappare da tutto questo, respirare, uscire per strada. Fuori sembra come se la città intera dovesse entrare nei miei polmoni con l’aria che prendo a ogni boccata, gli alberi e i marciapiedi si inchinano verso il mio petto, le case mi

assalgono, i fiori nei giardini crescono visibilmente con ogni mio fiato… La paura. Finalmente. Al comune mi attende la baldoria maggiore, il via vai di gente simile alle mosche prima della pioggia, che ti mordono senza una ragione, gli addetti che non sanno niente, gli altri funzionari ancora di meno, le segretarie che chinano il capo e stringono le spalle ad ogni domanda, a risoluzione di qualunque problema. Nessuno mi ascolta. Esco allora, mi fumo una sigaretta e, quando rientro armato di una pazienza che non avevo, vedo le persone farmi largo rinunciando al loro turno davanti agli sportelli. Mi ano i moduli per iscrivermi e fissare il matrimonio, li leggo e protesto nuovamente – no, non avete capito un accidente, non fra due mesi, o due settimane, domani, dopodomani al massimo. Una donna sorprendentemente normale mi invita ad accomodarmi davanti alla sua scrivania, strappa tutto e ricomincia a trascrivere i dati che le dettavo, a cominciare dal cognome da ragazza della bisnonna, come se la sua presenza fosse fondamentale per unirci nel bene e nel male finché morte non ci separi. Rispondo senza agitarmi, capisco perfettamente la gentilezza da parte sua ancor prima che mi dicesse di firmare accanto alla data del giorno seguente. Pensavo già che le cose una volta tanto stessero filando lisce. Troppo presto. Compare il grande capo della situazione desideroso di manifestare la propria autorità e conoscere il mio caso. –Cos’hai aspettato finora? – è stata la sua prima infelice domanda troppo diretta e scortese per i miei gusti, nemmeno fossimo dei conoscenti per darmi subito del tu. Infatti, immediatamente avverto un prurito alle parti basse, e come se non mi bastasse tutto il resto, ricomincia a farsi sentire colui che a malapena ero riuscito ad azzittire poco prima. – Sei proprio una fregnetta se permetti che ti parlino in questo modo – mi stuzzica la bestia che cerco di domare. Siamo in pubblico, non conviene rispondergli. Lo stringo velocemente contro la sedia e almeno per poco tempo riesco a tappargli la bocca. Mi ricordo di respirare profondamente prima di parlare, dicono che aiuta a mantenere la calma, e invece di litigare con tutti quelli che mi capitano decido di pensare al bambino e a non mettere a repentaglio quel matrimonio. –Dica signore, le interessa qualcosa? – Pronuncio ad alta voce e suscito le approvazioni immediate del cervello che loda i miei modi garbati da vero gentiluomo. – Sì, così mi piaci, la pazienza è la virtù dei forti! –Chiedo: dove sei stato finora? – insiste il burbero e manda in fumo il mio ingenuo tentativo di una riconciliazione pacifica. La bestia aveva già preso la palla al balzo, si era liberata dalla stretta e ora chiamandomi ancora “fre-gne-

tta”non vedeva l’ora di divertirsi. E ha ragione, per la miseria, anche se non voglio ammetterlo, come si fa a restare in silenzio? –Aspettavo che aprissi la bocca per chiedermelo! Gira voce che i burocrati, più stronzi sono, meglio fanno i pompini, e ho pensato di verificare. –Così fratello, così si parla – si eccita subito l’amico dal basso, felice per avermi dalla sua parte e congratulandosi con me finalmente soddisfatto. –Si calmi, sto soltanto chiedendo... – Cambia tono il capo, pronto a indietreggiare. –Sei un arrogante irreparabile, ecco cosa sei – non poteva mancare il rimprovero dall’alto, ma gli consiglio vivamente di non intromettersi nella questione e restare una buona volta in disparte con i suoi soliti suggerimenti filosofici. Perdio, vado in guerra e sto ancora qui a giustificarmi d’aver offeso uno che non capisce il concetto di “fretta”! –Sta parlando con qualcuno? – si interessa il tizio, preoccupato per la mia salute mentale. –Saranno fatti miei – gli rispondo bruscamente – non mi sembra di essermi rivolto a te. Con il mio cazzo sto parlando, se me lo permette naturalmente! Sa conversare meglio, non chiede spiegazioni inutili e capisce da sé cos’è l’onore, fottuto imbecille. Una volta per strada continuo a camminare a ritmo sostenuto. Chi è pratico in materia sa che la riabilitazione per smaltire il fastidio accumulato a necessariamente attraverso un buon bicchiere, un paio di Chivas questa volta, tanto per disinfettarmi e togliermi di dosso l’idiozia burocratica. Parcheggio il mio sedere vicino al bancone e cerco di parlare con il proprietario della sala; così, su due piedi, non è cosa da poco mettere su un programma per il giorno più bello della mia vita. Bisogna organizzare un pranzo nuziale! Incontro l’approvazione da parte sua e mi lascio trascinare nella scelta delle portate con un entusiasmo inaspettato che non credevo d’avere più. Scelgo di tutto. Piatti di carne, ovviamente, aperitivi e antipasti, la torta di nozze da tagliare davanti agli ospiti, la piccola pasticceria fatta in casa. Mi viene presentata anche la cantina, con un’ottima selezione di vini con cui posso mostrare il mio tocco personale.

–Lei è un uomo di mondo – si complimenta con me il proprietario felice – poche persone sono in grado, con tale abilità, di abbinare il vino giusto a una pietanza e creare un’armonia ineguagliabile per il palato. Per quanti ospiti dobbiamo preparare la sala? Voglio dire che cento persone possono tranquillamente entrare nella parte centrale, ma il tempo bello ci permette di aggiungere almeno altri quaranta posti, diciamo cinquanta, all’aperto. Crede che possa bastare? –Siamo appena dieci persone – rispondo. –E poi, prima che mi dimentico – continua ad agitarsi il baffuto– suggerisco un tocco di classe garantito: i nostri musicisti renderanno memorabile la vostra cerimonia – trio o quartetto d’archi scelga lei stesso, violino, violoncello, arpa, viola, anche una cantante molto brava sono tutti a sua disposizione. – Vedrà quanto resterà soddisfatto. Allora che ne dice, centocinquanta posti potrebbero avvicinarsi alle sue esigenze? –E la tromba di Eustachio per caso non ce l’ha? – chiedo interessato. –No, non mi sembra, signore, ma posso procurare un ottimo trombone se ci tiene tanto. Dica, sarà un piacere per noi. –Lo tenga lei il trombone, e si procuri anche la tromba. Ma siete tutti sordi oggi? Dieci! Ho detto che siamo solo dieci persone! Die-ci come le dita di queste mani! O preferisce contare le dita dei piedi, ma sempre dieci rimangono! Un numero divino poiché perfetto, la totalità e l’annullamento di tutte le cose, un eterno ricominciare, crescere e elevarsi spiritualmente. Pensi per un attimo al Decalogo del Signore! –Non si agiti, d’accordo, ho solo domandato, pensavo… –Oggi tutti filosofi e pensatori – sbuffavo lasciando il denaro sul bancone. Per strada vengo inondato da rumori mai uditi prima: fili elettrici che sottovoce scambiano le confidenze, l’acqua che scorre nei tubi della canalizzazione, il suolo che respira con fatica... Go, Čarli, go... non c’è da fermarsi. Voglio arrivare a casa e liberarmi dalla stretta di quella merda di uniforme che anche a stomaco pieno e soddisfatto sarebbe stata ugualmente una sofferenza difficile da sopportare, figuriamoci a pancia vuota. Due motivi più che validi per essere un tantino ansioso e poco indicato come soggetto in cui imbattersi. A due poliziotti che mi attendevano in divisa poco importava il fastidio che provavo. Non avevo

ancora varcato la soglia di casa che avrebbero voluto già portarmi via. Avevano un mandato per arrestarmi e lo svolazzavano con il fanatismo di chi attribuisce un potere magico a un semplice foglio di carta. –Pure io ce l’ho! Ah, sì, volete dire che il vostro è più grande, più lungo del mio? Eccolo qua il cazzo di congedo per il matrimonio. Straordinario, legale, timbrato e firmato! Che altro volete da me? –Ci segua! – insiste uno di loro. –Tua sorella la seguo, volentieri, scelga lei la posizione. Toglietevi dalla mia vista, miserabili incompetenti. Subito! Marciume poliziesco, pidocchiosi ottusi che non esitate ad attaccarvi alla cute della gente! –Calmati, – interviene il mio cervello in loro difesa – stanno solo svolgendo il loro lavoro!. –Sì, certo, il loro lavoro. Ad Auschwitz dicevano la stessa cosa. E, visto che non vuoi lasciarmi in pace, potresti partire solo tu al posto mio a fare l’eroe, che finora la materia grigia negli stivali non si è mai vista – gli rispondo senza risparmiarlo, stufo del suo immischiarsi nelle mie faccende. –Fottili, fottili – urla quell’altro idiota da sotto – non ti fermare ora sul più bello! Chi tace spaventa e i pazzi, dicono, più si agitano e minacciano, meno pericolosi sono. Can che abbaia morde o no? Tu continua a irritarlo, poi mi racconti. Un pazzo da legare ero, e vedermi combattere con le mie voci deve aver impressionato di parecchio i due giovanotti che cercavano ormai solo di squagliarsela il più velocemente possibile. La loro sfortuna è stata incontrare mia madre che non bestemmia mai invano, ma in determinate occasioni diventa capace di imprecazioni pittoresche e molto ricercate, che vedono sia gli avi che i discendenti coinvolti in una giusta paritetica partecipazione. Con tale facilità ogni immaginabile barriera linguistica si oltrea in questi casi, quando sugli empi si scagliano potenti maledizioni dell’Antico Testamento, proprio come se l’aramaico fosse una lingua di casa e i destinatari di una pulsa de nura, la maledizione cabalistica, comprendono l’inevitabilità della loro sorte. Non si può dire che quel giorno io sia stato nervoso più del solito. Il mio modo di parlare piuttosto lo si deve attribuire agli effetti collaterali della detenzione durante la quale ogni comunicazione con i rappresentanti di qualsivoglia organo statale si riduce a pura cafonaggine. Un’offesa tira l’altra. Ti abitui e non ci fai più caso.

Succede a tutti, anche a me. Ne ero cosciente e non mi preoccupavo affatto. Il o successivo sarebbe stato prendersi a pugni. Ci saremmo acciuffati, sarebbe volato qualche dente qua e là, si sarebbe spostato qualche setto nasale e qualcheduno, forse io, non lo escludo, ne sarebbe uscito fuori con l’occhio nero e due costole rotte, diciamo tre, per fare numero dispari. Una cosa però è assolutamente certa: la reclusione sarebbe stata mia e solo mia. Bisogna, dunque, conoscere la misura giusta, saper fermarsi in tempo di qualunque cosa si tratti! –Ma quale tempo, di cosa parli, scimunito – si sente di nuovo quella fastidiosa vocina del cazzo quando gli si drizza la capoccetta incavolata – continua a mangiare la merda, continua e ingoia tutto per bene, mi raccomando! Tu quoque, Brute, fili mi? Che vergogna, che amarezza, penzolare tra le gambe di uno che si tira indietro come una femminuccia! –Ma che diamine succede? – Scendo a ragionare con l’idiota –Da quando in quando mi parli come quel saputello dall’alto? –Non esagerare, caro mio, – si fa sentire subito la voce della ragione – buttare giù una frase in latino non gli attribuisce di certo il diritto d’essere paragonato al mio rango! –Basta! – Avviso entrambi, rosso in viso e con la voce di chi non sopporta obiezioni. – Basta veramente questa volta! In una città di lampade a neon bruciate e dopo la mattinata piena di incontri ravvicinati del terzo tipo, mi manca solo di essere messo al tappeto da voi due, knock-out vi dico! Staccatevi, si dorme! –Ti piacerebbe ora dormire tranquillo! Mi togli la dignità, lo ciucci a tutti a destra e a sinistra tutto il giorno e vieni chiedere a me di stare zitto! Sto dritto, ecco come sto! –La modestia al posto dell’orgoglio, questo ti manca – mi sputa in faccia anche l’altro, offeso oltre misura. –Basta! – Non mi contengo più e urlo con tutta la voce che ho– Zitti, state zitti! Non una parola in più. Ho le palle piene di voi due e di loro. Si dorme vi dico, sleep, Čarli, sleep! Mi giro e mi rigiro, mormoro ancora, pronuncio altre parole poco sensate, riesco a liberarmi di tutti i vestiti e butto quella merda di uniforme dall’altra parte della stanza, che almeno nel sonno stia abbastanza lontana da me. Le palpebre si chiudono ancora prima che tocchi il cuscino. Crollo. La

sensazione è buona, sorprendente quasi, basta davvero togliere il vestito sbagliato per sentirsi liberati e meno pagliacci. E chi mi dice, poi, che questo sia sufficiente per fermare la crescita delle orecchie da asino nel Paese dei balocchi? In nome della giustizia, sei nostro! Sempre che di giustizia ancora ce ne sia a questo mondo! – Si fa sentire il pesce spada dai filetti impressionanti, la cui sciabola tagliava l’acqua sotto la erella su cui muovevano i loro timidi i i miei piedi vacillanti. Pure nostro! pure nostro! – Ribadiscono dei polipi veraci spuntati all’improvviso da dietro un grande scoglio vicino – materia prima per un’insalata divina – seguiti all’istante da spigole e calamari grossi, che volentieri avrei disteso sulla griglia. Mai riusciremo a cibarci di te tanto quanto sei riuscito tu ad abbuffarti di noi! – Conferma lo scorfano di fondale di un bel rosso vivo, a cui nessuno finora era riuscito a tagliare la testa, insieme a un gruppetto di orate d’ottimo aspetto – Mai! Che disgrazia l’ingegno! Lo stesso pezzo di legno che fino a pochi minuti fa fungeva da porta della mia cabina ora si trasforma in castigo. Per poco non inciampo sulla sua superficie inspiegabilmente oleosa e, mentre cerco di riprendere fiato e mantenere quel fragile equilibrio appena acquistato, migliaia di occhi del regno animale mi scrutano severamente augurandomi una non lieta fine. Aspettate! – Mi sembra d’intendere il significato di un inatteso ululato. Possibile, mi domando, che qualcuno ancora intervenga in mia difesa? Non gli avete permesso di discolparsi – abbaia la mandibola potente di un boxer tedesco deciso a farsi sentire. L’abbiamo fatto, invece, più di quanto meritasse – scoppia di una rabbia trattenuta troppo a lungo il nostro comune storione a rischio d’estinzione – e ora gli stiamo con piacere restituendo il medesimo trattamento che egli ha riservato alle nostre uova, fingendo di aiutarle a evadere dai barattoli di vetro. Aveva promesso loro una via di fuga veloce, e ci è riuscito appieno, il mascalzone, a inventare una strada persino più breve di questo trampolino, regalando il contenuto dei barattoli directly allo suo stomaco.

Occorre sempre far valere il diritto di difesa, e noi intendiamo realizzarlo in queste acque oscure, proteggendo e questo pilastro della giustizia – abbaia affettuosamente un vivace pechinese che, incerto sul da farsi, pronunciando la parola “pilastro”, cede all’istinto e dinanzi a tutti manifesta mancanza d’intelletto e solleva la zampa posteriore bene in alto – cioè: …Ma cos’è che volevo dire? Questo veterinario ha sepolto con le proprie mani fin troppi nostri cugini – seguendo la barca a nuoto si unisce al coro della difesa anche un cocker spaniel – questa è la triste verità che però non ha mai una faccia sola. Bisogna ammettere che... ...Che altrettante vite canine è riuscito a salvare e disinteressatamente ha aiutato molti di noi ad alleviare i dolori – completa il suo pensiero un minuscolo pinscher coraggioso. Divinum opus est sedare dolorem – sorprende tutti il latino con una forte pronuncia hochdeutsch di un pastore tedesco pronto a compiere la sua sacra missione di salvataggio. Tonsille infiammate, orzo murino insidioso, ghiandole perianali irritate – comincia a ringhiare un rottweiler impaziente di dire la sua per lodare il mio lavoro – le diagnosi precoci della bronchite o della polmonite prima che diventi contagiosa per gli altri cani, le rognose enteriti... No, non bisogna dimenticarlo! Allergie, nefriti, dermatiti – si propaga il miagolio acuto e disperato delle gattine persiane. Chiediamo pietà per lui! Perdono! Perdono! – in piena sintonia manifestano la loro nuova complicità micio-canina i miei sostenitori. A morte! A morte! – Non cedevano gli altri animali commestibili. Basta! – urlano le mie corde vocali, decise ad uscire da questo stallo. Allora andiamo ai voti. – Propone qualcuno dietro la mia schiena. Fermi tutti, attendete il sondaggio! – Qualcun altro cerca di far ragionare la massa radunata – Non fatevi vedere così umanamente frettolosi e impazienti nel condannarlo!

Ormai è fatta! – Echeggia nelle mie orecchie mentre mi avvicino al margine che mi divide dalle onde. Not guilty, – mi sembra di sentire perdendo l’appoggio – tutto ti è stato perdonato. Torna indietro! In quell’istante, la prua della nave si arena contro l’asfalto della stradina che porta a casa mia. Peccato – sono le ultime parole che sento precipitando – un vero peccato... Si poteva spezzare questo incantesimo solo alzando la posta in gioco, rilanciando senza timore affinché la follia maggiore, autentica, genuina non spazzasse via quella del fondo in cui galleggiavo, incastrato come la maggior parte della popolazione. Chiamo perciò il mio testimone, il mio socio d’affari, il miglior amico e anche la migliore amica, per quanto nessuno mi crederà mai che di pura amicizia sono capace quando si tratta di una donna. Ci infiliamo a fatica nella vecchia Fiat 500 e raggiungiamo uno striptease bar appena fuori città per festeggiare il mio addio al celibato, alla faccia di quel cervello tosto che porto nella nuca, capace di rovinarmi ogni gioia del momento. E perché non vado di qua, perché non vado di là? Perché non faccio quello, perché invece preferisco proprio questo? Mi propone una serata al Teatro per assistere a un balletto o un’operetta, razza di impertinente! –Ma che cazzo dici? – sbuffo infine – Quale chiesa, monastero, biblioteca? Ti sei giocato quel poco di cellule rimaste? Sei andato a finire sull’orlo della ragione, laddove la gente ancora ascolta l’Opera e non vede l’ora di pagare per essere sgridata gratuitamente? –Accomodatevi – mi viene incontro il proprietario del locale, finalmente uno che ci riceve come si deve – qui nessuno alzerà la voce su di voi. Ci intendiamo al volo perché a differenza di quei fessi puttanieri in uniforme con i quali avevo avuto a che fare tutta la mattinata, lui riesce a comprendere il bisogno umano di mandare a fanculo il mondo intero e sprofondare tra i seni di una donna. Restare lì, protetto, per un tempo interminabile, con gli occhi chiusi, respirare il suo sudore e non sapere null’altro. Invita subito una delle sue sgarzette bianche e mentre la ragazza comincia a esibirsi sulla pertica paghiamo al cameriere il lusso di rimanere da soli con l’artista.

–Che le danze abbiano inizio! – Sospiro pensando che due gambe così lunghe e belle non le avevo mai viste, e senza volere mi ritrovo a ripercorrere le stesse tappe di una vita dissoluta e sfrenata che prima di me apparteneva già a Fabian, eine Moralisten. La musica è alta, la carnagione della ballerina bianchissima, quasi fosse latte appena munto, Berlino e Cabaret sono una costanza di oggi e di ieri, lo capisco a mie spese. Quando la giovane moldava viene a sapere che sto per sposarmi non spreca né tempo né parole per dimostrare il suo indubbio talento. Mi cavalca, apre la cerniera e abbassa i pantaloni in una mossa sola, lasciando allo sguardo il messaggio d’essere disposta a tutto, ma proprio tutto, basta chiedere. Ed erano guai per me, seri! Mi hanno insegnato a non colpire mai una donna, nemmeno con un fiore, e nel respingerla le richiudo con molta cura e delicatezza le gambe divaricate; ma probabilmente non me lo perdonerà lo stesso. Per di più mi trovo a combattere anche il mio lui, che, arzillo come se dovesse ricevere un rapido viaggio premio per i suoi fedeli servigi, ci resta malissimo nel vedermi rifiutare quella gentile offerta. L’altro ovviamente applaude dal cranio e si congratula per l’eccellente dimostrazione di carattere, di fronte a una tale appetitosa messa alla prova. Ancora oggi tira fuori questa vecchia storia ogni volta che intende vantarsi di quanto, a parte tutto, io sia un brav’uomo. Di fatto, però, nessuno dei due ha voluto guardare oltre l’apparente voglia di svago di quella serata, in cui i minuti antecedenti le 48 ore alla partenza, contati alla rovescia, appartenevano a me soltanto. Il giorno dopo tutto succede velocemente, come al cinema. Dormo fino a mezzogiorno quando iniziano le corse. Radersi in fretta, trovare due scarpe uguali, rendersi presentabili, scattare delle foto, ricevere i baci e gli abbracci e gli auguri sinceri dei miei cari. Il cibo era molto buono, il whisky pure. Temo d’aver superato la dose giornaliera consigliata. Mi lascio tentare a prendendo la chitarra in mano e affido alle dita il compito di ritrovare la metafora belga di Jacques Brel. Non sono particolarmente superstizioso, ma credo che chiudere gli occhi di fronte ai segni evidenti sarebbe da stupidi. –Una sana precauzione non guasta mai – chiarisco al mio testimone la ragione per cui non accetto il suo invito per una partita di biliardo – prima di partire in guerra non conviene andare a caccia di cervi né toccare la stecca. –E come potresti giocare – interviene il mio pene offeso per la sera prima – dato ti mancano le palle per farlo? Ammettilo, miserabile vigliacco, che sei bravo solo a perdere le occasioni e tirarti indietro! Oh yeah, così stanno le cose! I love you baby, baaby... let me love yooou...

L’ultimo desiderio, perché non lo sfruttano mai? – mentre sprofondo nell’acqua cristallina mi raggiunge questo pensiero di un pesce. Non comprenderò mai questi umani – gli risponde un secondo squalo venendomi incontro a tutta velocità.

MARCO

Ah, se almeno fossi capace di condividere i miei timori con qualcuno, scomporli, anche se in parti disuguali, sarebbe già un sollievo, per quanto possa essere misera una simile consolazione. L’arrivo di Matteo invece di rallegrarmi – almeno apparentemente – ebbe sul mio animo un curioso effetto opposto. L’inquietudine crebbe a dismisura fino a diventare insopportabile. Tutto in lui mi turbava: la sua borsa in pelle di capra non conciata, la vista dei suoi piedi pieni di ferite e macchie di sangue in quei sandali trasandati, i suoi occhi incavati che ben manifestavano troppa stanchezza o delusione – oppure entrambe le cose insieme – quei rotoli di pergamena che la sua mano piena di venature stringeva fortemente. –È giunta l’ora – aveva sussurrato mentre la servitù portava il suo corpo in casa, gli preparava un bagno caldo e specialità culinarie che avrebbero fatto risuscitare anche i morti. – Questo è il frutto del mio lavoro – disse porgendomi gli appunti vergati a mano – ma non riesco a portare a termine la ricerca da solo. Mi occorre il tuo aiuto. –Certo – pensai maliziosamente tronfio, senza che il mio volto scrupolosamente curato fe trasparire alcuna delle mie sconvenienti emozioni – “ora sì che hai bisogno del mio sostegno a differenza di quando la tua Parola aveva sempre il primo posto.” Come se avesse potuto leggermi nel pensiero, indicando il rotolo più spesso degli altri disse – ecco il tuo invito, conosci benissimo il mittente. –Non vado da nessuna parte – avevo risposto bruscamente –non sono l’unico. – Aspetta – fece un tentativo di farmi ragionare con quella sua voce sfinita, riuscendo a malapena a sollevarsi dal letto a baldacchino. –Non aspetto un bel nulla – continuavo a ostinarmi saltando in piedi come se la sedia in ebano lavorato lasciata vuota potesse conferirmi la determinazione che non avevo e dare vigore alla mia protesta – Sembra avessi pronunciato ieri la frase, poi divenuta storica, “nelle tue mani, Padre, consegno il mio spirito”... –Ah, giusto ieri – si sente il gemito del mio interlocutore che cade di nuovo, ancora sudicio com’era tra le mie lenzuola damascate con loro preziosi ricami – quasi fosse ato un istante solo dal momento in cui i pagani mi legarono per i cavalli prima di trascinarmi per le viuzze imbrattate di Alessandria. Fino alla morte!

–Ah, la morte! – nascondendo il volto con le mani screpolate grida Matteo – Quella stupenda morte! L’ho già detto e ripetuto, solo la paura non si può condividere con gli altri; e mai scompare del tutto. La mia saggia madre sapeva di certo chi stava allevando, cosciente che non tutti siamo fatti dall’impasto giusto per fare gli eroi. In questa casa i cristiani pregarono persino la notte in cui Pietro giunse dritto dal carcere. Qualcosa di molto coraggioso per una donna, soprattutto quando si trattava di una cristiana ricca. Il tipo di audacia che spalanca ogni porta ai suoi discendenti e così mi sono ritrovato con tutto il mondo ai miei piedi. Per questo stesso motivo sono stato affidato alle mani dei due eletti, al fratello di mia madre e a Paolo, affinché mi fero da guida, e presi parte, dunque, nel viaggio missionario in Antiochia; a questo primo ne seguirono altri: con lo zio a Cipro, dopo il suo litigio con Saulo; a Roma, in Egitto, in Libia, ad Apollonia, e in Cirenaica, tornando ad Alessandria. Sono stato il primo a scrivere un Vangelo, ma non ho mai avuto la giusta perseveranza per esigere il posto gerarchico che cronologicamente mi apparterrebbe. Forte! Resistente! Tenace! No, questi non sono stati mai aggettivi da accostare al mio carattere. –Hai desiderato girovagare per i fioriti campi della Galilea – sento la voce del debole viaggiante che una volta caduto sul letto non trovava le forze sufficienti per rialzarsi – diventare uno psicologo, colui che interpreta e scrive i diari dei viaggi. Nessuno sotto il tetto celeste ti conosceva prima che diventassi un apostolo. Chi sei tu veramente a parte essere un discendente di Maria, che cosa sei tranne il suo figlio, da dove puoi dire che vieni senza che la risposta sia “da mia madre”? Avresti voluto tramandare la Sua parola, proprio tu, così indegno! Credevi forse di registrare meglio l’esistenza dei paesini e delle città rispetto al vero figlio di Dio che ti camminava accanto? Un’altra volta avresti voluto forse rintracciare dei significati occulti nascosti nella mimica, in un movimento della testa o nella postura del corpo, dillo chiaramente, è questo che volevi? –Però… – provai a impedire la nascita di un nuovo Vangelo. –Terrorizzato dal rumore di una grande moltitudine di idolatri presenti intorno a voi, guardavi solo Lui – diceva il mio ospite oramai alzatosi in piedi – e con timore e rispetto annotavi… ’spetta, ’spetta, fammi ricordare com’è che dicevi... ah, sì, “lo sguardo di Gesù che gira intorno e si posa su ogni persona presente”, i suoi begli occhi caldi, di cui non conosciamo il colore, ma che ti “penetrano con

il suo amore fino in fondo al cuore”! –E con questo cosa vorresti dire? – per la prima volta in vita mia alzai il tono. – Sono uno dei settanta apostoli inviati in tutto il mondo per divulgare la parola di Dio! –Sì… – prova a interrompermi l’uditore mentre estasiato si stava accomodando a una tavola bandita di ogni ben di Dio, ricca delle maggiori specialità culinarie di tutta Gerusalemme. –Ho anche servito durante le nozze a Cana, quando Gesù trasformò l’acqua in vino. –Certo, certo. – Insiste per un po’ il mio interlocutore, finché la forza del suo dubbio non viene seriamente provata da un vorace appetito. –Sono stato quello che ha portato l’acqua per gli invitati dell’ultima cena, che ha ospitato in casa sua i discepoli di Cristo dopo la sua morte, la cui soglia di casa è stata varcata per prima da Gesù appena risuscitato, e... – Lì la mia voce si spezza per l’emozione. –Sì, sì. – mi dava ragione, entrando nella vasca per abbandonarsi alle mani abili delle giovani serve di colore che iniziavano a insaponare il suo corpo bluastro dalle percosse. Alimento i miei timori ritirandomi così nell’inganno maggiore dietro cui regna solo l’ignoranza e la totale mancanza d’esperienza. Maria, mia madre, volendo proteggermi dal dolore, mi ha impedito contemporaneamente di conoscere la vita stessa; per quanto riguarda il mio spoglio episodio di fuga il giorno in cui è stato arrestato, il Signore è sempre stato ed è tutt’ora rimasto il tabù in ogni casa cristiana che tiene al suo buon nome. I membri più saggi della nostra piccola comunità tacevano; i meno perspicaci in ogni caso non avrebbero saputo cosa pensare né dire. –Non ti dimenticare la piuma d’oca – mi rammentava Matteo rinato e nuovamente vestito, mentre pure io cercavo di indossare quegli abiti con duemila anni di storia addosso – ti servirà per prendere appunti. Nel sacco troverai un dittafono, la camera da presa, vari tipi di uniforme – quella regolare e anche la paramilitare, i documenti falsi e le armi vere. Mi sono già occupato di procurare tutto quanto. Non ti preoccupare, il tuo leone alato che porti sulla schiena

erà inosservato, nessuno è più in grado riconoscerlo. Pronto per la partenza? I miei peccati sono solo un’imprecisa somma matematica di tutte le mie paure – pronunciai, salutandomi con Maria e tremando di spavento in una specie di stato febbricitante – un totale che è destinato pur sempre a restare minore delle singoli parti che si vanno sommando. Arrivederci – dissi a mia madre caricando a fatica il poderoso zaino sulle mie nobili spalle e osservando per l’ultima volta le ormai saldate finestre della mia torre d’avorio. Sto arrivando, Padre!

Nero e bianco

...La menzogna! Ogni notte resto sveglio fino all’alba. Per abbracciare il sonno provo a ingannare me stesso e sempre più frequentemente raggiungo certi luoghi sconosciuti senza avere certezza alcuna su quale sponda del sacro Stige siano ubicati. E così, viaggio. Dall’India giungo con il chaturanga sulla schiena, attraverso la Persia con il chatrang nelle bisacce, con gli arabi scambio merci preziose per un shatranj e attendo la mia nave. Prima di imbarcarmi spingo in mare gli elefanti in porcellana e i cannoni, butto alle mie spalle i dadi d’avorio e il potente Mantri lo trasformo in Regina. C’era una volta un re... Che menzogna stupenda! Lungo le mura e negli angoli dei castelli di pietra s’innalzano torri alte, soffiano il corno i nobili altezzosi, alla fuga si danno gli abitanti della foresta, mentre il panico invade tutto e i cavalli dal manto bagnato, da cui morsi bavosi scendono schiuma e gocce di sangue, saltano impazziti. Sessantaquattro campi. La fanteria avanza corpo a corpo con le baionette inastate, lasciando alle loro Maestà il compito di preoccuparsi che la salsa bernese per l’amato chateaubriand venga servita sempre fresca. Nero e bianco. Il cielo strappato in mille pezzi dal rigurgito luminoso dei cannoni ospita nonostante tutto i piloti di caccia che fra poco manderanno in frantumi la terra. I campi arati vanno in fumo, bruciano le spighe di segale, d’avena, in questo tipo di gioco i caduti nessuno più lì rimette in scena. Corri... cadi... inciampi... Tempo! Sei vivo finché non si abbassa di colpo la tua bandierina. Una guancia qualunque si appoggia alla canna del fucile, in trincea tutti gli uomini sono uguali, con un’immagine sacra e la foto ricordo scattata con lei in tasca. En ant. Guardo il soffitto, – o sarà il soffitto a tenere d’occhio me? – le luci si fondono, lo spazio sfugge e perdi i contorni, le zone chiare e quelle d’ombra creano una grande tavola quadrata. L’aria si fa densa ed ecco che stanno arrivando. Sono io, oggi, il prescelto che riesce a sentirli marciare, a sentire le truppe che prendono posizione al suono del rullante. Come vorrei essere con loro… Oh, when the

Saints… quando la tromba suonerà il richiamo... Go marching in... Sedici guerrieri pallidi sfidano due file di avversari neri. Il dottore, Čarli, certo che mi ricordo di lui. E anche dello stemma della sua famiglia, con sopra una scala che punta dritta al cielo e un paio di sciabole incrociate tra gli artigli di un’aquila ad ali spiegate, nera, su fondo bianco, appartenente alla dinastia degli Hohenstaufen. Se parli troppo con il muro c’è sempre la possibilità che prima o poi ti risponda. Che ti faccia udire lo scalpitio dei i dimenticati da tanto tempo, il silenziosissimo meccanismo dell’orologio che non disturba i giocatori in gara, lo stridore delle ruote delle biciclette sulla stradina che una volta portava fino all’ingresso della fabbrica, ricoperta anch’essa ormai da folte erbacce. La pittura che si sfalda sulla parete ricorda quasi tutto di te. L’impotenza che una posizione di patta comporta e l’abbattimento che supera l’ipotesi stessa della sconfitta. L’istituto sperimentale per le analisi sulla lana spento nel corso di una notte. La bandierina abbassata a metà dell’asta. Un intero esercito di operai tessili affamati che non sta più a cuore a nessuno. I titoli di studio incorniciati perfettamente coprono l’intonaco scrostato e la carta del mondo con un’isoletta del Mediterraneo cerchiata nasconde le bolle di umidità. C’era una volta il re Minosse ed è arrivato il tempo dei suoi discendenti... Avevo convinto i miei due figli a restare a Creta, credendo fermamente che l’assenza sarebbe stata sufficiente a proteggerli dalla guerra. Da quando è venuta a mancare mia moglie amavo sinceramente solo due donne, le mie due dame laccate, una bianca e una nera. Se non altro, meritano considerazione per il gambetto in cui i pezzi ceduti hanno almeno un proposito preciso. È anche per questo che non mi separavo mai dal mio completo di scacchi intagliati artigianalmente a mano. Nemmeno quando sono venuti a prendermi, per quanto insistevano di raccattare solo l’indispensabile, perché là dove andavo di certo non avrei avuto il tempo per queste cose. Nei tempi antichi il gioco non terminava prima che il Re fosse rimasto completamente spoglio. Nella casa di riposo dove ora trascorro i miei giorni tutti quanti temiamo la solitudine e il buio, che in fin dei conti è forse la stessa paura. L’oscurità esalta il vuoto. Qualcun altro ha determinato la lunghezza di questa sfida e non mi preoccupo minimamente quanto mi resti d’andare avanti ancora, ma piuttosto se avrò qualcuno vicino quando giungerà il momento di sottoscrivere la resa. Succederà, mi chiedo, perché sono rimasto completamente solo? Oppure non ci sarà per me più alcuna mossa da fare? Si impara velocemente che la solitudine equivale alla sconfitta. I tempi moderni sono quelli

che viviamo noi, dove subire uno stallo non comporta più la vittoria. Una fine è inevitabile, a quanto pare, ma io non ne vedo comunque lo scopo. Non sono pronto forse ad accoglierla ancora! Troppo peso mi preme sulle spalle. Per carità, qui dove sto in fondo non si vive poi così male! Non preoccupatevi per me. La tristezza viene e va ogni giorno alla stessa ora e non mi lascia decidere se devo sentirmi amareggiato per tutte le partite perse, oppure se mi tocca brindare per essere rimasto solo e abbandonato come un cane senza via d’uscita. A volte provo a sottrarmi, mi piego e giro la testa per vedere meglio questo perfido Mostro grande che porto in groppa. Mi sforzo di combatterlo di nascosto, buttarlo giù senza che qualcuno si accorga della mia pena. Maggiore di quanto riuscirebbe a sopportare l’angelo qui presente, che si illude di poterla toccare con mano e riferire la sua sostanza a parole. Più pesante persino di quanto stringerebbe la mascella del leone alato. Sono i resti del mio tempo perduto che avanzano dopo la resa dei conti con me stesso: la clessidra nascosta sotto le unghie che sgretola le sue ore e le lancette tra i dolenti denti del giudizio. Quel giorno io e Čarli aspettammo a lungo qualcuno o qualcosa che ci trasportasse lì. Stavo seduto su uno dei gradini franati davanti alla porta d’ingresso secondaria del Comando e lui, invece, si era appoggiato sullo zaino militare gettato con furia sul cemento, laddove, tra i fori scuri, spuntavano svariate erbacce. A ogni persona in uniforme che ci ava davanti chiedevamo notizie sulla nostra attesa, ma nessuno ci rispondeva. Non ci guardavano nemmeno, finché Čarli non si alzò e urlò. Allora sì che hanno cominciato a sentire e a girarsi per vederci meglio. –È un segreto militare, soldato – ci risponde una voce altezzosa non rallentando il suo o. –Segreto un par di palle, – scuote la testa snervato da quell’atmosfera – così ben custodito da essere risaputo da tutti tranne che da noi diretti interessati! Accadrà di tutto qui, me lo sento. Ed è successo di tutto, se ci penso meglio, quasi un decennio più tardi. Le stesse strade piene di gente, una domenica, le cinque di pomeriggio, aquile nere e bandiere rosse, i fuochi d’artificio, il buio, le grida. Il silenzio. L’attesa. Caldo e incertezza danno sempre il loro notevole contributo. Giacevamo in quel parcheggio dalle sei del mattino. Gli avevano detto che si partiva alle otto, poi

mi hanno riferito che un mezzo sarebbe ato a prenderci verso le dieci. Non è accaduto. –Non ditemi che si rinvia tutto a un mezzogiorno di fuoco – gridava ancora Čarli, quasi non vedesse l’ora di trovarsi nella merda – e che volete spedirci al fronte con una cannonata alle dodici in punto? Poi tace tutto di nuovo e l’assordante silenzio dell’attesa scende sui nostri sguardi, volti verso il nulla. La pazienza l’abbiamo persa, padre – udivo la voce del figlio, mentre cercavo di risolvere un nuovo problema diretto in tre mosse – noi stiamo andando via. Dove? – gli chiedo analizzando un interessante controgambetto e sento mia figlia rispondere al posto suo – Lì dove non c’è la fame. Partiamo stasera stessa. Ah ah, certo... – confermo la loro decisione continuando a sistemare le pedine – Sì, certo. –Questo tuo gioco io lo porto nel sangue – all’improvviso Čarlimi fa trasalire dai pensieri – Ruy López, giocatore spagnolo del Cinquecento, può anche essere il primo non ufficiale campione del mondo, ma resta pur sempre un mio avo, colui che il titolo gliel’ha abilmente soffiato via. –Il tuo cosa? – Chiedo mandando la saliva di traverso per la sorpresa. –Hai sentito bene: l’italiano Giovanni Leonardo di Bona, giocatore d’azzardo e avventuriero cinquecentesco – si rivolge più a sé che a me – il nobile che viveva del gioco e non per esso. Non riuscirò a comprendere mai come si fa a scommettere sul presente e non sull’eternità! Altrimenti, se avesse dedicato il suo senso pragmatico alla bellezza del gioco – aggiunge sistemandosi meglio sullo zaino – oggi forse al posto dell’apertura “Ruy López”, conosciuta meglio come “Spagnola”, l’arte degli scacchi menzionerebbe piuttosto la partita “Di Bona”. –Come mai sai queste cose? – chiedo alzandomi – Chi te l’ha detto? Non mi risponde. –Vuoi che preparo una partita? – dico, tanto per rompere il silenzio. –Perdonami Alechin, ma oggi non mi sento in forma – rifiuta la mia proposta

con tono secco. –Non nominare invano il nome del Maggiore! – mi sento toccato nel punto debole – Non venirmi a parlare di lui! –D’accordo, non te la prendere così tanto, non volevo offendere – avverto la voglia di conciliazione nella sua voce. –Aleksandr Aleksandrovič. La famosa partita con Capablanca a Buenos Aires. Correva l’anno del Signore Millenovecentoventisette. – Continuo a spiegargli sistemando i pezzi in campo – Abbiamo quattro donne in gioco da una parte, voglio la sua attenzione mentre cerco di ricostruire le posizioni. Osserva bene: avanti, indietro, a sinistra, a destra, in diagonale, e moltiplica tutto quanto per quattro, ahi, capisci che spazio di manovra si ottiene... Come sempre, tra l’altro, vince la legge del più forte. Da che mondo è mondo così è sempre stato, lo è ancora e lo sarà. L’autista viene davanti e i eggeri si sistemano dietro. Ogni mese aspettavo il pullman che veniva da Atene. Ricevevo cento, a volte duecento marchi tedeschi in una busta strappata. Non corrispondeva mai a quanto mi avevano detto che mandavano. Il pezzo da venti per la dogana, l’autista ripete la solita cantilena. Se non volere, potere rimandare. Se dice mancare qualcosa, niente buste più, allora andare tu da solo a prendere in Grecia. Va bene così – rispondo. Bene un fico secco – si scalda il tipo – un grazie dove restare da parti tue, kufala, se a te non piacere, stronzo, metti sedere in macchina e vai, siga, siga, quindici ore di polvere e strada, poi traghetto, kala, capito bene, file mu... Verso le cinque del pomeriggio arriva la Campagnola. Accanto all’autista sale un poliziotto militare e noi due entriamo dietro. Inizia così il tragitto monotono e noioso su una strada in pessime condizioni verso la località termale tra le più conosciute nei Balcani dove ci attendeva di tutto tranne cura e relax. –Peccato – osservo infastidito da buche e squarci sull’asfalto che si presentavano instancabili uno dietro l’altro. –Il giorno del giudizio sta arrivando a momenti, che venga non è un peccato... – aggiunge Čarli, pronto a deridere le mie ridicole preoccupazioni di fronte a un calvario maggiore. –A questa strada pensavo – non mi lascio intimidire facilmente– guarda, sembra

un percorso a ostacoli che nemmeno ti lascia giocare onestamente una partita in pace. Ne facciamo una veloce lo stesso? –Datti una calmata, mio Grande Maestro honoris causa! – Non tollera più la mia impazienza di giocare. –Appartengo solo alla seconda categoria – dico per precisione. –Ed è proprio quello che intendo, – mi sbuffa in faccia – non penserai davvero di giocare a scacchi in contemporanea a questa bella partita che ci attende? Ce l’hanno servita fin troppo bene! –Perdonami, – gli chiedo scusa – ma svagarsi non fa mai male. Ultima fermata, siamo arrivati, si scende! – Grida l’autista mentre lo sbirro sbatte il muso sul cruscotto – Fottuto pazzo, più piano, ci uccidi così già il primo giorno... L’atmosfera che ci attende mi ricorda quasi l’agosto a Guča con la sua festa popolana e il festival di trombe. Dappertutto i pastori nella loro migliore foggia eggiano accanto alle facce serie in uniforme. Mancano solo le trombe e i tromboni per completare il quadro. Capi d’abbigliamento militare vanno in giro mescolati con la prima cosa capitata sottomano – giubba mimetica sopra e pantalone di tuta sotto, oppure giubbotto effetto lucido imbottito abbinato agli stivali militari. Ci accompagnano alla ex scuola diventata dormitorio improvvisato, la stufa a legna posizionata in un angolo, gli stuoini leggeri disposti sul pavimento, i nostri zaini come cuscini... Inizialmente dormivamo da alcuni nostri connazionali che si sono mostrati troppo gentili, – leggevo nella lettera – come se non vedessero l’ora di darci una mano e quando abbiamo ricevuto la prima paga si sono offerti di portarci fuori a festeggiare. Eravamo felici e spensierati, Padre, e non capivamo la fretta che improvvisamente li aveva assaliti, tanta da non finire nemmeno il loro ouzo bianco come il latte. Siamo rimasti a guardarci sbalorditi, soli al tavolo io e la sorella, due ingenui che lasciano i soldi in camera per trovare al ritorno la casa chiusa a chiave e la nostra roba gettata per strada. Scommetto che lo capisci quanto era basso il prezzo a cui erano disposti a vendersi! Quella notte – tornavo a rileggere trenta volte queste precise parole – l’abbiamo trascorsa su una panchina al parco. I venti freddi ci sono sull’isola e talvolta penetrano nelle ossa, ma tu non stare in pensiero ora. Tutto è ato, l’avevo coperta con la mia

giacca. Più che una notte insonne è il mattino successivo quello che ti segna, quando cerchi la fontana dove lavare il viso, quando ti ritrovi inutile e scopri la vergogna per quanto lo sai che un motivo non c’è. –Voi due – comincia a strillare un tizio robusto e infagottato nell’uniforme color kaki che aggiungeva un effetto tanto spiacevole alla sua già poco simpatica persona – seguitemi per prendere in consegna le armi! –Sono un infermiere io! – protesta all’istante Čarli – Mica volete da me che trascini dietro insieme fucile e medicinali? Una pistola perdio, non avete una santa pistola da queste parti? –Credi di poter scegliere? – sbrocca il gorillone – Acchiappa’ sto fucile, sei caricatori, firma qui e levati dalle palle. –Il tuo superiore dove lo trovo? – sento cambiare il tono del mio compagno. –Operativo oppure...? – tenta di rispondergli seriamente il trombone preso alla sprovvista. –Non sarà una distinzione per i gay quella che intendi – continua ad azzardare l’infermiere – anche se molto relativa. Stupido di un cannone, insomma, ce l’hai o no qualcuno con cui farmi parlare, che abbia qualche neurone in testa più di te? –Sta attento a quello che dici tu, tu... – si innervosisce il quadro di comando. –Dottore. Per te da ora in poi sono il dottore – taglia corto Čarli, lasciando alle spalle il Comandante diventato bordeaux in viso a elencare le solite minacce. –Ci rivedremo presto soldato, ti farò ricordare di me! L’infermiere, invece, come ogni valido elemento militare non era in grado di ricordare nemmeno come si scompone e ricompone un fucile. Li abbiamo avuti ben conservati, niente da dire, pronti a essere sgrassati, ma è evidente che lui non sapeva neanche da dove iniziare. –Non hai fatto il servizio militare? – gli chiedo scherzando. –Certo che l’ho fatto, ma in un ambulatorio! – spara questa e altre idiozie per nascondere il suo crescente imbarazzo – Ore e ore di allenamento fisico

mattutino con esercizi e corse per portare i modellini in gomma dura, giocattoli della stessa forma e dello stesso peso. Ecco, anche quelli li ho saputi evitare! –Dillo pure che non sei in grado di farlo. Cosa vuoi che mi importi? Ti aiuto a metterlo a lucido senza problemi – dico, prendendo in mano la sua arma. Appena inizio ad aprirla ci accorgiamo che da lontano l’Ufficiale di prima continuava a tenerci sott’occhio. –Se è vero che ogni forma di potere giunge dal Signore, – parla tra i denti Čarli contrariato – allora si vede che sono stato l’unico a colpirlo con le pietre per meritarmi questo. –Il Sovrano ha disputato una volta una partita ancora più spettacolare – sdrammatizzo e cambio discorso mentre con le vecchie lenzuola fatte a straccetti tolgo i primi strati – con Nikolai Grigoriev, quando due famose riviste che dirigevano all’epoca, Sahmatni vestnik il primo e Sahmatni listok il secondo, manifestavano a pieno lo spirito di sfida e di rivalità esistente tra i due colossi. –Certo – mi annuisce facendo a strisce il telo bianco – ti ascolto scienziato, tu mi dici come si fa e io ti seguo. Sono diventato tutt’orecchi. –Immagina un campo di battaglia con cinque regine – continuo a spiegargli mentre insieme iamo uno stoppino di corda e pezzuola imbevuta di solvente. –Lo immagino – dice e tira dalla sua parte. –I cannoni, gli obici, i lanciamissili multipli, tutta l’artiglieria radunata in un unico posto mentre il Re tira la sua mossa che riproduce il sibilo della freccia scoccata dall’arco di un vero maestro. –Ma non mi dire! – si sorprende lucidando il calcio del fucile.– Sposta la torre in h6, fa altre tre mosse disperate e... –È finita! – dice Čarli sollevato appoggiando il fucile contro il muro – Come avrei fatto senza di te? –…Matto, – seguo la mia logica del pensiero – in due mosse. –Ti va di bere qualcosa? – mi chiede cercando di pulirsi le mani unte.

–Non ora – rifiuto – magari più tardi. –Scienziato, fammi un favore – cerca di convincermi – piantala con prima, dopo, presto, tardi. Sappiamo entrambi che ogni momento può essere troppo tardi. –Esigo una spiegazione per il tuo ritardo! – si fa vedere di nuovo il Comandante avvicinandosi adagio. –Ti rode il culo forse? – non si fa intimorire Čarli nemmeno per un secondo. –Hai sentito cosa ho chiesto? – Strilla il superiore. –Ma vai a farti fottere te e le tue meschinità! – risponde l’infermiere indiavolato – E va a ciucciarlo al tuo veterinario... A me ti rivolgi solo con il titolo! –Permessi, certificati, matrimonio, ma chi credi di prendere per il culo?! – non molla la presa l’altro. –Lo vedi che sei ben informato? – finge sorpresa Čarli – Ma poi te ne esci con certe fesserie! –Potrei anche chiudere un occhio,– cambia di tono il Comandante – lo so che hai alcune farmacie... –E io che ti ho creduto stupido... –Potremmo collaborare, noi due... –Non vedo come – si trattiene a reagire mentre avvolge attorno al braccio il nastro bianco della croce rossa. –Lavoro in una fabbrica farmaceutica e potremmo dunque... –Dunque cosa? – mantiene ancora la calma e cerca di sembrare interessato al discorso. –Appena finisce la guerra possiamo tranquillamente riempirci le tasche. Io porto fuori, tu vendi – si strofina le mani l’offerente – senza esagerare. Poco alla volta. Così non ci prendono mai. Si divide a metà. Tu stai bene, io ancora meglio. –Gran bel piano, quadra tutto! – regala al commerciante la falsa speranza. Tace.

Si ferma contemplando qualcosa mentre pulisce il fango dalle scarpe di ginnastica di un assurdo color albume mai visto prima. – Dimmi comunque cosa sei di professione? –Come prego? –Prima di mandarti a fanculo voglio sapere che scuola hai frequentato testa di cazzo! Ora non te la faccio pagare per aver consultato un dottore e un signore, ma la prossima volta che ti a per la mente di parlarmi ti costerà cara! –Vuoi perdere questa occasione? Non puoi, sei folle! – Non riesce a meravigliarsi abbastanza quello con i gradi – Capisco, ti sei sicuramente già procurato un altro compare! –La prima lezione normalmente viene offerta gratis... – mastica quasi le parole raccogliendo gli stracci pieni di grasso – Ma ti avverto, dopo non rispondo più! –La notizia è stata riportata da tutti i giornali – comincia a darsi delle arie il superiore alzando la voce per farsi sentire da tutti – non per niente sei stato ospitato in gabbia. –Togliti dai piedi, brutto coglionazzo, – comincia a colpirlo con degli stracci sporchi appallottolati – non voglio vederti più! Scappa via finché sei in tempo, parassita avido! Mi senti? Pronto! Pronto, – finalmente udivo la voce della mia coccolona quando già avevo perso le speranze di sentirla – papà mi senti, la linea è molto disturbata, volevo solo dirti che le cose qui vanno alla grande, lavoriamo in una taverna, entrambi, dovresti vedere che bell’appartamento hanno trovato i tuoi figli – canticchia la sua voce prima di are ad altro – ci siamo trasferiti dal mio fidanzato, una persona stupenda, generosa, un po’ più grande di me, ma già so che voi due parlerete la stessa lingua. Ti piacerà, vedrai, ama gli scacchi come te... – e all’improvviso vedo la gioia simulata e percepisco il nodo alla sua gola che non va giù. Buio. Davanti alla scuola il campo da basket abbandonato, solo un tabellone rimasto e pure con l’anello storto. Gruppetti di riservisti tutt’attorno, massimo cinque, sei persone per volta. Poco più avanti la stradina fangosa e in fondo un alimentari pieno anch’esso di militari. All’angolo un piccolo bar con il tavolo da biliardo.

–Lo sai – dice Čarli sistemando le biglie nel triangolo – il problema maggiore di ogni sorta di gerarchia consiste nel cadere tra le mani di un cretino Maggiore non appena ti sei riuscito a salvare da uno precedente, c’è sempre quell’altro che ti attende per esercitare sulla tua testa i suoi impulsi pedagogici, non c’è scampo praticamente – strofina la punta della stecca con il cubetto di gesso e spacca. – Tocca a te – mi dice allora con una voce completamente calma. Tocca a me un bel niente, – ma lo capisco solo ora a distanza di molti anni – sono un pedone troppo decrepito per essere sacrificato. I giorni scorrono monotoni, tutti uguali, l’alzarsi al mattino e il lavarsi il viso con acqua fredda. Il ricordare i tumulti, l’urgente ritiro degli ambasciatori per le consultazioni, dicono, per evitare il panico allo scoppio della guerra, il Caro-Kann diplomatico, le Nazioni Unite mute che guardano altrove, e rivalutare tutto questo adesso coll’ottica del primo caffè, quello obbligatorio, assunto con il Natreen, un dolcificante, nel perfetto silenzio della cucinetta. Seguono tanti altri arrocchi, corti e lunghi, le tristi scene di uno spettacolo teatrale svoltosi per strada con i canti e le sparatorie, gli incendi e le vetrine rotte della capitale, il gioco semiaperto, la difesa serba e l’apertura russa, le immagini nitide di quei tempi custodite sul comodino, la prima colazione con assistenza garantita alla persona, le attività occupazionali di gruppo e individuali, il percorso dell’artigianato o la cura dei fiori, il rumore delle posate che nella sala pranzo strusciano sui piatti, il tintinnio dei bicchieri, le pillole da assumere dopo aver mangiato, il fumo e ancora gli incendi, le merci trascinate, ecco a voi signori, acchiappate liberamente scarpe e profumi, abiti e libri, et voilà, il gioco è fatto, le ambasciate svuotate in fiamme, la polizia assente, tutto il tempo di questo mondo misurato con il cucchiaino per il budino... Ogni gioco è un tranello! Meno scrupoloso è, tanto più efficace risulta l’inganno. –Che audacia geniale – dicevo a Čarli portandoci due birre –fare quello che nessuno si aspetta proprio lì dove non è pensabile! E non ti credere che l’avversario fosse stato uno da poco! Nikolai D. è indiscutibilmente stata una delle menti scacchistiche più brillanti che hanno caratterizzato un’epoca. –Davvero? – è incuriosito, ma non riesce proprio a non prendermi in giro – Chi l’avrebbe mai detto? –La spudoratezza, l’arroganza, il coraggio, l’intelligenza – aggiungo come se non l’avessi sentito – lo spirito giusto del gioco. La ricerca della bellezza nelle mosse e non una pura competizione.

Avevo stravinto quella sera. –Dove ti porto a mangiare? – mi chiede – Ho perso. –Ho sentito dire che appena fuori dal villaggio c’è una trattoria molto buona – gli rispondo. –Carré bianco, i crauti, – elenca già cosa ordinare come i bambini – il formaggio di pecora, quello non deve mancare, e una Pećka fredda, la migliore birra di Kosovo. Ti va bene? –E sia la tua volontà – confermo la sua ottima scelta. –Sbrighiamoci – strilla come un matto – allunga il o! Non vedo l’ora d’essere abbagliato dall’intelligenza del quadro di comando che, ahimè, ci tocca! –Ma come? – chiedo stupito – Da quando in qua quelli come loro scendono in platea? –Mai – sorride contento – proprio per questo! Brillerà la loro assenza. Sono momentaneamente assente, – sento la mia voce metallica in segreteria tra il rimbombo e i fruscii di fondo – lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. Segue il bip e la voce di mio figlio, dura, oscura, seria – volevamo avvisarti che non ci trovi più a quel numero, il fidanzamento è stato rotto, stiamo bene, abbiamo un lavoro nuovo, frutta e verdura, portokali ke rodakino, arance e pesche, agguri ke tomates, cetrioli e pomodori, ti spiego tutto nella lette... – di nuovo bip e di nuovo la mia voce – Sarete richiamati. Sono momentaneamente assente... Per due giorni tutto è stato calmo. Non succedeva nulla. Di continuo gli elenchi da compilare, lo smistamento, la sottoscrizione. Il marco tedesco lentamente cresceva, il prezzo della birra aumentava, venivano spesso a trovarci piccoli gruppi e delegazioni solo per farsi vedere e portavano allora sigarette, succhi di frutta, cioccolato. La falsa premura regnava. All’improvviso cambia ogni cosa e inizia il caos, una corsa sfrenata, il nervosismo che invade tutti. Qualche tontolone si ricorda che bisogna radunare anche gli uomini rimasti sotto i tavoli dei vari bar e ci ordina di girarli tutti, avvisiamo in tempo quelli degli alimentari e del biliardo, ci resta ancora solo un... e lì trovo Čarli.

–Che dici, si suona? Aaahh... inizia il concertino? – chiede ubriaco appena ci vede avvicinarci, getta le banconote piegate sul tavolo e cerca la sua giacca. Quelli che erano venuti con me per darmi una mano stavano solo a guardarci, uno dei due più sbronzo di Čarli, l’altro ammutolito dalla paura. –Sai tutto. – Rispondo – Dai, sbrighiamoci. –Fammi prima fare un panino, – dice aprendo una pagnotta intera che imbottisce poi con il fegato, il wurstel, l’insalata del buongustaio avanzata nel piatto e il pandemonio che spalma con le dita – non si va a morire a pancia vuota. –E ora? – a malapena sospiro. –Ora di corsa a raggiungere l’unità! – farfuglia masticando, si comincia a guardare attorno e inizia a recitare il suo pezzo preferito – Senza indugio, senza dare segnali o informazioni alle spie che ci circondano. Sempre. In ogni momento. Troviamo la ex-scuola del paese nel silenzio più assoluto. Se ho capito bene, la grande testa quadrata ha rifiutato di firmare l’intesa le cui condizioni non avrebbe al suo posto accettato nemmeno chi gli accordi li aveva stipulati. Ora finge d’essere un analfabeta, certo, gli fa comodo non intendere. Proprio come alla stessa gente che finora lo aveva lasciato indisturbato a scavare spudoratamente nei giardini altrui piace l’idea di mostrarsi come portatori di pace. Da queste parti il perplesso viene fottuto dal folle, regolarmente. Eh, sì! In questo tunnel stretto e buio gli intrappolati siamo noi, gli unici che verranno affogati come dei topi di fogna senza vedere davanti al proprio naso, spinti in un vicolo ceco. Le luci sono tutte spente. Un uomo attraversa la strada, svuota qualche caricatore in aria e canta – con l’aiuto del Signore di nuovo accadrà, di nuovo accadrà… – festeggia il deficiente l’inizio dei combattimenti. Gli occhi delle persone li ho memorizzati bene. Grandi. Spaventati. Lucidi. Abbagliano all’improvviso e si spengono, spariscono nell’oscurità. –Non si sa cosa è successo con Grigoriev – gli dico – nessuno lo sa, è sparito, così. –Davvero – risponde per educazione. –Si racconta che è stato vittima delle purghe nel Trentotto; dell’enorme archivio

non ci è mai pervenuto nulla. –E quel tuo... – cerca di mostrare interessamento – che fine hafatto... Alechin? –In quegli anni è stato ucciso suo fratello. Brutalmente. Come un cane. Si vede che il Grande era fin troppo grande per essere toccato. Non hanno osato toglierlo di mezzo. –E se noi due, invece, ci togliamo di mezzo – mi interrompe –e troviamo un posto più sicuro, cosa ne pensi scacchista, non è una buona idea? –Fammi finire questo, – dico – per amare il gioco degli scacchi la guerra non deve essere un ostacolo! –Me lo racconti dopo, muoviti... – mi tira ormai Čarli – La baldoria sta per iniziare! Ascoltami, le cose che a malapena riuscivano a tenerci insieme sono venute meno. Ogni certezza si è frantumata. Dopo il pranzo la pennichella obbligatoria. Kosovo. Prendo il caffè alle sei di pomeriggio esatte. Europa. Faccio una partita se si trova ancora qualche avversario in vita. Aut aut, la crisi, la caduta del Governo, le nuove elezioni. Non ceno. Leggo. Guardo la TV senza l’audio. Sono arcistufo delle voci altrui. Anche quelle mie personali suscitano angoscia a sufficienza. Anche in Grecia ci sono state le elezioni, ma prima dovevano dimostrarne l’efficacia e “catturare” i lavoratori a nero. Gli stessi poliziotti che mio figlio conosceva e incontrava in altre circostanze tutti i giorni ora lo stavano deportando oltre la frontiera. La signora per cui lavorava mia figlia era riuscita invece a farla nascondere nel magazzino. Il figlio ce l’ha fatta a tornare indietro, a piedi attraverso i campi macedoni di color arancione e rosso, giallo e verde. Nulla è mai bianco e nero. Addirittura il tempo scorre diversamente quando ti ritrovi in Zeitnot. Qualcuno ha messo il piede sull’acceleratore e mandato i camion su di giri, ma il ronzio cresce e diventa sempre più rapido e forte: un minaccioso e monotono fracasso di aerei si avvicina. Lo accompagnano le esplosioni in lontananza, il tuono dei cannoni della nostra difesa che già sferrano il contrattacco ai Tomahawk; si illumina la notte di un rosso che progressivamente diminuisce, scompare e riappare, lampeggia, il suono, la luce, la luce, il suono...

–Aahh! Ma certo, certo! – dice di nuovo Čarli stuzzicando i denti per il nervosismo – abbiamo qui sotto i nostalgici delle emozioni di Guerre Stellari, che pretendono di combattere con Marte utilizzando la mia colona vertebrale per arrivarci... E da sopra si scagliano questi altri pompinari per uccidere il tizio che odio più di quanto non lo fanno già tutti loro messi insieme. Bene, una scopata stratosferica hanno organizzato, ecco cosa, imbecillità e vigliaccheria senza limiti e vorrebbero pure che resti incinto per la loro porcata! Che la paghi sulla mia pelle? Perfetto! Guardati un po’ intorno e dimmi cosa vedi. Vedo come portano via i macchinari e li trasferiscono nelle cantine della classe dirigente; ogni notte rimbocco le coperte di mia figlia che da qualche parte lontano raccoglie le arance, le accarezzo i calli sulle mani e rivedo nuovamente brutte facce a cui non importa estorcere una firma e mandare tutto a puttane. Vedo anche me stesso diventare merce sul libero mercato del lavoro. Sogno quel tecnico esperto di mio figlio che trasporta sulle spalle i sacchi pesanti, pieni di olive appena raccolte. Il frantoio dove uno dietro l’altro giungono i sacchi, la pressione a freddo, l’olio extravergine di oliva, parteno, il re della dieta mediterranea che nasce in silenzio; il Capo non tollera alcun baccano, sono lì per lavorare, non distrarti e perdere tempo in inutili chiacchiere, sta zitto e sopporta amico mio, den milao, file mu... Ed era molto meglio tacere. I riservisti ubriachi sparano in alto, mentre un paesano spaventato a morte guarda a bocca aperta la propria casa sui cui i lampioni gettano una luce sinistra; come fossero perduti nel tempo, corrono avanti e indietro per il paesello i superiori indecisi su cosa resti loro da fare, vacillano e scivolano sul sangue misto ai mucchi di fango accumulato, fino a poco tempo fa tutti fermamente convinti che non ci sarebbe mai stata una guerra. –Ci hanno appena comunicato che dobbiamo respingere la prima ondata – dico. –Ma certo, per aspettarcene altre? – urla furioso Čarli – Di quale cazzo di ondata parlano questi? Venissero pure loro con una tavola a divertirsi con noi, cavalcare le onde potenti in attesa di quella migliore, grande e grossa, la settima! E che diamine, bastardi! Quella notte a nessuno è ato per la mente di dormire, addirittura i cuochi hanno dato il cambio della guardia. –Sembra – dice ancora il dottore sempre pronto a prendere per il culo – che i

nostri fagioli siano diventati un bersaglio strategico, si sparge la voce che il reciticcio sia buono e paf, sei fottuto in un batter d’occhio, lo vogliono tutti! Sarà pure giusto – aggiunge – che l’unica soluzione per convertire un idiota in un imbecille di scala maggiore è quella di mettergli il fucile tra le mani e l’elmo a coprire il capo. Il pentolone messo a testa in giù in questi casi fa miracoli come se quel poco di cervello in dotazione lo avessero lasciato a chi di competenza – si alza e cambia il tono in autoritario – a pensare al posto loro. –Ascoltami, – tiro fuori i fogli e comincio a leggere accompagnato nuovamente dal rumore degli aerei in arrivo – solo questo e giuro che non parlerò più. –Ma perché non dovresti? – sento la punta della sua ironia –Ti fermi proprio ora che si è fatto interessante, la fabula sta appena crescendo, tutto si intreccia a meraviglia... – si finge più matto di quanto non lo sia – Non è vero forse? –Ti ho chiesto gentilmente di restare in silenzio e prestare attenzione a quello che dico, – non gli permetto che mi interrompa – vorrei trovarmi nelle giuste condizioni per creare completamente solo e libero da ogni cosa, senza che mi premano il dovere e l’obbligo, come spesso accade nel corso di una partita. Vorrei fare qualcosa che duri in eterno, aahh, cosa ne dici? – Domando. –Tutto questo è geniale, ma per ora può bastare, giusto? – come un gesuita mi risponde con un altro quesito. –No, non è tutto, c’è dell’altro. –No, basta ho detto! – non si contiene più, scatta in piedi e continua strillare – Basta così! Che differenza c’è tra i rituali di circoncisione in molte tribù africane e le processioni dei parenti dalle parti nostre quando uno va a fare il militare? Non lo sai, ma certo che non lo sai! Te lo dico io, nessuna! Lì lo sciamano, qui il padrino o il compare. Comunque, c’è da dire che non si è mai visto un capo tribù baciare gli autobus e sbavare sul conducente. Abbracciare le nonnine che custodiscono i bagni pubblici oppure buttarsi sui binari e piangere dopo nei bar della stazione. Quanto a te, mio caro scacchista, tu vorresti farmi da aiutante – mi domanda senza aspettarsi una risposta – lasciandomi concentrare sui campi neri e bianchi mentre dei pessimi giocatori mi soffiano il loro fumo in faccia. –Come fai a non capirlo? – rimprovero fortemente la sua logica– D’amore si parla! Di puro e autentico amare! Ecco, guarda te stesso – tiro fuori il mio sacro libretto dallo zaino e glielo o – il più antico testo stampato sugli scacchi

arrivato a noi: Repetición de amores y arte de ajedrez, con ciento cincuenta juegos de partido di Luis Ramírez de Lucena. L’autore parla prima di amore, e solo nella seconda parte di scacchi! –Stai cercando di fottermi per caso? – mi risponde seccato – Stai nominando quello stesso tipo che consiglia il gioco subito dopo il pasto, appena il vostro avversario ha mangiato e bevuto? –E come lo sai?– Spalanco gli occhi dalla sorpresa. –Ecco, vedi, anche lui l’ha capito – continua a strillare come un dannato – che tutto dipende dai tiri di cannone in chiusura! Si spostano, si caricano, esplodono quasi come il mio pene stufo di ‘ste cazzate a cui deve assistere! Chi risolve il duello tra due grossi calibri fatti in acciaio è sempre e solo la carne della fanteria! Come desidera essere servito, mi dica? Un pezzo dalla parte della coscia oppure dalla scapola? Preferisce la lingua o le cervella? –Ma come lo sai, dico io – non cessavo di asfissiarmi con la stessa domanda svuotando tutte le tasche in cerca di qualcosa che non trovavo – come lo sai... –La patria, la forza militare, una reliquia accanto all’altra, come se avessi otto vite ancora e si trattasse solo di distribuirle bene. A nessuno viene in mente di chiedere; – s’infuria come un toro – certo, bisognerebbe averla prima una mente. Perché lo Stato non fa qualcosa di significativo per la mia di vita? Per la miseria! La carneficina potrebbe sfiorarci, non riguardarci, fermarsi prima di iniziare, una disossatura in meno non sarebbe poi così sbagliata. Si sospendesse almeno per un po’. Almeno per poter riposare un attimo la testa... –Ah, quell’avversario, quel magnifico collaboratore controvoglia il cui senso per la Bellezza pur sempre si distingue dal mio – leggo a voce sempre più alta per vincere sul rumore proveniente dal cielo – che tormento, che angoscia – gareggio con le esplosioni in atto – quando il pensiero e la fantasia debbano essere determinati da qualcun altro... –Fai piano – aiuta a sorreggermi mentre Alechin di carta trema nelle mie mani – siamo esattamente dove siamo. –Ma... – esce solo un sussulto dalla mia bocca. –Tutto a posto, tranquillo, – cerca di calmarmi – vedrai che tutto andrà per il

meglio. –No, non... – lo tiro per la manica – ...non succederà mai e... –Una testa sulle spalle, – prende il fucile e la borsetta con i medicinali e si avvia verso la porta della cantina – lo sa che non si può offrire il sedere in giro e auspicare il paradiso. –Nulla è impossibile, solo di illusione si tratta, – gli strillo dietro – di una manipolazione maestrale, suprema. La più bella tra le partite, quella con “Cinque dame in campo”, non è mai stata giocata. Tutto, ma proprio tutto in questo mondo è solo una stupenda…

Cosa?

Difficilmente dimenticherò quel giorno. Scappavo da quell’ubriacone che voleva soffiarmi via i soldi per comprare la grappa e mi dava della puttana, ma da dove li caccio, dico io, e quando gli chiedo se gli sta bene che io smetto di farmi fottere e lui invece rinuncia a bere allora comincia a bestemmiare il nome di mia madre e a picchiarmi, mi dà botte in testa e poi ride, vuole farmi impazzire. Se cerco di fermarlo lui si mette soltanto a strillare più forte, chiede perché mai dovrebbe smettere, mica mi sarà venuta in mente l’idea di mettermi a cercare la pace, e di nuovo una botta in testa, bestemmia ormai anche il nome di mio padre, arraffa tutti i soldi e diventa invisibile come una troietta imboscata dietro un cespuglio prima di tornare al caffè. Cosa? Volete che vi racconti tutto da capo? Ma non se ne parla, dì un po’ a quel balordo lì di prendere meglio appunti. E tu, sì, proprio tu con il gattone volante sul mantello, sarà che andate a scegliervi i vestiti tra la roba smistata per profughi, bene, d’accordo, affari vostri, sto zitta che è meglio, zitta e muta, sai quanto mi prude il sedere se vuoi saperlo, ma quest’intervista è anche un mio lavoro e bada bene di non farlo fottere, tieni dritta ’sta telecamera. Capito? Prendi l’inquadratura senza mostrare la fichetta che porto disegnata sotto l’occhio, li faccio fottere tutti, vivi e morti, per questa. Non farmi vedere brutta che vengo a cercare te e sei fottuto anche tu, come picchia una zingara non lo dimenticherai facilmente. Per non pensarci rimanevo tutto il giorno al lavoro, chi va di qua, chi va di là, solo io stavo sempre sotto il Ponte blu, di mattina e di pomeriggio circola solo certa gente fine, come li chiamate voi, gentiluomini, sì, quelli, che finiscono i lavori che avevano da sbrigare a Belgrado e decidono di rilassarsi come Dio comanda, un po’ di ricreazione non può guastare, vogliono scopare, ma sanno anche essere cortesi e offrire; verso sera la musica già cambia, prendi quello che ti capita, la maggior parte sono del vicinato, la moglie non ci sta e lui viene ad alleggerire l’anima, e anche le palline – diciamolo, la sera invece solo marmaglia, feccia peggio di noi. Dicevo alle colleghe di cercare qualche altro tipo di lavoro, senza averne colpa stavamo per essere fottute, non prometteva bene – ma vatti a lavare piuttosto – mi rispondevano, ridevano e chiedevano se intendevo farmi assumere in qualche istituto. Allora le prendevo per il culo

anch’io – sorelle, con le zinne come le mie potrei occupare anche il posto del direttore e se si tratta di fumarlo come si deve persino i ministri stessi verserebbero lacrime amare il giorno in cui dovessero perdermi una volta che ci hanno preso gusto. Certo, ridete pure, che altro potete fare, ma io almeno non ho sprecato il mio tempo come tante altre nello studio per finire poi a fumarlo ai camionisti lo stesso. Troppo sapere fa diventare stupidi, è così mio scrittore, credimi, quelle due zucche ossigenate si sono buttate al volo per andare via con uno che pagava il doppio, io sospettavo qualcosa, da camion enorme e anatroccolo minuscolo nessuno ha mai visto guadagno, avevo detto – grazie mille, sarà per un’altra volta – ma loro insistevano, come mai non lo voglio, non mi lasciavano in pace – vado di fretta, rispondevo, ho il solfeggio e poi anche lezione di pianoforte – crepa idiota mi avevano detto sputando per terra un momento prima di salire sul rimorchiatore per guadagnare velocemente. Perché la gente al giorno d’oggi va così di fretta non lo capisco proprio. L’autista ha chiuso la porta a chiave ed è partito, non hanno fatto in tempo a spogliarsi e a mettersi nel suo letto che dietro la tenda ne erano spuntati fuori altri quattro, le hanno picchiate e poi scopate, se mi ricordo bene, oppure è stato al contrario, prima scopare e poi botte, così fino al mattino dopo, quando le hanno abbandonate vicino a Vranje con lo scolo e la bocca rotta, senza soldi e vestiti. Poi sarei io quella stupida, che ne dici scrittore? Va bene, non scomodarti a rispondermi, senza fretta, ritorneremo sulla questione. Giusto, mi ricordo di quel giorno, poco prima abbiamo battuto il Benfica in Coppa dei Campioni. Come sarebbe chi? Noi, i rom, Roma-Benfica 2 a 1. Allora l’ho visto, un bel maschione, a occhio e croce di circa cento chili, devi credermi, altroché, se io non riesco calcolare il peso di un uomo vivo non so chi ce la fa, mani in tasca, sulla spalla la borsa da infermiere, nemmeno lui sa cosa fare o dove andare prima. Gli vado dietro, va a scuola, vado anch’io, ma non per studiare – per farmi fottere, avevo pensato, per guadagnare un pasto caldo – lì un silenzio totale, come in chiesa, quasi fosse sceso dalla croce quel mingherlino, a momenti mi spavento che tutti quegli operai avrebbero potuto inchiodarlo nuovamente. Sento allora come parla lui, dice che deve addirittura ringraziare i volatili notturni rompicazzo, il chiasso dei loro motori gli risparmia di sentire i soliti discorsi, non ne vuole sapere proprio nulla di come si scalpella l’intonaco o come dare acqua a frutteto, strillava anche che solo un uomo ben pestato e ben fottuto non osa mai lamentarsi – ragiona bene quest’uomo, pensavo – poi ha preso una coperta, ha infilato lo zaino sotto la capoccia e iniziato russare immediatamente.

Mi davo da fare per guadagnare, ma non c’erano più gli interessati oppure non avevano i soldi, avrebbero voluto aspettare a saldare, magari pagare a rate, d’accordo, si può fare, tu fratello prima depositi i mezzi nel mio reggipetto e poi ti allunghi sulla mia pancia, ah ah, il fido vorresti aprire, questo non si può fare, ti sembro una puttana oppure un’impiegata di banca, ma di quale attesa stiamo ancora parlando se domani questo può anche crepare, che faccio, vado a farmi pagare dalla sua vedova – buongiorno, buongiorno, le mie condoglianze signora, sì, è stato un buon uomo, giusto, buuu, non pianga per favore, un bravo marito e un ottimo padre, ci credo, lo so che non è facile in questa situazione, ma il suo defunto mi aveva ingaggiata per fumarglielo una volta, sa ci sarebbe un conticino in sospeso... – non si può fare così, non sarebbe umano. Quando l’avevano svegliato per il pranzo ha detto che una merda del genere non l’aveva mai assaggiata, voleva gettare tutto nell’immondizia, l’ho pregato di non farlo, di darlo a me – prendi, aveva detto, sarà colpa tua se ti senti male – gli avevo risposto che non importa, basta che sia caldo e scivola giù, lui prese un asciugamano e si diresse ai bagni. Gli sono corsa dietro, in una mano la porzione e il pane, nell’altra il cucchiaio, dalla fretta mi sono bruciata la lingua, alla reception delle acque termali aveva preso le chiavi, aveva scelto la vasca più grande e con gli occhi chiusi aveva lasciato che si riempisse. Io intanto avevo controllato le sue tasche, pensavo di prendere in prestito qualche soldo finché l’uomo riposava, giusto, stava dormendo, ma no, non se ne parla, non stavo rubando, avrei restituito tutto, mi colpisca un fulmine se non è vero, mi cascassero gli occhi se mento. Intanto avevano cominciato a farsi sentire gli aerei, vaffanculo la guerra, all’istante si è svegliato ed è saltato in aria, a momenti cadeva per terra, bestemmiando i troppi minerali dell’acqua termale che gli avevano fatto venire le gambe di piombo. Si vestì, tornò a scuola, lì non c’era più nessuno, ha cercato allora tra le case del villaggio, andando da una all’altra, le girò tutte e infine li trovò nascosti in una cantina. Uno con i gradi sulla camicia aveva storto la faccia, domandando dove fosse stato – sei un infermiere o un disertore – ma il cicciotto non si lasciava intimidire, gli rispondeva di fumarglielo, se voleva anche nel deserto, così potevano disertare insieme. Mi sono intromessa, invadevano il mio campo e il lavoro già scarseggiava di suo – come no, e cosa faccio io secondo voi – tu stai zitta, mi avevano detto, altrimenti mastica merda, il cicciotto chiese anche se intendevano tirare giù gli aerei con le fionde, così si sarebbe tenuto pronto la prossima volta, in alternativa si dichiarava disposto a farli morire dalle risate con l’aspetto da clown che aveva, un uniforme enorme che gli cadeva sulle ginocchia e scarpe da ginnastica gialle. Allora quello con i gradi cambiò di tono, parlò di un certo

tribunale militare ma niente da fare, il cicciotto non mollava la presa, ora diceva che aveva capito finalmente la tattica del suo Comando: si aspettavano che quelli da là su che li sorvolavano, atterrassero a chiedere scusa al dottore per averlo interrotto mentre si preparava a fare jogging e che si arrendessero da soli. Di nuovo consigliò loro di fare il mio lavoro – e io, non resistevo più a rimanere in silenzio – pussa via brutta zingara mi urlarono contro i presenti in coro, hanno bestemmiato di nuovo mia madre, d’accordo, sono saggia e chiudo la bocca, non importa sapere e capire proprio tutto. Il cicciotto prometteva a quello dei gradi di farlo diventare una stella del cinema, gli avrebbe fatto girare un porno film, gli ricordò che le botte se l’era aggiudicate, per la scopata invece bisognava ancora decidere, il Superiore doveva guadagnarsela, ero diventata muta, sentivo pure io la tensione, ma poi non è accaduto nulla, una grande delusione, né pugni né sesso, le scarpe gialle si sono allontanate a o leggero in cerca di un telefono. Fotografo, come procede la nostra ripresa, ah, giusto, cameraman, perdona la mia ignoranza, accetta le mie scuse, vedo che quell’altro non alza la testa dagli appunti, pover’uomo, chi ha mai detto che scrivere sia un lavoro facile, ha il suo peso come ogni cosa, ma che vuoi che ci importa, non ci pensare troppo e procedi, qualcuno lo deve pur fare, avete detto venti euro per l’intervista, basta che poi non cambiate idea, bene, mi sto solo rinfrescando la memoria, il cicciotto, ecco ci arrivo, calmi, pazienza ci vuole, coltivatela finché siete in tempo. Si era allontanato in cerca di un telefono, l’ho seguito per sentire cosa dicesse, alcune parti del discorso l’ho perse, altre erano chiare. Questi aggeggi meccanici che ci sorvolano tutti i giorni avevano colpito qualche magazzino militare situato nella periferia della sua città, a catena erano susseguite esplosioni più o meno grandi per altri quaranta minuti, le fiamme dappertutto, detriti vari e fumo denso, le casse con le munizioni erano volate in alto come se avessero le ali, incredibile spettacolo per gli occhi, il cielo era chiaro come se fosse illuminato da mille lucciole solo che non c’era nulla da ammirare: la città distrutta, la maggior parte delle case e dei negozi senza un solo vetro, solo le sue vetrine erano miracolosamente sopravvissute, come non si sa, senza nemmeno un graffio. Pensava pure lui che lo stavano prendendo per il culo, che forse non volevano raccontargli la verità, ma poi è diventato serio, ha chiesto come stavano tutti e si è arrabbiato – perfetto, un par di palle, mia moglie con il pancione fino ai denti piange in cantina e mi venite e raccontare balle, la verità voglio sentire, il mio cazzo sta perfettamente, mi avete capito – urlava forte, sentivo bene ogni cosa, pensavo che fosse un po’ tonto – che altro dire di un uomo che vuole solo verità, dove trovarla, i tuoi stessi figli te la nascondono non appena possono, mentono tutti tutti giorni e lui cerca la verità in una guerra. Poi

rimase zitto, ascoltando e colpendo il muro, urlando di nuovo, calmandosi, ricominciando tutto da capo, poi forse ha capito che non serve strillare così forte come a dover far arrivare la tua voce fino a loro senza telefono. Mentì anche lui, dicendo che tutto andava bene, che nulla mancava tranne la fica – e io che cazzo sono, protestavo, mica sono dipinta, ti sembro una professoressa universitaria io? – con la mano mi disse no, lascia stare – un’altra volta sorella, non ora... – e nell’apparecchio disse di volergli bene e di stare attenti. Il proprietario del negozio non chiedeva niente a lui, era saggio anche lui a stare zitto, neanche lui mi colpì con le lattine vuote come fa sempre, aveva visto gli occhi lucidi del cicciotto e riconosciuto la follia. Quando ho visto i soldi per il conto mi sono autoinvitata alla bevuta – e una birra per me – non me l’ha rifiutata, l’ho scambiata per del pane e del salame, poi correvo di nuovo per vedere dove stava andando, di nuovo a scuola, io ero rilassata con lui, mi permettevo di scherzare e di prenderlo in giro – tu non andare a scuola quando era il momento giusto e ora vuoi recuperare, vedo che doveva scoppiare una guerra perché dal culo il giudizio trovasse una strada per arrivare al cervello – rideva per le mie battute, stava tranquillo con me, poi decise di andare a dormire – vado a far riposare quest’anima martoriata – mi parlava come in teatro, sorrideva ancora e mi salutava con un inchino, ho provato a entrarci dentro pure io, non me l’hanno permesso, dalla finestra sono riuscita ad acchiappare una coperta per sdraiarmi sotto la tettoia. Eh, mio scrittore, col tempo l’abitudine si fa sofferenza e tormenti, solo il bene riesce a stupirmi... Quando capita, ma quello là, lassù, per l’altra gente ha sorprese migliori, ma non per gli zingari. Quelle due colleghe mi avevano raccontato che, tornando indietro, avevano incontrato sulla strada solo carri di militari, poi un tizio gentile impietosito gli ha offerto un aggio – persona musicale, intonata – mi dicevano, con un amico le costringeva a cantare canzoni di guerra mentre le inculavano in un posteggio, mi sono stupita fortemente – ma come è possibile quando non avete voce per niente – per aver stonato troppo sono state costrette pure a fumarlo a entrambi. Ma almeno questi due non le picchiavano, la verità è che il lavoro sta diminuendo e solo le botte sono sempre di più dei clienti. E più forti. Avevano menato pure di brutto uno che lavora con noi, si veste come noi e si depila le gambe, si trucca la faccia e si riempie di ovatta il reggipetto, ma sotto ha però il rubinetto, lo avevano pestato a sangue e gli avevano rubato l’intero incasso. Un altro invece lo avevano preso in custodia, avevo chiesto chi lo difenderà dai loro stessi protettori, ma senza ricevere nessuna risposta, taceva a capo chino, sconfitto, gli avevano lasciato solo alcuni spicci per un panino – bisogna scappare finché si può, finché le gambe mi

reggono. Quando sto al lavoro devo tenere gli occhi ben aperti, stare attenta ai clienti e alla marmaglia che sempre mi viene vicino, quando voglio tornare casa devo prima controllare che lui non ci sia, mi nascondo sotto la finestra e guardo dove sta l’ubriacone, se la via è libera entro velocemente, preparo da mangiare ai bambini, scaldo l’acqua per lavarli, riempio la vasca e gli bacio i capelli. Qualche volta piango senza farmi vedere, altri giorni bestemmio quel mascalzone ad alta voce, così tutti possono sentire bene. Se invece lo trovo dentro casa, saggiamente aspetto che esca, lo so bene che sono affamati e che ogni minuto in più è duro per loro, ma il mio spirito di bastonate non ce la fa più, è sazio una volta per tutte, per sempre. Cosa, il dormire? Non me lo ricordo più quando è stata l’ultima volta che ho dormito tranquilla, riesco a chiudere gli occhi solo se lui non c’è oppure quando è ubriaco perso e gli serve il tuo aiuto perché non riesce a spostare neanche le dita delle mani. Ah, perdonami, la mia ignoranza ha frainteso la tua domanda, ho creduto per un istante che ti preoccupava sapere qualcosa in più di me, e tu alla dormita dell’infermiere pensi, quella sera lì, rallenta per un attimo con le domande, fammi riprendere il fiato e ti racconto tutto per il filo e per segno... Stavo già dormendo quando uno mi si era sdraiato sopra, un essere simile a quello che vive con me, che non si lava e che puzza di grappa e aglio, il misto vincente per riconoscere un perdente – che cazzo vuoi, gli ho strillato nell’orecchio e ho chiuso bene le gambe – il buco non il cazzo, diceva, va bene, lei è pronta, in ogni caso e in ogni dove, tu paghi e si apre miracolosamente, calda e bagnata al punto giusto – sono senza un soldo, giuro, ti supplico, ti prego vivamente – avevo riconosciuto il Superiore che il cicciotto verbalmente aveva fottuto poco prima, gliene ho dette pure io due paroline, di andare a supplicare da qualche altra parte, in chiesa, stringendo il rosario in mano e non certo i miei capezzoli – sii misericordiosa, piagnucolava, fallo entrare un pochetto, giusto la punta, per assaporare un po’, almeno – che bugiardo tremendo, come se il cazzo fosse intelligente e capace di controllarsi, fermarsi nell’atrio magari, buongiorno e arrivederci, ho dato una sbirciatina e ora me ne vado – abbi pietà per le forze popolari, insisteva il vigliacco, per i difensori della patria – ma quali forze e quale patria, idiota, ne ho abbastanza di filosofi che in tempi di guerra si ricordano di abbracciare il patriottismo, l’amor patrio come mestiere che assicura la carriera, e scambiano poi me per la Croce rossa, per Medici senza le frontiere, alzati cagnaccio pulcioso e infila la coda tra le gambe, scappa prima che chiamo aiuto – zitta, puttana, zitta, tieni ‘sti soldi e morditi la linguaccia – i venti marchi li ho presi, infilati nel reggiseno e ho divaricato le gambe, aspetto, aspetto ancora, sto zitta e mi chiedo quand’è che si farà sentire, facile dire scopare e

chiamarmi puttana, bisogna avere qualcosa con cui farlo, altrimenti perdo inutilmente la notte in attesa, so di cosa parlo, conosco quelli come lui capaci solo a minacciare e a fare la voce grossa, comunque ha pagato quindi il lavoro va fatto, onestamente, devo aiutarlo a sollevare quello che non si alza, è un lavoro difficile – mio scrittore – quasi come il tuo, di punta bisogna lavorare, lingua e punta in sintonia, e pazienza, ogni sfumatura conta, ogni sbavatura può rovinare l’opera finale, lo metto in bocca e il Comandante gira gli occhi, si gira e rigira, e di qua e di là, la fine – da domani mangi solo la verza e le carote – perché mai, chiede il cretino – se scopi come un coniglio è giusto che ti nutri come lui – voleva stringermi il collo, insulta nuovamente mia madre, si infila i pantaloni e protesta, quel maiale – gli accordi erano altri, non dovevi ciucciarlo putrida imbrogliona, mi devi dieci marchi, te ne sei guadagnata solo la metà – fottuto pezzente, ero dura come non mai, al posto tuo non alzerei un polverone per non restare soffocata, scappa coglione prima che tutti lo vengono a sapere, che non ti si alza nemmeno con la gru, moriranno di risate e tu di vergogna. Andando via insultava ancora il nome di mia madre, ma almeno mi ero liberata del deficiente, quei venti marchi li avevo tirati fuori e rimessi nelle mutande, in tutto ne avevo sessanta, nemmeno più la guerra è quella di una volta, mi domandavo se una volta tanto la crisi potesse girarmi alla larga, tanto per cambiare, perché solo io devo subire ogni conseguenza gratis, sì, capisco, ti sei stufato della mia filosofia, d’accordo, hai ragione, è il lavoro degli altri, non devo i scambiare ruoli, ma sai anche che i tuoi soldi li mando domani a mia sorella, lei non ha figli suoi, bada ai miei, li custodisce, li ama, tutti e tre, neri e belli, gioie della loro madre. La mattina dopo il gran fottitore con i gradi manifestava la sua invidiabile forma fisica, mi ha svegliata a calci, magari non riesca più a colpire nemmeno un pallone in vita sua, bastardo – in piedi puttana, cammina, basta dormire – puttana piuttosto sarà tua sorella, ho voluto specificare, tanto per essere chiari sull’argomento, avrebbe voluto acchiapparmi e girarmi il collo, mi correva dietro, ma col cazzo che mi prendeva, non sono una qualunque, ho lunghi anni di esperienza di allenamento con un marito alle spalle, mica sono così fessa da lasciarmi picchiare pure da uno che neanche mi conosce, gli ho detto che i pidocchi pubici li offre la casa, gratis, tutto compreso nel prezzo della sera prima, allora ricominciava la corsa, si fermava, chiudeva gli occhi, appoggiava le mani sulle ginocchia e riprendeva fiato, si inclinava in avanti e deciso a prendermi ripartiva, ma per poco, in materia di fughe e di scopate nessuno mi ha mai battuta – sei bravo a correre quanto a farlo alzare e scopi peggio di quanto corri, sfottevo a ogni o – avrebbe finito per prendermi, sicuramente, l’orgoglio ormai era toccato ed era pieno di rabbia, gliel’ha impedito l’arrivo di

un fuoristrada della polizia militare, il mio atleta carico d’ansia s’è fermato all’istante, dritto in piedi saluta le Alte Gerarchie – quanto a lungo puoi stare in posizione così eretta, avevo chiesto con una voce più che amichevole... – fino a domattina se serve, sparava subito quel tacchino senza usare la testa – ah, è un vero e proprio peccato allora che non sei quel cazzo che poteva essere utile almeno a qualche cosa – non cercava più di avvicinarmi, solo da lontano lanciava i sassi convinto di colpirmi – sei proprio caduto dal pero e si vede, migliora la mira, dimmi che non hai cercato di abbattere gli aerei con la stessa tattica di merda – sì, lo so, forse me la sono cercata, ma non dovevo fargli risparmiare nulla, aveva cambiato il colore, era diventato verde in faccia, con forze sufficienti però a insultarmi ancora i genitori, mia madre e quella di tutti gli zingari maledetti, quanti ce ne sono in giro sulla Terra, poi è entrato dentro la scuola insieme a loro, i poliziotti e alcuni civili. Sono abituata a farmi gli affari miei, ogni tanto però non riesco a trattenere la curiosità, per il mio uomo questo è sempre stato un motivo in più per suonarmele di santa ragione, non sopporta il mio mettermi in mezzo e il mio voler sapere tutto, ma certo che voglio sapere, dico io, è vero che faccio la puttana, ma sono anche una donna, e quando mai una femmina non vuole essere al corrente di cosa accade attorno, anche quel giorno, dunque, stavo attenta a ogni dettaglio, accovacciata sotto una delle finestre rotte della scuola, pioveva a dirotto, vedevo gli uomini portati dalla polizia poco prima, due in pigiama e uno in tuta sportiva, quel frocio con i gradi aveva ripreso il suo colorito, si sentiva di nuovo padrone di se stesso e con le redini in mano, e così sfotteva le pecorelle che si sono allontanate dal gregge che solo ora, grazie alla generosità della polizia, sono state riportate sulla giusta via, avrebbe voluto farli vergognare, pentirsi, ma non aveva fatto in tempo, il cicciotto si era già girato per il contrattacco, prima che parlasse avevo riconosciuto le scarpe gialle, inconfondibili, e poi anche il tono quando fotte il quadro direttivo, chiedeva perché mai riportarli indietro e condannarli all’ultima corsa di Nestore – non ci avete, forse, da sempre messo in testa che l’uomo è la più grande ricchezza del mondo – dico la verità, parola per parola, non so niente di quale ricchezza e chi era questo Nestore, ma l’altro era diventato verde per la seconda volta quel giorno, parlava di denuncia, di tribunale – la mancanza di rispetto, diceva, non può essere tollerata in alcun caso – ma certo che no, acconsentiva il cicciotto, prego, si accomodi a notificare, ecco un paio di testicoli perfetti da sostituire con qualunque modello, e questo, aveva aggiunto tirando fuori anche il pezzo pesante, ti può essere utile al posto del timbro di comando, usalo liberamente, è a tua piena disposizione ora che la produttività del bestiame sia al cento per cento circoscritta a pura razza bovina

serba – l’Ufficiale non osava credere alle sue orecchie, iniziava a balbettare e urlare come un pazzo che si trattava di tradimento, di mancanza di devozione – sei un brutto impostore, diceva, presto la pagherai cara – se mi lasci tua sorella in concessione la prima rata parte anche da subito, non si opponeva al pagamento il cicciotto, la preparo e te la ridò indietro se ti assomiglia – mi faceva ridere, quel buffone, da ciò che ho sentito avevo tratto le mie conclusioni pratiche, voleva, dunque, scopare, ma non per soldi, diceva che la pagliacciata di far la guerra sul serio non reggeva così come un secchio bucato non tiene l’acqua, che tutto è andato a puttane, quando mai, pensavo, se moriamo di fame e siamo disoccupate anche noi, ma non era il caso di farmi vedere, mi avrebbero cacciata via e non avrei sentito null’altro, raccontava che le truppe sono al pieno di camionisti, ma non hanno un camion funzionante, che in una base prende bene il segnale per le comunicazioni, ma non devono usarla, altrimenti verrebbero collegati direttamente con lo spirito di San Pietro, la paura e l’ansia del superiore di fronte a questo autentico pazzoide crescevano a dismisura, sapeva di non avere nessun potere su di lui, provava a dire qualcosa e si mordeva il labbro, la sua balbuzie peggiorava, ogni istante più – ba, ba, basta – i cannoni sono stati portati, messi in posizione, ma la portata del tiro è sufficiente solo per abbattere le cornacchie, la prontezza al combattimento assicurata – adesso possiamo, strillava a squarcia gola il cicciotto, far la guerra con tutto il mondo, e tu dio perché non vedi cosa sta succedendo, dio, ci sei per la miseria... Oh, mio Dio, pensavo io in quei momenti, come può essere così stupido, possibile che non vede di non essere cavalcato dal Signore, ma da burocrati troppo in alto, organi statali e preti, banali rappresentanti del potere terreno, e con loro, mio scrittore, nessuno ha mai tirato fuori la parte più lunga, bada bene cosa ti dice la sorella. Bellezza, salta dentro e non pensarci due volte – mi aveva detto un soldato seduto nel retro del camion – se cerchi un aggio ti devi affidare ai mezzi militari, altri non ce ne sono più in circolazione – sapevo che aveva ragione, che non avevo la, i bambini affamati, un marito di nuovo in cella che chiede il pacco, pure Babbo Natale mi tocca fare, ho dato la mano e sono stata tirata su, pieno zeppo di uomini, uno solo in uniforme, quello che mi aveva parlato, gli altri tutti vestiti come gente normale, solo con i fucili in mano – chi diamine siete voi altri, non riuscivo a meravigliarmi abbastanza, i volontari, però, non sapevo esistesse il volontariato in guerra – non ho mai finito la frase, il primo schiaffo era già volato, seguiva un secondo, slacciava i pantaloni e alzava la mia gonna, poi ha ripensato, bastava strappare tutto, lasciarmi nuda, senza pietà mentre gli altri guardavano divertiti – ala un po’ qui, diceva qualcun altro, meglio da questa

parte che il vero artigliere vi insegna il mestiere – risata generale, altre botte – fermi tutti, ho urlato, e in fila, arriverete al vostro turno, sconti assicurati per i membri del sindacato e degli organi statali, solo senza fretta né nervosismo prego, dovete rendere al vostro massimo. Non meravigliarti, scrittore, avevo visto che uno stupro collettivo non si evita, perché subire anche percosse, mi sono messa più comoda, infilato una coperta sotto, allargato le gambe e chiamato il primo – che zinne, sospirava lo stesso imbecille che poco fa aveva manifestato la sua virilità maschile – le migliori sotto il Ponte blu, avevo confermato, solo che quella gonorrea dell’inverno scorso mi lascia ancora qualche pensierino – scombussolio generale, occhi spalancati, pure l’autista doveva rallentare per non uscire fuori strada – nulla di preoccupante, si risolve con poco, continuavo il mio discorso come se niente fosse, cinque iniezioni da fare, tutto qui, poi nemmeno una goccia scappa più – menti, puttana di merda, urlava lo stesso uomo che precedentemente mi aveva picchiata – chi ha mai pensato che qualcuno mi avrebbe creduto, non sono stupida, ma seminare il dubbio tra di loro era già un successo, con i pantaloni alle ginocchia si è buttato sopra, morso i seni, sbavato il collo, esitava – vieni qui bello, che ti accolgo come si deve, aggiungevo dell’altro olio sul fuoco, ogni sfizio ha il suo giusto prezzo – pensavo stesse per schiaffeggiarmi ancora, invece aveva preso in mano il fucile – ti ammazzo zingara di merda, ti spappolo il cervello – il soldato l’ha fermato, per mia fortuna, lo ha preso per le spalle e tirato indietro – e tu, aveva detto a me con un tono scocciato, vestiti e non farti sentire più, nemmeno una parola. Altroché una parola, non mi sono più mossa, non ho alzato lo sguardo né respirato, quasi, felice ero di confondermi con la pavimentazione, trascorrere delle ore lasciata in pace, dimenticata, non c’era una buca sull’asfalto che l’autista era riuscito a evitare, le ha prese tutte, se mai avessi avuto i calcoli ai reni, senza saperlo, lui mi avrebbe guarita completamente, ho sbattuto la testa quando ha frenato per farmi scendere, un bernoccolo bello duro è uscito fuori, il ricordo della loro compagnia – Klokot terme, vieni puttana, ti aiuto venir giù – aveva detto il lancia-schiaffi dandomi un calcio nel culo – grazie per il viaggio, sono voluta rimanere educata, quando vi decidete di scopare basta fare un fischio e io arrivo, sono sempre qui, onnipresente come la parola di dio, sfruttate la promozione tre per due, vi conviene – chiudi ’sta boccaccia e sparisci, si era fatto innervosire il mio salvatore in uniforme, vattene una volta per tutte, e tu, diceva all’autista, parti, cosa aspetti, cerca un camion più grande con il serbatoio pieno, e magari con un’autista capace che ti sostituisca, carogna. Possibile che non ti interessa sentire? Eh, mio letterato, sei sicuro che sai cosa vuoi nella vita? Come sarebbe che mi sono allargata, cosa dici “digressioni”? Frena, sei stato tu a chiedermi come sono arrivata alle terme, non crederai mica che mi sono state prescritte con

un’impegnativa? D’accordo, taglio corto, continuiamo con il cicciotto, sei tu che paghi. Quel balbuziente di Superiore non ce la faceva più, aveva spalancato la porta ed era scappato di fuori, come un animale ferito durante una caccia, ridevano tutti alle sue spalle, anche i contadini, nemmeno a loro farebbe piacere crepare gratis, fare la guerra per qualcuno, uno di quei due in pigiama si sforzava di essere credibile, la vena sul collo gli era uscita fuori per quanto parlava, raccontava al cicciotto che era proprio così, i vetri del suo locale erano rimasti intatti, unici in tutta la città, ma le scarpe gialle erano incredule, non si lasciavano abbindolare – che sorta di fortuna mi segue... I miei vetri andrebbero in frantumi anche se la guerra fosse nella Striscia di Gaza – l’altro lo provava a convincere, giurava su se stesso e sulla sua famiglia. Allora è arrivato un ragazzo, molto giovane, il corriere, il cicciotto conosceva suo fratello, anche lui era stato mandato alle armi da qualche parte nei dintorni, chissà dove – a sorvolare i nidi dei cuculi, come tutti noi, nel bel mezzo dello squallore – liberava il suo solito sarcasmo, la sua voglia di urlare, si fidò del ragazzo quando confermò la storia dei vetri, rideva allora il cicciotto, barcollava dalle risate e si teneva la pancia, gli credeva alla parola, il padre del ragazzo era un ubriacone, né più né meno di tanti altri, ma scemo davvero, capace di aspettare la luce bianca di una bomba lanciata solo per trovare un apribottiglie, lui e quell’altro scemo del suo vicino di casa, insieme, scusa scrittore, niente digressioni, ho capito, il cicciotto rideva, dunque, gli dispiaceva d’aver quasi maltrattato gli operai quando gli montavano quei vetri, diceva di doverli ringraziare, offrirgli almeno da bere, scusarsi per averli costretti a lavorare in silenzio pagando di più se restavano zitti, d’altra parte non riesce a parlare con tutti, farsi cavalcare da altri discorsi che non lo riguardano, è più forte di lui quest’esigenza e... Basta. No, giornalista, non lo sto dicendo a te, ma già che ti sei fermato fammi vedere i soldi, sistemiamo prima i nostri conti, così poi tranquilli, conti chiari e amicizia lunga, sempre stato, sì, certo, se non ora quando, non ti fidi di me, ma guarda un po’ cosa devo sentire, che razza di persona sei, se non fosse per voi serbi noi zingari saremmo i peggiori, dammi la metà almeno, che sento l’odore dei soldi, la moneta rinfresca la memoria più di qualunque altra cosa. Non vuoi? D’accordo, e io di te invece mi devo fidare, ti ho raccontato quasi tutto senza un acconto, vergognati, e ascolta attento ora, ti dico il resto, chi non ha scelta deve sperare, la situazione era perfetta, così almeno la pensavo io, a scorticare una grappa, se aveva già tanta voglia di festeggiare con gli operai nemmeno io gli sarei stata d’ingombro, ma a quel punto arrivò di nuovo il Superiore, aveva perso

le staffe, e nel momento meno opportuno, butta giù i miei piani in acqua e mi lascia a gola secca, cagnaccio malefico, potesse sparire dalla faccia della terra – e ora cosa ti serve, gli chiede il cicciotto, hai perso qualcosa, la verginità, che sei tornato indietro a cercarla – tu riderai ancora per poco oggi, gli risponde quel villano, a me non serve niente, a te forse servirà l’aiuto del Signore quando arriverai lì dove sei stato trasferito, a Mogila per aver osteggiato l’autorità del Superiore – il cicciotto non si è mosso, sembrava persino divertito , o pazzo, chi lo sa – fa cagare il paese in cui ogni fottuto fabbro può avere gradi e autorità, prendere le decisioni così come gli viene da scoreggiare, ma ti giuro, una promessa è una promessa, e io le mie le mantengo, finita la guerra ti troverò e sotto il mio comando farò reclutare il tuo personale didietro – risate tutte intorno, non riusciva a trattenersi nessuno, al Superiore mancava l’aria e l’altro non dava il minimo segno di riuscire a fermarsi – sul ponte ti farò sedere e lubrificare le parti basse così che lo spruzzo entri bene in circuito, pulisca ogni tubicino e ogni valvola, così te la guadagnerai l’autorità a cui tieni tanto, a vita l’idiota, con spicchi del culo allargati come petali di rosa di maggio ogni leccaculo riconoscerà in te il suo legittimo capo, senza dubbio – non si può ripetere tutto quello che ha detto, né come l’ha detto, ricordava gli antichi proverbi e le usanze turche, adattava il loro modo di punire nella presente situazione, invitava quel poveraccio a are con il sedere nudo tra due file di zingari ubriachi – siamo tutti nati nello stesso fango, ho protestato a testa alta, ma in pochi siamo rimasti sobri, e per il culo nudo ci mettiamo d’accordo, di nuovo tiravo l’acqua verso il mio mulino, appena vede i soldi il mio sorride di sicuro – mi avevano detto di sparire, avevano urlato tutti insieme, e sì, sono scappata allora, senza girarmi, anche lui s’è allontanato dal gruppetto subito dopo di me. Dopo diceva ancora che ha le palle piene di tutto, ma proprio di tutto, che prova indifferenza e noia, e che l’annoiarsi in una guerra significa due cose soltanto, il conflitto non esiste o manca qualche rotellina in testa, entrambe le cose purtroppo possono essere vere e coesistere allo stesso tempo, eh, mio scrittore, che ne dici di questa storiella, non sono una del tuo mestiere, ma non mi è venuta così male, l’ho resa interessante, spero, la pura verità soltanto, nient’altro che verità, prima di salire sul camion dal palmo della mano il cicciotto soffiava baci e bacetti al superiore che da lontano lo osservava – sei la mia pornostar, forever and ever, ameeen – cantava il demente – tictac, stella stellina, l’ora s’avvicina, tic-tac, tic-tac – poi s’è seduto, ha appoggiato il fucile e lo zaino accanto, è diventato serio, troppo, come non l’avevo visto mai prima, mi chiedevo, la tristezza quante diamine di facce ha, aveva fatto il segno della croce e aveva cominciato a parlare sottovoce con se stesso, ovviamente fotografo, scusami di

nuovo, cameraman, certo che lo so cosa diceva, non sono nata ieri, mi sono avvicinata a lui per sentire meglio, per salutarlo anche, non lo nego, ma se vuoi che prosegua e ti racconti il resto prima mi devi pagare, caccia fuori i miei soldi taccagno, non aspetto più, ecco, così ti voglio, ora sì che si ragiona, il cicciotto si era messo a strillare di nuovo, diceva che era giunto il momento di svegliarsi dall’incubo, che ogni brutto sogno ha una sua fine, che qualcuno deve pizzicargli le guance per interrompere questo orrore, chiedeva a Dio di non farlo tornare a casa come un invalido, non avrebbe sopportato essere un peso morto per gli altri, dover coinvolgere la famiglia intera per una pisciata, i soldi che aveva li lasciò a me per accendere ogni tanto una candela in suo onore, ero assetata però e li ho spesi subito, Dio perdoni la mia anima, chiedeva al Signore di lasciargli almeno l’indice funzionante, per spararsi se fosse stato necessario – ma quale indice e quale necessità, sono scoppiata, la vita va avanti caro mio, chi ti chiede delle tue difficoltà, il cazzo duro, il cazzo gli devi chiedere di lasciarti – giusto sorella, sembrava avesse inteso le mie parole, in fondo la vita è un cazzo e tutt’uno, prima o poi arriva la stessa fregatura, due metri cubi di terra nera e umida toccano a tutti – giusto cicciotto, ma tu concentrati però che rimanga bello dritto, anche noi puttane ogni tanto ce la siamo un pochetto, finché si può. Dopo viene il buio, scende il silenzio, ti attende il profondo...

La grande apertura

Non lo capisco proprio. Per quale motivo sono costretto a venire qui ogni sei mesi? Saperlo, sì, mi calmerebbe molto, respirerei più tranquillamente, sarei più pacato forse, tutto andrebbe a meraviglia. O quasi. Non ci credi? Va bene anche dover stare a sentirti se non mi va, ma sopportare pure il tuo compagno cencioso è la goccia che fa traboccare il vaso, decisamente troppo anche per me! E chi ce la fa a reggere ’sta continua cantilena e i segni di croce infiniti! Qualche volta potrebbe, con un po’ d’acqua, far finta di spaventare la maglia sudicia che indossa... il possente e fiero leone gli si è trasformato in un anonimo gatto nero! E poi mi vengono a dire che sono io quello zozzo! Mah! Hai fatto proprio bene a scrivere che ho il cervello intasato, una dichiarazione medica chiara e convincente, ma poi non so chi ti tira per le orecchie e costringe a sprecare il tuo tempo prezioso per farmi curare, si vede che non conosci il nostro detto manchesteriano “con tutto quel che succede, chi non è ancora impazzito non è davvero una persona normale”. Ti sto chiedendo, come farei con un carissimo fratello, di lasciarmi in pace e tu invece cosa fai, controllo e controllo, insisti ancora, sembra che non sai dire altro! Se ci fosse stato un controllo all’epoca quando ci doveva essere, nei dimenticati anni Novanta, allora molte cose oggi sarebbero diverse, tu non staresti seduto lì, con quel mantello bianco ridotto a brandelli pieno di macchie e buchi per accomodare le ali, e nemmeno io dovrei scervellarmi ora a raccontarti per l’ennesima volta tutto da capo. E d’accordo, a qualcuno piace ascoltare, altri invece godono osservando, a me garbava l’azione – prima lo metti, poi arriva il momento che te lo prendi nel culo, è così che va la vita, bisogna ammetterlo. Ognuno di noi, dottore, è storto a modo suo, solo che per tutti questi che girano a piede libero e si fingono normali non è ancora stata pronunciata la giusta diagnosi. Comunque tu non ti preoccupare, non sei né il primo né l’ultimo a doversi rompere le palle con me, ce ne sono stati altri al posto tuo, eccome se ci sono stati, gente preparata e seria che a un certo punto ha detto basta e ha mollato l’impresa: un dottore ha chiesto che gli venisse tolto il caso, ma all’altro ciò non bastava, per cui ha presentato persino domanda di trasferimento, urgente diceva. Scassacazzi, altro che massimi esperti in questo, quello o quell’altro ancora! Ho

cercato il loro aiuto, speravo potessero trattarmi umanamente, interessarsi di me e del mio caso sinceramente; ma, se già non sanno fare le domande giuste, sapessero almeno ascoltare quando un uomo si apre e racconta. Macché, hanno le orecchie cerate, tappate per bene e insensibili a voci esterne. Rivolgersi a un muro sarebbe meglio e forse più appagante. Il primo dei due, la testa pelata, non la smetteva di vantarsi dicendo che con successo curava i casi dell’enuresi notturna – mi dica la verità dottore – oso interromperlo – le sembra che io mi bagni come un piscialetto qualsiasi? – “no, però...” – e si mette a spiegarmi un’altra volta le cause primarie dell’incontinenza, l’uso di mutandine assorbenti e il senso di vergogna che logora la psiche... –Venga al dunque allora, – lancio un urlo impaziente – non voglio sentire nessun “però”, il giorno in cui mi decido ad assaporare una buona tisana per purificare le vie renali, o se dovesse servirmi un aiutino con il pappagallo e magari una grattatina ai coglioni, stai pur sicuro che non verrò a chiedere a te questa cortesia, né patteggerò la diaria per mettermi nelle tue mani, idiota, dunque, chiedi intanto cose sensate che possano interessarti finché questi fragili nervi rimasti non mi avranno tradito. “Sono sostenitore”, aspetta che ti leggo il nome esatto del trattamento, l’ho appuntato su un pezzetto di carta, ecco qua, “della psicoterapia cognitivo-comportamentale” – mi dice quella testa pelata e io lo fermo questa volta subito, prima ancora che si allunghi in esaurienti spiegazioni inutili – non c’è alcun problema amico, puoi essere quello che ti pare nel tuo tempo libero, ma mentre stai qui nello studio non cercare di infilare il dito nel buco del mio culo, mica per altro, ma potrebbe restar troncato – e vedo il color papavero impadronirsi del suo viso all’istante, la mascella gonfiarsi dallo sforzo della stretta, e le dita piegare quella povera penna quasi dovesse espiare tutti i peccati del mondo, ma lui non si arrende comunque, fa finta che le mie parole non gli giungano e prova imbottirmi a tutti i costi di frasi trite e ritrite sui “princìpi della nostra scuola”. Non sapevo esistesse una scuola che forma al mestiere di come inculare gli altri, ebbene sia, non si finisce mai di imparare – gli dico appena riesco a riguadagnarmi un turno per parlare – fammi indovinare un po’, che indirizzo avrebbe potuto scegliere uno come te: il percorso standard di come aprire le chiappe e riceverlo ivamente, oppure spingere crudelmente dentro con tutta la forza senza occuparsi dei bisogni altrui – “...la cui metodologia si basa sul rispetto del valore dei premi e dei castighi”, non si lascia così facilmente disturbare il mio Kojak nonostante l’evidente imbarazzo sul suo viso rosso e sull’intera cute del cranio, lucida di sudore. Ehi, vacci piano dottore – gli dico sfinito dal suo predicozzo – dimmi piuttosto, ti prego, che non hai portato i lecca-lecca per premiarmi come un bravo bambino obbediente se “qui e

ora” collaboro con te e non mando a puttane questo importante “contratto terapeutico” – “l’obiettivo primario è instaurare un rapporto di fiducia e aprirsi nei confronti del suo terapeuta”, non molla la sua cicalata il coraggioso oratore. Te l’ho detto chiaramente una volta, e tu non farmelo ripetere, – gli sbuffo in faccia senza più trattenermi – per questi tuoi rapporti trovati uno con la vocina cinguettante e le gambe rasate, lascia in pace me, insomma, per chi mi hai preso – “eh, questo ha oltreato ogni misura” biascica rapidamente fra i denti, spezza finalmente quella penna, rovescia la sedia e scappa fuori dallo studio. Yesss, un piccolo punto a mio favore, un terapeuta in meno alle calcagna, il primo che mi lascia – te ne vai di già – gli strillo dietro – e non abbiamo ancora iniziato la parte bella! Ma che ci vuoi fare, così va il mondo dottore, tutti sono nervosi, isterici, non sanno quel che vogliono, ma lo pretendono subito e in fretta. E pensare che vorrebbero far are me per quello strambo che parla a vanvera... e ruota sbadato senza baricentro o asse di simmetria... Si spegne del tutto il lume della ragione, lo ammetto, e divento un’insopportabile bestia sarcastica ogni volta che credono di potermi manipolare a loro piacimento per fare i loro comodi, provando a farmi sembrare più scemo di quanto lo sia in realtà. Ti ricordi quella volta, quando avevano spento le luci in tutta la città per mettere in difficoltà i piloti degli aerei nemici? Non oso crederci, porco Bacco, che si poteva essere tanto stupidi e ingenui da pensare che un Phantom necessitasse di pubbliche illuminazioni per colpire il suo bersaglio e non fosse, piuttosto, ben dotato di potenti aggeggi in grado di allargarci il buco del culo a suo piacimento. E così ci siamo messi a giocare pure a nascondino pensando di fotterli solo con un po’ di buio! Beh, non capivo più niente, ma comunque... Quel giorno esco e vado a comprare delle candele, il ceraio si fa il segno della croce appena mi vede, infila i soldi nella cassa, poi se ne fa un altro col senso di colpa di chi è indeciso se pregare per la cessione immediata dei bombardamenti, o perché, per il suo tipo di attività, questi ultimi sono piombati dal cielo come una mano santa. Ma cosa stavo dicendo, ah, sì, giusto, volevo raccontarti di come si sono svolti i miei seri preparativi per affrontare al meglio l’attacco “dell’odiosa Alleanza criminale”. Con molta attenzione, dunque, imposto tutto per un’imboscata a regola d’arte, sistemo accanto a me quei due litri sacrosanti, uno di vino e uno di acqua minerale per uno spritz come Dio comanda, svuoto tutto fino all’ultima goccia, – sufficiente solo per un petting amatoriale, non di certo a soddisfare le esigenze di un professionista del mio stampo – salto fuori, esco in terrazzo per una boccata d’aria ed è lì che rimango stupefatto: fuochi d’artificio a tutto spiano e il concerto di un’orchestra intera. Manca solo il pubblico, non c’è anima viva

ad applaudirli – ma dove vi siete cacciati, cretini, forza, venite fuori se avete il coraggio! – grido per farmi sentire lontano – Vi perdete questo spettacolo, unico, eccezionale, il cielo bianco illuminato a festa come non l’avete visto mai prima d’ora, e non abbiamo vinto nessun torneo di pallacanestro, non è nemmeno Capodanno, lo giuro, quello c’è già stato... – rientro allibito più di prima, esausto, arrabbiato, nessuno mi ha dato retta, è possibile che solo a me stasera mancano le stelle, mi chiedo, vigliacchi, intanto il tonfo diventa sordo e cupo, il suono non sgorga fluidamente e le mie orecchie non vogliono più sentire il rumore di quegli strumenti male accordati. Ma il direttore posto in alto è alquanto inacidito, non controlla i suoi musicisti. Che ci vuoi fare, sembra che abbia avuto il colpo di genio e abbia deciso di abbassare contemporaneamente tutte le saracinesche della città. La porta comincia a sbattere contro il muro, l’intonaco viene giù, cerco di chiuderla e bestemmio che i muri non sono più quelli di una volta, tremano i figli di puttana, basta poco per farli sgretolare. Intanto qualcuno disperatamente bussa all’ingresso e si fa avanti. –Buonasera vicino, mi è sembrato d’aver sentito la tua voce poco fa – dice tentando di stringermi la mano. Lo ignoro, non è salutare toccare qualunque cosa in cui capita d’imbattersi. –Che diavolo ci fai tu qui? – chiedo contrariato senza invitarlo ad accomodarsi – Ti pareva che qualcosa riusciva a sfuggire al tuo orecchio? –Mia moglie e i bambini sono scesi in cantina – risponde il buffone. –Anche la mia sta giù, senza i figli però – non manco mai di rinfacciarglielo. –Già, – prima di raccontarmi questo e quest’altro ancora sospira per un attimo fingendosi pensieroso – a me, ecco, non andava di stare al chiuso con loro. Sai com’è, poco spazio, buio, non ci penso nemmeno ad asfissiarmi col carburante che sono riuscito a mettere da parte; il contrabbando bulgaro, mortacci loro, sono arrivati a sette, anche otto marchi al litro, sulla nostra pelle hanno deciso di campare, meglio non pensarci, per non dirti che mia moglie ci ha sistemato accanto le foglie di verza in salamoia, se non muori di una cosa, l’altra ti finisce di sicuro, come se volesse con tutto quell’acido farmi smaltire la sbornia. Donnaccia malefica, a cosa serve essere sobri... –Ascolta un po’ – interrompo quell’insopportabile lagna del mio vicino – che ne dici della selvaggina, ti piace?

–Non mi dire che ce l’hai! –Sbava la belva e comincia quasi a leccarsi le dita. –Al momento no, ma stavo pensando che accanto agli stuzzichini per l’aperitivo una paperella mica ci stava male, qualcosa di concreto almeno. –Benedette le tue parole, altroché se ragioni bene – ci casca il deficiente – anche due, anche due! –Molto bene, aspetta e spera allora che ti benedico, – ridacchio soddisfatto di me stesso – a te la scelta della posizione, dimmi solo quando e dove, io decido quanto e come! –Dai non fare così, ti prego! – mi supplica una vocina indignata. –Così, così, e come altro se non così? Solo questo ti meriti finché non la smetti di sparare cazzate! Che c’è, non ridi più ora?! Lo osservo mentre parlo, immobile, muto, non gliene frega un cazzo di quello che dico, con lo sguardo sbircia la stanza dietro le mie spalle alla ricerca della bottiglia, tanto è per lei che sta qui, mica per vedere me. Mi avrà beccato con il cannocchiale mentre portavo le borse, fingendo come al solito di avvistare gli aerei. Avrà anche capito che erano pesanti. Certo, è l’unica cosa che capisce in un batter d’occhio, il contenuto. Per il resto è tardo, mi vengono i brividi a pensare che nella nostra palazzina l’hanno eletto come delegato alla sicurezza e alle situazioni d’emergenza. Ma chi vogliono che avvisi in tempo, così sbronzo com’è giorno e notte? D’altronde non avevano grande scelta, che vadano a farsi fottere tutti quanti, quel che c’era di uomini è stato spedito al fronte e siamo rimasti solo noi due – lui semplicemente un ubriacone perso e io per di più un folle con tanto di attestazione ufficiale. –Chi diamine può proteggere l’edificio meglio di noi due che siamo pronti a sorreggerlo anche con le nostre schiene se serve, a patto che ci reggiamo in piedi? – Nel corso di una delle riunioni condominiali organizzate giù in cantina lo chiedo scocciato a quello sciocco Ufficiale di riserva che ogni tanto inviavano dal Comando centrale per istruirci su come affrontare un bombardamento. Mandar giù le sue cavolate mi lasciava in bocca un sapore amaro e sgradevole, peggio persino dell’acidità di stomaco dovuta al mio stesso carattere sarcastico. –o per o ora vi spiego come essere efficienti in caso di attacco aereo; – il baffuto si strafotte della mia domanda e continua a masticare una delle sue

teorie di merda – la regola numero uno, tatticamente fondamentale per preservare la calma, ci insegna di non smettere di respirare profondamente. Perciò, ora tutti proviamo a fare un bel respiro, completo e lento, con il diaframma, concentrando il nostro pensiero... –Frena un po’, Generale – abbandono la posizione consigliata– vada subito al dunque, per la miseria, aiuti chi non l’ha capito ancora il suo trucchetto per agevolare la fuga! –Piano, non si agiti – prova a fare il carino con me per rimettermi in riga. –Vede, un momento fa le ho promesso le mie spalle per tenere su i maledetti mattoni, ma lei non è contento, mi chiede ora di trasferire tutto il carico sul cazzo senza badare che il pilastro richiesto si alza pericolosamente quando gli chiedono concentrazione e sfrutta la prima occasione buona, lo sa come funziona, non bada ai dettagli, l’imbecille coglie dove coglie. Beh, ficcati il tuo piano di procedimento sai dove, prima che te lo infili io. Non è servito ripeterglielo due volte: questo Žukov mancato abbandona il campo di battaglia a gambe levate e, sfidando l’agilità di un cerbiatto, salta persino due, tre gradini alla volta. Ma serve ben poco scappare da un beone deciso a non mollare la sua preda: gli corro dietro e gli faccio uscire fuori il sudore freddo da tutti i pori. –I miei complimenti più sinceri, maestro, ci sta dando un magnifico esempio istruttivo di corsa. Lo dicevo io che una spintarella da dietro fa miracoli! Alla prossima, quando vuole, il piacere di ospitarla è tutto nostro. Vede dottore, in tutta quella confusione non si capiva più chi fosse il folle o perché lo era. Al Comando credevano che bastava progettare tutt’attorno dei canaletti in cui far scorrere la pioggia, la neve sciolta, i flussi di sangue eccedente affinché le superfici grosse restassero impeccabilmente pulite. Lo sporco invisibile non turba quasi nessuno, tüm săglam, tutto è solido e andrà a meraviglia: l’apparenza basta e avanza. Dimmi però che razza di uomo sarei a vivere una vita normale in un’epoca in cui di normale non è rimasto nulla? Già, capisco, non tutti siamo fatti dello stesso impasto. Quel tuo collega, ad esempio, si era messo in testa di dover fare qualcosa per me, raddrizzarmi, sottopormi ai suoi trattamenti a tutti i costi. Ma cos’hai capito, non guardarmi così storto! Subito ho preso le dovute distanze – non si sa mai, ribadire certo non costa

niente ed è sicuramente meglio prevenire che curare – udendolo tossicchiare per schiarirsi la voce prima della predica ho capito che occorre agire in fretta e non permettergli di prendere la rincorsa. –Dunque – dice puntandomi dritto negli occhi. –Dunque lo dico io. Che sia ben chiaro, su un paio di cosine noi due dobbiamo intenderci fin d’ora. –Parli pure, – mi risponde serio appoggiando le dita incrociate sul tavolo – è mio dovere ascoltarla e fare tutto quanto è in mio potere. –Scommetto che ci sono molti interessati che non vedono l’ora di sfruttare le tue grandi capacità in materia. Beh, il sottoscritto non è uno di loro, perciò lascia stare subito e cerca d’inculare qualcun altro, i seminari sull’arte della fellatio e vari tipi di colloqui privati che mi proponi, decisamente non fanno al caso mio! Il colorito bluastro si diffonde sulla sua cute per un brevissimo istante. Avrebbe voluto lanciare un urlo, sfogarsi e insultare mia madre, ma stranamente riuscì a trattenersi, dimostrando così d’essere un avversario più forte di quanto all’inizio non credessi. –Signore, lei sta veramente molto male – afferma convinto parlandomi in faccia con un alito assassino raramente incontrato prima d’allora – qui si tratta dei princìpi del condizionamento classico, capisce che... –Io non sento tutto ’sto caldo, – fingo di non seguirlo – ma se vuoi l’aria condizionata accendila pure. –…Dobbiamo effettuare il decondizionamento, un distacco emotivo dall’evento traumatico che sta all’origine del disturbo... – alza ormai il tono e piscia la saliva sugli appunti, un libro aperto e vari test psicologici, quello su “quanto sei bravo ad affrontare la solitudine” in testa alla pila. –E tu saresti quello che farebbe questa operazione tanto complicata? – gli chiedo incredulo, come se dovesse aprirmi la pancia con un bisturi in mano. –Quale operazione? – resta ancora una volta di stucco, lasciando cadere a metà la sua frase.

–Questa cosa strana di cui parli, cos’altro? Tutto questo attaccare-distaccare, rovistarmi dentro con la scusa di cercare l’origine. –Preferisci forse giocherellare al teatrino con un ciarlatano della Gestalt? Perché se così fosse... Non aspettavo altro, queste precise parole erano un mero segno della mia gloria, il crollo della diga, il punto di non ritorno in cui desideravo portarlo, meravigliosa eruzione incontrollata che ben presto avrebbe rimpianto, l’errore a cui tuttavia non si poteva più rimediare. E ho lasciato, naturalmente, che parlasse fino in fondo e svuotasse il sacco sul conto della concorrenza. Solo uno stupido blocca il cavallo selvaggio in galoppo per addomesticarlo: prima o poi si sfinisce, perde il fiato, ha bisogno di un sorso d’acqua ed è il momento migliore per poterlo cavalcare. –Davvero molto bello – gli do una leggera pacca sulla spalla –personalmente, e devo proprio dirtelo, sono molto felice che mi abbiano illuminato le tue spiegazioni. Sono state preziose, inestimabili. Ho capito tutto ora. –Alleluia, alleluuuiaaa, non ci speravo più, è accaduto, il miracolo è accaduto, non ci speravo più... – urlava sempre più forte e cantava allo stesso tempo un posseduto in camicia bianca che non riusciva a trattenersi dal ridermi in faccia, energicamente, senza contegno, che si sedeva e si rialzava, girava tutto intorno alla stanza, ruotava intorno a me fissandomi pericolosamente, come se gli stesse sfuggendo qualcosa d’importante e un lontano camlino d’allarme volesse avvisarlo che non sarebbe proprio così come crede – ...E comunque, che cos’è che avresti capito? –Che ognuno si cerca la fodera su misura come meglio può, solo che al giorno d’oggi difficilmente si rimedia persino la gnocca, del tubo di scarico non ne parliamo nemmeno! –Cooome pregooo??? – esplode questa volta, paonazzo dalla rabbia e dalla vergogna. –Non ti devi imbarazzare, – proseguo credendo ancora fermamente che un colpo di grazia si concede a tutti – ricorda che c’è sempre chi è messo peggio di te. Ora che mi viene in mente, tempo fa un tizio in preda alla frustrazione andava in giro travestito da suora per adescare i camionisti lungo la strada, chiedeva loro un aggio e, da cosa nasce cosa, scappa fuori una risatina, due ginocchia si strusciano, peccato che sono indisposta, ma si può sempre...

–Cosaaa??? –…Provare da dietro, è una goduria, diceva abilmente aggiustando il velo! Segue un momento di silenzio, la distensione dei muscoli di tutto il corpo e delle corde vocali. Non faccio in tempo a prendere la giacca appesa vicino alla porta che un primo oggetto mi sfiora, lo segue una matita ben appuntita, e siccome non c’è due senza tre tutto il resto del contenuto dalla sua scrivania si sbriga a venirmi incontro; è il momento di abbandonare la scena, uscire in corridoio, scendere le scale di corsa cercando di scrollarmi di dosso lo sputafuoco deciso a farmela pagare cara. Ecco, ora lo sai come si sono svolti i fatti, giudica pure, mica sei diverso dagli altri. Chi è qui la vittima e chi il carnefice, chi il paziente e chi il dottore? È inutile chiederselo, credimi sulla parola, meglio avvicinare quella bottiglia e almeno brindare come si deve! Il mio vicino di casa non ha mai imparato come si fa ed è per questo che gli offro ripetizioni mirate a ogni incontro e chiare regole comportamentali, purtroppo inutili per chi non ce le ha dentro. La gente si riconosce dalla stretta di mano, gli invertebrati non ti guardano negli occhi al tintinnio dei bicchieri e di certo non imparano quanto è importante farlo persino quando tutto attorno a te diventa nero e sembra che non può andare peggio di così. Già stavo per esclamare con amore “salute”, come nel primo verso dell’inno in onore di San Sava, quando mi accorsi che mancava un pezzo fondamentale: l’apribottiglie, per la miseria. Come ho potuto non pensarci prima? –Intendi dire cavatappi – mi corregge il vicino per il puro gusto di sollevare qualcheduna delle sue vuote polemiche. –Ahhooo, filosofo, – lo avviso con un tono quasi amichevole– non masticare la merda a casa mia! Se hai da sputare fuori qualcosa di più sensato, accomodati pure; altrimenti morditi la lingua e sta’ zitto! Le vedi queste qui, e lo sai cosa sono: le migliori cassette per le bottiglie che si trovano in circolazione, resistenti e protettive, pratiche, maneggevoli, ideali per una perfetta conservazione a temperatura ambiente, siberiana ovviamente. Hai mai sentito nominare Grand opening? Sai cos’è? Certo che sarebbe stato più facile insegnare qualcosa a un mulo. Non importa, lascia stare, ma ricordati sempre che in questa casa a ogni singola bottiglia le porti il dovuto rispetto! Ora ti chiedi come si fa, che non lo so, ti sei scordato cosa significa, affaracci tuoi, qui non si cava né stappa niente, qui le bottiglie le apriamo, capito?

–Piano, piano, con calma compare, non t’agitare – mi risponde ipnotizzato dal richiamo di quelle seducenti bottigliette, irrorate dal sudore dell’ardente desiderio di trovarsi finalmente ben strette nelle nostre mani, aperte e svuotate fino in fondo – indicami piuttosto dove cercare e io mi metto subito ai tuoi ordini! –Bada bene a come parli, coglione, – lo correggo per l’ennesima volta – è vero che sono uno sfigato, è verissimo, solo Dio sa cosa mi ha portato via, ma ancora non a tal punto da ritrovarmi al livello di quelli come te, canaglia. Ti sei scelto il padrone da tempo, ormai, e lo sai anche tu che ogni bestia somiglia a chi la porta a pisciare, è una legge di natura a quanto pare. Gli giro le spalle e vado verso la cucina, apro gli sportelli di quei pochi pensili rimasti attaccati per miracolo. Butto fuori tutto: niente. Un contenitore mi cade in testa, pesto gli avanzi di un pasto dimenticato, svuoto i cassetti: ancora nulla. Apro anche la porta del frigo e la sbatto subito, l’odore della sua flora e fauna è in grado di resuscitare i morti, bestemmio, ma ancora niente di niente, in quel cazzo di buio nulla si trova, non c’è un ficco secco e figuriamoci quello che cerco io! Nel frattempo il signor palle flosce opera in salotto, scompiglia e mette tutto sottosopra senza farsi tanti scrupoli, non è roba sua, demolisce davanti a sé in fretta quel grosso roditore di turno, rovina le cose rimaste e a momenti si ammazza sopra una poltroncina, giace per terra tra lacrime e gemiti, chiede il mio aiuto. –L’hai trovato? – Chiedo insensibile ai suoi richiami. –Non ancora, – sento rispondere il tumefatto – non sono ancora un pipistrello da orientarmi in questo buio. –Zitto allora e continua a cercare – tanto lo so che si riprenderà subito il fannullone e gli consiglio di non sprecare altro fiato – resta pure piegato come sei, ai vermi tocca solo strisciare. –Non ce la faccio più, ho la bocca troppo secca; – se la prende ora con quello stormo di uccellacci meccanici in volo sopra le nostre teste – ho capito la loro tattica, ci vogliono far morire disidratati, quei maledetti! Ci vorrebbe solo uno sprazzo di luce... Non fece in tempo a terminare la frase quando si avverte un forte rombo, come se l’epicentro non fosse tanto lontano dalla nostra stanza, all’improvviso abbagliata quasi fossimo in pieno giorno. –L’hai trovato? – Chiedo fiducioso.

–È durato troppo poco – mi risponde preoccupato e come se l’avessero sentito mandano giù il bis su misura, i vetri rotti, la luce a volontà, tutto un andare in frantumi da grosso matrimonio greco. –Non lo trovo – sento il grido ancora più disperato mentre tiene il telaio della finestra in mano – aiutami però a rimettere questo a posto prima che le nostre tremende megere pensino che è stata colpa nostra. Chi glielo spiega? Lo sai benissimo come sono fatte... Sparando a casaccio, devo ammettere che ogni tanto qualcuna l’azzecca quel lagnoso, abitualmente attaccato alla serratura a fissare la gente per riferirlo poi a chi sa lui, perché sa praticamente tutto di me, dei miei amici, degli altri inquilini nella palazzina. Sempre in mezzo come il prezzemolo, si introduce facilmente nei nostri sogni e conosce il contenuto segreto dei nostri pensieri. È aggiornato su chi ha fatto dei nuovi acquisti, sa che cosa ha comprato e perché, e sa anche dove ha racimolato i soldi per farlo. A ogni ora del giorno o, soprattutto, della notte, è a conoscenza di chi si è accoppiato, e se invece non l’ha fatto sa anche per quale motivo qualcheduno si è astenuto dal sesso, chi si è masturbato di nascosto nel suo letto e chi, ahimè, l’ha fatto sui vasi nel portone. Sa di cosa si parla sulle scale, nei corridoi, in cantina, cosa si diceva anni addietro oppure si dirà domani, dopodomani, fra un mese o due. Ho sempre pensato che non ci sia nessuno a cui potesse servire un uomo così, spregevole e inutile allo stesso tempo, e mi sbagliavo evidentemente, perché a loro non importava che fosse tanto subdolo e fuori con l’accuso: accuratamente conservato sotto una campana di vetro persino lui avrebbe contribuito allo scopo, non volevano altro. Finalmente abbiamo rimesso la finestra al suo posto, o diciamo incastrato quello che di essa rimaneva – per essere più precisi, quando mi fa nuovamente montare su tutte le furie. –Ecco, ora un raggio di luce... –Zitto! Non pronunciare quella parola che porti sfiga come un corvo nero! – e in tono ancora più minaccioso lo avverto – Bada bene a non azzardarti neanche a dirmi che ora non sei proprio al meglio, perché temo che per molto meno mi ritroverei di botto sotto un ponte! –Per colpa tua, capisci? Tutto è successo per colpa tua, – mi strillava in faccia al colloquio successivo un nuovo dottore, ritenendomi responsabile per le dimissioni del suo collega – non oso crederci che un medico tanto stimato sia

stato portato all’esaurimento da uno talmente insignificante come te. Ma guardati per bene, ah, che tempi sono questi, Dio mio! Andiamo sempre meglio, pensavo tra me e me. Mi è toccato un altro imbecille che forse addirittura supera il primo. Alle volte mi chiedo da dove tirano fuori così tanti rifiuti umani, come se avessero a disposizione un magazzino così smisuratamente grande da non trovarsi mai sprovvisti in qualunque tipo di circostanza. Ma aspetta e spera che ti sistemo io, pizzetto di capra, solo un paio di incontri per conoscerci meglio e poi verrai a leccare la zolletta di zucchero dal palmo della mia mano prima che ti chieda da che lato lo preferisci, superbo pezzo di merda! Come se mi avesse letto nel pensiero comincia ad accarezzarsi il mento e leccarsi le labbra per parlarne ancora della mia vita scialba andata a pezzi, e naturalmente della sua competenza che l’avrebbe sistemata in un batter d’occhio. –Credo fermamente nei pregi della terapia della Gestalt – esegue il suo spettacolare numero dandosi arie da prestigioso luminare che ha appena scoperto la cura per il cancro. –Ma perché non me l’hai detto subito? – mi congratulo con lui stringendogli fortemente la mano. –Detto che cosa? – Non capisce quel grosso siluro. –Che sei il famoso tale di cui mi ha tanto parlato il tuo predecessore – aggiungo allargando il sorriso quanto più potevo. –Davvero, non avrei pensato... –...Pensa, pensa invece, non puoi sapere quante cose mi ha detto di non riferirti se un giorno ti avessi incontrato! –Racconta un po’, sono proprio curioso di sentire quanto avrà sparlato – ed ecco che dopo neanche mezza battuta di pesca è già finito nella mia rete. –Ma non ha peccato di calunnia il tuo collega, – divento terribilmente serio in quell’istante – è un signore “stimato”, l’hai detto tu stesso poco fa, è possibile che già non te lo ricordi più, non avrebbe cercato di screditarti ai miei occhi, tuttavia...

–Tuttavia cosa? – l’asino non aspetta sino alla fine, ma si lascia pian piano trascinare fino a toccare il fango con gli zoccoli anteriori. –…Se tutti i tuoi amici fossero uguali o simili a lui sarebbe un benese impari quanto prima a guardarti le spalle perché dei nemici puoi fare del tutto a meno, e di tipi che a ogni frase ti battezzano con nomignoli tipo “cretino” bastano e avanzano per i miei gusti! –Ma come si permette? Come si permette? – Continuava a ripetere mormorando con una voce soffocata, addolorata quasi, dalla quale percepivo che ancora non ero riuscito a convincerlo completamente. –È molto semplice, vedi, – bruscamente tiro su il filo senza esitazioni per fargli ingoiare questa volta l’amo intero – lui il tuo consenso non lo chiede, ma te lo mette ugualmente, e lo distribuisce a parti eque su tutta la scuola che, stando alle sue parole, rispecchia perfettamente il concetto di imbecillità. Se non ricordo male riteneva pure che una bella foto di gruppo della Gestalt al completo andrebbe senz’altro inserita nella grande enciclopedia lessicografica accanto alla parola “cretino”, per quanto anche una piccola aggiunta dei singoli ritratti non guasterebbe di certo. –Non ci posso credere! C’è dell’altro? – sospira ora evidentemente infervorato dalla mia presenza. –Altroché! – esclamo misurando con piacere le pulsazioni accelerate delle sue tempie – Ad esempio che urge una bella pulizia di credenze... –Pulizia, credenze, ma che diamine... –…Perché siete ossessionati col ficcare ogni cosa nel suo cassetto! –E cos’altro sostiene, il mio egregio collega? – Vedendolo sguazzare per bene nella fanghiglia anche con le zampe posteriori, ovviamente non rispondo subito alla sua domanda, mi prendo il mio tempo, rimbocco molto lentamente le maniche della camicia e con maestria lascio quell’animale bramare la lezione di buona educazione che l’attende. Perché non è semplice spiegare a un bue, senza l’uso della forza, che non deve divorare il tuo campo di verza, né quantomeno fottere abbastanza forte un mulo prima che ti calpesta, santa pazienza! –Non saprei; – faccio finta che questo discorso mi turba – non sarebbe bello da

parte mia rovinare un’amicizia tra colleghi! –Ma prego, si figuri – arriva la tanto attesa benedizione – dica pure, davvero, Le assicuro che non c’è alcun problema! E così sia! Se un uomo lo vuole prendere bisogna accontentarlo, il peccato di omissione è mortale! Mi metto, dunque, bello comodo, prendo un sorso d’acqua e alzo lo sguardo su di lui prima di raccontargli per filo e per segno le piccanterie varie che si aspettava di sentire. Di quanto siano prepotenti e inutili al mondo i sostenitori della Gestalt, i maggiori imbroglioni sotto l’arco celeste di tutti i tempi, gli impostori e nullafacenti che proliferano ovunque con pidocchiose dottrine nuove, i medici arraffa soldi imbattibili sul piano teorico le cui cure del cazzo non hanno mai aiutato nessuno, figurati, incapaci persino a far guarire un’incontinenza leggera, non ne parliamo dei disturbi più gravi... eccetera, eccetera. Lui intanto ora verso il basso ora verso l’alto tira quei poveri peli del pizzetto, scuote la testa, batte spazientito con le dita sul tavolo. –Per di più arroganti come pochi, – mi decido di dare gas e farlo partire in quarta – che senza conoscere giudicano dall’alto in basso tutto e tutti! –È così. – Salta in aria da quella sedia come un gatto scottato –Solo dall’alto si guarda la marmaglia! –Aspetta di sentire il resto! – riesco ad aggiungere a mala pena prima che veramente scoppi. –Basta, ba-aaa-staaa ho detto. Non una parola di più, – mi si aggrappa al colletto della camicia e pure lui, vaffanculo, scarica la sua ira contro di me – ogni esperienza va rivissuta, ooogniii, ne ho piene le palle della cacarella cognitiva e di quella comportamentale! Che vada a farsi fottere, pensavo lasciando lo studio in cui quell’animale ringhiava ancora a lungo abbaiando insulti, strappando i libri e dando calci alle sedie! Ma io dico: perché, tra tutti i pazienti che ha a sua disposizione, ha dovuto scegliere proprio me per sfogarsi? Lui avrebbe dovuto prendersi cura di me! Taci. Lo so, c’è poco da dire. Noi due torniamo piuttosto su quell’altra questione, ti spiace?

Ogni storia ha un suo inizio, bisogna ammetterlo. Non sarebbe certo la prima volta che quel mio vicino di casa cercava di rovinarci la coesistenza. Sì, sì, lo so benissimo che si dice l’esistenza, so quel che dico, ma è un altro paio di maniche ancora, tranquillo, dammi un po’ di tempo e ci arrivo a raccontarti tutto. Almeno tu dovresti comprendermi, non sarai mica un altro inutile medico rompicoglioni seduto qui di fronte a me solo per finta. Se non riconosci la differenza in quel che dico, non ho la minima idea di chi potrà farcela. Non indicare me, non pensarci nemmeno, soprattutto a quell’epoca ero uno che sapeva poco e niente, un ingenuo Sansone sono, null’altro. Mio padre le idee le aveva ben chiare e mi insegnava che solo lavorando duro puoi ottenere i risultati che vuoi, ed è anche morto pover’uomo con questa sua illusione prima di rendersi conto della stupidaggine enorme della stessa, perché oggi viviamo in un paese dove guadagni tanti soldi solo se non sei bravo a far nulla, ma riesci ugualmente a convincere tutti gli altri di sapere tutto, e per assurdo i soldi esagerati li fanno proprio quelli che al contrario fingono di non comprendere niente. Quando incontri un cazzone non ti resta che annuire e stare zitto; d’accordo, la fuga è sempre il miglior rimedio, ma se non ti riesce, tanto vale spalancare la bocca meglio che puoi per non farlo andare di traverso. La vita è una grande inculata, dottore mio, e solo da te dipende se ti lascerai fottere. Ma vediamo comunque i fatti che hanno preceduto e causato il mio ricovero e i successivi controlli semestrali: la fatica e l’entusiasmo di quei giorni, quando tramite il sindacato avevano deciso di costruire una palazzina popolare per noi, quando la mattina sgobbavo in ditta e mi sbrigavo a tornare a casa per dare una mano agli operai di pomeriggio, senza tregua, senza un attimo di respiro – ora lo stampo, ora la casseratura, ora la gettata, usare la spatola e stuccare – da bravo manovale edile ho imparato a fare di tutto, distrutto e felice come un bambino per ogni nuovo piano, per ogni stanza in più. Contenti anche gli operai che per ogni metro quadro completato sono stati muniti di birra a tutto spiano quanta probabilmente non ne avevano mai bevuta in tutta la loro esperienza lavorativa, ma se la sono meritata alla grande sfacchinando tutto il giorno su e giù, lavorando duramente da uomini, e io non sono certo uno che rimane in debito. Non mancavano fazzoletti e asciugamani in regalo, come nella migliore tradizione balcanica, per ogni solaio, né le camicie per la posa del tetto, a quei diligenti beoni incredibili dedicati scrupolosamente al lavoro come se lo fero per loro stessi. Finché un giorno, quando ormai mancava molto poco, invece di terminare, cominciarono ad afflosciarsi e a tirarsi indietro; resto allora meravigliato, vado a vedere cosa succede e mi sento dire che senza la musica ogni ballo finisce: i pagamenti non sono stati fatti e loro abbandonano tutto. Ma

quale tutto, io cretino, lo so, mi chiedo com’è possibile che una cosa del genere accada, i soldi di certo non mancano in cassa, la nostra ditta, che aveva ordinato i lavori, è tra le più benestanti della regione, non capisco ancora che è stato il direttore a tagliare i fondi, come ogni idiota di turno che del futuro dei suoi uomini se ne sbatte ampiamente i coglioni. Giro i tacchi e vado subito in ditta a visitare il nostro benefattore – non c’è niente da aspettare, le cazzate vanno stroncate sul nascere – e così raduno un gruppetto d’amici, certi soggetti a dire il vero, uno peggio dell’altro, per creare quello che all’epoca veniva chiamato il “Comitato promotore dello sciopero”, tanto per ritrovarmi all’occorrenza con un appoggio dietro le spalle. –Cosa è venuto a fare qui, compagno ingegnere? – Mi augura buona giornata una profonda voce burbera il cui sguardo dovevo cercare dietro le foglie di una palma. –Buongiorno anche a Lei – rispondo cordialmente – lo sente questo squit squit? Ebbene: sono le mie impaurite palline che squittiscono dal panico. Pensavi forse di impressionarmi con qualche molecola di clorofilla forse? –Come, prego? – Finge una faccia sorpresa l’hawaiano. –Paga la ditta edile, e pure in fretta, che finalmente riceviamo le chiavi degli appartamenti in mano, – continuo con la stessa gentilezza di prima, senza agitarmi – se non vuoi ovviamente degli invitati indesiderati nel tubo di scarico. Cosa ti credevi, che sono il solito imbecille venuto magari ad ammirare la tua riproduzione di Waikiki da queste parti? – Aspettate un po’, calmi tutti. –Si tira indietro l’egregio signor direttore. –Non c’è alcun problema – acconsento subito – ci mettiamo buoni buoni in fila uno dietro l’altro pronti a mettertelo a turno. –In due crick la tua carrozzeria posteriore si ritrova in revisione straordinaria – grida facendomi da eco la voce del fabbro, a cui sarebbe toccato un appartamento del secondo piano. –Se stai ancora pensando a cosa ti conviene fare, o non sei uno sano di mente, oppure non hai mai visto la fine della pagnotta rapace, quando come augurio di buona sorte e di prosperità gli invitati nei matrimoni la spartiscono avidamente, strappandola con le mani fino all’ultima briciola – interviene anche il tessitore, immaginando la sua fantastica sistemazione nella futura mansarda.

–Non deve temere un brutto finale di partita, – si fa vivo pure un altro tessitore, cupo come il tetro seminterrato che l’attendeva – meglio due colpi da dietro che uno secco in fronte! –Calmi, vi prego, – supplica Herr Direktor indietreggiando strategicamente verso la finestra – è tutto un gran malinteso, ve lo assicuro, ora lo sistemiamo, vi prego! –Sarà senz’altro un malinteso, al cento per cento, – diciamo unanimi avanzando in branco, ostacolati solamente da quegli spessi tappeti pelosi in cui intrappolato sprofondi come nelle più perfide sabbie mobili tropicali – ti crediamo sulla parola, ma se per puro caso non dovesse essere così, l’inculata promessa non la scampi, capito bene? –Ho capito – conferma il direttore scuotendo rapidamente la testa come se avesse paura che possa capitargli qualcosa da un momento all’altro. –Non farci allora rimanere a bocca asciutta – uscendo glielo ricordo a parole più semplici, non si sa mai – perché in quattro e quattr’otto verresti sciupato come un classico biedermeier gettato tra le zitelle! Aloha e stia bene, mi raccomando! Quel giorno nel nostro Comitato improvvisato c’era anche il mio vicino stranamente silenzioso, e ora che ci faccio caso, che mi venga un colpo, avrà sì e no pronunciato appena due parole a voce bassa. Dopo quell’episodio la quotidianità aveva velocemente preso il sopravvento e tutto sembrava andare per il meglio: già il mese successivo avevamo ricevuto le chiavi, festeggiato come si deve, girato allo spiedo qualche maialino e un paio di agnelli, innaffiato tutto con dell’ottimo Sauvignon Blanc, una vera e propria scorpacciata all’aria aperta accanto agli scivoli e alle altalene montate la mattina stessa in cui siamo entrati negli alloggi. Contenti come pochi, davvero, esausti dalla felicità; una scenetta esilarante quasi quanto gli zingari quando salgono per la prima volta su una giostra, e quando tra risate e urla di gioia a stento riesci a sentire persino la tua voce, di certo non ci pensi a uno come lui, non ti preoccupa ciò che fa o dice, non senti se si astiene dal fare commenti oppure partecipa alla conversazione come tutti. Una voce vale l’altra, si mescolano tutte e ripetono all’infinito la barzelletta dell’anno, quella sul direttore in camicia colorata in un girotondo attorno alla palma per salvare il buco di culo, una storiella unica, continuamente arricchita da preziosi particolari, ogni volta più azzardata, scostumata e raccontata con una concentrazione sempre maggiore di alcol nel sangue.

Dopo una notte in cui per calmarci la polizia era intervenuta ben tre volte, ci siamo ritrovati a bere nuovamente per smaltire la sbornia e finire gli avanzi del cibo della sera prima, stremati e sorridenti. Tutti tranne uno, che evitava di guardarci in faccia e si allontanava dal gruppo, sobrio come il giorno della prima comunione. –Che ti succede, vecchio mio? – chiedo dispiaciuto nel vederlo in disparte. –Niente. –Ma quale niente! Racconta, prima che ti anniento; – dico per tirarlo su d’umore – non essere il solito guastafeste! –Il fatto è che non c’è proprio niente! – Mi risponde con un tono molto brusco, lasciando cadere ogni ulteriore discorso. Mi creda, dottore, chi non lo prova sulla propria pelle non lo sa che esiste un niente che spiega tutto e ho imparato finalmente cosa s’intende con questo tipo di niente. Sembra quasi una bagattella insabbiare l’intera truffa, trasferire il lurido ladro di un direttore a fare l’ambasciatore in qualche sperduto posto sicuro da dove solo Dio è solito battere il calcio d’angolo, e incaricare intanto un altro farabutto più cazzuto con l’ordine di punire a dovere quei poveri scioperanti illusi che gliel’avrebbero fatta are liscia. Due o tre chiodi a prima vista, casualmente reperiti nelle tasche del primo di noi, sono stati il motivo del suo licenziamento immediato, mentre per il secondo è stata decisiva quella goccia di alcol bevuta nell’orario di lavoro, come se non fosse mai esistito un operaio che non alzi il gomito; sì, lo vorrei proprio vedere e versargli un bicchierino. Il terzo poi è stato mandato in pensione anticipata senza che qualcuno si fosse scomodato a fornire almeno una parvenza di finta ragione, dicendogli perché da lì in poi nella vita gli sarebbero rimasti solo il gioco del domino e il dare da mangiare ai piccioni. Altri due ancora sono stati condannati alla pensione di invalidità e dopo tanti anni le autorità sembrano accorgersi che quegli individui non ci stanno seriamente con la testa, ebbene: uno dei due sciroccati è il sottoscritto qui presente. Quando uno va a sommare tutto quello che c’è da mettere in conto non gli resta che ubriacarsi e basta; dell’intera palazzina, solo quel viscido vicino di casa aveva ancora un lavoro e ci scommetto che sei anche bravo a indovinare il perché. Mica per niente ti hanno fatto diventare dottore, giusto? Visto che non avevo niente da fare, perbacco, questa parola mi perseguita e fa venire la nausea, comunque, giusto per ammazzare un po’ di

tempo in eccesso, decido un giorno di are in questura e rinnovare il aporto. Un cartello affisso fuori per i lavori in corso mi indica di utilizzare l’ingresso posteriore, normalmente riservato ai soli addetti. Giro intorno al palazzo, salgo le scale a piedi e mi imbatto in un tizio che stava uscendo dal retro di uno degli uffici. Lo riconosco subito, anche se è voltato dall’altra parte e sto quasi per salutarlo, quando un’altra voce proveniente dalla stanza mi ferma da quell’intento, – “...qualunque atteggiamento sospetto venga subito, senza esitazioni, anche in piena notte se serve...” – madonnina buona, mi prendono le vertigini all’istante, la vista si appanna e le ginocchia cominciano cedere, a malapena rimango in piedi da quel colpo basso e per miracolo riesco ad allontanarmi senza essere notato. A causa di questo suo zelo “anche in piena notte” l’oscurità è scesa per sempre su molta gente, che in parte si è data al bere, in parte è impazzita e in parte ha sperimentato l’unione tra le due condizioni, – Sciagurato, cos’hai combinato, dimmeeelooo, che ti fotto madre e padre, vivi e morti te li fotto, Oddio! – mi trascino per strada scoppiando in un pianto convulso di singhiozzi e gemiti, barcollo come un cane ferito che disorientato non sa da che parte andare. Se fino a quel momento si poteva dire che ero uno appena ammaccato, lì, quel giorno preciso, il mio fusibile si è bruciato definitivamente. Entrato in casa faccio in un attimo a liberarmi da tutti i medicinali gettandoli via nell’immondizia e mi ubriaco fino all’osso. E così faccio ogni giorno da allora in avanti. Sprofondo in un letargo sicuro, confortevole, persino quando vengono a staccare i pezzi della mia carne, a morsi, a portare via il sangue del mio sangue, un figlio e poi l’altro, incapace di muovere anche un dito solo, seguo tutto da una distanza nebulosa; come un estraneo, inetto, inutile, scivolo a ogni sorso più giù ancora, una stupefacente spugna bagnata sempre in abbondanza che ultimamente, devo dire, questi gironzolanti figli di puttana sono riusciti a strizzare per bene. Tutto questo chiasso, un continuo brum brum brume zum zum, vrum bum vrum ancora, e che diamine! Basta! non hanno riguardo proprio per nessuno, mi lasciassero in pace con la mia sbornia! Le persone infelici si riconoscono e si assomigliano, mi creda dottore. E lasci stare per piacere quello che dice il vecchio barbuto, se non fosse stato un tremendo eccentrico anche lui avrebbe fatto qualche lavoro normale, di certo non si sarebbe dato alla scrittura, e per ciò che riguarda coloro che si credono felici è solo una questione di tempo scoprire la percentuale di autoinganno. E invece, quando sei convinto che nessun male riesce più a toccarti, ecco che qualcosa inevitabilmente ti sorprende: certi signori se non trovano niente di cui derubarti stai sicuro che cercheranno di appropriarsi almeno del tuo tempo. Per

arrivarci al numero obbligatorio di ore lavorative, quel secondo dottore a cui ero assegnato aveva deciso di fottermi un’altra giornata, così, come se niente fosse, per un soggetto come me che vuoi che sia, una vale l’altra – ognuna troppo corta, sporca e insanguinata come la biancheria di una donna, ma comunque irripetibile e ancora mia. Apro la cassetta delle lettere fiducioso di pescare tra le bollette e i ricorsi qualche buona notizia che mi scaldi il cuore, ma niente, sfigato come pochi – se dovessi infilare la mano in un sacco pieno zeppo di gnocca probabilmente tirerei fuori un cetriolo –, infatti, vedo la convocazione alla visita psichiatrica che mi attende il tale giorno alla tale ora. Acclarato infame di un medico, gli sembra forse troppo poca merda quella che ho ingerito finora? Vorrebbe farmi parlare e confidarmi proprio con lui perché “nessuno al mondo può essere aiutato se non si decide di chiedere una mano”? Andasse a fanculo seriamente. Quando mai un essere umano è stato davvero capace di aiutare un altro, ragiono così con me stesso cercando di calmarmi pian piano, prendo dall’armadio quell’unico vestito riservato tanto ai funerali quanto ai matrimoni e ai giorni di festa, sistemo un po’ meglio il nodo della cravatta sotto la gola e sono pronto a farla finita anche con lui, fotterlo come si merita il cafone per tutti i secoli dei secoli, omnia saecula saeculorum. Amen. Busso alla porta dello studio e mi ritrovo davanti a un sorriso forzato che mi irrita ulteriormente, mi chiedo cosa ci sarà mai di tanto straordinario in me per essere così felice nel vedermi; a momenti il mio stesso volto è ripugnato dalla propria immagine riflessa in uno specchio, figuriamoci se può rallegrare uno sfigato che racimola i soldi per viverci da incontri squallidi come questo. –Oh, è lei, che piacere! – mi indica una sedia e dice con fare garbato – Prego, si accomodi pure! –Vi scoppiasse schizzando in bocca il vostro vissuto interiore!– intervengo in scivolata fin dall’ingresso lasciando il pizzetto di capra paralizzato e con gli occhi spalancati dalla sorpresa. –Come ha detto, prego? –Io non ho detto niente, lui ha parlato – rispondo serio guardando altrove quasi non fossero affari miei. –Ma quale lui? – sbuffa già spazientito. –Quel calvo che stava qui prima di te, chi altro, solo a ripensarci a quel che ho

sentito mi vergogno così tanto! –Tutt’altro, parli pure liberamente e non si faccia problemi – ci prova a non perdere le staffe quel caprone, rimanendo nel ruolo di un medico meticoloso e galante, mentre sulle guance e sulla fronte gli spuntano le prime chiazze rosse traditrici – siamo qui per scaricare ogni forma di negatività! –Irripetibile direi – gli rispondo pensieroso – che quasi ogni vostra azione verso il prossimo sia una manifestazione di ipocrisia pura con cui giustificate tutti quei soldi spesi in vari seminari e lavatoi. –Si riferisce ai nostri laboratori? – inarca il sopracciglio abilmente punzecchiato dove serve. –Giusto, proprio quelli! – esclamo felice – Non me lo ricordavo il termine esatto. Comunque, tu mica lo sai come un uomo di cultura può dire: ti fotto in bocca? –Cosaaa? – quell’urlo feroce si accompagna al rumore della sedia che batte sul pavimento, il suo salto sopra il tavolo e le dita appiccicose che in un attimo si trovano a stringere il mio collo. –Si dice: te looo bfa bfa faaaccio sapeeeree – balbetto singhiozzando con la voce rimasta strozzata in gola inutilmente cercando di staccarmelo di dosso – cosììì si hhf hhf fotte in buona sooocietà, lo sapevi? –Ma chi se ne importa di quello che dici tu, idiota immenso! –sibila come un serpente calpestato senza allentare la presa – Voglio sapere cosa ha detto lui e non cosa pensa la tua zucca vuota! –È facile intuirlo – aggiungo tutto d’un tratto il grosso pugno di sale sulla stessa ferita dolente – che per il primo paziente che riuscirete a guarire lui cederà il suo diploma e si dedicherà con gli altri suoi pazienti a ricamare a punto croce per il resto dei suoi giorni. Ben volentieri l’avrei maltrattato fino a fargli venire l’ulcera, ma purtroppo le vertigini e il mal di testa mi avevano costretto ad abbandonare l’impresa. Ho fatto in tempo a chiamare aiuto e quando gli infermieri sono entrati nella stanza li attendeva un’incredibile sorpresa: in giacca e cravatta il paziente giace in ginocchio sul pavimento strillando come se lo stessero squarciando a metà,

mentre il medico in camice bianco sta seriamente cercando di strangolarlo a mani nude, e non si lascia così facilmente trascinare via. In quattro hanno dovuto intervenire per staccare con forza le sue dita dal mio pomo d’Adamo e il seguito lo conosci già, il trasferimento obbligatorio al servizio presso un altro ospedale e piripim e paripam. Finalmente mi godevo la meritata tranquillità, sull’onda di quanto è successo, a nessuno più sarebbe ato per la mente di disturbarmi, almeno finché non sei spuntato come un fungo a farmi ricapitolare tutto, scarabocchiando qualcosa a ogni mia parola, annuendo per l’ennesima volta in silenzio come uno che fa finta d’aver capito tutto. C’è ben poco da capire: qui nemmeno un’anima si salva, né io né te, meglio fottere che farsi dominare dagli altri, lo sai dottore come si dice da queste parti, non ti porta al letto il belloccio, ma chi persiste, conquista! A chi non chiede non sarà dato, devi bussare e ti sarà aperto, cercare per trovare, affatto vero caro mio, eppure la sapevo così! Devo ammetterlo, dottore, che quella sera alla ricerca dell’apribottiglie con il vicino ci mancava poco che diventassi superstizioso anch’io, bastava pronunciare ad alta voce quella parola malefica ed ecco che nel giro di pochi istanti eravamo belli che serviti, tutto sommato si vede che qualcuno molto più ubriaco di noi avrà pensato di giocherellare al teatrino spacciandosi per Dio e ogni desiderio di lampo era già fulmine. Mi decido a un altro giro di perquisizione della casa, adagio, con cautela, evitando le mosse brusche e, ahimè, i vocaboli inopportuni, l’apribottiglie non è una cosa da poco conto, specialmente quando le bocce gelate in fila come la fica attendono che venga asciugata la loro brina! Elaborare un piano d’attacco e a forze unificate scendere in campo nella zona di sorveglianza stabilita, ispezionare puntigliosamente ogni millimetro del salotto: ecco, questo avremmo dovuto fare urgentemente noi due, se fossi stato immune dalla vicinanza di quel codardo che mi mandava fuori dai gangheri con estrema facilità. Bastava che sbadigliasse, tossisse, o si schiarisse la gola perché d’impulso l’avrei già mangiato vivo, figuriamoci quando si spingeva oltre il limite di sopportazione e apriva bocca. –Dove ciucci normalmente? – se ne esce nel momento meno opportuno il citrullo. –Io dalla bocca, e tu? – le domande stupide di certo non si meritano risposte migliori, né bisogna lasciare agli sciocchi prenderti troppo tempo. –Non pensavo a quello – vuole dimostrarmi la sua tenacia, il genio – ma a quale angolo della stanza preferisci normalmente.

–Stai zitto che è meglio, prima che ti drizzo quel naso storto!– non lo risparmio minimamente – A quest’età è possibile che ancora tu non abbia imparato che si può bere ovunque e importa solo dove crolli e ti addormenti? –Boh, sarà come dici tu – fa un assente cenno con la mano e si sbraca sul divano. –Certo che lo è. Sposta le chiappe gran furbone e siediti bene, effettua la scansione rapida di quest’area non appena si crea l’occasione giusta, mi raccomando. –La scansioooneee veloooceee – replica l’idiota. –Fai un po’ come ti pare; puoi girare gli occhi nel senso delle lancette dell’orologio o viceversa, ma se la turbo luce ci acceca saranno cazzi amari. In tal caso stai pur sicuro che l’apribottiglie non ci servirà né stasera né mai più. –Vorrà dire che devo correre più veloce che posso! – Torna a battere sempre sullo stesso chiodo il vicino. –Non posso crederci che tu sia così fesso, così cretino... – e stavo quasi per prenderlo a schiaffi, di motivi più che sufficienti per farlo ne avevo abbastanza già da prima, quando lo vedo tirarsi indietro. Dalla mia faccia avrà capito persino lui che il pedagogista che c’è in me ha chiesto le dimissioni – Ma dove diamine vuoi correre? Fermo qui e apri bene gli occhi, oppure vuoi che come a un coniglietto il trifoglio, a te vengano serviti i miei coglioni su un piatto d’argento? Intanto decido di ricontrollare la poltrona, non si sa mai, magari scopro che tutte le volte in cui ho messo le supposte per le emorroidi, queste erano semplicemente danni collaterali della mia seduta sull’apribottiglie. Meglio non pensarci quante sere mi ci sono addormentato sopra tenendo la bottiglia di soda in braccio. –Siamo pronti?–Strillo, giusto per mantenere viva la sua attenzione. –Prontissimi, come un fucile carico! – esclama di colpo il delatore procurandomi un fastidioso brivido d’angoscia lungo tutta la schiena. –Ma non mi dire! – sbrocco nuovamente – Il fucile tu non dovresti nemmeno nominarlo. Se come uomo valessi anche un solo grammo ti avrebbero mandato a

fanculo insieme a tutti gli altri, invece di custodire le tue orme come se fossero di un animale raro. Pronti ora? –Pronti – mi risponde finalmente a cresta abbassata. –Ecco, lo vedi, è così che devi rivolgerti alla gente, colmo di vergogna per le montagne di merda che ci hai scaricato addosso in tutti questi anni. Non ti venga più in mente di chiedere qualcosa ancora, qui parlo e decido io, tu casomai esegui. Ah, dottore, se qualcuno avesse potuto vedermi in quella posizione prima di tutto si sarebbe fatto due risate di cuore e poi mi avrebbe portato qui da te senza pensarci due volte. Accompagnato da un Padre Nostro giunto fino a noi direttamente dai cieli, con gioia innalzo la mia voce e canto “in princiiipiooo eraaa la luceee”... E fu allora che la terra iniziò a tremare e la palazzina a sobbalzare in modo terrificante fin dalle fondamenta. Davanti ai miei occhi scorrono le ombre, i puntini neri che vanno e vengono senza formare un’immagine nitida, e noto meravigliato per la prima volta non solo le crepe sul muro, ma tutte quelle piccole imperfezioni e macchie che all’epoca l’imbianchino ha saputo efficacemente mascherare per non farsi togliere nulla dalla paga. Il vicino muove velocemente la testa a destra e sinistra, bestemmia, – ce l’ha con il tappezziere che non ha saputo rivestire il divano, altrimenti non si sarebbe scucito di lato – scalpita e freme. Dietro quella poltrona ribaltata ho trovato di tutto: gli oggetti scomparsi da una vita, i bottoni e il fermaglio di mia moglie, l’accendino di mio figlio maggiore, persino una cassetta vecchia di Toma Zdravković a causa della quale al più piccolo gliene avevo date tante, convinto l’avesse distrutta per non sentirmi dopo ogni duello con lo spritz stonare eternamente la stessa canzone: “Ho toccato il fondooo”! L’ho punito a torto, e ora giustamente mi ritrovo con il capo d’accusa a mio carico tra le mani, che mi fa stringere il petto e risalire l’amarezza fino alla gola. Prima o poi un uomo comprende e trova ogni cosa, dottore, tranne quella che stava cercando: difatti l’apribottiglie manco per il cazzo usciva fuori! –Aaaaa, luceee – nel frattempo quell’arrogante si mette a urlare girando in mezzo come una trottola con le braccia tese verso l’alto. Forse voleva abbracciare il mondo, vai a capire gli idioti. Ci fu in ogni caso una

risposta immediata: un grande boom tanto esplicito che più chiaro di così non poteva essere. Ruzzoliamo a terra entrambi come due sacchi di patate mentre all’unisono scoppiano i vetri di una credenza vicina, spandendo tutt’attorno a noi schegge e pezzi di porcellana. –Chiudi quella fogna, deficiente, – mi scaglio contro di lui appena riesco a riprendere un po’ fiato – non è mica un gioco per comuni mortali, questo. Quelli di sopra già non vedono l’ora di sfotterci, ti ci devi mettere pure tu a offrire loro i tuoi gratuiti motivi? Tra qualche migliaio di anni quando per sbaglio verranno a scavare le nostre ossa. scopriranno anche l’apribottiglie nascosto tra di esse e berranno alla nostra salute, stanne pur sicuro. –Aaaaa, beato illuminismo! – ma lui balla e batte le mani come un posseduto sotto convulsioni, completamente indifferente a quello che dico – Bravi, siete proprio bravi tutti voi, imbevuti di sapere aude, ma lo vedi che finalmente qualcuno mi vuole, mi vede, mi sente, dico luce, luuuceee... –Morditi la... – non faccio in tempo a zittirlo che il decerebrato continua urlare. –...Luuuceee! Ed essa arriva! Invano vorreste insinuare che mi ascoltano solo quelli dell’ufficio incaricato di gestire i dati, abbaia pure, tu, gli altri, mia moglie, la città intera, tutti quanti, luuuceee... Ci fu allora un boom più forte del primo. Il saltimbanco accontentato e il lampadario in caduta dal soffitto dritto verso le bottiglie mancate per un pelo. Tiro su un sospiro di sollievo e con il pensiero ringrazio per la sua cortesia quel barbuto signore sulla croce in cui non confido, altrimenti se la sarebbe vista brutta il vicino, giacchè, senza scrupoli, come monito avrei subito inchiodato lui al posto della plafoniera. L’ingenuità, dottore, il mondo è afflitto dall’ingenuità. Se per un attimo hai potuto pensare che gli unici due sbronzi su quel palco della nostra palazzina sciagurata eravamo io e il vicino, ti sbagli di grosso. Disgustoso sarà un uomo stordito dal bere, sono d’accordo, ma per una donna, perdonami, non trovo neanche la parola giusta. La moglie di lui, ad esempio, cominciava solitamente la mattina presto e poi nel corso della giornata assiduamente versava ancora, così come un tempo veniva ingerito senza sosta il carbone dalle grandi bocche sulle navi a vapore. Scende poi in cantina per stare vicino ai propri figli, per ingannare la paura e nascondere l’impossibilità a volte di reggersi in piedi. Quando

davvero esagera con la grappa e il vino come tutti anche lei perde ogni controllo: bestemmia e maledice quell’uomo scellerato che sfortunatamente ha sposato, i genitori infami di lui, il seme malvagio dell’intera stirpe a cui è stata condannata. Non ho mai fatto caso alla sofferenza dietro le sue imprecazioni finché un giorno, un venerdì per l’esattezza in cui lui non c’era, e come al solito sarebbe servito per occuparsi personalmente di qualcosa, sono capitato da loro per portarle un mezzo maiale che ricevevamo tramite il sindacato. Salgo le scale con il carico sulle spalle, trovo la porta spalancata e lei distesa sul pavimento con una bottiglia di cognac in mano, a gambe aperte, scapigliata, con una sanguinosa bava che gocciolava sul petto mentre buttava giù un bicchiere dietro l’altro peggio del più rozzo tra i controllori in qualche squallido ristoro. –Dove posso poggiare? – ansimo sotto quel peso, ma lei non si sposta di pezza e mi ignora, quasi fosse sorda – Velocemente, donna, rischio di lasciarci la scorza qui sotto! –L’ha comprata lui? – mi sfiora il tono gelido della sua voce totalmente assente. –Certo, chi altro? – sbuffo spazientito, mentre dalla carne le gocce di acqua sanguigna mi scendono lentamente lungo il collo, si infiltrano sotto la camicia e la canottiera, attraverso la colonna raggiungono l’elastico delle mutande e fanno un solletico tremendo senza che io con le mani occupate riesca nemmeno a grattarmi. –Getta nella spazzatura, – esclama più rigida di prima – da parte loro non mi serve niente. Mi hai sentito? Tutto è maledetto! A quel punto, devo dire, mi fa proprio saltare la mosca al naso come se non avessi abbastanza problemi di mio per occuparmi degli altri, lì per lì abbandono il carico nel corridoio e comunque la saluto prima di uscire. –Arrivederci, vado. Magari avessi un tormento solo per poterlo placare con un po’ di miele! –Pover’uomo, – mi risponde sempre la stessa voce irreale come se provenisse da una tomba – non sei di certo il primo né l’ultimo. –Hai bevuto, devi riposare, vicina – dico mentre qualcosa di inspiegabile mi assale alla gola – non sai quel che dici.

–Ma, beato te, vicino mio, se davvero ci credi! – mi strilla dietro trattenendo una risata isterica sull’orlo del pianto – Lo so invece, so benissimo quel che dico, so cosa mangi a pranzo, colazione o cena, in quale caffetteria non ti sei ancora coperto di buffi, con chi dividi il mazzo di cinquantadue carte per giocare a Tablić. In quel momento vacillo, faccio un o indietro e sento gelarmi il sangue, la guardo come se davanti agli occhi avessi per la prima volta ricomposto il quadro intero. –Come fai a saperlo? – Le chiedo in preda allo sgomento. –Non me l’ha detto l’uccellino, – bisbiglia facendosi rapidamente il segno della croce – lo so e basta. Tutti i suoi dannati familiari sono uguali, da un seme marcio spunta solo l’erbaccia, anche lui da piccolo doveva riferire ogni cosa al padre, e per tradizione il padre faceva lo stesso con il nonno a sua volta, senza fine, e mi importerebbe ben poco se non volesse ora costringere i nostri figli a curiosare e a spettegolare alle spalle della gente. Che si fotta lo stronzo, se ci riprova giuro che l’ammazzo con queste mani! –Rilassati – dispiaciuto provo a consolarla – coraggio, hai bevuto un po’ troppo, tanto poi ti a... –Bevuto sì, ma non il cervello! – rimbomba la voce nell’edificio vuoto – In vino veritas! Siamo sulla bocca di tutti per colpa sua, ci odiano e maledicono, evitano come la peeesteee. A quelle parole lui ci sorprende ed entra in scena. Avrà finito prima il suo ordinario turno di ricognizione del terreno e ora stava lì per far pagare il fio alla donna per aver osato aprire bocca di testa propria. –Ma che razza di cagna sei? Di nuovo ubriaca? – Sputa l’animale, al posto del buongiorno. –Fino a domani mattina, quando la mia sbornia sarà andata via alla grande. Ma la merda sempre sterco resterà – non fa sconti la signora, indietreggiando per evitare uno schiaffo in faccia. –Giù le mani! – gliele stringo forte a tenaglia come se volessi spezzarle – Non in mia presenza, coglione!

–Non ti immischiare in ciò che non ti riguarda – la pernacchia d’uomo ci prova a fare la voce grossa anche con me. –D’accordo, lo so – provo ad abbassare la tensione – tra moglie e marito mai mettere il dito, ma io comunque ti pesto di botte finché non te la fai sotto, se solo ti azzardi a toccarla! Portato al colmo dell’esasperazione, per un attimo stringe i pugni come se avesse l’intenzione di colpirmi, ma poi abbandona quest’idea e prosegue con le solite minacce e insulti assordanti. Bene, dal rumore non è mai morto nessuno, e a fottersi a vicenda questi due ce la fanno benissimo anche senza di me; dunque, tolgo il disturbo e me ne vado. Una volta fuori, vengo comunque seguito dalle loro voci alterate, “puttana, sei di nuovo ubriaca fradicia...”, e dal suono di quella forza intimidatoria di cui ogni maiale è capace quando si confronta con i più deboli mi lascio spingere giù per le scale, “puttana, ti faccio vedere io come dare confidenza agli uomini...”, mi fa ribollire il sangue, ma mi trattengo ed entro nella mia casa, “zitta puttana...”, premo forte la maniglia, “ferma... zitta... ti faccio vedere io...”, sento ancora il pianto di lei, “manco morta...”, mi si stringe, quasi a soffocarmi, un nodo alla gola, “maledetti informatori... crepate tutti...”, sobbalzo, “da oggi non sto più zitta...”, faccio un o, “non più...”, nel cervello e nelle orecchie mi rimbomba la voce stridula di lei, “ti ho temuto abbastanza...”, le vocali alte mi fanno scoppiare le tempie, “non ne posso più... carogna...”, tolgo le scarpe e penso di impazzire, quel costante ammonimento che risuona da dietro mi tartassa, “zitta... zitta... zittaaa...”, vuole fondersi con me, diventare una voce sola. E no, questo non lo permetto dottore, non esiste alcun bombardamento che possa degradarmi a tanto. A questo genere di fetente non somiglierò mai. Stavo zitto, quella volta, e continuavo a cercare l’apribottiglie in cucina, privo delle forze fisiche e anche della minima idea di dove guardare ancora, seccato in tutti i sensi. Un grande boato, poi, scosse su scosse senza fine, l’angelo misericordioso all’opera – come denominarono quell’operazione durata quasi ininterrottamente ben settantotto giorni consecutivi – lo spavento della gente quasi palpabile. Non tanto il mio, quanto di quei rifugiati nelle cantine. Alle mie paure non ci dovevo pensare. Non era il momento, mi bastava fottere il nome del padre, della madre, del figlio e dello spirito santo a quegli stronzi lassù che non avevano niente di meglio da fare – che ne so, una caffetteria di quartiere da frequentare, scopare con un’anima gemella, incontrare una mignotta, farlo almeno svenire nella sua mano, tanto per farsi are la voglia di sganciare – e

per di più mi toccava sopportare la loro imbecillità con il palato irritato e la gola asciutta per via dell’estenuante battibecco con il cretino presente e dei pochi liquidi introdotti nella giornata. Una fatica disumana, non lo crede anche lei, dottore? Avevo fatto fuori una bottiglia sola, ma cosa vuoi che sia, una come nessuna, due come una: tre sono il numero perfetto. Chiamo persino quello sfigato del vicino per darmi una mano, gli dico di raggiungermi in cucina per cercare insieme, ma mi pento immediatamente di averlo fatto. La canaglia è assetata più di me, non bada a niente, fruga nei miei cassetti, butta tutto in aria senza riguardo, e una volta raggiunto il punto nascosto dove tenevamo i nostri effetti personali non ci ho visto più; lo riconosco ora, come già all’epoca avevo confessato alla polizia militare che era venuta a prendermi: sì, lo schiaffone mi è partito, così, a mano aperta, quasi senza che io me ne rendessi conto. –Heeey!– sbraito incazzato nero stampandogli la mia impronta in faccia – Da queste parti ti muovi con prudenza, non è proprietà comunale. Troppo tardi. Guardavo le fotografie cadere per terra, le attestazioni del battesimo finire sotto i suoi piedi, i certificati, le pagelle scolastiche, le lettere, altre fotografie calpestate: roba da non credere, ha sfrattato la mia intera famiglia senza battere ciglio e continuava a cuor leggero a camminarci sopra come niente fosse. Andata in pezzi l’immagine di una coppia di sposini in un Capodanno dimenticato – ero così giovane e lei così bella – poi ancora noi il giorno del matrimonio con i testimoni e un pancione enorme, – se per questo anche il mio, ovviamente per motivi diversi – ancora noi tutti insieme al mare vicino a Omiš per le vacanze estive grazie alla Confederazione feriale, – loro molto contenti e io con il sorriso da prosecco, sempre e comunque – e ora dottore, tutto sciupato dalle sue scarpaccie: avrei potuto ammazzarlo, lì, seduta stante. –Mannaggia, perché non me l’hai detto subito? – si lagna e tiene quel muso colpito – Come potevo saperlo? –Non c’è nulla da sapere – fermo il mugugno di quel brontolone con un consiglio assai amichevole – ora basta, falla finita e non rompere più, muoviti con attenzione e soprattutto cerca quell’apribottiglie in silenzio se non vuoi essere schiacciato come un pidocchio! –Ma porca puttana, non si vede un cazzo, come faccio? – Sento ancora quella distorta voce nasale e non riesco a meravigliarmi abbastanza.

–Oltretutto stai cercando di prendermi per il culo oppure sei tanto mentecatto, fammi capire? – alzo il tono di voce per sopraffare l’assordante ronzio esterno, in continua crescita. –Ma che, dici davvero? – l’ebete prova a rigirare la frittata credendo probabilmente di farcela – tu per caso hai una... –Chiudi il beccooo, nooo, non ce l’ho. – Gareggio modestamente con quel bruum, rrruuum in aumento – Questi sopra non vedono l’ora di fare bordello e tu non chiedermi di lampeggiare un’altra volta, altrimenti è tua sorella che mi faccio in un lampo. –Ma se l’hai appena detto tu stesso? –Cosa avrei detto io? –Hai nominato la luce... ceee... L’accecante esplosione ci stramazza a terra qualche frazione di secondo dopo, violentissima; lo spostamento d’aria che attraversa i polmoni, la porta che viene giù e per non farci sentire emarginati pure quella del vicino di fronte salta fuori dai propri cardini. Non c’è da lamentarsi, tutto molto equo e solidale, luce a volontà, i lux e le candele che si diffondono come il credo da tutt’e quattro le parti del mondo, un’intensità ideale per poter quasi girare un filmetto porno, se solo fossimo stati capaci, accanto al quotidiano piacere del bere, a far sollevare ancora l’attrezzo. A quel colpo vengo scaraventato contro il muro, tra i due pensili della cucina pesantemente caduti a terra, intrappolato tra le tazze ricordo di Vrnjačka Banja, i piattini con i saluti da Budva e i porta ceneri tutti differenti uno dall’altro, perché in nessun luogo sono riuscito a tornare per una seconda volta, certo che i momenti più belli non hanno mai una replica. Il fannullone, invece, vola fino al terrazzo, grazie a Dio con la porta aperta, ficcato tra il vaso dell’asparagina e quello dei gerani, dritto sopra quello delle margherite che da maestro maldestro spezza tutte. L’avrei strozzato per i danni che aveva fatto alle cose e alle persone, ma quando mi avvicino vedo che tiene l’apribottiglie in mano e quel recupero gli salva le penne. –Aiutami, sono ferito – bisbiglia, premendo con un lenzuolo arrotolato la ferita in testa.

–Quelli come te hanno la pelle dura e la faccia come il culo, non gli capita mai niente. – Lo assalgo con furore e gli strappo letteralmente quell’aggeggio dalla mano. –Ma non lo vedi il sangue? – Mi chiede incredulo. –Non è ancora niente rispetto al salasso a cui dovrebbero sottoporti, troppi ristagni nelle tue vene – obietto senza impietosirmi – e uno di questi giorni, quando ti decidi a fare qualche denuncia in meno, vieni qui a risistemarmi i fiori! E ora dai, alzati e corri al tavolo, non so cosa aspettiamo ancora, anzi, a prima i bicchieri che ho messo nel surgelatore, il lenzuolo me lo riporti domani, lavato naturalmente, a meno che tu non voglia trascorrere le prossime giornate seduto sul corrimano a scendere le scale scivolando dall’osservatorio in cima fino giù in cantina, vero? Era una di quelle volte in cui lo spritz si adagia così bene come lo schiaffo ben piantato sul volto di un idiota: le bottiglie lacrimanti, i bicchieri gelati al punto giusto, poca acqua frizzante, giusto per intimorire leggermente quell’eccezionale gusto pieno del vino, profondo, equilibrato, meravigliosamente intenso, che scende nella gola lasciando in bocca il profumo e l’aroma, tocca prima i denti, punge, taglia, fa impazzire la lingua che vorrebbe scomparire e non trova alcuna via d’uscita, mentre il palato saltella e gorgheggia l’Inno alla Gioia. Sai bene com’è, la maledetta guerra a qualcuno riserva il conflitto, a qualcuno porta il profitto. Sbevazzavo sorridente e da fuori potevo sembrare rilassato e addirittura felice finché lo scimunito non mi fece nuovamente girare le palle con una miniera di canzoni, le amorose porcate una dietro l’altra senza la minima sosta e per di più combinate con un abominevole slancio patriottico a squarciagola. Da voltastomaco! –Ci vuole buonsenso. O la smetti di miagolare oppure metti qui le tue scarpe che ci raccolgo dentro il vomito. – In un primo momento provo a farlo ragionare, ma peggioro soltanto la situazione. L’idiota mi ignora, completamente, come ogni animale non si sofferma a pensare, obbedisce all’istinto e canta ancora, mi buca i timpani a ogni nota; ci riprovo altre due volte e sempre senza successo, santa pazienza, quando ci vuole ci vuole, c’è poco da dire a chi non desidera capire, così, dopo un possente rovescio alla cieca, con molto garbo ottengo finalmente la sua attenzione. –Auu, che male! – si accorge l’uccellino canterino – Cos’è questo, l’esempio di

un illecito uso della forza? –Dillo pure che lo vuoi, con tanto di mandato! – Urlo, e fuori dime, lancio un altro schiaffo ancora. –Auu, no, no, per carità, stavo solo scherzando, per carità... –Pezzo di merda immensa, pensi d’aver trovato chi cavalcare – gliele suono da entrambi i lati fortemente – mi mancava giusto la tua voce da sentire! –Ma che ti prende? Sei impazzito, ti prego... –Aaaaa, era qui che ti aspettavo: dimmi che ti devo spiegare. Cosami prende? – lo colpisco di nuovo col sinistro appena sopra l’occhio destro – Dimmi che tu non lo sai, cazzo dimmeelooo! –Dovevo farlo – ansimava cercando di proteggersi la testa con le mani – non puoi capire, dovevo, ti prego... –Ti resta solo da pregare che non ti uccido come un cane rabbioso!– strillo e vado giù con i pugni sempre più pesantemente, da destra e da sinistra, gliene do un altro e poi un altro ancora, insensibile al suo dolore, sordo ai richiami continui e alle suppliche, come avessi perduto l’anima, finché a un tratto non mi chiede di fermarmi in nome dei figli e della loro salute. Lì crollo, abbasso le braccia e lo lascio stare, strappo dal televisore il telo che lo copriva e glielo o, facendo cascare la figurina in gesso di due cigni in posa che da tempo auspicavano la trombata – Tieni! Asciugati quel sangue! –Cosa c’è ora? – mi chiede sulla difensiva. – Meglio che non chiedi altro, non ti pare? –Non devo sapere proprio tutto, pensavo solo... – Apre di nuovo la bocca, ma non conclude quella frase e si azzitta. Forse non è tanto stupido quanto sembra. Se non altro ero curioso di vedere quanto a lungo avrebbe resistito. –Cosa aspetti, sputa il rospo! – Ricomincio a provocarlo. –Se parlo ancora tu continui a menarmi, lo so – Con rammarico sospira e pulisce

lentamente il naso rotto. –Giusta osservazione, ma per stasera finiamola qui, a piuttosto un’altra bottiglia, sei il più vicino, e senza chiacchiere, intesi? Smettila di fissare il vuoto e muoviti. Per quanto te lo meriti il tuo malessere non mi rincuora: sei solo una cacca con cui non vale la pena sporcarsi le mani. Certo che un compito meno impegnativo di quello di annunciare l’arrivo degli aerei non ti potevano assegnare, mentre gli altri vengono mandati lì da dove la possibilità di ritorno è scarsa! Entrambi i miei figli a pulirsi dai pidocchi in trincea, presso il fiume Binačka Morava, o chissà dove altro ancora, e un tipo come te lo tengono ben protetto sotto la campana di vetro, per la riproduzione probabilmente, mi sfugge il senso. Bevi e vattene da qui, sparisci dalla mia vista che è meglio! Il mattino seguente quando mi sono svegliato non c’era più neanche l’ombra del vicino. Sicuramente avrà già ripreso la sua solita posizione in cima alla palazzina per osservare e tenere meglio ogni cosa sotto il suo degenerato controllo. Meglio così per entrambi, credimi dottore; ha saputo allontanarsi in tempo, altrimenti mi avrebbe portato a scontare una pena per aver fatto fuori una persona quando in realtà era una mezza cartuccia. Lasciamo comunque perdere per un attimo lui, se serve una pausa dalle cose piacevoli, figuriamoci un po’ da quelle che non lo sono. Rimuovo quel casino e mi avvicino al televisore che per miracolo funzionava ancora, persino senza il telo sopra, chi l’avrebbe mai pensato; sullo schermo un cristone si sforza di fare un discorso serio e così vengo a sapere che “l’aviazione nemica durante la scorsa notte ha cercato di distruggere i magazzini con le armi, senza causare vittime, ma solo leggeri danni materiali...”, dipende dai punti di vista, amico mio, solo dai punti di vista, piano con le parole, vi prego per Dio onnipotente di non parlare in mio nome! Vado a prendere mia moglie in cantina. Piange. Mi si spezza il cuore a vedere tutto il suo corpo che oscilla con rapide e violente scosse, non sono tanto forte, guardo altrove, le giro le spalle e fingo che una pagliuzza sia andata a piantarsi nel mio occhio. Qualcuno la deve pagare dottore, qualcuno. Deve. In un modo o nell’altro. Prima o poi i debiti vanno riscossi, con le ossa degli avi o l’avvenire dei nipotini. –Non oso pensare a come possono stare i nostri figli lì se addirittura qui va così male – riesce a dirmi tra un singhiozzo e l’altro. –Sono entrambi maggiorenni e con la testa a posto, se la caveranno, vedrai –

cerco di convincere anche me stesso – Dio li proteggerà, si spera. Piuttosto, sali su a sgombrare e raccogliere tutto quel vetro, io faccio un salto al negozio e torno subito, urge un rifornimento di munizioni, non c’è più neanche una bottiglia. E non lasciare di nuovo l’apribottiglie in terrazzo. Poteva succedere di tutto.

Guns & Roses

Che razza di burberi siete? Ok, vestitevi pure come due straccioni, in fondo che me ne importa degli affari vostri, a me basta vedere il soldo promesso, il resto si sistema, sempre. Tu stai seduto qui e tu, per l’amor del cielo, mettiti al suo fianco, smetti per un po’ di svolazzare a destra e sinistra. Non voglio che la mia gente mi becchi a parlare con voi, mi prenderebbero per il culo da qui all’eternità e erei io per quello che abusa di narcotici; lungo e inutile sarebbe discolparsi spiegando loro che non siete affatto i miei cugini arrivati all’improvviso dall’entroterra e che non ho nulla in comune con due fottuti pazzoidi incapaci di farsi senza invocare la clemenza dello Spirito Santo. Va bene, va bene anche che preghiate e fate penitenza per conto vostro, ma che diamine c’entro io con queste scemenze? Piantatela di toccarmi la fronte con il segno della croce. Quale grazia? Quale salvezza? Chiedete e vi sarà detto, ma veloci e decisi, prima che inizio a vomitare, un momento di crisi non manca mai, facciamola finita in fretta così vado a sistemarmi come si deve. Dall’inizio volete sentire? Cazzi amari, signori miei, accidenti a me che vi ho dato retta, o cancellier che tieni la penna in mano scrivi una letterina alla... C’era una volta un paese agreste nei montuosi Balcani. Neanche oso pensare a quando mi barricavo tra le quattro mura della mia camera per non rimanere casualmente contagiato dalla vita di tutti i giorni; eh già, credevo che l’analfabetismo e l’ignoranza fossero virali. E viaggiavo, e come se viaggiavo, le tour de monde in ottanta minuti, pure a occhi aperti. –Ehi, bellezza mattutina – dicevo al mio minorenne angelo biondo, interrompendo quel serio tentativo di procurarsi anticipatamente una promozione maneggiando con le punte delle dita i complessissimi bottoncini dei miei cari vecchi 501, – calmati e respira profondamente, riprendi il fiato, che ti servirà dopo nella fase B. Ce la puoi fare, credimi, ce la fanno tutte, non perderti in un bicchiere d’acqua, mica stai programmando la partenza di un Space Shuttle. Ricordati che al missile alzato e pronto al lancio occorrono due cose soltanto, la rampa libera e il cosmo che lo ingoia... –…Ma – si mettono in pole position due enormi occhi lacrimosi – questa è la

mia prima volta, non l’ho mai fatto prima, ti amo, lo sai quanto ti... –Certo che lo so, e non dubitarne – rispondo manipolando lameravigliosa polvere del Veglio della Montagna, primero per eccellenza – nemmeno io l’ho fatto mai prima, almeno non con questo stesso piacere, so help me God! Mentivo, che altro avrei potuto fare per lei e i suoi amorevoli sweet sixteen, avidi di romanticismo e di adrenalina pura allo stesso tempo? Quella incantevole, irripetibile agitazione prima di assaporare il frutto proibito. Comprendevo tutto, naturalmente, e non potevo di certo deluderla, tanto la sua esaltazione sincera per le bianche margheritine sorridenti sui miei boxer, quanto il bisogno di sentirsi incoraggiata, abbracciata dalla tenerezza della mia voce. Ho cercato di consolarla come meglio potevo aggrappando il cespuglio dei suoi capelli bisognosi di una mano ferma che li guidasse, che suggerisse loro il magnifico ritmo vertiginoso a due tempi, leggero, fine, appena percettibile, energico, risoluto, crescente. Pasticciavo tra fermagli e mollette intrappolate, le spostavo, rimettevo, avevo anch’io solo diciannove fottutissimi anni, la capoccia vuota quasi avessero usato la varichina per sterilizzarla in quella caserma dove avevo appena terminato il servizio di leva, e mi ritrovavo con due grosse palle gonfie e fumeggianti. E tu certo comprendi di cosa parlo. –Brava gattina, – senza interruzione incitavo prontamente il my big love del momento – così si fa, un’altra bella leccata e poi è tutto tuo, fallo espandere e fagli disperdere ogni sua particella... Non avete inteso bene? Chiedete di ripetere? Ma vi siete bevuti il cervello voi due! Col cazzo che ci torno indietro, chi sarà poi il genio che mi aiuta a riprendere da dove mi sono fermato? Basta un blackout per mettere in crisi il globo intero. Non avete notato quanto è storto negli ultimi giorni? – Non ho paura del buio, quello che mi preoccupa è il rumore strano che fa – La cinghia consumata, ecco cosa sarà, a voi sembra che ogni tanto torni tutto alla norma, ma lui intanto accelera, spinge sempre di più, il sole lo attrae o è forse lui quello che attira, la stessa cagata per noi che capitiamo nella sua orbita. E comunque lui accorcia i tempi all’impatto a differenza di voi due che me lo fate perdere. Mi avete preso per quello sciagurato tradito che sa e vede ogni cosa? Oppure per qualche politico faccia da culo che gareggia con i suoi simili per assomigliargli? La pulsazione della vena ben legata è l’unico tempo che conosco e in cui mi muovo con certezza... A-ve-vo det-to che queeella sera la ragazza

non aveva fatto in tempo a idratarlo come si deve, ma nemmeno a tirargli giù il cappuccetto con la lingua, che la rogna già bussava alla porta. Loro. Due cagnacci militari – i peggiori della specie, di quelli che non sanno aspettare – alzano le manacce e giù con i pugni contro la porta, lei mi guarda stupefatta, non sa cosa fare, prendere o lasciare. –Nooo, bambina mia – le accarezzo dolcemente l’orecchio, rapito per un attimo dal curioso disegno sulla buccola – non si potrebbe fare sbaglio peggiore che dar loro retta. La buttino pure giù a calci se ci tengono tanto, ma tu cascasse il mondo non lo lasciare! Ha bisogno di te, proprio di te, mi hai capito? Lei annuisce piano, mugolando qualcosa di incomprensibile e intanto sbaciucchia la cappellina riconoscente. Pensavo che il peggio fosse alle spalle, ma gli avversari non indietreggiano così facilmente nemmeno per un istante: optano per tattiche nuove, non premono il camlo come la gente normale che lo tocca appena e aspetta educatamente una risposta, gli si sdraiano sopra senza pietà, quasi fosse la capretta Djali di Esmeralda e Quasimodo, e diiin poi dooong, ancora diiin, non la fanno finita di ring my bell. Beautiful ocean blu eyes, mi fissano ora cento volte più di prima, fiammeggiano, colgo in essi inequivocabili segni di panico che si propaga, ma lei lo stesso continua a fare la carina con me, o almeno si sforza e non molla la presa. –D’accordo baby – dico alzandomi – stai tranquilla e mantieni la posizione, vado e torno, ci vuole un attimo, non dimenticare dove ci eravamo fermati. Tra il dire e il fare c’è di mezzo sempre il mare. A piccoli, piccolissimi i bisogna percorrere migliaia di miglia marine di acque territoriali, attraversare la vasta zona del soggiorno desertica e con correnti fredde potentissime e pericolose che spingono dal Nord, i banchi di nebbia, sopravvivere poi alle insidie dell’ambiente tropicale lungo tutto l’interminabile corridoio, strusciare lentamente fino allo spioncino per vedere la faccia di merda che mi ha fatto fare tutta questa fatica, assicurarsi che non ci siano degli incappucciati stile Arancia Meccanica prima di avventurarsi. Va bene tutto, ma non ho ancora capito perché lo fanno così piccolo e così in alto. –Allargare quel buuucooo serve! – strillo aprendo la porta –A stento vedo chi con violenza si affanna per incontrarmi così presto, non mi sembra fosse già mezzogiorno.

–Ci sei, dunque? – mi sparano addosso la domanda più stupidache si possa fare a uno che ti sta davanti. –Aaahaaa, dannazione – bisbiglio come un imbecille e mi asciugo il naso con la manica della maglia. –Ma sei tu? – a quel punto cado, mi piego in due dalle risate, provo a rialzarmi e scivolo di nuovo, una, due, qualche infinità di volte. Cerco con lo sguardo i loro musi, ma non riesco a vedere nessuno, la lente di ingrandimento si è rotta, le figurine sono state rimpicciolite, tutto è minuscolo attorno a me ora, non è rimasto un appiglio a cui aggrapparsi, solo il mio cuore cresciuto a dismisura rimbomba nel vuoto, – mi vuole soffocare, quel bastardo – l’idiozia generale si propaga, penetra i muri, attraversa mattoni e cemento, pilastri e intonaco, spunta a sprazzi dalla pittura, mi avvolge, vorrebbe tirarmi giù, nel baratro, annaspo e reagisco, pur sebbene qualcosa dentro si rifiuti di cedere al cretinismo, sorrido mestamente, poi scuoto la testa in segno di diniego. –Nooo, guardate che non sono iooo, un Iperboreo giunto fin qui dritto dalla terra leggendaria, vi sta parlando! – ma la voce che mi esce dalla gola si disperde, la tempesta avanza, si salvi chi può, velocemente, fulmini neri e vento che aumenta – Attenti alle rocce, ci si scaraventa controoo, attentiii! –Ora basta, drogato del cazzo – mi colpisce in pieno petto il potente vocione proveniente dal centro del nulla – una firma qui per ricevuta, nome e cognome per esteso, che sia leggibile, ti attende l’esercitazione militare, muovi le chiappe e con urgenza raggiungi il primo posto di raduno, intesi? “Più che altro siamo lesi” – avrei ribadito se il ciclone me l’avesse permesso. L’aggressione esterna provoca sempre dei danni, maggiori o minori che siano, come diventare immuni? Prendo in mano la bandiera rossa che per ripicca mi svolazzavano davanti al naso, cerco di piegarla, girarla per il verso giusto, ma il vento la riapre, la sposta con furia, grido, a un tratto capisco, sono espulso, vogliono farmi fuori a tutti i costi, è il cartellino rosso che sto firmando, a special invitation just for me... Inserisco l’autografo: ecco, anche questa è fatta. Tutto è bene quel che finisce bene. E l’ultimo chiuda la porta! Rientro e tiro la catena per quel poco di utilità che le resta, dopo tutto un po’ di privacy non guasta, richiamo il gran pezzo di figa che pazientemente aspettava il suo turno e la butto immediately sul divano. Senza sprecare una parola di troppo scopo come se fosse il mio ultimo pasto: i jeans e le calze le avevo tirate giù con una mano sola

fino alle caviglie e alle affascinanti dita del piede, sensuali e curate, mentre con l’altra avevo strappato il tanga lasciandola a gambe divaricate e con il solo reggiseno a balconcino spostato, incapace ormai di sostenere il peso di quell’abbondanza, ma ancora lì, ridicolo e ostinato nel coprire i capezzoli che i miei denti tiravano fuori per succhiarli e leccarli prima di metterglielo dall’alto in un colpo solo ed essere appagato di un suo prolungato aaahhh... Sgancio tutto, libero i seni e li stringo fortemente, giungendo alla soglia del dolore che non oltreo. Impasto dolcemente, lecco, succhio e bacio ancora. –Meee l’hai prooomeeesso – sospira a fatica muovendo appenale labbra. –Cosa? – non seguo la sua fantasia. –Uno spinello anche per meee! – Aggiunge all’apice mentre la stanza intera pericolosamente continua a girare senza un motivo. Per qualche istante mi concentro a cercare su quel poligono i resti del mio corpo, faccio rianimare le braccia e le gambe, appoggio i gomiti e pian piano mi sollevo in piedi. –Sgombera, dai su! – comincio a innervosirmi – Vattene in fretta, devo risolvere altre cose importanti, ora. –E io? – sbotta, offesa. –’Spetta e spera, – la stuzzico divertito, non resisto a quelle sopracciglia aggrottate – ti tocca la prossima volta, preparati, sempre che ce ne sarà una, first time, next time, è il medesimo par di palle, credimi, un bel giorno mi presento forse per un tiro e un pompino... –Porco! Questa me la paghi! –Ronc, ronc – acconsento al volo, come darle torto d’altronde – e chiudi adagio la porta uscendo, ronc, d’accordo, come non detto! Non appena lei salta fuori mi scolo una birra e afferro il telefono per scambiare due paroline con il mio vecchio, di balle credibili per avere la casa libera quando serve ce ne sono infinite anche se ogni tanto rimango a corto di idee originali, mandarli al cinema non funziona da un pezzo, ma una visita ai nonni non possono ancora rifiutarmela, un fine settimana in campagna, ottimo cibo, aria

sana, la perfezione in ogni senso, il tempo ritrovato per guardarsi in faccia l’un l’altra, l’amore non basta mai, così come l’acquavite di prugne che distilla il nonno, il babbo lo sa bene e ci torna volentieri, cosa volere di più dalla vita? –Pronto, prontooo, rontooo, tontooo, mi sentiii – prima di buttarmi a capofitto nella chiacchierata tasto il terreno alla ricerca del tono giusto – sono io, gimme hope, prontooo, gimme hope, iooooo... –Bellooo di paaapà – mi sorride festoso e ubriaco come sempre. –…Ah, ah, sono iooooo – e con piacere vedo come un ritmo azzeccato fa conciliare ogni cosa, tutto il resto va da sé come è naturale che succeda tra un genitore e un figlio, ci intendiamo a meraviglia – forse non mi ero raccomandato abbastanza, gimme hope... –Non temere, sono quiii... –Anch’io lo sonooo – almeno per il momento se non altro... –e mi ero raccomandato, rac-co-ma-nda-to di farmi rimanere il più a lungo possibile. Mi sentiii, ti ho chiesto di nascondere la mia cartella, se ricordo bene, di far sparire i miei dati e cancellare il mio cazzo di nome una volta per sempre, ficcarmi nel cassetto più in basso, tra i non idonei magari. Di militari ne ho talmente piene le palle che mi basta e avanza un bel po’ per questa e per qualche altra vita, te ne presto volentieri, se vuoi... Mi sentiiii??? –È tutto sotto controllo, fidati di quello che dico! – Si fa stranamente serio il babbo. –Nooooo, non dirmi così, ti prego! – soffoco per qualche istante, un violento colpo di tosse secca mi fa perdere il o, suppongo d’essere morto, a questo punto cos’altro fare, tutto è già stato detto – Non assomigliare all’ennesima beffa governativa, gimme hope... Ti prego, anche a lui dicevi di non preoccuparsi e ora bisogna setacciare monti e pianure di Metochia per ritrovarlo! –Quella di tuo fratello è un’altra storia, non c’entra niente conte. Tu sei stato messo tra i corrieri della divisione contraerea e loro non vengono mai chiamati. –Proprio mai? – ci provo a fargli smaltire la sbornia in fretta. –Mai, – resta fermamente fedele a quella cantonata, ma poi gli sento salire il

battito in gola, accelerato, spaventoso – tranne quando accade l’inevitabile, credo. –E credi bene. La convocazione mi è già arrivata, solo che non riesco a trovare sulla cartina il paesino di merda dove devo andare a cagare. Non è che ne sai qualcosa? Non lo sai, certo, come pensavo, gimme hope... Attacco, ora sì che ero pronto per la partenza, o quasi. Me ne vado nell’altra stanza, tiro fuori gli stivali e l’uniforme, da alcune cose non si fa in tempo a separarsi che già ti piovono addosso, rido, a squarciagola, e comunque non trovo il lato positivo, magari mi strozzo e muoio lo stesso, veloce, indolore. Come mi piacerebbe, però non è così facile, raduno tutta la mia roba in soli cinque minuti, uno più uno meno, arrotolo velocemente qualche decina di spinelli per averli sottomano nei momenti d’emergenza, poi butto giù la fila dei grandi classici russi e traggo in salvo le due grandi eroine dei miei sogni, la polvere degli angeli, pura e bianca, e un’ultima bustina della mia adorata prima donna bruna, flashante e capricciosa, l’una mai gelosa dell’altra, insostituibili per un euforico speedball, un accendino si trova sempre, non mancano certo il cucchiaio e la candela, ma dove sono andate a finire le mie armi? Qualcuno si è messo a giocare con le mie guns, maledetto! Eh già, eh già, ho guardato dappertutto, ho spostato, piegato e ripiegato ogni cosa, up... side... down, niente, coinvolgo la vicina di casa, interrompo l’incredibile rendez-vous con lo scimmione di turno, brutto e peloso come un grosso ragno nel peggiore degli incubi, ma non innocuo, quasi mi becco un sinistro in piena faccia, ma offuscato come sono, cado prima d’essere toccato, lei strilla, lo manda via, mi tira su ed ecco le siringhe. Si chiede quando le riavrà indietro, very stupid question… very, very stupid. Chi non crepa si rivede, la guardo in faccia e singhiozzo, cazzo, che bocca grande che ha, possibile che non me ne sono mai accorto? L’arabo col mantello nero volteggia, danza posseduto uhhh, il suolo risale in verticale, è un vero peccato! Sul più bello mi tocca sempre andar via, manchi solo tu, bu-bu settete, dove ti sei nascosto paesino di merda? Non sarai mica caduto nel cesso! Esci fuori, non avere paura di me, tanto ti trovo... Chi arriccia appiccia, chi appizza ammazza... Che ne dite, ve ne va uno? Se non ora, quando? Adesso, certo, o volete prima dire una preghierina? D’accordo, fa niente, capisco, ma guarda che siete proprio bislacchi e complicati. Certo amico, puoi dirlo forte. No, non guardatemi così che mi mettete ansia, sono sempre stato uno che riga dritto e basta, bravo in storia, cresciuto correndo dietro a un pallone, promettente dicevano, il numero uno. Finché non ho provato questo,

occasionalmente, per svago, nulla di grave. Certe giocate avreste dovuto vederle, sono stato un dio in campo, l’onnipotente sceso in terra, un panzer che spinge la palla in fondo alla rete, il delirio dei tifosi, a un certo punto palla a me a undici metri dalla porta ed è lì che la bacio la prima volta, la grande striscia in gesso bianco. Pensate quanto sarebbe eccitante sniffarsi una pista così grossa, insomma, sputtanato in diretta, lo avevano capito tutti che me n’ero andato affanculo. Tranne me s’intende. Ma siete proprio sicuri che non ne volete nemmeno un po’? D’accordo, taglio corto, keep calm and take it easy, ecco, ci stavo arrivando pian piano, dov’è che mi sono fermato, ah, giusto, ora me lo ricordo. Pioveva pure, prima, durante e dopo. Un viaggio di merda per una destinazione che non era da meno, due ore di sbattimento e mi ritrovo nel bel mezzo del nulla davanti a un semidistrutto capannone agricolo usato come luogo di ritrovo. Lì dentro il pienone, fricchettoni a palla, sembrava un evento free. Tutti contenti, metà ubriachi persi, l’altra metà ci stava arrivando, e in fretta, per un po’ gironzolo alla ricerca del nostro Ufficiale e gentiluomo, ficco il naso dappertutto e non trovo nessuno che gli assomigli, né qualcuno che mi sappia spiegare cosa ci attende, dire qualcosa di sensato. Lo so, troppe pretese da parte mia. Quando finalmente incontro il Capitano di riserva capisco come butta per noi sfigati: un tipico parente stretto di qualcuno – più o meno utile quanto le tette agli uomini, esiste, ma non serve a un cazzo, ci fa fare un paio di scarabocchi per ricevere fucile e cartucce, poi si congratula soprattutto con me, il coglione. Potete immaginarvi che gran botta di culo, diventare corriere e braccio destro del Capo in un colpo solo. Non fatemici pensare cosa sia meglio. Si vede che anche a lui quello sinistro serve per bucarsi. Puttanate, sì, può darsi che ne sparo troppe, ma tutto quello che we have is here and now... …In mancanza di meglio, cerco una tettoia per ripararmi, tegole quasi inesistenti, spezzate o rubate da tempo, piego le ginocchia e sollevo i talloni verso il bacino, tento poi qualche apparentemente semplice asana, tutto pur di impedire l’assillante discesa dell’acqua piovana lungo la mia colonna. Qualche centimetro di terreno asciutto dove poter farmi in pace sarebbe perfetto, hai visto mai, ma niente da fare: ogni buco è già occupato, tutti coricati presto come le galline e io ancora sveglio just in time per un casareccio doping leggero. Ah, che bello, per finire la giornata niente è meglio di uno spinello che dolcemente ti distende ogni muscolo del corpo, l’arriccio e mi canticchio una rasserenante ninna nanna, e sono pronto per l’amore, I’m singing in the rain, crollo, porto il sole nel mio cuore mentre la porta del grande giardino segreto si apre e mi lascia

avanzare, sorridente, felice, per posare gli occhi tra migliaia di altre rose rosse solo su di lei, la magnifica rosellina purpurea, scabrosa, sensuale, da inalare nei polmoni in un unico fiato. Se solo riuscissi a muovermi senza essere graffiato da troppe spine che a ogni desiderio mi sfiorano pericolosamente la guancia e a ogni pensiero cercano di pungere e crocifiggere la mia carne. All’improvviso qualcosa comincia a gocciolare e staccarsi dai suoi petali, a bagnarmi la fronte, a scorrere tra le sopracciglia e lungo il naso, a scendere a cascata dal mento, qualche imbecille deciso a svegliarmi mi sprona, minaccia e grida dicendo che mi piove dritto addosso. Lo spingo solamente e lo mando a fanculo. Finalmente in pace mi abbandono al richiamo e all’abbraccio dell’acqua di rosa. Dio quanto stavo bene rannicchiato sul fianco, non avrei voluto riaprire gli occhi! Eppure poco prima dell’alba non c’erano più santi, pioveva a dirotto e i camion stavano ormai lì pronti per caricarci. Saliamo ordinati e silenziosi, a malapena entriamo, ci ritroviamo pigiati come sardine, molti se lo fanno in piedi il viaggio, cinque ore di pessima strada, il telone vecchio e rattoppato dopo mezz’ora si apre del tutto e ci lascia al diluvio universale. Bagnati fino all’osso, ricoperti di fango, tremanti, frustati dal vento come nella peggiore delle scenografie di un film da quattro soldi, battendo i denti, ancora bisbigliavamo delle battute, pessime, realmente pessime, quelle che non avrebbero mai fatto ridere nessuno. –Destinazione, tutti giù – sbraitava come un ossesso il cretino del nostro Capitano uscendo dalla cabina di guida – veloci, razza di incapaci, siamo arrivati. –Ma che film ti sei visto stanotte? – Chiedo piuttosto di non mandarlo nuovamente a fare in culo. –Scattare, scattare! – Urla più forte ancora senza abbandonare il suo amatissimo ruolo. –Capisco, – insisto sempre sullo stesso tasto anch’io – sarà merito di qualche Martini di troppo se sei rimasto così dry, così maledettamente uomo tutto d’un pezzo! –Mogila! Mogila! Siamo arrivati! Tutti fuori e in fila... –…Cazzo che flash, ancora qui? Pensavo fosse la Costa Azzurra, sai, il

motoscafo, l’impeccabile smoking, gli occhiali da sole, il vestito impigliato nella sedia che poco a poco si sfila... –Attenti! Cosa dice, soldato? –Signorsì, signore, è il ritorno alla poesia impegnata che metto al servizio... –Basta così, silenzio! Ora corri, avvisa il Maggiore che il battaglione sta qui ed è a sua disposizione. –Fischia signor Capitano, usa roba seria? Già che ci sono gli dico pure che siamo pronti per la piena operatività bellica, magari faccio colpo, non si sa mai, glielo giuro sulla vita delle nostre madri, così lo convinco! –Porta via quel culo. Obbedire, soldato! – gioca ancora la carta del protagonismo – È a causa di quelli come te se siamo caduti così in basso. –Signorsì, ma le cazzate gratuite a digiuno, tutte così d’un colpo, fanno male allo stomaco! –…Abbiamo perduto sante terre serbe, gli ideali, la disciplina, siamo rovinati per quelli come te che vanno puniti: venti pompateeee. –Ma che cazzo ti strilli? – gli faccio venire un infarto programmato – Vuoi anche un par di palle? Ci trascinate in questo stagno di merda a rincorrere le anatre selvatiche con le mutande bagnate, e vorresti che te lo pompo pure, pervertito di merda? Poi sarei io quello tossico? Avrei esagerato? Chi, io? Siamo proprio sicuri che siete sani di mente voi due? Verità o verosimiglianza, decidetevi cosa state cercando. Volete sapere meglio di me come ho risposto a quello zoticone? Prego, accomodatevi pure, compilate la vostra inchiesta come vi pare e piace e poi sgommate da qui. Vi spacciate per scrittori seri, che facce toste. Al massimo siete due mediocri scrivani, che nei corridoi comunali redigono le domande alla gente incapace. Dico bene, non c’è da vergognarsi, tocca fare un po’ di tutto per campare, e buon per voi che non vi occupiate di quello, perché se volete scrivere la storia vera, non trascurate questa erba assetata. Vi racconterò tutto quello che volete sapere di Čarli, basta che non offendete più le mie capacità mnemoniche... Per non farmi guastare troppo l’umore, accendo, dunque, un po’ di vigna

giamaicana e vado a cercare questo Maggiore, armato di pazienza, sorridente come pochi, door to door, busso, chiedo, nessuno l’ha visto, nessuno sa niente. Mi chiedono com’è fatto – come fossi il suo sarto, che cazzarola ne so io, sarà ottuso come tutti quelli coi gradi e può darsi che li superi pure! Non c’è da aspettarsi molto altro, il rango più alto richiede un tributo in proporzione – e di nascosto, ridacchiando, mi avvicino alla casetta di cioccolato, ci sbircio dentro, ma nemmeno l’ombra di un candidato per il Maggiore. Decido allora di staccare la maniglia e di mangiare un pezzetto di quel tetto soffice e buono; vogliono impedirmelo, richiamarmi al regolamento, ma se pensano di spaventarmi o di intimorirmi così facilmente si sbagliano di grosso, Paolo, solo al mondo sono e posso fare qualunque cosa, quasi, soprattutto in sua compagnia, oooh, Mary Jane, my only love... takes me to paradiiiise, yeahhh, lei mi ama e sfugge in fretta, la beatitudine si sgretola in un niente, urlo dietro al nirvana perduto, gli corro appresso e per caso mi imbatto in un paio di stivali lucidi e neri che mi scrutano seriamente ed esigono una spiegazione. –Signorsì Comandante Maggiore, la Batteria sana e salva è giunta a destinazione e attende i suoi ordini, Signore – sbotto senza fiato e cado inspiegabilmente prostrato fino a battere con la fronte per terra davanti alla sua maestà. A parte questo, conciato com’ero, bagnato e sporco da capo a piedi, eccitato come un matto appena graziato dal finire alla ghigliottina, in nessun caso avrei potuto essere preso sul serio: difatti i presenti girarono lo sguardo altrove, i miei guai non erano un loro problema, persino il Maggiore aveva pensato di arci sopra come se niente fosse. –Distribuitevi nelle case private e mantenete la posizione. –Signorsì, privilegiamo i numeri pari o i dispari? – Chiedo la specificazione alla testolina esageratamente piccola per ospitare un berretto militare che si allargava e cresceva a dismisura. –…Meglio se con cantina... –Vinicola intende, – ero curioso di sapere – oppure basta una in cui i crauti attendono d’essere stagionati? –È uguale giovanotto, riparatevi e aspettate! –Desidera che mimetizziamo anche i cannoni – mi interesso prontamente di strategia bellica trattenendomi a fatica dal ridere a crepapelle – e facciamo

spuntare le loro bocche da fuoco fuori attraverso le canne fumarie? –Ottima osservazione, giovanotto, – mi congeda così su due piedi senza un motivo vero – ne parliamo dopo, andiamo a sistemare gli uomini ora. La strada di ritorno è sempre più corta se non ti perdi nel percorrendola... Dopo due o tre inutili soste raggiungo il nostro Capitano e gli riferisco fedelmente gli ordini del Superiore; lui intanto mi guarda serio come un maialino che piscia, pende dalle mia labbra e si beve tutto, parola per parola, poi si alza e ordina di mettersi immediatamente alla ricerca degli alloggi idonei alle esigenze militari. Non sono ancora del tutto certo che l’evacuazione d’emergenza fosse mai stata ciò che gli premesse di più, giacché la prima home, sick home, ben fornita di grappa, venne subito prescelta per ospitare la sede del Comando: perfetta dentro e fuori, con una cantina larga e senza problemi di muffa o umidità, con un fantastico padrone per di più, amabile e generoso, persino un attimino troppo per i miei gusti. Se mai avessi avuto la benché minima voce in capitolo, avrei optato per lo scoppio di due bei tomahawk nelle vicinanze per farmi una pera in santissima pace, là in mezzo allo scombussolio generale, piuttosto che rimanere condannato allo strazio di ascoltare le leccate di culo pressoché infinite. Il lupo sarebbe stato sazio e tutte le pecorelle al loro posto; già, una favola bella e irraggiungibile. Invece, ho dovuto subire gli effetti allucinogeni che la venerazione comporta: grande ammirazione e lodi di qua, glorificazione dei nostri soldati di là, non vi è sacrificio che possa dirsi eccessivo per aiutare la causa... Dopo un po’ sbrocco e, a mio rischio e pericolo, decido di fare due i. Costi quel che costi, non ne potevo più. –Ah, giovincello – solo ora che me ne stavo andando il Capitano si accorge della mia presenza – ci vuole proprio una bella sigaretta. Ne hai una anche per me? –Prego signor Capitano – rispondo più cortesemente che potevo – ci mancherebbe altro! –Mmmm, vedo che anche tu sei uno tosto come me – farfuglia soddisfatto accendendola – al giorno d’oggi gli uomini sono diventati checche, mammoni senza palle, capaci di usare solo sigarette già pronte con tanto di filtro. E lo chiamano fumare, che vergogna. Avrei voluto vederli al posto mio, a rollare a regola d’arte il tabacco nei fogli dei libri. C’è chi lo sa fare bene e chi no, ma è un rituale imprescindibile dico io, altrimenti che gusto c’è?

–Posso andare ora? – Chiedo seriamente appena riesco a intromettermi. –Fai pure con comodo, ma ricordati di rimanere nei paraggi se dovessi avere bisogno di te. –Ai suoi ordini, Signore! – A testa alta e sguardo fiero batto i tacchi e mi allontano lentamente, sentendolo dire alle mie spalle quanto fosse maledettamente buona e forte la mia sigaretta. Almeno per un po’ mi risparmio il loro pomposo ciarlare, le inconcepibili elaborazioni filosofiche del pensiero patriottico totalmente imbevute della grappa grazie alla quale sono nate, attraverso il paesino terribilmente grigio e piatto – un pantano inutile, umido e appiccicoso – e mi fermo: la vescica ormai vuole esplodermi e apro tranquillamente la zip annaffiando il primo baobab locale. Chiudendo gli occhi mi pare di udire un “chi-va-là” nelle vicinanze immediate. Lo ignoro, ovviamente, è un momento troppo sacro, l’anima fuoriesce e si purifica a ogni goccio. Non oso crederci che si possa essere tanto ignoranti. “Altolà! chiva-là?”, l’impertinente insiste ancora, mi fa perdere la concentrazione definitivamente, riempio le scarpe di schizzi e prima che l’intimazione si inasprisca, gli identifico ’sto cazzo, non si sa mai, tutti quelli che incontro sono così strapieni di zelo e attaccati alle fesserie procedurali, a ogni angolo c’è una guardia armata, e dico ogni angolo, ma è solo the beginninge non finisce qui purtroppo. La mattina presto si gela ed è lì che si riconoscono le persone, – come al solito quando il gioco si fa duro, uomini e topi abbandonano la nave – all’inizio non si poteva muovere nemmeno una foglia senza essere richiamati, poi però arrivava il gran momento e qualche piantone avrebbe fatto comodo non se ne trovava più manco uno. Intanto, per i molti con un fucile in mano, dal vigilare contro le incursioni al diventare briganti il o era fin troppo breve: senza preavviso né papillon obbligatorio erano continuamente promosse e organizzate dissolute feste a tema e furti ogni sera, come se niente fosse venivano svaligiate le case degli albanesi fuggiti, mani indistinte arraffavano qualunque cosa si riusciva a vendere a metà prezzo e senza garanzia – lavatrici, frigoriferi, zucchero, olio e sale, cornici di tutti i formati, mobili, armadi, letti, piastrelle rimosse del bagno o della cucina, tubi, lavandini, pavimenti è lungo l’elenco di roba caricata nel furgone e rigorosamente portata via nel buio – e così, notte dopo notte, quando non c’era il pericolo di rispecchiarsi nello sguardo di chi ti stava vicino, si credeva forse che l’onestà non paga, esattamente come quel figlio di puttana di spacciatore che mischia lo stucco all’eroina e vende merda pura. Ignobile faccenda. Non ho nient’altro da

dire, molto meglio se mi fate dimenticare d’esser stato lì presente anche solo a guardare, tanto basta per vergognarmi oggi a sufficienza. Durante la mia assenza, il Capitano era già decollato alla grande, eh – preferisce la grappa al potere, chi l’avrebbe mai detto – just great, batto i tacchi e lo informo che la missione è stata portata a termine in tempi rapidi. Lui non mi risponde, con aria assente fissa qualcosa nel vuoto dietro alla mia testa e lì mi arrabbio sul serio, grido e mi viene fuori una voce grossa, quasi surreale. Gli presento per la seconda volta l’efficienza in persona e non ottengo alcun risultato, quasi la mia storia non lo riguardasse affatto, per cui mi avvicino e gli tocco la guancia con un dito, proprio come si fa con l’impasto per capire se è lievitato al punto giusto, spingo abbastanza forte, lascio il segno nella carne molle, ma lui resta immobile come prima, più di prima. –Sai che ti dico, signor Capitano, tu ciuuuccialo al tuo corriere che ti a... –Che cazzo di sigaretta mi hai dato? – Irrompe nel silenzio il sibilo di una voce d’oltretomba, mentre cerca di camuffare l’amore per il mondo intero. –D’importazione signore, al momento la migliore qualità sul mercato – faccio finta di aver inteso male la domanda – perché mai le interessa? –Prima mi ha fatto morire dalle risate e poi come se non bastasse salire pure sull’armadio. Mancava poco che fi Peter Pan! E pensare che soffro di vertigini e mi sudano le mani al solo pensiero di volare... Dannato tossico, in che stato mi hai messo? –Niente di che – rispondo senza agitarmi – sarà che senza accorgertene anche tu ti sei abituato troppo alle sigarette col filtro e ora ne senti la mancanza, oppure sarà stata la cartina a causarti danni collaterali, ma tutto si risolve, se vuoi te ne preparo subito una con la carta del giornale: il piombo contenuto nell’inchiostro è una mano santa per la rapida guarigione! –Vai via, lontano da me, Satana! – non la smette di accusarmi il mio nuovo collega di vizi e virtù – A malapena sono riusciti a farmi scendere da lassù, idiota! Tutti quanti non facevano altro che ripetermi “buttati, buttati”, si era radunata l’intera Batteria per un tifo premuroso, ma io il coraggio di spiccare il salto non lo trovavo proprio. –Giusto, ci eravamo già preoccupati d’aver perso in anticipo metà della battaglia

– si intromette nella discussione un professore smarrito – la figura chiave insomma, il nostro Comandante a cui proponevo di scendere giù con una corda a progressione e una carrucola di scorrimento, per garantire la massima protezione e sicurezza... Prudenza dicevo, ma nessuno ha voluto darmi retta! –Piantala con le tue lezioncine, cazzo – sta al gioco anche quel simpaticone dell’autista di pinzgauer, piuttosto ansioso di dire la sua – la mossa tattica di gran lunga più intelligente e arguta sarebbe stata quella di lanciarsi nel vuoto tra le nostre braccia come una rock star, senza pensarci due volte... –…Certo – interviene un secondo infermiere dell’equipaggio, che oltre a Čarli si trovava lì – non l’avremmo mai lasciato caracollare in una rovinosa caduta a terra! Gli armadi così alti poi sono un pericolo pubblico, anticostituzionali, da abolirne la produzione immediatamente! –Esigo silenzio! – vuole tapparci la bocca quell’instabile autorità che non sa più cosa dire o fare, ma che capisce l’urgenza di liberarsi dalla mia presenza – E tu stammi lontano il più lontano possibile, tu e il tuo zaino zeppo di siringhe! –È più facile a dirsi che a farsi. Presto o tardi sarai tu a cercarmi, stai avanzando troppo velocemente, hai già adocchiato le mie armi preferite, non vorrai mica iniettarti una dose, too fast, O Captain! My Captain ! Our fearful trip is not done... Il viaggio tremendo che si è compiuto... ma se proprio insisti possiamo parlarne! –Ma tu sei malato – si sconvolge ancora, come se mi parlasse per la prima volta – non mi toccare, vattene, mi senti? –Noli me tangere dici, tranquillo, che non ne ho la minima voglia, puoi starne certo! – riesco a essere piuttosto convincente – Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Ma chi ti ha costretto a salire sui mobili e fare Rapunzel-nella-torreincantata, idiota, un free climbing in cantina non si è mai visto... E per di più all’insaputa del Maggiore! –Non hai di meglio da dire vedo, accidenti a me e quando mi sono fidato di un tossico! – un momento di goduria l’ibernato non riesce proprio a perdonarselo – Mi hai fatto vergognare come un cane di fronte al proprietario di questa casa onesta e rispettosa, che sia fottuta tutta la tua famiglia, stronzo. Mentre mi parla seriamente io che faccio, indovina un po’? Come un cretino gli rido in faccia dall’alto, agito le manine in segno di gioia, penzolo con i piedini all’aria, lui dice

“l’eroismo” e mi parte un “ahahaha”, ci prova allora con “la patria” e io replico con un lungo “ihihihi” che mi seppellirà: tu cosa credi che succederà ora, eh? Che credibilità potrò mai avere? Delinquente, la madre te la fotto dooomaaattinaaa... ronf... ronf... zzz... E bravo Capitano, pensavo, così si fa: carpe diem. Ti prego continua a rimandare quello che non farai in alcun caso, la giornata è stata faticosa, riposa perbene che mi rilasso un attimino anch’io. Un momento di game over, o almeno ci speravo che lo fosse, prima che entrasse il suo supplente, deciso a giocare ai soldatini: egli non ebbe nulla di meglio da fare, infatti, che rimandare nuovamente il corriere, stanchissimo, per i bui sentieri, per avvisare questa volta le forze regolari che eravamo arrivati, come se ciò fosse importato a qualcuno. I cervelli del Comando sono fatti proprio con un unico stampo, indistinguibili l’uno dall’altro, se non fosse per le varie vibrazioni triviali che portano il loro specifico marchio di fabbrica, la frequenza del russare e l’intensità dei venti tempestosi. Non esiste infatti una scoreggia identica a un’altra e poiché il supplente era uno del mestiere, campione assoluto di vasta fama, battuto solo sporadicamente dalla puzza dei piedi di qualcuno, era indubbiamente saggio da parte mia abbandonare la stanza prima che fosse troppo tardi. Ho provato a fare qualcosa per lui, offrirgli un po’ di fumo e ridare speranza alla sua lugubre esistenza, ce l’ho messa tutta, non dite nemmeno per scherzo che non ci abbia provato, ma non voleva saperne di prendere qualcosa dalle mie mani, pazzesco! Come se fossi infestato da forze invisibili capaci di farti salire persino sulla punta del parafulmine se solo lo avessero voluto! Tanto peggio per lui, non sa cosa si perde, me lo godo tutto io. Con la testa galleggiante nella foschia erbacea, compio intanto i miei deboli, incerti i in direzione della scuola dove erano situati i regolari, ero sicuro fosse lì fuori da qualche parte, eppure mi sfuggiva costantemente. a così un tempo impreciso e incommensurabile prima che riesca a varcare la sua soglia, incrocio solo un paio di ufficiali più grandi di età, per il resto tutti sbarbatelli sui diciotto, diciannove anni, ben curati e sistemati, a differenza del mio gruppo che in confronto sembrava fuggito dall’impalamento o dalla forca, com’era evidente da ogni dettaglio, tanto da farmi vergognare degli stracci sporchi e bagnati che indossavo ammirando le loro impeccabili divise mimetiche. Dannazione, erano veri militari e non un branco di sfigati comandati da un fabbro e un macellaio che si dilettano a giocare alla guerra! Che Dio ci aiuti, mi hanno accolto a braccia aperte, non c’è che dire, come uno di casa, ragazzi a posto, simpatici, è venuta subito fuori una bottiglia di ottima grappa fatta in casa, poi se ne sono aggiunte altre, della carne vera, buona, divorata nel silenzio di chi gusta e apprezza il pasto senza pensare ad altro. Avevano spazio

sufficiente per dormire e per cucinare, persino l’ex aula dei professori giaceva inutilizzata e tenuta a chiave; gentili com’erano, spontaneamente decisero di metterla a disposizione delle mie letture solitarie di cui mi sono dichiarato bisognoso ogni tanto, per riare rapidamente vaghe reminiscenze scolastiche by myself, – mentivo spudoratamente, vaffanculo, non potevo saperlo che sarebbe stata la prima e ultima volta che avrei visto alcuni di loro, nemmeno loro ne erano consci, nessuno lo è mai... Mi alzo con fatica, spiccico due parole più o meno sensate, grappa permettendo, atte a ringraziare tutti dal cuore, ma per mia sfortuna la casa del generoso patriota mi attendeva con ansia, ceduta all’uso dei grandi eroici guerrieri che si sacrificano per il bene del popolo. –Altolà, chi-va-là? – Mi fa trasalire una voce dal buio proprio nel momento meno opportuno e avanza con una simile ridicola richiesta. Cosa rispondere a questi dannati filosofi, tanto una cazzata vale altra, come si fa a ricordare la parola d’ordine, se strada facendo hai smarrito pure il tuo nome? –Ma fammi un pompino! – Dico per dire addio per sempre alla mia vita. –Corriere, sei tu, sei tornato? –Oh, miseriaccia, possibile che ho indovinato il codice? – chiedo ridendo come un pazzo. –Hai preso il palo! Stasera era forza-fucile, ma solo tu potevi uscirtene con una fesseria del genere! –Non fottermi – ironizzo a dir poco soddisfatto che una volta tanto la fama possa servire a qualcosa e a colpi di stivale busso alla porta. Nessuno mi risponde, i piccioncini dolcemente dormono già, Knock-knock! Knocking on heaven’s door… il Capitano russa … it’s gettin’ dark, too dark to see... Il supplente nel tentativo di sopraffarlo suona la tromba col sedere e senza neanche pensarci spalanco la porta per salvare le loro innocenti vite, che nemmeno desideravano d’essere sottratte a morte certa e indolore, meglio un bel soffocamento che soffrire il freddo, sorry gente sorry... Prometto a tutti che non lo faccio più, crepate pure di puzza se più vi piace, ecco. Mi trovo un angolino libero, mi infilo nel mio sacco a pelo e buonanotte al secchio. Sogno un grande prato verde, in stoffa, decorato con fiorellini...

Non mi fido di te, comincio a sospettare per chi lavori, la mia confessione non ti interessa, lo so benissimo, ma vedi io non sto qui per inventare storie che facciano piacere a voi altri, i soldi che mi darai li sto guadagnando onestamente, perciò fai almeno quanto la buona educazione richiede: ascolta quando ti parlo e non mi urlare come i parlamentari pagati profumatamente e tuttavia fastidiosi e inutili come le erbacce, simili a quei drogati che fanno qualunque cosa pur di ottenere i loro illeciti scopi. Già te l’ho detto e te lo ripeto, non lo so perché il ciccione ti interessa così tanto, né voglio sapere quello che accade dietro le quinte, non ho notato nulla di strano in lui, nothing special, a parte la folle follia, selvaggia, elevata, di quelle autentiche, che raramente incontri; seriamente affetto da febbrile indipendenza intellettuale, non conforme ai modelli di pensiero e comportamento richiesti da noi comuni mortali, in poche parole uno visibilmente diverso dagli altri a meno che non fossi stato completamente cieco, se non altro almeno per le yellow sport shoes che indossava, divertenti, da piegarsi in due dalle risate. Ricordo benissimo che alla loro vista mi sono seriamente preoccupato di aver oltreato la mia dose quotidiana e invece no! Erano vere e mi camminavano accanto! Una persona scomoda, insomma, questo Čarli, da tenere lontano, ed è per questo che l’hanno teletrasportato da noi, per farlo sparire, prevedibilmente: girava voce che ha combinato dei guai grossi dove stava prima, infamie di ogni tipo. Vai a capire qual è la verità riportata di bocca in bocca e divulgata alla velocità della luce prima ancora che lui arrivasse. Speravo soltanto che piantasse su davvero un bel casino, qualcosa da far venire l’ulcera ai nostri quadri di comando. Dunque, la sera in cui un camion aveva portato i nuovi arrivati ero di guardia e mi toccava perciò il compito di farli accomodare; a vedere quel veicolo che letteralmente cadeva a pezzi non smettevo di meravigliarmi come mai non fossero ati a miglior vita già prima di arrivare da noi. –I fari dove li hai lasciati? – Incuriosito avevo chiesto al night driver dotato di volante, pedali, marce e nessuna visuale. –Il Comandante di retroguardia ha ordinato di non usarli –ascolto e capisco che siamo davanti all’ennesimo caso in cui il disorientato viene fottuto dal prepotente, e per di più si lascia convincere che gli piace – per non svelare al nemico i movimenti delle truppe. Non so nemmeno io come ci sono arrivato fin qui, più volte ho strisciato contro le recinzioni, poi sono andato a sbattere contro la stalla di qualcuno facendo scappare i buoi...

–Beati, beati voi – scuoto la testa preoccupato e mi giro verso il tuo uomo, chiedendogli dove bisogna accompagnarlo. –Alla Batteria di Comando. –Come mai? Chi sei, se posso chiederlo? – Non riuscivo a tenere un attimo la bocca chiusa. –L’infermiere. –Ma non mi dire! – gli sbuffo in faccia incredulo – Già ce ne abbiamo uno, si preparano forse per la carneficina? –Parli troppo! – mi squadra da capo a piedi seriamente e procede lento – E tu cosa sei? Il conduttore di un quiz televisivo, forse? –Ok, buddy, follow me – annuncio la resa, ma appena decido di stare zitto lui si comincia a interessare del nostro Capitano e quando gli rispondo cosa faceva di mestiere prima di essere arruolato comincia a gonfiarsi pericolosamente come una pentola a pressione pronta a esplodere. –Again, incredibile, tutto si ripete! Fin dove vogliono arrivare, mi chiedo, porci! – Lascio che dica fra sé e poi aggiungo qualcosa al suo discorso anch’io, ma molto attentamente. –Il male peggiore sembra sempre quello che tocca a noi, ma adire il vero questo fabbro non è poi tanto malvagio – cerco di non dirla troppo grossa – tranne quando è ubriaco o fatto, cosa che pietosamente prova a tenere segreta... Drogarsi di nascosto a quell’età, come si fa, allora sì che si comporta in modo strano... A proposito, ti va qualche tiro? –No, grazie, non ora, forse più tardi – rifiuta cortesemente, pensando evidentemente ancora agli incapaci al comando. –Rilassato, mi raccomando, – come uno scemo cerco di consolarlo di fronte all’evidenza – con tipi così è facile cavarsela. Inizialmente ti può sembrare troppo complicato affrontare il supplente leccaculo, ma quando ti accorgi della sua stupidità vedrai che è una eggiata fotterlo. Una versione più leggera di cretino, diluita, credimi!

Una volta arrivati alla nostra cantina mi fermo, lo lascio are avanti ed entrare per primo; aprendo la porta, il coro papale scuote violentemente l’aria con la stessa canzone di sempre, contestando il freddo e il gelo e chiedono al nuovo arrivato di lasciarli dormire in pace come meritarono i soldati dopo la forzata Marcia di Igman. Lui acconsente senza nulla obiettare, e come un pugile si ritira dalla parte opposta del ring, fa cadere la borsa per terra, poi si butta anche lui, libera i piedi da quelle scarpe da pagliaccio, tira fuori una pomata e si toglie i calzini; arrotola i pantaloni fino al ginocchio e comincia a pulire le ferite, mi spiega che l’infezione se l’è presa nei pressi della città di Klokot, ricordo di lunghe giornate trascorse a marcire in trincea. Il senso di nausea mi avvolge all’improvviso, insopportabile, forte; mi parla ancora, ma non intendo più il senso delle sue parole, rimango ammaliato dalle forme che scorrono davanti ai miei occhi: sono identiche ai fiori del mio sogno, spiccicati, non oso crederci, – strofino gli occhi per vedere meglio – tanti boccioli semichiusi di roselline rosse che ancora si devono aprire, stupendi petali creati dalla linfa macchiata di sangue, e cremosi accumuli di polline dall’abbondante pus ocra tendente al verdino, dolorose ulcerazioni ormai scoppiate divenute soggetto floreale di una tra le più belle rappresentazioni della natura morta, rara e profonda inquietudine nel gioco di luci e ombre. Imibile alla bellezza suprema, le unge con cura… love me tender… ci mette sopra una garza… love me true… fascia tutto con le bende… all my dreams fulfilled… Si adagia sul tavolato e si gira dall’altra parte. Tregua, questo lo capivo bene, gli serviva un po’ di pace; lo lascio lì ed esco per un giro di ricognizione delle varie postazioni di guardia, – te l’ho detto poco fa che quella sera ero di turno, diamine – quando tutto d’un tratto compaiono gli aerei, airplanes, flugzeuges, repülögépek, avions, le misteriose navi volanti decise a sorvolare la zona ano proprio sopra il mio cervello… Uno, poi un altro, poi un altro ancora, cazzo quanti ce ne sono! – pensavo fosse molto più difficile raggiungere l’overdose fumando l’erbetta e vedere stormi di draghi che instancabili si susseguono uno dopo l’altro –Cosa succede a tutti quanti? Dove credono di andare? Sarà forse che siamo al Kennedy oppure a Heathrow nel periodo natalizio, da queste parti Babbo Natale non si è fatto vedere da parecchio tempo. Mi sentite? Avete sbagliato direzione, siete completamente fuori rotta, go home. Ma per qualche motivo i miei perché a loro non interessavano; d’accordo, chi è più forte detta legge, è sempre stato così e sempre sarà, la mia voce viene facilmente sopraffatta dal rumore insopportabile, piccola, insignificante... Avvicinandomi alla prima postazione, vedo uno degli autisti incaricato quella notte di sorvegliare, che butta il fucile lontano da sé e corre verso la cantina, infuriato e con la testa nel sacco.

–Perché me? – grida fino al cielo – Perché avete scelto proprio me, fottuti bastardi? Qualcun altro per caso non vi andava bene? Io ho moglie e figli! Mi precipito, gli vado dietro per capire cosa intende fare, inciampo nei gradini e mi alzo in tempo per assistere a tutta la scena: ora sono chiuse le bocche degli uomini svegliati dalla paura, non sentono più il freddo, né hanno da ridire sulla porta spalancata, muti e pietrificati nel loro silenzio totale, interrotto solo dal rumore degli aerei e del nuovo infermiere, che non la smetteva di russare nonostante tutto. Osservano i movimenti rapidi dell’autista che, infastidito da tanta insolenza gli si avvicinava, lo voleva far alzare, subito, brutalmente, tirando calci all’impazzata da metà polpaccio in giù, per mandarlo fuori al posto suo e dargli così una punizione meritata. Il corpo a terra si attorciglia su se stesso e geme dal dolore, la sua sofferenza penetra sotto la pelle facendomi star male come fosse stata la mia. A voce calma l’aggredito risponde che è d’accordo, l’avrebbe senz’altro raggiunto fra qualche istante, non appena si fosse rivestito, e a questo punto agli stivali neri non resta altro che tornare fuori e attendere il cambio della guardia. Diminuendo leggermente d’intensità, il bombardamento prosegue ancora e si placa l’ansia di tutti; molti tirano un sospiro di sollievo, il mormorio di fondo aumenta, precocemente, fin troppo; la macchia di sangue cresce a dismisura davanti ai miei occhi, tinge le bende e fuoriesce, cespugli fiorenti di rose rosse si propagano su tutta la gamba, lo splendido rosegarden i cui fiori forano direttamente le pupille dei suoi osservatori riprende l’intera superficie... Roses, my dear roses… Lui non si sconvolge, prende un’altra benda, la pone sopra e spingendo quel mare rosso lo costringe a retrocedere, poi abbassa i pantaloni e a o deciso si incammina verso la porta. Nessuno nel locale si azzarda a muoversi prima che sia uscito, tutti distolgono rapidamente lo sguardo al suo are e guardano altrove, come se non fosse successo niente. Io lo seguo, invece, attraverso il fango del cortile e oltre il suo storto cancello in legno, fino alla prima guardia a cui, in tutta tranquillità, chiede se per caso fosse stato lui a svegliarlo poco prima. L’altro fa la voce grossa, si atteggia e chiede cosa avrebbe da ridire, il coglione. Senza battere ciglio, né chinare il capo, il cicciotto tira fuori dal fodero la baionetta, gli strappa via il casco dalla testa, lo afferra per i cappelli e gli preme la lama sotto il collo, attendendo alcuni istanti prima di riprendere a parlare a fior di labbra, sussurrando parole così lentamente da far venire la pelle d’oca persino a me che non c’entravo nulla. Tutto il tempo del mondo sembrava essersi fermato, mentre gli prometteva che l’avrebbe sgozzato se solo avesse osato un’altra volta... La coda di quella frase si è dispersa, completamente risucchiata dal rumore degli aerei di nuovo in aumento; non ho potuto sentirla, ma vedevo l’acciaio gravare sulla laringe e tanto mi

bastava. Comunque, scusate, che domande sono queste? Come faccio a sapere con che tipo di persona abbiamo a che fare? Non potete pretendere miracoli da parte mia. Il punto è un altro: chiunque fosse questo vostro Čarli nella vita di tutti i giorni, lì, in quella precisa situazione, credo che l’avrebbe fatto, sì, avrebbe ucciso uno stronzo a sangue freddo se avesse proferito un’unica maledetta parola. Di questa spirale della follia vi sto parlando, fanculo, che flash, da non credere ai miei occhi. Manda dunque a dormire quel fetente e si accende una sigaretta, poi si rivolge a me dicendo qualcosa su quegli infami pezzi di merda che volano in alto e preparano orge per conto di altri. Incoraggiato da quelle parole mi avvicino e a mia volta gli chiedo se ha timore. –Se è per quello, – ammette a cuor leggero – mi sono cagato sotto dalla paura, ma sono cazzi amari lo stesso! Gli offro uno spinello e mi siedo vicino. Questa volta lo accetta. –Ogni cosa a tempo debito, – bisbiglia riempiendosi i polmoni– è un peccato diventare capri espiatori di questi strafottenti che ci circondano, sono troppi! –Lo sai che domattina vengono a fartela pagare? – Lo avviso amichevolmente, leggendo in lui incredibile indifferenza. –Mai sottovalutare quello che la paura riesce a fare di una persona – più che rispondere a me parla ormai con se stesso – ma nemmeno permettere che ti controlli o vinca. In vita mia parecchie volte mi sono trovato nella merda fino al collo, appeso a un filo... –Ehi, dottore – cerco di farlo ragionare – take it easy, è il momento di rilassarsi ora! –…Talmente sottile che può spezzarsi da un momento all’altro...– continua a lagnarsi come se fossi inesistente – Ho visto mascalzoni piangere come femminucce e fighette trasformarsi in leonesse capaci di sbranare gli avversari se la difficoltà lo richiedeva, la paura è un miracolo potente... –Se intendi continuare – lo interrompo – tolgo il disturbo, non c’è problema,

davvero! –Lascia stare – scuote con la mano disapprovando – non te ne devi andare, dimentica tutto, la faccio finita, lo prometto. E così fece, il resto del tempo parlammo del più e del meno evitando di toccare argomenti seri, a volte non bisogna rischiare. Lasciammo da parte tutte le questioni più grandi di noi, che facilmente avrebbero potuto farci affondare, e ci abbandonammo alla saggezza della sempre ottima casalinga, fumata e goduta nel corso della notte fino all’ultimo grammo. Attendemmo dunque il cambio della guardia stranamente allegri e, alle prime luci dell’alba, tornammo al riparo. Lui aveva dormito profondamente e senza interruzioni per tutto il mattino successivo e sul tardi l’avevano svegliato per dargli il benvenuto con del pessimo caffè, quello squisito intruglio preparato in gran parte con farina di ceci quando scarseggiava la macina, di cui tuttavia manteneva inalterato il profumo tipico indispensabile per tirarsi su di morale. Una magra consolazione, lo ammetto, che però ricevevamo a braccia aperte: era meglio di niente. Nel caso mai mi venisse in mente di azzardare una simile porcheria sperimentando con i miei esemplari botanici, farei ancor prima del tramonto la fine di un erotto con l’ala spezzata che incrocia il gatto, altroché. Qui invece potevamo tranquillamente sguazzare nel fango quanto ci pareva senza scomodare nessuno. Non agitatevi subito voi due, lo so che non apprezzate le mie digressioni, non c’è bisogno di ripetermelo che vi interessa solo lui; sono d’accordo: più stringo, prima usciamo da questo incubo felici e contenti – si era seduto e stava per sorseggiare la pozione magica offertagli, quando a un trattorista viene in mente di chiedere a cosa ci serve un veterinario. –Abbiamo bisogno di medici – farfugliava paonazzo in faccia dalla preoccupazione – dei veri specialisti istruiti, capaci di soccorrerci in caso di necessità! –Allora siamo a posto – constata secco la situazione il ciccione senza ancora riuscire a mandare giù neanche una goccia di caffè. –Come sarebbe? – chiede visibilmente sconvolto il campagnolo. –A ciascuno il suo dottore, a ciascuno il suo... Non c’era bisogno d’aggiungere altro, tutto era chiaro, almeno quanto basta per mettere le zucche vuote a tacere, il che non è mai poco. In quel frangente

compaiono il Capitano e il suo vice, ben sistemati, lucidi, pettinati, pronti a farci la predica. –Compagni... –Fermi tutti – interviene il nuovo infermiere – fatemi correggere fin da subito i potenziali errori terminologici! –Come prego? – non capisce il Capitano. –Non sono un compagno per nessuno di voi, né ho intenzione di diventarlo. –Hmmm, – borbotta il vice che cerca di riprendere il discorso– siamo qui oggi perché, ancora una volta, vogliamo ribadire l’importanza dei rapporti interpersonali integri, e sentiamo la necessità, dunque, di aprire una riunione che prenda questo argomento come spunto per una discussione e una riflessione profonda... Come potete ben immaginare non fa in tempo a pronunciare la frase intera, come da copione imparata a memoria, che rimane nuovamente spiazzato dal comportamento audace di quello stesso seccante infermiere, il quale esigendo rigorosamente solo l’utilizzo di termini appropriati lo interrompe ancora. Mantiene la calma e spiega l’accaduto in poche parole, è tutto molto più semplice di quanto non possa sembrare, una questione privata, insomma, tra lui e il cretino di turno convinto di poterlo usare come pietra d’affilatura per dare il filo al suo cazzo, così, senza un preciso motivo, scende un silenzio, di quelli palpabili, pesanti; qualcuno in fondo bestemmia, chissà mai per quale motivo; l’autista vergognandosi come un ladro si alza, chiede perdono a tutti, al ciccione in particolare, gli stringe la mano e dice di essersela vista davvero brutta, non nega lo spavento che si era impadronito di lui, un violento attacco di panico, inspiegabile. L’infermiere accetta le sue scuse sconcertato, anche se non più di tanto; evidentemente comprendeva, sapeva istintivamente qualcosa che a me sfuggiva, ne sono certo. Tutto cancellato dalla mente, come se il perdono fosse una qualità innata: prima vogliono massacrarsi a vicenda e poi convincerti pure che è irrilevante, to forget, o meglio ancora to forgive magari, e vanno avanti così da almeno mille anni. La vedo dura, il bello di tutta questa storia è che poi sarei io quello che si deve riabilitare: dov’è l’inganno mi chiedo, dov’è? Una volta finito questo meeting esemplare tutti pensarono bene di squagliarsela il più in fretta possibile, ognuno dalla sua parte, inventando scuse e irrevocabili

impegni, così per la terza volta mi trovai da solo con lui e la cosa non mi dispiaceva affatto, anzi, apprezzavo qualche ora libera per conoscerlo meglio, un privilegio che mi ripagava in conversazioni divertenti e insolite. Decidemmo di fare un giro per il paese together, visitammo l’antica chiesa risalente all’XI secolo e situata sulla collinetta nel cuore del borgo, dedicata a San Teodoro di Amasea, patrono delle reclute e dei militari, accanto a cui, a tutt’oggi, sono visibili ben conservate le orme dei piedi del re Marco – il trecentesco e leggendario sovrano serbo, dotato di una forza sovrumana pari soltanto a quella di Ercole – nonché il calco degli zoccoli del suo cavallo alcolizzato – quell’incontestabile esempio di amore di un uomo talmente generoso e giusto da abbeverare la sua bestia, dotata di altrettanti poteri eccezionali, con del vino al posto dell’acqua pur di condividere con essa ogni cosa riservata loro dalla sorte. Accendemmo le candele e facemmo il segno della croce, per i vivi e per i morti, in egual misura. – Eh, giovanotto – non perde l’occasione per punzecchiarmi – cosa non darei per sapere a quale gruppo apparteniamo! –Tranquillo, vecchio mio – gli rispondo per le rime allora –ancora tra i primi, almeno per un altro po’! A patto che quei due tipacci, il Patton del momento e il fedele sgancia-scoregge che gli corre dietro, non ci sopprimano casualmente strada facendo... Decidemmo poi di arrivare fino a un piccolo negozio di alimentari nelle cui vicinanze incontrò un cugino in compagnia di altri due disperati; poco importava che li conoscesse solo di vista: per festeggiare, una scusa vale l’altra, un po’ di svago non fa mai male, grappa e birra a volontà …so skopsko i sè e možno... possibile, anzi, possibilissimo, la birra macedone fa miracoli, lo dico anch’io che ho avuto modo di vedere coi miei occhi come si scola una cassa piena nel tempo assolutamente insufficiente anche solo per spezzarti la lingua cercando di pronunciare una parola come “rastafarianesimo”. Se dovessi fumare quanto invece loro riescono a bere mi crescerebbe la foresta amazzonica dentro, foglie di canapa come le corna di un ariete mi spunterebbero dalle narici, magica ganja in eccesso che scivola fuori dall’orecchio, brother. Te lo giuro su mia madre, e si vantano pure, farabutti. Ci invitarono nella casa in cui si erano sistemati, una costruzione rimasta incompleta con in compenso una splendida cantina, perfetta tanto per un’improvvisa ritirata tattica quanto per una pianificazione strategica del contrattacco. –Mica male questo posticino, – il mio personale contributo alla valutazione degli esperti – davvero! Si presta bene, c’è anche il negozio vicino.

–Ah, peccaminosa ingordigia – si burla di tutti la sua voce –anche la chiesa si trova nei paraggi, ideale per salvarci le anime se mai ci venisse voglia, visto che i sederi non ce li abbiamo più sotto la nostra responsabilità personale. Detto ciò, semplicemente si continuava a bere, un’altra cassa di birra era partita, l’effetto sedante stava lì a portata di mano, alla faccia della tossicodipendenza. Intendiamoci, lo vedo, I beg your pardon, ve lo chiarisco subito in due parole: se ora decidessi di camminare completamente nudo qui davanti a voi con solo un’aureola di fumo afgano above my head, ecco, signori miei, ciò non sarebbe né più né meno grave del livello di depravazione che la dissolutezza aveva raggiunto quel giorno, in cui si brindava con il dito medio alzato a ogni aereo in arrivo. Compresi appieno solo allora l’effettivo significato di alcune frasi sugli striscioni visti in un video in cui un gruppo di giovani riservisti protestava chiedendo pietà e clemenza, come “NATO, arrenditi, non vogliamo morire ammazzati dall’alcol”. Eccome se li capisco, come anche quella curiosa rivendicazione delle famiglie nomadi su un pezzetto di terra, evidentemente preoccupate che dall’alto le loro abitazioni potessero essere facilmente scambiate per qualche importante punto strategico, per cui fecero un grosso tabellone con tanto di freccia che indicava la direzione giusta onde evitare ogni possibile malinteso: “Questo è mähallä zingara, per l’aeroporto da quella parte”. Insomma, per sopravvivere in quel sottosuolo, save our souls da una terza cassa di birra, e per non diventare nemmeno insetti, un modo efficace l’avevamo trovato: squagliarcela in un momento di pausa pipì mentre gli altri sono ancora presi dal fare il brindisi con le bottiglie alzate in aria... Una volta arrivati alla nostra cantina avrei voluto riposare un po’, distrutto com’ero da quelle persone e dalle relative discussioni incongruenti, ma nulla da fare, invece, la malasorte talvolta è perfida e non ti lascia respirare. Capitammo, infatti, nel bel mezzo dell’interrogatorio di un tremolante autista mai visto prima, spolpato e ostinatamente deciso a tenere la bocca chiusa di fronte al Capitano, che provava un metodo per farlo sciogliere e vuotare il sacco. Il nervosismo o la stanchezza mostruosa avevano prodotto le mie allucinazioni visive, non saprei dire, fatto sta che vidi trasformarsi il nostro superiore in un perfetto Gran Inquisitore, con i baffi appuntiti e lo sguardo attento, pronto da un momento all’altro a torturare anche me, costringendomi, mio malgrado a sentire la testimonianza di quel riservista che avrei preferito ignorare. –Bevi! – lo incoraggia versando altra grappa – Su, che ci vuole a svuotare ’sto bicchiere? Sappi solo che per tutti noi è stato difficile macchiarsi di sangue la

prima volta! –Quando mai, Capitano – non resisto in disparte – se qui ancora non è successo niente? –Nessuno ti ha chiesto un parere, – il suo tono mi colpisce come lo schiocco della frusta e mi fa capire quale fosse il mio posto, caso mai l’avessi dimenticato – fatti indietro, marciume, e lascia che questo soldato ci racconti in pace l’accaduto. Fanculo semplice fabbro di merda, pensavo esausto e senza ribadire, nessuna uniforme né distintivo ti faranno mai evolvere, poiché chi nasce cafone muore cafone, è una pura e semplice legge di natura, che ci vuoi fare. Come non poteva farci assolutamente nulla quel poveraccio davanti a noi, quando un gruppetto di soldati volontari decise di servirsi di lui per portare a termine il loro piano, con un coltello puntato alla gola... –Che ne dice, dottore – prendo per i fondelli l’infermiere senza indugio – questa procedura di minacciare in giro la gente con le lame sembra andare di moda quest’anno, altro che proteggere il suo prossimo come se stesso! Una strabiliante collezione Primavera Estate ’99. Affrettarsi, prego, prima che finisca: solo acciaio di ottima qualità! –Stai zitto una volta buona e lascialo parlare, – urla ormai l’esasperato Capitano – lascialo parlare... Sì, è molto meglio se mi contengo e ascolto la testimonianza. Uno, due, cinque minuti, mi chiedevo quanto avrei potuto effettivamente resistere in apnea fingendo indifferenza verso quello che si stava raccontando, trattenendo il fiato a sufficienza per scrollargli di dosso quelle sanguisughe che l’avevano obbligato a condurli nel paese. Un bestione calvo e tatuato gli faceva la guardia perché non scape, anche se ciò, tutto sommato, data la situazione, era molto poco probabile: dal terrore provato, le gambe dell’autista divennero pesanti come fossero due pezzi di legno, incapaci anche di camminare. Sentiva il pianto dei bambini il cui suono precedeva le urla dei loro genitori, lamenti e grida degli uomini e delle donne, una breve raffica di colpi e l’agghiacciante silenzio che ne seguiva; li vedeva tornare con i volti e i vestiti ricoperti di sangue, buttare sul sedile lo sporco bottino e ordinargli di guidare, di andarsene più in fretta possibile, come se le mani tese in preda al panico fossero in grado di obbedire

ancora. Le dita inseriscono la chiave e la girano velocemente, ma rimangono sconnesse per la mossa successiva e dopo vari tentativi non riescono a mettere in prima. –Per partire – interrompo l’atmosfera funebre calata – basta spostare la leva prima a sinistra e poi bloccarla in avanti, senza dimenticarti nel frattempo la frizione. –Lascialo stare! – Mi rimprovera persino l’infermiere, che credevo fosse un spiritoso simpaticone. Il più insanguinato dei briganti con un grosso cappello da cowboy in testa aveva ordinato all’autista di frenare e accostare sul ciglio della strada. –Quello che è appena successo non è mai successo – diceva respirandogli a pochi centimetri dal volto – tu non hai visto né sai niente! Ora è tutto più chiaro, no? Il suo silenzio cadaverico l’avevano interpretato come l’effetto indesiderato di un qualche psicofarmaco assunto, razza di imbecilli, per non dire altro. Contarono fino a dieci e poi lo fecero correre come un animale, insinuando che l’avrebbero inseguito e colpito alle spalle, grugnivano e ridevano tra loro, di tanto in tanto sparavano in aria, giusto per dare un tocco di allegria al gioco, mettevano del pepe nel culo del poveraccio che, graffiandosi braccia e gambe ai rami bassi e cespugli che lo circondavano, inciampando e scivolando più volte, si rialzava e tirava avanti privo di anima, ansimando, senza mai voltarsi indietro. A recuperare la sua roba personale da quel camion non ci pensava nemmeno, lo capisco bene; nessuno sano di mente l’avrebbe mai fatto al posto suo, persino le munizioni e il fucile ci aveva lasciato. –Ma non mi dire, – per quanto mi sforzassi di rimanere in silenzio alla fine ho dovuto desistere, perché altrimenti rischiavo di morire soffocato – posso prestarti il mio se ci tieni tanto. Sono fornito anche di armi ben più efficaci, eccezionali guns di riserva! –Serrate quella fogna al posto della bocca, corriere, – strilla il Capitano – la puzza è insopportabile! –Veramente avrei una proposta geniale – non curandomi dei

più che evidenti segni di fragilità del suo sistema nervoso, sfidavo deliberatamente l’ira del mio superiore. Almeno qualcosa bisogna concedersi nella vita... –Zitto. Quello di stare zitto era un ordine, non un’opinione, –una volta portato ad ebollizione nessuno sarebbe riuscito a impedire l’imminente esplosione che ancora abilmente controllavo – non vedi proprio l’ora di finire davanti alla corte marziale, eh? Ti ci porto, stai tranquillo; tu continua a provare a drogarci e ti ritroverai lì prima ancora di aver capito cosa ti è successo! –Non vedo l’ora – accolgo la proposta divertito – credo che saranno interessati a sentire i particolari di prima mano su certi usi e costumi che non solo hai prontamente adottato, ma anche saputo arricchire da un tocco personale ben riconoscibile. Naturalmente se non ti scoccia che io fornisca queste preziose informazioni... –Ma di che diamine stai parlando? – Avverto come gli si stesse stringendo il buco del culo. –Sarà mio dovere raccontare agli egregi signori giudici tutta la verità, nient’altro che la verità, di come ti arrampichi sugli armadi per ricevere gli ospiti dall’alto! –Non oserai mica... –Eccome se lo farò. Tutto, per filo e per segno se serve: quanto, cosa e quando fumi, non so bene neanche io come, ma sarò costretto a cercare di spiegare i tuoi impulsi inconsci negativi mentre distruggi l’inventario delle case altrui, oppure ti spingi oltre ogni limite della decenza e del buon gusto per mettere in ridicolo la tradizione... Serve altro? Ora tocca a te decidere se vuoi veramente affrontare questo problema, Capitano, considerato che quando avrò finito di parlare in aula ti ritroverai a fare il Caporale più anziano mai visto in tutto l’esercito! –Meglio che lasciamo stare, – invece di perdere le staffe all’improvviso abbassa il tono – fagli solo finire la storia. –Certo, ma ci mancherebbe altro, facciamolo anche vomitare già che ci siamo. Tra i pezzi sputati potrebbe esserci qualcosa di interessante, sarebbe un peccato se rimanesse nascosto e non emergesse. Te le metto io due dita in bocca? Che ne dici, vuoi? – Mi accanisco contro quel povero né colpevole né innocente disgraziato, ripiombato di nuovo nella merda quando meno se l’aspettava.

–Ve-ve-vedi, iiiiio do-do-domani – diceva, cercando disperatamente una via d’uscita. –Smettila di balbettare, mi irriti. Lo so già che domani torni alla tua unità, non me ne frega un cazzo di tutto questo, puoi raccontare a loro tutti gli opprimenti dettagli che vuoi se ci tieni tanto... Così sono uscito fuori, o meglio dire scappato, colto da nausea e schifo per ogni buca, ogni sasso e ogni centimetro di quella dannata cittadina, per il solo ricordo di tutta la birra scolata. E questo decisamente stupido tontolone di Pirot che dopo essersi perso doveva venire proprio qui, nella nostra Batteria, a sperare in un lieto fine. Cosa c’è che non va ora? Di nuovo non vi fidate di me, voi due? Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come credereste se vi parlerò di cose del cielo, ne avevo abbastanza soprattutto dello sguardo, della voce e dell’intero atteggiamento del nostro frivolo Capitano, che si credeva d’essere l’ombelico del mondo, o perlomeno la reincarnazione del defunto Sava Kovačević, – eroe morto gloriosamente a Sutjeska, nel corso della Quinta offensiva, durante la Seconda Guerra Mondiale – che Dio lo perdoni! Non si può sentire quella falsa consolazione che gli esce dalla bocca! Spunta tra i denti, un indigeribile “non è niente”, che si incastra nell’esofago e non mi va giù, disgustoso fanfarone cinico, convinto di rivivere every God damned day una replica della battaglia di Stalingrado, impaziente di far credere al mondo intero che ne abbiamo viste di tutti i colori, quando invece le nostre proboscidi non sono quasi per niente spuntate fuori dallo scantinato in cui regna la puzza! Davvero troppo per uno come me che boccheggia come un idiota per le irrefrenabili risate tra una tirata di fumo e l’altra. Sdraiato al centro del cortile, il cielo in quel momento mi apparve anch’esso più grande del solito, traboccato, giunto prepotentemente al mio petto, uscito fuori misura tanto che posso giurare adesso che non correva da me a lui la distanza di un palmo e mezzo. Al mio rientro non trovo una virgola cambiata, la vanagloria non conosce limiti e non le vengono mai a mancare gli argomenti da osteria buoni per gonfiarla. –Suvvia, Capitano, raccontaci di quella volta quando abbiamo combattuto con gli albanesi! – Spingo il pedale per dargli un altro po’ di gas proprio mentre la stanza inizia a girare su se stessa come dovesse capovolgersi da un momento all’altro prima della centrifuga completa. –Una lotta esemplare, molto dura, – con grande entusiasmo il Superiore accetta che glielo ficchi fino in fondo – nelle ultime ore ce la siamo vista davvero brutta,

ma la grinta e la tenacia non l’abbiamo mai perse. –Già, come nello scontro con i marines d’altronde; – continuo a tallonarlo senza dargli tregua – venti, quaranta, ma che dico, almeno cento uomini piombano su ognuno di noi e non ci facciamo catturare lo stesso... –Troppo facile dire oggi “azzardato” e “rischioso”, – acconsente lo zuccone, i cui baffoni iniziano a crescere in maniera piuttosto rapida, sempre più velocemente fino ad allargarsi sulla stanza intera facendomi un insopportabile solletico al naso – ma chi non è stato lì di persona non conosce il vero pericolo! –Non ti dimenticare della Sesta, flotta Capitano – dico scoppiando in una risata tremenda, impressionante, inevitabile – quando hai salvato la vita a tutti quanti noi, inviando le scoregge armate al posto dei soliti siluri noiosi contro Saratoga stazionata nell’Adriatico! Non essere troppo modesto, raccontagli tutto! Ebbene, per quanto deputy fosse una paranoica canaglia che fin dall’inizio manifestava eccessiva diffidenza nei miei confronti, anche il grande sceriffo era finalmente arrivato a capire d’essere stato preso per il culo, strillando come un matto e invitandomi a ruzzolare nel pantano con i miei simili. Vuoi per la quantità di saliva che sputava minacciandomi, vuoi per un’estrema spossatezza che quasi mi fece preoccupare, indietreggiavo sempre di più per non essere colpito da nessuna cartuccia bavosa, ...ooosa, ...osa, …rooosa, forte e tenera bianca rosa, oooh meine Weiße Rose, colpevole ero d’averin modo assai volgare diffamato in tempo di guerra un Ufficiale, indebolendo così la sicurezza armata della Nazione. Ormai nemmeno ascoltavo più quello che diceva, talmente era difficile distinguere le sue masticate parole esci e combatti – risuonava intanto nella mia testa – in questa città c’è posto per uno solo di noi due! un altro o ancora e sarei stato fuori dalla sua portata, protetto da una fragile parete del bagno, l’unico nascondiglio abbastanza vicino e semplice da raggiungere. Fu allora che il tasto del volume si ruppe, le orecchie furono colpite da un’onda sonora alta, violentissima, fui messo con le spalle al muro e sbatacchiato verbalmente con irruenza da un uomo che spingeva, e come un fiume in piena, avanzava, inghiottendomi quasi, e sul punto di cedere di fronte a tanta incontrollata acqua, capii di avere ancora una carta da giocare, dovevo contrattaccare, essere io il dirigente del mio personale show, l’artefice del concerto in cui la folla impazzisce e avvampa la mente. Partii, dunque, con tutt’e quattro le corde del basso, evitando le note morte e risalendo velocemente in un tapping senza precedenti, lasciai libero sfogo alla canzone che credo di aver

sentito migliaia di volte, take me down to the paradise city, dove l’erba è veeerdeee, aprii quella porta, sono un caso duro difficile da battere, e gliela chiusi in faccia, I want you please take me home. Finalmente in salvo, aprii il rubinetto con il getto forte e lavai bene il mio riconoscente viso, un gelido sollievo tolse immediatamente quel fastidioso senso di soffocamento e gonfiore e, confortato, lasciai scorrere un filo sottile d’acqua per un altro po’. Cercai di illudermi che tutto andasse bene; che ingenuo che ero! Quando mai è stato sufficiente un gorgoglìo a contrastare il brusio di voci proveniente dall’altra stanza? Mi serviva una striscia bianca dal cuscinetto between love and hate, sottilissima; feci allora una piccola tirata, così, giusto per regalarmi un po’ di euforia al cervello che quella volta però tardò: mi aveva abbandonato persino lei. Sentii la fame invece, esagerata, primordiale, e una voglia pazzesca di prenderlo a schiaffi, raddrizzargli quel naso, colpirgli la bocca; il fastidio che mi provocò, pian piano divenne sempre più insopportabile e iniziai a grattarmi, sebbene non lo vedessi e non lo sentissi. La viscidità del vice era come l’orticaria che mi portavo addosso. Percepii chiaramente il suo annuire mentre appoggiava la qualunque, anche la più sproporzionata tra le menzogne, ed è così che in quella posizione di offside ridiventai ancora più curioso, ossessionato dall’idea di dover vedere cosa succedeva dall’altra parte e sentire fin dove erano capaci di spingersi gli idioti. La cartilagine si espandeva e dilatava, invadente l’orecchio sinistro scendeva sul pavimento e a mia insaputa strisciando raggiungeva il loro campo; voleva mimetizzarsi, l’impertinente, con i colori pallidi di quelle fredde mattonelle del muro, immischiarsi in cose che non lo riguardavano, giudicare inverosimili particolari di cui abbondavano le storie che il Capitano raccontava, attribuendo oltretutto a se stesso un ruolo tale che diventava legittimo chiedersi in cosa lui e simili valorosi paladini si sarebbero trasformati dopo la guerra, se già allora il fetore del loro eroismo era così insopportabile. Già mi immaginavo le preziose edizioni postbelliche dal titolo La vita del barone fabbro e altri racconti eroici, una sorta di Münchhausen moderno e poco nobile che cattura l’attenzione e vende, con fan che fanno la fila davanti alle maggiori librerie per avere un suo autografo. Capito ciò, il mio disgustato organo uditivo si ricongiunse in fretta al resto del corpo; pure lui mi dava ai nervi, e non poco; prima è pronto a spettegolare e poi si meraviglia dei frutti ottenuti. Veniva da chiedersi anche chi di noi fosse il vero drogato, se gli scimuniti pastori di turno che forse non sapevano che i tempi delle guerre di trincea erano tramontati da un pezzo, oppure io, che ogni tanto sceglievo di sorvolare spicciole questioni. C’era ben poco di cui vantarsi e per cui voler sembrare eroi: qui non avremmo visto mai nessuno, e se poi per sbaglio avessimo sentito qualcosa avrebbe significato che al tempo era già too late... Non arrivava a quelle poche circonvoluzioni dei

loro cervelli che se eravamo in quel luogo era soltanto perché un ano avrebbe potuto salvaguardare il suo culo e salire di grado; d’altronde, proprio per questo, loro erano stati scelti per fare i comandanti, in un paese dove nulla mai succede per caso, dove la migliore roba viene spacciata dagli sbirri stessi, dove la droga è facilmente reperibile persino quando mancano i viveri fondamentali e si fa la fila per olio e farina... Di nuovo sono uscito fuori dal tema, va beh, che ci volete fare, avrei preferito uscire e rientrare nel corpo, solo che ancora non ho capito bene come si fa. Non vi sembrerò normale, tranquilli: è regolare. Sono un inconcludente che si perde facilmente, sono solo un ragazzo (anche l’infermiere diceva la stessa cosa, curioso di sapere quanti anni avessi e si mettendosi le mani tra i capelli e bestemmiava. La mia età lo faceva rabbrividire e incazzare a quanto pare: avevo solo undici anni quando era stato spedito a Vukovar per due mesi – prima che gli abitanti di Leskovac, seppur minacciati di una serie di spiacevoli conseguenze, ebbero il coraggio e il buon senso di gettare le armi in massa – e trascinato avanti e indietro tra casa e caserma, con la banale scusa di regolari esercitazioni militari. Un par di palle! Nessuno ci aveva mai creduto alla versione ufficiale! Avreste dovuto vedere come si infuriava: un torrente di commenti unici e irripetibili sull’ipotetica guerra futura). Chi lo sa? In questo paese di merda tutto è possibile, a breve distanza magari, – per non perdere la mano, come fosse un orgasmo che occorre ripeterlo spesso per non disabituarsi – ci sarà un nuovo conflitto, fra altri otto anni ancora, in cui lui ne avrà quarantadue e io ventisette e ci sarà un nuovo ragazzo di soli diciannove anni. A quel punto si mise a strillare, esasperato come un dannato e lasciando sbalorditi e col fiato sospeso tutti quanti. –Basta! Fottetemi in bocca se serve, ma così non si può andare avanti! Quel che è stato è stato, bisogna farla finita! Rimasi perplesso anch’io a sentirgli nominare Napoleone, la fondazione del Primo Impero, mari e monti vari, e come se ciò non bastasse persino un certo Augusto Roa Bastos per disorientarmi completamente, come se non fossi smarrito già abbastanza di mio. Se con il primo ho avuto il piacere di fare la conoscenza ogni tanto – il rituale più adatto per degustarlo lo conoscete, o si spera almeno: un bicchiere a tulipano il cui calice liberamente ruota nella mano, miglior riscaldamento naturale, una bevuta da meditazione, da realizzare a piccoli sorsi per un pieno apprezzamento del palato e del naso – col secondo non potrei dire altrettanto; purtroppo, non so nemmeno se sia commestibile o meno, né sono propenso ad assaggiarlo... In qualche modo mi ricorda molto le

telenovelas spagnole e sudamericane, ma forse sbaglio... –È giunto il momento – spiegava intanto Čarli ed era la prima volta che sentivo il suo soprannome – di sostituire la pelle del leone sul mio stemma con quella di una volpe, che alla situazione meglio s’addice! Astutia omnia vincit! Andate a cagare tutti quanti, stronzi bastardi, state a vedere come se lo mette in salvo ’sto culo il sottoscritto, e a un certo punto puff... Sparisce nel nulla, si volatilizza come gli spettri delle favole, non mi farò né vedere né sentire, ma ve lo prometto che sarà amaro il mio ritorno per fottervi... –My only friend – intervengo per calmare le acque mentre gli altri se la danno a gambe levate appena possono. –Ora cosa vuoi di nuovo, sciocco bambino? – Chiede pensieroso riconoscendomi a stento. –This is the end, proprio ora – dico porgendogli cartoline regalo piovute dal cielo – ecco, puoi leggere tu stesso, ci avvisano di abbassare la cresta e non cazzeggiare troppo. –Come sarebbe a dire? – Mi guarda incredulo come se fossi completamente fatto. –Ci consigliano di andarcene finché siamo in tempo – gli chiarisco le idee rimboccandomi la manica sinistra. –Dove cazzo possiamo andare? – La pressione gli schizza nuovamente alle stelle. –Come dove? Nelle caserme, così c’è scritto! – affermo sorridendo, perché in a disperate land bisogna saperci stare alla pagliacciata, e con i denti stringo bene il laccio – Qual è il posto giusto dell’obbedienza tra le virtù?! –In quelle caserme rase al suolo? Ma vogliono scherzare??? –Se siamo intelligenti e docili sembra che possa fare menomale... –…Già, non sentiremo alcun dolore, il disagio sarà minimo, un piacere quasi, ecco. Li attendo felice a bocca spalancata, cooosiii – scaldando il cucchiaino mi ritrovo a squadrare la sua cavità orale zoomata in primo piano – incredibile

esperienza, vi assicuro – e prima che continui riesco a strappare la bustina dalla siringa – vogliono inserirmelo fino alle tonsille! Miserabili! Tolgo intanto il cappuccio dall’ago e lo sputo a terra. –Potete fare un salto qua giù a grattarmi le palle, se ci tenete tanto!– Se la prende con un’invisibile platea – mica perché mi va di fare la guerra, giusto per guardarsi in faccia, fronte a fronte, corpo a corpo, che ci sfidiamo in un duello alla pari mentre le virtù, l’etica, il punto d’onore, tutto quanto va a farsi fottere! Credete forse che io non sappia che razza di deficienti conduce in rovina questo paese? Aspettavo solo voi che me lo sareste venuto a dire con l’uranio e i volantini colorati. Grazie mille per l’aiuto, la spiegazione è stata esaustiva e chiara. Aspiro nella mia fedele gun tutto il senso della vita e sempre di più sento la sua voce come un’incomprensibile eco molto vaga: se la prende ancora con quei figli di puttana, respira a fatica, tossisce, mi guarda con gli occhi arrossati e suggerisce di andare a dormire. È finita almeno per oggi. –Si, è finita – mento anch’io, penetrando pian piano sotto la pelle e tiro il pistone per effettuare il check-in di parcheggio nella vena... ed eccoli, che risalgono e crescono migliaia di fiori rossi... entrambi siamo coscienti che da un momento all’altro la vera baldoria sarebbe iniziata... –E quando party go on... – accenna appena ed esce, lasciandomi solo soletto nella nebbia della festa, abbandonato in un gabinetto sconfinato molto più grande della rosa esistente nei miei sogni... La vita è... mi raggiunge un lieve fruscio di rare foglie al posto del sussurro... Qualcuno rimarrà vivo e farà ritorno... La vita è... Sempre di più scende il tono... qualcuno meno vivo... La vita è bella completa il pensiero, mentre stacco con le labbra i suoi magnifici petali, li bacio uno a uno... ti fa male forse... e quanto duole... perché mai sei così incantevole le chiedo… non lo sa né lo saprà mai nessuno mi risponde, chi non è giunto fino a qui... nessuno la mia lingua vuole farla compiacere e con la punta disegna piccoli cerchi attorno alla sua gemma... sono certa di una cosa sola, d’avervi tutti quanti con la stessa gioia e... proprio nessuno... le cedo la mia lingua insanguinata, dall’aroma di amara bellezza che chiazza a piccoli assaggi... tenerezza… goccia a goccia… accolto sulla mia anima spinosa...

Tombe la neige

Che iella! Succede sempre che i fiocchi si decidano a venir giù proprio quando di servizio ci sono io. Così il collega si gode il tempo bello e può sfilare in parata indisturbato, mentre la fanghiglia di neve rimane una prerogativa riservata a pochi eletti, ovvero tutta mia, perché immagino che lo indoviniate benissimo da soli, signori miei: con il cambio di turno il nostro caro solnyshko, piccolo sole, risplende come mai prima. Aspettatemi un attimo, egregi gentiluomini, posteggio la macchina di un carissimo cliente e sono subito da voi. –Buonasera, eccoci qua di nuovo. Ma certo, che per lei un posticino lo trovo, ci mancherebbe, non si preoccupi, è in buone mani come sempre... Perdonatemi per questo contrattempo, d’altronde il lavoro è lavoro, richiede tempo e dedizione, qualunque cosa poi un uomo faccia; ma ora, vi prego di accomodarvi nel mio office. Per quanto sarà solo un gabbiotto da custode, almeno ci permetterà di scambiare due parole riparati, certamente scomodi, ma asciutti, e questo è ciò che conta al giorno d’oggi: non prendersi la polmonite. Dove la gente non è ammalata nemmeno la casa risulta stretta. Certo, non ho una sedia da darvi, dovremo stare in piedi e questo mi duole, ma se gradite delle calze calde, dovrei averne qualche paio in più, rimasto da prima della restituzione dell’uniforme; andare in giro solo con sandali e vestiti così leggeri, mentre fuori nevica a non finire, è da incoscienti. Non le volete, d’accordo, come non detto, non ho altro da offrirvi; non bevo mai in servizio, spero non mi biasimerete per questo, come capirete tra poco. È un vero paradosso: basta ubriacarsi una volta sola, nel momento sbagliato, per pagarne le conseguenze per il resto della vita. Non è qualcosa che si dimentica tanto facilmente... Ricordo ogni minuscolo dettaglio. Ecco, potete esaminare voi stessi una copia della mia deposizione, i fogli sono un po’ sparpagliati, non fateci caso, ma vi do volentieri una mano a collegare tutti i fatti. Tranquilli, sarà come preparare una Capricciosa, ogni assurdo ingrediente possiede il suo giusto posto. Se vi è più facile seguire leggo io, e voi prendete appunti. Dunque, la tragicomica scenetta con lui non è stata altro che il principio del mio Golgota. Avevo detto, cito letteralmente:

Giusto, sono stato avvisato di dover dire la verità e conosco benissimo le conseguenze in caso di dichiarazioni mendaci. Me l’avete ricordato anche all’udienza precedente o mi sto confondendo? Serve ripeterlo, d’accordo, sarà come esige la corte marziale. Sì, sono stato io a denunciare le sue calunnie nei confronti di un superiore, una sfacciata disobbedienza e l’inadempimento degli ordini impartiti, un ostentato menefreghismo comportamentale, che nella sua forma più banale si riconduce né più né meno a una diserzione. Ho già spiegato e ampiamente descritto tutto quanto, messo nero su bianco, e ora mi aspetto che lo Stato prenda provvedimenti adeguati. Quando ebbe inizio l’intera faccenda? Subito, fin dal primo momento in cui ci siamo visti quel giorno nella vecchia fabbrica. Quando, per potersi sposare, nel frattempo era venuto a chiedermi di posticipare la sua partenza di qualche giorno, dapprima avevo provato a spiegarglielo con le buone che non si trattava di esercitazioni e che la situazione andava affrontata con la dovuta serietà, ma il soggetto in questione era completamente privo di senso di responsabilità, un vero e proprio impertinente che osava chiedermi per quale cazzo di motivo sulla cartolina allora avevo scritto così. Gli diedi tre giorni, più che sufficienti per una cerimonia nuziale, e non voglio né ripetere né ricordare gli insulti impronunciabili di cui sono stato ricoperto quando gli ho fatto notare che avrebbe potuto pure pensarci prima a sposarsi, senza ridursi all’ultimo momento. A dir poco maleducato ed esuberante. Mi aveva rinfacciato una lunga serie di cose, gli appartamenti gratuiti di cui noi militari godevamo, i posticini di lavoro assicurati quando c’era da sistemare un parente o la cara mogliettina, le paghe esageratamente alte e ciononostante benefici a vario titolo, la mezza pensione agevolata, d’estate, a Kupari presso Dubrovnik e la settimana bianca, d’inverno, a Popova Šapka, per godersi il panorama dei Monti Šar, anch’essi per Dreigroschen, tre miseri soldi. E questo non è ancora tutto, magari lo fosse. Quando voltandogli le spalle avevo provato a fargli capire che sarebbe stato opportuno per lui andar via, invece di uscire dalla stanza si è messo a strillare come un fottuto pazzo, dicendo che noi delle forze armate eravamo abituati fin troppo bene, avvezzi a cazzeggiare nei ristoranti di lusso e in compagnia delle migliori gnocche disponibili sulla piazza fino al momento, cito ancora, che fossero avvenute le prime sparatorie: allora saremmo diventati più piccoli di un seme di papavero, del tutto inutili. A suo dire, infatti, una buona parte di noi se la sarebbe cavata facendo richiesta di prepensionamento e altri, invece, si sarebbero congedati per malattia, mentre ora ci saremmo aspettati da lui che andasse in guerra a svolgere i nostri compiti.

Certo che ho saputo replicare, non sono così imbranato; gli ho ricordato che l’ultima promozione di grado l’avevo avuta ormai dieci anni prima, dato che al Comando Generale non avevo la benché minima conoscenza o parentela. Mai stato disponibile a leccare culi altrui! È giusto comunque dire che il Comandante della Divisione ha effettivamente chiesto la pensione anticipata e il suo vice ha abbandonato l’esercito senza ulteriori spiegazioni, mentre il vice del vice ha pensato bene di aprire un’attività commerciale privata per rifornire le truppe... Comunque sia, non è il caso di sentirmi in colpa per la loro condotta; quando ce n’era veramente bisogno, non sono scappato come hanno fatto in tanti, ma sono rimasto a fare il mio dovere, ritrovandomi all’improvviso con una divisione intera a cui badare da solo: ventiquattro cannoni e ben trecento uomini. Vi sembra poco? Il farabutto si è rivelato anche molto astuto, devo ammetterlo. Avrà intuito i miei sentimenti più intimi, che poi ha voluto schernire chiedendomi con un’audacia inaudita se ho pianto mentre guardavo come veniva strappata e portata via la mia amata stella a cinque punte. In quel momento, la mia mano destra si è mossa da sola per afferrare la pistola, spinta da quell’inopportuna goccia di troppo che avrebbe fatto traboccare qualunque vaso, mettendo a dura prova la mia pazienza. Ripensandoci ora continuo a meravigliarmi profondamente di me stesso; non so proprio come ho fatto a resistere agli impulsi primordiali che molto volentieri gli avrebbero spappolato quel becco mentre, strappandomi dalla mano il foglio dell’autorizzazione, continuava a nominare i miei famigliari in un contesto estremamente volgare, per di più strillando così forte da farlo sapere al mondo intero. Il sapore della vergogna lo porto ancora come un grosso canederlo rimasto incastrato nella gola, giacché sono stato costretto a ingoiarlo intero, pur di osservare le norme della disciplina militare che mi impedivano qualunque reazione. Vi prego di scusarmi un momento ancora, sta arrivando un altro dei nostri clienti importanti, che non posso far aspettare. – Bevenutiii, che piacere rivederla! È da molto tempo che non viene da queste parti! Non si preoccupi, sarà guardata e protetta come la pupilla dei miei occhi; ma che dico, di più, una carrozzeria così se lo merita! Senza nemmeno sfiorarla con un dito, s’intende. Nooo, non oserei mai approfittare della mia posizione per andare a fare un giro! Vi auguro buon divertimento! Rieccomi da voi, come ho già detto il lavoro è lavoro, me lo devo tenere stretto e ringraziare per questa opportunità. Non so da che mondo venite voi due per

stupirvi tanto; qui dove sono costretto a tirare avanti io, una pensione, se pur militare non basta ad assicurare un’esistenza decorosa, soprattutto se anticipata e ridotta. Quella assegnatami, poi, era una vera e propria presa in giro, un modo per lavarsene le mani di me e poter dichiarare ufficialmente che sono stato sistemato; insufficiente, vi ripeto, per sfamare anche un gatto. Di momenti difficili ne ho visti, cercando un qualunque impiego decente. Ma andiamo avanti, non è il momento di piangersi addosso. Dov’è che ci siamo fermati? Ah già, agli investigatori avevo detto qualche altra cosina faccia a faccia, senza distogliere mai lo sguardo dai loro occhi. Quali provvedimenti avrei voluto che venissero presi? Mi state dicendo che è troppo tardi per denunciare il suo comportamento, che avrei dovuto svegliarmi prima e rivolgermi in tempo alle autorità? Lo riconosco, una sorta di pigrizia mentale mi impediva di agire come forse avrei dovuto, un’indolenza probabilmente nata come conseguenza della confusione in testa, dopo che nella sua documentazione sono andato a scoprire che lui era la cosiddetta riserva al dieci per cento. Vedete, all’epoca ho pensato che fosse un dato di fatto per cui non avrei potuto mandarlo davanti a una corte marziale. Cosa significa “come sarebbe”; non è una terminologia difficile da capire per un Ufficiale, oppure lei non lo è per caso. Capisco, ora so esattamente a che livello di imbarbarimento siamo giunti: l’esercito non è più in grado di vantare personale specializzato, né una propria giurisdizione, dimenticavo che siamo stati gettati allo sbaraglio di un Pubblico Ministero qualunque. Le spiego subito: significava che poteva essere chiamato alle armi solo nel caso in cui l’unità non era al completo, e noi lo eravamo eccome, super affollati manco fossimo in un formicaio, al centodieci per cento come minimo. Il motivo di tutto ciò? Chi lo potrà mai sapere. Di certo non mi va di buttare acqua sporca su nessuno. Girava voce che qualcuno del dipartimento incaricato a coordinare la mobilitazione civile aveva trovato un modo rapido ed efficace per racimolare un bel gruzzolo e subito, per cui, pur non essendoci la necessità, avevano mandato le cartoline a tutti, riserva o non riserva, e chi s’è visto s’è visto. Dicono che molti privati siano stati pronti a sborsare parecchio denaro per comprarsi l’autorizzazione a non doversi presentare lì dove non dovevano nemmeno essere chiamati; e dopotutto, può anche darsi che in tutta la faccenda qualche briciola di verità ci sia, dove c’è fumo c’è fuoco... Altrimenti sarebbe proprio strano che in tutta la divisione sotto il mio comando si trovassero solo sei individui con una propria attività. Saranno stati puri idealisti o tremendi taccagni a cui pesava tirare fuori il portafoglio persino per pararsi il culo, non sono sicuro né lo voglio sapere, e di certo non è

compito mio investigare. Ho il compito di mettere in atto gli ordini, per tutto il resto ci sono gli organi competenti che dovrebbero occuparsene di più. E non la smettevano di fare domande, pochemu golubchik moj, e perché mio caro, senza tregua, uno, l’altro, un altro ancora, talvolta tutti quanti insieme, perché, come, dove, per ricominciare con quell’estenuante perché di cui non si stancavano mai a quanto pare, ah perdonatemi ancora... – Certo, sono già arrivati e vi attendono dentro. Certo, fate pure con comodo e state tranquilli, finché sono io di guardia in questo parcheggio nessun malintenzionato si avvicinerà. Pensate un po’, erano arrivati al punto di chiedermi per l’ennesima volta quale fosse il motivo della mia destituzione, come se non lo sapessero già dall’inizio e fosse stato solo un caso isolato di disobbedienza, o se più spesso ero stato propenso a infrangere le regole disciplinari. Prima di rispondere avevo dovuto calmarmi, altrimenti li avrei mangiati vivi, dopodiché – e questa copia che avete qui davanti conferma quanto sostengo – letteralmente avevo pronunciato le seguenti parole: No, non è stato solo questo. Dal momento del suo arrivo nella nostra unità, non ha smesso nemmeno per un istante di offendere il mio Comandante di Retroguardia, che l’avrebbe, secondo la sua mente malata, indotto al contrabbando dei medicinali. Lasciamo perdere poi quel delegato popolare che dal lunedì al venerdì si guadagnava credibilità e punti sul terreno, per rimettersi poi gli abiti civili e tornare a casa ogni fine settimana – a onor del vero se non proprio ogni weekend, almeno uno su due, e lui per questo mai e poi mai l’avrebbe perso di mira. – Gli sembrava una cosa divertente chiamare fabbro un nostro fedelissimo Capitano di riserva, intimorendolo non poco con le promesse che l’avrebbe fatto diventare oggetto di atti carnali osceni e contro natura. Sì, certamente, i testimoni ci sono, ma non ricordo a memoria i loro nomi; il problema è che non trovo più il foglio su cui li ho appuntati, nel vortice della guerra è andato perso anch’esso, tutte le mie cose sono state smarrite quando avete deciso di estromettermi dall’incarico avvalendovi invece di quel tizio a cui sparare veniva così facile, che provava gusto ad aprire il fuoco senza connettere il cervello, sempre che ne avesse uno. In una notte ci ha privati di ben otto cannoni, anche se, grazie a Dio, la sua follia quella volta non ci è costata troppe perdite umane. Una giovane donna, membro della comunità Rom, può confermare che quanto vi sto dicendo corrisponde a verità. Il suo indirizzo e il

telefono? Anch’essi li ho persi purtroppo. Come sarebbe che non fa niente, non è accettabile, signori, la vostra negligenza: ve lo dico chiaramente, provate a rintracciarla. Ci sarà pure un modo, è importante! A chi importa? Ma state scherzando? A tutti quanti! È essenziale per me, per l’esercito, per il futuro di questo Stato! Non statevene con le mani in mano in attesa che le risposte si presentino da sole! Datevi da fare! Per un brevissimo istante avevo stupidamente permesso che l’adrenalina invadesse le mie corde vocali, ma appena riconobbi lo sbaglio, umilmente chiesi scusa per aver osato alzare il tono. Sono uno che l’ordine lo rispetta sempre e comunque – ogni pedina deve conoscere il suo posto – ed è per questo che sentendo le lamentele del Comandante di Retroguardia, fabbro anche lui, giusto, sul suo riprovevole comportamento, non ci ho pensato due volte a spedirlo nell’unità di Comando. Per l’infermiere fu senz’altro un bell’affare ritrovarsi a Mogila, in medias res, rispetto a una località più tranquilla come poteva essere quella termale di Klokot. A dire il vero mi auguravo che un cambiamento così brusco a cui talvolta sottoponiamo le personalità asociali potesse produrre risultati auspicabili... In che senso dove? Ce lo insegnano al corso di Psicologia che tutti noi di comando siamo obbligati a superare! Comunque sia, una cosa è certa: il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Infatti una volta trasferito non ci aveva messo molto per tornare alle sue vecchie abitudini, varcando la soglia della cantina, già sbeffeggiava la Batteria, battezzandoci come un grosso “batterio anaerobico” che non solo – cito le sue parole – non richiede presenza di ossigeno, ma per la quale l’assenza di puzza potrebbe addirittura dimostrarsi estremamente tossica e fatale. Riuscì ad amalgamarsi immediatamente con quel tossico piuttosto suonato di corriere, e anche con quella ciurmaglia del centro di trasmissione mobile. Sì, è quel gruppetto che gira in un furgoncino attrezzato di antenna radar, con tanto di plexiglass, righelli e pennarelli vari. Sempre ubriachi, dal mattino alla sera, tanto che alla fine resta il dubbio se, e in quale misura, abbiano fatto uso anche di qualche altra sostanza illecita. In merito a ciò, la mia fonte non è stata in grado di fornire informazioni abbastanza affidabili e precise. Certo, per chi mi avete preso! Mica sono uno sprovveduto nato ieri: una rete di informatori sul campo mi teneva costantemente aggiornato sulla morale e la determinazione delle unità. Non a caso il vice Capitano di ogni Batteria è stato nominato da me personalmente. Altroché se mi mettevano al corrente di quello che accadeva, persino più del necessario; è così che sono venuto a sapere che aveva anche minacciato uno degli autisti con una baionetta, ma che per fortuna tutto si era concluso bene.

Senza alcun motivo, ovvio, di punto in bianco praticamente! Non avete ancora capito che a lui non gli ci vuole molto? No, non ho alcuna prova e nessuno lo può confermare, anzi, pensandoci meglio, un testimone ci sarebbe pure, però non se ne parla proprio di svelarvi il nome del mio collaboratore sul campo: l’onore militare me lo impedisce. A tratti mi sembrava di esser rimasto l’unico a cui ancora importava di lealtà e vecchi princìpi, uno degli ultimi esemplari di una rara specie in via di estinzione. Così, mentre in un mondo che cadeva a pezzi agonizzante, io cercavo di fare il possibile per riportare a casa la Divisione tutt’intera, c’era naturalmente chi sfruttava il momento per procurarsi una salita di grado sicura... Scusatemi un attimo. –Mi dispiace davvero, siamo già al completo. Buonanotte, arrivederci! ...Ed ecco che dopo aver dormito poco e male un mattino presto vengo bruscamente svegliato dall’arrivo del nuovo Maggiore; mi sforzo di aprire gli occhi e con mio grande dispiacere scopro che anch’essi si rifiutano di ascoltarmi. Come per ripicca, proprio quel giorno le palpebre decidono che è giunto il momento opportuno per appiccicarsi, brutte traditrici che non sono altro; affino allora bene l’orecchio e pur sapendo di essere sveglio mi pare di stare ancora sognando. Probabilmente sto delirando, dico a me stesso per tranquillizzarmi un pochino, e man mano realizzo che una sagoma nebbiosa si muove, che un berretto e i gradi tubolari si agitano avanti e indietro, strillano e impartiscono gli ordini ai miei uomini, non curandosi affatto della mia misera presenza. –Da questo momento dichiaro ufficialmente di assumere la responsabilità sulla Divisione di Artiglieria Antiaerea della 175° Brigata di Fanteria, rimuovendola dal suo incarico in maniera irrevocabile e con effetto immediato! – Rivelandosi finalmente con tale magnifica azione di clemenza, la stessa voce fredda e distaccata ordina lo sgombero della mia scrivania per poterci sistemare il prima possibile le proprie cose. –E io, – a malapena riesco a bisbigliare la domanda elementare– cosa faccio adesso? –Quello che hai fatto finora: – con un’aria da persona superiore, giustamente non mi perdona l’intromissione – un cazzo! Con te al comando i cannoni si stavano arrugginendo!

–Ma come? Secondo voi su che avrei dovuto sparare??? –Non sta a me dirlo; avresti dovuto pensarci prima! – ridacchia farfugliando a denti stretti – Comunque, ti fermi qui per un altro po’, in qualità di mio sostituto. –Agli ordini, Signore! – Saluto portando rapidamente alla fronte la mano destra, ancora dentro il mio preferito pigiama a righe bianche e blu. Al vedermi così dedito alla causa, scuote la mano davanti a me, come per dire “fa nulla, non ti preoccupare, da uno come te non ci si può aspettare che capisca un cazzo”. Giusto, lo confermo anch’io, anzi giustissimo, un pensiero che fila liscio quindi è inutile contraddirlo; sono sempre stato uno molto ansioso e lento a capire certe cose, ma quando finalmente ci sono arrivato non ho esitato nemmeno per un attimo a denunciare l’accaduto. Lo ricordo chiaramente che agli investigatori mi ero rivolto con queste testuali parole: Ne volete ancora, eh? Tutto questo non vi è bastato? Dove siamo? Chi siete dunque? Credevo d’essere stato portato dinanzi a un rispettabile organo di giustizia militare, che non andrà certo a trasformarsi in una qualunque fesseria civile, vero? Atto d’accusa, reclamo: testimoni, contro testimoni, sentenza, ricorso, istanze in via ordinaria nonché in quella straordinaria, note legali, sostituzioni, modifiche, dichiarazioni aggiunte, eliminazioni, contestazioni, testimonianze di esperti. Ma che diamine di posto è questo? D’accordo, baderò al mio linguaggio, però trattenetevi pure voi dal provocarmi, ve lo chiedo per favore, lo sapete benissimo che sono assai cagionevole. Come sarebbe da quando? Non facciamo i finti tonti ora. Da quando costringendomi a quella stretta camicetta tutta ben legata dietro mi avete dato del pazzo, scaraventato per di più nella stanza di gomma, ignorato alla grande mentre cercavo di mettere in guardia sui pericoli incombenti alzando invano la mia visionaria voce – forse fin troppo forte al punto da risultare sgradevole o eccessivo per le vostre delicate orecchie, lo devo riconoscere, ma d’altronde come si può rimanere in silenzio senza manifestare il disappunto per la feccia della peggior specie sapendo che per colpa loro saremmo andati a perdere la guerra, pardon, per dirla con le celebri parole del nostro Presidente “per colpa di chi vincerà la pace”. – Senza ombra di dubbio ci siamo ritrovati così spiaccicati a causa di coloro che invece di portare rispetto ai superiori si rivolgono al vice Comandante della Batteria con un “ehi, mattatore” e quando si trovano al cospetto del Comandante stesso nondimeno esibiscono i loro modi rozzi e sgarbati; quando io ordino “Batteria feee-rmi” solo lui spalanca la faccia e si

gratta le palle per fare gli scongiuri e cacciare via ogni male, oppure scruta il cielo insinuando nell’animo di tutti che siamo spacciati senza un misericordioso aiuto del Signore, quando dico “stasera si fa una bella pulizia del paese” e invece di attenersi agli ordini mi ammonisce perché di fare la donnina a ore non se ne parla nemmeno, – secchi, scope, detersivi e aspirapolvere dice di metterli in mano a qualcuno più desideroso di sporcarsi – così egregi signori, mio malgrado, mi trascina in una discussione da cui non c’è via di scampo tranne quella di un fastidioso imbarazzo, e più cerco di spiegare il concetto della ripulitura che c’era da fare spalancando le porte a calci e sparando su ogni cosa che si fosse mossa. È peggio, mi deride apertamente davanti a tutti, chiede perché mamma e papà non mi abbiano insegnato che prima dei pasti e dopo la piscia le mani vanno lavate, nonché di bussare sempre, chiedendo il permesso di entrare nelle case della gente. Accompagnato dalle risate fragorose di tutti, quel dannato farabutto arriva a sostenere che è molto meglio che una buona educazione la si riceva tardi anziché mai; dopo le dieci di sera insiste che non bisogna disturbare nessuno, – le ore di riposo notturno sono sacre e lui di certo non intende sprecarle – per quanto lo riguarda aggiunge che siamo liberi di spolverare a tutto spiano e raccogliere escrementi di cane quanto ci pare, purché nessuno si faccia male, tanto lui non ha intenzione di andare da nessuna parte, che avrebbe protetto le postazioni in nostra assenza, così, in caso avessimo avuto bisogno di farci ricucire qualche pezzo staccatosi per sbaglio, avremmo saputo nell’urgenza dove trovarlo. Potete immaginare, adesso, che putiferio aveva scatenato: uno dopo l’altro, ridendo come matti, i miei uomini si schierano dalla sua parte, lasciandomi solo, quasi fossi un povero idiota che non esercita capacità e pieno diritto di prendere le decisioni necessarie in merito. Ecco: tutto è accaduto per colpa di gente come lui, onorevole comitato militare. Non mi pesava la perdita del grado, né tanto meno che da quella notte mi toccava dormire nel corridoio. Sono un soldato dopotutto. Avrei potuto chiudere un occhio persino per quell’insensata sparatoria ordinata dal nuovo Maggiore, che aveva ritenuto importante mettere alla prova tutti i tipi di armi di cui disponevamo. Cercavo di essere ragionevole, mi dicevo che siamo nel mezzo di una guerra reale e non in un ributtante giochino atempo civile, ma ciononostante non riuscivo a mandare giù che un riservista, un semplice infermiere, prendesse per il culo di continuo l’intera divisione. Scusate, torno subito.

–Andate via di già? È ancora presto! Lavoro presuppongo. Capisco, certo, non sono affari miei. Eccola qui, ho tolto la neve; grazie mille, troppo generosi, non dovevate. Grazie ancora, brrr che freddooo! –…E che invece vengo trattato e interrogato come fossi l’unico colpevole che deve prendere su di sé i peccati di tutti. Un attimo mi chiedono questo, poi vogliono anche quello e quell’altro ancora, ma qui c’è scritto tutto, messo nero su bianco per evitare equivoci. Avevo detto, dunque: Se questo non è più che sufficiente a rinchiuderlo, non so cos’altro possa esserlo. Capisco benissimo che spetta a qualcun altro deciderlo, non è certo di mia competenza stabilire alcunché, s’intende. Sarei ugualmente molto felice di poter contribuire all’indagine, magari con un dettaglio a prima vista insignificante ma che tuttavia possa rivelarsi determinante per spedirlo prima o poi dietro le sbarre. Che i ogni minuto di ogni giorno che gli resta a osservare il cielo a strisce, di lato, comprendendo che per sempre rimarrà condannato a un suo spicchietto solo! Ecco, pensandoci meglio, mi è venuto in mente qualcosa che forse sarà la prova sufficiente per dimostrare la sua colpevolezza. Quel giorno di marzo in cui gli aerei ci visitarono per la prima volta insieme al corriere, lui già dal mattino non la smetteva di irridere la nostra difesa; consapevolmente, sputtanava l’intera Batteria, sostenendo tra l’altro di non essere più in grado di addormentarsi da solo senza il ronzio dei motori, e la loro assurdità che è costretto a subire, insieme agli odori malsani che emanano. Ma questo non gli bastava, mirava dritto al cuore dei suoi bersagli, quel bastardo: minando pericolosamente il morale dell’unità, faceva sapere a tutti quando lo informavano da casa sui funerali, si piangeva per la morte di questo e l’attimo dopo per quell’altro – evidentemente i famigliari si preoccupavano che non venisse in mente anche a lui di ripetere l’errore di indossare precocemente “l’eterna uniforme in pino fatta su misura”. –Rassicurava i suoi spiegando loro che non correva alcun rischio, in quanto l’esercito ci teneva particolarmente alla sua incolumità perché non avrebbe mai permesso di restare privo del miglior stallone da cavalcare – vi giuro, e vi prometto, parola d’onore di Ufficiale, che mi limito solamente a riportare il suo linguaggio – e su cui masturbarsi ogni volta che qualcosa andava storto. Dopo aver parlato con sua madre divenne però più irrequieto del solito; lei gli aveva detto che il suo nome non risultava su nessuna delle liste ufficiali dei riservisti, per cui il certificato che si trovasse in guerra non potevano rilasciarglielo; il che, naturalmente, complicava tutto giacché si correva il rischio che a quel punto anche l’altro figlio venisse chiamato. Doveva darsi da fare, insomma; la sua non era una gita

di piacere, era sin troppo rilassato, ma se non avesse agito tempestivamente e non avesse fatto qualcosa per trovare una soluzione, sarebbe andata a finire che in casa si sarebbero ritrovati da soli due vecchi e due donne, di cui una, tra l’altro pure incinta, molto incinta. Come, prego? Vi siete stufati di questi sterili documenti e polverosi pezzi di carta? Non c’è forse abbastanza vita dentro per i vostri gusti? Ma... bene, procediamo come ritenete più opportuno! Vi propongo dal cuore una storia di prima mano, solo che vorrei canticchiare ogni tanto e spero non vi dispiaccia. Bene, molto bene, amici miei, horosho ocen’ horosho, è sempre un piacere avere persone gradevoli attorno con cui mettersi subito d’accordo! A differenza di quanto si possa pensare, il mio successore non ebbe lunga durata, ma è riuscito ugualmente in un arco di tempo relativamente breve a distruggere tante cose, facendo danni irreparabili alle nostre truppe... Raaascvetaaali yabloooni i grushi, meeeli e peeeri erano in fiooore... Appena ci siamo ritirati dal Kosovo per alleggerire la mongolfiera traballante, l’esercito non ci ha pensato due volte a disfarsi delle cose che ormai riteneva inutili, disgregando sia la brigata che l’intera divisione. La metà fu mandata in pensione, gli altri si sono all’improvviso ritrovati sul mercato del lavoro, spaesati, persi più che mai: riqualificazione professionale e aggiornamenti obbligatori, progetti, iniziative, corsi, l’alfa e l’omega dei nostri giorni. Ricollocamenti di colleghi per i quali avrei voluto morire di pena nel vederli cercare di dare il meglio di sé nei loro nuovi ridicoli ruoli; grosse mani abituate a maneggiare quotidianamente i lanciarazzi con testate multiple si adattano alle circostanze, curvi su una scrivania ano ore e giornate intere a rincorrersi con il mouse e litigare con la tastiera; dita goffe che nonostante la forza di volontà proprio non ci riescono a battere una sola lettera alla volta, poooplyli tumany nad rekoj, fluuuttuavano le nebbie lungo il fiume... Fratelli russi, nel nome di Cristo non vi scordate, gli S-300 promessi, mandateceli urgentemente – imploravo quasi a voce alta, aspettando il mio turno allo sportello, quando a un tratto mi fece trasalire il tono proveniente dall’altra parte del banco. –Riqualificazione oppure servizi di vigilanza, scelga lei! – Midiceva una testa vanitosa dei suoi sottili capelli con la permanente. –Se dipendesse da me ti giuro che diventeresti la più brava cuoca mai vista, specializzata nella preparazione del tè verde direttamente sull’affusto – affermo a

voce bassa sorridendo e annuendo con la testa al tempo stesso – vy-kho-dila na bereg Katyusha, ve-niiiva a eggiare sulla sponda Katyusha... –Come, prego? –Prega, prega, ma qui c’è poco da pregare. Dicevo che il sorvegliante mi sta bene. –Tieni, questo è l’indirizzo e questo il nome della persona da contattare, fallo subito e non ci pensare troppo! –Agli ordini... Na vysokij bereg na krutoj, sull’alta sponda ripida. Ecco, adesso lo sapete come è andato il mio primo colloquio di orientamento, un’esperienza più unica che rara, di cui rimane sempre vivo il ricordo. Perdonatemi l’indiscrezione, sono in imbarazzato a curiosare, ma è da un po’ che avrei voglia di chiedervi a quale unità appartenete voi due... Osservo questi vostri strani distintivi, uomini e gatti volanti, e mi meraviglio di come non sono più in grado di riconoscere a chi appartengano; non mi sembrano né dell’aviazione né del corpo dei paracadutisti. Non sarete mica di quei gruppi paramilitari? Non lo siete... Mi sbaglio dunque? Capisco, non tocca a me fare le domande, concordo in pieno con voi; agli ordini, signori! Dopo quella telefonata la sua mossa successiva fu più che prevedibile: mi si presentò furibondo nella nostra sede centrale temporanea, proprio mentre con i miei preziosi collaboratori mi accingevo a lasciare velocemente quella posizione. Lo so che vi sembrerà strano, ma il caso volle che anche loro fossero in dodici, proprio come quelli dell’Ultima cena... Che diamine state farneticando? Non ci posso credere, siete usciti di senno, forse? Vi siete portati il turibolo appresso, basta che non vi venga in mente di accenderlo qui dentro. Nooo, in questa casetta da cani il fumo è mortale, siete completamente pazzi voi due. Se vi ho appena detto di non incensarmi, allora datemi retta: non ho bisogno di purificarmi, sono lucido e so quel che dico, ecco. Benedetta acqua che spegne e pulisce ogni cosa, tranne una lingua velenosa, – ma quello è un altro discorso, che ancora non ci riguarda al momento – alzatevi in piedi ora, se volete che io parli: con la gente in ginocchio non mi sento a mio agio a continuare, sempre che davvero abbiate voglia di sentire questa storia. Per favore, ve lo chiedo una volta sola, astenetevi da simili uscite, quando vi dico che lo so benissimo anch’io; voi, almeno, provateci a fare un atto di fede e non

venitemi subito a contestare ogni parola. Certo che per la copertura di un posto di comando ne sarebbero bastati quattro di assistenti, ma in quel caso come pensate che determinati personaggi avrebbero potuto garantire la futura carriera politica ai loro parenti stretti? –Ehi, sardina, dove pensi di sguisciare? – Non tradisce il suo solito modo di parlare, ma quella volta decido di prendermela comoda, facendo anche io il cafone, gli giro le spalle e osservo una traccia segnata sulle cartine, allaccio con cura il casco e infilo i guanti, cerco poi qualche altra cosa che non mi serviva affatto, giusto per vendicarmi facendolo attendere ancora. –Siamo stati localizzati, soldato. Occorre muoversi in fretta, potrebbero colpire da un momento all’altro! –Ehhh, sì, come no! Non sarà, invece, giunta l’ora di abbandonare le manie di grandezza, Maggiore? Oppure lei crede davvero che loro non hanno proprio nulla di meglio da fare? Già che ci siamo, prima di finire nel loro mirino, scarabocchiami una specie di certificato provvisorio che attesta la mia presenza qui, affinché nessuno possa sfogarsi sulla mia famiglia inutilmente. –Certo che te lo rilascio, ne parliamo con calma appena ato l’attacco – gli rispondo orgoglioso di me stesso e con una piacevole sensazione di leggero tepore attorno al cuore. Diversamente dalle mie aspettative, in quel momento si ritirò evitando di provocarmi ulteriormente, salvo il fatto che se l’era presa con il mio vice ben nascosto sotto un tombino, umiliandolo a morte, quel poveraccio. Non capisco, cosa devo spiegarvi meglio? Non avete mai visto un tombino per le fognature, un’apertura tonda nel terreno, di modeste dimensioni, dentro il mio vice completamente racchiuso come nel grembo materno, protetto dal casco, nooo, non il tombino, la capoccia sua, il coperchio in acciaio è solo l’ultimo strato che completa la chiusura, del chiusino naturalmente, di cos’altro? Gli dava dell’aggressore di merda, coraggioso a saccheggiare le case vuote degli albanesi fuggiti, mentre al momento della battaglia preferiva dedicarsi a covare le uova come una gallinaccia spennacchiata. –Gnooocca, gnooocchetta, cosa stai facendo chiusa giù tutta sooola soooletta – cantava fischiettando di tanto in tanto quella lugubre melodia della Potëmkin, battendo con i i sicuri una marcia ritmata dritto proprio sopra la sua

spaventata testa. –Vai via, lasciami stare! Non mi tormentare più! – implora da dentro una voce tremante. –E perché mai dovrei farlo? Il meglio deve ancora venire! Lascia un po’ di spazio al tuo Comandante superiore, magari si decide a farti visita, dato che alle tre di notte nella sua stanza da letto non c’è, e non lo si trova da nessun’altra parte, nonostante gli sforzi sovrumani e gli incredibili mezzi impegnati nella ricerca! Così vi fotto entrambi in bocca! Sappilo bene, uomo talpa, voi e il vostro rintanarsi: eh sì, vorrei proprio vederti a denunciarmi, quasi quasi fin d’ora comincio a tremare dall’angoscia! Il maniaco gli prometteva una lunga serie di svariate oscenità, e persino una lenta e costante assunzione di botte quotidiane prima di ogni pasto; fino a fargli del male, quanto basta per provare automaticamente paura e dolore alla sola vista delle scodelle e al rumore delle posate. Mi presento, dunque, per quel posto di lavoro e chiedo di parlare con qualcuno dell’Ufficio Risorse Umane, quando vengo indirizzato a un capoccione ignorante e trasandato, facilmente confondibile con un barbone per com’era vestito, piuttosto che con un rispettabile direttore qual era. –Tesserino trasporti gratuito e buoni pasto, come faccio ad averli? – Chiedo fiducioso nel rispetto dei diritti dei lavoratori. –Per quanto mi riguarda puoi volare fino a qui, camminare o strisciare come un verme viscido e schifoso, – sospira grattandosi prima la testa e poi anche la pancia – sappilo, pallina di merda, che è completamente indifferente in che modo rotolerai, finché ti presenti al lavoro alle ventidue in punto esatte. Eh già, volevi anche dei consigli sul mangiare? Magari devo anche dirti quale vino stappare? Lo vedi quel chiosco di fronte? Ecco: se proprio devi morire di fame, un salto veloce puoi pure farlo. Ingoia tutto quello che vuoi e quanto ne vuoi, basta che sei di ritorno prima ancora dell’andata. Intesi? Il lavoro in se stesso non era poi così complicato né difficile, un continuo via vai di persone cariche di eleganti borse pesanti (che all’epoca non mi spiegavo in alcun modo), accompagnate per di più da guardie armate con sguardo duro e minaccioso. Ingenuamente, pensavo si trattasse di documentazione statale fin troppo importante e in grado di salvare il mondo – o perlomeno di cambiarlo in

meglio – dato che dovevano fare tutto il possibile e anche l’impossibile, non c’era tempo da perdere: mai un saluto, un buongiorno, un grazie o un arrivederci, nessun zdrastvuite, ciao, fuori posto, ma almeno la paga era fissa, contanti in mano ricevuti regolarmente per non pensare troppo a ciò che in realtà si svolgeva dietro quell’import-export di pelletteria. In quel luogo inverosimilmente silenzioso e ordinato, di una serenità sconcertante quasi fossimo sull’altare di qualche chiesa, dove nessuno alza invano il tono di voce, ti degna di uno sguardo, né facilmente si scompone, e dove solo il rumore dei loro i affrettati per lunghi corridoi deserti e per scalini rivestiti di marmo di tanto in tanto riecheggia, rompendo così la misteriosa quiete assoluta, un giorno mi sono ritrovato né più né meno con il fiato di un gorillone sul collo e la sua M57 di piccolo calibro puntata addosso. Certo, è stata colpa mia l’esser intervenuto per dare una mano con una borsa talmente pesante che, per quanto mi sforzassi di alzarla, sono riuscito solo a staccarle il manico e, come se già così non fosse oltremodo imbarazzante, a farla anche cadere, spargendo accidentalmente per tutto l’atrio il suo sporco contenuto, nuovo di zecca. –Prastite minja, sono mortificato, perdonatemi, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa... Sbaglio o di nuovo non mi state ascoltando voi due? Concedetemi perlomeno la soddisfazione di raccontarvi tutto! No, d’accordo, non posso costringervi a starmi a sentire, ma non lo nego che mi piacerebbe capire chi siete; lo so d’avervi già visto da qualche parte, solo che non me lo ricordo perfettamente, mi sfugge... Ecco, uomini-rane magari, no, non siete dei sommozzatori... Cosa devo farci, la memoria fa brutti scherzi a volte, c’è chi sta peggio di me, adesso lo so... “Angeli dell’inferno”, quelli stessi che... Nemmeno, non offendetevi però... “Pantere nere” per caso, di nuovo palo, e va bene, mi arrendo, questa volta amici miei la partita è tutta vostra e lo sarà finché sarete voi a pagare e ingaggiarmi, druzya moi... Ne sono più che certo che le cose sono andate esattamente così come vi sto dicendo, non parlo mai a vanvera, se apro la bocca è perché so con sicurezza cosa succedeva alle mie spalle, naturalmente, quel giorno uscendo dalla sede del Comando, mi ero già premunito contro i raggiri di quell’imbroglione; uno se l’aspetta ed è sempre meglio prevenire che curare, così almeno ci hanno insegnato. Fin dalla nascita ci hanno detto che mentire è sbagliato, che i princìpi dell’onestà sono sacri, che l’integrità della persona va difesa con ogni mezzo, ma che tutto ciò non è possibile senza uno Stato sovrano forte e indipendente. Potrei

aggiungere mille altre cose che ci sono state insegnate, e comunque a che pro affaticarsi tanto? Il valore della disciplina una volta era sacro e ora mi ritrovo a dover riconoscere che dopotutto non sono riuscito a portare il mio incarico a buon fine, la malvagità ha trionfato un’altra volta; bisogna ancora rimboccarsi le maniche, salvare il salvabile, condannare i responsabili – lui prima di tutti, come vi dicevo, lo sapevo fin da allora, comprendevo quanto fosse cruciale catturarlo, collezionare accuratamente ogni prova, ogni minimo indizio. – Perciò, feci l’occhiolino al vice Comandante della Batteria affinché lo seguisse: sì, diedi un segno al “mattatore”, se insistete che pure io adoperi il suo salace linguaggio, prendendoci tutti a parolacce e insulti. L’Ufficiale doveva pedinarlo da una certa distanza per vedere dove andava e cosa faceva, farsi all’occorrenza in quattro pur di non perderlo assolutamente di vista, spiare le sue azioni e riferirmi tutto fedelmente, anche il dettaglio più insignificante. Ben presto si era dimostrato che non avevo torto, l’intuito non fallisce mai: l’infermiere era effettivamente uno di quei tipici disfattisti incapaci di trattenere il proprio spirito critico assieme ai più bassi istinti, sempre sul punto di schizzare fuori dalla pelle, smanioso di farci deridere a ogni occasione, ottimo pretesto per poter manifestare a pieno tutta la dissidenza di cui era capace e il rancore accumulato. Perciò non poteva di certo rimanere in silenzio facendo finta che non fosse successo niente, quando grazie a un’intelligente mossa strategica del nostro Comando eravamo riusciti non solo a trasferire la sede centrale tempestivamente, ma addirittura a indurre il nemico a ritirarsi rinunciando all’attacco. Direi che accusarlo di poraženčestvo, disfattismo come dite voi, sarebbe troppo indulgente, per come si era adoperato a diffondere sfiducia e pessimismo negando non solo le nostre possibilità di vittoria, ma persino la mia stessa capacità di condurre una battaglia. Sosteneva pubblicamente che la nostra misera squadruccia tutta fumo e niente arrosto ancora una volta aveva lasciato un notevole contributo alla sfuggente storia del concetto di dignità e del coraggio, dando peggiorativamente ai miei collaboratori dei luridi frocetti lecca culo. Il mio vice non ha fatto in tempo a mettere il naso fuori da quel tombino, che come un ossesso ha cercato di saltargli addosso per pestarlo a sangue. –Non vedevo l’ora di rivederti, bellezza – gridava come un pazzo nel fallimentare tentativo di afferralo per un braccio – ci mancavi solo tu per completare questo delizioso quadro! –Ah! Toglietemelo di dosso, aiutatemi! – Strepitava la vittima terrorizzata, zoppicando vistosamente indolenzito per una posizione scomoda tenuta troppo a lungo.

–E perché mai dovrebbero farlo? Finché ho da fare con te, incuor loro si sentono tranquilli! – Gli strillava dietro rincorrendolo su per le scale di una casa diroccata nelle vicinanze. –Per favore, qualcuno mi aiuti, per l’amor di Dio sbrigateviiii!– Ormai in piena crisi isterica urlava il nostro kamikaze arrampicatosi sul tetto da dove gli si presentava solo la desolata alternativa di spiccare il volo il più velocemente possibile. –Sai che ti dico, pidocchioso? Fai pure con comodo e stai tranquillo, che ti aspetto giù, in qualsiasi modo tu decida di scendere! – Ansimava il ciccione, facendomi per la prima volta capire che un tipo di paura riusciva a tormentare persino lui... Non era immune da ogni genere di fobia, eccome se ce l’aveva! Più bella e più grossa ancora della mia grossa testa, la paura dell’altezza, la cosa di cui più mi compiacevo. Poi era venuto da me a chiedere di nuovo quel merdoso pezzo di carta – espressione sua cari signori, non mi permetterei mai una tale insolenza – sibilando ogni parola come un serpente, voleva tra l’altro farmi ricordare di stare attento, perché se qualcosa fosse andata storta per colpa mia o anche solo per un mio indugio, non gli sarebbe costato niente farci fuori tutti in meno di un minuto e chi s’è visto s’è visto... Non essendo noi disposti a riconoscere ufficialmente la sua presenza tra le nostre fila, nessuno lo avrebbe mai potuto incriminare. Nei nostri ultimi spasmi di vita, prima che brutalmente avesse trafitto i nostri cuori, avremmo potuto aggrapparci a ’sto cazzo e tirare forte, qui gladio ferit gladio perit, nessun aiuto sarebbe arrivato da alcuna parte e sarebbe stato esattamente come aver firmato la nostra condanna a morte se avessimo omesso di salvare il fratello, freddandoci senza essere minimamente punito. Dopotutto siamo in guerra; qui attorno la gente muore ogni giorno, come le mosche. Uno più uno meno non fa alcuna differenza e senza prove di certo non sarebbe finito in carcere. Con la furia di un assassino spietato, mi spiattellava dritto in faccia queste cose, umiliandomi ulteriormente davanti a tutti; ammetteva inoltre di essere abbastanza folle per mettere in atto le sue parole, diceva che la sua non era una promessa da marinaio e che non potevo sperare di arla liscia per quello che gli avevo fatto, o meglio, detto. Per quello che non gli avevo fatto allorché mi aveva sollecitato così gentilmente, mi accordava invece il diritto di verificare, chiedendo a chi mi pareva quanto poteva essere spiacevole incontrarlo: la lista di gente importunata era lunga, lui sì che aveva i testimoni per la sua vulnerabilità mentale, senza alcun bisogno di comprarli, né di

convincerli. Ora però non chiedetemi i loro nomi, li ho scordati come tutto il resto e lo sapete benissimo senza che ve lo spiego io perché, horosho, va bene? La verità è che mi urta così tanto non ricordare dove ho già conosciuto voi due prima: fa niente per ora, sono un uomo paziente che sa attendere il momento giusto. Verrà il giorno in cui il lume della ragione si riaccenderà; senz’altro verrà e lo scoprirò allora, riuscirò a trovare da me una risposta a questo enigma anche senza il vostro aiuto, horosho ocen’ horosho tovarishi moi, bene, molto bene compagni miei. Nel frattempo, vi racconto invece di come una sera, arrivando al lavoro, ho trovato il nostro Direttore seduto come al solito sulla sua sedia, ma con un colpo di corrente in testa e una pozza di sangue sulla scrivania, densa e appiccicosa, che già cominciava a coagularsi mentre a piccole gocce scendeva lentamente e sporcava per terra. Chiamai subito la polizia e non feci in tempo a dir loro chi ero o cosa mi serviva, quando entrarono nella stanza un branco di persone a dir poco strane, dal comportamento torvo, vestiti di nero e con le maschere in faccia che ancor di più mettevano in risalto gli occhi gelidi e spietati. –Girati verso il muro e restaci, – mi ordina uno di loro – se non vuoi che questa è l’ultima cosa che vivi! Con una solerzia eccezionale – in tre minuti e mezzo esatti, non di più – avevano ben ripulito tutto e caricato ogni cosa nei grossi borsoni di tela riempiti all’inverosimile prima di andare via. –E il direttore? – avevo osato chiedere – Perché non portate anche lui? –Credi di essere furbo, eh? – Mi ritrovo per la seconda volta conuna Tokarev sotto la gola, questa volta quella autentica, russa. –Ma lascialo stare, non abbiamo tempo da perdere, non lo vediche è solo un povero idiota? – per mia fortuna interviene un altro incappucciato che paradossalmente riesce a dissuadere il collega dalle sue intenzioni omicide. –Ora sei libero di chiamare la polizia! – Mi dice infine uno che portava via l’ultima scatola. –Pronto, buonasera, – dicevo nella cornetta del telefono, senza sapere da dove iniziare e come spiegare loro la mia tragicomica posizione nell’appena accaduto

tumulto – polizia, vogliate essere tanto gentili da mandarmi urgentemente qualcuno che constati il decesso di un uomo e si prenda la briga del suo corpo; sì, del nostro dirigente, di lui sto parlando. Vi prego non lasciatemi in attesa tutta la notte, qui non c’è più nulla da rubare... Non terminare in tempo la frase quella sera stava diventando un brutto vizio, ma che ci potevo fare? Secondo voi, avevo forse scelta nell’affrontare o meno il secondo turno di incappucciati, nuovi volti nascosti saltati fuori che riproponevano però le stesse già conosciute brusche maniere? –Sdraiato e non fiatare, – esclamarono all’unisono l’istante prima di abbattermi sul pavimento per comunicare subito via radio l’avvenuta cattura – abbiamo il cadavere e pure l’assassino! –Non sono stato io! – urlavo sentendo il click metallico delle manette che si chiudevano attorno ai miei polsi – Guardate che vi sbagliate di grosso, non l’ho faaattooo iooo, parola d’onore di un Ufficiale! Li conoscevate già tutti questi fatti, d’accordo, me lo potevate dire un po’ prima e risparmiarmi la fatica, vi rivelavo magari qualche altro piccolo particolare. Esiste sempre qualcosa che non sappiamo, ogni giorno, cari farabutti – la Verità indossa una nuova veste – che ne faccio ora di voi due, ah, bambini, bambini miei, rebyata moi… Sapete che vi dico? Malgrado siete certi d’essere già ben informati su vita morte e miracoli, mi azzardo lo stesso a raccontarvi una cosina ancora, così, perché mi va, per l’anima mia che ritrovi pace, torno subito. –L’ho accudita proprio come fosse un figlio! A vostra discrezione e volontà signori, grazieeee davvero, non dovevate disturbarvi tanto! Vi auguro una buona notte, signori! Come promesso, rieccomi qui da voi; ci sono notti come questa in cui ringrazio il cielo per questo minuscolo rifugio, fuori si gela e non smette di nevicare. La prontezza del nuovo Maggiore, quell’impostore infame, ci lasciava letteralmente stupefatti; convinto probabilmente che dodici superflui apostoli per il nostro quartier generale fossero ancora pochi ha pensato bene di aggiungerne un’altra dozzina, non si sa mai, dovessero mancare come le uova nel periodo pasquale, così ci siamo ritrovati con più gente al comando che attorno ai

cannoni. Questo è il punto della questione, signori, che andava svelato, il resto sono solo sciocchezze, spero che dimostrerete una maggiore sensibilità rispetto agli investigatori, capaci di interessarsi solo di lui e di lui soltanto, che amarezza. Allora, ascoltatemi bene perché quella che sto per leggervi è una parte fondamentale del mio verbale; sì, lo so di aver promesso che rapporti cartacei non ce ne sarebbero più stati, ma chiudete un occhio pure voi, ci vuole più flessibilità per raggiungere la conoscenza. Dunque, davanti alla commissione così tuonò la mia voce arrabbiata: Il giorno successivo l’infermiere s’era alzato presto e il mio vice, come stabilito, divenne la sua fedele ombra, seguendolo a ogni o senza abbandonarlo nemmeno per un istante. Gli corse dietro fino al negozio e lì attese paziente che mentre il sovversivo telefonasse ai suoi, componendo uno zero, poi uno, poi rifacendo il numero che trovava occupato, fino a quando dall’altra parte non udii l’ineffabile voce della madre che gli confermava d’aver finalmente ottenuto il certificato tanto cercato. Era però troppo tardi, il fratello era già stato inviato in Kosovo. –Che cazzo ci sto allora io a fare da queste parti – scoppiò furibondo senza saper placare la sua ira – non avevano detto che uno dei due bastava? Nemmeno i turchi sono stati tanto bastardi, quando scuotevano la tassa in sangue almeno un figlio lo risparmiavano in ogni famiglia! Chi sarà il prossimo, mi chiedo, preferiranno portare via l’anziana signora o una donna incinta? Imprecava a lungo lo Stato maledetto, l’esercito, il Presidente, me, il mio vice, il Comandante della Batteria, me ancora; esigeva inoltre che la madre presentasse ugualmente quel certificato a chi di dovere, che si rivolgesse persino al diavolo in persona se ciò poteva garantire che il fratello ne uscisse sano e salvo. Non gliene importava nulla di sentire dalla madre che in città regnava il caos più totale, che nessuno riusciva a capire dove fosse ubicato il Comando, che semplicemente non sapevano dove chiedere aiuto, dal momento che, ovunque andavi a bussare, venivi rimandato da un’altra parte. Poi aveva parlato anche con il padre; non c’è una persona normale a questo mondo che si rivolge con quel tono di voce ai propri genitori: qualcosa di inaudito, credetemi sulla parola. Strillava talmente tanto da far intimidire anche lui, dicendogli di scovare il punto di comando come meglio poteva e di riferire ai culi loro che avrebbero fatto bene a pregare Dio onnipotente di non incontrarlo mai, perché sarebbe stato doloroso, inutile parlarne, fin troppo doloroso. Ricapitolando, dunque, possiamo affermare che questo asociale e pericoloso individuo avesse

deliberatamente minacciato i più alti organi istituzionali e militari. No, non c’è bisogno di legarmi, sono completamente calmo. Una volta finita la telefonata aveva pagato il conto, comprato una bottiglia di grappa e uscendo aveva invitato il mio informatore a raggiungerlo sulla panchina davanti al negozio per bere un goccetto insieme. Capirai, quell’altro assetato come un cammello nel deserto, non vedeva l’ora di inumidire la bocca e allungare quella linguaccia pettegola che avrebbe dovuto mordersi; niente da fare, invece, dopo due sorsi il mio buon nome era già stato sputtanato, più alzava il gomito e meno riusciva a pensare di ostacolare almeno la fuga di preziosi dati e dopo pochi minuti, senza essere sottoposto a torture atroci o a lente sofferenze, aveva già confessato che ero stato io a mandarlo per farlo seguire. –Lo so – il figlio di buona donna taglia corto senza sorprendersi affatto e poi come ripensandoci aggiunge – però, grande agente segreto, la prossima volta che ti decidi a effettuare indagini per conto di altri, lavati per lo meno i denti prima; sai, lo spazzolino, il dentifricio, non è complicato, così non ti sento controvento. Prendi come modello quel britannico, ad esempio, quello con tre zeri e migliaia di gnocche che lo circondano; studia le sue mosse e scoprirai che il suo strabiliante successo in buona parte dipende dal fatto che per tempo aveva compreso l’importanza del sapone, non schivandolo come fosse una pericolosa arma segreta delle forze capitalistiche occidentali. Per piacere, non chiedetemi come mi sentivo all’udire queste cose, con tutta la buona volontà possibile non riuscireste a immaginarvelo ugualmente: come una stupida merda che avrebbe voluto strozzarli entrambi, e purtroppo non era né la prima né l’ultima volta che mi accadeva questo con loro due. Mentre bevevano si fermò davanti a loro una donna con delle buste piene della spesa, bella, capelli lunghi, neri, nerissimi e una pelle chiara di porcellana, luminosa, delicata al punto che ti invogliava solo a guardarla, ti chiedeva di essere presa, toccata – o almeno così mi è stato riferito – e come sempre l’infermiere aveva fatto lo schifoso. Naturalmente, cosa c’è da aspettarsi da uno come lui? Vede un bel décolleté e il resto non importa più; ma non solo, badate bene, questa è la prova suprema per capire con chi abbiamo a che fare. Quanto quest’uomo sia meschino, manipolatore, immorale e pericoloso, pronto a sostenere che un vero uomo è innanzitutto cacciatore e non disdegna nessun tipo di preda – a parole sue una vedova fresca è sempre un bel bocconcino, guai lasciarselo scappare. – Che si vergogni e si penta per se stesso da qui all’eternità, questo dico!

Dietro la mia rabbia, signori, c’è un’immensa delusione, perché non me lo spiego proprio come sia possibile che il rivolgersi a una donna con il linguaggio primitivo di un muratore, rozzo e volgare, il lanciare sguardi inappropriati, diretti, maliziosi che denudano quel poco che c’è da spogliare, ciononostante piaccia, riscuota successo, al limite della sfacciataggine; là dove normalmente avremmo visto volare almeno un ceffone lui inspiegabilmente incassa, puntualmente. –È un giorno di festa da queste parti oggi, madame... –Non direi – Risponde solennemente la donna sistemandosi il vestito. –...Perché se così non fosse mi chiedo il motivo per cui far fiorire tanta magia sui bei davanzali che mi si presentano davanti, come quel tontolone che carica troppa legna, oltre ogni ragionevole misura, e la porta in giro gratuitamente. Non mi dica di non aver mai sentito raccontare questa storia... –Mai – sospira la donna sorridendo – ma se me la vuole raccontare a parole sue, posso essere una buona ascoltatrice, potrei sempre offrirle un ottimo caffè. Abito proprio qui accanto, sola; sa, certe volte la paura è tanta, magari rimedio anche una fetta di dolce, se me lo concede naturalmente... –Vada per la torta di mele cotogne, – non vede l’ora di assaporarla il vice – è in assoluto la mia preferita! –Zitto e mettiti da parte, non sei tu l’invitato – gli sbraitò addosso quell’animale, per commettere poi con un’arroganza smisurata e cieca, di cui vi presento dichiarazioni scritte autenticate di ben due testimoni oculari, l’ennesimo reato di diffamazione – e al momento nemmeno io: l’essere di continuo inculato dai quadri di Comando toglie ogni sana fantasia. Ma grazie comunque per l’invito cara, se un’eventuale erezione dovesse mai farsi preannunciare, conosco la strada, la casa me la ricordo, ma l’effusione di spermatozoi va ormai preventivamente rasa alla superficie del cervello! Salutandosi sogghignarono entrambi alla battuta, per niente imbarazzati di stare al cospetto di un Ufficiale disgustato. Dunque, ecco a voi signori la risposta a tutte le vostre domande, esauriente e completa. Spero sia chiaro ora perché siamo caduti così in basso senza mai rialzarci: uno Stato giunge alla deriva inaspettatamente, da solo, quando nessuno si occupa più di far arrestare malviventi e indisciplinati. Che Dio ci perdoni tutti quanti!

Quella volta, però, nel momento peggiore della mia vita chi c’era accanto a me per aiutarmi? Nessuno. Mi sono trovato completamente solo e spaesato in condizioni terribili: tre giorni legato a un termosifone praticamente senza mangiare e dormire mai, esausto, stanco, abbandonato a me stesso potevo contare solo sulle mie forze morali, cercando di dare alla polizia una spiegazione plausibile del perché non ero in grado di riconoscere chi era la gente in ufficio la sera prima, né com’erano fatti, – oltre al fatto che a me sembravano tutti uguali, mascherati di nero come lo è probabilmente ogni criminale di questo mondo, né più né meno – e che non sono affatto un loro complice, anzi. –So di non sapere, lo so – affermavo ripetutamente la mia incomunicabile verità – altrimenti vi direi tutto, ma sono certo di non sapere, mortificato sono per la mia impotenza, prastite minja, pozhalujsta, perdonatemi vi prego... –Basta. Scusatemi, non ce la faccio più, lasciamolo stare perora! – getta finalmente la spugna il più anziano di loro e pertanto decide di farmi andare – Non lo vedete quanto è scemo, anche solo standogli vicino ho paura che diventiamo sciocchi! –Grazie per quest’alta considerazione, spasibo, non speravo di meritare tanto, spasibo vam bol’shoe, vi ringrazio molto... –Dici bene, Capo – acconsentono anche gli altri – altro che suonato, un giacinto tardivo gravemente compromesso! –Cto s vami, che vi prende, non capisco qual è il problema, camerati, starije tovarishi moi, vecchi compagni miei... –Nessun problema – disse uno di loro slegandomi le mani –basta che ora sgombri in fretta e non ti fai più vedere. In altre parole, mi diedero del pazzo, idioti! Che lo facciano pure, contenti loro a ignorarmi, contenti tutti: in primo luogo la mia pancia soddisfatta e riconoscente che andava incontro a un sicuro pasto caldo. Quante domande, però, piano voi due, ora davvero state esagerando, non bombardatemi, prima sembra che non vi interessino le faccende della nostra lotta eroica, poi vi scatenate come dei reclusi frustrati finalmente in uscita libera! Evidentemente mi sbagliavo, capita a tutti di fraintendere o essere fraintesi qualche volta, niente di strano – a me diciamo che succede di frequente, già – ma adesso senza farmi stordire vi prego di parlare uno alla volta, nu govorite, v chem delo pozhalujsta ebbene, ditelo pure, qual è il

problema per favore, qualunque cosa, ricordatevi che resto a vostra completa disposizione... Strada facendo, l’infermiere si convinse che c’era qualcosa di storto in tutta quanta la faccenda e confidò i suoi timori alla mia fonte; qualcosa che si respirava nell’aria lo inquietava: nei tempi difficili solo il tuo buon senso ti salva e quando le cose filano fin troppo lisce è sempre lui che ti mette in stato di allerta, dopo il brutto viene il bello, e viceversa, inevitabilmente. Si può dire che aveva ottenuto il certificato senza particolari peripezie, s’era sfogato l’anima con il mio vice e ora gli si prospettava persino la possibilità di una sana scopata; questo sì che lo preoccupava, per stare nella follia della guerra, stavolta i conti non tornavano decisamente. Per una volta vi chiedo però, signori, di rendervene conto, della mia posizione ingrata, senza preoccuparvi unicamente di Čarli come se esistesse solo lui. Secondo voi dov’è la giustizia in tutto ciò? L’allarme in testa gli suona a quell’irrimediabile pazzoide, e richiama alla mente che c’è qualcosa che non promette bene, ma quando in Aula lo vado a riferire aspettandomi che vengano applicate le giuste contromisure nei confronti di uno che ha compiuto pesantissime azioni delinquenziali, divento io quello da portare via in camicia di forza! Per favore, non fatemi dire dov’è finita la giustizia, perché potrei diventare anche piuttosto volgare! In ogni caso, prima di rientrare in cantina, quel malefico fece una corsa fino all’autoambulanza per raccattare tutto il materiale sanitario che aveva a disposizione (praticamente poco o niente, qualche benda e cinghia), nulla di più significativo che gli permettesse di aiutare gli altri in caso di necessità. –Che cazzo di sistema di autodistruzione è questo??? – urlava contro il cielo, i muri e chiunque fosse abbastanza sfortunato da trovarsi sulla sua strada – Credevo fosse l’esercito e non la capanna sudatoria di uno sciamano! Con cosa si credono che vi curi, con un’ala di pipistrello, una coda di rospo o una lingua di rana forse??? Che ve lo dico a fare, per un po’ scoppiettava come un fuoco vivo, dando di lingue biforcute a tutti quanti, che si limitavano a tacere guardando in basso come se non si fosse trattato dei loro sederi spacciati. Falso e ipocrita che non è altro, proprio lui che arriva a vantarsi d’aver ideato come farli stare zitti e buoni rispettando le autorità, alludendo all’ignobile episodio con la baionetta puntata al collo dell’autista, cercava di farli manifestare una benché minima reazione strafregandosene del fatto che lo sconforto e la paura della gente fosse tanta, veramente tanta. Ma poi, come vi dicevo, quando la fiamma si spense, rimase in

un angolo raggomitolato su se stesso come un carboncino freddato, sfinito, privo di forze e di coscienza quasi in attesa del peggio. Giusto, persino lui sapeva com’è insopportabile a volte sentire in pieno tutta la nostra impotenza. –“Gli idioti non si fanno pregare, vanno spudoratamente avanti già da soli: senza un preavviso e senza aver ricevuto l’invito, si precipitano sulla preda rimasta inerme al suolo, la stordiscono” – riprese a parlare con se stesso, non appena il frastuono degli aerei divenne insopportabile. Lì avremmo potuto assistere a un altro dei suoi lugubri monologhi, ve lo dico io, ne sono più che certo; succube dell’estrema disobbedienza, avrebbe da un momento all’altro fatto schizzare fuori a sprazzi quella sua inaudita superbia e ribellione, se non fosse stato per quell’altro sciagurato pelandrone di un corriere che irruppe nella stanza inaspettatamente, spiazzando tutti i presenti con le notizie dell’ultima ora, appena giunte dal fronte balcanico. –Udite, udite, questa è veramente grossa! Beati loro, chissà cosa consumano per poterle sparare così consistenti! – diceva, fortemente invogliato alla sola idea di un qualcosa di eccitante che per un po’ lo fe sballare – Sarà un caso che è finita in overdose un’intera delle nostre Batterie, drogandosi con gli slogan del tipo “patria amata ti vogliamo bene con tutto il nostro cuore”, presi direttamente per endovena, oppure loro stessi sono rimasti stupefatti fumandosi i notiziari della RTS come la maggior parte dei mortali che considera qualsiasi parola trasmessa alla stessa stregua della Sacra Scrittura, senza riflessione alcuna? Comunque sia, una cosa è certa: bisogna prendere per buono che poco fa abbiamo abbattuto il centoottantaseiesimo aereo nemico, per quanto l’aggressore decisamente persista a negare le perdite. Non occorre essere stupidi, però aiuta! –Ci sono solo un paio di cosette che hanno perso di vista; – il renitente si alza e con impazienza abbraccia quel tipo di discorso – non solo non sappiamo dove si trovano, né siamo in grado di rilevare e vedere i loro movimenti, ma se per assurdo dovessimo beccarli, dovremmo colpirli sparando con quei giocattoletti dei cannoni, che a malapena raggiungono l’altezza dei fili telefonici, sempre che non ci sia il vento a intralciare. Sciocchezze, dettagli irrilevanti, trascurabili, davvero; meglio che scendo silenziosamente in trincea, indosso lo scudo e vi lascio farvi fottere da un idiota di Maggiore, a vostra scelta e piacimento! Ecco, di questo vi stavo parlando: l’ennesima offesa gratuita ai superiori.

Ribadisco, un pessimo individuo: folle, insolente e sgarbato fino all’osso! No, non volevo sparargli quella volta, vi state confondendo; è vero che l’avrei fatto volentieri, ma in quel preciso momento ero occupato altrove, assente cari camerati miei, assente... Una volta fatto fuori il direttore diventai nuovamente di colpo merce sul mercato del lavoro: un disoccupato che naviga tra una truffa e l’altra, immerso fino al collo in uno squallore di fallimenti, menzogne e tanto altro ancora, senza comprenderlo appieno, purtroppo. –Ecco, non mi interessa molto se sia giusto avere quest’opportunità, cerchi almeno di non buttarla nel cesso. Alla sua età, una terza possibilità non la si offre a nessuno – mi mette in guardia contro le insidie della realtà odna ochen staratel’naja devushka, una ragazza troppo diligente allo sportello dell’Ufficio di Collocamento, porgendomi un biglietto con l’indicazione del nuovo indirizzo. In sostanza, s’era fatto tardi e mi serviva solo quel foglio; sarebbe stato un inutile spreco di tempo insegnarle un po’ di buone maniere. Troppi ce ne sarebbero in giro da educare, come ad esempio lo stesso junosha, giovanotto, cui mi sono presentato per il nuovo impiego, che non era certo da meno, e che, ignaro del fatto che l’eleganza sia qualcosa di assolutamente innato, credeva forse di poter rimediare indossando degli abiti costosi all’ultima moda. –Quello che vedi qui non l’hai mai visto; quello che ti capita di sentire non è mai stato pronunciato; – mi parla e allo stesso tempo guarda il suo grosso orologio di lusso come per dire: presto, ho una lista di cose più importanti da sbrigare – questa è la sede del partito governante, massima discrezione ci vuole, intesi; da tutte le parti siamo circondati da spie, gente malvagia disposta a tutto, le forze del caos che fanno scatenare la follia totale... –Le forze di che? – chiesi sbigottito prima di riconoscere un’asserzione ricorrente ideata dal grande Capo in persona per contrastare qualsiasi tipo di opposizione – Non importa, ho capito perfettamente e posso assicurare che sarò muto come un pesce, se è questo che ci vuole! Tutto lasciava intendere che anche loro commerciassero con la carta usata: instancabili, grandi lavoratori, ammirevoli nel loro quotidiano impegno, la trasportavano di continuo senza concedersi mai una domenica libera o una semplice giornata di festa, strariempiti di sacchi pesanti caricati sui furgoni a

qualsiasi ora del giorno e della notte, con tanto di scorta dei reparti mobili di polizia, e con quelli vuoti che tornavano indietro. Mai e poi mai avrei pensato che il riciclaggio fosse così conveniente parni moi, ragazzi miei, fino a quando non è accaduto quello di cui successivamente tutto il mondo avrebbe avuto notizia. Era il quinto giorno del mese, me lo ricordo bene, un grigio ottobre da cui non mi lasciavo scoraggiare; vado a lavoro e trovo gli uffici in fiamme! All’ingresso c’era molta gente, tutta ammucchiata alla rinfusa con cartelloni e striscioni di protesta alla mano, che si agitavano e gridavano, spingendo senza alcun ritegno e travolgendo chiunque capitasse loro vicino. Così, inesorabilmente, cado in quel vortice di smorfie causate dal disgusto, di sguardi sferzanti quasi si trattasse di una farsa montata sul set di un film, mentre la folla – accompagnando il tutto con la gestualità che ricorda una spada sguainata – espella il distillato puro del potente furore in una rimbombante parola sola: giùùù! Più di questo non riuscivo a comprendere, udivo solo il rumore; al massimo mi raggiungevano delle espressioni inintelligibili, ansimi, gemiti e grugniti, provenienti da una massa di corpi elettrizzati e, per quanto mi sforzavo di ragionare, una sorta di orrore impediva d’intendere qualunque cosa. Rapito dalle fiamme che leccavano porte e finestre, per qualche istante rimasi impalato pure io, a contemplare semplicemente l’enorme edificio che sudava e si illuminava. Poi compresi la gravità della situazione, mi misi a correre e a gridare, supplicando le persone vicine ad aiutarmi a cercare l’acqua per spegnere quell’incendio, incontrando però solo sguardi minacciosi che avrebbero voluto fulminarmi sul posto immediatamente. –Che vi prende a tutti quanti? – strillavo a squarciagola, soffocando tra un colpo di tosse e l’altro – Una casa brucia, occorrono i soccorsi, subito! Fate qualcosa, chiamate i vigili del fuoco, ate l’acqua con i secchi... –Fatti i cazzi tuoi, idiota! – mi blocca uno dalle spalle grosse e dalla brutta faccia, che a occhio e croce non sarebbe stato propenso a uno scambio di opinioni libere – Cosa credi di poter fare? Da che parte stai? Non dirmi che ho sprecato la mia ultima bottiglia di ottimo vinjak per incendiare tutto permettendo a un pompiere o a uno stupido come te di farmi rovinare la fatica! –Però, un incendio va... – Nemmeno io so cosa mi era saltato per la testa e con quale coraggio ho osato obiettare, quando per mia fortuna notai improvvisamente il nostro direttore avvolto in una nuvola di fumo e così mi

allontanai. Si sa, è proprio vero che gli imbecilli come me qualche volta sono estremamente protetti dagli dèi. D’istinto, in modo del tutto naturale e spontaneo, cercai di raggiungerlo, per assicurami che stesse bene, meravigliandomi nel frattempo di quanti altri fossero con la mia stessa preoccupazione, tutti che si affannano a rincorrerlo e lui, coprendosi il naso con un straccetto umido come il diavolo con l’acqua santa, vuole fuggire impaurito dalla folla. –Signor direttore, si fermi! – gli strillo dietro, arrivando a quel punto a capire che non ci stavo capendo più niente – Come sta, ha bisogno di qualcooo... Su mia grande insistenza quel qualcosa lo presi in testa, e pure in pieno: un colpo secco, violento, destinato a quel poveraccio, che invece di aiutare erano pronti a malmenare, pestare e percuotere con qualsivoglia arnese capitato per caso tra le loro mani fino a farlo possibilmente soffrire sul rogo. –E ora? – urlavo tenendo la testa insanguinata in cui tuttavia non la smettevano di frullare certe domande – Cosa faccio ora, ja soldat, sono un soldato, mi sentite? –Tu cosa? – mi tira un calcio tra le costole il primo che stava ando – Faresti meglio a scomparire, adesso, per non finire schiacciato come i vigliacchi che stai proteggendo, a te la scelta. È il caso che io riprenda quel discorso? D’accordo, se lo dite voi è vangelo, vi ascolto, slushaju, blagodetel’i moi, ascolto, benefattori miei, altroché se vi ascolto. Fatevelo dire però da uno che impegno, perseveranza e disciplina le ha sempre ritenute qualità da mettere al primo posto: la vostra costanza è ammirevole, beati i Servizi Segreti che possono avvalersi delle vostra prestazioni, dico sul serio, vi siete guadagnati tutto il mio rispetto tovarishi, compagni, capisco che siete qui in incognito; ci penso io a guardarvi le spalle, non ho visto né sentito niente, persino non vi ho mai incontrati e non ci siamo parlati questa notte! La mia afflizione, quell’inevitabile flagello divino, si dirigeva verso la porta della cantina con un o lento fin troppo sicuro di sé, quando all’improvviso rammentò qualcosa che lo fece trasalire. Rammaricato per la dimenticanza, con il palmo della mano si batte la fronte, riesce appena a bisbigliare qualcosa di poco comprensibile tipo “che cazzo, tre casse di birra e una di grappa per un

pomeriggio, saranno ubriachi persi” e impazzito schizza fuori come una freccia scoccata. E senza guardare né a destra né a sinistra continua a correre lungo la strada, correre e basta, come uno che avesse perso la testa o nel suo caso non l’avesse mai avuta, incurante dell’elevato rischio e pericolo, con la sua solita insopportabile arroganza! Sono stato informato da testimoni oculari – certo che ne avevo dappertutto, le mie fedeli fonti non si smentiscono mai, non dubitate di coloro che si sono prestati a essere i miei occhi e le mie orecchie ben aperte, che mi hanno regalato la gioia e la grazia immensa di poter vedere e sentire ogni cosa – dunque, come vi dicevo dietro uno sforzo che gli parve sovrumano, quell’empio, pur rimanendo a tratti senza fiato riuscì a proferire: “ecco, lo sapevo, potevo giurarci che sarebbe stato lo sport a farmici rimettere l’osso del collo una volta buona. Che vengano a farmi fottere ora quei tre pacchetti di Marlboro al giorno e centoventi chili di peso vivo accumulati”. Poi irruppe nella casa in cui quei suoi desperados dormivano, esattamente nella stessa identica posizione nella quale li aveva lasciati. –Muoversi, veloci, sveglia, guai in arrivo... – Aveva cercato di avvisarli mentre loro erano ben decisi a non lasciarsi scombussolare così facilmente. C’era chi, incuriosito, spalancava a malapena gli occhi per un momento, chi trovava le forze per lanciargli degli sguardi pieni di stupore e di rimprovero, chi d’altro canto non lo degnava della benché minima attenzione. Ci fu allora una prima esplosione che fece balzare la porta fuori dai cardini e qualche istante dopo una seconda. Lucidi e sobri all’improvviso, quei buffoni di mariachis senza perdere tempo saltarono fuori dalla finestra e anche lui si precipitò assieme ad alcuni giù dalle scale, per riprendere nuovamente di corsa la stessa traiettoria che poco prima aveva tracciato arrivando. Solo che questa volta, con mia grandissima sorpresa, tutto quel peso addosso lo spinse in direzione opposta – non me l’aspettavo proprio – chi avrebbe mai potuto immaginare un peccatore del suo stampo alle prese con i rimorsi di coscienza mentre si sforza e nuota come un pesce controcorrente per raggiungere la sua Batteria, lasciata nel frattempo senza medico. Per ben tre volte viene scaraventato a terra da esplosioni vicine, costretto a baciare e leccare la polvere. Me l’ha riferito il Comandante della sua Batteria in persona e sono ovviamente rimasto inorridito e dispiaciuto di non aver potuto assistere a quello spettacolo, direi unico. Comunque, uno che ci deve fare? Cose più urgenti in quel momento m’avevano trattenuto; non avrei mai pensato che un tombino potesse ospitare persino due persone adulte, leggermente scomode,

questo è vero, ma la necessità fa virtù, ci si abitua e adatta a tutto e dopo un po’ non ci si fa nemmeno più caso. Soprattutto se la terra attorno a te trema sotto i colpi e tu capisci che è incredibile con quanta facilità potresti ritrovarti ingoiato; già, solo lui sembrava intoccabile e privo dei tormenti di tutti noi altri comuni mortali. Invece di affogare spiccando il salto della rondine dritto in trincea, immediatamente dopo lo scoppio di uno di quegli infernali ordigni a grappolo che con tutta probabilità l’avrebbero dovuto fare a pezzi, a lui cosa succede? Un bel niente! Si presenta illeso con solo qualche insignificante graffio! Un vero miracolo, si scortica a stento la punta del naso contro il mirino del fucile che aveva tenuto in mano lanciandosi! Vi sembra giusto e normale questo? Lo so, la logica è morta da un pezzo, veramente. E io sarei il pazzo??? –Che succede qui? Perché nessuno respira? Siamo in una guerra oppure pensate di dover rimanere immobili e trattenere il fiato perché la radiografia al torace venga bene? Dov’è che sono capitato? Ve lo dico io: circondato da mezze seghe, ecco dove! – Sbuffava e boccheggiava cercando di riprendersi lui stesso, sistemando meglio il casco e tappando le orecchie con entrambe le mani per ignorare il rumore dei motori in allontanamento, o quanto meno illudendosi di poterlo fare. “Con dei piloti a bordo”, perdonatemi, non sono l’autore della frase, sto solo citando le sue blasfeme parole, “che davvero credono di aver compiuto un’azione eroica alleggerendo il carico sopra la marmaglia e ora, una volta terminato il lavoro, possono tornare a casa decisamente soddisfatti per fottere qualcosa come normalmente fa la gente per bene, volesse il cielo che fosse anche l’ultima scopata che riescano fare”. Dichiara apertamente di provare nausea e disgusto osservando le bestie ubriache degli ufficiali che lo circondano e dei quali, tutto sommato, avrebbe voluto in questa vita fare a meno, affermando infine, l’idiota, di sopportare con grande fatica persino la propria eloquenza. Al che viene da domandarsi come sia possibile che è finito così in basso e che cazzo ci sta facendo da queste parti. –Dove siete finiti? Cosa vi hanno fatto? – risuonava nella notte fonda il mio terrificante grido mentre correvo tra una postazione e l’altra cercando segni di vita lì dove sapevo di averli lasciati – Figli miei, pezzi del mio cuore! Di alcuni non siamo stati in grado di recuperare tutte le parti, altri hanno avuto gli arti staccati o reclinati al punto da diventare irrecuperabili. Ingoio l’acido delle lacrime e respiro a malapena; qualcosa di pesante soffoca il petto, otto magnifiche bocche di fuoco sono state chiuse per sempre, sacrificate inutilmente per ripagare quell’eccessivo compiacimento altrui, adorati cannoni miei a tre

canne, tre volte 22 mm di calibro ognuno, esanimi pezzi di acciaio squartato, per cui facilmente avrei potuto strozzare il colpevole a mani nude. –Bentornato tra noi, supplente. Chi non muore si rivede! – il vero artefice di quel disastro, proprio lui, il nuovo Maggiore mi fa la morale nel momento meno opportuno – Si può sapere dove sei stato finora, quando avresti potuto essere utile al mondo per qualcosa? Furono queste le sue ultime parole pronunciate prima che le mia dita iniziassero a stringersi attorno al suo collo, sempre più forti, finché gli occhi quasi non gli schizzarono fuori dalla testa. Ed è proprio lì, sul più bello, che dovetti abbandonare l’impresa, mi acciuffarono per le spalle e mi costrinsero a staccarmi da lui. –Te lo faccio vedere io come riesco a diventare utile, figlio di puttana. T’ammazzo! – non rinunciavo a lamentarmi mentre i suoi scagnozzi mi tenevano ben immobilizzato a terra spingendo impetuosamente con le ginocchia sulla schiena – Job mat’ tvoju durak, la madre te la fotto, idiota, ti uccciiidooo! –Questo sta fuori di testa! – gridava pure lui esterrefatto – Ragazzi legatelo bene e portatelo via! – Potaskuha, pizda, baldracca, fregna – ringhiavo ancora, ma poi venne il momento di farla finita, nichego ne pomnju, non mi ricordo nulla, assolutamente nulla. I fatti si sovrappongono facilmente, uno vale l’altro, i ricordi diventano tutt’uno, un incomprensibile intruglio in cui non vorreste ritrovarvi, credetemi. Che sto facendo qui, in quest’inverno senza fine, sotto la neve che scende dal cielo? Un’ottima domanda, collega, che da un’infinità di anni continua ad accompagnarmi tutti i giorni e tutto il giorno, nessuno escluso. Non saprei con sincerità dire se ciò che più mi pesava era sopportare il mattino seguente la vista di quel volto sbiancato del nuovo Maggiore, oppure il fastidio dovuto ai controlli a cui sono stato costretto a sottopormi da quel momento in avanti. Una visita dietro l’altra, accertamenti sul mio stato mentale per mandarmi in pensione anticipata, e poi è venuto fuori questo, l’accettare quello che si trova senza aspettative, qualunque cosa sia, anche fare il custode notturno in un parcheggio e arrangiarsi come meglio è possibile. Ma di questo tormento vi ho già raccontato, scusatemi ora un minuto solo... –Vedo che vi siete divertiti alla grande, signori, mi fa piacere! Allegria, ci vuole

allegria per riempire i buchi neri della vita, lo dico sempre; se preferite, vi chiamo un taxi, non c’è alcun problema, basta dirlo. La macchina ve la guardo io, potete lasciarla tranquillamente... Ma no, non dicevo questo, non mi permetterei mai di giudicarvi dicendo che siete ubriachi, ci mancherebbe! Chiedo scusa, tornate a trovarci presto! Ecco, lo vedete voi stessi quello di cui vi parlavo prima: bisogna sapersi adattare a ogni situazione. Questo luogo di sosta non è una fermata qualunque, si presenta piuttosto come un’ennesima afflizione, una messa alla prova divina perché io possa conoscere le mie risorse innate e potenziare la pazienza. Ci capita frequentemente gente di tutti i tipi e a volte basta poco per distorcere una parola; conoscere la verità non importa a nessuno, sembra incredibile però è così, soprattutto quando gli ospiti bevono un po’ più del dovuto. Allora diventa difficile contenersi e non oltreare la giusta misura, restare calmi e rispettare le regole; ma questo lo sapete anche senza di me, torniamo a noi, dunque... –ami quella grappa! – pur essendo quello che non beve mai dissi così a una delle cenerentole del Quartier Generale appena mi ero leggermente ripreso – Una bottiglia intera da questa parte, prego, per i cannoni distrutti e l’uomo che l’ha fatto fare... –Veramente... – Credeva di poter interferire, l’idiota, con lo sguardo abbassato in terra. –Coraggio, Maggiore – lo sgridai – non fissare giù! Guardami negli occhi mentre bevo alla tua salute e prega i santi che non mi decida a pronunciare un’orazione funebre in tuo onore, esattamente come tu non hai esitato a spezzare inutilmente la mia divisione! Bevi ora, dagli sotto con ’sta grappa! –Io però... – Cercava di balbettare qualcosa, sollevando la testa, per cui vidi chiaramente per la prima volta il suo volto pieno di disperazione: aveva paura. Quella vera. –Bevi quando te lo offro con le buone – strillai con una voce dura fino a sentire male alla gola – e te lo dico una volta sola, altrimenti ti uccido qui, all’istante. Guarda che non mi ci vuole molto, se sei tanto bravo a ordinare di aprire il fuoco giusto per farlo, bevi allora per una giusta ragione! Ancora, vigliacco, ancora! Così! Non t’ho detto che puoi smettere! Mentre abbasso la leva e armo la pistola in mano lui afferra quella bottiglia

senza più lasciarla, manda giù rapidamente tutto e a grandi sorsi prosciuga ogni goccia di grappa che intanto gli colava dalle labbra lungo il mento e il collo. –Noo... nooon c’è più, è finita – lo udii bisbigliare con una voce strangolata e appena percettibile. –Sei stato molto bravo! – lo lodai per questo, per quanto questa punizione non poteva bastare a rendere giustizia né a calmare il sangue che mi ribolliva nelle vene – Una bottiglia intera in cinque minuti, da libro dei primati, sicuramente. Però canta ora, ho voglia di sentirti la voce, andiamo, canzone! –Non saprei... – sussurra. –Avanti popolo, alla riscossa, fammi vedere ora quanto vali, apri ’sta boccuccia, campione, voglio sentire ogni sfumatura del tuo timbro di voce... –Oj, rjabina kudrjavaja, bjelyjee cvity, oh sorbo riccio, dai fiori bianchi... – inizia timidamente a far sentire qualche nota bassa. –Faresti bene a non sospirare più; canta più forte, fatti sentire,se non vuoi che sia il tuo ultimo respiro – lo intimorisco ulteriormente, senza pietà. –Oj rjabina rjabiiiinuuuuushka shto vzgrustnula ty… tyty, tyyy, tyyyyy oh, sorbo, sorbeeettooo, perché ti sei rattristato... tu, tutu, tuuu, tuuuu... – La voce finalmente alzata incontra una mia calorosa approvazione. Tu, cosa, certo lui, mia, di chi altro, ah, lui, ditelo subito, stavo giusto per chiedere anch’io a voi un favore, grosso: la prossima volta mi piacerebbe vedervi in uniforme. Con me siete stati dei gentiluomini di parola, va detto questo; grazie, e non solo per la paga promessa, anzi, mi avete dato pure più di quanto pattuito. Non dovevate, veramente. Dicevo, invece, quanto è stato piacevole avere per interlocutore qualcuno che ti ascolta; se al vostro reparto dovesse servire qualcuno, insomma, sapete cosa intendo, prendetemi in considerazione... Čarli, dunque, forse è stato persino più spaventato degli altri, questo non mi è dato sapere, ma, in ogni caso non lo faceva vedere; per ripicca si era tolto il casco e lo sbatteva contro il fucile, pativa quel metallo, piangeva e strillava a ogni botta, metallo su metallo, inconsolabile.

–Fin troppo facile – per quanto i rumori degli aerei si sentivano ancora, esce fuori dalla trincea anche col dito medio alzato, quasi a volerlo ficcare nelle nuvole – trooppooo facile scaricare la merda dall’alto mentre qualcuno dietro le quinte fa il furbo e s’intasca una barca di soooldiii! Ecco, nero su bianco, lui parlava e io prendevo appunti, sta tutto scritto qui. Aveva detto anche “col cazzo che vi permetterò di farvi alzare le vostre statistiche e il punteggio rompendomi il culo, vi fotto vostra madre, bastardi”, per qualche istante poi si era fermato, aveva respirato a fatica e ripreso fiato per aggiungere infine a voce molto più bassa “basta che duro almeno fino a domattina”. Il solito sbruffone cretino, durak, praticamente un idiota, come se il candido mattino da cui ogni notte viene derubata avesse mai portato qualcosa di buono a qualcuno...

Voce fuori campo

Ahi, scrittore caro e compitissimo, nonché beneamato fratello mio, non credi forse anche tu che sarebbe ora di sloggiare dalla mia schiena e andare a cavalcare per un po’ qualcun altro? Ve ne sarei molto grato! Per il resto, fate come meglio credete, vestitevi da straccioni se vi piace così tanto, altrove però, non alla mia presenza, baciandovi i piedi ardentemente vi prego: non mettetemi a disagio, è in gioco il mio buon nome, la mia faccia, la reputazione di uno che onestamente contrabbanda capi d’abbigliamento non difettosi, per amor di Dio, non sarebbe umano danneggiarmi così, ricacciarmi sul lastrico... E ora cosa c’è? Ho detto qualcosa di sbagliato? È successo qualcosa di grave da farvi cadere in ginocchio? Dai su, non è il momento di pregare, sopporto poco chi si rivolge nel più alto dei cieli farfugliando a voce bassa parole incomprensibili e lamentose. Strappatemi i coglioni piuttosto, ma non rovinatemi la piazza, intesi? Beh, questo cambia tutto, se c’è un po’ di grana le regole diventano diverse... Ebbene, voi chiedete, vi ascolto e rispondo a tutto ciò che desiderate, basta che poi non venga fuori che uno dei due è un infermiere o, peggio, un dottore... Che brutta razza di scortesi bugiardi e imbroglioni sono... Manco lontanamente ci voglio pensare, mille volte peggio di noi zingari che abbiamo ereditato quel titolo e lo portiamo ufficialmente. Seguitemi però, mantenete il o, qui è importante restarmi accanto; lo vedete che siamo in pieno fermento, la strada è impazzita e la gente non scherza mica, le manifestazioni sono una cosa seria, il cazzo strapieno ce l’hanno tutti i riservisti al ritorno dal fronte, l’esasperazione regna sovrana e non c’è da meravigliarsi minimamente. Incapaci cialtroni, quei ladroni senza limite credono di avercelo più grosso, e zitti zitti vorrebbero continuare a fotterci gratuitamente come se uno non ha meglio da fare nella vita che offrire il buco del culo a loro. Il diritto a quella schifosa diaria garantita, intrisa di sudore e sangue, ora invece lo arrivano a negare; ecco di cosa sono capaci, di nutrirsi abbondantemente della sofferenza altrui... Sangue, morte, malattia, cosa vuoi che siano per la mente di un uomo che prima o poi si abitua a concepire qualsiasi cosa, anche la più assurda. Come quando è successo che al mio vecchio degli attacchi continui hanno deciso di non lasciargli più tregua; il suo gracile corpo si irrigidisce e tutto a un tratto cade per

terra, davanti ai miei piedi si contrae e si scuote in maniera incontrollabile, infine, privo di coscienza si ferma e resta immobile. Solo a quel punto mi assale il panico, capisco che devo muovermi e fare qualcosa, qualunque cosa. Per paura che soffochi metto allora la mano nella sua bocca e afferro la lingua; nulla, è un dito morso in preda a quel terrore, così la tengo bella distesa finché non sento che inizia a esserlo da sola. Lui, certo, dopo non si ricorda dell’accaduto, sa che è successo qualcosa e questo gli dispiace, si sente umiliato, non vuole essermi di peso e devo quasi costringerlo con la forza a farsi visitare. Lo porto all’ambulatorio mentre ancora respira male – almeno adesso potranno capire cosa ha e mi sapranno dire come farlo curare, così speravo – vado dentro di corsa e mi trovo davanti la strada sbarrata da un cestello carico di biancheria sporca, faccio per spostarlo, quando spunta fuori lei, armata del bastone della scopa e mi ordina di abbandonare l’edificio immediatamente. L’onnipotente donna delle pulizie decide che è il caso di non lasciarmi are oltre l’ingresso principale, altrimenti, dice che sarebbe stata costretta a chiamare le forze dell’ordine per farmi portare via, se non avessi ubbidito ai suoi ordini, continuando a importunare la gente all’interno di un’istituzione pubblica. Avrei potuto schiacciarla contro il muro come una mosca, ma strinsi i denti e mi feci coraggio, il mio livello di sopportazione era ben più alto, al di sopra della media; probabilmente nessuno più di uno zingaro è avvezzo a queste cose, oltreare un ostacolo è normale, incontrarne un altro, magari peggiore ancora, incarnato da un’infermiera che chiama a turno tutti gli altri e salta volontariamente il nostro nome, è terribile. –Senza un’impegnativa del medico curante si può essere ricevuti solo in assenza di altri pazienti – affermava la sua voce seccata chiudendomi bruscamente in faccia il piccolo portellino di vetro. –Bene, bene, so aspettare e tenere la bocca chiusa – dico con molta calma riprendendo la stessa posizione nella sala d’attesa – e comunque voglio sperare che tutti quelli che ci ano davanti non rispettando la fila ce l’abbiano davvero, i pezzo di carta che dici tu, l’impegnativa... Mah! Quando finalmente a parte noi fuori non rimase nemmeno un cane io non mi trattenni più, bussai deciso alla porta finché una voce rauca dall’interno non mi rispose: “Avanti!” –Perché l’hai di nuovo trascinato qui? – Con impazienza melo chiede quello con lo stetoscopio intorno al collo, senza scambiare prima un minimo saluto o alzare

lo sguardo. –Perché venga curato – gli rispondo – non pomiciato, si spera! –E cosa dovrei fargli? – Senza vergogna davanti ai miei occhi continua a fingersi un perfetto idiota. –Sei stato proprio tu a dirmi di tornare se l’attacco si ripeteva. Ebbene, appena ne ha avuto uno ci siamo precipitati prima possibile... –Ma ora non ce l’ha, sta bene – incredulo ascolto quell’acuto ragionamento analitico dello specialista seduto di fronte, per un attimo osservo il suo camice bianco, poi sposto lo sguardo sul volto esausto del mio babbo e profondamente indeciso mi chiedo chi dei due sta cercando di fottermi a mia insaputa, se il dottore che si lascia desiderare peggio di una primadonna oppure il mio vecchio che sbava e trema sempre, tranne quando serve. –Che diamine, perché ora non saltelli e scuoti quei tuoi nascosti rotolini di grasso? – me la prendo nervosamente con il babbo il quale comprendeva i miei scleri e si rassegnava tacitamente alla mia follia – Dai, fai vedere al signore cosa sai fare, crolla un po’ giù un per il nostro bravo dottore, distenditi se te lo chiedono. Niente allora? Proprio non vuoi provarci? Mah, in bocca ve lo metto a entrambi, a te e a quello lì, “il grande studioso”, proprio tu, dottore che avrai sicuramente comprato il titolo da un privato. Nooo, per carità, non mi rispondere, non disturbarti a pronunciare una sola parola perché nessuno la vuole sentire, sarà meglio che torniamo un’altra volta. E tu vatti a istruire prima di ricevere la gente, ciarlatano. Dai papà, andiamo, ti porto a casa, tranquillo, senza fretta, nessuno ci corre dietro né ci può aiutare più di quanto noi zingari possiamo aiutare noi stessi; addirittura quando andiamo a finire nella stessa merda con gli altri, solo noi siamo costretti a tirare il collo in alto per non soffocarci nelle, com’è che si chiamano quelle, ah già, feci. E a proposito, proprio lì, sul campo di battaglia, feci subito amicizia con i ragazzi dell’unità di ricognizione. Dai miei simili non ci si poteva aspettare nulla di buono e io da loro giravo alla larga; il modo in cui si viene al mondo sarà pure irrilevante, ma dove questa avviene importa e come. Quando nasci tra i baracconi degli accampamenti degli zingari, di certo non vai a studiare medicina né diventi un chirurgo; al primo pianto subito il violino in mano e poi singhiozza forte quanto ti pare, se non sei portato non importa, è un ambiente democratico,

pari diritti, ti si prospetta un’ampia scelta – strumenti di tutti i tipi, dalla fisarmonica alla tromba o al tamburo – tra l’intrattenimento per gli eventi puoi esercitarti su quello che più ti piace, matrimoni e funerali compresi, regala sorrisi e strappa lacrime, quasi come te, scrittore, quasi come te. E se proprio non vuoi fare il musicista c’è sempre una seconda opzione; la cucciolata debole non va scaricata in un burrone, qualcosa di positivo lo si può sempre ricavare anche da uno nato storto, gli basta una scatola di cartone e un paio di palline di cera per sbalordire il pubblico, che incentrerà tutta la sua attenzione sulle sue mani, sperando di capire sotto quale campana si nascondono e sbagliando ovviamente ogni volta. L’imbroglio perfetto, da eseguire davanti alle stazioni la mattina presto, di primo pomeriggio o davanti vari ristoranti la sera, tutto il giorno praticamente, orario continuato, e la clientela, grazie a Dio, non ti manca mai. La sai una cosa scrittore? Qualcuno nella vita è raccoglitore di sanguisughe, qualcun altro invece diventa sanguisuga stessa! E piantatela, una volta buona, di farvi il segno della croce ogni volta che nomino quel gentile Signore in alto, mi fate venire un prurito tremendo alle parti basse, insopportabile. Poi non dite che non vi ho avvisato! Vi ho già detto che vi avrei raccontato tutto, e così sarà: la parola data è una cosa sacra, anche per uno come me. Di certo non mi tiro indietro come i vigliacchi che sono forti solo a chiacchiere; mi chiedo come fanno a guardarsi allo specchio, devono avere proprio un bel coraggio e faccia tosta, più dura degli zoccoli! Mai sono stato e mai sarò uno scansafatiche, persino in guerra mi sono tenuto ben stretto un secondo lavoretto, non si sa mai, per incentivare le entrate, un’attività vale l’altra, basta che produca e venga richiesta... E in questo senso la raccolta di sanguisughe non temeva concorrenza: di patiti per la pesca che ano e riano le ore a tirare quel filo ce ne sono sempre più che a sufficienza, anche sotto le bombe; un bel atempo, lo ammetto, che forse distrae. Tornando alla sera carico di merce dagli stagni mi fermavo abitualmente alla vecchia scuola, leggermente fuori dal paesino, a farmi un bicchierino di grappa con il Capitano di quella unità, che almeno per un altro po’ rimandava il mio rientro nella realtà di tutti i giorni. Si scambiavano volentieri due battute e qualche parola; l’uomo di mondo e il grande viaggiatore lo si riconosce subito, e lui lo era. Dappertutto è stato, aveva accumulato esperienze su esperienze, fatica, sudore, conoscenze meno pensabili e non da tutti; anche a Vukovar era stato, – uaaauuu – e mi racconta quanto quella città prima della sua devastazione fosse stata bella. Anche a Sarajevo è andato, senza però entrarci mai, accampato sulle montagne attorno si godeva l’aria fresca e pulita, e disponeva anche di una bella vista, spettacolare, tranne quando non veniva offuscata dalle nubi dense di fumo nero delle

esplosioni. Non solo la sapeva lunga, ma era anche uno capace di raccontare bene le sue storie, tenerti sulle spine e aggiungere sempre nuovi accuratissimi dettagli, felice di avere un pubblico del mio calibro davanti. Non che mi fidassi di ogni cosa dicesse, questo no, per chi mi avete preso? Comunque, e ci tengo a precisarlo, sapevo ascoltare e ribattere a mia volta, per cui come non andare d’amore e d’accordo con lui e instaurare un’amicizia duratura? Era facile, un gioco da ragazzi, almeno per quanto ogni rapporto umano possa durare. Si presuppone che a un tuo amico sei sempre tenuto a dire solo la verità, nient’altro che la verità... Finché un bel giorno non ti scopre immerso nella bugia, così: prima si mente e poi si vedrà... –E tu di che cosa ti occupi, compare? – Una volta mi pone questa domanda a lungo temuta. –Ahhh, difficile riassumerlo così in poche parole – intanto guadagno un po’ di tempo e di importanza – da sempre mi sono occupato di molte cose. Diciamo che sono stato impiegato in innumerevoli settori, decisamente troppi per elencarli tutti; nella mia vita ho trascorso più tempo con i doganieri che con i miei figli, ce ne fosse stato uno di loro che non mi conosceva, dal primo fino all’ultimo guardiano di ogni turno, e ciononostante mi sequestravano il aporto e facevano accomodare da parte, in cambio di denaro. Beh, dire che venivo protetto da tutti è dir poco, e non cercare di correggermi i termini che uso perché non mi sto sbagliando; al di là di quando arrivavo, finivo sempre per attraversare la frontiera per ultimo, chiunque mi si metteva davanti e mi precedeva. Lo vedi allora che so riportare i fatti benissimo? Quasi come te, ogni cosa si chiarisce se la vuoi capire... Lasciamo però da parte questi inconvenienti di natura puramente tecnica e iamo direttamente agli articoli trattati; che ti interessi o meno sapere qualcosa in più su cosa significhi essere specializzati nel commercio di carburante bulgaro, ci tengo lo stesso a dirti che quella era roba seria, pensa che una volta ne avevo aspirata così tanta che non potevo assolutamente permettermi di fare neanche un solo colpo di tosse, altrimenti ce ne saremmo andati affanculo tutti quanti, me compreso, e le taniche sistemate dietro. Sarebbe stato sicuramente un bel botto. Torno a casa, invece, e così esplosivo salto su mia moglie, sparo una carica, due, tre, tanto da farla sbalordire completamente; con le gambe tremanti esce dalla porta del bagno e mi chiede – ma che ti è successo stanotte? –, e io abbasso gli occhi come un ladro, guardo altrove, non posso certo dirle la verità, ci mancherebbe... Mi avrebbe legato un bidone sulla schiena costringendomi a succhiare la miscela dal tubicino giorno e notte, non sarebbe mai stata abbastanza sazia, ne sono più che sicuro, mi avrebbe

fatto uscire l’anima dal naso oppure mi avrebbe criticato e dato del solito bugiardo. Cos’altro aspettarsi da un lurido gitano? –Qualcosa di serio, intendevo, – insiste il Capitano approfondendo ancora il mio grosso problema – avrai pure fatto un lavoro serio in vita tua, o no? –Vogliamo offendere? Per chi mi hai preso? Forse per uno che sbatte il cazzo a destra e a sinistra contro il vento? –Dicevo solo... –“Solo” un par di palle – dovevo fargliela pagare per avermi diffamato – Lord extra, Partner in pacchetto morbido o duro (che ti mantiene intatto il sapore del tabacco), chi fuma non ha tempo di pensar male, per non parlare poi delle mitiche LM; un gran lavoro serio e utile ti dico, altroché. Ognuno di noi copriva una zona, aveva il suo angolo, un territorio che non cedeva agli altri e guarda caso stranamente solo io venivo perseguitato dalla polizia, caricavo il borsone sulla schiena e correvo il più velocemente possibile fino a dare quasi fuoco ai piedi. Una vera sfida ti dico, non capisco cosa ci trovi da ridere, a me non sembrava divertente, tutt’altro. Una fatica mortale riuscirli a seminare! –Di affari veri ti sto chiedendo – vedo il superiore innervosirsi maggiormente, come una sposa giovane in attesa della sua prima notte. –Aspetta un attimo che alleggerisco la vescica e continuo a raccontarti – avevo detto alzandomi per andare al bagno. –Sta fermo dove sei, dove credi di andare? –A pisciare, dove altrimenti? –Dentro non si può – continuava a tirarmi il cappuccetto a secco senza bagnarlo con la saliva – accesso riservato solo ai membri dell’esercito. –Davvero Capitano, non l’avrei mai pensato, – riuscì a offendermi di nuovo – sarà che con l’uniforme che indosso posso are per uno delle Nazioni Unite? –No, però... –Risparmiati il fiato che è meglio, per me non c’è problema! – dicevo, tirandolo

fuori in sua presenza per inondarlo lì accanto con un getto potente con quella lacrimuccia dedicata al Presidente¹– Non ho fretta né pretese, tutto si risolve, con santissima pazienza, pian pianino, take-it-easy come direbbe quell’infermiere con le scarpe gialle da pagliaccio. Cos’è che mi chiedevi? Ah ah, ecco, ora ricordo, gli affari dicevi. C’era un periodo in cui erano aumentati così tanto che ho dovuto prendere persino un socio, da solo non riuscivo più a gestirli, il cambio della valuta estera era nelle nostre mani, lui fungeva da banco mentre io facevo il marketing attorno, ltstera ltstera – ronzavo lungo la strada come un’ape impazzita, appena trovavo un cliente e lo scambio avveniva portavo il malloppo dal mio collega contabile che premurosamente mi aspettava nel portone di un edificio (questione di sicurezza, non conveniva tenere troppi soldi nelle tasche per strada), dove li contava e ricontava, faceva quadrare tutto (troppo intelligente era, un tipo in gamba, bisogna ammetterlo). Finché un giorno non lo trovai disteso a terra, rannicchiato in posizione fetale, “in piedi campione, per piacere non farmi il martire ora” – avevo gridato – “non si dorme al lavoro, alzati se non vuoi sbattermi i coglioni con una forchetta e mangiarli in tutta calma. Ti fotto quelle ossa corrotte, imbroglione che non sei altro”, e siccome le solite imprecazioni e minacce non bastavano, dovevo inventarmi qualche altra cosa, più immediata, veloce, una spinta di incoraggiamento, efficace come un piccolo calcio ben piantato; ma appena lo colpisco, la testa gli cade dall’altra parte e prende una posizione innaturale, appare deformata, mostruosamente buffa con un buco all’altezza degli occhi che non avevo visto prima. Una volta spostato quel corpo nulla più riusciva ad arrestare lo spandersi della macchia scura e densa in cui giaceva, il sangue si allargava... Sembrava di stare in mezzo alle preparazioni per Vasuljica – il primo giorno dell’anno ortodosso che viene festeggiato, come inizio della primavera, con un numero di¹ In gergo, riferendosi a Milošević, “fare una lacrima per il Presidente” significava urinare esprimendo chiaramente la critica dell'opinione pubblica nei confronti del regime al Governo. [N.d.T.] spari di tacchini ad abbellire ogni desco – ma io non sono tra quelli che si lasciano facilmente commuovere e infilo, quindi, un piede sotto di lui e lo rigiro supino, lo perquisisco, rivolto tutte le tasche, senza trovare niente però. È stato derubato di qualsiasi cosa che gli si poteva portare via, ed è questo il punto di tutta la questione. Se là su un Dio esiste, sarebbe ora di avvisarlo che non dovrà essere l’unico così buono con noi zingari da darci la precedenza nella fila: non c’è fretta, intanto possiamo aspettare qui ancora un po’... I guai poi non vengono mai da soli e nello stesso periodo anche mia moglie si

fece piuttosto strana: aveva mal di testa continui, paura che i bambini si svegliassero bruscamente e iniziassero a piangere, una stanchezza cronica inspiegabile. Capivo che toccava a me farmi avanti e trovare un rimedio, affrontare il problema, così mi decisi di fare un salto da quello stesso medico, nel dubbio che potesse risolvere qualcosa, come al solito sono stato il primo a consegnare la tessera sanitaria e l’ultimo ad arrivare al turno. –Gentile infermiera – all’inizio avevo cercato di farla ragionare –devo solo chiedere una cosa, non devo farmi visitare... –Con calma – restava imibile sulla sua sedia girevole dietro il vetro – tutta questa fretta non porta da nessuna parte! E come se non conoscessi già lo spirito della fiducia, mi misi ad aspettare in piedi vicino alla porta e a fine giornata, quando le donne delle pulizie iniziarono a chiudere porte e finestre, svuotare secchi e spegnere luci, anche a me fu dato il permesso di entrare. –Buongiorno dottore – lo saluto allegramente, come fa ogni uomo di buone maniere – mi stavo giusto chiedendo se avrà imparato qualcosa da quando ci siamo visti l’ultima volta! –Ma cosa dici? Di cosa parli? La gente che lavora non ha tempo da sprecare in giochi di parole! – D’accordo, d’accordo, certo, ho capito, allora vengo subito al sodo, ecco: ho pensato che – anche sei stato del tutto inutile quando si è trattato di aiutare mio padre – nulla toglie che magari ora con mia moglie riesci a darmi una mano! –Cosa sarà mai successo? – Chiede disinteressato, prima di mandarmi via. –Non vuole quello... –Aaaaah – si mette a sospirare pensieroso. –Ma per piacere, ma quale ah ah – sbotto contrariato – c’è poco da punzecchiare qui. Trovati qualcun altro da prendere in giro, mi serve un consiglio serio e non che ti metti a ululare come un cane! –Lo credo bene – diceva convinto – sei sicuramente uno di quelli con la cerniera lampo eternamente aperta che lo smuove prima ancora di entrare in casa ed esige

dopo che la donna debba adempire ai doveri coniugali... –Aspetta un po’ – avrei voluto difendermi però non riuscivo ad azzittirlo per più di un secondo. – … mentre un po’ di corteggiamento è quello che ci vuole e che chiedono da noi le anime gentili. Romanticismo, mi capisci? Non puoi entrare in casa e penetrarla, prima devi creare una certa atmosfera, luci soffuse, musica di sottofondo che la fa sciogliere di fronte a qualunque tuo desiderio... –Ah ah ah ah – cominciai improvvisamente anch’io a emettere gli stessi suoni bizzarri. Scommetto che volete sapere com’è andata a finire. Sono stato un perfetto imbecille a dargli retta, pensavo che con un pezzo di diploma in mano doveva per forza saperne più di me, mettevo al massimo quei compact ciddì, come caspita si chiamano, insomma, l’avete capito, ottenendo solo di mantenere sveglio e in piedi l’intero villaggio che balla sa-sa al ritmo della mia scopata. Che ci vuoi fare, avrei potuto chiudere un occhio e sopportare la gente radiosa che se la sava per strada, avreste però dovuto vedere quanta allegria si è sparsa non appena ho quell’unica lampada che avevo in casa, un faro rubato allo stadio per l’occasione... In tutto ciò mia moglie non si è smossa per niente, stava come prima, assente. Se si spostava di qualche centimetro pensavo fosse per il dolore che le causavo, mi spaventava, che si fotta quell’incompetente per i suoi bei consigli! Certo, è vero che avevo reso i bambini felici, uh, mai come allora, saltavano sui letti, ridevano e non la smettevano di darmi le pacche sul sedere nudo tifando senza tregua: “avanti pa-pi, pa-pi!”... Uuaaa, ladriii, figli di puttana rottiii in culo! Ah ah, che ne dici di questa, collega, così va meglio? Lo vedi che di me ti puoi fidare? So essere all’altezza del compito. Tu pensa solo ad alzare quel manifesto e a tenerlo bello in alto; per gridare ci sono io, se mi davano retta quando ieri sera dicevo che la protesta non andava fatta in autostrada era meglio. Appena li avevo visti quei brutti ceffi sapevo che ci sarebbe convenuto fare un o indietro e scappare; è proprio l’istinto che te lo ordina, che ti dice che non è saggio andare contro caschi e scudi, che ti puoi fare male e che se non te lo fai da solo ci pensano loro. Troppo tardi però: quelli dietro di me spingevano come dei matti e finalmente a nessuno dava fastidio avere uno zingaro avanti!

–E ora tenetevela pure, la precedenza – gridavo, cercando di alzare le punte dei piedi e frenare a tutti i costi con talloni – quando si trattava dell’iscrizione alle liste per la ricompensa riservata ai riservisti eravate capaci di armi sotto le gambe o sopra la testa, inutili menefreghisti, ora lasciatemi andare via! Niente da fare, non avevo nessuna voce in capitolo, la folla avanzava e io sulla cresta dell’onda, mio malgrado, venivo portato in avanti, avanti, fino al ben saldo cordone della polizia che avevo tentato di affrontare agendo con la massima cautela. –Non siamo venuti qui per prenderci a botte, una manifestazione pacifica è la nostra – dicevo al primo agente che mi sono trovato davanti – tranquillo, abbi fede e togliti la maschera, la tua tenuta antisommossa mi mette ansia. Se vuoi parliamone faccia a faccia, da uomini veri, solo la calda parola umana può conciliare posizioni apparentemente inavvicinabili... Macché, quando mai la diplomazia ha portato a risultati concreti? Galoppando come cavalli selvaggi sono saltati addosso alla gente, bastonando e scaraventando a terra senza un motivo, scatenando un caos senza precedenti... –Dicevo bene io che potevamo starcene a casa, ma non mi avete dato ascolto – cercando di recuperare le posizioni di retroguardia, me la prendevo con uno accanto a me con la testa rotta – in questo mondo per la pace non ci sono alternative... –Vaffanculo, zingaraccio di merda – colpendomi con una bottiglietta di birra in plastica non tardava a esprimere le sensazioni in lui suscitate dalle mie parole – ho le palle piene di questa odiosa cantilena demagogica di quello stronzo del nostro Presidente... Mi ci mancavi solo tu a sparare le stesse cazzate! Quella volta avevo deciso che non lo avrei fatto mai più, avevo dato la parola a me stesso di tenere la bocca cucita e non parlare invano, vengo sempre fottuto per troppa sincerità... Nooo, non dicevo di voi due, perdonatemi la gaffe fratelli, grazie! Questi me li prendo volentieri, è tutta un’altra la storia rispetto alle promesse di ricevere il vostro denaro in mano, ma ora che vi siete mostrati così umili e onesti nei miei confronti preparatevi a sentire la verità vera, assai maggiore di quella precedente... La stessa storia di sempre si ripeteva anche quel giorno quando sono andato a ritirare gli aiuti sociali; li avevo notati subito in corridoio, si muovevano sempre

in coppia, proprio come voi due, solo che lì per lì avevo pensato si stessero separando: ma che tra loro! Dalla rispettiva moglie! Ero convinto che stessero per divorziare... Quando è uscita fuori quella con i capelli raccolti in una crocchia chiamando all’appello il mio nome. –Beati noi zingari per l’immenso amore che ci riservi, lasciandoci ogni volta alla fine come un goloso dessert, – per quanto molto arrabbiato, ero anche ben deciso a trattenermi, cercando di farla ammorbidire con un po’ del mio infallibile fascino primitivo – lo sai, su richiesta vengo ad assistere anche a domicilio, devi solo farmi trovare parecchia birra fredda e un magnifico strudel fatto con le tue manine... –Una firma qui, per ricevuta – diceva riandosi il rossetto sulle labbra carnose con un mini specchietto in mano. Faccio, dunque, come mi è stato detto e non aggiungo altro, metto una firma sulla linea indicata in basso, prendo i soldi e tolgo il disturbo, o almeno ci provo, perché guarda te il caso, mi ritrovo quei due piazzati davanti. –Devi venire con noi – mi informa lo spilungone. –Dove? Come? – stento a capire – Non vedete che sono un caso sociale? –Abbiamo perso tre giorni cercandoti, un totale di settantadue ore preziose, – aggiunge quello piccoletto dalla testa grossa – vedo che il denaro sei venuto a ritirarlo e la patria non la andresti a proteggere, però. –Ooh, che capoccione! Mi metti in imbarazzo per quanto sei bravo a fare i conti; – con urgenza cercavo una qualunque via d’uscita – fatemi solo are un attimo da casa che raccolgo la mia roba e gli strumenti... –Non ti serve niente, abbiamo tutto noi, salire prego – dicevano introducendomi nella macchina delle forze dell’ordine. –Assassini, qui dentro fa caldo e l’aria condizionata non c’è, non ditemi che dobbiamo soffiarci in faccia l’uno all’altro, – mi lagnavo dando calci alla porta da dentro – tutti i vostri morti ve li fotto uno a uno, questa è una truffa, non potete portarmi via così, che ve li fottooo! Zitti un po’ voi due, fatemi sentire un attimo cosa ha da dire quel brav’uomo là,

sì, proprio quello appena salito sulla tribuna... Sììì, così si parla maestro! Giusto! Sacrosanta verità! Devono pagarci per ogni minuto che abbiamo trascorso in trincea per loro , per ogni giorno e ogni notte di cui ci siamo privati, anche le botte che ci siamo presi ieri sera vanno incluse nel conto, ci mancherebbe, nessuno può menarci senza pagare! E ora cosa gli prende? Qui qualcuno si è bevuto il cervello? Ma quale “di nuovo”, quale essere “disponibili ancora”? Uah, guarda te ’sto cretino! Che torni lui a combattere, se gli piace così tanto, fottuto idiota! Strano che non ha proposto di pagare a noi zingari la metà della diaria stabilita, non mi meraviglierebbe poi più di tanto. Uahh, che Dio ce la mandi buona e a te tolga l’udito, affinché tutti debbano strillarti in quelle orecchie tappate, che solo ai mercatini zingari come venditore ambulante, tu possa ancora proferire qualche parola. Ti fotto quella testa vuota! Un’altra volta ancora? Non ci posso credere! Non so se ve ne rendete conto dell’effetto che causano le vostre stupide e insensate domande. Finirà che mi romperete il cazzo con la vostra insistenza, definitivamente! Devo parlare, d’accordo, parlerò; nel frattempo vi consiglio di darvi una bella calmata, consideratelo pure l’ultimo avvertimento da parte mia... –Cos’è questo, fa un po’ vedere – si stranisce il Capitano vedendomi una mattina arrivare con un sacco pieno della mia solita raccolta notturna. –Sanguisughe – gli rispondo semplicemente appoggiandolo per terra e aprendolo per bene in modo da soddisfare la sua curiosità – un lavoretto pulito e trasparente come una lacrima, nessuno è interessato a sguazzare le notti intere nel fango, è faticoso, richiede impegno e sacrificio, i pescatori dal canto loro non chiedono il prezzo, ma pagano e basta. –Per questi cosi, – mi chiede con gli occhi fuori dalle orbite da tanta meraviglia – ne sei proprio sicuro? –Certo che lo sono, credi forse che sto qui a raccontarti balle?– come sempre di fronte all’incredulità divento impotente, sento vacillare le mie forze e un furore cieco all’improvviso mi assale. –Se lo dici tu... –… e ti dico di più, non indovineresti mai – gli sorrido astutamente – ho cominciato a esportarle in Ungheria, vengono con dei secchielli in plastica e si caricano tutto, pagamento solare.

–Solare, e che sarebbe? – si lascia impressionare facilmente il Capitano, versando un terzo giro a entrambi. –Il denaro immediatamente alla luce del sole – gli semplifico la comprensione – prima paghi, poi porti tutto dove vuoi, non è più affar mio... Vediamo un po’ questo tizio sospetto qui cosa si è scordato di dire ancora. Ah, di tornare domani alla stessa ora; vuol dire che per oggi è finita, bene, e noi ritorneremo volentieri, ci può contare. Mi chiedo soltanto se conviene mettermi subito in fondo alla fila oppure lasciarmi scavalcare da tutti; mi sarò rimbambito di brutto, che altro posso pretendere da loro, quella volta al fronte sono stati capaci di scaricarmi nel fango davanti a quella scuola con solo le ciabatte ai piedi. Certo che me la devono pagare e comunque non sarà mai abbastanza, hanno pensato di fottermi, ma sono rimasti fottuti a loro volta, e io invece me la sono cavata, in una delle case abbandonate mi sono subito imbattuto in canna da pesca e stivali di gomma, in un’altra sono spuntati fuori anche dei sacchetti di plastica per l’occorrenza, mi sono informato dai contadini per sapere dov’è che si trova il pantano più profondo, il migliore della zona. Che ci vuoi fare, caro scrittore, un uomo deve pur sapersi arrangiare. Vedo che anche tu non te la i meglio, sprechi la tua esistenza occupandoti della gente come me, non è vero forse? Eh, non mi rispondi? Tranquillo, non ce n’è bisogno che tu dica niente, si capisce... Rispetto a te io lavoravo solo di notte, mi ero organizzato così, lo preferivo, quegli uccellacci malefici ci sorvolavano e pisciavano addosso il metallo da sopra le nuvole mentre i miei si raggomitolavano in difesa negli umidi corridoi sotterranei della trincea, perciò ero libero, o almeno mi sentivo così fino al mattino successivo. Nessuno mi disturbava, potevo con calma sbrigare il lavoro, come già detto fermarmi dal Capitano al ritorno per un bicchierino e due chiacchiere, un trantran quotidiano che avrai conosciuto anche tu, spero, monotono quanto il cupo rumore degli aerei. Ma quando già non ti aspetti più nulla e pensi che le tue giornate sarebbero state tutte così uguali per l’eternità, ecco, è proprio qui che ti sbagli di grosso: così un giorno al mio rientro trovo tutti gli uomini a fare la ginnastica la mattina presto, allenarsi a torso nudo spacciandosi per campioni mondiali, non saprei però di quale sport. –Capitano, non trovi che sono un po’ troppo pelosi per l’aerobica? – avevo chiesto scoppiando in una fragorosa risata. –Uno, due, tre, quattro, di nuovo, ripetere, uno, due... – si propagava la voce dell’Ufficiale più che mai serio e deciso a tirare fuori anche l’anima dal naso dei

suoi uomini – perché ve lo ripeto, ogni goccia di sudore che sgorga ora sarà una ferita in meno nella battaglia. Adesso basta, riposo, più tardi si va a cercare le bombe a grappolo e domani seguire il corso su come disinnescarle, rompere le file! Mi scappa da ridere, ma qualcosa dentro di me tuttavia si oppone e pensa che è facile darsi le arie e impartire ordini a questi ragazzi, bambini praticamente; prova un po’ a comandare a una donna se ci riesci, sempre indisposta e svogliata, l’avevo pure portata a farsi curare da quello che appena l’ha vista l’avrebbe subito divorata come un serpente quando si butta sulla rana, soffermandosi sulle caviglie e dietro alle ginocchia, salendo sempre più in alto per scoprire il reggicalze, le cosce e l’addome, fino al reggiseno nero abbinato agli slip col bordo rosso. –La invito ad accomodarsi fuori – con una certa urgenza e maggiore gentilezza lo propose a me – sa, questione di privacy, la chiameremo non appena avremo finito con la terapia. No, la sua voce non tollerava obiezioni; tutto quanto mi sembrava piuttosto strano, mi chiedevo cosa ci fosse in fondo di tanto misterioso da doverlo nascondere facendomi aspettare in corridoio dove a ogni secondo la mia curiosità aumentava uccidendomi peggio del fumo; così, dopo che un lieve strillo proveniente dall’interno della stanza si prese gioco di me accendendo brutalmente la mia fantasia – non ce la facevo proprio più a stare lì davanti con le mani in mano come un povero imbecille – cedo finalmente alla tentazione di capire cosa succede dentro e mi metto a sbirciare dalla fessura della porta accostata. Non l’avessi mai fatto, certe verità è meglio ignorarle, credetemi. Il dottore si inchinava tra le gambe di mia moglie e ansimava, si spostava, strusciava, boccheggiava come un pesce; respirava affannosamente anche lei, trattenendosi dal gridare, sussurrandosi e muovendosi in sincronia. Niente le fa più male, tutti i sintomi all’improvviso sono stati cancellati! Curare la fica per mandare via il mal di testa... Maledetta medicina moderna che considera il corpo nel suo insieme... Ma che cosa ci vuoi capire di più scrittore... Siamo uomini! –Le ho appena somministrato una prima dose della te... – voleva informarmi quel credulone sistemando in fretta il colletto del suo camice bianco. –…Terapia, lo so. Non sei l’unico che ha seguito i corsi di recupero. Come vedi, di “istruiti” ce ne sono molti!

–Giusto, il trattamento curativo! – decide di non darsi per vinto e asciugandosi rapidamente il sudore e l’imbarazzo dalla fronte cerca di riprendere la situazione in quelle stesse mani bagnate – Il controllo fra una settimana! Ah, sì, come no, non vedo l’ora, vigliacco, l’ho incontrato casualmente tre mesi dopo, faceva finta di non vedermi e sperava di are inosservato! –Dove vai tanto di fretta, dottore? Aspetta un po’, – mi piantai davanti a lui, deciso a fargliela pagare almeno in parte – ora siamo tutti una famiglia, sei come un fratello per me, più di un fratello! –Davvero? – si meraviglia e ci prova a fottermi come già è stato abituato a fare – Vediamo quale grado di parentela ci unisce, tu cosa sei con me? –Io un bel niente, – sto al suo gioco, per un istante taccio, lo lascio sentire sicuro e al centro del suo mondo, poi all’ultimo rilancio – è mia moglie ch... –Cosa... –Per essertela scopata... Per che altro??? –Adesso, dai, non insinuiamo inesistenti sciocchezze – faceva il finto tonto – avresti dovuto portarla a fare un controllo di routine per verificare che tutto andasse bene. –Certo che va bene, mai andato meglio, lei gode di ottima salute solo che nel frattempo è morto un nostro zio... –Sto parlando esattamente di questo, di prevenzione. Avresti dovuto portarlo a farsi visitare in tempo! –Anche a lui avresti dato una terapia altrettanto potente? – Gli chiedo incuriosito. –Anche a lui, ci mancherebbe, – mi risponde il cretino – quel che è necessario non pesa! –Tutto tempo sprecato dottore, mi creda, con mio fratello l’abbiamo inculato giorno e notte a turni, nessun risultato. Quando il destino lo vuole nemmeno la scopata è d’aiuto...

Cosa? Non sarò uscito fuori dal tema? Se lo dite voi... Il mestiere di scrivere è vostro, tutto vostro, io non c’entro niente, io rispondo alle domande fatte e basta. Guerra! Ancora? Non vi siete stufati, mi sembra quasi di stare in catena di montaggio e dover soddisfare i ritmi della fabbrica per le vostre esigenze. Quanti litri di sangue volete? Ditemelo subito, che facciamo prima. Non lasciatemi indovinare i vostri gusti, che Dio mi fulmini se anche voi due sapete quello che volete da me, o sbaglio? Comunque, già che insistete... –L’ozio regna e vince, incredibile. Tutti si sono fatti pigri – accanto a un soldato che gli pompa l’acqua per lavarsi, l’Ufficiale gesticola e punta minacciosamente il dito in alto, dandoci delucidazioni sulla sua vera missione – e voi non chiamatemi Capitano, altrimenti vi metto in riga, così vediamo chi ha il coltello dalla parte del manico. Vi farò are il sonno una volta per sempre! –Rallenta un po’ – ci provo a distrarlo – non hai idea di che grappa mi sono procurato, anche solo ad annusarla ti assorbe completamente! –amela qui – ordina ancora tutto bagnato, e si mette a ciucciare come se dovesse svuotare un biberon. –Che tirata che hai per la miseria – amaramente pentito osservo solo il fondo rimasto della bottiglia di un chilo, cioè di un litro. –Sono un soldato, un militare vero – urla nelle mie orecchie, si burla – e non un cacciatore di vermi! –Sanguisughe! – lo correggo prontamente – Non cominciamo a offendere, hanno addirittura un nome e un cognome, un’identità completa. Me l’ha detto un dottore in quella lingua... Sì, quella, latina... –Oddio, adesso piantala e racconta qualcosa di serio se mai hai fatto un lavoro onesto – si mise a gridare come impazzito con gli occhi gonfi e rossi, iniettati di sangue. –No, io no, mai! Pensi d’essere sicuramente l’unico ad averlo fatto – non mi lascio calpestare come uno zerbino. –Allora, sputa il rospo, racconta! –Seduto Capitano, nulla si risolve in piedi; lascia il nervosismo da parte – gli

dico amichevolmente e avvicino due tronchi per farci accomodare – certo che ho avuto anche un lavoro onesto! –Sono tutt’orecchi – finalmente inizia a calmarsi. –Non avrei mai visto un paio di jeans in vita mia se non fossi andato a Trieste per il contrabbando! Attraversavo il ponte rosso a testa alta e andavo dritto dritto dal signor Giovanni, l’unico e insuperabile uomo d’affari di tutto il circondario, salutavo come si deve, proprio come uno di casa, oh oh, avresti dovuto sentire come me la cavavo bene con l’italiano: Bondžorno, milegracije e arivederčiii. Sceglievo e pagavo, mi sbrigavo a riprendere il treno per tornare, le guardie doganali aprivano e svuotavano tutte le valigie, spogliavano la gente in mutande, solo con me non sapevano cosa fare, viaggiavo con una borsetta a mano e sconvolgendo così ogni loro aspettativa, mi chiedevano cosa ci ero andato a fare lì e quando rispondevo che era esclusivamente per motivi turistici, tutto il treno scoppiava in una gran risata. Anche i poliziotti ridevano, non restava loro un cazzo da fare, erano costretti a lasciarmi stare rosicando per essere rimasti in qualche modo fregati., Infatti, tre giorni dopo un furgoncino con targa italiana ava nelle vicinanze di casa mia e senza fermarsi scaricava il pacco direttamente nel prato accanto alla strada: un infallibile servizio a domicilio che a lungo ha funzionato. Qualche volta ho rimediato perfino un aggio da loro... Mi ero preoccupato soltanto quando è morto Džaniversači, la cui uccisione ha segnato la fine di un’epoca; pensando si ripercuotesse negativamente anche sul nostro commercio – ma stiamo parlando di quello originale – avevo chiesto informazioni provocando nuovamente una risata generale. Era facile comprendersi con loro, un popolo di simpaticoni, gente alla mano con un grande senso dell’umorismo, allegri, sempre pronti alla battuta per allentare un po’ la tensione; finché un giorno, ridendo e scherzando, la risata non gli è andata per traverso? Merda, vennero arrestati e tutta la merce confiscata; più tardi ho saputo che sono stati tenuti chiusi al buio per tre giorni, bastonati senza alcuna pietà fino allo sfinimento e cos’altro abbiano fatto loro la notte non oso nemmeno pensarci. Non sapevo con quali tranelli e bugie mi avrebbe accolto il medico questa volta, intanto con la testa tra le mani stavo lì davanti in corridoio, in attesa del peggio, ma apparentemente calmo e preparato. –E ora cosa c’è di nuovo? – mi chiede senza guardarmi.

–Ai tempi quando hai sottoposto a cure mia moglie... –Ricordo, arriviamo al dunque – dice senza togliere ancora lo sguardo dal libro. –Senti bello, una cosa la chiariamo subito! – mi agito e comincio a strillare – Ti è stato detto di studiare e riare a casa, non qui. La gente viene per farsi curare e non per essere presa per il culo, mettitelo bene in testa. L’ultimo nato sembra una tua copia spiccicata, io sono nero come un corvo e non solo mi spunta fuori un figlio bianco come un crucco con gli occhi azzurri, ma nemmeno la pazienza ha, non vuole aspettare come tutti gli altri zingari, salta sempre la coda e si appropria delle cose degli altri bambini, li colpisce con quel st, ste, come si chiamava, testoscopio, stetoscopio, giusto, quel tipo di aggeggio lì, insomma, che ho comprato per fare sesso con mia moglie. Fanculo ai consigli competenti, alle cuffie fissate attorno al collo e al camice bianco; per di più dovrei anche riuscire a scopare, come se le pie. –Ma lascia stare tutte queste elucubrazioni mentali – mi interrompe sapientemente – è risaputo che una donna in primis non lo sa cosa vuole. Invece del bambino mi stavi dicendo? – Sarà che hai ragione, come darti torto, e comunque al bambino manca solo la tua calvizie per essere uguale a te! –Non crediamo a certe dicerie, siamo ragionevoli, piuttosto... –comincia a indietreggiare cercando scuse adatte – Io non ho nulla da nascondere, non c’entro niente, è una semplice questione di genetica! – Di cosa? –Di conoscenza ge-ne-ti-ca... – me lo ripete un paio di volte sillabando come se si dovesse accertare che ho capito – Ecco, dimmi un po’, tu porti le pecore al pascolo? –Sì, ma cosa c’entra se le faccio o meno?! –Questa già si chiama lo-gi-ca, e ti insegna che in un gregge può capitare anche un agnello di colore nero da entrambi i genitori bianchi, giusto? –Sì, ok, succede... La verità va riconosciuta! –Ah ah, lo vedi! Finalmente ragioniamo noi due, spero sia tutto chiaro ora! – Riprende a respirare il dottore. –Chiarissimo, che di più non si può. Tu starai zitto per le pecore e io vedrò di

mantenere il segreto sul bambino, giusto? Fin dove arriva la vostra curiosità malata mi chiedo; la guerra ancora vi interessa? Se siete dei tipi così folli preparatevi alla mortificazione di essere superati perché in qualunque momento posso esserlo molto più di voi. Non è che mi manca la laurea, poveri illusi. –Volere è potere – dicevo all’Ufficiale, ormai visibilmente irritato – potresti accompagnarmi una notte nella mia “caccia”; sarebbe una mano santa. Ti riprenderesti velocemente, i nervi vanno curati al più presto possibile. Sei un uomo ancora giovane, poi sarà tardi, non puoi dedicarti all’uncinetto alla tua età! –Stai cercando di prendermi per il culo – diceva battendo per terra il piede che non riusciva più a tenere fermo – o sei davvero suonato? –Il mio è un lavoro come un altro, provare per credere! –Ve-ro la-vo-ro, qualcosa di valido per la miseria – ora anche lui si mette a scandirmi lentamente ogni sillaba. –Te l’ho già detto, ma si vede che non stavi attento. Sono stato un abile musicista, richiesto, sempre che per te questo sia abbastanza perbene, lieto di mostrare la mia professionalità in ogni occasione in cui la buona musica era benvenuta: durante i pettinamenti di giovedì, quando le giovani spose in vista delle nozze sistemavano le loro chiome, in occasione dei fidanzamenti pure, nei momenti degli addii che impietosamente giungono per ognuno. Poi, che ti devo dire, la crisi ha rovinato anche noi; niente è più come prima, appena dico il prezzo, subito mi chiedono se si può fare la metà, uso tutte le mie doti per convincerli, farli ragionare, aggiungo che quello che ci danno equivale a quanto dobbiamo spendere noi, ma ridono naturalmente, ogni battuta sembra buona. Nessuno tira fuori il portafoglio ma quando si tratta invece di farci delle richieste particolari allora sono tutti bravi, a farci arrampicare sugli alberi, a lasciarci pendere dai tetti... Ti sembro un cugino di Tarzan oppure un trombettista? Un giorno me la prendo anche con un tizio che girava con la pistola in mano... Inutile: parlo ma è come come se non dicessi niente, tutti possono fare qualunque cosa con noi, a loro piacimento: piazzarci sotto un tavolo o farci ammucchiare negli angoli sudici della stanza. Tanto i soldi non li vedremmo lo stesso. La cultura delle taverne è morta, irrevocabilmente; pace all’anima sua, per

sopravvivere bisognava volgersi altrove, elaborare una nuova strategia, efficace e sicura quando niente attorno a te lo è più, tornare magari indietro al punto di partenza, quando animavamo le fiere vivendo sotto i tendoni. Sì, sarebbe fin troppo facile campare così in pace, persino fattibile, se un Dio si decidesse a dare un’occasione anche ai gitani, offrisse loro quel di cui hanno veramente bisogno. Così non si può andare avanti, basta con il suonare ai festeggiamenti altrui per piangere poi in casa propria! Ci fu una volta però anche un matrimonio all’interno del nostro quartiere, di cui non mi scorderò mai. E come potrei? Ho dovuto raccontare i particolari di quella serata in tribunale, descrivere quel grandissimo cazzone del tassista che ha causato caos e paura nella baracca irrompendo tra gli sposi a centoquaranta chilometri orari, con gli ospiti aggrappati alle lanterne mentre la lancinante sirena dell’ambulanza non la smetteva più di suonare ni-no... ni-no... nino, coi bambini terrorizzati che – ahi papà mio, ahi mamma cara – piangevano in giro cercando l’abbraccio dei loro genitori, con il fisarmonicista che con il culo per terra si era fatto circa quaranta metri di slittata... E io non potevo nemmeno dirlo senza essere rimproverato di “linguaggio inopportuno” – stia più attento a come si esprime, non stiamo al mercato qui! – mi sgridava il giudice dall’alto – siamo una seria istituzione statale – Serio lo ero anch’io, altroché, nel riferire alle autorità che la tromba entratami nella gola stava a momenti per arrivare quasi alla laringe, vedevo le rughe di preoccupazione sui loro volti e cercavo di essere il più gentile possibile nello spiegare da quale buco eventualmente sarebbe uscita – fuori, fuoooriii da quiii, sporcaccione! – e comunque proprio con queste parole è stata ripagata la mia sincera testimonianza. Certo, non avrei potuto aspettarmi di meglio! Ascolta bene, scrivano, niente svanisce nel nulla, né la tua penna che non scappa da nessuna parte, né la mia testa in cui tutto è stampato e sigillato, anche peggio che sulla carta. Rilassati dunque e dammi un attimo di respiro, ecco, fammi almeno rispondere al cellulare... –Non piangere donna, non dartene briga, non c’è da preoccuparsi, tutto si risolve, abbiamo cercato un compromesso, nessuno ci picchia più. Stai tranquilla, domani alle dieci ci raduniamo di nuovo. Ma quale ritardo? Certo che prenderò la mia parte, stai sicura, stavolta non mi lascerò abbindolare, sarò puntualissimo, mica devo timbrare il cartellino in una fabbrica. Sono un uomo libero, anche troppo se è per questo, ho a disposizione tutto il tempo che mi serve e posso mettermi in fila fin da ora se voglio, così non rischio niente, ciao...

Vi dicevo che avrei fatto velocemente, la famiglia prima di tutto, poi le chiacchiere. Comunque, la prossima volta che ci vediamo, ragazzi, cercate di essere presentabili, i vostri indumenti vanno spaventati con un po’ d’acqua e anche a voi due un lavaggio non sciuperebbe la salute; e non siate infantili per piacere, incredibile, adesivi di animali e di calciatori sulle magliette dovrebbe essere qualcosa di superato alla vostra età! Non c’è rimasto molto da dire, siamo vicinissimi alla fine di questa nostra socializzazione reciproca; quel mattino si vede che in Dio l’istinto paterno s’era risvegliato e al momento voleva proteggermi, dato che sono casualmente arrivato davanti alla scuola con un leggero ritardo. Vi prego senza bisbigli e segni di croce, se si può fare! Tanto per informazione, i soldi non li riavrete indietro. Che sia ben chiaro! Non fa niente? Meglio così, a te credo sulla parola, è il tuo compagno che mi lascia perplesso... Uffa... non è che mi fa un gran piacere ricordare... credo che al Capitano non ero mancato più di tanto, l’amicizia mattutina con un raccoglitore di sanguisughe dev’essere stata per lui un atempo come un altro, un male minore se vogliamo. Avvicinandomi, vedo da lontano che aveva disposto tutti gli uomini in cerchio, nella mano sinistra teneva come una reliquia qualcosa di rosso, qualcosa di molto simile a un giocattolo che avrebbe voluto aprire con la punta del coltello. Poi c’è stato un buuum, un quarto del Capitano viene sbalzato in alto e altri quattro soldati vengono disgregati all’istante, mentre anche altri tre giacevano al suolo con i corpi squarciati. Pianto, urla, disperazione; i due infermieri cercano di stringere con alcuni nastri le braccia e le gambe che pendono mollemente, spingono garze e bende in quel pozzo senza fondo da cui il sangue sgorgava a fontanella. Una macchina era arrivata nel frattempo, li hanno caricati sopra e si è allontanata di corsa. Quel dottore con le scarpe gialle aveva vomitato, l’altro si stava lavando gli stivali con la pompa. Quando se ne sono andati via tutti, per un po’ sono rimasto da solo nel cortile con tutto quel sangue; per una volta a nessuno importava il turno, non si chiedevano chi è il primo e chi sarà l’ultimo. Un soldato aveva preso il tubo dell’acqua per togliere il rosso dal cemento, un altro raccoglieva con un telo i pezzetti sparsi in giro – prima il braccio e la spalla, seguono le gambe fino alle ginocchia, la testa va messa da parte, tre, quattro, cinque, nessuna fretta, gli occhi, gli intestini, un orecchio. – Piano, tutti saremmo arrivati al nostro turno, uno dietro l’altro, pezzetto per pezzetto...

SULLA PAURA IN COMBATTIMENTO

Il prof. dott. Petar Kostić, nostro eminente scienziato e pedagogo, ha pubblicato un articolo intitolato "La paura in combattimento". Considerando l'importanza di questo tema , le sue modalità d'approccio, nonché i concetti della stessa, con immensa gratitudine nei confronti dell'autore, riportiamo interamente quanto segue.

La paura in combattimento è una reazione biologica del tutto normale: si manifesta ogni volta che la nostra vita viene esposta a pericoli per cui l'integrità fisica risulti minacciata, a ogni modo, la paura in combattimento è potenzialmente pericolosa in quanto, "lo spavento non solo si impadronisce della metà delle forze di un guerriero, ma persino va a regalare questa metà rimossa direttamente al suo avversario contribuendo in tal modo al proporzionale aumento della sua potenza", ciononostante possiamo comunque osservare come tutti i combattenti non fanno altro che temere, per quanto alcuni di essi si mostrino anche capaci di padroneggiare le proprie paure cercando di rimanere quanto più possibilmente focalizzati sulla lotta, mentre altri il controllo lo perdono facilmente e permettono al panico di risucchiarli, perché è risaputo che il coraggioso e il codardo hanno ugualmente paura, solo che… il coraggioso muore una volta sola, mentre al codardo ciò accade centinaia di volte.

DECALOGO SU COME CONTROLLARE LA PROPRIA PAURA E DIVENTARE UMANAMENTE CORAGGIOSI E MILITARMENTE EFFICIENTI

-Non permettere ai pensieri sulla morte e sulla mutilazione di gironzolarti in testa. Pensa invece a come meglio combattere e sopravvivere. Scava e riscava la trincea, pulisci l'arma, allenati con il dispositivo di precisione... -Non lasciar determinare alla paura quello che sarà il ritmo del Tuo respiro, è proprio attraverso la respirazione che i timori possono essere controllati. Respira in modo tale da far durare due volte tanto la Tua aspirazione rispetto all'espirazione in quanto un timoroso ritmo di respirazione non farebbe altro che far aumentare le Tue paure. -Rilassati e mettiti pure in una posizione comoda: Non startene lì seduto tutto intorpidito. Rilassa tutti i muscoli del Tuo corpo più che puoi, fino a non sentirli più, allarga le braccia e le gambe fin dove lo spazio te lo permette. -a) Ogni mattina al risveglio fai il segno della croce, ringrazia Dio per averti regalato la giornata di ieri e implora che Ti venga concesso ancora un giorno di vita in salute. Fai così ogni mattino se sei un credente. b) Ogni mattina subito dopo esserti svegliato sorridi dicendo: Sano e salvo desidero arrivare a DOMANI (fallo comunque, anche nel caso tu non fossi un credente). Sveglia i tuoi compagni, scherza con loro, mettetevi a ridere, raccontatevi una barzelletta… La paura non va a braccetto con le risate. Una sana risata caccia via qualunque timore. Contemporaneamente, però, allegria e senso dell'umorismo creano l'opportunità di arricchirsi a vicenda stringendo nuove amicizie. Una maggiore popolarità all'interno dell'unità di certo comporta un minor rischio di abbandono alle proprie incertezze e paure. -La mattina, dopo esserti svegliato, non fare il pigro come un colon lento. Alzati, mettiti in moto, riduci la tensione muscolare, fai un paio di flessioni, stira le gambe, corri sul posto, apri e chiudi le braccia. Tutto ciò in funzione di far smuovere la Tua linfa vitale, affinché riesca a lubrificare meglio le Tue articolazioni, i muscoli e l'inguine, in quanto essa da sola non possiede un organo che funge da pompa come il cuore per il sangue, spingendolo a fluire

attraverso le arterie e le vene di tutto il corpo. Per questo sei obbligato a scuotere la Tua linfa personalmente cosicché nel caso in cui si manifestasse un effettivo pericolo tu possa agire adeguatamente e in conformità con la consuetudine al combattimento acquisita attraverso un costante allenamento giornaliero. -Ogni giorno occupati della Tua igiene personale: lavati i denti, sciacquati il viso con acqua fredda, fatti la barba, cambiati regolarmente la biancheria intima e lavala per bene subito, lì per lì, senza aspettare un istante… Questo serve per mantenere un certo equilibrio creando una specie di abitudine o rito, il quale grazie proprio alla sua struttura rituale – una precisa durata e la ripetitività nel tempo – ti permetterà di respingere le ondate di paura e contrastare anche la peggiore angoscia. È un metodo molto ben conosciuto e adoperato da fachiri indiani, lama tibetani, saggi cinesi, ninja (eccellenti combattenti) giapponesi… per raggiungere una pace fisica, e con essa anche spirituale. -In una zona di combattimento non precipitarti come un giovenco nel litorale, ma ascolta cosa comandano i tuoi ufficiali ed esegui i loro ordini. Così farai quello che fanno tutti, cioè te la caverai (come tutti gli altri), perché non possono morire tutti per via di un razzo o un proiettile, ovvero non è che ogni pallottola uccide. -Bevi come un uomo, non ti sbronzare come un maiale. Un uomo ubriaco fa sciocchezze, e le stupidaggini attirano i diavoli della morte. Un uomo ubriaco non è in grado di controllare le sue mani e le sue gambe che sono ben visibili e tangibili, e come potrebbe allora controllare la paura che è astratta e non si lascia toccare?! Tieni ben presente che l'ubriachezza, proprio come la paura "ostacolano la mente e tengono le mani legate". -Sii soltanto là dove devi essere, fai solo quello che ti si ordina. Coloro che agiscono diversamente finiranno per andare a fare in culo (prima o poi). Non dimenticarti che in ogni guerra un discreto numero di vittime muore a causa del cosiddetto "fuoco amico" (per colpa di una pallottola sparata dal proprio compagno, fratello, vicino…). -Mantieni costantemente un'adeguata forma fisica. Se sei bravo a correre, a sollevare una cassa piena di munizioni oppure la piastra d'appoggio del mortaio MB-82 (senza scoreggiare) sarai in grado di uccidere (se necessario) e arrivare dove devi, prima o dopo una pallottola nemica (basta che ti avvii

in tempo).

SE NON RISPETTI QUANTO FIN QUI SPECIFICATO C'È UN ELEVATO RISCHIO DI ESSERE PRESI DAL PANICO, E ALLORA…

a) Ti metterai a scappare senza usare la testa, e in tal caso se non rimani colpito a morte da un proiettile o da una qualche scheggia di granata, preso dal panico ti spezzerai una gamba oppure romperai la testa. b) Ti metterai a fuggire in un gruppo (come una pecora nel gregge), ed è allora che più spesso vengono uccisi persino coloro che saggiamente rispettano i precedenti 10 COMANDAMENTI. c) Mentre stai scappando non puoi sparare al nemico, non puoi sceglierti un riparo, una maschera o una direzione, ed è per questo che corri dritto tra le braccia della morte; nel frattempo il nemico in tutta tranquillità e sicurezza ti può inquadrare nel suo mirino. d) Seguendo l'impulso di fuggire costringerai anche gli altri tuoi compagni a commettere lo stesso errore (non sapranno che ti sei semplicemente cagato sotto dalla paura, ma penseranno che è giunto un preciso ordine di cambiare la posizione), così per il nemico diventerete tutti insieme un facile obiettivo che si muove in una direzione prevedibile per impostare il fuoco soppressivo. Infine, per impedire lo scioglimento della sua unità, ogni comandante ha il diritto di sparare su quello che conduce la fuga. e) Quanto più scappi – tanto più sarai impaurito, e così ti metti a correre in modo ancora più veloce e insensato… (e così in un circolo vizioso fino alla morte). Se facendo ciò che ti è stato ordinato nei 10 COMANDAMENTI, ci lasci comunque le penne incontrando una pallottola nemica - allora perdonami - vorrà dire che mi sono sbagliato da qualche parte. Ma non preoccuparti, non lo saprai mai (perché nessuno che è vivo sa com'è essere morti). E se comunque sei cosciente di un qualche mio errore vuol dire che tocca a te offrire, fratello mio! Significa che sei stato solamente ferito e che è stato il massimo che abbiamo potuto fare per Te così sfigato (Tu e io). Mentre da ferito ci pensi e ripensi dov'è che abbiamo commesso l'errore, tieni ben presente anche quanto segue: -Le ferite di guerra non fanno male (almeno finché sei ancora sul campo di battaglia) – faranno male più tardi quando la ferita si raffredda, perché lo stress

per motivi fisiologici impedisce un forte dolore. -Sfrutta immediatamente l'opportunità di mettere in pratica tutto quello che fino ad allora hai imparato sul primo soccorso: pulisci la ferita, sciacquala con la grappa (non solo da "dentro"), applica la prima garza e utilizza anche il laccio emostatico di Esmarch (la prima garza è gratuita), non muoverti più del necessario e chiama il dottore… -Se stai temendo che il sangue scorre veloce e che rischi di dissanguarti, smettila di preoccuparti per questo. È soltanto perché hai paura, e "nella paura gli occhi sono grandi". Viceversa, proprio come le ferite non fanno male, così nemmeno il sangue scorre via troppo veloce – per altri motivi: cioè, il Tuo stesso corpo restringe al massimo i vasi sanguini attorno alla ferita (i medici lo chiamano “vasocostrizione periferica”). -Sappi che i medici dovranno fare la loro parte lì sul luogo e subito: così il prima possibile ti ritroverai in un'ospedale oppure su un tavolo chirurgico se ci sarà bisogno di ricucirti qualcosa. -Può accadere, Dio non voglia, che ti accorga subito di dover perdere la gamba sinistra, è solo un esempio! Un peccato, certo… Conosco però almeno cinque motivi per cui anche questo potrebbe essere considerato un bene. Ecco il primo: hai ancora la testa sulle spalle, vero? Pensaci Tu stesso ora quali potrebbero essere gli altri quattro.

con rispetto tenente colonnello prof. d ott. Petar Kostić, psicologo, m.p.

Una lezione di anatomia

Siamo colleghi, se ho ben capito da quella conversazione telefonica! Chiedete pure liberamente tutto quello che vi sta a cuore senza farvi problemi con me, sarò felice di rispondere alle vostre domande; veramente, perché non esserlo? No, non occorre pagarmi, non lo faccio per denaro. Beh, se proprio insistete così tanto potrei pensarci, in fondo i soldi sono come le ore, non bastano mai... Vi prego, accomodatevi, mettetevi a vostro agio; non lasciatevi stupire dalle riproduzioni sui muri con le spiagge più meravigliose di tutto il mondo. Perché? Ogni cosa a suo tempo, lo sentirete con le vostre orecchie quando arriverà il momento, sempre se arriva; non perché io voglia turbarvi, ma gli imprevisti sono sempre all’ordine del giorno. È molto meglio abituarsi all’idea che all’improvviso finisce ogni cosa, anche noi stessi, senza consenso, da un momento all’altro, che ci ritroviamo chirurgicamente tagliati fuori... Tranquilli, non vi appesantisco ulteriormente, ognuno ha la propria parte di sofferenze che gli gravano sulle spalle, lo capisco benissimo. Comunque, già che ci siamo, permettetemi una domanda forse banale: come mai indossate camici chirurgici? Mi sembrate appena usciti da una sala operatoria! È davvero così urgente chiedere un mio modesto parere? Pensate sia realmente possibile salvare la vita di qualcuno? D’accordo, lo credo anch’io, provarci è quello che conta. Dar pace una volta per tutte a quella voce che ti rimbomba in testa, che strilla giorno e notte, ti assilla di continuo, ti spezza e lascia sfinito; ecco, saperla azzittire e sopravvivere a essa, questo sì, che sarebbe un successo, un piccolo grande miracolo che non a tutti riesce! Percepisco una pensione di invalidità da parecchio tempo ormai e davvero non riesco a capire cosa sta succedendo al giorno d’oggi alla sanità, tutto è possibile, ma in ogni caso voi due stravolgete ogni mia consapevole immaginazione perché nel nome del buon Dio – abbiate pazienza – non si sono mai visti un simile angelo con il serpente, né un gatto nero attorcigliato attorno al bastone di Esculapio. D’accordo, d’accordo, sarà come dite voi; non il micio, ma il rettile è quello che lentamente si avvolge, in sostanza è la stessa identica cosa: giunge sempre il momento in cui l’equilibrio si rompe e ogni nozione si altera e trasforma, delle figure innocue non tardano a mostrare un altro aspetto, il loro lato oscuro, nascosto. Poco importa cosa siano state in precedenza; voi mi dite che il vostro è un leone, bene, leone sia, un leone

tutt’intero, nient’altro che un leone, so help me God, se ciò può bastare a rendervi felici! Cosa ho detto di male ora? Su, andiamo, siamo ragionevoli, non mettetevi a piangere ogni volta che si nomina il Signore! Prometto che non lo farò più, parola d’onore, basta che ci sbrighiamo a iniziare, siete pronti? Eravamo in cinque, gli esaminatori della commissione medica dinanzi alla quale ha dovuto presentarsi Čarli per far valutare i suoi requisiti di idoneità fisica e psichica; non saprei dirvi perché fosse così, la nostra dopotutto era solo una prestazione come un’altra, nessuna novità, nulla di speciale, un numero da circo come tanti per il quale sarebbe stato più che sufficiente un gruppetto composto dai soliti tre membri. E comunque con l’inizio della guerra siamo stati affiancati da altre due immancabili marionette, affinché quell’atmosfera di imbecillità collettiva fosse al completo. Sullo scopo di tutto ciò non mi resta che tirare a indovinare, una forzatura di misure restrittive che presumibilmente avrebbe dovuto impedire alla gente di ottenere quel certificato clinico con cui abbandonare l’esercito in maniera del tutto legale; ma quali che fossero i veri intenti dei principali artefici di questa ingegnosa soluzione, una cosa è certa: da quest’idea non mi smuove nessuno, di inquietanti idioti si tratta, nient’altro! A ogni modo tre più che eminenti psichiatri, non del tutto normali ma piuttosto competenti lo stesso, riescono ad avere un rinforzo specifico incarnato nella figura di una pneumologa con due tette niente male e una cardiologa abbastanza anziana da essere la sorella maggiore di Matusalemme. Teso e nervoso com’ero quel giorno, trascurato, con la barba non rasata e un generale aspetto poco tirato a lucido, a tratti quasi assente, non avrei dovuto nemmeno essere promosso a capoufficio di un reparto locale, figuriamoci a presiedere invece un gruppetto di incoscienti chiamati a decidere sul resto della vita di qualcuno. Giusto, qui solo di resti si parla: la parte migliore ci è ata accanto da tempo ormai, infischiandosene beatamente delle nostre aspettative mentre ci sprecavamo inutilmente in lavori di poco conto – attendendo magari che nei momenti di pausa l’acqua per il caffè alla turca raggiungesse l’ebollizione, mentre il sangue ha cominciato a bollire sul serio solo più tardi. Quando ci diceva bene, tra una sirena d’allarme e l’altra, riuscivamo a completare una colazione intera, altrimenti la si faceva in due o più tappe; comunque nulla di strano che avrebbe potuto sconvolgerci. A dir la verità, quando è entrato nella stanza, occupando la sedia di fronte al nostro tavolo, stavo ancora finendo di masticare un ultimo boccone, e mi avano per la testa decisamente altri pensieri; tacevo dunque, incredibilmente in pace con me stesso, finché quell’impaziente tettona non ha rotto il divino incantesimo del silenzio, che, seppur per breve tempo, mi stava avvolgendo.

–È dal reparto di pneumologia che la mandano qui, giusto? –Sì. Qualcuno è così gentile da spiegarmi di cosa si tratta? –Esattamente, cos’è che non comprende? –Dalla trincea presso Mogila sono stato mandato all’ospedale di Gnjilan, cui conveniva lavarsi le mani del mio caso, e mi hanno subito rispedito all’ospedale militare di Niš, da dove, a causa della tosse acuta, avevano deciso di trasferirmi nel reparto di pneumologia. A loro volta, invece, mi rimandano dallo psichiatra. Mi spiegate cosa diamine ci faccio qui? –Questo è ancora da capire. Senza nervosismo però, ci lasci fare con calma il nostro lavoro; siamo una commissione di professionisti esperti, in grado di accertare sulla base di molteplici parametri in che misura le sue capacità nell’ambito delle specifiche esigenze richieste dall’esercito le permettono o meno di svolgere ulteriormente il servizio militare adempiendo a tutte le funzioni assegnategli dallo stesso. Queste le sue dichiarazioni. Risposte errate per gente fallita. Quello che in fondo è l’obiettivo principale di ogni uomo in una guerra. Essere inadeguato. L’unica cosa di cui non ero certo era se fosse stato il mio fallimento personale a nutrire la mia insonnia, oppure era la sonnolenza a giocarmi brutti tiri generando uno stato di disperazione e desolazione totale. La speranza è l’ultima a morire? Bah! Uno dei luoghi comuni in assoluto più abusato. Mai sentito niente di altrettanto sbagliato. Dell’arroganza, poi, non ne parliamo nemmeno. Se c’è qualcuno che ha smesso di sperare che ogni cosa si possa rimettere al suo posto e tornare com’era prima, allora quello sono io. E pure in tempo, direi. Proprio nel momento in cui la socia più anziana del nostro trust di cervelli di gallina aveva deciso di mettersi all’opera ponendo qualche altra superflua domanda. –Quando è iniziato? –Domanda difficile se mi permette. Quando è iniziato cosa? –Quello di cui stava parlando. Ha dichiarato di non aver dormito per quattro giorni interi consecutivi. Sarebbe in grado di presupporre quale fosse la causa primaria del suo stato alterato? –Villaggio Mogila, il 30 di marzo, alle 7 e 30 del mattino.

–? –Tuonò con una tale violenza da toglierci i piedi dagli zoccoli. Non ebbi nemmeno il tempo per chiedere cosa stesse succedendo... – Cosa è accaduto? –Molto rumore per nulla che in ogni caso sfugge e non può essere raccontato. Si era precipitato a chiamarmi il corriere, disse solo – dottore, veloce! C’è stata una vera carneficina con la pattuglia di ricognizione! Una bomba a grappolo! Voi altri fermi dove siete. È meglio... –E allora? –…Allora niente, la prima cosa che mi venne in mente fu chela NATO avesse deciso sul serio di farmi dimagrire, o almeno farmi lasciare il fumo per quanto ho dovuto correre nelle ultime quarantotto ore. Però, una volta arrivato... Sono uno che è riuscito a tardare in tutte le cose più importanti della vita. Alle nozze di mia figlia e alla partenza di mio figlio per il Canada, alle assegnazioni degli appartamenti militari e alle promozioni di grado, a convegni, conferenze e seminari vari. Un perdente, al fotofinish sempre indietro per un pelo rispetto agli altri! Sono stato però abbastanza svelto da cogliere alla sprovvista una mano maschile mentre brutalmente afferrava il seno caldo e morbido della mia sposa, per sentirla gemere dal piacere con la bocca piena, interrompendo quel suono sordo e monotono giusto con qualche lungo sorso; per vedere come gli metteva quel suo ditino beffardo su cui brillava uno splendido anello rodiato nell’ano peloso mentre lui acchiappava i suoi capelli e le spingeva la testa più giù, sempre più in profondità... Mi ero ritirato nel corridoio per non farmi vedere da loro. Sarebbe stato imbarazzante, assai. Per me, per loro, per tutti quanti. Mia moglie divorava il pene di un altro sospirando, come se fosse in un film porno: me lo dai? Ti prego, dammelo! Lo vuoi intero, – avevo riconosciuto la voce del direttore della banca in cui lavorava – lo vuoi davvero, fino ai testicoli? È questo che vuoi, giusto? Voglio ingoiare tutto, prosciugarlo completamente, alimentarmi della tua essenza, percepire la forza vitale che circola e ci unisce – ancora stordito e incredulo, ascoltavo il timbro della voce quasi estraneo che la parlata di mia moglie assumeva: era ancora lei, anche in qualche modo non lo era più, la donna della mia vita, come la nebbia si dileguava davanti ai miei occhi, e io ero solo capace di osservare e sentirmi perduto. Avevo tirato la testa fuori dal sottovuoto proprio nel momento in cui l’esperto di cambi e obbligazioni in

valuta estera si dedicava all’irrigazione bagnando gli occhi, il naso e la bocca del mio amore. D’altro canto lei, con il suo innocente dito su cui sfolgorava un enorme anello con zirconi che non gli avevo regalato io, raccoglieva e mandava giù il versato, si leccava le punte di quelle sue minuscole dita con tanto gusto quasi fossero unte di miele. Perché non mi hai permesso di mangiarlo? Lo sai che solo così mi sento del tutto appagata! Perchééé? Adoro il tuo sapore! – ascoltavo ancora le sue per me inconcepibili fusa coccolose – Te ne chiedo un altro po’, un pochino soltanto, per favore! Aaah, quanto è bello, vigoroso, forte! Senti – in sottofondo si udiva di nuovo dall’apposito bancomat fottitore – poi quell’affare dell’abitazione te l’ho sistemato. Di’ pure a quel cretino di tuo marito di non abbaiare troppo in giro, non è salutare; a malapena sono riuscito a ottenere questo. Senz’altro è stato d’aiuto il fatto che si tratta di un reduce da tutti i fronti – continua il suo monologo cercando i calzini in giro per la stanza – e da lì, si sa, quando mai qualcuno è tornato sano di mente? Mio carissimo, lo sapevo, ne ero certa – pigolava insistentemente anche lei – grazie! Fino al cielo ti sono obbligata! Mmmm, ti piacerebbe una bella leccata dietro? Lo so che godi quando ti prendo il sedere! Oppure oggi preferisci prendere il mio? Ti preeegooo... Non c’è più tempo ora, – le rispondeva sistemandosi la cravatta, dandomi così un chiaro segnale che mi restava solo correre giù per le scale un istante prima che lui uscisse – il comitato esecutivo per l’approvazione dei mutui mi attende. Come ho già detto poco fa, sono riuscito a far tardi in tutte le cose importanti della mia vita. Solo una goccia salata, scappata dall’occhio, era riuscita ad arrivare giusto in tempo per farmi assaggiare la sua amarezza. All’altra mia collega, quella che faceva il membro fisso della nostra commissione base, ciò era risultato più che sufficiente per pronunciare ancora un’insensata domanda. –Cosa ha visto? –Braccia staccate da tutte le parti, gambe spezzate, teste che rotolano, una massa ancora pulsante che fuoriesce da esse... La porzione inferiore di un busto e solo la metà destra della sua parte superiore, decapitata, un quarto di spalla e un brandello altrettanto grande di mano sinistra... Granate a mano modello M75 agganciate sui resti del corpo e le schegge conficcate in profondità... Ritagli di muscoli, tendini, articolazioni... Il sangue pure... Diffuso in tutt’e quattro i punti cardinali. –C’erano dei sopravvissuti?

–Tre... Sgretolati come una frana di rocce staccate da una montagna... Presentavano ancora segni di vita... Due di loro tacevano e lentamente sprofondavano nella morte sicura... Uno invece, con quel poco di voce che gli era rimasta, riusciva a gridare ancora: Ti prego, uccidimi, ti prego. Madre, maadreee... –E lei cosa fece? –Avevo lasciato cadere il fucile a terra per prendere le cinghie di compressione. Era presente anche un altro infermiere, e ci aiutavamo a vicenda... Ferocemente, oltre ogni ragionevole forza, cercavamo di stringere loro cosce e braccia... Fasciavamo le ferite più grandi... Ma cosa dico? Quale fasciare! Ficcavamo la garza e le bende dritte nei diversi fori nella carne – Ammazzami, ti prego! Questo qui stringilo, così, ancora più forte! Maaadre, madreee. Presto con lui, nel veicolo. Pronti, al mio tre! Uno, due...! Ammazzami, te lo chiedo per favore... –E poi? –Abbiamo raccolto i resti... Avanzi di carne e strisce di uniforme... Tutto insieme negli ampi teli militari... Senza proferire parola... Come quando anni fa, svolgendo regolare servizio di leva nella caserma di Trebigne presso Dubrovnik, dovevo pulire continuamente, raccogliere le foglie cadute e i mozziconi dalle viuzze e dalle stradine. Uno accanto a me cadde in ginocchio vomitando, ma nessuno ci faceva caso né lo aiutava. Continuiamo la nostra raccolta... Come se niente fosse successo, nel modo più assoluto... Mi ha sempre rimproverato dicendomi che sono l’uomo senza qualità, un individuo inetto. Finisce che taccio quando serve ringhiare e far vedere i denti, e viceversa: che abbaio mentre le carovane di felicità mi ano accanto. La felicità vera e propria non l’ho mai conosciuta, però neanche sono stato scansato dai convogli. Come medico militare, ero avvezzo ai trasferimenti assidui da un centro a un altro, prima da Lubiana a Zagabria, poi a Sarajevo e infine qui. Sistemato in squallidi stanzini in affitto e seminterrati con l’umidità ben sedimentata nei muri. Nei centri di accoglienza e talvolta negli altrettanto orribili alberghi per i solitari di aggio. Quando finalmente riesco a infilarmi quel camice bianco e scappare dalla miseria in cui mi trovo, succede che per il resto della giornata mi rivedo costretto ad assistere agli strazi altrui, ancora più grandi e terribili della mia stessa pena. Allora mi viene da strillare e dir loro: statevene

buoni e zitti per l’amor del cielo! Cosa credete che possa fare? Se solo fossi capace di aiutare qualcuno, in primo luogo aiuterei me stesso! Perciò silenzio, ve ne prego! Quanta importanza può avere la mia laurea magistrale in comunicazione e linguaggi non verbali con tanto di dottorato dedicato alla ricerca per ridurre i sintomi del disturbo causati dallo stress post-traumatico, quando vegeto praticamente in dodici metri quadri? Una fontanella e una comune latrina pubblica nei campi... State tutti in silenzio, vi dico! Troppo tardi però... Le mie parole non risultano nemmeno abbastanza chiare ed eloquenti da azzittire un’altra delle mie curiose colleghe. –E questo per quanto tempo è durato? –Non lo so. Venne da noi qualcuno dalla pattuglia di ricognizione e ci raccontò che il Capitano intendeva spiegare ai ragazzi qual è il miglior metodo per disinnescare una bomba a grappolo. Li aveva radunati tutti quanti lì attorno a sé. Era un profondo conoscitore di armi, un militare esperto, o almeno si riteneva tale dopo aver attraversato la Slovenia, sopravvissuto al caos in Croazia e in Bosnia. Però qui il diavolo venne a prendere ciò che gli appartiene... –Lei come venne al corrente di tutta questa storia? –Perché questi ragazzi, Capitano? – dissi tra me e me – Perché non avevi invece messo insieme un bel mucchio di merda che galleggia in tutto il quartier generale, si rifugia nei sotterranei degli ospedali e all’occorrenza persino sotto i tombini? Istruitevi allora a volontà fino al mattino seguente, se già provate un così intenso piacere nel farlo. Avevo pensato... Eh Capitano, Capitano, che Dio perdoni la tua anima, ma per questa gioventù nessuno può né deve perdonarti! –Cosa è successo in seguito? –Mi sono lavato alla fontanella nel cortile della scuola... L’odore del sangue però non se ne andava via e tuttora mi irrita le narici... Mentre l’ira tirava fuori un pauroso ululato... Tanto forte da arrivare intatto fino a un qualche Dio se c’è lassù, se mai c’è stato e se sia mai in grado di sentirmi. Buttai giù senza pensarci mezza scatoletta del primo sedativo capitatomi fra le mani. Poi mi diressi verso il negozietto per finirmi con la birra. Strada facendo, incontro l’autista del Pinzgauer che poco prima li aveva portati fino all’ospedale da campo. Si avvicinava con un o surreale, fluttuando nell’aria senza arrivare a toccare con i piedi per terra, esausto, quasi troppo debole anche solo per parlare.

Bisbigliò al mio orecchio che ce l’aveva fatta a trasportarli, ma che uno solo era giunto ancora vivo. Perdendo gambe, braccia e occhi. Mi invitava a prendere qualcosa da bere per la pace del cuore e contro le afflizioni dell’anima – di chi, – gli avevo chiesto – la loro o la nostra? Mi è completamente indifferente – risposi alle colleghe decise a chiedere il mio parere – qualunque cosa decidiate di fare con lui. Non mi importa, a riguardo non ho alcuna posizione. Ironia della sorte, ora che ci penso, avrei ripetuto la stessa cosa anche tre anni dopo, quando in qualità di paziente sarebbe toccato a me presentarmi davanti alla stessa commissione, per essere valutato come “non idoneo” al servizio e rimandato via con una pensione d’invalidità. La collega formosa non mi credeva sulla parola – lei non avrà nulla in contrario se gli faccio qualche altra domanda, vero? – chiedeva per non offendermi involontariamente. In contrario? Tutt’altro, faccia pure, se così crede – per poco rivolgendomi a lei non dissi “Sua Prosperità” – chieda liberamente al sofferente di fronte a noi tutto quello che volete sapere. Cercate poi quella risposta abbastanza rilevante per poter prendere una decisione finale e vi sarà data, forse... –Siamo spiacenti, ma questo non ci interessa. Cosa invece... –Mi lasci finire di parlare. Dal telefono pubblico del negozio per pura sfiga l’autista è riuscito a entrare in contatto con casa sua al primo tentativo. Piange e trema con tutto il corpo. Con una mano tiene la cornetta mentre l’altra scivola verso il fucile per collocarlo in un batter d’occhio sotto la gola. Noto che il grilletto non è bloccato e gli salto addosso, gettandolo al suolo per strapparglielo via. Fottuto bastardo – gli urlo in faccia senza lasciare che si alzi ancora con lo stesso intento di suicidarsi. Acchiappo quel telefono e tranquillizzo chi sta dall’altra parte. Pronto signora – anche quella volta tiro fuori il mio migliore sorriso, e chi mi conosce sa che se non ci fossero le orecchie a bloccarlo si propagherebbe su tutta la testa – come sta? Qui è tutto a posto, certo. Siamo soltanto un gruppetto di amici del gruppo filodrammatico che abbiamo voluto farle uno scherzo. Certo, comprendo, stiamo preparando uno spettacolo amatoriale... Giusto, è tutto talmente tranquillo che ci annoiamo... L’autore dice, un testo antico, anonimo, ma sempre più in voga, un pezzo di estrema crudeltà naturalista... Non si preoccupi, quando fa freddo ci copriamo, ma certo, tu-tutu... Al suono della linea magicamente caduta, lo stringo ancora più forte, spietatamente, arrivando quasi a togliergli il respiro con le mie stesse mani.

Comprendo che gli devo la vita, perché se non mi avesse preceduto sarei stato io a crollare. Dovendo occuparmi di qualcuno non ho semplicemente avuto il tempo di farmela addosso, proprio come il più misero cagasotto di questa terra. –? –Difficilmente mi decido a dire “grazie”, però per essere ancora qui devo in buona parte ringraziare la rabbia con le relative scariche di adrenalina che mette in moto. In parte invece sono anche debitore con la gelosia che, diciamolo, ossessivamente mi ha impedito che un altro morto per caso mi rubasse la fossa, o almeno l’idea... –Di cosa?! –Di una vuota bara metallica ben saldata da tutte le parti, con spessori di saldatura elevati, resistenti a ogni cosa, inseparabili l’un l’altro. Calata tra le ossa dei miei avi. La salma invece cremata e la polvere mescolata con il peperoncino piccante, anch’esso frantumato e macinato, sparsi nelle acque del mar Jonio... –Lei scherza, vero? –Beata lei! È da tempo che mi sento imbrogliato, irreparabilmente. Vuole sentire l’intera storia? –Prego, continui pure... –Mi trascino fino all’Unità speciale per la lotta contro l’alcolismo, o per meglio intenderci, fino ad alcuni amici ubriachi fradici a qualunque ora del giorno e della notte. Combattevano il nemico a modo loro con le uniche armi disponibili, non c’è da biasimarli; si sa, quando inizia una guerra la prima a morire è la grappa. Alla verità tocca spegnersi leggermente più tardi. Normalmente, avrebbero fatto subito un brindisi per la felicità vedendomi arrivare, Ein Prosit der Gemütlichkeit, schenkt ein, trink aus, schenkt ein, trinkt aus, ma quel giorno rimasero imperdonabilmente a corto di munizioni: l’acquavite era terminata causando una vera e propria ondata di ira e ripetute alterazioni d’umore, chiaro presagio che qualcosa di grave sarebbe accaduto nel corso della giornata. Potevamo ringraziare Dio d’essere ancora tutti sani e salvi, giusto; a una certa ora, imprecisa, come diamine possono ricordarsi se del mattino oppure del pomeriggio, avevano udito un forte boato, ma avvezzi alle salve di scoregge che il Maggiore con il suo vice spesso sanno rilasciare, non si sono scomposti più di

tanto. Ascolto i loro ragionamenti e non riesco a crederci. Sono convinti che si tratta di un diversivo minuziosamente premeditato con l’intento di abbattere ulteriormente il loro già scarso desiderio di combattere. Decidono di tirare fuori dalla riserva una bottiglia nascosta per farmi rallegrare un po’ e riprendere quanto più è possibile le sembianze umane. Versane un po’ al dottore – strilla uno di loro – non lo vedi quanto è nervoso? Adagio però, ci siamo qui anche noi altri, a cui la goccia salvatrice nella gola serve! Ahimè – in preda alla collera dissi loro – listen to me very carefully, della gente oggi è morta sul serio! Vuol dire che bisogna presentare un reclamo scritto – facendomi arrabbiare come una bestia a tutti i costi ci provano a ignorare la mia storia e a girare alla larga dalla realtà, – niente grappa, niente sesso! Ma di quale sesso parli? – me la prendo con il loro portavoce più intrepido – Fottuto idiota, non lo vedi che siamo nel bel mezzo di una fottutissima guerra? Sorry – singhiozza ubriaco – no acquavite, no war! Diamine – vacillo come se avessi ricevuto una frustata – sono deceduti, riesci a capirlo? Non scopiamo da un secolo – mi accorgo finalmente che camminava su un binario parallelo al mio e che lo faceva di proposito – ma come se ciò non bastasse, per violare i sacrosanti diritti umani ecco che anche il liquido deve mancarci, è una vergogna! Pronto? Pronto? – Ma a chi lo dicevo e per quale motivo insistevo ancora? – Qualcuno mi capisce da queste parti? Se intendi parlarci ancora della stessa cosa è molto meglio che chiudi quel becco, e subito. Certo che ti abbiamo sentito, e capito, più di quanto basti capire... Uno non arriva mai a conoscere tutte le cose a sufficienza. Né a intenderle, il più delle volte. Persino quando aveva pronunciato la parola “divorzio” ad alta voce continuavo a pensare che si trattasse di uno sbaglio. Un grosso, apocalittico errore che riguardava qualcun altro. Non noi due. Un banale equivoco dovuto all’interferenze nel canale comunicativo. Un incomprensibile sintagma staccato dal suo originario contesto e successivamente amputato con dei risultati a dir poco disastrosi. Dicevo che sono stato bravo a sentire tutto, tranne quello che da medico esperto avrei dovuto vedere chiaramente, o almeno intuire in una sua parte. Cioè che la malattia con cui combattevo da tutta la mia vita, questa volta aveva sloggiato dai corpi dei miei pazienti invadendo pian pianino la mia stessa testa e rendendomi indifferente di fronte a qualsiasi cosa. Più in basso cadi più non ti importa di restare schiacciato per terra.

Non provavo nulla per il fatto d’essere lasciato dopo trent’anni di vita comune. Un vuoto assoluto. Senza speranza, senza fede, senza amore. Avrei dovuto saperlo già che un coltello da carne può tagliare benissimo anche le vene. Che la donna delle pulizie quando vede il sangue scorrere fuori dalla porta del bagno strilla con una voce acuta, alta; che un mingherlino vicino di casa, con un corpo ossuto e magro d’una sessantina di chili, fosse in grado di tirarmi fuori dalla vasca; che i ganci possono venire giù insieme alla tenda tirata, e che questa in fin dei conti si presta bene anche per fermare l’emorragia se uno la stringe attorno ai polsi. Che persino quando recidi le vene di entrambe le mani e dei piedi, questo comunque non significa che è finita... Con le tempie che premono contro le piastrelle del pavimento sei ancora in grado di vedere dalla prospettiva di una formica muoversi un paio di scarpe maschili che escono di corsa; e se per questo, anche le pantofole da donna che freneticamente girano attorno, fino all’arrivo degli zoccoli bianchi degli infermieri con dei minuscoli forellini, nel momento in cui già ti si annebbia la vista, ma durante il quale lo stesso continui a comprendere le loro voci, sapere che di te si parla e decide, mentre le risposte alle domande pronunciate sfuggono, e come lucciole silenziose si perdono in lontananza. D’allora in poi, lo sguardo dal basso verso l’alto si era convertito in qualcosa di costante, per diventare a tutti gli effetti la mia ricorrente visione del mondo. Ed è per questo motivo che una domanda spontanea quel giorno gliela feci anch’io. –Quale è stata la sua reazione? –In un primo momento ero convinto che fossero talmente ubriachi da non potermi sentire. Poi ho capito invece che si trattava di una loro libera scelta, forse la più logica tra tutte. Dopotutto in casa di un impiccato non bisogna nominare la corda. Uscii, dunque, e mi incamminai verso la casa di una vedova con la polmonite non risanata, che pochi giorni prima era stata tanto gentile da invitarmi a prendere il caffè. Toc-toc, bussai alla porta, che si aprì immediatamente, come se non avesse fatto altro che aspettarmi. Lo sapevo che saresti venuto – pronunciò dolcemente, con tanto garbo – prego, accomodati. Come a casa tua! Per poco non le risposi che io invece non lo sapevo affatto che sarei andato da lei e che quel giorno stavo lì casualmente. Lo farò – togliendomi i vestiti di dosso accettai il suo benvenuto – stanne pur certa!

–?! –Siamo rimasti due ore a mollo. Ho bevuto un litro di grappa. Ho scaricato ben tre cartucce, come se fossi un adolescente. Non so come sono riuscito a farlo. Per lei la faccenda era chiara... Alla sua età, tutte le donne scopano come se fosse l’ultima volta. In più c’è da dire che lo schermo grande promette sempre un’ottima visione e il sedere abbondante non ti delude mai. Moltiplicate tutto per l’entusiasmo del momento che non va frenato né sottovalutato e capirete da voi l’intera situazione. –Proprio in quelle circostanze, però?! –Sì, proprio allora, c’è forse da meravigliarsi? Per uscire fuori dal cerchio di tutta quella morte e follia che mi assediavano da tutto il giorno, l’unica cosa al mondo che avrebbe potuto salvarmi era una generosa laguna. –Una laguna dice? –Esattamente. Quella stretta e lunga fessura tra le gambe. Bollente, profonda, femminile. E quell’altra cosa ancora più abissale e scura.

È sveglio – udivo un’amabile voce femminile mentre il mio corpo continuava a galleggiare immerso in minacciose acque nere di mari sconosciuti – adesso può entrare, ma non a lungo, ha perso molto sangue e deve riposare il più possibile. Amore, povero amore mio – sentivo ora anche la voce di lei – sono qui accanto a te! Non te ne eri già andata via? – a malapena pronunciai quell’amara domanda. Non mi sono mai allontanata – così la più dolce tra le bugie iniziava a propagarsi in ondate nel mio condotto uditivo, accarezzava il padiglione auricolare, attraversava l’orecchio medio per evitare abilmente di alzare il martello e farlo battere sull’incudine, rifiutandosi di occupare una solida posizione nella staffa – tutto quanto è solo un frutto marcio della tua immaginazione. Però – provai a dire sprofondando nel sonno su quella spiaggia... Dimenticalo – il suo sussurro viaggiò a lungo prima di raggiungermi, mentre baciava la mia fronte e delicatamente toccava i capelli. Con quella mano su cui brillava un grosso anello di zirconi, lasciandomi nel dubbio se davvero fosse stato reale da qualche altra parte tranne che nel mio occhio.

MARIA DI MÀGDALA

Li osservo mentre dormono; sfiniti dal potere dello scorrere veloce della clessidra che sempre si muove e mai sta ferma, nonché quasi annientati dalla paura stessa che fedelmente accompagna e travolge ogni loro o. Il sonno lieve di Matteo si interrompe spesso, e le sue mani si congiungono allora verso l’icona appesa sopra la testata del mio letto, mentre l’ansioso corpo di Marco continuamente sobbalza a ogni pur minimo rumore, a ogni fruscio proveniente dalla strada principale di Màgdala, lastricata in basalto, che intatto riusciva a penetrare i mattoni di fango e la terra cruda essiccata al sole. Il battito degli zoccoli dei cavalli di tanto in tanto supera persino quel molesto cigolio delle stanghe delle carrozze, fintanto che le indistinte grida rabbiose dei kiridžije, i vettori ingaggiati per il trasporto merci, si levano dall’alto per contrastare l’abilità con cui gli insolenti commercianti sono soliti condurre una negoziazione, riempiendo la notte della cittadina ai confini della valle del Genesaret. Ebbene, esattamente qui dove giorno e notte ano le carovane che vanno da Nazaret di Galilea a Damasco in Siria e viceversa, solo il riflesso dei raggi celesti respinto da una qualche superficie metallica – forte e accecante alla luce del giorno, fiacco ed effimero come una nuvola che fugge attraverso l’oscurità notturna – puntualmente ci indica ancora l’ora giusta. Io, Maria di Màgdala, discendente della tribù di Issachar, ospitai dunque nella mia umile dimora i viaggiatori a lungo attesi. Inseguiti dal più spietato branco che esista sulla faccia della terra, dai suoi verbosi abitanti bipedi pronti a offendere e smembrare chiunque giudicato diverso da loro stessi. Umiliati perciò, sputati e colpiti con tutto ciò che si trovava a portata di mano delle signore distinte e dei nobilissimi signori educati. Accolti a colpi di pietre e bastoni persino dai bambini altrettanto scostumati e ignoranti quanto i pazzi del paese, talvolta completamente irrazionali e privi di ogni freno morale, senza fiato, tremanti e terrorizzati, i due portatori dell’Annunciazione e della Benedizione divina, a malapena riuscirono a trovare le forze per bussare alla mia porta. Dov’è che sono finiti i vostri graziosi indumenti? – li feci entrare velocemente sbarrando con una lunga stanga l’uscio, sorpresa nel vedere come in breve il tono ironico della mia voce raggiungesse quel pungente sarcasmo umano, di cui purtroppo neanch’io ero del tutto priva – Mi sembra di vedere che non usiate più giacca e cravatta! Avete finalmente rinunciato a travestimenti, uniformi della polizia, telecamere nascoste e microfoni, per indagare sull’indicibile?

Non curandosi di quelle parole, immobile e pensieroso, con lo sguardo quasi assente inchiodato sulle punte dei propri sandali, Matteo cercava di ingoiare avidamente una crosta di pane raffermo rimasta lì da qualche giorno. – Se non ho capito male – dissi infastidita tirandogli i capelli per colmare una mia debolezza e l’umiliazione, prima di spingerlo del tutto dall’altra parte della stanza, il più lontano possibile da me – siete venuti fin qui per informarvi sui miei peccati? Idioti, avreste dovuto chiederlo direttamente a me senza troppi giri di parole, e a questo punto almeno non sareste perseguitati dalla città intera che vi ha seguito fino alla mia casa! –Però – osò chiedere il primo Evangelista – perché mai si sono arrestati come se insabbiati, proprio davanti al tuo cancello? –Non venirmi a dire che questo non è abbastanza chiaro da sé!– mi trovai a ribattere porgendo una bacinella in legno all’altro forestiero – Dopotutto è qui che abita un’autentica peccatrice, con cui ogni contatto “sarebbe” proibito e malvisto. Se davvero credi che vi abbiano rincorso per difendere il mio onore – una cinica risata isterica inesplicabilmente si impadronì di me, mentre dal boccale versavo dell’acqua fredda sulle mani lesionate e sporche – allora sei più cretino di quanto avrei mai potuto pensare! Intanto, tacendo e con dei movimenti pieni di repulsione, Marco, chinato sulla bacinella, cercava di liberare il volto da tutta quella saliva ricevuta per le strade in cui sono cresciuta. –Sputano forte, vero? – chiesi esultando – Però voglio che tu sappia che fa molto meno male quando sei un completo estraneo. Quando invece sei uno di loro... –In tal caso, semplicemente ti ritrovi legato al primo palo... –interviene Matteo tra un morso e l’altro – Ma tu almeno sai di cosa ti accusano e qual è il tuo peccato. –Il mio peccato, dici? – spalancai gli occhi sorpresa davanti a tanta insolenza del mio stremato interlocutore – Come ti permetti di menzionare il mio peccato sotto il mio tetto? –No, non intendevo... – volle correggersi quel tremendo curioso alzandosi dalla tavola – Non volevo dire questo. –Non andartene così facilmente – aggiunsi con voce fredda e distaccata – molto

presto verrai a sapere tutto, ma proprio tutto quel che si potrebbe raccontare sul conto di una donna sola, sul marito che non si dovrebbe definire tale e sull’affascinante viaggiatore, non importa se uno solo o più uomini, tanto nelle teste della gente questo non cambia niente. Ogni centimetro delle lenzuola sporche dalla sabbia di Galilea e sudicie dei corpi agitati che nel puro peccato vanno a consumarsi fino all’alba successiva, compariranno davanti ai tuoi occhi, tessute con maligni filati di pettegole donne anziane e di uomini flaccidi e buoni a nulla. Ti sarà riportato ogni particolare dell’apparizione del Redentore, mentre l’intera Màgdala si prepara a farmi lapidare... –D’accordo, sarà pure come tu prevedi che accadrà, ma noi – finalmente si decise a parlare anche Marco, spaventato a morte – che male abbiamo fatto da dover subire lo stesso trattamento? –Siete entrati nella casa di una lurida peccatrice, – risposi senza batter ciglio – ma questo tuttavia ancora rientra nella logica di un male minore e può essere perdonato... La mia parte del peccato, però – sussurrai andando verso la dispensa per trovar loro qualcosa da mangiare – non può essere assolta in alcun caso... Ora li osservo mentre mangiano; voracemente infilano nella bocca tutto quello che metto in tavola dinanzi a loro, e se ogni tanto qualche briciola cade accidentalmente sul pavimento in terra battuta, si precipitano per raccoglierla e ingoiarla senza pensarci due volte. Nulla va sprecato. Devo ammetterlo: che mai prima avevo conosciuto né provato una fame così smisurata. Porto loro del pane, carne di pecora e del freschissimo formaggio di capra, olive nere e vino rosso, badando che non venga mai a mancare l’acqua fredda, che prontamente aggiungo nei calici dai bordi unti dalle loro lunghe barbe e baffi. –Perché te ne sei andata? – mi chiese all’improvviso l’ospite con un angelo in volo sulla tunica azzurra, ormai logorata, pulendo con uno straccetto i resti del cibo rimasti intrappolati negli angoli della bocca – non lo comprendo proprio... nemmeno noi siamo andati lì a indagare sulle cause della loro guerra di nostra spontanea volontà, se ben rammenti... –Giusto – appoggia la stessa domanda anche il leone alato ricamato sull’altra veste – come hai potuto andartene così di corsa, lasciarci in quel modo? Forse non ti sentivi abbastanza a tuo agio con quell’uniforme addosso e con i capelli raccolti sotto il casco? Allora credi che noi invece...

–Quanti giudizi, critiche e rimproveri privi di fondamento dovrò sopportare ancora? – mi alzai di scatto urlando arrabbiata – Persino da parte vostra, che vi ostinate a non voler capire quanto insensata sia qualunque risposta alla domanda che neppur dovrebbe essere formulata! Perché ho già visto tutto quanto e dubito che ci sia un rimedio, ecco perché! –C-c-che co-co-sa hai v-visto, – con il volto sbiancato dall’improvvisa paura balbetta Marco – d-di-diccelo! –Vidi di nuovo come i corpi vengono lanciati in aria, quasi fossero dei ramoscelli spezzabili con due dita, inseguiti rapidamente dalle loro smarrite anime morte prima che qualcuno provi ad acquistarle a buon prezzo. E ancora una volta mi ritrovai a essere la predestinata ad aspettare la risurrezione dei miei defunti; molto tempo addietro attesi già dinanzi alla Sua croce sgrossata dal duro tronco dell’olivo e profumata di cedro, deglutendo lacrime più salate dell’acqua di qualunque mare... – ormai non avrei potuto né voluto trattenere quella dirompente valanga di parole che, se non fosse uscita subito dal mio petto, con tutta probabilità avrebbe potuto seppellirmi – E come se non bastasse giacere svenuta per più ore accanto alla tomba vuota, ora vorreste costringermi a guardare in eterno sempre le stesse ceneri sparpagliate e le brillanti casse in ferro lucido, i cui bordi sono stati saldati con una negligenza assoluta. A piedi nudi e senza lasciare alcuno spazio alla sofferenza, raggiunsi persino Roma per cercare una risposta da Tiberio. –E quindi? – chiede Marco incapace di frenare la propria curiosità, raccogliendo e leccando poi anche le ultime briciole ancora rimaste sulla tavola. –Ho ottenuto la verità, ma non la giustizia. Ho ricevuto un invecchiato Ponzio Pilato già abbastanza crocefisso per essere stato mandato tra selvagge e rissose tribù celtiche della lontana Gallia, nonché una frotta di farisei, che credendosi astuti e trionfanti, come nulla fosse esultano sopra un sepolcro e una condanna all’esilio. Tutto ho avuto, tranne quello che desideravo veramente – abbassai infine la voce togliendo dal tavolo i rari resti di una per niente segreta cena. Per un tempo infinito, o almeno così mi parve, Marco rimase rintanato sotto la finestra e ben coperto fino al mento con dei panni, cogliendo a bocca aperta l’aria fresca proveniente dalle colline circostanti. Matteo invece dispose il suo giaciglio di fronte all’icona, così da avere subito davanti agli occhi il Suo volto quando improvvisamente si fosse svegliato nel cuore della notte e il Suo

benevole sguardo lasciato in eredità a tutti noi comuni mortali, indipendentemente dall’essere o meno degni di esso. Ciò nonostante, un pezzo di stoffa che copriva le Sue anche lo conservo solo io, e lo tengo al riparo dagli sguardi indiscreti del mondo, sotto il mio cuscino intriso di sudore e stretto fortemente in un ultimo abbraccio che dura fino allo spuntar del giorno... Buonanotte, mio Signore!

Sex, drugs and...

Già, sono io, tale e quale, qui presente! Macellaio, carnefice, polpetta al sugo, polpettone, coppa, cotechino, salamino et similia di ogni tipo e ogni specie; ostinato grasso sottocutaneo, budella, macinato due volte, tritato, quel bianco rene sinistro fra noi semplicemente detto coglione, pizzicotto, cioè palla di carne macinata con formaggio fuso e peperoncino abbondante... solo il buon Dio sa con quanti altri soprannomi assurdi mi aveva battezzato quel fischio di uomo, sì, proprio Čarli. Chi altri, se non lui? E non buttatevi subito in ginocchio ancor prima che inizio a parlare, potrei stranirmi e, ve lo dico subito, dopotutto non sono quello stesso sostituto del Comandante della Batteria di una volta che facilmente riusciva a are sopra a ogni cosa. Arrivati a una certa età la pazienza non è mai abbastanza, tutto ha un limite, ogni offesa in maggior misura viene ricordata proprio come se fosse stato ieri... animella di vitello, intestino affumicato, mezza porzione di cervello in crosta, salsiccia di cavallo in padella, trippa fritta... vi può bastare per ora. Quante me ne sono sentite dire! Dovrei essere un perfetto idiota per ricordarle tutte. Vi fidate sulla parola? Ecco, qui dentro c’è scritto e documentato tutto quello che vi può interessare, nero su bianco e con in più il colore del sangue, rosso accesso. Perdonate la mia immensa goffaggine... mi è capitato di ungere leggermente la fodera, capisco anche che una bottega come la mia, dove tutt’attorno pendono carni, non è il posto più adatto per ricevere una signorina. Spero soltanto non si senta completamente a disagio, anch’io avrei preferito circondarmi da ricami ad ago invece che star seduto qui tra mezzene gocciolanti e teste di maiale, però cosa ci volete fare? Lo sapete bene com’è, il lavoro è lavoro e non ti chiede pareri, viene prima di ogni altra cosa. Vedo che nemmeno voi siete messi molto meglio di me, stavate giusto dicendo che intendete girare un film sulla sua vita, quasi fosse una delle menti più brillanti del ventesimo secolo... boh! Complimenti per il bel soggetto che vi siete trovati! Probabilmente non finirò mai di stupirmi abbastanza; vi siete di certo accorti che c’erano lì presenti anche numerosi personaggi di spicco, uomini straordinari, illustri perlomeno. Il Maggiore, ad esempio, il suo vice, il Comandante della Batteria; ma io dico, con quali criteri avete mai scelto di occuparvi di lui? Ora basta signori, cerchiamo di stare calmi

per favore! Non scaldatevi subito gli animi, avevo solo chiesto... non è che poi saperlo mi interessi così tanto. – Prego, entri pure vicino, non si lasci intimidire da questi signori che sono qui per altre questioni. Circa mezzo chilo di manzo senza osso? Ce l’ho già macinato sul banco, buono e fresco naturalmente, ci mancherebbe altro, così squisito che come si suol dire una madre lo mangerebbe anche crudo, lasciando persino la figliuola con l’acquolina in bocca solo a guardarlo. Come desidera, in un attimo lo preparo di nuovo al suo cospetto. Cosa? Occhio non vede e testa non crede? Certo, grazie mille e alla prossima... Non dovrei pensarci, lo so benissimo, a quando una volta fare il macellaio era un mestiere d’oro; un unico mattatoio per l’intera città con solo qualche negozio nelle cui vetrine grandi metalliche mosche verdi prestavano il loro gratuito servizio a tempo pieno. Ma chi te lo chiedeva se volevi o no qualcosa, arrivederci e avanti il prossimo, c’era chi al posto tuo lo avrebbe preso di sicuro, altro che questa situazione di oggi, dove non ci si capisce più chi beve e chi paga! Ma guarda un po’, pretendono pure di poter scegliere e scartare, impazzita mandria di incivili che non sono altro! Quando un dito mi rimaneva incollato sulla bilancia, almeno cento grammi di guadagno puro scivolavano immediatamente nelle mie tasche; se aggiungevo anche il pollicione, un quarto di chilo – da fratello a fratello – era fatto. E non tutta questa elettronica che prende il sopravvento... Cos’è che ora invece può sostituire quella felicità di quando sulla carta del macellaio veniva scaraventato un chiletto di maiale, quella gioia? Giusto, si rubava; ma rubavano tutti indistintamente, ognuno su quello che poteva e come meglio sapeva fare. Gli autisti baravano sul conteggio della benzina, i macellai sul peso della bilancia, i rivenditori su prezzi inventati in partenza, i direttori sulle provvigioni da applicare, tutti praticamente. E nessuno soffriva di mal di testa continui, avresti dovuto commettere qualche cazzata proprio grossa per subire una seria pena, ma anche in tal caso c’era sempre alle tue spalle a proteggerti il tribunale, che Dio lo benedica, che sapeva come porre legalmente rimedio a ogni male e rimandarti al lavoro presto come se non fosse successo niente. Mi è capitato tre volte, so di cosa parlo. Devo mettermi a pregare con voi anch’io, farmi il segno della croce forse? Che l’animo rinunci al diavolo, questo dunque è quel che volete da me, farmi abiurare ogni eresia secondo i precetti della chiesa? Che dite? Non serve? Vi ringrazio per la vostra immensa comprensione, pazienza e sostegno... Non vedete cosa Čarli c’entri con tutto questo, ma come sarebbe?!

Vedi figliuolo, io lo dico sempre che al mondo non c’è una cosa sola che non sia collegata con tutto il resto; tutto c’entra con tutto e ognuno di noi è connesso con qualunque altra persona. Questa affascinante dama, ad esempio, senza farsi troppi scrupoli eggia per la città con due esseri ripugnanti come voi, sebbene all’apparenza non sembrate avere nulla in comune. Uno scalzo e per di più con delle unghie sporche, l’altro con i sandali rotti e i talloni neri e screpolatissimi si presentano in compagnia di una donna di rara bellezza, ma per favore! Perché come vi ho già detto prima, ripeto, tutto c’entra con tutto, ficcatevelo bene in testa! Se non lo capisci in tempo peggio per te – sei fottuto, spacciato, finito una volta per tutte! Ah, mi sembra chiaro che non vi sazierete di braciole con il lavoro che state svolgendo, mi dispiace dirlo, ma ve la siete cercata! Tenete presenti le mie riserve e che dopo non si dica come questo grandissimo Caporale di merda non vi abbia avvisati! Fatemi fare mente locale un attimo; ecco, vediamo un po’. Direi che erano le diciotto e trenta circa quando è finalmente uscito dalla casa della vedova. Cosa abbiano fatto insieme, barricati là dentro, non lo saprei riferire con certezza. Le tende erano state completamente chiuse per tutto il tempo della sua permanenza, si sentivano soltanto gemiti, risatine e bisbigli cospiratori accompagnati dal suono dell’acqua che cade dal rubinetto. andomi accanto aveva strillato – ehi, Gott mit uns Herr Sorge, forse non te l’hanno detto che rotolarsi tra gli arbusti è ormai fuori moda? O dovrei chiamarti Ramsay in modo che tu possa darmi retta? Le fila sono state sciolte e i volontari non servono più, rischi che l’umidità ti corroda la cartuccia e rimani senza prole! Parla dannazione, chiedi pure cosa ti interessa sapere! – Niente – gli rispondo. – Allora che cazzo ci fai qui? Silenzio. – Dai, sù, portami da quel pecoraio. – Mi meraviglio. – Quale? – Giusto, – dice – ce ne sono fin troppi. Dal principale. L’accompagno quindi dal Maggiore e lo annuncio. – Che entri pure – acconsente subito il nostro Comando. – Buongiorno birichino, bricconcello, mi chiedevo da quanto tempo è che non ci incontriamo, Feldmaresciallo. – A quanto pare sempre troppo poco, ma vedo che ci risiamo, sei sempre lo stesso attaccabrighe! – Maaaaa nooo, non lo dici sul serio, gran condottiero; sai invece che nella borsetta medica il materiale sanitario manca del tutto? Dentro non ci sono più né bende né lacci. – Lo so! – Scommetto che sai anche che l’ambulanza ne è completamente sprovvista. – Sì, so anche questo. – Ebbene, egregio Generalissimo, per uno che dei suoi uomini capisce poco o nulla posso dunque solo presupporre che è stato altrettanto informato riguardo la mancanza di antibiotici, mentre metà della Batteria accovacciata negli scantinati o facendo la sentinella per la salvaguardia anche delle sue chiappe, la bronchite se l’è trovata servita bella e pronta! Il

Maggiore tace. A un uomo di buon senso alle prese con un pazzo, cos’altro gli resta da fare? – Immagino che adesso mi dirai che di ciò di cui parlo il cazzo ti duole assai! L’altro spontaneamente scende con lo sguardo e per qualche secondo continua a fissare le sue parti basse. – Ora, ascoltami bene, dirigo una farmacia privata. Provvedi per domani un qualunque mezzo di trasporto, qualsiasi cosa sia, basta che parte e gira; torno con i farmaci per curare tutti. – Non se ne parla proprio, non funziona in questo modo, la procedura richiede... – Me ne fotto ampiamente di cartacce burocratiche: la gente ci muore davanti ogni giorno, incapace di una fica poco lubrificata che sei! Fai come ti ho detto e senza troppo chiasso, per la tua salita di grado di certo non ti farò concorrenza, stattene pur tranquillo! E prima che me ne dimentichi – a questo punto mi aveva offeso oltremisura – ricorda a questa tua squallida versione di Mata Hari di darmi una tregua, che si dia da fare con l’organizzazione del trasporto e si prenda una serata libera. Quanto a me, signori, tolgo il disturbo e mi ritiro a riposare. Lo prometto solennemente. Parola disertrice, Compagno Maggiore! Che fosse uno stupido nel vero senso della parola siamo tutti d’accordo, solo dall’unanimità un Serbo può essere salvato... Ops, scusate, questa mi è proprio scappata di bocca! Era da evitare, non provocherà mica la peste?! Un bel detto al giorno toglie il medico di torno. Non lo sapevate? Che mondo sarebbe senza gli slogan? D’accordo, cercherò di trattenermi la prossima volta! Comunque, sappiatelo, non è giusto con tale mancanza di grazia sopprimere la volontà di esprimersi che nasce talvolta in una persona, stroncare il suo libero pensiero... D’altronde, quando avete attraversato la mia soglia con i vostri curiosi emblemi a me sconosciuti ed elaborati su quegli stracci che vi portate addosso, io non vi ho biasimato. A lei, invece, tutto il mio rispetto e la mia stima, signorina, Dio mi è testimone che qui... Uffa, è da sentirsi male con questi due sempre immersi nella preghiera! Basta che gli dici una parolina in più e subito se la prendono come una validissima scusa per buttarsi in prostrazione! Che faccio, continuo o aspetto? Basta che poi non si sentono male davvero e mi crepano proprio qui in negozio; ci mancherebbe solo la rogna con la vigilanza sanitaria che continua a fottermi in lunghezza e per traverso praticamente a vita. Se volete torniamo al vero motivo di questa vostra visita, rendiamola fruttuosa. Che dirvi, conoscevo quel fiorellino già da prima, specie rara, velenosa. Da giovane e promettente ispettore veterinario, Čarli era venuto a lavorare nel mattatoio. Aspettando che arrivasse il pullman alle sette meno venti del mattino eravamo già tutti belli carichi e propensi al lavoro, mentre lui dormicchiava ancora appoggiato a una colonna, quasi fosse quell’indispensabile pilastro che sorreggeva la pensilina stessa. Noi accuratamente rasati e profumati, lui con la barba di tre giorni e certi

cerchi scuri sotto gli occhi, come se si fosse ispirato a quel cantante di musica leggera, ora non mi viene in mente il nome... quello famoso per il suo Fischio alle otto... Giusto! Proprio lui! Tutto il popolo lavoratore allegro e scattante, uno più loquace dell’altro a scambiarsi divertenti battute e opinioni, mentre a lui non va a genio alcun tema, e stringendo quel benedetto corrimano come se l’avesse ereditato da suo padre, continua piuttosto annoiato a far penzolare la testa da un lato all’altro. Quando uno non partecipa mai alle chiacchiere mattutine con gli altri, ma ha il vizio di bere il suo caffè da solo e in silenzio, allora stai pur sicuro che ci sono dei guai seri in vista, merda bella grossa come una capanna. Buffo, fin dal primo istante in cui l’ho visto avrei scommesso con chiunque che la sorte ci avrebbe riservato in futuro un tizio come lui, ma solo dopo l’intervento con cui ci aveva graziato quel suo primo giorno di lavoro, salendo sulla pedana con tanto di alti stivali in gomma e in testa una cuffietta bianca, gancio con punta lunga in una mano e coltellaccio nell’altra, urlando come un dannato – Gooooood morning, Vietnam, e anche a voi tutti altrettanto auguro un ottimo giorno macellai di merda, inutile feccia umana. Se finora nessuno vi ha avvisato chi è che comanda da queste parti, adesso lo sapete! Nessuna mezzena erà senza essere controllata, ve lo prometto! E vi dico sinceramente che mi prude il buco del culo a sapere quando vi parte l’autobus per quel posto natio in culo ai lupi! Se dopo l’orario di lavoro preferite rivoltare la terra fresca contro le file di granturco o giocare a golf sono cazzi vostri! Quel che fate qui invece, finché mi procura il pane quotidiano, mi riguarda eccome! Per tutto il resto, sticazzi! Chiaro, tirocinanti? – Veramente non avevo più alcun dubbio. Di colpo tutto era diventato spietatamente chiaro per me, come l’accecante luce del sole. –Buooongioooorno, che piacere rivederla, cara vicina, queste sono freschissime, fatte ieri con queste mani! Glielo giuro sul mio onore! Dentro ci metto solo roba buona… Carne di coniglio. Come scusi? Certo che ce n’è, in ogni salsiccia degna del suo nome la carne equina non deve mai mancare. In che proporzione? Veeediamo, dunque, direi in quella solita, uno a uno. Come sarebbe a dire che avete difficoltà nel comprendere? Su un coniglio ci viene un cavallo. Come desidera vicina, arrivederci, e buone cose, venga a trovarci presto! Il mattino seguente siamo partiti alle sei, per miracolo Čarli era già pronto a salire in vettura come se in attesa della partenza non avesse dormito affatto, e ora le occhiaie violacee gli accarezzavano persino l’ombelico. Ciccione com’era, salta sul camion dal retro, mentre mi accomodo nella cabina, naturalmente. Proseguiamo senza interruzioni e senza soste – molti posti di blocco li avrebbero istituiti solo da lì a poco. – Per le nove arriviamo davanti a casa sua e almeno in

apparenza gli dò un breve temporaneo congedo, avvisandolo che avrebbe avuto a disposizione ben cinque ore prima di dover essere pronto a muoversi di nuovo alle quattordici esatte. E non un minuto in più. Elaboro quindi una veloce ed efficacissima strategia d’inseguimento e chiedo all’autista di lasciarmi scendere poco più avanti, subito dopo la prossima curva. – Non avresti fatto prima a scendere insieme a quell’altro, poco fa? – ficca il naso la guida , laddove non gli compete – Segreto militare, sei troppo curioso – lo ammonisco in quattro e quattr’otto, poi allungo il o per non perdere di vista quell’altro soggetto pericoloso. Giusto in tempo, lo intravedo entrare da un barbiere dove si fa rasare i capelli a zero, quasi fino alla pelle nuda. Alle nove e trenta si reca verso la farmacia per rimanerci dentro fino alle dieci e un quarto. Esce fuori con un grosso pacco pieno zeppo di medicinali, quando un robusto pick-up dalla sua ditta lo raggiunge all’improvviso, a mia assoluta insaputa, caricano quello scatolone nel bagagliaio e partono lasciandomi senza fiato per corrergli appresso. Che scherzetto del cavolo, complimenti! Sangue e anima a braccetto e di soppiatto mi sgattaiolarono quella mattina dal naso. Nei tempi del mattatoio tutto il potere si concentrava nelle mani di una coppia di coniugi, entrambi ispettori, i quali dopo aver adottato quella che fondamentalmente è conosciuta come la “Tecnica di Mutt and Jeff ”, con tanta facilità riuscivano a gestire l’intero sistema di smistamento e distribuzione delle carni: ossia, ogni volta che a lei toccava lo sprezzante ruolo della strega, lui sapeva come far abbassare le tensioni sfruttandole al meglio. Un problemino da risolvere, ed ecco che a loro arriva la macchina nuova in comodato d’uso, un altro intoppo burocratico da spianare e anche le chiavi dell’ampio appartamento trilocale situato nella migliore zona della città ano di mano. Non c’è da lamentarsi, però, gli affari di Stato non vanno mai discussi! Con gente di quel calibro, così ragionevole e sensata, almeno potevi stare sicuro che tutto avrebbe funzionato perfettamente secondo uno schema ben preciso; con esattezza quasi assoluta, in ogni singolo istante, potevi sapere per filo e per segno dove poggiare i piedi per arrivare fino a quella meritata fetta che a lavoro terminato giustamente ti spettava. La buona riuscita dell’esportazione natalizia o di quella pasquale a dir poco dipendeva in tutto e per tutto dalla benevolenza con cui un ispettore previdente scarabocchiava la sua illeggibile firma d’autorizzazione in calce. Era inutile che noi operai ce la mettevamo tutta rimanendo anche a dormire lì dentro, se poi qualche cafone all’ultimo minuto decideva di fermare anche uno solo dei camion in uscita per un’ulteriore verifica dei documenti mandando a puttane l’intera produzione. Quell’inaffidabile? Con lui era tutta un’altra storia. Sempre pronto a fare il solista stonato che va contro le esigenze dell’orchestra! Più volte

ce la siamo vista davvero brutta, e avevo rischiato seriamente di perdere il posto di lavoro. Come quel giorno che per un malessere dovette interrompere il turno per tornare a casa prima, e il caso volle che asse giusto dinanzi alla vetrina della macelleria di cui ero responsabile, identificando, pensate un po’, un lattonzolo al quale quella stessa mattinata sulla coscia aveva lasciato un bel taglio netto indicante la vendita vietata. Quale maiale? Quello buono da cui non si butta via niente, genuino, addestrato, che non si muove di pezza, ciondola con la testa in giù appeso a un gancio conficcato nella coscia, una tipica presa di corrente al posto del naso, ma cosa volete che vi dica di più? Senza pensarci due volte il nostro gran cornuto malefico torna indietro di corsa e inizia a fotterci uno per uno il nome del padre e della madre – in bocca vi fotto tutti insieme, ladroni! Vi sto chiedendo di dirmi chi è stato! Si faccia avanti se ha le palle, faccia a faccia – dei nonni e bisnonni persino, prima che a malapena riuscissero a calmarlo. Si fermano davanti a casa sua, che per mia fortuna non era troppo lontana. Finalmente respiro. Il cuore mi batte all’impazzata. I medicinali restano nel veicolo. Entra solo lui e chiude la porta dietro di sé. Mi avvicino allora per vedere meglio. Sono già le dieci e trenta. Non si sa com’è, ma quando non vuoi, il tempo semplicemente vola. Abbraccia il padre, poi sorride e stringe al petto la madre e la cognata. A i lenti e insicuri anche la moglie sale dalla cantina. Porta effettivamente un pancione grosso e tondo dai piedi fino al mento. Lui l’accarezza, la bacia, col palmo della mano asciuga le lacrime della donna – noo, noo, che ci fai lì? Quello non è un posto per te, dovevi rimanerci, dargli quei benedetti soldi quando te l’avevano chiesti… Egoista che non sei altro, ti importa solo di te stesso. Chi penserà a lui, se ti accade qualcosa… Impazzisco all’idea d’essere sepolta viva se ti succede… Non voglio… Senza… Te… non – pian piano la voce si spegne in singhiozzi, baci esasperati, insaziabili, e mi lascia testimone della loro tenerezza. Nessuna mi aveva mai baciato così. Chi è ancora tanto stupido da mettere le mani attorno al collo a un macellaio per abbracciarlo e salutarlo con morbide labbra, quando la sera tornando dal lavoro emana il fetore del sangue e del sudore mescolato al grasso? Macellatore, giusto, ma c’è da dire che a differenza delle aspettative io di carne non mi nutro mai, da anni orma; sarebbe difficile mandarla giù sapendo quali avanzi ci ho messo dentro. La gente compra, la gente non lo sa o non lo vuole sapere, e ogni tanto qualcheduno si intossica pure. Cattiva digestione, capita! –Un chilo di carne per una grigliata buona? Al suo voler m’inchino, ecco, detto fatto... Vuole che glielo pesi di nuovo? Per la miseria, non è possibile! Che

errore, sono mortificato e che occhio però, che intuizione! Ottocento grammi, menomale che si è resa conto. Lo aggiustiamo subito, ci mancherebbe altro, suuubito! Grazie per la visita e si ricordi, in questa bottega il parere del cliente è sacro! I genitori di quel deficiente sono allegri; come altro possono essere? Si tengono per mano. Fino alle ore undici e dieci minuti si sorseggia il caffè. Si raccontano qualcosa. Poi pranzano. Alle dodici e un quarto finiscono di mangiare. Appena l’affare con la scrofa aveva smesso di fare notizia – grazie ai due coniugi per aver contribuito a calmare le acque, si sono aggiudicati un soggiorno all’estero per un innovativo congresso di perfezionamento su malattie infettive e profilassi, a spese della ditta s’intende – ecco che il diavolo di nuovo non trova pace e ce lo rimanda a curiosare nel magazzino di carni conservate. Bei tempi quando ancora potevi scegliere liberamente le quantità e il punto vendita dove far recapitare la merce accuratamente selezionata per le esigenze di una tua, diciamo così, spesa personale che poi, dopo aver pagato l’importo dovuto, ritiravi comodamente e in tutta tranquillità! Si sa che la legge è sempre uguale per tutti tranne che per i giudici, che se la modellano su misura, per cui questo nostro approccio dall’interno in alcun caso poteva riguardare gli ispettori stessi. Su ciascuna richiesta fatta dai coniugi veniva indicato il nome del salame più scarso che esistesse in produzione, mentre di fatto venivano inscatolati prosciutti di alta qualità e prelibatezze varie. Della differenza, poi, tra il peso dichiarato da saldare e quello effettivo non ne parliamo che è meglio! Si vede comunque che di questo trattamento riservato a pochi, Čarli non aveva la più pallida idea neanche che potesse lontanamente sussistere, e per poco non rimase fulminato quando il magazziniere gli chiese se anche la sua era una “confezione speciale” da fare. E siccome non è mai stato un semplice inibito maniaco apatico capace di accettare gli avvenimenti senza comprenderne fino in fondo cause e dinamiche, cominciò subito a informarsi di cosa esattamente si trattasse e di chi fosse la responsabilità. I malintenzionati non mancano mai in nessun ambiente, e le cattive lingue colsero al volo l’occasione per introdurlo nei segreti e moderni meccanismi del libero commercio. Apriti cielo! Abbi pietà di noi, perché a quel punto non si sapeva cosa sarebbe stato capace di farci per aver contravvenuto! Per prima cosa, il bestione afferrò quel poveraccio del magazziniere per la gola trascinandolo fuori a forza. Quest’ultimo, con il viso contorto e sempre più blu, emetteva rantoli e impressionanti sibili dai polmoni. Poi decise di buttarci fuori dal deposito tutti quanti e mettere all’ingresso un cartello rosso con la scritta “zona infettata”. Come se questo non bastasse, aveva pure recintato l’intera area,

in modo che qualcuno per sbaglio non togliesse il sigillo. Disse anche che i principali macchinatori di questa congiura erano gentilmente pregati di accomodarsi nel suo ufficio. Era accaduto verso la fine dell’orario di lavoro, per cui lo pregavamo di lasciarci andare via, non ne potevamo più di stare lì, ma lui non volle sapere ragioni. Ci contava, bastardo, sull’assenza dei coniugi, che questa volta non avrebbero potuto correrci in soccorso. Camion fermi, autisti nervosi in attesa entrano ed escono, fumano una sigaretta dopo l’altra, sputano per terra e bestemmiano, vorrebbero partire, il tempo è prezioso. Lui resta imibile, nessun ripensamento, nessuna emozione: vuole la testa di qualcuno, e subito, che in futuro non si ripetano più simili situazioni. Aveva fatto radunare tutti i capi dei singoli reparti per fargli sperimentare la gioia e cantare insieme, mentre lui dirigeva il coro – perdonaci signor dottore, siamo coscienti del peso dei nostri peccati, mai più, mai più! Pretendere di poter accordare persone diverse che tra di loro nemmeno si parlano è roba da matti, ve lo giuro, una faticata assurda! Così, iniziando a conoscerci meglio, un intero pomeriggio l’avevamo trascorso in poco promettenti allenamenti finché non fosse assimilata la lezione… Ci aveva lasciati andare ormai dopo le sette di sera… Che si fotta lui e il suo innato senso di giustizia! Si mette a strillare, chiede dove trovarli per scambiare in privato con i principali giusto due paroline magiche, e quando dice così questo può significare una cosa sola: mandare qualcuno a farsi fottere in fretta e furia. Direzione, dunque, l’ex collegio tessile; acchiappa il fucile e chiama l’autista. Fino a lì sono stato costretto a farmela di nuovo a piedi, che incubo! Dolore acuto a entrambe le gambe, diventate pesanti come una montagna di piombo, e la sensazione di fare un’estrema fatica, anche solo a dover respirare o deglutire saliva. Maledetto cagnaccio, pure le scale dovevo salire! Troppo tardi per assistere alla scena intera; l’introduzione ormai me l’ero persa. Sono le dodici e trenta. Inquadro l’entrata della stanza: un tavolo, un incaricato di servizio, una sedia rovesciata a terra e accanto un’altra rimasta vuota, le sue grosse spalle mentre sfoglia i pezzi di carta e si ferma di colpo, faccio un o in avanti molto più lentamente di prima e stringo un primo piano sullo sguardo e sulla posizione della bocca – perché non lo riportate indietro? Vi siete sbagliati, ora riparate, mio fratello doveva rimanere a casa! – Ma guarda che tu non risulti sulla nostra lista! – Questo cosa sarebbe allora? – chiede il ciccione, indicando uniforme e fucile – ti sembra forse che sono di ritorno da un ballo in maschera, oppure vuoi che una volta per tutte venga cancellato anche il tuo nome? Chiama il Comandante senza farmi perdere altro tempo! – Caaapooo, qui c’è un tizio che insiste nel vederla, sembra pronto a menare... – Non a menare, ma ad ammazzare ’sti stronzi di

poliziotti militari, pian pianino uno dietro l’altro tutti quelli che ci sono! – Calma gente, calma, ogni cosa si risolve, vediamo un po’; nome, grado, soldato, unità di appartenenza, poi l’avvisiamo. – Chiedo solo che la legge venga applicata, nient’altro. Essa dice molto chiaramente che dalla stessa casa non vanno via due uomini. – Cos’è mai questa voglia di discutere ora, non vorrà insegnare la legge a me, spero! – Posso sempre illustrarle tutta un’altra cosa se preferisce. Illegale, ma molto efficace! Trovatelo e riportatelo indietro prima che mi scatti completamente quella rotellina in testa mal avvitata, se dovessi tornare qui ancora... – Gliel’ho appena detto, compili bene la sua richiesta, faccia il suo lavoro e ci lasci fare il nostro. Vedrà che andrà a buon fine presto. – Sarà meglio per Lei, mi creda! E cammina, invece di sfilare in parata qui per i corridoi con questa tua uniforme mimetica, testa di cazzo con vocazione a rincorrere la gente come se fossero conigli! Non farmi arrivare brutte notizie. Devo forse spiegarmi meglio? Il colloquio si conclude pacificamente alle ore tredici. Una volta a casa aveva riferito alla madre come compilare la domanda da portare subito il giorno dopo nell’ufficio di quel Comandante, ormai al corrente del loro caso. Per un po’ teneva la mano della donna fra le sue mani grandi, poi baciava ogni dito sulle nocche per are con tutta calma sulla pancia. Alle quattordici in punto siamo tornati a riprenderlo, senza far tardi. La moglie si era messa a piangere di nuovo e a singhiozzare come una pazza. Lui salì sul camion. Dietro anche questa volta. Fece in tempo a inculare anche il direttore. Il dirigente aveva appena dato il suo caloroso benvenuto a una delegazione straniera, l’occasione in cui un buon bicchiere non poteva assolutamente mancare... E poi sapete com’è, quando dallo straordinario incontro ravvicinato con il whisky di importazione il tranquillo bonaccione di sempre all’improvviso diventa un tantino troppo allegro e vivace. Avrà senz’altro compiuto un o avventato entrando in quell’Ufficio di Igiene dei servizi veterinari come fosse casa sua, ma l’errore grossolano fu poi non sapersi tirare indietro, dal momento che al posto dei coniugi si è trovato davanti a quell’autentico orso bruno, incapace di tollerare un qualsiasi benevolo approccio alla mano. Chissà cosa avrà pensato, forse di poter inquadrare il novellino piuttosto facilmente dandogli del tu fin da subito, per far sì che in modo sottile acquisisse le buone maniere di cui avrebbe avuto tanto bisogno. Il risultato lo posso solo immaginare. Vittima di un inaudito accanimento verbale nei suoi confronti, il direttore è stato costretto a tornare indietro per bussare e ribussare a quella stessa porta fino a quando non indovinava il tocco giusto, e ottenuta la fantomatica approvazione di accesso, a questo punto diventata

indispensabile direi per salvare almeno le apparenze. – È una porta tappezzata però – con tanto di retrogusto amarognolo in bocca si lagnava della sua sorte il principale, distrutto e d’un tratto privato di autorevolezza alcuna – come faccio a farmi sentire abbastanza? – Sforzati un po’ di più; – crudelmente lo incitava il ciccione – per tutto il giorno sono costretto ad ascoltare come rompi, adesso sii serio e picchia ’sta porta come si deve, che almeno si senta! Inoltre, con la dignità finita completamente sotto i piedi, si è visto costretto ad assorbire anche la lezioncina sull’uso corretto delle forme di cortesia e di rispetto che tra i funzionari di un ufficio escludono tassativamente quel familiare “diamoci del tu” riservato a parenti, professori e amici stretti conosciuti fin dai tempi dell’università. Infine lo invitava a rimettere in futuro anche una volta sola il piede in quella stanza con la stessa sgarbataggine, per fornirgli un utile pretesto per chiudergli l’intero mattatoio almeno per un mesetto, o per tutto il tempo necessario per diventare ragionevoli. Il direttore non sarà stato capace di colpire la porta come quell’esaltato avrebbe voluto, d’accordo, ma d’altro canto sapeva benissimo quale numero andava composto per denunciare a chi di dovere quella vergognosa condotta. Ah, era solo una questione di tempo perché finalmente quel pallone gonfiato di Čarli, sempre così inequivocabilmente superiore agli altri, imparasse che esisteva un preciso limite per tutto e tutti, lui compreso. Strada facendo ci siamo fermati in una drogheria. Gli avevo chiesto qualche soldo in prestito e lui aveva acconsentito. Comprai allora ben dieci chili di caffè. Una volta arrivati a Mogila sono riuscito a restituire tutta la cifra e subito. Come avrò fatto? Non credete che certi dettagli professionali possano essere pure affari miei? Ah, capisco! A quello vi riferite? Nooo, certe accuse non sono mai state dimostrate. Cattiverie e pettegolezzi, nient’altro! È terribile quanta invidia suscita il saper fare le cose per bene! Vendere il caffè ai miei compagni a un prezzo tre volte più caro? Mai! Inaudito, semplicemente inaudito! Vergognoso anche solo pensarlo! Arrotondavo le spese del trasporto e con una percentuale di guadagno minima. Quanto? Un per cento. Faccio sempre così. Ormai è un metodo consolidato. Compro per un denaro e vendo per due. E da quell’un per cento cerco di vivere umilmente. Quella volta avevo investito anche in candele, che pur essendomi costate molto in termini di tempo e fatica si sono ampiamente ripagate. Per loro ho avuto da parte i mezzi propri, ed è lì che ho guadagnato il cinque per cento, lo ammetto! Un giorno di qualcosa si dovrà pur morire… e di qualcos’altro intanto occorre campare, il più a lungo possibile e in buona salute. La vita è… Non lo so, sono abbastanza sincero per ammettere anche questo. Ricordo soltanto che erano ati appena due giorni quando sulla pedana del

controllo sanitario salirono due uomini in uniforme per far recapitare al ciccione la convocazione per certe esercitazioni militari straordinarie; sì, quella faccenda quando li addestravano per mandarli a combattere a Vukovar. Da quelle parti io ci sono stato, e nel periodo in cui nell’incertezza più totale tutti sembravano voler giocare a nascondino. Confesso che durante un contrattacco me la sono fatta sotto per davvero, i miei si ritirarono miseramente e mi lasciarono allo sbaraglio, completamente solo. Cosa potevo fare? A capofitto mi sono rifugiato in un porcile. Non l’avessi mai fatto, roba da non credere ai propri occhi: i resti di due cadaveri sparpagliati tutt’attorno finiscono in pasto ai maiali, mentre delle galline spennacchiate lottano fra di loro per aggiudicarsi i bulbi oculari scavati. Mi sono nascosto per una settimana intera, nessuno è capace di assalirti così bene come la paura; infine sono rimasti soltanto scheletri disfatti e brandelli di irriconoscibili uniformi con dei bottoncini ancora attaccati. Quando le riserve dei loro alimenti si erano ormai svuotate e i corpi possenti cominciavano a chiedere dell’altro carburante era più che naturale aspettarsi che prima o poi mi sarebbero piombati addosso. Mi avevano già fiutato e avevano cominciato ad avvicinarmi, ma il caso ha voluto che quest’esperienza finisse diversamente. Sono stato salvato da un certo membro della protezione nazionale croata, intendiamoci bene, un uomo mai visto né prima né dopo nella mia vita, che a sua insaputa aveva giocato in essa però un ruolo fondamentale, con dentro qualcosa di umano che non ti saresti mai immaginato di poter trovare nel gracile corpo di un nemico. Con un interminabile vomito a fontana, impazzito dall’orrore quasi buttava fuori persino il proprio intestino, poi fece un o indietro e senza esitare sterminò quelle bestie. Mi avevano raccolto i miei alcuni giorni dopo, quando ormai per disperazione inginocchiato nella loro merda mi sfamavo e dissetavo con il sangue spremuto dal fegato di quelle belve. Avrei voluto vedere un altro al posto mio. A quel lestofante trippone è stato chiesto, invece, di spostarsi solo mezz’ora da casa e nemmeno questo è stato capace di fare senza una scocciante lamentela piuttosto lunga. Mi erano giunte all’orecchio cattive voci che giravano sul suo conto, molto affidabili tra l’altro; notizie destabilizzanti e scandalose oltre ogni ragionevole misura, secondo le quali anche nel corso di quell’esercitazione aveva fatto una stupidaggine dopo l’altra. Si era rifiutato di avere a che fare con le armi in assoluto, aveva gettato lontano da sé il fucile con violenza e invitato tutti i suoi superiori che avessero inteso esprimere a riguardo la loro profonda disapprovazione ad accomodarsi a prender posto per ciucciarglielo in base all’ordine gerarchico. Ve lo immaginate? Che sfacciato! Quant’è vero Iddio, non gli riuscirà mai di diventare saggio! E comunque, è di lui che stiamo qui a parlare tutto il giorno; che idiozia perpetua! Se non fosse per la presenza di questa bellissima e innocua dama, per quanto mi

riguarda voi due avreste già baciato la porta da fuori, così invece… Perché non vi trovate un lavoro onesto e dignitoso, sicuro come il mio, ad esempio? E smettetela di girarmi attorno e sbavare a ogni mia parola, Dio santo! Eccoli di nuovo! Non appena uno dei due termina di pregare, la cantilena già viene ripresa dall’altro. Si può sapere che diamine vi prende? Non ci posso credere che questa stupida pagliacciata stia succedendo proprio a me! Smettetela! Non appartenete mica a qualche setta di quelle folli e pericolose, voglio sperare! Che ne so io come le chiamano al giorno d’oggi... tutte quelle “psico” e similari, quelle religiose imbevute di esoterismo, quelle sataniche che fanno parte della difesa militare nazionale o della difesa antiaerea... Niente. Non ho indovinato. Sarà come dite voi. Con tutto il dovuto rispetto, signora, credo che abbia scelto una compagnia assolutamente inadatta a Lei. Vi meritate un uomo di ben altre maniere, capace di creare una relazione stabile, – che non si fonda comunque sulla possessività – qualcuno diligente sotto ogni aspetto, responsabile, coscienzioso, che vi sappia amare e manifestarlo con atti e parole; un vero artigiano insomma. Lasciamo perdere questi sospetti individui, tendenti alla spiritualità e all’arte astratta. Queste teste danneggiate di bashibazouk vari! Mi sembrano peggiori persino rispetto a quel mattacchione che si burla notte e giorno di ogni cosa senza alcun ritegno… Occorre dire che sul camion ci rifilarono un altro nullafacente, e così per tutto il viaggio ho dovuto sopportare non uno, ma due idioti messi insieme! Anime gemelle, a quanto pare; anche quest’altro in soprannumero, venuto in guerra – dice – senza una convocazione, di sua spontanea volontà. Mah! Rimango perplesso, ma non mi scompongo minimamente. Taccio, e dal mio angolo ascolto quel loro continuo bisbigliare, interrotto solo da qualche colpetto di tosse, qualche risolino, fastidiose occhiate lanciate di qua e di là esclusivamente per offendermi e umiliarmi, scoraggiarmi nel mio intento come se fossi un qualunque principiante insicuro, che alla prima parola ingiuriosa abbassa la testa. – Bella giornata, macellaio! Non è forse così, trucidatore di massa, o dobbiamo chiamarla signor vice Comandante? Chissà dov’è che sono stati comprati quei gradi! Speciali corsi notturni presso l’Accademia Nazionale Gestione Macelleria e Risorse Umane, di certo! Diciamo un sacco di cazzate, è vero, vuoi che te le appuntiamo, così siamo sicuri che non te ne perdi nemmeno una? Quelle orecchie non vanno affaticate inutilmente, non si sa mai, possono tornarci utili in futuro… – e via dicendo, per tutta la durata del viaggio. Nervi d’acciaio avevo dimostrato; praticamente un autocontrollo perfetto, lasciando che sbavassero a volontà senza aggiungere alcun commento guidato da pura rabbia e fretta. Poi ho saputo che anche il nuovo venuto sarebbe stato sistemato nella Batteria di

Comando. Che combinazione, si sono infatti ritrovati culo e camicia! Aveva dato una mano al ciccione a tirare fuori i pacchi con dentro i medicinali che il dottore cominciava a distribuire senza perdere altro tempo. Quando mi sono presentato chiedendogli di dare anche a me almeno cinque scatolette in via preventiva, subito l’aveva sfruttato per scatenare un’altra polemica e coinvolgermi in un’assurda scenata. “Puzza di topo di fogna”, “freddo calcolatore”, “testicolo marcio” e quant’altro mi sono sentito dire ogni volta che provavo a riaprire la bocca in mia difesa. – Lo giuro sull’onore… solo di uso personale si tratta… nessun spaccio… ti giuro… – Ascoltami bene, vermiciattolo, perché te lo dico una volta sola: faresti bene a farti rivedere di nuovo soltanto quando ne avrai effettivamente bisogno e levati dai piedi ora. Qui c’è gente seriamente malata che aspetta! Anche il Maggiore si era giustamente preoccupato di farsi rifornire finché ce n’era ancora il tempo. Gli era stato detto di ciucciarselo preventivamente, e nel caso in cui gli orecchioni avessero fatto capolino, di essere ugualmente pronto a ricevere tempestivamente la più popolare ed efficace retro-terapia mai esistita da che mondo è mondo. Ridotto a uno straccio, il Superiore si è ritirato senza sprecare neanche una parola in risposta ai miserabili insulti, tanto con quel tipo di seccatore che proprio a noi è dovuto capitare non sarebbe servito a nulla. Purtroppo lo sapevamo fin troppo bene entrambi! Aveva radunato attorno a sé una mezza dozzina di infermieri addetti ad altre batterie per ripartire tra loro quasi tutto il materiale e gratis, mentre a noi due non esitava a mandarci via a mani vuote, come se fossimo due mendicanti della peggior specie. – Prego signora, prego! Non si lasci intimidire dalle mie parole, certo che siamo aperti! Stia tranquilla, non ha interrotto niente, anzi i signori qui presenti se ne stavano quasi andando. Mi dica pure, cosa Le diamo di bello per il pranzo oggi? Eccellente scelta. Questo pezzo dice? Un meraviglioso pezzo di girello di vitello, asciutto, tenerissimo, vellutato… A dir il vero è un gran pezzo di vitellone magro. Saporitissimo. Un po’ più esperto. Lo sa come si usa dire, senza il vecchietto non si può fare nessun colpetto! Ero letteralmente impazzito dal dolore quando ho saputo che dopo la guerra anche la nostra ditta avrebbe dovuto arrendersi di pari o a tante altre, e come sostenevano alcuni dirigenti – a causa della crisi economica e la mancanza di denaro liquido – una volta per tutte alzare bandiera bianca. Voleva dire soltanto che qualcuno sapientemente era riuscito a stra-riempire le loro tasche perché portassero l’impresa al fallimento, per poterla acquistare poi a prezzi stracciati. Tra rabbia e rancore a stento trattenuti, sarei scoppiato in lacrime davanti a tutti

andandomene, se non fosse stato per merito di quella magica cifra salva gocce. E così, un po’ per l’indennità di licenziamento percepita, un po’ per l’abilità costruita nel commercio nel corso degli anni, ora eccomi qua esattamente dove sono: tra le mezzene che fanno corrodere la gente. Ogni notte. Poco importa che la luna fosse calante o crescente, la meticolosità dei clienti non smette di colpirmi in pieno né mai abbastanza. Talvolta mi chiedo fin dove potrei spingermi, se non fossi ostacolato da quella misera affettazione eterna quando mi chiedono trecento grammi precisi di questo e duecento di quell’altro, come se dovessero dare da mangiare a un gatto. Un gatto piccolo, oltretutto, perché un felino adulto sicuramente consuma di più. Centocinquanta grammi freschissimi, però, appena macinati! Cos’altro volete da me? Parliamoci chiaramente: quelli nemmeno il buco ve lo coprono, se per purissimo caso vi cade l’otturazione a un dente! Bene… è meglio se mi calmo… grazie al cazzo, lo so anch’io questo! La pazienza prima di tutto, da dovunque provenga! Eh già, adesso mi sento molto meglio. Lo vedete anche voi, tutti quanti siete testimoni di quella sensazione meravigliosa che nell’animo umano può suscitare un raggio di sole! Sì, non si stupisca signorina, intendo proprio quello. Leggo anch’io, sa, cosa crede, sconosciute sono le vie del Signore; almeno la carta dei giornali per avvolgere la carne mi a quotidianamente tra le mani, e qualche frase particolare rimane impressa ancora a lungo! Ecco, avrò di nuovo pronunciato qualche parola sbagliata! Non lo faccio più, è stato più forte di me! Basta che non vi sbattete quelle capocce contro il mio pavimento! Circolare prego, liberare lo spazio davanti alla cassa! Spostarsi altrove che è meglio! Potete almeno dirmi come sono venuto nelle riprese? Sono presentabile? Certo che è importante saperlo, l’opinione del pubblico è tutto! In ogni business un giusto marketing su misura è sempre stata in assoluto la cosa più importante. Del timing poi, non ne parliamo nemmeno. La distribuzione si è conclusa alle diciannove e trenta minuti. Quel poco che gli era avanzato l’aveva messo prontamente in una scatola più piccola e sistemato quest’ultima sotto la testa dicendo – stanno bene ed è l’unica cosa che conta. – Chi? – avevo chiesto – Di cosa parli? – Fottiti! – Ti ho chiesto di chi parli, tutto qui! Silenzio. Mi ignorava completamente. – Quando te lo chiedo tu mi rispondi! Capito?! Tu bastardo, tu, tu, tu…

Il cortile benedetto ovvero

La romantica sonata della signora Schumann in Beee-molle[1]

Prego, entrate pure! Accomodatevi, come se foste a casa vostra! La poltrona naturalmente lasciamola a disposizione della signora. I soldi ce li avete con voi, spero. Venti, trenta… mi importa… cinquanta… solamente… novanta, cento… che la verità venga a galla, nient’altro. Gradite intanto un bicchierino? Prego! Brindiamo dunque alla nostra salute, con l’augurio che ognuno di noi possa vivere felice ancora a lungo. Quindi, come dicevo… Čarli dite, se non me l’avessero impedito altri, giuro che gli avrei lì per lì fottuto la mammina bella! Mi saltarono addosso tutti insieme, i miei colleghi intendo. Il più autorevole tra loro, colui che pur non avendo mai messo piede al fronte ha saputo farsi conferire onorificenze e decorazioni al merito, prima ancora che la guerra finisse, mi consigliò, per il mio bene, giustamente di lasciar perdere quell’idiota. – Fammi capire bene – sento anche la voce di quell’altro che seguendo lo stesso principio dell’assenza dai guai, al prezzo di una si era procurato ben due medaglie al valore a guerra finita – tu andresti a scontare una pena per uno come lui? Forse la vita non ti è cara abbastanza? Cerco di calmarmi e rallentare il respiro affannato, apro quindi bene la bocca, ma l’aria malefica si blocca a metà strada e non vuole scendere nei polmoni. Chiudo gli occhi e cerco di fare uno sforzo per convincerli che ormai non l’avrei più attaccato né avrei perso facilmente i nervi. A quanto pare, questo piccolo trucchetto del rassegnato funziona sempre alla grande e in poche mosse; spostando il sedere di qualcuno dalla mia faccia, riesco a uscire illeso dal loro appiglio, per allontanarmi con o disinvolto, quasi come se non fossero per niente affari miei. La questione, ciccietto mio, la rimandiamo solo alla prossima volta e mi auguro arrivi presto… Fino a quel momento tutto scorreva nel migliore dei modi possibili. Ti servivi come volevi e soprattutto quanto volevi senza dovere spiegazioni a nessuno. Si sa che ogni turbolenza causa dei disastri, ma poi si placa, e la vita di sempre riprende, forse ancora più di prima. In fondo, sono le situazioni che cambiano, mai la sostanza. Quando è iniziata, tutti i poliziotti militari sono stati subito

sistemati all’interno del collegio tessile della nostra città, sotto il comando di un certo giurista molto bravo a far depistare e cadere qualunque sospetto. Allora sì che si ragionava: il mercato petrolifero di tutta la zona stava completamente nelle nostre mani, e in conformità alla legge. Essa la incarnavamo noi, e con ione. Carburante sempre disponibile a un prezzo equo, soprattutto dopo che ci avevano colpito i serbatoi sotterrati nei pressi di un villaggio qui vicino. Con ogni genere di secchio o recipiente, i contadini si affrettarono, incitandosi a vicenda, a recuperare quella generosa manna che una volta scesa dal cielo senza più impedimenti si allargava ora ai loro piedi e sommergeva i campi. Un ottimo allestimento per i nostri affari: manodopera gratuita e innanzitutto efficiente. Nel corso dell’intera notte, si adoperano per raccogliere il possibile, sino a che il residuo impregnato nel terreno divenne inutilizzabile e al mattino successivo ci demmo da fare anche noi, sequestrando in blocco campagnoli operosi con il diesel versato nell’apposito contenitore. Già verso mezzogiorno, mio figlio minore è ben rifornito, e ha davanti a sé un’altra giornata di lavoro, che sa perfettamente come sfruttare al meglio distribuendo la merce in numerosi luoghi della città entro la sera stessa. Che orgoglio vederlo cavarsela alla grande, quasi fosse un giovane adulto, quando torna con il contante! Eh, che peccato però che quell’altro sciagurato di figlio maggiore non sia abile quanto lui; invece di dedicarsi anima e cuore al contrabbando, lo scimunito legge libri! Avrà preso dai parenti della madre, tutti intellettuali, che si fottano enormemente, stupida di una famiglia! Non sempre tutto fila liscio, ogni tanto qualche piccolo disguido capita anche nelle migliori organizzazioni, ma abbiamo sempre fatto l’impossibile per risolvere senza saltare per aria. È stato molto difficile da spiegare a uno dei colleghi decorati, che non se la doveva prendere con l’uomo che al suo ordine di alzare le mani in aria ne aveva alzata una sola per riabbassarla quasi subito dopo, sotto il peso di una tanica con circa venti litri di benzina rubata, e che non aveva la minima intenzione di prenderlo per il culo con tutto quell’alternato sollevare e abbassare del carico a ogni suo comando strillato, mentre l’altro braccio rimaneva disteso lungo il corpo, immobile – solo in seguito rivelatosi colpito da una forma di paralisi. Oddio, per poco non siamo riusciti a impedire lo spargimento di petrolio e la successiva strage! Bisogna fare il segno della croce adesso? Non lo sapevo! Non discuto gli ordini, ogni occasione è buona per essere mancata! Sarà come dite voi, cugini cari, senz’altro… Per l’appunto, non inganniamoci. Vantavamo una sistemazione invidiabile. Letti in ferro, ma buoni. Condizioni igieniche soddisfacenti. Pulizia di buon livello.

Insomma, da perdere definitivamente la calma quando li vedevi ammanettati, condotti lungo i corridoi mentre lasciavano dietro di sé un’inconfondibile scia puzzolente e sporca del loro aggio, ricoprendo tutto il pavimento delle orme del fango molle riportato direttamente dalla trincea. La ciliegina sulla torta di quel posto sono state però, senza alcun dubbio, le prelibatezze culinarie con cui premurosamente ci vezzeggiava il proprietario di una locanda vicina, tutelando così l’avvenire sicuro dei suoi posteri, che in cambio avremmo omesso fortuitamente di spedire nel pacchetto turistico meno richiesto del momento. Un nome cancellato sulla lista equivaleva automaticamente a cinque più che abbondanti porzioni di carne alla griglia, accompagnata da contorni freschi. E poi venite da me a chiedermi come si costruisce la propria felicità… Basta! Avete rotto le palle con ’sto fijo de ‘na mignotta! Parliamo di qualunque altra cosa, ma per l’amor di Dio non chiedetemi più di lui! Aaah, ecco che ci risiamo, questa volta la pazienza l’ho proprio persa! Sì… Sì… Lo so! Ci attende la solita procedura... Tre segni della croce, una preghiera, lo svenimento, l’abbondante acqua santa... Limitatevi però a sprofondare e a rialzarvi per voi stessi, il mio viso non ha bisogno di bagnarsi! Signora, sono disperato, mi aiuti lei, la supplico di dir loro da parte mia che sono gentilmente pregati di lasciarmi impuro, e preoccuparsi piuttosto di una riconciliazione! A lei daranno retta, si spera! Una vera donna sa sempre qual è il verso giusto con cui prendere un uomo, saprà farlo calmare e ragionare in qualunque circostanza, al contrario di quanto io in ogni caso avrei potuto fare con quel cervello essiccato che si presentava davanti a me, insistendo sul cosa secondo lui avrei dovuto fare. – Non risulti sulla nostra lista – gli avevo spiegato con le buone più di una volta, ma questa semplice nozione proprio non la riusciva ad afferrare. – Giusto… Oj, dodo… Scopriamo dunque… Oj, dodole… che sono un misterioso pagliaccio con tutta probabilità spuntato fuori da qualche festa mascherata… Oj, dodole… Mettiti invece una mano sulla coscienza e di’ a cosa assomiglio così uniformato e agisci di conseguenza![2]– A un cretino... – ho pensato senza dirglielo – non appena hai permesso di essere trascinato da quelle parti. Perché chiunque fosse stato abbastanza intelligente da vedere quello che stava per succedere, avrebbe saputo mettersi al riparo per tempo, pagando ovviamente! E pensare che mi aveva pure interrotto in un momento cruciale, quando avevo deciso di dedicarmi alla lettura. Un’impresa ardua, credetemi! Chissà quante volte avrà provato disagio il Maggiore per il semplice fatto di avere un padre semianalfabeta... Un rapporto irrisolto, il nostro, e comunque con tutto quel tempo libero che avevo a disposizione con animo generoso mi accinsi ad avvicinare il suo mondo. Badando bene che nessuno se ne accorgesse, prendo dalla mensola un piccolo

volume nascosto tra gli altri, il più breve che sono riuscito a trovare per avventurarmi in quell’incerta eroica crociata, perché se qualcuno minimamente avesse scoperto i miei piani, di certo avrei fatto la stessa misera fine di un grasso sacchetto che capita alla portata dei maiali. Che esperienza mortificante! Eppure – deciso più che mai – volevo risolvere una volta per tutte l’enigma di cosa ci fosse di tanto intelligente dentro una pagina scritta. Leggo dall’inizio e mi ritrovo in mezzo a un funerale, con un gran bel viavai di sacerdoti (circolano preti di ogni età), che stendono una lista di cose che mi ricordano questi miei qui, indaffarati nello stesso genere di faccende, prima ancora che qualcuno si fosse improvvisamente ricordato di reintrodurre i falsi in bilancio tra i reati perseguibili per legge. – Soliti idioti – sostengo ad alta voce, disegnando con quel libro ancora aperto un ampio arco mentre lo getto nell’angolo opposto. Quando la porcata è cominciata non tutti però sono stati ugualmente scemi, e c’è invece chi fin dall’inizio ha saputo come farsi dare le carte migliori. Infatti, di tanto in tanto, all’improvviso, dietro una porta chiusa cominciavano ad aver luogo certi incontri ambigui tra quel tizio del dipartimento militare e il nostro Comandante, accompagnati da un grappino, un caffettino, l’immancabile dolcetto e un vivace cicaleccio prolungato, oltre qualunque consueto dialogo. Che cosa non avrei dato per sentire meglio ogni singola tonalità delle loro voci e sfumatura di significato! Riprendo dal secchio quell’inutile libraccio, e con un plausibile alibi tra le mani almeno fingo di essere completamente immerso nella sua lettura, mentre contemporaneamente, per lo sforzo di sentire, rischio che mi spuntino fuori le orecchie cresciute a dismisura. Niente da fare. Nemmeno con il padiglione auricolare attaccato al buco delle serratura arrivo a dare un senso a quel groviglio di parole, frasi sovrapposte e vuote, assolutamente sconcertanti. Di certo non desisto. Questo mai e poi mai lo farò! Armato di un’invisibile tenacia, mi impegno seriamente mettendo in gioco tutto me stesso e senza risparmiarmi, per cui a malapena riesco a scostarmi in tempo senza essere notato, prima che loro per qualche oscuro motivo escano fuori raggianti. – Ti senti poco bene? – si interessa della mia salute il principale. – Dovrei sentirmi male? Peeerché mai, c’è forse qualcosa che non vaaa? – temporeggio, allungando la risposta come fosse la bottoniera di una fisarmonica, alla disperata ricerca di uno “sguardo ingenuo da cameriera ungherese” da adottare al momento. – Vedo che trascorri intere giornate a leggere – aggiunge. – Se per quello, anche le notti, Capitano – gli correggo il pensiero – anche le notti insonni. E così, di giorno in giorno, ogni mattina dopo le consultazioni con le autorità

militari, il nostro giurista ci raduna per darci la lista dei fuggitivi da ricercare. Alcuni si rifiutano persino di rispondere al richiamo della madrepatria bisognosa di aiuto, altri fuggono dal fronte e dalla guerra nella prima cantina che capiti sulla loro strada, dritto tra i vasetti in vetro delle scorte invernali e le grosse quantità dell’acqua di crauti, una delle cure post sbornia più efficienti in assoluto. E poi, c’è chi riusciva a raggiungere i casolari di montagna, squagliandosela in culo ai lupi. Per questo motivo, occorreva essere veloci e prenderli subito senza indugiare! Attenzione però, questo non è ancora tutto. Da quell’elenco inizialmente lunghissimo e immacolato come le lenzuola della prima notte di nozze, cominciarono a sparire determinati personaggi famosi uno dopo l’altro. Un nome cancellato di qua, un cognome corretto di là, qualcosa di incomprensibile aggiunto a matita, e il gioco è fatto. Così va il mondo a quanto pare! E tu che cerchi di compiere il tuo lavoro come si deve… Da quel giorno, anch’io comincio a comportarmi da illuminato e porto con me non solo quel libro, ma anche dei giornali e un bel paio di forbici per dedicarmi al ritaglio, non appena nella stanza rimango un attimino da solo. Capita, non dico di no, che nelle squallide giornate prive di arresti lo sguardo mi scivoli tra le righe di quel libricino, rivelando addirittura molte similitudini inaspettate con il mio quotidiano, che sinceramente non avrei mai pensato potessero esserci. Scopro che tra tutte quelle pagine c’è Al Qaeda – che si muove così pericolosamente da catturare tutta la mia attenzione – composta da diversi uomini intriganti tra cui spiccano particolarmente un certo inguaribile falsario e mitomane dai quattro bei mestieri e le undici mogli, Zaim, seguito dal vecchio Kirkor, astuto e perspicace capo degli armeni, senza dimenticarsi di un giocatore cazzuto quale il potente direttore Latif-aga, detto Kargòz, che in ogni istante sa come farti inchiappettare e far valere la sua. C’è poco da fare, volendo o non volendo mi sono rimaste profondamente impresse nella mente alcune delle sue parole rivelatrici, vere e proprie chiavi d’ingresso nel nostro sotterraneo universo, a cui nulla può essere obiettato: “qui non ci sono innocenti”, oppure “nessuno è qui per caso”, e anche l’altra sentenza degna di ricordo “io gli uomini li conosco, sono colpevoli tutti, solo non tutti sono destinati a mangiare il pane qua dentro”. Per la miseria, una vera storia carceraria scritta giusto su misura per me! Avevo appena recuperato un po’ di buon umore portando dentro un anziano demente beccato mentre andava in giro indossando l’uniforme del figlio cercando così di comprare due pacchetti di sigarette saltando la fila. – Domani

torna al fronte – non la smette di piagnucolare il vecchietto – e volevo solo poterlo abbracciare e salutare con una piccola sorpresa per lui. – Baccello svuotato, adesso invece riabbraccerai le sbarre! – penso chiudendo a chiave la porta della stanza che fungeva da cella – Se ti dice bene, e se questa volta non ti mettono in coda per qualcos’altro. Ma uno spesso non fa in tempo a tirare un sospiro di sollievo, a respirare a pieni polmoni e a guardarsi intorno, che le nubi calano già e si ripresentano i fantasmi di sempre. Ancora lui, il tenebroso Mister Reparto Militare, è in scena, vestito di tutto punto, con tanto di cravatta perfettamente annodata e spilla d’argento che risaltano sulla classica camicia bianca. In quel libro iniziarono a comparire rapidamente una grande varietà di personaggi a dir poco coi controcoglioni: due giovani talenti bulgari accucciati in un angolo, il piacione Ćamil che ancora mi risultava ancora più sospettoso di quella marmaglia rinchiusa giù nella nostra cantina. Tutta gente inutile, intendiamoci, sfigati senza alcun valore, come quell’impaurito che abbiamo rinchiuso perché non seminasse più terrore e panico anche tra gli altri abitanti, ogni volta che per nascondersi serrava il suo negozio prima del tempo. Oppure quel soggetto ora rannicchiato buono buono accanto al mucchio di sigarette confiscate, che si azzardava però a criticare lo Stato, solo perché non c’erano più uniformi disponibili e lui avrebbe dovuto partire per il fronte indossando dei semplici abiti civili – come se ciò potesse essere un valido motivo per sottrarsi alle sue responsabilità di uomo, a cui spetta il sacrosanto dovere di proteggere sempre e comunque la propria terra! Un terzo nullafacente poi, invece di mostrarsi utile al mondo, preferiva anche lui rifugiarsi in bugie assurde e in strampalate scuse, come solo può essere un ostinato mal di schiena che non gli permette di muoversi liberamente, per cui come ipnotizzato, giorno e notte giaceva, sdraiato su una stuoia a terra tra elmetti, maschere antigas, palette e aggeggi vari sepolti nel magazzino. E come se non bastasse, nella pagina successiva mi imbatto in un autentico ebreo… Ah, giusto... – Haim, l’uomo di Smirne! – Come lo sa? L’ha letto anche lei, signora? Ammirabile per una donna, davvero ammirabile! È una persona di buona cultura, di buon gusto nel vestire. Se dovesse servirle qualcosa, non deve far altro che chiedere. Il poterla servire sarebbe per me un vero piacere! Il figliuolo più piccolo, lui sì che si intende di queste cose, e capisce le donne naturalmente! Dispone di tutto quello che è moda: abiti eleganti e firmati… Al momento, sì, è assente, è fin troppo richiesto altrove... Sa com’è – gli impegni non vanno obiettati: bisogna fare quello che c’è da fare. A quanto vedo presentate però una

qualche tendenza nuova mai vista finora! Angeli e leoni! Perizoma e reggicalze! Combinazione avvincente! Lo stile non si discute, sia che tu preferisca lasciarti strangolare da una cravatta o farti togliere il respiro lentamente da un non impegnativo papillon – già, cercando di abbindolare il proprio padre infilandomi simile roba ultra raffinata quel mio furfante in erba qualche gocciolina di padronanza nel settore l’ha trasmessa anche a me… Così si entra nelle istituzioni statali e non come quel negligente individuo di cui mi state facendo parlare ancora. Ci vuole serietà e un po’ di rispetto! Si presenta tutto scombinato, non rasato, unto e appiccicaticcio… Per di più, si appresta a sparare contro lo Stato, che si fotta, imbecille impertinente! Esatto, in questo caso si sottintende, dritto nel mio petto. Lo Stato o la polizia, cosa vuoi che cambi? Dovete ammettere che aprire il fuoco rimane la stessa identica minchiata! Comunque, non sarei uno degno della mia illustre stirpe corrotta, se non avessi predisposto per tempo il terreno, curando ogni minimo particolare prima ancora che il sospetto ospite giornaliero, quello vestito da parata, arrivasse dal Comandante. Tolta la chiave dalla serratura, potevo osservare pressoché indisturbato il loro incontro al vertice, a causa del quale quasi mi schizzano gli occhi fuori dalle orbite quando realizzo la quantità di denaro lì presente. Bigliettoni da cento marchi tedeschi, uno dietro l’altro: nuovi, puliti, non ancora piegati. Una ricchissima esposizione di ritratti della gentile signora Clara Schumann che mi guarda dritto negli occhi, sorridendo ammiccante, mentre viene tirata fuori da una busta bianca come la neve; e accuratamente conteggiata. Il Comandante, fermo come una statua, si limita a tirare sul foglio davanti a sé delle linee rette con la penna, come una qualunque segretaria priva di importanza. Aaah, cosa non mi tocca vedere in questa vita! Vorrebbero far scrollare a me il noce per raccogliere facilmente i suoi frutti! Quando da qualche angolo in cui l’avevo gettato l’ultima volta ripesco quel libraccio tutto disintegrato e sopravvissuto per puro miracolo, rimango sempre più di stucco nel capire i fili segreti che lo legano alla mia famiglia – c’è chi all’interno di quelle pagine è stato ugualmente fottuto da politica e sbirri almeno quanto il mio piccolo. Angosciato ogni giorno, aspettando che esca da quel losco riformatorio poco rassicurante, a stento riesco capire come mai un ragazzo così promettente sia finito dentro un simile fosso: cosa è andato storto? Di fatto, so bene che nessuno al mondo riesce a immedesimarsi veramente in un altro, nei suoi panni e nella sua pelle; né io posso ritrovare la forza per comprendere il sangue del mio sangue, né quell’altro giovanotto del libro si poteva aspettare nulla di più, per quanto avesse come padre un autentico pascià d’altri tempi.

Solo un’idiota è stato, nient’altro. Quel Ćamil, tontolone di mammina sua, avrebbe dovuto intuirlo che gli conveniva tenere la bocca chiusa, perché solo così le mosche non gli si sarebbero entrate. A quel punto, urlando è saltato fuori lui – Čarli, chi altro?! Rosso in volto come un granchio, fradicio di sudore peggio di un maiale e con una vena forcuta che gli pulsava irritata in mezzo alla fronte, continuava con la sua fastidiosa voce a rimbombare per tutto l’edificio, dal piano terra al sottotetto. Un fottutissimo pazzo al cento per cento! Non so cosa dirvi; improvvisamente ci siamo ritrovati nella confusione più totale, fintanto che uno dei colleghi non cercò di scappare disperato, sbagliando a momenti persino la porta d’ingresso, il nostro Comandante pazientemente tentava di spiegare qualcosa fuori dalla portata di comprensione di quel selvatico. Sentivo dire qualcosa come “gazzetta ufficiale”, “foglio”, “interpretazione delle norme giuridiche”, “fratello”, “fronte”… una pura merdata, cugini, di quelle che non si possono sopportare per più di mezzo minuto. Ma il tizio non ne voleva sapere di mollare, e dopo una carrellata di insulti era arrivato a dire che bisognava cagarci per bene sopra il diploma del nostro Superiore. – Come, prego? – stentava a capirci il principale – Non sarà di certo lei a insegnarmi la legge! – Non provare nemmeno a nominarmi la legge, canaglia – smaniava, ormai completamente indemoniato – Da quale cazzo di buco vi tirano fuori così incompetenti che non vedete l’ora proprio di farvi inculare la madre? Sì, come ho già detto prima, i miei uomini mi avevano impedito di saltargli addosso per dargli quello che si meritava, e alla fine mi avevano lasciato andare. Solo il giurista capo non la smetteva più. Devo ammetterlo che la mia piccola scenata era ben costruita e funzionante. Infatti, in seguito a essa, la concentrazione di tutti i presenti aveva subìto un brusco calo, permettendomi di svignarmela in punta di piedi per entrare qualche istante nell’ufficio da solo, il tempo sufficiente a tirare fuori quelle mazzette di soldi che con impazienza attendevano di essere scambiate con dei ritagli di giornale precedentemente preparati della misura e del volume giusto. Le infilo nei pantaloni, fino a sentire il piacere del loro tocco sulle palline dure, entusiasmate. Chiudo quindi tutto con molta cura, e lecco i bordi. Della busta lasciata sul tavolo, naturalmente, non dei coglioni… Per giorni interi osavo appena annusare l’odore delle banconote – uno dei migliori afrodisiaci naturali al mondo – abilmente nascoste in un lampo nell’appartamento di fronte, così da essere subito di ritorno per sentire la svolta di quell’inutile discussione, prima che qualcuno si accorgesse della mia breve assenza.

Inutile dire che esiste a questo mondo qualcosa come un happy end, perché nessuno l’ha vista mai, e chi dice il contrario mente. Spudoratamente. Prendete ad esempio il mio piccino; non aveva fatto in tempo a uscire dalla gabbia e riprendersi la vita nelle proprie mani, quando l’avevano di nuovo incastrato per qualche sciocchezza, involontariamente raccontata ai compagni di cella. Certo, non c’è niente di male se uno ogni tanto si vanta delle proprie imprese con gli altri, e posso capire benissimo quell’innato bisogno di sentirsi almeno un po’ apprezzati; il tutto senza, però, diventare ingenui, come ha fatto lui, lasciandosi are da capro espiatorio per i loro stessi peccati. Direttamente dal carcere lo portavano ai colloqui, agli interrogatori, ai confronti e infine in giudizio per infilarglielo bene di colpo tutti quanti fino all’elsa, Pubblico Ministero, giudice e testimoni compresi… Tale e quale allo svolgimento dei fatti di quella storia del libro, quasi ci avessero spiato con troppi anni di anticipo. Leggo e non riesco a meravigliarmi abbastanza, torno indietro e ripeto la stessa pagina per verificare di non essermi sbagliato. Nient’affatto. Al povero Sultano Cem la madre gliel’hanno ugualmente fottuta, e tutti in fila poi: prima il suo beneamato fratello, poi ci si sono messi in mezzo i cavalieri di Malta, per dare infine un suo inequivocabile contributo nel fare a brandelli il suo certificato di nascita anche il Papa in persona. Come se non bastasse avere a che fare con un idiota solo nemmeno l’accusato si toglieva di bocca il nome del sultano. E Sultano Cem questo e Sultano Cem quell’altro… – Stattene un po’ zitto! – mi è venuto da strillargli a un certo punto – Che cazzo te ne frega cosa fanno gli altri! Bada bene al tuo culo, cretino! Bada bene, il semplice fatto che il nostro Comandante per tutto il giorno prendesse a calci le sedie, i muri e tutto quello che gli capitasse a tiro di per sé non significava ancora niente. Che si infuriasse come un cavallo selvaggio fino al mattino successivo, tutto sommato anche questo ci poteva stare. Quando però aveva aggiunse sulla lista i nomi precedentemente “cancellati”, allora sì che le cose si fecero più interessanti del previsto. E pure in fretta. Da quel momento il telefono praticamente non aveva più smesso di squillare. Un continuo estenuante susseguirsi di minacce di morte e ricatti senza la minima tregua, pronunciate con un tono di voce così basso da sembrare che uscissero direttamente dall’ano – la moooglieeettina tua caraaa te la fooottiamo, a bastooonateee ti uccidiaaamo come un caaaneee – o l’ordine d’arrivo di questi messaggi era inverso? Boh, chi se lo ricorda più! Non fa niente in ogni caso, presto ci si fa l’abitudine a tutto, proprio come gli imbianchini ormai non sanno

cosa sia una corrente d’aria né che può far loro del male… Tutto ciò durò fino a un certo punto, però, perché quando, come un presagio di malaugurio, era piombato da noi quell’omaccione baffuto, con la fronte corrugata dalla rabbia e completamente nero in faccia, a sussurrare qualcosa all’orecchio del nostro Superiore – visibilmente terrorizzato al punto da farlo sbiancare di colpo – tutto divenne dolorosamente chiaro. Lo sapevo che quel cornuto artiodattilo con tanto di tridente e di coda era venuto a riprendersi quel che gli apparteneva e il tempo per scherzare era ampiamente scaduto… Figli. Nei suoi occhi si leggeva che erano arrivati a tanto. Intimidirlo con quei bambini, inestimabile abbellimento di questo altrimenti triste e grigio mondo, eh già. Anche le mie pupille si erano ristrette allo stesso modo quando ero venuto a sapere che il mio piccino avrebbe visto altri dieci natali lì dentro a spese dello Stato. Che cosa succede, signori? Non ditemi che ho detto qualcosa di poco opportuno o imbarazzante! C’è poco da mettersi in ginocchio e pregare! Ecco, se vi fa sentire meglio lo faccio anch’io un segno della croce per la salvezza dell’anima sua, e che Dio lo aiuti! Per un attimo vi siete lasciati andare, ma direi che adesso però può bastare. Gli voglio bene con tutto il cuore, e comunque non mi metto a piagnucolare così tanto. In verità, in verità vi dico: prima che mio figlio fosse io sono. Vi dico solo che ho avuto l’occasione di vedere anche il Capitano singhiozzare come una fregnetta, mentre di tasca sua tirava fuori dei marchi sudaticci e arrotolati per ingraziarsi la benevolenza di quel soggetto, supplicandolo di non estirpargli la prole… Una fottuta faccenda, cugini adorati, e molto più grande di noi; una di quelle che ti stendono senza troppi indugi, fottutissima… E fottutissimo anch’io, insieme a quel libro che ancora riprendevo in mano. Quando proprio non ce la faccio più e mi saltano i nervi nell’accesso di rabbia lo sbatto da un muro all’altro per andarlo a raccogliere subito il momento dopo da qualche angolo, trascinandomi dietro i piedi e a testa bassa. – Per questo genere di riporto meglio avvalersi di un pointer tedesco – iniziarono a scassarmi a turno gli ignoranti cafoni dei colleghi, dai quali di certo non potevo aspettarmi che capissero chissà che cosa – che è fortemente determinato a svolgere bene questo lavoro... Non sempre occorre fare tutto da soli! Ed è qui che si sbagliavano, a mio avviso; non sapevano nulla infatti del “com’è dover andare via”, o cosa sia un interrogatorio quando i poliziotti fanno sul serio. La morte circolava sufficientemente lontano da loro perché ancora potessero essere indifferenti. – Gettalo ancora, dai, non essere tirchio proprio ora, – non conoscevano la giusta misura né la necessità di farla finita – che ci è finita la carta igienica, e anche la grappa inizia a mancare, per non parlare poi delle ultime due scatole di sigarette sequestrate. Lo sai pure tu che il negozio è lontano, è uno spreco di tempo

arrivarci... Molto saggiamente continuo a tacere e non reagisco minimamente alle loro provocazioni, ma solo perché non mi toccano affatto; in fondo, il drugstore di cui parlano non è distante quanto la città di Acri o la Bosnia se sei sulla via di ritorno da Costantinopoli, basta uscire fuori la sera per un piccolo giro di ricognizione e con una pretesa qualsiasi arrestare il primo mercante che a. Assolutamente, è una soluzione certa e sempre a portata di mano… D’altra parte, siccome quasi tutto quello che possiedo mi è stato regalato dal demonio in persona, sarei proprio uno sciocco a permettergli di manifestarsi adesso d’un tratto di fianco a me con l’idea cambiata. Così, giusto per una maggiore sicurezza, appena parcheggio la mia Opel nuova, immediatamente inserisco l’allarme e metto l’asta per bloccare il volante, controllo tutto e presto cura a ogni singolo dettaglio, esco dunque adagio e sto bene attento a dove poggio i piedi. Non si sa mai, niente va lasciato al caso… Ma non fraintendetemi, non intendo lamentarmi, dopotutto con le nostre solite piccole cattiverie quotidiane, ancora non possiamo considerarci dei veri diavoli. Per avvicinarmi a voi, ecco, lo faccio volentieri un’altra volta pure io; uno più uno meno i segni della croce difficilmente causano effetti collaterali, anzi quasi sono diventati di moda… La mia famiglia, dite? Tutto bene, grazie, mai stati meglio; i figli crescono in fretta, il più grande non lo vedi facilmente in casa – è un giovane pieno di ione e di interessi e si dà da fare più che può – e l’altro ragazzino al momento è tenuto al sicuro. Certo, dentro, dove altrimenti? Mia moglie, come tutte le donne, non è una che si rassegna facilmente, e ci tiene a rinfacciarti il rancore represso e i torti subiti come minimo qualche centinaia di volte al giorno. Per il resto, galleggio dignitosamente, scrocco una straordinaria pensione di guerra consistente al punto tale da farmi campare senza troppe difficoltà e ansie… Posso offrirvi un altro bicchierino? Con l’augurio di riavervi presto miei ospiti… Ci bastano la salute, la lunga vita e la prosperità!

[1] La prima parte del titolo vuole alludere a un breve romanzo di Ivo Andrić, Prokleta Avlija, tradotto in Italia nel 1966 come Il cortile maledetto, e nuovamente nel 1992, con il titolo La corte del diavolo. Si narra di una prigione di Istanbul sotto l'Impero Ottomano in cui sono rinchiusi esemplari di ogni tipo umano, innocenti compresi, perché “la polizia di Costantinopoli si attiene al sacro principio che è più facile rilasciare un innocente dalla Corte del diavolo che non ricercare un colpevole nei meandri di Costantinopoli”. [N.d.T.]

[2] Perperuna è una delle figure della mitologia slava, consorte del dio di fulmine Perun, il cui culto è legato alla pioggia e alla fertilità del suolo. Talvolta è anche il nome usato per denominare i partecipanti alle cerimonie di propiziazione della pioggia che nel folclore degli Slavi del Sud sono detti anche dodola, dudula...

La fattoria degli animali e altri più o meno addomesticabili esemplari

Ah sì, certo, come no, tutti uguali siete! Il grande boss di questa fottuta gattabuia, dall’alto della sua scrivania, vi avrà pure concesso un’intera ora di colloquio con me, come se una volta trovandosi al mio cospetto, un misero pezzetto di carta potesse bastare per non farvi cagare sotto dalla paura. Adesso ditemi la verità, però: anche voi avreste preferito che le guardie non mi togliessero le manette prima di lasciarmi nella stanza con voi, giusto? Vi sareste sentiti più a vostro agio, ditelo! Voglio sentire la voce tremarvi nella gola mentre lo pronunciate, vedere il terrore che vi congela il sangue nelle vene e vi immobilizza sul posto per quanto vorreste scappare il più lontano possibile, intesi? Un’intervista col vampiro magari si sarebbe dimostrata impresa più semplice, ma adesso siamo qui ed è questo che avete voluto. Chi è causa del suo mal pianga se stesso; dunque sparate pure, ma sappiate che non intendo facilitarvi le cose. Senza conflitti dite? Nooo, non sarebbe umano. Il concentrato della paura voglio che schizzi fuori da tutti i pori! Quando mai si è riusciti a ottenere qualche cosa da qualcuno senza fatica? Per chi mi avete preso? Chi vi ha mai fatto credere che io possa diventare un vostro interlocutore? Che fuori piova o c’è il sole, sempre alla stessa ora e secondo le regole prestabilite ci aprono il cancello che porta nel cortile interno per un illusorio momento di libertà sognata, in cui con altri luridi lancia-scoregge se ti va bene, puoi fruire della eggiata fino al muro e in fila indiana, per poi voltarsi e ricominciare, attenendosi scrupolosamente alla regola del silenzio, che deve accompagnare i nostri “gioiosi” i. E sempre alla stessa ora mi rispediscono a nanna dietro una porta in ferro da almeno cento chili, per assicurarsi che contenga l’eventuale sfogo di rabbia. Il rischio di linciaggio è alto da queste parti, dove i miei simili non hanno niente da perdere, né importa loro qualcosa. Lo sanno anche quei ciarlatani in divisa, mentre dalla feritoia ci spingono degli avanzi da qualche cazzone che intasca i fondi penitenziari sfacciatamente ancora chiamati cibo. Dopo un’ora esatta i loro occhi scrutatori ci fissano attraverso lo spioncino per assicurarsi che non ci siamo tagliati la gola l’un l’altro con dei cucchiai smussati lasciatici in dotazione. Come se al sistema importasse qualcosa della nostra salute! Anche al cesso vado quando e come lo decidono loro; entro ed esco dalla

doccia di scatto all’acuto segnale di una sirena, senza mai scrollarmi il respiro di qualche guardia dietro il collo; salgo e scendo gli scalini al comando “uomini su” oppure “uomini giù” varie volte al giorno. E voi mi volete convincere ora che siete una tranquilla delegazione, con cui senza timore posso confidarmi e rilassarmi un’oretta in amichevoli chiacchiere, come se li avessi mai avuti, degli amici! A questo punto, se volete parlare conversiamo pure; sappiate però che sarà anche l’ultima cosa che avrete fatto, se mai si dovesse venire a sapere in giro! Ve lo giuro sull’onore del mio defunto padre. Non mi interessa affatto chi siete né chi vi protegge, per farvi andare liberamente in giro conciati come due barboni sporchi e stracciati con alate scemenze lavorate all’uncinetto sulla tunica; dev’essere potente assai, ma mai abbastanza, se solo doveste provare a incularmi! Accomodatevi pure, del travolgente calore fraterno nessuno cerca di privarvi; se non so io cos’è l’amore, allora non so proprio chi altro potrebbe capirvi… Non vi siete mai dolcemente accarezzati di nascosto? D’accordo, per ora vi credo sulla parola; basta che poi non ve la rimangiate. I bugiardi vanno fottuti sul nascere, e questo, ve lo prometto solennemente, non erà indolore. Va detto, d’altro canto, che mi turba parecchio la silenziosa presenza di una signorina in vostra compagnia, perché dove ci sono le femmine nemmeno le calze possono mancarci, motivo più che valido per temporeggiare sulla vostra altrimenti poco allettante proposta di conversazione… Siete sicuri che v’interessi proprio lui? Dico quello lì che sembra essersi ammattito di brutto, giù a Mogila? Contenti voi. Ma il fatto è che io non me lo ricordo un granché! Vediamo, però, di trovare un rimedio pratico ed efficace. Ecco, se ora ad esempio, la vostra gentilissima collega potesse venire incontro alle mie esigenze più intime sbottonandosi quell’ultimo scoppiante bottoncino della sua elegante camicetta, credo che l’amnesia sarebbe spazzata via con un colpo di bacchetta magica! Che ne dite, si può fare? Ma sììì che si può, l’importante è accontentarci a vicenda, se ho capito bene! Nooo? Va benissimo, sarà come desidera lei. Ci vediamo alla prossima allora! Non sono mai stato un tipo insistente, ma non dica poi che non ero pronto a collaborare! Chiamate pure le guardie, il nostro colloquio finisce qui. Ci ha ripensato? Forse abbiamo iniziato con il piede sbagliato, scusatemi, mia colpa, mia grandissima colpa! Ricominciamo da capo, se vi va, ma con due bottoncini questa volta; certo, a ogni giro la posta è sempre più alta! Auhhh sorella… Che morbida abbondanza… A piccole mosse ti prego… Non portarmi subito al culmine, voglio che duri… Dosa i movimenti… Certo, sarebbe stupendo se ci fosse qui con noi anche qualche buonanima di amichetta tua per controbilanciare il flusso delle impressioni, sai, una un po’ timida e cionostante vogliosa di assaporare

tutto quello che normalmente piace alle giovani! Non c’è? Peccato. Ma anche così, credimi, non è per niente male. Se mi vedessero ora gli altri non sai che invidia, tutto il padiglione stanotte si farebbe una sega solo allo struggente ricordo della tua immagine! A cosa serve in realtà l’intervento di una gnocca, se anche da solo sai come meglio farti schiaffeggiare lo scimmione? Per di più, da quando ci ha abbandonato per sempre la nostra povera spompina cat, crepata consumandosi da troppa richiesta, tutti si sono affidati alla mano propria. Ciò che è certo è certo! Nooo, non si tratta qui di cosa fare per sfinirlo come si deve, ma di chi si adopera per gli altri e in che modo! Insomma, un affarone senza eguali è avere un po’ di grana per investire in un gattino, sì, proprio quello, un dolcissimo cucciolo come sanno esserlo tutte le creature mentre sono ancora piccole e non si guastano crescendo: affettuoso, pelosetto, in cerca d’amore eterno. Con diciamo cinquanta euro circa buttate lì davanti al guardiano, si riesce a farlo portare dentro abbastanza semplicemente. I soldi, si sa, fanno venire la vista ai ciechi e all’occorrenza la annebbiano, anche in modo che un certo movimento sospetto sotto il pigiama a righe diventi del tutto irrilevante. Una volta arrivati a questo punto, ti servono almeno altri cinquanta euro da gettare dalla finestra della cella affinché il turno di guardia notturno venga colpito da ipoacusia improvvisa mentre al tuo nuovo amichetto, tenuto stretto alla gola da ben tre uomini, pazientemente non riesci a staccare tutti i dentini uno a uno. Più strilla come un dannato e più dovrai sborsare, com’è ovvio che sia. Appena ci riescono ne abusano tutti e a ogni suo disperato urlo il prezzo del loro silenzio sale vertiginosamente, bastardi! Poi non ti resta altro da fare che rilassarti finalmente, senza dimenticare di spalmarci ogni giorno sopra al tuo uccello un qualcosa di unto, strofinarci un tocchetto di pancetta oppure are una ditata di paté, una qualsiasi cosa commestibile, insomma. Così, fin da subito, la alleni correttamente, e quando si fa più grande, e questo credetemi succede davvero in fretta, affitti la tua gattina a tempo pieno, aggiudicandoti assieme sia la popolarità che la stima assicurata! I detenuti pagano per essa qualunque prezzo ti decidi a chiedere, senza fiatare. Già, sono in molti a credere che il cane sia il miglior amico dell’uomo e non sanno quanto si sbagliano: se cerchi una mano che ti aiuti nel momento del bisogno la trovi solo in un gatto! Ma quale disgusto! È un puro piacere per i sensi, provare per credere, signorina! Sarebbe ora di cominciare a raccontare cose serie, sono d’accordo; con le dovute eccezioni ragazzi, però, che troppa serietà uccide… Vediamo, dunque, come spiegarvi in meno parole possibili che partire per il Kosovo era la soluzione migliore per me, dato che da tutte le altre parti dove mi cercavano me la sarei ata peggio. Ero arrivato a un punto in cui non sapevo più da chi stavo

fuggendo. Da un lato mi rincorrevano per un vecchissimo debito degenerato in enormi interessi impossibili da risanare, e dall’altro un gruppetto di folli cercava di convincermi che evitare la testimonianza per lo stupro in un delicato caso giudiziario avrebbe giovato alla mia salute. Già la polizia militare mi avrebbe con gioia ficcato dentro a lungo, ma anche con l’altra semplice nasceva una sana competizione per ospitarmi invece nella loro gabbia. Truffe, estorsioni, piccoli furti o furti con scasso, rapine vere e proprie, tutto questo e altro ancora, colpi di vario tipo, una molteplicità di tecniche usate per ogni esigenza e gusto: questi, perlopiù, i peccati commessi nella gioventù, con l’aggiunta di qualche altra piccola sciocchezza. Maggiormente solo banali chiacchiere trite e ritrite, non preoccupatevi, scoprirete ogni cosa e a vostre spese, datemi solo il tempo di arrivarci, tutto qui. Così, come vi ho appena illustrato, scegliendo di andare in guerra molto astutamente avevo optato per il male minore. Era però più facile a dirsi che a farsi, roba da non credere, alla selezione reclute ho sudato sette camice per farmi arruolare! – Con chi parlo, datevi una mossa per la miseria, qui il tempo stringe… mentre la nostra povera patria sanguina mi lasciate in panchina a guardare i compagni giocare… se in un momento così critico avete chiamato tutti tranne me, avrete pure per la testa qualche motivo che sinceramente non capisco e non conosco… Non sono una nonnina da dedicarmi al diritto e rovescio a maglia, suppongo. – Ti abbiamo cercato, altroché – mi risponde uno baffuto, mentre si allenta una cravatta unta e pronto ad addentare avidamente il suo burek caldo tenuto nell’altra mano; forse innervosito e irritato dalla mia presenza in un momento così cruciale, maldestramente apre con l’unghia del mignolo il vasetto dello yogurt, rovesciandone una parte sul tavolo – anche la polizia avevamo mandato per prenderti, peccato che non ti abbiano beccato! – Ma come, dov’è che l’avete mandata? – Aaaaa-ah ca-caaaasa tututu-aaahh – risponde, rigirando nella cavità della bocca un boccone ancora troppo caldo. – Ma quale casa, sono un rispettabile uomo d’affari, sempre in viaggio – protesto prontamente – ma anche un patriota, non dimentichiamocelo. Pronto a mettersi al servizio del mio Governo e ad affrontare qualsiasi sfida per il bene della Nazione, sono pronto a partire all’istante, non abbiamo più un minuto da perdere! - Sssì-sì ccc’è un cca-aaa-mi-ooooonnnn che parte aal-llle dueeee rimbomba da quel contenitore per la broda bollente, mentre una luccicante zanna d’oro al suo interno cerca di sminuzzare qualche pezzetto di formaggio ancora ardente. – Come la mettiamo con la diaria? – glielo chiedo, giusto per lasciare l’impressione di essere una persona seria, responsabile e ben informata. – Il diritto alla diaria – tra un sorso e l’altro di quello yogurt cremoso rimasto

intrappolato come la brina mattutina sulle sue setole ricche di fascino alla Clarkgebol (sì, lo so anch’io d’aver fatto un incrocio tra due personaggi assolutamente diversi), si decide a non sprecare con me nemmeno un secondo in più – certo, al fronte, te lo spiegheranno meglio loro – Bene e che sia ben chiaro che pretendo d’esser arruolato tra i primi quando scoppia una prossima guerra! Che cazzo ci faccio qui? È una domanda, fratelli, destinata a rimanere senza una risposta sensata! Credetemi! Me lo chiedo spesso e chissà, capiterà forse anche a voi di domandarvelo. Essere ideatore di insuperabili furti lungo tutta l’amata Germania e la Svizzera, per rimanere ora così scornato e senza un soldo in tasca è imperdonabile! Beh, cari miei, questa per me è stata, come si suol dire, una gran brutta sorpresa che mi mise di pressoché perenne malumore, dal cui oscuro fondo possono sollevarmi solo le due latterie della vostra amichetta. Adagio, poggiale sul tavolo davanti a me… Ah nonna, nonnina perché ce le hai così grandi… Come non detto, ecco. Faccio il serio ora; prego, prendete pure i vostri appunti, ma non affannatevi a scrivere ogni parola, state attenti, evitate di valutare e pesare la mia coscienza, a ogni goccia d’inchiostro inevitabilmente sfugge qualcosa; è l’insieme che conta, bisognerebbe conoscere com’è aspirare nei polmoni l’aria fresca, che come il miele selvatico sa di libertà per apprendere per sempre che il sangue solo di sangue odora. Non potete certo ricordarvi quei bei tempi eroici quando andavano di moda le vere pellicce; corte, lunghe, a tre quarti, a doppio petto, smanicate o no, di volpe, di castoro, di ermellino… Ah, che raffinatezza! A un certo punto però, proprio a causa di noi jugoslavi, decisero di adottare delle durissime leggi anti furto, cominciando a innalzarle su alte aste, posizionate poco sotto il soffitto, laddove per arrivarci come minimo avresti dovuto essere un pipistrello pronto a raggiungere le stelle. Troppo in alto, fanculo! Beh, come se questo non bastasse, i nostri carissimi connazionali, cui all’estero facevamo affidamento con tutto il cuore, portarono definitivamente alla rovina con le loro acide lagnanze ogni futuro immaginabile rapporto sociale o lavorativo. Adesso che sottobanco a costo zero non si poteva procurare più nemmeno un adorabile visoncino da spalla – che sul mercato sarebbe subito stato facilmente smerciato – persino la nostra stessa presenza nelle loro case veniva messa in discussione. Divenimmo da un giorno all’altro un ingiustificabile spreco; di conseguenza, degenerammo in un sentimento di reciproca sfiducia che prima o poi, com’è normale che fosse, alimentò lo scontento collettivo e i litigi continui. Le minacce si fecero sempre più pesanti, le parolacce ovviamente non le contava più nessuno, si spifferava a tutto spiano e mancava solo che qualcheduno si accoltellasse quando provvidenzialmente intervenimmo noi due, io e quell’albanese Idrizi, che lavorava in coppia sempre e solo con me. Così, nel

bel mezzo della crisi più assoluta, il nostro metodo si era dimostrato tra i più affidabili, nonché l’unico rimedio funzionante per tirare avanti e far contenti tutti. Di buon’ora nella notte entriamo in un negozio di pesca sportiva, ben fornito e mal protetto, senza alcun impianto d’allarme, così che aprirlo diventa un gioco da ragazzi. Scegliamo robuste canne telescopiche inglesi a minimo ingombro, con impugnatura in sughero naturale e fusto in carbonio ad altissimo allungamento, opportunamente rinforzate per sopportare una pressione e un peso maggiori, come nel caso della nostra successiva pesca nelle dolci acque del reparto pellicceria. Ci accontentiamo di una piccola modifica finale– saldiamo in cima giusto un paio di solidi ganci più consoni e appropriati all’uso che ne dovevamo fare – e via, tutta quella peluria di svariati animaletti domestici disposta in lunghe interminabili file era lì in attesa di essere abbassata e portata via da noi! Le dita ritrovavano finalmente il gusto di fare con piacere il loro mestiere; in genere, mettevo giù un carico dietro l’altro, mentre l’albanese infilava tutto in grossi sacchi, aiutandosi con il piede però, razza di scimunito! – Ehi! Vedi di cambiare un po’ la procedura, nano di un camaleonte: è puro visone quello che ti a per le mani! A chi intendi rifilare una pelliccia con l’impronta del tuo stivale ricamata sul petto? – Meno filosofia, più lavoro – mi risponde sudato, e come se niente fosse continua a riempire girato dall’altra parte. E così per un anno intero, all’incirca. Macchinone personalizzato e full optional – sedili in pelle, regolazione elettrica, riscaldamento, climatizzatore – e appartamento con rifiniture di lusso – tranquillo, ben arredato, parquet posizionato in ogni stanza, un guardaroba perfetto per tutte le occasioni – dolcevita&gabbana… Sul più bello, però, un’improvvisa frenata obbligatoria. Qualcuno ha saputo come abbindolarci bene e ha sfruttato la sua occasione. Chi sarà stato mai? Non si sa, come se fosse importante sapere questo genere di cose… Qualcuno deve pur averlo fatto, poteva esser stato chiunque, ma tanto non cambiava nulla: quando giunge l’ora di doverti salvare il culo a discapito di qualcun altro, diventano bravi tutti a fare il lavoro sporco dello spione! Fanculo anche al clacson del camion! I mezzi di trasporto tardano sempre, e questo mi si presenta puntuale! Non faccio in tempo a tirarmi su i pantaloni quando lo vedo parcheggiarsi di già nel cortile del Comando di fronte. Come sarebbe perché? Perché cosa? Dopo l’incontro con quello stranissimo tipo baffuto è ovvio, direi, aver bisogno di liberare un proiettile dalla cartuccia, per quanto magari fosse solo una questione di svuotarsi rapidamente con la prima rospa che ti capitava. Stai pure tranquillo che sfigato una volta, sfigato per sempre! Per combinazione, la trovo tutta imbandierata con la zia marchesa che a per la sua solita visita mensile. Però come sa ciucciarlo divinamente non ci

riesce nessuno! Ma quale zia? Che c’entra la povera zia? Lei in persona, cara ragazza mia. Per arrivare a una conclusione così stupida, ti meriti di pagare un’espiazione, anche sotto forma di un altro bottoncino aperto. Sarà un dono gradito, credimi! Se solo sapessi quanto pesante può essere la reclusione… non tanto la prigione in sé quanto la presenza di altri carcerati… quanto soffro qui dentro... ti prenderesti cura di me senza esitazioni, lo so… cooosì è buooono, sei un angelo, uuff! Grossi seni benedetti, capaci di tramutare la tristezza in gioia... sarete voi la salvezza dell’uomo, delle anime, del mondo! E tu? Esatto, fratello, dico a te che nascondi lo sguardo; mi capisci, vero? Vedi, non me ne importa niente se te la si con lei oppure se cedi al tuo Capo il piacere di farsela! Ammettilo, invece, che non c’è nulla di sbagliato se ora mi accarezzo il pitone, e mentre parlo lo tengo un pochetto in mano guardandola, dopotutto anche tu sei solo un uomo, giusto? Salto sul camion, da dietro. Mi ritrovo accanto un saccone di caffè e una scatola di cartone piena di medicinali. Una capoccia sotto l’elmo tiene il fucile con lo sguardo perso nel vuoto. Rasata a zero. – Caramba y carambita señor Cico, non sarà mica che tutto questo drugstore appartiene solo a lei? – Hai sbagliato persona, è con Zagor che stai parlando, e la roba che vedi è destinata alla foresta degli agguati, pertanto cerca di starle lontano – mi ringhia contro il ciccione senza degnarmi neppure di uno sguardo, fluttuante ancora da qualche parte in lontananza. Una volta messe in chiaro da subito le cose, devo dire che era uno so viaggiare con lui, un tipo veramente in gamba fino a quel momento lì – dai che tanto lo sapete benissimo cosa intendo dire, fino ai fatti di quel giorno da cui non ha mai smesso di sentirsi dentro uno sputo – . Nel camion, invece, del mattatore fece il suo bersaglio, tirandolo in agguato e giocando a tira e molla con un tocco di micidiale ironia. L’altro ogni tanto invano provava ad aprir bocca in sua difesa, ma la richiudeva velocemente percependo che non gli restava altro da fare che sopportare, sopportare e sopportare a lungo ancora. Se lo sarà pure meritato in qualche modo, dico io, di essere trattato in quel modo, come un morto vivente, sepolto da una gigantesca frana di mille domande beffarde che quasi non permettevano più all’aria di diffondersi nei polmoni. – Che ne dice, vice, ci permette di cantare una barcarola? Perché no? Almeno diamo il ritmo giusto all’affondamento! Se tu puoi scoreggiare per notti, intere lascia che si senta anche la nostra voce interiore, è per quella che siamo sopravvissuti e non di certo grazie alle tue analisi anali… ehi tu! Si tu! Dico proprio a te, pronome impersonale. Lo sai che i profittatori di guerra vengono giustiziati senza processo? Un veloce zaakkeete e tutto è finito, non devi pensare più a niente! Quale paura, non c’è tempo per averla! Nemmeno per preoccuparsi di cosa verrà

riferito ai tuoi cari; nel telegramma spendono qualche parola buona per ogni canaglia. Indubbiamente, suona meglio che la vita sia stata perduta con “nobile gloria, in difesa dei confini della madrepatria”, dando contemporaneamente al mondo un’inaudita prova di valore, piuttosto che essere liquidati con due striminzite righe ufficiali in cui si legge nero su bianco tutta la verità, nuda e cruda, di come la tua inutile pellaccia l’hai lasciata spiaccicata sulla carrozzeria, paraurti e fari anteriori di qualche furgoncino penitenziario… Deputy, vuoi che ti appuntiamo tutte le fesserie sparate per facilitarti il compito di riferirle fedelmente? Gli analfabeti vanno aiutati a fottere il prossimo e a vivere felici nella loro miopia… Cominciai involontariamente ad ammirarlo, il ciccione dico, e con l’aggiunta di qualche battuta qua e là manifestargli il mio sincero appoggio e solidarietà. In allegria il tempo a in fretta, l’oscurità avanza indisturbata, sembra meno pesante il sobbalzare a ogni buca presa. E così fino a Bujanovac. L’ultima volta che mi sono zabaionato alla stessa maniera, era stata in occasione del aggio gentilmente offertomi dalla polizia svizzera. Sulla statale a tutta velocità, in direzione aeroporto: deportazione immediata. Quella volta però, insieme a Idrizi, il mio fedele compagno di sventura, con i polsi stretti in manette identiche alle mie. Dopo averli presi a cuore, puliti e tenuti con estrema attenzione e cura siamo stati costretti ad abbandonare i nostri orfanelli a loro stessi all’interno di un immenso deposito giudiziario, dove, reimmatricolati, sarebbero stati consegnati a qualche nuovo proprietario, chissà, forse non altrettanto premuroso. In ogni caso, Audi addio forever! Nella tua forma unica e irripetibile, pura, inequivocabile, sportiva! Solo a ripensarci mi sento ancora male! La metà dei nostri soldi se n’è andata per la cauzione e il resto abbiamo dovuto sparpagliarlo in parcelle di avvocati vari. Devo ringraziare Dio, senza cui non so cosa avrei fatto, per avermi reso l’uomo che sono. Lungimirante e previdente! Sempre all’altezza di ogni situazione! Perciò, avendo in patria già da tempo ben nascosto una discreta somma di denaro, alla disperata necessità essa sì che si è rivelata una vera salvezza… Altrimenti mi sarei ritrovato completamente abbattuto e senza un soldo in tasca. È molto più facile trovarsi spaesati nella città natale che in qualunque altro posto sulla terra. Quasi sarebbe stato meglio non tornare affatto… le cose nuove che mi attendevano a ogni o sono indicibili, semplicemente indicibili! Sbarbatelli che solo ieri mandavo a prendermi delle sigarette, oggi girano con enormi jeep dai vetri oscurati e spesse collane d’oro. Basta una raffica di vento e il cambio generazionale è fatto, profondo, radicale. Incorreggibile! Tutto viene messo sottosopra, e così rimane per chissà quanto altro tempo. Ti adatti o muori, sparisci, insomma, come succede a tutte le cose superflue. Se ora incontri le adolescenti del quartiere,

quelle stesse che conoscevi mentre da piccole ancora giocavano con le loro bambole, ti mettono paura per come sono conciate. Sembrano tutte uguali, con tacchi alti e gonne cortissime, rossetti sgargianti e trucchi esagerati da cantanti folk ate di moda, pronte al raduno di protesta lungo la tangenziale. Quelli della mia generazione si sono tutti ritirati come miserabili fichette, si girano i pollici in attesa di elemosina e nient’altro. Più mi guardo intorno e più sono convinto che non voglio diventare come loro; dopotutto non sono nato ieri per mollare facilmente la presa. Provo a lavorare da solo, allora, almeno inizialmente, eccome se ci provo! Immediatamente subisco una tonnellata di minacce da tutte le parti. Mi avvertono di non fare questo, ma in realtà di non immischiarmi nemmeno in quell’altro. Il gioco è già stato fatto e in ogni settore si sa bene chi comanda. Di una cosa si occupano i poliziotti, quello e quell’altro traffico ancora lo gestisce la polizia militare. Da quando la criminalità è diventata l’affare più redditizio dello Stato, i malviventi del mio calibro non sono più all’altezza di tale ruolo. Maledetti! Riesco a malapena a procurarmi qualche lavoretto pericoloso e malpagato, attento come sono a non pestare i piedi a nessuno. Ebbene sì; mi arrangio e accetto quello che il momento ha da offrire. Domani invece si vedrà… Contenti ora? Lo siete sicuramente! Al vostro posto io lo sarei. Dico sul serio; sinceramente desidero vedere accavallate le tue gambe, figliuola bella… Ti vergogni, per caso? Ma non diciamo scemenze! Se ti senti a disagio, tieni pure la bocca chiusa, ma allarga ’ste gambe! a leggermente l’una sopra l’altra, strusciando… eccooo, esaaattaaamente così, lo vedi che sei un’artista nata? Ci vuole poco per esserlo, non complichiamoci la vita dove non serve, dico io, altrimenti che cazzo sei venuta a far visita a un carcerato in minigonna? Rendiamoci felici. Almeno ammettilo, che questo è ciò che cerchi anche tu! Cooosìii… ufff… nemmeno te l’immagini con quanto piacere ti abbasserei sulla panchina, leggermente curva in avanti e con una mano posata sul ventre, rapidamente. E voi due cenerentole non dovreste stupirvi affatto, qualche trofeo l’avrete pur attaccato anche sulla vostra triste anatra, che non ci è stata data solo per lasciarla penzolare tra le gambe! Un uccello è dotato di ragione propria e selvaggia; ve lo metto in bocca in un attimo! Se ho potuto farlo, senza temere il contagio, ficcandolo persino nel culo del tipo bucato che ci ha spiati per ricevere un po’ di roba, non mi tirerò indietro certo con voi! Ogni cosa a suo tempo, non preoccupatevi! Sono così sincero che più sincero di così si muore; il primo pezzo di nylon a portata di mano e tiri dritto… Certo che si trova, tutto si trova quando si vuole, basta guardarsi bene attorno; in mancanza di meglio anche un brandello

del bustone del concime artificiale si presta all’uso. Soprattutto quando sai che il resto della tua vita lo trascorrerai comunque dentro, circondato da muri alti sei metri senza goderti mai più il sole o le stelle, privato del caldo che si prova unicamente tra le cosce di una donna, con solo il filo spinato che si estende da qui all’eternità. Ecco, a questo preciso punto diventa un giogo insopportabile scoprire la presenza di un corvo delatore proprio lì, accanto a te, nel tuo padiglione, nelle stesse tue condizioni di merda, pronto però ad arrampicarsi sulla tua pelle! eggio, dunque, nel cortile, come sempre; mi isolo da tutti per un brevissimo momento, raggiungo la mia pietra per lo scambio di comunicazioni interne, e vedo un foglietto incastrato, poi fingo di inciampare – per non insospettire le guardie – e mi precipito a raccoglierlo, apro quel biglietto stropicciato con una certa tranquillità degna di Hollywood, slego rapidamente un laccio e difronte all’impaziente guardia in arrivo lo annodo un’altra volta. – Muoviti – strilla guardandomi negli occhi con lo sfollagente alzato – eggiare, velocemente! – Vado – mi stringo nelle spalle, mi alzo di scatto e gli obbedisco in fretta – vado… - Senza una parola sola – conferma la propria autorità quella stessa voce abbassando la mazza. Il resto l’avete pur visto in qualche film, ne sono certo, non devo stare qui a spiegarvi i dettagli. Prendete in considerazione soltanto il fatto che la ricostruzione ambientale cambia; dopotutto noi non siamo americani! Niente molestie sotto la doccia, in infermeria o persino nella cappella; siamo uomini pratici e chi pensa di poter dal tradimento ricavarne un guadagno per avidità, finisce per sentirsi dichiarare guerra. E allora sì, che guerra sia. Significa decidersi, avere un piano chiaro, semplice ed efficace, prevenire rischi e possibili danni; alla prima occasione, agire in tutta sicurezza, colpire fino in fondo, inchiodarlo in officina al suo tavolo da lavoro, – sì, proprio lì dove assembliamo gli scaldabagni, inseriamo i tubi e controlliamo la pressione– ad aggiustare anche la sua, mentre viene tenuto fermo da due uomini che gli bloccano gambe e mani. – Volevi fare il cantante? – gentilmente mi interesso spaccandogli il culo – Gorgheggia ora, intonaci la melodia giusta… – Mmmm … mmm – preso dal penoso sforzo di produrre qualche suono, con l’unto straccio infilatogli per l’occasione profondamente in bocca riesce a malapena a tirar fuori un deludente sospiro interrotto – mmm… – Ho detto di cantare per noooi oraaa – anch’io ansimo e gemo scuotendomi tutto al suo interno – che si seeentaaa! Come sarebbe, cosa si prova dopo? Niente. Si superano in breve soltanto pochi insignificanti effetti collaterali, minori per me e leggermente più sgradevoli per lui. Un’esagerata puzza chimica proveniente dal suo ano fu avvertita per un mesetto all’incirca, mentre nello stesso lasso di tempo sembrava

che con il mio fertilizzante stessi spruzzando il vigneto ogni volta che mi mettevo a pisciare. Tutto qui. Ma quale penitenza. Se ci tenete tanto, flagellatevi liberamente voi due anche al posto mio, e vi prometto che saprò sdebitarmi adeguatamente, da uomo a uomo, tirandomelo sotto il tavolo alla vista dell’insuperabile fascino della dama qui presente, per giungere alla beatitudine anche in vostro nome. Ooohh… In verità, in verità vi dico che il mondo è sempre in preda della follia; qualche volta un po’ di più, qualche volta un po’ meno. Ma non appena entrati nel territorio del Kosovo, c’era da stare in campana: guardie dappertutto, – magnifico esempio di coesistenza di predatori di ogni possibile specie – , controlli continui dei militari, pattuglie della polizia per strada, posti di blocco improvvisati dove non potevi mai sapere con certezza quale fosse la parola sbagliata che quei tipi avrebbero potuto giudicare sufficiente per privarti anche della tua stessa pelle, una mossa imprudente, un sorriso fuori posto, una battuta. E come ciliegina sulla torta, innumerevoli donne in uniforme, – chissà forse a casa loro non lo trovavano abbastanza duro – , spietate e crudeli come pochi. Un momento di pazzia generale, densa e minacciosa, ma il nostro vice si mostra capace di resistere, e non si lascia inghiottire così facilmente. La situazione gli dona quasi; lui sì che sa come proporre un baratto. A tutti i presenti offre generosamente una confezione di caffè sottovuoto e nel frattempo tiene le redini ben strette in mano, finché, senza alcun preavviso, nella mente di uno squilibrato narcomane non viene il pensiero di voler controllare anche le scatole con dentro i medicinali. A quel punto, il ciccione fino ad allora in disparte, ci sorprende tutti per l’impensabile velocità nell’agire senza remore: con un leggero movimento della mano arma il fucile e lo punta dritto in faccia a quell’invadente, tiratosi subito indietro, e mutando l’espressione del suo devastato volto in contentezza eccessiva. – Dov’è finito l’amo-amo-re, etccì – un primo starnuto e sangue scendono insieme da quell’insolito naso, praticamente mangiato e rimasto senza ossa – etccì, l’amore fraterno tra gli uomini, etccì, la disponibilità, la comprensione reciproca… – Prego, prego da questa parte – li interrompe bruscamente il vice, amichevolmente disposto verso il Comandante del blocco – deve assolutamente assaggiare cos’è la vera acquavite di prugna, dal gusto robusto, di quelle che non pizzicano in gola, ma bruciano come il diavolo, una volta scese nello stomaco. Ho un’intera bottiglia da regalarle, tutta per lei, e in nome di una ritrovata fratellanza! – Grazie, etccì, grazie… – Portaci via di qua, ragazzo, non aspettare, parti, veloce – a bassa voce lo dice all’autista, prima di volgersi verso di noi incavolato come una bestia – e voi due disgraziati vedete un po’ di chiudere quelle fottute boccacce, prima che qualcuno

ve le chiuda per sempre. Merda, questi ci sparano addosso anche per molto meno! Il medesimo terrore di incontrare la morte per l’insofferente mano di qualcuno, come se gli dèi non fossero abbastanza ingiusti di loro, lo provai anch’io, molti anni prima di quest’ultima infame guerra, quando conobbi bene cosa significa quel vago sentimento dell’attesa, della tensione che ti pervade e ti eccita. Eh… Già, mi succede regolarmente anche in queste circostanze; un normale esemplare di maschio adulto dev’essere sempre al servizio della sopravvivenza della sua specie, al cento per cento, perché se hai difficoltà a svuotare le tue stesse palle, vuol dire che una sostanziale differenza tra te e una putrida carcassa non sussiste. Lo so, eccome se lo so; fanculo tutti, i boia dell’epoca e questi odierni. Dovunque la stessa merda, avvolta solamente in un costume diverso. Quando intorno alla palazzina cominciavano ad apparire dei tipi strani, come una successione di scatti in rapida sequenza simile alle vecchie immagini catturate in bianco e nero, potevi pur star certo che l’imminente insidia attendeva dietro l’angolo soltanto il momento opportuno in cui avresti abbassato le tue difese; ed è proprio lì che ho sempre saputo come batterli tutti, diventando invisibile per settimane intere, rannicchiato in uno spazio strettissimo senza uscire mai, nutrito solo di pane raffermo rammollito nell’acqua, con accanto un secchio per i bisogni e questa mia ammirevole santissima mano, che nonostante le sconfitte terrene, non si è mai data per vinta. Vi dico che si trattava di gente fin troppo seria, con la quale c’era poco da scherzare; sia che fuori piovesse a dirotto o che il sole spaccasse le pietre loro stavano lì giorno e notte, pronti ad accogliermi calorosamente al mio ipotetico rientro davanti all’ingresso principale. Qualcosa mi diceva che non intendevano affatto arrestarmi – d’altronde, perché creare tanto fastidio burocratico per uno come me, quando già Dio che ha creato ogni cosa non si è scordato di pensare anche che la pallottola, in questi casi, è preferibile, veloce ed efficace? – Lasciare i resti più o meno identificabili tra i cassonetti della spazzatura, con un corpo afflosciato, la cui testa magari poggia a un qualche palo, non costa così caro alla magistratura quanto l’inchiostro di un nuovo e assolutamente inutile caso. Forse troppo spesso ho avuto la possibilità di imbattermi nella dicitura “improvvisamente ci ha lasciati il nostro caro”, che intendevo fare a meno delle loro sincere condoglianze. Che bisogno avete ancora di testimonianza? Voi non credereste alle mie parole, anche se vi dicessi con quali immagini remote del mio più profondo pensiero, quotidianamente, riuscivo a procurarmi un piacere immenso sempre fresco e nuovo! Certo, arriverò a dirvi anche qualche cosa sul suo conto, il signore dalle ridicole scarpe gialle che con la tracolla porta medicinali eternamente sulla spalla, non mancherò alla mia

promessa, ma ora se mi permettete, c’è un piedino molto più attraente ad assorbire la mia completa attenzione… Ahhh, ditemi che non lo notate anche voi come la ragazza comincia a intuire i miei reali bisogni sintonizzando le sue innocenti mosse con l’irrigidirsi dei muscoli del mio basso ventre! Uhh però, non incrociare la gamba con tale fretta, fanciulla, mi lasci senza fiato e bruci le tappe del piacere che ci accomuna… Mmmhhh, dovresti sapere che la durata di un gioco è sempre proporzionale alla sua sublime bellezza... Ma questa volta sono pronto a perdonarti, a patto che d’ora in poi ci stai più attenta. Non ti aspetterai certo da me che ti assalga goffamente come questi tuoi eruditi intellettuali, frettolosi di premere contro la clitoride come se fosse un bottoncino magico! Fottuta razza di impreparati, ci vuole innanzitutto un adeguato perfezionamento, e in questa materia ti assicuro che le Sacre Scritture servono poco e niente; da animale quale sei, ti devi saper affidare a un altro animale, cara mia, perché solo la pratica genera la tanto desiderata raffinatezza delle maniere, una preparazione minuziosa e mirata, ore e ore di eggiate sugli umidi versanti dei Monti di Venere – della cui esperienza accumulata sei tu adesso quella che può finalmente beneficare – una conchiglietta va leccata a lungo, portata alle labbra direttamente e baciata, succhiata con una leggera pressione, stuzzicata adagio, più piano ancora, finché in una smorfia di dolce dolore non sarà la tua stessa voce a implorarmi di riempire il suo vuoto… Ohhh, vedrai che ti piacerà, non ho dubbi in proposito e dopo solo un paio di sedute non vorrai più rinunciarci; il resto della settimana con ansia aspetterai l’arrivo del sabato successivo per poter farmi visita di nuovo, ti presenterai la mattina presto non appena aprono i cancelli, con un vestitino accuratamente scelto per l’occasione, poco trucco, magari una pettinatura più disinvolta, pita al formaggio impastata dalle tue manine prima ancora del sorgere del sole e un sorriso raggiante simile a questo che stai cercando di camuffare ora. Sta’ però attenta, meine liebe schatzi, in questi luoghi impara a tenere ben serrata la tua seducente bocca, è meglio non correre rischi… Non avete mai visto come fanno i carcerati per cucire il becco a qualcuno? Gli attrezzi da conciatore, un ago robusto e un pezzo di corda al posto del filo per reggere meglio! Il prescelto nemmeno cerca di scansarsi, lo sa che potrebbe andargli molto peggio di così e prega Dio silenziosamente che non gli venga tagliata anche la lingua, al cagnaccio malefico di un delatore, come se meritasse tanta grazia. Volete che vada avanti? Ditemelo voi che siete brava gente, e con tutta probabilità avrete pure ragione… …Esattamente come quella volta quando aveva ragione persino il nostro vice, dimostrando che di tanto in tanto anche gli individui più marci possono essere dotati di pratico buon senso. Grazie al suo profetico intuito e alla prontezza di

spirito eravamo riusciti a scappare incolumi prima che ci sparassero sul serio per così poca roba che qualcuno veramente la ritenesse degna di nota (qualche miserabile ago, una benda o due, una sospensione antitetanica, antibiotici e sedativi per calmare i nervi, da assumere preferibilmente con alcol auspicando di ottenere i tanto indesiderati effetti collaterali) è allucinante quanta gentaglia assurda, da cui era meglio girare alla larga, c’era, e quando finalmente ci siamo allontanati abbastanza da poter dire di essere al sicuro, ecco lì che l’autista frena all’improvviso. Così, di punto in bianco si blocca in mezzo alla strada. Allora mi dico che probabilmente cerca di salvarci da qualche enorme buca impossibile da schivare, mi affaccio dal finestrino rotto tra il vano di carico e la cabina aspettandomi una scena apocalittica, qualche minacciosa profondità ignota e buia, il filo spinato che taglia la strada o perlomeno le ruote anteriori del camioncino sospese nel vuoto in procinto di precipitare da un momento all’altro. Osservo attentamente prima a destra e poi a sinistra, poi sollevo lo sguardo e non riesco a meravigliarmi abbastanza: niente di niente ci impediva di are, ovunque guardassi si stendeva davanti a me solo l’immenso cielo sereno, con appena qualche nuvola birichina che sorvolava innocua le nostre calde teste. L’indisturbata beatitudine della campagna a perdita d’occhio, e nulla di più. – Autista – lo riprendo bruscamente – che ti succede? Ti stai addormentando per caso? – Quello! – mi risponde stringendo il volante più forte, come se intendesse decollare per la luna con tutti noi a bordo. – Compaesano – insisto perdendo la mia già fragile pazienza – di quale “quello” stai parlando? Anche tu hai sniffato qualcosa? – Alle fiamme i demoni! – grida convinto e spaventato allo stesso tempo, saltando dal camion in direzione del minareto distante all’incirca una cinquantina di metri e che fino a quel momento non avevo neppure preso in considerazione – direttamente all’inferno li spedisco, per l’eternità! A quel punto il vice e io ci scambiamo uno sguardo pieno di frustrazione e noia; eravamo troppo stanchi di dover assistere a cose già viste, a quei capricci di chi da bambino impertinente si fa sopraffare dalla rabbia, dalla delusione e dal nervosismo, facendoci solamente perdere altro prezioso tempo. Se li lasci sfogare, i delinquenti di questo tipo diventano più docili e malleabili, concordo, ma a me comunque continuano a non piacere: distruggere gratuitamente, senza aver raccolto prima alcun bottino, è senza dubbio un atto sacrilego e insensato, che mai riuscirò pienamente a comprendere. Che ci vuoi fare, però? – Puoi fotterti anche tua madre se ci riesci, idiota – gli corre dietro l’infermiere tirandolo per le orecchie – ma resta il solo fuoco che ti è permesso appiccare; puoi devastare l’intera foresta nera di colei che ti ha messo al mondo, se più ti piace spoglia e bruciata, de gustibus non si discute. Dei mattoncini qui, però, non ne deve mancare uno: tu ammirali e basta! – Ma chi cazzo sei tu per proteggerli?

Un avvocato difensore di fiducia degli shqiptar forse? – Qui non c’è bisogno di schierarsi in difesa di nessuno, se solo fossimo capaci di salvaguardare quel poco di cervello donatoci che ci è rimasto – urlava il ciccione indemoniato – te lo dice il buon senso, se non vuoi che per ogni torretta bruciata loro diano tre delle nostre chiese alle fiamme! Ecco, questo suo elementare ragionamento logico l’ho compreso a pieno insieme a molti altri soltanto un diciassette di marzo di cinque anni più tardi, mentre al telegiornale guardavo inorridito con quale facilità diventano fumo e cenere le chiese di Prizren e Peč. – Che ortodosso del cazzo sei – piagnucolava ancora l’autista, cercando di fare la voce grossa da uomo credibile con un paio di palle vere – un’anima venduta che cambia fede proprio come tira il vento! – Non offendere invano il Suo nome, perché se credessi sul serio nei Suoi comandamenti anche tu, da povero imbecille che sei, riusciresti a comprendere che distruggendo questo singolo oratorio condanni e mandi al rogo tutti gli dèi, dal primo all’ultimo, quanti ce ne sono. – Cccccosa, che cazzo dici, quali dèi… – Fanculo dèi e divinità – schiuma dalla rabbia l’infermiere – non mi importa un bel niente né di quelli antichi né dei futuri che prima o poi riuscirete a inventare, ma questo che senza un nome giace dentro di me non ve lo lascio massacrare così. Ora torna lì nella cabina, di corsa, e fai il tuo lavoro prima che ti infilzo, deficiente! Quasi ammutolito dalla sor presa, continuavo a osservare come, con il fucile in mano, costringeva l’autista a occupare il suo posto dietro al volante quando, ringraziando la fortuna di disporre di una solida ed esuberante base d’esperienza in molteplici campi comunemente denominati criminosi, notai una quasi impercettibile mossa viscida e sporca di quest’ultimo, pronto a estrarre quella disumana semiautomatica variante balcanica del mitico Tokarev nascosta sotto il sedile. – No, no, no! Così non va! Quanti altri martiri per lo stesso pesce d’aprile pensi che occorre causare ancora, persino dopo duemila anni dalla Sua morte? – gliela canticchio all’autista, l’antica parola d’ordine segreta, tracciando intanto con la canna della mia modesta CZ-99 alla sua tempia quell’arco mancante dell’Ichthýs che poco prima, intervenendo avventatamente al salvataggio, aveva iniziato a comporre il ciccione. – No… iii-io…nini-nienteee – mi balbetta in risposta, come una qualunque fregnetta colta di sorpresa con un cazzo semi moscio in bocca, ancora da lavorare. – Niente un par di coglioni – armando la pistola spicco tra i denti parole appuntite come lame. – Cece-rrrca-caa-vooo soltanto dddiii… – È per colpa di quelli come te che mi sono sempre visto far inculare – esclamo tirandogli un primo sonoro schiaffone in piena faccia – dì la verità, pilota, ti sarebbe piaciuto farci seppellire qui in questo sperduto posto dove sopravvive unicamente l’odore di merda di vacca? – Lo ggg-giuuu-rrro – era

l’unica cosa che riusciva a farfugliare, ricevendo il supplemento sull’ormai gonfio labbro sanguinate – sulla mia vita… – È così che ti voglio – scoppio in una risata rauca e sbeffeggiatrice, posandogli la mano questa volta sulla spalla – disposto a collaborare in virtù del sacro dono; ora tutti i giocattolini nascosti vanno consegnati subito, se non vogliamo che ti fai del male da solo – lo sai com’è che succede, spessissimo un colpo parte anche accidentalmente – e da un momento all’altro ti ritrovi nel fosso accanto alla strada, a far cosa, poi? A concimare il terreno e sfamare gli animali, con i tempi che corrono scommetto che galline e porci sarebbero i primi a sparpagliarti in mille pezzettini piccoli, piccolissimi. Credimi, un gran brutto affare… – Ho capito – dice riprendendo un po’ di colorito normale – è molto meglio che ce ne andiamo via da qui… – Ma certo che lo è – acconsento volentieri alla sua improvvisa voglia di riprendere la guida – con o senza di te però; ora solo questa piccola parte del problema richiede un’immediata risoluzione. Per il resto del viaggio ho potuto dormicchiare tranquillo, sapendo che avrebbe preferito pisciarsi addosso piuttosto che fermarsi una seconda volta. Il vice si teneva in disparte senza fiatare, e anche l’infermiere prudentemente preferiva fingere di ignorare l’accaduto; tutti più calmi, più fiduciosi e disponibili a tollerarci a vicenda. Dall’aver ragione al cadere nel torto ci vuole un batter d’occhio, sempre. Perché infatti dare fuoco senza aver rubato niente? Anche solo per questo, il mio fedele Idrizi avrebbe dovuto rinnegarmi pubblicamente e per tutti i tempi a venire. Non dico che non lo farebbe ugualmente se potesse vedermi ora, fanculo; le persone sono la merce più deperibile che ci sia, e il lavoro non deve subire danni in alcun caso. Nulla di personale, lo capisco benissimo, una meritata coltellata al cuore non me la risparmierebbe il mio shqiptar almeno per vincere la cattiva sorte, perché nessun talismano funziona tanto bene come quando un malvivente ne fa fuori un altro. E non vi venga in mente di dire che io abbia voluto farmi pensionare laggiù, rinchiuso in quella puzzolente cantina ai confini del mondo! Niente affatto, cari miei; fanculo la guerra, fanculo la pace, si fotta pure il vostro infermiere, già che c’è! Non potevo certo lasciarmi arrugginire sprecando le mie innate doti comunicative e creative non solo nell’arte del saccheggio, ma in quella di farlo in grande stile. Così, appena adocchiato quel gruppetto di volontari svegli e indaffarati nel ripulire le abitazioni di tutta la zona, a prescindere da chi appartenessero, – per quanto gli albanesi fuggiti facilitavano di molto la loro l’impresa – mi sono detto che la manna caduta dal cielo al momento giusto per salvarmi non andava sprecata. Qualunque tipo di attività era benvenuta e preferibile al chiacchiericcio parolaio degli innumerevoli contadini e operai,

soliti ad allungarsi all’infinito con i loro discorsi politici e le stravaganti per sonali soluzioni dei rapporti internazionali. Non solo sei costretto ad ascoltarli la sera, prima di coricarti, ma ecco che per la tua enorme gioia anche la mattina, svegliandoti, scopri come quel più potente corpo diplomatico mai visto, già ha in mano la situazione aggiornata e monitorata fino al più impensabile dettaglio; consiglieri così perspicaci e ministri così infallibili quanto la dolente sensazione di prurito ai testicoli che ti prende alla sprovvista, senza che tu possa decidere alcunché. Mi avvicino, dunque, ai due personaggi tra i più promettenti in quelle circostanze, un certo pirata piuttosto in vista, di cui però non ricordo il nome, e un altro tizio calvo che gli si era incollato addosso come una gomma mal masticata. – Buongiorno buona gente – saluto loro con un sorriso e una semplicità disarmante – cosa ne dite di un vero artigiano al vostro fianco? – I veri patrioti sono sempre benvenuti – mi risponde uno con l’orecchino mentre si scaccola il naso – siamo lieti di averti tra le nostre fila! – A te sporcaccione in realtà non ho chiesto niente! – gli strillo dritto in faccia facendo calare un silenzio da groppo in gola. – Felici di accoglierti, uomo con le palle – si decide a rispondermi il pirata al capo della ciurma – domani si va in azione, e sarà durante il tuo battesimo del fuoco che sicuramente troverai il modo per dimostrare quanto vali; per ora, puoi occupare il letto e prenderti anche dalla hostess quel che ti spetta... – questa l’abbiamo catturata un mesetto fa ormai, forse qualcosa di più e non è più fresca come i primi giorni, la devi strizzare forte come uno straccio consumato, se vuoi ancora ottenere una prestazione diciamo più o meno decente. Non lo spompa a modo, non c’è niente da fare, quella sua boccuccia delicata si spacca ogni volta, e non te lo fa infilare fino in fondo. Cazzo però quanto cucina bene, roba da leccarsi le dita. Motivo più che valido per trascinarci ancora dietro il suo peso morto – Se hai fame, prendila pure a calci, così si muove e ti serve più in fretta: se la vuoi montare, mollale almeno uno schiaffone, altrimenti non si cala a sufficienza nel ruolo con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutta la mente per renderti omaggio come si deve… Domande, dubbi, perplessità, è giusto che ci siano, ma tientele comunque per te. E voi altri fatemi riposare, senza che giunga al mio orecchio il rumore molesto anche di una parola sola! Fanculo – pensavo coprendomi per la notte – sarai costretto a sentire e vedere cose che non avresti mai pensato. Pian pianino caro mio, dammi tempo… Anche voi non siate troppo sospettosi e impazienti, vedrete che l’occasione di parlarne di quel buffone non tarderà. D’altronde, come potrebbe mancare, quando prima o poi quasi tutti caschiamo nelle mani di un medico, i più fortunati perlomeno, quelli ricucibili… Concretamente parlando, le sue erano piuttosto

grandi e con le dita così lunghe che tranquillamente avrebbe potuto fare il pianista, chissà se non fosse stato davvero un virtuoso! Onestamente, questo era molto difficile da valutare nel corso di quel pazzesco viaggio verso Mo… qualcosa come Mo… mi sfugge il nome! Mogila, esatto, proprio Mogila! Avete completamente ragione, e vedo che siete stati già ben informati. Certo che tra tanti nomi a disposizione, uno più appropriato per chiamarci quel sarcofago di villaggio non potevano sceglierlo, mah! Dopo quell’episodio del mancato lancio del razzo al quale abbiamo quasi assistito dai nostri privilegiati posti in prima fila del camioncino, tutto il resto del viaggio era trascorso nel silenzio quasi totale, interrotto soltanto dallo stridere delle gomme sull’asfalto e dall’incredibile russare ritmico, secondo l’andamento della strada discendente o ascendente, di cui si è mostrato capace il corpo del ciccione poggiato sul grosso sacco del caffè. Dormiva beato come se nulla fosse successo, né nulla stesse per accadere. Una volta arrivati sul posto, si è precipitato maniacalmente a scaricare quei medicinali, mentre io cercavo di rendermi utile... non si sa mai, i tizi come lui è molto meglio non renderseli nemici . Nel frattempo, il nostro vice si era caricato sulla schiena tutto quel caffè da solo, e prima di ritrovare l’equilibrio sotto il suo peso aveva barcollato un po’ indietro per procedere poi sorridente come se non gli costasse alcuno sforzo. Parlava di un utile del cinque per cento, che di certo può far miracoli donando a qualunque persona sensata un o leggero. Nemmeno io riuscivo a rimanere immune al fascino di un potenziale guadagno, e preso dall’entusiasmo chiedo al ciccione quanto prevede che saremmo riusciti a ricavare noi visto che i nostri scatoloni erano ben più grossi. – Ingoia la merda – mi risponde affaticato senza pensarci un attimo – nel culo te lo ficco il guadagno e tutto quello che entra te lo concedo per intero, giuro! Di conseguenza mi toglie la roba dalle mani e si fa aiutare da altri due, abbandonandomi come un cane in mezzo alla strada. Per fortuna mi ero già fatto dare delle indicazioni precise per raggiungere i nostri alloggi, che com’era da aspettarsi non appartenevano alle straordinarie catene alberghiere per i viaggi d’affari, nessun Hyatt Regency, Ibis, Hilton o altro; niente di niente: una cantina umida come migliaia di altre, per alcuni versi simile persino a quella della mia città da dove avrei voluto scappare. Le strade buie sono tutte uguali ed è pressoché impossibile identificarle. Chilometri di fango con suoni di sirene ogni mezz’ora; a volte all’improvviso sentivi i brividi scendere lungo la schiena capendo che al loro ululato non ti saresti mai abituato. Con la tipica fortuna del principiante mi imbatto addirittura in un pezzo grosso, un Maggiore mi pare, che subito al primo approccio volle tenermi una lezioncina sulle tattiche di guerra e l’ottimale impiego delle forze armate, come se fosse un esperto veterano giunto da poco dalle battaglie di Kolubara e Cer, dove una volta i nostri storici

reggimenti respinsero eroicamente le divisioni austro-ungariche. – Stai attento alle tue mosse, soldato. – si raccomanda convinto – Ogni operazione va pensata, ragionata e studiata nei dettagli, perché solo così riusciremo a infliggere al nemico un colpo decisivo e fatale; affidati al tuo supremo Comando e non dare retta alle voci blasfeme di quanti intendono screditarci, a quel malefico infermiere, ad esempio, che con ogni probabilità è solo una spia addestrata. Fanculo chi ce l’ha mandato, lui e la sua voce dell’opposizione e dell’anarchia, del disordine totale, quel vermaccio maledetto, provocatore maleducato, traditore, una lurida manifestazione dell’anticristo… Il battesimo un par di palle, con quella marmaglia ogni cosa era focosa. Tutto quello che non si riusciva a portare fuori veniva bruciato. Se a qualche vicino saltava per la testa di accendere la luce e ficcare il naso dove non conveniva, una raffica di mitra contro la finestra gli augurava immediatamente l’eterno riposo. Un lavoro efficiente, pulito e trasparente come una lacrima gelata di cui non restano più attendibili tracce. Magari vi posso sembrare un cretino, visto che mi trovo proprio qui dietro le sbarre, ma non sono mica scemo. In poco tempo mi ero accorto che a faccenda compiuta si mettevano sempre a bisbigliare tra loro, cercando di non farsi sentire da me. Appena mi avvicinavo, quel finocchietto con l’orecchino si affrettava a zittirli tutti, sborsava prontamente la mia parte senza però suddividere quel che spettava loro. Così come uno più uno fa sempre due, anche il bottino per forza andava ad accumularsi da qualche parte e vi giuro che non esiste pasticcino più dolce di quello tolto dalla bocca di un altro ladro. Le occasioni mancate sono un errore imperdonabile! Scoprire come e dove finiva il denaro si era mostrato un gioco da ragazzi, molto più semplice di quanto non avrei mai creduto. È stato sufficiente farsi amico il Capo o perlomeno fargli credere d’esserlo: trovarsi più spesso a fumare una sigaretta insieme scambiandosi piacevoli chiacchiere sui vecchi comuni conoscenti, condividere una birra, buttare giù qualche bicchierino di grappa, offrire la mia più sincera comprensione per quanto mi stava dicendo al di là dell’argomento trattato, e soprattutto ammirare la sua intelligenza e straordinaria abilità negli affari. Concedergli la crescita dell’ego fino al punto in cui non avrebbe più resistito a tenermi all’oscuro di qualunque cosa. Sapientemente serviti, l’alcol e le emozioni diventano una miscela esplosiva che trova sempre il modo di ammorbidire anche il più duro degli uomini. Già, detto tra noi, non avrebbe mai dovuto fidarsi di me, né raccontarmi come ogni settimana la grana raccolta veniva contata e trasferita da sua madre, in grado di tenerla al sicuro – perché lo sappiamo benissimo tutti che di sicuro non c’è proprio niente a questo mondo – È l’amicizia il più antico e redditizio mestiere e mente chi dice il contrario!

Mi fermo insieme a loro ancora qualche altro giorno per non generare inutili sospetti e solo quando mi sono assicurato che non immaginano assolutamente nulla saluto tutti quanti annunciando la mia imminente partenza. – Te ne vai di già? – la voce stridula del calvo taglia l’aria all’improvviso, quasi volesse penetrarci nella carne – abbiamo appena iniziato, e il bello deve ancora venire! – Ve lo cedo volentieri… – Allora sembra che non te l’abbiano insegnato – mi interrompe subito – che certe rinunce non si possono fare! – Veramente… pensavo… – Fare di più e pensare di meno; questo è il segreto di ogni successo! – aggiunge ridendo – Proprio stamattina abbiamo ottenuto questa bellezza in uno scambio con lo squadrone dei barbuti, e non dirmi che te ne vai senza aver lubrificato la nostra nuova cameriera! – Se mi devo sacrificare in qualche cosa – tiro giù la cerniera – faccia pure, sono pronto a diventare un suo spolverino perfetto! Parte una risata generale. – Così si parla – si rallegra sinceramente il pirata – lo vedi anche tu che le cose si mettono bene! Che cazzo ci vai a fare di nuovo a casa, in quel buio e fango ovunque… – È stato bello conoscervi, campioni – raccatto le mie cose e batto il cinque a ognuno di loro – ma certe volte bisogna sapersi fermare, volgere altrove, cambiare strada, pensare ad altro, aprirsi a esperienze nuove… – Vieni qui che ti abbraccio come si deve – tuona nuovamente, questa volta commossa la voce del pirata stringendomi forte le spalle – lunga vita e prosperità, fratello! – Pure a voi nella stessa misura, pure a voi che restate qui… – dicevo pensando che ben presto non avrebbe pianto per me quanto per causa mia. – Ti prego – quel frocio mi porge ora una sciarpa tipica strappata a qualche Shqiptar – di trovare un momento adatto per portare alla mia vecchia questo pensierino, insieme ai più affettuosi saluti che un figlio può mandarle; dille di non preoccuparsi, di stare tranquilla, che sono vivo e sano, e promettile che presto tornerò di nuovo a trovarla! – Non temere, caro mio – potevo giurarglielo con l’anima in pace – cascasse il mondo, sarà la prima persona che andrò a trovare… Lui? La belva c’era, sempre, eccome se c’era. Anche quando non potevi vederlo, lo intuivi ugualmente, proprio come ora riesco a palpare l’esatto ingombro dei tuoi seni in quel minuscolo indumento che li appiccica e schiaccia, senza allungare le mani. Tirale fuori, per Dio Onnipotente, e falle respirare un po’; non vedi che stanno per soffocare tutte chiuse lì dentro? Entrambe. Siii, così si fa, davanti a una simile vista paradisiaca la mente si apre e il ricordo scorre molto meglio. Il vostro infermiere non è stato l’unico uscito fuori dai gangheri in quel posto. Altri pazzi incontrollabili, che avendo tutto il comando nelle loro mani erano

potenzialmente anche più pericolosi per noi comuni mortali, camminavano a piede libero. Sfido chiunque a ragionare con loro! – Caaapisco, Compagno Maggiore! – era l’unico modo sicuro e comprovato di sopravvivere alla disgustosa raffica di insensatezze a cui i nostri superiori erano soliti sottoporci. – Anche tu, dunque, cominci a sentirti autorizzato a prendermi per il culo – strillava come un demonio che non riusciva a meravigliarsi abbastanza – Scommetto che anche tu sei stato indottrinato da quel...quel... non importa, tanto siete fatti dello stesso impasto, e ora basta che ti levi dai piedi, velocemente! Mentre stavo per uscire dalla stanza, segretamente contento d’essere stato buttato fuori, gli squilla il telefono e lo sento riversare la rabbia su un altro fonte. – Pronto, certo che sono io. Come diceeee??? Le nostre posizioni… individuate… di nuovo? Ma com’è possibile? Mette giù la cornetta e poi comincia a correre per la stanza, frugando in tutti i cassetti cercando presumibilmente una mappa o qualcosa del genere. – Veloci – ansimava la sua voce così dura fino a qualche istante prima – non c’è tempo da perdere; immediato cambio di posizione, dite anche a quello là di venir fuori dal tombino, muoversi, muoversi! In poco meno di mezzo secondo si crea il panico più assoluto, urla e grida di frasi incomprensibili, gente che per prendere le armi v’inciampa e cade sulle stesse, zaini e maschere antigas sparpagliate disordinatamente tutt’attorno. Ognuno, per fare prima, riesce solo a spingere quell’altro accanto a sé ed è già un miracolo se sono riuscito a uscire fuori illeso. Lì ci attende l’aria fresca e un silenzio disumano, come macabro presagio di quanto siamo ancora ignari di quello che sta per avvenire. La quiete prima della tempesta non si scorda facilmente, già, come l’assenza dei rumori nelle case svizzere, di cui ho una memoria esatta. Pensateci solo per un attimo: certa gente autorevole da quelle parti mi sta ancora cercando, auspicando un incontro dal vivo, nonostante abbiano all’epoca tappezzato l’intero paese con la mia immagine leggermente storta, e fornito a ogni dogana la mia descrizione completa, promettendo una lauta ricompensa a chi fosse stato in grado di fornire elementi utili per la mia cattura. Non vedono l’ora di riavermi in loro compagnia, razza di scimuniti; magari gli andasse di traverso il cucù e la casetta, insieme a quell’amore ossessivo verso la puntualità e le casseforti, che da sempre portano nel DNA. Non appena finisco qui, prenderò il primo treno per visitare qualche cantone. Che ci vuoi fare, son fatto così: amato ovunque in società e avido di fare incontri e amicizie nuove, tenero come un gattino e fedele come un cagnolino, bau, bau bau… Fanculo però la collanina del cane. Quale cane? Uno qualsiasi, che vuoi che importi quale! Non appena permetti al cuore di guidare sono subito guai. Ma

quale membro della famiglia? Non mi sono mai ammattito al punto da voler pettinare e lavare un peloso, occuparmi dei suoi escrementi e portarlo a pisciare, l’ho incontrato in altre circostanze a dir poco esasperate, almeno questo dev’essere chiaro! Un bel giorno, del tutto casualmente mi cade l’occhio su quella casa – e per favore non chiedetemi di nuovo quale, tanto una vale l’altra, sono tutte sempre molto grandi e spaziose, elegantemente arredate e provviste di grandi vetrate che si affacciano sul magnifico panorama, con un bel prato davanti e spesso una piscina sul retro, e magari anche una generosa terrazza piena di fiori all’ingresso – Dico tutte tranne una, quella in particolare, con un terribile pitbull lasciato di guardia per accoglierci fin dai primi i con i suoi perfetti canini bianchi, troppo appuntiti per i miei gusti, come se ci avesse sorpreso a sbrodare perlomeno dalla sua personale ciotola. C’era da rimediare e piuttosto in fretta. Come avrò fatto? In tutta sincerità non lo so nemmeno io, ma è nella difficoltà che si riconoscono gli eroi. Sarà che ho seguito l’istinto che mi imponeva di mettermi a giocare con lui senza la minima esitazione come fosse un vecchio amico contento di vedermi, con il cane certo, mica con Idrizi, a quel punto già arrampicato sull’armadio più vicino. Dopo essersi assicurato che fortuitamente eravamo scampati al peggio, aveva deciso di scendere e caricare in macchina quello che poteva essere portato via, cioè letteralmente tutto: dai mobili ed elettrodomestici agli infissi, le stoviglie, le pentole, le tende, i quadri e quanta altra mondezza la gente normalmente accumula nel corso di una vita. – Compaesano, io ho finito – premurosamente mi avverte – sarebbe l’ora di squagliarcela di qua. – Vai avanti e metti in moto – rispondo preso dal gioco, e forse un po’ troppo orgoglioso di me stesso per smetterla facilmente – arrivo subito! – Come dici tu – non accetta di buon grado la mia proposta – se proprio ci tieni tanto a esibire le tue nuovo scoperte doti, ti accompagno al canile e te ne scegli uno buono a tuo piacere, ma domani, non ora; non ci serve essere beccati all’ultimo dalla polizia per colpa di un caudato. Pura e sacrosanta verità! Lo sostengo anch’io, ma purtroppo ad oggi. Togliendogli quella volta, al cane ovviamente, non a Idrizi, la collanina per un eterno dolce ricordo di lui non mi sono dimostrato sufficientemente illuminato, come invece avrei dovuto essere, né pratico come il mio amico albanese. Immaginavo con una pressoché indescrivibile soddisfazione che faccia avrebbero fatto i proprietari ritrovando il loro pericolosissimo cane adorato a badare esclusivamente alla carta da parati, l’unica cosa preservata intatta al suo posto. Quel dannato trofeo di cui non ho saputo fare a meno con sopra inciso il nome di Fido è stato il solo oggetto in mio possesso ritrovato dagli agenti cantonali, più che sufficiente a incriminarmi. Ecco, in qualche modo l’ho sempre

saputo che un giorno sarei stato fottuto perché mi coinvolgo emotivamente troppo… Più fortunato che intelligente, scovo dove si nasconde la nostra Batteria del Comando. Entro in quell’ambiente speranzoso, trovandomi all’improvviso al cospetto di un tizio pessimo, che ispirava ancora meno fiducia ispirava di quanto sostenesse l’infermiere. Del tutto incapace a reggersi in piedi da solo dopo che la percentuale di grappa nel sangue gli aveva tolto persino l’uso della parola, eccolo invece a dilettarsi nel recitare il ruolo del Comandante, e pretendere anche di essere trattato e preso sul serio. Il vice sbracato sui sedili di legno accanto compie la sua sacra missione proprio come è stato fedelmente descritto da Čarli, al punto che ti sentivi mancare il fiato e girare la testa. Ciò nonostante nessuno alzava la voce in segno di protesta, e potevo soltanto meravigliarmi dell’affollamento che in quella cantina regnava sovrano mentre la nostra Madre Teresa generosamente distribuiva i medicinali impacchettati in razioni più piccole agli infermieri giunti di corsa da tutte le altre batterie. Con una grezza scrittura a mano su foglietti di carta già precedentemente utilizzati, indicava loro l’impiego esatto che se ne doveva fare, e chiedeva che firmassero una quietanza per la merce ricevuta. – Apri gli occhi e guardati bene intorno – si rivolge a me contando – che nessuno ci rubi niente! – Io che sorveglio gli altri? – non finisce mai di stupirmi abbastanza. – Certo – mi conferma, dando nel contempo prova concreta della sua saggezza innata e profonda – non c’è migliore guardiano di un autentico ladro! Mentre la folla man mano si dirada per raggiungere le reciproche cantine lui non perde un attimo, controlla accuratamente la roba restante, che infila nel suo zaino per poggiarlo poi sotto la testa. – Ehhh – si limita a sospirare forte girandosi dall’altra parte – adesso si può riposare in pace. Anche la madre di quel frocetto l’ho sorpresa dormendo, quando alle tre del mattino con altri due soci sono andato a bussarle alla porta di casa. Certo, non siamo apparsi davanti a lei solo così come una qualunque matricola impreparata. Il giorno prima ci aveva detto bene e a buon mercato: in cambio di una sola stecca di sigarette, siamo riusciti ad avere in prestito le uniformi complete della polizia militare, con tanto di tipici cinturoni bianchi, nastrini e vere armi in fondina. Ci siamo persino addestrati strada facendo coi anti casuali, per apparire in seguito quanto più autorevoli e severi, ma giusti. – È la polizia – come un tuono inaspettato, prorompe nella notte la mia voce, mentre lascio cadere il pugno alzato a colpire brutalmente il legno – aprite alle forze dell’ordine, senza indugio! – Per amor del cielo, – si affanna a spiegarci la vecchietta, anche se nessuno le aveva chiesto di sciogliere la lingua – mio figlio

combatte al fronte, lui è uno che sa come compiere il suo dovere, e quando si tratta della patria non si è mai tirato indietro come certi altri vigliacchi! – Ed è esattamente il motivo della nostra visita! – esclamo, lasciandola del tutto spiazzata. – Non so niente! – con uno sguardo di disperazione alza istintivamente gli occhi all’icona, e si fa un veloce segno della croce, confidando tacitamente nel suo immancabile aiuto – Niente, ve lo giuro sul mio onore! – Non spetta a me deciderlo – le porgo una copia del ricco menù di una trattoria locale integrato di sigillo ufficiale dell’Associazione pescatori – questo è un mandato di perquisizione, e mio malgrado, signora, siamo semplicemente costretti a entrare in casa! – Ohhh, povera me, che disgrazia! – continua a cinguettare la vecchietta, vedendo altri due rovesciare in terra il contenuto da tutti gli armadi e cassetti – Al giorno d’oggi il mondo è diventato strapieno di ignoranza e invidia: quale malvagio, mi chiedo, può averci voluto così male, chiii? Per un altro po’ sclera infuriata, con l’indice puntato in alto, richiedendo per la cattiveria umana una urgente giustizia divina e terrena, ma non appena mi sente pronunciare ad alta voce le parole scritte dal presunto giudice si spegne all’istante come una bambolina a molla caricata troppo, e le a ogni ulteriore voglia di fare la furba. – In base al principale presupposto – utilizzo qui una serie complessa di formule e giochetti giuridici assaporati a sua volta in aula dal Pubblico Ministero sulla mia stessa pelle prima che fosse riuscito a farmi beccare quei sette magnifici anni di reclusione – che lei di nascosto abbia tenuto in casa sua dei valori patrimoniali ottenuti illegalmente. E comunque, la contestazione non comporta il rinvio penale che si prevede nel caso di favoreggiamento di rapina, danneggiamento di beni pubblici ed estorsione aggravata… Quando aveva finalmente compreso che né a lei, madre misericordiosa, né al suo beneamato figliuol prodigo sarebbe bastato semplicemente pentirsi per evitare gli scoppi d’ira di un tribunale militare, riacquisita del tutto la memoria persa e poi fa riemergere a galla anche le non ufficiali riserve di denaro e oro. Nonostante tutti i miei sforzi di metterle addosso una paura e un disagio senza precedenti, fino all’ultimo la nostra nonnina si rivelava un ossicino piuttosto duro, chiedendomi con faccia tosta di cui non mi sarei mai aspettato, di firmarle persino la ricevuta liberatoria. – Nessun problema – ricorro allora nuovamente all’antico trucchetto della legge perfida e del ragionevole poliziotto che la applica coscienziosamente – ma ci dovrebbe seguire con gentilezza alla direzione centrale per corredarla con una sua dichiarazione in merito. Senza esitazioni prego, per le signore della sua età ci sono a disposizione delle celle apposite con i gabinetti interni, dove potrà, una volta comodamente sistemata,

aspettare in pace che venga il suo turno! Altri due uomini si limitano intanto a scuotere la testa in segno di approvazione, segno che lei, ormai impazzita, avrà senz’altro scambiato per un’inequivocabile sentenza finale con cui si decideva la loro sorte. – Tutti quanti potreste essere figli miei: sono tanto vecchia che di certo non potrei farcela in un simile ambiente – quasi sull’orlo delle lacrime si mette le mani nei capelli e comincia a strapparsi quei pochi peli bianchi ancora in testa – se vi resta un altro po’ di anima vi prego di adoperarvi a mio favore, e al compimento della salvezza di quel mio ragazzo, che non sarebbe stato capace di fare alcun male a nessuno. Chissà poi quanto soffre in trincea da solo, poverino! – Dice bene – acconsento prontamente – in questo momento è vero che prima di tutto dobbiamo proteggere i nostri eroi! – Spero che in paradiso ti venga generosamente ripagata la tua bontà – mi benedice all’ultimo. – Se è per quello, anche prima – sussurro senza farmi sentire – e neanche lo sai quanto… Non illudetevi troppo, per piacere, che una storia tratta dalla vita reale possa avere il lieto fine, con quella sdolcinatezza romanzesca della serie “e vissero per sempre felici e contenti”; niente affatto. Appena credi di essere arrivato all’apice del successo, ecco che la felicità ti sfugge di nuovo, e per magari una stupidaggine immane tutto ti si rompe in testa. È successo esattamente così anche a noi, quando per colpa di uno dei due accompagnatori in quella visita notturna ci presero subito dopo la guerra. Evidentemente, si sentiva intoccabile, per arrivare a vantarsi con gli amici al bar della bravata compiuta; almeno se fosse andato direttamente in polizia a confessare, il danno recato magari sarebbe stato in parte minore. Date le mie abilità comunicative e la facilità con cui intraprendo i rapporti interpersonali, avrei trovato lì dentro qualche agente ragionevole per metterci d’accordo. Il caso sarebbe stato chiuso prima ancora di essere avviato, e noi liberati da ogni sospetto. Così, invece, il mio intervento divenne inutile, non c’era più nulla da fare. Una volta divenuta la notizia, circa il reato compiuto, di pubblico dominio, le autorità avrebbero fatto di tutto per dimostrare alla massa la loro imparzialità ed efficienza. Si sarebbero ben guardati dal prendere le distanze da noi comuni criminali, un po’ meno dalle mie costole, che a tutt’oggi quando cambia il tempo mi fanno male in ricordo delle botte ricevute in quella occasione. Ma quali fenomeni atmosferici? Sono sufficientemente turbato già alla vista di un qualunque anello nuziale, simile poi a quelli che mi avevano trovato addosso. Il denaro ero riuscito a sotterrarlo prima che arrivassero a prendermi, ma le canaglie non mollavano facilmente. Accecati dalla collera, erano capaci di bastonarmi a morte pur di recuperare almeno una parte del bottino, un anello o due, qualunque cosa, e io mi rendevo perfettamente conto che non sarebbe stato possibile rimediare al colossale errore

commesso in partenza. Ero spacciato. A mia insaputa e senza volerlo mi ero intromesso nel campo d’affari altrui, gestito da uno degli sbirri che regolarmente collaborava con il gruppetto del pirata. Da allora in poi, per me questo significava una cosa sola: guai. Non potevo aspettarmi di meglio! La prigionia in sé non è così dura in confronto a quanto un giorno mi attende lì fuori. La vendetta è l’ultima a morire, ma anche la prima a illudere. State pur certi che nel frattempo hanno saputo come incassare e ricavarsi spazi d’azione nuovi. Ma quale Liberté e Egualité per tutti, i Balcani sono sempre stati e sempre rimasti una fottutissima casa d’appuntamento, aperta a chi sogna di vivere libero o morire. Da qualunque sciagura intatta e salda, solo la Fraternité mafiosa spunta fuori. Fammi sentire come stringi la mano, e ti dirò da cosa proviene il pane di cui ti cibi… Le propongo, signorina, di trascorrere questi ultimi minuti preziosi rimasti a nostra disposizione trattando argomenti più allettanti che, come dire, premono con una certa urgenza. Il peso politico conviene lasciarlo ad altri, per smarrire ogni traccia della nostra presenza tra i tuoi generosi pendii e le rapide discese mozzafiato, che sono certo facciano innescare nelle vene di ogni uomo quelle pulsazioni antiche e misteriose insieme a palpitazioni, capogiri nonché sbandamenti improvvisi e un minaccioso offuscamento generale da combattere unicamente – grande o piccolo che sia – attaccandolo al seno il più spesso possibile, ogni qual volta sta per sbroccare! Sono umano anch’io, non posso solo parlare! Cosa è accaduto in quel mese di aprile, mentre la luna, le stelle, parlavan d’amor, lo verrai a sapere molto presto, forse. Chi lo può dire? Col are del tempo o addirittura già nel corso di un’indagine imparziale e immediata, la verità in ogni caso si comporta come una puttana che si offre al miglior pretendente… Perché anche tu inizi a comportarti così? Dimmelo, a cosa serve all’improvviso erigere un muro tra noi? Capisco, l’amore è dolce finché dura, ma se mi hai ascoltato finora sopportami un istante ancora. Non vuoi? D’accordo, mi dirai che si è persa la nostra intesa, che tra un uomo e una donna era pure durata troppo a lungo. Non ti preoccupare per me, ami un fazzoletto se ce l’hai a portata di mano, avanti; non sei la prima e spero nemmeno l’ultima ad abbandonarmi, coraggio! Persino i contadini se ne infischiavano di noi, da un giorno all’altro poi, senza darci il tempo per abituarci al trauma. Arrosto fresco, abbondante vino e grappa, spariti per sempre! Torturato da una sete terribile, mi sono visto costretto a uscire dalla cantina per andare su nella casa dei proprietari, come il peggiore tra i mendicanti della domenica a supplicare qualche goccia di salvezza. Questi invece, non mi rispondono nemmeno, mi ano accanto senza degnarmi di uno sguardo, come fossi trasparente. – Grazie, non dovevate disturbarvi per me, – rispondo allora senza scendere nella maleducazione – ciò

vale anche per la prossima volta. Vi auguro una buona e serena notte! Quando ci vuole ci vuole, altroché! Al mio ritorno ai bassi ranghi, ritrovo praticamente un bambino a farci da guardia, un certo corriere del vice, e per quanto sapevo che non avrei dovuto lamentarmi non resisto alla tentazione. – Che diavolo sta succedendo, figliolo? Ovunque uno a, sembra che abbia messo il piede nel posto sbagliato. Possibile che sia così drizzato a tutti? – C’era da aspettarselo – mi risponde con aria assente – è stata quella pioggia di missili di qualche notte fa a trasformarci ai loro occhi in un inutile peso; chi vuoi che ancora possiamo imbrogliare, con le frottole sull’opportuna presenza della nostra troupe qui? – In ogni caso, speravo forse che una parola gentile riuscisse a spalancare persino la porta di ferro – sospiro pure io – ma se essa non li convince abbastanza, la chiave maestra e un paio di pinze possono rimettere subito ogni cosa al giusto posto! – Beato te, – mi strizza l’occhio e sorride, in modo quasi beffardo – beato che ci credi ancora; quando però la terra trema, è normale che la gente scappi come topi di fogna! – Questo lo so pure da me – insisto. – Sai cosa? – Non è difficile riconoscere il volto della paura. – Ma non mi dire! – si infastidisce quasi come se l’avessi contraddetto – Eppure sei appena arrivato da queste parti! – Che c’entra da quanto fottuto tempo sto intrappolato in questa merda? – a mia volta brontolo impaziente pure io tanto per far qualcosa – La paura è la più grossa maledizione che possa esistere, la aspiri succhiando il latte materno e poi all’occorrenza ne versi un’altra! – Scusa, non ti seguo – confessa quello sbarbatello senza usare mezze parole. – La paura necessariamente comporta un potere illimitato, perché solo chi riesce a dominarla può controllare l’evolvere dell’intero universo. Non mi nega la sincera manifestazione del suo più puro sdegno – E io che pensavo che quel folle dottore fosse lo scassacazzi per eccellenza! Non andartene via così presto, bellezza mia, voltati perlomeno mentre schizzo, e non permettere che lo faccia da solo come un qualunque Nachtarbeiter, lavoratore notturno, disperato. ami un altro pezzo di carta, già che ci sei; questa è l’unica uniforme decente di cui dispongo per le visite e le occasioni speciali, non sarebbe adeguato pulirmi su una gamba dei pantaloni. Adagio, muoviti più piano ancora; se proprio devi, scivola pure via come un piccolo banco di nebbia che si scioglie al sole… La paura è qualcosa che temo profondamente, persino quando non ho paura di niente.

La montagna incantata

Mai sono stata così bene come in quella notte in cui le bombe cadevano dal cielo tutt’attorno a noi, e non ci restava altro che rimanere calmi in attesa di vedere se qualcuna ci avrebbe riassorbito nel proprio bacio. E al contrario, direi che non mi sono mai sentita peggio rispetto al giorno in cui le truppe abbandonarono il nostro villaggio. Che si fottano con il loro strategico cambiamento di posizione e magari finiscano per non riconoscere più nemmeno la strada di casa! Dicono che la vita va sempre avanti, ma bisogna vedere se questo è un bene! Nessuno mai si è preoccupato di me, né ha cercato di capire se mi manca qualcosa, e io di certo non devo dimostrare niente a nessuno! È una questione privata come ci si sentiva con tutti quei militari che senza sosta gironzolavano lungo le stradine oscurate del paesino, sempre in agguato tra le case e i cortiletti recintati, per far ingresso anche nella tua vita. Idioti ubriachi con le armi in mano, tutti tranne uno che forse sarebbe stato meglio non aver mai conosciuto. Idiota pure lui, grande e grosso, irrequieto come pochi, smarrito, sporco; irresistibile, comunque. Bisognoso di un urgente e accurato lavaggio fatto da me. Lo so, è da tanto tempo che non ti scrivo, unica sorella mia. Perdonami se puoi, ma tutto quello che c’era da dire ce lo siamo già raccontate anche in assenza di suoni o parole, il silenzio meglio di tutto trasmette la verità. Dopo aver visto straziare sulla croce il corpo del tuo uomo non ti può essere estranea la sofferenza di nessuna di noi. Da quando è stato ucciso mio marito non ho più provato interesse per qualcheduno, ho pianto e pregato a voce alta per poi are a una voce sempre più bassa, finché non si sono esaurite da sé tutte le mie preghiere, lasciandomi fredda e vuota come se anch’io avessi incontrato la morte dentro. La vita però era tornata a scorrere nelle mie vene senza che me ne accorgessi; distruzioni e polvere, all’improvviso non riuscivano più a reprimere un’euforia nascente, di quelle di quando senti che il calore si impossessa del tuo corpo, annebbiando ogni lucidità della mente. Il petto allora si solleva pericolosamente proprio come se intendesse saltare fuori dalla camicia da un momento all’altro, e ti ritrovi a boccheggiare, simile a un pesce fuor d’acqua, preoccupato solo di far il più presto possibile funzionare i

polmoni, che a pompare l’aria non ne vogliono sapere. Persino il morbido cotone sulla pelle diventa un peso sempre più insopportabile. Accipicchia, che sciocchezze sto dicendo! È la mia intera persona a diventare un’ingombrante montagna rocciosa, da sollevare con le mie sole forze e senza bisogno dell’aiuto di nessuno. Scendo rapidamente giù con una mano, non perdo attimi preziosi a pormi domande, poi mi aiuto più delicatamente con l’altra calda e sudata, allungo le dita verso la sommità della collina dove mi sorprende trovarla uguale a come l’avevo lasciata scordandomi quasi della sua esistenza, l’accarezzo con un fervore inaudito come se fosse la prima volta, stringo e allargo le gambe, invado il suo umido rifugio trattenendomi a malapena dal non urlare e accogliere fino al fondo di essa il primo sconosciuto incrociato per strada… Già, sarebbe stato facile e sciocco lasciarsi andare, perché l’indomani sarei finita sulla bocca di tutti, inevitabilmente. L’intero villaggio si sarebbe presentato a fare la fila davanti alla mia porta, e tra una bottiglia di birra e l’altra, uomini buoni a nulla avrebbero finalmente trovato una storia di cui vantarsi. E quante pseudo donne che non hanno niente di meglio da fare, usando lo stesso dito con cui quotidianamente premono i fondi di caffè per esprimere i loro futili desideri dell’ego, si sarebbero alzate puntandomelo contro per insultarmi? Solo a pensarci mi a la voglia e alla fine ci rinuncio. Da queste parti le incomprensibili grida di una voce antica adattata all’occasione si spandono nell’aria, riecheggiando tra le strade strette della cittadina, che solo i peccatori osano scagliarsi contro essa con una pietra, perché in un mondo di santi e innocenti, carissima sorella mia, il trionfo dell’ipocrisia diventa la mia unica possibilità di salvezza. Poi un giorno, come nulla fosse, comparve lui con la sua camicia sbottonata e quelle ridicole scarpe gialle; chi diamine abbia scelto quel colore vorrei proprio conoscerlo! Appoggiato con la schiena alla parete, vicino all’uscita del negozio, dà un tiro alla sigaretta e mi sorride mentre butta fuori una fitta nuvola di fumo. Un attimo mi guarda dritto negli occhi, l’attimo dopo apprezza la scollatura, con me che tra le due cose non riesco a decidermi quale fosse più bella o maleducata allo stesso tempo. Con sorpresa delle mie orecchie, pensa un po’, e prima che lui stesso potesse parlarmi, emerge la mia voce, che lo invita a bere un caffè insieme; e a questo punto non sono certa se sia stato più sfacciato il mio buttarmi avanti o la sua poco plausibile risposta con cui voleva rimandare tutto a un’altra volta: il momento – dice – non è dei migliori. Ora o mai più – soffoco alla nascita quest’urlo muto per non dargliela vinta – non può farmi questo, non a me… E intanto una canaglia di uomo, che gli stava accanto, aveva ben pensato di sfruttare l’occasione proponendosi come valida alternativa al posto suo. – Ehi,

frena i buoi un secondo – a esigere il rispetto e una soddisfazione immediata si scatena ora in me quel femminile orgoglio infranto – ma chi ti ha mai chiesto qualcosa? Non vedi che parlo con lui? Di quelli come te ne trovo quanti ne voglio, dalle mie parti i campi ne sono pieni, spuntati ovunque, anche peggio delle erbacce tra gli alberi d’acacia! Intendiamoci subito, inutile negarlo: già mi era sorto il dubbio che fosse uno completamente folle o che gli piero solo gli uomini, o chissà, che fosse colpito da entrambe le disgrazie insieme. Sai, siamo talmente pieni di pregiudizi che non è facile spazzarli via; così, ad esempio, sono stata a lungo più che convinta che anche quei due distinti signori intravisti in tua compagnia – sì, quelli che indossavano lunghe tuniche con sopra delle ali montate per un qualche misterioso motivo che tutt’ora continua a sfuggirmi – si massacrassero le chiappe di loro spontanea volontà. Non solo si è dimostrato che avevo torto, ma mi avevano, con la loro umiltà infinita, insegnato per sempre quanto mortificante e ingiusto potesse essere un giudizio, persino quando viene taciuto. Dovresti comunque insegnar loro com’è importante prendersi cura di se stessi, se vogliono essere rispettati dalla società, che non perdona le omissioni di alcun tipo; il sapone all’incenso non è più caro di una volta e il buon odore resta tra i modi migliori di presentarsi al cospetto degli altri per essere accettati, sempre. Lungo questi nostri tortuosi percorsi non si può mai sapere in anticipo di cosa un uomo possa aver bisogno. Non è prevedibile cosa ci riserva il giorno dopo e cos’altro ancora porta con sé… Più in particolare, durante una notte in cui venivamo bombardati senza tregua, avevo fatto una lunga veglia fino al mattino seguente pregando inginocchiata di fronte all’icona di san Giovanni Battista e all’unica candela rimasta in casa dopo quegli antichi rituali di protezione nel giorno della sua Slava. Ricordo ancora perfettamente la sensazione della terra che tremava come se avesse dovuto aprirsi da un momento all’altro, senza risparmiare nessuno di noi miseri peccatori, mentre lo schianto dei vetri esplosi trafiggeva letteralmente il cuore. Alla fine ero riuscita ad addormentarmi solo per qualche ora, quando tutto ormai si era calmato, svegliandomi stordita e imbambolata verso mezzogiorno. Qualcosa o qualcuno bussava forte alla mia finestra, riempiendomi ulteriormente d’ansia le orecchie piuttosto irritate – Padrona, ci sei? – Con una mano sposto velocemente di lato la tendina e me lo ritrovo davanti. Mi ci volle un attimo prima di realizzare che era davvero lui, vivo, e che sarebbe stato il caso di farlo entrare. – Sei venuto dunque? – Sono qui. – Lo sapevo, ne ero certa… – Io no – mi risponde con gli occhi ardenti e un respiro faticoso. – Lo bevi un caffè? –

Caffè? – Sì, caffè. – Lo bevo. – Come lo vuoi? – Voglio cosa? – Il caffè, per l’amor del cielo! Sei pazzo o fingi di esserlo? Con zucchero o senza? – Fanculo il caffè – dice, strappandomi la maglietta e il reggiseno, con il naso finalmente affonda nelle mammelle e stuzzica leggermente i capezzoli con la punta della lingua, poi separa i due seni per appoggiarli senza alcun imbarazzo sulle sue non rasate guance – è da questo ben di Dio che voglio essere soffocato, non certo dalla paura! Le bacia ancora, le stringe, le mordicchia e le succhia come se volesse ingoiarle intere, solleva all’improvviso la gonna e mi strappa anche le mutandine, quelle di pizzo nero che mi avevano regalate. Me lo mette dentro, dolce sorella mia, con tutta la forza, mi riempie fino in fondo, sempre più forte e più veloce; non rinuncia a me mentre mi perdo come non avevo fatto mai prima, avvinghiata al suo braccio con le unghie gli disegno una debole traccia di sangue sulla pelle, mordo la mia mano, poi addento la sua e mi sorprendo nel vederlo accettare la sofferenza senza una protesta, comprende il mio atto e lo condivide, sa che serve solo a farmi trattenere, prima che lo sfogo diventi completamente irrefrenabile, perché con così tanta leggerezza d’animo avrei osato strillare che mi avrebbe sentito il villaggio intero, e il mio urlo avrebbe lasciato sbalorditi tutti i suoi fottutissimi abitanti, contadini. Lo tira fuori un secondo prima di venire, estasiato spruzza sopra le mie tette e con un dito inizia a spalmare. Ovunque. Arriva delicatamente anche agli angoli della bocca e acchiappa poi per sistemarlo un ciuffo di capelli ribelle. – Tre miliardi circa di vari potenziali Čarli – dice sfiorando di nuovo i capezzoli fino all’assorbimento completo – radunati in un unico luogo. Pensa un po’! E in più, sistemati regolarmente. – E chi sarebbero? – Chiedo stupidamente al vento, perché dalla distanza in cui si trova in ogni caso non può udire la mia voce. – Fin troppa generosità per questo mondo rognoso e spregevole – si accende intanto una sigaretta – e quei bastardi fin da subito li vorrebbero far diventare orfani. – Rilassati – miagolo stringendomi tutta alle sue spalle. – Non sarà così facile come avrete creduto, il poterci sterminare, invisibile branco di vigliacchi che nel sacro nome della libertà vi prendete la briga di martellarmi da sopra – si alza faticosamente e barcolla fino al bagno – mentre fugge da sotto l’incudine il mio stesso Governo, con un’incredibile quantità di imbecilli in circolazione. Vi ringrazio del pensiero, non dovevate scomodarvi tanto, ma sarà per un’altra volta. Dopo aver fatto il bagno ha chiesto di mangiare. Puoi immaginarti la mia gioia? Non me lo ricordo neanche più da quanto tempo non preparavo qualcosa canticchiando dietro ai fornelli, invece di limitarmi a ingurgitare la prima cosa commestibile che trovo, come faccio abitualmente quando sto da sola. Cucino soltanto in occasioni speciali, per gli ospiti; e quei tuoi due amici non si può dire che mi abbiano dato gran soddisfazione, spazzano più briciole gli uccellini col becco di quanto non

abbiano fatto loro, sussurrando pure insospettiti per tutto il tempo. Avevo paura che da un momento all’altro si sarebbero alzati in volo per aggrapparsi al lampadario, o per scendere accidentalmente sulla credenza e gli armadi in mancanza di più spazio, ma lasciamo perdere che è meglio. Si era addormentato con lo stesso voluttuoso piacere con cui pochi istanti prima mi aveva regalato una risata sonora leccando il piatto davanti a sé, tanto che non potei fare a meno di stendermi adagio anch’io accanto al suo corpo, badando bene a non disturbare quel respiro affannoso, già così caro e così mio, greve come una coperta in ghisa fusa, pazientando che si svegliasse perché per nulla al mondo mi sarei negata anche quel poco di lui che potevo avere in questa vita; – che poi non era affatto poco, adorata sorella mia – ancora nel dormiveglia mi era salito sopra altre due volte, sempre più pesante e più amato da questo mio ingenuo muscolo che mi ritrovo a battere forte in mezzo al petto. – Hai un bel culetto – constata finendo di farsi un’altra veloce doccia – fammelo vedere meglio! – Ti prego di non farlo – gli dico ormai sull’orlo delle lacrime, triste e spaventata – ti supplico … – Ascoltami – bisbiglia e con entrambe le mani accarezza un poco i miei fianchi – sarò premuroso, te lo prometto! – Nooo… – Lo vedi che non è così terribile come può sembrare – ansima dentro di me. – Non voglio… – Nemmeno io lo voglio, ma devo – mi rassicura con fermezza e un tono molto più determinato del mio – inclinati meglio… tutta… coraggio… cooosììì! – Nooonnnmhmvooogliooo – disapprovo a voce sempre più bassa. – Allora lo rimuovo? – chiede. – Nooo, ti prego, non privarmi ancora di te – ascolto la mia stessa voce, incredula che mai sarei arrivata a tanto – prendimi tutta come vuoi tu, afferraaa ogni cooosaaa, preeendiii… Niente più mi può essere portato via, lo avverto chiaramente disperdendomi a poco a poco in mille sciocchi pensieri, mentre questo mio inutile corpo nudo singhiozza e si contorce sul pavimento, assalito da ondate di puro piacere. – Vado, ora – mi riporta alla realtà questa sua logica e crudele considerazione. – Se proprio devi… – Immagino che sia proprio così. – Tornerai a trovarmi di nuovo? – quasi non oso domandarglielo direttamente. – Lo farò, ma non so quando. Si veste come in uno scatto rubato e oltrea la porta di casa per iniziare, una volta fuori, a gridare parole e frasi a me incomprensibili, finché dai cespugli vicini del giardino non spunta quello stesso idiota che si offriva goffamente davanti al negozio di rendermi una donna completa al posto suo. Si scrolla le foglie di dosso, come se il gesto dovesse nel frattempo liberarlo anche da ogni responsabilità implicita. Maledetto guardone! Cosa c’era di tanto importante da vedere, lo sa solo lui. Si allontanano insieme, a pochi i di distanza l’uno dall’altro, suscitando in me un’imprevedibile rabbia, basata, chissà, su

presupposizioni tipicamente femminili, oppure su qualcosa di concreto che non appartiene soltanto all’immaginario. Credo che prima o poi ognuno di loro non tarderà a dimostrarsi un autentico pezzo di merda secondo la sua vera natura, l’uno vale l’altro. Capisco che la mia ti sembrerà probabilmente solo una magra consolazione, tormentata sorellina mia, quello tuo per lo meno non poteva fatalmente fuggire da nessuna parte… In seguito non si è fatto sentire per un po’ di giorni, – niente, neanche un messaggio – solo quell’insopportabile silenzio che ti entra dentro le ossa, da star male, – troppo – , e per interromperlo avrei fatto qualunque cosa. Morivo dalla voglia di incrociare nuovamente il suo sguardo, e in quel momento, incurante di tutto e tutti, sarei persino corsa a cercarlo. Certo, lo sapevo che l’indomani stesso mi sarei pentita amaramente ricevendo le beffe dall’intero villaggio, ma a chi importa? Che si fottano quei maledetti ignoranti, come direbbe lui, ricomparso una notte quando non me l’aspettavo più e in condizioni a dir poco pietose, ubriaco perso, da non reggersi in piedi. – Almeno tu sopportami fino al mattino, quando questi tuoi non lo vogliono fare. – Quali miei? – chiedo senza alzare gli occhi, perché non gli dicessero a mia insaputa che avrei retto il suo peso anche per qualche centinaia di anni, se me l’avesse permesso. – I contadini, donna. Appena si è sentito l’odore della polvere da sparo non risultiamo più simpatici come prima; urlano, ci minacciano e maledicono, quando ci incontra, la gente comune scappa come se avesse visto il diavolo… Ma io non mi scanso – gli avrei detto volentieri – sono qui, ben felice della tua presenza. – Se ci fosse qualcuno in grado di capire quanto grande sia la paura umana, quello sarei io – mi spiega sbagliando la sedia su cui stava per appoggiarsi – tutti questi campagnoli che mi circondano sembrano invece essere sorpresi dal cambio d’atmosfera generale… – A te non tocca? – lo interrompo bruscamente, curiosa di sapere. – Donna, quale essere normale ancora può rimanere stupito quando accadono cose anormali in questo paese? – mi sorride cinico – Il nostro fallimento è stato minuziosamente programmato da tempo ormai, e cercavano soltanto il primo valido pretesto per farci fottere pesantemente! – Cos’è successo? – Avevo chiesto per distrarlo, porgendogli allo stesso tempo sotto al naso il seno sinistro, bianchissimo e tremante, ma lui quasi non si accorge della sua presenza. – Non c’è ragione di coltivare gli idioti – continua a declamare, deciso a non lasciarsi deviare verso discorsi meno impegnativi – sole o pioggia tanto nascono spontaneamente in qualunque stagione, infestando con la loro forza tutte le altre specie. – Hmmm – gemo di un finto piacere e affidandomi a quella saggezza popolare secondo cui piccolo o grande che sia, quando si tratta di un uomo, ogni questione si risolve attaccandolo al seno, tiro fuori in aiuto

anche il destro. Niente da fare. – Lo sapeva bene quel vecchiaccio nato il mio stesso giorno qualche anno prima di me – mi stringe a sé sbavando come un lupo bramoso, ma tra un bacio e l’altro torna però a tradirmi con la politica – che Dio non gioca a dadi, tutto cambia, nulla è assoluto. Un giorno per loro sei un grande eroe, credono in te e ti alzano su un piedistallo, poi diventi solo un mostro. – E tu ti preoccupi per questo? – apparentemente mi scandalizzo per quanto appena detto e gli tiro giù la zip dei pantaloni con una mossa sola. Infilo la mano nelle mutande come un bracconiere pronto a cacciare di nascosto nel bosco dei peli cutanei leggermente arricciati, e per un attimo temo che lui abbia frainteso le mie intenzioni raccontandomi fin nei dettagli la disputa con il proprietario del negozio, il quale all’improvviso di continuo lamentava le bollette telefoniche troppo alte. Lo guardo sbigottita, quasi non oso credere alle mie orecchie; è turbato anche lui per il trattamento ricevuto, anche se è sempre stato uno dei pochi a saldare i suoi conti. – Guardami negli occhi e dimmi almeno che sei capace a calcolare quanto ti dobbiamo in tutto, noi parassiti che credete essere venuti fin qui a divertirci per un qualche matrimonio e non per proteggere i vostri culi flaccidi. Magari, del mio nessuno si preoccupa in alcun caso – con l’erezione già in atto mi giura di aver graziato quell’arrogante maleducato con queste testuali parole, e solo sentendo come vigorosamente cresce nella mia mano sono anch’io finalmente felice, perché comprendo che ha scelto proprio me per alleggerire il suo animo straziato – anzi, no, tieniti queste banconote e se ti avanza qualcosa, lascia un’offerta alla chiesa: è così che la nostra audace unità, nel suo piccolo, combatte i vizi, raccogliendo i recipienti vuoti e azzittando i luridi corrotti che ti somigliano! Mi spiega anche che giorno dopo giorno andrà sempre peggio, se dovessimo dar retta alle informazioni raccolte e rielaborate dai paesani esperti in questo genere di dicerie, giacché gira voce che molto presto saranno date alle fiamme tutte le case di coloro che avevano ospitato i militari. – E voi, come rispondete a simili provocazioni? – alzo il tono cercando al contempo con il ritmo della mano di procurargli un effetto rilassante. – Di uscire allo scoperto, che altro? E fare di noi un facile bersaglio direttamente là, in mezzo ai campi – ascolto con piacere la sua umanità, appoggiando il bollente cannone sulla mia guancia – meglio un’asta in mano, che un’albicocca sul ramo. – Stai attento e bada bene che a questo signore qui non succeda nulla – ordino alla sua onnisciente testolina rosea, che curiosa spunta fuori per valutare la situazione – quando già non ci pensasse a proteggersi da solo. Arrabbiato e riempito come una spugna potrebbe facilmente mettersi nei guai, dire una parola di troppo proprio lì dove meno servisse, prendersela a morte con i campagnoli sempliciotti di scarsa cultura, incapaci di pensare ad altro che a come evitare di avere i loro fienili bruciati. – Se volete sentire il rumore secco di qualcosa che

crolla, si spezza oppure frantuma completamente, non c’è bisogno di aspettare il loro intervento dall’alto, credetemiiii – strilla sempre più forte come un indemoniato – è sufficiente sperimentare l’autentico piacere di cavalcare le vostre indifese sorelline che vi sapranno con entusiasmo confermare la precisione dei miei colpi… Si ferma di colpo, esaurisce le sue ultime forze e parole, ma io mi dedico ad ascoltare attenta ogni sussurro proveniente dalla sua bocca, cosa che gli altri probabilmente avevano smesso di fare da tanto; tengo con molta cura in una mano i gioielli di famiglia, sorella mia; e con l’altra stringo così forte da impedirgli di allontanarsi… Amata sorellina mia, a quel punto ho fatto una cosa che non avrei mai immaginato potesse piacermi così tanto, e invece c’è sempre una prima volta! In bocca l’ho messo, senza pentirmi, io, così tremendamente complicata come sono, ci credi? – Non lasciartelo scivolare via, ti prego – dice afferrandomi per i capelli, proprio com’è giusto che un vero uomo faccia – guardami adesso, e ascolta quello che ho da dire, se non ti crea troppa nausea. – Chiedimi tutto ciò che vuoi – sospiro, assaporandolo sulla punta della lingua prima di mandarlo giù fino in gola, velocemente – sono qui per ascoltarti… – La mia spina dorsale non si sconvolge quando ha a che fare con uno sciocco al giorno, è da tempo ormai che mi sono abituato a scherzarci sopra e lei mi sostiene; nemmeno i vari esperti di questioni militari li ho mai presi sul serio, al massimo ciò che mi faceva spazientire era la razione di fagioli troppo salata per quel determinato giorno. Ma che ci vuoi fare, anche i cuochi più bravi possono sbagliare, soprattutto quando quell’idiota del nostro Maggiore li costringe a cambiare la posizione di corsa. Per forza poi uno non si ricorda più se ha già salato o no, e lo mette per la seconda volta! L’ennesima scempiaggine apocalittica, com’è giusto che sia, viene naturalmente lasciata a maturare per il dessert, che nessuno si perda il gran finale che ci attende… Ahhh, non rallentare ora, donna, mai fatto prima, incredibile, mi è capitato dunque un vero talento, limpido, corretto, sono un uomo fortunato. Ti sei solo dimenticata di dirmi che in realtà sono il terzo! Ahahaha non arrabbiarti subito, l’ho detto solo per vedere se ci sai stare alla battuta! – afferma spingendo la mia testa più a fondo nel suo grembo. Non la smette di parlare nemmeno raggiungendo l’apice, mi tiene stretta e non permette che io fugga e mi nasconda dai getti che schizzano con una tale forza e prepotenza da perdere ogni potere di ragionamento. – È ottimo per tutti i tipi di pelle, idrata e protegge, rigenera – sostiene il più seriamente possibile – sono le migliori proteine del mondo, parola d’onore. – Ma di quale parola e quale onore parli? – scatto come un grillo – Del mio, del tuo o quello

della gente, forse? – Perdonami – dice immergendosi nei propri pensieri – hai ragione; camminavo adagio e tenevo gli occhi sgranati fissando quella ciotola tra le mie mani – qualunque intruglio caldo è sempre molto meglio di niente – cercando un posticino dove appoggiarmi quei cinque minuti per mangiare in pace. Nella Batteria di Comando regnava ormai un’atmosfera da veglia funebre mai percepita prima in tale misura; addirittura il fabbro si era impegnato a rimanere sobrio per l’occasione – dev’essergli costato non poca fatica – ma tutto questo poteva significare soltanto che le cose si erano messe davvero male. E mi sarei volentieri allontanato in un’altra stanza, se non mi avessero fermato prima, sostenendo che l’urgenza della situazione richiedeva la mia presenza. Lo ascoltavo così, sorella mia, per un tempo indeterminato, senza perdere una parola sola, in silenzio, senza porgli altre domande o raccontare tante cose che avrei desiderato dirgli. Non ha voluto farsi più la doccia, ma volentieri ha accettato un altro grappino, e anche una buona frittata con cipolle fresche tagliate a metà e tre uova. – Saranno più che sufficienti – dice crollando sotto il peso del sonno, mentre cerco di farlo girare da un lato per liberare quei suoi piedi gonfi da quelle gialle scarpacce e da quei calzettoni spessi; gli sfilo del tutto i pantaloni lasciandolo solo in mutande, sbottono la giacca e la camicia militare per gettarle, almeno al momento, il più lontano possibile dalle nostre esistenze. Quasi in punta di piedi mi muovo attorno, decisa a non disturbare in alcun modo il suo, per me sacro, riposo. L’ho svegliato all’ora di pranzo e dopo un po’ di comprensibile fatica iniziale a tenere gli occhi aperti si è alzato e vestito lo stesso, riprendendo il suo racconto esattamente là dove si era interrotto ore prima, come se fossero ati appena pochi attimi. – Piano, anzitutto pensa a mangiare – dico andogli il piatto già pronto – poi ti rimane abbastanza tempo per dirmi tutto quello che vuoi. – Ti ringrazio del pensiero – risponde benedicendo col sorriso sulle labbra il cibo preparato in suo onore – lo pensavamo anche noi, ignari di come invece scorre inesorabile, finché il fabbro non si è deciso a trovare un capro espiatorio che pagasse per tutti. – Non ci pensare ora – aggiungo riempiendogli d’acqua il bicchiere. – Ci chiamava compagni, quel vigliacco – schiuma di rabbia ormai, come un qualche potente personaggio della mitologia greca – sostenendo che qualcuno di noi semplici soldati abbia con il suo indecoroso comportamento messo in imbarazzo l’esercito intero! – Comprendo… – Nooo, qui c’è poco da capire – emana uno stridulo grido pieno di dolore – una lendine di uomo esige che secondo il cosiddetto concetto di “teoria critica” e “autocritica applicabile alla prassi” – e ampliamente illustrato a colori nello splendido manuale base di demagogia per fabbri – , insomma, che un presunto colpevole si faccia avanti da

solo, perché come diceva anche lui pur avvertendo in basso la primordiale necessità di farsi una scopata, non si mette a rincorrere la figlia di un onesto padrone di casa che nei confronti di noi sciagurati si è dimostrato generoso fin dal primo istante, aprendoci le porte della sua umile casa. – Era questo dunque il vero motivo… – L’unico motivo da cui si lascia guidare ogni cacasotto è la paura, – continua a spiegarmi con un tono implacabile – avresti dovuto vedere il finto ferito mentre strizza entrambi gli occhi e li riapre, per vedere chi è questo animale in uniforme da sbranare, come se ce ne fosse una sola. Il rispettabile proprietario di una casa a tre piani in cui manca solo l’ascensore, tornato dalla Svizzera dove abitualmente vive per mettersi al servizio del proprio Paese, e tutto ti sarebbe stato chiaro, credimi; un patriota di quelli che per combattere il nemico resta tappato nella cantina, senza mai uscire, finché non è ato ogni pericolo, profondamente deluso e offeso a morte. Proprio uno come lui, capisci? – D’accordo, ma ora mangia che si fredda – lo avverto – e lascia perdere quell’idiota, non merita la tua attenzione! – Magari lo fosse, un sano stupido, intendo – non riesce a calmarsi facilmente – ma lui è feccia della peggior specie, è un freddo calcolatore che sa solo frignare per ogni metro cubo di acqua consumata. Non ci vuole più tra i piedi nel suo giardino soprattutto ora che corre il rischio di dover subire l’ira piromane a causa della nostra ingombrante presenza. E in più siamo ancora vivi, pensa un po’! Non ci siamo ancora fatti ammazzare con tanto d’onore! – Mangia, – abbasso la voce – dopo si incolla tutto e diventa davvero una broda… – Glielo do io un buon motivo per essere deluso, fottuto imbecille. Sono tutti così maledettamente uguali, dispiaciuti, che invece di comportarsi da veri eroi che piombano nelle case shqiptare, ci siamo abbandonati alla nostra inerzia, senza far fuori la metà del villaggio in modo da facilitar loro, veri gentiluomini dalle raffinatissime maniere che non conoscono limiti nei rapporti umani, di ruspare tutto, evitando persino di togliersi i guanti bianchi dalle mani. Oggetti di valore, elettrodomestici da rivendere al mercato nero, macchine, trattori e macchine operatrici di tipologie varie: la lista è lunga. E se mi permetti di aggiungerci anche le diarie svizzere perse, che in questo posto sperduto e dimenticato da Dio nemmeno riescono a compensare con un’onesta rapina fatta per bene, ecco che all’improvviso il quadro diventa completo! Tace allora per circa tre minuti pieni, mastica in fretta come se dovesse scappare da qualche parte, ingoia senza assaporare e ricomincia a spogliarsi di nuovo: prima la camicia, poi le puzzolenti scarpe da ginnastica, infine anche i calzini, che appena toccano il parquet restano dove li ha buttati in posizione eretta. – Fanculo, questo è colpa tua. Alle tue grazie reagiscono così persino i miei

indumenti! – dice baciandomi il collo, ride, con una mano mi strizza il seno, lo tira fuori e invece di appoggiarci la bocca la usa per parlare ancora – Forse sono stato l’unico a intuire subito chi è che tirava le corde dietro le quinte di quel pietoso spettacolo a cui eravamo costretti ad assistere, impotenti; d’altronde da un fabbro ignorante com’era, non ci si poteva certo aspettare che comprendesse il giochetto di quel vecchio lupaccio avido di facile successo, né che conoscesse la regola numero uno per la sopravvivenza, una volta caduti in trappola… – Vedo che preferisci la sinistra – dico, sperando di poterlo distrarre – la tetta destra rimane sempre un po’ in disparte. – … è fondamentale ritrovare la calma, smettere di opporsi perché scavando più a fondo anche tu vai a finire troppo in basso. Perciò mi faccio avanti, interrompo l’udienza in corso e cerco di salvare il salvabile; mi scuso a nome di tutti noi con l’ addolorato padrone, godendo nel vederlo così turbato per l’imprevisto cambiamento di scenario, quando gli dico che dev’essere lui a proporre una giusta punizione non appena riusciamo a catturare il mascalzone! –Ti va di nuovo? – gli chiedo, decisa a riprendere le redini in mano, per quel poco che resta dei nostri preziosi effimeri istanti. – Di nuovo cosa? – Quello, lo sai già. – Non ora – risponde avvicinandomi a sé – sdraiati qui accanto, e ascolta come un modesto e sconsolato padrone serbo, sull’orlo del sonno, è capace di una metamorfosi che lo trasforma in una bestia assetata di sangue altrui. Nei minuti che seguono vengo a conoscere ogni particolare di quella loro disputa in cantina, e dopo un po’ era come se anch’io ci avessi preso parte, incapace, sorella mia, di far fronte alle conseguenze dell’incantesimo che in me suscitava la sua voce, maschile, profonda e al contempo morbida a tal punto da farmi sentire abbracciata anche al semplice udire del suo suono. Persino quando mi parlava di come quello scemo di prima si sarebbe divertito a tagliuzzare a pezzi il corpo del colpevole, – anzi, in realtà lui è un uomo indaffarato che non ha tempo da perdere –di come gli avrebbe spezzato il collo subito con le sue mani, – non è tornato dall’estero per essere insultato nella sua propria casa, questo no di certo – e di quanto sarebbe stato meglio che fossero spariti tutti dalla sua tenuta, perché in futuro forse non sarà altrettanto bravo a contenersi, non si sa mai. – Non so com’è – si meraviglia – più grosse le spara quel deficiente e più siamo tutti pronti a spalancare la bocca perché la sua merda ci scivoli giù senza intoppi. Grazie a Dio, almeno il fabbro aveva finalmente capito la morale della storia e impedito ogni ulteriore discussione rimettendosi nella sua solita posizione di comando supina con una bottiglia di vino sotto il braccio e un’altra stappata in mano. – Non dirmi che questa storia finisce così? – Dovrei forse stupirti con degli effetti speciali? – Certo che no, mi chiedevo soltanto come mai

è rimasto ancora così piccolo? – Ovunque vai c’è sempre qualcuno che si sente grande e questo era esattamente il caso del nostro vice, estremamente insoddisfatto per come sono andate le consultazioni preliminari, si aspettava la testa di qualcuno di noi servita su un piatto d’argento, sempre eccitato all’idea di poter spedire un soldato davanti alla corte marziale; perché se questi figli di puttana non ci hanno ancora stramazzato da sopra, è giusto che ci pensiamo noi a farci fuori a vicenda a causa di un povero stronzo… – Vedo che anche lui lo sa come far sentire potenti – fiorisco vedendolo crescere secondo dopo secondo sotto i miei persistenti baci. – Mi avverte il bastardo che devo stare attento a come mi muovo e a quello che dico, ora mi vuole così bene da preoccuparsi per la mia salute – ricorda abbandonandosi sempre di più al mio interferire – e lo invito a impegnarsi a cucciarmelo in due, insieme con quel patriota già che ci tiene tanto. A fanculo lo mando, chiedendogli di rimanerci per almeno un paio di giorni, fino al martedì della settimana successiva diciamo, perché il concentrato di idiozia può essere fatale; sono allergico a ogni sottospecie di codardo e soprattutto quando sono addobbati da varie stellette e gradi militari. –Il mio ornamento dov’è?– gli chiedo seriamente – Vuoi punirmi forse? Credi che almeno per un po’ non me lo merito anch’io? Per sedermi sopra di lui… giusto… cosììì… ahiii… – Domani andiamo via, non te l’ho ancora detto. – Per l’amor di Dio non toglierlo… ahiii… andate dove? – Avanziamo verso l’entroterra. – No, non me l’hai detto. – Meglio una coraggiosa ritirata tattica della morte vile. – È la nostra ultima volta, dunque? – Dio ce ne scampi, anzi, chi può saperlo. Quel cretino del nostro Maggiore ha deciso di farci muovere in colonna come nel corso delle esercitazioni… – Esercitati solo su di me ora, mi offro volontaria; non muoverti, faccio da sola, lentamente… – I grandi vorrebbero giocare ai soldatini e riservare a noi il ruolo dei modellini in piombo, comodo così. – Sì, è comodo, buono, sulla sua cima distesa rimarrei fino alla morte e oltre… – Da queste parti nulla è mai stato così poco costoso quanto una vita umana, né ci sarà probabilmente ancora a lungo; importa soltanto che siamo tutti ben raggruppati in file perfette e che ogni fucile corrisponda al suo numero. – Ora, spara pure… – Per il fatto che sono venuti a mancare quei bambini il cazzo non fa male a nessuno… – Ne voglio uno, ora, uno tuooo, ti prego… – … né prude loro che una madre non saprà mai quanto l’abbia chiamata il figlio nel momento di maggiore bisogno. Ma questo non importa, tutto è perfetto finché la calca destinata alla mungitura supera le perdite. – Bellissimo, solo un altro po’ lascialo stare là dentro, làaa… Questa volta non perde tempo, con delicatezza mi sposta da un lato e si riveste. –

Non lo so se ci rivedremo ancora – le sue parole mi trafiggono il cuore – Da Mogila partirò senza più girarmi, credimi. Se Dio vuole, un giorno mi dimenticherò anche che ci sono mai stato qui. – Proprio tutto intendi scordare? – trattengo le lacrime, mentre lui finge di non intendere e penso che fino ad allora avrò bisogno, sorellina mia, che qualcuno mi aiuti a portare questa nostra croce, non la sua, per la quale nessuno ci ha chiesto quanto pesa. Lo sappiamo solo noi, siamo donne, obbligate a resistere quando serve...

La amo con le orecchie

A tal punto è tutto confuso in un’unica, meravigliosa, cacofonia, tessuta di scarsi ma fedeli filamenti sonori, che anche quando sarà cessato ogni tintinnio di bottiglie alzate in brindisi, fischio di freni dei camion, sferragliare metallico di cardini mal oliati sulla porta del negozio, o anche quell’innocuo sbattere degli sportelli posteriori del furgoncino per il trasporto dei carcerati, tali risonanze sapranno trattenere in eterno il loro ricordo e portare nuova felicità ai nostri cuori. Un’adeguata attrezzatura tecnica avuta in dotazione stabile per l’intera durata della mia vita lavorativa, non mi aveva mai tradito fino ad allora. Al contrario, devo ammetterlo, spesso sono stato io quello che perdeva la pazienza, quando ad esempio mi sforzavo di comprendere la presunta bellezza della musica: quel più o meno aritmetico insieme di suoni, perfettamente distribuiti in base alla loro altezza e intensità, come in una corte del diavolo dove ogni nota rimane immobile, fissata sul pentagramma da quelle fastidiosissime chiavi di Fa e di Violino, con tanto di alterazioni ascendenti o discendenti, ma sempre terribilmente prevedibili al posto delle sbarre di una prigione. Soltanto un sano errore umano sarebbe stato in grado d’introdurre una parvenza di vita dentro quel delimitato spazio freddo. E l’uomo sbaglia… Non la mia “macchina” però, questo mai! A dire il vero, si trattava di un congegno il cui fiore della giovinezza era ormai apito da tempo, ma per questo ancora più solido e affidabile; un’apparecchiatura indurita, insomma, al punto da sapersi autodifendere in ogni occasione, persino dai frequentissimi attacchi di quel malefico asfalto su cui in continuazione mi cadeva e, allo stesso tempo, abbastanza grande per persuadere un qualunque ficcanaso troppo invadente dell’onestà delle mie intenzioni. Ditemi un po’ voi che vicenda bellica degna del suo nome sarebbe, senza la presenza di un esperto corrispondente di guerra, che in prima linea sfida la sorte e, quali efficaci Servizi di Intelligence moderni non cercherebbero di far are i suoi agenti migliori per semplici inviati del “quarto potere”? Poi un giorno, come se niente fosse, voi tre venite qui decisi a convincermi di che cosa? Di essere dei veri giornalisti per caso? Ma fatemi il piacere, questa è proprio bella! Vedo che l’Agenzia ha iniziato a reclutare sempre più donne, oggigiorno; certo, bisogna cogliere le sfide e le

nuove opportunità, lasciando frattanto gente seria come me a marcire in pensione forzata. In ogni caso, è andato tutto a puttane. Lo capite cosa significa mettere fuori servizio a rigor di legge uno che per tutta la sua vita è stato quella stessa legge in persona? Verrà il giorno in cui si pentiranno delle loro facili decisioni burocratiche; quando sarò stato riabilitato, li fotterò uno a uno insieme alle loro donne, pian pianino, davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo… e nemmeno voi mi girerete più intorno così, scalzi e nudi, molto presto ogni cosa andrà per il meglio. Senza farmi troppo pregare, vi dirò ugualmente tutto: qualcuno deve pur pagare per tutta questa sofferenza. Spegnete però l’incenso, se non mi volete soffocare anzitempo con le vostre preghiere e scemenze varie. Parlerò, vi dico, chiaro e forte; il torto che ho subito continua a bruciare. Malediranno il giorno che mi hanno costretto a mettere una firma di consenso, il tempo non scorre invano… Vi interessa proprio colui che dentro quel camion abbaiava peggio di un cane rabbioso? Mah, strani gusti e preferenze avete, non c’è che dire, ma se lo volete voi, ho da volerlo anch’io, a condizione che mi lasciate la libertà di agire come meglio credo. Vi riferirò per filo e per segno le cose che ho udito da lui, o che sono state dette sul suo conto, basta che prima mi scaldo un po’ i muscoli della bocca ricordando qualche individuo più intrigante e divertente per calarmi completamente nell’atmosfera del racconto. Avreste dovuto vedermi all’opera, con quale cautela sapevo intrufolarmi nel negozio divenuto luogo d’incontro e socializzazione, e ora non sareste qui a giudicarmi velocemente e in modo così rancoroso. Una sera, come al solito, entro là dentro, attento a non disturbare gli altri ospiti: tre contadini locali che al lume delle candele accese sul banco principale sembravano essere piuttosto in confidenza col proprietario del locale. Motivo in più per avvicinarmi al gruppetto fingendo indifferenza, ma restando con le orecchie ben drizzate e attente per captare il minimo rumore ed eventuali messaggi cifrati. – Buonasera, buona gente – li saluto allegramente, spingendo di nascosto quel miracoloso bottoncino Rec che immediatamente fa partire il nastro e, in cambio, come lo sapessero, ricevo solo delle occhiate minacciose di chi non va tanto fiero di farsi vedere in mia compagnia. Lascio durare il silenzio, per qualche secondo fingendo di ignorare questa realtà di cui sono la vittima, poi decido di rompere il ghiaccio ando al contrattacco, sicuro e affidabile. – Cosa bevete? Stasera offro io! – Non ti preoccupare per me, sono a posto così! – si sbriga a rispondermi uno più sveglio degli altri. – Va bene della birra – echeggiano i due alle mie spalle. – Tre bir… – provo a richiamare l’attenzione del capo, appoggiato intanto su una delle casse vuote senza alcuna intenzione di muoversi da quell’evidente posizione da frattura delle costole tutt’altro che

comoda. – Mi associo anch’io – ci ripensa la prima voce – visto che insisti tanto! – È così che si fa – esprimo la gratitudine per aver accettato il mio invito – quattro allora, e che siano belle fredde, mi raccomando! Tra un sorso e l’altro, il racconto scorre fluido, così come l’implacabile nastro va avanti lineare, lento, ma sicuro quanto i movimenti dei granuli di sabbia in una clessidra, decisi a non farsi sfuggire nulla. – Un altro giro per tutti – batto così forte i pugni sul banco che per poco non convinco persino me stesso di essere il duro che avrei sempre voluto – sul mio conto! – No, adesso tocca me – si fa avanti uno di loro – Raccontaci un po’ com’è andata oggi, uomo dell’inchiostro. Quanti aerei abbiamo abbattuto? – mi chiede il proprietario dopo sei giri di birra, non aspettandosi una vera risposta. Di colpo parte una risata generale orribilmente derisoria e aggressiva. – Se la metà di quello che i giornali si inventano fosse vero, nemmeno i erotti sorvolerebbero più il cielo di Mogila – aggiunge quel primo idealista sentendosi incoraggiato. – Che ci vuoi fare, compare carissimo – a catena tutti diventano bravi a indignarsi e a sbuffare – sempre e ovunque gli stessi pezzi di merda scelgono di svolgere quel mestiere; puzzano diversamente, ma di certo possono vantare la stessa consistenza! – Hai ragione – li sento fortemente ispirati a stimolarsi a vicenda – si somigliano quanto il testicolo sinistro a quello destro. – Una volta tanto state zitti e mordetevi la lingua, quando è troppo è troppo – sul più bello interviene il proprietario, mettendoli in guardia, che il diavolo se lo porti via – ma non lo vedete che questo infame qui di fronte appartiene all’ordine dei giornalisti esattamente quanto io faccia German Titov, il sostituto di Gagarin, di nome e cognome? – Proprio per questo – si eccitano i contadini pronti alla rivolta – è un bene che qualcuno finalmente venga a sapere come realmente stanno le cose e, perfino con l’orecchio malevolo, registri ogni nostra parola finché non cala il buio completo e tutto resta confuso e perduto per sempre! – Ma non nel mio locale, signori! – strilla il proprietario furibondo. – Tolgo il disturbo – per un attimo avevo pensato di potermene uscire civilmente – è stata una serata piacevole, ho apprezzato la vostra compagn… – Mai abbastanza quanto la possiamo rendere ancor più speciale se non ti togli dalle palle con una certa urgenza… – Buon proseguimento… – Allora non hai capito un cazzo perché da queste parti chi si dedica alla delazione finisce per ritrovarsi regolarmente a minuscoli pezzetti nel gulasch bollente prima ancora che riesca a dire come in cielo così in terra… Un rapido click questa volta sul pulsante Stop, e sparisco via in un lampo; si sa che una buona parte della salute risiede proprio nella velocità con la quale uno riesce a riconoscere le potenziali fonti del pericolo e ad allontanarsi dalle stesse. Cammino a o svelto, senza guardare né a sinistra né a destra, e soprattutto

senza farmi fermare da nessuno, per arrivare alla sede centrale il più in fretta possibile, laddove speravo di poter contare su un minimo di protezione. – Ah, cronista, sei tu – viene preso alla sprovvista il nostro Maggiore, allarmato e meravigliato nel vedermi – non ti aspettavo così presto! – Meglio che mi riposi – gli rispondo ingenuo – domani ci attende un altro lungo giorno. – Vedi, abbiamo un piccolo problema – titubante, non sa come dirmelo in faccia – cercati un’altra sistemazione, siamo pieni: abbiamo qui gli ospiti abituali per questa notte. – Zie e zii! – sorrido come un imbecille, deciso ad esercitarmi nel sarcasmo. – Ma nooo, nulla di privato… – Ah ah, va bene – annuisco uscendo dalla stanza – capisco! In realtà lo comprendevo molto meglio di quello che ci si poteva aspettare da uno sciagurato giornalista da due soldi, eccome se lo comprendevo: un altro splendido candidato che si meritava di essere spedito davanti al plotone d’esecuzione, insieme a quei suoi fantocci che compaiono ogni tanto, giusto per essere visti e fotografati in uniforme perché nessuno osi dubitare che sono rimasti accanto al proprio popolo andolo nei momenti peggiori. Lo ripeto, gente molto laboriosa e con uno spiccato senso degli affari, che già fin d’allora sapeva come investire sul futuro, assicurandosi certi diritti e privilegi nel dopoguerra... – Ci sarà un momento prima o poi che ti becco da solo, e allora te ne accorgerai; qualche centimetro di nastro registrato sarà più che sufficiente per farti arrivare alla giusta destinazione – pensavo così, tra me e me, salendo gli ultimi gradini che portano fuori dalla cantina, per sfogarmi e consolarmi a modo mio, procedendo tra coltivazioni di lattuga e cipollotti prima di uscire sul selciato, alla sola idea di tutte le afflizioni che presto gli avrei potuto far subire, umiliandolo esattamente come aveva fatto lui con me. Attento, in quel buio, a non rompermi una gamba da qualche parte, entro nella prima stalla, e mi butto sul cumulo di fieno, sprofondando nel suo odore ancora caldo. Come su un grande schermo all’aperto, mi ano per la testa allora le sconnesse immagini del mio ato, i rumori di un’infanzia felice, dalla quale riconosco immediatamente il fruscìo delle banconote che un vicino di casa porgeva al fratello di mio padre. – Lo farete uscire; il carcere non è un posto per lui, morirà di vergogna quel povero uomo… – È troppo poco – sento la voce dello zio – non vedo i ducati d’oro; dove sono? – Li porto, già domani potrete averli in mano vostra! – Ora. Domani sarà tardi! Poi non sento più niente. Aspetto. La pausa dura a lungo, e quando sto quasi per perdere la pazienza, la visione inaspettatamente si allarga ad abbracciare l’intera complessità della scena. Dalla corsia accanto, per primi mi arrivano gli ansimi di mio padre, tutto indaffarato sopra un corpo nudo di donna. – Cosa ti prende? Sono certo che sta meglio di noi. Vitto e alloggio gratuito, cosa vuoi di più dalla vita? – Oraaa, lo voglio ora! – geme anche la beata moglie del carcerato, contorcendosi sotto il mio genitore,

a ogni costo decisa a contribuire al miglioramento delle condizioni di vita del suo uomo. – Non capisco perché insisti tanto: due anni ano in fretta, estateinverno, inverno-estate, e già sarà di nuovo qui a scaldare il tuo letto. – Ora o mai più… – Adesso è tardi – la congeda mio padre rimettendosi i pantaloni in fretta – ci vediamo domani. Devo interrogarti ancora, ma sul presto. Intesi? – A domani – ripete la voce femminile accarezzandomi l’orecchio con la rara tonalità vellutata del suo suono – domani-mani-ani-iii… prima di trasformarsi alle prime luci dell’alba in rombo di camion, sgasare di motori e puzza di benzina che ti invade il cervello, un brusio in crescita e un confuso via vai di gente… Muoversi! – Dove si va? – chiedo, ancora assonnato. – Noi da nessuna parte e tu dove ti pare, buon viaggio – mi augura la contadina, arrivata a mungere le mucche – non temere; i disagi più gravi toccano a coloro che restano. Noto uno dei camion in partenza con pochi uomini dentro, e accelero il o per raggiungerlo. – C’è posto? – chiedo trotterellando dietro la vettura. – Se ti sbrighi – risponde il vostro tizio, di cui in quel momento vedevo soltanto le scarpe da ginnastica gialle. Mi impegno allora seriamente, pensando di potercela fare con le mie sole forze, ma per quanto correvo ancora più veloce di prima, il camion continuava a sfuggirmi proprio sotto al naso. – Ehi, ehi, tu, freeenaaa – sento il ciccione prendere le mie difese e battere il pugno contro il vetro che separa la cabina dell’autista dal vano di carico – vuoi farlo correre dietro di noi per tutta la strada? Di colpo, con mia grande sorpresa, il camion si ferma e salgo finalmente a bordo. – Buongiorno, buona gen… – non faccio in tempo a salutare quando la felicità per quel sostegno di squadra che credevo già di avere me lo spazzano via. – Temo non ci siano santi da queste parti, – lo stesso barile di lardo ora si azzarda a contrastarmi – stia seduto buono e zitto, senza provare a fare il furbo con noi! Lì per lì acconsento, ch altro avrei potuto fare? Mi accuccio obbediente ai suoi piedi, facendo contemporaneamente un click sul mio fedele pulsante che un giorno o l’altro, il suo comportamento sgarbato, gliel’avrebbe fatto pagare caro. – Quanti volatili, uomo dell’inchiostro, abbiamo colpito la notte scorsa? – inizia subito a sentirsi qualche voce decisa a prendermi per i fondelli, ma è solo grazie a lui e ai suoi osceni ragionamenti che si fanno avanti tutti gli altri. – Svelaci qual è il tuo infallibile metodo di conta – ride gesticolando senza sapersi più trattenere – usi le dita oppure ti affidi a quanto dicono in televisione? L’aspro gusto della beffa si propaga nell’aria, e mi ritrovo costretto a respirarlo a pieni polmoni; patetici dal primo all’ultimo, tutti ridacchiano per queste battutacce, senza provare la minima vergogna. – Ahhh, abbiamo capito l’ingegno della tua mente – non mollano la presa a più voci, disorientandomi e stordendomi come non mi è mai capitato in precedenza – per

prendere spunto si vede che ascolti quello che si dice in televisione, poi lo amplifichi sapientemente di almeno il venti per cento prima di comunicarlo alla vostra centrale, e poi ci pensano loro a far crescere ulteriormente il numero degli aerei nemici abbattuti riferito dall’inviato speciale sul luogo degli avvenimenti prima di comunicarlo nuovamente in televisione. E così all’infinito, come un cane che si morde la coda. Siete dei veri idioti! Su questo punto erano tutti d’accordo, tanto che non mi restava che chinare la testa aspettando l’esaurimento delle loro forze. Per fortuna, presto si scordarono di me, prendendo di mira un tale che in nessun modo riusciva a trattenere le sue puzze, a dir poco mortali. – È mai possibile, caro nostro vice, che emanate proprio lo stesso identico putrido fetore? – strillavano ancora più forte – Siete parenti per caso? Anche se pensarci bene, qualcosa non quadra, perché in vigliaccheria questi codardi superano persino te! – Bene – pensavo – sfogatevi pure, sono qui apposta. Scorre l’asfalto sempre più veloce sotto le ruote, il cielo limpido sopra le nostre teste e anche il nastro scorre inarrestabile quanto il dolore che porto dentro di me; ridere fa bene al cuore, fatelo ora finché siete ancora in tempo, presto non sarà più così divertente. Per ogni giro attorno alla bobina si vince un anno di prigionia, a ogni metro percorso corrisponde un destino; verrete a cercarmi quando tutto sarà finito per parlarmi ancora, vi vedrò supplicarmi in ginocchio ripetendo durante gli interrogatori che è stato tutto solo un enorme malinteso, uno sbaglio di pronuncia, un banalissimo errore d’interpretazione – laddove poi dovrei are io per quello che vi ha frainteso, mah – farete insinuazioni su di me che non meriteranno repliche per quanto saranno imbecilli… Sarei io a non avervi sentito bene? Si salpa verso l’ignoto – sento il ciccione annunciare l’inevitabile – e tu, vice, avresti potuto tenerci un ultimo incoraggiante discorso facendo appello all’orgoglio nazionale per evitare la disfatta, o mi sbaglio? Con queste esatte parole il sipario nero cala sui presenti, e ogni ulteriore recita diventa fine a se stessa: per qualche istante il silenzio regna sovrano, surreale e imbarazzante, addirittura. – Dacci almeno una possibilità, cazzo. Un indizio qualsiasi per tirare a indovinare dov’è che ci trasportano, sistemati così, come fossimo delle ammaestrate bestie da circo? Il silenzio persiste, nessuno osa muoversi dalla sua posizione, mentre qualche sprovveduto trattiene anche il respiro aspettando che la sofferenza provocata da quel pensiero si attenui e la paura i. Poveri illusi! – Uno a uno vi fotto nella bocca bugiarda… Per quanto non si sa come, alla fine quel giorno arrivammo comunque a destinazione. Un altro villaggio più piccolo del precedente, circondato dal nulla, manco ci fosse uno scopo preciso per cui

doversi trovare proprio lì. – Signori, ho avuto l’onore di conosc… – quando già si intravedevano le prime case cerco di congedarmi da loro con qualcosa di più serio del solito “addio”. – Visto che vai così di fretta – è la seconda volta che m’interrompe, mister-scarpe-gialle – fatti aiutare con il bagaglio e tieni ben presente che non è il caso di abbaiare altrove quel che hai udito! – La mia testa la offro spontaneamente – balzo in piedi pallido in volto, ma deciso a salvare il mio insostituibile strumento – giù le manacce però da quella borsa! – D’accordo, fantoccio di un giornalista – acconsente puntandomi un fucile armato tra gli occhi – fiat voluntas tua. – Prendila – prudentemente rivedo la mia decisione – stavo solo scherzando! – Pronto, pronto, ci sei ancora? – stava per bucarmi i timpani per quanto strillava – Fai schifo te e tutti quelli della tua fottutissima razza di delatori: avete le orecchie intasate di merda pura e state solo pensando a come meglio venderla! – Avrei voluto solo dirv… – cercavo di spiegarmi meglio. – Qui non siamo tutti rimbecilliti come quel coglione del nostro vice, capace di darti persino retta – mi lancia l’apparecchio mordendomi così dritto al cuore – porta via il tuo marciume, via da qui! – Prego? – fingo di non capire nulla per guadagnarmi alcune preziose frazioni di secondo, calcolando la velocità del camion in movimento, seppur rallentato – In che senso? – Salta e non fartelo ripetere due volte – Percepisco cadendo nel vuoto – e non tornare mai più, quelli come te non servono a nessuno! – Non preoccupatevi... – Penso rotolandomi per quella grezza strada contadina, con la testa attaccata al sedere, nell’inutile tentativo di proteggerla un po’ anche con le mani. – Non mi salta in mente di rifare la stessa esperienza, non occorre convincermi… E anche voi tre, per chi mi avete preso? Se sono io in primis a dubitare della vostra sincerità e buona fede, chi altro potrà allora credere che siete dei semplici e onesti giornalisti? Tu, con l’angelo sulla mantella, presumo che sei l’orgoglio della Santa Inquisizione dei nostri giorni, e quest’altro sarà un fratello di preghiera impegnato nella lotta contro l’estinzione dei leoni alati per non abbandonarli al loro triste destino. Solo il ruolo della vostra compagna, devo ammetterlo, mi sfugge. Vorreste infilarvi forse nella mia testa per convincermi che si tratta di un rispettabile membro della ONG “Troie senza frontiere” ? È quantomeno disdicevole; e in un paese normale la legge dovrebbe impedirlo severamente! In quell’altro villaggio vengo accolto da un abilissimo collega, camuffato da finanziere militare. – Mi serve una stanza a disposizione, urgentemente – dico tutto d’un fiato – dove possa esaminare le registrazioni e, se Dio vuole, salvare il salvabile! – Entra pure – mi comprende immediatamente senza troppi giri di

parole – qui sotto non ti disturberà nessuno. – A buon rendere, collega! – lo ringrazio felicissimo di scendere nella sua cantina. – Di nulla – mi risponde, un po’ troppo serio – guarda soltanto di non risalire all’improvviso, qui ho alcune faccende piuttosto importanti da sbrigare, si sono verificati dei piccoli utili in eccesso che ora vanno giustificati… – Posso esserti d’aiuto in qualche modo? – chiedo prima di sentire quel familiare rumore dell’armamento di una pistola – Con la mia assenza, intendevo dire! Lui esita per qualche istante, mi segue con lo sguardo e scuote la testa, evidentemente indeciso sul da farsi. – Non ti preoccupare – vuole rassicurarlo la mia voce solo apparentemente serena – fai pure come se non ci fossi! La porta si chiude e rimango finalmente da solo con la mia fortuna. Con le mani tremanti d’impazienza apro la borsa e tiro fuori l’apparecchio, lo accendo mettendo subito il primo nastro in moto, uno di quegli inestimabili tesori che più gioia e soddisfazione hanno saputo portare nella mia vita anche con una sola sequenza di rumori registrati di quanto il mondo non riuscirà a capire mai: voci, grida, discorsi e opinioni varie che, efficacemente selezionate, sapranno come far incastrare i loro finora impuniti autori. La libertà di parola è morta, e io non ne vedevo l’ora; al diavolo la polis greca con le sue squallide verità, reinventiamolo noi, ora… In una tranquilla bottega di provincia, un proprietario e tre uomini, forse quattro. –Non avrebbero dovuto venire qui. Sarebbe stato meglio per tutti… –Meglio per tutti. –Dacci altre tre birre per brindare ancora. a una anche a quest’essere qui… –Salute! –Crrr … crrr… crrr… In un giorno qualunque, dentro il camion che ti porta dove non avresti voluto andare, mai. –Dove l’hai trovata quella grappa? –Le riserve di guerra. Sono ideali per una gita in camion, soprattutto quando non sai dov’è che ti stanno portando.

–Non saremmo mai dovuti venire qui. Che cazzo di fastidio potevamo dare? –Mica sono venuto di mia spontanea volontà. C’è qualcuno che prova un tale amore per noi da decidere al posto nostro. Diglielo tu, vice, non è forse vero? –Non so niente. –Me ne sono accorto che non lo sai, da un pezzo ormai. Beviamoci sopra; a la bottiglia anche al tizio sospetto attaccato alla sua sacca come se la dovesse portare nell’oltretomba… Avrà un’anima anche lui. –Ci voleva proprio... –Bzzzz… Bzzzz… Bzzzz… La sveglio per il sole che esprime se stesso attraverso le piante per il cielo crocifisso tra le dita la sveglio per le parole che bruciano in gola la amo con le orecchie fino alla fine del mondo bisogna andare e scoprire la rugiada sull’erba… –Come quella vedova che non vedeva l’ora di stendersi sotto quel dottore. Come uno schiaffo che si stende sulla faccia di qualche coglione. Portaci un altro giro a noi, che un posto dove andare non c’è l’abbiamo! –Ve lo dicevo bene io che tutto quel saccheggio in giro per le case è destinato a finir male! Non riusciremo mai ad attribuire tutte le colpe ai soldati. –Certo che non ci riusciremo. Né la mietitrice che hai preso in prestito, né il coltivatore nascosto nella tua rimessa… –Perché non mi parli invece della macchina parcheggiata nel tuo cortile? –Ma datevi piuttosto una calmata, qualcuno potrebbe sentirvi!– Crrr … crrr… crrr… La sveglio per le cose lontane che somigliano a queste qui presenti per la gente che senza una faccia e senza un nome a per la strada per le parole anonime sparse sulle piazze…

–Sono calmo come un agnellino. Basta che il vice mi spieghi – –perché incontriamo lungo la strada così tante case abbandonate e la faccio finita. Così, giusto per renderci il viaggio più piacevole. Ehhh giornalista, però, sei un pozzo senza fondo! Guarda di lasciarne un po’ anche agli altri! –Non sta a me di… –Certo. Si sa, la responsabilità e la vergogna sono sempre degli altri. Ci dirai che questa gente si è stufata di vivere sempre nello stesso posto, così, d’un tratto? Avranno pensato che cambiare aria poteva giovare alla salute? –Non provocare. –E tutte queste antenne satellitari sui carri armati che incontriamo, come le spieghi? I soliti addobbi per la festa più fica dell’anno probabilmente? Ho visto persino una motosega che pende dal tubo di lancio. –Bzzzz…Bzzzz… Bzzzz… La sveglio per i fabbricanti di paesaggi nei parchi pubblici… –Che c’entra, di quale antenna parli? –Di quella che ti sei affrettato a togliere dal tetto del tuo vicino la notte dopo i bombardamenti, quando nessuno si azzardava a mettere fuori nemmeno il naso, tu invece ti sei arrampicato sul tetto da vero eroe. Congratulazioni! Tu sì che sai come coltivare i rapporti di buon vicinato! –Non insinuare quel che non conosci. Si è staccata da sola, e adire il vero non è poi un granché, nemmeno la A di un’antenna come si deve. Contraffazione di pessima qualità, lo giuro! aci ora un giro, sul conto mio! –Crrr … crrr… crrr… La sveglio per questo nostro pianeta che forse si mostrerà una mina sul cielo insanguinato

per i sorrisi in pietra dei compagni caduti nel sonno tra due battaglie quando il cielo smise di essere un’enorme gabbia per gli uccelli e divenne un aeroporto… –Niente qui è come sembra. –Ah, macellaio, vedo che ti è tornato finalmente il dono della parola. Già che ci sei, dicci un po’ cosa fanno tanti pali inseriti con forza nelle case shqiptare; è qualche nuova moda di cui non sono al corrente? –Per farle sembrare dall’alto dei carri armati camuffati, questo è ovvio! –Sarà che gliel’hai costruita tu, visto che ritieni giusto farla diventare un facile e sicuro bersaglio aereo, sotto-razza di fottutissimo bastardo! Dov’è finita ’sta bottiglia? –Sta’ attento a quello che dici. –Non ho capito, mi stai chiedendo di ripetertelo?– Bzzzz…Bzzzz… Bzzzz… Il mio amore pieno di altri fa parte dell’alba per l’alba la sveglio per amore per se stesso per il prossimo… –Ti ho sentito, d’accordo. Credi che sia meglio riportare l’antenna al suo posto? –Sono affari tuoi. Sta a te decidere. Capo, dammi mezzo chilo di salame, mezzo di formaggio, altre tre birre e, certo, anche del pane. –Crrr … crrr… crrr… La sveglio per quanto resta più inutile farlo che chiamare un uccello atterrato per sempre Sicuramente avrà detto: che mi cerca e scopre che non ci sono… –Del pane?! –Ho visto un forno aperto. Bussa un po’ all’autista, digli di fermarsi! –Buon giorno. Le è rimasto ancora qualche filone? –Sempre essere pane pev voi.

–Cinque pezzi caldi allora, e due belle teglie di burek, una con la carne, l’altra al formaggio. Gli yogurt anche. Vedo che qui a Gnjilan siete aperti fino a tardi. –All’occorrenza sempre, vedendo voi arrivare ho fato una corsa. –Quanto ti devo? –Militari no pagare gnente. –Questo militare pagare oppure preferisci metterti a litigarecon me? –Non preferire. –Tieni qui i tuoi soldi, arrivederci e stacci bene! –Buono proseguire anche voi! –È caldo, dividi il resto con gli altri. –Bzzzz…Bzzzz… Bzzzz… Quella donna che amo con le mani da bambino quel bambino addormentatosi senza asciugare le lacrime che sto per svegliare… –Cos’è che dobbiamo dividere?! –Tutto quello che è stato preso, o lo dobbiamo riportare indietro?! Sta a te decidere. I militari se ne sono andati, siamo noi quelli che restano a vivere qui. Pensaci bene, non può finire così facilmente. Capo, aprine pure un’altra! –Lo credi davvero? –Certo, questo è solo l’inizio della fine, un suo assaggino percosì dire; ma prima che si concluda tutto sarà ancora lunga. Per i veri guai c’è ancora da attendere. –Crrr … crrr… crrr… Invano, invano, invano, la sveglio invano perché si risveglierà diversa e nuova… –Non ti senti bene?

–Mi viene da vomitare con questo camion e questa strada. Faccio qualche altra intervista al nostro macellaio che finora non ha fornito risposte sufficienti, e chissà, forse mi sentirò meglio! –Non sono tenuto a risponderti. –Chi ha distribuito la merce dei loro negozi e magazzini? Chefine hanno fatto tutti i gommisti, i servizi per l’autolavaggio, gli studi dentistici? Devo continuare la lista nera, o non ne vuoi sapere di loro? –Ti ho già consigliato di chiudere quel becco! –Si, l’hai fatto. Ma senza dirmi, pidocchioso, dove è andata afinire da un giorno all’altro così tanta gente! Dividi il guadagno con gli ufficiali oppure è un progetto solo tuo? Coraggio! Raccontaci, moriamo dalla voglia di sapere! E ate un po’ quella grappa, sarebbe ora di svuotarla! –Bzzzz…Bzzzz… Bzzzz… La sveglio invano perché la sua bocca non potrà parlarle la sveglio invano e tu lo sai che l’acqua scorre senza dire niente… –Cosa significa questo? –Che una vera inculata ci attende ancora. Prima o poi, tanto fa lo stesso. Non appena tornano indietro un giorno e si accorgono quanto si sono adoperati i bravi vicini per custodire le loro case. Si diceva che un buon vicino di casa è più di un fratello; sarà che si sono fottuti il cervello anche gli antichi! –Mica vuoi già chiudere bottega? Almeno un’altra birra daccela! –Basta così. Finiamo questa e ognuno per la sua strada. –È finita. –Crrr … crrr… crrr… La sveglio invano perché a un nome disperso bisogna assicurare un volto nella

sabbia se così non fosse tagliatemi pure le mani e trasformatemi in una pietra… –Già che ci tieni così tanto a saperlo, ogni cosa è decisa e portataa termine ancora prima del nostro arrivo. Prima ci sono ati i volontari, poi le truppe speciali, in seguito anche la polizia ha ben setacciato il terreno… Non ci è rimasto granché da portare via. –Ah sì, certo, come no?! Chi ha altra grappa? Tira fuori… –Non lo ricordo più, il posto d’onore nei saccheggi l’hanno comunque occupato i loro stessi premurosi (fino a ieri...) vicini di casa. –E ora speri che ti crediamo sulla parola?– Non mi importa in ogni caso. E… – E cosa? Nastri, nastrini miei adorati – avrei voluto scoppiare in lacrime dal dolore lancinante alla testa e a tutto il corpo, nel vedere come l’implacabile macchina ingoia, mastica e sputa le parti ormai rovinate delle mie registrazioni audio in cui confidavo – Come ha potuto farvi questa cattiveria, che gli avete fatto di male? Chi osa essere così strafottente da permettersi di collegare nomi e tempi di azioni, volti e luoghi, senza una mia benedizione? Gli uomini non sono mica stati fatti in ferro battuto così da essere saldati alla svelta uno coll’altro; là dove termina il futuro di qualcheduno si apre, invece, il destino di qualchedun altro, ed è così che funziona il mondo. – Figlioli miei, non abbiate paura: il vostro papà starà sempre qui accanto a voi… – E non so più se lo dicevo per loro, irreparabilmente intrecciati, oppure ero io ad avere estremo bisogno di essere consolato. Ma come sempre quando accadeva ciò, anche quella volta, usandole semplicemente al plurale, feci ricorso alle parole sante mille volte udite in precedenza da mio padre, capace di risollevarmi subito il morale anche se tornavo dalla scuola con lividi bluastri per le continue percosse subite dai miei tutt’altro che amichevoli compagni. – Ti diverti a intercettarci – ansimavano e sudavano in gruppo, calpestandomi sopra un gabinetto alla turca – per riferire poi alla maestra ogni nostra mossa? – Spaccagli quella stupida boccaccia traditrice – avanza spontanea la proposta di qualcuno tra i più audaci – rompigliela, che non abbai mai più! – Solo le orecchie, risparmiatemele, – supplicavo piangendo – solo quelle... – Colpiscilo! Così! Fagli sputare il sangue, più forte ancora! E se di forza vogliamo parlare, ascoltare gli altri è sempre stato più forte di me: a differenza dei miei coetanei che avano la loro vita a perdere tempo ascoltando i dischi, a cominciare dall’età di soli cinque anni ero

già un ometto in grado di distinguere i rumori dei venti turbolenti che soffiavano attorno ai miei sensibilissimi padiglioni auricolari; mentre gli altri bambini limitavano le loro capacità uditive a una fin troppo prosaica comunicazione tra loro, io ero colui che riusciva a captare i messaggi segreti tra alberi e fiori, piante e uccelli, terra e cielo, stretti in un tenero abbraccio. Nell’adolescenza, poi, le mie abilità si sono ulteriormente affinate, tanto che arrivavo a sentire il litigio dei vicini proveniente persino dal seminterrato, e la moglie di quello psichiatra che sospirava estasiata sotto suo marito; quel che per gli altri comuni mortali era soltanto un appena percettibile spostamento d’aria, per me si rivelava essere un complesso e intero messaggio, spedito con la velocità media di trecentoquaranta metri al secondo prima di essere rallentato da un duro strato di cemento e laterizi forati, malta e carta da parati. Dopo un po’, mi era diventato completamente chiaro che in quel seminterrato un terzo e validissimo alleato, che accresceva l’adrenalina e portava i loro cuori a pompare più velocemente del solito, era la più banale gelosia – difficile se non impossibile da estirpare nella razza umana – e che le incomprensioni postcoitali nascevano da una quadratura ridotta in cui lo strizzacervelli e la sua sposa si sono trovati costretti ad abitare. La mia ione – oppure sarebbe il caso di chiamarla ossessione, come vi piace: non voglio più sopportare queste cose, anche se non so ancora quale sia il modo per evitarle – divenne così un’arma letale; senza alcuna possibilità da parte mia di salvare e custodire ogni preziosa testimonianza, schedarla, classificarla, salvarla dall’oblio. Ed è per tutto questo che un giorno avevo con immenso piacere accettato la gentile proposta di due compagni in severi mantelli dal taglio classico, rigorosamente di pelle nera, che mi offrivano l’opportunità di mettere tutte le mie competenze, compreso uno studio approfondito delle più avanzate tecniche giornalistiche, al servizio della loro agenzia. Un’identità precisa mi veniva regalata, finalmente si accorgeva di me qualcuno con cui immedesimarmi! Il primo apparecchio che ho potuto utilizzare era troppo grande e pesante per essere trasportato, perciò mi vedevo costretto a riprendere e registrare tutti gli appunti solo in un secondo momento; ogni modello successivo presentava una serie di caratteristiche vantaggiose, dalle dimensioni ridotte a una maggiore maneggevolezza. Più il tempo ava, più la necessità di ascoltare la natura che c’era in me svaniva, mentre conoscere meglio la nostra società e i suoi oscuri meccanismi più profondi diventava una delle mie preoccupazioni primarie. Non a caso, le scienze politiche, sociali e della comunicazione fanno parte della stessa facoltà; e sempre non a caso, nella stessa mensa accanto a ogni semplice scribacchino destinato a restare incompreso, mangiava un mio più che probabile

futuro collega. Ah, che meravigliosi tempi ati… Quando all’indomani degli studi compiuti mi fissarono l’appuntamento per un colloquio e fui subito assunto per lavorare nella redazione di uno dei più eminenti quotidiani dell’epoca, il cui redattore capo, tra l’altro, è stato rimosso dalla sua posizione in seguito a una del tutto insignificante disputa con me, e quando anche il nome di un altro collega più anziano dopo aver una sera osato guardarmi storto già la mattina successiva era apparso sulla lista dell’ufficio di collocamento, a quel punto sapevo con certezza che qualcuno intanto si prendeva cura di me per una volta. E sapevo anche che avrebbe continuato a farlo, tanto a lungo fino a che mi fossi preso la briga dei fatti degli altri. Fino a quando sarei stato capace di reggere la pressione e tenere sotto controllo uomini e situazioni di emergenza, nessun insignificante individuo sarebbe riuscito a ostacolare le mie intercettazioni. Non sarebbe riuscito a condizionarmi nemmeno quel soggetto grossolano, che per insegnargli di cosa fossimo capaci noi dell’agenzia avevo lasciato a piangere lì sul corridoio, mentre ai fini del servizio mi sorbivo, con solo perizoma e reggicalze nero addosso, l’elaborazione da parte della sua legittima moglie, con la sua disgustosa lingua umida, di cerchi piccoli e stretti sulla punta del mio pene irrigidito, convinta di poterlo così facilmente riscattare; come se non fosse al corrente, poverina, che di organi di senso ne possediamo in realtà uno solo – l’udito per l’appunto, capace di percepire ogni minima sfumatura di tutte le cose dentro o fuori di noi – e si dava da fare più che poteva continuando ad attribuire erroneamente i miei occhi chiusi al mero piacere chimico da lei procuratomi. Che un singhiozzare soffocato del marito, con l’inganno portato a credere che di un ionale tradimento si trattasse, fosse stato in quel preciso momento la vera origine del mio benessere, non poteva immaginarselo in alcun modo. Né che, curiosamente, desideravo solo sentirlo umiliato quanto più possibile, schiacciato a terra come un verme, senza una briciola di quell’orgoglio che vantava prima, e udire il fruscio della sua giacca contro il grezzo intonaco della parete quando si sarebbe lasciato piegare in due dal dolore; che desideravo apprendere come finalmente i sui jeans avrebbero leccato il pavimento del corridoio mentre cadeva sulle ginocchia e con un gesto rapido della mano si sarebbe asciugato quella lacrima che minacciava di sgorgargli dall’occhio, udire il lieve suono metallico della maniglia che girava, e quello della porta che si apriva all’improvviso – impercettibile per tutti tranne che per me, ovviamente – per essere di nuovo rinchiusa in fretta, i suoi i traballanti, con tanto di caduta, sulle scale, lo stringere nel pugno della bacchetta in legno della ringhiera fino a farsi male, forte, sempre più forte…

Tenete duro, vi prego, non mollate ora – colma di incredulità e pazzia, la mia voce rimbombava sulle umide pareti della cantina – sono qui accanto a voi, e qualunque cosa succeda non me ne vado via! I pezzetti di nastro rovinati li tagliavo con le forbici, per unire poi i lati sani con un sottile lembo di scotch applicato internamente, in modo che non andasse in contatto con la testina; prima di allora non avevo mai fatto nulla del genere. Lo sapevo benissimo che una volta eliminati, quei millimetri increspati avrebbero portato con sé anche un’inestimabile porzione di verità, senza lasciarmi alcuna possibilità di colmare il vuoto di quella perdita. Soltanto riaccendendo l’apparecchio divenni del tutto cosciente della portata del danno subito, mentre con la testa ancora una volta ripercorrevo quelle emozioni e quelle immagini che dal ato, attraverso il cuore e le orecchie, risalivano alla memoria fin quasi a soffocarmi, e delle quali, a parte me, non avrebbe mai saputo nessuno. Quanto forte è stato quel prolungato e stridente urlo dell’addetto alle comunicazioni quando il proiettile sparato da un cecchino gli aveva staccato mezzo chilo di carne da una gamba; il calpestio degli stivali che lo avvicinano di corsa e l’ansimante respiro degli stessi uomini che cercano con tutte le loro forze di trascinarlo dietro la casa; il rumore dello strappo dei pantaloni e quello della rottura del sacchettino con la prima garza, il fremito delle bende che avvolgono e comprimono la ferita; in seguito, un macabro propagarsi della voce secca di una nonnina che ci maledice, chiedendosi un migliaio di volte perché mai siamo venuti qua, il suo rapido rientrare in casa, una sua preghiera insistente e convinta, fatta di poche parole, e l’accensione della candela, il fruscio della camicia che accompagna il movimento della sua rugosa mano nel segno della croce, e gli scoppiettii dello stoppino che continua a bruciare lentamente. Ogni tanto, in piena notte, un gèmito smorzato della donna – come se avesse paura che qualcuno là fuori potesse sentirla, ah, che magnifica illusione pensare di poter così facilmente sfuggire alle mie orecchie ammaestrate al dovere – che si prende cura di tre bambini degenti, mentre il marito soggiorna lì, da qualche parte, lontano, in uniforme, troppo lontano per udire il bagnar del panno in una bacinella piena di komovica, l’onnipotente grappa fatta in casa che allontana ogni male o quasi, e il suo strizzare prima di avvolgere i piccoli colli, i pancini e le gambette dei roventi figliuoli innocenti, il battere dei dentini di quelle animucce stremate, che all’improvviso provano il freddo, e il leggero tocco del piumino che cade per coprirli. I sontuosi toni delle esplosioni, quando quei bovini meno fortunati abbandonati a se stessi scoppiano per aver ingerito troppo trifoglio giovane, come se fossero delle vere e proprie bombe, accompagnate da un camerale ronzìo di mosche che in pace pullulano nell’afa soffocante attorno alle loro budella, fuoriuscite e pesantemente appoggiate sui fili d’erba primaverili; la

marcia dei milioni di formiche che si radunano in lunghe colonne regolari, proprio lì, dove gli intelligenti occhi morti della vacca sono rimasti spalancati a fissare il cielo; lo spuntare dei vermi che vogliono soltanto prendersi la loro legittima parte del banchetto e, proliferando a una velocità invidiabile, si diffondono sempre di più. Il pianto lamentoso della madre che ha saputo di aver perso un figlio. Il rumore delle labbra e della bocca che si contorce, mentre a malapena mette insieme le sillabe del telegramma. Lo scricchiolìo dell’armadio che si apre. L’estrazione della sciarpa nera con la quale avvolgere la testa. Lo sventolare della bandiera nera sulla casa in lutto. Il rumore di quel telo sferzato dal vento. Vari colpi seguiti da un tonfo sordo; e in seguito l’ondeggiare sotto le sinfoniche folate d’aria, udibili da me soltanto. Tutto ciò, ma proprio tutto è stato per sempre perduto… …E ora, solo per fare un piacere a vossignori, al posto degli inconfutabili elementi di prova mi ritrovo qui a riciclare miseri ritagli avanzati di una ben origliata verità, scomparsa negli abissi…

Glossario di espressioni meno note mogila, f. (rus. Могила) – tomba, sepolcro; tumulo.

LUCA

La cima dell’ulivo su cui sono stato appeso già da secoli offusca la mia vista, tanto che non riesco a godermi interamente né la mia amata Orcomeno né il suo lago su cui è situata; ed è per questo che pazientemente attendo che il vento dal monte Citerone mi sferzi il viso, spostando le foglioline verdi e grigiastre lontano dalle mie pupille finalmente in grado di apprendere in che cosa la pianura dell’antica Beozia col tempo si è trasformata. Non si saranno nuovamente convinti i ricchi, che Dio ci aiuti, di discendere dagli Sparti per promettere nuovamente che sia stato proprio un qualche loro bisavolo a spuntare fuori dai denti del drago piantati dal Co – questa possibilità la temevo più di qualsiasi altra cosa, impaziente di poter scorgere finalmente i contorni delle case costruite nella mia cara Tebe. Con le mani legate dietro la schiena, fissando l’orizzonte, temevo la ripetizione delle storie noiose su Edipo e i suoi figli, sulla campagna dei Sette contro la città, e speravo – una volta che il confine fra terra e cielo si sarebbe manifestato ancora di fronte ai miei occhi – di non essere costretto a guardare nuovamente una di quelle orge cerimoniali dedicate al folle Dionisio. Ah, quanti paradossi mi limitano e contemporaneamente mi sostengono, sospeso in aria senza permettere che io cada, liberandomi della clorofilla presente nelle foglie, giù per terra: proprio dei rametti e delle foglie di quest’albero, simbolo della luce, della pace e della serenità, dovettero finire – per un’ironia della vita – a solleticare il collo e le labbra del credente, il cui stesso nome pagano significa “nato alle prime ore del mattino”; nonostante per i non conoscitori di Dio l’olio di oliva ebbe una funzione purificante nei loro piccoli e grandi misteri eleusini, i frutti dai quali questo prezioso liquido veniva ottenuto per spremitura finirono per essere sempre a portata di lingua del maggiore avversario di questi stessi selvaggi riti pagani; poche gocce dell’elisir oleoso venivano versate sugli altari in pietra grezza per assicurarsi ricca figliolanza e fertilità, e io sono stato, ahimè, l’uomo destinato a rimanere privo di prole. C’è forse qualcosa di più pesante della Provvidenza che ti obbliga a trascorrere le tue giornate tra così numerosi ramoscelli di pace – mi sono chiesto spesso – quando soltanto uno di loro fu sufficiente per annunciare a Noè la fine del diluvio? Esiste forse un’assurdità maggiore della condanna di essere avvolti nel simbolo dell’immortalità, mentre invece auspicate che l’eternità cessi una volta per tutte? – Allungavo la bocca in un acido sorriso, soffrendo un tremendo solletico giacchè una foglia staccata decise di scendere toccandomi la schiena.

Ahimè però, appena pensi che nulla di peggio può accadere, c’è sempre qualcosa che ti sorprende; la vidi avvicinarsi da lontano, quella trinità ubriaca e stracciata, venuta a cercare il mio aiuto. Provai a essere più silenzioso delle farfalle che mi gironzolavano attorno alla testa, più paziente persino degli insetti che mi strisciavano lungo il naso e sulla fronte; i due uomini avrebbero già abbandonato l’impresa e rinunciato a cercarmi, se non fosse stato per lei, che mi notò. –Eccolo qui – gridò la donna, che a sua volta avevo difeso con ognisingola parola del mio Vangelo, puntando il dito verso di me – sta ancora nello stesso posto! –Ehi, dooottoreee – come un ubriacone qualsiasi si mise a strillarecolui che non desiderava affatto vivere nell’eternità – scendi un po’ più giù, siamo venuti per portarti via! –Mica vengo scortato da individui come voi! – rimasi molto sorpreso – Dov’è che sareste capaci di trascinarmi voi, conciati in questo modo? –Sai – si fece coraggio a parlare quell’altro, con le mani tremantidalla paura – potresti esercitare di nuovo la tua professione di medico, dipingere, scrivere anche… Esattamente come una volta. Soltanto che ora saremmo tutti insieme, uniti, al tuo fianco. –Non ho bisogno di nessuno… – poi per un attimo mi ricredetti – Però, già che ci siete, potreste comunque darmi una mano a scendere da questo ramo… –Ehhh, no caro mio! – disse Matteo prima di vomitare lungo tuttol’uliveto – Non funziona così, pensi che siamo dei poveri sciocchi pronti a liberarti, per ritrovarci poi nuovamente sopraffatti dall’eleganza e dal ricercato stile che i posteri riconobbero soltanto a te? –Eppure è giusto che sia così! – pensai, sul punto di sentirmi offeso – Sono stato io l’iniziatore della millenaria tradizione iconografica cristiana – dentro di me cominciavo a ribollire – e di certo non sono stato scelto casualmente per accompagnare Paolo nei suoi viaggi da Troade, porto di mare di Filippi, attraverso Mileto e Cesarea, fino a Gerusalemme e persino alla Città eterna! Sono io l’autore degli Atti degli Apostoli – mi allungai ormai saltellando nervosamente da un piede all’altro – così come appartengono a me pigmenti vari e spazzole realizzate dal pelo di cammello, e le tavole trattate naturalmente, desiderose di ricevere strati del mio talento…

–Un sublime esempio di ritratto letterario di Gesù e i dipintidella Madonna – continuò a lodarmi Maria, tenendo nel frattempo la testa di quello stupido ubriaco – le icone di Pietro e di Paolo. –Non scordatevi degli studi di medicina compiuti ad Antiochia– disse Marco – in seguito ai quali non abbiamo più potuto vivere in pace, per via della sua improvvisa e sconfinata arroganza. –Non venitemi a nominare Theopolis, oh, voi ingrati! – gridai– Ve lo proibisco! A costo di non riuscire mai più a scendere da quassù! Per quelli come voi, l’eloquente Crisostomo è costretto a rivoltarsi nella tomba! –Lui non è al corrente dei fatti – si stupì sinceramente dellacosa Matteo, che per un istante apparve del tutto sobrio, dopodiché si rivolse a me – Davvero ignori l’accaduto? –C-c-cosa d-do-dovrei sapere? – Balbettai arrossendo, mentresotto le mie ginocchia tremanti cominciarono a traballare le botti di vino svuotate nel corso delle innumerevoli orge – C-co-cosa, ddi-ditemelo, non tenetemi sulle spine! –Quella tua…– Grande Antiochia! –Giusto! Dopo la tua impiccagione, la città divenne tana diogni sorta di eresia del Cristianesimo. –Prego? Ma cosa stai dicendo? Vade retro, Satana! –A cominciare dagli scritti di Cirillo di Alessandria in poi, tuttieretici nudi e crudi, uno dietro l’altro! Sia se preferisci l’arianesimo, la dottrina nestoriana oppure il monotelismo di Macario. A te la scelta! La mia città nativa nell’antichità fu la capitale della Siria romana; distante una mezza giornata di cammino dal mare, questa perla del Vicino Oriente si stendeva sulla sponda sinistra dell’Oronte. In tutti questi secoli che sto fermo e immobile sotto quest’albero, devo ammetterlo, ho sentito dire che qualcosa non andava, anche se non ho mai voluto crederci: il presbitero Luciano di Antiochia fu colui che osò sfacciatamente istituire quella vana scuola esegetica basata sull’importanza di un approccio storico-critico verso i nostri Vangeli; non bisogna certo dimenticare Cirillo che, con ostinazione, continuò a distinguere umanità e divinità in Cristo, preparando così la strada per la dottrina di Nestorio;

seguirono poi Diodoro di Tarso, Teodoro e Teodoreto, Crisostomo, lo so benissimo, purtroppo… A questo punto però – mi sono chiesto mentre le orecchie mi crescevano come quelle di un asino giudeo – cosa ci faccio qui da tutto questo tempo? Udii allora la mia stessa voce dirmi. –No, questo non è possibile! –Lo dici tu! – gridarono insieme quei due, mentre Matteo che cercava di pulirsi la bocca dai resti del cibo vomitato con un ciuffo di solanacee rinsecchite, continuava a sconcertarmi sempre di più – Non è vero forse? – Lo sappiamo che sei un esteta, però… –Un sommo poliglotta e archeologo – si fece nuovamente sentire quella voce dolce e ben educata a regalare momenti di estasi pura, di colei che tutti ritenevano solo una meretrice – anche uno storico, affascinante e competente, occorre riconoscerlo! –No! –Dall’armento umano abbiamo già saputo quello che ci premeva sapere – continuava a ululare la lupa, srotolando il filo del suo ragionamento con l’evidente intento di ignorare la mia volontà – ma… –Ecco, visto che è così, vuol dire che non avete alcun bisogno di me. Avete già sentito ogni cosa! –Ma è proprio per questo che ci servi! – si intromise l’atterrito Marco – Per segnalare gli itinerari come avevi già fatto una volta, prendere nota di istituzioni, presidi militari… Non si può mai sapere quando potrà tornare utile. Quanti furono quella volta? –Trentadue paesi, cinquantaquattro città, nove isole – dissi orgoglioso, oramai completamente in preda della vanità – e senza aver commesso nemmeno un errore! –Sei libero di scrivere, incirconciso – disse Matteo sforzandosi di trovare l’attrezzo per urinare – come sai fare tu… Bene, con grande stile! Non ci offendiamo… –Inizia ad esempio dalla sentenza con cui il tribunale di Sparta, pur non essendo

minimamente affar loro, consente alla potente confederazione beotica la secessione – disse Maria aiutando il barcollante Matteo a rimettersi quel suo stupido decapottabile nei pantaloni – nessuno te lo vieta! Le ribellioni generano sempre entusiasmo ed eccitazione! –Non se ne parla! – gridai – Non esiste quel… –E non strillare, ti crediamo sulla parola perché come inizi a gracchiare da quell’altalena, così la testa mi si trasforma in un tamburo! – disse Marco tappandosi le orecchie con le mani. – Noi ora ci avviamo, e se cambi idea, sai dove trovarci… –No! – urlavo ancora, mentre li vedevo allontanarsi sulla strada polverosa – No e poi no! Lasciato sui mastelli di legno, un metro sopra la terra, la fede non la perdevo ugualmente; legato con un filo d’acciaio attorno al collo, saldato a sua volta a un enorme gancio inchiodato lì sul ramo più spesso dell’ulivo, solo il fiato mi abbandonava. Da più di venti secoli pendo impiccato in questo modo a Tebe, in Beozia. Oooh, mio Dioooo!

Sui et cidere

A pensarci bene, non c’è un granché da raccontare. Se ancora sei in grado di provare paura e vergogna vuol dire che manca davvero pochissimo perché il tuo necrologio finisca per essere affisso pubblicamente. All’epoca non c’era nessuno che me lo poteva spiegare e mettermi in guardia da tutti i pericoli relativi, ora invece non trovo più nessuno disposto ad ascoltarmi. A parte voi, naturalmente, che – se posso essere sincero – mi sembrate piuttosto strambi. Che comitiva fantastica! Un tizio che mi fissa incredulo e trema come un foglia al vento ogni volta che alzo lo sguardo, quell’altro completamente smarrito, tu, scrivano, che annoti ogni mia parola, cercando disperatamente di poter individuare nei fatti raccontati il rapporto di causa-effetto, per non parlare poi di quel paio di gambe sprecate, la signorina qui presente dovrebbe accorciare un po’ la sua gonna, la vita è troppo breve per non lasciar ammirare tanta bellezza… Fuggire da lì il prima possibile era l’unica cosa che desideravo, l’unica cosa sensata intendo dire, ma prima di esprimere il mio parere vorrei comunque accennare all’immagine di una collina, sulla cui sommità vi era una chiesa e una bottega ai suoi piedi; immagine che mi è rimasta impressa nella mente per tutta la vita. Il colore della terra della trincea, l’odore nauseabondo della cantina, un’infinita moltitudine di uomini puzzolenti di ogni rango, privata ormai della benché minima emozione e insensibile a tutto ciò che le accade attorno, l’eterno forum di sapientoni di ogni specie davanti alla cooperativa. Montagne di carne senza vita accumulate di fronte alla scuola. Uno che se ne stava muto mentre lo caricavamo sul dajc – e che ora non è più tra i vivi – e un altro che a ogni o ci pregava di far cessare le sue pene che è rimasto invece vivo e vegeto. Fanculo a una simile esistenza! Quella senza mani, gambe e occhi. Che andassero a farsi fottere quegli anonimi sadici disgustosi protetti da cinque chilometri di altezza, il cui rumore sordo dei motori avvertivamo solo dopo che le esplosioni erano già avvenute. E ti ritrovi a danzare con le case scosse fin dalle fondamenta, con le cantine che saltano in aria e con la terra che continua a tremare come un animale ferito. – Questo non è più il mio mondo! – dico a me stesso per consolarmi – Questo incubo appartiene a qualcun altro. – Svegliaaarsiii! – urlo senza voce mettendo il dito sul grilletto – È giunta l’ora di svegliarsi! Poggio la canna sotto

al mento e l’ultimo sussurro lo rivolgo a mia madre, pregandola in anticipo di perdonare quel brutto cratere che sto per farmi, quando me lo ritrovo addosso con tutto il suo peso. Niente da fare, la sua rabbia mi avvolge, mi strappa il fucile di mano e mi tira un primo sonoro ceffone. – Uomo di merda che non sei altro! – urla mentre una vena sul collo inizia a pulsargli minacciosa – Non hai pensato a come faranno i tuoi figli o credi che io debba prendermi cura anche di loro? Poi al telefono risponde al posto mio, e per consolare mia madre, racconta le bugie più grosse che si possano immaginare; mi costringe poi a ingoiare un pugno di sedativi minacciando di uccidermi all’istante, se solo avessi osato rifiutarmi. Con una mano mi afferra il viso, stringe forte il mento e affonda tutte le dita nelle guance, finché la bocca non si spalanca da sola per ricevere tutti quei medicinali che si incollano alla lingua e al palato mentre cerco di sputarli. Lì parte un secondo schiaffo, di gran lunga più brutale del primo, lasciando un rivolo di sangue scendere dal naso. Incurante delle mie lamentele, versa dentro anche dell’acqua direttamente dalla bottiglia. Il collo del flacone mi taglia le labbra e sbatte contro i denti. Mi porta allora fino alla loro cantina. – Sdraiati e non ti muovere da qui, se non vuoi essere il prossimo danno collaterale di questa merdata! – dice tutto d’un fiato – Non occorre che ti eserciti nel “fai da te”, perché ti faccio fuori io stesso. Ma almeno saprai per quale motivo l’ho fatto. Si toglie la giacca a vento e la stende sul pavimento per sedercisi sopra, sorvegliando attentamente ogni mio movimento. Ma poi tutto si disperde e diventa incredibilmente leggero; fluttuante, osservo dall’alto il mio corpo afflosciato, e, in un attimo, mi sembra di avvistare anche il suo improvviso crollo, quando pensava di non essere più osservato. Come attraverso banchi di nebbia, faticavo a discernere le nostre due figure l’una dall’altra; senza dubbio anche lui aveva poggiato il fucile sulla laringe, ossessionato dal mio stesso pensiero, e tenuto a lungo gli occhi chiusi e la mandibola così serrata fino a sentire rigidi i muscoli della bocca. Poi ci ha ripensato. Ha gettato l’arma e sputato lontano da sé in segno di disprezzo. E questo è tutto signori, lui che si bacia la mano destra con la quale ha appena fatto il segno della croce è l’ultima immagine che ricordo prima di abbandonarmi al sonno, forse l’unica di cui voglio ricordarmi. Un sonno dolce che bruscamente cambia di tono, mi porta senza alcun preavviso da qualche altra parte, in un luogo in cui l’iniziale gioia di poter sentire delle voci riconoscibili e amate, ben presto lascia il posto all’incertezza e all’angoscia, la dimensione in cui ogni vivido colore non tarda a trasformarsi nel suo opposto. In tre stavamo ammassati contro le pareti, stretti in un angolo del fossato;

nell’altro angolo, per non infettarci, non stavamo mai, perché il nostro corriere, ubriaco e drogato, l’aveva utilizzata cagandosi letteralmente sotto dalla paura, ed è ben risaputo che dove anche una volta sola la merda calpesta il suolo, il fetore di essa persiste per sempre. Nemmeno trovarsi in piena trincea poteva farci cambiare opinione. Una prima bomba ci aveva sorpresi in prossimità dello scavo e una seconda era caduta leggermente più in là, quando per proteggerci avevamo innalzato i fucili sopra le teste, sparando alla cieca. Le esplosioni si susseguirono rapidamente, una dietro l’altra, senza lasciarci il tempo di pensare a nient’altro che alla loro luce e al loro rumore, ricordandoci che eravamo ancora vivi. Poi comparve un’ombra, un corpo piuttosto robusto in divisa nemica, deciso a recidermi il collo con la baionetta. – Nooo! – urlai di rimando, mentre, aggrappato con una mano alla lama non tagliente, disperatamente cercavo di allontanarla il più possibile dalle mie vene, e con l’altra nel frattempo stringevo il suo collo, fin quasi a soffocarlo, sempre più forte, senza pietà alcuna… A quel punto ho percepito delle piccole dita che mi tiravano per i capelli e per le orecchie. Poi il segno di un morso, a lungo visibile sulla pelle chiara, conteneva in sé il più grave tra gli ammonimenti che una persona possa ricevere. – Lasciala stare – riconoscevo ora le voci atterrite dei miei figli – lasciaaalaaa… Colto in fragrante, ho liberato subito il collo ormai gonfio e bluastro di mia moglie, che grazie a Dio respirava ancora. Il diaframma cominciava a contrarsi regolarmente per riprendere il suo normale ritmo, i suoi polmoni crescevano a dismisura quasi a incorporare tutta la stanza. Non mi restava altro che accucciarmi obbediente ai suoi piedi, diventando più piccolo di un seme di papavero dalla vergogna. Appena riprese conoscenza si mise a strillare come non l’ho mai sentita fare prima in tutta la nostra vita comune, e a colpirmi con qualunque cosa le fosse capitata a portata di mano. I nostri bambini non osavano aprire bocca: ammutoliti dalla paura, avevano assistito alla scena in silenzio assoluto, preoccupati solo di togliersi di mezzo. Ed è successo, così, che il giorno seguente mi sono sottoposto, per la prima volta, a una visita specialistica. Se vi interessa il seguito chiedete pure, ma sappiate che andando oltre ci sono solo disperazione e morte. D’accordo, andrò avanti, vi racconterò tutto, del sangue e delle lacrime, della follia. Non ditemi che non vi avevo avvertito. Ahhh! Adesso è chiaro, ho capito finalmente quali sono le vostre intenzioni: sicuramente volete essere i primi a constatare scientificamente in che misura siamo impazziti da queste parti, di quanto la nostra demenza fosse piò o meno reversibile. Non c’è alcun problema, basta capirci, mi offro volentieri da cavia per i vostri esperimenti. Spero di non deludere le vostre aspettative... un toro e un leone alati, un angelo d’aspetto classico e tu che ti presenti con le foglie

d’ulivo ingiallite intrecciate nel cappio spezzato... gli esperti, dunque… Non illudetevi, pensando che la partenza da Mogila fosse stata una felice soluzione per noi, diretti interessati, condotti a Cernica, questa volta più ricchi, per una buona dose di bastonate ricevute, che a molti, tuttavia, non sono servite da insegnamento. Ah, my dear Watson, per risolvere i casi più complessi tu lo sai benissimo che è elementary, non affrettare mai il o di quell’ubriacone e donnaiolo di Scherlock, ma si deve ascoltare con pazienza tutto quello che ha da dire il tuo interlocutore e prestare la dovuta attenzione a ogni indizio, per quanto piccolo e insignificante possa apparire inizialmente. Quell’assalto alle case shqiptare è paragonabile soltanto a un’invasione di cavallette; una situazione di confusione totale, in cui non sai chi si comporta peggio, se i soldati volontari dell’esercito regolare che assumono la podestà di decidere su ogni cosa, o la popolazione del posto, così abile nel saper sfruttare la nuova situazione. La roba di valore è scomparsa immediatamente, quella meno preziosa è stata distrutta o resa inutilizzabile, in base al principio del “se non la uso, molto meglio che non serva più a nessuno”. Sono state sparpagliate tutte le antenne satellitari, i loro ricevitori, le cassette porno, i televisori, le radio e i videoregistratori; se non hai mai studiato il principio d’uguaglianza su cui si basa il comunismo – a ciascuno secondo le sue necessità – avresti dovuto esserci quel giorno a Cernica, per vedere come la teoria venisse messa in pratica, quando la mandria in azione si impossessava di tutto, spogliandoti anche del tuo innato senso di vergogna, per sempre. A noi toccò un edificio enorme, le stanze ancora intatte. Qualcuno, evidentemente, era stato costretto ad abbandonare in tutta fretta la propria casa, per ovvi motivi che potete immaginare – i numerosi cassetti che gelosamente custodiscono fotografie di famiglia, appunti, diari e pellicole degli anni ati, un diploma estero incorniciato e appeso al muro, altre videoregistrazioni ancora, alcune da un matrimonio in pompa magna, le immagini di una donna molto giovane con il bouquet e il velo, videoclip musicali con l’aquila nera sopra uno sfondo rosso, cortei e marce varie. Chiamo un secondo dei corrieri che ci avevano assegnato, un giovane sempliciotto di provincia dai modi piuttosto grossolani, e gli ordino di far bollire dell’acqua per il caffè. Quel tontolone torna indietro senza aver sbrigato questa, se pur così semplice, faccenda. – Qualcuno ha portato via i fornelli – esclama per giustificarsi – qui non si può cucinare niente! Increduli, ma decisi ad assistere anche a questo miracolo, ci spostiamo tutti da una stanza all’altra dove ci attende un piano cottura a induzione che, a quanto pare, gli altri presenti non avevano visto mai prima. – Le tue idiozie te le puoi tranquillamente tenere per te! – spiego al giacinto quanto sia importante

pensare prima di parlare ad alta voce – Questo sistema funziona diversamente… Un silenzio mortale e gli sguardi della folla fissi su di me, nell’immobilità più assoluta, mi indussero a rinunciare alle mie spiegazioni logiche, portandomi a giocare invece con la loro ingenuità, il cui abile uso, da sempre, ha costituito una strada più veloce per guadagnarsi facilmente autorità e stima. Un intero giardino di giacinti a portata di mano non potevo certo lasciarmelo scappare senza darmi delle arie da superiore. – Dunque – proferisco allargando le braccia come un qualche professore colto nel mezzo di una lezione importante – questo apparecchio ci permette la preparazione di cibi anche in assenza di fornelli tradizionali, a condizione che… – Ci sia cosa? – in modo maldestro vollero far accelerare la mia esposizione alcune voci provenienti dall’ultima fila. – Non siate maleducati – li avverto severamente – la fretta non ha mai salvato nessuno. Come ho già detto, si tratta di un prototipo assolutamente innovativo che cucina senza elettricità né gas, sfruttando semplicemente la lunghezza del pene di chi lo usa – minimo ventidue centimetri in acqua fredda adoperati soltanto con delle gnocche buone – dotato di un sofisticato sensore impossibile da ingannare che registra ogni minima bugia. Segue un silenzio prolungato e carico di tensione, che avevo interrotto solo dopo essermi al cento per cento convinto di poter abusare della loro credulità. – Ma siccome sono l’unico qui, onestamente parlando, il cui profilo corrisponde ai richiesti requisiti, sarà mio onore potervi preparare un vero caffè del cazzo. A questo punto i più audaci cominciano a muoversi con un sorriso perplesso sulla bocca. – Tanto è più facile da dire che da fare – finiscono a loro insaputa per lanciarmi quella sfida, voluta fin dall’inizio. Mi chiedo, però, a cosa serva l’ennesimo tentativo di educare con l’esempio e dove ci porti che un incompiuto suicida di ieri già oggi prosperi come dimostratore di cretinologia. Ma certe domande, evidentemente, è molto meglio non farsele. Mai, o quasi mai. Ecco, che Dio mi fulmini all’istante se mai – né prima, né dopo – un così cospicuo gruppo di persone abbia assistito alla preparazione di un banalissimo caffè. Per una volta nella vita, anch’io potevo sentirmi importante quanto questo dottor Crick, seduto accanto a te, alla scoperta della prima struttura a doppia elica. Dico bene my dear Watson? Beato te che ti sei deciso a fare la ricerca sulla follia di una creatura come me, e per questo devi trovare la pazienza di sopportare anche ogni mia deviazione! Fatto sta, come puoi immaginare, che quel giorno tenevo le dita incrociate e pregavo silenziosamente tutti i santi chiamandoli in mio aiuto affinché ci fosse dell’elettricità e la mia Signoria non perdesse subito la beatitudine di quella dolce influenza sul popolo appena ottenuta. Le prime bollicine furono causa di estasi pura e non si sa chi tra noi è stato più felice: coloro che hanno assistito alla discesa su Marte, o il mio ego sollevato per essersi salvato il culo anche questa

volta, dal momento che ho permesso alla vanità di venir fuori a causa di un branco. In seguito avrei potuto vantarmi tranquillamente anche di aver scopato con una sirena. Tre volte di seguito e senza tirarlo mai fuori. Avrebbero bevuto avidamente ogni mia parola chiedendone ancora, ancora e ancora; soprattutto il Capitano avrebbe richiesto di fornirgli ulteriori dettagli impensabili per qualunque altra persona sensata. Era fatto così, e persino alla mia benevole domanda se fosse mai stato al mare rispondeva con un incerto “scarsamente”, ma del resto questo fu un insegnamento alquanto utile per me, una lezione e un colloquio allo stesso tempo, la conferma che le mosche non entrano mai in una bocca sapientemente serrata. Tutti voi siete venuti qui per ragioni molto simili – aveva spiegato il medico alla nostra prima riunione di gruppo. A differenza di altri, che non la smettevano di lamentarsi nemmeno per un istante, mi tenevo in disparte con aria annoiata sperando che nessuno mi vedesse e che si dimenticassero di chiamarmi per il mio turno. – Non so cosa dirvi – cercai di liberarmi da quell’arduo compito di dover giustificare e dare delle spiegazioni sensate delle mie azioni – dormivo profondamente quando i miei figli avevano cominciato un gioco di guerra. Così, senza volerlo mi sono sentito aggredito: tre elmetti avanzavano per farmi fuori, approfittandosi del mio sonno e respingendo tutta la paura accumulata, ho reagito da vero soldato, armando il fucile senza pensarci due volte. Ma a quel punto un altro avversario mi era piombato addosso con tutta la violenza e a stento riuscivo a riconoscere in esso mia moglie che mi graffiava le guance, gridava e strappava intere ciocche di capelli, e come una gatta inferocita infilava le unghie ovunque, mirava agli occhi, e senza alcuna intenzione di lasciarmi andare facilmente, colpiva al collo. Per distrarmi dai piccoli mi aveva persino morso un dito e un orecchio, staccando quasi un pezzo di carne che continuava a penzolare, mentre dal lobo squarciato gocciolava del sangue. Il dolore finalmente aveva fatto il suo dovere: uscito dal quell’inaspettato labirinto mi sono seduto per terra non sapendo cosa pensare, e siamo rimasti così, totalmente immobili, a lungo. In silenzio, solo guardandoci. Lascia perdere i sintomi! Lo so benissimo che sei un eccellente medico di ottima cultura generale, lo sanno tutti. Concentra però le tue forze sulla scrittura, i colori e le tele che con grande impazienza attendono di essere dipinte. Nel mio caso non c’è più niente che si possa fare, il dado è stato tratto da altri, e ora mi tocca solo continuare a rotolare il più a lungo possibile senza cadere nel precipizio. Le mani fredde e bagnate di sudore quasi ogni giorno, il battito cardiaco simile a quello di un colibrì che raggiunge anche più di milleduecento

pulsazioni al minuto, attacchi di panico improvvisi, la sensazione di minaccia e di pericolo imminente, l’aggressione delle persone care. Lo vedi anche tu stesso che non vi ho detto niente che la scienza non sapesse già. Perciò, prova a chiudere per un attimo i tuoi libri, e ascolta quello che la vita reale ti offre. Lo ammetto, nemmeno io avrei mai compreso quanto grande fosse l’inclinazione per l’esplorazione, insita in un qualunque contadino serbo, se un giorno non fossi stato costretto ad andare in guerra – o se non fosse stata proprio lei così premurosa a venirmi a trovare, è la stessa minchiata in ogni caso – perché non appena l’orda aveva soddisfatto la fame biologica, ecco che si gettava avidamente alla ricerca di altro con cui potersi ancora nutrire. Con la stessa frenesia, venivano allora ispezionate le cantine, tutte le camere e anche il tetto, venivano svuotati gli armadi e i cassetti, gettato all’aria il contenuto di innumerevoli vite ate, derubata o bruciata come niente fosse. Cadevano stanchi alla fine della giornata, quando seguiva una breve tregua, sufficiente per riprendere le forze per continuare il saccheggio con una determinazione ancora più marcata e forte di prima. Un momento di strategica importanza, in cui i risultati raggiunti venivano resi pubblici e veniva calcolato approssimativamente il valore di tutta la merce raccolta, con tanto di accesissima analisi comparativa per carpire chi avesse avuto la meglio in quel furto. Ed è stata proprio questa la goccia di troppo, che non ho potuto tollerare. Scappavo dalle loro voci e dai loro modi in tutta fretta, cercando istintivamente nel giardino un angolo dove rifugiarmi, quando mi sono scontrato con le sue scarpe gialle mentre si faceva un lento segno della croce. – E tu, chi sei – resi di proposito sprezzante il tono della mia voce – un prete, o un veterinario che si spaccia per medico? – Solo qualcuno morto di vergogna per questo schifo totale – mi risponde, indicando un riservista in uniforme che con il piede di porco cercava di scassare la barra dell’antenna satellitare della casa accanto. Nella speranza di trovare un mondo migliore gira allora la testa dall’altra parte, dove, però, la realtà non tarda a deludere le sue ingenue aspettative. Il campo visivo si stringe questa volta sul volto sudato di un semplice contadino del luogo, che usando il trattore trainava con forza una Zastava 101, le chiavi della quale non erano evidentemente in suo possesso. Si possono quasi udire le scuse poco probabili che si sarebbe inventato di sana pianta dopo la guerra, al ritorno del suo vicino, quando avrebbe cercato di convincerlo che si era appropriato dei suoi beni soltanto per proteggerli durante la sua assenza. Anzi, secondo la sua versione dei fatti, sarebbe stato proprio il capitale indifeso a chiedergli d’essere tutelato da una persona tanto generosa e onesta. Ecco com’è fatta nella prassi, che ci crediate o meno, l’accumulazione originaria del capitale. L’ho sempre

saputo che siamo un popolo diligente, solo che non avrei mai potuto immaginare fino a che punto eravamo capaci a spingerci. Ora, a ogni o, man mano tutto diventava dolorosamente chiaro, incorniciato da un’alta finestra aperta vediamo un tizio robusto rimuovere da un muro tutte le piastrelle, per romperle poi una a una bestemmiando e ridendo sarcasticamente. Se ci fossimo fermati a chiedergli cosa stesse facendo, e per quale motivo, di sicuro non avrebbe saputo darci una risposta sensata. Eppure era convinto al cento per cento che quella porcheria andava fatta esattamente così. Un altro, invece, tirava all’impazzata fuori dall’armadio con le ante staccate un mucchio di vestiti e se li provava; le taglie piccole le tagliava subito a pezzi o strappava loro le cuciture laterali, quelle grandi le selezionava e le metteva da parte per portarle via con sé. – Questi stracci sono utili per pulire il fucile – mente spudoratamente quando si accorge di essere osservato – mi serve qualcosa da impregnare nel solvente… – Ti prego, sbrigati, prima che la ragione mi abbandoni – sento l’infermiere ansimare sempre più sofferente, e allungo il o per raggiungerlo. Egli attende pazientemente che raccolga la mia roba e avvisi quelli della mia Batteria che sto andando a dormire da un’altra parte. – Siamo in troppi in uno spazio così ristretto – mento senza alcun ritegno, per non dover dire le vere ragioni – la cosa migliore da fare è dividerci. Con lo zaino in spalla e il fucile in mano esco senza aspettarmi un saluto o una risposta. In fondo, non mi importava nulla del loro parere. Volevo soltanto dividere lo stesso tetto, almeno per quanto la situazione lo permetteva, con degli uomini che ancora avessero mantenuto qualcosa di umano, tutto qua. Trovarsi in un posto dove l’ordine veniva rispettato, e dove si sapesse a chi apparteneva ogni cosa, senza dover ogni giorno sentire una sgradevole sensazione di nausea (di me stesso, certo, e di loro). Mi chiedi anche perché? Non avrai mica qualche domanda più intelligente da farmi, del tipo a cosa serve la guerra, e a cosa serve la pace?! Altrimenti taci che è meglio. Anche noi due camminavamo in silenzio fianco a fianco, fino a una casa dall’aspetto poco invitante, ma non per questo il dottore si è lasciato scoraggiare dal bussare alla sua porta. Dentro, una donna di una certa età predice il futuro leggendo le ceneri. Ci raggiunsero anche alcuni della sua Batteria e ci sdraiammo tutti sul pavimento formando un cerchio. La nonnina continuava il suo lavoro tranquilla come se niente fosse – d’altronde cosa avrebbe potuto chiedere a uno giunto al limite della sopportazione e senza più nervi che potessero reggere ulteriori aggiornamenti sulla situazione internazionale né sulle migrazioni interne. Non capite di cosa sto parlando? Ma come, non ve l’ho già spiegato? Mea culpa,

l’ho ammetto. Dunque, quel giorno la stupidaggine dei nostri superiori, e l’orgoglio che ne consegue, li avevamo pagati a caro prezzo. Formare un convoglio militare equivaleva a volersi far del male da soli, poiché era impensabile poter are inosservati. Non sono mica ciechi quelli che ci sorvolano e tengono sotto mira. Non si poteva, per dirla breve, mettere il naso fuori dalle cantine in cui eravamo tornati per ripararci da quel bombardamento durato più di quattro ore piene. Una pioggia di schegge mai vista prima. I sopravvissuti ne sono usciti mezzi ammattiti, il che, se lo aggiungi alla mia naturale metà folle, ti fa ottenere facilmente un “perfetto pazzo intero”. Non siete d’accordo? Avrete pure ragione voi, ma non è un problema mio, mi spiace! Avevo altre cose ben più gravi a cui pensare al momento. Osservare, ad esempio, come un tipo di idiozia, quella scesa dal cielo, venisse accompagnata da un’altra asineria in terra. Senza contare l’ansia e la paura che si propagano ovunque, all’infinito praticamente. Vedere come quattro case vengono appositamente incendiate in una notte sola, e sentire lo scoppio delle munizioni nascoste in una delle loro cantine. A torto o a ragione, quella piromania gratuita ci è quasi costata la testa a tutti. – Lo dicevo io che dovevamo subito farla saltare in aria – mi spiega un riservista scimunito con la bomba in mano – ma nessuno osa ascoltare la voce della ragione! Gli giro le spalle e mi scanso, come se la sua semplice presenza potesse infettarmi in qualche modo. Quattro tetti fatti esplodere. Soltanto un cagnaccio che in vita sua non ha mai costruito nulla con le sue mani non ne conosce il valore. Ci sono cose come questa che forse non sarei mai stato in grado di perdonare nemmeno a un fratello, figuriamoci a un vicino di casa. Quattro case minate senza pensarci un attimo. Soltanto coloro che hanno sudato sangue per guadagnarsi quattro muri sanno quanto duole perderli così. Quel giorno, però, tra i presenti non c’era nessuno pronto a mettersi davanti alla plebaglia a contrastarne l’ignoranza. Nemmeno uno solo che dicesse loro – ora basta! – Nooo, non farlo – sentivo invece strillare quella familiare voce femminile, che oltretutto non accettava di arrendersi alla mia follia, mentre infilavo in bocca la canna della pistola – ti prego, ti supplico, non farlo! Poi, d’un tratto, sono diventato cosciente del loro pianto soffocato e puro e, con mia grande sorpresa, ho scoperto di avere ancora funzionante quello stupido organo chiamato cuore. Scacco matto causato dall’amore per i figli, dato che non mi restava nient’altro da fare che prendermi cura di loro. Scendo gli scalini pieno di grinta come un malato terminale appena guarito, entro nel garage e prendo le chiavi della macchina dal solito posto. La metto in moto, inserisco la marcia, prima, seconda,

giro a sinistra e in pochi minuti arrivo a destinazione più semplicemente del previsto. Il grande fiume che scorre sereno e io; soli soletti a risolvere il mio problema. – Nulla al mondo vale le loro lacrime – questa preghiera, a modo mio, la ripetevo a voce alta a ogni tonfo dei fagotti che colpivano l’acqua, mentre dal ponticello gettavo via tutte le munizioni, le bombe, la pistola e il fucile avvolti in grezzi teli – nulla al mondo ne giustifica una sola… Quello stesso giorno avevo iniziato la mia riabilitazione per la seconda volta, e seriamente. Ora assumo dei medicinali. Parecchi, anche. E forse ho imparato a vivere in modo semplice e saggio, a guardare il cielo, a pregare Iddio, e a vagare a lungo prima di sera, per fiaccare un’inutile angoscia… Che cosa faceva l’infermiere? Quella notte, avvolto dal fumo profetico, non la smetteva di camminare avanti e indietro e, misurando la stanza con i corti e nervosi, fischiava come una di quelle vecchie locomotive a vapore cadute in disuso. – Dalla puzza quasi non si respira e il senso della vergogna non mi lascia dormire... – finalmente si era deciso a parlare – Nonnina misericordiosa, butta la cenere e vaticina anche per me! – Cosa vorresti sapere, buon figliuolo? – gli chiede allora la donna con uno sguardo fisso nel vuoto – Nascerà vivo e sano? – Certamente, di questo non ti devi preoccupare – lo rassicura – ma sarà una femmina che ti somiglierà molto. – Mi basta che non sia sciocca quanto me, in famiglia può bastare solo un idiota.

Aut aut

E tu saresti un esteta? Non prendermi in giro, guardati un po’ intorno per favore! Ti presenti con due straccioni e una femmina debole e sfinita che non regge più il o. Si direbbe piuttosto che sei l’unico a notare la loro bellezza nascosta e profonda, amico. Sarà pure così, ma è affar tuo, e lo resterà di certo. A me non importa comprendere le tue motivazioni, figuriamoci, è già tanto se arrivo a capire me stesso. La vita è una scelta e a ognuno di noi spetta il compito di agire come meglio crede a proprio rischio e pericolo. Uno scrittore dici? Attento a come parli, questa è già un’affermazione seria, per quanto al giorno d’oggi la rilascino tutti con estrema semplicità... Minchionate d’autore vendute a chili… Un giorno anch’io dovrò scrivere un libro. Scrivere almeno qualcosa, sfogarmi. Me lo sono ripromesso da tanto tempo e quando le immagini avranno perso quelle macchie rosse, pur mantenendo intatta la chiarezza delle figure così da poterci ancora riconoscere a vicenda, saprò che è giunto il momento di chiudere i conti con il ato. E allora non sarà facile far incontrare di nuovo coloro che abitano nei cieli e gli altri che sono finiti sotto terra, buoni e cattivi, vivi e morti. Ma nessuno ha mai detto che dobbiamo liberarci di questo giusto peso. Mi metterò comodo su una sedia, prenderò in mano un foglio di carta bianchissima e inizierò a scrivere senza esitazioni. Come sarebbe da dove? Dall’inizio per amor di Dio, e da dove altrimenti? Da quel punto di non ritorno che non comprendiamo mai in tempo reale. Oppure sarebbe meglio cominciare dalla fine, perché da questa distanza spazio-temporale sono pronto ad assumermi tutta la responsabilità del sostenere che quel barbuto sciocco senile di Jàsnaja Poljana, buon vecchio Tolstoj, non sapeva di cosa stesse parlando quando ribadiva che ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo… E così via. Bla, bla, bla… Se per caso fosse stato presente a Cernica, nella primavera dell’anno del Signore novantanove, avrebbe potuto constatare che la felicità e la sfortuna hanno la stessa identica forma; quegli eventi che salvano il sedere a qualcuno e magari lo fanno anche arricchire, contemporaneamente forniscono il biglietto di sola andata verso le pianure della caccia eterna a qualcun altro. Giusto o ingiusto che sia, è inevitabile che le cose procedano così. Una tale dose di relatività generale – e tu, caro Einstein, vai a mangiare la merda con i tuoi simili – da dover

assumere ogni giorno a digiuno, potevano sopportarla giusto quegli individui con la fronte alta non più di due dita, per i quali il camminare lentamente in una processione costituiva il più importante evento sociale della stagione. Tutti noi altri eravamo semplicemente smarriti, ciascuno a suo modo. È giusto, giustissimo! Vedo che siete già ben informati. Ho abbassato i criteri di valutazione per la mia materia, sì, la filosofia. Perché se qualcuno è abbastanza virtuoso da saper stare accovacciato in trincea osservando il mondo intero attraverso il mirino e con il dito pronto sul grilletto, mentre nell’altra mano consuma il resto di un mozzicone di sigaretta opportunamente nascosto, pisciando e cagando nello stesso buco di tre metri per uno, non curandosi intanto che l’acqua torbida del fiume Morava gli arrivi alle caviglie, ecco, quest’uomo di certo ha già conseguito il diploma sull’esistenzialismo; coloro i quali nei vari scantinati trascorrevano notti intere con la testa appoggiata sullo zaino e l’arma pronta per il tiro in mano, proprio in quegli istanti di silenzio e di attesa, che dovevano parer loro eterni, si stavano per laureare come stoici. Viceversa, chi da tutto questo è riuscito a tirarsi fuori vivo, si merita il titolo di dottore di ricerca in pragmatismo. E cos’altro mi resta da poter chiedere ancora? E chi mi dà il diritto di interrogarli? Siete rimasti a corto di parole? È bene che sia così, a volte è meglio tacere. Avreste fatto bene a non interessarvi di lui con tutti i suoi vicini di casa. Così, invece, alla gente semplice cosa resta da pensare, quando nella loro mente avete già insinuato il dubbio che anche l’infermiere, per approfittarsene, abbia rubato come tutti gli altri, o che abbia fatto la spia? Che vi fotta questa stramaledetta voglia di scoprire la verità! Quanto è stato nullo il suo contributo per salvare delle vite umane, a mani nude praticamente in assenza di materiale sanitario primario, mentre quei cretini in alto non la smettevano di scatenare la furia distruttrice che veniva regolarmente giù dalle nuvole? Amici e nemici, nostri e vostri, sono sempre tutti la stessa minchiata, ma con un nome diverso, e se vuoi non lasciarti seppellire prima del tempo, ti tocca allora imparare come proteggerti da ciascuno di essi, velocemente. Tenere a una certa distanza soprattutto quegli ufficiali privilegiati rimasti al sicuro in città, e certi politici in carriera capaci di qualunque porcheria, che ci tenevano tanto a mostrarsi civili e amichevoli portando a ogni soldato al fronte un’intera stecca di sigarette come personale contributo dato alla guerra di liberazione. – Vi fotta il vostro o di merda, vigliacchi dell’entroterra– aveva osato dire l’infermiere davanti a tutti, respingendo il dono – dimostratevi meritevoli senza il mio aiuto e lasciatemi dormire in pace prima che quelli di sopra ritornino per rompere ancora le palle.

S’era avvolto nella sua giacca a vento e s’era girato verso il muro, del tutto incurante della nostra presenza. – Questi piloti si sono così attaccati ai coglioni, – aveva mormorato ancora prima di addormentarsi – che certe volte sembra che ce l’abbiano con me, come se dovessi restituire loro una grossa somma di denaro e i corrispettivi interessi! Cos’altro ha detto? Quasi niente. Il sonno è stato più forte e più veloce di qualunque altro pensiero. Ah già, era riuscito a mandare affanculo anche la cospirazione dei nostri cuochi, decisi ad avvelenarci segretamente con i loro intrugli… Di fatto il giorno dopo aveva radunato un piccolo gruppo per perlustrare la zona alla ricerca di cibo migliore, gruppo cui anch’io avevo aderito non volendo più nutrirmi con brodaglie di rifiuti. Per l’occasione si era dimostrato più che utile una vecchia Fićo rossa – la versione serba della mitica Topolino amaranto – abbandonata accanto alla strada, ancora guidabile anche se in condizioni precarie. Una tanica piena di benzina, qualche fascia in testa tipo Rambo, un po’ di munizioni, e la nostra Safaris Unit era pronta per compiere la sua indimenticabile “gita” tra bovini abbandonati; con la possibilità di osservare il gonfiore delle loro non pregiate pelli, dovuto al troppo trifoglio ingoiato, che ora, muggendo in coro, scoppiavano come vere bombe. Le esaminavamo una a una, nella speranza di trovare qualche animale ancora in vita prima che il corpo fosse andato in decomposizione, benché la maggior parte non fosse più utilizzabile nemmeno per uno spezzatino. Quella porzione di realtà sensibile e terrena avresti dovuto dipingere, mio caro difensore della zoografia, senza sprecare il tuo talento in tanto stupidi quanto inutili ritratti, e avresti compreso l’estrema bellezza della vita che in quella natura morta si nascondeva. Avresti saputo perché all’esame con me i ragazzi ottengono sempre la sufficienza persino quando non hanno mai sentito parlare di Socrate; se l’avessi visto con i tuoi occhi, da allora non avresti avuto dubbi sul perché stento a capire come mai un uomo così saggio abbia potuto accettare che lo Stato lo fottesse a proprio piacere in quella maniera. Se la sua era solo una presa di posizione, devo dire che era sbagliata, in quanto si tratta, piuttosto, di fiducia cieca nel sistema, il che ci porta a concludere che stiamo parlando di un uomo ingenuo. E per colpa di simili sempliciotti della storia nessuno si merita di essere bocciato, almeno finché l’insegnamento di questa disciplina viene affidato a me. Eravamo i guerrieri più fieri, coraggiosi e abili mai vissuti – sai che non ricordo più se questo era un libro o un film? In ogni caso la nostra piccola unità aveva preso sul serio il suo compito; dopo aver dovuto cibarsi soltanto di fagioli bacati e patate germogliate ci siamo tutti buttati sulla carne come se non l’avessimo

mai mangiata prima in vita nostra. Non so se con la pancia piena si ragiona meglio, ma con quella vuota di certo sei pronto a provarle tutte. I cuochi che fino ad allora se ne approfittavano eccome, in un batter d’occhio avevano perso ogni potere, e divennero i principali oggetti di scherno. Da tutte le parti potevi vedere bracieri improvvisati e carne allo spiedo da cui colava il grasso; quello che eventualmente avanzava veniva scambiato con la gente del posto con della carne di maiale. Giusto, anche in quell’occasione e nel bel mezzo dell’atmosfera pazza che regnava, lui si è distinto per aver istigato altri soldati a liberarsi… – La cosa più importante da seguire è un’alimentazione variata – sosteneva, urlando a bocca piena – la carne in modi diversi è una benedizione giunta dal più alto dei cieli, e se un giorno per questo crimine compiuto sugli animali a qualcuno verrà in mente di togliermi il diploma, già da ora vi dico che è stata tutta colpa della guerra e di essa soltanto, è per la vostra sopravvivenza che ho sporcato di sangue le mie mani, ingrata feccia umana! Allora, naturalmente, nessuno capì l’importanza del suo ruolo, né di un’obbligatoria ispezione delle carni, finché un’intera Batteria non manifestò chiari sintomi di infezione. Come ho già detto, la fame supera qualunque paura, ma insegna anche la prudenza. In seguito venivano in molti da lui a farsi esaminare una coscia o una spalla prima di mangiarla, e i suoi servigi li ripagavano talvolta malvolentieri con pezzi commestibili altrettanto grandi. – Dite che è troppo per un’analisi scrupolosamente eseguita, e in queste condizioni? – l’ho sentito un giorno perdere le staffe dopo un’ora buona di combattimento con le carcasse – Rivolgetevi allora all’Istituto Sanitario di Skopje, là si che vi faranno risparmiare parecchi quattrini, riprendendoli però sotto forma di tasse… Facendosi intanto scorte di viveri come se dovesse partecipare quanto meno alla battaglia di Stalingrado, non smetteva mai di parlare e ridere, anche su di sé. – È così, signori miei, nessuna garanzia... – amava dire ai più scettici – Di qualcosa un giorno saremo tutti costretti a morire, ma nel frattempo di qualcos’altro bisogna pur vivere! No, lo spirito del commercio gli era estraneo, lui non vendeva mai la sua parte di guadagno, ma scambiava volentieri la carne avuta per altre merci. Come sarebbe a dire quali? Per del materiale pornografico ancora in grado di farglielo alzare, per cos’altro altrimenti? I soldi non gli interessavano affatto, ogni cosa normale aveva già da un pezzo perso il suo valore. – Un buon bicchiere, un pasto decente, qualcuna da montare, o per meglio dire perdonatemi, masturbarsi alla sola idea – vi riferisco le sue testuali parole – sperando che Quello lassù che tutto vede, e tutto comprende, abbia un occhio di riguardo! E così, giorno dopo giorno, in un

mondo dove a nessuno importava più niente, la sua popolarità cresceva contro ogni logica di natura. Venne a cercarlo persino il corriere di un Tenente di riserva, amico suo tra l’altro, stazionato in un altro paesino sperduto, quando la voce si era sparsa abbastanza. – Avanti, compagni – invitava anche noi a prendere parte a questa sua nuova avventura – abbiamo una missione impegnativa da compiere: aminoacidi essenziali über alles, l’umanità va salvata a ogni costo! Non serviva ripetercelo, così; senza pensarci due volte saliamo in macchina verso una destinazione praticamente ignota. Due ore buone di strada, a tratti sterrata, in pessime condizioni. No, avere benzina a sufficienza non è mai stato un nostro problema. Una tanica si procurava in qualunque momento al prezzo equo di una coscia bovina già accuratamente esaminata. Questa volta, il nostro safari tour comprendeva anche la vista dei villaggi bruciati, accanto ai quali, tanto per avere almeno una chance di tornarci con la testa attaccata alle spalle, avamo senza rallentare minimamente. L’edificio della chiesa che incontriamo è nero di fuliggine; una grossa croce frantumata pende e ondeggia al vento. Ci imbattiamo anche in altri mali, quali i posti di controllo – con due assi, una trave, ed eventualmente del filo spinato – improvvisati da milizie volontarie con un’etica fiscale tutta loro, della serie “mi cedi quello che hai nelle tasche oppure te lo prendo lo stesso”. Dio solo sa perché questa conversazione con voi mi ricorda tanto l’incontro avuto con loro, anche se in quel frangente occorreva tenere la testa bassa e accettare qualunque condizione imposta con meno parole possibili. Quello che più mi sorprendeva era vedere in azione principalmente donne in uniforme; veri e propri malvagi inaspettati, che opportunamente sanno come nascondere a prima vista la loro fantasia punitrice degna dei peggiori assassini psicopatici. Siccome anche il fabbro voleva venire con noi, almeno una bottiglia da svuotare lungo il viaggio era assicurata. – Basta che si siede da una parte – aveva approvato l’infermiere, la cui presenza normalmente detestata dai più – e sta zitto fino alla fine della corsa! La casa in cui era sistemato il Tenente si trovava in cima a una collina, la migliore di tutta la zona. Ebbe il piano superiore tutto per sé, pieno di mobili stilizzati e soffici tappeti che arrivavano quasi fino alle caviglie. E una vera e propria stanza da bagno, naturalmente, fornita di una comoda vasca. Insomma, una cosa rara, la più preziosa che ci potesse essere in quel contesto. Del resto ci sarà pure una ragione per cui si dice che chi non fa per sé non è buono nemmeno per gli altri, e quel Tenente ci sapeva proprio fare… In poco tempo, aiutati dai suoi uomini, scarichiamo dal bagagliaio della macchina due casse di birra, rimaste miracolosamente invisibili agli sguardi dei controllori. Si sa cosa richiedono le buone maniere, non si va mai a trovare qualcuno a mani vuote, e noi, almeno in questo senso, eravamo brava gente. – Ancora non sono riuscito a formare una squadra capace come la

vostra – si lamenta il Tenente venendoci incontro – ma la speranza è l’ultima a morire! Invitandoci ad assaggiare il meraviglioso agnello allo spiedo praticamente diede inizio al libero scambio di beni, dove il valore della merce barattata non era affatto importante. E così, mentre tutti noi altri ci abbuffavamo a dismisura fino quasi a strozzarci con l’immancabile grappa, la birra e il vino, l’infermiere aveva scelto di scivolare impotente nell’acqua calda e profumata, lontano dal nostro chiasso. – La vita assomiglia quasi – lo sento canticchiare mentre si allontana con un telo di spugna – a una grande rassegna cinematografica: ogni giorno è buono per poter gustare di nuovo i piaceri di una volta… Sì, per quanto mi riguarda potete prendere liberamente la Bibbia dalla mensola in alto, tranquilli. Dov’è che mi sono fermato? Eh, già, Platone. Ritenete forse giusto che un giovane ragazzo oggi debba sprecare una intera estate – pensateci bene, migliaia di minuti di un valore inestimabile, irripetibile direi – solo per colpa di un uomo che affermava la necessità di una guida ferrea per le anime mortali? Mi rifiuto di essere un suo complice e una delle principali cause di infelicità tra i miei studenti. Ebbene, desidero che un giorno mi ricordino perché ho saputo stimolare in loro la curiosità e la voglia di vivere; perché ho chiesto di farlo fino in fondo e subito – poi è sempre troppo tardi – perché ho ritenuto giusto che le notti le dedicassero alle ragazze dall’ombelico profumato e non alle pagine dei libri. E non dimentichiamoci dell’aurora, per favore! Chi – tra quelli che in vita loro non l’hanno mai attesa ansiosamente solo per il gusto di vederla spuntare – si può davvero dire che abbia vissuto sul serio? Fermi adesso, giù le mani! Così mi strappate il libro! Si può sapere che cosa vi prende e cosa volete ancora da me? Non m’importa un bel niente di chi tra i due è stato il primo e chi invece il secondo, ormai la vostra opera l’hanno suddivisa in quest’ordine, e così rimarrà nei secoli dei secoli, amen. Mettetevi pure il cuore in pace, il mio libro riponetelo intanto al suo posto. Non c’è alcun motivo per litigare, signori, ve lo giuro; prima e dopo sono esattamente la stessa cosa. Il tempo è una categoria relativa, come tutto il resto, d’altronde. Lui dalla vasca è uscito circa un’ora più tardi, con la pelle raggrinzita persino sulla schiena. – Credo che le unghie si siano decise a cadere da sole – ride contento – per la troppa grazia ricevuta, e pensa un po’, anche il pitone curiosamente aveva per un attimo alzato la sua pigra testa… – E poi? – chiese goffamente una voce a me sconosciuta – Cosa vuoi che sia successo poi? – raccontava l’infermiere tornando però subito alla solita tensione di sempre – Avevo quasi pensato di potermi comportare come un uomo normale,

svuotandolo immaginandomi di stare con qualche bella gnocca, ma vedi, è proprio questo il punto, la collettività militare che mi circonda è in grado di offuscare persino la bellezza di un coito! – Non crederti migliore di altri – insiste quel contadino scioccato – Dio ci ha creati per essere uguali! – Sarà pure come dici tu – non si dava per vinto l’infermiere – ma soltanto di fronte a Quello lassù! – Cooosa, stolto, come osi bestemmiare in tal modo, per caso hai qualcosa contro di noi? – Una cosetta da poco, lo giuro – gioca ora con la sua supremazia il ciccione – solo che ancora non hanno inventato una bomba atomica abbastanza grande da eliminarvi tutti insieme in un’unica volta, e senza sprecare colpi! – Cooomeee sarebbeee a diiireee? – da quel momento in poi aveva sollevato contro di sè la tempesta di tutte le vocali ubriache in quella stanza. – È molto semplice da capire; – prosegue subito con la sua spiegazione – se siamo arrivati a questo punto è tutta colpa nostra, e di nessun altro. È inutile ora scaricare la responsabilità, giacché a quelli come voi è stato permesso di moltiplicarsi e prendere la situazione in mano. Ma anche la guerra un giorno finirà, take it easy, chi la dura la vince! – Tu ti credi onnisciente, ed è questo il tuo vero problema – si fa sentire un tenore di mezzo carattere – ma noi non vogliamo offenderci a vicenda, non oggi! – Ci credo, eccome se ci credo – ribatte prontamente l’infermiere – però la pelle troppo corta per ricoprire tutto il corpo, in ogni caso non potrebbe permettervi di prendere parte a una disputa degna del suo nome! – Aaahhh! – cominciava a manifestarsi anche lo scontento dei toni bassi provenienti dal fondo. – Vorrei proprio vedere com’è fatto colui che ha saputo mettervi in testa la menzogna sulla presunta uguaglianza che tanto vi piace, – non si lascia scoraggiare facilmente l’oratore, nonostante la loro forza numerica – in grado di farvi spalancare il culo non appena socchiudete gli occhi comprendendo di trovarvi dinanzi a qualcosa di cui approfittarsi. Solo il raggiungimento di una posizione socialmente altolocata e il soldo riescono a mettere in moto il vostro perverso bioritmo naturale! – Non azzardarti a dire mai più una cosa dal genere… – Se è per questo, non dovete temere – per un attimo abbassa la voce come se volesse davvero rassicurarli – vi dirò di peggio, ed è un bene, credetemi, sentirmi abbaiare, perché potrei anche pestarvi a sangue per come siete fatti, branco di fannulloni pronti a essere saldati e usati per i propri scopi dal primo stronzo che sbuca dietro l’angolo, mentre le erbacce crescono indisturbate e si impadroniscono dei vostri campi non arati. Nessuno al mondo riesce a farvi togliere dal seno statale che vi mantiene così inutili e sporchi come siete, senza dover muovere un dito. I veri contadini – costretti a combattere una guerra eterna contro lo Stato, le tasse, la siccità o la pioggia eccessiva – sono degli aristocratici in confronto a voi! Aveva parlato a lungo, non ricordo tutto perfettamente, ma so che non riusciva a darsi pace, cosciente che con tutta quella

commedia non avrebbe nemmeno sfiorato il loro modo di agire e pensare. Saperlo era forse deprimente quanto buttare un sasso in un pozzo e non sentirne il tonfo. – D’ora in poi – concludeva pensandolo sinceramente – vi costeranno care le mie lezioni: un’ora cento marchi tedeschi, solo per potermi avvicinare e parlarmi, quegli stessi soldi che avete rubato ricevendo una buona paga per lavorare nei vari uffici comunali pur non essendo stati presenti quasi mai, così sì che arriverete a capire la differenza fondamentale che intercorre tra noi! A malapena siamo riusciti a scappare da lì. Purtroppo in una cosa il dottore si sbagliava di grosso: in questo modo sono fatti non soltanto loro, ma la maggior parte della popolazione; a un piede indossano ancora le scarpe da contadino e all’altro sono già ati a roba elegante da salotto, mentre le natiche le collocano sulla paga fissa per la quale comunque non intendono faticare. Il viaggio di ritorno è stato più lungo, nonostante dicano che l’effetto illusorio temporale vuole il contrario, in parte a causa di tutto l’alcol che ci siamo scolati, in parte per colpa del fabbro che si metteva ad abbracciare e baciare indistintamente qualunque persona gli capitasse vicino. Con abilità e coraggio, abbiamo evitato di far nascere almeno due confraternite che avrebbe istituito, con chiunque indossasse una mimetica, dopo soli cinque minuti di conoscenza. – Ehi, Capitano – cercavamo di farlo ragionare – se avessi ancora un’anima, ti direbbe basta anche lei, non credi?! – Sonooo l’ultimo al mondooo ad averlaaa – se ne esce con le solite scemenze da ubriacone, strappandosi intanto i bottoni dalla camicia militare che indossava – grandeee, grandissimaaa per abbracciare il glooobooo inteeerooo. – Per quale motivo allora l’hai nascosta così bene da farcela intuire soltanto dopo aver mangiato i fagioli, – lo prende a calci nel sedere uno della nostra grande squadra-safari – quando canti anche da dietro, che uno non saprebbe da quale parte fotterti? – Uuunità feeermi! – intende dimostrarci la sua autorità, il fabbro umiliato stentando a reggersi in piedi. – Muoviti, idiota – gli fischiamo e strilliamo tutti in coro – o ti lasciamo qui e te la dovrai vedere a piedi ! L’Ufficiale stranamente prende sul serio il nostro preavviso, e salta in macchina senza farsi pregare due volte. – Sappiatelo, questa storia non avrà per voi un lieto fine – pronuncia mettendosi a russare immediatamente – vi porterò tutti di fronte a una corte marziale… eezzz… rooonf… rooonf… zzzz… Adesso cronista, forse, comprenderai perché mi pervade quella sensazione che ciò che per anni ho insegnato ai miei alunni non abbia più alcun senso. Da tutte le parti vengono lodate le vittorie, in nome delle quali gli esseri umani sono pronti a compiere qualunque stupidaggine. Io invece sono testimone soltanto di

paura, di inadeguatezza e sangue; di pus che irrompe e di lacrime che scorrono là dove mai saranno viste da nessuno, tra disperazione, rabbia e fango. In principio era, ah, non posso crederci, in principio era il logos… Rientriamo nell’abitazione della nonnina dove ci attendeva un silenzio di tomba, e mi chiedevo con cuore ingenuo cosa poteva esserci di peggio di quello in cui già eravamo immersi tutti i giorni. Ma si trova sempre qualcosa pronto a stravolgere la superficialità delle nostre convinzioni. Sono deceduti Češanj e Dizni, che Dio perdoni le loro anime. Dopo un po’ ci si avvicina quel corriere fumato, che non smetteva di insultare e prendere in giro il Capitano e il suo vice, per aggiornarci sui nuovi sviluppi sul campo. – Dottore – dice rivolgendosi all’infermiere – durante la vostra assenza siamo riusciti a beccare una stazione radio dove annunciavano un massiccio attacco via terra… – Che mangino merda pura a colazione, pranzo e cena – lo sento rispondere esausto – e tu figliolo è meglio che vai a riposare ora. – Puoi spedire al letto lui, ma non ti puoi liberare così facilmente di me. – Dico cupamente, nascondendo la preoccupazione crescente – Come pensi che andrà a finire questa faccenda? – Quasi non mi riguarda più. Una cosa soltanto so con certezza: mi sento pestato come l’erba finita sotto il peso degli elefanti nella stagione degli accoppiamenti. Loro si fottono a vicenda e ancora una volta sarò quello che si ritroverà con l’estremità della corda più corta in mano – mi risponde con la fronte aggrottata, completamente immerso nei suoi foschi pensieri, prima di allungare il braccio verso il corriere in cerca di qualcosa che ancora possa salvarlo – a un po’ qui quella bottiglia, è una notte perfetta per far resuscitare i morti! Così ha voluto fare, e così è stato. Ci siamo quasi uccisi dalla grappa. – Se possono sentirci, sono liberi di unirsi a noi – invita allegramente le forze invisibili, dopo aver mandato giù anche l’ultimo sorso di una delle bottiglie svuotate e girate alla rovescia, per proseguire poi con una terribile voce gelata – perché già domani può toccare anche a noi. Solo che al momento le nostre madri ancora non devono piangerci come le loro, non ancora, almeno fino alla prossima volta in cui qualche Ufficiale presuntuoso non sfrutterà l’occasione per vantarsi davanti a tutti della lunghezza del suo cazzo… Serra i pugni, cerca di alzarsi, pur sapendo che è inutile, e cade. Rimane steso per terra, senza più muoversi, un tempo indeterminato. Avrebbe facilmente potuto decidere di morire lì, e noi insieme a lui, ma poi qualcuno o qualcosa lo spinse in avanti senza permettere che ciò accadesse. Urla dal dolore, striscia, trova una bottiglia nuova e la apre con i denti. – Plotone, pronti al fuoco – grida mentre la liquida dimenticanza, gocciolando densa sotto il mento e lungo tutto il collo, lo aiuta a

raggiungere almeno un temporaneo oblio – e non cessare la raffica, fino all’ultima goccia… Fino al traballante mattino dopo la sbornia che in seguito alle brevi notti sempre più veloci fatica a raggiungerci ancora…

Tour de trans

Eravamo rannicchiati in trincea da tre giorni caldi e puzzolenti. Si scavava di notte. In realtà quello non era un vero fosso, ma un semplice buco improvvisato con i calci dei fucili e le suole degli stivali, realizzato non appena avevamo capito che da qui non saremmo usciti vivi così facilmente. Il primo a cui tocca sparare è il piccolo, mentre noi altri due scaviamo la terra e scolpiamo la pietra; poi è il turno del ciccione, che lascia a me e al corto il compito di imitare le talpe. Infine sparo io, fintanto che il piccolo e il ciccione cercano di allargare il buco e di buttare fuori la terra a mani nude. E così a turno, dandosi il cambio a intervalli regolari. Quando tocca a me riesco persino a dissociarmi da tutto il resto. Immagino di cavalcare una bicicletta su qualche collina, seguito solamente dalla macchina d’accompagnamento. Allora accelero. Pedalo finché gli stivali non cominciano a strusciare la pietra. Con le baionette e le unghie tiriamo fuori dal fango un altro sasso, ricominciando tutta l’operazione da capo. Finché scavi sei vivo! Saremmo riusciti a resistere anche più a lungo, se non fosse finita l’acqua. La raccolta di quella piovana non era sufficiente per due sorsi a testa. Chi abbia proposto di avanzare non me lo ricordo più. Ormai non ha importanza. Il trippone fu colpito subito sul collo. Cigolò per un po’ prima di rimanere stecchito; sgambettava stringendo la ferita con entrambe le mani. Il tracagnotto non sopportava quella vista. Avrebbe voluto raggiungerlo, ma ero riuscito a fermarlo in tempo. –Non possiamo fare nulla per lui – gli dissi – cerchiamo di svignarcela vivi da qui. –Ma... –Nessun ma – gli chiusi la bocca con un tono secco che non permetteva obiezioni – per lui è finita, e anche per noi se non ti riprendi! E subito! Spara! Spara per la miseria, se non vuoi che ci facciano a brandelli! L’ultima volta avevo visto così tanto sangue quando sgozzavamo il maiale sotto le festività, per

il ventinove ad esempio. Macellare la sua carne faceva parte delle gioie invernali: sugna, carré bianco e affumicato, ciccioli, coratella... Fanculo la benda d’emergenza, ehi! Su che cosa mettergliela? Mica posso premerlo sul collo, lo strozzo con le mie mani così, che cavolo. Guardare ed essere inutili. Per fortuna è durato poco, altrimenti ci avrebbero acciuffato così riuniti, per fotterci la genitrice a ognuno separatamente; ci avrebbero sparpagliato per tutto il bosco, di qua le braccia, di là le gambe... Per la testa nessuno avrebbe chiesto mai dov’era andata a finire. Mi giro verso il tracagnotto, diventato bianco come la calce, e gli strillo in faccia – Piccolo, quando ti do il segnale tu scatta. Uno corre, l’altro spara, ci dobbiamo coprire a vicenda per arrivare alla chiesa. Non c’è da fermarsi – avevo aggiunto inserendo un caricatore nuovo – adesso! Fischiava attorno a noi, ma riuscivamo ad avanzare lo stesso. Avevo già pensato che saremmo riusciti a tirare fuori le chiappe sane e salve, quando ho visto il ragazzino schiantarsi per terra. –Alzati – urlo, non mollare ora piccolo, ti copro io, siamo quasi salvi! Lui ci prova, non gli riesce di mettersi in piedi e striscia sui gomiti verso di me. Riesco a vedere gli spasmi sul suo volto, le mani che aggrappano i ciuffi d’erba. Lo copro come un animale, non tolgo il dito dal grilletto finché ci sono le munizioni. Mentre cerco di cambiare, il caricatore uno di loro si avvicina e gli spara alla schiena. La corrente elettrica attraversa il suo corpo in quel momento. Le mani mi tremano così forte che il cazzo del caricatore non vuole entrare al suo posto – infilati una volta buona, perdio – lo supplico. Tardi, è troppo tardi. Il corpo ormai è circondato, il branco si stringe attorno a lui. I calci del fucile spappolano il cranio. Lui geme e strilla ancora. Colpiscono allora con più forza. Gli sparano in testa. Continuano a dare calci e pestare il corpo morto senza tregua. Al posto del piccolo, sull’erba resta una macchia di sangue. Mi chiudo nella chiesetta e rompo con la canna del fucile i vetri rimasti per vedere meglio. Posiziono il fucile a fuoco semiautomatico e provo a mirare. Realizzo d’aver colpito in testa colui che più si accaniva contro il piccolo pochi istanti prima. Lo trascinano dietro un albero, uno di loro lo abbraccia e bacia, getta via il fucile, poggia la testa sul suo petto e sbraita dal dolore. –Su, un altro po’, su – penso, e lui obbedisce alle mie parole come se le avesse udite. Si alza con le mani aperte verso il cielo e resta in quella posizione quanto dura il volo del proiettile. Inizialmente si apre un buco sulla fronte, subito dopo parte il torrentello di sangue che prima di raggiungere la barba di tre giorni

scivola tra le sopracciglia inondando il naso. Quello fu il momento in cui tutti aprirono il fuoco su di me. Dopodiché ho udito quel suono. Il proiettile di un fucile ad alta precisione viaggiando canta una melodia tra il ronzio di un’ape e un moscone. La sua spinta era così forte da spostarmi la gamba colpita e ridurre a brandelli i pantaloni. Rimuovo i pezzi di stoffa stracciati e vedo che manca almeno mezzo chilo di carne. Il sangue schizza all’impazzata tutt’attorno, non ho tempo da perdere. Il dolore non arriva subito, ma quando stringo la cintura sopra la ferita allora sì che piomba fortemente. Continuo a sparare lo stesso. Non mi fermo nemmeno per un istante, fino al momento in cui buttarono dentro i cocktail di Molotov, costringendomi a togliere la maglietta per bagnarla con l’acqua santa. Tappo bene il naso. Il fumo aumenta, le fiamme leccano ormai l’altare e le sedie di legno. San Giorgio brucia e si riduce in cenere, e io comincio a sentire la testa pesante e a perdere conoscenza... giusto in tempo sento altri spari provenienti dalla parte opposta. Riconosco le armi di calibro diverso. Alla vista della camionetta bianca con una grande croce rossa, attaccata per l’occasione con del nastro isolante, ero convinto di delirare. Prima di uscire fuori attendo che il suo equipaggiamento ubriaco termini la sparatoria su quel bosco; non sono stato ucciso da unità albanesi e non posso di certo permettere ai miei di farmi scrivere il certificato di morte. – Pronto, mi sentite – strillo – sono ferito! – Ma dove stai – risponde un Capitano e vacillando esce dalla camionetta. – Qui, nella chiesetta – gli rispondo – esco. Non sparatemi! Raccolgo le munizioni avanzate e utilizzo il fucile al posto della stampella. I polmoni ormai sono pieni di fumo. Sto cedendo. – Acqua, portate velocemente dell’acqua – urla quello baffuto con i gradi sull’uniforme. – Capitano, troppo tardi – pronuncio con la voce rauca precipitando – non serve a nulla – bisbiglio tra i colpi di tosse che mi scuotono violentemente i polmoni, mentre vedo la chiesetta crollare alle nostre spalle. – Fai vedere quella gamba – dice uno con la borsa di pronto soccorso. Nemmeno lui è sobrio, ma vedo che riesce ad arrangiarsi; poggia della garza, tanta garza, preme e sostituisce la cinta con un tubo in gomma preso dalla camionetta. Anche lui stringe, ma ormai non duole tanto come prima. Fascia quella garza con una benda, poi con un’altra ancora. – Ti manca un bel pezzo di coscia – dice medicandomi. – Lo so – gli rispondo – ma sono ancora vivo, a differenza di quei due. Sbronzi come sono vanno a ispezionare i dintorni senza troppa cautela. Aprono il fuoco tanto per assicurarsi che non c’è più nessuno e sparano in aria come si

usa fare ai matrimoni e alle feste. Un gran chiasso, ma che dire? Dopo che mi hanno salvato la vita non posso giudicare niente. Il piccolo è stato subito avvolto in un telo militare per non farmelo vedere; poi hanno trovato anche i resti dell’altro. – Qui c’è ancora qualcuno – si sente la voce dell’autista che indica una casa accanto alla chiesetta – meglio che vi allontanate e non guardate. Meglio davvero. Dentro due coniugi anziani. Lei nuda e sgozzata; lui sgozzato, ma con i vestiti addosso. Crocifissi in legno incastrati nelle cavità orali; sul muro, il disegno di un’aquila bicipite in vernice nera. – Dai, mettiamo anche loro nella camionetta – dice l’autista – possiamo almeno seppellirli dignitosamente, da uomini. – E guida, guida – penso senza pronunciare una parola – come se da queste parti ci fossero ancora degli uomini... Entriamo tutti dentro la camionetta; loro, io e quattro cadaveri. Racconto cosa è accaduto. Ognuno di loro mi fa qualche domanda; solo il baffuto non termina mai il pensiero iniziato. – Ma lasciatelo parlare – mi innervosisco. – Ti sei fregato da solo, amico mio – sento l’infermiere prendermi in giro. – Fa niente – pronuncio cercando di recuperare la situazione – spara Capitano, liberamente. Chiedi pure quel che vuoi. – Perché non siete rimasti al riparo? – dice il superiore – Qualcuno sarebbe venuto a prendervi. – Vuoi prendermi per il culo, baffone? – rispondo alterato per questa domanda idiota – E chi avremmo dovuto aspettare? Quelli che ci hanno mandato qui per dimenticarsi poi della nostra esistenza? – mando giù tutta la frase in un unico grido, e gli appoggio la canna del fucile sul collo. – Ma lascia perdere – mi tira indietro l’infermiere – come se non fosse bastato per oggi, lascia stare! – Che cavolo – non mollo il fucile – cago e piscio nello stesso buco da tre giorni, mangio e bevo in quella pozzanghera, e proprio lui si mette a prendermi per il culo! – Ma piantala – risponde brusco l’infermiere togliendomi il fucile dalle mani – è ubriaco e stupido, ma che ci vuoi fare? Cominciamo ad ammazzarci pure tra di noi? Oggi mi vuoi far usare altri teli, questo vuoi? Fanculo, col cazzo che te lo permetto – sbraita tirando fuori il caricatore e l’ultimo colpo rimasto in canna. Tieni ora. Sdraiati là e non ti muovere! Ben presto comprendo che aveva ragione: il Capitano non poteva essere un cretino più ingegnoso. A ogni posto di blocco si ferma e scambia della pessima grappa con i controllori. Ma non gli basta, deve dare anche spettacolo. Apre dietro e invita la gente a vedere i cadaveri; un giovanotto dà di stomaco, altri restano sconvolti e fanno solo dei veloci segni di croce, ma lui non getta la spugna. A ogni rampa parte nuovamente l’esposizione dei corpi senza il minimo ritegno, come se si fosse in un museo. O Signore, avrei macchiato l’anima per

questo idiota! In qualche modo, riusciamo ad arrivare fino all’ospedale da campo. Mi portano subito dentro e mi addormentano. Al risveglio il dolore è fortissimo. – Dottore, come sono messo – gli chiedo? – Non potrai fare il ballerino, ma per il resto ti sarà utile. Vedo intanto come trasferiscono i vecchi e quei miei due compagni d’armi in buste di plastica. – E la bicicletta? – Cosa c’entra la bicicletta? – si stupisce il medico. Tirano su la chiusura lampo e serrano le finestrelle per la testa. – Sarò in grado di guidare la bicicletta? In quattro caricano le buste in un camion. – Come una freccia, figliuolo – mi risponde il dottore mentre dal tavolo operatorio il getto rosso va a finire nella canalizzazione.

Viaggio al termine della notte

Per favore, tenete in considerazione il fatto che buona parte di questa breve storia è giunta a me di seconda mano. E le persone sono sempre semplicemente persone, né migliori né peggiori una dall’altra; di qualunque cosa iniziano a parlare, in primo luogo ti racconteranno solo di se stessi. Comunque, dal momento che nessuno di loro aveva un vero motivo per diffondere menzogne, sono quasi pronta ad accettare l’intera storia senza riserva. Čarli era un mio amico, di quelli che non ti abbandonano mai per niente al mondo, anche quando tutto cade a pezzi e cessa di esistere, ed era solito dirmi che sono un’anima nobile, troppo buona e ingenua per lo schifo che ci circonda. Se così non fosse, mi chiedo a cosa servirebbe oggi, nel cuore della notte, la vostra presenza in casa mia? Anche lei fa il medico, se ho capito bene; dove ha detto che si è specializzato? In Antiochia, davvero interessante. E quest’altro signore è un funzionario doganale, bene… alle signore certe domande uno non dovrebbe neppure farle, ma il terzo signore così spaventato e bisognoso di protezione, posso chiedere chi è? Figlio di Maria, complimenti, immagino sia uno di quelli che sono stati nascosti e tenuti al sicuro nelle cantine, mi sbaglio? La prego, dimentichi pure la mia domanda inopportuna, non intendevo giudicarvi! Mi è stato riferito che dormiva profondamente, quando i dottori dell’ospedale militare entrarono nella stanza a cercarlo. La voce sull’esistenza di una sua “collezione privata” di medicinali, come la chiamavano tutti, si era sparsa più veloce del vento, e nessuno ormai poteva ostacolarla. Nemmeno l’arroganza e la strafottenza con cui aveva accolto la loro richiesta di Tetagam e Tetabulin riusciva a farli desistere dal tentativo di ottenere il siero voluto. Non potevano certo saperlo, che in ogni caso, per com’era fatto, avrebbe condiviso con loro la metà delle sue riserve. Si stavano giusto salutando sorseggiando un caffè in silenzio, quando squillò il telefono da campo. Per annunciare il lieto evento, avevo composto subito il numero di suo fratello, poi lui aveva telefonato a un loro comune amico, a sua volta questo amico aveva chiamato invece un altro amico dell’amico. Insomma, per vie tortuose e a me sconosciute, quella notizia che avevo il piacere di inviare personalmente, era giunta fino a lui, suscitando una reazione forte di meraviglia dei miei colleghi presenti sul luogo. Tutti gli

altri, invece, saltando all’improvviso e gridando contenti, uscirono di casa, e come se fossero stati rapiti da una mano invisibile che dicesse loro cosa fare, iniziarono a svuotare i caricatori in aria, per poi tornare quasi subito da lui e sbrindellargli la camicia e la maglietta che portava addosso, proprio come la tradizione millenaria richiede. Appeso attorno al collo gli rimase solo un pezzetto di cotone bianco, a manifestare la sua e la loro gioia. Una bella femminuccia. Nata alle dieci e quarantacinque del mattino; quattro chili per i suoi ben cinquantasei centimetri di lunghezza. Irresistibile. Lo sapevo già dall’ecografia che non sarebbe stato un maschietto, ma preferivo tacere. – Com’è? – mi chiedeva impaziente. – Un bebè sano e sveglissimo che non vede l’ora di conoscere i suoi genitori. – Questo l’ho capito – diceva sorridendo – intendo maschio o femmina? – Non si riesce a vedere bene – mento – la posizione del feto non lo permette. – Lo so che lo sai, ma non vuoi che io lo sappia ancora – scoppia ora in una profonda risata sonora piena di tutta la tenerezza di cui il suo cuore era capace – forse è meglio così, importa soltanto che sia forte e sano! –Vivo e sano – strillava a squarciagola – viiivooo e sanooooo!!! Più lo guardavo correre di qua e di là nel cortile della casa kosovara, e ahimè, più somigliava a un animale impazzito che non sa più cosa vuole o deve fare prima. – Accendete quel trattore – gli viene un autentico colpo di genio, che avrebbe reso doppiamente felici tutti quelli della sua Batteria, o quasi – e portatemi al negozio, con urgenza! Naturalmente, lungo la strada continuava a cantare senza tregua, una selezione di canzoni messe in scaletta nella sua testa e accostate secondo i suoi incontestabili parametri. Le sue cretinate poteva comprenderle soltanto chi lo amava e conosceva a fondo. – Allons enfants de la Patrie… quante casse hai a disposizione – chiede al negoziante – le jour de gloire est arrivé… anzi, non importa, caricami tutto… – Da stamattina i prezzi però sono saliti – sfrutta subito l’occasione il mercante, contento che questa pecora si offrisse di tagliare il vello praticamente da sola. – Quando dico tutto – sbuffa ando già a un’altra canzone senza interrompere il ritmo – glory, glory, Man United, glory... intendo tutto… terremo le bandiere rosse volare alto! – Ecco, fatto – si frega le mani il rivenditore soddisfatto – per un totale di… – Vor der Kaserne, Vor dem großen Tor – continua a gridare indisturbato all’andatura della marcia risalendo sul trattore – Stand eine Laterne, und steht sie noch davor… prendi e tieniti pure il resto… deine Schritte kennt sie, deinen schönen Gang! – Grazie, è stato un piacere potervi servire – gli risponde l’altro meravigliato – ci vediamo alla prossima! Poi cambia canzone ancora una volta e, fino alla casa

della nonnina dove erano sistemati, ripete all’infinito lo stesso ritornello come fosse un disco rotto. – Avanti popolo… la la laaaa… la trionferà… bandiera rossa, bandiera rossa… scariiicaaare… apriiireee, ora… alla salute! Mi sembra quasi di poterlo vedere, e di sentire la sua voce, anche adesso, mentre vi parlo di lui. – Devo fare una visitina a qualcuno – si rivolge ai presenti dopo aver svuotato mezza bottiglia – c’è il Maggiore che di sicuro mi aspetta, torno subito! Il corriere lo accompagna e lo aiuta ad arrivare fino alla casa a tre piani, nella quale sono stati sistemati tutti gli Ufficiali. Miki – mi diceva serioso prima di partire per il fronte – prenditi cura di mia moglie e della prole in arrivo, ti prego… – Lo farò con piacere – rispondevo – d’ora in poi, Čarli, il tuo unico compito è tornare a casa sano e salvo, per il resto non ti devi preoccupare! – Il comeback è l’ultima cosa, forse, su cui io possa influire – nervosamente si gratta la testa, con quel taglio troppo corto anche per un carcerato – e ne preoccupazione, che ci vuoi fare! – Dio non esiste, Čarli – dico commossa – altrimenti non sarebbe accaduto tutto ciò che ci sta succedendo. – Certo che esiste, non essere sciocca; è un tipo tosto che sa come resistere a ogni difficoltà e tentazione – sorride dolcemente per consolarmi – è proprio per questo che vanno così le cose. Mi raccomando, riguardati! Prima di chiudere la porta si gira e mi abbraccia ancora una volta, fortemente. –Cosa sei venuto a cercare qui? – gli chiede il Maggiore, sorpreso di vederlo. – Come stai, da quaaanto tempo non ti veeedooo – sibila ubriaco scendendo in cantina dove c’era un mucchio di gente indaffarata attorno a un maialino arrosto – mi sei quasi mancato, tantissimooo, lo confesso, soprattutto ora che si prepara la Terza Guerra Mondiale. Piuttosto, raccontaci un po’, come procede, tutto beeeneee spero?! – Sputa fuori il rospo – si allena a fare il severo l’Ufficiale, mentre con la manica si asciuga il mento insudiciato dal grasso e dalla birra – e torna di corsa al tuo posto in Batteria! – Ehi, brava gente, non sarà miiiica che vi ho interrrrrotto in un momento delicato – si scusa con un ingenuo quanto improbabile sorriso – oppuuureee volete soltanto essere lasciati a rosicchiare le ossa in pace? – Parla e sparisci, una volta per tutte – borbotta l’Ufficiale, combattendo con un bollente boccone di coscia – ahi, ahi, miseriaccia zozza, appena ti ho visto entrare sapevo che qualcosa sarebbe andato storto! – Sono diventato padre – finalmente ammette il mio amico Čarli – ho avuto una figlia! – Buon per te, e allora?! – Come sarebbe a dire allora? – di punto in bianco gli a tutta la sbronza – dammi il permesso di andare a casa per vederla, e piantala di fare il finto tonto con me, perché a chi nel ruolo d’idiota si mimetizza così bene, può anche capitare di doverci rimanere fino alla fine dei suoi giorni! –

Ahahahah capita, se lo dici tu poi... – il povero illuso di un Ufficiale crede ancora di poter mantenere una parvenza di contegno – Ma questa volta sarà assai difficile, per non dire impossibile, venirti incontro! – Ma non mi dire, coglione, guarda che non ti sto costringendo a dover pensare, devi soltanto mettere la tua firma su quella merda di foglio! – Ahahahah – gli ride in faccia l’altro, giocando per una volta sulla sua totale supremazia – questa sera non si può fare! – E perché mai, se si può sapere? – Perché proprio domani – gode l’Ufficiale – avrà luogo un’importante dimostrazione militare, e ci serviranno tutti gli infermieri disponibili. – Tu, che hai bisogno di me? – sputa per terra Čarli evidentemente schifato – Questa la voglio proprio vedere! – Può essere difficile da credersi – sorride ancora l’Ufficiale, con un qualcosa di cattivo e perversamente divertito in volto – ma persino quelli come te possono tornare utili. Poi, quando l’esercitazione sarà conclusa, puoi andare a fanculo se vuoi, la strada la conosci. Basta che ti tieni lontano da me! –Un’esercitazione in piena guerra! – comincia a prendere a calci le sedie e a rovesciare tutto ciò che gli capitava a tiro – Per favore, tu dimmi che stronzata è questa! Nessuno dei presenti si era mosso per cercare di fermarlo; stupidi o non stupidi, non erano malati. – Le madri ve le fotterò, e solo per avervi messo al mondo così deficienti – sbraitava infuriato – Firma questo permesso perché se stanotte resto qui, ti giuro che sarai il primo a pregarmi di partire, e subito! – Permetti che ti spieghi – cerca di calmarlo il vice del Maggiore. – Tu, maestro universalmente riconosciuto del “come nascondersi sotto un tombino quando il gioco si fa duro” – si chiede disgustato – che vieni a spiegare qualcosa a me??? Tornatene nella fogna dalla quale sei uscito, prima che ti ci ficchi io! – Il nostro Colonnello domani sosterrà l’esame per essere promosso al grado superiore – continua a chiarire la situazione il vice, rifugiandosi però nel frattempo sotto il tavolo – e le sagome, che da lontano somigliano a dei veri carri armati di reali dimensioni, sono già state collocate ai loro posti. Ora occorre attendere soltanto l’arrivo degli aerei e… – E poi cosa, mi chiedo! – … e poi, una volta che ci hanno bombardato, andrai a casa se ti dice bene. – Miseria ladra, non siamo mica all’asilo nido a giocare con i modellini a fare Dio! Di quali fottute sagome state parlando – urlava colpendo con l’elmetto ogni cosa gli capitasse sotto mano – siamo nel bel mezzo di una guerra, se non ve ne siete accorti! Ehi, idioti, riuscite a sentirmiiii? Chi non sente alzi la mano! – Quanto mi è costato procurare pali e tavole necessari per la messa in scena di un falso raduno delle forze, lo so soltanto io – con una voce piagnucolosa si intromette pure il Maggiore – e tu invece non vedi l’ora di beffarti di noi e delle nostre fatiche! – Come prego? – si meraviglia Čarli, non capendo ancora completamente dove il suo superiore

voglia arrivare. – Dimmelo tu, farabutto che non sei altro – continua a lamentarsi l’Ufficiale – come faccio a ottenere una casa se il Colonnello non viene promosso in Generale, come?! – Già che ci tenete tanto – strilla Čarli andando verso la porta – vi infilzo entrambi sul mio, di palo, oggi voglio contentarvi! Poi ci ripensa e torna indietro, come se avesse dimenticato di dir loro qualcosa di importante. – Consideratelo un generoso preavviso da parte mia: stasera si festeggia alla grande, e oltre alla birra che scorrerà a fiumi non si può mai sapere dove andranno a finire tutte le pallottole sparate in aria. E tu – si rivolge a quello scappato sotto il tavolo – sì, proprio tu, detective Fogna, faresti bene a non farti vedere lì, perché se dovessi beccarti, e te lo prometto solennemente fin da subito, non esiterò a ucciderti come un cane! Esce comunque da quella cantina a o fiero e contento, si ferma per un attimo accanto alla chiesetta di Santa Parascheva e accende alcune candele per la salute dei suoi familiari, pronuncia a voce bassa tutti i loro nomi, e poi ne aggiunge un’altra, più grossa delle precedenti; allontanandosi dall’oratorio sente i colpi dell’artiglieria diventare sempre più forti e più chiari. Una volta arrivato nel giardino della casa in cui si era sistemato si accorge che non c’era più un posto libero nemmeno per starci in piedi. Una folla incredibile si era radunata durante la sua breve assenza, lasciando dietro a sè un’inconfondibile scia di fumo, bottiglie vuote e casse inclinate, usate ora per sedersi. I cannoni non cessavano di far fuoco, e il loro rimbombare echeggiava su tutta la valle, ma questo non sembrava preoccupare nessuno, anzi al contrario; era come se stessero dando anche loro un fondamentale contributo alla festa in termini di effetti speciali. – Mi sono permesso di invitare l’intera divisione – lo aspetta il corriere a braccia aperte – ma sarà molto meglio allargarsi anche nel giardino accanto, non mi aspettavo che avrebbero risposto così in tanti. E questo che senti, siamo noi a offrirlo in onore della nascita della piccolina. – Ahahahah dovevo immaginarmelo – gli sorride il neo papà, evidentemente divertito – ognuno fa quello che può, solo che ora quel nostro Wellington che la sorte ci ha riservato, starà già radunando i suoi čauše, i temuti corrieri-esecutori ottomani, pronti a metterci in riga secondo i suoi ordini. – Questo problema l’abbiamo già risolto. – In che senso? – Due di quelli che ha inviato a farci spiare li abbiamo accolti così bene che sono collassati a terra davanti alla latrina, da quanto hanno bevuto, e tutt’ora giacciono lì indisturbati – racconta il ragazzo – un terzo, invece, ci è scappato, che si fotta, veloce e sobrio com’era! – Avete almeno inviato il messaggio al Maggiore di venire a informarsi da solo la prossima volta? – Certo che l’abbiamo fatto, ma sai com’è, non si è mai vista una fregnetta di Ufficiale con palle vere!

Mi è stato detto anche che a un certo punto ha cercato di isolarsi in un angolo del giardino, scappando da tutto e da tutti, con un meraviglioso sorriso in faccia che nulla più poteva cancellare. Almeno fino al momento in cui non venne avvicinato da uno dei soldati ubriachi che sputandogli d’istinto dritto sulla faccia volle dargli uno strattone. – È il coraggio che ti manca per fare la scelta giusta – gridava come un pazzo puntando i talloni, mentre gli altri cercavano di trascinarlo via – se solo fossi io quel fortunato al quale è nato un bambino, nessuno al mondo potrebbe impedirmi di vederlo, nessunooo! – Hai perfettamente ragione – aveva semplicemente risposto Čarli pulendo la guancia dalla saliva, e con un sorriso sulle labbra ancora più grande di prima. – Non fare caso all’idiota – interviene il corriere per consolarlo – ha bevuto troppo, non sa quel che dice. – L’unico vero idiota qui sono io, perché più che volentieri fotterei tutti quei bastardi – si tocca il petto e sospira pensieroso – ma non posso permettermelo, soprattutto ora che mi attendono cose ben più importanti… – Vuoi dire la sopravvivenza? – lo interrompe il corriere. – …voglio dire prenderla in braccio – lo corregge Čarli, mentre sopra di loro il rumore degli aerei aumenta. Il fuoco del plotone di artiglieria antiaerea, raffiche di mitragliatrici e singoli colpi quasi indistinguibili all’orecchio umano si mescolavano con il suono dei velivoli che ininterrottamente sorvolavano il paesino, formando un ronzio che cresceva in un’unica assordante nota. – Si direbbe che anche loro ci hanno lasciato perdere – farfuglia Čarli di nuovo sotto l’effetto dell’alcol – o vorrebbero costringerci a osservare meglio come siamo fatti dentro?! – Cos’è che dobbiamo vedere? – chiede il professore – Non l’ho capito questa volta... – Oh, Hegel, tu sei stolto, o credi che lo sia io, – protesta Čarli più con se stesso che con gli altri – guarda le persone che hanno smesso di esserlo da un pezzo e ora non escono più dalle cantine, tutta questa quasi-gente che non osa alzare lo sguardo verso il cielo. – Già, siamo costretti a vivere in un mondo in cui ogni cosa è capovolta, – aggiunge il corriere, lasciando cadere la bottiglia vuota sul cemento – coloro che prima non sono mai stati sobri, ora, di colpo, hanno smesso di bere, e viceversa gli ex astemi non riesci a separarli più dalla bottiglia. – Valido per tutti, tranne che per il nostro Capitano, rimasto coerente a se stesso nella bevuta. – concorda Čarli – Si sa, niente è meglio di una buona eccezione che conferma la regola! – È la guerra che le detta, e di conseguenza è imprevedibile anche il comportamento umano, almeno quanto sto cazzo che non sempre si alza quando uno più lo vorrebbe – riassume l’intero sistema di pensiero metafisico il corriere, finendo di urinare dietro un albero; lo scuote e rimette nei pantaloni. I festeggiamenti sono durati fino all’alba, quando sui tavoli rimasero ad attirare

le mosche soltanto le ossa abbandonate della carne grigliata, sparpagliate praticamente ovunque tra i piatti di carta rovesciati e i bicchieri non svuotati. Alcuni soldati, ubriachi fradici, giacevano per terra come fossero privi di vita, altri dondolavano sopra la recinzione; mentre la nonnina, facendosi il segno della croce di continuo, cercava di scacciare gli spiriti maligni, il vice del Maggiore entrò in casa di corsa e andò a svegliare il neo beato padre. –Che diamine succede, bastardo dei sotterranei che non sei altro – scatta Čarli ancora assonnato. – Stanno arrivando, sono qui! – Di chi parli, dove? – Gli aerei nemici. – soffoca in lui un inspiegabile impeto di gioia – Vestiti immediatamente e seguimi, l’esercitazione sta per iniziare a momenti! – Che vi fotta la terminologia – borbotta fra uno sbadiglio e l’altro – tutti voi particolarmente motivati ad allenarvi! – Non perdere tempo, sbrigati! – Certo che non lo spreco. – Bestemmia spingendo indietro l’elmo sulla testa, e mettendo il fucile su una e la borsetta con i medicinali sull’altra spalla – Pensavo infatti di specializzarmi in morbido atterraggio chiusura sulle vostre sorelle! Le esplosioni aumentano da tutte le parti, mentre mezzo ubriaco vacilla verso il Comando; due volte cade nella polvere, si alza e con la mano scrolla la terra di dosso. Arriva giusto in tempo per vedere il Colonnello e il Maggiore abbracciarsi e baciarsi tra loro, congratulandosi a vicenda. –Non abbiamo mica vinto? – chiede incredulo. – Stai davvero esagerando e questa volta mi occuperò personalmente di farti mandare davanti alla Corte Marziale – sente come il Maggiore cambia tono – Ecco Generale, è questo l’individuo di cui abbiamo parlato! – Ahhh, così dunque – lo squadra dall’alto in basso come per valutarlo, l’ex Colonnello. – Mi sembra che a te, forgiatore, non ho chiesto un bel niente – gli risponde Čarli per girarsi subito verso il Maggiore – e tu, Sun Tzu, invece, pronto! me, prepara quel certificato, che è meglio. E poi fai come ti pare! – Tieni – gli porge un foglio il Maggiore guardando intanto fuori dalla finestra – basta che non ti vedo e non ti sento. – Libero quattro giorni interi, quando il protocollo nei casi di nascita prevede almeno una settimana! – controlla Čarli a voce alta il suo contenuto – A cosa devo tanta bontà? Non sarà, Maggiore, che ti sei ammorbidito troppo per cedere con il cuore come un ragno abbassa i coglioni? – Come osi parlare così sfacciatamente a un tuo superiore? – interviene il festeggiato – È semplicemente inaudito… – Mi sembra che finora non ho avuto l’onore ti mandarti a succhiare il tuo cazzo – come al suo solito, anche verso di lui si mostra generoso Čarli – ma se proprio insisti possiamo subito rimediare al danno. E prega Dio che sto zitto e non si sappia in giro in che modo ti procuri i gradi!

Con il permesso in mano, ferma una Zastava che partiva nella direzione desiderata, sale a bordo e dorme fino all’arrivo in città, quando lo svegliano nei pressi della sua casa. Al cancello ritrova ancora appesa la corona di nozze, oramai seccata. Dentro già lo attendeva pazientemente il suo compare per poterlo accompagnare, con una vecchia Yugo rossa, fino all’ospedale volutamente immerso nel buio. Era la prima volta che lo rivedevo dalla sua partenza al fronte, e la mia felicità di poterlo riabbracciare era indicibile. – Dove sei finito? – scherzavo – Pensavo che ti saresti precipitato a venirci a trovare! – Piccoli problemi di comunicazione con chi si crede un’autorità – ride sonoramente – mi conosci. – Sì che ti conosco. – Ma lascia perdere questo, lei dov’è? – È stupenda, te la porto subito. Nata con una folta capigliatura nera, occhi grandi e curiosi, e una voce identica a quella del padre che non si lascia facilmente azzittire, la si sentiva nell’intero edificio. – È una bellissima copia spiccicata del suo papà – commenta una delle ostetriche, guardando in direzione del compare. – Sono io il padre – irrompe dal buio la voce di Čarli, sempre pronta allo scherzo – e lei, signora, se dovesse sapere qualcosa di cui non sono al corrente, parli senza temere, ora o mai più, non si deve vergognare! La mia collega però non era del tutto certa in che modo prendere la sua battuta e nel dubbio opta per ritirarsi nella stanza riservata al personale, lasciandoci per un attimo soli. – Ehi, figlioletta mia – sussurra cercando di incrociare il suo innocuo sguardo – il sottoscritto è l’unico vero titolare dei diritti d’autore su questa opera d’arte. Non sbadigliare mentre ti parlo… – Dorme – sento dire dalla madre – esattamente come te, con gli occhi aperti! – Nulla di più bello e prezioso avresti potuto donarmi – dice baciando sua moglie – ma adesso devo andare. Lo accompagno alla porta. – Dimmi, com’è andata? – chiede. – Un travaglio tranquillo, un parto senza complicazioni – rispondo senza scendere nei dettagli. Ci abbracciamo per salutarci e poi prudentemente chiudo a chiave la porta del reparto dietro a lui. Seguo le loro due figure maschili mentre escono nel cortile dell’ospedale e si allontanano gesticolando verso il parcheggio deserto; uno apre la porta della macchina e l’altro contempla il cielo color rosso sangue, pensando intanto che solo ora vi è una vera ragione per la quale assolutamente deve tornare vivo. Arrangiandosi come meglio può…

Mangiare Dio

E tutti voi gli credete sulla parola? Se l’infermiere avesse avuto una minima briciola di cervello in quella testa, dopo la guerra non si sarebbe messo a scribacchiare libri, con pagine perfette per sopportare ivamente qualunque stupidaggine volesse; piuttosto avrebbe fatto qualche altro lavoro onesto come farebbe quasi ogni persona razionale e concreta. Spero sia tutto chiaro! O no? Sì, sono sempre stato un autista; prima, durante e dopo la guerra. I tempi cambiano, ma le cose essenziali restano fondamentalmente le stesse. Mi spiego meglio; accompagnatemi però a portare l’autobus in rimessa, il prossimo turno c’è l’ho solo domani pomeriggio, e se posso esservi utile risponderò volentieri a qualche domanda. Per quanto mi riguarda si tratta di un tizio assai sfacciato e maleducato sotto ogni aspetto, qualcuno che non solo non ruba quando l’occasione giusta gli si presenta davanti, ma si mette pure a rompere alla gente per bene che la guerra la prende per ciò che è effettivamente. Un’opportunità unica in tutti i sensi! Mi sono informato sul suo conto, e mi è stato detto che era un medico. Poi l’ho verificato e si è dimostrato tale, al cento per cento. Come siamo caduti in basso, difficile da credersi lo so. A uno come lui il diploma non l’avrei dato. Quando lo portammo sul posto e lo scaricammo davanti casa sua, non seppe ringraziare il Colonnello, ops, il Generale, per avergli dato uno strappo, e in più non smise di prenderlo in giro lungo tutto il viaggio. Perché quest’ultimo abbia sopportato lo sfottimento, non riuscirò mai a capirlo. – Vedo, Generale, che non ti piace il clima da queste parti; – chiedeva l’incivile – è per questo forse che raggiungere l’Europa ti sembra un miraggio da trasformare in realtà? – Hmmm – rispondeva il Generale con un sorriso imbarazzato, sperando di cavarsela con così poco. – Recentemente ho sentito dire che tutti i Generali verranno mandati all’estero per completare gli studi di scultura a spese dello Stato – sosteneva l’infermiere. – E perché mai dovrebbero farlo? – troppo ingenuo, l’alto Ufficiale cadde nella sua volgare trappola e lo seguì esattamente come quel fetente aveva previsto. – Per farvi perforare almeno marmo e pietre... visto che le migliori gnocche sono anni luce fuori dalla vostra portata! – E chi lo dice? – rosso in faccia chiese il Generale, già troppo tardi per riparare il danno. – Tutti; si sa che i tribunali sono lenti, ma prima o poi il diavolo viene a prendere

quel che è suo di diritto. – l’insolente si permise di rovinargli la festa – A casa i familiari soffriranno un po’ per la tua assenza, è vero, ma in confronto la gioia di una possibile socializzazione maschile sarà incommensurabile. Al posto tuo ci penserei due volte prima di addobbarmi con i gradi, non si sa mai! Seguì un silenzio prolungato, e poi, come per incanto, una volta giunti al posto di blocco presso Bujanovac, sentii il Generale giustificarsi. – Che tu ci creda o meno – sibillò tra i denti – sono un Ufficiale onesto! – Non dubito – seguì una risposta breve e immediata – osserva però l’esercito che conduci, e sii sincero: cosa vedi? C’era poco da dire. Ovunque attorno a noi c’era la polizia militare in mezzo a una folla di persone che tirava e mollava, peggio che ai mercatini dell’usato, una serie di oggetti assolutamente impensabili. – Era ora che qualcuno mettesse un po’ d’ordine nel caos – aggiunse l’infermiere – una pulizia profonda… – Lo dico anch’io – ci cascò di nuovo il Generale, impreparato a cogliere il suo sarcasmo. – Già – si scatenò questa volta il selvaggio – televisori, frigoriferi, lavatrici, apparecchiature di ogni tipo e forma, dentature bagnate ancora dal loro liquido notturno, spirali, a te la scelta! Ispezionando la borsa di un contadino spuntò fuori e si aprì davanti agli occhi di tutti un ingombrante vestito da sposa, il cui orlo impreziosito da perle di Ocrida e piccoli fiori ricamati a mano, presto finì per essere immerso e pestato nel fango. – Ti ci potessero seppellire dentro – urlò l’infermiere fuori dal finestrino – fottendoti la madre, ladruncolo bastardo! Il Generale lo tirò indietro e lo costrinse a rimettersi sul sedile. – Morditi la lingua e sta zitto! – gli consigliò per uscirne vivi. Poi calò il silenzio, e durò questa volta fino alla fine. Il caso ha voluto che mi trovassi al volante anche in occasione del suo viaggio di ritorno al fronte. Nel frattempo quelli del Comando, la macchina adoperata fino ad allora, me la fecero parcheggiare nel garage della casa del Generale, spiegandomi come fosse probabilmente il posto più sicuro della città dove non dovevo temere eventuali ladri. Poi mi comunicarono che il Generale non sarebbe più tornato sul campo di battaglia, e che di conseguenza a me avrebbero assegnato un compito nuovo. – Come sarebbe a dire di chi è la macchina? – si trovarono offesi per la mia stupida domanda – Ma con quale faccia tosta vieni a chiedere a noi certe cose, proviene da una donazione di una di quelle case, insomma, una qualunque… E così, ho capito subito che non era il caso di capire certe cose, né come abbiano ottenuto il rilascio di una nuova carta di circolazione, né come abbiano fatto a intestarla all’esercito. Non era il caso di investigare oltre. Eravamo nel pieno di una guerra e, dopotutto, pure io avevo moglie e figli che mi attendevano a casa.

Quattro giorni più tardi mi misero a guidare l’autobus che ogni mattina presto partiva da Cernica per rientrare la sera tardi. Intanto, però, appesi allo specchietto retrovisore una catenina, con croce e icona, che dondolando forse sarebbe riuscita a fare il miracolo. Per battezzare la mia prima corsa, come su commissione, lo vidi salire a bordo e sistemarsi subito nelle prime file dietro di me. – Cosa è capitato al buon Generale – chiese – Come una moneta l’hai perso per strada forse? Non gli risposi e feci finta di niente, guardai fuori, lo sapevo che non vedeva l’ora di provocarmi e questo non intendevo permetterglielo, non quella volta. – Peccato. – aggiunse allegro e pronto alla beffa – ero convinto che voi due eravate tanto intimi da scambiarvi anche le lenzuola! Mi trattenni pensando alla sua indole primitiva e non gliela diedi vinta; i ancora ancora il fatto che sia grosso, ma non dimentichiamoci, soprattutto, che è anche pazzo. Da uno così – ufficialmente diagnosticato come matto, ma questo l’ho scoperto solo a guerra finita – non si poteva mai sapere cosa aspettarsi. Grazie a Dio, vinto dalla stanchezza probabilmente, presto mi lasciò in pace e si mise a russare come un animale. E non agitatevi tanto con quelle croci! Mai disturbare in alcun modo la guida del conducente, se non volete finire a ogni curva contro un muro o comunque fuori strada! E fatemi finire… Magari avesse dormito per tutto il viaggio, ma non sono stato baciato dalla fortuna! Non appena mi fermai davanti a un magazzino per fare un più che necessario e giustificato rifornimento di viveri, eccolo che aprì subito gli occhi e iniziò a borbottare. Secondo voi cosa dovevo fare, lasciare che i eggeri creero di fame e sete con tutto quel ben di Dio a portata di mano? Nooo, non ricominciate con la preghiera, fatelo un’altra volta e vi butto fuori sul serio! Nel bene e nel male, un grimaldello nascosto sotto il sedile lo deve possedere ogni conducente degno di questo nome. Lucchetto leggero come una ragnatela; dentro succhi di frutta, acqua minerale, biscotti. Nel giro di pochi minuti riempimmo tutti i bagagliai, da entrambi i lati, e anche gli spazi vuoti tra i sedili; meglio che la roba avanzi un poco, piuttosto che manchi. – Ehiii, generosi compatrioti miei – il deficiente mise in discussione la sacra educazione che ognuno di noi si porta da casa – vedo che ancora una volta la vostra natura repressa si è mostrata più forte di voi! – Fanculo idiota – finalmente si sentì anche la voce di qualcuno che non intendeva risparmiarlo di bestemmie e insulti – quando hai tempo, ficcati la testa nel sedere, ma se non vuoi partecipare al gioco lasciaci stare! – Di certo non prenderò parte a quest’ennesima porcata – proprio non voleva capire nemmeno i discorsi più semplici – questa roba appartiene a qualcuno, qualcuno se l’è guadagnata, non vi pare? – Stai facendo troppo chiasso. – con mia personale goduria in un istante lo vidi circondato e reso una minoranza assoluta

– Faresti meglio a farti gli affari tuoi, dottore, siamo in guerra! – La guerra non è una malattia infettiva con cui spiegare altre patologie, – insistette l’infermiere – o mi volete dire che è indispensabile ululare esattamente come i lupi, per non sentirsi esclusi dal branco? – Tu perfido idiota… – Magari leccarsi pure i coglioni, come fanno i cani, visto che già siamo pronti a nasconderci in cantina tra i ratti! No, io non ci sto! – E non starci, nessuno ti obbliga! Rosso in faccia e affannato, sembrava potesse collassare da un momento all’altro, ma rimase ugualmente ancorato ai propri princìpi. Invece di dissetarsi con l’acqua offertagli, come fecero tutti gli altri eggeri ragionevoli, tirò fuori una bottiglia di whisky, e parlando con se stesso iniziò a sorseggiare. Quando fummo vicino a una chiesa data alle fiamme, si fece il segno della croce proprio come ogni tanto fate ora anche voi. – Lo vedi dottore – disse qualcuno – questo crimine l’hanno commesso quegli stessi vigliacchi che tu spesso ami proteggere! – Iooo che proteggo qualcuno? – immediatamente si riaccese in lui lo spirito polemico appena placato – l’avrà fatto gente fottuta di cervello e ignorante quanto voi, solo che stanno da un’altra parte, tutto qui! Basta un attimo a far scoppiare una rissa, una parola malmessa, una goccia di alcool in più. Il livello di tensione si fece tale da costringermi a fermare l’autobus per cercare di calmare le parti e riprendere in mano la situazione, ma quando vidi che uno lo teneva stretto mentre gli altri gliele suonavano di santa ragione decisi di non intervenire troppo in fretta. Imibile e curioso, guardavo lo sviluppo della situazione, il suo naso insanguinato e la bocca rotta, pensando che anche in ato nessuno mi ha mai ringraziato quando arrivavo all’appuntamento persino in anticipo. Improvvisamente, mentre le gocce di sangue e di saliva sporcavano la maglietta bianca indossata sotto la camicia militare, l’animale riuscì a liberarsi una mano per afferrare i capelli del suo avversario; come un toro inferocito lo attaccava e lo colpiva con la testa all’altezza degli occhi, una, due volte, mille volte ancora, prima che noi altri riuscissimo a riprenderci dalla sorpresa e ad agire, troppo tardi per certi versi. – Adesso basta – strillai a entrambi, tanto per convenzione, quando dallo zigomo ormai rotto il sangue lento e caldo iniziava a scendere sul pavimento e sui sedili – riprendete i vostri posti o per voi il viaggio finisce qui, veloci! Mi diedero retta e si separano. Riprendendo il volante lo vidi appoggiare un fazzoletto sulla bocca e muovere le labbra come se stesse mormorando qualcosa che, però, non arrivava più all’orecchio di nessuno. In quello stato, ubriaco e con il muso insanguinato, tutto sudato e ansimante, il malefico ciccione suscitava facilmente un certo timore in chi lo guardava. Mi concentrai perciò sulla strada davanti a me, e solo di tanto in tanto la voce del folle l’aveva vinta sul rumore del motore. – Un giorno la chiesa, un giorno il magazzino, che

differenza volete che faccia? – chiese alzando minacciosamente la bottiglia – entrambe rappresentano il destino di qualcuno e se l’aveste dovute costruire, o riempire di merce, voi, con le vostre mani, ugualmente vi avrebbe recato dolore la loro perdita. Perciò vigliacchi, brindate insieme a me alla nostra umanità defunta e, se non volete farlo, da solo alzerò il calice della salvezza e invocherò il Suo nome, che il Signore mi aiuti! Inutile dirlo, era ubriaco perso quando arrivammo a destinazione. Lo accolsero benevolmente alcuni uomini della sua stessa sorte; lo aiutarono ad alzarsi, presero le sue borse e con molta fatica scesero finalmente i gradini dell’autobus. – Fanculo, quel liquido mi ha fregato un’altra volta – lo sentii dire mentre si allontanava – scorreva che è una bellezza! – Fai piano – dicevano prendendolo sotto braccio. – Io veramente… ve lo giuro, non è colpa mia – spiegava con la lingua che gli si contorceva attorno a una logica tutta sua – in questa storia il whiskyè solo un danno collaterale, credetemi sulla parooolaaa, che mi fottano i princìpi, non bevo acqua rubata, non è da me! – Tranquillo, non ci pensare ora… – Più facile dirlo che farlo – borbottava poco convinto – ditemi piuttosto: cosa è successo in mia assenza? Mentre scaricavo anche le ultime borse degli altri soldati, e il bottino di guerra, mi affrettai dietro di loro per ascoltare cosa dicessero. – Ci è stato assegnato un nuovo Maggiore – lo informarono – ancora più folle del precedente. – E quello di prima? – È rimasto anche lui, ora comandano entrambi – spiegavano i suoi accompagnatori – a quanto pare l’hanno mandato per farci smuovere, perché non siamo stati sufficientemente attivi. – Sufficientemente cosaaa – sputò per terra l’infermiere – avremmo forse dovuto scagliare contro il nemico le pietre con le fionde che ci hanno fornito? – Lascia perdere infatti, è soltanto un altro idiota che si darà una calmata non appena comprenderà come siamo messi realmente – dissero uscendo quasi dal mio campo uditivo – ma anche tu non sei più assegnato a noi. Su richiesta di quel macellaio, ti hanno trasferito nella prima Batteria, e il Maggiore non vedeva l’ora di sfruttare la prima occasione buona per togliertisi dalle calcagna. – Vigliacco – disse l’infermiere – e il Comandante della Batteria invece, come l’ha presa, lui, questa notizia?! – Cosa vuoi che fe il porco di un ubriacone, con aria un po’ annoiata si limitava a scuotere la testa in segno di approvazione, come se intendesse dire che in realtà l’iniziativa sarebbe partita da lui se non l’avessero battuto sul tempo… – Queste borse dove volete che ve le poggio? – intervenni per non perdermi nessun dettaglio. – A casa della nonnina – mi rispose uno che lo sorreggeva. – Ahhh, la nonninaaa! Che ci legga le ceneri almeno un’altra volta, – sospirò in quel momento l’infermiere – che ce le butti sull’anima mentre svuotiamo quel poco di whisky rimasto nel fondo della

bottiglia, sprecarlo sarebbe un peccato mortale. – Sì, sì, ce l’hai già detto e spiegato un milione di volte. – Perdonatemi allora – lo sentii scusarsi e non credevo alle mie orecchie che persino un animale della sua categoria fosse capace di provare rimorso – non intendevo nulla di male, nulla… Mi è capitato di vederlo un’altra volta ancora, quando era di nuovo salito sul mio pullman diretto verso la città, da dove, se ho capito bene, avrebbe dovuto prendere la coincidenza per Niš. In realtà non saprei dirvi per quale motivo, credo per alcune visite mediche. È un farabutto ipocrita, state attenti, conosco bene quelli fatti della sua stessa pasta. Per colpa loro l’intero sistema è andato a puttane, che Dio ci salvi! State calmi però, e smettetela di colpirmi per così poco, sto guidando perdio! Vi prometto che non pronuncerò più il suo nome, ma voi calmatevi, altrimenti finiremo fuori strada… Questo vostro incenso mi offusca la vista idiotiii… Capisco ora, siete anche voi dei semplici esaltati, proprio come lui che ha scelto di non rubare in un’epoca in cui lo fanno tutti… al muro, bisognerebbe mettervi al muro… muuurooo!

Il maestro e Margherita

Tocca a te, micio sciupato con il cerotto in capoccia, distribuire le carte! Datti una mossa però, eh, non perdere tempo come questi altri due tuoi compagni; se uno dovesse incaricarli di andargli a prendere la morte, vivrebbe a lungo come i re delle favole. Chissà cosa avrà visto quest’angelo con le stampelle da stupirsi tanto, oh mio Dio, non ditemi che ora state tutti per mettervi a pregare! Basta! Questa è una modesta trattoria, non siete in chiesa! Dividi le carte e sbrigati… vedo che qui oggi non si ragiona, ne voglio tre, per gli altri non so, dovrai chiederlo a loro… mannaggia all’uomo alato, solo una carta gli serve... ve lo dico io, questo punta dritto al full… il bue ne vuole due, che sarà mai... come se quel collare di gesso che è costretto a portare non dovesse bastargli di suo, ma lui non sa che al giorno d’oggi si incontrano con la stessa probabilità un tris servito durante una partita e certa gente senza vergogna pronta a fotterti a ogni o, qualunque cosa tu faccia… e tu, poverino mio, cambi tre carte e poi un’altra ancora... Mi metto a giocare con gli incapaci, e ora ricevo esattamente quello che mi merito. Ehhh, sapeste a quante partite avevo preso parte in ato, non potete neanche immaginarlo! E guarda come sono caduto in basso ora! Giocate, giocate, non mi ci fate pensare, che è meglio! Ero finalmente riuscito a liberarmi del suo opprimente peso – il più grande bastardo arrogante che abbia mai visto – in modo però da sembrare che l’avesse fatto il mio vice, soprannominato il macellaio, giusto, e voi come siete venuti a saperlo? Fa niente, va, era solo una domanda retorica, una piccola curiosità, tutto qui. Il principale ideatore dei nostri mille nomignoli sprezzanti, probabilmente non sapeva che ero al corrente della sua malattia mentale, visto che era in grado di rivolgersi a un suo superiore con parole come “fabbro”, “saldatore” o “maestro”! Per burlarsi di me, mi descriveva come un modello perfetto che potesse pubblicizzare e promuovere il nostro amato cognac Rubin nel mondo, battezzando nel frattempo anche il mio nativo e meraviglioso Montenegro in “Costa d’acquavite”. Ci riteneva stupidi tutti – noi del Comando – dal primo all’ultimo, mentre soltanto lui si sentiva quello intelligente, simpatico, brillante, divertente. Non mi restava altro da fare che accontentarlo. Diciamo che se l’è proprio cercata in più occasioni, e così gli procurai un bel foglio di via in prima

Batteria, che serviva da ammonimento a tutti gli altri, un avamposto in cima alla collina, per misurargli il coefficiente di quella sua evidentemente scarsa materia grigia. Con quelli più forti di te non ti misurare, che resti schiacciato. Almeno questo è certo, è scientificamente dimostrato! Il momento migliore per sbarazzarmi di lui sarebbe stato, naturalmente, durante quei giorni di sua assenza, quando non avrebbe potuto opporsi e agire in tempo. A ogni modo, diciamo per pararmi le spalle a ogni evenienza, in via confidenziale avevo informato i suoi compagni che avrebbero potuto testimoniare a mio favore. – Sono mortificato – avevo detto loro – ma ho dovuto rispettare l’ordine dall’alto, sapete benissimo come funzionano le gerarchie militari. Che altro mi restava da fare? A volte è meglio non fidarsi troppo, neanche di noi stessi. Infatti, il quarto giorno mi ero appena un po’ abbioccato dopo pranzo quando quell’animale ubriaco fradicio irruppe nella stanza senza bussare. – Ehiii faaabbrooo – biascica con quella lingua lurida – ce l’hai fatta dunque a togliermi dal cazzo stavolta? – Che dici – allibisco di fronte a tanta sfacciataggine – non è stata opera mia, chiedilo in giro se non mi credi! – Che cosa devo chiedere, di farmi ripetere a pappagallo le tue menzogne, forse? – per un attimo anche lui rimane meravigliato a bocca aperta – Non ti sei ricordato di dir loro come mi hai chiesto mille marchi in prestito, vero? – Era solo fino alla paga… – Già, come se tu fossi uno che lavora per Microsoft, lendine di un giocatore d’azzardo che non sei altro! – Non mettermi a disagio ora – replico con tono cupo a quest’offesa più tagliente di una lama – ti ho chiesto quel favore urgente e tu non me l’hai accolto, ma questo che c’entra? – C’entra, eccome se c’entra. – ride l’idiota – Trasferimento per vendetta. E si sa che la vendetta rimane un sentimento di potenza straordinaria, specie nei deboli! – Veramente… – Un par di palle – mi interrompe bruscamente – abbi almeno il buon senso di chiudere quella bocca e non ti preoccupare, domani mattina parto dopo la colazione, ma fai bene a non farti più né vedere né sentire fino ad allora, altrimenti non garantisco per la tua incolumità, intesi? –E chi si preoccupa? – dicevo a me stesso perdendo su quel tavolo da gioco ogni cosa, mentre il tizio seduto di fronte raccattava l’intero mucchio di soldi con le sue grosse mani. – Chi si preoccupa minimamente? – pensavo, buttandogli anche le chiavi della macchina, l’orologio e la catena d’oro. Talvolta è così crudele essere uomini. – Non mi è rimasto più nemmeno uno spicciolo per il taxì – mi lamento contando sulla loro pietà. – Vacci a piedi – lo sento rispondermi senza scompigliarsi minimamente – sei una pecora e te lo meriti d’essere fottuto! –

Una pecora si lascia tosare migliaia di volte – si divertivano a beffarsi di me anche gli altri due amici suoi – ma solo un colpo secco la fa strillare. – Ma per chi mi avete preso? – urlo insozzandomi per le strade umide e fangose – State pure sicuri che il sottoscritto maestro abilitato, prima o poi, la madre ve la fotterà, e per bene… beeeneee! – Arriveranno anche i miei cinque minuti – dicevo il giorno successivo allo stesso tizio che adesso con aria soddisfatta se ne andava in giro al volante della mia macchina. – D’accordo maestro – accoglieva la sfida l’altro sedutogli accanto con una familiare catenina d’oro avvolta attorno al polso – quando vuoi, sarà un vero piacere! – Anche stasera stesso – propone il terzo giocatore con il mio orologio in bella vista! – Affare fatto! – rispondo gridando, come se volessi assicurarmi che non lo dimenticassero. C’era di tutto nel rapporto che avevo personalmente consegnato nelle mani del Maggiore. – Questa volta la corte marziale gli tocca di sicuro – si rallegrava il mio superiore – sei pronto a testimoniare contro di lui spero! – Ecco… veramente… non saprei – cominciavo a balbettare improvvisamente – è uno che non ha tutte le rotelle a posto, non si sa mai come può… – Siete tutti dei cagasotto – se la prende con me il Maggiore – uomini senza palle che si tirano indietro di fronte a un veterinario. Sparisci e non farti più vedere, verme inutile! Esco di corsa, non intendo disturbare, sono sempre stato uno che nutriva un gran rispetto verso i superiori. Certo, non mi allargo troppo con i fuori tema. Attraverso il villaggio, la cintura da Ufficiale in pelle nera impeccabilmente lucida, splendono i gradi sulle spalline, intorno tutti si girano a guardarmi… Non v’interessa? Peccato, era un’immagine suggestiva durata troppo poco, come tutte le cose belle. Come il mio matrimonio che non sono riuscito a salvare, ma anche questo mi direte che è un problema solo mio. Dunque, in quella cantina l’infermiere apre le borse portate da casa e tira fuori grappa, vino, dolci. In un attimo si crea un banchetto coi fiocchi, ognuno mangia come fosse la sua ultima cena, e anche se abbiamo litigato, a modo suo mi offre da bere. – Prego compagno Capitano, si accomodi pure – lo sento dire – la tettarella è pronta, artigianale, fatta in casa. Dopo ti aiutiamo a fare il ruttino e ti mettiamo a nanna! L’indomani stesso, di primo mattino, come da promessa, subito dopo la colazione ha raccolto le sue cose senza causare ulteriori problemi. Si è portato via con sé in prima Batteria anche il furgoncino. Più tardi ho saputo che lo usava con i suoi compagni per trasportare ogni giorno all’alba malati e feriti fino all’ospedale più grande dell’intera zona, situato presso Gnjilan, da dove la sera tornavano regolarmente ubriachi persi. Gli attaccarono persino una croce rossa sul tetto, che Dio mi salvi. Ho detto rossa, e non questa in legno che usate voi

per accecarmi ogni tanto! Si può sapere cosa volete da me tutti quanti, provocarmi forse, come faceva sempre lui, e costringermi a commettere qualche o falso? Così un giorno venne anche il corriere a chiamarmi, dicendomi di recarmi dal Maggiore. – Fabbro, alza quel culo – mi dice quel cafone maleducato senza rispetto – il nuovo superiore ti vuole vedere! Mi affretto per raggiungere il Comando cercando di ignorare strada facendo il suo fastidioso punzecchiarmi col solito pungolo. – Ho sentito dire, Capitano, che intendono sottoporti all’alcol test – sostiene il corriere – indispensabile dopo quel conflitto a fuoco nella tua Batteria. – Di quale sparatoria parli – mi lascio ingannare come un pollo – se nessuno manco alza la testa dalla tana? – Quella amorosa tra te e il tuo vice – si diverte il parassita alle mie spese – gira la voce della vostra relazione focosa assai… – Fottiti, idiota drogato! – mi scappa dalla bocca il grido meno opportuno proprio al momento di entrare nella cantina assegnata al Comando. – Dice a me? – chiede un volto nuovo con le stellette sulle spalline più brillanti che io abbia mai visto. – Ci mancherebbe – provo a spiegarmi – quel cazzo di corriere… – Senza parolacce – mi rimprovera e mi rimette subito sull’attenti – pensi forse di poter essere volgare in presenza di un tuo superiore?! – Sì signore, ai suoi ordini signor Comandante della Batteria di Comando! – affermo impalato. – Mentre da tutte le parti i vostri compagni pisciano sangue, voi vi siete rammolliti completamente! – Non è così – oso contraddirlo – è solo un’apparenza, come ce ne sono tante. – Davvero? – per un brevissimo istante si sforza di abbassare il tono della voce prima di infuriarsi sul serio – L’azione voglio, immeeediiiataaameeenteee! Il nemico deve essere costretto a sentirsi a disagio sul suolo della nostra sacra terra madre! – Signorsì… – mi limito ad acconsentire. – La prima Batteria ha già avuto mie istruzioni dettagliate – si entusiasma facilmente – e adesso mi aspetto che anche voi facciate tutto il necessario. Sorveglia e tienimi informato sugli sviluppi! Non mi ricordo esattamente se fosse ato meno tempo dalle ultime parole pronunciate dal nuovo Maggiore alle prime botte sparate dai nostri cannoni, rispetto ai pochi attimi che ci vollero perché il nemico rispondesse al nostro fuoco. Un susseguirsi di esplosioni in rapida successione, una più vicina dell’altra, e la terra che inizia a tremare minacciosamente. – Veloci! – strilla il Maggiore sistemando l’elmo in testa – la cantina dov’è? – Siamo già in cantina – gli rispondo quasi con disinteresse. – Che domani ne venga scavata un’altra, più profonda! – Signorsì! Le detonazioni intanto aumentano, e con esse anche il rumore dei vetri scoppiati da qualche parte troppo vicina quasi a sfiorare le nostre teste. – Subiiitooo – impartisce il Maggiore un nuovo preciso ordine – al lavooorooo, non aspettate domani, muoversi! – Devo scavare oppure vigilare

sugli altri? – ingenuamente spero in una sua conferma. – Fai quello che ti pare, idiota! – urla il Maggiore, cercando un riparo migliore. – Dunque, che un’altra cantina sia – dico con un sospiro confuso. –Giusto! – urla il Maggiore stringendo l’elmo con una mano – Più profonda, più spessa, più doppia, altrimenti dal plotone di esecuzione non vi salva nessuno, ve lo garantisco! Ma voi come lo sapete? Vedo che qualcuno vi ha già informati dell’accaduto. Infatti, quelli della prima Batteria di fatto sono stati i più fottuti; degli otto cannoni, sei se li sono giocati per sempre, e anche quei due rimasti son tornati con i tubi gravemente piegati. Appena le acque si sono leggermente calmate, corro da loro per vedere cosa stesse succedendo in campo. Trovo solo polvere e basta, nemmeno un infisso a porte o finestre, cocci di vetro dappertutto; i cannoni, come già detto, completamente distrutti. – Cosa è successo qui? – chiedo stupidamente. Nessuno risponde. Mi ignorano, continuando a raccogliere i frammenti di vetro sparso. Si capisce da sé che solo Dio li aveva protetti. Mi sorprendo a contare le schegge di granate sui muri, mentre i miracolati superstiti, portando subito via i resti del mobilio e del lampadario sbriciolato, non si lasciano andare a inutili sentimentalismi. A quel punto sottovaluto la situazione e commetto un errore tattico imperdonabile. – Per quei cannoni persi – esprimo il pensiero ad alta voce senza riflettere sulle conseguenze – il Maggiore sarà capace di fotterci la madre a ognuno di noi! – E se invece dovessimo essere noi, a fottervi entrambi! – li sento scatenarsi contro di me. – Calmi, compagni, andate piano – tento di farli ragionare indietreggiando verso il varco di quella che una volta doveva essere la finestra – non fate oggi cose che già domani potreste rimpiangere. Certo, vedendoli avanzare decisi non ho avuto altra scelta che saltare giù e andar via per i campi. Mi rincorsero come si fa con la selvaggina, senza pietà. – Un’intera cassa di birra – gridava l’infermiere incitando il branco – a chi lo acchiappa per primo, una bottiglia per ogni bernoccolo! Solo a pensarci la testa mi duole ancora. Alla fine, quando già credevo di essermela scampata, appoggiato su un mucchio di fieno e con l’anima che quasi mi usciva dal naso, sento qualcuno tirarmi per le orecchie. – Sei per un zuuu? – Quaaaale zuuu? Cosa volete da me? – chiedo con la testa inclinata mentre mi trascinano al primo palo per legarmici. – Non dirci che non conosci il gioco – ridono tutti, sdraiandosi sul prato con fili d’erba in bocca – ma una possibilità di divertirti te la offriamo lo stesso… zuuu! – È stato l’infermiere a colpirmi! – grido disperato sperando di riuscirmi a scagionare. – Zuuu… hai sbagliato di nuovo – si burlano di me – sono stato io! – Nooo, sono stato io! Iooo… zuuu… iooo… zzuuu –

Infermiere! – urlo a ogni colpo sulla spalla – dottore, infermiere, luuuiii…! Lo ripetevo anche quando ormai mi avevano slegato e lasciato andar via. – In-fermie-reeee!!! Sono certo che è stata opera tua e solo tua – contuso e indolenzito, tornando al villaggio, in modo irrefrenabile e isterico, come uno uscito di senno, non potevo smettere di ripeterlo – sicuro al cento per cento, in-fer-mie-re! Corro dritto dal Maggiore a denunciare l’incidente. Lui mi guarda come se non sapesse chi in realtà fossi e si gratta l’elmo, che ha dimenticato di togliere, anziché la testa. – Chi ti ha detto di venire qui ora? – mi chiede nel dubbio. – Lei signore. – La prossima volta fatti annunciare dal corriere! – I cannoni signore… – piagnucolai quasi. – I cannoni cosa – l’espressione sul viso di lui si riaccese ora d’interesse – non dirmi che vi siete dimenticati di eseguire il cambio di posizione? – No signore, ci mancherebbe – anche se involontariamente, contribuisco a tenerlo sulle spine – non si tratta di questo. – Di cosa allora? – A loro adesso non può succedere più nulla – sputo fuori il rospo – li abbiamo persi… – Persi dici? – diventa paonazzo, con chiazze bianche intorno alla bocca e al naso – Come se fosse una cosa così facile perderli! Ma chi diamine ha ordinato di sparare? – Lei signore. – Ti sbagli – sbuffa – trovatemi subito il responsabile che ha frainteso le mie direttive! – Signore… – Davanti alla corte marziale lo porto, subiiitooo ho detto, e togliti di mezzo, imbecille! Stupido una volta, stupido per sempre. In un bel mazzo di carte risiedeva la radice del mio male, io lo sapevo, eccome. Eppure, ogni volta mi ripromettevo che sarebbe stata l’ultima, e ogni volta una qualche forza sconosciuta mi faceva ritrovare allo stesso tavolo verde. E così fu anche quella sera. – Amore preparati – dissi a mia moglie quasi pronta per uscire – questa notte ci divertiamo noi due, me lo sento! – Nooo – cominciava a indietreggiare spaventata, avendo intuito quella particolare sfumatura della mia voce a lei ben nota – me l’avevi promesso, ricordi?, che c’avresti almeno provato… ti spellano sempre… io… Non mi sono lasciato influenzare dalle sue parole, né dalle sue altrettanto eloquenti lacrime. Le donne in questo sono delle vere artiste e, se uno dovesse dar retta a loro, finirebbe per stare sempre chiuso in casa. Momenti di gloria, indimenticabili, tra un formale buonasera all’inizio del gioco e un constatare di essere stato completamente ripulito anche questa volta. – Al segno, per favore – sospirai rassegnato. – Niente debito stasera – sento il capobanda – ma puoi sempre scommetterti lei, ha una bocca niente male, davvero niente male! – Non fare il tirchio – accettarono gli altri, bloccandomi con le mani legate dietro alla sedia – la consultiamo un attimino e poi te la restituiamo intatta. – Non scordatevi di me – grida il terzo dei giocatori, mezzo cieco – la ciliegina viene sempre alla fine! –

Nooo, vi prego, fermatelo... – per l’ultima volta sento brevemente piangere mia moglie alla vista delle dimensioni di quest’ultimo – è un animale, nooo… non fermarti… ancora, ancoooraaa… ahhh… Ah, Dio mio! Non cadetemi però dalle nuvole, per favore! E mettete giù quelle croci. No, non ero io a strillare così; per il dolore tramutato in piacere, a quanto pare, è stata lei, senza accorgersene, a volerlo. No signori, è stata lei ad abbandonare me, dunque è improbabile che io le abbia fatto del male. No, grazie, non vi offendete, da quel momento ho smesso di bere e di giocare. È vero anche che in quest’occasione speciale dovremmo brindare, anche solo per essere giunti fin qui. Voi non vi servite? Congratulazioni, che volontà ferrea! Lascio, dunque, la stanza del Maggiore ed esco per cercare quell’infame dell’infermiere, che avrei fatto bene a evitare. Un baccano spaventoso mi divampava in testa, come se l’avessi per sbaglio infilata in un alveare. Me la sarei vista con lui e sarebbero stati guai grossi per quel verme ignobile buono a nulla. Lo cercai dappertutto, ma era come se fosse sprofondato da qualche parte. – Basta che mi stia lontano – pensai tra me e me, rientrando nella casa della vecchietta. Lentamente, mi tolsi gli stivali prima di appoggiarmi in un angolo. Nessuno mi degnava nemmeno di uno sguardo, nessuno mi rivolgeva la parola. – C’è per caso qualche avanzo di ieri? – chiesi tanto per rompere il giaccio. Mi ignorarono ulteriormente. – Vedo che c’è stato di nuovo l’infermiere in visita da queste parti – insistetti a voler avviare una conversazione a tutti i costi – non fatelo entrare la prossima volta! – Diglielo tu di persona – sentii mormorare qualcuno – ora che l’hai mandato al macello. – Io non ho mandato nessuno da nessunissima parte – volli spiegarmi, ma la voce mi tradì e cominciai quasi a tremare – sono cose che succedono, siamo in guerra! In ogni caso, sembrava che nessuno fosse un granché interessato ad ascoltarmi. Sì, mi ricordo di lui anche durante la festa di Pasqua, sarebbe stato difficile non notarlo, sfacciato. Era l’unico sobrio, e solo lui si era rifiutato di sparare in aria. Senza dire una parola, ha preso e se n’è andato nella sua Batteria, e tutto ciò prima che scoppiasse la rissa. Non si sa come mai è sempre riuscito a evitare certe cose. La stessa sera l’ho visto dal Maggiore. – Cosa vuoi? – gli chiedeva l’Ufficiale. – Il permesso per una visita specialistica. – Per chi? – Si tratta di me questa volta… – Cosa c’è che non va con te, infermiere? Mi sembri a posto. – Sto affrontando un grave problema di salute. – Di quale tipo? – Che mi duole il cazzo per tutti i pezzi di merda come voi, – qui la sua vera natura volgare spuntò a galla – o preferisci la diagnosi tradotta in latino, Laboro ex pene… – Non ti

sforzare, guarda soltanto di rimanere lì, lontano. Non avrei mai pensato che sarebbe andata così tra noi. In un attimo si può creare una distanza incolmabile tra due persone. Un abisso, un burrone buio e profondo che ho provato ad attraversare andandola più volte a cercare e a supplicare, sotto la finestra di quel furfante mezzo cieco con cui se n’è andata, pur sapendo d’essere ormai molto vicino alla mia rovina. – Non punterò mai più, mai mai più! – non facevo che ripetere la stessa vecchia cantilena, lanciando disperatamente sul vetro pezzi di coccio e pietre – Devi credermi, mai più, non puoi andar a vivere con quel malato, non è un uomo, è una belva selvaggia da cui non potrai mai sapere cosa aspettarti il giorno dopo. Lo sai, proprio stamattina ho letto sul giornale un articolo in cui spiegavano che il troppo duro e il troppo grande sono tra le cause primarie del cancro all’utero. Già, te lo giuro sulla mia stessa vita, così c’era scritto, ecco, che mi si secchino entrambe le mani se ancora una volta dovessi alzare il mazzo… E tu bue, cosa attendi? Magari un paio di ali ancora più grandi? Muoviti e distribuisci ’ste carte una buona volta, che mi prudono le mani, tremendamente. Vi faccio vedere io come si gioca. Guardate infami, guardate e imparate dal Maestro. Che Dio mi fulmini se non è vero!

Madre Courage e i suoi figli

Quando si getta la cenere per un rito divinatorio, occorre soltanto farla posare sull’acqua. È lei che riconosce la sua strada, sa cosa deve fare, e non sbaglia mai. No, no, non so proprio come hanno potuto dirle che sarebbe nata di mercoledì. – Lascia perdere quel che i medici sentenziano – gli dico osservando i miei fedeli carboncini accesi che puntualmente rivelano quello che voglio sapere – il mercoledì ce l’hai vuoto, il martedì sì e no, giovedì invece è certo, e sarà una femmina. Fuoco sull’acqua, uomo sul destino. Gli ho detto esattamente queste parole, buttando poi via quell’acqua dal pentolino insieme ai resti della cenere. Ascolta figlio mio cosa ti dice nonna. – Sei abbastanza anziana nonnina – ride soddisfatto – non sarà mica che ricordi anche… e mi nomina, che Dio lo salvi, certi nomi così strani come Eraclito oppure Empedocle. – Forse siete persino andati a scuola insieme? – mi chiede il diavoletto, sapendo che non gliela posso prendere a male. – Figliolo caro – gli dico intenerita – scherza pure sul mio conto se serve a farti sentire meglio, ma sappi anche che la mia memoria arriva molto più lontano di tutti i tuoi hekim messi insieme, quei tuoi medici insomma. Come scordarsi di quella notte quando abbiamo dovuto scappare dall’Erzegovina; noi, i figli e mamma. Tutte le nostre piccole cose infagottate e caricate sull’asino e sul carro; gli zoccoli avvolti in stracci vecchi per non farci scoprire lungo quei sentieri in pietra e sassi; – nelle ore notturne ogni o rimbomba con un rumore sordo di vuoto molto più forte che di giorno, ogni fruscio ti mette in allarme e infonde paura – papà l’avevamo appena sepolto. Una mattina l’avevamo trovato in mezzo alla strada. Con gli occhi aperti, le mani giunte e girato verso il sole, come richiede la vendetta di sangue che rigorosamente rispetta la regola tribale secondo cui non dev’essere mai di spalle. È stato restituito sangue per sangue, uno, troppi altri ne avevamo ancora da ridare. Mamma è stata la prima a cadere in ginocchio accanto al morto. Ci fu qualche istante di silenzio prima che un grido acuto uscisse dalla sua gola e si trasformasse in lacrime e pianto. Poi ci ha fatti radunare tutti in casa. – Si parte – aveva detto – ora, subito. Un marito è un marito, ma i figli non li potrei mai rimpiangere. Ed ecco com’è il destino di noi donne: diversi anni dopo avrei ripetuto la stessa cosa quando il mio uomo rimase sepolto nella miniera e i miei

figli avrebbero dovuto andarci a fare il turno di notte. Per una rara volta in vita mia presi addirittura l’autobus per essere certa d’arrivare prima di loro. Mi misi all’ingresso senza alcuna intenzione di spostarmi, né di farli are dentro. – Mamma mettiti da parte, e non dare spettacolo – mi disse severamente il mio primogenito – siamo qui per guadagnarci il pane quotidiano, facci lavorare! – Non c’è pane da queste parti – gli risposi quasi serenamente – la terra su cui camminiamo ha voluto ingoiarmi il marito, ma non le permetterò di portarmi via anche voi! Strillai a lungo davanti all’ingresso della miniera, non mi lasciai dissuadere, non quella volta! – Dritti a casa, davanti a me, se non volete essere colpiti da qualche grave malattia – come un animale testardo, mi battevo per la loro vita con le peggiori imprecazioni e tutte le mie forze – perché io che vi ho partoriti sani, e cresciuto ognuno di voi sul mio cuore, sarei capace anche di uccidervi, se dovesse servire a non lasciarlo fare ad altri! Nessuno è in grado di predirti quello che avverrà – gli ho detto – attorno a te la morte si è saziata, e ora va altrove. Tornerete tutti salvi alle vostre case! – Ti avevo chiesto se resteremo in buona salute... – insiste a voce bassa fissando un qualche lontano punto fermo. Comprendo la sua preoccupazione, come non capirla? Lo vedo socchiudere le palpebre, come se dovesse sfuggire alle immagini confuse della sua pazzia, serrare la mascella e digrignare i denti fino a provocare un dilaniante dolore anche a me, che lo dovevo soltanto ascoltare. – Ne usciremo tutti matti e malati? – Dipende figliuolo – lo consolo – non tutti siete uguali… – Chiedilo alle ceneri – ribadisce – leggi ancora, nonnina. – Eh, in questo caso non posso esserti d’aiuto, nessuno al mondo è mai riuscito a entrare nella testa di un altro uomo, e tutto questo in cui ci siamo imbattuti c’entra ancor meno con il cervello e la ragione… dicono che i meccanismi della storia siano sempre gli stessi; chi genera più figli, si aggiudicherà più terra, noi serbi abbiamo perso il Kosovo usando meno cazzo. Quattro figli ho avuto, tutti gli shqiptari almeno nove o dieci; i miei li ho mandati all’estero, i loro pure sono in parte fuggiti da questa disgrazia, e la partita resta ancora aperta… Pezzo dopo pezzo, l’intero paese è finito all’asta. Smantellato e svenduto, che tristezza! Quando sono comparsi quelli delle Nazioni Unite con l’intento di ristabilire l’ordine e la sicurezza in tutta la zona, invece di rilassarti non potevi più are per i campi nemmeno per sbaglio. Di tanto in tanto riportavano sul trattore qualche povero corpo martoriato da mine e ordigni esplosivi che quotidianamente attentavano alla vita di tutti noi. Non ava giorno senza che non rubassero il bestiame di qualcuno, né notte che non bruciassero il grano di qualcun altro. Per accompagnare i bambini del villaggio a scuola, ora, a guerra

finita, devi servirti dei mezzi e della scorta militare, mentre a fare la spesa al negozio vicino ci vai da solo e colmo di paura. Sì, è vero, vengono a chiederti gentilmente se ti serve qualcosa, e poi ti portano la legna da ardere tagliata dai nostri stessi boschi, mentre i proprietari non osano mettere il naso fuori da casa. Malgrado un’apparente utilità della loro presenza, ovunque guardavi regnava il disordine più assoluto, per certi versi persino peggiore di quello precedente, se mi è permesso confrontare i due mali. Ho visto di tutto e di più, difficilmente qualcosa può amareggiarmi ancora, ma il giorno in cui diedero alle fiamme la sede del patriarcato, il monastero di Dečani e la chiesa dedicata alla Presentazione della Vergine a Bijelo Polje, ecco, lì, in quei momenti di rabbia e stupore, questo vecchio cuore volle scoppiare. Mentre alla televisione del vicino guardavo le inquietanti immagini di come nel mezzo di fumo e fiamme estirpavano la croce – che Dio mi salvi – qualcosa ha cominciato a martellarmi qui nel petto, come se stessero portandomi via anche l’anima. Un forte senso di oppressione, una morsa che non intendeva affatto rallentare la sua malefica stretta, ma bruciava e faceva contorcere lo stomaco senza lasciarti più in pace… –Partirete tutti e subito; – avevo annunciato durante un pranzo domenicale – mio fratello vi attende in Svizzera, ed è meglio che vi sbrighiate, se non volete che vi maledica il seme, come solo una madre sa fare con i suoi chicchi. – Ahi, madre – sentii rabbrividire le mie nuore – non vorrai mica dire sul serio. – E non mi fermerò semplicemente ai vostri figli – finsi di essere più sorda e insensibile di quanto non lo fossi – ma fino alla quinta generazione mi spingerò, almeno. Che non troverete pace mai, né in questo né in quell’altro mondo se non mi date retta! Cosa non si fa per amore? Questa mia bocca ha sputato fuori le peggiori frasi per assicurarsi che d’esser presa sul serio. – Lo zio vi ha già preparato tutti i documenti necessari, – facevo la dura, ingoiando i primi, inopportuni, singhiozzi – vi aspetta. Fate le valigie e non lasciate nulla qui, non voltatevi e che non vi salti in mente un giorno di fare ritorno! Che il fulmine vi bruci il focolare se dovesse andare così! – Addio madre – mi baciarono i figli alla stazione – riguardati… – Siete voi che dovete stare attenti – dissi– c’è chi si prende cura di me. Colui che ci guida e vede ogni cosa… –Nonnina, dimmelo, avrà il Signore la bontà di proteggerle prima che io torni? – mi chiedeva misurando con i suoi instancabili i quel mio stanzino già per la terza notte di seguito – Questi di sopra non intendono smetterla, non mi importa di me, ma almeno se potessi vederle mi sentirei sollevato! Ascoltavo in silenzio la sua pena come fosse la mia, nemmeno io avevo più visto i miei da quando questo nostro calvario ebbe inizio, anche se non a una notte sola che non li

abbia sognati e stretti forte a me uno a uno. – Non lo vedi che non riesco più a chiudere occhio dalla preoccupazione? – il nervosismo lo dominava – Ho bevuto anche quelle tue erbette che mi hai dato, le mie pillole, niente, nessun risultato, è più forte di me... Butta una cenere per farmi addormentare, nonnina… se un’anima c’è l’hai, aiutami. Eh, sapessi da quanto tempo la mia anima soggiorna lontano da me, spezzata in quattro pezzi uguali, pensai tra me e me mescolando altre piante che donano il riposo per offrirgliele al suo ritorno dal turno di guardia. È stata un’idea sua volerci andare. – Almeno gli altri lasciamoli russare – diceva – visto che io non dormo in ogni caso. Vedi figliolo, anche quel poco di anima che speravo di riuscire a metter da parte per la vecchiaia se n’è andata via con loro; qualche volta vengono a cercarmi dal villaggio alcune donne per conversare, ma soltanto perché hanno bisogno di me, non per altro. E l’anima si consuma a pezzi e bocconi, notte dopo notte, una briciola dopo l’altra per ogni ora che ci rimane… Una mattina, un tizio con i gradi sull’uniforme venne a chiamare i soldati che dormivano a casa mia. – Fra mezz’ora pronti alla partenza! Il corriere prese allora entrambi gli zaini, la sua roba e quella rimasta dell’infermiere e mi salutò come se fossimo stati parenti. Che Dio lo protegga da ogni tentazione, anche da quella porcheria che si inietta in vena. – Tieni duro nonna – sorrise uscendo – nessuno può farti niente, non so chi ti protegge le spalle, ma sarà qualche fottutissimo giocatore di sicuro! – Che vi protegga Quello lassù, figli miei; – abbracciai tutti, accompagnandoli all’uscita – e che ci sappia perdonare come anche noi dobbiamo fare a noi stessi. È la vita che ti insegna a perdonare. Se non sei capace del perdono puro e incondizionato, la tua esistenza diventa un’amarezza infinita, ed è proprio questo quello che mi sono sempre rifiutata di fare. Non ho mai voluto imparare a odiare qualcuno. A che pro mi servirebbe? Non sono stata in grado nemmeno di prendermela con quei loro figli che la sera stessa, quando le unità serbe avevano lasciato il nostro villaggio, avevano trovato giusto e divertente rompermi con le pietre i vetri di tutte le finestre; ho cercato di tappare i buchi come meglio ho potuto con sacchetti di nylon robusti, ma dal gelo penetrato fin nelle ossa non mi sono mai più liberata. Non ho odiato nemmeno le loro donne, che erano entrate in casa mia per portare via qualunque cosa desiderassero, come se non fossi stata presente: tendine, merletti, ricami, tovaglie, lenzuola, indumenti, addirittura un grosso tappeto arrotolato e caricato sul camion… Volevano portare via anche la sciarpa e la bandiera nera che ogni madre custodisce per i momenti di condoglianze e di dolore, nella speranza che non arrivino mai. Solo a quel punto

una delle donne presenti, alla quale a sua volta avevo gettato le ceneri e predetto la nascita di un bambino sano, aveva preso la parola dicendo loro qualcosa in lingua shqipe; mi guardarono male prima di uscire, ma restituirono le mie poche cose da lutto… Può darsi che qualcuna ne avesse più bisogno di me… Prima o poi si impara che gli oggetti non hanno alcun valore, si può vivere senza qualsiasi cosa; quello di cui mi importa è comunque troppo lontano da qui. –Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno – pregai due giorni più tardi, quando i loro soldati mi fracassarono la porta con gli stivali ed entrarono in casa con i fucili spianati. – Non deve parlare, stia zitta – si mise a urlare uno in tuta mimetica, mentre gli altri portavano fuori il resto della roba – altrimenti non aprirà mai più quella bocca! Guardai muta, incapace anche di tremare. Non so che altro avrei potuto fare, scrutata da quei suoi strani occhi nascosti sotto i capelli lunghi e la folta barba. Forse ebbero pietà di me e mi lasciarono quella vecchia radio e le fotografie, giusto quanto serve per sentire ogni tanto una voce umana – anche se proveniente da una scatola – e godermi da vicino i loro volti, belli come sono… Cos’altro si può chiedere alla vita? –La vita, nonnina, è come un paio di mutande da donna – mi diceva l’infermiere mettendosi la cintura e una giacca a vento – corta, insanguinata e merdosa… – Anche se lo fosse, siamo qui per viverla! – In effetti – mi rispose pensieroso – vado a farmi visitare da alcuni medici, e tu bada a questi miei indiani finché non torno. – Non devi pensarci, lo sai che sto qui. – Lo so, se qualcuno comincia ad andare in bagno troppo spesso attacca con le tisane, e a quel baffuto scimunito di un Capitano – si raccomandò ridendo – dagli pure la grappa, utilizzando il ciuccio per rilassarsi, come dice lui… e che le esplosioni forti non ti spaventino, sarà soltanto il macellaio con le sue solite scoregge... Lo giuro sulla croce che lui si esprimeva in questo modo. – Riguardati, nonna – disse baciandomi alla fine, quando un improvviso brivido di freddo mi attraversò tutta. Scese lungo la schiena, prese braccia e gambe, mi gelò le ossa e fermò quasi il cuore, volle strapparmi in mille pezzi con la sua forza gelida e oscura. Nella stessa identica maniera tremava la terra quando fecero esplodere la chiesa di Sant’Elia e le tegole dal tetto cadevano nel giardino della casa. I membri della KFOR vennero a chiedermi se per caso avessi delle informazioni da offrire, se, diciamo, avessi sentito o visto qualcosa di sospetto. Che si vergognassero pure loro per come mi hanno bussato alla porta, buttandola quasi giù e spaventandomi a morte. – Non sono mica sorda, anche se sono vecchia, – dissi aprendo – come se non fosse bastata già l’esplosione ad avermi fatto saltare dal letto… Non ne

vollero sapere niente dei miei acciacchi o di altri pensieri sparsi. – Avrà pur visto qualcosa! – tornavano sempre fissi allo stesso punto – Lo denunci tranquillamente, siamo qui per questo. Stavo giusto pensando che avrei potuto raccontare loro di come sono stata intimidita con le armi e derubata nella mia stessa casa, quando incontrai lo sguardo di quei medesimi minacciosi occhi strabici di qualche giorno prima, appartenenti ora però a un viso pulito e rasato di fresco. Capii al volo cosa stava succedendo, e che la giustizia nel mondo in cui sono cresciuta non sarebbe giunta così presto, e così facilmente, i voltagabbana sono i farabutti della peggior specie. – Non ho visto niente, proprio niente – dissi, e uno di loro lo tradusse allo straniero. – Dobrrro, molto bene – ripeté il forestiero anche nella nostra lingua e annuì con la testa – very very good! Ma quale very e quale good, pensai, in questo buio totale, possano le ferite divorarti, fesso che non sei altro. – Vrrrlo dobrrro – continuava a vantarsi lo scemo, con la sua sbalorditiva conoscenza della lingua, come quel sordo che a tutti i costi volle suonare la cornamusa. La sera in cui si trasferì, il dottore era tornato indietro dal cancello per salutarmi una seconda volta. – Se non fosse stato per merito tuo nonna, e della tua generosità, qualcuna di queste sere sarei andato dritto a fanculo; – mi disse con quel suo solito linguaggio turpe – per sempre, sola andata senza ritorno. – Figliolo – gli sussurrai quasi senza fiato, mentre mi stringeva a sé con quelle sue mani grosse, come fossi stata la sua vera madre – sapessi quanti ne ho visti e pianti di quelli come te, però sono ancora viva… Vai a guardare come cresce la tua bimba e goditela. – Sarà fatto, te lo prometto, sarà fatto! – Da vicino, però. – per l’ultima volta gli confessai i miei più vivi tormenti – Non permettere che ti succeda quanto è avvenuto a me, che li posso baciare solo in fotografia; che i figli dei tuoi figli ti stiano seduti in braccio, figliuolo. Lascia stare questa vecchia, in questo mondo siamo solo ospiti provvisori, rimarrà giusto qualche traccia qua e là del nostro aggio, finché il tempo non cancellerà anche quella. Come fa con ogni cosa da secoli, da millenni, figliuolo…

GIUDA

Tutti noi portiamo una croce: la mia me la sono costruita da solo. E non è stato così difficile come ci si potrebbe aspettare: laddove la parola gentile e la preghiera non riuscivano ad aprire le porte dei negozi giudaici ben sbarrate, i Sicli della zecca di Tiro fecero il miracolo. Persino i cambiamonete all’ingresso del tempio – di avido aspetto, e con l’immagine ancora ben impressa nella memoria dei tavoli ribaltati quel giorno che anch’io ero nella Sua fedele scorta – addolcirono i loro ostinati cuori alla vista degli scintillanti tetradrammi. Chiunque sappia qualcosa sul potere del denaro, conoscerà anche lo stato di esaltazione che l’improvviso splendore di quel prezioso metallo, negligentemente versato fuori da un sudicio sacco di cilicio, suscita; trenta monete d’argento hanno contribuito a far avere tutto l’occorrente per una crocifissione dignitosa. Aspettavo ora soltanto che arrivasse il pubblico. Laggiù in lontananza, dove l’orizzonte assume il colore delle arance di Galilea, comparvero le figure di loro quattro: tre uomini più piccoli di una spilla, accompagnati da una donna, che li seguiva a una decente e corretta distanza, proprio come richiesto dalle antiche leggi. Non andavo di fretta da nessuna parte; mai più potrò precipitarmi a fare qualcosa. Diversamente da Lui, che ha sofferto soltanto sulla croce, io sono stato condannato a bruciare all’Inferno per l’eternità. A Lui soltanto i polsi e i piedi sono stati trafitti dai chiodi, mentre io mi ritrovo inchiodato tutto intero alla colonna infame. I Suoi capelli costellati dalle spine della corona appuntita gli provocheranno dolore solo mentre respira; sopra la mia testa pende invece l’aureola perenne del tradimento. Ormai riesco a riconoscere i loro volti; affaticati come sono, non saranno dell’umore giusto per poter finalmente sentire ciò che da secoli avrei desiderato dir loro: Sì, fratelli miei, Giuda è uno sporco traditore! Ma non perché L’abbia identificato e venduto con un Suo bacio come credete voi, bensì perché era sinceramente convinto che la crocifissione di un singolo uomo potesse salvare il mondo intero! Anche se si trattava di un Uomo-Dio. E perché ingenuamente ha pensato che il gregge fosse meritevole di sacrificio! Giuda è un traditore! In quanto ha tradito la sacra legge secondo cui ogni uomo è un universo a sè, molto più grande di qualunque mondo che noi conosciamo! Che venga punito Giuda, perché ha tradito se stesso! Ecco, questo avrei voluto dir loro…

Slego i muli e li libero dai pesanti basti; mi tolgo i sandali di pelle e la lunga camicia di lino che indossavo. Sorseggio un po’ di vino dal calice, per svuotare poi voracemente anche la brocca con l’acqua. È giunta l’ora! Blocco le gambe alla base della croce e le inchiodo con un martello; poi saldo i tasselli finché non vengono completamente uniti alla massiccia verticale. Quelli che per Lui furono preparati in cedro da un qualche falegname artigiano, non si sono dimostrati abbastanza affidabili; i miei, realizzati in ferro, conviene farli benedire anche dal fuoco. Arriva, quindi, il turno delle mani: con una inchiodo l’altra – nuovamente fusione, confluenza, raffreddamento – mentre quella rimasta libera la poggio semplicemente nell’apertura scolpita nella traversa. Se per l’ultima volta il segno della croce non te lo fai da te, nessun altro lo farà al posto tuo. Sono ancora più stanchi di quello che mi aspettavo. Noia, paura, vizio e orgoglio non dominano più sulle loro anime; al loro posto in ogni solco tra le rughe di quei volti pieni di polvere e sudore si è sedimentata l’insonnia, quell’eterna nemica di ogni idea. Con movimenti lenti e pesanti, si scrollano di dosso i granelli di sabbia accumulata; l’unica prova del tempo inutilmente perduto in quel deserto delle nostre illusioni. Ormai vedo chiaramente sia l’angelo, che il leone e il bue, e le loro sgualcite ali, piene di polvere – raccolta lungo le strade interminabili – e anche l’espressione di lei, che fu la prima a inchinarsi… Da un cumulo di sassi – stupendi, dai bordi così taglienti che nessuno potrebbe sopravviverci – che da giorni portavo sotto la mia croce, ognuno di loro prese il suo pezzo; poi si fermarono davanti a me – crocifisso e felice. La prima pietra fece un volo breve, ma fu sufficientemente pesante per rompermi la gamba: tibia e fibula brillarono con tutto il candore del loro periostio. La successiva mi gettò via l’aria dai polmoni; quella dopo ancora, colpì la morbida pancia. Sul petto e sul capo abbassato, cadde allora la pioggia dei ciottoli più pesanti. Diversamente dai quattro tiratori che pensarono, sbagliando, che le mie sofferenze fossero appena iniziate, la mia anima era tranquilla e felice, sapendo con sicurezza che questa ne era invece la fine. Non fermarti, Dio!

Il sole ingannatore

Devo ammettere che a tutt’oggi non sono certo se è riuscito ad abbindolarmi ben bene, oppure se era davvero uscito fuori di senno, non lo so. Fatto sta che quel certificato per farsi visitare gliel’ho firmato ugualmente. Chissà perché, ero convinto che, dopo aver fatto trasferire così tanti individui che nemmeno mi ricordo più le loro facce, non si sarebbero presentate più corse vuote nella mia vita. Manco per niente; un giorno sei Maggiore, un altro ti dice bene se riesci a mala pena a fare il tassista. Aaah, ciarlatano di un diavolo, non portarmi nella corsia sbagliata… Non capisco perché vi meravigliate tanto del fatto che invece di comandare una qualche divisione, combatto qui con cambio e frizione in mezzo al traffico tutto il giorno! È una lunga storia, fratello, meglio non ricordarla tutta, credimi. Neppure io vengo a chiederti dove pensate di poter andare così conciati, ma finché siete voi a pagare la corsa, il cliente ha sempre ragione. Bisogna essere più scaltri e furbi di quanto non lo sono stato quando mi mandarono all’ufficio di collocamento a guerra finita; per una settimana ho girato ingenuamente tutti gli sportelli, e solo dopo compresi che noi disoccupati servivamo a garantire le paghe burocratiche di coloro che stavano seduti dall’altra parte del battente. Uscito disgustato da quel finto mercato di richiesta e offerta di lavoro, ho comprato il giornale e ho risposto al primo annuncio che mi era capitato sotto mano. Prometteva bene: cercavano personale militare con valida esperienza alle spalle, da mandare in Africa; paga ottima, pensione assicurata, tutto in regola… Non c’era da pensarci due volte; dal momento che sei abituato all’onnipresente odore di sangue nelle narici, ti sembra che non ne puoi più fare a meno. Praticamente un’occasione su misura per me, per cui sono corso lì, mi sono iscritto, ho ato la visita medica, mi hanno vaccinato, ho firmato un po’ di carte e tutto era fatto in neanche mezza giornata. – Che si sappia – dico a un tipo palestrato mentre gli riconsegno la penna e i fogli – sono un autista io, l’addetto alla guida, sai, biip biip, tuuu tuuu… – Yes, of course – vuole ammazzarsi dalle risate il gorillone prima di rispondermi nella nostra lingua – biip biip è inutile che ci prendiamo per il culo: la grana la vuoi o no? Non feci in tempo a spaventarmi alla vista di altri miei colleghi, che eravamo già belli e imballati

dentro il primo aereo diretto verso quel buco di merda in culo ai lupi. Da un lato stiamo seduti noi con le teste rasate di fresco e i volti pallidi, dall’altro quelli ricciuti e neri come la morte; non parliamo gli uni agli altri e quando nessuno ti chiede niente, fai bene a startene zitto. A momenti moriamo tutti ammazzati dal caldo, si fottesse quel cocente sole africano… e solo dopo tre giorni di rosolatura a fuoco leggero venne il bastardo di un istruttore – tutti lo chiamavano così e non saprei dirvi il suo vero nome – con gli ordini. – Siamo stati assegnati a proteggere il palazzo presidenziale. – urla, come se fossimo stati tutti stupidi o sordi – Sta per avvenire un colpo di Stato: armi al completo, dito sul grilletto, sparare a tutto ciò che si muove. Qualche domanda? – Sono solo un autista... – provai a spiegare la mia posizione – vorrei dire… – Più tardi. – sbraitò il calvo – non c’è tempo da perdere. Ora non si torna indietro! Ah, già, vi interessa la situazione in Kosovo, quando ancora facevo il Maggiore... Mi sembra quasi una qualche dolce vita precedente, così lontana è da questa. Dunque; il mio dovere l’ho fatto, e bene, quando dopo la visita all’ospedale di Gnjilan, l’infermiere non lo si trovava da nessuna parte, come fosse scomparso nel nulla. Così, informai subito la polizia militare. – Ciucciati il cazzo, Maggiore; – mi risposero cortesemente dal loro centralino – pensi che non abbiamo nulla di meglio da fare che acchiappare ogni matto fuggito dal fronte? Non vorrai mica scaricarci i tuoi barili! – Veramente… – provai a farlo ragionare. – Nessun ma, e nessun però. – proseguì lo sbruffone dall’altra parte del filo – E non chiamare più, chiaro? – Io… Tu-tuuu… Non mi diedi per vinto, – non è nella mia natura cedere senza lottare – e chiamai allora il suo Comandante, per fottergli anche la madre se fosse servito, diciamo in via preventiva, e gli ordinai di indagare tra gli uomini della sua Unità, per capire cosa sapessero sul suo conto e cosa avesse raccontato loro l’ultima volta che l’avevano visto. Ogni virgola dovevo sapere, ogni dettaglio! Come per dispetto, nessuno parlava. Dicevano di sapere poco o niente; che prima della partenza soffriva d’insonnia – e per sua richiesta faceva sempre la guardia di notte – e che il mattino successivo li svegliava con il caffè già pronto. Cose così, senza nessuna importanza. Tutta la sua roba stava ancora lì, intatta, non si era portato via niente tranne il fucile. Persino la sua borsa da medico e quella scatola con i medicinali erano rimaste, lo zaino da combattimento e quello di trasporto pure. Non sapevo più cosa pensare, che il diavolo se lo fosse portato con sè! – Portatemi qui tutte le sue cose – ordinai a quell’alcolizzato – e se dovesse arrivare, ditegli di presentarsi immediatamente a rapporto da me! – Il nostro compito è – spiegava l’istruttore testa calva misurando a i decisi

lo spazio davanti a noi, immobili sull’attenti e col cervello quasi in ebollizione sotto quei caschi roventi – quello di proteggere a ogni costo la vita del Presidente; è chiaro questo? – Signorsì, signore! – ripeterono tutti tranne me. – Ci sono delle domande? – chiese col tono di chi non si aspetta che qualcuno fiati. – Io sono… – tentai di spiegare, asciugandomi alcune grosse gocce di sudore sulla fronte. – Lo so, solo un autista – mi interruppe l’istruttore, ancora più nervoso di prima. – Non volevo dire questo; – pronunciai, tamponando a malapena con la mano anche quelle arrivate alle sopracciglia e al naso – sono curioso di sapere a chi appartengono quelle teste lì, e perché sono state impalate sulle lance... – Sono semplicemente gli ex oppositori politici del nostro egregio Presidente. – Rispose la testa di rapa con qualche riluttanza – Direi che abbiamo finito con le domande per oggi, ripooosoo! Per me questo era più che sufficiente, non avendo la minima intenzione di fare l’eroe, o di arricchirmi in guerra; scesi un attimo giù in cantina per prendere almeno una porzione di fagioli in scatola, e mi imbattei in un grosso negro legato alla sedia; – e che cazzo di sfiga che ho! – uno zigomo rotto e un occhio completamente chiuso, fratture, tumefazione, tutto come da manuale, un altro colpo violento e gli avrebbero fatto sputare sangue. Mi ritirai velocemente all’indietro, non si poteva mai sapere; l’appetito l’avevo perso in ogni caso, fottutissima vita beffarda e ingiusta. Da un lato qualcuno viene ammazzato di botte solo perché parli, e dall’altro a qualcun altro, come a me, chiudono la bocca, non volendo che si dica una parola. Ma quale putschista, manco per scherzo! È stato semplicemente uno sciagurato direttore di banca. Quella stessa sera l’ho saputo dalla televisione, anche se, a dire il vero, non la raccontavano giusta. Attribuivano ai ribelli la sua sparizione, come se non fosse stato rinchiuso proprio lì, a due i da noi, nel palazzo presidenziale. Lo aspettai a lungo; quasi fosse stato la tanto desiderata corsa lunga di ogni tassista. Poi ci comunicarono che bisognava ritirarsi dal Kosovo e, almeno per un po’, mi dimenticai di lui. Ordinai di approntarsi alla partenza, disposizione che ciascuno interpretò a modo suo; chi raccogliendo la propria roba, e in molti casi, invece, chi avvolgendo di tutto e di più, dalle tendine alle posate con evidenti segni di usura. La gente del luogo ci salutò e pianse, oppure ci odiò visibilmente, talvolta entrambe le cose insieme. – Si parte – annunciai finalmente, e il convoglio simile a un bruco cominciò a strisciare indietro. Una volta giunti alla frontiera – amministrativa, guai a chiamarla diversamente – ci accolse una folla di giornalisti armata di macchine fotografiche e telecamere; intanto eravamo pronti a fare la nostra bella figura: prima della partenza avevo

ordinato di pulire e lustrare le piastre di quei cannoni rimasti, nonché di coprire e mascherare opportunamente quelli distrutti. Seguì poi un breve quanto noioso tragitto su una pessima strada, per poi riorganizzarci in un altro villaggio non molto differente da quello precedente. Non feci in tempo a entrare nella casa assegnata al Comando, e a sedermi comodamente sulla poltrona che stava per prendere tutta la mia forma, che un tizio in abiti civili volle turbare la mia pace. – Mi è stato detto che hai la mia roba in custodia. – Io? – spiccai un salto come se mi fossi scottato – Ma chi sei? – L’infermiere della Batteria di Comando – rispose quel grandissimo mascalzone. – Ah, sei tu dunque l’uccellino appena rientrato a casa! – Cominciavo già a strofinarmi le mani, ma, anche questa volta, troppo presto. – Non sono un tuo uccellino, – mi mise in imbarazzo davanti a tutti – abbi un po’ di pazienza e cercatene un altro. Mi interessa solo lo zaino con i miei vestiti, il resto te lo puoi tenere; anche il fucile ti lascio, può darsi che uno come te si ecciti e si masturbi persino alla sua vista. – Con chi credi di… – provai ad alzarmi. – Seduto e ascoltami bene; – mi rimise giù con forza – se non vuoi farti fottere la madre, così, matto come sono ora anche ufficialmente. Deglutii, pronto a sentire il resto, di qualunque cosa si trattasse. – Qui hai tutti gli scarabocchi sul mio caso se ti possano interessare. – disse andomi una cartella – Studiatelo, mi raccomando e – aggiunse prima di uscire – se non sei contento di come è andata a finire, fai ricorso, ahahahaha, davvero, tranquillamente! Quando infine sbattè la porta così forte da far cadere l’intonaco dal soffitto, seppi che era finalmente uscito, dalla stanza e dalla mia vita, e che mi ero liberato di lui per sempre. Di giorno quella stella troppo vicina ci cuoceva impietosamente, di notte pensavamo di morire congelati. La situazione si fece seria, drammatica, e quando sparì quel Ministro delle Finanze, si perse contemporaneamente ogni traccia di colui che ci portava le banconote ben ordinate in una valigetta Samsonite, e anche il Presidente quella mattina non venne alla riunione: ecco che i presagi funesti e la paura riapparvero dipinti sui volti di tutti. Soltanto le risate dei ragazzini cresciuti troppo in fretta – che non ci lasciavano in pace né di giorno né di notte – rimbombavano spettrali in tutto l’edificio. Uno di loro in particolare, soprannominato poi, per l’appunto, Orecchio, si divertiva a prendere tra le dita il mio orecchio destro, un po’ più a sventola di quello sinistro, e a strofinarlo finché non gli dicevo come lo chiamavamo nella mia lingua, per correre poi felice in giro a ripeterlo all’infinito. Orecchio ci procurava le sigarette e da bere; una volta ha provato a fornirci anche i servigi di certe ragazzine non più grandi di lui, ma il Capo lo convinse ad abbandonare

l’impresa; con un ceffone sonoro e calci nel sedere. In seguito Orecchio si fece vedere un’altra sola volta, per salutarmi, più o meno, solo che all’epoca non lo compresi appieno. Sapevo benissimo, invece, che ci eravamo cacciati in un mare di guai, e senza terraferma in vista, perché rapire da soli quello stesso Presidente che avremmo dovuto proteggere non ha altro nome. Già, il simpatico negretto appeso penzoloni al soffitto a dissanguarsi era uguale spicciato a quel tipo sorridente su tutti i manifesti. Con la testa in giù, ma comunque ancora un Presidente. Che ci vuoi fare, un giorno governi un intero Paese, quello successivo ti ritrovi che il primo viso pallido calvo si scopa la tua vedova. Devo dire anche che la signora si era dimostrata molto abile a superare la crisi e la caduta del Governo, accettando pacificamente le condizioni di resa, mentre solo il baldacchino continuava a incrinarsi e scricchiolare pericolosamente sopra il letto. Il mattino dopo toccava a me ripulire tutto spacciandomi per una tanto diligente cameriera… Poco dopo quegli eventi ci mandarono a puttane con l’intera Brigata e ci riformarono in un batter d’occhio, senza possibilità d’appello. Dissero che non eravamo stati abbastanza attivi e sufficientemente validi in combattimento. Cercai di svolgere al meglio il mio lavoro facendo tutto il possibile, e mi ritrovai circondato da riservisti, catalogatori, attivisti, membri di varie commissioni; nessuno mi chiedeva nulla, né voleva conoscere il mio parere, ma mi guardavano ugualmente come fossi stato un autentico pezzo di merda. E allora mi isolai e me ne stetti per conto mio, cercando un ufficio vuoto dove sbirciare di nascosto nella cartella dell’infermiere: “A farmi visitare, presso l’ospedale di Gnjilan sono andato dopo un episodio di insonnia persistente durato quattro giorni, ossia quando non sono stato più in grado di distinguere il sonno dalla realtà. Tutti intorno a me cominciavano a somigliarsi a vicenda, e tutti quanti messi insieme a sembrare quei tre, i cui corpi ho dovuto raccogliere personalmente. Le voci assumevano il loro timbro e ogni discorso si tramutava presto in grida e pianti. Quando non ci fu più una linea sottile che separasse il riso e il dolore, il giorno e la notte, seppi che dovevo andare.” Accanto a questo primo foglio c’era un’impegnativa per la visita specialistica presso l’ospedale militare, e poi un secondo foglio aggiunto a mano: “Non è poi così terribile attendere il sonno. Sperando che ti possa cadere sugli occhi con tutto il suo peso, e abbassare le palpebre gonfie e doloranti; il tempo inventato dagli uomini in ogni caso non conta proprio niente. Nessuno può dirci quanto durerà questa pagliacciata, e chi sarà così competente da poter fischiare la fine di questa partita truccata. Comunque sia, me lo sento dentro, che il pubblico si sta divertendo alla grande!”

Fu il momento preciso in cui cominciai a odiare il sole per tutta la mia vita. Tutto attorno a me divenne rovente; persino la canna del fucile scottava. In più, ci trovammo circondati dall’esercito ribelle, che ci doveva far pagare la presenza sul loro suolo; per iniziare ci tagliarono luce e acqua. Tenemmo duro quanto le scarse riserve di liquidi ce lo permisero, e con i condizionatori fuori uso a una temperatura sopra i mille gradi; solo allora sentii chiaramente la vera puzza delle persone. Il nostro istruttore calvo non aveva previsto giusto un piccolissimo e insignificante dettaglio: come tirare fuori quei soldi incassati dalla controparte per aver contribuito al colpo di Stato. Quando infine attaccarono il palazzo presidenziale, pensai che la terra si fosse semplicemente aperta per ingoiarci: pesanti lampadari che cadevano e si frantumavano, pareti piene di fori di proiettile, sangue che schizzava ovunque, ti copriva la faccia e annebbiava la vista, tosse e fumo, grida, lamenti… Sparai finché, rimasto privo di munizioni, non dovetti cercare riparo in cantina dove mi infilai in un stretto divario fra due pareti e mi coprii con un sacco. Ascoltai i i che ci stavano cercando, in grado di sentire anche il mio respiro pieno di terrore, le mani fredde e umide, e poi diarrea, nell’istante stesso in cui il sacco venne sollevato. – Orecchio!! – con le lacrime agli occhi gridai quasi di gioia, riconoscendo il volto sempre allegro del ragazzino; con una bandoliera sul petto e un machete in mano. Solo una frazione di secondo dopo urlai di dolore puro, quando Orecchio – senza perdere il sorriso – mi tagliò il padiglione auricolare destro; mi chiuse la bocca, mettendoci una mano davanti, e con il dito indice dell’altra mi fece cenno di stare zitto. Poi, mentre il sangue usciva da tutte le parti mi diede anche una bottiglia d’acqua, prima di ricoprirmi con quello stesso sacco. Chiusi quella cartella, ma una sensazione strana non mi lasciava in pace e così mi decisi di leggere tutto fino alla fine. La lettera di dimissione ospedaliera, certificata e timbrata, e altri due fogli di carta, dattiloscritti: “È un tormento quando inizi a tremare e sudare in modo incontrollabile avvertendo la chiara presenza di quelli del tuo sogno; del silenzio del primo, mentre respirando pesantemente ti scorre tra le dita come la sabbia, delle urla del secondo che chiama la madre, delle suppliche del terzo che mi chiede di aiutarlo a morire. E io che non posso farci niente. Mi avvicino al primo e gli o attraverso; mi sorride e vola via in alto sul dorso di un angelo. Il secondo si dissolve come una bolla di sapone; solo allora percepisco l’ombra del leone alato che mi sorvola, refrigerandomi con le sue enormi ali. Dell’ultimo sento soltanto la voce, parole umane che si tramutano in ruggito di un bue ferito; anche lui ci prova a decollare, senza riuscirci. Voglio fasciargli le ferite, ma non riesco a vederlo. Mi sta sempre alle spalle; ovunque mi giro. Sempre. Sempre. Senza fine. Tutti e tre

insieme ci provano ad alzarmi, ma nessuno di loro è abbastanza forte; cado e mi frantumo. Così, impotente, furibondo e affannato, mi lavo il viso con il sudore delle mani; raccolgo me stesso nel telone e soltanto a questo punto mi avvio verso il sonno.” Sul secondo foglio era scritto: “Omone? Carne come ogni altra carne, solo più rumorosa. Sulla mano staccata, un anello e l’orologio; dalla spalla spunta la pelle, venature, arterie, nervi, i resti delle ossa, brandelli di stoffa; al posto degli occhi, due buchi sanguinosi; le gambe sono ancora intere perché sono i pantaloni a tenerle insieme. Dappertutto frammenti di ossa; sul muro della scuola, sparsi nel cortile; raccolgo un orecchio e una parte di collo, una mandibola; il cervello lo chiudo nel sacco”. Poi un piccolissimo pezzo di carta a grossi quadretti, inserito chissà in quale momento: “… l’asfissia diventava sempre più penosa e forte, le urla più distinte, le immagini assunsero sia il colore che l’odore, come nella vita reale.” Lo rigirai e lessi le righe aggiunte sul retro: “Le pareti erano sempre più vicine, la luce rendeva bianca ogni cosa attorno a me, mentre il rumore delle grosse ali che svolazzano non riuscivo a mandarlo via né con la grappa né con i medicinali, con niente di niente.” Un pugno l’avevo messo sulla ferita – là dov’era rimasto il buco aperto – e l’altro lo mordevo per non urlare. E così per due terribili giornate, infuocate e merdose. Cominciarono anche le mosche a girarmi intorno, e mi misi quasi a ridere per non gridare di angoscia; ve lo potete immaginare che ironia sarebbe stata se dopotutto venivo scoperto a causa di quelle maledette bastarde arruolate dall’Air Force e nella difesa aerea. Il secondo che aveva scoperto il mio rifugio e alzato il sacco, fu uno delle Nazioni Unite; mi spaventai a morte pensando che Orecchio fosse tornato indietro per prendersi un secondo souvenir, oppure – Dio mi salvi – che avesse voluto sperimentare come fare la gelatina con la mia carne al posto di quella di maiale. Povero dottore; svenne vedendomi con quel buco in testa, pisciato e cagato addosso, sfigurato. E proprio mentre per are fino all’ambulanza mi poggiavo con un braccio all’infermiere, vidi per l’ultima volta i volti sorridenti e abbronzati del nostro istruttore e di altri miei colleghi. Con le teste tagliate e infilate sulle lance; mi chiedevo di cosa avessero potuto ridere così a crepacuore. Solo molto tempo dopo ho saputo che gli indigeni esitavano a uccidere i combattenti già feriti in guerra… Continuai a sfogliare i certificati medici, uno, due, poi un altro e un altro ancora; non potevo crederci, non sarà mica riuscito a ingannarli tutti! Diagnosi

confermata prima delle dimissioni dalle forze armate, e di nuovo una sua dichiarazione: “Sto cercando di andare d’accordo con tutti e di non litigare con nessuno, ma ho come la sensazione che ognuno di loro non veda l’ora di provocarmi. Non ho alcun desiderio di uscire dalla stanza né di scendere in cantina; si fottessero le sirene per l’inizio dell’allarme con il loro suono lungo, cupo e lamentoso, e anche quelle di cessato pericolo che per due interi minuti continuano a fischiarti in testa. E la cosa peggiore è che non mi fido più di nessuno. Misuro le parole; ho proibito all’angelo di svolazzare mentre la bimba dorme. Il bue e il leone li ho mandati fuori nel corridoio; prima di dormire, devono lasciare le ali davanti alla porta. Sono alla ricerca di significati occulti e di cattive intenzioni. Cerco interrottamente; sono arrabbiato di non trovarli e allora vado su tutte le furie!” Dopo aver ricevuto le cure mediche necessarie, mi fecero tornare a casa; mi mandarono anche da uno psichiatra. – Non sono uno stupido – dicevo sbattendo la porta dello suo studio – porto il berretto per non spaventare i clienti, idiota! La gente non entra nella macchina di un mostro, perciò lo inclino leggermente e… Quando penso a tutto quello che poteva succedere con quel pazzo, me la sono cavata bene. Mi sento comunque fottuto per bene dal resto del mondo, ed è proprio questo quello che mi tormenta, mentre resto l’unico sveglio nella cupa fila dei tassisti al posteggio, in attesa di una prossima chiamata…

The showtime

Ma quale inizio! Era già tutto finito, solo che facevamo finta di niente. Anche qui, come alla chiusura di ogni ballo in maschera, occorreva fare i conti principalmente con se stessi; coloro che trascorsero la guerra nascosti in cantina oppure in soffitta, per sottrarsi agli obblighi militari, uscivano ora alla luce del sole, la polizia militare di giorno perdeva più tempo a sbracarsi e a bere, di quanto invece non ne impegnava nella lotta contro la criminalità, addirittura l’ambulatorio della guarnigione, normalmente sempre pieno zeppo, si stava lentamente svuotando. Persino la gentaglia eternamente presente davanti a ogni studio medico e a tutti gli ospedali militari, che in stretto accordo con i dottori procuravano loro dei polli facili da spellare, sembrava essersi all’improvviso diradata; cento marchi tedeschi per un giorno di permesso e mille per un definitivo congedo non li sborsava più nessuno. Quel giorno quando l’infermiere mi aveva contattato, me ne stavo seduto nel mio ufficio come al solito, intento a scrivere l’ennesima e ormai classica querela serba: due fratelli carnali, il confine fra due proprietà, la sottrazione di tre campate, gravi lesioni fisiche, quattro fratture, un’accetta, anche un coltello – cinque pugnalate, un M57, sei pallottole e un tentato omicidio… Fiat Iustitia et pereat mundus! Ah, sì certo, come no, se vogliamo prenderci per il culo. Piuttosto, non mi avete ancora spiegato perché siete qui! Avete accennato che vi serve un breve consulto legale, e ora mi sottoponete alle vostre domande… D’accordo, lo capisco signori, avete pagato secondo le tariffe dei giuristi, e per un’ora intera vi appartengo. Quel che è giusto è giusto! Dov’è che siamo rimasti? Esatto. Quel giorno Čarli mi aveva telefonato da Belgrado, chiedendomi di venirlo a prendere alla stazione; stando alle sue parole, avrebbe avuto urgente bisogno di un piccolo aiuto da parte mia. Solo per accompagnarlo, diceva, fino al fantomatico edificio del Comando, che a quanto pare nessuno in città era in grado di trovare; un’istituzione per la quale nessuno avrebbe saputo dire a che cosa serviva né quale fosse il suo reale scopo. Già, ai semplici mortali non è dato conoscere i nomi dei responsabili, e in molti, tantissimi casi, la gente non sapeva dove andare a cercare i documenti richiesti, né dove portarli una volta trovati, con chi parlare, dove sbattere la testa… In

parole povere, voleva che lo accompagnassi a protocollare il suo congedo definitivo dalle forze armate. E sapete cosa vi dico? Che non c’è proprio nulla di strano nel fatto che un uomo decida – e soprattutto dopo quella spiacevole esperienza quando, senza aver tra l’altro commesso alcun torto a nessuno, aveva trascorso in carcere ben due mesi – di non voler parlare più nemmeno con i propri vicini di casa, senza la presenza di un avvocato. – Hai portato la documentazione? – gli chiesi mentre scendeva da quell’autobus vecchio e puzzolente – Questo è tutto, – rispose andomi una cartella – manca solo che anch’io mi rimetta a posto e il mondo sarà un luogo perfetto – Cosa ti hanno detto? – continuai a bombardarlo di domande a ogni o. – Che sto una meraviglia – sorrise cinico – e che con tutta probabilità sarò come nuovo, se solo riuscirò a farmi cambiare questa testa. – Ehmm… – Non è che puoi procurarmene qualcuna di ricambio? – continuò a prendermi in giro – Che ne so! Magari ti è avanzata una di quelle capocce giuridiche che conoscono ogni articolo della legge e se ne infischiano di tutto il resto. – Vediamo di accontentarti – stetti allo scherzo. – Di quelle che se vinco la causa – continuò Čarli – da un giorno all’altro divento subito un onorato eroe nazionale, e se la perdo… – Lo so – indovinai il suo pensiero – che in tal caso la responsabilità cada su quei bastardi di testimoni! –Come stai, vecchio mio? – finalmente allargò quella boccaccia in un sorriso. – Che dirti... – risi anch’io, e gli diedi una pacca sulla spalla – gli affari stanno fermi e come vedi mi tocca acchiappare i matti alle stazioni – Meglio di niente, vecchio mio, meglio di niente. – rise di gusto – Non per niente ti chiamano pescecane di un avvocato. Piuttosto, sei pronto a venire con me per fottere la madre a quei bastardi? – Sempre! – risposi seriamente – Ma tu evita di fare il volgare e controllati quel vocabolario! – Ma cosa dici, io che devo stare attento??? – si innervosì – Da quando in quando gridare “al ladro” dietro un rapinatore è diventata un’offesa, e riconoscere pubblicamente che il Paese in cui vivi è una mignotta dovrebbe essere considerato una blasfemia. E tutto ciò solo perché nessuno gli regge la candela mentre si va in giro dove non si deve... Poi sarei io quello che deve sempre trattenersi?! – Ehi, matto – provai a calmarlo – noi due stiamo dalla stessa parte, te lo ricordi, nice and easy, ok? Per prima cosa ammo a casa sua perché salutasse la moglie e i genitori. ammo sotto il bouquet da sposa appeso, e ormai seccato, sopra il cancello; i tre cagnolini abbaiarono finché non gli arrivarono abbastanza vicino per annusarlo; poi lo leccarono e scodinzolarono felici. Si tolse la giacca a vento, la camicia e anche la maglietta; appoggiò i piedi sul tavolo del giardino e chiese un

caffè. Entrò in casa, parlò con sua madre e uscì da lì visibilmente alterato; non era riuscita a consegnare il certificato che attestava il suo soggiorno al fronte. – Dove altrimenti pensano che avrei potuto essere, alle Seychelles forse? – vidi i suoi occhi incendiarsi mentre giocava con le domande retoriche – E così non ti hanno accettato il foglio perché non sono autorizzati a farlo, se ho capito bene! Intanto la signora si avvicinò, portando in mano le tazzine e il piccolo cezve in rame martellato; sorseggiò la bibita e si accese una sigaretta. – Molto bene, davvero molto, molto bene. – Borbottò tra i denti non appena la madre rientrò in casa per non farsi sentire da lei – La portano a eggio come fosse un cane: da casa fino al Comando, dal Comando fino a casa, e così ogni giorno, per farla mantenere in buona forma quando non è già crepata dalla preoccupazione. A malapena mantiene la calma. –Sapientemente si trasferiscono da un luogo a un altro – disse ancora bevendo anche l’ultimo sorso di quel caffè bollente – per coprire tatticamente ogni traccia e non lasciarsi mai trovare, li infilzo su ’sto piffero, e poi voglio vedere come faranno a suonare. Che esaudiscano allora ogni mio desiderio musicale, imbecilli! Un facile pezzo sull’organo gli lascerò interpretare! Poi si alzò e prese il fucile. – È ora di andare, avvocato – annunciò – ma tu guarda di non immischiarti mentre parlo io… Mi servi giusto per non dimostrare la validità di quel vecchio detto, chi vuole fare da difensore a se stesso… – …Di sicuro ha un’idiota per cliente – completai il tanto veritiero, quanto inquietante pensiero. Notai che stava diventando sempre più rosso in faccia; le sue orecchie si erano surriscaldate e strofinava spesso le mani madide di sudore su quella giacca sporca. Camminammo così sotto il sole per tre ore buone; ci mandavano da un posto all’altro; giusto, questo è uno degli edifici del Comando – negli ex asili, scuole, ospedali e uffici postali allestiti alle odierne esigenze, ci sentivamo dire sempre la stessa cosa – ma non quello che fa al caso vostro. Infine lo trovammo, in qualche modo. Con molta fatica, riuscimmo a scovare la loro tana negli appartamenti di una ex cooperativa abbandonata; davanti al cancello un giovanotto faceva da guardia, vestito come fosse appena tornato da una sfilata di moda – berretto rigido e inclinato secondo quanto è disposto nel regolamento uniformi, stivali lucidi, fucile pulito alla perfezione tanto da sembrare nuovo di zecca. – Ma guarda un po’? – Avvertii la pressione che gli saliva verso la gola – E non si vergognano nemmeno un briciolo a essere stirati in questo modo e a indossare le tute mimetiche, addirittura! Facemmo ancora altri due i e lo vidi troppo teso dalla collera che a malapena riusciva a contenere. – Per loro la guerra potrebbe durare un’eternità – andò su tutte le

furie, strillando così forte che anche gli altri lo potessero sentire bene – mentre chi combatte in trincea può anche morire prima di vedersi asciugare quei quattro stracci vecchi, pesanti e inzuppati di sangue e pioggia. Ah compagno, non mollare, una bronchite o un’artrite, that is the question, alzati e prendi ciò che ti spetta di diritto! Poi si girò e si rivolse direttamente a una guardia, maledettamente impeccabile e uguale all’altra – Per favore, mi chiama il Comandante di turno? È urgente! Sono convinto che la sua reazione sarebbe stata assai diversa se il poliziotto militare avesse accolto la sua richiesta. Quest’ultimo, invece, con noncuranza gli rispose che il Comandate dormiva e non intendeva disturbarlo, e io in questa semplice affermazione già cominciavo a intravedere il preludio di un possibile serio problema. – Sveglialo e subito, oppure vuoi che lo faccia io, a te la scelta! – Sentii il mio cliente toccare quel punto di non ritorno che avevo tanto temuto. Proprio in quel momento, uscì fuori dalla stanza il vice; si stiracchiò pian piano e sbadigliandoci in faccia chiese chi fossimo. – Cheee suuucceeede, chi ti ha peeermesso di veniiire qui? Le orecchie di Čarli si fecero immediatamente rosse, come se con un pennello gliele avesse dipinte Picasso di persona – Ah, Cenerentola, sei qui dunque? – disse sbloccando il fucile al quale per guadagnare in velocità con il nastro isolante erano già attaccati due caricatori – Corri subito a chiamare il principale per non ritrovarvi tutti appesi per i coglioni! Com’è che diceva? Se un fucile è appeso al muro nel primo atto, deve sparare prima del terzo… Solo che non imparo mai da Čechov che una storia va iniziata dalla sua seconda pagina. Che ci posso fare, sono solo un avvocato, ed era già tanto se riuscivo ad afferrare tutti i discorsi del mio cliente. In un’altra occasione mi aveva raccontato che in un teatro di Londra, sotto lo stemma reale, vi appare un motto in lingua se: Dieu et mon droit. – Quello lassù è troppo occupato per prendersi cura di ogni cosa! – disse Čarli, chiedendo per la terza volta cosa aspettavano a chiamargli il principale – Chi fa da sé fa per tre! – Non voglio avere niente a che fare con tutto questo – il furbo poliziotto di guardia si sbrigò a levarsi di mezzo. – E non ne avrai se sei abbastanza intelligente – lo rassicurò Čarli per rivolgersi poi al vice – e a te bellezza do giusto il tempo di contare fino a dieci, vediamo se lo sai fare. E unooo, quando mi dovete mandare al macello siete tutti bravi, e dueee, vi attaccate allora peggio delle piattole, e treee, ma quando dovete rimandarmi il fratello a casa, treee e mezzooo, all’improvviso non siete autorizzati, e quattrooo, e cinqueee… – Ma cosa ti prende? – pensava di poterlo calmare quell’altro – Cerchiamo di risolvere? – Prova a indovinare...– Rise istericamente Čarli appoggiandogli il fucile sotto il mento – Hai due

caricatori pieni a disposizione per vincere il primo premio, e seiii, e setteee… – Laaa preeegooo – Si sentì la voce del povero Ufficiale mentre un timido flusso di urina gli scorreva lungo la gamba dei pantaloni. – Ed è anche giusto che inizi a pregarmi! – Strillava Čarli, ora con tutto il fiato, che lo sentiva benissimo anche la gente fuori per strada – Padre nostro, e ottooo… Ripeti, Tu che sei nei cieli, e noveee... con la mia diagnosi non dovrò scontare per te nemmeno un giorno, noveee e mezzooo, e chi non si è nascooostooo – canticchiava con gli occhi rossi, iniettati di sangue – la fiiineee dell’asino farà, e mezzooo, e mezzooo! Non lo so cosa sarebbe successo quel giorno se il Comandante non si fosse deciso a uscire fuori. Forse tutto, forse niente: il più delle volte basta solo una scintilla che la situazione precipiti improvvisamente. – Non lo faccia, dia qua i suoi fogli, dove… Dove devo timbrare? – Chiese agitato. Quel matto del mio cliente teneva ancora il fucile puntato alla testa del vice, bagnato dalla sua stessa urina. – Dove? – gridò l’altro facendo svolazzare il timbro in aria – Dillo! – Qui e anche qui in fondo – con la punta del fucile indicava dove confermare l’avvenuto ricevimento – Ecco, – con la mano che tremava il Comandante gli porse entrambi i fogli – e ora vai, ti prego, vai in pace! – Una copia è sua, – non si lasciò confondere Čarli – protocollatela, mi raccomando, e che non si perda! – Non succederà, stia tranquillo! – In tal caso dovrò ritornare qui e non parleremmo affatto! – Non permetteremo errori! – annuì il Comandante. – Come, prego? – chiese Čarli – Forse non ho sentito bene! – Lo consideri già protocollato – tremava anche l’altro, mettendo un timbro ancora. – Vedo che ora di colpo sei diventato autorizzato – riprese a sbraitare come prima – ma quando ti diverti a far andare avanti e indietro per due mesi e in stato di allerta una povera vecchietta, allora non lo sei! Ecco signori, vi ho riportato esattamente cosa è stato detto durante quell’incontro, perché quando l’argomento principale della discussione diventa un fucile armato non resta molto su cui litigare. Come da voi richiesto, vi ho presentato una panoramica assai chiara, fatti nudi, verità materiale, tutto indubbiamente comprovato! Aveva aggiunto ancora che avrebbe ucciso ed estirpato anche il Dio in loro, se solo si fosse mostrato necessario; li avrebbe fottuti, loro e le loro madri, le sorelle; li avrebbe pestati come la merda secca, schiacciati, e in seguito avrebbe sopportato volentieri persino la meritata reclusione; li avrebbe ammazzati come dei polli, macellati, tritati, sminuzzati in pezzi piccoli, piccolissimi, uno dietro l’altro, proprio lì, alla portata di tutti e senza nascondersi, in bella vista di coloro che un simile orrore non se lo possono

nemmeno immaginare… Quante ne ha dette di insolenze, volgarità, offese: una persona normale o quasi non le può ricordare tutte. Eh già, persino la richiesta per far tornare anche gli altri uomini della sua ditta avrebbe presentato, un giorno o l’altro, ma vi avviso che la nostra ora sta per scadere, e che sarebbe bene finire qui questo colloquio. – Invece di ritrovarmi come Ulisse legato all’albero maestro della nave – mi disse ancora Čarli troppo eccitato sulla strada di casa, mentre dagli altoparlanti delle fabbriche fallite da tempo giungeva a noi un segnale di allarme squallido e triste – così da non poter sentire il seducente richiamo delle sirene, sono incatenato alla mia diagnosi, che ugualmente mi fa tappare le orecchie per non provare la nausea dovuta al loro suono insopportabile! Poi camminammo in silenzio fino a casa sua. Si muoveva con aria decisa, con lo sguardo abbassato verso terra, oppure innalzato a tratti in una muta preghiera al cielo. Aveva mandato giù un pugno intero di calmanti. – Mi sono stati prescritti in ospedale – diceva – sembra quasi che in mezzo a tutto questo casino, l’unico folle sia solo io! Vidi di nuovo grandi gocce di sudore riempirgli la fronte, ma lui non se le asciugò. Faceva finta di niente. – Non importa – aggiunse – come ho sempre fatto, me la caverò anche questa volta. Io…

Tre personaggi in cerca d’autore

Aspetta… Ma cosa avete capito? Non mi sono trovato lì ad aspettare anch’io in quel corridoio perché non avevo niente di meglio da fare. Una sciocchezza, dovevo consegnare solo il certificato della dimissione dall’ospedale, certo, della mia, di chi altri sennò, e con queste due formidabili stampelle che porto a so e un Comando introvabile – che ti fa bubù-settete, ti do un bel bacino se scopri dove sto oggi – potete immaginarvi la facilità della mia impresa. E poi è arrivato lui: grande, grosso e con un parlare conciso, persuadente e poetico allo stesso tempo. Una vera musica per le mie orecchie, abituate a sentirsi dire – No, deve tornare domani. È stato anche peggio di quanto vedo che avete scritto nei vostri appunti; urlava che li avrebbe spellati vivi e appesi per i coglioni lungo tutto il percorso che ogni giorno avevano costretto a fare a sua madre per andare a cercarli in quegli ultimi due mesi e a. Ma poi per cosa? Un merdoso pezzo di carta. In effetti lo capivo, eccome se lo capivo, tanto che quando quello baffuto iniziò a mettere i timbri, mi sono precipitato avanti pure io con il mio foglio in mano. Un altro uomo rispetto a prima, ve lo giuro. Non mi aveva chiesto niente, timbrava e basta. Piegai la ricevuta in quattro e la misi in tasca meravigliato; quando si vuole, tutto si fa. Rimasi fermo giusto un istante e poi mi affrettai a raggiungere quei due, troppo veloci per i miei gusti. Ma nemmeno io sono da buttare ancora via… Il resto lo conoscevo già, ma vedere come sarebbe andata a finire la storia di quell’uomo era ciò che ormai più mi incuriosiva, ed è per questo che l’ho seguito fino a casa sua. Poteva sempre diventare un bel dramma di un atto solo, la mia ambizione, è vero. Ci ho messo ore a scriverlo, insoddisfatto adesso del ritmo della frase e un momento dopo della scelta di una singola parola. Se volete premiarmi, anche un modesto parere da completi estranei non guasta mai. Sapete com’è, gli amici sono sempre pronti a dirti “quanto sei bravo”... Criterio ci vuole però, sincerità e franchezza. Leggete magari una parte, dividetevi i ruoli, ad alta voce per piacere, iniziate pure, sono qui per correggervi…

TRE PERSONAGGI Padre, un professore in pensione Madre, un ingegnere in pensione Loro figlio e neo padre, un medico veterinario in uniforme (Un tavolo, quattro sedie e uno zaino militare in mezzo alla scena. Su una delle pareti, in bella vista, un paesaggio della pittrice Zlata Horvatović, la zia paterna, che risale all’ormai lontano anno 1927. Un’altra delle pareti è arredata con lo stemma della famiglia De Bona, da cui proviene la nonna paterna, Persida Bunić, sorella di Simo Bunić e figlia di Jovan Bunić. Sulla credenza brilla il coltello per tagliare le mele, con manico in vero avorio, proprietà di Đuro Horvatović, uno degli illustri avi. Sopra la porta è appesa una mappa su cui sono disegnati tutti i villaggi che una volta appartennero a Stojan Mladenović, settanta in mezzadria e diciassette di proprietà, pagati in oro puro a Šašit-pascià che si trasferisce a Vidin, mentre il tesoro e la famiglia li sistema in Albania. Sul comò, un portacenere d’argento, ereditato dai bey, signori, Tanović di Gacko in Erzegovina. Sul tavolo, piatti, bicchieri e le posate. È il momento del pranzo). Padre: Eccolo. Arriva. Madre: Perché hai tardato così tanto? Nemmeno tu sei riuscito a trovarli, vero? Non mi ascolti quando ti parlo… Loro figlio e neo padre: Come sarebbe a dire che non ti ascolto? la madre si alza e gli si avvicina in attesa di una sua spiegazione Loro figlio e neo padre: Va bene, entro. Innanzitutto, naturalmente, buongiorno a tutti. Non sarà mica questo che pensi io abbia dimenticato d’osservare durante la guerra? La situazione può diventare difficile quanto ti pare, ma una cosa resta certa. Le principali norme del comportamento non vanno dimenticate. Dillo tu padre, non è vero forse… il figlio sorride e strizza l’occhio al padre Madre: Non prendermi in giro, dimmi piuttosto come realmente stanno le cose. Sei riuscito a trovarli? Ce l’hai fatta a consegnare la richiesta perché liberino

tuo fratello? Padre: Quante domande fai santa donna, lascialo stare, che ce lo racconta in pace… Pausa! Riposatevi un attimo, nessuno vi corre dietro. Mi avete promesso, tra l’altro, che avreste ascoltato le cose che ho da raccontarvi per conto mio. La chiamata l’ho ricevuta il giorno di Pasqua, una domenica dunque; risposi subito e ricevetti il fucile in consegna. Ci fecero ritornare tutti a casa e rimandarono l’appuntamento all’indomani. Solo che questo loro indomani durò fino al giovedì successivo; fummo obbligati a presentarci all’appello ogni mattina, e dopo un’intera giornata di attesa, la sera venivamo rilasciati di nuovo. Mancava tutto: la gente, gli autobus, i camion. Soltanto la grappa scorreva a volontà. Sembravano essersi dimenticati di noi, e forse non ci avrebbero mai spedito da nessunissima parte, se un ubriaco perso non avesse puntato il fucile contro un Tenente. – I miei campi non sono arati, – starnazzava il ciucco, grattando con il mirino il collo dell’Ufficiale – le mie bestie soffrono la fame. Ci penserai tu a sfamare i miei figli? Te li fotto i gradi che porti, lo sai? La polizia militare una volta tanto agì prontamente e tolse il disturbo. – Fotto ogni singola cosa che vi appartiene! – Non la smetteva di strillare lo sconosciuto mentre lo trascinavano via a forza – Dov’è che vi siete nascosti ora? Quando la guerra è scoppiata, sotto le gonne delle vostre mogli siete andati a finire, miserabili! E fu così, dopo quell’episodio, che all’improvviso trovarono tutto: i camion funzionanti e anche la benzina. Prima ci portarono in un villaggio senza anima viva, solo agnellini, mucche, polli e galline che razzolavano in libertà. Non rideteci su, perché la vita può essere assai difficoltosa quando coscia, polpa o cosciotto, diventano un dilemma maggiore! Bevi, mangi e ti addormenti proprio lì dove ti sei abbassato sino a toccare terra, ignaro di ciò che temi, fortunato di essere ancora vivo. E così, giorno dopo giorno, per un tempo infinito, finché non venne quello stesso Tenente ad avvisarci che avevamo sbagliato villaggio. Un piccolo errore nel calcolo della distanza topografica sulla cartina, niente di grave al momento. Salimmo di nuovo sui camion, altri chilometri da percorrere, un altro villaggio con le case abbandonate simile al primo, stalle e recinti. Quando la fame si fa tanta, ogni tozzo di pane è benvenuto. Poi un elettricista ebbe il lampo di genio; smontò i motori di tutte le lavatrici e i motorini dei tergicristalli di tutte le macchine abbandonate, per far entrare anche noi in un’era moderna senza dover girare più lo spiedo a mano. Troppa fatica sprecata, credetemi sulla parola. Vi va di leggere solo un altro po’? Se vi è più comodo, potete anche invertire i

ruoli. No, quei tre personaggi dentro la casa non si sono mai accorti della mia presenza, né della mia faccia che, spaventosa, si è appoggiata alla loro finestra. Sì, per vedere e sentire meglio, finché i loro gesti e le espressioni facciali non mi sono apparsi chiarissimi in ogni dettaglio. Loro figlio e neo padre: Ho detto loro: “buongiorno, buona gente”. Mi hanno risposto alla stessa maniera: “buongiorno, uomo valoroso!” Madre: Se quelli lassù non ti hanno ucciso finora, lo faccio io… Almeno io ti ho fatto nascere. Parla, ma seriamente! Loro figlio e neo padre: Vi sto chiedendo gentilmente, e alla richiesta si uniscono anche la mamma e il papà, di ridarmi mio fratello dalla guerra… Sono stato anch’io lì, e poi mi hanno dimesso… Come mai – gli interessa sapere… mi hanno trovato un po’ scollato, il cielo nuvoloso mi ha fatto perdere la tramontana e così… Se siete d’accordo, non insisto… Uno è diventato pazzo, sarebbe pur giusto far tornare l’altro vivo e vegeto. Che ne dite voi, Signori miei? Madre: Che cosa possiamo pensare noi? Loro figlio e neo padre: L’avevo chiesto a loro, non a voi. Padre: E cosa ti hanno detto? Loro figlio e neo padre: Volevano sapere perché non mi ero presentato prima. Sono stato leggermente occupato, scusatemi. Avreste potuto mandare qualcun altro – gridavano all’unisono, mentre uno versava il grappino e l’altro arrivava con il caffè già pronto. Chiunque… Madre: Come sarebbe a dire qualcuno? Sono due mesi che giro tutti i distretti, Quartier Generale, posti di comando… Mi aggiro come uno spettro di qualche cagna sorda per trovarli! Come si permettono di dire “qualcuno”? La grappa aveva fatto pagare il suo prezzo; quei pochi sobri sono corsi a dormire in tempo, ed ero rimasto l’unico ad ascoltare le chiacchiere degli ubriachi pazzi. Infine dovettero trovare qualcuno in grado di fare la guardia, e quando ti dice iella ti dice proprio iella. Il peggior orario, dalle dieci di sera fino a mezzanotte, era toccato a me, insieme a uno della mia stessa classe. Notte più buia non si era mai vista prima, illuminata giusto da poche e imbarazzate stelle; spezzata dai soliti rombi di aerei, alcuni latrati lontani, il ruggito di giovani vitelli spaventati che non la smettevano di smaniare a ogni minimo sussulto, il muggito delle

mucche quasi sopraffatto dal russare di tutte quelle puzzolenti bocche aperte. Verso le dieci e mezza sento un rumore strano dietro la casa. Vado a vedere cosa succede e mi sorprende uno sparo; qualche istante dopo qualcosa mi sposta il sedere: guardo il pezzo della mia carne strappato da un proiettile e solo a quel punto capisco che qualche fottutissimo ubriaco dalla casa di fronte mi ha sparato addosso. Saltellando, provo a raggiungere il nostro ingresso, col rischio di rimanere ucciso come un ero dai miei stessi compagni, che con le raffiche perforarono tutte le finestre. – Sonooo iooo, – strillo – ceeessateee il fuoco! – E quaaaleee iooo inteeendiii? – mi chiede quel grandissimo idiota di conducente, inserendo un nuovo caricatore – La guaaardiaaa! – urlo a squarciagola – Parola d’ordine sbagliata! – si intromette pure il Tenente ubriaco fradicio, accogliendomi con una bella raffica appena sopra la mia testa. – Va bene… Va bene un cazzo, Belgrado Bosut – Mi venne in mente di dire, guardando come intanto quel rosso appiccicaticcio inondava tutta la gamba – Smettetela idioti, sono ferito sul serio! Durò poi un’eternità quel loro lento aprire la porta, quel saltar fuori dalle finestre e circondarmi; con la scia di sangue che si fece intanto sempre più lunga e spaventosa, creando una piccola pozza ai miei piedi. – Alzati cretino – gridai al primo che mi raggiunse a carponi – sono la vostra guardia, guardia, guaaaardiaaaaa, fottutissimi bastaaardiii! Meglio tardi che mai; capirono finalmente che ero uno di loro. Seguì una quasi accurata pulizia della ferita, il bendaggio e l’arrivo del pinzgauer mezz’ora dopo. Arrivammo di corsa all’ospedale da campo, mi iniettarono morfina e diedero istruzioni all’infermiere di drogarmi… La vita sa essere anche bella, a volte. Vedo che siete di nuovo pronti per la recita, mi fa piacere. Lei si può spostare un po’ più di lato, per favore? Così va meglio, perfetto. Tenete presente che nel corso della prossima scena avevo dovuto abbassarmi di più sotto quella finestra per non farmi scoprire dalla madre. A dire il vero, ora che ci ripenso la signora fu così felice che non avrebbe notato nemmeno un elefante, figuriamoci me con il muso premuto contro il vetro. Loro figlio e neo padre: Certo, ho chiesto spiegazioni in merito. Mi dissero di porgere le loro più sentite scuse per una così grave svista involontaria… Madre: E ora mi stai spudoratamente mentendo, stai esagerando. (Finge di essere arrabbiata con il figlio, ma in realtà brilla di gioia) Dimmi, veramente,

sei riuscito a consegnare? Loro figlio e neo padre: Ecco, tieni la mia copia timbrata se non mi credi. Madre: Davvero, un timbro! E lui, dunque, potrà tornare a casa… (prende il foglio ed esce) Padre: E adesso, voglio sentirti. Veloce, prima che lei rientra. Loro figlio e neo padre: È meglio che tu non lo sappia. Padre: Bene. Se lo ritieni opportuno. Loro figlio e neo padre: Sai che ti dico, babbo, che si fotta lo Stato dove ai sani tocca essere salvati dai matti. il padre tace, a testa china Loro figlio e neo padre: Che si fotta… Che ne dite del finale? La prima operazione la ebbi subito lì, a Gnjilan, e poi una seconda a Niš; mi tolsero della pelle dalla coscia per tappare quel grosso buco sulla chiappa. A ferita richiusa, ebbi il permesso di uscire dall’ospedale, fui assolto da ulteriori obblighi militari e mandato negli uffici del Comando per consegnare la documentazione relativa al mio definitivo congedo. Una volta tornato a casa, ben tre volte vennero quelli della polizia militare per arrestarmi; mancavano loro prove concrete che avessi risposto alla chiamata alle armi. – E questo cosa sarebbe allora – strillai spazientito, picchiandoli a un certo punto con le stampelle – siamo tutti d’accordo che un cervello non ve l’hanno fornito, ma non ditemi che oltretutto siete pure ciechi! E così, più il tempo a e più ti accorgi che è inutile andare alla ricerca di una buona storia, perché prima o poi è lei che ti viene a trovare… Altri casi dite? A volontà; ogni notte la gente si sparava a vicenda. E quando il fuoco incrociato cessava, tutti insieme si scagliavano allora contro l’edificio del Comando, perché qualcosa bisognava pur fare, chissà, per affrontare meglio l’ansia e far are i bruciori di stomaco forse. Sono queste le cose serie, miei signori! E non di certo quella sdolcinata messa in scena – si papà, dimmi mammina – alla quale ho assistito appoggiandomi al muro della loro casa. Mi ero convinto, ormai – allontanandomi furtivamente perché non si

accorgessero della mia presenza – che davvero ogni famiglia felice assomiglia solo a se stessa, al di là di quante facce diverse possa indossare la felicità.

Le relazioni pericolose

Pronto, mi sente? Sì, questo è il suo numero di telefono, ma al momento Čarli non è in casa, spiacente. Può sempre chiamarlo al cellulare, per quanto lo troverà probabilmente spento. Lo fa sempre mentre guida, dice – siamo già in troppi nella macchina, lui e i suoi vari io, un’occasione perfetta per fare due chiacchiere da soli. Sì, ha dato un aggio ad alcune persone, di aspetto piuttosto strano direi, tre uomini e una donna. Sì, sì, è lui alla guida, proprio ieri ha riavuto la patente ed è subito partito per la Grecia; giusto, da solo. Non mi sente bene, oppure… sa, la Batteria su questi moderni aggeggi spesso ti pianta in asso quando più ti serve. a intere notti attaccato a internet, cerca qualcosa su saldatura, assemblaggio separabile e inseparabile, fa preoccupare anche me, ma è anche uno che non si lascia fermare da niente e nessuno quando si mette in testa qualcosa. Per quale rivista mi ha detto che sta chiamando? Ahhh, ce l’ho ben presente, se posso esserle d’aiuto in qualche modo... Questo è il punto – aveva detto – occorre riscaldare le parti per ammorbidirle, l’uso di una certa pressione, hanno provato a saldarle, a ingannarci anche... Mi dica pure, ahhh, le interessa solo quella situazione in particolare. Nessun problema, ero presente; quel giorno i nostri avevano esposto alcuni modelli all’aeroporto sportivo, quelli da lassù iniziarono a colpirli, l’intera città tremava dalle detonazioni. Dunque volete sapere ciò che è accaduto in precedenza? Ripeteva costantemente che è necessario preparare le superfici interessate, frastagliate e non perfettamente pulite, ahhh, ora capisco, quello prima del rilascio. Era appena tornato a casa dall’Istituto di Sanità Militare, aveva consegnato domanda perché rilasciassero mio cognato, quando è salito qui nell’appartamento era tutto sudato e rosso in faccia; – sa, noi abitiamo al primo piano, il cognato al pianterreno – allora all’improvviso ebbe inizio l’attacco, gli infissi parvero saltare fuori dal muro, i vetri tintinnavano maligni. La nostra stanza è piccola, non sapeva dove mettere al riparo la culla, quel grosso armadio che quando imbianchiamo ci vogliono tre uomini per spostarlo, legno massello sa, l’ha tirato con una mano sola per coprire la finestra... Aveva detto – so io quale porcheria è in grado di combinare il vetro, come se non fossi già saturo di una miriade di cazzate, mi mancate soltanto voi lassù, flying big shit, eh, avete fatto i conti senza l’oste, la madre ve la inculo bastardi! – Così parlò Čarli a se stesso durante il bombardamento, a me

aveva detto invece di mettermi seduta lì, dietro quell’armadio, e di non muovermi. Là c’è anche una mensola per i libri e si mise a dialogare con lei, anche tu sei stata saldata da qualcuno – le sussurrava accarezzando piano con le dita i suoi perfetti giunti di metallo – cara amica mia, ma almeno lo sai quel che ti porti dentro, beata te, dimmi, il riscaldamento è stato sufficiente oppure hanno dovuto esercitare anche la pressione? – Con empatia si rivolge ora alle sue staffe metalliche – Ti hanno causato cambiamenti nella microstruttura del materiale di base? Čarli, – cerco di attirare la sua attenzione – la bambina, credo che anche a te hanno deteriorato con le fiamme le proprietà meccaniche e causato deformazioni plastiche, Čarli! – Urlo forte, e lui allora fa un sobbalzo improvviso, come se si fosse appena svegliato da un sogno. La ferita del cesareo in quell’istante si fece sentire, e mi appoggiai perciò sul letto: anch’io ero appena tornata dall’ospedale, lui si chinò sopra la bambina e la coprì col suo corpo, per ogni eventualità, mi dice – Ascolta questa meraviglia, respira regolarmente come se qui non stesse succedendo niente, la piccola grande amazzone di papà, almeno nessuno verrà mai a chiamarla in guerra, mi fa cenno di avvicinarmi – Vieni a vedere come sospira e gira la sua testolina verso di me. Io invece non ci riesco a muovermi senza far sanguinare di nuovo la ferita, non glielo voglio dire, non è nulla di grave, mi sono abituata lì in quella cantina, si fermerà da sola. Lui non la smette di sussurrarle – Le intelligenze migliori si riconoscono a vista, non è forse vero figliuola?, dì a tuo papà vaaar, così, brava. Una giuntura che regge è alla base di tutto, io, dal canto mio, mi rigiro dall’altra parte, mi trattengo, non voglio scoppiare in lacrime, ma nemmeno posso guardarlo in faccia: non è più lo stesso uomo, mi pervade la voglia di fuggirgli lontano e lui lo avverte, mi tira indietro e con una mano mi stringe a sé. Vieni – dice – e non avere paura, dammi solo un po’ di tempo, non preoccuparti, perfino la morte mi ha lasciato perdere quando mi ha visto così matto, mi abbraccia e bisbiglia pianissimo – già da ora sento d’innamorarmi di questa briciolina che si muove, e lo so che tutto quello che è accaduto devo dimenticarlo, per il nostro bene, per il bene di lei, non può più esserci alcuna tensione residua in questo composto forzato, non ce l’hanno fatta ad annullare la mia resistenza allo strappo, posso allungarmi ancora, sono vigorose le mie forze a prova di trazione, fino a quando uno lo deve fare, bisogna vivere così come un giorno si dovrà pur morire, uvaaar, zavaaar, vaaar – grida e cammina avanti e indietro per la stanza mentre mi raggomitolo sempre di più sul letto – Saldatura, so benissimo dove trovarli, tutti loro, saldatura, vagavo inutilmente, non hanno mai smesso di stare esattamente qui, attorno a me, non sono mai andati via, apertura e chiusura, se non verranno loro a cercarmi mi salverò da solo, mi ritroverò, finzione e scioglimento, siamo vivi, attaccatevi a ’sto cazzo, ancora solido e duro, vi infilzo tutti. Pronto, mi sente, prooonto, io la

sento male, proooonto…

GIOVANNI

Non mi rimasero più molte cose da portare a termine: giusto rammendare quella vecchia rete da pesca, corrosa dal sale e dal tempo – avuta in eredità da Zebedeo, mio padre – e con l’aiuto del fuoco trasformare queste piastre di ferro in una bara di metallo, con i bordi così ermeticamente saldati da non permettere più né all’aria né alla luce di disturbare quel sereno buio della sua interiorità. È stata la pesca ad allevarci nella nativa Betseida; mio padre, mia madre Salomè, io e mio fratello Giacomo, detto il Maggiore, fummo salvati da una per niente rara malattia mortale, più comunemente chiamata fame, da abbondanti retate – nelle lunghe notti rischiarate soltanto da un debole chiaro di luna – nel lago Genezareth. Una noiosa levigatura delle superfici, destinate a fondersi finalmente fino a diventare una cosa sola, l’eterna sporcizia che sempre compromette la purità della giuntura, le inevitabili fessure che pregiudicano la sicurezza di quel composto forzato; non avrei mai pensato di occuparmi di saldatura – almeno non fino a oggi. Innanzitutto ho buttato via ogni cosa che possa ricordare in qualche modo l’ultimo pellegrinaggio: corde di lino ancora con tracce di sabbia, utilizzate per far calare i morti giù nella tomba, insieme a ceppi di elettrodi usurati; camici bianchi, sandali polverosi e bastoni da pastore, toghe e camicie diventate solo mucchi di cenci sporchi, messe insieme agli stivali, giacche a vento e lunghi mutandoni; calici da vino, brocche per l’acqua, ciotole per i fichi e le olive soltanto infilate nei sacchetti insozzati con le ciotole da pranzo e una borraccia – sparsi, ma indubbi segni dei nuovi tempi. Infine, mi sono liberato anche sia del calcio di fucile che della pala per scavare, del martello, della pialla e del pialletto, e anche dei cunei di legno; per salvare questo mondo può bastare un solo falegname. Lo so per certo perché sono uno di quelli presenti con Lui quando sul monte Tabor fece risorgere la figlia di Giairo, uno degli unici tre a cui aveva permesso di accompagnarLo all’oliveto del Getsemani, la notte prima della sciagura; durante l’Ultima cena sono stato quello sedutoGli accanto e fui anche il primo apostolo che seppe riconoscere il tradimento di Giuda; soltanto io Gli rimasi vicino sino alla fine estrema, mentre gli altri fuggirono presi dalla paura, per condividere fino al consummatum est la Sua sorte e il Suo stesso dolore. È a me, un Boanèrghes, che affidò il compito di occuparmi di Sua madre; ed è così che uno dei “Figli del tuono” si prese cura della Madre di Dio per tutta la vita, e predicò la sua devozione per le strade arroventate che, intersecandosi, uniscono

Giudea, Samaria e Palestina. “La saldatura può essere effettuata fondendo semplicemente il metallo base di ogni giunto da saldare, aggiungendo o meno anche le altre componenti” – Leggo mentre cerco di affinare quegli irregolari bordi delle lamine di metallo. Cosa ci fa poi una saldatura sul sarcofago di Matteo o sulle finestre di Marco nel suo ingenuo tentativo di isolarsi da questa nostra società, cominciai a chiedermi meravigliato. E perché mai Maria continua a guardare sia le saldature sulle casse che sulla catena con cui il cappio metallico di Luca è stato attaccato al gancio sull’ulivo? Cosa potrebbe essere, se non la fiamma della ione che brucia dietro a ogni idea? E quando già non è stata lei a scagliarsi contro i suoi bersagli, come mai, allora, le vittime stesse decisero di offrirsi ugualmente al suo sacrificio? “La saldatura può essere fatta anche operando sotto un’opportuna pressione; si procede al riscaldamento delle parti da unire, per agire poi con la pressione oppure con il martellamento” – Continuai ad assorbire ogni parola da quella pergamena che gli ospiti inaspettati, e curiosi di leggere l’originaria stesura dell’Apocalisse, mi portarono generosamente qui sulla costa di Patmo. Il martello troppo pesante tra le braccia del destino e, ancora più greve, l’incudine delle mie debolezze – con difficoltà compitavo un manoscritto di qualcuno di loro. E non provateci nemmeno a pensare che l’abbia scelto io, di soggiornare da queste parti; fu soltanto la superstizione di Domiziano quella che gli impedì – dopo quel mancato tentativo di uccidermi con un calice di vino avvelenato – di risolvere il problema una volta per tutte usando la spada, abbandonandomi invece alla vita in esilio, buia e amara. Per lasciarmi marcire in questo silenzio minaccioso, stringendo di tanto in tanto amicizia solo con qualche ragno, scorpione e serpenti velenosi; proprio qui, per fare muta compagnia ai corvi che gracchiano rochi – io, con un’aquila sul petto; qui vi dico, tra queste spaventose creature tarlate e mezze morte che afflitte da peste, lebbra e sifilide si tengono costantemente il più lontano possibile dalla luce diretta del sole. Una sola cosa l’Imperatore romano non poteva prevedere: essendo io discendente di un coraggioso pescatore, i cui figli non hanno mai dovuto patire la fame, in alcun caso avrei disonorato il suo nome. Al fuoco basso che ho si stanno cuocendo ora degli esemplari meravigliosi, catturati nel corso della notte appena ata, e li giro rapidamente

perché non si disperda in essi il sapore dei mari; una salsa, a base di succo di limone e olio di oliva è già stata preparata e messa da parte, in attesa di poter accarezzare il palato dei nuovi arrivati, irritato da sabbia, polvere della strada e vento. “Con la fusione del materiale di base e quello di riempimento si intende realizzare un’omogenea massa di cucitura, che dev’essere più forte ancora del materiale di partenza...” – Sfrutto quest’ultima opportunità di lettura qualche istante prima di svegliare i miei ospiti – “...Con il raffreddamento un giunto si irrobustisce”. Per ogni cosa ci vuole il giusto tempo. – Dico completando la lavorazione dei bordi di una delle lastre di metallo, mentre quei cinque portatori di buone notizie con gusto finiscono i resti del loro pasto – La saggezza non è altro che una pergamena, sulla quale le pieghe delle cicatrici impediscono che venga creato il regno delle illusioni. Persino dei tempi torbidi e difficili possono servire a qualcosa – dico raccogliendo tutte le pergamene in un unico mucchio, per stropicciarle poi nervosamente sotto i loro stupefatti sguardi. Più velocemente vi dimenticate di tutto quanto e prima la vita per voi potrà ricominciare – bisbiglio avvicinando la fiamma alle lastre che ben presto verranno misteriosamente trasformate in una pesante cassa; uno spazio freddo in cui ci sarà per sempre l’oscurità a regnare è un luogo pressappoco perfetto per seppellire le nostre esperienze – un nome così innocuo che siamo propensi a donare alla somma di tutti i nostri errori. Lo so, staremo qui ad attendere pazientemente l’arrivo dei venti mattutini, che scendono potenti dalle colline di Patmo per freddare questi nostri caldi composti. Lo so, – dico a voce alta innalzando entrambe le mani verso il cielo – è giunta l’ora di congedarci dal sarcofago in cui seppellire i milioni dei nostri sia immaginati che reali ricordi. Poi saremo tutti quanti insieme – attraverso le sabbie della speranza e il terriccio pieno di dubbi – a seppellire questo peso immenso che ci grava sulle spalle. Profondamente, mio Signore!

Collana “Èchos” - ultimi titoli

41.C. Sara, Il seme del dubbio 42.G. Inverardi, Gelem, Gelem 43.A. Forno, E tornarono le stelle 44.N. D’Attoma, Rio 45.L. Khalil, Piani di fuga 46.P. D’Alessandro, Viaggio nelle cattive abitudini 47.F. Grasso, La moglie di Dio 48.G. Pitaro, Benzine 49.S. Stojanović, Var 50.S. Borzumato, Spazi di crescita inversa Per consultare il nostro catalogo visita il sito: www.edizioniensemble.it

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