UN PUGNO DI TERRA
By Alfonso Mormile
SMASHWORDS EDITION
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PUBLISHED BY: Alfonso Mormile in Smachwords Edition
The Mating Copyright © 2013 by Alfonso Mormile
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Questo libro è un'opera di fantasia e ogni riferimento a persone, vivi o morti, eventi o luoghi è puramente casuale. I personaggi sono produzioni della fantasia
dell'autore.
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Un Pugno di Terra
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Capitolo unico
Era il 1966 l’anno in cui nacque mio fratello, al festival cantavano “Dio come ti amo” ed io ad agosto avrei compiuto sette anni.
All’ospedale non c’ero mai stato, i bambini nascevano in casa, tra donne impazienti e attese interminabili, dove si aspettava il primo vagito per gridare: – E’ sano, è un maschietto!
Quel luogo non mi era piaciuto, troppa gente in giro, troppi camici che ricordavano le maestre dell’asilo, troppo bianco versato su quei muri anonimi, candore che non riusciva a rendere il senso della pulizia se provavo a confrontarlo con il pavimento annerito dal tempo e dall’incuria.
Mio padre si era vestito a festa e aveva cercato di vestire anche me come nei giorni di domenica.
“Andiamo a vedere il fratellino, sei contento?”
“ Si”, risposi per niente sicuro dell’affermazione.
Entrammo nella camera affollata.
Nel letto, insieme alla mamma, un fagottino bianco, un bozzolo da cui sembrava voler fuoriuscire, da un momento all’altro, un bruco pronto a fagocitare succose foglie di gelso.
Fui colpito dai sorrisi dei parenti, ricordo solo quelli, non ho trattenuto nella mente un solo viso. Solo quel letto era il centro della mia inquietudine.
“Su, Tonino, dagli un bacio”.
Mi avvicinai più per soddisfare la richiesta di mio padre che per un mio desiderio.
Mi ritrassi più volte mentre tutti mi incitavano a baciarlo, finchè mio padre sorridendo disse ai presenti:
“ E’ emozionato”.
Gli diedi ragione con un cenno della testa, anche se in cuor mio sapevo che non corrispondeva alla verità. Come avrei potuto dire che provavo ribrezzo per quella puzza di latte andato a male che veniva fuori da quel mostricciattolo che aveva appena finito di succhiare il seno di mia mamma?
Eppure ero contento, anche se quell’arrivo lo avevo immaginato diverso. Mi ero chiesto perché, come la befana, anche della cicogna ci è negata la visione? Perché chi ci rende felici per un attimo sfugge per sempre alla nostra comprensione e alla nostra percezione?
Erano domande che non feci subito, non era il caso, nè il luogo adatto. Ci sarebbero stati momenti in cui a tutte le domande sarebbe stata data la risposta, nel tempo giusto e nel luogo giusto.
Povera ma fiera gente, avrebbe detto mio padre.
“Il bene e la salute prima di tutto”.
Ma nemmeno lui pareva crederci tanto quando mamma Giovanna non riusciva a mettere un piatto decente a tavola.
Lei, la mamma, pareva felice di quello che aveva. Più di ogni cosa le interessava che il marito l’amasse o, almeno, la rispettasse come moglie e madre dei suoi figli.
Io ero in un mondo da scoprire. Meraviglie celate negli occhi grandi e scuri, con il mio corpo che pareva fe a gara con la leggerezza delle piume che il vento portava via alle galline del pollaio di mia zia.
Adesso però c’era lui, un batuffolo di tenerezza troppo piccolo e bisognoso di cure attente per non suscitare invidia.
Imparai presto a volergli bene, fin da quando pretese la mia culla che io gliela cedetti volentieri per conquistare un posto nel primo vero letto della mia vita.
In quel letto imparai a sognare, in quel letto sperai che la vita fe meno paura del buio, che avesse meno finestre nel vuoto di quella stanza, che i mostri che abitano la notte non appartenessero alla vita. La notte è come la morte, il sole chiude gli occhi ed il buio si impadronisce dell’esistenza.
“Il sole non dovrebbe mai chiudere gli occhi”.
“Il sole non ha occhi”, disse la mamma senza guardarmi mentre asciugava il latte che colava dalla bocca di Salvio.
Crollò un’altra illusione, un’altra fantasia fu lasciata alle mie spalle e non fu la prima.
Nei giorni che seguirono facemmo incetta di zucchero, caffè e fette di carne.
Cosa ne fa un neonato di caffè e carne affettata davvero non me lo riuscivo a spiegare.
Cappellini a forma di cuffiette e vestitini che si abbottonavano sulle spalle, la mamma ne aveva preparato in abbondanza durante l’attesa, come quel cesto che avrebbe dovuto servire alla cicogna e che qualche mese dopo scoprii che conteneva confetti legati a mazzetti in fazzoletti di merletto.
Mangiava da far schifo, quel frugoletto dal pianto squillante. I seni della mamma erano ormai devastati dalle piaghe procurate dall’immane bisogno di cibo.
“Non c’è altra soluzione, ha troppa fame, dobbiamo iniziare lo svezzamento. Disse il medico con un sorriso tra le labbra e tremila lire in una mano”.
Prima che venisse al mondo lui, la notte era il luogo della solitudine. La culla, con le sue sponde alte, una prigione da cui era impossibile scappare quando mostri terribili venivano a svegliarmi di soprassalto.
Bum!
Aprivo gli occhi all’improvviso, cercando di scorgere quali presenze disturbassero il mio sonno fino a renderlo una sconfinata fonte di inquietudini.
Richiudevo gli occhi e…
Bum! Bum!
Sembravano agitarsi ancora di più se pretendevo la mia razione di riposo.
Nemmeno la mamma ed il papà sembravano più esistere, solo oscure presenze e voci senza volto. Esistenze eteree che appartenevano alla mia fantasia, generate dalla paura di vederle comparire da un momento all’altro da quel finestrone troppo alto per poterci arrivare e guardare il mondo dall’altra parte.
Qualche anno dopo avrei provato a fare il giro del palazzo per cercare di capire dove affacciasse quella finestra, quali segreti potesse contenere un mondo che puoi solo immaginare. Allora no, dovevo accontentarmi dei mostri che si affacciavano da essa e, senza chiedermi il permesso, abitavano il buio.
Così trascorrevano le notti insonni dei miei primi anni di vita, i mostri sarebbero spariti, l’insonnia mi avrebbe fatto scoprire parti nascoste di me e sarebbe restata mia compagna per sempre.
Solo la presenza del nuovo arrivato era riuscita a far fuggire le inquietanti presenze notturne, il suo pianto, il suo sorriso immaginato mentre dormiva, il visino dolce come quello degli angeli nel quadro sul letto dei miei genitori.
Lo amavo già, divenne il mio compagno di giochi prima ancora che cominciasse a camminare.
Lui, pareva che percepisse le strane presenze che circondavano la mia esistenza.
La mamma riversava su entrambi lo stesso amore, sono certo. Eppure a me ne arrivava in quantità inferiore, come se una parte si disperdesse prima di giungermi. Nel mio immaginario erano quelle presenze a prelevarne una porzione per farmi credere che mi amasse di meno, magari per farmi odiare mio fratello.
Mia nonna, lei si che sapeva come si trattano i mocciosi! Un suo sguardo era capace di paralizzarmi per ore, fiaccava la mia volontà come un getto d’acqua che spegne il fuoco.
Quando la guardavo, il suo viso rugoso e le escrescenze sulla guancia destra, la facevano assomigliare a quelle patate dimenticate dalla mamma in un cassetto.
Chissà se è prassi comune abbandonare le cose vecchie e dimenticarle. Anche per questa domanda non avevo risposta, ma so per certo che la mamma avrebbe voluto dimenticare la nonna come faceva con le patate.
Dopo quattro anni il nonno morì e nonna Giuseppina gli andò incontro quasi subito, come certe donne che amano all’antica, quelle che seguono il loro uomo nel bene e nel male.
Salvio mi chiedeva spesso di raccontare dei nonni, non li aveva mai conosciuti e questo per me era un vantaggio, attento come ero a far in modo che in lui l’immagine di essi fosse scolpita come quella dei nonni che si vedono nei film.
Inventavo storie di sana pianta, a volte divertenti, altre tragiche al punto che qualche lacrima gli solcava il viso e lui cercava di nasconderla facendo finta di soffiare il naso sulla manica della maglietta.
“Tu sei fortunato. Hai conosciuto il padre e la mamma di papà”.
“Si sono fortunato, Salvio”, rispondevo mentre cercavo di nascondere la tristezza sul mio volto.
“Giochiamo con i soldatini?”
“Si, sono stanco di raccontare storie”.
Lo seguivo mentre si arrampicava su una scaletta barcollante che permetteva l’accesso ad uno sgabuzzino alto dove teneva gelosamente custodite scatole che contenevano le varie serie di soldati di plastica.
Era molto ordinato, al contrario di me che non avevo la pazienza necessaria. Per me ogni luogo era buono per abbandonare le mie cose. Papà me lo ripeteva come una cantilena:
“Tonino farai impazzire tua mamma di questo o”.
Non c’era verso, non ci riuscivo. Forse l’ordine è una predisposizione genetica che non dipende dalla nostra volontà, e poi anche lui non era molto ordinato visto che i suoi calzini si trovavano sparsi in tutto l’appartamento.
Diventavamo grandi ed insieme alla nostra età cresceva anche la nostra intesa. Eravamo per l’altro fratello e amico, confidente e complice.
Come fa ad accendersi una luce nel cuore che ti permette di amare un’altra persona e perché accade con alcuni e non con altri?
L’armonia tra due individui quali leggi segue, quali arcani misteri nasconde il desiderio di vedere l’altro felice?
Savio aveva tutto quello che a me mancava. Il senso del ridicolo, il sorriso sempre pronto, l’ironia. Se qualcuno avesse provato a fonderci in una sola persona avrebbe creato un essere perfetto, un nuovo Adamo, un arco che si tende
tra due argini, un ponte che offre un comodo aggio ai viandanti.
Volevamo essere ponti
Come a scuola, quando l’interesse per la geografia, ci faceva immaginare viaggi fantastici. L’atlante geografico diventava il nostro aporto per il mondo. La fantasia era un ponte che si stendeva tra continenti distanti, tra uomini diversi da noi, tra culture e religioni solo immaginate. Chiusi in quella stanza, tappezzata di poster del Che e crocifissi ostentati su scollature estreme, provavamo il brivido del viaggio psichico. Divenivamo moderni Ulisse virtuali e, non da meno, le peripezie sembravano reali. Incontravamo mostri marini e streghe cattive, scomparivano aerei e affondavano navi; montagne altissime si inchinavano per proporci scalate, colline fiorite ci offrivano pascoli verdi per rotolarci, e cieli … e stelle.
Ci sono persone che sembra conoscano il loro destino. Mio fratello era uno di queste. Prendeva per mano la vita come fosse un’amica carissima, la conduceva dove meglio poteva e la illuminava, come la luna di notte le colline.
“Tonino, tu lo sai quanto amo te e i nostri genitori, ma non posso restare. Con il cuore che mi ritrovo darei un dolore a tutti”.
“Dove vuoi andare?”
“Vado a vivere con Giorgio”.
Abbassò la testa ed io capii tutto.
La sua dolcezza, il suo modo mettersi seduto a guardare che gli eventi lo trasfigurassero senza opporre resistenza, il suo saper rapportarsi all’altro senza discriminarne il sesso, quelle notti ate da Giorgio. Tutto veniva ricapitolato in quella partenza. Tutto veniva assunto in quella borsa che aveva tra le mani. Adesso anche il suo senso dell’ordine trovava una spiegazione in ciò che avevo sempre sospettato e mai accettato. Per un attimo ringraziai Dio di essere come ero. Lo ringraziai per le mancanze, per il mio misurato senso dell’estetica, perfino per il mio disordine. Per la prima volta, mi accorsi, ringraziavo qualcuno per essere diverso da lui.
“Tu non puoi fare questo a papà, ne morirebbe”.
“Vuoi che a morire sia io Tonino?”
“No, ma… forse… possiamo fare qualcosa, provare a consultare uno psicologo. Non posso e non voglio accettare ivamente quello che sta accadendo. Come hai fatto a tenermelo nascosto bastardo? Ti odio!”
Avevo varcato il sottile confine tra l’amore e l’avversione, stavo compiendo ciò che fino a quel momento avevo solo letto su manuali di psicologia o come tesi stravaganti esposte per cazzeggiare tra amici nelle lunghe notti d’estate.
Era crollato un mito. Quel ragazzo era divenuto in un attimo il nemico delle mie convinzioni.
Immaginai la reazione di papà ed il pianto della mamma, i loro sogni infranti, la vergogna che avrebbe distrutto l’orgoglio per un figlio perfetto. Avevo creduto di essere più tollerante, riuscivo sempre a comprendere le ragioni dell’altro o, almeno, pensavo di riuscirci. Sorridevo quando vedevo due uomini tenersi per mano, invitavo Salvio a guardare quella che per me era una stranezza e non riuscivo a comprendere il suo imbarazzo.
“Ti voglio bene”, mi disse tenendo lo sguardo basso.
“Vattene!”
Attraverso quella porta non ò solo Salvio. Portò via con lui un pezzo del mio orgoglio, una parte della mia vita, un amico, un complice e due occhi azzurri e trasparenti come un lago di montagna.
“Per me è come morto”.
Questa fu la reazione di mio padre, mi aspettavo di peggio.
Un uomo che aveva fatto della sua vita una missione per la famiglia, che aveva posto in essere ciò che certi preti pretendono di insegnare senza conoscerne il significato, il senso della comunità. Sembrò non soffrirne, quasi se l’aspettasse, come se sapesse che le cose belle prima o poi finiscono. Ma il suo orgoglio era ferito. La luce che si accendeva nei suoi occhi quando parlava di Salvio si era spenta per sempre. Non riusciva a capacitarsi di come suo figlio potesse appartenere a quella specie.
La mamma lo perdonò subito, anzi, mi confidò che non aveva niente da perdonare “gli uomini” mi disse “restano tali anche se li coglie la pazzia o se amano un altro uomo. Il corpo è un involucro che nasconde un anima e l’anima non ha sesso”.
Il dolore rende saggi alcuni, ad altri devasta l’esistenza perché non sono pronti a sopportarlo. Io facevo parte dei secondi.
Scoprii in seguito che lei andava a trovarlo all’insaputa del babbo. Qualche volta restava da lui pochi minuti e parlava anche con Giorgio come fosse un altro figlio, lo sposo di suo figlio.
Per lungo tempo provai ribrezzo ad immaginarlo in intimità con Giorgio; le loro mani che si sfioravano, le loro labbra che si univano, i loro corpi nudi, gli umori che si mischiavano in un amplesso che non aveva nulla di umano.
Era quella la perversione di Sodoma?
Era quello ciò per cui Dio aveva distrutto una città?
Può l’amore, sotto qualsiasi forma, essere una perversione?
Come sempre non avevo risposte. Come sempre dovevo accontentarmi di riporre in un cassetto ideale tutte le mie domande.
Eppure un barlume di coscienza doveva ancora esserci nell’anima di Salvio, un appiglio dove portesi ancorare per riuscire a comprendere le ragioni del suo gesto e del suo essere. Gli uomini non si perdono mai completamente, gli è data sempre una seconda possibilità e se non l’accolgono Dio permette loro di redimersi anche un solo secondo prima di terminare l’esistenza.
Pioveva quel giorno.
Papà non ce la fece, la malattia aveva sfibrato la sua volontà, non gli interessava più vivere, tanto meno senza il figlio.
Incurante della pioggia andai da Salvio. L’acqua, ormai, era riuscita a bagnarmi fino alle ossa. Tremavo, erano ore che aspettavo che lui uscisse per dargli la notizia. Non avrei mai bussato alla sua porta, glielo avevo promesso, un vero uomo mantiene le promesse.
Il portone si aprì ed io sentii il cuore balzarmi in gola. Aveva chiesto tante volte di poter venire a salutare papà all’ospedale, ma gli era sempre stato vietato, non avrebbe retto o forse, pensai, si sarebbe salvato.
Mi guardò e comprese. Come altre volte, non ci fu bisogno di parole, la nostra intesa andava oltre.
Vidi le lacrime scendergli sul viso, avrei voluto abbracciarlo. Il suo impermeabile verde cominciò a scurirsi mentre veniva bagnato dalla pioggia. Mi venne voglia di coprirlo con il mio corpo, come quando giocavamo con gli altri ed io mi gettavo addosso a lui per evitargli le botte.
Non feci niente.
Lui mi seguì da lontano, come un cane fedele. Riuscivo a sentire i suoi i nonostante il rumore dell’acqua sulle vetrate delle case. I suoi i appartenevano solo a lui.
Forse è per questo che non riusciamo a capire chi è diverso. Pensiamo di avere dei i solo nostri e vorremmo che gli altri avessero la stessa andatura, ma ogni individuo percorre la strada marciando come meglio gli conviene.
“Carissimo Tonino,
amico, fratello, anima mia.
Voglio prima di tutto dirti quanto ti voglio bene.
Comprendo la tua ostilità verso di me e nei confronti delle scelte che ho fatto.
Mi ha fatto male in questi anni stare lontano da te e dalla mamma, ma ci sono stato solo fisicamente, il mio cuore è sempre restato con voi.
Vado via. Parto per andare lontano, non so ancora dove. So che te lo devo.
Ti ho visto tante volte mentre eri per la strada sotto il palazzo dove abito. Non ti curavi che di avere la possibilità di vedermi. Nulla poteva la pioggia, il vento e, una volta sei stato a guardare la mia finestra mentre grandinava.
Non sai quanto mi faceva male non poterti gridare il mio amore, non sai quante volte avrei voluto asse il tuo orgoglio per darti il coraggio di suonare al mio citofono.
Eravamo un’anima che cercava di riunirsi, perché, tu lo sai, siamo sempre stati uno, anche quando frequentavo le elementari e tu già eri alle superiori. Gioivo ogni volta che mi venivi a prendere all’uscita della scuola. Quando mi tenevi la mano ero orgoglioso del mio fratellone, tiravo il petto in fuori per suscitare l’invidia dei compagni.
La mamma mi ha detto che tu soffrivi per me, ma che non riuscivi a comprendere le ragioni.
Si possono comprendere le ragioni del cuore?
Puoi strappartelo dal petto, calpestarlo, non dargli ascolto, non ne ricavi che dolore. La pena che provi per me, il dolore che ti attanaglia l’anima, l’amore che sgorga a fiotti dal tuo cuore, è lo stesso amore che dal mio sgorgava per Giorgio.
Adesso lui è andato via ed io non ho motivo per continuare a farti del male con la mia presenza nello stesso rione.
Ti voglio bene, anzi ti amo. A te lo posso dire senza il timore di essere giudicato.
Con eterno amore il tuo Salvio.
Fu come una spada che trafigge la schiena sapere che, nonostante la mia avversione, aveva continuato a volermi bene e che adesso compiva un gesto che avrebbe cambiato la sua vita per sempre, solo per l’amore che provava nei miei confronti.
Avevo perso tutto. Non so se sarei stato capace di amare ancora.
La mamma non riusciva più a smettere di piangere. Diceva che Salvio era deperito, mangiava poco, il suo guardo era sempre triste negli ultimi tempi.
Quando andava da lui non facevano altro che parlare di me e di papà, il pover’uomo era morto senza avere la possibilità di abbracciarlo. Si diventa bestie quando non si accetta la diversità?
Quando si è lontani dagli affetti si comincia a vagare per l’universo per trovarne il surrogato e Salvio lo trovò presto.
La felicità caparbiamente cercata nella realtà volle trovarla nei ghetti di periferia, in un estasi procurata, in una esaltazione irreale della realtà.
Poi il o ultimo. L’overdose del disincanto. La morte.
Crediamo di appartenerci, ma spesso scopriamo che non siamo quello che volevamo. Scopriamo di avere percorso strade e sentieri sconosciuti, di avere praticato fiumi e torrenti, vie comode e altrettanti sconnessi cammini, eppure non uno solo o ci ha portato dove abbiamo sperato. Siamo stati come acqua caduta dal cielo che anela al suo mare e chi viene trascesa dal sole prima di giungere ad esso. Siamo molecole in balia degli atomi che le compongono, siamo l’essenza che spesso diviene assenza, siamo un grido muto che non sa elevarsi al cielo.
La mamma non riusciva nemmeno a piangere. La bara fu riposta nella fossa scavata poco prima. Un pugno di terra cadde dalle mie mani e iniziò a coprire quello che era stato un uomo.
Un pugno di terra per seppellire le sofferenze e tutto l’amore di cui può essere capace l’essere umano.
Un pugno di terra che celava una preghiera a Dio che gli avrebbe ridato la gioia dell’esistenza e i suoi occhi azzurri.
Un pugno di terra per coprire il mio disprezzo per una vita vissuta sul filo di quella che io pensavo fosse la normalità.
Ciao Salvio, riposa in pace.
End