Laura Ciummei
Un aggio da Caronte
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Titolo | Un aggio da Caronte Autore | Laura Ciummei Immagine di copertina a cura dell’Autore ISBN | 978-88-91106-86-5 Prima edizione digitale 2013
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A mia cugina, che per caso ha fatto nascere l’idea Alla mia famiglia A tutti quelli che mi amano e a tutti quelli che mi odiano A tutti quelli che volevano restare e se ne sono andati e A tutti quelli che invece se ne vorrebbero andare…
UN AGGIO DA CARONTE
26 Giugno 2012
1.
Una festa
Avevo proprio bisogno di “staccare la spina” dalla solita routine e l’invito di Giulia era giunto a pennello.
La villa era situata nei pressi dei Campi Flegrei, in Campania e il viaggio da Firenze, dove ormai vivevo da due anni, era stato piacevole. Avevo tutto il tempo di riposare e godermi il panorama prima dell’inizio della “grande festa” per la laurea della cugina di Giulia.
Inizialmente avevo pensato, mio malgrado, di declinare gentilmente l’invito: d’altra parte, non solo non conoscevo la festeggiata, ma mi era totalmente estraneo anche il resto della famiglia.
Avevo conosciuto Giulia quando avevamo entrambe 13 anni ad un campo-scuola estivo e da allora, pur essendo ato quasi un ventennio, non ci eravamo mai perdute definitivamente, prima mantenendo rapporti epistolari, poi tramite
cellulare e infine…sia ringraziata la tecnologia con i social network.
Sapevo solo che Giulia aveva un fratello, una sorella, due genitori che ancora vivevano insieme e si amavano (cosa non da tutti, di questi tempi) e una zia zitella, anche se oggi si dice single, di età piuttosto avanzata. In realtà, era lei la proprietaria della villa presso la quale si sarebbe tenuta la famosa festa. Dico famosa perché, a quanto mi aveva raccontato Giulia, avrebbero partecipato la bellezza di 200 invitati. Questo dato, invece di avermi fatto desistere dall’idea di partire, mi aveva dato l’imput finale. Avevo pensato che in mezzo a tanta gente, nessuno si sarebbe accorto se una persona si sentiva un po’ imbarazzata o fuori luogo. Mi guardai intorno estasiata.
“Cavolo! Ma tua zia cosa se ne fa di una casa così grande, visto che vive sola?”
Giulia si voltò perplessa. Dall’espressione capii che la considerava una domanda stupida. Probabilmente abituata alla situazione, lei non si era mai posta il problema.
“In verità, inizialmente era una bi-familiare. Lei abitava nella parte inferiore di quella che oggi vedi un’unica villa. I proprietari della parte superiore hanno una bambina malata: hanno acquistato una appartamento a Napoli e si sono trasferiti nei pressi dell’azienda ospedaliera Santobono. Lei è architetto e lui un compositore musicale molto affermato, quindi non hanno avuto problemi a livello professionale.” Continuavamo a eggiare nell’immenso giardino che faceva da contorno alla casa. “Dal canto suo, mia zia, per evitare che estranei venissero a rovinarle il quieto vivere, ha acquistato la loro parte. Tra l’altro avevano una gran fretta di vendere ed erano molto legati a mia zia, quindi il prezzo è stato molto conveniente.”
Mi pareva un sogno essere ospite in una casa tanto grande. Abituata ai miei
sessanta metri quadrati, credevo di dover gestirmi gli spazi con l’aiuto di un navigatore satellitare e, se per caso dalla cucina fossi dovuta andare nella mia camera (insomma! Quella che sarebbe stata la mia camera per tre giorni), magari l’ausilio di uno skate-board o un paio di pattini a rotelle, non avrebbero certo costituito un’esagerazione!
Nel frattempo che mi dilettavo nelle mie stupide elucubrazioni, seguivo con entusiasmo il fermento per i preparativi.
Vedevo rosso ovunque volgessi lo sguardo. Decorazioni, coccarde, palloncini, fiocchi, confetti e tappeto all’ingresso: l’atmosfera cominciava davvero a farsi eccitante.
Alle 20:00 gli invitati erano già tutti arrivati. Non mi misi a contare ospite per ospite, ma era evidente che, se non erano realmente duecento persone, potevano essere centonovanta. In più c’erano tutti gli addetti al catering. Quindi, com’è facilmente immaginabile, baci e abbracci tra conoscenti e parenti e io sballottata a destra e sinistra tra una presentazione e l’altra.
“Questa è Beatrice, amica di vecchia data!”
“Oh! Piacere Beatrice! Io sono Tizio, Caio, Sempronio…!”
Non ricordavo più nemmeno un nome di quelli sentiti, o meglio! Li ricordavo pressappoco tutti ma non sapevo a quali persone associarli.
Tra l’altro, quella simpatica frase che Giulia continuava a ripetere, sottolineando ‘la vecchia data’ della nostra amicizia, mi faceva sentire anziana, in mezzo ad una torma di ragazzini neo-laureati o ancor più giovani. Per fortuna, i genitori di Giulia, di sua cugina e i loro vari amici, alzavano un po’ la media, cosicché potevo facilmente sentirmi nel mezzo.
Finalmente alle 20:30 arrivò la festeggiata. Radiosa e bellissima, ancor più per la luce che emanava che per l’aspetto fisico, anche se quello era comunque notevole . Aveva un vestitino molto grazioso, semplice ma di classe…rosso come il fuoco! Cos’altro avrebbe potuto indossare?
Si stava prospettando proprio una bella festa!
Il catering aveva organizzato tutto alla perfezione. Il cibo era ottimo, e gli ospiti mangiavano e bevevano in tutta serenità.
Mi sentivo davvero come a casa, tra gente sempre conosciuta e la mia paura di sentirmi fuori luogo si dimostrò totalmente infondata.
“Senti Giulia, io ho bisogno di andare in bagno, ma c’è la fila. Devo prendere il numerino come quando vado al supermercato nel reparto salumi!”
“No, no, fai una cosa Beatrice”- mi rispose Giulia alzando lo sguardo- “Vai al piano di sopra! Quel bagno sarà quasi sicuramente libero o, quantomeno trovi meno confusione. La maggior parte degli invitati si ferma al bagno del piano terra perché non ha confidenza con la casa, quindi vai tranquilla, io ti aspetto per il dessert!”
Così mi avviai su per le scale che portavano al piano superiore.
Effettivamente Giulia aveva ragione: il piano superiore era proprio deserto.
Salivo appoggiata al corrimano per paura di cadere. Sono pressappoco astemia e Giulia mi aveva quasi costretta a mandare giù un paio di bicchieri nei momenti dei brindisi (ce ne saranno stati almeno dieci, ma io ero riuscita a “glissarne” la maggior parte).
Il bagno era la seconda stanza alla sinistra delle scale, ma la porta della stanza che lo precedeva si aprì lentamente cigolando piano, proprio mentre stavo salendo l’ultimo gradino. Quel suono sinistro mi fece venire in mente la maggior parte dei film horror che amavo tanto da ragazzina e mi facevano are delle grandi nottate in bianco. La stanza che vedevo era certamente una cameretta per bambini. La mia attenzione fu immediatamente attirata da una sedia a rotelle vuota che stava scivolando piano verso l’ingresso della stanzetta ormai totalmente aperta davanti a me.
Strana sensazione. Non c’erano correnti d’aria, ma la sedia si muoveva lentamente per poi bloccarsi in maniera definitiva proprio sull’uscio.
Forse condizionata dal ricordo delle immagini cinematografiche da bollino rosso, un brivido freddo mi percorse la schiena: sentivo un lieve disagio.
Per esorcizzare la sensazione di panico, diedi un’alzata di spalle e andai finalmente in bagno.
Quando tornai al piano inferiore, Giulia mi stava aspettando per il dessert, come promesso.
“Beatrice, eccoti, finalmente! Ti aspettavo per il dolce. Prima facciamo un altro brindisi, dai!”
Per non sembrare un’idiota, non raccontai niente delle mie paranoie e mi sedetti al suo fianco.
“Non ci penso proprio, o mi dovrai accompagnare a letto, spogliarmi e lavarmi come si fa con i bambini. Ho già esagerato per i miei gusti!”
Giulia, già rassegnata in partenza, non oppose resistenza.
“E va bene…allora vada per il dolce!”
Alla fine della festa, ate da poco le 2:00 del mattino, quando tutti ormai erano andati via, mi misi a sistemare qua e là il caos lasciato, per quanto possibile. Volevo sentirmi utile.
Ma Anna, la zia di Giulia, mi fermò.
“Beatrice, non pensarci neanche! Domani verranno due signore a darmi una
mano a sistemare. E’ già tutto programmato! Adesso ce ne andiamo a letto e riposiamo un po’. E’ stata una giornata veramente stressante!”
Così ce ne andammo ognuna nella propria camera.
Neanche a dirlo, appena toccato il letto caddi in un sonno profondo. E sognai un luogo buio, acque scure e solo voci inconsistenti, lontane e cupe.
2.
Il visibile e l’invisibile
La mattina dopo a colazione, eravamo solo noi tre: io, Giulia e zia Anna (ormai avevo preso l’abitudine di chiamarla come la chiamava naturalmente Giulia, e lei non se ne dispiaceva per niente). Inutile descrivere le nostre facce: sembravamo tre zombie e la casa, una barricata reduce dalla guerra di secessione.
Fu zia Anna a parlare per prima: “Allora Beatrice: dormito bene?”
“Si, a parte qualche incubo!”
Giulia, con il bicchiere del latte in mano fece un mezzo sorriso ammiccante.
“Ti credo! Con tutto quello che hai bevuto!”
“Ah! Bevuto io? Allora tu con quelle occhiaie? No, a parte gli scherzi, deve avermi messo in agitazione quella sedia a rotelle ieri sera!”
Giulia fece un’espressione smarrita. Zia Anna invece impallidì e balbettò perplessa.
“Se..se..sedia a rotelle?”
“Ma si! Quella nella cameretta dei bambini!”
Giulia guardò la zia e poi me con aria interrogativa.
“Camera dei bambini?”
Zia Anna si alzò rovesciando distrattamente il caffè che aveva davanti.
“Zia, non sapevo ci fosse una cameretta in questa casa!”
“Beh! In effetti c’è una cameretta. E’ quella che apparteneva alla piccola Daiana.”
“Ah! La figlia dei vecchi proprietari, la piccola Tancredi?”
“Si, proprio lei. Non me la sono sentita di togliere il mobilio lasciato da Sergio e Katia, ma non riesco a capire come tu, Beatrice, possa sapere che nella stanza al piano superiore ci sia una cameretta e tanto meno una sedia a rotelle!”
Guardai le due donne alternativamente. Pensai che sicuramente stessero giocando.
“Ma come? Non che ci voglia spirito di immaginazione nel riconoscere che un mobilio rosa equivalga ad una cameretta per bambina! E la sedia a rotelle era lì, in bella mostra. Credetemi! Non è per curiosare, ma me la sono trovata davanti salendo le scale. Vi assicuro che non sono entrata nella stanza, ma ho solo visto inevitabilmente quello che vi sto dicendo, ando per andare in bagno ieri sera. Di sotto era una bolgia infernale!”
Cercavo di giustificarmi senza nemmeno rendermene conto, ma la sensazione era che realmente fossi sotto accusa. Mi sentivo colpevole, anche se non capivo il perché.
E rivolgendomi a Giulia: “D’altra parte l’hai detto tu quando hai raccontato la storia dell’acquisto della parte superiore della casa, che i vecchi proprietari hanno una bambina invalida!”
Giulia sembrava sempre più smarrita.
“No! Io non ho detto che Daiana è invalida! Ti ho detto che è malata ma non so in realtà che cosa abbia. Io, a dire il vero, la ricordo una bambina sana e in salute..o meglio, lo era fino a che…”
Zia Anna la interruppe sempre più cerea in volto.
“Ascolta Beatrice, non puoi aver visto né la sedia a rotelle, né la cameretta. Ti assicuro che quella stanza è chiusa a chiave da quasi un anno, e la chiave ce l’ho io chiusa nella cassaforte. Daiana, quando aveva due anni è stata investita da un’auto che le ha provocato la frattura di tibia e perone. Per quello i coniugi Tancredi avevano una sedia a rotelle. Quando è successo l’altro incidente, quello brutto che ha portato la famiglia Tancredi a trasferirsi, la piccola aveva tre anni. Quindi la sedia è chiusa dietro un armadio, tutta coperta, da circa due anni. Non ho avuto il cuore di demolire la camera: adoro quella bambina. E la stanza l’ho sempre voluta chiusa per evitare di soffrire guardandovi dentro e per evitare domande dolorose da parte dei miei ospiti!”
Zia Anna deglutì un attimo e riprese fiato.
“Tempo fa ho aperto la camera e volevo spolverare tutto, compresa la sedia a rotelle. Se il Buon Dio sarà così generoso da ridare ai suoi genitori quell’angioletto di Daiana, immagino potrebbe averne bisogno, magari per i primi tempi. In realtà però, non sono stata in grado di aprirla. Io ho poca forza, forse ci vuole un uomo. E immagino che comunque andrebbe lubrificata per poter funzionare bene dopo tanto tempo di inattività.”
A quanto percepivo dall’espressione di Giulia, anche lei stava capendo poco e niente delle parole di zia Anna, come parlasse un’altra lingua. Riprovai:
“Scusate! Io continuo a non capire! Cosa vuol dire “il brutto incidente?” E poi la sedia va benissimo, altro che lubrificante! Io l’ho vista scivolare sulle ruote come si muove un eggino giocattolo di una bambina al parco. E vi assicuro che la cameretta era aperta. Come facevo a sapere tutto quello che vi ho raccontato?”
A quel punto anche Giulia venne in mio soccorso.
“Zia! Beatrice ha ragione. Forse papà o mamma hanno preso la chiave e aperto la stanza per farle prendere un po’ d’aria!”
“No, ragazze, non è possibile, vi dico! La chiave della cassaforte ce l’ho solo io!”
“Ok, ok, zia!” sentenziò Giulia “adesso andiamo a vedere. Ma spiegaci per favore quale sarebbe l’incidente di cui parlavi poco fa e perché Daiana dovrebbe aver bisogno (forse) nuovamente della sedia a rotelle. Credevo fosse ricoverata per una brutta malattia!”
Zia Anna si asciugò una lacrima visibilmente commossa.
“Non sappiamo cosa sia successo in realtà. Daiana e i suoi genitori andarono a fare una gita sul lago d’Averno e la bambina si allontanò per non più di due minuti. La trovarono riversa al suolo priva di conoscenza, senza segni di violenza o lotta, solo così! Immobile come una bambola, come se dormisse. E non si è più svegliata.”
La lacrima si era trasformata in un singulto. Vedere zia Anna in quelle condizioni accrebbe il mio senso di colpa.
“Zia Anna, scusami, non volevo farti stare male. Forse ieri ho veramente bevuto troppo per come sono abituata di solito ed ho immaginato tutto!”
Non credevo nemmeno io quello che stavo dicendo e forse mentire avrebbe fatto star bene qualcuno, ma non certamente me, che ero sicura di ciò che avevo visto.
“Vuoi darmi la chiave, per favore, che controllo cosa c’è in quella camera, così, una volta che mi renderò conto che quello che vedo in realtà, non corrisponde per niente a quello che avevo…ehm..immaginato, tutto tornerà a posto e ci faremo una risata. A parte che rimarrà la profonda tristezza e pena per quella povera famiglia che sta ando un momento davvero terribile. Spero che da quel punto di vista tutto si risolva al più presto e nel migliore dei modi.”
Zia Anna andò alla cassaforte e tirò fuori una chiave legata ad un fiocchetto rosa. Me la porse dicendo: “Vai pure! Si, speriamo Dio sia misericordioso. I dottori per ora non stanno capendo niente. Le attività cerebrali della piccola sono tutte a posto. Solamente che non apre gli occhi!”
“Giulia! Fai compagnia a tua zia: è molto scossa. Falle bere qualcosa ché io torno subito!”
Così dicendo, mi avviai con la morte nel cuore al piano superiore. Facendo finta di essere la persona più tranquilla del mondo, cominciai a salire le scale totalmente paralizzata dalla paura.
3.
La visione
Quella storia non mi piaceva neanche un po’, ma finsi un’aria baldanzosa per loro… e anche per me, visto che lo considerai un modo per esorcizzare il terrore che mi attanagliava lo stomaco.
“Ce la fai, Beatrice, ce la fai!” Continuavo a ripetermi.
Infilai la chiave nella serratura. La stanza era realmente chiusa a doppia mandata.
“Ma si, magari qualcuno l’ha aperta e poi richiusa…..si, certo! Il mago Houdini, senza aprire la cassaforte!”
Insomma! Pensavo tutto e il contrario di tutto.
“Ho bevuto ieri sera! E’ vero che erano solo due bicchieri, ma è anche vero che io sono astemia. Me lo sono solamente immaginato! Sicuro! Anche la sedia a rotelle che non potevo lontanamente immaginare ci fosse. Non ho immaginato un letto, o un armadio, ma una sedie a rotelle… potrei fare 13 giocando la schedina del totocalcio, allora!”
Comunque entrai. E mi si gelò tutto il sangue nelle vene. La cameretta rosa della sera prima. IDENTICA!
Le gambe divennero molli come plastilina e un tremito mi percorse tutto il corpo.
Come se non bastasse, la tv si accese improvvisamente. Immagini in bianco e nero di una bambina che correva dentro ad una pozzanghera d’acqua vicino a due fontanelle con un disegno in basso rilievo, che però non riuscii a distinguere.
La bambina aveva i capelli fin sotto alle spalle, lisci, scuri ed un vestito con un fiocchetto all’altezza del petto.
Era scalza e rideva correndo, mentre qualcuno da dietro la inseguiva rimproverandola. Aveva il ciucciotto in bocca e il suono delle sue risate infantili era un po’ smorzata dalla fatica per la corsa. Non poteva avere più di due anni e mezzo-tre. E poi sentii il suono di un carillon.
Continuai a guardare la tv incuriosita, con un sorriso carico di dolcezza, anche se, nonostante la bambina dimostrasse allegria, c’era qualcosa di strano. L’atmosfera era…come dire….tetra, cupa..antica..non so perché ma quell’ultima parola mi sembrava, istintivamente, la più adatta a descrivere le mie emozioni.
In quel preciso istante, alle mie spalle, un rumore di i attirò la mia attenzione. Erano Giulia e la zia che venivano a vedere perché mi attardassi tanto.
Quando mi voltai nuovamente verso la tv, le immagini erano sparite.
“Zia Anna, Giulia, ve l’avevo detto! Qualcuno ha aperto la stanza! L’avevo già vista…E’ proprio come la ricordavo. E c’è un dvd nella tv con una bambina che corre. Però non deve essere un filmato recente, o meglio! Le immagini sembrano dei tempi nostri, però il video è girato in bianco e nero. Forse è stata una scelta di chi ha girato!”
E così raccontai quello che avevo visto.
Se avevo intenzione di alleggerire la situazione, riuscii invece solo ad appesantirla, poiché vidi zia Anna appoggiarsi al letto come mancante di energie, pallidissima.
“Beatrice! Non c’è lettore dvd in questa stanza, e guarda la presa della corrente!”
Io e Giulia ci voltammo contemporaneamente. La tv era lì, ma non era utilizzabile. La presa era vuota.
“Oh mio Dio! Vi assicuro che ho visto tutto chiaro come in un film!”
Zia Anna si alzò e mi mostrò dove era custodita la sedia a rotelle. Era realmente in un angolo, tra l’armadio e il muro portante della finestra, chiusa e imballata in un telo bianco e un sacco di cellophane.
Eravamo costernate, atterrite, spaventate a morte. Non sapevo più cosa dire e, se avessi potuto, sarei fuggita come un razzo per non tornare più, senza voltarmi neanche una volta.
Ma zia Anna parve leggermi nel pensiero.
“Beatrice! E’ chiaro che qualcuno vuol dirci qualcosa. Quante volte abbiamo sentito parlare di queste stranezze e ora che sta succedendo proprio a noi ne siamo terrorizzate, ma evidentemente tu sei una di quelle persone dette ricettive a certi fenomeni…come si chiamano?”
“Paranormali, zia?” Intervenne Giulia che fino ad allora aveva avuto tipo una paralisi facciale senza riuscire ad aprire bocca.
“Si, proprio quelli! Chissà da quanto tempo questa entità, o come cavolo si chiama, cercava di mettersi in contatto con noi senza essere percepita. Dobbiamo sapere qualcosa e tu sei il mezzo!”
“Oh si, come no!” Cominciai scuotendo la testa. “Infatti io sono venuta a farmi una vacanza rilassante tra pochi intimi per rischiare di tornare a casa con un esaurimento nervoso e i capelli tutti bianchi per la paura. No, grazie! Io me ne vado, e anche alla svelta. Non c’entro niente con questa roba paranormale. Io NON SONO NESSUNO!”
L’ultima frase mi era uscita molto simile ad un grido isterico. Mi rendevo conto che purtroppo zia Anna aveva ragione, ma non ero all’altezza, non volevo prestarmi a questa cosa che mi stava risucchiando. Non riuscivo nemmeno più ad articolare un pensiero sensato.
Restammo così, in silenzio per circa due minuti, quasi senza fiatare, evitando accuratamente di guardarci l’un l’altra.
Poi finalmente Giulia ruppe il silenzio:
“Senti zia, non è che per caso hai qualche foto della piccola Daiana? Potremmo farla vedere a Beatrice, così..per capire se la bambina che ha visto nelle immagini…”
Indovinando il seguito del discorso e quindi senza aspettare che la nipote terminasse la frase, zia Anna si avvicinò all’armadio ed aprì le due anti centrali.
“Qui ho un album di foto..” Ma la voce le si smorzò in gola. Si portò le mani alla bocca con gli occhi fuori dalle orbite.
Al posto di uno dei due specchi a misura d’uomo che solitamente si trovano all’interno delle ante di un armadio, c’era un disegno in basso rilievo: lo stesso della mia ‘visione’. Il disegno adesso era chiaro: due cipressi bianchi ai lati di una reggia dai quali sgorgavano due fontane. Sullo sfondo, nell’atto di avvicinarsi remando, il terrificante Caronte, traghettatore di anime nella mitologia greca.
Zia Anna toccò il basso rilievo che non scomparve, come invece avevo ipotizzato durante quei secondi, sempre reduce da innumerevoli film ai quali quella situazione tanto somigliava. Era lì, intagliato nel legno, dove fino a poco tempo prima c’era solamente uno specchio.
“Questo lo vedete anche voi, vero? Ditemi di si, per favore!” Quasi pregai con voce tremula.
“Certo che si….che diavoleria è mai questa?” Sentenziò zia Anna.
“Non posso crederci!” Furono le uniche parole di Giulia.
Mi avvicinai le mani alle orecchie socchiudendo con una smorfia gli occhi per concentrarmi.
“Miseriaccia…e tutto questo vociare non è irritante? Mi entra nel cervello! Che confusione…ma da dove vengono queste voci?”
Guardai zia Anna e Giulia: lentamente spalancai gli occhi con aria interrogativa, allontanando le mani dalle orecchie, tesa come una corda di violino.
“Oh no, no…lasciatemi indovinare! Dalle vostre espressioni deduco che voi NON sentiate delle voci..o sbaglio?”
L’ultima parola l’avevo sussurrata. Speravo di sbagliarmi.
4.
Il viaggio
Ormai era indiscutibile che se c’era un messaggio criptato da parte di qualcuno in quella strana villa e quel qualcuno aveva veramente scelto me per decifrarlo.
Ma perché? Da qualche parte avevo letto che le persone più ricettive a processi del genere erano quelle particolarmente sensibili o che avevano subito dei traumi.
Non ricordavo di aver mai subìto traumi significativi nella mia infanzia. L’unica cosa strana era il fatto che mi ero tenuta stretta il mio amico immaginario per lungo tempo, tanto che mia madre, ad un certo punto aveva deciso, preoccupata, di rivolgersi ad uno specialista. Io, appena sentito esporre il problema in casa tra i miei genitori, liquidai “il mio amico” una volta per tutte, prendendo come sostituto un semplice diario segreto. Non volevo finire da uno “strizzacervelli”. Non credevo però, che quello fosse da considerarsi un “trauma”.
Ad ogni modo in quella stanza, ero sicuramente io quella tirata in causa.
“Pensa che fortuna!” Dissi tra me e me.
Le soluzioni erano due: o partire immediatamente, dimenticando tutto quello che
era successo, o farsi coraggio e andare fino in fondo, cercando di capire, aprendo la mente a 360 gradi in modo da essere pronta a recepire qualsiasi cosa.
Inutile aggiungere che istintivamente e senza alcun dubbio, avrei optato per la prima ipotesi. Purtroppo però, in quel caso, mi sarebbe servito un elettroshock per cancellare quello che ormai avevo stampato nella mente, perché, nel caso contrario, non avrei potuto comunque continuare serenamente la mia vita di tutti i giorni. La coscienza non me lo avrebbe mai permesso.
Così la scelta venne da sé…
Nel frattempo Giulia si era avvicinata con diffidenza all’immagine, ma senza osare toccarla.
“Non credete dovremmo chiamare qualcuno? Che ne so, magari la polizia!”
Alzai gli occhi al cielo.
“Si, per dirle cosa? Che è scomparso uno specchio e al suo posto c’è un canuto nocchiero che trasportava i morti nell’Ade? E magari, nel frattempo chiudiamo la stanza e quando rientriamo, lo specchio è tornato al suo posto. Così vinciamo una vacanza-premio per il manicomio più vicino, in una tripla con letti a castello!”
Così dicendo, mi sedetti sul lettino di Daiana. Era così piccolo! Il mio sguardo fu attirato da una margheritina di stoffa appesa alla spalliera. La sfilai dal o
e me la rigirai tra le mani. Un filo scendeva da sotto uno dei petali: era un carillon. Tirai il filo ed ecco (chissà perché la cosa non mi sorprese affatto!!!) la stessa musichetta sentita durante la mia “pseudo visione”.
Le voci provenienti dal basso rilievo si intensificarono, coprendo le parole di zia Anna che cercava di dirmi qualcosa. Lo percepii dal movimento delle labbra, ma non sentii niente, tanto le voci mi impregnavano la mente.
Con il carillon stretto tra le mani mi alzai e mi avvicinai all’immagine, ma non di mia spontanea volontà. Quello che un tempo era uno specchio, mi tirava a sé e non avevo possibilità di respingerlo. Non era un invito, bensì un ordine al quale stavo obbedendo. I miei occhi si posarono su quelli di Caronte: due occhi fiammeggianti che non mi permettevano di volgere lo sguardo altrove.
E mi ritrovai da un’altra parte.
Sentivo i miei piedi ancora saldamente piantati a terra, ma sapevo di non essere più nella cameretta di Daiana: il mio corpo era lì, ma io stavo viaggiando attraverso l’immagine.
5.
Sul lago d’Averno
Davanti a me uno specchio di acque cupe dalla forma ellittica. Avevo visto le foto a casa di zia Anna. Il lago d’Averno, che si trova all’interno di un cratere vulcanico spento, nato 4000 anni fa. Intorno a me vedevo solo rupi e acqua scura, ma la natura era strana, pareva immobile, mancava qualcosa…forse..Ecco cosa c’era che non andava: nemmeno un cinguettare di uccelli, non un solo rumore. Non era il lago d’Averno di oggi.
Seguendo il filo dei miei studi di liceo, ricordavo di aver letto che in ato le acque del lago d’Averno esalassero anidride carbonica e azoto e queste esalazioni, questo odore malsano e irrespirabile, impedivano la vita agli uccelli, da qui il nome Avernus dal greco Aornon, che significa appunto luogo senza uccelli.
Non ero convinta di essere presente fisicamente in quel luogo: mi sentivo piuttosto un’ombra, ed era chiaro che non si trattava del presente, perché la fauna dell’attuale lago d’Averno è ben vasta di gabbiani corsi e reali, cormorani e martin pescatori.
Distrattamente rimisi in funzione il carillon che mi ero portata dietro (ma ero realmente ANDATA da qualche parte?), o per meglio dire che avevo in mano nel momento in cui l’immagine mi aveva tirata a sé.
L’unico contatto con il mondo reale, la prova che non fossi del tutto impazzita, era comunque quell’oggetto. Tra le mani era però un fastidio e, non avendo il coraggio di disfarmene, lo misi in tasca.
Così, a mani libere, mi toccai per tutto il corpo: la sensazione di inconsistenza di poco prima scomparve. Sentivo le mie braccia e le mie gambe, anche se mi muovevo come planando, non camminando realmente.
“Non sto avendo una visione questa volta, ma ci sto vivendo dentro!”
Non ebbi il tempo di pormi ulteriori domande perché fui attratta dalle risate di una bambina, come in un “déjà vu”.
E così vidi Daiana, vestita allo stesso modo del video o quello che credevo fosse un video. Il vestitino adesso aveva un colore ben definito: era bianco a fiorellini blu, con un fiocchetto blu sul petto. Lei correva tra gli alberi con il ciuccio in bocca, ridendo.
“Daiana, Daiana, fermati!” Le gridai dietro, ma lei non poteva sentirmi.
La seguii e la vidi avvicinarsi ad una fumarola.
La piccola si spaventò perché stava andoci sopra proprio durante la risalita del gas. Il fumo fuoriuscito fermò la corsa della piccola, cosicché pensai di poterla finalmente raggiungere.
Ma proprio quando ero ad un o da lei, dalla stretta fessura che era la fumarola, si aprì una tetra voragine che in un attimo risucchiò Daiana.
E me con lei.
6.
Nell’Ade
Si dice che il tempo è tiranno: chiunque sa che due ore di effusioni con la persona amata equivalgono ad un batter di ciglia e due secondi di una scossa di terremoto paiono un’eternità. Così fu per me. In pochi secondi avevo finalmente toccato terra ma mi parve un tempo interminabile: mi era sembrato di aver fatto il giro del cosmo ed altre centinaia di dimensioni parallele alla nostra.
Mi voltai a cercare Daiana, ma non era vicino a me. Forse cominciavo a capire.
Avevo appena vissuto una proiezione di ciò che era successo alla bambina un anno prima.
Dunque, come il mio corpo era rimasto nella cameretta e la mia anima attirata verso l’ignoto per cercarla, così il suo corpo era rimasto inanimato vicino ad una fumarola sul lago d’Averno, dove era stato ritrovato, mentre la sua anima vagava… credo al centro della Terra. Non avrei saputo come meglio definire quel posto.
Dunque era questo che mi veniva chiesto. Dovevo riportarla a casa. Ma da dove?
Mi voltai. Ero all’ingresso di una tenebrosa caverna e di fianco a me scorreva da
una parte un fiume, dall’altra una palude dalle acque scure ed immobili.
C’erano molte persone che si muovevano lentamente verso un’unica direzione. I loro gesti erano meccanici, spenti. Pareva che non potessero scegliere che andare da quella parte. Tutto era cupo; sembrava non esistessero colori, ma fosse un mondo in bianco e nero.
Quindi mi ricordai della visione avuta nella cameretta di Daiana: le forme senza colore, le angosciose voci di persone che si lamentavano e, infine, ricordai l’immagine che mi aveva condotta in quel viaggio: Caronte.
E senza fiatare formulai un pensiero spaventoso a cui meccanicamente diede forma la mia voce quasi spaventandomi:
“Sono nel regno dei Morti!”
Sobbalzai come un felino voltandomi di scatto, come se fosse stato qualcun altro a parlare. Sentivo il cuore battere in gola anziché in petto, il fiato mi mancava e annaspavo come fossi stata sott’acqua. Feci fatica a mantenere il controllo, credevo sarei morta soffocata. Poi, lentamente ritrovai la calma, respirando lentamente e cercando di inalare più aria che potevo, come un naufrago che torna in superficie dopo che un’ondata l’ha trascinato nell’abisso.
Non mi restava che appurare quanto credevo di aver capito e l’unico modo era quello di riattivare la circolazione delle gambe, ormai totalmente rattrappite e indolenzite dalla paralisi per lo spavento. Tanto, volente o nolente, di lì avrei dovuto muovermi.
Cominciai a camminare, guardandomi intorno con circospezione.
Alla mia destra c’era un fiume. A quel punto poteva benissimo essere il famigerato Acheronte, il fiume del dolore e il principale dei quattro fiumi infernali. Enorme e freddissimo, può essere attraversato solo con la barca di Caronte.
Mi voltai e vidi le sponde del fiume che pullulavano di persone. Ora percepivo più chiaramente il vociare che avevo sentito nella cameretta di Daiana: un brusio costante di voci lamentevoli provenienti più dallo stomaco che dalle labbra di quelle anime.
Il mio sguardo era stato catturato soprattutto dalla persona che capeggiava le anime sulla riva del fiume. Pareva il pifferaio magico e quelle persone sembravano seguirlo incantate, loro malgrado.
Era un uomo giovane, con una tunica ed aveva ai piedi delle cose che somigliavano molto a delle ali in miniatura. Andava ad una velocità folle, tanto che il suo era più un vai e vieni continuo, mentre le anime procedevano sempre allo stesso ritmo, lentamente, come se stessero salendo una scala mobile che scendeva.
“Mai come ora” -pensai- “dovrò tenere conto delle poche reminiscenze della mitologia studiata a scuola. Se non sbaglio quello dovrebbe essere Ermes, o Mercurio per i latini. E’ lui che accompagnava le anime dei defunti in Ade, consegnandole a Caronte”.
C’erano un’infinità di domande che andavo formulando, poche le risposte che potevo avere. Non ero Dante e non avevo una guida abile come la sua.
Un mondo che credevo non esistesse si stava defilando proprio davanti ai miei occhi. Tanto bastava per farmi uscire di senno. L’alternativa era credere che stessi semplicemente sognando, ma il carillon in tasca mi ricordava che era tutto reale e soprattutto mi ricordava il motivo che mi aveva scaraventato il quel luogo oscuro.
Nel frattempo, seppur immaginando dove si trovasse in realtà il mio corpo fisico, ignoravo che zia Anna e Giulia erano entrate nel panico vedendomi inanimata per terra (come lo era stata la bambina un anno prima) nella cameretta di Daiana.
I medici, come per lei, avrebbero vagato nel buio, ricoverandomi in una stanza d’ospedale, senza spiegarsi i reali motivi della mia inettitudine.
Ma dove mi trovavo adesso, le anime continuavano a seguire Mercurio/Ermes lamentandosi, ma nessuna pareva curarsi di me.
Di Daiana invece, nessuna traccia. Era probabilmente stata traghettata sull’altra sponda.
“Ma lei non è morta! Com’è possibile?” Pensai.
Decisi di seguire la folla sulla riva dell’Acheronte. Ma era l’Acheronte o lo Stige?
Cocito, Stige, Flegetonte, credevo di ricordare, erano tutti fiumi che circondavano l’Ade, insieme all’Acheronte, che però era il principale, sul quale Caronte traghettava le anime subito dopo il loro arrivo.
7.
Caronte
Mi ritrovi dunque a fare il solito rio a voce alta.
“Il Flegetonte era chiamato il fiume di fuoco: era quello che ogni tanto emanava vampe di fuoco. Lo Stige era detto il fiume dell’odio e il Cocito era il fiume dei lamenti e del pianto.”
Ma erano tutti fiumi più interni. Dunque il fiume che avevo davanti, ormai ne ero certa, era proprio l’Acheronte.
Ed eccomi ad un tratto strappata dal mio rio, dai lamenti sempre più insistenti delle anime. Guardavano il fiume ed ora, volgendo lo sguardo nella direzione dove era rivolto il loro, ne capii il motivo: Caronte stava arrivando.
Dal lugubre fiume, comparve l’imbarcazione. Si avvicinò e la vidi meglio.
Non era una vera e propria barca, piuttosto una zattera, formata da pezzi di corteccia d’albero stretti insieme. L’aspetto di Caronte era terrificante: un vecchio bruttissimo dalla barba e i capelli bianchi, un mantello a brandelli e con delle occhiaie che parevano immerse nel fuoco. Non per niente il significato di Caronte è “ferocia illuminata”.
Effettivamente, non era tanto l’aspetto ad incutere terrore, quanto l’espressione.
Vedevo quel barcaiolo affondare con avidità il remo nelle acque dell’Acheronte, nere come quelle di una palude. Socchiusi gli occhi, cercando di sfruttare al meglio i miei dieci decimi di vista. Era veramente un remo, oppure erano ossa che terminavano con un teschio? Non potevo dirlo, perché era buio e l’atmosfera tetra stava condizionando tutti i miei sensi. Credevo addirittura di riuscire ad annusare il terrore delle anime all’avvicinarsi del tristo nocchiero.
Il suo sguardo fremeva d’ira ma, come in contrapposizione a quell’immagine, notai che il vecchio canuto era pieno di vita, come se il terrore letto nello sguardo delle proprie imminenti vittime, fosse per lui linfa vitale.
E cominciò a gridare…non parlava: gridava e basta, deridendo ed insultando le anime che lo attendevano sulla sponda del fiume, giurando loro un degno ingresso all’inferno, sull’altro lato.
Una volta arrivato, fece un solo, imperioso cenno con la testa a ciascuna anima, come un invito a salire, quasi recitando un tacito appello, percuotendo e malmenando con il remo coloro che si attardavano.
Ma difficilmente qualcuna di esse trovava il coraggio di ribellarsi. Tutte quelle anime, stanche dalla recente lotta con la morte, sole in mezzo a molti, senza nessun riparo, si limitavano ad impallidire (per quanto potessero divenire ancor più pallide!) e battere i denti dalla paura, già alle sole crudeli parole del traghettatore.
Bastava il primo cenno col capo di Caronte e si gettavano sulla zattera, porgendo le due monete che i parenti avevano posto loro sugli occhi nel letto funebre e che servivano come obolo per pagare il viaggio.
Caronte ebbe issato quasi tutte le anime e stava preparandosi alla partenza, quando due ombre sulla riva gli andarono incontro, cercando di imbarcarsi, nonostante, da parte sua, il traghettatore, non li avesse degnati di alcun riguardo.
La reazione fu immediata: Caronte alzò il remo, affondandolo con violenza nel costato della prima anima. Il rumore fu sordo ma potente e mi dette comunque un’impressione come di lacerazione e rottura ossea, nonostante vedessi quelle anime come qualcosa di incorporeo.
“Disgraziate sono le anime che io raccolgo, ma ancor più, le anime come le vostre che, prive del denaro che sarebbe servito come mio compenso, vagheranno in eterno e senza pace su questa riva nebbiosa!”
E così dicendo, si allontanò, lasciando le due anime al loro triste destino, costrette a rimanere per sempre in quella dannata oscurità, senza mèta.
Intanto il mio sguardo vagava dall’uno all’altro interlocutore (anche se in realtà era un puro monologo), come seguendo una partita di ping-pong, spettatrice ignara dell’evolversi della scena, come se la cosa non mi riguardasse in prima persona.
Sfortunatamente la sensazione durò pochissimo.
Caronte, con tutte le anime ammassate sulla zattera, aveva dato a malapena tre o quattro colpi di remo, che si volse di scatto.
Sobbalzai e cominciai a tremare non appena mi resi conto che quello sguardo era rivolto a me. E a chi altri? Ero rimasta solo io, a parte le poche ombre sprovviste di monete nel corso degli anni, che cominciavano a fare gruppo poco lontano.
Gli occhi di Caronte mi stavano bruciando, e se prima il suo sguardo proiettava ira, adesso ne era l’emblema.
“Eccone un altro! Vattene! Non tocca a te! Questo non è il tuo posto: da qui ano solo le anime dei defunti!”
Beh! Per lo meno adesso avevo la certezza di non essere morta! Anche se, continuando a guardare Caronte, ben presto avrei risolto il problema! Il mio cuore andava a 130 battiti al minuto (non li contavo, ma potevo facilmente dedurlo!) e sentivo caldo infernale e freddo gelido alternati a distanza di dieci secondi l’uno dall’altro.
“Beatrice, calma!” Mi dissi con un filo di voce.
“Primo: sei qui per cercare Daiana e secondo: inutile rischiare un infarto, tanto, in ogni caso non avresti le monete. Non dirmi che vorresti are l’eternità a vagare come un’ebete avanti e indietro, lamentandoti ed imprecando! Allora meglio trovare la strada per tornare indietro e chiuderti in un ospizio o in una casa di cura. Per lo meno potresti are il tempo guardando la tv!”
Non riuscii a fare a meno di sorridere lievemente.
“Solo perché…” –pensai- “…sono un’idiota! Come si può sorridere in un contesto del genere? E se Caronte s’infuriasse?”
Oh oh..pensiero centrato! Alzai lo sguardo e quella che trovai, era un’immagine di Caronte ancor più terrificante, se possibile. Adesso non aveva solo gli occhi fiammeggianti, ma pareva buttar fuori fuoco anche dalle orecchie e dal naso come un drago.
“Cos’è che trovi tanto divertente? Cosa ti può far mai sorridere in un posto così? Quasi mi dispiace non poterti dare un aggio…veramente! Mi piacerebbe vedere come te la caveresti sull’altra sponda! Eppure di qui non a anima viva, quindi esci immediatamente e tornatene a casa!”
Era irritante, insopportabile.
Mi parlò come se non avessi potuto avere possibilità di replica, e infatti, con noncuranza si voltò dandomi le spalle. Come se quella conversazione non fosse mai avvenuta e io fossi solo fumo, immerse il remo e fece per andarsene.
Adesso ero io a fumare di rabbia.
Una volta avevo letto su un libro di psicologia, che un neurologo (credo si chiamasse Libet) aveva scoperto che c’è un tempo di reazione tra quando le persone sentono un istinto verso un’azione, per esempio quello della rabbia, e il
momento in cui agiscono. Si tratta di un quarto di secondo tra un’emozione e la sua azione: è una finestra in cui possiamo scegliere di intervenire.
Ebbene! Io sono convinta che per me questo quarto di secondo non esista, o, per lo meno, io non sappia sfruttarlo.
Il mio tempo di reazione è immediato o forse, a me, il quarto di secondo non basta. Fatto sta che, per me, in quel momento, avere di fronte Caronte o il vicino di casa che getta acqua sui fiori alle 10 del mattino facendomi il bagno mentre entro nel portone, sarebbe stata la stessa cosa.
Dimenticando dove mi trovassi e con chi, o forse proprio perché, inconsciamente sentivo che solo usando la rabbia avrei potuto confrontarmi con lui, mi scagliai prepotentemente sul bordo del fiume.
“Ah! Io secondo te mi starei divertendo?”
Caronte, a quel punto, bloccò il remo e si voltò a guardarmi. Ma questa volta non lo vidi nemmeno.
“Sarebbe questa l’idea che hai tu di divertimento, caro il mio nocchiero? Sai, devi scusarmi se ho preferito farmi un giro nell’oltretomba pur non essendo stata invitata, ma non sapevo cosa scegliere tra un giretto sulla tua simpatica ed invitante barchetta, oppure una partitella a ‘briscola chiamata’ tra pochi amici… poi siccome mi sono trovata a are per sbaglio, ho pensato: ‘ma si, quasi quasi faccio una capatina per vedere come se la ano quei poveretti che sono già morti, tanto prima o poi tocca anche a me!’”
Non presi nemmeno respiro e continuai tutto d’un fiato:
“Beh! Se credi che sia andata così, ti spiego velocemente due o tre cosucce, tanto per gradire: io ero per i fattacci miei a fare una specie di vacanza e tu sei venuto a torturare le mie notti e i miei giorni. Come se non bastasse, eggiavo tranquillamente sul lago d’Averno e mi sono ritrovata scaraventata quaggiù!”
Non che fosse proprio la verità che stessi “eggiando” sul lago, ma a quel punto un bel carico di esagerazione potevo anche concedermelo.
“Non solo non me la sono andata a cercare questa bella avventura da urlo, ma addirittura credevo fosse tutta una favola greca: Ade, Mercurio, Persefone, l’Acheronte, lo Stige, Caronte, Minosse e compagnia! Nel mio mondo avrei tutte le carte in regola per citarvi per danni. Mi avete trascinato qui, non so chi, non so come, so solo il perché. Devo trovare una bambina. Lei è stata attirata qui come me, un anno prima e nello stesso modo!”
Violacea in volto, finalmente ricominciai a respirare. Tutto quello che aveva da dire lo esposi forse nel giro di 45 secondi o poco più.
Caronte era letteralmente sconvolto, forse destabilizzato. Di solito traghettava solo anime e quasi sempre rassegnate, ormai defunte, che non avevano altro destino. Io stavo combattendo, ma non perché fossi speciale: non avevo scelta. Dovevo per forza combattere, perché quello non era il mio posto, avevo solamente un compito da portare a termine.
“Vedo che hai un’anima forte!” Rispose Caronte, adesso quasi intimorito ma sempre fiero.
“Ma io sono Caronte, figlio di Erebo e della Notte, traghettatore delle anime e sentinella degli inferi. E ti dico che tu NON puoi are! Non posso trasportarti! Le regole sono queste!”
Non abbassai la guardia. Sembrava un gioco al rialzo.
“Non prenderti gioco di me! Hai trasportato già dei viventi su questa barchetta!”
Caronte sembrò non cogliere il vezzeggiativo, o scelse semplicemente di non curarsene. Però notai che ebbe un fremito.
“Oh si! Ma sono stato severamente punito per questo e il solo pensiero mi fa venire i brividi!”
Buffa immagine quella di Caronte con i brividi. Quella situazione sembrava un ossimoro costante. Questa volta trattenni il sorriso.
Probabilmente Caronte si riferiva al trasporto nell’Ade di Ercole, che lo convinse, infatti, a traghettarlo con la forza. Ade si arrabbiò talmente tanto che incatenò Caronte un anno intero per punizione.
“Oh si, capisco!” Dissi io in tono pacato. “E’ anche vero che Ercole non fu
l’unica anima ancora unita al corpo mortale ad essere traghettata, mentre tu fosti punito solo in quell’occasione. E poi questo è un caso particolare. Sicuramente c’è qualcosa di diverso per quanto riguarda me e la bambina, te ne sarai accorto, no? Siamo state chiamate da una forza indipendente da noi: ti ho già detto che ne avremmo fatto volentieri a meno. E comunque se hai preso la bambina, non vedo perché non prendere me, dato che io sono qui per ricondurla a casa!”
Gioco fatto. Caronte non avrebbe potuto toccare argomenti più validi dei miei. Io e Daiana eravamo nella stessa condizione: esseri viventi laggiù, una bambina ed una donna in coma (o qualcosa del genere) nel nostro mondo.
“Ebbene sia!” Rispose finalmente rassegnato Caronte.
“Sali con noi e ti porterò sull’altra sponda!”
Aveva però uno strano sogghigno. Probabilmente sapeva che non sarebbe stato facile arrivare a Daiana. Il suo sorrisetto non mi rasserenò per niente, ma almeno ero riuscita a circuire il primo ostacolo.
Il tragitto fu relativamente breve. D’altra parte mi resi conto che da una parte del fiume si poteva vedere, o perlomeno indovinare, la sponda opposta, sebbene notevolmente nascosta dalla lugubre nebbia.
Mi domandai rabbrividendo cosa sarebbe successo ad un’anima che avesse provato a buttarsi anziché aspettare Caronte. Probabilmente sarebbe stata risucchiata in un vortice tenebroso o catturata da tutte le mani dei dannati che ci avevano provato in precedenza.
Arrivati sulla riva opposta del fiume, Caronte fece scendere le anime, che se ne andarono al loro destino.
Nel frattempo, sulla sponda da cui eravamo arrivati, una nuova schiera di anime perdute, si andava già raccogliendo per aspettare Caronte e are a sua volta l’Acheronte.
Scesi dalla zattera, accompagnata dallo sguardo schernitore di Caronte. Non era l’ultima volta che ci vedevamo, o almeno era quello che speravo.
“Tornerò…e avrò bisogno di un altro … ehm…aggio. Devo pur uscire di qui! E con me porterò la piccola!”
Caronte sghignazzò: “Oh si, si, certamente! Come no! SE tornerai, farò come mi chiedi, temeraria fanciulla. A presto!”
E pronunciò quelle ultime due parole con un agghiacciante cipiglio, rimarcando crudelmente il SE e tornando da dove era venuto.
8.
Cerbero
Davanti a me c’era un lungo viale verso il quale si affrettavano le anime e, ancora una volta, seguii la folla.
Strano ma, nonostante fossi circondata da defunti, non mi era mai ato per la testa di voltarmi e andare da un’altra parte, anzi: tutta quella confusione mi faceva sentire al sicuro.
Attraversai (attraversammo) un boschetto di pioppi e di salici, sempre cercando con lo sguardo di scorgere da qualche parte Daiana, e notai la presenza di alcuni bambini. Ahimè, che tristezza! Li vedevo camminare mesti senza speranza né compagnia, loro che in vita sono la gioia, l’allegria e la confusione per antonomasia. Le anime erano tutte in gruppo, ma ciascuna profondamente sola.
Eppure non una volta cercai di chiamare uno dei piccoli per vedere di riconoscerci Daiana; non avevo mai avuto dubbi che, nonostante conoscessi appena la sua fisionomia, l’avrei percepita all’istante. Unica anima viva e lucente, in mezzo a quel buio. Nello stesso modo in cui sentivo il mio corpo animato, caldo, profumato (nonostante avessi bisogno di una doccia) e “”, in contrasto con tutto il resto, sarebbe stato altrettanto facile riconoscere la bambina.
Alla fine del viale, arrivai ad una porta enorme. Tutte le anime avano
indisturbate, quando ad un tratto un boato enorme, un ringhio spaventoso, percosse tutto l’Ade.
La terra sembrava tremare sotto ai miei piedi e istintivamente mi accucciai.
Davanti ai miei occhi un cane mostruoso, con tre teste, una coda di drago e parecchi serpenti sulla schiena, le fauci spalancate che gettavano schiuma ovunque.
Era Cerbero, che indispettito stava scagliandosi contro un’anima che cercava di uscire da dove era entrata.
“Chiaro: nessuna anima morta può uscire, come nessun vivente può entrare!”
Mi sedetti in preda alla disperazione.
“Ecco spiegata l’ironia di Caronte: sapeva che non sarei riuscita a superare Cerbero! E ora cosa faccio? E come ha fatto a are Daiana?”
Ad un tratto mi mancarono le forze. Se fossi stata in piedi, quasi sicuramente sarei caduta. Un pensiero mi annebbiò la vista. E se Cerbero l’avesse sbranata? Non avevo idea di cosa succedesse alle anime che non si fossero fermate al ringhio mostruoso del cane a tre teste. Il defunto che aveva provato poco prima ad uscire dalla porta, era indietreggiato immediatamente, non appena Cerbero si era accorto di lui. E chi avrebbe mai osato proseguire? Anche non mettendolo alla prova, si poteva facilmente dedurre che non avrebbe dato una leccatina
amichevole.
Intanto notai che le anime traghettate nella “mia” traversata, stavano continuando ad entrare, ciascuna porgendo a Cerbero del miele, altro pedaggio obbligatorio fornito dai parenti al defunto insieme alle monete per Caronte.
Mi alzai repentinamente tastando e rovesciando le mie tasche.
“No, no, certo che non ne ho! Che ci faccio con del miele in tasca? Io odio il miele! E poi, anche se ne avessi, vale lo stesso discorso delle monete per Caronte. Mi devo ricordare che io NON SONO MORTA! Mi sto immedesimando troppo nella situazione.”
Raccolsi rassegnata i pochi oggetti che avevo gettato a terra: burrocacao, gomme da masticare e il carillon di Daiana, che accarezzai ancora una volta sorridendo.
E un altro cassetto della memoria si aprì.
“Cerbero ama la musica dolce! Qualcuno (Orfeo?) lo ammansì con il suono della Lira!”
Senza pensarci due volte mi avvicinai alla porta. Le urla di Cerbero divennero terribili. Pensai nuovamente a Daiana.
“Povera piccola, come deve essere terrorizzata, ovunque si trovi!”
Tirai la cordicella del carillon.
La scena che si prospettò davanti ai miei occhi era inverosimile: la prima testa, quella che rappresentava il ato, si ammutolì quasi all’istante con un guaito, la seconda testa, quella che rappresentava il presente, un po’ dubbiosa e con un filo di bava ancora a metà tra mento e pavimento, trasformò il ghigno pauroso in un leggero assottigliamento di labbra fino a divenire una smorfia quanto mai somigliante ad un sorriso umano.
Nel frattempo, avevo fatto in modo che il pupazzo non interrompesse mai la propria cantilena, tirando la corda ogni volta che il ciclo di musica terminava.
Ma quello che mi fece rabbrividire fu la maniera in cui la terza testa, quella che rappresentava il futuro, reagì alla musica del carillon.
Contrariamente alle altre due teste, continuò a ringhiare ferocemente ed emettere urla terrificanti.
Andò su tutte le furie, strattonando ripetutamente la testa del presente e quella del ato, affinché si riscuotessero dal loro torpore. Anche i serpenti sul dorso di Cerbero si scagliavano in ogni modo sulle due teste inermi, ma senza ottenere alcun risultato.
Fu allora che, meccanicamente, mi avvicinai ancora di più e cominciai a fischiettare un motivetto. Rimasi io stessa perplessa, perché non avevo pensato neppure per un attimo di mettermi a fischiare. Come si dice? L’uccellino in
gabbia canta per amore o per rabbia. Io avevo solo paura e voglia di tornare a casa; non mi sarebbe mai dovuta venire voglia di fischiare. E poi era un motivo che non conoscevo assolutamente, almeno non prima di averlo intonato.
Fatto sta che l’ultima testa di Cerbero, al suono del carillon, accompagnato dal mio fischiettare, nel giro di tre secondi, si accucciò al pavimento, mandando lamenti simili a pianti strazianti.
Spossata dalla resistenza fatta inizialmente, respirava con affanno e cercava la mia mano per leccarla, come un cucciolo del quale ormai si è conquistata la totale fiducia.
Ebbi la sensazione che il futuro si fosse piegato al mio volere. E questo mi dette la scarica di adrenalina di cui, in quel momento, avevo proprio bisogno.
Che tenerezza. Pareva quasi impossibile che quel bel cagnolone ai miei piedi, fosse il mostro che poco prima avrebbe voluto sbranarmi.
ai indisturbata, pensando di essere a metà dell’opera o, quantomeno, a più due se contavo i punti, oppure a meno due, se contavo gli ostacoli superati.
9.
Minosse – Eaco - Radamanto
Oltre la porta, ancora spazio sconfinato: laggiù non era mai possibile scorgere delimitazioni. Vedevi solo le entrate, gli inizi, mai la fine di qualcosa.
Le ombre si erano affollate al cospetto di tre uomini. Dato che le anime venivano indirizzate in tre aree diverse e venivano prese in consegna ora dall’uno, ora dall’altro, capii immediatamente (non che ci volesse un indovino!) che quelli dovevano essere una specie di giudici.
Purtroppo, non avendo cassetti della memoria da aprire al riguardo, mi misi in ascolto guardinga.
I tre giudici si parlavano, ‘spartendosi’, per così dire, i defunti, quindi arrivai presto a percepire i nomi che usavano chiamandosi l’un l’altro.
Erano Minosse, Radamanto ed Eaco. Capiti i nomi, le associazioni furono più facili. Per quanto poco conoscessi le loro storie, sapevo comunque che erano tutti e tre figli di Zeus e considerati uomini giusti, forse per questo scelti quali ‘giudici dell’oltretomba’. Minosse era stato re di Creta, Eaco padre di Peleo e quindi nonno di Achille. Radamanto e Minosse erano fratelli (figli di Zeus ed Europa), mentre Eaco era fratellastro (nato da Zeus e una ninfa).
Mi vennero le lacrime agli occhi. Quella scena dei tre giudici che smistavano le anime, mi ricordarono le immagini e i documentari sui campi di concentramento di Auschwitz, quando i prigionieri ebrei, veramente ridotti a poco più che ombre, subivano in silenzio il verdetto del medico: gli idonei venivano sottoposti ai lavori più umilianti e duri, ma potevano comunque sperare nella sopravvivenza, gli esclusi, quelli considerati cagionevoli, deboli oppure anziani e quindi ‘esseri’ inutili, venivano mandati a morire senza esitazioni.
Mi asciugai gli occhi e proseguii: io non dovevo essere giudicata e, così come sicuramente era stato per Daiana, ai indisturbata.
Le strade erano tre: non mi restava che provarne una e cercare Daiana.
Sin da piccola, non avevo mai scelto di raggirare un problema. Laddove se ne presentava uno, dovevo affrontarlo il prima possibile, per non tornarci più sopra. Se avevo da togliere un dente, o da fare un intervento oppure una vaccinazione, sceglievo di prendere l’appuntamento il più presto possibile. Alle interrogazioni, preferivo andare per prima, se qualcuno mi chiedeva se volessi sentire prima la buona o la cattiva notizia, chiedevo sempre di sentire per prima la cattiva.
Per quello decisi di affrontare immediatamente l’area più oscura delle tre, convinta che, per la solita fortuna, quello sarebbe stato un aggio obbligato.
In realtà mi sbagliavo, perché Daiana non era là.
Avrei dovuto ragionare come una bambina: quel buio non avrebbe mai potuta attrarla.
Camminavo nell’oscurità: vicino a me percepivo a malapena la presenza delle anime che erano state ‘dirottate’da quella parte dai tre giudici infernali.
Ad un tratto, tutto fu rischiarato da una immensa vampata di fuoco.
“Se quelle sono le vampe di fuoco del fiume Flegetonte, adesso mi trovo nel Tartaro. Si raccontava che fosse una voragine talmente profonda, che lasciandovi cadere un’incudine, avrebbe impiegato nove giorni e nove notti a toccare il fondo.”
Mi vennero i brividi al pensiero, ma continuai a camminare.
Approfittai di almeno tre o quattro vampe di fuoco per cercare e chiamare Daiana. Non alzavo troppo la voce. Continuavo a pensare che, una volta vicine, ci saremmo “sentite” senza troppe parole. E poi, parlare a bassa voce mi sembrava una forma di rispetto per tutte quelle anime. Era come trovarsi in un cimitero, con la sola differenza che dove mi trovavo adesso, i morti, camminavano e si lamentavano.
ai così una buona ora di tempo. Volevo essere sicura che Daiana non si trovasse lì. Sapevo che era inutile. Se veramente non ci avesse unito una forza superiore, non ci saremmo mai trovate, perché lo spazio era veramente enorme.
Avrei dovuto are il resto della vita che avevo ancora da vivere e forse non sarebbe bastato, (sperando comunque che fosse un lasso di tempo consistente), per percorrere tutto il territorio.
Mi venne anche da pensare una cosa che fino ad allora non avevo preventivato.
“E se nel mio mondo il tempo trascorresse in maniera diversa? Se tornassi e scoprissi che è andato avanti di una trentina o cinquantina di anni? O se al contrario, uscissi di qui invecchiata IO di trenta o cinquant’anni?”
Scossi la testa, come per allontanare un fastidioso insetto…
“In ogni caso, non ho facoltà di scelta. Sono qui e devo andare avanti!”
Tornai all’incrocio dove si trovavano i giudici, e presi un’altra strada.
Se le anime, nel primo caso, erano sempre più lamentevoli, devo dire che là sembravano più serene e l’ambiente era meno cupo: c’era stato un cambio repentino con l’ambiente precedente.
Probabilmente mi trovavo nei Campi Elisi, dove, ovviamente, vanno i giusti e i virtuosi.
Infatti, alla fine del mio pellegrinaggio, fui accompagnata da musiche, danze e banchetti.
“Wow! Un bell’incentivo a comportarmi bene!”
Ma feste, banchetti e danze non mi portarono dove volevo. Daiana non era lì.
Ancora nessuna percezione di lei.
Ero felice per quelle anime (veramente poche) che gioivano nei Campi Elisi, ma io ero avvilita per me stessa. Cominciavo a pensare che avrei potuto anche non ritrovare Daiana e forse neanche la via del ritorno.
Perché nessuno mi aiutava, mi rivolgeva la parola, mi indicava la via?
Tornai al punto di partenza per l’ultima volta. Avevo solo un’altra possibilità. Dove altro avrei potuto cercarla?
Se il Tartaro era la zona più buia, e la seconda area visitata erano i Campi Elisi, mancava solo…come dire: la strada di mezzo , quella degli ignavi, che non si sono macchiati di colpe gravi, ma nemmeno sono stati buoni e virtuosi.
Dunque stavo attraversando la ‘Prateria degli eroi’.
10.
Persefone
Camminai per qualche minuto e, al termine della prateria, trovai inevitabilmente l’Erebo, il palazzo di Ade e Persefone.
Lo riconobbi subito dalle mura che lo cingevano, sulle quali erano poste le Furie (o Erinni): Tisifone, Aletto e Megera, che torturavano le anime macchiate di colpe verso i familiari.
A scuola avevo adorato il mito di Persefone, che vuol dire ‘fanciulla’.
Era figlia di Zeus e Demetra, ed era stata rapita dallo zio Ade, previo consenso di Zeus in persona (questo non me l’ero mai saputo spiegare: strani questi greci!).
Ade la portò a casa sua, negli inferi, sposandola contro la sua volontà. Le diede da mangiare un melograno, ma Persefone ne mangiò svogliatamente solo sei semi, ignorando il trucco di Ade: chi mangia i frutti degli inferi, vi rimarrà per l’eternità.
La madre Demetra, che era dea dell’agricoltura, disperata per il rapimento, scatenò un inverno durissimo.
Zeus dovette intervenire e giunsero ad un accordo: Persefone, avendo mangiato solo sei semi del frutto, sarebbe rimasta nell’oltretomba con il marito sei mesi all’anno, tornando dalla madre i rimanenti sei.
Demetra faceva rifiorire la natura in primavera ed estate, durante cioè, i sei mesi in cui aveva con sé la figlia.
Ancora più mi affascinava la teoria di alcuni studiosi che sostenevano che Persefone, rapita da Ade, quando ebbe la possibilità di scappare, decise invece di rimanere nell’oltretomba con il suo sposo .
Mi strabiliava, perché è una teoria in accordo con l’odierna Sindrome di Stoccolma, secondo la quale, una persona tenuta prigioniera, crea una sorta di morboso legame con il proprio aguzzino, nonostante sia stata da questa sottoposta a notevoli violenze e soprusi.
11.
Daiana e le due fontane
Assorta nel ricordo del mito, stavo quasi dimenticando di non essere lì per una vacanza-studio e infatti, quello che vidi dopo, mi riportò con un balzo alla realtà.
Era il luogo da cui aveva avuto origine la mia visione.
Ai lati della reggia, i due cipressi bianchi da cui sgorgavano le due fontane.
Guardavo pietrificata le anime che si affollavano di fronte ad esse: quelle che si bagnavano nella fontana di destra, parevano, subito dopo, non ricordare più niente e camminare con leggiadria. Le altre anime, quelle che decidevano di bagnarsi alla fontana posta alla sinistra, piangevano e si prodigavano in pianti e lamenti ancor più esasperanti di quelli sentiti nel mio cammino dall’ingresso dell’Ade fino ad ora, ricordando perfettamente e con lucidità da far paura, tutte le persone amate, le cose lasciate, gli avvenimenti anche più insignificanti vissuti durante la vita terrena.
La scena era straziante. Provai a mettermi, ancora una volta, nei panni di quelle povere anime, non riuscendo a capire quali delle due fontane sortisse l’effetto migliore.
Io avrei voluto ricordare tutto della mia vita terrena, tutto! Con la coscienza del momento, non avrei mai accettato di uscire fuori dall’acqua come un involucro vuoto che non ha più niente, nessun ricordo a cui appoggiarsi, nessuna gioia per cui sorridere o sofferenza da cui aver imparato a forgiare il carattere.
Il rovescio della medaglia però, lo vedevo bene, è che ricordando tutto il dolore diveniva atroce: avere consapevolezza di dover lasciare tutto alle spalle per sempre, non rivedere più le persone amate. Non a caso, le anime più strazianti erano le madri che ricordavano i figli lasciati.
D’altro canto, volgendo lo sguardo alle anime uscite dalla fontana di destra (era ormai chiaro che le due fontane erano una della Memoria e l’altra dell’Oblio), vedevo solo dei gusci vuoti, stolti e inebetiti che parevano esseri appena nati, avviluppati in un corpo adulto.
Forse quella sarebbe stata la scelta migliore: chi ignora non soffre.
Ci fu un attimo in cui sentii una specie di pace interiore: un silenzio assoluto dentro di me, mi fece pensare che il tempo si fosse fermato.
Sentii la mia pelle che si increspava su tutto il corpo: il classico effetto a “pelle d’oca”.
In un primo momento pensai fossero sensazioni dettate dai pensieri che facevo, ma ben presto mi resi conto che la motivazione era un’altra.
La sentivo: Daiana era lì. Come volevasi dimostrare, percepii la sua presenza.
Feci mezzo giro su me stessa. Avevo sempre creduto che l’avrei trovata sconvolta e disperata: d’altra parte era l’effetto che tutta quella situazione aveva fatto a me, persona adulta.
Invece la piccola era seduta in un angolo a gambe incrociate, lo sguardo fisso davanti a sé, a guardare nel niente.
Le anime andavano e venivano: nessuna si curava di poggiare lo sguardo su quella creaturina indifesa, né lei pareva accorgersi di essere attorniata da tanta ‘gente’.
Era vestita nel modo in cui la ricordavo, come se fossero ati circa 360 minuti anziché giorni.
Unica anima viva, a parte me, in mezzo a tante anime grigie e spente.
“Daiana! Daiana!” La chiamai con la voce strozzata, un po’ dall’emozione, un po’ dalla paura che sarebbe potuta svanire non appena io mi fossi avvicinata.
La piccola volse il viso lentamente, posando i suoi occhi sui miei; mi persi in quello sguardo, quasi carezzandola mentalmente.
Volevo trasmetterle sicurezza, ma vederla in quella posizione e con quella
espressione, mi strinse il cuore: temevo che fosse uscita di senno, pareva in stato catatonico.
Ma durò un attimo: appena mi vide, mi ‘riconobbe pur senza conoscermi’, per quella sorta di percezione che sentivo esserci ormai da ore, probabilmente tra anime viventi in quel teatrino di zombie.
Balzò in piedi in un baleno, mi corse incontro e mi volò tra le braccia, piangendo, senza dire una parola.
Dopo un tempo che mi parve infinito (e chi mi diceva che non lo fosse? Il mio orologio aveva smesso di funzionare sul lago d’Averno!), mi guardò e disse semplicemente tre parole: “Ti stavo aspettando!”
Capivo, pur non essendo mai stata madre, quello che deve provare un genitore nell’abbracciare un figlio dopo aver creduto di averlo perso. A quel punto l’associazione d’idee fu inevitabile: pensai ai suoi genitori.
“Daiana” le spostai la testa dalla mia spalla per guardarla negli occhi. Sentivo l’umidità delle lacrime versate sulla mia maglia.
“Dobbiamo tornare a casa da mamma e papà!”
La bambina corrugò la fronte. Pareva non capire, o comunque si sforzava di farlo e io ero totalmente inutile: non potevo portare esempi quotidiani della sua vita familiare, perché li ignoravo.
“Daiana, dimmi: hai mai cercato un modo, una strada per uscire da questo posto? Una via per tonare a casa?”
Non l’aiutavo neppure in questo caso: era solo una bambina, cosa ne poteva sapere di strade di casa, labirinti e fili d’Arianna? Sembrava sempre più confusa.
“Casa? Non è questa la mia casa?”
Daiana non aveva mai neppure cercato di tornare a casa. Ecco perché ero stata chiamata lì. Se la bambina continuava ad ignorare o ricordare confusamente chi era, da dove veniva e chi la stava aspettando, non avrebbe mai avuto lo stimolo per tornare alla realtà e non sarebbe mai rientrata nel proprio corpo. Non ci capivo più niente. Perché aveva detto che mi stava aspettando? Aveva avuto percezione di me, che ero un’estranea, ma aveva difficoltà a ricordare la sua famiglia!
Poi guardai le fontane e mi si accese la solita lampadina.
“Senti Daiana, ricordi di aver fatto, per caso, il bagnetto in una di quelle due fontane?” E le indicai i due cipressi con le fontane.
La bambina si portò il dito indice alle labbra, pensierosa.
“Mi sono bagnata solo i piedini là, ma poi sono scappata perché avevo paura.”
Daiana doveva avere circa quattro anni e strascicava qualche lettera (detto da me che sono toscana sembra un paradosso!), in più modificava un po’ la lettera “R”, anche se non mi sembrava un vero e proprio rotacismo. Ad ogni modo e per mia fortuna, per l’ età che aveva, parlava abbastanza fluidamente, riuscendo ad articolare quasi a perfezione i discorsi.
“Ok, ho un’idea! Ora io e te ci facciamo un bel bagno, ma non devi avere paura, perché questa volta ci sono io con te, va bene?”
Cercai di parlare con tutta la dolcezza possibile, anche se non era indispensabile, visto che la piccola si era data totalmente a me, come solo le creature disperate, sole e indifese sono in grado di fare.
Così ci avvicinammo caute alla fontana della Memoria e quando l’acqua cominciò a bagnarci, Daiana mi strinse il collo talmente forte che per poco non rischiai una morte per asfissia.
Uscimmo dall’acqua e tornammo nel punto in cui ci eravamo incontrate. La posai a terra e la guardai per un attimo. Lei sollevò gli occhi per guardarmi a sua volta e, ad un tratto, il viso le si illuminò.
“Dov’è la mamma? Voglio andare a casa!”
Mi chinai appoggiando le mani sulle ginocchia, per guardarla dritta negli occhi.
“Tranquilla! Saluta questo posto, perché adesso siamo pronte per tornare a casa!”
12.
Ritorno a casa
Il viaggio di ritorno fu uno so. Nessuno si curava di noi, e questa non era una novità, con la sola differenza che adesso eravamo in due e stavamo per andarcene: l’incubo era quasi finito.
Quando ci trovammo nei pressi di Cerbero, questa volta per uscire dalla porta e non per entrarvi, mi venne in mente una cosa.
“Daiana, mi dici come hai fatto ad entrare da questa porta con quel bel cagnetto di guardia?”
Lei si mise a ridere allegramente.
“Avevo una gran paura, ma ho iniziato a fischiettare questo motivetto… “
E intonò fischiettando lo stesso motivetto che avevo usato io per domare la testa del futuro.
“Che brava! Conosci il titolo di questa canzone?”
“No, non lo conosco: prima di quel giorno, io non sapevo nemmeno fischiare! E’ uscito così, da solo!”
E alzò le spalle con la noncuranza e l’innocenza tipica dei bambini.
Alzai le spalle anch’io. D’altra parte, lei non sapeva fischiare e non conosceva il brano tanto quanto io non lo conoscevo e non avevo nessuna voglia né intenzione di fischiare. Era una delle tante cose inspiegabili di tutta quella storia.
“Ascolta Daiana, Cerbero…per capirci: il cane a tre teste, non voleva che noi entrassimo, per cui, quando usciamo, non dovrebbe fare storie, ma noi, per precauzione, fischiettiamo ugualmente, ti va?”
Non volevo di certo rischiare di farci sbranare proprio ora che eravamo quasi arrivate alla fine di quella terribile ed assurda avventura!
Entusiasta, Daiana non se lo fece ripetere due volte e cominciò a fischiare.
Tirai fuori anche il carillon, che Daiana riconobbe e accarezzò: il primo oggetto che le ricordava l’ambiente familiare.
Era bagnato e gli ingranaggi erano un po’ irrigiditi, tanto che la musica si spezzava continuamente, ma avevamo anche i due “fischietti” a disposizione, e pareva che Daiana, dalla voglia di tornare a casa, ormai non avesse più paura di niente.
Come previsto, Cerbero non oppose resistenza, vuoi per la musica, vuoi perché uscivamo finalmente da un territorio nel quale non avremmo dovuto essere, ma si accucciò, lasciandosi accarezzare, e ammo indisturbate.
Caronte, perennemente sull’Acheronte, ci vide e ci urlò con il suo solito ghigno.
“E così siete nuovamente qui?”
“Ci serve un ultimo aggio!” Mentre gli rispondevo vidi che ci guardava con uno pseudo - sorriso anche lui.
“Non sfidare la sorte, anima mortale! Non dire ULTIMO. Salite e fate in fretta!”
Non sembrava troppo irritato dalla nostra presenza o, perlomeno, non più di quanto lo fosse di natura. E poi eravamo le uniche anime (OPS! persone!) che traghettava in senso contrario sull’Acheronte, per uscire, anziché entrare nell’Ade.
Comunque una cosa l’avevo capita: da quelle parti, io e la bambina non eravamo molto gradite. Beh! Ce ne saremmo fatte una ragione e avremmo ricominciato la nostra vita di tutti i giorni ben volentieri.
Ora era arrivato il momento che più avevo temuto. La strada percorsa finora era ben delineata. Ma adesso come avremmo fatto ad uscire? Eravamo piombate lì dal niente, tramite una voragine.
Strinsi la mano di Daiana senza accorgermene, se non quando lei, per pronta risposta, ricambiò la stretta. Allora mi voltai dalla sua parte e le sorrisi.
Caronte si fermò. Noi scendemmo ringraziando (che scena!). e lui, come se fosse la risposta più logica del mondo, si mise a gridare:
“Via, andate via e non fatevi più rivedere!”
E poi, tornando al proprio lavoro, cominciò a deridere e malmenare le anime che cominciavano il viaggio negli inferi.
Trassi un sospiro. Daiana credeva, forse, fosse un modo per dimostrare gioia, ma in realtà ero sempre più preoccupata. Però non ebbi il tempo di pormi domande o paranoie, perché d’un tratto, la terrà cominciò a sollevarsi attorno ai nostri piedi formando un mulinello vorticoso. La piccola si strinse a me ed io la presi in braccio. Il vortice divenne sempre più consistente, tanto che non potevamo più vedere niente intorno a noi. Poi fu come se un’enorme mano possente ci prendesse per i vestiti e ci trascinasse via.
13.
26 luglio 2012
Tutte le testate giornalistiche di Napoli e dintorni quel giorno, riportarono la seguente notizia:
“Si è inaspettatamente risvegliata, dopo un anno di inattività che i medici non erano riusciti a spiegare, la piccola Daiana Tancredi di quattro anni, trovata priva di conoscenza sul lago d’Averno, dove si trovava in gita con i genitori. Dopo i dovuti accertamenti, i sanitari della clinica Santobono di Napoli, hanno dichiarato che la piccola si trova in un ottimo stato di salute, non ha riportato nessun tipo di danno cerebrale e potrà essere dimessa a breve.”
Il mio risveglio, suscitò meno scalpore. Quando, un mese prima fui portata in ospedale, zia Anna e Giulia avevano cercato di far trapelare il minimo indispensabile, spiegando ai medici del 118 qualcosa circa una caduta accidentale dalle scale.
Secondo la tac non riportavo traumi, e le analisi effettuate erano tutte nella norma, ma poco importa, quando i testimoni cominciano ad essere una tranquilla ragazza e una zia anziana, entrambe incensurate e persone tranquille provenienti da famiglie conosciute ed oneste. E dopotutto il risveglio era avvenuto nel giro di trenta giorni.
In questi casi, tutti guardano il bello e dimenticano il brutto. Nessuno quindi, a
parte loro due, avrebbe mai potuto notare le strane coincidenze tra i due casi, a parte il fatto che la casa nella quale ero caduta, era l’ex dimora della famiglia Tancredi.
Al massimo sarebbe nata qualche leggenda metropolitana sulla negatività della villa e allora, addio feste di laurea, ma poco importava, anzi! Credo proprio che zia Anna e Giulia ne avessero abbastanza.
Appena dimessa dall’ospedale, raccontai loro tutto l’accaduto. I miei parenti non seppero mai niente (se non la teoria della caduta). Quanto alla mia amica e alla zia, nonostante avessero visto con i loro occhi, ben più di quanto l’immaginazione desse ad intendere, non credo abbiano mai realmente creduto totalmente al mio racconto. Ma anche questo aveva poca importanza. Mi sembra di averlo già detto: chi ignora i fatti, non ne può soffrire.
14.
A casa Tancredi
Dopo qualche tempo, approfittando dell’amicizia tra zia Anna e la famiglia Tancredi, io, Giulia e la zia, andammo a trovare la piccola Daiana.
Presentata come amica di Giulia, non destai curiosità.
Quando entrai nel salone, capii subito che Daiana aveva rimosso completamente il nostro viaggio, perché non manifestò emozioni, a parte un leggero bagliore che le illuminò per un attimo il volto. Ma potevo averlo immaginato. Mostrò comunque una gran gioia nel fare una nuova conoscenza.
Sergio e Katia, dalla gioia per aver potuto riabbracciare la figlia, parevano due ragazzini felici.
Daiana era allegra e gioviale: forse era meglio che avesse dimenticato o creduto di sognare.
Nonostante tutto, la cosa mi faceva soffrire; avevamo condiviso un’esperienza talmente importante, da segnare le nostre vite, e credevo che ci avrebbe tenute legate per sempre. Evidentemente mi sbagliavo.
Verso le 17.00, un po’ all’inglese, Katia, ci offrì del tè con biscotti. Poco dopo Sergio, che si era allontanato per qualche minuto, ricomparve con in mano un cd musicale.
“Signore, vorrei farvi sentire il brano con il quale ho vinto l’altro ieri il 18° concorso internazionale di esecuzione musicale per chitarra a Mottola: l’ho composto per la mia bambina quando era in ospedale.
Così dicendo inserì il cd nel lettore e avviò la musica. Mi si paralizzò la mano che stava portando il tè alla bocca. Era il motivetto che io e Daiana avevamo fischiettato per sedare Cerbero. La testa del futuro aveva ceduto sotto quel brano, che di lì a poco avrebbe avuto un gran successo.
Guardai Daiana, che mi strizzò l’occhio. Le sorrisi: forse non aveva dimenticato tutto.
La sera restammo per cena: dopo le varie insistenze di Daiana, non potevamo rifiutare. E avevo idea che anche i genitori, ben poche cose le avrebbero rifiutato, almeno per i primi tempi.
Ma arrivò il momento dei saluti. Sapevo che, se per Giulia e zia Anna quello era un arrivederci alla famiglia Tancredi, per me sarebbe stato un addio. Non avrei più rivisto quella bambina e mi venne da piangere. Così salutai e mi allontanai, avviandomi di buon o verso la macchina, con un nodo alla gola, mentre loro finivano di prendere accordi per non so quale festa di paese.
Daiana mi seguì: sentivo i suoi piedini correre sul ghiaino del viottolo di casa. Mi voltai e lei mi corse incontro, ancora una volta, l’ultima, e mi si gettò al collo
piangendo e baciandomi. La prima volta all’orecchio mi aveva sussurrato tre parole “ti stavo aspettando”. Adesso le parole sussurrate erano quattro: “grazie per essere venuta”.
Quelle parole mi risuoneranno nelle orecchie per il resto della vita. Tornai finalmente a casa, alla mia vera casa, a Firenze, dove ripresi in mano la mia vita. Solo due giorni più tardi, dovendo lavare la borsa, la svuotai trovandovi dentro un sacchettino rosa. Sorrisi pensando a Daiana. Scaltra e astuta per una bambina così piccola. E’ proprio vero che certe vicende della vita (o dell’anti-morte!) di fanno crescere velocemente.“Deve averlo fatto cadere nella mia borsa quando mi è saltata in braccio!” Pensai. Aprii il sacchetto: dentro c’erano due monete antiche, una bustina di miele ed un carillon in miniatura.