Un farmaco sperimentale sintetizzato oltre oceano stravolge la vita di un medico schivo ed idealista. Unici alleati una montagna nel freddissimo inverno alpino, un amico, un mondo di ricordi che giungono da lontano, il calore e l’affetto di una madre. Tra la vita e la morte Adamo combatte l’intreccio di egoismi umani, interessi miliardari dell’alta finanza, multinazionali, politica mafiosa. Per salvarsi e pareggiare i conti dovrà trasformarsi in uno spietato e lucido killer. Nulla mai sarà più come prima.
Massimo Mantovani (Roma 1949) al suo esordio con questo romanzo, è un Cardiologo Rianimatore che ha trascorso la sua vita professionale in reparti Universitari ed Ospedalieri per trattamenti intensivi. Apionato fin da ragazzo di attività subacquee è Istruttore federale subacqueo FIPSAS e CMAS ed un apionato di Sport in ambienti estremi.
MASSIMO MANTOVANI
TROPEMI
Un farmaco sperimentale. Multinazionali, mafia, politica e sangue.
Foto di copertina: Massimo Mantovani Realizzazione copertina e impaginazione: Nanni Ono Realizzazione eBook: www.punto-acuto.it Questo Romanzo è esclusivo frutto di fantasia. Ogni riferimento a luoghi, persone, circostanze, sono da ritenersi assolutamente casuali.
© 2015 Massimo Mantovani
INDICE
Ringraziamenti
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
A Mari, Sara e Mauro.
RINGRAZIAMENTI
Un ringraziamento a Mari, che in un momento particolarmente delicato della mia esistenza, mi ha ispirato e dato il consiglio giusto suggerendomi di scrivere un libro. Neanche lei si aspettava che io dessi seguito a questa stesura, iniziata segretamente, che mi ha preso la mano e si è scritta da sola, fin quasi alle battute finali per poi cadere in uno stallo durato anni. Mari con la sua proverbiale pazienza e munita di un gran paio di forbici, ha iniziato a potare e mi ha spinto fino a farmi giungere alla fine. Le è toccato inoltre il noiosissimo compito della correzione della bozza. Un ringraziamento ai miei figli, Sara e Mauro, che con costanti e pesantissime osservazioni (quasi litigi) hanno fatto in modo che la trama di questo libro non diventasse una banale e confusa espressione del sottoscritto. Un particolare e personalissimo ringraziamento anche a Donata Giacomelli che si è sobbarcato il durissimo compito di una critica stesura su tutte le fasi del libro, punto per punto, micidialmente incisiva, come la maestra al suo discente. Mi ha ricordato la mia insegnante di tanti anni or sono che con una matita rossa e blu correggeva i compiti e trasformava i miei temi in una battaglia navale. L’approdo alla sufficienza era sempre una nuotata verso la riva, senza salvagente. A lei ancora un grazie di cuore ed un abbraccio stretto. Un ringraziamento non meno importante a Nanni Ono, che incoraggiandomi con entusiasmo ed affetto, si è occupato della composizione grafica della copertina e dell’impaginazione del testo fino alla sua stesura finale. Un ultimo pensiero alle persone che inconsciamente mi hanno ispirato nel bene e nel male ed i cui nomi, trasfigurati, sono rimasti nella mia memoria ed in queste pagine. Posso dire che questa “prova di romanzo” ha fatto si che io riscoprissi il valore dell’amicizia e dell’affetto di chi veramente conta. E questo è il solo unico vero valore del mio scritto.
Prologo
Era d’inverno. Adamo camminava nel silenzio di un sentiero appena tracciato nella neve dalle trame del bosco. Il ruscello, quasi del tutto gelato, luccicava a tratti nelle sue lunghe stalattiti di ghiaccio tra massi e rami secchi intrecciati. La luce della sera trafiggeva gli alberi e piccoli squarci rossastri spargevano, qua e là, sulla polvere bianca, le ombre della notte che si avvicinava. Camminava con determinazione e i suoi i emettevano nella neve quasi un fruscio di carta accartocciata. Il respiro scandiva il ritmo regolare del suo cuore. Aveva percorso quel tracciato mille volte, e mille volte gli appariva diverso ed al tempo stesso uguale, mentre aggrediva la salita quasi a volerla divorare. Doveva giungere in fretta alla baita. Sapeva che il freddo della notte non lo avrebbe risparmiato e il vento gelido, che iniziava a sferzare sul suo viso stanco e scavato, sperava avrebbe almeno cancellato le sue tracce sul sentiero. Camminava in fretta ed in affanno, con lo zaino leggero, il amontagna sdrucito calato sugli occhi e gli scarponi da trekking, inadatti per il percorso invernale, infilati in tutta fretta. Il giaccone marrone di fustagno pesante ed imbottito aveva conosciuto tempi migliori.
Capitolo 1
La grande macchia lentamente si allargava sulla sua spalla sinistra, che doleva di un dolore sordo e continuo, più lancinante ai movimenti del braccio. Aveva cercato di tamponare la ferita, ma non sapeva se il proiettile ne era fuoriuscito. Doveva far presto; la tachicardia causata dallo sforzo della salita avrebbe peggiorato l’emorragia. Intravide lo sperone di roccia, che separava il vallone dall’inizio della salita ripida al versante nord della montagna, la sua montagna. Non lo avrebbero scovato di certo, sempre che non ritrovassero la sua Enduro. Avrebbe voluto salire ancora con la moto, ma il dolore al braccio era insostenibile e le sollecitazioni del tracciato avevano reso impossibile il proseguire. Dopo la prima salita, che s’inerpicava fino al canalone, aveva fatto rotolare la moto in uno stagno ghiacciato dove il ruscello quietava la sua discesa. Aveva tentato di mantenerla dritta nella caduta in acqua sperando di non farla troppo danneggiare, con un’attenzione particolare ed una carezza ad una vecchia e fedele amica con cui aveva condiviso le salite impervie nel cupo rombo ovattato del suo monocilindro e l’incedere rapido nei curvoni veloci dei viadotti verso il mare. Il ghiaccio sottile si era rotto, la notte ed il gelo l’avevano inghiottita ed avrebbero provveduto a rimarginare quella ferita nel diaframma di ghiaccio in pochi minuti e la neve avrebbe resa opaca la superficie. Forse un giorno sarebbe tornato a recuperarla. La sua BMW Scarver era una moto robusta, avrebbe sopportato l’immersione nell’acqua gelida. Sarebbe bastato smontare il motore e verificare gli organi interni, sostituire parte dell’apparato elettrico, similmente come curare una bella paziente per restituirla alla salute dei suoi viaggi estivi e delle salite autunnali. Stavolta gli aveva salvato la vita e gli aveva permesso quel vantaggio nella fuga che gli altri non avrebbero avuto, rallentati dal ghiaccio del sentiero accidentato e dal fatto che non erano preparati ad inseguirlo in montagna. Si sarebbero organizzati presto. I mezzi non mancavano ed i motivi ancor meno. L’esiguo vantaggio gli avrebbe dato una possibilità ed Adamo l’avrebbe sfruttata. La nebbia al crepuscolo era scesa inaspettata ed il silenzio sembrava più profondo.
“Bene”, pensò. “Non manca molto, meno di un’ora”.
Ormai il buio era fitto, appena rischiarato dalla luna al quarto. Pur avendo percorso quel sentiero tante volte, aveva difficoltà a seguirlo nella nebbia, ora che il vento freddo era cessato. Doveva stare attento: doveva evitare il crinale scivoloso della montagna, trappola mortale per molti escursionisti della domenica; doveva tenersi tutto sul versante sinistro rasentando la parete di roccia e stare lontano dallo strapiombo. Si fermò un attimo. Prese dalla tasca il suo piccolo GPS e lo accese con un solo dito. Il fondo a cristalli liquidi emanò una luce verdastra. Selezionò la voce “casetta” e vide apparire il tracciato sulla mappa dopo pochi secondi. La ingrandì, selezionando la scala minore. Attese alcuni istanti la localizzazione satellitare ed apparve chiara la sua posizione. Bene, era sulla traccia, forse spostato di pochi metri; gli era noto il margine di errore dello strumento. L’attenzione non doveva venir meno; il burrone era vicino, mancavano poco più di due chilometri di salita molto scoscesa e irregolare. Era solito percorrerla aiutandosi con le mani qua e là, dove i massi ed i rami lo permettevano, ma non poteva usare il braccio sinistro e questo rallentava la sua marcia. Solo giunto in cima, avrebbe potuto stare tranquillo per un po’ di tempo, forse per giorni, recuperare le forze, medicare la ferita. L’elicottero non avrebbe potuto alzarsi la notte e con quel tempo nessuno, a parte le vecchie guide del soccorso alpino, poteva salire a piedi nel buio e nella nebbia senza una motivazione vitale. La montagna era amica ed un poco di gioia lo riscaldò dentro. Ricordò il fascino fiabesco della notte nebbiosa, appena rischiarata dalla luna nascente, gli abeti ed i larici alti, flessuosi, ripiegati e stracolmi di neve, che evocavano fantasmi del ato, con il buio forato da fiaccole antiche che inviavano al cielo il loro messaggio di fumo e ricordavano le voci allegre dei bambini nel Natale di tanti anni prima; il camino , il caldo, e fuori la neve che si posava sulla finestra appannata; la felicità di un momento, l’atmosfera di un sereno Natale, i pacchi colorati sotto l’albero scintillante di luci ed il profumo di un bicchiere di vino carezzevole.
Quando le vele dei suoi pensieri si ammainarono, ritornò al suo sentiero bianco e
all’emergenza che doveva affrontare. Doveva assolutamente farcela. Spense il GPS per risparmiare energia, dopo aver memorizzato il tracciato. Continuò con progressione più lenta ed accorta. Si sentiva debole, aveva freddo, ma era vicino, molto vicino e lo sapeva. Si fece coraggio. Con un poco di fortuna, almeno nella notte e con la nebbia, avrebbe potuto accendere il camino e creare quel tepore che sarebbe arrivato in fretta e che gli era assolutamente necessario. Improvvisamente gli apparve la baita, isolata, nascosta dagli alberi alla fine di un ramo del sentiero che non portava da nessuna altra parte. Aveva avuto ragione a nasconderne l’inizio, lasciando che la vegetazione cancellasse l’accesso. In ottobre, solo qualche cercatore di funghi s’imbatteva casualmente nel luogo; era lontano a sufficienza dal sentiero principale che permetteva la salita alla parete nord della montagna. Pochi metri sopra, la vegetazione delle conifere cessava, per lasciare il posto alla nuda roccia e a macchie verdi sparse d’erba, di muschio e di licheni. D’estate le stelle alpine e gli azzurri fiori di genziana rendevano unico e sontuoso il tappeto d’erba ed il sole si specchiava abbagliante in controluce nello scorrere di molti ruscelli. Solo tre persone ne conoscevano l’esistenza. E lui non ne aveva parlato mai. Anna, molti anni prima, aveva condiviso con lui molte cose ma il destino gliel’ aveva poi sottratta. Ricu e sua madre. La baita era stata il suo rifugio, il suo angolo privato e segreto.
Il nonno l’aveva costruita e gelosamente nascosta alle rare amicizie della valle, quando era rimasto solo dopo la morte della nonna; condivideva la solitudine del luogo con Aki, una femmina di pastore tedesco, abbandonata da cucciola con una zampa rotta, all’angolo di un cascinale, vicino alla provinciale. Era asciutto il nonno, sia di parole che d’aspetto. Uomo d’altri tempi, senza età nella sua faccia smagrita e dalle molte rughe, incise dalla fatica e da una vita provata, con la barba perennemente incolta. Sopravvissuto a due guerre. Adamo ricordava tutti i suoi rari racconti, favoriti da un buon bicchiere di Barbera dopo la caccia. Uno in particolare gli tornava alla mente, quando narrava della I guerra mondiale: il 24 ottobre del ‘17 egli era nello schieramento di difesa più avanzato che scendeva dal monte Rombon nella valle di Piezzo e si elevava sul monte Nero fino alla cittadina di Tolmino.
Aveva visto morire i suoi compagni, cannoneggiati dalle due di notte, asfissiati dall’acido cianidrico in quella battaglia che fu una disfatta: Caporetto. Il nonno si era battuto come tanti e come tanti allo sbando; ma la fortuna lo aveva assistito. Il gas non era arrivato a lui, nella trincea avanzata e gli obici non l’avevano centrato. Era stato fatto prigioniero dai crucchi, come li chiamava lui. Aveva patito la fame e gli stenti di una lunga prigionia, privazioni e malattie, ma era sopravvissuto. Diceva che si moriva di fame ma che anche i crucchi non avevano da mangiare. Era tornato che pesava quarantacinque chili. La nonna stentò a riconoscerlo e lo curò con affetto e pane. Gettò via le maglie di lana che il nonno avrebbe voluto farsi rammendare, o meglio, quello che ne rimaneva, tanto erano piene di buchi. Il nonno tornò ad essere l’uomo forte di un tempo. Non diceva mai quello che si doveva fare. Capivi il suo pensiero con un’occhiata e poi abbassavi lo sguardo. Se lo cercavi lui c’era, ma si irritava per le banalità e le parole superflue. Il nonno gli aveva insegnato a pescare le trote al tocco e con la mosca, a seguire il cinghiale. Non amava condividere una caccia di gruppo e farsi assegnare una posta. Voleva essere libero, inseguire la preda e lasciarle una possibilità di fuga. Inseguiva gli animali per ore e spesso tornava senza nulla, ma lo si vedeva comunque contento. Sembrava quasi tifasse per il cinghiale sfuggito e per il cervo che lo aveva fiutato. Gli aveva insegnato a sparare e fare trappole, a riconoscere le tracce sul terreno interpretando il peso della preda, giudicare dai rami spezzati dei cespugli il tempo trascorso e la velocità con cui l’animale aveva percorso il tracciato. E quando i lastroni di roccia interrompevano l’inseguimento, l’istinto lo riportava sulle orme. Adamo pensava che egli fosse la reincarnazione di un vecchio pellirosse di cui aveva letto nei libri d’avventure. Gli piaceva immaginarlo così, il nonno. Tutto quello che conosceva della sua montagna lo aveva appreso da lui. Suo padre era uscito dalla sua vita quando lui aveva sei anni. Ne ricordava appena il volto, conosciuto dalle vecchie fotografie ingiallite sul cassettone della nonna. Un incidente aveva privato la mamma del sostegno e lei si era occupata di lui nei rari momenti liberi dal duro lavoro. Una donna bella, alta, dai capelli castani chiari, che sapeva ballare bene sulle rotonde del ballo a palchetto, ben incerate nelle feste e nelle sagre dei paesi di montagna. Il tempo ed il lavoro avevano fatto sfiorire la sua bellezza fine, ma nei suoi occhi fieri si leggeva ancora il desiderio di rivalsa sulla dura esistenza. D’estate, quando le scuole chiudevano, sua madre soleva accompagnarlo dal
nonno per respirare aria buona, diceva, e per imparare il linguaggio dei boschi. E Adamo studiò gli alberi, gli antichi sentieri, l’erba e l’odore del fieno maggengo, il vecchio ruscello ed il grande fiume tortuoso e dorato all’alba, che si snoda verso la pianura per incontrare il mare con la forza dell’ acqua nelle piene estive, le piscine tranquille, dove aveva imparato a nuotare, l’impeto del fuoco sospinto dalla tempesta, le pietre antiche di granito grigio, i fossili del bosco, con le conchiglie che parlavano al tempo ed ai sogni, il vento e gli odori lontani, il turbinare dei pollini in primavera, le lucciole danzanti alla musica dei grilli all’imbrunire. Crebbe, e fin da ragazzo si schiuse alla bellezza di un’ascesa sulla parete resa calda dal sole. Imparò il rispetto per la montagna e la sottomissione alle sue leggi, il linguaggio delle marmotte, il richiamo del germano reale. Crebbe, ed il nonno lo addestrò alla caccia. Aveva sparato alle pernici alpine ed al gallo cedrone, ma un giorno smise di uccidere quando un capriolo ferito a morte lo fissò, e lui lesse nei suoi occhi il terrore ed il dolore della morte imminente. Crebbe, e gli anni del liceo lo videro schivo, timido, sempre interessato alle materie scientifiche, alla natura, alla fisica e la biologia. Amava conoscere e sperimentare. Spiava le api ed il loro mondo segreto. Gli piaceva vendemmiare e assistere al miracolo del mosto trasformarsi in vino. Innestare gli ulivi, i peri ed i meli. Poi arrivò il tempo dell’Università e dovette trasferirsi a Roma. Con i sacrifici della mamma e del nonno studiò come curare le malattie e le povertà degli uomini. Amava la medicina più della chirurgia. Capire i meccanismi di crescita e sviluppo dei microbi e dei virus; comprendere che tutti lottano e muoiono nel tentativo di sopravvivere. La città lo dischiuse all’arte, alla vita scanzonata e chiassosa così diversa dalle sue montagne, comunque viva, ma di una vita e di una luce diversa, non meno affascinante. La laurea arrivò in un giorno caldissimo di luglio. Sua madre pianse quando lo vide medico. Pianse sommessamente pensando che la professione l’avrebbe portato lontano. Il nonno morì pochi mesi dopo improvvisamente, da solo, all’esterno della sua baita. Dissero che era stato un infarto. Quando lo ritrovarono avvertirono subito Adamo. Al funerale del nonno c’erano solo i pochi amici di un tempo. Fu sepolto accanto al figlio nel cimitero di Ostana, ai piedi della sua montagna. Solo un mazzo di
fiori di campo, come aveva chiesto. Adamo abbracciò la madre, tornarono a casa mentre saliva dal fondovalle la nebbia e la cima del Monviso non si vedeva già più.
Fece ancora qualche o voltando dietro il grande tronco abbattuto dal fulmine due anni prima e giunse davanti l’uscio; cercò la chiave nello spigolo destro vicino allo stipite della finestra che guardava verso la valle, infilò la mano nella fenditura tra i sassi riempiti di terra. Avvertì il contatto gelido e sperato della sua chiave. Intravvide appena la scritta sull’architrave in legno di quercia che aveva inciso il nonno con la sgorbia ed il coltello: “Beata solitudo, sola beatitudo”. Infilò la chiave nella toppa, dopo aver scostato la neve addossata su una losa di ollare appoggiata per evitare che l’acqua potesse infiltrarsi sotto la porta. Entrò e richiuse l’uscio, sprangandolo. Si assicurò che tutte le finestre avessero gli scuri ben chiusi. Trovò la legna piccola, preparata l’ultima volta, e la carta di giornale e accese il fuoco sfregando in terra uno zolfanello. Nessuno sarebbe salito fin lì nella notte e lui aveva bisogno di calore. Lo scoppiettio gli restituì un poco di luce e di serenità. Accese anche due lampade a petrolio. Il generatore a scoppio, sistemato nel retro di quella che era stata una piccola stalla, lusso dei tempi moderni, avrebbe fatto troppo rumore. Decise di aprire l’acqua, pregando Dio che non fosse ghiacciata la sorgente. Aveva chiuso il rubinetto l’ultima volta che vi aveva soggiornato e svuotato le tubazioni della baita. Non pensava di tornarci prima della primavera. D’inverno poteva succedere, ed era già accaduto, che la bassa portata dell’acqua causasse il suo congelamento nei vecchi tubi in ferro. Aprì: l’acqua non era gelata ed iniziò a scorrere nei tubi, facendo uscire con soffi e sputi scroscianti l’aria all’interno. Lasciò il rubinetto aperto per eliminare i detriti e la ruggine, poi prese una bacinella dalla cucina, la sciacquò più volte e la riempì d’acqua che mise a bollire. La bombola di gas era piena per tre quarti. La fortuna non lo aveva abbandonato del tutto. Mentre l’acqua scaldava aprì una scatoletta di tonno ed una di olive nere. Prese una bottiglia di vino e la pose vicino al camino che alimentò con dei tronchi più grandi. Riempì una caraffa d’acqua e lentamente cominciò a bere. Lentamente perché l’acqua era gelida, ma la sete che lo tormentava da due ore si andava placando. Aprì il cassetto dei medicinali e trovò tutto l’occorrente. Era stato previdente e sapeva che, nel bisogno, in un posto isolato, era meglio avere tutto il necessario a portata di
mano per cavarsela da soli. Si lavò bene le mani che rimasero quasi paralizzate dall’acqua gelida. Aprì il forno della cucina, lo accese per contribuire a dare calore all’ambiente. Si tolse lentamente la giacca di fustagno. Il maglione preferì tagliarlo insieme alla camicia, intrisi e appiccicosi com’erano di sangue coagulato. Il proiettile, probabilmente un 7.65, aveva perforato la spalla dal punto sotto la clavicola sinistra vicino all’articolazione scapolo omerale. La clavicola doveva essere probabilmente incrinata per il dolore che gli procurava il toccarla, ma non sembrava fratturata. Verificò la continuità dell’osso. Il colpo lo aveva impattato dal basso verso l’alto, mentre fuggiva dalla scala a chiocciola di accesso al cortile, dove aveva parcheggiata la moto e il fuoristrada. Il foro d’uscita era presente nella parte posteriore della spalla, appena sopra il bordo scapolare. Il proiettile non si era frantumato; doveva essere camiciato. Gli avevano sparato nuovamente dal pianerottolo mentre lui inforcava la moto, ma il colpo era andato a vuoto anche se gli aveva sibilato vicinissimo al mento. Aveva sentito ancora altre detonazioni, ma ormai era fuori tiro. Non si aspettavano di vederlo fuggire in moto da un cancelletto posteriore che era stato praticato per accedere ad un orto. Era stato molto fortunato; l’arteria succlavia non era stata lesa e la vena omonima parzialmente lesionata, vista l’abbondante perdita di sangue. In qualche modo l’emorragia era cessata sia per la probabile saccatura interna, sia per il tamponamento creato dal giubbotto; la parte appariva tumefatta, violacea . Deterse la ferita con acqua calda. Cosparse tutto abbondantemente di Betadine liquido e rimosse i coaguli esterni. Aprì il kit chirurgico sterile e con le pinzette cercò di rimuovere tutte le sfilacciature della camicia di flanella pesante penetrate nella ferita. Il foro d’entrata era molto piccolo, marcato da un’evidentissima ecchimosi a corona circolare. Con le garze sterili ed un tubetto di Gentalin preparò due tamponi che pose sia nella parte anteriore che posteriore, senza zaffare. Afferrando con i denti un capo della benda elasticizzata, iniziò a bendare la spalla. Fu soddisfatto del lavoro per quanto aveva a disposizione e si compiacque di essere stato previdente nell’accumulare risorse e qualche medicinale di pronto soccorso. Capì che se voleva diminuire il dolore doveva cercare d’immobilizzare e mettere in scarico la spalla sinistra. Ci riuscì confezionando con gli spallacci di un vecchio zainetto, modificato con l’applicazione di una cinghietta, un bendaggio a otto, in trazione dietro il collo
Afferrò ancora le due scatole di Ciproxin e trangugiò con molta acqua le due compresse bianche. Cercò nel comò una camicia pulita ed un maglione. Li indossò con cautela e lentezza. Trovò la vecchia giacca da sci imbottita con pile che appoggiò sulle spalle. La temperatura era salita, i gradi in casa erano comunque pochi. Spense il forno a gas lasciando aperto lo sportello per sfruttare il calore residuo. Gettò nel camino la camicia, il maglione, le garze usate per la medicazione ed aggiunse la legna ad alimentare il fuoco. Decise di mangiare qualcosa. Divorò il tonno e le olive. Prese dei crakers ed una scatola di biscotti. Aprì la bottiglia di vino, si versò un bel bicchiere colmo iniziando a sorseggiare il buon nebbiolo della valle S. Lorenzo nel Roero che lo riportò ai sapori della terra da vino più prolifica d’Italia. Ogni sorso era lento, scaldato nella bocca arsa dalla sete. Poggiò poi la bottiglia in terra a stemperare davanti al camino. Si sdraiò sul divano di fronte e distese i piedi poggiandoli sul bracciale opposto. Si coprì fino ai piedi con il vecchio plaid fatto all’uncinetto da sua madre. Non gli restava che pregare. Pregare che la ferita non si infettasse, che la neve ed il vento nascondessero le tracce; che la nebbia nel fondovalle scoraggiasse gli intrusi ed il fumo del camino non scendesse a valle lungo la parete nord sospinto dalle correnti discendenti. Il fumo non sarebbe sfuggito ad un esperto di montagna che anche senza vederlo ne avrebbe annusato la provenienza. I suoi nemici non erano montanari esperti, pensò, e avrebbero impiegato del tempo per organizzarsi e soprattutto scovarlo. Mentre la stanchezza ed il torpore si impadronivano di Adamo, ripensò ad Anna.
La ricordava bellissima e spaurita, con quel viso sconsolato, nel pronto soccorso dell’ ospedale, in una notte d’estate durante un turno di guardia. Anna era stata brutalmente percossa ed era diffidente di tutto e di tutti. Non aveva sicuramente il permesso di soggiorno ed era per questo che voleva andarsene rapidamente dal pronto soccorso dove era stata condotta quasi a forza da due sue colleghe di lavoro. Era nata in Moldavia, parlava un italiano stentato. Il viso presentava un’ecchimosi allo zigomo sinistro con una tumefazione lacero contusa; doveva aver perso molto sangue dal naso. Ve n’era di rappreso intorno alla labbra e sulla magliettina verde che indossava senza reggiseno. Aveva una ferita profonda, da
taglio, dietro l’orecchio dello stesso lato. Il cuoio capelluto era diviso da una fessura netta e profonda che aveva smesso di sanguinare. Accusava un forte dolore al petto ed era per questo che Adamo era stato chiamato. Anna non aveva più di ventidue anni ed i suoi occhi azzurri, chiari e profondi emanavano la luce di chi soffre con rassegnazione. Non parlava, aveva le braccia conserte sul petto e di tanto in tanto si copriva il viso con le mani quasi a nascondere la sua vergogna. “La solita puttana picchiata, dottore!” Esclamò Agnes, l’infermiera del DEA. “Non vuole farsi visitare, vuole andarsene!” Lei lo guardò scostando poco le dita davanti ai suoi occhi. “Sono un dottore, non ti farò del male, non farò nulla che tu non voglia e non ti denuncerò alla polizia, comprendi quello che ti dico? ” Lei lo scrutava diffidente ma fece cenno di sì con la testa. Adamo riuscì con delicatezza ad aprirle le braccia; la ragazza non oppose resistenza ma lo guardò allarmata. “Senti, hai un brutto taglio dietro l’orecchio, sarebbe opportuno dare dei punti, dovresti restare ferma il più possibile. Avvertirai appena pungere, non è una zona molto sensibile”. Lei annuì senza parlare. I suoi occhi emanavano una tristezza infinita ed una solitudine che ti colpiva dentro. L’aveva medicata con attenzione e delicatezza. Suturò il cuoio capelluto dietro l’orecchio e con del filo sottilissimo, anche lo zigomo con dei punti intradermici. La cicatrice forse non si sarebbe vista. L’infermiera scoprì il torace e apparvero ecchimosi violacee diffuse sul costato, sui seni ed alla radice del collo, un grosso livido sulla spina iliaca di sinistra e bruciature di sigarette sui capezzoli. L’elettrocardiogramma non mostrò alterazioni e le ustioni furono disinfettate e medicate. Adamo venne colto da un senso di rabbia profonda; maledisse in cuor suo gli autori di quelle sevizie. Non stilò il referto, contravvenendo in questo modo alla più elementare norma del pronto soccorso, per non peggiorare la situazione della ragazza e glielo disse finché non fu certo che avesse compreso. Agnes sembrava lo volesse fulminare senza finire di rimproverarlo. Di situazioni simili ne aveva già vissute. Aveva già incontrato donne come lei, ferite, dure, senza illusioni, senza speranze con dietro di sé anni di schiavitù e di disprezzo. Molte di loro, anche se recuperate, non sapevano più vivere normalmente e
spesso tornavano di loro volontà sul marciapiede perché avevano perso i sentimenti, gli affetti ed ogni gusto per la vita. Eppure, lesse in quello sguardo qualcosa di diverso. La salutò dicendole di tornare al controllo dopo una settimana per rimuovere i punti di sutura, certo che non l’avrebbe mai più rivista. Il Dec squillò mettendo fine alla visita, ed egli si allontanò dal DEA per una nuova urgenza. Il viso della giovane gli rimase impresso in quella notte particolarmente stressante. Al cambio del mattino, dopo il solito caffè forte e nero preparato da Agnes, ancora imbronciata per l’accaduto della notte, fece una doccia che lavò via sudore e stanchezza. Poi si recò in cortile con il casco in mano, prese la moto parcheggiata sotto il grande ippocastano, ne avviò il motore e la Scarver BMW bianca emise il suo rombo sordo che celava una potenza non appariscente, calzò il casco e si avviò lungo il viale alberato per far ritorno a casa. Dopo il curvone, appena dietro l’ospedale, la vide: seduta, seminascosta da un cespuglio di oleandro sul ciglio della strada, probabilmente intenzionata a fare, guardinga, l’autostop ad un improbabile ed assonnato ante del mattino presto. Aveva paura di essere nuovamente riacciuffata dai suoi aguzzini. Donne così sono controllate a vista ma l’entità delle ferite arrecatele li aveva verosimilmente tenuti lontano per qualche tempo, certi del suo ritorno e dell’impossibilità di trovare un qualsiasi rifugio, per di più con il rischio del rimpatrio immediato. La ragazza doveva aver dormito nei pressi, non sapendo dove andare, o forse, gli piacque pensare che l’avesse in qualche modo atteso nell’intento dell’incontro. Il cuore sembrava gli scoppiasse dentro: era felice di rivederla e si stupiva di ciò che stava provando. Adamo diresse verso lei, fermò, spense il motore e si tolse il casco. Lei, con il volto gonfio e violaceo, gli regalò una smorfia che voleva essere un sorriso. Lui le offrì un aggio e lei lo strinse forte in vita. Troppo forte per non sentire per sempre quelle braccia. Partirono insieme e da quel momento ebbe inizio la loro storia. Si amarono di un amore vero e profondo, e quello fu forse il solo amore che Adamo visse. Un giorno, rientrando a casa, trovò segni di lotta e capì che era il capolinea dei suoi sogni. Tutto ciò che rimase in lui fu la disperazione ed il dolore profondo di un abbandono che non avrebbe dovuto essere un addio.
Diede ancora due sorsate al bicchiere di vino, che posò sul tappeto e guardando il fuoco si addormentò.
Capitolo 2
Giunse l’alba. Discese come una lama di luce d’oro ramato dalla cima della parete sud sino al crinale, al dente dello sperone, e poi lungo il vallone, all’inizio del bosco di abeti rossi e larici. Bagnò il tetto della baita, penetrando a forza dentro gli anfratti del tempo e le deformazioni degli scuri. Penetrò fino a incidere i capelli, la fronte e gli occhi di Adamo. Un batter di ciglia e lentamente riprese coscienza di quel mondo che aveva lasciato nel sonno. Un mondo senza sogni. Si rese lentamente presente alla realtà che lo circondava. Riprese dimestichezza con il luogo, con il dolore sordo alla spalla, l’arsura ed il calore della fronte. Aveva la febbre. Sentiva la febbre sul suo corpo, il torpore ed il suo strano odore, la spossatezza; non doveva essere molto alta ma era presente. Pensò ad una normale reazione del corpo, come avveniva ai Pazienti appena operati. Non osava pensare ad un’infezione. Si alzò lentamente e barcollando si recò in bagno. Più tardi raggiunse la cucina e si ricordò di assumere altre due compresse di antibiotico, resistendo al desiderio di ricontrollare la ferita. Non sarebbe comunque apparsa molto diversa dalla notte prima. Bevve ancora con avidità dell’acqua gelida. Si avvicinò alla grande finestra ed aprì uno scuro. C’era il sole ed un cielo azzurro terso come non si vedeva da tempo. Non alimentò il camino, le cui braci ormai non fumavano quasi più. In baita c’era appena un poco di tepore. Oggi, pensò, si sarebbero riorganizzati e posti delle domande. Avrebbero tentato di seguire le tracce, chiesto informazioni in giro, cercato di capire. Non avrebbero perso del tempo e lui invece ne aveva un disperato bisogno; doveva guarire e riprendere l’uso del braccio, raccogliere le idee, organizzare la difesa e magari are al contrattacco. In baita aveva riserve alimentari per almeno un mese e forse di più. Aveva avuto sempre l’idea di potersi isolare per lunghi periodi e stavolta la cosa poteva veramente essergli utile. Era sicuro che non sarebbero riusciti a localizzarlo facilmente, ma doveva essere attento, molto attento, anche a particolari insignificanti. Si avvicinò allo stipite della porta che separava la camera da letto dal soggiorno. Spinse lentamente con il bacino ed il braccio sano il vecchio cassettone, lateralmente lungo il muro. Scivolò facilmente sull’assito ancora cerato. Rimosse il battiscopa di larice appena fermato da una goccia di resina di pino che celava una feritoia dove ava a malapena l’indice della mano. Lo fece scorrere lentamente lungo l’asse fino a toccare l’inchiavardatura in ferro. Tirò forte ma non accadde nulla. Riprovò
ancora, ma non riuscì a sganciarlo. Erano anni che il vano segreto non veniva aperto. Riprovò, ma il tentativo non riuscì. L’umidità e l’assestamento del legno avevano bloccato il rudimentale ma efficiente meccanismo. I tentativi e lo sforzo lo avevano stremato. Aveva bisogno di una leva, anche piccola, e magari anche di due braccia efficienti, ma doveva accontentarsi della destra. In cucina cercò una forchetta di quelle dei nonni. Prese la forchetta, la puntò verso l’angolo tra il pavimento ed il muro e, con la punta del piede, la deformò ad elle. Poi la infilò trasversalmente all’assito facendola scorrere fino a trovare l’inchiavardatura. Tenendola ferma con la mano destra, diede un piccolo calcio tra il punto dove afferrava la forchetta e la parte libera del manico che usciva dalla feritoia. Al primo colpo udì lo scatto del piccolo catenaccio che bloccava l’assito. Ripeté lo stesso gesto all’estremo opposto della tavola che si rese libera. La tolse facilmente e con la pila controllò il contenuto. Estrasse il fodero che conteneva la carabina Ma M98 Magnum, acquistato in Austria dal nonno nel ’38, l’astuccio dell’ottica di mira Zeiss, la scatola in legno dove riponeva i proiettili ed i bossoli dei colpi esplosi. Per risparmiare li faceva ricaricare da un suo amico armiere, apionato di armi e di balistica, con palle di piombo morbido, diceva, perché quando penetrano all’interno del corpo dell’animale, si aprono ed aumentano il potere d’arresto. Comparve tra gli stracci anche una bomboletta di olio per armi spray, che ricordò di aver comprato anni prima, della corda, del nastro, i cinghietti in pelle della tracolla. Aprì l’astuccio delle munizioni; ad occhio dovevano essercene almeno due pacchetti da 50 colpi, più quelle sparse alla rinfusa di varie marche e ricariche. Appoggiò tutto sul tavolo della cucina, si avvicinò nuovamente alla botola e vide in fondo il suo coltello da caccia, il visore notturno ad intensificazione che aveva acquistato anni prima da un albanese, che doveva averlo trafugato all’esercito bosniaco, due ricetrasmittenti FT 20 della Yaesu. Tutto parve in efficienza. Avrebbe provato presto l’attrezzatura. Si sentiva più sicuro anche se usarla avrebbe voluto dire essere scoperto e quindi probabilmente perdere la partita. Sapeva di rischiare la vita, ma in fondo della sua vita non gli importava. Dopo la scomparsa di Anna, l’odio ed il rancore avevano preso il sopravvento. La ferita di un amore così bruscamente interrotto non si era rimarginata. La ricerca di una sorta di giustizia compensativa, la rabbia dentro, generavano in lui una forza interiore di chi sa osare il tutto per tutto, senza rimpianti e senza temere la morte. Rabbia e cinismo freddo, che, se accompagnati da una mente lucida, sono una miscela esplosiva ben più potente della polvere da sparo. La voglia di giustizia, o forse di vendetta, divampava dentro. Una voglia di giustizia non regolata da leggi, come si intende comunemente, ma un sentimento atavico, non codificato,
che fa parte dell’essere umano. Aveva voglia di chiudere la partita con qualcuno, con un delinquente che avrebbe pagato per tutti, che avrebbe scontato la sua furia da tanto repressa. La morte era messa in conto. Non sarebbe stata poi un prezzo così alto: tutti debbono morire in un modo o nell’altro, alcuni per un motivo futile, altri per un grande ideale. Lui sarebbe morto per difendere se stesso, la sua libertà di pensiero, era la sua vendetta sul convenzionale, per essere diverso dal branco, per la sua identità contrastata, quasi anarchica. Nel momento in cui era in bilico la sua sopravvivenza Adamo metteva in gioco il senso della propria esistenza, richiamava alla mente le riflessioni che lo avevano guidato nelle sue scelte di vita, riviveva con tormento la ribellione all’imposizione di regole non fatte proprie e non condivise, nell’assurdo del pensiero dominante . Regole fatte dalla maggioranza, non per il vivere civile, ma per il desiderio del controllo dei diversi, del pensiero trasversale che implica pericolose fughe, contagiose e destabilizzanti. Erano regole di una maggioranza per ridurre alla dipendenza, quasi una nuova forma di schiavitù, pensieri divergenti e non allineati. Adamo non era anarchico e neppure un disadattato sociale, era semplicemente un disincantato idealista, che lottava per valori assimilati fin dall’infanzia vissuta a contatto di una natura, ancora non inquinata, e di persone semplici, ma autentiche, al di là delle convenzioni, ritenute normali nel mondo globalizzato. Era stata Anna a risvegliare questi sentimenti, lottare anche per la sua scomparsa, gli sembrava il modo più vero per denunciare un mondo ingiusto e sbagliato. Eppure Adamo fuggiva da killer che lo avrebbero ridotto al silenzio per denaro e non per l’odio o la furia di uno scontro. Omicidi su commissione per motivi altrui, per paura di perdere ricchezze acquisite con disonestà, perché poi è a questo che tutto si riconduce. Adamo iniziò a preparare le armi della sua difesa con freddezza e lucidità. Quelle materiali ereditate dalle esperienze ate e quelle della sua mente, create per la circostanza. Ricordava le parole del nonno. “Nella caccia, preda o cacciatore che tu sia, non essere prevedibile. Insegui con tenacia o fuggi con apparente indifferenza. Fuggi deciso, ma gioca con la morte la tua partita e prova a blandirla. Cambia il tuo ruolo, sempre! I nemici ne saranno sorpresi e sconvolti. Non c’è sensazione peggiore per un cacciatore che scoprire di essere preda. Quando saranno stanchi e insicuri, cercando risposte,
sarà il momento di colpire con tutta la tua forza.”.
Uscì all’aperto, scostando con l’uscio la neve polverosa ammucchiata, trasportata dal vento freddo da Nord . Girò dietro la baita ed entrò nella legnaia. Verificò l’integrità del generatore ed, afferrando il cordino dell’avviamento, tirò forte per provare se entrava in funzione. Partì al primo colpo: il motore Honda non si smentiva mai, era perfetto. Spense subito il tutto. Non voleva attrarre l’attenzione. Nella legnaia aveva conservato la motosega per i vecchi tronchi, alcune lose per il tetto, barattoli di vernice vecchia per interni e dell’impregnante per le travi di legno, benzina, cera, una bombola del gas di ricambio, l’attrezzatura da pesca del nonno con la sua vecchia canna, e tutto quello che serviva per la manutenzione della baita. La sua attenzione fu attratta dal rumore di pale di un elicottero che risaliva dalla valle. Lo stavano già cercando, pensò, non hanno perso tempo, ma era sicuro che non avrebbero mai visualizzato la baita dal cielo. Accese il motore del generatore per ricaricare un poco le batterie. Il rumore delle pale avrebbe coperto tutto. L’elicottero percorse il fondovalle più volte alla ricerca di tracce. Volò rasente il bordo del lago e risalì il sentiero, troppo veloce per visualizzare eventuali orme, troppo veloce per penetrare il fitto del bosco. Giunto al costone, fece un ampio otto sull’altipiano che si collegava da una parte con la Svizzera e dall’altra con la Francia lungo il o. Si soffermò sul pianoro e lentamente iniziò a scendere da dove era venuto. Adamo guardò istintivamente il camino della sua baita: non emetteva fumo visibile ed il rumore del generatore era inudibile già a cinque metri dalla baita. L’elicottero percorse un ampio giro e ridiscese verso il fondovalle. Il volo era durato almeno quaranta minuti, molto per dei semplici turisti e ancora di più per degli escursionisti e sciatori che prediligevano la parte Est, dove arrivava la funivia. Lasciò il generatore; una lieve brezza saliva sul fianco della montagna esposto al sole e quindi avrebbe portato il rumore in alto, verso la cima. ‘Bene’, pensò,’ ho il tempo per isolare questo posto. Vedremo se saranno così bravi da scovarmi, intanto devono solo provare a raggiungermi quassù’. E un piccolo lampo di luce rasserenò il suo volto. Se solo avesse potuto usare il braccio sinistro! Doveva preparare una trappola che sarebbe dovuta apparire casuale. C’era un solo punto ideale: il costone dello strapiombo. Doveva riposare e aspettare il cessare della febbre. L’unico impegno sarebbe stato quello di controllare l’arrivo di eventuali visitatori. Il punto d’osservazione migliore era ad un duecento metri
dalla baita, salendo lungo una fessura della parete che conduceva dietro il versante nord, abbastanza ampia da contenere due persone e non così scoscesa da rendere impossibile il percorrerla senza l’ausilio delle mani. Decise di provare. Entrò nella baita; cercò i ramponi da ghiaccio e li fissò con cura sugli scarponi, prese la piccozza, il binocolo, alcuni chiodi da roccia, un martello ed una fune di sessanta metri ed iniziò la salita verso la fenditura. Vi giunse subito; la osservò con calma e prestò particolare interesse ai riflessi di luce sulla parete imbiancata. Non voleva scivolare sul ghiaccio, bastava risalirla quel tanto che permetteva di sollevarsi sopra la vegetazione e trovare l’angolo di vista giusto sul costone sopra il dirupo. Salì lentamente, metro dopo metro, piantando qualche chiodo più per prudenza che per effettiva necessità, nei punti più scivolosi, su cui fissò la corda, bastarono circa 20 metri di salita ed apparve il costone stretto e lungo una cinquantina di metri, aggio obbligato al sentiero della parete nord. Inforcò il binocolo e regolò il fuoco, poi fissò attentamente il percorso stretto: le sue orme non erano più visibili. Guardò giù verso la valle. Il punto era ideale e poteva scrutare fin dove c’era la stazione di partenza della funivia, vedeva i cavi inerpicarsi sul costone opposto, oltre i tremila metri di quota, sul pianoro c’era la stazione di arrivo, non era necessario soggiornare al freddo. Da quel punto lasciò cadere la corda fino alla base, vi collegò il discensore ed in un attimo si ritrovò in basso. Per percorrere il tracciato occorrevano, a persone non esperte, appiedate e senza familiarità dei luoghi, circa otto ore in buone condizioni del tempo, aveva quindi un buon margine di tempo per un’osservazione sicura. Sarebbe bastato recarvisi tre volte al giorno per poter organizzare la reazione o controllare l’eventuale presenza di persone o di orme. Si guardò intorno per vedere se riusciva a scovare delle pietre piatte o delle lose abbandonate, ma non vide nulla di utile alla sua idea. Non restava che utilizzare una losa della sua baita, una di quelle nella vecchia legnaia, tuttavia c’era il problema di trasportarla fino al costone. Avrebbe potuto attendere l’indomani, le prime ore del giorno con la neve ben ghiacciata. Scese nuovamente alla baita, attendendo la sera, e ammazzò il tempo pulendo il fucile e controllando ogni suo singolo meccanismo. Alla sera, accese nuovamente il camino cercando di usare pochissima carta e scegliendo accuratamente i pezzi di legno di acacia per fare meno fumo. Si preparò il letto, mangiò qualcosa e finì la bottiglia di vino aperta la sera prima. Sprangò tutto e si distese sul letto con al fianco il Ma Accese la piccola radio a batteria. Cercò notizie dalla rete locale, ma nulla, nulla che lo riguardasse. Ascoltò attentamente solo il bollettino meteo della zona, ma non era previsto nulla di buono per il giorno successivo. ‘Meglio’, pensò. La febbre era sicuramente diminuita. Prese
ancora la sua medicina e nuovamente si abbandonò al torpore che offusca la realtà. D’improvviso una sagoma non ben definita si mosse rapida alla sua destra, fluttuante nel buio, confondendosi con le ombre generate dalla del camino. Scattò seduto sul letto, afferrando d’istinto il Ma. Accese la pila, ma non vide nulla. La porta era sprangata e gli scuri chiusi. No, non era nulla, forse era l’ansia sottile che aleggia nell’attesa e fa avvertire nella schiena un brivido sottile, un vuoto alla bocca dello stomaco, che s’impossessa della mente. I suoi occhi penetravano il buio ed i suoi sensi erano tesi. L’unico rumore percepibile era quello del fuoco nel camino. Era strano, si sentiva insicuro e si scoprì il cuore in tumulto. La solitudine può giocare brutti scherzi e la malattia amplifica la sensibilità. Eppure, quell’ombra gli era sembrata qualcosa di reale, di già visto, ma non poteva essere. Sono i pensieri che emergono dal profondo di noi come fantasmi evocati da esperienze vissute, come frammenti impressi nella memoria da sensazioni lontane nel tempo. Tornò a stendersi e si rimboccò la coperta fino a coprire l’orecchio, come faceva da bambino, per voler escludere il mondo esterno, ma non riusciva a riposare. Gli occhi vagavano ancora nel buio, cercando nel diaframma che separa la realtà dai sogni. Cercava il senso della notte nell’ibrido mondo del dormiveglia, con i pensieri sfumati nel venire del sonno e della febbre. Eppure quell’ombra era apparsa così reale...
Il nuovo giorno lo trovò rinvigorito e con la voglia di fare. Il braccio non gli faceva più male e la febbre era cessata. Decise d’iniziare subito il lavoro per la sua difesa. La losa scelta la sera prima era troppo pesante, sia per essere sollevata, che rotolata, ed implicava comunque un movimento significativo del braccio offeso. Adamo decise allora di provare a trascinarla sulla neve ghiacciata del mattino, pensando che avrebbe offerto una resistenza minore, anche in considerazione che il sentiero era in discesa; semmai avrebbe dovuto stare attento a non farsela sfuggire, per non esserne travolto. Prese la corda e fece un nodo a botte, lo legò ai quattro lati della pietra piatta, che apparentemente era delle dimensioni giuste rispetto alla larghezza del sentiero in cui intendeva porla. Provò a trascinarla, tirandola con la corda appesa alla spalla destra. Riuscì appena a smuoverla lentamente, ma lo sforzo molto grande comprendeva comunque un’azione di entrambe le spalle, per cui decise di cambiare metodo. Sulla neve ghiacciata e in
discesa le cose sarebbero andate meglio. Prese il capo libero della corda, rinunciando ad usare la spalla sana. Ne svolse circa quattro metri e si cinse la vita con un nodo a gassa, per impedirne lo scorrimento. Iniziò a muoversi; lo sforzo era notevole, il trascinamento gravava principalmente sul bacino e sulle gambe non interferendo con le spalle. Metro dopo metro, avanzava e la fatica diminuì con l’aumentare della pendenza del sentiero. Impiegò quasi due ore per giungere alla gola di accesso. Studiò bene il sentiero e, nel suo punto più stretto, collocò al centro, longitudinalmente al percorso, due pietre dalla testa tondeggiante, come quelle dei ciottoli di fiume, avendo cura di renderli solidali con il fondo, togliendo la neve sotto per evitare che potessero affondare con lo schiacciamento. Vi trascinò sopra la grande losa, scegliendo per la faccia a vista il lato più liscio. Poi, con calma, con il solo braccio utile e con piccoli movimenti, la sistemò decentrata rispetto alle due grosse pietre tonde, come una bilancia asimmetrica con il lato più largo verso il dirupo, in modo che potesse basculare liberamente. Incastrò appena il bordo opposto sul lato della montagna con una piccola quantità di neve, tanto quanto sarebbe bastato a non farla oscillare spontaneamente, scavò via la terra ed il ghiaccio sotto il lato burrone in modo che l’escursione, sarebbe stata più ampia possibile con un peso prevalentemente poggiato su quel lato. Provò il tutto ponendoci sopra la sua gamba e vide la losa inclinarsi paurosamente verso lo strapiombo di almeno trentacinque gradi. Rimise la grande pietra nella posizione originaria, ripetendo le stesse azioni per renderla parallela al terreno ed incastrandola appena sulla parete opposta allo strapiombo. Prese dallo zainetto le due bottiglie di plastica piene d’acqua. Stappò la prima, ne bevve un sorso e versò parte del contenuto sulla pietra. Attese il congelamento dell’acqua. Sulla superficie si era formato uno strato sottilissimo di ghiaccio. Ripeté più volte l’operazione, fino ad essere sicuro di averne formato un discreto strato. Raccolse da alcune fronde della parete laterale della neve polverosa gettandola dall’alto per ricoprire tutti i margini liberi della losa con il terreno circostante e su tutta la sua superficie. Cancellò nello stesso modo le tracce intorno e si fermò a controllare il tutto. Il sentiero appariva perfetto. Nessuno avrebbe potuto immaginare l’esistenza della trappola. La prova dei fatti l’avrebbe collaudata molto presto. Non rimaneva che tornare alla baita recandosi di tanto in tanto al luogo d’osservazione ed attendere gli eventi. Pensava che nessun turista si sarebbe avventurato in quel periodo lungo il sentiero. Nessuno mai aveva tentato l’accesso alla parete nord d’inverno e con quelle condizioni di tempo. Il braccio gli faceva di nuovo male, lo aveva sicuramente sollecitato. Domani avrebbe dato una nuova occhiata alla ferita. Lentamente tornò sui suoi i,
dopo aver recuperato la corda, lo zainetto, e le due bottiglie d’acqua. Nella baita preparò ancora della legna sottile per la notte, mangiò dello scatolame recuperato dalla dispensa. La neve cadeva fitta e gelata, sembrava polvere, quella tanto desiderata per le gite di sci d’ alpinismo, impalpabile farina, fantastica nelle rapide discese. Il tempo gli stava dando una mano e questo lo rassicurò. Si chiedeva quanto avrebbe potuto resistere in caso di attacco. Doveva escogitare ancora qualche difesa; come aveva detto il nonno, forse sarebbe stato meglio invertire i ruoli, far sentire i suoi nemici braccati, almeno nel suo territorio.
Capitolo 3
Il mattino lo sorprese con una luce attenuata e la scoperta di una nuova nevicata in atto. Il vento era appena percepibile e la visibilità scarsissima. Probabilmente nessuno gli avrebbe fatto visita quello stesso giorno; era bene non dormire, nella speranza che non avvenissero fatti comunque inevitabili. Prima o poi qualcuno si sarebbe fatto vivo ed era meglio continuare a prepararsi. Decise di alimentare il fuoco anche di giorno. Le condizioni del tempo glielo permettevano e la casa si sarebbe scaldata a sufficienza. Aveva pensato di preparare qualche altra trappola e stavolta ricorse alle sua esperienza alpina. Prese la paletta di alluminio ed acciaio, si allontanò dalla baita di circa cento metri e lì, dove il sentiero poco sotto si divideva, iniziò a scavare una piccola caverna nella neve, come quando ci si deve proteggere da una tempesta ed il rifugio è lontano. Scelse il punto con cura, tra due cespugli ed il tronco di un grande abete rosso. La fece profonda due metri o poco più, sufficientemente larga da potersi comodamente muovere all’interno con i gomiti. Lisciò bene la volta interna del tetto, quel tanto necessario per impedire che il calore del corpo potesse farla gocciolare alla sommità, con il risultato di sentirsi nel collo e sui vestiti, delle gelide gocce di neve sciolta. L’entrata del pertugio guardava sia l’ingresso della baita che il sentiero, e da lì avrebbe potuto tenere sotto tiro chiunque l’avesse percorso. L’accesso gli sembrava difficile da localizzare ma per migliorarlo staccò dei rami dai cespugli vicini coprendo meglio il pertugio. Tornò alla baita e prese una bobina di filo elettrico doppio che era avanzato dall’ultimo lavoro effettuato l‘estate precedente. Ne lasciò un capo nella cantina e uscì, dipanandolo pian piano, fino alla piccola caverna nella neve. Non si preoccupò di ricoprirlo. La nevicata stava risparmiandogli il lavoro. Tagliò quindi il filo, lo separò e ne spelacchiò i due capi, infilandone l’estremità all’interno del buco nella neve. Ritornò sui suoi i fino alla cantina, cercò nei barattoli dentro la vecchia credenza e tirò fuori una lampadina per auto a 12 Volt. La avvolse in uno straccio e la colpì gradualmente, sempre più forte con una pietra fino a romperne il vetro. Verificò che il filamento fosse rimasto intatto. Collegò l’altro capo del filo, spelacchiando entrambe le polarità e collegandole poi ai piedini della lampada. Raccolse una delle batterie che usava per la moto e ne controllò la carica, creando per un istante un corto circuito. La scintilla scoccò immediatamente. Prese la batteria e la pose vicino alla carabina, non lontano dal
camino. Pose poi la lampadina sulla maniglia della bombola del gas che teneva sempre di riserva e la fissò con cura con del nastro isolante, rivolgendola verso l’interno, in modo non potesse rompersi inavvertitamente. A questo punto avrebbe potuto trasformare la bombola in una trappola mortale se avesse trovato il modo di collocarla in un luogo chiuso, permettendo al gas di saturare l’ambiente. Non ebbe il coraggio di usare la baita come trappola. La casa era una parte di sé. Decise di piazzarla in qualche anfratto nei pressi del sentiero. In qualsiasi momento, sarebbe bastato aprire il rubinetto, lasciare uscire il gas per un po’ di tempo e poi far bruciare il filamento. Uscì dalla baita e fece una ricognizione per vedere dove piazzarla. Individuò una piccola caverna alta da terra meno di un metro e mezzo ma sufficientemente profonda. In realtà non era in una posizione utile per controllare nulla, ma lo scoppio poteva creare un importante diversivo e magari, se fosse riuscito ad attrarvi qualcuno, poteva risultare anche mortale. Occultò bene il filo e si curò che vi fosse una moltitudine di tracce che conduceva all’imboccatura. Il rubinetto non era proprio a portata di mano, ma non ci sarebbe voluto tanto tempo per arrivarci ed aprirlo. Tutto era pronto, non restava che attendere. L’ansia dello scontro e il desiderio di farla finita rendeva lucida la sua mente. Trascorsero ancora due giorni con avverse condizioni del tempo che permisero un miglioramento della sua condizione fisica. Poteva iniziare a muovere il braccio senza forti dolori, la ferita ormai stava migliorando e non si era infettata. Ringraziò Dio della buona sorte.’ Forse’, si disse,’ non era ancora giunta la sua ora’, ma ormai sentiva lo scontro vicino, lo desiderava. Il desiderio di vendetta e di rivalsa lo incitarono tanto che cominciò ad attendere con un senso di liberazione l’ora dello scontro. Si recò al suo punto di osservazione, con il binocolo scrutò il sentiero. Tutto apparve deserto, anche lontano, giù verso la partenza della funivia, tutto sembrava tranquillo. Decise di tentare un contatto con la sua ricetrasmittente. Prese la Yaesu: poteva comunicare con frequenze sui due metri. Si sintonizzò su quella del ponte 156,800 MHz. Emise la frequenza portante e subito sentì l’attacco del ponte radio: “IK2 FTF c’é nessuno in frequenza?” Nulla, solo il fruscio dell’attesa in ricezione. “IK2 FTF c’è nessuno in ascolto?” ripeté. “OK ti copio IK2FTF io sono IK2ZZS vieni pure avanti”
“Bensentito IK2ZZS, sono in frequenza in quanto non ho altra possibilità di comunicare e mi trovo in estremo pericolo. Non posso spiegarti il come ed il perché, ma ho assoluto bisogno di aiuto e di comunicare con una persona. Puoi avvertire il mio contatto?” “Qui IK2ZZS, ti ho ben ricevuto. Ho capito e se posso fare di più non hai che da dirmelo. Comunque se ti basta comunicare con il tuo contatto, dimmi pure cosa devo fare” “Qui IK2FTF che parla, ti ringrazio. Ho bisogno che tu avverta una guida alpina di nome Ricu. La trovi a Sanfront nella valle Po. Cerca nella sezione del CAI di Paesana; lui possiede una radio come la nostra e qualche volta la usa, altrimenti telefona. Comunicagli pure la mia sigla e lui capirà. Digli di tenersi pronto per il contatto per le ore 21 di questa sera. Ho assoluto bisogno di parlargli, è di vitale importanza. Digli che lo cercherò sulla frequenza che abbiamo sempre utilizzato quando salivamo in montagna. Se non avrò modo di sentirlo, avvisami sulla frequenza del ponte. Ti ringrazio. Ancora una cosa: non far parola di questa conversazione” “OK, qui IK2ZZS, ho capito. Ti saluto anch’io e spero tu possa risolvere i tuoi problemi. Lo cerco subito per la commissione. Spero nessuno sia ora su questa frequenza, io non ne farò parola. Saluti, chiudo” “Qui IK2FTF, grazie e chiudo”.
Ora Ricu avrebbe potuto essere avvertito. Lui era il solo, oltre la madre, a conoscere la localizzazione della baita. Era stato grande amico del nonno ed era una esperta guida alpina. Le prime vere ascensioni in parete le aveva fatte con lui. Era la guida più precisa, meticolosa ed affidabile che avesse mai conosciuto, Ricu. Possedeva una forza spaventosa ed una grande resistenza alla fatica. Non si sarebbe potuto dire guardando il suo fisico mingherlino. Ma nelle sue mani aveva la forza di un arrampicatore libero e nella testa la volontà di uno che raggiunge ad ogni costo il suo obiettivo. Attese con ansia la sera ed alle ore 21 accese la trasmittente e chiamò. “Ricu ci sei, ci sei” Nessuna risposta “Ricu ci sei?”
“Si sono qui. Come stai Ad..?” “Non bene, Ricu, e tu?” “È di te che voglio sapere. Dove sei?” “Dove era sempre il nonno” “Bene, lì dovresti essere al sicuro, ma come stai?” “Sono ferito ad una spalla. Non è grave, ma non posso ancora usare il braccio. Appena starò meglio dovrò scendere a valle e avrò sicuramente bisogno di te perché non potrò usare il sentiero della nord” “Ad, se non impari a volare subito, non vedo quale altra via tu possa usare senza un braccio e d’inverno” “Ricu, è per questo che ho bisogno di te, sei l’unico che può fare qualsiasi cosa in montagna, su questa montagna” “Non c’è modo Ad, credimi, non c’è modo, dovresti saperlo!” “Ricu, se non riuscirò ad andare via da qui, temo che ci rimarrò per sempre” “Ad, lasciami pensare, ora non so dirti, ma la situazione mi sembra impossibile. Qui gira da qualche giorno strana gente, mai vista da queste parti, che fa domande su di te e ti sta cercando in tutto il paese e nella frazioni vicine. Qualcuno ha detto di averti visto con la moto alla partenza della funivia cinque giorni fa. Sono stati visti cercare qualcosa, si pensa la tua moto, ma non l’hanno trovata e neanche le tue tracce. Hanno già fatto un giro in elicottero nei giorni ati e l’elicottero è nuovamente prenotato per i prossimi giorni. Appena potrà volare te lo sentirai sulla testa. Si sta anche preparando una squadra di cinque o sei persone, con la guida, per salire e cercarti”. “Senti Ricu, secondo te è possibile scendere a valle salendo prima al o delle Cicogne?” “Sei pazzo Ad, hai deciso di morire. Lo sai che quel o d’inverno è impossibile, soggetto a slavine continue per tutta la neve portata dal vento che si ammassa ogni notte e in più con tutte le recenti nevicate! Credevo di averti
insegnato qualcosa” “Sì Ricu lo so, ma non ho alternative” “Quella non è un’alternativa, è morte certa. Dammi tempo per pensare” “Ricu, pensa in fretta, non ho molto tempo e non resisterò a lungo quassù, anche se ho preparato qualche sorpresa per i miei visitatori” “Ad, stai attento! Ho sentito che hanno reclutato Hermes per venirti a cercare. In montagna è bravo ed è intelligente anche se non piace a nessuno perché è spavaldo. Per soldi farebbe di tutto e credo ne abbiano offerti molti” “Ricu se dovessi venire su, avvisami. Non vorrei incapi nelle mie sorprese. Ricordalo!” “Bene Ad” “Ricu, sto difendendo la mia vita perché è di questo che si tratta” “Si Ad l’ho capito; ti ricontatto esattamente tra dodici ore. Forse potrei…Ti dirò appena possibile” “Grazie Ricu, sapevo di poter contare sul tuo aiuto; ci risentiamo tra dodici ore.
Adamo si sentiva rinfrancato dall’aver contattato il vecchio amico: é bello non sentirsi soli. Ricu era l’unico in grado di tirarlo fuori da quella situazione in montagna Sapeva tenere la bocca chiusa. Se gli andavi a genio ti dava il cuore. Di lui tutti dicevano che in montagna era come un’assicurazione sulla vita. Non aveva mai abbandonato nessuno e se, c’era da salire per salvare qualche povero cristo in difficoltà, non si era mai tirato indietro, anche nelle situazioni più rischiose. Sembrava un uomo sulla quarantina, ma certamente era più vecchio. Non frequentava molto il bar del paese, e aveva pochi amici. Non amava le domande dirette. Viveva solo e diceva che con le donne aveva chiuso da tempo. Pochi sapevano di una se, Cristine, vissuta con lui per cinque anni e andata via, si disse, con un magiaro. Quando Adamo aveva manifestato il desiderio di fare la prima ascensione in
parete il nonno glielo affidò. Avevano provato ad arrampicarsi in un camino del dente dello sperone. Poi erano saliti per la normale sul Cervino. Ricu era paziente, perdonava gli errori, indicava la strada, era sempre in posizione di sicurezza. Erano diventati amici e spesso s’incontravano tutti insieme su dal nonno, che preparava, nella pentola di pietra ollare, il camoscio al barolo oppure il cinghiale e la polenta taragna, che adorava da quando era stato a caccia in Valtellina. Quando Adamo aveva finito l’università, il tempo per le ascensioni si era ridotto, ma non la sua amicizia per Ricu ed il desiderio di salire su qualche vetta.
Adamo preparò lo zaino per le ascensioni, lungo e stretto, con tutto ciò che sarebbe potuto essere necessario per sopravvivere in montagna, all’aperto, per due o tre giorni. Voleva predisporre l’evenienza di dover abbandonare la baita. Controllò la vecchia carabina ed i suoi proiettili, e selezionò gli originali di fabbrica, tralasciando quelli che il nonno ricaricava da solo per risparmiare sulle munizioni; alcuni li ripose in una tasca laterale dello zaino, pochi altri nella tasca dei pantaloni che chiuse con la lampo. Infilò la carabina con il colpo in canna insieme alla piccozza, questa rivolta verso il basso. Prese delle buste di cibo liofilizzato, biancheria di ricambio, l’inseparabile Victorynox, il visore notturno, il coltello da caccia che infilò nella cintura dei pantaloni, il binocolo e le racchette da neve. Queste erano belle; le aveva acquistate in Canada, nel Quebec, in un negozio della comunità Inuit, leggere, veloci e molto robuste. Pose tutto sul tavolo della cucina in modo che fosse a portata di mano in un istante, senza dimenticare nulla. Controllò ancora la sua ferita che, andava bene, stava cicatrizzando. La sbendò e protesse i due fori solo localmente con due cerotti di grandi dimensioni. Avrebbe potuto muovere meglio la spalla, pur mantenendo i cinghiaggi ad otto per mantenerla in scarico. Mise a ricaricare gli accumulatori della Yaesu lasciandola accesa per ricevere la chiamata di Ricu dell’indomani mattina. Si coricò sul letto. Sentiva crescere l’eccitazione per lo scontro imminente. Era pronto, ma rimaneva altrettanto importante riposare.
Aveva ricevuto da Ricu un’informazione preziosa. Lo avrebbero cercato, sia da terra che dal cielo. Non si poteva certo dire che non fossero organizzati. Si era preparato ad un attacco da terra, ma non pensava, e non era preparato ad un attacco dal cielo. Posti per atterrare vicino non c’erano. Nulla escludeva che
potessero calarsi da funi con i discensori. Se lui fosse stato il cacciatore e l’organizzatore della caccia nel bosco, disponendo di tante risorse di mezzi e uomini, avrebbe tentato l’accerchiamento. Era semplice: una squadra sarebbe partita a piedi dalla piazzola della funivia, in costante contatto radio con l’altra in elicottero, con discesa sul pianoro dove la vegetazione era assente, poi avrebbe lentamente guadagnato il fondovalle congiungendosi con quella che saliva. Il meccanismo a tenaglia era perfetto e non gli avrebbe lasciato scampo. A poco sarebbe valsa l’invisibilità della baita. Battendo il sentiero a pettine prima o poi l’avrebbero scoperta. Forse erano proprio queste le modalità che seguivano i suoi inseguitori. Pochi elementi erano a vantaggio di Adamo: non lo sapevano armato, non erano certi del tutto che si trovasse in montagna e non tenevano in considerazione la sua conoscenza del territorio e delle sue risorse . Il sentirsi forti ed invulnerabili apriva la possibilità a qualche errore fatale. Adamo si chiedeva chi formasse il gruppo dei “cacciatori”. Sicuramente, a parte la guida Hermes, il gruppo non doveva essere composto da persone locali. Non potevano certo dire in paese che partivano per una caccia all’uomo, tanto più armati fino ai denti com’erano. Qualcuno avrebbe parlato e la Polizia ed i Carabinieri si sarebbero insospettiti. Era probabile che volessero far credere che si trattava di un gruppo di alpinisti un po’ eccentrici, interessati a scalare la parete nord inviolata in inverno, mentre l’elicottero sarebbe stato noleggiato da apionati di eliski. Per non lasciare testimonianze scomode Martino, l’elicotterista del soccorso alpino e dell’eliambulanza, probabilmente sarebbe stato lasciato a terra per quelle poche ore. Era certo che anche un elicotterista, venuto da lontano, avrebbe fatto parte del gruppo esterno. Bastava una sola persona che conoscesse bene il territorio e questa era Hermes, che avrebbe potuto coordinare la missione a terra. Un’unica persona estranea al gruppo dei sicari era più facile da controllare, sia con il denaro sia perché successivamente poteva essere “rimosso” per non lasciare in giro un testimone scomodo. Hermes era sgradevole per quella sua boria spavalda, espressione costante del suo carattere così stonato in un ambiente quasi sacro per Adamo e per apionati come lui del bosco e della montagna. Il fatto che fosse un buon alpinista, non migliorava il giudizio. A Hermes mancava l’umiltà dell’essere umano di fronte alla solennità della piramide di pietra. Egli si era formato alla scuola del tecnicismo più spinto;e gli era incomprensibile un rapporto con la montagna che uscisse dalla logica del semplice mestiere di guida alpina. Probabilmente fermare Hermes avrebbe significato fermare il gruppo. Non sarebbe stato facile e non doveva sottovalutare la sua intelligenza. Piuttosto, avrebbe dovuto pensare all’elicottero. Fino ad allora aveva messo in atto delle trappole per la squadra di
terra, ma non aveva pensato all’elicottero. Mentre si preparava al contatto con Ricu decise di coricarsi ripetendo i riti di sempre.
Nel buio, rischiarato dal camino apparve improvvisamente quell’ombra rapida come la sera prima, ma stavolta a contorni più definiti e poi.… “Ad sono io”. Adamo balzò letteralmente sul letto come colpito da una scarica elettrica lasciando cadere a terra sia la pila che il Ma. “Ad, sono il nonno, non spaventarti” Il cuore di Adamo si fermò, rotolò fuori dal petto, rimbalzando in terra per poi di nuovo riprendere a battere. “Ad abbandona la paura, liberati dell’odio, della zavorra. Ascolta le parole che ti vengono da dentro. “Nonno dimmi… dove sei…vorrei…Non ho paura di morire. La mia vita si è fermata da tempo...molto tempo.…” “Ad lo so, ma non è così. Tu vivi perché la tua vita è parte di un disegno. Ricorda quello che ti è stato insegnato; è già tutto scritto nella tua mente e nel tuo cuore. Scava dentro, figlio, e mi ritroverai sempre.” “Nonno ma io voglio chiederti di…” “No Ad devo andare, non posso darti risposte, non posso darti segni. Hai tutto in te. Ascoltati e troverai le risposte che cerchi” L’ombra scomparve così come si era materializzata. Adamo si ritrovò in piedi, seminudo, sudato, davanti al camino . Non capiva se il suo era il risveglio da un sogno lucido. Il sonno e la veglia non si contrappongono mai così drasticamente ma sono uno la continuazione dell’altro, con margini sfumati su binari che solo apparentemente coesistono paralleli. I sogni e la realtà sono “fatti della stessa materia” diceva Shakespeare ed Adamo viveva nella stessa consapevolezza di chi è avvolto da una nube.
Un’allucinazione? Ubriachezza? Febbre? Capì soltanto di essere solo, di una solitudine carica di tensione. Bevve dell’acqua, raccolse i suoi oggetti, e si addormentò tra ricordi.
Il risveglio avvenne per il rumore gracchiante della trasmittente. “Ad mi senti, dove diavolo sei finito” “Sono qui Ricu, dimmi” “Penso di salire da te questa notte. Credo che la squadra che ti cerca sia già partita” “Maledizione, non pensavo con questo tempo e così presto….e l’elicottero?” “Non credo possa ancora volare, ma sembra che gli altri avessero molta fretta. In paese hanno detto che vogliono arrivare al rifugio dell’Alpe Manina per poter attaccare la nord quando il tempo migliora. Occhio!” “Sì Ricu, ascolta! Prima di attraversare il sentiero dello strapiombo avvisami e fermati. Ti vengo incontro” “Sì, va bene Ad, sono pesante ed una mano non mi dispiacerebbe” “Ti aiuterò, tu fermati e aspetta; vieni su armato!” “Lo sono, tu sei pronto?” “Sì, sono pronto, comunque vada” “Ad non esporti, credo di avere la soluzione al nostro problema” “Grazie Ricu, parli di ‘nostro’ problema” “Smettila e pensa a cose più importanti” “Ricu, mentre sali fai attenzione, potrebbe esserci in giro gente…”
“Vedrò Ad. Ci risentiamo tra dodici ore o prima, se c’è qualcosa che non quadra” “Chiudo, a più tardi”
Stavano salendo, ma la cosa non lo preoccupò più di tanto. Probabilmente rastrellavano la zona. Vi erano moltissime baite da controllare una ad una. Ognuna poteva offrire un rifugio ed in ognuna avrebbero potuto trovare tracce della sua presenza. Poi, fin sopra le meire, il controllo del territorio avrebbe richiesto tempo e di notte non avrebbero potuto far nulla. Il giorno dopo non sarebbero arrivati freschissimi, perchè le notti in montagna in quella zona ed in quella stagione non erano così ospitali; la temperatura scendeva frequentemente sotto i -25° C. Lo scontro sarebbe arrivato, era ciò che stava aspettando e quello per cui si preparava. Mancava ancora una parte importante: doveva fermare l’elicottero e gli si presentò un’idea. Aprì il vecchio armadio, ne trasse una stampella per abiti, molto grande, e corse poi in legnaia a cercare delle fascine per accendere il fuoco. Le modellò e fissò con del nastro adesivo e con quello che rimaneva delle sue bende. Prese poi un vecchio maglione sdrucito e la giacca di fustagno che non aveva ancora gettato nel fuoco. Iniziò a calzare il maglione con l’imbottitura di fascine e lo sospese sulla stampella. Poi ricoprì il tutto con il giaccone di fustagno. Cercò poi un paio di pantaloni che usava solo per i lavori alla baita. e li calzò all’altezza della vita del fantoccio con un pezzo di corda legata dietro la schiena. Prese poi un caschetto da roccia, quello di un bel colore giallo, lo infilò sopra una scatola di biscotti che fissò nello stesso modo, e allacciò il cinghietto del casco sotto la stampella. Guardò la sua opera e ne fu abbastanza compiaciuto. Lo spaventaeri era pronto; non restava che collocarlo al posto giusto, al momento giusto. Prese un tiro di corda e ne tagliò poco più di quaranta metri. Collegò saldamente un capo della corda alla stampella, ed uscì di corsa verso il suo punto di osservazione. Depose a terra il suo spaventaeri e si allacciò alla cintola il capo libero della fune. Iniziò a salire lungo il camino, aiutandosi come sempre con la corda fissa che aveva applicato la prima volta. Nevicava forte e non si vedeva nulla a distanza. Continuò a salire e raggiunse il punto di osservazione. Fece are nel foro del chiodo un moschettone e lì dentro la cima libera della fune, che era assicurata all’altro capo sul fantoccio, e la lasciò cadere fino a terra dove lo aveva posato. Diede un’occhiata con il binocolo verso il fondovalle, ma non riusciva a vedere nulla, neppure il sentiero sullo strapiombo. Collegò la sua imbracatura ed il suo discensore grigrì alla fune fissa e discese rapidamente a terra, dove ripose il
discensore nella tasca, prese la fune che aveva fatto are nel moschettone e legò anch’essa alla stampella. In questo modo aveva praticamente costruito un alzabandiera, ma vi avrebbe issato l’esca per il grande uccello. Da lontano, ne era sicuro, il pupazzo sarebbe stato visto ed avrebbe attratto i cacciatori. Per ultimare l’opera, volle provare ad issarlo. Con movimenti del solo braccio destro, tenendo ferma la cima tra una bracciata e l’altra con il sinistro, impiegò circa trenta secondi per issarlo fino al moschettone. Cercò poi con lo sguardo un punto che gli avrebbe permesso di visualizzare una porzione di cielo sufficiente ad inquadrare l’oggetto volante, magari anche un appoggio per mirare con precisione. Saltò tra due massi e vide il luogo che reputò il migliore per la sua imboscata. Ritornò al punto di partenza, contando ancora otto secondi, quindi in meno di un minuto sarebbe stato pronto a far fuoco. Normalmente il tiro utile del suo fucile era di circa quattrocento metri, ma, non volendo sbagliare, e tenendo conto magari di avverse condizioni meteo con il vento, la neve e la scarsa visibilità, cento metri potevano ritenersi un buon compromesso. Sperava di riuscire ad inquadrare l’elicottero rapidamente. Era un bersaglio molto mobile e non avrebbe avuto altre possibilità. Si sentiva bene ed era eccitato. Tornò velocemente alla baita, afferrò lo zaino che aveva preparato. Controllò ancora il Ma, in particolare il montaggio dell’ottica, compresa la sua fissità sul fucile Non aveva oscillazioni o piccoli giuochi anche di centesimi, era perfetta. Dette un’ultima occhiata all’alzo. Era, come sempre, regolato sui duecento metri; aveva fatto molte prove in ato, con l’aria ferma ed il fucile in appoggio: riusciva a colpire a quella distanza un bersaglio grande come un una pallina da golf. Sparando a cento metri doveva pensare che il proiettile sarebbe stato più alto della zona di mira di circa quattro cm, con il tipo di munizioni che aveva. Non volle modificare nulla perché in tal caso sarebbe stato necessario provare alcuni tiri. Prese il tutto ed uscì nuovamente all’aperto. Raggiunse il posto di osservazione e non vide nulla di nuovo. Era irrequieto, non riusciva a star fermo. Controllò la sua piccola caverna di ghiaccio e la batteria con il filo. Scese nuovamente e pensò che Hermes non sarebbe ato su per il sentiero del burrone con quelle condizioni di tempo, ma avrebbe potuto decidere di giocare sulla sorpresa. Adamo non si sarebbe fatto sorprendere, anche se non era più sicuro di niente. Decise di riscaldarsi in baita; al momento era lui ad avere un piccolo vantaggio, ma non riuscì a scostarsi dalla finestra.
Capitolo 4
Finalmente apparvero, come ombre nere su fondo bianco all’inizio del sentiero. Si fermarono tutti. Adamo ne contò cinque. Uno di essi cercava chiaramente di creare una cordata, ma non dovevano essere d’accordo tutti, in quanto il primo si scansò con decisione tenendo in mano quello che sembrava un fucile. Gli altri accettarono di essere legati. Non si distinguevano ancora i volti. Voleva cercare d’individuare Hermes. Era lui il primo obiettivo. La visibilità era scarsissima e le figure apparivano sfumate, con i amontagna calati a coprire anche la bocca. Il primo fece per avanzare, ma venne bloccato da una figura alta ed imponente legata ad altri due. Anche l’ultimo, alla fine, preferì non legarsi ed avere le mani libere. Il primo con il fucile in mano avanzava cauto, lentamente, o dopo o. Gli altri seguivano. Hermes doveva essere uno dei tre in cordata, forse il primo, per valutare la strada, forse l’ultimo per far sicurezza. Avanzavano e si avvicinavano alla trappola. Si fermarono e parlarono tra loro. I tre legati in cordata rasentavano di più il costone della montagna. Adamo scivolò nella sua piccola caverna di ghiaccio, imbracciò il Ma e attese.
Il fucile non oscillava, era ben poggiato, e le sue dita non tremavano. Non aveva mai sparato ad un uomo. Non aveva mai sparato a freddo. La sua età lo aveva graziato dalle atrocità della guerra e mai avrebbe pensato che qualcosa del genere potesse accadergli, lui, uomo ‘normale’, in un mondo ‘normale’ dove ci si accapiglia per una carriera, dove ci si consuma l’esistenza per un metro in più, dove l’aridità d’animo è un titolo preferenziale per andare avanti senza doverlo scrivere sul curriculum personale. Non vi erano altre soluzioni che potessero essere percorse. Adamo aveva preparato nei giorni ati le sue trappole senza pensare se fosse giusto; ora era al punto di non ritorno ed i dubbi lo assalirono. Lo volevano morto, ridotto al silenzio per sempre. La posta in giuoco era altissima, non avrebbero più commesso errori, di questo era conscio, quello che stava facendo non gli piaceva, avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
Il primo si stava avvicinando alla trappola. Adamo lo inquadrava bene: sarebbe
stato a tiro ma attese, non fece assolutamente nulla. L’uomo avanzò ancora. Porre il piede sinistro sulla losa fu un attimo. Un istante dopo scivolava roteando su se stesso con tutto il peso del corpo, prima di cadere. Precipitò in un volo che sembrava infinito. Un urlo agghiacciante accompagnò la sua caduta.. Non capì dove stava cadendo ed i suoi pensieri cessarono in un tonfo che mise fine a tutto. Gli altri rimasero pietrificati. Il primo della cordata si avvicinò alla trappola. La scrutò con attenzione. Per quanto Adamo potesse capire, il tizio aveva intuito tutto. Era inutile celarsi e credere che gli altri pensassero ancora al caso. Poteva essere lui, Hermes, provò ad inquadrarlo bene e vide il reticolo della mira coincidere con il bersaglio grosso. Sparò senza più esitare. Doveva averlo centrato in pieno al torace, perchè cadde all’indietro, ma ebbe la forza di rialzarsi. Adamo ricaricò rapido. Gli altri si acquattarono addosso alla parete, ma non dovevano stare molto bene in quella situazione. Adamo sparò di nuovo, sempre alla stessa figura, ma stavolta mirando alla testa. Vide il colpo a segno e la materia grigia dell’uomo trasferirsi sulla parete di roccia e neve, colorandola di rosa. Cadde a terra, ma non nel dirupo. Il secondo estrasse rapidissimo un coltello e freneticamente iniziò a tagliare la fune. Adamo sparò ancora. Un lieve spostamento dell’uomo chinato gli salvò la vita. Colpì la figura alla gamba destra; l’uomo cadde, bestemmiando. Venne afferrato e trascinato via dagli altri due, il compagno di cordata e quello che per ultimo non aveva voluto essere legato. Fuggirono, correndo disperati. Adamo sparò ancora, mirando all’uomo claudicante nel tentativo di colpirlo e di squilibrare anche i due uomini davanti. Li mancò, ma incise l’eco degli spari nella loro mente. Vide schizzare pietre e neve sulla parete del sentiero: fuggivano a perdifiato lasciando sul terreno due di loro. Non avevano sicuramente localizzato il punto di partenza degli spari, pur avendo certezza della sua presenza.
Ora, pensò Adamo, stavano sicuramente contattando il gruppo alla base. Si sentiva euforico dopo il confronto, pur senza farsi illusioni. Aveva vinto una battaglia e si era meritato il rispetto del nemico. Sarebbero stati molto più attenti; era sicuro che da quel sentiero non sarebbero più saliti se non con una mossa diversiva combinata.. Era questo che doveva aspettarsi. Durante le ore di luce non avrebbero tentato il aggio. Erano troppo esposti e sotto tiro. Potevano avanzare nella notte, ma anche questa soluzione presentava altissimi rischi.
Adamo non era preoccupato ma pensava a Ricu e doveva avvertirlo dell’accaduto. Prima di chiamarlo per radio si mise a correre verso il sentiero, voleva vedere la faccia dell’uomo abbattuto o almeno quello che ne rimaneva. Gli altri si sarebbero ben guardati dal far capolino, pensavano certo al ferito e a risolvere la situazione. Adamo rovesciò il cadavere. Scoprì il volto. Mancava parte della scatola cranica, non si trattava di Hermes. Frugò in tutte le tasche. Non vi era un solo documento ma circa duemila euro. Un colpo di fortuna. Rimise il portafogli al suo posto, lasciando solo cinquanta euro. D’estate, fosse stato rinvenuto il cadavere, si sarebbe pensato a quello sfortunato alpinista caduto nel dirupo assieme al compagno. A tale scopo rimosse la corda che lo legava agli altri, che avrebbe testimoniato il taglio netto del coltello. Raccolse il fucile del primo uomo scivolato nel burrone: era un Kalashnicov AK 47, non proprio un’arma da caccia. Sperò tanto che l’uomo precipitato non avesse munizioni in tasca, perché, per tutti gli investigatori, il ritrovamento delle stesse avrebbe avuto l’identico significato dell’arma. Hermes non era sicuramente l’uomo caduto nel burrone. Mai si sarebbe avventurato con un’arma in mano sul sentiero trascurando le più elementari norme di sicurezza. Forse poteva essere il ferito o l’ultimo della cordata a tre. Non si fermò a riflettere oltre. La trappola era scattata, non aveva più senso lasciarla in quella posizione. Spinse la losa inclinata nel dirupo. Si sarebbe sicuramente spezzata nella caduta, cancellando se stessa ed il suo uso. La stessa sorte toccò al cadavere. Precipitando, i segni della caduta avrebbero probabilmente cancellato quelli del proiettile penetrato nel volto ed uscito dalla nuca con una discreta porzione di scatola cranica. Più difficile da occultare la ferita al torace, ma con un esame non approfondito e nello stato di ritrovamento, avrebbe potuto are inosservato. Avrebbe benissimo potuto essere l’uomo che aveva sparato a lui. I superstiti non avrebbero pubblicizzato la cosa. Prevalse il cinismo: sperava che il freddo non conservasse troppo a lungo i cadaveri.
Hermes non era morto e, da un certo punto di vista, Adamo se ne compiacque. Forse avrebbe capito la vera portata della sua scelta di guidare una spedizione di assassini. Forse, quando era stato arruolato, non sapeva neanche bene di cosa realmente si trattasse.
Ritornò al presente abbandonando congetture da verificare. Cercò la radio nel suo zaino e mandò il segnale di chiamata sulla frequenza prestabilita. Ricu rispose dopo circa cinque minuti. “Ciao Ad tutto bene?” “Sì Ricu, è cominciata. Come mai non rispondevi?” “Prima di rispondere stavo cercando l’auricolare; il bosco si è movimentato, e da quanto ho capito ne hai beccato qualcuno. Stanno preparando una barella” “Sì, due sono nel burrone” “Vorrei salire subito ma sono bloccato. Uno di loro presidia l’accesso al sentiero. Non sarà facile fotterlo, è accucciato e protetto dietro i massi tra le meire. Bisognerebbe distrarlo e approfittare della situazione” “Ricu ho un visore notturno, quando cala il buio magari tento una sortita” “Non ti azzardare; non lo prenderesti mai è troppo coperto e saresti senza protezione. Posso tentare io” “Ti stai già esponendo molto per me, aspetta nascosto, un’idea mi verrà in mente” “Ad devo interrompere, sta succedendo qualcosa, arriva gente dal fondovalle, debbo nascondermi e nascondere anche il sacco…chiudo, richiamo io”
Hermes era disteso sulla barella posticcia costruita con due sci da alpinismo collegati con corda e nastro. Era dolorante per la gamba destra colpita da un proiettile poco sopra il ginocchio. L’articolazione non sembrava lesionata ed il femore non fratturato; riusciva a stare ancora in piedi. Aveva perso molto sangue ma la legatura sopra la ferita aveva impedito il protrarsi dell’emorragia. Erano necessarie cure specifiche, e doveva essere trasportato in ospedale. Aveva anche pensato cosa raccontare in DEA al momento del ricovero. Bastava affermare di essersi ferito mentre stava pulendo, da seduto, l’arma di famiglia, non accorgendosi del colpo in canna, poi partito accidentalmente.
“Ciotto, urlò Alex, dovresti avvertire di predisporre una macchina alla piazzola della funivia per accelerare i tempi. Avvisa subito per radio!” “Ok, chiamo subito” Ciotto, come pure Alex, erano mercenari della legione straniera arruolati nella squadra Esperti e duri, erano stati entrambi istruttori e consiglieri militari prima che il corpo fosse sciolto. Due avanzi di galera molto esperti nell’uso delle armi e nelle tecniche di guerriglia. Alle spalle avevano un lungo curriculum di azioni ed incursioni in ogni parte del pianeta, dove si ritenesse utile il loro intervento. Venivano arruolati da insospettabili persone, sempre per sistemi che non lasciavano tracce. Molte volte non conoscevano nemmeno la persona che li arruolava. Venivano pagati su conti cifrati e movimenti estero su estero in zone franche o paradisi artificiali, lontano da occhi indiscreti e dall’interpol. Avevano tutti nomi di battaglia e molte volte le loro identità erano sconosciute. Ciotto, prese la trasmittente dal sacco. Si allontanò da Hermes quel tanto da pensare di non essere udito. Accese e premette il pulsante di chiamata: “Aquila due chiama base, rispondete” “Qui base, dì pure aquila due” “Abbiamo problemi” “Che genere di problemi? Mai una volta che riusciate a fare un lavoro liscio e pulito” “Abbiamo perso due aquile, la tre e la cinque e la numero uno è ferita” “Cosa è successo? Ho capito bene?” “Si base, attendiamo aiuto per aquila uno ed istruzioni per noi” Vi fu un attimo di attesa, silenzio radio, poi la radio riprese a gracchiare “Restate dove siete, imbecilli! Non muovetevi di lì, ripeto, non muovetevi di lì. Presidiate la zona e non prendete altre iniziative che non siano prima concordate!”
“Ok base, ma aquila uno?” “Restate lì, sono stato chiaro? Aquila due, ora il comando è tuo. Ti riterrò responsabile da questo istante di come procederanno le cose. Invierò rinforzi. Aspettate loro con gli ordini!” “Bene. Attendiamo istruzioni. Chiudo”
Hermes non aveva afferrato il dialogo ma il dubbio lo assalì nel momento in cui capì di non essere trasportato a valle. “Ciotto, cosa aspetti ancora a portarmi giù?” “Capo, non prendertela. Dalla base mi hanno detto di attendere i soccorsi. Stanno già salendo” Hermes trasalì. Capì immediatamente che il suo destino era segnato. Per assurdo non sarebbe morto per mano dell’avversario, ma per l’opera dei suoi stessi compagni. A quanto pare non volevano correre rischi sull’esito della spedizione, non potevano accompagnarlo in ospedale. Lo avrebbero ucciso e magari fatto scomparire nel lago o nel burrone. Doveva andarsene prima dell’arrivo dei rinforzi; nascondersi sarebbe stato impossibile. Scendere a valle la stessa cosa. Ma così era comunque morto. Morto per morto, decise di rischiare. “Ciotto, dammi dell’acqua” “Certo, la vado a prendere” Si diresse verso Aquila quattro che, ben appostato, stava presidiando il sentiero. “Alex hai mica dell’acqua da bere?” “Cerca nello zaino” Aquila due si chinò sullo zaino ed iniziò a frugare. Trovò la borraccia, richiuse lo zaino, tornò sui suoi i per portare l’acqua ad Hermes. Hermes era scomparso. “Maledizione, Alex il capo sta scappando, Deve aver intuito qualcosa, aiutami a
cercarlo, non può essere andato lontano” Hermes correva, nonostante dolori lancinanti alla gamba lesa. Correva verso valle lasciando impronte e sangue nella neve. Se fosse riuscito a raggiungere la piazzola della funivia sarebbe stato in salvo. Era veloce nella discesa malgrado la gamba ferita. La sua abilità in montagna e l’abitudine ad ogni sentiero annullavano l’handicap. Ciotto lo inseguiva urlando: “Fermati capo, fermati” Fermati maledetto bastardo pensava, ho già abbastanza grane. Hermes capiva che non avrebbe potuto resistere a lungo. Doveva cercare di disarmarlo e renderlo inoffensivo. Si appostò dietro un masso. Sapeva di aver lasciato tracce e dovette attendere poco. Afferrò la sua piccozza e si preparò a colpire. Ciotto scendeva rapido. Non voleva uccidere Hermes con una fucilata. L’eco poteva essere udito a valle e non era aperta la stagione venatoria . Forse doveva solo aspettare. Hermes sarebbe morto dissanguato comunque. Ciotto varcò l’angolo formato dal masso che piegava il sentiero verso valle. Hermes roteò il fendente col massimo della sua forza. Ciotto ebbe la prontezza dell’istinto di ripararsi il viso con il Kalashnicov tenuto con entrambe le mani. Riuscì ad evitare il fendente di metallo ma non il corpo della sua impugnatura che lo colpì in piena fronte. Il dolore fu intensissimo. Gli sembrava che il cranio scoppiasse, ma non perse i sensi. Cadde in terra con Hermes, che gli fu sopra con tutto il suo peso. Ansimavano entrambi come bestie inferocite. Hermes riuscì ad afferrare il Kalashnicov, spingendo con entrambe le mani la canna sulla sua gola per tentare di strangolarlo. Ciotto lo colpì ai testicoli con una ginocchiata ben assestata. Hermes urlò forte, non lasciò la presa, la alleggerì. Ciotto riuscì a divincolarsi e sfuggì alla morsa. Stava per far fuoco, ma la punta della piccozza gli penetrò violentemente nel torace, Hermes era riuscito a vibrare un colpo deciso. Ciotto gemette intensamente, fece per imbracciare il fucile, Hermes lo colpì ancora con un pugno in piena faccia. L’altro non era quasi più in grado di reagire. Hermes raccolse una pietra da terra e picchiò violentemente sulla guancia; il suo avversario si afflosciò come un fantoccio. Hermes si alzò lentamente ansimando e barcollando, e dopo aver raccolto il fucile, riprese a scendere il sentiero non tenendosi più bene in equilibrio. Si sentiva debolissimo e non avvertiva più il dolore alla gamba. Nonostante tutto fosse accaduto troppo
velocemente, pensava di riuscire ancora a cavarsela. Uno schiocco ed un colpo secco come una frustata lo raggiunse alla schiena. Cadde in avanti bocconi nella neve, senza un gemito, mentre un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca, un torpore sordo e freddo s’impossessava di lui, poi non sentì più nulla.
Ricu aveva osservato tutto ed aveva riconosciuto il fuggitivo. Era l’attimo favorevole per tentare il aggio del sentiero, al momento non presidiato. Scivolò rapido di meira in meira, di sasso in sasso. Si fermò, prese fiato, accese la trasmittente e chiamò: “Ad ci sei” “Dimmi” “Hanno ammazzato Hermes e lui ha fatto fuori uno di loro. Il sentiero è libero, ma lo sarà per poco. Io tento di are adesso. Non spararmi addosso. Ho un grosso sacco azzurro sulle spalle, mi riconoscerai per questo” “Ti vengo incontro Ricu, stai attento al sentiero, è viscido e pericoloso, in particolare sul tratto stretto. Cercherò di coprirti”. “Ok , chiudo”. Ricu avanzava nella neve alta, fuori dal sentiero principale. Anche se aveva le racchette da neve affondava parecchio per quel basto enorme che portava sulle spalle. Mancavano solo duecento metri all’imboccatura del sentiero, un tratto del tutto scoperto sia da vegetazione che da pietre. Doveva rischiare. Si fece il segno della croce ed iniziò a correre come meglio poteva.
Alex, la guardia, che aveva abbandonato il controllo del sentiero, stava lentamente risalendo e si fermò accanto a Ciotto per controllarne lo stato: era ancora vivo, ma respirava a fatica. Con la coda dell’occhio percepì l’ombra di un uomo correre in direzione del sentiero. Imbracciò l’arma e fece fuoco. La stanchezza della salita ed il suo affanno, lo fecero sparare da posizione eretta che, stanco com’era, non gli permise un controllo del fuoco. Questa fu la fortuna di Ricu che vide schizzare intorno a sè prima uno, poi due, tre proiettili, infine
una piccola raffica. Adamo correva nella direzione opposta. Aveva udito i colpi e poi la raffica. Se fosse accaduto qualcosa a Ricu non se lo sarebbe mai perdonato. Correva anche lui a perdifiato. Vide Ricu imboccare il sentiero, e quattrocento metri sotto, l’uomo che si stagliava sul bianco, appoggiarsi ad una pianta per mirare meglio: “Buttati a terra Ricuuuu” Urlò disperato. Ricu si gettò a terra con tutto il suo carico. Adamo, appoggiato alla parete della montagna, aprì il fuoco mirando come meglio poteva, anche se era sicuro di non colpirlo. Non aveva certo la potenza di fuoco di un Kalashnicov. Si accorse di non avere quasi più proiettili nella tasca dei pantaloni: gli altri erano rimasti nella tasca esterna dello zaino. Ricu, intanto, carponi, strisciava sul sentiero, e, metro dopo metro, guadagnava la sua salvezza. Mentre Alex si apprestava a far partire la sua bordata, Adamo fece ancora fuoco. Vide l’albero, poco sopra la sua testa, andare in mille frammenti. Alex si buttò a terra e sprecò l’ultima occasione di sparare una raffica. Il sentiero era leggermente incurvato, d’aspetto convesso. Erano ormai entrambi fuori tiro. Alla fine del sentiero, Adamo sfilò lo zaino enorme a Ricu. Lo abbracciò forte, dandogli un numero infinito di pacche sulle spalle e pianse come un bambino nel rivedere l’amico di sempre. Adamo e Ricu erano in attesa di eventi, ma insieme. La mossa della partita ava all’avversario .
Alex si rialzò da terra, e tornò da Ciotto che aveva lasciato nella neve. Non sapeva se rimuovere la piccozza penetrata nel petto. Immaginava che l’emorragia sarebbe stata copiosa. “Ciotto, dov’è la trasmittente? Dobbiamo avvertire” “Se lo fai, sono morto” “No, ce la puoi fare, la piccozza non è penetrata molto nel costato, ma hai bisogno di qualcuno che sappia aiutarti, di un medico” “No Alex. Non rischieranno. Noi per loro siamo solo bassa manovalanza, mi sostituiranno. Già due stanno risalendo il sentiero. Mettimi in condizioni di stare in piedi. So io dove andare, non farne parola”
“Ma, Ciotto, dove pensi di andare?” “Prova a fare quello che ti dico e almeno una volta senza discutere. Cerca nella cassetta di pronto soccorso un ago cannula, od un ago, il più grande che trovi e portalo qui con delle bende e tutti i tamponi che vedi. “Ma capo…” “Niente ma, ubbidisci! Troverai l’occorrente nello zaino di quel maledetto che mi ha conciato così” Alex andò alla ricerca dello zaino, mentre pensava ancora all’uomo che aveva attraversato di corsa il sentiero. Non sapeva se raccontare l’accaduto a quelli della base. Decise di non parlarne: aveva abbastanza problemi e non voleva aggiungerne altri alle difficoltà presenti. Trovò l’ago nella scatola di pronto soccorso e lo porse a Ciotto. Bisognava decomprimere il pneumotorace provocato dalla piccozza. Il polmone collassato impediva a quello sano di espandersi correttamente. Era necessario decomprimere. Questi sfilò la custodia dell’ago cannula e la infilò nel costato del polmone offeso, bucando la pleura, come aveva visto fare nelle lezioni di addestramento militare, finché non sentì uscire l’aria con un sibilo deciso. La pressione nel cavo pleurico diminuì; andava nettamente meglio; aveva ripreso a respirare senza eccessiva dispnea. Lasciò l’ago in sede, chiuse il rubinetto e lo fissò con un cerotto. Fece sfilare da Alex la piccozza con lentezza. I denti zigrinati della punta, raspando le costole fratturate, gli provocarono un dolore intenso. Tamponò la ferita, da cui sgorgava molto sangue. La punta della piccozza si era infilata nel lobo apicale del polmone destro. Il sangue usciva ancora abbondante e lui zaffò il foro di garze e premette forte. Il dolore della costola rotta era insopportabile. Capì di non poter andare lontano e che aspettare era l’unica soluzione possibile. “Alex” disse “Se te lo ordinassero mi faresti fuori?” “Ma che dici capo? Non me lo chiederanno mai. Capisco che hai paura per quello che abbiamo fatto a quell’Hermes, quello non era uno di noi; sarebbe andato a spiattellare tutto e avremmo avuto guai a non finire. Tu sei uno che conosce le regole. Non ti succederà nulla. Ti riportiamo dal solito dottore, quello
di Asti, vedrai che t’aggiusta” “Lo spero Alex, comincio a sentire freddo” “Capo stenditi sulla barella che abbiamo fatto per l’altro, copriti che io torno a guardare il sentiero. Quel bastardo pagherà tutto” “Alex, bisognerà fare sparire quel cadavere; ami la trasmittente che voglio parlare con la base” “Tieni capo, speriamo funzioni, con tutte le botte che ha ricevuto” “Qui Aquila due a base” “Ti sento” “Ho dovuto far fuori la nostra guida. Stava scappando. Dobbiamo far sparire il cadavere e poi….c’è un altro problema” “Maledetti asini!” “Mi ha ferito, cosa debbo fare?” “Ho mandato su un branco d’imbecilli! Quello è solo, ferito, un semplice medico di provincia senza cibo e riparo e voi ve lo siete fatto già scappare una volta! Ora ha trasformato la vostra squadra in un cimitero. Vi ha fottuto tutti, branco d’imbecilli…imbecilli ed incapaci. Sei ferito come?” “Non grave ma sono fuori uso. E vi dico che qui ne potete mandare su altri dieci, ma da quel sentiero non si a! Basta un solo cecchino appostato bene… La soluzione è complessa. Non potrà essere risolta silenziosamente. Nessuno ci ha detto che la preda era armata. Ha avuto sicuramente un addestramento militare. Spara bene e con precisione e ha disseminato il percorso con delle trappole. Dobbiamo parlarne” “Riesci a venir giù?” “Si , ma è meglio che qualcuno mi accompagni” “Aspettate chi sta salendo. Scenderai con uno di loro. Aquila quattro conosce
bene il sentiero ed è meglio lasciarlo dov’è. Digli di bloccarlo e non far are nessuno. Il cadavere poi, dove credete possa essere sistemato?” “Il burrone mi sembra la cosa più semplice. Ritroveranno tutto in primavera, ma noi saremo lontani” “Va bene, allora fate così. Non prendete altre iniziative, presidiate il sentiero in modo che non ci possa scappare. Fate sparire il cadavere della guida e poi aspettate che il tempo migliori. Appena l’elicottero potrà volare le cose cambieranno. Il meteo dice che domani ci saranno delle schiarite” “Ho capito, aspetto che salgano gli altri due. In serata sarò alla piazzola; non mi farò vedere all’arrivo della funivia. Mandate una macchina e avvisate il chirurgo di Asti che stasera avrà del lavoro da fare” “Bene. Gli altri saranno da voi al massimo tra due ore. Ci risentiamo. Chiudo!”
Capitolo 5
“ Sono felice di vederti Ricu, mai stato così felice! Vieni, entra in baita a scaldarti” “Ma, il sentiero?” “Tranquillo da lì non a un ago almeno per quanto riguarda oggi. Comunque, adesso prepariamo un allarme che ci avviserà se qualcuno lo sta percorrendo” “Cosa intendi fare?” “Vieni, dammi una mano, in mezz’ora ci mettiamo al sicuro e poi beviamo tranquilli. In legnaia ho del filo da pesca del nonno, quello di nailon. Ve ne sono diverse matasse nel cassettone. Cerca quella da un millimetro che è molto robusta. Io vado a rovistare nell’immondizia e vedo se trovo dei barattoli” “Non capisco” “Capirai, non preoccuparti. Facciamo in fretta così poi ci rilassiamo” Adamo scese fino al sentiero con il rocchetto del filo da pesca, dopo aver fissato il capo libero alla maniglia della porta d’ingresso. Srotolò il tutto tenendo il filo ben teso e sollevato di ramo in ramo e cercando di mantenersi il più diretto possibile rispetto alla linea di discesa dalla baita. Fece traversare l’uscita della parte stretta del sentiero dal filo a circa cinquanta cm da terra e lo collegò legandolo al tronco di un abete. Se qualcuno lo avesse attraversato, non vedendolo, lo avrebbe stirato o spezzato e per lui andavano bene entrambe le cose. Collocò altri segmenti di filo che attraversavano possibili varianti al sentiero e li legò al filo principale che andava alla baita prima con un nodo, poi con una piombatura per evitarne lo scorrimento. Fece are il capo libero del filo che raggiungeva l’interno della baita attraverso una fessura più accentuata tra i tronchi degli stipiti della finestra che guardava verso il sentiero, attraverso un foro praticato con un chiodo nei barattoli vuoti del tonno e delle olive. Se qualcuno avesse tirato il filo che sopportava una tensione di strappo notevole, i barattoli avrebbero sbattuto tra loro avvertendo dell’arrivo dell’intruso. Se il filo
si fosse spezzato, gli stessi sarebbero caduti a terra con il precedente risultato. Per aumentare la sensibilità del sistema collocò all’interno dei barattoli alcuni sassolini di breccia che circondavano numerosi la baita, ed erano stati usati per la costruzione del massetto della base. Verificò l’assoluta invisibilità del filo, che altrimenti, avrebbe facilitato il ritrovamento della baita, collocando intorno arbusti coperti di neve Ricu constatò: “Semplice ed efficace” “Vieni amico mio, beviamoci qualcosa insieme, come ai vecchi tempi. La notte sarà lunga e devo dirti un sacco di cose” “Anch’io Ad. Non ti ho ancora detto cosa ho nel saccone” Prepararono le armi a portata di mano e le caricarono. Adamo recuperò i proiettili e ne mise ancora nelle tasche dei calzoni. Ricu tirò fuori la sua doppietta calibro 12, caricata a pallettoni con le cartucce per i cinghiali ed aveva portato con sè anche delle cariche a palla unica, tipo Brenneke, sempre per caccia grossa Le altre munizioni le aveva sistemate in parte nella giubba da caccia, in parte nello zainetto leggero.
“Ad è arrivato il momento di parlarci. Perché ti sei cacciato in questa situazione? Salendo ho scorto tre persone; uno era Hermes, l’ho riconosciuto subito. Aveva una gamba mal ridotta. Penso dovessero trasportarlo giù in barella, Qualcosa deve essere andato storto e gli altri due lo hanno fatto fuori. Credo che Hermes ne abbia ucciso uno, l’ho visto lottare selvaggiamente, infine l’altro gli ha sparato. È stato in quel momento che sono riuscito a are.” “Bene Ricu,, di cinque assassini ne è rimasto solo uno in grado di combattere, sono sicuro ne arriveranno degli altri. Ti dirò alcune cose, tuttavia nulla di quello che dico è del tutto chiaro anche a me. Devo capire il quadro d’insieme e non so ancora come agire. L’unica cosa che ho tentato di fare fino ad ora è rimanere vivo e con te ho qualche speranza in più di riuscirci. Comincerò da quello che credo sia l’inizio. Ero tornato dal viaggio a Carmel, in California di cui ti avevo parlato. Ero riuscito ad unire un congresso scientifico, che si teneva a S. Francisco, al periodo di vacanze. Avevo prima vagabondato qua e là e, nell’ultimo giorno del congresso, avevo ascoltato una relazione
scientifica: una delle più importanti multinazionali del farmaco, la Prisco Enterprise, stava sperimentando in fase avanzata un farmaco composto con la molecola chiamata Tropemi. Uno studio condotto su vasta scala su topi ed alcuni Primati mostrava l’eccezionale proprietà di ridurre, nello scompenso cardiaco, sia i diametri cardiaci che la marcata ipocinesia del cuore dovuto al deficit delle proteine contrattili delle fibrocellule miocardiche, causa di morte dei Pazienti affetti da scompenso cardiaco” “Calma, non ho capito niente” È vero, è complicato esprimerlo con parole semplici, Ti basti sapere che il farmaco potrebbe riportare il cuore all’efficienza di un tempo, riparando i danni di un infarto o di una cardiomiopatia, che sono poi le cause di morte più frequenti al mondo”. “Ma tu cosa centri in tutto questo?” “Dopo l’esposizione della relazione da parte della dott.ssa Sandra Blixten di New York, sono intervenuto con qualche domanda specifica sul meccanismo di azione della molecola. Questo farmaco mostrava una grande evoluzione rispetto ad altri sperimentati studi e permetteva di fare a meno di terapie invasive complicate e costosissime. “Continua” “Alla cena di gala che si tenne alla fine del congresso venni avvicinato dalla dott.ssa Blixten. Era interessata a sapere dove lavoravo, in quale ospedale, di quali metodiche di controllo era fornito il mio reparto. Era al corrente dell’ottimo livello della cardiologia ospedaliera Italiana. Già altri studi, in ato, erano stati effettuati con la collaborazione del nostro Sistema Sanitario Nazionale proprio per l’efficienza dimostrata, l’affidabilità e la riproducibilità dei controlli. Fui lusingato di saperla tanto informata e interessata alla nostra attività ed infine mi stupì quando mi propose di entrare a far parte dello staff sperimentale del farmaco in Italia, quando sarebbe iniziata la fase tre, ovvero la verifica sull’uomo. Ovviamente tutto ciò era prematuro; nel nostro paese esistono regole molto rigide sulla sperimentazione dei farmaci. È necessaria l’autorizzazione del Ministero della Salute, della direzione dell’ospedale e di criteri che non ti sto a descrivere. Ci scambiammo i telefoni, le nostre e-mail e continuammo a goderci piacevolmente la serata. Propose poi un brindisi
particolare…” Ed a questo punto il pensiero di Adamo tornò a quella sera. Era una donna molto bella e di grande fascino, sui trentacinque anni. Aveva capelli castano scuro legati sulla nuca che mettevano in risalto il lungo collo ed il disegno delle spalle che le conferiva un portamento elegante. Sembrava assomigliare ad una modella delle pitture di Modigliani: occhi di un azzurro intensissimo, incorniciati da occhialini tondi senza montatura. Snella, in un vestito nero che la fasciava dalla vita in su, nulla lasciando alla fantasia e si apriva sul fondo asimmetricamente, mettendo in risalto, nell’incedere, gambe affusolate in calze appena velate. Dopo aver salutato dei colleghi, la dottoressa afferrò due bicchieri flute ed una bottiglia di Cordon Rouge del ’97, gli fece cenno di seguirla e Adamo si trovò in una limousine nera che si fermò alla base della Transamerica Piramide. Doveva conoscere qualcuno d’importante per poter salire sul grattacielo più caratteristico della città appartenente ad una società privata. Sulla terrazza si vedeva S. Francisco da un’ottica unica. Il Golden Gate illuminato sulla sinistra e le luci lontane della baia di Sousalito e Alcatraz illuminato nella foschia della baia; spostato sulla destra il Bay Bridge che unisce la penisola alla terra ferma. I fuochi d’artificio del congresso che si chiudeva, lanciati sul mare poco davanti l’ormeggio della M.N. Carnival, resero indimenticabile il momento, come il bacio che sapeva di violetta e champagne in quella notte di fine settembre. Si rividero all’aeroporto il giorno seguente e si salutarono con la consapevolezza di cose non ancora vissute, di promesse non dette e non mantenute. Lei volava al Kennedy di New York, Adamo a Milano Malpensa. Una stretta di mano, un bacio ed una folla di pensieri e ricordi lontani per tutto il viaggio di ritorno. L’attesa e l’interesse di Ricu lo sollecitavano a continuare il suo racconto. “Tornato in ospedale parlai con Soave, il primario della cardiologia, gli dissi quali erano stati gli intenti e gli scopi di quel contatto che prometteva importanti sviluppi. Lasciai a lui la documentazione e tutto ciò che era arrivato per e-mail. Mi rigettai nel mio lavoro e tornai al quotidiano. Due mesi dopo venni contattato dalla segreteria della Prisco Enterprise; dovetti fornire informazioni su alcuni protocolli e scartoffie da compilare, sempre per attivare la sperimentazione del farmaco. L’invito a recarsi a New York giunse, però, al mio Primario e non a me. Ci rimasi male, ma non ne feci una malattia. Sandra mi scrisse che l’incontro avveniva per motivi tecnico amministrativi ed io comunque avrei mantenuto i contatti e parte della responsabilità della sperimentazione. Ci saremmo rivisti probabilmente a Natale.
Soave tornò dagli Stati Uniti e alle mie insistenti domande rispose evasivamente, con un “vedremo”, “faremo”, “cercheremo,” ma nulla di concreto. Mi dispiacque e capii che, per motivi non chiari, il progetto iniziale della nostra collaborazione stava naufragando. Cercai Sandra sulla posta elettronica e telefonando al suo cellulare. Seppi che era in vacanza nei Caraibi, sarebbe tornata dopo dieci giorni. Smisi di affannarmi; cominciai a pensare che qualcosa stava cambiando nei piani stabiliti; mi sembrava che il primario volesse accentrare su di sè tutta la responsabilità della sperimentazione. Abbandonai la ricerca di ulteriori informazioni e lasciai cadere il pensiero ricorrente di Sandra”. “Sì, penso, però, che ci sia dell’altro” mi sollecitò Ricu. “È vero. Non mi aspettavo nessun seguito ma un pomeriggio squillò il telefono. La sua voce mi penetrò con la violenza di un pugno alla bocca dello stomaco”
Ad tacque e ripercorse mentalmente quegli attimi ed il suono della voce di lei ancora gli suscitò la stessa emozione:
“Ciao, sono io” “Sandra, non mi aspettavo questa telefonata” “Non credo tu mi senta con piacere. Forse, certe decisioni non prese da me….” “No Sandra, avrei gradito semplicemente di essere messo al corrente con chiarezza di alcune decisioni del tutto professionali…” “Credi? E San Francisco?” “Una parentesi in una bella serata di fine estate” “Peccato Adamo, che tu lo abbia solo pensato” “Dove sei Sandra?” “Sono a Milano”
“A Milano? Ma che programmi hai? “Di lavoro” “Posso salutarti almeno? Dove alloggi?” “Sono al Four Season” “Prendo la macchina e in un’ora sono da te se vuoi” “Ad guarda che non devi farlo se non ti interessa. Non abbiamo più rapporti con te ed il tuo ospedale, dovresti saperlo!” “No, non sono al corrente di nulla. Il primario non mi ha mai più detto nulla circa l’esito dei vostri colloqui; è rimasto sul vago, reticente. Ho pensato che mi escludesse perché l’occasione era troppo ghiotta per non cavalcarla personalmente. Al punto in cui sono, il mio unico interesse è per te. Sei sempre dell’idea di rivedermi?” “Si Ad…” “Arrivo Sandra, aspettami, andiamo a cena. Parto fra mezz’ora. Sarò lì alle 18.30….”
“Stanza 422, sali Ad” L’aveva trovata avvolta nell’accappatoio bianco dell’Hotel. Era seria, aveva gli occhi lucidi e quello che rimaneva di un sorriso appena sbiadito sulle labbra. L’aveva abbracciato ed erano rimasti così, a lungo. La parentesi aperta a San Francisco non era chiusa. Ritrovarsi era quasi un dolore che trovava appena sollievo. Avevano scoperto entrambi un sentimento nato da un incontro che non doveva essere così importante. Lei gli cinse il collo mentre offriva le sue labbra. Il calore del suo corpo avvolse Ad che iniziò a carezzarle la pelle dall’apertura dell’accappatoio. Sotto le sue mani avvertiva il desiderio di lei, la pelle dei fianchi rabbrividire ed i capezzoli duri sui suoi seni turgidi, fregargli il torace. Lasciò cadere l’accappatoio scostandolo dalle spalle, ammirò il suo corpo nudo statuario e la sua pelle chiara,
quasi abbagliante nella penombra della stanza. Il desiderio divampò e con decisione le afferrò i fianchi e le gambe mentre sollevandola la distese sul letto. Si avvicinò a lei cercando di non gravarla con il suo peso mentre continuava ad accarezzarla tutta a far scivolare le mani su quelle curve piene nell’ansia di possederla. Sfiorò con le labbra il suo collo scivolando leggero sulle spalle e poi sui seni, mordendole delicatamente i capezzoli fino a rubarle piccoli gemiti sommessi. Le baciò lentamente il ventre seguendo i solchi profondi di una valle tra le protuberanze del suo bacino, così perfetto ed incavato, cullò con il mento la sua foresta ispida respirando l’odore più intenso di segreti e le sponde del suo mare, i margini della sua femminilità ed ancora, ancora, accompagnando con le labbra il suo desiderio fino a quando sentì: “Oh, Ad vieni, vieni ora Ad!” Mentre la penetrava con dolcezza e decisione lei accompagnò il suo movimento per lasciarlo spingersi sempre più profondamente in lei cingendo i fianchi con le gambe. I movimenti di Adamo erano misuratamente lenti ed ampi soffermandosi quanto più poteva e resistendo al desiderio che dilagava dentro fino a quando il corpo di lei chiese di più ad ogni movimento e la sua bocca ansimava e pregava con parole sussurrate, stringendolo con tutta se stessa nel profondo. Poi lo liberò dal suo abbraccio ed iniziò ad ondulare i fianchi. Ad perse ogni controllo ed ogni delicatezza. Lei gemette abbandonandosi e sostenendo la sua furia fino a quando giunsero insieme all’orgasmo. Rimasero così aggrappati l’uno l’altro come nella tempesta sullo stesso scoglio incapaci di cercare una nuova riva. Giacquero immobili stretti nel silenzio della stanza rotto solo dal respiro ansimante. Senza una parola Sandra lo baciò senza che Ad potesse vedere i suoi occhi. “Ad mi sei mancato, perché non una telefonata. Volevo vederti a Natale, speravo mi avresti raggiunta” “Sono diverso da come tu mi hai conosciuto. Dentro di me ci sono solchi profondi non rimarginati. Sei l’unica che mi abbia dato il coraggio di vincere la paura di provare ancora qualcosa. ” “Cosa ne sai Ad di quello che penso di te, quello che provo, da dove arrivo. Cosa ne sai della mia vita? Abbracciami Ad, non parlare, tienimi stretta”
Il fuoco del camino illuminava la stanza della baita; il calore e le ombre che ne
scaturivano, viaggiavano insieme ai ricordi. Il vino fiammeggiava nel bicchiere di un rosso delicato e violaceo in quella luce tremula: emanava un vago profumo di nocciola, mentre ancora mussava, appena versato, dopo due anni di meditazione in quella bottiglia di vetro pesante e marrone.. Fuori, la nebbia sfumava tutto, ed era ripreso a nevicare. Il silenzio ovattato isolava i due amici dal mondo, mentre il vino aiutava le parole e avvicinava i confini del tempo.
“Ad… cosa fai ? Continua a raccontare” “Scusa Ricu, pensavo…” “A lei vero?” “Si” “La ami?” “Forse, non lo so ” “Dai continua, racconta” “ Mi mise al corrente degli ultimi sviluppi: il Tropemi aveva in sé il potere di stimolare le cellule staminali cardiache e di permetterne la migrazione nelle stesse nelle zone lese in modo tale da riuscire a sostituire in parte o del tutto quelle malate o andate in necrosi per cause ischemiche. Il farmaco agiva come importante fattore di crescita cellulare inducendo miglioramenti descritti sull’attività contrattile del cuore, in particolare agendo su due proteine del sistema, la troponina e la miosina. Inoltre esso riduce, al contrario di molte altre molecole per la cura dello scompenso cardiaco, l’incidenza della mortalità totale di oltre il novantacinque per cento. Mi raccontò che la Prisco Enterprise aveva addirittura chiuso alcuni rami di ricerca molecolare per concentrare tutte le sue risorse su questo farmaco da cui avrebbe ricavato molto di più di qualsiasi altra molecola. Per evitare fuga di notizie e lo spionaggio industriale, l’azienda aveva diviso in tre bracci il suo settore sperimentazione e sviluppo. Se qualcuno fosse venuto a conoscenza di una linea di ricerca o addirittura di due, non avrebbe potuto utilizzare nulla. Soltanto alcuni manager della multinazionale, oltre al Presidente
Eric Dawson, all’amministratore delegato Antony Mallano ed il Direttore della ricerca Martin Flowers, erano a conoscenza della strategia di ricerca. Per maggior sicurezza una linea era stata sviluppata a Cicago, orientata dalla biochimica dott.ssa Ellen Tilsen, che si occupava della valutazione degli aspetti isomerici molecolari; l’altra, a Baltimora, diretta dal dott. Vito Nicolosi chimico biologico ed industriale, un genio nel suo campo, che aveva sintetizzato un gruppo di molecole tra cui quella denominata “Tropemi”. Questi valutava le interazioni fisico chimiche delle molecole sintetizzate con altri farmaci. La sua funzione principale era di ottimizzare il nucleo chimico in modo da ridurre al massimo gli effetti collaterali della sostanza; la terza, la più importante fuori dai confini nazionali, era a Pomezia vicino Roma, dove erano state trasferite le più sofisticate attrezzature di ricerca conosciute, fatte giungere, per vie diverse, da nazioni cuscinetto come il Senegal, Marocco, la Cina popolare ed Israele. Questo aveva garantito la minor focalizzazione possibile dei concorrenti ed il rapido progredire dello sviluppo iniziale. Sandra era a capo della sperimentazione del braccio italiano. Il suo compito era la sperimentazione su animale delle tre molecole risultate più idonee allo scopo e la prospettiva era poi, nell’ultima fase, quella sull’uomo concertata con il Ministero della Salute di alcuni stati tra cui ovviamente anche il nostro Paese. Sandra mi disse quello che Soave mi aveva taciuto: la Prisco aveva inizialmente deciso d’intrattenere rapporti esclusivi con il primario in quanto voleva far capo ad un “opinion leader”. Se poi lo stesso avesse voluto estendere a me le conoscenze, questo era affare suo e dei collaboratori che si sceglieva”. “Poi che cosa accadde?” “Accadde che il presidente, Eric Dawson, e Soave non trovarono una linea comune di accordo. Il presidente aveva detto a Sandra che quel primario gli era apparso avido e motivato più dal desiderio di una realizzazione economica che non da un interesse scientifico, per cui non se n’era più fatto nulla , pur mantenendo formalmente dei buoni rapporti. “Alcune settimane dopo, durante un turno di guardia notturna, dovetti usare, per il trattamento di un Paziente acuto in unità coronaria, della Morfina. Devi sapere che i farmaci stupefacenti sono sempre chiusi in armadi speciali ed hanno un registro di carico e scarico a parte, controfirmato dal medico e da chi somministra il farmaco, oltre alla registrazione di tutti i movimenti che il farmaco effettua dalla farmacia al reparto. Come a volte accade, quella sera in corsia non riuscivamo a trovare Morfina a sufficienza e non potevamo certo
richiederla a quell’ora in farmacia, ma io sapevo che il primario ne teneva una scatola di scorta nella sua cassaforte personale. Entrai nel suo studio, cercai la chiave della cassaforte ma non la trovai al solito posto.” Strano”, pensai, ed iniziai a cercare in tutti i suoi cassetti. Un duplicato della chiave era dentro un piccolo soprammobile nella libreria piena di documenti e farmaci. Mi ricordai che era stata messa lì dal precedente primario, ormai andato in pensione, nell’eventualità si fosse smarrita la prima chiave. Forse Soave non ne conosceva l’esistenza, forse se ne era dimenticato. Io la presi ed aprii la cassaforte. Trovai la morfina ma, con mio grande stupore, sotto alcune carte affiorarono sette cartelle diverse da quelle in uso nel reparto, con sette nomi di Pazienti deceduti negli ultimi mesi. Incuriosito aprii la prima e nello spazio della terapia vidi scritto Tropemi 100 mg x 2 die , con il codice e la matricola di arruolamento del paziente. Diedi rapidamente un’occhiata agli altri fascicoli: stessa cosa. Notai sul fondo della cassaforte le scatole numerate contenenti i boccettini contenenti le pillole. Negli studi, in doppio cieco, così chiamati in quanto sia chi confeziona i farmaci, sia chi li somministra, non sanno cosa stiano effettivamente somministrando ai pazienti, ogni singola confezione ha un codice di appartenenza, custodito nella cassaforte di un notaio. Solo alla fine della ricerca, dopo aver valutato gli effetti, si aprono le buste contenenti i codici e da lì si comprende se si è somministrato il vero farmaco, oppure un placebo inerte dal punto di vista chimico. Nessuno, quindi, sa mai cosa si stia somministrando al Paziente in quel preciso momento, è un computer centralizzato che in ordine casuale, attribuisce agli uni o agli altri il tipo di farmaco da somministrare. “Ma Ad, vuoi dire che quando andiamo in ospedale, voi ci usate come cavie a nostra insaputa?” “No Ricu, non è proprio così. Al paziente viene sempre richiesto un consenso dopo aver dettagliatamente spiegato le finalità e l’utilità dello studio. Oggi, qualsiasi medicina che tu assumi è il frutto di una sperimentazione di questo tipo. Poi è lo stesso comitato etico, sia del ministero della Salute, sia la Direzione dell’ospedale, che valutato il piano scientifico, stabiliscono che quella sperimentazione possa essere effettuata.” “Ho capito, continua…”
“Rimasi allibito! Non mi risultava fosse iniziata la sperimentazione umana. Rimisi tutto al suo posto, occupandomi dell’urgenza ma trattenni la chiave della cassaforte. Nei giorni seguenti mi informai da una conoscenza, che avevo in Direzione Sanitaria, su quali fossero gli studi in atto nella Divisione di Cardiologia. Nessuno riguardava il Tropemi. Chiesi se era stata presentata una richiesta formale di autorizzazione per qualche altro farmaco e se questo fosse in attesa di delibera. Niente. Ringraziai e chiusi il discorso. Era chiaro che in Cardiologia si stava svolgendo una sperimentazione fuori dalle regole. Dato che la cosa non mi piaceva, sia per lo sviluppo che stava prendendo, sia perché mi sentivo in parte responsabile, decisi di approfondire in modo riservato. Dal registro dei ricoveri risalii ai numeri di codice delle cartelle cliniche dei Pazienti deceduti. Ottenni poi, dal servizio di microfilmatura dell’ospedale, le fotocopie delle cartelle cliniche originali motivando la richiesta per studio. Tutti i casi riguardavano Pazienti affetti da scompenso cardiaco per grave deficit contrattile: quattro cardiopatie ischemiche post infartuali e tre cardiomiopatie dilatative. Tutti, tranne uno, erano stati più volte ricoverati nel nostro reparto. Nessuno dei familiari aveva presentato qualche esposto o fatto rimostranze e nessuno aveva richiesto la fotocopia della cartella clinica. Morti annunciate quindi e parenti rassegnati all’exitus del loro congiunti. L’autopsia aveva confermato le cause già note del decesso. La disamina della documentazione interna evidenziava un trattamento ineccepibile nell’iter terapeutico dei Pazienti, per cui, qualsiasi successiva indagine non avrebbe mai evidenziato errori terapeutici in base alle linee guida adottate.” “A quel punto che cosa hai fatto?” “Decisi d’impossessarmi delle copie delle cartelle contenute in cassaforte ed, incrociando i dati, vedere l’effettivo trattamento a cui erano stati sottoposti i Pazienti. Sempre durante una guardia notte, alle prime luci dell’alba, mi introdussi nuovamente nello studio del primario facendo attenzione a non farmi notare dal personale di turno. Aprii la cassaforte, prelevai le cartelle; con esse anche due flaconi di farmaco con due codici diversi. Richiusi e mi avviai alla fotocopiatrice posta in sala medica. La documentazione era voluminosa ed impiegai più di un’ora ad effettuare la copia dei referti di ogni singolo esame o indagine di tutte
le cartelle. Quando ebbi finito, raccolsi la documentazione originale e mi avviai verso lo studio del primario per rimettere a posto gli originali. Quando varcai la soglia, trovai seduta alla scrivania Patrizia, la caposala del reparto e, di fatto, segretaria di Soave. A quel punto mi fu impossibile rimettere al loro posto le cartelle cliniche. Patrizia mi guardò con un’aria tra incuriosita e indagatrice. Mi chiese che cosa ci facevo sveglio il mattino presto, considerando la situazione tranquilla di tutta la notte e cos’era quel pacco di documenti che avevo con me. Fui evasivo. Finsi di cercare una cartuccia per la stampante che era esaurita ed uscii. Nascosi la documentazione nel mio armadietto nello spogliatoio e decisi di rimettere le cose al loro posto appena la situazione lo avesse permesso. Per l’intero mattino non mi fu possibile ed andai a casa portandomi dietro i documenti. Non fui fortunato. In qualche modo, forse casualmente, Patrizia si lasciò sfuggire della mia presenza. Soave doveva aver controllato nella cassaforte e venni scoperto. Per fartela breve, ti dirò che mi aggredì con una violenza inaudita. Voleva gli riconsegnassi immediatamente la documentazione. A quel punto decisi di mandarlo al diavolo. I documenti dovevano effettivamente essere di vitale importanza. Decisi di sbarazzarmene e celarli in un posto sicuro. Feci due pacchi distinti sia degli originali che delle fotocopie. Mandai il primo al fermoposta di Roma centrale, il secondo al fermoposta di Asti. Sapevo solo io dove avrei potuto ritirarli personalmente con un documento. A questo punto mi sentii al sicuro. Ero convinto che i documenti sarebbero stati la mia assicurazione”. “Io fossi stato il Primario, non avrei più avuto pace se non fossi rientrato in possesso della documentazione. Avrei cercato di convincerti, oppure forzato la situazione, ti avrei minacciato….” “Ingenuamente ho sbagliato qualche previsione. Soave doveva aver informato dell’accaduto chi di dovere e la sera stessa sono stato attaccato a casa mia. Me la sono cavata per il rotto della cuffia soltanto perché avevo lasciato la moto in giardino. Gli intenti, penso, fossero quelli di farmi parlare, di recuperare i documenti e di farmi sparire o rendermi inoffensivo con l’arma di un ricatto. La mia fuga ha reso vani i loro piani. Non trovando i documenti, si è aperta la caccia. Il resto lo sai: sono fuggito quassù, sperando avessero perso le mie tracce. Così non è stato ed ora sei anche tu in questo pasticcio. Sono sicuro che i documenti non li hanno trovati. Mi hanno sparato senza neanche cercare di prendermi vivo. Eliminandomi, avrebbero potuto ricostruire le cartelle mancanti
senza alcun testimone. Ora siamo assediati e credo che, se tu non hai un’idea risolutrice, presto ci ritroveremo nel burrone a far compagnia agli altri.” Ricu si alzò pensieroso, si versò ancora un bicchiere di vino. “Ad, perché non hai denunciato tutto alla polizia? Da quanto ho capito hai delle prove in mano. Puoi inchiodarli!” “Era proprio quello che avevo intenzione di fare, per questo ho messo al sicuro la documentazione. Volevo solo un po’ di tempo per riflettere. Dovevo essere attento. Sono cose grosse, molto grosse, e non volevo rimanerci invischiato. Non mi hanno concesso tempo. Hanno agito fulmineamente. Questo ti dà l’idea di che interessi ho toccato.” “Ad, ormai la frittata è fatta. Ho portato il deltaplano della scuola di volo di Envie, quello che hai provato con me la scorsa estate partendo dal rifugio Quintino Sella. Bel volo, ricordi? Dobbiamo montare la struttura. La tela la infiliamo all’ultimo momento. Non vorrei gelasse nella notte o il vento ce lo portasse via. Inoltre sarebbe troppo visibile da lontano. Le ali sono rosse, ricordi? Spero anche di poterlo restituire nelle stesse condizioni in cui l’ho avuto.” Cominciò a tirare fuori i tubi. Dovettero recarsi fuori per le dimensioni dell’oggetto. Si accorsero, distendendo la tela, che era stata forata in più punti. Il Kalashnicov aveva lasciato il segno e per pura fortuna non aveva ferito Ricu. Ad prese del nastro gommato da pacchi e ne applicò delle strisce sopra i buchi, da entrambi i lati della tela, per evitare si strapero. Finirono l’opera ed il deltaplano apparve solido e ben costruito. Guardarono verso valle: un tetto di nuvole copriva ogni cosa al di sotto del sentiero. Impossibile usarlo la sera stessa. Avrebbero dovuto attendere. Ripiegarono la tela e la riposero nella baita. Adamo mostrò a Ricu la caverna di ghiaccio da cui aveva fatto fuoco, la batteria della moto ed il filo elettrico collegato alla bombola di gas. Andarono sotto il punto di avvistamento e Ricu gli fece i complimenti per l’idea del fantoccio che avrebbe potuto essere issato facilmente. Vide anche i massi dove si sarebbero appostati ed in ultimo, misero in atto una suddivisione di compiti per far fronte al nuovo, imminente attacco. Decisero di lasciare fisso nella caverna l’AK 47. Il fucile mitragliatore aveva due caricatori invertiti a disposizione, uniti insieme da una fasciatura di nastro adesivo. Rientrarono nella baita, mangiarono qualcosa
ancora e si distesero sul letto per riposare. Il giorno dopo sarebbe stato quello della verità.
Capitolo 6
Soave si mordeva rabbiosamente l’unghia del pollice destro. Era primario nell’ottimo reparto di cardiologia dell’ospedale di Cerutto, un paese sotto le montagne. Lo era diventato, contro il parere di tutto lo staff tecnico, per raccomandazioni politiche e per “affari” strani che aveva avuto nel corso degli anni con il giro delle cliniche private, anche estere. Aveva dato il via alla caccia di Adamo. Doveva assolutamente rientrare in possesso dei documenti segreti, altrimenti poteva dire addio alla sua carriera e ai suoi guadagni. Probabilmente sarebbe finito in galera e gli “altri” lo avrebbero scaricato e lasciato affondare al suo destino, se non addirittura soppresso per non lasciare in giro ombre scomode. Ripensava a come si erano svolti i fatti: tutto sarebbe andato per il meglio se nessuno avesse potuto mettere il naso nei suoi affari. Aveva agito ingenuamente, non aveva pensato che qualcuno potesse interessarsi ad un progetto tenuto accuratamente nascosto. L’offerta che Soave aveva ricevuto dal dott. “J”, dopo i colloqui ufficiali, gli aveva fatto pensare che si sarebbe sistemato per la vita. Con un milione e mezzo di dollari non avrebbe più dovuto correre e avrebbe potuto seriamente pensare di concludere la sua carriera, ormai all’apice, in tutta serenità, godendosi la pensione. Se la sarebbe sata, non era ancora vecchio. La sperimentazione era stata impostata secondo i criteri di sempre, in “doppio cieco”. Nessuno ne era a conoscenza. Le lungaggini burocratiche e le pratiche per arrivare ad una autorizzazione ufficiale avrebbero ritardato il tutto di almeno un anno ed il dott. “J” non aveva intenzione di far arrivare prima sul mercato la concorrenza. Il Tropemi era troppo importante e tutto si giocava su quel farmaco. Il presidente della Prisco Enterprise gli aveva offerto una collaborazione ufficiale; aveva chiesto quali risorse fossero a disposizione nel reparto. Il controllo emodinamico era possibile con tutti i parametri richiesti. Così pure gli esami d’imaging e la scintigrafia miocardica. Il compenso sarebbe stato di circa trentamila dollari, una miseria, tenendo conto che a tale cifra andava sottratta la quota di compartecipazione della Direzione sanitaria, dei servizi amministrativi, dei colleghi, del personale ecc, quindi con quello che ne sarebbe rimasto, al
massimo si poteva aspirare all’acquisto di un’ apparecchiatura che, per di più, si sarebbe dovuta donare all’Azienda Ospedaliera. Soave aveva quindi deciso di affidare la ricerca ad Adamo, che aveva trovato il contatto, oppure di declinare l’invito: non voleva apparire avido e non prendeva decisioni affrettate. Aveva preso del tempo, adducendo come scusa il consulto con la Direzione Sanitaria dell’ospedale e con Adamo. La sera stessa dell’incontro con il Presidente, in albergo, aveva ricevuto una telefonata. Il dott “J”, responsabile della linea ricerca e sviluppo, lo aveva contattato, appena finito l’incontro, per proporgli qualcosa di tutt’altra natura. “J” aveva spiegato le alternative alla linea ufficiale della multinazionale. Avrebbe accelerato la sperimentazione del farmaco, e si sarebbero saltate le lungaggini burocratiche: nessuno sarebbe stato a conoscenza di nulla e per lui sarebbe rimasta una bella fetta del denaro, da investire come meglio credeva. La somma sarebbe stata versata al Credit Timeport Swiss del Principato di Monaco sul conto al portatore, nome in codice “Aliseo 091149”, da quell’istante a sua disposizione. Il cinquanta per cento della somma sarebbe stato versato subito come acconto ed al termine della ricerca, alla consegna della documentazione clinica, il rimanente.
Il dott. ”J” sapeva come accelerare una ricerca, come affiliare collaboratori. Anche se apparentemente spendeva cifre enormi, in realtà il ritorno d’immagine, economico e di assoluta prevalenza sul mercato, rendeva queste cifre insignificanti per l’obiettivo finale. Soave non sarebbe mai comparso come collaboratore ufficiale; aveva dovuto firmare carte che lo assimilavano alla Prisco Enterprise come consulente esterno affiliato, in rapporto di collaborazione occasionale. Il denaro, mai transitato in Italia, non avrebbe lasciato nessuna traccia. Le operazioni estero su estero e poi nel Principato di Monaco erano come onde sulla sabbia. La documentazione sarebbe rimasta negli Stati Uniti e nessuno avrebbe potuto mettere lui in relazione con alcun fatto specifico e tantomeno con la ricerca sul Tropemi. Erano state preparate delle relazioni di fisiologia umana sull’apparato contrattile miocardico, da presentare ad improbabili congressi, ed argomenti di carattere generale, tutti stilati sulla carta intestata della multinazionale, semmai qualcuno avesse voluto chiedere, nello specifico, di che cosa trattasse la collaborazione occasionale offerta dal primario alla Prisco Enterprise. Il Dott. “J” aveva pensato proprio a tutto; era sicuramente un uomo in gamba. Era un piacere trattare con lui, oltre al vantaggio che avrebbe potuto trarne. Lui era solo uno dei tanti, come aveva detto “J”, che collaboravano nello stesso modo in tutto il mondo. Un fiume di denaro era pronto per entrare
nel suo portafogli. Non ne aveva mai visto tanto, tutto insieme. Sarebbe stato uno stupido a rifiutare. Avrebbe assicurato una situazione finanziaria tranquilla a sé ed alla sua famiglia. In fondo era solo una scorciatoia. Solo gli stupidi non sanno cogliere le occasioni! Questa era la sua.
Ma i morti sono fatti reali, e sui morti non si scherza. Soave vedeva già i titoli dei giornali, le foto in prima pagina. Bisognava assolutamente prendere quel maledetto. Come aveva potuto Adamo aprire la sua cassaforte? Di quali complicità si era avvalso? Chi lo appoggiava nel reparto? Non si può aprire una cassaforte di quel tipo senza essere degli esperti. Egli si era impossessato della documentazione originale. Soave aveva comunicato al dott. “J”, con una mail da un accesso internet segreto, la notevole incidenza di mortalità nei Pazienti che aveva randomizzato nella ricerca: sette su dodici. Il dott. “J” lo aveva tranquillizzato. Il braccio della ricerca affidatagli dalla Prisco Enterprise era con un dosaggio del Tropemi elevato, sub tossico, ed era possibile che Pazienti altamente compromessi, quali gli era stato caldamente raccomandato di arruolare, avessero avuto dei problemi: sarebbero morti comunque. Se avesse agito secondo le indicazioni ricevute, tutto sarebbe andato per il meglio e nessuno si sarebbe stupito di quelle morti. Gli aveva ordinato di raccogliere le cartelle dei deceduti, di custodirle in un posto sicuro ed, appena possibile, di inviargliele ad un indirizzo di Boston. Gli aveva chiesto anche di mandare una fotocopia della cartella ospedaliera originale per studiare le eventuali interazioni farmacologiche e gli effetti collaterali delle altre terapie. Lo aveva ulteriormente tranquillizzato dicendo di concludere rapidamente la ricerca: gli ottocentomila dollari rimanenti erano già pronti per la transazione.
Purtroppo le cose non avevano preso la piega prevista: gli vennero i brividi. La sperimentazione del farmaco gli sarebbe valsa un milione di dollari, esentasse. Il dott. “J” aveva già provveduto ad inviare una squadra specializzata per le “pulizie particolari”. I documenti non potevano essere lontani. Erano ate poche ore. In qualche modo sarebbero stati recuperati. Una “spolveratina” applicata da esperti avrebbe fatto cantare Adamo e tutto il coro degli alpini. Si doveva rintracciare rapidamente il fuggitivo.
Intanto Soave stava impazzendo di rabbia e di paura, da quando aveva scoperto la sparizione delle sette cartelle cliniche tutte scritte di suo pugno che custodiva nella cassaforte; fremeva, imprecava, era terrorizzato dalla situazione. Si sentiva preso nell’ingranaggio di una macchina, di cui faceva parte, ma che non aveva creato e nemmeno avviato. Avrebbe voluto fare marcia indietro, ma la barca continuava nel suo abbrivio e non c’era modo di arrestarla. Il giuoco non era più solo suo, e questo pensiero lo faceva riflettere sulla pochezza delle sue chances. Doveva trovare Adamo. Sapeva che era un Don Chisciotte della Mancia con un senso della giustizia incrollabile. Non avrebbe accettato accordi per vie traverse. Era stato sempre così da quando lo aveva conosciuto. Non si sarebbe piegato a compromessi. Il dovere per lui non era regola di legge, era forza interiore, motore del suo fare e del suo essere. Ecco perché doveva essere eliminato. O lui o io pensava. Soave non aveva dubbi, solo paure. La notte stava scendendo, doveva trovarlo quel maledetto, doveva unirsi al gruppo di ricerca. Un tipo strano, quell’Adamo, che se ne andava in montagna, non si sa perché. Nella sua vita doveva pur esserci qualcosa che voleva nascondere. Ne sentiva spesso parlare dalle infermiere che sembravano avere per lui un’adorazione ed un senso di protezione. Non capiva perché avesse tanto seguito, con quella sua criticabile aria trasandata, la barba spesso incolta e la faccia trasognata. Di lui non si conoscevano storie importanti. Si diceva che aveva convissuto con un’extracomunitaria molto bella. Nessuno l’aveva mai vista ed un giorno si seppe che era finita. Adamo non parlava con piacere della sua vita privata e dei suoi familiari. Si sapeva che era rimasto orfano di padre da bambino e che questo aveva sicuramente segnato la sua vita futura. Figlio unico, tutta la sua famiglia era la madre, un’anziana signora vista di sfuggita in ospedale qualche volta. Lui custodiva gelosamente dei segreti, magari loschi. Trovare Adamo. Un’ossessione. Se fosse stato al suo posto, dove si sarebbe rifugiato? Difficile immedesimarsi in un tipo sfuggente ed imprevedibile. Era proprio nell’imprevedibilità delle sue azioni, la base del terrore di Soave. Sarebbe stato meglio averlo dalla sua parte, magari offrendogli una fetta della torta, oramai non si poteva tornare indietro. Parlarne con le sue “conoscenze” politiche non sarebbe valso a nulla. Per casi di tale gravità sarebbe stato scaricato alle prime avvisaglie di fumo, lo sapeva benissimo; si sentiva solo, maledettamente solo nella sua angoscia. Era ato poco tempo dalla sua chiamata, che si erano presentati da lui due
uomini, avanzi di galera ora assoldati nella “ditta di pulizie” del dott. “J”. Soave aveva fornito loro l’indirizzo ed il telefono di Adamo. Avrebbero impiegato meno di mezz’ora a raggiungerlo a casa sua. Ciotto ed Ino, i due uomini gestivano la manovalanza, compresa quella assoldata sul posto. Giunti sotto casa di Adamo, Ciotto ne aveva ordinato l’accerchiamento che era stato effettuato con rapidità su i tre lati della casa che faceva parte della testa di un complesso di villette a schiera, per cui non era possibile accedere al cortile interno se non attraverso l’appartamento, o con un aggio sul retro, mediante un piccolo viottolo che si dirigeva direttamente nel bosco. Appena avevano tentato di entrare in casa, Adamo li aveva subito individuati, sembrava li aspettasse, tanto che se l’era filata senza lasciare loro il tempo di bloccarlo; imboccò di corsa la scala che girava sul pianerottolo e dava l’accesso a quella interna. Ciotto gli corse dietro, fulmineo, saltando gli ultimi gradini, ma Adamo si era comunque avvantaggiato di quel poco che gli permise di saltare sulla moto, avviarla e partire a razzo in derapata. Ino, che aveva aggirato la casa, se lo vide sfrecciare davanti come un cinghiale impazzito sul viottolo esterno di accesso al bosco. E lì sparo uno, due tre colpi senza mirare, d’istinto. Lo aveva visto traballare, quasi perdere l’equilibrio. Adamo era in piedi sull’enduro e per poco non perse l’equilibrio all’impatto del proiettile. Era stato visto muoversi con difficoltà, forse era stato ferito. Secondo Ciotto non avrebbe potuto andare lontano, aveva tentato l’inseguimento ma le tracce della moto sulla neve erano confuse da altre di sezione più grande. Eppure era certo che Adamo non potesse essere lontano; probabilmente lo avrebbero trovato nella neve a poche centinaia di metri, morto dissanguato. Il sentiero s’inerpicava su una collinetta in cima alla quale vi era un pianoro da dove partivano numerosi sentieri verso l’alto. Alcuni circondavano la collinetta per poi scendere a valle, altri si dirigevano verso le meire, altri ancora in baite isolate. Tracce ve ne erano ovunque, di tutti i tipi, da quelle dei trattori ai fuoristrada e a quelle di normali autovetture munite di catene. Qualche locale ancora usava la slitta trainata da piccoli cingolati o motocoltivatori. Tentarono, con attenzione, d’isolare le tracce dell’enduro ma le ricerche effettuate non avevano dato nessun esito. Ino e Ciotto non riuscirono ad identificare le tracce di Adamo. Probabilmente aveva imboccato la direzione della fondovalle che gli avrebbe permesso di fuggire pressoché ovunque. La strada, in direzione opposta, s’inerpicava verso la piazzola di partenza della funivia a circa venti Km dalla sua casa. Sembrava essersi volatilizzato. Avevano controllato dettagliatamente ogni macchina parcheggiata di lì fino alla funivia. Di moto non v’era ombra sempre che non avesse potuto usare un garage dove ricoverarla, non avrebbe avuto, secondo Ciotto, nemmeno il tempo di aprire la saracinesca, perché lo seguivano con uno scarto massimo di uno, due minuti dal momento della fuga. Ino invece
pensava si fosse diretto in alto. Che scampo pensava di trovare in montagna? D’estate forse, ma in quella stagione sarebbe stato un suicidio. No, non poteva essersi diretto in montagna; sarebbe forse stato un trucco per distrarli. Bisognava cercare a valle o in qualche sentiero parallelo alla strada che scendeva lungo il fiume. Il tipo era furbo ma non abbastanza da farla franca. Ciotto sapeva pedinare la sua preda evitando le false piste, le dissimulazioni e prima o poi la resa dei conti sarebbe stata inevitabile e lo avrebbe ucciso. Una tacca in più da aggiungere al calcio del suo fucile, un lungo elenco delle sue vittime. Per Ino invece, il tipo era scappato in montagna. Lo aveva detto più volte a Ciotto ma questi non voleva sentire ragioni. “Ino, in montagna avrebbe potuto sopravvivere per poco. Non un riparo, non un aiuto medico. Niente cibo e calore. Non può essere sopravvissuto lì a venti gradi sotto zero” “Capo, potrebbe essere andato da qualcuno” “Ma dove Ino? Abbiamo controllato casa per casa gli accessi. Non c’erano tracce di moto e lui da quanto ho visto, non sa volare. Sai come è andata? Ci ha depistato, ha girato da qualche parte. Ci ha lasciato are e poi è scappato nella direzione opposta. Deve essere andata così” “Scusa capo, se insisto. Quello in montagna è uno che ci sa fare. Lo ha detto anche quel primario, come si chiama…? Soave! Ha detto che non è un tipo comune. Quello magari ha un rifugio da qualche parte. Dammi retta, si deve essere nascosto. È da stanare. “Può essere, ma prima di cercarlo in montagna domattina presto, appena fa luce, usciamo lungo la strada e controlliamo, metro per metro, se da qui alla piazzola della funivia esistono sentieri alternativi alla strada principale che scendono a valle. Voglio essere certo che non ci abbia beffati. Comunque sono certo che è ferito, non credo sia andato a eggio nel bosco. Domani valuteremo”. “Ok capo, come decidi tu. Io vado a riposare. Domani all’alba allora” “Domani all’alba, Ino. Vado ancora a cercare quello dell’elicottero per vedere se mi fa fare un giro di perlustrazione sulla montagna così escludiamo la possibilità di un ricovero o di un qualsiasi rifugio. L’indomani mattina trovarono quasi immutata la stessa scena della sera
precedente. La neve si era cristallizzata ed il vento ne aveva portata della nuova, come polvere, che confondeva ulteriormente le tracce. Le ricerche dovevano ripartire da zero, senza escludere nessuna possibilità. Ciotto ed Ino convinsero Martino, il pilota dell’elicottero, ad alzarsi in volo. Faticarono, nonostante la ragguardevole cifra offerta, a causa del maltempo. Del fuggitivo nessuna traccia. Dirupi e burroni impressionanti per la parete nord della montagna, ma nessun indizio sull’ascesa di qualcuno. Prima del grande burrone, al lato opposto della funivia, avevano notato un numero notevole di baite, e più in alto, delle meire. Nessuna traccia di collegamento tra le baite, neanche di sciatori che amano il fuori pista. Non vi era alcun segno di aggio visibile anche a bassa quota. Avrebbero comunque dovuto visitarle tutte, sarebbe stato un lavoro di giorni e sarebbe stato necessario impiegare un discreto numero di persone, tutte con esperienza alpina. Atterrarono circa tre quarti d’ora dopo alla stazione di base della funivia che, con partenze frazionate di quindici minuti, trasportava gli sciatori sulle piste da sci esposte a sud est del Monviso. Fecero domande, controllarono intorno, ma nulla, nessuna informazione da quella gente schiva e diffidente. Cominciarono allora ad incamminarsi bordeggiando la strada da entrambi i lati. Uno si diresse sul versante a monte, l’altro percorse la riva che finiva nel fiume. Impiegarono otto ore di cammino per percorrerne solo la metà. Nevicava deciso e questo non aiutava le loro ricerche. L’unica consolazione era che nevicava anche per il fuggitivo, se avesse deciso di camminare nella neve alta. Avevano le stesse difficoltà, pensava Ciotto, la caccia sarebbe stata lunga e difficile, con tanta soddisfazione in più per lui: i capi avrebbero pagato un bel sovrapprezzo. Più la loro paura aumentava e più lui e la squadra avrebbero guadagnato. Anzi, ritardare il contatto avrebbe fatto salire la quotazione, senza tirare troppo la corda. “Bene”, pensò, “non si tratta del solito “lavoretto” di uno alla scrivania”. Un poco di moto gli faceva ricordare i bei tempi delle incursioni su spazi liberi. Qui cambiavano l’orografia e le tecniche di ricerca. La ricerca in montagna l’aveva appresa in Corsica, lungo dirupi e valloni, inoltre avrebbe potuto contare sull’elicottero per qualche perlustrazione. L’occasione non andava persa. Bastava centellinare le scoperte e gli indizi…
“Ino, basta per oggi. Riprenderemo domani da questo stesso punto! Direi di fare un salto in paese, al bar, magari raccoglieremo qualche notizia in più. Stasera poi devo contattare il dott. “J” per il solito resoconto. Gli chiederò di autorizzarmi
altri uomini e mezzi, ne avremo bisogno. Intanto marca questo posto, si ripartirà da qui” “Sì capo, per oggi di freddo ne ho preso abbastanza, Qualche bel grappino al bar me lo faccio volentieri. Chiamo la macchina che ci venga a riprendere, ho i piedi di ghiaccio”.
Al bar della funivia sembrava ci fosse tutto il paese. Una nube di fumo azzurrognolo e dall’odore dolciastro, si tagliava con il coltello e lasciava intravvedere ombre di gente che beveva qualche grappino o boccali di birra. Due tedeschi ne avevano ammucchiati davanti un bel numero. Ciotto si sedette ad un tavolo di lato. Scrutò bene la sala con un’occhiata rapida, osservò l’uscita secondaria e la porta dei servizi. Ordinò un Pastis e questo bastò per etichettarlo agli occhi di tutti, apparentemente indifferenti, come un se. Ino, una grappa. L’oste si muoveva lento, quasi impacciato, con la flemma di chi perde sempre il treno e vive felice lo stesso. Quando portò le consumazioni, Ciotto chiese: “Scusa, volevamo chiedere se qui c’è qualcuno, qualche guida, disposto a salire verso la Nord della montagna?” “Come ti guardi intorno qui sono tutte guide alpine. Per trovare uno che vi porti sulla nord adesso, in questa stagione e con il tempo di questi giorni, penso dovrete faticare molto” “Sono disposto a pagare bene ed accollarmi tutte le spese; una parte è per te, diciamo quattrocento Euro, se mi trovi qualcuno di veramente esperto” “Grazie signore, farò del mio meglio, telefonatemi domani sera; se trovo la persona giusta ve lo farò sapere” “Mi raccomando, in fretta, non possiamo aspettare molto. Appena il tempo migliorerà vorremmo tentare, ah scusami, dimenticavo, mi hanno detto che qui c’è un bravo medico che scala bene in montagna” “Adamo?” “Sì, proprio lui. Potrebbe farci comodo un medico nella spedizione”
“Non credo signore. Adamo è un tipo strano, un ottimo alpinista oltre che medico, ma sale solo per ione e non certo per denaro. E quasi sempre da solo, di poche parole come la buon’anima di suo nonno, si vede pochissimo in giro e direi che non frequenta nessuno, forse non ha amici. Qui la gente è semplice, di dottori ce ne sono pochi e hanno sempre da fare. Lui se ne va sempre in montagna da solo. D’inverno non si vede quasi mai e di certo non si è visto in montagna con estranei di questa zona” “Capisco, ma tentare non nuoce, magari ha voglia di conquistare la Nord in inverno. Sapete dove posso trovarlo?” “Cercate in ospedale, a Cerutto; sta in Cardiologia” “È proprio lì che mi hanno detto di lui, sembra sia in ferie, non è che per caso ha una baita o una casa da queste parti, o se possiamo trovarlo da amici?” “Ma……..Non che io sappia. Si diceva che il nonno avesse una catapecchia da qualche parte sopra le meire, oltre il burrone, ma non so se esiste ancora. Il vecchio la usava per andare a caccia o a pesca di trote nel torrente e per ripararsi se cambiava il tempo, ma non si vedeva andare su d’inverno. Ormai tutti abbandonano la montagna e lasciano crollare tutto. Non ci sono strade e ristrutturare, costa. Sul costone nord poi, non batte mai il sole in questa stagione, ora ci saranno almeno due metri di neve e non si caccia e non si sale da nessuna parte fin lassù. Io non ci sono mai stato e non so se esiste ancora. Se cercate una baita da ristrutturare, meglio il versante al sole, servito dalla funivia e dalla strada, vicino alle piste da sci ed ai rifugi. Comunque se cercate il medico, chiedete in ospedale: lì dovrebbero avere il suo telefono. Chiedetelo! Magari riuscirete a rintracciarlo” “Grazie lo stesso, sei stato di aiuto” Lasciò sul tavolo grasso e consunto alcuni Euro di mancia, bevve il suo Pastis e si allontanò con Ino. “Capo mi è sembrato s’insospettisse, quando hai chiesto con insistenza di Adamo” “Vero, ho lasciato cadere la cosa per questo. Domani si ricomincia a cercare. Forse quella testaccia che hai non è del tutto vuota. Oggi non s’è trovato nulla. Potrebbe essere in montagna. Vedremo, ma si salirà solo dopo essere sicuri che non sia fuggito a valle”
“Bene capo” Disse compiaciuto.
L’indomani le ricerche effettuate sulla strada fino alla funivia non avevano dato alcun esito. Apparentemente non esisteva strada che raggiungesse il fondovalle in altro modo. Non si poteva escludere che esistessero in quota delle mulattiere ma sarebbe stato impossibile percorrerle d’inverno, con tutta quella neve. Non restava che salire ed esplorare il territorio. Il dott. “J” aveva autorizzato la spesa ed un buon armamento. Servivano almeno sette uomini, meglio se otto, con buon allenamento ed adattabilità in montagna. Ne conosceva alcuni, ex mercenari che avevano operato in Katanga ed altri, come lui, nella Legione Straniera. Dopo le telefonate di rito, aveva spiegato il tipo di lavoro e cosa richiedeva. Tutti accettarono senza fiatare, visto il compenso. Ordinò loro di non soggiornare nello stesso albergo, in modo da non dare nell’occhio. La caccia stava per cominciare.
Capitolo 7
I barattoli caddero a terra con fragore ed entrambi si svegliarono di soprassalto. Presero le armi preparate, infilarono un solo spallaccio dello zaino ed uscirono correndo. Nessuno sul sentiero. Adamo non se la sentiva di lasciare Ricu da solo e venne meno al programma di recarsi immediatamente al posto di avvistamento, come avevano concordato. In silenzio, a gesti, Ricu tentò di allontanare l’amico, ma senza riuscirci. Il sentiero che conduceva alla baita non era stato ancora individuato. L’alba era vicina e la luminosità aumentava gradualmente. Spirava una leggera brezza, da nord, che tagliava il viso come un coltello e faceva presagire una giornata cristallina. Li videro poco dopo l’uscita dal sentiero dello strapiombo. Erano solo in due, avanzavano con una lentezza prudenziale, guardandosi intorno e cercando delle tracce. Non si erano nemmeno accorti di aver reciso il filo di nylon che aveva dato l’allarme. Il tempo era sereno ed il sole stava per sorgere. Ricu si infilò nella piccola caverna di neve con la doppietta, una vecchia Beretta calibro dodici, ritrovò il Kalashnicov che avevano preparato e vide i fili spelati e la piccola batteria. Il tiro utile della doppietta non era lungo, considerando il vantaggio di essere caricata a pallettoni, ma il potere di arresto e gli effetti ravvicinati sarebbero stati devastanti. Sul Kalashnicov e la sua potenza di fuoco nessun dubbio; bisognava tuttavia tenere conto della scarsa quantità di proiettili disponibili. Adamo sistemò i rami davanti a Ricu in modo che fosse ben occultato. Unì in un gesto il pollice e l’indice. Ricu rispose allo stesso modo. Nell’attesa, Adamo si nascose tra gli alberi dietro un masso. La sua carabina era pronta, avrebbe usato proiettili blindati. Se arrivava l’elicottero doveva tener conto di forare metallo o anche solo plexiglass. Imbracciava la carabina e guardava nel mirino: per il momento li teneva inquadrati. Sarebbe stato estremamente facile abbatterli, ma non voleva scatenare una guerra se non fosse stato necessario. Non aveva ancora cessato di pensare a questa situazione, quando vide uno dei due uomini mettere mano ad una trasmittente. L’altro iniziò a preparare una scatola che applicò sull’ultimo albero vicino all’imboccatura del sentiero. Tirò un filo e lo fissò dalla parte opposta. Adamo osservava tutto con attenzione. Capì immediatamente che stava minando il sentiero, la via del ritorno. Prima che applicasse la scatola, vide lampeggiare dei led verdi e rossi alternativamente sull’involucro. L’uomo non aveva posto altri fili, ma il sentiero restava meccanicamente trappolato. Doveva esserci anche un innesco a
telecomando. Adamo fu tentato di sparare subito. Da quella distanza avrebbe facilmente colpito anche la carica, probabilmente C4, ma era fuori della sua visuale. Stavano facendo le cose per benino. Volevano bloccargli la via di fuga quindi il regolamento dei conti doveva avvenire in quel luogo. Perché concedere un vantaggio? “Ad, hai già esitato troppo” si disse prendendo bene la mira. Ricordò improvvisamente che doveva aprire il rubinetto della bombola di gas. Fece un largo giro, tentando di fare il minimo rumore possibile. Riuscì ad arrivare al luogo non visto ed aprì il rubinetto. Strisciò fuori. Da quel punto li vedeva avanzare su due quote diverse in direzione di Ricu. Stava per far fuoco, quando fu chiaro il suono delle pale dell’elicottero. Corse al suo posto di avvistamento. Lo risalì velocemente e si mise ad osservare il fondovalle. Una coltre spessa di nuvole nascondeva le case e la stazione di partenza della funivia. Poi dalle ultime meire prima del sentiero dello strapiombo, il sole. L’elicottero sbucò dalle nuvole molto più sotto di lui. “Incredibile, pensò, volano anche nella nebbia. Peggio per loro!” Lo vedeva con chiarezza. Vide anche un trespolo che usciva fuori dalla parte sinistra dove lo sportello era stato asportato. Era preparato come per il soccorso alpino. Non vedeva i dettagli ma era sicuro si trattasse di un verricello a filo. Come aveva pensato, tappavano il buco di uscita e cercavano la preda nella tana. Sentì l’odio e la rabbia avvampargli il cervello. L’adrenalina faceva il suo effetto: sentì le labbra secche. Il cuore si fece tachicardico ma le mani non gli tremavano, desiderava lo scontro. Quei maledetti avrebbero pagato e pagato ancora: ormai aveva saltato il fosso della sua coscienza. Un rumore secco di una raffica di Kalashnicov lo distolse dai suoi pensieri. Dominò l’impulso di dirigersi subito verso Ricu, doveva attendere il suo nemico. L’elicottero si avvicinava, il rotore si udiva più chiaramente. Discese rapidamente, sbloccando il grigrì, issò il suo fantoccio, la sua bandiera di guerra, il suo vessillo. Corse dietro i massi ed iniziò un’iperventilazione compensatoria come nelle tecniche subacquee prima del tuffo nel blu. Anticipava il suo affanno per poter sparare a mani ferme e respiro assente, la sua mira non sarebbe stata alterata dagli atti respiratori. Avrebbe sparato in apnea. “Venite, venite, ho un pensiero per voi!”
Arrivarono. L’elicottero volava trenta metri sopra le cime degli alberi. Adamo lascio cadere il fantoccio. L’elicottero si avvicinava verso la montagna e le cime dei lunghi abeti cominciarono a piegarsi al ritmo del rotore. Erano ben inquadrati, il tiro sarebbe stato perfetto, ancora meglio di quello che avrebbe sperato. Il primo dei tre occupanti stava agganciandosi all’argano. Martino non era il pilota; ne fu felice. Vide l’espressione tesa del pilota che scrutava il pendio alla ricerca di quell’uomo che si era gettato a capofitto nel bosco legato ad una corda armata con il discensore. Lo aveva visto bene, anche se solo per un attimo. Adamo capì che il trucco era riuscito. Mirò dritto alla testa. Fece fuoco. Vide il plexiglas andare in frantumi e la spalla destra dell’uomo insanguinarsi. La curvatura della struttura doveva aver deviato di poco il proiettile o forse era dovuto al movimento dell’elicottero. Il braccio del pilota che governava il collettivo probabilmente allentò la presa muovendosi ed il velivolo iniziò una rotazione su se stesso. Adamo ricaricò in un istante e fece fuoco. Forò ancora il plexiglas laterale. L’elicottero sbandò paurosamente verso la montagna. Adamo sentì lontano una nuova raffica di Kalashnicov e subito dopo due colpi di doppietta. L’elicottero riprese il suo volo, evitò la montagna per un soffio. Adamo sparò di nuovo, colpì il pavimento. Caricò e sparò ancora e ancora. Mentre l’elicottero virava verso il fondovalle, vide i fori nei punti colpiti. Ne vide uno sotto il rotore. Il pilota sembrava controllare bene la sua discesa ma con sorpresa lo vide risalire e puntare nuovamente nel punto dove lui era posizionato. Non voleva credere ai suoi occhi, tornavano! Era a meno di duecento metri quando si alzò sulla sua perpendicolare. Vide lanciare fuori qualcosa. Non ebbe tempo di pensare che una raffica lo costrinse ad accucciarsi nonostante rimanesse allo scoperto. Le esplosioni furono tremende, lo spostamento d’aria e la fretta della fuga fecero cadere Adamo dal punto dove si era incastrato tra i due massi e questo probabilmente gli salvò la vita; intorno una pioggia di schegge impazzite. Dovevano essere granate. Cadde battendo la testa tra lo zigomo e la tempia, sentì un sapore dolciastro in bocca; un occhio intriso di terra e sangue non vedeva più bene e non riusciva più a muovere il braccio ferito. Raccattò il suo Ma e fuggì nel bosco più fitto ma l’elicottero girava ancora sopra. Dall’alto lanciarono un’altra granata che cadde a trenta metri da lui, che era protetto da un grande masso.
“Se scendono, è finita; devo tentare qualcosa” pensò. Ricaricò ancora il fucile, stavolta non poteva mirare adeguatamente per tenersi nascosto. Non aveva una visuale dell’elicottero in continuo movimento Udì poco più avanti due colpi di doppietta. “Ricu è ancora vivo” pensò. Corse come meglio poté verso l’amico, aggirando il punto in cui aveva visto i due uomini. L’elicottero perdeva fumo da qualche parte ed il motore cambiò decisamente il rumore. Era stato sicuramente Ricu a colpirlo, non doveva essere lontano. Più che vedere sentì il motore virare e stavolta gli parve che scendesse verso valle con un rumore diverso da quello della salita.
Ricu li aveva visti, rintanato nel suo nascondiglio di ghiaccio. Uno veniva avanti lentamente verso il sentiero che conduceva al pianoro, l’altro, più in alto, verso il punto di accesso al sentiero che conduceva alla baita. Ricu puntò il Kalashnicov e fece partire una raffica. Entrambi si gettarono a terra e risposero al fuoco, in direzione del rumore. Non avevano visto da dove provenivano gli spari, ma strisciavano lentamente per mettersi al coperto. La raffica aveva mancato di molto il primo uomo. Ricu capì che sarebbero avanzati a tenaglia e lui era troppo statico nella caverna di ghiaccio. Del resto il nascondiglio non era adatto al tipo di fuoco di cui era in possesso. La carabina di Adamo sarebbe stata più utile, a lui bastava fermarli e respingerli. Pensò una mossa diversiva quando iniziò a sentire il rumore delle pale dell’elicottero. Il rubinetto della bombola lo aveva aperto Ad prima di correre al suo posto di avvistamento. I due strisciando continuavano ad avanzare. Ricu prese i due fili spelati e toccò gli elettrodi della batteria. Un boato assordante giunse da circa duecento metri dalla sua postazione e delle pietre caddero tutte intorno. Ad aveva avuto ragione: di caos l’esplosione ne aveva creato abbastanza. I due udirono l’esplosione alle loro spalle e credettero di essere accerchiati, mancati da un colpo di mortaio o qualcosa di simile. Si alzarono, fuggendo verso il fitto del bosco e fu allora che Ricu sparò d’istinto, senza mirare, come faceva nella caccia al cinghiale nelle lunghe poste autunnali. Udì un urlo: ne aveva beccato uno, probabilmente ad una gamba, non aveva sparato alto. Nel frattempo l’elicottero aveva ingaggiato la sua battaglia con Adamo. Si alzò anche lui e si accorse che la gamba gli faceva male. La vide tutta imbrattata di sangue. Nella tensione non si era accorto di essere stato ferito, ma ora non riusciva quasi a camminare. Si gettò a terra ed iniziò a strisciare per ripararsi dietro un masso e il tronco di un albero. Sentì un colpo di carabina, poi ancora due esplosioni che provenivano dalla zona dove operava l’elicottero. Stavano bombardando Ad; sperò che fosse ancora in vita. Doveva fare qualcosa
per lui. Udì ancora colpi di carabina, Adamo era vivo, l’elicottero stava andogli nuovamente sopra a non più di quaranta metri. Stavolta mirò con calma e precisione. Fece fuoco quasi simultaneamente con entrambi i colpi disponibili. Li vide andare a segno perché uscì del fumo e del carburante dalla pancia del grande uccello.’ Del resto, pensò, non potevo sbagliare quei tiri, è molto più grande di un cinghiale.’ Ancora una raffica di Kalashnicov e stavolta Ricu cadde a terra per il forte dolore alla gamba colpita.
Ad correva e sanguinava, ansimando. Si fermò a circa cinquanta metri dalla caverna di ghiaccio, ma Ricu non c’era. Vide un uomo accucciato che guardava a circa novanta gradi dal suo punto d’osservazione, poi ancora l’altro con il fucile puntato in un punto che non visualizzava. “Sta sparando a Ricu”, pensò, e fece fuoco , l’uomo si gettò a terra mentre l’altro puntò il fucile su di lui. Ricu fece di nuovo fuoco con la doppietta. Si udì un urlo. Doveva aver beccato quello più lontano. Adamo inquadrò l’altro nel mirino: era dietro un albero ma non riuscì a mirare con l’occhio intriso di polvere e sangue. L’uomo si accorse delle sue intenzioni e fece fuoco per primo. La raffica gli atterrò ai piedi. Sparò anche Adamo e vide schizzare la corteccia dell’albero, poi schegge di pietra contro il masso dietro. Sentì gli uomini urlare qualcosa “Sono in due. Forse di più, Alex torna qui sono ferito!” “Sono più di due, sparano anche dal costone della montagna” “Questa è una squadra, maledizione, non ci hanno avvertiti. Avvisa subito alla base, chiama l’elicottero e digli di tornare su, non ha ancora fatto pulizia”. Altra raffica di mitra. Altri due colpi di doppietta lentamente sequenziati. Adamo vide i due uomini correre verso il sentiero. Uno zoppicava vistosamente. Pensò che si sentissero accerchiati. Adamo sparò, Ricu sparò ancora.
Poi fu silenzio. Adamo si recò sul fondo vicino al sentiero. Vide la scatola di C4; era a trenta metri, lampeggiava, stava per prendere la mira, quando esplose con inaudita violenza. Fu nuovamente sollevato da terra e ricadde pesantemente sulla spalla offesa. Lanciò un urlo di dolore. Si rialzò lentamente, appoggiandosi alla carabina facendo forza sul braccio destro.
“Ricuuu” urlò. “Sono qui, Ad” “Dove qua. Non ti vedo” “Mi hanno beccato Ad, mi hanno preso alla gamba” Ad digrignò i denti ed ebbe una voglia immensa di bestemmiare. Lo vide a cinquanta metri dalla cuccia di ghiaccio. “Perché sei uscito allo scoperto, stupido testone!” “Quando l’elicottero è tornato ho sentito una esplosione tremenda e ho pensato che ti avesse fatto fuori. Sono uscito anch’io Gli ho sparato due cartucce nel culo a quella merda volante: sono sicuro di averlo beccato, usciva fumo e forse carburante” “Così ti hanno colpito!” “No, mi hanno ferito quando ero disteso nella cuccia, il ghiaccio nasconde ma non ripara dai proiettili; infine sei arrivato tu. E tu sei stato colpito?” “Non mi sembra Ricu, qualcosa di striscio, qualche scheggia, ma sono messo male. Ho sbattuto la testa per terra forse su un sasso, cadendo da dove sparavo, vicino al pupazzo. Sono caduto sulla spalla ferita e ora non riesco quasi a muovere il braccio, ma devo averli feriti anch’io. Dovevi vedere le facce: non ridevano più. Ho cercato di far saltare la saponetta che minava il sentiero e che è esplosa mentre mi avvicinavo. Credo l’abbiano telecomandata per coprirsi la fuga” “Bravo fesso! Chissà perché l’hai fatto! Lo sai che non scenderemo mai più dal sentiero, potevi risparmiartelo!”
Udirono un’esplosione tremenda salire dal fondovalle. Si guardarono negli occhi.
“Fammi vedere la gamba” “È solo un graffio” “Sta fermo, non è un graffio, è un’emorragia. Sfilati la cintura!” Ricu si tolse la cinghia ed Adamo fece are un ramo nell’anello formato dalla cinghia alla radice della coscia. Cominciò a girare fino a sentire i lamenti dell’amico, lo fece appoggiare alla sua spalla destra e lentamente si avviarono verso la baita. Aprì la porta e lo distese sul tavolo della cucina. Corse ancora fuori a recuperare le armi, trovò la sua carabina e la doppietta di Ricu. Non cercò il mitragliatore, sarebbe stato inutile. Ricaricò le armi e si occupò dell’amico. Mise dell’acqua a bollire, si lavò la fronte e l’occhio. Tornò a vedere appannato ma ..vedeva! Si avvicinò a Ricu e gli tagliò i pantaloni dopo aver preso tutto l’occorrente di pronto soccorso. “Sei conciato bene, ti hanno fatto due belle asole. Un proiettile è uscito, ma uno è ancora dentro. Te lo devo togliere” “Non qui vorrei sperare, in ospedale, domani forse” “Mi dispiace per te, ma lo tolgo subito. Non puoi farti venire un’infezione. Hai bisogno della gamba altrimenti come andremo ancora in montagna? Vedi cosa capita ad aiutare sempre gli amici?” “Disgraziato, vedi di far presto e non farmi troppo male” “Bene Ricu, ho una fiala di morfina e te la inietto subito, il tempo di sterilizzare i ferri e cominciamo” “ Ad, io devo essere lucido, tu hai bisogno di me per volare ” “Tanto se si vola sarà per stanotte altrimenti gli altri faranno il tiro al piccione. Tra quattro ore l’effetto della morfina sarà pressoché scomparso”. “Ad, il medico sei tu, vedi se riusciamo a cavarcela” “Certo che ci riusciamo. Devono pagarla quei bastardi!”
La pallottola cadde nell’arcella con un rumore metallico, rimuoverla non era stato poi così complesso avendo i ferri giusti ed un paziente ideale, collaborativo. L’aveva raggiunta con lo specillo e poi afferrata con una pinza a becco curvo, una cocker. Non sembrava aver leso vasi importanti o nervi motori ma Ricu aveva perso del sangue e si sentiva debole. Adamo diede solo un punto di sutura, deterse e medicò con antibiotico locale liquido. Somministrò anche a lui il Ciproxin e cercò dei pantaloni pesanti adeguati. Il volo notturno avrebbe richiesto indumenti caldi, appropriati. Disse a Ricu di riposarsi mentre lui avrebbe effettuato gli ultimi preparativi. Preparò gli zaini eliminando il superfluo. Decise comunque di portare le armi, le avrebbe smontate ed infilate in qualche modo negli zaini. Prese il suo piccolo navigatore satellitare, sperando in una traccia valida nella notte. In linea di massima l’apparecchio poteva indicare la rotta per non andare a sbattere contro una parete o finire nel fiume. Certo non avrebbe indicato alberi, tralicci e sembianze umane. Confidava nella buona sorte. Alle diciassette era già notte. “Ricu come stai. Riesci a muoverti?” “Si Ad, fammi abituare un attimo. Sto discretamente anche se non credo che riuscirò a muovere la gamba” “Non dovrai muoverla. Ti trasporto giù con gli sci. Ho preparato una barella e non dovrò neanche faticare. È tutto in discesa. Dovrai solo fare un piccolo salto” “Ad, per volare è necessaria una rincorsa” “Nessun problema avrai la tua rincorsa. Quello che mi preoccupa è l’atterraggio, il come ed il dove” “ È vero, intanto partiamo, perché qui non potremmo neanche sceglierci il tipo di pallottola per morire” .
Adamo aveva trasportato tutto il necessario, gli zaini, le armi e Ricu stesso con una barella fatta con gli sci ed anche un piccolo paio di “pattini” che fissò alle scarpe di Ricu, costruiti segando le punte degli sci da discesa del nonno. Seguendo le istruzione di Ricu, indossarono gli zaini e si agganciarono al
trapezio con dei moschettoni. Ricu gli ricordò quattro dritte per i movimenti da effettuare in volo. Decisero di tentare di arrivare nella valle adiacente. Non sarebbe stato facile perché il aggio era a cinquecento metri di dislivello più in basso e la distanza forse era troppa. Decisero due piani di volo alternativi, qualora non fossero riusciti a saltare la valle: scendere lungo la strada che portava alla sua abitazione, ma sarebbe stato un rischio davvero grande, oppure tentare di raggiungere la piazzola davanti la chiesa di S. Chiaffredo. Il Parroco, Don Mario, alpinista pure lui, li avrebbe di certo aiutati e avrebbe tenuto la bocca chiusa. Decisero di tentare il salto della valle e, in alternativa, optato per l’ultima delle ipotesi. Ad accese il navigatore che aveva assicurato con del nastro adesivo alla base del triangolo ed attese il segnale. Era preciso, li disegnava proprio sull’orlo del burrone. Ora avrebbero dovuto seguire gli spazi vuoti ed atterrare in un prato, in una radura, lontano da sguardi indiscreti. Il deltaplano era del tipo a due, usato per l’addestramento, aveva una buona portanza, il resto lo avrebbero provato subito affidandosi alla buona sorte. Ricu si fece il segno della croce. Adamo gli fissò il piede sano sul piccolo pattino ed invitò Ricu a non poggiare l’altro tenendolo sollevato, e usandolo come appoggio in extremis qualora fossero sbandati. Presero la ricorsa e spinsero quanto più fu possibile. La gamba sana di Ricu sembrava una sorta di carrello di un aereo molto particolare. Adamo si staccò dal bordo……furono in volo. In volo sopra il nemico, lontani dal clamore delle armi. Volavano sopra il burrone dove riposavano i caduti di quella guerra non dichiarata. Beffarono gli assedianti, la loro protervia, la sicurezza di essere più forti. Adamo vide i fuochi degli uomini che presidiavano il sentiero. La loro sarebbe stata un’inutile attesa. Scivolarono nel buio profondo, senza quasi più luna; si percepivano appena i contorni iniziali del burrone. Erano ancora sopra le nuvole: galleggiavano nell’aria, silenziosi, con appena il fruscio del vento e un freddo intensissimo che veniva accentuato dalla velocità di discesa. Se la visibilità era già scarsissima, sarebbe stata nulla del tutto entrando nel tappeto di nuvole fitte. Volavano giù nella valle sperando nella buona sorte e nella salvezza, non avevano paura, erano troppo concentrati e tesi. Cercavano di penetrare le nubi nella fioca luce residua. Il vento gelido li sferzava e Ricu invitò Ad a spostarsi a destra o sinistra, a seconda delle condizioni del volo e della direzione che intendevano prendere. Il deltaplano risultò subito essere troppo pesante, perdeva rapidamente quota e saltare nell’altra valle apparve subito impossibile. Si diressero allora verso il santuario di S. Chiaffredo, che era l’unico punto di rilevazione segnato sulla
mappa del navigatore, come riferimento di alcuni sentieri alpini, inoltre era sempre illuminato a giorno, così da fungere da faro in tutta la valle. Sapevano dov’era, ma non lo vedevano ancora per la fitta coltre di nubi. Il navigatore, nella sua luce verdastra, segnava una rotta accettabile, non indicava quote ed ostacoli. “Se troviamo un ostacolo qualsiasi, disse Ricu in modo concitato, stavolta non riportiamo a casa la carcassa. Se arriviamo bassi, ci schiantiamo sotto il costone del santuario. Se arriviamo alti, finiamo contro la chiesa. Ad cerca di manovrare in modo che il faro che illumina il santuario sia appena sotto di noi. Quando lo abbiamo montato a Padre Mario, lo abbiamo infilato nel muretto che delimita il piazzale prima del prostilo della chiesa. Dovremo arrivargli appena un metro sopra”. Intravidero a mezza montagna un alone di luce bianco giallastra. Poteva essere quello, anzi, era proprio quello, ci stavano arrivando troppo in velocità. Ricu cercò di rallentare il volo, era difficile perché troppo pesanti. L’ultima parte della lunga planata fu una serie di alberi sfiorati, un traliccio mancato ed il filo del telefono di Don Mario quasi tranciato dal pattino di Ricu. Ricu aprì il piccolo paracadute per frenare ulteriormente la discesa. Arrivarono sul piazzale sbandati. Ricu cercò d’impennare il deltaplano per farlo stallare, la manovra riuscì solo parzialmente. Finirono contro gli arbusti che separavano una piccola pergola dove i pellegrini solevano consumare delle merende prima di ripartire, e infine sul fuoristrada del prete. Centrarono in pieno la vecchia Toyota, sfondando un finestrino; Ricu si ritrovò urlante sul cofano della macchina, mentre Adamo pensò di entrarvi sfondando anche il finestrino controlaterale. Il vecchio Don Mario, udendo il trambusto, si precipitò fuori. Gli venne quasi un colpo vedendo quello strano aquilone e gli inaspettati malconci forestieri che gli avevano distrutto quella che ancora si ostinava a chiamare macchina. Quando li riconobbe riuscì ad esclamare: “Oh Dio benedetto, da dove arrivate, figli di Satana? Mi avete distrutto la macchina!” “Padre Mario” disse ironicamente Ricu, “Non sarebbe meglio preoccuparsi di due povere pecorelle martoriate e congelate scese giù dal cielo, piuttosto che di questo relitto terreno?” “Ah, sei tu Ricu, dove ci sei tu, ci sono guai! Non basta tutto il lavoro che ho dovuto fare oggi. Mi dovevate capitare anche voi e per di più guardate cosa avete combinato!”
“Calma, Don Mario, ripagherò tutti i danni, stia tranquillo” disse Adamo. “Anche tu sei della combriccola! Ma cosa succede? Non credo sia il momento di fare del volo da diporto sportivo in inverno, di notte, con questo tempo da cani ed il freddo che fa, per di più sulla testa di un povero prete!” “È una storia lunga, padre, ma se ci offre un bicchiere di vino caldo ed un letto le spiegheremo tutto” “Venite dentro prima che ci ripensi! Tu Ricu che cosa hai fatto alla gamba? Entrate, fate in fretta, che si gela casa” “Padre, se permette rimango ancora fuori un attimo a togliere di mezzo questo trespolo volante, non vorrei attirasse sguardi indiscreti” “Ditemi, voi c’entrate mica con l’elicottero precipitato oggi? Poteva essere una strage ed è un miracolo se sono morti solo gli occupanti. In paese non si parla che di questo. Polizia e Carabinieri sono sul posto ed hanno bloccato la strada per la valle. I Vigili del Fuoco hanno smesso di lavorare appena da un’ora ed io ho benedetto il corpo di quei tre disgraziati carbonizzati ricomposti nella stanza del soccorso alpino proprio un’ora fa. La polizia ha delimitato la zona e chiamato qualcuno della D.I.A. - Direzione Investigativa Antimafia. Sembra che tra i rottami siano state trovate armi. Si pensava fossero degli alpinisti, ora si dice, invece, siano persone che preparavano un attentato contro la funivia”. “No, Don Mario, noi con quella gente non abbiamo nulla a che fare. L’attentato non volevano farlo alla funivia, ma a noi e siamo riusciti ad evitarlo per merito di Ricu, che è stato conciato così da loro ed anch’io sono stato ferito ad una spalla. Ci dia ospitalità per qualche tempo, poi quando sarà opportuno e le acque saranno più tranquille, chiariremo tutto con la polizia; adesso è importante saperne di più e soprattutto salvare la pelle” disse Adamo “Va bene ragazzi, raccontatemi la storia. Vi conosco da quando avevate i calzoni corti e non vi so capaci di atti indegni: siete uomini capaci di dirmi la verità” E così tutta la storia venne ripercorsa o dopo o e Padre Mario seppe quanti misfatti erano stati commessi su quelle bianche montagne. “Adamo, devi costituirti, devi dire tutto, ti aiuteranno”
“Non subito padre, devo andare in fondo a questa storia. Lo devo ai miei pazienti, ed anche a me stesso. Se ora vado alla polizia molte prove scompariranno e non avrò nessuna libertà di muovermi. Finché mi crederanno un uomo in fuga non si cureranno d’altro. Per loro siamo ancora lassù”. “D’accordo, non vi tradirò; quello che mi avete detto è come averlo ascoltato in confessione. Rimanete qui finché vorrete. D’inverno non vi sono quasi mai pellegrini. In paese cercherò di saper qualcosa di più. E adesso mangiate e riposatevi” Adamo sistemò Ricu sul letto e controllò le sue ferite. Non sanguinavano, pertanto non rimosse la medicazione e bevve il vino di Padre Mario per addormentarsi di lì a poco.
Capitolo 8
“Dott. “J” sono io” “Imbecille! Ti ho detto di non usare mai questo numero se non per casi eccezionali!” “Questo lo è…. Un disastro. Non sapevamo di trovarci di fronte ad una squadra organizzata e le indicazioni che ci erano state date riguardavano la ricerca di una singola persona. Ci hanno abbattuto un elicottero. Abbiamo perso altri due uomini ed il pilota. Non è più possibile alcuna operazione in montagna. Qui e in giro è pieno di Polizia, Carabinieri e gente dei Servizi Segreti. Non so se hanno le idee chiare. Forse pensano ad un attacco di terroristi. Purtroppo la missione non è conclusa, anche se riteniamo di averlo ferito gravemente. Ho dato ordine di controllare tutti gli ospedali della zona. Se viene ricoverato lo facciamo fuori lì, ma al momento non sembra essere sceso nessuno da quella maledetta montagna. Gode sicuramente di protezioni. Chiedo istruzioni” “Incapaci, siete degli incapaci! Un esercito di professionisti strapagati che si è fatto fregare da un medico dilettante di alpinismo. Sospendete tutto in montagna, almeno non fatevi pizzicare. Vi conoscono tutti, sicuramente, e vi riconoscerebbero. Disimpegnatevi e tenete la bocca chiusa. Assumete tutte le informazioni su di lui, ovunque, ripeto ovunque. Seguitelo, fatelo fuori appena possibile e recuperate tutto il materiale. Tenetemi al corrente. Serviti del canale internet che sai. Non chiamarmi più a questo numero per nessun motivo. Usa le risorse che riterrai opportune ma non fallire! Bada….” “Farò l’impossibile. Chiudo” Questo fu il breve dialogo tra Ciotto ed il dottor “J”, rimasto sempre ignoto agli uomini nel campo base. Ciotto si era ripreso a fatica dalla ferita riportata dalla battaglia in montagna, era molto irritato dall’andamento dell’incarico avuto. In realtà Ciotto era un soprannome, il suo vero nome era Fernand Lucine. Egli era stato nella Legione straniera poi aveva combattuto in numerose guerriglie, sempre per denaro. Era astuto, aveva un buon addestramento, era noto per portare a termine i suoi “impegni” sempre vincitore, ma questa volta le difficoltà si susseguivano e non riusciva a portare a termine gli ordini avuti.
L’indomani mattina Ad fece un piano con Ricu: doveva ritirare la documentazione inviata alla Posta Centrale di Roma e farne ulteriori copie, compilare una dichiarazione giurata di fronte a testimoni e un notaio per inviarla alla Magistratura, insieme ai due tipi di cartelle usate per i pazienti deceduti, doveva infine predisporre una memoria scritta di tutto quello che era accaduto nella sua fuga. Così fece e Padre Mario consigliò un buon magistrato della sezione penale di Torino, il dott. Bruno Storri. Adamo avrebbe lasciato fuori Ricu da ogni problema, come pure Padre Mario. Ritenne anche di dover contattare Sandra Blixten. Lei lo aveva tradito, anche se non riusciva a capacitarsi di come fosse stato possibile. Stavolta l’avrebbe pagata e con lei tutti quelli legati alla Prisco Enterprise. Decise di telefonarle, ma non subito: non poteva usare il cellulare sarebbe stato facilmente localizzato. Era necessario scendere fino a Saluzzo e Padre Mario si offrì di accompagnarlo in macchina, per sicurezza, nascosto nel bagagliaio della Toyota fin dopo il paese. Adamo acquistò delle schede telefoniche, salutò il padre alla stazione ferroviaria e proseguì da solo per Roma. A Roma aveva mantenuto la casa che aveva a disposizione nel periodo degli studi, gli piaceva ogni tanto tornare, Roma era sempre accogliente, ricca di novità, di suggestioni mai esaurite. Raggiunse Roma in una serata tranquilla che faceva presagire una primavera anticipata. Il ricordo della sua città adottiva tornava con nostalgia alla sua mente, che vagò in un ato di esperienze giovanili. Aprì la vecchia porta della casa romana, che lo vedeva rarissimamente, annusando gli odori noti, sentendo il vociare del romanesco sfacciato di quella gente che ha già visto tutto e di nulla si stupisce. L’indomani, dopo essere ato alla Posta Centrale a ritirare la documentazione originale, per sicurezza, preparò diverse copie delle cartelle cliniche da inviare alla stampa, confezionando plichi separati, poi cercò una cabina telefonica appartata e tranquilla dove compose il numero del dott. Storri.
Dovette are per il centralino ed in varie stanze prima di riuscire a rintracciarlo:
“Dott. Storri, buongiorno, sono Adamo Lancisi, un cardiologo dell’ospedale di Cerutto in alta valle Po” “Mi dica in fretta per favore, non credo di conoscerla, ho un’udienza tra pochi minuti” “Non le ruberò del tempo; volevo solo avvisarla che riceverà quanto prima per posta prioritaria una documentazione su gravissimi illeciti perpetrati nel reparto di Cardiologia del mio ospedale; ci sono stati numerosi decessi di degenti a causa di terapie sperimentali ed una serie di omicidi. L’elicottero precipitato in alta valle due giorni or sono, di cui avrà sicuramente avuto notizia dai giornali, è correlato ai fatti che documento. Le spiegherò tutto con una memoria scritta e dettagliata. Vi è anche una dichiarazione giurata, qualora io non fossi più in vita al momento del processo” “Ma dottore…” “Non mi interrompa, prego: so cosa vuole dirmi. Mi costituirò molto presto, ma al momento devo rimanere libero di muovermi ed agire per chiarire alcuni lati oscuri della storia. Avrà tutti gli elementi per iniziare le sue indagini al più presto. Tra una settimana la stessa documentazione che le ho inviato raggiungerà le maggiori testate giornalistiche. I responsabili ancora liberi, a quel punto, non saranno più facilmente reperibili. Non avrà molto tempo, ma le sarà sufficiente. Non sono un pazzo mitomane, potrà raccogliere qualche informazione su di me alla direzione dell’ospedale di Cerutto. Sono scomparso da più di una settimana e da allora sono accadute molte cose. La saluto. Ci incontreremo presto, spero”, e riattaccò senza attendere altri commenti. Lasciò per ultimo il lavoro che riteneva più ingrato, quello che sapeva di amaro e che incideva sull’animo la ferita più profonda. Avrebbe voluto telefonare a Sandra immediatamente, ma in questo modo avrebbe favorito la sua fuga e quella degli altri. Decise di attendere ancora qualche giorno e ne approfittò per approfondire qualcosa. Si recò all’Università “La Sapienza” dove aveva studiato. Giunse davanti l’istituto di Medicina Legale, proprio vicino al cimitero monumentale del Verano. Entrò e chiese del dott. Andrea Actos, del laboratorio di tossicologia. Gli fu indicata una porta da una segretaria in tailleur grigio, con giacca doppiopetto e camicia bianca aperta sul seno, occhialini cerchiati in oro, aria
professionale e sicura, molto attraente. “Dott. Actos c’è una visita per lei, il dott. Lancisi” “Adamo carissimo, come ti va? Non mi hai avvertito della tua presenza! Da quanto sei arrivato?” “Solo da ieri. Come stai Andrea?” “Che cosa hai fatto al viso, sembra che tu sia uscito da un tritacarne! Io, come vuoi che stia, tra le mie provette puzzolenti in questo laboratorio”. “Sono qui… diciamo per lavoro. Vorrei chiederti una cortesia, se ti è possibile. Ho bisogno di tutta la tua competenza e riservatezza” “Felice di aiutarti Ad. Cosa posso fare per te?” “Dovresti analizzarmi questa sostanza e dirmi se appartiene ad un gruppo farmacologico che tu conosci o se ti risulta del tutto originale. Dovrebbe essere un fattore di crescita per cellule staminali cardiache con potere trofico rigenerativo sulle fibrocellule miocardiche. Di più non so dirti. È cosa delicata: dovrebbe essere una molecola nuova, sperimentale, potenzialmente pericolosa, su cui nutro dubbi” “Fa vedere Ad. Da dove arriva questa roba?” “Dagli Stati Uniti. Sono compresse. Di quante credi di averne bisogno? In ogni boccetta ce ne sono venti” “Penso che quattro possano bastare” “Le boccette sono due. Una dovrebbe contenere solo placebo” “Lasciane quattro anche dell’altra e scriviamo il numero di matricola che corrisponde ai due flaconi, così non correrò il rischio di confonderle. Ho del lavoro da sbrigare. Se ti accontenti, credo che per venerdì avrai la tua risposta. Va bene?” “Benissimo, figurati, aspetterò con ansia”
“Ad, usciamo insieme una di queste sere, così ricordiamo i vecchi tempi” “Mi farebbe piacere, Andrea, ma credimi non è possibile. In realtà, come ti ho detto, non è un viaggio di piacere il mio” “Peccato Ad, non voglio forzarti. Ci siamo scelti un lavoro che non ha tempi né limiti di impegno. Io ormai faccio più analisi di un operatore finanziario su morti e persone vive. Se potessi tornare indietro preferirei fare il cioccolataio” “Smettila di dire stupidaggini, proprio tu che eri un topo di biblioteca!....Ciao, Andrea, ti cerco io” “Ciao Ad, a presto” Non restava che attendere. Non pensava che potessero trovarlo. Ormai il clima si era fatto rovente ed anche i nemici della montagna si sarebbero volatilizzati Aveva fatto perdere le sue tracce, con il volo notturno sulla montagna. Le denunce sarebbero partite. Forse qualcosa sarebbe trapelato, senza nemmeno attendere l’invio della documentazione ufficiale. Per ora, i media tacevano e lui si rilassò per tre giorni gironzolando per Roma, senza contattare nessuno, senza dare alcuna notizia di sè. Inforcò l’aria da turista ed aggiunse ricordi alla sua memoria. Seduto su una panchina del Pincio, davanti all’orologio ad acqua, lesse un articolo di “La Repubblica”: “Aperta inchiesta dalla Procura di Torino su farmaco sperimentale”. Era fatta: anche se non si facevano nomi e non si specificavano contorni, l’inchiesta era partita.
Era giunto il momento di telefonare a Sandra. Compose il numero del laboratorio di Pomezia. “Sii, pronto?” “Sono Adamo” “Ciao, Ad, dove sei? Che piacere sentirti! Dove ti eri cacciato?”
“Sandra smettila di fare la furba: Ho consegnato le cartelle della sperimentazione alla magistratura. Sono ancora vivo. Non siete riusciti a farmi fuori, ma ora vuoto il sacco e finirete tutti in galera!” “ Ad, sei impazzito? Di quali cartelle parli? Chi ha tentato di ucciderti?” “Avete tentato di farmi tacere, ma sappiate che, oltre agli originali, ho fatto molte copie delle cartelle della sperimentazione sul Tropemi; sono tutte in posti sicuri e molto lontani tra loro. Inoltre, ho i flaconcini del farmaco che state sperimentando” “Ad, cosa dici? Il farmaco non è ancora stato sperimentato sull’uomo, dovresti saperlo! La ricerca verrà iniziata contemporaneamente in tutto il mondo, su volontari reclutati con consenso informato e registrato con le modalità di sempre. Servono tutte le autorizzazioni di rito e questo è molto lungo perché la normativa cambia da Stato a Stato. Si pensa d’iniziare la sperimentazione umana tra sei mesi, non prima”. “Bugiarda! Avete già iniziato fuori dalle regole. Sette Pazienti sono già deceduti nel mio ospedale: ho il vostro farmaco. Volevo mi dicessi fino a quanto sei coinvolta. Ti parlo perché mi ero illuso fossi diversa. Mi hai ingannato. Era impossibile che una donna come te potesse interessarsi a me” “Ad, tu stai vaneggiando: cosa dici? Come posso dimostrarti che sei fuori della realtà” “Dovresti riuscire a farmi credere che le pallottole che hanno colpito me ed il mio amico fossero caramelle. Avete corrotto il mio Primario e avete ucciso degli innocenti, ma adesso è finita” “Senti, Ad, o tu sei impazzito sul serio, oppure stai parlando di qualcosa che non trova riscontro in nulla di reale. Il punto in cui siamo giunti è quello che hai udito a S. Francisco e ci stiamo muovendo in quella direzione. La Prisco Enterprise ha sempre agito secondo la legge e per questo farmaco non ha fatto nulla di diverso. Se hai delle prove concrete, mi piacerebbe venirne a conoscenza”. “Volete effettivamente capire che cosa so esattamente? Allora rivolgetevi a Soave, il mio Primario. Per quanto mi riguarda, quello che volevo dirti, te l’ho detto. Penso che tu meriti la prigione insieme a tanti altri. Non sarà facile colpire
il presidente della Prisco, ma mi auguro che la magistratura italiana faccia in fretta il suo lavoro ed avvii una collaborazione per mettervi tutti in galera. L’FBI e la FDA andranno a nozze: la documentazione inviata al magistrato è accompagnata da una mia dichiarazione giurata su tutte le persone che ho conosciute e che so implicate in questa faccenda. Addio Sandra”. “Ora si spiegano tante cose. Ha telefonato la Procura della Repubblica di Torino: sono convocata come persona a conoscenza dei fatti. Ho ricevuto anche una lettera portata a mano da un ufficiale giudiziario. È opera tua! Vorrei capire che cosa ti è saltato in mente. Parto domenica con l’avvocato ed il presidente della Prisco Enterprise Italia” “Auguri Sandra! Spiegherai a loro quello che non dovevo sapere io. Ti auguro di uscirne al meglio!”
Non era la reazione che si sarebbe aspettato da una colpevole, ma bisognava solo muoversi sui fatti. Sapeva che inconsciamente le offriva una possibilità di fuga. Non voleva ammetterlo, ma gli sarebbe piaciuto si salvasse.
Il venerdì mattina Adamo fu accolto, questa volta con un sorriso, dalla segretaria del dott. Actos: “Vada pure dottore, è atteso nel laboratorio, conosce la strada…” “Grazie Signorina, buona giornata” Lei lo ricambiò con un cenno della testa. “È permesso Andrea?” “Vieni pure Ad, Tutto bene?” “Sì grazie …e tu?” “Anch’io, ma non credo che sia per i convenevoli che sei qui” “Vero Andrea, dimmi tutto!”
“Caro amico, se non ti conoscessi direi che ti sei preso la briga di farmi fesso o di farmi lo scherzo di carnevale” “Spiegati meglio. Cosa vuoi dire?” “Ho esaminato i due campioni, li ho valutati con tutti i sistemi oggi in uso alla medicina legale. Ero sicuro di trovarmi, almeno per uno, di fronte una sostanza di nuova generazione, magari partendo da una classe molecolare nota come gruppo base. Ho esteso lo stesso metodo di ricerca ad entrambe le sostanze contenute nelle due boccette separate. Ebbene, la prima sorpresa è stata quella di rendermi conto che entrambe sono assolutamente uguali, ovvero non esiste alcuna differenza” “Molto strano, Andrea, sono certo di averle prese da due contenitori separati. Probabilmente una contiene il farmaco attivo e l’altra il placebo, solo che non conosco a quali gruppi appartengono” “La seconda sorpresa è stata quella di valutare la classe di appartenenza della molecola. Nessun nuovo tipo di classe, anzi direi una vecchia e conosciutissima formula” “Che dici Andrea? Non è possibile!” “Ci troviamo di fronte a del semplicissimo magnesio stearato, bicarbonato di sodio, lattosio monoidrato con amido pre gelatinizzato, ovvero a del banale eccipiente. Tale composizione, priva di coloranti è veicolo di numerosi farmaci: null’altro. L’effetto farmacologico di una tale sostanza è legata all’attività psicologica di ognuno di noi. Direi che mi hai portato campioni di banale placebo.” Adamo era allibito, stentava a credere a quanto aveva appena sentito. Il viso dell’amico non lasciava dubbi e meno ancora la sua competenza. “Andrea, ti ringrazio. Ora ho la testa più confusa che mai. Devo ragionare con calma, capire. Non posso aver sbagliato farmaco. Le boccettine sono anonime e di aspetto generico, ma la ricerca scritta sulle cartelle era della Prisco. Nessuno può aver scambiate o sostituite le compresse senza che io potessi accorgermene. “Ad, non capisco”
“Nulla, scusami, stavo pensando a voce alta, non ti preoccupare. Capirai tutto tra alcuni giorni. Vedrai la mia faccia e quella di molte altre persone sui giornali. Per ora, dimentica di avermi visto. Sono sicuro ci rivedremo in tempi migliori. Sei un amico” “Ad aspetta, racconta…Vedi di non fare il pazzo”. Ma tra sé, pensava: vallo a dire ad uno che in inverno scala cascate di ghiaccio con sotto mille metri di strapiombo senza una corda. L’avrebbe rivisto presto, ne era sicuro.
Adamo aveva la testa in subbuglio, mille ipotesi, nessuna conferma. E se Sandra avesse avuto ragione? Un errore? Come sarebbe stato possibile? Ormai non aveva più senso rimanere latitante. Era giunto il momento di presentarsi al magistrato, il dott. Storri. Afferrò ancora il microtelefono di una cabina e compose il suo numero. Rispose immediatamente. “Sii sono Storri, prontoo?” “Dottore, sono Adamo Lancisi. Credo sia giunto il momento di costituirmi. Se lei è d’accordo, lunedì sarò a Torino ed ho pensato che potrei presentarmi alla stessa ora della dott.sa Blixten” “Lei è bene informato, dott. Lancisi. Non credo, però, sia una buona idea costituirsi alla presenza di un testimone. Preferirei vederla in separata sede. Debbo rivolgerle parecchie domande. La sua storia ha sollevato un vespaio. Dal burrone in alta valle sono emersi tre cadaveri, due dei quali con chiari segni di arma da fuoco. Credo che il suo ruolo sia indispensabile. Se non mi avesse fatto recapitare tutta quella documentazione, avrei già emesso un mandato di arresto. So che è a Roma. Tutti la stanno cercando. “Le andrebbe bene incontrarci domenica pomeriggio qui in Procura?” “Penso proprio di sì dott. Storri. Sarò in Procura per le diciassette, il treno da Roma arriva alle sedici circa” “Bene, porti il materiale in suo possesso. Sappia che non ho gradito la diffusione ai media. Tutto diventerà difficile e la fantasia dei giornalisti farà il resto. Se ne rende conto?”
“Me ne rendo conto dottore ma desideravo questo clamore. Nella mia vita ho visto troppe cose affossate per motivi politici o economici, e questo caso li contiene entrambi. In questo modo l’opinione pubblica potrebbe dare una mano. Negli Stati Uniti sarà fondamentale”. “L’aspetto, a domenica…Ancora una cosa: stia attento, lei è sicuramente un testimone scomodo; cercherei un’alternativa al viaggio in treno. Se vuole la faccio venire a prendere”. “Non credo di essere in pericolo, ci vedremo domenica come d’accordo, buona serata” Adamo riagganciò e decise di rientrare a casa a piedi. Dall’Università a via Acqui, ando per il quartiere di San Lorenzo e poi per Porta Maggiore non avrebbe dovuto camminare per più di quattro o cinque chilometri. Un’oretta di cammino e la tensione se ne sarebbe andata, lasciando liberi i pensieri. Attraversando il piazzale Verano, comprò dei giornali all’edicola d’angolo, guardò il banco coperto di fiori davanti all’ingresso principale del cimitero avvertendo il profumo caratteristico dei fiori dei morti e s’incamminò nel sottile vento freddo che spirava da nord. Il sole scaldava già ed un pensiero andò a Ricu e alle sue montagne. Litigando con Padre Mario di comunismo Ricu si sarebbe ripreso, tra un bicchiere e l’altro si sarebbero tenuti compagnia fino al suo ritorno. Degli amici così sono una ricchezza vera, ma pensava anche ai guai in cui aveva cacciato Ricu. Poi il pensiero andò a Sandra. Soffriva per quello che le aveva fatto, alcune azioni si compiono come se la vita fosse governata da una forza diversa, incoercibile. La ragione si stacca dal corpo e segue la sua strada, percorrendo i binari della logica. Abituati fin da piccoli a non sfuggire alla logica, al punto di diventarne schiavi. È come se usassimo la matematica per imprigionare la musica. Come si può vivere senza musica e come non usare il simbolismo dei numeri? La musica è anche numeri, solo che la loro combinazione astratta ed ideale si chiama arte ed eleva lo spirito. La sofferenza nasce dalla dicotomia anima e ragione. Esistono entrambe e noi possiamo scegliere la via dell’una invece che dell’altra. La scelta è rinuncia e la rinuncia sofferenza. Forse amava Sandra, qualcosa la rendeva innocente ai suoi occhi.
Si dice che nella nostra testa, l’amore, i sentimenti, l’odio, la ragione e gli stessi pensieri siano chimica molecolare. La chimica molecolare usa gli stessi elementi che si mescolano in continuazione fra loro, nascono si permutano e si scambiano. Panta Rei! Tutto scorre. Non esistono molecole buone e molecole cattive, esistono molecole diverse, come esistono lettere dell’alfabeto che vanno a formare parole di significato diverso. Sandra era il pensiero insistente che permeava i suoi giorni da quando l’aveva conosciuta meglio. Sandra era l’unica che lo aveva staccato dall’idealizzazione di Anna.
Il cielo era terso di un azzurro intenso. Il caos del traffico di Roma in quel momento sembrava essersi diradato, sarebbe diventato impossibile verso l’ora di pranzo, all’uscita dagli uffici degli impiegati dai Ministeri. Decise che a piedi sarebbe scampato allo stritolamento della metropolitana. Iniziò ad attraversare via Santa Croce in Gerusalemme. Un’Alfa 156 curvò velocemente e si diresse sgommando su di lui. Adamo percepì la presenza del pericolo e, con la coda dell’occhio, fece in tempo a scorgere la sagoma grigia. Si gettò rapidamente sulla destra, nel tentativo di guadagnare il marciapiede. La macchina lo colpì in pieno. Il basso muso dell’auto gli falciò le gambe con il risultato di fargli sbattere violentemente la testa sul montante anteriore del parabrezza. Il suo corpo rotolò sul tetto della macchina, per ricadere violentemente, esanime come una marionetta abbandonata sull’asfalto. La macchina fermò la sua corsa: ne scesero due figure che tentarono di avvicinarsi ad Adamo, ma all’accorrere dei anti e di due vigili urbani, rimontarono rapidamente in auto per scomparire in tutta fretta nella direzione di S. Giovanni in Laterano. Qualche ante prese il numero di targa, che porse ai due vigili. L’urlo della sirena in avvicinamento aveva attratto un piccolo nugolo di curiosi e di gente che avrebbe voluto dare una mano. L’ambulanza lo trasportò al Pronto Soccorso del Policlinico. Il medico che aveva praticato la rianimazione cardio polmonare, lo aveva poi intubato e la sua respirazione era sostenuta manualmente con un pallone Ambu. Adamo non dava segni di vita. Venne infilato in uno di quei box dove l’emergenza è la routine, ed il sangue denominatore comune, colore monotono e scuro che si allarga sui teli verdi illuminati dalle scialitiche.
“Dott. Chiari al sei c’è un politrauma arrivato ora. È giovane, grave. Va lei?” “Ci sono, avvisa la radiologia, fai arrivare gli anestesisti, senti pure chi è di turno in sala chirurgica nel pomeriggio; intanto chiama il posto di polizia per identificare il paziente e avvisare i familiari” “Se la cava dottore quel paziente? E ‘così giovane” Chiese un’allieva della scuola infermiere, quasi travolta dalla barella spinta di forza sotto la grande lampada. “Non so dirti, Ivana, sembra improbabile. Credo abbia una brutta frattura al cranio: non ha respirazione spontanea oltre al resto. È in coma profondo!”
Capitolo 9
“Cancelliere, controlli ancora se fuori è arrivato il Dottor Lancisi” “Dottor Storri, quello non si presenta. Oggi è domenica e deve aver pensato che lei lo voglia far arrestare” “Non dica scemate, Calvisi, è lui che ci ha fornito tutta la documentazione ed ha, di fatto, avviato l’inchiesta. Forse ha avuto un contrattempo; non vorrei gli fosse accaduto qualcosa. E la smetta di rimarcare sempre che oggi è domenica. Per una volta che la chiamo potrebbe evitare di farmelo notare!” “Dottore, ormai sono le diciannove; se avesse perso il treno o l’aereo, avrebbe avvertito. Quello non arriva più” “Forse ha ragione. Chiami i Carabinieri. Veda di farmelo rintracciare, ora firmo il mandato di arresto” “Come crede, dottore” “Ah, senta, Calvisi, a che ora è convocata la Dott.sa della Prisco, la Blixten?” “Domani mattina alle dieci” “Allora adesso se ne vada a casa! Ci vediamo domani mattina. Io mi fermo ancora un attimo a guardare delle cose” “Dott. Storri, esca con me, ci prendiamo un caffè o un aperitivo e poi ce ne andiamo a casa, a guardare un filmetto o la Domenica Sportiva. Se la lascio qui la ritrovo domani mattina inchiodato alla scrivania con la stessa faccia stanca di tutti i giorni, la stessa camicia, gli occhi stralunati e le stesse ore non dormite. Dia retta a me, ad un padre di famiglia!” “Prendiamoci questo caffè Calvisi. Mi ha convinto, lei assomiglia davvero un po’ a mio padre che di notte mi diceva di piantarla di appollaiarmi sui libri di Penale”
“E dov’è adesso suo padre?” “Mio padre è pensionato, si è trasferito al mare, in Sardegna e si starà occupando delle sue fotografie in camera oscura, o del suo hobby preferito” “Venga, dottore, si copra: s’infili il cappotto che qui a Torino fa freddo, c’è la nebbia che ti entra nelle ossa, mentre a Napoli adesso fanno il bagno. Qual è l’hobby preferito di suo padre?” “Sono io”.
La dott.sa Blixten entrò nella spoglia stanza del giovane procuratore. Era nervosa ed assolutamente a disagio, anche se gli occhiali da sole fornivano un’adeguata protezione all’espressione dei suoi occhi. Il vestito color cremisi si imponeva in quell’ambiente anonimo. La sua presenza e la sua bellezza innervosivano il dott. Storri e davano un’aria diversa alla routine di tutti i giorni. Il suo sottilissimo profumo contrastava con quello delle scartoffie che sommergevano entrambe le scrivanie. Sulla scrivania del magistrato, primeggiava in bella vista un monitor piatto a cristalli liquidi, unica concessione moderna al vecchiume circostante. La macchina da scrivere del cancelliere era degli anni sessanta, una vecchia Halda Cicero, si diceva che il cancelliere ne fosse ancora innamorato nonostante le “diavolerie” moderne. Solo la foto del Presidente della Repubblica ed un Crocefisso erano appesi sulla parete opposta alla finestra, quasi ad indicare una via d’uscita. L’ avvocato, una faccia tetra e slavata, anonima ed impersonale, era in abito scuro, cravatta grigia, scarpe nere e borsa dello stesso colore. Il Presidente della Prisco Enterprise Italia sembrava abituato a situazioni complicate. Non manifestava apparentemente alcun timore e non tradiva nessuna emozione. “Signori siete stati convocati per chiarire quello che sapete in merito alla sperimentazione del farmaco “Tropemi” esordì subito il giudice. Tale sperimentazione, come voi saprete, non è stata mai autorizzata in Italia ma da quanto risulta agli atti, è stata iniziata da circa sei mesi, almeno in un ospedale di questa regione. Sono in corso indagini su tutto il territorio nazionale. È stata data notizia anche all’FBI e alla FDA del vostro paese per sapere a che punto siete giunti nell’ambito della ricerca.
Vi prego pertanto di essere chiari e di dare riscontri obiettivi dei fatti. La vostra posizione e le responsabilità ascrittevi saranno valutate in base alle dichiarazioni che controfirmerete. Iniziamo da lei dottoressa Blixten”. “Cancelliere Calvisi provveda a verbalizzare”. “Dottoressa Blixten, quali sono attualmente i suoi rapporti con la Prisco Enterprise?” “Sono responsabile del terzo braccio della ricerca e della sperimentazione del farmaco riguardante la sintesi molecolare, le azioni farmacologiche terapeutiche e la titolazione della dose letale su animale qui in Italia”. “Si spieghi meglio: vorrei sapere a che punto è la sperimentazione umana di questo farmaco” “Non vi è stata alcuna sperimentazione umana. I nostri studi sono stati effettuati esclusivamente su ratti e primati” “A noi risulta che abbiate iniziato all’ospedale di Cerutto, nella divisione di Cardiologia, studi in doppio cieco del farmaco Tropemi. Cosa mi dice al riguardo?” “Nego nella maniera più assoluta” “ Voi, signor Presidente?” “Confermo quanto detto dalla dottoressa Blixten” “Queste cartelle cliniche sono intestate alla Prisco Enterprise. Il farmaco qui registrato è il Tropemi, la dose somministrata è di 100 mg per due volte al dì. Il medico che ha somministrato il farmaco è il dott. Ubaldo Soave, primario della divisione di Cardiologia. Di lato è attaccata la matricola di produzione delle compresse somministrate”. La Blixten rimase esterrefatta, afferrò la cartella, la esaminò in tutti i particolari. Osservò attentamente i richiami, gli indirizzi d’intestazione e tutto il resto. Intervenne quindi con voce alterata: “Le cartelle sono del nostro gruppo, ma riguardano esclusivamente quelle che usiamo per il controllo su animale. Ripeto, non abbiamo iniziato sperimentazione su esseri umani. Queste cartelle sono false, o trafugate dai nostri laboratori di Baltimora, dove sono state stampate.
Osservi il numero di matricola ed i codici della tipografia. Quando verrà avviata la sperimentazione umana, faranno esclusivamente fede la cartelle cliniche ufficiali, redatte dai medici degli ospedali. Non esistono doppie registrazioni” “Quindi lei afferma che queste cartelle sono false!” “Si, lo confermo” “E lei presidente?” “Confermo anch’io” “Dott.sa Blixten, mi può spiegare che cos’è il farmaco che state studiando, ed il suo meccanismo d’azione?” “Il Tropemi è l’anagramma parziale e contratto di Troponina e Miosina, che sono due delle proteine contrattili implicate nel complesso sistema di accoppiamento del sarcomero, l’unità contrattile muscolare cardiaca a cui si deve l’azione della sostanza. Gli studi sulle cellule staminali - che provengono da varie fonti, prevalentemente dal midollo osseo ma anche dal cordone ombelicale o da miociti in vari stadi di differenziazione - fino ad ora erano in stallo. Numerosi problemi non sono ancora stati risolti nonostante l’accanimento d’insigni ricercatori. Infatti mentre si ha la possibilità di migliorare nettamente la contrattilità miocardica, con un reintegro di massa muscolare, permangono problemi a livello della vascolarizzazione di questa massa e della diffusa aterogenesi coronarica indotta dall’attività paracrina. Il concetto è simile a chi costruisce una bella casa senza peraltro pensare alle tubazioni che portano l’acqua, il gas o gli scarichi dei tetti e fognari. Questo è il vero punto della ricerca. Tropemi dovrebbe permettere di superare tutto questo, di risolvere il problema della vascolarizzazione della massa muscolare con un’importante angiogenesi, che altro non sarebbe che la formazione di arterie e vene che portano il sangue, senza creare ulteriori problemi di aterosclerosi. Il farmaco migliorerebbe il sistema di accoppiamento tra actina miosina e troponina. Una vera rivoluzione nata da una scoperta quasi casuale, che per essere studiato e sviluppato necessita di capitali immensi e di bilanci da capogiro. Solo una grande multinazionale, come la nostra, poteva investire finanziamenti così massicci, sia sull’angiogenesi che sulle cellule staminali. Ovvero il farmaco sarebbe stato un avanzamento scientifico tale da rendere inutili tecniche di una notevole complessità terapeutica, con diminuzione
vertiginosa dei costi di gestione dei Pazienti, delle degenze in ospedale, dei successivi controlli, e favorendo una rapida ripresa dell’attività lavorativa. L’introduzione di questo farmaco sarebbe di una importanza incredibile, una pietra miliare, una rivoluzione nel campo della terapia cardiologica. Per farle un esempio, simile a quella che ebbe l’era antibiotica con la scoperta della Penicillina. Non si renderebbero più necessari i trapianti cardiaci, molti interventi di By- Aorto Coronarici, Angioplastiche coronariche ed un’infinità di lavoro connesso a queste costosissime metodiche” “Quindi, un fallimento, implicherebbe un disastro finanziario della Prisco Enterprise” “Certo dott. Storri, ma non vi sono dati, di problematiche emerse in tal senso” “Eccezion fatta di quelle in mio possesso che voi formalmente disconoscete come vostre” “Esatto procuratore!” Disse l’avvocato riemergendo dal suo torpore. “Signori, debbo avvertirvi che da queste cartelle risultano sette decessi di pazienti all’oscuro della terapia. Tali decessi trovano conferma nella documentazione ufficiale ospedaliera da me fatta acquisire. Inoltre, per recuperare queste cartelle, che voi ritenete essere dei falsi, sei persone hanno perso la vita. A questo punto, debbo pregarvi di non lasciare il nostro Paese, di consegnare il vostro aporto, di restare a disposizione di questa autorità giudiziaria e di risiedere nel vostro domicilio abituale dove verrete contattati! Vi è fatto specifico divieto di recarvi nelle sedi della Prisco Enterprise Italia, attualmente poste sotto sequestro, fino al momento della chiusura delle indagini, cosa che vi verrà comunicata direttamente. Il tentativo di comunicare, con qualsiasi mezzo, con la sede centrale della multinazionale di cui fate parte, trasformerà la vostra semilibertà in arresto. Da questo momento vi è fatto divieto dell’uso di telefoni cellulari personali o di terzi. Sarete tenuti sotto stretta sorveglianza”. “Avvocato!” Intervenne il Presidente. “Alla luce di quanto dichiarato, noi ci appelleremo al tribunale della libertà; resta il fatto che per il momento il giudice può esercitare il potere per il fermo agli arresti domiciliari”
“Mi scusi, signor Procuratore” “Dica dottoressa” “Chi ci accusa di questo?” “Il dottor Adamo Lancisi. Esiste una sua dichiarazione giurata e la descrizione dettagliata di come si sono svolti gli eventi, da quando lei lo ha conosciuto fino a due giorni or sono, quando gli ho parlato” “E dov’è il mio accusatore?”. “Lo stiamo cercando, ho spiccato un mandato di comparizione. Nutriamo qualche preoccupazione sulla sua persona. È già stato fatto oggetto più volte di tentato omicidio. Speriamo di rintracciarlo presto” “Un’ultima domanda, dottoressa, che genere di rapporti intrattiene con il dott. Lancisi?” “Buoni, anzi ottimi rapporti di amicizia e d’iniziale collaborazione, ovviamente prima di questi fatti. Ho sempre ritenuto il dott. Lancisi una persona corretta, onesta, competente. Avrebbe potuto essere un collaboratore perfetto, ma sembra sia stato estromesso dal primario del suo reparto, almeno così mi disse circa un mese or sono” “Il primario, il dottor Soave Ubaldo, così mi sembra si chiami, è attualmente un vostro collaboratore?” “No, assolutamente. So che si era recato a New York nella sede centrale della Prisco Enterprise a novembre o dicembre dello scorso anno: aveva avuto contatti diretti con il presidente. È d’uso comune che i collaboratori alla ricerca vengano contattati personalmente dal Presidente della nostra società. Poi tutto era stato annullato, in quanto sembrava che il primario necessitasse di fondi più consistenti. Il dottor Lawson, Presidente della Prisco Enterprice, mi disse che il dottor Soave non era interessato veramente alla ricerca scientifica, ma ad interessi diversi”. “Che genere d’interessi?” “Guardi io al colloquio non ho assistito; parlo per interposta persona e non
voglio creare situazioni di difficoltà per nessuno. Penso debba chiederlo personalmente a lui” “Dottoressa, non nascondiamoci dietro un dito. È ovvio che ogni dichiarazione verrà puntualmente controllata. Questa è un’indagine preliminare: mi dica quello che sa. Quindi riprendiamo: quali interessi le risulta perseguisse il Primario del dottor Lancisi?” “Interessi di tipo economico”. “Bene, vede che tutto diventa più semplice?” “Non mi sembra sia più semplice. Sono qui per chiarire la mia posizione e quella che mi riguarda nei confronti della Prisco. Mi scusi dottore, mi stava dicendo che il dottor Lancisi doveva avere un colloquio con lei, ed invece non si è presentato?” “Sì dottoressa, sa dove possiamo trovarlo?” “Non ne ho idea” Sandra parve colpita da queste parole. Dopotutto Ad non le aveva mentito. Tradì un moto d’ansia accarezzandosi i capelli, mentre dal suo viso trapelava un’espressione confusa,incerta.
. Ricu si stava sbendando la coscia. Aveva seguito le raccomandazioni di Adamo alla lettera. La ferita non si era infettata e lui riusciva a camminare zoppicando, senza grandi difficoltà. Padre Mario non aveva più notizie di Adamo dal venerdì della settimana ata. Parve strano, visto che prima aveva telefonato tutti i giorni per avere notizie. Provò a chiamarlo al numero del cellulare, che mandava segnale di non raggiungibilità. Dopo mille telefonate, rintracciò la mamma di Adamo, Ada, che già sconvolta da quanto aveva appreso dalla televisione, era in ansia per il figlio anche lei senza notizie di sorta.
Padre Mario decise di andarla a trovare a Verona, dove risiedeva da tempo. Incontrandola, l’abbracciò. Non si vedevano da tanti anni. Erano cambiati, entrambi più bianchi e don Mario anche più pingue. Ada scoppiò in un pianto dirotto, Don Mario la consolò, le raccontò gli avvenimenti e l’incontro recente con il figlio. Adamo non era sempre stato un figlio affettuoso, era ribelle e non avvezzo a smancerie, chiuso; tuttavia con una dolcezza interiore che sapeva comunicare senza parole, con il tocco della mano o con lo sguardo intenso di bimbo, su di lui si poteva sempre contare.. Ada tentò di contattarlo al numero della casa romana senza avere risposta. Nessuna traccia. Si sentiva sola, disperata con l’angoscia di questa sparizione. Padre Mario la convinse a recarsi in valle, la portò con sè e le diede ospitalità alla “Casa del pellegrino” di S. Chiaffredo. Incontrò Ricu con gioia, parlarono dei vecchi tempi, di suo figlio. Si sentì meglio, più sicura.
Nel piccolo villaggio era tutto un brulicare di polizia, carabinieri, e gente in borghese, dei servizi forse, giornalisti. La funivia per i turisti funzionava, ma non era possibile incamminarsi verso il vallone. Il tratto era vietato in salita. Tutti, nei bar, nei crocicchi e dal fornaio, facevano riferimento allo strano gruppo di alpinisti che poi alpinisti non erano. L’elicottero precipitato aveva sollevato una marea di commenti e dichiarazioni. Martino era stato costretto a rifugiarsi da amici per evitare le TV locali, che dovevano a tutti i costi trovare un colpevole dell’accaduto. La compagnia privata che gestiva l’elisoccorso aveva affittato per quindicimila euro l’elicottero a quei pazzi, concesso con la condizione di farlo pilotare da uno di loro munito di regolare brevetto. Nemmeno ipotizzabile quello che era accaduto. Ora le denunce fioccavano da tutte le parti. La zona era diventata meta di un pellegrinaggio di curiosi e la stampa locale ci aveva lavorato sopra. La storia dell’incidente non l’aveva bevuta nessuno, anche perché in valle si erano udite parecchie esplosioni ed alcuni, dalle orecchie fini, raccontavano di aver percepito colpi di arma da fuoco a raffica. Il ritrovamento in fondo al burrone di tre cadaveri, fra cui quello di Hermes, aveva dato adito a molteplici ipotesi. Il bandolo della matassa era ben lontano da essere dipanato. Qualcuno aveva
insinuato che la scomparsa del dottore della cardiologia dell’ospedale di Cerutto aveva a che fare con gli eventi. In particolare, avevano di che parlare i condomini dell’abitazione di Ad, che avevano trovato la porta aperta e la casa rovistata dai ladri, ed avevano visto dei fori di proiettile nel muro del pianerottolo dopo l’intervento dai Carabinieri, che avevano fatto l’ispezione e messo i sigilli alla casa. Intanto numerosi fascicoli rigonfi di rapporti continuavano ad affluire sulla scrivania del dott. Storri.
La bomba scoppiò quando il quotidiano “La Repubblica” di Roma, in contemporanea con altre testate giornalistiche, pubblicò il memoriale di Adamo. I telegiornali ne parlarono a lungo ed il caso divenne di rilevanza nazionale, poi rimbalzò anche all’estero. La stampa se fece un editoriale in un settimanale, ribadendo la necessità di trasparenza nelle azioni delle multinazionali. La Francia dichiarò inoltre che la battaglia si era svolta non lontana dai suoi confini. L’Inghilterra annunciò una verifica governativa della normativa per la sperimentazione sull’uomo. La notizia volò oltre oceano e la stampa americana riportò i fatti senza aggiungere commenti, attendendo l’esito delle indagini in corso. Wall Street condannò la Prisco Enterprise senza aspettare il processo. Le azioni della società vennero cedute al ribasso fino alla sospensione del titolo. Il clima ribassista, fece scivolare il comparto farmaceutico, e le manovre speculative, con effetto domino, si ripercossero sulle borse europee fino a raggiungere le borse asiatiche.
Bisognava fare chiarezza ed in fretta. Il telefono del dottor Storri si era incendiato, tanto da dover essere staccato per poter continuare il lavoro. Il Procuratore capo dovette assegnarli, di malavoglia, un nuovo studio, più spazioso, una segretaria, un’altra linea telefonica, una scorta di quattro persone che controllavano i suoi i ventiquattro ore al giorno. Il via vai alla procura era febbrile. Si doveva rintracciare il testimone chiave. Quella mattina era il turno del Primario della Cardiologia dell’Ospedale di Cerutto, che si presentò tesissimo, d’innanzi il magistrato, con il suo avvocato.
Qualche goccia di sudore imperlava la fronte del Primario, che tuttavia manteneva un atteggiamento sicuro, controllato, degno del ruolo che lo ricopriva. Nondimeno il Procuratore era deciso ad estorcergli dichiarazioni che fero luce sul torbido intrigo. “Mi dica dottor Soave, come è iniziato il suo rapporto con La Prisco Enterprise?” “Il mio rapporto con la Prisco non è mai iniziato. Di che cosa mi si accusa esattamente” “Vuole scherzare dottore! Vuole dirmi che non riconosce queste cartelle?” “Queste cartelle sono dei falsi, io non ho mai visto questa documentazione. Piuttosto, è importante che rintracciate il mio Aiuto, il dottor Lancisi. Potrà essere molto più chiaro sulla documentazione in suo possesso. Credo che tutto possa essere spiegato con semplicità: il dottor Lancisi aspirava al posto che io occupo. Il concorso ha dichiarato me vincitore e penso che questo non l’abbia mai digerito” “Dottor Soave, lei si è recato personalmente nel novembre scorso a New York per prendere contatto con il Presidente della Prisco Enterprise, il dottor Eric Dawson? È stato invitato, a spese della casa farmaceutica, per prendere parte attiva alla sperimentazione sul Tropemi. Questo me lo conferma?” “Sì, lo confermo” “Quali sono stati gli accordi?” “Nessun accordo. Il dottor Dawson mi ha proposto d’iniziare la sperimentazione per conto della Prisco appena fosse stato dato il via alla somministrazione sugli umani. Mi ha offerto una cifra che non sarebbe bastata neanche a coprire le spese, per cui ho declinato l’invito. Questo è tutto”. “Come mai non ha incaricato della sperimentazione il dottor Lancisi, che inizialmente le aveva procurato il contatto con la dottoressa Blixten?” “Èvero, ma non fu una mia scelta. È la Prisco Enterprise che sceglie direttamente i suoi collaboratori. Probabilmente, come fanno molte case farmaceutiche, ha preferito rivolgersi alle persone più qualificate per la sperimentazione. I primari
dovrebbero esserlo istituzionalmente, non le sembra?” L’avvocato fece un cenno di assenso con il capo. “Quale fu la cifra esatta propostale?” “Non ricordo con precisione: mi pare trentamila dollari” “È sicuro che questa cifra non copra i costi vivi della sperimentazione? La direzione sanitaria del suo ospedale mi ha detto che è un’offerta generosa. In ato, sono stati condotti studi per una cifra notevolmente più bassa, dell’ordine di settemila euro” “Forse dottore, io non ero primario allora e del mio predecessore non so dire. Svolgo il ruolo di manager ed ho ritenuto che la cifra offertami non fosse adeguata. Ho la responsabilità di far quadrare i bilanci, che possibilmente debbono essere in attivo per la produttività dell’azienda di cui faccio parte. Non tutte le sperimentazioni sono uguali. Questa in particolare richiedeva l’utilizzo di apparecchiature sofisticate, del personale medico impegnato per un numero elevato di ore e tecniche d’imaging. A conti fatti, era un buon affare solo per la Prisco. Per questo ho preferito astenermi” “Dottore mi dica, se non vado errato, lei ha recentemente acquistato una casa per le vacanze sul lago di Como, per meglio dire, esattamente a Gravedona; i miei collaboratori, mi dicono, essere molto bella, con un ampio giardino ed un piccolo imbarcadero privato” “Mi scusi dottore” interruppe l’avvocato “Questa cosa fa parte della vita privata del mio cliente; non vedo come possa concernere fatti inerenti l’attività professionale del mio assistito” “Avvocato, la vita privata del suo assistito non è d’interesse di questa Procura. I capitali che invece ha mobilizzato, si, interessano moltissimo!” Soave cominciò a sudare. Le mani gli tremavano. Non si spiegava come potesse essere trapelata la cosa. Non ne aveva fatta parola con nessuno, tranne la sua famiglia. Non l’aveva dichiarata ancora al fisco, in quanto acquistata nell’anno in corso “Lei si sta chiedendo, dott. Soave, come facciamo a saperlo, vero? È stato semplicissimo. Negli ultimi mesi risultano dai tabulati delle sue telefonate nel distretto di Gravedona. Abbiamo fatto delle domande, sul posto, e abbiamo saputo che Villa Laura, era stata recentemente venduta. Siamo risaliti al suo
nuovo proprietario, che, neanche a dirlo, risulta essere lei. La cifra dichiarata sul rogito notarile è di centocinquantamila euro. Ma, dalle indagini risulta sia stata pagata una cifra molto superiore. Le mostro una ricevuta, a saldo, di seicentomila euro! Anche perché, mi consenta dott. Soave, con la cifra dichiarata, lei non comprerebbe un bilocale nella zona” . Soave trovava la sua sedia scomodissima. Iniziò la guerra personale con il nodo della cravatta. Ma Storri incalzando come un panzer cinicamente: ”Le domande ora sono due: dove ha reperito questa ingente somma che risulta solo parziale, in quanto a saldo; e da quale conto o deposito bancario lei ha prelevato la somma?” “Io avevo dei risparmi, non solo i miei, anche quelli di mia moglie e dei miei suoceri che ci hanno aiutato. Ho l’abitudine di pagare in contanti. Si fanno affari migliori.” “Abbiamo controllato i conti correnti di tutta la sua famiglia, dei suoi genitori e dei suoi suoceri. Nessun movimento bancario è stato fatto nel periodo relativo l’acquisto di questa casa. Oppure tutti, in famiglia, avete la ione di accumulare ingenti somme in denaro liqiudo?” “Le confermo la somma versata di centocinquantamila euro. Li avevo custoditi nella cassaforte di famiglia, nella mia casa di Cerutto” “Andiamo male, molto male dott. Soave. Lei sta mentendo. Abbiamo controllato anche il conto corrente dei precedenti proprietari e risulta che lo stesso giorno del rogito notarile abbiano versato alla Banca Popolare di Sondrio, contante per più di seicentomila euro ed un assegno proveniente dal Credit Timeport Swiss filiale del Principato di Monaco. Il conto è cifrato e ovviamente non abbiamo un nome. Per avviare una rogatoria internazionale ci occorrerà molto tempo e noi non ne abbiamo. Lei possiede la casa e quindi mi deve spiegare da dove arrivano questi soldi” “Cosa c’entra la mia casa con la sperimentazione? Cosa c’entra? Cosa volete da meee…” Le urla erano udibili fuori dello studio. L’avvocato non era pronto a una tale evenienza. Cercò di trattenere il suo cliente, di farlo ragionare. Soave lo aveva tenuto all’oscuro di tutto, tanto si sentiva sicuro. Il cancelliere, Calvisi, che ben conosceva il magistrato, sorrideva sornione, aspettando il botto finale. “Allora dott Soave, si decide a parlare o preferisce che io la dichiari in stato di fermo cautelativo in carcere, disposizione che dovrò dare, mio malgrado, per
evitare una sua fuga ed un inquinamento delle prove?” “Io, io non dirò più nulla. Non ho niente da dire! Sono i risparmi di una vita di lavoro! Ecco da dove vengono i soldi! “Come mai, una persona del suo livello, con tutti i rischi che si corrono di questi tempi, tiene una così ingente somma in casa, ed ha un conto a Montecarlo?” “Sostituto Procuratore, mi scusi, non è dimostrato che il conto del Credit Timeport Swiss sia ascrivibile al mio cliente” Disse resuscitando l’avvocato. “Stimato avvocato, lei sa che è solo una questione di tempo. Le prove a carico del suo assistito sono molte. Sarebbe meglio consigliasse una deposizione completa e veritiera. Migliorerebbe la sua posizione e potremmo tenerne conto. Tenga presente, che i vecchi proprietari dell’immobile, consapevoli dei problemi legati a questa inchiesta, si sono dissociati, non vogliono complicazioni. Per loro tutto si riduce ad una sanzione amministrativa. Ho una loro dichiarazione firmata dove affermano di aver ricevuto dal dott. Soave, sia l’assegno che il contante” L’avvocato chiese di conferire con il suo assistito, ma Soave, vistosi perduto, non accettò di confessare, e negò con fermezza i reati ascrittigli, pertanto arrestato e condotto in carcere in custodia cautelare.
L’indagine dell’FBI procedeva rapida e simmetrica a quella italiana dopo la denuncia all’Interpol. In queste situazioni gli americani solitamente usano molta prudenza, in particolare quando vi sono di mezzo gruppi industriali di rilevanza planetaria. La portata e la risonanza del caso era tale che doveva essere presa una posizione chiara senza ombra di dubbio. L’intero sistema ne sarebbe stato coinvolto ed il danno d’immagine sarebbe risultato molto più devastante che non quello economico. Il colloquio tra agenzie non era mai stato idilliaco, la FDA era a conoscenza dei fatti e aveva aperto un’inchiesta rigorosissima sui laboratori di Baltimora e di Chicago. Iniziò ad essere ato al setaccio tutto il materiale sperimentale, gli archivi dei laboratori, i chimici ed i reagenti. I responsabili di linea vennero interrogati separatamente. Le risposte incrociate con le varie dichiarazioni. Le linee di ricerca valutate per verificare se qualche variazione su tema era stato messo in atto dal singolo. Le indagini si stavano svolgendo e veniva mantenuto il massimo riserbo sui risultati, come di regola. Gli investigatori avevano bocche cucite, nulla di ufficiale trapelava.
Sul versante italiano il dottor Storri stava facendo un lavoro immenso, mancava però la chiave di volta del sistema: Adamo, che sembrava essersi volatilizzato.
Capitolo 10
All’uscita del tubo della risonanza magnetica Adamo venne inviato immediatamente in sala operatoria neurochirurgica. Il referto era impietoso: vi era una frattura del processo zigomatico e della struttura ossea temporo parietale di sinistra, ben più gravemente la presenza di una lesione da contraccolpo diametralmente opposta nella regione occipitale destra. L’emorragia endocranica si stava espandendo comprimendo la massa cerebrale. Si doveva operare subito e decomprimere il cervello che ad ogni istante perdeva funzioni. “Infermiera, inizi a preparare il paziente. Tagli i vestiti, rasi il capo. Si faccia aiutare per fare più in fretta” Ivana prese dal carrello della medicazione le forbici speciali ed in breve tempo liberò il paziente di tutti i suoi abiti, che raccolse in un sacco di plastica. Vi depositò insieme l’orologio e la piccola catenina d’oro. Gettò il sacco in un lato della sala. Nel frattempo giunse il permesso di recarsi nella camera operatoria di neurochirurgia ed Adamo fu rapidamente spinto in ascensore da due portantini. Le porte dell’elevatore si chio dalla sala RNM. Adamo iniziò la sua lotta per sopravvivere, intanto dal posto di polizia giunse l’agente per il riconoscimento del ferito. In tasca si rinvenne un portachiavi, un fazzoletto, due flaconi di medicinali, un portafogli con dentro circa settanta euro, due biglietti della metropolitana, la ricevuta d’acquisto di una rosticceria di viale Etruria ed un biglietto del cinema Don Orione. Il poliziotto esaminò anche l’orologio, un Longines Conquest e la catenina d’oro fatta di un filo con una croce semplicissima e piccola. Viste le dimensioni sembrava femminile. Descrisse il contenuto sopra un taccuino, trattenne inoltre il biglietto del cinema e la ricevuta della rosticceria. Riconsegnò tutto all’allieva infermiera annotando il suo nome.
La camera operatoria dischiuse le sue porte. Adamo fu introdotto nel percorso sterile traslato sul lettino operatorio. L’anestesista controllò la sicurezza della linea infusionale venosa e ne assicurò un’altra. Venne applicato il respiratore automatico e detersa tutta la cute cranica di Adamo. I telini verdi delimitarono rapidamente il campo operatorio ed in pochi attimi l’intervento ebbe inizio. Il
chirurgo provvide a decomprimere il cervello dopo aver praticato una breccia nella teca cranica. Sistemò i drenaggi di rito ed iniziò a verificare le fratture del processo zigomatico e la lesione temporo parietale. In questa sede non si erano evidenziate emorragie. Ricompose i frammenti controllando che non vi fossero schegge ossee penetrate nella corteccia. Richiuse e suturò, lasciando subentrare l’équipe ortopedica a proseguire l’intervento sulla frattura esposta di tibia e perone ad entrambe le gambe ed il femore destro. L’intervento era durato in tutto quattro ore e mezza; il polso e la pressione non avevano mai destato preoccupazioni e non erano comparse aritmie. La respirazione assistita venne mantenuta ed Adamo fu condotto in sala di rianimazione per la degenza post operatoria. Ivana, prima di finire il suo turno, chiese informazioni di quel giovane poli traumatizzato che non aveva ancora un nome. Sperava vivesse. Era il suo primo impatto, duro e sconvolgente con il lavoro che si era scelta. Non aveva mai visto una persona così gravemente ferita e per di più molto giovane. Il Paziente non doveva avere più di trentacinque anni, era magro, atletico, forse attraente se non fosse stato per le ferite ed il sangue raggrumato, che lo copriva. Ora giaceva su un letto di rianimazione con la vita appesa ad un filo sottile. Da varie parti del corpo Adamo era collegato a sistemi complessi di monitoraggio; pompe d’infusione controllata di farmaci emettevano un ronzio di tipo galoppante. Mille lucine di vari colori rendevano il luogo paradossalmente natalizio con bip ed altri suoni che si fondevano in quella che inoppugnabilmente sembrava l’anticamera di una vita in un’altra dimensione.
Ivana tornò all’ostello convitto che la ospitava con il desiderio di rivedere presto il “suo” malato. Si sentiva astrattamente attirata da quell’individuo. Aveva diciannove anni ed usciva da una storia d’amore infelice quanto travagliata. Aveva alle spalle una famiglia disastrata: padre alcolizzato, che lavorava saltuariamente; il fratello generoso, ma debole e facile preda del mondo dei drogati, anche Ivana era stata vittima di un giro di droghe leggere che consumava in gruppo, nel rito collettivo del fine serata, nello stordimento che per poco fa dimenticare i problemi. Sua sorella più grande si era già sposata ed il marito vietava alla donna di frequentarne la casa. Ivana era sola, si sentiva talvolta al telefono con la sorella che non le fu mai di grande aiuto avendo
bisogno anch’essa di una guida o di un padrone. Iv, come le piaceva farsi chiamare, era approdata nella scuola infermiere su consiglio della madre, che avrebbe voluto fare a suo tempo lo stesso lavoro. Svogliata e ribelle, aveva avuto numerosi problemi con i suoi superiori, con le monache che ancora erano presenti in ospedale all’inizio della sua formazione e con il personale infermieristico dei reparti a cui veniva affidata. La criticavano molto spesso; una volta per la gestione del paziente, le dimenticanze, la mancanza di responsabilizzazione del suo ruolo; mal sopportavano la sua bellezza, l’attrazione che esercitava sui maschi adulti, in particolare sui medici. Aveva splendidi occhi verdi che accentuavano uno sguardo in parte ingenuo e vagamente perverso, dolce e provocante, sottolineato da piccole rughe che marcavano notti insonni. Era magra, snella, sapeva ballare ed adorava farlo, gran parte delle sue serate libere le ava in discoteca che puntualmente finivano con fumo e sesso di un incontro occasionale. Viaggiava sempre in autostop col pensiero che un giorno avrebbe incontrato l’uomo del suo destino. Si era innamorata di un medico che l’aveva aiutata a superare qualche esame difficile nei suoi studi, non sempre riusciva a concentrarsi e sfuggiva le richieste che costantemente la professione comportava. Il medico aveva troncato il rapporto e lei si era trasferita a Roma per conseguire il diploma ed iniziare a lavorare. Era incostante, ma intelligente. Riusciva a guardare lontano per istinto, non aveva ricevuto granchè dagli strumenti educativi ed era propensa ad abbandonarsi ai sogni. Si sentiva diversa dall’ ambiente in cui cresceva, fatto di piccole cose, non le avevano dato ali, non aveva volato mai, ma non aveva rinunciato a farlo. Capiva, dentro di sè, che se voleva realizzare qualcosa della sua vita avrebbe dovuto andarsene, cercare un lavoro che le offrisse qualche occasione. Sperava tacitamente che, sposando un medico, la sua vita sarebbe cambiata, avrebbe finalmente fatto il salto sociale e sarebbe cresciuta culturalmente. In fondo al suo animo era una romantica, una ragazzina che amava sognare ed illudersi di incontrare prima o poi il suo principe azzurro. Nelle sue fantasie viaggiava lontano, in paesi non visitati, eppure così reali, così vicini. Sapeva che un giorno li avrebbe conosciuti. Attendeva quel momento e cullava il suo desiderio nascosto, il suo segreto.
Ivana aveva confidato alle amiche del convitto l’incontro con lo sconosciuto paziente giunto all’ora del cambio di turno. Lo aveva spogliato, in gran parte tagliando i vestiti che aveva raccolto, come d’uso, in un sacco nero ed aveva
consegnato gli effetti personali al piantone di guardia. Le era stato detto di gettare nei rifiuti speciali il sacco degli abiti, tagliati ed intrisi di sangue. Lei aveva notato una cintura di cuoio nero con la fibbia della Levis. A parte lo sporco, la cintura era intatta. Avrebbe potuto essere la scusa per riconsegnarla a quel paziente, se mai fosse riuscito a cavarsela, e, magari, lui avrebbe potuto invitarla ad uscire, per ringraziarla e magari, fantasticava….era così bello! Così non gettò via il sacco e lo chiuse nell’ armadietto personale dello spogliatoio senza dirlo a nessuna delle amiche. Ivana, quella sera stessa, trovò una lettera sul cuscino del suo letto. La Direzione della scuola la trasferiva in nefrologia per esigenze di personale, senza uno specifico motivo. Ivana ne fu dispiaciuta, pianse un po’, ma era giovane e la vita a 19 anni offre tante cose. Ci dormì sopra.
Il Dottore iniziò il giro dei pazienti in corsia, era soprattutto preoccupato per il paziente appena operato, che ancora non aveva un nome. “Come va il Paziente signor…..” “Non conosciamo il suo nome dottore, è stato investito da un’auto e non aveva con sè documenti d’identità. Il post operatorio prosegue con regolarità. Funzioni vegetative normali. Diuresi e bilancio liquidi normali. Ematochimici nella norma con buona saturazione di ossigeno. Polso e frequenza in range. Qualche linea di febbre. Viene mantenuto in sedazione, con terapia antiepilettica oltre a quella antibiotica” “Prosegue bene, direi, se non ci sono sorprese tra due giorni potremmo provare a valutare se vi è ripresa della respirazione spontanea. Attualmente i polmoni espandono bene e…Infermiera, venga qui per favore” Il dottore era perplesso, osservava con attenzione. “Dica dottore” “Guardi, qui sotto la clavicola sinistra, questo è un foro da arma da fuoco!” “È vero, Dottore! Controllo se è stato rilevato all’accettazione?” L’infermiera,
stupita, prendeva nota dell’incarico. “Sì, grazie, guardando meglio è presente anche il foro d’uscita. È quasi del tutto rimarginato ed in via di guarigione. La ferita non ha più di quindici venti giorni” “No, in cartella non c’è scritto nulla, non è stato notato in Pronto Soccorso. Del resto in quel momento avevano ben altro a cui pensare” Essa rimase in attesa di indicazioni da parte del dottore. “Laura, segnali la cosa al posto di polizia. Bisognerà fare una radiografia di controllo ed il referto. Poi se ne occuperanno loro. A noi basta segnalarlo. Non vi sono problemi medici in merito; mi domando se l’ incidente non abbia qualche relazione con quei fori” “Non saprei, dottore; è possibile, avverto il piantone” L’infermiera si avviò.
L’appuntato descrisse quanto rilevato dal medico e lo aggiunse alle scarne notizie già in suo possesso. Il paziente avrebbe dovuto essere sottoposto a riconoscimento, ma i bendaggi non lo permettevano. Diramate le notizie a tutte le stazioni, iniziò, come di prassi, la ricerca sugli scomparsi. La lunga lista nel distretto di Roma non era esaustiva per nessuno che rispondesse alle caratteristiche di Adamo. Poteva essere un turista straniero, un immigrato clandestino come tanti, magari dell’area slava oppure un single che non era stato segnalato come scomparso dai familiari. Certo, la situazione era grave ed il riconoscimento era l’ultimo dei suoi problemi
Il brogliaccio dell’appuntato era finito sulla scrivania del questore del distretto di Castro Pretorio insieme a parecchi altri fascicoli di persone scomparse, di persone chiamate dal tribunale, che non si erano presentate o di persone non meglio identificate. Antinori, maresciallo della sezione, iniziò svogliatamente a leggere caratteristiche e tipologia delle persone sospette e non identificate. Controllò i fonogrammi delle persone per cui era stato spiccato un mandato di cattura ed infine quelli con mandato di comparizione. Dall’incrocio delle possibilità ed informazioni il computer selezionò cinque casi, tra cui la scheda di Adamo.
Antinori studiò la scheda di Adamo senza mostrare interesse o particolare attenzione. Alcune caratteristiche di quella scheda corrispondevano alla persona investita, ma prima di avviare le indagini per il riconoscimento, avrebbe aspettato qualche giorno. In fondo, il tizio ricoverato, non sarebbe fuggito e, se avesse ripreso conoscenza, si sarebbe identificato da solo e gli avrebbe risparmiato un sacco di lavoro inutile. Il fatto che addosso non gli fossero stati ritrovati dei documenti non lo insospettì minimamente. Erano molti i turisti che giravano per la città senza documenti con sè e con pochi spiccioli. Lo facevano per evitare borseggi o scippi nella metropolitana. Le agenzie turistiche prospettavano sempre il rischio e molti seguivano le raccomandazioni. Mantenne in sospeso la scheda. L’avrebbe riesaminata dopo qualche giorno. ò ad altre schede sempre più svogliatamente. A lui mancava la vita attiva ed odiava il lavoro tra le scartoffie, ormai mancava poco alla pensione. Bisognava tenere duro ancora un anno e poi avrebbe potuto disfarsi di quella sedia.
I familiari e gli amici di Adamo non avevano denunciato la sua scomparsa per i fatti di cui erano al corrente e non volevano causare ulteriori problemi. È pur vero che Padre Mario riteneva ben strano il comportamento di Adamo. Prima era stato così premuroso verso l’amico, poi improvvisamente muto anche con la mamma. Una sera, a cena, Ada disse: “Sentite, io non ce la faccio più senza notizie. Deve essere successo qualcosa! Non è possibile un silenzio così protratto. Mio figlio anche nei momenti più bui della sua esistenza non ha mai mancato di contattarmi e di tenermi informata sulla situazione. Sento che è accaduto qualcosa” “È vero!” Ribadì Ricu “Non vorrei lo avessero rintracciato quelli della montagna. Avvertiamo i Carabinieri e vuotiamo il sacco su quanto ancora non sanno” Il prete disse: “Ormai essi sono al corrente di tutto, hanno ricevuto i plichi con tutte le notizie, l’unica cosa che non conoscono è la sua residenza a Roma. La casa è intestata ad Ada, mi pare, non lo avranno cercato lì”, dopo una pausa, continuò: “Prima di alzare ulteriore polvere, sarebbe bene fargli visita a Roma e sapere se
c’è stato qualche nuovo sviluppo; Ada sarebbe la persona più indicata per fare questo viaggio, ritengo però che sia controllato ogni suo spostamento. Il dottor Storri ha emesso un mandato di comparizione per Adamo. Ricu, se lo fai tu puoi dare meno nell’occhio” “Va bene, vado io e poi vi dirò, se non dovessi trovare tracce cosa debbo fare?” “Andremo a parlare con il dottor Storri” “Bene, vado a prepararmi”
Ricu giunse a Termini. Era per la prima volta nella sua vita a Roma e l’impatto non fu facile. Non aveva avuto modo di allontanarsi frequentemente dalle sue valli. La più grande metropoli visitata era stata Milano che gli sembrò, nel ricordo, meno caotica di Roma. Si guardò intorno, ma decise di non perdere tempo. Come gli aveva consigliato Padre Mario, per non perdersi, fermò un taxi e si fece accompagnare all’indirizzo che gli aveva dato Ada. “Via Acqui 23, per favore” “Subito signore, ci vorrà almeno mezz’ora ” “Portami lì, quello che ci vuole ci vuole” Sceso dal taxi, suonò il camlo esterno. Nessuna risposta. Provò di nuovo. Ancora niente. Prese il mazzo di chiavi di Ada e ne provò due prima di trovare quella giusta. Attraversò il cortile e si fermò davanti all’ingresso principale. Di nuovo la stessa fila di camli. Suonò, ancora senza risposta. Cercò la chiave giusta tra le dieci del mazzo legate con un semplice anello. Varcò la soglia e si diresse al primo piano, interno cinque. L’uscio era chiuso. Riprovò con il camlo. Stesso risultato. Prese la chiave lunga della porta blindata e si stupì di essere riuscito ad aprire al primo scatto. Cercò l’interruttore sulla sua destra, lo trovò e l’accese. Rimase sbalordito. La casa era tutta sottosopra, completamente in disordine. Erano rovesciati in terra tutti i cassetti, sventrati i divani e aperti i quadri con le cornici in terra, rovesciati i vasi ed i libri. Non c’era anta di armadio chiusa. Qualcuno aveva provveduto ad aprire le scatole elettriche degli interruttori e le prese. I lampadari erano stati tirati giù e ispezionate le cassette del water. Adamo non era lì da giorni, comprese Ricu.
Recuperò in terra un telefono. I fili non erano stati strappati. Attaccò la cornetta e la sollevò. Compose il numero di Padre Mario. “Padre Mario, sono Ricu” “Lo hai trovato?” “No Padre, l’appartamento di Ada è stato visitato. Qualcuno è entrato con una chiave o qualcosa di simile. Non ci sono segni di scasso. Dentro, tutto è distrutto, ma non sembra un furto. I ladri non sventrano i quadri e non rompono cornici, lasciando tutto in terra. Si cercava qualcosa, ma di Adamo nessuna traccia. Avverto la polizia?” “Ada è qui con me, aspetta che la sento…..No, Ricu, lascia le cose come stanno. Noi preferiamo avvertire il dottor Storri. Lui saprà cosa fare.” “Va bene, aspetto notizie”
Il dottor Storri, appena apprese le novità sulla situazione, inviò la scientifica per rilevare eventuali tracce. Segnalò nuovamente alle questure come prioritaria la ricerca del dottor Lancisi. La foto che lo ritraeva come medico in corsia nel suo ospedale, fornita da Ada, era stata inviata via fax e diramata in tutta Italia. Capitò anche sotto gli occhi dell’appuntato che aveva redatto la scheda dello sconosciuto investito, che aveva visto personalmente nell’ospedale dove era ricoverato. Gli sembrava notare una certa somiglianza. I capelli erano quelli ed anche il taglio degli occhi. Decise di non dare false notizie ed attese di essere nuovamente di turno nel pronto soccorso per rivedere quel malato. Nel reparto di rianimazione, intanto, fecero spogliare Ad e lo rivestirono, secondo la prassi igienica nelle zone a sterilità controllata. Quando l’appuntato lo vide, attese che l’infermiere lo accompagnasse al letto: era lui, non c’erano dubbi, nonostante fosse malconcio era proprio lui. Tutto combaciava. Doveva avvertire il maresciallo, così avrebbe meritato una menzione speciale. Il maresciallo, dopo gli accertamenti di rito, inviò il Fax sul probabile ritrovamento del dottor Lancisi alla Procura di Torino ed il dottor Storri volle parlargli personalmente. Avvisò il maresciallo di far piantonare il posto. Ordinò che le visite sarebbero state autorizzate esclusivamente da lui, anche il personale
di assistenza doveva essere identificato prima di effettuare dei trattamenti sul paziente. Il dottor Storri avvisò poi Don Mario ed Ada. Voleva avere la certezza del riconoscimento e così, dopo i contatti telefonici, Ricu fu inviato nel reparto di rianimazione del Policlinico. Consegna assoluta di bocche cucite per non diffondere alla stampa le notizie sull’eventuale ritrovamento. Ricu giunse nell’atrio della sala. Dalla barriera vetrata non riusciva a distinguere l’amico. Venne perquisito ed autorizzato a visitare il paziente, e, dopo le solite procedure degli ambienti sterili controllati, venne fatto entrare nella sala. Un tuffo al cuore. Era proprio Ad. “Amico mio mi senti? mi senti Ad?” “Non può sentirla, è in coma” rispose un’infermiera. “Ora gli vengono somministrati dei farmaci specifici per mantenerlo sedato e viene somministrato del mannitolo per evitare l’edema cerebrale. Tra due giorni si tenterà di risvegliarlo.” “Come è potuto succedere? Cosa è accaduto” “Non conosciamo i particolari. Sappiamo soltanto che è stato investito da una macchina. È vivo per miracolo. Speriamo esca dal coma”
Ricu non sapeva come dirlo ad Ada. Confermò al dottor Storri l’avvenuto riconoscimento. Rimase al capezzale di Adamo circa un’ora poi tornò a fare un po’ d’ordine in quella casa devastata, Ada sarebbe sicuramente volata a Roma per assistere il figlio ed una casa in ordine l’avrebbe accolta meglio. Non si seppe per quale via la notizia del ritrovamento di Adamo trapelò e una moltitudine di giornalisti assediarono l’esterno del reparto. Sulla stampa comparve a caratteri cubitali il titolo “Ritrovato il cardiologo del caso Tropemi: giace in coma in un letto d’ospedale”. Ai Carabinieri non rimase altra possibilità che raddoppiare la guardia al paziente lasciando fissa all’esterno una radiomobile in costante collegamento con la centrale.
Storri intanto proseguiva a ritmo serrato le indagini: aveva ordinato la riesumazione delle sette salme dei pazienti deceduti per il sospettato Tropemi; le fece trasportare all’Istituto di Medicina Legale di Torino per verificare la causa esatta dei decessi. La perizia avrebbe richiesto due mesi prima di essere stilata e controfirmata dal gruppo di esperti e a Storri necessitava almeno un indizio per procedere. Decise di telefonare al direttore, il dottor Enzo Carli: “Dott. Carli, mi scusi se la disturbo, so già che non mi vorrà dare nessuna anticipazione ma ho bisogno di un indizio. Le prometto che sarà come se non avessi sentito nulla. Mi dica la sua impressione: di che cosa si tratta, che cosa abbiamo davanti?” “Non posso dirle niente di ufficiale. Le prove tossicologiche sono in corso, le stiamo ripetendo e dovremmo fare delle controprove crociate, in quanto ci sembrano paradossali alcuni riscontri” “Cosa le sembra paradossale” “Mi sembra impossibile che dei pazienti deceduti in un reparto di cardiologia possano essersi tutti avvelenati per aver mangiato dei funghi. Ho bisogno di verifiche e che mi si lasci lavorare tranquillo. ” “Dottore, che tipo di funghi?” “Un’Amanita molto simile alla Falloides, l’ Amanita Verna, un fungo comune dalle nostre parti, facilmente confondibile con altre specie mangerecce. Non mi sembra plausibile che tutti i ricoverati abbiano consumato funghi velenosi durante la degenza in cardiologia o che abbiano fatto una scampagnata nei nostri boschi, nel periodo invernale, appena precedente l’ultimo ricovero. Qualcosa non quadra, stiamo verificando. Non so altro” “Ci sono tracce nel sangue di un nuovo farmaco?” “Stiamo cercando di fare il massimo nel minor tempo possibile, per ora purtroppo non abbiamo riscontri. Buonasera dottore” “Buonasera dottor Carli”.
Pazienti avvelenati da funghi! Impossibile qualsiasi ipotesi, si stava scivolando verso l’assurdo. La grigia giornata, come tante a Torino, puzzava di traffico e smog tanto da richiamare l’atmosfera di Londra e rendere più assurda la situazione. Storri non capiva più nulla e stava brancolando nel buio. Cercò di fare il punto della situazione. Si trovava di fronte sette cadaveri di cardiopatici morti in circostanze misteriose quasi certamente avvelenati da funghi o da qualcosa di simile, poi sei cadaveri ritrovati in montagna, tre morti ammazzati da pallottole e tre deceduti nella caduta di un elicottero abbattuto; un cardiologo in coma, investito mentre attraversava una strada, che aveva lo scomodo hobby di mandare in giro delle cartelle cliniche, che accusavano il primario di omicidio; una casa farmaceutica che sperimentava un farmaco rivoluzionario ma del farmaco nessuna traccia. Non uno straccio di prova certa. Si era alzato un polverone, si sentiva puzza di bruciato, ma dell’arrosto nessuna traccia. Due giorni dopo il magistrato ricevette la telefonata di Carli: “Dottor Storri, abbiamo effettuato alcune controprove e, a questo punto, anche se non ho ancora nulla di scritto in mano, posso affermare che ci troviamo di fronte ad una molecola, ovvero ad una sostanza molto simile al veleno legato ad un fungo letale, già a basse dosi: l’Amanita Verna, come le ho già detto, simile all’Amanita Falloide. Con pochissimi milligrammi di sostanza purificata si uccide un uomo. Negli avvelenamenti da funghi un individuo muore in meno di sette giorni, dipende dalla dose, e per salvarlo si rende necessario un trapianto di fegato! I sintomi per avvelenamento acuto da funghi arrivano mediamente dopo due tre giorni dall’assunzione iniziale e sono caratterizzati da sindrome citotossica con particolare azione selettiva sulle cellule epatiche e successiva necrosi massiva epatocellulare. Una morte per altri versi assimilabile, nell’ambito cardiologico, ad un paziente in scompenso cardiaco prevalentemente attribuibile al cuore destro ovvero a quello che in cardiologia si definisce un ‘cuore polmonare’. Negli scompensi cardiaci molto gravi, o peggio, terminali, ci si aspetta una necrosi epatica da stasi. Se in questi pazienti già defedati venisse effettuata un’autopsia di routine, non ci si stupirebbe di trovare un fegato in quelle condizioni e non si sospetterebbe nulla, tanto più che non verrebbe fatta di routine un’analisi tossicologica. La malattia in sè giustifica lo stato macroscopico dell’organo. Chi ha congeniato una simile cascata di eventi, deve
aver avuto idee chiare sugli scopi da perseguire”. “Dottor Carli, la prima idea che mi viene in mente è che qualcuno volesse uccidere i pazienti e mandare all’aria lo studio, ma mi sembra impossibile che un progetto di questo tipo prenda l’avvio all’interno della stessa Prisco Enterprise. Potremmo trovarci di fronte ad un sabotatore; devo cercare chi potrebbe aver avuto interesse perchè questo si verificasse. Molte persone in aziende verticistiche avrebbero potuto agire in questa direzione; vendette interne innescate dalle motivazioni più varie, da frustrazioni di qualsiasi natura, lotte di potere per far crollare qualche apicale, oppure….” “Oppure?” “Oppure qualcuno molto potente che avesse veramente interesse a far affondare la Prisco traendone beneficio diretto ed indiretto” “Cosa vuol dire? Si spieghi meglio” “Cui prodest?, dicevano i Latini. Probabilmente si tratta di un’organizzazione ramificata, perché non mi sembra possa essere l’opera di un singolo. Esiste la regia di un gruppo ben motivato a delinquere. Ci vogliono tanti soldi per corrompere e per organizzare una caccia all’uomo con chiara volontà di uccidere. Nonostante la pubblicizzazione dello scandalo, apparentemente utile allo scopo prefisso di distruggere la Prisco o di infangarla con enormi sospetti, perché continuare a perseguire un singolo uomo, il Lancisi? Per quale motivo deve morire? Che cosa conosce quest’uomo di così importante da dover tacere per sempre? Supponiamo che Lancisi possegga una prova inequivocabile del diretto coinvolgimento di una persona da cui sia possibile risalire, o dopo o, alla piramide di regia…” “Giusto! Perché Lancisi non ne ha parlato? Perché non ha consegnato la prova?” “Forse non sa di possederla, grazie ancora di tutto dottor Carli” “S’immagini, dovere. Mi tenga informato.”
Storri riattaccò. Si rese conto che doveva estendere le riflessioni espresse al medico legale anche agli inquirenti e al Procuratore. Rimuginava le sue stesse
parole. Sentiva di essere sulla pista giusta. Il filo conduttore era sempre rappresentato dal Lancisi. L’anello debole, ma anche la chiave di tutto era soltanto lui. Doveva assolutamente proteggerlo. Ora che la notizia si era diffusa, sarebbe tornato ad essere un bersaglio. Potenziò la protezione di Adamo creando una cortina di fumo sul suo stato di salute. L’indagine ristagnava, e mancavano nuovi elementi significativi. Il mistero del ritrovamento nei tessuti biologici dei pazienti del veleno dell’”amanita verna” creava un garbuglio colossale. Dopo il riscontro autoptico confermato, la segnalazione all’Interpol era dovuta. Immediatamente in tutte le sedi del regno della Prisco si analizzarono sostanze, farmaci e campioni. La stessa sorte avevano subito tutte le boccette dei campioni dello studio sperimentale contenenti farmaci, senza rilevare tracce del veleno. Non era emerso nulla e la cosa più strana era che non si rintracciava in nessun paziente deceduto traccia della molecola Tropemi che la Prisco aveva messa, suo malgrado e con mille cautele, nelle mani dell’organo inquirente. Il farmaco non era stato mai somministrato o almeno non se ne rinvenivano tracce nelle ricerche biologiche. La casa madre aveva sperimentato su cavie, alla presenza di esperti, il Tropemi. Gli animali sacrificati avevano dimostrato quali test e con quali reagenti si poteva rintracciare la molecola nei tessuti organici. Gli stessi test erano poi stati verificati nei laboratori della Polizia Scientifica con risultati analoghi. Questo non significava che chi aveva in programma la ricerca non disponeva della molecola. Per quale motivo usare le cartelle originali della ricerca Prisco somministrando un veleno mortale se non quello di sabotare l’intero lavoro di ricerca? Storri non si dava per vinto. Perché avevano dato la caccia al dottor Lancisi? La risposta a questo problema era legato alla memoria di un paziente, il Lancisi, che era a conoscenza di qualcosa e avrebbe potuto inchiodare alle proprie responsabilità qualcuno, ma forse non sapeva quale importanza avesse ciò di cui era a conoscenza e pensava che i tentativi per sopprimerlo fossero orientati al possesso della documentazione resa pubblica. Decise di incontrarsi con i responsabili dell’indagine diretta dall’altra parte dell’oceano. Il filone americano infatti aveva portato al sequestro completo del materiale inerente la sperimentazione sia a Boston che a Baltimora. Il lungo lavoro di
catalogazione dei composti chimici ritrovati era stato abbreviato dalla collaborazione attiva dei responsabili della ricerca. Vennero anche richiesti i codici relativi alla composizione di ogni singola boccetta di farmaco. Storri si consultò con il Procuratore Capo poi chiese alla sua segretaria di combinare il viaggio per un incontro a New York. Poteva emergere qualche altra ipotesi dal confronto. L’opinione pubblica del mondo occidentale aveva sete di verità e di conoscere i responsabili di questi misteri. La gente comune, il ante di via del Corso o della Madison forse voleva vedere penalizzato il potere delle multinazionali, vedere cadere quei dirigenti, che sono squali per la massa. Per Storri però erano necessari equilibrio e obiettività. Legalista dalla nascita, inseguiva la verità ed aveva un buon intuito per la ricerca, che diventava ossessione quanto più si protraeva. Decise con quiesto spirito di cercare di andare più a fondo possibile con il dottor Soave, il Primario di Lancisi, che dopotutto era l’unico ad avere sotto tiro in quel momento. Chiese di interrogarlo ancora.
“Dottore le è tornata la memoria dei fatti?”chiese Storri “Io la memoria non l’ho mai persa. Le ho già dichiarato come sono andate le cose. Non ho preso parte a nessuna ricerca e lei dovrebbe saperlo”. “Dottore, i fatti la smentiscono: ci sono sette Pazienti deceduti nel suo reparto” “Deceduti per cause naturali, per l’evoluzione della malattia di cui soffrivano da anni” “Non proprio, dottore. È dimostrato che i decessi sono dovuti ad un veleno simile ad un fungo mortale” “Cosa dice?” “Non lo dico io, lo afferma la perizia tossicologica”
“È ridicolo, inverosimile. Il vostro tossicologo si è sbagliato” “Non credo. Sono stati fatti numerosi controlli da diversi laboratori” “È assurdo. Che ragione avrei avuto di avvelenare i miei pazienti?” “Non ho affermato che sia stato lei ad avvelenarli. È però responsabile dei suoi pazienti e di tutto quello che accade loro durante la degenza nel suo reparto” “Non capisco. Se è convinto che non sia stato io, per quale motivo sono ancora indagato?” “Le sue responsabilità sono chiare e la rinvierò a giudizio. Credo che la sua posizione migliorerebbe di molto se si decidesse a darci una mano. Potrebbe aiutarmi a capire, decidendosi a parlare, ammettendo responsabilità minori di quelle per cui è imputato” “Capire cosa?” “Si concentri, ricordi il suo viaggio a New York, quando ha incontrato il Presidente della Prisco. Quanto tempo dopo il suo arrivo?” “Arrivai il pomeriggio del 27 novembre dello scorso anno, alle sedici mi sembra, poi mi recai in albergo, al Marriot” “In albergo ha ricevuto o fatto delle chiamate?” “Be’ sì, una, a casa mia per avvisare di essere arrivato. Verso le 19 ho ricevuto dalla segretaria del Presidente della Prisco un invito a cena per le 21 allo stesso ristorante dell’albergo, quello girevole, con vista su Manatthan” “Mi dica del colloquio di quella sera a cena” “Nulla di particolare, tanto più che non parlai di lavoro. Il Presidente era stato trattenuto per qualche impegno; la sua segretaria ed il vice Presidente mi sono apparsi cordiali. La segretaria in particolare, molto premurosa. Si preoccupò che tutto fosse di mio gradimento e spostò il nostro incontro alle 10 del mattino del giorno dopo” “Poi?”
“Poi, nulla. Ero abbastanza stanco per il volo e per il fuso orario. Salutai e andai a dormire” “Null’altro, è sicuro?” “Sì” “Ed il giorno dopo?” “Mi recai all’appuntamento, come concordato. Il resto lo sa e lo confermo. Dopo il colloquio ero abbastanza irritato e me ne sono andato a pranzo in un ristorante sull’ 86ma est; non mi chieda quale perchè non lo ricordo. So dirle solo che era giapponese o coreano ed io ero solo. Non ho incontrato nessuno. Sono tornato in albergo ed ho cercato di anticipare il volo a quello stesso pomeriggio con la Continental. Ci sono riuscito ed ho iniziato a preparare il mio bagaglio” “Continui” “Ad un certo punto è squillato il telefono e dall’altra parte qualcuno si è presentato come il dott. “J”, per motivi di riservatezza. Mi chiese se ero sempre interessato alla ricerca della Prisco Enterprise e ha detto che, se era solo una questione di stanziamento di fondi, ci si poteva mettere d’accordo” “Le propose un incontro?” “No, non volle, disse tutto per telefono” “Cosa le disse ancora?” “Che se avessi accettato di effettuare la sperimentazione per via non ufficiale, mi avrebbe garantito l’anonimato ed un compenso di cinquecentomila dollari. La sperimentazione era assolutamente sicura e la Prisco voleva anticipare a qualsiasi costo i tempi per entrare sul mercato battendo la concorrenza. Giustificò il Presidente della società, affermando che nella sua veste ufficiale non poteva proporre nulla di diverso e che era al corrente di questo approccio. Avrei ricevuto, in modo riservato, tutto il materiale e me ne sarei dovuto occupare personalmente mantenendo l’assoluto riserbo, con l’obbligo di conservarlo in una cassaforte. Avrei riconsegnato le cartelle cliniche ed i farmaci, con modalità che mi avrebbe spiegato in seguito, alla fine dello studio. L’anticipo sul compenso pattuito mi sarebbe stato inviato entro una settimana.
Qualsiasi riferimento alla sua persona doveva avvenire con la lettera “J” “Quindi lei non è in grado di dare un nome ed un volto a questo dott. J” “No, non so chi sia e non l’ho mai visto in faccia” “Bene dottore, aspettavo questa confessione. Ora mi deve dire da dove provengono i suoi fondi” “Ma....dott. Storri…” “Finisca quello che ha iniziato. Non capisce che anche lei è stato una pedina di un grosso imbroglio e che deve aiutarmi a rintracciare il mandante ?” “Il conto è nel Principato di Monaco nella banca Credit Timeport Swiss, libretto al portatore Aliseo 091149”
La ricerca del denaro non portò a nulla, se non a scatole cinesi sempre più piccole. Del dottor “J” nessuna traccia. In base alle dichiarazione di Soave, l’FBI ricostruì con pazienza i tabulati delle telefonate che il giorno 27 e 28 novembre del 2002 erano partiti dalla Prisco in direzione del centralino del Marriot. Tra l’una e le due, soltanto una telefonata era giunta alla stanza 1127 del Marriot. La provenienza era da un ufficio del centro direzionale ricerche della Prisco stessa. Molte persone potevano avere accesso a quel numero, senza contare i numeri traslati. Il dott. “J” doveva essere una persona che usava d’abitudine quel numero, senza destare sospetti. Non poteva tuttavia trattarsi dell’azione di un singolo. Era necessario valutare se la sperimentazione della Prisco si avvaleva di fondi segreti e da quale origine essi si rendevano disponibili; tanto denaro implicava un’organizzazione che doveva avere molti interessi nel campo farmaceutico. L’agente speciale dell’ FBI Jacob Franklin, che coordinava un’inchiesta complessa e gestita in ambito internazionale, decise di effettuare una indagine patrimoniale su sei elementi della Prisco, che dai controlli telefonici avevano avuto più attinenze con la sperimentazione.
Capitolo 11
arono due settimane senza particolari cambiamenti nello stato di salute di Adamo. Ada, al suo capezzale, lo abbracciava e accarezzava, gli parlava nella speranza di stimolare il suo risveglio. Ricu la sosteneva, occupandosi del quotidiano e mantenendo i contatti con la comunità della valle. Accanto al figlio Ada non sentiva la stanchezza, ava giorno e notte in ospedale, quasi vivendo in funzione sua, con la tensione di non perdere un suo gesto, una sua espressione significativa. Non aveva lacrime né sogni nell’attesa di rivederlo in vita. Un pomeriggio di pioggia, mentre Ada massaggiava le gambe del figlio sentì una voce roca pronunciare la parola: “mamma”. Il suo cuore si fermò, per ricominciare a battere a mille. Medici, infermiere, tutti nel reparto tirarono un respiro di sollievo. Ada strinse la mano del figlio che lentamente abbozzò un impercettibile movimento. Adamo era presente, anche se ancora non perfettamente orientato nel tempo e nello spazio. “Acqua”, disse, e lei riempì il bicchiere, abbozzando lentamente a sorridere, dopo tanto tempo. Sandra, avvertita dell’evento, avvisò la Procura e si precipitò in ospedale attraversando la città d’un fiato, come impazzita, zigzagando nel traffico con il suo scooter. L’acqua rendeva viscida la strada fatta di sanpietrini e Sandra tagliava i binari dei tram perpendicolarmente. Non aveva mai rischiato tanto in una Roma schizofrenica per un giorno di pioggia. Sandra aveva appreso dai giornali di Adamo. Si erano lasciati con parole di odio, sperando entrambi che la verità fosse diversa. Ora Adamo giaceva in un letto d’ospedale e Sandra non riuscì a trattenersi: doveva vederlo ad ogni costo. In rianimazione venne bloccata dai piantoni di turno, alle sue rimostranze, essi ottennero un permesso e lei riuscì ad entrare. Lo scorse tra fili e tubi che lo
circondavano. Aveva gli occhi chiusi e quella sua aria accigliata di sempre, poco incline al sorriso. Fu in quel momento che il suo sguardo s’incontrò con quello di Ada. “È lei la dottoressa Blixten di cui parlano i giornali?” “Sì sono io, lei, immagino, sia sua madre” “Esatto. So che è lei la causa dei problemi di mio figlio, tutto è iniziato da quando vi siete conosciuti” Ada non trattenne la rabbia. “Sì tutto è iniziato da lì, ma io non sono la causa delle disgrazie di suo figlio anzi Ad è importante per me, non credo che lei possa capire; del resto non posso biasimarla, sono abbattuta e il mio sentimento è nulla in confronto a quello che prova una madre” “Mio figlio la ritiene colpevole di tutto” “A suo figlio mancano molti elementi. Molte cose che suo figlio non conosce sono provate, forse potremo spiegarci” Sandra aveva dimenticato di essere stata accusata ingiustamente. Capito il contesto dei fatti e le congetture sugli eventi, aveva scoperto il senso di giustizia di Adamo. Si avvicinò al letto di Adamo e tentò una carezza. Ada sembrò venir meno al risentimento verso di lei forse perché Adamo iniziava a riprendersi, pian piano sarebbe tornato alla vita, agli affanni e ai problemi da risolvere.
Il Kennedy di New York è uno degli aeroporti più caotici del pianeta, secondo forse solo a quello di Bangkok. Storri trovò ad attenderlo Jerry Wilson, un giovanotto tutto muscoli, di poco meno di quaranta anni, sorridente, cordiale, quasi affabile, che lo salutò con apparente calore. Senza preamboli, Wilson lo condusse verso una saletta privata dell’aeroporto e lì, con i responsabili dell’FBI, lo immerse in un briefing che durò un paio d’ore.. Non capiva, tuttavia, se fosse una gentilezza per inserirlo immediatamente nel tema, oppure un messaggio formale di non interferenza nell’inchiesta ormai
attivata, con un subliminale invito a tornarsene a casa. Storri non era tipo da lasciarsi facilmente pilotare, senza opporre resistenza. Sapeva che nei rapporti bilaterali anche gli americani avevano bisogno di collaborazione, in particolare dopo l’11 settembre. Rese manifesta la sua soddisfazione di essere messo subito al corrente della situazione. Nulla si era trovato nei laboratori, uffici o magazzini della Prisco Enterprise, nulla che potesse essere messo in relazione con la pista Italiana. Le indagini erano sovrapponibili a quelle svolte a Pomezia: nulla di nulla. Nessuna traccia di veleni o di irregolarità burocratiche e amministrative. Le indagini patrimoniali erano ancora in corso, ma alla Prisco non erano emerse situazioni discutibili in nessun settore. Jerry avanzò delle ipotesi circa la morte dei Pazienti: “Dottor Storri, siete assolutamente sicuri che la morte delle persone sia riconducibile a sostanze ritrovate poi all’esame autoptico? L’attendibilità delle analisi è certa?” “Assolutamente, ispettore Wilson, gli esami sono stati effettuati in ambito universitario e incrociati con laboratori di altri istituti. Non sono possibili alterazioni o manomissione alcuna dei reperti. Inoltre, come si spiegano la presenza della documentazione appartenente agli studi Prisco redatta nel corso di mesi ed il compenso cospicuo offerto al primario? Qualcuno ha agito per conto della Prisco. I risultati del laboratorio parlano chiaro: pazienti deceduti per problemi tossici legati al fungo Amanita Verna”. Un funzionario FBI intervenne: “Potrebbe essere ipotizzabile che qualcuno volesse nuocere alla Prisco Enterprise?” Storri continuò: “ È quanto anch’io ho supposto. L’idea di un sabotaggio, a mio avviso, prende forma. Gli interessi sono enormi e fanno gola a tanti gruppi industriali. Non ritengo un singolo capace di tanto e non mi sembra che la vendetta personale possa assumere la conformazione di eventi così complessi. Il dott. “J” a mio avviso potrebbe essere la mano di un’organizzazione ben ramificata, con un piano definito ed una chiara strategia. Non escludo che una volta raggiunto lo scopo prefissatosi questo gruppo potesse disfarsi dello stesso dott. “J”, elemento sicuramente scomodo quanto pericoloso. A questo punto il
trait d’union verrebbe a mancare e non si potrebbe risalire più a nulla. Ritengo che il dott. ”J” possa formalmente essere in pericolo come del resto lo è stato ed è il dott. Lancisi. Qualcuno del gruppo è a conoscenza che il Lancisi possiede delle prove inoppugnabili ed il dottore ha agito chiaramente contro il gruppo. Il dott “J” invece fa parte dell’organizzazione e, come in una partita a scacchi, viene lasciato al suo posto fino a quando è di una certa utilità.” I presenti convennero sulla validità dell’ipotesi e si domandarono come era meglio muoversi. Ancora Storri tenne il filo dell’indagine: “ Dobbiamo dare un nome ed un volto al vostro dott. “J”, prima che qualcuno provveda a recidere il cordone ombelicale o sarà troppo tardi. Una volta identificato, dovreste giungere ai suoi collegamenti senza che lui si senta minacciato od in pericolo. Non sarà facile, me ne rendo conto. In questa direzione agirò in Italia e questo, credo, dovrei concordare con voi. Soltanto se convergeremo insieme su questo obiettivo avremo la possibilità di trovare il bandolo della matassa”. Wilson si era fatto molto più attento e capì subito che il magistrato d’oltreoceano aveva una testa fine. Del resto, non collaborando, esponeva l’FBI allo sgradito rischio di non giungere per prima alla soluzione. Sarebbe stato imbarazzante vedere che, con prove emerse in Italia, qualcuno risolvesse il caso prima. Il Lancisi rappresentava un enigma aperto. Se le sue prove fossero state ritrovate, e questa sembrava una prerogativa delle indagini tutta Italiana, gli americani avrebbero fatto la figura dei cretini. Bisognava, anche se di malavoglia, collaborare. Storri non aveva torto: il ragionamento filava. Wilson lo mise intanto al corrente dei tabulati delle telefonate. I sospetti si incentravano su sei persone, troppe. Bisognava restringere il cerchio effettuando le indagini finanziarie anche ai familiari, analizzando scrupolosamente il livello di vita di tutti. Era impossibile una disponibilità così elevata di denaro del dott. “J” senza che parte di esso non rimanesse nelle sue mani, in considerazione degli elevati rischi che si era assunto. Concordarono sulla necessità d’indagini ambientali audio video su tutti i sospettati. Storri dichiarò che in Italia i Carabinieri del gruppo NAS avevano provveduto ad inserire cimici e microcamere negli uffici della Prisco di Pomezia, tenendo sotto controllo anche i cellulari ed i telefoni delle abitazione di tutto lo staff dirigenziale della Prisco italiana. Le Poste e Telecomunicazioni, con sofisticate apparecchiature avevano escluso
emissioni in radiofrequenza, comprese le satellitari, di notizie non controllate. Nessun esito a tutt’oggi. Nessuna dichiarazione sospetta, nessun movimento che confermasse qualche ipotesi. Non emergeva nulla di concreto. O si trovavano di fronte a persone organizzatissime, con sistemi di comunicazione non convenzionali, oppure la Prisco non era a conoscenza dei fatti reali. Wilson consegnò a Storri una cartella contenente una serie di fascicoli inerenti le indagini sui laboratori Prisco; in particolare, in dettaglio, si esaminavano tutte le sostanze chimiche ritrovate e le sperimentazioni in corso. Invitò a pranzo l’ospite italiano accompagnandolo in albergo , lo stesso Marriot usato dal Primario Cardiologo. L’albergo era stato scelto appositamente.
Storri camminò a lungo, esaminando le vetrine scintillanti e riconobbe la Broadway e poi Time Squeare Giunse al Marriott prima di mezzogiorno. Piovigginava e New York City appariva bella ed imponente come sempre, nella sua livrea grigia che sfuma i grattacieli tra le nuvole basse. C’era quell’atmosfera inconfondibile che mette a proprio agio come ci avessi vissuto da sempre; le facce che incontri sono quelle che hai sempre visto dietro l’angolo o, forse, nei film alla televisione. New York è unica, irripetibile nella sua vita frenetica ed elettrizzante. Il Marriot gli apparve freddo ed impersonale. Un brutto albergo, con la Reception al terzo piano, anonimo come i suoi corridoi e le sue stanze, anche se la sua posizione era invidiabile, nel cuore di Manhattan. Non fece in tempo a posare la valigia che ricevette sul cellulare una chiamata da Calvisi: “Dottore, come va?” “Bene Calvisi mi dica. Non mi avrà chiamato per sapere se ho dormito durante il viaggio e se sopporto bene il fuso, spero” “No dottore, volevo darle una notizia che la può interessare” “Dica Calvisi” “La polizia ha rintracciato la macchina che ha investito il Lancisi” “Bene, continui”
“La macchina è stata presa a noleggio all’AVIS di Torino Caselle, e la cauzione è stata pagata da un certo Robert Castro. La carta di credito risulta fasulla e le generalità pure. I Carabinieri hanno appurato che il chilometraggio corrisponde secco a quello di Torino – Roma, con qualche giretto in città. Chi l’ha affittata l’ha presa il giorno prima, non ha fatto diversivi ed aveva Roma come meta precisa. Il viaggio autostradale è stato confermato dall’esame dei filmati ai caselli autostradali. È stata ritrovata il giorno dopo nella pineta di Castelfusano, ad Ostia Lido, carbonizzata. I numeri di telaio corrispondono ed i testimoni riferiscono che era quella l’auto che ha investito Lancisi, un’Alfa 156 grigia metallizzata” “Bene, almeno possiamo escludere con ragionevole certezza che sia stato un pirata della strada. Si tratta di un tentato omicidio premeditato” “Direi di sì, dottore, come pensavamo già. Purtroppo degli assassini nessuna traccia. C’è dell’altro: un identikit ed una foto segnaletica. Un ante ha riconosciuto il tipo alla guida. È un Corso, di Calvì, di nome Fernand Lucine. Il tipo è un delinquente, un mercenario. Uno che si è addestrato nella Legione Straniera. Dall’informazione avute dalla Gendarmerie, sembra sia pericoloso e viva di espedienti. La sua attività principale è quella di Killer al soldo di qualcuno. È sospettato di diversi omicidi, lo stanno ricercando molte polizie in Europa e d’oltreoceano. Non ha fissa dimora. L’Arma ha fatto girare le sue foto in alta valle e pare sicuro che sia stato visto nel teatro delle operazioni prima della caduta dell’elicottero, poi a Torino ed ora anche a Roma. È lui il mancato assassino del Lancisi” “Sono contento che qualche tessera cominci ad andare al suo posto” “La foto segnaletica è stata fatta vedere al personale delle varie compagnie aeree, ed in particolar modo a quelle con voli regolari verso gli Stati Uniti, direttamente o tramite Hub internazionali. Il Lucine è stato segnalato alla partenza del il volo 76 diretto ad Atlanta con la Delta il giorno dopo il ferimento del Lancisi. È partito da Milano Malpensa” “Strana coincidenza, Calvisi, strana coincidenza” “Viaggiava sotto falso nome, con un aporto se a nome di Fernand Rochas e con bagaglio a mano. Abbiamo pensato dovesse avere una gran fretta.
Da quel momento ne abbiamo perso le tracce. Visto che Lei si trova lì potrebbe parlarne con chi di dovere” “Bravo Calvisi, complimentati con tutti, a mio nome, per questi risultati. Mi tenga informato se ci sono sviluppi. Domani, al più tardi dopodomani torno a Torino. Mi raccomando si assicuri che il dott. Lancisi sia guardato a vista. Appena possibile gradirei fosse trasferito in un ospedale o in clinica segreta, idonea, dove sia più facile controllarlo. Quell’uomo è indispensabile alle nostre indagini. ” “Ah dottore, dimenticavo: il Lancisi è uscito dal coma!” “Quando, come…” “Ieri sera, improvvisamente. Gli è vicina la madre e anche la dottoressa, quella Blixten. Ne ho avuto notizia stamattina soltanto” “Allora Calvisi, cambio itinerario. Non torno a Torino. o per Roma assolutamente; da qui troverò un volo diretto per Fiumicino” “Bene dottore, buon soggiorno! Mi faccia sapere” “Grazie Calvisi, a presto. E non stia in pensiero per me. Mandi immediatamente all’ispettore dell’FBI Wilson, di cui trova numeri telefonici e indirizzo sul mio computer, la dovrebbe ricordarla, tutta la documentazione e le foto del Lucine con un breve sunto in inglese di tutto quello che mi ha detto. Abbiamo assolutamente bisogno degli americani”. “In inglese?…io” “Tranquillo Calvisi, vada da Anna, la segretaria del capo e le chieda un favore da parte mia”
Wilson pensava di aver individuato il dott. “J”. Il direttore della ricerca della Prisco Enterprise, il dott. Martin Flowers, viveva in una villa stupenda situata fronte mare a Long Island. Possedeva due Porche 911 ed una Ferrari Testarossa, una barca a vela di cinquantasei piedi ormeggiata nel
vicino porticciolo ed un aereo monomotore turboelica che amava pilotare personalmente. Viveva in uno scenario lussuoso ma discreto, e manteneva un tenore di vita altissimo nonostante una certa attenzione a non comparire. Si conosceva comunque di lui la ex moglie attualmente a Londra e le numerose frequentazioni femminili. La sua denuncia dei redditi, formalmente regolare ed attenta, non giustificava il suo livello di vita, era probabile che avesse altre rendite, derivanti da investimenti esteri o attività non visibili negli US. Le due figlie possedevano ognuna un appartamento a Manhattan, anch’esse vivevano in ambienti di lusso, con tenore dispendioso pur non svolgendo proprie attività lavorative. Flowers era sicuramente un uomo di provate capacità, al servizio della Prisco Enterprise da circa dieci anni. Inizialmente non si era occupato della sperimentazione del Tropemi ed era stato assunto come direttore dei laboratori di Chicago. Con la scomparsa del direttore generale della ricerca, era stato chiamato a sostituirlo ed aveva preso in mano lo sviluppo del Tropemi, all’inizio della fase due di sperimentazione. Aveva capito immediatamente le potenzialità del farmaco ed aveva accelerato la ricerca, richiedendo investimenti straordinari che gli erano stati concessi, dopo un’attenta analisi del prodotto, dall’assemblea degli azionisti. Un uomo professionalmente irreprensibile e con una vita privata alquanto sopra le righe. Wilson aveva fiutato qualcosa che non quadrava. Il dott. Flowers percepiva un minimo reddito da una fabbrica di prodotti chimici e fertilizzanti di cui era consocio prima ancora di essere assunto dalla Prisco Enterprise, la Kaddok inc. S.P.A. Il fatturato della ditta poteva far ritenere benestanti i soci che vi lavoravano, in quanto l’azienda possedeva un discreto mercato in America latina, sulla costa occidentale africana e in sud Africa. Quello che era emerso e che aveva insospettito Wilson, era che la Kaddok faceva parte, anche se per una quota minoritaria, della Seimud Farma, con sede legale a Sydney, il secondo gruppo industriale farmaceutico mondiale che spaziava dagli antibiotici ad alcuni prodotti antimalarici, sostanze chemioterapiche contro forme tumorali, antivirali di ultima generazione e con una linea di ricerca specifica cardiovascolare. La Kaddok forniva alla Seimud alcune sostanze chimiche di base, pur con un interscambio tra le due aziende non molto significativo dal punto di vista economico industriale.
Wilson intuiva che qualcosa non andava nel rapporto di Flowers, che, con una testa di ponte, poteva comunicare con la Seimud, diretta concorrente della Prisco Enterprise. Flowers, nella sua posizione di direttore della ricerca, era a conoscenza di tutte e tre i rami di sviluppo dell’azienda, il che lo metteva in una posizione chiave. Il quadro stonava ed andava verificato con molta riservatezza. Non era provato un atteggiamento scorretto di Flowers, nonostante fosse rimasto attivo il cordone ombelicale che lo legava alla Kaddok, e probabilmente alla Seimud. Rapporti di spionaggio industriale non potevano muoversi su canali ufficiali e necessitavano di accurata copertura. Ciononostante sarebbe stato del tutto normale attingere informazioni da una ditta madre con la sua consociata e l’interscambio protetto per via telematica. Wilson fece mettere sotto controllo tutte le trasmissioni che partivano dagli uffici di Flowers e dalla sua abitazione. Estese il controllo alle figlie e chiese a Scotland Yard di fare la stessa cosa con la moglie, a Londra. Si sarebbe recato a parlare con lui, pur prendendo tempo, per valutare se effettivamente qualcosa emergeva da questa linea investigativa. Wilson volle mettere al corrente il dott. Storri della pista che stava seguendo, omettendo il nome delle ditte implicate nella ricerca. Il filone seguito risultava con ramificazioni molto vaste. Avrebbe dovuto sfrondare parecchio, se fosse emerso qualcosa dal controllo messo in atto; la polizia australiana comunque doveva essere avvertita. Wilson scelse di recarsi nell’ufficio di New York di Flowers senza preavviso. Voleva vedere l’effetto sorpresa e l’eventuale imbarazzo del suo interlocutore. Varcò i cancelli della sede centrale e si diresse verso la reception. “Il dottor Flowers signorina” “ Ha un appuntamento signor…..?” “Wilson, Jerri Wilson, FBI” “Subito signore, lo cerco. Vedo se può riceverla subito” “Grazie” La segretaria contattò Flowers sul Dec riservato. Wilson percepì un ritardo nella
risposta dell’interlocutore. “Il dottor Flowers l’attende nello studio del Presidente, 34° piano, ultima sala dopo la veranda” Wilson imboccò la strada degli ascensori e fu stupito di osservare la presenza di personale ad ogni ascensore . Le porte si aprirono su un lungo corridoio tappezzato di un tessuto di un verde pallido, riposante e sobrio al tempo stesso in tinta con una moquette di colore beige chiaro. Il tutto rendeva l’atmosfera elegante e raffinata. Percorse rapidamente il corridoio superando la veranda che distribuiva luce. Suonò alla porta con la scritta “Direttore” ed attese. Nessuna risposta. Suonò nuovamente. Ancora nessuna risposta. Trovò la cosa strana, visto che si era fatto annunciare. Spinse la porta socchiusa e vide un uomo appeso con una cravatta di seta al montante superiore della scaletta della parete a biblioteca. Salì con un balzo la scaletta e, con il tagliacarte preso dalla scrivania recise la cravatta. Flowers doveva aver smesso di respirare da pochi istanti. I polsi erano assenti, ma la causa di morte era attribuibile al distacco delle vertebre cervicali a causa dello strappo della caduta. .Si precipitò immediatamente al telefono: “Portineria sono l’ispettore Wilson. Hanno assassinato il dott. Flowers. Bloccate immediatamente tutte le uscite! Chiamate la sicurezza e piazzate un piantone a tutte le porte soprattutto a quelle di uscita secondarie. atemi la centrale, fate presto maledizione, fate presto!” “Qui centrale” “Sono Wilson, hanno ammazzato Flower. Bloccate la zona intorno al Wastin Researce Building. Fermate i sospetti che possono somigliare alla segnaletica di Fernand Lucine. Se riusciamo a prenderlo avremo in mano l’uomo chiave di questo intrigo”.
Sul monitor bluastro comparve alle ventidue in punto il messaggio del dott “J”. Lucine armeggiò un attimo con il mouse ed inserì la per la decriptazione dei files. Immediatamente comparve la stringa di parole per intero. Sapeva che dall’altra parte del filo quell’uomo grassoccio, con gli occhiali cerchiati d’oro, era in attesa della notizia sperata.
Stavolta non era riuscito a soddisfarlo. Una serie di coincidenze lo facevano vivere in ansia e con un senso di disagio protratto che non riusciva a dominare. Ne aveva superate di prove nella vita, anche durissime. Stavolta non riusciva a dare ai fatti la svolta che avrebbero dovuto prendere da tempo. Non si sentiva sicuro di riuscire. Il Lancisi se l’era sempre cavata per il rotto della cuffia: in montagna, in strada, in ospedale. Qualche santo lo proteggeva. Era pur sempre un uomo ed avrebbe avuto ragione di lui. “Non mi sembra che le cose facciano molti progressi. Non sei riuscito a far fuori quel maledetto cardiologo” “Sembra indistruttibile, signore, non è bastato neanche un investimento in piena regola perfettamente riuscito. Non so come spiegarmi la sua sopravvivenza È dovuta al caso.” “Il caso in questa storia è la regola. Non vorrei che per “caso” finissimo tutti in galera. Non hai mai eseguito un lavoro così male. Si è alzato un polverone e tutto si è fatto difficile. Mi preoccupa che la maglia si allarghi”. “Non credo signore. Si è impiccato l’unico personaggio che poteva metterla in relazione con lei,. Ormai brancolano nel buio” “Non sono tranquillo lo stesso e non credo che si possa abbassare la guardia. Devi recuperare le boccette ed il farmaco. Devi far fuori chi sai ed in fretta”. “Certo, signore, può contarci. Agirò appena sarà possibile. È sotto stretta sorveglianza, prima o poi si aprirà un varco” “Ti ho già detto che non si deve aspettare. Il varco va creato ed in fretta, muoviti! Sei pagato per questo non per fare vacanze Romane” “Bene, signore, le farò presto sapere” “Me lo auguro. Non ho bisogno di dirti che..…Chiudo”. Il monitor tornò bluastro mentre il tritafiles distrusse anche dal disco rigido le tracce di quella conversazione criptata.
Capitolo 12
Adamo aveva ripreso a sorridere. Ada era con lui praticamente sempre. Sandra andava a trovarlo spesso e portava i giornali, che tutti i giorni titolavano qualcosa sulla vicenda che però aveva perso la prima pagina nelle ultime settimane. La gente seguiva ancora il caso. Alcuni Talk Show dibattevano, con ospiti illustri, sui rapporti delle multinazionali con la salute pubblica, il coinvolgimento dei medici, l’etica relazionista, la posizione morale della Chiesa. Nessuno aveva citato Adamo o fatto riferimento al suo caso personale. Il tema era, a grandi linee, la spinta a delinquere pur di arrivare prima ad un prodotto, per fini di lucro, e non certo per lenire i bisogni di un’umanità sempre più confusa e senza riferimenti ideologici. La Chiesa, dal canto suo, proiettava nella fede cristiana e nella misericordia, i valori di una società allo sbando da tempo, dove il denaro era l’unico protagonista delle cose terrene. Del resto, la squallida vicenda si dibatteva effettivamente su investimenti mirati a soddisfare l’appetito degli azionisti, non certo sulle necessità primarie dei pazienti. Adamo leggeva che nella sede della Prisco Enterprise non si era trovato nulla, come pure a carico della dottoressa Blixten e dello staff direttivo sia nazionale che americano. Certo, rivedere quella donna amata ed odiata, desiderata e fuggita, ormai creduta perduta e osservarne ora, accanto al suo letto, le movenze delicate, elegante negli abiti primaverili, lo faceva sentire nuovamente vivo, pronto a reagire al confronto con la morte, dove tutto perde significato e si acquista coscienza delle cose vere ed irrinunciabili. Il destino gli aveva offerto una nuova possibilità e lui non intendeva sprecarla. Ogni attimo acquistava maggior senso di quanto ne avesse avuto prima. Il desiderio di tornare in piedi e sulla scena furono per lui la spinta a riprendere le redini della vita. E l’odio dava al suo stato d’animo un valido contributo, per quanto fosse gestito in modo freddo, distaccato. Riviveva gli ultimi mesi, la rabbia di sentirsi impotente con un nemico
sconosciuto, il ricordo di vite perse nel tentativo di difendersi accumulava in lui energia e stimolo per riprendere una battaglia non ancora terminata. Quel giorno Adamo mosse i suoi primi i. Si sentiva una mummia deambulante, nei sostegni di metallo, confortato da forti braccia di donne premurose. Non voleva riprendere semplicemente a camminare, desiderava agire in fretta. Il fuoco dentro bruciava ed il limite fisico della malattia non faceva che spronarlo alla ripresa delle normali condizioni fisiche. La voglia di tornare e combattere, di rientrare in un’ottica nuova, con nuove armi, lo sollecitava a reagire in positivo. Non c’era la paura: c’era la determinazione che stava assumendo una dimensione sempre più concreta. Egli progrediva a i da gigante, si applicava per ore fino allo stremo delle sue forze ed il personale faticava non poco a contenerlo. Adamo cominciò a ricomporre i pezzi mancanti nella sua mente. Aveva una lacuna ampia, l’amnesia retrograda che rimuove un trauma lacerante come un relè salvavita da una scarica elettrica. Cercava di ritrovare i frammenti di vita precedenti l’incidente, ma i racconti delle persone che gli erano vicine si basavano su quanto avevano sentito dire. Nessuno di loro aveva assistito all’incidente, perciò, come tutto quello che viene narrato, il racconto si coloriva di dettagli, mentre l’immagine globale sfocava sulla proiezione dei fatti. o dopo o, sostenendosi sul girello, un giorno giunse in prossimità di un piantone di turno. “Salve, vedo che siete costretti a farmi da balia” “Sì dottore, da quando è successo l’incidente” “C’eri tu quando mi hanno portato qui?” “Sì, ero di guardia in Pronto Soccorso” “Hai notato qualcosa di strano?’ “Solo che lei era conciato malissimo, da paura: nessuno avrebbe detto che ne sarebbe venuto fuori”
“Non ricordi chi fossero il medico e gli infermieri in ambulanza quel giorno?” “Proprio no, ma non dovrebbe essere difficile saperlo. Basta vedere i referti del pronto soccorso e la cartella clinica”. “Già che stupido! Non ricordo neanche questo! Ne ho scritti mille di referti prima di diventare oggetto di uno di questi” “Non se la prenda, dottore, se l’è cavata bene per come sono andate le cose. “ “Ma non sono ancora ristabilito, da potermene andare…” “Deve essere contento, è ben assistito dalla signora che viene a trovarla spesso con sua madre, una donna particolare, beato lei!” “Non mi sento proprio un beato, tutto però aiuta a riconoscere gli affetti veri, gli amici. Capisci il senso delle cose che contano.” “Parla bene dottore, per noi la vita di tutti i giorni è routine, noia e pericolo. Devi sempre dire signorsì agli ordini, anche ai più assurdi e stare zitto. Il suo è un lavoro importante, ha il rispetto di tutti e quando parla tutti la stanno a sentire. Per noi la vita è ben diversa”. “È vero, alcuni lavori come il tuo sono duri e non sempre si sceglie. Non credere che il mio lavoro sia poi così facile e gratificante. È pieno di angosce, di responsabilità, di notti insonni a lottare per una vita che poi perdi.” Adamo continuò con riflessioni personali: “Spesso ti senti impotente, frustrato e sconfitto, incapace di essere all’altezza della richiesta. Il lato positivo è che in certe situazioni puoi essere utile, soddisfatto, se riesci a procrastinare una morte, a vedere un familiare sorridere o un malato donarti un silenzioso ringraziamento, sollevato nella sofferenza. Il fatto è che tutti i giorni ti ritrovi a gestire problemi con gente incapace, con aridi burocrati, con politici interessati o dirigenti che mercificano in base al tornaconto personale.“ Non si accorse che parlava a se stesso più che al poliziotto, che rimase ad ascoltarlo, un po’ stupito: “La medicina non è come la maggior parte della gente crede. I medici incidono
molto poco sulla vita e la storia naturale delle malattie e delle cose. Cercano di far vivere meglio la gente ma non riescono a sconfiggere la malattia. In realtà i medici sono dei privilegiati per lo spazio che questa società dona loro, senza tener conto che non tutti sono fedeli al giuramento di Ippocrate, ci sono imbecilli boriosi arrivati al potere con le tecniche più meschine, c’è chi si crede un padreterno, inconsapevole della povertà e piccolezza della propria vita. Questi sono i peggiori, colpevoli perché hanno a che fare con i deboli, i malati che si affidano senza possedere senso critico e strumento di valutazione. Come per lei, per tutti noi le cose non cadono dal cielo e bisogna conquistarle. Se ti scosti dai percorsi più comunemente seguiti, se vai controcorrente o semplicemente ragioni con la tua testa, iniziano le difficoltà che si accentuano sempre più fino ad arrivare dove sono arrivato io. Mi trovo a questo punto perché ho deciso di guardare dove non avrei dovuto e cercare risposte dove meglio sarebbe stato non fare domande. Questa esperienza mi ha fatto capire molto.” “Non tutti i medici che ho conosciuto parlano come lei. Non mi dispiace stare qui ad ascoltarla. Avrei voluto capire anch’io tante cose. Forse s’imparano studiando e da ragazzo non ne avevo tanta voglia. Abbiamo ordine di difenderla ma anche di stare attenti, di non farle prendere il volo. Sembra che sia importante. Che tipo di dottore è?” “Sono un cardiologo, mi occupo di faccende di cuore!” Risero entrambi. “E già, con il cuore non si scherza, mio padre è morto per un infarto e dicono che devo stare attento pure io.” “Devi fare una vita sana, mangiare poco e bene, non fumare, fare sport e per quello che puoi, goderti la vita. Per il resto stai tranquillo, non prenderò il volo” “Meglio, ci inguaierebbe tutti”
Storri giunse all’aeroporto di Fiumicino in una mattinata di pallido sole. Roma si svegliava in una velata foschia; la temperatura era gradevole, appena fresca e lo
aiutò a riprendersi da una notte insonne, di quasi completa immobilità. Si sentiva gli arti rattrappiti e sapeva che due giorni non gli sarebbero bastati per recuperare il fuso. Era sempre stato lento nel recupero. Odiava quei bestioni così scomodi, nonostante si rendesse conto di non poterne fare a meno. Si ò una mano sulla barba non ancora fatta. Non gli piaceva lavarsi in aereo. Non riusciva a muoversi in quegli spazi così angusti e si chiedeva perché non ci fosse una compagnia aerea che sacrificasse qualche posto eggeri pur di avere un minimo di spazio decente nelle toilettes. Percorse rapidamente e senza incontrare molto traffico, l’autostrada che conduce all’EUR, S. Giovanni in Laterano e la stazione Termini, giunse per il viale dell’università al Policlinico. Roma si stava svegliando e in poco tempo sarebbe stata paralizzata dal traffico e dal rumore. Giunse nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale e, finalmente, dopo aver superato i controlli, lo fecero accomodare nella stanza del Primario dove poté incontrare il dottor Lancisi.
“Dottor Lancisi, sono il dottor Storri, buongiorno” “Sicuramente un buon giorno, se riesco ad incontrarla” “Come si sente dottore? Ne deve aver ate tante. Mi fa piacere vederla intero, anche se notevolmente ammaccato, dalle informazioni che ho ricevuto credo che presto la rivedrò sul campo” “Può contarci. Voglio assistere all’epilogo di questa maledetta storia. Mi racconti, sono in ansia..” “Certo dott. Lancisi, prima vorrei farle qualche domanda per me importante” “Dica pure” “Che fine hanno fatto i medicinali di cui mi parlava, i due flaconi che ha trattenuto dalla cassaforte del suo Primario?” “Non lo so, dottore, tornavo dalla medicina legale dell’Università e li avevo in tasca. Poi sono stato investito e non ricordo più nulla. Mi sono risvegliato pochi giorni or sono e non ho ancora i miei indumenti. Non so neppure se sono stati conservati. Penso non fossero ridotti bene. Dovremmo chiederlo alle persone che erano di turno sull’ambulanza e al pronto soccorso dell’ospedale”
“Dovremo assolutamente farlo, sono ati già molti giorni. Per noi è vitale avere quelle sostanze, sembra che i flaconi si siano volatilizzati. Hanno perquisito la sua casa di via Acqui a Roma, la sua abitazione vicino all’ospedale dove lavora, alla ricerca di questi reperti e della documentazione in suo possesso. Spero non le abbiano ritrovate. Dalle testimonianze risulta che al momento del suo investimento due tizi siano scesi dalla macchina dirigendosi verso di lei, ma, con l’accorrere della gente, siano stati visti indietreggiare e risalire in macchina per dileguarsi nel traffico”. “Ho un completo vuoto di memoria su quanto mi è accaduto” “In questi giorni non ha ricevuto i suoi effetti personali?” “No, non mi hanno consegnato nulla. Forse sono stati affidati a mia madre che mi ha assistito. Dovremmo chiedere a lei. Penso sia difficile comunicare con me con tutta la vigilanza ed il cordone di sicurezza che lei ha disposto. “ “Spero che questi oggetti non siano scomparsi. Se non sono andati distrutti, li ritroveremo. Piuttosto mi racconti, diceva di tornare dalla medicina legale poco prima di essere investito. Cosa ci era andato a fare?” “Un mio amico aveva analizzato il farmaco, ‘sembrava un bluff’, mi ha detto di aver trovato solo un eccipiente” “Nei Pazienti fatti riesumare sono state trovate tracce di un veleno che si trova comunemente in un fungo mortale” “La cosa è incongruente. Vuole farmi credere che i pazienti siano stati uccisi scientemente? Per quali motivi?” “Tutta questa storia è strana, con margini sfumati. Quello che emerge ritengo sia la punta di un vasto iceberg, di cui non abbiamo una chiara visione ma un’idea me la sono fatta. Ho bisogno di conferme e di prove, per questo sono necessarie quelle due boccette di farmaco” “Le ho appena detto che le compresse non contengono nulla di particolare, in entrambi i flaconi” “Mi dica, dottor Lancisi, ha consegnato l’intero contenuto delle boccette per le analisi?”
“No, ora che mi ci fa pensare solo quattro compresse su venti di ogni confezione” “Dobbiamo trovarle”
La sera stessa Adamo, ormai controllato a vista in una camera riservata dell’ospedale, chiese all’infermiera: “Laura è lei che mi ha accolto al pronto soccorso quella notte?” “No, dottor Lancisi, io non ero presente quando è stato ricoverato in ospedale. Ho avuto modo di seguirla i giorni successivi, in corsia, dopo l’operazione. È stato operato dal dottor Chiari e poi è stato trasferito in Rianimazione. Io l’ho conosciuta quando è arrivato nel nostro reparto. Nessuno pensava ce l’avrebbe fatta ed invece eccola in condizioni più che accettabili” “La ringrazio, ringrazio tutti delle vostre cure. Non ho avuto sentore di quanto mi è accaduto. Da quanto ho potuto leggere sulla mia cartella clinica, non avrei scommesso nulla sulla mia sopravvivenza. Vorrei chiederle una cortesia, se possibile.” “Mi dica dottore” “Vorrei recuperare gli abiti che avevo addosso il giorno dell’incidente. Non vi era nulla di prezioso, soltanto avevo in tasca alcune cose ritenute importanti per le indagini in corso. È per questa ragione che c’è stato un tale spiegamento di forze” “Non dovrebbe essere difficile accontentarla, sempre che gli abiti siano stati conservati. Penso fossero ridotti piuttosto male ed è probabile che siano stati gettati via. Gli oggetti preziosi vengono, di solito, consegnati al poliziotto di guardia che ne prende nota e li consegna ai familiari, quando il paziente non è in condizione di essere autonomo” “Ho chiesto a mia madre. Ha, infatti ricevuto l’orologio, un mio piccolo bracciale, una catenina e qualche soldo che avevo in tasca, non hanno consegnato due flaconi di medicinali, che pure c’erano.”
“Dottore, non mi sembra che sia importante! Qui abbiamo tutte le medicine che vuole” “Non erano dei medicinali comuni, contenevano una sostanza particolare. Dovrei rientrarne in possesso” “Venga in sala infermieri, consultiamo il registro dell’accettazione. Lei è stato ricoverato il giorno 13 di due mesi or sono. Ecco … vediamo. Sì ….era in servizio la Pistocchi, Brigolesi, Cecconi e come allieva la Mucci. Gli abiti debbono esserle stati tolti da una o più di queste professionali. Normalmente vengono riposti in un sacco e consegnati ai familiari; se sono distrutti ed insanguinati vengono gettati via, si conservano esclusivamente gli effetti personali come gli anelli, orologi, portafogli e tutto quello che si ritiene abbia un minimo valore intrinseco od affettivo” “La ringrazio della gentilezza; la pregherei di rientrare in contatto con il personale di turno e di sentire se ricordano qualcosa di quel giorno, in particolare se qualcuno ha visto le due boccettine di medicinale.”
Capitolo 13
Wilson era seduto sull’aereo della Quantas diretto a Sydney. Il volo da New York sarebbe stato lungo e con due scali tecnici. Mal sopportava i viaggi intercontinentali ed era stanco di essere inchiodato ad un sedile per ore ed ore. Il dipartimento gli permetteva di viaggiare in Business class ma l’Australia era dall’altra parte del mondo e per trascorrere il tempo del viaggio non sarebbero bastati i tre films proiettati in prima classe. Decise di optare per il metodo soporifero. Chiese alla hostess di poter cenare subito ed a fine pasto ingurgitò un doppio Whisky con una compressa di Mogadon. Prima di cadere in trance ripensò che le tracce della Kaddok meritavano un chiarimento. Aveva un dossier completo che riportava i rapporti della piccola industria chimica con il colosso farmaceutico australiano. Molti gli interrogativi legati alla Seimud Farmaceutical. L’appuntamento con il capo dell’Interpol locale sperava avrebbe permesso una collaborazione proficua. Le indagini presso la sede del colosso farmaceutico non potevano essere condotte da lui, necessitavano della mediazione locale; Wilson temeva che l’allargamento delle indagini avrebbe comunque esteso a più persone la conoscenza della situazione complicando la ricerca della verità ed inoltre non era certo della volontà di collaborare degli australiani. Lentamente scivolò in un sonno artificiale senza sogni.
Sydney era come la ricordava venti anni prima. Non era cambiata molto. A suo parere una delle città più vivibili del mondo. Invidiava la serenità ed il gusto di godersi la vita che trapelava dalle facce abbronzate degli australiani. Una città variegata e cosmopolita, dove non è possibile identificare i nativi se non si tratta degli aborigeni. Una terra sconfinata di una bellezza unica che accomuna il sapere sciamano alla modernità. Wilson attendeva, fumando la prima sigaretta del mattino, di fronte al mare, seduto sopra una panchina del giardino botanico. Attendeva Joanna Gibson, capo dell’Interpol australiano, mentre guardava il traghetto salpare per Manley. Ricordava la eggiata sulle scogliere nel sentiero immerso nel bush che da Manley torna via terra a Sydney. Lo aveva percorso da ragazzo con suo padre. Rivide le incisioni rupestri e lo spettacolo dal faro ed il ricordo gli fece quasi
male. Vide la Gibson che si avvicinava. La riconobbe subito, aveva visto una sua foto che non le rendeva giustizia, nonostante gli anni e la vita irregolare avessero inciso delle rughe profonde sul suo volto. Doveva essere una donna di una cinquantina d’anni, ben portati, dall’aspetto dinamico e con una camminata quasi atletica. “Sono Joanna Gibson. Lei si è sciroppato un bel volo per arrivare fin qui. Saltando i preamboli non credo che si tratti di un affare di poco rilievo” “Wilson, o più semplicemente Jerry, piacere di conoscerla. Infatti sono qui per un problema nato in Italia. Sono state assassinate delle persone con uno scopo che ci fa pensare ad un complotto per il predominio farmaceutico internazionale. La guerra è attualmente in atto con personaggi fumosi. Di concreto abbiamo parecchi cadaveri e la scia di morte non accenna a diminuire. Temo anzi che si estenderà” “Ho letto il fascicolo che mi ha inviato: gli elementi che la spingono qui non mi sembrano sufficienti per una indagine approfondita. Lei non ha una prova, ha una serie d’indizi che non sono suffragati da elementi concreti. “Mi scusi, le sembra che gli elementi non ci siano? Ad una multinazionale come la Seimud cosa può servire il contatto con una piccola ditta di prodotti chimici come la Kaddok, che a sua volta è, per una quota minoritaria, parte della Prisco Enterprise? Succede poi che il direttore della ricerca nella Prisco, Martin Flowers, sia deceduto in circostanze misteriose. Era anche un azionista della Kaddok. Troppe coincidenze.” Gibson non sembrava convinta, ribadì: “Caro ispettore Wilson, come le ho già detto non sono nelle condizioni di effettuare indagini alla luce del sole. Non posso parlare di coincidenze. Debbo avere in mano prove concrete di collusione, d’interscambio d’informazioni, insomma, di uno straccio di prova. Per procedere con atti formali e con controlli debbo richiedere autorizzazioni che verranno concesse solo sulla base di prove reali. Non abbiamo mano libera come negli States. Le intercettazioni sono per noi una questione molto delicata”. Wilson insistette, cominciava a irritarsi della poca disponibilità della collega australiana:
“Non vorrei sembrarle insistente, noi siamo convinti che esista un complotto internazionale contro la Prisco….” “Mi lasci dire ispettore. Ho la sensazione che voi americani vediate spettri ovunque. Vi affezionate ai vostri incubi ed alle vostre idee fisse che perseguite senza curarvi degli effetti collaterali delle vostre azioni. È stato così negli anni cinquanta con la caccia alle streghe dei comunisti. Poi Cuba ed ora, dopo l’undici settembre, inseguite ombre in tutto il mondo e avvertite il terreno che vi scricchiola sotto i piedi. Avete paura di perdere la vostra supremazia. Noi dobbiamo proteggere, come del resto fate voi, i nostri concittadini, le nostre industrie ed i nostri affari. Non abbiamo inventato noi lo spionaggio industriale e teniamo a conservare la solidità della nostra industria. Non rischieremmo uno scandalo di proporzioni gravi con ripercussioni sul lavoro di tanta gente. Mi porti prove concrete e saremo felici di aiutarvi”. Wilson era fuori di sé, pur controllandosi cercò ancora con cortesia un rapporto: “Dottoressa Gibson io vorrei….” La Gibson fu irremovibile: “Giovanotto il nostro discorso al riguardo si è concluso, la prego di non insistere. Sarei felice di averla ospite del Dipartimento quest’oggi a pranzo a patto che non si parli di questo caso”
In albergo Wilson ricevette una telefonata dall’Italia: “Pronto Wilson, sono Storri” “Buon giorno dottore. Le cose non procedono bene. Ha ricevuto il mio messaggio su internet?” Storri cercò di rincuorare il giovane ispettore con cui aveva ormai una buona intesa: “È per questo che la sto chiamando, sono molto dispiaciuto della mancanza di collaborazione degli australiani”
Wilson stava già elaborando un piano per aggirare l’ostacolo: “Non tutto è perduto. Stiamo cercando un collegamento specifico che metta in relazione la Kaddok con la Sudden. Ho deciso di fermarmi ancora qualche giorno e mettermi in contatto con la mia ambasciata. Vorrei esporre all’intelligence locale i nostri dubbi. Magari possono aiutarci. La Sudden è una roccaforte protetta a tutti i livelli. È troppo potente. Non vorrei allarmare i vertici. Non voglio far sapere che stiamo indagando in questa direzione. Se sono responsabili di qualcosa è possibile che abbiano attuato le contromosse già da tempo e fatto sparire ogni documento compromettente” Storri concordò: “Vede Wilson, qualcosa mi dice che hanno paura. Temono che si approdi a qualche prova di cui non conosciamo l’esistenza ed io credo che siamo vicini, che l’abbiamo sotto il naso e non riusciamo a vederla concretizzarsi, sento che è vicina”. L’impiccagione del dottor Flowers mi lascia perplesso. La pista che sta percorrendo è giusta, le correlazioni sono più importanti di quanto si vuol far credere. Sarebbe determinante arrestare quel Fernand Lucine ovunque esso sia. È una tessera di questo intricatissimo mosaico. È lui che ha avviato la caccia al dottor Lancisi. È lui che ha reclutato tutti gli uomini della squadra. È sempre lui che ha verosimilmente ucciso il dottor Flowers. Non è soltanto un sicario internazionale; è a conoscenza di qualcosa di più”. Wilson riferì quanto già sapeva: “Tutte le polizie lo stanno attivamente ricercando ma è un professionista. Gode di canali privilegiati e si sposta in modi non consueti. Non commette sbagli ed è audace. Lo pizzicheremo comunque, è questione di tempo. Mi dica dottore, Lancisi ha parlato?” Storri gli raccontò il dialogo con Adamo: “Ha confermato quanto già detto per filo e per segno. Ha messo il naso dove non doveva e per questo lo hanno quasi fatto fuori, è un miracolo che si sia salvato. Si sta riprendendo. È controllato a vista come testimone chiave, per lui è pronto il programma per i supertestimoni. Proseguirà le cure in un ambiente specializzato e segreto. La prossima settimana sarà dimesso dall’ospedale
Policlinico” “La terrò informato sugli sviluppi”
Storri non aveva detto dove aveva deciso di nascondere il Lancisi. L’attendeva “Villa Esmeralda” un luogo dove avrebbe proseguito le cure senza dare nell’occhio e senza particolari controlli. Già in ato il magistrato aveva utilizzato la struttura per nascondere qualche testimone scomodo. Era una clinica posta ai piedi delle Alpi Cozie, nascosta in un parco stupendo di castagni, betulle e abeti rossi. Il perimetro del parco era controllato metro per metro da un circuito televisivo chiuso con allarmi a sensori di vario tipo. L’unico problema era Lancisi. Non voleva assolutamente saperne di essere ricoverato in una clinica privata ed essere controllato a vista. Era certo che i suoi nemici non avrebbero tentato altri colpi di mano. Il Primario era in galera ed i vertici della Prisco avvertiti. La sua morte non avrebbe che precipitato ulteriormente il problema e confermato i sospetti. Si sentiva tranquillo e non credeva alla possibilità di una vendetta verticale. La sua denuncia era stata documentata. Riteneva che non ci fosse altro rischio, toglierlo di mezzo a questo punto dell’inchiesta non sarebbe servito a nessuno. Storri aveva fatto presente che nulla era sostanzialmente cambiato e che la soluzione del problema non era arrivata. L’estensione delle indagini aveva scatenato un putiferio, ma non era emersa nessuna prova diretta e determinante. Dall’altra parte, c’erano persone la cui regia si era resa manifesta solo perché c’erano stati dei morti. Le indagini non sembravano progredire e le dichiarazioni del Lancisi non erano suffragate da prove inconfutabili. Certo, restavano i morti. Tutti avvelenati da una tossina epatotossica, nessuno avrebbe potuto dimostrare la vera provenienza del veleno. Ormai la Prisco Enterprise era una barca alla deriva senza governo, la sua attività era ferma ed i vertici, impotenti di qualsiasi azione. Qualora fosse stata dimostrata la estraneità ai fatti dell’impresa farmaceutica, lunghissima sarebbe stata la risalita accompagnata da processi di amplificata risonanza e da richieste miliardarie di risarcimento danni.
La penalizzazione azionaria sarebbe divenuta irreversibile se non suffragata da evidenze della sua estraneità all’accaduto. Del resto come gli avvoltoi, tutti aspettavano di sedersi al banchetto per strappare un morso di una delle più importanti industrie farmaceutiche mondiali. A molti sciacalli non interessava minimamente se la Prisco fosse effettivamente responsabile dei misfatti per cui veniva sospettata. Interessava esclusivamente il crollo per acquisire a prezzo stracciato settori e ricerche all’avanguardia nel mondo. La grande ammalata era in procinto di morire e tutti erano già pronti ad accapigliarsi per l’eredità. Una verità diversa avrebbe scosso il mondo finanziario. Per i mercati la Prisco era condannata allo smembramento e i suoi dirigenti avrebbero avuto il trasferimento ad altre ditte, con compensi inferiori di quelli precedentemente percepiti. Buona tecnologia a basso costo e cervelli disponibili almeno per qualche anno.
Sul desktop di Fernand si ingrandì lampeggiando un´icona della toolbar accompagnata da un discreto bip. Con un clik del mouse aprì il messaggio di posta che attendeva: “Dove sei? Sei pronto ad agire?” Digitò in fretta la risposta: “Sì dottor “J” ho fatto come mi ha ordinato, sono a Roma. Da informazioni ricevute il soggetto verrà dimesso tra una settimana. È guardato a vista, credo di riuscire ad agire appena sarà dimesso e si presenterà l’occasione”. “Devi recuperare i farmaci. I documenti sono ormai di dominio pubblico”. “Farò come ordinato. Il piano è già pronto in tutti i dettagli” “Bene, tienimi aggiornato”
Lentamente Adamo si alzò facendo forza sui braccioli della sedia a rotelle. I muscoli vibrarono e quasi non ressero allo sforzo di sollevarsi, si rese subito conto delle sue scadute condizioni fisiche. Avrebbe dovuto, pensava, iniziare un periodo di esercizi e riprendere un’attività aerobica di cui conosceva i segreti.
Nulla di meglio delle sue montagne d’estate, con i freschi ruscelli che si inseguono tra pietraie scoscese e sentieri nel verde, mentre all’ombra ti guarda il gigante di pietra che insegna il rispetto e la dimensione dell’essere nell’aria sottile e fresca. La nostalgia e le sensazioni legate alla natura ne sollecitavano altre ugualmente intense che desiderava presto ritrovare. I suoi pensieri vagarono lontano, sull’onda della fantasia e dei ricordi. Il mare in primavera, sulle spiagge sarde, lontano dal clamore. Il ricordo del primo profumo che ti investe quando scendi dall’aereo od esci dal ventre di una nave su questa terra: mirto, lentisco ed elicriso ti lasciano tracce nel cervello più che nel naso, come il ricordo di un rito pagano quando si bruciano con la brundedda le setole dei cinghiali. E poi il mattino sulla spiaggia, quando ancora assonnato guardi sconfinati campi grigi e bianchi di Asfodeli e trovi gigli di sabbia camminando lungo il mare. E risalire dalla foce il bordo di un ruscello coronato da bianche calle. E le ginestre che colorano colline e contrastano con i massi grigi mentre il maestrale urla con la sua voce, ti asciuga il viso, ti scompiglia i capelli, nel sole luminosissimo di marzo. E di nuovo il mare, la schiuma biancastra delle onde con il vestito da sposa, con il sapore del sale su tutto quello che porti alle labbra. E per mare raggiungere cale lontane e inaccessibili, tra anfratti nascosti e scogliere selvagge e calette bianchissime, con la “pedra rubia” intorno e la sabbia che a tratti si tinge di rosa, ed il verde, l’azzurro, il turchese, e poi ancora il blu che sfuma di nuovo nel bianco accecante. Le rocce con mitologiche figure levigate dal vento, la solitudine, e il senso di un tempo immobile e incombente che ti sovrasta mettendoti a confronto con te stesso e la tua precarietà, la dimensione umana del tuo vivere. E poi alla sera, quando il vento si quieta, bere il Cannonau, il sangue della terra arsa che taglia le gambe e mette ali alla fantasia, e riposare finalmente in un confronto con se stessi da cui si esce più sereni, in pace.
L’infermiere sistemò la flebo sull’albero e controllò la regolazione della pompa d’infusione. Il pulsare lento e ritmico dell’apparato era la spia di buon funzionamento. “Dottore, ci lascia” disse l’infermiere “È arrivato il suo turno. Farà il periodo di riabilitazione a ……qui non è segnato, ma forse capisco il perché” “Io non sarei d’accordo, ma ci sono costretto. Obbedire, sempre obbedire. Stavolta il giudice lo ritiene opportuno per motivi di sicurezza. Ho alcuni libri da leggere, tempo per riflettere, amici da salutare. Non ho mai goduto di un periodo così lungo di riposo. Cercherò di trarne un vantaggio” “Sua madre l’attende sotto, nell’ambulanza. I suoi abiti sono già in macchina. Il viaggio sarà un po’ lungo; lei, se lo desidera, potrà viaggiare disteso”. “Grazie, veramente di tutto cuore per quello che avete fatto per me; non mi dimenticherò di voi. Arrivederci” “Buona fortuna dottore” L’infermiere iniziò a spingere la sedia a rotelle lungo il corridoio gommato di un colore verde azzurro. Superò la barriera di prima igiene della rianimazione. Si aprirono le porte della terapia post intensiva. I due carabinieri che seguivano si attardarono un attimo per togliersi le sovrascarpe ed il camice di carta. La carrozzina si fermò davanti alla zona ascensori. Proprio quel mattino uno dei due si era bloccato per problemi legati alla pulsantiera interna ed era stata chiamata la manutenzione. Dalla parte opposta veniva spinta una barella con un malato, che si fermò anch’essa attendendo l’unico ascensore disponibile. L’ascensore giunto al piano si aprì lento su una guida poco oliata. Il barelliere fece segno all’infermiere di Adamo di are, ma questi chiese dove si stessero recando. “In sala operatoria” “La sala è al II piano ed apre dalla porta controlaterale ; ate prima voi” Il barelliere non se lo fece ripetere ed iniziò a spingere la barella. Mentre ava, Adamo notò che gli zoccoli bianchi erano sporchi di fango ancora umido, il gocciolatoio della flebo era bloccato e nel circuito di collegamento
notò delle lunghe bolle d’aria. Quella flebo non era stata inserita. In un attimo comprese. Fece finta di cadere dalla sedia a rotelle e nel momento stesso in cui toccò terra udì le porte dell’ascensore chiudersi mentre da sotto la coperta sbucò una mitraglietta Uzi. Adamo riuscì ad afferrare la bombola alloggiata sotto la barella, e mentre la estraeva con violenza, aprì la manetta dell’ossigeno puro che diresse contro il viso dell’uomo sbucato da sotto le coperte. L’uomo sparò una raffica breve, micidiale, mentre l’ossigeno prendeva fuoco, con una fiammata che colpì l’assalitore in pieno viso. L’infermiere si accasciò sul fondo dell’ascensore senza neanche pronunciare una parola L’altro urlava accecato e bruciato, mentre il barelliere tentava di impossessarsi della mitraglietta. Ad schiacciò il piede del barelliere con lo spigolo circolare della bombola che aveva ancora in mano e sentì il metatarso dell’uomo scricchiolare sinistramente, fratturandosi. Le grida dei due assalitori si mischiarono all’odore acre di carne bruciata. Il barellato, ormai cieco, gemeva dimenandosi. L’altro era nell’impossibilità di riagguantare la mitraglietta, mentre le porte dell’ascensore si riaprirono al piano. Il fumo e le grida fecero accorrere gente da ogni parte. I due carabinieri giunsero con in mano le pistole d’ordinanza ed immobilizzarono barelliere e finto malato, ormai gravemente ustionato dal collo in su. Trascinato a forza fuori dell’ascensore non si era reso conto di quanto accaduto e della piega presa dai fatti, mentre Adamo era sgattaiolato fuori trascinandosi con le braccia come in un percorso di guerra. Il corridoio si riempì di decine di persone, dalla sicurezza ai vigili del fuoco, dal pronto intervento ai medici della riabilitazione e della rianimazione. Qualcuno urlava, mentre fuori, nel parcheggio, iniziarono ad arrivare pattuglie della polizia e dei carabinieri. Ada salì le scale correndo mentre le lacrime uscivano senza alcun controllo. Vide in fondo al corridoio Adamo e lo chiamò a voce altissima. Egli si voltò e con un cenno della mano la tranquillizzò.
La gente si era accalcata intorno all’ascensore, tutti cercavano di parlare con Adamo, ma i poliziotti allontanarono tutti e accompagnarono Adamo nella stanza che aveva da poco lasciato. Rapidamente si appressò l’infermiera, a cui Ad rivolse l’attenzione: “Laura, come vede non me ne sono ancora andato”
“Dottore è incredibile, siamo tutti storditi. Qui non si parla d’altro. Non era mai accaduto nulla di simile. Ci stanno interrogando tutti e sono sicura che scavano nella vita di ognuno di noi. Cercano complici” “Non credo, Laura, è la prassi. Ora mi aiuti a rintracciare quelli che mi hanno accolto in pronto soccorso” “Dottor Lancisi, la smetta per favore di fare indagini, questo posto sembra una questura” “La prego, Laura, mi sono fatto un’idea di come lavorate; avete modalità simili a noi, in Piemonte. Fatemi parlare con chi mi ha tolto gli abiti quella notte, in modo informale, non c’è da sentirsi sotto accusa. È meglio che lo faccia io piuttosto che un poliziotto. Credo che dobbiamo cercare l’allieva, che se ne è occupata. È importante!.” “Per la verità avevo già chiesto. La Pistocchi, Bordolesi e Cecconi che erano di turno quella sera non si sono occupate dei suoi vestiti, ed il piantone ha registrato il nome dell’allieva che gli ha consegnato i suoi effetti personali: era Ivana Mucci. Il giorno dopo è stata spostata in un altro reparto, è la prassi. L’ultimo anno devono effettuare tirocini in varie discipline. Posso chiedere di lei”. “Grazie, potrebbe essere così cortese da farlo subito?” “Dottore, cerchi di non mettermi nei guai! Ho paura. Cose del genere non succedono spesso. Lei crede che la polizia non si sia già mossa per conto proprio?” “Ne sono convinto, se non hanno trovato nulla è possibile che tutti si siano tenuti lontano dai guai o, più semplicemente, dalle complicazioni. Più che mai un’allieva non strutturata, non le sembra?” “Va bene, è possibile. Provo a telefonare alla Direttrice della scuola infermiere. Le dirò che lei desidera ringraziare personalmente tutte le persone che l’hanno accolta quella notte. La cosa non dovrebbe destare sospetti. Accade spesso che i pazienti facciano la stessa cosa” “Brava Laura, merita un bacio: sapevo di poter contare su di lei!”
“Basta un grazie dottore. Il bacio meglio di no, è guardato a vista da due donne che mi sembrano molto determinate e non vorrei mi fero a fettine” “Non scherzi Laura, le mie donne l’adorano. Mi hanno detto più volte delle sue premure e non c’è rischio che cambino idea”
Arrivò il dottor Storri a rendersi conto di quanto era successo. Fece visita ad Adamo: “Dottor Lancisi, vedo che stavolta non ha riportato nemmeno un graffio. Non riesco a capacitarmi di come sia potuto accadere” “Dottor Storri, sono certo che sarei più sicuro tra le mie montagne e non nella sua clinica di riabilitazione. Non ci voglio andare” “Mi spiace, dottore, è una misura cautelare indispensabile. Non potrei mai giustificare ai miei superiori di averla abbandonata a se stesso, anche se sono convinto che sa cavarsela da solo. Non mi piacerebbe litigare con lei. Cosa ha fatto oltre al medico nella vita? Corsi di sopravvivenza, l’incursore o cosa altro?” “Nulla di tutto questo, non ho fatto nemmeno il militare. Sono orfano di padre. Diciamo che mio nonno mi ha insegnato qualcosa e non mi sono mancate in questi ultimi tempi le ‘esperienze educative’.” “Sinceramente, non credo che basti, comunque conto sulle sue risorse.” “Diciamo che mi sono solo difeso e che non ho fatto altro da quando sono entrato in possesso di quella documentazione. Non mi piace il ruolo di medico Rambo. Sono esattamente l’opposto ed il problema più grande non è la legge in se stessa, ma la mia coscienza” “La capisco, dottore” “Per quale motivo è qui dottor Storri?” “Prima di tutto volevo accertami personalmente delle sue condizioni di salute, poi chiederle se ricorda con precisione quante scatole di farmaco aveva visto
nella cassaforte del suo primario” “Mi faccia pensare: mi sembra che ci fossero sei confezioni, tre marcate con la lettera A ed un numero con codice a barre, ed altre tre con la lettera B ed un analogo codice a barre. Nessuna delle confezioni era integra; dovevano sicuramente contenere non più di cinque flaconcini ognuna. È verosimile che le indicazioni delle lettere distinguessero il placebo dalla sostanza attiva. Per la sicurezza assoluta del doppio cieco, a volte le ditte non tengono conto delle differenze apposte sulle scatole e usano lo specifico numero di serie generato da un codice sorgente che effettua random la suddivisione; in tale modo a chiunque operi non è possibile conoscere il contenuto del singolo flacone. Io ho voluto prendere solo due flaconcini. Non volevo destare sospetti. Uno è stato attinto dalla scatola A e l’altro dalla B, non è detto che appartengano a gruppi diversi di sostanza attiva o di placebo. Questa classificazione potrebbe essere aleatoria in quanto basterebbe la codifica numerica” Storri chiese: “Saprebbe dirmi quanti pazienti sono stati avviati alla ricerca?” Adamo rifletteva:“Non saprei. In considerazione del fatto che tutte le confezioni erano state aperte, devo dedurre che fossero tra gli undici ed i quattordici in quanto io ho tolto un flaconcino di ognuno dei tipi” Storri considerò:“Il paziente riceveva solo un gruppo di pastiglie. L’altro flacone doveva essere intatto” “È vero, non ho avuto il tempo di controllare” Ancora il Dott. Storri cercava un filo nel ragionare con Adamo:“Quando noi abbiamo aperto la cassaforte non vi era alcun farmaco tranne una scatola di fiale da 10 mg di cloridrato di morfina regolarmente in carico al registro del reparto” “È ovvio che, dopo il mio inseguimento, tutte le tracce siano state fatte sparire” “Penso che l’unico che avesse avuto la possibilità di farlo fosse il Primario” “Lo credo anch’io” “Sarà utile chiederglielo, ci potrà dire il numero di persone realmente inserite nello studio. Probabilmente ha riconsegnato le fiale rimaste alla stessa persona da cui le ha ricevute, oppure si è servito del servizio postale”
“Dottor Lancisi, oggi è stata un’altra giornata dura, densa di eventi.. La prego di non allontanarsi e di rispettare il mio mandato. Pensi solo a riposarsi. Le indagini le facciamo noi”. “Ho capito, d’accordo, eseguirò, ma lei faccia in fretta, la prego! Voglio andarmene da questo ospedale” Adamo era davvero stanco e, appena il dott. Storri se ne andò, tentò di addormentarsi.
Capitolo 14
Storri si accinse a fare una lunga telefonata internazionale per mettere al corrente il collega americano. “Wilson abbiamo catturato Fernand Lucine. Ha tentato nuovamente di uccidere il nostro cardiologo. Un attentato ben pianificato, avevano manomesso un ascensore, costringendo ad usare l’unico disponibile. Uccidendolo nell’ascensore nessuno sarebbe potuto intervenire ed avevano la fuga assicurata dal travestimento come infermieri e portantini. Quel cardiologo ha sette vite. È stato lui a sventarlo. Devo ammettere che è un tipo fuori del comune ed ha anche la fortuna dalla sua parte. Si è accorto della trappola ed è riuscito a reagire con quel poco che aveva; ha trasformato una bombola di ossigeno in un lanciafiamme, che ha ustionato l’attentatore trasformandolo in un sigaro e nello stesso tempo ha fratturato un piede al suo complice. Stavolta non andranno da nessuna parte, e, stia sicuro, li faremo confessare”. Soddisfatto Wilson si congratulò con Storri: “Magnifico Storri, complimenti, stavolta ci siamo veramente. Mi permetterà, spero, di partecipare all’interrogatorio del Lucine. Deve rispondere anche di un omicidio da noi” “Certo, appena sarà possibile. Faremo tutto secondo la nostra legge e nel rispetto delle regole. Lucine viene attualmente curato nell’infermeria del carcere Regina Coeli e poi sarà in isolamento sino a quando non si deciderà a cantare” “Noi chiederemo l’estradizione” “Nulla in contrario, cerchiamo di non creare dei conflitti proprio in questo momento. Vogliamo arrivare alla verità e potremmo condividerne il merito senza farci la guerra, anche voi dovrete collaborare senza reticenze” “Noi non abbiamo mentito su nulla, lei è sempre stato correttamente informato .”
“Diciamo che avete omesso qualche particolare relativo alle vostre indagini sulle società implicate. Wilson, o ci diciamo tutto oppure ognuno procede per la sua strada comunicando, solo a grandi linee”. “Ho capito, devo incontrarla di nuovo e stavolta tocca a me venire a Roma o a Torino, dove vorrà”. “Così va meglio, parta pure con il primo volo. L’aspetto”
Wilson non ne poteva più di voli intercontinentali. Da dieci giorni era in lite con il fuso e non avrebbe saputo se andare a dormire o restare in piedi a lavorare. Aveva sonno, eppure non riusciva a chiudere occhio. Il vecchio trucco del Mogadon poteva funzionare per una volta o due, il risultato era che si sentiva in barca, galleggiando tra veglia e sonno, e non più lucido. Il giorno dopo avrebbe incontrato il Dottor Storri. Non gli era congeniale condividere le informazioni, ma aveva capito che il magistrato non scherzava ed era capace di tagliarlo fuori dalle indagini, perché era indipendente e non era condizionato dalle pressioni dei capi. Non sembrava avere una particolare simpatia per i servizi americani e non aveva nemmeno quella sorta di rispetto che alcuni paesi, sudditi della politica estera americana, hanno verso i membri delle agenzie. Il magistrato italiano avrebbe mantenuto l’accordo stabilito a parole tra di loro e Wilson non aveva più molte frecce al suo arco. L’essersi fatto sfuggire a New York l’assassino lo metteva in cattiva luce con il Dipartimento. Si, volevano risultati, e rapidamente. Era meglio collaborare, fare buon viso a cattivo gioco. All’ambasciata, a Sydney, non aveva avuto miglior successo con l’intelligence locale e le prove migliori le avevano in mano in Italia. Avrebbe collaborato, non restava altra strada. Sorrise alla Hostess della Thai Airwais e si predispose al volo che doveva durare altre ventiquattro ore, scalo a Bankok compreso. Selezionò l’ennesimo film sperando nell’effetto soporifero.
Sandra era corsa in ospedale appena aveva saputo della nuova aggressione a Lancisi. Arrivò ansiosa e sorprese Adamo mentre si addormentava. Egli aprì gli occhi: “Ciao Sandra, finalmente!”
“Ad come stai? È pazzesco, mi sembra di essermi risvegliata da un brutto sogno. Tua madre non ne vuole sapere di andare a casa, la posso capire”. “Sandra, Sandra, non parlarmi di nulla. Stammi solo vicino. Perdona quello che ti ho fatto. Ho sbagliato, ho ancora sbagliato, sono stato precipitoso. Avrei dovuto crederti, ero fuori di me, accecato dall’odio e anche dal rimorso per quello che sono stato costretto a fare sulla montagna. Ti vedevo coinvolta in tutto. Ora anche Storri è certo della tua estraneità ai fatti, non potevo sapere, non ……” “Smettila, Ad, dammi la mano. È una storia più grande di noi, un ingranaggio che ci ha preso in mezzo e ha distrutto tutto. Ti capisco. Deve essere stato tremendo. Però ciò che è successo oggi….. mi sono sentita morire”. “È finita Sandra. È finita. Hanno preso finalmente quell’assassino. Mi hanno detto che era lui ad organizzare tutto in montagna. Maledetto. Spero che bruci all’inferno” “Gli hai già bruciato il viso tu e forse perderà la vista, da quanto ho sentito. Comunque ha chiuso e non potrà più far male a nessuno. Ad andiamocene via, lontano, ricominciamo a vivere” “Sandra, sì, voglio con te, sì insieme……noi!” Poi si addormentò, pesantemente con un sonno senza sogni. Sandra gli stette accanto ancora alcune ore, continuando a pensare a quelle parole. Ripercorse una parte del suo ato, suo padre, la mamma poi il diploma con la festa ed i fiori, il Campus, gli amici, la sua storia con il professore di Fisiologia Umana, la laurea alla Berkeley ed il primo incarico da dottoressa al Mount Sinai di New York; ripensò al desiderio di occuparsi della ricerca, di giungere il più rapidamente possibile alla linea di confine di quella comunità ristretta che parlava di scienza e viveva di privilegi unici, quasi assoluti, una casta scientifica di pochi addetti ai lavori, corteggiata da tutti ed attratta da gloria e ricchezza. In seguito c’era stato il bere, la solitudine alla morte di Robert, il professore con cui viveva. Il lento risollevarsi, chiudendo le porte a nuovi amori ed a sentimenti profondi. Quindi gli eventi con il Tropemi, le intuizioni, notti e notti di lavoro chiusa in laboratorio, prove su prove e ancora lavoro, e notti insonni con l’odore della gloria, vicina, molto vicina.
All’improvviso, Adamo, una nuova speranza, credere di aver ritrovato un amore, ma poi il contatto con la realtà che si mischia alla morte con questo correre parallelo. Era stata costretta a distaccarsi dal quotidiano più vitale, a diventare diffidente, ergendo una barriera in propria difesa, con la paura di soffrire, di ricevere altri colpi proprio quando la sua vita aveva trovato nuovi equilibri. Ripensava alle parole di Ad, ora così vicino, eppure così lontano da quel mondo, il suo mondo.
Si diede il cambio con Ada che, salutandola l’abbracciò forte e cominciarono tutte due a piangere, vicine, senza parole.
Fernand Lucine giaceva nell’ Ospedale vicino a Regina Coeli, data la gravità delle ferite riportate, in una camera super controllata da guardie e telecamere. Egli era completamente ustionato nella parte destra del viso del busto e del collo. Le mani erano state investite dalla fiammata ad altissima temperatura sprigionatasi dalla bombola di ossigeno puro e presentavano ustioni di terzo grado. Probabilmente la vista ne sarebbe stata per sempre compromessa. La cornea dell’occhio destro era distrutta, come pure il corpo vitreo sottostante ed il sinistro presentava in area pupillare un opacamento per i quattro quinti del campo visivo. Con un trapianto un giorno qualcosa si sarebbe potuto recuperare. Il collo nella regione sterno cleido mastoideo e nella parte sottoclaveare omolaterale presentava lesioni gravi e la regione mammaria aveva ustioni dovute principalmente alla fusione dei tessuti di fibra sintetica che avevano a loro volta preso fuoco. La funzione renale era monitorata con attenzione. Il tronco e la testa dell’uomo erano completamente coperti di bende. La fasciatura gli permetteva di respirare prevalentemente dalla bocca. Emergeva solo l’orecchio sinistro, praticamente indenne. Il paziente era cosciente, lievemente obnubilato da massicce dosi di morfina che attutivano il dolore. Rispondeva alle domande degli operatori sanitari e si nutriva con una cannuccia, succhiando il cibo da un bicchierone di materiale plastico. Era piantonato da un servizio di scorta ausiliario ed il magistrato aveva negato, per il momento, la possibilità di un trasferimento in una struttura specializzata per grandi ustionati. Era stato attivato il meccanismo della consulenza al letto del malato con specialisti esterni del settore.
Sulla stampa non era comparso nulla, in parte per l’assenza di giornalisti in quel momento ed in parte per il fatto che erano ati molti giorni e il dottor Lancisi non faceva più notizia. L’accaduto era stato liquidato con un trafiletto su un incidente dovuto alla fuoriuscita di ossigeno da una bombola medicale lasciata aperta accidentalmente, che aveva preso fuoco per l’accensione scriteriata di una sigaretta di un addetto alla pulizia. La stampa fortunatamente non aveva accesso in quel settore tenuto sotto controllo dalle forze dell’ordine ed al personale era stato imposto il silenzio assoluto.
Il dottor “J” non aveva notizie sull’esito dell’operazione; i dispacci di agenzia non riportavano nulla e lui aveva imposto a Ciotto - Lucine di non comunicare, se non tramite quella mail su canale riservato e protetto. Restava in attesa, con ansia crescente, per l’esito dell’operazione.
Lucine dimostrò di aver una fibra davvero forte, dopo aver riportato parecchie ferite nei combattimenti sostenuti, anche questa volta riuscì a sopravvivere nonostante la gravità dell’incidente. Superata l’emergenza sanitaria, il magistrato non tardò a interrogarlo: “Signor Lucine, credo le convenga collaborare. Rimanere nel mutismo non le gioverà, anzi, sarà estremamente pericoloso. Le faccio un quadro della situazione generale. Ci rifletta e poi mi dia una risposta. Dalla documentazione in nostro possesso, risulta che lei si sia macchiato sostanzialmente di tutti i reati considerati dal nostro sistema giudiziario. L’Interpol ci segnala che è ricercato da polizie di vari stati.” Lucine ascoltava, non parlò accusando dolori e difficoltà all’eloquio, in effetti sembrava un cadavere tutto bendato. Il dott. Storri continuò implacabile: “La avviso che è in viaggio un ispettore dell’FBI, sig. Wilson, di ritorno da Sydney, molto interessato ai suoi spostamenti negli ultimi mesi. I capi d’imputazione a suo carico nel nostro paese sono di tentato omicidio plurimo, costituzione di banda armata, traffico e detenzione di armi da guerra, falsa identità, per citarne alcune. La somma delle imputazioni per questi reati prevedono nel nostro ordinamento giudiziario il carcere a vita. “
Lucine girò faticosamente la testa, forse voleva dimostrare la sua indifferenza. L’infermiera sollecitò il magistrato a terminare, poiché il paziente non era ancora in condizioni di subire un interrogatorio. Storri era troppo arrabbiato, non si fece commuovere ed insistette freddamente: “ Nelle carceri, non solo le nostre, c’è tanta gente desiderosa di regolare qualche conto con lei. Un cieco, o quasi, qual è lei attualmente, è alla mercè di chiunque e come lei ben sa, in carcere non si va molto per il sottile. Ci giungeranno presto rogatorie internazionali per la sua estradizione.” Prima di andarsene Storri ammorbidì il discorso: “Sono un giudice garantista, perciò posso assicurarle che se ci fornirà la sua collaborazione totale, completa e senza alcuna riserva, avrà un processo regolare e sconterà la pena nel nostro paese. Se riusciremo a smantellare l’organizzazione alla quale ultimamente si è legato, potrebbe, e sottolineo potrebbe, sperare in una riduzione di pena. La lasciò invitandola a riflettere. Si consulti con il suo avvocato e mi faccia conoscere quale decisione vorrà prendere. Domani mattina sarò qui, prima che l’ispettore Wilson inizi il suo interrogatorio e le pratiche per l’estradizione. Le confermo che dal suo atteggiamento sarà consequenziale il suo destino”.
Intanto, non più in ospedale, ma in luogo segreto, Adamo attendeva con ansia di conoscere e interrogare l’infermiera che aveva avuto in consegna i suoi vestiti. Nonostante l’avvertimento del magistrato, intendeva portare avanti la sua indagine, sicuro che solo quella strada poteva dargli una via d’uscita. L’infermiera arrivò: “Buongiorno sono Ivana, l’allieva tirocinante della notte in cui giunse in Pronto soccorso, ha chiesto di vedermi?” “Buongiorno, sono felice di conoscerla; avevo piacere di ringraziarla personalmente. Lei è l’unica di quella brutta sera che non avevo ancora conosciuto” “La ricordo quella notte, fu molto movimentata e fu anche la mia ultima notte in pronto soccorso. Mi sarebbe piaciuto seguire il suo decorso, ma quella sera trovai la lettera di trasferimento in un altro reparto, fuori della città universitaria
e non mi è stato possibile tornare qui. Debbo dire che ora mi sembra di vedere un’altra persona. Era conciato male ed il dottor Chiari non sapeva se ce l’avrebbe fatta”
Gli occhi della ragazza erano colore verde chiaro, difficile non notarli, il viso incorniciato da riccioli biondi con un incarnato bianco, quasi trasparente. Era graziosa, ma con qualcosa di triste nell’espressione. Ad comprese di non esserle indifferente e cercò di rivolgere a lei la successiva domanda nel modo più spontaneo e sereno possibile. “Mi rendo conto e le sono molto grato. Salto ogni preambolo e le spiego il motivo per cui, oltre a ringraziarla, la stavo cercando. Avrei una domanda da farle. Quella sera nei miei abiti conservavo due boccettini di medicinali. Sono dei campioni che sto cercando di ritrovare, forse sono stati gettati via con i miei abiti, ridotti com’erano” La ragazza arrossì, probabilmente qualcosa al riguardo doveva sapere, così Ad aggiunse: “Sono campioni per me molto importanti; sto cercando di rientrarne in possesso” La vide irrigidirsi e capì che qualche domanda doveva già esserle stata fatta dalla polizia oppure che doveva aver letto qualcosa sulla stampa e non voleva essere coinvolta. “Vede Ivana,- proseguì Adamo - il mio incidente potrebbe essere stato causato proprio da quei medicinali. Mi spiego meglio: altre persone li cercano ed io ho solo quella prova per dimostrare il mio comportamento di denuncia. Se per caso sapesse dove sono finiti, eviterei di coinvolgerla. Ha la mia parola sulla riservatezza di questo colloquio”. Ivana si guardò intorno come per verificare se qualcuno poteva sentire. Il dottor Lancisi le sembrava affidabile, se ne sentiva attratta, molto. Lui sembrò capire, le pose una mano sul braccio, sempre guardandola, e vide la sua pelle rabbrividire al contatto. Ivana avvertiva che qualcosa prendeva rapidamente il sopravvento sui suoi timori, sulla prudenza che le consigliava la ragione. Si lasciò tuttavia guidare dall’ istinto. Turbata si avvicinò un poco ad Adamo, tanto che questi ne avvertì il delicato
profumo. Adamo era attraente, aveva lineamenti delicati e virili nello stesso tempo. Il fisico appariva smagrito e consunto, lo ricordava muscoloso e longilineo quando lo aveva visto la prima sera benché fosse conciato male. C’era qualcosa in quell’uomo che l’affascinava e la turbava inspiegabilmente, poteva essere l’uomo che aveva sognato. Ivana raccolse le sue forze e spiegò il suo stato d’animo ad Adamo: “Dottor Lancisi, ho letto molto su di lei, ma basterebbe questo spiegamento di forze, questo cordone impenetrabile a far capire quanto importante sia il suo caso. Io non ho avuto una vita fortunata. L’aiuterò, ma non posso permettermi di perdere il lavoro, di essere coinvolta in uno scandalo. Sono già una persona abbastanza chiacchierata, circondata da persone che mi vedrebbero ben volentieri fuori dalla scuola e dalla professione. Non so nemmeno perché parlo di queste cose con lei …” Adamo pose l’indice sulle labbra di Ivana zittendola. Lei tratteneva a stento le lacrime. “Ivana, lo so come è il tuo mondo perché è anche il mio. Ho sempre vissuto in ospedale e da quando sono medico ho fatto parte del personale docente della scuola infermieri. So bene come la pensa il vecchio personale, l’ignoranza, l’invidia, l’incapacità di comprendere, il desiderio di rivalsa ed il nonnismo. Conosco l’ambiente, Ivana, non hai bisogno di dirmi altro. “ La ragazza si asciugò le lacrime con il dorso della mano e si sforzò di riprendere il controllo. Si sentiva meglio. Il dottore non l’avrebbe tradita, non poteva sbagliarsi, lo sentiva.
“Dottor Lancisi quella notte mi fu detto di tagliarle i vestiti. Erano laceri e macchiati di sangue. Non tentammo nemmeno di sfilarglieli. Man mano che la privavo della sua giacca, della camicia e dei pantaloni, mi accorsi che non sarei riuscita a tagliare la cintura di cuoio che era molto spessa e con una robusta fibbia. Vidi che era della Levis, noi ragazzi ne andiamo matti. Così, invece di tagliarla, aprii la fibbia che rimase agganciata ai anti dei pantaloni ed il resto fu facile. Ammucchiai i vestiti in fondo al letto e le mie colleghe mi arono la catenina, l’orologio ed un piccolo bracciale. Notai che non portava la fede. Trovai nella tasca posteriore dei pantaloni un portafogli e sentii con le mani una
piccola massa dura nella tasca anteriore dei jeans. Vidi due piccoli contenitori di plastica bianca, di quelli che servono per delle pastiglie o capsule di una certa grandezza. Li gettai insieme ai pantaloni ed al resto degli abiti nel sacco nero dell’immondizia; lo chiusi ponendolo in un angolo della sala. Portai poi al piantone di turno tutti i suoi effetti personali che egli trattenne registrandoli su una scheda e facendomi firmare . In quel momento capii che io ero responsabile di quello che avevo consegnato all’appuntato. Era la mia prima vera emergenza, non mi era mai capitato nulla di simile. Mi dissero di gettare il sacco nei rifiuti ospedalieri che vengono inceneriti, io mi ricordai della cintura della Levis, intatta e ancora bella. Pensai che avrei avuto l’occasione per restituirla, una volta guarito, e avrei potuto così ancora incontrarla….., fantasticavo! Il sacco non lo gettai nell’immondizia. Potevo farlo con calma dopo aver tolto la cintura dai pantaloni. Nessuno mi notò, nel trambusto di quella sera, quando lo raccolsi per chiuderlo nel mio armadietto dello spogliatoio. Purtroppo la sera stessa tornando al convitto trovai la lettera di trasferimento. Non osai più tornare. Lessi sui giornali ciò che la riguardava. Non capii molto, credetti che si trattasse di un incidente e non che qualcuno avesse intenzione di ucciderla; quando la polizia mi chiese se avevo rinvenuto qualcos’altro nei suoi indumenti dissi semplicemente di no. Tacqui per i motivi che le ho già detto e nel caos che regna in questo ospedale, nessuno mi ha mai chiesto più nulla, tanto meno la chiave dell’armadietto dello spogliatoio dove avevo rinchiuso il sacco dell’immondizia contenente quello che rimaneva dei suoi vestiti. Il periodo dei tirocini era finito e nessuna mia collega aveva fatto richiesta di essere assegnata in Pronto Soccorso. Quel sacco potrebbe essere ancora lì.” “Oh Dio volesse” esclamò Adamo. “Ivana deve aiutarmi, le spiegherò come. Per evitare che qualcuno le crei problemi o possa notarla faremo in questo modo: raccolga i due flaconcini, se ci sono ancora, e li infili in una scatola. Invii tutto a questo indirizzo che la prego d’imparare a memoria. Non scriva nulla” “Dica dottore” “Smettila di chiamarmi dottore! Il mio nome è Adamo. Invia ad Ada Scuderi via Acqui 23 qui a Roma. Nessuno farà caso a te. Ada è mia madre e distruggerà l’involucro che contiene i flaconcini. Sta aspettando qui fuori. L’avvertirò, puoi stare tranquilla”
“Vado Adamo, non credo ci siano problemi. L’armadietto è a tre isolati di distanza in Clinica Medica. Se trovo il tutto, te lo farò sapere. Arrivederci!” “Ivana aspetta un attimo, ricorda la cintura”. “Sì stai tranquillo, te la porterò la prossima volta” “No, non è per questo, tienila pure, dobbiamo però prendere un caffè insieme!” “Certo dottore, grazie! Puoi contarci! Sbrigati a guarire. Mi trovi al convitto della scuola” “Contaci!” Ivana lo salutò e scappò via correndo, felice, come non era da tempo.
Verso sera, arrivò anche Sandra. “Ciao Ad, finalmente ti vedo fuori dall’ospedale, ristabilito, sei già te stesso, ricomincio a vedere la luce nei tuoi occhi, come ti senti?” “Bene Sandra, molto bene ora che sono fuori ed è tutto finito. Ti devo ancora delle scuse, ho dubitato di te, dei tuoi sentimenti. Galleggio ad un livello dove rivivo tutto, come se guardassi me stesso e la mia vita da spettatore: mi vedo muovere ed affannarmi per cose prive di senso L’essenziale che ricerco è uscire da un programma che non mi appartiene. Mi sembra di essere nato per la seconda volta e di scoprire il mondo con occhi nuovi. Tutto è diverso, a partire da un caffè al bar. Credo che la malattia modifichi la persona e faccia vedere ciò che conta. Bisogna provarlo sulla pelle per capire. Rio la mia vita alla moviola e sono occupato nel montaggio con un regista diverso; ho delle forbici in mano, sto tagliando moltissimo. Salvo pochi spezzoni irripetibili da cui ripartirà il futuro. Non esiste più l’Adamo di un tempo.” Sandra aveva gli occhi lucidi. Quell’uomo l’aveva attratta sin dal primo momento. Aveva il fascino dell’essere non allineato, l’odore dell’innocenza, l’ermeticità di una poesia ed il profondo blu del mare negli occhi. Era cosciente dell’unicità di quel rapporto, difficile da sostenere. “ Ad io sono in uno di questi spezzoni?”
“Sì Sandra, sei in quello più recente ed aperto, dovrai tu scrivere la partitura finale. Non posso suggerire soluzioni o forzarti alle mie. Posso solo dirti in quale direzione mi sto incamminando. È il momento di dare. La coscienza dice che sono in rosso. Vorrei tornare ad essere un medico, semplicemente questo. Vorrei poter fare qualcosa per gli altri. Padre Mario mi ha indicato una missione in Kenya dove opera un confratello. Mi ha detto che hanno bisogno di tutto. Vorrei dare una mano, fare quello che posso”. “Ad, desidero te, starti vicino, non so se ne sarò capace” “Puoi provare, non devi rispondere o decidere subito. Pensaci! Io non fuggo. Andrò in Africa per qualche tempo, quanto basta a ritrovare me stesso. Potresti raggiungermi” Sandra lo guardò negli occhi. Vi lesse la determinazione di sempre. “Sì Ad , cercherò. Ci penserò”
Ivana fece quanto aveva promesso ad Adamo e fu contenta di ritrovare l’armadietto così come lo aveva lasciato. Nel caos che regnava nella Clinica Universitaria nessuno si era preoccupato di richiedere la chiave per affidarla ad una nuova tirocinante. Aprì l’ armadietto e vide quanto cercava. Nella tasca dei pantaloni di Adamo c’erano ancora le due boccette di plastica. Controllò che non ci fossero altri oggetti, sfilò la cintura della Levis e gettò via nel sacco gli indumenti rimasti. Era contenta di poter fare qualcosa per lui. Avrebbe sicuramente avuto occasione d’incontrarlo di nuovo. Non si stupì che il suo cuore battesse forte. Fece esattamente quello che le aveva consigliato Adamo. Infilò le boccette in una piccola scatola di cartone che bloccò con del nastro adesivo. Avvolse il tutto in carta da pacchi dove scrisse in stampatello e con un pennarello nero l’indirizzo che ricordava a memoria. Inventò un mittente e si recò alla posta della stazione Termini. Nessuno avrebbe potuto ricollegarla al pacchetto. Le precauzioni prese, usando dei guanti per pulire le boccette e confezionarle in quel modo la fecero sentire tranquilla. Si era recata nell’ufficio postale più frequentato della zona infilandosi dei grossi occhiali da sole, usati per lo sci, con un piccolo foulard che le copriva i capelli,
ebbe cura di non rivolgere il viso alla telecamera a circuito chiuso posta su un lato dell’ufficio postale che guardava gli utenti allo sportello. Si fidava ciecamente di quello che le aveva detto Adamo. Pulì accuratamente la cintura, che lucidò con della cera neutra. Resistette al desiderio pressante di tornare in ospedale per restituirla. Se Adamo lo avesse desiderato non avrebbe avuto alcuna difficoltà a rintracciarla; contava sul suo fascino personale che non lasciava indifferenti. L’attesa suscitava in lei fantasticherie dove si rifugiava, costruendo pensieri in cui era difficile separare il reale dall’immaginario. Ivana avvisò le colleghe e la portineria di chiamarla se qualcuno eventualmente l’avesse cercata. Era il contatto con la realtà in attesa che si avverasse la fantasia.
Adamo finalmente ritornò in possesso delle boccette, decise di consegnarle subito al dottor Storri, che non nascose la sua sorpresa: “Dottor Lancisi, non finisce di stupirci. Come ha ritrovato le boccette del farmaco?” “Preferirei non dirlo, per evitare d’implicare altre persone, stia sicuro, non sono state in alcun modo manomesse. Posso garantirle che sono proprio quelle che ho sottratto dalla cassaforte del Primario. Le compresse avanzate dall’esame a cui le avevo sottoposte ci sono tutte”. “Va bene, dottore, non credo sia rilevante come ha fatto, l’importante è averle riavute, non spariranno più.” Adamo espresse quanto gli stava a cuore: “Dottor Storri, domani partirò per villa Esmeralda, di malavoglia, poi la pregherei di lasciarmi sparire. Potrà rintracciarmi in qualsiasi momento al numero di cellulare che mi ha fornito. Desidero tornare alle mie montagne” “Faremo in fretta. Non dovrà aspettare molto. Oggi stesso questi oggetti saranno esaminati dal nucleo scientifico dei Carabinieri del RIS. Oramai sono in nostro possesso, lei resta il nostro più importante testimone e mi deve promettere che non agirà con iniziative personali. Sappiamo molte più cose e vorremmo che non si esponesse ulteriormente.”
“Stia tranquillo non ho intenzione di agire o di sparire. Mi basta quello che è già accaduto. Cercherò di riacquistare un po’ di privacy e di migliorare le mie condizioni fisiche. So di quale riabilitazione ho bisogno”. “Ne sono convinto, pazienti ancora un po’ e sarà presto restituito alla sua vita”.
Wilson, intanto, saltava tra un fuso e l’altro; questa situazione non ne appannava l’attenzione e la concentrazione, ma il fisico ha i suoi ritmi e ne soffriva. Fu contento del caffè caldo e dei cornetti che Storri gli fece trovare sul tavolino a fianco della grande scrivania stracolma di scartoffie. Non amava particolarmente il caffè italiano, l’urto feroce del concentrato sullo stomaco gastritico per stress, ma dovette ammettere che l’aroma non aveva nulla a che vedere con la bibita americana dello stesso nome. Trangugiò due cornetti ed un maritozzo con la panna, che lo restituirono al mondo dei vivi, confermando l’opinione che gli italiani, nonostante tutto, il modo per addolcirsi la vita lo trovano nei peggiori frangenti. Si sentiva osservato, sottecchi. Storri lo fissava con sguardo penetrante. Provava un minimo di disagio come quando a Poker non hai un bel gioco e vorresti conoscere quello dell’avversario. Una volta rifocillato Wilson fu visibilmente disponibile e Storri lo appellò: “Caro Wilson, sono contento di rivederla, spero abbia fatto un buon viaggio.” “Anch’io la incontro volentieri dott. Storri. I viaggi purtroppo li sopporto sempre meno. Sto invecchiando”. “È in buona compagnia Wilson. Veniamo a noi, si collabora sul serio?” “Ok, ok. Cominciamo con alcune notizie riservate!”
Wilson elencò tutti i rapporti della Prisco, con la Kaddok e la Sudden. Precisò anche il comportamento degli Australiani, spiegando i problemi che aveva avuto con la polizia locale ed i servizi di sicurezza.
“Capisco, - disse Storri - stavolta abbiamo come illustre ospite delle nostre prigioni Fernand Lucine, che ha iniziato a collaborare vuotando il sacco senza troppe riserve. Diciamo che non gradirebbe molto essere estradato da voi, è su questo che sto facendo leva per cercare di farlo cantare. Lei potrebbe rincarare la dose ” “Può contarci, effettivamente desidererei fosse estradato in America” “Wilson, posso capire, da noi è responsabile di tutto ciò che si può ascrivere ad un delinquente del suo rango. Dovrà subire un processo e scontare una pena. Vedremo come evolveranno le cose”. Insieme si recarono da Lucine, per interrogarlo. La porta dell’infermeria si spalancò ed apparve tra le bende una parte del criminale da lungo tempo ricercato. Iniziò il dott. Storri: “Signor Lucine, è qui con me l’ispettore Wilson dell’FBI. L’ispettore inizierà le pratiche per l’estradizione negli USA. Lei dovrebbe rispondere ad alcune domande. Può essere assistito dall’avvocato, ma un suo consenso accelererebbe le pratiche, ne terremmo conto, in accordo con il discorso fatto precedentemente” Lucine fece un cenno affermativo. Wilson e Storri si sedettero su due sedie di metallo verniciato grigio, in parte ossidate verso la base, solide e fredde.
“Direi di cominciare. Chieda pure ispettore Wilson. Accendo il registratore” “Da chi prende ordini signor Lucine?” “Normalmente il lavoro viene commissionato per telefono, negli ultimi anni frequentemente via internet. I committenti preferiscono rimanere anonimi e limitano i contatti allo stretto necessario. Utilizzano gli “internet cafè” per evitare di essere rintracciati tramite IP ed io non ho nulla in contrario. A me interessa che paghino, bene e subito. L’ultimo lavoro mi è stato offerto dal dott “J” “Su quali conti e quanto è stato pagato?“
“I conti non sono mai gli stessi. Non sperate di rintracciarli seguendo queste tracce. Attualmente non ho molto denaro se non pochi spiccioli su “ Banco Corso” in una filiale di Bastia. Qualche volta si usavano conti cifrati in Svizzera, ora questa nazione non è più sicura; c’è sempre una rogatoria internazionale in corso e prima o poi qualcosa salta fuori. A volte usano il Lussemburgo, Montecarlo, le Cayman. Sono spesso gli stessi committenti ad indicarmi dove e come. Io preferisco il contante di medio taglio. Non lascia tracce ed è prontamente spendibile” Storri commentò: “Già, dimenticavo, lei ha un’esperienza incredibile. Ed in questa ultima operazione?” “Non mi è stato ancora pagato nulla. Il saldo avrebbe dovuto essere versato alle Cayman su un conto da precisare”. “Non ci crediamo, Signor Lucine, lei ha dimostrato una notevole disponibilità di mezzi. In valle Po ha organizzato una intera squadra di persone con armi da guerra convenzionali, di matrice slava. Il possesso di queste armi implica conoscenze e contatti che vanno ben oltre confine e occorre denaro, molto denaro. Lei ha assoldato individui con esperienze simili alla sua e questa gente costa molto! Abbiamo recuperato i corpi in alta valle. Alcuni facevano parte della Legione Straniera se. Ha noleggiato più volte un elicottero. Effettua voli internazionali di cui abbiamo riscontri. Le ricordo che molti sono desiderosi di farle domande. Continui per favore!” Lucine continuò:“E va bene. È stato versato un consistente acconto in contanti. Mi è stata consegnata una valigetta contenente circa un milione di Euro nell’ottobre dello scorso anno”
Wilson e Storri si guardarono negli occhi, tradendo un notevole stupore:
“Dove è avvenuto il pagamento?” “Alla stazione di Porta Nuova, a Torino” “Interessante, e chi li ha consegnati”
“Non so, un uomo che non si è fatto riconoscere. L’incontro era al bar di fronte l’ingresso del deposito bagagli. Mi ha dato una piccola busta con dentro uno scontrino. Non ha detto una parola, ha preso un caffè e se n’è andato via. Io ho poi ritirato la valigetta” “Ed il suo contatto chi era su internet o telefonicamente?” “Il signor “J”” “Chi è questo signor “J” e dove possiamo trovarlo?” “Io non l’ho mai visto, dalla voce mi sembra anziano. Non posso dirlo con certezza. Comunicavamo esclusivamente tramite internet e molto raramente per telefono” “Mi dica il suo indirizzo di posta elettronica ed il suo numero di telefono” “
[email protected] Il numero di telefono cambiava ogni volta; dopo l’ultima comunicazione, era di un cellulare forse satellitare, il contatto avveniva tramite computer via internet. L’ultimo a cui riferirsi veniva dato cifrato. Io l’aprivo con la chiave estrapolata dalle prime righe del messaggio con griglia preformata su una serie di numeri generati soltanto se era necessario. Poi distruggevo il file del computer con il tritafile. A volte “J” cambiava anche l’indirizzo mail” “Dov’è questo computer?”. “È un portatile con scheda per l’accesso ad internet in qualsiasi punto vi sia un contatto satellitare o con rete GSM. Non so dove sia finito. Prima del mio arresto lo avevo lasciato sulla macchina che avevo rubata per usarla nell’ultima missione. Se qualcosa andava storto, come del resto è successo, qualcuno doveva provvedere alla distruzione dell’auto. Non credo la ritroverete e tanto meno il computer; comunque non vi sarebbe stato di nessuna utilità” “Ha compiuto, per così dire, altri lavori con il Dottor “J”? “ “Sì, molti altri” “Di che tipo?” “Tutti a carattere internazionale”
“Ripeto, di che tipologia?” “Economico finanziaria” “Non ci prenda in giro: furti, rapimenti, omicidi?” “Economico finanziaria” “E dei suoi complici cosa mi dice, visto che li ha personalmente reclutati. I nomi per favore!” “I nomi sono solo di battaglia, nel nostro lavoro è indispensabile. Non ho mai conosciuto quelli di battesimo e non mi interessano. Avevo una piccola agenda sul computer che credo sia andato distrutto” “Quindi ammette che è stato lei ad organizzare la caccia al Dottor Lancisi prima nella sua abitazione, dove è stato ferito, poi in montagna dove credevate di finire il lavoro” “Sì, sono stato io, ma i ragazzi si sono lasciati prendere la mano. Hanno visto un compagno cadere nel burrone, c’era una trappola. Altri sono stati presi a fucilate e uno è morto” “Non volevate ucciderlo?! A casa sua sono stati ritrovati proiettili conficcati nei muri e bossoli in gran quantità. I vicini hanno visto sparare almeno due di voi e si sono rifugiati dentro casa. Dicono di essere stati minacciati di morte se avessero parlato. Indubbiamente li avete convinti perché la denuncia è arrivata alcuni giorni dopo l’abbattimento dell’elicottero” “Non sono stato io a sparare, lo ripeto, non ho ucciso nessuno” “E cosa mi dice della guida alpina, Hermes? È stato ritrovato anche lui ucciso. Una ferita era alla gamba e sembra sia stata provocata da un proiettile del calibro del Ma del dott. Lancisi. Le altre alla schiena da Kalashnikov. Come lo spiega?” “Non sono stato io. Ero ferito, mi ero fatto male salendo in montagna” “Si riferisce alla sua ferita al torace?”
“Sì, a quella” “I chirurghi dicono possa essere stata provocata da una lama curva, molto spessa e per sua fortuna trattenuta dalle costole del terzo spazio intercostale. Se fosse penetrata di più sarebbe morto. Se l’è cavata con un pneumotorace dagli esiti che sono stati diagnosticati. Abbiamo fatto ricerche in tutti gli ospedali della zona, non è emerso nulla. Ciò significa che si è fatto curare da qualcuno che non ha emesso il referto” “I miei compagni mi hanno portato da un medico. Quando sono giunto ero svenuto per la perdita di sangue. Mi hanno detto che era un loro amico. Mi sono risvegliato ospite nella casa di uno di loro”. “E dove si trova questo posto?” “Non vi ero mai stato. So che si trovava in una borgata vicino ad Asti. Appena sono stato in condizione di muovermi mi hanno accompagnato alla stazione di Asti, dove ho ricevuto l’ordine di spostarmi a Roma”. “È lì che ha organizzato il nuovo attentato al Dottor Lancisi?” “Non era un attentato. Dovevamo fermarlo per interrogarlo su quanto aveva sottratto al suo primario” “Sappiamo tutti com’è andata. Il suo identikit è stato riconosciuto da molti testimoni, siete fuggiti in macchina, la stessa che ha investito il Lancisi” “Sì, ci siamo spaventati. La folla sembrava volesse linciarci” “E l’attentato in ascensore? Nega anche quest’ultima evidenza” “Non volevamo uccidere nessuno. Lo scopo era rapirlo per farci dire alcune cose: le armi servivano solo a convincere lui ed il personale infermieristico” “Non le credo Signor Lucine. Lei si e’ ustionato perché ha aperto il fuoco. Se intendevate minacciare sarebbe bastato mostrarle”. “Il Lancisi ha reagito senza darci tempo di dire una parola. La raffica è partita accidentalmente”
“La raffica partita accidentalmente, come lei afferma, ha ucciso il suo complice e ferito un infermiere” “Non so, io non vedevo più” “Lo sappiamo, la sua carriera finisce qui. Ci parli del Dottor Martin Flowers: è stato lei ad asslo? “No” “Cosa è andato a fare alla Prisco, nella sede di Manhattan? Tutti i suoi accessi sono stati filmati ed i pochi minuti intercorsi dal mio arrivo alla sala del presidente dove ho trovato morto Flowes li ha riempiti lei con la sua presenza. I filmati registrano il suo aggio in quei minuti nel corridoio che portava alla sala dove è stato ritrovato Flowers” “Dovevo parlargli, ero stato incaricato di farlo. L’ho trovato morto e sono fuggito” “Sta mentendo spudoratamente. La signorina alla reception ha parlato e riconosciuto la voce di Flowers al telefono e da quella telefonata al momento del mio ritrovamento sono ati esattamente quattro minuti. I filmati sono stati esaminati ben oltre cinque ore dal momento in cui si fa risalire la morte. L’ultimo accesso prima del mio lo ha fatto lei tra la mia chiamata dalla reception al piano della presidenza. Il dott. Flowers non era stato visitato da altri. Le ultime due ore le ha ate al telefono come si evince dai tabulati telefonici. È stato lei ad ucciderlo!” Lucine si chiuse in un mutismo assoluto. Chiuse gli occhi doloranti e non parlò più. Venne quindi portato via dagli infermieri sulla barella. “Wilson, non credo che per ora caveremo dell’altro dal Lucine. Del resto, se parla e confessa il nome dei complici sa che non basteranno le mura di una prigione a salvargli la vita. È anche possibile che non conosca il nome del Dottor “J”, per il quale esistono le stesse motivazioni. Penso ci dovremo accontentare per ora.” Mentre così consideravano, il dott. Storri venne chiamato: “Dottor Storri la cercano al telefono”
“Chi mi cerca?” “Dalla procura di Torino, un certo Calvisi” “Me lo i grazie” “Cancelliere, che nuove?” “Dottore sono arrivati i risultati dei Carabinieri del RIS di Parma sulle boccette che ha consegnato” “E dunque?” “In ogni boccetta hanno trovato una sola pastiglia con il veleno; pare di un fungo!” “Maledizione! Ci siamo finalmente. E sulla confezione hanno detto nulla?” “Sì, hanno escluso che il flacone provenga dai laboratori e fabbriche consociate alla Prisco. Dicono che hanno esaminato ogni singola confezione farmaceutica prodotta dalla Prisco, apparentemente le boccette sono uguali, hanno un particolare che le differenzia da tutte quelle in produzione” “Quale particolare Calvisi? Non si faccia pregare!” “Non lo so dottore. Non ho capito, venga lei” “Arrivo, anzi arriviamo”
“Venga Wilson, andiamo all’aeroporto. Si torna a Torino. Sento che ci siamo davvero stavolta” “Maledizione Storri non ho nemmeno aperto la valigia!” “Meglio, faremo prima, venga, le offro la cena!”
L’aereo dell’Alitalia atterrò in orario. Avevano entrambi consumato qualcosa al
banco della degustazione dei vini nell’aerostazione T3 dei voli nazionali prima dell’imbarco. Wilson, su insistenza di Storri aveva assaggiato un bicchiere di vino Barolo della ditta Bolmida di Monforte d’Alba. Wilson non smise di decantare la bontà di quel nettare e durante il volo, apprezzò le pregevoli caratteristiche soporifere post prandiali. Chiuse gli occhi e li riaprì ad aereomobile ferma. Apprezzò le differenze con la somministrazione del Mogadon.
Tribunale di Torino
“Sì, la differenza è veramente un’inezia, ma è la firma della Sudden, guardi Wilson, guardi a cinquanta ingrandimenti e giudichi da solo.” “Vero alla base della boccetta contenente il falso Tropemi appare il triangolo formato dalle freccette triangolari del PET. Con all’interno un numero 02” “Sì è vero, perfettamente identico a molte confezioni di farmaci in capsule prodotte dalla Prisco. Osservi ancora e guardi la differenza con l’altra” “Non vedo nulla” “Neanch’io ma se legge il referto del RIS si accorgerà immediatamente della differenza” “Mi traduca, l’italiano non è il mio forte” “Leggo…..alla base si osserva in particolare ed al massimo ingrandimento, all’altezza della cifra 02 e soprattutto nel tratto basale della cifra 2 una discontinuità del trattino che apparentemente potrebbe apparire come un difetto causato da consumo del materiale con un oggetto appuntito, un’unghiatura. Nessun’altra delle confezioni comparative prese in esame riporta lo stesso difetto. Si è pertanto esaminata tutta la produzione Sudden di medicinali. Per tre di questi, e per tutta l’intera linea di prodotto con lo stesso tipo di farmaco si è rilevato lo stesso difetto. Conclusioni: si depone per tale indizio un difetto di fusione strutturale della
plastica ovvero causato dallo stampo avariato adibito alla fabbricazione di una linea intera di confezionamento dell’involucro plastico”. “È vero, ora appare chiarissimo! È come la firma su un assegno” “Bene Wilson un assegno che credo lei spenderà presto a Sydney” “Voglio morire Storri….”
Capitolo 15
Dieci giorni dopo Adamo salì lentamente le scale del tribunale di Torino, un edificio modernissimo, non particolarmente bello ma funzionale ed apparentemente ricercato, con dei giardini interni in un cortile all’apparenza sacrificato, dove un via vai di gente si muoveva con celere o, per nulla spaesato. Giunse al primo piano nello studio di Storri.
“È proprio così dottor Lancisi, lei ha rotto le uova nel paniere nel momento più delicato di tutta la vicenda”. Disse Storri cercando lo sguardo di Wilson, appena rientrato da Sydney e di Adamo. “Finalmente il quadro è chiaro nella sua complessità e non si può sino in fondo sapere se tutti i responsabili saranno identificati. Tutto è iniziato dalla insoddisfazione di alcune persone nell’ambiente della Prisco Enterprise. Il Dottor Nicolosi, italiano con aporto americano, da molti anni alla Prisco Enterprise, è autore di scoperte che avevano condotto la Prisco ai successi attuali” Wilson annuì senza aprire bocca. “Egli si era sentito scavalcato ed umiliato dalla scelta dell’assemblea degli azionisti a favore di Dawson come presidente della Prisco, un uomo sicuramente valido, con molti legami politici e conoscenze utilitaristiche. Dawson aveva sfruttato il suo fascino personale per essere nominato Presidente. Nicolosi riteneva una vera ingiustizia questa scelta oltre che un segno di ingratitudine da parte di coloro che il suo genio aveva reso ricchi. Meditava vendetta, e non si accontentava di cercare altrove la sua realizzazione. Aveva ricevuto offerte da parte dell’agguerrita concorrenza, più vantaggiose dal punto di vista economico. Egli non era interessato soltanto al denaro, voleva fama e successo e pensò di poterli ottenere sfruttando la venalità dell’amministratore delegato Martin Flowers. I due erano abbastanza amici, conoscenze nate per scopi utilitaristici più che per condivisione d’intenti. Nicolosi, conoscitore della dispendiosa vita di Flower, sapeva del suo costante bisogno di denaro ed era venuto a sapere per vie
traverse della sua partecipazione azionaria nella Kaddok. Inizialmente aveva pensato di ricattarlo per assicurarsi il suo appoggio contro il presidente Dawson. Poi aveva, più sottilmente, architettato e raffinato il suo piano di rivalsa ritenendo più utile allo scopo far balenare prospettive di enormi guadagni all’avidità dell’amico” Wilson s’inserì nella conversazione “Flowers amava il rischio ed era un giocatore, che pur di vincere era pronto a barare. Tutta la sua vita ne era la conferma. Le nostre indagini lo hanno confermato. Durante una delle tante riunioni di lavoro, Nicolosi invitò Flowers ad un party per un fine settimana nella sua casa in riva ad un piccolo lago nel Quebec. Sembrava un normale invito e Flowers accettò con piacere: con il suo Piper avrebbe raggiunto il cottage in Canada in tre ore di volo da New York. Nella serata del venerdì poteva arrivare e godersi una bella giornata di pesca. Fu proprio il mattino dopo, sulla barca, che Nicolosi gli parlò dell’idea e di quello che avrebbe voluto fare per arricchirsi. Iniziò con un largo giro di parole ad esprimere la volontà nascosta di volersi dimettere dall’attuale posizione per creare una casa farmaceutica tutta sua, più dinamica, con elevati guadagni, che si potevano ottenere con finanziamenti, garantiti dalle conoscenze. Spiegò il dispiacere di non essere stato nominato Presidente della Prisco e del desiderio di rivalsa. Non fece trasparire la voglia di vendetta, di vedere nella polvere quelli che erano stati gli artefici della sua emarginazione, quelli che aveva fatto arricchire con i frutti delle sue intuizioni. Flowers abboccò all’esca. Non sarebbe stato necessario abbandonare la Prisco. Lui stava bene così e credeva che avrebbe potuto continuare manovrando nell’ombra. Aveva fiutato l’affare e conosceva il valore di Nicolosi. A lui si dovevano tutte le più recenti scoperte in campo cardio polmonare che la ricerca Prisco aveva poi sviluppato e commercializzato nel mondo. Era a conoscenza di come erano andate le cose e perché gli era stato preferito Dawson. In realtà gli azionisti che contavano lo avevano preferito a Nicolosi in quanto si sapeva che era un genio, ma difficile da manovrare, testardo e determinato con un carattere spigoloso. Alcuni avrebbero perso con lui la propria area d’influenza e ci sarebbe stato comunque meno spazio per tutti. Troppo accentratore, Nicolosi rendeva difficile il lavoro a tutti i suoi sottoposti che, appena maturavano un’esperienza valida, si dimettevano o cercavano di lavorare altrove.
Flowers, da sempre personaggio ambiguo anche con la Kaddok, esprimeva la voglia di tenere il piede in più staffe e l’occasione offerta da Nicolosi era lo strumento per rendere reale la possibilità di avere più opzioni aperte. Insomma era un uomo che giocava su più tavoli, maestro nel non andare in rotta di collisione con nessuno, compresi i suoi avversari. La sua scalata lo aveva portato ad essere l’amministratore delegato della Prisco, ma nessuno, neanche Nicolosi, sapeva che la Kaddok era strettamente legata alla Seimud. Flowers intuiva le grandi possibilità di Nicolosi. Non poteva non agganciarsi a quel carro. Non sarebbe stato difficile comprendere le motivazioni e fingersi amico. Avrebbe convinto alcuni suoi amici della Seimud a finanziarlo: ne conosceva le notevoli risorse. Non avrebbe rischiato nulla di personale. Sarebbe stato facile. Se Nicolosi, per qualsiasi motivo, fosse affondato, ne sarebbe uscito pulito. Nessuno avrebbe potuto ascrivergli nulla, se non il pessimo investimento” Continuò Storri. “Quello che Flowers non poteva sapere era che la Mafia siciliana era dietro l’azionista principale Seimud. La mafia pretende sempre il pagamento dei debiti, in un modo o nell’altro, e con la Seimud aveva già riciclato molti milioni di dollari. In realtà la casa farmaceutica con sede a Sydney era sufficientemente lontana sia dall’Europa che dagli States, con una normativa a sè stante, protettiva. La Mafia controlla i suoi interessi nel mondo con un codice tutto suo ed applica metodi analoghi in luoghi molto diversi e lontani tra loro. Il modello è esportabile ovunque. Era stata la Mafia a reclutare Fernand Lucine, Ciotto, il nome di battaglia, e la sua squadra oltre a mettere a disposizione i capitali per l’operazione. Non basta. Per essere assolutamente certa che i suoi capitali fossero ampiamente valorizzati era necessario eliminare la Prisco dal mercato carpendone i segreti. Bisognava fare credere che la Prisco, infrangendo le regole, avesse iniziato una sperimentazione non autorizzata sull’uomo, pur di giungere prima al brevetto ed alla commercializzazione del farmaco. In tutta segretezza nei laboratori Seimud erano stati preparati e confezionati i flaconcini di prodotto tossico, il veleno dell’amanita verna. Per ogni confezione era stata inserita una sola pastiglia di veleno. Sarebbe bastata ed ai controlli successivi nei flaconi analizzati non sarebbe stato trovato assolutamente nulla o parte di molecole che nulla avevano a che fare con la morte dei pazienti. In questo modo, alla fine della ricerca, gli stessi autori del piano avrebbero denunciato il fallimento del progetto.
In seguito sarebbe pervenuta sulla scrivania di qualche giudice la documentazione falsa che era stata stampata nei laboratori di Baltimora ma distribuita in alcuni ospedali italiani dove esisteva il braccio di ricerca sperimentale su animale. Impossibile a quel punto negare l’evidenza dei fatti. Lo scandalo non sarebbe stato fermato” “E Flowers?” Disse Adamo. “Flowers era solo il contatto, non serviva più e sarebbe stato suicidato comunque senza che nessuno potesse risalire alla Seimud. Purtroppo lei, dottore, si è inserito nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ha trafugato due flaconcini che contenevano la pastiglia di veleno: i flaconcini di plastica sono stati identificati dal RIS come produzione della Seimud” Proseguì Storri: “Fernand Lucine, dopo aver tentato di ucciderla, prima nella sua abitazione, successivamente in montagna ed ancora a Roma, è stato costretto dalla Mafia a togliere rapidamente di mezzo Flowers, il quale avrebbe potuto confessare tutto alla polizia. Non ha avuto il tempo di fare le cose per bene in quanto Wilson gli stava alle costole. Il “suicidio” Flowers, oltre ad interrompere il canale che lo legava alla Seimud, giustificava il fallimento di una ricerca fatta con metodi scorretti, che lo rovinava per tutta la vita. Il suicidio era quindi giustificato per il fallimento della sua condotta di vita” Lancisi chiese: “Mi scusi dottor Storri, non capisco ancora una cosa. La Magistratura, per le indagini di rito avrebbe effettuato le autopsie sui cadaveri delle persone decedute e sarebbe stata un’indagine tossicologica mirata trattandosi della ricerca di un farmaco. L’Amanita Verna non è un farmaco ed il sospetto di interferenze esterne sarebbe stato evidente” “Quello che ancora non sa, ma che le dovrebbe dire qualcosa è il cognome Nicolosi” “Nicolosi….mi sembra di origine siciliana” “Esatto! E questo non le suggerisce niente?” “Vuole farmi credere che Nicolosi avesse dei legami con la mafia?” “Nicolosi è un esempio lampante della fuga di cervelli dal nostro paese. Venticinque anni prima aveva lasciato Roma dopo essersi laureato a pieni voti e
pur avendo vinto un dottorato di ricerca alla Sapienza non si prospettava per lui nessun futuro di prestigio nel nostro paese ed avendo la necessità di guadagnare, oltre ad essere molto ambizioso, si era trovato un posto di chimico alla 3M. Da lì, era iniziata la sua strada negli USA. Quando Flowers parlò di lui con i responsabili del progetto non fu difficile contattarlo direttamente e a quel punto, scavalcare l’amministratore della Prisco, utile al loro gioco, ma carta da scartare successivamente. Venne commissionata a Nicolosi una sostanza che avesse come analogia una parte della molecola di Tropemi; non fu difficile per un chimico come lui ed il gioco era fatto.” “Ed ora che cosa succederà?” “Difficile dirlo. Sia la Prisco che la Seimud saranno in stallo per molti mesi. La borsa le punirà. Diciamo che in questo caso gli investitori non hanno fatto un affare, le azioni non portano un nome ed anche se stuoli di avvocati si impegneranno, riusciranno a far punire pochi responsabili, che faranno da capro espiatorio per molti altri. I legami di mafia sono difficilissimi da estirpare e da indagare. È una lotta che continuiamo da sempre. A tutt’oggi non conosciamo con certezza il dott “J”, il vero burattinaio. Nessuno sa il suo vero nome, e soprattutto nessuno si arrischia a pronunciarlo. È troppo potente, pare sia ai vertici della politica” “Ci sono forti sospetti per alcune intercettazioni effettuate da ECHELON” disse Wilson. “Abbiamo torchiato a lungo il dott. Nicolosi, offrendogli anche la possibilità di una grossa riduzione di pena. La cosa è d’importanza strategica in tutta la storia. Non ci sono state fornite prove dirette, ma di fatto è emerso che il modo con cui ha operato il Dott. “J” , sfuggendo ai protocolli d’intercettazione di tipo militare, con tecnologie specifiche dei servizi segreti, fanno pensare che l’autore di questo sistema dendritico debba essere vicinissimo al Primo ministro della vostra repubblica, se non lui stesso in prima persona. La questione è “Top Secret”, implica rapporti internazionali e di politica estera con un paese alleato ed amico. È già successo con altri stati, in prevalenza con l’America Latina, ma di fatto ci è stato posto il veto di proseguire con i canali ufficiali. Il Congresso degli Stati Uniti ha una sezione speciale adibita proprio alla gestione di questi “affari particolari”, gestita direttamente dalla CIA che risponde direttamente al
Presidente degli Stati Uniti ed ad alcuni membri del suo staff responsabili della difesa” Continuò Storri: “Comunicava solo per telefono, quando era costretto a farlo, mantenendosi non rintracciabile. Ha mezzi illimitati e copertura politica inattaccabile, anzi si pensa che sia lui a fornire agli altri le coperture. Quando dava ordini usava e-mail criptate e sempre diversi. Cambiava schede cellulari ogni ventiquattro ore. Possiamo ipotizzare che in realtà non esista come singola persona. È probabile che il dott. “J” sia in realtà l’espressione informatica del gruppo mafioso e le disposizioni probabilmente arrivavano dalla “cupola”, di cui lui è il capo!” “Ma scusatemi! Mi state dicendo che gli indizi a carico riguardano i vertici politici di...” “Stia zitto Lancisi! Non dica altro! È pazzo?” L’interruppe bruscamente il Magistrato. “Non posso permetterglielo, non è prudente, non ci sono prove certe, né posti sicuri dove parlare. Non ne ha avute abbastanza? Non capisce ancora come gira il mondo?” “Ma dottore, io ho perso quasi la vita, e comunque, quella che mi rimane non sarà più la stessa. Debbo sapere! Quello che sa lei me lo deve dire! È per me che questa storia ha avuto inizio. Mi guardi! è chi penso io?” Il magistrato fissò Adamo negli occhi, intensamente. Solo un battito di ciglia percepì Adamo, Non un filo di voce. Nessun nome. Anche Wilson, che si era tenuto in disparte, afferrò il cappello, annuì, e fece per alzarsi. “Non smetteremo mai di cercare anche con i limiti che ci sono stati imposti, ma la ricerca è lunga e difficile, i sospettati a volte escono di scena prima di finire la loro parte in questo teatro. Quasi tutti i responsabili sono già stati assicurati alla giustizia. Flowers è stato assassinato. Vito Nicolosi è entrato nel programma americano di protezione dei testimoni, non sarà più un uomo sereno ne potrà più svolgere la professione di chimico di alto profilo. Vivrà per sempre come un braccato. Fernand Lucine è stato reso inoffensivo e erà il resto della sua vita in carcere. Il suo Primario, il dott. Soave, è un uomo finito professionalmente, anche lui in carcere. Sarà radiato dall’ordine professionale. Sulla dottoressa Blixten non è emerso nulla ed è libera. Penso che dovrà trovarsi un nuovo lavoro, ma questo
non dovrebbe esserle difficile. Alla fine rimane lei, dott. Lancisi. La sua posizione è chiara ed è stata determinante ai fini delle indagini. Ha sempre agito per legittima difesa, come del resto il suo amico Ricu che le ha dato una mano. Siete liberi di ricominciare una nuova vita privata e professionale. Non crediamo che lei corra più alcun pericolo. La disturberò ancora solo per le testimonianze quando inizierà il processo” “Grazie dott. Storri. Non mi sento più lo stesso. È dentro che sono lacerato ed ho perso riferimenti in cui ho sempre creduto.”. “Guardi avanti. Mi rendo conto, ma con il tempo ritroverà la speranza nel futuro!” Tutti e tre si salutarono con una stretta di mano e Wilson diede ad Adamo anche un pacca sulla spalla. “Good luck Adam”
Capitolo 16
Circa quattro mesi dopo l’incontro con Lancisi e Wilson, Storri accese il televisore: “Interrompiamo le trasmissioni per le drammatiche notizie che ci giungono in redazione. Il Premier è morto in un attentato nella sua residenza estiva. L’esplosione è stata violentissima e devastante. Il Premier che si accingeva a salire sul gozzo per una battuta di pesca, è stato dilaniato dall’esplosione. Stessa sorte per la sua guardia del corpo che lo seguiva a circa tre metri di distanza ed aveva in mano delle canne da traina. Due ragazze, già salite sulla barca, sono rimaste miracolosamente illese, appena sfiorate dall’onda d’urto e dalle schegge in quanto si trovavano al di sotto del moletto. Se la sono cavata con lesioni timpaniche e qualche graffio. Sotto shock sono state immediatamente ricoverate in ospedale”.
Tutte le testate del paese riportarono l’accaduto a caratteri cubitali dopo i dispacci dell’agenzia ANSA e Reuter: “Attentato al Premier. Il Premier è deceduto sul colpo. Il molo, fatto di piattaforme galleggianti è affondato per circa tre elementi e per una lunghezza di dodici metri. I cavi elettrici tranciati ed i monconi caduti in acqua hanno causato un corto circuito della zona con blackout generale. Tutte le attrezzature antistanti sono state divelte per lo spostamento d’aria, ed un principio d’incendio si è propagato agli antistanti spogliatoi. I responsabili della sicurezza stanno cercando di risalire alle modalità; credono che l’attacco sia stato condotto dal mare. La zona è stata isolata. Dopo circa 20 minuti dall’esplosione sono giunti due elicotteri, una motovedetta della Guardia Costiera ed un intero reparto del nucleo mobile dei Carabinieri. La Digos e la Polizia Scientifica stanno ispezionando il luogo. La notizia della morte del Premier e della sua guardia del corpo ha fatto il giro del mondo. Sono controllati capillarmente i terminali marittimi e l’aeroporto. Blocchi stradali ovunque intorno alla zona”.
A due mesi dell’attentato non emerse nulla. Tutte le piste furono battute dagli inquirenti. Vennero fermati ed interrogati estremisti di entrambi gli schieramenti.
Esaminate con attenzione frange legate ad Al Quaeda, all’Isis, si indagò sulla mafia locale e siciliana, in relazione agli ultimi fatti accaduti e a coinvolgimenti mafiosi di cui rumors indicavano il premier in odore di collusione; si controllò la delinquenza comune, i trafficanti di uomini, le associazioni autonomiste ed i movimenti per la Sardegna indipendente. Gli informatori non sapevano nulla. Il tentativo di addossare all’uno o all’altro schieramento qualche responsabilità era all’ordine del giorno, come pure di trovare a tutti i costi un capro espiatorio. La notizia che destò non pochi sospetti, ritenuti in collegamento con l’attentato, è che inaspettatamente fu ritrovato il relitto di un gozzo da pesca in legno, affondato al largo dell’isola di Lavezzi. Al suo interno, ritrovato legato e zavorrato un autorespiratore a circuito chiuso, di quelli in uso nella seconda guerra mondiale, un ARO. Le analisi sul boccaglio non permisero di rilevare tracce biologiche, distrutte sia dalla permanenza in acqua che dalla calce sodata fuoriuscita dall’apparecchio. C’era anche una bussola subacquea, una torcia e degli attrezzi da pesca, il tutto ben zavorrato. Ma i sospetti si concentrarono quando apparve evidente la causa del naufragio del gozzo: questi presentava sul fondo dei piccolissimi fori di due millimetri, molto precisi, fatti dalla punta di un trapano e non da chiodi fuoriusciti, circondati di cera che appariva parzialmente raschiata via, avrebbero causato l’affondamento a scoppio ritardato. La dinamica dell’affondamento era semplice ed efficiente: i fori, molto piccoli avrebbero permesso l’entrata dell’acqua in quantità limitata per un tempo di due tre ore, tale da permettere un lentissimo riempimento. La barca, a quel punto, sarebbe affondata ben lontana dal punto in cui era stata abbandonata. L’imbarcazione probabilmente aveva traghettato gli occupanti ed attraversato le Bocche di Bonifacio. Iniziato lo spirare del maestrale, frequentissimo nella zona e sempre previsto con largo anticipo, l’imbarcazione venne abbandonata nottetempo nelle vicinanze di una spiaggia Corsa, per poi andare alla deriva verso il mare aperto; sarebbe affondata senza dare più traccia di sè, ben lontana dal luogo di abbandono.
L’analisi venne eseguita sull’esplosivo ed i resti della bomba si scoprì essere confezionata artigianalmente con un estintore di 25 kg. Il suo interno risultava completamente svuotato del contenuto originario. La miscela esplosiva era formata da un mix di polvere da sparo per munizioni e polvere pirica da fuochi artificiali, di quella facilmente reperibile su ogni bancarella napoletana nel periodo di Capodanno. Il tutto riempito con chiodi di vario tipo. L’innesco era
formato dai resti di una trasmittente ricevente Yaesu ft 23, che poteva trasmettere sulla banda marina, ma anche essere attivata, con il meccanismo di chiamata da lunga distanza con un segnalatore a toni DMTF. L’antenna era stata occultata nel tubo in gomma dell’estintore, e lo stesso, posizionato, al posto di uno originale sulle colonnine nautiche ai bordi del moletto.
L’analisi dei tabulati telefonici non permise di rilevare traffico sospetto nella zona due mesi prima dell’esplosione, prima durante e dopo, per un periodo di 15 giorni. Chi aveva organizzato l’attentato non aveva utilizzato la rete cellulare e quella satellitare.
Un inquirente dell’antiterrorismo formulò la sua ipotesi, che al momento apparve quella più accreditabile: gli attentatori, provenivano verosimilmente dalla Corsica con il traghetto di S. Teresa di Gallura, che copre la distanza da Bonifacio in circa un’ora. Si escluse la possibilità di un mezzo aereo. Nell’autovettura era già celato l’ordigno e tutta l’attrezzatura per mettere in atto l’atto criminale. Qualcuno aveva osservato attentamente, con un buon telescopio, l’accesso dal mare alla villa del Premier, le sue strutture esterne, la garitta della sicurezza, le docce, gli spogliatoi, il molo di attracco, la posizione e la marca degli estintori. Come punto più esposto e debole era stato sicuramente identificato il molo; entrava in acqua e si spingeva verso il mare per circa 30 metri. Avevano preparato l’ordigno ed acquistato molto prima i prodotti esplosivi; la polvere risultò essere in prevalenza formata da polvere simile a quella usata per i botti di Capodanno per almeno venti kg. La restante derivava da polvere normalmente usata per la ricarica di cartucce, tipo TNT. L’approvvigionamento del materiale è assolutamente anonimo e molto sicuro, semplice e privo di qualsiasi registrazione, presso venditori che per la loro stessa salvaguardia, non avrebbero mai riconosciuto nessuno: Napoli il posto ideale. Trasport o poi dell’esplosivo in un ambiente sicuro, quindi si sarebbe confezionata la bomba con semplicità ed efficacia micidiale. Sarebbe bastato svuotare un estintore identico a quello posizionato sul molo, del suo contenuto, svitare il cappellotto, riempirlo della miscela esplosiva, con un buon mix di chiodi e bulloni, per tramutarlo in una vera granata a frammentazione, Poi inserito il circuito interno,
senza l’involucro, di una delle trasmittenti Yaesu ft 23, sostituendo con una batteria al litio di pari voltaggio, quella originale, assicurando un ridottissimo volume, ma una capacità per una lunga durata in posizione di attesa per almeno trenta giorni, su una frequenza poco usata ma ben nota all’attentatore, programmando la funzione chiamata con un codice numerico, collegata non all’avvisatore acustico ma ad un fusibile sottodimensionato, per produrre l’innesco alla sua fusione. Richiuso il tutto con molta cura, l’antenna esterna occultata nel tubo di gomma dell’estintore, tale, da non comprometterne la ricezione da lunga distanza e non renderla visibile anche ad occhi esperti, al tempo stesso, proteggerla dalle intemperie, avendo cura di bloccare la lancetta del manometro nella posizione verde, indicante l’apparecchio pieno, e controllando anche il cartellino di scadenza della revisione. L’ordigno pronto, del tutto identico all’originale, doveva soltanto essere sostituito ad uno dei due posizionati sul moletto di attracco, preferibilmente dalla parte dove era abitualmente ormeggiato il Gozzo del Premier alla distanza di circa tre metri. Quando la villa era per la maggior parte della settimana disabitata e la vigilanza ridottissima, in una sera senza luna e con mare increspato, un subacqueo esperto, senza lasciare bolle in superficie, dovette aver percorso circa due miglia, immergendosi nell’ultima parte del percorso ed orientandosi con una bussola o un GPS, are sotto la copertura del molo stesso, sfiorando il pelo dell’acqua ma senza emergere per evitare i rilevatori acustici, gli infrarossi e i rilevatori di movimento, ed inoltre schivando le eventuali reti di profondità. Poi giunto sotto il pilone del pontile dove erano posizionati gli estintori, arrampicandosi sul moletto, sostituire l’estintore con quello contenente l’esplosivo trasportato in una sacca impermeabile adeguatamente zavorrata, per risultare neutra in acqua durante il nuoto e l’immersione. Il tutto avrebbe richiesto meno di 15 secondi nella fase di emersione. Nuovamente immergersi, tornare indisturbato alla base o alla barca appoggio.
In tempi diversi, anche dopo un mese, nascosto dalla vegetazione del promontorio di fronte la villa, con un buon telescopio, attendere il fine settimana giusto, spesso annunciato anche dai media, comunque facile da identificare per l’esagerato movimento della scorta, l’arrivo dell’elicottero del Premier e del servizio d’ordine della zona. Attendere poi l’uscita in barca del Premier per una battuta di pesca od un bagno a largo. La visione diretta avrebbe escluso errori di persona ed effetti collaterali.. Poi sarebbe bastato spingere un pulsante …… Nel caos del momento, nessuno avrebbe fatto caso ad un gozzo da pesca con due
pescatori che rientrava dopo aver salpato un palamito; nessuno trovò mai un teleobiettivo ed una radio Yaesu privata delle sue batterie, in sessanta metri di fondo, in mare aperto. Il vecchio gozzo in legno, attrezzato da pesca, avrebbe permesso l’espatrio in circa tre ore, senza destare alcun sospetto, il giorno stesso dell’attentato. Poi sarebbe bastato raschiare la cera sul fondo dei piccoli fori per permettere l’entrata dell’acqua e lasciare la barca al suo destino spostata velocemente in mare aperto dal maestrale. Una macchina, a pochi i dalla spiaggia, avrebbe atteso i pescatori che si sarebbero imbarcati a Bastia la sera stessa, per il continente, in terra se. Ipotesi sugli autori della strage: nessuna
Un mese dopo
“Ciao Ricu, come ti va” “Che piacere rivederti Ad e tu come stai? che ci fai su quella carretta di Padre Mario?” “Sto molto meglio. Vieni a farti un giro con me, vado a salvare un’amica!” “E no, adesso basta, sono troppo vecchio per starti dietro e tutto quello che hai fatto è stato pure pericoloso” “Smettila di brontolare, prendi una fune e porta il Tir For” “Ad in che guai ti vuoi cacciare ora?” “Garantisco nulla di pericoloso, ho solo bisogno delle tue mani. Prometto una bevuta accanto al fuoco stasera, da Padre Mario” “Non mi muovo, se non mi dici che intenzioni hai!” “Diffidente, ti accontento. Andiamo a recuperare una signorina al bagno. La mia BMW credo sia ancora a mollo nel laghetto prima del sentiero per la baita. E mentre io farò il bagno nelle fresche e dolci acque legando la fune al telaio, tu me la tiri su con l’arganello elettrico”
“Ormai sarà un catenaccio arrugginito” “Non parlare così di quella signorina, vedrai, dovrà solo rifarsi li trucco. E poi sono venuto per salutarti” “Dove vai? “ “Vado per un po’ in una missione. Ti scriverò qualche volta. Manderò la posta a Padre Mario” “Lo sai che non leggo lettere” “Sì lo so, non ti scriverò lettere, ti manderò qualche foto e ti dirò solo come va. Magari mi piacerebbe sapere di te, se stai bene” “Buona fortuna Ad, cerca di non combinare dei guai. Non posso venire fin laggiù” “Non ce ne sarà bisogno, Ricu. Amico mio! Ancora una cosa” “Cosa?” “Grazie!” Ricu fece spallucce, seccato da quella parola….
L’altoparlante iniziò il suo vociare con due note: “Volo Lufthanza LX 1639 per Zurigo in connessione con volo LX 292, destinazione finale Nairobi, imbarco immediato, uscita 3. Lufthanza flight LX 1639 to Zurich, in connection with flight LX 292, final destination Nairobi, immediate boarding, gate 3”.
“Ad, Ad sono io” “Ivana cosa ci fai tu, qui?”
“Parto per Nairobi, con te. Non dire nulla, non parlare..….ti prego! Ci sarà pur bisogno di una infermiera che aiuti un medico in una missione! Parto Ad. Non lascio nulla dietro di me. Guarda! È l’alba…….tra poco sarà mattino”.