The Rune Trilogy: I Giorni Perduti 3c2d3y

Pierluigi Tombetti

The Rune Trilogy

I giorni perduti

Prima Edizione - febbraio 2015 Eclypse 44

ISBN 9788868510718

© arkadia editore

Prologo

Luogo del concilium secretum. Villa Mondragone, Roma. 2 ottobre 1582

Nubi nere e minacciose si erano addensate sulla Città Eterna e forti lampi serpeggiavano nel cielo plumbeo annunciando un temporale di insolita potenza. Le prime gocce sferzarono rabbiosamente le vie polverose diffondendo un forte profumo di terriccio bagnato, mentre i romani cominciavano a cercare riparo sotto i tetti o presso le innumerevoli rovine, vestigia di un ato che non sarebbe più tornato, che costellavano ogni angolo dell’Urbe.

Sordi tuoni iniziarono a scuotere le sicurezze delle autorità cittadine che si chiedevano se Dio stesse mandando loro un segno di qualche genere. Poi, l’immensa energia generata dalle masse umide in sfregamento continuo nei cieli si scatenò con fragori e vampe accecanti di impressionante potenza. In poche ore la quantità di pioggia fu tale che il Tevere si gonfiò pericolosamente e non si poterono contare i caseggiati allagati. Il Colosseo, le cui pietre venivano regolarmente saccheggiate per altre costruzioni, osservava impotente e ivo al disastro, come ogni grande monumento la cui gloria era finita insieme ai fasti della città dei Cesari. Ora era una semplice cava, dopo essere stata la residenza fortificata di una delle più grandi famiglie romane, i Pierleoni.

Il volto di Roma era completamente mutato nei secoli a causa delle ferite che il tempo aveva inferto alla metropoli capitolina. Quante cose erano accadute in quelle strade, quante battaglie, quanti trionfi, quanti annunci di sconfitte? Quanti schiavi, imperatori, senatori, gente comune, avevano calpestato i basolati, frequentato i fori, le botteghe, le insule che si innalzavano al cielo come immensi alveari pronti a crollare da un momento all’altro? E quanta sofferenza, energia, sangue si erano profusi nella lunga storia della città? Quella Roma non esisteva più. La Roma imperiale, dei grandi generali, delle legioni vittoriose. Era arrivato il tempo dei secoli bui. E la forza di Roma era divenuta preda delle sue stesse

pulsioni, le mollezze del lusso dell’impero avevano provocato una profonda crisi culturale, sociale, etica, indebolendo alle radici l’essenza stessa della città, la sua disciplina, il suo spirito di corpo. Era accaduto poi che ondate di barbari avessero avuto la meglio su una potenza che avrebbe potuto distruggerli facilmente con le sue macchine da guerra, le sue tecniche belliche raffinate ed efficienti, il suo esercito addestrato e preparato da ufficiali e strateghi di valore. Ma la città periva sotto la sua stessa decadenza, tra intrighi di corte, corruzione a ogni livello e violenza.

La Roma di Augusto, di Traiano, di Adriano aveva ceduto il posto alla Roma delle Mura Aureliane, alla Roma assediata dai barbari, rinchiusa in se stessa, sfiduciata. Il potere dei Cesari era caduto e al suo posto era arrivata la Chiesa. I figli e i nipoti dei pescatori della Galilea avevano potuto emergere, si erano diffusi come un’erba rampicante sul tronco dello stato esangue, della res publica, occupando ogni spazio, ogni pertugio e cambiandola per sempre. Abdicando alla originaria missione spirituale abbracciarono una visione temporale del mondo. I senatori, le grandi famiglie le cui ricchezze inestimabili si riversavano nelle costruzioni di edifici religiosi dedicati al nuovo e unico Dio, divennero cristiane. Il mondo romano divenne cristiano. Le sofferenze e la crudeltà dei tempi inducevano a vedere nella Chiesa l’unica ancora di salvezza. E nessuno poteva resistere a quel miraggio.

Ma quelli erano anche tempi in cui era necessaria una energia insolita, tempi in cui il vicario di Dio doveva agire con forza per la gloria del Regno. Erano tempi in cui i santi abbandonavano l’idea dell’edificazione spirituale per dedicarsi a un’opera molto più terrena, corruttrice, diabolica: il potere assoluto. E quella sera le tenebre scesero presto a causa della spessa coltre nuvolosa ma, a Villa Mondragone, a poca distanza da Roma, i presenti nella stanza non vi facevano caso, come non si curavano della pioggia copiosa e delle saette che martoriavano la campagna circostante, illuminando per brevi attimi l’intero territorio di una luce spettrale.

I convenuti si trovavano in una delle residenze fuori città di Gregorio XIII,

duecento ventiseiesimo papa della Chiesa, successore di Pio V. Alle guardie era stato ordinato di tenersi a distanza e di non interrompere in alcun modo il pontefice. All’interno sette uomini, cardinali tra i più fedeli, accomodati su altrettante sedie con gli schienali intarsiati e foderate di preziosi tessuti damascati. Gregorio XIII occupava un trono di legno dorato e aveva fatto mettere ai lati due seggi per quelli che tutti definivano i suoi “uomini migliori”. Grandi candelabri e bracieri illuminavano la scena, mentre le ampie vetrate sussultavano a causa del vento e refoli d’aria fredda si insinuavano micidiali, pronti a colpire chi fosse di salute cagionevole. Ma anche questo non sembrava disturbare in alcun modo il concilium secretum.

Il vicario di Pietro era piuttosto anziano. I suoi ottant’anni si facevano sentire, nonostante fosse un uomo vigoroso e granitico. Dotato di una grande cultura, impegnato nella difesa dell’ortodossia, apertamente in guerra contro ogni morbo eretico, era salito al soglio una decina d’anni prima e, giorno per giorno, si era potuto rendere conto dell’enorme responsabilità che gravava sulle sue spalle. Il manto di porpora e il collare di ermellino bianco, insieme al fuoco del camino, non riuscivano a produrre il risultato che cercava. Era da tempo che non riusciva a scaldarsi, oramai, ma quella sera gli risultava ancora più difficile. I visi di tutti i convenuti erano segnati dalla serietà, dalla preoccupazione. L’atmosfera che avvolgeva ognuno di loro sembrava prossima a soffocarli. D’altra parte, gli eventi degli ultimi tempi, soprattutto a partire dall’anno precedente, erano stati così importanti, così pericolosi, da mettere in dubbio l’esistenza stessa non solo della Chiesa, ma dell’umanità intera. Quegli uomini erano lì per trovare una soluzione, per eliminare un problema, forse il problema più grave che mai si fosse presentato a un principe. Era chiaro a tutti che quello non era un concilium come gli altri. Né aveva l’aspetto di una riunione di alti prelati impegnati in questioni di ordinaria amministrazione. Le loro voci sommesse si mischiavano, si sovrapponevano, ma non si alzavano mai di tono, quasi che il parlare a voce bassa potesse esorcizzare il pericolo. Si erano incontrati varie volte nei giorni precedenti, avevano udito i

pareri degli uomini ritenuti più saggi e istruiti che le terre del papato offrivano. Si erano consultati con gli intellettuali, gli studiosi, i professori universitari. Avevano richiesto consiglio ai grandi del tempo, meditato sulle loro risposte, soppesato i pro e i contro. Alla fine la conclusione che avevano raggiunto aleggiava immateriale tra le pareti della sala. Una conclusione che pareva la più ragionevole per tutti. Il cardinale Guglielmo Sirleto, vescovo di Squillace, cardinale e amico di vecchia data del pontefice, sosteneva la decisione presa a spada tratta. «Santità», disse rompendo il debole vociare dei colleghi, «ci si presenta un’occasione unica: quella di eliminare dalla storia gli eventi di cui sappiamo… di cancellarli dalla memoria dell’uomo. Nessuno potrà mai risalire a noi perché nessuno potrà mai capire cosa sia realmente successo.» Gli altri annuirono, mentre Gregorio XIII si limitò a osservarlo con attenzione. Poi, incrociando le dita delle mani, chiese: «Continui…» «Approfitteremo dell’annuncio che Sua Santità darà al mondo relativo alla riforma del calendario. Approfitteremo del fatto che dal 4 ottobre eremo direttamente al 15, che in quest’anno Domini 1582, per via della riforma, cadranno dieci giorni del vecchio calendario. In ogni monastero, chiesa, archivio pubblico o privato, tutte le registrazioni datate tra il 5 e il 14 ottobre saranno distrutte, cancellate, emendate. Le transazioni, gli atti di acquisto, quello che sarà necessario salvare per motivi di ordine economico o altro, basterà retrodatarlo a prima del 5 ottobre… o postdatarlo. Lasceremo che ognuno si regoli come meglio crede. Questo non è l’aspetto più importante. Basilare sarà che ogni traccia di chronica historica, degli eventi intercorsi tra il 5 e il 14 ottobre sarà eliminata e, ove questo non fosse possibile per problemi pratici, modificata. Nulla di ciò che è accaduto in questi dieci giorni sopravvivrà se non nel documento che terremo nascosto nel nostro archivio.» Fece una breve pausa, come a prendere fiato. Quindi, scrutando i volti dei presenti, cercò conferma a quanto aveva appena esposto.

«Al punto in cui siamo ora, non sembrano esservi alternative. A dire il vero abbiamo vagliato ogni altra possibilità. E questa sembra l’unica attuabile», disse uno dei cardinali.

Il papa osservò Sirleto. Era uno dei suoi uomini migliori. Quello che più di tutti pareva aver preso maggiormente sul serio la situazione. E quello che, fra tutti, si era speso di più per trovare una soluzione. «Siete assolutamente certi che i computi siano stati verificati e siano dunque corretti? Ciò che stiamo per fare avrà gravi ripercussioni nei secoli avvenire. E non solo per le nostre terre cristiane. Gli echi delle nostre decisioni si riverbereranno nella storia futura del mondo.» «Santità», prese la parola un altro cardinale, colui che era stato preposto ai calcoli matematici, in collaborazione con le menti più illuminate del tempo. «Santità, ho personalmente seguito e supervisionato ogni aspetto del problema e posso assicurarle che ogni cosa è ineccepibile, corretta. La commissione da voi ordinata è presieduta dal matematico bavarese Cristoforo Clavio, professore presso il Collegio Romano, un gesuita il cui sapere è noto in tutta Europa.» Gregorio XIII annuì grave. La reputazione di Clavio era inossidabile. Nessuno avrebbe mai potuto fare meglio di lui. Su questo punto non c’era da temere.

«È stato coadiuvato dal calabrese Luigi Lilio», proseguì il cardinale, «dal matematico e astronomo siciliano Giuseppe Scala e dal matematico perugino Ignazio Danti. Inoltre altri dotti ed eruditi hanno verificato con precisione l’errore che il calendario di Cesare ha accumulato: già i padri del Concilio di Nicea del 325 avevano fatto notare che, ai loro tempi, la Pasqua giungeva quando il reale equinozio solare era oramai ato da dieci giorni. L’occasione è straordinariamente propizia, dunque. In ogni caso, se non modificheremo il calendario giuliano, la Santa Pasqua cadrà tra pochi anni in piena estate. D’altronde possiamo utilizzare tale scusa per risolvere il nostro “problema”, senza creare controversie, perplessità o sospetti.» «Certo», si insinuò Sirleto. «Da ogni angolo della cristianità si chiede a gran voce questa riforma. E noi gliela daremo. Prendendo, come si suol dire, due piccioni con una fava.» «Vi vedo molto concordi», si espresse il pontefice. «E questo mi rende felice. Significa che siamo sulla buona strada. Che lo Spirito divino ci ha ispirato al fine di trovare la soluzione migliore.»

Sirleto non sapeva se c’entrasse davvero lo Spirito divino, piuttosto era sicuro che la scienza moderna aveva dato un fortissimo contributo alla loro ricerca. «Le misurazioni dell’erudito e astronomo Niccolò Copernico, contenute nel libro postumo De Revolutionibus orbium coelestium libri sex», fece infatti rilevare, «hanno fornito una base di calcolo eccezionalmente precisa. In pratica è risultato che il calendario di Giulio Cesare non collima perfettamente con l’anno solare, perché è più corto di 11 minuti e 14 secondi. Di conseguenza, il calendario giuliano accumula un giorno di ritardo ogni circa 128 anni. Ecco perché siamo giunti al punto in cui siamo ora.» «Questa è un’occasione mandataci dal cielo», si espressero in molti. Gregorio XIII li osservò, uno per uno. In quei momenti, nonostante le parole appena pronunciate, non era affatto convinto che fosse stato il cielo a volere tutto ciò, perlomeno non con una notte come quella. Sembrava infatti che le forze naturali si fossero scatenate sopra Roma e, in particolare, su Villa Mondragone. Poteva essere un segno fausto o infausto, o magari solo una coincidenza. Fece una lunga pausa.

Poi comunicò la sua decisione: «Emanerò la bolla papale Inter Gravissimas, che ho già scritto in buona parte. Per stornare qualunque dubbio ho deciso di pubblicarla datandola 24 febbraio di quest’anno del Signore 1582, in modo che nessuno possa collegare», e dicendolo fece un’ampia panoramica con lo sguardo, «la riforma alla cancellazione degli eventi di cui tutti siete a conoscenza. Ciò che è stato fatto è un abominio. Una violazione delle leggi che regolano la Creazione.» Si interruppe, come a trovare le parole adatte per proseguire.

«La realtà è che il mondo è stato immerso nelle tenebre più oscure. È stato squassato dalla violenza, dalla morte. Dal male. Ma voi e io saremo gli unici a sapere realmente cosa sia accaduto.» Un coro di voci si alzò a commentare. Gregorio XIII, non avendo ancora

terminato, alzò la mano e tutti smisero di parlare. «Così è deciso, così sia fatto: sia nominata una apposita commissione che indaghi con discrezione e registri ogni cosa. Non rimanga nulla di questa faccenda. Ciò che deve essere fatto sia compiuto entro una settimana, per evitare che qualcuno faccia domande o nell’eventualità si spargessero voci infondate. E che Dio ci perdoni per tutto quello che stiamo compiendo. Segretario, prendete nota e portatemi il documento che state stilando; lo firmerò e vi apporrò il mio sigillo. Dopo, che cada l’oblio su tutto. Abbiate premura di nascondere il resoconto nell’archivio, laddove nessuno potrà mai consultarlo, se non uno dei miei successori.» Uno dei cardinali, che aveva continuato a prendere appunti, annuì: «Certamente, Santità.» Anche gli altri annuirono e scurirono in volto: nessuno osò più parlare. A cominciare dal papa tutti si alzarono e, in silenzio, tornarono ai loro alloggi, profondamente preoccupati. Il concilium si era concluso nel modo che ci si aspettava. Quanto era stato detto e deciso sarebbe rimasto per sempre segreto. Solo il pontefice avrebbe potuto autorizzare qualcuno o leggere di persona quanto sarebbe stato depositato nei sancta sanctorum dell’archivio segreto della Chiesa.

Parte Prima

Alle radici del male

Capitolo 1

King’s College, Strand, Londra. Dipartimento di storia moderna. Ufficio del professor William Jonathan Connor. 22 maggio 2017. Ore 11:50

Era una bellissima mattina di maggio. Il sole entrava dalla finestra illuminando la scrivania del professor William J. Connor. Il tavolo da lavoro appariva ben ordinato, sebbene fosse ingombro di fascicoli, documenti e libri che erano stati pazientemente selezionati e impilati dalla segretaria, miss Ross. Era stata lei a occuparsi dell’arredamento dell’ufficio e, oltre alla scelta del mobilio e delle tende, non ava settimana senza che spostasse un vaso con delle piantine, un quadro, una cornice, il cestino della carta, il mobiletto della stampante… con l’unico risultato che il professor Connor, a volte, faticava a trovare quello che cercava. Tuttavia, da buon maschio, considerato che miss Ross non solo modificava l’aspetto dell’ufficio ma lo teneva anche scientificamente pulito, non poteva che esserle grato. Il risultato era un bell’ambiente, accogliente, inondato di luce e pieno di verde, molto naturale. Alle pareti varie fotografie che riassumevano la carriera di Connor. Tra le tante una spiccava in particolare: lo ritraeva con Edward Hughes, rettore del King’s College, immortalato con i paramenti da Gran Maestro di 33° grado della Massoneria di Rito Scozzese Antico e Accettato.

Nessuno ignorava che Hughes fosse massone, pochi invece erano a conoscenza che fosse zio di Connor, dal ramo paterno. William trovava il suo studio il luogo ideale per lavorare. Il tocco di miss Ross era ciò che ci voleva per trasformare un’asettica stanza in qualcosa di diverso. Più brioso, più fantasioso. C’era un’aria di casa e allo stesso tempo si respirava un che di professionale: il profumo intenso di legno antico che emanava dalle spesse ed eleganti pareti di massello che rivestivano i muri, il caminetto del XVII secolo, le poltrone di pelle e il grande divano sul lato più lungo, ogni particolare richiamava l’eleganza british e un po’ old style che tanto gli piaceva.

Quello era il suo “covo”. E si trovava talmente bene tra quelle quattro pareti che vi ava gran parte del tempo. Molto di più di quanto non trascorresse a casa sua. Avendo superato poi la fatidica soglia degli “anta”, non si curava molto delle questioni domestiche, impegnato com’era nelle sue ricerche, nel suo lavoro di docente e in mille altre cose, tra cui una moderata attività fisica. Di bell’aspetto, anche se non poteva certo essere definito un Adone, aveva corporatura media e una folta capigliatura che cominciava a spruzzarsi di grigio. Nulla che gli importasse, in realtà, anzi, riteneva che le sempre più marcate rughe ai lati degli occhi e i capelli sale e pepe gli donassero un’aria più confacente al suo ruolo. Guardandosi dietro poteva dirsi soddisfatto della vita che, pezzo dopo pezzo, era riuscito a costruire. Soprattutto dal punto di vista professionale. Eppure, nonostante l’aria frizzante di primavera, quella mattina non riusciva a stemperare l’espressione seria dei due interlocutori che si erano accomodati di fronte a lui. Erano stati presentati da miss Ross come incaricati di un ricco uomo d’affari statunitense il quale, a detta degli uomini ora seduti nello studio, era rimasto profondamente colpito dagli studi di Connor. Per questo motivo intendeva affidargli un incarico che, a loro dire, William avrebbe trovato straordinariamente interessante, oltre al fatto che sarebbe stato lautamente ricompensato.

Quando miss Ross gli aveva chiesto, giorni prima, se era intenzionato a dare colloquio a due signori che venivano per conto di un affarista statunitense, William si era limitato a guardare l’agenda. Troppi impegni, forse tra tre, quattro settimane. Poi, la divina segretaria, aveva pronunciato le parole magiche: ricerca interessante, premio in denaro.

«Sono tempi duri», aveva sorriso William stiracchiandosi. «E quel denaro potrebbe farmi comodo per qualche borsista… o per qualche mio sfizio didattico.»

«Ecco, bravo professor Connor», era stata la replica di miss Ross, che lo osservava da sopra gli occhiali, come solitamente faceva quando aveva preso al posto suo una decisione. E infatti, anche in quel caso, era stato così. «Perfetto, saranno qui dopodomani, alle undici e trenta in punto.» Il sorriso sornione sotto la barba leggera piaceva molto al pubblico femminile che seguiva le sue lezioni, ed era un’espressione tipica di William quando attendeva una risposta o soppesava attentamente chi avesse davanti.

«Bene, signori», esordì con una certa malcelata curiosità, dopo i primi convenevoli. «Cosa posso fare per voi? Avete accennato alla mia segretaria di una ricerca che potrebbe interessarmi.» Uno dei due uomini si tolse gli occhiali scuri e si accomodò meglio sulla poltrona fissando gli occhi di zaffiro del professore. Il suo volto appariva liscio, privo di qualsiasi espressione che denotasse un qualunque stato d’animo. Asettico, arido, quasi fosse stato levigato sulla pietra. Anche il resto era quanto di più glaciale potesse esserci: capelli cortissimi, pelle olivastra, unghie ben curate, mani che probabilmente non avevano mai osato interessarsi a umili lavori. William dedusse che fosse probabilmente di origine sudamericana, ma con evidenti ascendenze europee.

I modi erano cortesi, ma spicci. Tipico di chi si trovava per conto di terzi a dover prospettare una situazione di lavoro per risolverla nel più breve tempo possibile. «Professor Connor», cominciò a dire, scandendo perfettamente le parole e fissandolo, «noi rappresentiamo un mecenate di New York, un uomo estremamente ricco. E potente. Da tempo, come le è stato riferito, il nostro principale segue i risultati delle sue ricerche. Ed è rimasto affascinato da quanto lei ha esposto nei suoi lavori.» William sorrise ancora. No, il tizio che aveva di fronte non era sudamericano. E se anche lo fosse stato doveva fargli i complimenti per il suo inglese perfetto. «Per venire al sodo, diciamo che il nostro principale vuole invitarla a New York, in modo tale da poterle spiegare meglio l’incarico che intende offrirle.»

«A New York?», chiosò William perplesso. Sviò per qualche istante lo sguardo. «Ma… ho i corsi, le lezioni. Un mucchio di lavoro.» «Capiamo perfettamente», intervenne il secondo uomo. «E l’incarico che le verrebbe dato comporterebbe una sua assenza prolungata.» «Quanto prolungata?», domandò. «Circa un anno», rispose. «Ma un anno che impiegherà viaggiando, studiando. E che potrebbe implicare una miriade di sorprese positive.» «Beh», fece William, «non so che dire… dovrei parlarne con il rettore.» «Oh, su questo non si preoccupi», riprese la parola il primo uomo. «Il rettore sarà ampiamente compensato con fondi per il suo istituto. E il suo impegno, come detto, sarà ben remunerato. Se anche dovesse licenziarsi dal King’s College, mi creda, i cinque milioni di dollari che il nostro principale intende offrirle le basteranno per il resto dei suoi giorni.» «Cinque milioni?», chiese William di scatto, incredulo. «Sì, ha capito bene: cinque milioni. Senza contare che la persona per cui lavoriamo si propone anche di finanziare per cinque anni le attività della vostra struttura. Pertanto crediamo che il rettore sarà ben felice di darle un anno sabbatico.» «Certo, prospettato in questo modo…», pensò a voce alta il professore. Non disse, però, che tutta la faccenda gli puzzava. Chi mai poteva essere il pazzo che si impegnava a staccargli un assegno tale da cambiargli la vita? E per cosa poi? I suoi erano studi accademici, certo interessanti per gli addetti ai lavori… ma niente di più. «In realtà i progetti in cui intende coinvolgerla il nostro principale sono due. Per questo riceverà il compenso pattuito in due tranche.» Seguì una lunga pausa. Silenzio da entrambi i fronti. Il primo uomo a parlare inforcò nuovamente gli occhiali. Anche se le sue pupille erano schermate dalle lenti, si capiva benissimo che lo fissava.

«Ebbene, professore?», domandò alla fine. «A dire il vero sono molto impegnato, come vi ho detto. Sono certamente incuriosito… e mi offrite anche, diciamolo, un compenso stratosferico. Ma… i miei studenti… non me la sento di lasciarli così, quando tornerò qualcuno si sarà già laureato e li avrò lasciati senza tutor.» «Professore», disse sicuro il secondo uomo, «le sue preoccupazioni le fanno onore. Ma sarà sostituito da un docente eccellente e altri collaboratori. E i suoi ragazzi non avranno di che pentirsene. Tra l’altro, in vista della sua assenza, i sostituti sono stati informati dei suoi programmi e delle sue competenze, pertanto sarà come se al loro posto ci fosse lei.» «Avete pensato a tutto», disse William, cominciando a sentire un certo disagio e, al contempo, un’intensa curiosità. «Tutte le questioni burocratiche sono state sistemate.» «E il mio rettore?» «Ci siamo permessi di affrontare preliminarmente il discorso con lui», fece il primo uomo. «Si è mostrato disponibilissimo. Ma ha lasciato a lei la scelta.» Sì, avevano pensato proprio a tutto.

Il secondo uomo prese la parola: «Quella che le viene offerta, professore, è un’opportunità unica. Di quelle che non capitano nella vita di tutti i giorni. E, soprattutto, capitano una sola volta. Se posso permettermi un consiglio, prenda al volo l’occasione fornitale dal destino. Non se la lasci sfuggire. Potrebbero aprirsi orizzonti inimmaginabili. Il suo nome diventerebbe famoso. William J. Connor potrebbe diventare una celebrità nel suo campo.» «C’è già un posto prenotato a suo nome sul volo Gatwick-New York», continuò il primo uomo. «Troverà il biglietto per il check-in online sulla sua mail.» «Signori… siete molto persuasivi. Non vi nascondo che, come uomo di scienza, mi avete incuriosito. Ma se poi l’incarico che mi si vuole affidare fosse al di là delle mie possibilità? Se avessi dei problemi, che so, una malattia o qualsiasi

altro impedimento?» «Non si preoccupi. Per il momento dovrà solo venire a New York e incontrare il nostro capo.» Il “principale” si era trasformato in “capo”. Poteva essere un semplice lapsus o forse… non ebbe il tempo di continuare il ragionamento. «L’invito non è impegnativo e serve solo per spiegarle meglio ogni cosa. Per parlare di persona. Capirà che si tratta di una faccenda delicata che richiede la massima discrezione e, se mi a il termine, una discussione diretta.» Connor rifletté qualche secondo, osservando la fotografia di Hughes alla parete: un uomo che aveva contato molto nella sua vita. Era stato lui a suscitare nel giovanissimo William l’amore per la ricerca, per la conoscenza e per i misteri ancora irrisolti che giacevano nascosti tra le pieghe della storia.

Era stato grazie a Hughes che William aveva intrapreso gli studi universitari con profitto e poi la carriera accademica. Doveva molto al suo mentore, un uomo sempre presente nei momenti salienti della sua esistenza e nelle fasi cruciali. Non era stato semplicemente un parente, un affettuoso zio con il senso dello humor e un grande potere di persuasione. Una sola volta gli era andata male quando, portatolo a una riunione massonica, Hughes gli aveva spiegato nel dettaglio cosa fosse la fratellanza e l’importanza del farne parte. In quel caso, ma solo in quello a sua memoria, William aveva declinato l’invito. Non era cosa per lui entrare in una “setta”. Da cristiano credente sebbene non praticante, era un’idea che non gli andava affatto; conosceva bene cosa si celasse dietro ai paramenti, allo sfarzo, all’eleganza delle riunioni massoniche. Se andava al ato, ai suoi anni infantili, alla giovinezza, però, a parte quello della Massoneria, non c’era episodio importante in cui lo “zio” Edward non fosse stato determinante per le scelte intraprese. E anche questa volta, considerato il suo assenso alla partenza, Hughes aveva dato il suo essenziale contributo. Sorrise nell’osservare la foto alla parete: era comunque lieto che Edward approvasse quella scelta. Con un sospiro diede la sua risposta.

«Accetto.»

Capitolo 2

Manhattan, New York. Sede della Wyler Foundation. 23 maggio 2017. Ore 10:00

William scese dal taxi e fu quasi sopraffatto dalla sensazione di potenza che si sprigionava dallo straordinario skyline di Manhattan: aveva i piedi ben piantati a terra, ma guardare verso l’alto, osservare quegli inni al dio che muoveva ogni cosa in quell’area così speciale, il denaro, svettare così imponenti e possenti, gli fece girare la testa, un’ebbrezza eggera in cui gli sembrò di cadere. Le nuvole scorrevano placide, indifferenti al ritmo frenetico delle persone che affollavano le strade, ognuna di esse intenta a seguire i propri affari o problemi. In realtà non gli era mai piaciuta quella frenesia tipicamente newyorkese. In ato c’era già stato, limitandosi a visitare i suoi musei, tenere qualche conferenza e, già che c’era, assistere a qualche partita dell’NBA di basket. Trovava la città simbolo degli Stati Uniti esagerata, più o meno come l’America, una terra, secondo la definizione accurata di un suo caro amico, dove coesisteva il meglio e il peggio di tutto, sapientemente mescolato. Ma Londra, beh, era tutta un’altra cosa, senza dubbio più a misura d’uomo, una metropoli in cui, se un turista si fermava per più di trenta secondi con una carta in mano, invariabilmente si trovava un cittadino pronto a offrire il suo aiuto con le parole: «Posso aiutarla?»

A New York questo non sarebbe potuto accadere, pensò, osservando l’apparente freddezza delle persone che incrociava. In effetti non era così: quelle stesse persone prima estranee riuscivano a divenire gentilissime, appena ci si scambiava più di un paio di frasi. Ma in quel contesto, in quel momento della mattina, l’America, gli Stati Uniti, la città motore della sua economia, erano un semplice brulicare di formiche intente a rincorrere carriera, successo, denaro, piacere. Finalmente rivolse la sua attenzione all’ingresso dell’edificio della Wyler

Foundation: gli richiamò subito alla mente il Rockefeller Center. Lo stile era il medesimo. Dal piazzale si intravvedeva un’enorme scala attorniata da fontane e bandiere di tutti i paesi del mondo, artisti di strada attiravano i turisti che, con il naso all’insù, fotografavano quel prodigio di coraggiosa architettura.

Anche lui guardò ancora verso la cima della costruzione, prima di avviarsi in direzione dell’enorme porta girevole in cristallo e placche dorate che, da subito, forniva una chiara idea della potenza di quella istituzione.

Lo accolse una hall che lo impressionò non solo per il lusso profuso, a dire il vero un po’ troppo kitsch, ma anche per le dimensioni. Grandi finestre si innalzavano per decine e decine di metri, lasciando filtrare abbondante la luce dell’esterno. Quella stessa luce, deviata e riflessa da particolari sistemi ottici, offriva particolari scenografie che aumentavano la suggestività del luogo. Vide delle aree verdi, come dei giardini pensili sospesi a mezz’aria, ascensori a tubo che fuggivano verso i piani superiori con incredibile velocità, banchi di ricevimento, personale intento alle più disparate mansioni. Un alveare, ecco, se gli avessero chiesto di descrivere con un solo vocabolo l’interno della hall, avrebbe certamente usato quel termine. Con piacere notò che alcune di quelle che riteneva semplice aree verdi in realtà erano riproduzioni di particolari ecosistemi della Terra. Si ricordò allora di aver letto che, tra le tante cose, la Fondazione sosteneva progetti per la tutela della natura e della biodiversità. In un angolo, ma ben visibile, si ergeva un grande pannello digitale. Il display segnalava l’energia prodotta dai sistemi generatori a impatto zero geotermici e dai pannelli solari sul tetto e quella effettivamente consumata, evidenziando la parte di energia in eccesso donata alla città. “Bello… forse un po’ pacchiano, ma bello”, pensò William. Al centro della hall campeggiava un globo terrestre di cinque metri di diametro che segnalava tutte le aree del mondo in cui era attiva la Wyler Foundation, sostenendo opere di restauro, scavi archeologici, mercati d’arte, e anche aiuti alle popolazioni più bisognose. Non solo ambiente, dunque, ma anche tutela dei beni artistici e della salute.

Una voce femminile lo fece girare. «Questo è quello che facciamo, professor Connor», disse la donna avvicinandosi e fermandosi a meno di un metro da lui. «Preserviamo le cose più belle del mondo.»

Porse la mano aggraziata e si presentò: «Sono Janine Bluvet, assistente del direttore dei progetti speciali. L’ho chiamata stamattina per spiegarle come arrivare.» «Ah, sì… grazie. È stata molto gentile.» «Si immagini. L’appuntamento con il direttore è tra breve, venga, le faccio strada.» William annuì. La giovane segretaria indossava un elegante tailleur grigio la cui severità era ingentilita da orecchini di oro bianco e perle ai lobi e dai capelli biondi sciolti sulle spalle. Poteva avere ventotto anni, fresca di master e forse di un PhD. Incamminandosi, Janine indicò con un ampio gesto del braccio l’intera architettura. «Splendida, non trova? È stata progettata da un’equipe che annovera i migliori architetti della Terra, tra cui Jean Nouvel, Renzo Piano e Tom Wright. Il concetto era quello di rendere onore ai paesi che ospitano le attività della Wyler Foundation.» «Molto global», sorrise William. «Sì, qui si pensa sempre in grande.»

Arrivarono a uno degli ascensori. Le pareti di cristallo permettevano di avere una panoramica magnifica sull’interno della hall. Una musica soffusa e piacevole accompagnò i secondi di risalita.

Giunti al piano l’assistente condusse William per corridoi e ambienti tutti gradevoli e ben proporzionati. Incrociarono decine e decine di persone. Ognuno sembrava svolgere le proprie mansioni in modo tranquillo e armonizzato con il contesto. I telefoni squillavano con tonalità moderate, gli uomini e le donne parlavano a voce bassa, non udiva rumori molesti e fuori luogo in quello che sembrava il posto di lavoro più bello che avesse mai visto. Tranne il King’s College, forse. Che quanto a rumore era tutt’altra musica, considerato che era frequentato da giovani studenti. Lì, invece, ogni cosa sembrava perfetta, metodica, regolare…

L’ufficio del dottor Millan si affacciava direttamente sulla grande hall, aveva spiegato la donna. Prima di accedere nell’area Janine ò il suo badge nello scanner e la porta scivolò silenziosa da un lato. Entrarono in quella che doveva essere una zona preclusa ai più. Ma quello era solo il vestibolo. Di fronte al vero ingresso dell’ufficio Janine ripeté l’operazione con lo scanner e questa volta, di fronte a William, si aprì un nuovo universo.

La stanza di Millan era enorme. Avrebbe potuto contenere, fatti rapidi calcoli, una trentina di volte il suo ufficio a Londra. Si trattava di una sala in cui era ricreato una sorta di habitat naturale con tanto di piante, ruscello e un lago in miniatura. Anche qui musica soffusa e, nelle pareti sull’altro lato, quadri. Tanti quadri. Tra questi riconobbe due o tre firme di inestimabile valore. Se non fosse stato per la scrivania e il computer a schermo piatto e tastiera direttamente disponibile sul desk, avrebbe potuto pensare di essere ovunque. Di fianco alla scrivania alcune teche. All’interno, ben custoditi, lame giapponesi, quelli che sembravano antichi rotoli, reperti archeologici tra i quali gli sembrò di intravvedere alcuni pezzi che gli richiamarono alla mente la casta sacerdotale di Babilonia. Era impossibile non fare un paragone con il suo studiolo al King’s. E non poteva fare a meno di paragonare la docile e secca miss Ross con la bellezza smagliante e giovanile di Janine. Ma ogni confronto venne interrotto da una voce forte e sicura: «Benvenuto professor Connor.» William si voltò. Janine si scostò leggermente.

«Grazie Janine, può andare», disse Millan mentre stringeva la mano del nuovo arrivato. Il direttore dei progetti speciali era un uomo sui quarant’anni, molto ben portati, curato, e con un elegante vestito di Ferré impreziosito da una cravatta che non poteva costare meno di duecento dollari. L’abito si stringeva su fasci muscolari evidenti ma non eccessivi. L’orologio di acciaio, un Omega Seamaster Planet Ocean, reso ancor più famoso da Daniel Craig che lo indossava nelle sue pellicole dedicate all’agente 007, sportivo ed elegante allo stesso tempo, spiccava sulla sua abbronzatura; era evidente che ava buona parte dell’anno all’aria aperta in chissà quali incarichi. Sembrava più un uomo d’azione, forse un ex soldato, piuttosto che un alto dirigente.

«Ben arrivato professore», disse dopo che Janine se n’era andata. Quindi fece segno a William di sedersi e prese posto dietro la sua scrivania. Sulla targhetta spiccava il nome: George Millan – COO, acronimo di Chief Operations Officer, in pratica il vicedirettore della Fondazione. «Ha fatto buon viaggio?», si premurò di chiedere mantenendo un sorriso smagliante, dopo essersi presentato ufficialmente.

«Sì, grazie.» «Bene, bene…», disse compiaciuto. Poi, indicando con un gesto minimo della mano, domandò: «Ha avuto il tempo di girare per l’edificio?» «Ho sostato nella hall», spiegò. «Bellissima… a dire il vero, non avevo mai visto nulla del genere. D’effetto e trasmette una bella atmosfera. Natura e tecnologia che convivono», continuò William. Millan premette un pulsante e un mobile bar scoprì le sue meraviglie: c’era qualunque cosa si desiderasse.

«Gradisce qualcosa da bere?», fece alzandosi e cominciando ad armeggiare con

le bottiglie. «Propenderei per del whisky ma visto l’orario va bene un’acqua tonica.» «Ghiaccio e limone?», chiese. Come ogni buon americano Millan non beveva nulla che non fosse accompagnato da scricchiolanti cubetti. «Perfetto», rispose William già a suo agio. Millan porse uno dei bicchieri all’ospite. Poi si risedette e sorrise. Bevve un sorso, fissandolo.

«Certamente vorrà sapere per quale motivo le è stato chiesto di venire qui. Intanto la ringrazio per la sua disponibilità. So che è molto impegnato. Ma vedrà che troverà tutto di suo interesse. Ovviamente, dopo che le avrò spiegato ogni cosa, sarà libero di accettare o meno l’incarico.» «Naturalmente.» Millan sorseggiò ancora, poi posò la bevanda a un lato della sua scrivania, incrociò le dita e iniziò. «La Wyler Foundation è impegnata in svariati campi di ricerca. Possiamo dire, senza scendere nei particolari, che ci occupiamo di tanti aspetti. Tecnologia, arte, ambiente… nel suo caso, il mio superiore ritiene possa esserci molto utile per sviluppare due missioni distinte. Due missioni, mi preme dirlo, che potrebbero rivelarsi di enorme importanza per la nostra struttura. A tale proposito, dopo aver vagliato infiniti curricula, lei è risultata la persona più adatta per portare a termine gli incarichi. Per il suo impegno è già stato aperto un conto a suo nome alla Rockefeller Bank of New York dove le verranno versati cinque milioni di dollari in due tranche, come penso saprà già.» «Sì. È quanto mi è stato detto. Anche se…» Millan sporse il mento in avanti, quasi impercettibilmente. «Beh, non sapete ancora se sarò della “partita”. Magari potevate attendere prima di aprirmi un conto.»

Il vicedirettore sorrise. «Oh, non si preoccupi. Non ci costa nulla. Comunque, il nostro primo compito è spiegarle quale sarà la missione numero uno. Portata a compimento questa fase le sarà spiegata la natura della seconda missione.» Fece una pausa, come per raccogliere le idee.

«Vede qui alla Wyler», riprese con tono gioviale, «ci occupiamo di molte cose, come le ho detto. Ultimamente stiamo sviluppando diversi progetti tecnologici… mi riferisco a tecnologie alternative, come la ricerca su nuove fonti di energia, nanotecnologie, cybertecnologia e via dicendo. Ma quello che ci differenzia da altri gruppi che investono in questi campi è il nostro orientamento, ovvero la filosofia che perseguiamo sempre: non scindere mai la natura e l’ambiente, l’uomo e la sua storia, tecnologie di alto livello ma sempre legate alla natura e alla storia dell’uomo, in modo da preservarle entrambe.» «Molto lodevole…» Millan continuò dopo aver annuito con un cenno della testa: «Si chiederà cosa c’entri un esperto di storia contemporanea con tutto questo.» «Sì, la domanda mi aveva sfiorato», rispose ironico William, sperando che il suo humor inglese non fosse fuori luogo.

Millan lo fissò per un istante, quindi disse: «Due missioni. Due enigmi storici. Le chiediamo di risolverli per noi. Riprendendo le ricerche che a suo tempo condussero le SS Ahnenerbe, che lei conosce molto bene.» William parve sorpreso. «SS Ahnenerbe?», ripeté. Continuava a chiedersi cosa c’entrassero i suoi studi con le ricerche scientifiche della Fondazione Wyler. «Esatto. Lei studia da anni la cosiddetta “Società di ricerca dell’eredità ancestrale”.» «Sì. È un fenomeno storico e culturale che mi ha sempre affascinato…» «Potrebbe riassumerne brevemente la storia?»

«Si trattava della più moderna ricerca interdisciplinare messa in piedi dai nazisti, mirata a ritrovare tracce perdute della civiltà ariana, dall’archeologia alla musicologia, dalla storia dell’arte alla magia. Tra i vari dipartimenti», continuò William, «possiamo sicuramente attribuire una forte rilevanza al Welt-Eis-Lehre, che si occupava di una particolare teoria, quella del ghiaccio cosmico. Oppure il cosiddetto Karothekia, che rivolgeva le proprie attenzioni all’occulto. E potrei continuare per ore…» «Wewelsburg», pronunciò Millan. William inspirò profondamente. Quante ore, giorni, settimane della sua vita aveva trascorso leggendo, documentandosi, apprendendo informazioni su Wewelsburg?

«Westfalia, un bel castello. Sede dell’Ordine Nero SS. Un castello ricostruito secondo piani misteriosi, legati alla religione neopagana su cui si strutturava il Terzo Reich.» Il direttore dei progetti speciale della Wyler annuì. «Bene, riguardo questo particolare sito, sa anche che in una delle sue sale era contenuto il baule personale di Himmler? Baule che scomparve misteriosamente nel 1945? Himmler aveva dato ordine di far saltare in aria Wewelsburg e di distruggere ogni documento. Il castello fu semidistrutto con potenti cariche esplosive. Ma il baule del Reichsführer SS pare sia stato occultato.» «Ma… veramente ciò che si sa è che ogni cosa saltò in aria. Compreso quello che lei chiama baule. I resoconti dell’epoca ci informano che la cassaforte di Himmler venne portata via dagli Alleati e che il resto venne razziato dagli abitanti del villaggio vicino.» «Il baule e la cassaforte erano due cose diverse…» «Comunque, nel tempo ho avuto modo di intervistare diversi testimoni, persone che hanno partecipato al “saccheggio” o che ne hanno sentito parlare dai parenti e dagli amici. E tutti mi hanno confermato che le cantine erano invase dal vino colato dalle bottiglie andate in frantumi, che il tetto era crollato seppellendo ogni cosa. I documenti, quelli poi, erano andati a fuoco a causa dell’incendio

sviluppatosi dopo le detonazioni.» «Già, conosciamo anche noi questa versione. Mi spiego meglio: le cose sono andate effettivamente così, ma mancano alcuni particolari alla descrizione. Soprattutto, sappiamo che il baule scomparve prima che il castello venisse distrutto. In merito esistono testimonianze incontrovertibili.» «Quindi si è salvato?» «Esatto.» «Mi pare di capire che per voi rivesta una grande importanza sapere che fine abbia fatto.» «Ha ragione», disse compiaciuto. «Crediamo che al suo interno fossero conservati documenti della massima importanza che ci aiuterebbero a sviluppare le nostre ricerche.» «E io dovrei trovarli?» «Questa è la sua prima missione.» William tossicchiò. «Non saprei da dove cominciare. Non ho mai avuto prove che il baule sia stato trasportato altrove. Dovrei esaminare i dati che avete in merito alla faccenda.» Era perplesso. In primo luogo perché gli sembrava strano che una struttura come la Wyler potesse essere interessata ai documenti di Himmler… a che fine? E poi, tutto era molto, troppo, sfumato. C’erano aspetti della faccenda che non lo rassicuravano. D’altra parte, indagare il mistero del baule di Himmler, per lui, poteva rivelarsi non solo divertente, ma addirittura esaltante. Anche perché, se Millan diceva il vero, la Wyler era in possesso di documenti o testimonianze cui lui non aveva mai avuto accesso. Millan riprese il bicchiere tra le mani, lo soppesò brevemente, poi bevve.

«Professore, quella che sto per raccontarle è un’altra storia. La vera storia. Ma per poterne parlare devo prima chiederle un piccolo gesto di buona volontà»,

disse alzandosi e porgendogli un foglio. «Cos’è?», domandò dando un’occhiata alla fitta scrittura presente nel documento in carta intestata della Fondazione. «Un vincolo che la impegna a non divulgare mai quanto le verrà detto. A meno che non sia stato espressamente autorizzato dai vertici della Wyler. Le chiediamo, in poche parole, massima discrezione.» «Più che giusto», disse William continuando a leggere. Tutto abbastanza chiaro. Firmando si obbligava al silenzio. Non c’erano strane postille o altro che non riguardasse l’argomento. Trasse allora una penna dal taschino della giacca e siglò l’accordo. Millan riprese il foglio e si riaccomodò soddisfatto. «Adesso sono veramente curioso», disse William.

L’altro sorrise e prese il suo tablet dal basso tavolino di fronte a lui. Premendo un paio di tasti discese un grande schermo piatto. Nella prima schermata William vide per qualche secondo il logo della Wyler. Subito dopo, come gli spiegò Millan, sarebbe partito un video di qualche minuto, corredato in ultimo da fotografie e riproduzioni di documenti e dossier. «Spiegherà meglio di ogni altra cosa alcuni aspetti della faccenda. Lo segua con attenzione. Perché qui è contenuta la verità.»

Tre secondi dopo il logo scomparve e al suo posto campeggiò la scritta del dipartimento della Wyler che aveva preparato il video. Poi un’altra schermata con un numero di protocollo e la dicitura: top secret. Seguì uno sfondo nero e, subito dopo, apparvero alcuni piccoli riquadri. Una voce fuori campo cominciò la narrazione mentre uno dei riquadri si ingrandiva velocemente. William visionò il tutto con molta attenzione. E quello che vide cambiò radicalmente i suoi orizzonti storici.

Capitolo 3

Hotel Maison Rouge, Strasburgo, Francia occupata. 10 agosto 1944

La voce fuori campo era ben impostata. I fotogrammi del video di ottima qualità, anche se datati.

Protetta da ingenti misure di sicurezza, all’Hotel Maison Rouge, ha luogo una riunione segretissima in cui sono presenti gli uomini che decideranno il futuro della Germania dopo la caduta di Hitler. Si tratta del numero due del Reich, Martin Bormann, del Ministro degli Armamenti Albert Speer, dell’ammiraglio Wilhelm Canaris per gli apparati militari. La fascia dell’industria è rappresentata da Emil Kirdorf, il re del carbone, dal magnate dell’acciaio Fritz Thyssen, da Georg von Schnitzler della IG-Farben, da Gustav Krupp in rappresentanza delle acciaierie Krupp, dai manager e proprietari della AEG, della Siemens, della VW Werke. Per la finanza sono stati convocati grandi banchieri, come Kurt von Schroeder, e decine di altri personaggi tra imprenditori, affaristi ed esperti in campo economico.

Circa settanta uomini che si riuniscono per alcuni giorni per mettere a punto la salvezza dei vertici del partito all’estero e la possibilità di reinvestire i capitali tedeschi in altre nazioni. Viene progettata la rete di fuga che diverrà famosa nel dopoguerra col nome di Odessa, acronimo che sta per Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen, ossia Organizzazione degli ex-membri delle SS. Il piano si realizza su tre direttrici: la prima a per Monaco-Salisburgo-Madrid; la seconda per Monaco-Salisburgo-Genova e da qui al Medio Oriente; infine, la terza, per Monaco-Salisburgo-Genova ma con imbarco verso Buenos Aires, dove il regime di Juan Perón accoglie a braccia aperte i nazisti che portano con sé i loro capitali fondando centinaia di nuove imprese.

Si decide inoltre che il denaro tedesco, insieme a gioielli, oro e oggetti d’arte sottratti agli ebrei e alle nazioni occupate, transiterà attraverso banche svizzere, specialmente di Zurigo, come il Credit Suisse e la Swiss Bank Corporation, o agenzie che poi dovranno reinvestire i capitali acquistando proprietà immobiliari in Svizzera. Le stesse banche potranno impiegare parte del denaro acquistando valuta straniera, riciclando così i soldi “sporchi” e rimettendoli in circolo con impieghi in attività apparentemente lecite. Grazie all’incontro segreto avvenuto il 10 maggio tra il generale Karl Wolff, ora a capo delle SS in Italia, e papa Pio XII, sulla base del concordato tra la Chiesa e Adolf Hitler, il Vaticano garantisce il suo appoggio alla fuga dei nazisti, fornendo come basi logistiche e nascondigli proprie strutture e offrendo ai transfughi aporti dello Stato del Vaticano e della Croce Rossa. In questo modo le identità di molti assassini e criminali di guerra saranno “ripulite” e comincerà per essi una nuova vita.

Poi la schermata si chiuse per far spazio a una successiva, anticipata dalla scritta che avvertiva che, come le precedenti, le informazioni fornite dovevano considerarsi altamente confidenziali.

Capitolo 4

Convento di San Girolamo degli Illirici, Roma. 28 dicembre 1944

Ancora la voce fuori campo.

L’Odessa utilizza per anni padre Krunoslav Draganović, teologo bosniaco e criminale di guerra in stretto contatto con il Papa e inizialmente addetto all’Archivio Segreto Vaticano, mentre è a Roma in qualità di Segretario della Confraternita Croata di San Girolamo. Un ex ufficiale della SS Ahnenerbe, Wilhelm Meister, cerca di sottrarsi alla caccia alle SS in atto in tutta Europa nascondendosi nel convento di San Girolamo, sotto la protezione di Draganović. Ha con sé un baule segreto con il marchio h. himmler reichsführer SS, proveniente dal castello di Wewelsburg, sede del culto segreto dell’Ordine SS e della Accademia di ricerca Ahnenerbe. Himmler aveva dato ordine che fosse distrutto ma Meister ne vuole fare merce di scambio con gli alleati. Essendo uno studioso della SS Ahnenerbe, per are il tempo spesso trascorre molte ore nella biblioteca del convento.

Un giorno, approfittando dell’assenza di Draganović e del responsabile dei fondi librari, apre l’archivio personale di padre Krunoslav trovandovi vari codici e documenti che quest’ultimo aveva sottratto all’Archivio Segreto Vaticano mentre serviva lì come addetto. Tra questi trova la bolla papale del 1582 Inter Gravissimas, insieme ad alcuni fogli che descriverebbero una insolita operazione compiuta da Gregorio XIII durante la riforma del calendario giuliano in quello gregoriano, insieme alla cronaca di eventi che per la loro gravità sarebbero stati cancellati dalla storia.

Meister riuscirà a sottrarre i documenti qualche mese dopo, quando si creerà la prima finestra utile per la fuga in Argentina. Quando Draganović si accorge del furto avverte l’arcivescovo di Genova, in modo che quando si sarebbe presentato un tedesco vestito da sacerdote con un baule e dei libri antichi per imbarcarsi verso l’Argentina sia fatto arrestare. Tuttavia, l’ufficiale tedesco non arriverà mai a Genova: intercettato e scoperto da una squadra alleata, l’uomo tenterà la fuga e verrà ucciso.

I libri e alcuni documenti che nasconde sono raccolti dal giovane tenente Ronald Hume, che guida il gruppo: egli è uno studioso d’arte in tempo di pace, e decide di inviarli segretamente a casa sua, negli Stati Uniti. Hume apprende da un appunto che Meister ha scritto sulla sua agenda che il baule di Himmler è già stato inviato in Sud America. Di esso si perdono le tracce.

William si rivolse a Millan: «Ma… quello è Ronald Hume?» L’altro bloccò il video. «Avrà le risposte che cerca dalla visione del resto.»

Dopo la guerra Hume torna negli States. Vende parte dei documenti e del materiale rubato da Meister e con i soldi che ricava inizia la sua fortuna. Investe nel prospero commercio di oggetti d’arte e, grazie ai rapporti che ha intessuto durante la guerra, soprattutto in Francia, Italia e Germania, riesce a trovare una grande quantità di opere che rivende a collezioni private e pubbliche. Divenuto celebre e corteggiato dagli ambienti di una certa importanza, si affilia a una delle più prestigiose logge massoniche americane; inoltre riannoda i fili con i membri della società segreta Skull & Bones, di cui ha fatto parte negli anni universitari, quando studiava a Yale. Qualche tempo dopo si sposerà, metterà al mondo due figli, vivrà un’esistenza tranquilla e si spegnerà nel 1993. Del baule si sono perse le tracce. Si raccomanda una indagine a 360° partendo dai documenti in possesso dei figli del signor Hume. Grazie per l’attenzione.

Le luci tornarono a brillare e Millan chiese senza troppi preamboli: «Cosa ne

pensa?»

William lo guardò in modo strano. Era perplesso, forse anche preoccupato. Non era assolutamente sicuro di poter portare a termine il compito che volevano assegnargli. «Penso che abbiate fatto ricerche accurate e molto interessanti. Se la risoluzione del problema consiste nel reperire le carte in possesso dei figli o nipoti di Hume, perché non l’avete fatto voi direttamente?» «Eccoli qua», lo sorprese Millan togliendo da qualche cassetto occulto una busta gialla e poggiandola sulla scrivania. La aprì e trasse fuori alcuni fogli. Dalla sua posizione non capiva se fossero originali o riproduzioni. Ma prima ancora che potesse formulare qualche domanda, Millan lo prevenne. «Vede professore, i nostri “detective” sono molto bravi. Giungere ai documenti di Hume è stato facile. Ma noi non abbiamo bisogno di un detective. Ci occorre un esperto, anzi il migliore degli esperti che conosca perfettamente tutto quello che c’è da sapere sul mondo dei nazisti. Sul loro universo. Vogliamo uno che conosca il loro modo di pensare, che abbia studiato ogni aspetto dei loro riti, delle loro usanze, dei loro metodi di interpretare ogni aspetto dell’esistenza. Ci occorre una persona che conosca la loro “religiosità”, se posso usare questo termine… perché è proprio questo aspetto che ha influenzato, prima e durante e dopo la guerra, molte delle loro scelte. Noi abbiamo bisogno di lei. Allora, cosa ne dice? Accetta?» «Lei è troppo gentile nel credere che io possa portare a termine un’impresa del genere. Ci sono alcune variabili che non conosciamo, la ricerca potrebbe arenarsi presto.» «E lei sarebbe pagato comunque. Almeno per la prima tranche. Ma se poi decidesse di continuare con la seconda missione, le sarebbe pagata pure quella, anche in caso di insuccesso.» Rifletté un attimo; era un’occasione notevole che non sarebbe capitata più, questo era chiaro. E poi avrebbe avuto l’opportunità di viaggiare, studiare, immergersi nelle ricerche che amava. Come ipotesi di lavoro non era affatto male.

«Va bene», disse alla fine. «Sono della partita. Mi impegnerò al massimo. Ma non posso garantirvi risultati certi. Cosa c’è in quel baule che vi interessa tanto?» Millan aveva già in mano il contratto in tre copie. Si bloccò un attimo e lo scrutò. Il sorriso era scomparso dalle sue labbra. «Voglio dire, un’idea ve la sarete fatta. Deve essere qualcosa di eccezionale per mettere in campo risorse simili. Non parlo solo del mio compenso…» «Come può certamente capire, professor Connor, questa è un’ informazione riservata, ma le posso dire che il suo contenuto ci serve per alcune attività che la Fondazione svolge. Sono lieto che la cosa le interessi. Legga pure con tranquillità i termini dell’accordo, sono semplici e chiari. E soprattutto brevi.» Qualche minuto dopo William firmava i tre documenti: «È possibile fare il versamento nella mia banca in Inghilterra?» «Mi spiace, noi ci serviamo esclusivamente della Rockefeller Bank, per una questione di stima reciproca, collaboriamo con loro dalle origini e ci sono accordi precisi. Il conto è già stato aperto a suo nome e le è stato versato un anticipo di…», controllò il suo iPad. «Ah, sì, centomila dollari, di cui può già usufruire con la carta di credito che le verrà rilasciata alla sede centrale della banca. Domani l’accompagneremo noi lì per il disbrigo delle formalità. Per tutto il resto le daremo un’altra carta di credito, questa volta a plafond illimitato che potrà utilizzare per le spese. Non c’è alcun tetto massimo, tuttavia le uscite saranno controllate dal nostro ufficio amministrativo. Può spendere molto, davvero molto, ma con criterio, e solo per le necessità di queste ricerche.» «Splendido.» William si guardò intorno e la pausa che fece Millan gli fece capire che la conversazione era terminata. «Torno al mio albergo?» «Certamente, ma gradiremmo molto che questa sera fosse nostro ospite qui alla Fondazione per un party con buffet. Ci saranno molti volti che riconoscerà: alte sfere della politica, personaggi della tv e dei media. Anche star di Hollywood e del mondo della musica.» «Beh, non sono certamente un amante di queste feste ma ci sarò.» «Ottimo. Una nostra persona di fiducia la attenderà nella hall del suo albergo alle ore 18:00, sarà qui in tempo per l’aperitivo. Grazie della sua cortesia. È richiesto

lo smoking, Janine ha provveduto affinché uno con le sue misure e accessori sia recapitato al suo albergo. È stato un piacere.» Millan gli diede la mano e la sua stretta decisa colpì William. «A stasera, professore.» «A stasera, signor Millan», rispose Connor chiedendosi come facevano ad avere le sue misure.

Capitolo 5

Manhattan, New York. Sede della Wyler Foundation, Great Hall. 23 maggio 2017. Ore 18:20

William giunse in perfetto orario: l’enorme sala era gremita di persone elegantissime, più o meno come lui. Riconobbe diverse celebrità, soprattutto attori e cantanti, anche se non si reputava un esperto del mondo dello spettacolo. Millan lo raggiunse con la sua giovane assistente e lo presentò ad altre persone con cui si intrattenne per un po’. Ogni volta che cercava di sgattaiolare per dare un’occhiata in giro, qualcuno lo fermava e gli chiedeva chi fosse, cosa fe, e quando c’era qualcosa in comune, la conversazione prendeva una piega che William avrebbe voluto evitare. Non era fatto per quelle occasioni, anche a Londra lo annoiavano molto i ricevimenti, preferiva andarsene in un cinema a vedere un bel film o recarsi a un concerto. E pensare che c’era chi avrebbe fatto carte false pur di essere presente a quell’evento mondano: in occasioni come quella le reti di conoscenze si ampliavano e, di solito, portavano a interessanti opportunità lavorative o di affari. Ma lui si annoiava. Trascorse così un’ora e quando l’orchestra cominciò a suonare e molti cominciarono a ballare, decise che era giunto il momento di andarsene.

Dal primo piano che si affacciava sulla grande hall, un uomo sui sessantacinque anni, elegante e distinto, dal viso duro e imibile come l’acciaio, sussurrò qualcosa alla donna che aveva accanto, molto più giovane di lui. Lei annuì e scese al piano terra. Si districò tra gli invitati finché raggiunse William. Lo fermò mentre si stava avvicinando al guardaroba e si presentò dandogli la mano: «Buona sera professor Connor. Mi chiamo Alicia Wyler e sono onorata di fare la sua conoscenza. Se ne va così presto?» Connor si sentì come se lo avessero preso con le mani nella marmellata e diventò tutto rosso, suo malgrado: «Ah… buona sera signora Wyler. Lietissimo. Ehm…

lei è di New York?» Disse la prima cosa che gli ò per la mente per stornare l’attenzione da sé. «Certo. Sono nata qui.» «Wyler… parente del proprietario della Fondazione?» «Esatto, la figlia. Sono il direttore creativo della Fondazione», spiegò con un ampio sorriso. «E sono molto interessata al suo lavoro.» Quelle parole magiche gli fecero assumere un’espressione sorpresa. «Ho letto diversi suoi libri, sono tutti nel mio studio. Lei è un’autorità molto stimata qui in America, lo sapeva?» La donna lo guardava con un sorriso che non sapeva come interpretare. Sembrava sincera, ma lui non era esattamente un agente dell’MI6.

«La ringrazio. No, lo ignoravo. Mi fa piacere. Che cosa le interessa in particolare dei miei studi?»

William non sapeva dove guardare: Alicia Wyler era una splendida creatura di quarant’anni e ne aveva piena consapevolezza. Il vestito rosso attillato e i gioielli che indossava facevano girare la testa praticamente a ogni uomo che si trovasse all’interno della sala. In effetti lo intimoriva un po’. Elegante e sicuramente colta, non aveva tuttavia nulla dell’altezzosa superiorità che spesso contraddistingue le persone del suo status. Era chiaro che avesse dalla sua una innata abilità nelle relazioni interpersonali: un bel sorriso, modi gentili che sapevano mettere a proprio agio chiunque e una bellezza sfolgorante.

Nonostante ciò Alicia Wyler appariva come una persona normalissima: il fatto di chiamarsi Wyler le avrebbe potuto aprire molte porte ma era stata abituata a cavarsela sempre da sola, e questo in effetti era quello che desiderava, provare a se stessa di che pasta era fatta, in ogni occasione.

«Beh, la sua interpretazione del sistema religioso alla base del nazionalsocialismo, ma soprattutto il modo in cui lei conferma queste tesi, sempre con prove alla mano e ricerche in situ. L’indagine sul tesoro del Terzo Reich e su dove sia finito è un saggio notevole ed è stato recensito anche sul Washington Post. Direi che lei vede dove altri non riescono a vedere nulla. Ma… che ne dice di parlarne davanti a un drink? Ha già mangiato?» «Ho spizzicato qua e là.» William vide sfumare definitivamente la sua fuga e sospirò tra sé. «Va bene, se non le è di disturbo…» Alicia Wyler non rispose, fece strada e lo accompagnò a un tavolo, distante dalla pista improvvisata e dall’orchestra, dove mangiarono un po’ e bevvero un paio di drink. Parlarono di lavoro, poi lei gli chiese qualcosa della sua vita, e così fece lui. William trovò una conversatrice arguta, il tipo di persona con cui gli piaceva interagire: colta, avventurosa, grande viaggiatrice, amante della natura, della gente di ogni cultura, dell’arte e impegnata in una sua personale missione all’interno della Fondazione: preservare per i posteri quanto di bello esistesse su questo vecchio pianeta sofferente. Anche Alicia era stupita di come la conversazione fosse piacevole, scorrevole e, alla fine, divertente. Entrambi sorridevano di continuo e, a tratti, ridevano, ma non era a causa dei cocktail che avevano ordinato. Si raccontarono molte cose e le ore arono, finché tra una risata e l’altra si accorsero che la serata stava terminando.

Dalla parte opposta della hall, l’uomo che aveva sussurrato qualcosa all’orecchio di Alicia li osservava senza alcuna espressione sul viso. Alicia sembrava trovare quell’individuo piacevole ma lui non se ne diede pensiero. Sua figlia era fatta così, quando incontrava una persona che le andava a genio, uomo o donna, non la mollava più. Infine William e Alicia si scambiarono i rispettivi numeri di cellulari e si salutarono cordialmente.

Per il solitario professore inglese, la serata si era conclusa in un modo migliore rispetto al suo inizio.

Capitolo 6

Bulgari Hotel, 171 Knightsbridge, Londra. 27 maggio 2017. Ore 12:15

William attendeva da cinque minuti a un tavolo del prestigioso Bulgari Hotel, dove Janine gli aveva fissato un appuntamento con un funzionario della Wyler per le ultime informazioni che avrebbe dovuto ricevere prima della partenza per la prima missione.

Gli sembrò di aver notato una persona che conosceva, poi osservando meglio si sorprese non poco.

Alicia lo stava raggiungendo. «Buongiorno, William. Bellissima giornata non è vero?», esordì con il suo migliore accento inglese. «Oh… buongiorno. Sei tu dunque il misterioso funzionario della Fondazione che mi dovrebbe istruire?» William era piacevolmente stupito. «Già. Ordiniamo il pranzo? Ho una fame da lupo, e qui lo chef è veramente bravo, vengo sempre in questo hotel quando sono a Londra. Sono dell’idea che quando se ne trova uno completamente soddisfacente non lo si dovrebbe mai cambiare.» In breve fu servito un antipasto di ostriche al limone e alcune bruschette con salse speziate e un drink aperitivo seguito da un mix di cucina italiana ed esotica, molto ben assortito, in linea con la tradizione londinese che cercava sempre di presentare il meglio delle cucine internazionali in nuove creazioni che ne fondessero armonicamente i sapori. Fagottini ripieni e tagliatelle ben composte su un piatto su cui campeggiava un sugo delizioso suscitarono un invitante

acquolina in bocca. La portata successiva, a base di scorfano, risultò essere di una tale delicatezza che entrambi si concessero il bis, mentre spiedini aromatizzati da salse thai abbellivano le portate e impreziosivano il palato. Mentre gustavano il pranzo, Alicia si informò su come stessero andando le ricerche e se avesse già iniziato. Ma William si era appena ripreso dal jet lag e aveva fatto in tempo a organizzare solo il suo anno sabbatico, lasciando i suoi studenti e ogni cosa nelle mani dei nuovi tutor. «Ho solo dato un’occhiata al piano di ricerca…» Ne parlarono e convennero che la cosa migliore fosse partire dai documenti dei figli di Hume. Alicia ne aveva una copia e mentre mangiavano ne esaminarono una parte. Ronald Hume aveva venduto ogni cosa che l’ufficiale tedesco dell’Ahnenerbe Wilhelm Meister aveva con sé, a parte alcuni fogli, appunti personali, perlopiù, di minima importanza e poco altro. Un biglietto stropicciato e scritto a matita riportava un semplice appunto: “Baule inviato”; senza aggiungere altro. «Mhm… con queste informazioni non sarà facile arrivare a capire dove sia stato mandato. Come suggeriva il video bisognerebbe cominciare da Roma, dal collegio di San Girolamo degli Illirici. E poi, se non scopriamo altre tracce, si potrebbe provare a Genova. La rete di Odessa verso l’Argentina seguiva questa direttrice. Potrei partire tra un paio di giorni.» «Va bene. Dammi il tempo di modificare la mia agenda e andremo a Roma.» William la squadrò. Quella era la sua indagine, la sua ricerca e nel suo lavoro solitamente non accettava ingerenze. «Come sarebbe andremo? L’indagine è stata affidata a me soltanto. Nessuno mi ha parlato di un compagno di viaggio. Non mi sembra una buona idea.» William terminò di colpo di gustare la sua cassata siciliana. Il delizioso sapore di gelato sembrò svanire in un momento. «Non ti sembra una buona idea? Io rappresento il tuo datore di lavoro, sono stata mandata qui per darti una mano.» «O forse per controllarmi. Nel contratto non c’era scritto nulla al riguardo.» William era profondamente contrariato. Non voleva nessuno tra i piedi, neppure

una donna così bella. In fondo era sempre stato un lupo solitario e lavorava senz’altro meglio così. «Se fosse stato inserito come clausola nel contratto l’avresti firmato lo stesso?» William dovette fare un respiro profondo per non lasciare uscire un profondo no.

«Sì.» Alicia gli sorrise: «Allora, puoi accettarlo comunque.» Lui la fissò negli occhi. L’irritazione si stemperò in brevi attimi: «Fai sempre così con i tuoi collaboratori?» «Solo con quelli più simpatici.» Entrambi faticarono a trattenere un sorriso, ma poi venne fuori comunque. In fondo, se era brava la metà di quanto appariva, la sua presenza poteva rivelarsi utile.

«Okay, Alicia. Diciamo che partiremo per Roma tra due o tre giorni. Rimarrai a Londra nel frattempo?» «Sì, ho alcune persone da incontrare per via di una mostra che stiamo organizzando alla Tate Modern. Mi terranno impegnata giusto per un paio di giorni. Ma ci sentiremo al cellulare, partiremo prima possibile.» Continuarono a conversare piacevolmente. Ben presto il nazionalsocialismo, la storia e tutto il resto venne accantonato. arono a vicende più intime, private. Lei gli chiese se fosse sposato o fidanzato. «No. Nessuna delle due. Sono single, al momento. E tu?» «Beh, sono stata fidanzata», rispose Alicia fissando il vino che stava facendo roteare nel bicchiere. «Ma non è andata bene. Ci siamo lasciati prima di sposarci. Tre anni fa. Ma è stato meglio così, non era la persona adatta a me. Sembra che

sia ata un’eternità.» «Beh, anch’io penso che sia meglio stare soli che male accompagnati.» Wlliam fissò i suoi occhi bruni: «E poi? Non c’è stato nessun altro?» Lei trasse un respiro un poco più profondo. «Direi che questa è una domanda troppo personale, non trova professor Connor?» Lo sguardo di Alicia dimostrava chiaramente che non le piaceva affatto sentirsi sola, e a giudicare da come aveva glissato la risposta doveva essere una cosa che le capitava spesso. William se ne accorse e tentò di cambiare discorso. Meglio tornare su un terreno più sicuro. «Pensi che riusciremo a trovare il bandolo di questa matassa?» Era dispiaciuto di averla in qualche modo fatta sentire triste parlando di cose che probabilmente voleva dimenticare. Alicia tornò immediatamente a sorridere. Era curioso l’effetto che quel professore di Londra le faceva; non era particolarmente bello o attraente anche se non era male. Nella media: snello, ma non particolarmente muscoloso. Folti capelli lievemente brizzolati, occhiali da vista su montatura leggera, magari non un granché nel modo di vestire. Ma usava un profumo che le piaceva moltissimo. Le aveva detto che amava nuotare alla piscina del college, era uno sport che gli riusciva bene. E gli piaceva suonare la sua chitarra acustica elettrificata, una vecchia Ovation degli anni ’90 ma con un suono limpido e deciso, un timbro forte ma non graffiante, l’ideale per il Country o lo slow rock. Alicia lo trovava una persona tutto sommato normale, assai diverso dallo stereotipo dell’accademico imbalsamato, e questo la incuriosiva perché lei era solita incontrare solo persone al vertice, il top dell’arte, il top della moda, il top del cinema, il top della canzone.

C’era qualcosa però… qualcosa che lo rendeva ancor più attraente. Forse erano le sue espressioni, che trovava stranamente familiari; o forse la simpatia naturale, che manifestava; o qualcos’altro dai contorni per il momento difficilmente definibili. Non vi era traccia di freddezza o di distacco, sembrava una persona limpida, un uomo vero. Uno di quelli che nel suo ambiente si trovavano di rado. In definitiva non era super, e non riusciva bene a capire cosa le pie di lui. Ma per il momento le bastava.

«Penso che la nostra sia una buona squadra», disse alla fine. «Possediamo caratteristiche complementari, utili alla nostra ricerca. È il presupposto migliore per un buon lavoro.» Fece una pausa. Poi aggiunse: «Grazie.» «Di cosa?» «Di non aver fatto troppe storie per il fatto che ti accompagno. Era già stato deciso.» «Già.»

Capitolo 7

Pontificio Collegio Croato di San Girolamo, Roma. 30 maggio 2017. Ore 12:00

Roma è sempre la città eterna, e in primavera rinasce in ogni sua parte, con il sole intenso e l’azzurro che da millenni la baciano e in questo periodo diventano ogni giorno più luminosi. I fiori, le palme, i pini marittimi, le piante che prosperano rigogliose si intravvedono in ogni angolo del centro. Folle di turisti sciamano per le vie del centro storico, giovani in cerca di divertimenti che ridono sulle gradinate di Piazza di Spagna, anziani che amano la storia e l’arte e ammutoliscono di fronte alla prorompente bellezza delle statue delle piscine di Piazza Navona, adulti che gustano un gelato ammirando la fontana di Trevi mentre qualcuno getta la solita monetina nell’acqua sperando che il suo desiderio venga esaudito. Qualche coppia di innamorati si bacia di fronte al Colosseo. Concerti, pièce teatrali, mostre, l’arte sembra ritrovare il respiro e tornare alla vita insieme alla natura; un profumo intenso, una energia vibrante che si manifesta nella essenza romana, nella pittoresca modalità espressiva degli abitanti, nelle grida dei venditori nel classico gergo romanesco che suscita una ridanciana simpatia. La storia, la sua energetica linfa vitale, trasuda dalle vestigia della città, a ogni angolo, nel Foro, sul Quirinale, al Gianicolo, sulla Via Appia, dovunque vi siano pietre antiche, mattoni, brani di un corpo morto eppure vivo e vibrante che hanno assistito alle guerre più violente, alle vittorie della città, alla sua decadenza e rinascita. Ma Roma continua nella sua quintessenza, nei suoi colori, nella forza della sua prorompente bellezza: ecco perché viene naturale chiamarla “eterna”, un significato differente, ma comunque ben calzante, rispetto a quello più antico di caput mundi. Ma quel giorno Alicia e William non avevano tempo per immergersi nelle bellezze dell’Urbe. Avevano una missione da svolgere e si trattava di un compito delicato.

Si trovavano di fronte al convento di San Girolamo degli Illirici, nei pressi del vecchio porto di Ripetta, sul Lungotevere prospiciente il ponte Cavour, a pochissima distanza dall’Ara Pacis e dalla contigua chiesa di San Rocco, in pieno centro storico. In quest’area si era rifugiata nel XIV secolo una comunità di profughi provenienti dall’Illiria, l’odierna regione costiera compresa tra Slovenia e Albania, e dalla Schiavonia, la regione più orientale della Croazia. Sempre qui era stata istituita da papa Niccolò V la Congregazione di San Girolamo degli Schiavoni, detta anche degli Illirici.

La chiesa, che prendeva il nome dalla Congregazione, era stata costruita nel ’400 sulle rovine di un vecchio edificio di culto preesistente. Più volte ampliata e restaurata dai papi, nel corso dei secoli aveva acquisito importanza sempre maggiore, fino a divenire la chiesa ufficiale dei croati a Roma. Di per sé la chiesa non era particolarmente bella, anche se custodiva quadri e suppellettili di un certo valore, ma era il punto di ritrovo della comunità e, soprattutto, rivestiva un significato speciale per le ricerche di Alicia e William. Lei si asciugò la fronte imperlata di sudore, la temperatura era già alta e rimpiangeva il condizionatore del suo ufficio, ma le bastava dare un’occhiata in giro per dimenticare ogni cosa: Roma faceva sempre questo effetto e lei era la persona più adatta ad apprezzarne la bellezza. «Andiamo?» William la distrasse dalle sue considerazioni. «Sì, fai strada», gli rispose mentre ammirava la facciata di marmo bianco. William le allungò un kleenex. Soffriva di una fastidiosa allergia al polline, e la rinite che gli causava, specialmente in primavera, lo costringeva a portare con sé diversi pacchetti di fazzoletti. Alicia si asciugò la fronte. Erano ora ai piedi del grande portale. William diede un’occhiata rapida. Quindi si girò e le disse: «Suoniamo il camlo e presentiamoci come ricercatori, non penso ci saranno particolari problemi. Di solito mi fanno subito entrare.»

Ma non vide niente che somigliasse a un pulsante. Decisero di fare il giro e, su uno dei lati, trovarono quello che cercavano. William premette il bottone sotto il

quale vide una targhetta con su scritto un vocabolo che non conosceva. Nessuno rispose. Suonò di nuovo. E lo fece ancora, finché un uomo in canottiera, visibilmente sovrappeso, si sporse da una finestra della costruzione congiunta alla chiesa e gli urlò biascicando mentre masticava: «Ahò? Ma che tte suoni? Nun vedi che stamo a magnà?» Non capì esattamente cosa avesse detto l’altro, ma intuì di averlo interrotto in qualcosa di estremamente importante. William conosceva un po’ l’italiano e, con un disastroso accento inglese, disse: «Mi scusi se la disturbo, mi chiamo William Connor, sono docente di storia moderna a Londra. Vorrei parlare con il responsabile dell’archivio della chiesa. Si tratta di una ricerca importante.»

Alicia trattenne il sorriso. William si era premurato di dirle che si era studiato attentamente la frase con il traduttore di Google. L’uomo si pulì la bocca con la mano, squadrò Connor e alzando il braccio in un gesto ascendente che sembrava indicare una direzione precisa rispose, rientrando all’interno: «Ma va’ mmorì ammazzato…» William, perplesso, si girò verso Alicia: «Mi sembra che dica che abbiamo sbagliato edificio e dobbiamo andare da un’altra parte, ma non ne sono sicuro. Il suo fervore non sembrava indice di collaborazione…» Alicia sollevò gli occhi e un attimo dopo scoppiò in una risata argentina che ebbe difficoltà a fermare. «“Il suo fervore non sembrava indice di collaborazione…”. Scusa William, ma solo un inglese poteva esprimersi in questo modo dopo… un poco educato invito a recarsi a quel paese!» Alicia continuò a ridere. William capì immediatamente e con perfetto aplomb, non mutò espressione e decise di continuare la ricerca cambiando tattica.

«Mhm… Forse, dando un’occhiata in giro troveremo qualcuno più disponibile…» Si tolse dall’incomoda situazione cominciando a esplorare i dintorni. Alicia lo seguiva, asciugandosi le lacrime scaturite dal ridere. Pochi metri dopo, appena girato l’angolo sud della chiesa, trovarono un’anziana donna seduta, vestita di nero da capo a piedi, con un fazzoletto in testa, sempre nero, intenta a osservare i anti. William scrutò Alicia e sollevò le sopracciglia, come dire: proviamo con questa signora? Le si avvicinò e con lentezza ripeté la frase che aveva detto all’uomo. La donna si sporse in avanti senza dire nulla. William ripeté la frase. L’altra rimase silenziosa per qualche attimo, poi si alzò e fece segno ai due di seguirla.

«Venite», disse semplicemente. Proprio accanto agli scalini dove si era accomodata c’era una porta. Da lì la donna li fece entrare in sagrestia e raggiunse un ufficio di modeste proporzioni.

«Don Marco?», chiamò ad alta voce. «Don Marco? Ci sono persone che chiedono di lei.» La donna li fece accomodare senza attendere la risposta. «Chi?» Il sacerdote si trovò all’improvviso due persone di fronte alla scrivania.

William si presentò, nel suo pessimo italiano, e Alicia, che non ne parlava che qualche parola, fece lo stesso in inglese. Don Marco Giannini si alzò e immediatamente strinse la mano agli ospiti: parlava sicuramente un inglese di gran lunga migliore dell’italiano di William per cui la conversazione proseguì in quella lingua. Si informò su chi fossero e cosa servisse loro. Constatando con sorpresa che si trattava di ricerche storiche, ne fu lieto. Era un uomo sui settanta che leggeva molto e a cui piaceva l’argomento. Tanto che collaborava regolarmente, con articoli e approfondimenti, a una rivista pubblicata su Internet incentrata sulla storia del quartiere. Offrì loro un caffè, dopodiché li portò in una stanza vicina in cui campeggiava un enorme e scuro mobile di legno massiccio che copriva un’intera

parete, visibilmente attaccato dai tarli. Quello era l’archivio della chiesa, disse. Vi erano conservati molti antichi codici e documenti. «Cosa desiderate vedere in particolare?», domandò infine. «A noi serve tutto ciò che riguarda…», iniziò William, poi si bloccò. Doveva trovare le parole adatte per mascherare il fatto che cercassero le prove del collaborazionismo tra la Chiesa e i nazisti. «Ecco, ci interessa materiale su padre Krunoslav Draganović, ex segretario dell’Istituto Croato di San Girolamo. Dovrebbe essere stato qui tra il 1943 i primi anni ’50 del secolo scorso. Ecco, ci interesserebbe qualunque notizia su di lui.»

Mentre don Marco lo osservava, William si soffiò il naso ripetutamente. “Maledetta allergia”, pensò tra sé. Don Marco annuì. Aprì un cassetto chiuso a chiave che conteneva un faldone. Era l’indice del materiale conservato nell’archivio. Scrutando tra le varie voci trovò qualcosa che poteva rifarsi a Draganović. Ma quando iniziò ad armeggiare tra i documenti, scorrendo con il dito i volumi e le cartelle, si fermò improvvisamente. In un punto mancava qualcosa. Un vuoto, uno spazio tra un incartamento e un codice. Perplesso infilò l’indice nella fessura. Scosse la testa, come a dire: “Sarà da un’altra parte”. Dal cassetto precedente trasse un altro indice. Sotto il nome di Draganović rimandava a un altro grosso schedario. Anche in questo caso, però, quando aprì il volume che avrebbe dovuto contenere le informazioni su padre Krunoslav si accorse che la pagina che cercavano era stata strappata. «Ma… che sta succedendo? Sembra che qualsiasi riferimento a padre Draganović sia sparito!» «Don Marco, qualcuno è stato qui prima di noi chiedendole le stesse informazioni?», domandò William piuttosto perplesso. «No. Voglio dire, non da quando sono qui. Io sono stato incaricato di sovrintendere alla chiesa alla morte del mio predecessore, don Sergio Raggi. Un anno e mezzo fa. Non so se prima fosse venuto qualcuno a fare ricerche.»

«Lei aveva mai guardato quei documenti?» «A essere sinceri no! Quindi potrebbero essere spariti anche prima del mio arrivo…» Don Marco si interruppe. Fece qualche riflessione poi si rivolse ai suoi ospiti: «Per quale motivo state cercando queste informazioni?» Alicia intervenne: «Io sono il direttore creativo della Wyler Foundation, con sede negli Stati Uniti. Ci occupiamo, tra le altre cose, di preservare le bellezze naturali e architettoniche del mondo. Per via di una serie di progetti che stiamo portando avanti ci occorreva verificare una serie di notizie riguardanti la storia della sua chiesa e, in particolare, sulla figura di padre Draganović, soprattutto per gli anni che le abbiamo indicato.» Più o meno era la verità. Don Marco la squadrò: «E come spiega la sparizione proprio del materiale che riguarda la vostra ricerca?» «Mi creda, non ne sappiamo assolutamente nulla», rispose Alicia intuendo il nervosismo del sacerdote. «Non credo ci siano altre persone interessate alla cosa. È un vero mistero anche per noi. Dico: non penserà mica…» Ci volle del bello e del buono per convincere il prete a non chiamare la polizia. L’intervento delle autorità sarebbe stata una semplice perdita di tempo: avrebbero fatto le stesse domande e tratto le identiche conclusioni. Ma alla fine William era riuscito a rabbonirlo.

«Se avessimo a che fare con questa sparizione saremmo stati degli stupidi a venire qui, non crede?» Lo lasciarono mentre cercava di capirci qualcosa, mettendo sottosopra l’intero archivio. Li seguì con lo sguardo uscire dalla stanza, salutandoli piuttosto freddamente. William e Alicia decisero di entrare nel primo bar con aria condizionata a palla che trovarono. Ordinarono un paio di tramezzini e due diet coke e, ancora scossi dall’accaduto, cercarono di farsi un quadro più chiaro della situazione. Alicia non conosceva molto della storia di Draganović, più o meno quello che aveva visto nel video mostrato anche a William, insieme ad altre notizie trovate

qua e là. «Ma chi era davvero questo Draganović?», domandò. «Se qualcuno si è preso la briga di eliminare ogni traccia della sua esistenza, insomma, mi fa pensare che dietro ci sia qualcosa di strano…» William finì di masticare, mentre annuiva. «È uno dei peggiori personaggi che la Chiesa abbia espresso. Durante la Seconda guerra mondiale la Croazia era uno stato fantoccio nazionalsocialista, guidato dal criminale Ante Pavelić. Il suo era un governo ultranazionalista, dominato dagli Ùstascia. Basava la sua ideologia sul cattolicesimo integralista e sulla pulizia etnica ai danni di serbi, ortodossi, ebrei, comunisti. Nei suoi campi di concentramento morirono cinquecentomila serbi e altri di varie etnie. Pavelić offrì la corona di Croazia alla casa italiana dei Savoia, ma Aimone, l’uomo designato per l’incarico, assunse la reggenza senza desiderarlo né mettere mai piede nel paese. Una delle pagine più fosche della guerra.»

«E Draganović?» «Era uno dei collaboratori più fidati di Pavelić, sia durante che dopo la guerra. Essendo croato era in collegamento con tutte le alte sfere del governo Ùstascia ma anche del Vaticano. Era stretto collaboratore e amico di Giovanni Battista Maria Montini, che sarà poi eletto papa col nome di Paolo VI, il quale lo aiutò nel fornire tramite la Caritas i aporti vaticani e della Croce Rossa ai criminali di guerra nazisti che poterono così fuggire in Siria, Spagna, Medio Oriente o Sud America.»

«Un futuro papa che fa scappare criminali di guerra… davvero una brutta pagina di storia.» «Già. Purtroppo questa è oramai storia accertata, venuta alla luce negli ultimi anni a seguito della declassificazione di documenti top secret e di vari scandali in cui si è trovata coinvolta la Chiesa. Non dimentichiamo che lo stesso Draganović era direttamente coinvolto nella macchina del genocidio nazista, ed egli stesso è stato accusato di essere criminale di guerra.»

«Mhm, ho letto che lui e il suo superiore, pur accusati di genocidio, non vennero mai processati.» «Proprio così. Dopo aver lavorato in Vaticano fu nominato segretario del vescovo di Sarajevo Ivan Saric, il quale raggiunse una certa notorietà durante la guerra tanto da meritarsi il soprannome di “boia dei Serbi” per le sue responsabilità nello sterminio di centinaia di migliaia di serbi; anche in questo caso parliamo di un personaggio abominevole, fuggito all’estero dopo la cessazione delle ostilità. E così non poté essere processato per crimini contro l’umanità.» «Incredibile», fece Alicia. Sapeva che durante il conflitto c’erano stati abboccamenti e scambi di favori tra nazisti e gerarchie vaticane. Ma non pensava che le cose fossero giunte a tal punto. «A ogni modo», riprese William, «Draganović disponeva dei serbi e degli ebrei da deportare nei campi di sterminio come meglio credeva. Divenne vicepresidente dell’Ufficio per la Colonizzazione Ùstascia e Alto Funzionario per la Conversione Forzata al Cattolicesimo dei serbi ortodossi. In virtù del “lavoro” che faceva per conto della Chiesa, non ultimo quello di convertire con la violenza enormi masse di persone, divenne l’uomo di punta del Vaticano nei Balcani. Pensa che, secondo alcuni documenti, era conosciuto con il soprannome di “Il prete d’oro”…» «Come mai?» «Perché controllava gran parte del tesoro rubato alle vittime dei lager dagli Ùstascia. I denti d’oro dei serbi morti nei campi di sterminio, i loro gioielli, i conti in banca, quasi tutto ò attraverso Draganović e finì direttamente nelle casse vaticane e in conti svizzeri segreti.» «La Chiesa non ne esce affatto bene…», mormorò Alicia. Toccare con mano la verità, attraverso le parole di William, le produsse un brivido sulla schiena. Ma, oramai, si trattava di storia. Decise di andare oltre: «Quindi è confermata la colpevolezza del Vaticano in relazione ai crimini di Draganović…»

«Sì. Senza alcun dubbio. Nel 1943 Ante Pavelić inviò Draganović in Vaticano con la carica di ambasciatore Ùstascia presso il papa. Come rappresentante della

Croce Rossa Croata si mise subito al lavoro, stabilì contatti regolari con il vicesegretario di Stato Montini e con papa Pio XII. La Chiesa gli aveva dato pieni poteri per portare a compimento il suo incarico segreto. Divenne segretario della Confraternita croata di San Girolamo e da qui organizzò quella che è chiamata Ratline, la “via dei topi”, ovvero il piano di fuga per salvare i criminali nazisti. Era un uomo dotato di un’astuzia e un cinismo fuori dalla norma, collegato direttamente sia con i servizi segreti vaticani sia con quelli italiani del dopoguerra. Presentò al pontefice e ai cardinali delle nazioni alleate delle mozioni per aiutare “persone in difficoltà”, in realtà i peggiori criminali del governo Ùstascia, molti membri delle SS tedesche e dei Balcani, colpevoli di atrocità di ogni genere. Il Vaticano agì da intermediario, fornendo sostegno, chiedendo che l’opera di Draganović non fosse ostacolata, intervenendo per via diplomatica, facendo pressioni. Alla fine, migliaia di soldati, politici, ufficiali, in maggioranza criminali di guerra, furono nascosti in vari monasteri e soprattutto nella chiesa di San Girolamo, per poi essere espatriati in nazioni compiacenti. Grazie ai aporti e ai documenti falsi che Draganović compilava i fuggiaschi, vestiti da sacerdoti o in borghese, si imbarcavano dal porto di Genova diretti verso la Spagna o il Sud America, oppure viaggiavano verso il Medio Oriente. Si trattava di una rete eccezionalmente ben ramificata che funzionò bene fino agli anni ’60 del secolo scorso, nonostante la caccia ai nazisti.» «E Draganović? Che fine fece nel dopoguerra?» «Con la morte di Pio XII, nel 1958, il clima in Vaticano cambiò e, considerate le voci che cominciavano a circolare sul coinvolgimento della Chiesa riguardo la fuga dei nazisti, Draganović fu immediatamente allontanato e spedito in Jugoslavia a lavorare per la Chiesa sotto il governo di Tito. Morì in povertà nel 1983 senza aver mai rivelato nulla delle sue attività segrete.» Alicia era rattristata. Non era cattolica, anzi, non era legata a nessuna confessione in particolare, sebbene in qualche modo credesse in un essere superiore; ma scoprire le prove che rappresentanti di Dio avevano messo in piedi un piano diabolico per salvare dei criminali di guerra, rendendosi così complici del regime nazista, era qualcosa che non riusciva ad accettare, per quanto, da tempo, conoscesse buona parte delle informazioni che William le stava fornendo con maggiore dettaglio. «Mi spiace, Alicia, non era mia intenzione mostrarti la Chiesa di Roma in una luce negativa. Ma ogni medaglia ha un proprio rovescio. In effetti la Caritas

internazionale e altre associazioni cattoliche si impegnarono a fondo per aiutare le popolazioni bisognose, coloro che avevano sofferto i danni maggiori dalla guerra, e sostennero molteplici opere di ricostruzione. Nemmeno questo va dimenticato.» «No, non ti preoccupare William…» «Beh, ci sono cose che sono sotto gli occhi di tutti, ma proprio per questo vengono dimenticate. Ma si tratta di storia, e nemmeno molto lontana da noi. Pensa che la Chiesa, quando Hitler divenne cancelliere, si affrettò a siglare con lui il Reichskonkordat. Nel settembre del 1933 fu firmato a Roma dal Segretario di Stato cardinale Eugenio Pacelli per il Vaticano – il futuro papa Pio XII, quello che forniva i aporti in bianco a Draganović – e da Franz von Papen per la Germania. Addirittura Pacelli conferì a von Papen l’onorificenza vaticana della Gran Croce dell’Ordine Piano. In pratica, con il Concordato, il Vaticano si impegnava a non creare difficoltà a Hitler da parte dei cattolici tedeschi e di sostenerlo. I vescovi avrebbero giurato lealtà al Terzo Reich e l’intera gerarchia cattolica tedesca si impegnava a sottomettersi agli ufficiali del regime nazista. A onor del vero Hitler firmò concordati simili anche con le diverse anime del protestantesimo, ma nel caso dei cattolici, il Concordato appariva ai suoi occhi come un sostegno senza riserve da parte del Vaticano, anche se Pacelli affermava che non si trattava di un riconoscimento dell’ideologia nazionalsocialista. Di fatto lo fu. Ti sei mai chiesta perché le truppe tedesche non misero piede in Vaticano quando invasero l’Italia dopo la caduta di Mussolini? E perché il Vaticano si compromise così tanto nel far fuggire decine di migliaia di criminali di guerra e SS? E perché papa Pio XII è stato così tanto criticato per non aver duramente condannato l’olocausto durante la guerra mentre sapeva perfettamente ciò che stava avvenendo nei campi di sterminio?» «Mhm… sarebbe interessante consultare gli archivi vaticani relativi a questo periodo. Penso che ne verrebbe fuori una vera bomba.» «Sicuro, purtroppo però non possiamo studiare i documenti sul secondo conflitto mondiale, e probabilmente non si potrà mai fare. L’archivio è segreto e tale, credo, rimarrà. In ogni caso, questi fatti incontrovertibili dimostrano come la Chiesa, nonostante alcune proteste formali, ma che ebbero un peso minimo e soprattutto si riferivano a maltrattamenti subiti dai cattolici, sostenne attivamente il Führer. Vedeva in lui l’unico baluardo contro il pericolo comunista. Un patto col diavolo necessario per allontanare il pericolo dell’ateismo rosso e

dell’avanzata dell’ideologia marxista. È stato solo grazie a Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, e a molti come lui, che tutto il sistema è venuto alla luce. Sapevi che di recente ci sono stati diversi processi portati avanti dai discendenti delle vittime dei campi di concentramento al fine di ottenere indietro quanto loro illegalmente espropriato? E sapevi che moltissimi dei valori – oro, opere d’arte, conti correnti – sono ati dal Terzo Reich, e dagli Ùstascia, in alcune banche svizzere e da qui alle casse vaticane? Sapevi che molti di quei tesori sono ancora lì?» «Ne ho sentito parlare. E questo dimostra che non viviamo in un mondo giusto. Più volte, nel corso della mia carriera alla Fondazione, mi sono imbattuta in notizie storiche che mi hanno fatto venire la pelle d’oca. E purtroppo si tratta di cose assolutamente reali, cose che noi non abbiamo possibilità di cambiare. Perché oramai fanno parte del ato, oppure perché siamo troppo insignificanti per poter mutare il corso degli eventi.» Una breve pausa silenziosa segnò un cambiamento nella conversazione. «Okay, e adesso che si fa? Non ci sono ulteriori indizi da seguire», disse lei. «Beh, si potrebbe cominciare a esaminare la rete di Odessa e cercare di seguirne le tracce. Il problema è che le vie di fuga erano molte, come molte erano le organizzazioni segrete e i luoghi in cui i nazisti si creavano una nuova vita. Però… è un po’ come cercare un ago in un pagliaio. Ci vorrebbero mesi solo per controllarne una…» William era contrariato; non aveva un carattere particolarmente deciso, ma quando si trattava di cose che gli stavano a cuore, come una ricerca storica che lo apionava, la prendeva sul personale. Alicia cercò di essere positiva ma trovava difficile proporre alternative. In pratica non ve n’erano. «Non c’è molto che possiamo fare al momento. Che ne dici di una visita in centro? È vero che è caldo ma Roma è bellissima con un sole del genere. Magari diamo un’occhiata al Vaticano, ci svaghiamo, liberiamo la mente e ci viene una buona idea per continuare la ricerca.»

Alicia annuì e si avviarono conversando del più e del meno. Non erano lontani che poche centinaia di metri da San Pietro e, mentre camminavano, si trovarono

a parlare di storia, arte antica e moderna, delle meraviglie che incontravano a ogni o. In effetti la compagnia reciproca era fonte di interesse per le profonde conoscenze che entrambi possedevano, seppure in campi diversi. William l’ascoltava attentamente quando lei gli indicava un ponte, una statua, ne metteva in risalto la perizia tecnica, l’accurata forma estetica e i suoi collegamenti con i movimenti artistici più o meno noti. Gli piaceva il modo in cui connetteva i vari aspetti della storia dell’arte, era quella la sua specializzazione, ma la sua vasta cultura spaziava anche in altre discipline, dall’archeologia alla botanica, dall’architettura alla storia sociale. Il tutto era frutto di corsi e ricerche personali che Alicia aveva intrapreso per seguire meglio le attività della Fondazione. Saperne più dei suoi collaboratori per lei era un must. Attraversato il ponte Cavour procedettero lungo via della Conciliazione; William era intento ad illustrare ad Alicia il sistema di sponsorizzazioni private alla London University, ma si interruppe osservando un venditore ambulante che esponeva sulla bancarella mobile cartoline dell’inizio del XX secolo, penne da scrivano e medaglie militari italiane. Rifletté per qualche attimo mentre Alicia era incuriosita ma non riusciva a capire cosa avesse attratto il suo interesse. «Scusa un momento…», William si allontanò di qualche o e tirò fuori il suo iPhone cercando un numero nella rubrica. Poi lo selezionò e partì la telefonata. Alicia lo sentì confabulare con quello che sembrava un vecchio amico, ma non riusciva a capire bene: sembrava comunque qualcosa di attinente la loro ricerca. Quando William ebbe finito la raggiunse con un bel sorriso: «Sembra che abbiamo una pista.» «Davvero?», domandò lei. «Esatto. Osservando quelle medaglie mi è venuto in mente un vecchio amico, un collezionista di materiale militare e, a suo modo, uno studioso e scrittore. Ogni tanto gli chiedo di fare delle ricerche nella sua vasta biblioteca o qualche consulenza e perizia specialistica. Abbiamo collaborato diverse volte a progetti comuni e di lui mi fido ciecamente. Gli ho chiesto se ha materiale specifico su un ufficiale SS Ahnenerbe, Wilhelm Meister…» «E lui, cosa ha risposto?»

«Mi ha detto che il nome non gli è nuovo e che ci farà sapere qualcosa più tardi.» «È un ricercatore?» «Ricercatore…», strascicò un attimo la parola. «Sì, anche se sui generis. Anche i suoi interessi sono un po’, come dire, fuori dagli schemi. Ma è uno studioso di grande valore, un vero pozzo di conoscenza nei settori di sua competenza. E poi ha una memoria eccezionale. Prima lavorava alla borsa di Londra, ma dopo aver fatto fortuna negli anni ’80 e ’90 si è stancato e ha cominciato a dedicarsi alle sue vere ioni, quelle che coltivava dalla giovinezza: la storia militare e il collezionismo, sempre di argomento bellico. Vive in una casa nell’Hertfordshire, a nord di Londra, che sembra una reggia e il primo piano è interamente adibito a ospitare le sue magnifiche collezioni. Pensa che possiede oltre mille uniformi, armi della Prima e Seconda guerra mondiale, altre ancor più numerose di diverse epoche storiche… non so quanti pezzi possegga, ma sono tutti conservati in teche sempre pulitissime e ordinate. La sua dimora sembra un vero e proprio museo. Senza turisti, però. Inoltre ha una biblioteca in cui sono conservati documenti che nessun altro possiede.» «Bene, spero proprio ci possa dare una mano», fece Alicia. In cuor suo sperava che la ricerca non si arrestasse ancor prima di cominciare. «Me lo auguro anche io… è un tipo un po’ strano, ma di grande fascino. E con un’enorme cultura. Ma può darsi che lo possa conoscere presto.» Erano oramai a pochi i dal colonnato di Bernini. Proseguirono e trascorsero diverse ore nella visita della basilica. Entrambi l’avevano già vista in ato, ma l’emozione che provavano era comunque autentica, come se fossero lì per la prima volta. Verso le cinque presero un tè con qualche dolcetto in una deliziosa pasticceria tipica, appena fuori le mura Leonine e mentre si recavano in direzione di piazza Venezia e del Campidoglio, William ricevette una telefonata.

«È lui», disse ad Alicia prima di rispondere, guardando il cellulare. Quindi prese la chiamata: «Ciao Richard. Hai notizie?»

La donna lo osservò con un certo divertimento cambiare una decina di espressioni nel minuto in cui ascoltò attentamente senza interrompere. «Ah… grazie Richard. Un aiuto insperato. A domani mattina allora.»

William chiuse la comunicazione osservando il selciato. Poi alzò lo sguardò: «Abbiamo una pista.»

Capitolo 8

Sala di Controllo Globale. The Rune, New York.

Poche ore dopoIl cinquantaseiesimo piano del GE Building, al numero 30 di Rockefeller Plaza, ospitava una insolita riunione. Dodici uomini, tutti in giacca e cravatta, stavano prendendo posto intorno a un grande cerchio disegnato sulla moquette della lussuosa sala segreta. Ognuno di loro indossò una tonaca di tessuto leggero, nera, simile al saio di un monaco, ma con un vistoso triangolo ricamato sul petto. Coprirono la testa con il cappuccio. Le luci si spensero e solo una luminescenza azzurrina proveniente da dietro un pannello permetteva di vedere le sagome dei presenti. Sotto i cappucci i visi erano tirati e molti di loro vivevano quel momento con apprensione. Non era la prima volta che partecipavano a quel tipo di riunioni e non erano certo persone sensibili, ma tutti, indistintamente, percepivano un intenso brivido, un timore diffuso attraversare i loro sensi.

Ognuno prese posto nel luogo assegnato intorno al cerchio. Al centro erano stati collocati una piramide, una sfera e un cubo, tutti d’oro massiccio. L’ambiente era pervaso da una strana atmosfera di attesa, un’ansia vibrante, palpabile.

Gli uomini cominciarono a pronunciare una strana nenia in una lingua incomprensibile e a cantare. Ma il loro era un suono senza parole, modulato su una serie di note precise, che sibilarono più volte.

Azionato da queste frequenze particolari, il dispositivo olografico di proiezione posto sul soffitto, perpendicolare al cerchio, cominciò a ronzare e al di sotto di esso cominciò a formarsi una fonte di luce bianchissima, molto intensa, attorniata da quello che sembrava vapore o l’immagine di esso. La luce pulsava

sempre più velocemente finché parve stabilizzarsi in un’intensità fuori del comune. Da essa si allungarono quattro raggi ortogonali in direzione nord-sud ed est-ovest. Allora si aprì, molto lentamente, una fessura, una sorta di varco composto da una luminescenza bluastra. Era qualcosa di molto bello, un’immagine olografica perfetta. Poi, qualche attimo dopo, cominciò a delinearsi nel varco una sagoma. Prima spettrale, indefinita, poi sempre più chiara. L’immagine era quella di un uomo vestito completamente di nero, la stessa veste degli uomini presenti nella sala. Il volto rimaneva celato e il cappuccio, che pareva illuminato dall’alto da un faro di luce bianco-blu, nascondeva il resto della testa. Sotto la tonaca si intravedeva il colletto di una camicia e il nodo di una cravatta. Quando l’immagine si stabilizzò perfettamente, egli alzò una mano e gli uomini nella sala si inginocchiarono e rimasero in assoluto silenzio, cessando il loro strano cantilenare. I lunghi e folti capelli argentei del nuovo arrivato fuoriuscivano dal cappuccio. La sua persona emanava una strana aura di autorità, un carisma indiscusso, che sembrava generato da una energia quasi palpabile. Quello che avvenne poi rimase scolpito nella mente dei presenti in modo imperituro. Essi interagivano con lui chiamandolo “Eccellenza”, ma tra loro lo indicavano come L’Osservatore. Tutti sapevano bene chi fosse, sebbene i più “anziani” e quelli più addentro alle cose sospettassero che L’Osservatore possedesse caratteristiche non propriamente umane. E, se anche quest’aspetto poteva spaventarli, a nessuno di loro sarebbe stato concesso tornare indietro. Quella era una situazione da cui non si usciva. Si stava dentro o fuori.

Si alzarono all’unisono e, uno dopo l’altro, parlarono con L’Osservatore, in modo molto deferente, quasi religioso, come se si trovassero davanti a una divinità. L’Osservatore ascoltò, quindi prese la parola. La sua era una voce profonda, quasi rauca, che pareva provenire da un’altra epoca. Quando terminò alzò la mano e tutti si inginocchiarono di nuovo. Anche L’Osservatore si inginocchiò a sua volta e toccò con la mano la piramide d’oro, la sfera e il cubo. Poi, mentre gli uomini rimanevano nella loro posizione, egli si rialzò, mise le mani coperte da guanti neri una sopra l’altra, con le palme verso l’alto, le dita sopra le dita, in modo da formare una specie di triangolo. Le unì intrecciandole, formando una

sfera e infine mise a contatto le dita realizzando una sorta di cubo mantenendo sempre le mani aderenti. Infine le aprì di fronte a sé con le palme verso l’esterno e mise a contatto i pollici e gli indici. Fu allora che la sua figura, gradualmente, cominciò ad affievolirsi; di nuovo si formò l’immagine di un vortice nella luce azzurra, poi la fonte luminosa bianca intensissima che riprese a pulsare, fino a che tutto si spense.

In piedi, tolti i cappucci, i più potenti uomini della Terra, coloro che avevano in mano il controllo finanziario e politico globale, si guardarono in viso silenziosi, mentre le luci si riaccendevano. Avevano nuove istruzioni. La loro missione procedeva.

Capitolo 9

Casa di Richard Levine Byrd, campagna dell’Hertfordshire. 31 maggio 2017. Ore 10:30

A Londra il cielo non appariva così libero da nubi come a Roma ma era comunque un bella giornata di primavera: la casa di Richard Levine Byrd, una meravigliosa tenuta padronale immersa nel verde smeraldo dell’Hertfordshire, si trovava nei pressi di un lago e di un bosco secolare che si estendeva oltre l’ala ovest. Alicia e William erano giunti quella mattina a Heathrow con un volo British Airways e, noleggiata un’auto, avevano raggiunto la proprietà.

Scesero di fronte alla grande villa, risalente al XVIII secolo ma restaurata in età vittoriana secondo il gusto dell’epoca; i giardini, che si intravedevano oltre il cancello, erano curatissimi e una fontana neoclassica occhieggiava da dietro le siepi. Ammirarono la vasta tenuta e William, che l’aveva visitata più volte insieme a Byrd, ne descrisse brevemente le caratteristiche ad Alicia.

Dopo aver suonato al citofono, una voce gracchiante li accolse con un semplice: «Ciao William, entrate!»

Il cancello si aprì e presero il sentiero principale che giungeva alla scalinata di fronte al prospetto principale della villa. Li attendeva un maggiordomo che chiese loro di seguirlo, guidandoli attraverso gli ampi spazi del piano terra. Le sale erano enormi, le pareti impreziosite da splendidi arazzi, tende, quadri. Dal soffitto pendevano sfavillanti lampadari e in ogni angolo oggetti d’arte e antiquariato. Tutto concorreva a dare l’idea che la villa fosse abitata da un

principe ritiratosi nell’ozio di campagna.

Erano appena giunti al primo piano che una figura corpulenta in giacca e cravatta li accolse con calore. Richard Levine Byrd era un uomo di circa sessant’anni, con folti capelli grigi e una barba molto ben curata. Coltivava svariati interessi e una inesauribile ione per la storia militare, nonché una altrettanto intensa ione per l’alta cucina internazionale che lasciava le sue tracce sul suo giro vita. Tuttavia, essendo alto più di un metro e novanta, riusciva a mascherare meglio la pinguedine e il peso in eccesso concorreva a rendere la sua figura più imponente e autoritaria.

Era visibilmente felice di incontrarli. Strinse la mano con calore a William tirandolo a sé e abbracciandolo, poi fece il baciamano ad Alicia. «William, signora Wyler, siete i benvenuti nella mia umile dimora», esclamò con un largo sorriso. I suoi occhi acuti e luminosi suscitavano simpatia ed esprimevano sincerità.

«La prego, mi chiami Alicia.» «Benissimo Alicia», continuò in modo gioviale. «Io sono Richard, per gli amici. Se ci diamo del tu, tutto scorrerà meglio. Come del buon whisky di malto. Venite, faccio strada.» Byrd li guidò verso un enorme corridoio ai cui lati si trovavano grandi teche su mobili a cassettoni di legno scuro molto antichi, con volumi aperti, lettere, spade e armi bianche e da fuoco, oltre a oggetti militari d’uso quotidiano risalenti alle grandi battaglie inglesi e si del XVII e XVIII secolo. Alicia era esterrefatta: quello era un vero e proprio museo e, come tale, perfino l’atmosfera era mantenuta alla giusta temperatura e umidità, i sistemi di controllo negli angoli del salone lo indicavano chiaramente. Dal salone Byrd li fece entrare, aprendo una pesante porta di quercia, in una vasta sala con un soffitto alto almeno sette metri e le cui pareti erano letteralmente ricoperte di libri ordinati su scaffali vecchi di secoli, a cui si accedeva con scale di ottone dotate di sistemi

elettrici. Al centro, un tavolo che poteva ospitare almeno trenta leggii sostava da tempo immemorabile su un grande tappeto orientale. Un vaso cinese di enormi dimensioni campeggiava sopra il piano del tavolo. Byrd li fece sedere mentre il maggiordomo portava tè, acqua e sandwich di vario genere.

William notò che sul tavolo vi era anche un notebook aperto con uno screensaver in funzione. William bevve volentieri il tè, mentre Alicia sorseggiò un po’ d’acqua e, dopo alcuni minuti di convenevoli, nei quali il padrone di casa si informò su chi fosse la donna e su quale fosse la natura delle loro ricerche, proruppe in un grande sorriso, mentre sorseggiava il suo beneamato whisky, un Talisker scozzese torboso. Fu William a venire presto al dunque. «Allora Richard, cosa mi puoi dire in merito?» «Diciamo che ho trovato qualcosa che potrà esservi utile. Con le scarne notizie che William mi ha fornito», continuò guardando ironico prima l’amico e poi Alicia, «sono comunque riuscito a contattare alcune… ehm, persone, che mi hanno fornito le informazioni che vi servono. Mi sono fatto portare il materiale direttamente qui a casa tramite un corriere. Era qualcosa che mancava alla mia collezione e quindi l’ho subito acquistata.» Alicia si affrettò a interromperlo: «Richard, ogni spesa da te sostenuta verrà rimborsata, abbiamo ampia discrezionalità in questo.» Byrd alzò la mano, bloccandola. «Mia cara, per carità, non se ne parla neppure. Tutto quello che vedi qui, dai dodicimila volumi di questa sala agli oggetti in mostra nella villa, compresi quelli che tengo sotto chiave nei sotterranei per motivi di sicurezza, sono il frutto del mio lavoro e della mia ione. Vedi io sono un collezionista, uno della peggior specie, diciamo pure un vero maniaco che farebbe qualunque cosa pur di possederli. Se una cosa mi piace e rientra nei miei interessi non bado a spese… per fortuna non ho problemi di soldi. Grazie alle bolle speculative e agli investimenti che ho fatto nel ato e che seguo nel presente mi posso permettere di soddisfare la mia “ingordigia”, se mi i il termine.»

William alzò gli occhi al cielo. Era vero, conosceva bene Richard e aveva avuto più volte occasione di verificare la sua mania. Era anche vero che l’amico manteneva solidi contatti con gli ambienti finanziari e con alcuni tra i più potenti banchieri europei. In ogni caso, il suo unico scopo era quello di collezionare, studiare, conservare… i soldi erano solo il mezzo per alimentare la sua brama onnivora. «Ma torniamo a noi. Quello che cercate rientra tra i miei interessi, anzi si tratta di “pezzi” che mancavano proprio alla mia collezione.» William era curioso. D’altra parte Richard era stato chiaro. Meglio non parlare di certe cose al telefono o via mail. Per questo si erano precipitati in Inghilterra.

«Allora, Richard, cosa hai trovato?», chiese. Non stava più nella pelle. Byrd non aspettava altro e, dopo aver digitato una , premette una serie di tasti su un minuscolo telecomando che aveva tratto da una tasca: con uno scatto e un ronzio, da sotto al tavolo, a fianco di William, si aprì un grande cassetto segreto. L’interno era rivestito di raso rosso e conteneva una serie di oggetti e di lettere ingiallite dentro una busta di plastica trasparente. Vi era anche un anello. Byrd si infilò dei guanti bianchi di cotone presenti nel cassetto in due paia e aprì la busta. Tirò fuori uno a uno gli oggetti e li posizionò sul tavolo di fronte ai due ospiti.

«Ecco qua: l’anello totenkopfring, o testa di morto, di Wilhelm Meister.» Alicia lo osservò con attenzione: era un anello d’argento le cui incisioni rappresentavano un teschio e quelli che parevano simboli runici. All’interno vi era incisa una data: 12 giugno 1936 e il nome del Reichsführer delle SS: heinrich himmler. «È un riconoscimento da parte di Himmler?», chiese incuriosita. William aveva appena indossato l’altro paio di guanti e prese tra le dita l’anello,

scrutandolo attentamente: «Sì, era il simbolo di appartenenza all’Ordine delle SS, che Himmler aveva organizzato come se fosse un ordine religioso, prendendo come modello i gesuiti. Questi anelli venivano donati personalmente da Himmler agli ufficiali delle SS che avessero raggiunto una certa anzianità di carriera. Alla morte del proprietario gli anelli dovevano essere restituiti e tornare nel castello di Wewelsburg, nello Schrein des Inhabers des totenkopfringes, lo scrigno dei possessori dell’anello d’onore. Non ce ne sono molti in circolazione… è un pezzo raro.» Byrd, pieno di soddisfazione lo interruppe: «In realtà ce ne sono tremila e cinquecento in giro per il mondo, il che farebbe pensare che non siano così rari. Un “pezzo” è raro quando al massimo ne trovi due o tre copie… ma l’anello diventa oggetto ambitissimo perché i possessori non li vendono facilmente. Anche se c’è da aggiungere che il mercato pullula di falsi e solo un esperto riesce a distinguerli dagli originali.» «Quei simboli… sembrano rune», Alicia esaminava con attenzione le incisioni sull’argento consumato. «Sono rune, ma leggermente differenti rispetto a quelle convenzionali», rispose William. «Le rune tradizionali non erano altro che un alfabeto divinatorio utilizzato dai druidi in tutta l’Europa del Nord per i loro vaticini. Himmler scelse specifiche rune da far incidere, seguendo il parere del suo consigliere spirituale, Karl Maria Wiligut. È lo stesso personaggio che suggerì a Himmler i disegni costruttivi della sede delle SS a Wewelsburg e i rituali da eseguire all’interno della cripta.» «Rituali, rune, druidi, sembra una setta esoterica, non un partito politico», commentò Alicia. «Già, il nazionalsocialismo è intriso fin dalla sua nascita di rituali neopagani. Anzi, nasce proprio da una società, la Thule Gesellschaft, che praticava la meditazione basandosi sulla visualizzazione delle rune, posizioni particolari del corpo e controllo del respiro. Ma qui, in questi anelli, hanno un significato preciso. Il teschio significa che chi lo indossa è preparato a morire per i suoi ideali nazionalsocialisti. La runa Sieg, o Sig, che vedi come una N rovesciata dentro un triangolo, significa “vittoria” e rappresenta il potere energetico del sole. La runa Hagal, presente qui a forma di asterisco inscritto in un esagono, simboleggia la forza mistica dell’ariano: Guido von List, il principale

teorizzatore e studioso austriaco delle rune, ne riassumeva l’essenza con queste parole: “racchiudi l’universo dentro di te e lo controllerai”. La Swastika, racchiusa nel quadrato, riassume l’uomo ariano in marcia per trovare il suo sé. Invece la doppia runa Sieg, insieme a questa specie di freccia inscritte in un cerchio, sono una creazione di Wiligut e significano salvezza da Dio.»

Alicia rimase piuttosto perplessa. «Davvero interessante… degli ufficiali, dei militari che portano un anello con simboli religiosi. È straordinario vedere di persona quello che hai scritto nei tuoi libri.» William aveva alle sue spalle diverse pubblicazioni a riguardo. Saggi che Alicia aveva letto e riletto più volte. Ma una cosa era leggere, un’altra toccare con mano. «Già», convenne. «In effetti il nazismo è solo l’aspetto politico di un movimento spirituale ben più importante. È una religione occulta, mascherata da partito politico. Hitler e il suo staff volevano diffondere sulla Terra un Nuovo Ordine Globale, imperniato sulla razza ariana e governato da una élite, in pratica una casta di sacerdoti della nuova religione, che avrebbero mosso le fila dal quartier generale delle SS di Wewelsburg.» A quelle parole Alicia alzò gli occhi, raccogliendo un ricordo particolare. Nuovo Ordine Globale o Nuovo Ordine Mondiale erano parole che aveva sentito più volte, soprattutto negli ultimi tempi. Ci rifletté sopra qualche secondo, ma le parole di William all’amico collezionista la distolsero dai suoi pensieri.

«Richard, hai una fibbia delle unità combattenti?» «Certo. Dammi un attimo che la prendo.»

Un minuto dopo Byrd tornò con una cintura dell’esercito tedesco perfettamente conservata. La diede a William che indicò ad Alicia il motto inciso sulla fibbia: «Ecco qua: Gott Mit Uns, “Dio è con noi”. Era il motto dell’esercito prussiano ma riassume bene la “religione” nazista. Hitler teneva particolarmente a questo

aspetto, e sottolineò più volte che il nazionalsocialista è per definizione “credente”. Ma certo il suo Dio non è quello dei cristiani. A ogni modo, la fede in un essere superiore è così forte nel nazismo da mandare i suoi soldati in guerra con questa frase benedicente, come a dire: stiamo combattendo per Dio.» «In fondo, il fascino oscuro che sta dietro il Terzo Reich è dovuto a questo.» Alicia era notevolmente interessata. E allo stesso tempo provava una certa apprensione al pensiero che per un soffio Hitler non avesse vinto la guerra. Ci fu una pausa. Poi William prese in mano il totenkopfring e lo rigirò tra le dita. Guardando l’amico disse sorridendo: «Dove l’hai scovato? E da dove vengono le carte e tutto il resto?» «Ehm… i miei contatti non hanno voluto illustrarmi la provenienza, ansiosi com’erano di intascare la loro congrua commissione. Dicono che si trattava di una persona che aveva urgente bisogno di denaro e aveva messo all’asta tutto il contenuto di questa busta insieme ad altro materiale. Chiaramente non si trattava di Sotheby’s… Diciamo che, visto il mercato sotterraneo presso cui mi servo ogni tanto, è bene non fare troppe domande.» William e Alicia abbassarono lo sguardo con la stessa espressione sul viso. La fonte era quantomeno dubbia, ma i pezzi erano autentici. William rigirò l’anello tra le dita: «All’interno c’è scritto: s.l. meister, ossia, seinem liebe Meister; che significa: “Al mio caro Meister”. Ma come fai a essere sicuro che sia della persona che cerchiamo?» Byrd digitò qualcosa sul computer portatile. Quindi si alzò e si diresse verso un elegante schedario di legno massiccio e scartabellò alcuni documenti in ordine alfabetico finché trovò ciò che cercava. Era in una busta di poliestere trasparente, per evitare che si rovinasse. Lo portò a William trionfante: «Ecco, questo è il Dienstalterslisten, o Lista degli Ufficiali Anziani, con la data e il nome. È il documento ufficiale delle SS che nella versione in mio possesso porta allegato un foglio che conferma che il 12 giugno 1936 venne conferito il dono dell’anello soltanto a Wilhelm Meister. L’anello è autentico e si riferisce al “nostro” uomo. Non è una replica ben fatta, perché queste hanno alcuni punti riconoscibili, per esempio aree artificialmente consumate che non corrispondono all’usura normale di un anello o la saldatura evidente all’esterno, che nell’originale è solo all’interno visto che questi anelli erano ricavati da una lamina continua di argento. È originale al cento per cento.»

William lo guardò con soddisfazione: «Non che avessi dubbi… Conosco bene l’accuratezza con cui scegli il materiale per la tua collezione. Diamo un’occhiata ai documenti.» William lesse, traducendo e riassumendo per sommi capi, le lettere di Meister. Si trattava di scritti personali ad amici e anche lettere formali ad alti ufficiali del Terzo Reich. Due di queste erano della fine del 1944 e denotavano forte preoccupazione per la sorte della Germania. Mentre scorreva con gli occhi, ebbe quasi un colpo. Smise di parlare, leggendo silenziosamente tutto d’un fiato le parole sul foglio ingiallito. Alicia e Byrd lo osservavano con una certa apprensione e curiosità: cosa c’era di così importante in quella lettera? Poi William guardò Byrd pieno di soddisfazione e si trattenne a stento dall’abbracciarlo: «Amico mio, sei un vero genio. Sia lode alla tua mania di collezionista.» Byrd era lietissimo di essergli stato utile: «Cosa hai trovato?» William continuava a leggere incredulo, girando e rigirando il foglio tra le dita. Poi si decise a parlare: «Questa lettera ci fornisce probabilmente la pista giusta da seguire. Qui Meister scrive a un maggiore della Ahnenerbe, probabilmente un collega e amico a Wewelsburg visto lo stile molto più colloquiale: infatti usa il tu e riporta una notizia relativa a una possibile soluzione al loro “problema”, così dice… ed è tra virgolette. Stanno parlando di qualcosa che nessuno avrebbe dovuto capire, utilizzando una sorta di codice criptato. Ma nel 1944 sia Meister che il suo amico sapevano benissimo che avrebbero perso la guerra e tra gli ufficiali delle SS si era immediatamente diffusa la voce di una Ratline, una via di fuga pianificata dai vertici militari, per gli ufficiali del Terzo Reich e pochi altri, già dall’agosto di quell’anno.» «Hotel Maison Rouge, a Strasburgo…» Alicia aveva immediatamente richiamato alla mente il video realizzato alla Wyler Foundation. «Esattamente. Ma in questa lettera c’è un indizio… qualcosa che mancava nel filmato, ovviamente», osservò William raggiante. Lesse quindi dalle righe in elegante tedesco: «Qui si parla del signor “Dodero e dei suoi amici croati, che sarà sempre onorato di ospitare sulla sua nave”. Meister dice di aver avuto rassicurazione di un possibile viaggio offerto da questo misterioso “signor

Dodero”, di una “crociera”. Da come si esprime è chiaro che si riferisca a un momento futuro, ossia quando la sconfitta li costringerà a fuggire. Parla poi della Principessa Mafalda….» «Mafalda di Savoia?», domandò Richard. «Sì, ma non si riferisce alla figlia di Vittorio Emanuele III, morta in un campo di prigionia. Principessa Mafalda era il precedente nome della nave piroscafo San Giorgio che, guarda caso, so per certo appartenesse all’armatore Dodero. Costui, nell’immediato dopoguerra, faceva la spola tra Genova e Buenos Aires. Nella data in cui scrive Meister era già evidente a tutti che la fine del conflitto, almeno in Europa, era imminente. Per questo si stavano organizzando.» «E tu come fai a saperlo?» Da buon studioso e ricercatore indipendente Richard era interessato alle fonti delle informazioni storiche. «Hai presente Erich Priebke?» «Quel vecchietto che estradarono dall’Argentina in Italia per crimini di guerra? Mi sembra sia morto di recente…» «Proprio lui. In un’intervista di qualche anno fa racconta che nell’ottobre del 1948 era fuggito in Argentina con un aporto intestato a un lettone, tale Otto Pape, a bordo della San Giorgio. La figlia del proprietario della compagnia Dodero aveva sposato un croato. L’attività dell’azienda era confluita nelle sue mani e da quel momento, grazie ai suoi buoni uffici, qualsiasi nave diretta in Argentina, che fosse o meno dei Dodero, riservava dei posti ai croati che volessero emigrare. E guarda caso si trattava sempre di membri del governo Ùstascia, criminali di guerra con falsi aporti croati, SS… tutti fuggiti grazie alla rete Odessa, gestita a Roma da padre Draganović. Tre settimane dopo Priebke era a Buenos Aires e cominciò una nuova vita, grazie alla benevolenza di Perón, il dittatore argentino simpatizzante dei nazisti. Ho letto da poco il testo di un’intervista di Priebke e ho preso appunti per un nuovo libro che sto scrivendo, ecco perché ho collegato immediatamente il nome Principessa Mafalda a Dodero. E poi la lettera menziona una “crociera”. È un indizio chiaro, non vi pare? Meister progettava la sua fuga in Argentina, partendo da Genova e proprio grazie a una delle nave dei Dodero. C’è anche un nome che non sembra né tedesco né argentino, kommandant August Reddings.» Alicia osservava William impressionata. Davvero era l’uomo giusto per quella

missione, un semplice detective non avrebbe potuto conoscere quelle informazioni o fare certi collegamenti. «Beh», continuò la donna, «visto che a Roma non abbiamo trovato nulla, proporrei di andare a Genova, ci dovrebbe essere un archivio o qualcosa del genere. Se esiste una sede delle linee marittime Dodero può darsi che si possa trovare qualcosa. Sempre che esista ancora, ripeto… Richard, posso dare un’occhiata in rete?» Byrd le allungò il notebook. Da una veloce ricerca appresero che la Dodero Lines era stata rilevata negli anni ’60 da un’altra società argentina, la ELMA, ossia la Empresa Líneas Marítimas Argentinas. Quello che lesse poco dopo la deluse un po’. «Mhm… non esiste più dagli anni ’90 del secolo scorso. Quindi è davvero poco probabile che si conservi un archivio storico con i nomi delle persone partite da Genova. Forse… William hai sulla tua usb i files in pdf dei documenti di Meister?» Si trattava degli incartamenti acquisiti dalla Wyler Foundation presso la famiglia Hume. William le allungò la chiavetta che portava sempre con sé, dove teneva i documenti più preziosi del suo lavoro. Alicia aprì il file relativo e trovarono il aporto che Meister avrebbe dovuto utilizzare, intestato a un cittadino spagnolo, Fernando Cordoba. Era fatto con carta filigranata della Croce Rossa Internazionale e portava il timbro della Città del Vaticano. Alicia Wyler rifletté per un attimo, poi ricapitolò: «Meister era una delle persone aiutate da padre Draganović. Doveva partire da Genova e sarebbe approdato in Argentina, quasi sicuramente a Buenos Aires. Prima di essere catturato e ucciso, spedì il baule. Sappiamo che venne inviato in Sud America e, con tutta probabilità, in Argentina. Ora, se cercassimo nell’archivio doganale e postale un collo inviato nel 1944 da un certo Fernando Cordoba?» «Sono ati più di settant’anni… bisognerà trovare il nome del corriere o forse è stato spedito via posta ordinaria. Comunque, visto quello che è accaduto in Argentina negli ultimi anni, penso che vi sia rimasto poco su cui indagare», fece Richard piuttosto scettico. «È molto probabile», disse Alicia, poi prese il cellulare: «Può darsi che riesca a

trovare qualche informazione al riguardo, scusatemi.» Si allontanò abbastanza per non essere udita mentre gli altri continuavano a esaminare le carte.

Qualche minuto dopo tornò al tavolo con alcune informazioni. I due amici stavano discutendo con entusiasmo del totenkopfring. «Eccomi. Allora», esordì Alicia sedendosi, «ho telefonato a un esperto di queste cose alla Fondazione: ha fatto una ricerca tramite sue conoscenze e ha trovato che molto del materiale relativo al traffico postale argentino dal 1900 in avanti è andato perduto, non c’è modo di trovare nulla. Per quanto riguarda invece il kommandant August Reddings menzionato nella lettera… beh, mi ha detto che il nome corrisponde a un capitano americano di Boston che durante la guerra comandava una petroliera della società Standard Oil. Sembra che nel periodo che ci interessa portasse il petrolio alle isole Canarie. E faceva tappa anche a Buenos Aires…» Richard e William si scambiarono uno sguardo. Trattenevano a fatica il loro entusiasmo: quella informazione insperata poteva significare una svolta decisiva alle indagini. Alicia li osservò divertita: «Potete rendere partecipe anche me dei vostri pensieri?» «Ma certo, scusami, Alicia», William le regalò l’ennesimo sorriso. «La Standard Oil era la società di J.D. Rockefeller che aveva il monopolio mondiale dell’estrazione e vendita del petrolio. Rockefeller era una vera volpe e manteneva i prezzi artificialmente alti facendo profitti inimmaginabili. Quello che molti non sanno è che il più grande azionista tedesco della Standard Oil era IG-Farben, una gigantesca industria chimica tedesca. Durante la grande depressione la Germania fu vista dai maggiori banchieri statunitensi come un terreno ideale di investimento, e cominciarono a fare affari con i tedeschi. La IGFarben intanto cominciò a rifornire i nazisti con tutta la sua avanzatissima tecnologia, produceva infatti: farmaci, droghe, prodotti chimici di ogni tipo, componenti per armi, un po’ di tutto… I vertici della IG-Farben collaborarono a stretto contatto con i Rockefeller e le attività da loro controllate. Nel 1941 erano talmente potenti che poterono avviare una fabbrica chimica proprio accanto al campo di sterminio di Auschwitz, avvalendosi degli internati come lavoratori.

Ovviamente gli americani sapevano perfettamente cosa avvenisse da quelle parti. E sapevano anche dell’esistenza del campo di concentramento di Monowitz che aveva come scopo l’eliminazione fisica in scala industriale di esseri umani.» «Mio Dio…», Alicia abbassò lo sguardo. William non sembrò accorgersene, ma lei recepì quelle parole come un pugno nello stomaco. «Già, è terribile. Ma c’è di più. Oltre alla Standard Oil c’erano altre grandi aziende americane che in un modo o nell’altro erano collegate al nazismo. Tra queste la DuPont e la General Motors che producevano piombo di tetraetile, un componente vitale del carburante degli aerei della Luftwaffe. Rockefeller e i suoi trasportavano con le petroliere della Standard Oil il carburante per Hitler fino alle Canarie, dove gli U-Boot si rifornivano e gli incaricati del Terzo Reich acquistavano olii combustibili preziosi. È così. Gli Stati Uniti, in poche parole, nelle persone dei suoi maggiori industriali, fornirono tutti gli aiuti necessari a Hitler per rifornire il proprio esercito, la marina e l’aviazione, mentre tantissimi americani morivano combattendo il nazismo. In questo modo milioni e milioni di marchi tedeschi venivano riciclati tramite le banche dei Rockefeller, specialmente la Chase Bank. Finanziariamente il Terzo Reich non sarebbe mai potuto esistere – o resistere – senza il denaro che Rockefeller, Rothschild e gli altri grossi gruppi bancari internazionali gli offrivano a piene mani. Sembra incredibile ma è così. Hitler, allora come oggi, aveva molti estimatori, specialmente tra i bianchi americani e gli inglesi più ricchi. Oltre a condividerne gli ideali razzisti erano profondamente coinvolti in società esoteriche che approfondivano ricerche di occultismo e pratiche meditative pagane.» Richard replicò con tutta l’esperienza dei suoi trent’anni di agente di borsa e professionista dell’alta finanza: «Già. E non è tutto qui. Oltre ai simpatizzanti veri e propri, ci furono molte aziende, americane e non, che sostennero direttamente Hitler e fecero cospicui affari con il Terzo Reich.» Si rivolse ad Alicia: «Te ne cito solo alcune: la Allianz, la società assicurativa tedesca, aveva un amministratore delegato che faceva parte dei consiglieri di Hitler e durante l’Olocausto, invece di pagare i benefici di assicurazione sulla vita agli ebrei, dirottò quei soldi nelle casse dei nazisti. La Kodak americana, per citartene un’altra, faceva affari d’oro con Hitler. Hugo Boss cominciò nel 1930 a disegnare le uniformi naziste e firmò lucrosi contratti con il Terzo Reich; lui stesso era un nazista, e utilizzò come manodopera per la sua fabbrica molti detenuti dei campi di concentramento. Il maggiolino della Volkswagen, tanto amato anche dalla nostra generazione e di nuovo in auge, nasce dalla

collaborazione di Ferdinand Porsche con Hitler. Durante la guerra quattro su cinque dei lavoratori nelle fabbriche Volkswagen erano internati di campi di concentramento. Inoltre Porsche aveva stretti contatti con Himmler e richiedeva a lui gli operai che venivano prelevati dai campi di sterminio. Per non parlare della Bayer che produceva aspirina, farmaci e molto altro e, mentre realizzava nuove medicine, preparava il famigerato Zyklon B, originariamente veleno per topi che fu adattato dalla Bayer per farne gas da utilizzare per sterminare gli ebrei. Ci sono un’infinità di aziende che collaborarono con Hitler. E molte sono purtroppo americane. Quando ci beviamo una Fanta, quando compri un’auto marcata Ford, quando acquisti un computer IBM, e così via, tieni sempre presente che quelle aziende, in un modo o nell’altro, nel ato hanno fatto lucrosi affari con i nazisti.» «Spiegati meglio, Richard.» Alicia sapeva bene che le cose non erano andate esattamente come aveva studiato a scuola. Però i dettagli le sfuggivano. «La Fanta fu creata nel 1940 da colui che, per conto della Coca-Cola, imbottigliava la bevanda in Germania. Hitler aveva proibito l’importazione della Coca-Cola e così la compagnia “inventò” una nuova bevanda, la Fanta appunto. La Coca-Cola sosteneva così i soldati alleati e, allo stesso tempo, le unità combattenti di Hitler. Per quanto concerne Ford, il suo antisemitismo e la sua simpatia per Hitler sono piuttosto famosi: addirittura il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, nel 1938, ricevette una onorificenza nazista, specifica per “gli stranieri illustri”, una medaglia segno di gratitudine da parte del Terzo Reich per averne sempre sostenuto l’ideologia e per aver inviato enormi somme di denaro a sostegno della Germania. L’IBM poi fornì un grande quantitativo di macchine calcolatrici meccaniche a Hitler che ne aveva bisogno per contare i deportati nei campi di sterminio e trasferirne i conti nelle banche tedesche e svizzere, e il Consiglio di Amministrazione dell’IBM sapeva benissimo a cosa servissero quei calcolatori. E poi la Standard Oil di Rockefeller, di cui abbiamo già parlato, che si divise in seguito in ExxonMobil, Chevron e British Petroleum, che tutti oggi conoscono. Inoltre, molte banche, numerosi industriali, finanzieri, si schierarono con Hitler e ne sostennero il regime. Rockefeller, Rothschild, Chase Bank, Harriman, e perfino il nonno del Presidente George W. Bush, Prescott, la cui banca diede un contributo sostanziale al Terzo Reich molto prima che Hitler prendesse il potere. In pratica il nazismo poté crescere e divenire il primo partito in Germania grazie a Wall Street. E…»

In quel momento entrò il maggiordomo che annunciò che il pranzo era pronto. Richard lo ringraziò e si rivolse a William e Alicia: «Bene, miei cari amici vogliamo scendere in sala da pranzo? Oggi ho prenotato per tre, il ristorante Levine Byrd è piuttosto rinomato… Comunque potremmo continuare le nostre discussioni di fronte a piatti succulenti!» Alicia lo guardò con un mezzo sorriso e non poté opporsi in alcun modo all’invito del gentleman: «Come rifiutare? È da quando siamo entrati che un delizioso aroma pervade la casa. Io accetto volentieri! William?» William annuì, lui aveva pranzato e cenato con Richard molte volte nel corso degli anni, ed erano sempre state occasioni piacevoli, sia per la qualità del cibo che per la compagnia. Scesero dunque nella sontuosa sala da pranzo al piano terra dove una tavola imbandita e una grande zuppiera d’argento al centro promettevano un banchetto luculliano.

Capitolo 10

Villa Mondragone. Roma. Un anno prima della riforma del calendario. 23 settembre 1581. Sera

Gregorio XIII osservava con gli occhi lucidi il testo che aveva tra le mani; le pagine ingiallite di velino, i caratteri eleganti, tutto in quel libro pareva armonico, scorrevole, mirabile nell’eleganza formale. Le immagini luminose dipinte a mano e impreziosite da grana d’oro, lapislazzuli, nero, giallo e rosso aggiungevano un curioso tocco artistico a un codex che per sua natura era tutt’altro che un semplice libro. Le mani tremanti del papa scorrevano pagina dopo pagina alla fioca luce della candela, le immagini non erano più arricchimenti formali ma, nel corso della lettura, si erano tramutate in formule matematiche e disegni tecnici che spiegavano le possibilità della nuova scoperta. L’autore, Giordano Bruno, in quel momento in Francia, la definiva opera mirabilis, una cosa meravigliosa, parte della creazione e quindi degna di essere indagata.

Gregorio XIII scuoteva la testa leggendo il testo che era stato messo al bando dalla Chiesa di Roma. Nella sua mente un pensiero si faceva sempre più chiaro: Bruno stava sovvertendo l’opera di Dio sondando una parte del creato che diveniva metafisica e, cosa più pericolosa, rendeva disponibile a tutti una via per vedere il ato, il futuro e, forse, per cambiarne l’ordine naturale in modo da poter modificare lo stato della storia. Con quella macchina, Bruno poteva entrare a far parte della creazione stessa in un modo ingegnoso e terribile, poteva cavalcare le onde della storia dell’uomo, salendone gli apici e discendendone le valli, e poteva are dall’una all’altra a proprio piacimento. Gli scienziati più fedeli della Chiesa avevano esaminato il testo trovandolo attendibile in alcune parti, meno in altre, ma si parlava di cose che nessuno sulla Terra poteva conoscere. E questo li spaventava. Ma ora Bruno era andato troppo oltre. Certamente egli aveva costruito la macchina che descriveva, i disegni erano troppo chiari. La teoria poteva funzionare, anche se si basava su leggi che ancora

non si comprendevano a fondo.

Il pontefice lesse per l’ennesima volta le stesse pagine finché giunse all’ultima. Poi chiuse il testo e pronunciò un Pater Noster, come per togliersi di dosso l’inquietudine che lo stringeva in una morsa. La preghiera meccanica non ebbe alcun effetto e Gregorio XIII si chiese se stesse agendo secondo la volontà di Dio. Presto i suoi pensieri arono da Dio alla Chiesa che, essendo sua rappresentante in Terra, doveva imporre il proprio volere al mondo. Questa giustificazione gli portò un lieve conforto.

In quel momento fu sottratto alle sue riflessioni dalla voce del cardinale Sirleto che, senza far rumore, era appena entrato nella stanza. «Santità… tutto è pronto. I dotti attendono solo voi per cominciare l’esperimento.» Il papa si massaggiò gli occhi stanchi e, con un sorriso di pura circostanza, rispose: «Certo, andiamo.» I due uscirono in silenzio verso la Sala delle Udienze, per l’occasione sigillata alla luce del sole e a orecchie indiscrete: ciò che stava per accadere in quel luogo era troppo importante perché qualcosa trapelasse a chi non fosse autorizzato. Il capo della Chiesa Cattolica e il suo assistente si trovarono di fronte a sette alti funzionari e studiosi, dottori, medici, scienziati, tutti uomini di assoluta fedeltà e fiducia. Uno di loro, che avrebbe diretto l’esperimento, si avvicinò al papa e gli diede il benvenuto inchinandosi. Gli fece spazio invitandolo a sedersi presso una tenda che celava un macchinario. Al cenno del papa la tenda venne rimossa e i cuori di tutti cominciarono a pulsare più forte, mentre l’atmosfera si faceva pesante, oppressiva, densa di ansia e timori di ogni specie. Ciò che stava per avere luogo tra quelle quattro mura violava i principi conosciuti della philosophia naturalis. Con quell’esperimento gli uomini presenti al cospetto del pontefice cominciavano un cammino nuovo e pericoloso, inoltrandosi in sentieri oscuri, pieni di insidie, la cui meta era al di fuori di ogni comprensione.

Dal suo scranno d’oro e velluto Gregorio XIII alzò la mano: «Procedete.»

Capitolo 11

Casa di Richard Levine Byrd, campagna dell’Hertfordshire. 31 maggio 2017. Ore 12:30

Mentre i due maggiordomi servivano il pranzo, Alicia desiderò continuare la conversazione. Ciò che più la interessava era l’ingerenza della finanza americana nell’economia del Terzo Reich: i nomi che Byrd aveva citato le erano familiari, nel senso più letterale possibile. Non li aveva conosciuti personalmente, però conosceva le loro famiglie, i loro discendenti, cosa comune a tutti i membri dell’establishment e della finanza americana. Ed era comprensibilmente curiosa. Tra una portata e l’altra si insinuò tra le bonarie battute dei due commensali che sembravano trovarsi molto a loro agio insieme. Oltre a collaborare sul piano scientifico ed essere amici, la comunanza di interessi generava in loro la necessità di vedersi o sentirsi – per mail, per telefono, perlopiù – in modo regolare, per casi storici che entrambi trovavano di grande interesse.

«Richard», fece Alicia interrompendo l’ennesimo ricordo di un’avventura ata condivisa dai due uomini, «prima hai parlato di nomi celebri: Rockefeller, Ford, Harriman, Rothschild e altri. Perché gli Stati Uniti hanno permesso una cosa del genere? Immagino che vi fossero accordi segreti e alleanze basate sulle promesse di potere e denaro.» Richard poggiò una forchetta. Era felice di poter dare delle delucidazioni: «Domanda legittima e molto appropriata. La risposta, tuttavia, potrebbe non piacerti.» Alicia gli sorrise: «Ma potrebbe interessarmi molto…» «D’accordo. Come sai, l’economia mondiale, come quella americana, da molti secoli oramai è guidata essenzialmente da banchieri, quelli che ho menzionato e i loro collegati. Tutti questi hanno una visione che gli storici qualche anno fa

definivano “mondialista”, poi è stata chiamata dai media “globalizzazione” e adesso è stata ribattezzata dai cospirazionisti “Nuovo Ordine Mondiale” o “Nuovo Ordine Globale”. In poche parole, questi signori lavorano dietro le quinte da molto tempo per porre le basi di un governo mondiale che abbia un’unica moneta e un’unica legislazione; un governo controllato occultamente da una élite di persone che detengono l’essenza del potere. Una vera e propria sinarchia. La politica è controllata dal denaro e costoro ne hanno in abbondanza, talmente tanto che non è possibile quantificarlo. Nelle loro mani si concentra tutto. Con una telefonata o una mail possono far crollare l’economia di un paese o far schizzare gli indici della sua borsa alle stelle.» «Ma come hanno potuto accumulare un tale potere?» «Il tempo», rispose Richard. «Esiste un piano dietro ai grandi bivi storici e politici degli ultimi tre secoli. Solo per rimanere al XX secolo, i dati disponibili dimostrano che essi finanziarono la rivoluzione bolscevica che eliminò gli zar di Russia, l’ascesa di Hitler; hanno forzato l’ONU e le potenze vincitrici in modo che fosse creato dal nulla lo Stato di Israele; hanno scatenato le due guerre del Golfo e stanno gestendo le questioni in Medio Oriente affinché si pongano le basi per spazzare via i governi di vari paesi, tra i quali Siria e Iran. Nel corso della storia hanno finanziato e provocato direttamente tutti gli sconvolgimenti politici mondiali. E i nomi di coloro che stanno dietro le quinte sono sempre gli stessi.» «Già», continuò Alicia, «io incontro banchieri continuamente, e ho vari rapporti con le banche che hai menzionato. Non sono ammessa agli alti livelli, ma ho constatato che giocano sporco impunemente, sono loro ad avere il vero potere, non il Congresso o il Presidente. Sono loro a finanziare le campagne presidenziali o quelle dei membri del Congresso…»

«Proprio così. Anche io vengo da quel mondo e ho lavorato sia per la Rothschild Bank, che per la Harriman e la Rockefeller Bank. In realtà ho lavorato per tutte le maggiori consorziate inglesi ed europee, direttamente collegate a queste. Questi gruppi hanno acquisito sostanziose quantità di azioni delle banche centrali di tutti i Paesi di Europa e anche della Federal Reserve americana, quindi le controllano direttamente, anche se la cosa a sotto il silenzio generale. In pratica pensare che i singoli istituti bancari centrali di ogni paese

siano artefici del proprio destino, che le ricchezze nazionali siano in mano ai cittadini, è un grosso errore. Quando una banca centrale nazionale viene privatizzata, ciò significa che il denaro pubblico di un paese diventa in pratica degli azionisti delle banche private più potenti, le uniche a poter acquisire una tale quantità di azioni. A questo punto esse controllano l’andamento economico di quel paese, in modo legale, indolore e con il completo silenzio dei media, i quali, come nel caso dei più noti del tuo paese Alicia, sono di proprietà o sono stati fondati dai membri di questa “consorteria”. C’è solo un caso in cui questo non è avvenuto, l’Islanda, che quando si è accorta di ciò che stava accadendo nel proprio territorio ha messo fuori legge i direttori delle tre banche principali del paese e ha di nuovo statalizzato il sistema bancario.» «Davvero?», chiese perplessa Alicia. «La piccola Islanda ha tirato fuori le unghie?» «Esatto, e l’Europa, i suoi vertici intendo, quelli che fanno solo ciò che gli viene ordinato dalle persone di cui parlavamo, ha risposto con una sorta di embargo e l’ha tagliata fuori da ogni cosa. Ma l’Islanda, a differenza di qualunque altro paese del Vecchio Continente, non ha più un debito nazionale incolmabile o in crescita, non rende conto a nessuno delle sue finanze e la sua economia prospera, a differenza di quanto accadeva in precedenza. Se i paesi europei agissero allo stesso modo si risolverebbero gran parte dei problemi economici e la crisi attuale si dissolverebbe in poco tempo. A causa della sua scelta l’Islanda è stata minacciata molte volte, ha subito ritorsioni. Le sono stati prospettati futuri foschi e drammatici. Ma poi, visto che si trattava di un minuscolo paese e che la sua opzione di schierarsi dall’altra parte della barricata non faceva proseliti, l’hanno lasciata stare. Tuttavia hanno imposto il silenzio agli organi di stampa. Avrai notato che dell’Islanda non si sente mai parlare…» William era colpito: «È vero! Ora che ci penso sono anni che sembra scomparsa dalla scena europea. Nemmeno sui media americani se ne sente parlare. A meno che non erutti un vulcano!»

Byrd continuò: «Già, è come se intorno all’isola fosse stato steso un cordone sanitario. Hanno isolato una nazione affinché il “contagio” non si espanda. Sono riusciti a far questo perché, come dicevo, i media sono controllati da questa élite, come lo sono i partiti politici, semplici marionette al soldo dei grandi

banchieri… a cui si sottomettono di buon grado, considerati gli immediati vantaggi che possono ottenere in termine di carriera e conto in banca.»

«Ma chi sono oggi, esattamente, questi signori?», domandò Alicia. «La maggior parte di loro si è laureato o ha studiato a Yale. E fa parte di una setta, identificata da un teschio e da due ossa incrociate.» «Skull & Bones? Intendi dire quella?», fece William. «Già, proprio quella. È conosciuta anche come The Order e ne hanno fatto parte Prescott Bush, il figlio George senior e George junior, come pure Rockefeller e quasi tutti gli altri di cui stiamo discutendo.»

«Ne ho sentito parlare spesso», interloquì Alicia. «Si tratta di un’associazione che lega a sé gli studenti dell’università più prestigiosa d’America, dalla quale usciranno coloro che in futuro guideranno l’economica e la politica del Paese. Una volta superata l’iniziazione, che comprende varie porcherie – tra cui cerimonie dentro una cassa da morto, blasfemie varie, saluto nazista e un giuramento di sangue che non ti togli più dalla testa per tutta la vita –, si ha accesso a tutte le alte sfere della Terra. Gran parte degli appartenenti agli staff di George Walker Bush, Obama e di tanti altri presidenti, sono stati membri di Skull & Bones, così come gran parte dei politici americani di un certo peso, professori universitari… I docenti più bravi sono cooptati dai candidati alla presidenza e inseriti nei loro team di lavoro. E puoi star certo che tra loro, la maggioranza, è affiliato alla società. Questo è uno dei due modi in cui si reclutano le persone che contano per l’obiettivo finale.» «Due modi? Qual è l’altro?», chiese incuriosita Alicia. «La Massoneria. È tra le logge che si scelgono i personaggi chiave per la direzione del mondo. Ti sei mai chiesta, Alicia, perché oltre il trenta per cento dei firmatari della Costituzione americana siano massoni? Nuovo Ordine Mondiale: sono le parole che utilizza Hitler in molti dei suoi discorsi, e che usa George Bush padre quando spiega agli americani perché deve entrare in guerra

contro l’Iraq; sono parole che stanno utilizzando sempre più spesso i premier europei nei loro incontri comuni; che ha usato pochi giorni fa il Presidente americano all’ONU spiegando che sarà questa organizzazione ad attuare il progetto di un nuovo ordine a livello globale. Sono parole stampate sulle banconote da un dollaro, le più comuni, e sotto gli occhi di tutti, seppure nella traduzione latina novus ordo seclorum, insieme ai simboli massonici della piramide e dell’occhio.»

William guardò Richard piuttosto perplesso: aveva una notevole stima dell’amico, ma quello che stava dicendo sembrava la trama tratta da un B-movie di fantapolitica, le stesse affermazioni che si potevano leggere nei siti cosiddetti “cospirazionisti”. C’era qualcosa che non andava. Non era da Byrd esprimersi in quel modo. Eppure lo conosceva troppo bene per pensare che fosse impazzito all’improvviso.

«Puoi provare quello che dici?» Richard abbassò gli occhi, si pulì gli angoli della bocca con il tovagliolo mentre Alicia e William pendevano dalle sue labbra. Bevve un sorso di vino e poi li guardò scandendo bene la frase: «Anche io faccio parte di Skull & Bones. Classe ’63.» William e Alicia lo fissavano increduli. Lo studioso inglese esclamò: «Richard, questa è una novità. Non mi avevi mai detto nulla…» «E non posso dire molto di più. Una volta che sei entrato in quella maledetta setta non ne esci senza gravi conseguenze. E se provi ad andare contro i suoi scopi, beh, è meglio che prenoti un posto al cimitero. Questa è gente che non scherza. I loro uomini sono nella CIA, nei servizi segreti dei principali stati del mondo, e tutti in posizioni decisionali. In pratica possono far sparire chiunque, in men che non si dica. Ma di solito non hanno bisogno di arrivare a tanto, posseggono metodi, diciamo, molto più efficaci, persuasivi. Se poi ti allinei alle loro posizioni o stai in silenzio, vieni premiato con denaro in quantità enorme, per cui è meglio non mettersi contro quella gente. Ecco perché non ti ho mai detto nulla, William. Ecco perché ho detto basta con la finanza. Mi sono ribellato a certi modi di condurre i giochi, ma mi sbagliavo nel pensare di poterlo fare

senza correre alcun pericolo. Hanno minacciato di morte più volte la mia fidanzata di un tempo che crollò ed ebbe crisi depressive da cui non si riprese più. Ho deciso di fermarmi prima che succedesse qualcosa di irreparabile. Lei però si suicidò pochi mesi dopo… Non ce la fece a resistere allo stress. In cambio della mia omertà hanno sempre ato le mie “imprese” finanziarie, fornendomi facilitazioni in ogni speculazione in cui ho desiderato impegnarmi. Una sorta di “regalo”. Per farmi ricordare che sono legato per sempre a una fratellanza che continua a tenermi d’occhio e che non solo può privarmi della vita, ma anche dell’agiatezza in cui vivo oggi. Anche se per loro sono come una sorta di “dormiente”, non è così. Tengo sempre d’occhio quel mondo. Perché so cosa sta per succedere.» «Mio Dio, Richard…», esclamò Alicia con gli occhi lucidi; aveva assorbito ogni parola con la parte emotiva della sua personalità e le era sembrato di vivere tutta la storia di Byrd. Ma c’era qualcosa di più: dentro di lei qualcosa si stava muovendo. Posò una mano sul braccio di Richard che la coprì con la sua, rassicurante, come avrebbe fatto un padre con la figlia. «No, no, è ato tanto tempo, non ti preoccupare. Era da molto che non ci pensavo, ma ritenevo che doveste saperlo, vista la ricerca in cui vi siete impegnati. State molto attenti perché rischiate… guai molto seri.» William lo guardò preoccupato. Cominciava a farsi un’idea abbastanza precisa della situazione ma c’erano comunque diversi punti oscuri: «Ma i Rockefeller non hanno in mano il commercio del petrolio? Ora mi dici che hanno spostato i loro interessi anche al controllo bancario mondiale?»

«John Rockefeller, già all’inizio del ’900 possedeva il novantacinque per cento delle raffinerie di petrolio degli Stati Uniti. Insieme alla Standard Oil Trust lavoravano i manager Kuhn Loeb, i suoi associati e la famiglia di bancari Rothschild. Collaborarono spartendosi il mercato mondiale: Rockefeller curava quello energetico americano, gli altri quello del Vecchio Mondo. Ma la cosa curiosa è che ben presto le sette sorelle, cioè le sette aziende petrolifere che formavano il Trust, divennero quattro e, cosa ancora più curiosa, i loro manager finivano sempre a gestire le più importanti banche americane. In pratica esiste un controllo globale delle fonti energetiche primarie da parte delle famiglie Rockefeller, Rothschild, Warburg, Bush e poche altre, i cui rampolli studiano a

Yale, entrano in Skull & Bones e continuano l’opera iniziata dai loro avi. Potrei andare avanti per ore, conosco tutti gli uomini chiave di questa operazione mondiale. Ci sono dentro anche i Windsor inglesi e gli Orange d’Olanda.» «Cosa? La regina sarebbe parte di questo progetto?», Alicia non credeva alle proprie orecchie. «Già. Royal Dutch-Shell è controllata, come tutte le altre compagnie petrolifere più importanti, dai Rothschild, dai vari Oppenheimer, dai Samuel… Però la regina Beatrice d’Olanda, membro della casata degli Orange, e Jacob Rothschild, sono i due maggiori azionisti della compagnia. Cosa curiosa, la madre di Beatrice, la regina Giuliana, era la donna più ricca del mondo e sosteneva direttamente movimenti di estrema destra. Suo marito, il principe Bernardo, era membro delle Reiter SS e lavorava alla IG-Farben. Ha presieduto per parecchio tempo alla direzione di circa 300 compagnie europee. È stato tra i “soci” fondatori del Gruppo Bilderberg, che sembra essere sulle labbra di tutti ultimamente… semplicemente è una delle organizzazioni di facciata di queste persone. Una sorta di network aziendale, la più grande consorteria di delinquenti che la storia abbia mai visto.» «E nessuno l’ha mai notato?», chiese Alicia. «Al contrario», spiegò Richard. «Ci furono varie manifestazioni negli anni ’90 del secolo scorso contro di loro, soprattutto in Olanda. Ma sapete come vanno queste cose… Rimane il fatto che tutte queste persone erano direttamente legate a Hitler, non perché ne fossero ideologicamente attratti, a loro interessava solo il denaro e il potere assoluto, e non lo spartirono con nessuno. Per un certo tempo le loro idee collimarono con quelle del nazionalsocialismo e videro in Hitler il candidato ideale per stabilire un Nuovo Ordine Mondiale, cominciando con l’imporlo in Europa. Finanziarono il Terzo Reich, come avevano finanziato la rivoluzione russa. Fomentarono le due guerre mondiali e, una volta terminata l’ultima, si assicurarono tutti gli appalti per la ricostruzione… in un gioco senza fine che creava e crea caos politico, conflitti, sconvolgimenti sociali.» «E oggi, le cose viaggiano sullo stesso binario», commentò William. «Forse anche peggio, se possibile», rispose Richard. «Gli Oppenheimer, per esempio, hanno acquisito il controllo della De Beers e delle aziende collegate al gruppo; in poche parole gestiscono l’estrazione e la vendita mondiale dei

diamanti, in regime pressoché di monopolio e, chiaramente, fissando il loro prezzo. Non dimenticate che l’artefice di questo successo fu Ernst Oppenheimer, nato in Germania da una famiglia ebrea, poi convertito al cristianesimo. Stessa cosa hanno fatto i Rothschild che, non paghi di aver monopolizzato il flusso e la vendita dell’oro nero, hanno anche messo le mani su quello vero: gli Stati Uniti hanno la maggior riserva aurea del mondo ma essa è conservata in depositi e alla Federal Reserve, il cui maggior azionista è la famiglia Rothschild insieme ai suoi consociati. I Rothschild posseggono gran parte delle miniere d’oro nel mondo e, avendone il monopolio, sono loro a fissarne il prezzo. E così hanno creato dal nulla i titoli tossici che dal 2009 hanno generato tanti problemi.» Alicia sapeva che stavano giungendo all’epilogo, al vero volto del Nuovo Ordine Mondiale, il più pericoloso: «Vuoi dire che Rothschild, Rockefeller & Co. c’entrano qualcosa con la crisi economica attuale?» «Loro hanno creato la crisi economica in cui ci troviamo tutt’ora e, come se non bastasse, stanno per scatenare ben altro. Hanno progettato prodotti finanziari fittizi, che non avevano un corrispettivo nel mondo economico reale: semplice carta straccia, una bolla di sapone speculativa…» «Come hanno potuto?», si domandava Alicia. Ma Richard pareva non ascoltarla. «… di questi prodotti ne hanno fatto circolare enormi quantità, e tutti hanno acquistato, cadendo nel tranello. Accumulando debiti stratosferici. È stato il tipico castello di carte e quando questo è crollato, loro si sono arricchiti in misura disgustosa mentre il mondo intero veniva gettato nella più grave crisi economica della storia.» William e Alicia si scambiarono uno sguardo. Richard appariva sicuro su quanto affermava. Non c’era motivo di credere che fosse avvenuto il contrario. «Se fai qualche semplice ricerca in rete, mia cara, troverai che tutte le banche implicate nella crisi sono controllate dal solito gruppo di famiglie che conosciamo: Lehman Brothers, o quello che ne rimane, Citibank, Goldman Sachs, J.P. Morgan Chase, solo per citarne alcune. Allo stesso tempo, i soliti noti collocano i loro uomini di fiducia negli staff di presidenti, primi ministri. Come è successo qualche anno fa in Italia, in cui Mario Monti, ex Primo Ministro, risulta essere anche uno dei consiglieri di punta di Goldman Sachs oltre che Presidente della Commissione Trilaterale, la cui nascita si deve a David Rockefeller, e

guarda caso ha studiato nella mia stessa università, Yale. Fa parte anche di altre associazioni collegate al Nuovo Ordine Mondiale, come il Gruppo Bilderberg. E vogliamo parlare di Mario Draghi, Governatore della Banca centrale Europea? Anche lui è consigliere di Goldman Sachs, dopo essere stato vicepresidente della sezione europea. Possiamo poi citare Lucas Papademos, ex premier greco, anch’egli uomo di punta di Goldman Sachs. E potrei nominarne tanti altri. Il loro è un sistema collaudato, d’altronde. Si crea una crisi, si manifesta la necessità di un governo, ovviamente tecnico, fatto di burocrati e non di politici, ed ecco che l’élite dei banchieri ha la persona giusta e da mettere al vertice del potere.» William stava collegando mentalmente molte informazioni e il quadro cominciava a mostrarsi in tutta la sua cruda efferatezza. Ma rimanevano ancora dei punti poco chiari: «Richard… ma non c’è limite al potere di questa gente? Se hanno sostenuto Hitler e sono riconosciuti autori di tali crimini finanziari e politici perché non vengono processati?»

«Perché la realtà, detto semplicemente, è molto peggiore di quello che vi ho detto. La politica, quella di cui leggi sui giornali ogni giorno, è una farsa abilmente orchestrata da Rockefeller, Rothschild, Harriman, Bush e vari altri tramite i loro emissari in America, Europa e in Asia. Ricordi lo scandalo dell’elezione di George W. Bush nel 2004? In una notte, da perdente divenne il vincitore delle presidenziali! E nessuno sapeva come ciò fosse potuto accadere. Poi si scoprì che un suo uomo di fiducia era preposto al conteggio delle schede. Eppure, in tutto questo, c’è anche un aspetto comico…» «E sarebbe?», domandò William. «Sia Bush che lo sfidante, John Kerry, sono affiliati a Skull & Bones. Capisci? Bush è il rampollo di una famiglia che a pieno titolo rientra in quelle che governano il Nuovo Ordine Mondiale, e Kerry, colui che doveva sbarrargli la strada, è l’altra faccia della stessa medaglia, essendo tra l’altro figlio di una Forbes, dinastia di finanzieri collegata agli altri che abbiamo citato.» «In poche parole… mi stai dicendo che…», fece William tentennando. «Che questa gente vince sempre, comunque vadano le elezioni. Una decina o poco più di grandi famiglie di banchieri e nobili casate stanno giocando a conquistare il mondo e, in pratica, l’hanno già fatto. Il prossimo o sarà

rendere accettabile a sette miliardi di persone il loro controllo globale, e lo faranno in modo molto intelligente. Alla fine ci sarà un unico governo mondiale, con un’unica moneta e, possibilmente, un’unica religione.» «Una sola religione? E come faranno a imporla?» Alicia era allibita. Ma le prove che Richard stava loro fornendo, pensando anche al fatto che lui stesso era un membro di Skull & Bones, erano schiaccianti.

«Questo è il punto più importante», fece con foga Richard, «hanno una loro religione. Pensateci: questi signori ci hanno precipitato in una crisi senza fine, creata dal nulla, apparentemente senza sbocco e, quando si arriva a questi momenti storici, si cominciano a cercare… come dire, soluzioni d’emergenza. La massa, perché spinta appositamente dagli interessi dei nostri “amici”, vive nel totale caos economico, religioso, istituzionale; la gente, lentamente, è portata ad allontanarsi dalle proprie necessità spirituali, un bisogno che comunque alberga nel cuore di ogni essere umano, compresi i membri di questa cospirazione mondiale. Nel vuoto che si crea c’è bisogno di qualcosa di superiore che lo sostituisca. E loro hanno ciò che serve, una religione in grado di unire il mondo. Una nuova religione.» William e Alicia lo guardarono allibiti, e molto preoccupati.

«Richard… tu facevi parte di questa religione?», domandò di colpo Alicia. «Mi spiace, mia cara, non posso proprio dirvi di più. Anche se volessi… temo di essere controllato, ci stiamo già esponendo abbastanza per aggiungere pericolo al pericolo. Un conto è parlare della cospirazione politica ed economica, un altro scendere nel particolare della nuova religione. In quel caso si rischia veramente grosso!» Il pranzo era oramai terminato, erano già al dolce ma nessuno aveva dedicato abbastanza attenzione a ciò che gustavano, nonostante l’eccellenza culinaria dello chef. Ciò che William e Alicia, avevano appreso era stato un vero schiaffo morale. Si sentivano feriti, arrabbiati, manovrati… e addolorati per il loro amico, costretto in una situazione come quella: far parte di qualcosa che si detestava con tutto l’animo.

«Richard, pensavo che tutto fosse solo il frutto della fantasia esagerata dei cospirazionisti», disse William poggiando il cucchiaino e lasciando la mousse a metà. Gli era ato l’appetito. «Magari fosse così», rispose. William continuò: «Capisco. In effetti la stessa cosa è successa riguardo gli studi su Hitler dagli anni ’50 del secolo scorso in poi: grazie ai libri di Pauwels e Bergier, Trevor Ravenscroft e vari altri, si cominciò a parlare di nazismo magico ed esoterico, ma i grandi storici stroncavano qualunque tipo di affermazione in tal senso. Poi ho cominciato a scrivere libri sull’argomento, e prima di me qualcun altro, e le cose che prima sembravano campate in aria si sono dimostrate non solo vere ma anche peggiori di quanto si pensasse. Strano, no?» Richard guardò l’amico sorridendo: «Sai perché il regista Michael Moore è ancora vivo?» «No.» «Se avesse detto delle falsità riguardo gli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle, o avesse citato anche una sola cosa non vera e non ata con le prove che ha presentato nei suoi documentari, sarebbe già in prigione da tempo. Oppure morto. Si è salvato solo per due motivi: è troppo in vista, quindi un suo decesso solleverebbe un vespaio, soprattutto in Europa. E, comunque, in America, non è preso molto sul serio: il suo look trasandato e il modo in cui si presenta minano la sua credibilità pubblica. In pratica lo hanno lasciato vivere, ma altri sono stati eliminati in modo pulito e senza lasciare alcuna prova.» «E con questo cosa vorresti dirmi?», domandò. «Questa gente è paurosamente potente, William, è meglio che lo sappiate. Probabilmente anche voi siete controllati. Ma è difficile rendersene conto. Io non posso aiutarvi di più, anzi, direi che mi sono spinto oltre il dovuto. Ma tu sei mio amico, William, e dovevo fare qualcosa.» Alicia guardò prima l’uno, poi l’altro, perplessa. «Ora sapete tutto quello che vi occorre per evitare problemi… Mantenete un profilo basso, fate attenzione con chi parlate e non fate troppa pubblicità alle vostre ricerche. Specialmente tu, Alicia, vista la posizione che ricopri all’interno

della Wyler Foundation.» «Come consigli di muoverci?», domandò William.

«Svolgete la vostra missione e poi lasciate cadere ogni scoperta nell’oblio. Consegnate quanto scoprirete nelle mani di chi ha commissionato la ricerca e poi dimenticate.» «Ma Richard, è stato mio padre con alcuni suoi amici a ideare questa missione. Serve per alcuni progetti della Fondazione», ribatté Alicia.

«Carissimi, credo sia stato detto tutto…», tagliò corto alzando una mano e ponendo termine alla discussione.

Il pranzo era terminato, bevvero un caffè nel giardino e quando giunse il momento di salutarsi William abbracciò l’amico. Nonostante avvertisse il pericolo, Richard aveva dato loro dei validi aiuti. Sperava solo che questo suo atteggiamento non avesse uno spiacevole epilogo. Un attimo prima di entrare in auto William gli chiese se avrebbe corso dei pericoli. Forse era stata un’imprudenza incontrarsi. Lui gli sorrise tranquillo: «Non ti preoccupare, nel corso degli anni mi sono protetto le spalle molto bene. Diciamo che non mi può succedere nulla se non la faccio troppo grossa. E comunque, nel caso, molti giornalisti non allineati riceverebbero video e documenti che farebbero la loro fortuna professionale, smascherando così molte delle cose che sono state fatte dal gruppo di cui si parlava. Probabilmente a loro non accadrebbe nulla di grave… magari riuscirebbero a insabbiare tutto, ma sarebbero comunque grattacapi a non finire e il loro obiettivo finale si allontanerebbe di qualche anno. Sono in una botte di ferro, non ti preoccupare. Piuttosto, siete voi che dovete stare attenti. Credo di sapere dove vi porterà la vostra ricerca, state per varcare una soglia attraversata da pochissimi. A ogni modo, se avrete di nuovo bisogno di me, se potrò sarò sempre disponibile.»

Durante il viaggio in direzione di Londra parlarono poco, impegnati com’erano a riordinare le idee. Ciò che avevano ascoltato era così vero, sebbene avesse tutto il sapore di un sogno, anzi, un incubo. Succedeva sempre così quando la realtà superava la fantasia, pensò William.

Giunti in città decisero di comune accordo di fare un po’ di shopping da Harrod’s, un po’ per alleviare la tensione, un po’ perché prima del viaggio necessitavano di alcuni acquisti. In ogni caso nessuno dei due riusciva a togliersi dalla testa quello che aveva raccontato loro Richard.

Di sera pranzarono in un ristorantino all’aperto a Canary Wharf. L’atmosfera, grazie a qualche bicchiere di buon vino, si fece più rilassata. Dopo un po’ decisero di non rimanere con le mani in mano e scovare su Internet qualche altra informazione su August Reddings, il comandante della petroliera della Standard Oil di Rockefeller, il cui nome era apparso mentre cercavano informazioni su Meister. William digitò il nome del kommandant e Canary Islands. Era convinto di trovare poco o nulla. E invece il risultato li stupì non poco: di fronte al laptop aperto su Google Earth, due visi esterrefatti osservavano il monitor con l’ubicazione del punto esatto in cui esisteva una Reddings House a Santa Cruz de Tenerife, nelle isole Canarie. «Sarà riferibile al nostro uomo?», domandò Alicia. «Vediamo», disse William.

In capo a qualche minuto avevano per le mani nuovi e importanti indizi. Il figlio di August Reddings aveva aperto un Bed and Breakfast a Santa Cruz pochi anni prima. All’interno della struttura era stato allestito una sorta di piccolo museo del mare che custodiva le notizie e i cimeli raccolti da August durante i suoi numerosi viaggi. Le brevi indicazioni contenute sul sito web spiegavano che il capitano August Reddings si era ritirato negli anni ’60 a Tenerife con la moglie e il figlio. Quest’ultimo, alla morte di August, aveva messo su la collezione di oggetti.

«Potrebbe avere ancora qualche informazione utile», propose William. «Concordo… anche perché siamo a un punto morto, più o meno.» Si riferiva all’ubicazione del misterioso baule. Sapevano che era stato spedito in Sud America, ma non c’era modo di rintracciare un suo arrivo nel continente, soprattutto se era stato inviato in Argentina. Ora, l’unica pista disponibile era Reddings. Che cosa aveva a che fare con la compagnia Dodero? Con la progettata fuga di Meister? Con la scomparsa del baule?

In breve la decisione fu presa: prenotarono due camere a Reddings House tramite il sito ufficiale. Acquistarono poi il biglietto aereo on line. La caccia era di nuovo aperta.

Capitolo 12

Sala di Controllo Globale. The Rune, New York. Poche ore prima

L’ampia sala conferenze risuonava di voci concitate. L’argomento del giorno era di primaria importanza. Tuttavia, nella stanza non vi era nessuno. Solo i monitor sul grande tavolo centrale erano accesi: mostravano dodici uomini, i più potenti della Terra, riuniti in videoconferenza grazie a una linea criptata e super sicura. Le luci erano abbassate e un tenue, freddo tubo al neon da dietro le piante che abbellivano il locale diffondeva un asettico blu nell’ambiente. Sopra tutte le altre si elevò una voce che chiese di poter parlare. Il presidente della seduta gli diede la parola. «Gentili amici, siamo tutti ansiosi di conoscere i risultati delle prime indagini sulla Funzione Gamma. Finora sono stati stanziati circa cinquanta milioni di dollari, oltre naturalmente ai finanziamenti concessi al progetto Random Numbers Generator e all’esperimento gemello al Noetic Sciences Institute. Sembra che ci siano stati risvolti importanti. La prego, Malcolm, continui lei.» Malcolm Wyler, padre di Alicia, nel suo completo gessato con cravatta coordinata, si schiarì la voce e illustrò ai colleghi le informazioni. «Signori, sono lieto di comunicarvi che la prima fase del Progetto Gamma ha avuto un notevole successo. Come sapete, non ci è possibile proseguire oltre senza la macchina che stiamo cercando, perlomeno al momento. Ma le ricerche svolte hanno confermato la possibilità di creare un portale. I supercomputer che abbiamo messo a disposizione dei nostri scienziati al Centro di Ricerca hanno cominciato la scansione secondo la funzione matematica in nostro possesso e confermato la possibilità teorica di compiere il salto. Si tratta di un lavoro estremamente complesso che richiederà certamente molto tempo per essere completato, ma i nostri esperti sono sicuri che sia possibile: avevamo visto giusto.»

Fece una breve pausa e, se fosse stato presente fisicamente, sicuramente si sarebbe rivolto con lo sguardo a ognuno dei presenti. «Ora, come sapete», riprese, «ogni funzione matematica può essere visualizzata su un piano cartesiano a due o più dimensioni; questa funzione ne ha quattro, perché sconfina nello spazio-tempo e non è quindi possibile contemplarne la bellezza in tutte le sue sfumature. Tuttavia, seppure non visualizziamo i dati presenti al di fuori delle dimensioni a noi consuete, ecco una suggestiva immagine che è stata preparata per dare un’idea della complessità della struttura matematica alla base del calcolo.»

Wyler premette un tasto e sui monitor apparve una meravigliosa struttura scintillante, simile a un gioiello dalle molte sfaccettature, i cui colori cangianti si riflettevano sui loro visi affascinati. «Questa, signori, è la Funzione Gamma in tutta la sua bellezza. Ora sappiamo finalmente che ciò che è stato teorizzato cinquecento anni fa è possibile.» Seguì un momento di estasi collettiva: tutti gli uomini in collegamento avevano trascorso buona parte della loro vita alla ricerca del potere assoluto, con successo. Ora bramavano qualcosa di più e le loro ricerche si erano da tempo inoltrate in un territorio oscuro, in cui i limiti erano posti solo dalla loro fantasia, dalle decisioni che avrebbero preso. In quell’universo che si apprestavano a sondare sarebbero andati ben al di là del conosciuto, in una pluralità di dimensioni quantistiche, assai più ampie di quanto una mente umana avrebbe potuto concepire. The Rune era giunta in possesso della Funzione Gamma, o meglio dell’idea di essa, molto tempo prima, ma solo di recente la tecnologia aveva fornito gli strumenti necessari a studiarla più a fondo, dando risultati davvero stupefacenti.

Il proiettore olografico collocato sul soffitto, al di sopra del grande tavolo, si accese e generò una stella a quattro raggi di un bianco intenso, luminosissimo, che si librava a circa trenta centimetri d’altezza dalla superficie in legno, rimanendo sospesa in modo equidistante da ogni monitor.

Gli occhi di tutti erano come calamitati verso quel prodigio. E lo stupore si accrebbe quando dalla stella si aprì un varco blu cobalto, un aggio verso una dimensione sconosciuta e insondata.

Tutti trattennero il fiato, poiché sapevano cosa stesse per accadere. L’Osservatore si manifestò in tutta la sua potenza e autorità. Indossava un impeccabile completo blu e i lunghi capelli argentei gli scendevano sulle spalle. All’apparenza poteva avere settant’anni, portati in modo magnifico, e la sua voce esprimeva una forza insolita per un uomo di quell’età. I muscoli sotto l’abito si tendevano evidenti, soprattutto nel collo massiccio e ben proporzionato. Sprigionava un’energia contagiosa, giovanile, che contrastava con il suo aspetto senile. Ogni cosa, in quell’essere, denotava una forza che andava al di là del comune senso umano. E diversi tra i presenti sospettavano che L’Osservatore fosse in circolazione da ben più di settant’anni. L’Osservatore salutò i presenti e disse poche precise parole per descrivere quali sarebbero stati i i successivi del programma.

Ognuno dei dodici uomini era conscio dell’importanza del momento. Stavano per varcare una “porta” chiusa da sempre al genere umano… una soglia proibita, oltre la quale nessuno si era mai spinto, impedito dalle stessi leggi fisiche che reggevano le sorti del pianeta. Nell’istante in cui tutto avesse avuto inizio la vecchiaia, la morte, l’impossibilità di muoversi liberamente nel tempo e nello spazio, venivano a cadere. La Funzione Gamma avrebbe cambiato tutto. Per questo era diventato il progetto più importante di The Rune: ossia di dodici uomini febbrilmente impegnati nel conseguimento della variabile più sfuggevole, più incontrollabile, più ambigua, nella sua stessa essenza, dell’intero universo.

Nessuno sapeva dove ciò avrebbe portato. Nessuno conosceva le conseguenze.

Ma ciò che cercavano dipendeva essenzialmente dal successo della missione di William J. Connor e di Alicia Wyler.

Infatti, per poter completare tutti i aggi ed attivare la Funzione Gamma mancava un unico tassello: un’antica serie di istruzioni matematiche trascritte da Giordano Bruno e utilizzate dagli scienziati di Himmler settant’anni prima.

Risolto quell’enigma, collocate al posto giusto le poche tessere mancanti del puzzle, il successo avrebbe arriso ai dodici.

Il limite, il suo concetto stesso, stava per venire infranto. Dopodiché non vi sarebbe più stato alcuna barriera, alcun confine… nessun limite. E questo era in piena armonia con la personalità de L’Osservatore.

Capitolo 13

Santa Cruz de Tenerife, arcipelago delle Isole Canarie. 1 giugno 2017. Ore 11:00

La giornata, come sempre a quelle latitudini, era splendida: un sole maestoso trionfava nell’azzurro profondo del cielo che si stemperava nell’Oceano. Le scogliere aspre dell’isola e le spiagge bianchissime erano circondate da un anello blu che assumeva tonalità cangianti dal cobalto al verde acquamarina, seguendo le differenze morfologiche di quel lembo di Canarie.

William e Alicia erano giunti da Londra all’aeroporto di Tenerife Norte, e da qui, con un Suzuki 4x4 preso a noleggio, coprirono velocemente gli undici chilometri che li separavano dalla loro destinazione: mentre il territorio scorreva sotto i loro occhi, ammiravano le intense sfumature di colore, cui si aggiungevano gli scintillanti riflessi del sole sulla spuma delle onde. Nessuno dei due era mai stato nell’arcipelago e ciò li incuriosiva: una sensazione che si mescolava alla sottile eccitazione per la scoperta dell’esistenza del figlio del capitano Reddings che, speravano, avrebbe apportato nuova linfa alla loro ricerca.

Arrivarono alla Reddings’ House e furono accolti da un uomo sulla settantina, con la pipa spenta tra le labbra, che si presentò con uno smagliante sorriso: «Buongiorno, sono Marcus Reddings. Il signor Connor e la signora Wyler, suppongo…» La sua personalità solare e allo stesso tempo molto pacata, come pure la pelle solcata da profonde rughe e abbronzata, tipica di chi ha ato molto del suo tempo all’aria aperta, diede ai due l’idea di un vecchio lupo di mare oramai in pensione. Aveva una folta barba grigia che gli incorniciava un faccione perennemente sorridente, il che mise subito i suoi ospiti a loro agio. Appena si furono sistemati nelle rispettive stanze, Reddings li fece accomodare in un salottino dove servì tè e caffè insieme a dolci locali. William notò

immediatamente, appese alle pareti, le fotografie di navi da carico e petroliere risalenti agli anni ’40 e ’50 del Novecento.

Reddings seguì lo sguardo di William: «Bene, signori, sono lieto abbiate scelto la nostra struttura. Spero che il vostro soggiorno sia piacevole.»

Marcus versò il caffè e lo porse a quella che ai suoi occhi poteva essere la classica coppia di turisti in vacanza. «In realtà», esordì Alicia, «siamo qui per uno scopo ben preciso.» Reddings poggiò la sua tazza, prese un dolcetto e si sistemò meglio nella poltroncina. «Se posso aiutarvi…» «Lo speriamo davvero, signor Reddings», rispose William. «Non siamo qui per svago, ma per via di una nostra ricerca. Io sono docente di storia al King’s College di Londra e al momento, insieme alla signorina Wyler, stiamo cercando dei riscontri sulle attività della Standard Oil negli anni del secondo conflitto mondiale. E così ci siamo imbattuti nella figura di suo padre che, non le nascondo, riveste grande interesse per noi.» Reddings lo guardò silenzioso, ma da quei cinque centimetri di barba si vedeva chiaramente il sorriso farsi più ampio. Dopo qualche esitazione rispose: «Penso che siate venuti nel posto giusto. Mio padre è stato un grande uomo, di quelli veri, il cui attaccamento ai suoi, al mare e al suo equipaggio era realmente ammirevole. Venite con me.» Li portò in una ampia sala attigua, adibita a museo: vi erano conservati cimeli appartenuti al capitano, alla moglie e alla sua famiglia. Notarono anche un’ampia teca con le uniformi di gala, i cappelli e le onorificenze conseguite da August Reddings nella sua carriera. Su un mobile, protetto da uno spesso vetro, erano esposte varie lettere e diplomi. Le pareti erano letteralmente tappezzate di fotografie in bianco e nero in cui veniva illustrata la vita del capitano.

Si sedettero e Marcus aprì un libro: il diario del padre. Lo riassunse per sommi capi. Il capitano, morto diversi anni prima, aveva sentito la necessità morale di scrivere le sue memorie, sia per il figlio che per chiunque altro avesse avuto voglia di leggerle.

Marcus sfogliò diverse pagine e giunse alla parte che descriveva le attività di August tra il 1939 e il 1945. «Cosa vi occorre sapere, nello specifico?», domandò osservandoli. «Qualunque notizia che colleghi il capitano, la Standard Oil e le sue attività durante la Seconda guerra mondiale.» Marcus riprese a sfogliare, commentando di tanto in tanto dei aggi scritti di pugno dal padre. Dalla lettura risultò che August aveva lavorato per la Standard Oil praticamente per tutta la vita, fino al raggiungimento della pensione. Subito dopo si era ritirato a Tenerife, di cui apprezzava il clima; qui aveva conosciuto la futura moglie, una spagnola, trasferitasi nelle Canarie nel 1950 con i genitori.

Come August spiegava in più punti del diario, Tenerife e l’arcipelago delle Canarie erano meta frequente della petroliera che comandava, soprattutto durante l’ultimo conflitto mondiale. Il petrolio scaricato, veniva poi regolarmente acquistato da persone che parlavano inglese con forte accento tedesco. Il capitano seppe poi che erano emissari di Hitler i quali acquisivano l’oro nero per la Luftwaffe e la Kriegsmarine, ma oramai il conflitto era terminato e lui, semplice dipendente della Standard Oil, era tenuto a eseguire gli ordini.

La lettura del diario non apportò alcuna novità alla ricerca, tranne numerosi accenni al fatto che diverse volte August era attraccato e poi ripartito da Genova. William domandò allora a Marcus se vi fossero lettere, documenti, fotografie o qualunque cosa relativa a un baule che uno studioso tedesco poteva aver affidato

a Reddings alla fine della guerra.

L’uomo corrugò la fronte e rimase pensieroso per qualche attimo, poi si alzò e andò verso uno scaffale da cui trasse un grosso album fotografico: lì Marcus aveva conservato tutto quello che il padre aveva raccolto durante le sue “indagini” archeologiche. Alicia e William scoprirono così che August, uomo colto e apionato di storia, nei momenti di pausa durante lo scarico del greggio, o nei periodi di franchigia, prima dello scoppio della guerra, aveva perlustrato alcuni luoghi dell’isola di Tenerife e scoperto delle mummie che, a quanto scriveva, sembravano avere i capelli biondi. Appena poteva August tornava nei siti che aveva saggiato e, dopo ulteriori ricerche, era riuscito a riportare alla luce alcune particolari strutture di forma piramidale, semisepolte nella terra vulcanica. Si trattava di costruzioni alte pochi metri, ma di estremo interesse. E la cosa aveva destato in lui il più vivo interesse, tanto da indurlo a scrivere un piccolo saggio relativo alle sue scoperte, stampato da un tipografo locale, diffuso in pochissimi esemplari e dimenticato velocemente. Fortunosamente una copia del trattatello era finita nelle mani di un cultore della materia e, nel 1936, August era stato contattato da un archeologo tedesco di nome Meister. Costui, dopo i primi approcci epistolari, si era recato alle Canarie, stringendo una solida amicizia impostata sui comuni interessi. Reddings e Meister, dunque, erano più che conoscenti. «Questo è molto più di quanto sperassi», disse William. Marcus intanto mostrava loro una foto che ritraeva i due uomini presso le piramidi e vicino alle mummie guanchi, la misteriosa popolazione delle isole dagli occhi azzurri e i capelli chiari. Quindi trasse fuori un altro scatto in cui si vedeva chiaramente Meister indossare una giacca con lo stemma dell’Ahnenerbe. Il particolare attrasse subito l’attenzione di William e Alicia: la presero in mano e la rigirarono tra le dita. Nel retro dell’immagine, vergate a mano, alcune righe di ringraziamento ad August per i momenti trascorsi insieme e per l’aiuto nelle ricerche in loco. «Questo può interessarvi?», domandò poi Marcus porgendo loro un foglio che aveva recuperato nella pagina successiva dell’album. Si trattava della ricevuta di un telegramma risalente all’aprile del 1945

indirizzato a un certo Fernando Cordoba, presso il convento di San Girolamo degli Illirici, a Roma. Il telegramma era stato inviato proprio da Santa Cruz de Tenerife e per questo non era stato censurato o intercettato dagli Alleati. Forse non era stato mai letto dal destinatario, proprio Wilhelm Meister, alias Fernando Cordoba, a causa delle traversie legate alla fine del conflitto. A ogni modo quando Alicia e William presero visione del contenuto della missiva sobbalzarono nelle sedie. Sul foglio, ingiallito e sbiadito, lessero: “Chest sent on your instructions – stop – Arrival at Bariloche in around three weeks – stop – Mr. Herrera will keep it safe until your arrival – stop – Hope to see you soon – Best luck”. William ripeté la frase, a voce alta, più volte: «Baule inviato in base a sue istruzioni – stop – Arrivo a Bariloche in circa tre settimane – stop – Il signor Herrera lo manterrà al sicuro fino al suo arrivo – stop – Spero di vederla presto – Auguri…» Alicia e William si scambiarono uno sguardo d’intesa: Reddings se ne accorse e dentro di sé fu lieto di aver contribuito alla ricerca. «Vi può aiutare?», bofonchiò con la pipa tra i denti. Mentre William prendeva un appunto con Evernote, sul suo cellulare Android, Alicia si profuse in ringraziamenti: «Signor Reddings, questa era l’informazione che ci mancava! Apre sicuramente un nuovo capitolo nella nostra ricerca. Gliene siamo grati di cuore. Non dimenticheremo la sua cortesia.» Reddings abbozzò un bel sorriso, emettendo uno sbuffo di fumo. L’aroma del tabacco si sparse per l’aria. «Prima di lasciarla alle sue faccende», riprese la donna, «vorrei chiederle una cosa.» «Dica pure», fece Reddings protendendosi verso gli ospiti. «Nel diario e nell’album si parla della scoperta di suo padre relativa a quelle strane piramidi e alle mummie di una popolazione con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Ne sa qualcosa di più?» «Sì. In realtà fu proprio mio padre a portarle alla luce per la prima volta. Anche se qualche anno dopo l’archeologo Thor Heyerdhal ne scoprì altre. Purtroppo però papà non era un accademico, pertanto nessuno lo prese in considerazione e

tutti i meriti andarono a Heyerdhal. Come avete visto, però, le fotografie nell’album testimoniano la verità. Il villaggio di Güímar, luogo del ritrovamento, era anticamente abitato dai guanches, una razza berbera dalla barba bionda e con gli occhi azzurri.» «Già», aggiunse William. «Non a caso l’Ahnenerbe se ne interessò. Anzi nel 1939 avevano progettato una missione per appurare l’origine ariana dei guanches. Poi, con lo scoppio della guerra, non se ne fece nulla, ma evidentemente Meister venne qui a sue spese per portare avanti le ricerche con suo padre.» «L’Ahnenerbe?» Marcus Reddings era comprensibilmente curioso. «Era l’istituto di studi multidisciplinari fondato negli anni ’30 del secolo scorso da Himmler, il capo delle SS. Si proponeva di ricercare le prove antropologiche, storiche, archeologiche e genetiche dell’origine delle popolazioni ariane. L’obiettivo finale era scoprire il segreto della condizione semi-divina della razza pura ariana. Organizzarono spedizioni in Tibet, Brasile, Islanda, perfino al Polo Sud, per capire come mai la razza ariana si fosse corrotta e come fare per ripristinare la purezza originaria. Si credeva che purificando la razza si sarebbe ottenuta una conseguente limpidezza mistica e religiosa. Gli scienziati del Terzo Reich pensavano che le ghiandole pituitaria e pineale, fonte dell’antico potere divino ariano, si fossero atrofizzate e in seguito a questo le popolazioni germaniche non possedessero più quei poteri di cui avevano goduto nell’età dell’oro, quando vivevano nel loro paradiso, Thule. Per questo i medici del Terzo Reich si impegnavano in arditi e allo stesso tempo orribili esperimenti genetici, come quelli di Mengele; ecco perché le SS dovevano presentare un certificato all’Ufficio centrale della Razza che accertava la purezza ariana del loro albero genealogico.» «Davvero? E trovarono qualcosa?» «Trovarono un’infinità di interessanti oggetti e informazioni. Presero le misure precise delle popolazioni, fecero calchi antropometrici, trovarono molte conferme sull’origine indoeuropea degli ariani, ma niente che confermasse le loro teorie le quali, per inciso, partivano da presupposti completamente sbagliati. Lo stesso concetto di razza è errato. La genetica moderna ha dimostrato chiaramente che esiste una sola razza umana, con tante variazioni, ma siamo tutti talmente vicini dal punto di vista genetico che non si può parlare di più razze

bensì di una sola. Comunque loro cercavano il segreto per tornare a essere semidei.» «Sapevo che i nazisti erano folli ma questa è proprio nuova…» William sorrise: «Lo erano molto più di quanto si possa immaginare. Comunque, si potrebbe dare un’occhiata a queste piramidi?» «Certamente, fanno parte del nostro museo archeologico. Sono a Güímar. Vi posso portare anche subito se non avete impegni, s’intende.» Entrambi scossero la testa e in breve salirono sul SUV di Reddings che partì percorrendo il centro di Santa Cruz. Imboccando Calle Peres Galdos, Alicia vide un grande edificio dotato di colonne maestose e dell’inconfondibile triangolo con l’occhio, insieme a varie altre sculture in stile egiziano. Ancora, percepì allo stomaco quella sensazione scomoda, fisica ma legata a un pensiero sepolto molto a fondo nella sua mente, come una tomba che, perpetuando il ricordo, ne allungasse all’infinito il dolore. Si trattava di qualcosa di segretamente, accuratamente occultato nei suoi ricordi, un dolore intenso che aveva fatto di tutto per dimenticare. La stessa sensazione che più volte aveva provato da quando aveva cominciato a viaggiare con William. Lo guardò interrogativamente: lo studioso inglese identificò subito la struttura come il Templo Masonico di Santa Cruz, una delle sedi più grandi e famose della Massoneria spagnola. «Il proprietario del terreno su cui sorge il museo all’aperto con le piramidi è un massone. Qui da noi ce ne sono diversi, sono tutte persone molto abbienti che hanno fatto parecchio per migliorare l’arcipelago», spiegò Marcus. William non aggiunse nulla. Conosceva molto bene l’universo della Massoneria, conosceva il “bene” e il “male” di quel mondo dorato, ricco di denaro, simbolismi e potere. Per il suo lavoro aveva approfondito molto gli aspetti della sua storia, anzi, da tempo si era accorto che ogni grande evento, ogni bivio della storia, dalla Rivoluzione se alla Seconda guerra mondiale, fino alle ultime decisioni di politica estera del Presidente americano o del Primo Ministro inglese, erano tutti potentemente influenzati dalla Massoneria. Marcus, strada facendo, continuò comportandosi come una perfetta guida, finché giunsero nella cittadina di Güímar, dove visitarono il museo dedicato alla civiltà dei guanches. Mentre osservavano i reperti William sottolineò che i nazisti erano

convinti che le grandi piramidi di Giza fossero state costruite dalle antiche popolazioni ariane in una delle loro ipotetiche fasi storiche fatte di ascese e decadenze in buona parte dovute a battaglie epocali, così come era ricordato nei cicli wagneriani. Per i nazionalsocialisti, qualunque sito archeologico la cui datazione fosse più antica di tre-quattromila anni, era automaticamente da attribuire alla razza ariana, la più antica e nobile stirpe della Terra. A ogni modo, le popolazioni guanches erano imparentate linguisticamente con i berberi e, a quanto pareva, avevano commerciato con i romani e altre popolazioni precedenti, come i punici. Le piramidi non erano né imponenti né particolarmente alte e non si era raggiunta certezza sulla loro età. Anche perché ben poco si sapeva sul loro reale utilizzo. Heyerdhal suggeriva fossero il trait d’union tra quelle egizie e quelle maya. In effetti erano orientate astronomicamente, almeno alcune di esse.

Il piccolo museo e l’attigua area interna richiese poco più di un’ora per la visita, poi rientrarono a Santa Cruz, dove Marcus tornò ai suoi affari e William e Alicia pranzarono in un rinomato ristorante locale. Nel pomeriggio si riposarono e poi gustarono un caffè e gofio, dolci tipici delle Canarie con miele e mandorle, nella sala dedicata al capitano Reddings. Utilizzarono la piacevole pausa per fare il punto della situazione e Alicia riassunse per sommi capi i punti fermi della loro ricerca: «Allora, dalla lettera di Wilhelm Meister siamo giunti a Reddings. La ricerca sul nome del capitano Reddings ci ha portato qui da suo figlio e ora abbiamo la prova che il capitano aveva ricevuto l’incarico da parte di Meister di portare o spedire il baule di Himmler a Bariloche. Probabilmente Meister si fidava di lui, da come sorridono nelle fotografie d’epoca sembrano grandi amici. Condividevano almeno una grande ione: la ricerca archeologica. Quindi Bariloche sarà la nostra prossima tappa.» «Certo, sarà bene prenotare i biglietti aerei.» «Mi chiedevo… perché proprio Bariloche? So che molti nazisti fuggirono in Argentina durante il governo Perón. Ma tu stesso nei tuoi libri parli della Spagna di Franco, del Paraguay, del Brasile, o anche del Medio Oriente come mete di fuga…» «Bariloche è un villaggio turistico la cui fortuna e denaro provengono in buona parte dalle SS che si stabilirono lì. I loro figli ora godono di una prosperità

notevole grazie all’oro e alle banconote in valuta pregiata che i loro padri portarono in Argentina. A Bariloche c’era già da tempo una consolidata colonia tedesca, è una piccola Baviera, per così dire. E i tedeschi erano apprezzati. Probabilmente nel villaggio c’erano persone di fiducia di Meister, il telegramma cita un certo Herrera, non dovrebbe essere difficile verificare se è ancora in vita, cosa di cui dubito, considerato che sono ati settant’anni, o abbia avuto discendenti.» Alicia annuì, le nuove informazioni avevano dato fiducia a entrambi e fu con una discreta eccitazione che prenotò i posti sulle tratte Tenerife-Madrid e MadridBuenos Aires.

La mattina dopo si accinsero a partire diretti all’aeroporto di Santa Cruz per imbarcarsi sul volo diretto a Madrid, da dove avrebbero raggiunto Buenos Aires. Ma, una volta in macchina, William notò qualcosa che attirò la sua attenzione; rimase a fissare lo specchietto retrovisore e poi il suo sguardo si fermò su quello laterale. «Alicia…» «Sì?» «C’è qualcosa che non va. Rimani qui», disse. Lei ubbidì, intimorita dal tono della voce. William riaprì la portiera. Aveva notato un braccio: qualcuno giaceva riverso appena fuori della porta di servizio. Si vedeva solo l’arto superiore, ma era sufficiente per convincerlo che si trattasse di Reddings. Aveva appena messo i piedi a terra che un’ombra nera si avventò su di lui. Istintivamente si protesse tirando indietro lo sportello, usandolo come fosse uno scudo. L’energia cinetica di un potente calcio diretto al suo stomaco si scaricò sul metallo. William non poté evitare di battere la testa contro il vetro, ma la gamba dell’aggressore si scontrò con violenza contro la lamiera, nella sua parte d’angolo: si udì il secco rumore di un osso rotto. Il suo avversario, un uomo di colore alto, con occhiali da sole e i capelli quasi rasati, cadde a terra con un urlo strozzato. «Alicia, vieni via!», urlò William. Con un balzo la donna scese dal 4x4 e si allontanò velocemente insieme

all’amico. Corsero verso Reddings: si accertarono che vi fosse battito dall’arteria giugulare e con sollievo appurarono che pulsava regolare e forte.

«È solo svenuto. Meglio così…», disse Alicia che diede uno sguardo intorno con espressione preoccupata. Più in là l’aggressore tentava di rimettersi in piedi. Entrarono nella casa accorgendosi che era stata messa a soqquadro da cima a fondo; forse l’uomo era un ladro… no, William scartò subito quell’ipotesi: un ladro occasionale scappa, non cerca di fare del male ad altre persone, una volta ottenuto quello che cerca.

Non c’era tempo per fermarsi a riflettere: l’uomo si era rialzato e pur zoppicando li stava raggiungendo.

«Dobbiamo andarcene. E alla svelta. Di qua.» La guidò verso l’altra ala della casa, in modo da eludere l’avversario. Avrebbero fatto il giro e cercato di risalire in macchina. Per fortuna il loro inseguitore era rallentato dalla ferita. Riuscirono a farcela per un soffio, entrarono nel Suzuki 4x4 mentre l’altro ingiungeva loro di fermarsi. William non ci pensò un attimo e mise in moto, partendo di scatto e lasciando una discreta traccia di gomma sull’asfalto. L’avversario salì dolorante sulla sua auto parcheggiata di fronte alla Reddings’ House e si lanciò in un tallonamento forsennato. William era tesissimo: non era mai stato braccato in vita sua, tantomeno aveva subito aggressioni. Era un tranquillo professore di Londra e adesso aveva la netta sensazione di essere incappato in qualcosa di veramente grosso e pericoloso. Scambiò uno sguardo eloquente con Alicia che, terrorizzata, si teneva stretta al cruscotto e al maniglione dello sportello. «Ce la faremo, vedrai.» Lei annuì senza dire una parola.

William aveva avuto conferma di una sensazione che provava dall’inizio di quella missione: si era sentito osservato, ma non riusciva a capirne il motivo. All’inizio aveva creduto che si trattasse di qualcuno della Wyler Foundation; magari gli avevano messo uno di loro alle costole solo per controllarli. Ma ora quella sensazione si era concretizzata in qualcosa di ben peggiore: chi li seguiva voleva qualcosa da loro, e probabilmente non aveva nulla a che fare con la Fondazione. Gli dispiaceva solo che Marcus Reddings ne avesse fatto le spese. William accelerò e riuscì a uscire dalla cittadina mentre l’inseguitore, dolorante per la frattura alla gamba, continuava a stare loro dietro senza demordere. I pneumatici stridevano nelle curve strette che il professore affrontava sempre più velocemente, mentre Alicia pregava che non venisse nessuno dalla parte opposta. Levò un grido, scusandosi subito dopo, quando il 4x4 sbandò leggermente, ma William riuscì a riprendere il controllo e la rassicurò: «Sembra che stiamo guadagnando terreno, la sua auto non riesce a starci dietro nelle curve. Forse riusciamo a seminarlo.»

Subito dopo l’ennesima curva affrontò un rettilineo e gli sembrò di vedere, in lontananza, un mezzo della polizia in un’area di sosta: fu tentato di fermarsi e chiedere aiuto, ma subito dopo pensò che ciò avrebbe rallentato la missione. E poi, poteva anche non trattarsi di veri agenti: meglio non rischiare. Scorse una strada secondaria sterrata che si inerpicava in mezzo a un bosco e vi si infilò a tutta velocità. Lì il 4x4 poteva dare il meglio di sé. L’altro, ancora dietro la curva, non si accorse della manovra e continuò a tutta velocità. Quando notò l’auto della polizia era troppo tardi per frenare e continuò la sua corsa, questa volta come preda. Gli agenti salirono in macchina, accesero lampeggianti e sirena e, con una stretta inversione a “u”, si misero alle calcagna del bolide. Alicia sorrise a William: dal loro punto di osservazione a qualche metro di altezza tra gli alberi, avevano seguito tutta la scena: «Dovremmo essere in salvo», sospirò. «William, sei stato eccezionale. Dove hai imparato a guidare così?» «Vedo sempre Walker Texas Ranger alla tv», scherzò. «Stai bene?»

«Sì, non ti preoccupare. Tu?» «Tutto ok, se sei d’accordo torniamo alla Reddings’ House: vorrei portare Marcus in ospedale.» «Certamente. Ma chi era quell’uomo? Perché ce l’aveva con noi?» «Credo che qualcuno conosca la natura delle nostre ricerche e voglia arrivarci prima di noi. All’inizio pensavo che fosse mandato dalla Fondazione di tuo padre, ma è un controsenso. Noi lavoriamo per lui.» «Già… non può essere mio padre, non si sognerebbe mai di mettermi in pericolo. E non avrebbe nessun vantaggio a bloccare le nostre ricerche. Ma chi può essere? E perché ci stava seguendo?» William ingranò la marcia: «Domande senza risposta per il momento. Torniamo indietro. Sono preoccupato per Marcus.» Mentre viaggiavano verso Santa Cruz de Tenerife non dissero nulla: le loro menti erano occupate a riflettere su ciò che era accaduto e a tentare di eliminare un intenso sentimento di timore che l’inseguimento aveva scatenato. Temevano per le loro vite e soprattutto si chiedevano: “Cosa sarebbe successo adesso?”. Ma per quanto considerassero gli avvenimenti da ogni angolazione possibile, c’era qualcosa che sfuggiva loro, qualcosa che non potevano conoscere, o controllare. Qualcuno li stava seguendo e questo rendeva la loro missione molto più pericolosa di quanto avessero immaginato. Alicia pensò di contattare suo padre, ma per lo strano rapporto che la legava a lui non si sentì alla fine di chiamarlo. Era troppo scossa e forse aveva paura di scoprire qualcos’altro sul loro incarico. Trovarono Marcus Reddings in piedi che parlava con un agente di polizia: fu contento di vederli. Dopo essersi accertato che stavano bene, spiegò loro cosa fosse successo: un uomo, lui lo chiamava ladro, si era introdotto nella sua abitazione. Lo aveva colto con le mani nel sacco mentre stava portando via documenti e fotografie e il furfante aveva reagito tirando fuori una pistola e minacciandolo. Marcus, che soffriva da molti anni di epilessia, era svenuto. Pochi minuti dopo era tornato in sé e aveva chiamato la polizia. «E voi?», domandò a William e Alicia. I due raccontarono la propria

disavventura e subito dopo gli agenti presenti contattarono la centrale. Vennero così a sapere che il loro inseguitore era stato alla fine fermato: dai primi riscontri risultò che si trattava di un ex membro delle forze speciali inglesi, incensurato, dalla fedina penale immacolata e dallo stato di servizio eccellente, non certamente un ladro o un malvivente.

Cosa molto strana, l’uomo aveva subito contattato dalla centrale l’ambasciata inglese che si era affrettata a prelevarlo, previa immediata autorizzazione del Ministro dell’Interno spagnolo. In neanche mezz’ora era sparito dalla circolazione. Lo stesso agente che riferiva queste informazioni a William e Alicia sembrava frastornato, una cosa del genere non era mai accaduta. A ogni modo i due erano felici che non fosse successo nulla a Marcus, declinarono le loro generalità e rilasciarono una breve deposizione, poi salutarono Reddings e si avviarono verso l’aeroporto.

Qualche ora dopo erano su un aereo diretti a Buenos Aires; ne approfittarono per dormire un po’ e riposarsi, ma continuavano a pensare a ciò che era accaduto. Ne avevano parlato e riparlato, avevano cercato soluzioni, elaborato ipotesi, ma inevitabilmente si trovavano di fronte alla mancanza di quelle informazioni che avrebbero permesso loro di venire a capo del problema, per cui decisero di soprassedere, per il momento. Probabilmente chi li teneva d’occhio si sarebbe rifatto vivo. La parte finale del viaggio fu piuttosto interessante grazie al bellissimo panorama. L’Argentina è una terra sterminata, in cui ampie aree pianeggianti, dove la pampa si estende a perdita d’occhio, vengono delimitate dalla maestosità della catena Andina. Dalla capitale un volo Aerolineas Argentinas li portò ad attraversare l’enorme estensione della provincia di Buenos Aires e di quella del Rio Negro: abbandonata l’area della capitale, in cui era visibile l’Oceano Atlantico per centinaia di miglia a est, attraversarono la parte meridionale del continente americano che possedeva colori, sfumature e una geografia naturale di selvaggia bellezza. Le città e gli agglomerati urbani erano pochi e isolati, una manciata di minuscoli sassi gettati in una terra che sembrava senza confini. Sorvolarono vaste distese a tratti verdi, a tratti brune o con tenui sfumature rossastre, in cui la magia della terra e del mare si mescolavano all’atmosfera

tersa: un cristallo azzurro attraverso cui scrutare l’enorme estensione da sud a nord della Cordillera Andina, con le sue cime innevate. Dopo diverse ore di viaggio atterrarono nel tardo pomeriggio all’aeroporto di San Carlos de Bariloche, una città famosa per la sua posizione unica e l’architettura in stile bavarese: il paesaggio era indistinguibile da quello austriaco o tedesco. I picchi imbiancati delle Ande circondavano l’abitato che godeva di un clima eccellente, con estati fresche e inverni piovosi ma non troppo rigidi. La media delle temperature annuali, infatti, raramente raggiungeva temperature estreme e questo per la vicinanza del grande lago Nahuel Huapi e di altri che mitigavano il freddo dell’inverno australe. Curiosamente né William né Alicia avevano pensato ad acquistare vestiti adatti e arono così dal caldo estivo di Tenerife alla neve che stava cominciando a spruzzare le punte dei monti vicini e in qualche caso le piste da sci in quota. Nell’emisfero australe, in giugno, stava per cominciare l’inverno, una cosa a cui non erano abituati. Furono così costretti a rinnovare il guardaroba e, mentre camminavano nelle vie centrali di Bariloche, ancora affaticati per il jet lag, ebbero come la sensazione di trovarsi in qualche borgo della vecchia Europa. Alicia e William fecero tappa in uno dei tanti locali con annessa pasticceria dell’elegante centro, in cui si vendeva cioccolata finissima. Si fermarono in quello che pareva più tipico e si scaldarono nella stube in puro stile tirolese al piano superiore, una enorme sala ristoro in cui una grande stufa a legna centrale, ricoperta di maioliche verdi, spandeva il suo piacevole calore. Mentre sorseggiavano una cioccolata bollente osservavano dall’ampia finestra la neve scendere leggera. Alicia notò che la maggior parte dei anti aveva i capelli biondi, frutto dei numerosi matrimoni misti. In strada aveva sentito parlare spagnolo ma anche tedesco, italiano e inglese: Bariloche era una località sciistica rinomata nel continente sud americano e la presenza di turisti era naturale. Era difficile stabilire chi fosse del luogo e chi no. All’interno della saletta riscaldata la sua attenzione fu catturata dalle due ragazze che servivano grandi boccali di birra ai clienti, vestite secondo la tradizione bavarese con grembiuli multicolori, camicette bianche, gilet sul quale ricadevano trecce biondissime. «Sembra di essere nel Nord Europa: la maggior parte delle persone ha gli stessi tratti somatici!», esclamò Alicia con l’angolo delle labbra sporco di cioccolata. William prese il fazzoletto e la ripulì con un gesto amichevole e delicato, che lei

trovò molto carino. Lui se ne accorse e ne fu leggermente imbarazzato, come se si fosse accinto a varcare una barriera immaginaria tra loro due, bruciando le tappe.

«Scusa», fece lui. «E di che? Non ce n’è motivo.» Trascorsero qualche minuto gustando ancora le bevande calde, che ebbero il merito di restituire loro il buonumore, nonostante la situazione. In effetti tutto era insolito, strano: poche ore prima si stavano bruciando la pelle al sole di Tenerife e ora erano nell’inverno australe in una sorta di birreria bavarese in Argentina. Qualche tempo prima erano stati costretti alla fuga da un energumeno e in quel momento si trovavano immersi nella pace più assoluta. Ce n’era di che confondere chiunque. William aprì il suo laptop e si collegò alla rete wireless dopo aver chiesto la a una delle ragazze. Facendo qualche semplice ricerca, vennero fuori diversi Herrera: un dentista, una donna che gestiva un’agenzia immobiliare e altri dieci nominativi. «Dovremo contattare queste persone una a una. Ci vorrà un po’. Magari possiamo dividerci il compito», disse Alicia con il viso appoggiato sulla mano e con il gomito sul tavolo. William si girò verso la stessa ragazza di prima; rifletté un attimo poi si alzò: «Scusami un momento», disse sorridendo, e si diresse al piano inferiore.

Alicia prese il laptop e continuò le ricerche. Poi ne approfittò per dare un’occhiata alla sua casella di posta elettronica. Qualche minuto dopo William fu di ritorno con un ampio sorriso.

«Allora, in città solo tre Herrera sono originari di Bariloche. Ecco qua gli indirizzi.»

«Ma… come hai fatto?», Alicia lo scrutò con una punta di invidia. «Basta chiedere al barista. In ogni parte del mondo sa sempre tutto di tutti. Non gli ho detto il motivo della nostra richiesta, ovviamente. So che su queste cose a Bariloche sono piuttosto suscettibili, visto che prosperano grazie ai soldi e all’oro dei nonni SS giunti qui negli anni ’50.» «Un punto a tuo favore, William. Potremmo discutere il da farsi a cena e magari contattarli domani mattina. Comincio a sentire piuttosto forte il bisogno di dormire.» «Ottima idea. Una cosa da fare adesso è un breve giro in centro; prima di cena, dobbiamo acquistare un po’ di melatonina per il jet lag e una guida… molto particolare. Andiamo.»

Alicia lo seguì con poca determinazione, aveva le gambe stanche e sentiva un piacevole torpore invaderle il corpo e la mente; il calore della stufa non faceva altro che amplificare quella sensazione, ma doveva contrastarla, altrimenti si sarebbe addormentata sul tavolo con il bicchiere in mano. Indossarono le giacche a vento, i berretti e le sciarpe nuove di zecca e scesero le scale. Pagarono il conto e uscirono nella fredda serata invernale, districandosi tra una comitiva di chiassosi turisti americani appena rientrati dalle piste in quota.

Senza farsi notare un uomo aveva avvicinato il barista e aveva scambiato qualche frase con lui, mentre osservava William e Alicia uscire dal locale. Di mezza età, con la schiena curva, indossava un pesante cappotto. La barba era lunga ma rada, come se avesse qualche problema al viso. Mentre parlavano le loro espressioni erano divenute serie, quasi preoccupate. Qualche attimo dopo entrarono nel retro del negozio e fecero una telefonata.

Capitolo 14

Villa Mondragone, Roma. 23 settembre 1581. Tarda sera

Il temporale che si era scatenato sulla villa papale non faceva presagire nulla di buono agli uomini riuniti per l’esperimento. Gregorio XIII osservava i suoi fedeli studiosi approntare la macchina e si chiedeva se stesse facendo la cosa giusta. Il cardinale Sirleto lo notò e gli si rivolse con le consueta premura: «Santità, va tutto bene?» Il papa lo guardò con gli occhi acquosi e le rughe della vecchiaia. Trasse un sospiro e gli confidò: «Amico mio, mi siete sempre stato vicino…» Sirleto abbassò il capo annuendo con deferenza. Il pontefice fissò la macchina di Bruno e continuò: «A volte ci chiediamo quali siano i bivi della vita, le porte che si stanno aprendo, le porte che devono rimanere chiuse. Le scelte che facciamo, quelle che non dovremmo fare. Anche il papa a volte ha delle perplessità, la luce di Dio non sempre è così evidente a un uomo. Se questa macchina funziona… se fosse possibile vedere quali scelte faremo, se potessimo tornare indietro e non fare scelte sbagliate… Se avessimo la facoltà di aprire le porte del futuro, del ato, e cambiare il presente… Quello che stiamo per fare è una deviazione da ciò che è naturale. Ci siamo detti più volte che era giusto provare, che dobbiamo farlo noi prima di altri. Prego il Signore di darmi la forza di compiere ciò che è giusto.» Sirleto lo osservò con maggiore attenzione: il capo della Chiesa doveva essere forte. Soffriva nel vedere nel vicario di Cristo quella continua debolezza, d’altronde era solo un uomo.

Gregorio XIII era davanti a quel bivio, e lui doveva consigliarlo come aveva sempre fatto, sostenerlo nella sua missione: «La luce del Cristo saprà guidare il suo vicario in ogni cosa, e soprattutto in questa occasione così importante. E io sarò qui, accanto a voi. Come sempre.»

Il papa sorrise, ma era un sorriso teso che si perse nelle rughe preoccupate che gli segnavano il volto. Intanto, il responsabile dell’esperimento aveva rimosso il telo di cotone sulla macchina e stava spingendo il tavolo su ruote, su cui era stata posta, di fronte al papa. A ben guardarla non era niente di impressionante: una semplice cassa di legno con una manovella collegata a due ruote dentate interne, in grado di variare le velocità relative dei due dischi. Il gesuita che l’aveva studiata e realizzata era pervaso da un forte timore: se quello che il libro di Bruno asseriva fosse stato vero, allora quello era l’esperimento più pericoloso mai compiuto. E, forse, il papa avrebbe dovuto impedirlo. Ma oramai non c’era più spazio per i ripensamenti. Non c’era più tempo per tirarsi indietro.

Così cominciò a far girare la manovella, spostando le pesanti ruote di legno e ottone, mirabilmente realizzate. Il sacerdote avvertì di stare a distanza. Temeva che qualcuno potesse farsi male, soprattutto il papa. Tutti si fecero indietro, istintivamente, mentre il dotto studioso, con la fronte imperlata di sudore, faceva girare i dischi sempre più velocemente, producendo un sibilo intenso che coprì il rumore dei tuoni all’esterno. Secondo quanto aveva appreso dalla lettura del testo di Bruno, la macchina funzionava azionando una parte del cervello sopita da molto, molto tempo: gli occhi ricevevano un segnale che veniva codificato dall’encefalo e ava attraverso il nervo ottico direttamente a una locazione di memoria la cui porta era chiusa da millenni, da eoni. Le particolari simbologie riportate sulle due ruote, quando giravano secondo la velocità descritta da Bruno, procuravano una sorta di oblio della mente e la graduale apertura della porta. Il frate di Nola, che aveva riportato parte delle sue esperienze dirette nel suo studio, asseriva di avere avuto una visione: un ambiente luminoso, bianco, una dimensione particolare, la soglia di un nuovo straordinario luogo. Il papa, seduto sullo scranno, cominciò a percepire una strana e tremolante luminescenza intorno, come la fiamma di una candela che gettava ombre cangianti. In quello stato, ancora a metà della fase di transizione nella nuova dimensione, come aveva letto nel libro di Bruno, riusciva ancora a vedere il mondo reale ma le ombre che scorgeva non erano percepite dagli altri uomini nella stanza; poco a poco stava varcando la soglia. Fissava le due ruote che procedevano sempre più veloci sinché si stabilizzarono, mediante un meccanismo interno, su una velocità prestabilita.

Un lampo illuminò il suo viso per metà: il terrore più puro si stava impadronendo di lui, che aveva già provato nella segretezza del suo laboratorio a vedere oltre l’immaginabile, provando per conto suo la macchina, ma rinunciandoci quasi subito per paura. E ora provava lo stesso timore, evidente nella sua espressione allucinata, mentre il dotto di corte faticava nel girare le ruote. I dischi con i simboli, di cui gli studiosi non riuscivano a comprendere il significato, vorticavano riflettendo sul soffitto e sui muri frammenti di luci, immagini, a tal punto che l’intera stanza sembrò muoversi e ruotare. Gregorio XIII emise un gemito mentre vedeva il mondo girare intorno a lui e il suo scranno con esso, in una vorticosa rotazione senza controllo. Ma il suo sguardo e la sua mente furono morbosamente, fisicamente attratti dai simboli che giravano mossi dalle ruote, catturandoli.

Gregorio lottò per non farsi prendere da quella sensazione che lo gettava nel puro terrore, buio e freddo. Stringeva i braccioli dello scranno ma si sentiva letteralmente risucchiato all’interno di uno strano vortice creato dalla macchina; si tenne con tutte le sue forze finché gli sembrò di essere catturato da una energia più intensa, che lo inghiottì. Allora, in quel preciso istante, gli sembrò che il suo essere mutasse, ando dallo stato solido a quello gassoso. Forse stava entrando nel mondo delle idee. E, come se potesse osservarsi, vide il suo corpo deformarsi. La macchina lo attraeva, lo risucchiava fisicamente, sentiva le membra allungarsi, torcersi per entrare in quel vortice nero che emetteva radiazioni di un intenso blu. Riusciva a malapena a vedere i presenti, assolutamente ignari di ciò che accadeva, del vortice: per loro la realtà era rimasta immutata. Gregorio distolse lo sguardo e gli sembrò di affondare in un mare in tempesta, un incubo notturno orribile che lo trascinava in un’altra realtà: fu allora che urlò. Sei dei sette uomini nella stanza si precipitarono vicino a lui ma egli, con lo sguardo fisso sulle ruote che illuminavano i suoi occhi come fiamme dell’inferno, con l’ultima goccia di percezione della realtà, vide le loro braccia protendersi a toccarlo. Urlò di stare lontani, di non avvicinarsi.

Fu così che in quell’attimo l’armonia del tempo, il divenire, la successione cronologica degli eventi, cessò di esistere nella linearità umana, nella comprensione così limitata che di essa l’uomo ha nella sua vita meccanica, perso nelle faccende e nei guai della quotidianità.

Il papa stava percependo una nuova forma, un nuovo divenire che si estendeva su più fronti, come una marea inarrestabile in grado di distruggere ogni cosa nella sua avanzata; ora il tempo poteva avanzare, arretrare, spostarsi di piano, entrare in un nuovo orizzonte eventuale, crearne uno o innumerevoli altri. Il tempo stesso sembrava cessare di avere un senso, e Gregorio comprese, solo allora, che nella sua natura non ne aveva. Il tempo poteva avere senso solo perché l’uomo tentava di comprenderlo. Gregorio comprese, in un attimo di mistica beatitudine, che il tempo era sfuggevole, inafferrabile, ineffabile. Ebbe modo di scrutarlo, e fu la visione più meravigliosa e terribile che avesse mai sperato di osservare. Tentò di afferrarlo tra le dita, di fermarlo, poiché il tempo era bellissimo, e desiderava bloccare un avvenimento importante, ma esso gli sgusciò via. I dotti che lo attorniavano lo sentirono urlare: «Fermati!», mentre dal seggio si protendeva verso la macchina, con il viso pervaso da un furore mistico e orribile insieme.

In quel momento il gesuita lasciò la manovella. Il cardinal Sirleto sostenne Gregorio XIII che quasi cadde dallo scranno quando riaprì gli occhi, accorgendosi di essere tornato alla normalità.

«Santità, state bene?» Gregorio XIII per qualche attimo non rispose: nei suoi occhi si muovevano ancora le immagini meravigliose, e terribili nelle loro implicazioni, che aveva ammirato grazie alle stimolazioni della macchina di Bruno. Era andato dove pochissimi altri si erano recati, aveva esplorato una zona dove ogni cosa era possibile, in cui esisteva tutto e il contrario di tutto. Aveva viaggiato in una piega del tempo dove nascevano e si annullavano i futuri, i ati, i presenti, a

seconda di variabili che potevano essere predeterminate. Il papa non riuscì a rivolgere al suo cardinale uno sguardo: era ancora attirato, controllato, rapito dalle visioni del tempo.

Alla fine, con fatica, cercò di parlare. «Io non ho più nulla. Io non sento più nulla… Io… c’erano barriere ben chiare alla nostra esistenza, la vita, la morte. Il Male. Il Bene. La legge di Dio per gli uomini… Ora la barriera è stata infranta.» Tutti lo osservarono con apprensione. Non capivano il senso di quelle parole, ma erano comunque piene di angoscia.

«Santità, cosa è successo?», gli domandò il cardinale. «Non so quale sarà il nostro futuro adesso che siamo andati oltre», fece con voce stentorea. «Non esiste più un orizzonte, non so quali saranno gli eventi che seguiranno a questo. So solo che mi sento perduto. È come un vortice che risucchia ogni cosa sotto la superficie del mare. Un orribile gorgo. Il senso stesso del tempo è andato in frantumi. Cosa abbiamo fatto? Ho visto il tempo, ho sentito il calore del suo fluire sotto le mie dita, ho potuto contemplare il futuro, il ato, il presente e le multiformità di tutti i presenti, futuri e ati possibili, come se esistessero infinite soluzioni.» Si bloccò per qualche istante, allungando una mano e toccando il braccio di Sirleto. Era provato, oltre che impaurito. «Tutto esisteva allo stesso tempo e non esisteva, in base al momento in cui sceglievo di guardarlo. Se osservavo un dato evento esso esisteva realmente ma se non lo contemplavo non esisteva più se non nella multiformità dei mille destini possibili e contemplabili. Realtà e fantasia sono dunque legate, tutto è possibile e non è possibile al medesimo tempo… È solo una questione di volontà.» Annaspò, cercando di tenersi su, sentendo le forze venirgli meno. Sirleto lo

avvinghiò. «Questa macchina… questo portento! È grazie a lei che possiamo osservare e cambiare le cose», disse stridulo. «Ma questo grande potere è pericoloso: chiunque potrebbe impadronirsene e cambiare la storia.» «Voi… voi avreste potuto agire sui tempi?», domandò il gesuita. «Sì, non so bene come, ma sentivo che, volendo, potevo interagire con essi. Cardinale», fece perentorio, riacquistando autorità, «questa macchina è frutto del demonio, deve essere distrutta. E anche il libro di Bruno. Requisitene ogni copia e bruciatela. Non ne deve rimanere traccia. Prendete tutte le misure che riterrete opportune, ma fate sparire questo obbrobrio. Cercate Bruno e fate in modo che non possa mai più portare avanti studi… del genere.» «Certamente Santità, provvederemo», lo tranquillizzò Sirleto. «Faremo quanto ordinate. Distruggeremo ogni cosa. Anche questo?», chiese infine indicando il libro che aveva letto il papa. Gregorio fece cenno a Sirleto di avvicinarsi ancor di più. «Sarà conservato nell’antro più recondito del nostro archivio segreto. Per ricordarci il pericolo che abbiamo corso.» Sirleto annuì. «Mio caro cardinale, fate quello che dovete. Senza tentennamenti, senza perdere tempo… non fermatevi di fronte a nulla! Io sono troppo scosso, provvedete voi, vi prego… Io ho visto che il tempo è come una nube che sorge, evapora, e poi cade di nuovo sotto forma di neve, o pioggia, esso è mutevole, cangiante e può essere imbrigliato, controllato. Non ho compreso con la mente cosa esso sia, ho però potuto afferrarne l’essenza… io… ho toccato il tempo, l’ho sentito vivere, morire…» «Santità, noi non ci siamo accorti di nulla!» «Lo so. Vi vedevo, mentre osservavo tutto il resto. Una cosa terribile e bellissima al tempo stesso… ma no, è troppo pericoloso. Il tempo è di Dio! Noi siamo solo uomini. Ma se qualcuno fosse in grado di comandarlo… Empietà, ciò è contrario alla volontà del Signore, perché solo Lui può controllare il destino

degli uomini.»

Gregorio XIII ora fissava il pavimento, ma il suo sguardo era ben oltre la fisica, mentre lentamente usciva dallo stato indotto dalle visioni. «Viviamo nel tempo», mormorò, «avanzando nella storia come se fosse una strada che si crea continuamente di fronte a noi…»

Continuava a parlare di qualcosa che per gli altri era pressoché incomprensibile. A percorrere una strada che gli altri uomini non vedevano e che lo portava a profonde considerazioni. «Nella nostra cinica percezione della storia umana non riusciamo a vedere che essa stessa è una strada che si biforca innumerevoli volte, cercando nuove direzioni. Quello che noi facciamo è semplicemente cambiare strada a un bivio, quando in realtà potremmo imboccarne un altro. Ciò che determina la storia è semplicemente la strada che imbocchiamo in un dato momento, in base a scelte fatte semplicemente dagli uomini che guidano le nazioni. E ora si può cambiare… si può spostare la meta in un luogo completamente diverso, si può mescolare la mappa, cambiare le locazioni, unire l’inizio con la fine…» Il papa tentò di alzarsi ma ebbe come un brivido che lo fece scivolare e quasi cadere a terra. Si appoggiò a Sirleto che tentò di sostenerlo, ma Gregorio XIII, subito dopo con un gesto della mano gli fece segno di farsi indietro: aveva di nuovo il controllo del suo tempo.

Capitolo 15

San Carlos de Bariloche, Argentina. 3 giugno 2017. Ore 15:30

La notte aveva portato a William e Alicia un sonno agitato: entrambi avevano avuto difficoltà ad addormentarsi nonostante la stanchezza del viaggio. Avevano trascorso la prima mattinata nella lettura di Bariloche Nazi, una guida turistica sui generis che William aveva acquistato in due copie, una guida che nessun ufficio turistico avrebbe mai venduto. Si trattava di una interessante indagine condotta da un giornalista argentino, Abel Basti, in cui si descriveva una Bariloche poco conosciuta. Non solo descriveva le strade e le case abitate dai nazisti in fuga dall’Europa, ma anche le proprietà immobiliari possedute in città e dintorni: negozi, alberghi, locali. Quella lettura aveva sortito un curioso effetto su di loro. Ma all’euforia si era presto sostituita la paura quando, in un paio di occasioni, a entrambi era sembrato di essere seguiti. Sperarono solo che fosse un’impressione.

William sapeva che chi era giunto in città per cercare i nazisti fuggitivi aveva avuto seri problemi. In alcuni casi si era ati alle vie di fatto. La popolazione di Bariloche amava questi tedeschi giunti alla fine degli anni ’40 e ai primi degli anni ’50 del secolo scorso. Da parte loro, gli immigrati si erano subito integrati nella comunità locale e avevano dato un forte impulso alla crescita e allo sviluppo economico, grazie al denaro, all’inventiva e alle capacità innate. William e Alicia avevano trascorso la mattinata visitando alcuni dei luoghi descritti da Basti: scoprirono così la scuola guida in cui Mengele, l’angelo della morte di Auschwitz, aveva con difficoltà preso la patente; il negozio di delikatessen di proprietà di Erich Priebke, l’assassino delle Fosse Ardeatine. Continuando il giro, nella parte opposta della strada, videro il Club Andino Bariloche, l’associazione di alpinismo ed escursionismo fondata nel 1931 da Otto Meiling, padre dell’alpinismo argentino e membro della Gioventù Hitleriana. Al club era stato iscritto anche Hans Ulrich Rudel, il più decorato

pilota della Luftwaffe e confidente di Hitler, come pure Frederich Lantschner, ex governatore del Tirolo. arono davanti all’Hotel Campana, che per molti anni era stato di proprietà di Reinhard Kops, tenente delle SS che aveva cambiato nome in Juan Mahler, e che al momento era gestito dai suoi discendenti. E seguirono le tracce della presenza in città di Martin Bormann, il numero due del Reich, e di Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dell’Olocausto.

Bariloche era stato dunque realmente uno dei punti di ritrovo delle SS in fuga, anche perché qui, già dal 1930, esisteva un club di simpatizzanti del Terzo Reich e la presenza tedesca era molto forte sin da inizio secolo.

Mentre esploravano i dintorni seguendo la guida, un’insolita sensazione si impossessò dei due: ciò che stavano osservando erano le prove storiche di uno dei più grandi misteri del Ventesimo secolo, dall’oro scomparso dei nazisti alla fuga di migliaia di SS in sud America, tutto sembrava tornare. Ma l’aspetto più disarmante era la considerazione che chiunque poteva arrivare alle medesime conclusioni: non vi era nulla di nascosto, tutto era avvenuto alla luce del sole, o almeno questa era l’impressione. Esisteva una differenza enorme tra il leggere qualcosa su un libro e verificarne l’attendibilità con una indagine sul campo. Seguendo le indicazioni della guida e di altre informazioni di cui William era in possesso, incontrarono diversi residenti, soprattutto quelli molto anziani che dovevano aver conosciuto personalmente dei nazisti. Da tutti, comunque, ricevettero informazioni minime, e soprattutto la netta impressione che volessero proteggere le famiglie dei discendenti delle SS stabilitesi in città, evitando accuratamente nomi e indicazioni preziose. Alcuni dissero apertamente che tutti sapevano chi fossero quei tedeschi arrivati dopo la Seconda guerra mondiale, ma che le ritenevano brave persone, grandi lavoratori ed eccellenti cittadini. Nessuno di loro aveva mai causato il benché minimo problema e non capivano perché, regolarmente, qualcuno veniva da lontano per gettare fango sulla loro memoria. William ricordava che molti cittadini avevano pubblicamente protestato quando, negli anni ’90 del secolo precedente, Erich Priebke era stato estradato in Italia per essere processato per crimini di guerra. Per cui non si stupì più di tanto

quando alcuni degli anziani dissero loro di smettere di fare domande. Uno in particolare, riferì che quell’atteggiamento poteva rivelarsi molto pericoloso. La storia aveva fatto il suo corso, oramai erano cose del ato. Ma ciò che colpì maggiormente William e Alicia fu l’atteggiamento tenuto da un sergente di Polizia di Bariloche che li aveva seguiti in auto per un po’ e poi fermati per fare loro domande precise. Il suo sguardo truce, in un viso incorniciato da grandi baffi scuri, insieme alla sua mole corpulenta, li aveva intimoriti. Era alto almeno un metro e novanta e visibilmente sovrappeso, con un ventre prominente.

Dopo aver controllato i loro documenti fu molto chiaro e diretto: «Chi siete? Cosa state facendo? Perché siete venuti a Bariloche?» Alicia desiderò mandarlo a quel paese, ma William, mantenendo la calma, rispose semplicemente con la verità, senza però scendere in particolari: stavano conducendo un’indagine storica. «E perché siete qui?», ripeté. «Stiamo facendo delle ricerche», fece William, sempre ben attento a mostrarsi collaborativo. «Tutto qui. È forse vietato?» «No, non è proibito. Ma questo è un paese tranquillo, signori», li apostrofò. «E vogliamo che rimanga tale. Ho ricevuto diverse segnalazioni secondo cui state molestando i nostri concittadini. Se continuate vi sbatto in carcere per disturbo della quiete pubblica. È chiaro? Tornate da dove siete venuti e non fatevi più rivedere. Le vostre note sono ora nell’archivio della polizia locale.»

Il sergente digitò qualcosa sul suo computer collegato alla centrale, poi fissò William con un’espressione piuttosto seria: «Da adesso siete persone non gradite nella nostra città. Vi invito caldamente a fare le valige e a tornare a casa, ci sono due aerei che partono per Buenos Aires domani, mi auguro che salirete su uno dei due. Buona giornata.» Il poliziotto se ne andò, non senza controllarli ancora per qualche minuto dalla

sua auto.

«E adesso?», mormorò Alicia preoccupata: erano stati praticamente banditi dalla città e in modo anche maleducato.

«Non credo ci sia molto da fare», replicò William. Tuttavia, visto che comunque erano riusciti a ottenere alcune informazioni, decisero di giocarsi il tutto per tutto, dopo una breve pausa che li avrebbe aiutati a riordinare le idee. Dovevano trovare l’Herrera giusto. Quello cui si riferiva il telegramma spedito da Tenerife e diretto a Meister. Andando per esclusione risolsero di cercare Carlos Alberto Herrera, un uomo anziano, figlio di un tedesco approdato a Bariloche dopo la guerra con falsi documenti. Tornarono in centro un po’ frastornati, un tè e una cioccolata li aiutarono a riprendere coraggio e continuarono quindi le loro ricerche con circospezione.

Sapevano di essere controllati e dovevano essere cauti: all’uscita della pasticceria si divisero e si diedero appuntamento all’indirizzo di Herrera, appena fuori città, per le diciotto in punto, dopo il tramonto.

Per evitare di essere seguiti vagabondarono per le zone più frequentate, prendendo un paio di taxi e celandosi nel miglior modo possibile. Mentre era in atto l’azione di depistaggio, William incontrò di nuovo l’auto della polizia, ma fortunatamente lo sguardo del sergente era rivolto altrove e riuscì a are inosservato.

All’orario convenuto, quando oramai il sole li aveva lasciati da un po’, William e Alicia si trovarono nel luogo dell’appuntamento: un’area solitaria ai margini di un bosco, coperta da una ventina di centimetri di neve a poche centinaia di metri

dalle ultime case di Bariloche. Entrambi erano piuttosto intimoriti: rimanere in mezzo alla gente aveva un effetto rassicurante, non sarebbe potuto accadere nulla di male, ma in quella zona così isolata, poco illuminata, era tutta un’altra storia.

La casa che avevano di fronte, in tipico in stile alpino, era protetta da una recinzione di ferro battuto; all’interno sembrava tutto buio: forse i proprietari erano fuori. Con la luce del display del suo cellulare William riuscì a leggere sul camlo un nome: Carlos B. Herrera.

La neve attutiva i rumori ma giungevano comunque echi degli abitanti del bosco: l’atmosfera era piuttosto tesa; entrambi provavano una certa tensione, anche se cercavano di non pensarci, e Alicia percepiva chiaramente i battiti del suo cuore in gola, veloci, e intensi. William decise di esplorare il retro della casa. Mentre giravano l’angolo si trovarono di fronte una figura alta con in mano un attrezzo, tenuto in modo minaccioso. Si stagliava in controluce davanti ai lampioni stradali in lontananza. Alicia gettò un grido e si strinse a William che la spinse dietro di lui; anche il suo cuore ebbe un improvviso guizzo e prese a battere veloce.

«Mi scusi», fece William, tenendosi a distanza. «Sono il professor Connor, stiamo cercando il signor Herrera.» William attese una risposta che non arrivò. Alicia avvertì che qualcosa di pericoloso stava per accadere e, d’istinto, si volse indietro. Sbarrò gli occhi con terrore quando scorse le sagome di una cinquantina di persone: erano circondati.

«William!» Tirò il braccio del compagno che si voltò di scatto. Gli uomini e le donne apparsi come d’incanto intorno a loro cominciavano ad avvicinarsi lentamente e lasciavano chiaramente presagire quali fossero le loro intenzioni. L’aria fredda, il respiro affannoso, visibile in evanescenti tracce di condensa che si perdevano nella notte, le ombre e quella folla in controluce che pareva

composta da esseri oscuri sorti dalla terra, strinsero i due amici nella morsa di una paura tagliente, fredda e affilata come una lama di rasoio.

Non c’era più altro da fare e lo studioso inglese tentò l’ultima carta: «Calma, signori, scusateci, non abbiamo cattive intenzioni. Cerchiamo solo il signor Herrera!», esclamò William. Ma gli altri continuavano ad avanzare: nel buio e nella neve ad Alicia ricordavano i morti viventi di The Walking Dead e ciò acuì ancora di più il puro orrore che si stava impossessando di lei. «William! Oh Dio, ci sono addosso!»

Connor tentò di elaborare una strategia di fuga, ma si accorse ben presto che erano in trappola.

«Alicia, non possiamo fuggire», disse lui concitato. «Proviamo a negoziare. Stai tranquilla, ce la faremo.» Ma non ne era affatto sicuro; lei apprezzò comunque il tentativo di darle speranza. Le ombre diafane che si allungavano sulla neve immacolata rendevano ogni cosa spettrale; quegli sconosciuti continuavano ad avvicinarsi finché l’uomo che oramai era loro addosso alzò il badile per colpirli. “Mio Dio”, pensò William. “È la fine!”. Il colpo arrivò, potente, intenso, con una violenza tale da gettare l’inglese a terra. Alicia lanciò un grido acuto. Il sangue tinse di rosso il candido biancore della neve.

Capitolo 16

Manhattan, New York. Wyler Foundation. 3 giugno 2017. Ore 15:00

Malcolm Wyler entrò e chiuse la porta. Il suo ufficio era il sancta sanctorum della Fondazione Wyler, il luogo più segreto dell’intero complesso, in cui venivano conservati i frutti delle ricerche di centinaia di scienziati alle dipendenze della grande istituzione.

Elegante, molto ampio, occupava buona parte di un piano dell’edificio ed era un mix di lusso e altissima tecnologia. Era dotato di un microclima, di un laghetto, una cascata che sgorgava da un’alta parete, un piccolo fiume che attraversava la sala principale. Tutto era stato realizzato per immergere il suo proprietario in un’atmosfera particolare: il suono della cascata e il gorgoglio dell’acqua erano rilassanti e piacevoli, come il profumo di erba bagnata che saliva dal piccolo green su cui ogni tanto Wyler provava qualche tiro di golf.

Wyler era un uomo molto particolare, come tutti i membri di The Rune: spietato e cinico, poteva essere considerato uno degli individui più potenti e influenti del pianeta. Anche se, come tutti coloro che detengono il vero dominio, si teneva ben celato nell’ombra. La sua organizzazione era così ramificata e ricca che poteva determinare il futuro di intere nazioni e il suo apparato di intelligence era più efficiente dei servizi segreti americani o israeliani.

Wyler si sedette alla sua scrivania, ampia e ordinata, in legno pregiato con inserti tecnologici di ogni tipo: uno schermo, mascherato nella struttura, che si sollevava non appena il suo proprietario metteva l’indice sul sensore a impronta digitale sotto il piano del tavolo, casse acustiche a scomparsa e vari altri strumenti.

Compose un numero di cellulare, quindi indossò un auricolare ultimo modello e attese. Dall’altro capo rispose il dottor J. J. Thorn del Rockefeller Research Center, a circa un centinaio di chilometri da New York. «Buongiorno, dottore», esordì Wyler nel suo stile asciutto.

«Signore…», fece l’altro, cercando di non tradire l’apprensione che l’attanagliava ogniqualvolta “il capo” chiamava. «Voglio un aggiornamento sui suoi progressi», continuò l’altro. La voce di Wyler era ferma e decisa. L’apparente cortesia si esprimeva con una tonalità fredda e quasi metallica, tipica di un uomo abituato a esercitare il potere. «Stiamo procedendo», disse dopo una breve pausa Thorn. «Il Generatore di Numeri Casuali mostra varie impennate in prossimità di applicazioni della Funzione Gamma, ma siamo più o meno allo stesso punto. In pratica mancano alcune informazioni vitali… quelle che sappiamo, per completare la funzione. Di conseguenza il sistema non evidenzia variazioni di rilievo. Ci sono stati due terremoti di media entità in Cile e in Medio Oriente e il Random Number Generator ha monitorato l’evento in quelle aree, c’è stata un’impennata nella Coscienza Collettiva Globale, è stato percepito poco prima che accadesse, ma a parte questo, che è prassi dell’esperimento RNG, non abbiamo altro. Bisogna trovare a tutti i costi quei dati, signore.» «Li avrete, non si preoccupi. Confido di mandarle le informazioni che le servono tra non molti giorni. Lei continui il suo lavoro e riferisca direttamente a me ogni variazione, seppur minima, della Coscienza Globale.» «Certamente signore.»

Wyler non lasciò allo scienziato il tempo di dire altro. Interruppe la comunicazione senza neppure salutare. Thorn aveva la pelle d’oca, come ogni volta che parlava con lui; quell’uomo lo

intimoriva, anzi, gli metteva proprio paura.

Julien Jonathan Thorn, dopo la laurea e il dottorato al mit di Boston, aveva lavorato per diversi anni al pear, il Princeton Engineering Anomalies Research Lab, e poi per il Noetic Science Institute. Nel suo campo era considerato un vero e proprio luminare. La sua teoria matematico-fisica della casualità aveva trovato una applicazione perfetta nel Random Number Generator, o Generatore di Numeri Casuali: si trattava di una delle scoperte più straordinarie del Ventesimo secolo, che confermava sperimentalmente l’esistenza di una sorta di Coscienza Collettiva dell’umanità, sensibile ai grandi cambiamenti nella storia o a eventi epocali. Il Global Consciousness Project constava di migliaia di generatori elettronici di numeri casuali situati in diverse nazioni e collegati in rete con computer che interpretavano continuamente i dati raccolti con software specifici. Questi ultimi generavano senza posa infinite sequenze di numeri che presentavano schemi consueti. Però, in prossimità di particolari eventi, per motivi non ancora compresi, le sequenze cambiavano radicalmente, producendo schemi inusuali. Gli scienziati avevano così constatato l’esistenza di una sorta di consapevolezza interconnessa a livello planetario, collettiva, capace di influire sui dispositivi di controllo, che in qualche modo sembravano registrare l’onda emotiva globale. Questo avveniva in concomitanza di catastrofi, guerre, notizie di ampia risonanza, in cui l’emotività delle persone era sollecitata dalla natura stessa di quanto accaduto. Non doveva trattarsi necessariamente di un fatto spiacevole. Qualsiasi cosa poteva influenzare la coscienza globale. Per esempio la morte di una notissima star del cinema, o le ultime Olimpiadi, avevano dato origine a intense emozioni condivise, unite in una forza emozionale coerente. Questa forza si manifestava in una consapevolezza espressa nei dati dei software che, in quei particolari momenti, registravano schemi non casuali. La poesia di un tale fenomeno era stata anticipata, a livello concettuale, da scienziati e filosofi come Henri Bergson, Teilhard de Chardin, Carl Gustav Jung e altri, le cui opere Thorn aveva letto e approfondito. Trovava straordinaria questa ricerca ed era convinto di trovarsi in una posizione privilegiata, potendo usufruire degli enormi stanziamenti del Rockefeller Research Center, dal quale era stato assunto con un ingaggio astronomico. Ma, dopo i primi mesi di euforia, le cose avevano preso una piega diversa: era entrato in campo il misterioso signor Wyler, un uomo che si sapeva immensamente ricco e potente. Costui gli aveva fornito una serie di equazioni, di cui non aveva voluto spiegare l’origine,

che sembravano non solo definire matematicamente la forza fisica che determinava l’effetto di consapevolezza globale, ma imprimevano una direzione completamente nuova, affascinante, al progetto.

Queste formule, riassunte dagli addetti ai lavori con il nome di “Equazione Gamma” o, più semplicemente, “Funzione Gamma”, spiegavano in parte alcuni dei fenomeni osservati e, grazie a esse, si cominciava a intravedere un puzzle straordinariamente complesso che sembrava collegare lo spazio-tempo einsteniano a un nuovo orizzonte, in cui era possibile studiare il tempo, definirlo, quasi toccarlo, matematicamente parlando. L’anomalia che avevano osservato con i primi esperimenti, tuttavia, non riusciva a manifestarsi pienamente: i dispositivi che erano stati approntati al Rockefeller Research Center erano quanto di più avanzato si potesse immaginare e comprendevano anche alcune macchine che generavano una energia non ben definita, quando stimolate a livello sub-atomico con impulsi coordinati dall’Equazione Gamma. Mancavano però dei fondamentali tasselli per completare l’opera. E questi, ancora una volta, li avrebbe forniti Wyler.

In ogni caso si trattava dell’ultima frontiera della ricerca, qualcosa di mai tentato prima e Thorn si sentiva davvero fortunato a prendervi parte, e a quel punto cominciava ad accarezzare la possibilità di un Nobel entro qualche anno. Avvertiva però, ultimamente, una certa ansia. Era come se qualcosa, dentro di lui, lo volesse avvisare che tutta la faccenda andava ben al di là di quanto immaginasse. Questo nonostante fosse lontano anni luce dal comprendere, seppur lontanamente, la portata del progetto cui stava lavorando. Nonostante gli obiettivi della ricerca fossero per lui completamente oscuri. Obiettivi che The Rune aveva invece chiarissimi.

Capitolo 17

San Carlos de Bariloche, Argentina. 3 giugno 2017. Ore 18:29

«Fermi!» La voce risuonò forte e congelò la scena: il badile che stava per infliggere il colpo finale rimase a mezz’aria, finché l’uomo che aveva parlato aggiunse: «Lasciateli stare. Andate. Penso io a tutto. Grazie.» Connor si rialzò dolorante; il berretto imbottito aveva attutito il colpo che fortunatamente aveva raggiunto la testa con la parte piatta dell’attrezzo e non di taglio. Tutto sommato se l’era cavata.

Alicia si era precipitata a soccorrerlo, impaurita: lui, sollevandosi, aveva minimizzato, sentendo il naso stillare gocce di sangue. Si pulì con la neve e in un attimo la piccola emorragia si fermò; non gli sembrava di avere danni più gravi di una semplice contusione per cui rassicurò subito la donna che tutto andava bene. Con grande sollievo, un attimo dopo William e Alicia videro la piccola folla scemare silenziosamente e allontanarsi come era arrivata. L’uomo che aveva parlato era fermo sulla soglia della porta di casa Herrera; qualche o avanti, oltre i pochi scalini, due persone, evidentemente guardie del corpo, armate di pistole mitragliatrici MP5. «Vi siete dati molto da fare per tutta la giornata, signori. È giusto che riceviate la ricompensa per il vostro impegno. Prego, entrate.»

L’uomo parlava un inglese eccellente, con un lievissimo accento spagnolo. William e Alicia si guardarono per qualche istante. Poi lui si mosse, seguito dalla

donna. Gli energumeni si scansarono, facendoli are. L’altro li fece accomodare nel salotto, non prima di averli perquisiti e requisito i loro cellulari che gettò a terra, schiacciandoli sotto i suoi piedi. Si trovarono in un ambiente lussuoso, una grande sala impreziosita da statue, quadri e oggetti d’arte delle più disparate culture. Il proprietario di quegli oggetti doveva essere un grande viaggiatore, un collezionista e un apionato. E, a quanto pareva, uno con una grossa influenza sugli abitanti del luogo.

«Sedetevi», disse perentorio. Anche lui prese posto in una bella poltrona damascata, facendo segno ai suoi uomini di portare qualcosa da bere.

Quando i suoi tornarono con un vassoio, con un cenno del capo invitò gli ospiti a servirsi. Lui prese un bicchiere di Coca e osservò Alicia e William che, al contrario, non toccarono nulla, intimoriti dalle armi bene in vista delle guardie del corpo.

«Posso chiedere con chi abbiamo il piacere di parlare?» William aveva bisogno di risposte. L’uomo che gli stava di fronte poteva avere cinquantacinque anni. Portava un elegante pizzetto brizzolato e folti capelli grigi. Era di altezza media e leggermente sovrappeso, lo sguardo scaltro e attento. I suoi modi, apparentemente gentili, celavano sicuramente una natura decisa, cinica. Almeno questo era ciò che si percepiva dal ghigno che si estendeva sul lato sinistro della sua bocca. Indossava abiti eleganti e portava un bracciale d’oro al polso libero dal costoso Omega Constellation che indossava sull’altro. Un anello d’oro dalla foggia inusuale con smeraldo completava il quadro. «Ho saputo che avete chiesto in giro notizie sulla mia famiglia. Cosa volete?» Alicia guardò le due guardie, in piedi nel fondo del salone, con le pistole mitragliatrici in posizione di riposo: «Devono rimanere qui?», domandò. Dopo l’esperienza che avevano appena ato la innervosiva parecchio vedere quelle armi. «Non ci faccia caso», fece lui immergendosi negli occhi di Alicia. «Dove sono io

ci sono sempre anche loro. Allora, signori. Qual è il motivo della vostra visita? Vi consiglio di essere esaurienti. E di farlo alla svelta.» L’ultima frase era stata pronunciata in modo tutt’altro che cortese. «Io… mi chiamo William Connor», spiegò. «E questa è la signorina Alicia Wyler. Sono uno storico e lavoro presso un’università di Londra. Ecco, noi stiamo svolgendo un’indagine su un baule spedito dalla Germania tramite un certo capitano Reddings, che durante la Seconda guerra mondiale lavorava per conto della Standard Oil.» Herrera annuì, ma non lo interruppe. «Il baule venne inviato dall’Italia in Argentina nel 1944. È arrivato a Bariloche, ed era indirizzato a un certo Herrera, penso fosse suo nonno, il padre di Carlos Alberto Herrera, esatto?»

Rifletté qualche attimo, poi fece un cenno a uno degli uomini che digitò su un tablet Apple le informazioni appena ricevute da William. La guardia del corpo controllò la fotografia sul sito dell’università e confermò al suo capo che si trattava della stessa persona. «Perché cercate quel baule?», domandò. «Crediamo che custodisca dei documenti che potranno rivelarsi utili alla Fondazione Wyler per alcuni suoi progetti. Non so di più, siamo dei ricercatori, pagati per trovarlo.» «Lei», disse indicando Alicia, «si chiama Wyler, giusto? E da quanto vedo», continuò dopo essersi fatto are il tablet con una pagina aperta sull’organigramma della Fondazione, «è figlia del presidente. Presumo che sappia a cosa serviranno le informazioni che pensate di ritrovare nel baule. E, presumo ancora, lei conoscerà la natura di quei documenti.» «Certo. Si tratta delle ricerche di scienziati tedeschi che ci servono per il completamento di una serie di esperimenti di fisica applicata. Cerchiamo di realizzare prodotti a basso impatto ecologico e i nazisti, perlomeno nelle ricerche di fisica pura, erano straordinariamente avanzati.»

«E voi credete di poter trovare quel baule dopo settant’anni? Siete pazzi, oltreché imprudenti. Vi siete cacciati in una situazione molto pericolosa venendo qui. I miei uomini vi avrebbero fatto a pezzi, come è successo ad altri ficcanaso.» William sbuffò. Era stufo di avere a che fare con mezze verità. Non gl’importava se quei due erano armati. Adesso voleva capire: «Lei è figlio dell’Herrera che cerchiamo? O il nipote? Perché quelle persone ci volevano fare del male?» «Gliel’ho detto, signor Connor: non ci piacciono i pettegoli. Comunque, per risponderle, sono Manuel, il figlio di Carlos Alberto Herrera. E sono nipote di Carlos Alberto senior. Ma non ho nulla a che fare con le attività di quel folle di mio nonno. Lui era un ideologo, aveva sposato la causa del nazismo, io mi occupo di cose molto più pragmatiche… e redditizie. Anche se riconosco che la fortuna di questo paese è stata l’essere il centro di aggregazione delle SS fuggite dall’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Diciamo che sono un uomo d’affari.»

«Questo non spiega il motivo per cui lei sembra essere il capo di una banda di picchiatori», disse duro William. «In città molti vivono grazie allo stipendio che io do loro», spiegò con un sorriso Manuel. «E so essere generoso con chi mi aiuta nelle mie varie attività. A ogni modo, io sono un uomo pratico.» Alicia si girò all’indirizzo di William. Fu lui a domandare: «In che senso?» «Gli affari, come dicevo… sono la mia ione. Quindi, quanto sareste disposti a sborsare per avere quel baule?» «Quindi esiste!», esclamò Alicia. «Non ho detto che esiste. Le ho chiesto quanto sareste disposti a pagare per averlo.»

Alicia stava per dire “qualunque cifra” ma William la prevenne.

«Il suo giusto valore.» Herrera scoppiò a ridere. Poi, ripresosi, disse: «Il giusto valore, credo, non basterebbe…» Divenne improvvisamente serio. Nel salone calò un gelido silenzio.

«Siete in un mare di guai», riprese finalmente a parlare. «Forse non ve ne siete ancora resi conto, ma il modo in cui uscirete da qui dipende solo da me. Posso ordinare ai miei di lasciarvi andare oppure di farvi fuori. Tutto dipende dalle parole che utilizzerete… da come riuscirete a convincermi che il “giusto valore” sia per me appetibile.» «Non disponiamo di fondi illimitati», disse William per prendere tempo e per vedere se Herrera era disposto a trattare. «Lei, signorina», fece allora l’altro indicando Alicia, «ha un papà molto potente e vergognosamente ricco. Credo che per avere la sua figliola, e magari anche il baule, sarà disposto a offrire il “giusto valore”.» «Quindi», ansimò William, «in poche parole questo è un rapimento.» «No, diciamo che sarete miei ospiti fino a che la Wyler Foundation non sborserà quanto chiederemo. Io posso darvi qualcosa di interessante in cambio, oltre alle vostre vite ovviamente… anche se non so se si tratti di ciò che cercate.» Poi si rivolse ai due uomini: «Mettete loro i cappucci.» Le guardie del corpo legarono le mani di William e Alicia dietro la schiena e li incappucciarono. William si lamentò quando il tessuto premette contro il punto dove aveva ricevuto il colpo. Poi li fecero alzare e li scortarono all’esterno. Salirono su una vettura di grossa cilindrata e percorsero diversi chilometri a velocità sostenuta. Mentre proseguivano ogni loro tentativo di parlare fu accompagnato da percosse e l’ordine perentorio di stare zitti. William calcolò che il viaggio era durato forse mezz’ora, al massimo quaranta minuti. La macchina parcheggiò, probabilmente in uno sterrato a giudicare dal rumore

dei pneumatici. Subito dopo li prelevarono e li portarono fuori dall’abitacolo, mentre Herrera accendeva le luci di un cortile. Alicia incespicò mentre la spostavano verso l’interno di un edificio. Alla fine li fecero fermare e William pensò, per un attimo, che forse sarebbero morti in quel posto. Sentiva l’aria gelida, ma intuiva che si trovava in una sorta di loggiato. Herrera ordinò ai suoi di togliere i cappucci e i loro occhi furono inondati dalla luce artificiale. «Signori, questo è il luogo dove vissero Hitler ed Eva Braun dopo il 1945.» «Cosa?» Le voci dei due si unirono in un’accorata esclamazione di autentico stupore. Herrera li fissò compiaciuto. Era raro che potesse vantarsi di quel luogo. E, ancor più raro, che coloro che lo ascoltassero sopravvivessero per andare a raccontarlo in giro. «Questo è uno dei miei rifugi», spiegò sollevando un braccio e indicando la struttura di fronte alla quale si erano bloccati. «Hitler in persona lo donò a mio nonno per i suoi servigi e la sua devozione, lui lo lasciò a mio padre e mio padre a me. Custodisce oggetti che neanche potete immaginare… roba unica, introvabile. Di tanto in tanto vendo qualcosa, sapete, è un mercato che rende, e mi ha permesso una vita oltremodo agiata. Mio nonno e mio padre erano di tutt’altra pasta. Non si sono mai neanche resi conto del potenziale economico di questo luogo. Loro vi erano morbosamente affezionati, ma per altri motivi.» «Non ci posso credere», sussurrò Alicia a William. Herrera la sentì. «Entrate, vi accorgerete che non mento!» «È necessario tenerci ancora legati?», domandò lei. L’argentino sorrise. «Credo di no. Liberateli.» Un minuto dopo entrarono in una residenza in tipico stile tirolese, di legno e pietra. Herrera accese il camino mentre le guardie fecero sedere i prigionieri su un divano al centro di una grande sala le cui pareti erano ricoperte di fotografie a colori e in bianco e nero. Ritraevano Hitler ed Eva Braun, perlopiù, da soli o con amici. C’erano diverse bellissime immagini che testimoniavano i fasti del Terzo

Reich, ma la maggior parte degli scatti riguardavano momenti privati della vita della coppia e, con tutta probabilità, erano stati fatti in quel luogo. Oltre le foto, William vide una quantità impressionante di cimeli: teche con documenti, vetrine, manichini con uniformi del Führer, un pugnale delle SS, probabilmente quello personale del dittatore, e tanti altri oggetti appartenuti a lui e alla moglie; era una sorta di piccolo museo, la cui importanza storica era però senza pari rispetto alle limitate dimensioni dell’esposizione. La sorpresa di William e Alicia era palpabile ed Herrera li osservava divertito. Che Hitler fosse sopravvissuto alla caduta di Berlino era un’ipotesi già ventilata a suo tempo dai servizi segreti militari russi e americani. Stalin stesso era convinto che il Führer fosse rocambolescamente fuggito dal bunker poco prima che cadesse in mano ai soldati dell’Armata Rossa. Ma tutte le ricerche si erano rivelate infruttuose. E, a parte qualche sosia, nessuno aveva mai trovato delle solide prove che mettessero la parola fine al mistero. Anzi, con gli anni si era sempre più fatta strada la convinzione che la coppia Hitler-Braun fosse perita realmente nelle ore concitate che avevano preceduto la fine del Reich. William sembrava un bambino. Emozionato, esaminò le fotografie e gli oggetti in mostra, convincendosi che si trattasse di originali. Non c’erano dubbi. «È tutto autentico, signori», disse, quasi rispondendo al dubbio che aveva colto all’inizio William. «Io ero appena un bambino negli anni ’60 e non lo ricordo bene, ma Hitler visse qui.» Ad Alicia cominciava a girare la testa: «Ma allora, la storia del suicidio?» William le lanciò uno sguardo a metà strada tra il serio e il divertito.

«Alicia, questi pezzi sono originali, ne sono certo. È molto probabile che sia andata così come dice Herrera.» «E i corpi?», insistette lei. «Sono stati trovati due corpi carbonizzati fuori dal bunker.» Herrera sospirò. Fu William a tentare di spiegare.

«Allora, diciamo che si è trattato di un puro e semplice depistaggio. Tieni presente che la notizia del suicidio non è mai stata suffragata da prove inconfutabili. Lo stesso sir Hugh Trevor Roper, colui che veniva considerato il maggior esperto degli ultimi giorni di vita di Hitler, e che ha lasciato un libro divenuto famosissimo, all’epoca lavorava per l’intelligence britannica. E sappiamo che Churchill voleva a tutti i costi mostrare al mondo le prove della morte del Führer. In realtà quella propinata alla gente era una grossa bugia perché né i russi, né gli alleati, trovarono nulla che potesse confermare la tesi del suicidio.»

«Eppure tutti sono convinti del contrario», fece notare Alicia. «Senza però che ci sia una sola prova che possa avvalorare la dinamica dei fatti… tra l’altro Roper fu la persona che verificò l’autenticità dei famosi diari di Hitler nel 1983, che il settimanale tedesco Stern pubblicò con grande clamore. Ebbene, a uno studio più attento, si rivelarono un falso clamoroso e Roper perse parecchio credito nel mondo accademico. Anche perché pare proprio che Roper fosse consapevole che quelli che aveva tra le mani fossero diari preconfezionati e non certo autentici. La verità è che gli storici non sono mai andati a fondo sulla vicenda e quelli che l’hanno fatto, soprattutto negli ultimi tempi, non godono di buona pubblicità.» «Cosa vuoi dire?», domandò lei. «Solo che la tesi di Roper riguardo il suicidio di Hitler scricchiola da sempre e a maggior ragione oggi, alla luce delle ricerche che sono state compiute. Per esempio, i due cadaveri carbonizzati che i russi dissero di aver trovato nel cortile del bunker erano più piccoli di quelli di Hitler e di Eva Braun. La famosa calotta cranica e la mascella che il Cremlino conserva tuttora, prelevati proprio da quei cadaveri, non appartengono a Hitler, o alla moglie… bensì a una donna non ben identificata: le indagini fatte qualche anno fa sul DNA dei resti lo hanno dimostrato chiaramente.» William si fermò un attimo, mentre sentiva le tempie pulsare a causa delle sensazioni che provava o forse del dolore che latente si faceva vivo di tanto in tanto.

«Eisenhower», riprese subito dopo, «affermò che non vi erano prove certe né della morte, né della fuga di Hitler. Truman, durante la conferenza di Potsdam, senza troppi giri di parole chiese a Stalin che fine avesse fatto Hitler. Neanche lui era sicuro della sua morte. E sai cosa gli rispose Stalin? Che era fuggito in Spagna o in Argentina a bordo di un U-Boot. E continuò a ripeterlo fino alla fine dei suoi giorni… perché mai avrebbe dovuto ammettere che il suo potente esercito non era riuscito a eliminare il nemico numero uno?» Oramai William era infervorato. Parlava guardando ora Alicia, ora Herrera. «Aggiungiamo poi che personalmente ho potuto studiare le perizie necroscopiche effettuate a suo tempo a Buch sul presunto cadavere di Hitler, quello ritrovato appunto nel cortile del bunker. Ebbene, anche qui si tratta palesemente di un falso. Il cadavere infatti presentava un solo testicolo. L’arcata dentaria, invece, aveva un dente in più del normale. Ora, noi possediamo referti medici e descrizioni del fisico di Hitler, quando era in vita, redatti dai suoi medici personali. Tutti concordano nel dire che fosse assolutamente normale: con due testicoli. E il suo dentista, Hugo Blaschke, aggiunse che non aveva nessun dente in più. Insomma, quello della morte di Hitler è uno dei misteri più intricati del XX secolo.» Alicia era sconcertata: c’era qualcosa di surreale in quella situazione. Si trovavano alla mercé di un delinquente che probabilmente nascondeva il baule che cercavano e gli stava fornendo le prove della fuga di Hitler. «Incredibile», fu tutto ciò che riuscì a dire.

William intanto continuava a guardarsi attorno, stupito anche lui, ma felice, nonostante tutto, di trovarsi in quel momento in un luogo simile. Poi, all’improvviso, si voltò di scatto e fissò il padrone di casa: «Questa… questa è l’Estancia San Ramon, del barone von Bulow, vero? Ho scritto un libro tempo fa, in cui ipotizzavo che fosse stata la residenza di Hitler dopo essersi lasciato alle spalle le macerie del mondo. A riguardo ho raccolto molte testimonianze, ma non pensavo che ci avrei mai messo piede…» Herrera fu contrariato da quell’affermazione: «Preferirei che continuasse nella sua narrazione, sa è piuttosto bravo… Mi diverte sentirla parlare di cose della mia infanzia.»

Alicia lo guardò perplessa: «Della sua infanzia?» Herrera sorrise e si alzò per rovistare in un cassetto del grande mobile in quercia addossato alla parete. «Dev’essere qui… ah, eccola.» Prese una fotografia in cui si vedeva un vecchio, seduto con accanto un bastone da montagna, e un bambino di uno o forse due anni sulle ginocchia. La diede ad Alicia.

«È stata scattata nel 1961, come può vedere dalla scritta sul retro. Il bambino sono io. Il vecchio è Hitler.» Non c’erano dubbi che il piccolo fosse Manuel Herrera. Ma fu l’altro, il vecchio, a turbarla. Pur senza i baffetti, nessuno poteva dubitare che fosse il Führer.

Alicia ò la foto all’amico. «Santo cielo!», mormorò lui. «Questa fotografia è… non ci posso credere!» Herrera si avvicinò e, con modi bruschi, se la riprese riponendola nel mobile.

«So già cosa vorrebbe dirmi», fece l’argentino. «Magari vorrebbe che fosse divulgata, che il mondo sapesse…» «Dovrebbe farlo, cambierebbe la storia.» «Non m’importa della storia. Quello che conta, per me, è proteggere le mie attività. Per questo vi avverto fin da ora che, casomai doveste uscire vivi da qui, l’unica cosa che potrete fare sarà mantenere il silenzio. Altrimenti posso assicurarvi che qualunque buco in cui vi infilerete sarà la vostra tomba.» «Allora perché ci fa vedere tutto questo?» «Perché non ho ancora deciso se lasciarvi vivere o morire… se perirete i miei segreti vi seguiranno sottoterra. Se invece riusciremo a trovare un accordo sono proprio sicuro che manterrete la bocca tappata.»

I due guardaspalle risero, ma a un’occhiata di Herrera tacquero immediatamente. «Ma la prego, professore, continui pure.»

Alicia percepì in modo quasi fisico il contrasto tra l’apparente eleganza dei modi e la vera natura di quell’individuo: si accorse di avere la pelle d’oca e un brivido le attraversò la schiena. «Beh che dire», fece William, «oramai è tutto abbastanza chiaro, Hitler è morto in Argentina. A giudicare dall’età, direi pochi anni dopo lo scatto di quella fotografia.» Alicia era esterrefatta: «Come mai non si è mai saputo nulla di tutto questo? A Bariloche dovevano essere tutti informati!» «Su questo posso rispondere io. Nessuno, a parte mio nonno e mio padre, sapeva che Hitler fosse qui. Mentre la maggior parte dei nazisti in fuga amavano ritrovarsi con i vecchi commilitoni e tornarono anche in Germania più volte, altri vissero nell’oscurità più totale, in completo e protetto isolamento. Troppo era il timore di essere individuati. Per esempio né Eichmann né Priebke sapevano di essere a quaranta chilometri da Hitler. Ho parlato più volte con il figlio di Priebke e mi ha raccontato di aver lavorato a Buenos Aires alla Mercedes Benz, la stessa azienda dove lavorava Eichmann, eppure scoprì dell’esistenza di Eichmann solo dopo il suo rapimento da parte del Mossad. Mio nonno riferì che soltanto Martin Bormann e Heinrich Müller, l’ex comandante della Gestapo, sapevano dove si nascondesse Hitler. Ma in questo caso si trattava di due degli uomini che avevano vissuto accanto a Hitler nel bunker fino agli ultimi giorni. E anche loro erano fuggiti in Argentina, forse proprio insieme al Führer.» «Ma come arrivarono in Argentina? Berlino era circondata dai russi e nelle campagne circostanti c’erano gli alleati», domandò Alicia. «Credo di sapere come fecero», rispose William precedendo Herrera. L’altro si mostrò accondiscendente e, con un gesto della mano, gli fece segno di parlare. «Tra il 28 il 30 aprile del 1945», raccontò l’inglese, «vennero selezionati alcuni piloti della Luftwaffe, particolarmente abili, che avrebbero avuto il compito di creare un corridoio aereo tra Berlino e la Danimarca. Questo dimostra che i

propositi di fuga esistevano, non c’è dubbio. In quegli stessi giorni diversi testimoni videro uno Junkers Ju 52 pilotato dall’aviatrice preferita di Hitler, Hanna Reitsch. Il velivolo si alzò in volo dalla pista di Hohenzollerndamm. Alcuni dicono che il Führer fosse a bordo e che da lì si sia diretto in Spagna e poi alle Canarie o, secondo un’altra teoria, verso la Danimarca, dove lo attendeva uno degli ultimissimi elettrosommergibili U-Boot classe XXI, una macchina straordinaria e altamente sofisticata per l’epoca. Insieme a Hitler ed Eva Braun, sempre secondo i teorici della fuga, si pensa vi fossero anche altri. I file declassificati dell’fbi di Hoover contengono decine di dossier che confermano l’arrivo di un discreto numero di U-Boot sulle coste argentine: alcuni, giunti al largo di Buenos Aires qualche mese dopo la fine della guerra, si consegnarono al governo di Perón, la notizia finì sui giornali di tutto il mondo.» «Più o meno corrisponde a quanto mi è stato raccontato», disse Herrera. «Mio nonno aveva un caro amico, il dottor Otto Lehmann, medico personale di Hitler, che firmò il suo certificato di morte. Dovrei averlo qui da qualche parte…»

L’argentino trafficò un poco in un paio di cassetti e tirò fuori un documento. Lo porse a William che, nel prenderlo, avvertì una fortissima emozione. Era la fotocopia di un certificato di morte, in cui si attestava che Adolf Hitler era morto il 13 febbraio 1962, a Bariloche.

William se lo studiò e rigirò tra le mani con un’espressione che Alicia ancora non conosceva, autentica meraviglia. «Non posso crederci… ho tra le mani il certificato di morte di Hitler.» Alzò lo sguardo sul suo carceriere: «Peccato che nessuno possa vederlo…»

«Esatto», replicò Herrera. Poi fece una breve pausa, come per sottolineare che niente di quello che avevano visto o sentito, casomai fossero sopravvissuti, sarebbe uscito fuori da quella casa.

«Mi chiedo ancora, qual è il suo gioco?», si scoprì a dire William. «Insomma, cosa vuole da noi? Non credo sia solo per una questione di denaro.» «Ma come, non volevate avere delle risposte?», rispose Herrera con un sorriso beffardo. «Diciamo che il denaro è il motore di tutte le cose. Questo paese ha prosperato grazie alle ricchezze portate fin qui dai nazisti. E Dio non voglia che qualcuno si metta in testa di congelare i beni o chiedere risarcimenti postumi ai discendenti del regime nazionalsocialista.» «D’accordo, abbiamo capito che ci converrà stare zitti», disse Alicia. «Ma poi?» «Poi niente… i miei amici staranno con voi mentre scendo a prendere il baule.»

William e Alicia lo videro allontanarsi. Si scambiarono un’occhiata intensa. Era davvero il baule che cercavano? E se anche così fosse stato, avrebbero avuto il tempo di scoprirne i segreti? Oppure Herrera li avrebbe uccisi? Tutto dipendeva da quello che avrebbe chiesto in cambio. Tornò qualche minuto dopo, visibilmente affaticato: trascinava un pesante baule da viaggio, ben diverso da quelli militari in dotazione all’esercito tedesco. Su un lato, notò William, c’era una placca arrugginita. Il nome o quel che c’era scritto sopra erano stati ricoperti dalla ruggine o forse scalpellati via. Si avvide anche che la cassa era di foggia elegante, probabilmente commissionata da una persona molto ricca. «Ecco qua, signori», disse Herrera mentre uno dei due gorilla lo aiutava a poggiare vicino agli ospiti il cimelio. «Questo è il baule che mio nonno ricevette da un certo Meister. Contiene effetti personali di Himmler. Ma anche documenti molto interessanti. Li ho letti qualche volta, anche se non ci ho capito molto… le anticaglie non sono proprio la mia ione. L’intenzione era di rivenderlo, ma risultava troppo pericoloso. Avrebbe attirato l’attenzione. E così ho preferito tenerlo per me. Mi pare di aver avuto ragione.» «E ora cosa accadrà?», chiese in modo pragmatico William. Herrera rise. «Ma è ovvio, lo apro e gli darete uno sguardo. Poi mi farete un’offerta.»

Erano arrivati quasi al capolinea. William cercò di pensare freneticamente a una via d’uscita, ma la curiosità era troppo forte per permettergli di concentrarsi in modo adeguato. Intanto la guardia del corpo aprì il coperchio del baule che cigolò rumorosamente. Prima ancora di avvicinarsi Alicia venne colta da un dubbio. «Mi scusi, ha detto che suo nonno ha ricevuto questo da un certo Meister?», nessuno aveva mai pronunciato quel nome in presenza di Herrera. Quindi questo poteva significare solo due cose: o il baule era autentico, oppure qualcuno li stava spiando e conosceva i i fatti nella loro indagine e quanto appreso a casa Reddings. Herrera frugò tra i documenti all’interno della cassa. «Ecco», disse mostrando la ricevuta ingiallita di una spedizione eseguita da Buenos Aires a Bariloche e firmata da August Reddings.

William annuì, e Alicia sentì un groppo alla gola. Tutto tornava alla perfezione.

«Ebbene, non siete ansiosi di scoprire cosa contiene?», fece Herrera fissandoli. William si precipitò sul baule, imitato da Alicia. Ciò che videro li lasciò esterrefatti. Ma fu per poco. Con un ordine secco Herrera disse ai suoi di spingere via i due. «Penso che basti!» Chiuse di colpo il coperchio. Aspettò qualche istante prima di parlare. «Bene, è chiaro che questo è il baule che cercate. Ed è altrettanto chiaro che vi interessa. Domanda: quanto siete disposti a spendere per averlo?» Alicia lo fissò con gli occhi di un gatto. William invece pensava che dalla loro

risposta dipendeva non solo l’esito della ricerca ma la loro vita. «Quanto vuole?», chiese. « Diciamo che posso accontentarmi di dieci milioni di dollari americani.» «Dieci milioni?», ripeté Alicia facendo un istintivo o indietro. Per lei era una follia. «Signorina Wyler, mi sembra che non abbia ancora compreso bene la gravità della situazione. Proviamo a ricapitolare: sto ancora decidendo se sia il caso di uccidervi o fare un affare con voi. Dieci milioni per la vostra Fondazione non sono niente. So che gestite progetti molto più costosi. Anzi, a dire il vero, adesso cominciano a sembrarmi pochi.» Era vero, la Fondazione avrebbe pagato quella cifra pur di entrare in possesso di quanto desiderava. L’espressione dura di Herrera, impaziente di avere una risposta, e le armi che si alzarono verso di loro fecero prendere ad Alicia un decisione: «Mi faccia fare una telefonata.» L’argentino sorrise. Ecco, così andava meglio. «Certo. Può usare il mio cellulare, è una linea sicura, c’è uno scrambler che codifica la trasmissione e rende impossibile tracciarla. Mi raccomando, non faccia cose stupide…» Herrera tirò fuori una pistola e la puntò verso William. «Dica solo ciò che serve, altrimenti riempio di piombo il suo amico.» Alicia compose il numero privato di suo padre. Dall’altro capo del telefono l’uomo non parve sollevare obiezioni, neppure quando la figlia comunicò che per ottenere quello che cercavano dovevano sborsare dieci milioni di dollari. Si premurò di chiedere solo se fosse sicura che si trattasse del baule giusto. «Sì, ne siamo sicuri», disse Alicia. Mezz’ora dopo il denaro fu depositato in un conto svizzero intestato a un prestanome.

Dopo qualche minuto il cellulare di Herrera vibrò. Un suo contatto gli confermò

la transazione avvenuta senza problemi. I suoi occhi si illuminarono.

«Ottimo.» Per qualche secondo non parlò e William si chiese se, nonostante tutto, li avrebbe uccisi. «Bene, è ora di tornare a casa.»

Ma prima gli ricordò quelle poche note essenziali che sarebbero servite per la loro sopravvivenza: non fare cenno con nessuno di quanto avevano visto; non parlare mai di quello che avevano appreso. Poi li fece portare a Bariloche, al loro albergo. Quando arrivarono i due energumeni lasciarono sul marciapiede anche il baule.

Alicia era ancora frastornata. Forse non si era neppure pienamente resa conto di quanto fossero stati vicini alla morte. William sospirò, pensando che tutto sommato gli era andata bene. In quell’istante un inserviente dell’albergo uscì all’esterno. «Posso aiutarvi con il vostro bagaglio?», domandò. William e Alicia misero istintivamente le mani sul baule ed esclamarono all’unisono un tonante: «No!»

Il facchino fece un salto all’indietro, leggermente intimorito e li osservò perplesso, mentre i due trasportavano con fatica il pesante oggetto verso l’ascensore.

Si fecero portare la cena in camera e si chio a chiave. Non stavano più nella pelle di scoprire più a fondo quello che avevano solo intravisto per qualche istante. «Allora? Procediamo?», disse lui, visibilmente impaziente. Non aveva praticamente toccato cibo anche se di comune accordo avevano deciso di rifocillarsi prima di buttarsi nella nuova avventura. «E me lo chiedi?», replicò Alicia elettrizzata. Entrambi si chinarono sulla cassa. Poi William percorse il rivestimento con la mano e si soffermò sulla targhetta. Niente, era illeggibile. Subito dopo aprì il coperchio. L’interno era zeppo di libri, quaderni con appunti, fasci di documenti. Da un rapido sguardo tutti quanti riportavano sull’intestazione, o sulle copertine, un timbro: Ahnenerbe SS – Wewelsburg.

Alicia capiva ben poco il tedesco e per questo doveva chiedere di continuo aiuto a William. E, ancora prima di estrarre il materiale e cominciare a farsi un’idea precisa, sentirono l’adrenalina pura scorrere nelle loro vene. Erano eccitati, come bambini al loro primo giorno di vacanza. Inoltre avevano entrambi la medesima sensazione: sentivano di essere prossimi a scoperte eccezionali. Forse ancor più della notizia che Hitler non era morto nel bunker.

Mentre si chiedeva da dove cominciare a esaminare il materiale, William si domandò fino a che punto si potesse fidare di Alicia. C’erano troppe cose che cominciavano a suonargli in modo strano. Ma la cosa che più lo metteva in allarme era quella convinzione che non tutto gli fosse stato detto, che lo scopo ultimo della sua ricerca fosse rimasto avvolto nel mistero. William avrebbe voluto dare maggiore fiducia ad Alicia, ma in quel momento, anche forse per proteggerla, decise che si sarebbe guardato ancor di più le spalle. Doveva muoversi con cautela.

Le ore trascorsero veloci… solo a notte fonda decisero di riposarsi, non prima però che gli occhi di William si soffermassero su alcuni fogli in latino, che

attirarono immediatamente la sua attenzione. Erano scritti a mano, da uno scienziato delle SS Ahnenerbe. In quel momento la sua espressione tradì la più viva sorpresa.

«Mio Dio!», esclamò.

Capitolo 18

Villa Mondragone, Roma. 23-26 settembre 1581

Gli uomini che avevano assistito all’esperimento videro Gregorio XIII allontanarsi pensieroso e da una finestra Sirleto seguì il eggiare del pontefice nel grande giardino; lo vide appoggiarsi a un albero e chinare la testa verso il basso, come se fosse colto da improvvisi conati. Poi si accorse che era piegato in un pianto irrefrenabile. Intuiva l’angoscia del papa, ma non ne afferrava fino in fondo il motivo. In realtà Gregorio XIII si stava liberando di qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere o conoscere.

Ora sapeva che il tempo era semplicemente una convenzione, una sorta di macchina che poteva essere manovrata. Questo lo spiazzava. Idealmente Gregorio aveva paragonato la sua esperienza al palazzo del Laterano a Roma, in cui innumerevoli porte permettevano l’accesso a moltissimi ambienti diversi, ognuno dei quali utilizzato per uno scopo preciso. Nel suo palazzo vi erano porte sempre aperte, altre che venivano spalancate solo in casi particolari… altre ancora che erano normalmente chiuse a chiave e sorvegliate da guardie, porte dietro le quali si celavano misteri e segreti che solo il capo della Chiesa, e a volte nemmeno lui, poteva conoscere. Ecco, il mondo che gli si era rivelato era un infinito intrico di porte. Ognuna con una propria funzione. E la macchina di Bruno donava la possibilità di aprirle, rivelando una conoscenza celata all’uomo dai primordi dell’umanità. Gli vennero in mente alcuni casi di cui aveva sentito parlare e riferiti a persone apparentemente normali e prive di qualsiasi erudizione. Ebbene, dopo un trauma violento, questi stessi si erano come trasformati, divenendo di colpo e senza alcuna spiegazione matematici, musicisti, artisti di fama… come era possibile? Secondo i medici papali esisteva un’area della mente umana, normalmente inutilizzata, come se fosse bloccata in una sorta di stasi eterna. Una capacità che si possedeva dalla nascita ma che rimaneva inerte. Fin quando, forse proprio per un trauma, si riattivava. Ecco, quei fenomeni potevano paragonarsi a quanto

aveva appena vissuto. Anche per lui si era aperta una nuova visuale sulle cose. Ma Gregorio, differentemente da quei miseri, era rimasto assolutamente integro nel fisico e nello spirito. Non aveva subito danni celebrali.

La macchina di Bruno, in poche parole, era il chiavistello per accedere oltre le vette del solitamente conosciuto. Era il grimaldello per aprire varchi chiusi e proibiti al raziocinio. Di più: era in grado di collegare tutte le variabili in qualcosa di enormemente più vasto, di inconcepibilmente più elevato ed esteso di qualunque cosa un uomo potesse immaginare. Era un ponte. Un ponte tra due realtà che sembravano essere la stessa cosa, eppure vibravano di essenza temporale diversa. Gregorio aveva visto, o meglio percepito, l’esistenza di legami tra il mondo visibile e quello invisibile, tra la fisica delle cose e l’essenza dell’Universo: era una matrice composta di una maglia molto fitta con trame che potevano interagire, spostarsi, cambiare di posto e posizionarsi, mantenendo sempre una perfezione matematica, in un altro punto. Si rendeva conto che per capire appieno ci si sarebbe dovuti sottoporre all’esperimento, che le parole non bastavano per descrivere quello che era successo, le sue interminabili implicazioni, le sue insondabili potenzialità. Il tempo era controllabile, modificabile. Il tempo non scorreva in un solo rivolo, ma in infiniti ruscelli, che potevano incrociarsi, sovrapporsi, cambiare percorso, scomparire, prosciugarsi, ingrossarsi… ma, ancor più straordinaria, era la possibilità di vedere al di là dei propri limiti, di valicare quelli imposti dalla natura costrittrice, di scrutare nelle pieghe degli eoni in una visione d’insieme senza pari. Era un po’ come munirsi di una grande lente che aiutava a vedere sempre più lontano, particolari talmente minuti che a occhio nudo sarebbero ati inosservati. Il tempo lo si poteva “leggere”, lo si poteva quasi… toccare. Perché le epoche, i secoli, i millenni, erano come luoghi, distanti apparentemente, ma in realtà così vicini che era possibile richiuderli nel proprio pugno. Il tempo era a disposizione dell’uomo.

Ci vollero tre giorni perché Gregorio XIII riuscisse a metabolizzare la sua esperienza: furono giorni in cui rifletté sulla sua vita, sulla sua città, così piena di violenza, di assassini, di frodi e inganni. Pensò alla sua Chiesa, così corrotta, fino alle radici più profonde. Ma era parte di quel sistema e doveva continuare:

la cristianità sarebbe andata avanti anche dopo di lui; il suo compito era quello di mantenerla in forze. Circa una settimana dopo quegli eventi gli fu annunciato il ritorno del nunzio apostolico da Parigi: erano mesi che lo attendeva perché era in realtà latore di informazioni di prima mano sulle attività di Giordano Bruno, che peregrinava oramai da anni in tutta Europa. Gli diede il benvenuto e parlarono, una sommessa conversazione in cui il papa gli espose brevemente ciò che aveva vissuto, poiché solo in quel modo il nunzio avrebbe potuto fargli un rapporto preciso delle attività del frate legate alla macchina. Gregorio, dopo aver letto le formule matematiche contenute nel testo di Bruno, aveva bisogno di risposte dettagliate: non poteva accontentarsi di meno di questo.

Si trovavano nelle stanze private del pontefice. Il cardinale Oriano, suo uomo di fiducia, rappresentante del papa in Francia, Olanda e Inghilterra, era seduto di fronte a Gregorio. «Allora, Giovanni», Gregorio tendeva a chiamarlo con il suo nome di battesimo, «non tenermi sulle spine.» Oriano lasciò il sorriso di circostanza e assunse un’espressione grave. Nonostante la lunga conoscenza, il suo modo di trattare il capo della Chiesa Cattolica rimaneva formale. «Santità, la situazione è complicata… molto grave, più di quanto si possa immaginare. Ho frequentato Bruno a Parigi, e me lo sono fatto amico, come mi era stato consigliato. C’è voluto un po’ per piegare la sua sospettosità, ma adesso godo della sua fiducia. Come sapete, dopo aver vagabondato per diversi luoghi d’Europa, ora si è stabilito in suolo se, presso il nobile Michel de Castelnau, molto vicino alla casa reale. Ho potuto seguire da vicino la vita del “nostro”… e credo di essermi fatto un’idea.» «Chi è mai quest’uomo?», tuonò il papa. «È un eretico? Una spia? Sta tramando contro la madre che lo ha nutrito e gli ha insegnato tutto ciò che sa?» «In verità…», non sapeva da dove cominciare. Perché Bruno non poteva certamente essere chiuso dentro categorie o etichette troppo strette. Prese allora il discorso dalla lontana: «Giordano Bruno è un uomo di grande conoscenza, ma

questa sua grande erudizione, le capacità che l’Onnipotente gli ha donato, ecco, lo rendono superbo, tutto il contrario dell’umile servitore di Dio. Egli guarda il resto dell’umanità come dalla sommità di un piedistallo. Ho seguito le sue lezioni e, senza dubbio, è uomo di scientia et ratio. Apparentemente è solo l’ennesima dimostrazione che la cultura e la saggezza possono, se usate male, portare l’uomo alla perdizione. Ma Bruno va ben al di là di ciò… non lo si può definire un semplice uomo di scienza, soprattutto dopo che le nostre frequentazioni si sono fatte più assidue. È stato allora che ho compreso molto di più.»

«E cosa hai capito?», domandò Gregorio. «È un uomo disturbato, che subisce influenze nefaste, ma non so da chi. Concepisce l’universo in forma di simboli ed è convinto di riuscire a contemplarne la parte nascosta, quella che noi non possiamo vedere, utilizzando proprio questi ultimi. In effetti in alcuni libri, penso al De Umbris idearum e al Cantus circaeus, seguendo gli insegnamenti di Raimondo Lullo, e andando molto oltre, ha utilizzato i simboli per creare un sistema in grado di potenziare la memoria. Ecco perché è tanto ricercato presso i grandi d’Europa, specialmente in Francia e Inghilterra. Ma, come dicevo, pur essendo un individuo notevole è profondamente disturbato. Man mano che la nostra amicizia si approfondiva, mi parlava sempre più spesso del tempo e di come sarebbe interessante se si potesse cambiarne il moto, farlo avanzare o ritrarre a nostro piacimento.» Gregorio ebbe un fremito di timore: era ancora viva in lui l’esperienza della percezione diretta dell’essenza del tempo. La sua voce era un semplice sospiro mentre lo sguardo basso era perso nei ricordi. «Sì. So di cosa stai parlando.» Giovanni Oriano continuò: «Un giorno mi portò da alcuni suoi amici, in gran segreto: sapeva di dover agire con molta cautela. Pur essendo riuscito a raggirarlo per bene evidentemente gli altri non si fidavano di uno come me, un rappresentante della Chiesa.» «E cosa successe?», chiese il papa. «Prima di portarmi in quel luogo, intensificando i nostri rapporti, era chiaro che

avesse sempre più bisogno di confidarsi, di parlare delle sue “scoperte”. E, finalmente, mi parlò di un suo progetto: della possibilità per la Chiesa di acquisire finalmente il potere assoluto non soltanto sull’Europa ma sul mondo intero; un potere così grande, tuttavia, sarebbe stato possibile solo grazie a un dispositivo straordinario, una machina mirabilis la chiamava lui, che funzionava grazie ad alcune leggi matematiche che, a suo dire, aveva appreso da una persona speciale.» Gregorio annuì. Bruno si era fatto così ardito da parlare direttamente del suo marchingegno. Con un nunzio papale. Ma la cosa che l’aveva colpito di più era il riferimento al fine che la stessa macchina avrebbe avuto: regalare il dominio della Terra alla Chiesa. Detto da Bruno sembrava una contraddizione. «Come dicevo», riprese Oriano, «dopo diversi incontri finalmente mi presentò a un oscuro gruppo di uomini. Mi disse che costoro erano i membri di una confraternita, o qualcosa del genere, il cui scopo era quello di controllare i grandi: re, principi, despoti. Non solo, mi disse che il loro controllo si allargava anche alla sfera della fede, perché avevano elaborato una sorta di corrente filosofica legata alla comprensione ultima del mistero dell’universo.» «E in cosa consisterebbe tale “filosofia”?», avrebbe voluto dire eresia, ma si trattenne.

«Bruno è totalmente invasato da questa dottrina, che affonda le sue radici in una conoscenza dei testi pagani di Ermete Trismegisto e di altri. Ma la cosa più importante di tutte è che, durante l’incontro, Bruno mi ha mostrato la machina mirabilis. E mi ha spiegato che la mente umana è un grande mistero, che noi usiamo una frazione infinitesimale del suo potenziale… ecco, la macchina serve, come dire, a schiudere queste possibilità. Ha parlato di porte.» «Porte», ripeté Gregorio. La stessa immagine che era venuta in mente anche a lui. Che fosse un caso?

«Queste porte, ovvero queste nostre capacità, sono bloccate da millenni. Non le usiamo. Ma grazie alla macchina, tutto cambia. In poche parole, la rotazione dei simboli invia un messaggio alla nostra mente. Poi ha detto qualcosa che mi è

rimasto impresso, ma che non ho ben capito: “I simboli che ruotano sollecitano il cervello, utilizzando il linguaggio macchina dello stesso e riprogrammando l’apertura delle porte”. Ha detto proprio così. Forse ha compreso che ero assolutamente incapace di afferrare, allora ha aggiunto che la matematica esiste già nella nostra mente, codificata insieme a tutte le leggi del creato e, soprattutto, esiste la possibilità di rivelare matematicamente le leggi che regolano il tempo, anch’esse impresse nel cervello: grazie all’uso sapiente di queste formule matematiche, e all’utilizzo della macchina, Bruno afferma di essere in grado di mutare gli eventi del ato e del presente. Insomma, di piegare il tempo a suo piacimento.» «C’è dell’altro?», chiese portandosi la mano al petto e sentendo una fitta lancinante. «Non so chi siano le persone di cui si circonda Bruno… quando ci siamo visti quell’unica volta indossavano ampi mantelli e delle strane maschere. Ma da quello che ho capito sono coloro che hanno aiutato Bruno nella sua ricerca, fornendogli i mezzi necessari, le conoscenze, tutto quello che gli poteva servire. E sono loro a godere in primo luogo dei portenti di questa macchina. Vanno di regno in regno a spiegare cosa possono fare. E il monarca di turno, se vuole, pagando una cifra spropositata, può partecipare al grande gioco: mutare la storia a proprio vantaggio. Il piano prevede che colui che offrirà di più potrà avvalersi della macchina e ottenere il potere sul genere umano.» «Dio misericordioso», mormorò Gregorio, che con il pensiero andava alle implicazioni nefaste di un simile attrezzo. Non voleva neanche immaginarsi cosa sarebbe accaduto se fosse caduto nelle mani sbagliate.

«E ora, visto che Bruno non è stupido, mi ha detto di portarvi un messaggio.» «Credo di conoscere il suo contenuto: propone anche a me il dominio universale?» «Esatto», rispose Oriano abbassando il capo. Seguì una lunga pausa. Poi Gregorio domandò: «Tu credi che quella macchina funzioni veramente… che le cose che dice Bruno siano esatte?»

Giovanni non rispose subito. Il papa lo fissò. Poi aprì la bocca e sospirò amaramente: «Tu l’hai sperimentata!» Avrebbe voluto nascondersi, ma non poteva fuggire le proprie responsabilità. E se aveva provato il marchingegno era stato solo per essere sicuro che quel che diceva Bruno fosse la verità.

Poi gli raccontò cosa avesse provato. Era stata un’esperienza spaventosa, e in questo si trovò d’accordo con il papa. Ma la cosa più terribile era stata l’iniziazione alla confraternita, guidata da uno strano personaggio in grado di suscitare, con la sua sola voce, il più intenso orrore.

«Bruno e i suoi dodici confratelli, i capi di questa accolita, lo chiamano Observator. Lui, da dietro le quinte, guida ogni cosa. Sembra che sia dotato di una conoscenza superiore, occulta… e penso sia stato Observator a fornire a Bruno gli strumenti matematici che gli occorrevano. Mi chiedo solo perché mai non abbia costruito personalmente la macchina, forse però gli occorreva una persona come il nostro frate. Chi lo sa!» «Quindi è costui che muove tutto, decide, imprime agli eventi la loro rotta.» «Sì.» «Ma, se può controllare la macchina, perché allora non farlo personalmente? Perché cercare di convincere re, papi, principi? Non capisco…» «Neanche io, Santità. So solo che la sua scienza, da quel poco che ho potuto capire, va al di là dell’umana comprensione e tutti lo temono. Credo sia il demonio in persona!» «Giovanni, Giovanni… il demonio ha altro a cui pensare.» «Ma… allora, come spiegare tutto questo?» «Non posso risponderti, Giovanni. Anche se vorrei.»

«Dimenticavo poi una cosa… credo sia importante. Ecco, durante il periodo in cui ho frequentato Bruno ho notato dei cambiamenti in lui.» «Di che natura?» «Fisici», spiegò sentendosi percorso da un puro brivido di terrore e disgusto. «Non so come descriverlo… Bruno ha delle crisi ricorrenti, ogni cinque settimane circa, e così anche gli altri iniziati. Ho visto il suo viso tumefarsi e riempirsi di vesciche come fosse colpito dal vaiolo, o dalla peste bubbonica. Allora cominciava ad urlare e si contorceva come un ossesso.» «L’hai visto con i tuoi occhi?» «Sì, più di una volta. È successo anche il giorno della mia iniziazione. La crisi è giunta improvvisa, il volto si è gonfiato come… quasi a esplodere. Era incredibile, non ho mai assistito a un orrore simile. In ato era successo in modo più leggero. Ma questa volta… i suoi “amici”, se così li possiamo chiamare, lo hanno afferrato e portato nei sotterranei della sede della confraternita. È stato orribile. L’ho rivisto due giorni dopo, era assolutamente normale, come se nulla fosse accaduto. E quando gli ho chiesto cosa avesse, mi ha risposto che si trattava di un banalissimo disturbo, una malattia senza conseguenze gravi, purtroppo ricorrente.» «E tu gli hai creduto?» «Ovviamente no. Anche perché, dopo un po’ di conversazione, si è tradito. E così sono venuto a sapere che prima di incontrare Observator non aveva mai sofferto di alcunché. Invece, da quando è entrato in contatto con costui…» «Quindi pensi che tutto dipenda da questo personaggio?» «Potrebbe. Resta il fatto che Bruno è completamente soggiogato da lui.» Il papa si portò le mani alla testa, come se volesse massaggiarsi le tempie cariche di troppi affanni.

Meditò per qualche minuto, in assoluto silenzio, mentre Oriano lo fissava.

Alla fine prese la sua decisione. «Darò ordine di cercare Bruno e arrestarlo, ovunque si trovi, chiunque lo protegga. Voglio che sia processato per eresia. Ma non desidero scandali. Tutto dovrà essere compiuto nella massima discrezione. Se, da quanto ho capito, abbiamo a che fare con gente pericolosa, voglio essere sicuro che la Chiesa non subirà alcun male dalle nostre azioni. Puoi occupartene tu?» Oriano inchinò la testa, in gesto deferente. «Certo.» «Bene. Dobbiamo fare attenzione… devi fare attenzione. Questi signori trafficano con materie immonde, con qualcosa che va al di là della nostra natura. Possiamo aspettarci di tutto. Fai in modo che il loro gruppo sia distrutto, portali a Roma, se devi, ma agisci. E recupera ogni cosa che faccia riferimento alla macchina. Niente deve rimanere in mani sbagliate.» Oriano si alzò, si inginocchiò di fronte al papa e gli baciò l’anello.

«Dovrò avere ampie deleghe con me. E molto denaro, Santità», disse con il capo abbassato. «Sospetto che Bruno e i suoi “amici” siano protetti dal re di Francia in persona. Forse il monarca fa anche parte della sua setta. Mi occorrerà corrompere, comprare le persone…» «Avrai tutto ciò che ti occorre, non dubitare. Risorse illimitate… dovessi impegnarmi per questo le ossa di San Pietro! L’importante è che riesca nella tua missione. Altrimenti, non so proprio come andrebbe a finire.» Quando Oriano uscì Gregorio si sentì terribilmente stanco. Aveva provato la macchina, sapeva che il suo potenziale era micidiale. Cosa ne sarebbe stato di loro se fosse stata utilizzata dai nemici della Chiesa.

Volse lo sguardo verso la campagna, oltre la finestra. Osservò alcuni uccelli e provò gelosia per la loro semplice vita.

Non sapeva se l’incarico conferito a Oriano avrebbe portato i suoi frutti. Ma sperava, pregava, che così fosse. In caso contrario, per loro, era sicuro, non ci sarebbe stato futuro.

Capitolo 19

San Carlos de Bariloche, Argentina. 4 giugno 2017. Ore 01:15

William avrebbe voluto continuare lo studio del materiale, ma Alicia aveva proposto di andare a dormire, non ne poteva più: erano state giornate piene di tensione emotiva, soprattutto l’ultima. Se l’erano vista davvero brutta in mano a un delinquente senza scrupoli come Herrera e ciò l’aveva scombussolata più di quanto pensasse. Sentiva davvero il bisogno di un sonno ristoratore. Approfittando della solitudine, William era sceso alla reception dell’albergo e aveva chiesto se avessero uno scanner. Con sé recava i documenti che più gli interessavano. Li aveva scansionati con l’apparecchio prestatogli dal guardiano e, dopo averli trasformati in file pdf, li aveva inviati a una casella mail della sua università, il cui accesso criptato gli dava ampi margini di sicurezza. Poi tornò in camera, fece una doccia veloce e si buttò sul letto addormentandosi profondamente.

Si svegliò abbastanza presto e chiamò Alicia con il cellulare. Si ritrovarono nella sala colazioni sicuramente più sereni rispetto al giorno prima. Il ritrovamento del baule li aveva messi di buon umore e discutevano animatamente, anche se a bassa voce, del suo contenuto. «Tuo padre sarà orgoglioso di te!», disse William. Ma un’ombra sembrò attraversare lo sguardo di Alicia, la cui bellezza era ancora più evidente dopo una notte di riposo. William se ne accorse. «Ho detto qualcosa di poco opportuno?» «No, William, certo che no. È solo che…» Tentennò un poco, non sapeva se dirgli quello che provava. Pensò che in fondo William era un estraneo, che lo conosceva davvero da poco tempo… eppure lo sentiva vicino, alla pari di un amico di lunga data, l’amico che avrebbe sempre voluto avere accanto a sé, un uomo rassicurante, positivo, forte. Doveva fidarsi? Doveva dirgli quello che

provava quando parlava di suo padre? Quel brivido che le avvolgeva il cuore quando pensava alla parola “padre”?

Lo guardò e i suoi occhi sorridenti, quasi ingenui nella loro dolcezza, le provocarono un moto emotivo di insolita intensità. Fece fatica a rimanere imibile, ma ci riuscì.

No… oramai aveva visto abbastanza, aveva già raccolto informazioni su William prima di conoscerlo, aveva il suo profilo psicologico. E ora che aveva ato qualche giorno con lui lo avvertiva così prossimo al suo mondo, al suo modo di pensare. Non era un semplice compagno di avventura, di ricerca, era molto di più.

Le labbra si mossero da sole, prima senza emettere alcun suono, poi presero forza e cominciò a parlare. «Mio padre non nutre alcun interesse per me. Gli è indifferente quello che faccio, come ciò che fa qualunque altro essere umano.» William rimase un attimo interdetto. Poi la guardò con tenerezza, desiderava saperne di più: «Che tipo è?» «È uno che ha sacrificato ogni cosa al raggiungimento dei suoi obiettivi. Ha creato un impero, ma ha perso la cosa più importante: gli affetti della famiglia. Io sono cresciuta lontano da lui. Ho frequentato il college migliore, ho avuto i professori più quotati, ma sono sempre stata esclusa. Praticamente mi posso considerare un’orfana. Per lui ero solo un impiccio. Un risvolto sentimentale di una vita consacrata al successo, al potere, al denaro… ma forse è così per via della sua malattia.» «Di cosa soffre?», chiese delicatamente William. «Non è proprio una malattia, diciamo che è un suo tratto caratteriale. A volte è in preda a terribili crisi d’ira. Allora perde totalmente il controllo. È come se al suo

interno si scatenasse un vulcano. Non vede e non sente nessuno. È impossibile calmarlo o farlo ragionare. Diventa pericoloso… per se stesso e per gli altri. Mia madre mi diceva sempre di stargli lontano casomai gli fosse capitata una crisi in mia presenza. E in seguito capii cos’erano quei lividi che ogni tanto le comparivano sul viso e sul collo. Mio padre è malato, la violenza che gli si agita dentro è devastante. Poi, però, se lo guardi quando è calmo, sembra la persona più buona del mondo. Non so spiegartelo meglio…» «Mi dispiace Alicia, mi dispiace davvero», disse sincero William. «E… tua madre?» Lei non alzò lo sguardo dal delizioso biscotto che teneva tra le dita. Ma non ne sentiva il profumo.

«Mia madre mi voleva bene», continuò lei. «Ma quando fui adulta quel tanto che bastava, mi confidò di aver sposato un uomo profondamente malato. Fu lei a svelarmi che, ogni tanto, mio padre deve sottoporsi a una cura speciale. Lo aiuta a tenere sotto controllo questo problema, almeno così mi disse.» William continuò a guardarla, senza dire nulla. Desiderava che si sfogasse, ma in modo spontaneo. Non voleva assolutamente forzarla. «Con mia madre avevo un buon rapporto, ma la distanza ha creato comunque una barriera insormontabile. Io ce l’avevo più con lei che con mio padre… lui oramai l’avevo cancellato dalla mia vita. Pensavo che sarebbe stato impossibile ricucire, comprendersi. E ce l’avevo con mia madre perché mi chiedevo come fe a non battersi per me, per la nostra famiglia. Poi sono cresciuta e ho capito che le cose sono molto più complesse di quanto possano apparire a una bambina o a una ragazzina. Così ho fatto finta di essere felice. E, in parte, li ho perdonati. Vivevo sempre lontano da loro, alla fine dei conti era anche facile. Sapevo però che mio padre a una cosa ci teneva: controllava infatti il mio rendimento scolastico, universitario… anche se non veniva mai a trovarmi. Non ho mai avuto problemi di soldi. Avevo un conto a mio nome, ogni compleanno ricevevo qualcosa che gli altri miei compagni si sognavano. Però ero sola. Quando sono diventata maggiorenne non ho più toccato un centesimo dal conto e mi sono messa a lavorare part-time per pagarmi gli studi. Volevo essere indipendente, crearmi le cose con le mie mani. Lui non ha fiatato, e ho sperato

che apprezzasse questo spirito indipendente. Poi mi sono laureata e alla fine, gradino dopo gradino, sono andata a lavorare al MOMA, dove organizzavo mostre di un certo successo.» Si fermò, volse lo sguardo di lato, come a ricacciare brutti pensieri.

«E com’è che sei finita alla Fondazione?» «Era il mio destino, no?», disse riprendendo a guardarlo, con un leggero sorriso. «A parte gli scherzi, due anni fa, subito dopo la morte di mia madre, papà ha cominciato a chiamarmi al telefono. Non ci potevo credere. A parte Natale e il mio compleanno, non lo sentivo mai. E invece ora sembrava cercarmi, mi chiedeva come stavo, se avessi voglia di andare a trovarlo. Poi, un bel giorno, mi ha chiesto di andare a lavorare presso di lui, alla Fondazione. Credo che l’abbia fatto solo perché sono sua figlia. Probabilmente ha visto in me qualcosa che gli serviva…» «O forse voleva riavervi accanto…», cercò di rabbonirla William. «Dici? Per me è un semplice datore di lavoro. Te l’ho detto: non lo conosco. Pensa, non so neanche se frequenti un’altra donna, che colori gli piacciano, se ama il cinema o la letteratura… non so niente di niente di lui! Mai una volta che mi abbia abbracciato o detto ti voglio bene. Neanche al funerale di mia madre. Se ne stava in piedi, con il suo completo impeccabile, ritto come un fuso, come se si fosse fatto la barba un minuto prima. Fresco come una rosa. Non tradiva alcuna emozione. Potevi scambiarlo per un pupazzo di plastica.» «E quando vi incontrate per lavoro? Capiterà qualche volta…» «Certo William… hai visto anche tu quanto è grande il palazzo della Fondazione. Comunque, quando ci vediamo, e capita assai di rado, io lo chiamo Malcolm. Ci pensi? Mica papà: Malcolm!» William tentò di cambiare direzione al discorso. «Che tipo era tua madre? Adesso che l’hai perdonata puoi parlarne, sempre che non sia troppo indiscreto.»

«Tutt’altro. Beh, cosa posso dire? Era molto brava nel suo lavoro. Ovviamente collaborava con mio padre. Quando avevo quattro o cinque anni deve essere successo qualcosa. E lei ha cominciato ad allontanarsi sempre più. Credo che lui ne abbia risentito, ma forse si trattava solo di orgoglio ferito. Le loro vite si sono separate, lei ha preso un’altra strada. Poi c’è stato l’incidente…» William evitò di fare la stupida domanda: “Quale?”. «Un pirata della strada. L’ha centrata in pieno. Comunque non posso dire di aver conosciuto bene neanche lei. Ma so che mi amava, a modo suo… lo sentivo.» Gli occhi di Alicia si erano inumiditi.

«Scusa sono una stupida.» «No, lo stupido sono io. Non dovevo…» Lui la gratificò poi con un bellissimo sorriso e le carezzò il dorso della mano. Lei avvertì il calore delle dita di William e si sentì vibrare dal profondo. «Basta con i discorsi tristi», sbottò all’improvviso, andosi una mando sotto il mento. «Abbiamo avuto successo nella nostra ricerca e dobbiamo festeggiare. Facciamo colazione, poi telefonerò a mio padre per dargli la bella notizia.» «Credevo l’avessi già sentito stanotte!» «No, lui odia essere disturbato dopo una certa ora.» «Ma non si è preoccupato di sapere se eri viva?», fece lui allarmato. «Evidentemente no… o forse lo sa benissimo che sono sana e salva», strinse l’occhiolino e poi stese il braccio a indicare tutta la sala. «Magari, in questo momento, qui dentro ci sono degli uomini della Fondazione.» «Magari, in questo momento», replicò, «stai dicendo un mucchio di scemenze. Perché se così fosse, perché diavolo non sono venuti a prendere a calci Herrera?»

«Comunque, ora lo chiamo e gli manderò un rapporto completo sul baule. Ovviamente dopo che avremo catalogato per bene tutto il suo contenuto. Chissà che faccia farà… anzi, lo so. Nessuna. Non cambia mai espressione.» In quel momento scoppiò a ridere, imitata da William. Quando, terminata la colazione, Alicia andò in camera sua, trovò che avevano già rifatto i letti.

«Ciao Malcolm», disse appena il padre rispose al cellulare. Quindi gli raccontò per sommi capi quanto era accaduto. Chiuse dicendo che quanto prima, con l’aiuto di William, avrebbe inoltrato un rapporto dettagliato, per il momento chiedeva l’aereo personale di suo padre per caricare il baule e portarlo a New York. Lì avevano finito.

Il jet di Malcolm Wyler sarebbe giunto il giorno dopo a Bariloche. Non restava molto da fare fino alla partenza e decisero così di chiudere i documenti che William riteneva più importanti nella cassaforte della sua camera. Il resto lo avevano lasciato dentro la cassa. Quella sera girarono per il paese, sperando di non essere visti dal sergente. In compenso incrociarono uno degli energumeni di Herrera che si limitò a lanciare contro di loro un’occhiataccia. Decisero poi di andare al cinema, ma il cartellone non proponeva nulla di interessante. Così ripiegarono su una cena anticipata. L’indomani si sarebbero dovuti svegliare molto presto.

Le ore volarono. E Alicia era fermamente convinta che quell’uomo le pie sempre di più. Era sincero, onesto, pulito. Affascinante, a suo modo. Aveva anche notato che lui, di tanto in tanto, si concedeva un gesto d’affetto nei suoi confronti. Come se piano piano volesse annullare le distanze, entrare in maggiore sintonia con lei, condividere, oltre alla ricerca e al viaggio, anche qualcos’altro. In tutto questo c’era una punta di malinconia. Il ritrovamento del baule, di fatto, chiudeva la prima missione. Non sapevano se si sarebbero trovati ancora fianco a fianco. E questo, in effetti, disturbava entrambi. Non ne parlarono, ma era chiaro a tutti e due.

Il viaggio di ritorno fu monotono. Sull’aereo dormirono, ascoltarono musica, lessero. All’aeroporto trovarono, accanto alla pista d’atterraggio, un SUV nero con i vetri oscurati. Accanto un Hummer H2, su cui alcuni addetti della Fondazione caricarono il prezioso baule.

Poco dopo erano in centro, alla sede della Fondazione. Millan li ricevette con un grosso sorriso. Si complimentò con i due per il buon esito della missione e fu prodigo di apprezzamenti. Non credeva, disse più volte, che tutto si sarebbe risolto così velocemente. Malcolm, invece, non si fece vedere.

William disse che sarebbe voluto tornare a Londra.

«Capisco», fece Millan. «Però le chiedo di pazientare. Domani ci sarà un party alla Casa Bianca. Una festa organizzata dal Presidente per i suoi amici.» «Vorrei tornare a casa, ho parecchie cose da fare. Ci possiamo sentire la settimana prossima, così mi dirà in cosa consiste il secondo incarico.» Alicia era in imbarazzo. L’amico non aveva capito che quella di Millan non era una richiesta.

«Dai Will, potrei insegnarti a ballare», fece lei per sdrammatizzare. «Grazie Alicia, ma devo proprio tornare…» «Il signor Wyler ci terrebbe molto», spiegò Millan. Poi, a voce più bassa: «E sinceramente mi eviterebbe di dover spiegare al padre di Alicia la sua assenza.» «Ci tenete così tanto?» «Le stiamo offrendo l’occasione di conoscere il signor Wyler in persona», disse. «Lo consideri un onore per pochi privilegiati.»

William guardò prima Alicia, poi Millan. «D’accordo», cedette, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo. «Se si tratta di conoscere il Presidente e il signor Wyler…» «Perfetto», fece gongolante l’altro. Non mentiva quando diceva che sarebbe stato imbarazzante per lui spiegare al “capo” che il professore aveva preferito far ritorno in patria. «Ah, tra l’altro controlli il suo conto fra qualche ora, dovrebbe essere arrivato il bonifico di quanto pattuito. Poi in serata una nostra assistente la contatterà per darle tutte le informazioni del caso per il viaggio a Washington. Le auguro una splendida serata.» Quando furono fuori William guardò rassegnato Alicia: «Mi hai incastrato, eh?»

Ma in fondo non gli dispiaceva così tanto rimanere. Non se il prezzo da pagare era stare in compagnia di Alicia.

«Visto che ora sono ricco… andiamo a fare qualche spesa», disse infine, pensando ai due milioni e mezzo di dollari che avevano ingrossato il suo conto in banca.

Capitolo 20

The White House, Washington D.C. 6 giugno 2017. Ore 19:15

William Jonathan Connor non aveva mai avuto un interesse particolare per Washington, come per gli Stati Uniti, d’altronde. La potenza militare, finanziaria e politica americana non esercitava alcun fascino sul professore inglese. Forse perché, da fine conoscitore della storia, sapeva quanto marciume albergasse dietro apparati e divise. Non lo traeva certo in inganno l’aspetto curato e da brava persona del Presidente, o la falsa simpatia del Primo Ministro inglese, o l’affettata cortesia di qualunque altro politico del mondo. Conosceva bene il potere della corruzione, era conscio dei fiumi di denaro in nome del quale si compiva ogni misfatto, il male profondo che serpeggiava intorno a ogni forma di politica, soffocando tra le sue spire ogni aspetto positivo. Anche per questo avrebbe voluto essere da tutt’altra parte.

Mentre la Limousine della Wyler Foundation percorreva Pennsylvania Avenue, le luci della strada scorrevano veloci insieme ai pensieri di William. Alicia era seduta al suo fianco, elegante e molto seducente nel suo vestito nero, gli orecchini di oro bianco e perle abbinati alla collana che impreziosivano un decolté discreto e appena accennato.

William era in smoking, di rigore in simili occasioni. Non era mai stato a una festa di quel livello. Alicia gli aveva riferito che avrebbero partecipato diversi nomi noti del bel mondo americano. Si trattava però di una festa privata, indetta dal Presidente solo per gli “amici”, nel senso politico, piuttosto superficiale, che il termine assumeva a Washington. Quando arrivarono, William scese e tentennò un attimo di fronte all’entrata: Alicia lo prese a braccetto e lo costrinse con molta grazia a vincere i suoi timori e, dopo il aggio al metal detector della sicurezza, lo portò a conoscere alcuni

personaggi che lui aveva visto solo in tv o al cinema. La situazione gli ricordava la prima volta in cui si erano incontrati a New York. Non gli fecero una grossa impressione, erano persone più o meno come tutte le altre, in alcuni casi meglio, in altri casi peggio della media.

Poi William e Alicia incontrarono Malcolm Wyler: lei sorrise nel vederlo, William non sapeva cosa aspettarsi.

Wyler era su di giri, Alicia non lo aveva mai visto così, era insolitamente di buon umore e aveva perfino un accenno di sorriso, cosa che capitava molto di rado.

Il baule di Himmler aveva apportato una tessera speciale al puzzle che stava cercando di ricomporre insieme a L’Osservatore e agli altri membri di The Rune: a prima vista conteneva i dati basilari, le formule matematiche e le informazioni elaborate secoli prima da un monaco eretico e dai suoi collaboratori alla ricerca di una visione superiore e universale dell’uomo e della sua posizione nelle ere e nelle stagioni del tempo e della storia. Le basi matematiche, le formule i diagrammi, erano ati nelle mani di Himmler, che aveva incaricato le sue SS della sezione Ahnenerbe di studiarle e trovarne un’applicazione pratica alle necessità della guerra e, se possibile, alle necessità della sua ricerca personale che coinvolgeva scienziati, archeologi, storici, musicologi, alla ricerca dell’eredità dei semidei ariani. Un’indagine che travalicava in campi talmente vasti da divenire sconfinati. Erano questi gli orizzonti che Wyler cercava di raggiungere da decenni: e ora aveva in mano tutto ciò che occorreva ai suoi tecnici per completare il più grande progetto mai realizzato. Per questo il suo umore era a livelli stellari. «Professor Connor!», esordì stringendogli la mano con forza e calore. «Lieto di conoscerla. Sono Malcolm Wyler. Il rapporto di mia figlia la descrive come un uomo di eccezionali capacità. D’altronde è riuscito dove i nostri migliori detective hanno fallito. I miei complimenti per il risultato della missione. Avete rischiato parecchio… abbiamo apprezzato molto quello che ha fatto.»

William sorrise. Si sentiva a disagio con Wyler, ma era il suo attuale datore di lavoro. «Lietissimo di conoscerla, signore», replicò. «Lei è molto gentile, ma senza l’aiuto di Alicia non ce l’avrei mai fatta.» Wyler guardò la figlia; era bellissima, intelligente, colta e aveva dato prova di essere una persona di fiducia, cosa che a Wyler interessava sopra ogni cosa.

Annuì. «È un ottimo braccio destro, lo riconosco.» Alicia fu colpita da quelle parole: erano ciò che di meglio era uscito dalla bocca di suo padre nei suoi confronti in quarant’anni. L’orchestra cominciò a suonare e, secondo il programma, la cena sarebbe stata servita a breve; prima però Wyler volle presentarli al Presidente e alla First Lady: i due erano emozionati, e scambiarono qualche parola con l’uomo più potente della Terra. Il Presidente doveva però dosare con attenzione il suo tempo e fu presto dirottato dallo staff su altri ospiti che richiedevano la sua attenzione. Wyler portò poi Alicia e William presso un gruppo di undici persone che stavano conversando e ridendo. Mentre si avvicinavano l’inglese notò che erano tutti più o meno della stessa età di Wyler.

Alicia conosceva alcuni di quei volti, li aveva visti più volte alla Fondazione. Da come accolsero Malcolm e si disposero intorno a lui sembrava che quelle persone non solo avessero grande amicizia con il padre di Alicia, ma che lo ascoltassero con deferenza.

William provò una sensazione piuttosto sinistra allorché venne presentato loro, ma non lo diede a vedere. Sembravano conoscerlo e lui in qualche modo conosceva loro: Warburg, Harriman, Morgan, Bush, Rockefeller, Rothschild, tutti nomi alla guida della finanza internazionale. Apparivano come persone assolutamente normali, ma non era così: Connor sapeva perfettamente che si

trattava di membri di famiglie che da secoli gestivano il vero potere da dietro il sipario della storia. Erano i registi, gli sceneggiatori, i produttori e i principali finanziatori del balletto politico che creava e disfaceva governi in ogni parte del globo.

Conversarono tranquillamente, tra una battuta e l’altra, e si complimentarono con William e Alicia per il successo della loro prima missione, facendo così intendere che conoscessero molto bene i progetti di Malcolm Wyler. A William vennero immediatamente in mente le parole di Richard Levine Byrd riguardo le persone che controllavano il sistema finanziario e politico del pianeta e che, per tradizione, si riunivano in società segrete. Pareva strano però pensare che parlasse di questi signori: sembravano infatti innocui vecchietti, i classici nonni che ogni nipote avrebbe voluto avere, educati, arguti, scherzosi. Ma stette al gioco e si intrattenne piacevolmente con loro per qualche minuto. Fin quando non vennero invitati a raggiungere, tutti insieme, un tavolo intorno al quale presero posto con le rispettive famiglie. Prima che la cena venisse servita il Presidente prese la parola per ringraziare gli ospiti e fece un breve discorso ricco di battute scherzose e argute che scatenarono l’ilarità del pubblico. L’atmosfera era distesa, accompagnata dalla musica sapientemente scelta. La serata trascorse piacevole e, malgrado l’insofferenza iniziale di William, la vicinanza di Alicia, che invece si districava benissimo tra sorrisi e strette di mano, rese la cosa quasi divertente. Tuttavia, entrambi percepivano nettamente una sensazione particolare, come se i loro commensali li stessero studiando, quasi volessero comprendere meglio chi fossero le persone a cui avevano affidato i loro progetti di ricerca. Il pasto era stato superlativo: le portate, presentate con estrema eleganza, comprendevano fagiano al burro, riso al curry, roast beef, aragosta al vapore, impreziosite da salse agre e dolci, fettuccine e ravioli al pesto secondo la tradizione italiana. Calici di Champagne Veuve Clicquot e Dom Pérignon si riempivano e si svuotavano, rendendo frizzante e allegra l’atmosfera mentre in un’area attrezzata varie coppie ballavano.

Al termine della cena gli amici di Malcolm Wyler gli parlarono. Poco dopo

l’uomo si alzò e si avvicinò a William e Alicia. La voce era ferma e decisa ma tradiva un certo orgoglio: lei era sua figlia, anche se non nutriva alcun affetto da padre nei suoi confronti, e Connor fondamentalmente era una sua scoperta. «Alicia, professore, vorrei invitarvi a fare una eggiata poco lontano da qui, c’è qualcosa che desidero farvi vedere. I miei amici hanno insistito tanto… così ho deciso di concedervi un grande onore.»

Il gruppo di anziani finanzieri osservava la scena con fare compiacente. «Dove andiamo?» Alicia aveva una brutta sensazione. «Non lontano, direi cinque minuti in auto: all’Obelisco del Washington Memorial.»

Entrambi accettarono.

Wyler li fece salire sulla Limousine mentre lui, accompagnato da quattro uomini, li precedeva su un’altra auto.

«Ma che sta succedendo?»

«Forse un’idea ce l’ho», le rispose William. «Stai tranquilla.» Giunsero in brevissimo tempo al grande obelisco, al limite occidentale del National Mall, completamente attorniato da pennoni sui quali le bandiere americane danzavano nella brezza notturna. Le luci di Washington si riflettevano sulla lunga piscina centrale mentre la grande figura pensosa di Abraham Lincoln estendeva la sua ombra fin sulle scale del Memorial a lui intitolato. William osservò con attenzione la struttura del Mall e gli enormi edifici che vi si

affacciavano: non era mai stato in quel luogo, anche se si era ripromesso più volte di visitarlo in ato, e la smisurata scenografia di pietra gli suscitò una discreta sensazione. Non sapeva perché era stato portato lì, contrariamente a quanto aveva detto ad Alicia per rasserenarla, e non vedeva l’ora di conoscerne il motivo.

La grande Limousine si fermò nel piazzale antistante l’Obelisco, all’interno del grande cerchio esterno di bandiere, a pochi metri dall’entrata. Uno degli uomini del seguito di Wyler, dopo che tutti furono scesi, digitò un codice su un pannello esterno e disattivò l’antifurto e i sistemi di sicurezza, quindi fece strada, aprendo la porta della sala all’interno dell’enorme monolito, fermandosi di fronte a una serie di lapidi commemorative. Molte di queste recavano inciso, tra le altre cose, un simbolo familiare: la squadra e il como, il sigillo della Massoneria.

Subito dopo entrò anche Malcolm Wyler con il resto della sua scorta. Rimase un momento in contemplazione dinanzi alle lastre di pietra e metallo che riportavano i nomi di società private, società segrete, associazioni di nativi americani e di ogni altro genere, di partiti moderati come di quelli xenofobi, quali erano per esempio i “Know Nothing”.

«Lei dovrebbe sapere cosa significano quei simboli, professor Connor», fece Wyler mentre osservava con una certa ammirazione la serie di grandi targhe e lapidi. «E dovrebbe anche sapere il motivo per cui si trovano in questo luogo.» «Certo, si tratta di coloro che, perlopiù facenti parte della Massoneria, hanno contribuito alla realizzazione dell’Obelisco.»

Alicia provò una scarica di brividi, e non era solo per la profusione di marmi della sala: avvertiva l’imminenza di qualcosa di nuovo.

«Questo è il centro del potere degli Stati Uniti d’America», spiegò Malcolm parlando lentamente. «Washington, una città creata dal nulla direttamente dai nostri avi, tutti iscritti alla più potente organizzazione del mondo: la Massoneria. L’obelisco è il monumento al nostro padre più illustre, George Washington, Gran Maestro della Massoneria di Rito Scozzese Antico e Accettato, di cui era membro almeno il trenta per cento dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza. Ha già notato quante di queste lapidi, iscrizioni, targhe, effigi riportano il simbolo massonico della squadra e del como?»

«Sì, l’ho notato… è evidente.» «E sa qual è il loro significato all’interno del Washington Memorial?» Gli occhi di Wyler scintillavano lucidi e intensi. La vicenda aveva assunto un sapore insolito, misterioso. Era simile a un brivido, tagliente come una fredda lama in grado di uccidere e, allo stesso tempo, di recidere un cappio stretto intorno alla gola. William avvertiva un sapore metallico sulla lingua, quasi fosse in presenza di un alito di vento che annunciava un cambiamento radicale. La porta si stava aprendo, e un nuovo corridoio, con altre porte, si stava manifestando. Difficile dire, però, dove li avrebbe condotti. Connor guardò Wyler; sembrava un normalissimo uomo d’affari di circa settant’anni perfettamente portati. Ma dietro quel paravento si nascondeva una intuibile freddezza, una capacità intellettiva superiore e, probabilmente, anche una conoscenza smisurata. Fu in quel momento, mentre i due si osservavano in silenzio, che William percepì nettamente la pericolosità del padre di Alicia. E risolse che fosse meglio averlo come amico, piuttosto che avversario. Wyler attendeva ancora la sua risposta. Ma William si limitò a ritornare con gli occhi sulle iscrizioni. «Tutto ciò si trova qui per un semplice motivo», spiegò alla fine l’altro. «Nel centro della capitale americana, all’interno del monumento commemorativo del padre della Nazione, nell’ombelico stesso degli Stati Uniti, si può comprendere il segreto più interessante della storia…» «Ovvero», lo interruppe William, «che la Massoneria controlla Washington. La Massoneria controlla la politica statunitense. E questo significa che controlla il

mondo.» Wyler increspò le labbra in un leggero sorriso. Il professore aveva colto nel segno. Anche se aveva dato alle sue parole una connotazione leggermente acidula. «Questa verità, differentemente da come si possa pensare, non ha l’accezione negativa che alcuni le attribuiscono. La Massoneria Americana di Rito Scozzese Antico e Accettato è sempre stata alla guida degli Stati Uniti, fin dalla fondazione della Nazione. E qui ne ha una prova. Osservi bene quelle lapidi. Il 4 luglio 1848 una grande cerimonia massonica aperta al pubblico celebrò la posa della prima pietra del Washington Memorial. Possiamo dire che la storia americana è la storia della Massoneria, come lei sa molto bene, la quale gestisce le leve finanziarie e decisionali del Paese.» Alicia osservava suo padre mentre parlava. In quel contesto lo sentiva ancor più distante, più lontano di quanto lo avesse mai avvertito. «Essere parte della Massoneria», continuò Wyler, «può aprire molte porte, molti orizzonti. Chiunque ne faccia parte vede la propria carriera rifiorire e improvvisamente farsi luminosa. La Massoneria è un percorso spirituale, reca con sé lo schiudersi di nuove prospettive di conoscenza, e questo anche nel campo della vita pratica, in cui la solidarietà tra i confratelli massoni funziona come una rete di amicizie che si rivela fondamentale per la buona riuscita dei propri progetti.» «Conosco come funziona la Massoneria», disse William. «Ma non capisco cosa abbia a che fare con me…» «Ecco professore, a lei è concessa la possibilità di entrare a farne parte. E non parlo di un ingresso da una porticina laterale. No, quello che le offriamo è molto di più. Io e i miei amici siamo al vertice della piramide. Concordo con loro nel desiderio di averla tra noi.» William rimase senza parole. Asseriva di occupare il vertice della piramide: ciò poteva significare solo che la sua carriera come membro della società più potente d’America era giunta al suo punto più elevato, al 33° grado della Massoneria americana, o forse anche superiore, considerato che si era più volte favoleggiato di gradi segreti che sopravanzavano quelli conosciuti. Si voltò verso Alicia.

«Lei non potrà farne parte», spiegò Wyler, interpretando erroneamente quello che era uno sguardo di perplessità, «perché alle donne è vietato iscriversi alla Massoneria. Comunque esiste un’altra forma di affiliazione che permette loro di farsi strada come gli uomini.» Seguì una breve pausa di silenzio. Oltre che stupito, William cominciò a preoccuparsi.

«Si tratta di un grande onore, per entrambi», continuò allora l’altro. «Ma richiede un rito di iniziazione. Cosa ne dite? Alicia?» Alicia squadrò William per capire cosa avrebbe scelto. Dal canto suo William voleva prendere tempo. Da un lato poteva anche sentirsi lusingato, ma l’invito all’affiliazione gli puzzava di trappola. E se così avessero voluto ancora più strettamente controllarlo? La donna attendeva. Ma i sentimenti che si agitavano in lei erano un’autentica tempesta. Non sapeva che suo padre fosse un massone, anzi, il capo della consorteria più potente. E non voleva aver nulla a che fare con società segrete e cose del genere: le sembrava tutta una follia. Aveva visto e letto molto in merito, e le informazioni che possedeva non erano per niente positive. Ora, al di là dei sensazionalismi di libri e trasmissioni televisive, aveva la dimostrazione che la Massoneria era qualcosa di ben più articolato di quanto potesse immaginare. Il dominio che avevano sulle cose doveva essere praticamente assoluto, se anche all’interno del Washington Memorial la facevano da padroni. Quello era il “loro” monumento, la dimostrazione lampante che quanto si diceva sul conto della Massoneria non erano vuote chiacchiere.

La donna cominciava a provare un’ansia crescente. Non era un sentimento nuovo, le era già accaduto diverse volte da quando lavorava per suo padre; si era accorta che, e a maggior ragione quella sera, Malcolm Wyler per lei era un estraneo. Praticamente non sapeva niente di lui. E avvertiva il netto convincimento che in quell’uomo coesistessero due nature: una rivolta al mondo delle relazioni quotidiane, apparentemente socievole e piacevole, l’altra invischiata in chissà quali giochi di potere. Ecco, era quello l’aspetto che la impauriva, poiché si era convinta che al fondo di quel pozzo poco illuminato

gie, sopito e in attesa di mostrare la sua malvagità, il vero volto di suo padre.

Stava per rispondere che assolutamente non le interessava far parte di alcunché quando William la fermò mettendole una mano sul braccio. «Signor Wyler, la ringrazio moltissimo. Siamo lusingati, l’offerta è davvero allettante. So bene cosa implichi l’affiliazione a quest’ordine. Ho bisogno di pensarci un po’ su ma già le dico che trovo tutta questa faccenda di straordinario interesse.»

Wyler non parve soddisfatto della risposta. Ma trattenne per sé ogni commento.

«E tu, Alicia?» Ci mise qualche secondo per trovare le parole. Poi disse: «Beh, anche io sono molto confusa… Non è una scelta da prendere alla leggera, è un grandissimo onore e va trattato come si deve. Voglio pensarci anche io, sebbene non ti nasconda che mi potrebbe fare immenso piacere», mentì. Malcolm Wyler li osservò senza dire una parola. William si chiese se avesse fatto bene a parlare in quel modo, ma al momento l’unica cosa che gli era venuta in testa per allontanare il pericolo era stato prendere tempo. Dopo qualche attimo che parve lunghissimo, Wyler annuì.

«D’accordo, mi sembra giusto.» Quindi, rivolto ai suoi uomini, ordinò di prepararsi a fare ritorno alla Casa Bianca. E, mentre uscivano, affiancò William.

«Domani andrà a New York, con Alicia. Alle 16 incontrerà Millan che le

spiegherà la natura della seconda missione. Tu Alicia», proseguì senza neanche guardare la figlia, «verrai da me alle 15.» Poi, senza aggiungere altro, li superò e, evitando di aggiungere anche una sola sillaba, sparì nella sua macchina. A William parve che Malcolm, salendo sulla vettura, prendesse il suo cellulare. Forse voleva avvisare gli “amici” che il professore aveva detto di voler pensare con calma alla proposta? Si affrettarono a salire sulla Limousine. Alicia si teneva vicina a William che le prese le mani: «Sei gelida.» «C’era freddo lì dentro», spiegò, tanto per dire qualcosa. In realtà era il suo cuore a provare un gelo intenso. Scoprire che suo padre era un massone, probabilmente un Gran Maestro, era stato uno shock. Quali altri segreti nascondeva? Perché si sentiva così intimorita come se avesse appena trascorso del tempo con un genio del male? William la guardò ancora, preoccupato. Ma fu lei a parlare per prima. «Non ne sapevo nulla… voglio dire, non ero a conoscenza del fatto che mio padre fosse un massone.» «Credo che sia uno dei capi della fratellanza», fece l’altro. «Certo, è tutto molto strano. Straordinario, se vogliamo.» «Cosa vorresti dire?», domandò lei guardinga. «Non è cosa di tutti i giorni essere affiliati alla Massoneria direttamente da uno dei suoi massimi rappresentanti.» «Quindi dicevi sul serio quando affermavi che per te era un onore?» «Scherzi? Me la stavo facendo sotto… qualche anno fa mi è stata offerta una possibilità analoga. In quel caso però non si trattava di un invito dal vertice della piramide, come ha detto tuo padre. Mi sono rifiutato. E rifiuterò anche questa volta. Non mi piacciono le società segrete e soprattutto queste persone…» «Quelle che dicono di essere amici di mio padre?»

«Esatto. Quelli che hanno in mano il vero potere. Ricordi quello che ci ha detto Richard?» «Si tratta della stessa cosa?» «Non proprio, ma il concetto è il medesimo. Anzi, credo che tutti i vari gruppi e lobby alla fine si richiamino a un’unica matrice e che tutto confluisca nella piramide. Non so se rendo l’idea…» «In modo perfetto», sibilò Alicia guardando all’esterno dell’abitacolo sperando che quella discussione non fosse registrata. «Sai, una volta che entri in quell’ambiente, come diceva Richard, non ne esci… Ci sono troppi interessi in gioco.» «Bene, sono contenta di sentirtelo dire. Non ho nessuna intenzione di accettare. Anche se mio padre… mi ha fatto veramente paura.» William annuì e si volse anche lui verso il finestrino; entrambi avevano bisogno di tempo, ma i loro pensieri scorrevano veloci, molto più veloci delle luci di Washington che si riflettevano sui vetri. Pensieri difficili da interpretare, pensieri che dovevano sedimentarsi a dovere per essere compresi fino in fondo.

Capitolo 21

Washington D.C. 6 giugno 2017. Intorno alle 23.00

Erano appena giunti alla Casa Bianca. All’ingresso li attendeva un uomo della Fondazione. Si scusò e diede a William un cellulare.

«Cosa succede?», domandò sorpreso. «Mi hanno incaricato di farglielo avere. Non so altro.» Perplesso lo mise in tasca ed entrarono nuovamente nel clima della festa e per un po’ sembrarono dimenticare quanto accaduto poco prima. Fin quando il nuovo cellulare di William suonò: il nome che apparve sul display lo incuriosì non poco. Era Edward Hughes, suo zio, mentore e Gran maestro della Massoneria inglese. Non poteva essere un caso, visto quello che era appena successo. Ma lo conosceva molto bene e sapeva che Hughes era un’ottima persona, un uomo buono, di cui ci si poteva fidare. «Ciao Edward, che sorpresa! Non immaginerai mai dove mi trovo…» «Buonasera, William. Sento delle voci, musica… è una festa?» «Già, a Washington. Sono alla Casa Bianca, ci crederesti? Tutto bene a Londra?» «Certo, ho chiamato per sapere come stai, come vanno le tue ricerche.» La voce tranquilla dell’anziano rettore celava una certa preoccupazione. «Direi molto bene, io e la signorina Wyler, che mi ha accompagnato, siamo riusciti a portare a termine la prima parte dell’indagine che mi è stata commissionata. Stiamo praticamente festeggiando.» «E… è andato tutto bene? C’è stato qualche… pericolo?»

William percepì che quelle domande non erano poste a caso.

«Sì, Edward, abbiamo corso dei pericoli. Siamo stati a Bariloche e sono venute fuori delle cose davvero notevoli. Ma preferirei non dirtele al telefono, sono troppo importanti. Ci vedremo a Londra quando avrò terminato anche il secondo incarico. Ma tu… stai bene? Mi sembri preoccupato.» «No, no, qui è tutto a posto, come al solito. Comunque…» «Sì?» «Se avessi bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, ti prego di farmelo sapere subito.» «Zio, mi stai nascondendo qualcosa? C’è qualcosa che non va?» William non l’aveva mai sentito così. La sua voce era rauca, come se avesse dovuto parlare per ore di filato. Avvertiva una certa stanchezza, una nota desolante di angoscia. «No, William, come ti ho detto, va tutto bene. Tu però promettimi di stare attento. Ho riflettuto a lungo sull’incarico che hai ricevuto e ho fatto alcune ricerche al riguardo. Ho perfino contattato Malcolm Wyler ma è stato molto evasivo…» «Beh, è normale, si tratta di segreti aziendali.» Hughes fece una pausa. Avrebbe voluto dirgli alcune cose ma non poteva, almeno per il momento. «Conosco quell’uomo. Se ti fe ulteriori proposte riguardo ai tuoi incarichi, beh… massima attenzione.» «Edward, cosa vuoi dirmi?» Hughes fece una pausa. Era già andato oltre ciò che doveva e poteva dire al telefono.

«Nulla di più. Abbi cura di te. Allora ci sentiamo tra un po’. Goditi la festa.»

L’ultima frase stemperò un po’ il tono della telefonata e William lo salutò, chiudendo la comunicazione. Rimase pensieroso per qualche attimo mentre Alicia lo osservava. «Tutto bene?» Lui le sorrise: «Certo. Andiamo a divertirci», concluse sottolineando in modo ironico l’ultima parola.

Capitolo 22

Wyler Foundation, New York. Ufficio di George Millan. 7 giugno 2017. Ore 16:05

«Lieto di rivederla, professore.» William si accomodò di fronte alla grande scrivania. «Il modo in cui ha portato a termine la prima missione ci ha colpito molto. Siamo certi che riuscirà anche in questo secondo incarico.» George Millan, nel suo elegante completo, appariva raggiante. William annuì mentre miss Bluvet li lasciava alla loro conversazione. «Grazie, ma non è solo merito mio: Alicia è stata determinante in molte fasi della ricerca.» Millan sorrise, lasciando cadere la cosa, e mise sul tavolo un libretto ingiallito. «Un libretto per appunti», disse osservandolo con attenzione e notando l’elastico per la chiusura e il relativo portalapis. «Prego, lo esamini pure», disse. William lo aprì e nella parte inferiore a destra lesse sulla prima riga un nome: Hermann Hirt. Nella riga sottostante invece: SS Ahnenerbe – Wewelsburg, 1944. Scorse il contenuto con voracità intellettuale; le sue dita sembravano in preda a una sorta di delirium tremens alla ricerca di comprensione, di conoscenza.

«Mio Dio! Questo è il diario originale di un filologo e ricercatore dell’Ahnenerbe. Dove l’avete trovato?» William non staccava gli occhi dalle pagine fitte di una scrittura minuta e disordinata, arricchita da disegni di vario

genere. «Non è stato difficile: abbiamo contattato tutti gli esperti, gli istituti di ricerca e gli archivi che posseggono oggetti collegati alla nostra indagine e alla fine ci è stato sottoposto come reperto utile questo libretto. Apparteneva a un nipote dello scienziato Hermann Hirt. Lui non sapeva che farsene e ce l’ha lasciato dietro un congruo compenso.» William continuò a sfogliare velocemente accorgendosi che, in diversi punti, mancavano alcune pagine.

«E questi fogli che fine hanno fatto?» «Non lo sappiamo. Posso dirle che quello che ha in mano è il diario di Hirt il quale, come ha detto lei, era uno degli studiosi che lavoravano a Wewelsburg, il castello sede dell’Ordine delle SS.» «E cosa dovrei fare?» «Il diario e gli appunti sono una traccia. Ciò che cerchiamo, in realtà, sono i risultati delle ricerche di Hirt.» «Capisco», annuì William, abbassando leggermente lo sguardo. «Si tratta di elementi che saranno utili alla Fondazione Wyler per lo sviluppo di progetti di grande portata, sono essenziali per noi.»

«Mi sembra un po’ poco… non so neanche cosa dovrò cercare. Un manufatto, calcoli matematici…»

«Può partire da questo», Millan gli allungò uno stampato rilegato. «È la traduzione. Non è stato semplice, a volte questo signore scriveva in modo incomprensibile. A ogni modo dopo aver letto avrà le idee più chiare.»

«Lei lo ha fatto?» «Ovviamente… e mi sono soffermato a riflettere: è molto strano immaginare i migliori scienziati tedeschi impegnati a studiare cose così… strane.» «Tipo?» «Cose come le Ley lines, le energie telluriche, le energie di meditazione e controllo del respiro.»

«Affascinante», disse sincero William. «Sì, anche se è una materia molto complessa. Ma lei è il massimo esperto in questo campo.» William non alzò nemmeno gli occhi dal quaderno che esaminava febbrilmente: «Credo che inizierò subito.» Un sorriso innocente era comparso sulle labbra dello studioso inglese.

Capitolo 23

Sito megalitico di Externsteine, foresta di Teutoburgo, Germania. 9 giugno 2017. Ore 09:20

Alicia osservava William camminare veloce sulla strada ghiaiosa che portava ai grandi monoliti di Externsteine: suo padre aveva insistito perché lei lo accompagnasse anche questa volta. D’altronde erano stati molto efficienti nella prima parte dell’indagine. Ma il vero motivo era un altro: doveva controllare l’amico. Aveva provato un brivido quando Malcolm Wyler gli aveva ordinato: «Assicurati che non faccia sciocchezze e soprattutto che non metta i propri interessi accademici davanti alla missione. Nel caso fai rapporto a me, provvederò immediatamente a farlo rinsavire.» Nel gergo paterno quelle parole assumevano un valore negativo, quasi pericoloso; però si chiedeva: perché lei? Malcolm non poteva essersi accorto che per Alicia lo studioso inglese era diventato qualcosa di più importante di un semplice compagno di ricerche. Lo sentiva molto più vicino della Fondazione o di suo padre. Per questo le sembrava impossibile poter adempiere a un compito così gravoso; ma era stato inutile cercare di far capire a Malcolm che di William poteva fidarsi. Lui aveva semplicemente replicato che non ci si poteva fidare di nessuno. Doveva controllare e riferire, fine del discorso. Mentre osservava i grandi pilastri di pietra farsi più vicini pensò che quella nuova avventura la voleva vivere a modo suo e che suo padre era a parecchie migliaia di miglia di distanza. Avrebbe fatto quel che riteneva più giusto per la missione… per se stessa. Le due cose potevano entrare in conflitto, oppure amalgamarsi piacevolmente. Sarebbe stato il tempo a svelare tutto. William la strappò alle sue riflessioni: «Sai cosa sono questi bastioni di pietra?» «Non proprio, ma qualcosa mi dice che tu li conosci bene…» Era vero, William aveva approfondito la conoscenza dei monoliti di Externsteine e aveva scritto un paio di articoli al riguardo.

«Beh, sono stato qui più volte e ho studiato questi colossi da diversi punti di vista. È chiamata la Stonehenge tedesca, perché, come quello inglese, questo sito è formato da enormi blocchi di arenaria, si trova alla stessa latitudine di Stonehenge ed è frequentato da millenni da druidi e monaci. È una sorta di tempio solare, il giorno del solstizio il sole nasce tra quelle due porte a sud.» Le indicò due torrioni di pietra a poca distanza. Alicia si fermò e diede un’occhiata di insieme: erano immersi nella foresta che aveva visto il barbaro Arminius sconfiggere le legioni di Varo nel 9 dopo Cristo, un piccolo lago rifletteva l’imponente figura dei megaliti che si ergevano possenti a sovrastare gli alberi. William aveva voluto raggiungere di buon mattino Externsteine per evitare il trambusto dei turisti e poterlo studiare meglio alla luce delle informazioni fornite dal libretto di Hirt. Durante il viaggio aereo del giorno precedente, mentre Alicia aveva preferito dormire un po’, si era completamente immerso nel quaderno dello studioso tedesco. Si trattava di una sorta di diario, mescolato ad appunti di vario genere, comprese alcune massime di Himmler, che evidentemente Hirt ammirava, visto il modo in cui circondava le frasi del Reichsführer SS con riquadri a lapis. In una pagina Hirt aveva disegnato una mappa del sito di Externsteine e, subito dopo, lesse alcuni appunti che facevano riferimento al lavoro di Wilhelm Teudt, un ex prete che aveva aderito entusiasticamente al nazismo e studiato Externsteine da un punto di vista molto particolare.

Alicia era incuriosita da questi archeologi della sezione SS Ahnenerbe che avevano lavorato al castello di Wewelsburg, a poche decine di chilometri da lì.

«Teudt credeva che questo sito fosse stato scelto dagli antichi ariani poiché sorgeva su una delle linee di forza telluriche, le Ley lines, più importanti», spiegò William. «E in effetti, come dicevamo prima, era alla stessa latitudine di Stonehenge, un luogo con il quale, secondo questi studi non proprio allineati, condivideva una immensa forza energetica. Teudt utilizzava un sistema di ricerca che sconfinava nel paranormale, esattamente come il consigliere spirituale di Himmler, Karl Maria Wiligut, un personaggio con cui ho idea avremo parecchio a che fare nei prossimi giorni. Per certi versi si trattava dello stesso approccio psicostorico della teosofia di Helena Petrovna Blavatsky. Entrambi asserivano di

poter avere visioni del ato cadendo in trance in prossimità di siti archeologici e di poter visualizzare scene dell’antichità in una sorta di libro cosmico a cui solo essi potevano accedere. Teudt disse di aver ricevuto visioni di Irminsul, il sacro palo dei germani formato da un fusto su cui si ergevano due corna, che diventerà più tardi il famoso martello di Thor. Sembra che Teudt avesse visto dove questo simbolo era montato. Lassù, su quella base quadra. Poi saliremo e la vedremo meglio.» «E il capo assoluto delle SS credeva in queste cose?» «Non solo ci credeva, ma ne era assolutamente affascinato: aveva organizzato le sue SS come un ordine religioso e creato un altro ordine, occulto, guidato da lui e dai suoi fedelissimi, che poi erano dodici generali delle SS. Tutto ciò basandosi sulla teosofia della Blavatsky, che andava per la maggiore in Europa in quel periodo, e sui consigli di Wiligut. Nella loro visione il Reich millenario avrebbe dovuto essere un governo mondiale, un “nuovo ordine”, come lo definiva Hitler, in cui Himmler, che si equiparava alla figura di Gesù e dunque a un riformatore spirituale, insieme con i suoi collaboratori, dodici SS il cui numero era identico a quello degli apostoli o ai cavalieri di re Artù, avrebbero guidato il nuovo mondo verso la perfezione. Una perfezione non solo spirituale, ma anche biologica. Il nazismo stava mettendo in pratica le linee guida della teosofia.» «E questo cos’è?», domandò Alicia. Si trovavano ora di fronte a un anfratto, una sorta di piccola volta scolpita nella roccia sotto la quale si intravedeva uno scavo realizzato all’interno di un blocco di arenaria che richiamava alla mente la forma di un corpo umano. Una persona avrebbe potuto tranquillamente stendersi al suo interno. «Ti ho portato qui perché questo è il luogo in cui Himmler e i suoi, in particolari periodi dell’anno, trascorrevano la notte in meditazione, consultando le rune, considerate apportatrici di forza, o energia, cercando di controllare il respiro in modo da far emergere quello che definivano sonnenmesch, l’uomo solare.» «Non ne avevo mai sentito parlare», ammise Alicia.

«Sai, questo ci porta al vero significato della swastika, che è poi il simbolo della realizzazione spirituale. La swastika è il simbolo religioso più antico del mondo: lo usavano in Medio Oriente, India, Giappone, era conosciuto presso i romani, i

celti, i nativi americani. Nel caso del nazismo la croce uncinata volge verso destra. L’incrocio dei bracci simboleggia la divinità, mentre il loro senso di orientamento indica la strada da percorrere per operare una piena realizzazione spirituale. In pratica Hitler utilizzò un simbolo in grado di riassumere il vero significato del nazionalsocialismo che qui, a Externsteine, aveva il suo luogo d’elezione. La swastika può essere immaginata come una vite che, avvitandosi, si avvicina con forza al legno: indica l’iter difficile e impegnativo che un uomo compie per avvicinarsi a Dio. E così, Alicia, il nazismo non è un partito politico ma una religione di matrice neopagana, teosofica ed esoterica che ricerca la perfezione nelle profondità delle proprie origini ariane.» Lei annuì, pensierosa. Gli scenari aperti da William erano così pieni di mistero e di fascino che per poco non mise un piede in fallo. «Ah, la buca… e questa cos’è?» «È il sepolcro della morte mistica.»

«Morte mistica?», ripeté. William sorrise. «Secondo la testimonianza di Miguel Serrano che, insieme a Jung e Hesse, faceva parte di un circolo ermetico in cui si studiava il nazismo esoterico, i capi supremi delle SS si stendevano in questa specie di bara di pietra seguendo un preciso rituale. Qui speravano di far emergere il vero sé ariano, perseguivano la trasmutazione alchemica fino al contatto con le virtù ancestrali della razza ariana. Solo così sarebbero potuti giungere alla perfezione e alla saggezza assoluta.»

«Una sorta di rito di incubazione?», domandò lei. «Molto di più. Himmler e Hitler erano convinti che purificando la razza tedesca biologicamente si sarebbe attivata la funzione segreta sita nelle ghiandole pituitaria e pineale, come asserivano gli ariosofi di Vienna Guido von List e Jörg Lanz von Liebenfels, le cui pubblicazioni Hitler lesse avidamente nella sua gioventù, quando andava formando la sua filosofia. In quelle ghiandole sarebbero siti i cosiddetti “poteri elettrospirituali” dell’età dell’oro, attivi quando

gli ariani di Thule erano in completa armonia con se stessi, Dio e la natura.» «Già, ho letto qualcosa in proposito nei tuoi libri. Folle. E pericoloso. E pensare che Hitler fu molto vicino a vincere la guerra…» «A quest’ora parleremmo tutti tedesco e avremmo un Nuovo Ordine Mondiale. Ma sarebbe stato un mondo solo per gli ariani, naturalmente.» «Gli altri sarebbero stati eliminati», commentò Alicia. «O resi schiavi.» «A quando risale il sepolcro?» Alicia accarezzò con le dita la fredda roccia, come per rendersi conto che quelle assurdità erano invece alla base del più grande e distruttivo conflitto che il genere umano avesse mai vissuto. «È antichissimo. Da secoli le persone vengono qui e si stendono per ricevere l’illuminazione spirituale. E da secoli si celebra a Externsteine la cerimonia del solstizio d’estate, proprio come a Stonehenge.» «Il solstizio è tra pochi giorni, il 21 giugno.» «Esatto. Ci sarà una gran festa qui. Quelle che piacciono a te», fece William con un leggero sorriso. «Magari un po’ new age…» Alicia gli diede un buffetto su un braccio. Poi la sua attenzione si concentrò sul sepolcro: ò le mani all’interno dello scavo. Sì, era proprio della forma di un corpo umano. Di un tipo alto, però. «Generali che meditavano e cercavano la realizzazione spirituale. Il capo delle SS che si paragonava a Gesù. L’idea del nuovo ordine…» «Già. Ma dobbiamo anche tener presente il particolare momento storico. Ci troviamo nel aggio tra due secoli e, subito dopo, impegnati nel primo vero grande conflitto mondiale. Una carneficina senza eguali. In quel tempo la Germania era attraversata dalla mania per la teosofia e ovunque sorsero sette e società esoteriche che si basavano su di essa, specialmente poco prima dell’avvento di Hitler. Una di queste sette, conosciuta come Germanenorden, era una sorta di piccola loggia massonica. Cambiò nome in Thule Gesellschaft, o Società Thule, nel 1918.»

«La Thule, un nome oramai tristemente noto.»

«Perché ne facevano parte tutti quegli uomini che, di lì a poco, diverranno figure chiave del Terzo Reich, compresi Rudolf Hess e Heinrich Himmler: un gruppo di persone dedite a interessi astrologici, esoterici, misterici, impegnati in ricerche molto particolari, il cui unico scopo era quello di giungere alla comprensione dell’antica saggezza delle tribù ariane. Era una setta violentemente antisemita, con programmi politici ben precisi, che presto avrebbero deciso i destini non solo dei tedeschi, ma di milioni di altri esseri umani. La Thule Gesellschaft usava la swastika come suo simbolo. Nel 1919 venne fondato il braccio politico della Società Thule, il Deutsche Arbeiterpartei, il Partito dei Lavoratori Tedeschi. In quello stesso anno il fondatore dell’Arbeiterpartei Anton Drexler conobbe Hitler e lo indusse a entrare a far parte del movimento che, nel 1920, divenne il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi. Poco dopo Hitler ne assunse la guida. Ecco, il nazismo nasce da qui.» «Questa non è la storia che si studia sui libri.» «No, questa è la vera storia. Quello che giace alla radice di ogni sconvolgimento politico. Ti ricordi cosa ci raccontò Richard a casa sua? Disse che coloro che vogliono il Nuovo Ordine Mondiale intendono imporci una religione universale. Massoneria, teosofia, esoterismo, nazismo, società segrete, ognuno di questi ambiti ha una medesima matrice. Una identica visione delle cose. Gli scopi sono gli stessi. Il dominio assoluto basato su principi che non sono solo e puramente materiali. Capisci? Hitler non è stato altro che una espressione di questo disegno, di questo sogno. Non dimenticare che fu sostenuto dai Rothschild, ossia da una delle famiglie più facoltose del mondo, appartenente all’Ordine degli Illuminati.» «Proprio loro, che erano ebrei…» «In questo caso sapevano scindere perfettamente sacro e profano. Il loro vero dio era il denaro, non certo Jahvè. Anche questi signori condividevano un fortissimo interesse verso la teosofia e la ricerca di una purezza assoluta tramite le attività medianiche.» Si allontanarono dal sarcofago di pietra, dopo averlo esaminato con attenzione e ripresero a camminare mentre continuavano a conversare sugli eventi che

rivelavano una storia diversa. «Ah, ecco, guarda, siamo giunti al bassorilievo.» William indicò diverse fenditure nella roccia alla base dei monoliti. Spiegò che si trattava degli ingressi delle celle degli eremiti prima druidi e poi cristiani. Su una delle pareti vicino alle entrate delle celle era stata scolpita una bellissima rappresentazione della deposizione di Gesù dalla croce che sovrastava il palo sacro germanico, l’Irminsul, piegato e schiacciato. Il significato era chiaro: la Chiesa aveva trionfato sul paganesimo locale, sull’originale fede delle popolazioni ariane. Teudt, come raccontò William, affermava che questo luogo era il fulcro dell’antica religione. Wiligut e Himmler non desideravano altro che ripristinarla, per riandare alle proprie radici. Alicia e William salirono sulle scale che portavano al monolito maggiore. Una parte di esse si perdevano nella roccia, creando strade di pietra che non conducevano a nulla. Una sola rampa giungeva al livello superiore, in cima alla torre di arenaria, e attraverso questa entrarono in una sala scavata nella roccia in cui vi era un altare e un foro da cui si intravvedeva il cielo. «Ecco, questo è il luogo in cui, ogni solstizio d’estate, i raggi del sole penetrano attraverso quel buco e si posano sull’altare. Quello che vediamo è il risultato degli interventi che si compirono in epoca cristiana.» «Perché, prima non era così?» «Dal diario di Hirt sappiamo che l’Ahnenerbe aveva studiato il sito nei minimi particolari e aveva concluso, come sosteneva Teudt, che un enorme Irminsul, l’albero del mondo, il simbolo della religiosità pagana, era collocato proprio qui. Fu Carlo Magno, dopo aver debellato i Sassoni nel 772, a distruggerlo. Se ti sporgi puoi vedere il piedistallo di pietra.»

Alicia diede un’occhiata e subito dopo si ritrasse: l’altezza, anche se minima, le provocava capogiri.

«Ci sono vari schizzi e delle date nel diario», continuò William. «Hirt deve aver

ato parecchio tempo quassù.» William spiegò poi ad Alicia quali fossero alcuni dei rituali che si svolgevano qui da millenni. Quindi scesero e, dopo aver girato intorno al lago, si sedettero, mentre i turisti cominciavano ad arrivare a frotte. Sembrava che Externsteine fosse stato preso d’assedio da un esercito di visitatori. Alicia pensava ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a collegare i vari fili della trama. Si scoprì felice nel riflettere che il bandolo della matassa era stato affidato a William. Era lui l’esperto. Ma dopo averne discusso per un po’ dovettero ammettere che non sapevano come proseguire la ricerca.

In effetti erano a un punto morto. La lettura degli appunti di Hirt li aveva condotti fin lì, ma poi? Le pagine dedicate a Externsteine, corredate di date e informazioni sugli scavi condotti dall’Ahnenerbe di Wewelsburg nel 1934-35, aggiungevano solo note di colore, a prima vista. Ancor meno utili parevano gli appunti riguardanti il lavoro di Teudt e la soddisfatta registrazione dell’ordine di Himmler che ingiungeva a Hirt di studiare il sito rifacendosi alle visioni di Teudt. Tutto qui. Chissà cosa contenevano le pagine mancanti. E per quale motivo erano state strappate? Chi era stato l’autore di quello sfregio alla memoria?

William e Alicia si guardarono: l’espressione eloquente di entrambi li fece sorridere. Lei si voltò, dando uno sguardo d’insieme al magnifico panorama: i monoliti che si stagliavano sul laghetto antistante e il verde bucolico della campagna tedesca infondevano una certa tranquillità. «Beh, mi sembra che non abbiamo più molto da vedere qui. Potremmo andare in albergo e fare qualche ricerca sul signor Hirt. Magari troviamo qualcosa.»

Tornarono così nel vicino paese di Horn-Bad Meinberg, all’hotel Schauinsland, in Pyrmonter Strasse. Chiesero alla reception qualche informazione e furono indirizzati all’archivio comunale, dove avrebbero probabilmente trovato informazioni utili riguardo Hirt. Infatti, dopo aver svolto qualche ricerca in rete, William aveva scoperto che lo scienziato tedesco era originario di una frazione di Horn-Bad Meinberg.

«Cosa vi serve esattamente?», chiese l’archivista dopo le presentazioni di rito. Non capitavano spesso ricercatori da quelle parti e la cosa rompeva la monotonia di una giornata uguale a molte altre. «Beh, cerchiamo ogni informazione relativa allo scienziato della SS Ahnenerbe Hermann Hirt, qualunque cosa relativa alle sue ricerche, alla sua vita. Sappiamo che è nato nei dintorni. Magari si è conservato qualche documento…» «Presumo che non vi servano solo i suoi dati anagrafici», rispose sorridendo l’archivista, un uomo alto e magro, con una folta chioma di capelli. «Esatto», disse William. «Probabilmente ne potrete sapere di più parlando con la figlia, la signora Rita Hirt, vive qui in paese.» Alicia fece un o indietro. Questo era un bel colpo. Non avevano immaginato che i discendenti di Hirt potessero ancora abitare in zona. «Può darci il suo indirizzo?» William era galvanizzato dalla nuova prospettiva di poter accedere a notizie di prima mano. «Non ce n’è bisogno, è a una ventina di metri su questa stessa strada, al numero 32. La conosco bene, Rita è l’organizzatrice di ogni attività sociale e culturale di Horn-Bad Meinberg, è una donna instancabile malgrado abbia superato gli ottant’anni.» Salutarono il funzionario e uscirono. Dopo pochi i si trovarono di fronte al civico segnalato. La casa era circondata da un bel giardino, molto esteso e curato, su cui si ergevano alberi enormi. C’era anche un delizioso prato, ornato di aiuole fiorite. Un recinto di legno, più un vezzo ornamentale che un sistema

per tenere alla larga eventuali malintenzionati, separava quel piccolo eden dalla strada. Il cancelletto era socchiuso e, immettendosi nel breve viottolo che conduceva all’ingresso della casa, Alicia suggerì a William che era meglio che il primo approccio lo fe lei.

«Sai, le donne anziane sono un po’ strane… a volte hanno paura degli sconosciuti.» Suonò il camlo e attese pazientemente, mentre William le stava alle spalle. Qualche attimo dopo la porta si aprì. Apparve dinanzi a loro una donna minuta e dal viso gentile, con le guance arrossate, le labbra con un filo di rossetto e una chioma bianca come la neve. «Sì?», disse lei con un lieve sorriso. «Buongiorno, mi scusi se disturbiamo…» L’anziana rimase ferma sulla soglia, a osservarli. Sembrava in perfetta forma per la sua età ma non erano sicuri che li comprendesse. «Capisce l’inglese?», domandò Alicia. «Si», rispose continuando a fissare prima lei e poi l’uomo che sostava alle sue spalle. «Mi chiamo Alicia Wyler e, con il mio amico, siamo venuti a Externsteine per motivi di studio. Possiamo farle qualche domanda?» «Riguardo cosa?» «Lei è la signora Hirt, giusto? La figlia di Hermann Hirt?» «Sì», rispose strascicando la esse tanto che somigliò piuttosto a una zeta. «Ecco», disse finalmente William, parlando lentamente, «vorremmo farle delle domande su suo padre.» Rita socchiuse gli occhi, come se li stesse mettendo bene a fuoco. In quel

momento William si immaginò che la donna avrebbe risposto con una frase di circostanza e li avrebbe cacciati. Invece, con sua grande sorpresa, spalancò ancor di più la porta e disse: «Entrate, possiamo parlare di fronte a una buona tisana.» Li fece accomodare in un soggiorno ordinato e pulito, che profumava di fiori. Lei trafficò per qualche minuto in cucina, mentre Alicia e William si guardavano attorno. Era la tipica abitazione di una persona anziana, priva però di quell’incuria cui spesso si abbandonavano i vecchi per mancanza di forze. Quando la donna tornò recava un vassoio con le bevande e dei biscotti preparati con le sue mani. Si sedette su una poltrona proprio di fronte a loro. «Bene… Alicia, giusto?» Lei annuì. «Il tuo fidanzato come si chiama?»

«Fidanzato?», ribatté Alicia arrossendo leggermente. «Beh, non portate la fede. Quindi siete fidanzati.» «No, signora. Non siamo fidanzati. Siamo colleghi», rispose William cercando di trarre l’amica dall’evidente imbarazzo. «Capisco», si limitò a dire, come volesse far intendere che a lei non la si dava a bere. «Assaggiate i biscotti», aggiunse subito dopo, come a voler portare il discorso da un’altra parte. «Ottimi», esclamò Alicia, ringraziando con gli occhi e il sorriso.

«Vorrei spiegarle meglio il motivo della nostra visita», riprese William, ansioso di andare al dunque. Intanto continuava a guardarsi in giro. Si era accorto che la casa era ricca di ricordi e cimeli. Magari, tra quelli, poteva celarsi qualcosa di utile per la loro ricerca. «Ditemi pure», li invitò.

«Signora…» «Chiamami Rita, per carità, lasciamo da parte i formalismi, alla mia età non ha alcun senso, allontana le persone, cosa che trovo insopportabile», disse risoluta. Il suo inglese era molto buono, solo l’accento era gravato dalla tipica asprezza della lingua teutonica. Prima che uno dei due ospiti potesse parlare, fu lei a porre una domanda: «Americani?» «Alicia sì, io sono inglese», spiegò. «Insegno storia al King’s College di Londra. La signorina Wyler collabora con me. E le nostre ricerche ci hanno portato da queste parti. Infatti siamo interessati a conoscere meglio la figura di suo padre, il dottor Hermann Hirt.» «Mio padre…», ripeté Rita, con una nota di mestizia. «Sapete, ho cercato per tutta la vita di ricostruire la sua storia. È morto quando ero una bambina.» «Mi dispiace», disse Alicia.

«Grazie cara», ribatté lei con un leggero sorriso. Trasse poi un sospiro e continuò: «Di lui so che era uno scienziato molto stimato. Lavorava a Wewelsburg.» Si bloccò. «Non è che per caso volete gettare ombre sulla sua memoria?» «E perché mai?», domandò William.

«Se lei è uno storico, William, sa benissimo cosa fosse Wewelsburg.» «Diciamo che potremmo definirla la base operativa-scientifica delle SS.» «Già, mio padre lavorava con le SS. E questo a molti darebbe fastidio.» «Non siamo qui per questo», la rassicurò Alicia. «A noi interessa ricostruire

delle vicende, tutto qui. Non vogliamo infangare la memoria di nessuno.» Rita parve rilassarsi. Bevve un po’ della tisana, in attesa che gli ponessero i quesiti. «Puoi dirci qualcos’altro sulle sue attività?» La donna poggiò la tazza e fissò William.

«Beh, dopo la morte di mio marito ho cercato di mettere un po’ d’ordine in questa casa e ho provato anche a ricostruire la storia di mio padre. Come dicevo non mi ricordo molto di lui, ma mia madre mi ripeteva in continuazione che lui mi voleva bene. Poi, rovistando tra le cose dei miei, un giorno ho trovato dei documenti, e in seguito altri suoi scritti.» Il volto di William si illuminò. «So che era un antropologo», continuò la donna, «che studiava le religioni celtiche dell’Europa preromana per conto di Himmler e di… non mi viene il nome!» «L’Ahnenerbe?», fece Alicia. «Sì, esatto. Sempre di SS si trattava. Comunque, viaggiava molto. Poi, nel 1945, e questo l’ho ricostruito anche grazie ai ricordi di mia madre, ricevette un incarico molto importante, qualcosa di estremamente segreto. Mia madre diceva che c’entravano le armi segrete che Hitler stava realizzando. Ma non riuscì a portare a termine il lavoro. Venne ucciso poco prima del termine della guerra.» Alicia si voltò di lato. William fissava Rita con attenzione. Fremeva dal desiderio di porle altre domande. «Noi vorremmo sapere proprio in cosa consistesse questo incarico speciale.» «Posso chiedere perché è tanto importante per voi?», fece di rimando Rita Hirt. Alicia la rassicurò: «Io lavoro per una fondazione che si occupa di produrre tecnologia pulita. Crediamo che suo padre fosse impegnato in qualcosa di

simile.» «Non erano armi, dunque?», parve sollevata l’anziana signora. «Non ne siamo certi», rispose William. «Siamo orientati a pensare che gli studi di suo padre fossero connessi allo sfruttamento di particolari leggi naturali di cui nessuno è a conoscenza.» «Noi non ci occupiamo di tecnologia militare, cerchiamo di migliorare la vita dell’uomo», aggiunse Alicia. «Però non possiamo escludere che gli studi di Hirt potessero avere anche impieghi bellici.» «In ogni caso», puntualizzò William, «per quanto fossero progredite rispetto agli anni Quaranta, queste ipotetiche tecnologie ora potrebbero anche essere obsolete. Il punto però non è questo.» «E quale sarebbe?», domandò Rita. «Il Terzo Reich aveva una visione molto particolare della tecnologia, direi quasi olistica. In poche parole si cercava sempre di integrarla in un sistema naturale, o di utilizzare metodiche che in qualche modo imitavano la natura. Ecco perché alcuni di questi studi potrebbero essere di grande utilità per noi.» Rita si distese più comodamente sulla poltrona. Non andava fiera del ato da SS di suo padre, né voleva certo contribuire a portare alla luce qualcosa che potesse rivelarsi dannoso. Per lei la guerra, il Terzo Reich, Hitler, erano ricordi spiacevoli. Ricordi di un’infanzia interrotta troppo presto, di fame, privazioni, di fughe. Alicia e William sembravano a posto e credeva alla loro storia. Decise che poteva fidarsi. «Pensandoci bene, tra le carte che ho avuto modo di ritrovare, forse potrebbe esserci qualcosa che può interessarvi.» Si alzò e andò in un’altra stanza. Tornò poco dopo con una busta gialla tra le mani. «Sono alcune lettere che mio padre scrisse a mamma e qualche informazione sul suo lavoro a Wewelsburg. Gli altri suoi scritti dovevano essere conservati all’archivio del castello, ho fatto qualche ricerca anni fa ma l’archivista del museo di Kreis-Paderborn, al castello di Wewelsburg, mi ha detto che riguardo

mio padre non avevano nulla. Sembra che Himmler avesse dato ordine di far saltare il castello alla fine della guerra e distruggere ogni documento.» William riandò con il pensiero al baule, al suo contenuto, alla ricerca che li aveva visti impegnati. E si rammaricò per non aver potuto studiarne più a fondo i tesori. Wyler gli aveva detto che a tempo debito avrebbe avuto tutto il tempo di esaminarlo meglio, non prima però di aver portato a compimento la seconda parte dell’incarico. Ma adesso l’attenzione era rivolta verso altro. I due esaminarono subito l’incartamento ma non vi trovarono alcunché di interessante. I loro visi rabbuiati lasciarono indifferente Rita.

«Ancora qualche biscotto?», chiese. William alzò gli occhi: «Grazie, molto gentile», rispose prendendone uno. Quel gesto di cortesia non gli costava nulla, sebbene nei suoi occhi ci fosse un’ombra. In quel momento Rita comprese che quelle carte non erano sufficienti. Parve riflettere un attimo, silenziosamente, poi, battendo una mano sul ginocchio, esclamò: «Forse posso aiutarvi in un altro modo.» Alicia la fissò speranzosa. «Mia madre diceva sempre che prima di morire papà aveva fatto una copia di quei documenti che riteneva più importanti. Diceva che sarebbero serviti come merce di scambio con gli Alleati, casomai le cose si fossero messe male… come poi accadde.» «E dove sono?», chiese subito William. «Non lo so. A dire il vero non lo sapeva nemmeno mia madre. Però esistono, e da qualche parte saranno.» «Forse si riferisce al taccuino», provò Alicia. «Vediamo… Rita, per caso parlava di questo?», domandò mostrandole il quaderno che aveva ricevuto da Millan.

Rita lo prese tra le mani, lo aprì, lesse qualche cosa. «Dove l’avete trovato?» «È stato acquistato dalla nostra Fondazione, lo possedeva un discendente di un collega di Hermann Hirt.» L’anziana donna gli diede una scorsa veloce, emozionata nel toccare qualcosa che suo padre aveva scritto. Poi gliele restituì. «Comunque no, non credo parlasse di quello. Mamma parlava di documenti. Quindi penso si riferisse a qualcosa di ufficiale, non a semplici appunti. In quel caso, precisa com’era, avrebbe utilizzato le parole appropriate: quaderno, diario o qualcosa di simile.» Dopo qualche minuto si alzarono. Ringraziarono Rita e si avviarono all’uscita. Non avevano scoperto molto, se non la possibile esistenza di una documentazione forse andata perduta per sempre. Erano punto e a capo.

L’aria frizzante, la chiacchierata serena, i biscotti deliziosi e la dolce signora Hirt comunque li aveva messi di buonumore.

Si trovarono a camminare senza alcuna meta precisa, in direzione opposta all’hotel. Sorridevano, senza sapere il perché. Il luogo era fantastico, la natura rigogliosa, la temperatura piacevole. Forse erano semplicemente contenti di trovarsi lì. Ma William non era affatto distratto. Anzi, i pensieri si accavallavano uno sull’altro. E qualcosa cominciava a prendere forma nella sua mente. «Torniamo a Externsteine, voglio controllare una cosa», disse all’improvviso. «Hai qualche idea?», rispose lei mentre salivano sull’auto che avevano preso a noleggio; Alicia si mise al posto del guidatore e si avviò verso i monoliti che avrebbero raggiunto in pochi minuti. «Allora, vuoi spiegarmi?», domandò lei.

«Beh, vedi, è solo che più ci penso più mi convinco che Hirt non potesse nascondere niente a Wewelsburg. Sapeva che la guerra era persa e, probabilmente, era conscio che Himmler avrebbe fatto distruggere tutto. Quindi che senso aveva rischiare lasciando qualcosa in quel luogo? No, credo che quei documenti, ammesso che siano esistiti, li abbia nascosti altrove.» «A casa sua?» «Ne dubito. La moglie l’avrebbe saputo… o comunque prima o poi li avrebbe trovati. A meno che non li avesse nascosti talmente bene che sarebbe stato impossibile per chiunque rinvenirli.» «Potrebbe averli sepolti in giardino.» «Certo, può essere. Tuttavia sono convinto che li abbia celati in un altro luogo.» «E dove?», domandò lei impaziente. «A Externsteine», rispose in modo secco. Alicia scosse il capo, affrontando una curva. Non era affatto persuasa.

«Pensaci, Alicia: Hirt era il massimo esperto del sito; ne conosceva ogni centimetro. Il suo diario menziona tutte le campagne di scavo condotte nel luogo. Inoltre si trova a poca distanza da casa sua. E, a quei tempi, ti posso assicurare che era un posto tranquillo e fuori dalla portata di tutti, perché non esisteva il fenomeno del turismo di massa. Era il posto ideale per nascondere qualcosa, con la possibilità di recuperarlo velocemente, all’occorrenza.» «Certo, potrebbe essere plausibile», ammise Alicia mentre accostava la macchina al parcheggio, «ma è solo un’ipotesi.» «Che mi è venuta in mente mentre ascoltavamo Rita», ribatté William mentre scendevano dall’auto e si avviavano a piedi verso i monoliti.

William aprì il diario di Hirt.

«Strano che Rita non ti abbia chiesto di lasciarglielo», disse Alicia. «Meno male, direi. Non avrei potuto consegnarglielo», sorrise mentre cercava una pagina. «Magari le spediremo una copia, ma solo quando sarà tutto finito.» Gli occhi scorrevano su date, lettere, numeri. «Ecco qui. La prima volta che ho letto queste righe pensai si trattasse di una poesia o qualcosa di simile…» Mostrò ad Alicia un’annotazione del 1945. «Vedi, il tutto è stato cerchiato e sottolineato con un lapis e sotto c’è una H. Ma, pensandoci bene, potrebbe trattarsi dell’abbreviazione di Hirt, piuttosto che Himmler.» Alicia lesse a voce alta: «Sorge il sole sul Nuovo Mondo / Puro, sacro, dei quattro l’alto, / in cima al mondo sotto il foro tondo / la firma dell’uomo del grande salto / H.» La rilesse a voce due o tre volte: «Mi spiace, non capisco…» William invece sembrava più convinto. Alzò lo sguardo verso il monolite più grande.

«La seconda strofa… Puro, sacro, dei quattro l’alto… sì, potrebbe riferirsi al monolite più alto di Externsteine, quello dove c’è il ponte che conduce… Ma sì, al piccolo tempio solare in cima, dove il 21 giugno il sole entra da un foro e si proietta su un muro! Andiamo Alicia!» La prese per mano e si fece strada tra i turisti che procedevano verso la sommità. Era quasi ora di pranzo e, fortunatamente, c’era poca gente. Attraversarono il ponte che conduceva al monolite più elevato ed entrarono così nel piccolo ambiente, il sancta sanctorum di Externsteine. Era la seconda volta nello stesso giorno. William andò diritto verso il foro, incurante del tizio brizzolato che intendeva scattare una foto.

C’era in effetti una piccola finestra circolare da cui era possibile vedere l’esterno.

«“Sorge il sole sul Nuovo Mondo”», ripeté. Quindi, raggiante, indicò ad Alicia: «Eccolo qua il luogo dove il sole nasce sul Mondo Nuovo degli ariani. E in cima al mondo c’è proprio un foro rotondo!» Alicia era esterrefatta; sembrava proprio che William avesse visto giusto. «Quindi rimane da cercare “la firma dell’uomo del grande salto”. Cosa vorrà dire?» «Non lo so. Però la firma sembra indicare che dobbiamo cercare una H… certo, potrebbe trattarsi semplicemente dell’abbreviazione del cognome di Hirt, o di Himmler. Anche se sono quasi sicuro che si riferisca ad altro.» Il signore della foto vide la figura di Alicia intromettersi nel suo campo visivo. Protestò ma gli bastò l’occhiata di William per desistere. Sbuffò e se ne andò. Ora erano soli. La donna cominciò a scrutare attentamente il muro interno e la cornice esterna del sancta sanctorum.

«Qui c’è una strana spirale, con dei raggi… sembrano quasi delle ciglia.» William gli indicò l’altro lato. Un simbolo incomprensibile. Al centro dell’arco, invece, una piccola croce. «Mah…», buttò lì lei, confusa. Non aveva la minima idea che cosa significassero quei segni. Magari non c’entravano nulla con quanto cercavano. Poi l’occhio le cadde sul pavimento, su una grossa pietra poco discosta dall’altare.

«William!», quasi urlò. «È qui! È qui! Si vede appena ma è una H!»

William si inginocchiò a esaminare meglio: soffiò via la polvere, tolse i frammenti di detriti accumulati probabilmente in decenni di abbandono e davanti a lui si manifestò chiaramente la lettera. Sollevò la testa e per poco non sbatté contro quella di Alicia, anche lei china sulla pietra. A prima vista era difficile notare quel graffito, sicuramente i turisti ci avano sopra da anni.

Si guardarono sorpresi. Forse erano giunti all’agognata svolta. «Cosa facciamo William?» Lui si guardò attorno. «Hirt deve avere nascosto qualcosa qui sotto», disse a voce bassa. «Dobbiamo procurarci un attrezzo per grattare via la malta di connessione tra le pietre e fare leva. Vediamo se…» Si frugò in tasca e tirò fuori il suo coltellino svizzero Victorinox multiuso da cui estrasse un punteruolo di acciaio di sette centimetri e, dopo essersi assicurato per l’ennesima volta che non vi fosse nessuno in arrivo, cominciò a rimuovere. La malta venne via facilmente ma serviva un piccolo piede di porco o uno scalpello per scalzare la pietra. Così, mentre Alicia rimaneva a fare da palo, William si precipitò alla macchina per controllare che nel bagagliaio ci fosse qualcosa di utile. Niente. Chiamò Alicia al cellulare dicendole che sarebbe sceso in paese. Pochi minuti e sarebbe stato di ritorno. Per fortuna trovò ancora aperto il negozio che faceva al caso suo e acquistò una mazzetta da muratore, uno scalpello e un paio di guanti. Quando riemerse sul cucuzzolo del monolite trovò Alicia seduta di lato.

«Bene, adesso possiamo procedere», disse entusiasta. Il blocco era pesante, lungo trenta centimetri e largo quindici. Alla fine, dopo diversi tentativi, riuscì a rialzarla di quel tanto che bastava per inserire la mazzetta, quindi la fece scivolare lentamente di lato, ben attento a non rovinare i bordi. La sua intenzione era ricollocarla perfettamente nella sua posizione una volta dato uno sguardo a quello che, come sperava, celava.

La luce penetrò nel piccolo pertugio lasciato libero dalla lastra e, pian piano, si accorsero che sotto uno strato di terriccio si trovava un telo impermeabile. Con

molta attenzione e fremendo per l’impazienza William tirò fuori l’involto. Era una sorta di cerata protettiva. La svolse e si accorsero che racchiudeva un’altra cerata, di un color verde militare. Il cuore cominciava a pompare sangue all’impazzata. Aprirono anche il secondo involucro e al suo interno rinvennero un pacchetto sigillato.

«Mio Dio!», disse Alicia emozionata, seduta accanto a William. Lui alzò gli occhi. «Speriamo non arrivi nessuno», disse. Non aveva alcuna intenzione di portare via l’oggetto per dargli uno sguardo da qualche altra parte. Voleva esaminarlo subito. Tagliarono i lembi del pacchetto con il coltellino. Le mani dell’uomo quasi tremavano, come se fossero a contatto con qualcosa di incandescente. Tirò fuori una busta. Una di quelle per riporre documenti, di un giallo paglierino sbiadito dal tempo.

«Ci siamo», disse con un fiato. Alicia si scostò invece una ciocca di capelli che le ricadeva sul davanti. Sul retro della busta c’era un timbro delle SS, poco leggibile, indizio che erano sulla strada buona. William lavorò di coltellino e recise la parte superiore dell’incartamento. Poi lo rovesciò e un foglio volò fuori. Lo presero prima che potesse andare a finire chissà dove.

«Una pianta», disse William. Si rigirò il documento tra le mani più volte. Poi lo ò ad Alicia. «Cosa ne pensi?», domandò lei indicando la vistosa X che indicava un punto particolare della mappa e un numero a cinque cifre: 0 3 1 2 9. «Ho già visto questo disegno», rifletté William mentre prendeva il libretto degli appunti di Hirt. Cominciò a sfogliarlo e trovò la pagina. Sotto vi era una breve

composizione, anche questa firmata con una H. «Guarda qui», disse ad Alicia. Lei prese il materiale di Hirt e lesse: «“Nel centro mistico del mondo ariano, / dove la Lancia trafigge il costato, / dove le fiamme bruciano piano / l’altare di Thule il portale ha celato. / H”.» Restituì il libretto a William.

«A quanto pare il nostro amico ci ha lasciato un altro indizio», disse la donna osservando nuovamente il foglio appena ritrovato. «Hai idea di cosa voglia dire? Hirt è piuttosto criptico.» William continuava a guardare il disegno di Hirt e quello appena trovato. La sua testa ciondolava da un punto all’altro. Poi, all’improvviso, esclamò: «Ma certo! Che stupido a non averci pensato prima.» Alicia lo fissava in attesa. «Hirt lavorava all’Ahnenerbe. A Wewelsburg, per l’esattezza.»

«E quindi?» «Non capisci? Per lui quello era il centro mistico del Mondo Ariano. Non si riferiva a Externsteine. Non avrebbe avuto senso.» «E dunque?», ripeté lei frastornata. William prese il suo iPad, digitò alcune parole e poi mostrò la schermata ad Alicia. «Questo è il castello di Wewelsburg, il luogo dove lavorava Hirt. Sappiamo che qui aveva la propria sede l’Ordine delle SS. E qui erano conservati i totenkopfringes, gli anelli che venivano consegnati agli ufficiali e che venivano poi riposti in un luogo sicuro dopo che, alla loro morte, venivano restituiti. Ti ricordi, quello di Meister che abbiamo visto da Richard?»

«Sì, ricordo.» «Ebbene, nella cripta di Wewelsburg si compivano riti molto particolari e possiamo certamente definirlo il vero sancta sanctorum dei nazisti, ancor più di Externsteine.»

William digitò qualcosa sull’iPad e apparve una nuova immagine. «Ecco, questo è il plastico di ciò che sarebbe dovuto diventare il complesso di Wewelsburg se i nazisti non avessero perso la guerra: un vero e proprio Vaticano delle SS, come amava definirlo Himmler. Ma quello che ci interessa è altro.» Indicò un particolare. Alicia aguzzò la vista. «Vedi, questa è la torre nord. Al di sotto di essa c’era la cripta. Se rileggiamo attentamente le parole di Hirt, quelle della seconda poesia, egli dice che ciò che cerchiamo, probabilmente, si trova “dove la Lancia trafigge il costato”, e poi aggiunge: “dove le fiamme bruciano piano / l’altare di Thule il portale ha celato”. Ora, Thule è il Polo Nord, ossia l’apice di una struttura più grande che in una visuale in piano può assomigliare a una lancia.» Alicia osservò con maggiore attenzione quanto indicato da William. «Quindi la torre è a forma di lancia… si riferisce a quella di Longino, vero? Ne hai parlato spesso nei tuoi libri.» «Credo non ci sia possibilità di fraintendimento. Conosci anche tu il racconto: Longino era un soldato, o secondo altre fonti un centurione della Decima legione Fretensis, il quale fu testimone oculare della crocifissione di Cristo. I Vangeli attestano che un militare romano trafisse con una lancia il costato di Gesù e che il suo sangue, colando lungo la lama e l’asta di legno, al contatto con la pelle di Longino lo guarì dalla sua quasi completa cecità. In realtà tutta la narrazione è alquanto insolita e priva di logica. In primo luogo i Vangeli non citano mai per nome il nome del romano. Questo appare solo in seguito, negli Acta Pilati. E poi come poteva, un centurione, essere quasi cieco? A ogni modo l’agiografia di Longino si è diffusa in lungo e in largo in Europa. E con essa la venerazione di numerose lance che sono state identificate come quella usata da Longino. La più famosa si trova al Museo di Storia dell’Arte di Vienna: era di proprietà degli

Asburgo.» «Ma i nazisti non stavano cercando di creare o ricreare una nuova religione? Perché riferirsi a Gesù, al suo calvario di morte, alla lancia?»

«Hitler e Himmler erano affascinati da Gesù, anzi lo consideravano l’ultimo ariano, in virtù dei suoi poteri taumaturgici e della sua superiore saggezza.» «Cosa? Ma Gesù era ebreo!» «Già. Era quello che in molti avevano fatto presente a Himmler. Ma lui pareva non sentire ragioni, arrivando a dire che gli ebrei erano i colpevoli per l’uccisione dell’ultimo autentico ariano. Considera però che il nazismo è un fenomeno alogico, privo di qualsiasi matrice razionale. Quindi non stupirti per tali controsensi…» «D’accordo, non mi stupisco.» William udì dei rumori. Si alzò e andò a vedere. Nuovi turisti in arrivo. La pace era finita. Decisero di sistemare nuovamente la pietra al suo posto. Ci volle meno del previsto. La coprirono con polvere e frammenti di terriccio e sperarono che nessuno si accorgesse della manomissione, poi William si mise in tasca il documento e scesero verso la macchina. «Comunque», riprese a parlare quando furono nuovamente da soli, «se la torre nord di Wewelsburg, così come raffigurata nella pianta, simboleggia la lancia e l’apice della costruzione è la sua punta, il significato è chiaro. La lancia penetrò nel costato di Gesù e dalla ferita sgorgò sangue e acqua. Ora, noi sappiamo che nella torre nord del castello si svolgevano particolari rituali il cui scopo era identico a quello per cui ci si sdraiava nel sarcofago di pietra che hai visto qui.»

«La morte mistica, il ritorno all’essenza del puro sangue ariano…» «Esattamente», sorrise sedendosi nella vettura di fianco ad Alicia. «Quindi, a

meno che non stia prendendo un enorme abbaglio, il simbolismo è chiaro. Laddove la lancia entra in contatto con l’ultimo vero ariano, ossia Gesù, ecco in quel luogo manifestarsi l’essenza pura del nazionalsocialismo. La strofa recita: “dove le fiamme bruciano piano”. Ed in effetti in quel luogo bruciava la fiamma sacra di Freia.» «Come sarebbe?» «Himmler aveva fatto costruire delle condotte. Una di esse altro non era che un tubo di gas che, nella cripta, alimentava una fiamma perenne.»

«Quindi, ricapitolando, se quello che pensi è vero, Hirt ci ha indicato che il castello rappresenta la soluzione.» «Più che il castello in sé, alcuni luoghi della struttura. Quelli di cui ho parlato. Dobbiamo andare a Wewelsburg.» Si bloccò per un attimo. L’espressione si era rabbuiata. «Cosa succede?» «C’è un piccolo problema… la cripta non è visitabile. Le due sale scampate alla distruzione sono protette da inferriate. Occorrono dei permessi speciali per potervi svolgere indagini di qualunque tipo. Sono già stato lì più volte.» «Non c’è problema», disse Alicia. «Chiamo Malcolm e vedrai che in men che non si dica avremo tutti i permessi che ti servono.» «Allora richiedi anche l’autorizzazione a un eventuale scavo… non si sa mai.» Erano entrambi galvanizzati. Soprattutto Alicia che, dopo lo spavento in Argentina, aveva ripreso gusto per quella che somigliava sempre più a un’avventura tra ato e presente, tra luoghi misteriosi e avvenimenti che avevano segnato il corso della storia.

I permessi arrivarono in un’ora alla mail di Alicia. Tornarono in albergo e

stamparono i documenti da mostrare al personale responsabile. Poi si concessero un pranzo ristoratore e ne approfittarono per fare il punto della situazione. «Sei stato grande», si sorprese a dire Alicia dopo il secondo bicchiere di vino. «Cosa vuoi dire?» «Beh, le tue intuizioni, intendo. Sei riuscito ad arrivare più in là di qualsiasi altro… e partendo dal niente.» «Un po’ di fortuna non guasta mai», disse cercando di non prendersi troppo sul serio. «No, sei bravo, William. È grazie alle tue conoscenze se siamo qui. È grazie alla tua esperienza in materia se ti hanno scelto per questo compito. Io non avrei saputo mai mettere una tessera dopo l’altra… invece tu, hai fatto tutto con estrema facilità.» «Dai, finisci il vino», replicò William.

Conversarono ancora un po’, poi uscirono e salirono in auto. Si avviarono verso Paderborn, il piccolo paese a poca distanza dal castello. Percorsero la strada che portava sulla collina su cui si ergeva il maniero, sede dell’Ordine Nero, e si presentarono al direttore del museo.

Capitolo 24

Ufficio di Malcolm Wyler, Wyler Foundation, New York. 9 giugno 2017. Ore 11.30

A New York City era una bellissima mattina; Malcolm Wyler stava osservando Manhattan dall’enorme vetrata del suo ufficio-appartamento.

Ma il sole e il cielo azzurro non sembravano avere alcun effetto sul suo stato emotivo; percepiva una intensa sensazione energetica pulsargli sotto la pelle e attraversargli il corpo a ondate crescenti ed era pervaso da un forte nervosismo. Si trattava di una emozione molto particolare, che condivideva con tutti i membri di The Rune, frutto della loro vicinanza con L’Osservatore. Nel corso degli anni la potenza che la Fondazione e la miriade di aziende a essa collegate avevano ottenuto grazie a L’Osservatore era stata pagata con quelle crisi che si manifestavano a intervalli regolari, una sorta di malattia psicosomatica che per certi versi richiamava alla mente la porfiria. Quando sentiva avvicinarsi una delle crisi Wyler diventava estremamente sensibile ai raggi del sole e agli ultravioletti, per cui era costretto a trascorrere la maggior parte del suo tempo nelle aree sotterranee della Fondazione, dove si era fatto allestire un altro lussuoso appartamento. In quei frangenti di malessere la sua pelle diveniva pallidissima e le iridi perdevano il loro naturale colore azzurro per farsi sempre più chiare e luminose, quasi bianche. Il suo stato emotivo in quei momenti era estremamente fragile e mutevole: le forti sensazioni fisiche lo sottoponevano a uno stress intenso, prodotto dal tentativo di auto-controllarsi e, normalmente, sfociavano in vera e propria furia che giungeva improvvisa, senza alcuna possibilità di essere incanalata o sopita. Nei periodi in cui era preda di tali disturbi il pensiero di Wyler correva subito ad Adolf Hitler. A quanto si sapeva aveva sofferto dello stesso male, un male sconosciuto alla medicina; certamente anche lui aveva conosciuto L’Osservatore, Malcolm ne era certo, visto che condividevano il medesimo culto segreto.

Di fronte allo skyline di Manhattan Wyler cominciava ad avvertire i consueti dolori addominali che precedevano la crisi: ogni volta cercava di evitare fino all’ultimo di prendere la sua medicina perché ne conosceva gli effetti collaterali, ma la sensazione che provava era piuttosto sgradevole e sempre più intensa. Avrebbe resistito ancora un po’, sperando di non essere costretto a scendere nei sotterranei. Il suo iPad squillò e quando vide il nome sul display pregò, a modo suo, di non essere preso dalla crisi prima del tempo. Oramai queste avevano un ritmo costante, con rare variazioni e il ciclo si ripeteva ogni cinque settimane. Dall’ultima volta che era stato male erano trascorse quattro settimane e due giorni. Ma quelli appena trascorsi erano stati giorni di stress intenso, di estrema stanchezza. Le sue difese immunitarie si erano abbassate a tal punto che era certo di non poter continuare a lungo. Anche altri membri di The Rune manifestavano i medesimi sintomi. «Signor Presidente, è un onore sentirla.» Il Presidente della Federazione Russa non replicò e il suo volto sembrava piuttosto freddo. Malcolm premette un pulsante dell’iPad, trasferendo la comunicazione allo schermo piatto che emerse dalla sua enorme scrivania dietro la quale si accomodò. «Signor Wyler», esordì dopo un lungo silenzio, «dobbiamo parlare…» Quello che seguì fu, da parte di Malcolm, un muto ascolto. D’altronde il russo gli doveva comunicare che aveva deciso di concludere anzitempo gli accordi economici che lo legavano a lui e ad altri due membri di The Rune, accordi che stringevano il suo Paese in un cappio che li stava strangolando lentamente. La sua iniziale apparente cortesia lasciò spazio a parole che Wyler trovò offensive e pretestuose. Come osava quell’uomo da due soldi rescindere un contratto con loro? Si era forse dimenticato di essere giunto al potere con il suo partito nazionalista russo solo perché appoggiato direttamente dai soldi e dall’influenza di The Rune? Il danno economico sarebbe stato enorme. Per non parlare del terremoto politico. «Per questo», concluse il Presidente, «per il bene del mio popolo, mi trovo costretto a ridiscutere i termini degli accordi. E se non dovessimo trovare un

accomodamento, a rigettarli in toto.» «Lei non può concludere proprio un bel niente, signore. Il nostro accordo prevede una durata di dieci anni, rinnovabili di altri dieci.» La voce di Wyler era simile a un rabbioso ringhio. Il Presidente russo mantenne un freddo distacco e continuò a spiegare i danni che la Russia stava avendo da quel contratto capestro, ma Wyler non intendeva ascoltarlo oltre.

«Si rende conto di quello che sta facendo, Presidente?» «Perfettamente», rispose lui coraggiosamente. «Ma devo pensare al benessere della Russia…» «Lei non sa… lei è in quella posizione solo perché ce l’abbiamo messa noi. Valuti bene se il benessere della Russia potrà sopportare il sacrificio a cui andrà incontro.» «Cosa intende dire Wyler? È forse una minaccia?» La pelle sul volto di Malcolm cominciò ad arrossarsi paurosamente. La crisi stava sopraggiungendo velocemente.

«No! Non adesso!», rantolò mentre abbassava la testa e la nascondeva tra le braccia. Di lì a qualche attimo grida disumane risuonarono nell’ufficio, così alte che avrebbero potuto essere udite al di fuori. Il Presidente russo fissava il video incredulo mentre osservava con orrore il cambiamento nei lineamenti di Wyler. Le urla gutturali, più simili a rantoli animaleschi, coprivano le frasi sconnesse che Malcolm tentava di articolare. In pochi istanti il suo viso venne devastato da un orribile reticolo di pustole e piaghe, come se fosse stato esposto a fortissime radiazioni. «Santa Madre Russia ma che…», esclamò inorridito il Presidente, senza riuscire a staccare gli occhi dall’immagine che aveva dinanzi a sé.

In quel momento la porta dell’ufficio di Wyler si aprì ed entrarono tre uomini vestiti di nero. Erano i suoi angeli custodi e, richiamati dal frastuono, si erano precipitati all’interno. L’avevano visto molte volte in quello stato e sapevano perfettamente cosa fare: due di loro lo tennero fermo mentre il terzo gli piantò nel cuore un ago lungo quindici centimetri iniettandogli un liquido verde. La siringa pistola, composta da un’impugnatura in metallo leggero e canna in vetro, era dotata di un caricatore con le dosi. L’estremità dell’ago era collegata a un sistema di rilevamento dei parametri vitali di Wyler e registrava quantità della dose somministrata, data e tutto ciò che poteva essere utile. Le informazioni venivano poi automaticamente trasmesse allo staff medico del capo della Fondazione. Lo stesso staff che aveva elaborato il cocktail di glucosio ed estratti di varie piante tropicali appena iniettato nel fisico di Malcolm che, seppur non costituendo un rimedio radicale, quantomeno riusciva a bloccare gli effetti devastanti della crisi. Nessuno sapeva esattamente di cosa soffrissero Wyler e gli altri membri di The Rune: non c’era cura conosciuta per quella malattia, nessuno studio accurato se non quello portato avanti dai medici della Fondazione, nessun riscontro in altri soggetti della popolazione umana che non fossero gli appartenenti a The Rune. Malcolm non poteva spiegare ai suoi medici che si trattava di un male generato da uno spostamento di fase, una diversa vibrazione dell’esistere. Quando sopraggiungeva la crisi era come se Wyler fosse in luoghi diversi nello stesso tempo, come se si muovesse in due universi quantistici completamente diversi, uno dei quali non gli apparteneva.

I tre uomini avevano agito con una velocità tale che stupì il Presidente russo. Ma non riuscì a chiedere o dire altro. Un assistente di Wyler aveva chiuso la comunicazione e faticava, con gli altri, a contenere la furia del suo capo il cui corpo, tra urla disumane, sembrava trasformarsi. «Presto, l’armatura!», gridò, cercando di non farsi prendere dal panico. Non aveva mai visto una crisi così violenta. Uno degli uomini premette un pulsante della scrivania e, da una parete a scomparsa, estrasse una sorta di imbragatura di costrizione che in un attimo

venne applicata sul corpo di Wyler, steso a terra. Gli bloccarono gambe e braccia, poi lo trascinarono a forza verso un ascensore segreto celato dietro un’alta libreria. Lo portarono nell’appartamento sotterraneo, tenendolo nella totale oscurità, e qui attesero per quattro lunghe ore che la crisi asse. I tre e l’assistente avevano svolto quel compito molto spesso, soprattutto negli ultimi tempi. Ma ogni volta era sempre terribile come la prima. Si limitavano ad applicare il “piano” che avevano concordato, nella massima segretezza, direttamente con Wyler che per questo motivo li pagava profumatamente, anche perché mantenessero il silenzio più assoluto. Eppure, quello che accadeva di fronte ai loro occhi era sconvolgente, quasi da togliere il sonno. Quel male sembrava attaccare l’organismo producendo veloci e incredibili mutazioni, deformando i tratti del volto e del corpo, come se le parti ossee si espandessero, i muscoli si lacerassero e gonfiassero… Ciò che ora si agitava all’interno dell’armatura di costrizione non era più un essere umano ma qualcosa di diverso.

Un intenso moto di repulsione colpì lo stomaco di uno degli uomini che si allontanò verso uno dei bagni. Gli altri tre si guardarono con un’espressione eloquente: erano ricompensati molto bene ma quel compito sembrava provarli al limite della loro sopportazione. Uno di loro fissava la materia umana che si lamentava contorcendosi sotto un telo che avevano ordine di stendergli sopra. «Mio Dio», mormorò. Quando la crisi ebbe termine Malcolm rimase diverse ore immobile, come in una sorta di stasi. In realtà era perfettamente cosciente. Era in quei momenti che si tormentava cercando di capire come potesse accadere tutto questo. I suoi esperti gli avevano detto che la causa era dovuta agli esperimenti condotti da The Rune. I membri della confraternita erano entrati in contatto con qualcosa di sconosciuto talmente potente da generare effetti collaterali a livello subatomico e molecolare. In realtà i membri di The Rune nutrivano un sospetto che stava divenendo qualcosa di più di una semplice, istintiva, sensazione: forse non erano gli esperimenti ad aver originato il male, forse era L’Osservatore la causa di tutto.

Capitolo 25

Castello di Wewelsburg, Büren-Brenken, Westfalia, Germania. 9 giugno 2017. Primo pomeriggio

Il direttore li guardò perplesso poi, dopo averli salutati, riferì: «Sì, ha chiamato il mio superiore, sembra che il Ministero della Cultura abbia autorizzato uno scavo urgentissimo, senza preavviso. Posso vedere il vostro permesso? Mi hanno detto che vi è stato inviato.» William gli diede il foglio che avevano stampato. L’uomo lo verificò attentamente e sentenziò: «Mi sembra tutto a posto.»

«Bene», fece Alicia. Poi, rivolta al suo compagno: «E ora?» Il direttore spiegò che li attendeva una squadra di scavo. Considerati i tempi stretti di preavviso aveva potuto convocare alcuni operai, un geometra e un archeologo. «Esperti che lavorano per il dipartimento di storia antica dell’Università locale», aggiunse. «Mi è stato detto di fornirvi la più completa collaborazione e di soddisfare ogni vostra esigenza.» L’ultima frase era stata pronunciata con una punta di disagio. «Forse non sarà necessario alcuno scavo», disse William quasi volesse rassicurarlo che non avrebbero recato disturbo. «È tutto molto strano», continuò l’altro. «Normalmente non sarebbe concesso a nessuno di intervenire sulle strutture del castello. Ma sembra che in questo caso debba sottostare ai vostri ordini… e che non possa dire a nessuno quello che si scoprirà qui finché il Ministero della Cultura non abbia dato il nulla osta. Verranno delle persone da Berlino per esaminare la cosa. Posso chiedervi che

cosa sta succedendo? È stata fatta una scoperta importante?»

Alicia mostrò il suo miglior sorriso. Da esperta di relazioni pubbliche sapeva come illustrare la delicata situazione senza spiegare troppo. Rispose che si trattava di una cosa molto importante. Aggiunse alcuni particolari, quelli meno determinanti, ma rimase molto sul vago, facendogli intendere che operavano sotto l’ombrello di istituzioni private e pubbliche. Non era una bugia, ma neanche la verità. Chissà come suo padre era riuscito a premere sul Governo tedesco per ottenere quel che voleva, ma al di là di questo era naturale che mantenessero un profilo basso. Terminò dicendo che il loro interesse era concentrato sulla cripta. «Non ci ho capito granché, ma fate come ritenete più opportuno», disse alla fine il direttore. Il cielo si stava facendo plumbeo, si approssimava una perturbazione piuttosto intensa che avrebbe portato con sé forti temporali e piogge nella regione. Dalle finestre del castello potevano vedere le nubi che si facevano sempre più scure. Era tempo di agire. William chiese al direttore di accompagnarli e fece intendere che per tutto il tempo l’accesso alla cripta doveva essere chiuso ai visitatori.

Quando giunsero a destinazione William e Alicia, guidati dal responsabile, si trovarono di fronte diversi uomini che ancora non sapevano il motivo della loro convocazione. Il direttore spiegò brevemente che ognuno di loro doveva attenersi al massimo riserbo su quanto avrebbero compiuto, non arrecare alcun danno alla struttura e operare in modo scientifico. Poi si mise di lato a osservare. Il geometra e l’archeologo erano ancora stupiti per il poco preavviso ricevuto. Gli era stato detto semplicemente di recarsi subito al castello e di porsi al servizio di un professore inglese, tale William J. Connor e di una consulente americana di nome Alicia Wyler. Tutto qui. L’archeologo Reinhard Steiner, storico e ricercatore dai capelli folti e ancora piuttosto neri, alto e massiccio, esaminava con occhio professionale la cripta, un curioso ambiente circolare sito nella parte più bassa della torre nord del castello di Wewelsburg. Le luci che il geometra stava posizionando donavano

all’ambiente la curiosa sensazione di un set cinematografico e Steiner concentrò la sua attenzione sulla zona centrale costituita da una sorta di vasca circolare incassata nel pavimento e a qualche decina di centimetri più in basso del piano di calpestio, cui si accedeva tramite due semplici scalini. Al centro vi era un altro cerchio di circa un metro di diametro e, affogato nel cemento, un tubo.

Steiner non era mai stato là sotto. Aveva lavorato al castello, ma in altri ambienti. Non c’era mai stata alcuna occasione di visitare la cripta, benché si fosse sempre ripromesso di farlo. L’archeologo alzò la testa per avere una visione di insieme e notò le finestre, orientate in modo tale che i raggi solari si concentrassero al centro esatto della sala, dove emergeva il tubo. «Professor Connor, il tetto ricorda le tombe micenee che ho scavato in gioventù. È un ambiente insolito, creato per uno scopo ben preciso… ma ci sono degli elementi nella struttura di cui non riesco ad afferrare ancora la funzione.» «Ci è andato vicino, dottor Steiner. Qui siamo nel cuore della parte oscura del nazionalsocialismo. Questo luogo costituisce il nucleo della religione che Hitler, Himmler, Hess e altri pezzi grossi del Terzo Reich condividevano. Questa era la sala in cui si svolgevano i particolari rituali creati dal visionario Wiligut, un ex ufficiale austriaco che Himmler considerava il proprio maestro spirituale.» «Ho sentito parlare di quest’uomo», disse Steiner, «anche se non ne so molto.» «A ogni modo, questo era l’omphalos, l’ombelico del mondo nazionalsocialista, ovvero il sancta sanctorum delle SS. Essendo il castello la sede dell’Ordine Nero, la cripta era considerata il luogo più sacro della loro religione.»

«Una religione?» William percepì la curiosità quasi fisica dello studioso: «Guardi verso il soffitto.» Steiner vide una swastika realizzata in stucco e con quattro fori ben evidenti all’intersezione dei bracci.

«Entri nel cerchio dove vi è il tubo.»

L’archeologo si mosse e, mentre si avvicinava, William gli disse che da quello fuoriusciva il gas che alimentava una fiamma eterna. Quando Steiner fu al centro lo invitò a parlare. Steiner guardò verso l’alto perplesso: «Mi sente così? Mi sentite?», domandò guardando prima l’inglese poi gli altri che erano fermi vicino ad Alicia.

Mentre pronunciava le due frasi Steiner avvertì un’enorme amplificazione delle onde sonore a bassa frequenza che lo investirono come una pioggia precipitata dall’alto. D’istinto sollevò la testa, quindi fissò William interrogativamente. Provò di nuovo a parlare e ottenne il medesimo effetto. Quindi fece un o in avanti, uscendo dal cerchio. Disse due parole ma non avvertì null’altro che il suo tono ordinario di voce. Cominciava a capire. Diede un’occhiata intorno: l’effetto eco era studiato di proposito per amplificare le onde sonore solo nel centro esatto della sala, quello ben delimitato dal cerchio, a sua volta inscritto in un altro cerchio ricavato scavando parte del pavimento.

«Un cerchio sacro?» «Esatto, dottor Steiner, l’area circolare è il fulcro di tutto. L’effetto eco è originato dai quattro fori della swastika sul soffitto.» Il direttore, che aveva seguito tutto con attenzione, esclamò: «Sono i fori da cui ava il fumo dei bracieri? Si dice che Himmler e gli alti gradi della SS prendessero decisioni importanti per la guerra mentre il fumo saliva alla sala superiore.» «Sì, è quello che alcuni hanno scritto», spiegò William. «In realtà i fori sono profondi una quarantina di centimetri e non comunicano in alcun modo con la sala superiore, dove in effetti si incontravano Himmler e i suoi. La Gruppenführersaal conteneva una tavola rotonda con dodici sedie, ognuna delle quali intitolata a un re tedesco del ato. Una per ognuno dei Gruppenführer.

Lo schema richiamava la tavola rotonda di re Artù con i suoi dodici cavalieri, oppure l’insieme dei dodici apostoli che seguivano Gesù. D’altronde Himmler voleva essere ricordato come un riformatore religioso.» Lo ascoltavano affascinati.

«Ha notato dove viene fatta confluire la luce dall’esterno?», chiese poi a Steiner. «Sì, ho visto che si concentrano proprio sul cerchio più piccolo.» «Esattamente. Come dicevo: nell’omphalos. Qui si praticava una religione neopagana, basata in parte sull’eredità degli antichi germani, in parte sulle visioni di Wiligut. Il fatto che l’energia sonica e luminosa sia fatta confluire al centro, dove bruciava costantemente una fiamma sacra, è un chiaro indizio che ci troviamo di fronte a un tempio. Dalle poche notizie che possediamo sul consigliere spirituale di Himmler sappiamo che aveva creato dei mantra, ovvero dei suoni sillabici da ripetersi innumerevoli volte, con lo scopo di ottenere uno stato di coscienza alterata e la canalizzazione dell’energia interna che avrebbe portato al risveglio del sonnenmensch, l’uomo solare ariano. I mantra erano cantati o pronunciati dai dodici Gruppenführer e da Himmler in speciali occasioni.» Si bloccò per qualche istante, poi, rivolgendosi ad Alicia, aggiunse: «Un po’ come per il sarcofago di pietra di Externsteine. E qui, da qualche parte, deve esserci una porta, celata dai mattoni…»

William si accorse che Steiner fissava dalla parte di una sezione del muro circolare. Guardava i basamenti privi di fusto che si alternavano a cadenza regolare lungo tutto il perimetro. Sembravano elementi decorativi, o forse erano serviti per poggiarvi sopra qualcosa.

«E quelle, che utilizzo avevano?», chiese l’archeologo. «Su quelle basi erano poste le urne con le ceneri delle SS decedute. In particolari giorni considerati sacri, secondo il calendario germanico che in parte Himmler riutilizzò, veniva bruciato uno stendardo e venivano praticati altri rituali di cui

non sappiamo molto.» «Una sorta di sacrario…» Steiner era affascinato. Ma mentre rifletteva su queste nuove informazioni, il suo sguardo ò dalle strutture in pietra al viso di William che, improvvisamente, si era fatto serio e pensoso. «Tutto bene professore?» William rimase in silenzio per qualche istante. Poi rispose: «È solo che le sue parole mi hanno fatto venire in mente una cosa…»

Tirò fuori il libretto di Hirt e trovò la poesia che li aveva condotti a Wewelsburg.

«Alicia, per favore, vieni qui, dai un’occhiata.»

William lesse sottovoce la strofa e continuò a parlare con lei mentre gli altri li osservavano incuriositi.

«“Nel centro mistico del mondo ariano, / dove la Lancia trafigge il costato, / dove le fiamme bruciano piano / l’altare di Thule il portale ha celato. / H”», ripeté quindi più a se stesso che all’amica. «Cosa stai pensando?», domandò la donna. «Noi siamo nel centro mistico del mondo ariano e questo è il centro della religione e del misticismo nazionalsocialista. Se pensiamo alla pianta della struttura ci accorgiamo subito che questo è il punto in cui la lancia di Longino, ossia la torre, trafigge il costato del Cristo e fa sgorgare il sangue ariano. Qui, dove si vede il tubo del gas, c’erano le “fiamme”, quelle che “bruciano piano” e l’altare di Thule nasconde qualcosa…» Alicia alzò gli occhi e diede uno sguardo d’insieme: «Sì, ma dov’è l’altare di

Thule? È sul lato nord?» «Esattamente, Thule simboleggia il nord. E il suo altare…»

Si diresse verso la base in pietra posta su quel lato. Si soffermò di fronte a essa, quindi, voltatosi, disse: «Dovrebbe essere qui.» Gli altri, che non avevano afferrato le mezze parole dei due, rimasero per un attimo incerti. «Dottor Steiner», annunciò, «credo che questo sia il punto che cercavamo. Avete tra la vostra attrezzatura qualcosa che possa scandagliare il muro? Vorrei sapere se ci sono delle intercapedini.» Steiner si mosse e prese ad armeggiare tra i vari strumenti. Gli mostrò un piccolo apparecchio, un radar per indagini geologiche e archeologiche. «Scusate», si intromise il geometra, «ma la parete, dall’altro lato, dà direttamente sull’esterno. Cosa pensate di trovare?» «Dei vuoti», fece sereno William.

Il geometra accese lo strumento e poggiò il rilevatore sul muro in corrispondenza della base in pietra, proprio dove indicava il professore inglese. Subito dopo chiamò uno degli operai e lo incaricò di tenere il rilevatore mentre lui andava al monitor collegato. All’inizio apparve una struttura compatta, composta di mattoni, malte e pietrame. Nessuna intercapedine. Scandagliarono il perimetro intorno per diversi minuti, senza alcun risultato.

«E se non fosse nel muro, ma sotto?», domandò Steiner. L’operaio poggiò dunque il rilevatore ai piedi del basamento. L’immagine che apparve sul monitor li rassicurò.

«Sembra che ci sia qualcosa…» «Cosa?», domandò Alicia avvicinandosi. «Ci siamo! C’è sicuramente un vano vuoto qui sotto!», disse Steiner. «E sembra anche piuttosto grande!» William si ò il dorso della mano sulla fronte. Cominciava a sudare. «Facciamo un foro e infiliamo una videocamera, il pavimento non è particolarmente spesso.»

Il direttore ebbe come un sussulto. Aveva tanto sperato che non si toccasse niente. Ma non poteva assolutamente opporsi al desiderio di William che, nel frattempo, si era inginocchiato laddove gli strumenti indicavano la presenza di qualcosa. Esaminò le mattonelle e, rialzandosi, disse: «Qui ci sono segni di restauri abbastanza recenti.» «Certo, il castello fu fatto saltare nel 1945», fece notare il direttore, «anche se in generale l’intera struttura rimase in piedi. Il tetto crollò e molte parti subirono grossi danni. Ci furono restauri anche successivi al primo dopoguerra. Devono aver chiuso il aggio in tutta fretta. Forse a loro non interessava.» «A ogni modo sarebbe meglio procedere subito e inserire la telecamera.» Steiner annuì e collaborò con il geometra nel preparare il dispositivo su un tubo flessibile orientabile a distanza. Intanto uno degli operai forò con una punta di cinquanta centimetri il pavimento nel punto indicatogli dall’archeologo. Ad Alicia sembrava che il tempo avesse subito un arresto e così pure il suo respiro. La tenue luce che penetrava dalle finestre, concentrata sul cerchio interno della sala, donava all’intero ambiente un’aria rarefatta, diafana, in cui era possibile essere immersi e respirarne l’essenza emotiva.

Tutto si svolgeva in modo ordinato e veloce, ma solo William e Alicia potevano intuire l’enorme importanza di quanto si stava compiendo. Erano a un o da

una grande scoperta o di una cocente delusione? Steiner e la squadra agivano in modo molto professionale, cercando di non tradire alcuna emozione, ma si intuiva chiaramente che anche loro non vedevano l’ora di osservare ciò che si celava sotto il pavimento.

Quando infilarono il lungo tubo di gomma nel foro, un potente fascio luminoso illuminò l’ambiente che doveva essere perlustrato e la telecamera cominciò a rimandare sul monitor immagini ad alta definizione.

Tutti erano raccolti davanti allo schermo e seguivano con il fiato sospeso le manovre di Steiner che esplorava un ambiente di cui nessuno conosceva l’esistenza e che, probabilmente, era rimasto sigillato per almeno settant’anni. L’archeologo agiva sul suo pad di controllo con estrema meticolosità, rivolgendo il fascio di luce e la telecamera con studiata lentezza, in modo da verificare ogni piccola asperità.

Quando spostò lo joystick di controllo in avanti, la sua espressione assunse un’aria di indecifrabile emozione. Le sue labbra riuscirono ad articolare solo una tipica e colorita espressione della sua località d’origine.

Tutti avevano gli occhi incollati al monitor. Il cuore di William ebbe un sussulto e Alicia si portò la mano alla bocca.

«Mio Dio!», esclamò.

«Sì, è proprio il caso di dirlo», replicò lui.

Capitolo 26

Parigi, 20 dicembre 1581. Dopo il tramonto

Le ombre della sera, flebili e tremolanti, si allungavano sulle oscure e sporche strade fangose della città: le poche e fioche luci facevano danzare l’oscurità e donavano ai gargoyles di Notre Dame un aspetto più orribile del solito. Pochi coraggiosi ancora in giro, la maggior parte dei parigini era rintanata nelle proprie case, alla ricerca di tepore e per evitare la pioggia scrosciante che sembrava lavare il velo sordido che si stendeva come un fiume limaccioso per le vie dell’abitato. Solo un monaco camminava velocemente nell’oscuro abbraccio della sera, correndo e scivolando a tratti, mentre cercava di raggiungere la sua meta. La pioggia continua e così intensa, un potente stillicidio, poteva mondare il forte puzzo di marcio che esalava dalla Senna, o quello delle strade dove la melma si mescolava agli escrementi animali e alle deiezioni umane, ma per i suoi occhi e le sue narici disgustate non era altro che la metafora della vita umana: persa tra sporcizia morale e impurità di ogni genere, immersa in un pantano in cui l’uomo non poteva scovare alcun rifugio. Trovò finalmente la porta che cercava mentre in lontananza, coperte dai tuoni, si udivano delle grida: bussò secondo il codice cadenzato che conosceva e gli fu aperto. Un lampo improvviso illuminò un uomo anziano il cui viso era devastato da orribili piaghe. Quando vide Giordano Bruno sulla soglia disse con voce cavernosa: «Vieni fratello. Gli altri sono già qui.»

Il monaco vinse l’istintivo disgusto ed entrò. Seguì poi l’altro fino a una grande sala. Lo stavano aspettando. Ora erano dodici.

Si sedette come gli altri su una delle panche addossate alle pareti. Al centro era stata collocata una macchina molto particolare, fatta costruire da Bruno dai migliori artigiani si: oltre agli ingranaggi visibili anche dall’esterno si intravedevano dei contenitori al cui interno era presente del liquido giallo e blu. Emettevano una strana luce, capace di illuminare la semioscurità della stanza. Una luce diafana, algida. Era la luce del tempo, così gli aveva spiegato Observator.

I piani che egli aveva fornito a Bruno contemplavano anche strani meccanismi che sembravano emettere una loro propria energia ed erano collegati a due grandi ruote sulla parte superiore della macchina. A ben guardarla non sembrava nulla di particolarmente importante, costituita com’era da una grossa cassa di legno pregiato con un sistema a manovella che faceva girare i dischi. Su questi erano stati incisi una serie di simboli in grado di aprire le porte della mente e collegarle a quelle del tempo. Cambiando i dischi e utilizzandone di simili ma corredati di simboli diversi, potevano comunicare direttamente con il loro maestro. «Ci siamo tutti. Possiamo cominciare», disse l’anziano e invitò uno tra i dodici a girare la manovella. Cominciò, dapprima piano, poi sempre più velocemente: il sistema di demoltiplica fece aumentare vertiginosamente la rotazione finché una luminescenza bluastra sembrò manifestarsi davanti alla macchina e con essa una sorta di vortice, mentre lampi di forza elettrica o di qualche altra essenza energetica si sprigionavano dall’interno, mescolandosi a scintille di ogni genere

L’immagine che si materializzò di fronte ai presenti era molto instabile, come se fosse mossa dal vento; anche se tutti avevano già assistito molte volte a quel prodigio ne rimanevano comunque sempre meravigliati. Di più: terrorizzati. Observator aveva dovuto spiegare in più di una occasione che si trattava di una semplice applicazione di leggi fisiche che ancora non conoscevano, che non era magia, che non era opera del demonio, ma queste rassicurazione parevano non sortire alcun effetto. Quando Observator compariva, per tutti era un momento di grande ansia e spavento. Finalmente la luce si fece più intensa e la figura assunse un contorno ben

definito. Compì degli strani gesti con le mani, come una specie di rituale, e tutti si inchinarono, perfino il vecchio. Ascoltarono il loro maestro parlare con voce possente ma misurata: dopo un breve preambolo li avvertì dell’incombente pericolo. Mentre il nunzio apostolico, il cardinale Giovanni Oriano, sembrava aver accettato la loro proposta dopo aver sperimentato il potere della macchina, il papa aveva dato ordine di arrestarli tutti e di distruggere il manufatto.

La costernazione si impadronì dei dodici.

Observator si rivolse a Bruno: «È necessario che vi allontaniate subito da Parigi e vi dirigiate a nord. Porterete con voi la macchina. Vi indicherò un luogo sicuro dove attendere qualche mese che le guardie del papa tornino indietro. Poi andrete a Londra.» Giordano fissava l’immagine del suo mentore con assoluta attenzione, mandando a memoria ogni minimo brandello del discorso che udiva. «Lì vi incontrerete con degli emissari della corona e farete loro la proposta che stoltamente il papa ha finto di accettare.» Bruno replicò: «Eccellenza, faremo come voi dite. Ma non sarà facile fuggire dalla Francia. Solo ieri ho avuto notizia che le guardie del papa avevano saputo dove abitavo, mi stanno seguendo.» «Non temete, i nostri amici sapranno proteggervi.» Quindi gli spiegò nel dettaglio come avrebbe dovuto agire. Sebbene fossero in grado di manipolare il corso degli eventi, di mettere mano nelle pieghe della storia, avevano ancora bisogno del sostegno dei potenti. Anche se il pontefice aveva declinato subdolamente l’offerta, mandando una propria spia per distruggere il loro piano, Observator era sicuro che presto molte teste coronate sarebbero entrate nel loro sodalizio. Così stava accadendo in Francia, e così doveva avvenire anche altrove.

Durante l’incontro che durò ancora diversi minuti, il Maestro, la cui figura permaneva in una strana ombra, assegnò compiti precisi a ognuno dei presenti, chiamandoli uno a uno per nome. Poi si congedò da loro, ripetendo con le mani gli strani gesti che avevano visto al momento della sua comparsa. Alla fine la luce si affievolì fino a spegnersi del tutto e l’attività della macchina si bloccò. Bruno guardò gli altri. Il vecchio era scosso da fremiti e il suo viso si ricoprì di pustole che parevano sul punto di scoppiare. Cominciò a lamentarsi. Anche altri tra i dodici accusavano sintomi analoghi. Era il prezzo che dovevano pagare, ogni trentacinque giorni, per l’alto onore di cui aveva fatto loro dono Observator.

Bruno osservò la scena; si chiese quando sarebbe toccato a lui. Ma non c’era tempo da perdere: quelli ancora in grado di agire si misero in circolo attorno alla sua persona e approntarono un piano di fuga.

Quella stessa notte lasciarono Parigi.

Capitolo 27

Castello di Wewelsburg, Westfalia. 9 giugno 2017. Ore 17:05

Le ombre della sera si allungavano sulla mole del castello di Wewelsburg. Al suo interno la squadra diretta da Steiner era in fermento mentre i potenti fasci elettrici illuminavano l’ambiente, donando alla cripta una strana atmosfera in cui aleggiava una miscela di energia emotiva e sentimenti contrastanti, dovuti a quello che era appena apparso sul monitor.

La telecamera inserita attraverso il foro nel pavimento aveva appena rivelato una scala che scendeva verso il basso con un corrimano e dei quadri alle pareti: fotografie di Hitler, di Himmler e dei suoi generali, oltre che immagini di antichi re dei germani. Tutto miracolosamente e inspiegabilmente conservato. Almeno così sembrava. «Dottor Steiner, presto, organizzi lo scavo per aprire il pavimento», disse William sentendo le scariche di adrenalina pulsargli nelle vene. Alicia, che osservava la scena, non sapeva cosa aspettarsi ma era affascinata dalla situazione.

Steiner guardò prima il direttore, poi il geometra. Questi non disse nulla e il direttore si limitò ad annuire. Potevano procedere. C’erano tutte le autorizzazioni. Si diedero quindi subito da fare per segnare il perimetro in cui avrebbero aperto un varco. L’intera squadra era specializzata nell’indagine archeologica e aveva cooperato in innumerevoli occasioni all’interno del castello, per sistemazioni e ristrutturazioni, ma quella era una situazione completamente diversa. C’era qualcosa di strano. Nonostante il direttore fosse convinto del fatto suo, anche se Steiner e gli altri erano stati convocati d’urgenza niente meno che dal Ministero,

percepivano chiaramente che quanto stavano compiendo andava ben al di là dell’ordinario. Quell’operazione era indubbiamente fuori dalle righe. Quello scavo poteva rivelarsi il più importante di un’intera vita spesa in ricerche, perché lì sotto si celava un mistero di proporzioni tali che era stato in grado di smuovere anche il comato Governo tedesco. Chi erano queste persone? Cosa avrebbero trovato? E perché erano così interessati a questo luogo? Mentre Steiner procedeva nei rilievi, le mille domande che si affollavano nella mente parevano non riuscire a trovare alcuna risposta. Gli operai seguirono le indicazioni e cominciarono a lavorare sull’area da cui avrebbero rimosso le pietre. In pochi minuti furono scalzate le prime pesanti lastre che vennero numerate e accatastate da una parte, mentre i secchi erano riempiti di calcinacci e terriccio di riporto. Il pavimento era costituito da blocchi ben squadrati, lunghi circa un metro e larghi trenta centimetri. Ne sollevarono e spostarono tre in tutto e sotto questi trovarono un controsoffitto ricoperto di polvere e costituito da un’impalcatura di pietre. Evidentemente l’accesso alla scala si trovava più giù. Tolsero dunque anche quest’ultimo ostacolo e, finalmente, misero in luce l’ingresso. Dal basso colonnine di pulviscolo si sollevarono cominciando a vorticare nell’aria circostante. Steiner osservò i primi gradini e l’oscurità che non lasciava intravedere nient’altro.

Guardò gli altri poi fu il primo a entrare, illuminando con la sua torcia elettrica la stretta scala. Si accertò che non vi fossero pericoli e fece un cenno a William di prendere anche lui una torcia e di seguirlo.

Steiner, William e Alicia scesero lentamente i primi gradini mentre osservavano i quadri e le pareti intonacate. Percorsero circa tre rampe di scale, calcolando di essere parecchi metri sottoterra, forse una decina. Alla fine dell’ultima rampa giunsero di fronte a una grossa porta di acciaio senza alcuna traccia di ruggine e con un poderoso sistema di serraggio a volante, simile a quello delle chiusure dei portelli dei sottomarini.

«Da qui si deve are a un ambiente particolarmente importante, forse una stanza dove venivano conservati documenti o denaro per una eventuale fuga. Guardate che sistema di sicurezza!» Steiner illuminò una manopola, doveva trattarsi di una sorta di serratura numerica a combinazione, come quella di una cassaforte.

Alicia ebbe un sussulto. E le venne in mente quanto trovato a Externsteine: la pianta con la X. Scambiò uno sguardo con William. Entrambi si erano resi conto nel medesimo momento che la pianta era quella della cripta, anche se molto stilizzata, e la X indicava l’accesso all’area sotterranea. Erano proprio nel punto contrassegnato. E quel numero… William tirò fuori il foglio con la mappa in cui era riportato il numero misterioso. Fece spostare Steiner e mosse la manopola che, nonostante gli anni trascorsi, ruotò alla perfezione. Probabilmente era mantenuta oliata da un sistema a ingranaggio autolubrificante oleopneumatico, concepito per resistere a temperature estreme e ai danni da esplosioni. Quando ebbe terminato con l’ultimo numero uno scatto meccanico confermò a William e Alicia che avevano visto giusto. Non restava che aprire il portello. Tuttavia, prima di farlo, William si rivolse a Steiner e agli altri componenti della squadra che erano scesi e attendevano di vedere cosa sarebbe successo.

«Ci dispiace, ma dovreste lasciarci da soli», comunicò William senza aggiungere altro. Sul volto di Steiner si dipinse la più cupa delusione.

Seppur a malincuore, uno dopo l’altro, risalirono nella cripta. «Ok, William, è il momento della verità», disse Alicia poggiando immediatamente le mani sull’acciaio.

Lui la guardò e con una certa emozione cominciò a girare il volantino d’apertura che scorreva docilmente. «Come sempre, i tedeschi fanno le cose per bene», commentò. Udirono un lamento metallico mentre il clangore di uno scatto dovuto alla rotazione di un meccanismo a più ruote dentate risuonava nell’ambiente.

William spalancò la pesante porta che rivelò una camera in cemento armato che sembrava un rifugio antiaereo: di fronte a lui vi era una sedia di legno e una scrivania con alcuni libri e incartamenti. Scivolò oltre la soglia fermandosi quasi subito. Alle sue spalle Alicia. Sulla parete vide un interruttore. Provò ad accendere la luce ma la lampadina che pendeva dal soffitto rimase spenta: chiaramente non c’era corrente. Poco più in là c’erano alcuni letti a castello e degli armadietti metallici marchiati SS Wewelsburg. Erano aperti e completamente vuoti. William e Alicia presero a esaminare alcuni dei documenti sulla scrivania: c’era un po’ di tutto. Decisero di prenderli con sé e, mentre davano un’altra occhiata all’ambiente, che non rivelò molto altro, William urtò per sbaglio uno degli armadietti che si spostò leggermente. «Alicia», disse William indicando la parete.

Dietro l’armadio era celata una porticina metallica, più piccola rispetto a quella da cui erano entrati.

«Evidentemente questo rifugio era accessibile da due aree diverse.» «Dobbiamo inserire anche qui una combinazione», gli fece notare Alicia indicando la manopola visibile al centro dell’intelaiatura.

«Provo a inserire lo stesso numero…» William ruotò sulle coordinate numeriche. Uno scatto metallico e lo stridio di una apertura cigolante gli regalò un tuffo al cuore. Spinse verso l’interno la pesante chiusura e con la torcia illuminò una breve rampa di scale che immetteva a una lunga galleria completamente al buio.

«Avvisiamo gli altri?», domandò Alicia. «Aspetta», disse William. «Diamo un’occhiata prima.» Scesero i pochi gradini e cominciarono ad avanzare nel tunnel. Metro dopo metro, mentre i loro i erano attutiti dalla terra battuta del pavimento, una strana sensazione cominciò a farsi strada dentro di loro: forse era dovuto al fatto che non intravedevano la fine del cunicolo. Voltandosi si accorsero di essere anche distanti dall’entrata da cui erano penetrati in quell’oscuro budello. Cominciarono a nutrire un certo timore. «Cosa facciamo?», domandò lei. William non parlò, i suoi pensieri erano rivolti solo a scoprire cosa ci fosse alla fine di quel percorso. Poi, quando sentì la mano di Alicia posarsi improvvisamente sulla sua spalla, ebbe un sussulto. Si voltò di scatto ed ebbe solo il tempo di vedere le dita di lei poggiate sulla sua bocca. «Spegni la torcia!», disse d’un fiato, indicando alle loro spalle. Alicia aveva notato una fioca luce che aumentava di intensità, segno evidente che il suo proprietario stava avanzando nella galleria diretto verso di loro.

«William, ho paura…», disse Alicia mentre gli stringeva forte la mano. Ne aveva anche lui. Quello che era successo alle Canarie e a Bariloche non l’avevano ancora dimenticato. Lui cercò di tranquillizzarla: «Magari è qualcuno della squadra che non ha resistito ed è sceso per dare un’occhiata…» Ma le sue parole risuonarono poco convincenti. La luce si avvicinava e il freddo all’interno della galleria non faceva altro che aumentare la tensione: avevano spento le torce e si erano acquattati dietro una curvatura del tunnel per poter vedere meglio. Sentivano l’ansia, il timore, farsi strada e crescere fino a che non riuscirono a scorgere un uomo che avanzava con difficoltà, come se zoppicasse. Il viso era immerso nell’oscurità ma, man mano che si avvicinava, i contorni della figura si delineavano meglio. Quando fu a

poca distanza William fece istintivamente un o indietro, imitato da Alicia. Si sentirono come soffocati da una mano che stringeva alla gola sempre più, togliendo loro il fiato. Una paura fredda, totale. Erano bloccati in un tunnel sotterraneo e a poca distanza da loro c’era l’uomo di colore che li aveva inseguiti alle Canarie.

Erano in trappola come topi. William non sapeva che fare, l’ansia gli impediva di pensare lucidamente, lui era un professore di storia, non un agente dei servizi segreti. Avvertì una decisa sensazione di panico crescergli dentro rapidamente impedendogli di muoversi. Era terrorizzato. Poi sentì la mano di Alicia e quel contatto agì come un interruttore che interruppe il meccanismo emotivo del panico. Doveva essere forte per lei. Cominciò a pensare a una via di fuga. L’uomo oramai era ad alcuni metri da loro. Ancora qualche decina di i e se lo sarebbero ritrovati di fronte. In quel momento William tastò con le dita la parete e sentì qualcosa: si trattava di una cassa di legno. Non poteva accendere la torcia e quindi trafficò con il cellulare sperando che la luce del display gli bastasse per vedere cosa c’era al suo interno e non fosse notata dal tizio che li pedinava. Velocemente la aprì e ne esplorò l’interno. Conteneva una notevole quantità di esplosivi da scavo, soprattutto dinamite. Si sentì sollevato: «Alicia, hai un accendino?», domandò con un sussurro. «No», rispose lei. L’uomo intanto si era fermato. Forse li aveva sentiti. Con la torcia fece un’ampia panoramica, illuminando le pareti del tunnel.

“Deve esserci qualcosa qui per accendere le micce”, pensò William, rimettendo le mani nella cassa. Sapeva che la dinamite poteva essere molto instabile, un movimento brusco e sarebbero saltati tutti in aria. Ma non aveva altra scelta. La mano di Alicia, posata sulla sua spalla si strinse ancor più. «William!», riuscì a dire prima che una sciabolata di luce li investisse e che lui si infilasse nella tasca un candelotto e una scatola di fiammiferi che aveva

miracolosamente trovato.

Capitolo 28

Laterano, palazzo del pontefice, Roma. 4 gennaio 1582

Gregorio XIII fissava preoccupato il capitano del gruppo di soldati che aveva inviato in Francia per catturare Giordano Bruno e i suoi confratelli. L’uomo era inginocchiato e con la testa bassa. Il suo sguardo era eloquente: certamente non recava le notizie che il papa desiderava.

Gregorio lo fece alzare e gli chiese della missione. «Santità, lo abbiamo inseguito da Parigi fino alla costa del nord. Ci è sfuggito, lui e i suoi, più volte per un soffio. Sembrava godessero di una protezione speciale da parte delle autorità si, abbiamo anche dovuto annientare una piccola guarnigione di soldati che li accompagnava, ma Bruno è fuggito. E anche gli altri, nel caos della battaglia. Uno dei membri della sua maledetta setta è rimasto gravemente ferito da un colpo di spada. Non sappiamo però dove Bruno e i suoi siano adesso, l’unica ipotesi plausibile è che si siano imbarcati per l’Inghilterra.» Gregorio guardò negli occhi il soldato: «Capitano, vuole dirmi altro?» Il soldato parve pensare per qualche istante, poi parlò: «Santità, l’uomo ferito è morto poche ore dopo lo scontro. Almeno lui siamo riusciti a catturarlo e l’abbiamo interrogato.» «E ha detto qualcosa di utile?», domandò il pontefice. «Sapeva che la ferita era mortale, di non avere scampo. Considerata la sua fine prossima ha deciso di parlare e ha raccontato…»

Si bloccò. Appariva smarrito, come se le parole che doveva pronunciare fossero assimilabili a un’eresia.

Con un gesto deciso della mano il papa lo invitò a proseguire.

«Ecco, ha rivelato che essi servono un oscuro maestro che ha fornito loro una conoscenza superiore, qualcosa che, così ha detto, ancora non conosciamo. Loro offrono questa conoscenza e il suo straordinario potere ai grandi della Terra. Poi ha parlato di una strana macchina, in grado di creare dei ponti tra le diverse epoche, capace di cambiare il presente o il futuro.»

«Davvero?», esclamò Gregorio, girandosi verso uno dei presenti nella sala, il fido Sirleto. «Sì, parlava in modo strano, santità. Io non sono un uomo di cultura, ma ho cercato di tenere bene a mente le sue esatte parole. Ha detto che le infinite possibilità legate al libero arbitrio sono solo una questione di quando si decide di guardare nelle ruote di questa macchina. Proprio così. Io sono un soldato, ripeto, e non mi intendo di scienza ma l’uomo, prima di morire, ha parlato di leggi della natura che possono essere utilizzate mediante la matematica dando origine a un grande potere, quello di cambiare gli eventi. Poi è spirato.» Gregorio sospirò. Le parole del capitano dei suoi soldati confermavano le sue più terribili paure. Bruno era sfuggito alla cattura e con lui la machina mirabilis. «Mi spiace santità», aggiunse il soldato interrompendo il flusso di pensieri del papa. «Non siamo riusciti a fare di meglio. Comunque, l’uomo ha indicato queste fiale…»

Il capitano fece segno a un armigero di avanzare con uno scrigno di legno pregiato completamente rivestito di piombo.

«E queste cosa sarebbero?», domandò Gregorio. «Le portava con sé l’uomo ferito. Ha detto che le fiale servono per entrare in contatto con il maestro. Ha sussurrato che sono molto pericolose e vanno mantenute dentro lo scrigno. Prima di morire ci ha anche rivelato che sono indistruttibili.»

Il papa ordinò che lo scrigno fosse poggiato su un tavolino, poi congedò i militi. Si avvicinò e cominciò a esaminarlo. Il legno rivestiva la parte esterna, ma l’interno era completamente foderato di piombo. Non era di grandi dimensioni, la lunghezza non superava un braccio. Il piombo era stato coperto con un panno di bisso rosso. Scostò il velo e vide che c’erano due alloggiamenti ricavati nel metallo per altrettante fiale di vetro. Sembravano molto solide. Una fiala era piena di un fluido oleoso giallo e l’altra di un uguale fluido blu intenso. Entrambe emanavano una forte luminescenza.

Il papa continuò a fissarle per un tempo che parve lunghissimo. Alle sue spalle i presenti non avevano emesso un suono. Quindi ordinò di portarle in un luogo segreto. Congedati i dotti, Gregorio si volse verso l’ampia finestra da cui proveniva un raggio di sole. La giornata era fredda, più o meno come lui. Aveva paura.

Capitolo 29

Castello di Wewelsburg, Westfalia. 9 giugno 2017. Ore 18:35

William non aveva alternativa. Prese la mano dell’amica e cominciò a correre a perdifiato. L’uomo alle loro spalle li inseguì, procedendo più lentamente e gridando loro in inglese di fermarsi, cosa che si guardarono bene dal fare. Lo distanziarono di un centinaio di metri, accorgendosi che il tunnel di cemento armato risaliva per poi, subito dopo, ridiscendere e curvare. All’improvviso si fermarono. Di fronte, a sbarrare il o, trovarono una porta di legno chiusa con un lucchetto. Vi erano alcuni attrezzi nelle vicinanze, lasciati lì da chissà chi. In preda alla disperazione William afferrò un piccone e ruppe il lucchetto. Spalancarono la porta e, con immensa sorpresa, apparve davanti a loro un muro di mattoni più recente e malamente costruito, non intonacato e con il cemento che fuoriusciva in vari punti. La loro fuga era terminata.

«Siamo in trappola!», esclamò Alicia cercando affannosamente con gli occhi una via d’uscita, invano. Si voltarono quasi contemporaneamente e videro il loro inseguitore avvicinarsi nell’oscurità: William brandì il piccone come fosse un’arma, pronto a vendere cara la pelle. Poi tirò fuori il candelotto e i fiammiferi.

L’uomo era oramai giunto di fronte a loro. William agitò il piccone e gli urlò di stare lontano. Aprì quindi con la mano libera la scatoletta e gli intimò di allontanarsi o avrebbe la miccia. Per un attimo i due si fissarono negli occhi. William decise di tentare il tutto per tutto e sfregò la capocchia di un fiammifero. Ma il tempo e l’umidità lo ridussero in brandelli di legno e zolfo.

«Professor Connor, metta a terra quel candelotto o sarò costretto a usare la forza.» William lo guardò sentendo il corpo di Alicia appiccicato al suo. Prese un altro fiammifero e lo sfregò. Niente. «Professor Connor, glielo ripeto per l’ultima volta: metta giù il candelotto!» L’uomo era allarmato. La sua voce forte tradiva rabbia e forse paura. Alicia stava per mettere la sua mano su quella di William, come a dirgli di arrendersi, ma lui non ne voleva sapere. «Professore!», urlò l’altro puntando la pistola che aveva tenuta con la canna abbassata fino a quel momento. A quelle parole urlate con veemenza a William caddero tutti i fiammiferi a parte un superstite che teneva tra le dita. Fu un attimo. L’unghia ata sulla testina riuscì a provocare la fiammata. Ora aveva pochi secondi.

William fissò il suo avversario: «Adesso accenderò il candelotto. Si faccia indietro o salterà in aria.» Incredulo l’altro non si mosse Non pensava che Connor fosse così pazzo, o che possedesse tale forza d’animo.

William avvicinò la fiamma alla miccia, lentamente. «È meglio che si allontani, e alla svelta…», disse. Ma l’altro non si mosse. William allora diede fuoco all’innesco e appoggiò a terra il candelotto, facendolo rotolare verso il loro inseguitore. La miccia era già bruciata per metà quando l’uomo, cominciando ad arretrare più velocemente che poté, urlò: «Siete pazzi? Crollerà tutto!» Intanto era già diverse decine di metri da loro. Fu a quel punto che William corse verso il candelotto, lo raccolse e lo lanciò verso il fuggitivo. Nell’oscurità videro solo la luce dell’innesco che si perdeva nelle profondità del tunnel.

«Sdraiati a terra!», urlò William tornando indietro con un balzo. La struttura del tunnel era in cemento armato, e gli ingegneri tedeschi avevano sicuramente rinforzato il calcestruzzo per resistere ai bombardamenti, come era normale per le strutture militari. Il piano di Wiliam era basato su questo ma in quel momento non ne era più tanto sicuro. Un attimo dopo una deflagrazione potentissima fece crollare parte del tunnel provocando un vero e proprio terremoto sotterraneo: William protesse Alicia col suo corpo e fu sommerso dai calcinacci, dalla polvere, dai detriti.

La galleria precipitò nel buio più assoluto mentre tonnellate di terra, franate dal soffitto, ostruivano ogni via di fuga. Alicia era a terra, schiacciata dal corpo dell’amico e dal terreno sopra di lui. Cominciò a tossire e a lamentarsi: «William! Mio Dio… non respiro… Aiutami.» William, ancora frastornato, si scosse. Cercò di scavarsi un varco nella terra umida, ma erano al buio e non riusciva a vedere nulla: «Alicia! Stai bene?», fu il suo primo pensiero. La sentiva sotto di sé ma il peso della terra lo obbligava a limitare i suoi spostamenti.

«Sì…», rispose con voce flebile. «Aspetta, provo a liberarmi…»

Con fatica riuscì a farsi abbastanza spazio spostando la terra che aveva sopra di sé, da mettersi in posizione eretta e aiutare l’amica ad alzarsi. Lei lo abbracciò e si strinsero forte. Erano vivi e questa era l’unica cosa che importava al momento.

«Come faremo a uscire da qui?», domandò mentre nell’oscurità ava una mano sul viso del compagno. Si guardò intorno senza riuscire a vedere nulla. Il buio era totale: «Dubito che riusciremo a trovare le nostre torce…» Tastarono le pareti del tunnel con le mani, incespicando sui mucchi di detriti, finché le pupille si dilatarono abbastanza da permettere loro di scorgere qualcosa. Era come se da qualche parte penetrasse un barlume di luce. Facendo attenzione a non cadere William tornò indietro di qualche o, al muro di mattoni che aveva concluso la loro fuga. Lo spostamento d’aria doveva averlo incrinato in qualche punto. Dalla sommità erano caduti dei mattoni. Sollevò le braccia e vi si arrampicò il tanto che bastava a mettere la testa in quello che sembrava un pertugio. Con sollievo si accorse che dietro la parete c’erano delle assi di legno, vecchie di decenni probabilmente, e dalle connessioni un chiarore che lo fece ben sperare. «Forse c’è una via di scampo», mormorò William, cercando a tentoni il piccone. Lo trovò mezzo sommerso dal terriccio.

«Cosa c’è?», chiese Alicia il cui respiro era in affanno. «Dietro il muro ci sono dei pezzi di legno. Oltre, mi sembra di vedere della luce.» Con la punta del piccone incominciò ad arpionare i mattoni che, fortunatamente, vennero giù facilmente. Alicia si avvicinò e diede uno sguardo, ma non riusciva a vedere granché. William le chiese di spostarsi e aprì un varco tra le assi abbastanza ampio per are: invitò Alicia a infilarsi per prima, poi si intrufolò nell’ambiente adiacente. Fece appena in tempo a are al di là, strappandosi i calzoni all’altezza del ginocchio contro un chiodo, che un grido gli gelò il sangue. «Mein Gott! Wer bist Du?» Una giovane sui vent’anni aveva appena la luce in quella che sembrava essere la dispensa di un ristorante e dalla sorpresa le erano caduti i barattoli che aveva tra le mani.

I due, ricoperti da capo a piedi di polvere, con le vesti lacere e sporche, si guardarono intorno con occhi sgranati: accanto a loro c’erano un paio di congelatori pieni di alimenti e dovunque formaggi, salumi, ortaggi e altre derrate alimentari. Tutto conservato in modo ordinato fintanto che l’esplosione non aveva fatto tremare le pareti e buttato giù diverse lattine e confezioni. La ragazza, allarmata da quello che era sembrato a tutti un terremoto, era scesa nel deposito per vedere cosa fosse successo e si era trovata in mezzo alla confusione. E adesso questi due, sbucati fuori da un muro davanti al quale prima c’erano delle scaffalature dove erano soliti riporre i sacchi di farina o altra merce particolarmente pesante.

La ragazza fece un o indietro chiamando a gran voce un nome. William e tentò di rassicurarla: «Non abbia paura, non siamo qui per rubare o farle del male.» Lei lo guardò di sbieco, incerta se scappare di sopra o capire chi fossero. L’uomo aveva parlato in inglese, quindi riformulò in quella lingua la domanda di prima: «Chi siete?» «Mi chiamo Connor», disse respirando a pieni polmoni, cercando di abituare velocemente gli occhi a quella luce così intensa rispetto al buio pesto di qualche minuto prima. «Sono un professore… e questa è la mia assistente.» Alicia annuì, ancora incredula di essersi salvata. «Dove siamo?» «Come sarebbe: dove siamo? Siete nel ristorante della mia famiglia, ma… da dove siete sbucati?» «Oggi abbiamo iniziato uno scavo nel castello e trovato un tunnel», spiegò William, cercando di trovare le parole adatte per non allarmare ulteriormente la giovane. «Poi… c’è stato un crollo. Sì, ecco, allora abbiamo visto una parete in mattoni e dietro una in legno. Eravamo in trappola. Così abbiamo cercato scampo rompendo il muro con un piccone e ci siamo trovati qui dentro!»

In quel momento un uomo corpulento, molto alto e con i capelli chiari, entrò nel deposito. «Sabine?» Vedendo quelle due figure imbiancate e lacere si bloccò. La figlia corse verso di lui e gli spiegò quello che era successo. L’uomo guardò prima Sabine e poi gli sconosciuti. Sembrava non credere a quanto gli era stato appena raccontato. Ma William non aveva intenzione di prolungare quella situazione imbarazzante. Ripeté quanto già detto alla figlia del ristoratore, poi prese per mano Alicia e salutò con un self control tutto britannico.

Si avviarono per le scale, sbucarono nella sala, attirandosi lo sguardo incuriosito dei presenti, quindi uscirono dal ristorante a poca distanza dal castello.

Il proprietario del locale chiamò subito la polizia ma la coppia di sconosciuti si era dileguata da tempo quando alcuni uomini in divisa si presentarono al castello di Wewelsburg e altri presso il ristorante.

Parte seconda

Operazione Chronos: Nuovo Ordine Mondiale

Capitolo 30

Bulgari Hotel, 171 Knightsbridge, Londra. 13 giugno 2017. Ore 17:05

Alicia e William discutevano con fervore e un certo entusiasmo delle carte che avevano ritrovato a Wewelsburg, accomodati in una sala appartata del prestigioso hotel, lontano da orecchie indiscrete. Per evitare qualunque domanda da parte della polizia locale, dopo essersi medicati dalle escoriazioni e ripuliti, avevano preso il primo aereo disponibile per Londra dall’aeroporto di Paderborn; erano sicuri che quelli della Fondazione Wyler avrebbero messo a posto ogni cosa. Cercavano di non pensarci, ma erano ancora scossi per quanto era accaduto: ferite che bruciavano forse più dei graffi che si stavano rimarginando. Avevano avuto davvero paura là sotto, timore di morire, ma ce l’avevano fatta e Alicia lo aveva ringraziato di cuore. Senza di lui, disse, non sapeva proprio come sarebbe andata a finire. William però non voleva prendersi tutti i meriti. «Sei una donna coraggiosa, Alicia. È stato il tuo esempio a farmi tenere duro. Sinceramente… non pensavo l’avremmo scampata, avevo esaurito le speranze.» Si fissarono in silenzio per diversi secondi. «Non potevo permettere che finisse così. Soprattutto per te», concluse lui. Alicia aveva sorriso. Era imbarazzata e avrebbe voluto esprimergli tutta la sua gratitudine in modo più tangibile, ma si trattenne dall’avvicinarsi a William. Non si sentiva pronta, tantomeno le sembrava opportuno. Ne parlarono finché la tensione si esaurì e permise loro di concentrarsi sugli aspetti positivi della missione: le carte ritrovate. William aveva chiamato un amico dell’Università avvisandolo che gli avrebbe inviato per mail le scansioni di alcuni documenti. La traduzione ricevuta due giorni dopo aveva provocato un effetto dirompente in loro: ciò che Hirt aveva nascosto a Wewelsburg era la residua speranza del Terzo Reich, l’ultima

Wunderwaffe, l’arma-meraviglia su cui Hitler puntava per rovesciare le sorti di una guerra che stava terminando con la distruzione della sua Germania. Le carte, corredate da numerosi disegni e parti progettuali, descrivevano la curiosa teoria dell’implosione in cui veniva citato più volte il sistema “Repulsine” dello scienziato austriaco Viktor Schauberger. La traduzione della documentazione occupava una cinquantina di pagine e comprendeva parecchi fogli scritti a mano, schizzi, formule matematiche e altro ancora. Ciò che però colpì maggiormente William fu un testo latino tradotto in tedesco, proveniente da alcune delle opere del religioso italiano Giordano Bruno, nel quale si descriveva la possibilità di costituire dei ponti tra le varie epoche, attraverso una macchina da lui concepita e costruita sulla base di antichissimi progetti.

Anche in questo caso William aveva fatto una scansione in pdf di ogni documento e lo aveva inviato alla sua casella di posta al King’s College. Vista la straordinarietà delle informazioni voleva poterle studiare con maggiore attenzione e poi non si fidava della Fondazione Wyler: oramai era chiaro che ci fosse qualcosa di strano.

Mentre William rileggeva la traduzione del testo di Bruno, Alicia meditava sulle implicazioni delle informazioni che stavano acquisendo. In quel momento provava una intensa sensazione di disagio, qualcosa che aveva già avvertito allorché aveva incontrato in quella ricerca nomi come Rothschild, Morgan, Warburg, Rockefeller… nomi che avevano “fatto” la storia, uomini che avevano appoggiato e finanziato grandi cambiamenti politici e sociali, guerre e conflitti, con l’unico scopo di creare le basi per inclinare gli eventi verso un piano che essi e i loro avi perseguivano da secoli. Avvertiva un senso di nausea profonda, anche perché conosceva personalmente molti di questi pezzi grossi e, soprattutto, sapeva bene che lavoravano in strettissimo contatto con la Fondazione Wyler. Da quando era cominciata quell’avventura si era chiesta più volte quanto suo padre fosse implicato in tali piani e quale fosse il reale legame tra lui e quella consorteria di manovratori. Non si era mai posta il dubbio in modo così assillante. Ma più progredivano nella ricerca, maggiore cresceva il bisogno di comunicare con William. Eppure le mancava il coraggio. O forse non si fidava?

Decise di accantonare ancora una volta quei pensieri, che si ripresentavano sempre più spesso: sapeva bene che avrebbe dovuto affrontare la questione abbastanza presto ma le cose stavano procedendo così veloci, così inaspettate… aveva bisogno di tempo per capire cosa stava succedendo esattamente. A ogni modo scacciò la fastidiosa sensazione di essere in malafede e si concentrò sulle parole di William. «Straordinario», aveva esclamato l’amico per l’ennesima volta.

Alicia sollevò lo sguardo con un timido sorriso. William sembrava un bambino immensamente felice circondato dai propri balocchi. «Dunque», continuò facendo il punto della situazione, «quello che Hermann Hirt aveva nascosto con tanta attenzione nei sotterranei del castello è il resoconto di un esperimento di cui ho sentito parlare varie volte, ma del quale non si sono mai trovate le prove. Si tratta di una Wunderwaffe, o arma-meraviglia, così definita dalla propaganda di Goebbels nelle ultime fasi della guerra. Questi sono i documenti che dimostrano come tali esperimenti abbiano effettivamente avuto luogo. Però queste pagine da un libro di Giordano Bruno… non capisco cosa possano centrare con tutto il resto.» «Cosa dicono le pagine in latino?» Alicia era attirata dalla figura di Bruno, sul quale aveva letto diverse cose, un monaco che si era avvicinato a teorie considerate eretiche e cercato di sondare la natura e l’uomo da punti di vista molto lontani da quelli della Chiesa ufficiale. Per questo era stato messo al rogo «Sono estratti da vari libri, vediamo… questo sembra interessante», disse William cominciando a leggere la traduzione.

L’universo è dunque un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest’ordine sono le idee, principi eterni e immutabili, ogni singolo ente essendo imitazione, immagine, ombra della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in se stessa la struttura dell’universo, la mente umana, che ha in

sé non le idee, ma le ombre delle idee, può raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che connette ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto. Io ho trovato questo metodo e non solo, ho trovato una possibilità alla comprensione umana dell’universo di portata così grande che non è possibile raccontare se non tenendo segreta la notizia e mantenerla nel ristretto riserbo di pochi eletti. È possibile all’uomo non solo aprire porte sconosciute site nella mente umana ma anche indirizzarle e portarle a vedere e mutare il flusso degli eventi dell’umanità…

Il testo continuava raccontando di un incontro tra Bruno e un personaggio molto particolare, che gli aveva offerto la possibilità pratica di applicare le sue teorie alla natura, osservando direttamente l’essenza del tempo. L’uomo gli aveva mostrato che l’ombra delle idee, quelle intuizioni site nella mente umana, non solo potevano essere ampliate ma, con l’ausilio di una particolare macchina, essere espanse al punto da poter controllare il tempo. Infine Bruno aveva accettato l’offerta dell’uomo di entrare a far parte di una società segreta con lo scopo di proporre ai potenti dell’umanità di divenire protagonisti in un nuovo governo mondiale, in grado di controllare la Terra. William mostrò ad Alicia le formule matematiche e una pagina fitta di funzioni particolari, incomprensibili a un profano. Decisero così di sottoporle a un esperto in seguito. Sembravano notevolmente moderne a una prima occhiata, anche graficamente, come se non fossero state scritte nel Cinquecento ma almeno tre secoli più tardi. Eppure Bruno ne spiegava una parte aggiungendo che gli erano state fornite dal misterioso personaggio insieme alle indicazioni per costruire la macchina: servivano all’attivazione della stessa, che altrimenti avrebbe semplicemente agito come uno “scintillatore della mente”, ovvero un dispositivo in grado di rimettere in funzione aree del cervello che erano rimaste inattive per millenni. Come se venissero spalancate delle porte che celavano una conoscenza andata perduta. William collegò le nuove informazioni con la teoria delle ghiandole pineale e pituitaria, secondo cui gli ariosofi di Vienna che avevano preceduto di alcuni decenni l’avvento di Hitler asserivano che le antiche popolazioni ariane, durante la loro età dell’oro, avrebbero posseduto poteri semidivini di origine

“elettrospirituale” siti proprio in quelle ghiandole. Queste avrebbero smesso di funzionare all’atto del “peccato originale” degli ariani, cioè il loro mescolarsi con razze inferiori. Ma avrebbero potuto riprendere ad assolvere il proprio scopo se le popolazioni ariane avessero proceduto a purificarsi biologicamente: la purezza biologica avrebbe portato con sé quella spirituale, risvegliando conoscenze sopite e i poteri semidivini dell’età dell’oro. «Stento a credere che Hitler e i suoi credessero realmente a queste cose. Davvero organizzarono l’epurazione razziale per questo scopo?» Alicia, come al solito, faticava ad accettare cose simili. D’altra parte, tutta quella missione possedeva uno strano sapore, il gusto dolceamaro di una verità inaccettabile. «Già. Pensa che uno dei più importanti ariosofi di Vienna, Jörg Lanz von Liebenfels, stampava una rivista, “Ostara”, diffusissima in Austria, da cui propugnava le sue teorie razziali. Hitler, dopo la morte della madre, era a Vienna a fare il bohémien, poi finì i soldi e mangiava una volta sola al giorno, perché risparmiava per acquistare “Ostara”. Questo è stato il periodo in cui Hitler, come lui stesso asserì più volte, formò la propria weltanschauung, la sua visione del mondo.» «Quindi questo Liebenfels fu come una sorta di padre spirituale per il führer?» «Esatto. Si recò perfino in pellegrinaggio al castello di Liebenfels, il quale aveva fondato un ordine neo-templare. Lui diede a Hitler alcune copie della rivista e i soldi del biglietto di ritorno a Vienna. Questo per dirti fino a che punto Hitler prendeva a cuore le teorie ariosofiche.» William fissò Alicia in modo eloquente: non solo stavano scoprendo una cospirazione mondiale tesa al controllo politico e sociale dell’umanità ma avevano appena appreso che tale progetto risaliva almeno al XVI secolo. Era pazzesco: ciò che stavano leggendo sembrava pura follia; anche perché c’era chi aveva prestato attenzione alle teorie di Bruno e le aveva collegate a uno degli esperimenti più incredibili che la scienza tedesca avesse concepito.

William continuò a visionare i progetti. Grazie alle fotografie dell’epoca, presenti nella documentazione, poté vedere Himmler e i tecnici della Ahnenerbe, compreso Hermann Hirt, presso una grande struttura denominata “Die Glocke”, “La campana”, costruita negli ultimi mesi del 1945 e in via di sperimentazione.

Da ciò che si poteva capire, tutto era basato su un concetto innovativo, l’implosione, esattamente il contrario di ciò che accadeva normalmente in una bomba o in un razzo, o anche in un motore a scoppio. I tecnici tedeschi sembravano aver scoperto una nuova forma di energia, di enorme potenza, derivata e guidata dagli studi di un ingegnere austriaco, Viktor Schauberger il cui nome ricorreva continuamente. L’intero dossier aveva nome: Operazione Chronos. William lesse d’un fiato la traduzione e la ò ad Alicia. Era la cosa più incredibile che avesse mai avuto occasione di studiare e questo lo emozionava. «Mio Dio: Die Glocke. Allora è vero!»

Il self control britannico si trasformò in un vorace entusiasmo quando William cominciò a considerare le implicazioni pratiche di quei documenti. Se questo era quanto cercavano quelli della Fondazione, che cosa se ne facevano di un’arma dal potenziale inimmaginabile?

Anche Alicia cominciava a non capire più dove quella ricerca li stesse portando.

«Ma William, perché stiamo cercando un’arma? Perché la Fondazione Wyler vuole questa tecnologia? Noi non ci occupiamo di armi e se ci fossero progetti in tal senso lo avrei saputo. Da tutto ciò che abbiamo visto ci troviamo di fronte a un dispositivo potentissimo, e poi cosa c’entra questa macchina di Bruno? Santo cielo, sembra un romanzo di fantascienza…» «Alicia, non lo so cosa stia succedendo… ma ti posso assicurare che non siamo in una trama fantascientifica. È tutto vero. Io stesso ho incontrato più volte testimoni che avevano avuto a che fare con il progetto denominato Die Glocke, anche se solo indirettamente, perché buona parte degli scienziati che vi lavoravano morirono nel primo esperimento e l’altra parte fu fatta fucilare da Himmler nel 1945 per non lasciare tracce. Fino a ora non si era mai trovato uno straccio di prova, per cui è stata sempre relegata nel magazzino delle armi segrete immaginarie di Hitler, quelle mai realizzate o che venivano considerate

solo come delle semplici farneticazioni. Qui invece abbiamo la testimonianza non solo che furono fatti esperimenti in tal senso ma che questa fu costruita realmente. Si sa che Himmler e le sue SS presero il controllo dell’intero sistema di ricerca tedesco, in particolare quello relativo alle armi segrete, togliendolo dalle mani di Albert Speer, Ministro degli Armamenti e in precedenza architetto di Hitler. Ecco perché Hirt, membro dell’Ahnenerbe, aveva questi documenti. E, guarda qui…»

Porse all’amica un foglio.

La donna fece scorrere gli occhi sulle righe della traduzione di un dispaccio in cui si ordinava di nascondere lo Xerum 525 e il dispositivo in un luogo segreto dal nome in codice Weisses Thor, secondo le indicazioni dell’ingegnere Schauberger.

La firma che autorizzava l’operazione aveva attirato l’interesse di William: si trattava di Hans Kammler, come fece notare ad Alicia. «E chi sarebbe?» «L’uomo più misterioso del Terzo Reich: zelante nazista fino al midollo, operò con tutte le sue energie nei suoi incarichi relativi all’organizzazione dei campi di sterminio, dopodiché fu nominato da Himmler responsabile del settore armi segrete, occupandosi delle V2. Poi nel 1945, quando gli alleati avanzavano in Europa orientale, divenne responsabile di tutti i programmi missilistici e fu sotto il suo comando che si svolsero gli esperimenti di Die Glocke, in un gigantesco complesso chiamato Der Riese, “Il Gigante”, una miniera sotterranea in Polonia. Hitler, Goebbels e tutte le alte sfere del Terzo Reich guardavano a lui come all’ultima speranza per vincere la guerra. Ma nella seconda metà dell’aprile 1945 scomparve con tutti i piani di Die Glocke. Nessuno sa dove sia fuggito. Non se ne è mai più saputo nulla.» «E che cos’è lo Xerum 525?», chiese Alicia.

William tirò fuori il suo notebook e aprì una cartella in cui aveva raccolto alcune informazioni in merito tratte da studi ati:

In seguito a un articolo comparso sulla Pravda che identificava il Mercurio Rosso come utile per costruire armi atomiche, negli ultimi vent’anni sono stati arrestati terroristi compratori e venditori di questo elemento, in Inghilterra, Germania, e altri paesi, specialmente in Medio Oriente. Nessuno sa esattamente che cosa sia il mercurio rosso. Si è detto che può essere utilizzato per costruire bombe nucleari. Potrebbe essere un esplosivo in grado di scatenare il processo iniziale di fusione, un esplosivo potente di per sé, una forma di mercurio a base di antimonio e ossido di mercurio che si ottiene all’interno di un reattore nucleare. Oppure potrebbe essere un nome in codice, una formula, dietro cui nascondere il traffico di altre sostanze tossiche o letali. Ci sono voci che affermano che il Mercurio Rosso non sia altro che un tentativo messo in atto dai servizi segreti russi per ingannare e identificare terroristi che cercano materiale nucleare al mercato nero, spacciandolo come elemento utile per la costruzione di armi nucleari, o per la realizzazione di vernice stealth. Ma alcune fonti, esperti che hanno collaborato allo sviluppo di ordigni nucleari, affermano che si tratterebbe di un fluido utilizzato nel 1945 per uno degli esperimenti più segreti del Terzo Reich che studiava l’antigravità ma che produsse un risultato completamente inaspettato. Esso può essere impiegato nella costruzione di una bomba atomica.

Nella cartella William aveva collocato anche diversi articoli di giornale, in cui veniva riporta la notizia del traffico di questa sostanza. Esistevano pure dei siti di vendita online, che alimentavano un mercato sommerso di un qualcosa di cui, curiosamente, nessuno sapeva pressoché nulla. Un mistero inspiegabile: persone arrestate per l’acquisto di una sostanza che ufficialmente non esisteva. Terroristi disposti a spendere milioni di euro o di dollari per un chilogrammo di Mercurio Rosso… William non sapeva cosa pensare. «Qui hai scritto che lo Xerum 525 era un fluido che i nazisti utilizzarono in un esperimento sull’antigravità, che però produsse un risultato differente. Probabilmente è quello di cui si parla in questi documenti.»

William la guardò annuendo. «È senz’altro così. Ma dobbiamo trovare il luogo identificato come Weisses Thor, il Thor Bianco. Che coincidenza: era anche il nome d’arte di Karl Maria Wiligut, la guida spirituale di Himmler. Beh, a questo punto non vi è molto da fare. Sei mai stata in Austria?» «Sì, a Vienna e Salisburgo. Perché?» «Le tracce in nostro possesso si fermano qui e c’è una sola pista che possiamo seguire: Schauberger.» «Ma… non è morto da più di mezzo secolo?», rispose curiosa Alicia. «Sì, ma la sua opera è andata avanti…»

William la introdusse alle innovative e straordinariamente moderne idee di Viktor Schauberger, il quale aveva concepito un sistema in cui le teorie dell’armonia di Pitagora si univano alle leggi dei moti dei pianeti studiate da Keplero e producevano la sintesi dell’osservazione dell’universo: il moto spiraliforme. Schauberger aveva ato la prima parte della sua vita lavorando in mezzo alla natura e aveva osservato attentamente i moti dell’acqua, maturando una visione peculiare: egli concepiva l’ambiente come una complessa interazione di forze che creava o rinvigoriva costantemente la materia. In particolare si era soffermato sulla teoria dei vortici, o delle spirali, presenti in diversi aspetti del cosmo: i bracci delle galassie, i tornado e altro ancora.

Schauberger inventò un modo per canalizzare l’energia che scaturiva dai vortici all’interno e non all’esterno, come avveniva per esempio in un qualsiasi motore di un razzo, chiamando questo sistema “implosione”: secondo lo scienziato austriaco era un metodo rivoluzionario per utilizzare l’energia della natura, con potenzialità infinitamente superiori a quanto sperimentato fino a quel momento. Definì il tutto bio-tecnologia. Nel 1934 aveva presentato a Hitler le sue teorie di fronte a un perplesso Max Plank e, negli anni successivi, costruì varie macchine per il Terzo Reich che sfruttavano un sistema propellente completamente nuovo basato sullo studio della free energy: dalla sua fabbrica uscirono così un motore a implosione per la

produzione di energia elettrica, una innovativa turbina per sottomarini e una specie di disco volante, chiamato Repulsine il cui il movimento a vortice generava un rapidissimo raffreddamento e addensamento, creando un vuoto di pressione enorme e risucchiando così l’aria nella turbina. Questa macchina aveva bisogno di un piccolo propulsore per fare partire il moto, dopodiché esso veniva spento e l’apparecchio generava una tale quantità d’energia da renderlo completamente autosufficiente. La macchina di Schauberger venne copiata da Ernst Heinkel, l’inventore del primo motore jet. In ogni caso, nel 1941 fu reclutato dalla Gestapo e iniziò un periodo in cui poté liberamente condurre i propri esperimenti, ma ogni sua attività era coperta dal segreto militare finché, nel 1944, le SS gli ordinarono di terminare la fase sperimentale e di costruire un prototipo in grado di volare.

William terminò la spiegazione con un sorriso. Dovevano recarsi in Austria, a cercare quello che rimaneva dei lavori di Viktor Schauberger. Un altro viaggio, altre scoperte… Cominciava a trovare davvero eccitante quella missione, nonostante gli spiacevoli incontri con il misterioso uomo che per due volte aveva tentato di bloccarli. Per quanto si fosse interrogato, comunque, non era ancora riuscito a capire cosa diavolo volesse da loro. In ogni caso era ottimista e motivato, anche se si rendeva conto, mano a mano che procedevano, che si muovevano dentro un gioco che poteva rivelarsi molto pericoloso. Ma doveva continuare. Se non altro per soddisfare la sua curiosità da studioso.

Capitolo 31

Austria, Bad Ischl, sede della Pythagoras Kepler System. 15 giugno 2017. Primo pomeriggio

Per una serie di contrattempi partirono solo due giorni dopo da Londra con un volo British Airways diretto a Salisburgo, dove affittarono un’auto e, in poco più di mezz’ora, giunsero a destinazione. Il viaggio fu piacevole, accompagnato dalla bellezza delle montagne e dei boschi austriaci. Erano stati fortunati, una giornata di sole intenso e di trasparenza cristallina dava loro la possibilità di ammirare il paesaggio per decine di chilometri. Come le fece notare William, la storia dell’Austria, nel secolo appena trascorso, era stata indissolubilmente legata a quella della Germania di Hitler, il cui paese d’origine, Braunau am Inn, non era poi molto lontano da lì. Alicia trovava l’Austria una terra bellissima, dall’aereo aveva osservato alte montagne, boschi e laghi dovunque. E l’allegra musica tradizionale, che avevano ascoltato alla radio durante il tragitto in macchina, contribuiva a rendere l’atmosfera molto pittoresca.

Parlarono della loro missione e di come si stesse complicando: entrambi erano però affascinati dal fatto che stavano sollevando un velo su una parte di storia sconosciuta e ciò dava loro la netta sensazione di essere come dei detective in cerca di risposte. E poi c’era quel legame che si era instaurato fra i due. Qualcosa che andava al di là di una semplice collaborazione.

Il tratto di strada da Salisburgo a Bad Ischl, la loro meta, sembrò brevissimo e giunsero prima del previsto di fronte alla sede della Pythagoras Kepler System, o PKS, la società no profit diretta dalla famiglia Schauberger con lo scopo di continuare l’opera di Viktor.

Si trattava di una grande villa con un vasto appezzamento di terreno intorno in cui venivano condotti gli esperimenti dei dispositivi creati dalla PKS. Furono accolti direttamente dai nipoti dello scienziato che, dopo essersi accertati delle loro credenziali, apparvero ben contenti di poter offrire ogni aiuto possibile.

Come gli venne spiegato, le attività del PKS erano volte soprattutto all’applicazione delle teorie di Schauberger, ma nella villa si svolgevano anche incontri, conferenze, simposi e si riuniva spesso una folta rappresentanza di ricercatori che studiavano la free energy, ossia un sistema per produrre energia assolutamente non inquinante e inesauribile. La famiglia conservava le creazioni di Viktor in una sorta di museo ma ciò che più interessava a William era il nutrito archivio dello scienziato che conteneva disegni, appunti, progetti di una vita di ricerca del fondatore. I nuovi arrivati si accorsero di un gruppo di persone che pareva impegnato in un tour guidato dell’azienda. Dal capannello, richiamato da uno dei nipoti di Schauberger, uscì un uomo che venne loro incontro. Si presentò come il direttore scientifico della struttura. Karl Weber, fisico e matematico dell’Università di Vienna, si era accostato alle teorie della free energy e ne era divenuto uno dei maggiori propugnatori.

Si presentò cordialmente a William e Alicia chiedendo se fossero anche loro del gruppo di visita. «No, no», rispose William sorridendo. «In realtà siamo dei ricercatori. Io vengo da Londra e la dottoressa Wyler da New York.» Il nipote di Schauberger spiegò a Weber che i signori erano interessati alla figura del grande scienziato e che in proposito avevano delle domande da fare. «Vorremmo anche esaminare il vostro archivio se fosse possibile», aggiunse Alicia. «Ah», fece Weber. Il suo buonumore parve incrinarsi. «Purtroppo oggi abbiamo dei ricercatori e una conferenza, per cui dovrò lasciarvi al responsabile dell’archivio, il dottor Richter. Mi spiace non potervi seguire di persona.

Comunque lui vi potrà dare ogni aiuto possibile.»

Furono accompagnati in un’altra area del complesso dove conobbero un uomo sui sessant’anni, alto e con un giro vita piuttosto ampio.

William lasciò che, per la seconda volta, il nipote del grande scienziato spiegasse il motivo della loro presenza. L’altro li osservò con attenzione e, dopo aver stretto loro la mano, disse: «Beh, credo che siate dalla persona giusta!» «Lei si occupa solo dell’archivio?», domandò Alicia una volta che il nipote di Schauberger li aveva lasciati per ritornare alle proprie occupazioni. L’uomo la osservò con attenzione. Era un volto familiare, ma non ricordava dove l’avesse già vista. Mise da parte i suoi pensieri e rispose: «Sono il responsabile dell’archivio, ma studio anche le applicazioni pratiche delle teorie di Schauberger. Venite con me.» L’uomo li condusse verso una parte della villa adibita a biblioteca e al centro conferenze e li fece accomodare presso una serie di scaffali su cui erano ordinati e catalogati innumerevoli fascicoli. Si avvicinò a un computer e chiese ad Alicia cosa interessasse loro in particolare.

Alicia guardò William. Lui, senza pensarci su due volte disse: «Per esempio i rapporti di Viktor Schauberger e l’esperimento del 1945 svolto con il dispositivo chiamato “Die Glocke”.» Lo scienziato si bloccò. Alzò gli occhi dalla tastiera e li fissò, interdetto: «Voi sapete della campana?» «Beh, stiamo cercando di capire cosa accadde realmente e sappiamo che grazie al lavoro di Schauberger nel 1945 si ottenne un risultato eccezionale. Ci servirebbe anche conoscere qualcosa di più sui fondamenti del suo lavoro chiamato Repulsine.»

Richter rimase sulle sue per qualche attimo. Alicia gli sorrise: «Tutto bene dottore?» Il fisico non era ancora riuscito a inquadrare le due persone che aveva di fronte. Parlavano di cose che, in teoria, dovevano essere sconosciute o note solo agli addetti ai lavori.

«Sì, certamente», rispose alla fine, riprendendosi. «Solo che si tratta di questioni ancora ignote ai più. E quando i fisici parlano di antigravità o di free energy si chiudono immediatamente tutte le porte. È come una maledizione. Comunque, penso che vi interesserà… questo.»

Richter tirò fuori un grosso libro manoscritto, spiegando che l’autore era Viktor Schauberger in persona. Lì aveva riportato tutte le sue scoperte. Cercò una pagina in particolare e cominciò a riassumere le informazioni. «Questa è una descrizione di ciò che succedeva quando la Repulsine cominciava a ruotare a ventimila giri al minuto: a causa della fortissima rotazione le particelle si avvicinavano così tanto che i legami molecolari e nucleari ne venivano influenzati e si originava un effetto antigravitazionale. Succedeva una cosa straordinaria: la Repulsine si alzava e si muoveva.» «È qualcosa di verificabile?», domandò William. Richter li osservò tentando di capire se le persone che aveva di fronte sarebbero state in grado di comprendere ciò che stava per mostrare loro: il luogo in cui si trovavano in quel momento era il centro della ricerca sulla free energy, dove si stavano aprendo porte sconosciute alla fisica del XXI secolo, di cui Richter era il guardiano. Si domandò anche se fosse il caso di continuare quella discussione. Ma forse, vinto dalla voglia di poter chiacchierare con qualcuno che non fosse il solito bilioso fisico “so tutto io”, decise che non sarebbe successo nulla di grave se avesse spiegato loro i miracoli di Repulsine. «Signori», disse interrompendo la lunga pausa, «ciò che sto per mostravi sarà uno spettacolo a cui probabilmente non avete mai assistito.»

Videro Richter alzarsi e allontanarsi di pochi metri. Poi si fermò, come se stesse per ripensarci o se si chiedesse se era giusto ciò che stava per fare.

Si volse verso i due ospiti e disse: «Prima di iniziare devo chiedervi di non fare parola con alcuno su quello che vedrete. Pensate di poterlo fare?» Alicia avvertì un camlo d’allarme. Ma la curiosità era troppa per poter promettere qualcosa di diverso.

«Stia tranquillo, sapremo mantenere il più stretto riserbo», lo rassicurò William, sapendo che probabilmente non sarebbe stato in grado di mantenere la promessa. Richter parve rilassarsi. «Bene, allora venite con me.» Richter si avviò verso una porta che si apriva su una rampa di scale; sembrava portare in un’area del sottosuolo. Fece scendere i due, ma William lo vide chiaramente accertarsi che nessuno li osservasse. Perché quella circospezione? La domanda era lecita, considerato quello che avevano subito in ato. Non ne fece parola con Alicia e si accodò a Richter. Percorsero diversi metri sottoterra e giunsero di fronte a una porta metallica di grandi dimensioni, forse l’entrata a una zona riservata. Richter digitò un codice su un pannello laterale e quella si spalancò. Quando varcarono la soglia si accorsero di essere entrati in una sorta di museo in cui, come spiegò Richter, erano conservate attrezzature appartenute a Schauberger. Dalla polvere e dall’odore di chiuso si capiva che non erano molti i visitatori di quel luogo. «Questa è un’area interdetta a tutti», disse infatti, «tranne a me e ai nipoti di Schauberger. Scusate, ma ve lo devo chiedere ancora: giurate di mantenere il più assoluto silenzio? Posso fidarmi?» «Certamente, dottor Richter. Sappiamo mantenere un segreto.» William non capiva perché fosse così insistente nel chiedere loro di non parlare con nessuno di ciò che avrebbero visto e comunque permettergli di entrare nel suo sancta sanctorum. Era una contraddizione cui non sapeva rispondere.

Richter li guardò, poi sospirò e si avvicinò a una sorta di disco volante in miniatura di circa un metro di diametro con la parte superiore a forma di cono che si elevava per cinquanta centimetri. «Ecco a voi Repulsine», disse con orgoglio. La mise in moto con uno spunto iniziale di energia elettrica; per un momento parve non accadere nulla, poi Repulsine cominciò a vibrare mentre la parte interna iniziava a vorticare sul suo asse, in modo velocissimo. Quando il display elettronico collocato sul ripiano su cui poggiava Repulsine, probabilmente un’aggiunta posteriore, segnalò il superamento dei ventimila giri, Richter staccò il filo che la collegava alla corrente elettrica e la macchina si sollevò sibilando. Pochi secondi dopo il fisico la spense tramite un interruttore a fianco del display ed essa discese lentamente. William e Alicia erano stupiti. Lo studioso inglese non riuscì a trattenersi.

«Funziona! Ma come?» «È quello che studiamo qui. Non siamo andati molto oltre le ricerche di Schauberger a dire il vero, purtroppo abbiamo stanziamenti limitati ed esiste una fortissima opposizione, soprattutto in campo accademico, al nostro lavoro.» «Ma un’idea ve la sarete fatta», insistette William. «In pratica l’interazione delle forze centrifuga e centripeta su un asse comune genera l’implosione, cioè crea il ritorno o la trasmutazione, scusate il termine alchemico ma non si sa come definirlo, della forma fisica di un fluido, aria o acqua, nella sua matrice energetica primaria. Si tratta di uno stato non-spaziale a quattro o cinque dimensioni, che non ha nulla a che fare con le dimensioni fisiche consuete.» Alicia osservò l’amico di sbieco, con una chiara e netta sensazione di aver compreso poco o nulla. «Vedete, gli studi di Schauberger sono stati esaminati dagli Alleati subito dopo la guerra», proseguì l’altro. «Anzi li hanno proprio rubati. Quello che è rimasto lo abbiamo portato qui, dove conduciamo i nostri esperimenti. So però che adesso,

negli Stati Uniti, in Russia e in altri paesi, stanno studiando in gran segreto le misteriose forze che Schauberger aveva scoperto, che in pratica sono semplicemente dei fenomeni naturali di cui non conosciamo ancora praticamente nulla. Nel 1945, per rispondere a un altro dei vostri quesiti, sembra che Schauberger avesse lavorato alacremente su Die Glocke, in Polonia e per conto delle SS. Si trattava di un esperimento molto avanzato teso alla disperata ricerca della realizzazione di un’arma risolutiva del conflitto. Ma ebbe un risvolto totalmente inaspettato.» William interruppe Richter: «Quale?» L’austriaco li fece tornare di sopra, con una certa fretta. Forse temeva che qualcuno li vedesse, ipotizzò William. In breve erano nuovamente all’archivio. Richter li fece accomodare e continuò la conversazione interrotta poco prima: «Tornando a noi, l’esperimento del 1945 generò un campo che provocò, per un motivo che ancora non riusciamo a comprendere, una sorta di varco, un aggio, o qualcosa del genere, in quello che Einstein definiva spazio-tempo… che non è altro che la quarta dimensione del nostro universo, dopo altezza, larghezza e profondità. In effetti anche questa riproduzione della Repulsine riesce a generare una forza antigravitazionale e di conseguenza agisce nello spazio-tempo. Se avessimo in dotazione dei cronometri atomici eccezionalmente precisi si vedrebbe chiaramente che per noi che abbiamo il dispositivo il tempo è trascorso in modo diverso rispetto al resto dell’istituto.» «Incredibile!», esclamò Alicia. Si era oramai abituata alle sorprese di quella strana e insolita avventura a un o dalla fantascienza, ma la parola spaziotempo la fece irrigidire: «Un esperimento che ha modificato lo spazio-tempo? Nel 1945?» «Già, è incredibile ma è così. Noi non ci rendiamo pienamente conto di quanto fossero avanzati gli studi degli scienziati del Terzo Reich in questo campo. Neppure oggi siamo a un livello simile, anzi, per certi versi abbiamo fatto notevoli i indietro. D’altra parte i nostri istituti scientifici e militari hanno priorità differenti e le condizioni economiche, rispetto a quelle del ato, sono completamente diverse. Himmler aveva disposto che le menti migliori del Terzo Reich lavorassero insieme senza porre alcun limite di spesa o risorse. Avevano fretta di ottenere risultati concreti, credo che intuissero già dal principio che la guerra sarebbe potuta andare male, nonostante gli strabilianti successi dei primi

anni. I loro obiettivi erano molto diversi da quelli di una semplice ricerca. Per questo impiegavano i loro più grandi fisici, matematici, teorici ed enormi quantità di denaro.» «La maggior parte del quale predato nei paesi occupati», gli fece notare William, ricordando che lo sforzo bellico tedesco era gravato perlopiù sulle spalle delle popolazioni invase. «Sì, è vero», disse Richter. «Ma dobbiamo tener conto che loro non inseguivano la ricerca per il mero gusto di farlo. I capi delle SS avevano una visione della fisica, che chiamavano “fisica ariana”, permeata dalla filosofia esoterica del Terzo Reich. Vedendo le cose sotto una luce così particolare erano disposti ad aprire la mente verso orizzonti che altrimenti non avrebbero considerato. Valicare confini che, diversamente, avrebbero impedito loro di progredire nella conoscenza. Confini che sono poi quelli entro i quali siamo costretti a muoverci oggi.»

Richter sfogliò il volume manoscritto di Schauberger e trovò alcuni appunti relativi al gennaio e febbraio 1945: «Eccola qua, Die Glocke, realizzata in Slesia, in un enorme centro di ricerca sotterraneo vicino a Waldenburg, Polonia, all’interno delle montagne dei Sudeti settentrionali. Qui dice che il progetto era diviso in due parti: una chiamata Laternentraeger si occupava degli aspetti biomedici dell’esperimento, l’altra fu chiamata Operazione Chronos e studiava gli aspetti fisici della campana.» «Operazione Chronos… Chronos era il dio del tempo, in effetti potrebbe indicare un progetto inteso a romperne gli schemi.» «Già, un nome adatto», fu d’accordo Richter. «Dunque, qui Schauberger spiega che la campana, o Die Glocke, era un oggetto metallico di circa tre metri per cinque, composta essenzialmente da due cilindri controrotanti su un elemento che non riusciamo a identificare, che chiamavano Mercurio Rosso, o Xerum 525…» A quelle parole Alicia e William si scambiarono uno sguardo eloquente.

«Del Mercurio Rosso fornisce solo una definizione chimica: Hg2Sb2O7. Però manca una parte della formula. Scrive di non averla inserita per paura che il diario cadesse nelle mani sbagliate. Il Mercurio Rosso girava all’interno della macchina, ad altissima velocità. Era necessaria una enorme quantità di energia elettrica per avviare il procedimento e le maggiori aziende tedesche come AEG, Bosch, Zeiss e Siemens furono tutte impiegate per costruire generatori adatti. Lo Xerum 525 era contenuto in recipienti di piombo di circa tre centimetri di spessore, forse perché radioattivo. E infatti Schauberger scrive che quando mettevano in funzione lo strumento, lo tenevano solo per due minuti, dopodiché cominciava a emettere una gran quantità di radiazioni di colore blu intenso e generava un campo magnetico molto particolare. Si tratta di un effetto collaterale ancora sconosciuto alla fisica, in cui si genera un campo di torsione e poi si apre una sorta di varco dimensionale, ma non saprei dirle di più, ci vorrebbero i piani originali e bisognerebbe ricostruire la campana.» Richter si fermò e lesse con attenzione gli appunti: li aveva studiati molte volte ma ogni volta c’era qualcosa di notevole che destava la sua attenzione. Poi riprese a commentare il testo. «Da quello che vedo qui sembra che cinque scienziati morirono a causa dei misteriosi effetti collaterali, dopodiché furono svolte prove esponendo alle radiazioni animali e piante che si decomposero lasciando semplicemente una sostanza gelatinosa o cristallina. Anche altri scienziati che lavorarono al progetto riferirono di sintomi e malesseri vari: perdita di sonno, gusto metallico in bocca, spasmi nervosi, amnesie, incapacità motorie temporanee, mancanza di equilibrio. Come dicevo cinque di essi morirono, gli altri furono fatti fucilare dalle SS alla fine della Guerra. Schauberger riuscì a fuggire prima.»

«Sapeva come sarebbe andata a finire…», commentò William. «Credo di sì. Era conscio che non sarebbero mai riusciti a capovolgere le sorti della guerra. Ma lasciarlo in vita era troppo pericoloso per il Terzo Reich.» Richter spiegò poi che l’area in cui si svolgevano gli esperimenti era molto particolare. «Era protetta da ceramica altamente resistente e da gomma che si bruciava ogni volta che veniva compiuta la sperimentazione. La gomma era sostituita, mentre la ceramica veniva lavata. Anni fa ne parlai con un collega, un fisico del cern di Ginevra: secondo lui non c’erano dubbi si trattasse di un

progetto che riguardava la levitazione, o antigravità, ovvero un tentativo di penetrare lo spazio-tempo. Mi disse che a suo modo di vedere c’erano ben poche possibilità di successo, anche se poi si è lasciato scappare che al cern avevano confermato la possibilità di creare varchi gravitazionali con conseguenze anche sulla dimensione temporale. Lo spazio-tempo, secondo la visione che abbiamo da Einstein e dalla fisica quantistica, è influenzato direttamente dalla gravità e un dispositivo che utilizzi una forza antigravità avrebbe effetti molto precisi anche nello spazio-tempo.» «Si spieghi meglio…» Alicia era piuttosto confusa. «Ogni cosa che influisce sulla gravità influisce anche sul tempo. E sullo spazio. E ogni cosa che influisce sul tempo, lo fa anche sulla gravità, e sullo spazio. Sono concetti, o enti, intimamente legati. Ecco perché in prossimità di buchi neri, dove la gravità è enorme, si modifica anche il tempo e lo spazio, e lo stesso accade quando un raggio di luce si avvicina a una stella: viene praticamente deviato nel suo percorso dalla sua massa. Un aspetto della fisica einsteniana, confermato da molti esperimenti. In un laboratorio di Boulder, in Colorado, due orologi atomici uno su un tavolo e uno più vicino al pavimento, hanno dimostrato che anche solo poche decine di centimetri di lontananza dal nucleo della Terra genera uno sfasamento nei due orologi. Minimo, ma registrabile.» «È davvero notevole! Però mi chiedo: come è possibile che una tale risorsa non venga presa in considerazione dai governi, dalle loro strutture militari? Se ci sono arrivati nel 1945… perché non cercare di trovare una soluzione con le tecnologie che abbiamo oggi?»

«Vede professor Connor, io credo che questo avvenga. Che ci siano diversi governi o anche privati impegnati in tale ricerca. Non le nascondo però che nell’ambiente accademico la questione è affrontata in modo molto approssimativo. Se lei parla di concetti come antigravità, i fisici puri e duri le riderebbero in faccia. Eppure ci sono tanti ambiti su cui si potrebbe investigare, espandere le proprie conoscenze… ma è come se vivessimo in un momento di inerzia totale.» «Forse si temono gli effetti collaterali», propose Alicia. «No, se così fosse non avremmo mai studiato e sperimentato l’atomica, la bomba

all’idrogeno e altre diavolerie. Io sono convinto che la spiegazione sia da ricercare in un aspetto della natura umana molto più deprimente: i soldi, gli affari.» «In che senso?» «Pensateci bene. La nostra tecnologia oggi è basata su determinati presupposti: gli idrocarburi, in primo luogo. La green economy, nonostante quel che si dica, fatica a prendere piede. Fotovoltaico, energia eolica… credete veramente che coloro che traggono profitti enormi da gas e carburanti fossili siano disposti a farne a meno? Ma non sono stupidi e comunque mandano avanti ricerche per trovare fonti di approvvigionamento alternative. Così, quando gli idrocarburi saranno terminati, ecco, avranno a portata di mano la soluzione per tutti. Un po’ come è avvenuto quando il prezzo del carbone, a causa della sua scarsità rispetto alla domanda, raggiunse prezzi astronomici. Il giorno dopo era stato sostituito dal petrolio. Coloro che commerciavano in carbone si riciclarono in venditori di un altro tipo di fonte energetica…» «Quindi questi studi ci sono. Anche se noi non ne sappiano nulla», disse Alicia. «Certo, anche se non posso provarvelo. Secondo l’ambiente scientifico ci sono altre forme di energia sconosciute: per esempio tutti sanno che esiste la zeropoint energy, ma sembra che pochi abbiano il coraggio di portare avanti ricerche in tal senso. Non trovano finanziatori, o forse i finanziatori non vogliono che trapeli nulla.» «Zero-point energy?», ripeté la donna. «Sì, è qualcosa di rivoluzionario», si accalorò Richter, ben contento di poter parlare di cose simili. «In uno stato di vuoto e a temperature prossime ai zero gradi Kelvin, che corrisponde a uno stato di assenza di calore, si è scoperta una misteriosa fonte di energia praticamente inesauribile. Sarebbe ora troppo complicato spiegare di cosa si tratta, però vi posso assicurare che l’applicazione di questo fenomeno fisico cambierebbe la storia dell’umanità. Se sfruttata adeguatamente diventerebbe una free energy, energia per tutti a costo zero. Ma come sempre intervengono interessi di varia natura che bloccano lo sviluppo di questa che è ben più di una teoria. Avete mai sentito parlare di Nikola Tesla?» «Se non sbaglio era un fisico americano», rispose Alicia.

«No, era serbo. Ma poi nel 1884 si trasferì negli Stati Uniti. Beh, lui era un altro genio incompreso e osteggiato. Non solo un teorico della fisica di prim’ordine, ma anche uno dei più grandi ingegneri elettrici di tutti i tempi, capace di scoperte degne del premio Nobel. Però ebbe problemi assai gravi quando si capì che le applicazioni delle sue teorie avrebbero potuto inaridire le fonti di guadagno dei soliti gruppi di potere. Tanto per fare un esempio il suo principale finanziatore, J.P. Morgan, gli tolse i fondi destinati alle ricerche quando scoprì che Tesla aveva trovato il modo di ricavare energia gratis per l’umanità sfruttando il campo magnetico terrestre.» Alicia deglutì. Di nuovo quei nomi: Morgan, come Warburg, Rockefeller, Rothschild e altri, erano sempre presenti in veste di finanziatori impegnati in progetti di carattere rivoluzionario in ambito scientifico, sociale, politico. Erano, in poche parole, coloro che fomentavano i cambiamenti, in tutti i settori della vita umana, pronti però a bloccare il progresso se questo poteva risultare dannoso ai loro affari. William continuò: «Ma esistono altri scienziati che hanno condotto ricerche su fenomeni simili a quelli di Die Glocke?» «Certamente. Per esempio negli anni ’90 del secolo scorso il russo Podkletnov alla Tampere University, in Finlandia, costruì un dispositivo che faceva levitare un piccolo peso utilizzando materiale ceramico semiconduttore in forte rotazione. La NASA prese seriamente i suoi studi, io stesso ho svolto la mia tesi di dottorato sulle sue ricerche. Comunque già nel 1948 fu teorizzata la possibilità che esistesse un campo di zero-point energy dal fisico olandese Hendrik Casimir. Quello che verrà chiamato “effetto Casimir” dimostrò che esiste una forza misteriosa, non gravitazionale e non elettromagnetica, spiegabile solo con la fisica dei quanti. In pratica esiste nell’universo una forza sconosciuta, in grado di influenzare la materia, lo spazio e il tempo. I nazisti, grazie a Schauberger, avevano cominciato a studiarla senza sapere cosa fosse. Al giorno d’oggi si conducono ricerche solo in laboratori selezionati e controllati: se si diffondesse la notizia che questa energia è facilmente utilizzabile, beh, come potete facilmente immaginare, verrebbe stravolto il sistema economico. Diciamo che il sogno di giungere a una fonte energica illimitata, pulita, priva di costi è, appunto, un sogno bellissimo… ma impossibile da realizzare nella vita pratica a causa degli interessi economici in gioco. Così va il mondo.»

Conversarono ancora a lungo su quegli argomenti ed esaminarono il volume di Schauberger appurando che egli aveva effettivamente dato un apporto fondamentale a quello che Himmler credeva essere un’arma straordinaria, in grado perfino di poter modificare lo spazio-tempo.

William cominciò a sfogliare le fotocopie che si era fatto dei documenti ritrovati a Wewelsburg e prendeva appunti su di essi mentre Richter spiegava loro i processi di Die Glocke. A un certo punto Richter notò le formule matematiche e le frasi in latino poi tradotte dall’amico di William. Chiese di poter dare un’occhiata. Lesse la sequenza di formule e la funzione finale con enorme interesse. Poi alzò gli occhi fissando William: «Da dove viene questa roba?» «Erano gli appunti di uno scienziato che ha lavorato a Wewelsburg. Tra le altre cose aveva trascritto una serie di aggi tratti dalle opere di Giordano Bruno, sa l’eretico italiano bruciato nel 1600. Perché, ha trovato qualcosa di interessante?» «Interessante? Se, come dice, queste funzioni risalgono quantomeno alla metà o alla fine del ’500, si tratta di qualcosa di incredibile. Queste sono le funzioni che delineano gli effetti di una variazione dello spazio-tempo a causa di un cambiamento di gravità e… mio Dio!» Richter fissò a lungo le equazioni, lesse la traduzione del testo latino poi sbottò: «Ma… ma, queste sono le formule che illustrano gli effetti di Die Glocke!»

Capitolo 32

Ufficio di Malcolm Wyler, Wyler Foundation, New York. Quello stesso pomeriggio

Malcolm Wyler era seduto alla sua scrivania, ammirando la magnifica distesa di pilastri d’acciaio dello skyline di Manhattan. L’ultima crisi era stata più intensa del solito, forse le emozioni relative al Progetto Gamma, forse il pensiero di Alicia… Dubbi e preoccupazioni che si presentavano sempre più spesso alla sua mente, una mente lucida e determinata, ma allo stesso tempo confusa, ottenebrata da un’energia volta completamente a un unico obiettivo: servire L’Osservatore.

Eppure le crisi, il suo male, erano generate dalla sua vicinanza, dall’influsso che egli aveva su tutti i membri di The Rune: aveva dato loro uno scopo grandioso, oltre a renderli gli uomini più ricchi e potenti del mondo, ma in cambio aveva preso loro la vita, la salute, aveva rubato l’amore che essi avrebbero dovuto nutrire per i familiari, i propri consanguinei e, più semplicemente, i propri simili.

Wyler rifletteva attentamente sugli eventi recenti: non si era mai sentito così vicino ad Alicia come in quei frangenti e non sapeva perché. Oltre a essere suo padre, da anni era il suo datore di lavoro. Mai prima di allora gli era capitato di provare emozioni così contrastanti. Ma forse l’importanza di quella missione, il fatto che la vedeva e la sentiva più spesso rispetto al ato, aveva smosso qualcosa dentro di lui, qualcosa che lo disturbava. Prese una chiave dal mazzo che aveva sempre con sé e aprì uno dei cassetti della scrivania, estraendone un album. Ne scorse le pagine e rivide il volto di sua moglie, le foto scattate nei primi anni

di matrimonio, quelle che testimoniavano l’ascesa inarrestabile del suo impero affaristico. Alcuni scatti testimoniavano quanta parte avesse avuto la donna nel suo successo, nella gestione di capitali immensi e di leve politiche di enorme importanza. Si soffermò su un’immagine. Risaliva a una ventina d’anni prima, a giudicare dall’abbigliamento. Ritraeva loro due con L’Osservatore in mezzo che li abbracciava. Che strano, meditò: era sempre stato presente nella loro vita, eppure non sapeva nulla di lui. Non avevano mai affrontato questioni, per così dire, private. Anzi, era stato impossibile pensare a L’Osservatore come a qualcuno che potesse anche solo minimamente essere invischiato nella debolezza routinaria della vita di un uomo qualunque. Le pagine della sua vita scorrevano in avanti con quelle immagini, finché vide un fiocco rosa e le parole gioiose di Helen sul margine dell’album: «Sono nata io!»

La donna teneva fra le braccia un fagottino: Alicia. Dietro si scorgeva una parete grigia. Helen abbozzava un leggero sorriso e gli occhi erano segnati da profonde e vistose occhiaie. Le crisi erano cominciate proprio in quel periodo, subito dopo la nascita di Alicia, ed Helen si era spaventata. Aveva capito quale fosse l’origine del malessere. Per quel motivo aveva allontanato Alicia, temendo potesse venire coinvolta. Le esplosioni di ira incontrollabili, i misteriosi silenzi, quei progetti che gli occupavano giorno e notte la mente… Helen aveva paura di Malcolm. Ma era ancor di più angosciata da L’Osservatore. Era lui la causa di tutto. Quello che prima era stata la fonte primaria del loro successo, ora diveniva il bersaglio delle sue maledizioni. Helen si era reso conto dell’abisso in cui erano precipitati.

Malcolm girò un’altra pagina e Helen non c’era più. C’era però Alicia, cresciuta senza che lui se ne rendesse conto. Tre scatti: un compleanno, una cena in famiglia, la laurea. Tutto condensato in una sola pagina. La sua famiglia gli era stata in qualche modo portata via, strappata, accartocciata e gettata nel cestino come qualcosa di inutile. Si era perso ogni cosa bella. L’amore della donna sposata, quello della figlia divenuta adulta priva di un padre… Tornò indietro con le pagine fino a rivedere quel fagottino meraviglioso, un

piccolo, bellissimo esserino che pulsava di vita. Avrebbe voluto tornare indietro, questa volta fisicamente, e tenerla di nuovo tra le braccia, sentire con le labbra appoggiate sulla sua testolina il profumo di neonata, udire di nuovo i suoi vagiti. Con uno scatto rabbioso richiuse l’album e lo rimise a posto. Inutile pensare a un mondo oramai scomparso. Ogni cosa si era allontanata così in fretta, gli era sfuggita come sabbia tra le dita che non era riuscito a trattenere, come le lacrime che gli bagnarono la guancia un attimo dopo.

Capitolo 33

Sede della Pythagoras Kepler System, Bad Ischl, Austria. 15 giugno 2017. Pomeriggio

Richter aveva chiesto a William di poter fotocopiare il libretto di Hirt, dicendo che era di basilare importanza per i suoi studi. Ma l’inglese era stato irremovibile a riguardo. Anzi, con fare deciso, prese le carte e le rimise nella valigetta di tessuto che portava con sé. Richter era deluso. Anche perché lui, al contrario dei due ospiti, era stato molto più collaborativo. «Capisco», disse arrendendosi. «Lavorate per qualche multinazionale?» Alicia scoppiò a ridere. «Dottor Richter, siamo veramente dei ricercatori», disse lei cercando di trattenersi. «E allora perché questa segretezza?» «Quando avremo portato a termine la nostra ricerca», lo rassicurò William, «sarà uno dei primi a venirne informato. Ma adesso non possiamo sbilanciarci. Spero possa comprendere…» «D’accordo… potrebbe almeno dirmi qualcosa di più sulle parole di Giordano Bruno?» «Ecco… non sappiamo molto neanche noi, quello che posso dirle è che ci siamo imbattuti in quei documenti seguendo le tracce lasciate da uno scienziato tedesco che lavorava al castello di Wewelsburg.» «Questo me l’avete già detto», replicò Richter. «Sì, ma in pratica è tutto ciò che sappiamo. Le carte di questo scienziato erano in un bunker, le ho fatte tradurre e queste ci hanno permesso di conoscere alcuni

dettagli sul progetto Die Glocke. Diciamo che stiamo collegando alcuni tasselli di un puzzle storico estremamente complesso che ci ha portati fin qui.» «Dei tasselli che parlano anche di Giordano Bruno e di equazioni scritte nel Rinascimento», aggiunse Richter. «Affascinante… decisamente affascinante.» «Quindi, tornando alla questione principale, queste formule spiegherebbero il funzionamento della campana?» Richter rimase muto. Alicia squadrò l’austriaco, poi con un gesto eloquente disse a William: «Mi sembra giusto. Noi non diciamo nulla a lui e lui non dice nulla a noi…» «Suvvia, dottore, le ho promesso di farle pervenire in assoluta anteprima i risultati delle nostre indagini… di più non posso fare.» «E va bene. Spero solo manteniate la parola… Dunque, a prima vista sembrano una serie di funzioni che definiscono lo spazio-tempo, come se avessimo di fronte un libro di istruzioni per utilizzarlo. Davvero incredibile che si trovino in un testo tanto antico.»

«Davvero incredibile, semmai», propose William, «che nessuno di voi se ne sia accorto prima.» «Beh, lei è un professore universitario, dovrebbe conoscere la teoria dei compartimenti stagni.» «Quella che impedisce ai vari settori accademici di confrontarsi tra loro?» «Esatto. Negli ambienti scientifici, a meno che non si faccia parte della stessa disciplina, è difficile scambiarsi le informazioni. Chissà cosa avranno pensato i linguisti o i latinisti o i filosofi leggendo quelle parole. Ciò che per me è chiarissimo, per loro deve essere sembrato peggio del cinese!» «Comunque, ritornando a noi, certo è che Giordano non fosse un matematico, sebbene la filosofia all’epoca contemplasse anche lo studio di questa scienza. Credo che sia stato aiutato.» William sfogliò le fotocopie che aveva in mano e

trovò quello che cercava. In quel momento desiderava avere altre risposte. «Lei sa se Schauberger nei suoi appunti parli mai di Weisses Thor?» «Thor bianco? Non saprei. Vediamo se lanciando una ricerca sul sistema…» Richter si sistemò di fronte a un computer della sala e digitò la sua . Entrò nel database dell’archivio dove erano stati collocati tutti gli appunti di Schauberger, opportunamente digitalizzati. Un lavoro monumentale, spiegò, visto l’enorme mole di materiale lasciato dallo scienziato, svolto anni addietro.

«Ecco, forse qui c’è qualcosa», disse. Memorizzò la locazione in cui un manoscritto era conservato e si avviò a cercarlo. Tornò un minuto dopo con un libro in mano. «Vediamo… dovrebbe trovarsi alla pagina cinquantasette.» Aprì il volume e, con sua enorme sorpresa, si accorse di quanto era accaduto. «Santo cielo chi può essere stato?» «A fare cosa?», chiesero quasi contemporaneamente Alicia e William. «Le pagine… mancano dalla cinquantasette alla sessantuno! Sono state strappate.» Alicia guardò William: «Come a Roma.» «Cosa significa?», domandò Richter. «All’inizio della nostra ricerca», spiegò lei, «ci siamo recati a Roma. Qui ci siamo imbattuti in alcuni documenti e, guarda caso, le informazioni che cercavamo si trovavano proprio in alcune pagine che erano state strappate via!» «Sapete di chi si tratta?» «No, non ne abbiamo idea», rispose William. «Sappiamo solo che ci precede… sempre.»

«Perché, è successo altre volte?» «Possediamo un diario», disse William riferendosi agli appunti di Hirt, «e anche in quel caso mancavano delle pagine.» Richter era frastornato: «Accidenti, come può essere accaduto?» Scosse il capo, pensieroso. Rimase qualche lungo istante a pensare poi, di scatto, alzò il mento. «Mi scusi, dottoressa, come ha detto che fa di cognome?» Alicia, prima di rispondere, guardò l’amico. «Wyler, perché?» Richter si bloccò.

«Wyler?»

Alicia annuì. «Proprio così.» L’uomo si alzò, chiedendo di attendere qualche minuto. Quando tornò recava sottobraccio un registro. «Ecco dove l’avevo già vista…», disse aprendo il pesante volume e piazzandolo di fronte alla donna. «Due anni fa è stata qui un’altra Wyler, una ricercatrice americana.» «E con questo?», domandò lei. «Wyler è un cognome molto comune.» «Sì, ma non trova strano che fosse la sua fotocopia, solo che poteva avere il doppio dei suoi anni?» Alicia sentì come se uno schiaffo l’avesse raggiunta all’improvviso. E subito dopo le sembrò che qualcuno le stesse strizzando il cuore. «Com’era fisicamente? Cosa voleva?», riuscì a chiedere con voce tremolante.

«Beh, non ci crederete, ma quella donna mi è rimasta impressa. Anche perché ero da poco giunto all’istituto dall’ambito accademico dove certe ricerche sono considerate eretiche, come vi dicevo prima, e il modo migliore per chiudere male una onorata carriera. Fui incaricato di assisterla e trovai la sua compagnia molto piacevole, anche se mi fece rovistare tutto l’archivio per trovare alcune informazioni che le servivano. Era una donna sui sessanta, ben portati, distinta, gentile. Doveva essere stata una splendida ragazza da giovane. Notai che portava abiti firmati, gioielli molto costosi, anche se non appariscenti, e aveva una macchina da parecchie centinaia di migliaia di euro che lasciava nel nostro parcheggio ogni volta che veniva… mi pare di ricordare si sia trattenuta una settimana circa.» «Sì, ma com’era?» «Fisico slanciato, occhi verdi, i capelli erano biondi, anche se un po’ doveva tingerli…» Alicia si voltò di scatto verso William.

«Era di New York. E mostrò un notevole interesse per molte delle cose che interessano anche voi. Sembrava saperne parecchio a riguardo. Mi disse che stava svolgendo una ricerca personale e che aveva bisogno di tutte le informazioni relative agli esperimenti a cui Viktor Schauberger partecipò nel 1945. Conosceva questa donna?» «Le ha per caso mai detto qualcosa della sua vita privata? Che so, se era sposata, se aveva figli?» «Uhm, non mi sembra… mi parlò di un figlio, ma non rammento se fosse maschio o femmina. Però disse che questo figlio aveva studiato ad Harvard. Dunque, parliamo di qualcuno che conosce?» Alicia sorrise amaramente: «Ecco, credo stia parlando di mia madre. È morta due anni fa, in un incidente. Deve essere stato poco dopo essere venuta qui…» Richter abbassò gli occhi. «Oh… mi spiace, signora Wyler, mi spiace davvero.» «Non si preoccupi. È ato del tempo.»

L’irritazione per il furto delle pagine rubate sembrava essersi disciolta come neve al sole di fronte alla drammaticità di quell’evento. Anche perché tra i due fatti non c’erano collegamenti evidenti. Non poteva essere certo che gli appunti su Weisses Thor fossero stati sottratti dalla madre di Alicia. «Abita nella sua casa?», domandò dopo un lungo silenzio. «Come dice, mi scusi?» «Chiedevo se è venuta ad abitare nella casa che sua madre aveva acquistato.» Alicia scosse la testa con un sorriso che esprimeva la sua perplessità: «Quale casa? Non sapevo che ne avesse acquistato una.» «Beh, non è lontana da qui, si trova a circa cinque chilometri dall’istituto, verso sud.»

«E lei come fa a saperlo?», domandò William sospettoso. «Me lo riferì lei in persona», spiegò Richter. «Si era innamorata di questi luoghi e mi aveva chiesto il nome di un’agenzia immobiliare. Due giorni dopo aveva concluso l’acquisto.» «Ha detto che si trova a qualche chilometro da qui…», rimuginò Alicia. «È l’unica casa dei dintorni, non potete sbagliare, ha una cassetta della posta di tipo americano, rossa. Non ce ne sono molte così da noi.» Richter ritornò al libro di appunti che aveva in mano. «Avete qualcosa a che fare con questo?»

Mostrò loro le pagine mancanti. «Dottor Richter, mi creda, non ne sappiamo nulla. È stato un colpo anche per me sapere che mia madre è stata qui… certo, non potrei escludere sia stata lei. Ma aveva visto questo libro?» L’austriaco sospirò mentre fissava i suoi interlocutori. «Forse… non teniamo un

registro dei documenti che i ricercatori visionano. Anche se la consultazione avviene sempre in mia presenza.» Quando si congedarono, dicendogli che sarebbero ati a vedere la casa che la signora Wyler aveva acquistato, Richter strinse loro la mano in modo poco espansivo. Chiese solamente di essere avvisato casomai avessero trovato quello che era stato rubato. Magari la signora Wyler aveva conservato da qualche parte i fogli, sempre che fosse stata lei a sottrarli… e chiese poi a William di non dimenticarsi la sua promessa. Dovevano stare zitti e, a ricerca ultimata, fargli avere notizie. Li guardò allontanarsi a bordo della loro auto, dopodiché chiamò al cellulare Karl Weber e gli raccontò tutto. Weber reagì in modo assolutamente tranquillo. Il responsabile dell’archivio pensò che forse era dovuto al fatto che il collega fosse molto impegnato in quel momento. Weber ringraziò il collega dicendogli che ne avrebbero parlato appena possibile, di persona. Poi chiuse la comunicazione, si accertò che non vi fosse nessuno nei paraggi e fece un rapido calcolo per verificare il fuso orario. Quindi cercò un numero nella rubrica telefonica e lo chiamò. Rispose una voce lontana, decisa. Una voce che faceva sempre un effetto molto forte a Weber, un misto di timore e soggezione. «Cosa succede?»

«Volevo avvisarla che sono appena ati all’istituto Alicia Wyler e William Connor.» L’uomo all’altro capo del telefono fece una pausa. Weber continuò: «Hanno fatto diverse domande. Pare abbiano trovato alcune formule… equazioni. Credo siano quelle che sta cercando. Non le ho potute esaminare, ma un mio collega mi ha assicurato che erano quelle di Bruno.» «Dove si trovano ora?» «Sono andati via. Credo si stiano recando alla dimora che la madre della signorina Wyler ha comprato due anni fa poco lontano da qui.» Un’altra pausa.

«È ancora in linea?», domandò Weber. «Sì.» «Cosa devo fare?» «Lei? Nulla. Assolutamente nulla. Ci pensiamo noi.» «Certamente», rispose, sentendo la comunicazione interrompersi e il cuore che batteva all’impazzata.

Capitolo 34

Ufficio del rettore, King’s College, Londra. Stesso giorno. Ore 14:55

Edward Hughes giocherellava nervosamente con il suo anello d’argento su cui erano incisi squadra e como: lo faceva roteare sul tavolo mentre rifletteva sul da farsi. Aveva seguito con discrezione le indagini di William e Alicia e sapeva che altri ne stavano controllando le mosse. Aveva diverse domande a cui dare delle risposte. Domande che, in alcuni casi, risalivano a molti anni prima, quando, in seguito a una carriera luminosa, gli era stato offerto di entrare nella Massoneria. Da quel momento la sua vita era stata una serie ininterrotta di successi professionali e non aveva alcuna intenzione di farsi da parte proprio ora o rinunciare alla sua posizione. Rifletté sulla situazione mentre il movimento vorticoso dell’anello lo riportava alla turbina a implosione di Schauberger; conosceva bene quell’argomento, aveva più volte seguito il lavoro di William e le sue pubblicazioni sugli esperimenti scientifici sovvenzionati dal Terzo Reich. Poi fissò il vuoto seguendo un pensiero e si voltò verso la grande libreria alle sue spalle, scorrendo i volumi di uno scaffale finché non trovò ciò che cercava, uno studio puntuale di uno storico italiano sul Mein Kampf.

Lesse l’indice scorrendolo con il dito e trovò nell’ultimo capitolo, intitolato Verso una teoria psichica della storia, ciò che cercava e ne lesse un brano, accuratamente evidenziato e commentato da lui stesso a penna con note a margine molti anni prima.

Allo stesso modo, le ideologie si manifestano a seconda del momento storico; tuttavia un trauma (in questo caso può essere una forma di oppressione o un’ideologia imposta dalla morale corrente, dal dogmatismo religioso, da quello scientifico, o da altre cause) può bloccarne l’espressione universale che verrà

trattenuta dalle masse accumulando una forte o fortissima tensione, fino a che, in prossimità di condizioni storiche favorevoli, potrà manifestarsi. Si a così dalla nascita ed espressione spontanea di un’ideologia al suo blocco o censura, fino al successivo ripresentarsi al momento opportuno e alla reazione opposta, a cui seguirà un’altra reazione e così via, seguendo una speciale onda sinusoide. Un po’ come all’Illuminismo, in cui si seguiva la dea Ragione, seguì il Romanticismo in cui si lasciava libero sfogo alle emozioni irrazionali, per intenderci. Una curva sinusoide parziale in cui a un picco fa seguito un picco di opposta intensità. Certo sarebbe interessante, anche se probabilmente poco efficace, identificare la complessa funzione matematica che descrive il comportamento generale della storia dell’uomo per trovarne una curva rappresentatrice e quindi per esplorarne, anche se solo parzialmente, presente, ato e anche il futuro: al nostro scopo, tuttavia, basta la presa di coscienza di una Teoria Psichica della Storia, e cioè il comprendere che una storia fatta da menti umane presenterà le stesse caratteristiche del comportamento psichico dell’uomo.

Sul tavolo c’erano già alcune fotocopie a colori di documenti antichi tra cui uno in latino con una serie di formule matematiche. Lo emozionava sempre pensare alla storia dell’uomo come una serie di eventi riassumibili da una funzione in grado di comprendere i comportamenti umani, che erano, tutto sommato, sempre gli stessi e prevedibili. Inserendo i dati necessari in un mainframe eccezionalmente potente si sarebbe potuto ottenere un chiaro grafico quadridimensionale, in grado di evidenziare il ato, il presente e il futuro dell’umanità. Ciò che non gli era affatto chiaro era come faceva Giordano Bruno a conoscerla.

Capitolo 35

Casa di Helen Wyler, vicinanze di Bad Ischl, Austria. 15 giugno 2017. Ore 17:50

Quindici minuti più tardi, su una strada secondaria a pochi chilometri dalla sede della PKS, parcheggiarono l’auto a noleggio di fianco di una cassetta postale di un rosso fiammante. William e Alicia scesero e diedero un’occhiata intorno: era una classica casa di legno, piuttosto recente, ben tenuta, con il giardino e l’esterno ben curati, segno che forse ci abitava qualcuno.

Il cuore della donna fu assalito da un turbine di pensieri. William la accompagnò fino alla soglia. Non c’era il camlo e l’uscio era aperto, per cui decisero di entrare dopo essersi scambiati un cenno.

«C’è qualcuno?», domandò più volte William senza ottenere alcuna risposta. Nel soggiorno videro un caminetto, un tavolo circondato da sedie, un televisore. Tutto in ordine e pulito. Forse la casa era stata venduta e ora c’erano dei nuovi proprietari, pensò William.

L’immobile si sviluppava su due livelli. Al pianterreno il soggiorno che dava direttamente sull’entrata, la cucina, una camera studio, un ripostiglio, un bagnetto e la cucina. Al piano superiore, cui si accedeva tramite una scalinata, dovevano esserci le camere da letto. A parte il mobilio non c’erano elementi per stabilire chi vivesse in quella casa. Niente foto incorniciate, libri particolari, cd… insomma, quegli oggetti che descrivono a prima vista il carattere di una persona. La cucina era incredibilmente linda, come se nessuno l’avesse mai utilizzata. Continuarono a dare un’occhiata in giro con circospezione finché, improvvisamente, si trovarono di fronte un uomo alto e con una folta barba

bianca vestito con tenuta da cacciatore e stivali verdi di gomma.

Doveva essere appena rientrato e si era piazzato all’ingresso, puntandogli contro un fucile. Quando Alicia se lo trovò davanti, mentre tornavano dalla cucina al soggiorno, emesse un grido di spavento. L’uomo, altrettanto intimorito, fece un o indietro.

«Chi siete? Cosa volete?», chiese con fare concitato. «Metta… metta giù l’arma», disse William rimanendo immobile. «Non siamo malintenzionati.» Poi spiegò chi fossero e cosa ci fero dentro la casa. «La porta era aperta e siamo entrati», gli fece notare Alicia. Dopo le spiegazioni l’uomo parve rasserenarsi. Allungò il collo, come per avvicinarsi e vedere meglio, facendo due i in avanti. Poi cambiò di colpo espressione: «Lei è Alicia?» Era uscito dalla zona d’ombra e ora si trovava a pochi metri dalla donna. Tolse le cartucce dal fucile appoggiandolo al muro e si avvicinò ai due. «Ci conosciamo?», domandò lei. «Oh, scusate… credevo foste dei ladri. Mi chiamo Heinrich Pohl, ero il giardiniere e tuttofare di sua madre.» «Non si preoccupi, anzi sono lieta che lei si sia preso cura della casa», disse Alicia sentendo l’ansia svanire. «La signora Wyler mi ha parlato spesso di lei.»

Pohl aprì un cassetto e prese una fotografia incorniciata che ritraeva Alicia il giorno della laurea. Nello stesso mobile vi era un’altra immagine che la immortalava all’età di sei anni. Quando vide le foto Alicia sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Aver conservato quelli scatti era una chiara dimostrazione dell’amore che quella madre era stata incapace di manifestarle in vita. Qualche decina di minuti dopo erano seduti intorno al tavolo di cucina. Pohl aveva apparecchiato per tre offrendo agli ospiti formaggio locale, speck austriaco e vari tipi di salumi che, spiegò, realizzava lui insieme ad altri amici. La migliore qualità che si potesse trovare. In ultimo mise sulla tavola una bottiglia di vino rosso senza etichetta e riempì una caraffa di acqua del rubinetto. Gli intensi sapori con una punta di selvatico e il profumo della natura che inondava l’ambiente si mescolarono all’odore del legno della casa e dell’erba da poco innaffiata da un irrigatore. Ad Alicia la fetta di pane a fette cotto da poco dal forno di Bad Ischl con formaggio e speck parve buonissima e, mentre l’atmosfera si faceva più rilassata, anche grazie al vino dalla gradazione abbastanza forte, Pohl spiegò loro che lavorava in quella casa già con il vecchio precedente proprietario.

Per un paio di mesi aveva gestito la proprietà nel migliore dei modi, visto che la signora Wyler dopo l’acquisto non si era fatta più vedere. Solo dopo aveva ricevuto una lettera da un notaio americano che curava gli interessi della padrona di casa in cui veniva comunicato che la donna era deceduta a causa di un incidente stradale. «E come mai lei è rimasto qui?», domandò Alicia. «Perché dovevo aspettarla», disse in modo serafico. «Cosa?» «Il notaio mi ha comunicato che la dimora è ata nelle disponibilità della figlia della povera signora Wyler, cioè lei…» «Peccato non ne sapessi nulla», ribatté Alicia. «Io ricevo un regolare stipendio da un lascito della signora Wyler. Devo curare

l’immobile, tutto qui.» «Ma perché non sono stata avvertita?», chiese con fare risentito. «C’era una lettera… una lettera che sua madre aveva consegnato al notaio insieme alle sue ultime disposizioni. Ne ebbi una copia. Mi colpì molto, perché sembrava che la signora Wyler sentisse che le sarebbe accaduto qualcosa. Io ho seguito puntualmente le istruzioni e ho continuato a tenere questa casa meglio che potevo in attesa di un suo arrivo. Non so altro.» «Forse tua madre voleva che fossi tu a trovare la casa», aggiunse William. «Che senso avrebbe?», ribatté lei.

«Comunque adesso è sua», disse Pohl. Tirò fuori le chiavi da una tasca e le allungò ad Alicia. Lei era stupita. Rimase diversi secondi in silenzio, guardando il piano del tavolo. Quindi domandò: «Mi dica di più, signor Pohl, la prego, su mia madre.» Il tuttofare raccontò come avesse conosciuto Helen Wyler, del fatto che l’aveva vista solo per pochi giorni e poi più nulla. In quel periodo ebbe modo di raccontare che si era separata dal marito e che si trovava a Bad Ischl per alcune ricerche. Lavorava parecchio al computer e studiava su montagne di documenti che lui aveva aiutato a sistemare nello studiolo.

Alicia gli aveva subito chiesto di che natura fossero quei documenti. Ma Pohl aveva risposto che non aveva idea di che cosa si trattasse… anche se, dando uno sguardo distratto, si era accorto che in molti fogli c’erano disegni, formule.

«Non si ricorda nient’altro?», incalzò William. «Ricordo che mi disse che aveva finalmente trovato quello che cercava. Credo sia successo uno o due giorni prima della sua partenza. Era eccitata, contenta…

o almeno così sembrava. Mi aveva mandato a comprare un bel po’ di materiale spiegando che doveva far fare degli scavi vicino casa. Però non aggiunse altro.» «Degli scavi? Potrebbe dirci dove?», domandò Alicia. Pohl scrollò le spalle: «Mi spiace, non glielo saprei dire. Però dovevano essere scavi profondi perché, oltre al materiale che acquistai, mi fece chiamare una ditta edile della zona perché potessero affittarci una ruspa piuttosto grossa.» William e Alicia si scambiarono uno sguardo complice. «Quando partì, per caso le spiegò il motivo?», chiese la donna. «Beh… sono ati due anni…» «Si sforzi, signor Pohl, è molto importante», insistette William. «Dopo che mi riferì raggiante di aver trovato quello che cercava, aggiunse che doveva partire in fretta, che sarebbe stata via per un po’… Tutto qua. Mi spiace non poter dire di più.» «La ringrazio ugualmente, signor Pohl.» Alicia si guardò attorno. La casa era molto bella, e ora era sua. Domandò all’uomo se avesse altri impegni lavorativi e se sarebbe stato disposto a curarla per l’avvenire. L’altro fu contento di poter confermare il suo impegno. William intanto rifletteva. La vicenda di Helen Wyler era strana, maledettamente strana.

«Sa per caso dove la signora conservava il computer e il materiale che studiava?» «Il computer l’ha portato via, era uno di quelli portatili. Le carte e i fogli non so, forse ha portato via anche quelli.» «Chissà dove saranno finiti», mormorò William, intuendo che poteva trattarsi di materiale molto interessante.

Pohl si grattò leggermente il mento. «Però… adesso che mi viene in mente, ricordo che la signora disse qualcosa che sul momento non aveva molto senso per me. Affermò che probabilmente, prima o poi, sarebbe venuta sua figlia, che avrebbe saputo lei continuare il suo lavoro… sì, disse proprio così.» Alicia rimase perplessa e confabulò con William per qualche minuto: non aveva idea di cosa avesse voluto dire sua madre con quelle parole. Come poteva ipotizzare che prima o poi sarebbe finita da quelle parti? Ma la domanda più importante era un’altra: cosa stava studiando Helen? Terminarono di mangiare e Pohl mostrò loro la casa e l’enorme tenuta di circa venti ettari che si estendeva tutto intorno incuneandosi tra due montagne e una vallata. Non sarebbe stato possibile individuare dove aveva fatto scavare, sempre che lo scavo fosse avvenuto in quell’area di sua proprietà. Tuttavia c’era qualcosa che le sfuggiva, se Helen Wyler aveva detto che Alicia avrebbe saputo continuare il suo lavoro era probabile che avesse lasciato qualche indizio affinché questo avvenisse. Ma cosa? Il dubbio le si agitò nella mente per un po’ fino a che non prese il suo cellulare. Entrò in Google Earth. Visionò la proprietà in tutta la sua estensione ma non trovò nulla di interessante. Chissà a quando risalivano quelle immagini satellitari. Poggiò il cellulare e portò le mani al ciondolo che le pendeva al collo, un regalo di sua madre poco prima che morisse. Lei lo aveva accettato, non fosse altro perché era così raro che Helen mostrasse la sua affezione verso la figlia. Nel donarglielo aveva insistito raccomandandosi che lo portasse sempre, perché in quel modo lei sarebbe sempre stata con Alicia. E, soprattutto, le aveva detto che il ciondolo le sarebbe stato utile più avanti. Alicia aveva annuito, chiedendole cosa volesse dire ma non aveva ricevuto risposta. Era un semplice ciondolo d’oro, carino ma nulla di più, a forma di cuore con dei minuscoli numeri e lettere incisi sul retro. Alicia non li aveva notati quando glielo aveva donato e quando se ne era accorta Helen era già morta, per cui non era mai riuscita a sapere cosa indicassero. Ma ora, forse… Sotto lo sguardo stupito di William si tolse il monile e rilesse i numeri e le due lettere. Poi cercò una modalità in GPS e digitò i numeri come se fossero gradi, minuti e secondi, le lettere come se fossero le coordinate latitudinali e

longitudinali. Quindi cliccò su “vai”.

Gli occhi di Alicia si illuminarono. Chiese a Pohl di portarle un po’ d’acqua, una scusa per allontanarlo e inviarlo verso la casa. Quando l’uomo fu a debita distanza la donna mostrò il display all’amico. «Mia madre ha scavato in questo punto!» Spiegò velocemente come avesse fatto a capirlo e la storia del ciondolo. William era felicemente sorpreso. «Quindi potrebbe darsi…» «Sì, magari mia madre ha nascosto lì i suoi studi o documenti.» William seguì Alicia che si incamminò verso nord e si fermò accanto a una radura e un gruppo di rocce di medie dimensioni; osservò il tutto senza dire nulla; entrambi erano piuttosto emozionati e William si complimentò con l’amica per essere riuscita a capire il messaggio della madre. «Grazie William», rispose lei con un sorriso soddisfatto, «ora però dobbiamo procurarci l’attrezzatura per lo scavo. Ho visto che poco distante da qui c’è una costruzione, andiamo a vedere. Magari troviamo qualcosa di utile.»

Era tutto lì: vanghe, picconi, carriola; speravano di non dover scavare una buca troppo profonda, altrimenti ci avrebbero messo ore. Poco dopo videro Pohl ritornare e Alicia, per poter rimanere in tranquillità, le disse che aveva il resto della serata libera. L’uomo ringraziò, chiese loro se avrebbero dormito in casa oppure da qualche altra parte e promise che sarebbe riato l’indomani mattina alle otto, come faceva sempre. Erano di nuovo soli. William, dopo essersi rimboccato le maniche della camicia, cominciò a scavare con una vanga: fortunatamente il terreno era morbido e non ebbe grosse difficoltà.

Raggiunse circa un metro e mezzo di profondità; stava cominciando a preoccuparsi, quando Alicia gli ricordò che sua madre aveva utilizzato una ruspa di medie dimensioni, e quindi era normale che non si dovesse aspettare di trovare qualcosa in superficie. Stava sudando da almeno un’ora quando un improvviso rumore metallico lo bloccò.

Dal basso William scambiò uno sguardo con Alicia: si guardò intorno e, assicuratosi che non vi fossero curiosi, si chinò a pulire di terra il contenitore che cominciava ad affiorare. Qualche istante dopo estrasse una grossa valigia di alluminio. Uscì dallo scavo e la pose di fronte ad Alicia. Ma c’era qualcos’altro. Solo dall’alto si notava accanto a dove aveva smosso il terriccio. Tornò giù e ripulì anche in quel punto. Faticosamente, visto che non riusciva a smuoverlo, tolse la terra tutto intorno scavando più a fondo e riportò alla luce un grosso contenitore cilindrico di colore verde, sigillato, di circa un metro di diametro e un metro e mezzo di altezza. Sul coperchio, saldato a fuoco, vi era l’indicazione del peso netto del materiale contenuto. Riportava inoltre alcune indicazioni sul contenitore, spiegando che era costituito da piombo rivestito da un acciaio inossidabile speciale. Sulla parete cilindrica vi era una targa metallica con la sigla SS-Ahnenerbe Xerum 525. «Mio Dio! Ci siamo», esclamò lei con le mani davanti alla bocca per l’emozione. William fremeva osservando il manufatto. Il tempo sembrava essersi fermato, esattamente come era accaduto a Wewelsburg, quando avevano trovato nel sotterraneo i documenti di Hirt. L’aria si era fatta più fresca mentre il sole delle Alpi austriache sembrava prossimo ad abbandonarli.

Alicia era pervasa da una ineffabile sensazione che non riusciva bene a definire, un pensiero che le attraversava il corpo manifestandosi fisicamente, un’emozione profonda legata a una riflessione: sua madre era stata lì e le aveva lasciato qualcosa che lei riteneva così importante da doverlo seppellire e occultare. Qualcosa che aveva destinato a lei. Perché tutta quella segretezza? Che collegamento c’era tra le loro ricerche e quelle di sua madre? In quel momento una folla di domande bussavano senza risposta. Poi guardò il

cilindro, perplessa. Anche William pareva frastornato e indeciso.

Fu l’uomo a richiamarla alla realtà. «Questo è il famoso Xerum 525, il Mercurio Rosso», disse d’un fiato, chiedendosi se fosse pericoloso stargli così vicino, quasi fosse a contatto con una barra di plutonio. «Il Mercurio Rosso», ripeté Alicia. «Già, quello che si cerca dal 1945 e un tempo era custodito a Weisses Thor. Non so come, ma tua madre l’ha trovato. Se si dovesse vendere sul mercato nero… non avrebbe prezzo. E sarebbe terribilmente pericoloso. Forse… forse sarebbe meglio ricoprirlo di terra e lasciarlo dov’è. Qui non lo scoprirà nessuno.» «Sì. Lasciamolo dov’è. Sono d’accordo. Se in futuro ne avessimo bisogno, sappiamo dove trovarlo.» William lavorò di vanga, aiutato dall’amica e, in poco tempo, ricoprirono lo scavo. Poi ci saltellarono sopra e con alcuni rami spazzarono la superficie della terra, cercando di eliminare le tracce, mimetizzandole poi con frasche. Subito dopo si concentrarono sulla valigetta.

«Andiamo», disse lei sollevando l’involucro e dirigendosi verso la villa. Giunsero così sulla soglia di casa, entrarono e chio la porta sistemando il contenitore metallico sul grande tappeto del salotto.

«Apriamo?», le chiese lui guardandola negli occhi. «Certo.» William dovette utilizzare molta forza con le grosse tronchesi per rompere i due lucchetti. Poi si dedicò alla combinazione ma vide che bastava spingere i due

pulsanti, cosa che fece con una sensazione a metà tra il timore che vi fosse qualche trappola esplosiva e la ione dell’archeologo che aveva appena trovato un tesoro. Con uno scatto metallico la valigia si aprì e il loro cuore cominciò a battere all’impazzata mentre William sollevava il coperchio. «Oh!», esclamò Alicia quando vide cosa c’era all’interno.

Capitolo 36

Casa di Helen Wyler, vicinanze di Bad Ischl, Austria. 15 giugno 2017. Ore 20:20

La valigia metallica campeggiava nel vasto soggiorno di legno. Al suo interno conteneva diversi plichi. William cominciò l’esplorazione ando ad Alicia una busta che recava la scritta a mano: per Alicia. Lei, titubante aprì la busta e cominciò a leggere.

Alicia, tesoro mio, se stai leggendo questa lettera significa che hai compreso il messaggio del ciondolo. Sei una donna molto intelligente, il mio orgoglio di madre, e ti volevo dire che so bene di non essere stata una mamma affettuosa come volevi tu. E te ne chiedo scusa, ma ti voglio tantissimo bene, come solo una mamma può fare. So di aver commesso tanti errori nella mia vita, soprattutto con te. Non so darmi pace per averti tenuto lontana. Ma l’errore più grande è stato quello di entrare a far parte di The Rune, un gruppo di persone di cui è membro anche tuo padre e che sta creando le basi per l’avvento di un Nuovo Ordine Mondiale. Ciò che mi accingo a scriverti è molto grave, una cosa che sta mettendo a rischio la mia vita e non so se ne uscirò viva, in ogni caso quello che troverai in questa valigia – documenti, fotocopie e tutto il resto – è la storia di The Rune e di quello che stanno realizzando.

L’organizzazione è procinto di are alla “fase due”, il secondo di tre momenti storici pianificati da molto tempo e progressivamente realizzati. Ma è meglio che cominci dall’inizio.

Alicia dovette fermarsi un paio di volte; leggeva la lettera ad alta voce perché aveva bisogno di condividere con William quel momento: voleva che lui sapesse, che conoscesse i suoi intimi sentimenti e non si diede alcun pensiero quando, appoggiandosi al suo petto, cedette per qualche attimo alle lacrime, mentre lui la abbracciava e la rassicurava.

Ma si riprese subito e continuò a leggere. Quelle parole generarono in entrambi paura, incredulità e anche repulsione per l’assoluto cinismo che circondava The Rune. Helen spiegava che The Rune, acronimo di The Ring of United New Establishment, era il nome moderno del vertice del gruppo degli Illuminati, ideato dal banchiere ebreo Mayer Amschel Rothschild nel 1773. Egli aveva riunito i suoi dodici amici più fidati e insieme a loro cominciato a porre le basi per una cospirazione che aveva lo scopo di creare una sinarchia, ovvero un governo di poche persone, tutte iniziate a un culto segreto, ricchissime e potenti. Rothschild trovò in Johann Adam Weishaupt la persona giusta per guidare la sinarchia e ne fece il capo della società segreta degli Illuminati di Baviera che fu ufficialmente fondata nel 1776. Da quel momento la famiglia Rothschild divenne sempre più influente e potente, entrando a far parte di quel ristretto circolo, a cui, nel corso di molti anni, si unirono i capostipiti di famiglie come i Rockefeller, i Warburg, i Bush e altri: un nucleo di persone che insieme ai loro discendenti avrebbe portato alla realizzazione finale il piano di Mayer Amschel Rothschild. La lettera spiegava che nel 1782, durante il Congresso di Wilhelmsbad, l’Ordine degli Illuminati si era fuso con la Massoneria, radicata e diffusa nei governi delle nazioni più potenti e, nel corso del tempo, ne aveva assunto il controllo. Aggiungeva, inoltre, che la Massoneria, specialmente negli Stati Uniti d’America, era sempre stata parte integrante della politica di quel paese: il trenta per cento dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza erano massoni, molti presidenti e uomini influenti, da George Washington a Benjamin Franklin, da Roosevelt a Truman, erano massoni e quasi tutti Gran Maestri di grado elevato. Alicia guardò William interrogativamente. Lui confermò quelle informazioni aggiungendo: «La cosa è ben nota, anche se utilizzata in malo modo dai tanti siti cospirazionisti attivi su Internet. Io stesso ho dedicato un capitolo al Nuovo Ordine Mondiale nel mio ultimo libro su Hitler.»

Alicia continuò la lettura, poi si fermò e cercò nel portafoglio, come le suggeriva sua madre, una banconota da un dollaro. Rabbrividì nel constatare quanto scriveva Helen.

Sul retro della banconota, sulla sinistra, c’è una piramide. È il simbolo della Massoneria. Questo significa che i massoni hanno asservito ai propri disegni le maggiori banche e la finanza mondiale. Hai notato la scritta latina annuit coeptis sopra la piramide e novus ordo saeclorum sotto? Significa: “Arride agli iniziati un Nuovo Ordine Mondiale”. La piramide è tronca e il suo vertice è costituito dal triangolo in cui è inscritto l’occhio massonico, il simbolo della religione segreta che essi condividono e che vogliono estendere al mondo intero. In pratica The Rune è il nuovo nome che si sono dati gli Illuminati e, credo, oramai sono all’epilogo del loro piano.

«William, ma allora non erano solo vaneggiamenti e cose da cospirazionisti.» «No, Alicia, purtroppo no. Tua madre ha… aveva perfettamente ragione. Tra l’altro, se guardi bene, ti accorgerai che la piramide è formata da settantadue mattoni su tredici livelli: è uno dei simboli più rappresentativi degli Illuminati. Fu proprio il Presidente Roosevelt a farlo stampare sul dollaro. E vedi la cifra in numeri latini alla base della piramide?» «Sì», rispose Alicia aguzzando la vista. «È una data…» «Il 1776», fece lei.

«Cioè l’anno di nascita degli Illuminati. La posizione non è casuale: è posta alla base della piramide, ciò significa che il 1776 è considerato l’anno in cui tutto ha inizio, il momento fondamentale del loro piano. Da questo anno in poi si svilupperanno gli eventi che porteranno al Nuovo Ordine Mondiale tanto agognato.»

«Tu sapevi già tutto…», disse Alicia con amarezza. «Ho studiato molto questa materia, ecco perché non ho voluto accettare l’offerta di tuo padre, per quanto affascinante, di entrare nella Massoneria americana.»

«La lettera non è terminata, senti qui», continuò Alicia, mentre la preoccupazione di William sembrava crescere riga dopo riga. Helen Wyler spiegava che gli obiettivi di The Rune erano i medesimi degli Illuminati: creare tempeste finanziarie in rapida successione, aumentare la disoccupazione, demolire i valori tradizionali, pilotare i media, che risultavano essere tutti in loro possesso, in modo tale da gettare il mondo nel caos sociale ed economico. Il fine ultimo era scatenare una terza guerra mondiale, suscitando una crisi irreversibile in Medio Oriente, destabilizzando Siria e Iran, paesi da cui si sarebbe innescata la miccia incendiaria del nuovo conflitto.

«Possono farlo?», domandò Alicia, interrompendo la lettura. «Certo. Divenendo i maggiori azionisti delle principali banche mondiali e degli istituti di credito nazionali, hanno praticamente acquisito il controllo assoluto sull’economia di tutti i Paesi avanzati, senza parlare dei cosiddetti Paesi del terzo mondo. Con una infinita serie di manovre speculative hanno sottratto ricchezze inimmaginabili provocando una voragine di debiti impossibile da colmare. Diverse economie nazionali sono entrate in declino, recessione e default proprio per questo. Vivono sotto la costante minaccia della bancarotta.»

Alicia lo ascoltava senza dir nulla. Era facile verificare l’attendibilità delle parole di William facendo un rapido riferimento a quanto era accaduto negli ultimi anni in campo economico.

«La crisi endemica porterà i governi della gran parte dei Paesi sull’orlo della disperazione, dell’isteria. Perché qualsiasi soluzione adottata sarà inutile contro

titoli “tossici”, manovre finanziarie speculative, interventi di agenzie di rating al soldo del progetto. Il risultato è scontato. Impossibilitati a trovare una via di scampo, i Paesi sotto attacco economico, incapaci di risolvere da soli la questione, ascolteranno i propugnatori di un piano “salvifico” alla portata di tutti. Un piano, nota bene, portato avanti per decenni, secoli, descritto nei particolari da studiosi prezzolati e governanti a libro paga: la creazione di una banca mondiale centralizzata, di un’unica moneta e, soprattutto, di un unico governo mondiale.»

«E ci riusciranno?» «Il movimento è già in atto… la costruzione dell’Europa Unita ne è un esempio. Aberrante, ma lo è. Una unione meramente finanziaria, che impone vincoli e lacci e strozza i più deboli, a vantaggio dei grandi trust e delle multinazionali controllate sempre dai soliti.» «D’accordo, creeranno una moneta unica, detteranno legge in campo economico… ma poi? Come pensano di controllare tutto e tutti?» William sorrise amaramente. «Il o successivo, come ci ricordava anche Richard, sarà quello di eliminare le religioni.» Alicia sospirò. «Hai ragione, sono più o meno le stesse cose che descrive mia madre. Leggi qui…» Gli mostrò un o successivo della lettera dove Helen metteva nero su bianco quello che sarebbe accaduto dopo l’eliminazione delle religioni tradizionali, considerate una forma di asservimento dei popoli e, ancor peggio, come l’unico ostacolo tra gli Illuminati e il potere totale. Una volta fatti fuori Cristo, Buddha, Allah e quant’altro, i nuovi padroni del mondo avrebbero potuto infine imporre il proprio culto segreto. Il piano sarebbe stato realizzato in più fasi e un ruolo di primo piano l’avrebbero svolto le Nazioni Unite, l’unico ente veramente sovranazionale che possedeva i mezzi per metterlo in pratica. «Ma se non riescono mai a mettersi d’accordo su nulla?», fece notare Alicia. «Ora… ma con l’acuirsi delle crisi, molti governi cederanno sempre più quote di potere alle Nazioni Unite, un po’ come hanno fatto i Paesi europei con l’UE.»

William spiegò ad Alicia che presso la sede delle Nazioni Unite a New York esisteva, costruita su progetto di un architetto al soldo dei Rockefeller, una sala di meditazione realizzata secondo simbologie massoniche. Ciò significava che l’ONU era, in effetti, asservita agli scopi della Massoneria internazionale e, di conseguenza, a The Rune. La lettera spiegava come The Rune avesse finanziato negli anni ’30 del secolo precedente Hitler, il quale all’interno della Thule Gesellschaft, la Società Thule, condivideva lo stesso culto segreto di Illuminati e massoni. Hitler era sembrato in grado di realizzare il Nuovo Ordine, di cui parlava costantemente. Per questo dei finanziatori ebrei non si erano posti alcuno scrupolo ad aiutarlo nella sua ascesa, benché le sue opinioni sulla fede giudaica fossero note. Poi però aveva cominciato a prendere decisioni personali, a vedere le cose in modo troppo nazionalista. Insomma, il progetto che perseguiva non collimava più con quello di The Rune il cui vertice, a quel punto, decise di mettere fine all’esperimento “nazionalsocialista” tedesco, facendo in modo che gli Stati Uniti scendessero in guerra contro la Germania. In questo caso avevano puntato sul cavallo sbagliato. Troppo imprevedibile il piccolo caporale austriaco per imbrigliarlo… ma in fin dei conti si era trattato di un semplice smacco, di un impedimento momentaneo, come ne erano già accaduti altri nel corso della storia. Il Nuovo Ordine Mondiale si sarebbe realizzato, ma dopo il führer.

«Certo è proprio strano che Hitler fosse finanziato da famiglie ebree», disse Alicia. «Beh, si dice che Hitler stesso fosse un discendente illegittimo del barone Salomon Rothschild di Vienna, il quale pare ingravidò sua nonna quando lavorava presso di lui come governante.» Si scambiarono uno sguardo che valeva più di mille parole. «Quindi anche Hitler era ebreo?» «Pare proprio di sì…», ammise lui. La donna continuò a leggere le parole di sua madre che tracciavano un

parallelismo tra quello che era accaduto in ato e quanto sarebbe successo di lì a un prossimo futuro. Il controllo assoluto che Hitler aveva esercitato sui tedeschi, grazie soprattutto alla sua formidabile propaganda, era lo stesso che The Rune avrebbe imposto al mondo utilizzando in questo caso tecnologie moderne e quasi sempre mascherate da innocui mezzi del vivere quotidiano: Internet, i cellulari, le carte di credito. Per questo tali tecnologie erano divenute alla portata di tutti: erano il miglior sistema di controllo di ogni più piccolo aspetto della vita di ogni singolo uomo sullaTerra. Grazie a loro era possibile tracciare, in ogni istante, il profilo di chiunque, sapere come spendevano i propri soldi, conoscere i propri orientamenti politici, sessuali, privati… non a caso, soprattutto negli Stati Uniti, negli ultimi anni il denaro contante era progressivamente sparito, rendendo obbligatorio l’utilizzo sempre maggiore di carte di credito. Non per nulla Internet, nato come strumento militare, era ora nelle case di tutti. E certamente non a caso, grazie ai sistemi inseriti in ogni cellulare, era possibile conoscere perfino il punto in cui si era transitati in data ora e in tale giorno. E le cose sarebbero peggiorate sempre più, il controllo sarebbe divenuto ancora più serrato. Entro breve gli Stati Uniti avrebbero reso obbligatoria l’installazione sottocutanea di un microchip, in sostituzione dei documenti personali: aporti, carte d’identità, tessera sanitaria… Helen riferiva che in quegli ultimi tempi si stavano sperimentando i primi modelli e che presto, grazie a questi “intrusi”, sarebbe stato possibile operare qualsiasi transazione, comunicare con chiunque, eliminare i fastidiosi documenti cartacei. Il rovescio della medaglia era che, accanto a una superficiale e tanto contrabbandata comodità, tutti quanti sarebbero stati ancor più “osservabili”. E ricattabili. Per punire un individuo insubordinato alle nuove regole sarebbe bastato diminuirgli o azzerargli i crediti, togliergli la possibilità di comunicare e di avere accesso a qualsiasi servizio, anche fosse il semplice acquisto di cibo, o chiedere cure mediche. Chiunque fosse stato fuori dal coro sarebbe stato “eliminato” in modo indolore dalla società. Espulso da essa. In questo modo gli elementi inattivi o improduttivi sarebbero stati cancellati dal Nuovo Ordine. «Incredibile», commentò Alicia. «Senti qui.»

Io faccio parte di The Rune dal 1967, tuo padre da prima, da quando era ancora conosciuto come Malcolm Hume. So che sto per darti una notizia che non

potresti mai immaginare, ma lui è figlio del miliardario Ronald Hume; cambiò cognome da giovane, quando suo padre morì. Io lo conobbi come Wyler e sono venuta a saperlo solo molto più tardi. Comunque, essere parte di questa nuova visione mondialista mi sembrava un modo bellissimo di cambiare le cose, e ci stavamo riuscendo, grazie alla rivoluzione dei valori del ’68 e a molti altri eventi. Ma poi, nel corso dei decenni, la realtà si manifestò nel suo vero aspetto: The Rune non è una società di filantropi, dediti al bene dell’umanità. No, è un’organizzazione di criminali, disposti a tutto pur di portare a termine il loro piano. Se solo pensiamo che sono stati capaci, per secoli, di nascondersi e occultarsi così bene, capirai quanto pericolosi possano essere. Non c’è nulla, nella storia degli ultimi duecentocinquant’anni, che non si possa ricollegare a essi. Hanno cominciato con la Rivoluzione se, mandando a morte un re e, da quel momento, non si sono più fermati. Sarebbe impossibile elencare tutte le guerre, i disastri, le morti che hanno provocato. Sono mostri che, per i loro scopi, hanno creato le più grandi aberrazioni: il comunismo, il capitalismo, gente come Stalin, Pol Pot, Hitler, il colonialismo sfrenato e il decolonialismo senza prospettive. Ogni fatto o avvenimento importante è accaduto solo ed esclusivamente perché essi l’hanno voluto. Anche l’11 settembre, o i talebani, o la moderna jihad, sono tutte loro “creature”. Sono dei mostri sanguinari: e mio marito è uno di questi. Io ti ho allontanato da lui per proteggerti. Non ti ho potuta seguire come avrei voluto… ma lui non me lo permetteva. Piano piano mi sono resa conto di quanto fosse folle. Preda del suo stesso oscuro sogno, allucinato dal suo fascino perverso. Ecco il motivo delle sue crisi di furore che anche tu conosci, frutto del contatto con un essere misterioso. Malcolm lo chiama L’Osservatore. Non so bene chi sia, non lo conosco realmente anche se è sempre stato molto legato alla nostra famiglia. Ma lui è l’artefice di tutto. Non ho ben capito come mai dodici membri di The Rune, quelli che reggono le sorti di questo misero pianeta e che desiderano asservirlo in ogni modo, ne subiscono l’influenza. Da L’Osservatore hanno ottenuto ogni cosa desiderabile da un uomo: potere e ricchezza illimitati. Ma vogliono sempre di più, sempre di più… e lui li domina, facendo leva sulla loro avidità. Poi, non posso spiegarmelo altrimenti, credo che influisca anche sul fisico di ognuno dei dodici. Come se la sua vicinanza sprigionasse una tale diabolica potenza da debilitarli. È lui che devi temere sopra ogni cosa. Scappa, fuggi, non lasciarti imbrigliare dalla loro organizzazione. Hanno capito che non sono più del gioco, qualcuno mi ha tradita. Sto scappando da The Rune e so che prima o poi mi troveranno. Ma ho un vantaggio. Ho scoperto cosa stanno tanto affannosamente cercando. Quello che serve per completare il loro folle piano. So che ti sembrerà impossibile ma tutto ruota intorno agli esperimenti di uno scienziato austriaco, Viktor

Schauberger, e se sei qui saprai già di chi parlo. Esperimenti che conduceva per le SS di Himmler. È qui che si trovano le risposte, in una serie di funzioni matematiche conservate in uno strano libro di Giordano Bruno e che il Vaticano teneva ben nascosto nei suoi archivi. Sono equazioni e studi che permetteranno all’uomo di cambiare il continuum spazio-tempo.

Il racconto di Helen Wyler, il sapere che Malcolm fosse in realtà figlio di Hume e che per questo motivo Malcolm possedesse i documenti trafugati durante la guerra dal padre, causò in William e Alicia un brivido diffuso, un timore sordo, intenso come una radiazione fossile di fondo che inondava un universo diverso da quello che entrambi desideravano. Ciò che li rattristava di più era il fatto che tutto ciò che poteva sembrare un orribile incubo era la più pura realtà. Improvvisamente il loro mondo, fatto di ricerca universitaria, di lavoro, affetti, quotidianità era stato infranto come uno specchio i cui frammenti erano stati lanciati a distanza da qualcosa di mostruoso. Ora William finalmente comprendeva. La storia, quella che aveva studiato, era un fiume accanto al quale ne scorreva come uno squalo un’altra, dettata da coloro che potevano decidere le sorti dell’intero pianeta. Ora capiva cosa si celasse veramente dietro le scelte che avevano portato ai grandi sconvolgimenti storici, dalla Rivoluzione se a quella bolscevica, dall’avvento di Hitler alla politica estera americana o europea degli ultimi anni. Si trattava di un’immensa e unica scacchiera i cui i pezzi erano manovrati da un gruppo di uomini che, di padre in figlio, si tramandavano un progetto devastante per il futuro dell’umanità. Il piano di controllo mondiale da parte della sinarchia finanziaria di The Rune, pezzo dopo pezzo, aveva costituito le basi essenziali per il grande rivolgimento. Quasi tutto di quello che era stato pianificato si era effettivamente realizzato. Ora The Rune stava posizionando i tasselli finali per completare il quadro. Alicia, disgustata, avrebbe voluto distruggere la lettera e il contenuto della valigia metallica, cancellare tutto. Ma William la fermò.

«Per quanto possa trattarsi di qualcosa di sconvolgente dobbiamo assolutamente capire», disse. Ma lei lo osservò come fosse divenuto improvvisamente un estraneo. Cosa c’era

da capire? Non gli era forse tutto chiaro? Erano stati usati per un fine perverso.

La donna prese quanto sua madre aveva depositato nel fondo della valigia. Helen aveva lasciato un pacco con testimonianze, documenti e una lista, seppur incompleta e comunque molto corposa, di tutti i crimini commessi da The Rune dall’anno della sua nascita, il 1776, al momento in cui aveva seppellito la valigia. Diedero un rapido sguardo e a William si accapponò la pelle nel leggerla.

Capitolo 37

Casa di Helen Wyler, vicinanze di Bad Ischl, Austria. 15 giugno 2017. Ore 22:00

«Perfino Kennedy…» «Già, e gli altri non sono da meno. Guarda alla data dell’11 settembre 2001», aggiunse Alicia. La lista, una sorta di promemoria, si muoveva lungo l’arco cronologico 17762015. Accanto a ogni evento veniva segnalata la data, una breve descrizione dell’accaduto, i responsabili materiali, i motivi che avevano condotto all’azione e le conseguenze. Gli eventi erano contrassegnati da un numero che rimandava a documenti riportati in una pen-drive acclusa.

Nel caso dell’11 settembre era chiaro che il piano consisteva nell’attuare un attentato talmente scioccante da indurre l’opinione pubblica ad appoggiare senza remore una guerra contro il terrorismo. In realtà lo scopo finale era quello di ottenere l’eliminazione di Saddam Hussein – oramai fuori controllo, dunque non più utile – e impossessarsi dei gangli vitali dell’economia irachena, ossia dei pozzi di petrolio di Bassora, Mosul e altre località. Anche l’attacco ai talebani, additati come responsabili dell’attentato alle Twin Towers, era stato mascherato da intervento a protezione della popolazione locale vessata dagli integralisti. In realtà i talebani erano divenuti troppo avidi nel commercio degli stupefacenti di produzione locale. Pareva che volessero gestire gli affari per conto proprio. Andavano, chiaramente, eliminati.

Alicia e William si scambiarono uno sguardo eloquente.

«Una guerra per il petrolio, una per la droga…» «Petrolio, droga, strumenti diversi per un medesimo fine: il potere. Anche con quelli tieni sotto schiavitù la gente», replicò tristemente William. «Ehi, guarda qui», disse Alicia all’improvviso. Accuratamente conservati in una busta di plastica sigillata trovarono delle pagine strappate che si riferivano a padre Krunoslav Draganović. Erano i documenti invano cercati al convento di San Girolamo, a Roma, e fatti misteriosamente sparire. Insieme a questi erano conservate anche le pagine del libro di Viktor Schauberger che Richter aveva trovato mutilo nel suo archivio.

«Tua madre, praticamente, ha svolto la nostra ricerca… per quanto riguarda la seconda parte dell’incarico che ci hanno affidato. E ha trovato tutto quello che stavamo cercando.» «E questo cos’è?», domandò Alicia mostrando a William un altro fascio di documenti sigillati. Lui aprì l’incartamento e rimase concentrato sulla lettura per qualche minuto. «Sono le informazioni di base per comprendere la struttura di The Rune. Parla anche del misterioso personaggio conosciuto come L’Osservatore. Qui sostiene con ancora maggiore convinzione che si tratti del vero e proprio motore dell’organizzazione. Un personaggio oscuro, il cui volto non è mai ben delineato o visibile, con il quale i membri di The Rune si incontrano regolarmente.» Le carte di Helen rivelavano poi i nomi di tutti i dodici membri dell’organizzazione. Nomi che Alicia conosceva bene. Ognuno di loro aveva stretti rapporti con Malcolm Wyler e la Fondazione. Li aveva incontrati a ricevimenti ufficiali, in occasione di riunioni di lavoro; sapeva con chi erano sposati o chi frequentassero, con i figli di alcuni di essi aveva pure studiato.

Erano i discendenti di vere e proprie dinastie finanziarie che da quasi tre secoli si spartivano il potere e “creavano” la storia, indirizzando le scelte politiche verso l’una o l’altra direzione, a seconda dei loro interessi.

Ma ciò che tinse quel giorno di un’intensa tonalità mistica furono i documenti del XVI secolo che Helen era riuscita a trovare nell’Archivio Segreto vaticano, risalenti al pontificato di Gregorio XIII. Si trattava di un libro e del resoconto di un evento insolito, ato alla storia innocentemente sotto gli occhi di tutti col nome di Riforma del Calendario Giuliano. Era noto agli studiosi che nel 1582, per ovviare agli anacronismi del vecchio calendario, il papa avesse deciso per una sua riforma, dando vita a quello che poi sarebbe stato conosciuto come Calendario Gregoriano. Ma, oltre a ciò, Gregorio XIII si soffermava su una strana macchina che il filosofo eretico Giordano Bruno aveva concepito utilizzando una serie di funzioni matematiche sconosciute e dei dispositivi che in Occidente non erano mai stati visti prima. «Sconvolgente», rifletté ad alta voce William mentre, con accanto Alicia, davano lettura di quell’incartamento che odorava di secoli. Ancor più sconvolgente fu quanto la relazione riportava in merito allo strano strumento. Il papa spiegava come la machina mirabilis fosse in grado di aprire delle “porte” nella mente di chi la utilizzava, dei varchi in cui il concetto di ato, futuro, presente andavano modificando e divenivano, sostanzialmente, malleabili. Veniva anche spiegato il funzionamento del marchingegno che, a quanto lessero, era dato dalla rotazione di due grandi dischi sui quali erano incisi simboli antichissimi. L’energia che misteriosamente si sprigionava scardinava i limiti dell’universo conosciuto, eliminando le barriere che la mente umana era incapace di superare da millenni.

William e Alicia avevano tra le mani una traduzione dal latino fatta preparare da Helen, ma alcuni concetti non erano molto chiari.

«Mi ricorda la Repulsine», disse lui, riferendosi alla scoperta di Schauberger.

Continuarono a leggere. Quando finirono erano senza parole. «Quindi», riassunse William, «queste carte delineano una storia assurda e complicata secondo cui Bruno faceva parte di un gruppo di persone che possedevano un potere enorme e pericoloso, anche per loro stessi: quello di

cambiare il corso degli eventi. Avevano un unico scopo: convincere i potenti della terra a seguirli e unirsi a loro.» «Pazzesco», tagliò corto Alicia. «E stento a crederci…» «Sì, d’accordo, ma di cose strane ne abbiamo visto e sentite parecchie ultimamente. La cosa che mi lascia più perplesso è il motivo del aggio dal calendario di Giulio Cesare a quello Gregoriano: non un semplice adeguamento di data ma la cancellazione definitiva dalla storia di alcuni giorni in cui si sarebbero svolti eventi tali che era meglio dimenticare. Eventi che l’uomo non poteva in nessun modo controllare.» «Concordo con te che sia sconvolgente, ma quanto possiamo fidarci di queste parole? E se fossero un falso? E se tutto questo fosse stato il frutto di un’allucinazione? Ammettiamo pure che il papa abbia veramente sperimentato questa macchina… magari si è solo immaginato ciò che ha descritto.» «Non credo Alicia, le parole che leggiamo sono sorprendentemente autentiche… testimoniano uno stato d’animo in bilico tra ragione e follia. Qui dice che la macchina di Bruno fu effettivamente costruita e fatta funzionare, anche se non capisco se si riferisce a un prototipo direttamente assemblato da Bruno o meno. Comunque il papa ebbe modo di sperimentare quella che definisce “l’estasi temporale”, la prodigiosa sensazione di possedere il tempo, di poterne fare uso a piacimento. Purtroppo però subito dopo sono venuti i problemi. E il pontefice, spaventato che il tutto finisse nelle mani sbagliate, ha deciso di cancellare dalla lavagna della storia determinati eventi. Con la scusa dell’adeguamento ha messo mano non tanto a un calendario ma a un progetto diabolico che rischiava di estirpare dalle radici persino la Chiesa.»

William divenne silenzioso e la sua espressione preoccupata si acuì ancora di più quando prese in mano una serie di fotocopie di documenti classificati dall’Intelligence americana come Top secret, che illustravano i risultati di una serie di esperimenti svolti nel 1945, nome in codice “The Bell”, la campana, o “Die Glocke” in tedesco. Le fotocopie contenevano una serie di disegni, parti di progetti e una relazione particolareggiata che illustrava i problemi incontrati dagli scienziati tedeschi nel realizzare l’arma assoluta, quella risolutiva del secondo conflitto mondiale. Ma, contrariamente a quanto ci si era aspettato,

avevano ottenuto un risultato assolutamente sorprendente: il motore innovativo per il volo a levitazione aveva creato un effetto imprevisto, l’annullamento della gravità, e di conseguenza una variazione dello spazio-tempo.

Alicia e William discussero a lungo e giunsero infine alle medesime conclusioni. Decisero di mandare a Wyler solo una parte delle equazioni, in modo da rendere più complicato a The Rune la costruzione del dispositivo e intanto prendere tempo. «Prima o poi ci arriveranno», gli fece notare William. «Riusciranno a ricostruire le funzioni, e se non ci riusciranno capiranno che le abbiamo noi», concluse mentre faceva delle copie digitali del materiale, che conservò insieme a tutti i documenti fin lì ritrovati in hard disk di server remoti.

«Ci stiamo dimenticando del libro», gli fece osservare Alicia prendendo il vecchio volume cinquecentesco e osservando la rigida copertina in pelle. Helen l’aveva ritrovato nell’Archivio Segreto del Vaticano, insieme alla relazione di Gregorio XIII. Un foglio inserito nel colophon e scritto di pugno dalla donna indicava espressamente che si trattava dell’unica copia sopravvissuta di una tiratura stampata a Rouen e che, per ordine del pontefice, era stata data alle fiamme prima ancora che circolasse. Il volume era stato composto da Bruno in persona e descriveva, in elegante latino, un progetto straordinario. «Qui ci sono le nozioni, le formule e tutto quello che in parte Hirt aveva trascritto nei suoi appunti», notò William. Non si chiesero come avesse fatto il tedesco a entrare in possesso di quei dati. Comunque confrontandoli con quanto avevano letto nel diario di Hirt non c’erano dubbi: si trattava delle stesse. «Ci sono diversi post-it», gli disse Alicia indicando i foglietti colorati che fuoriuscivano dalle pagine. Leggendoli si accorsero che erano di Helen. Indicava aggi particolari che, messi insieme, fornivano un quadro esaustivo della situazione: fondamentalmente The Rune cercava di realizzare lo stesso esperimento di Die Glocke, non tanto per creare un’arma eccezionalmente potente ma perché inseguivano la possibilità di variare il corso degli eventi della

storia.

Il testo di Bruno faceva poi riferimento a un personaggio molto particolare, chiamato Observator, che Helen aveva immediatamente collegato a L’Osservatore. Però non era possibile che si trattasse della stessa persona, scriveva, o forse sì… in quel caso quanti anni poteva avere? D’altra parte, poiché erano entrati in contatto con un orizzonte nuovo e inesplorato, in cui il tempo perdeva il suo normale significato, non poteva escludere che Observator e L’Osservatore coincidessero. Da quanto leggevano capirono che Helen si era talmente spaventata venendo a conoscere quei dettagli che aveva smesso di porsi domande e aveva cercato di concentrarsi esclusivamente sull’impedire la realizzazione del dispositivo. William e Alicia studiarono a lungo i documenti, poi arono a un pacchetto che conteneva delle tessere con microchip e delle : Helen asseriva che una sede periferica del Rockefeller Research Center era stata approntata per realizzare l’esperimento finale. A quelli di The Rune mancavano solo alcune informazioni per comporre il mosaico: le formule matematiche che Helen aveva ritrovato e nascosto nella valigia. La donna non sapeva dove si trovava il laboratorio: da alcuni brandelli di conversazione del marito aveva appreso che era situato entro un raggio di cento chilometri da New York, ma l’ubicazione esatta le era sconosciuta. Le e le card con microchip servivano per entrare nel complesso di ricerca, ovunque si trovasse. Era riuscita a farne delle copie all’insaputa di Malcolm: gli appunti spiegavano che le cambiavano ogni giorno, ma nel file che era stato rubato c’erano quelle per i prossimi due anni.

Fecero un rapido calcolo.

«Questo mese trascorrono esattamente due anni dal momento in cui inizia la serie di », disse allarmato William.

«Cosa vuoi dire?» «Tua madre quando è morta esattamente?» Alicia si rabbuiò. Attese qualche secondo, poi rispose: «Il 2 luglio… del 2015.» «Ciò significa che il 2 luglio di quest’anno, ossia tra una quindicina di giorni, tutte le che ci ha fornito saranno scadute!» Helen aggiungeva che aveva scoperto che le stesse permettevano di entrare nel server riservato della Fondazione Wyler, in cui era contenuta l’informazione sull’ubicazione del centro di ricerca. Il server però era schermato da diversi firewall che lo proteggevano da eventuali intrusi; il sistema antihackeraggio era in grado di eseguire un processo di cancellazione definitiva dei dati nel caso venisse rilevata una interferenza esterna.

«Ma così perderebbero tutto il lavoro…», disse Alicia perplessa. «Credo che posseggano un computer remoto, una sorta di back-up staccato dalla rete in cui conservano per sicurezza tutto quanto. Ma è inaccessibile.» Il piano che Helen prospettava a sua figlia consisteva nel collegarsi al server della Fondazione e scoprire dove fosse il centro di ricerca periferico per poi distruggerlo. «Ma noi non siamo esperti di informatica», rilevò William, «quindi al massimo otterremo di essere bloccati dai firewall.» «So che nel caveau della Fondazione c’è l’accesso manuale a tutti i computer del complesso. Nessuno può entrare lì se non i tecnici autorizzati direttamente da mio padre.» «Quindi, cosa proponi?», domandò William intuendo già la risposta. Alicia alzò lo sguardo sull’amico: «Mia madre non ce l’ha fatta. Ma io posso. Mio padre non sa che abbiamo trovato tutte queste informazioni. E io non ho alcuna intenzione di dargliele.»

«Ci scopriranno subito.» «Non ho scelta, William.» «Potremmo…» «Cosa?», quasi urlò lei. «Ho appena scoperto che mia madre e mio padre facevano o fanno parte di un piano criminale dalle conseguenze incalcolabili… abbiamo letto di nazisti, di ricerche per modificare il tempo, di strani personaggi che muovono le fila dei destini di tutti noi. Cosa ti aspetti che faccia, che rimanga con le mani in mano?» «No, Alicia. Ma dobbiamo pensare, fare un piano… ci sarà pure un modo di tentare senza farci uccidere. Ricorda che se falliamo avranno in un sol colpo quello che manca loro per completare il progetto e noi saremo morti.» «Va bene. Ma pensiamo alla svelta. Perché più il tempo a, maggiore è il pericolo che la situazione diventi irreversibile.» William rimase a fissarla per diversi istanti.

«Hai parlato del caveau», disse alla fine. «I computer sono collegati tutti tra loro?» «No, ci sono diversi livelli di connessione. Il sistema è pensato in modo tale che la maggior parte delle postazioni siano interfacciate in modo normale, altre invece accedono direttamente ai dati sensibili. Ma non so quali… la mia no di certo. Sicuramente quella di mio padre.» «E quella di Millan?» «Forse», rispose pensierosa. «Beh, sono uno dei direttori della Fondazione, molte volte ho lavorato fino a tardi quando nella sede vi erano solo le guardie, se aspettiamo il momento giusto forse possiamo verificare se il suo computer è collegato direttamente con quello del caveau. Dovrei are inosservata. Magari diventando invisibile, considerato che in ogni angolo ci sono telecamere…» «A questo penseremo dopo. Però, anche se riesci ad entrare nell’ufficio di

Millan, credo che sarebbe un’impresa inutile.» «Perché?», protestò lei con veemenza. «Alicia, non sei un hacker in grado di violare il mainframe centrale.» Lei abbassò lo sguardo. Era vero. Che speranze avrebbe mai potuto avere? Rifletté per qualche attimo. «Aspetta, aspetta…» William aprì la bocca come per dire qualcosa ma Alicia lo bloccò subito. «Qualche mese fa sono venuti dei tecnici della Fondazione. Hanno lavorato sui computer di mio padre… me lo ricordo perché quando sono arrivati ero con lui. Lì per lì non ci ho fatto caso, ma quando uno di loro ha chiesto se doveva controllare anche un dispositivo informatico che si trovava sulla parte destra della scrivania di Malcolm lui ha risposto che non c’era bisogno. Che non era in rete. Dunque quello potrebbe essere il computer con il quale si interfaccia direttamente con il server del caveau. Quando l’ha , mentre andavo via, ha digitato una di cinque lettere.» «Ne sei sicura?» «Scommetto di sapere anche quale sia: Helen!» «Ammesso che sia così, ci saranno videocamere di sorveglianza, come farai ad accedere?», chiese William. «L’ufficio di mio padre ha una serratura a codice. E conosco chi può fornircelo senza problemi: il capo servizio pulizie.» «Beh, se è così… forse abbiamo qualche probabilità.» «Forse… se non fosse che il computer di mio padre ha un rilevatore di impronte digitali: non funziona se non identifica quelle di Malcolm. Neppure si accende, credo. Dopo tre tentativi scatta un allarme interno. E subito dopo ci troviamo i gorilla della Fondazione addosso.» «Mi pareva…», sospirò William. Poi, sorridendo e per stemperare la tensione, propose: «Tagliamo le dita a tuo padre?»

Alicia sorrise. Riprese a pensare ma non le veniva in mente nulla. «In che rapporti sei con questo capo servizio pulizie?», domandò lui. «Lo conosco da sempre. Praticamente lavora alla Fondazione da quando ero una bambina. È una persona squisita.» «Quindi, se gli chiedessimo di prendere le impronte di tuo padre…» «Per replicarle? Sì, potrebbe farlo… potrebbe. Ma non ne sono sicura.» William tamburellò con la mano sul tavolo. «Tentiamo, a questo punto, cosa ci costa? Se riesci a entrare, se la è esatta, se le impronte saranno disponibili, dovremmo poi cercare in un server, che non sappiamo neanche di quale entità sia, l’indirizzo di un luogo che chissà dove si trova e che, una volta raggiunto, non sapremo neanche come far andare in pezzi! Come piano è una grande stupidaggine, ma va bene lo stesso.» Prima di muoversi Alicia propose di fare copia di tutto il materiale e mandarlo ai media di tutto il mondo. «Potrebbe essere una buona assicurazione sulla vita.» «Non credo, The Rune li controlla, ne sono certo. No, Alicia, lascia perdere, è troppo pericoloso.»

«Mettiamoli in rete… allora», suggerì. «Lascia perdere, ti dico. Piuttosto, perché non sentiamo Richard?» «A che proposito?», domandò lei delusa per non aver convinto l’amico. «Una volta dentro il server come faremo a trovare quello che cerchiamo? Potrebbero volerci giorni, o peggio. Richard è un esperto di sicurezza informatica, la sua azienda possiede il migliore firewall del mondo e i suoi tecnici sanno come byare qualunque protezione. Hai presente la violazione dei computer dell’fbi qualche anno fa?»

«Sì.» «Beh, ha pagato i migliori avvocati per scagionare l’hacker autore del crimine e l’ha assunto. Dammi un momento che gli spiego la situazione.»

William contattò l’amico inglese che lo richiamò a sua volta con un sistema VOIP cifrato e protetto per evitare ogni pericolo di tracciatura. Gli raccontò in pochi aggi quale fosse il loro problema e l’altro rispose che l’avrebbe richiamato a breve. Puntualmente, venti minuti dopo, il cellulare di William squillò, entrarono di nuovo nel collegamento protetto e Byrd spiegò che ogni cosa era possibile per un hacker particolarmente bravo.

«Ma è meglio che parliate direttamente con John», disse andogli il suo miglior informatico. John chiese ad Alicia alcune informazioni sui sistemi, si fece spiegare alcune procedure di sicurezza che venivano attuate alla Fondazione e altre notizie che potevano rivelarsi utili.

«E dopo?», domandò Alicia. «Lancerete un programma di decriptazione, una sorta di segugio che vi porterà alle informazioni che cercate.» «E funzionerà?», chiese William. Non sapeva molto di computer, ma doveva pur fidarsi del parere di un esperto. «È più facile a farsi che a spiegare… dovrete solamente preparare una lista di parole chiave che possano individuare quanto vi serve. Se per esempio cercate un numero di telefono imposterete parole come: cellulare, apparecchio, linea telefonica etc.»

Quando William parlò di nuovo con Richard quest’ultimo gli chiese se fosse sicuro di quello che stavano per fare. «Sì… e comunque grazie Richard, non so come sdebitarmi.» «Per carità, non dirlo nemmeno. E poi che gusto c’è ad avere il migliore hacker a disposizione se non lo si sguinzaglia un po’ in giro? E poi, prima o poi, dovrò anche incominciare a far pagare il conto ai nostri “amici”. Cosa farete esattamente adesso?» «Andiamo a New York. Ma per il momento non ti dirò nulla… caso mai qualcuno fosse in ascolto, nonostante tutte le precauzioni.» «Va bene. Però tienimi informato.» Alicia stabilì con William un piano preciso. Avrebbero lasciato la casa e sarebbero tornati a New York. Lì avrebbero fatto rapporto a George Millan e a Malcolm Wyler. Ovviamente decisero di fornire loro solo una parte del materiale che avevano scoperto, quello meno utile. Le equazioni, ben inteso, sarebbero state incomplete, inservibili. Certo, dopo un po’ Millan e Wyler avrebbero scoperto l’inganno ma per quel momento speravano di aver portato a compimento il resto del piano.

Riandarono al luogo in cui era sepolto il Mercurio Rosso per controllare che non fosse rimasta traccia dello scavo. Poco dopo partirono. Mentre l’auto si allontanava verso Salisburgo, un uomo scrutava la scena disteso sul terreno di un colle vicino ed esaminava col suo binocolo l’area in cui William aveva dissotterrato e poi ricoperto gli indizi lasciati da Helen Wyler. Aveva visto abbastanza. Quando la vettura sparì dalla sua visuale, accertatosi che nessuno lo vedesse, si alzò, ripulendosi il petto dalle foglie e scese verso il capanno degli attrezzi, dove prese la pala e riportò alla luce il contenitore di acciaio.

Karl Weber non poteva credere ai suoi occhi: erano anni che per conto di The Rune cercava quel contenitore, ed era sempre stato così vicino.

Malcolm Wyler sarebbe stato contento. Lo chiamò subito. La successiva telefonata confermò la spedizione aerea per New York di un collo cilindrico molto pesante e voluminoso, per corriere diplomatico, come Wyler gli suggerì. Lo prelevò l’assistente dell’ambasciatore americano in Austria: aveva ricevuto un ordine diretto dal suo superiore, e doveva ubbidire immediatamente, accertandosi che tutto si svolgesse alla perfezione e fosse inviato in giornata dall’aeroporto di Vienna, con arrivo a New York otto ore più tardi. Ora The Rune possedeva il Mercurio Rosso, il più misterioso e letale fluido mai realizzato dall’uomo. Non tanto perché fondamentalmente si trattava di un plasmoide ione mercurio, utilizzabile per lo sviluppo di esplosivi speciali, ma perché possedeva una proprietà molto particolare che i tecnici della SS Ahnenerbe avevano scoperto durante i loro esperimenti. Adeguatamente utilizzato era in grado di aprire una porta, generare un’anomalia nel continuum spazio-tempo che gli scienziati tedeschi erano riusciti a richiudere solo a prezzo delle vite dei loro colleghi. Ma questo alla Fondazione non lo sapevano. Il contenitore con lo Xerum 525 fu immediatamente trasportato al Centro di Ricerca segreto di The Rune: tutto era oramai pronto.

Capitolo 38

Sede della Wyler Foundation, New York. 18 giugno 2017. Ore 10:45

Alicia era inquieta e William faticava a tenere a freno il suo nervosismo: avevano un appuntamento con George Millan alle 10:30 ma erano fuori dal suo ufficio da un quarto d’ora e lui ancora non c’era. Cosa stava succedendo? Avevano taciuto informazioni molto importanti per la Fondazione e nel rapporto che avevano fatto a Malcolm Wyler avevano, tra le altre cose, omesso il ritrovamento del Mercurio Rosso. Quel doppio gioco si poteva rivelare pericoloso. «Penso faremmo bene ad andarcene, William.»

«E perché?», chiese. Fece appena in tempo a terminare la domanda che Malcolm Wyler in persona apparve nel corridoio e invitò i due nel suo ufficio. William percepiva i battiti del proprio cuore schizzare a mille; per Alicia era ancora peggio: di fronte a sé c’era un uomo che per tutta la vita aveva considerato semplicemente come un padre e ora si domandava cosa fosse in realtà. «Prego accomodatevi», disse mentre le porte dello studio si richiudevano. «Gradite un caffè?»

Wyler era quasi sorridente, cosa insolita per lui. Entrambi declinarono l’invito. «Bene, professore», disse allora prendendo posto dietro la grande scrivania. Poi, guardando la figlia, continuò: «Bene, Alicia. Sono lieto di rivedervi.» Nessuno dei due rispose. Si limitarono a osservarlo in silenzio.

Malcolm riprese dunque a parlare. «Non vi nascondo che la vostra missione abbia avuto un successo che è andato ben al di là delle mie previsioni, i documenti e le formule che avete riportato dalla vostra ricerca sono di grande utilità per noi. Vorreste gentilmente raccontarmi come siete riusciti nell’impresa?» Alicia prese un grande respiro e spiegò i dettagli dell’avventura, omettendo i particolari che potessero far capire a Malcolm che avevano occultato delle prove: raccontò dell’esplorazione di Externsteine, del castello di Wewelsburg, del centro di ricerche di Bad Ischl, evitando di menzionare la casa di Helen e i fatti riguardanti il ritrovamento della valigia e del Mercurio Rosso. Wyler ascoltò imibile e si complimentò. Appariva veramente molto soddisfatto. Alle sue spalle il profilo dei grattacieli di Manhattan era seducente e ricco di fascino, illuminati da un sole che prometteva di splendere per tutta la giornata. Alla fine Malcolm firmò l’assegno per William e glielo consegnò, congedandoli subito dopo con un sorriso che Alicia non riusciva a interpretare in modo positivo. C’era qualcosa che la turbava. Troppa serenità in suo padre.

Mentre li accompagnava verso l’uscita, anche questo gesto insolito per lui, si spese in parole di circostanza, ribadendo che il loro lavoro sarebbe stato utilissimo al proseguo delle ricerche che stavano portando avanti. Quando furono nel corridoio Alicia disse sottovoce: «Non mi piace, William. Mio padre sa molto più di quello che vuole darci a intendere.» «Come fai a dirlo?» «Sono sua figlia, lo conosco. Ti ripeto: c’è qualcosa che non va.» «È stato molto gentile, forse siamo riusciti a dargliela a bere.» «Ed è proprio questo a insospettirmi. Lui non è mai così gentile… e non sorride mai così tanto.»

«Allora cosa facciamo? Non proviamo a entrare nel computer?» Uscirono dal quartier generale della Fondazione e Alicia suggerì di dividersi e ritrovarsi a Times Square mezz’ora dopo. Aveva notato che gli uomini della sicurezza li osservavano mentre scendevano nella grande hall. Le parve anche che due di essi li stessero seguendo all’esterno. Anche William si accorse che due tizi in completo scuro, con auricolari, li stavano pedinando discretamente.

«Va bene, a Times Square fra trenta minuti.» Presero la metropolitana in stazioni differenti, cambiarono percorso due o tre volte, improvvisando. Infine si ritrovarono a Times Square alle 12:00. Soli. «Li abbiamo seminati», disse William. Ma Alicia non ne era sicura. Decisero di prendere due camere al Peninsula Hotel, sulla Fifth Avenue. «Così staremo al sicuro e potremmo pensare al da farsi», spiegò. «Non usare carte di credito», suggerì Alicia.

Capitolo 39

The Peninsula Hotel, 700 Fifth Avenue, New York. 18 giugno 2017. Ore 13:45

William ricevette la telefonata di Richard mentre divorava un toast: aveva buone notizie.

«Forse non sarà necessario che operiate dalla sede della Fondazione», disse in tono allegro. John, il suo esperto informatico, era riuscito a penetrare nella rete di Wyler, dopo aver copiato i sorgenti della ditta produttrice del sistema di sicurezza. Alla fine si era accorto che il computer di Malcolm non era completamente scollegato al server e che, con un lavoro di hacking ai massimi livelli, poteva accedervi. Non era stato facile, la sfida lo aveva costretto anche a scrivere un programma specifico per adattare i suoi attacchi al sistema così particolare della Fondazione, ma alla fine era uscito vittorioso dallo scontro virtuale. «Per quanto sofisticato», spiegò Richard, «nessun server può ritenersi al sicuro da un attacco informatico, meno che mai da un hacker esperto come John. Certo, se il computer di Wyler fosse stato completamente disconnesso, allora si sarebbe dovuti intervenire manualmente.» Spiegò poi che John aveva attivato un trojan, creando così un accesso sicuro e irrintracciabile, che avrebbe permesso ad Alicia di entrare nel mainframe di Wyler come se fosse lui stesso a farlo dal proprio computer. Dopo non sarebbe rimasto che iniziare la ricerca. «Non so come ringraziarti», disse William. «Le ho già sentite queste parole», rispose Richard. «Mi ringrazierai rimanendo vivo e continuando la battaglia contro The Rune», concluse. Entrambi erano ora seduti davanti al portatile di Alicia. Seguendo le istruzioni

che John aveva inviato loro via mail accedere al computer di Malcolm si rivelò molto più semplice del previsto.

«Meglio così», disse William sfregandosi le mani in modo plateale, «non dovremmo entrare nuovamente nella Fondazione né chiedere a quel tuo conoscente di rischiare prendendo le impronte di Wyler.» «Sì», ammise la donna, «decisamente meglio. Guarda, è come se fossi al computer di mio padre.» Giunsero alla maschera di accesso al mainframe e dopo alcuni tentativi, utilizzando le che Helen aveva conservato per sua figlia, finalmente ottennero l’accesso a tutte le informazioni segrete del database. Erano dentro il cuore pulsante della Fondazione Wyler.

Alicia sentiva uno strano formicolio alle dita, mentre William osservava l’immensa vastità di informazioni accuratamente conservate in ordinati gruppi di cartelle. «Facciamo in fretta, non vorrei che ci identificassero. Mi sembra tutto troppo facile.»

Alicia annuì. Come William sentiva il cuore che batteva all’impazzata, mentre leggeva velocemente i nomi di gruppi di documenti allocati in modo alfabetico. «Lanciamo la ricerca», disse digitando le istruzioni fornite da John. Subito dopo apparve una finestra in cui scorrevano velocissime tutte le informazioni contenute nel server. Dopo circa quaranta secondi l’elenco si bloccò evidenziando una cartella denominata the rune. Cliccò sull’icona e scaricò immediatamente sul suo netbook le informazioni contenute. Ma mentre si avviava a uscire dal database, l’occhio le cadde su un’altra cartella denominata Helen Wyler. Scaricò velocemente anche quella.

«Fatto», disse tirando un sospiro di sollievo. Uscì dal server e chiuse la connessione. Per sicurezza spense anche il wi-fi isolando completamente il suo computer dalla rete. Guardò l’amico: quasi non aveva il coraggio di leggere le informazioni ma dovevano farlo.

«Da dove cominciamo?», chiese William. «Da qui», rispose Alicia indicando sul suo desktop la cartella con il nome di sua madre. Occorse una buona mezz’ora per prendere visione di tutto: si trattava di una serie di documenti in cui si delineavano i dati biografici della donna, relazioni su quanto avesse fatto in favore di The Rune, rapporti del servizio di sicurezza della Fondazione che testimoniavano il lento ma progressivo allontanamento di Helen da The Rune. In un’altra serie di documenti si evidenziavano le prove del tradimento di Helen. Si trattava di prove circonstanziate, di eventi ben precisi… insomma, non c’era alcun dubbio che Malcolm sapesse che Helen era divenuta una nemica. Poco oltre trovarono poi una scansione di un ordine diretto de L’Osservatore, scritto a mano, che imponeva a Malcolm Wyler di procedere all’esecuzione della moglie, un compito puntualmente eseguito. In quelle poche righe era chiara la preoccupazione che la defezione di Helen potesse causare gravi danni a The Rune. Una seconda scansione, con un numero di protocollo decisamente infausto, 666, in modo laconico annunciava ai membri di The Rune che la sentenza era stata eseguita e che la donna non era più un problema. Alicia si sentì come se fosse stata investita da un treno. Dovette fare appello a tutte le sue forze per interrompere il pianto che, improvviso, era scaturito. Suo padre… come aveva potuto? Non era stato un incidente, non si era trattato di un caso maledetto del destino. Helen era stata uccisa perché minacciava l’organizzazione. Malcolm, l’uomo che aveva sempre chiamato “padre”, era il mandante dell’assassinio. Come poteva aver fatto una cosa del genere? Era… era un mostro.

Pianse finché le dolsero gli occhi mentre William la osservava con tristezza,

incapace di trovare le parole o un gesto che potesse calmarla. Alla fine fu lei a tirare su con il naso, alzare il volto e fissarlo. «Tutto… è tutto così aberrante.» Eppure, si sorprese la donna, non odiava Malcolm per quello che aveva fatto. Per lui, anzi, provava come un sentimento di pietà filiale. Non lo meritava, ma era così. Anche perché da tempo provava una strana sensazione, come se suo padre fosse prigioniero dei suoi stessi sogni di onnipotenza, quasi quella continua rincorsa verso il dominio totale gli avesse ottenebrato la mente rendendolo pazzo. E con i pazzi occorreva, a volte, essere indulgenti. «Dobbiamo andare avanti», disse lei cercando di recuperare un po’ di tranquillità, «altrimenti il sacrificio di mia madre sarà stato inutile.» «Te la senti?», domandò lui preoccupato. «Glielo devo.» Si concentrarono sull’obiettivo primario: trovare il centro di ricerca segreto di The Rune e, se possibile, distruggerlo. Nel file relativo trovarono immediatamente l’indirizzo. Il complesso si trovava a circa un’ora di auto da New York, ben protetto da guardie armate. Con grande sorpresa lessero anche una breve e recente annotazione relativa a un contenitore di Xerum 525 giunto al centro il giorno prima dall’Austria. Era già stato reso operativo all’interno del Progetto Gamma insieme alle nuove funzioni matematiche che William e Alicia avevano fornito a Malcolm. Ma, la cosa più importante che appresero, era che l’esperimento finale doveva avere luogo quello stesso giorno, alle 16:00 esatte. Nella nota si diceva che la Funzione Gamma sembrava oramai completa e che avrebbero proceduto senza altri intoppi. «Ma come? Abbiamo fornito solo parte delle equazioni», disse Alicia. Effettivamente avevano trasmesso solo una parte dei aggi matematici necessari per rendere la Funzione Gamma attiva…

«Probabilmente vi saranno effetti collaterali impossibili da immaginare. Il che

mi preoccupa.» «Ragione di più per intervenire subito, prima che l’intero esperimento abbia luogo.» «Ma come possiamo fare?», si domandò William. Non erano certo i tipi più adatti per allestire un’incursione in grande stile. E se il centro era controllato, come avrebbero fatto a violarlo. Dovevano trovare una soluzione e alla svelta. Studiando le informazioni scaricate si accorsero dell’esistenza di una procedura di sicurezza creata per tutelare l’inviolabilità del centro. Se si fosse verificata un’intrusione di tipo informatico o un attacco dall’esterno, il sistema era pensato per attivare un procedimento di autodistruzione non solo della documentazione ma dell’intero complesso.

«Proviamoci», propose Alicia. «Potrebbero morire delle persone», rilevò William, mentre cercava un’alternativa. «Non abbiamo altra scelta», ribadì lei.

Chiamarono Richard. Occorreva l’aiuto di John. L’informatico, contattato a sua volta, si mise all’opera. Forte dell’esperienza precedente, rilevò la somiglianza delle strutture informatiche di protezione e poté così utilizzare lo stesso metodo, con il medesimo tipo di malware, aprendo di nuovo una porta nel sistema che sfruttò per raggiungere e byare i sistemi si sicurezza del centro di ricerca. Inserì quindi un nucleo-programma latente nella memoria che non sarebbe stato rivelato se non nel momento in cui qualcuno avesse digitato una particolare nella schermata di accesso al sistema di sicurezza. Richard li richiamò e disse loro di controllare le mail. Subito dopo Alicia riattivò la connessione del suo computer e scaricò la posta. Il messaggio di John era semplice. Dovevano rientrare nel mainframe seguendo le sue istruzioni, quindi accedere ai sistemi di protezione e attivarli con la che gli aveva creato lui stesso: in quel momento il computer centrale di The Rune si sarebbe sentito sotto attacco attivando la procedura di distruzione.

Fecero quanto dovevano.

Anche questa volta fu semplice.

«Hai lanciato la ?», domandò lui.

«No», rispose Alicia. «Cosa stai aspettando?», chiese preoccupato guardando l’orologio. «E se morisse della gente innocente? E se la distruzione del complesso causasse effetti collaterali imprevedibili?» «Se The Rune riuscisse a mettere le mani su qualsiasi cosa che gli dia la possibilità di controllare il tempo, credo che gli effetti collaterali di cui parli saranno nulla in confronto.» «Va bene, al diavolo.» Alicia digitò la . Cliccò enter ma non successe nulla. Riprovò una, due, tre volte. Con il medesimo risultato. «Andiamo», disse William alzandosi e facendole segno di portarsi dietro il computer.

Corsero alla metropolitana e da lì raggiunsero un autonoleggio. Uscirono da New York diretti al Centro di Ricerca Rockefeller, in mezzo alla Cherry Ridge Wild Forest.

Un’ora dopo parcheggiarono l’auto in un vasto slargo zeppo di veicoli.

«Dov’è la struttura?», si chiese William, notando solo una grande area delimitata da una rete metallica elettrificata e una sorta di guardiola decentrata rispetto alla loro posizione. «Qui ci sono solo alberi.» Si guardarono intorno, alla ricerca di un’entrata, finché la donna scorse qualcosa. «Quello cos’è?», domandò indicando una colonnina posta accanto a quello che pareva un ingresso alla rete. Si avvicinarono, rilevando che si trattava di un accesso tramite tessera. «Prova con questa», propose lei porgendogli una delle tessere che avevano trovato nella valigia di Alicia, cosa che William fece.

Non accadde nulla. Tentò e ritentò mentre la tensione cresceva. Il cuore cominciava ad aumentare la velocità dei battiti mentre un uomo della sicurezza in divisa, uscendo dalla guardiola, cominciò ad avvicinarsi stando all’interno del recinto e poggiando la mano sulla fondina della pistola. Avanzava tenendo gli occhi fissi su William che continuava a infilare nervosamente la tessera nella scanalatura senza ottenere nessun risultato.

«Signore, si allontani!», ordinò l’uomo quando fu a una decina di i da loro. «Mi scusi ma credo che la tessera si sia smagnetizzata», disse Alicia accostandosi alla rete, cercando di prendere tempo. William continuava a provare ma qualcosa non andava. «Si allontani immediatamente», gridò ancora la guardia, estraendo l’arma. William si voltò e disse qualcosa che l’altro non udì. Poi, all’improvviso, apparve nel display della colonnina una luce verde e, come per incanto, una sezione della rete montata su binari scivolò di lato.

L’uomo armato li squadrò sospettoso, ma rinfoderò la pistola e si portò all’ingresso.

«Capita», disse Alicia mostrandogli la tessera e andò avanti seguita da William, come se niente fosse. L’altro li osservò ma poi decise di lasciar perdere.

I due ora si trovavano a qualche decina di metri dalla recinzione. Solo in quel momento si accorsero che una stradina si inoltrava in una folta boscaglia, compresa all’interno dell’area. Proseguirono entrando nel sottobosco, facendo finta di conversare del più e del meno.

La grande foresta li ingoiò in un attimo: l’aria era fresca e profumava di essenze arboree. Dopo diverse centinaia di metri giunsero davanti a una colonnina simile alla precedente. Provarono a inserire la tessera anche qui e, al primo colpo, si accese un display. Digitarono la e premettero il tasto enter.

Due secondi dopo, una decina di metri più avanti, il terreno venne smosso dall’apertura di quella che sembrava una botola perfettamente mimetizzata. Probabilmente qualcuno si prendeva la briga di ricoprirla di terriccio ogni qualvolta veniva utilizzata.

Si avvicinarono e diedero uno sguardo. La botola immetteva in un corridoio obliquo che penetrava nel sottosuolo per qualche metro. Alla fine del aggio trovarono un ascensore. Le porte si aprirono automaticamente grazie ai sensori di peso. Entrarono e l’apparecchiatura cominciò a sussultare quasi impercettibilmente. Stavano scendendo. Quando l’ascensore si fermò e le porte si riaprirono di fronte a loro si mostrò un corridoio molto largo e, qualche decina di metri dopo, una luce intensa che pareva provenire da un’ampia sala. Avanzarono circospetti, chiedendosi cosa li

attendesse. C’erano dei cartelli e, poco oltre, un pannello con la pianta del centro di ricerche. Dalla parte della sala proveniva un intenso vociare, come se a poca distanza ci fosse una folla di persone. Quando si affacciarono sulla grande sala si accorsero di essere scesi sotto terra probabilmente di qualche centinaio di metri. La volta che si apriva sopra di loro era alta quanto quella di un hangar e ovunque videro personale indaffarato, uomini con camici bianchi, tecnici, guardie armate… Si resero subito conto di essere nel cuore del sistema, nel fulcro del centro ricerche. Dovevano cercare di non dare nell’occhio. Lungo i lati della struttura si aprivano numerose porte: uffici, pensò William, laboratori, depositi, altre gallerie che portavano chissà dove, mentre la struttura che avevano dinanzi era divisa in diverse sezioni, a più piani, raggiungibili con scale metalliche che connettevano tra loro quelle che sembravano vere e proprie piattaforme di lavoro. William indicò una porta, a poca distanza da loro. Uno spogliatoio. Vi entrarono sperando di non essere notati, anche se nel tragitto era stato impossibile non incrociare diverse persone. Ma nessuno pareva far caso a loro. D’altra parte, dando una rapida panoramica con lo sguardo, lì sotto c’erano centinaia, forse migliaia di persone. Il locale in cui si introdussero era diviso in due salette: una per gli uomini e una per le donne, con alcuni armadietti per il personale e i bagni con le docce. A fianco vi era una sorta di lavanderia e trovarono dei camici e delle cuffie di colore blu per proteggere i capelli. «Probabilmente ci serviranno dei badge per muoverci indisturbati», fece notare William. Cominciarono a cercarli discretamente aggirandosi nel locale. Pochi minuti dopo avevano tra le mani quelli di alcuni uomini che erano entrati dopo di loro per cambiarsi e, probabilmente, uscire alla fine del proprio turno. Ora iniziava la parte più difficile. Attesero qualche istante che gli altri se ne andassero dagli spogliatoi. «Alicia, potremmo non uscirne vivi. L’hai messo in conto?» «Sì, William», rispose lei fissandolo intensamente. «Ma a questo punto…» Lui avrebbe voluto posarle una mano sulla spalla, ma si trattenne. Non era il

momento di sentimentalismi. Sospirò e disse semplicemente: «D’accordo. Adesso dobbiamo trovare la sala di controllo dell’esperimento.» Tornarono alla mappa nel corridoio. Ovviamente non era indicata. Si guardarono intorno e poi William esclamò: «Guarda, quegli uomini lì in fondo alla sala… sembrano sbucati dal nulla, tutti insieme.» Cercando di apparire come due semplici tecnici, con i corpi fasciati dai camici e le cuffie, si avvicinarono a quello che si rivelò essere un ascensore. Vi entrarono velocemente e premettero un tasto in basso che probabilmente li avrebbe portati nell’area più recondita del complesso. E infatti il mezzo scese per almeno una decina di piani e, quando le porte si aprirono, ebbero la netta sensazione di un déjà vu: anche in questo caso li accolse una grande sala in cui una miriade di uomini e donne lavoravano indaffarati, a terminali e dispositivi, computer e strani macchinari di cui non era possibile comprendere la funzione, ma senza dubbio di elevatissima tecnologia. Ma l’atmosfera che si respirava era differente al locale dal quale erano scesi. Qui tutti erano attivi in un concentratissimo silenzio in cui regnavano i suoni digitali delle apparecchiature. E ne compresero subito il motivo. Al centro si ergeva una macchina formata da un’enorme semisfera che faceva da sfondo a due cilindri in levitazione, uno sopra l’altro, alti circa quattro metri ciascuno, che giravano lentamente. Tra i due cilindri vi era un grande anello metallico, spesso, formato da un sostegno circolare e una parte interna che stava ruotando anch’essa a bassa velocità. Due tecnici in quel momento versavano il contenuto di un grosso recipiente cilindrico in un apposito serbatoio. Alicia osservò meglio e lo riconobbe.

Sottovoce sussurrò: «William! È il contenitore del Mercurio Rosso!» Lui si lasciò scappare un’imprecazione. «Ora capisco perché era così tranquillo tuo padre. Come ha fatto a trovarlo? Forse non è lo stesso che abbiamo sotterrato noi…», propose. Poi si bloccò. Il gigantesco dispositivo sembrava già in funzione. «Mio Dio», esclamò

preoccupato. «Cosa succede?» «Non abbiamo fornito l’intera serie di funzioni matematiche che tua madre ha lasciato. Credo che la macchina andrà in tilt… Questi pazzi non sanno che potrebbero causare qualcosa di irreparabile.»

Ci rifletté sopra un attimo e alla fine prese la sua decisione: «Alicia, dobbiamo provare a reinserire la per l’autodistruzione, non c’è tempo. Ricordiamoci cosa stanno facendo queste persone. È l’unico modo che abbiamo per fermarli. Se non funzionerà non so proprio come andrà a finire.» «Credi che questa volta andrà meglio? Abbiamo seguito tutte le indicazioni di John, ma senza esito.» «Forse il nostro amico ha commesso qualche errore… non lo so. Ma è l’unica cosa che possiamo fare.» «D’accordo», rispose lei. «Dobbiamo ripetere la procedura.»

Si guardarono intorno e videro, lungo una parete, una serie di uffici con ampie finestre a vetri che si affacciavano sul luogo dell’esperimento. Li raggiunsero attenti a non essere visti e vi si introdussero. William chiuse la porta alle sue spalle. Nessuno in giro. Erano tutti fuori per assistere alla fase finale del Progetto Gamma. Alicia accese il suo portatile e ripeté o per o quanto gli aveva suggerito John. Si interfacciò con il sistema di sicurezza ed entrò nella schermata di controllo dove veniva richiesta la .

«Ora sapremo se ne è valsa la pena», disse prima di digitare le lettere. Mosse le dita e, in quell’istante, entrò un uomo, seguito da un altro e, dietro di loro, videro schierata un’intera squadra di guardie. Alicia si buttò sulla tastiera ma

l’energumeno fu più veloce. Si lanciò verso di lei e con violenza la spostò dal computer che, nella breve colluttazione, cadde a terra.

Il muro di uomini che li aveva circondati e costretti in un angolo si aprì come di incanto all’udire una voce che fece loro gelare il sangue: «Non posso dire di essere lieto di rivedervi, signori.» Davanti a loro comparve la figura di Malcolm. «Ma in fondo non è un male che siate qui. Sarete testimoni del successo dell’esperimento.» «Papà…», riuscì a dire la figlia. Ma il resto delle parole le si strozzarono in gola. Malcolm girò intorno a un tavolo e poi si sedette di fronte ai due. Non aveva fretta. I suoi esperti gli avevano detto che sarebbero occorsi ancora una decina di minuti prima che la sperimentazione finale entrasse nel suo stadio primario. «Davvero credevate che penetrare nel sistema della Fondazione sarebbe stato così facile? Che nessuno se ne sarebbe accorto? Siete dei poveri illusi. Nessuno può violarlo senza che The Rune lo sappia. Vi tenevamo d’occhio… vi abbiamo sorvegliato ogni istante, anche quando pensavate di essere da soli, al sicuro. Se siete entrati nel mainframe è solo perché noi ve lo abbiamo permesso.» «Mio Dio, ti rendi conto che quello che state facendo potrebbe sconvolgere il corso naturale degli eventi? Potrebbe succedere di tutto!» Malcolm guardò la figlia e sorrise inarcando un angolo delle labbra verso l’alto in una smorfia sinistra. «Voi non avete idea della grandezza di ciò che stiamo compiendo qui. Nessuno ha mai avuto tanto potere, nessuno ha mai potuto nemmeno lontanamente sognare ciò che stiamo realizzando.» «Wyler, la prego», intervenne William con veemenza, «non può dare inizio all’esperimento, lei non può conoscere tutte le implicazioni. E se causasse una distorsione temporale irrecuperabile? O peggio?» «Cosa vorrebbe dire?» «Nel corso della nostra ricerca abbiamo trovato le prove di gravi problematiche incontrate da coloro che utilizzarono la macchina di Giordano Bruno, gli stessi scienziati delle SS furono così spaventati da ciò che accadde nel corso dei loro

esperimenti da voler…» «La smetta!», lo interruppe Malcolm. «La nostra tecnologia ha fatto i da gigante e ora siamo pronti. Non corriamo alcun rischio.» «E se le mancassero dei dati fondamentali? Sappiamo poco o nulla dello spaziotempo!», insistette William, non rivelando che parte delle formule e delle equazioni erano rimaste ben occultate.

«Professore, non siamo così ingenui. Certo, conosciamo ben poco dello spaziotempo, ma abbiamo preso tutte le precauzioni. Vedete, noi sappiamo da decenni dell’esistenza del Mercurio Rosso. E l’abbiamo cercato ovunque. Nel frattempo non siamo rimasti con le mani in mano… abbiamo costruito questo centro e messo al lavoro i migliori scienziati del mondo. Ci rendiamo perfettamente conto di quel che facciamo. D’altra parte le formule sono sì importanti, ma erano semplicemente il tassello finale. Ora il puzzle è completo.»

«E dopo? Cosa farete dopo?» Malcolm guardò William, poi l’orologio: «È quasi ora. Attendo un ospite di riguardo per dare inizio all’esperimento.»

«Non hai risposto alla sua domanda, papà», disse Alicia, sottolineando con una nota di disprezzo l’ultima parola. «Volete sapere cosa farò di voi?» «Anche», rispose William. «Ma soprattutto: se l’esperimento andrà a buon fine, quali sono i vostri piani?» Malcolm ebbe un fremito. Sulle labbra gli affiorò di nuovo quel gelido sorriso. «Non sono cose che vi riguardano. Quanto a voi, devo ancora decidere. Anche se il primo impulso è quello di eliminarvi.»

«Come hai fatto con la mamma?»

A quelle parole Wyler si bloccò. Alicia vide nei suoi occhi are una strana espressione che indicava confusione, caos mentale, come se l’assassinio della madre fosse stato un evento che non ricordava o che forse non aveva ideato lui. «Papà!», urlò Alicia.

Ma l’uomo non rispose. Ad Alicia parve di vedere tristezza sul suo volto. Wyler abbassò lo sguardo, si girò senza dire una parola e, allontanandosi, diede ordine ai suoi di sorvegliarli. «Maledizione», disse William quando Wyler fu fuori dal loro campo visivo. «Tranquilli», replicò uno dei gorilla, pensando fossero preoccupati per gli effetti dell’esperimento, questi vetri possono resistere al calore e alle esplosioni. Da quella posizione potevano vedere benissimo l’enorme macchina in funzione oltre le vetrate. Dopo un poco ricomparve Wyler con accanto un uomo anziano, forse uno degli scienziati.

Tutto era pronto.

Malcolm contemplò la scena per alcuni istanti, poi trasse un cellulare e digitò un numero. Le luci si abbassarono e rimasero accesi solo una serie di faretti agli ultravioletti. Poi si udì un rumore, come un sibilo, e tutti si volsero verso un’ampia porta scorrevole sull’altro lato della sala. Il varco si aprì e dall’interno si riversò verso di loro un chiarore così intenso che molti si schermarono gli occhi con le mani. In quel momento ogni cosa parve fermarsi, cristallizzata in una sequenza di attimi di ansia condensata.

Alicia si strinse a William: «Ma… che succede?» Lui le circondò le spalle con un braccio: «Non lo so.» Aguzzò la vista e si concentrò. Dalla porta emerse lentamente una figura: un uomo sui settant’anni, vestito con un elegante completo, i capelli folti e grigi raccolti in una lunga coda di cavallo, una barba ben curata a incorniciare il viso. Era alto, molto più di tutte le persone presenti nella sala e, quando fu più vicino, il suo sguardo cominciò a incutere disagio. Possedeva profondi occhi blu, che sembravano capaci di penetrare nell’animo altrui.

Avanzò verso Wyler che lo accolse con un leggero inchino e pronunciando parole che Alicia non aveva mai udito prima da suo padre: «Eccellenza, è un grande onore averla qui.» Lui sorrise: «Mio caro amico, la vostra fedeltà è sempre motivo di orgoglio per me. Come procede l’esperimento?»

«Siamo pronti», rispose cercando di non fissarlo. «Il Mercurio Rosso è stato iniettato nel sistema e sta vorticando nell’anello inferiore. La prego, eccellenza, prenda posto nella sala protetta.»

Videro che Wyler lo conduceva a un livello superiore, sull’altro lato della sala, dove era stato allestito il centro di controllo sull’esperimento. Anche lì vetrate spesse che lasciavano intravvedere decine di volti protesi e curiosi verso il macchinario. Lo strano uomo entrò nella cabina di regia e venne salutato deferentemente da un folto gruppo di personaggi che William ipotizzò essere gli altri membri di The Rune. «Prendi questi», disse improvvisamente uno della sicurezza ad Alicia, porgendole degli occhiali scuri. Lei li indossò, imitata da William. Si accorsero che tutti facevano lo stesso.

Wyler aveva indossato delle cuffie dotate di microfono e la sua voce risuonò in tutto l’ambiente con insolita potenza: «Signori, amici, stiamo per assistere a uno dei più grandi eventi della storia umana. L’esperimento che ci accingiamo a compiere segnerà il punto di partenza per una nuova era, una nuova epoca in cui l’uomo possiederà gli strumenti per gestire il proprio destino. Egli potrà intervenire sul futuro o correggere gli errori del ato. Il presente sarà per noi luminoso e radioso.» Fece una breve pausa, dando uno sguardo a coloro che lo seguivano con attenzione. «Tutti voi avete donato gli anni migliori della vostra vita per questo progetto. Anche noi abbiamo sacrificato a esso tutto quello che di più caro avevamo. Consapevoli che si trattava del più grande, del più importante, del più rivoluzionario esperimento della storia dell’uomo.» Ancora un’altra pausa, come se stesse raccogliendo mentalmente le sensazioni che gli uomini provavano nell’ascoltarlo: paura, fiducia, speranza, timore… «Ora noi facciamo la storia, la possiamo plasmare, possiamo finalmente mettere una mano sulle leve che guidano il tempo e indirizzarlo a nostro piacimento. Tutti gli esperimenti precedenti ci hanno confermato che questa possibilità esiste e finalmente siamo qui per verificarla. Signori, diamo inizio alla fase finale del Progetto Gamma.» C’era una insolita nota di emotività nelle parole di Wyler, così intense, così forti: Alicia ne fu colpita. Il dottor Thorn, il capo dello staff scientifico annuì e premette alcuni tasti su una consolle. Immediatamente l’anello al di sotto dei due cilindri cominciò la sua rotazione mentre sui monitor apparivano cifre, diagrammi, sequenze: il software di controllo monitorava ogni valore verificabile. Niente sembrava esser stato lasciato al caso. Quando la velocità di rotazione dell’anello interno aumentò a livelli straordinariamente elevati, si produsse un intenso sibilo e tutti trattennero il fiato. Fu allora che i due grandi cilindri in levitazione cominciarono a ruotare in direzioni opposte raggiungendo anch’essi in breve tempo una velocità

notevolissima. La struttura del dispositivo sembrava tenere, si avvertivano forti vibrazioni, ma era previsto.

Thorn annunciò tramite un interfono: «Fase uno completata. Diamo inizio alla fase due. Bobine di Tesla in azione.» Intervenne sulla tastiera del suo computer e una serie di radiazioni provenienti da tre grandi dispositivi posti di fianco alla macchina, ideati dal grande scienziato serbo Nikola Tesla, modificati e aggiornati tecnologicamente, raggiunsero l’anello centrale dove vorticava lo Xerum 525.

Per un attimo parve non accadere nulla, poi, lentamente, la macchina cominciò a produrre un’intensa luce bianca che la circondò completamente. Lo scienziato armeggiò ancora sulla tastiera guardando Wyler e disse con voce carica di emozione: «Funzione Gamma inserita. Il dispositivo ora sarà guidato dalla funzione stessa.» William e Alicia si scrutarono e pensarono la stessa cosa: avevano fornito solo una parte delle equazioni necessarie e non avevano idea di ciò che sarebbe successo. Thorn seguì sul suo monitor i picchi di energia raggiungere i livelli massimi. Altri scienziati tenevano sotto controllo costante differenti parametri senza avvertire nessun tipo di problema. «Fase due completata signore», disse Thorn. «Si può procedere con la fase tre.» Wyler, con accanto l’uomo anziano, osservava uno dei monitor. La grafica mostrava una riproduzione della Terra in rotazione contrassegnata da migliaia di punti rossi: erano i rilevatori del Global Consciousness Project, i generatori elettronici di numeri casuali collocati in quasi tutti gli angoli del globo e collegati a un computer che raccoglieva i dati e li elaborava tramite software specifici.

Nel momento in cui si era dato inizio all’esperimento, inserite le funzioni fornite da William e Alicia, i rilevatori avevano mostrato un progressivo cambiamento, come se la Coscienza Globale dell’umanità si rendesse conto, anche solo a livello subconscio, che qualcosa di straordinario stava per accadere. Wyler si voltò verso Thorn: «I valori sono attendibili?» Lo scienziato visualizzò sul suo computer la grafica che stava osservando Wyler. «Sì, sono in continuo aumento… direi che si trovano oltre i limiti che abbiamo finora studiato. Ma il segnale generale che riceviamo e i parametri incrociati dimostrano che l’esperimento è positivo. Credo che a breve assisteremo a qualcosa di straordinario.» Malcolm Wyler guardò il suo ospite e gli porse un voluminoso radiocomando. Al centro un pulsante con una sicura di plastica avvolgente. L’Osservatore gli sorrise. «Malcolm, mio caro amico, avete fatto molto per questo progetto. È giusto che siate voi a dare il via.» Wyler chinò la testa: «Come desidera, eccellenza.»

Guardò oltre i vetri, sollevò la plastica di copertura rimuovendo così la sicura, deglutì sperando di non essere visto, e con gli occhi fissi sulla macchina che sibilava producendo quell’intensa luce, premette il pulsante.

L’anello interno della macchina, una copia avanzata del dispositivo tedesco Die Glocke creato settant’anni prima dai nazisti, aumentò ancora la propria velocità e cominciò a produrre una luminescenza azzurrina che, dapprima appena percepibile, divenne sempre più intensa e quasi accecante. Un rumore intenso disturbava le orecchie, ma era sopportabile. Poi accadde: l’anello interno parve dissolversi nella sua stessa luce e scomparire, lasciando uno spazio vuoto, una sorta di buco nero, in cui la materia pareva non esistere più. Pochi attimi dopo la cavità si allargò e si creò una sorta di vortice luminoso e di colore blu intenso, scintillante, che si muoveva continuamente, come se cercasse di liberarsi dalle forze che tenevano imbrigliato lo spazio-tempo. Il suono

sibilante divenne fortissimo finché raggiunse una tonalità regolare e di colpo scomparve, lasciando al suo posto un sordo brontolio di basse frequenze. Tutti osservavano quel vortice serpeggiante, una anomalia temporale che si manifestava nel mondo ordinario: era la prima volta nella storia che veniva aperto un worm-hole, un vortice temporale che risucchiava tempo e spazio e li metteva in comunicazione, permettendo il aggio da un’epoca a un’altra, secondo le più avanzate teorie della fisica quantistica. L’Osservatore guardava quel vortice affascinato: «È bellissimo! Malcolm c’è riuscito!» La sua voce esprimeva intensa ma misurata emozione. Si tolse gli occhiali scuri e volle fissare con i suoi occhi il tempo che fluiva e interagiva con lo spazio. Ciò che stavano ammirando era essenza temporale allo stato puro, la più intima dimensione dell’universo: Malcolm Wyler era commosso. Aveva lavorato così tanto, organizzato spedizioni, a cui lui stesso anni prima aveva partecipato, creato quel centro di ricerca, investito una montagna di denaro, tutto per un unico obiettivo: il controllo del destino di ogni singolo essere vivente. E ora era in grado di cambiare il corso degli eventi dell’umanità. I rilevatori del Global Consciousness Project evidenziati sul monitor della sala controllo oscillavano impazziti, chiaro indice che la misteriosa forza della consapevolezza globale intimamente legata allo spazio-tempo stava rilevando l’eccezionalità dell’esperimento. Tutti erano ammaliati dal vortice che si era manifestato all’interno del dispositivo al Mercurio Rosso: un’ondata emotiva aveva attraversato il centro di ricerca, afferrando il cuore di ognuno e portandolo di fronte a uno dei più grandi misteri del cosmo: il tempo. Nella mente di tutti, mentre ne ammiravano l’essenza poco sopra l’anello in rotazione, si agitavano domande profonde, enigmi che potevano aprire a orizzonti inesplorati, questioni scottanti sul libero arbitrio.

Mentre gli occhi lucidi degli scienziati contemplavano la più grande scoperta dell’umanità, nel più completo silenzio, leggermente disturbato dal costante rumore di fondo degli apparati elettronici e dal sibilo a bassa frequenza del dispositivo, qualcosa cambiò.

Il suono mutò frequenza e una sorta di bolla sembrò prendere forma dal vortice: si muoveva esattamente come una bolla di sapone. Ondeggiando e spostandosi, rifletteva e rifrangeva la luce deformando le immagini. Si allargò per circa mezzo metro, poi divenne più grande, gradualmente, crescendo fino a tre metri mentre gli scienziati cercavano di capire che cosa stesse succedendo.

La bolla ne originò un’altra e un’altra ancora, finché qualcuno si accorse che non rifletteva i raggi luminosi deformandoli ma stava deformando letteralmente lo spazio, e con esso il suo compagno, il tempo.

Thorn capì improvvisamente di cosa si trattasse e urlò: «Sembra… sembra l’Effetto Hutchison!» «Che cosa?», Alicia non aveva idea di cosa si trattasse. Un giovane tecnico dietro di loro spiegò preoccupato: «L’Effetto Hutchison fu scoperto casualmente nel 1979 da John Hutchison mentre studiava le onde longitudinali di Tesla: si verifica come risultato di interferenze di radio onde in aree spaziali in cui siano presenti tensioni ad alto voltaggio, come in questo caso in cui le generiamo con delle bobine di Tesla avanzate.» William percepì l’angoscia negli occhi del tecnico: «Ma… cosa può accadere?» L’uomo si tolse gli occhiali massaggiandosi le tempie: «Negli ultimi anni, in vari centri di ricerca, sono stati registrati e verificati effetti di levitazione di oggetti pesanti, compenetrazione e fusione di materiali dissimili, come pezzi di legno penetrati in una barra di metallo, cucchiai improvvisamente divenuti molli e che si muovevano come un canovaccio da cucina sbattuto qua e là, riscaldamento anomalo di metalli. Tutti questi fenomeni avvengono senza alcuna forza apparente conosciuta in grado di compierle. Se succedesse ora… sarebbe pericolosissimo.»

Thorn disse qualcosa al microfono. Era il segnale che si doveva correre ai ripari. Cercare di evitare il peggio. L’Osservatore e Wyler erano senza parole.

«Ma cosa può generare effetti del genere?», domandò ancora William al giovane, mentre i loro cani da guardia apparivano confusi e indecisi. Il tecnico rispose senza staccare gli occhi da ciò che stava succedendo al piano inferiore: «Sembra che ciò che Hutchison scoprì abbia a che fare con l’energia di Punto Zero, ossia la Zero Point Energy, così chiamata perché rilevata a temperature vicine a zero gradi Kelvin, sotto forma di oscillazioni e vibrazioni che non dovrebbero esistere a quella temperatura. Abbiamo utilizzato la ZPE nell’esperimento che state osservando. Si tratta di una energia associata a emissioni e annichilazione di elettroni e positroni provenienti dal cosiddetto vuoto quantico, la cui densità è intorno a 10 alla tredicesima Joule per centimetro cubo, sufficiente a far evaporare gli oceani della Terra. Potete immaginare cosa possa succedere se ci sfuggisse di mano…» William e Alicia si guardarono attoniti, nel difficile tentativo di seguire la spiegazione dell’uomo. «Innescherebbe una trasformazione dimensionale e, probabilmente, qualcosa di peggio, perché qui abbiamo a che fare con lo spazio-tempo…» Quello che sembrava nei secondi precedenti un potenziale pericolo si dipanò ben presto di fronte agli occhi esterrefatti dei presenti. In quel momento calò il panico più totale. Thorn gridò: «Effetto Hutchison! Effetto Hutchison!» Tutti coloro che poterono corsero immediatamente dietro una paratia di protezione mentre le bolle si spostavano e alteravano la materia, deformandola, fondendola, violando la legge di incompenetrabilità dei corpi solidi.

Alcune strutture portanti della sala, urtate e modificate dalle bolle di spaziotempo, crollarono e così parte del soffitto che in una miriade di scintille veniva divelto, abbattendosi rovinosamente a terra.

Ma quello era solo l’inizio. Le enormi bolle crescevano continuamente e distruggevano qualunque cosa venisse a contatto con esse, dopo averne

deformato la materia intrinseca: scoppiarono incendi in diversi punti e la struttura cominciò a essere fatta a pezzi mentre tutti cercavano scampo verso le uscite di sicurezza.

Nel caos generale William si accorse che nessuno pareva più badare a loro. Anche chi doveva sorvegliarli cercò scampo all’esterno. Fu allora che William urlò ad Alicia di inserire la sua . Alicia corse verso il primo elaboratore che trovò, entrò nella schermata della sicurezza e inserì la che abilitò la procedura dell’autodistruzione.

In quello stesso istante in tutti i monitor del centro apparve un numero in progressione negativa. Una voce femminile generata dal software, sterile, fredda e senza alcuna emozione, annunciava la distruzione imminente del complesso: «Attenzione. Procedura di autodistruzione attivata. Mancano nove minuti e cinquanta cinque secondi alla distruzione del centro. Vi preghiamo di allontanarvi immediatamente secondo le misure di evacuazione. Attenzione. Procedura di autodistruzione inserita. Mancano…»

Fu allora che si scatenò l’inferno: una serie di possenti esplosioni squassarono l’intera struttura sotterranea facendone tremare le fondamenta. Quelli che poterono fortunosamente raggiungere gli elevatori cercarono scampo in superficie mentre il tempo si riprendeva ciò che era suo con una violenza difficilmente immaginabile. William osservò con orrore uomini ridotti a torce umane, corpi maciullati dai crolli, uomini e donne schiacciati sotto ammassi di detriti o letteralmente arrostiti dalle fiamme.

Alicia lanciò un grido quando una serie di assordanti esplosioni proiettarono schegge roventi per tutta la sala. Il fumo cominciava a diffondersi e l’aria diveniva sempre più irrespirabile.

Alicia e William corsero verso quella che sembrava una via di fuga, sovrastati dal caos primordiale che tutto distruggeva. Poco distante L’Osservatore, messo in allarme già all’inizio del fenomeno, seguito da Malcolm Wyler si era avviato con falsa tranquillità verso un’area riservata ai membri di The Rune. Da lì avrebbero preso un ascensore che li avrebbe portati in superficie. Ma, mentre attendevano che la porta si aprisse, Wyler fu colpito da un traliccio metallico crollato dal soffitto.

Proprio in quel momento giunsero, trafelati, Alicia e William. « Papà! Mio Dio!», gridò lei portandosi le mani al viso.

In quell’istante le porte si spalancarono e L’Osservatore, senza far caso a Malcolm che si contorceva per il dolore sotto una tonnellata di acciaio, entrò nell’abitacolo e schiacciò il pulsante per la risalita. Mentre le ante si chiudevano William fissò quello strano essere. Per un attimo gli sembrò che affiorasse su quel volto senza età definita un ghigno, o qualcosa di simile. Ma, subito dopo, un altro urlo lancinante lo richiamò alla realtà. «William dobbiamo aiutarlo!» Lui la trattenne per un braccio. Era una follia. Nessuno sarebbe riuscito a spostare quell’enorme peso. Ma lei pareva in preda a una crisi isterica. Si dimenò, cercando di divincolarsi. «Ferma!», gridò William, proprio nell’istante in cui un altro frammento di metallo, deformato e tagliato di netto dalle bolle che continuavano a modificare l’ambiente, cadde pesantemente come una lancia proiettata nello spazio e penetrò nel ventre di Wyler, perforandolo e poi conficcandosi nel pavimento.

L’uomo ebbe un sussulto. Non riuscì però a emettere altro che gorgoglii mentre

il sangue gli usciva copioso dalla bocca. La mano era in preda a un tremito irrefrenabile. «Aiutalo!», urlò per l’ennesima volta Alicia, voltandosi a fissare l’amico con una maschera di lacrime. William la fece spostare, sperando che non le cadesse niente addosso. Quindi raggiunse Wyler i cui occhi si aprivano e chiudevano come se fossero accecati da un’intensa luce. A pochi metri da loro, intanto, uno degli incendi stava avanzando velocemente. William provò a sollevare il traliccio ma ogni sforzo fu inutile. Era umanamente impossibile. Neanche in dieci ci sarebbero riusciti. Inoltre le ferite provocate dal secondo frammento erano chiaramente mortali. Se anche fossero riusciti a toglierlo da lì sotto sarebbe deceduto a breve.

Non sapeva che fare. Alicia si era avvicinata, incurante del pericolo. Aveva tentato di aiutarlo, ma non c’era stato nulla da fare. Le fiamme, nel frattempo, si avvicinarono ancora illuminando di un forte tono aranciato e nerastro il viso del professore. Sentiva l’intenso calore sulla pelle che gli doleva ma decise di combattere sino all’ultimo, per Alicia, e per se stesso.

«Prendi l’estintore!», le urlò mentre cercava di capire il modo di tamponare l’emorragia. Alicia, frastornata, andò alla parete e staccò l’attrezzo, andolo all’amico. Subito dopo William cercò di domare le lingue di fuoco che cominciavano a lambire Malcolm. Ma il potere che le alimentava, oramai, era incontrollabile. Fu in quel momento che Wyler la guardò: sentiva che le energie stavano scemando, che il suo corpo stava morendo, ma non era una sensazione così terribile. In quello sguardo morente ad Alicia parve di vedere qualcosa di diverso. Quelli non erano gli occhi di suo padre… non era il solito modo di osservarla, quello che aveva sempre conosciuto.

Con un ultimo sforzo Malcolm sollevò un braccio, mentre sentiva il calore

bruciargli già le tempie e i capelli. Le fece cenno di avvicinarsi: lei aveva gli occhi lucidi, sporchi di fumo, respirava a fatica e aveva paura di quello che stava per sentire. Ciononostante si chinò. «Papà…» Malcolm ebbe un sussulto. Un fiotto di sangue gli impiastrò i denti. Tossì, poi le afferrò con le dita la mano. «Alicia…» William era a pochi i, l’estintore era quasi scarico. Poteva respingere le fiamme ancora per pochi secondi. Poi sarebbero stati perduti. «Fuggite… l’ascensore!» Alicia annuì, tirando su con il naso.

«Prendi le chiavi… per l’apertura manuale. Sono nella tasca… dei pantaloni.»

La donna le trovò subito.

«Dobbiamo andare!», la avvertì con tono lugubre William che retrocedeva con l’avanzare delle fiamme. Era a due metri da loro. Wyler tossì, sputò ancora sangue, poi con l’ultimo fiato continuò: «Alicia… mi spiace che sia finita così. Io… non volevo…» «Papà…» «Non è stato come pensi tu…», proseguì cercando di non farsi soffocare dal sangue che sentiva inondargli i polmoni. «Io amavo tua madre. Ma…» Ebbe un altro sussulto. La sua voce era oramai ridotta a un flebile sibilo di vento che usciva da un corpo devastato. «Da quando ho conosciuto L’Osservatore… tutto è cambiato, è come se… ne ero schiavo, tutti noi lo siamo.»

Alicia gli strinse la mano e vide, per la prima volta, nella spalla oramai scoperta a causa delle vesti strappate, uno strano simbolo tatuato.

Lui se ne accorse e cercò di spiegarle, chiamando a raccolta le forze residue: «Questa è… la runa Algiz. È la stessa che utilizzavano i nazisti per le croci delle SS. Hitler condivideva la stessa religione che professiamo noi… È ciò che ci accomuna a L’Osservatore.» Chiuse gli occhi, tossendo violentemente. «È il segno distintivo… di The Rune: tutti lo abbiamo.» William si chinò su Alicia cercando di strapparla via al padre.

«Dobbiamo andare!», urlò. Lei non guardò neanche le fiamme che oramai erano così vicine: ne percepiva la forza distruttiva nelle guance che bruciavano.

«È anche il simbolo della Funzione Gamma», continuò Malcolm. «Significa… significa che siamo un gruppo di persone che dipendono da un aiuto superiore e sono legate da un progetto per controllare il tempo.» Finalmente William riuscì, quasi sollevandola di peso, a staccarla da Wyler. Ma lui proseguì, con lo sguardo perso in un punto indefinito, un orizzonte senza più futuro. «Alicia, non mi pento di ciò che ho fatto… se non nel caso di tua madre. Ma te l’ho detto: ero uno schiavo. E non sono riuscito a oppormi, quell’essere… lui soggioga le persone.» «Papà, non ti affaticare…», disse Alicia tra le lacrime, cercando di opporsi alle braccia di William che cercavano di trascinarla verso la porta dell’ascensore.

«Jung aveva visto giusto…» Alicia lo osservò senza capire. William invece aveva afferrato perfettamente il

concetto. Wyler continuò con un filo di voce: «Carl Gustav Jung… l’ho conosciuto negli anni ’60… aveva studiato il nazismo comprendendone l’ansia spirituale. Spiegò che i tedeschi hanno due caratteristiche: violenza guerriera e ansia metafisica. Lo chiamò Archetipo Wotan-Odin, il Dio dei germani che era sia guerriero sia…», si fermò un momento a respirare. I vestiti cominciavano a prendere fuoco. Ma lui oramai non sentiva più alcun dolore. «Sia… depositario del sapere delle Rune. Io… credevo che L’Osservatore fosse la risposta alle mie domande spirituali ma ho fatto un enorme errore. Ne sono rimasto soggiogato senza alcuna possibilità di uscire dalla sua influenza.» Alicia lo fissò con immensa pietà: «Papà… chi è L’Osservatore?» Le gambe erano avvolte dalle fiamme che risalivano lente e inesorabili verso il volto di Wyler. L’odore della carne bruciata feriva le narici, eppure in quell’istante Malcolm sembrava come trasfigurato. Cercò di rispondere ma di nuovo un fiotto di sangue gli uscì dalla bocca. Tossì più volte. Il tessuto della camicia che indossava scintillava e ben presto anche il suo volto sarebbe stato avvolto nella combustione. William, stringendo Alicia, guardò sopra le loro teste, continuando a tenere d’occhio le bolle di spazio-tempo che disgregavano l’ambiente incuranti della voce asettica che annunciava entro pochi minuti la distruzione dell’impianto. «Alicia dobbiamo andarcene. Subito!» «Fuggite», urlò infine Wyler. Pochi istanti dopo il suo volto venne devastato dal calore e dalle fiamme. Alicia si voltò, per non vedere quell’atroce spettacolo. William la trascinò di fronte all’ascensore. Poi le prese le chiavi dalle mani e le inserì freneticamente nella serratura finché al terzo tentativo trovò quella giusta. Riparando con il proprio corpo la donna, accucciata nell’incavo del suo petto, vide che una luce rossa si era accesa e sentì, o almeno così gli sembrò, il sibilo del motore dell’ascensore. Sperò che arrivasse il più in fretta possibile.

Le porte si aprirono all’improvviso. Lui la spinse dentro senza troppi

complimenti mentre le lingue di fuoco saettavano nella loro direzione. Quando premette il tasto per la risalita l’involucro di acciaio venne sparato a velocità elevata verso l’alto. In quell’istante udì una serie di esplosioni che squassarono la sala.

Capitolo 40

Esterno del Centro di Ricerca Rockefeller, Cherry Ridge Wild Forest. 18 giugno 2017. Pomeriggio

Quando le porte si riaprirono erano in superficie. Davanti a loro c’era solo prato e due Jeep di grossa cilindrata con le chiavi inserite nel cruscotto. Salirono su quella più vicina. William mise in moto e, chiedendosi dove fossero, fuggirono il più veloce possibile.

Dopo diverse centinaia di metri superarono una radura e, subito dopo, videro la statale a poca distanza: schizzarono fuori dalla strada sterrata e investirono la rete che delimitava il centro svellendone i pali e aprendosi un varco diretti a tutto gas lontani da lì. arono circa trenta secondi e, alle loro spalle, si susseguirono una serie di esplosioni sotterranee di enorme potenza, tali da smuovere il terreno, piegare alberi e rovinare l’asfalto in più punti. Subito dopo, tentando di non far andare fuori strada il veicolo investito dall’onda d’urto, furono raggiunti da una luce intensissima, simile a quella di un bagliore nucleare che tuttavia non fu seguita da alcun rumore. Una enorme bolla generata dallo spazio-tempo aveva letteralmente atomizzato il centro la cui area era stata come risucchiata nel nulla, lasciando un cratere di parecchie centinaia di metri di diametro. William diede uno sguardo dallo specchietto retrovisore: l’enorme cratere, ancora fumante, pulsava di una lieve luce azzurrina, appena visibile ma più evidente quando del fumo vi ava attraverso. Ciò cui avevano assistito era l’esatta replica di quanto accaduto agli scienziati tedeschi impegnati con il primo esperimento denominato Die Glocke. Solo che questa volta era avvenuto in scala molto più grande: l’insufficiente accuratezza della Funzione Gamma, causata dai dati mancanti, aveva provocato un eccessivo spostamento di fase dello spazio-tempo e una letterale torsione dimensionale e

temporale. Tutto ciò aveva provocato un enorme squarcio su un orizzonte degli eventi non conosciuto e una emissione di radiazioni che aveva trasformato tutta la materia organica in un raggio di svariate decine di metri dal dispositivo in una poltiglia biologica indefinita, una pozzanghera di DNA disciolto in acqua. Le esplosioni controllate dell’autodistruzione avevano poi ampliato il fenomeno, generando un’istantanea apertura di un varco dimensionale che si era richiuso immediatamente dopo, annichilendo la materia entro un’area sferica di cinquecento metri di diametro: tutto ciò che vi era all’interno, il centro di ricerca, le persone, il cemento, la terra, ogni cosa era semplicemente scomparsa. Al suo posto vi era qualcosa di simile al Meteor Crater dell’Arizona. Ma, a differenza di quello, le pareti sferiche del cratere appena formatosi scendevano in profondità per cinquecento metri ed erano completamente lisce, levigate come uno specchio bruno, quasi si trattasse di terra fusa, di una colata lucida che si era asciugata istantaneamente lasciando una superficie straordinariamente riflettente ma del medesimo colore della terra. A ben osservarla sembrava una calotta sferica, una sorta di concavità realizzata per costruire un radiotelescopio, ma la realtà era molto più preoccupante.

L’auto si allontanava velocemente e solo a diversi chilometri dal luogo del disastro si fermarono in una cittadina presso la stazione e lasciarono il veicolo che li avrebbe potuti mettere in una posizione imbarazzante se fossero stati fermati. Presero un treno per New York. Non avevano idea di come avrebbero fatto a salvarsi da The Rune dopo aver provocato loro un tale danno. Per buona parte del viaggio avevano vagliato le possibilità di una vendetta da parte di coloro che fossero sopravvissuti all’esplosione e, soprattutto, di colui che Malcolm aveva chiamato L’Osservatore. Ma decisero di affrontare un problema per volta. Per il momento dovevano fuggire dagli Stati Uniti e non sarebbe stato facile senza lasciare qualche traccia del loro aggio. Ma per queste cose, c’era sempre una via d’uscita, gli ricordò Alicia.

«Solo che», aggiunse a voce bassa, «non avrei proprio voluto utilizzarla…» William la guardò con una strana espressione sul viso: non capiva cosa volesse dire ed era ancora molto scosso da ciò che era successo. Molte persone erano morte, probabilmente anche degli innocenti, e anche se Alicia sembrava aver

incassato bene il colpo della morte di suo padre sapeva bene che quella ferita si sarebbe riaperta, prima o poi.

William osservava il panorama dal treno in corsa. Quello cui avevano assistito era stato al contempo fantastico e irripetibile. Eppure non riusciva a fare a meno di tornare con la mente agli effetti del disastro. Le parziali informazioni matematiche che avevano fornito a Wyler avevano provocato l’incidente, di conseguenza erano responsabili per la morte di tanta gente. Ma, da buon britannico, fece leva sul suo self control, imponendosi di non lasciarsi travolgere dagli eventi: non era certo quello il momento di farsi venire dei complessi di colpa. Per ora avevano cose più urgenti. Alicia fissò William negli occhi, come se stesse decidendo se fare o non fare qualcosa. Ma prese presto la sua decisione, scorse la rubrica del cellulare e chiamò un numero preciso. «Ciao baby», rispose una voce squillante. «Quanto tempo è ato dall’ultima volta? Tre anni?» La persona all’altro capo della comunicazione doveva conoscerla molto bene. «Tre anni e mezzo», precisò seria Alicia, sottolineando il fastidio con cui si espresse con una eloquente espressione del viso. Si sentiva devastata emotivamente e l’ultima cosa che desiderava era un approccio del genere. «Tre anni e mezzo… ma guarda. Come corre il tempo. Come stai?» Il tono canzonatorio con un accenno di acido sarcasmo nella prima parte della frase lasciò spazio, nelle ultime parole, a una chiusura più triste. «Silver, non ho tempo di spiegarti. Ho bisogno urgente di un aggio fuori dagli Stati Uniti. Siamo in due. Ma non deve saperlo nessuno.» L’uomo divenne ancora più serio: «Alicia, ho smesso da tempo con quelle attività. Adesso sono pulito e certe cose non le faccio più.» «Silver, ti prego, sono nei guai… anzi, siamo nei guai, io e un mio amico. Dobbiamo andarcene e alla svelta da New York. Siamo un pacco da trasportare oltre oceano, a qualunque cifra. Ma immediatamente. Puoi farlo?»

«Sì», rispose. Poi, dopo un’altra breve pausa, aggiunse: «Ma stai bene? Cosa è successo?»

«Non ti posso spiegare al telefono, stiamo per arrivare a New York in treno, dov’è il tuo hangar?» «Aeroporto di Newark. Scalo merci, Terminal P8, SilverAir Taxi. Dove volete andare?» «Poco a nord di Londra, la pista di atterraggio più vicina all’Hertfordshire. E mi raccomando, non lo deve sapere nessuno. Non deve risultare alla torre di controllo che partiamo per l’Inghilterra.» «Va bene. Preparo le carte per un’altra destinazione e andiamo. Dovete proprio essere con l’acqua alla gola. Ci vediamo qui da me, fammi uno squillo appena arrivate.» «Grazie, Silver, ti sono debitrice.» Chiuse la comunicazione e guardò la campagna farsi sempre meno bella e più abitata in prossimità della città. Giunsero a Penn Station e da qui presero un treno Amtrak per il Newark Liberty Airport, nel New Jersey. Una scelta ottimale perché meno in vista del La Guardia o del JFK.

Non parlarono molto, entrambi riflettevano su ciò che era appena successo e sulle implicazioni future. Avevano visto per la prima volta l’uomo giocare con il tempo e compreso a quali micidiali pericoli si sarebbero esposti continuando su quella strada.

William chiese chi fosse questo Silver, ma dal tono della risposta aveva intuito che c’era qualcosa di fosco riguardo la persona che stavano per incontrare; Alicia era stata evasiva, disse solo che era un ottimo pilota. Lui, non volendo metterla in imbarazzo, aveva mitigato la propria curiosità. Ma la strana sensazione di allarme provata poco prima tornò a manifestarsi quando furono di

fronte al grande Terminal P8. La scritta SilverAir Taxi campeggiava rivaleggiando in grandezza con quelle di compagnie aeree ben più note. Alicia fece uno squillo al cellulare di Silver che spiegò loro come arrivare all’hangar. Quando arrivarono si trovarono di fronte uno Spectrum S-40 Freedom che stava già scaldando i motori. Silver li attendeva accanto alla scaletta di imbarco. Si avvicinò ai due fermandosi a pochi i da loro. Era un uomo sui quarant’anni, alto e con i capelli molto lunghi raccolti a coda di cavallo, neri e lucidi, evidentemente tinti da poco. Appena vide Alicia i suoi occhi si illuminarono e le si parò davanti continuando a fissarla. «Non sei contenta di rivedermi?» Silver sfoggiava un sorriso sornione sulle labbra. William osservava la scena con un certo fastidio. «No. Non sono contenta di vederti.» Lui si volse verso William: «Fa ancora colazione con il muesli alla mela la mattina?» «Mah… non so…», rispose chiedendosi che importanza avesse una domanda del genere in quel momento e guardò interrogativamente Alicia. Lei, provata oltre ogni misura dagli eventi di quel giorno, rispose rabbiosamente: «Smettila, non fare lo stupido. Non è come credi. E comunque tu non hai più nulla a che fare con la mia vita, per cui tieniti le tue battute da idiota.» «Ehi, dai… stavo solo scherzando!», fece Silver. «Allora, puoi portarci fuori dagli Stati Uniti senza tante storie?» Silver mise le mani sui fianchi, poi la guardò inclinando la testa e, allargando le braccia, avanzò e la strinse a sé amichevolmente. Lei sorpresa e imbarazzata guardò William come per scusarsi. Lui le sorrise. L’uomo si voltò verso Connor allungandogli la mano: «Long John Silver, al suo servizio.» La sua espressione appariva sincera e amichevole. Tutto sommato sembrava anche simpatico quando si toglieva quella maschera da latin lover.

«William J. Connor. Lieto di conoscerla.» «Ah, lei è inglese. Bene, mi piace l’Inghilterra, ci torno sempre con piacere. Ok, salite, sistemo alcune cose e poi si parte.» Si diresse verso l’ufficio interno dell’hangar; disse ai suoi collaboratori che sarebbe stato di ritorno il giorno seguente e poi si avviò verso lo Spectrum che attendeva. Eseguite tutte le formalità, l’aereo rollò per qualche minuto sulla pista e, dopo una breve attesa, si alzò in volo sull’Atlantico.

Mentre si allacciava le cinture William, incuriosito, si rivolse ad Alicia: «Sembra che tu conosca molto bene il signor Silver.» Il sorriso malizioso era variamente interpretabile, ma la donna rimase sulle sue, evitando di raccontare troppo. «Era lui la persona che avrei dovuto sposare tre anni fa. Capitolo chiuso. Basta commenti su Long John.» «Long John Silver?», ripeté William, sempre più curioso. In effetti poteva assomigliare a un pirata, anche se era più simile a Johnny Depp che al Long John Silver de L’isola del Tesoro di Stevenson. Silver era alto, con una lunga coda di capelli e la barba di un paio di giorni, ma comunque curata. Vestiva in modo molto casual: jeans, scarpe da ginnastica rigorosamente consumate e t-shirt. Il sorriso, che non spariva mai dal volto, era il suo tratto distintivo. Probabilmente il suo punto di forza, quello che lo aiutava ad affascinare tutti, specialmente le giovani donne con cui spesso si accompagnava. Era stato quello a colpire Alicia, all’inizio della loro relazione. Ma ben presto era saltato fuori il vero carattere di Silver: narcisista, egoista, immaturo… troppo distante da Alicia per poter sperare di costruire qualcosa assieme. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, lasciarsi era stato comunque doloroso. E il conto da pagare, in termini di lacrime, assai salato per entrambi. Poiché tutti e due, in ogni caso, avevano creduto l’uno nell’altro. «Che mi dici sul suo conto?», tornò alla carica William, cercando di strapparle qualche informazione in più. «La Wyler Foundation si è servita di lui in varie occasioni in cui era necessaria… un’attività clandestina.»

«Come? Tu hai autorizzato attività clandestine? Non ci credo.» «Rilassati, si trattava di faccende tra lui e mio padre.» Si bloccò di colpo. Pensare a Malcolm le provocò un dolore lancinante al petto. Lasciò are qualche istante e aggiunse: «È uno dei motivi che mi hanno portato a chiudere con lui. Credo fosse impegnato in traffici di oggetti d’arte. Mi risulta che non lavori più per la Fondazione, più o meno da quando ci siamo lasciati.» In quel momento il velivolo raggiunse la quota appropriata al piano di volo; Silver lasciò i comandi al pilota automatico e uscì dalla cabina mettendosi a sedere di fronte ai due eggeri. «Bene, signori. Abbiamo diverse ore tutte per noi. In che guaio vi siete cacciati?» Alicia raccontò a grandi linee la loro avventura, fece qualche accenno ai progetti segreti della Fondazione, ma evitò di entrare nel dettaglio. Silver ascoltò con attenzione, ma era evidente che sapeva più di quanto si aspettassero. Alicia proseguì, e gli disse della morte di Malcolm Wyler con la voce rotta dall’emozione. Lui rimase in silenzio, rispettando il suo dolore.

«Una situazione piuttosto pericolosa. Conosco bene quella gente: non molleranno l’osso. Continueranno a cercarvi finché non vi troveranno.»

Alicia si chiese se conoscesse The Rune, ma non domandò nulla in proposito. «Io posso portarvi in Inghilterra e atterrare dove volete», continuò Silver. «Lascerete comunque delle tracce. Ma cosa vogliono esattamente da voi?» «Beh, abbiamo causato un bel po’ di danni.» «In che senso?» William sgranò gli occhi, come a invitarla a non scoprirsi troppo.

«Vogliono delle informazioni che non possiamo dare loro», si limitò a rispondere. «Ok, baby, per quanto riguarda me, io non vi ho mai visto. Non ti preoccupare. E… mi dispiace sinceramente per tuo padre.» «Grazie. Forse in Inghilterra riusciremo a stare tranquilli per un po’.» Parlarono ancora della loro situazione poi, quando giudicò che fosse tornata al suo umore solito, per stemperare la tensione disse: «Hai cambiato pettinatura. Ti dona parecchio. Accentua il tuo fascino newyorkese.» Aveva pronunciato quella frase con una punta di ironia. Ma l’effetto che ottenne fu tutt’altro che positivo. Alicia, infastidita, rispose con acida determinazione: «Ti sta diventando grigia la barba, te ne sei accorto? Quand’è che crescerai e metterai la testa a posto?» Silver si morse il labbro. Voleva essere solo gentile.

«L’ho fatto, baby», rispose. «Ora ho la mia azienda. Alla Fondazione hanno cercato di affibbiarmi altri carichi, ma ho rifiutato e chiuso definitivamente con loro. Ora lavoro in proprio. E anche se sto ancora finendo di pagare questo gioiello, gli affari vanno benone.» «A proposito», fece Alicia tirando fuori il blocchetto degli assegni, «quanto ci costa il tuo aggio?» Lui parve un attimo in imbarazzo. Avrebbe voluto dirle che era gratis. Ma non poteva permetterselo al momento. Alla fine le praticò un grande sconto e le fece pagare giusto il costo del carburante. Alicia ringraziò, scrisse la cifra e staccò l’assegno. Subito dopo Silver andò a prendere delle bibite che offrì ai due ospiti. Conversarono ancora per una buona mezz’ora e Silver diede diversi consigli su come evitare di essere tracciati nelle comunicazioni. Disse loro di evitare il più possibile l’uso delle carte di credito, i posti troppo affollati, ma anche quelli in cui era facile essere notati. William apprezzò la sincerità e la schiettezza dell’ex di Alicia. Evitò di dirgli che quegli accorgimenti erano naturali per loro, ma in ogni caso ascoltò con attenzione.

Quando il pilota tornò alla guida del velivolo per cambiare la rotta iniziale, William guardò Alicia senza parlare. Lei ricambiò il suo sguardo eloquente. Non c’era veramente nulla tra loro?. Infine Alicia ruppe gli indugi: «William… ti ho detto che con Silver è finita tre anni fa.» «Certo. Come è andata?» «Non lo sopportavo più, c’erano alcune cose che non andavano. Ho cercato di ricomporre il nostro rapporto ma si ostinava a fare lo stupido, manteneva sempre quell’aria di eterno rubacuori che mi ha sempre fatto arrabbiare. Anche se non nego che un tempo mi avesse attratto. Per un po’…» «Beh, mi sembra che ti attragga ancora», la stuzzicò William. Desiderava che le sue apparissero domande innocue, tra amici. In realtà sentiva qualcosa di indefinibile dentro di lui. Gelosia? Paura? «Ti ho detto che con lui è finita, William. Ed è così. E anche se tutto sommato mi ha fatto piacere rivederlo, questo non significa nulla.» «Ah. Certo.» William si voltò verso il finestrino perdendosi nel blu intenso dell’oceano. Quasi non si accorse della dolcezza con cui Alicia si avvicinò e appoggiò il capo alla sua spalla. Lui si voltò di scatto. «Alicia…» «Sì?» «Io…», avrebbe voluto dire qualcosa di diverso, probabilmente parlare di loro due. Ma alla fine il pensiero che le sue parole sembrassero fuori luogo prevalse. «Sono terribilmente dispiaciuto per tuo padre», fece lentamente. «Ci ha salvato. Dobbiamo ricordare questo di lui.» Lei sentì il cuore premere forte e lamentarsi finché esplose in un pianto liberatorio. Era dispiaciuto di averla fatta soffrire: «Scusami, non volevo…» «No, William, scusami tu, non è certo colpa tua, anzi sei sempre molto gentile…» Si asciugò gli occhi, poi si riprese: «Come ti ho detto, non lo conoscevo, per me è sempre stato una specie di estraneo. Ciò che mi fa male è

che solo in punto di morte ho potuto capire che non era solo malvagio. Forse, a modo suo, mi voleva bene. Non lo so.» «Alicia?» «Dimmi.» «C’è una cosa che non ti ho detto.» Lei lo guardò stupita. «Quando ti ho spinta verso l’ascensore…» «Si?» «Potrei sbagliarmi…» «Cosa vuoi dirmi?» «Mi sembra… mi è sembrato di aver visto una persona accanto a tuo padre. È stato per pochi istanti. Mi sono voltato un attimo per vedere il fuoco e mi è parso che qualcuno lo trascinasse via… ma non ne sono sicuro.» «Pensi che possa essersi salvato?» «Con quelle ustioni… difficile dirlo.» Chio gli occhi, senza aggiungere altro, mentre mille pensieri solcavano le loro menti. Rimasero così, per un po’, stretti l’uno all’altra. William percepiva il profumo dei suoi capelli, della sua pelle. Alicia avvertiva invece un senso di sicurezza. Lui le dava qualcosa che Silver non avrebbe mai potuto regalarle, qualcosa che solo il suo professore inglese possedeva. Alicia scivolò in quella piacevole sensazione che la salvava dalla tremenda consapevolezza di aver perso ciò che rimaneva della sua famiglia. Si addormentò, spossata dalle emozioni di quel giorno straordinario. Dopo un po’ anche lui chiuse gli occhi e, quando li riaprì, la trovò nella stessa posizione di prima. Sorrise e con la mano le carezzò i capelli.

Silver chiamò Alicia per mostrarle una grossa nube temporalesca dalla cabina di pilotaggio. Non ricevendo risposta si voltò e la vide, abbandonata come una bambina sul torace di William che, all’udire la voce dell’altro, si era ridestato. Silver gli sorrise e tornò alla cloche. Dopotutto era contento di averla rivista. E di sapere che aveva di nuovo qualcuno che badasse a lei. Il viaggio proseguì in modo tranquillo; al risveglio di Alicia chiacchierarono un po’ e andarono nella cabina di Silver. Poi, in prossimità della costa occidentale dell’Inghilterra, concordarono la zona dove sarebbero atterrati. Silver consultò il database delle aviosuperfici per evitare gli aeroporti convenzionali e trovò una pista adatta al caso. Atterrarono su un campo per ultraleggeri e aerei di piccole dimensioni.

Silver tirò un sospiro di sollievo: «Ce l’abbiamo fatta… Devo dire che non ero sicuro di poter atterrare qui, la pista è troppo corta, sia lode alle centinaia di ore di volo che ho sulle spalle.» William e Alicia guardarono il pilota con gratitudine. Si salutarono abbracciandosi e Alicia gli diede un bacio su una guancia. «Grazie, Silver, grazie davvero. Non so come avremmo fatto senza di te.» «È tutto ok, baby», rispose usando il nomignolo che le aveva affibbiato da quando erano stati assieme. Strinse la mano a William: «Abbi cura di lei. È una brava ragazza ma tende a mettersi nei guai», disse strizzando l’occhio.

«Grazie di tutto Silver. Farò come dici», replicò William con un leggero imbarazzo che scomparve di fronte al sorriso di Alicia. Non c’era alcuna aerostazione, ma semplici capanni per il ricovero dei velivoli. Più in là, in una piazzola, videro un uomo armeggiare sul motore di un apparecchio. Il paese più vicino si trovava a diversi chilometri di distanza. Decisero di chiamare un taxi e, trovato il numero adatto su internet, si voltarono per l’ultima volta a salutare Silver che li osservava dalla scaletta dello Spectrum. Subito dopo ritirò la erella verso l’interno, chiuse il portellone e fece rullare

i motori. Ripartiva. Destinazione Parigi, la meta segnalata nel piano di volo consegnato prima di decollare da New York. Nella città più vicina noleggiarono un’auto e raggiunsero in breve la tenuta di Richard. Per sicurezza non l’avevano chiamato e quando l’amico li rivide fu felice e contento di ospitarli.

Li fece accomodare nel suo salotto, offrì da bere e si fece raccontare tutto.

Quando a turno William e Alicia ebbero terminato la lunga sequenza di avventure che li aveva visti coinvolti, Richard era senza parole. Gli ci volle un po’ per tirare le fila della questione. Disse di aver sentito parlare di The Rune, ma di non conoscerne bene la natura. Sapeva che esisteva una organizzazione ristretta composta da dodici persone dietro tutto ciò che stava succedendo e, come affiliato a Skull & Bones, era a conoscenza del fatto che esistesse una cupola occulta, ma non si aspettava che fossero in pratica gli Illuminati, una loro versione aggiornata al XXI secolo. «Sono davvero dispiaciuto. È una situazione molto pericolosa. Questa è gente che ha per le mani un potere immenso, che ha gestito e pianificato la più grande crisi economica della storia dell’umanità. Ora vogliono raccogliere i frutti del loro piano. Ci dirigiamo a grandi i verso l’epilogo, temo.» «Già, la crisi economica. Tutto questo solo ed esclusivamente per il denaro e il potere.» «Sì», ammise Richard. «Ma è una trama che va al di là del vile potere. Questa storia è stata pianificata con un sistema geniale e molto efficace: quello della birreria.» I suoi interlocutori lo guardarono con fare interrogativo. «Ah, scusate, è il termine con cui ho spiegato queste cose a una marea di petulanti ragazzi della facoltà di economia a Oxford, durante una conferenza», disse con un leggero sorriso. «In pratica abbiamo un gestore di pub che chiameremo John. Nel suo pub si beve parecchio, ma siccome molti clienti sono

ubriaconi disoccupati che nel tempo caleranno le consumazioni, John ha un’idea geniale: permette ai suoi avventori di bere subito e pagare poi. La voce si sparge e ben presto il suo bar è il più affollato. Preso dal volume degli affari, John alza i prezzi più volte, ma nessuno se ne preoccupa, tanto pagheranno dopo. Le vendite così aumentano. Lui ogni tanto ritocca i prezzi delle bevande e naturalmente nessuno protesta, visto che nessuno paga: è un rialzo virtuale. La sua banca, vedendo che gli affari funzionano bene, gli aumenta il fido, ragionando che questo è garantito da tutti i crediti che il bar vanta verso i clienti. Anzi la stessa banca, osservando gli stratosferici guadagni – virtuali e non reali – di John ha un’idea geniale: prende i crediti del pub e li usa come garanzia per emettere una nuova obbligazione da immettere sui mercati internazionali. Li chiameremo i Birra Bond. Questi ottengono subito un rating eccezionale: AA+, come quello della banca che li emette. E gli stock messi in vendita vanno a ruba. Tuttavia gli investitori non si accorgono che i titoli sono di fatto garantiti dai debiti di persone che non potranno mai pagare, ma visto che rendono bene c’è una corsa all’acquisto e il loro prezzo sale. I gestori dei fondi pensione, attratti dalla rendita vertiginosa, li acquistano in grandi quantità e i Birra Bond si trovano in men che non si dica in ogni parte del mondo. Però, essendo tutto un castello di carte, prima o poi è destinato a crollare e un giorno il direttore della banca di John decide di chiedere al proprietario del pub di cominciare a restituire il denaro. John, spaventato, comincia a chiedere ai suoi clienti di pagare la lunga lista di birre consumate, ma loro, essendo disoccupati non possono saldare i conti e così John non riesce a risarcire gli interessi e la marea di denaro che deve alla banca. Il pub chiude improvvisamente per fallimento. Di conseguenza i Birra Bond crollano. Il loro valore cala del 90% in brevissimo tempo e la svalutazione è appena iniziata. La banca che li ha emessi entra in crisi di liquidità e congela la sua attività. Ora non può più fare credito alle aziende e così l’economia locale subisce un brusco arresto. Nel frattempo, i fornitori del pub di John, che avevano concesso ampie dilazioni di pagamento, si ritrovano con enormi crediti che non possono riscuotere. Inoltre, vedendo che i Birra Bond erano ottimi e con un rating altissimo, avevano investito anche in quelli e si ritrovano anch’essi con della carta straccia per le mani. Molte delle attività dei fornitori, quelli piccoli, vengono rilevate da altre aziende più grosse che decentrano la produzione portandola in altri paesi, ingenerando così un altro grave danno all’economia locale. Il vero colpevole, la banca, che ha causato il danno immettendo sul mercato titoli tossici, invece di fallire viene salvata con un prestito governativo senza richiesta di garanzie e a tasso zero. Sapete da dove lo Stato prende i soldi per salvare la banca?»

William e Alicia si guardarono perplessi. «No.» «Il Governo ha semplicemente tassato tutti quelli che non erano mai stati nel pub di John perché astemi o impegnati a lavorare. In poche parole lo Stato infila le mani nella tasca dei contribuenti e da lì toglie fuori i soldi per regalarli, è proprio il caso di dirlo, alla banca che li ha dilapidati.» «Dunque questo è il sistema della birreria», fece William. «Esatto. Uno schema molto semplice per spiegare qualcosa di assai complesso. Comunque delinea bene quanto è realmente successo nell’economia mondiale. E, a pagarne di più le conseguenze, sono stati coloro che non avevano alcuna colpa. Un sistema terrificante, aggravato dal fatto che i colossi finanziari che hanno creato il danno sapevano bene a cosa andassero incontro. Qui non parliamo di sprovveduti. Qui c’era gente che poteva prevedere benissimo quali sarebbero stati gli effetti di determinate azioni. Hanno pianificato tutto a tavolino, seguendo, ne sono convinto, ordini dall’alto.» «Gli ordini di The Rune», aggiunse Alicia. «Sì, è certamente così. In pratica banche, istituti di credito, agenzie di rating, sono state le esecutrici di una macchinazione che non desideravano ma che è stata loro imposta dall’alto, per motivi che la maggior parte della gente ignora.» «Purtroppo noi invece sappiamo il perché», disse William. «Ma visto che ci guadagnavano parecchio», continuò Richard, «sono stati tutti zitti. Non importa che la finanza così come la conosciamo sia stata sconvolta. Non importa che gli effetti provocati dallo sconquasso economico abbiano causato guerre, impoverimento e disperazione. A loro non interessa. Lo scopo finale d’altronde è proprio questo, creare il caos e la paura più torbida. Le crisi servono proprio a strutturare l’incertezza, a gettare le basi emotive e psicologiche affinché i popoli dell’intera Terra chiedano a gran voce un governo mondiale, l’unico che sembrerà ai loro occhi capace di risolvere ogni problema. La crisi finanziaria del 2008 da cui non siamo ancora usciti completamente mira a costruire questo mondo di timore, di panico diffuso sul domani. Rientra in quello che ci dicemmo l’ultima volta che siete venuti a trovarmi.»

Alicia scosse la testa: «E, come se non bastasse, adesso ci si mette anche questo folle piano del controllo del tempo. E io che lavoravo per loro…» Richard la guardò con una punta di ironia: «Io l’ho fatto per trent’anni…» William sospirò. «Mi chiedo cosa succederà ora.» «Cosa intendi dire?», domandò l’amico. «Beh, sono curioso di sapere che strada prenderanno. Il loro principale progetto è stato rovinato dal nostro intervento. Non mi preoccupo solo del nostro destino, piuttosto mi interrogo sul futuro di ognuno di noi. Avranno il coraggio di andare avanti? Saranno fermati dalla coscienza, sempre che ne abbiano una?» «Difficile dire come si comporteranno… anche in virtù del fatto», e lo disse con un tono di voce mesto, «che Wyler non c’è più. A ogni modo, ora siete in guerra con The Rune, e io lo sono da più tempo di voi, per cui dobbiamo cercare di limitare il più possibile i danni. Come vi ho già detto, loro hanno una politica: se non dai fastidio ti premiamo. Se dai fastidio ti facciamo fuori. Bisogna cercare di non creare loro problemi, o almeno di fare in modo che loro pensino questo. Tanto più che vi apprezzano, altrimenti non vi avrebbero commissionato le due missioni che avete svolto: quindi avete una possibilità. Non dare fastidio credo sia al momento una buona tattica.» William ebbe un sussulto. «E come si fa?», rimarcò. «Ci stanno cercando. Pensi che con quello che sappiamo ci lascerebbero stare? Non dopo quello che abbiamo fatto…» «Beh, con me è stato così e con altri è accaduto lo stesso.» «Ma non avete distrutto il loro principale progetto!», obiettò Alicia. «Questo è vero, ma abbiamo a che fare con persone particolari. Loro non ti uccidono perché sei tu, o per quello che pensi. Loro ti eliminano se li ostacoli. Se capiscono che sei innocuo o che non vuoi provocare fastidi è sempre possibile giungere a un accordo. L’importante è che non vi immischiate più nei loro affari.»

«Più facile a dirsi che a farsi», gli fece notare William. «E poi», aggiunse Richard come se non avesse neppure sentito l’amico, «Alicia, tu sei la figlia di uno dei membri di The Rune. Oserei dire della personalità più importante.» «Sì.» «Probabilmente questo può garantirvi la vita.» «Non ne sono affatto convinto», sentenziò caustico William. «A ogni modo…» In quel momento nel salotto entrò il maggiordomo che interruppe bruscamente la loro conversazione: «Mi scusi signore, ma è stata rilevata un breccia nella sicurezza. Gli allarmi del cancello principale sono stati byati e una delle due ante è stata fatta saltare. Le videocamere di sorveglianza hanno ripreso un camioncino diretto a gran velocità al castello.» «Quanto tempo?», chiese Richard balzando in piedi. «Due minuti. Tre al massimo», rispose. «Suggerisco di applicare velocemente il piano di fuga.» Richard si precipitò verso la grande finestra che dava sul lungo viale. In lontananza vide un puntino in avvicinamento. «Grazie George», disse rivolgendosi al maggiordomo. «La servitù non corre alcun pericolo, stanno solo cercando i miei ospiti. Bene, avranno quello che meritano. Signori, è tempo di cambiare aria. Venite…» Li condusse attraverso un corridoio a una camera secondaria, un piccolo studio e, digitando sulla tastiera del suo iPhone una , una parte della parete prese a scorrere di lato lasciando loro libero un aggio celato. Li invitò a entrare e si intrufolò anche lui, accendendo le luci da un pannello interno. Il aggio si richiuse dietro di loro. Scesero un pianerottolo di scale e percorsero correndo i centocinquanta metri di un angusto tunnel che li separavano da un’uscita secondaria mimetizzata nel bosco che circondava la villa.

«Questa conduce all’esterno», disse Richard ansimando, indicando una pesante porta di acciaio, simile a quella di un bunker atomico. Digitò qualcosa sul cellulare e furono investiti da una ventata di aria fresca. Richard sporse fuori la testa e gli sembrò tutto a posto, quindi avanzò di qualche o fermandosi accanto alla catasta di legna che era stata collocata sul posto per nascondere l’ingresso.

Alicia guardò William. Cercava di mostrarsi tranquilla ma era terrorizzata.

«Richard, che facciamo ora?», chiese William accostandosi a lui. Ma l’altro guardava avanti, verso una radura. Si intravedeva la sagoma del pulmino. «Devono essere qui attorno», aggiunse.

«Cosa facciamo adesso?», ripeté William che ora vedeva, accanto al mezzo, anche un uomo armato. «Io nulla», rispose Richard. «Voi invece vi consegnerete senza fare storie.» Alicia e William si volsero verso l’amico. La canna della pistola era puntata verso di loro. «Mi dispiace», disse serio, «ma le cose vanno così.»

Capitolo 41

Casa di Edward Hughes, Londra. Nello stesso momento

Aveva seguito lo svolgimento della scena dalle videocamere di sorveglianza della casa di Byrd, cui era collegato con un accesso remoto. Un intenso brivido di paura gli aveva causato una scarica di adrenalina mentre osservava William e Alicia che venivano condotti verso il veicolo. Non poteva permetterlo, non voleva assolutamente che quel pasticcio si aggravasse ancora, tanto più che in fondo era anche colpa sua. Sentiva il peso della coscienza per non averli avvertiti, per non aver detto di più. Ma in fondo non c’era stato né il tempo né il modo per farlo.

Decise di chiamare la polizia: compose il 999 e attese. Un attimo dopo una voce femminile domandò: «Polizia, come posso aiutarla?» La voce raggiunse Hughes come se provenisse da molto lontano. Quasi non la sentì, catturato com’era da ciò che stava osservando nel monitor che trasmetteva le immagini del circuito di sorveglianza. Attese qualche attimo mentre la donna del call center del pronto intervento ripeteva: «Qui è la polizia. Come possiamo aiutarla?» L’anziano rettore trattenne il respiro. Poi, senza staccare gli occhi dal video, rispose: «Ehm… mi scusi, ho sbagliato numero…», e chiuse la comunicazione.

Capitolo 42

Campagna dell’Hertfordshire, a poca distanza dalla residenza di Richard Levine Byrd. 19 giugno 2017. Ore 17:13

«Non avrei mai pensato che avresti potuto fare una cosa simile!», disse William a denti stretti. «Invece sì, mio caro William. Vi prego di avviarvi subito, altrimenti sarò costretti a farvi prelevare a forza», spiegò mentre si avvicinavano diversi uomini del commando che era entrato nella tenuta. «Non vi preoccupate, non vi faranno nulla, conosco i loro metodi.» Alicia lo osservava attonita, incapace di credere che quello che stava vivendo fosse reale. «Loro sono incaricati di riportarvi alla sede di The Rune», proseguì l’altro, indicando con il mento il gruppo di armati che si era fermato di fronte al mezzo. «Una volta giunti lì dovrete rendere conto delle vostre azioni. Ma, come vi ho detto, conosco queste persone… in fondo sono grandi finanzieri, e i finanzieri sono sempre alla ricerca di buoni affari e accordi favorevoli. Se non darete loro problemi e soddisferete le loro richieste, chissà, è possibile che vi lascino andare.»

Richard cambiò di colpo espressione e con un cenno della mano che reggeva la pistola li spinse verso gli uomini a guardia del veicolo. «Forza! Muovetevi.» William era troppo sorpreso per replicare. Non poteva credere che l’amico di sempre, colui con il quale aveva condiviso tante ricerche e apionanti conversazioni su interessi storici comuni, li avesse traditi.

«Andiamo, Alicia», disse alla fine, cercando di vincere il torpore che sembrava essersi impadronito della donna. «Facciamo come dice lui.» Richard si avvicinò al commando, consegnò loro la pistola e alzò le mani spiegando che anche lui lavorava per gli stessi committenti e aveva il compito di consegnare William e Alicia. Quelli si guardarono tra loro e il tizio che pareva li guidasse, un tipo con i capelli a spazzola e di una certa età, replicò a muso duro: «Io non ne so nulla.» Aveva accento americano e diverse cicatrici sul viso. Si allontanò di qualche o parlando con quello che poteva essere il suo secondo. Quando tornò indietro, mentre gli altri tenevano sotto mira William e Alicia, disse: «D’accordo, dopotutto ci hai risparmiato un po’ di lavoro.» La loro missione era comunque andata in porto senza problemi. In fin dei conti non erano così interessati a sapere se il tizio che aveva consegnato i due fuggiaschi fosse veramente dei loro. Intimò a Richard di allontanarsi, presero in consegna William e Alicia e li rinchio nel furgone. Il guidatore e un altro salirono davanti, gli altri presero posto nel retro, accanto ai prigionieri. Richard fu ben attento a osservare il mercenario che gli aveva preso la pistola e continuò a osservare il veicolo allontanarsi. Fu allora che trasse da una tasca un piccolo telecomando. In quel momento la pistola che gli era stata sottratta sprigionò da un foro un getto invisibile di BZ, il potente gas soporifero studiato e prodotto dall’esercito americano.

Il veicolo sbandò leggermente, poi deviò decisamente verso sinistra, andando a cozzare contro un albero. Richard raggiunse di corsa il mezzo. Guidatore e compagno erano uno riverso sul volante, l’altro sul cruscotto. Aprì il portellone e vide un cumulo di corpi accasciati sul pianale o appoggiati alle pareti, come se fossero morti.

«Cosa è successo?», domandò William con un filo di voce.

«Ti chiedo scusa, amico mio, ma ho dovuto inscenare il tutto…» «Dunque non ci hai tradito», disse avvertendo un dolore lancinante alla testa. Probabilmente aveva battuto il capo quando si era addormentato. «Erano troppi, non potevamo rischiare uno scontro a fuoco. Ho dovuto improvvisare, ma ciò che conta è che stiate bene e che il commando sia stato neutralizzato.» Anche Alicia si stava ridestando. «Come hai fatto?», domandò William. «C’era del gas nella mia pistola. Avrete il mal di testa per alcune ore. Intanto ho sistemato quelli là», rispose indicando il furgone al cui interno erano stati stipati i mercenari legati ben stretti e imbavagliati. «Penso sia meglio che vi allontaniate da qui, sicuramente manderanno qualcuno a controllare cosa sia successo quando non riceveranno più segnali dal capo missione.» William si sollevò, barcollando, aiutò Alicia e si guardò attorno. Il sole stava per abbandonarli. Quanto avevano dormito? Minuti? Ore? «Dieci minuti», disse Richard, intuendo i pensieri dell’amico. «La concentrazione di tossina non era troppo elevata. Giusto il tempo per fare quello che andava fatto. Ma ora andate!» In quel momento giunse l’autista personale di Richard. Li fece salire a bordo della berlina e gli diede istruzione di condurre i suoi amici a Londra. Lì c’erano dei luoghi sicuri dove rifugiarsi. Quando la macchina partì a tutta velocità William si tastò un lato. Nella tasca dei pantaloni mancava qualcosa. Ma cosa? Poi si concentrò, nonostante il dolore e mugolò di disappunto: aveva perso la pen-drive in cui custodiva tutte le copie dei documenti e le memorie della ricerca che avevano compiuto. Strinse gli occhi e inspirò. Aveva inviato tutto quanto al suo indirizzo di posta al King’s College, quindi le informazioni erano in salvo. Però gli seccava averla smarrita. Forse gli era cascata al momento dell’incidente. Non ricordava. Sperò solo che non cadesse nelle mani sbagliate.

Capitolo 43

Canary Wharf, Londra. 1 luglio 2017. Ore 15:30

Sulle ceneri dei vecchi West India Docks era sorto il modernissimo quartiere londinese di Canary Wharf, uno skyline formato dai grattacieli più alti del Regno Unito che si specchiavano luminosi sulle brune acque del Tamigi. Un tempo, nel XIX secolo, da quell’area partiva il proficuo commercio verso le isole Canarie, da cui prendeva il nome il luogo, che aveva reso ricchi mercanti e speculatori. La recente riqualificazione aveva fatto schizzare alle stelle i prezzi degli immobili rendendo il posto uno dei più costosi, prestigiosi e ambiti non solo di Londra ma del mondo. Con i suoi negozi, i suoi locali, era una meta piacevole per lo shopping, una zona ideale per le contrattazioni, per gli uffici di rappresentanza delle principali aziende del globo. E un vero status symbol per chi ci abitava. Una leggera spruzzata di pioggia aveva appena bagnato le grandi finestre dei grattacieli che scintillavano ora al sole di luglio. Le poche pozzanghere sulla strada si sarebbero presto asciugate in quello che si annunciava come un bellissimo pomeriggio estivo e le strade erano gremite di gente che voleva godersi l’insolito tepore. Erano seduti a un tavolo esterno dell’Henry Addington che dal 1873 serviva pasti e corpose pinte di buona birra inglese con grande attenzione allo stile e all’eleganza. William e Alicia erano davanti ai loro boccali e conversavano da circa un’ora. Sebbene non si sentissero ancora completamente al sicuro, erano oramai trascorsi diversi giorni e speravano di evitare il peggio. Il velo di preoccupazione e tristezza che li aveva accompagnati per diverso tempo si era stemperato. Stare assieme, d’altronde, aveva un effetto positivo su entrambi. «Credi che si avvererà la profezia di Richard?»

«Cosa vuoi dire?» William sorrise, mentre osservava i numerosi anti e gli avventori del locale. In quel posto credeva di non correre alcun rischio. «Beh, che se non pestiamo i piedi a nessuno, forse…» «Forse…» Avevano distrutto il loro centro di ricerca più avanzato, causando di conseguenza la morte di un membro chiave di The Rune, nonché padre di Alicia. Le loro azioni aveva portato alla perdita non solo di vite umane ma anche di ingentissimi capitali, cifre incalcolabili. Non sapeva se avevano bloccato per sempre il loro diabolico piano, in ogni caso i danni erano ingenti e l’arresto subito dal programma probabilmente si sarebbe rivelato irreversibile. Al loro posto sarebbe stato più che disposto alla vendetta. Guardò il cielo terso e ringraziò per quelle ore di tranquillità.

Avevano trascorso un paio di giorni nascosti a Londra. Da quando erano arrivati quella era la prima volta che si concedevano l’azzardo di mettere il naso fuori da uno dei nascondigli che avevano scelto. Per quanto attenti William dubitava che sarebbero riusciti a rimanere nell’ombra a lungo. Prima o poi, se The Rune avesse voluto, li avrebbero trovati.

Alicia pensava ancora spesso a suo padre. Si sentiva responsabile della sua morte, anche se cercava di vedere il lato meno oscuro della cosa: l’aver bloccato il suo folle piano e aver riconosciuto in lui un barlume, per quanto tardivo, di umanità. Ma ciò che più la spaventava era quanto gli aveva rivelato su L’Osservatore. Il ricordo di quelle parole la faceva ancora tremare come una foglia. Eppure, in quel momento, a quel tavolo, sotto quel piacevole sole, tutto sembrava così lontano… William aveva fatto di tutto per distrarla nelle lunghe ore di prigionia volontaria. Ma non per questo era cessato il timore e il tormento del ricordo. Avevano un conto aperto con The Rune, non potevano dimenticarlo. «Come ti senti, Alicia?» Il suo sguardo la fece sorridere. Le faceva piacere che si

occue di lei e William aveva un modo tutto suo, dolce ma allo stesso tempo molto britannico, qualcosa che le era piaciuto sin dal primo momento che si erano conosciuti. «Meglio. Molto meglio adesso, grazie. Anche se ho ancora una paura folle che ci trovino. Cosa faremo adesso?» «Beh, ne abbiamo parlato a lungo. Dobbiamo stare molto attenti. Però credo che la cosa migliore da fare sia contattare Richard, lui saprà consigliarci. Pensavo di chiamarlo da questo pub. Può darsi che avesse ragione quando ha detto che si può sempre trovare un accordo con loro. Magari ci sono delle novità. Sono convinto che lui sappia cosa stia succedendo a New York o dove diavolo si incontrano quelli di The Rune, sempre che siano sopravvissuti.» «So che è brutto dirlo, ma forse dobbiamo solo augurarci che siano tutti periti nel disastro.» «Certamente non L’Osservatore. Lui credo si sia salvato. E poi il fatto che siano subito arrivati a Richard dimostra che qualcuno ha ordinato di cercarci.» «Silver ci ha tradito?», domandò Alicia più a se stessa che all’amico. «Chi lo sa… comunque ti ripeto: sentiamo Richard e vediamo cosa c’è di nuovo. Magari riusciamo a trovare un modo per uscirne fuori.» «Speriamo sia così. Non ne posso già più di vivere in questo modo. Questi giorni sono stati orribili. Forse dovrei chiamare la Fondazione, farmi sentire…» «Alicia, aspettiamo di parlare con Richard», la interruppe con forza. «Potremmo commettere un errore imperdonabile. Poi ne discuteremo e vedremo qual è la soluzione migliore.» Lei sorrise. Aveva ragione. «Chiediamo il conto? Questo sole meraviglioso è l’unica cosa che potrebbe farmi dimenticare per un po’ il guaio in cui ci troviamo. Facciamo quattro i in centro, in mezzo alla gente.» William annuì e fermò un cameriere che, poco dopo, gli consegnò il dovuto su un piattino di argento. Quando prese il piccolo libretto telato in cui era contenuto lo scontrino, un brivido intenso gli attraversò lo stomaco come una lama affilata.

«Mio Dio!», esclamò.

Alicia fissò il libretto. Sulla copertina campeggiava la runa Algiz, il simbolo di The Rune. All’interno, con lo scontrino, c’era un biglietto. Il testo era semplice e perentorio. Alle 18:30 dovevano farsi trovare all’ingresso dell’ambasciata americana a Londra, in Grosvenor Square. L’invito era firmato di pugno dal barone J.J. Bowen Griffith. «Bowen Griffith?», disse Alicia. «La sua famiglia è una di quelle che fanno parte del complotto. L’abbiamo letto negli appunti di mia madre.» William continuò a osservare a lungo il biglietto. Non c’erano dubbi. Li avevano trovati. «Lo conosci?», domandò all’amica. «Era uno degli amici più intimi di mio padre», esclamò. «Sicuramente fa parte di The Rune. Ricordi cosa ci ha raccontato Richard sul gruppo di famiglie che da secoli reggono i destini del mondo? Beh, lui è il capo dei Bowen Griffith.» «Beh, se avessero voluto ucciderci avrebbero potuto farlo in qualunque momento», sentenziò William, «visto che sanno dove siamo. Forse la cosa più saggia da fare è accettare l’invito.» «Tu credi?» «Magari è proprio quell’abboccamento che speravamo si verificasse… in ogni caso voglio comunque sentire l’opinione di Richard.» A quel punto ogni precauzione era inutile. Prese il suo cellulare e digitò il numero dell’amico. Gli descrisse brevemente la situazione e quello consigliò senza dubbio di andare all’appuntamento. Disse anche che era un’ottima occasione per capire cosa avessero in mente quelli di The Rune, inoltre si sarebbero trovati in un luogo pubblico per cui era convinto che non sarebbe accaduto nulla di grave. William chiuse la comunicazione promettendogli che l’avrebbe tenuto informato. «Strano», disse poggiando il cellulare sul tavolo. «Sta venendo a Londra. Dice

che forse ci possiamo incontrare più tardi.» «Sempre che non ci facciano sparire», replicò lei a metà strada tra il serio e l’ironico. Dovevano prendere in considerazione anche quell’estrema possibilità, nonostante William si fosse convinto che non ci sarebbe stato nessun problema per quelli di The Rune a farli fuori se solo avessero voluto. A che pro inscenare un finto incontro per accopparli? William lasciò una buona mancia sul piattino insieme al conto e si alzò dalla sedia. «Vieni, facciamo quattro i. Abbiamo tutto il tempo.» Trascorsero un paio d’ore girando per le vie più eleganti. Si erano accordati di non parlare di ciò che riservava loro il futuro per non alimentare il livello d’ansia già molto alto in entrambi. E William aveva ancora una freccia al suo arco: le copie di tutti i documenti che avevano ritrovato a Wewelsburg, in Austria e durante le loro ricerche. Avrebbe potuto utilizzarli come merce di scambio, oppure minacciare di rendere pubblico il loro contenuto. Sapevano che per buona parte i mass-media erano di proprietà o comunque controllati dall’organizzazione, ma non potevano essere tutti a libro paga da The Rune.

Tornarono in albergo per una doccia e per cambiarsi. Quindi presero un taxi e all’ora convenuta si trovarono di fronte al cancello dell’ambasciata. Il marines di guardia, in alta uniforme e con i guanti bianchi, fece il saluto militare e domandò di mostrare l’invito. Loro si scambiarono un’occhiata interrogativa e risposero che non l’avevano.

Senza cambiare espressione il soldato chiese nome e cognome di entrambi e, quando William e Alicia glieli fornirono, l’altro prese un dispositivo simile a un palmare e intimò di apporre sul display il pollice e l’indice. Subito dopo la scansione il marines li salutò nuovamente con un marziale gesto militare e li lasciò are. «Cosa è successo?», chiese Alicia. «Non lo so… non sapevo che potessi essere riconosciuto dalle mie impronte digitali», disse frastornato.

«Ti hanno mai arrestato?» Lui la guardò con un leggero sorriso e la prese sottobraccio. Si accorse che arrivavano molte altre persone e che tutti mostravano una sorta di invito al soldato di guardia. In prossimità dell’entrata dell’edificio sostavano altri marines armati, sebbene in uniforme di gala, e parecchi di quelli che sembravano degli invitati a un party. C’erano uomini e donne di tutte le età. Ancor di più ne incrociarono quando misero piede all’interno. In sottofondo erano diffuse piacevoli note di musica classica e nell’ampio salone William riconobbe autorità cittadine, nobili, il jet-set dell’aristocrazia e della borghesia inglese.

Alicia si trovò inaspettatamente a suo agio.

«Tutte queste persone sono una garanzia per noi», gli fece notare, mentre avanzavano sempre a braccetto.

«Credo di sì», ammise William mentre si chiedeva cosa avrebbero dovuto fare. Sostarono per diversi minuti tra la confusione, mentre capannelli di invitati si formavano e si disfacevano con velocità frenetica. Molti tenevano dei bicchieri tra le dita, altri dei piattini. C’era chi beveva, chi mangiava, ma tutti sembravano impegnati in un’unica attività: pubbliche relazioni. Avvertivano entrambi un certo languore, per cui si avvicinarono al grande buffet e seguirono l’esempio degli altri ospiti.

Erano voltati di spalle rispetto al centro del salone, intenti a individuare gli stuzzichini più adatti, quando un uomo sui settantacinque anni, dall’aspetto elegante e raffinato, li avvicinò. Non era particolarmente alto, zoppicava e si appoggiava a un bastone dal manico d’argento meravigliosamente cesellato.

I capelli erano completamente bianchi, ma ciò che colpì Alicia furono gli occhi: azzurri, intensi, attorniati dalle rughe ma comunque insolitamente luminosi. Dicevano molto di quella persona. Certamente si trattava di qualcuno di importante. «Buona sera, signora Wyler», disse ponendosi di fianco a loro. Alicia si voltò e lui, con estrema e inaspettata agilità, le fece il baciamano. «Buona sera…», replicò lei, sentendo l’ansia risalire dalle viscere. L’anziano si voltò quindi verso William e gli diede una stretta vigorosa. «Oh, scusate, non mi sono presentato», disse con uno splendido accento inglese. «J.J. Bowen Griffith.»

La sua voce era gentile ma ferma, quasi fosse stata forgiata con l’acciaio. Alicia si sentì gelare. Non riuscì a dire nulla e si limitò ad ascoltare.

«Professor Connor, è un piacere conoscerla di persona», riprese. «Abbiamo sempre sentito parlare così entusiasticamente di lei.» In quel momento un cameriere in livrea porse loro dei bicchieri. Tutti ne presero uno, ma William e Alicia non bevvero. «Posso chiedervi come state?», domandò rivolgendosi nuovamente verso la donna. Lei faticò a rispondere. Quella situazione sembrava assurda. William lo fissava indeciso, pensando che probabilmente, di fronte ai suoi occhi non c’era solo uno dei membri più illustri di The Rune, ma forse anche uno dei peggiori criminali che la storia umana avesse mai partorito. Se tutto ciò che avevano appreso fino a quel momento era vero, e non aveva motivo di dubitare che fosse così, Bowen Griffith non era altro che uno degli appartenenti a un consesso che, perseguendo il suo folle progetto, aveva causato sofferenze indicibili all’umanità. Ma quello sembrava non darlo a intendere. Parlava come un vecchio Lord e sembrava

realmente preoccupato della loro salute. Finalmente William si ridestò. Poggiò il bicchiere nel tavolino del buffet e rispose: «Bene, direi. Stiamo bene, considerato anche quello che abbiamo ato e stiamo ando.» Lui prese una tartina al caviale e la gustò con evidente soddisfazione: «Ne prenda una, lo chef che abbiamo prestato all’ambasciata americana per questo party le prepara con la massima cura. Eccellenti.»

Era evidente che si stesse burlando di loro. Giocava come il gatto con il topo. Ma loro non potevano fare altro che stare lì ed ascoltare. Davanti a loro c’era un uomo apparentemente inoffensivo, eppure responsabile con gli altri di The Rune di infinite tragedie. Un vecchio che aveva potere di vita e morte su milioni di persone.

William intuiva che l’atteggiamento di Bowen Griffith era calcolato, una chiara indicazione che non voleva, almeno per il momento, causare loro alcun male fisico. Probabilmente desiderava solo uno scambio di informazioni: una transazione. Decise di stare al gioco. Prese la tartina al caviale e la gustò, come se fosse l’ultima della sua vita: «Eccellente, davvero. Impossibile non fare il bis», disse mentre sorrideva con la più falsa ostentazione di sicurezza di cui era capace.

Poi prese un bicchiere e bevve con calma misurata. Il suo interlocutore lo osservava curioso. Fu allora che William decise di tentare il tutto per tutto, quando vide affiorare il sorriso sul volto del barone. «Cosa avete deciso di fare di noi?» Bowen Griffith prese tra le dita un’altra tartina. Poi parve ripensarci e la poggiò

sul vassoio: «Cari amici, noi avevamo la massima fiducia nelle vostre potenzialità e capacità. A tal punto da affidarvi un incarico che ritenevamo di vitale importanza per la nostra… chiamiamola associazione.» «The Rune», specificò William. «Credo sia arrivato il momento di giocare a carte scoperte.»

«Sì, professore, The Rune. Ma perdonatemi se, per motivi di riservatezza, eviterò di chiamarla così.» «Come preferisce», fece William non staccandogli gli occhi di dosso. «Ma torniamo a quanto dicevo prima. Riponevamo in voi la più grande fiducia. E, devo ammetterlo, siete arrivati più in là di quanto avessimo sperato. Avete trovato i documenti più segreti del Terzo Reich, quelli che cercavamo da quasi settant’anni, riuscendo laddove tutti gli altri hanno fallito.» «Grazie», lo interruppe William ironicamente. «Sappiamo ciò che abbiamo fatto… possiamo venire al dunque?» «E che fretta c’è? Avete qualche altro appuntamento?», replicò il barone gelidamente. Per un attimo ai due amici parve leggere negli occhi dell’altro una carica d’odio che però sparì in un battito di ciglia. Alicia sentì qualcosa sommuoverle le viscere. Una strana sensazione di gelo si stava impadronendo di lei. «Quindi», riprese Bowen Griffith ritornando al tono mellifluo precedente, «non avevamo sbagliato nell’incaricare voi. Però avete commesso degl’imperdonabili errori. Avete azzerato un progetto che abbiamo coltivato per lungo tempo… e il nostro caro amico Malcolm Wyler è morto per colpa vostra.» Si bloccò e, fissando Alicia, scosse il capo. «Era mio padre», disse lei irata. «Ed è proprio per questo che siete ancora vivi. Per onorare la sua memoria non vi abbiamo ucciso subito. E non intendiamo uccidervi ora. Avremmo potuto farlo in qualunque momento, ma preferiamo percorrere un’altra strada. Diciamo che la

nostra associazione ha votato per utilizzarvi in un’altra missione.» Ora guardava nuovamente entrambi. Aspettò che fero proprie le parole che aveva appena pronunciato, quindi con un sorriso sornione riprese: «Malcolm mi disse che vi aveva proposto di entrare nella Massoneria e che voi rifiutaste. Ora, per fare in modo che io e i miei amici si possa dimenticare il disastro da voi provocato vi offriamo un’occasione di redenzione. Dovete dimostrarci di poter collaborare con noi, partecipando a una nuova missione. Sarà un modo per farvi perdonare e per assicurarci che non ci darete più problemi.» William e Alicia inorridirono al solo pensiero e bastò loro uno sguardo per comprendere l’uno i pensieri dell’altro.

«Allora?», domandò dopo qualche secondo, fissandoli. «Barone», rispose William cercando di mantenere il sangue freddo, «credo che non saremmo le persone più adatte…» Bowen Griffith inspirò, infastidito, anche se cercava di non darlo a vedere. «Quello che chiediamo, in fondo, è un piccolo sacrificio… in cambio del perdono.» William pensò velocemente. Doveva trovare le parole adatte. «Noi non siamo tagliati per queste cose: Massoneria, società segrete, non è roba che fa per noi.»

«L’unica cosa che desideriamo è tornare alle nostre vite di prima», aggiunse Alicia. «Alle vostre vite di prima…», ripeté Bowen Griffith. «Certo, sarebbe bello. Diciamo, che sarebbe anche troppo facile. A proposito, signora Wyler, la nostra associazione ha eletto un nuovo direttore e il Consiglio di Amministrazione della Fondazione ha appena approvato il suo licenziamento con dieci milioni di dollari di buonuscita come da contratto siglato all’assunzione. Lei è licenziata, ma le lasciamo i soldi per la spesa…»

«Mi prende in giro?», domandò lei sentendo dal profondo la voglia di avventarsi su quell’ipocrita. «Oh, no davvero. È proprio così. Se vi concediamo la vita dovremmo pur garantirvi la sopravvivenza», replicò cinicamente. Alicia si limitò a guardarlo, disgustata. Non poteva credere alla falsità che rivestiva tutta la situazione. Bowen Griffith bevve un altro sorso. La gente intorno sembrava non notarli nemmeno. Da quando si erano fermati accanto al tavolo del buffet non si era avvicinato nessuno, come se fosse stato impartito un ordine preciso. «Lei, professor Connor», riprese, «ci è stato molto utile. Personalmente mi ha stupito. Per questo ho fatto in modo che rimanesse vivo. Perché credo possiate tornarci utili in futuro. Ma vi prego di non scambiare la nostra bontà con la debolezza propria degli esseri inferiori. Potremmo anche cambiare idea… in qualunque momento.» «Come potete pensare», disse William prendendo chissà dove il coraggio, «che si possa ancora collaborare? Chiedeteci il silenzio, chiedeteci di nasconderci, ma non questo… abbiamo ancora una coscienza.» «Le stesse parole che, a quanto mi hanno riferito, ha detto un vostro amico pilota.» Alicia fece un improvviso o in avanti. «Mio Dio, Silver!», disse lei portandosi una mano alla bocca. «Cosa gli avete fatto?» L’anziano membro di The Rune fece un o indietro, infastidito dalla foga di Alicia. Come se si fossero materializzati dal nulla due energumeni apparvero accanto a William e Alicia. Ma bastò uno sguardo del barone per farli retrocedere di qualche metro. Poi, assumendo un’espressione maligna, rispose: «Tranquillizzatevi, non gli è successo nulla di grave. È ancora vivo. Anche lui potrebbe esserci utile più avanti. Vedete, il vero guerriero non è solo quello più forte ma colui che sa, meglio di altri, sfruttare i punti deboli dell’avversario. E il signor Silver ne

possiede parecchi di punti deboli.» «Cosa dobbiamo fare per uscire da questa storia?», chiese William. «Uscire? Non è possibile. Non a questo punto.» «Non capisco. Volete ritentare l’esperimento? Fatelo, noi abbiamo tentato di impedirvelo… non credo possa succedere una seconda volta. Ma forse troverete qualcun altro disposto a fermarvi.» Il viso di Bowen Griffith mutò espressione, lasciando il campo a una ragnatela di rughe che pareva urlare ira e malvagità: «Nessuno può fermare The Rune. Specialmente ora che siamo arrivati alla fase finale del piano. Certo, ci avete danneggiato e rallentato, ma il tempo è finalmente arrivato e noi siamo pronti. Alla fine la costanza e la perseveranza ci premierà. In quanto a voi… siete solo dei pedoni da sbattere fuori dalla scacchiera quando si muovono i re e le regine.» Mentre pronunciava quelle parole uno strano calore avvampò il fisico del barone. Si accorse dagli sguardi dei due che qualcosa non andava. In quel momento si accorse che la crisi stava per manifestarsi. Tutti i membri di The Rune ne erano affetti, ma questa volta non c’erano state avvisaglie. Doveva andarsene, prima di perdere il controllo. Fece un segno ai suoi due guardaspalle che furono subito al suo fianco. «Se ne va?», domandò Alicia perplessa. «Ci rivedremo», non preoccupatevi, disse fermandosi per qualche secondo. Per quanto ancora poteva resistere? «Quanto a tutto ciò che vi ho detto, avrete modo di rispondermi… ma vi avverto fin da ora che per noi sarà…», si bloccò un attimo. Il tremore alle mani annunciava qualcosa di funesto. «Vi converrà seguire quanto vi diremo. A presto signori.» Cominciava a perdere il controllo del fisico. A i veloci, circondato dai suoi uomini procedeva verso l’uscita, sperando di arrivare al parcheggio il prima possibile. Fu in quel momento, quando stava per abbandonare la sala, che Alicia domandò a voce alta: «E lei, signor Bowen Griffith? Qual è il suo punto debole?» Quella domandò gli arrivò diretta come una stilettata, ma non poté fermarsi, né replicare. Uno degli uomini più potenti del mondo era costretto alla ritirata. Ci

sarebbe stato il tempo per replicare, pensò, e sul modo di farlo. Se era vero quanto avevano udito da Bowen, avrebbero certamente ritentato l’esperimento. Se ne andarono dal ricevimento. Un po’ sollevati, ma anche un poco spaventati. Avevano stuzzicato l’orso addormentato, pensava William e le conseguenze potevano essere imprevedibili. Appena fuori dall’ambasciata vennero affiancati da una Lincoln Stretch Limousine nera. Uno dei finestrini si abbassò e dall’interno dell’abitacolo una voce familiare a William li invitò a fermarsi ed entrare.

Capitolo 44

Laterano, Roma. 3 ottobre 1582

Gregorio XIII osservava il foglio con le mani tremanti: Observator, l’oscuro maestro dell’eretico Bruno, aveva dato inizio alla sua vendetta. Rivolte contadine nei territori della Chiesa, città che si rifiutavano di obbedire agli ufficiali papali, re e nazioni che parevano sull’orlo del distacco da Roma. Dalla Francia all’Olanda, dalla Germania agli immensi territori a oriente di Vienna, l’intero mondo cristiano sembrava in fermento, avvampare in un’orgia di sangue senza limiti, con una velocità impressionante, capace di travolgere ogni cosa. E quei pochi che avevano conservato il senno si chiedevano cosa avesse scatenato quella follia omicida che sembrava accendere in ogni essere umano le più basse e vili pulsioni. I dotti della corte papale non si spiegavano tali eventi e li collegavano a una serie di strani fenomeni nei cieli: insolite luminose aurore, mai viste a quelle latitudini, possenti formazioni temporalesche, fulmini che si irradiavano e attraversavano i cieli, saette e tempeste di vento, grandine, sconvolgimenti atmosferici di ogni genere, turbini vorticanti la cui origine non sembrava naturale.

I morti erano innumerevoli e, tra i vivi, molti evocavano la fine del mondo.

I vescovi chiedevano consiglio al papa e il papa ai vescovi, nella mancanza assoluta di una luce in grado di squarciare le tenebre in cui l’Europa era caduta in pochi giorni.

La follia si era impossessata anche del popolo di Roma e le guardie del pontefice faticavano sempre più a proteggere il capo della cristianità. I tumulti insanguinavano le vie dell’Urbe, le attività commerciali erano sospese, dal contado le derrate alimentari giungevano con il contagocce. Gregorio stava per lasciare la città in preda all’anarchia.

Fu allora che ricevette la lettera: un semplice foglio con sigillo da parte di Observator che lo intimorì più di ogni altra cosa. Minacciava di distruggere il potere temporale del papato e di gettare il mondo nel caos se Gregorio XIII non li avesse lasciati in pace.

I toni di quelle poche righe erano imperiosi e finalmente squarciarono il velo dell’incertezza. Ora il pontefice capiva quale fosse l’origine dello sconvolgimento cosmico a cui stavano assistendo in quella manciata di giorni. Decise allora di non abbandonare Roma e cercare una soluzione, ma la situazione diveniva di giorno in giorno sempre più drammatica, costringendolo a rinchiudersi con i cardinali e i suoi fidi in Castel Sant’Angelo. Dall’alto degli spalti poteva assistere alla follia che pareva aver invasato uomini e donne, giovani e anziani. La gente si scannava per strada per un nonnulla. Le botteghe venivano saccheggiate. Neanche i luoghi sacri venivano risparmiati dalla furia. Le chiese erano derubate, i ministri di Cristo uccisi o brutalizzati. Alle Botteghe Oscure, nella zona dei palazzi dei Mattei, il monastero delle Rose era stato dato alle fiamme, e così anche quello di San Nicolò al Mercato di Traiano. Gregorio era disperato. Decise allora di ricorrere all’ultima possibilità di salvezza. Dopo essersi consultato con l’amico e consigliere, il cardinale Sirleto, che a sua volta aveva ascoltato il parere di eruditi quali Cristoforo Clavio e Luigi Lilio, si fece portare l’unica copia del libro di Bruno che era stata preservata dalla damnatio memoriae. Tutti erano d’accordo che quella fosse l’unica via di salvezza per poter ricomporre le cose. Non erano disposti a cedere il proprio potere o condividerlo. A maggior ragione con chi pareva lo voleva usare in modo così distorto.

Quando fu tutto pronto Lilio utilizzò i dischi che provocavano l’apertura di un varco capace di mettere in comunicazione il mondo che conoscevano con qualcosa di diverso, una breccia nello spazio e nel tempo che aveva del miracoloso. Spaventati, ma nel contempo risoluti a tentare anche questa ultima e disperata strada, grazie all’uso delle fiale contenenti i misteriosi fluidi che avevano recuperato durante la caccia alla setta di Bruno, diedero inizio all’esperimento.

I dischi con i simboli cominciarono a roteare, dapprima piano, poi sempre più velocemente, fin quando la luce nella grande stanza oscurata fu eclissata da una algida luminescenza che, dapprima flebile, poi sempre più intensa, si manifestò di fronte ai loro occhi.

Nessuno sapeva cosa sarebbe successo. Se quanto stavano compiendo era opera di Dio o del maligno. Se da quel loro operare sarebbe scaturita la salvezza o la dannazione eterna. E tutti avevano dipinto in faccia il terrore. Compreso Gregorio, sulle spalle del quale gravava tutto il peso della vicenda. Pochi attimi dopo si originò un lampo e da questo emerse una sorta di stella di un colore blu intenso, magnifica nelle sue cangianti pulsazioni di colore. Un orribile vortice in costante movimento crebbe fino ad assumere proporzioni che intimorirono i presenti oltre misura e, subito dopo, da questa parve prendere corpo la figura di un uomo. Trascorsi pochi secondi, quando l’immagine si fu stabilizzata, la voce possente del nuovo arrivato tuonò imperiosa e allo stesso tempo misurata. «Sapevo che mi avresti chiamato.» Nella mente di Gregorio si affacciarono mille domande sulla natura dell’essere che aveva di fronte. Il timore lo sovrastava, ma doveva vincere la paura e dare una possibilità di salvezza al suo gregge. Per questo occorreva essere forti e capire come sconfiggere Observator, o come venire a patti con lui. «Possiamo e dobbiamo trovare un accordo», disse alla fine Gregorio.

Observator sembrò pensare per un tempo indefinito. Quindi avanzò le sue richieste. Il papa e i suoi successori si dovevano impegnare a lasciare in pace Bruno e i suoi amici per dieci anni a partire da quel giorno. Nessuno doveva cercarlo, ostacolarlo, fargli del male. Gregorio accettò.

«Tutto qui?», si chiese sorpreso il pontefice. «Tutto qui», rispose Observator. Poi aggiunse: «Non devi avere paura di quello che facciamo. Perché è la verità a guidarci.» Gregorio si limitò a guardarlo. Era da secoli che gli uomini compivano i peggiori misfatti in nome di una mal interpretata verità. «Rispetterai l’impegno?», domandò subito dopo. Il papa annuì.

«Allora potrai ristabilire la pace sulla Terra.» Aggiunse che la Chiesa sarebbe stata ancora potente per molti secoli e che poteva utilizzare il dispositivo di Bruno per eliminare il caos che aveva sconquassato ogni cosa negli ultimi giorni. E spiegò anche il modo di farlo. ato qualche secondo in assoluto silenzio Observator scomparve.

Nelle ore che seguirono e il giorno successivo Gregorio e i suoi si impegnarono per mettere ordine al pandemonio scatenato da Observator. Per quanto ci riflettesse su il papa non credeva possibile che l’unica richiesta avanzata fosse stata quella di lasciare in pace Giordano Bruno. Eppure doveva fidarsi, non aveva altra possibilità.

Seguendo le istruzioni impartite da Observator cancellarono dalla storia quei

giorni maledetti, insanguinati, sporchi e a tutti parve cosa saggia e provvidenziale dare corso alla riforma del calendario che, dai tempi di Giulio Cesare, aveva accumulato parecchi giorni di ritardo. E così al 4 ottobre 1582 sarebbe succeduto direttamente il 15 ottobre. Annullando con un colpo di spugna quanto avrebbero compiuto gli inviati del papa in quel torno di tempo. Infatti, grazie alla macchina di Bruno, quei dieci giorni che sarebbero poi stati soppressi e cancellati dalla memoria dell’umanità, avrebbero visto gli inviati della Chiesa agire in ogni convento, chiesa, archivio cittadino o privato, sistematicamente, scientificamente, con spietata determinazione, al fine di distruggere e rimuovere ogni pur piccolo accenno a quanto era successo fino a poco prima. Qualsiasi registrazione di quegli eventi doveva sparire. Nessuno doveva sapere quale grande scontro si era aperto tra la Chiesa e Observator. E nessuno doveva neanche minimamente immaginare che potesse esistere un potere alternativo a quello del papa.

Gli inviati di Gregorio XIII, gli ordini religiosi, i sacerdoti, le monache, tutti diedero il proprio contributo. I documenti vennero modificati, contraffatti, bruciati laddove necessario. Ogni riferimento ai fatti accaduti in quei dieci terribili giorni, in quei momenti tragici in cui la Chiesa appariva sull’orlo della dissoluzione, scomparve per sempre. E a quelle poche testimonianze che si sarebbero potute salvare fu data una caccia senza tregua.

Di quanto era accaduto venne redatta una cronaca, per mano del cardinale Sirleto. Un’unica copia che venne depositata nell’Archivio segreto, insieme alla macchina di Bruno e al suo libro.

Capitolo 45

Grosvenor Square, Londra. 1 luglio 2017. Ore 19:15

William e Alicia erano sorpresi. Edward Hughes li osservava compiaciuto per l’effetto sorpresa che era riuscito a creare. Accanto a lui sedeva un uomo che conoscevano bene entrambi. «Lieto di rivederti William», disse. Quindi si presentò ad Alicia. Poi chiese se volessero qualcosa da bere. Il frigo-bar della macchina era ben fornito.

Accettarono, forse anche per stemperare la tensione accumulata. Ma sia William che Alicia non aspettavano altro che una spiegazione. Perché Hughes era lì? E perché, accanto a lui, c’era quell’altro uomo? «Beh, intuisco che debba delle spiegazioni», disse Edward tenendo un calice in mano.»

«Già, visto che ti accompagni a un killer!», disse William fissando il tizio di fianco allo zio. «Killer?», disse ridendo Hughes. «Ma no… vi presento il nostro direttore delle operazioni speciali, il colonnello Aaron Daugherty.»

«Questo è l’uomo che ci ha inseguito a Tenerife e nella galleria di Wewelsburg!», rimarcò William. «Esatto», rispose Hughes. Anche il colonnello annuì. «Vedo che è ferito», rilevò Alicia.

«Sì, sono ancora in convalescenza per un osso incrinato e un tentativo di farmi are a miglior vita seppellito sotto quintali di terra.» «Edward… cosa succede?», intervenne William. «Francamente non ci capisco più nulla. Questo era l’uomo che ha cercato di ucciderci.» «Al contrario, professore», spiegò il colonnello. «In realtà cercavo solo di proteggervi. Vi posso assicurare che ho rischiato più io la vita di voi», concluse scambiando un sorriso con Hughes. «D’accordo. Ammettiamo pure che sia così, ma ora, volete spiegarci?»

«Vedi Will, sappiamo della vostra conversazione con il barone Bowen Griffith… insomma, non avamo qui per caso. E devo dire che ve la siete cavata abbastanza bene.» «Ci stavate pedinando?» «L’abbiamo sempre fatto!», ammise Hughes. «Diciamo che abbiamo seguito la vostra missione o dopo o.» La macchina accostò presso un marciapiede. William si voltò verso la portiera.

Richard fece il suo ingresso salutando calorosamente. «Bene, vedo che ci siamo tutti!», disse il rettore del King’s College. «Edward, non hai ancora raccontato nulla?», fece Richard, vedendo i volti perplessi di Alicia e William. Si sedette accanto al colonnello. «Ci sto arrivando…» Per qualche secondo calò un gelido silenzio. Da una parte Alicia e William che, oltreché sorpresi, erano frastornati e increduli. Dall’altra Hughes, Richard e il colonnello. Dovevano considerarli amici o nemici? «Vedete io e Richard ci conosciamo da molto tempo e condividiamo parecchi

segreti», cominciò a raccontare Hughes. «In pratica io e lui sappiamo tutto su The Rune.» Lasciò are qualche secondo, permettendo ai due ospiti di metabolizzare l’informazione. «Combattiamo quei criminali da molto tempo», riprese. «E il colonnello è… diciamo che è il nostro braccio militare: si occupa delle operazioni sul campo.» William era esterrefatto. Tutto si sarebbe potuto aspettare tranne una cosa del genere. Conosceva da sempre suo zio. Un uomo apparentemente tranquillo, dedito solo agli studi. Non poteva credere fosse il capo di una organizzazione che si opponeva alla sete di potere di The Rune. «Continuo a non capire», disse cercando gli occhi di Alicia. «Come sai sono Gran Maestro della Massoneria di Rito Scozzese qui a Londra. Un posto d’osservazione privilegiato, soprattutto ora che all’interno della Massoneria si sta producendo una scissione: una parte dell’organizzazione è prona ai voleri di The Rune; un’altra, ed è quella cui apparteniamo io e Richard, si oppone. Ovviamente il conflitto è solo ai vertici, la stragrande maggioranza dei confratelli è all’oscuro di quanto avviene.» «E come mai non tentano di eliminarvi?», domandò William. «Siamo personaggi troppo in vista… abbiamo anche noi le nostre protezioni, se così le possiamo chiamare. E poi non conviene a nessuno avviare una guerra aperta. Tieni poi presente che ci muoviamo con la massima cautela. Per il momento non possono toccarci.»

«In poche parole siete dei massoni sovversivi.» Hughes sorrise.

«Già», continuò Richard. «Sebbene per l’opinione pubblica essere massone equivale a un marchio non dico di infamia, ma comunque a qualcosa di losco, di

poco pulito, alla fine dei conti siamo dalla parte giusta. Non ti nascondo che fino a poco tempo fa eravamo anche noi della partita… sai bene che le rivoluzioni degli ultimi due secoli, le guerre, tutto quello che è accaduto nel mondo non è successo per caso. Dietro c’è sempre stato lo zampino della Massoneria e delle sette e organizzazioni . Elementi corrotti, gente assetata di potere alberga anche nelle nostre fila. Errori ne abbiamo commessi, e parecchi anche. Ma questa volta non possiamo chiudere gli occhi, far finta di niente, o renderci complici. La verità è che quello che The Rune tenta di fare va al di là di qualsiasi altra cosa. Se dovessero averla vinta non oso neanche immaginare quale potrebbe essere il nostro futuro. È un piano orribile, un Nuovo Ordine Mondiale che renderà schiava gran parte della popolazione mondiale. Lo stesso di Hitler, che per un po’ fece parte della sezione tedesca di The Rune. La Società Thule ne era l’emanazione germanica. Per questo dobbiamo combatterli, con tutte le armi che abbiamo.» «Perché ci riproveranno, vero?», chiese Alicia. «Non c’è dubbio, signorina», rispose Hughes. «Al momento li abbiamo solo rallentati. Si sono serviti di voi per raggiungere un obiettivo, per avere quelle informazioni utili a portare a compimento il loro piano scellerato: gettare le basi per il Nuovo Ordine Mondiale.»

«Il loro disegno», spiegò Richard, «è quanto di più perverso si possa concepire. Apriranno, se avranno successo, una nuova pagina della storia dell’uomo, dove tutti saranno costretti a prostrarsi dinanzi una sinarchia di invasati, guidati da un capo che stento a definire.» «Ti riferisci a Observator?», domandò William. «Esatto. Non so se sia un uomo, o un diavolo incarnato… però lo temiamo. È lui che muove tutte le fila. Ma non siamo ancora riusciti a scoprire chi o cosa sia realmente. Da quanto ci risulta però è mosso da un odio viscerale, soprattutto contro la Chiesa. Per lui è l’entità nemica numero uno da abbattere. E lo sta facendo suscitando scandali, inaridendo il senso religioso dei cristiani, screditando in ogni modo possibile l’istituzione.» «Perché temono così tanto la Chiesa?», chiese Alicia.

«Perché due miliardi e duecento milioni di persone affermano di essere cristiane. E quasi un miliardo di persone professa il credo islamico. E un altro miliardo l’induismo. Il resto se lo spartiscono altre confessioni. Tutte queste organizzazioni hanno un potere immenso sulle persone, dicono loro cosa devono o non devono fare, non solo nell’ambito religioso. Il loro peso politico e sociale, in moltissimi paesi, è incalcolabile. Inoltre The Rune ha una sua ideologia religiosa ben definita che non può coesistere con la loro visione. Una volta sbarazzatisi della Chiesa avranno gioco facile nel mettere a tacere le altre confessioni cristiane, poi eranno al resto delle religioni: per loro sono solo fumo negli occhi. Instaureranno un potere assoluto attraverso una nuova forma di credo, cui tutti saranno obbligati a sottomettersi. Così governeranno anima e corpo di ognuno di noi. Hanno già realizzato la Banca mondiale e la moneta mondiale, che entrerà tra poco nei circuiti internazionali, sarà accettata da tutti i paesi. Sono molto vicini al realizzare il loro piano, ma prima dovranno scatenare l’inferno sulla Terra: guerre, caos, violenze, epidemie, carestie, migrazioni di massa. Uno stato di insicurezza continua da cui i governi non potranno risollevarsi, tanto da indurli ad accettare la proposta dell’ONU di formare un unico governo sovranazionale. Sembrerà una soluzione giusta. La panacea a tutti i mali. Pochi però sapranno che dietro le marionette di politici che ci faranno credere di poter scegliere ci sarà The Rune.» «Ma è una follia irrealizzabile», disse William. Poi, rivolto a Richard: «Ne parlammo già a casa tua di questo aspetto.» «Credi sia un’ipotesi fantastica?», ribatté Richard. «Piacerebbe anche a me fosse così, ma se non li fermiamo in tempo…» «E ora?», chiese Alicia. «Dobbiamo attendere», disse Hughes.

«Solo questo?», fece William sorpreso. «Vedete, noi abbiamo disperatamente bisogno di persone come voi. Vi siete dimostrati all’altezza dei compiti… di tanto in tanto vi chiederemo di collaborare.» «E nel frattempo?», disse dubbiosa Alicia. «Quelli di The Rune potrebbero farci

del male.» «Vi proteggeremo noi…» «E voi, chi vi proteggerà?», replicò William. «Di questo non preoccupatevi», rispose serio Hughes. «Piuttosto, credo sia il momento di venire al dunque. Abbiamo già un incarico da affidarvi. Se lo desiderate.» Alicia si voltò verso William. Lui fissò prima Hughes, poi Richard. Sembravano sinceri.

«Che ne pensi?», chiese all’amica. «Se sei d’accordo anche tu…», rispose lei. Hughes batté le mani. «Bene. Allora siamo intesi. Da oggi fate parte dell’organizzazione.» «Massoneria?» «Oh, no… so bene che avete una certa ritrosia. Intendevo dire che da oggi siete parte della squadra che combatterà senza quartiere The Rune.» William sospirò mentre il suo sguardo vagava per le strade di Londra oltre il finestrino. Sapeva bene che la storia la facevano i libri, scritti dagli accademici accreditati, e i media, spesso pilotati e partigiani. Quello che aveva visto era sufficiente a fargli temere il peggio. Si sentiva inadeguato, e non era convinto che il suo aiuto sarebbe servito a qualcosa, ma alla fine, dopo aver guardato Alicia, disse: «Okay. Siamo della partita.»

Nota dell’autore

Cosa c’è di vero?

Considerate le tematiche di grande suggestione e talvolta un po’ oltre la soglia, il lettore potrebbe chiedersi che cosa ci sia di reale nel libro. È una domanda assolutamente legittima, una domanda che senza dubbio porrei anch’io. E come sempre accade per quanto riguarda i miei libri, gran parte della storia si basa su eventi realmente accaduti anche se, ai fini della trama, qualcosa ho dovuto necessariamente inventare. Per esempio, tutto il discorso storico della riforma del calendario giuliano e della creazione del calendario gregoriano è vero, solo gli eventi relativi all’esperienza del papa con la macchina di Giordano Bruno sono frutto della mia fantasia.

Ma il dispositivo inventato da Bruno è reale e si basava sulla Macchina della Memoria e sulle Ruote della Memoria di Raimondo Lullo, filosofo e teologo spagnolo del XIV secolo.

Bruno costruì effettivamente questo dispositivo, descritto nel De Umbris Idearum, che avrebbe dovuto aprire porte infinite nella mente dell’uomo. Mi sono limitato a prendere dalla sua complessa filosofia ermetica solo ciò che serviva ai fini della trama, ma la teoria al riguardo esposta nel romanzo segue la canonicità storica, anche se in effetti le finalità di Giordano Bruno nel costruire il suo dispositivo erano diverse da quelle descritte. Le vicende relative a padre Krunoslav Draganović, dell’Istituto Croato di San Girolamo, della fuga orchestrata dal Vaticano dei criminali nazisti e del governo croato Ùstascia sono assolutamente vere; allo stesso modo sono accurati i dati riportati nel caso dei rapporti tra Wall Street e Hitler di cui potete leggere nei

miei saggi storici che trovate nel sito www.pierluigitombetti.com. In effetti gli ultimi studi specialistici al riguardo dimostrano la forte relazione tra i ristretti circoli dell’alta finanza inglese, tedesca e americana e Hitler, e in particolar modo l’aspetto della sinarchia finanziaria e religiosa che permeava le frange più alte della Massoneria di Rito Scozzese e le logge più potenti della Massoneria Americana.

A ogni modo, tutte le informazioni presentate nel testo che riguardano il progetto di un Nuovo Ordine Mondiale, la setta degli Illuminati di Baviera, Skull&Bones, le famiglie Rothschild, Rockefeller & Co. e la Massoneria sono vere: basta digitare su YouTube le parole “New World Order” per trovare centinaia di video in cui politici e capi di stato di molte nazioni – da Obama a Napolitano, da Kissinger a Bush, da Brown a Sarkozy e perfino Benedetto XVI – parlano del progetto di creare un governo unico mondiale da attuare grazie alle Nazioni Unite; progetto a cui si sta lavorando geo-politicamente da decenni. È anche vero nei minimi particolari che l’immagine del dollaro contiene i simboli occulti descritti nel testo. The Rune è invece un nome di fantasia che tuttavia identifica il gruppo di famiglie che sta realmente operando, attraverso il suo controllo della Massoneria, con lo scopo di realizzare il progetto di un governo unico. Il Noetic Science Institute, menzionato nel testo a proposito del Centro di Ricerca di The Rune esiste realmente ed è stato fondato dallo scienziato e astronauta dell’Apollo 14 Edgar Mitchell; si tratta di una organizzazione di ricerca non-profit dedicata allo studio della Coscienza Globale e allo sviluppo della personalità umana attraverso l’esame scientifico delle sue potenzialità. “Noetic” non ha nulla a che fare con il personaggio biblico Noè ma proviene dal greco “Nous”, che significa mente intuitiva o conoscenza interiore. L’Istituto realizza esperimenti ed esplora con rigore accademico fenomeni che non rientrano nei normali modelli studiati dalla scienza. Nasce come intuizione dall’esperienza mistica vissuta da Mitchell dopo aver camminato sulla Luna e poco prima del ritorno sulla Terra. Di fronte al pianeta madre egli ebbe un’esperienza ineffabile in cui fu come “riempito” di una conoscenza precisa, chiara come una equazione matematica: la dimostrazione consapevole che la Terra è un sistema vivente come noi che viviamo in simbiosi con essa, una esperienza spirituale descritta come “universo di consapevolezza”, un evento

comune ad altri astronauti. Tornato sulla Terra, Mitchell sviluppò questa nuova forma di conoscenza e due anni dopo fondò l’Institute of Noetic Science (IONS).

Anche il progetto di Coscienza Globale, ora portato avanti dallo ions, è reale e costituisce uno degli aspetti più affascinanti della ricerca scientifica di frontiera, per le intrinseche domande che suscita: siamo davvero convinti che le scelte che operiamo siano realmente nostre? Possediamo davvero il libero arbitrio? Qualcosa a livello globale sta influenzando le scelte dell’umanità? Le descrizioni di Externsteine, del castello di Wewelsburg, dell’effetto eco all’interno della cripta che ho verificato personalmente, dei rituali e delle forme di meditazione che le SS svolgevano qui, e in generale di tutti gli altri luoghi menzionati, sono precise e scaturiscono dai miei studi e dai miei sopralluoghi. Le ideologie ariosofiche e l’ordine di neo-templari di Lanz von Liebenfels, per quanto piuttosto singolari, sono state oggetto di studi dettagliati e nel romanzo vengono descritte con precisione; è anche vero che Hitler si abbeverava letteralmente a queste filosofie esoteriche estremiste ai tempi di Vienna, quando, come scrisse nel Mein Kampf, si stava formando la sua weltanschauung, ossia la sua visione del mondo. Anche per questi, come per gli aspetti occulti del nazionalsocialismo rimando agli altri miei libri e a quelli di Nicholas Goodrick-Clarke e Giorgio Galli, i massimi specialisti sulla parte oscura del nazismo, indicati nella bibliografia all’interno dei miei saggi. Il lettore troverà in questi testi le conferme a ciò che è descritto nel romanzo. Tutto ciò che si legge riguardo alla “Repulsine” di Schauberger, all’esperimento conosciuto come Die Glocke, all’utilizzo dello Xerum 525, sono basate sulle fonti più accreditate, anche se purtroppo molto scarse. Illuminante per queste tematiche è la ricerca di Nick Cook, autore di The Hunt for Zero Point (2003). L’esperimento Die Glocke ebbe effettivamente luogo con conseguenze drammatiche e ciò che gli scienziati delle SS scoprirono andava ben oltre le loro conoscenze, in quanto sconfinava in campi ben descritti da Einstein sui rapporti tra gravità e spazio-tempo. Fu solo la mancanza di dati precisi che provocò il disastro. Il direttore del progetto, Hanz Kammler, fuggì senza lasciare tracce, pur essendo

un alto ufficiale delle SS ricercato in tutta Europa. È molto probabile che sia riuscito a vendere agli Stati Uniti o all’Unione Sovietica le informazioni riguardanti Die Glocke in cambio dell’immunità e, in effetti, ricerche sullo spazio-tempo e sull’antigravità sono da allora portate avanti dall’Aeronautica Militare degli Stati Uniti, da enti di ricerca militari dell’Unione Sovietica prima e della Federazione Russa poi, nonché da altre nazioni. Da sempre suscita molto interesse la notizia della presunta fuga di Hitler in Argentina: le informazioni al riguardo che presento nel testo sono verosimili, ossia illustrano le ipotesi più accreditate sulla vicenda, considerato che le più recenti indagini storiche evidenziano chiaramente che egli non morì nel bunker. I russi, entrati per primi nel rifugio di Berlino, rinvennero i cadaveri di diversi sosia del führer, collocati in punti determinati per permettere al vero dittatore di darsi alla fuga insieme agli ultimi gerarchi del Terzo Reich. La storia dei due cadaveri bruciati trovati all’esterno del bunker non regge al vaglio delle prove e, come si descrive nel testo, si voleva semplicemente chiudere un capitolo terribile della storia umana, anche se il corpo di Hitler non era stato effettivamente trovato. I due cadaveri, per la precisione, erano più piccoli rispetto a Hitler ed Eva Braun; uno dei teschi, identificato per quello del führer, conservato a Mosca, non è quello di Hitler, l’analisi del DNA di cui si parla nel libro è vera. Lo stesso Stalin continuò a ribadire per molti anni che il führer fosse fuggito in Sud America. Dove abbia terminato la sua vita rimane un mistero, ma ciò che è scritto nel romanzo è, a mio avviso, la tesi più convincente. Ciò che oggi leggiamo nei libri di storia riguardo a ciò che sarebbe accaduto nel bunker di Berlino non è altro che una narrazione priva di riscontri e prove indiscutibili. Se ciò che il lettore troverà nel romanzo lo spingerà a fare qualche semplice ricerca, potrà facilmente appurare che la vicenda della morte di Hitler è un falso storico e che egli, con tutta probabilità, riuscì a fuggire in Argentina. In definitiva, c’è molta più realtà che invenzione in questo romanzo; una realtà ovviamente piegata alle esigenze narrative. Senz’altro la trama è frutto della mia fantasia, e così i personaggi protagonisti del romanzo, ma in effetti poco altro. Non esiste un professor William J. Connor, come non esistono Alicia Wyler, la Wyler Foundation, J.J. Bowen Griffith etc. Questi sono gli elementi di fantasia, resi però verosimili e strutturati in modo tale che si incastrino in una struttura narrativa credibile, basata su eventi e documenti storici. Prima di chiudere, rimane da fare un cenno sulla libertà individuale. Come dicono alcuni protagonisti del romanzo viviamo in tempi molto particolari, in cui

la tecnologia avanzata permette a chiunque l’accesso a settori e ricerche impensabili fino a pochi anni fa, ma che allo stesso tempo rende ognuno di noi sotto continuo controllo. Chiunque possegga un cellulare, un conto bancario, un computer, una carta di credito, ecc. è spiato, tracciato, studiato. Il lettore sia conscio di questo, come di tutto ciò che è riportato sopra, e ne tenga conto.

Desidero ringraziare sentitamente l’Editore e il suo staff per l’infinita pazienza, per la ione e la professionalità con cui hanno collaborato con me in questa e altre avventure editoriali. Inoltre vorrei esprimere la mia gratitudine ai miei agenti Astrid Pesarino e Stefano Bisacchi della Tempi Irregolari Literary Agency: la loro bravura, il loro fiuto e la loro tenacia in un campo così difficile hanno dato frutti notevoli e mi hanno fatto crescere come persona e come scrittore. Sono felice di collaborare con persone del genere. P.T.

Indice

Titolo Informazioni Legali Prologo Parte prima - Alle radici del male Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14

Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Capitolo 28 Capitolo 29 Parte Seconda - Operazione Chronos Capitolo 30 Capitolo 31 Capitolo 32 Capitolo 33 Capitolo 34

Capitolo 35 Capitolo 36 Capitolo 37 Capitolo 38 Capitolo 39 Capitolo 40 Capitolo 41 Capitolo 42 Capitolo 43 Capitolo 44 Capitolo 45 Nota dell'autore Ringraziamenti