Alvaro Zerboni
I GIORNI DELL'ALTA MAREA
I GIORNI DELL'ALTA MAREA
Alvaro Zerboni
Edizione maggio 2015
ISBN 9786050379471
Autopubblicato con Narcissus.me
www.narcissus.me
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Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
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ISBN: 9786050379471
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Indice
CAPITOLO 1 CAPITOLO 2 CAPITOLO 3 CAPITOLO 4 CAPITOLO 5
A Ezio d’Errico giornalista, romanziere, pittore, commediografo, e, soprattutto, straordinario maestro di vita
CAPITOLO 1
… sono in questo basso mondo dove fare del male è spesso lodevole cosa
e fare il bene, qualche volta è considerato pericolosa follia.
Shakespeare, Macbeth
Un improvviso, assordante tuono annunciò l’arrivo del temporale. Le vetrine del negozio vibrarono a lungo, tintinnando sinistramente, quasi fossero sul punto di frantumarsi e i colombi, che nella greve calura di quel tardo mattino di luglio si rinfrescavano intorno alla fontana del Babuino, si levarono tutti insieme in volo per rifugiarsi, con un pesante batter d’ali, tra gli ospitali loggiati dei due campanili della chiesa di Sant’Anastasio.
Non immaginavo neppure lontanamente, come invece in seguito mi accadde più volte di pensare, che il fragore di quel tuono fosse come un segnale deliberato per scandire l’inizio di uno sconvolgente momento della mia vita, un violento colpo di gong con il quale il destino apriva teatralmente il sipario su un drammatico nuovo cambiamento di scena della mia esistenza…
Al di qua della porta a vetri del mio negozio di antiquario, osservavo con un po’ di perverso divertimento l’improvviso fuggi fuggi dei anti bersagliati dalla pioggia che veniva giù con scrosci violenti. Il cielo aveva assunto un minaccioso colore plumbeo con sfumature violacee. Un temporale estivo di grande veemenza, eppure tanto atteso per la speranza che riuscisse a portare per qualche
giorno, o almeno per qualche, ora un po’ di refrigerio all’insopportabile canicola di quel torrido fine luglio.
Favoriti dal vento, gli scrosci d’acqua si avventavano impietosamente sulle persone che cercavano inutilmente di trovare riparo sotto i cornicioni, su qualche ombrello imprudentemente aperto, sulle auto che avanzavano a fatica in quella confusione, e sulle vetrine del mio negozio. Ero in attesa che si calmasse un po’ quel diluvio per uscire fuori con l’attrezzo a uncino e tirar giù la serranda dell’ingresso. Intanto avevo girato il cartello posto dietro la porta a vetri dell’entrata, con l’indicazione dell’orario giornaliero e la scritta: «CHIUSO. Questo negozio riapre lunedì alle ore 9:30».
Finalmente si concludeva la settimana di lavoro e io già pregustavo i piaceri di un magnifico week-end che avevo meticolosamente preparato da vari giorni. Anche se la situazione meteorologica non lasciava sperare nulla di buono avrei certamente trascorso un favoloso fine settimana.
Questo era quello che, avendolo programmato fin nei minimi particolari, mi sentivo in diritto di aspettarmi dalle prossime ore.
In effetti, Christine, la giovane commessa svedese che avevo assunto da un paio di settimane, mostrava finalmente degli incoraggianti segni di simpatia nei miei riguardi, compiacendosi della mia palese attrazione per lei, e aveva accettato di trascorrere insieme a me quel pomeriggio e tutta la domenica sulla costiera amalfitana. Guardai ancora l’orologio e il cielo.
Una macchina color avana, di piccola cilindrata (non avrei saputo riferire di che marca fosse: solo i giornali dei giorni seguenti aiutarono la mia memoria a chiarire che si trattava di una piccola Renault), si fermò accanto al marciapiedi, alcuni metri prima del mio negozio. Ne uscì un uomo sui trentacinque anni, di
media statura, con dei baffetti appena pronunciati. Portava sottobraccio un pacco avvolto in carta di giornali.
Quell’individuo, sotto la pioggia che continuava a venir giù senza un momento di tregua, dette un rapido sguardo alle insegne degli esercizi di quella parte della strada, come in cerca di una conferma, poi si diresse con decisione verso l’entrata del mio negozio.
Prima che spingesse il battente abbozzai un gesto e un’espressione di dispiacere indicando il cartello che avevo appena girato, con l’inequivocabile segnalazione che fino al lunedì mattina avevamo cessato l’attività.
L’uomo rimase titubante per qualche attimo, ignorando quello che avevo cercato di fargli capire, e senza più esitazioni spinse la porta a vetri. Riuscii a bloccare l’entrata parzialmente, anche con l’aiuto di un piede.
«Mi dispiace, siamo ormai chiusi. Riapriamo lunedì». Lo dissi lentamente, aiutandomi con i gesti, pensando che nonostante l’aspetto, potesse trattarsi di uno straniero.
«Le devo proporre un affare», mormorò con un certo affanno. Continuava a guardarmi negli occhi con un misto di preghiera e di disperazione.
«La prego», insisté.
La pioggia continuava a martellare la strada, senza risparmiarlo.
Ero piuttosto contrariato, ma devo ammettere che quello strano personaggio era riuscito a trasmettermi un profondo senso di pena e di curiosità allo stesso tempo.
«Va bene», dissi, «ma posso dedicarle solo pochi minuti. Oltretutto abbiamo già superato abbondantemente l’orario di chiusura e rischiamo una pesante multa».
Mollai la presa del piede contro la porta consentendogli così di entrare.
Avanzò di qualche o all’interno e appoggiò il pacco su un tavolo del Settecento con ripiano di marmo. Tolse i fogli intrisi d’acqua, li appallottolò e li gettò in un cestino per la spazzatura lì accanto.
«Mi dica onestamente quanto mi può dare», disse sollevando l’oggetto che voleva propormi, e che fino a quel momento non ero riuscito a capire bene cosa fosse, capovolgendolo dalla parte frontale.
Si trattava di un dipinto su tavola, contornato da una curiosa ma notevole cornice a forma di edicola, che non mi era mai capitato di vedere prima d’allora. Il tema del dipinto era un San Gerolamo in preghiera con un leone ai suoi piedi.
«Opera del XV secolo. Scuola di Antonello da Messina», mormorò sottovoce quasi per non urtare le mie capacità di giudicare.
Portai il dipinto verso una fonte di luce. In realtà non avevo una gran
competenza di quel periodo artistico né di quella scuola. L’esecuzione comunque sembrava di buona mano. Calcolai che nella peggiore delle ipotesi avrei potuto ricavarci almeno cinque o seimila euro.
«Eh, si fa presto a dire Antonello da Messina…», abbozzai rigirando la tavola.
Da una tasca interna della giacca tirò fuori il portafogli e mi porse un biglietto da visita. «Vincenzo Lepiscopo Avvocato» c’era scritto insieme all’indirizzo di uno studio di Palermo.
«Le posso lasciare il quadro per un esame approfondito fino a lunedì. Ma ho bisogno di un anticipo… diciamo duemila euro in contanti».
Continuai, indeciso, a osservare il dipinto. Potevo portarlo per uno studio accurato e una valutazione più precisa da un esperto di cui mi potevo fidare: un vecchio amico, il “professor Sòla”, come lo chiamavano nella zona, che abitava a due i da me, in via Margutta.
«C’è anche un timbro che dice “Sotheby’s” nel retro della tavola», disse un po’ spazientito.
«Sì», replicai, «è quello di una famosa organizzazione celebre per le sue aste d’arte, con sede a Londra, ma se ne fanno tanti di timbri falsi, sapesse…».
Mi fissò in silenzio, poi sussurrò: «Allora?».
Era visibilmente innervosito e mi resi conto che respirava con un certo affanno.
«Senta», posai il dipinto sul tavolo, «devo dirle francamente che il mercato è fermo da un bel pezzo e che tutti noi commercianti d’arte preferiremmo, in questo periodo, vendere piuttosto che acquistare, e poi lei mi chiede dei contanti… Oggi è sabato e anche le banche riaprono soltanto lunedì mattina».
Tirai fuori dalla tasca dei pantaloni un rotolo di banconote.
«Mi servivano per il fine settimana. Non immagina neppure a quale rinuncia mi costringe».
Tolsi dal rotolo tre pezzi da cinquecento euro e contai quelli che restavano.
«Posso darle un anticipo di millecinquecento euro. Lunedì il resto se ci mettiamo d’accordo. Altrimenti mi restituisce quest’importo e vorrà dire che avrò perduto due buone occasioni: quella di un possibile affare e l’altra di un bel week-end andato in fumo».
Allungò la mano per prendere le banconote. «Ma non speri che possa darle più di altri due o tremila euro», dissi prima di consegnargli il denaro. Mi sembrò di vederlo irrigidirsi e come sbiancare in volto. Doveva avere solo pochi anni più di me, ma in quel momento mi parve come improvvisamente invecchiato. Mi fece sinceramente pena.
Intascò il denaro e si avviò verso la porta.
«Buttiamo giù una ricevuta per sua maggior tranquillità?», chiesi.
«Per me non c’è bisogno. Lei ha fretta e anch’io», rispose. «Lunedì mattina sarò qui prima delle dieci».
Sulla porta mi porse la mano. «Grazie», disse puntandomi contro quei suoi occhi neri così intensamente espressivi.
Uscì riparandosi con una mano il capo dalla pioggia che veniva ancora giù fittissima. Anch’io mi affacciai sulla soglia per agganciare la serranda a maglie aperte e abbassarla fino a metà.
***
Rientrai in fretta nel negozio mentre l’auto si avviava sotto il temporale.
Nonostante i vetri della macchina fossero molto appannati mi parve di notare che un’altra persona fosse seduta accanto a lui. Forse si trattava di una donna. Avevo fatto un buon affare? Non potevo dirlo con assoluta certezza. Quello che era del tutto sicuro invece era il fatto che i miei progetti per il fine settimana cambiavano completamente e ora bisognava dirlo a Christine. Dovevo ideare un nuovo programma.
La visione di quell’uomo così strano, quel suo sguardo intenso mi rimasero impressi per tutto il fine settimana per quanto cercassi di pensare ad altro.
Mi avviai nel piccolo retrobottega dove, come deciso nel nostro accordo, era sistemato anche l’alloggio della ragazza. Speravo che non se ne avesse troppo per il contrattempo sorto. D’altra parte la pioggia giustificava ampiamente il necessario spostamento della gita ad altra data.
Christine era in piedi davanti allo specchio della commode, intenta a ritoccarsi il trucco degli occhi. Era il ritratto della giovinezza: bella, spensierata, felice, con il fisico tipico delle donne del Nord, solido, flessuoso, perfetto. Non si girò neppure a guardare mentre entravo.
«Credevo che avesse già chiuso l’entrata della strada e se ne fosse andato a casa a prepararsi», disse con il suo italiano incerto.
«Il guaio è», risposi avvicinandomi, «che sta piovendo a dirotto».
«Me ne sono accorta» fece, «almeno rinfrescasse un po’! Mi sono dovuta fare una doccia».
Continuava a destreggiarsi con il trucco. Aveva il viso tutto proteso in avanti per vedersi meglio allo specchio, con il busto piegato oltre il piano di marmo e, di conseguenza, il bacino marcato all’indietro. Indossava una leggerissima vestaglina azzurra a fiori che le arrivava un palmo abbondante sopra il ginocchio.
Mi avvicinai ancora. Sentivo l’odore fresco e profumato del suo corpo appena uscito dall’acqua.
Ero turbato da tanta esuberante bellezza.
«Mi dispiace che questo brutto tempo ci rovini il programma», dissi appoggiandomi a lei e allacciandola con delicatezza alla vita, «ma ti farò are ugualmente una bella serata, vedrai».
In verità in quel momento non avevo altro programma in mente che quello di sarmela a letto con lei, stringerla a me, baciarla, farci l’amore.
«Non ti preoccupare», rispose riponendo il trucco in una scatolina di plastica nera «sono certa che andrà bene qualsiasi cosa deciderai di fare».
Rimasi sorpreso da quella frase: era ata al tu di sua iniziativa mettendo evidentemente a profitto quelle mie “avances”. E questo mi autorizzava a proseguire in quel mio approccio un po’ goffo.
Di scatto si volse verso di me e nel fare quel brusco movimento mi resi conto che sotto la vestaglia non indossava nulla. La strinsi forte e presi a baciarla sul collo mentre con le mani cominciai a esplorare il suo corpo. Ero ormai in preda a un eccitamento incontenibile. Facevo percorrere alla mia mano itinerari vicini al suo inguine, intorno al pube. Quando la sentii ansimare, le mie dita aprirono un varco tra le sue labbra ormai traboccanti di umori.
***
Portai Christine a pranzo da Nino, nella vicina via Borgognona, e insieme ridemmo e scherzammo a lungo come un’affiatata coppia di giovani innamorati.
Ero su di giri. Un po’ per il vino bianco e freschissimo che avevo bevuto abbondantemente scompagnando una deliziosa orata grillé al finocchio, ma anche e forse soprattutto per la convinzione, che andava sempre più consolidandosi in me, di aver fatto un ottimo affare con quel cliente un po’ misterioso che mi si era presentato in negozio al momento della chiusura. E poi, quell’episodio sorprendente e il cattivo tempo mi avevano risparmiato una faticosa trasferta a Sorrento. Un viaggio lungo ed estenuante per il gran traffico in quel periodo dell’anno e per l’insopportabile caldo di quei giorni.
Del resto la gita era stata programmata al solo scopo di “scongelare”, con una messa in scena romantica, il mio rapporto con quella ragazza. Rapporto che aveva già avuto ormai una sostanziosa e inequivoca premessa positiva.
Terminato il pranzo riaccompagnai Christine nel piccolo appartamento che occupava nel retrobottega e al quale si poteva accedere anche attraverso un’entrata secondaria che si affacciava su un cortile all’interno dell’isolato nel quale era il negozio.
Le ricordai di tenersi pronta per le otto di quella sera e mi trasferii nel negozio per esaminare meglio l’acquisto che avevo fatto.
Con l’aiuto di una speciale lente d’ingrandimento alla quale era applicata una fonte luminosa presi a studiare attentamente il dipinto. Sì, quel quadro non solo mi sembrava assolutamente autentico, ma anche di eccellente fattura. Addirittura molto più interessante e di pregio di quanto non mi fosse sembrato in un primo momento.
Ero sicuro che il mio amico, il professor Sòla, me ne avrebbe dato conferma. Avvolsi con cura la tavola in una tela cerata color verde marcio che avevo in un cassettone e la presi con delicatezza sottobraccio. Stavo per uscire di nuovo nel cortile, quando Christine si affacciò sulla porta del suo stanzino: «Posso venire con te? Qui mi annoio e mi sembra quasi di essere reclusa!».
«Vado dal mio amico… Sòla», le feci, «se pensi di non annoiarti ancora di più, vieni pure».
***
I pochi anti in via del Babuino sembravano frettolosi.
Roma, abitualmente pigra e sonnolenta, si scuote sotto la pioggia. I suoi abitanti, come indolenti lucertole in catalessi sotto il sole, alle prime gocce d’acqua si elettrizzano e si precipitano nelle loro tane. Gli scrosci di pioggia che si erano succeduti con parecchia frequenza sembravano ormai terminati e le massicce nuvole nere che correvano minacciose sopra i tetti, lasciavano ora intravedere squarci di azzurro sempre più ampi.
In lontananza piazza del Popolo, magnifica perla della città, era adesso trionfalmente illuminata da quel caldo sole di luglio che giocava a nascondino con le nubi. Christine e io facemmo un centinaio di metri lungo via del Babuino e poi, percorrendo una delle brevi traverse sulla destra, entrammo in via Margutta.
Le case di questa corta strada che corre parallela a via del Babuino, tra piazza di Spagna e piazza del Popolo, fanno un po’ da argine alle magiche pendici del Pincio. Abitate un tempo soltanto da pittori, scultori e artigiani che avevano sulla strada le loro botteghe di corniciai, doratori e restauratori.
Pur avendo subito una lenta trasformazione, le osterie sono diventate graziosi ristoranti alla moda e parecchi laboratori artigianali sono stati soppiantati da eleganti negozi di antiquari.
La strada ha conservato una sua aria trasognata, legata ancora al suo romantico ato. Fastosi ingressi si aprono su eleganti cortili dove, fin dall’inizio della primavera, i glicini impreziosiscono porticati e vialetti, abbarbicandosi ovunque, anche su intere facciate delle palazzine umbertine.
Sul retro degli edifici, ampie vetrate, terrazzine e ballatoi, anelanti di luce e di sole in ogni stagione, guardano verso i giardini del Pincio e di Villa Medici.
***
Marcello Silvestri, detto in tutto il circondano “il Sòla” abitava al piano terra di una delle palazzine che avevano gli ingressi nella parte posteriore, nello stesso isolato dove abitavo anch’io.
Prima di proseguire mi fermai per chiarire a Christine il motivo di quell’appellativo: «Devi sapere che a Roma, con quel soprannome, si definiscono coloro che vivono di raggiri riuscendo a imbrogliare le loro vittime grazie a una eccellente parlantina e a maniere educate e signorili. Le persone prese di mira vengono abbindolate con il miraggio di un buon affare, di un
“colpaccio” al limite del lecito. I truffati, in questo modo, evitano di sporgere una denuncia sia perché di sentono un po’ compromessi nell’operazione illecita, sia per evitare l’onta di tanta ingenuità. Comunque il nostro professor Sòla, che ti prego di chiamare con il suo vero nome che è Marcello Silvestri, è in realtà un raffinato artista, uno straordinario restauratore, grande intenditore di opere d’arte. Si tratta di un ex insegnante di pittura all’Accademia di Belle Arti, dalla quale fu radiato per certi rapporti con una sua allieva minorenne la quale, in una crisi di gelosia, lo denunciò. Ma sono cose accadute tanti anni fa… Silvestri avrebbe potuto benissimo vivere e sfondare con i suoi quadri, con la sua creatività, preferì invece dedicarsi a copiare opere di altri grandi artisti affermatisi nel ato: le opere dal Quattrocento al Settecento sono la sua specialità… Eccoci arrivati».
Ci eravamo fermati accanto a un portoncino un po’ malandato, sovrastato da edere rampicanti. Grazie a un congegno in ferro battuto, un antico guerriero era pronto a scuotere una piccola campana di ottone. Quando la feci suonare, si aprì la vetrata di una finestra che era accanto al portone d’ingresso e spuntò la testa bianca e riccioluta del Sòla.
«Ah, sei tu, Vittorio», fece, «aspetta che ti apro». Mi parve di percepire un accenno di contrarietà nella sua voce.
Subito dopo si udì un rumore di chiavistelli e la sua figura massiccia comparve sul vano della porta. Indossava una tunica caffetana, un tempo a strisce verticali ma ora più simile a una tavolozza per l’innumerevole quantità di macchie multicolori che in gran parte la ricoprivano. Nella sua sinistra impugnava un pennello intriso di colore.
«Carissimo Vittorio!», esordì. «In che stupenda compagnia ti vedo!… In cosa posso osservi utile?».
Accennai con un gesto del capo all’oggetto che portavo sotto il braccio.
«Vorrei sottoporre un quadro al tuo giudizio».
«Allora accomodatevi», disse facendosi da parte e invitandoci a entrare, «soltanto dovrete pazientare qualche minuto. Sto terminando un lavoro che mi sono impegnato a consegnare stasera».
«Faccio strada e scusate questo disordine».
Il corridoio d’ingresso si apriva su una grande sala piena degli oggetti più disparati.
Ogni cosa sembrava messa lì provvisoriamente e mai più rimossa.
Si vedevano, alla rinfusa, mobili, cornici, parti di mosaici, statue lignee, candelabri, anfore etrusche e greche, oggetti di bronzo, e poi, dappertutto, pentolini con vernici di mille colori, spatole e pennelli.
C’erano anche due o tre cavalletti con sopra delle tele in avanzato stato di lavorazione. Imperava un forte odore di colla da falegname, di vernici e diluenti.
Silvestri si era avvicinato a un grande tavolo da disegno sul quale si adagiavano alcuni fogli di carta voluminosa insieme a pennelli e bacinelle piene di colore:
«Devo completare questi due acquarelli dell’Ottocento prima che questi colori, che ho preparato con una certa difficoltà si asciughino. Sono due De Nittis», aggiunse senza un’ombra di ironia.
Fu solo dopo qualche minuto di silenzio che scoppiò in una fragorosa risata.
«Immagino che avrai già spiegato alla tua amichetta qual è la mia principale attività».
Smise per un momento di applicarsi alla sua opera e si rivolse a Christine.
«Una professione ereditata da mio nonno, cara signorina, e che il Padreterno lo abbia in gloria… Un uomo capace di restaurare qualsiasi cosa. Dalle porcellane ai libri antichi, dagli strumenti a corda ai mobili di ogni epoca, dalle terrecotte greche ed etrusche ai gioielli dell’antico Egitto».
Riprese a stendere i colori su quei fogli, interrompendo il lavoro solo ogni tanto, ma proseguendo con foga la sua apionata narrazione.
«Cominciai a lavorare alla sua bottega all’età di undici anni, allora non esisteva l’Istituto del Restauro e qui a Roma c’era solo lui a fare questo tipo di lavoro, lo chiamavano persino dalla casa reale, era una vera istituzione quell’uomo. E mi fece amare l’arte. È tutto quello che ho avuto in eredità, io…».
Era dotato di una gran parlantina il Sòla, e proferiva le sue frasi a raffica,
continuando a dipingere e sollevando lo sguardo su di noi solo di quando in quando.
«Eh, io non sono stato fortunato come Vittorio, al quale improvvisamente, un bel giorno, gli è arrivata in America la notizia che una sua zia, una brava vecchina che io conoscevo bene, gli aveva lasciato in eredità un magnifico negozio, nel cuore di Roma, carico di cose antiche, davvero preziose. Come vincere alla lotteria, cara signorina, come ha detto che si chiama?».
«Christine», dissi, «è l’impiegata che sostituisce i miei due commessi nel periodo delle vacanze».
«Christine… bel nome nordico, e che gran bella ragazza… Eh, lo dicevo io, proprio fortunato questo architetto Gaudio… In nomine omen… e anche furbo… un avviso su un paio di giornali svedesi, del tipo “Periodo vacanze cerchiamo giovane bell’aspetto, conoscenza lingua italiana per interessante lavoro a Roma… Vitto, alloggio e argent de poche. Inviare referenze e foto”. Ah! Ah!… Non è così, Vittorio?».
Alzò il pennello dal tavolo e lo puntò verso di me che lo guardavo con un’aria di sufficienza: «Ma fai attenzione caro mio, con una ragazza così ci puoi lasciare le penne e perdere il tuo splendido stato di celibataire…».
Lo interruppi.
Mi stava facendo perdere la pazienza.
«Senti un po’… smettila di sfruguliare e cerca di finire i tuoi De Nittis. Ti manca molto? Altrimenti torno in un altro momento».
«No, assolutamente no», fu pronto a replicare. «Solo qualche ritocco… Diciamo dieci, quindici minuti al massimo, ma intanto sedetevi, vi prego…».
Christine si era messa a gironzolare per l’ampio salone.
«E lei, signorina, guardi pure se le interessa…».
La ragazza si era avvicinata a una rastrelliera dove erano disposte sei o sette alabarde di varie fogge e ne aveva presa una tra le mani, osservandola con curiosità:
«Sono originali queste armi?», chiese.
«Una sola di quelle alabarde è autentica», rispose,
«me ne hanno ordinate ventiquattro per un film e devo consegnarle per la fine del mese. Ma sono in ritardo… sono in ritardo con tutto. Strano che l’abbiano incuriosita… Si tratta di un’arma bianca davvero temibile, prima dell’avvento delle armi da fuoco. Una lama che entra facilmente, con quella cuspide puntuta, nella pancia di un avversario e dilania irrimediabilmente tutti gli organi interni con la seconda lama uncinata posta più in basso…».
Prese l’alabarda dalle mani di Christine che, a quella descrizione sembrava inorridita.
«Giocattoli in uso dal XIII al XVI secolo all’incirca e usati dalle fanterie svizzere, tedesche e anche da quella del suo Paese…».
Tornò a fare ritocchi qua e là al quadro e poi riprese il suo precedente argomento.
«La gente in genere pensa che comprare un quadro sia come comprare un orologio o un paio di scarpe, senza alcuna preparazione, senza alcun gusto. I nuovi ricchi comprano case e ville del valore di parecchi miliardi e poi vanno in una galleria d’arte o da un antiquario, con l’intenzione di spendere poco, ma pretendendo opere di artisti noti per riempire le pareti dei loro salotti e sfoggiare gli acquisti con gli amici. È così che è nato il mercato dei falsi, che a Roma dilaga. La gente fino a poco tempo fa si accontentava di un De Chirico, di un Mirò, di un Kandinsky… tutti facili da imitare… oggi invece vuole avere quadri del Cinquecento o del Seicento, illudendosi di poter comprare dei capolavori con una manciata di milioni. Comunque i miei clienti se ne tornano sempre a casa soddisfatti, anche perché quasi sempre riesco a dar loro anche un certificato di autenticazione dell’opera – falso naturalmente – da esibire ai conoscenti… D’altra parte se le contraffazioni, come le mie, sono di buona qualità, chi le compra fa comunque un buon affare, non vi pare?».
«Noi italiani», continuò con una punta di orgoglio, «siamo falsari di buona reputazione, abbiamo fama di essere in questo maestri inimitabili».
Si allontanò di qualche o dal tavolo per osservare in modo distaccato il lavoro che stava eseguendo, poi tornò a dare veloci pennellate.
«Molti stranieri ne sono a conoscenza e vengono qui a fare i loro acquisti… del resto in Italia si falsifica tutto: dai Rolex alle scarpe Timberland, dalle borse Fendi e Vuitton ai CD e DVD, per non parlare poi delle zecche clandestine che vengono scoperte ogni anno e che falsificano splendidamente sterline, franchi svizzeri e dollari… capolavori di perfezione, credetemi. D’altro canto qui da noi tutto funziona così e i politici e gli amministratori dello Stato sono i primi a pretendere prebende, mazzette consistenti… tutto sottobanco. È una vergogna!».
Si alzò dal tavolo e brandendo nell’aria il pennello, come per dare maggiore enfasi alle sue parole, proseguì la teatrale concione: «Viviamo in un mondo di ricattatori, di corruttori, di sfruttatori, di canaglie, di prepotenti, di trafficanti e spacciatori di droga… ogni tanto affiora qualche scandalo che riguarda per lo più un operatore economico che con l’appoggio politico ha ottenuto appetitose commesse arricchendosi di colpo… ma poi viene messo tutto a tacere. Comunque quello che viene fuori rappresenta soltanto la modesta punta di un enorme iceberg. ’Ndrangheta, camorra e mafia controllano intere regioni e interi settori della vita pubblica, il mio lavoro in confronto è uno dei più puliti e inoffensivi. Io, in fondo, riproduco un’opera d’arte, scusate l’immodestia, alla perfezione. Al punto che, in qualche caso, noti critici hanno garantito, in buona fede, l’autenticità delle opere. Se l’eccellente copia di un dipinto riesce a dare le stesse emozioni del suo originale, non vedo dove sta l’imbroglio! Mi capisci, Vittorio?».
Visto che non otteneva il consenso desiderato, proseguì imperturbabile: «O quanto meno si tratta di un inganno molto relativo. Anche i grandi artisti, di ogni tempo, facevano eseguire copie delle loro creazioni dagli allievi delle loro botteghe. Lo sai, vero, che ci sono in giro nei vari musei almeno cinque o sei Monna Lisa di Leonardo?».
Mi fissò in viso, in attesa di un commento, poi si rimise al lavoro senza peraltro smettere di parlare.
«Quando ripeto un’opera antica uso gli stessi materiali di un tempo, le stesse carte, le stesse tele, le stesse tavole, gli stessi colori, analizzando quelli originali al microscopio, come nel caso di questi De Nittis, insomma un mio dipinto del Cinquecento, del Seicento o dell’Ottocento è come se fosse antico davvero, te ne rendi conto?».
«E poi», proseguì, «ti confesso che lo faccio non senza una certa soddisfazione… no, non si tratta solo di una questione di lucro, credimi, Vittorio, c’è anche il desiderio di dimostrare il proprio talento, rivaleggiare in un certo senso con i grandi maestri del ato, beffare critici famosi.
Pensa che straordinaria soddisfazione ebbe quell’Hans van Meegeren che negli anni Trenta dipinse il famoso Cristo e i discepoli di Emmaus e lo vendette come autentica opera di Vermeer al Museo Nazionale Olandese! E dopo anni di commenti e giudizi osannanti da parte di esimi storici dell’arte, van Meegeren non resistette alla tentazione di confessare che si trattava di una sua falsificazione e dovette persino dare pubblicamente un saggio delle sue grandi capacità per convincere definitivamente gli esperti. Per quanto mi riguarda devo dirti che nel ricomporre l’opera di un lontano artista io sento davvero la straordinaria emozione di percorrere la stessa strada da quello seguita nel suo momento creativo.
Ma ecco qua, ho praticamente finito. Che te ne pare Vittorio, questi due De Nittis non ti sembrano davvero autentici?».
«Sei bravo, sei davvero bravo, Marcello», osservai sinceramente, poi presi il pacco che avevo portato con me e cominciai a scartarlo.
Silvestri si era messo alle mie spalle e quando terminai di mettere allo scoperto il quadro ebbe un gesto di ammirata sorpresa.
«Che te ne pare?» domandai.
Il Sòla afferrò il quadro con entrambe le mani, si avvicinò a una fonte di luce più intensa, prese a osservarlo attentamente, lo rigirò un paio di volte, poi esclamò:
«Mi pare che tu abbia fatto un grosso affare… Sì. Vittorio, sono certo che hai fatto un bel colpo. Quanto hai detto di averlo pagato?».
«Veramente non ti ho parlato di prezzo» feci. «Me ne è stato proposto l’acquisto e io ho offerto una cifra di circa cinquemila euro. Per ora ho versato soltanto un piccolo anticipo».
«Non ci posso credere! Fantastico, sei stato bravissimo! Si tratta di un San Gerolamo nel suo periodo di vita ascetica nel deserto siriano, c’è un leone ai suoi piedi. Questo dipinto su tavola è certamente del Quattrocento ed è molto probabile che sia di un pittore minore della bottega di Antonello da Messina, se osservi bene, anziché il deserto siriano si vedono sullo sfondo le piccole case tipiche delle campagne siciliane e ancora più giù il mare… il mare di Messina. Può valere anche quattro o cinque volte quello che lo hai pagato».
Silvestri tornò a prendere il quadro tra le mani e a osservarlo con cura.
«E che splendida cornice… Senti», disse poi, dopo qualche momento di riflessione, «io ho un cliente svizzero che è un collezionista di opere del Quattrocento. Se non hai fretta di vendere, penso di poterlo convincere a comprare, ricavandoci sui dieci, quindicimila euro. Che te ne pare?».
«D’accordo», feci, «te lo lascio in consegna per qualche tempo».
«Bene, benissimo», esclamò euforico Silvestri dirigendosi verso una consolle sul cui ripiano di marmo, insieme a tele e tubetti di colore, c’erano diversi bicchieri e bottiglie di vario genere.
«Adesso ci beviamo sopra un sorso di prosecco, brindando a questo grosso affare che ti è capitato fra le mani…».
«No, per quanto mi riguarda», intervenne Christine,
«Vittorio mi ha fatto bere tanto a tavola che le gambe mi tengono a malapena in piedi».
«Anche per me», aggiunsi, «è meglio di no, Marcello: brinderemo quando avremo concluso definitivamente l’affare». Guardai l’orologio, «adesso dobbiamo andarcene. Fatti vivo non appena avrai qualche notizia positiva».
***
Una volta che fummo fuori, Christine mi prese per un braccio: «Che strano personaggio!». Disse sottovoce:
«Ma ti fidi totalmente di lui?».
«Be’… totalmente, no…», risposi, «però in questo caso non credo che sarebbe capace di farmi una scorrettezza, in fondo si tratta di un possibile affare anche per lui».
«Sarà perché mi è sembrato talmente su di giri, con una parlantina irrefrenabile, ma per caso non sarà che si droga?».
«Non lo so… potrebbe essere. Comunque, affari suoi». Guardai di nuovo l’ora. «Si sono fatte le sei, ti do due ore di tempo, Christine, per farti bella. Ti o a prendere alle otto in punto. Ti ho promesso una serata speciale, dobbiamo festeggiare».
«Festeggiare che?», chiese.
«Festeggiare il probabile affare, festeggiare la nostra amicizia, festeggiare la vita che sembra volerci sorridere. A tra poco».
***
Poco dopo le otto di quel tardo pomeriggio, sedevo con Christine in uno dei tavoli all’aperto del bar Rosati, dai quali si poteva abbracciare con lo sguardo l’intera piazza del Popolo nella sua magnificenza.
Poche nuvole correvano nel cielo e il sole illuminava, con i sanguigni raggi che precedono il tramonto, la scenografica prospettiva ideata dal Valadier nel Settecento.
In quella stagione e a quell’ora l’intera città sembra sempre stemperarsi in una luce dorata che tutto avvolge, impreziosendo ogni cosa di uno struggente caldo languore.
Abbagliavano al sole le rosse tonache di una dozzina di giovani preti canadesi che uscivano dalla chiesa di Santa Maria del Popolo; due pullman sembrava che non smettessero mai di scaricare un brulicare di turisti accanto a una delle due fontane laterali; alcuni ragazzi si baciavano sugli scalini alla base dell’obelisco centrale; le carrozzelle erano in attesa di clienti. Completava la scena un venditore ambulante di palloncini che cercava di guadagnarsi la giornata avvicinandosi, come per caso, con il suo variopinto e invitante carico, ai bambini accompagnati.
«Che piazza straordinaria, che spettacolo», fece Christine, sinceramente ammirata.
«Ti ho voluto di proposito portare qui» le dissi indicando la grande porta che comunicava la piazza con il retrostante piazzale Flaminio, «perché nel Natale del 1655 da quella porta monumentale, progettata per l’occasione da Bernini, entrò trionfalmente la regina del tuo Paese».
«Aveva il tuo stesso nome», aggiunsi, poi «e aveva abbandonato la Svezia e rinunciato al trono per venire a vivere per sempre a Roma».
«Lo so, lo so bene» mi rispose «siamo in tanti nel mio Paese ad avere una sconfinata ammirazione per questa città, per la sua storia millenaria.
Forse nemmeno tu sai che ci fu un precedente ancor più eclatante di quello della regina Cristina, in questa stessa città. Circa trecento anni prima, nell’Anno Santo del 1350, la quarantasettenne svedese Brigida Birgesdatter, dama di compagnia della regina Bianca di Namur, venuta a Roma con una figlia diciottenne, mentre visitava la Basilica di San Paolo fuori le mura, sentì il crocefisso chiederle di rimanere nella città per fare opere di carità.
La mia connazionale accolse l’invito e con l’ordine delle Brigidine, da lei fondato, realizzò molte opere di bene. Dopo la sua morte fu dichiarata santa nel 1391 e nella piazza Farnese, dove visse a lungo, fu eretta nel 1600, in suo onore, la chiesa di Santa Brigida dove sono conservate molte sue reliquie. Uno di questi giorni vorrei andarci, con te».
«Speri forse di sentire anche tu un invito celeste a rimanere qui?», le chiesi ridendo.
«Perché no?», rispose guardandomi fissamente. «Vorrei davvero che qualcuno, non necessariamente per ragioni religiose o umanitarie, mi esortasse a rimanere qui».
Cercai di svicolare dall’argomento.
«Capisco» dissi «come d’altra parte ci sono anche tanti italiani, in visita nel tuo Paese, che s’innamorano della vostra cultura, del vostro modo di vivere o delle bellezze naturali, e restano lì».
Rimase qualche minuto pensierosa, poi girò lentamente lo sguardo per abbracciare l’intero spettacolo della piazza, le due chiese gemelle che portano le strade del tridente nel cuore di Roma, la fontana e le statue con le rampe che salgono verso i giardini del Pincio, la chiesa di Santa Maria del Popolo.
«E quell’obelisco è originale?», mi chiese poi.
«Certamente. Lo portò a Roma l’imperatore Ottaviano dopo aver vinto in battaglia Marco Antonio e la regina Cleopatra. Come vedi, la storia di Roma si intreccia spesso con il destino di donne importanti, a volte molto belle».
Un pullman di tifosi che si recavano ad assistere a qualche gara sportiva, cantando cori e agitando bandiere, ò sul piazzale con altoparlanti regolati al massimo del volume.
Il venditore di palloncini, continuando il giro della piazza si era avvicinato a noi e cercava di guadagnare l’interesse di un piccolo giapponese, intento a mangiare un gelato, che con i suoi genitori era accanto al nostro tavolo. Tutto inutile: il giapponesino sembrava proprio imibile.
«Senta… venga qui», disse Christine rivolta all’ambulante, e con mia sorpresa volle comprare un globo con l’effige di Minni e un altro con il volto di Batman.
«Ma dove diavolo pensi di andare con questi palloncini?», le chiesi.
Christine rise di cuore. Annodò tra loro i fili che tenevano legate le due sfere piene di gas e poi le lasciò andare libere nel cielo.
Solo allora il piccolo orientale ebbe un’espressione divertita e gridò qualcosa ai genitori, indicando i due palloncini che salivano sempre più su nel cielo.
«Adesso ti spiego», disse ridendo Christine, «Minni sono io e Batman sei tu che mi rapisci e mi fai volare sui tetti di Roma… per portarmi nella tua alcova…».
«Senti Minni», le feci, «adesso è ora di andare a cena… anche Batman a volte ha bisogno di mangiare».
Cenammo lì accanto, dal Bolognese, all’aperto e sulla stessa piazza.
Il clima giocoso che si era instaurato tra noi e il delizioso Sauvignon che aveva accompagnato le pietanze resero briosa la cena e ci accadde di ridere allegramente anche per insipide sciocchezze.
Intanto, un gravissimo fatto di sangue che avveniva in quegli stessi momenti in un’altra zona della città, gettava sinistre ombre sul mio personale futuro.
***
Il giorno seguente mi svegliai che il sole era già alto. Me ne rendevo conto dall’inclinazione dei raggi che dalla porta-finestra che si apriva su un terrazzino,
entravano nella mia stanza attraverso le tapparelle non del tutto abbassate. Andai fuori a dare una sbirciatina per controllare come sarebbe stata la giornata. Il piccolo balcone si affacciava sulla collina che s’inerpica verso Trinità dei Monti e bisognava alzare molto il capo per guardare la striscia di cielo.
Dopo il violento acquazzone del giorno prima, il tempo lasciava ben sperare. Il cielo era di un azzurro intenso, senza una nuvola, e l’aria era fresca e frizzante come solo quella di Roma sa essere nelle sue giornate migliori.
Rientrai nella stanza e diedi un’occhiata alla sveglia posta sul comodino. Segnava le dieci.
Mi distesi di nuovo sul letto, chiusi gli occhi e i miei pensieri corsero alla serata che avevo trascorso con Christine.
Dopo cena l’avevo portata alla Casina Valadier.
Avevamo preso un drink sulla terrazza che guarda verso Monte Mario. In lontananza, la silhouette della cupola di San Pietro si stagliava tra gli ultimi guizzi di un tramonto infuocato.
Avevamo brindato, mano nella mano e al lume di candela, mentre un pianoforte ci regalava note dolci e accarezzevoli. Una serata molto romantica che aveva deliziato la giovane svedese.
Eravamo rientrati nel mio appartamento di via Margutta tenendoci per mano. Poi
avevamo fatto a lungo l’amore.
***
Ora Christine riposava nella stanza accanto.
Avevo l’abitudine di dormire da solo nel mio letto. E poi la domenica mattina era uno dei momenti della settimana che più amavo e che riservavo tutto per me.
Mi recai in cucina a preparare un caffè e poi andai ad aprire la porta d’ingresso fuori della quale, abitualmente, nei giorni di festa, il portinaio mi lasciava alcuni quotidiani sullo zerbino.
Raccolsi i giornali e, tornato tra i fornelli, nell’attesa che l’acqua bollisse, diedi un’occhiata ai titoli di prima pagina.
Mi versai il caffè in una tazza grande e rientrai nella mia stanza. Mi accomodai per bene i cuscini, bevvi un primo lungo sorso di caffè e mi distesi di nuovo sul letto per sfogliare lentamente i giornali.
Arrivato alle pagine di cronaca ebbi un sobbalzo.
Un grosso titolo annunciava l’assassinio, in una stanza d’albergo di Roma, di un giovane avvocato siciliano. Una foto, ricavata da un documento personale, inserita nell’articolo e il nome dell’ucciso – Vincenzo Lepiscopo
– mi dettero la certezza che si trattava dell’uomo che il giorno prima si era recato nel mio negozio offrendomi quel dipinto del Quattrocento. Rilessi più volte quella notizia.
DELITTO DI STAMPO MAFIOSO NELLA NOSTRA CITTÀ
Assassinato in pieno centro a Roma giovane avvocato siciliano
Vittima dell’agguato, nella notte di sabato, un procuratore di Palermo.
Vincenzo Lepiscopo, questo il nome della vittima, è stato freddato con due colpi di revolver nella stanza d’albergo in cui era alloggiato da due giorni insieme alla sua convivente.
Secondo la ricostruzione dei carabinieri, in base al racconto del portiere dell’albergo e di Marina Stern, compagna dell’uomo ucciso, sarebbe stato un commando di tre killer a sparare. Gli assassini sono entrati in azione verso le ore 21, pochi minuti dopo il rientro della coppia nell’hotel. I tre malviventi erano ad attendere il Lepiscopo nella strada e quando la vittima è arrivata hanno preso a discutere animatamente, salendo poi in camera insieme alla coppia.
Pochi minuti più tardi si sono sentite delle urla e subito dopo i colpi di pistola. Poi i tre assassini sono usciti precipitosamente, allontanandosi a bordo di un’auto di grossa cilindrata.
Gli inquirenti stanno interrogando in queste ore Marina Stern, rimasta leggermente ferita nell’agguato, per far luce sul movente dell’omicidio, anche se sono convinti che lo stesso sia da collegarsi alla lotta tra le cosche mafiose palermitane. Pare infatti che l’avvocato Lepiscopo fosse legato al clan dei Parbicino.
Mi accesi, una dopo l’altra, varie sigarette e rimasi lungamente a pensare ai fatti accaduti in quelle ultime ore. Mi domandavo anche quale comportamento avrei dovuto osservare. Con la polizia e con gli eventuali congiunti della vittima.
Finii per convincermi che, almeno per il momento, era meglio lasciare che le cose procedessero per me come se quel fatto di sangue non fosse mai avvenuto.
Si trattava del resto di un delitto di mafia, di un regolamento di conti tra gente di malaffare che era meglio tenere alla larga.
Ho sempre considerato insensato volgere le spalle, anziché assecondare certi segnali che a volte ci pervengono dal destino. E io non avevo affatto l’intenzione, ora, di comportarmi diversamente in quella particolare occasione. Così, da una sensazione di pena e di angoscia per l’accaduto ero ato, in breve tempo, a un crescente stato di euforica soddisfazione.
Spensi la sigaretta e portai alle labbra la tazzina di caffè che era rimasta piena a metà. Era ormai appena tiepida, così decisi di andare in cucina e prepararne ancora. Riempii il filtro della caffettiera più grande, ricordando che Christine stava dormendo nella stanza accanto alla mia. Non appena sentii che l’acqua gorgogliava riempii due tazzine e le misi su un vassoio. Presi qualche biscotto e dal frigo un vasetto di yogurt, poi andai a bussare da lei.
Rispose con un mugolìo.
Entrai nella stanza e depositai il vassoio su un angolo libero del grande letto, poi per far entrare la luce feci scorrere la tenda della porta finestra che si apriva sullo stesso balcone della mia camera da letto.
«Ha riposato bene la mia dolcissima Minni?», le chiesi. Era ancora assonnata e fece un cenno di assenso con il capo.
«Superman viene a darti il buongiorno, con una piccola colazione afrodisiaca», dissi. «Quanto zucchero?».
Christine fece segno di due con le dita poi scoppiò in una risata.
«Veramente eravamo rimasti che tu eri Batman… che ne è stato di lui?».
«Non lo so…» risposi «adesso verifichiamo».
Mi tolsi velocemente il pigiama mentre lei osservava divertita e poi mi distesi, nudo, nel suo letto, sotto le lenzuola.
«Mi ami?», chiese lei e senza attendere una risposta mi baciò a lungo sulla bocca.
***
Facemmo ancora l’amore. Con grande trasporto da parte di entrambi. Con furore e con dolcezza da parte mia.
Era anche un modo per cercare di cancellare, almeno per un po’, il ricordo del misfatto del giorno prima. Ma quando Christine si alzò dal letto per andare sotto la doccia, quell’episodio che in qualche modo mi coinvolgeva, tornò a tormentarmi.
Presi di nuovo i giornali, mi accesi una sigaretta e rilessi più di una volta gli articoli riguardanti l’accaduto.
Non appena la ragazza tornò nella stanza, avvolta in un accappatoio e in un alone di profumo e di freschezza, la strinsi a me teneramente.
I suoi occhi avevano una luce nuova.
«In tutta la mia vita» disse «non mi sono mai sentita così felice».
«Ne sono assai contento», replicai, «vestiti pure con calma mentre vado io sotto la doccia».
Mi recai nella stanza da bagno e mentre mi facevo la barba lasciai aperti i rubinetti della vasca.
Una volta che fu piena mi ci immersi restando a lungo immobile, con il pensiero che tornava ancora una volta su quell’orribile delitto.
Più tardi, non appena fuori dal bagno, telefonai Silvestri. Prima che potessi dirgli il motivo della chiamata, fu lui a parlare.
«Stavo proprio per chiamarti, Vittorio», disse «ho sottoposto il dipinto ai raggi infrarossi e ho intravisto una data che mi sembrerebbe il 1446 e anche una A maiuscola, puntata, molto simile alle iniziali della firma di Antonello da Messina che si trovano in alcune tavole che conosciamo del maestro, eseguite negli anni della maturità.
Come sai, di Antonello si conoscono soltanto le opere degli ultimi anni di vita, dal 1457 al 1479, ma nulla degli inizi della sua carriera… quindi questo quadro potrebbe rappresentare uno straordinario documento della sua giovinezza, probabilmente una delle prime opere realizzate quando era a Napoli nella bottega del Colantonio. Si tratta forse di un lavoro preparato con la speranza di collocarlo nella chiesa di San Giovanni Gerosolimitano, a Messina, dove il padre Giovanni era impegnato a costruire un altare».
«Potrebbe essere una buona notizia per gli eventuali eredi dell’ex proprietario», riuscii a dire interrompendo il fiume in piena della sua verborrea per comunicargli quanto avevo appreso dalla lettura dei giornali.
«Davvero?», fece dopo una lunga pausa di silenzio
«secondo me quello non ha eredi, è una persona legata alla criminalità e poi tu avevi dato un sostanzioso anticipo, il quadro ti appartiene, puoi stare davvero tranquillo».
«Vedremo, vedremo…» dissi «comunque volevo anche dirti che chiudo il negozio per una decina di giorni, mi prendo una vacanza. Di tutto questo riparleremo al mio ritorno».
«Bene, bene, Vittorio te ne vai con la svedesina? Che furbastro che sei. Ti invidio!».
Non lo lasciai proseguire.
«Vedi di trovare un compratore, nel frattempo. Vorrei liberarmi al più presto di quel dipinto e dimenticare tutta la faccenda».
«Ma sì» fece «ti ho già detto che ho un collezionista svizzero che sarà sicuramente interessato all’acquisto, intanto ho intenzione di sottoporre l’opera ad altre verifiche: la fluorescenza ultravioletta, l’analisi della composizione fisica dei pigmenti… insomma se riusciamo a dare una maggior certezza dell’appartenenza dell’opera al giovane Antonello, possiamo ricavare dalla vendita un mucchio di soldi».
«D’accordo… fai tu, al ritorno ne riparliamo».
Ero frastornato. Ma ancor più di quello che il Sòla mi aveva comunicato circa il valore del dipinto ero incessantemente turbato da ciò che avevo letto sui giornali: continuavo a immaginare la scena dell’uccisione del giovane avvocato siciliano e mi sembrava di vedere il suo corpo inanimato in una pozza di sangue con quegli occhi tristi e intensi spalancati nella fissità della morte.
Cercavo di liberare la mia mente da quella angosciosa visione pensando che dovevo organizzarmi per portare Christine in vacanza e chiudere il negozio. La ragazza mi aveva detto di conoscere bene la costiera amalfitana dove avevo pensato di andare, così avevo cambiato idea e deciso di portarla all’Argentario, affittare una barca e navigare lungo le belle isole dell’arcipelago toscano.
CAPITOLO 2
Il sesso è vivo. Tutto il resto è morto.
La borghesia, gli onori, le medaglie,
la casa, il matrimonio, l’amore stesso.
Alberto Moravia
Quello stesso pomeriggio, dopo aver riempito un borsone con alcuni ricambi di biancheria, pinne e maschere da sub, qualche costume, e averli sistemati nel portabagagli della mia spyder, lasciammo finalmente Roma.
Trovammo poco traffico perché eravamo in controtendenza rispetto alla corsia opposta dove le auto che rientravano in città pativano i disagi degli abituali lunghi incolonnamenti della domenica sera.
Arrivati a Porto Santo Stefano, decisi di prendere subito la spettacolare strada panoramica che corre alta sul mare fino a Porto Ercole, offrendo la costante incantevole visione dell’Isola del Giglio, di Montecristo, degli isolotti, dei faraglioni e delle bellissime cale.
Cenammo in un ristorante da dove si godeva la vista di quelle meraviglie mentre il cielo, al tramonto, si accendeva di rosso e le luci di Giglio Marina e Giglio Castello baluginavano in lontananza.
La notte la trascorsi tra le braccia di Christine, in un romantico albergo edificato intorno a un’antica torre saracena.
***
Il mattino seguente, subito dopo una ricca colazione fatta al fresco in giardino, sotto dei pini ombrosi, raggiungemmo in macchina il porto di Cala Galera.
Sono un apionato velista, così, come mi ero proposto, noleggiai un cabinato adatto al programma. Intendevo navigare per le isole dell’arcipelago toscano, fermandomi in qualche porto e nelle innumerevoli calette che caratterizzavano quelle stupende isole.
Quella che avevo preso in affitto era una Millennium Marine di circa undici metri, cabinata e seminuova. La scelsi tra due imbarcazioni, più o meno simili, che mi venivano offerte perché, curiosamente, era stata costruita in un cantiere nautico di Buenos Aires.
In Argentina sul Rio della Plata e poi sull’Oceano Atlantico avevo appreso le prime nozioni per navigare e imparato ad affrontare anche quelle prove non facili alle quali a volte il mare ci sottopone.
L’uomo con il quale avevo concordato il noleggio, mi aiutò a mollare le cime e la piccola imbarcazione prese a cavalcare le onde che increspavano il mare fuori dal porto, aiutata da un vento leggero.
Avevo spiegato la vela maestra e il fiocco e Valiant, questo il nome della barca, cominciò a prendere una bella velocità. La prua era puntata verso Giannutri. Christine, eccitata come una bambina, ammirava le onde spumeggianti sollevate dalla prua e lanciava gridolini di gioia.
«Che bella idea, venire qui, Vittorio! Sono felice, sono felice davvero e… penso di essermi innamorata di te!».
«Addirittura! In così poco tempo… Un vero colpo di fulmine!», risposi in modo un po’ ironico, ma lei non se ne avvide.
«Sì, proprio così», fece e venne a stringersi a me.
«Ma ne sei proprio sicura?», ribattei. «L’amore deve avere radici e ragioni importanti».
«Dici? Hai presente quella massima di Pascal che dice
Le coeur a des raisons que la raison ne connait pas ?».
«Forse è così in qualche caso, Christine, ma secondo me, solo in qualche caso».
«E allora cos’è amare per te?».
«Amare significa conoscere profondamente la persona amata, ammirare le sue qualità oltre al suo aspetto fisico, rispettare i suoi diritti, desiderare la sua felicità».
«Oh, quante cose! Ma tu… c’è una donna che tu ami?».
«Sì e no».
«Cosa significa sì e no?»
«Significa che ancora non lo so neppure io…».
«Hum… forse ho capito». disse con aria avvilita.
«Nella cornice dello specchio che sormonta la commode, nella stanza di casa tua dove ho dormito, ho visto una cartolina postale con una veduta di una città sudamericana, con un testo che non ho capito e la firma di donna… mi pare fosse Patrizia. È lei che fa palpitare il tuo cuore?».
«Ah, quella cartolina di Patricia, sì… e il testo dice: Añorando los dias de pleamar ossia: “Ricordando con nostalgia i giorni dell’alta marea”. Si tratta di un
rapporto affettuoso che le circostanze hanno impedito di portare a una conclusione, successe poco prima che rientrassi in Italia… è una storia lunga».
«Sì, raccontamela Vittorio, ti prego», mi disse.
«Va bene» risposi «ma se ti viene a noia, avvertimi».
***
«I miei decisero di emigrare in Argentina quando avevo appena cinque anni. Soffrii molto lo sradicamento della nostra casa di campagna, l’allontanamento dai piccoli amici dell’asilo d’infanzia e dei giochi e l’impatto di una lingua diversa.
In un primo periodo abitavamo in una cittadina a nord della capitale e vicino alla nostra casa correva un affluente del Rio della Plata. Ricordo che facevo barchette di carta su fogli dove non sapendo scrivere avevo disegnato ingenue figure di pupazzi e ghirigori e poi andavo a posarle sull’acqua pensando che qualcuna di quelle navicelle con i miei immaginari messaggi potesse arrivare nelle mani dei miei piccoli compagni d’infanzia lontani.
Mi ci volle un bel po’ a farmi superare quelle difficoltà di ambientazione ma devo dire che poi in Argentina mi ci trovai davvero bene. Ti annoio? Ne hai abbastanza?», le chiesi.
«No, no, mi interessa davvero, ti prego, prosegui».
«Quando le cose per mio padre presero ad andare meglio, ci trasferimmo nella capitale.
A diciotto anni mi iscrissi alla facoltà di architettura e una volta laureato andai a lavorare nel Sud, alle dipendenze di un’impresa che faceva perforazioni petrolifere. Un lavoro molto faticoso che non era certo quello che avevo sognato. Così, dopo qualche anno partecipai a un concorso per un importante progetto di urbanizzazione, la mia opera vinse il secondo premio e fui assunto dal gruppo internazionale che aveva ottenuto l’appalto.
La società aveva la sua sede principale a Buenos Aires, sulla Avenida 9 de Julio, in pieno centro. Mi pagavano bene e avevo anche parecchio tempo libero. Così, tra le altre cose, mi divertii a redigere firmandomi “Magicus” un oroscopo settimanale per una rivista femminile molto diffusa, diretta da uno dei miei più cari compagni di università.
Nell’amministrazione della ditta per la quale lavoravo c’era una ragazza, Patricia Nuñez, che mi piaceva molto. Più che in ufficio mi capitava di vederla sulla metropolitana dove facevamo lo stesso tratto “Diagonal Norte Retiro”. Allora tra noi c’era solo il saluto, buongiorno buonasera, qualche sorriso amichevole e niente più.
Più di una volta mi era accaduto di vederla leggere, nel subte, la rivista con la quale collaboravo, e soffermarsi interessata sulla pagina dell’oroscopo.
Cercai di sapere, dall’ufficio del personale dove avevo un paio di amici, la sua data di nascita, pensando di preparare per il suo segno zodiacale – che era lo Scorpione, un segno d’acqua – delle predizioni mirate. Avevo letto per caso che
era imminente una congiunzione astrale e così ne approfittai per utilizzare l’evento collegandolo al suo oroscopo.
Per i prossimi giorni è prevista nel cielo un’interessante congiunzione LunaGiove-Venere. Si preannunciano maree più imponenti del solito. Gli appartenenti al segno dello Scorpione, notoriamente soggetti agli influssi acquei, avranno nei giorni dell’alta marea una speciale benevolenza da parte degli Astri. I nati nella seconda decade, in particolare, riceveranno un’interessante proposta che non potranno assolutamente rifiutare .
Un paio di giorni dopo l’uscita della rivista nelle edicole, aspettai Patricia appena fuori l’ufficio. Pioveva leggermente e le chiesi la cortesia di ospitarmi sotto il suo ombrello, fino alla vicina stazione della metro.
Durante il breve percorso la invitai a trascorrere insieme a me la domenica seguente, al Tigre, una zona pittoresca nei dintorni di Buenos Aires, alla confluenza dei fiumi Paranà e Uruguay, un labirinto di canali verdeggianti, di isole nelle quali sorgevano molti circoli nautici tra i quali un club italiano di cui facevo parte.
Mi guardò molto sorpresa. Evidentemente collegava la mia proposta a quanto aveva letto nel suo oroscopo.
Accettò di buon grado e da lì nacque il nostro rapporto.
Naturalmente in seguito le raccontai il mio stratagemma per conquistarla e ci ridemmo sopra entrambi.
Furono giorni bellissimi quelli che ammo insieme. “I giorni dell’alta marea” li chiamavamo. Era il periodo dell’innamoramento reciproco, di quando ci si desidera fino allo spasimo, i giorni della speranza e della gioia di vivere.
Purtroppo non durò molto perché ricevetti un telegramma dall’Italia in cui mi veniva annunciata la morte di mia zia Amelia, la quale mi lasciava in eredità il negozio di via del Babuino».
***
«Era bella Patricia?», chiese Christine.
«Sì, bella, molto bella. Ricordo come fosse ora la prima volta che l’avevo vista nell’ascensore: alta, longilinea, un viso ovale con magnifiche gambe ben tornite. Aveva i capelli neri, corvini, raccolti in un gonfio chignon dietro la nuca. E poi un seno prorompente che si immaginava perfetto, sotto una scollatura che, quella volta, era leggermente audace».
«Perché», mi interruppe Christine adombrata, «forse non ti sembra che il mio seno vada altrettanto bene?».
«Ma certo, tesoro» le feci «il tuo seno è straordinario ma ora spostati da dove sei perché sta cambiando il vento e devo strambare».
«Senti un po’…», mi disse Christine dopo che avevo portato a termine la
manovra e modificato un po’ la rotta «devo confessarti che anch’io leggo il mio oroscopo. Ma tu credi davvero che le costellazioni influiscano sulla condotta e quindi sul destino degli esseri umani?».
«Per carità» risposi «scrivevo quelle cose per puro divertimento. Le costellazioni non esistono, le stelle che apparentemente formano il segno astrologico sono lontane anni luce le une dalle altre e appaiono così ai nostri sguardi dalla nostra angolazione terrestre. Forse, questo sì, ci può essere un’analogia di comportamenti tra persone nate nello stesso periodo dell’anno, nel senso che forse coloro che sono venuti alla luce in pieno inverno hanno una costituzione fisica, un carattere, che li porta ad agire, in certe circostanze, in modo analogo, ad avere più facilmente certe malattie».
«Può darsi ma d’altra parte, il fatto che la luna, da così tanta distanza abbia un’influenza sulle colture e anche sul livello dei mari è un fatto incontestabile. Potrebbe averla anche sul nostro umore, o sulla nostra salute… chissà».
«Difficile dirlo. Comunque lo ha affermato anche Shakespeare, il nostro destino non lo regolano le stelle ma dipende solo da noi stessi. Cara Christi, l’astrologia è soltanto una superstizione, come qualsiasi teoria non scientificamente provata, come d’altra parte quasi tutte le religioni e tutto ciò che è fondato su presupposti magici o motivi non razionali».
***
Giannutri, escludendo la Gorgonia, è la più piccola delle isole dell’arcipelago toscano. Ha soltanto un paio d’approdi, sempre pieni di imbarcazioni nella stagione estiva.
Scelsi di attraccare allo Spalmatoio.
Il mare intorno all’isola variando di continuo tonalità dal turchino al verde smeraldo, a ogni ora del giorno, offre un’incantevole visione, come se vista attraverso un magico caleidoscopio di specchi colorati.
«Che meraviglia!», esclamò Christine, «ci facciamo subito un bel bagno?».
«No» le risposi «non ora. Preparati invece a camminare. Voglio mostrarti uno spettacolo che riporterai con te a Göteborg, tra i tuoi ricordi migliori».
Una volta assicurata l’imbarcazione, scendemmo a terra.
Ci avviammo poi lungo un sentiero che salendo verso l’alto si immergeva in una fitta macchia mediterranea la quale di tanto in tanto si apriva offrendo lo spettacolo di squarci di mare e di azzurro.
Quando finalmente giungemmo alla sommità, la ragazza rimase a bocca aperta: l’avevo condotta fino agli antichi resti di una villa di epoca romana che dominava un grandioso panorama.
«Grazie Vittorio, non potevi farmi un regalo più bello», disse commossa.
Christine aveva portato con sé una piccola macchina fotografica e volle che la ritraessi accanto a quei romantici resti.
«Si tratta di un tempio?» chiese.
«Sono i resti di una villa del I secolo dopo Cristo. Apparteneva alla famiglia degli Enobarbi, la stessa di Nerone».
«Quante cose sai tu, Vittorio», disse ammirata, «è un piacere ascoltarti».
«Ma no» le feci «è la seconda volta che vedo quest’isola e le poche cose che so le ho lette su una guida».
Rimanemmo lì qualche ora. Non ci stancavamo di contemplare tanta bellezza. Le luci del Giglio e della costa, fino a Castiglione della Pescaia che, mentre il sole andava calando sulla linea dell’orizzonte, si facevano sempre più brillanti. Imbarcazioni di ogni grandezza solcavano il mare lasciando scie come bianche ferite e, nel cielo, coppie di gabbiani si inseguivano con lenti volteggi, lanciando i loro struggenti richiami d’amore.
Percorremmo a o svelto, a ritroso, il sentiero che ci riportava alla cala dello Spalmatoio.
Si era fatto quasi buio, ma nel cielo uno spicchio di luna sembrava volerci accompagnare fino alla nostra Valiant.
Le imbarcazioni che affollavano la baia avevano già tutte le luci di bordo e l’intera cala risplendeva per quella festosa luminaria.
***
Eravamo molto stanchi e Christine, appena giunti a bordo, scese subito sotto coperta per gettarsi nel letto.
«Vai a goderti il fresco nella tolda», le dissi, «questa sera sarò io stesso a preparare la cena».
La mattina prima di arrivare a Cala Galera, avevo fatto una breve sosta a Porto Ercole e acquistato alcune cibarie.
Così quella sera avevo intenzione di preparare qualcuna delle poche cose che sapevo cucinare abbastanza bene.
Dopo mezz’ora salii in coperta con due piatti di fumanti linguine in bianco, agli scampi e zucchine, e un sushi fatto con il filetto di tonno.
Quella cena, consumata in quel contesto scenografico, e accompagnata da un fresco spumante, ebbe molto successo.
Avevo anche preparato una sorpresa per Christine. In un cassettone sotto uno dei due letti, il proprietario della barca aveva lasciato una chitarra.
Sapevo strimpellarla fin da ragazzo così, mentre calava la notte e si accendevano anche le luci delle ville soprastanti quel golfo, accompagnandomi con quello strumento, cantai sottovoce a Christine il mio repertorio di canzoni napoletane e sudamericane con le quali, in Argentina, riuscivo a fare qualche conquista tra le ragazze locali.
***
Il mattino seguente, alle prime luci del giorno lasciammo Giannutri, diretti verso l’isola di Montecristo. Ancora si vedevano in lontananza le luci di Porto Ercole e, più avanti, quelle della costa fino a Castiglione e oltre. Avevo girato intorno a Punta Secca ed eravamo nei pressi dell’imponente parete rocciosa che dai resti della villa romana scende a picco sul mare. Il sole, ancora basso sull’orizzonte, rendeva la distesa dell’acqua dorata e quasi fosforescente. La nostra imbarcazione era la
sola, a quell’ora, ad aver preso il mare.
«Fermiamoci qui, ti prego», mi chiese Christine, «voglio fare un tuffo in questo luogo magico».
Non feci in tempo a calare le vele che Christine si era tolta il costume e si era gettata nuda in acqua.
Anch’io feci altrettanto.
«Che meraviglia!», gridò la ragazza, «questo è il primo mattino del mondo e noi siamo gli unici due esseri viventi!».
«Non siamo soli» risposi indicando due gabbiani reali che volavano rasente il pelo dell’acqua «se fosse come dici tu sarebbe spaventoso e bisognerebbe darsi da fare per ripopolare al più presto il pianeta!».
Tornammo a bordo e Christine rimase a prua nuda, per scaldarsi al sole.
Aveva un corpo stupendo. Dei seni alti e sodi e delle gambe perfettamente tornite.
Mi avvicinai a prua. Ero anch’io stordito da quei momenti irripetibili di struggente gioia, di amore, di sensualità. Christine osservava intorno a sé estasiata.
«Quanta bellezza, Vittorio, che profonda emozione suscita. Scienziati, filosofi, biologi si sono chiesti invano “cos’è la vita?”. Pensavano di aver trovato la risposta nella doppia elica del DNA, ma la vita non si può ridurre a un processo chimico fisico. Il vero senso della vita, il suo vero significato lo abbiamo qui: il cielo, il sole, il mare, il verde della natura, la sessualità… è solo questo che ci fa sentire vivi e in comunicazione con l’universo… non ti pare Vittorio?».
«Oh oh oh, la mia Minni è diventata una filosofa… vieni qui, Christine, fra le mie braccia e diamo subito un tangibile contributo alla tua tesi… facciamo l’amore al cospetto di questo magico universo che ci guarda e lo pretende da noi». La strinsi a me con un insaziabile desiderio di soddisfare le mie voglie lussuriose.
Riprendemmo la navigazione puntando verso l’isola di Montecristo, bellissima e selvaggia. Sapevo di non poter soddisfare il desiderio di Christine che voleva visitarla, ammaliata dalla lettura giovanile del bel romanzo di Dumas e dalle leggende legate agli eremiti dell’antico monastero e dalle storie di pirati che la occuparono e la depredarono.
«Purtroppo occorrono permessi speciali per poterci sbarcare ed è difficile ottenerli», le spiegai.
«Ma il tesoro di Montecristo è esistito veramente?», mi chiese.
«L’unico tesoro che c’è stato in quell’isola, era quello di una grande quantità di monete, calici e ostensori d’oro custodito dai monaci dell’antica abbazia. Fu razziato dal pirata turco Dragut nel Cinquecento».
Nonostante le avessi spiegato che anche il mare che circonda l’isola è area protetta, Christine vi si volle immergere e quando tornò a bordo non fece che descrivermi, con commossa ammirazione, lo spettacolo dei fondali ricchi di anemoni, ricci, stelle di mare e coralli.
«Ho intenzione di farti conoscere bene l’Elba» le dissi «che è forse l’isola più interessante di questo arcipelago».
Christine durante la navigazione si stendeva, nuda, a prua dell’imbarcazione, per prendere il sole.
Una volta, girando dietro l’isolotto dell’Argentarola ci capitò di incrociare da vicino un peschereccio che tornava al Porto di Santo Stefano e che era sbucato improvvisamente dalla parte opposta.
Christine non fece in tempo a coprirsi o forse non tentò nemmeno e i marinai che stavano sistemando il pescato sulla tolda lanciarono urla di ammirazione.
La cosa mi infastidì parecchio ma, in seguito, questa reazione rara in me mi fece pensare che forse mi stavo innamorando anch’io di lei.
***
In direzione dell’isola d’Elba, girammo intorno a Pianosa. Anche in quell’isola, già sede di una colonia penale e molto diversa dalle altre dell’arcipelago, soprattutto per la sua natura totalmente pianeggiante, avendo come massima altitudine 27 metri, non fu possibile fermarci. Come per Montecristo è infatti necessario un permesso.
Raccontai a Christine, apionata di storia antica, che nel 1553 i sanguinari pirati Dragut e Kara Mustafà catturarono tutti gli abitanti e distrussero un castello eretto dai pisani.
L’isola rimase a lungo disabitata, fino a quando non fu deciso di impiantarvi una colonia penale.
Ma l’episodio storico più notevole, e forse anche il più abietto, fu il vile omicidio che vi fu consumato in epoca romana.
Livia Drusilla, terza moglie di Augusto, fece esiliare sull’isola il giovane Marco Giulio Agrippa, nipote dell’imperatore, per favorire nella successione al trono il proprio figlio Tiberio. Agrippa vi fece costruire un palazzo principesco e una villa sul mare con annessi uno stabilimento termale e un teatro.
ato qualche anno Augusto si rese conto della malvagia iniquità commessa nei riguardi di suo nipote e si recò a Pianosa. Narrano alcuni storici che, piangendo, lo strinse a sé. Ma non appena l’imperatore morì, Marco Giulio Agrippa fu fatto asse. Molto probabilmente per ordine di Livia e Tiberio.
***
Fu all’isola d’Elba che trascorremmo la maggior parte della nostra vacanza. Christine era sempre più estasiata di quei posti meravigliosi. Spiagge come Fetovaia, Cala Nuova o la costa di Capo Sant’Andrea, con i pini maestosi, i castagni gonfi dei loro frutti e la fitta macchia mediterranea, ci donavano la loro bellezza e il loro profumo.
Benché davvero stupendi, in quel periodo erano luoghi un po’ troppo frequentati. Noi cercavamo le calette isolate non raggiungibili da terra. E andavamo errando da un’insenatura all’altra, dormendo a volte sulla spiaggia, sempre più abbronzati e ubriachi di mare, di sole e di sesso. I corpi impregnati di salsedine rendevano più gustosi i baci che ci scambiavamo con lussuria a volte sfrenata.
«Sono davvero affascinata, Vittorio» mi disse una sera Christine, «da questa
natura spettacolare che ti dona tanta gioia di vivere. Penso che Ulisse, nel suo girovagare per il Mediterraneo, non sia mai ato da queste parti. Altrimenti a Itaca non sarebbe mai tornato!».
***
Durante la navigazione, più volte squillò il cellulare che avevo portato con me, ma non ero mai riuscito a poter rispondere. Dall’altro capo mi giungeva il silenzio e, a volte, il respiro di qualcuno. La cosa mi sembrava strana anche perché pochissime persone conoscevano il mio numero.
Ho un cattivo rapporto con il telefonino e quasi sempre lo tengo spento. Amo la mia privacy e non mi piace che venga in qualche modo turbata, specialmente per cose insignificanti.
Quei giorni avevo cambiato le mie abitudini perché Silvestri mi aveva assicurato che non appena avesse concluso positivamente la vendita del dipinto me lo avrebbe comunicato.
In cuor mio non vedevo l’ora che si chiudesse quella faccenda.
Mano a mano che arono i giorni, quelle chiamate si fecero più frequenti e sebbene non ne capissi il nesso, finii per collegare tali insistenti telefonate a vuoto con la questione del quadro e della morte del suo ex proprietario.
orse proprio per questo, uno degli ultimi giorni di quella vacanza feci un sogno
angosciante che mi lasciò a lungo turbato.
Ero insieme all’uomo che mi aveva proposto l’acquisto del quadro ed eravamo in una specie di boscaglia, inseguiti da un gruppo di spietati malviventi.
Lepiscopo portava la tavola sulle spalle a mo’ di zaino e mi precedeva nella fuga.
A un certo punto la boscaglia finiva e ci trovavamo davanti a una parete rocciosa, mentre gli inseguitori si facevano sempre più vicini.
Come in certi film western, ci arrampicavamo con enorme fatica, sempre braccati dai malfattori.
Arrivati finalmente sulla sommità, invece della salvezza, ci attendevano altri complici delle canaglie che prendevano a spararci.
I colpi venivano ormai dal davanti e dal didietro. Vedevo i proiettili che colpivano alla schiena Lepiscopo scheggiando in più punti il dipinto quattrocentesco, distruggendolo.
Il poveretto cadeva di spalle e, fissandomi con quello sguardo inquietante che avevo visto nell’incontro reale, cercava di dirmi qualcosa, ma dalla sua bocca non uscivano suoni per quanti sforzi fe. Mi svegliai con il volto imperlato di sudore.
***
«Qualcosa che non va?» mi chiese Christine.
«No» risposi «solo che purtroppo è ora di tornare».
Erano ati ormai parecchi giorni ed era arrivato il momento di riprendere la mia attività commerciale.
Un’ultima tappa anche per acquistare acqua e qualche vettovaglia la facemmo, nella strada del ritorno, all’isola del Giglio.
Ci fermammo, per insistenza di Christine, a fare l’ultimo bagno sulla spiaggia di Campese. Il mare era incredibilmente trasparente e la nostra imbarcazione sembrava adagiata su una lastra di cristallo.
Dopo una lunga nuotata, esausti, ci eravamo distesi sulla sabbia calda.
«Che silenzio, che pace», osservò Christine, «questi luoghi mi sembrano ideali per la meditazione, per una vita serena, contemplativa».
Mi venne da ridere.
«Ebbene, ti sbagli» risposi «sapessi invece quale teatro di scontri sanguinosi ci sono stati nel ato per il possesso di queste isole: Etruschi, Cartaginesi, Romani, Galli, e poi Spagnoli, Inglesi… tutti se le sono contese per decenni, ci furono anche aspre battaglie tra Pisani e Fiorentini, tra la Repubblica di Genova e la Francia, per non parlare poi delle devastazioni effettuate da pirati barbareschi e turchi. Pensa che qui, dove noi siamo tranquillamente distesi, nel 1544 sbarcò, con i suoi feroci pirati, il berbero Khayr al Din, detto il Barbarossa, comandante della flotta ottomana, il quale catturò gran parte degli abitanti – settecento isolani – facendoli schiavi».
«Ritiro quello che ho detto», rispose ridendo, «però mi piacerebbe molto la prospettiva di venire a viverci… con te!».
CAPITOLO 3
Se si può ammettere,
sia pure per un momento,
che esiste qualcosa di più importante
del sentimento umano, allora è possibile
commettere qualunque delitto
contro l’uomo senza sentirsi colpevoli.
Lev Nikolaevic Tolstoj, Resurrezione
La prima cosa che feci, una volta rientrato a Roma, fu quella di telefonare a Silvestri per avere notizie del dipinto.
«Non ti preoccupare, Vittorio», mi fece, «il quadro è già in Svizzera, nelle mani di un mio amico antiquario e presto verrà consegnato al collezionista di cui ti ho
parlato».
Il pomeriggio di quel lunedì tornai ad aprire insieme a Christine il negozio di via del Babuino. Alzai parzialmente la serranda e tolsi dalla porta a vetri il cartello che diceva: “Chiuso per inventario”.
Il caldo si faceva sentire sempre più in città e a quell’ora pochi anti si aggiravano per il centro, rasentando le case, alla ricerca di un filo d’ombra.
Non avevo neppure finito di alzare completamente la serranda che nel negozio entrò una giovane signora.
Alta, piuttosto attraente, una pelle leggermente olivastra, gli zigomi accentuati. Vestiva di scuro.
Mi incuriosì il fatto che avesse una vistosa fasciatura al braccio sinistro.
La osservai mentre si aggirava tra gli antichi comò intarsiati, i tavoli in marmo, i trumeau che occupavano gran parte degli spazi nelle due sale che componevano il mio esercizio. Mi pareva esitante e come preoccupata.
Feci un cenno a Christine perché andasse ad assisterla.
«Posso esserle di qualche aiuto?», chiese la ragazza.
«Sì. Vorrei parlare con il proprietario».
Avevo sentito la risposta e mi avvicinai con un sorriso di circostanza.
«Sono il titolare, mi dica pure».
La donna chiuse per un attimo gli occhi, trasse un sospiro profondo come per prepararsi a uno sforzo che le doveva sembrare enorme.
«Sono la moglie dell’uomo che è venuto qui qualche giorno fa a portarle una pittura del Quattrocento. Ho bisogno di riprendermi quell’opera». Lo disse d’un fiato come per togliersi un grosso peso dall’interno
«Oh, signora… ho letto sui giornali. Non immagina quanto sia rimasto addolorato da quel fatto terribile».
«Sì, lo capisco, ma le ripeto che ho necessità di riavere quella tavola».
Tremava e mi sembrò che stesse per svenire. Mi avvicinai a lei e le presi un braccio come per sorreggerla. Si tirò indietro nervosamente
«Si risparmi inutili pietismi e mi restituisca subito quella pittura».
«Mi dispiace» sussurrai «non è possibile».
Non riuscii a finire la frase. La donna trasse dalla sua borsetta una piccola pistola e me la puntò contro con mano tremante.
Christine, impaurita, si era rifugiata dietro un grande cassettone con preziosi intarsi d’avorio del Maggiolini e da lì spiava la scena con stupefatta apprensione.
«Non mi faccia perdere tempo», gridò istericamente la donna.
Poi, d’improvviso, lasciò cadere l’arma e scoppiò in un pianto dirotto.
Ero sbigottito dall’accaduto e non sapevo come comportarmi in quella situazione. Le avvicinai una sedia per farla accomodare.
«Sono desolato, mi creda», riuscii a dire, «al momento la tavola non è qui, è lontano, ma gliela farò riavere». Pregai Christine di portarle un bicchiere d’acqua e intanto raccolsi il piccolo revolver con l’impugnatura
intarsiata di madreperla.
La signora stava singhiozzando e il rimmel, sciolto dalle lacrime, le stava rigando il viso. Un bel viso dai lineamenti regolari.
«Si calmi, signora, le garantisco che la riavrà presto… mi creda, sono un galantuomo».
«Oh sì, la prego», disse piangendo, «non pretendo di averla per me, ma gli uomini che hanno assassinato mio marito… loro la vogliono, e se non l’avranno mi uccideranno. Sono killer spietati».
Christine le aveva portato un bicchiere d’acqua e la donna prese a sorseggiarlo.
Allungai una mano a sfiorarle il viso, per calmarla.
«Stia tranquilla, tutto potrà sistemarsi».
Quella scena, che da drammatica si era trasformata in patetica, ebbe d’improvviso una nuova svolta.
***
Senza che neppure me ne accorgessi, erano entrati nel negozio due brutti ceffi e si erano avvicinati a noi con fare arrogante e minaccioso.
Due loschi figuri. Uno alto e allampanato, con il naso adunco e i capelli lunghi, con il codino dietro la nuca. L’altro, basso e tarchiato, con delle spalle enormi, i
capelli molto corti e le orecchie a sventola. Quello che più colpiva in lui era l’aspetto veramente animalesco. Da ex pugile, suonato. Il naso schiacciato e le numerose cicatrici sulle palpebre, sugli zigomi e intorno agli occhi ne confermavano quella prima impressione.
Mi resi conto della gravità della situazione dal fatto che la vedova di Lepiscopo vedendo i due si era fatta pallidissima.
«Dov’è il quadro? Che cazzo succede qui?» urlò quello più alto dei due, con accento siculo, mettendo il suo viso a un palmo dal mio.
Provai un senso di repulsione al solo percepire il suo alito da avvinazzato.
«Il quadro non è qui» balbettò la signora tremando
«ma lo restituiranno».
«Chiacchiere!», fece uno dei due killer, «quest’uomo è un gran figlio di puttana».
«Un porco bastardo», aggiunse l’altro «se non ce lo ridà gliela faremo pagare cara».
Christine, che si era di nuovo fatta scudo con il cassettone, fece un ingenuo tentativo di impaurire i due gaglioffi.
«Devo chiamare la polizia, Vittorio?». Non riuscì a completare la frase.
Il più basso dei due mafiosi le si avvicinò, furente, e le affibbiò un fortissimo manrovescio: «Stai zitta troietta o ti rompiamo quel tuo culetto merdoso».
Christine scoppiò in un pianto convulso.
A quel punto, la rabbia che avevo in corpo mi fece scattare. Lo colpii con un pugno sulla destra del viso, con tutta la forza che avevo.
Scivolò di fianco, cadendo pesantemente e nell’appoggiarsi a un tavolo fece andare in mille pezzi un prezioso vaso cinese.
L’altro uomo, che nel frattempo era andato ad abbassare la serranda dell’ingresso, si avvicinò alle mie spalle e mi sferrò un colpo di karate tra il collo e la clavicola. Provai un dolore lancinante e feci appena in tempo a girarmi che, con un ginocchio, mi inflisse una micidiale
botta allo stomaco.
Rimasi piegato in due, senza fiato, e fu allora che entrambi i delinquenti si accanirono su di me, con sadico furore, con calci e pugni.
Cercai di reagire ma non avevo nessuna forza. Caddi pesantemente in terra. Ero stordito e sanguinavo dalla bocca e dal naso.
«Senti bene, bastardo figlio di puttana», urlò uno dei due, «se non ci farai avere il quadro entro una settimana, ti faremo pentire di essere nato! E ti costringeremo a vivere il resto dei tuoi giorni su una sedia a rotelle».
«E guardati bene dall’avvisare la polizia» aggiunse l’altro «torniamo qui e ti distruggiamo anche tutto questo cazzo di merda che hai qui!».
Uscendo mi fecero cadere in terra – riducendoli in mille pezzi – un cavallo in terracotta della dinastia Tang e due preziose statuine neoclassiche in lacca bianca e oro zecchino per le quali mi avevano pagato in anticipo.
Ricordo che cercai di aprire la bocca per gridare ma non ne usciva alcun suono. Avevo un occhio semichiuso e un filo di sangue mi colava dal naso. Avvertivo tra le labbra il suo sapore dolciastro.
Tentai di alzarmi ma sentii le gambe cedermi e la vista annebbiarsi.
L’ultima cosa che fui in grado di percepire, prima di afflosciarmi per terra, fu il pianto di Christine che, con voce rotta dai singhiozzi, ripeteva: «Carogne… carogne…».
I primi ricordi, piuttosto confusi, che seguirono quell’avvenimento furono quelli di una delle due donne, Christine o la vedova, che sorreggendomi a fatica mi
riportava a casa e mi faceva sdraiare nel mio letto.
Poi di nuovo buio assoluto.
***
Un suono insistente, che mi sembrava venisse da abissi lontani, mi risvegliò finalmente da un torpore profondo. Cercai d’istinto l’interruttore della luce perché la stanza mi pareva immersa nel buio più completo.
Quando riuscii a trovarlo e ad accendere il lume posto sul comodino da notte, mi resi conto che potevo soltanto vedere una sottile, confusa striscia del soffitto.
Avevo gli occhi gonfi e quasi del tutto chiusi. La testa mi ronzava e avevo la sensazione che una corona di spine mi cingesse il capo.
Con grande difficoltà riuscii a dare un’occhiata alla piccola sveglia appoggiata su un mucchio di libri. Le sette del mattino. Alzai la cornetta del telefono che aveva continuato a squillare.
«Pronto? Qui è Gaudio».
«Ascolta bene, bastardo», la voce dall’altro capo del filo rimbombava nel mio orecchio come un susseguirsi di colpi di maglio, «vogliamo ricordarti che hai ancora sei giorni di tempo per restituirci quel cazzo di quadro. Altrimenti quello
che hai avuto ieri sera, in confronto, potrai considerarlo un innocente scherzetto di Carnevale».
«Il quadro è in Svizzera, ve l’ho già detto… ve lo riporterò…».
«In Svizzera, dove? A Zurigo? Ci sono andato una volta per scovare un tizio che aveva fatto il furbo con il capo e si era andato a nascondere lì. Credo che ancora
stiano cercando di ricostruirgli i connotati». Si udì il
click dell’apparecchio riagganciato.
Tornai a poggiare sui cuscini la testa che sembrava voler esplodere e richiusi gli occhi.
Di colpo mi venne in mente la scena terrificante del giorno prima. L’irruzione nel negozio di quei due ceffi, la violenza bestiale sulle due donne, l’aggressione feroce nei miei confronti.
C’era sempre un pacchetto di sigarette accanto al telefono. Ne presi una e me la misi tra le labbra gonfie. Senza guardare cercai a tastoni l’accendino che, tra le tante cose, avevo abitualmente nel cassetto del comodino. Faticavo a trovarlo. Vidi lampeggiare il fuoco di un fiammifero e una mano che avvicinava la fiamma alla mia sigaretta.
«Ti senti meglio?».
Il tono sommesso, affettuoso di quella voce – la voce di Marina Stern – riuscì a darmi un po’ di sollievo.
***
Non mi aspettavo una la presenza lì: quella donna avrebbe potuto odiarmi per quanto era successo il giorno prima.
Ma era ato un solo giorno dal momento di quell’accadimento drammatico, da quel pestaggio, da quello spaventoso onore, oppure era trascorsa una settimana, un anno, un’eternità?
Mi alzai su un gomito, aspirai a lungo il fumo dalla sigaretta rimanendo assorto per qualche attimo, con gli occhi chiusi, come per richiamare in me ogni possibile energia e lucidità. Poi tornai a poggiare il capo sul cuscino.
«Grazie» le dissi, e con la mano presi a cercare quella di lei. Poi, quando con il suo aiuto l’ebbi trovata, gliela strinsi con affetto e riconoscenza.
***
Adesso ricordavo, seppur in modo sbiadito – come una cosa accaduta ad altri o vista in un vecchio film – di come Marina mi avesse aiutato a riprendermi dopo
la perdita dei sensi, di come avesse cercato di tranquillizzare Christine, la quale però aveva raccolto in fretta le sue cose dallo stanzino del retrobottega e se n’era andata ancora terrorizzata, piangendo e dicendo che poi mi avrebbe scritto, di come Marina mi avesse aiutato a chiudere il negozio e poi, sottobraccio, mi avesse riportato a casa.
Ricordavo con particolare penosa sofferenza lo sforzo tremendo sostenuto nel salire le scale di casa, con il corpo bagnato da un sudore freddo, sorretto da Marina Stern da un lato e aiutandomi con il corrimano dall’altro. Mi sembrava allora di dovermi inoltrare, sopportando una fatica immane, in un buio tunnel erto e scosceso, avendo le gambe di piombo e sul punto di cedere a ogni o.
Arrivato nell’appartamento, dopo che Marina mi aveva aiutato a coricarmi, ero caduto in un sonno profondo.
«Ti preparo un caffè?», mi stava chiedendo ora.
«Grazie, ne ho proprio un gran bisogno».
Una volta uscita dalla stanza, mi alzai, sforzandomi, e andai a guardarmi nella specchiera posta sopra la commode che era a fianco del letto.
«Be’, non posso certo dire di avere una buona cera» commentai con una certa pena.
***
Dopo pochi minuti Marina tornò con una tazzina di caffè fumante. Il solo suo profumo mi aiutò a chiarire meglio la situazione. Marina Stern si era seduta sul bordo del letto e mi fissò a lungo.
«Mi dispiace per tutto quello che è successo», disse,
«ti hanno conciato male, ma hai fatto presto a riprenderti. Temevo peggio per te, per questo stanotte ho dormito nella stanza qui accanto. La ragazza svedese mi aveva detto che eri solo. Ci unisce una brutta faccenda… Sono certa che sei una brava persona, ma ora bisogna che questo quadro esca fuori e venga restituito a quei delinquenti. Sono individui spietati e hanno avuto ordine perentorio di riportare il dipinto a Messina».
A fatica le raccontai tutto quello che era accaduto e detti la mia assicurazione che tutto si sarebbe sistemato.
«Mi piacerebbe sapere da te una cosa», le chiesi, «come mai tutto questo interesse per il quadro da parte di quella gente? E tu cosa c’entri in tutto questo?».
«È una storia lunga… se hai pazienza te la racconto».
«Non ho, cose migliori da fare, al momento…», risposi.
«Va bene, se la cosa ti annoia puoi interrompermi. Dunque, devo cominciare da
lontano. Quando avevo diciassette anni…».
***
«Quando avevo diciassette anni i miei vollero combinarmi un matrimonio con Vito Costello, un ’patriranni, un capofamiglia tra i più facoltosi a Messina. Si diceva che fosse l’anello di collegamento con i potenti boss della mafia americana. Di fatto viaggiava spesso negli Stati Uniti.
Lì in Sicilia nessuno credeva allora che lo Stato, o chiunque altro, al di fuori della mafia, fosse in grado di controllare bene la giustizia e amministrare il potere. Essere in amicizia – o addirittura imparentati – con un boss era ritenuto un grande privilegio. Vito veniva anche considerato un generoso benefattore.
In quel periodo avevo vinto un concorso di bellezza a Palermo e alcuni quotidiani locali avevano pubblicato degli articoli sull’avvenimento.
Costello, che aveva una ventina d’anni più di me, volle conoscermi e poi propose ai miei di sposarmi.
La mia famiglia era povera e avevamo fatto fino allora tanti sacrifici per tirare avanti.
Mio padre e mia madre si erano mostrati molto onorati per quella proposta e fecero delle pressioni per convincermi ad accettarla. Finii per acconsentire a unirmi a quell’uomo anche perché vedevo nel matrimonio uno spiraglio per
poter cambiare finalmente il tenore di vita mio e dei miei.
Durante il breve periodo di fidanzamento ufficiale ci colmò infatti di attenzioni e di regali, ma appena due settimane dopo il matrimonio – celebrato in gran pompa nella cattedrale di Messina con la presenza di tanti notabili e politici siciliani – fu ucciso a Chicago. Quattro colpi di pistola da un’auto in corsa. Solo allora cominciai a rendermi conto con grande preoccupazione di quanto fossero pericolosi e spietati i tentacoli della mafia.
Ero molto religiosa e provai forti sensi di colpa. Pensavo di essere stata punita per aver cercato con il matrimonio un benessere materiale, anziché il valore dei buoni sentimenti.
Dopo qualche anno conobbi l’avvocato Lepiscopo, un ragazzo povero ma che, pur in quell’ambiente corrotto e impietoso, aveva un cuore e una sua dignità. Gli rimasi accanto soprattutto nei momenti difficili.
Quando anche lui si rese conto che quell’organizzazione feroce e disumana voleva colpirlo, mi chiese di accompagnarlo nella sua disperata fuga a Roma. Il resto lo sai…».
«Sì, ma perché mai la mafia voleva ucciderlo?».
***
«L’ordine di far morire Vincenzo è partito sicuramente da un carcere
palermitano. La sua colpa è stata quella di aver presentato un teste – in un processo per traffico internazionale di opere d’arte collegato con la droga
– grazie al quale aveva fatto scagionare un noto boss catanese. Ma, in appello, quello stesso teste, pentitosi, aveva ritrattato la sua testimonianza, facendo condannare il mammasantissima a una lunga pena».
«Traffico di opere d’arte, hai detto? Che tipo di traffico?».
«I quadri antichi o i reperti archeologici sono una merce molto pregiata che viene spesso utilizzata per pagare grosse partite di stupefacenti. E anche per riciclare denaro sporco che proviene dal narcotraffico o dai sequestri.
Avere opere d’arte è comunque per i mafiosi un segno di potere. Ha scritto un cronista che “quando i cancelli delle loro ville si aprono al aggio di Polizia, Carabinieri o Guardia di Finanza, è come se si schiudessero le porte del Louvre”.
E poi un’opera d’arte può sempre servire a qualcosa. A pagare un favore, ad esempio. Il quadro che ora ostinatamente rivogliono, fu regalato a Vincenzo che lo aveva molto ammirato visitando la villa del boss, subito dopo l’assoluzione, sancita con la prima sentenza, da quella accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga e opere d’arte».
Ucciderlo e recuperare il quadro doveva essere un punto d’onore e un monito per tutti i legali, dopo la sentenza di condanna.
«Ma chi è questo infame boss?» chiesi.
«Inutile che ti dica il suo nome. A Palermo è sulla bocca di tutti».
***
Quel pomeriggio andai a trovare il Sòla insieme a Marina Stern e gli raccontai l’accaduto.
«Dio mio, Vittorio, come ti hanno ridotto!», mi disse:
«Mi dispiace, mi dispiace davvero».
«Adesso abbiamo assoluto bisogno di recuperare quell’opera pittorica» gli feci. «Non ci interessa più che possa valere o no qualcosa. Ne va della nostra vita, capisci?».
Mi parve molto preoccupato ed esitante.
«Capisco, capisco… tutto quello che posso fare in questo momento è darvi l’indirizzo del mio intermediario svizzero. Lo chiamerò per telefono per avvisarlo del vostro arrivo a Ginevra. Quando pensi di viaggiare?».
«Domani stesso. Prenderò il primo volo possibile».
Silvestri prese un cartoncino che pubblicizzava il suo lavoro professionale, ci scrisse poche parole di presentazione e l’indirizzo del mediatore svizzero.
«Ecco qui», disse, «Karl Rosenzwaig è un amico, e anche una persona corretta, non ci saranno problemi, vedrai».
«Secondo te, Marcello», gli dissi avviandomi verso l’uscita, «perché tanta urgenza, tanta furia da parte di quei criminali nel riavere quel quadro?».
«Valli a capire quei delinquenti», fece, «la furia brutale e feroce di quei mafiosi, al di là del loro abituale modus operandi, forse si deve anche al fatto che ultimamente c’è una forte richiesta, da parte dei collezionisti, di opere d’arte antiche.
Gli acquirenti sono i nuovi ricchi, specialmente miliardari russi e cinesi, che magari capiscono ben poco della nostra storia dell’arte. Si tratta di una fascia alta di mercato nella quale antiquari e speculatori di ogni risma, assetati dei lauti guadagni che si possono ricavare, non si fanno nessuno scrupolo, e ricorrono a qualunque scorrettezza. Ormai non si compra più o meglio si compra sempre meno nelle grandi aste internazionali, sia per evitare il fisco che per sfuggire a ogni possibile investigazione… E per garantirsi il valore delle proprie ricchezze, accumulate più o meno legalmente, si compra anche a occhi chiusi. Questi mercati, che un tempo si concentravano nell’area del Nord America, ora si sono trasferiti in Svizzera e in Inghilterra; il mercato italiano è purtroppo chiuso da un pezzo e comunque marginalizzato. Per questo io mi rivolgo ad amici che operano in Svizzera e che hanno canali capaci di assorbire le opere di valore. Comunque l’atteggiamento di questi nuovi ricchi verso l’oggetto artistico è condizionato da elementi che hanno poco a che vedere con la vera bellezza
estetica, con la grande professionalità dell’autore e anche – per loro sfortuna – con l’autenticità dell’opera».
Il Sòla, secondo la sua abitudine, era come un fiume in piena quando si trattava di parlare di argomenti che lo apionavano. Mi congedai da lui dicendo che dovevamo sistemare diverse cose prima del viaggio dell’indomani
***
Quella sera ordinai la cena per telefono a un vicino ristorante. Non avevo intenzione di andare in giro conciato in quel modo però volevo, almeno quella sera, dimostrare in qualche modo la mia riconoscenza a Marina Stern, con un pasto degno di… cher Maxim.
In realtà non rammento neppure quello che mangiammo in quell’occasione, però ricordo bene di una bottiglia di Don Perignon che servì a tenerci su il morale.
Durante quella cena ebbi modo di guardare attentamente Marina come, per ovvi motivi, non l’avevo fatto in precedenza. Mi parve come fosse la prima volta. Era una bellissima donna bruna, dagli occhi grandi e blu, un fisico molto ben modellato, uno sguardo intenso e sensuale.
Lo champagne ci aveva messo in corpo una certa allegria e anche una voglia di scaricare in qualche modo la tensione di quei giorni. Finimmo a letto e ci abbandonammo a paradisiaci amplessi.
Il giorno dopo ci alzammo molto presto per prendere a Fiumicino il primo aereo per Ginevra.
Durante il tragitto verso l’aeroporto mi meravigliò il fatto di vedere Marina silenziosa e come turbata.
«Qualcosa non va?», le chiesi.
«Dopo quello che è accaduto tra noi questa notte, non sono riuscita più a chiudere occhio» rispose, «Forse sarai sorpreso dalla facilità con la quale ho ceduto al tuo abbraccio affettuoso e alla tentazione di un rapporto sessuale. Devi sapere che da oltre due anni il mio legame con Vincenzo era basato soltanto su un affetto platonico. Da quando il processo di cui ti ho parlato aveva cominciato a prendere una piega preoccupante, lui era diventato un altro, sempre silenzioso, incupito, spesso soggetto a crisi depressive. Era ossessionato dai risvolti di una possibile sentenza contraria, credo fosse in uno stato di grande, pericolosa prostrazione. Avevo insistito perché si rivolgesse a uno psicoterapeuta ma lui respinse l’idea con rabbia. Gli ero accanto perché gli volevo bene come a un fratello sofferente e bisognoso d’aiuto, ma è stata dura anche per me. Sono stata la sua donna per diversi anni ma non ci siamo uniti in matrimonio. Lo avremmo fatto se ci fosse nato un figlio».
«Non ti preoccupare, Marina, non m’importa quello che c’è stato tra te e quel pover’uomo. Io avevo in mente soltanto quello avevi fatto per me, e poi avevo bisogno di un po’ di conforto, desideravo».
Avevo lasciato la macchina al parcheggio delle soste brevi convinto di fare ritorno in serata. Avevo addirittura suggerito a Marina di portare con sé soltanto i documenti. Ma mi ero sbagliato.
CAPITOLO 4
Strinsi la sua mano tremante alla mia,
che era ben ferma, e gli ordinai che continuasse
a guardare la cerimonia della sua morte…
Non cercò neppure di alzare gli occhi
quando la spada si abbatté sulla sua testa colpevole.
Gemette con una voce che non riuscì
a destarmi comione e rotolò al suolo, morto.
«La gloria sia con Colui che è immortale
e ha nelle sue mani le chiavi
dell’illuminato Perdono e dell’infinito Castigo».
Jorge Luis Borges, Historia universal de la Infamia
L’aeroporto di Ginevra è a pochi chilometri di distanza dal centro della città. Da un taxi ci facemmo portare nella rue de Chantepoulet. Al numero indicatoci da Silvestri trovammo la serranda del negozio ancora chiusa. La cosa ci mise un po’ in allarme.
Domandammo notizie a un bottegaio lì accanto e ci tranquillizzò l’informazione che i proprietari non avevano un orario preciso ma che più tardi avrebbero sicuramente aperto.
In attesa di far are il tempo, con Marina attraversammo il lungo ponte du Mont Blanc, eggiammo
nella elegante Promenade du Lac, adornata di piante e fiori, e ci fermammo a fare colazione in riva al lago.
Mi ricordai solo allora di qualcosa che volevo chiederle fin dalla partenza da Roma e che poi mi era ata di mente.
«Quando al parcheggio di Fiumicino hai tirato fuori dalla tua borsetta i documenti da portare con te, ho intravisto la pistola dal calcio di madreperla che mi avevi puntato contro il giorno che venisti al mio negozio per reclamare la restituzione del quadro… Come mai vai in giro con un revolver?».
«Si tratta di una piccola arma di difesa che aveva con sé Vincenzo. Quando lo hanno ucciso, consapevole di correre anch’io dei rischi, l’ho presa con me, e prima che venissi da te in via del Babuino, avevo ricevuto molte chiamate sul mio cellulare da parte di quei due assassini. Mi assicurarono che mi avrebbero uccisa, come avevano fatto con il mio compagno, se non fossi riuscita a recuperare il dipinto».
«A proposito» aggiunse «quella pistola è rimasta, insieme alla mia borsa, nella tua macchina. Spero di non crearti problemi».
«Quali problemi?» dissi «l’auto è chiusa e la borsetta è nel portabagagli, stasera te la riprendi. E una volta consegnato il quadro, ti consiglierei di disfarti di quell’arma».
«Sì, farò come dici, ma per il momento mi fa sentire più sicura…».
Quando mi parve ora di tornare indietro e fare un nuovo tentativo al negozio dell’antiquario, attraversammo il lago sul ponte des Bergues. Volevo far vedere a Marina più da vicino i superbi cigni e le simpatiche anatre che indisturbate vivono lì da sempre. Queste ultime scivolavano silenziose sulle acque seguite da un codazzo di teneri anatroccoli. Due vecchine davano loro da mangiare.
«La versione svizzera delle nostre gattare» commentai.
«Che tenerezza vedere queste mamme papere che vegliano su quegli indifesi esseri che le seguono ovunque. Un istinto materno di protezione» disse Marina
«un sentimento tipicamente femminile… Pensaci. Vittorio, hai mai visto un “gattaro”?».
«Sì, hai ragione» risposi «ma non credere che noi uomini pensiamo a questi deliziosi, piccoli animali solo in versione culinaria di anatre all’arancia».
Il tempo era splendido, Ginevra elegante e piena di fiori, il getto d’acqua al centro del lago – il famoso jetd’Eau – ci metteva allegria: avremmo ritirato il quadro e saremmo ripartiti.
Così pensavamo, ma la conclusione della vicenda era ancora molto lontana.
***
Quando arrivammo alla rue de Chantepoulet un robusto signore dai capelli rossi stava sollevando la serranda del negozio.
«Il signor Rosenzwaig?», chiesi avvicinandomi.
«No, non sono io, il signor Karl sarà qui a minuti». Aveva finito di aprire il negozio.
«Accomodatevi pure, in che posso aiutarvi?».
«Veniamo da parte del professor Silvestri di Roma, dovremmo ritirare un dipinto del Quattrocento…», gli dissi.
«Per questo dovrete parlare con il signor Karl. Per quanto mi risulta non credo che ci sia qui alcun quadro del Quattrocento».
Eravamo entrati nel locale.
All’interno c’era un forte odore di chiuso, di muffa. Molti mobili, apparentemente d’epoca, accatastati in disordine.
Alle pareti una gran quantità di brutti paesaggi e un antico orologio ad acqua. Sulla moquette bruciature di sigarette. Un paio di lampade fluorescenti davano all’ambiente una luce fredda e irreale.
«L’unico dipinto molto antico che avevamo» riprese l’uomo «lo abbiamo spedito a Londra, proprio ieri, a Mister Chan Lao Yang, un collezionista nostro cliente».
«Non so se si tratta dello stesso quadro a cui siete interessati», proseguì mentre era impegnato a riare un piumino da spolvero sui mobili più vicini all’ingresso
«ma se è così, vi consiglierei di stare alla larga da quel cinese».
«In che senso?» chiesi. Eluse la domanda.
«Ecco che arriva il signor Karl… chiedete a lui».
Una macchina di grossa cilindrata si era fermata davanti al negozio e ne era sceso un ometto dall’aspetto untuoso, vestito di nero, con una piccola testa sulla cui calvizie un ridicolo riporto di capelli tentava invano di rendere meno vistosa.
«Reinhard», disse consegnando le chiavi dell’auto all’uomo dai capelli rossi, «vammi a trovare un parcheggio possibile prima che mi facciano una multa».
Poi, con un fare molto servile, Rosenzwaig si rivolse a noi: «C’è qualcosa nel mio negozio che possa interessarvi?» domandò.
Quando gli ripetei quello che avevo già detto al suo commesso, il sorriso con il quale ci aveva accolto si spense di colpo sul suo viso. Gli spiegai che dovevo recuperare quel dipinto a qualsiasi costo.
«Monsieur Silvestri» disse «mi ha proposto quell’opera che ho comprato per conto di un collezionista che vive a Londra. Sarà molto difficile che quella persona possa privarsene, anche restituendogli qualcosa in più della cifra pagata…».
«Non si preoccupi di questo aspetto», dissi, «la prego, mi dia il recapito di questa persona».
«Come vuole», fece Rosenzwaig, «non ho difficoltà a darle l’indirizzo di Chan Lao Yang, gli abbiamo spedito ieri il plico. Se foste venuti con un giorno di anticipo… Non credo proprio che quel cinese voglia rinunciare a quel prezioso dipinto. Si tratta di una rarissima opera del grande Antonello da Messina eseguita quando era appena un ragazzo, una scoperta che farà sensazione.
Ne è convinto il mio amico Silvestri, del periodo giovanile di Antonello non esiste alcun dipinto, è un mistero che apiona tutti i critici, e intorno a questa scoperta si scatenerà un’accesa disputa tra i maggiori critici d’arte. Vedrà, vedrà…».
«Egregio signor Rosenzwaig», gli dissi, «le basti sapere che intorno a quest’opera si è già scatenata una contesa di ben maggiore gravità».
«Una contesa di che genere?» chiese.
«Glielo farò sapere» dissi per chiudere l’argomento con lui «intanto mi dia l’indirizzo di quel tale mister Chang…».
Scosse la testa, perplesso da quella risposta mentre prese a segnare su un foglietto il domicilio del cinese.
«Chang è uno strano individuo» mi disse nel consegnarmi il foglio «ha un carattere un po’ difficile e va in collera molto facilmente, ma nel fondo credo sia una brava persona, spero che troviate un’intesa. Comunque, buon viaggio».
Eravamo sulla porta del negozio. Mi dette la mano e rientrò. Presi sottobraccio Marina e ci avviammo verso un posteggio di taxi.
«Questa volta non sono più ottimista come alla partenza da Roma», le dissi, «qualcosa mi dice che la faccenda si va complicando sempre più».
***
Alle sei del pomeriggio il nostro aereo atterrava all’aeroporto di Heathrow. Londra ci accolse con un tempo grigio e piovoso. Contrariamente al solito faceva anche parecchio caldo e, come a volte accade quando il tasso di umidità raggiunge livelli molto alti, una nebbia densa avvolgeva la città in un abbraccio lattiginoso.
Persone e mezzi di trasporto uscivano improvvisamente dai vapori di tale caligine per sparire dopo pochi metri, inghiottiti da quegli effluvi baluginanti.
Facendosi strada a fatica in quelle difficili condizioni di traffico, il taxi che avevamo preso all’aeroporto ci lasciò dopo parecchio tempo in Kensington Road. Forse a causa del lago immerso nel verde di Regent’s Park, la nebbia era in quel posto ancor più fitta che altrove.
Una moto di grossa cilindrata, accostata al marciapiedi, era posteggiata davanti alla casa dell’antiquario cinese. Prima che fimo in tempo a suonare il camlo d’ingresso, il portoncino si aprì d’improvviso e un uomo dalle caratteristiche orientali venne fuori correndo e sparando al contempo dei colpi di pistola verso l’uscio rimasto aperto. Udimmo un rumore di vetri andati in frantumi e alcune schegge arrivarono fino ai nostri piedi. Poi lo schianto della
porta richiusa con rabbia.
Restammo trasecolati e io percepii chiaramente un brivido corrermi lungo la schiena.
L’uomo con la pistola era montato rapidamente sulla moto ed era partito sgommando, perdendosi nel nebbione. Come accoglienza non era male davvero!
Lasciammo are qualche minuto prima di deciderci a suonare. Da uno spioncino qualcuno, dopo averci scrutato a lungo, chiese cosa volevamo.
«Veniamo da parte di Karl Rosenzwaig» dissi.
Seguì un lungo silenzio, poi la porta d’ingresso si aprì e qualcuno, facendoci un inchino nella penombra, ci invitò a entrare. Dei frammenti di vetro scricchiolarono sotto i nostri piedi.
«Scusate questo inconveniente», disse la persona che ci aveva aperto «abbiamo avuto un piccolo problema e non abbiamo potuto ancora eliminare i detriti di alcune cose andate in frantumi».
L’uomo ci fece accomodare in una grande sala le cui pareti erano tappezzate di antiche pitture su tavola e deliziosi polittici, e ci anticipò che il signor Chang ci avrebbe raggiunto nel giro di qualche minuto.
Nell’attesa mi avvicinai alle opere esposte che mi sembravano tutte di eccellente fattura. Infatti le etichette in ottone applicate alle cornici ne attribuivano la paternità a Bruegel, Bosch, Van Eyck e perfino Duccio di Buoninsegna e Simone Martini.
Nella casa regnava un ovattato silenzio e da qualche parte dovevano bruciare parecchi incensi perché forti effluvi aromatizzavano eccessivamente l’ambiente nel quale eravamo.
«È il profumo dell’Oriente» commentò Marina.
Non feci in tempo a replicare alla sua osservazione che mister Chang fece il suo ingresso nel salone. Era un cinese sui cinquant’anni, piuttosto alto per la sua razza, vestito elegantemente, i capelli corvini raccolti in un copioso codino dietro la nuca. Il suo volto incorniciava un sorriso piuttosto gelido e aveva tra le labbra un corto sigarillo.
«La mia casa è molto onorata dalla vostra presenta» disse con un cerimonioso inchino «ho sentito che venite da parte del mio amico Karl».
«Sì, in realtà veniamo da Roma. Siamo ati da mister Rosenzwaig sperando di poter ritirare una tavola di Antonello da Messina che, abbiamo saputo, è stata invece acquistata da lei…».
La sua espressione sorridente mutò di colpo. Si fece dura, cattiva. Gettò in terra con stizza quello che restava del cigarillo e poi lo spense con il piede, con un movimento rabbioso, come per schiacciare uno scarafaggio.
«Di che cosa cianciate?» disse con collera «di quale opera di Antonello da Messina parlate? Mi verrebbe da ridere», sogghignò, «dovrei forse denunciare anche voi e mandarvi in galera insieme alla persona che, ingannandomi, ha cercato di vendermelo. Lo rivolete? Benissimo, datemi le duemila sterline che proprio ieri ho pagato di anticipo. La cosa non vi interessa, vero? Sarà Rosenzwaig che me le dovrà ridare, e con gli interessi, ve lo assicuro! Vedo che siete stupiti… aspettate un momento».
Andò verso un grande armadio e tornò con il dipinto che avevo acquistato dall’avvocato Lepiscopo e poi consegnato a Silvestri.
«Questa pittura è un falso, come è falsa l’autenticazione che lo accompagnava» disse con una rabbia che andava crescendo «Ve lo garantisco, si tratta di una volgare copia, una crosta!».
«Ma… non è possibile» replicai con un certo imbarazzo «c’è nel retro anche un timbro di Sotheby’s…».
Chang capovolse il quadro.
«Dove sarebbe questo timbro? Qui non c’è nulla eccetto una serie di forellini, fatti artificialmente, forse con una lupara, per farli sembrare tarli».
Esaminai con cura il legno: effettivamente non c’era traccia di quel timbro che pure avevo visto.
«È falsa vi dico», riprese a dire il cinese, «magari degna della galleria dei falsi che c’è qui a Londra al Victoria and Albert Museum… fatta con una certa abilità, devo ammetterlo, ma pur sempre un’opera falsificata».
«Vedo che siete perplessi» proseguì «che non vi pare possibile… ebbene, proprio stamani l’ho fatta esaminare anche ai raggi infrarossi, non ci sono dubbi: è un falso, ve lo assicuro, e forse anche voi siete stati ingannati».
Solo allora, soltanto in quel momento, cominciò a farsi strada in me il sospetto che il Sòla avesse effettuato una copia dell’opera originale e l’avesse ceduta al suo tramite di Ginevra.
Che gran figlio di puttana!
Marina e io eravamo avviliti e furenti.
Dovevamo tornare a Roma, fargli sputare la verità e recuperare a ogni costo la tavola originale. Stavamo rischiando la vita per colpa di quella canaglia!
***
Chang si rese conto del nostro imbarazzo e della nostra buona fede. Gli spiegammo che eravamo stato ingannati anche noi e che per questo correvamo dei rischi molto seri. Sembrò convinto, e nel congedarsi da noi ci pregò di informarlo del risultato di quanto saremmo riusciti a fare al nostro ritorno in
Italia per recuperare l’originale.
Era notte ormai. Eravamo stanchi e sgomenti. Decidemmo di rimanere per quella notte a Londra e ripartire per Roma il giorno dopo.
Un taxi ci portò a Piccadilly. Avevo optato per l’hotel Ritz dove avevo alloggiato in precedenza.
Volevo almeno parzialmente bilanciare i momenti frenetici della giornata offrendo a Marina l’ambiente tranquillo e romantico di quell’albergo, la sua eleganza sofisticata.
Ci fermammo a cena nel salone del ristorante dalle cui pareti, con decorazioni in oro, occhieggiavano avvenenti sirene. La musica di un piano accompagnò la nostra cena. Che fu a lungo silenziosa. Avevamo esaurito tutti i temi della nostra rabbia. Poi, solo al momento di salire nella stanza assegnataci, ci rendemmo conto che eravamo senza la biancheria da letto.
Quando stavo finendo di spogliarmi, Marina tornò in camera, dopo aver fatto la doccia. Indossava per la notte solo gli slip. Si avvicinò per darmi un bacio e io
con la mano le sfiorai il viso. La sentii fremere sotto la mia carezza. Allora mi inginocchiai, le abbassai le mutandine e poi le baciai a lungo il seno.
La notte la ammo abbracciati, facendo più volte l’amore.
***
Al mattino seguente, tornammo all’aeroporto di Heathrow. Il tempo era cambiato e alla nebbia fitta e molesta del giorno precedente era seguita una giornata soleggiata e un cielo limpido.
Ci fermammo per la colazione in uno dei tanti locali dell’aerostazione. Ordinai per me soltanto un caffè e dissi a Marina di prendersela comoda e di attendermi lì. Dovevo fare i biglietti per il ritorno a Roma e volevo farli per la prima partenza possibile. Era il periodo dei grandi spostamenti per le vacanze estive e riucii a trovare due posti solo sull’aereo delle 18:20.
Quando tornai al bar dove avevo lasciato Marina la trovai sconvolta.
«Cosa è successo?» le chiesi allarmato.
«Nulla, nulla» rispose «un’improvvisa emicrania».
Quella risposta non mi aveva affatto convinto. Era pallida e aveva perduto il sorriso che abitualmente le illuminava il volto.
«Vuoi che iamo in farmacia? Ne ho vista una a pochi metri da qui» insistei.
«Ti dico di no, Vittorio. Non preoccuparti. Tra poco erà».
Avevamo parecchie ore a disposizione prima del volo. Non intendevo rimanere tanto tempo in aeroporto e poi a Londra c’erano tante cose interessanti da vedere. Tornammo in città con la metropolitana che parte da Heathrow e dall’aerostazione prende il nome. Mi era venuta una grande voglia di recarmi alla National Gallery, per ammirare uno dei maggiori capolavori di Antonello, eseguito nel periodo della sua piena maturità, e che aveva per tema una diversa visione di un periodo della vita dello stesso santo, San Gerolamo, ritratto in quel quadro che ci aveva procurato tanti grattacapi.
Ho già ammesso di non essere un grande intenditore dello stile del Quattrocento e in particolare di quello del grande maestro messinese; forse proprio per questo mi parve – e Marina fu d’accordo con me – che dietro l’ingegnosa ambientazione e lo straordinario uso della luce nella tavola esposta a Londra, ci fosse più di una comunanza con il quadro cedutomi da Lepiscopo.
Marina era rimasta chiusa in sé per tutto il viaggio di ritorno.
Quando arrivammo finalmente a Roma e ci recammo al parcheggio dove avevo lasciato in sosta la mia auto, un’altra brutta sorpresa ci attendeva.
Qualcuno ne aveva squarciato tutti e quattro i pneumatici.
Avevo troppa fretta di sistemare i conti in sospeso con Silvestri per cui decisi di rimandare il problema della macchina al giorno seguente e prendere un taxi per rientrare in città.
CAPITOLO 5
Avevo una enorme radicata,
sciocca fiducia nella benevolenza del destino
e uccidere e morire mi parevano
cose estranee e letterarie.
Primo Levi, Se questo è un uomo
Nel tragitto in taxi verso Roma, la rabbia che sentivo nei confronti del Sòla, andava crescendo sempre più. Non facevo che accendere e spegnere sigarette, agitavo senza posa le mani, accavallavo le gambe in continuazione.
«Cerca di calmarti, Vittorio. Rischi di avere un infarto!» disse Marina.
«Il fatto è che non mi aspettavo da Silvestri una cattiva azione simile. Sapessi quante volte mi è capitato di doverlo aiutare… Sempre nei guai, sempre a che fare con dei pasticci, ma mai prima d’ora mi aveva tirato un colpo così basso! Questa non gliela posso perdonare! Lo consideravo un amico, nonostante tutto e
nel fondo mi era anche simpatico».
«Hai ragione» rispose Marina «il suo comportamento è veramente incomprensibile».
«Ti rendi conto, no?» aggiunsi «Farci andare in Svizzera sapendo che si sarebbe trattato di un inutile viaggio, coinvolgerci in una vicenda di falsificazione del quadro, sapendo che due killer ci stavano braccando e avrebbero potuto anche ucciderci. Dovrà darmi delle spiegazioni plausibili. Non riesco a capacitarmi».
Ero furente davvero.
Una volta arrivati in via Margutta, pagai il taxi e mi diressi subito, seguito da Marina, direttamente all’abitazione di Silvestri.
Volevo, anzi dovevo, riprendermi il dipinto in ogni modo possibile.
Stavo per suonare il camlo quando mi resi conto che il portoncino d’ingresso era appena accostato e dall’interno filtrava una luce accesa.
Spinsi l’uscio per entrare e la luce all’interno si spense di colpo. Dissi a Marina di aspettarmi fuori ed entrai.
***
Avanzando, nel buio, urtai contro qualcosa.
«Marcello» chiamai «Marcello, sono Vittorio». Come risposta udii soltanto un fruscio sospetto. A ten-
toni cercai l’interruttore. Più o meno sapevo dov’era collocato e lo trovai.
Accesa la luce mi trovai al cospetto di una scena agghiacciante. Il Sòla era legato a una poltrona, con la gola orrendamente tagliata e ancora sanguinante. Ovunque un gran disordine.
«Cristo!» gridai.
Da dietro una tenda sbucò uno dei due killer di cui avevo già fatto l’incresciosa conoscenza, brandendo un coltello a serramanico, ancora sporco di sangue.
Aveva gli occhi sbarrati e sembrava in preda alla furia omicida di uno psicopatico drogato.
«Adesso tocca a te morire!», urlò e si lanciò contro di me sferrando un fendente con la sua arma bianca.
Riuscii a stento a evitare il colpo mortale. La lama mi sfiorò il braccio, lacerando
la manica della giacca e facendomi sanguinare la mano.
Imprecando per aver fallito il colpo, il killer si preparò a lanciarsi di nuovo contro di me. Fortunatamente avevo fatto in tempo ad avvicinarmi alla rastrelliera dov’erano le numerose alabarde. Riuscii ad afferrarne una velocemente e la puntai contro quel bestione che mi si stava lanciando contro.
Nella sua furia omicida e forse anche a causa dell’eccessiva droga assunta, non si avvide del pericolo rimanendo trafitto da parte a parte.
Cadde a terra, senza gridare ma scosso da impressionanti convulsioni.
Una morte atroce che non potrò mai dimenticare. Stava esalando gli ultimi rantoli quando sulla porta che comunicava con la stanza da letto dell’appartamento apparve il suo complice. Mi puntava contro una pistola.
«Hai ucciso il mio amico, bastardo!», urlò, «adesso dimmi tu dov’è il quadro che vogliamo e che neppure qui siamo riusciti a trovare».
«Non ne so nulla» risposi cercando di sembrare sereno.
«Ora conto fino a tre e se non mi dici come recuperarlo ti brucio le cervella. Avremmo voluto ucciderti già da un pezzo, ma qualcuno ingannandoci ci assicurò che il quadro lo aveva quest’uomo. Deciditi a parlare!»
Aveva il tremito tipico dei drogati.
«Comincio a contare» disse «uno… due…».
Chiusi gli occhi. Al tre sentii un colpo partire, seguito da altri due e il mio cuore cessò di battere per un momento.
Ero rimasto in piedi e invece, con meraviglia, vidi l’assassino crollare a terra nel momento in cui alle mie spalle mi giunse la voce tremante di Marina che diceva:
«Appena in tempo!».
Mi volsi e la vidi sulla porta d’ingresso con in mano, ancora fumante, il piccolo revolver dall’impugnatura di madreperla con il quale mi aveva minacciato quando era entrata la prima volta nel mio negozio.
«Che spettacolo orrendo» disse «questi criminali hanno avuto ciò che si meritavano».
Mi tremavano le gambe e avevo il viso imperlato di sudore freddo. Mi accasciai su una sedia.
«Chiama la polizia, Marina, ti prego» ebbi appena la forza di dire.
***
La stanza era in un indescrivibile disordine.
Il cadavere di Silvestri, coperto di sangue che copiosamente aveva continuato a sgorgare dall’orrenda ferita, sembrava una macabra statua di un orripilante museo delle cere.
I corpi dei due killer erano riversi a terra, entrambi con una smorfia sinistra nel volto.
Lo spettacolo era raccapricciante.
E purtroppo uno dei due personaggi di questa agghiacciante scena da Grand Guignol era il mio ex amico Silvestri, compagno di molte serate ate con altri conoscenti davanti al suo caminetto , durante le quali aveva arricchito la mia modesta conoscenza della storia dell’arte.
La ferita sulla mano mi faceva molto male.
Marina aveva trovato dell’alcol e una benda in un armadietto dei medicinali nella stanza da bagno e aveva improvvisato una fasciatura per bloccare il sangue.
«Adesso verrà la polizia», le dissi, «preparati a dare delle risposte convincenti».
«Perché» fece allarmata «cosa avrei fatto di sbagliato?».
«Non lo so ancora» dissi «ma, per esempio, ho capito che solo tu potevi avere informato gli assassini che il nostro viaggio non era servito a nulla e che soltanto attraverso Silvestri sarebbero riusciti a recuperare il dipinto».
«Sì… questo è vero», disse dopo una lunga pausa di silenzio, «è successo all’aeroporto di Londra, quando tu eri andato a fare i biglietti per il nostro ritorno. Mi hanno visto al bar e hanno voluto sapere, ma l’ho fatto per te. Mi hanno detto che volevano ucciderti… ti cercavano… te lo giuro, Vittorio, l’ho fatto solo per te».
In quel momento il suono delle sirene spiegate ci avvertì dell’arrivo delle forze dell’ordine. Un commissario e quattro agenti irruppero nella casa con le armi alla mano, pensando forse di avere ancora a che fare con dei criminali. Vollero ascoltare più volte la nostra relazione dei fatti, scattarono una gran quantità di foto e quindi ci invitarono a seguirli in caserma per sottoscrivere un verbale con la nostra deposizione.
In questura ci sottoposero, separatamente, a lunghi e ripetuti interrogatori. Finalmente, alle tre del mattino ci lasciarono andare.
Eravamo entrambi molto scossi per quegli avvenimenti e tra noi si era venuta a creare una certa freddezza.
«Vuoi che venga con te?» mi chiese.
«Sì, almeno per questa notte… dove vorresti andare, altrimenti, a quest’ora?».
Rientrammo in silenzio, forse entrambi scioccati dagli avvenimenti del giorno prima.
ai una notte insonne: le scene drammatiche di quello che era successo in casa di Silvestri mi ossessionavano.
Verso le sette del mattino andai in cucina a preparare il caffè.
Marina, anche lei sveglia, mi raggiunse lì.
«Come va la mano?», mi chiese. «Ti sei ripreso?».
Era senza trucco e mi parve più giovane e più graziosa che mai. Ma non provavo, in quel momento, nessuna attrazione per lei, forse non riuscivo ad assolverla completamente dalla morte di Silvestri.
***
Quasi svogliatamente misi in funzione la segreteria telefonica per sapere se c’era stata la chiamata di qualche cliente durante la mia assenza.
Ascoltai gli auguri anticipati per il prossimo Ferragosto da parte di un amico in procinto di partire per le vacanze, poi la richiesta di notizie da parte del cliente che mi aveva dato un anticipo per l’acquisto delle due statuine neoclassiche che uno dei malviventi aveva mandato in mille pezzi il giorno dell’irruzione nel negozio e poi, filtrata dalle vibrazioni meccaniche dell’apparecchio, inaspettatamente la voce di Silvestri:
Caro Vittorio, so di averti combinato un mucchio di guai… mi dispiace, mi dispiace davvero. Ero nei pasticci… forse il momento più difficile della mia vita… delle questioni economiche molto serie… ignobilmente ho approfittato dell’occasione che involontariamente mi veniva offerta dal tuo dipinto del Quattrocento per poterne uscir fuori… ma ora mi rendo conto che la situazione mi sta facendo precipitare in un abisso morale ancor più profondo.
Ti ho costretto a recarti in Svizzera, sperando che almeno riuscissi a riprenderti la copia del quadro, e poi, questo l’ho saputo ora, inutilmente anche in Inghilterra.
Le persone che ti avevano aggredito ora se la sono presa con me e mi hanno preannunciato per telefono che verranno a farmela pagare cara.
Non so come andrà a finire per me. Per quanto ti riguarda, troverai la fine dei problemi relativi a questa faccenda nella tua cassetta delle lettere. Comunque, quando – e se – ci rivedremo cercherò il modo di farmi perdonare. Scusami Vittorio, scusami ancora.
Mi ero commosso nel sentire la sua voce che sembrava venire dall’oltretomba, ma francamente ero scettico su quanto aveva detto.
Non riuscivo a immaginare come, dalla mia cassetta della posta, potesse venir fuori un prodigio capace di liberarmi da quell’incubo che con Marina stavamo vivendo.
Comunque, quasi correndo, scesi le tre rampe di scale fino all’ingresso dello stabile dove erano sistemate le cassette di ogni condomino e ritirai, da quella con il mio nome, una gran quantità di corrispondenza accumulatasi durante la mia assenza.
Tra le varie comunicazioni della banca, della società di assicurazioni, i numerosi bollettini di luce, telefono e una multa da pagare, le innumerevoli, inutili pubblicità,
c’era una busta bianca con sopra la scritta a mano: “Per Vittorio”.
Nell’aprirla mi tremava la mano. Ero visibilmente curioso, nervoso ed emozionato, ma ancora incredulo sulla possibilità di trovarci la soluzione di cui aveva parlato Marcello.
All’interno della busta non c’era un suo scritto ma una ricevuta che, effettivamente, metteva la parola fine ai problemi: si trattava di una ricevuta del Monte di Pietà per il deposito di una pittura su tavola con cornice, di probabile scuola siciliana, per la quale veniva pagata la somma di ottomila euro.
Adesso tutto mi era più chiaro: il Sòla aveva realizzato una copia della tavola e aveva impegnato l’originale al Banco dei Pegni.
In fondo ero stato io stesso a dirgli di procedere senza fretta e lui sperava di risolvere il suo problema con la vendita della copia. Dopo la minacciosa telefonata dei due farabutti, temendo della propria vita, con un gesto leale aveva lasciato quella ricevuta nella mia cassetta delle lettere e poi quando erano arrivati i due tagliagole li aveva sfidati rifiutandosi di dire dove era finito il dipinto. Non riuscivo, ora, a giudicarlo troppo severamente.
Mostrai la ricevuta a Marina e poi, con lei, mi recai dapprima nella mia banca per ritirare l’importo di cui avevo bisogno, e poi al Banco dei Pegni per riscattare la tavola pagando il dovuto.
Feci fare lì stesso un imballaggio di protezione al quadro e dissi a Marina che poteva riportarlo con sé in Sicilia.
«Potrai farci ciò che vuoi», le dissi, «credo che dopo quello che è successo, il boss di Palermo non avrà più il coraggio di cercare di riprenderselo. Comunque decidi tu: restituirlo o venderlo».
Il giorno dopo accompagnai Marina all’aeroporto. Ci abbracciammo a lungo al momento dell’imbarco.
«E tu, Vittorio, cosa hai intenzione di fare?» mi disse.
«Ancora non lo so bene. Non ho le idee molto chiare in questo momento. Tu fammi avere il tuo recapito, resteremo in contatto. Ora ho bisogno di riflettere. Si sono accavallati ultimamente tanti avvenimenti». La baciai, ma nel vederla
allontanarsi non sentii alcuna tristezza per quella separazione.
Avevo detto la verità a Marina. Sentivo la necessità di una riflessione profonda. Avevo bisogno che si allontanasse l’eco di quel ciclone di amore e di morte, di eros e tanathos, che si era abbattuto su di me in quell’ultimo periodo. Avvertivo l’urgenza di cogliere nel più profondo del mio essere un’indicazione per una scelta capace di riportare serenità nella mia vita.
Dicono gli indios Tehuelche che abitano la Terra del Fuoco: «Solo quando è cessato il rumore del vento puoi ascoltare la voce del tuo silenzio». Ero riuscito ad ascoltare quella voce. Una settimana dopo questi avvenimenti mi imbarcavo all’aeroporto Leonardo da Vinci su un apparecchio che mi avrebbe portato a Buenos Aires. Avevo inviato a Patricia Nuñez il seguente telegramma:
Uno straordinario allineamento astrale è annunciato per la prossima settimana. Sono previsti felici giorni di alta marea per i nati nel segno dello Scorpione. Arriverò domani a Baires per approfittare insieme a te dell’eccezionale occasione.